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Era
una giornata calda. Il vento secco e arido tipico del deserto si incuneava tra
le vie di Suna, investendo chiunque si trovasse sulla sua strada con una folata
di sabbia e di calura. Era mezzodì e in giro a quell’ora non si vedevano che
pochi temerari a causa di quel clima così estremo e insopportabile durante la
stagione estiva, dove il sole picchiava infernale contro gli edifici del
villaggio perennemente ricoperti di uno spesso strato di arena.
Nella
staticità di quell’atmosfera un falco pellegrino sfrecciava nel cielo incurante
del caldo e dell’inospitalità del deserto. Sorvolava veloce i tetti delle
abitazioni e tagliava il vento con le sue ali possenti, sfidando la tempesta
giunta da poco alle porte del villaggio.
Nonostante
le raffiche si facessero sempre più forti e la sabbia impedisse la visuale, lui
non si sarebbe fermato prima di aver concluso la sua importante missione. I falchi
pellegrini di Suna erano famosi per la loro celerità nel recapitare messaggi, e
i più veloci facevano quotidianamente da corriera per far giungere a
destinazione le informazioni più urgenti e vitali. Uno dei maggiori pregi di
quei volatili addestrati era proprio quello di non permettersi pause prima di
avere raggiunto la meta.
La sua direzione era il
punto nevralgico da cui si sviluppava la planimetria radiale del Villaggio
della Sabbia, la sede delle menti sapienti che tenevano in piedi quel luogo e
le sue relazioni col resto del mondo. Virò sulla destra, combattendo con la
sabbia che si infilava sotto le piume e planando deciso verso la terrazza del
palazzo delle istituzioni, dove il destinatario del suo messaggio lo stava già
aspettando mentre teneva a bada quella tempesta fastidiosa.
Gaara non fu sorpreso
di vedere il falco. Da parecchi giorni riceveva messaggi funesti dagli uomini
stanziati a vigilare sui villaggi satelliti di Suna: piccoli centri strategici
situati al limitare del grande deserto e in stretto contatto col villaggio
nascosto. Non sapeva perché, ma temeva che anche quelle si sarebbero rivelate pessime
notizie.
Aspettò
che il messaggero si posasse sulla sua spalla per poter finalmente distogliere
la concentrazione da quella noiosa tempesta che avrebbe impedito le
comunicazioni per diversi giorni.
Lesse il messaggio ancora
prima di rientrare nello studio, constatando amaramente quanto le sue
sensazioni fossero giuste.
Era da qualche tempo, ormai, che si verificavano
anomalie climatiche nell’intero Paese del Vento: un caldo torrido come mai si
era sentito, tempeste di sabbia improvvise e tremori del suolo affatto
rassicuranti.
La nazione non era mai stata attrezzata per quel
genere di emergenze. Tali fenomeni si erano verificati sporadicamente nel corso
della storia di quei luoghi, una periodicità talmente esigua che non aveva mai
destato una preoccupazione tale da spingere gli abitanti ad adottare le
adeguate contromisure.
Gli
edifici crollavano sottoposti alle scosse sismiche e si sgretolavano quando
venivano investiti dalle violente tempeste, per non parlare del caldo infernale
che aveva serbato quell’estate; se gli abitanti di Suna erano abituati a
sopportare quelle condizioni estreme lo stesso non poteva dirsi dei villaggi
satelliti che, pur essendo molto vicini al deserto, avevano da sempre goduto di
una temperatura mite e piacevole.
Era
da lì che arrivavano le notizie peggiori.
Più di tredici messaggi
in una settimana riportavano i danni come se fossero bollettini di guerra: i
morti per il caldo afoso, decessi e feriti a causa dei crolli degli edifici,
interi quartieri da ricostruire, per non parlare della sabbia portata dalle
tempeste che stava facendo morire la vegetazione.
Gaara
fissava i messaggi allineati sulla scrivania chiedendosi che cosa potesse fare.
Aveva già inviato parecchi uomini in ogni villaggio per distribuire aiuti, ricostruire
le zone collassate e istruire la popolazione su come difendersi dalla calura
che aveva assalito il limitare del deserto. Che altro avrebbe potuto fare? Aveva
i poteri per intervenire su una qualsiasi minaccia fisica, avrebbe potuto
attenuare la violenza delle tempeste grazie alla sua abilità innata, ma cosa
poteva fare lui contro la potenza
della natura? Era un essere umano in fin dei conti.
I
suoi pensieri vennero interrotti dall’arrivo di Ratsu,
il geologo incaricato di svolgere le ricerche preliminari del caso, il suo viso
tondo fece capolino timidamente dall’uscio aperto dell’ufficio mentre con una
mano bussava alla porta.
Gaara gli fece cenno di
entrare.
«Che
novità?», chiese, mentre Ratsu gli porgeva dei
documenti.
«Sono
ipotesi molto azzardate, ovviamente da verificare», cominciò il geologo.
«Ti
ascolto».
«Considerando
che gli epicentri provengono solamente da nord e considerando che i punti più
colpiti sono i villaggi satelliti, situati a meno di cento chilometri dalla
catena montuosa Dakagi, presumo che l’attività
sismica provenga da lì».
«Spostamenti
di faglia?», chiese il rosso, scettico.
«Non
lo so, i messaggi parlano di tremori, susseguiti da terremoti anche a distanze
di tempo ravvicinate. Tutto farebbe pensare all’attività sismica di un vulcano».
«Non
sapevo ci fossero vulcani a Dakagi».
«E’
tutto da verificare, naturalmente».
Ratsu pronunciò le
ultime parole con amarezza. L’ultimo mese era stato parecchio nefasto dal punto
di vista climatico, persino Suna era stata vittima di quell’afa insopportabile
e, se ancora i tremori non erano giunti a livelli preoccupanti per adottare lo
stato di emergenza, lo stesso non poteva dirsi dei villaggi più a nord. Numerosi
dispacci arrivavano anche dal Paese del Fiume e dalle nazioni cuscinetto tra il
Paese del Vento e quello della Terra, dilaniati allo stesso modo dagli
innumerevoli eventi sismici.
Ma
la cosa che lo preoccupava maggiormente era la frequenza con cui le tempeste di
sabbia sconvolgevano il deserto. Il Villaggio della Sabbia era protetto
dall’alto perimetro roccioso e dall’abilità del Kazekage,
ma di fatto i collegamenti con l’esterno rimanevano esigui: i falchi faticavano
a recapitare i messaggi e i soccorsi non riuscivano a raggiungere i villaggi
satelliti, né a tornare indietro.Di questo
passo sarebbero rimasti totalmente isolati e totalmente incapaci di comprendere
quale fosse la fonte di quel maledetto problema.
Osservò
Gaara alzarsi dalla sedia e scrutare il cielo
oscurato dalla tempesta. Pensò a suo figlio e al fatto che avesse la stessa età
di quel ragazzo in cui tutti avevano riposto le loro speranze, sedici anni,
un’età in cui ancora si ha bisogno di aiuto e di consiglio, un’età che non era
mai esistita per l’uomo che aveva di fronte.
«Devo
raggiungere quei villaggi». Lo udì sentenziare.
«Ma…Kazekage», provò a dissuaderlo Ratsu.
«Sono
l’unico che può farlo».
Gaara si voltò a
guardare la scrivania ricoperta da quei messaggi funesti che fino a quel
momento non aveva potuto che leggere senza riuscire a fare nulla di concreto. Più
volte aveva valutato l’idea di andare di persona a capire che cosa realmente stesse
succedendo, ma era sempre stato dissuaso dall’idea di abbandonare Suna in un
momento di costante bisogno. Adesso non vedeva alternative per risolvere quella
situazione, e lui era l’unico a potersi muovere in mezzo a quelle imprevedibili
tempeste di sabbia.
«Continua
le tue ricerche e aspetta un mio messaggio», disse al geologo, sostenendo il
suo sguardo preoccupato.
«Faccia attenzione», replicò
Ratsu con un gesto di congedo.
Il
rosso uscì dall’ufficio poco dopo pensando a dove avrebbe potuto trovare Temari, l’unica tra i suoi fratelli che fosse ancora a Suna
e l’unica che avrebbe potuto fare le sue veci durante la sua assenza. Sapeva
che la sorella non avrebbe approvato quello che aveva in mente e sapeva che
avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di dissuaderlo, anche se coinvolgerlo in prima
persona fosse stata l’unica soluzione.
La
trovò quasi subito in uno degli uffici del primo piano. Temari
era ormai da qualche anno uno degli organizzatori dell’esame di selezione dei chunin, quella famosa esperienza che aveva segnato la sua
vita e quella dei fratelli venendo a contatto per la prima volta con i genin degli altri villaggi. Se in un primo momento la
sorella aveva definito una scocciatura il suo ruolo di organizzatrice, più il
tempo passava più ne sembrava entusiasta, e non doveva essere facile per lei
affrontare quell’emergenza climatica, specialmente nell’anno in cui il Paese
del Vento avrebbe ospitato lo svolgimento degli esami.
Gaara si affacciò alla
porta catturando l’attenzione della sorella. Con lei c’era Nara, lo shinobi di Konoha altresì
incaricato di preparare le prove degli esami; era arrivato a Suna due settimane
prima e ancora non era riuscito a tornare indietro a causa delle improvvise
tempeste, e Temari non sembrava affatto dispiaciuta
di quella situazione.
Quando
lo videro sulla porta si alzarono entrambi, l’espressione preoccupata in volto.
«Ancora
brutte notizie?», chiese lei, incupendosi al cenno di assenso del fratello.
«Andrò
lì di persona», le disse Gaara, vedendola subito irrigidirsi
in procinto di protestare. «Lascerò a te alcune disposizioni ed evocherò un jutsu di protezione sul villaggio per quando non ci sarò».
«L’emergenza
potrebbe arrivare anche a Suna in qualsiasi momento», contestò Temari. «Non puoi andartene».
Che
cosa avrebbe fatto se ci fossero stati problemi proprio quando la reggenza del
villaggio era affidata a lei? Gaara era il Kazekage ed era l’unico che avrebbe potuto difendere quel
posto, l’unico che avrebbe potuto impedire che anche a Suna si verificassero disastri
come nei villaggi satelliti vicino a Dakagi. Per quanto
fosse determinata e per quanto fosse certa di riuscire a stare dietro a tutte
le mansioni del fratello, aveva paura di non riuscire a proteggere la propria
gente. Era una responsabilità troppo grande.
«Sono
stati distribuiti in tutto il villaggio i piani di evacuazione e le norme
comportamentali in caso di eventi sismici importanti», intervenne Shikamaru, cercando di rassicurare Temari.
«Il Villaggio della Sabbia non sarà impreparato all’emergenza».
«Sei
d’accordo anche tu?!», sbottò irritata la ragazza.
«Penso
che le tempeste ci taglino costantemente fuori da ogni comunicazione», spiegò
lui, sulla difensiva, «e che nessuno possa attraversare il deserto per
raggiungere quelle zone, né andando a nord, né allungando da sud».
«Vedo
che hai capito la situazione», constatò Gaara,
ringraziando mentalmente lo shinobi di Konoha per avergli reso le cose più facili con l’ostinatezza
di Temari. Partire era la cosa più giusta da fare,
anzi, l’unica cosa rimasta da fare.
La
bionda kunoichi assentì con un sospiro. Il fatto che Shikamaru appoggiasse la decisione del fratello le aveva
fatto perdere ogni speranza di poter dissuadere Gaara
dall’intraprendere una missione così pericolosa.
«Quando
intendi partire?», gli chiese rassegnata.
«Domani
mattina», rispose lui, voltandosi a osservare il cielo scuro. «Shikamaru, potrebbe essere un’occasione per fare ritorno a Konoha».
«Naturalmente»,
rispose il giovane Nara, cogliendo la richiesta di aiuto nelle parole del Kazekage. «I rinforzi arriveranno più veloci dal Villaggio
della Foglia».
I
due si scambiarono un veloce sguardo d’intesa prima di separarsi.
Shikamaru osservò
i due fratelli uscire dall’ufficio e temporeggiò per qualche minuto davanti
alla finestra. Non sapeva perché fosse
sempre lui a ritrovarsi in quelle situazioni complicate, né perché toccasse
sempre a lui risolverle.
Che
tale scocciatura.
L’autrice:
Ciao
a tutti! Benvenuti!
Non
c’è ancora un granché in questa storia, ma spero che un pochino vi abbia
incuriosito.
Se
avete voglia di lasciare una recensione sappiate che la leggerò volentieri ^^
Il
sole era ormai giunto nel punto più alto della sua parabola, eppure il cielo
era talmente scuro che sembrava il crepuscolo di una giornata nuvolosa.
Normalmente ci sarebbe voluta più di una giornata di marcia in pieno deserto
per raggiungere i villaggi satelliti, ma la sabbia di Gaara
era molto più veloce e le tempeste incontrate lungo il cammino non avevano
minimamente intaccato quell’andatura così sostenuta.
Shikamaru
osservava il deserto scivolare rapido sotto i loro piedi per poi scomparire
oltre l’orizzonte, domandandosi il motivo per cui all’andata gli fosse toccato
fare quell’estenuante scarpinata tra le insidie delle dune sabbiose. Gaara, d’altro canto, non si era permesso nemmeno una pausa
da quando erano partiti e, per quanto temesse di arrivare esausto al limitare
del deserto, era più importante arrivarci il prima possibile, questo bastava a
lasciare da parte ogni indugio.
Giunsero
in vista dei primi centri abitati che l’ora di pranzo era già passata, i tetti si
scorgevano a malapena nel grigiore della nebbia, un panorama spettrale che
rendeva difficile persino l’orientamento nonostante la considerevole altezza a
cui viaggiavano.
I
villaggi satelliti erano cinque ed erano disposti linearmente lungo il confine
col Paese del Fiume: Takano era il più vicino alla
catena montuosa Dakagi, e lo seguivano in rapida
successione, a nemmeno venti chilometri l’uno dall’altro, Usagi,
Nakoto, Sin e Rakushi.
Proprio quest’ultimo era l’epilogo della loro marcia, poiché all’inizio del
mese Kankuro vi si era recato con i primi soccorsi ed
era proprio dal fratello che arrivavano le informazioni più significative,
motivo per cui Gaara avrebbe voluto parlare con lui
prima di fare qualsiasi altra cosa.
Il
villaggio era stranamente in fermento quando i due viaggiatori posarono
finalmente i piedi per terra, e questo li lasciò non poco sorpresi viste le
aspettative tragiche che si erano preventivate.
«Credevo
fosse peggio», commentò Shikamaru, scettico.
«Anche
io», ammise Gaara, condividendo appieno la diffidenza
dello shinobi di Konoha.
Camminarono
per le vie rumorose di Rakushi verso il centro
direzionale, dove avrebbero trovato sicuramente qualcuno in grado di fornirgli
qualche spiegazione. Più si addentravano nel cuore della città e più
cominciavano a manifestarsi i segni del disagio sismico che stava flagellando
quella zona, un disagio visibile in profonde crepe sulle pareti instabili degli
edifici, in macerie sparse per le strade e in edifici nuovi di zecca ancora
incompleti di finestre e delle ultime rifiniture. Tuttavia la città era attiva:
molte persone lavoravano all’ultimazione dei nuovi edifici e altre mettevano in
quarantena quelli instabili, interi quartieri erano già stati ricostruiti e
molte attività commerciali avevano ricominciato la loro quotidiana routine.
Gaara si ritrovò
sollevato a quella vista. Forse la sua preoccupazione era stata eccessiva, probabilmente
accentuata dall’impossibilità di comunicare a dovere con i propri uomini.
Quando
arrivarono nell’enorme e nuovissima struttura che ospitava il centro
direzionale del villaggio, vennero subito accolti con entusiasmo dagli unici shinobi di Suna rimasti a Rakushi.
I ninja, un piccolo gruppo di cinque subordinati, li informarono del fatto che
la ricostruzione era cominciata proprio da quel centro abitato e, una volta
conclusa, si era passati al villaggio successivo fino all’attuale risanamento
di Nakoto. A Rakushi era
rimasto solo un piccolo gruppo di rappresentanza, poiché tutti gli aiuti erano
impegnati nella ricostruzione, muovendosi giornalmente dal già restaurato Sin
all’esteso cantiere di Nakoto.
Gaara non poté fare a
meno di nascondere la sua sorpresa. Non era stato avvisato di queste disposizioni
nemmeno da Kankuro. Arrivavano in continuazione
messaggi che riguardavano i danni ingenti che i centri satelliti continuavano a
subire e anche qualche progetto di ricostruzione, ben lungi tuttavia dalla
comunicazione di un piano così organizzato per la rimessa in piedi dei
villaggi. Ora come non mai voleva vederci chiaro in quella situazione.
E
così, nemmeno mezz’ora dopo il loro arrivo a Rakushi,
erano già ripartiti alla volta di Nakoto.
Sorvolarono
Sin dopo appena qualche minuto e seguirono con lo sguardo la fiumana di gente
che andava e veniva da Nakoto, attraversando la
fascia ormai semidesertica che divideva i due villaggi.
Dall’alto
la devastazione era evidente: le macerie invadevano le strade e molti quartieri
non sembravano che vecchie rovine, la sabbia del deserto si era depositata
sugli edifici diroccati e il vento la trascinava in piccoli vortici aumentando
la desolazione di quell’atmosfera. Solo il confine brulicava di attività in
quello che poteva definirsi un immenso cantiere che abbracciava l’intero lato
est della città, laddove i profughi si rifugiavano verso Sin e dove i volontari
arrivavano in massa a Nakoto per aiutare nella
ricostruzione.
Gaara e Shikamaru, che aveva deciso di non ritornare immediatamente
a Konoha poiché desideroso di vederci chiaro tanto
quanto il giovane Kazekage, atterrarono proprio
all’ingresso est, non venendo quasi notati nella frenesia della gente che
andava e veniva da Nakoto. Quello che inizialmente sembrava
un caotico andirivieni era in realtà una gigantesca catena di montaggio in cui
gli uomini, divisi in squadre, si occupavano tutti di un ruolo diverso: chi
della messa in sicurezza della zona, chi nella rimozione delle macerie e chi
nella costruzione dei primi ponteggi. Era tutto un correre efficiente, un
coordinare le attività, un depositare il materiale e precipitarsi a prenderne
dell’altro.
Shikamaru
non aveva mai visto niente del genere e, dato lo sguardo spaesato del proprio
compagno di viaggio, dedusse che condividevano entrambi lo stesso sentimento.
Lo shinobi della foglia non aveva ancora assistito a
una simile emergenza, ma soprattutto non aveva mai assistito alla messa in
opera di un cantiere nel Paese del Vento, dove i metodi di costruzione e i
materiali utilizzati erano completamente diversi da quelli del Paese del
Fuoco.Doveva ammetterlo, sapeva molto
poco sull’edilizia, ma l’unica certezza era la lezione di un anziano carpentiere
secondo il quale la solidità una costruzione risiedeva tutta nell’armonia di
quest’ultima con la natura. Più i materiali erano simili all’ambiente in cui
venivano adoperati, più l’edificio sarebbe perdurato nel tempo, ed era il
motivo per cui nel Paese del Fuoco si usava il legno, nel deserto la sabbia e
la roccia sulle montagne. Ma la regola non valeva in quel posto che fino a
qualche settimana prima era florido e rigoglioso, mentre adesso era quasi uno
strascico di deserto.
I
suoi ragionamenti vennero interrotti da una kunoichi
di Suna, una donna di mezza età dai capelli corvini e con un importante neo
appena sotto l’occhio destro. Anche lei era impegnata nel trasporto dei
materiali e si fermò non appena riconobbe Gaara.
«Reika a suo servizio, Kazekage»,
disse, venendogli incontro.
«Dov’è
la tua squadra?», le chiese il rosso, salutandola con un cenno e sentendosi sollevato
nell’avere incontrato una dei suoi.
«A
nord del cantiere, lavoriamo per i ponteggi», rispose lei. «Alcune squadre sono
rimaste a Sin, la maggior parte invece è qui a Nakoto».
«Anche
Kankuro è a Nakoto?»,
domandò Gaara, cercando conferma nello sguardo della
donna.
«Non
che io sappia», affermò Reika.
«Se
posso permettermi», intervenne Shikamaru. «Chi dirige
i lavori qui?».
«Gli
architetti», rispose la kunoichi, indicando la via da
percorrere. «Ad ovest, dove gettano le fondamenta, chiedete di Emin».
Nara
si voltò verso il rosso, che era rimasto in silenzio e pensieroso. «Forse gli
architetti sapranno dirci qualcosa in più».
«E’
probabile», convenne Gaara. «Grazie delle
informazioni» aggiunse, rivolgendosi poi alla donna.
«Si
figuri», sorrise lei mentre si rimetteva in marcia. «Per qualsiasi cosa ci
trova al cantiere nord».
I
due la salutarono con un cenno mentre prendevano la strada che conduceva a ovest.
Senza accorgersene si ritrovarono a seguire la piccola folla di operai che si
distribuiva in maniera organizzata per ogni edificio e per ogni zona, cercando
con lo sguardo il punto dove venivano gettate le fondamenta.
Non
faticarono molto a trovarlo.
«Avete
bisogno?». Questa volta fu un ragazzo a fermarli. «La zona non è ancora
completamente in sicurezza, se non siete addetti ai lavori non posso farvi
passare».
«Cerchiamo
l’architetto», disse Gaara.
«L’architetto
è impegnato adesso», rispose lui.
«Aspetteremo».
«D’accordo».
Il ragazzo li guardò stranito prima di voltarsi e sparire nei meandri del
cantiere.
Intanto,
alla loro destra, un edificio pericolante veniva lentamente smantellato e le
macerie venivano raccolte su pesanti carrucole per poi venire trasportate fuori
città. I due si sedettero in silenzio su un muretto superstite che doveva
essere appartenuto all’abitazione che sorgeva in quel luogo prima dei crolli,
al suo posto un’enorme escavatrice spostava tonnellate di terra per creare la
fossa che avrebbe ospitato le fondamenta.
Lo
stesso ragazzo che li aveva accolti tornò dopo appena qualche minuto, con due
elmetti e due fascicoli usurati tra le mani.
«Mettetevi
questi, per la vostra sicurezza», disse, porgendogli i caschi, «e leggete le
norme comportamentali da seguire in caso di sisma».
«Quanti
sismi si sono verificati oggi?», chiese Gaara,
afferrando il fascicolo.
«Due.
Alle 4 di mattina e alle 11», rispose il ragazzo. «L’architetto ne avrà per
qualche ora».
«Va
bene», sospirò lui, rassegnandosi a una lunga attesa. Fissò il ragazzo sparire
nuovamente alla vista mentre attorno a loro i lavori continuavano imperterriti.
«Dovresti
sfruttare un po’ di più la tua posizione», contestò Shikamaru,
ricevendo uno sguardo torvo di rimando. «E’ vero», rimarcò. «A quest’ora l’architetto
sarebbe venuto di corsa».
Gaara non rispose. Per
quanto lo shinobi di Konoha
avesse ragione c’era sempre stata una parte di lui, la più umile e schiva, che
si ostinava a rifiutare ogni privilegio e ogni trattamento di favore. Non amava
farsi riconoscere lontano dal proprio villaggio, né che la gente gli desse del
lei a prescindere dall’età o dalla posizione sociale che ricopriva. In quei
piccoli centri abitati erano in pochi ad averlo visto da quando il suo mandato
da Kage era iniziato e in quel momento di bisogno
l’attenzione non doveva concentrarsi su di lui, i lavori erano ingenti e di
tempo da perdere non ce n’era affatto.
Cominciò
a sfogliare il fascicolo che teneva tra le mani ritrovandosi inconsapevolmente
a concentrarsi in quella lettura. Non aveva mai assistito ad un sisma vero e
proprio, i tremori che si erano verificati a Suna erano stati irrisori per
causare anche solo il minimo turbamento, lì invece gli edifici erano crollati
come i tasselli di un domino, i muri si erano sgretolati e le macerie avevano
mietuto vittime con la loro imprevedibilità, le strutture portanti non avevano
retto e le persone erano rimaste intrappolate sotto le rovine delle loro stesse
case. Le norme comportamentali sembravano fin troppo semplici vista una tale
devastazione: c’erano dei punti di raccolta dove si doveva convergere quando si
verificava il sisma, luoghi sicuri lontano da edifici, alberi e impianti di
alcun genere, degli ampi spiazzi capaci di raccogliere fino a mille persone e
dislocati in maniera strategica all’interno del cantiere. C’era scritto anche
di percorrere solo le vie principali già sgomberate poiché l’instabilità dell’intera
zona rendeva inagibili le strade secondarie.
Ad
ogni modo, l’attesa si fece lunga e snervante, tanto che persino Shikamaru, nonostante la pigrizia in cui abitualmente finiva
per cullarsi, si rese conto di non poter sopportare ancora per molto
l’inattività di quella loro sosta obbligata. Poco alla volta, infatti, il
desiderio di partecipare attivamente al risanamento di Nakoto
crebbe fino a prendere il sopravvento e, senza nemmeno rendersene conto, si
ritrovarono a trasportare carriole pesanti e cariche di macerie fuori dal
perimetro della città. Al crepuscolo, quando veniva finalmente dichiarato lo
stop ai lavori, assisterono in conclusione al lento svuotarsi del cantiere,
osservando la fiumana di operai dirigersi verso Sin, sgomberando Nakoto per la notte.
«Eravate
voi a cercarmi oggi pomeriggio?», una voce femminile richiamò la loro
attenzione mentre riponevano gli elmetti nelle scaffalature apposite. Gaara fu il primo a voltarsi.
«Architetto?»,
domandò, muovendo qualche passo verso l’alta ragazza dai capelli arruffati e
dalla faccia impiastricciata di gesso.
«Proprio
così», rispose lei, mentre Shikamaru scrutava di
sottecchi il motivo della loro lunga attesa.
«Finalmente»,
disse poi, con una nota di risentimento.
«Dovete
scusarmi, ma il getto delle fondazioni è una cosa che devo seguire di persona,
ne va della sicurezza del futuro edificio», si giustificò la ragazza.
«Non
c’è problema», riprese Gaara, lanciando allo shinobi della foglia un’occhiata ammonitrice. Shikamaru alzò gli occhi al cielo. Non solo era finito,
come al solito, in una situazione scomoda e scocciante, ma l’atmosfera
frenetica che si respirava in quella città non gli aveva permesso di assistere
passivamente a quanto avveniva intorno a lui, sentendosi quasi obbligato a
partecipare a quella gara di solidarietà che si stava svolgendo, lasciando da
parte la noia, la pigrizia e la svogliatezza con cui solitamente amava
coccolarsi. Non che questo fosse sbagliato, però doveva ammetterlo, era stato
un controsenso unico per la propria personalità. In tutto questo avevano atteso
quella ragazza per quasi sei ore, maledizione.
«Cosa
posso fare per voi?», chiese l’architetto, mentre riponeva anche lei il proprio
elmetto.
«Come
procedono i lavori?», domandò Gaara, ricevendo uno
sguardo accigliato di rimando.
«Così
come li vedete», decretò lei, intuendo che fossero arrivati nei villaggi di Dakagi proprio quel giorno. «Venite da lontano?»
«Abbastanza»,
rispose Gaara, rimanendo vago. L’architetto non
rispose, cominciarono a dirigersi fuori dal cantiere sulla strada maestra che
li avrebbe condotti fuori città. «Sei tu Emin,
giusto?», le chiese poi il rosso, aspettando il suo cenno di assenso. «Stiamo
cercando Kankuro».
«Chi
lo cerca?», domandò lei, piuttosto sorpresa che quegli stranieri conoscessero
il suo nome senza che lei avesse la minima idea di chi fossero.
«Suo
fratello», rispose lui, leggendo subito incredulità nello sguardo della ragazza,
che fermò quasi impulsivamente la camminata mettendosi a fissarlo con uno
sguardo incuriosito.
«In
persona?», chiese Emin, non sapendo se credere o no
di avere di fronte il fratello di Kankuro.
«Già»,
ammise Gaara, improvvisamente a disagio sotto il
verde di quegli occhi indagatori. «Sono Gaara del
deserto», le disse, porgendole la mano, «e lui è Nara Shikamaru,
del Villaggio della Foglia».
«Accidenti»,
concluse la ragazza, contraccambiando la stretta senza smettere di osservare i
due ragazzi. Era la prima volta che aveva a che fare con una persona così importante,
e quell’incontro di certo non rispettava le sue aspettative: doveva essere
pulita, prima di tutto, capelli e trucco a posto, abiti professionali e mente
lucida. Un po’ diverso dal degrado in cui si trovava in quel momento, dopo
un’intera giornata di frenetico lavoro.
Quello
che peggiorò ulteriormente la situazione, poi, fu l’arrivo di un potente sisma
che li costrinse la lasciare il cantiere di corsa fino al punto di ritrovo. Né Gaara né Shikamaru erano
preparati alla potenza di quel terremoto; sentire le gambe cedere sotto il
terreno impazzito aveva reso quella corsa la più complicata della loro vita e,
mentre arrancavano verso lo spazio aperto che li avrebbe accolti in seguito
all’evacuazione, assisterono in diretta a quello che si era verificato in tutti
i villaggi all’arrivo delle prime scosse: i vecchi edifici instabili crollarono
definitivamente ammassando macerie su macerie, mentre quelli nuovi resistettero
stoici a quell’ancora ignota calamità naturale.
Ricominciarono
a camminare lungo la via maestra mentre arrivavano in continuazione frenetici
resoconti sullo stato di integrità del cantiere in seguito al sisma, i danni,
il materiale da recuperare e quello da rifornire. Emin
ascoltava tutti gli operai senza perdere la calma e per ognuno aveva delle
nuove disposizioni per il giorno successivo. Shikamaru
si chiedeva come facesse a stare dietro a così tante necessità e a così tante complicazioni.
Pensò che non dovesse affatto essere un caso che a dirigere i lavori ci fosse
una come lei, paziente e perfettamente organizzata.
Tra
l’agitazione che seguitò il sisma e lo shock da cui i ragazzi dovettero
riprendersi, l’architetto rivolse loro la parola solamente quando ormai le luci
di Sin dipingevano l’orizzonte e lei aveva riordinato le carte che i suoi
subordinati le avevano lasciato.
«Scusate
se vi ho fatto aspettare così tanto», disse, mentre posava il palmo della mano
sulla fronte, esausta. «I lavori procedevano bene», cominciò Emin, usando volutamente il verbo al passato alludendo alla
scossa appena avvenuta. «Sin e Rakushi
sono stati i meno colpiti tra i cinque villaggi, Nakoto
comincia a essere una sfida più ardua. Takano e Usagi, invece, sono disabitati ormai da qualche settimana,
non ho idea di cosa troveremo quando ci trasferiremo lì per i lavori».
«Capisco»,
rispose Gaara.
«Abbiamo
stilato dei piani di emergenza che verranno sostituiti con dei nuovi piani
regolatori, le città saranno costruite in modo da fronteggiare il pericolo
sismico in qualsiasi momento. Se vi interessa vederli passate dal nostro
studio», continuò Emin.
«Lavori
con qualcun altro?», chiese Shikamaru.
«Mio
cugino», rispose lei. «Lo studio è nostro».
«Passeremo»,
confermò Gaara.
«Quanto
a Kankuro», riprese la ragazza. «L’ho conosciuto
all’inizio del mese e che io sappia non ha mai preso parte ai lavori».
Emin si voltò verso i
due viaggiatori, indovinando le loro emozioni ancora prima di osservare i loro
volti perplessi.
«Lo
sapevo», disse poi. «Non ha ancora detto nulla».
«Come
sarebbe?», bisbigliò Gaara, incredulo. «Di che
parli?»
«Kankuro e la sua squadra sono andati a Dakagi
nemmeno una settimana dopo essere arrivati a Rakushi.
In studio ho parecchio materiale che mi è stato recapitato grazie a loro».
La
ragazza non poté fare a meno di sorridere vedendo l’espressione corrucciata dei
due.
«Stanno
tutti bene e sono già sulla via del ritorno», assicurò. «Senza quelle
informazioni sarebbe stato impossibile incominciare i lavori».
«Quell’incosciente»,
sospirò il rosso, amareggiato. Probabilmente sapeva perché Kankuro
l’avesse tenuto all’oscuro di quella missione sconsiderata. Non avrebbe permesso
né al fratello né a qualsiasi altro shinobi della
sabbia di fare una simile sciocchezza, era venuto apposta a Dakagi
con l’intento di capire di persona cosa stesse succedendo tra quelle montagne,
senza mettere in pericolo la vita dei suoi uomini.
Era
alquanto arrabbiato per non essere stato messo al corrente di quella missione
non autorizzata e ancora non riusciva a spiegarsi tutte quelle lettere che lo
avevano spinto a lasciare Suna per venire in aiuto ai villaggi satelliti.
«Mio
fratello ha continuato a mandarmi informazioni scritte di suo pugno». Si
rivolse all’architetto, conscio che lei avesse la risposta.
«Sì,
ci tenevamo costantemente aggiornati», spiegò Emin.
«Una
sorta di telefono senza fili», intervenne Shikamaru,
rimasto in silenzio fino a quel momento. La ragazza assentì con un cenno del
capo.
Questa volta Gaara non fece in tempo a controbattere, erano arrivati
alle porte di Sin e con ogni probabilità la notizia
dell’arrivo del Kazekage si era diffusa rapidamente
in tutto il villaggio, una folla di persone li accolse rumorosamente e in prima
fila c’erano tutte le squadre di shinobi partite da
Suna nei giorni precedenti.
Nella
confusione che seguì il loro arrivo al villaggio Emin
scrutava la folla, preoccupata. Sapeva che suo cugino era lì e sperava che non
avrebbe fatto sciocchezze in mezzo a tutta quella gente. Morgan era più grande
di lei di qualche anno, ma non sapeva rimanere abbastanza lucido in determinate
situazioni, motivo per cui stava continuando a voltarsi in tutte le direzioni
alla ricerca del suo volto.
Trasalì
nel momento in cui si sentì strattonare.
«Ti
stavo cercando!», esclamò, non appena riconobbe il cugino. «Andiamo a casa»,
gli disse, vedendolo concentrato sul gruppetto di ninja che attorniavano Gaara e Shikamaru. Al suo cenno
d’assenso cominciarono a farsi largo tra la folla fino a quando non si
ritrovarono a percorrere le viuzze secondarie che li avrebbero riportati
all’appartamento che avevano affittato durante il loro soggiorno in quei
villaggi.
«Non
ci saranno altre occasioni», disse infine lui, interrompendo il silenzio che li
aveva accompagnati fino a quel momento e guardando negli occhi la ragazza.
«No,
non ce ne saranno», rispose Emin, contraccambiando lo
sguardo deciso con cui Morgan la stava fissando. «Dobbiamo essere cauti».
L’Autrice:
Eccomi
qui. Ed eccovi i nuovi personaggi!
Spero
che questo aggiornamento vi abbia incuriosito un po’ più del precedente e, come
al solito, se volete lasciarmi un commento sarò felicissima di leggerlo!
La
primavera sui monti Tamen, nel Paese della Terra, era
la cosa che più la emozionava in assoluto. Vallate d’inverno aride e ghiacciate
lasciavano il posto a un umido strato di terriccio che non tardava a riempirsi
di vita, interi pendii erano ricoperti di verde e i fiori crescevano numerosi impregnando
l’aria di un’inebriante profumo. Ricordava ancora la sensazione di quei morbidi
steli d’erba strisciare sulle caviglie, la sensazione che si provava a correre
a piedi nudi in mezzo a quella fantasia colorata, la sensazione di essere
amata, di avere una casa in cui ritornare e un rifugio in cui ripararsi la
sera, quando il buio calava e con esso si addormentavano tutte le fantasie che
l’avevano accompagnata alla luce del sole.
C’era caldo a Tamen quando la primavera faceva la sua apparizione. Il
sole baciava con delicatezza la pelle e ogni anno la mamma approfittava di quel
tepore per cucirle una nuova casacca di seta decorata di motivi variopinti come
i campi delle loro montagne. Quando le indossava provava puntualmente un misterioso
senso di pace, freschezza e armonia. Non c’era niente di più esaltante di
sentirsi in equilibrio con tutto quello che la circondava e questo, lei,
l’aveva subito capito.
Erano
passati quasi dieci anni dall’ultima volta che aveva visto la primavera a Tamen e della dolcezza di quelle giornate non era rimasto
che il ricordo lontano, la delicatezza di quegli steli aveva lasciato il posto
a dei rami spinosi e il colore di quei campi rigogliosi si era scurito nel nero
di una rosa solitaria. Non c’erano state mezze misure nella vita di Emin, la sua esistenza si era frantumata tutta in una volta
nella primavera del suo undicesimo compleanno, quando un incidente si portò via
i suoi genitori rompendo per sempre quell’armonia. Perdere loro era stato come
perdere i pilastri dell’intera vita. Tutto quello in cui credeva, tutto quello
che amava e rispettava aveva cessato di esistere nel giro di pochi minuti,
quando le travi ammuffite della soffitta avevano ceduto, facendo collassare
sotto le macerie l’intero edificio, seppellendo lì tutta la sua felicità.
Non
era un caso che avesse deciso di diventare architetto. Aveva perso tutto,
persino la capacità di sorridere di fronte alla primavera. Ogni volta che
progettava qualcosa e la vedeva messa in opera era come se ricostruisse,
tassello per tassello, le fondamenta crollate della sua vita; ogni edificio era
un piccolo mattone, un piccolo traguardo, ogni edificio era metaforicamente
quella casa solitaria di montagna che sognava di ricostruire ogni notte, quando
il ricordo della felicità infranta riaffiorava sempre più spesso nella sua
mente e si concretizzava nelle tragedie che aveva visto fino a quel giorno nei
villaggi di Dakagi.
La
ragazza si affacciò alla finestra ignorando il gelido vento notturno che ormai
stava prendendo il sopravvento nelle notti di Sin. Il
deserto era arrivato inesorabilmente fino al confine e nessuno era riuscito a
impedirlo, nessuno era riuscito a salvare la primavera di quel luogo così mite
e baciato dalla fortuna. La felicità di quei villaggi era stata spazzata via nel
giro di pochissimi giorni, così come pochissimi minuti erano bastati a spazzare
via la sua, ed era unicamente quello il motivo per cui era lì, questa volta aveva il potere di cambiare le
cose.
«Ancora
brutti sogni?». Fu Morgan a interrompere il filo dei suoi pensieri. Aveva
conosciuto suo cugino qualche giorno dopo l’incidente che le aveva portato via
mamma e papà. In verità non si erano mai considerati cugini, il loro rapporto
era sempre stato più profondo di un legame di parentela così lontano, avevano
imparato a comprendersi a vicenda sin dal primo momento che si erano incontrati
e si erano sostenuti quasi con disperazione ogni volta che il dolore impediva
di guardare il futuro con serenità.
Quella
era stata la prima volta che era venuta a contatto con altri membri della
famiglia.
Non
sapeva dell’esistenza di quei parenti, né aveva mai sentito il bisogno di avere
vicino qualcun’altro che non fossero i suoi genitori e lo splendore della
natura che li circondava; le montagne erano le loro uniche amiche e istitutrici,
erano il tutto da cui dipendeva la loro vita, erano bellezza, armonia, ed erano
le stesse che li avevano resi solitari, indipendenti e lontani da qualsiasi
tipo di legame.
All’inizio
aveva faticato a comprendere la scelta dei suoi genitori, ma crescendo tutto
aveva cominciato ad essere più chiaro: l’odio, il rancore e la vendetta. La sua
famiglia somigliava ad un intrico di rovi acuminati e velenosi che si
attorcigliavano su loro stessi logorandosi a vicenda.
L’isolamento
l’aveva fatta crescere libera da quelle catene e l’aveva resa capace di pensare
con la propria testa. Era questa la vera eredità che quei giorni felici le
avevano lasciato.
Rispose
con un cenno alla domanda di Morgan, che la abbracciò nella sua solita stretta
rassicurante, la stessa che aveva sentito tra i singhiozzi il giorno che si
erano conosciuti, l’unico gesto che l’avesse mai tranquillizzata ogni volta che
aveva ceduto al dolore.
«Ti
fa male stare qui», disse lui, mentre le accarezzava il capo.
«Io
devo stare qui», rispose la ragazza,
guardandolo negli occhi con determinazione. «Hanno bisogno di me».
Morgan
fissò la cugina non potendo fare a meno di sorridere, ormai la conosceva
abbastanza per capire che non avrebbe mai abbandonato qualcosa a metà, nemmeno
se questo l’avesse fatta star male. Era debole Emin,
emotiva e infelice, ma allo stesso tempo lottava giorno dopo giorno per
diventare più forte e per ricostruire la propria vita, ricreandosi
autonomamente la stabilità che aveva perso dopo l’incidente di dieci anni prima.
Morgan
l’aveva presa subito sotto la sua custodia, l’aveva consolata, l’aveva aiutata,
l’aveva spronata, era cresciuto con lei come se fossero fratello e sorella,
l’aveva sempre sostenuta in qualunque missione lei avesse deciso di
intraprendere, si era lasciato appassionare dalla sua determinazione e l’aveva
seguita nell’iter che li aveva fatti diventare architetti, fino a quel momento,
a Dakagi. Non c’era persona al mondo a cui volesse
più bene di Emin e quello che li univa era un legame
viscerale fondatosi sulla disperazione dei primi anni e, in seguito, sulla
complicità di ogni loro scelta.
La
verità era che il loro destino era già stato deciso molto tempo prima. Il loro
legame, il loro affetto e la loro complicità era il risultato a cui la famiglia
sperava di arrivare facendoli crescere insieme. Il perché Morgan non lo capì
immediatamente, se ne rese conto molto più tardi, durante i primi allenamenti con
la cugina: lei aveva ricevuto un’eredità che nessuno aveva più ottenuto nelle
generazioni che succedettero la loro cacciata dal Paese del Vento e, nel
momento in cui la famiglia aveva conquistato la custodia di Emin,
voleva assicurarsi che lei non si sarebbe più allontanata da loro, perorando la
sanguinaria causa che taceva ormai da troppo tempo. E così era andata. Morgan
si era affezionato ad Emin al punto di seguirla in
quel percorso burrascoso a Dakagi, ed Emin era talmente legata al cugino da appoggiarlo senza
indugio nel suo desiderio di vendicare l’intera famiglia, anche se questo non
rientrava nelle sue attuali priorità.
«A
tutti i nostri mali c’è una spiegazione», disse Morgan, mentre osservava la
ragazza accendere una sigaretta sul davanzale della finestra.
«Lo
so», rispose lei, espirando il fumo. «Ho sentito la storia molte volte».
«Finalmente
una possibilità concreta di riscattare la nostra famiglia», continuò lui, con
la scintilla negli occhi.
«Calma,
Morgan», intervenne Emin, smorzando il suo entusiasmo.
«Non fare niente di avventato».
«Non
te lo garantisco», rispose il ragazzo, avvicinandosi alla cugina. «Lo sai come
sono fatto», aggiunse, togliendole la sigaretta dalle mani per rubare un tiro.
«Sforzati»,
si impose lei, riprendendosi l’oggetto del vizio, «o sprecheremo la nostra
unica possibilità».
Morgan
sospirò, maledicendo mentalmente il suo carattere impulsivo. Emin aveva ragione, era stato proprio lui il primo a dire
che non ci sarebbero state più di una possibilità e che dovevano giocarsi al
meglio le loro carte, senza contare che stavano viaggiando con delle false
identità in quanto esiliati dal Paese del Vento, se fossero usciti allo
scoperto non sarebbero più potuti tornare indietro, e questo non permetteva
errori.
Seguì
la cugina con lo sguardo fino a quando non la vide sparire dietro la porta
della sua camera. Per un momento gli tornò alla mente tutto quello che la
ragazza aveva passato e tutti i disagi in cui la loro famiglia aveva vissuto per
colpa di quella vergognosa condizione in cui era finita in seguito alla
cacciata. Se dapprima reagiva con la disperazione adesso non sentiva altro che
rabbia, una rabbia che ormai gli impediva persino di piangere. La loro
rivincita era lì, nel loro stesso villaggio, e respirava la loro stessa aria.
Avrebbe dato la propria stessa vita qualora fosse stato necessario, sarebbe
stato disposto a morire per quella causa, pur di vedere Emin
sorridere ancora una volta.
***
Il
fermento cominciò ancora prima dell’alba tra le strade di Sin, i lavori
iniziavano al sorgere del sole e finivano al suo tramontare, approfittando
delle lunghe giornate che l’estate regalava a quelle zone. Kankuro
e la sua squadra avevano viaggiato rapidi per tutta la notte sperando di
arrivare a Sin prima che la popolazione cominciasse ad essere operativa, in
modo da recapitare le ultime informazioni raccolte sulla via del ritorno.
Era
preoccupato a dir la verità. Tra le mani stringeva ancora l’ultimo messaggio
pervenutogli da Emin proprio il giorno precedente,
che lo avvisava dell’arrivo del fratello a Nakoto.
Sapeva di non aver agito in maniera trasparente, ma era essenziale che
intraprendesse quella missione e sperava che Gaara lo
capisse.
Quando
ormai i profili di Sin cominciavano a delinearsi si ritrovò nella più completa
indecisione: quale sarebbe dovuta essere la sua priorità? Avrebbe dovuto
recapitare le ultime notizie agli architetti? Oppure sarebbe dovuto andare
immediatamente dal fratello? Aveva viaggiato tutta la notte per fare arrivare
le nuove a inizio giornata, senza contare che non aveva la minima idea di dove
si trovasse Gaara.
Non
ci fu bisogno di fare domande, tuttavia. In città la notizia dell’arrivo del Kazekage era ormai sulla bocca di tutti e non ci volle
molto a rintracciare il luogo dove Gaara avesse alloggiato
per la notte; d’altronde era quella la sua priorità, le informazioni avrebbero
potuto aspettare.
«Comincio
a dare un’occhiata a quei piani di emergenza», esordì Shikamaru
quando lo vide sulla soglia della piccola pensione affittata per la notte. «Raggiungetemi
dagli architetti», aggiunse, uscendo dalla stanza e guardandolo in tralice. Kankuro aspettò di vederlo scomparire oltre l’uscio
principale prima di muovere qualche passo all’interno della stanza, abbassò
sulle spalle il cappuccio della sua insostituibile divisa scura e cominciò a
guardarsi attorno alla ricerca del fratello. Era strano come quella situazione
lo angosciasse più del dovuto, era la prima volta in assoluto che non aveva
reso partecipe Gaara delle sue decisioni e si rese
conto della paura che ancora provava alla sola idea di saperlo arrabbiato.
Erano
stupidi quei pensieri, lo sapeva, specialmente perché era stato il primo ad
accettare e a sostenere la determinazione del fratello nel farsi accettare da
tutti. Eppure quei giorni bui dove Shukaku seminava
la follia erano ancora vividi nella sua mente, così come il terrore che provava
di fronte a quella perdita di ragione e a quell’inconsistenza di ogni genere di
legame di fronte alla pazzia.
Ironia
della sorte, non aveva avuto scampo allora così come non ne aveva in quel
momento, con la differenza che il Gaara che avrebbe
affrontato quel giorno non avrebbe perso il senno qualunque fosse stata la sua
reazione nel rivederlo. Questa era una certezza.
Lo
scorse sulla veranda lignea di quel piccolo ricovero in cui avevano scelto di
pernottare, osservava il giardino della corte quadrata venire lentamene invaso
dalla sabbia che pioveva dal cielo.
«Ciao»,
disse per primo Kankuro, attirando la sua attenzione.
«Ciao»,
rispose il rosso senza smettere di fissare il giardino.
Il
marionettista rimase in silenzio non sapendo da dove cominciare, quei secondi che
seguirono il loro saluto caricarono l’atmosfera di pesantezza e riempirono il
cuore di Kankuro di ancora più incertezze rispetto a quante
non ne avesse prima di mettere piede in quella stanza. Cosa avrebbe dovuto dire
adesso?
Mosse
qualche passo verso la piccola corte e si sedette anche lui ad osservare la
leggera pioggia di sabbia depositare i granelli sulle foglie degli alberi in
fiore, appesantendole e contorcendole nel loro tentativo di rimanere in piedi.
«Questo
posto sta morendo», disse Gaara con amarezza,
rompendo quel lungo silenzio.
«No»,
rispose Kankuro, sorpreso di sentire quelle parole
proprio da chi aveva imparato sulla propria pelle a non rassegnarsi mai. «Non
lo lasceremo morire».
Era
convinto di quello che aveva detto; sin
dal primo momento che aveva trascorso in quei villaggi ci aveva messo anima e
corpo nel tentativo di salvarli, mettendo a repentaglio la sua vita prima
ancora della sua reputazione. La sofferenza di quelle persone non era stata
quantificabile e loro erano gli unici ad avere la forza di aiutarli per
davvero. Era quello il motivo per cui aveva deciso di intraprendere quella
missione pericolosa, avrebbe voluto cancellare l’angoscia sui volti di quella
gente a cui non era rimasto più nulla se non fuggire lontano.
Gaara lo osservava
taciturno. Probabilmente Kankuro aveva visto molto
più di lui arrivando nei villaggi satelliti dopo le primissime scosse, forse
aveva visto qualcosa che lui non avrebbe mai potuto comprendere, aveva visto la
devastazione, la morte e la disperazione di cui aveva soltanto sentito parlare.
Per quanto fosse risentito per l’atteggiamento del fratello non riuscì a
pronunciare alcuna parola di rimprovero.
«Li
ammiro molto, sai?», riprese il marionettista. «Gli architetti».
«Davvero?»,
chiese Gaara, affatto stupito da quella dichiarazione,
quei due erano stati dei complici perfetti.
«Hanno
lasciato tutto per venire qui ad aiutare questa gente», spiegò Kankuro.
«Ti
hanno indotto loro a intraprendere quella missione?», domandò il rosso, scrutandolo
con cipiglio serio.
«No»,
rispose il fratello. «Era essenziale che io partissi, non mi sono lasciato
dissuadere da nessuno, nemmeno da loro».
«Stupido»,
lo interruppe l’altro con una punta di risentimento.
«Non
saremmo a questo punto senza il nostro lavoro. Non mi pento di averlo fatto,
accetterò le conseguenze del mio gesto», replicò Kankuro,
risoluto.
«Né
io ti biasimo», concluse Gaara, ammettendo come
quelle parole non fossero false. Certo, avrebbe preferito essere avvisato sugli
spostamenti del marionettista, avrebbe preferito essere il primo a cui fossero
arrivate le informazioni e il primo che potesse attivarsi per intervenire, ma
forse non l’avrebbe mai capito fino in fondo. Non aveva visto coi propri occhi
quello che tutti, lì, avevano vissuto.
«Da
dove vengono gli architetti?», chiese poi a Kankuro,
che era rimasto in silenzio in seguito alla loro breve discussione, forse
ancora incredulo alle parole di Gaara.
«Dal
Paese della Terra», rispose. «È lì che hanno brevettato le fondamenta antisismiche».
«Comprensibile»,
rispose il rosso, conscio della presenza di numerose catene montuose in quella
terra, non c’era da stupirsi se in quei luoghi la costruzione antisismica fosse
più avanzata rispetto al Paese del Vento. «Quindi è un vulcano il nostro
problema, è così?», domandò a Kankuro, che assentì
con un sospiro.
Ratsu ci aveva visto
giusto.
«Si
è aperta improvvisamente una bocca sul versante meridionale della catena
montuosa. I terremoti sono dovuti all’attività vulcanica, il cambio climatico alle
polveri eruttive, il vento le spazza dritte nel deserto e il loro calore
innesta le tempeste», spiegò il marionettista. «Non c’è molto che possiamo fare
per questa situazione e non c’è modo di fermare la natura, possiamo solo aiutare
le persone ad adattarsi a essa».
«Già»,
ammise Gaara, pentendosi di aver provato anche il
minimo rancore nei suoi confronti. Quella missione era diventata parte di lui, lo
vedeva dalla determinazione in ogni sua frase. «Faremo del nostro meglio», concluse,
rendendosi conto di quanto il proprio tono di voce fosse più sereno. Aver
parlato con Kankuro aveva lasciato da parte ogni
disagio e ogni indecisione, adesso il quadro della situazione era finalmente
più chiaro. Fece per domandargli che genere di informazioni avesse recapitato
nella missione sui monti Dakagi ma venne interrotto
ancora prima di aprire bocca da un suo gesto del fratello, che chiuse gli occhi
nel tentativo di concentrarsi e li riaprì solo quando il terreno cominciò a
vibrare impercettibilmente sotto i loro piedi, aumentando di intensità col
passare dei secondi.
La
scossa non era forte come quella avvertita il giorno prima, ma era bastata a
causare il panico nelle strade in cui la gente si riversava di corsa per
arrivare ai punti di ritrovo.
«Aspetta!».
Kankuro trattenne Gaara
conducendolo a ridosso di una parete perimetrale della pensione. «Questo è solo
un tremore, ormai lo riconosco».
«In
che senso?!», chiese il rosso, scettico, mentre osservava preoccupato la folla
nelle strade.
«Sono
stato quasi un mese lassù, ho imparato a riconoscere il movimento del suolo, so
quando è il caso di preoccuparsi».
Rimasero
immobili per quasi un minuto contro il muro portante, alle loro spalle il
fragore della strada scemava lentamente lasciando posto al silenzio e alla
vibrazione degli arredi a loro vicini, non pronunciarono parola se non prima
che il piccolo sisma si fosse placato del tutto.
«Raggiungiamo
Shikamaru», sentenziò Gaara.
«Mi spiegherai lungo la strada».
Corsero
veloci tra le vie deserte della città e tra gli edifici perfettamente in piedi,
statici e solidi. Non ci volle molto a raggiungere lo studio degli architetti
ma, nonostante il breve tragitto, Kankuro spiegò al
fratello le conclusioni a cui era arrivato il giorno precedente, quando aveva
deciso di viaggiare tutta la notte pur di portare a inizio giornata le
informazioni. Questo avrebbe potuto cambiare le cose in meglio o in peggio,
dipendeva solo da quale soluzione si fosse adottata.
Trovarono
Shikamaru, Emin e Morgan
perfettamente tranquilli attorno al tavolo dello studio, con in mano delle
tazze di caffè.
«Ce
l’avete fatta», disse Shikamaru non appena li vide
sulla soglia dello studio. Il locale era piccolo e spoglio, un luogo di fortuna
dalle pareti color carta da zucchero e con un’unica scaffalatura disordinata
sulla parete sinistra ad accompagnare il tavolo presente al centro della
stanza.
«Il
buongiorno si vede dal mattino», scherzò Kankuro,
alludendo alla scossa appena percepita.
«Che
sorpresa». Questa volta fu Emin a rivolgersi al
marionettista. «Bentornato».
«Grazie»,
rispose lui, allargando il sorriso. «Avete conosciuto mio fratello, vero?»
«Ci
siamo incontrati ieri», rispose la ragazza, salutando Gaara
con un cenno del capo. «Lui invece è mio cugino Morgan, gestiamo insieme lo
studio».
Gaara si avvicinò all’unico
volto nuovo della stanza: l’alto ragazzo dai capelli corvini e lo sguardo nero
come la pece che non aveva smesso un attimo di fissarlo da quando aveva messo
piede in quella stanza. Si strinsero la mano squadrandosi a vicenda prima di
concentrare la loro attenzione sui documenti sparsi sulla scrivania. Si era
sentito particolarmente a disagio in seguito a quella fredda stretta di mano.
L’atmosfera,
infatti, non era delle più piacevoli: Emin era
particolarmente professionale quando spiegava il suo lavoro, mentre Morgan se ne
stava in disparte, supervisionando tutto con fastidiosa attenzione e aggiungendo
di tanto in tanto qualche dettaglio. Per il resto c’era silenzio. Nemmeno Kankuro era riuscito a interrompere quella discussione
nonostante avesse delle notizie piuttosto importanti da comunicare, aveva
lanciato più volte degli sguardi al fratello senza ottenere il supporto che
sperava.
La
situazione cominciò a rilassarsi nel momento in cui cominciarono a comparire
sulla soglia i capi mastri e i capi squadra di cantiere in attesa delle
direttive degli architetti sui nuovi interventi da fare quel giorno. L’attento
controllo del cipiglio severo di Morgan venne così addolcito grazie a quelle
piccole distrazioni, e non passò molto che annunciò la sua intenzione di
precedere la cugina andando a Nakoto per organizzare
il lavoro. Fu un sollievo. Gaara non sapeva spiegarsi
perché, ma non appena il ragazzo si fu allontanato a sufficienza anche la
stessa Emin parve molto più rilassata, concedendosi
qualche sorriso e qualche battuta di tanto in tanto.
C’era
qualcosa che non gli piaceva di quei due, qualcosa di strano. Lui era stato
estremamente freddo, impassibile e affatto amichevole, mentre lei era come se
avesse subito una trasformazione condizionata dalla presenza di Morgan.
Che
genere di rapporto c’era tra di loro? Il rosso scosse la testa con disapprovazione.
Era ancora troppo presto per fare alcun genere di ipotesi su quelle persone; ai
suoi occhi, per adesso, erano due architetti capaci e determinati, venuti in
soccorso a quei villaggi senza pensarci due volte. Era contento di avere a che
fare con gente del genere. Senza di loro probabilmente non sarebbe rimasto
molto dei piccoli centri abitati di Dakagi, né delle
persone che vi avevano trascorso la propria vita; senza il loro intervento non
avrebbe trovato altro che disperazione entro quelle mura e per questo gli era
grato.
«Qualcosa
non va?», chiese Emin, che aveva notato il gesto di
disappunto di Gaara proprio mentre stava spiegando
uno dei passi cruciali di quei piani urbanistici di riqualificazione delle zone
colpite dai sismi.
«No»,
rispose lui alla sprovvista, non riuscendo a trovare una scusa che lo
giustificasse a dovere.
Emin sospirò,
sprofondando nella sedia.
«Non
siete venuti così presto solo per vedere questi, vero?», disse, indicando i
documenti sparsi sul tavolo. Nessuno rispose. «Quello che vi sto dicendo lo
trovate anche nella relazione allegata ai piani, potrete leggerlo in qualsiasi
momento», aggiunse, fissando Kankuro che osservava il
movimento cittadino dalla finestra. «Ci sono novità non piacevoli, è così?»,
ipotizzò lei, attirando l’attenzione del marionettista.
«Sono
tornato prima del previsto proprio per questo motivo», rispose lui, vuotando
finalmente il sacco.
«Perché
non l’hai detto subito?», prese a dire la ragazza, stizzita. Kankuro non rispose, vergognandosi di non avere avuto il
buon giudizio di intervenire anche in presenza di Morgan, era essenziale che ci
fossero entrambi per discutere di quell’eventualità.
«Volevamo
avere un’idea dei vostri progetti prima di discuterne», intervenne Gaara in sua difesa. «Quello che ha scoperto Kankuro potrebbe indurvi a rivedere i vostri piani».
«Ovvero?»,
chiese Emin, preoccupata.
«Abbiamo
fatto dei rilevamenti in diverse zone», cominciò in marionettista, estraendo
una piccola mappa dove erano segnati i punti analizzati tra i valichi scoscesi
dei monti Dakagi. «Sono abbastanza da poter dedurre
che l’intera catena montuosa è fortemente attiva e c’è il pericolo che si
aprano altre bocche vulcaniche da un momento all’altro».
«Merda».
Questa volta fu Shikamaru ad imprecare. «I problemi
sono appena iniziati allora».
«Le
nostre analisi ci hanno portato a concentrarci su una zona ben precisa, in cui
i valori sono molto alti e dai carotaggi è venuto fuori che il terreno sta
progressivamente mutando».
«Dunque
avete una previsione di dove si aprirà la seconda bocca», dedusse la ragazza,
sempre più preoccupata.
Kankuro
estrasse un altro documento in cui venivano schizzate le diverse eventualità
che si sarebbero potute verificare qualora il secondo cono vulcanico si fosse
aperto proprio nel punto da loro ipotizzato. A differenza del cratere
principale, esposto a sud, verso il deserto, quello avrebbe guardato a est, in
linea diretta con i villaggi satelliti.
«Se
questo succedesse sarebbe un disastro», decretò Emin,
visibilmente provata. Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare avanti e
indietro per lo studio. «Qui non si tratta più di adattarsi, bisogna
difendersi. Bisogna pensare a qualcosa che impedisca alle nubi di avvelenare
l’aria e che protegga le abitazioni dal deserto».
«Forse
una soluzione c’è», intervenne Gaara, che aveva
pensato per tutta la durata del loro colloquio a come poter rimediare a quella
situazione. Emin lo osservava curiosa, venendo
imitata anche dagli altri due.
«Non
possiamo impedire che si aprano altre bocche», cominciò, «ma forse possiamo
essere noi a decidere dove farle aprire».
«Deviare
il corso della natura?», rifletté Shikamaru ad alta
voce. «Stiamo parlando di più camere magmatiche sotto la stessa catena montuosa,
sarebbe una follia anche solo pensare di mettere il becco nelle viscere della
terra».
«La
natura trabocca di chakra», intervenne Kankuro,
cercando di convincersi che non tutto era perduto. «Con la tecnica giusta si
potrebbe riuscire a modellare il terreno e far aprire i crateri in punti
strategici».
«Esiste
una tecnica che può fare tutto questo?», chiese Emin
con il suo fare scettico.
«Non
lo so», rispose Gaara, «ma se esiste la troveremo. Ho
accesso a molte risorse, farò delle ricerche nel più breve tempo possibile».
«Dove
andrai a cercare?», chiese Shikamaru.
«Ovunque
sia possibile farlo», rispose lui. «Partirò oggi stesso».
«Aspetta
a partire», intervenne Emin, ancora in piedi. «Voglio
mettere al corrente anche Morgan di questa situazione, lui ha molti più agganci
di me, vorrei che ci fossimo entrambi prima di prendere decisioni».
In
verità non c’era nulla che Morgan potesse fare più di lei, ma non poteva
permettere che Gaara lasciasse i villaggi così
presto. Sapeva quanto fosse necessaria la ricerca di quelle informazioni, ma
sapeva anche che Morgan era troppo coinvolto in quella faccenda, e non poteva
permettere che sfumasse così la loro unica possibilità di riscattare l’intera
famiglia che da anni viveva in un umiliante esilio. Sarebbe stato meglio
studiare la loro mossa in maniera più scaltra e sicura, ma si rendeva conto che
di tempo per calcolare con calma la vendetta non ce n’era, se non avessero
agito in fretta avrebbero perso l’unica occasione che si era presentata in
tutta la loro esistenza.
«Riesci
a riferirgli queste notizie in giornata?», le chiese il rosso, distogliendola
per un attimo dalle sue riflessioni.
«Certo»,
rispose Emin, tornando ad osservare quegli schizzi
che vedevano realizzata la peggiore delle eventualità qualora la seconda bocca
si fosse aperta veramente sul versante est.
Che
pensieri andava a fare in un momento del genere? Non era alla famiglia che
doveva pensare, né alla vendetta.
«Ci
rivediamo stasera per eventuali decisioni», riprese lui, «in modo da attivarci
già da domani».
«Perfetto»,
concluse la ragazza, pentendosi di averlo convinto a rimanere. La vera priorità
in quel momento erano i villaggi, e il loro egoismo stava facendo ritardare
qualcosa che forse avrebbe decretato la salvezza di migliaia di persone.
Osservò i tre ragazzi uscire lentamente dallo studio dopo averla salutata e si
ritrovò combattuta mentre riponeva disordinatamente i documenti nell’apposito
scaffale.
Che
cosa avrebbe dovuto fare?
L’Autrice:
La
trama si infittisce. Un passato doloroso, una vendetta, una missione
apparentemente impossibile. Che ne sarà dei nostri personaggi? Riusciranno
Morgan ed Emin a riscattare la famiglia?
Rimanete
con me e lo scoprirete al prossimo aggiornamento!
Emin osservava gli
operai gettare le fondazioni dell’ennesimo edificio del cantiere. Non erano
operai -precisò la sua mente in preda ai tormenti-, erano volontari per la
maggior parte residenti in quelle zone disastrate.
Aveva
passato l’intera mattina immersa nel lavoro, ma la sua testa non si era
concentrata sul cantiere nemmeno per un secondo. Era terrorizzata all’idea di
dover parlare con Morgan, mortificata al solo pensiero di dover mettere da
parte l’unica cosa che avrebbe potuto rendere felice il cugino, e risentita con
sé stessa per non essere stata abbastanza lucida sin da subito, evitando così
di sprecare quella giornata che avrebbe potuto fruttare qualche risultato.
Continuava
a pensare all’eventualità descritta da Kankuro quella
mattina, seguitando a rabbrividire al solo pensiero che un secondo cono
vulcanico si aprisse lungo il versante est della catena Dakagi,
in linea diretta coi villaggi satelliti.
La
ragazza si era frequentemente soffermata a osservare le montagne che
disegnavano l’orizzonte, sospirando al pensiero dell’imprevedibilità della
natura, ma soprattutto, all’imprevedibilità degli eventi che l’avevano portata
fino a quel punto.
La
sua decisione avrebbe determinato il destino di migliaia di persone e questo la
spaventava; le premeva il destino della sua famiglia così come la tormentava il
pensiero di avere sulla coscienza il fallimento dell’improbabile missione di
salvare quei villaggi. Sapeva di avere il potere di aiutarli con la sua
conoscenza e le sue capacità, ma in cuor suo sapeva di poterli distruggere con
la sua unica volontà se solo avesse appoggiato Morgan e il resto della parentela
nel loro desiderio di vendetta.
Se
qualcosa fosse andato storto sarebbe stata colpa sua. Se il tempo a loro
disposizione non fosse bastato a causa dell’esitazione che aveva avuto quella
mattina non se lo sarebbe mai perdonato.
Purtroppo
non aveva subito compreso quale fosse la priorità. Per il bene dei villaggi e
delle persone che avevano riposto in loro ogni speranza si sarebbe dovuto tentare
il tutto e per tutto pur di impedire l’avverarsi di quegli eventi catastrofici
previsti in seguito all’apertura della seconda bocca e, se questo avesse voluto
dire collaborare con i propri nemici e rimandare la loro vendetta a data da
destinarsi, le sarebbe andato bene, purché non dovesse avere sulla coscienza
gli sforzi vani di migliaia di persone.
Ringraziò
mentalmente i suoi genitori per quella dose di ragionevolezza che aveva
imparato a conoscere durante i primi anni della sua vita, pensando che lo stesso
non poteva dirsi di Morgan: su di lui l’ombra della famiglia aveva vegliato sin
dalla nascita, e sin dalla nascita era stato imprigionato dall’intrico di rovi
velenosi che la loro esule condizione non aveva fatto che attorcigliare sempre
di più col passare del tempo.
La vendetta.
Non
sarebbe stato facile dissuaderlo da quell’ossessione, né fargli comprendere che
tutto quello per cui avevano lavorato sodo fino a quel momento sarebbe stato
mandato all’aria qualora avessero anteposto quella rivalsa ai loro sforzi.
«La
prima fase è ultimata, architetto». Furono gli operai a riportarla al presente,
il caposquadra era davanti a lei e la osservava con un’ombra di preoccupazione,
il suo nome era Jekel ed era solo un ragazzo che non
aveva potuto nemmeno finire gli studi.
«Facciamo
una pausa», disse lei, conscia che se prima non avesse parlato al cugino non
avrebbe potuto lavorare con serenità. Non sapeva ancora come, ma l’avrebbe
convinto che la sua decisione sarebbe stata quella giusta, nel bene o nel male,
e sperava che lui sarebbe stato in grado di trovare lo stesso buonsenso che
aveva avuto lei.
Si
diresse verso il lato sud del cantiere, dove sapeva che Morgan svolgeva le sue
stesse mansioni inerenti alle fondamenta delle nuove costruzioni. Non faticò a
individuarlo nonostante il maggior numero di persone che affollavano
quell’area, avrebbe saputo riconosce la figura del cugino in qualsiasi
situazione dopo tutti gli anni trascorsi insieme.
Si
avvicinò alla sua postazione facendosi notare con un cenno.
«Ci
sono problemi?», le chiese lui alla lontana, continuando a seguire il lavoro.
«Devo
parlarti», rispose Emin, non riuscendo a nascondere
il tremolio della voce. Morgan si voltò ad osservarla e notò come la sua
espressione tradisse le sue emozioni; aveva lasciato la cugina allo studio solo
qualche ora prima ed era sicuro che dall’incontro con il Kazekage
non arrivavano buone notizie.
Normalmente
era troppo preciso e scrupoloso per interrompere il lavoro a metà, ma
l’espressione di Emin lo preoccupava, specialmente
perché non erano solo progetti e cantieri quello che frullava nella loro mente
in quel periodo. Congedò gli operai in una pausa e le fece cenno di
avvicinarsi.
«Che
succede?», le chiese inquieto. La ragazza non rispose, si guardava in giro
pensierosa chiedendosi se fosse il caso di parlargli in mezzo a tutta quella
gente. Probabilmente la folla sarebbe stata un buon monito per non accennare
alla vendetta, ma aveva paura che si scatenasse il panico tra la gente se
avessero udito anche solo una parola sulla gravità delle scoperte fatte dalla
squadra di Kankuro.
Probabilmente
non avrebbe avuto scampo quel giorno, avrebbe dovuto affrontare Morgan da sola,
in un posto lontano da orecchie indiscrete.
Gli
fece cenno di seguirla.
Il
cantiere brulicava di persone, Emin condusse il
cugino tra le vie secondarie di Nakoto, inagibili per
tutti gli addetti ai lavori eccetto loro. Non proferirono parola mentre
camminavano tra le macerie della vecchia città e osservavano come la
desolazione di quel posto avesse lasciato spazio solamente al deserto, che con
la sabbia e la calura aveva forzatamente conquistato quei luoghi senza lasciare
alcuna possibilità di difesa.
Fu
quando arrivarono in una piccola piazza a un crocevia del villaggio in
ricostruzione che la ragazza valutò la posizione abbastanza sicura, solitaria e
poco illuminata per potersi fermare. Si sedette su una delle piccole panche che
ornavano quello che rimaneva di quello spazio pubblico e, senza rimuginarci più
di quello che aveva già fatto nelle ore precedenti, cominciò a raccontare a
Morgan cosa aveva appreso durante la conversazione di quella mattina in seguito
alla partenza di lui alla volta di Nakoto. Gli parlò
dei risultati delle analisi che Kankuro le aveva
mostrato accentuando volutamente quanto potesse essere catastrofico l’evento da
loro previsto, gli riferì di come i piani di emergenza si sarebbero dovuti
rivedere dal primo all’ultimo e di come si sarebbero dovute fare modifiche persino
agli edifici già realizzati, per non parlare delle condizioni invivibili della
gente che avrebbe dovuto abitare quelle città. Ogni dettaglio lasciava
presagire uno sfacelo, e questo Morgan l’aveva capito, la sua faccia
preoccupata e spaventata al tempo stesso erano una buona prova di
ragionevolezza e un buon auspicio per Emin, che aveva
temuto quel momento sin dal principio. La sua espressione, tuttavia, cominciò a
mutare quando la ragazza cominciò a raccontare come avevano pensato di
risolvere il problema.
«Hai
lasciato che partisse?», le domandò il cugino, attonito. Lei mosse il capo mestamente
in segno di diniego.
«So
già cosa vuoi dirmi», continuò poi lui, conoscendola fin troppo bene per non
immaginare quale decisione avesse preso. «Non ti asseconderò questa volta».
«Morgan…»,
provò a convincerlo lei, che si aspettava quella reazione e si era immaginata
molte volte una scena simile, insieme a tutte le angosce e le paure ad essa
correlate.
«No»,
la interruppe lui. «Questa è un’occasione che non va sprecata».
«Morgan
noi abbiamo bisogno che loro ci
aiutino», insisté Emin, cercando di farlo ragionare.
«Hai
più a cuore il destino di questa gente che della nostra famiglia?», cominciò
lui, alzando la voce. «Che cosa ti hanno dato queste persone in più di loro?»
«Non
vorrai paragonare l’esilio a questa condizione di emergenza!», controbatté lei,
alterata.
«E’
proprio questo il problema, non ti è mai importato della nostra vendetta, né di
quello che abbiamo sofferto in tutti questi anni!», riprese Morgan, ormai fuori
di sé dalla rabbia.
«Mi
importa eccome!», lo sovrastò lei, risentita per quello di cui il cugino
l’aveva accusata. «Ma so riconoscere quando è il momento di mettere da parte
l’orgoglio».
«Tu
non sai riconoscere niente e non sai
un bel niente. Tu non hai vissuto quello che abbiamo passato noi, tu eri al
sicuro, sulle montagne. Non parlarmi di orgoglio, né di buonsenso, non esisterà
pace finché loro saranno vivi», concluse lui, puntandole contro il dito prima
di girare i tacchi ed allontanarsi a passi lunghi. Emin
lo rincorse con le lacrime agli occhi, provata per quelle dure parole che
l’avevano fatta sentire infinitamente lontana dalla persona che più credeva di
aver vicino.
«Aspetta»,
ricominciò, afferrandolo per il braccio. «Ritorneranno qui dopo le ricerche,
avremo tutto il tempo per organizzare la nostra vendetta dopo aver salvato i
villaggi».
Il
cugino si voltò, incollerito a sufficienza per lanciarle uno sguardo
minaccioso. «Voglio eliminarli dalla faccia della terra il prima possibile, non
mi lascerò sfuggire questa occasione».
«E
dopo che li avremo uccisi che cosa faremo?», protestò la ragazza, determinata a
non cedere nonostante i sensi di colpa. «I villaggi satelliti andranno perduti,
il deserto sarà impraticabile per colpa delle tempeste, e Suna sguinzaglierà
tutti i suoi shinobi per vendicare la morte del Kazekage».
«Che
vengano», ridacchiò Morgan, con una scintilla folle negli occhi. «Ci
riprenderemo il Villaggio della Sabbia».
«Ci
sarà una guerra, maledizione!», sbottò la ragazza, asciugandosi le lacrime. «È
questo che vuoi? E’ questo che vuole la nostra famiglia?!»
Lui
rimase in silenzio a lungo prima di riuscire nuovamente a guardarla.
«Merda»,
imprecò la ragazza al solo pensiero di quella pazzia, cominciando a camminare
nervosamente avanti e indietro.
«Ascoltami»,
disse Morgan, afferrandola per le spalle e arrestando la sua concitazione. «Ho
bisogno di sapere che sei con me», le disse, guardandola negli occhi con la
stessa determinazione che aveva lei quando si convinceva di qualcosa. «Ti
prometto che non avrai più alcun motivo per piangere, e che finalmente saremo
felici», continuò, fantasticando su un ipotetico futuro che avrebbero potuto
avere dopo aver portato a termine la loro vendetta, un’illusione irrealizzabile
senza l’aiuto di Emin. «Sei con me?»
La
ragazza rimase in silenzio continuando a fissare il cugino senza realmente
pensare a quello che le aveva appena detto. Il suo cuore era combattuto fra ciò
che era giusto fare e ciò che i sentimenti la spingevano a considerare più
importante rispetto a una razionale decisione. Non era stata presente al
momento della cacciata, erano stati i suoi bisnonni ad essere esiliati e la
loro discendenza aveva ereditato il frutto del rancore e dell’odio nei
confronti di chi li aveva puniti con una tale umiliazione. La lontananza da
casa era qualcosa che quotidianamente rendeva dolorosa la sopravvivenza nelle
fredde e isolate valli del Paese della Terra, e la vendetta era l’unico
pensiero che li aveva fatti sopravvivere giorno dopo giorno. Si rese conto di
non aver mai realmente pensato di poter convincere Morgan a ritardare quell’agognata
espiazione, poiché quell’ossessione si era radicata così in profondità che sarebbe
stata cieca anche all’evidenza, figuriamoci alla calma e al buonsenso.
Intravide
l’impazienza nello sguardo di lui, mista all’angoscia che la ragazza potesse
rifiutare quella richiesta di aiuto che la famiglia aveva invocato nei suoi
confronti da quasi dieci anni a quella parte. Se non l’avesse appoggiato
adesso, nel momento in cui aveva più bisogno di lei, probabilmente l’avrebbe
perso per sempre, ed Emin non poteva permettersi di
perdere la persona che era diventata il nuovo pilastro della sua frantumata
esistenza, non era ancora pronta per ricominciare da zero, non in quel momento
in mezzo a tutta quella disperazione.
Rimasero
a fissarsi reciprocamente per qualche secondo, in silenzio, accompagnati
solamente dal fruscio della sabbia e dai rumori lontani del cantiere. Fu solo
quando Emin si era ormai convinta a mettere da parte
le sue priorità per il bene e l’orgoglio dell’unica persona cara che le era
rimasta, che il suolo cominciò a tremare sotto i loro piedi. Una scossa che a
stento li fece rimanere in equilibrio su quel terreno che sembrava dover cedere
da un momento all’altro.
«Al
centro della piazza!», urlò Morgan, mentre afferrava il braccio della cugina
per non farla cadere. Emin si stabilizzò a fatica e
si trascinò di corsa nel punto più sicuro che potessero permettersi in quel
momento tra le rovine della città. Il terremoto durò qualche minuto: attorno a
loro quel poco che era rimasto delle sagome dei vecchi edifici si frantumò
ulteriormente provocando nuovi crolli e nuovi intrighi di macerie.
I
due ragazzi giacevano inginocchiati al centro della piccola piazza, nascondendo
a vicenda la faccia nell’incavo della spalla altrui, attendendo pazientemente
che la violenza del suolo si placasse.
«Veloci
ai punti di ritrovo», sussurrò Emin non appena si
rese conto che a tremare non era più la terra ma il suo corpo invaso dalla
paura. Anche Morgan si rialzò provato e non indugiò nemmeno un attimo nel
ricominciare la corsa verso i luoghi sicuri di Nakoto;
afferrò la mano della cugina e si inoltrarono nelle vie secondarie e strette
della vecchia città in direzione del cantiere poco distante.
Per
quella volta, la natura era stata clemente con la loro avventatezza.
***
Gaara si era precipitato
ai ripari insieme a Kankuro e Shikamaru
già alle prime avvisaglie di quel terremoto. Il marionettista era stato molto
preciso nel riconoscere il movimento del suolo e, a differenza del tremore percepito
poche ore prima, questo destava preoccupazioni sufficienti per correre ai punti
di ritrovo il più velocemente possibile. La maggior parte dei volontari che
operavano con loro a Nakoto nella raccolta delle macerie
erano nel medesimo posto e aspettavano con impazienza che la terra finisse
quell’improvvisa galoppata.
Non
passò molto tempo prima che l’assenza degli architetti si fece notare e questo
ridestò improvvise preoccupazioni in tutte le direzioni, sia perché non arrivavano
nuove disposizioni per il lavoro, sia perché erano stati avvistati per l’ultima
volta in direzione del vecchio centro inagibile di Nakoto;
questo bastava a far scattare l’allarme generale.
Più
i minuti passavano più l’agitazione cresceva e, nel momento in cui la scossa
tellurica cessò di flagellare il suolo, il punto di ritrovo diventò un
confusionale andirivieni di persone, messaggeri e portavoce dai luoghi di
sicurezza situati nelle diverse zone del cantiere.
«Andiamo
a cercarli». Si mosse per primo Kankuro.
«Fermo»,
lo bloccò Shikamaru. «Aspettiamo di capire se si sono
rifugiati da qualche altra parte».
Gaara intanto, era in
mezzo alla piccola folla cercando di recuperare i messaggi che giungevano dalle
restanti postazioni di sicurezza, adesso la gente chiedeva a lui cosa fare. Al
suo fianco c’era Jekel, il ragazzo che li aveva
accolti il giorno precedente al cantiere e lo stesso che aveva visto Emin per l’ultima volta; cercava di contenere la situazione
intimando la calma ai suoi compagni, mentre gli ultimi messaggi arrivavano a
destinazione portando notizie pessime.
«Tornate
tutti alle vostre postazioni e fate la conta dei danni», disse Gaara rivolgendosi al carismatico caposquadra. «Rimuovete
eventuali macerie e riprendete da dove avete interrotto. Non toccate le
fondazioni».
Il
ragazzo annuì non riuscendo a nascondere l’angoscia. «Notizie degli architetti?»,
chiese, diventando pallido al cenno di diniego del rosso.
«Li
andrò a cercare», decretò il giovane Kazekage,
rendendosi conto di quanto tutta quella gente fosse profondamente dipendente
dalle capacità e dalla fermezza di quei ragazzi. Il fatto che gli architetti avessero
abbandonato il loro paese natio per raggiungere quelle zone disastrate e che
stessero spendendo anima e corpo nel tentativo di aiutarli, aveva suscitato
negli abitanti di quei villaggi una sorta di ammirazione e di assoluta
devozione nei loro confronti, motivo per cui quell’improvvisa assenza proprio
in seguito al sisma e proprio quando il loro ultimo avvistamento era avvenuto in
direzione delle zone ancora instabili della città, stava realmente facendo presagire
il peggio. Probabilmente nessuno oltre Emin e Morgan
avrebbe potuto gestire un’emergenza così grande in maniera così efficiente, e
questo sarebbe stato un problema non indifferente che avrebbe segnato la fine
per quei villaggi.
Quando
Jekel si fu allontanato insieme al resto dei
volontari, Gaara si avvicinò al punto dove Kankuro e Shikamaru lo stavano
aspettando, indovinando immediatamente che cosa passasse nella mente del
marionettista.
«Non
di nuovo», gli disse, zittendolo ancora prima che riuscisse a proferire parola.
«Per me sarà più facile cercarli, e meno pericoloso», spiegò, interrompendo le
sue proteste ancora una volta.
«Ha
ragione», concordò Shikamaru, cercando di convincere
un Kankuro che lo guardava esasperato. «Potrebbe
verificarsi un altro terremoto da un momento all’altro, per noi sarebbe
difficile muoverci attraverso tutte quelle macerie».
«Per
l’appunto», convenne il rosso, ringraziando mentalmente lo shinobi
di Konoha per aiutarlo a spuntarla contro
l’ostinatezza dei propri fratelli. «Inoltre la preoccupazione sarà minore se
avranno delle figure di riferimento all’interno del cantiere», aggiunse,
ripensando all’angoscia che aveva visto poco prima sul volto di Jekel.
Senza
aspettare un reale cenno di assenso da parte del fratello, Gaara
richiamò il chakra e ordinò alla sabbia di condurlo in alto, nel cielo di Nakoto, da dove avrebbe potuto avere una visuale esclusiva
della città e da dove gli sarebbe stato più facile rintracciare Morgan ed Emin. Rimase a lungo ad osservare il lato ovest della città
ancora incontaminato dai lavori di ristrutturazione e testimonianza della
disperazione di quei villaggi travolti dall’imprevedibilità della natura.
Decise di volare a raso coi tetti degli edifici e di battere l’intera città
qualora fosse stato necessario. I suoi occhi cercavano movimento nella
staticità grigia e spettrale di quelle rovine, un movimento che non tardò a
farsi percepire a poche decine di metri da lui.
Emin era inciampata.
Da
quando la scossa era finita i due cugini erano impegnati in una corsa a
perdifiato per cercare di raggiungere il cantiere prima che sopraggiungesse un
nuovo terremoto. Avevano lasciato alle spalle la conversazione di poco prima,
seppellendo momentaneamente risentimento e sensi di colpa nel tentativo di
raggiungere la meta sani e salvi.
La
fretta di quei minuti faticosi e la concitazione di quella corsa li avevano
fatti optare per la via più breve: una strada piccola che formava uno stretto
budello per poi allargarsi progressivamente in direzione est. Se la dea bendata
era stata clemente qualche attimo prima, facendoli rialzare immuni dopo quel
sisma catastrofico che aveva fatto collassare ogni cosa attorno a loro, non
poteva dirsi la stessa cosa nel momento in cui la ragazza inciampò, infilando
involontariamente il piede nella fessura tra due macigni e rovinando a terra
subito dopo. Tra tutti i posti in cui poteva succedere un imprevisto simile
quello era il meno indicato: la larghezza della strada non superava i cinque
metri e gli alti palazzi che si affacciavano su quel budello erano crollati
solo per metà, lasciando instabili il resto delle rovine.
«Ti
sei fatta male?!», le chiese Morgan, preoccupato. «Ce la fai ad alzarti?»
La
ragazza rimase silenziosa per qualche secondo, lo sguardo fisso sul terreno e
le lacrime agli occhi. «Mi fa male da morire», sussurrò a denti stretti.
Morgan
si guardò attorno angosciato e maledicendo sé stesso per aver scelto la via più
breve quanto pericolosa per tornare al cantiere; dovevano cercare di uscire da
quella strettoia il più velocemente possibile se volevano avere un margine di
sicurezza maggiore dall’imprevedibilità di un eventuale e improvviso sisma.
Costrinse Emin ad alzarsi e la aiutò a reggersi in
piedi, ma lei aveva la caviglia troppo dolorante per continuare a correre, e il
suo vestiario di certo non l’aveva aiutata a proteggersi dai graffi e dalle
sbucciature provocate dalla caduta, il caldo era talmente soffocante che non ci
si poteva permettere nulla di più pesante se non gli shorts e la canotta.
Per
quanto si sentisse in colpa per i movimenti forzati che la cugina era costretta
a compiere e per quanto la sua espressione sofferente lo facesse star male,
quella era l’unica possibilità che avevano, l’unica soluzione per uscire da
quell’intrico di rovine senza rimetterci la pelle.
Fu
allora che si sentì chiamare dall’alto e si accorse della nuvola di sabbia esattamente
sopra la testa.
«State
bene?». Gaara atterrò poco più avanti di loro,
incrociando subito lo sguardo preoccupato di Morgan.
«Più
o meno», rispose lui, osservando il volto sofferente di Emin.
«Che
cosa facevate qui?», riprese a domandare il rosso mentre si avvicinava ai due
architetti. Né Morgan, né la cugina risposero a quella domanda, consci della
colpevolezza che li aveva spinti a discutere lontano da orecchie indiscrete. Se
in un primo momento l’inquietudine di trovarsi in un luogo pericoloso e l’ansia
per lo stato di salute della ragazza avevano accantonato il motivo della sua
rabbia, adesso Morgan aveva improvvisamente ripreso la lucidità perduta,
incominciando inevitabilmente a calcolare cosa sarebbe convenuto fare in quel
momento.
«Un
sopralluogo», rispose Emin, stringendo volutamente la
presa sulla spalla del cugino come ammonimento a non compiere alcun gesto avventato.
Aveva paura. Non erano giunti ad alcuna conclusione nella discussione avuta
poco prima, e l’unica cosa certa era che lui non avrebbe rinunciato per nulla
al mondo alla vendetta, nemmeno se questo avesse distrutto i villaggi satelliti
e innescato una guerra. Il cuore aveva cominciato a batterle sempre più forte
nel momento in cui aveva visto Gaara, e aver
realizzato che fosse venuto da solo a cercarli in mezzo a quelle rovine
desolate non aveva fatto altro che aumentare la sua ansia e la paura per quello
che sarebbe potuto succedere qualora Morgan non fosse stato in grado di
mantenere la calma.
«Forza»,
disse il rosso porgendole la mano. «Torniamo al cantiere».
«Grazie»,
ripose lei, accettando quell’offerta e sperando che anche il cugino capisse quanto
non fosse sicura quella situazione per mettersi a pensare al riscatto della
famiglia. Osservò la sua espressione indecifrabile non faticando a comprendere come
si sentiva.
«Ferma»,
le disse infine, afferrandole il braccio e impedendole di accettare l’aiuto di Gaara, i suoi occhi adesso fiammeggiavano di determinazione
e di rabbia al tempo stesso.
Il
cuore della ragazza, invece, ebbe un sussulto. Che stava facendo? Se anche
avessero deciso di fregarsene della propria incolumità, Emin
non sarebbe stata in grado di aiutarlo in quelle condizioni; avevano tanto
parlato di vendetta e di morte, ma il Kazekage non
era un avversario qualunque, ci sarebbe voluto il massimo impegno di entrambi
per sconfiggerlo e non potevano farlo
in quel momento.
«Morgan…»,
cominciò a dire con un filo di voce, mentre la sua stretta diventava sempre più
salda.
«Non
intendo accettare il suo aiuto», le disse, trascinandola alle sue spalle. «Sarei
un ipocrita a farlo».
La
ragazza lo guardava con un misto di angoscia, sgomento e rassegnazione negli
occhi. Nonostante il loro netto svantaggio suo cugino stava rischiando il tutto
e per tutto per l’amore di una famiglia ferita e umiliata, stava gettando via
le loro vite e lei non riusciva moralmente a sostenerlo nonostante avesse creduto
di volerlo fino a qualche minuto prima. Nel suo cuore c’era ancora la speranza
di salvare quei villaggi e la voglia di provare a risolvere le cose senza
arrivare alla violenza.
«Che
stai dicendo?», domandò Gaara, scettico. Adesso
l’ansia della ricerca e l’euforia per il ritrovamento dei dispersi avevano
lasciato il posto a una calma fredda e calcolatrice, scaturita dall’allarme che
i suoi sensi avevano risvegliato alle parole di Morgan. Aveva dubitato degli
architetti fin dal saluto freddo che quel ragazzo gli aveva rivolto la mattina
stessa, aveva sospettato che sotto il loro comportamento si nascondesse
qualcosa e ne aveva avuto la conferma dopo quelle parole. Ora come non mai
avrebbe voluto sapere chi fossero realmente quei due.
«E’
così che funziona», riprese il giovane architetto, rivolgendosi alla cugina ma
parlando abbastanza forte per farsi sentire anche dal secondo interlocutore di
fronte a loro. «Le persone scomode vanno fatte sparire al contrario di quelle
indispensabili».
Emin non rispose,
immaginando perfettamente dove volesse andare a parare.
«Sembra
che siamo indispensabili questa volta», continuò lui, muovendo qualche passo in
direzione di Gaara.
«Certo
che lo siete», rispose il rosso a denti stretti, non comprendendo appieno le
parole appena udite e chiedendosi solo in quel momento se avesse mai incontrato
quelle persone prima di quel giorno.
Morgan
fremette di rabbia, ripensando a tutto il trascorso della sua vita nel Paese
della Terra e alla loro esule condizione che gli impediva anche solo di
avvicinarsi al Paese del Vento, la loro casa. Non aveva vissuto in prima
persona il lungo errare alla ricerca di un luogo in cui stabilirsi, né le
persecuzioni subite prima di riconquistare la dignità perduta, ma quelle storie
gli erano state raccontate così tante volte e con così tanti dettagli che aveva
fatto propria la sofferenza dei suoi avi, e aveva preso a cuore il desiderio di
vendicarsi come nessun altro. Avrebbero riavuto indietro la loro casa e
avrebbero ripagato i loro nemici delle pene ingiustamente inflitte, fosse stata
l’ultima cosa che avesse fatto prima di morire.
Si
lanciò dunque all’attacco essendo consapevole di essere in vantaggio nei
confronti del suo avversario; sapeva perfettamente come funzionava il kekkeigenkai di Gaara, e sapeva di poter contare sull’effetto sorpresa per
quanto riguardava le proprie abilità. Non avrebbe avuto molte opportunità con Emin fuori gioco, quindi doveva agire autonomamente
giocandosi bene tutte le carte a disposizione.
Il
suo primo assalto, come previsto, venne parato da una barriera di sabbia.
«Perché
lo stai facendo?!», gli domandò il rosso, alterato, mentre parava i successivi
attacchi controllando il suo elemento con naturalezza.
«Per
vendetta», sbottò Morgan, arrabbiandosi ancora di più di quanto non lo fosse in
partenza. Estrasse un kunai e fendette il muro di
arena che difendeva il suo rivale, dissolvendone i granelli in una nube
polverosa. Quello era il suo primo effetto sorpresa, una volta neutralizzata la
sabbia ci sarebbe stato lo spazio per le proprie abilità: due in tutto, che
combinate insieme avrebbero portato a qualcosa di buono.
Sferrò
un pugno dritto in faccia al suo avversario, che lo subì senza abbandonare la
propria posizione, accusando volutamente il colpo.
«Aiutami
a capire», insisté Gaara, mentre richiudeva la crepa
sul volto creatasi in seguito all’impatto e cercava di analizzare il suo
avversario. Era chiaro che nutrisse un risentimento spietato nei suoi confronti,
ma ancora navigava nel buio e non capiva il motivo di tanto odio. Aveva fatto
del male a molte persone in passato, ne era consapevole, e probabilmente era per
questo che Morgan era così deciso ad ucciderlo. Non lo biasimava. Aveva
desiderato la morte parecchie volte in quegli anni di buio e solitudine dove Shukaku era solo l’alibi che giustificava le sue malefatte;
la verità era che il suo cuore non aveva mai conosciuto l’amore, l’amicizia, il
rispetto e la generosità delle persone; per questo le odiava, perché erano
tutti troppo spaventati da lui per potergli dimostrare sentimenti umani.
«Un
Kage dovrebbe conoscere i retroscena dei propri
predecessori», rispose stizzito l’architetto, ritirandosi sulla difensiva.Nonostante la rabbia e la collera che stava
provando al pensiero che il ragazzino di fronte a lui probabilmente non avesse
la minima idea di cosa fosse successo ai loro avi, era riuscito a mantenere la
calma e la concentrazione per attuare la sua strategia; adesso che l’aveva
agganciato non rimaneva che trovare un giusto varco per attaccare.
Gaara intanto era
sempre più confuso, ma non gli era di certo sfuggita l’improvvisa forza
dell’attacco che aveva subito e nemmeno l’improvvisa rigidezza della mano di
Morgan. Quel colpo era stato diverso dagli altri: nessun pugno, per quanto
forte, avrebbe potuto superare il suo scudo difensivo senza alcun
potenziamento, e Morgan l’aveva colpito a mani nude senza alcun apparente
ricorso al chakra per aumentare la forza di quel gancio. Era stato come
ricevere una sprangata in piena faccia.
«Di
quali retroscena parli?», continuò a domandare il rosso, non potendo fare altro
che attendere la sua prossima mossa per poterne capire di più sulle sue capacità.
Morgan non rispose, fece roteare il kunai tra le dita
e lo lanciò più forte che poteva, aspettando che la sua abilità facesse il
resto. Come da lui previsto la sabbia aveva parato il colpo ancora una volta,
ma questo non sarebbe bastato a fermare l’avanzata di quel proiettile di ferro,
il punto di arrivo della sua corsa era già stato deciso nel momento in cui aveva
sferrato quel pugno al suo avversario, e non c’era niente che potesse cambiarne
il corso.
Gaara non poté
nascondere la propria sorpresa nel momento in cui si vide il kunai a meno di un metro dalla faccia, alzò istintivamente
la mano bloccandolo tra l’incavo delle dita, e notò come l’arma facesse
resistenza cercando di sfuggire alla sua presa per colpire il punto in cui
veniva richiamata.
Non
aveva mai visto quel tipo di tecnica, ma tutto faceva pensare ad un’attrazione
magnetica: con il colpo ricevuto il precedenza Morgan aveva magnetizzato la sua
armatura di sabbia che adesso avrebbe attratto qualsiasi oggetto metallico
l’architetto gli avesse lanciato contro.
Era
scettico. Che si trattasse realmente di magnetismo? Lui stesso basava la
propria abilità innata sul magnetismo così come suo padre prima di lui; era
un’abilità messa a punto almeno due generazioni prima che lui nascesse, quando
il Terzo Kazekage studiò il modo per controllare la
sabbia incorporando in essa il ferro.
Fu
costretto a chiudersi nella difesa totale quando Morgan gli lanciò addosso
tutto il suo arsenale.
Non
vedeva altri collegamenti con i propri predecessori se non con Rasa, suo padre,
o col il precedente Kazekage. Era raro vedere la sua
medesima abilità innata applicata in un modo completamente diverso da quello
che aveva sempre concepito, ma era risaputo che anche nel villaggio della
Nuvola esistessero degli utilizzatori di quella tecnica; se avesse voluto delle
risposte era proprio da quei dati che avrebbe dovuto cominciare a cercare.
Si
liberò lentamente della sua seconda pelle mentre monitorava i movimenti
dell’architetto con il terzo occhio e, quando la sabbia magnetizzata che gli
ricopriva il corpo si accumulò ai suoi piedi, il kunai
venne attratto al suolo conficcandosi per terra con un colpo secco.
Adesso
era il momento di ribaltare la situazione e di capire finalmente chi fossero
quelle persone.
Non
gli ci volle molto per mettere Morgan alle strette; dal momento che non poteva
più attaccare il suo corpo in maniera diretta non avrebbe potuto utilizzare lo
stesso stratagemma una seconda volta e, anche se era piuttosto bravo a
neutralizzare i suoi attacchi con dei ganci micidiali, non era abbastanza agile
da schivare la sabbia in tutte le direzioni. Dopo essere stato colpito più
volte dalle sue offensive finì per venire parzialmente immobilizzato dall’abilità
innata del Kazekage, che solo allora si liberò della
difesa totale ripristinando la sua armatura con della nuova sabbia.
«Adesso
mi spieghi ogni cosa», intimò all’architetto, mentre si avvicinava a lui con
estrema calma e lo osservava annaspare inutilmente per liberarsi.
«Non
ti devo spiegare un bel niente», rispose Morgan, sprezzante.
«Invece
mi spiegherai», lo corresse il rosso, diventando irrimediabilmente serio e anche
piuttosto stufo di quei misteri. «Non sei nella condizione di poter rifiutare».
Fu
allora che percepì un’immensa pressione sulla sabbia che ricopriva il corpo del
suo rivale, i suoi sensi avvertivano chiaramente che la pelle del ragazzo aveva
cessato di essere tale, indurendosi al punto da crepare profondamente le catene
di arena che lo imprigionavano.
«Non
mi sottovalutare, maledizione», sussurrò il giovane architetto, rompendo
definitivamente i sigilli che gli impedivano di muoversi. Si lanciò nuovamente
all’attacco deciso a sfondare qualsiasi difesa si fosse trovato davanti,
concentrando nel braccio tutta la forza che gli era rimasta. Anche il rosso
rispose con altrettanta foga, aumentando al massimo la densità e la rigidezza
della sabbia in modo da poter resistere al suo assalto e metterlo al tappeto.
Di
certo non erano preparati a quello che sarebbe successo di lì a qualche
istante. Improvvisamente il pugno di Morgan venne fermato da una forza ancora
più grande della sua, e la sabbia di Gaara venne letteralmente
polverizzata da un’aggrovigliata struttura ferrosa irta di spuntoni acuminati
che avevano abbracciato come un serpente il suo elemento strozzandolo fino alla
completa scissione.
Nello
shock che succedette quell’imprevisto e nella polvere che si era alzata a causa
di quell’improvviso impatto, Morgan riconobbe la figura di Emin.
Si era frapposta tra di loro bloccando entrambi gli attacchi e adesso tremava,
non osando alzare lo sguardo da terra.
«Basta».
La sentì sussurrare in preda al fiatone.
Finitela.
L’autrice:
La
cosa si fa interessante. Chi saranno realmente i nostri architetti?
Riuscirà Gaara a farli confessare? Se
volete vederci chiaro non dovete fare altro che rimanere con me ed aspettare la
prossima pubblicazione.
Lo
so, sono stata piuttosto perfida ad interrompere il capitolo nel vivo della
scena, ma un po’ di sana suspense ogni tanto ci vuole!
La
realtà era ovattata, silenziosa e lontana attorno a lei.
Aveva
speso troppa energia in una volta sola e questo non aveva tardato a farsi
sentire. Osservava la punta dei piedi concentrandosi sul proprio respiro,
troppo affannato per poterle permettere di pronunciare altro se non quel basta che aveva pietrificato l’atmosfera
per degli interminabili secondi.
Non
era ancora pronta per guardare in faccia i due ragazzi che fino a qualche
attimo prima erano impegnati in quello scontro così insensato ma, soprattutto,
non aveva il coraggio di guardare Morgan, di cui percepiva il risentimento e la
rabbia attraverso la mano sinistra che ancora abbracciava la sua.
Nell’immobilità
di quell’atmosfera anche Gaara era visibilmente
provato e, anche se non era abbastanza vicino ai due architetti, riusciva
comunque a percepire quanta tensione aleggiasse nell’aria. Si sentiva scosso.
Quella situazione stava avendo dell’incredibile e ancora non capiva il motivo
per cui ci fosse finito in mezzo. Aveva davanti a sé due utilizzatori del
magnetismo, una natura tanto sorprendente quanto rara che era identica a quella
del proprio chakra, e non aveva potuto nascondere a sé stesso quei brividi
lungo la schiena nel momento in cui aveva visto la forma più dura e resistente
della sua sabbia scindersi a contatto con la tecnica di Emin.
«Ogni
minuto passato qui è un minuto perso per la salvezza dei villaggi», esordì poi
la ragazza, dopo aver ripreso fiato. Si voltò verso il cugino, sostenendo il
suo sguardo allibito e sgomento che la trafiggeva con rancore. «Mi dispiace»,
gli disse quasi in un sussurro mentre lo osservava ricomporsi e ritrovare la
falsa calma che da sempre cercava di ostentare per nascondere la bufera che
aveva dentro.
«Non
serve che tu lo dica», rispose lui, mostrandosi affranto e cercando di
sopprimere la collera che stava crescendo in maniera esponenziale mentre si
rendeva conto di quello che aveva appena fatto la cugina. «Non rivolgermi più
la parola», le disse prima di voltarle le spalle e sparire nei meandri delle
macerie, nella direzione opposta rispetto a quella che li avrebbe condotti al
cantiere.
Emin rimase in
silenzio, lo sguardo velato da quelle lacrime che si sforzava di ingoiare, le
braccia abbandonate lungo i fianchi e i brividi che le scuotevano il corpo. Non
poteva credere di averlo fatto per davvero, non poteva credere di aver voltato
le spalle alla propria famiglia, non riusciva a capacitarsi di aver anteposto
qualcos’altro alla felicità di Morgan, l’unica persona cara che le era rimasta.
Si
sentiva un’ingrata, si sentiva avvilita, mortificata e dilaniata dai sensi di
colpa. Tutte le buone intenzioni, tutti i ragionamenti, tutte le considerazioni
e l’assennatezza che l’avevano spinta ad intervenire si erano frantumate
nell’udire quelle imperdonabili parole.
Nonostante
fosse nel giusto aveva perso ogni cosa, e adesso non sapeva più cosa fare.
Si
voltò verso Gaara quasi con rassegnazione, il giovane
Kage non si era ancora mosso dalla sua posizione e la
guardava con un’espressione indecifrabile, probabilmente aspettando che fosse
lei a parlare per prima. Emin si morse il labbro a
quel pensiero: adesso le sarebbe toccato rimettere a posto le cose e ancora non
sapeva in che modo ci sarebbe riuscita. Doveva trovare un compromesso per
salvare i villaggi e, al tempo stesso, non doveva smettere di considerare la
vendetta della propria famiglia, un binomio discordante quanto inconciliabile.
Il massimo a cui avrebbe potuto aspirare in quelle condizioni di netto
svantaggio sarebbe stata una sorta di tregua che avrebbe avuto fine nel momento
in cui i lavori fossero giunti al termine, anche se questo voleva dire
annullare quell’effetto sorpresa che lei e Morgan avevano programmato di
sfruttare per la loro rivalsa.
Di
alternative non ce n’erano poi molte.
Se
avesse avuto a cuore la salvezza di quella gente, come aveva dato prova di volere,
allora Gaara le sarebbe servito vivo e, di
conseguenza, la vendetta rimandata a un capitolo successivo. Una tregua era
l’unica possibilità per soddisfare entrambe le cose e l’unica eventualità che
le avrebbe permesso di uscire indenne da quella situazione; non aveva affatto
dimenticato di essere dispersa tra le rovine di una città a pieno rischio
sisma, né che Morgan si fosse addentrato ancora di più in quel reticolo mortale
di macerie riempiendola di un’inquietudine ancora maggiore, per non parlare della
propria impossibilità nel difendersi da eventuali ostilità, date le sue pessime
condizioni fisiche dopo la caduta e l’esigua quantità di chakra rimasta dopo
quell’intervento fulmineo.
La
domanda era come avrebbe fatto ad
ottenere quella tregua, quali parole
avrebbe dovuto usare e che cosa
avrebbe dovuto rivelare. Si ritrovò a maledire il cugino per essersi defilato
lasciando a lei il compito più difficile; il faticoso e contrastato rapporto
con la propria famiglia dipendeva da quello che avrebbe fatto nei prossimi
minuti ma, soprattutto, dipendeva dal suo avversario e da come avrebbe reagito
alle sue parole.
Si
sforzò di alzare lo sguardo incrociando quello tutt’altro che amichevole del
rosso, che non aveva smesso un solo attimo di trafiggerla con quelle occhiate
che pretendevano spiegazioni.
«Anche
se sono intervenuta», incominciò la ragazza, cercando di tenere un tono deciso
e di non avere alcuna esitazione sulle idee ferree che l’avevano spinta ad
agire in quel modo, «la penso come lui».
Gaara l’avrebbe
volentieri pietrificata con lo sguardo se solo avesse potuto. Era arrabbiato
per quello che era successo, e la cosa peggiore era stata quella di non capire
il motivo per cui gli architetti ce l’avessero a morte con lui. Era chiaro che
sotto il loro interesse per quei villaggi c’era anche un secondo fine per cui
avevano abbandonato tutto vocandosi a quella causa; non poteva essere altro che
la vendetta ad averli condotti nel Paese del Vento, sperando che un domani, col
peggiorare della situazione, il Kazekage in persona
fosse arrivato a controllare la condizione di quei preziosi e strategici centri
al limitare del deserto.
Si
era sentito tradito in un certo senso ma, forse, era meglio definirla delusione
quella che provava nel guardare Emin in quegli interminabili
secondi. L’idea nobile che si era fatto di lei e del cugino si era frantumata
in pochi minuti per lasciare posto al risentimento e al timore, quelli che
aveva creduto persone affidabili e determinate non erano altro che degli
opportunisti e dei traditori, non erano altro che nemici di Suna.
«Esigo
una spiegazione», sibilò, sforzandosi di mostrarsi impassibile nonostante
dentro di lui ribollissero parecchie emozioni.
«La
avrai», rispose la ragazza, cominciando a giocare le sue carte. «Ad una condizione».
«Non
ascolterò alcuna condizione», controbatté l’altro, non riuscendo a ignorare il
pulsare violento del proprio sangue nell’udire di dover scendere a patti con
quelle persone.
«Non
penso che tu abbia scelta», riprese Emin. «Se non
accetterai la mia condizione sarò costretta ad andarmene dal Paese del Vento
lasciando i villaggi a loro stessi».
Gaara dovette sforzarsi
di mantenersi calmo e lucido nell’udire quelle parole. Agitarsi e innervosirsi
non lo avrebbe portato a nulla se non a fare il gioco della sua avversaria,
doveva riflettere e uscire vincitore da quello scontro verbale che era appena
cominciato, avrebbe dovuto soppesare al meglio la situazione ed agire di
conseguenza cercando il giusto compromesso. Entrambi erano stanchi e a corto di
chakra, motivo per cui sarebbe stato deleterio continuare lo scontro fisico, a
questo si aggiungeva la situazione pericolosa in cui si trovavano in quello
stretto budello attorniato da instabili rovine; dovevano raggiungere un accordo
prima di tornare al cantiere e dovevano farlo in fretta.
«Non
lo faresti», fece quindi il rosso, cercando di volgere a proprio vantaggio la
situazione, «o non saresti intervenuta a mio favore poco fa».
«È
vero», ammise la ragazza. «Tengo molto a questo lavoro, ma non esiterei ad
andarmene se la mia vita fosse in pericolo, e con me porterei via ogni
documento relativo al cantiere».
Se
poco prima aveva creduto di potersi portare in vantaggio adesso l’insicurezza
aveva velato per un attimo la convinzione del giovane Kage.
La salvezza di quei villaggi era legata a Emin e
Morgan più di quanto non si fosse immaginato, il brevetto delle fondamenta
antisismiche apparteneva al Paese della Terra e solo i tecnici di quel paese
erano in grado di poterlo sfruttare in maniera sicura. Era stata la stessa Emin a rivelargli che il getto delle fondazioni era stato
seguito dagli architetti in persona per ogni singolo edificio ricostruito da
zero e, quindi, era logico pensare che nessuno degli operai fosse stato messo
al corrente delle precise modalità di intervento relative alle fondamenta,
figuriamoci gli uomini di Suna.
Purtroppo,
e gli doleva ammetterlo, non sarebbe stato facile scendere a patti con le
istituzioni del Paese della Terra per la compravendita e l’utilizzo del
brevetto, senza contare che si sarebbe persa un’infinità di tempo tra
contrattazioni e incontri diplomatici, tempo che in quel momento non potevano
permettersi di perdere. Era stata una vera fortuna che i due cugini fossero
arrivati di loro iniziativa ad aiutarli, una vera fortuna che fossero stati
autorizzati dal loro governo così celermente, e che altrettanto velocemente il Daimyo avesse firmato i loro permessi per consentirgli di
mettersi subito all’opera. Tutta questa tempestività gli puzzava non poco.
«Vorresti
continuare il tuo lavoro come se nulla fosse?», chiese Gaara,
intuendo dove la ragazza volesse andare a parare. «Non lo vedo possibile».
«Affatto»,
rispose Emin. «Te l’ho detto, la penso come Morgan,
non intendo affossare la questione». Prese un respiro profondo prima di
continuare, conscia che se non avesse convinto il suo interlocutore ad
accondiscendere a quella proposta non avrebbe più trovato pace con la propria
famiglia, tantomeno con la propria coscienza. «Solo rimandarla con discrezione
a quando i lavori saranno finiti».
Il
rosso rimase in silenzio valutando attentamente quell’eventualità. Non sembrava
mentire Emin quando diceva di tenere a quel lavoro,
se così non fosse stato probabilmente lo scontro precedente avrebbe avuto un
esito diverso, senza contare che non si sarebbe certo fatta scrupoli ad
abbandonare i villaggi portando con sé tutto quello che li avrebbe potuti
salvare. Sotto questo aspetto era lodevole, ma chi gli garantiva che i cugini
non avrebbero nuovamente attentato alla sua vita qualora fossero rimasti al
cantiere?
Si
sentiva messo alle strette. Non era impossibile assumere altri costruttori, né
ottenere un brevetto antisismico da poter utilizzare sul cantiere, il Paese
della Terra era senza dubbio il più all'avanguardia sotto questo aspetto, ma anche
altri paesi, compreso lo stesso Paese del Vento, avevano le proprie tecniche
costruttive e le proprie sperimentazioni, il problema stava nell’emergenza
della situazione, troppo elevata per poter applicare brevetti con alto rischio
di insuccesso, senza tralasciare che politicamente i villaggi satelliti erano
controllati dal Daimyo e dipendevano dalle sue
decisioni, se avesse mandato via Emin e Morgan non
solo avrebbe ritardato enormemente i lavori col rischio di un collasso totale
per quelle zone già disastrate, ma avrebbe persino rischiato di collidere negli
interessi del proprio alleato del Paese del Vento, rischiando così di
inimicarselo già dai primi mesi del suo mandato da Kage.
Imprecò
mentalmente al solo pensiero di quanto fosse complicato.
«Dammi
un solo motivo per cui dovrei fidarmi di te», rispose infine il rosso,
ritrovandosi a fissare quella ragazza con disprezzo, coscio che probabilmente
sarebbe stato costretto ad accettare.
«Perché
salvare questi villaggi è diventata una questione personale che non intendo
lasciare a metà», fece Emin, realizzando che quelle
sarebbero state le ultime battute e che, di lì a poco, avrebbe saputo se la sua
impresa fosse riuscita.
«E
Morgan?», riprese Gaara, sarcastico. «Non mi pareva
tanto propenso ad una tregua».
«A
Morgan penserò io», concluse lei con fermezza, anche se si sentiva male solo al
pensiero di dover affrontare quell’argomento col cugino; non sarebbe stato
affatto facile convincerlo a stare al suo gioco. «Allora, siamo d’accordo?»,
domandò infine, avanzando di qualche passo verso il suo interlocutore e
porgendogli la mano per sancire quell’ufficioso patto di non ostilità.
L’altro
esitò, analizzando ancora una volta la situazione e sperando di trovare una via
di uscita che gli permettesse di non legarsi in alcun modo a quella
limitazione. Se avesse stretto quella mano sarebbe stato come accettare una
minaccia a scatola chiusa; sapeva che aveva a che fare con dei nemici, ma
avrebbe avuto modo di capire l’entità della loro ostilità solo dopo aver assentito
alla condizione di non adottare contromisure se non alla fine dei lavori.
C’erano troppi interrogativi e troppo margine d’errore in quell’accordo, non
voleva mettere a repentaglio la sicurezza di quella gente ma al tempo stesso
era della propria incolumità che si stava parlando, di quella dei suoi fratelli
e dell’intero Villaggio della Sabbia. Non poteva accettare.
«Pensi
davvero che possa accettare una tale minaccia senza garanzie?», fece Gaara, deciso a non cedere.
«La
garanzia è che ti spiegherò ogni cosa quando accetterai», rispose la ragazza,
riproponendo la stretta di mano con impazienza.
«Potrei
decidere di arrestarti», dichiarò lui, conscio di quanto fosse improbabile
quell’eventualità, «oppure potresti dirmi il tuo vero nome e se la tecnica che ho visto prima era magnetismo».
Emin alzò un
sopracciglio. «Cosa ne farai delle mie risposte?»
Gaara non rispose,
allungò il braccio verso di lei invitandola a stringergli la mano. Se i suoi
ragionamenti fossero stati corretti probabilmente sarebbe già stato in grado di
mettere insieme qualche informazione in più prima di accettare quel patto di
non belligeranza reciproca.
L’architetto
dissentì d’istinto scuotendo la testa. Brutto affare. Non poteva rivelare il
suo vero nome prima di aver indetto quell’armistizio, era un’informazione
troppo importante da divulgare senza garanzie.
«Non
sarebbe vantaggioso per me», rispose la ragazza. «Non accetterò».
I
due si guardarono per pochi istanti senza trovare ulteriori appigli per uscire
vittoriosi da quella situazione. Si era creata una sorta di impasse dove l’ago
della bilancia pareva pendere dalla parte di Gaara,
ma era solo apparenza, c’erano troppe complicazioni politiche che si
insinuavano in quel contesto e, di fatto, il giovane Kage
aveva le mani legate.
«Puoi
arrestarmi, se vuoi», fece Emin. «Puoi arrestare me e
mio cugino seduta stante, ma non saprai mai a che conseguenze andrai
incontro».
Gaara digrignò i denti.
«Oppure
puoi lasciare che io me ne vada e che abbandoni i villaggi a loro stessi, in
ogni caso non hai idea di cosa accadrà in futuro». La ragazza osservò per
alcuni secondi l’espressione impassibile del rosso prima di azzardare a
voltarsi e dirigersi in maniera zoppicante verso il cantiere. Non era ancora
finita.
Gaara non era mai stato
un diplomatico fino a qualche anno prima, non ce n’era bisogno a dirla tutta,
la gente aveva talmente paura di lui che accondiscendeva a qualsiasi suo
capriccio, pena la morte. Era solo recentemente che aveva imparato a muoversi
nei meandri della politica e delle contrattazioni, un ambiente talmente nuovo
quanto difficile da controllare, e la sconfitta in quello scontro verbale gli
aveva dato la conferma della sua inesperienza. Che accidenti avrebbe dovuto
fare adesso? Osservava la ragazza muoversi lentamente in direzione del cantiere
e sapeva che non poteva permettere che se ne andasse, era anche nell’interesse
di Suna salvare quei villaggi e se qualcosa fosse andato storto sarebbero stati
sicuramente i primi a risentirne. Andò dietro ad Emin
raggiungendola in poche falcate.
«Aspetteremo
la fine dei lavori», esordì, catturando la sua attenzione. La ragazza si voltò
affatto sorpresa.
«Fate
un solo passo falso e sarò io stesso a premurarmi di non farvi rivedere il
sorgere del sole», aggiunse lui, con un misto di odio, disprezzo e rammarico
per essere dovuto scendere a patti.
Emin, al contrario di
quanto si sarebbe aspettato, gli sorrise riconoscente, assicurandogli che
avrebbe rivisto l’alba fino alla fine naturale dei suoi giorni.
La
tregua venne finalmente sancita con una stretta di mano, ma nessuno dei due
parve sollevato.
«Emeline», cominciò la ragazza, non avendo smesso per un attimo
di ponderare la scelta delle informazioni che adesso le sarebbe toccato
rivelare. «EmelineGangioku
è il mio nome».
Gaara si soffermò su
quel cognome cercando di collegarlo a qualche rimembranza.
«Non
puoi ricordartelo», fece lei, distogliendolo dalle sue riflessioni. «Per Suna è
come se la nostra famiglia non fosse mai esistita».
«In
che senso?», chiese il rosso, scettico.
«Fummo
esiliati dal villaggio tre generazioni fa», rispose Emin,
affatto colpita dall’espressione di stupore che scorse sul volto del proprio
interlocutore. «Ingiustamente», aggiunse con rammarico.
«E’
per questo che volete vendicarvi?», domandò ancora una volta il giovane Kage, trovando conferma alla sua ipotesi nel cenno
d’assenso della ragazza. «Per quale motivo vi fu dato l’esilio?»
«Non
hai sentito Morgan?», disse lei. «Eravamo scomodi».
«Scomodi
perché?», incalzò lui.
Emin rimase in
silenzio, lo sguardo concentrato sulla punta dei propri piedi, indecisa se
rivelare o no il pezzo forte della questione. Che cosa sarebbe successo se il Kazekage fosse venuto a conoscenza del fatto che erano
state le loro abilità innate ad aver spaventato il governo di Suna a tal punto
da volerli cancellare dalla faccia della terra? Che cosa sarebbe successo se
anche lui si fosse trovato d’accordo coi suoi predecessori? Li avrebbero
perseguitati ancora? Avrebbero provato a sterminarli un’altra volta? Per quanto
disprezzasse l’ostinatezza e il rancore sotto cui la famiglia aveva allevato
lei e il cugino, non poteva permettere che a causa sua venissero sottoposti a
un altro esodo. Aveva già rivelato il proprio cognome e si era pentita un
attimo dopo averlo fatto, forse negli archivi pubblici tutti i documenti
relativi ai Gangioku erano stati fatti sparire, ma lo
stesso non poteva dirsi degli archivi privati dei Kage;
se anche solo uno straccio di foglio su quella vicenda fosse stato debitamente
conservato allora sarebbe bastata solamente l’informazione che aveva rivelato
per arrivare a loro.
«Emin?», pressò l’altro, ormai all’apice della curiosità.
«Scomodi perché?»
Fu
il suolo, ancora una volta, a interrompere quel complicato scambio verbale,
cominciando a tremare implacabile sotto i loro piedi, muovendo macerie e
facendo collassare rovine. Il terrore si impossessò di entrambi alla stessa
maniera, i ruderi instabili di quello stretto budello non avrebbero perdonato
la loro imprudenza una seconda volta, e i detriti malfermi sotto i loro piedi
sembravano volerli inghiottire inesorabilmente nelle viscere della terra.
L’angoscia
travolse Emin nel momento in cui si sentì sprofondare
verso il basso tradita dalla pessima aderenza della sabbia su quelle macerie in
movimento, rovinò a terra senza nemmeno rendersene conto, maledicendosi per
aver temporeggiato fino a quel punto e odiandosi per essere caduta sulla caviglia
già malridotta, rimanendo cieca dal dolore per qualche secondo. In quegli
attimi di panico che le bastarono per rendersi conto della tragicità della
situazione, la ragazza non fu tuttavia capace di pensare ad altro se non a
Morgan, che si era mosso nella direzione opposta rispetto a quella della
salvezza e l’aveva lasciata inquieta sin dal primo secondo che l’aveva visto
scomparire nei meandri di Nakoto. Nonostante la
situazione critica in cui si trovava, non fu capace di anteporre la propria
salvezza a quella del cugino, l’unica persona cara che le fosse rimasta e a cui
aveva dedicato la sua vita fino a quel momento.Si sforzò di rialzarsi e di correre
nonostante il terreno glielo impedisse e nonostante la caviglia le facesse
male, voleva raggiungerlo ad ogni costo, non sarebbe uscita da quella città
diroccata senza di lui, fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto.
Gaara, intanto, aveva
dato fondo alle poche energie che gli rimanevano creando una barriera di sabbia
per proteggersi dallo sgretolamento dell’edificio alla sua sinistra, quando
aveva sentito la terra tremare era stato come il realizzarsi di un incubo, come
il concretizzarsi di quell’angoscia che non l’aveva mai abbandonato dal momento
in cui avevano cominciato a temporeggiare in quello stretto budello di rovine.
Si voltò verso Emin quasi con preoccupazione, notando
che la ragazza stava correndo nella direzione opposta a quella del cantiere,
lottando con le ispide superfici dei detriti e cercando di scansare i cumuli di
materiale che collassavano dalle facciate degli edifici instabili che li
attorniavano.
Dove
accidenti stava andando?
La
rincorse senza pensarci due volte. Disprezzava il modo subdolo con cui era
stato raggirato e odiava anche solo il pensiero dell’opportunismo con cui i
cugini si erano presentati in aiuto dei villaggi satelliti, ma il problema era
sempre lo stesso, sia che fosse stato lui in persona a decidere di allontanarli
dal Paese del Vento sia che la morte avesse deciso di portarseli via sotto
quegli imprevedibili crolli: Emin e Morgan erano gli
unici che avrebbero potuto ultimare quei lavori e, a malincuore, era suo dovere
assicurarsi che ci fossero riusciti, senza contare che voleva vederci chiaro
una volta per tutte in quella questione.
Raggiungerla
fu un’impresa non avendo la scossa alcuna intenzione di interrompersi, quei
secondi furono ancora più terribili di quelli trascorsi il giorno precedente,
quando aveva sperimentato per la prima volta cosa volesse dire un terremoto di
quell’entità. La agguantò appena in tempo per riuscire ad evitare un cornicione
che puntava dritto sulle loro teste.
«Che
cosa fai, maledizione, hai deciso di morire?!». Ebbe la risposta nel momento in
cui Emin si voltò verso di lui con gli occhi gonfi
dalla polvere e dal pianto. Intuì immediatamente le sue intenzioni, la sua
preoccupazione per il cugino e la sua paura per quella situazione disperata.
«Non
me ne vado senza di lui», rispose lei, riuscendo a svincolarsi dalla presa di Gaara e muovendosi imperterrita laddove aveva visto
scomparire Morgan per l’ultima volta.
«Non
ce ne andremo senza di lui», le fece eco il rosso, afferrandola ancora, «ma
prima dobbiamo uscirne vivi», puntualizzò, cercando di cogliere nel segno e
cercando di far ritrovare un po’ di razionalità a quella ragazza totalmente in
preda al panico.
Erano
già passati una quindicina di secondi da quando la scossa era cominciata, in
media non sarebbero dovuti passare più di trenta secondi per quel genere di
sisma, un tempo normalmente esiguo che si tramutava in eternità quando tutto
cominciava a crollare. Gaara valutò rapidamente la
situazione: aveva ancora le ultime gocce di chakra che avrebbero potuto salvare
entrambi, ma l’imprevedibilità di quel terremoto lo rendeva restio ad alzarsi
verso l’alto poiché non sarebbe riuscito a sostenere la tecnica per una durata
superiore a quella dei quindici secondi, un limite di tempo assolutamente
teorico e per nulla sicuro. L’alternativa meno dispendiosa sarebbe stata la
difesa totale, ma l’esiguità delle energie che gli rimanevano non gli avrebbero
permesso di dare alla sabbia la resistenza ideale per quel genere di situazione
e, anche se avesse avuto una durata maggiore, non sarebbe stato in grado di
intervenire qualora quello scudo difensivo fosse venuto meno. Qual era la
soluzione più giusta allora?
Non
ebbe tempo per decidere razionalmente, alcuni calcinacci schizzarono nella loro
direzione in seguito all’impatto col suolo, fu l’istinto ad agire al suo posto
non appena sentì il dolore di quei detriti taglienti sulla pelle; alzò quasi
inconsapevolmente la barriera di sabbia chiudendosi nell’oscurità del suo
interno assieme ad Emin, che non aveva potuto fare
altro se non aggrapparsi a lui nella speranza di sopravvivere a quell’ennesima
prova a cui la natura li stava sottoponendo.
Ci
fu silenzio per molti secondi. I rumori dell’esterno sembravano ovattati in
confronto alla quiete surreale che aleggiava tra quelle solide mura di arena,
la terra continuava a tremare, le pareti a fremere e i loro cuori a battere
all’impazzata, eppure lì dentro c’era qualcosa che lentamente li stava
calmando, forse semplicemente il fatto di non vedere, di non sentire e di non
toccare il disastro che si stava verificando attorno a loro.
Emin ci mise un po’ ad
abituare gli occhi all’oscurità e, nonostante fosse stato umiliante cadere in
preda al panico e farsi salvare dal suo più acerrimo nemico, la paura le aveva
impedito di staccarsi da lui almeno finché il suolo aveva continuato a tremare.
Si era sentita una stupida per non aver dimostrato un minimo di buonsenso in
quella situazione disperata, la sicurezza e la determinazione che l’avevano da
sempre contraddistinta si erano letteralmente annullate in quel momento di
reale pericolo, lasciando il posto all’insicurezza, al panico e alla paura. Che
senso aveva avuto cercare di raggiungere Morgan mentre tutto le stava
collassando addosso? Che senso aveva avuto infischiarsene della propria
incolumità quando sapeva perfettamente che il suo lavoro era l’unica speranza
per quei villaggi? Dakagi aveva per lei un
particolare significato: non solo stava cercando di rimettere insieme i cocci
della sua vita distrutta, non solo la posa di ogni mattone era come se
ricostruisse qualcosa nel profondo della sua anima, ma stava affrontando per la
prima volta e con occhi diversi l’approccio con quelle situazioni pericolose al
di fuori dall’ordinario che i sismi creavano in continuazione. Stava cercando
lentamente di ritrovare quella forza e quella sicurezza che non aveva mai
avuto, convinzioni crollate in pochi secondi di puro terrore che, puntualmente,
l’avevano resa incapace di reagire.
«Stai
bene?». La ragazza ritornò alla realtà solo udendo le parole di Gaara, la scossa era finalmente terminata ma nonostante
tutto i rimasugli di panico erano restii ad abbandonarla. Aveva ancora gli occhi
gonfi per il pianto e per la polvere, la gola arida e lo stomaco serrato, aveva
male alla caviglia e le ossa le dolevano per quella posizione così scomoda.
Rinsavì del tutto quando si accorse di averlo inspiegabilmente abbracciato fino
a quel momento, e che lui l’avesse a sua volta tenuta stretta per tutto quel
tempo. Si allontanò quasi di scatto, rispondendo alla domanda affermativamente
e ringraziando l’oscurità per aver nascosto il suo viso rosso dalla vergogna.
Le
ci volle qualche secondo per ritrovare la serietà, e l’unico pensiero che le
frullava per la mente era quanto le parole di Gaara
l’avessero colpita. Avrebbe potuto lasciarla al suo destino, avrebbe potuto
approfittare di quella situazione per eliminare un nemico scomodo ancora prima
di avere avuto a che fare con lui, invece l’aveva inseguita, l’aveva salvata e
l’aveva pure rassicurata affermando la volontà di ritrovare Morgan in mezzo a
tutto quel casino, per non parlare di qualche attimo prima quando le aveva
chiesto se stesse bene.
Non
riusciva a capire.
Suo
cugino aveva provato a ucciderlo e lei gli aveva dichiarato ufficialmente la
propria ostilità mettendo in chiaro che nonostante la tregua la questione fosse
ancora aperta. Come poteva preoccuparsi per loro?
«Dopo
quello che ti ho detto… Perché?». Riuscì a biascicare, dando voce ai propri
pensieri.
«Non
l’ho fatto per te», rispose lui con voce atona. Il rosso era a dir poco
esausto, e in quei secondi di oscurità aveva pregato in tutte le lingue che il
suo scudo di sabbia reggesse fino alla fine del sisma. Ora, nonostante il
peggio fosse passato, quello spiacevole episodio non poteva affatto definirsi
concluso: non aveva energie sufficienti per attivare il terzo occhio, non
avrebbe potuto osservare quanto la situazione fosse sicura attorno alla difesa
totale e per questo non poteva permettersi di sciogliere la tecnica alla cieca
con il rischio di rimanere schiacciati dalle eventuali macerie crollate su di
loro.
«Sono
così essenziale?», riprese la ragazza, distogliendolo per un attimo da quei
pensieri logistici.
«Purtroppo
sì», le rispose, facendo trasparire volutamente il proprio disprezzo.
Trattandosi di qualcun altro non si sarebbe certo sognato di aiutarlo,
specialmente dopo quello che aveva sentito, ma con Emin
era diverso, lei e il cugino gli servivano vivi per ultimare quei lavori, ed
era quello l’unico motivo per cui era andato in suo soccorso.
«Che
cosa farai quando la tregua sarà finita?», chiese la ragazza, rivolgendo quella
domanda quasi in un sussurro.
«Tu
che cosa farai?», disse lui, ribaltando la situazione.
«Non
lo so», rispose Emin, trovando sincerità in quella
risposta indecisa. «Potrei andare a casa», riprese, pensando casa non tanto a dove era cresciuta con
il resto della famiglia, quanto ai monti Tamen, dove
aveva trascorso la sua infanzia. Nel profondo sperava che l’esperienza di Dakagi l’avesse fortificata abbastanza da permetterle di
riuscire nuovamente a sorridere alla primavera di quelle montagne. “Oppure
potrei pensare di vendicare la mia famiglia.”
Gaara colse provocazione
in quelle parole e questo bastò per farlo riflettere: aveva visto abbastanza da
comprendere che tra i due cugini fosse Morgan quello trainante verso la
vendetta, e aveva visto anche quanto Emin sapesse
ragionare con più furbizia ed assennatezza. Insomma, veniva impensierito molto
di più dall’intelligenza di quella ragazza che dall’avventatezza dell’altro e,
se a tregua finita questa avesse deciso di muovergli contro, allora sarebbe
stato un problema non indifferente, contando che quello che aveva visto delle
sue abilità era bastato per metterlo alle strette.
«In
tal caso farò in modo di ucciderti prima che tu ci riesca», le rispose, non
potendo nascondere il tono minaccioso con cui pronunciò le ultime parole, degno
dei peggiori ricordi di qualche anno prima.
Emin ridacchiò con
sarcasmo nell’oscurità, accantonando definitivamente i pensieri bonari che si
era fatta su di lui per averla salvata; adesso che la scossa era finita aveva
finalmente ritrovato calma e sangue freddo, e il panico aveva ceduto il posto
alla ragione calcolatrice. Anche se ancora non erano usciti da quella
situazione erano di nuovo nemici acerrimi, senza contare che la loro
contrattazione non si era affatto conclusa.
«Prima
non hai risposto alla mia domanda», continuò il rosso, quasi avesse letto nei
pensieri della ragazza. «Scomodi perché?»
Emin rimase in
silenzio pensando a un modo per evitare di dare responso a quell’interrogativo
così angosciante.
«C’entra
con le vostre abilità?», incalzò l’altro, più curioso che mai.
«Con
le mie, probabilmente», rispose lei, poco prima di essere interrotta da alcune
indistinguibili voci provenienti dall’esterno.
Un
improvviso misto di ansia e sollievo fecero distogliere Gaara
da quell’estenuante discussione. Le urla che aveva sentito non potevano
appartenere ad altri se non a Kankuro e Shikamaru, senza contare che dal rumore delle macerie
smosse dai soccorritori il loro numero era ben maggiore delle due semplici
unità. Li erano venuti a cercare in squadra nonostante il suo ordine di
rimanere al cantiere? Se da un lato si sentiva sollevato per quell’aiuto
inaspettato, dall’altro non poteva che confermare la loro incoscienza. Sorrise
inspiegabilmente nell’oscurità.
Vennero
raggiunti celermente e aiutati a uscire da quella difesa di sabbia attorniata
da detriti, il cielo aveva sorriso loro con un mezzogiorno splendente e un
caldo insopportabile, il vento trainava quei fini granelli di arena che si
appiccicavano inesorabilmente alla pelle, e infine le rovine rendevano
difficile come non mai la camminata verso la salvezza. Ma erano vivi,
nonostante tutto, e questo bastava.
«Come
ci avete trovati?», fece Gaara, rivolgendosi al
fratello.
«È
stato Morgan a indicarci questo posto», rispose lui con scetticismo; tutto era
bene quel che finiva bene, ma quella situazione non l’aveva affatto convinto,
specialmente il comportamento di quel ragazzo tornato al cantiere prima degli
altri e con un’espressione da film dell’orrore.
«Morgan
sta bene?!», domandò Emin, che aveva sentito la
discussione qualche passo più indietro. Kankuro annuì
con un mezzo sorriso nello scorgere il sollievo sul volto della ragazza.
«Menomale»,
sussurrò lei abbassando lo sguardo e non riuscendo a trattenere una lacrima.
Era
tutto finito, ma quella era stata una sconfitta dolorosa e nulla sarebbe stato
come prima. Aveva perso la fiducia del cugino, avevano perso l’occasione per
vendicare la famiglia, e per poco non avrebbero perso anche la possibilità di
aiutare quei villaggi con il loro sapere. Se ancora erano vivi e se ancora non
erano stati rispediti a calci nel Paese della Terra o, peggio ancora,
processati per quello che avevano fatto, lo dovevano esclusivamente al ragazzo
che adesso camminava poco più avanti e che non le aveva più rivolto uno sguardo
da quando la squadra di Kankuro li aveva soccorsi;
non sapeva quanto quella tregua ufficiosa fosse garanzia di non ostilità, ma
sperava nel profondo del cuore di riuscire a sistemare le cose una volta per
tutte con i villaggi, con la famiglia e con la propria coscienza. Osservò il
cielo terso abbagliarla con la sua limpidezza e si rese conto di quanto la
salita che da sempre aveva contraddistinto la linea della sua vita fosse
diventata ripida come non mai.
Era ancora all’inizio.
L’autrice:
Chiedo umilmente perdono per aver fatto
passare questi mesetti dall’ultimo aggiornamento, mi rendo conto che la
suspense sia durata più di quanto avessi previsto xD
Ad ogni modo spero che non siate rimasti
delusi da questo tentativo di chiarire finalmente come stanno le cose, nel
prossimo capitolo prometto di rispondere definitivamente a quell’interrogativo
che più di tutti assillava il nostro Gaara.
Perché i Gangioku
vennero esiliati dal Villaggio della Sabbia? E perché le loro abilità facevano
così paura?
Morgan
camminava in silenzio nelle vie rumorose di Sin, lo sguardo era cupo e fissava
i piedi muoversi meccanicamente verso la periferia della città. Cercava di
svuotare la mente e di ritrovare la calma, ma erano bastati pochi minuti per
rendersi conto che non sarebbe riuscito a scacciare il vortice che incatenava i
suoi pensieri agli episodi della settimana precedente; il tarlo scavava in
profondità nella sua testa logorando tutto quello che rimaneva della sua
serenità, costringendolo a isolarsi dalle altre persone. Sentiva che sarebbe
bastata una flebile scintilla per abbattere lo scudo che nascondeva la sua
rabbia e, purtroppo, non era quello che poteva permettersi di fare. Non aveva
più rivisto Emin dopo quel pomeriggio e, più i giorni
passavano, più la collera nei suoi confronti sembrava accecarlo da qualsiasi
razionalità. Pensava continuamente a lei. Pensava al discorso che avevano fatto
poco prima di doversi scontrare con l’imprevedibilità di quel sisma, pensava al
suo viso insicuro, alla paura che aveva attraversato come un lampo i suoi occhi
al pensiero della vendetta, all’angoscia che le aveva letto nei gesti per il
futuro di quei villaggi.
Come
aveva potuto pensare che la cugina desse la priorità a qualcos’altro se non al
loro lavoro in quelle terre? La sua era stata una sconfitta in partenza. Sapeva
perfettamente quanto Emin tenesse a quei villaggi e
sapeva perfettamente che significato avesse per lei risollevare quelle persone.
Come era potuto essere così cieco? Le azioni della cugina colmavano il suo
cuore di quel disprezzo velenoso che serpeggiava nelle anime della loro casata sin
da quando avevano perso il diritto di stabilirsi nella loro terra natia, senza
contare che il fatto di aver avuto la possibilità di porre fine a quel tormento
senza però essere riuscito nell’intento quasi lo distruggeva. Era colpa di Emin se lui adesso annegava nella rabbia, ed era colpa del
se stesso impulsivo se era stato volutamente cieco a quanto l’anima di lei
stava disperatamente cercando di fargli capire.
Stringeva
i pugni dolorosamente a quel pensiero, indeciso se accusare la propria irruenza
o l’egoismo della cugina per quanto era accaduto, conficcava le unghie nei
palmi talmente forte da lacerare i tessuti; si era aperta una crepa nel suo
cuore, lo sentiva, una crepa da cui era fuoriuscita una consapevolezza con un
impeto tale da renderlo instabile: avrebbe dovuto scegliere.
Quello
che provava per Emin non era minimamente comparabile
a quanto aveva provato nei confronti di chiunque altro, era qualcosa di
profondo e viscerale che andava a intricarsi coi rovi acuminati che ferivano la
sua anima, formando un groviglio inscindibile e una catena da cui non avrebbe
potuto liberarsi nemmeno riuscendo ad allentarne gli anelli. Era qualcosa senza
la quale il senso di vivere sarebbe venuto meno, poiché, inconsapevolmente, era
questo che Morgan aveva fatto in tutta la sua esistenza: aveva raccolto i cocci
distrutti della vita di Emin e li aveva ricomposti
lentamente, anno dopo anno, assicurandosi che lei si rialzasse più forte di
prima. Era stato suo padre a chiedergli di badare alla cugina e, se all’inizio
trovava deprimente trascorrere le sue giornate con quella bambina sempre
triste, col passare del tempo aveva cominciato a desiderare di vederla
sorridere sempre più spesso, fino a fare della sua felicità la propria ragion
d’essere. Emin, tuttavia, era come il cristallo: un
materiale bellissimo ma al tempo stesso fragile e bisognoso di continue
attenzioni, aveva bisogno di protezione ma, soprattutto di una comprensione che
nessun’altro all’infuori di lui sarebbe stato in grado di darle, poiché nessun’altro
avrebbe capito appieno il suo dolore.
La
amava, probabilmente, di un amore fraterno e incondizionato, una devozione
assoluta radicata in quelle catene di cui non si sarebbe mai riuscito a
liberare. Per lei, lo sapeva, avrebbe fatto qualsiasi cosa, ed era proprio
questo pensiero a lograrlo. Le parole del suo bisnonno rimbombavano in testa
come violente esplosioni, l’orgoglio della casata dilaniava la sua ragione
rendendo invisibile tutto il resto, proprio come era successo quel giorno in
cui aveva fallito nel portare a termine la vendetta.
Era
solo un bambino allora, ma si ricordava perfettamente quel bisnonno
dall’innaturale lunga vita; era l’ultimo rimasto della sua generazione ed era
il patriarca assoluto di quella nuova faccia della casata Gangioku.
Fu proprio lui, infatti, a sottoporsi all’esperimento che mutò il DNA della
loro millenaria discendenza e fu questo cambiamento ad essere il presupposto
della loro rovina.
«Ci hanno cacciati perché
ci temevano», gli aveva detto un giorno. «Temevano che superandoli in abilità avremmo
finito col tradirli e hanno preferito risolvere il problema alla radice,
cercando di eliminarci per sempre dalla faccia della terra». A quel punto
una ruga profonda aveva solcato la sua fronte, senza che Morgan fosse mai riuscito
ad attribuirla alla rabbia, alla delusione o al rimorso. «Ma siamo ancora qui. Spetterà a voi la resa dei conti», aveva
concluso, chiudendosi in un enigmatico silenzio.
MorokiGangioku, il capostipite, nonché bisnonno di Morgan, era
morto nemmeno un mese prima che Emin venisse loro
affidata, non avendo potuto conoscere così l’unica nipote ad aver ereditato il
suo DNA. L’ironia di quel destino spesso lo irritava, se solo la cugina fosse
nata tra le mura della casata probabilmente gli eventi avrebbero preso una
piega diversa, la stessa Emin sarebbe stata diversa,
e forse in quel momento non sarebbe stato il direttore dei lavori in quei
villaggi ricoperti di macerie e impregnati di disperazione.
Senza
accorgersene era arrivato al cimitero. Ogni centro abitato, ormai, ne aveva
uno.
Guardando
le vie trafficate si poteva pensare che tutto stava lentamente tornando alla
normalità dopo la ricostruzione: le attività erano rinate, le scuole avevano
riaperto e le famiglie avevano una nuova casa sicura in cui poter ricominciare.
La distruzione era lentamente scomparsa dalle strade, ma Morgan sapeva che quel
tipo di distruzione era qualcosa che raramente si cancellava del tutto,
rimaneva nei cuori e nell’anima di chi era sopravvissuto e aveva perso
qualcuno, esattamente come era successo alla cugina dieci anni prima.
Guardando
la gente piangere sulle tombe dei loro cari Morgan aveva la sensazione che
delle tenaglie arroventate gli lacerassero il petto, poiché il Morgan Gangioku, architetto e direttore dei lavori nell’attuale
ricostruzione del terzo centro strategico di Nakoto,
ormai si sentiva parte di quella gente quanto un singolo mattone era corpo
della sua muratura. Metaforicamente, più che un mattone qualunque sentiva che
sulle proprie spalle, ormai, gravava un carico impossibile da alleggerire,
sentiva di essere diventato il motore della vita di quelle persone, un pilastro
portante, e a un pilastro portante non viene mai concesso di venir meno ai
propri doveri, pena la distruzione dell’imponente muratura sovrastante. Era
come essere incastrati, come se non ci fosse una via d’uscita: da un lato Emin, dall’altro la famiglia, e sulle spalle l’immensità di
dolore che lo circondava e che aveva visto in lui uno degli elementi principali
a cui appigliarsi.
Si
appoggiò a uno dei muri che perimetravano quel luogo di riposo, lo sguardo
incollato al terreno e la gola riarsa, era sul punto di unirsi a quella
disperazione che aveva di fronte, costernato per la difficile scelta che
tormentava il suo cuore e avvilito al solo pensiero di immaginarsi nella
situazione di quelle persone la cui anima, di fonte a lui, si contorceva nel
dolore.
Fu
in quel momento che alzò lo sguardo e la vide.
La
cugina era di fronte a lui, la sua figura lontana era poggiata sul muro
perimetrale opposto al suo e lo sguardo era rivolto all’orizzonte di fuoco che
tingeva la sera; era seduta per terra, la caviglia ancora convalescente e le
stampelle abbandonate al suo fianco.
Si
diede del vigliacco per averla abbandonata a se stessa quel giorno, tra le macerie
instabili della città e in balia del loro peggior nemico. Era stato
maledettamente irresponsabile, codardo e infantile, senza contare che si
sentiva a dir poco patetico per aver pensato fino a un minuto prima di poter
essere l’unico a comprendere e proteggere Emin. Per
colpa sua lei aveva rischiato di morire e per colpa della propria irruenza non
era riuscito nemmeno a compiere vendetta, aveva inconsapevolmente rischiato di
perdere ogni cosa.
Non era riuscito a
pensare ad altro mentre le si avvicinava e, mentre le gambe si muovevano come
in una sorta di magnetica attrazione verso di lei, sentiva che il rancore che
aveva provato nei suoi confronti era ormai volato lontano.
Dall’altro
lato del cimitero, la ragazza aveva cominciato a lottare furiosamente con le
proprie emozioni nel momento esatto in cui aveva scorto il cugino. In quei
giorni di riposo forzato dal lavoro aveva spesso fatto tappa in quel luogo dove
trovavano pace le anime dei defunti e la disperazione i cuori dei
sopravvissuti. Quello era l’unico posto in cui i suoi sentimenti sembravano
trovare comprensione, poiché anche lei aveva delle persone care da piangere,
anche il suo cuore era pervaso da una disperazione da cui non si era mai più
liberato e stare tra quelle persone era il solo modo per trovare un po’ di
conforto, il vedere la forza e la determinazione con cui loro affrontavano le
perdite le dava coraggio. Come erano bravi gli esseri umani a costruirsi le proprie
armature, come erano bravi a nascondere il nero che lentamente li divorava in
virtù di mostrarsi forti agli occhi degli altri e, mentre Emin
osservava Morgan avanzare verso di lei, si chiedeva il motivo per cui non era
ancora riuscita a costruire la corazza che le avrebbe permesso di ricominciare.
Perché mai non era ancora riuscita a darsi pace?
Il
suo cuore era in subbuglio e lei stessa non sapeva realmente definire i
sentimenti che stava provando in quel preciso istante nei confronti del cugino:
era sinceramente sconvolta da quello che era successo nel deserto, risucchiata
da quel vortice di dolore che le si presentava ogni giorno davanti agli occhi,
imprigionata nel passato e aggrappata a dei ricordi sempre più sbiaditi. La
parte più pratica di lei probabilmente detestava la propria famiglia per aver
trasformato Morgan in una persona instabile ed emotivamente fragile, e sapeva
perfettamente che l’impulsività e l’irrazionalità con cui il cugino aveva agito
quel giorno erano in gran parte frutto di quel secolare odio che stava
corrodendo la loro casata. Emin conosceva Morgan meglio
di chiunque altro e, se anche il petto prendeva a contorcersi al pensiero di
come si era comportato, abbandonandola nel momento in cui più aveva bisogno, sapeva
che non sarebbe mai riuscita a fare a meno di lui, la dipendenza nei suoi
confronti era incontrollabile, una dipendenza senza la quale sentiva il terreno
cedere sotto di lei, sbriciolarsi come si erano sbriciolati gli edifici di quei
villaggi, aprendole la strada verso un vuoto che la terrorizzava. Più i lenti
passi del cugino si avvicinavano più la gola si inaridiva e la mascella si
serrava. Non aveva voglia di parlargli, non ancora, eppure non riusciva a fare
a meno di desiderarlo, la sua parte razionale aveva da sempre avuto una misera
voce in capitolo nei suoi sentimenti e adesso non riusciva a capire come
realmente si stava sentendo in quel momento, se arrabbiata o contenta, serena o
tormentata. Il petto le faceva ancora male per le parole che lui le aveva detto,
erano state peggio di una ferita avvelenata ed era come se quel veleno si fosse
diffuso in lei, paralizzandola alla mercé del senso di colpa. La decisione che
aveva preso quel giorno era giusta e sbagliata al tempo stesso, dipendeva solo
dal punto di vista che si adottava, ed Emin stava in
quel limbo infernale che si trovava nel mezzo, colpevole e innocente al tempo
stesso, inesorabilmente sola.
Morgan
si era seduto accanto a lei, fissava anche lui l’orizzonte.
La
ragazza rimase immobile, lo sguardo concentrato sui profili lontani dei monti Dakagi e il corpo in tensione. Era la prima volta che stare
vicino al cugino la faceva sentire così inadeguata, la prima volta che dalla
sua presenza non traeva alcun genere di conforto, era come se si fosse alterato
il loro equilibrio e avessero perso la loro armonia, come se stessero
viaggiando su frequenze diverse. Sentì Morgan sospirare. Doveva essere lei a
rompere il silenzio.
«Andrò
avanti coi lavori», affermò Emin. Le parole erano
uscite rapide dalla sua bocca, alla stregua di un conato, lo sguardo era ancora
fisso sulle montagne. «Ho ottenuto una tregua fino al loro termine, sentiti
libero di restare o meno».
Diretta,
precisa. In una frase era riuscita a riassumere tutto quello che turbinava
nella sua mente: l’angoscia per quei villaggi, il desiderio di portare a
termine entrambe le missioni per cui si erano spinti nel Paese del Vento, fino
al terrore più grande di perdere il cugino per sempre. Era tutto racchiuso in
quella sapiente combinazione di parole che aveva appena pronunciato.
Morgan
aveva smesso di fissare l’orizzonte, adesso guardava Emin
senza sapere che cosa provare. Avrebbe voluto dirle troppe cose: avrebbe voluto
confessarle di quello scontro che avveniva nel suo cuore quando pensava a lei,
di come si sentisse tradito ma al tempo stesso inspiegabilmente perso senza la
sua presenza, di come la propria vita non avrebbe avuto più uno scopo se
l’avesse lasciata e di come non avrebbero avuto senso i suoi sforzi se solo avesse
abbandonato la vendetta per votarsi interamente a lei, voleva dirle che la
ammirava per il suo coraggio, che la invidiava per la sua forza e la sua
coerenza, voleva che sapesse quanto era fiero di quello che aveva intrapreso
per ricominciare a vivere e che quello che stava facendo per quelle persone non
aveva eguali ma, al tempo stesso, voleva che prendesse sul serio tutte quelle
questioni da portare a termine, senza più esitazioni, voleva dirle che l’aveva
ferito mortalmente vedere che aveva messo qualcos’altro davanti all’urgenza
della loro esule condizione, che il suo risentimento era grande nei confronti della
decisione che aveva preso e che non riusciva più a sostenerla nonostante fosse
la persona più cara che avesse.
Sospirò
di nuovo, avendo la sensazione di annegare in quel vortice silenzioso. Emin si voltò finalmente a guardarlo. Fu uno sguardo
rapido, uno sguardo triste. La ragazza afferrò le stampelle e fece per alzarsi.
«Come
stai?», le chiese. Alla fine non ce l’aveva fatta a mostrarsi risentito, né a
dirle tutto quello che teneva dentro, l’aveva trattenuta per un braccio e le
aveva domandato l’unica cosa che realmente gli stava a cuore in quel momento, a
discapito di tutto il resto.
***
«Non
me la racconti giusta». Kankuro osservava di
sottecchi Gaara mentre ultimava i preparativi per la
partenza. «Che diavolo è successo a Nakoto?»
«Non
intendo ripeterlo», rispose il rosso, stizzito.
«Non
intendo crederci», incalzò il marionettista. C’erano molti aspetti di quella
vicenda che non quadravano e, di certo, la versione del fratello non aveva
saputo soddisfare quelle stranezze che lo impensierivano. Tanto per cominciare
non comprendeva la ragione per cui Emin e Morgan
avessero abbandonato improvvisamente il cantiere per recarsi a fare un
sopralluogo. Gli architetti non erano tipi da sospendere il loro lavoro,
tantomeno da abbandonare gli operai con le mani in mano, senza contare che un
sopralluogo prevedeva un’organizzazione scrupolosa, adeguatamente studiata e
attrezzata, di certo non paragonabile a quanto quei due avevano cercato di fare
mettendosi in pericolo. Tuttavia, se anche quell’episodio fosse dovuto, in
qualche modo, alla loro imprudenza, di certo Kankuro
non riusciva a capacitarsi di quello che era accaduto in seguito, quando aveva
visto Morgan fare ritorno da Nakoto da solo, con
l’espressione sconvolta in viso e nessun desiderio di collaborare. Era stato solo
l’arrivo del sisma a indurlo a rivelare le coordinate esatte del luogo dove
aveva visto l’ultima volta gli altri due, chiudendosi poi in un ermetico
silenzio. C’erano troppi elementi che non rientravano in quel puzzle intricato,
troppe coincidenze, abbastanza da destare preoccupazioni non indifferenti,
soprattutto perché ancora non riusciva a spiegarsi come avesse fatto il
fratello a ritrovarsi improvvisamente a corto di chakra rimanendo vittima
dell’irruenza del terremoto.
La
calma glaciale di Gaara era tuttavia un’armatura invalicabile
che, lo sapeva, non sarebbe mai crollata a meno che lui stesso non avesse
deciso di parlare.
«È
ora che vada», disse il rosso. L’espressione di Kankuro
era ancora perplessa.
«Non
costringermi a scoprire da solo quello che c’è dietro», affermò, ricevendo in
risposta uno sguardo gelido.
«L’unica
cosa che voglio tu faccia», decretò l’altro con fare autorevole, «è controllare
lo stato dei lavori e aggiornarmi costantemente su cosa fanno gli architetti.»
«È
quello che intendo fare», concluse il marionettista, alludendo all’improvvisa
diffidenza che era subentrata in seguito a quell’avvenimento.
«Molto
bene». Gaara si voltò verso l’ampia finestra della
stanza, osservando il deserto estendersi a perdita d’occhio in direzione sud.
Era convinto che meno il fratello avesse saputo su quella faccenda e più
sarebbe stato al sicuro. Aveva parlato a lungo con Kankuro
quella mattina, cercando di non rivelare troppe informazioni su quello che era
accaduto con gli architetti il giorno precedente e cercando, tuttavia, di
fargli capire quanto sarebbe stato indispensabile il lavoro di sentinella che
avrebbe dovuto svolgere con il massimo zelo in quei villaggi. Naturalmente non
poteva pensare che il marionettista non sospettasse di nulla in seguito a
quanto accaduto, ma il solo sospetto era sufficiente a confermargli che da quel
momento in avanti si sarebbe comportato in maniera più cauta, questo bastava a
tranquillizzarlo sulla sua incolumità. D’altronde, non sembrava mentire Emin quando aveva proposto quella tregua; non conosceva la
ragazza, ma aveva capito che il lavoro in quei villaggi aveva per lei un’importanza
che superava persino la vendetta, si sarebbe esposta piuttosto, ma non avrebbe
permesso che venisse fatto del male a Kankuro.
Dunque, se le sue sensazioni erano corrette, poteva recarsi a Suna con l’animo leggermente
più sereno di quanto aveva auspicato.
I
due ninja della sabbia uscirono dalla stanza di quella locanda appena
restaurata incrociando Shikamaru avanzare a passi
rapidi lungo il corridoio; anche lui era pronto a partire.
«Siamo
d’accordo», disse il Nara, trovando conferma nell’assenso del rosso. Lo shinobi di Konoha, informato
anche lui parzialmente della faccenda, avrebbe portato personalmente un
rapporto dettagliato all’Hokage, con lo scopo di
ottenere dei rinforzi che comprendessero una forza lavoro capace e arguta al
tempo stesso, così da poter aiutare nella ricostruzione e contemporaneamente
investigare sui movimenti che si celavano dietro all’operato degli architetti,
senza contare che gli archivi di Konoha sarebbero
potuti diventare una risorsa vitale per la ricerca del jutsu
che avrebbe potuto risolvere la disperata situazione ambientale dei villaggi
satelliti.
Si
sarebbero rivisti tra una settimana esatta.
Gaara era restio ad
affidare una parte così importante della sua operazione agli alleati della
Foglia, eppure non vedeva altre vie di uscita se non quella di mettere alla
prova la fiducia reciproca dei due villaggi nascosti, essendo Suna tagliata attualmente
fuori da ogni genere di comunicazione. Prima di dare precise indicazioni ai
propri uomini stanziati nei centri strategici vicino a Dakagi,
c’erano delle cose che avrebbe dovuto chiarire, facendo luce sulle ombre
spinose di quella faccenda.
Gàngioku.
Cosa
nascondeva quel cognome? E cosa era accaduto di talmente grave da far scaturire
tanto odio?
Mentre
sorvolava il grande deserto, Gaara si era a lungo
interrogato sulle origini di quella famiglia, scavando il più possibile nella
memoria con la speranza che affiorasse qualche remota reminiscenza del proprio passato,
eppure aveva la sensazione di avere a che fare con un fantasma minaccioso.
Ad
ogni modo, era da Suna che avrebbe dovuto cominciare le ricerche, sia riguardo
a quella situazione insidiosa, sia per il motivo ufficiale che lo aveva spinto
a tornare, ovvero la ricerca di un possibile jutsu che potesse domare il
disastro ambientale che si stava abbattendo sui villaggi satelliti; per quanto
riguardava la prima era sicuro che non avrebbe più ottenuto nulla da Emin, le informazioni che la ragazza aveva rivelato con
titubanza erano poche ma, probabilmente, erano sufficienti per arrivare alla
verità; per quanto riguardava la seconda, invece, il buio era ancora più denso
della prima e la speranza era concentrata negli archivi privati tramandati dai Kazekage che lo avevano preceduto. Forse tra le tecniche
antiche e proibite avrebbe trovato la soluzione che cercava, tuttavia, ammesso
che ci fosse, la parte più difficile sarebbe stata impararla e, in seguito,
metterla in pratica correttamente. Era una corsa contro il tempo.
***
Dopo
la distruzione che si era presentata davanti ai suoi occhi nei villaggi
satelliti, Gaara si sentiva sollevato nel trovare
Suna così come l’aveva lasciata la settimana prima. Aveva raggiunto il
villaggio senza difficoltà, infastidito soltanto da una lieve tempesta, e
altrettanto facilmente aveva raggiunto l’edificio in cui avrebbe condotto una
parte importante delle sue ricerche, mettendosi subito al lavoro.
Stava
frugando da qualche minuto tra gli archivi ufficiali quando una voce familiare
lo riscosse.
«Sei
tornato.» Temari era appoggiata a uno scaffale e lo
osservava di sottecchi.
«Poco
fa», rispose il rosso, senza alzare gli occhi dai documenti.
La
ragazza rimase in silenzio, interdetta dal comportamento distratto del fratello
e irritata dalla sua mancanza di attenzione.
«Insomma»,
cominciò, cercando malamente di nascondere il proprio astio, «non hai niente da
dire?»
Gaara si costrinse a
interrompere la lettura, abbandonando le pile di fogli sulla piccola scrivania.
«È
complicato», disse evasivamente, pur comprendendo perfettamente l’apprensione
della sorella dopo i numerosi giorni di completo isolamento del villaggio. Si
afflosciò sulla sedia osservando la città oltre la piccola finestra della
stanza gremita di documenti, i vetri erano ormai torbidi a causa della sabbia
depositata dalle tempeste e, anche in quel momento, la visuale era offuscata
dalla prepotenza del vento.
«Hai
scoperto qualcosa?», incalzò la kunoichi.
«Sì
e no», rispose Gaara, riuscendo a irritarsi per le risposte
ambigue che lui stesso aveva pronunciato. «Sono successe delle cose.»
Al
contrario di quello che si sarebbe aspettato, la ragazza non si scompose,
tuttavia il suo sguardo inquisitorio parlava chiaro: avrebbe dovuto metterla al
corrente di ogni cosa, immediatamente.
Poco
più tardi, dopo un’infruttuosa ricerca nell’ufficialità degli archivi di Suna,
fratello e sorella sedevano in silenzio nell’ufficio del Kazekage,
interrogandosi su quali sarebbero dovute essere le loro prossime mosse.
«Non
che nutrissi molte speranze negli archivi ufficiali», affermò Gaara con un sospiro, «ma un tentativo andava comunque
fatto.»
«Ancora
non riesco a crederci». Temari era invece concentrata
sulle venature del legno della scrivania, analizzando mentalmente ancora una
volta le informazioni portate dal fratello dopo il viaggio a Dakagi, alla ricerca di una possibile spiegazione nei
meandri del passato.
«Già»,
affermò il rosso, comprendendo appieno il suo stupore. Se aveva scelto di
tenere all’oscuro Kankuro e Shikamaru
sulla vera identità degli architetti, lo stesso non aveva potuto fare con Temari, la quale aveva incalzato fino a quando non era
riuscita a ottenere il racconto completo, particolari compresi. In ogni caso, Gaara era contento che ci fosse almeno una persona al
corrente dei fatti; quando due teste erano impegnate allo stesso modo nelle
ricerche era probabile che, se gli archivi avessero realmente contenuto qualche
informazione utile, insieme l’avrebbero trovata in tempi certamente più brevi
di quanto non avrebbe fatto una testa sola.
«Cosa
farai adesso?», domandò la kunoichi con un sospiro.
«Consulterò
gli archivi del Terzo e del Quarto Kazekage», rispose
Gaara. «Morgan ha parlato di predecessori ed Emin ha chiaramente fatto riferimento a un esilio avvenuto
tre generazioni fa, dunque all’epoca del Terzo, desumo.»
«Credi
che gli anziani del consiglio possano ricordare?»
«Meglio
tenere il consiglio fuori da ogni congettura, sarà mia premura aggiornarlo dei
fatti non appena avrò capito la reale entità di questa minaccia.» Il rosso
sprofondò nella sedia sotto lo sguardo scettico della sorella.
«Hanno
attentato alla tua vita, Gaara!», sbottò Temari, non riuscendo più a contenersi. «Non è
sufficiente?»
«Ho
dato la mia parola che non avrei preso provvedimenti fino al termine dei lavori»,
rispose lui.
«Quanto
vale una tregua sancita a parole per qualcuno che ha cercato di ucciderti? Gli
stai solo servendo su un piatto d’argento l’occasione per riprovarci».
«No
invece», ribatté il giovane Kage, sperando vivamente
di non sbagliarsi. «Senti, ho visto con i miei occhi le condizioni di quelle
persone a Dakagi, ho visto la loro disperazione, ho
visto la loro forza nel volersi rialzare e ho visto quanto questa forza dipenda
dagli architetti. Non posso arrestarli prima che abbiano concluso i lavori, o
sarei io stesso a mettere fine alle speranze di quella gente.»
Temari
rifletté per un attimo prima di convincersi delle implicazioni non solo umane,
ma anche politiche e strategiche, che sarebbero derivate dalla perdita dei
villaggi satelliti. Questo però non bastava a rassicurarla sull’incolumità del
fratello e dei propri concittadini; sapere a piede libero dei nemici ufficialmente
dichiarati come tali l’avrebbe tenuta sveglia più notti di quelle che avrebbe
voluto, assillata dalle preoccupazioni.
«E
che mi dici del problema più grande?», chiese la kunoichi,
accantonando per un momento l’argomento precedente. «Come fermiamo questo
disastro ambientale?»
«Se
gli archivi di Suna e di Konoha non ci porteranno a
nulla di buono allora mi rivolgerò agli altri paesi, nella speranza di una
celere collaborazione».
«Celere
collaborazione?», ridacchiò con sarcasmo la ragazza. «Da quando sei diventato
così ottimista?»
«Ci
sto lavorando».
***
L’alba aveva da poco
fatto la sua apparizione oltre il perimetro orientale del Villaggio della
Sabbia, i suoi colori erano tenui e sfumavano in leggere tonalità di rosso e
dorato, riempiendo le vie di un’atmosfera mattutina e rilassata. I bagliori
soffusi dei primi raggi solari facevano il loro timido ingresso nelle stanze,
oltrepassando la trasparenza delle piccole finestre circolari di una modesta
casa di periferia. Lì, nell’angusta camera nascosta grazie all’artificio di una
finta libreria, il giorno e la notte si mescolavano tra loro ingannandosi a
vicenda, confondendo i sensi e dilatando il tempo; le lisce pareti erano state
interrogate dalla più antica e segreta tecnica di evocazione, rivelando i
contenuti più ricchi e privati degli alti vertici di Suna, cosicché potessero
mostrarsi per servire il loro attuale e autorevole padrone.
Tra
le pile di documenti accatastati nel piccolo spazio, una figura umana giaceva
supina e dormiente, sommersa da fogli, rotoli e contenitori disparati. L’odore
della carta invecchiata impregnava le narici, alle quali risultava ormai
difficoltoso procacciarsi ossigeno in quei pochi metri quadrati ciechi di luce
naturale e di ricambio d’aria.
Gaara si svegliò di colpo,
annaspando tra i fogli con un terribile cerchio alla testa. L’irritazione per
quella disagevole situazione lo assalì di colpo, portandolo a liberarsi degli
invadenti documenti con uno scatto rabbioso e tutt’altro che benevolo. Tra le
tante notti trascorse insonni a causa del lavoro, quella era stata certamente
la più infruttuosa, e non c’era situazione peggiore di essere a corto di tempo
e di soluzioni contro problemi intricati e di massima urgenza.
Il
rosso si affrettò a uscire dalla stanza, rimanendo accecato dalla luce di un
prepotente sole mattutino. Dopo essersi imposto la calma con un profondo
respiro, afferrò la teiera per preparare il the, riflettendo nel mentre su
quanto i suoi predecessori gli avessero tramandato nelle ore precedenti.
“Ben poco”,
pensò, grattandosi il capo con stizza.
Sembrava
quasi che un mistero sempre più fitto aleggiasse intorno ai Gangioku,
dei quali nessuna traccia era materialmente rimasta nelle memorie del Villaggio
della Sabbia, esattamente come Emin aveva predetto.
Aveva
infine spulciato ogni documento consultando fino agli atti di fondazione di
Suna, risalenti all’operato Primo Kazekage, non
trovando mai alcuna menzione sui Gangioku, tantomeno
di una tecnica che risultasse utile ai suoi scopi ambientali. Si disse
mentalmente che avrebbe dovuto inviare al più presto delle missive agli altri
villaggi come aveva ipotizzato la sera precedente con la sorella, anche se la
cosa lo indispettiva parecchio contando che fino all’ultimo aveva sperato di poter
risolvere la questione internamente, così da non contrarre debiti in futuro.
Forse
era stato decisamente troppo
ottimista.
Mentre
sorseggiava il the pensava a come sarebbe convenuto muoversi da quel momento in
avanti. Sapeva perfettamente che gli archivi dei Kazekage
erano stati infruttuosi in buona parte perché era lui stesso a non essere
pienamente informato su quali potessero essere i fattori determinanti e capaci
di influenzare quella natura che stava attualmente abbattendo tutta la sua
ostilità sul grande deserto. Poteva forse essere il magnetismo, l’eredità
secolare dei Kage della Sabbia, un elemento utile a
quella causa? Che cosa avrebbe potuto materialmente fare con i mezzi che
possedeva? Doveva arginare e regimentare delle eruzioni vulcaniche, un’impresa
mai tentata nella storia del Paese del Vento e al tempo stesso un’impresa che
non permetteva fallimento, pena la perdita dell’unico avamposto sul confine
nord, contrassegnato da Takano, Usagi,
Nakoto, Sin e Rakushi, i
cinque villaggi satelliti di Suna. Perdere quei villaggi significava perdere di
credibilità e di solidità, per non parlare delle crepe che si sarebbero venute
a creare nelle relazioni politiche col Daimyo.
Gaara abbandonò il the
per dirigersi nuovamente nella stanza nascosta e invasa dai documenti. Cominciò
a riordinarli scrupolosamente, catalogandoli e sigillandoli esattamente come li
aveva trovati, sfogliando ogni tanto qualche plico, nella speranza di
imbattersi finalmente in qualcosa di utile.
Raccogliendo
il materiale tramandatogli dal Terzo Kazekage si
ritrovò a pensare a quanto il suo operato fosse stato rivoluzionario dal punto
di vista dello studio del chakra, gli interessanti diari scritti di suo pugno
avevano messo in luce un numero esorbitante di esperimenti e di ricerche a
riguardo, studi che avevano infine portato al suo riconoscimento più grande e
temuto, ovvero un nuovo volto del magnetismo con l’invenzione della sabbia
ferrifera. Si ritrovò a sfogliare convulsamente le pagine di uno di quei
preziosi quaderni, sperando come non mai di avere tralasciato qualcosa di
indispensabile.
Niente.
Richiuse
il diario con uno scatto, ritrovandosi subito dopo a gettarlo in archivio con
rassegnazione. Nello schianto che ne seguì un rumore metallico attirò la sua
attenzione sul pavimento: una chiave giaceva solitaria sulle fredde piastrelle della
stanza.
Passò
qualche secondo prima che il ragazzo riuscì a sintonizzarsi con la realtà:
aveva appena scaraventato sullo scaffale un diario con quasi un secolo di storia,
racchiudente le memorie del comandante più illustre di Suna, oltre che le sue
pionieristiche scoperte in campo scientifico, e da quel diario era appena uscita
una maledetta chiave.
Gaara si chinò
finalmente a raccogliere l’oggetto dopo avere mentalmente chiesto perdono per l’improvviso
maltrattamento della reliquia.
Era
una semplice chiave in fin dei conti, con la testa tonda e piatta e le
seghettature di una serratura moderna; era liscia in tutto e per tutto,
eccezion fatta per delle piccole e ruvide protuberanze sensibili al solo tatto.
Coincidenze?
O forse quella ruvidezza aveva un significato? I suoi polpastrelli sentivano
delle linee e il suo cervello aveva già cominciato a elaborare una traduzione
passando in rassegna tutto quello che sapeva sui codici utilizzati per i
messaggi criptati. Non sapeva se quella chiave c’entrasse qualcosa con quello
che stava cercando ma, non essendo riuscito a capire da quale punto del diario
essa provenisse, poteva definirsi l’unico elemento privo di significato in
quella ricerca infruttuosa e, forse, l’ignoto in quel momento assumeva una
valenza maggiore dell’inutilità di tutto il resto.
Infilò
la chiave in tasca finendo di riordinare i documenti con una fretta sempre
maggiore. La prima cosa da fare era convocare il consiglio e aggiornarlo sui
fatti di Dakagi, poi avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione
per l’invio delle missive e attendere le risposte degli altri paesi, nonché del
Daimyo. Nel frattempo si sarebbe dato da fare per
scoprire quanto più possibile sul fantasma dei Gangioku
e capire cosa nascondeva quella chiave gelosamente conservata negli archivi
privati del Terzo Kazekage, nel profondo sperava che
le due cose potessero essere collegate; il come,
tuttavia, rimaneva un mistero sempre più oscuro.