Kissing The Dragon

di Kat Logan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** 1. Tokyo Inside ***
Capitolo 3: *** Paradise Lost - Part I ***
Capitolo 4: *** Paradise Lost - Part II ***
Capitolo 5: *** La regina rossa ***
Capitolo 6: *** Love is jealous, is selfish, is blind ***
Capitolo 7: *** Say Goodnight ***
Capitolo 8: *** Tokyo in red ***
Capitolo 9: *** Dèjà vu ***
Capitolo 10: *** Butterfly Effects ***
Capitolo 11: *** Hard Life ***
Capitolo 12: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Kissing The Dragon
Stockholm Sydrome Sequel

 
Dedicata a tutti quelli che hanno aspettato
e ai nuovi lettori
che avranno il coraggio di vivere questa avventura cominciata quasi tre anni fa. 
 

Prologo
 
Tell me would you kill to save a life?
Tell me would you kill to prove you're right?
Crash, crash, burn, let it all burn
This hurricane's chasing us all underground
No matter how many deaths that I die I will never forget
No matter how many lives that I live, I will never regret
There is a fire inside of this heart
And a riot about to explode into flames
Where is your God? 
Do you really want...
Do you really want me?
Do you really want me dead,
Or alive to torture for my sins?
Do you really want...
Do you really want me?
Do you really want me dead,
Or alive to live a lie?
 
Hurricane - 30 Seconds to Mars


 
 




Tokyo non aveva mai conosciuto il riposo, soffriva d'insonnia e illuminava il cielo notturno con i suoi neon a led sempre accesi. 
Tokyo era luce pulsante viva e loro erano stati attratti lì come falene.
Il ragno nipponico aveva appena intrappolato Akira e Haruka nella sua ragnatela di strade, senza alcuna intenzione di lasciarseli sfuggire.
Quella città aveva vita propria, Haruka e il ragazzo l'avevano sempre sostenuto.
Tokyo li avrebbe masticati e digeriti, non era solita sputare i resti dei suoi spuntini umani.
 
"Non posso farlo senza di te, Akira".  
Le parole dell'amica riecheggiarono nella sua testa, tra le sinapsi e i neuroni ormai pronti solo a ragionare su tempi di cottura e pietanze esotiche.
Aveva dimenticato il lato crudo della vita a meno che non si trattasse di carpaccio o sashimi.
Sarebbe scoppiato il finimondo, Akira se lo sentiva alla bocca dello stomaco.
Un rimestarsi di viscere fin dalle prime luci del mattino era stato l'avvisaglia di un presentimento che in poche ore era riuscito a trasformarsi in realtà.
"La parte brutta è finita..." così le aveva detto a Tokyo con lo scrosciare incessante della pioggia a coprire ogni rumore tranne che le loro voci, nella notte in cui tutto sarebbe dovuto cambiare. 
Lui lo aveva detto in buona fede. Era certo che il peggio fosse finalmento andato, liberando le loro esistenze da quell' intreccio mortale nel quale avevano vissuto sin dalla nascita, macchiandosi entrambi di rosso cremisi. 
In quelle parole ci avevano creduto entrambi, eppure, in quel preciso momento, Akira si sentiva un bugiardo di prima categoria.
La verità è che Osaka era stata la loro Oasi nel deserto.
Era stata col suo mare e i sogni realizzati la quiete prima dell'ennesima tempesta che li avrebbe presi in pieno.
"E' l'unico modo per tenerle al sicuro. L' unico per cambiare le cose una volta per tutte".  Quando si trattava d'amore Akira cedeva.
"E poi è una questione d'onore" si ripeté tra le labbra a bassa voce.
La Ikka è la tua casa; la tua famiglia. Non la puoi tradire, sarebbe come tradire se stessi. 
Devi proteggerla a tutti costi.
 
Il clan si riunì nell'ampia sala dove solitamente si teneva il Sakazuki Shiki per accogliere i nuovi membri. Si udì un rumore di passi, seguito dal tintinnare dell'acciaio sopra ad un tavolo.
Le armi dovevano essere tenute alla larga dai propri fratelli.
Akira trattenne il respiro, scambiandosi un'occhiata complice con Haruka che sedeva accanto a lui mostrando la mascella tirata, mentre l'aria si faceva piena dei respiri dei ceffi meno raccomandabili di Tokyo.
Circa quaranta uomini, vestiti in abiti eleganti che celavano porzioni di pelle tatuata si radunarono guardandoli dapprima con sguardo accusatorio e poi con curiosità.
Akira e Haruka avevano lottato contro tutto quello che uno Yakuza avrebbe invece dovuto tenere al sicuro. Erano dei traditori fatti e finiti, il loro kao probabilmente era irrecuperabile, ma l'avevano infangato per un buon motivo a loro avviso. Anche se di certo tutti i presenti non l'avrebbero pensata allo stesso modo se solo avessero scoperto ciò di cui erano colpevoli.
La violenza nella loro società era accettata, ma non certo contro l'Oyabun, l'unico per cui si doveva mettere in gioco tutto.
"E' tempo di ricominciare..." disse solenne Haruka, senza alcun preavviso, alzandosi in piedi per poi zittire tutto il brusio che si era levato in sala.
Gli anziani del clan si erano già ritirati per deliberare chi dovesse prendere il posto di padre di famiglia, ma con Daisuke fuori dai giochi l'unica discendente del precedente capo clan era lei. Finché nessuno fosse venuto a conoscenza del suo sporco segreto l'elezione non aveva bisogno di ulteriore tempo o ripensamenti.
 
Doveva far giuramento. 
Doveva dimostrare che si sarebbe presa cura di tutti.
Doveva incarnare ciò che lei e Akira avevano ucciso sei mesi prima.
Una zaffata intensa d'incenso solleticò le lande ghiacciate racchiuse nelle iridi di Akira, il quale non cedette al pizzicore né tanto meno a lacrimare. Fermo, sulle ginocchia e le dita conficcate nella rotula socchiuse gli occhi a capo chino.
Pareva un moderno Samurai col suo feroce dragone che gli avvolgeva i bicipiti con spire verdi e rosse.
 
"Io, Haruka Ten'ō, in qualità della posizione che vengo a ricoprire...giuro eterna fedeltà, alla Ikka e mi prenderò cura dei Kobun del nostro clan come fossero figli miei".
Una serie di battiti forti e nitidi come lo scandire di un tamburo rimbombò nella cassa toracica di Haruka.
Non c'era più via d'uscita. Lei e Akira si erano appena rinchiusi nel loro pericoloso labirinto con le proprie mani.
Prese un lungo e profondo respiro, puntando gli occhi cobalto in ognuno dei presenti al proprio cospetto.
Adesso era intoccabile. Ma se solo Akira in quel momento avesse potuto fare una delle sue strampalate citazioni avrebbe sicuramente recitato "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Non c'era niente di più vero, poiché da quel preciso istante lei possedeva quel pugno di vite nelle proprie mani e sarebbe anche stata quella che avrebbe dovuto strapparne altrettante se in futuro se ne fosse presentata l'occasione.
 
"Da questo momento sino a che la mia vita non verrà cancellata da questo mondo, sono il vostro Oyabun".
Un mare di teste s'inchinarono a lei in sincrono. Ognuno di quei criminali porse i propri rispetti alla sua anima.
 
La bella Tokyo non si dimenticava di nessuno.
Vecchio e nuovo conviveno tra le sue fauci. Le tradizioni sedevano accanto ai nuovi grattaceli pieni di uffici e divertimento sfrenato. 
Era la testimonianza che passato e futuro andavano a braccetto. Che nulla cade nell'oblio.
 
 
 
 
 
 

Dizionario Yakuza:
Oyabun - capo clan.
Ikka - famiglia/ casa. E' il modo in cui viene chiamato il proprio clan nella Yakuza.
Sakazuki Shiki - Cerimonia del té alla quale il neofita si sottopone giurando fedeltà al proprio Oyabun.
Kobun - Indica chi si trova nella posizione di Ko (figlio)
Kao - onore.

Note dell'autrice:
Non lo nego...ci sono voluti anni per sfuggire al blocco dello scrittore e al poco tempo disponibile che non mi ha permesso di scrivere. Ringrazio chi si è preso la briga di leggere il prologo e tutti quelli che nonostante tutto questo tempo sono nuovamnete qui a sostenermi. Spero possiate apprezzare questa storia quanto Stockholm Syndrome. 
Ad ogni capitolo vi lascerò un piccolo dizionario nel caso usi termini relativi al mondo della Yakuza.
Per chi volesse ridare una spolverata alla vecchia storia...trovate il riassunto sulla mia pagina fb! (c'è il bottoncino).
La notte e l'omicidio a cui mi riferisco nel prologo sono relativi all'ultimo capitolo della precedente fanfiction.
Per ogni delucidazione sono disponibile!
Ci sono tante cose che vorrei spiegare a proposito del complesso mondo della Yakuza e il perché di questa scelta, ma non posso farlo in questa sede quindi lo farò nella mia pagina fb.
Smetto di essere logorroica, sapete sempre dove trovarmi! Un abbraccio...
Kat

 

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Capitolo 2
*** 1. Tokyo Inside ***


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Kissing The Dragon
Capitolo 1
Tokyo Inside
 
 
 
Tokyo, città che non dorme mai.
L’ affascinante sonnambula che trascinava nella sua spirale di veglia perenne chiunque le vivesse in grembo.
I suoi occhi al neon spiavano dentro le vite dei suoi abitanti senza lasciar tregua alle anime che percorrevano le sue strade come ogni notte.
 
“ Rei, per l’ultima volta cosa diavolo stai combinando? ”.
Setsuna aveva la voce di chi la pazienza non l’ha mai conosciuta o quanto meno l’ ha già esaurita da un pezzo.
L’ ispettore Meiō, infatti, era un continuo fascio di nervi a causa del suo lavoro in perenne ritmo coi battiti della città.
Non era abituata a mollare la presa, doveva stare al passo con i criminali che la capitale le sfornava sotto al naso e tutti quelli che si perdevano nei suoi numerosi vizi.
Tokyo affascinava. Peccaminosa, si mangiava come un’ ingorda chiunque si lasciasse ammaliare dalle mille tentazioni con cui ti faceva l’occhiolino.
“ Non voglio sprecare più fiato! ” disse per tutta risposta Rei che con un gesto di stizza si ritrovò a gettare un altro paio di cullotte rosso fuoco nel trolley aperto sul letto che avevano condiviso per mesi.
“ Perciò tutta questa scenata è perché non me la sento di conoscere i tuoi genitori?! ”.  La più grande replicò appoggiandosi allo stipite della porta con la schiena, incrociando le braccia al petto senza perdere di vista nemmeno uno degli indumenti che l’altra stava tentando di portarsi via con sé.
Forse, andare a convivere così presto, era stato quello che si definisce un passo più lungo della gamba.
Molto probabilmente Setsuna si era lasciata intenerire dalle stampelle dell’altra, dal fatto che si era ferita in servizio con lei e che in qualche modo si sentiva responsabile. O forse, era per il fatto che Rei era passionale, fuoco allo stato puro e non l’avrebbe certo potuta mandare fuori di casa una donna del genere. La sua donna.
“ Ispettore Meiō…”. La morettina fermò bruscamente la sua corsa alla valigia emettendo un lungo sospiro. Portò le mani alle cerniere e puntò le sue iridi dritte in quelle della compagna.
“ Penso lei abbia perso la sua abilità nel far congetture…” uno strattone, il ronzio veloce di lampo che si serrano e in un batter d’occhio quel bagaglio era pronto a scivolare via di lì sulle sue piccole ruote.
“ Gli indovinelli, ci risiamo ”.
Setsuna con voce provata socchiuse gli occhi e si portò le dita alle tempie.
Le emicranie la facevano impazzire e alle volte la sua compagna sembrava assumere le sembianze di un tarlo dispettoso intento a farsi strada dentro il suo cranio. Inutile dire quindi che la cosa non l'aiutava.
Rei con fare scenico si avviò verso la porta d’ ingresso tirandosi dietro quell' agglomerato di abiti e cosmetici stipati dentro il trolley.
Ancheggiò con fare offeso senza emettere un sibilo in più, lasciando dietro di sé una scia di profumo dolciastro.
Fiori di loto constatò Setsuna sempre attenta ad ogni dettaglio.
“ Rei…”.
“ Che c’è ancora? ”.
“ Rei, guardami...” emise un sospiro pesante. Non sopportava la visione delle sue spalle; le dava l’idea di un addio non potersi tuffare nei suoi occhi grandi  scuri.
“ Ti ho vista l’altra sera ” sibilò tagliente la mora.
La fronte della più grande si aggrottò appena in cerca di una risposta o qualunque cosa le riportasse alla mente ciò che la fidanzata stava insinuando.
“ E’ un po’ vago…”
Lo squillo del cellulare s’intromise tra loro.
La suoneria di X- Files urtava tremendamente la più giovane che la riteneva troppo fuori moda per chiunque.
“ Rispondi, ti prego. E’ un supplizio! ”.
“ Si, ispettore Meiō, ditemi…” detto fatto. 
“Cosa?!”. Il tono di Setsuna si fece vagamente stridulo, quasi isterico. Tutto quel lavoro l’avrebbe uccisa prima o poi, ne era sicura. Eppure non riusciva a starci lontana.
Lo stacanovismo era poco al confronto.
Rei tentennò per un momento, indecisa sul da farsi. Il suo umore oscillava tra l’offeso, la rabbia e una buona dose di curiosità che ora le si era instillata dentro.
Avrebbe voluto rimanere per saperne di più, ma il suo orgoglio ne avrebbe risentito senza trovare una buona scusa per restare. E la fortuna girò dalla sua parte come se avesse udito il richiamo della morettina, poiché anche il suo cellulare squillò informandola che avrebbe dovuto assistere ancora una volta l’ ispettore Meiō.
 
Setsuna afferrò la borsa buttandovi dentro il telefono.
“ Che fai, allora?”
“ Sono la tua partner, vengo con te. Mi hanno appena informata”.
“ Bene ”.
“ Perfetto ”.
Uno scintillio porpora attraversò lo sguardo della più grande che mise un piede oltre la soglia.
Rei a quell’ occhiataccia perse la pazienza mollandole la valigia sui piedi.
“ Ahi! ”.
“ Ops! ”.
“ Sei impazzita?! ”.
“ Adultera ”.
“ Ignorante ”.
L’ ispettore si richiuse la porta alle spalle, chinandosi appena a massaggiarsi la punta dolorante del piede.
“ Ma lo sai cos’è l’adulterio?! ”.
“ Ti ho vista l’altra sera ” ripeté la fidanzata.
Ed ognuna con un diavolo per capello salì in auto.
 
 
***
 
 
La folla chiassosa e colorata di Shibuya era il battito d’ali nello stomaco di Tokyo.
Il suo ventre caldo, il fulcro, il cuore pulsante della bella cortigiana sempre sveglia.
 
Le ruote dell’auto viaggiavano per strade sempre affollate ad ogni ora del giorno e della notte.
L’ abitacolo, immerso in un pesante silenzio, ospitava due amanti nel bel mezzo di una burrasca.
L’ agente Hino teneva puntate le due grandi lune d’onice oltre il finestrino, mentre l’ ispettore Setsuna si mordeva convulsamente il labbro inferiore privo di rossetto quella sera.
Erano in borghese, su un automobile come tante non dotata di sirene che doveva viaggiare alla velocità delle altre. Troppo lente per stare allo stesso ritmo della vita che si consumava a Shibuya.
Loro, al contrario di molti, non erano dirette in qualche club. Avevano una scena del delitto da studiare come se si trattasse di appunti dettagliati per una lezione importante. E la vita a Tokyo ne impartiva parecchi d’ insegnamenti, bisognava solo coglierli nel modo giusto.
 
Due persone agli opposti ma vissute in sintonia fino ad allora avevano  credenze agli estremi.
Non gliene frega proprio niente. Questo l’unico pensiero di Rei, con l’animo sempre turbolento nel bene e nel male.
Lei era un continuo scoppiettare di fiamme dentro di sé.
Ma persino Setsuna, con la mente sempre sul dovere, in quel momento guidava lenta perché troppo concentrata su ciò che l’altra le aveva detto prima di salire a bordo della vettura e blindarsi dietro l’assenza di parole.
I pneumatici  divorarono gli ultimi stralci d’asfalto a dividerle dalla loro meta.
Si trattava di una palazzina bassa che risultava incassata, quasi nascosta tra le recenti costruzioni e gli innumerevoli piani dei grattacieli illuminati a giorno.
Un nastro giallo circondava il perimetro della struttura e solo dopo che Setsuna mostrò il distintivo ebbe il consenso ad addentrarsi su per la scalinata angusta che portava all’interno numero venti.
“ Cos’abbiamo? ” domandò tirandosi appena il lembo della camicia bianca sulla cinta dei pantaloni.
“ Uomo, sui venticinque anni. L’abbiamo trovato impiccato nella sua stanza. La chiamata è arrivata dalla madre. Diceva di non sentirlo da giorni…”.
“ Hino prendi appunti  ” ordinò la più grande, mettendo piede dentro un piccolo salotto spoglio.
La mora con una smorfia di disappunto disegnata in volto, segnò i particolari che il poliziotto si premurò di riferire a Setsuna sulle pagine stropicciate di un piccolo block notes.
“ Uno studente? Avete controllato se era iscritto a qualche università? Magari è il classico suicidio di chi non passa al primo colpo gli esami…”
“ Faccio verificare, di qua, mi segua ”.
“ Non ha lasciato un biglietto? Qualcosa? ” s’intromise la morettina.
“ No ”.
Quando i tre misero piede nella stanza, nel loro campo visivo entrò per prima la siloutte magra e scura appesa alle pale del soffitto, poi uno sgabello riverso a terra poco più lontano.
“ Non capisco perché abbiate chiamato proprio me. Non ero nemmeno di reperibilità sta notte…”.
“ Dovrebbe guardare la schiena del ragazzo…” disse appena intimidito l’uomo.
Setsuna inspirò profondamente; c’era un odore nauseabondo lì dentro.
Rei la seguì silenziosa e solo dopo essersi ritrovata davanti al dorso del cadavere riuscì a battere le ciglia come per scrollarsi da un sonno pesante.
“ Che sia…” soffiò a bassa voce, per poi lasciar finire la frase a Setsuna.
“ Uno Yakuza? ”.
 
 
*** 
 
 
Non c’era nulla di meglio della “Capitale della buona tavola” per uno come Akira. Il grembiule, però, lo aveva abbandonato sui fornelli accesi; lasciando che prendesse fuoco - così come aveva fatto il suo sguardo glaciale - nel momento in cui era stato licenziato su due piedi da un damerino con la puzza sotto al naso.
In pochi minuti era riuscito a scatenare un vero putiferio nella cucina del ristorante sul molo dove qualche mese prima aveva cenato con Michiru e Minako.
 
 
“ Si sono lamentati perché sono un perfezionista! ” gridò senza ritegno, gesticolando come se cercasse di afferrare qualcosa troppo in alto per lui, davanti ad una bionda dall’ aria tutt’altro che interessata a quella faccenda.
“ Non farne un dramma. Non ne vale la pena”. Eccola la risposta ricevuta; scarna e senza fronzoli. Una vera stilettata inferta senza alcuna pietà al suo cuore di cuoco appassionato.
 
Akira arricciò il naso infastidito. Gli occhi sgranati in due palle argentee sottolineavano l’aria di incredulità dovuta alla poca considerazione che quella faccenda suscitava in Haruka.
Se non l’avesse conosciuta da un’ eternità avrebbe potuto trarre conclusioni sbagliate e lasciare perdere in un batter d’occhio la loro amicizia, ma avendoci avuto a che fare per anni non ci diede troppo peso e continuò quel fiume di parole all’apparenza inarrestabile.
“ Dovrei aprire un’attività per conto mio, vero? Minako ha appena cominciato a fare il tirocinio in ospedale e un uomo dovrebbe mantenere la propria donna, no?! Ma qui poi si parla di passione, non solo di soldi! ”.
“ Si, Akira. Si. Giochiamo o no? ” domandò la bionda spazientendosi appena, per poi alzarsi dal muretto bianco sul quale erano rimasti seduti sino a quel momento.
“ Se proprio insisti…”
“ Insisto, voglio stracciarti ”.
“ Quante arie. Non ci andrò piano solo perché sei una signora! ”.
“ Non voglio essere trattata da signora, infatti! Muovi quel culo e smetti di blaterare. Ti servirà tutto il tuo fiato per starmi dietro! ”.
 
Haruka si sistemò una bandana tra i capelli biondi in stile Rambo.
Odiava perdere persino quando si trattava di giochi come il basket. Era sempre stata competitiva e non ci sarebbe andata leggera solo perché Akira era come un fratello per lei.
Arrotolò le maniche corte di una maglietta grigia troppo larga sulle spalle e prese a palleggiare con la sfera arancione che aveva tenuto stretta tra i polpastrelli sino a quel momento.
Osaka in sottofondo lasciava loro il richiamo dei gabbiani e lo scrosciare delle onde sulla costa che ospitava il piccolo campetto da basket ormai immerso nel buio.
Era come vivere un’eterna estate lì.
Lei e l’amico si erano ritagliati un angolo di paradiso, facendosi tabula rasa attorno per evitare contatti con qualsiasi membro della loro cricca poco raccomandabile di Tokyo.
“ Smettila di piagnucolare e fammi vedere che sai fare! ”.
Un sorriso beffardo dei suoi. Di quelli che non mostravano la dentatura bianca e perfetta ma solo un angolo di labbra che s’incurvava all’insù accompagnato da uno sguardo di sfida.
La ragazza scartò il moro, corse verso la metà campo senza perdere il controllo della palla fino a che non se lo ritrovò davanti.
Akira tentò di rubarle la sfera rimbalzante, ma afferrò solo aria.
Haruka girò su se stessa col vento a scompigliarle i fili dorati che le ricoprivano la testa. La schiena appena inarcata all’ indietro e le braccia tese in avanti in un lancio che fece vibrare il tabellone davanti a lei.
“ Ti è andata male! ” la prese in giro bonariamente lui col suo sguardo artico.
“ A te andrà peggio! ” esclamò la bionda in risposta, per poi bloccarsi con la palla nuovamente in mano e uno strano sorrisetto in viso.
Akira dal principio non capì cosa intendesse, gli bastò però seguire lo sguardo dell’altra per incontrare una biondina con mani sui fianchi e piede destro a battere ritmicamente sull’asfalto in attesa di spiegazioni.
“ AKIRA! COSA CAVOLO CI FAI QUI?!”.
“ Dolcezza…io…”
“ NON DOVRESTI ESSERE AL LAVORO?!” sputò con tutto il fiato in corpo Minako, avvolta in un vestitino a fiori che emise un fruscio nel dirigersi verso i due.
“ Ahi, la vedo male Akira…” sibilò Haruka passandosi il dorso della mano sulla fronte umida.
L’ amico le diede una gomitata al fianco per farla tacere.
“ Adesso ti spiego tutto…”
“ Sentiamo”.
“ Minako, non fare così però”.
“ Già, Mina…abbi pietà mi sta facendo quasi pena Akira!”
“ Allora?! ”
“ Si, allora Akira. Glielo spieghi o glielo dico?! ”
“ Fatti gli affari tuoi tu! ”
“ COSA DEVE SPIEGARMI?! ”.
“ Stavo cercando solo di aiutarti, IO!” sbottò Haruka con una smorfia.
“ Allora?! ” Minako aveva perso la pazienza lasciando cadere dalla mano la propria borsa sfinita da tutta quell’attesa.
“ L’ hanno licenziato ”.
“ HARUKA! ” questa volta fu il ragazzo ad alzare la voce. Ma fu subito troppo preso a studiare la gamma di espressioni che passarono sul volto di Minako alla notizia, per continuare a discutere con l’ amica.
Entrambi si sarebbero aspettati una serie di imprecazioni o urli simili allo scoppio di una bomba, ma inaspettatamente le labbra appena colorate dal lucidalabbra corallo di Minako si schiusero in una piccola “o”.
“ Oh povero tesoro! ” esclamò in tono quasi materno, intenerita dal fallimento del fidanzato che sapeva amare più di ogni cosa la cucina.
Haruka alzò gli occhi al cielo cercando di sfuggire alle smancerie che sarebbero seguite di lì a poco.
 
“Ehi, Haru!”. Akira la richiamò all’attenzione già pronto a gustarsi la stretta di Minako che aveva aperto le braccia in sua direzione con fare consolatorio.
“ Ma non dovresti essere a Tokyo? ”.
“ Eh? ”.
“ A questo giro tu e Michiru dovevate vedervi là ”.
“ Naaa! ”.
“ Siii! ”.
“ Ti sei confusa, un’altra volta ”.
“ Io non mi confondo!”.
“ E invece si! ”  replicò in coro la coppia.
 
Oh merda.  Uno sguardo all’orologio e una corsa sfrenata verso il primo autobus diretto in aeroporto.
 
 
***
 
 
Tra le doti di Haruka la puntualità non rientrava di certo.
Michiru per lo meno aveva una buona scusa. Si stava facendo bella per lei, indossando un paio di perle alle orecchie semi nascoste dai lunghi capelli ondulati e perfettamente pettinati.
La parte più ardua era stata la scelta dell’abito. Ne aveva scartati una decina per poi infilarli nuovamente nell’armadio di Ami come nulla fosse.
Per la biancheria intima era stato tutto molto più semplice.
Un completino in pizzo di Victoria Secret nero non si poteva di certo battere.
Salutò il padre infilandosi un paio di tacchi vertiginosi sulla soglia e Yoshio si schiarì la voce drizzandosi sulla sedia intimandola di tornare entro la mezzanotte, esattamente come farebbe un buon padre con la figlia adolescente. Ma le sue ragazze ormai erano cresciute; Ami era una specializzanda in chirurgia e di lì a poco sarebbe diventata un grande medico.
Michiru aveva spiccato il volo da tempo. Si era trasformata in una splendida farfalla ben prima di Ami, si era trasferita e aveva seguito la sua passione per la musica trasmettendola ai più piccoli. Mancava un matrimonio per completare il tutto, peccato che non avrebbe mai scelto di avere come genero un poco di buono né tanto meno una donna.
Ami e Michiru avevano tenuto la bocca chiusa a lungo sulle questione “maschio o femmina” per paura che al padre potesse prendere un infarto, ma come si dice le bugie hanno le gambe corte e prima o poi Michiru avrebbe dovuto svuotare il sacco.
 
 
Il semaforo rosso bloccò la corsa della auto nel bel mezzo di Shibuya.
La folla brulicante di pedoni non perse tempo ad invadere la zebratura dell’asfalto e con loro la sirena di Osaka.
I suoi capelli fluttuavano come le onde del mar Seto e in petto i battiti scandivano una marcia di tamburo sotto la scollatura a cuore del vestitino blu notte aderente che indossava.
A Shibuya prede e cacciatori s’ incontravano.
Si lanciavano un’ occhiata e prendevano a rincorrersi sulla metropolitana, nei piani dei centri commerciali, tra gli scaffali colorati dei manga- cafè e tra i corpi avvinghiati delle discoteche.
Michiru aspettava solo di essere braccata da chi si era già aggiudicata il suo cuore.
L’ odore del sesso di una notte non le solleticava le narici.
 
Un’ occhiata all’ orologio del telefonino.
Lei era in ritardo di mezz’ora, ma una donna si fa attendere solo se c’è qualcuno ad aspettarla e di Haruka nessuna traccia.
 
Un paio di braccia tatuate le fecero perdere un battito.
Carpe Koi ed onde spumose circondavano una geisha con un pugnale in mano.
“ Forse dovrei farmi anche io un tatuaggio ”.
Il celeste negli occhi di Michiru si posò sulla persona a cui apparteneva quella voce.
“ Forse non dovresti dimenticarti dei nostri appuntamenti…”  disse con un sorriso a fior di labbra nel vedere Haruka tra la corrente umana nella quale erano immerse.
“ Non mi sono dimenticata ” sostenne la bionda passandosi una mano nei capelli.
Cercò di riprendere fiato, poiché la bellezza di Michiru le aveva tolto anche quel poco di respiro regolare che le era rimasto per la corsa appena fatto.
“ Bugia…”.
Michiru si avvicinò a lei. Sfiorò le sue labbra con quelle dell’altra, le circondò le spalle e con uno strattone le staccò l’etichetta dalla maglietta che la bionda aveva indosso.
“ Questa viene da una delle botique dell’aeroporto. Non sei proprio capace di mentirmi Ten'ō ”.
“ Che donna sveglia e affascinante ”.
“ Puoi dirlo forte ”.
“ Come posso farmi perdonare? ” le soffiò all’orecchio Haruka, scivolando con le dita sulle spalle nude di Michiru che fremette appena sotto ai suoi polpastrelli.
“ Per te solo punizioni sta sera…”
Tra ganguro e kogal mare e vento s’ incontrarono di nuovo scatenando una tempesta dietro la porta di un Love Hotel.
Qualcuno si amò in silenzio e col broncio davanti ad un cadavere appeso nella penombra di una stanza sconosciuta.
A kilometri di distanza altri si godettero una delle prime sere d’autunno sulla costa di Osaka.
I sogni Tokyo li lasciava a chi era capace di dormire e nel suo ventre, tra i passi confusi della gente, allarmi impazziti, tradimenti, musica techno, mura intrise di fumo e alcool, il destino stava annodando tra loro le vite di chi credeva di averne il completo controllo.
 
 


Note dell'autrice:

Mi scuso in anticipo per eventuali errori o sviste. Ho dovuto ricaricare il capitolo più volte per problemi forse dovuti alla mia connessione e non al sito, quindi presa dal nervosismo non ho ricontrollato. Farò non appena avrò un pochino di tempo un controllo con correzione più accurati!
Spero che il capitolo non vi abbia annoiato, se così fosse ditemelo. Provvederò a migliorare e a rendervi la lettura più piacevole con grazie alle segnalazioni o agli appunti che volete farmi. Accetto sempre le critiche costruttive, penso ormai mi conosciate! ;D
Un grandissimo grazie a chi si è preso la briga di seguirmi e lasciarmi qualche parola a fine prologo. Siete i migliori, come sempre!
Buon weekend.
Kat
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 3
*** Paradise Lost - Part I ***


Kissing The Dragon
Capitolo 2
Paradise Lost – Part I
 
 
 
Tokyo scalciava tra le lenzuola; si dimenava urlava a pieni polmoni emettendo un eco stridulo e fastidioso di qualche sirena lasciata vibrare per i suoi vicoli ancora bui.
Persino all’alba non si appisolava. Tokyo non si lasciava mai sfuggire nulla, né dolori, né piaceri.
Michiru era distesa tra le lenzuola rosse lucido di un love motel, con le dita ancora aggrovigliate nei capelli acqua marina e una mano poggiata sulla schiena di Haruka a sprofondare col ventre in un materasso a d’acqua di forma circolare.
La bionda tratteneva con una mano il collo di una bottiglia di vino tra le falangi che con un nonnulla avrebbe rischiato di frantumarsi al suolo.
 
“ Sono invidiosa, qui possono guardarti tutti…”
“ Allora portami in un posto dove possiamo essere solo io e te ”.
 
Se le mura del love hotel avessero avuto una voce avrebbero raccontato dei tacchi di Michiru che avevano puntellato la moquette sino alla piccola reception.
Avrebbero ricordato lo sguardo ammiccante di Haruka, trasformatosi in impassibilità, nel momento in cui i suoi occhi avevano lasciato per un momento il loro spettacolo preferito per posarsi sul custode di quella decina di camere spettatrici di amori nascosti dalla luce del sole, sveltine tra sconosciuti e incontri di amanti ormai divorziati.
 
Si erano già bevute diversi drink in tre eccentrici locali di Shibuya, eppure nella borsa di Michiru si nascondeva una bottiglia pronta da stappare.
“ Cosa festeggiamo? ” aveva chiesto la bionda, lasciando scivolare la mano dalle spalle della fidanzata troppo in basso per farlo in pubblico.
“ Il nostro incontro…” le aveva soffiato alticcia Michiru, ma senza usare un tono sguaiato.
Riusciva a mantenere una certa eleganza nonostante la sue mente non si potesse definire lucida.
Haruka, priva del garbo dell’altra, la spinse per i fianchi fino a farla scontrare contro il muro del corridoio.
Alla Sirena di Osaka tremarono le gambe, sentì la camminata farsi traballante e ridacchiò sommessamente; le sue onde acquamarina si sparpagliarono sugli intrecci geometrici di un arazzo appeso alla parete.
La bionda venne percorsa da un brivido caldo e senza permesso violò le labbra dell’altra.
Vodka Lemon, Martini e Awamore, un liquore tipico di Okinawa, si fecero trovare tra il suo alito profumato.
 
Con il sole a fare capolino senza permesso in quella stanza s’ insinuò anche la suoneria di un cellulare.
Michiru emise un sospiro pesante senza aprire le palpebre, mentre Haruka si alzò di scatto accanto a lei, urtando lo stipite del comodino e rompendo la bottiglia in pezzi.
Uno yakuza poteva venir ucciso nel sonno se non avesse avuto i riflessi pronti.
“Cazzo!”
“Buongiorno finezza” disse con voce calda Michiru girandosi su un fianco.
La bionda sbuffò. Soffocò una decina d’imprecazioni e senza capire dove si trovasse allungò una mano tra le coperte alla ricerca del cellulare.
“ Viene da più lontano…” borbottò Michiru pregando perché quella suoneria la smettesse di martellarle in testa.
“ Non lo trovo!”
“Cerca meglio!”
“Aiutarmi, no?!”
Michiru sgranò i due pozzi blu e li puntò dritti in quelli dell’altra.
Haruka alzò un sopracciglio con fare irriverente, anche se in cuor suo sapeva sarebbe arrivata una frecciatina da parte della fidanzata.
“ Mi hai rapita, il minimo che puoi fare è spegnere quel dannato cellulare”.
“ Storia vecchia, ti ho anche salvata”.
“ Storia errata. Io ho salvato te”.
“ No, tu hai cantato come un uccellino alla polizia”.
“ Vogliamo davvero discutere di questo?”.
Gli occhi della bionda si alzarono al cielo. Respirò a fondo e scivolò tra le coperte fino ad allungarsi ai piedi del letto. Con la mano toccò il pavimento alla ricerca dei pantaloni contenenti il cellulare, ma le sue dita si arpionarono a del pizzo marcato Victoria Secret.
“ Ho trovato solo queste…” sorrise luciferina, sventolando sotto al naso della proprietaria le mutandine appena ritrovate.
Michiru controbatté con una cuscinata che colpì in pieno volto Haruka, riprese possesso della propria biancheria con fare disinvolto e le buttò il cellulare addosso cominciando a rivestirsi.
Moshi moshi? ”.
Haruka aveva risposto distratta, senza degnare di uno sguardo il display del cellulare perché troppo persa a fissare la pelle lattea di Michiru e le sue curve bagnate da quei raggi di sole che l’accarezzavano senza il suo permesso.
Pareva una Dea; una Venere scolpita dalle onde di Osaka.
La fissò intenta a celare sotto il pizzo nero i suoi seni perfetti, inclinare la testa di lato così che le onde acqua marina potessero scendere a cascata sulla punta elegante della sua spalla.
Pensò ai baci umidi che aveva lasciato sulla sua pelle la notte prima, ai respiri rotti di cui quella stanza era stata sommersa, al fatto che portava ancora il suo profumo su ogni centimetro caldo del suo corpo.
 
Fu solo quando la voce all’altro capo si annunciò che perdette il suo angolo di paradiso.
 
 
***
 
 
Akira era alle prese con la spesa.
Lui e Minako sembravano essere intenzionati a svaligiare il mini market.
Tra le sue manie da grande chef e la golosità di Minako, pareva avessero il compito di sfamare un intero esercito.
Minako però, raggiunta la cassa, venne colta da un languorino. Fu più forte di lei, non riuscì resistere alla macchinetta automatica, appena fuori l’uscita del negozio, che vendeva kit kat alla fragola - e ai più svariati gusti – lasciandolo solo alle prese con la carta di credito e un conto salato da saldare.
“ Pensaci tu qui!” esclamò saltellante diritta per la sua strada.
“ Ma…”
“ Io devo andare in ospedale tra un’ ora, devo imparare a fare una sutura continua come si deve anche se sono solo un’infermiera!”.  Gli schioccò un occhiolino con fare bambinesco più che malizioso, conscia che nella sua frase c’era il doppio significato che Akira avrebbe sicuramente colto. Se doveva concentrarsi aveva bisogno di zuccheri, gli zuccheri in questione si trovavano a pochi metri da lei perciò era necessario armarsi di monetine ed agire.
Estrasse dalla piccola borsa a tracolla il portamonete in stoffa rosa a pois e spinse energicamente sul pulsante indicante la barretta di cioccolata desiderata prima d’inserire gli yen nell’apposita fessura.
Quasi impaziente, dondolò sui talloni delle ballerine seguendo con lo sguardo il lavoro del distributore fino a che non poté chinarsi a recuperare la sua merendina.
 
“ Io ti conosco! ” qualcuno alle sue spalle richiamò la sua attenzione.
Minako fissò il riflesso della macchinetta, ma non fu abbastanza per riconoscere la figura dietro di lei.
Arricciò le labbra leggermente incuriosita e con una piroetta si ritrovò faccia a faccia con chi diceva di sapere chi fosse.
Fu nel momento in cui i suoi specchi chiari si appiccicarono sui polsi disegnati del ragazzo e sulla falange delle mano destra mancante che la curiosità lasciò spazio alla voglia di mettersi ad urlare.
Bloccò la voce dietro le labbra serrate, incapace di trovare il modo giusto in cui reagire.
Quello davanti a lei era uno Yakuza e dentro al negozio c’era Akira, in fuga da una vita a cui non voleva più appartenere; per di più disarmato.
Nessuno usciva vivo o indenne dalla mafia Giapponese, le scelte personali non erano contemplate.
“ Credo…mi abbia confuso con qualcun'altra…” rispose gentile, facendo per rientrare e raggiungere il fidanzato.
“ Ho una buona memoria fotografica ”. Non era stato scortese, ma il temperamento di certi individui sapeva benissimo poteva mutare da un momento all’altro.
“ Io non la conosco, mi spiace”. Gli voltò le spalle, un passo in avanti per far sì che le porte automatiche si aprissero ma fu qualcun altro dall’ interno a spalancare l’uscio al posto suo.
Minako cercò gli occhi grigi di Akira al di là del vetro pregando che nel suo sguardo vi trovasse le parole “non uscire ”, ma così non fu.
“ Ma certo, Akira Aoki. Mi ricordavo di te, sei la sua ragazza”.
A Minako si gelò il sangue nelle vene.
“ Mina, mi hai mollato con tutta la rob -”. Akira fu in procinto di lasciare andare la spesa per terra, ma rimase arpionato ai sacchetti pieni con le parole disperse chissà dove.
Sakaume – gumi, il clan di Osaka che conta centodieci membri tra le sue file. Come era potuto esser stato così stupido da non averci pensato prima?
Forse aveva confidato troppo nella buona sorte. Si era considerato una specie di eletto, uno di quelli che nella sua vita non avrebbe mai incontrato nemmeno per caso un altro Yakuza in giro per strada. Forse nella sua testa gli aveva esiliati tutti a Tokyo quelli come lui. I criminali ai quali apparteneva per nascita, l’organizzazione così potente da aver invaso non solo il paese del sol levante ma che si era diffusa come un virus letale anche in America e Dio sapeva solo in quali altri parti della terra.
“ Sono Ken Azuma ” disse lo sconosciuto porgendo il proprio biglietto da visita ad Akira.
“ Sono il fratello di Daisuke ”.
 
 
 
 
 


Tokyo; sei mesi prima.
 
Lo sparo era riecheggiato per tutta la via. Per una buona dose di secondi pareva aver zittito l’incessante scrosciare di pioggia che sino a quel momento aveva coperto ogni rumore nei paraggi.
Gli occhi di Haruka fissavano una scia di sangue diluita all’ acqua piovana, scorrere lungo l’asfalto per poi finire nelle fessure di un tombino.
Tornerà tutto a galla se continua a piovere, pensò con un rimbalzo del cuore nel petto e le iridi che ritrovarono il coraggio di posarsi più in alto del terreno.
L’ Oyabun era davanti a lei. Rantolante, con le unghie conficcate nelle braccia di Akira e metallo freddo piantato ancora nel petto.
Gli occhi plumbei del ragazzo erano dispersi sotto ciuffi fradici troppo lunghi perché potesse carpire un suo sguardo, ma era certa che anche in lui si fosse annidata una buona dose di terrore.
“La parte brutta è finita, Haru…”.
La sua voce la consolò. Fu in quelle parole che lei trovò la mano alla quale aggrapparsi e la forza di alzarsi sulle gambe.
“Dammi la pistola Akira”.
Doveva finirla lei.
 
“ Non la esaudisco la tua ultima preghiera…” sibilò all’orecchio dell’ Oyabun.
“ Distruggerò tutto il tuo squallido impero, padre ”.
 
La parola fine in quella Tokyo singhiozzante quella notte fu scritta con la polvere da sparo.
Il dolore della carne lacerata era forse ben più presente nelle fibre nervose di Haruka che nel cervello spappolato di un uomo la cui vita era appena cessata per mano sua.
“ Haru…”
Akira interruppe ancora una volta la cantilena della pioggia e la catena di pensieri dietro la quale lei si stava trincerando.
“ Andiamo a casa ”.
Tornerà tutto a galla. Quell’idea era diventato un tarlo nella sua testa di giovane donna e l’avrebbe distrutta di lì a poco se non avesse agito nell’ immediato.
“ Prima dobbiamo seppellire tutta questa storia ”. Aveva voglia di piangere Haruka, ma nella sua voce c’era ancora quella nota secca che riservava alle frasi nei momenti in cui non si poteva fare a meno di agire in una determinata maniera.
“ Benzina?”
“ Troppa umidità, troppo tempo per prenderla, troppo per decidere dove piazzarli…”
“ Daisuke”.
“ Si, anche lui”.
“ Cemento, Haruka. Sono morti…devono stare sotto terra ”.
Bastò un cenno di assenso da parte dell’amica per mettere in moto tutto. Per dare all’inizio una fine.
E perché Tokyo facesse sì che “la fine” fosse solo l’altro capo del filo intricato del destino; un nuovo principio.
 
Tokyo i segreti non li sapeva tenere, amava tenerli nascosti quel poco che bastava per alimentare la curiosità di chi cercava risposte.
 
 
 

note dell'autrice:
I'm still alive.
Chiedo scusa in primis per l'attesa, purtroppo tra lavoro, università e febbre non ho davvero avuto un attimo di respiro e sarà così fino a dicembre perciò vi chiedo davvero tanta pazienza. Chiedo venia anche per il capitolo davvero corto...me ne rendo conto, sono tornata ai tempi delle prime ff quando scrivevo pochissimo. (Vi ho abituati troppo bene con le 15 pagine di un tempo! ahaahha!). Purtroppo il tempo è poco al momento e per non tenervi senza nulla sono costretta a fare in questo modo, mi auguro possiate apprezzare comunque la storia nonostante ci siano poche cose da leggere. 
Come avrete notato il capitolo è "diviso in più parti". Era mia intenzione dividerlo in due...se riesco a fare il prossimo più lungo sarà così, altrimenti sarà "spezzato" in tre.
Ultimissima cosa...l'ultima parte è un flashback. Solitamente uso il corsivo, ma essendoci dei pensieri di mezzo ho optato per la dicitura. Spero comunque che si capisca...Ho ripreso delle battute dall'ultimo capitolo di Stockholm Syndrome.
Per ora è tutto. Grazie a chi è ancora qui a leggere e a commentare ogni volta. Grazie anche per le mail private che mi scrivete, risponderò sempre anche se in ritardo. Siete mitici!
 

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Capitolo 4
*** Paradise Lost - Part II ***


Nelle puntate precedenti: Breve riassunto per riprendere le fila dei primi tre piccoli capitoli di Kissing The Dragon, il sequel di Stockholm Syndrome, per chi non ha voglia ( e direi…giustamente!!!  visti i tempi epici) di rileggere i primi capitoli postati qui in passato. Ma prima…facciamo un passo ancora più indietro, cosa è successo alla fine di Stockholm Syndrome? Semplice e conciso. I buoni hanno trionfato sui cattivi! Haruka e Akira hanno ucciso l’Oyabun e il perfido Daisuke, unico in corsa con la biondina, per il posto in lizza come nuovo capo clan. E in questi tre capitoli? Akira, Haruka e Minako si sono rifugiati ad Osaka. Setsuna e Rei sono andate a convivere ma pare che qualche minaccia (forse un tradimento da parte di Setsuna?) incomba sulla loro relazione. Nel cuore della notte le due agenti vengono chiamate sulla scena di un crimine. Pare si tratti di un suicidio e che il fattaccio coinvolga uno yakuza. Haruka e Michiru si ritrovano a Tokyo e dopo una notte di passione passata assieme, una chiamata interrompe l’idilio d’amore delle due. Nel frattempo, Akira è stato licenziato dal ristorante in cui lavorava e Minako prosegue nel suo percorso d’infermiera. I due s’imbattono in un losco yakuza del clan di Osaka che si presenta come il fratello di Daisuke. Flashback di qua e di là, per ulteriori dettagli…i capitoli sono qui!
Non basta dirvi grazie. Continuano ad apparirmi sempre nuove persone, con i loro like, alla mia pagina fb e io non posso rimanere indifferente verso il vostro affetto e la curiosità che avete verso i miei “lavori”. Quindi, ancora una volta, questo è per voi.
Kat.

 
 
 

Kissing The Dragon
Capitolo 3
Paradise Lost – Part II

 
 

Inferno, nono cerchio. Haruka di lì a poco si sarebbe sentita come se stesse pattinando sulla lastra ghiacciata del lago Cocito[1] sul fondo dell’inferno. Lo scrosciare pacifico e incessante delle onde di Osaka aveva abbandonato il suo udito da qualche ora per poi catapultarla nella frenesia e il caos di Tokyo.
Aveva lasciato fuori dal motel, con solo un bacio frettoloso, la sua venere poiché all’altro capo del telefono la voce di un’altra donna aveva avuto il suono di una minaccia.
Respirò profondamente, ma quel che il ragno nipponico offriva era solo veleno. L’aria pesante intrisa di smog non avrebbe fatto differenza col fumo di una sigaretta. Di qualche morte si deve pur morire, ma Haruka era certa che prima dei polmoni neri di catrame ci sarebbe stato qualcos’altro a portarla dritta dritta nella tomba.
 
“Da quanto tempo…”.
Setsuna accennò ad uno stiramento di labbra che ricordava vagamente un sorriso nel dire quelle parole.
“Non posso dire sia un piacere” recise la bionda, trattenendo la tensione nelle tasche dei pantaloni dentro le quali affondò le dita.
“Brutta sveglia?”.
“Ricordami perché stiamo conversando e non sono a spassarmela con la mia donna, ti prego”.
“Perché il patto era questo. Collaborazione o finir dentro a vita e ti giuro…che nessun maledetto mafioso infiltrato avrebbe potuto tirarti fuori da una gabbia chiusa dalla sottoscritta”.
Uno scintillio tagliente si scagliò dagli occhi chiari di Haruka in direzione di quelli scuri della donna più grande.
Haruka non aveva mai avuto paura dei piedi piatti, poiché, in fin dei conti, aveva vissuto con mostri ben peggior sin da bambina. La yakuza non era certo una palestra da poco.
“Buh!”. Fu un suono secco e inaspettato quello che esclamò senza alcun preavviso per poi bypassare l’agente e sgattaiolare al di sotto del nastro giallo come se non si fosse appena comportata in modo irriverente e bambinesco.
“Non ti addice tutta quest’aria da dura. Ma ti rispetto, più o meno, quindi veniamo al dunque” sentenziò poi Haruka.
Setsuna contò fino a cinque e si trattenne dall’abbassarsi al livello di quella che per lei corrispondeva a niente poco di meno che feccia umana visto la categoria alla quale apparteneva. Le fece strada sino all’interno venti dove un paio di colleghi della scientifica facevano il loro dovere e Rei avanzava silenziosa qualche ipotesi che confidava soltanto al suo taccuino.
Haruka sentì lo sguardo della mora poggiarglisi addosso, bruciava come fuoco vivo ma la cosa non la intimidì. Dovette mandar giù più di una battutina sarcastica per proseguire in silenzio e a passo sicuro fino a ritrovarsi nella stanza dove era avvenuto quello che era stato catalogato come un suicidio.
Due uomini si erano premurati di togliere il cadavere dalla posizione in cui era stato trovato adagiandolo prono. Lo sgabello era ancora lì, come la corda al collo dal nodo ben saldo e tutto il resto.
Gli occhi celesti della bionda si piantarono gelidi sulla carne pallida e fredda della vittima per poi seguire con un guizzo di pupille un enorme tatuaggio raffigurante un dragone che stringeva tra le fauci una rosa color cremisi.
“Horimono[2]”. Fu solo un sibilo quello che le rotolò fuori dalle labbra ma Setsuna, da brava detective, lo intercettò nonostante il tono quasi inconsistente.
“E’ uno yakuza, non è vero? Lo conosci?”.
Un assenso del capo anticipò il resto della frase della bionda che si avvicinò di più al defunto.
“Ne sono certa…” si chinò senza staccare gli occhi dal corpo, stringendo appena le palpebre come a mettere a fuoco qualcosa di impercettibile.
“Gli horimono non sono solo un simbolo di appartenenza” sentenziò. “Sono anche sintomo di coraggio e resistenza al dolore…la tecnica è differente da quella del tatuaggio moderno. Gli horimono vengono fatti alla vecchia maniera, si usano una serie di aghi fini, fissati all’estremità di un pezzo di bamboo che ti vengono conficcati nella pelle grazie alla maestria manuale dei pochi tatuatori che ancora oggi eseguono questa antica tecnica”.
“Ne hai uno?” una genuina curiosità macchiò la voce di Setsuna che subito si pentì di essersi lasciata andare a quella confidenza che aveva riservato all’altra giovane donna.
“No, ma conosco bene chi ne ha”.
“Non mi hai ancora detto se lo conosci”.
Haruka tentennò. Cantare alla polizia non era poi qualcosa di malvisto dalla ikka[3], ma questo solo se venivi sbattuto in galera per guadagnarti il rispetto dei propri fratelli. Lei stava facendo “l’uccellino” ma proprio per incriminare qualcun altro e starsene in libertà. Stava giocando al contrario un gioco molto pericoloso cercando di cambiarne le regole.
“So a che gang appartiene se è questo che vuoi sapere. Nome e cognome li trovi sul campanello no?!”.
Ora la tensione aveva preso corpo nel tono di Haruka anche se cercava di non darlo a vedere. La sensazione che l’inferno stesse ruggendo sotto ai suoi piedi si fece più forte, forse complice l’odore di putrefazione che si stava insinuato prepotentemente nelle sue narici, facendosi strada sino al suo stomaco.
“Porca puttana…”.
Setsuna non si meravigliò di quel linguaggio, anzi era fin troppo poco colorito per appartenere ad una poco di buono del genere.
“Qual’è l’organizzazione in questione?” incalzò incurante del malessere che stava pervadendo sempre più velocemente l’altra.
“La mia”.
Con la sua ultima risposta Haruka si dileguò, prima di essere arrestata per aver vomitato sulle scarpe di un pubblico ufficiale.
 

***

 
“Dobbiamo dirlo ad Haruka”. Minako non intendeva perdere la calma, ma l’incontro con il parente di quello che ora era un morto cementificato non le aveva reso il compito di mantenere la calma facile.
“No, me la sbrigo io” disse Akira risoluto nell’aprire un borsone grigio e infilarci alla rinfusa più vestiti possibili dall’armadio.
“Che vorresti dire?”.
Minako non riuscì più a rimanere seduta immobile sulla sedia. Se Akira non aveva il coraggio di guardarla negli occhi o stava mentendo o non voleva farle vedere quanta paura covava sotto quelle lande desolate che si portava nelle iridi.
“Che risolverò tutto, Mina”. Rispose rapido e conciso, altrimenti con troppe parole avrebbe rischiato di cadere in fallo e dirle chiaro e tondo che stava pensando alla sua amica, ormai a riposo da un po’, che comunicava solo con acciaio freddo e pallottole.
In fin dei conti era solo un uomo e non era detto sarebbe stato in grado di scoprire cosa fosse accaduto al fratello, ammesso non fosse riuscito a trovare il cantiere giusto e poi a sciogliere il cemento sotto il quale riposavano l’Oyabun e Daisuke. E se anche fosse stato perché i sospetti sarebbero dovuti cadere proprio su di loro e non su qualche altro disgraziato immerso sino al collo nella mala vita?
Non dovevano farsi prendere dal panico, ecco la soluzione. Era stato un solo sfortunato incontro il loro, nient’altro.
“Mina dovresti andare…”
“Da nessuna parte!” interruppe secca lei sbattendolo fuori dal proprio groviglio di congetture che l’aveva tenuto legato fino a quel momento.
La ragazza poggiò le mani su quelle del fidanzato per fermare quella frenetica e disordinata corsa al bagaglio.
“Akira…” la voce era un sussurro, non era spezzata da incertezze ma solo bassa come a confidargli un segreto che in realtà l’altro avrebbe dovuto conoscere sin troppo bene.
“Non vado da nessuna parte senza di te”.
Minako quel giuramento lo aveva fatto a sé stessa sin da quel giorno di pioggia in cui lo incontrò per la prima volta. Benché al tempo non avesse la benché minima idea di chi fosse lei era sempre stata certa di una cosa: le anime sono fatte per incontrarsi e la sua, senza far alcun rumore, si era incastrata sin da subito alla perfezione con quella di Akira fino a diventare indivisibili. Non avrebbe mai abbandonato un pezzo della sua anima, nemmeno se fosse stato l’ultimo giorno sulla terra.
 
“Sei una testarda”.
“Però mi ami” sorrise lei.
“Però ti amo”.
 

***

 
 
Ancora nessuna chiamata né tanto meno nessun sms.
Il numero di cellulare di Michiru sembrava esser stato dimenticato dal pianeta terra un po’ come lei era stata lasciata a sé stessa.
Abituata ai colpi di testa di Haruka e al suo temperamento poco flessibile condito di assenza di spiegazioni esaurienti, Michiru non aveva indagato. D’altro canto nei mesi trascorsi la vita aveva seguito il normale corso senza singolari soprese degne di un film poliziesco, anche se questa volta un piccolo noioso tarlo sembrava volerla metterla in guardia.
La sua era solo una sensazione, niente di fondato, ma l’ammutolirsi di Haruka alla cornetta e il suo allontanarsi quanto bastava per riprendersi i vestiti e non farle udire la conversazione al cellulare le aveva insinuato il seme del dubbio dentro.
Niente paranoie Michiru. Haruka è fuori dai guai ormai…
Michiru varcò l’ingresso dell’Aiiku Hospital dirigendosi alla sala d’attesa principale dove prese posto su una delle sedie scomode che erano libere.
Accavallò elegantemente le gambe, poggiando la pochette poco più sopra del ginocchio destro e con lo sguardo scivolò oltre la reception e il banco informazioni verso le porte del reparto come in attesa di qualcuno.
“Signorina Kaiō!" una voce gioviale ed un largo sorriso attirarono la sua attenzione.
Michiru sorrise di ricambio e si alzò per porgere un piccolo inchino al medico.
“Dottor Chiba è un piacere vederla!”
“Sicuramente meglio in queste condizioni che in quelle passate!”. L’uomo azzardò un occhiolino soffocando una risata con un gesto educato della mano davanti alle labbra.
Mi fido di Haruka. Mi sono fidata di lei persino quando non era esattamente la persona di cui fidarsi.
Le parole del giovane le fecero tornare alla mente stralci di ricordi che prontamente Michiru cercò di scrollarsi di dosso fino a farli cadere sotto ai tacchi delle scarpe.
Quando era per strada e l’ombrello faticava ad aprirsi o un furgone scuro le passava di fianco andava ancora automaticamente in apnea*.
“Mi dica dottor Chiba, come se la cava mia sorella Ami?”.
“È un’ottima studentessa, non deve preoccuparsi! Se posso chiederglielo come mai è qui? Ha bisogno per una visita a qualcuno o…”.
“No, no” Michiru stroncò la preoccupazione del medico sul nascere con un gesto delle mani. “Ero solo passata per la pausa pranzo di Ami”.
“Allora la lascio a sua sorella, tra qualche minuto sarà sicuramente qui”.
Michiru s’inchinò ancora una volta con le onde acquamarina sul volto e per la prima volta in tutta la giornata il suo cellulare vibrò quasi con fare insistente.
Lo estrasse dalla borsetta e con un tocco della punta del dito sul display visualizzò un unico messaggio da parte di Minako.
 
Torniamo tutti a Tokyo.
 
Non sapeva il perché, ma la frase le suonò come qualcosa di nefasto.
Un tuono rimbombò nell’atrio comprendo la voce di Ami ancora a qualche passo da lei.
Gli occhi di uno sconosciuto la costrinsero ad alzare lo sguardo dallo schermo perché troppo insistenti.
L’uomo prese distrattamente contro ad Ami.
Un lampo illuminò la stanza prima di un altro boato e in quel fascio di luce improvvisa, nel frangente di un secondo, a Michiru in quel viso mai visto prima, sembrò di riconoscere i tratti del volto di Daisuke.
Schiuse le labbra, sentendo bruciare i polmoni.
Le gambe le si fecero improvvisamente molli.
Lampo, tuono e poi buio.
“Michiru!”.
La voce di Ami divenne solamente un lamento lontano.
 
 

***

 
Haruka pareva avere il vento dalla sua parte. Scese di corsa le scale come se alle calcagna avesse il suo peggior nemico per poi uscire dal palazzo e prendere un respiro profondo. Dovette prostrarsi in avanti, poggiando le mani alle ginocchia per poter far arrivare più a fondo l’aria che sembrava preferire stare alla larga dai suoi polmoni.
Il numero venti, il numero dell’interno nel quale del quale aveva appena varcato la soglia non l’era passato inosservato. Quello era solo un indizio più a confermare che quello morto stecchito era una suo collega.
“Cristo santo”.
“Davvero credi in qualcosa? Non ti facevo una tipa spirituale”.
Gli occhi cobalto si sgranarono per la sorpresa incrociando onice profondo e cupo.
Credo solo in me stessa. Se lo tenne per lei ma lo pensò fortemente nel riprendere la normale posizione eretta e rivolgersi verso la sua interlocutrice.
Rei spiccava in bellezza e sensualità, si domandò come una tipa del genere trovasse qualcosa in un bacchetto rigido come l’agente Setsuna.
Strano l’amore. E lei lo sapeva bene, visto che la sua donna non aveva potuto scegliere partito peggiore.
“Credevo fossi abituata a certe scene”. Rei parve quasi soddisfatta nello sputare sentenze, c’era una sorta di superiorità nella sua voce e lo sguardo fiero con cui la guardava riversò bile nello stomaco della bionda.
“Sono abituata a peggio. Scommetto che se fossi stata al mio posto non saresti durata un giorno…”.
“A me pare che tu abbia solo una gran voglia di vomitare e stia parlando a vanvera”.
Negli specchi cupi di Rei si specchio il riflesso di un fulmine in lontananza.
“Sta per piovere…” disse alzando lo sguardo sugli stralci di cielo cupo che facevano capolino tra le antenne e le parabole dei palazzi che arrivavano con i loro tetti a solleticare il cielo.
“Errato ancora una volta, sta già piovendo”.
Due grossi goccioloni bagnarono le gote di Haruka, altri due le macchiarono la stoffa degli abiti.
 
La scia di acqua piovana.
Tornerà a galla tutto se continua a piovere.
 
L’inferno stava chiamando a raccolta i suoi ricordi blindati in un angolo buio della sua mente di cui aveva voluto gettare la chiave nel mare di Osaka.
“Idiota, sta piovendo a dirotto!”. Rei alzò la voce per farsi sentire e corse sotto la tettoia che copriva la porta d’ingresso del palazzo mentre l’altra si stava inzuppando.
La mente di Haruka cercò di aggrapparsi al presente e intercettò sull’asfalto ormai scuro di pioggia il taccuino di Rei. Si era ribaltato e su se stesso e il cartoncino scuro che faceva da copertina riportava un numero di telefono che Haruka riconobbe immediatamente.
“Mimì!”.
“Cosa? Cosa dici? Non ti sento! Fa un rumore del diavolo questo temporale!”. Rei, cercando di asciugarsi il più possibile notò il labiale dell’altra nel raccogliere il suo notes.
“Hey, quello è mio!” tornò sotto l’acqua per recuperare i suoi appunti e fece per strapparglielo di mano.
“Cosa ci fai col numero di Mimì?”
“Chi?”
Haruka le indicò il numero ormai sbiadito sulla copertina.
Il notes lo aveva preso da casa di Setsuna.
“La conosci?”
“Faccia d’angelo, piccola di statura ma con tutte le curve al posto giusto. Le ho sempre visto in testa dei colori piuttosto stravaganti ma il colore di capelli naturali è…”
“Moro…” intervenne l’altra ricordando Setsuna parlarci in uno squallido vicolo al riparo delle luci delle insegne di Kabukichō.
“Tu…” Rei venne interrotta dallo squillo del cellulare di Haruka.
La bionda incurante di tutta quell’acqua e un possibile malanno in arrivo rispose al cellulare.
All’altro capo la voce di Akira le disse quanto bastava.
 
“Ken Azuma temo ci stia braccando. Arriviamo a Tokyo”.
 
Tornerà tutto a galla.
Troppa umidità.
Cemento, Haruka. Sono morti devono stare sotto terra…
 
Haruka persa nuovamente nella sua mente interruppe la chiamata.
“Tornerà tutto a galla” si ritrovò a rantolare con le falangi a tirare la chioma ormai biondo scuro.
 
Il nono girone la stava aspettando.
L’inferno aveva liberato i suoi diavoli peggiori per trascinarla al suo posto.
Il loro paradiso era un sogno lontano, ormai era perduto. E forse anche Tokyo stava piangendo tanto disperata bagnando ogni vicolo, ricordo o segreto più nascosto.
 
 

 

Note dell'autrice:
Cercherò di non essere prolissa come mio solito nel mio angolino o viene qualcosa di più lungo del capitolo! Eccomi qui! Sono passate ere giurassiche, ma per San Valentino (nonostante di cuoricini qui non ce ne siano!) volevo farvi un piccolo regalo per ringraziarvi del vostro perseverare. Ormai manca un mese alla laurea e sono davvero stufa di dover scrivere come dice la relatrice, forse anche per questo sono riuscita in serata ieri a farvi un questo capitolo. Nonostante il tempo passato sono riuscita a riprendere le fila e ho deciso di non guardare i vecchi appunti così che venisse tutto più spontaneo. Credo di esserci riuscita e spero che piaccia a chi non si è dimenticato di questa storia e delle precedenti. Vado già a scrivere il prossimo e per le curiosità, le spiegazioni e tutto il resto c'è sempre la mia pagina. Grazie ancora ad ogni persona che non molla!
 
*La frase fa riferimento al capitolo “abduction” di Stockholm Syndrome dove Michiru viene rapita. Il tutto accade nel momento in cui ad Ami s’inceppa l’ombrello e Michiru viene caricata sul furgone nero da Haruka.

 
 
 
 
 
 
 

 


[1] Mi riferisco all’inferno di Dante. Cocito sarebbe il nome di uno dei fiumi infernali per la mitologia greca, ma Dante lo descrive come un lago ghiacciato, situato sul fondo dell’inferno (nono girone, quello dei traditori), nato dal battito di ali di Lucifero.

[2] Nome del tatuaggio yakuza

[3] Come già detto nel prologo la ikka è “la famiglia” yakuza. Famiglia non intesta con legami di sangue ma costituita da tutti i membri appartenenti ad uno stesso clan.

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Capitolo 5
*** La regina rossa ***


Kissing The Dragon
Capitolo 4
La regina rossa
 
 
Kabukichō sapeva come spassarsela alla grande. Quartiere trasformista di giorno mostrava la faccia tranquilla e di notte diveniva cantiere di sogni perversi, fantasie oscene e baccanali a non finire. Tokyo le aveva donato un soprannome adatto solo ad una bellezza del genere “Sleepless town”, città senza sonno dove si concentravano love hotel, night club, strip club, case chiuse e discoteche per soli uomini. Kabukichō faceva la preziosa, mostrava le sue meraviglie spesso solo a chi scorreva in corpo sangue giapponese lasciando agli stranieri la bocca arida come avessero percorso chilometri nel bel mezzo del deserto senz’acqua.
 
“Sento la tua puzza di pesce fin qui”.
Una giovane ventisettenne dai lunghi capelli rossi raccolti in due code morbide sedeva su quello che aveva tutta l’aria di essere un trono. Attorno a lei sei energumeni dall’espressione poco rassicurante vestivano di nero e sedevano in posizione seiza[1] come fossero pronti a fare seppuku[2] se solo la donna lo avesse ordinato.
“Onee-sama”. L’uomo si prostrò in un inchino profondo e lei deliziata a quella visione ridacchiò soddisfatta accavallando una gamba sull’altra per poi puntare un gomito al bracciolo del suo eccentrico trono cremisi.
Era annoiata dallo stare lì a gestire tutte quelle puttanelle che dovevano solo far divertire i loro clienti per guadagnare una barca di denaro che lei avrebbe poi sperperato per quel che riteneva più giusto.
“Che fai non ti scusi per il tuo puzzo?” inarcò il sopracciglio mentre l’uomo al suo cospetto senza alzare lo sguardo respirò a fondo pronunciando un “è imperdonabile il mio olezzo, mia signora”.
“Odio Osaka, qui mi piace di più!” esclamò lei leccandosi le labbra. Non capisco come il nostro clan possa avere la sede in un posto del genere. Sbuffò, alzò le iridi al cielo e sbatté le ciglia un paio di volte. Ma quel viscido topo di fogna, come lo riteneva lei, chinato al suo cospetto era diventato una piacevole distrazione da quel lavoro notturno.
“Sei venuto qui per baciarmi i piedi o hai qualche buona notizia per me?” indagò lei giocherellando con una ciocca infiammata che le ricadeva sui seni fasciati da un succinto top nero dalla trama amaranto vagamente orientaleggiante.
“Hanno ricevuto l’avvertimento”.
“E come hanno reagito?” domandò visibilmente incuriosita spostandosi in avanti con tutto il corpo.
“Scappano tremanti ed impauriti al loro covo, Onee-sama”.
La giovane parve soddisfatta e provò un malsano piacere da capo a piedi per ciò che le era stato appena riferito.
Amava la paura, era la sua emozione preferita. La paura se non la sai usare a tuo vantaggio ti fotte il cervello ma se riesci a domarla allora sarà la tua via di salvezza. Per lei la paura era un’arma a doppio taglio ma anche potere immenso e non a caso, tutti quei bastardi al suo cospetto, se li era guadagnati schiacciandoli proprio sotto quel tipo di emozione.
“Goditi qualcuna di queste aitanti bellezze Azuma. Per sta sera sei il mio orgoglio”.
La Sakaume – gumi aveva appena annunciato a Tokyo che qualcun altro da temere e  rispettare era arrivato in città.
 
***
 
“Che diavolo è successo?!”
Haruka aveva l’aria di un’invasata nel varcare la soglia della stanza sterile ospedaliera.
“Sarà stato il tuo disinteresse ad avermi fatto collassare! Brutta bestia l’amore” disse in tono scherzoso Michiru con un leggero sorriso ad illuminarle l’incarnato di porcellana.
Haruka non colse l’ironia dell’altra e ancora in preda alle palpitazioni e al terrore che qualcosa di terribile fosse accaduto all’unica cosa preziosa della sua vita si avvicinò al lettino senza salutare Ami, seduta al capezzale della sorella intenta a guardare i valori degli esami a cui l’aveva sottoposta.
“Non scherzare”.
“Okay, credo sia ora che io vada!” esclamò Ami con la sensazione addosso di chi si trova tra due fuochi. “Ritiro solo l’ultimo accertamento e…”.
“Si ecco. Ribaltatela da cima a fondo non voglio sia escluso niente!” la interruppe la bionda sotto lo sguardo incredulo di Michiru.
“Haru, non sto morendo…”
“Ami, puoi confermare?”
La specializzanda ridacchiò imbarazzata accennando poi col capo un gesto affermativo per poi dileguarsi lungo il corridoio.
“Quindi dove sei stata tutto il giorno?” cercò di distrarla Michiru sospirando per poi far frusciare con un movimento del braccio il filo della flebo sul lenzuolo ancora intonso e piegato.
“Prima tu” incalzò l’altra sedendosi al posto di Ami.
“Ho solo avuto un attacco di panico, penso si possa definire così. Nulla di più. Ovviamente Ami, per prevenire forse ogni tua paranoia, ha ben pensato di ribaltarmi come un calzino così da escludere persino un raffreddore”.
“L’ho già detto che tua sorella è una persona intelligente e ha la mia stima?”.
“Non penso ma l’avevo già intuito…”.
Il ticchettio dell’orologio a muro scandì quaranta secondi di silenzio nella stanza. Haruka ritrovò il suo self-control e il suo momentaneo esser logorroica svanì sotto la sua solita soglia. Le era preso un colpo quando aveva saputo che Michiru si era sentita male in sua assenza, così non era più riuscita a mettere un freno alla lingua oltre che alle buone maniere, visto e considerato che il taxista chiamato non era stato pagato adeguatamente per il suo servizio – a causa della fretta della bionda – e si era pure beccato un paio d’insulti da lei.
Michiru sospirò allungando una mano verso la sua ragazza e azzerare le distanze tra loro. Senza grande sforzo riuscì ad intuirne la preoccupazione anche se non sapeva se fosse tutto dovuto al suo mancamento o meno. Leggeva Haruka come fosse un libro aperto, il suo preferito per inciso, quello che se anche lo si rilegge più e più volte non risulta mai noioso.
Intrecciò le dita tra i fili d’oro della sua frangia e con voce pacata le domandò nuovamente ciò che aveva già chiesto in precedenza.
“Che è successo?”.
“Ho preso un acquazzone in testa…” tergiversò.
“E oltre a questo?”
“Setsuna mi ha chiamata”.
“Ah”. Michiru fu tanto stupita da rimanere per qualche istante senza parole. Non riusciva a trovare una ragione per cui Haruka fosse stata convocata dalla poliziotta a meno che non si fosse cacciata in qualche guaio. Ma con la pazienza di una madre alle prese con un monellaccio si limitò ad aspettare che fosse l’altra a confessare il proprio misfatto.
“Non è stato un incontro romantico”.
“Non fare quella smorfia di compiacimento per il tuo aspetto!”.
“E perché scusa?! Pensi che il mio fascino non abbia potere su di lei?”.
Michiru si lasciò andare ad una risata, alle volte era davvero difficile rimanere impassibili davanti al buffo egocentrismo di Haruka.
La sua mano discese dai capelli agli zigomi fino a trovare quella dell’altra come a farle capire che poteva fidarsi ancora una volta, che avrebbe potuto farlo in eterno. Bastò quello senza alcun incitamento a parole per farla sbottonare quel po’ che bastava per far intravedere uno spiraglio della sua giornata a Michiru.
“Collaboro con la polizia…dovrò tornare a Tokyo”.
“Da yakuza a poliziotto?! Che salto di carriera!”.
“Sono una donna dalle mille risorse”.
“L’ho sempre sospettato. E dimmi…è una novità?”.
“E’ una novità. Per oggi può bastare l’interrogatorio agente Kaiō?”.
“Direi di sì”.
“Allora dammi un bacio e scappiamo! Come al solito…”.
“Dovrai portarmi in spalla”.
“Come un sacco di patate”.
“No, come una signora!”.
“La signora dei sacchi di patate!”.
“Che maniere!”.
“Di che hai avuto paura?” domandò senza alcun preavviso Haruka per poi avvicinarsi al viso di Michiru. “Devi aver avuto paura di qualcosa per essere stata vittima di un attacco di panico…” . Soffiò sulle labbra dell’altra, affondando col suo sguardo blu intenso negli specchi d’acqua che la fissavano.
“Mi prenderai in giro se te lo dico?”.
“Michiru”.
“Ok. E’ solo che…” Michiru indugiò un momento e ad Haruka parve che l’elegante sicurezza dell’altra vacillasse come un lampadario a vetri sotto le scosse di un terremoto.
“Solo che…?” la incalzò impaziente la bionda senza riuscire a trattenersi oltre.
“Credo di aver visto un fantasma”.
Seguì un istante di pausa in cui gli unici rumori erano quelli ovattati al di fuori della stanza in cui si trovavano loro due.
Haruka non era superstiziosa ne tanto meno una che credeva a certe cose, eppure sentì chiaramente la spina dorsale venir percorsa da una scarica di brividi nel momento in cui Michiru le rivelò di quale fantasma stesse parlando.
 
“Assomigliava a Daisuke”.
 
Ken Azuma ci sta braccando. Le parole di Akira, come una profezia funesta, le tornarono alla mente in quel preciso momento.
E se la sua vera preda fosse chi ci sta vicino?
Gli incubi peggiori stavano prendendo vita nella mente di Haruka.
Non avrebbe mai permesso che Michiru fosse preda di un occhio per occhio, non in questa vita e tanto meno in qualche altra.
 
***
 
Setsuna si strinse nel cappotto.
Anche tra gli alti palazzi di Kabukichō il vento soffiava impietoso quella sera.
Tre ragazze in vetrina, vestite di sola biancheria intima bianca, giocavano dentro ad una vasca tirandosi acqua e sapone addosso per gli sguardi di qualche cliente voglioso.
Setsuna, col suo tipico cipiglio severo, guardò dritto davanti a sé per incrociare la sola figura con cui aveva appuntamento.
Sulla strada principale del quartiere, tra la folla di uomini che comprendeva i più disparati strati sociali della popolazione cittadina, qualcuno la stava pedinando a distanza.
Un paio di all stars nere dalla suola consumata macinava l’asfalto confondendosi in mezzo a tutto quel brusio senza mai perderla di vista.
L’agente Meiō, in borghese, si bloccò davanti ad un host club e con fare disinvolto strinse il nodo dell’impermeabile beige piantonando con le pupille la porta del locale di fronte a sé.
“Sembri sempre così arrabbiata!” la voce che la raggiunse era squillante, pareva uno scampanellio. “Brutta serata, agente?”. Una mano pallida e affusolata le si poggiò sull’addome agganciandosi poi al nodo di stoffa che chiudeva l’indumento beige quasi a volerglielo sfilare di dosso.
“Non particolarmente”.
L’altra rise. Era una ragazza esile, di bassa statura con una lunga frangetta a coprirle la fronte che pareva volersi impigliare con le lunghe ciglia folte finte nere.
La chioma corvina era raccolta in due treccine che ricadevano morbide sulla scollatura troppo ampia che metteva in mostra i piccoli seni sodi.
Anche chi pedinava Setsuna si bloccò. Si fermò davanti ad un cowboy club notando la vestita da scolaretta hot della più giovane e del suo approcciarsi all’agente.
“Hai un nome da darmi?”.
La ragazza si guardò attorno vigile, parve trattenere il fiato e con una moina scroccò ad un passante sigaretta e accendino. Una palpata al sedere fu uno scambio equo e tornò a rivolgersi a Setsuna con un tono di voce più basso da quello con cui l’aveva accolta.
“So solo che la chiamano la regina rossa…”. Prese una boccata di fumo, poi allargò un poco le labbra e provò a fare un anello con scarso successo.
“Non è una con cui si scherza. O almeno così si dice. Ma posso dirti per certo che sebbene sia da poco in città è una che conta eccome”.
“Non puoi dirmi di più?”.
Questa volta lo sbuffo di fumo le scivolò fuori dalle labbra andando a solleticare il mento di Setsuna.
“Oh agente…” la cicca cadde a terra e le mani con lo smalto nero alle unghie presero a giocherellare con il bavero della giacca della donna. “Per sta sera ho finito la mia pausa, saranno guai se non rientro. I pervertiti hanno poca pazienza e i datori di lavoro ancora meno…”.
“Mimì, potrei portarti via da tutto questo schifo”.
“Non si fanno promesse alle persone che sguazzano in mezzo a topi di fogna e gente pericolosa”.
Mimì ammiccò, sorrise a Setsuna e con una piroetta fece per tornare al locale.
“Quelli che fanno il mio mestiere non hanno paura di…”
“Non ho mai detto di voler essere salvata” la interruppe così. Con una frase un occhiolino malizioso e una sculettata disinvolta come saluto.
La donna segnò su uno scontrino la dicitura regina rossa. Raccolse il mozzicone in onore del suo senso civico per riporlo in un apposito contenitore a un paio di metri da sé, mentre la sua ombra dalle all star nere si dileguò in mezzo a quel caos di corpi.
 
 
***
 
 
Benché avesse nuovamente messo piede a Tokyo, Akira non aveva avuto il coraggio di tornare al suo vecchio appartamento. Con Minako al suo fianco – attaccata al cellulare da circa venti minuti per riorganizzare la propria vita – aveva deciso di non disfare ancora le valige e trascinarsele dietro poiché Haruka pareva non potesse aspettare oltre per incontrarlo.
I due si sedettero al tavolino di un eccentrico caffè nel cuore di Shibuya in attesa della loro compare.
Minako finalmente tagliò il suo “cordone ombelicale” col telefono sospirando pesantemente da quella che per lei era stata una vera e propria faticata.
“Fatto, ho sistemato tutto. Farò tirocinio nello stesso ospedale di Ami” affermò soddisfatta per poi abbandonarsi con la schiena al morbido schienale rosso che le stava dietro.
“Torneremo al quartier generale?” domandò poi perdendosi con lo sguardo sulla vetrina dei dolci poco distante da loro.
“Non so se sia il caso Mina…” sentenziò all’erta Akira.
In ogni momento sarebbe potuto sbucare qualche Yakuza del proprio clan e fare domande scomode. Sentiva l’acciaio freddo della propria revolver contro la pelle del ventre pronta ad essere estratta in caso di bisogno. Ad Osaka aveva dimenticato quella sensazione, quella di essere costantemente sul filo del rasoio, braccato come un animale in fuga da un cacciatore.
“Ci sono abituata ai brutti ceffi, dovresti saperlo” sostenne lei, attorcigliandosi all’indice una lunga ciocca di capelli biondi.
Akira capì che stava parlando a vuoto perché per quanto la fidanzata non smettesse di blaterare la sua attenzione era diretta alle squisitezze esposte al bancone.
Non cambiava mai lei, il mondo poteva essere in continuo mutamento ma Minako rimaneva una certezza con tutte le sue stramberie.
Si ridestò da quei pensieri solo quando riconobbe la figura alta e magra di Haruka farsi strada all’interno del locale.
“Perché non scegli tu qualcosa per tutti e tre Minako? Di certo sei quella che se ne intende di più”.
Alla ragazza non parve vero di aver voce in capitolo senza che nessuno si opponesse. Non se lo fece ripetere due volte, scattò in piedi con gli occhi luccicanti di emozione e con un saluto frettoloso all’amica appena arrivata annunciò che non avrebbe deluso nessuno.
“Torno fra poco!! Siediti Haruka, penso a tutto io! Vedrai che bomba che ti faccio avere!”.
“Bella dolce mi raccomando! Che il caratteraccio di Haru bisogna smussarlo con lo zucchero quando non c’è Michiru nei paraggi!” gli urlò dietro Akira.
“Cosa mi sono persa?” domandò Haruka facendo stridere i piedi della sedia al pavimento dalle piastrelle color fluo.
“Nulla, un diversivo. Come sta Michiru?”.
“Niente di grave. Ha solo avuto un mancamento dovuto ad una brutta sorpresa. Ha avuto un incontro ravvicinato con Ken Azuma, il monco!”.
“Merda”.
“Lo hai detto fratello”.
“Pensi che sospetti qualcosa? Non ti pare strano le stia ronzando intorno per caso?”.
Haruka si sedette sporgendosi sul tavolo per arrivare col viso più vicino all’amico di modo da parlare con un tono più basso.
“Penso solo una cosa ormai Akira…” dovette deglutire prima di pronunciare quelle parole. “Penso abbiamo bisogno della protezione della ikka, o finiremo a fare compagnia a tu sai chi molto presto”.
Il ragazzo si sentì gelare il sangue. La coda dell’occhio le cadde sulle spalle di Minako incurvate per indicare meglio alla barista una fetta di torta dalle chilocalorie innumerevoli.
Non riusciva a far altro che ad immaginare quelle due piccole spalle in una fossa contro le sue.
“Non posso farlo senza di te Akira”. L’amica le poggiò una mano al polso.
Oceano e ghiaccio si scontrarono in uno sguardo che valeva più di mille parole.
“Collaboro con la polizia Akira…possiamo distruggerli dall’interno…”.
“E a Michiru e Minako non pensi?” chiese tra i denti.
“ Non capisci? E' l'unico modo per tenerle al sicuro. L' unico per cambiare le cose una volta per tutte”.
E in quel “E' l'unico modo per tenerle al sicuro” Akira riuscì a carpire tutto quello che nessun altro avrebbe potuto mai.
Sgranò gli occhi portandosi la mano destra al petto. Il dragone sul suo braccio parve prendere vita da quel movimento brusco e inatteso.
“ Chiederai a Michiru…”.
“ECCOMI! Torta con fragole e panna, Tortino di cioccolato e pistacchio con granella di mandorle e…questa cosa coloratissima di cui ho scordato il contenuto ma dev’essere micidiale! Arrivano i frappè! Il tè è vintage ormai. Di cosa state parlando?!”. Minako poggiò il vassoio indagando subito sul loro confabulare vista l’espressione esterrefatta del fidanzato.
“Haruka diceva che…”
“Che ho visto una casa Minako, potrebbe fare al caso vostro. Sembrava carina dal volantino”.  Lo interruppe l’amica per mettere a stroncare ogni germe di curiosità di Minako nei confronti dei suoi piani con Michiru.
“Ah si?”.
“Si. Uno di quegli appartamenti da neo sposini…intimo e accogliente”.
“Oh…” Minako schiuse le labbra incuriosita.
“Eh…” Akira riuscì solo ad emettere quel verso in aiuto all’altra, ancora shockato per tutte quelle novità che gli erano state sputate addosso senza mezzi termini.
“E adesso mangiamo queste…”
“Delizie”, puntualizzò la ragazza.
“Si, delizie” l’assecondò Haruka.
Akira diede un colpetto di anfibio alla punta delle scarpe di Haruka.
La bionda le mollò un calcio al polpaccio per tutta risposta rivolgendogli uno sguardo serial killer, mentre Minako era già intenta a mandar zucchero ai propri neuroni per poi coglierli in fallo al momento più opportuno.
 
 
*** 
 
 
Nelle città senza Mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio… forse alla Luna…
 
Michiru chiuse il libro che riportava su pagine quelle parole, alzò lo sguardo fuori dalla finestra e notò che Tokyo sembrava non possedere nemmeno la luna oltre le stelle. Non quella notte per lo meno. E allora a chi si rivolgeva la gente senza mare e senza nemmeno la luna?
I pensieri divagavano al di là del vetro e solo il passo educato di Ami che entrò nella stanza riuscì a sgrovigliarla da quelle domande inutili e prive di risposta.
“Pensieri profondi?” domandò con cautela e un sorriso a fior di labbra la più giovane.
Michiru scosse in segno di diniego la testa per poi coprirsi un po’ di più col lenzuolo blu di e poggiando Banana Yoshimoto sul comodino.
“Papà è a letto?”.
“Papà è letto”.
Seguì un momento di silenzio interrotto da Ami che ripose il camice dell’ospedale di ricambio, fresco di bucato, nell’armadio della stanza.
“Avevi bisogno di lui?”
“Non proprio. Ma…credo di dovermi spostare definitivamente da Osaka, qui. Credi avranno bisogno di un’insegnante di musica?”.
Ami arricciò le labbra per poi guardarla con sguardo interdetto. “Mi stai dicendo che temi il tuo curriculum non valga a nulla? Puoi stare tranquilla, faranno a botte per te se necessario!”.
In realtà Michiru continuava a pensare al mare. Alla sua buona notte prima di dormire e allo scrosciare mattutino che le dava il buongiorno con la sveglia. A Tokyo ci sarebbe stata Haruka, c’erano solo palazzi a perdita d’occhio anziché la spiaggia che salutava ogni mattina ad Osaka.
“Ti trasferisci perché Haruka è tornata vero?”, nel domandarlo socchiuse la porta così che Yoshio non si svegliasse sentendo parlare della fidanzata donna della sua figlia maggiore.
La risposta arrivò con un cenno di capo ed Ami non le lasciò dire altro.
Sentiva l’eccitazione schizzarle fuori da ogni poro della pelle e non poté trattenersi più a lungo.
“Hai un appuntamento?”
“Cosa?”.
“Qualcosa che ti migliorerà di gran lunga la giornata!”.
Michiru assunse un’espressione confusa ma la sorella fu pronta a togliere quanto meno una buona dose di dubbi.
“Devi andare al tempio Daijingu”.
“Devo?”.
“Assolutamente sì”.
“Oh…ok. Se lo dici tu…vieni con me?”.
“Non posso”.
“Mi spedisci da sola a Daijingu?”.
“Non sarai sola, ho detto hai un appuntamento!”.
“Giusto”. Michiru si alzò dal suo giaciglio pronta a vestirsi di tutto punto poiché se c’era una cosa che non sopportava era quella di apparire sciatta o non curata.
“Devi mettere questo”. Ami le porse una scatola che sembrò apparire magicamente da sotto il suo letto.
“Da quando sei diventata un’illusionista?”.
“Niente magia, è tutto vero! Su, aprila!”.
L’entusiasmo della sorella divenne improvvisamente contagioso e Michiru si ritrovò col batticuore ad aprire la scatola color ciclamino chiusa con un elegante nastro d’organza bianco. Sciolse il fiocco e sotto la velina trovò un abito nero elegante pronto per essere indossato.
“Indossalo, dai!”.
Michiru ubbidì ammirandone la lavorazione in pizzo sulle spalline una volta che l’altra l’aiutò ad allacciarlo sulla schiena.
“Ok, sei pronta. Vai o farai tardi!”.
“Ami, devo ancora truccarmi!”.
“Allora facciamo che ti trucchi in auto, ti scorto io!”.
 
 
Ami che solitamente si distingueva per pazienza e guida cauta al volante quella sera sembrava un’indemoniata. Imprecò contro un paio di semafori rossi cercando di non farsi sentire e osò sorpassare una quantità innumerevole di veicoli per uscire dalla zona più caotica della città.
L’auto percorse chilometri d’asfalto nero per arrivare al grande santuario nella prefettura di Mie sino a fermarsi davanti ad una breve rampa di scale.
“Ce la fai coi tacchi?”.
“Potrei scalarci le montagne!” la rassicurò con un sorriso Michiru scendendo dalla macchina per poi salire scalino dopo scalino.
Più la distanza all’entrata del santuario si riduceva più il suo cuore rimbalzava violento nella cassa toracica.
Una sfilza di lanterne accese illuminava l’ingresso del giardino interno di quel luogo di culto famoso per le promesse d’amore.
“Direi che hai addosso il vestito giusto…” la voce di Haruka accompagnò la sua comparsa fuori dall’ombra.
Michiru quasi non poté credere ai suoi occhi. Quella era la prima volta in cui la vedeva in abiti eleganti.
La bionda pareva essersi messa davvero d’impegno per indossare un completo nero con camicia bianca e tanto di gemelli ai polsi.
“E dimmi…il vestito giusto per cosa?”.
“Per questo?”.
A Michiru le mancò il fiato vedendola inchinarsi davanti a lei intenta nel mostrarle una scatolina blu oltreoceano contenente un piccolo zaffiro incastonato in un anello.
Haruka le aveva regalato una goccia di mare senza saperlo e Michiru non riuscì a fare altro che portarsi una mano davanti alle labbra per lo stupore.
“Non sono una da grande discorsi, ma…”.
“Dillo e basta!” le scappò all’altra in preda all’agitazione e all’entusiasmo che stavano esplodendo in lei.
“Vuoi sposarmi?” recise Haruka accontentandola.
“Si”. Glielo disse in uno scontro di labbra.
Michiru rubò il fiato di Haruka e Haruka lo prese a lei.
 
Daijingu non era mai stata così bella al chiaro di luna e le sue dee avevano appena benedetto un altro amore e un futuro matrimonio.
 
 
***
 
 
Rei era rientrata dopo quella che aveva definito una boccata d’aria addormentandosi al suo fianco. Era qualche giorno che le dava le spalle e il letto in quel modo sembrava più freddo e lei ancor più distante. Setsuna non aveva avuto modo di comprendere quale demone stesse rosicchiando i neuroni della compagna e la rendesse così nervosa e arrabbiata in sua presenza. Di certo lei era una donna adulta, avrebbe dovuto affrontare la cosa di petto, chiedere spiegazioni, ma Rei sembrava essere una ragazzina testarda ed evitava in tutti modi il chiarimento rifugiandosi dietro all’idea che Setsuna facesse la bella faccia davanti a fatto compiuto.
Così, sempre immersa nel lavoro e con poco tempo libero da dedicarle, Setsuna aveva optato per il lasciarle spazio e sbollire in santa pace. Ma qualcosa non stava funzionando nel modo giusto, poiché l’ira verso di lei non pareva esser ancora scemata e si ritrovava a guardare nel buio la siloutte dell’altra senza saggiarne il alcun modo il calore.
 
Una vibrazione e un doppio lampeggio del cerca persone rischiarò il buio della stanza.
Qualcuno la stava cercando e Setsuna maledì la sua reperibilità ventiquattro ore su ventiquattro. Possibile che i bastardi perdessero sempre il sonno a Tokyo e toccava a lei rincorrerli?
Sospirò pesantemente allungando un braccio in direzione dell’aggeggio per controllare il messaggio.
 
Omicidio a Rappongi.
 
Seguiva solo l’indirizzo e nulla più. Ecco perché Rei si ostinava a dirle di buttare quell’affare. Permetteva solo brevi messaggi privi di dettagli perciò lo riteneva qualcosa di altamente inutile.
Esistono i cellulari per una ragione, il mondo è andato avanti Setsuna!
Indecisa se svegliarla o meno si tirò su dal suo giaciglio facendo meno rumore possibile. Se il suo cellulare non aveva squillato in fin dei conti il caso non richiedeva la sua presenza e poteva riposare al contrario di lei.
Setsuna prese camicia, giacca e pantaloni dirigendosi in bagno. Si vestì velocemente, legò i capelli in una coda bassa e indossò solo una volta accanto alla soglia di casa le scarpe. Si voltò verso Rei, non un movimento.
Prese la propria pistola, il distintivo e si richiuse la porta alle spalle.
 
Rei aveva gli occhia aperti e respirava regolare. Abbandonò il letto solo una volta che l’altra mise in moto la macchina e in due minuti fu pronta per uscire. Lei non si diresse a Rappongi, la sua meta era Kabukichō, dove si trovava poche ore prima con le sue all star nere ai piedi. Aveva un conto in sospeso, non poteva aver tempo per gli omicidi se prima non risolveva i problemi presenti nella sua vita privata.
Uno strato di rossetto rosso bastò per renderla sicura di sé e andare ad affrontare quella che era solo una squallida puttana.
 
 
*** 
 
Rappongi Hills, con il suo imponente complesso illuminava a giorno le tre di notte. Setsuna frenò bruscamente sotto l’insegna di un night club frequentato per lo più da turisti. La gente entrava ed usciva come nulla fosse perché l’omicidio doveva essersi consumato nel retro del locale. Un agente in servizio la scortò verso il retro del palazzo aprendole la porta.
“Avete chiamato Ten'ō?” domandò ancor prima di dare un’occhiata alla vittima. Il sottoposto non fece in tempo a fiatare che la voce della bionda le arrivò alle orecchie con la risposta che cercava.
“Ormai è una routine. Per i posti di merda il mio numero risulta sempre nelle chiamate rapide della centrale a quanto pare”.
Era ancora vestita nel suo abito elegante ma decise di togliersi la giacca e lanciarla in faccia al poveretto che aveva accompagnato Setsuna per rigirarsi le maniche sul polso ed essere più comoda.
“Qualcuno me li da dei guanti?” urlò dando ordini come se fosse a casa sua.
Setsuna alzò un sopracciglio nel vederla così a suo agio e Haruka si affrettò subito a darle una spiegazione.
“Non sono una donnicciola non mi fa schifo toccare gente morta, ma sai com’è avete tutte queste formalità voi piedi piatti su impronte, inquinamento di prove ecc. ecc.”.
“Eri ad un appuntamento galante?” deviò il discorso la più grande in attesa che ad entrambe venisse portato qualcosa per poter ispezionare corpo e luogo senza alterare la scena del crimine.
“Siamo già così intime da scambiarci queste confidenze?”.
“Era per far conversazione…”
“Oh certo. Dove hai lasciato la fidanzata? Siete in crisi?”.
“Non sono affari che ti riguardano” rispose risoluta Setsuna ringraziando poi per aver ricevuto i propri guanti.
“Ok, vediamo che è successo qui…” si chinò sul corpo afflosciato su una sedia da ufficio. Era un uomo, aveva i capelli rasati sul lato destro del cranio e ciuffi più lunghi su quello sinistro.
“Bella acconciatura…” commentò sarcastica Haruka per poi infilare una mano nella tasca dei pantaloni della vittima e trovarci qualcosa.
“Un momento…” sibilò riuscendo ad acchiappare quello che al tatto appariva come uno scontrino.
Si rigirò in mano il foglietto accartocciato su se stesso per poi aprirlo e trovarci un piccolo disegno.
“aaah è un artista il nostro amico”. Sentenziò sottoponendolo all’attenzione di Setsuna che nel frattempo aveva ordinato di imbustare un bicchiere ritrovato sulla scrivania alla quale sedeva l’uomo per portarlo ad analizzare.
“Doveva annoiarsi parecchio tra queste scartoffie…”.
“Non credo l’abbia fatto lui” disse Setsuna sgranando gli occhi nel vedere ciò che vi era ritratto.
Una corona rossa. Degna di una regina.
La regina rossa.
“Guardagli la schiena Haruka”.
“Sissignora, non voglio finire in gatta buia per aver disobbedito”.
La bionda con uno strattone spinse in avanti la schiena dell’uomo tirandoli su la maglietta.
“Cazzo…”
“Un horimono?”.
“Si”.
Setsuna non ebbe bisogno di chiedere altro lo intuì dai tratti induriti che assunse il viso di Haruka e dalla mancanza di sarcasmo o battutine che condivano ogni sua azione.
“E’ ancora una volta un membro del mio clan”.
La donna chiese di analizzare l’inchiostro col quale era stato fatto il disegno della corona e di controllare ogni centimetro del corpo ritrovato precedentemente e ora nelle mani dei medici legali.
“Tutto bene?” non le venne da chiedere altro se non quella stupida frase.
Haruka spazientita buttò a terra i guanti e riprese poco gentilmente la sua giacca.
“Andrà meglio dopo aver fatto una cosa”.
“Niente cavolate ora hai sulle spalle anche i membri della polizia è chiaro?”.
“Non salterà la copertura ma sarò più utile rientrando nei vecchi ranghi”.
“Come?!”. Setsuna fece per fermarla ma Haruka con uno spintone l’allontanò quel che bastava per scomparire nella notte di Rappongi.
 
 
*** 
 
Tokyo non aveva mai conosciuto il sonno, soffriva d'insonnia e illuminava il celo notturno con i suoi neon a led sempre accesi.
Tokyo era luce pulsante viva e loro erano stati attratti lì come falene.
Il ragno nipponico aveva appena intrappolato Akira e Haruka nella sua ragnatela di strade, senza alcuna intenzione di lasciarseli sfuggire.
Quella città aveva vita propria, Haruka e il ragazzo l'avevano sempre sostenuto.
Tokyo li avrebbe masticati e digeriti, non era ammesso sputare resti dei suoi spuntini umani.
 
"Non posso farlo senza di te, Akira". 
Le parole dell'amica riecheggiarono nella sua testa, tra le sinapsi e i neuroni ormai pronti solo a ragionare su tempi di cottura e pietanze esotiche.
Aveva dimenticato il lato crudo della vita a meno che non si trattasse di carpaccio o sashimi.
Sarebbe scoppiato il finimondo, Akira se lo sentiva alla bocca dello stomaco. Un rimestarsi di viscere fin dalle prime luci del mattino era stato l'avvisaglia di un presentimento che in poche ore era riuscito a trasformarsi in realtà.
"La parte brutta è finita..." così le aveva detto a Tokyo con lo scrosciare incessante della pioggia a coprire ogni rumore tranne che le loro voci, nella notte in cui tutto sarebbe dovuto cambiare.
Lui lo aveva detto in buona fede. Era certo che il peggio fosse finalmento andato, liberando le loro esistenze da quell' intreccio mortale nel quale avevano vissuto sin dalla nascita, macchiandosi entrambi di rosso cremisi.
In quelle parole ci avevano creduto entrambi, eppure, in quel preciso momento, Akira si sentiva un bugiardo di prima categoria.
La verità è che Osaka era stata la loro Oasi nel deserto.
Era stata col suo mare e i sogni realizzati la quiete prima dell'ennesima tempesta che li avrebbe presi in pieno.
"E' l'unico modo per tenerle al sicuro. L' unico per cambiare le cose una volta per tutte".  Quando si trattava d'amore Akira cedeva.
"E poi è una questione d'onore" si ripeté tra le labbra a bassa voce.
La Ikka è la tua casa; la tua famiglia. Non la puoi tradire, sarebbe come tradire se stessi.
Devi proteggerla a tutti costi.
 
Il clan si riunì nell'ampia sala dove solitamente si teneva il Sakazuki Shiki per accogliere i nuovi membri. Si udì un rumore di passi, seguito dal tintinnare dell'acciaio sopra ad un tavolo.
Le armi dovevano essere tenute alla larga dai propri fratelli.
Akira trattenne il respiro, scambiandosi un'occhiata complice con Haruka che sedeva accanto a lui mostrando la mascella tirata, mentre l'aria si faceva piena dei respiri dei ceffi meno raccomandabili di Tokyo.
Circa quaranta uomini, vestiti in abiti eleganti che celavano porzioni di pelle tatuata si radunarono guardandoli dapprima con sguardo accusatorio e poi con curiosità.
Akira e Haruka avevano lottato contro tutto quello che uno Yakuza avrebbe invece dovuto tenere al sicuro. Erano dei traditori fatti e finiti, il loro kao probabilmente era irrecuperabile, ma l'avevano infangato per un buon motivo a loro avviso. Anche se di certo tutti i presenti non l'avrebbero pensata allo stesso modo se solo avessero scoperto ciò di cui erano colpevoli.
La violenza nella loro società era accettata, ma non certo contro l'Oyabun, l'unico per cui si doveva mettere in gioco tutto.
"E' tempo di ricominciare..." disse solenne Haruka, senza alcun preavviso, alzandosi in piedi per poi zittire tutto il brusio che si era levato in sala.
Gli anziani del clan si erano già ritirati per deliberare chi dovesse prendere il posto di padre di famiglia, ma con Daisuke fuori dai giochi l'unica discendente del precedente capo clan era lei. Finché nessuno fosse venuto a conoscenza del suo sporco segreto l'elezione non aveva bisogno di ulteriore tempo o ripensamenti.
 
Doveva far giuramento.
Doveva dimostrare che si sarebbe presa cura di tutti.
Doveva incarnare ciò che lei e Akira avevano ucciso sei mesi prima.
Una zaffata intensa d'incenso solleticò le lande ghiacciate racchiuse nelle iridi di Akira, il quale non cedette al pizzicore né tanto meno a lacrimare. Fermo, sulle ginocchia e le dita conficcate nella rotula socchiuse gli occhi a capo chino.
Pareva un moderno Samurai col suo feroce dragone che gli avvolgeva i bicipiti con spire verdi e rosse.
 
"Io, Haruka Ten'ō, in qualità della posizione che vengo a ricoprire...giuro eterna fedeltà, alla Ikka e mi prenderò cura dei Kobun del nostro clan come fossero figli miei".
Una serie di battiti forti e nitidi come lo scandire di un tamburo rimbombò nella cassa toracica di Haruka.
Non c'era più via d'uscita. Lei e Akira si erano appena rinchiusi nel loro pericoloso labirinto con le proprie mani.
Prese un lungo e profondo respiro, puntando gli occhi cobalto in ognuno dei presenti al proprio cospetto.
Adesso era intoccabile. Ma se solo Akira in quel momento avesse potuto fare una delle sue strampalate citazioni avrebbe sicuramente recitato "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Non c'era niente di più vero, poiché da quel preciso istante lei possedeva quel pugno di vite nelle proprie mani e sarebbe anche stata quella che avrebbe dovuto strapparne altrettante se in futuro se ne fosse presentata l'occasione.
 
"Da questo momento sino a che la mia vita non verrà cancellata da questo mondo, sono il vostro Oyabun".
Un mare di teste s'inchinarono a lei in sincrono. Ognuno di quei criminali porse i propri rispetti alla sua anima.
 
La bella Tokyo non si dimenticava di nessuno.
Vecchio e nuovo convivevano tra le sue fauci. Le tradizioni sedevano accanto ai nuovi grattaceli pieni di uffici e divertimento sfrenato.
Era la testimonianza che passato e futuro andavano a braccetto. Che nulla cade nell'oblio.



Note dell'autrice:
Carissime loganiane...so che volete l'action! (credo?). Vi rassicuro promettendovelo per il prossimo capitolo! Dovevo ricongiungermi al prologo o la storia non poteva partire! Ora ci siamo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e non sia risultato noioso. Io nello scrivere ho avuto una malsana ship per Setsuna e Mimì, mi sa che sono grave!! 
Ad ogni modo non vedo l'ora di sapere le vostre opinioni, i consigli, le cose che vi sono piaciute, i dubbi, le supposizioni...quello che volete! Sono sempre aperta al dibattito lo sapete! :)

Per le parole relative al mondo della Yakuza, non sono stata a rinserire quelle che erano presenti nel prologo. Le trovate in quel capitolo! Mi sono limitata a mettere le note per quelle nuove.
Una delucidazione: Azuma chiama Onee-sama la fantomatica regina rossa. (NON E' UNO SPOILER LO AVEVATE CAPITO VERO?!) Letteralmente ha il significato di "Sorella maggiore", ma qui non è intesa come una sorella di sangue poichè nei clan Yakuza le mogli degli Oyabun vengono chiamate così dai membri della ikka. Nella società Yakuza le donne solitamente non hanno valore. Vengono considerate solo in termini familiari, ovvero una donna deve badare ai figli, occuparsi della casa e delle faccende domestiche. La regina rossa in qualche modo è riuscita ad avere il rispetto dei propri uomini...come avrà fatto? (Lo scopriremo!) e Haruka se ben ricordate si è sempre finta un uomo nel suo clan. Solo Daisuke sapeva il suo segreto...ma è stato eliminato muhahahah!!!
Per ulteriori curiosità e chiarimenti...mi trovate sulla solita pagina fb, dove provvederò anche questa volta a lasciarvi una "scheda" curiosità sul capitolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

[1] è il termine giapponese per indicare la posizione seduta tradizionale. Il seiza è usato in diverse arti tradizionali giapponesi, come quella del tè, della calligrafia etc. Il seiza consiste nel sedersi a terra e non su una sedia.
[2] termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai. In occidente per intendere la stessa cosa spesso usiamo la parola harakiri.

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Capitolo 6
*** Love is jealous, is selfish, is blind ***


Kissing The Dragon
Capitolo 5
Love is jealous. Love is selfish. Love is helpless. Love is blind
 

 
 
I don’t want to see you go
Only want to see you smile
It hurts so much just thinking of
Felt like this for awhile
I can’t stand to see you there
We cried we lied
Cannot pretend to change the fact
That what we had could make us feel alive again
Hold me close, don’t let me go, I hope
Tell me that now is not the end
 
(Someone Else – Miley Cyrus)
 
 
Le prime luci dell’alba si riflettevano violacee nelle perle scure di Rei intente a scrutare le poche persone in giro a quell’ora.
Kabukichō era immersa in una calma irreale, pareva quasi una città fantasma incastonata nella tela del ragno nipponico che non dorme mai e passa il tempo a tessere intrighi, sogni, desideri e disavventure per tutte le esistenze che si annidavano negli angoli più oscuri di quella città.
In contrasto con quella pace c’era lei. Rei che sentiva le fiamme ardere dentro e la bocca dello stomaco ridursi in cenere.
All’accademia non lo insegnavano. Non dicevano che la gelosia può ammazzare le persone quanto una revolver, un coltello o una bomba da disinnescare. Eppure la sentiva. Scalpitava dentro di lei come a volerla mangiare viva.
Rabbrividì per l’aria fredda e si passò i palmi sugli avambracci per stringersi nel cardigan bordò, indossato nella fretta sopra la maglia del pigiama, di cotone spesso.
Quanto ci mette? Impazienti i pensieri ponevano domande mentre l’attenzione non azzardava a dare la buona notte ai neuroni nonostante non avesse chiuso occhio.
Se poteva stare sveglia Setsuna per più notti dietro fila anche lei ne sarebbe stata certamente capace.
La morettina si morse il labbro inferiore. Il viso dai lineamenti morbidi per la giovane età e l’assenza di trucco le donavano un’aria quasi ingenua. In un posto del genere, a tarda notte, gli uomini alticci o in cerca di piacere sarebbero andati matti per un bocconcino del genere.
Scalciò un sassolino fermo dinnanzi alla punta della sua scarpa quando la porta del locale si aprì con un cigolio e due ragazze uscirono strette nei loro cappotti e con la borsa sottobraccio.
Erano le 6.30 e la persona che cercava finalmente era dinnanzi a lei.
Respirò a fondo, la mano destra dietro la schiena era poggiata all’impugnatura della pistola nel retro della cintura.
Compì venti passi seguendo la giovane, che sussurrava qualcosa per tenersi sveglia o forse canticchiava, avanzando per la propria strada al fianco della collega.
Mimì si arrestò. Salutò frettolosamente l’amica e dopo un paio di falcate ebbe la sensazione di essere osservata. Non fece in tempo a voltarsi che Rei le piombò addosso come un avvoltoio sulla carogna che osservava da tempo e l’afferrò per un braccio senza troppi complimenti.
“Cammina”. Le ordinò Rei, senza un filo d’incertezza nella voce, con la canna della pistola puntata ora sul fianco di Mimì che ubbidì senza opporre resistenza e venne letteralmente trascinata in un vicolo del quartiere.
Un gatto scappò spaventato al loro arrivo e il lampione si spense con tutta la fila di gemelli che davano sulla strada.
Mimì sentiva solo due cose: il fiato caldo di Rei sul collo e il freddo dell’arma che ora puntava al suo sterno.
“Che vuoi da me?!” Domandò in preda all’agitazione gettando un’occhiata alla strada principale.
“Le domande le faccio io”.
“Ok…ma fai in fretta”.
“Hai pure fretta in una situazione del genere?!”. Rei non sapeva se essere scioccata da quella reazione o lasciare scoppiare del tutto l’ira che le sbatteva nel petto tra un battito e l’altro.
“Sono sicura mi abbiano beccato. Me la voglio filare”.
“Non m’interessano i tuoi problemi”. Rei la spinse ancor più aderente al muro di mattoni che si trovava alle spalle della giovane. Quel comportamento da pazza assassina faceva a botte con la sua immagine ma a Rei non importava nient’altro che la verità.
“T’interesseranno se ci beccano, voglio andarmene!”.
“Setsuna”.
“Cosa?!”. Mimì boccheggiò a sentir quel nome.
“Cosa ci hai fatto con Setsuna?!”. La voce di Rei esplose e dovette implorare qualche santo per non farle togliere la sicura dall’arma che impugnava.
“Sei un’adepta della regina rossa?”.
“Non so di cosa tu stia parlando”.
Mimì cercò di divincolarsi e nel tentativo la borsa le cadde a terra facendo rotolare fuori un rossetto, il portafoglio e una parrucca viola.
“Vi ho viste, voglio sapere cosa c’è tra voi…”.
“Niente io-io…”.
“Ah, adesso non usi più le movenze da gattina e la voce suadente. Ti ho detto che vi ho viste ieri sera e anche le due volte precedenti”.
“Non so chi tu sia ma-”.
Rei sbottò e presa dall’isterismo e quello stato confusionale le diede un ceffone. La mano dopo il gesto avventato le tremò e dovette mollare la presa allontanandosi di mezzo passo per non rischiare di fare qualcosa di molto peggiore.
Mimì con gli occhi lucidi puntò lo sguardo nel suo. Era stata presa a botte molto più forte a stare in mezzo agli Yakuza. Se per un momento parve in procinto di piangere il suo tono di voce non fu sottoposto a tremori o incertezze.
“Sono solo un’informatrice. E riferire notizie o indizi è tutto ciò che ho fatto con l’agente Meiō”.
Rei esterrefatta non riuscì a proferire alcun suono. Avrebbe voluto chiederle scusa ma era troppo presa a sprofondare nella vergogna per riuscirci.
Un peso enorme sembrò averle abbandonato il petto. Si accorse di poter finalmente respirare e che i nodi in gola che glielo impedivano si erano sciolti nel momento in cui l’altra le aveva detto di non aver toccato la persona che amava.
“Devo filarmela. Ci si mette solo nei guai con voi poliziotti intorno…”. Mimì si chinò frettolosamente per raccogliere la propria roba. Ne vedeva di tutti i colori e non si sarebbe fatta certo destabilizzare da quella scenata o per il ceffone preso.
Era giovane ma aveva grinta e sapeva come affrontare la vita anche nelle sue sfumature peggiori.
“Fammi una cortesia…”.
Rei le dedicò tutta la sua attenzione mettendo nuovamente al suo posto la pistola.
“Dì all’agente Meiō che non mi troverà per qualche tempo qui. Credo mi abbiano beccata”.
“Chi?” riuscì a chiedere Rei ritrovando la voce.
“Il clan di Osaka. La regina rossa”.
“Chi è la regina rossa? Io non capisco”.
“Tu no. Ma lei capirà di certo”.
“Senti…”.
“Non posso devo andare”.
Mimì senza temporeggiare abbandonò il vicolo umido e sporco per tornare frettolosa sulla via di casa per raccogliere le sue cose e sparire per qualche tempo. Aveva sentito dei bisbigli al locale e due tipi dalla faccia poco raccomandabile e il corpo marchiato dall’inchiostro per tatuaggi l’avevano guardata più che con desiderio come qualcuno che si vuole far sparire dalla faccia della terra. Era facile far di una persona il nulla, solo uno stupido avrebbe negato quella terribile verità.
 


 
*** 
 

Setsuna era tornata alla centrale. Nel suo ufficio il led intermittente impediva alle palpebre pesanti di chiudersi dalla stanchezza. Ed eccola lì, la sua classica emicrania da stress pronta ad attanagliarle i neuroni per farla impazzire come si deve.
“Prima o poi finirò in manicomio” disse in uno sbadiglio, agguantando quasi con foga la tazza di caffè nero fumante.
Bevve assaporando il liquido amaro sulla lingua e poi si prese un momento per mettere a tacere ogni cosa, rumore o elemento che rimandasse la mente a qualche caso. Rischiò di addormentarsi così facendo ma il bussare alla porta la riportò vigile.
“Avanti”.
“Notizie dalla scientifica” disse un ragazzo in divisa porgendole un plico di fogli pieni di tabelle ed elementi utili più ad uno scienziato che a una persona comune.
Setsuna prese a sfogliare le informazioni appena ricevute e il sottoposto snocciolò il necessario per chiarificare la situazione.
“L’ultima vittima, lo yakuza nel retro del locale è stato avvelenato. Hanno trovato i residui di Ricina sul fondo del bicchiere e anche nel suo stomaco”.
“Non proviene dai semi di una pianta?”.
Il ragazzo tentennò dondolandosi nervoso sui talloni come in presenza di un professore ad un esame a cui si è studiato in modo poco approfondito e non si sa rispondere nel dettaglio.
“Verificalo. E se è così cerchiamo se ci sono dei rivenditori di questa pianta, se è coltivabile, se ci sono zone qui a Tokyo dove cresce…insomma facciamo le ricerche del caso. Chiaro?”.
“Si, sissignora”.
“Bene”.
Il ragazzo deglutì rimanendo nella sua posizione tra la soglia e la zona esterna del corridoio.
“C’è altro?”.
“Si, riguarda la prima vittima. Lo yakuza impiccato”.
Gli occhi di Setsuna si ridussero a due fessure di modo da far sbottonare al più presto il ragazzo, raccogliere più indizi possibile e rifletterci possibilmente su una brandina o un letto.
“Sotto al suo tatuaggio, in una zona poco visibile, hanno trovato una parte di disegno che pare essere stata aggiunta recentemente. Si tratta di una piccola corona rossa, il tatuaggio è recente poiché il tessuto non è cicatrizzato a dovere e…”.
“Una corona rossa…perciò la regina rossa non ha intenzione di far passare gli omicidi per suicidi. Lascia una firma…è una provocazione la sua”.
“Ottima deduzione signora!”.
“Si…” Setsuna lasciò cadere la conversazione cercando di smorzare l’entusiasmo che aveva invaso il corpo del giovane ormai su di giri.
Le nuove leve spesso si facevano l’illusione che con la pista giusta si risolvesse tutto in un battibaleno mentre alle volte anche gli indizi più certi portavano a vicoli ciechi.
La donna prese il proprio cappotto e v’infilò il braccio destro per poi rimanere a mezzo del sinistro con la manica.
“Ancora qui?”.
“No, signora! Sono sparito signora! Vado a fare il mio dovere signo-!”.
“VAI!” alzò la voce Setsuna per poi sorridere tra sé e sé non appena la figura dell’altra svanì dalla sua vista.
 
 

 
*** 
 
 
 
Akira e Haruka attraversarono il giardino camminando a spalle diritte lungo il ciottolato e gli arbusti ben potati, sfilando sotto agli occhi vigili di quattro Yakuza armati fino ai denti.
Gli addetti alla sicurezza di quella che ora era la tenuta del loro Oyabun parvero tanto impassibili da far in modo che le loro ciglia non battessero al passaggio della bionda a capo del loro clan. Avrebbero lasciato le risate sguaiate e i modi di fare poco ortodossi al momento nel quale il loro capo si fosse ritirato.
Akira osservò con la coda dell’occhio la canna di bambù, presente nella fontana zen, riempirsi d’acqua per poi battere un sonoro “cloc” che segnò il loro attraversare l’ampio engawa[1] dell’abitazione in stile tradizionale giapponese.
Una casa del genere non se la sarebbero potuti permettere forse nemmeno mettendo assieme i propri risparmi, ma quel posto ora era passato di diritto ad Haruka essendo di proprietà – da intere generazioni – dell’Oyabun del loro clan.
Akira non ebbe bisogno d’inchinare il capo dinnanzi ai quattro e con portamento da samurai richiuse alle proprie spalle le shoji atte a dividere lo spazio esterno da quell’interno.
Attese che le sagome oltre i pannelli svanissero - per allontanarsi e riprendere il loro da fare – prima di farsi scappare un sonoro e lungo respiro.
«Puoi ridare aria ai polmoni Akira. Sei troppo rigido, cazzo!».
Haruka non parve minimamente preoccupata per la situazione né tanto meno per il tono di voce alto e irriverente appena usato.
«Sei tu ad essere troppo a tuo agio. Mi sento un traditore fatto e finito, ma che dico…per forza mi ci sento. LO SIAMO!».
«E ti dispiaci di questo?».
«Non è che mi facciano pena o altro è solo che…sai meglio di me in che modo atroce finirà tutto questo se scoprono che-».
«Non scopriranno un bel niente. Sono allo sbando, una marmaglia indisciplinata di assassini e truffatori che seguono cieca obbedienza indovina a chi?! Alla sottoscritta!».
«Ti stai facendo prendere la mano, Haru…».
Haruka aggrottò le sopracciglia con fare interdetto; lasciò cadere il discorso nell’oblio sedendosi sullo zabuton che copriva la porzione di tatami tra lo zataku laccato e l’altro cuscino nero.
Si guardò attorno incuriosita. La stanza era elegantemente arredata ma rispettava i canoni minimali dello stile buddhista. Non aveva mai creduto che persino la feccia potesse circondarsi di simili posti.
«Lo hai già detto a Michiru?».
«Che collaboro con la polizia?» domandò disinteressata al moro.
«No, di tutto questo».
«No».
«E quando avresti intenzione di farlo?!».
«Precisamente adesso».
Akira sentì un vociare all’esterno e la risata argentina di Minako che era stata ben abituata a vedere e a trattare con tizi del genere, visto dove avevano vissuto in passato Akira e Haruka. Di certo aveva fatto la graziosa con qualcuno dei bruti che aveva tentato di fermarla all’ingresso e dopo due parole era riuscita ad avere il via libero. Se era chiaro che lei per amore potesse adattarsi ad ogni condizione, Akira, per quanto nutrisse buona fiducia nei sentimenti di Michiru pensava che forse lei non sarebbe riuscita a fare lo stesso. E non perché non amasse abbastanza Haruka, ma solamente perché aveva la morale più salda di tutti quelli messi assieme lì dentro.
«Ancora un passo Michiru, sempre dritto». Minako la stava istruendo tenendo una mano sul nodo della benda che copriva gli occhi dell’altra ragazza.
«Sembra un rapimento questo, lo sai?».
Minako rise ancora ma Akira prese a sudare freddo.
Il disappunto di una donna poteva rivelarsi molto più pericoloso di un covo di malviventi senza scrupoli.
«Sei sicura Haruka?» domandò incerto alla bionda che pareva del tutto rilassata.
«Le ho chiesto di sposarmi, direi che non posso fare altro».
Le shoji sibilarono sino a spalancarsi. I quattro guardiani osservarono incuriositi la scena domandosi se i due bocconcini fossero entrambi per il proprio capo o se gli avrebbe divisi col suo scagnozzo più stretto.
«Gradino» indicò sorridente Minako per poi salutare con un cenno il proprio ragazzo e l’amica.
Akira perentorio chiuse di nuovo i pannelli per avere la privacy di cui era giusto godessero tutti e quattro.
«Tadaaaannn!!» esclamò Minako. «Puoi toglierti tutto. Cioè la benda! Puoi guardare insomma» il tono eccitato aveva contagiato anche Michiru che morsa da curiosità si fece scivolare la stoffa dagli occhi al collo senza nemmeno slegarla.
«Oh mio Dio» rimase senza fiato.
Aveva sempre desiderato abitare in un posto del genere e mai avrebbe creduto che Haruka avesse potuto rinunciare al suo gusto moderno e al centro città, per vivere in un posto che era il frutto di tradizioni secolari e distava qualche chilometro dal caos infernale di Tokyo.
«Possiamo sul serio stare in un posto così?» chiese con voce incredula e rotta dall’emozione, mentre compiva una mezza piroetta per guardarsi attorno e bearsi della bellezza di quella tipologia di architettura.
«Ti piace?» incalzò la bionda.
«È semplicemente magnifico…ma com’è possibile? Nel giro di due giorni ho ricevuto una proposta di matrimonio ed ora un abitazione del genere, devo davvero aver vinto alla lotteria!».
«Lo sai che sono una donna piena di sorprese!» disse tronfia la bionda.
«Ma siete sicuri che possiamo permetterci questo posto?».
«Certo che sì. È nostro di diritto!».
Michiru parve leggermente confusa e Akira accorse in suo aiuto, anche se non era certo che la verità potesse portare a un buon fine in quel caso.
«Del clan, intende. È che…».
I capelli acquamarina lasciarono una fragranza morbida di fiore di loto nell’ondeggiare repentinamente nell’aria.
Michiru aveva aperto le porte per affacciarsi sul giardino e capì immediatamente nello scorgere le figure degli uomini al di fuori della stanza.
«State scherzando, vero?».
Akira si affrettò. «Lavora con la polizia, non è come sembra…».
«Siete di nuovo nel clan?!» adesso la voce di Michiru non aveva più la dolcezza dello scrociare lento di Osaka, aveva assunto una punta stridula quasi fastidiosa per quanto riusciva ad essere alta.
«Solo perché dall’interno è meglio» riprese Haruka a parlare.
«Già, Haruka farà chiudere ogni singolo clan da qui. Insospettabile. Nessun Oyabun tradirebbe altre organizzazioni per quanto rivali».
«E poi tu sarai sicura qui più che in ogni altro posto del pianeta» cercò di convincerla Haruka.
Lei e Akira si intervallavano come una pallina da tennis che rimbalza da una parte all’altra.
«Le mogli degli Oyabun sono intoccabili. Se capissero che Haruka è un mezzo sbirro allora colpirebbero te per prima per poi arrivare a lei!» spiegò definitivamente Minako, per dare un tono più convincente alle spiegazioni precedenti degli altri due compari.
A Michiru ogni frase sembrò di più una coltellata nel petto che una tesi ben esplicata. Le si poteva leggere in viso lo shock, di ciò che aveva vissuto poco tempo addietro, per vederlo riaffiorare nel suo sguardo e nel suo schiudersi impercettibile di labbra simile a quello di un pesce rosso.
Cercava aria e con l’ossigeno cercava anche una motivazione per non dar retta ad ogni impulso del proprio corpo che le gridava a gran voce di fuggire anziché temporeggiare.
«Non posso crederci…» furono le prime parole che riuscì a sillabare.
«Non posso pensare che tu l’abbia fatto sul serio, Haruka».
Lo sguardo cobalto e limpido di Haruka parve incrinarsi.
«Pensavo te ne fossi davvero liberata di tutta questa feccia. Come hai potuto farmici ripiombare dentro dopo tutto quello che abbiamo passato?».
Michiru trattenne le lacrime e ora quella ferita a morte non ci fu ombra di dubbio fosse la bionda.
«Sono feccia anche io, non è forse così?» un sorriso amaro le si tirò in volto.
Michiru era troppo sconvolta per rispondere e Haruka aveva scelto la difensiva per non subire un danno ancor peggiore di quello che l’era appena stato inflitto.
Perché ogni sillaba della donna che amava valeva più di mille maledizioni dette da chiunque. Bastava essere la sua delusione per venire definitivamente distrutta.
 
 
*** 
 
 
«Niente più uccellini cinguettanti per la polizia» la regina rossa aveva pronunciato una sentenza di morte e la sua falce gravava sulla testa dell’informatrice di Setsuna.
Nessuno poteva sapere che un paio di yakuza armati sino ai denti si muovevano nell’ombra di vicoli nascosti nella città tentacolare per rintracciare Mimì e metterla a tacere. Nessuno dai grandi piani ha voglia che un misero e insignificante essere umano si frapponga fra lui e la sua scalata al potere.
La regina rossa, la bella Eudial, poteva permettersi di rimanersene seduta a comandare una società di malviventi con un solo schiocco di dita, poiché ogni singolo uomo al suo cospetto era cosciente di ciò di cui fosse capace se contraddetta.
Data in sposa ad un uomo più grande di lei, a capo del clan di Osaka, Eudial aveva ben presto sovvertito le regole della casata. Una giovane donna come lei non era adatta a far la madre di famiglia, né tanto meno sarebbe riuscita a rientrare nel ruolo della silenziosa e accondiscendente moglie repressa di un vecchio bavoso dalla mano lunga che pretendeva di aver la meglio su di lei.
Eudial aveva conosciuto la strada e sapeva benissimo come difendersi. Lui non l’avrebbe mai toccata senza il suo consenso e lo aveva ben dimostrato appendendone il corpo inerme alla porta della propria dimora.
«Fu così l’ascesa a capo del clan» mormorò l’uomo tatuato più anziano alla giovane new entry della sua ikka.
«Con la regina rossa non c’è da scherzare. Potrebbe amputarci a tutti il mignolo e farci lo scalpo in contemporanea». Benché i veterani si prendessero gioco delle nuove reclute l’uomo non stava alimentando di molto quella che sarebbe diventata leggenda per il clan di Osaka, al contrario stava mettendo in guardia il giovane che accanto a sé con la camminata da bulletto irriverente e una pistola nascosta sotto la giacchetta di jeans.
Un compare del primo, abile e arruolato nel suo mestiere intimò l’uomo a tacere.
«Basta stronzate. Anziché scoraggiare il pivello, facciamo quello che va fatto».
 
 
***
 

Rei, dopo una mattinata in giro a sbollire si era diretta in centrale incurante dell’abbigliamento poco consono.
Doveva parlare con Setsuna e chiarire una volta per tutte, questa volta scusandosi per le sottili accuse lanciate nei suoi confronti e per aver dubitato di lei.
Aveva pensato a lungo se farsi perdonare con un regalo, ma Setsuna non era il tipo da badare a certe smancerie. Rei tollerava a stento il gusto “giurassico”, come le piaceva definirlo, della fidanzata per tanto non avrebbe contribuito a coltivare quella sua insana abitudine.
Scusarsi a cuore aperto sarebbe stato più che sufficiente.
Ma quando Rei si diresse, senza bussare, nell’ufficio della donna non vi trovò anima viva.
Rimase sbigottita, con la mano a mezz’aria e gli occhi che vagavano per l’intera stanza.
«Ehi, tu» fermò bruscamente il giovane che aveva portato i risultati delle autopsie a Setsuna qualche ora addietro per interrogarlo quasi fosse un criminale.
«Che succede qui?» inquisì.
«In che senso?» domandò ingenuo l’altro.
«Dico, ti sembra normale?».
«Che cosa?».
«Diavolo, sul serio non noti nulla di strano?».
«Ehm…».
«Sets- L’agente Meiō non è in ufficio!» lo ragguagliò con fare grave. «Verrà a nevicare…» aggiunse, mollando la presa dalla camicia del ragazzo.
«Credo sia andata a riposare. Pareva stanca, non stacca mai».
«Oh lo so bene» commentò la morettina alzando gli occhi al cielo.
Il ragazzo tentennò un momento poi prese coraggio e parlo lui per primo.
«Ora andrà da lei? Perché…ho trovato quello che mi aveva chiesto».
Rei portò le mani ai fianchi e nascondendo la curiosità sotto un’espressione di superiorità non perse tempo a domandare «Sentiamo, cosa ti avrebbe chiesto di cercare?».
«Ho trovato la pianta che cercava. Il ricino. In città lo vende solo un vivaio e in periferia un uomo possiede una cultura. In più…».
Lo sguardo di Rei sembrò trapassarlo da parte a parte.
«In più poco fuori città credo sia presente anche nel giardino sul retro di un’abitazione».
«Sei un botanico?»
«No».
«Come fai allora a sapere si tratta proprio di questa pianta?».
«Perché…».
«Lascia stare, non ho tempo adesso. Ci penso io. Glielo faccio sapere».
Rei si dileguò dalla vista del ragazzo. Uscì dalla centrale a passo svelto e digitò sul cellulare il numero di Setsuna.
Il telefono dava libero. Rei immagino la colonna sonora di X-files risuonare per tutta la stanza. Lei non rispondeva mai al primo squillo, le piaceva godersi quella antiquatissima musichetta, o per lo meno quando non si trattava di lavoro.
Rei sospirò e si sentì sollevata nel sentire la sua voce assonnata rispondere all’altro capo.
«Hey».
«Dormivo. Profondamente come non facevo da…».
«Da troppo lo so».
Rei accelerò il passo. Aveva voglia di vederla e il suo battito si fece ancor più frenetico all’interno del suo petto.
«Senti, mi dispiace».
«Per cosa?».
«Di aver fatto la stronza».
Setsuna tacque. Rispettosa attese il resto anche se non provava alcun rancore verso l’altra.
«Pensavo te la facessi con una puttana».
«Rei!».
«Che c’è?! E’ perché ho detto puttana?».
«Si. Cioè, non solo…insomma, ti sembro una che va a prostitute?».
«In effetti, no. Sei troppo pudica».
«Okay, dov’è il resto delle scuse?». Si era imbarazzata, l’aveva capito dal tono di voce e non poteva fare a meno di immaginarla con la faccia sconvolta e il viso leggermente rosso. Sicuramente aveva scostato lo sguardo come se lei fosse stata lì a guardarla.
«Ho parlato con Mimì e ho chiarito tutto…».
«Spero tu sia stata gentile…».
«Non proprio ma ehy, tutto a posto. Senti il tuo…come si chiama il ragazzino? Vabbé, quello che vorrebbe far carriera ma è troppo timido ti ha trovato tre posti dove coltivano una certa cosa».
Setsuna sembrò svegliarsi all’improvviso.
«IL RICINO!».
«Si, ehy. Quanto entusiasmo. Per le mie scuse non hai avuto la stessa reazione! Comunque, si quello. E poi, Mimì ha detto che non si farà viva perché secondo lei è stata beccata…».
«Cosa?!». Setsuna doveva aver sbattuto da qualche parte. Probabilmente si era alzata al buio e nella fretta aveva urtato il comodino soffocando un’imprecazione.
«Ascolta Rei, vado da lei. Chiamo Ten’ō. Tu vai dove coltivano il ricino. Ci aggiorniamo più tardi».
«Ma io…».
«Ti prego ascoltami, solo per questa volta fai come ti dico».
Rei sbuffò indispettita.
«Ci vediamo più tardi, ti amo». La linea cadde.
Il più tardi di Setsuna per lei era davvero troppo da dover attendere perciò fece di testa sua, come al solito. Si sarebbe unita all’allegro duo. Una pianta avrebbe potuto di certo aspettare qualche ora in più, la sua smania no.
Haruka, suo malgrado, era scattata in piedi non appena ricevuta la chiamata di Setsuna.
Si era infilata una felpa e aveva calato il cappuccio sulla testa dorata spalancando con un sonoro fruscio le shoji della sua nuova abitazione. Indossò le sue adidas bianche allacciandole alla bene e meglio con un nodo che lasciava parecchio a desiderare, per essere giapponese con la precisione non era un gran che.
Gli uomini a sentinella del cortile spensero malamente le sigarette in un posacenere di fortuna rizzandosi sull’attenti.
«Dove si va, capo?».
Lo sguardo cobalto di Haruka si piantò freddo nei loro occhi cupi, dovevano avere l’anima più scura di qualunque palude sulla faccia della terra.
«Da nessuna parte. Ho un affare da sbrigare. Voi prendetevi una pausa. Fate a cambio con chi di dovere e dite ad Akira di gestire gli affari che abbiamo qui a Tokyo».
Sperò di essere stata abbastanza convincente ma non se ne preoccupò troppo visto che la sua parola ora era legge.
Declinò ancora una volta l’offerta di avere una scorta discreta alle sue spalle e lasciò la casa con espressione scura in viso.
Non aveva ancora chiarito con Michiru, i toni accesi bruciavano ancora come acido sulla sua pelle sotto allo strato morbido dei vestiti.
Haruka salì in macchina e nell’ ombra del crepuscolo tirò fuori da sotto il sedile una scatola di proiettili.
Caricò il tamburo, inserì la sicura e piede sull’acceleratore sfrecciò verso quella che la poliziotta aveva detto essere l’abitazione di Mimì.
 
Abbandonò nelle vicinanze l’auto per dare meno dell’occhio e si ritrovò dietro l’angolo Setsuna.
«Ce ne hai messo di tempo».
«Sono sotto stretta sorveglianza, ho una marmaglia di leccaculo pronti a seguirmi quindi non accetto prediche».
«Bella mossa Ten’ō. Ora però dobbiamo fare in fretta».
Le due presero a camminare a passo svelto ma disinvolto verso il portone del vecchio palazzo.
Setsuna, in borghese, suonò il campanello ma nessuno dall’interno rispose.
Ad Haruka sudarono le mani. Si guardò intorno circospetta e poi le sussurrò un «scassiniamo sto portone del cavolo».
«Basta suonare a qualcun altro».
«Oh si e diciamo “polizia apra” così se c’è un palo ci spara addosso».
Setsuna sospirò pesantemente cercando di mantenere la calma e prima che potesse ribattere un uomo anziano e tremolante aprì il portone per uscire a vuotare l’immondizia.
Le due s’intrufolarono nel varco creato dall’uomo per attraversare la soglia e ringraziarono frettolosamente.
Salirono le scale con la mano a portata di pistola e ad ogni pianerottolo poggiarono le spalle al muro prima di proseguire.
«Abbiamo ancora sei piani. Mettiti pure tu un caz-».
«Ssht zitta maledizione!» Setsuna stroncò il consiglio della bionda udendo dei passi in loro direzione.
«Muoviti. Sali, cammina normale!». La più grande precedette Haruka e alla rampa successiva incrociò tre uomini e una ragazza minuta che ben riconobbe senza parrucca.
Deglutì.
Il più giovane dei tre prese contro la spalla di Haruka che camminava a testa bassa nascosta nella felpa troppo grande.
«Ehy, sta più attento».
Uno degli yakuza spintonò Mimì e la poliziotta estrasse l’arma urlando «POLIZIA, lasciate la ragazza!».
Haruka reagì di conseguenza ma i tre, messi in allarme da quella dichiarazione presero a scendere con più fretta.
Le due donne si lanciarono al loro inseguimento, Mimì cercò di ribellarsi ma uno dei tre le piegò il braccio dietro la schiena e la schiantò contro il proprio petto. La canna lucida e fredda si posò sulla sua tempia destra e lei s’immobilizzo con la vita che le scorreva davanti gli occhi lucidi.
«Ammazziamo la ragazza».
Setsuna e Haruka non demorsero, braccia ben distese e armi puntate verso i malviventi.
«Lasciatela andare» scandì nuovamente l’agente.
«Non è il tuo gioco, donna» la intimò uno degli uomini. «Giù le armi, perché la facciamo fuori, non stiamo scherzando».
Haruka imprecò tra i denti, sapeva non si sarebbero fatti scrupoli a loro interessava solo portare a termine quello che era stato richiesto.
Setsuna si chinò, posò al pavimento l’arma e rimase con le mani vuote in vista e lo stesso fece la bionda mossa da un profondo disappunto.
Mimì la riconobbe, glielo lesse nello sguardo. Ma tacque. I ranghi della yakuza erano così vasti che non tutti i membri potevano conoscersi.
Il più giovane dei tre individui, mentre gli altri due le tenevano sotto tiro, prese le pistole per poi tornare al proprio posto in direzione dell’uscita.
«Tre minuti di vantaggio» scandì Haruka, «poi veniamo a prendervi».
Gli uomini risero sguaiatamente, ma approfittarono del proprio vantaggio.
 
 
«Andiamo!» Haruka barò scattando allo sbattere del portone. Non avevano tre minuti da attendere, soprattutto essendo disarmate.
«Li avremo già persi».
«Io non avevo voglia di morire oggi!» replicò la bionda scendendo le scale due a due.
Una volta in strada li videro salire in auto e mettere in moto sgasando.
«MERDA!» Haruka si morse il labbro, buttò frustrata il cappuccio sulle spalle ma qualcuno arrivò sgommando proprio davanti ai suoi piedi.
«Salite!» Rei aprì la portiera davanti e spinse l’acceleratore ancor prima che le altre due potessero richiudere l’abitacolo.
«Sicura di saper guidare e tenergli dietro?» domandò irriverente Haruka dal sedile posteriore.
Rei ignorò la provocazione e indicò alle due dove trovare altre due pistole cariche.
Setsuna attaccò la sirena per farsi largo più velocemente tra gli automobilisti e incitò la fidanzata a non perderli di vista.
«Non mi ascolti mai» le disse abbassando il finestrino.
«Se l’avessi fatto non sarei arrivata al momento giusto, non ti pare?».
La più grande le sorrise e Rei ricambiò, mentre dallo specchietto retrovisore Haruka mimò il gesto del vomito.
«Dobbiamo portarcela sul serio?».
«Ebbene sì».
Gli yakuza imboccarono una strada meno trafficata che dalla periferia avrebbe portato a fuori città.
Setsuna si sporse cercando di mirare alle ruote ma gli altri risposero al fuoco ancor prima che potesse prendere la mira.
La donna rientrò perentoria nell’abitacolo. Rei chinò appena la testa dietro al volante sentendo il colpo riecheggiare nell’aria e Haruka da dietro il sedile sbloccò la sicura.
«Faccio io…».
«Sei fuori mano» commentarono all’unisono le due.
«Affiancali. Dio, non avete imparato nulla da quella volta alle corse?».
La lancetta della velocità schizzò verso l’alto e le due passeggere si ritrovarono spinte letteralmente contro al sellino.
«Ora si comincia a ragionare…» commentò preparandosi a colpire.
Il cofano si avvicinò pericolosamente a quello degli inseguiti.
«Sul marciapiede» le indicò Setsuna aggrappandosi con una mano al cruscotto.
«Non è il momento per il mal d’auto» intervenne la bionda.
«Non sai evitare le battute, vero?».
«È per sciogliere la tensione!».
 
Rei sterzò a tutta velocità, l’auto sobbalzò nel collidere contro il gradino e in men che non si dica furono rialzate dal vano stradale. La lancetta continuò a risalire la scala di numeri nel display e l’abitacolo prese a tremare vigorosamente.
Andavano così forte che non riuscirono più a scambiare mezza sillaba.
Haruka scivolò da sinistra verso destra e riuscì a guardare negli occhi il giovane che l’aveva derubata della propria revolver. Puntò meglio che poté e lo colpì al collo.
Un fiotto rosso macchiò il finestrino. Haruka sentì Mimì gridare di rimando.
«Ten’ō devi mirare alle gomme!».
«Quelle le lascio a te agente!».
Setsuna sparò al pneumatico anteriore.
La macchina sbandò violentemente collidendo pericolosamente con la loro.
Rei tentò di mantenere il controllo del volante e rispose al colpo con un altro colpo di lamiere.
Gli Yakuza non sembrarono paghi da quel contatto. Il guidatore girò il volante tutto da un lato e decise di andargli contro alla velocità più alta possibile.
La macchina della polizia subì un urto più forte del previsto, Rei perse il controllo dell’auto. Haruka scivolò violentemente sul sedile sparando un colpo a mezz’aria. Tutto quelle che vide, prima che l’abitacolo cominciasse a roteare su se stesso, fu Setsuna che proteggeva il capo della donna che amava.
 

[1] una sorta di veranda coperta dal tetto spiovente, modula la relazione tra lo spazio interno ed esterno delle case tradizionali giapponesi.





Note dell'autrice:

Che parto! Ciao a tutti, avevo cominciato il capitolo subito dopo aver finito il precedente ma poi causa laurea mi sono bloccata. Al momento di continuarlo ho avuto un piccolo blocco ma poi sono riuscita a sviare sino a che...word non mi ha cancellato un mucchio di pagine scritte e così, ho riscritto quello che avevo perduto. Perdonatemi, non ho revisionato perché sono stremata alla fine di questo delirio! Ho allungato il capitolo per farmi perdonare visto ci ho messo molto ad aggiornare anche se...zan zan, non doveva finire così. In realtà nemmeno l'incidente doveva esserci ma è venuto fuori da solo e ora ce lo teniamo. (In realtà adoro quando scrivo senza manco sapere cosa, vuol dire che l'ispirazione non mi ha abbandonata del tutto ed è un sollievo). 
Lo so che molte di voi non sopportano Setsuna e qui c'è soprattutto Setsuna/Rei ma...è venuto fuori così e in realtà un motivo c'è. Perciò tenete botta ancora un pochino dai e non odiatemi!! 
Ho l'adrenalina a mille, se riesco (anche se oggi davvero sono iper impegnata) vado a continuare subito il capitolo. Spero di aggiornare al più presto ma per ora non ho una data da scadenziarmi perché fino a fine mese sono iper impegnata. Se vi va fatemi sapere le vostre impressioni, i consigli e quant'altro. Un bacione
Kat

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Capitolo 7
*** Say Goodnight ***


Capitolo 6
Say goodnight


 
Heaven's waiting for you
Just close your eyes and say goodbye
Hearing your pulse go on and on and on...
I live my life in misery
I'd sacrifice this world to hold you
No breath left inside of me
Shattered glass keeps falling
Say goodnight
Just sleep tight
Say goodnight...

 
Bullet For My Valentine – Say Goodnight
 



C’era stato un rumore assordante. Scintille, lamiere spezzate in due e lo schizzare di vetri rotti in ogni direzione.
Haruka, senza cintura, era sbalzata da una parte all’altra ritrovandosi in un inferno rotante che ora pareva essersi fermato di botto.
In quel caos di fumo, urla e stridere sull’asfalto duro e freddo, aveva visto il viso di Michiru. Non fisicamente ma l’aveva rivista e rivissuto ogni singolo istante nella sua mente eliminando le immagini terribili che i suoi occhi avrebbero dovuto catturare in quel lungo cappottamento.
Aveva pensato che solo una stupida avrebbe sprecato tempo a litigare. La vita non era così lunga da poterla sprecare in liti e rancori. Voleva solo fare pace con lei, vederla ancora una volta, baciarla e non abbandonarla più. Lo aveva capito nel momento in cui Setsuna aveva sganciato la cintura per sporgersi più in avanti e proteggere Rei le cui mani avevano lasciato andare il volante.
Le ombre della sera erano scese su di loro e su quella desolazione sottosopra nella quale si ritrovavano.
Haruka sbatté gli occhi umidi. La sua posizione era innaturale ma la prima cosa che fece di riflesso fu portarsi le mani alle gambe per aria incastrate sotto a un pezzo irriconoscibile di auto.
Si tastò sino al ginocchio, si diede un pugno, poi un pizzicotto alla coscia e capì di essere ancora intera. La sensibilità c’era ed era sicuramente una buona cosa.
«Cazzo» la sua parola preferita le uscì flebile come un sospiro. Era un sussurro appena accennato ma non era sicura di sentirci ancora a dovere. Si sentì confusa e dolorante, aveva come perso il senso dell’orientamento per cui le ci vollero un paio di minuti per riprendere il filo della coscienza e ricordarsi cosa fosse successo.
Scastrò le gambe a fatica emettendo un verso gutturale tutt’altro che femminile dopo di che prese un respiro e decise di controllare il resto.
Era piena di vetri, tentò di scrollarseli da dosso rimanendo sdraiata supina e solo dopo aver compiuto quell’operazione portò le dita sporche alla fronte.  Aveva avvertito qualcosa gocciare e non comprendeva se fosse sangue, qualche fluido indefinito, benzina o pioggia.
La pioggia. Le era tornata in mente in un flash. Il temporale che aveva segnato la fine della suo essere membro effettivo della yakuza continuava a perseguitarla.
“Vai principessa, corri”. Aveva detto così a Michiru.
Ancora lei nella sua testa, ancora lei ovunque.
Haruka riprese coscienza di sé, non sapeva per quale motivo ma voleva piangere e poi vomitare.
«Hey, agenti…» la voce le grattava la gola. Tentò di allungarsi verso i sedili anteriori anche se la vettura era sventrata in alcuni punti e accartocciata in altri come fosse stata fatta di plastica.
«Ragazze…» insistette sentendo il suo battito cardiaco accelerare sino a rimbombarle nelle orecchie.
«Haruka…» la voce era di Rei, il tono basso come se dovesse raccontarle un segreto inconfessabile.
«Haruka sono incastrata e mi sta venendo mal di testa» si lamentò cercando di riprendere vigore quanto meno nella voce.
«Dì alla tua ragazza di darsi da fare e slacciarti la cintura. Credo tu sia a testa in giù».
«La sicurezza innanzi tutto!» ridacchiò Rei per poi tossire rumorosamente e lamentarsi sommessamente per la sensazione di avere ogni singolo organo nel posto sbagliato e le ossa frantumate in migliaia di pezzi.
«Non riesco a capire cosa diavolo sta gocciando. Tu lo senti?» chiese la bionda quasi ossessionata da quel pensiero.
«Lo sento ma non…non arrivo a…oh». Rei non poté continuare a parlare poiché quando riuscì a mettere a fuoco la propria vista si girò verso il suo fianco ma rendendosi conto che qualcosa non quadrava. Mancava un pezzo importante a quel quadro e quando comprese cosa fosse ciò che le era sparito da sotto gli occhi le si annodò la lingua in gola.
«Rei…?».
Haruka non ricevette risposta.
«Rei, tutto bene?» insistette la bionda, compiendo uno sforzo immane per rotolare a pancia in giù e comprendere che il liquido dal quale non riusciva a distogliere l’attenzione non era nulla di buono.
«È benzina. Merda Rei, è benzina dobbiamo filarcela. Dì alla vecchia di-».
«No».
«Cosa?! Ma che caz-».
«No, Haruka. Lei non c’è».
La bionda s’immobilizzò.
«Come non c’è?!». La domanda era stupida ma il panico l’attanagliò come mai prima di quel momento. I suoi occhi azzurri sondarono l’asfalto e nel suo campo visivo riuscì ad intravedere l’altra vettura che non pareva essere in buono stato.
C’era del movimento. Qualcuno stava prendendo a calci o tentando di scardinare una delle portiere per crearsi un varco e nel bel mezzo della strada riconobbe Setsuna.
Aveva le braccia aperte come fosse una stella e il viso rivolto verso la volta celeste.
«Ok, l’ho vista. Ok, ti libero». Haruka strinse i denti e strisciò in avanti. Percepì Rei agitarsi e muoversi.
«SETSUNA!» la mora tentò di recuperare tutto il fiato per farsi sentire ma Haruka la bloccò mettendole una mano sulla bocca.
«Ehy, ssht. Zitta» tornò da prona a supina facendo forza sui gomiti e piantandosi qualcosa nel braccio. Lacrimò frustata e dolorante ma incitò ancora un momento Rei a tacere.
«È sopravvissuto qualcuno e credimi sarà incazzato come una iena. Non attirarli qui, piuttosto fingiti morta». Si augurò con tutta se stessa che l’agente Meiō stesse facendo lo stesso distesa sul cemento.
L’adrenalina le pulsò nella vene, dovevano togliersi da quella trappola che ben presto avrebbe preso fuoco e si sarebbe trasformata nella loro tomba.
«Haruka, è viva?».
«Non lo so» fu incapace di mentire e optò per la verità.
«Sanguini…».
«Pazienza».
«No sul serio sei completamente piena di-».
«Ti prego, non descrivere come sono messa Rei».
«Okay».
«Okay, occhio alla testa ti sgancio».
Rei fece un cenno di assenso col capo e ritrovò la libertà di movimento cercando di attenuare la scivolata a testa in giù, per poi potersi rimettere in una posizione più umana.
«Non hai una bella cera nemmeno tu».
«Abbiamo detto non si commenta» le rispose lei a tono.
Al di fuori di lì qualcuno riuscì a liberarsi dall’altro ammasso di ferro.
«La pistola. Dove cazzo è finita la pistola?».
Rei vide un paio di scarpe che si dimenavano per strisciare fuori e lei, invece, non sapeva nemmeno se le aveva ancora tutte e due ai piedi.
«Là. Una è vicino a Setsuna» la sua voce si macchiò di panico.
«Ok, vado io».
«No». Rei la bloccò con una mano ancorandosi al suo braccio. Doveva essere terrorizzata o forse solamente sotto shock e non voleva rimanere da sola.
«Rei, dobbiamo comunque uscire. Allontanati da questa cosa. Non so quanto tempo ci rimane».
La mora annuì e la spinse leggermente per aiutarla a strisciare all’aria aperta.
Intanto le due scarpe si erano messe in posizione eretta.
Haruka notò un movimento delle dita di Setsuna e valutò che o stava riprendendo coscienza in quel momento o forse si ritrovava agonizzante, ma non fingeva di essere morta, altrimenti si sarebbe ben guardata dal fare qualsiasi minimo movimento e sarebbe rimasta immobile.
Le due scarpe appartenevano all’uomo che era alla guida, lo riconobbe quando si chinò dicendo qualcosa all’interno dell’abitacolo.
Qualcun altro doveva essere sopravvissuto, forse il suo compare, o in una visione più rosea delle cose si sarebbe potuto trattare di Mimì.
Setsuna emise un gemito di dolore e Haruka dovette abbandonare i propri turbamenti mentali.
L’uomo si accorse dell’agente ancora vivo e barcollante si voltò in sua direzione.
La bionda rimase col fiato sospeso.
«Non mi dire…» si alzò e compì un passo. «Stupida puttana sei ancora viva?».
Rei lanciò uno sguardo ad Haruka, stava uscendo dalla parte opposta alla sua per allontanarsi dalla vettura, ma si bloccò.
«Adesso ci penso io a te» lui sogghignò luciferino, le peggior intenzioni gli si leggevano in volto e le due spettatrici nascoste vennero percorse da una scarica di brividi.
A fatica compì altri due passi e le fu vicino. Osservò la donna compiaciuto del suo sentirsi superiore; lui era lì, in piedi a stagliarsi sul corpo ferito di lei.
«Sei rimasta senza parole? Ti è volata via la lingua nell’urto? Non fate più tanto gli stronzi voi poliziotti quando ve la state facendo sotto!».
Il piede si mosse all’indietro caricando un calcio ben assestato nel fianco di Setsuna che gemette di dolore. Non riusciva a sentire null’altro che il sapore ferroso del sangue sulla lingua e un dolore lancinante trapassarla da parte a parte.
«Non implori? Se mi preghi potrei smetterla e porre fine a tutte le tue sofferenze».
Setsuna strinse i denti cercando di respirare, ma i polmoni sembravano aver indetto uno sciopero perché l’aria faticava ad arrivare.
Nella sua testa, l’unica cosa più forte del dolore che aveva invaso ogni fibra nervosa c’era il pensiero di Rei.
Ruotò il capo in direzione della carcassa dell’automobile e gli occhi riflessero l’immagine di Haruka che faceva forza sui palmi per darsi la spinta giusta.
Il secondo colpo rimase a mezz’aria perché la bionda si lanciò come una fiera affamata sulla preda che aveva osservato sino a quel momento.
Il gancio di Haruka affondò nella mascella dell’uomo che le vomitò addosso una valanga di insulti irripetibili.
Setsuna tentò di alzarsi invano dell’asfalto riuscendo ad udire la colluttazione accanto a sé.
Rei tra i vetri dell’auto e il gocciolare della benzina vide il luccichio sinistro della pistola che aveva sparato un colpo a vuoto durante l’incidente. Tentò di afferrarla ma le scivolò dalle dita tremanti della mano al primo tentativo. Aveva sempre avuto uno presa salda al poligono e anche al di fuori delle esercitazioni ma in quel momento era tutto “troppo” per qualsiasi essere umano presente in quel frangente di realtà nel quale erano state catapultate.
Respirò ancora una volta, riuscì nell’intento e si alzò per mirare all’uomo che aveva intrappolato in una morsa il tronco di Haruka che tentava di liberarsi da quel soffocamento.
Si muovevano troppo e il solo minimo margine di errore avrebbe fatto sì che venisse colpito il bersaglio sbagliato.
La bionda cacciò una gomitata ben assestata nello stomaco del malvivente. Urlò di dolore poiché il corpo era fin troppo provato anche senza gettarsi in una rissa da strada. Rei fece per premere il grilletto ma un crepitio di fiamme si levò dalla loro trappola a quattro ruote.
Fu nel momento che anticipò il boato dell’esplosione, quello nel quale lei si gettò in una corsa sfrenata per allontanarsi più in fretta possibile che un solo colpo rimbombò nell’aria.
 
 
Fu come se la corsa delle lancette si arrestasse senza alcun preavviso.
Lo scoppio fu talmente violento che Rei si ritrovò distesa sull’asfalto. Le ginocchia avevano ceduto sotto la spinta dell’esplosione o forse era stata lei a gettarsi d’istinto a terra per poi coprirsi il capo con entrambe le mani.
Le orecchie però avevano distinto nitidamente un colpo. Un sibilo di proiettile che aveva colpito la carne di qualcuno.
Non volle aprire gli occhi subito. Li tenne serrati per qualche istante sino a che le palpebre non furono costrette a riaprirsi nel sentire il grido disperato di Haruka.
Lo yakuza aveva preso per prima la pistola accanto al corpo di Setsuna e compiaciuto aveva puntato la canna verso di lei perché aveva capito che avrebbe causato un danno maggiore colpendo il bersaglio che aveva scatenato la reazione delle due donne.
Haruka riuscì a disarmarlo e senza più alcuna pietà ricambiò con la stessa moneta.
Fu in quel momento, quando le pupille nere dello sconosciuto sembrarono sparire nel bianco dei suoi bulbi oculari e il corpo cadde pesante a terra che riuscì a trascinarsi sino a Setsuna.
«Dio, che ho fatto?» la voce le uscì spezzata mentre le braccia riuscirono a sollevare il capo dai lunghi capelli spettinati della donna sul suo corpo provato.
«Non mi stai mai a sentire…» tossì Setsuna cercando di tamponare con una mano il punto dal quale zampillava sangue per colpa del proiettile. Sapeva benissimo sarebbe stato inutile, come aveva capito dal primo istante in cui aveva ripreso coscienza che le sue gambe erano andate.
«No è che io non l’ho colpito, io non ti ho-».
«Ssht, Rei non è da te» la riprese guardandola negli occhi.
Haruka dovette scostare lo sguardo da quella scena. Sfinita e con ancora la revolver in mano si diresse verso l’auto dei mafiosi per accertarsi che nessuno eccetto Mimì fosse sopravvissuto.
Rei soffocò un singhiozzo e cercò di dire quello che nei film il protagonista dice sempre «tieni duro, arriveranno i soccorsi».
Ma Setsuna non era preoccupata per sé stessa. Aveva passato una vita in ufficio preoccupata sempre per il prossimo e ignorando la propria salute, nonché la vita privata.
«Tu stai bene? Sei ferita da qualche parte?».
Rei non rispose. Era ferita laddove nessuno avrebbe potuto mettere alcun cerotto.
«Devi solo promettermi una cosa…».
«Non voglio fare alcuna promessa mi dirai tutto più tardi».
«Lo sai che non ci sarà un più tardi…».
«È colpa del tuo essere così stakanovista, dovevamo passare il pomeriggio assieme non al lavoro. Stavo venendo a casa ma tu-».
«Promettimi che non ce l’avrai con lei né con te stessa» la interruppe quando la vista le venne meno chiara e tutto si fece sfumato. Sentiva le sue dita sul viso e tra i suoi capelli, sentiva le sue lacrime calde caderle addosso ma sapeva che quegli occhi gli avrebbe visti ancora per poco. Anche se non avrebbe potuto chiedere di meglio in fin dei conti; avrebbe chiuso gli occhi guardando quello che era stato l’amore della sua vita. Un lusso che forse a pochi sarebbe stato concesso.
«È una testa calda, ma potrebbe diventare un bravo poliziotto…».
«Chi?».
«Haruka».
«Questa è forse la nostra ultima conversazione e tu mi parli di un’altra?».
«Te lo devo far promettere perché ti conosco e so benissimo come reagirai quando tutto questo sarà finito, comunque no. Se questa è davvero la nostra ultima conversazione-».
«Non lo è» la mora scosse il capo in segno di diniego. Scossa da un singhiozzo e dal pianto che mano a mano non riusciva più a controllare in alcun modo.
«Non sei brava a nascondere le cose» Setsuna tirò gli angoli della bocca verso l’alto. «Ma sono orgogliosa di te e…ti amo, Rei. Anche se sono stata poco brava a dimostrarlo alle volte o impacciata, ti amo. Ti ho amato come nessun altra…».
Setsuna avvertì il freddo della pallida falce carezzarle il corpo. La guardò e pensò che non avrebbe mai voluto cambiare la sua vita e se quello doveva essere il finale allora lo avrebbe accettato di buon grado. Guardò un’ultima volta la cosa più bella che si era conquistata e poi esalò l’ultimo respiro.
 
 
*** 
 
 
Il tempo non aveva più valora. Nessuna era più riuscita a comprenderlo. Haruka aveva trovato Mimì e dopo esser riuscita a liberarla dall’auto, sfinita, si ritrovò con le ginocchia a terra. Era come tornare a scuola, alle punizioni delle insegnanti che le ordinavano di rimanere in quella posizione il più a lungo possibile e le bacchettavano le mani.
Vide Rei posare le sue labbra su quelle di Setsuna per l’ultimo bacio dopo che la morte l’aveva portata con sé e poi non riuscì a far altro che guardarla piangere e perdere ogni controllo di sé gridando e tenendo stretto il corpo esamine della donna.
Tutto quel dolore era stato interminabile. Furono i lampeggianti di due auto della polizia e dell’ambulanza a farla ridestare.
Non si fece toccare, né tanto meno medicare. Un’unica chiamata al numero di Akira dal cellulare di un agente e rimase ad aspettare ancora.
Non aveva idea di cosa in realtà stesse attendendo. Tokyo forse le aveva divorato il cervello e lei sembrava non preoccuparsene.
I rumori, i suoni, tutto il mondo circostante si ovattò come quella volta sotto lo scrosciare incessante della pioggia.
Un paramedico le si avvicinò per controllarle la reazione pupillare e ancora accecata da quel fascio di luce bianca riuscì ad udire la voce dell’unica che riuscì a riportarla alla realtà.
«Oddio Haruka che ti è successo?» Michiru le corse incontro, mentre Akira fece gentilmente scostare il paramedico cercando di convincerlo a posticipare i controlli sull’amica di ancora qualche minuto.
«Sei ferita? Sei piena di sangue, Haruka stai bene?».
«Mi dispiace, principessa» non l’aveva più chiamata così da un’eternità e le era mancato.
«Cosa?» Michiru parve confusa oltre che preoccupata.
«Hai tutte le ragioni del mondo se non vuoi vivere in quella casa. Troveremo una soluzione anche se io, io sono questa infondo. Forse sono comunque un topo di fogna, ma ti amo e va bene così. Va bene se mi ricordi che io sono una di queste bestie, anche se non vorrei esserlo e-».
«Haruka…»
«Fammi finire».
Michiru soppresse ogni parola e le cinse il collo con le mani ignorando il sangue, lo sporco, i vetri incastrati nella felpa e qualsiasi altra cosa.
«Non voglio perdere più nemmeno un minuto a litigare. Voglio solo essere migliore, almeno per te. Perché se un giorno me ne andassi non voglio che tu faccia incidere sulla mia lapide che sono stata una poco di buono o…».
«Haruka, non sei un topo di fogna e tanto meno una poco di buono, io…mi dispiace. Ho reagito male, ho avuto paura e non ho ragionato ma è tutto ok adesso. Mi fido di te, così come ho sempre fatto».
 
Haruka tirò un lungo respiro quasi fosse stata in apnea per una vita e solo in quel momento si permettesse di respirare.
«Cos’è successo?» le chiese delicatamente Michiru con lo sguardo apprensivo di chi riesce a cogliere quando qualcosa di oscuro ti divora dentro. Non l’aveva mai vista in quel modo, come se si portasse dietro nient’altro che un’anima a brandelli.
«Solo un brutto incidente…».
«E…?».
«Non guidavo io, lo giuro» tentò di minimizzare la bionda.
Michiru capì che quello non era nient’altro che un’armatura di sarcasmo e che evitare ciò che la feriva non l’avrebbe di certo guarita.
«Non scherzare…cos’è successo davvero?».
Non seppe cosa fosse quello che sentiva dentro ma Haruka trattenne malamente un sonoro singhiozzo.
Michiru la strinse senza attendere oltre. Dapprima ebbe paura di farle male, non aveva idea di dove fosse ferita o cosa le dolesse ma poi non poté far altro che avvolgerla in un abbraccio caldo e cercare di calmare quel terremoto che sembrava le stesse lasciando una strana voragine dentro.
«Sono qui…» le sussurrò all’orecchio con voce morbida e rassicurante. «Ci sarò per sempre».
Ma Haruka aveva appreso proprio quella sera che nulla al mondo era eterno, nemmeno l’amore. Perché ci sarebbe sempre stato qualcosa o qualcuno pronto a strappartelo via.
 
 
*** 
 
 
Tokyo sapeva pianger per davvero.
Una cantilena di tuoni aveva accompagnato i passi lenti e cadenzati dei quattro agenti di polizia che portavano in spalla la bara della poliziotta esemplare, caduta combattendo per la giustizia.
Rei sfilava con loro in un abito color borgogna e stretta in un cappotto nero. Non aveva voluto indossare la divisa poiché per la sua donna aveva sempre voluto mostrarsi solo al meglio.
Da dietro le lenti scure del paio di occhiali da sole, indossati solo per nascondere quanto dolore navigava nelle sue iridi, intravide Haruka - accompagnata da Michiru – alle spalle della folla stretta nel cimitero.
Sentì una stretta allo stomaco. La bile sembrò riversarsi nel suo intestino e bruciarle sino in gola.
Haruka era una yakuza e si trovava nel posto meno adatto al momento meno adatto sulla faccia della terra. Ma poi le venne in mente Setsuna. Si ricordò le sue ultime parole e di come aveva previsto ogni suo pensiero futuro.
Per lei Haruka non era più solo un membro della yakuza ma una partner che avrebbe fatto carriera. Qualcuno che avrebbe potuto archiviare e portare a termine il caso che l’aveva uccisa.
Haruka era la rivincita di Setsuna in terra, non qualcuno sul quale vendicarsi inutilmente.
 
La bionda le rivolse un cenno col capo.
Un gesto impercettibile di solidarietà.
Un “sono con te” silenzioso o qualcosa di simile.
Rei non riuscì a risponderle. Poggiò sul legno scuro la bandiera della patria per la quale Setsuna era caduta.
Ricordò la sua voce.
Ricordò il suo tocco.
Poi la lasciò andare. Lo fece sotto strati di terra trattenendo il dolore lancinante che le pizzicava gli occhi e la gola.
Man a mano la folla si disperse. Rimasero pochi intimi fino a che non calò un silenzio simile all’eternità che l’avrebbe separata da Setsuna.
Rei mandò un ultimo bacio poi si voltò fissando le spalle di Haruka incurvate un po’ in avanti e si allontanò da quel luogo.
Tokyo sogghignò con le guance bagnate di pioggia, mentre qualcuno poggiò uno splendido fiore di ricino sulla sua tomba di Setsuna.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Tokyo in red ***


Capitolo 7
Tokyo in red
 

 
Una cascata di capelli blu ridisegnava le onde marine sul cuscino. La pelle candida di Michiru era morbida come la neve fresca appena caduta sotto il tocco della sua amante. La sua schiena s’inarcò verso l’alto come la marea agitata dal vento; e il vento che la scuoteva tanto da farla tremare era Haruka. L’alito caldo e profumato della bionda, i suoi baci umidi su ogni centimetro di quel corpo giovane e perfetto che conosceva a memoria e di cui non si stancava mai di ripassarne i piccoli particolari erano una vera e propria tramontana.
Le pareti della stanza erano ancora intrise della loro passione, di quell’amore morbido e caldo che sa fare solo chi sa di appartenersi.
Michiru passò le dita affusolate tra i capelli color grano di Haruka liberando un altro piccolo gemito strozzato di piacere.
«Quando mi sposerai?» le domandò rauca all’orecchio, «non voglio più aspettare».
Michiru sorrise lasciandole un bacio sulla fronte accaldata della compagna.
Haruka aveva lo sguardo di chi pregava di non dover aspettare ancora, come se tutti i giorni passati dal momento in cui le aveva fatto la propria proposta, non fossero altro che lo scandire lento ed inesorabile dell’agonia che divide un malato terminale dal trapasso. E il suo male incurabile aveva un nome e lunghi capelli scuri, le era entrato dentro come un veleno. Setsuna, o meglio la sua morte, aveva fatto scattare qualcosa in lei.
Ogni notte si svegliava con l’eco dell’urlo straziato di Rei nelle orecchie, con le fiamme e gli spari di quella notte ancora impressi sulla retina cristallina e ad ogni risveglio aveva l’amara consapevolezza di non essere più la stessa.
«Non sapevo un dragone covasse così tanta fretta!» scherzò Michiru, lo fece in modo delicato poiché quello di sposarsi era un suo profondo desiderio.
«Succedono troppe cose, va tutto troppo in fretta» sospirò Haruka adagiandosi mollemente sul seno della sua dea del mare.
«Non tormentarti, Haru».
Haruka s’impegnò a darle retta eppure non riusciva più a cambiare idea.
«Organizza tutto tu. Alle ragazze come te piace fare questo tipo di cose, no?!».
Michiru soffocò una risatina.
«Perché a quelle come te non interessa?».
La bionda non aveva mai fantasticato sulle nozze, nemmeno da bambina. A lei non erano mai interessate le bambole e i vestitini, aveva sempre avuto l’indole del maschiaccio e non si era mai premurata di ritagliare dai giornali di moda abiti bianchi femminili o cose affini.
Haruka alzò leggermente il capo per guardarla.
«L’unica cosa per cui avrei da dire potrebbe essere l’auto o la moto in sella alla quale arriverò. Hai carta bianca per il resto!».
«La tua vena romantica è davvero insuperabile…» la prese in giro Michiru per poi stringerla ancora a sé, al sicuro, dove niente l’avrebbe potuta strappar via da lei.
 
 
***
 
 
Quanti giorni erano passati dall’ultima volta che aveva sentito il suo calore nel letto? Quella era la domanda a cui Rei non trovava risposta e alla quale pensava incessantemente. Aveva cercato con tutta se stessa di non lasciar andare il profumo di Setsuna, di ricordarlo e tenerselo addosso come se potesse far parte di lei per sempre. Il suo calore se n’era andato, la sua voce, la presenza fisica, ma fino a che sarebbe rimasto quello, allora, non tutto di Setsuna sarebbe stato perduto.
Rei sapeva che i ricordi potevano cadere facilmente nell’oblio e che un giorno quei tratti che aveva accarezzato e amato per mesi interi, si sarebbero fatti via via più sbiaditi fino a confondersi in qualcosa che non avrebbe più avuto le sue vere sembianze.
Tutto si dimentica, nemmeno le persone sono immuni a questo processo. E per Rei sarebbe stata l’ultima possibilità di averla con sé se fosse riuscita ad invertire quella che aveva le sembianze di una legge fisica e senza possibilità di cambiamento.
Nella penombra della stanza strinse a sé il maglione di Setsuna, quello che al lavoro non usava mai, ma portava sempre con sé perché era stato uno dei primi regali che Rei le aveva fatto.
Più si sforzava di trattenerla, più Rei provava dolore. Ma di lasciarla andare non se ne parlava e cadeva continuamente in quel maledetto circolo infernale. Se provava un po’ di sollievo nell’illudersi di averla lì, triplicava la sua sofferenza rendendosi conto che in realtà non c’erano più carne e ossa a cui aggrapparsi.
La ragazza soffocò un singhiozzo. Era stanca di sentire la sua voce rotta dal pianto eppure non riusciva a bloccarlo. Rei aveva la sensazione che qualcuno avesse manomesso i suoi rubinetti interiori e non ci fosse alcun modo di arginare quell’allagamento che prima o poi l’avrebbe fatta annegare. La gente non muore affogando solo nei fiumi o in mare, lo fa anche sé non riesce a governare le proprie maree e il suo personale maremoto di dispiaceri avrebbe affievolito ancor di più quella fiamma che aveva sempre arso in lei, quella forza che aveva fatto innamorare l’agente Meiō. Fu in questo che trovò la forza di alzarsi, il pensiero che da qualche parte Setsuna la stesse osservando scuotendo il capo delusa.
Rei prese un profondo respiro. Col dorso della mano asciugò le lacrime che le scivolavano ancora copiose sulle gote e si diresse in bagno.
Le prese quasi un colpo nel vedere il suo riflesso allo specchio. Il riflesso che conosceva sembrava davvero lontano da ciò che i suoi occhi avevano paura di soffermarsi a scrutare.
Si lavò il viso, premette con i polpastrelli contro la pelle come se dovesse liberarsi di uno strato invisibile di colla e cercò di riprendere il controllo di sé e della propria vita.
Respirò ancora una volta. Doveva farlo ad intervalli regolari per non ricadere nella disperazione.
Si pettinò e legò i lunghi capelli in una coda ordinata. La doccia però non la fece. Voleva tenersi ancora un po’ di quei ricordi addosso. E la parte più difficile fu aprire le ante dell’armadio e vedere che tutti i vestiti dell’altra erano ancora lì, nello stesso identico ordine, divisi per colore e con la medesima piegatura. Come se non fosse cambiato nulla, come se di lì a poco la porta avesse potuto aprirsi e farla entrare.
Rei ci sperò ma quando sentì i bulbi oculari pizzicare smise di farlo.
Si concesse l’uniforme, il colore rosso della passione doveva rimanere chiuso nell’armadio con gli effetti personali di chi aveva meritato il suo amore, poi uscì di casa.
Era Setsuna quella che guidava l’auto. Rei non ricordò nemmeno dove fossero finite le chiavi, così si diresse alla stazione metropolitana più vicina per raggiungere il luogo di lavoro.
Camminò in mezzo alla gente, evitando di avere qualsiasi minimo contatto. Lo sguardo piantato al suolo, perché in cielo l’unica cosa interessante che ora c’era da vedere era celata ai suoi occhi.
Il tempo sembrava essersi fermato, ma il mondo continuava ad andare avanti, Tokyo era in continuo movimento e lei non riusciva più a starle dietro.
In centrale le avevano dato due settimane di riposo, quello doveva essere il suo quarto giorno di esclusione dal mondo, ma Rei capì di non poterselo permettere. Doveva finire quello che Setsuna aveva cominciato, doveva arrivare a capo dell’enigma, trovare la regina rossa e fargliela pagare per vendicarla. Con quell’ obbiettivo a spronarla spalancò la porta della centrale. Un mare di teste si voltarono alla sua entrata. C’era chi rimase a labbra schiuse e chi cercò di tornare con gli occhi sul proprio lavoro per non lanciare occhiate indiscrete. I telefoni continuarono a squillare e anche quel posto per un attimo fu invaso dall’immobilità, come se la lentezza della vita che percepiva Rei potesse essere contagiosa.
La ragazza, a testa alta, camminò dritta verso l’ufficio che era stato di Setsuna e con uno schiocco di dita disse al ragazzo che l’aveva informata del Ricino di seguirla.
«Miss Hino, credevo che…».
«Credevi male. Dimmi, come ti chiami?» domandò lei continuando a marciare per il corridoio incurante degli sguardi sbigottiti che i colleghi le riservavano.
«Come?».
«Non so come chiamarti, dannazione, se non mi dici il tuo nome!».
Eccola la fiamma. Emise uno scintillio dentro di lei accendendole la voce.
«Sadao Chiba, miss Hino».
«E smettila di chiamarmi MISS!».
«S-si signora Hino».
Rei roteò gli occhi bloccandosi davanti alla porta e portando una mano sulla maniglia. Tentennò. Una parte di lei era pronta ad aprirla e a trovare reclinata sulla scrivania Setsuna con le mani nei capelli e il caffè ancora bollente a macchiare qualche pratica della pila infinita che conservava sul tavolo. L’altra parte di sé invece temeva il vuoto che doveva aspettarsi oltre quella soglia.
«Chiba-Kun. Non sono una vecchia signora. Agente Hino, andrà bene. O solo…Rei».
Il ragazzo scosse timidamente il capo in un cenno di assenso. Era davvero giovane, forse persino più di lei.
«Chiba-Kun ora siamo una squadra dobbiamo arrivare a capo di questa faccenda».
«P-perché io, se posso chiedere?».
Rei mostrò un’espressione accigliata.
«Credi di non esserne in grado?».
L’altro cercò invano di non balbettare e a disagio non ebbe il coraggio di puntare il suo sguardo in quello della ragazza.
«È che ci sono, almeno altri cinque novellini migliori di me, a-agente».
«Ti ho scelto perché gli ultimi giorni tu sei stato con lei più di me, più di chiunque altro forse. Te lo chiederò un’ultima volta…» prese fiato, «pensi di non esserne in grado?».
Il ragazzo apparì contagiato improvvisamente dall’ardore dell’altra. Gonfiò il petto, accennò un saluto militare e scandì a parole sicure «sarò all’altezza del compito!».
Rei fu tanto soddisfatta da riuscire ad accennare un leggero sorriso che però rivolse alla porta di fronte a sé.
Fece scattare la maniglia; il neon sempre acceso emise il suo consueto sfarfallio. E in quell’alternassi di buio e luce, socchiudendo appena gli occhi, tra le ciglia le scivolò piano la sagoma sfocata di Setsuna.
Le stava sorridendo ne era più che sicura.
 
 
***
 

«Questa è la nostra scaletta. Il nostro piano d’azione!» sottolineò con l’indice alzato Minako nella sua salopette a margherite.
Michiru ispezionò attentamente il foglio mentre Akira si ritrovò ad annaspare in mezzo a quell’elenco inchiostrato di punti e informazioni infinite.
«Io cosa centro? Non sono una damigella» disse con tono lamentoso alla propria ragazza. Sapeva che nessuno poteva averla vinta contro una donna, men che meno se quella in questione era Minako in procinto di organizzare un matrimonio.
«Non sei una damigella ma sei il testimone dello sposo-sposa».
«Suona strano».
«Non dire “strano” potrebbero offendersi le spose» lo riprese la bionda con tono grave.
«Scusa Michiru, non volevo essere offensivo ma…».
«Nessuna offesa Akira!». Michiru liberò una risata dalle labbra lucide dal gloss.
«Perché non hai scelto tua sorella per il compito?» le domandò in un sussurro e con lo sguardo di uno prossimo alla sedia elettrica.
«Verrà anche lei, ma non può aiutarmi a pieno. È sempre in ospedale…e poi Minako è una che ci sa fare con queste cose e…».
«Su, non perdiamo tempo. Al punto numero uno, come potete vedere c’è l’abito della sposa!» li interruppe Minako con una punta di follia, degno di una maniaca del controllo, negli occhi.
«Io non m’intendo di…».
«Akira, amore, prima che tu dica qualcosa di molto sbagliato…TU, ti occuperai di quello di Haruka».
«Ah». Il ragazzo si grattò la nuca interdetto e tentò di mordersi la lingua per non far perdere la pazienza alla sua fidanzata. Minako poteva essere un angelo quanto una pazza schizzata se in mancanza di zuccheri le si faceva perdere la pazienza, soprattutto in situazioni che necessitavano cura per i particolari come per un matrimonio.
«Qual è il problema adesso?» lo interrogò un’ultima volta portando le mani ai fianchi.
«Ehm…ecco…Haruka ora non è disponibile per, per il vestito».
«E perché mai, tesoro?» sottolineò il nomignolo con un enfasi quasi minacciosa, per poi compiere un paio di passi più vicini a lui.
Akira non aveva timore delle sparatorie o dei malviventi, ma nutriva un puro terrore per lo sguardo inquisitore femminile. Quello dal quale non si può scappare e che ti caverà anche i tuoi più oscuri segreti di bocca.
Haruka gli aveva detto di mentire, lui doveva essere un buon amico e coprirle le spalle, ma quando era il momento del confronto con Minako le difese cadevano e la parola data veniva meno.
«Horimono» si fece scappare in un sibilo.
«CHE COSA?!». Questa volta il tono acuto venne emesso dalle labbra di Michiru. Non era solita perdere la calma, ma forse, per una sposa quella era una cosa più grave del previsto o almeno fu quello che passò per la testa di Akira, poco disposta a trovare soluzioni differenti a quella che era una tortura legalizzata nei suoi confronti. Nessun uomo al mondo sarebbe potuto sopravvivere all’ira di una sposa e a quella della sua fidata damigella e anche Haruka se avesse continuato ad assolvere ai suoi doveri da Oyabun del clan non l’avrebbe passata liscia.
 
***
 

Sadao e Rei rimasero immersi nel silenzio della stanza per una buona mezz’ora. Entrambi chini col naso su un ammasso di appunti che riportavano la scrittura di Setsuna e una pratica scritta al computer. Dovevano ripercorrere ogni minimo particolare, entrare nella testa di Setsuna per battere la stessa pista che avrebbe seguito lei. Se c’era una cosa di cui Rei aveva la certezza era che l’intuito di Setsuna per i casi come quello era infallibile.
«Ho bisogno di sapere se lei ti ha detto qualcosa che non ha fatto in tempo a scrivere…» quelle parole si fecero pesanti come massi e Rei dovette deglutire più di una volta per permettersi di digerirle. Quel non ha fatto in tempo le ricordava che la vita a disposizione di Setsuna era finita esattamente come la sabbia all’interno di una clessidra impossibile da ribaltare nuovamente.
Sadao ci pensò su portandosi un dito al mento e sistemandosi meglio contro lo sportello dell’armadietto riportante documenti e pratiche archiviate.
«Si stava concentrando sulle culture di Ricino presenti in città. Lo so perché mi ricordo la conversazione che abbiamo avuto quando le ho portato le analisi della scientifica».
L’ultimo compito che Setsuna aveva dato a Rei da assolvere. Forse quell’ultimo punto, l’ultima loro telefonata era esattamente quello da cui ripartire.
Rei annuì, ispezionò tra i fogli scritti a mano un’altra serie di elementi e quando voltò pagina qualcosa le cadde sulle ginocchia.
Era una sua fotografia, risaliva più o meno ai tempi della scuola perché portava ancora indosso l’uniforme. Setsuna doveva averla staccata di soppiatto da uno dei suoi album di foto.
L’angolo destro delle labbra di Sadao si alzò leggermente verso l’alto.
«Quando era sola la teneva sempre sulla scrivania, anche a notte tarda. La riponeva solo prima di tornare a casa…lo faceva davvero con cura».
Le guance di Rei s’imporporarono appena ma non poté ribattere imbarazzata che il comandante fece il suo ingresso nell’ufficio.
«Hino, che ci fai qui?» domandò stralunato, mentre un brusio continuo proveniva dal corridoio.
«Non ho bisogno del mio periodo di riposo, signore. Sono tornata al lavoro» si apprestò a rispondere nascondendo la foto in una tasca dei pantaloni.
«Hino, ammiro il tuo darti da fare ma…» sembrò dover cercare le parole e si schiarì la voce come quando doveva dare una notizia poco piacevole. «Sei assolta dall’incarico».
«Cosa?!» le mani di Rei si strinsero in due pugni. Uno poggiato sulle ginocchia, l’altro fermo sulla superficie ricoperta di documenti intento a non tremare per la rabbia.
«Sei troppo coinvolta in questa faccenda».
«Signore» Rei si alzò con sguardo deciso e voce ferma. «Ho seguito il caso sin dall’inizio con l’agente Meiō. Sono stata su tutte le scene del crimine, ho visto-».
«Non costringermi a ritirarti la pistola e il distintivo. Il tuo aiuto sono sicuro sia stato davvero prezioso, ma non andrà perso. Il detective Jadeite apprezzerà sicuramente il tuo lavoro e riuscirà a venirne a capo. Questo è tutto».
Il crepitio di fiamme si fece prepotente in Rei, era la rabbia a scoppiettarle dallo stomaco e ad irradiarle calore in tutto il corpo.
Il suo superiore abbandonò la stanza riservando un gesto di saluto al nuovo arrivato.
Gli occhi scuri di Rei entrarono in collisione con le sue iridi chiare. Erano di un celeste quasi accecante. I capelli biondi le ricordarono quelli di Haruka e lei desiderò averla accanto perché sarebbe stata un’alleata preziosa, Setsuna l’aveva predetto e sembrava esserne davvero sicura in punto di morte.
«Mi dispiace per la tua perdita. Mi hanno detto eri molto legata alla tua partner». Il ragazzo allungò una mano verso di lei, ma la stretta non venne ricambiata.
«Andiamo Sadao» disse in tono piatto scansando la figura del biondo.
«Buona fortuna col mio preziosissimo contributo».
 
 
***
 
 
Haruka entrò nello studio del tatuatore tradizionale. Sapeva che per essere credibile come Oyabun avrebbe dovuto fare cose poco piacevoli, ma in segno di fedeltà alla propria ikka. Quello era il primo passo da fare. Dovette combattere col senso di nausea nel pensare di tatuarsi qualcosa che l’avrebbe marchiata come uno di quelli che senza pietà avevano fatto fuori Setsuna. Un horimono sarebbe stato per sempre. Un maledizione sulla propria pelle che l’avrebbe messa al pari di Daisuke, di chi aveva fatto fuori e di quei confratelli che avrebbe tradito. Ma quello oltre che un’etichetta sarebbe stato anche uno scudo, una protezione per Michiru. Combattere per chi si ama non è mai abbastanza e Haruka avrebbe affrontato anche questo.
Un vecchio dall’aria gracile e le braccia piene di demoni neri l’accolse. Le fece cenno con una mano di entrare.
«Non più di tre ore» sentenziò, scostando una tenda per farla passare attraverso uno stretto corridoio riportante diverse schiene interamente tatuate nel corso del tempo.
Haruka lo sapeva bene. Non si trattava di un normale tatuaggio, il dolore al quale si veniva sottoposti era troppo intenso per tanto le sedute non potevano durare più di tre ore.
Gli occhi cobalto si posarono su una ad una di quelle immagini, per alcuni di quei disegni c’erano voluti dieci anni di lavoro e chissà a quale delinquente appartenevano quelle parti del corpo.
La bionda trattenne il respiro. Nessuno era a conoscenza della sua identità lì dentro, ma il tatuatore si sarebbe certamente accorto che lei non era esattamente un uomo.
«Di qua».
L’uomo la guidò sino alla quinta porta e la fece accomodare.
«Sai cosa vuoi farti tatuare?».
Haruka pensò al dragone sul braccio di Akira, al simbolo della loro casata.
«Si, un dragone».
Il vecchio fece un cenno di assenso col capo e le passò il libro contenente i diversi tipi di drago che si eseguivano nel suo centro.
Prese un pezzo di bambù e vi incastrò una serie di piccolissimi aghi.
«Vado a chiamare mio figlio, tu decidi e spogliati».
Haruka sospirò. Si guardò allo specchio presente davanti a sé e s’impose di rimanere calma. Sbottonò la propria camicia e gettò un’occhiata attraverso la tenda di madreperla che la divideva da uno stanzino comunicante.
Una cascata di lunghi capelli rossi pettinati in una treccia pendeva dal lettino e sulla pelle diafana di quella che pareva una giovane donna, svettava su un fianco una corona rossa.
Haruka strizzò gli occhi. Aveva già visto qualcosa di molto simile eppure non riusciva a creare una connessione stabile con quel ricordo.
Si sforzò di pensare, col presentimento si trattasse di qualcosa di estremamente importante e in quel momento il cellulare suonò.
«Cazzo» sibilò nel vedere il numero di Rei.
Prese la chiamata grugnendo sottovoce un «Non è propriamente il momento né il luogo adatto».
«Siamo fuori dal caso. Ci hanno rimpiazzato».
«Come? Tutte e due?».
Per un momento non seppe come prendere la notizia. Meno contatti con la polizia non le avrebbero fatto male essendo ormai un’infiltrata.
«Non lo so, parlo di me. Accidenti, non so un bel niente di te. Ma senti…Setsuna si fidava, ok? Quindi devi aiutarmi».
«Ah si? Devo?».
«Oh fanculo. Sei l’ultima persona con la quale vorrei parlare sulla faccia della terra e…».
«Quanti complimenti, non posso davvero non accettare allora» biascicò sarcastica portando una mano davanti alle labbra per mantenere più riservatezza possibile.
«Metteranno sotto chiave i documenti».
«Sveglia, Rei. Noi abbiamo una cosa che aveva anche Setsuna e di cui loro non sanno nulla…comincia da lì».
All’altro capo seguì un momento di silenzio, ma poi la voce di Rei si fece squillante come se l’illuminazione l’avesse accecata in pieno.
«Mimì».
Haruka sorrise debolmente e dovette chiudere la chiamata infilando maldestramente il telefono in tasca.
Un uomo rasato, alto come una montagna e un pizzetto nero pece entrò presentandosi come quello che avrebbe eseguito quell’opera d’arte sulla sua pelle.
La bionda deglutì. La coda dell’occhio scivolò nuovamente su quel fianco di pelle chiara macchiato di scarlatto.
Si sdraiò sul lettino e nel fissare il disegno un ricordo non la tradì. Il cadavere. Nel bel mezzo del suo horimono c’era lo stesso identico tatuaggio.
L’uomo borbottò una sorta di preghiera prima di cominciare ad incidere il dragone nel bel mezzo delle sue scapole.
Ad Haruka i primi fori apparirono come una serie di piccole pugnalate e nel bel mezzo di quell’agonia inchiostrata, con un fruscio leggero, lo sguardo della donna rossa incrociò il suo. Rotolò dentro quel cobalto lucido di lacrime trattenute per soffermarsi sulle sue labbra schiuse.
La sconosciuta le sorrise, un sorriso bello ma allo stesso tempo inquietante come quello che probabilmente appartiene alla morte se identificata con una bella donna.
Haruka non riuscì a ricambiare, tutti i suoi muscoli erano come paralizzati e le pupille nere puntate su quell’incurvatura che le era appena stata dedicata; una strana sensazione le attanagliò lo stomaco e per qualche oscuro motivo si sentì come se la donna rossa l’avesse riconosciuta.
 


Note dell'autrice:

Mie care Loganiane eccomi con un nuovo capitolo. 
Mi sono auto inquietata con questo finale, è mai possibile? Mi rendo conto che stare dietro a tutti gli indizi seminati nel corso della storia non è semplice (manco per me e spero di non perdere colpi e dimenticarmi le cose e scrivere boiate) figuriamoci se può esserlo per i poveri protagonisti della ff!
Bando alle ciance, so che il capitolo non è all'altezza del precendente. Intendiamoci, in "Say goodnight" abbiamo avuto azione, drammaticità e chi più ne ha più ne metta. Non posso però farli tutti così o stermino mezzo mondo e direi che già un grosso danno è stato più che sufficiente. Tuttavia spero possiate apprezzare anche questo...ditemi la vostra e soprattutto, cosa ne pensate dell'entrata in scena di Jadeite? (non ha un cognome questo cristiano?).
Un baciotto.

Kat
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Dèjà vu ***


Capitolo 8
Déjà vu
 

 
“You'll never know what hit you
Won't see me closing in
I'm gonna make you suffer
This hell you put me in
I'm underneath your skin
The devil within
You'll never know what hit you
I will be here
When you think you're all alone
Seeping through the cracks
I'm the poison in your bones”
 
(The Devil Within – Digital Daggers).
 
 
Il crepitio del fuoco e la luce fioca illuminò le pareti del tempio. Una brezza leggera soffiò da est ma era ben lontana dallo scalfire le lingue aranciate danzanti nel buio. Rei ne era affascinata. Il calore delle fiamme era avvolgente e rassicurante per lei; era come ipnotizzata da quello sfrigolare di scintille incandescenti.
Il peso calato più sulla punta delle dita che sui talloni, una lunga fila di passi in sua direzione e poi il loro svanire d’improvviso.
L’alito caldo di Setsuna le solleticò la linea del collo, poi fu il turno delle sue labbra. Si schiusero con un flebile schiocco e le sussurrarono all’orecchio parole basse come i macigni che Rei aveva dimenticato nel suo stomaco.
La giovane non diede peso a quel messaggio, si beò della sua presenza socchiudendo gli occhi.
Il buio sotto alle palpebre venne illuminato solo da fievoli macchie color ocra e la voce di Setsuna al suo orecchio cantava una vecchia canzone.
Quando il canto cessò riconobbe una frase “segui il rosso, non ti fermare”.
Rei riaprì le palpebre e nel fuoco vide un’immagine dapprima confusa poi sempre più nitida.
Un’auto in corsa. E un’altra scena ancora, sempre più familiare tanto da farle percorrere la spina dorsale da una lunga scia di brividi che la scossero.
Quella che vide era la loro auto cappottata, poi lo scoppio avvenuto dopo l’incidente.
Il terrore l’attanagliò ma Rei non riuscì ad urlare. Fece per voltarsi e vedere il viso di Setsuna ma non ci riuscì. Le era impossibile muovere anche un solo muscolo.
Deglutì e le fiamme persero il loro fascino.
Un tocco sulle sue spalle e due mani che s’intrecciarono all’altezza della vita stringendola saldamente.
Rei inspirò ed espirò. Udì un battito prepotente all’interno di una cassa toracica, ma quel battito non apparteneva a Setsuna. Aveva passato notti intere ad ascoltare il suo cuore e il ritmo era differente, le pause tra una spinta e l’altra contro le ossa non coincidevano con quelle che l'avevano cullata nelle notti più buie. Nemmeno le mani erano quelle che aveva conosciuto e l’avevano accarezzata tra le lenzuola che odoravano di fresco nei torridi pomeriggi estivi in cui il canto delle cicale era più forte di ogni altro rumore.
La ragazza tentò di dimenarsi da quella stretta senza alcun risultato.
Il falò si era spento e tra i fumi della cenere, nella penombra, scorse il suo riflesso nello specchio.
Buio profondo attorno a lei e il sorriso di Jadeite alle sue spalle.

Gli occhi le si spalancarono e un urlo disumano le sfuggì dalle labbra rosee. Rei si alzò di scatto, scalciando le lenzuola e cercando di riprendere il controllo di se stessa. Era ferma come una statua di sale a fissare il buio.
Poteva percepire ogni singola goccia di sudore scivolarle sulla pelle e i nervi tesi come corde di violino tentare di sciogliersi. Contò mentalmente fino a cinque, deglutì e ruotò il capo in direzione della specchiera. Non vi era alcun riflesso se non la sua sagoma scura, sia Setsuna che Jadeite erano scomparsi.
 
 
***
 
“Hanno messo sottochiave tutta la documentazione questa mattina. Il detective Jadeite è l’unico che può accedervi al momento…”.
Sadao, spalle dritte sul sedile, guidava cauto in mezzo al traffico di punta. Rei non sapeva se lo facesse per tatto nei suoi confronti o meno, ma di certo era una di quelle persone sempre controllate alla guida.
Dall’accaduto, nonostante non volesse ammetterlo nemmeno a se stessa, Rei non riusciva più a tenere le mani sul volante. Così si era fatta venire a prendere dal suo nuovo sottoposto senza sentirsi in colpa di averlo degradato ad autista.
“Non preoccuparti non ti farò passare dei guai col capo” disse la mora guardando distrattamente oltre al vetro la fila di macchine ferme nella corsia a fianco.
“Non ho paura” sentenziò lui con voce ferma “siamo una squadra ora, lo ha detto lei agente Hino”.
Una squadra. Rei non poté fare a meno di pensare che anche con Setsuna e Haruka era stata una squadra e qualche ingranaggio nel loro meccanismo doveva aver fatto cilecca perché avevano perso un membro. Forse Sadao ancora non sapeva che essere un team non portava necessariamente fortuna, ma Rei tenne quel timore per sé; lo soffocò senza esternarlo così come faceva quando doveva fare i conti con la propria perdita.
“E siccome lo siamo…” il ragazzo sorrise trionfante e il suo entusiasmo ne contagiò il tono di voce che da intimidito si fece più squillante, “abbiamo un vantaggio in più”.
“Si, certo. Stiamo andando dal nostro vantaggio” lo interruppe Rei poco in vena di far conversazione.
“No, no non intendo la ragazza. Come ha detto si chiama?”
«Mimì» rispose perentoria lei.
“Non intendo Mimì” Sadao rallentò ed entrò nel parcheggio dell’ospedale attento a sostare senza recare danno ad altre vetture né alla propria.
“Guardi sul sedile posteriore”.
Rei con fare svogliato si sganciò la cintura. Le falangi tremarono a quel gesto e dovette sforzarsi di non rivedere Haruka insanguinata dietro di lei.
Ma ciò che trovò alle sue spalle non fu la bionda. Rei trattenne il respiro e la sua espressione prese le tinte del più profondo stupore.
“Come hai fatto?!”.
Il motore dell’auto tornò a dormire e Sadao la guardò come un cucciolo in attesa dell’approvazione del proprio padrone.
“Sono riuscito a prendere una delle cartelle prima che mi facessero svuotare la sua scrivania. Non c’è molta documentazione, ma è meglio di nulla e loro avranno dei buchi nell’indagine. Credo siano loro quelli svantaggiati, nonostante noi dovremmo essere quelli fuori dal caso…”.
Nonostante la sua ingenuità Sadao era più furbo di quanto si potesse pensare e probabilmente Setsuna lo aveva capito sin dal principio visto che aveva cominciato a mettere sotto torchio proprio lui.
Rei, ancora incredula, gli batté una pacca sulla spalla.
“Ben fatto”.
 
***
 
Superarono le porte automatiche chiedendo all’infermiera di turno dove si trovasse la paziente.
Rei e Sadao salirono in silenzio le scale sino al secondo piano, attraversarono il lungo corridoio impregnato dal pungente odore di alcool e disinfettante, sino a che la giovane tentennò quando la sua attenzione venne catturata da un candido braccio penzolante da una barella posta in corridoio. Il lenzuolo ricopriva l’intera figura, ma riconobbe l’arto come quello appartenente ad una donna dalle unghie ben curate, dipinte di un intenso verde scuro.
Rei sbiancò sentendosi venir meno. Sapeva di averla seppellita, sapeva di aver scelto il vestito per il suo ultimo giorno sulla terra, sapeva di averla stretta fra le braccia prima che anelasse il suo ultimo soffio vitale, eppure, Setsuna era ovunque e si ostinava a perseguitarla.
“Tutto bene?” indagò Sadao con voce tremolante. Gli ospedali non gli erano mai piaciuti, la sola vista degli aghi lo mandava fuori di testa e pensare che Rei potesse svenire da un momento all’altro non lo rendeva più tranquillo.
“S-si”.
Lei dovette farsi forza, mandare giù il nodo in gola, stringere le palpebre e fare un paio di passi in avanti per superare quel corpo senza vita che l’aveva completamente bloccata sul posto.
“Agente Hino…” insistette lui vedendola ancora assente.
“Si, Sadao, dannazione sto arrivando”.
“No, è che…”.
“COSA?!” sbottò Rei sgranando le iridi e prendendo a sudare freddo.
“Ci sono…due energumeni fuori dalla stanza” borbottò con un filo di voce il ragazzo per poi ostentare uno sguardo da cane bastonato e riportarlo subito dopo sui propri piedi.
“Ma che cavolo…” la morettina si concentrò sul nuovo mistero riuscendo così a procedere a passo deciso sino alle due figure imponenti che come guardie piantonavano l’ingresso della camera ospedaliera.
“Agente Hino, fatemi passare!” niente divisa da poliziotti, ma solo due facce da delinquenti che la guardarono con ghigno beffardo.
“Può mostrarci un distintivo, signorina?” il più alto lo domandò con tono derisorio. Allargò la sua smorfia mostrando un paio di denti d’oro e si fece ancora più a scudo dell’entrata.
“Hey, Hey ragazzi. Ma cosa state facendo!?” una voce dall’interno interruppe quella sorta di conversazione.
“Non vi ho detto di essere gentili con le signore?!”.
La zazzera color grano di Haruka spuntò da dietro le spalle dell’uomo che bloccava la via d’entrata a Rei.
“Alla buonora morettina!”.
La ragazza spintonò l’uomo facendosi largo, mentre Sadao chiese il permesso alzando un dito e si ritrovò a fare un balzo all’indietro quando i due lo spaventarono con uno verso gutturale improvviso.
“Cosa ci fai qui?! E questi chi sono?” inquisì Rei.
“Un grazie mai, vero?”.
Haruka le sorrise per poi avviarsi verso la tendina bianca che fungeva da separé con le altre parti della stanza.
“Ho pensato di battere sul tempismo chiunque e di mettere questi bravi ragazzi a fare i cani da guardia. Giusto per rallentare qualche curioso in più ed evitare che qualche bastardo la faccia a pezzi sul serio”.
Rei si trattenne dal controbattere, decidendo di crogiolarsi nella visione di Jadeite intento a convincere con i suoi bei modi i due yakuza a entrare se mai fosse arrivato a trovare Mimì.
Haruka aprì la tenda con uno strattone e rivolse uno sguardo ammaliatore alla giovane accompagnatrice. Rei non poté fare a meno di pensare che Mìmì guardasse Haruka con lo stesso sguardo di un animale riconoscente al proprio padrone per averlo tratto in salvo.  Le fissò meglio in silenzio e scovò qualcosa in più sul loro rapporto. Quella che le si era parata sotto agli occhi non era cieca ubbidienza o gratitudine; quella che Mimì provava nei confronti dell’altra era una profonda devozione. E quando le mani della ragazza ferita si posarono sul dorso di quelle dell’altra, capì che per Mimì doveva essere come toccare il proprio santo protettore.
Rei dovette ammetterlo a sé stessa, quel tipo di rapporto aveva un che di affascinante, eppure dovette simulare uno starnuto che coprisse un principio di risata all’idea di paragonare una persona come Haruka a qualcosa di sacro.
“Lei è l’agente Hino, Mimì”.
Haruka introdusse Rei con garbo e gentilezza lasciandola esterrefatta per un momento da quel comportamento anomalo.
“Ci siamo già conosciute…” Rei tagliò con i convenevoli. “Anzi, scusami per il modo in cui ti ho trattata”. Distolse lo sguardo dall'altra morettina nel pronunciare quelle parole, poiché le sovvenne in mente che Setsuna l’avrebbe costretta a far ammenda.
Mimì ricambiò con un sorriso gentile senza commentare il vecchio episodio che entrambe avevano deciso di lasciarsi alle spalle.
“È certa fossero scagnozzi della regina rossa” disse in tono grave la bionda, sistemandosi con la mano libera un ciuffo che le ricadde sugli occhi cerulei.
“Avevano scoperto che avevo parlato con l’agente Meiō”. Pronunciò quel cognome piano, come se potesse essere un’arma nei confronti di Rei. “Qualcuno deve averci notate. Non so se dei clienti o chi altro. Ma le voci girano in certi ambienti. Stavo per andarmene e lasciare la città ma loro mi hanno anticipata. Non so come altro aiutarvi”.
“È tutto okay, nessuno ti farà più del male. Te lo prometto” le giurò Haruka.
Mimì la guardò riconoscente portando una mano sullo sterno per il dolore. Aveva una gamba e un braccio rotto, oltre a diverse escoriazioni su tutto il corpo e le costole incrinate.
Le sarebbe potuto andare ancora peggio. Pensò Rei  nel guardarla, cercando di mantenere il controllo di sé stessa.
Sarebbe potuta finire come Setsuna, o magari… Cercò di bloccare quel pensiero sul nascere anche se ne conosceva il finale.
Avrebbe preferito ci fosse stata lei al posto di Setsuna. Se c’era da sacrificare qualcuno, avrebbe preferito fosse il testimone e non la sua fidanzata.
Rei avrebbe dovuto inorridire davanti a quel malsano desiderio ma se c’era una cosa che Tokyo le aveva insegnato era che l’umanità non aveva nulla di buono. Nessuno poteva mantenere il candore di un bambino per sempre. In un caso o nell’altro l’animo dell’uomo si sarebbe sempre sporcato, che fosse a causa di un’azione, di pessime intenzioni o di desideri oscuri come quelli.
Rei avrebbe venduto l’anima anche al diavolo per riavere indietro Setsuna.
“Hai capito dove volevano portarti? Hanno parlato di qualche luogo in particolare?” domandò Rei.
La giovane mosse il capo in segno di diniego.
“Intanto dai al pivello questa” la interruppe Haruka porgendole un foglio ripiegato in quatto.
Rei le rivolse un’occhiata interrogativa.
“Sono andata a controllare i posti dove coltivano le piante di Ricino. Pensavo avessi bisogno di una vacanza, così ho fatto i compiti per la scuola io per te. Assieme ad un paio di amici in realtà, ma li ho fatti…”.
Rei passò a Sadao il foglio che lo afferrò con presa salda per poi decidere di conservarlo all’interno della giacca.
“Se non ti dispiace rimarrei ancora un po’”.
“È il tuo lavoro, non il mio…” alzò i palmi in aria Haruka.
“Una sola domanda, come li hai convinti i tuoi scagnozzi?”.
“Il silenzio è una delle poche cose che si può ancora comprare col denaro” le chiarì lei.
Le casse del clan avevano subito un grosso buco, ma in fin dei conti l’Oyabun poteva amministrarle a suo piacimento, o almeno era stato quello il pensiero dell'intrigante yakuza.
 
 
***
 
 
Haruka si lasciò alle spalle il brusio delle quattro infermiere intente a parlare del suo bell’aspetto. Affrontò il freddo del primo inverno con solo una sciarpa e una felpa scura addosso a coprire le spire del dragone che ora le si snodava sulla colonna vertebrale.
Le fauci della bestia, spalancate sulle sue scapole le provocarono una fitta di dolore.
Qualcosa non andava, ma capì immediatemente che era dovuto a qualcosa di più di un malessere fisico, quando due agenti in divisa le si pararono davanti intimandola a fermarsi.
Accennò un saluto con un cenno del capo, ma quando fece per passare oltre le due figure venne bloccata con uno strattone al braccio.
Il drago ruggì silenzioso e il dolore provocatole dall’incidente si accese come una fiammata bruciando ogni singolo nervo del suo corpo.
“Ci segua in centrale”.
Haruka fece appello al suo sarcasmo divincolandosi dalla stretta dello sconosciuto.
“Il mio turno è finito, capo!”.
L’altro non sembrò far bocca da ridere, tutt’altro.
Le bloccò le mani impedendole di estrarre la pistola mentre il collega le puntava addosso una canna nera lucente.
“Wow, ragazzi avete sbagliato canaglia!”.
“Tutto quello che dirai sarà usato contro di te”.
Un paio di manette le andarono ad adornare i polsi come bracciali argentei.
La bionda fece resistenza, ma un calcio sui reni la piegò a mezzo.
Sputò sull’asfalto, invocando aria e cercando di mettere a tacere il dolore lancinante.
“Fai la brava, puttana” le soffio all’orecchio quello che l’aveva ammanettata.
E il dragone sulla pelle le rivelò la verità dei fatti. Qualcuno doveva aver usato la sua stessa moneta. Come aveva detto a Rei, il denaro poteva comprare ancora tante cose tra cui il silenzio. In quel caso, qualcuno si era potuto comprare due agenti di polizia.
Tokyo con un ghigno le aveva appena mostrato un altro lato della corruzione e lei era stata la vittima designata. Ma la regina d’oriente aveva in serbo qualcos’altro, perché nello stesso momento in cui Haruka venne sbattuta sul sedile posteriore della volante, a dieci chilometri di distanza, qualcuno stava riversando la sua vendetta sulle persone a lei care.
 
 
***
 
 
Avevano passato poco più di mezz’ora all’interno dell’atelier di abiti da sposa.
Qualcuno aveva confidato a Michiru che una donna quando trova il proprio vestito lo sente. Capita persino di piangere per la commozione e ci si sente come una vera principessa.
Michiru non ricordava di chi fossero quelle parole, non sapeva se appartenessero al ricordo lontano di sua madre o a qualche amica frequentata ai tempi della scuola. Eppure, se ben fosse scettica su quel tipo di cose, nel fruscio di stoffa bianca di un abito a sirena ritrovò quell’esatta sensazione.
Quell’abito era stato fatto appositamente per lei. Trovò quella certezza nel sospiro di Minako, aggrappata al pouf quadrato nel quale aveva arpionato le unghie e nel riflesso dello specchio.
Nei suoi occhi blu era in procinto lo scatenarsi di una tempesta. Sentì un pizzicore e lo sguardo le si fece liquido.
Michiru però si morse le labbra e s’impedì di cadere nel cliché di chi apre i rubinetti e piange per una cosa simile. Ma l’emozione sbatté ugualmente dentro di lei. Sentì la gioia rivoltarsi nella cassa toracica e il desiderio ardente di farsi vedere da Haruka con addosso quel candido splendore tempestato di gemme scintillanti sulla parte superiore del corpetto.
“L’abbiamo trovato!” sussurrò Minako, per poi scattare in piedi e dire alla commessa di fermare l’abito per la futura sposa.
 
 

Akira tentò di richiamare Haruka. Non aveva intenzione di rimanere un minuto in più tra donne se non fosse stato necessario a fare la spesa per preparare un lauto pranzo.
Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
Haruka lo stava lasciando affondare in un mare di guai, soprattutto nel momento in cui Minako gli avrebbe domandato la data precisa per le prove dell’abito di Haruka e lui non ne avrebbe avuta una da dire. La dea bendata, però, parve avergli riservato un po’ di fortuna, poiché aveva fatto sì che le due giovani donne appena uscite dal negozio, fossero troppo intente a parlare del tesoro appena scovato nella botique per prestare attenzione a lui.
“Hai già deciso per i fiori?” la voce squillante di Minako si fece sentire, mentre prontamente spuntò dal block notes la voce "abito sposa".
“Non saprei…magari dei gigli?” Michiru cercò il consenso nell’opinione dell’amica e Akira ritentò un’altra chiamata.
“E per il catering?” la bionda incalzò l’altra con un’ulteriore domanda cercando poi sul proprio smartphone una lista dei migliori ristoratori della città.
Michiru allentò il passo specchiandosi per un momento in una vetrina.
Minako la raggiunse e rimase inebetita a fissare la scaffalatura oltre la superficie trasparente.
“Dici che le abbiamo trovate?” domandò poggiandoci poi il naso come un bambino davanti ad una vetrina di dolciumi.
“Credo proprio di sì”.
Akira fece finta di nulla e si bloccò sul marciapiede per digitare un messaggio S.O.S.
“Le scarpe…” sibilò Michiru “penso siano quelle giuste”.
“Che facciamo? Entriamo e le provi?”.
“Penso sia la cosa giusta da fare”.
Donne. Capaci di perdere il senno con una carta di credito non appena avvistano un capo d’abbigliamento o un accessorio. Akira non se ne capacitava e continuava a scuotere la testa nel frangente di quei pochi secondi in cui le parole venivano digitate sul display del cellulare.
Una vettura rallentò, accostandosi lungo il marciapiede.
 Michiru rise di gusto e Minako le posò una mano sulla spalla.
Un bambino andò a sbattere contro Akira spiaccicandogli contro i pantaloni una scatolina piena di mochi al tè verde.
La madre del monello si scusò con numerosi inchini e il ragazzo si piegò sulle ginocchia rassicurando il bambino per il piccolo danno appena commesso.
Il suo tatuaggio era coperto da una giacca sportiva e il viso pulito dalla barba e privo di cicatrici non lasciava intravedere il suo status di delinquente.
Michiru e Minako fecero dietro front, Michiru posò una mano sulla maniglia del negozio guardando la bionda intenta a sventolare vittoriosa la lista da lei stilata.
Una goccia dall’alto scivolò sulla guancia di Minako costringendola a portarsi una mano sul viso.
La bionda guardò verso l’alto. Il cielo era divenuto plumbeo e Michiru la imitò fermandosi sul gradino.
“Sta per piovere…” constatò ad alta voce.
Qualcuno le afferrò il polso. Una mano destra orfana di un dito riuscì a trascinarla giù dal marciapiede.
Dejà vù.
Michiru era tornata indietro nel tempo in un solo istante. Il presente si era ripiegato su se stesso per farle rivivere l’inferno una seconda volta.
La sua voce raggiunse Minako che scattò in avanti per raggiungerla.
Tokyo liberò la sua furia con un boato. La pioggia bagnò i capelli di Akira, del bambino e il vestito della propria ragazza.
Michiru gridò, ma Ken Azuma, il fantasma di Daisuke, le tappò prontamente la bocca. La sua voce si disperse nel frastuono dei clacson e nello scrosciare della pioggia.
Akira si rialzò, voltò il capo in direzione di Minako che si scontrò con un altro uomo apparentemente spuntato dal nulla. Lo sconosciuto era sceso dalla vettura, le era andato incontro e quando la giovane fece per scansarlo una lama fredda le impedì di continuare la sua corsa insidiandosi nel tessuto del suo vestito.
Una chiazza rossa, dapprima acquerello e poi sempre più scura le macchiò l’addome. Minako spalancò le labbra portandosi le mani sul fianco deturpato per tamponare la ferita.
Il suo block notes toccò l’asfalto con un rimbalzo finendo in una pozzanghera dove l’inchiostro delle sue parole si disperse nel nulla.
Michiru morse la mano all’uomo e riuscì ad invocare il nome di Minako all’unisono con la voce di Akira.
Il moro preso da una cieca furia tirò un cazzotto all’aggressore.
Qualcuno si tappò la bocca dietro alle vetrine ben allestite scioccato da tutta la scena.
Minako cadde sulle ginocchia e senza rendersene conto cominciò a piangere.
Akira assestò un altro colpo all’uomo, lo disarmò e lo ripagò con la stessa moneta. Gli fece assaggiare la medesima lama spingendogliela nelle carni con un verso tanto rauco da sembrare appartenente ad una belva più che a un essere umano. Si precipitò da Minako, nel modo più veloce in cui le gambe gli permisero di raggiungerla, mentre Michiru scalciò ancora una volta venendo trascinata all’interno della macchina.
“Occhio per occhio” fu il sussurro di Ken Azuma prima di avvicinarle al viso un fazzoletto impregnato di un liquido di cui aveva memoria.
Cloroformio, odore inconfondibile.
I secondi stavano correndo troppo veloci per ognuno di loro.
Michiru vide le braccia di Akira stringersi attorno alla vita di Minako che precipitò col capo reclinato sulla sua spalla; poi tutto si fece più confuso.
La vista le sbiadì e ripensò al suo primo incontro con Haruka.
Il furgone, la pioggia, le sue mani, la guida di Akira e poi il nulla.
Déja vù.
Ma questa volta non si trattava di riscatto, era una vendetta.



Note dell'autrice:
Chiedo venia per l'attesa. E' passato tantissimo dallo scorso aggiornamento ma sono contenta di essere riuscita finalmente a completare il capitolo per farvelo leggere. Ormai siamo alla resa dei conti, non manca molto alla risoluzione di tutto quanto e al finale della storia. Ringrazio tutti i lettori che nonostante gli anni, il tempo e la mia lentezza sono ancora qui a seguire le avventure (e le sfighe) di questi protagonisti. Come sempre sarò ben felice di rispondere ad eventuali domande, scleri e a chi avrà la pazienza e la voglia di lasciarmi la propria opinione. Mi fate sempre crescere un pò con i vostri consigli.
Spero che anche l'ultimo pezzo della storia risulti ben leggebile. Volevo rendere la scena dinamica e veloce quindi ho optato per frasi breve e concise mettendoci nel mezzo anche lo scenario che stava attorniando Akira, Michiru e Minako. And so...non so che altro dire. Probabilemente un giorno revisionerò l'intera storia per renderla più scorrevole e priva di errori. Nonostante rilegga e corregga ne ritrovo sempre ogni volta.
Un abbraccione!

Kat
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Butterfly Effects ***


Capitolo 9
Butterfly Effects
 


“Il movimento delle ali di una farfalla rappresenta un piccolo cambiamento
nella condizione iniziale del sistema,
che provoca una catena di eventi che portano a fenomeni di scala sempre più vasta.
Se la farfalla non avesse sbattuto le ali,
la traiettoria del sistema sarebbe stata molto diversa.”
 
(Wikipedia – Teoria del Caos).

 
 
 
 
Ogni azione provoca una conseguenza. La più piccola decisione può cambiare il corso degli eventi, ma nessuno di loro aveva fatto i conti con l’imprevedibilità della vita.
Se Haruka non avesse lasciato a guardia di Mimì i suoi due scagnozzi avrebbe avuto la possibilità di scampare ai poliziotti corrotti e di raggiungere in tempo il suo gruppo di amici. Se Akira non avesse incrociato il bambino sul suo stesso marciapiede, avrebbe senz’altro sventato il rapimento di Michiru e Minako non sarebbe mai stata colpita. E a pensare più in grande sarebbe bastato che il cielo di Tokyo non si fosse messo a piangere per non distrarre le ragazze e far accadere la catena di eventi funesti che aveva colpito tutti quanti in pieno con la forza di un cataclisma.
Nessuno di loro aveva badato al battito d’ali del destino; nessuno di loro aveva ponderato tutte le possibili vie che la vita aveva offerto loro di percorrere.
 
 
Le luci di Tokyo sbiadivano dietro ai finestrini costellati di gocce d’acqua piovana.
Il traffico in centro città era intenso e rallentava la corsa di Akira e Minako rendendo ogni respiro della ragazza sempre più flebile.
“Sicuro che sia tutto a posto lì dietro?” la voce del taxista colpì Akira come un proiettile in pieno petto. Nessuno aveva chiamato un’ambulanza, nemmeno lui, pensando ci avrebbe messo troppo anche a sirene spianate e che i paramedici avrebbero fatto domande scomode.
Akira si trovava lì. Era a causa della sua scelta che sedeva scomposto sul sedile posteriore di quell’auto dalla targa cigolante, con Minako pallida fra le sue braccia e le mani ormai cremisi a tamponare la ferita al fianco della ragazza.
Gli occhi a mandorla dello sconosciuto fissi sullo specchietto retrovisore erano lo scandire dell’orologio del fato; delle lancette insistenti.
 
Tic, tac. Minako vivrà o morirà?
Tic, tac. Arriverai in tempo?
Tic, tac. Se non ce la facesse sarebbe soltanto tua la colpa. Potresti ancora vivere con questo peso sulla coscienza?
Tic, tac, tic, tac.
Il tempo sta per scadere.
Tic, tac, tic, tac.
Dipende da te.
Tic, tac. Cosa farai?
 
La voce del destino era alienante e inarrestabile nella sua testa, o forse era la sua coscienza a ossessionarlo.
“Se la tappezzeria si macchia…” l’uomo parlò di nuovo e a quelle parole Akira provocò un altro sfarfallio.
“Ci fermiamo qui. La corsa è finita per noi” decise perentorio.
Buttò in faccia all’uomo un malloppo di banconote alla rinfusa senza curarsi del reale pagamento da effettuare.
“Si tenga il resto. In caso debba far pulire la sua tappezzeria del cazzo”.
Prese un respiro profondo. Con la mano destra aprì la portiera del taxi e puntò una sola gamba al di fuori dell’abitacolo.
“Okay amore. Devi sopportare solo un altro po’. Ti giuro faremo veloce…”. Sussurrò all’orecchio di Minako sistemandole la propria giacca in vita e prendendola su di peso.
La pioggia torrenziale bagnò entrambi e Akira prese a fare lo slalom tra le auto bloccate stringendo i denti.
Corse a perdifiato ignorando ogni suono attorno a lui. Il rumore del mondo era sparito, aveva solo il battito furente del suo cuore nelle orecchie.
 
 
***
 
 
Rei si addormentò placidamente sul sedile del passeggero. La guida pacata di Sadao cullò i suoi sogni più profondi.
Dietro le sue palpebre chiuse, le pupille guizzarono alla velocità della luce, accarezzando ancora una volta l’immagine di Setsuna.
Lei era lì, impressa nella sua mente come il ricordo più nitido di una persona incontrata qualche ora prima.
Muta e quasi statuaria Setsuna le indicò col dito un campo rosso vermiglio, poi le sorrise.
Rei si svegliò di soprassalto e Sadao inchiodò.
“S-scusa” balbettò con aria colpevole e con le dita ancora arpionate al volante.
“Un gatto ha attraversato la strada e ho avuto paura d’investirlo” si apprestò a discolparsi per poi spingere nuovamente sull’acceleratore.
Rei ostentò un’espressione confusa con i neuroni ancora impigliati in quel sogno singolare.
“Non dirmi era nero…” sibilò con voce impastata per poi drizzare le spalle e sedersi più composta.
Sentì il suo cuore riprendere a battere normalmente, poiché lo scossone improvviso aveva macchiato di terrore ogni suo singolo muscolo.
Sadao farfugliò qualcosa a proposito del manto dell’animale, accese la radio in cerca di una stazione che mandasse un segnale chiaro per allietare quel viaggio, quando la mano di Rei si poggiò sul suo polso.
“Il biglietto di Haruka!” esclamò portando poi le dita verso le tasche del ragazzo per frugarvi dentro senza il minimo imbarazzo.
Setsuna le aveva indicato i fiori rossi e Haruka le aveva fatto avere l’indirizzo della pista che aveva ritenuto giusta.
“Non tornare in centrale!” ordinò una volta trovato il pezzo di carta per poi sondarne con le iridi la calligrafia della bionda.
“La nostra meta è un’altra. E’ ora di porre fine a questo dannato caso”.
 
 
***
 
 
Se solo Rei fosse tornata in centrale a compilare le uniche scartoffie che il suo datore le aveva rifilato per tenerla occupata avrebbe incrociato gli occhi celesti di Haruka.
A quell’ora non c’era quasi più nessuno e i due uomini avevano potuto sbatterla tranquillamente nella piccola cella accanto a quella che era stata la stanza di Setsuna.
Nessuno poteva identificarla come un aiuto alle indagini. In quel momento era solo una criminale con due suoi simili travestiti da brave persone.
L’uomo più alto prese a fischiettare sedendosi mollemente su una sedia da ufficio. L’altro afferrò il telefono per comporre il numero da chiamare e attese che all’atro capo qualcuno gli rispondesse.
“L’abbiamo qui” sibilò fissandola come un mucchio di spazzatura.
“Dove la portiamo?”.
Haruka dovette distogliere l’udito dalla conversazione perché il compare di quello al telefono si chinò dinnanzi al sua cella.
Le riservò un ghigno di scherno vedendola seduta a terra con le spalle al muro. “Sembri un uccellino in gabbia. Mi chiedo come tu possa essere davvero una Yakuza”.
Haruka tacque. Il suo umorismo pungente era annegato nella pioggia.
“Eppure, a quanto pare vali un sacco di soldi”.
“Più di quelli che vali tu sicuramente” ringhiò a bassa voce.
Il poliziotto non parve prendere bene quella mancanza di rispetto poiché la minacciò dando un colpo di manganello ad una delle sbarre.
“Guarda che ti vogliono viva, ma questo non vuol dire che tu debba rimanere illesa”.
La bionda non vacillò a quell’intimidazione; non una sfumatura di paura andò ad incupire il suo sguardo celeste.
Cercò una connessione, una risposta a quella cattura inaspettata.
Quella gente aveva riconosciuto benissimo in lei il loro obbiettivo. Haruka non doveva far da tramite, era la merce da prelevare. Ma chi poteva esserne l’ordinante?
La regina rossa. Fu un lampo, e d’improvviso, un flash le rivelò un frammento di ricordo che aveva rimosso con noncuranza. Una fila di denti bianchi che le sorrideva.
Che fosse la donna dal tatuatore la regina rossa?
Un sibilo le scappò dalle labbra. L’aveva avuta sotto al naso senza saperlo.
“Andiamo” l’ordine di quello che aveva fatto la telefonata la fece alzare di scatto.
Il compare le aprì la cella con un cigolio sinistro.
Haruka era pronta e senza nemmeno che se ne accorgesse, più che l’aria di una diretta al patibolo, aveva assunto un’espressione trionfante.
Se la montagna non va a Maometto, allora Maometto va alla montagna .
 
 
***
 
 
Non aveva udito il frenare della macchina. Fu come cadere in un sonno tanto profondo da non poter avvertire alcun rumore.
Michiru si sentì stranamente leggera. Aveva la sensazione di fluttuare nell’aria e subito dopo galleggiare fra le onde di un mare calmo. Poi seguì un formicolio che si diramò dalla punta delle dita al polso, per poi irradiarsi nelle braccia sino a raggiungere le spalle.
Emise un sbuffo pesante per il fastidio e provò a scuotere il capo.
Doveva essere sdraiata, ma le onde sotto di lei svanirono nel nulla e al loro posto comparve un’altra superficie.
Non seppe riconoscerla.
La testa si era fatta pesante, tanto che compiere un minimo movimento del capo le costò una fatica non indifferente.
Haruka. Nella mente correva il suo nome.
Svegliami, Haruka.
Che fossero andate assieme a letto come ogni altra notte?
La testa da pesante si fece dolorante.
Michiru spalancò gli occhi, soffocando un mugolio di dolore che le colpì violentemente le tempie.
Minako. Un pensiero capace di farsi strada nella sua mente come lo squarcio di un fulmine nel cielo notturno.
“Minako! Oddio, Minako!”. Il respiro le si fece veloce mentre quel pensiero divenne repentinamente un insieme di parole.
Michuru dovette portarsi una mano al petto come a controllare che il cuore fosse ancora integro. La preoccupazione aveva preso il sopravvento tanto da farle dubitare che ogni parte del proprio corpo fosse ancora al suo posto.
“Spiacente, non è qui”. La frase venne espressa da una voce resa rauca dal fumo.
L’odore nauseabondo di un sigaro colse alla sprovvista le narici di Michiru che venne colpita da un capogiro. Odiava l’odore di fumo e non sopportava di essere presa alla sprovvista, soprattutto quando si trattava di essere in compagnia di persone poco raccomandabili.
La ragazza riprese il controllo di sé se stessa. Richiamò a raccolta ogni singola briciola di coraggio e riuscì ad alzarsi facendo forza sui gomiti. Le dita intercettarono una lurida moquette e a Michiru le ci volle giusto un paio di secondi per rendersi conto di dove si trovasse. Si trovava all’interno di un piccolo container da cantiere.
“Sta bene?”.
“Chi? Minako?”.
Non appena la nuvola di fumo si diradò il viso di Ken Azuma si fece più vivido.
Michiru annuì con un cenno del capo scacciando dalla mente gli spiacevoli ricordi riguardanti Daisuke che l’assalivano nell’ incrociare lo sguardo dell’uomo.
“Se è la bionda che era con te non ne ho idea, fiorellino”.
Ridacchiò divertito. “Sai, dipende se il tuo amico corre in fretta. Se un poliziotto ha assistito alla scena, se qualche passante anzi che girare un video col telefonino ha chiamato un’ambulanza. E’ tutta questione di fortuna, coincidenze o qualunque cosa in cui tu creda. Tu, Michiru in cosa diavolo riponi fiducia?”.
Ken Azuma non ricevette altro che uno sguardo fermò e colmo di disgusto in cambio.
“Io credo nel mio istinto” continuò senza che lei fosse interessata a quella conversazione a senso unico.
“Cosa vuoi da me?” la voce di Michiru le grattò in gola.
Si alzò da terra ancora leggermente intontita senza distogliere lo sguardo da quello cupo del suo interlocutore. Se aveva capito una cosa nella vita era che gli Yakuza assomigliavano alle bestie; sembravano dotati di un ottimo fiuto per la paura e quando ne coglievano anche solo una debole stilla cercavano di alimentarla fino a schiacciare chi si trovavano di fronte.
Ken spense il mozzicone che gli pendeva dalle labbra con non curanza. Gli piaceva quando le belle donne cercavano di fare le dure per non cedere al terrore. Gli piaceva anche quando urlavano come aveva fatto Michiru sul marciapiede fino a consumare il fiato e aveva amato la sfumatura colta nel blu dei suoi grandi occhi nel momento in cui aveva capito di essere spacciata.
“Devo scoprire una cosa e tu ne sarai testimone. Quello che voglio da te è che tu mi accompagni lì fuori mentre alcuni dei miei ragazzi stanno già scavando in quella cava di cemento”.
Michiru assunse un’aria più interrogativa a quelle parole.
“Voglio sapere se i tuoi amici e il tuo uomo ti dicono davvero tutto. Se il mio intuito non m’inganna ci troveremo qualcuno là sotto. Qualcuno che ci ha messo chi ti sta accanto ogni notte”.
Il cigolio della porta alle spalle dell’uomo interruppe la conversazione.
“Abbiamo fatto bingo”. Un uomo dalla lunga coda di cavallo corvina informò Ken.
“Erano in due a dormire là sotto”.
Il sorriso sinistro di Ken Azuma si spense. Guardò Michiru combattendo fra il desiderio di farla sua e quello di torturarla spedendo un bel filmato della scena ad Haruka. Forse avrebbe fatto entrambe le cose se ne avesse avuto il tempo, ma prima doveva finire ciò che aveva cominciato.
“Devi avere un bel fegato per dormire nello stesso letto di un assassino, fiorellino”.
Michiru deglutì rimanendo immobile con la schiena sostenuta da una scrivania spoglia.
“Adesso vieni con me e vediamo chi ha fatto fuori la persona che ami tanto. Anche se penso mi arrabbierò molto e dovrai sopportare il mio caratteraccio”.
Le dita elegantemente smaltate riuscirono ad appropriarsi di un piccolo tagliacarte.
“Muoviti”.
Michiru ubbidì. Seguì lo Yakuza, in bilico sul filo del suo destino.
 
 
*** 
 

All’ Aiiku Hospital i turni erano estenuanti per uno specializzando.
Ami, ormai, riusciva a sentire solamente male ai piedi dopo aver corso da un reparto all’altro per più di quarantotto ore. Quattro ore di sonno filate erano ormai un miraggio, ma sarebbe bastato ancora un po’ di pazienza perché potesse tornare a casa.
Si diresse alla macchinetta del caffè, strascicando i piedi sulle mattonelle chiare dell’edificio, decidendosi ad assumere un’aria meno da zombie e più da essere umano solo quando intravide la figura del suo mentore Mamoru Chiba.
Il giovane sembrava indeciso sulla scelta da prendere. Caffè nero senza zucchero o una cioccolata calda con extra zucchero?
Il caffè lo avrebbe sicuramente fatto scattare come una molla e gli avrebbe dato un tono più professionale, ma la cioccolata gli piaceva di più anche se quella era una brodaglia scialba e non quella che sua moglie gli avrebbe preparato accompagnata da biscotti alla cannella che tanto amava. Il dito a mezz’aria fino a che la propria allieva non lo raggiunse. Spinse il tasto del tè al limone andando alla cieca e lasciando la scelta al fato troppo preso a ricomporsi davanti all’allieva.
“Giornataccia?” chiese ad Ami quando fu a due passi da lui.
“Faticosa ma produttiva. Dovrei essere felice, non ho dovuto registrare nemmeno l’ombra di un decesso ma…” Ami portò una mano davanti alle labbra impedendosi di liberare uno sbadiglio. “La realtà è che sono demolita!”.
Mamoru rise di gusto e quando il “clac” della macchinetta indicò che il suo bicchiere fumante poteva essere estratto rimase interdetto dalla bevanda che gli era stata rifilata a scatola chiusa.
Sospirò pesantemente, rigirando il cucchiaio di plastica nel bicchierino tentando di sciogliere i granelli di zucchero depositati sul fondo.
“Aino non dovrebbe cominciare a momenti?”.
Ami annuì col capo.
“Dovrebbe attaccare tra quaranta minuti, proprio quando io mi ricongiungerò felicemente al mio piumone!”.
La ragazza scelse un cappuccino ma il suo “clac” venne interrotto dal fruscio delle porte automatiche e da una raffica di vento gelido che invase il corridoio.
Sulla sua retina sbatté una sagoma conosciuta. Per un momento ebbe il sospetto di avere le allucinazioni per la stanchezza ma quando il suo sguardo entrò in collisione con gli occhi inconfondibili di Akira prese coscienza di non star sognando.
 
Grigio liquido. I suoi occhi riconobbero immediatamente la zazzerra corta e azzurra di Ami.
Akira era allo stremo delle forze ma ce l’aveva fatta. Era arrivato all’ospedale con le braccia in procinto di cedere per la stanchezza.
L’aveva tenuta. Aveva stretto Minako con tutte le sue forze e adesso era immobilizzato dalla disperazione nell’atrio dell’ospedale.
“Oddio” sibilò Ami.
“Dottor Chiba, è Minako! Serve…”
“Una barella, subito” gridò pronto lui mentre Ami corse incontro ad Akira.
“Cos’è successo?!” la voce della ragazza era irriconoscibile.
Due infermieri accorsero con la barella e Akira poté lasciare Minako.
Le sue braccia erano gelide senza il suo corpo. Per quanto la temperatura di lei fosse calata nel tragitto era riuscita a sentirla, ma ora non c’era più niente lì.
Akira riusciva solo a pensare che quello forse era stato l’ultimo istante in cui l’aveva abbracciata. L’ultimo momento in cui aveva potuto sentirla addosso.
“AKIRA!”.
Ami gli schioccò le dita davanti alla faccia per farlo riprendere da quell’immobilità.
“Devi dirmi che è successo per aiutarla”.
Mamoru fece cenno ad Ami che si sarebbe diretto in sala operatoria con Minako.
“Un bastardo…” fece fatica a trovare le parole perché la scena si stava ripetendo al rallentatore nella sua testa.
Lui si era distratto e lei ne aveva pagato le conseguenze.
“Un bastardo ha accoltellato Minako”.
Ami deglutì. Sapeva che Minako avrebbe accompagnato sua sorella per negozi, eppure Michiru non era lì. Se fosse stata viva Michiru di sicuro si sarebbe trovata con loro in quel posto, ma di fatto non c’era quindi le probabilità che anche a Michiru fosse stato fatto del male erano alte.
Ami voleva chiedere ad Akira di sua sorella, ma forse sarebbe stato troppo.
Fisso la sua giacca piena di sangue. Non le aveva mai dato fastidio vederne o non avrebbe seguito il suo sogno di diventare un bravo medico, ma in quel momento, Ami dovette fare appello al suo sangue freddo sapendo chi ne era il proprietario.
“Tu sei ferito?”
“No” lo sguardo di Akira era lontano. Aveva seguito la barella di Minako fin oltre le porte che il pubblico non poteva oltrepassare.
“Da quanto ha perso conoscenza?”.
“Non lo so. Io…ho corso più in fretta possibile Ami. Là fuori è tutto bloccato”.
La sua voce si fece concitata e negli occhi Akira pregava che lei non la incolpasse per l’accaduto.
“Adesso è in buone mani, okay? Lo so che hai fatto il possibile”. Non le vennero altre parole per rassicurarlo.
“Ami, devi fare l’impossibile ora”.
La ragazza lo guardò interrogativa.
“Devi salvarle la vita. A tutti i costi”.
Ami annuì. Alla scuola di medicina le avevano insegnato a non promettere mai miracoli alle famiglie dei pazienti, ma in quel momento sul tavolo operatorio c’era una persona a cui teneva e non poteva pensare di non riuscire a farne uno.
Tirò fuori dal camice la cuffietta e se la legò sul capo.
“Michiru…” le parole le morirono in gola.
“Sto andando a prenderla” la interruppe Akira prima che potesse domandare qualsiasi cosa.
“Fai l’impossibile anche tu, allora. Ti prego” mormorò la ragazza prima di correre a tentare di salvare l’ultima vita della giornata.
 
 
***
 

Haruka era stata incappucciata. Riusciva a sentire il calore del proprio respiro all’interno della tela scura che i due le avevano messo in testa.
La situazione era a dir poco catastrofica. Nessuno, per quanto ne sapesse, era al corrente del fatto che era stata sequestrata, non aveva idea di dove la stessero portando ma era conscia del fatto che non si sarebbe trattata di una festa a sorpresa. Eppure si stava trattenendo dal ridere per l’assurdità di tutta quella faccenda.
Una Yakuza rapita da un paio di piedi piatti per chissà quale scarna ricompensa sarebbe entrata senz’altro nella storia come freddura da raccontare all’interno del clan.
Il clan che aveva odiato una vita intera. Il clan che voleva distruggere dall’interno aiutando la polizia e che allo stesso tempo si ritrovava a desiderare fosse al suo fianco in quella situazione.
Strana la vita. Pensò cercando d’ignorare il caldo che le si stava propagando dal cuoio cappelluto alla base della nuca.
Se suo padre non fosse stato costretto; se le cose fossero andate diversamente e non fosse mai entrata nel clan in quel momento la sua vita sarebbe stata senza dubbio differente.
Haruka sospirò ignorando le chiacchere dei suoi due sequestratori.
 
Non avrebbe mai incontrato Akira e di conseguenza nemmeno Minako. Probabilmente non avrebbe mai conosciuto Setsuna e tanto meno Rei. L’agente Meiō sarebbe stata viva e rinchiusa in centrale a combattere il crimine e sicuramente destino non avrebbe messo sulla sua strada Michiru. Michiru riusciva ad immaginarla nitidamente. Avrebbe sicuramente avuto un fidanzato di buona famiglia, uno di quegli uomini rispettati dalla società e che tutte le vicine t’invidiano e con lui avrebbe condiviso un nido d’amore con vista sull’oceano. Michiru in un’altra vita in cui Haruka non sarebbe stata al suo fianco non avrebbe conosciuto paura o sofferenza, non avrebbe mai dovuto fare i conti con la violenza a cui Haruka era stata abituata sin da ragazzina.
E lei? Haruka in una vita parallela a quella chi sarebbe stata?
Non le veniva in mente nulla. Non aveva la capacità d’immaginarsi altrove e in un altro modo e forse era perché in fondo lei non era tagliata per essere diversa da quella che era. Probabilmente nemmeno l'universo era stato capace di assegnarle un’esistenza differente. Lei si trovava lì per uno scopo ben preciso, ovvero perché doveva essere così. Lei era al momento giusto nel posto giusto. Quella era la sua vita; l’unica. Pertanto avrebbe saputo affrontarla. Se la sarebbe tenuta stretta con i denti fino alla fine perché non avrebbe avuto altre chance. Quel pensiero le diede forza.
 
Una buca e poi un’altra.
Il terreno si era fatto scosceso e l’asfalto aveva smesso di correre sotto alle ruote dell’auto. Dovevano trovarsi in periferia dove i lampioni sono più radi poiché non avvertì più le macchie luminose al di fuori della vettura.
Un formicolio alle mani ammanettate la pervase. Haruka mosse le dita sfiorandosi la tasca dei pantaloni e lo sentì.
Il suo telefono era lì.
Si morse le labbra e dondolò appena sul sedile.
I due idioti non avevano pensato a toglierle di dosso quello.
La bionda pregò che non si fosse guastato durante percosse e con indice e medio riuscì ad estrarlo quel che bastava dalla tasca per accendere lo schermo con una leggera pressione del pulsante sul lato destro dell’apparecchio.
“Siamo arrivati” sibilò uno dei due sterzando in un parcheggio ghiaioso.
Haruka respirò a fondo. Riuscì a sbloccare con una strisciata del dito lo schermo e coprì con un colpo di tosse il suono flebile che l’avvertiva dello schermo attivo.
“Cerca di non morire soffocata, stronza. Ci servi viva”.
“Ogni vostro desiderio è un ordine” rispose sarcastica cercando di compiere l’ultimo sforzo che forse le avrebbe dato una possibilità per essere trovata.
La macchina si fermò e il motore venne spento.
I due si guardarono attorno e Haruka poté captarne la tensione.
“Arriva qualcuno…” sentenziò il primo.
“Scendiamo” disse il secondo.
“Aspetta” il guidatore fermò il compare prima che si accingesse ad aprire lo sportello.
“Ricordati di fare come fanno sempre tutti questi bastardi. Prima i soldi e poi gliela consegniamo”.
“Certo. Pistola carica?”.
“Pistola carica”.
“Come no, anche la mia!”. Haruka non riuscì a trattenersi.
“Tra poco avrai meno voglia di scherzare brutta stronza”.
E il rumore di sportelli segnalò che i due avevano abbandonato la vettura.
Haruka sapeva si sarebbe trattato di un paio di minuti scarsi. Ignorò il gonfiore ai polsi, il dolore delle percosse e tutto il resto.
“Okay, okay…dimmi che sono stati soldi ben spesi…” pregò tra sé e sé riuscendo dopo un paio di tentativi a premere il pulsante sul lato opposto al blocco dello schermo.
L’intelligenza artificiale si palesò domandando come potesse aiutarla.
 
Haruka riuscì ad inviare la propria posizione al primo contatto in rubrica.
Un’altra farfalla spiegò le proprie ali pronta a dare una svolta all’unica vita che le era stata permessa.



Note dell'autrice:
Questo è il mio personale "Buon Natale" per voi, siccome sarà l'ultimo capitolo che pubblicherò quest'anno.
Sono contenta di essere riuscita a non farvi aspettare secoli come la volta precedente... e niente, spero che il capitolo possa piacervi anche se tutta la risoluzione e l'azione sarà nel prossimo (l'ultimo prima dell'epilogo).
Mi rendo conto dello squallore di Ken Azuma, ma in fondo...mica è fratello di Daisuke per nulla no?! Vi ricordate che brutta canaglia è stato?!
Nello scrivere ho fangirlato malamente (e inaspettatamente) per Ami e Mamoru. Mi è partita una ship pazzesca e mi è venuta voglia di fare uno spin off alla grey's anatomy. Mi rendo conto della follia, ma tenetemi così come sono!
Aspetto di sapere tutte le vostre opinioni.
Nel frattempo vi auguro un Buon Natale e un Felice anno nuovo! 
Sapete dove trovarmi prima che arrivi il 2017.



 

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Capitolo 11
*** Hard Life ***


Capitolo 10
Hard life


 

 “Sometimes I hate
The life I made
Everything is wrong every time
Pushing on, I can’t escape
Everything that comes my way
Haunting me taking it’s sweet time
Holding on, I’m lost in a haze
Fighting life ’til the end of my days”
 
Narcissistic Cannibal – Korn
 
 
 
Akira correva col peso del cuore nello stomaco. Era scisso in due e una parte di lui lo stava prendendo a calci perché non era rimasto ad aspettare in sala d’attesa che Minako uscisse dalla sala operatoria. Non significava avesse scelto la sua migliore amica al posto dell’unica donna che aveva e avrebbe mai amato, semplicemente lui confidava in Minako. Sapeva che era più forte di quanto nessuno si sarebbe mai aspettato o non sarebbe mai riuscita a rimanere al suo fianco con la vita che lui e Haruka erano costretti a condurre. Lei se la sarebbe cavata, Ami glielo aveva promesso e adesso quella che aveva più bisogno del suo aiuto era certamente Haruka. Si era come dissolta nel nulla da quando aveva deciso di andare con due dei loro uomini dove Mimì era stata ricoverata, ma quel silenzio non era da lei. Per quanto fosse un lupo solitario era solita farsi sentire con una scusa qualsiasi, anche solo per infastidirlo. Era come se dovesse accertarsi che Akira sarebbe stato al suo fianco per sempre. E così sarebbe stato. Akira non l’avrebbe mai abbandonata. Loro due erano sempre stati una famiglia, a prescindere dalle leggi della ikka, perciò si sarebbero protetti a vicenda.
Il ragazzo era sempre stato uno di parola. Anche lui aveva fatto una promessa ad Ami e l’avrebbe mantenuta a tutti i costi, ma per farlo sapeva di aver bisogno di Haruka e il tempo era prezioso.
 
Akira non si curò di schivare le pozzanghere. Continuò imperterrito per la sua strada. Attraversò nel bel mezzo dell’ingorgo che aveva paralizzato Shibuya e poi scese i gradini della metropolitana il più velocemente possibile.
Salì infilandosi tra le porte automatiche incurante degli sguardi altezzosi dei colletti bianchi, ai quali era costretto a star appiccicato per il sovraffollamento del mezzo, che invano tentavano di creare un po’ di spazio tra i loro vestiti ben puliti e i suoi fradici e macchiati di rosso vermiglio.
Doveva sembrare un pazzo, ma uno yakuza non bada al parere altrui. Inspirò a fondo e non appena il trillo del mezzo segnalò l’arrivo alla fermata della stazione di polizia, Akira si fiondò oltre le porte automatiche.
Nell’uscire prese contro ad una signora indignata per lo strattone ricevuto alla propria borsa. Lui si scusò con solo un cenno della mano e risalì i numerosi scalini del tunnel fino a ritrovarsi nuovamente in superficie.
Una macchina inchiodò suonando convulsivamente il clacson per la sua comparsa improvvisa in mezzo alla carreggiata.
A due svolte da lì la centrale di polizia lo attendeva
 
Un poliziotto dalla folta chioma bionda si godeva una sigaretta sotto al porticato della stazione di polizia.
Per una strana associazione del suo cervello il tale gli ricordò Haruka e forse per quello si avvicinò a lui senza entrare come una furia nell’atrio principale del distretto.
“Cerco l’agente Hino” disse risoluto, concedendo ai piedi una brusca frenata e portandosi i palmi alle ginocchia per riprendere fiato.
“Non sono io, spiacente” rispose il biondo.
Akira si lasciò scappare una risatina.
“Oh lo so bene. Hino è più attraente se vogliamo dirla tutta”.
Anche l’altro si concesse un sorriso divertito e spense il mozzicone nell’apposito posacenere.
“Sono appena arrivato, ma temo non sia in centrale” lo informò. “Posso aiutarla io. Sono l’agente Jadeite. Il suo sguardo cadde sulla giacchetta sporca di Akira, ma un bravo poliziotto doveva anche notare i particolari senza dirlo troppo in giro.
Jadeite era sinceramente incuriosito da quel giovane trafelato comparso dal nulla.
“Se vuole aiutarmi dobbiamo rintracciarla”.
Chiunque avesse formulato la teoria dei gradi di separazione aveva ragione. Ogni persona è collegata ad un’altra attraverso una conoscenza o relazione con non più di cinque intermediari. Akira se voleva salvare Michiru avrebbe dovuto trovare Haruka e l’anello di collegamento con lei era Rei, ma per arrivarci doveva servirsi di questo Jadeite comparso dal nulla sulla sua strada.
Akira non seppe dirsi se era Tokyo o direttamente il mondo stesso a essere divenuto un posto veramente piccolo.
 

 
***
 
 
“Fermo, il posto è questo”.
Sadao frenò all’avvertimento di Rei avvertendo alle gambe un formicolio di tensione.
“Cosa dobbiamo fare?” inquisì ingenuamente spegnendo i fari della macchina.
“Trovare risposte, ovviamente”.
Rei non attese oltre, scese dall’auto assicurandosi di aver la pistola carica e al proprio posto.
Attraversò il vialetto con fare circospetto e all’olfatto le arrivarono i profumi più disparati di diverse piante.
L’indirizzo che Haruka le aveva consegnato era quello di una serra poco fuori città, ma non pareva un vivaio aperto al pubblico. Probabilmente si trattava di un privato con il possedimento di un pezzo di terreno.
Sadao incespicò in un pietrino venendo fulminato prontamente dallo sguardo di Rei.
“C’è nessuno? Polizia” disse decisa entrando da una porta cigolante per poi ritrovarsi davanti un’intera coltura di piante dagli sgargianti fiori cremisi.
“Sembra non ci sia nessuno” asserì Sadao sentendosi quasi sollevato dalla mancanza di estranei.
Un rumore di cocci sul retro attirò la loro attenzione. Rei, a passo svelto e con una mano a sfiorare il calcio della pistola si diresse in direzione del suono.
Le lampade a ultravioletti emisero un farfallio sinistro al loro passaggio e per un momento, Rei credette che tra la luce e il buio del calo di tensione sarebbe riuscita a vedere Setsuna.
Respirò a fondo, mentre qualche goccia di sudore le carezzò la fronte.
Non era il momento di pensare ai fantasmi.
“Polizia”.
Ripeté impugnando l’arma e aprendo con una spallata una porta mal messa.
Di fronte a lei un uomo sulla sessantina era intento a raccogliere i pezzi di un vaso andato in frantumi.
“Non vi ho sentito entrare” disse in tono sorpreso per poi rimettersi in posizione eretta e spazzarsi le mani sui pantaloni da lavoro blu.
Rei sentì la tensione alle spalle allentarsi, abbassò l’arma e mostrò il distintivo all’uomo.
“Dobbiamo farle qualche domanda”.
“Sono tutt’orecchi”.
“Che piante sono quelle nella serra alle mie spalle?”.
“Sono Ricinus”.
Sadao fece un cenno col capo a Rei come a dire che avevano trovato ciò che stavano cercando.
“Ne vende molte?”.
L’uomo scosse il capo in cenno di diniego.
“Non vendo al pubblico”.
“Quindi le coltiva per uso personale” indagò Rei.
“Diciamo di sì”.
“Perché, diciamo?” domandò con tono ancor più indagatorio lei.
Setsuna glielo aveva detto in punto di morte. Haruka sarebbe stata una brava poliziotta se solo avesse scelto la strada giusta.
E più i minuti scorrevano in quel luogo, più Rei si convinceva di essere ad un punto di svolta grazie alla soffiata della bionda.
“Si, voglio dire, si”.
“Signor…?”
“Tadayoshi”.
“Le riporrò la domanda una seconda volta. E’ sicuro, che nessun’altra persona oltre a lei possa disporre di queste piante?”.
Il fragore di un tuono rimbombò nella stanza. Un blackout improvviso, dovuto all’imperversare della tempesta all’esterno, li lasciò completamente al buio.
Il suono del cellulare di Rei s’insinuò tra i loro respiri.
“Un momento”. Afferrò il telefono e rispose al numero sconosciuto con Sadao a guardarle le spalle.
Dove sei?
“Con chi parlo?”.
Lo domandò frettolosamente, poiché una certa ansia la pervase.
Jadeite”.
“Come hai avuto il mio numero?!”.
“Sono un detective, no?”
“Che vuoi?”.
Sapere dove sei”.
“Non ti riguarda”. I nervi a fior di pelle. Rei non staccò lo sguardo dalla sagoma dell’uomo dinnanzi a lei, illuminato fiocamente solo da una flebile luce proveniente da un vetro rettangolare e stretto.
“Sei in servizio quindi mi riguarda”.
Rei perse la pazienza e si sbottonò. Se avessero voluto congedarla pazienza, le interessava trovare i responsabili della morte di Setsuna e nulla più.
“Sto lavorando al caso, okay?”
“Okay”.
Rimase interdetta dal non ricevere una sorta di ammonizione o quanto meno di non avvertire una note scocciata nella voce del ragazzo per il suo intromettersi.
“Ora puoi rispondermi?”.
“Al vivaio Sakura”. Riuscì a dirlo con la voce morente in gola. Rei si ritrovò a boccheggiare e le sopracciglia formarono un arco che rivelava una smorfia tra l’allucinato e lo stupore.
L’uomo che aveva avuto fino ad un secondo prima davanti a sé era scomparso dalla stanza.
“Fai in fretta” aggiunse interrompendo la chiamata.
“Sadao…”
“S-si”.
“Dove diavolo è finito?!”
“N-non saprei”. Rei riuscì a scorgere sul volto dell’altro un’espressione di puro terrore.
“La pistola. Tirala fuori” gli ordinò perentoria, estraendo la sua e puntandola nel buio.
“Ma…”
“Sai sparare?” gli chiese titubante.
“Circa”.
“Cazzo, Sadao. COSA VUOL DIRE CIRCA!?”.
“Al, al poligono. Qual-che volta . Si, i-insomma”.
“Non balbettare. Dimmi solo che riesci a centrare i bersagli”.
Silenzio.
“Sadao?”
“S-si”.
“RISPONDIMI”.
“Si…” una breve pausa. “Circa”.
 
 
 
*** 
 
 
Haruka venne strattonata fuori dall’auto.
Subì uno spintone e poi un altro che la fece piegare in avanti sul cofano. Le mancò il respiro quando gravitò col bacino contro il pezzo del baule.
Cercò di divincolarsi ma ebbe poca convinzione nel farlo, poiché al dolore si unì l’affiorare dei ricordi dell’incidente.
Strinse i denti come aveva fatto per una vita e si ripeté che nessuno l’avrebbe abbattuta. E di certo non l’avrebbero fatto quei due individui come fossero due bracconieri e lei un animale.
Una mano la liberò del cappuccio che l’aveva resa cieca sino a quel momento. Haruka strinse gli occhi e li riaprì solo nel momento in cui al posto di un cazzotto le arrivò una carezza.
Cinque unghie lunghe e curate, di un rosso laccato le sfiorarono il viso.
“Non immaginavo avesse un viso così bello” disse quasi in estasi la giovane dai lunghi capelli cremisi.
“Se gliel’aveste rovinato, piccoli luridi lecca culo a quest’ora non stareste più respirando”.
Haruka non emise un fiato e subito il viso della donna andò a sovrapporsi a quello della giovane che le aveva sorriso dal tatuatore.
La regina rossa era dinnanzi a lei in tutta la sua splendente follia.
 
 
*** 
 

Ken era rimasto impassibile anche nel momento in cui aveva riconosciuto uno dei due corpi come quello di suo fratello.
L’altro, per esclusione, non poteva che appartenere all’ex oyabun del clan di Haruka, l’uomo che da un giorno all’altro pareva essersi dissolto nel nulla lasciando nel caos il suo impero criminale. E sebbene Ken Azuma non fosse un uomo di gran intelletto, era comunque riuscito a collegare la sparizione dei due ad Haruka. Ecco perché aveva preso l’iniziativa andandosi a prendere l’unica cosa che la ragazza aveva di più caro al mondo.
Alla regina rossa importava della bionda; a Ken delle vendetta.
Michiru cercò di rimanere composta alla vista dei due corpi senza vita, ma in cuor suo sapeva che quell’immagine l’avrebbe tormentata per lungo tempo.
“Hai visto di cos’è capace?”.
La voce del suo sequestratore fu come una secchiata d’acqua gelida.
Michiru sapeva benissimo a chi si riferiva l’uomo, così come sapeva che Haruka aveva fatto cose di cui non andava fiera.
Non sarebbe stata lei l’ago della bilancia. Non sarebbe stata Michiru a giudicarla per le sue scelte di vita. Ricordava benissimo l’accaduto, sapeva con chi avevano avuto a che fare e sebbene non giustificasse l’omicidio lei lo aveva accettato. Aveva preso coscienza e conviveva con scelte estreme per aver salva la vita. Quella di entrambe.
Era stata legittima difesa quella di Haruka e non l’aveva informata di come lei e Akira si fossero sbarazzati dei corpi seguendo la logica del: meno testimoni si hanno e più le malefatte rimangono al sicuro.
“So anche di cos’era capace Daisuke”. Michiru schioccò la lingua com’era solita fare la compagna. Il disprezzo le si era palesato nella voce, incurante del fatto che stesse parlando del fratello del suo interlocutore.
Ken non ostentò nessuna espressione leggibile in volto. Non amava che gli altri decifrassero i suoi stati d’animo o le sue intenzioni più pericolose. Dentro ribolliva ma lo sguardo era privo di qualsiasi emozione.
 
 
***
 
 
Se c’è una cosa importante nell’impugnare un’arma è una buona mano ferma e Sadao sembrava esserne tutt’altro che dotato. Era un ragazzo timido, dalla mente brillante ma non quello che si può definire un uomo d’azione su tutta la linea. A lui piaceva il lavoro d’ufficio dove i pericoli maggiori corrispondevano al ferirsi con un foglio di carta, schiacciarsi la mano nella fotocopiatrice o ustionarsi col caffè bollente.
Rei poteva sentirlo respirare pesantemente alle sue spalle e il leggero tremolio che aveva notato nelle sue mani non la rendeva particolarmente tranquilla.
Se avessero dovuto aprire il fuoco lui sarebbe stato in grado di coprirla senza farle un buco nella schiena? Ma quello di cui entrambi non erano a conoscenza era che a Sadao la vita aveva donato una buona dose di coraggio, ma lo aveva nascosto ben bene nel suo cuore. Sottochiave.
Il giovane era alla stregua di un leoncino che viene costretto a crescere al di fuori di un branco e in assenza dei genitori: nessuno gli aveva insegnato a ruggire benché ne fosse capace.
“Per l’amor del cielo non metterti a battere i denti” ringhiò a tono basso la mora tentando di capire come fosse stato possibile che il loro sospettato si fosse fatto di nebbia.
Rei, un piede dietro all’altro e dito sul grilletto avanzò in direzione del punto dove era rimasto in piedi l’uomo. Si chinò, poggiò una mano sul pavimento e ne sondò la superfice sporca di terriccio.
“Niente…” constatò con disappunto.
“Cosa sta cercando?” domandò titubante Sadao mandando giù il groppone che aveva in gola.
“Una botola, qualcosa. NON PUO’ ESSERE SVANITO NEL NULLA”.
Nel dirlo sperò ardentemente che Setsuna potesse mandarle un segno anche se conscia delle scarne possibilità.
Sadao avanzò a tentoni, rimase in silenzio con i tratti del viso induriti per la concentrazione e finì a ridosso del muro.
Uno scricchiolio attirò la sua attenzione. Un rumore tanto flebile da apparire come l’ingranaggio di una cassaforte.
“Ci siamo…” sibilò interrompendo la ricerca a vuoto di Rei che si voltò in sua direzione.
“Sono sicuro che…” le sue dita incontrarono un ostacolo. Una frattura sottile nel muro invisibile per il buio calato nella stanza.
“Di cosa sei sicuro?” domandò lei incuriosita.
“Che sia…q-qui”.
Rei non dovette aspettare oltre per il segno che aveva richiesto, poiché anche Sadao sbilanciandosi in avanti ed emettendo un verso di sorpresa scomparve al di là della parete.
 
 
***
 
 
Haruka si ritrovò costretta sulle ginocchia al cospetto della regina rossa. Due uomini con la barba incolta e qualche cicatrice di troppo le puntavano un paio di lucenti canne alle tempie.
La donna dai lunghi capelli rossi come il sangue sedeva su un trono simile a quello del proprio locale nella caotica e lussuriosa Kabukichō. Sullo schienale erano intarsiate lunghe lingue fiammeggianti e gli occhi cobalto di Haruka sembravano non volersi scollare da quelle linee sinuose.
Sinuose come i capelli cerulei della donna che amava.
Michiru. Il pensiero nuovamente rivolto a lei.
A volte Haruka odiava la vita che conduceva e ancor di più odiava averci trascinato Michiru, eppure non poteva far a meno di lei. Il solo pensiero le faceva dolere il cuore; lo stesso che perse un battito nel vederla entrare nella stanza seguita da Ken Azuma.
 
L’uomo s’inchinò davanti a quella che considerava la sua padrona.
La regina rossa sorrise sorniona, era compiaciuta da tutta quel rispetto che le veniva mostrato.
“Haru…” il suo nome uscì flebile dalle labbra di Michiru.
“Stai bene?” domandò subito l’altra di rimando.
La chioma azzurra rispose con un cenno di assenso alla domanda, ma il loro parlottare sommesso venne prontamente interrotto dalla voce di Eudial.
“Ben tornato Ken. Ora che ci siamo tutti possiamo cominciare il nostro incontro”.
“Bastava un invito scritto se volevamo trovarci per spettegolare tutte assieme”.
Eudial non fu offesa dal sarcasmo di Haruka. Stiracchiò le gambe, poggiò un gomito ad un bracciolo e il mento al dorso della propria mano.
Le piaceva guardare Haruka. Trovava che i suoi lineamenti androgini fossero magnetici.
“Mi piace fare a modo mio”.
“E a me piace sbrigare in fretta certe faccende”.
“Oooh mettete giù quella armi”. Eudial fece un cenno ai suoi uomini di ubbidire. Schioccò le dita, si fece portare un calice di vino e dopo una lunga sorsata si decise a riprendere la conversazione.
“Mettiamola in questo modo. Il tuo clan m’intralcia”.
La fronte di Haruka si aggrottò leggermente.
“Osaka mi era diventata stretta e adoro cambiare aria. I miei affari, qui, vanno a gonfie vele non fraintendere. Ma credo dovremmo raggiungere un accordo…”
“Sei tu l’ultima arrivata. Invadi le zone altrui, cosa pretendi? È già molto che nessuno ti abbia tagliato la gola”.
Un lampo rubino attraversò lo sguardo della giovane Yakuza.
“Nessuno mi minaccia di morte”.
“Non sono io a farlo, ma mi pare che tu non abbia molto ben chiare le regole di questo mondo”.
Ad Haruka non importava un bel niente dei possedimenti del suo clan. Per quel che valeva, Eudial poteva prendersi tutte le attività illecite che voleva e fare andare tutti in banca rotta, ma le regole dell’ikka non permettevano di mollare facilmente. E che Haruka lo volesse o no, c’erano intere famiglie sulle sue spalle. Donne e bambini che non avevano colpa di ciò che i loro padri erano costretti a fare. Di certo c’era gentaglia che meritava più della galera fra loro, ma non tutti erano così. Alcuni si erano macchiati la coscienza perché la vita non aveva dato loro altra alternativa.
Ancora una volta il suo onore si ritrovò a tremare. Haruka voleva distruggerli tutti. Voleva consegnare più malviventi possibili alle forze dell’ordine per guadagnarsi la sua libertà, eppure una parte di lei era ancora lì, attaccata a loro. Così simile da confondersi con ognuna di quelle brutte facce e senza la capacità di riconoscere sé stessa.
“Perché li hai uccisi?” chiese a denti stretti.
“Era un avvertimento”.
“E il messaggio sarebbe stato…?”
“Che mi sarei presa tutto. Persino le loro vite”.
Eudial si stiracchiò con movenze feline. Scese dal proprio trono e ancheggiando si diresse verso di loro.
Michiru non emise un fiato. Le mani dietro la schiena carezzarono il taglia carte che aveva celato sino a quel momento.
“Ho una proposta…”.
La rossa si chinò verso Haruka sollevandole il mento. Avvicinò il proprio viso al suo e inarcò le labbra rosse in un sorriso tutt’altro che rassicurante.
“Diventa il mio dragone”.
“Cosa?”.
“Potremmo unire i nostri clan. Ti sto proponendo un matrimonio pacificatore”. Eudial spostò la sua attenzione su Michiru.
“Tu lo hai già comprato il vestito, non è vero? Scommetto mi starà d’incanto”.
Haruka deglutì. Stava per dirlo davanti alle persone meno indicate. Stava per confessare che aveva mentito al proprio clan su tutta la linea e le conseguenze delle sue azioni sarebbero state tutt’altro che rosee.
“Spiacente. Sono una donna”. L’espressione trionfante che le si era palesata in volto fu stroncata sul nascere.
“E il problema quale sarebbe? Lo sono anche io”.
“Non lo farò mai”. Il suo cuore era di Michiru. Ogni singola cellula era sua e piuttosto che mettere in piedi un matrimonio fittizio con una psicopatica sarebbe morta.
“Se il problema è lei…possiamo risolverlo”.
Eudial cercò assenso nel suo sottoposto.
“Potremmo ucciderla, vero Ken?”.
Michiru decise di non poter aspettare oltre, di far suo il destino senza attendere che fosse lui a decidere per lei. Fu in un frangente di secondo che scelse di combattere.

***
 
 
Sadao sondò a carponi il terreno che i palmi delle mani avevano incontrato nella caduta.
La pistola era scivolata a qualche metro da lui; riusciva ad intravederla perché illuminata da un debole luce fioca.
Poi di nuovo lo scricchiolio d’ingranaggi e Rei fu subito dietro di lui. Mantenne un equilibrio precario ma non si lasciò sorprendere da una caduta come quella del ragazzo che l’aveva preceduta.
“Che razza di posto è questo?” sibilò guardandosi attorno un po’ intontita per poi scuotere la testa e cercare di rimettere in ordine sensi e idee.
“Credevo che i passaggi segreti esistessero solo in letteratura o nei film” borbottò il giovane per poi chinarsi e agguantare la propria arma. Rimase però ricurvo con la mano a mezz’aria sollevata sopra al ferro e i suoi occhi scuri puntate su un paio di scarpe dinnanzi a lui.
“NON muoverti” scandì Rei alle sue spalle a braccia ben tese e indice ancorato al grilletto.
 
Sadao non emise un respiro, rimase in apnea paralizzato mentre le sinapsi facevano i conti con il dubbio che il messaggio della ragazza non fosse indirizzato a lui ma all’altro uomo nella stanza.
“Abbassa la pistola, ragazza”.
Il tono intimidatorio e una pallottola pronta a colpire la nuca del giovane poliziotto.
“Prima dimmi chi sei e cosa fai con quei fiori”. Rei risoluta e testarda non amava lasciare la presa prima del dovuto, anche se in quel momento stava giocando col fuoco.
“Credo tu lo sappia già o non saresti qui”.
Sarebbe bastata come confessione quella? Rei ormai era certa che il tizio in questione fosse il fornitore di quello che era stato usato come un veleno mortale dalla regina rossa di Osaka.
Quello che aveva davanti era indirettamente responsabile anche dell’omicidio di Setsuna poiché era anche a causa sua se quel caso esisteva.
Rei sentiva di odiarlo. Poteva percepire la rabbia bruciante nelle vene istigarla a far ruotare il tamburo della pistola e a strappare così una vita dal mondo terreno. Un mondo che ormai aveva perso il suo colore con l’addio alla sua amata.
S’impose di respirare, così come stava facendo Sadao che probabilmente ripensava velocemente a tutto il suo giovane vissuto.
“Abbassa…l’arma”.
Nessun movimento.
“Abbassa l’arma e ti lascio andare”.
Ma Rei non poté mantenere quella promessa perché uno sparo rimbombò sordo nella stanza.
 
 

Jadeite e Akira avevano trovato un piccola porta sul retro. Trovando la via principale spalancata e priva di presenza umana optarono per la porta seminascosta ritrovandosi a percorrere un lungo corridoio.
Spuntarono alle spalle di un uomo armato intento a minacciare la vita di un giovane agente e Jadeite non ci dovette pensare un istante in più. Guidato dall’istinto sparò alla gamba dell’uomo e lo guardò perdere l’equilibrio finendo a terra.
I riflessi porpora nelle iridi scure di Rei guizzarono verso di lui.
Sadao si rialzò puntando la pistola alla figura a terra che imprecava e tentava di fermare l’emorragia all’arto ferito.
“Giusto in tempo” sorrise sghembo il biondo senza riuscire a togliersi di dosso la sensazione dei suoi occhi cupi e allo stesso tempo grati.
“Ce ne hai messo…”.
Rei non accennò a dargli soddisfazione ma Jadeite non parve offeso per il suo essere restia a mostrare gratitudine.
“Sono arrivato per un’entrata d’effetto. E al momento giusto, oserei dire”.
Rei sentì grattare in gola una risatina ma dissimulò con un colpo di tosse per poi distogliere lo sguardo dal collega e posarlo su Akira.
“Non è qui…” sibilò il moro riferendosi ad Haruka.
Poi una risposta.
Un bip indicò sul display del suo cellulare una posizione geografica poco distante da lì.
 
“Cosa ne direste di accompagnarmi e arrestare un bel po’ di Yakuza?”.




Note dell'autrice:
Se siete arrivati sin qui vi siete sciroppati dodici pagine di delirio, complimenti dunque! Avete una pazienza infinita.
Ormai siamo giunti alla fine perché questo è il penultimo capitolo di Kissing The Dragon. 
Grazie a chi non ha mollato nonostante gli aggiornamenti alle volte epocali e a chi è sempre disposto a lasciarmi qualche parola a fine capitolo.
Spero sia stato tutto abbastanza comprensibile e non vi abbia annoiato.
Un abbraccio.
Kat
 

 
 
 
 

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Capitolo 12
*** EPILOGO ***


Capitolo 11
Epilogo
 
 

“Take your shot, take the fight
My fists are up my hands are tight
Steady flame, burn the arch
I take the blame, can't take enough
You know I can't take it, no no no
Can't feel my soul”
 
DRVGS - DVBBS
 
 
 

Le labbra rosse carminio si schiusero improvvisamente.
Onde acqua marina si avventarono su rosso cremisi in una manciata di secondi.
Michiru con lo scatto agile di una gazzella era addosso alla regina rossa puntandole il taglia carte alla gola. Non c’era stato bisogno di ponderare nulla, era solo puro istinto, lotta, sopravvivenza.
Gli uomini imbracciarono le armi puntando le canne lucenti alla zazzera color grano che non aveva fatto in tempo a seguire lo scatto repentino.
Non un fiato venne tirato e la lancetta dell’orologio da polso di uno degli yakuza scandì i secondi in un vuoto irreale.
“Adesso basta” il tono di Michiru a metà fra la supplica e la rabbia. Non aveva mai provato una disperazione tale.
Era riuscita a percepire il tocco scaltro della fine ma non le avrebbe permesso di stritolarle il cuore senza combattere.
I suoi occhi si persero nel blu cobalto di quelli di Haruka.
Lei non aveva paura e Michiru tentò disperatamente di aggrapparsi a quella forza che le leggeva in volto e sapeva le apparteneva.
Come hai fatto a vivere così per tutto questo tempo, mia dolce Haruka?
Si permise quel pensiero con un nodo in gola prima di scacciare a denti stretti la paura.
“Non ho intenzione di sottostare ai vostri sporchi giochi, né tanto meno di farmi rovinare la vita da voi”. Lo disse più risoluta, provando un calore diffuso in tutto il corpo.
I muscoli di Eudial guizzarono appena nella stretta di Michiru e le sue pupille scure indagarono su quanto quella lama lucente fosse vicina alla propria carotide.
Lei, la donna che aveva fatto fuori un uomo tanto potente ed era riuscita ad impossessarsi di un intero clan, la stessa che aveva ottenuto timore e rispetto da una banda di malviventi, ora era intrappolata nella stretta di un braccio vellutato.
Cederà. Eudial ne era certa.
Michiru non era una donna di strada, non sarebbe riuscita a portare a termine quel suo violento proposito.
Era un bluff o in caso contrario le sarebbe venuto a mancare il coraggio nel momento in cui avrebbe dovuto piantarle nel collo quell’aggeggio.
“Michiru” la voce di Haruka era un soffio.
“Michi guardami” le ripeté sorridendole. In quell’incurvatura che si portava sempre un’ombra di spavalderia però ora vi era una punta d’amarezza.
Haruka non le avrebbe mai permesso di sporcarsi così com’era stata costretta a fare lei.
 
“Ammazzatele” uno schiocco di lingua accompagnò il volere della regina rossa.
“Ce lo prenderemo con la forza quello che vogliamo”.
 
 
***
 
 
Ami, a capo chino, teneva salda la stretta all’aspiratore chirurgico.
Mamoru diede un’occhiata al monitor delle funzioni vitali di Minako e da dietro la mascherina storse le labbra in una smorfia di preoccupazione.
“Cattive compagnie, Ami?” domandò asciugandosi la fronte con il dorso della mano ricoperta dai guanti.
Ami tacque mordendosi la lingua e gli occhi cerulei fissi sullo squarcio nella carne dell’amica.
Come avrebbe fatto senza di lei? E Michiru dov’era finita? Stava bene?
Akira è uno che mantiene le promesse.
Inspirò ed espirò a fondo.
Forse era troppo coinvolta e non avrebbe dovuto essere in sala operatoria, ma persino il dottor Chiba era vicino alla paziente essendo il loro mentore. E non c’erano mani migliori delle loro in tutta Tokyo.
Andrà bene.
“Te lo chiedo solo perché sono preoccupato per voi…”.
Andrà bene perché ho fatto anche io una promessa.
“Non voglio ti accada niente di male”.
Ami sollevò lo sguardo senza però smettere il suo operato.
Un battito rimbalzò nella sua cassa toracica più forte degli altri.
Lei provò a dire qualcosa ma solamente un soffio riuscì a schiantarsi contro la mascherina verde menta che stava indossando.
 
Un bip sinistro.
I numeri sul monitor cominciarono una discesa ripida verso l’inferno.
“La pressione sta calando a picco” la voce di Mamoru si macchiò d’agitazione.
Ad Ami tremarono le mani.
“Mina non mi lasciare! Non mollare adesso”.
 Ami ritrovò la sua voce e cercò la fede nel suo giuramento.
 
 
***
 
 
“FERMA”.
La voce di Michiru riecheggiò nella stanza. Aveva perso il sangue freddo nel momento in cui le parole di Eudial avevano impartito la loro sentenza di morte.
Non era preoccupata per sé. Non temeva per la propria vita, ma per quella della sua dolce metà. Non sarebbe mai stata tagliata per un mondo del genere e quella ne era la prova lampante. Si sentì stranamente debole per quanto fosse sempre stata una donna di carattere.
Si era lanciata in quel gesto avventato e lo aveva fatto cadere nel vuoto. Però la vita di Haruka non poteva gettarla dalla finestra e se l’avesse salvata cedendo e facendo una figura patetica lo avrebbe fatto.
Eudial sorrise compiaciuta poiché la sua congettura si era appena rivelata corretta.
“Basta con i giochetti…”.
Michiru abbassò di qualche centimetro il taglia carte, ma decisa a non mollare ancora il proprio vantaggio non accennò a lasciare la presa dal corpo della giovane.
“Cosa vuoi?”.
“Te l’ho già detto”.
“Per…lasciarci andare, intendo”.
Eudial scoppiò in una risata divertita.
“Lasciarvi andare?”.
“Vuoi…vuoi Haruka?” la voce le tremò appena.
Haruka mosse il capo in cenno di diniego.
“Michi, no”.
“Haru...io…”. Rassegnazione, era tutta lì, in quelle poche parole. Ma più di quella era il dolore lancinante che si stava insinuando in lei.
La resa e la perdita di Haruka erano la cosa più penosa che stesse provando.
“Potremmo fare così” cominciò Eudial risoluta. “Allontani quell’aggeggio dal mio splendido viso. Io mi prendo Haruka, i nostri clan diventano uno solo e tu…beh, potresti lavorare in uno dei nostri locali. Non sei una brutta ragazza”.
Lo disse con sufficienza, ma poi un guizzo sadico le attraversò lo sguardo.
Una fine del genere per Michiru sarebbe stata sin troppo dignitosa a suo avviso. In fin dei conti quella donna aveva appena rischiato di sfregiarla o ancora peggio dissanguarla irrimediabilmente.
“Potresti stare col nostro caro Ken. Diventare la moglie di un membro tanto stimato non sarebbe poi una brutta posizione, no? E poi gli devo un bel premio per tutto il suo lavoro”.
Eudial si lasciò andare ad uno scarno applauso per quella trovata.
“Potresti vedere persino Haruka…al mio fianco, s’intende”.
Haruka digrignò i denti e uno degli uomini le bloccò le spalle per non permetterle mosse false.
“Michiru, no”.
Occhi liquidi in altri occhi del medesimo colore.
“Non lasciarglielo fare”.
C’era tortura peggiore di vedere il suo amore costretta al fianco di qualcun altro?
“Non puoi fidarti di lei”.
Haruka tornò alla carica infuriata e disperata.
“Non lo accetterò mai, non lo farò”.
E se fosse l’unico modo per tenerla in vita?
“PREFERIREI MORIRE”.
Per lei non era vivere senza Michiru, perché il motore che le aveva riacceso il cuore si trovava lì. Ad una distanza irrisoria con la malsana idea di rinunciare alla loro vita insieme.
Se Haruka non avesse avuto possibilità di trascorrere il tempo concessole sulla terra senza Michiru al suo fianco allora tanto valeva morire.
Michiru aveva il suo appoggio. Poteva uccidere Eudial e lei sarebbe stata trivellata di colpi guardandola un’ultima volta e non avrebbe covato rancore nell’esalare il suo ultimo respiro.
 
“SEI FORSE IMPAZZITA? Io preferirei di no, testa calda!”. La voce di Akira stemperò quella sorta di ultimo addio.
Poi furono fuoco e fiamme.
 
 
***
 
 
Settimo cerchio.
Avrebbero dovuto trovarsi tutti immersi nel bollente Flegetonte. E Akira sembrava appena uscito di lì con gli abiti macchiati delle stille vitali di Minako.
Haruka ebbe a malapena il tempo di notare le chiazze di sangue sulla giacca dell’amico precipitandosi verso Michiru e spingendola al riparo dietro al mobilio della stanza.
“Dico, ma sei impazzita?” le chiese tra i colpi che fendevano l’aria.
Michiru non rispose ancora stordita da quell’entrata in scena e la velocità con cui stava avvenendo il tutto.
“Mi avresti sul serio mollato dando retta a quella sciacquetta?”.
“Io…”
“Lascia stare principessa. Ti perdono perché devi esserti spaventata parecchio. Ma ricordati, ho la pellaccia dura”.
“Haruka…”
“Non ti libererai mai di me, mi hai capita?” la interruppe la bionda sollevandole il mento.
“Okay, Haru”.
“Okay, principessa”.
 
 
Rei chiuse l’occhio destro e mirò al braccio di uno degli scagnozzi di Eudial disarmandolo.
“Bella mira, piccola” Jadeite soddisfatto le fece un occhiolino per poi farne cadere un altro come un birillo.
“Non chiamarmi piccola” disse piccata lei riparandosi dietro ad una parete allo scoppiare del fuoco nemico.
“Possiamo discuterne più tardi?”.
“Non c’è nulla da discutere!”.
Jadeite uscì allo scoperto colpendone un altro e sottraendogli la revolver per poi farla scivolare verso Haruka.
“EHI, STO PARLANDO CON TE!” la voce di Rei fece eco arrivando chiara all’orecchio di Jadeite che sorrise sornione.
La regina rossa si alzò gridando frustata. Stava assistendo alla caduta del proprio impero, ma non avrebbe certo fatto una fine tanto miserabile.
Ken Azuma la raggiunse, l’aiutò cavallerescamente ad alzarsi da terra, ma Eudial ricambiò tutt’altro che gentilmente.
“Nonostante le tue dita perse sei sicuramente il più valente di questi idioti, ma credimi. Non vali tanto quanto la mia vita”.
Eudial lasciò all’uomo, come giuda, un bacio sulla guancia poi lo usò come scudo umano per ripararsi dalle pallottole di Akira.
 
 
 
Epilogo
 


Due settimane dopo.
 
“Te l’ho già detto? Sono morta per ben due volte ma sono tornata indietro, non ti pare di avere una fidanzata fichissima?”.
Minako nel suo letto d’ospedale sembrava al pieno della forma. Inizialmente Akira aveva creduto che blaterasse per l’effetto dell’anestesia o di antidolorifici, ma col passare dei giorni aveva capito che quella non era niente poco di meno che la sua frizzante biondina tornata al pieno delle forze.
“Si, questa storia ormai la conosco a memoria”.
“Sono una super girl. Altro che cat woman e la sua calzamaglia in latex!”.
Minako mostrò un bicipite con tanto di espressione colma di convinzione, ma poi dovette abbassare il braccio soffocando un flebile “ahi”.
“Se vogliamo essere attinenti ai fatti è Ami che ti ha riportata indietro. Tu non hai fatto un bel niente” la punzecchiò il moro dandole una grattatina al centro del capo biondo.
“Ma come ti permetti?!”.
“Minako stai facendo un gran baccano. E comunque sono le piastre magiche dell’ospedale ad aver fatto il lavoraccio. Quel pigro del tuo cuore voleva mollarmi così”.
“Ah si?! La metti così? E tu dov’eri? SENTIAMO!”.
Minako incrociò le braccia ostentando un’espressione scocciata per poi piegare le labbra all’ingiù. I punti la fecero dannare un altro po’ e faticò a mantenere corrugata la fronte in quel modo.
“A fare l’attacca brighe, quello che mi riesce meglio. No?”.
“Tsk”.
“Su Mina, dammi un bacetto”.
“Scordatelo”.
“Ma…ti ho portato i pasticcini!”.
Due occhi cerulei precipitarono nel limpido grigio dei suoi.
“Davvero? Mpf”.
“Davvero. Ti ho fatto anche quelli con la crema chantilly”.
Minako soffocò un urletto di gioia gettandogli le braccia al collo e sbaciucchiandolo dalla fronte al naso per poi spostarsi alle guance finì sulle sue labbra.
“Ti ho ringraziato abbastanza?” domandò con voce velatamente languida.
“Posso accontentarmi per ora” gli sorrise lui carezzandole il viso. “E adesso sbrigati a mangiare. Devi essere dimessa e c’è un matrimonio che ci aspetta”.
 
 

 
[è consigliato l’ascolto di “I get to love you” – Ruelle per queste ultime righe]
 
 

Niente navata, niente tempio, niente avrebbe potuto competere col viso splendente di Michiru dipinto dei colori della gioia e dei tiepidi raggi solari.
Lei aveva le onde del mare morbide che le ricadevano sulle spalle e  vestita da sirena bianca, avanzava a passo lento in direzione di Haruka intenta a torturarsi le mani.
La giovane Yakuza aveva al suo fianco il suo più fidato degli amici, Akira, il fratello che la vita gli aveva donato e colui che aveva salvato le loro esistenze.
“Respira” gli sibilò all’orecchio poggiandole una mano sulla spalla vestita di una giacca nera.
“Non credo di ricordarmi come si faccia”.
“Non vorrai che chiami un paramedico per una rianimazione d’emergenza, vero?”.
“Beh, direi che ci sono presenti abbastanza dottori qui in caso di bisogno”.
C’erano tutti per il grande giorno.
Ami nel suo abito blu a lustrini lasciò il posto a sedere accanto al suo insegnante per assolvere al suo compito di ufficiante.
Minako, da brava testimone, aiutò Michiru ad arrivare in fondo al percorso di petali che l’aveva divisa da Haruka.
E poi c’erano Rei, Sadao e Jadeite coloro che avevano reso possibile quel giorno aiutando Akira. In piedi, tutti e tre, si erano premurati di lasciare un posto vuoto accanto a Yoshio - il padre delle due ragazze dai capelli blu - per la persona che non c’era più ma continuava ad accompagnarli ogni giorno.
Haruka lanciò uno sguardo a Rei, poi alla sedia di Setsuna. L’ispettore avrebbe sicuramente avuto da ridire in merito al resto degli ospiti ingiacchettati e dallo sguardo celato dagli occhiali scuri calati sul naso.
Il clan aveva esiliato Haruka e Akira, la loro reputazione era infangata, eppure come ultima clausola avevano espresso la volontà di partecipare a quell’evento.
 
Il vento freddo scompigliò i lunghi capelli di Michiru. Si concesse un brivido, subito sedato dal tocco di Haruka che intrecciò le proprie dita alle sue.
Era lì, al fianco di quella che sarebbe stata la sua compagna in eterno.
Era lì e poteva ancora stringere il suo amore tra le mani.
“Fa che sia per sempre”.
“Te lo prometto”.
E Michiru baciò il suo dragone per incatenarlo al suo destino una volta per tutte.
 
 





Nota dell'autrice:
In tutta onestà non so come ringraziarvi. Ci sono stati momenti in cui non avuto ispirazione, altri in cui avevo perso la voglia ma c'è stato chi tra di voi, mi ha spronata con le proprie parole fino a far sì che riuscissi a concludere anche questo "secondo episodio". Non starò ad elencare uno a uno tutti quanti, ma davvero...siete fantastici, dal primo all'ultimo. Un ringraziamento particolare poi va a quelle persone che nonostante il tempo che è passato non si son date pervinte e hanno aspettato il mio ritorno accompagnandomi fino a fine scrittura. 
Le vostre recensioni, opinioni, scleri sono sempre la cosa più bella da ricevere perché perdete un pò del vostro tempo a parlarmi di ciò che vi è piaciuto o meno, mi fate divertire, interessare e mi aiutate a crescere. Spesso, senza rendervene conto mi aiutate anche a scrivere e a completare le storie come in questo caso. Adesso smetto di fare la sentimentale, ma mi pareva doveroso dirvi tutto quello che pensavo.
Kissing The Dragon è conclusa, ma vi prometto che tutti i protagonisti ritorneranno alla carica. Non riesco davvero a mollarli.
Lascio il solito link della mia pagina per seguire tutte le news dei miei scritti: 
https://www.facebook.com/KatLoganEFP/?ref=bookmarks 

Un abbraccio enorme.

Kat





 

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