Il destino ha molta più fantasia di noi

di yourkittyness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Once upon a time ***
Capitolo 2: *** A touch of insanity in logic ***
Capitolo 3: *** A firm grip ***
Capitolo 4: *** Searching for a sweet surrender ***



Capitolo 1
*** Once upon a time ***


Vi prego di leggere l'Angolo Autrice a fine pagina dopo aver letto il primo capitolo, grazie☆

Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(1)

 
Se Aomine Daiki si fosse chiesto come tutto fosse iniziato, non avrebbe saputo dare una reale risposta. Non c’era un perché o un quando, semplicemente una mattina si era alzato ed era andato a comprare un pallone da basket. Forse gli era capitato di sentire un programma alla radio o alla tv, o forse aveva sentito dei suoi compagni di classe parlare di Michael Jordan, l’unica cosa che gli era chiara, tra i ricordi di parchi giochi e baby sitter, era che, dalla prima volta che la sua mano era venuta a contatto con la superficie ruvida di quel pallone, la sua vita era cambiata. Se in meglio ancora non lo sapeva.

I ricordi dell’incidente erano stati marchiati a fuoco sotto sue palpebre, nonostante i due anni passati, erano ancora nitidi e indelebili. Si erano attaccati a lui come gli artigli di una bestia feroce e, ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva quella luce terribilmente forte che quasi gli bruciava le iridi. Un’ansia opprimente gli gravava addosso portandolo sempre più nell’abisso.

La sua carriera di giocatore di basket era stata stroncata bruscamente quando, poco dopo essersi svegliato dal coma, i medici lo avevano informato della frattura scomposta alla gamba e dei corsi di riabilitazione che gli avrebbero permesso di svolgere come una volta tutte le azioni  quotidiane, tranne il basket ovviamente. Quel giorno tra le lacrime di gioia dei suoi parenti, c’erano anche le lacrime di Daiki, ma sicuramente non piangeva per lo stesso motivo.

Quel giorno si era svegliato all’improvviso, sentendo il rumore di qualcosa di metallico che sbatteva violentemente a terra. Si girò a guardare la svegliava che segnava le otto e mezza del mattino. Era domenica, quindi non aveva nessuna lezione universitaria da frequentare, e la sera prima aveva finito di studiare così tardi che per un attimo aveva temuto che gli occhi avessero potuto cominciare a sanguinare. Chiunque fosse stato il rincoglionito che alle otto del mattino aveva deciso di fare tutto quel macello, se la sarebbe vista brutta, davvero, davvero brutta.

Alzandosi dal letto si era diretto con passo pesante verso la porta e, spalancandola, si era ritrovato davanti un ragazzo biondo con in mano quella che sembrava una lampada. Una lampada futuristica anche abbastanza brutta.

«Posso sapere, di grazia, perché a quest’ora stai facendo tutto ‘sto casino?» il ragazzo biondo lo guardò un attimo, sbattendo un paio di volte le palpebre. Stava cercando di trattenere una risatina.

«Posso sapere, di grazia, perché a quest’ora sei in mutande sul pianerotto?» Daiki sembrò perplesso per un attimo. “Mutande..?”. Spalancò gli occhi e abbassò lo sguardo. Si era scordato che lui dormiva con solo i boxer addosso.
-
Inspiegabilmente, Daiki (questa volta vestito) si era ritrovato a casa del sopracitato biondo per aiutarlo a sistemare alcuni mobili. A quanto pareva, il biondo – che aveva scoperto si chiamava Ryouta Kise – si era da poco trasferito in questo palazzo per continuare gli studi all’univerisità. D’altronde, la maggior parte – se non tutti – i ragazzi che abitavano in quel condominio, erano tutti studenti universitari.

Daiki appoggiò l’ultima scatola piena di cianfrusaglie e riviste accanto al divano e si appoggiò alla parete, con il fiatone. Sentì un leggero fastidio alla gamba e fece una smorfia, aveva finito con la riabilitazione parecchio tempo fa ma era da molto che non trasportava così tanti oggetti pesanti.

«Ehi, ti va del the? Come ringraziamento per il fastidio» Daiki annuì, andando a sedersi sulla sedia in cucina, davanti al tavolo impolverato. Ryouta era andato un attimo nel soggiorno a cercare delle tazze e qualcosa per riscaldare l’acqua. Ancora gli sembrava impossibile che avesse davvero accettato di aiutare quello sconosciuto. Gli aveva fatto abbastanza pena, soprattutto dopo che lo aveva supplicato così tanto. Poi sperava anche che così non avrebbe detto in giro che dormiva con le mutande di Spiderman (gliele aveva comprate sua nonna e non poteva mica rifiutare il regalo).

Ryouta sedette accanto a lui. Appoggiò il mento sul palmo della mano e cominciò a fissarlo.

«Quindi tu dormi con le mutande di spiderman, eh?» Daiki chiuse gli occhi reprimendo l’istinto di buttargli l’acqua bollente sul viso.

«È stato un caso» rispose secco.

«Mh, un caso, va bene» disse serafico, lasciandosi scappare una risatina. La conversazione era finita e nonostante Daiki stesse fissando le venature del tavolo in legno, riusciva a sentire che Kise lo stava osservando da sotto le sue lunghe ciglia. Lo sguardo di Aomine corse fino a raggiungere le dita affusolate di Ryouta, appoggiate sul tavolo. Il suo sguardo si spostò ancora, incontrando finalmente quello di Kise. Si aspettava che dopo il contatto visivo, Ryouta avrebbe smesso di fissarlo insistentemente; purtroppo per Aomine, Kise non la smetteva di fissarlo e lui stava cominciando a sentirsi molto a disagio.

«Non dovresti controllare se l’acqua ha cominciato a bollire?»

«Oh, diamine, hai ragione, me lo stavo dimenticato» Daiki si lasciò sfuggire un sospiro. Che diavolo di vicino di casa gli era capitato?

Daiki si rese conto di quanto fosse svampito il suo vicino solo dopo che, ridendo (non c’era niente da ridere), gli disse che non aveva nessuna bustina di the. Reprimendo ancora l’impulso di buttargli l’acqua bollente sul viso, disse a Kise che se voleva poteva venire a casa sua (in realtà Ryouta si era autoinvitato e Daiki aveva dovuto accoglierlo). Perciò questa volta erano attorno al tavolo di Aomine, con le tazze in mano. Kise era stranamente silenzioso; nonostante si fossero conosciuti solo da poche ore, Daiki aveva capito che tipo di persona era: un rompicoglioni.

«Hai intenzione di rimanere qui per molto?» chiese il proprietario poggiando la tazza nel lavello.

«Chi ti ha insegnato ad essere così maleducato?» rispose ridendo.Si alzò appoggiandosi al piano della cucina incrociando le braccia. «È la prima volta che vedo qualcuno più alto di me, mi fa strano» corrugò la fronte. Aomine si limitò a grugnire mettendo la tazza sporca accanto all’altra.

«Ehi, senti» iniziò di nuovo il biondo. Daiki non rispose quindi il biondo continuò a parlare: «Per caso fai basket?»

Aomine contrasse i muscoli, stringendo i denti. Chiuse un attimo gli occhi e vide di nuovo quei lampi di luce. L’ansia gli strisciò dentro come un verme, sentiva quasi la gamba pulsare. Strinse i pugni e si diresse verso la porta.

«Facevo. Ora, per favore, vai via.»
La sveglia suonò e Kuroko la spense in fretta. Doveva sbrigarsi o non avrebbe potuto vederlo. Mentre si preparava per uscire si rese conto di quanto diventasse sempre più inquietante, giorno dopo giorno. Non era uno stalker, solo che da qualche tempo si “divertiva” ad osservare il suo vicino di casa.

Era da un po’ che Kuroko si era trasferito in quegli appartamenti e tra i tanti vicini di casa, aveva notato proprio quel ragazzo. Non sapeva nulla di lui, la targhetta vicino alla porta segnava “Kagami Taiga”. La prima volta che l’aveva letto l’aveva trovato un nome abbastanza singolare e decisamente buffo, ma non si era mai posto il problema di chi potesse essere. In fondo, a lui che gli importava? Non era nulla di più che un vicino di casa, una persona come tante. Quando si sarebbe laureato e avrebbe lasciato quell’appartamento si sarebbe scordato anche di quel nome. Purtroppo fu costretto a ricredersi quando qualche giorno fa, per la prima volta dopo un anno, si erano incontrati sul pianerottolo. Poteva sembrare un paradosso: due persone che viveano nell’appartamente accanto all’altro che non si erano mai incontrate.L’unica cosa che Kuruko riuscì a chiedersi in quel momento fu come una persona potesse essere così bella.

Nonostante avessero aperto la porta contemporaneamente, quella volta, Kagami Taiga non si era neanche girato a guardarlo. Kurok0 rimase lì, pietrificato, a guardare il suo profilo e poi la sua figura che scompariva in fondo alle scale. Per la prima volta rimpianse la sua mancanza di presenza.

Fino a quel giorno, non gli era mai dispiaciuto passare inosservato. Se i suoi professori non si ricordavano di lui, i voti dei test parlavano al suo posto. Anche se i suoi compagni tra poco non sapevano neanche che fosse nella loro stessa classe,  gli andava bene così. Gli era sempre andato bene. Aveva sempre pensato fosse una cosa anormale, ma con il tempo ci aveva fatto l’abitudine. Niente contatti, nienti dolori. Andava avanti così. Quella volta gli era sembrato sbagliato, Kagami Taiga avrebbe dovuto girarsi, Kagami Taiga avrebbe dovuto guardarlo, Kagami Taiga avrebbe dovuto ricordarsi di lui.

Da quel giorno, aveva sentito l’impellente bisogno di vederlo, di imprimere nella sua memoria ogni suo piccolo movimento, ogni sua espressione, ogni attimo di lui. Se Kagami Taiga non si sarebbe mai ricordato di lui, sarebbe stato Kurok0 a ricordarsi ogni particolare dell’altro.

Non pensava che fosse stato il destino a farli incontrare e non pensava neanche che seguirlo o rimanere da qualche parte ad osservarlo fosse una cosa normale. Semplicemente, ne aveva bisogno. Dopo un anno in quella città nuova, non aveva ancora trovato un punto di riferimento, ma sembrava che Kagami fosse arrivato lì per quello.

Era quasi una settimana che Kuroko faceva sempre le stesse cose: si svegliava alle dieci e venti, in poco meno di dieci minuti si preparava, usciva dal palazzo  e si sedeva su una panchina aspettando che uscisse, come era solito fare ogni giorno verso le undici meno venti (aveva scoperto che andava al campetto da basket che stava lì  vicino). Ogni volta che si sedeva lì si sentiva una persona orribile, decisamente diversa. Nessuna persona sana di mente si sarebbe messo a “stalkerare” il vicino di casa, e lo sapeva anche lui.

Si fermò davanti alla porta con la mano sulla pomello, erano le dieci e trenta precise.

«Cosa diavolo sto facendo?» appoggiò la testa contro la porta. «Devo smetterla di fare queste cose inquietanti. Tetsuya mettiti l’anima in pace» fece una pausa. «Bene, ora ho cominciato anche a parlare da solo.»

Quel giorno rimase a casa a studiare, ma il pensiero di Kagami Taiga era ancora lì e non gli dava modo di concentrarsi.
-
Era lunedì e la sveglia non aveva suonato, Tetsuya sarebbe arrivato in ritardo sicuramente. Poco male, tanto nessuno l’avrebbe notato, come minimo avrebbe fatto prendere un infarto a quelli del suo corso, già sentiva le loro urla: “oddio, la porta si è aperta da sola!”.

Era difficile che Testuya si innervosisse, ma aveva notato che da quando aveva iniziato l’università – e aveva cominciato a seguire il suo vicino di casa – era diventato sempre più lunatico. Aprì la porta e di corsa uscì fuori, scontrandosi contro qualcuno. Venne sorretto da un paio di mani decisamente più grandi delle sue, alzò lo sguardo e si ritrovò gli occhi spalancati di Kagami Taiga davanti.

«Scusami, andavo di fretta e non ti ho visto. Perdonami ma ora devo scappare!» si girò e cominciò a correre verso le scale. Kuroko era rimasto lì per almeno un minuto a fissare il punto in cui l’altro si era diretto, ancora incapace di capire quel che era davvero successo. Lui, Taiga, le sue mani sulle sue spalle. Davvero troppo. Tetsuya spalancò la bocca, le guance gli diventarono di un rosso acceso, sentiva la gola secca e gli mancava il fiato. Non aveva idea di quel gli stava succedendo, lo stomanco aveva anche cominciato a fargli male. Si portò le mani sulla faccia, ho la febbre, decisamente.

Tornò in casa e buttò la borsa a tracolla a terra, prese il cellulare dalla tasca ma si ricordò che non aveva nessuno da dover avvertire. Fece cadere il telefono sulla tracolla e si lasciò scivolare contro la porta.

Kagami Taiga l’aveva notato (il fatto che ci avesse sbattuto contro era un misero dettaglio).
Midorima si sentiva molto stupido in quel momento, era appena tornato dalle lezioni universitarie con un gatto in mano. Con una maledettissima palla di pelo piena di germi tra le mani. Il motivo ancora non era riuscito a capirlo, probabilmente erano stati i continui miagolii di quella cosa che non la smetteva di seguirlo. Così aveva pensato che, forse, portandolo a casa e dandogli da mangiare se ne sarebbe andato di sua spontanea volontà (o a mali estremi, l’avrebbe cacciato lui di casa). Purtroppo non era stata la migliore delle idee, dato che da quando l’aveva preso in braccio per tornare a casa più in fretta che poteva (non avrebbe mai permesso che un suo compagno di corso lo vedesse con una palla di pelo in mano) non aveva smesso comunque di miagolare e di leccargli le dita. “Maledetto animale”.

Non sapeva neanche cosa doveva dargli da mangiare, o almeno, aveva solo visto che il suo vicino, ogni mattina, versava nella ciotola del suo gatto delle cose indefinite (probabilmente croccantini) prima di stendere il bucato. Tra lui e il suo vicino di casa, un certo Takao Kazunari – una volta si era presentato – non c’era nessun rapporto di amicizia o altro e, a differenza di un certo inquilino del palazzo, non si era certo messo in balcone ogni mattina ad aspettare che uscisse solo per vederlo versare i croccantini al gatto. Erano state così tante le volte che Takao l’aveva salutato e lui non aveva ricambiato che Kazunari aveva cominciato ad ignorare semplicemente la presenza dell’altro. Non che a Midorima desse fastidio… Gli dava solo molto fastidio. Il fatto che lui non ricambiasse il saluto non gli dava l’autorizzazione di smettere di salutarlo.

«L’oroscopo diceva che il Cancro sarebbe stato il terzo segno più fortunato del giorno» si tirò su gli occhiali tenendo il gatto con l’altra. “E invece guarda un po’ che mi son trovato in mano”, completò la frase nella sua mente.

Mentre cercava le chiavi nella borsa – cosa un po’ difficile data la bestiolina che teneva in mano – sentì dei passi provenire dalle scale e qualche imprecazione.

«Dannazione, potrebbero pure aggiustarlo quel maledetto ascensore.»

Shintaro stava ignorando completamente il suo vicino di casa, il quale si era fermato davanti alla porta e aveva preso a fissare il gatto tra le sue mani.

«Hai un gatto tra le mani?» Midorima tirò fuori le chiavi dalla borsa, aprì la serratura e sentì il suo vicino di casa sbuffare. Chiuse la porta ma riuscì a sentire comunque un «potresti rispondermi qualche volta».

“Allora smettila di farmi domande stupide” pensò.
-
Quel gatto non la smetteva di miagolare e non mangiava nulla di quel che gli metteva davanti. “Probabilmente i gatti non mangiano verdure” e il lucky idem di quel giorno – un pesce di plastica – non era sicuramente commestibile. Quei miagolii lo stavano stordendo e non riusciva più a ragionare lucidamente. Esasperato uscì di casa e bussò alla porta del suo vicino di casa.

«Sì?» chiese non appena la sua testa spuntò dietro la porta. Con il volto girato dall’altro lato, mettendogli il gatto miagolante davanti al viso,  si limitò a mormorare un «aiutami».

Il moro sospirò e lo lasciò entrare in casa.

«Non dovrei aiutarti» iniziò. «Sei davvero un gran maleducato» continuò. «Se qualcuno ti saluta, è buona educazione rispondere, anche con un cenno della mano» Midorima faceva finta di non ascoltarlo. «E smettila di far finta di non sentirmi, la tua sopravvivenza e quella di questo gatto dipendono da me, adesso». Midorima chiuse gli occhi e si sistemò gli occhiali sul naso.

«Fai in fretta, basta che la smette di miagolare». Midorima non poteva vederlo, ma Kazunari aveva sicuramente alzato gli occhi al cielo.

«Sembra in salute» mormorò il moro tra sé e Shintaro notò un grosso gatto arancione che scivolava attraverso la porta semiaperta di quella che sembrava essere la sua stanza da letto. Kazunari mise dell’acqua in pentolino accendendo il fuoco. «È ancora molto piccolo, quindi è meglio dargli del latte in polvere per gatti per almeno un paio di settimane, il latte normale non gli fa bene». Il “gatto obeso”, così l’aveva soprannominato Midorima, aveva preso a strusciarsi contro le gambe del suo padrone. Takao si abbassò e prese ad accarezzarlo. «Shintaro, sei a dieta, non posso darti da mangiare.»

«Come scusa?» Kazunari alzò lo sguardo verso Midorima.

«Che c’è?»

«Io non sono a dieta.»

«Nessuno ti ha detto che sei a dieta» continuò ad accarezzare il suo gatto, dopo un paio di secondi si fermò di scatto e prese a fissare l’altro.  «Non dirmi che ti chiami Shintaro.»

«Mi chiamo Midorima Shintaro, per l’esattezza.»

«Oh, ma guarda un po’ che scoperta! Non pensavo che una tale informazione sarebbe uscita direttamente dalle tue labbra, dato che il tuo nome non l’hai scritto neanche sotto il campanello e quando mi sono presentato mi hai chiuso la porta in faccia.»

«Ho le mie buone ragioni. E comunque, chi ti ha dato l’autorizzazione di chiamare il tuo gatto come me?»

«Adesso devo anche avere la tua autorizzazione?» scoppiò a ridere e tornò a concentrarsi sul gatto pezzato che non aveva ancora smesso di miagolare. «Aspetta solo un altro po’, ok?» disse accarezzandolo.

«Per quale motivo parli con i gatti?» Takao si girò abbastanza irritato.

«Perché mi va, ok?»

Tirò fuori un biberon da uno degli sportelli sopra il lavandino – solo dio sa perché avesse in casa una cosa del genere – e cominciò a riempierlo con l’acqua bollente. Midorima si mise a fissare le dita di Takao che velocemente, ma sempre con estrema delicatezza, facevano cadere quella polverina dentro l’acqua calda. L’attenzione si spostò poi sui movimenti del suo corpo, sembravano leggeri, qualsiasi cosa facesse. Midorima si riscosse quando lo trovò seduto sulla sedia di fronte a sé.

«Quindi è così che si dà da mangiare ai gatti» disse Midorima indicando il biberon.

«Solo se sono così piccoli. Avrà al massimo due settimane quindi ci sono molte cose che devi sapere e devi assolutamente fare, se vuoi mantenerlo in salute» Midorima non credeva di aver capito bene, l’unica cosa che riusciva a fare era guardare gli occhi di Takao, erano di un azzurro tendente al grigio ma sembravano lo stesso così caldi. «Un cucciolo, fino alle tre settimane, non riesce a regolare la sua temperatura corporea quindi deve avere una fonte di calore costante. Non cercare coperte o maglioni, ti conviene comprare delle lampade apposite» Midorima ce la stava mettendo tutta per concentrarsi sulle parole di Takao ma più parlava, più si ritrovava a fissare le sue labbra, e i suoi occhi che guizzavano da un lato della stanza all’altro, e i movimenti delle sue mani, e i ciuffi di capelli che gli finivano davanti al viso.

«Ehi» Shintaro spalancò gli occhi trovandosi Takao davanti al suo viso, era davvero – troppo – vicino. Aveva un’espressione davvero scocciata. «Smettila di guardarmi con quella faccia da pervertito e ascolta quel che ti dico».

Midorima non sapeva cosa l’avesse spinto a farlo e perché l’avesse fatto, semplicemente con un scatto fece avvicinare le sue labbra a quelle di Takao. Quando aprì gli occhi si ritrovò le labbra su del pelo rossiccio.

“Oh mio Dio.”




Ehi guys~
Dato che sopra vi ho gentilmente chiesto di leggere questo inutile Angolo Autrice, sono obbligata a scrivere qualcosa di interessante o almeno sensato.

Parto col dire che questa è in assoluto la prima fanfiction che scrivo su Kuroko no Basket o su qualunque anime/manga che seguo. Sono molto agitata e spero di non aver reso i personaggi OOC ; n ;

Se qualcuno ha letto le mie fanfiction sugli Exo, sa già che sn rybellyna e stravolgo tutti gli stereotipi, quindi non spaventatevi se stavolta non è Takao che sta addosso a Midorima 8D

Volevo avvisarvi che ci saranno alcune parti Angst - non l'ho aggiunto nell'introduzione perché non saranno presenti sempre ma solo in uno, massimo due, capitoli.

SPERO VIVAMENTE CHE QUESTO PRIMO CAPITOLO SIA DECENTE ODDIO. Come ho già detto, sono molto agitata. Ma non frega a nessuno, ok.
Se la fic non verrà cagata credo la cancellerò e forse la pubblicherò in un altro momento. Non so. ಥ_ಥ  (che persona di merda che sono.) Quindi mi piacerebbe davvero molto leggere la vostra opinione in merito per decidere se continuare e rendere questa storia meno un aborto o se uccidermi con l'harakiri. Sono un vero samurai.

Alla prossima, forse!

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Capitolo 2
*** A touch of insanity in logic ***



Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(2)

 
Quella mattina, Aomine si era svegliato prima del solito, mancava più di un’ora all’inizio delle lezioni e, grazie a dio, l’università di letteratura era a poco meno di quindici minuti dall’appartamento. Più volte aveva contemplato l’idea di rimettersi a dormire ma i suoi occhi non avevano la minima intenzione di assecondarlo.
Dopo che qualche giorno prima aveva cacciato via il suo vicino di casa, Kise Ryouta, in malo modo, non era riuscito a scacciarsi via dalla testa la possibilità di andare a scusarsi. Da quando si era alzato quella mattina, stava avendo un arduo dibattito con se stesso: una parte di sé gli diceva di andare a scusarsi, l’altra cercava di convincerlo a stare fermo sulla sedia, a bersi un caffè e a ripassare qualcosa. Non aveva nessun motivo per scusarsi – a parte averlo cacciato, conseguenza più che naturale dopo che il biondo l’aveva infastidito per tutta una mattinata.
Si passò una mano tra i capelli, sospirando, e appoggiò la tazza di caffè sul tavolo. Possibile che si stesse creando così tanti problemi per uno sconosciuto?
Quando l’aveva cacciato via, aveva visto quel luccichio nei suoi occhi, come se in quell’attimo fosse riuscito a scavare via tutta l’ansia, oltre il suo viso falso, e fosse riuscito a penetrare dentro di lui, fino a raggiungere il se stesso che si nascondeva in una parte che aveva paura di esplorare.
Kise Ryouta era una persona certamente singolare; Daiki era riuscito a capire il modo in cui si comportava con gli altri, ma non era sicuro che quello fosse il vero Ryouta.
«Un viso falso per nascondere i segreti di un falso cuore» mormorò a memoria la frase di Shakespeare e si chiese se non fosse adatta sia a lui che al suo vicino di casa.
-
Le lezioni erano state pesanti e, quando Daiki si sedette sul divano, sperò di poter passare un pomeriggio con se stesso, un libro e magari dei pop-corn, giusto per chiarirsi le idee. Le lezioni di quella mattina erano riuscite solo a farlo confondere e ad ogni citazione, inspiegabilmente, gli veniva in mente Kise Ryouta. Il fatto che non fosse riuscito a capire il suo vero carattere gli faceva ipotizzare i mille volti che poteva avere il biondo. Non riusciva a darsi pace ma sperava che la sua curiosità sarebbe andata a morire presto, prima di avvicinarsi troppo a Kise; quel ragazzo lo metteva a disagio e non voleva averci nulla a che fare.
Aveva appena tirato fuori dal microonde i popcorn quando sentì il campanello della porta suonare – e nessuno suonava mai a casa sua. Nessuno dei suoi amici dell’università potevano essere passati di lì, dato che erano quasi tutti impegnati con gli esami; non poteva neanche essere il corriere, non aveva ordinato nessun pacco online. “Allora...?”
Il viso del suo vicino di casa gli balenò in mente. Il solo pensiero lo faceva rabbrividire dal terrore. Voleva delle bustine da the? Dello zucchero? Sperò che potessero essere le solite richieste, o che fosse venuto perlomeno a scusarsi. Si massaggiò la radice del naso mentre si dirigeva verso la porta. Sbirciò un attimo dallo spioncino e capì che le sue peggiori fantasie si erano avverate. “Questo è dio, o è il karma, o è solo uno stronzo che si diverte ad augurarmi l’inferno.”
«Aominecchi! Menomale che mi hai aperto, pensavo fossi fuori!» Aomine credeva di non aver sentito bene. Le sue orecchie si stavano prendendo gioco di lui. Aveva davvero osato chiamarlo “Aominecchi”?
«Ti serve qualcosa?» chiese, ignorando il nomignolo, e appoggiandosi allo stipide della porta.
«Volevo scusarmi per ieri! Non pensavo che te la saresti presa così tanto!» stava gesticolando un po’ troppo con le mani e parlava davvero troppo velocemente. «Spesso mi dicono che sono inopportuno, ma davvero, non è colpa mia!»
«Arriva al punto» disse Daiki seccato, aveva dei pop-corn da finire e un libro da leggere.
«Sbaglio o c’è odore di cibo?» esclamò il biondo entrando in casa. Aomine non sapeva se quello fosse il suo senso dell’umorismo, ma sarebbe mancato poco perché lo prendesse a sberle.
«Non so perché tu ti stia prendendo così tante libertà» disse, seguendo il biondo in cucina – il quale non aveva certamente perso tempo a mettere le mani sui suoi pop-corn. «Ma vorrei sapere perché hai suonato a casa mia, così te ne puoi andare.»
«Mh! Hai ragione» disse con la bocca piena. Si avvicinò ad Aomine e gli prese le mani. «Per favore vieni a cena con me, Aominecchi!»
-
Daiki era seduto ad uno dei tavoli più appartati del ristorante dove Kise lo aveva trascinato. Il motivo? Voleva scusarsi.
Quel pomeriggio, il biondo non gli aveva neanche dato il tempo di rifiutare che gli aveva dato appuntamento alle otto sul pianerottolo e se n’era andato tanto velocemente quanto si era finito i suoi pop-corn. Nella prima mezz’ora, Aomine si era messo a camminare in tondo per la casa, indice sul mento, cercando una buona scusa per rifiutare. Una piccola parte di sé (non l’avrebbe mai ammesso) aveva pensato “perché non accettare? In fondo è stato carino”. Dopo di ciò, aveva passato la conseguente mezz’ora a chiedersi da dove quel “carino” fosse uscito.
Alla fine aveva deciso di continuare a leggere: aveva riletto per sei volte la stessa frase cercando di dargli un significato. L’unica cosa che riusciva a pensare era che quell’uscita sembrava decisamente un appuntamento. Sia il modo in cui l’aveva chiesto, sia il fatto che non era una cena a base di ramen istantaneo, magari a casa sua. No, era proprio una cena in un ristorante e Kise aveva tenuto anche a precisarlo.
Nell’attesa dell’arrivo del cameriere, Kise aveva cominciato a picchiettare le dita sul tavolo. Daiki diede di nuovo uno sguardo al suo abbigliamento e poi guardò quello del biondo. Nonostante avesse inesplicabilmente passato più di mezz’ora a cercare qualcosa di decente da mettersi (non avrebbe ammesso neanche questo), a confronto di Ryouta, sembrava lo stesso un barbone ubriaco appena uscito dal carcere. Era vestito assurdamente bene, “o forse è lui assurdamente bello e tutto quel che indossa sembra automaticamente figo… Aspetta. Cosa?”. Se non fosse stato in un luogo pubblico si sarebbe preso a sberle.
«Non capisco perché ci stia mettendo così tanto» disse Ryouta appoggiando il viso sul palmo della mano.
«Non c’è problema.»
«Stai bene vestito così» disse sorridendo e Aomine arrossì.
«Erano le prime cose che ho trovato» “Bugiardo”.
In quel locale c’era davvero troppo caldo.
-
Aveva un mal di testa terribile, quella mattina aveva provato ad alzarsi dal letto ma un forte senso di nausea lo aveva spinto a sdraiarsi nuovamente. Aveva la memoria totalmente annebbiata, l’ultima cosa che ricordava era il quinto Angelo Azzurro che aveva bevuto. Si portò una mano sulla faccia.
«Mi sento morire» mormorò. Il mal di testa era martellante ma doveva necessariamente alzarsi per prendere  qualcosa per farlo passare. Molto lentamente si alzò, aveva uno strano dolore al fondoschiena.
Aperta la porta della stanza da letto, si ritrovò il suo maledettissimo vicino di casa in boxer sul suo divano.
«Che cazz..?» Ryouta si girò verso di lui, sorridendo.
«Buongiorno, dormito bene?» sbatté un po’ le palpebre e poi guardò le gambe di Aomine, o quasi. «Pensavo che ti fossi rivestito dopo ieri sera.»
Daiki guardò in basso.
“Perché cazzo sono nudo?”
Nonostante fossero passati tre giorni da quando Kagami Taiga si era scontrato con lui, Kuroko non riusciva a frenare la sua euforia. Pensava fosse un miracolo, o qualche strana congiunzione astrale aveva proiettato un briciolo di fortuna su di lui, la causa era ancora incerta ma, al momento, l’unica cosa che gli importava era che Taiga l’avesse notato. Non pensava che qualcosa di simile sarebbe mai potuto accadere. Sentiva come se la gioia potesse farlo esplodere da un momento all’altro.
Stava rotolando sul letto, stringendo un cuscino. Si sentiva uno stupido, ma ogni volta che ci pensava non poteva far altro che sorridere. Inizialmente non aveva ben capito perché una tale reazione, pensava di avere la febbre ma la sua temperatura era normalissima. Solo un’ora prima, mentre rimuginava sull’accaduto, incapace di prendere sonno, era arrivato ad una conclusione, se non logica, sensata: forse il suo vicino di casa gli piaceva, anche parecchio.
In quei tre giorni aveva smesso di seguirlo o di appostarsi come un maniaco sotto casa. Si era reso conto (in realtà lo sapeva da molto tempo) che non era una cosa da fare e che, se qualcuno lo avesse notato – non escludeva certamente la possibilità –, non avrebbe certo perso tempo a dirlo alla povera vittima. Presa questa drastica decisione, aveva capito che l’unico modo per avvicinarsi, così, a Kagami era quella di trovare non tanto degli interessi in comune, ma qualcosa con cui attaccare bottone. Fino a qui era tutto molto semplice, escludendo il fatto che Kuroko aveva una dannatissima paura di suonare a casa sua e di fare scena muta.
Si alzò dal letto, con ancora il cuscino tra le braccia. “Ok, adesso vado e gli chiedo se ha dello zucchero”. Fece qualche passo vicino alla porta, poi tornò indietro e si ributtò sul letto. “No, non ce la posso fare, oddio”. Si alzò di nuovo dal letto, fece qualche passo, poi si bloccò di fronte allo specchio. “Kuroko, ce la puoi fare, ce la devi fare”. Questa volta arrivò fino alla porta, poi tornò indietro, si era scordato di pettinarsi i capelli e di lasciare il cuscino sul letto.
-
Quella mattina aveva rinunciato ai propri propositi e aveva rimandato la sua missione al giorno dopo; aveva davvero troppa fifa e doveva prepararsi psicologicamente.
Era sulla metro, la sciarpa che gli copriva metà viso e la felpa che non lasciava intravedere le mani; quella mattina c’era molto freddo. Era stato fortunato e aveva trovato un posto – sperò che nessuno, non notandolo , si sarebbe seduto addosso a lui. Stava armeggiando con il suo nuovo smartphone, doveva ancora capire bene come mandare gli sms e tutte quelle app per lui erano davvero un mistero; si sentiva un vecchietto. Era la sesta volta che cercava di scrivere correttamente “meteo” senza che il t9 lo cambiasse con “meteorite”. Sospirando si rimise il cellulare in tasca e alzò lo sguardo, trovandosi Kagami Taiga davanti. Era totalmente concentrato sul suo libro di letteratura inglese e Kuroko era totalmente concentrato a guardarlo.
Era davvero spaesato, in quei giorni aveva scoperto che frequentava i corsi universitari il pomeriggio, perché era in metro a quell’ora del mattino? La sciarpa gialla gli arrivava poco più in basso del naso, le sopracciglia erano corrugate. “È davvero troppo bello per essere un essere umano”. Sentiva il cuore battere a mille e una stretta alla bocca dello stomaco. Qualcosa dentro di lui urlava “girati verso di me, guardami”. Come poteva aspettarsi che lo notasse? Lui, che non veniva notato neanche da persone con cui era stato in contatto per più di un anno. Kuroko si tirò su la sciarpa fino a coprire il naso e ci affondò dentro. Era stanco di essere invisibile.
Si strinse la borsa al petto, non era neanche arrivato all’università e già voleva tornare a casa. Voleva solo stare al caldo sotto le coperte e rimanere lì per sempre fino a quando Kagami Taiga se ne sarebbe andato e lui avrebbe smesso di provare emozioni, come prima.
Uno scossone fece scivolare il libro dalle mani di Kagami, che aveva cercato di tenersi a qualcosa per non cadere a terra. Istintivamente Kuroko allungò la mano e lo raccolse. Gli occhi di Taiga si spalancarono.
 «Ehi, ma tu sei il ragazzo di ieri» Kuroko perse un battino, se non due. Si ricordava di lui? «Non ti avevo notato.»
«Uhm, sì, mi dispiace per ieri» la voce di Kuroko era tremolante, la trovò tremendamente sgradevole e sperò che Kagami non ci avesse fatto caso. La metro si fermò ad una fermata e il signore accanto a Kuroko si alzò. Kagami non perse tempo e si sedette accanto a lui. “Sto sognando?”
«Figurati» rise. «La colpa è stata mia, ero di fretta e non guardo mai dove metto i piedi.»
«È che-» non gli diede il tempo di finire la frase che continuò a parlare.
«Sei uno studente delle superiori? Come mai vivi da solo?» Kuroko pensò di non aver sentito bene.
«Veramente sto andando all’università» Kagami si bloccò per un istante a guardarlo, poi spostò lo sguardo dritto davanti a sé.
«Ok, figura di merda, mi dispiace anche per questo.»
«Figurati» Kuroko si sentiva un idiota. Il ragazzo che aveva osservato per tutto quel tempo era accanto a lui e non stava facendo nulla per rendere la conversazione più interessante; tra due fermate sarebbe dovuto scendere e non voleva che la conversazione finisse lì.
«Oi» lo richiamò. «Tu che università fai?»
«Studio letteratura, tu?»
«Lingue e Letterature Straniere» gli regalò un sorriso a trentadue denti. «Non sono poi tanto diverse, no?» Kuroko si sentiva male, cominciava a fare decisamente caldo, la sciarpa lo stava soffocando. O forse era il sorriso di Kagami a fargli mancare l’aria?
«Oh, questa è la mia fermata» esclamò il rosso alzandosi di scatto. «Ci vediamo in giro! Ah, e se hai bisogno di qualcosa puoi tranquillamente suonare a casa mia» sventolando la mano scese dalla metro. Kuroko era a dir poco scioccato.
“Ho dimenticato come si respira.”
Midorima era seduto sul divano con le braccia incrociate, la lezione era saltata (“perché il professore è un incompetente”) e non sapeva come occupare il suo tempo.
Dopo che aveva provato a baciare Takao (secondo lui, aveva ingerito qualche tipo di veleno che non gli aveva permesso di controllare i suoi muscoli), il suo vicino di casa l’aveva cacciato via urlano “sei un pervertito e io sono già fidanzato”. Si era anche tenuto il gatto. Non che a Midorima dispiacesse, gli aveva tolto un grande impiccio, ma non poteva rubare i gatti alle persone.
Erano passati circa tre giorni e ogni mattina, quando Takao si accorgeva che anche Midorima era in balcone, arrossiva violentemente e tornava subito dentro. Midorima non era arrabbiato con  Takao perché l’aveva mandato via insultandolo e prendendosi il suo gatto, più che altro ce l’aveva con se stesso. “Da quando ti fai trascinare dall’istinto?”
Si tirò su gli occhiali con le dita fasciate; l’oroscopo diceva che il Cancro era uno dei segni più fortunato del giorno e il lucky item – del nastro adesivo  – ce l’aveva. Era decisamente il giorno migliore per andare da Kazunari a riprendersi il gatto.
Lentamente si alzò dal divano, in realtà non voleva proprio andarci, sapeva che sarebbe stato imbarazzante. Si fece coraggio pensando che sarebbe stato ancora più sgradevole doversi incontrare ogni giorno senza aver chiarito la situazione (senza avergli detto che non era stata colpa sua ma del suddetto veleno). Sperava solo che, una volta chiarito il malinteso, Takao non avrebbe smesso di arrossire ogni volta che incrociava il suo sguardo.
Suonò alla porta di Takao, non si era preparato un discorso; poco male, un “ridammi il gatto” sarebbe anche bastato. Dall’interno dell’appartamento sentiva una voce a lui sconosciuta. “Possibile che..?”
Un ragazzo, almeno dieci centimetri più basso di lui, lo stava fissando con i suoi occhi sottili.
 «Posso aiutarti?» disse, dato che Midorima era rimasto in silenzio.
«Chi-? Ah, sei tu» Takao sembrava scocciato ma le sue guance si erano arrossate.
«Sono venuto a riprendermi il gatto» lo sconosciuto si girò verso Takao che gli lanciò un’occhiata che voleva dire “ti spiego dopo”.
«Pensavo non te lo saresti ripreso» disse il moro mentre si dirigeva verso la sua camera. Midorima scansò l’altro ragazzo, che sembrava riluttante e farlo entrare, e seguì Takao fin dentro la sua camera da letto. Era una stanza normalissima ma delle foto attirarono la sua attenzione: nella maggior parte c’erano lui e quel ragazzo alla porta, sembravano molto intimi. Midorima non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che potessero essere fidanzati.
Takao si abbassò e guardò sotto al letto. «È qui sotto, aiutami a tirarlo che non arrivo a prenderlo.»
Midorima sbuffò, perché doveva sdraiarsi a prendere quel gatto? Avrebbe fatto prima a rimanere a casa a leggere un libro. Riluttante, si mise in ginocchio e sbirciò sotto il letto. Non riusciva a capire se il gatto fosse terrorizzato o no.
«Non va molto d’accordo con Shintaro» dopo qualche secondo si ricordò che il gatto ciccione aveva il suo stesso nome. «Forse mentre ero fuori gli avrà fatto qualcosa, non so» Midorima si tirò su gli occhiali e allungò il braccio verso il gatto, il quale gli corse incontro e gli leccò la faccia. Midorima si ritrasse di colpo.
«Non erano i cani quelli che leccano le faccia?» era decisamente disgustato.
«Se ti ha leccato, vuol dire che ti vuole bene» Takao gli porse il gatto con un sorriso a trentadue denti. A Midorima mancava decisamente il fiato.
Tossicchiò un attimo prendendo il gatto in braccio, aveva cominciato a fare le fusa.
«Dovresti portarlo dal veterinario» aggiunse il moro. Sentirono qualcuno tossire accanto alla porta. Midorima si girò e, scocciato, si rese conto che c’era quel tipo di prima poco lontano da loro.
«Sei entrato in casa del mio ragazzo e non ti sei nemmeno presentato» “ah, quindi è davvero  il suo ragazzo”.
«Non vedo perché dovrei presentarmi» disse alzandosi e sistemandosi gli occhiali sul naso.
«La parola “educazione” ti dice qualcosa?»
«Non mi sembra che tu ti sia presentato, quindi forse la parola “educazione” per te è un vocabolo nuovo e non sai ancora come e quando utilizzarlo» Takao si massaggiò la radice del naso.
«Non mi sembra il caso di litigare, la colpa è mia perché non vi ho presentato prima» Midorima stava per dire “veramente a me non interessa sapere il suo nome” quando Takao gli tappò la bocca con un’occhiataccia.
«Yoshitaka, lui è Shintaro Midorima; Midorima, lui è Yoshitaka Moriyama. Ora che le presentazioni sono fatte, Midorima puoi andarte-»
«Potresti accompagnarmi dal veterinario?»
«Cosa?» disse Moriyama. «Il mio ragazzo non va da nessuna parte» Takao alzò gli occhi al cielo e lo ignorò.
«Perché dovrei?»
«Perché tre giorni fa mi hai rubato il gatto e per colpa tua non ho potuto vaccinarlo» Kazunari aprì la bocca per poi richiuderla.
«Hai ragione.»
«Che significa che ha ragione? Mi stai ascoltando?»
«Yoshitaka, santo dio, chiudi quella bocca per un secondo» gli lanciò un’occhiataccia. Shintaro riusciva a percepire la brutta atmosfera che si era creata. «Ci vediamo tra dieci minuti sul pianerottolo, ok?»
-
Kazunari aveva cercato di cacciarlo via di casa e il ragazzo dai capelli verdi non aveva opposto resistenza. Non era un grande esperto, ma da quando era entrato in quella casa aveva percepito una brutta atmosfera (la quale era peggiorata qualche minuto prima che se ne andasse). Probabilmente stavano passando un momento di crisi, sicuramente Takao non aveva controllato l’oroscopo e questo era quello che gli era accaduto. Per strada gli avrebbe chiesto quali erano i loro segni zodiacali, chissà, potevano non essere stati compatibili sin dall’inizio.
Era sul pianerottolo, ad aspettare il suo vicino di casa, ma l’unica cosa che riusciva a sentire era del baccano che veniva dall’interno del suo appartamento. Voci sovrapposte e insulti che non riusciva a distinguere. Non sembrava stessero volando piatti o posate ma si sentiva lo stesso inquieto. Dopo vari attimi di silenzio sentì scattare la serratura, Takao spinse fuori il suo ragazzo e chiuse di colpo la porta.
Moriyama gli lanciò un’occhiataccia e se ne andò, con le mani nella tasche dei jeans. Shintaro pensò che se non fosse stato dieci centimetri più alto di lui, quel tipo lo avrebbe picchiato anche molto volentieri.
-
Si appoggiò al muro, erano passati dieci minuti da quando il tizio se ne era andato e non sentiva provenire neanche un suono dall’appartamento di Kazunari.  Scocciato e con il gatto il mano, suonò il campanello. Sentì dei passi farsi pià vicini.
«Chi è?» chiese, senza aprire la porta.
«Sono dieci minuti che ti aspetto.»
«Non vengo.»
«Perché?» non era davvero interessato, ma, forse, se si fosse dimostrato gentile e un po’ interessato lo avrebbe convinto.
«Non sono affari tuoi.»
«Direi di sì, dato che devo vaccinare il mio gatto» nonostante ci fosse una porta a dividerli, sentì comunque il sospiro pesante di Takao.
Aprì poco la porta, mostrando solo una parte del viso.
«Ti prego» aveva la voce tremante. «Per oggi lasciami in pace.»
Quando Kazunari gli chiuse la porta in faccia, Shinataro sentì una strana fitta al petto. Che avesse preso freddo?

 

Salve carissi lettori \( ゚ヮ゚)/
So che mi odiate ma, vi prego, fate finta di volermi tanto bene.

Mi sembra doveroso, in questa sottospecie di Angolo Autrice, scusarmi con tutti voi: prima vi ricatto dicendovi che forse cancellerò la fic e poi non la continuo. Avete tutto il diritto di prendermi a sberle fino a farmi diventare una principessa come Himuro ༼•͟ ͜ •༽ (se vi può consolare quest'ultima emoji si chiama "feeling like crap", k bll).

Purtroppo ho avuto tanti impegni tra cui scuola, manga, anime, gli eventi di love live, scuola, love live, scuola, love live, love live, love live.
MA DATO CHE TRA POCO INIZIA LA TERZA STAGIONE (e non so se avete visto le prime scan di Extra Game (ノಥ益ಥ)ノ ┻━┻) ho deciso di fare la brava ragazza e di aggiornare!
HIP HIP HURRA ヾ(⌐■_■)ノ♪

Spero sia rimasto ancora qualche lettore o mi ucciderò definitivamente ᕕ( ᐛ )ᕗ
Love you all ᶘ ᵒᴥᵒᶅ


(°ロ°)☝
Metto i banner col cibo perché ho sempre fame e sono bellissimi ლ(o◡oლ)

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Capitolo 3
*** A firm grip ***


Leggete l'angolo autrice, per favore ☆
 

Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(3)


 
Quando Aomine quella mattina si era svegliato aveva trovato una spiacevola sorpresa ad attenderlo: il suo vicino di casa in boxer sul suo divano; i ricordi e il suo intimo sembravano averlo momentaneamente abbandonato. Il panico era stato immediato; cosa aveva fatto in quel lasso di tempo che aveva apparentemente dimenticato? Ricordava tutti i drink, il vuoto, loro due che camminavano per strada cantando le canzoni di Frozen, il vuoto, la toppa della porta che sembrava essere diventata storta e piccola, il vuoto, il ricordo di uno spiacevole dolore al fondoschiena e poi di nuovo il vuoto.
Dopo che il suo vicino – in boxer – gli aveva detto con del sarcasmo non proprio celato «Pensavo che ti fossi rivestito dopo ieri sera.» la sconvolgente realtà aveva colpito in faccia Daiki come se fosse stato una mollica di pane circondata da piccioni. Si era chiuso in camera e si era messo a pensare a cosa avessero potuto fare – rivestendosi nel frattempo – ed era arrivato ad un’unica, traumatizzante, conclusione. Fino a qualche anno fa, Aomine avrebbe potuto andare in giro ad urlare con fierezza che era un etero convinto e che nulla – nulla – avrebbe potuto distrarlo da un paio di bellissime tette. Poi però, qualche giorno prima di partire per l’università, Momoi lo aveva trascinato, per vendetta, in un gay club ed erano successe cose. Dopo certe nefandezze, Aomine aveva cominciato a dubitare di tutto ciò che credeva certo – “Sono etero? Il cielo è blu? Voldemort è morto? Sono un figo della madonna?” – e, una volta trasferitosi all’università, aveva chiuso quei ricordi in un cassetto della sua memoria.
Stava camminando per la camera cercando di darsi delle risposte, quando sentì bussare alla porta.
«Sono dieci minuti che sei là dentro» stava trattenendo a stento una risata. «Capisco che ritrovarsi nudo con un tizio in boxer nel soggiorno possa creare molti equivoci, ma ti giuro che non è andata come pensi» Aomine tirò un sospiro di sollievo e aprì la porta della stanza.
«Potevi dirlo prima invece di farmi penare per dieci minuti.»
«La tua espressione scioccata era così divertente!» Kise si sedette – ancora in boxer – di nuovo sul divano. «Non è difficile intuire quel che hai pensato» Aomine prese una sedia dalla cucina e la portò in soggiorno, sedendosi . L’ultima cosa che voleva era sedersi accanto a quello che pensava di essersi fatto (anche se dai dolori al fondoschiena doveva essere stato il biondo a farsi lui).
«Tutti avrebbero pensato una cosa del genere» tentò di giustificarsi cercando, invano, di non arrossire.
«Lo avrebbero pensato solo quelli che sanno di poter dire al proprio vicino di casa che è “tremendamente sexy” e che vuole avere “una notte di fuoco” con lui» Aomine spalancò la bocca. Poi la richiuse. Poi la riaprì di nuovo. Probabilmente la sua faccia si stava tingendo di tutti i colori dell’arcobaleno.
-
Dopo essere scappato a vomitare – perché sì, il suo corpo aveva deciso di espellere tutto quell’alcol in un momento così delicato – la conversazione sembrava essere tornata normale ma Daiki non risuciva a togliersi dalla mente le parole di Kise. Possibile che in quel momento di perdizione avesse potuto dire quelle cose? Non che non potesse succedere, dopotutto Kise era un ragazzo davvero attraente. Si prese di coraggio e chiese.
«Ho detto davvero quelle cose?» Kise rimase un po’ perplesso e non sembrò arrivarci subito, stavano parlando di non sapeva neanche lui bene cosa, forse del fatto che Ryouta volesse un gatto?
«Stai parlando delle avance che mi hai fatto ieri sera quando eri ubriaco?» Aomine si coprì la faccia con le mani, alla fine era vero.
«Ti prego di perdonarmi, non ero in me-»
«Gli ubriachi dicono la verità, quindi posso supporre che mi trovi davvero dannatamente sexy e che vorresti passare una notte di fuoco con me» Daiki si scoprì il viso e arcuò le sopracciglia.
«Mo’ non ti allargare però» Kise sorrise.
«Aominecchi ha una cotta per me» cominciò a canticchiare e il soggetto della canzoncina non potè far altro che alzare gli occhi al cielo. “Ma cos’è? Un bambino delle elementari?”.
Improvvisamente Kise smise di canticchiare e si avvicinò di colpo.
«Se vuoi il mio letto è quasi sempre libero» gli fece un occhiolino e Aomine lo spinse via mettendogli una mano in faccia.
«Ancora non mi hai detto che cos’è successo davvero» incrociò le braccia e si lasciò scivolare sulla sedia. Perché se quella era casa sua doveva stare su una sedia, poi?
«Uh, sì!» Kise unì le mani, come se gli servisse per concentrarsi. «Dopo esserti scolato un ultimo drink – lo sai che lo reggi proprio male l’alcol? – ti ho dovuto trascinare fino alla metro più vicina – non la smettevi più di cantare le canzoni di Frozen,  non pensavo riuscissi a cantare bene l’acuto di Elsa! – sulla metro sei caduto in una sottospecie di stato comatoso, quando siamo arrivati ti ho dovuto trascinare per un pezzo perché non ti svegliavi più. Comunque, ci hai impiegato un secolo e mezzo per mettere la chiave nella toppa, hai fatto cadere quella statuina di legno inquietante a forma di scimmia che hai all’ingresso –devi decisamente buttarla, è oscena – e ci sei caduto sopra.» Aomine aveva le mani sulla faccia, aveva assimilato ogni parola soffrendo come se stesse mandando giù uno sciroppo disgustoso; più si andava avanti, più la situazione si faceva imbarazzante. «Dopo aver urlato cose come “ahi,  mi ha fatto male come quando quel tizio” e ora non riesco ad andare avanti… perché davvero hai fatto del sadomaso?! Ommioddio» Aomine spalancò gli occhi e si gettò in avanti.
«Posso spiegare, lo giuro!»
«Non c’è niente da spiegare, sei stato contagiato anche tu dalla trilogia di Cinquanta Sfumature?»
«Non dire fesserie! Ero solo molto ubriaco e quei tipo era molto convincente!» Kise si portò una mano sulla faccia.
«Rabbrividisco dall’orrore.» dopo una ventina di secondi, durante i quali Aomine era incerto se chiedere a Kise di continuare o no, decise che era meglio sapere tutto quel che aveva combinato quella sera cosicché potesse almeno spiegare.
«Ti prego, va’ avanti.»
«Allora, dicevo, dopo avermi detto tale orrore,  hai cominciato a spogliarti incitandomi a spogliarmi – adesso capisco perché ti sei ritrovato a fare cose del genere – ovviamente ho cercato di calmarti ma mi hai vomitato addosso – ecco perché non ho vestiti. Dopodiché sono rimasto mezzo nudo e hai cercato di assalirmi, hai cominciato a farmi strane proposte – tra cui mangiare dei popcorn con indosso solo una foglia di fico – e poi sei collassato a letto» Aomine era scioccato. La mascella probabilmente gli era già arrivata al suolo e non riusciva a pensare a nient’altro se non ha “figura di merda”, che poi dire che aveva fatto una figura di merda era un eufemismo; più che altro era come se una montagna di sterco di vacca fosse caduto addosso a lui e alla sua dignità.
«Posso spiegare» la risata cristallina di Ryouta gli rimbombò nelle orecchie, gli sembrò che ogni fibra del suo corpo stesse vibrando al suono di quella risata.
«Capita di fare cose del genere quando si è ubriachi» stava per allungare una mano verso i suoi capelli ma si ritrasse di colpo, come se si fosse bruciato la punta dei polpastrelli. Tossicchiò un attimo. «Be’, sono le dieci e trenta, ti va di fare colazione?»
-
Di comune accordo avevano deciso che, con Aomine in quelle condizioni, fare colazione fuori sarebbe stato un suicidio, dunque optarono per arrangiarsi e inventarsi qualcosa mettendo insieme la poca roba che avevano in casa per sfamarsi come meglio potevano. Inizialmente Ryouta voleva cucinare dei pancakes, resosi conto che né lui tantomeno Daiki avevano la minima idea di come si facessero, decise che sarebbe stato meglio non tentare alcun tipo di esperimento – tutto questo ovviamente lo fece lamentandosi.
«Chissà se qualche nostro vicino di casa cucina bene» Daiki scrollò le spalle, continuando a spalmare il burro sulla sua fetta biscottata.
«Può darsi» rispose mentre Kise addentava la sua fetta coperta da uno strato alto almeno un centimetro di marmellata di limone.
«In questo condominio non sono molto socievoli, vero?»
«Diciamo che sono tutti impegnati a studiare, o almeno fanno finta di esserlo.»
Stava spalmando la marmellata di mirtilli quando Kise esclamò: «Devo chiederti una cosa.» Aomine alzò un attimo lo sguardo, interrogativo.
«Sì?»
«Se te lo chiedo devi giurarmi che non mi caccerai di nuovo fuori di casa» Aomine sbattè le ciglia, perplesso, mordendo  la fetta biscottata. Cosa voleva chiedergli?
«Uhm, okay?» Ryouta chiuse un attimo gli occhi, unendo le mani, quasi come se stesse cercando le parole giuste.
«Perché l’altro giorno hai reagito così male? Forse non dovevo menzionare il basket?» Aomine deglutì, spostando lo sguardo verso il basso. Non sapeva come rispondere a una domanda così diretta. Il suo battito cardiaco era così accellerato da far male, le mani avevano cominciato a tremare così tanto che il coltello che aveva in mano scivolò sul tavolo producendo il suono cupo del metallo.
«Aomine? Ehi, Aomine?» Kise gli prese delicatamente il viso tra le mani. «Calmati, tranquillo, respira lentamente. Lo facciamo insieme, ti va?» Aomine annuì, sentiva gli arti bloccati ma continuavano a tremare, voleva scappare via da lì, non avrebbe mai più potuto giocare a basket mai, mai, mai, mai.
Guardò in alto, c’era Kise che gli diceva di respirare. «Inspiriamo con il naso ed espiriamo con la bocca, come quando gonfi un palloncino, insieme» inspirare espirare inspirare «Non pensare alla paura, io sono con te. » Aomine si sentiva come se stesse svanendo, esisteva davvero? Tutto quello che stava succedendo era reale? Forse stava morendo.
L’ansia era tornata a tormentarlo, quel piccolo verme nascosto nel suo petto era cresciuto ed era pronto a divorarlo. Guardò Kise, gli stava parlando ma non riusciva a capire le sue parole, gli accarezzava i capelli, gli teneva le mani, forse gli stava dicendo di respirare o forse no, però era lì, e non lo stava lasciando solo.  Aomine chiuse gli occhi, concentrandosi sui suoi polmoni, respira, respira, respira.
«Riesci a parlare?» Aomine disse di “sì” ma non riconobbe la sua voce, gli occhi ancora chiusi, concentrato sul suo battito e sul suo respiro. Non c’era nulla di cui aver paura, non era solo, ci sarebbe stato Kise, Kise sarebbe stato lì con lui. «Non voglio che tu stia male» la voce di Kise tremava. «Ti aiuterò a stare meglio. Hai visto? Non tremi più come prima. Dai, continua, inspira, espira».
Il ritmo del respiro di Daiki si stava regolarizzando, la sensazione d’ansia continuava ad essere lì, ma la sua presa su Aomine si stava allentando. Era riuscito a risalire a galla grazie a Kise. Continuava ad accarezzargli i capelli, con mano ferma. Quando Aomine aprì gli occhi, gli sembrò di non essere stato lì in quei minuti interminabili. Le sensazioni erano ancora vivide e l’ansia era ancora lì, pronta a saltargli addosso. Ma c’era Kise. Alzò lo sguardo e lo trovò con le mani alla bocca e il viso rigato dalle lacrime.
«Va tutto bene» sussurrò Aomine, incapace di respingere l’abbraccio di Kise.
Kuroko non poteva negare di essere andato all’università, quella mattina, nel vano tentativo di incrontrare di nuovo il suo vicino di casa. Doveva rendersi conto che quella del giorno prima non era stata che una mera coincidenza che non si sarebbe mai più ripresentata. Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.
Speranza o no, Testuya sapeva solo che: 1) non aveva completamente voglia di andare a frequentare i corsi di quella mattina, ma si era convinto ad andare seguendo il desiderio di rivedere Kagami; 2) un ragazzo gli si era seduto di sopra non notandolo e non aveva smesso di scusarsi fino a quando non l’aveva perso di vista (ovvero dopo meno di un minuto).
Kuroko non era il tipo di persona che si arrabbiava facilmente e pensò che, dopotutto, tutta la rabbia che aveva accumulato in quegli anni, prima o poi e in qualche modo, sarebbe dovuta uscire.
Chiuse la porta di casa, esausto, e posò la borsa a terra. Non ebbe neanche il tempo di togliersi il pesante giaccone che il suo cellulare cominciò a suonare.
“Pronto? Tetsu-chan?” la voce di sua madre gli arrivò limpida all’orecchio. Da quant’era che non si sentivano?
«Ciao mamma» sentì qualcuno borbottare, probabilmente era suo padre che si lamentava delle sue poche telefonate.
“Oh, sono così felice di sentirti! So che sei impegnato ma dovresti chiamarci più spesso!”
«Mi dispiace» sentì sua madre sospirare per telefono.
“Purtroppo non ti ho chiamato solo per dirti questo” sentì sua madre sospirare di nuovo. “Sai, da quando sei partito per l’università, Nigou mi sembra un po’ giù. Non fa altro che dormire e non mangia più come prima.” Kuroko spalancò gli occhi.
«Oh» si portò una mano tra i capelli. Guardò il cellulare. «Domani passo e lo porto qui, ok?»
“Vieni a trovarci? Quando arrivi? Ti fermi per cena?” ed ecco che sua madre partiva con una raffica di domande.
«Non mi fermerò molto» sentì sua madre sbuffare.
“Tetsu-chan! Non ti fermi mai! Non pensi a come si debba sentire tua madre? Qui, tutta sola?” gli parve di sentire suo padre dire in sottofondo “io non valgo nulla?”. Probabilmente sua madre l’aveva liquidato con un gesto della mano.
«Sai che sono impegnato. Passo a prendere Nigou e basta.»
“Va bene, tanto è inutile contrattare con te” sentì ancora un mormorio in sottofondo. “Oh, devo andare o si brucerà la torta! Ci vediamo domani! Ah, e ricorda che mamma e papà ti vogliono tanto bene!”
Kuroko non ebbe neanche il tempo di ricambiare il saluto che sua mamma aveva interrotto la chiamata.
Era davvero preoccupato per Nigou, sapeva che avrebbe sentito la sua mancanza ma non che sarebbe arrivato a stare così male. In fondo non gli sarebbe dispiaciuto tenerlo nel suo appartamento, certi giorni si sentiva così solo e, francamente, durante le superiori era stata quell’adorabile palla di pelo a tenerlo su di morale. Accennò un sorriso e pensò a sua madre. Una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco aveva iniziato a tormentarlo. Aveva specificato che non si sarebbe fermato per molto ma, come minimo, sua madre (e suo padre, anche se lui l’avrebbe fatto passivamente) l’avrebbe costretto a rimanere almeno per pranzo e, prima di partire, gli avrebbe dato cinquanta scatole di plastica con dentro i più disparati tipi di cibo. Se la torta a cui aveva accennato non fosse già stata in forno, Kuroko avrebbe sospettato che fosse per lui. E se… sua madre avesse già previsto la sua visita?
A quel punto si era perso a rimuginare da quale membro della famiglia avesse potuto prendere il carattere – sua madre era stata esclusa in partenza – quando sentì suonare alla porta.
Senza rifletterci troppo, andò ad aprire trovandosi davanti il ragazzo che aveva tanto sperato di incontrare quella mattina in metro. Dire che Kuroko era scioccato era un eufemismo.
«Ciao» Tetsuya capì che stava parlando con lui solo dopo un paio di secondi, chiuse di scatto la bocca e balbettò una risposta. “Patetico”.
«Può sembrarti una cosa stupida ma non sono riuscito a regolarmi e ho fatto troppo caffè, ti andrebbe di-» la domanda rimase in sospeso perché Kuroko disse – fin troppo velocemente – “sì”.
-
Kuroko sentiva il cuore a mille, non riusciva a capire se fosse un sogno – o un incubo, data la precedente figura di merda. L’unica cosa che gli sembrava chiara era che il batticuore era causato dalla presenza dell’altro. Poi a lui neanche piaceva il caffè.
Prese la tazza con entrambe le mani, sopra la sua vi era raffigurata la bandiera dell’America, su quella di Kagami… dei gattini? Kuroko nascose il piccolo sorriso che gli si era formato in viso con quella tazza enorme, tentando di mandar giù quel liquido amaro, e a parer suo disgustoso, immaginando che fosse uno dei milkshake di Maji Burger (tentativo fallito miseramente).
Nella stanza il silenzio regnava assoluto, Kuroko non osava aprir bocca e tantomeno alzare lo sguardo. Immaginò come potesse sentirsi a disagio Kagami, probabilmente non l’avrebbe più invitato a casa sua. Inaspettatamente, l’altro ruppe quell’atmosfera così tesa.
«Mi dispiace per questo invito improvviso» si grattò la testa imbarazzato. «Deve essere stato strano, vero? Ci conosciamo da malapena due giorni e ti invito all’improvviso per un caffè.»
«Già.» “Tetsuya cosa diamine stai dicendo?”.
«Però, dopotutto siamo vicini, no? Mi sembra ancora strano non averti mai visto prima.»
«Cose che capitano.»
«Sarà» rispose stravaccandosi sulla sedia. Intanto Kuroko si stava maledicendo: non solo stava risultandopiù asociale di quanto avesse voluto, ma non riusciva neanche a mandar giù il caffè. Credeva di essere una persona abbastanza educata, ma in quel momento avrebbe pure potuto scoprire di esser stato cresciuto dai lumpi e ci avrebbe creduto subito. «Ehi, ma sai che non ci siamo ancora presentati?» disse all’improvviso ridendo.
Tetsuya ci pensò su, solo perché lui era uno stalker non voleva dire che l’altro avesse dovuto conoscere qualcosa di lui.
«Io mi chiamo Kuroko Tetsuya» “ed è da un po’ che sono cotto di te”, si ritrovò a pensare.
«Allora, piacere Kuroko» detto da lui, il suo nome sembrava così bello. «Io mi chiamo Kagami Taiga». Kuroko si chiese come mai non si fosse ancora sciolto dopo il sorriso che gli aveva regalato. Di nuovo, nascose il viso con la tazza di caffè, tentando di mandar giù qualcosa. «Certo che il caffè non ti piace molto» disse, poggiando il viso sul palmo della mano. Era stato sgamato.
«Preferisco i milkshake.»
«Milkshake?» alzò un sopracciglio.
«Quelli di Maji Burger» si sentì in dovere di precisare. Quello di Maji Burger non era un milkshake, ma il milkshake.
«Io ci vado un sacco di volte» Kuroko restò sorpreso, possibile che non lo sapesse? «I loro hamburger sono fantastici» sembrò pensarci per qualche secondo. «Un giorno di questi, possiamo andarci insieme.»
Il cervello di Kuroko andò in blackout. Chi era? Come si chiamava? Come era finito in questa situazione? Taiga gli aveva appena proposto di andare da Maji Burger insieme? Ok, non era un appuntamento e sicuramente non era il posto più romantico del mondo ma… era già qualcosa. Si sentì realizzato come una protagonista di uno shojo manga, possibile che dietro Kagami non si fossero ancora materializzate delle rose scintillanti di rugiada?
«Sì, perché no» si limitò a dire, nascondendosi, ancora, dietro la tazza del caffè.
«Domani è Sabato, giusto? Potremmo pranzare lì» tutta le felicità di Tetsuya fu spazzata via dal ricordo della telefonata con sua mamma. Avrebbe mangiato così tanto che già si sentiva morire.
«Purtroppo domani sono impegnato» Taiga sembrava deluso? «Forse però mi libero per cena» Kuroko si sentiva già male al pensiero di andar prima a mangiare da sua madre e poi fare un salto da Maji Burger.
«Fantastico!» si alzò per andare a posare le tazze nel lavello. Forse era ora di andarsene? «Comunque, non so se già lo sai, ma si vocifera che domani ci sarà uno sciopero dei mezzi pubblici» Kuroko si ritrovò ad insultare tutti i suoi connazionali, “non fanno mai scioperi e decidono di protestare quando io devo andare a prendere Nigou”. «Non so se hai una macchina, ma se hai bisogno di aiuto posso chiedere la macchina ad un mio amico» scrollò le spalle.
«Sei molto gentile, Kagami-kun» si vergognò a dire il suo nome ma cercò di reprimere l’imbarazzo. «Purtroppo il viaggio è abbastanza lungo e dovrei portare con me il mio cane». Kagami stava per risedersi quando si bloccò.
«Hai detto cane
«Sì.»
«Ah» fece una risatina nervosa.
«Kagami-kun ha paura dei cani?» Kagami sussultò.
«Ma chi? Io?» Kuroko pensò che Taiga fosse davvero adorabile. «In ogni caso, anche se i cani… non sono esattamente i miei animali preferiti, se hai bisogno di aiuto domani puoi farmi tranquillamente uno squillo e ti porto io.»
Kuroko era decisamente al settimo cielo per la felicità, sapeva che erano semplici cortesie che un conoscente avrebbe fatto tranquillamente, ma anche il solo fatto che fosse stato Kagami a chiederglielo lo mandava in visibilio. Pensò che, con lui, andare dai suoi genitori sarebbe stato meno trauma… tico. Se Taiga l’avesse accompagnato avrebbe conosciuto sua madre. E se sua madre lo avesse visto in compagnia di un altro essere vivente si sarebbe messa a ballare, sarebbe svenuta, poi avrebbe fatto partire Candyman di Christina Aguilera e avrebbe cantato con lei. Quell’idea l’aveva sconvolto così tanto che non era neanche più sicuro sul da farsi. Godersi un viaggio di quattro ore – andata e ritorno – con la persona che gli piaceva e subire lo sclero di sua madre, o andare da solo e subire lo stesso lo sclero di sua madre – anche se di portata minore? La risposta gli sembrava più che scontata. Stava per rispondergli di sì quando il suo stomaco cominciò a brontolare, cosa aveva fatto per meritarsi questo?
-
Per sfortuna – o fortuna? Non sapeva scegliere – si era ritrovato, ancora, a casa di Kagami con davanti un piatto di gyoza semplicemente deliziosi. Si sentiva davvero uno stupido ma tra la chiamata di sua madre e l’improvviso invito di Kagami si era scordato di pranzare, perciò si era ritrovato alle tre del pomeriggio a mangiare i gyoza più buoni del mondo. Tetsuya non pensava che sarebbe mai stato capace di mangiare qualcosa così in fretta, ma dopo circa cinque minuti aveva spazzolato il piatto, senza lasciare neanche una briciola. Kagami, dal canto suo, sembrava abbastanza compiaciuto.
«Non pensavo ti sarebbe piaciuti così tanto» Kuroko arrossì. «Sono felice che siano stati di tuo gradimento» Tetsuya giurò che se non avesse smesso di fare quei sorrisi mozzafiato l’avrebbe preso a pallonate in faccia.
Prima che potesse rispondere, un motivetto familiare si diffuse per l’aria. Possibile che..?
Taiga arrossì di colpo e spense la sveglia che aveva impostato nel cellulare.
«È la theme song dell’NBA?» chiese Kuroko sorpreso. Possibile che anche a lui piacesse il basket? Effettivamente, con la sua altezza, giocare a basket doveva essere per lui qualcosa di naturale.
«Conosci l’NBA?» ma per che razza di ignorante l’aveva preso?
«Certo» gli occhi di Kagami cominciarono a luccicare.
«Qui in Giappone non è molto popolare, ma è lo sport più bello del mondo» Kuroko annuì. «Però sai, giocarci è ancor più bello di guardar solo le partite.»
«È vero. Giocarci è molto divertente» Kagami rimase immobile per qualche minuto.
«Tu… giocavi?»
«Sì» Kagami si grattò una guancia, imbarazzato.
«Sai, sei così basso che non avrei mai pensato… Sei davvero una persona interessante» Kuroko si sentì le guance in fiamme. «Che ne dici se domani, al ritorno da Maji Burger, ci fermiamo ad un campetto lì vicino?»
«Va bene.»
Kuroko stava esplodendo di felicità.

Midorima non era riuscito a dormire quella notte ed, inutile dirlo, aveva delle orribili occhiaie sotto gli occhi. Normalmente, sarabbe andato comunque ai corsi universitari, in qualche modo, sarebbe riuscito a rimanere sveglio e, a mali estremi, sarebbe caduto in uno stato comatoso solo una volta tornato a casa. Purtroppo per lui era rimasto particolarmente sconvolto dai pensieri della notte passata in bianco. Tutti sapevano che, in tarda notte, le idee peggiori sembrano le migliori ma non concepiva come lui, Shintaro Midorima, studente universitario con ancora un po’ di senno, avesse potuto pensare di andare a scusarsi con Takao, per il comportamento irrispettoso avuto nei suoi confronti i mesi precedenti, e subito dopo di insultarlo per avergli dato buca.
Si stropicciò gli occhi, riempiendo di caffè la sua tazza di latte e si ricordò del suo appuntamento quotidiano con Oha Asa. Purtroppo, il Cancro non era tra i segni più fortunati – per non dire che era tra i più sfortunati – e, neanche a farlo apposta, l’oggetto fortunato del giorno sarebbe stata una pallina per gatti. La cosa che lo aveva turbato di più, però, era stato il breve consiglio dell’astrologa: “se c’è un problema che vi attanaglia, non rimuginateci troppo ma affrontate la faccenza seguendo il vostro istinto”.
 Stava cercando di autoconvincersi che il suddetto problema non fosse Takao ma più ci pensava, più gli sembrava l’unica soluzione probabile. Oha Asa non sbagliava mai, ma il fatto che non sbagliasse mai, non voleva dire che doveva seguire necessariamente i suoi consigli, oggetto fortunato a parte. Non aveva specificato quali ripercussioni che ci sarebbero state se non avesse risolto subito il problema, quindi perché preoccuparsi? Sarebbe stata una giornata tranquillissima come le altre: sarebbe uscito a comprare la palla per il gatto, sarebbe tornato a casa come sempre e avrebbe ripreso a studiare.
Fu riportato alla realtà dai miagolii del gatto che, a proposito, non sapeva ancora come chiamare. Trovargli un nome gli sembrava la cosa più opportuna da fare, dato che chiamarlo continuamente “il gatto” sarebbe stato scomodo. Fece vagare lo sguardo sulla libreria poco lontana dal tavolo della cucina e gli saltò all’occhio il famoso dramma di Shakespeare, Macbeth. Be’, non era male come nome.
«Tu ti chiamerai Macbeth, ok?» si sentiva stupido a parlare con quel micio, ma dopotutto Takao parlava sempre con quella palla arancione che si chiamava come lui. Si accorse di star pensando a Takao e si diede dell’idiota anche se, dopotutto, era stato lui a dargli consigli su come tenere Macbeth. Prese il micio in braccio, oltre alle informazioni apprese da Takao, era andato anche a fare una ricerca su internet e doveva andare a fargli il vaccino il prima possibile. Si tirò su gli occhiali con la mano fasciata, se quell’idiota non gli avesse dato buca all’ultimo minuto, probabilmente non avrebbe avuto tutti questi problemi.
Probabilmente quella piccola bestiola aveva fame ma, purtroppo per lui non aveva comprato ancora il latte in polvere, aveva fatto affidamento sul fatto che Kazunari ne aveva un bel po’ a casa – perché, poi? – e non aveva pensato di acquistarlo. Il suo orgoglio, però, gli vietava di andare a bussare alla sua porta, soprattutto dopo che gli aveva dato buca senza dargli neanche una spiegazione.
Sospirò e, scusandosi col gatto, decise di vestirsi il più in fretta possibile per andare nel negozio di animali più vicino. Altro piccolo problema: non sapeva dove trovare un negozio di animali dato che l’ultima cosa che si aspettava da se stesso era di adottare un gatto randagio. Di nuovo, l’idea di farsi aiutare da Takao gli passò per la mente ma tanto velocemente era apparsa quanto scomparsa. Lui non aveva bisogno di Kazunari.
-
Dopo una piccola ricerca online, era riuscito a trovare il negozio di animali più vicino possibile che era distante due fermate d’autobus da lì – come aveva detto Oha Asa questo non era un giorno fortunato per il Cancro. Si sentiva abbastanza in colpa per aver lasciato Macbeth a casa, da solo, morto di fame ma portarlo con sé sarebbe stato un errore peggiore: non avrebbe sopportato i suoi miagolii.
Come previsto, poi, l’autobus era arrivato con dieci minuti di ritardo – si vedeva che Midorima non portava con sè il suo oggetto fortunato – e il tragitto verso il negozio di animali era stato tutt’altro che piacevole: si sentiva teletrasportato in una commedia tutt’altro che divertente, neanche nella peggiore delle sitcom una vecchietta avrebbe fatto delle avance a qualcuno, su un autobus. Midorima aveva cercato di chiarire le idee all’anziana signora, cercando di allontanarla in tutti i modi possibili. Dato che però quest’ultima era irrimovibile – e in più affermava che stare con lei avrebbe portato molti vantaggi – Shintaro si ritrovò ad urlare di essere omosessuale. Se da un lato la signora si era alzata in fretta ed era andata a molestare il povero autista, dall’altro le persone sull’autobus erano rimaste innanzitutto traumatizzate e aveva iniziato a guardarlo più che male.
Quella mattina era iniziata male e sembrava sarebbe andata anche peggio col passare delle ore. Mai in vita sua, anche se il suo segno zodiacale era quello più sfortunato del giorno, aveva passato dei momenti tanto infernali; sperò solo che con la conquista del tanto agoniato oggetto fortunato tutta quella sfiga sarebbe andata scemando.
Fu ridestato dai suoi pensieri una volta che l’autobus si fu fermato e non perse tempo a scendere, voleva andarsene da lì al più presto. Se non avesse avuto un essere vivente in casa che richiedeva urgentemente di essere nutrito, probabilmente non avrebbe preso l’autobus per il ritorno ma se la sarebbe fatta a piedi. Si augurò soltanto di non incontrare di nuovo quella signora o probabilmente avrebbe tentato il suicidio con le tendine scolorite dell’automezzo.
Dopo cinque minuti di strada in più, finalmente si trovò davanti quel benedetto negozio. Dall’esterno non sembrava particolarmente inquietante, ma una volta entrato si ritrovò in un’atmosfera dove cuccioli e accessori per animali di un’orribile tonalità di rosa regnavano sovrani. Shintaro si fece forza, autoconvincendosi che avrebbe preso in un attimo quel che gli serviva e avrebbe pagato subito, tornandosene in fretta a casa quando un commesso pochi centimetri più basso di lui – e con delle mani assurdamente grandi – , cominciò a illustrargli le più svariate promozioni se acquistava due collari anziché uno e tante altre informazioni che a Midorima non interessavano affatto.
In conclusione, Shintaro uscì da lì con non solo una pallina per gatti e il latte in polvere, ma anche con una cuccia, vari giocattoli e un collare per gatti color rosa pastello – che il commesso trovava “semplicemente adorabile”. Midorima non sapeva come fosse riuscito a fargli comprare tutta quella roba, sapeva solo che pesavano un sacco e che aveva speso più soldi del dovuto. Sperava soltanto di tornara a casa il più in fretta possibile.
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Fu accolto a casa dai miagolii e dalle fusa di Macbeth e per un attimo pensò che, dopotutto, avere un gatto non era male.  Si tirò su gli occhiali con le dita fasciate e iniziò a riscaldare l’acqua per il latte di quel povero micio. Quando, però, lanciò un’occhiata all’orologio rimase pietrificato: quel viaggio sarebbe dovuto durare al massimo quaranta minuti e invece era rimastio fuori un’ora e mezza. Quel commesso gliel’avrebbe pagata cara, lui e quei collari rosa confetto. Il suo desiderio di vendetta gli fece anche ricordare di tutti gli affari inutili che aveva comprato a quel micio e che quindi, l’unica cosa che gli restava da fare, era scartare tutto e far felice almeno il suo gatto. Non pensava che avere un gatto fosse così stressante e si sentì ancora più male pensando al costo dei vaccini. Gli sarebbe toccato mangiare crackers e maionese per un intero mese.
Dopo aver nutrito per bene Macbeth e averlo lasciato nell’altra stanza a giocare, Midorima si sedette al tavolo della cucina esausto, come se avesse partecipato alla maratona di New York. In quei giorni si sentiva particolarmente stressato e pensò che fosse stato proprio questo stress a non lasciarlo dormire. Tornando indietro con la memoria, cercò di trovare la causa di questo suo malessere e la risposta gli arrivò sotto forma di gatto: Shintaro, ovvero la palla di pelo arancione, era saltato nel suo balcone e stava miagolando fastidiosamente. Finamente era riuscito a far star zitto il suo, di gatto, che arrivava quello di Kazunari a dare il colpo finale al suo autocontrollo. Sbuffando, aprì la porta-finestra che portava al balcone e non appena prese il gatto in braccio, questo cominciò a fare le fusa. Cosa volesse era un mistero e, sinceramente, non gli interessava neanche. L’unica cosa che voleva fare era andare da Takao, mollargli il gatto e tornarsene a casa a dormire.
Si trovava, quindi, con il gatto obeso in braccio aspettando che Takao aprisse la porta. Sperò vivamente che fosse in casa o avrebbe davvero dato di matto. Il rumore di alcuni passi lo rassicurarono e tempo pochi secondi il viso di Kazunari era davanti a lui.
«Che diavolo..?» si ritrovò a dire il ragazzo, vedendo il suo vicino di casa con in mano il suo gatto.
«Non so come e perché sia arrivato sul mio balcone, riprenditelo» appoggiò il gatto a terra e subito questo tornò a casa del suo padrone. Takao guardò un attimo Shintaro e gli chiuse la porta in faccia. Il ragazzo con gli occhiali rimase un attimo fermo davanti alla porta e, il tempo di assimilare gli inesistenti ringraziamenti di Takao, risuonò il campanello pronto a insultarlo dalla testa ai piedi. Takao riaprì la porta, abbastanza scocciato.
«Che vuoi?»
«Potresti almeno ringraziarmi per averti portato il gatto.»
«Grazie. Sei contento?» Midorima si sentiva preso in giro, che diavolo aveva?
«No, dato che ieri mi hai dato buca senza neanche un preavviso» Kazunari stava per chiudergli di nuovo la porta in faccia ma Shintaro lo bloccò. «Si tratta di essere educati, se non puoi mantenere la parola data, non dare appuntamenti alle persone, così, a caso» Midorima era a dir poco sconvolto da quel che stava dicendo. Che diavolo gli era saltato in mente? Fare una sfuriata del genere, sul pianerottolo poi. Si era lasciato traspostare dall’istinto, cosa insolita, e si ricordò del consiglio ricevuto quella mattina: Oha Asa parlava di affrontare un problema, ma Shintaro si era ripromesso di lasciar perdere, e allora perché si stava comportando così? Quasi come fosse stato deluso da una persona importante?
La risata amara di Takao raggiunse le sue orecchie facendogli stringere il cuore.
«Proprio tu parli di educazione? Per non so quanti mesi ho insistito nel salutarti, nell’essere gentile e mi vieni a dire che io sono maleducato? Ti prego, lasciami in pace.»
«Perché dovrei lasciarti in pace?» Midorima sapeva di dover stare zitto ma era più forte di lui, non riusciva a tapparsi la bocca. «Se c’è una cosa che ho imparato dai tuoi continui tentativi di approcciarti a me, è che non bisogna mai lasciar perdere qualcuno.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«Tu sei l’unica persona che nonostante la mia indifferenza ha continuato, imperterrito, a costruire un legame con me» si sentiva un completo idiota. Che razza di frasi stava dicendo? Kazunari aveva la bocca aperta e gli tremavano le labbra. Shintaro voleva prendere a testate lo spigolo della porta, che diavolo gli era saltato in mente? Dire delle cose talmente imbarazzanti a qualcuno come Takao era la cosa più ridicola che potesse fare. Non si conoscevano e probabilmente l’altro lo odiava ma sapeva che quel che aveva detto non era una bugia. Era come se se ne fosse accorto fin dall’inizio ma non avesse mai voluto ammetterlo a se stesso. Non era di certo innamorato di Takao, neanche per sogno, lo vedeva semplicemente come una persona che voleva diventasse sua amica: era stato persistente con lui, non si era arreso per tanto tempo e, anche quando aveva gettato la spugna e lui si era ripresentato da lui, alla ricerca di un aiuto, non l’aveva respinto, non l’aveva insultato e non gli aveva chiuso la porta in faccia.
«Se… Se è questo il messaggio che ti è arrivato» fece una pausa, lo stava guardando negli occhi ma abbassò subito lo sguardo. «Hai completamente frainteso». Takao gli sbattè la porta in faccia e Midorima non rimase deluso, sentì solo la rabbia montargli dentro. Non era di certo un idiota e non si sarebbe arreso così facilmente.





 
Salve a tutti! ଘ(੭*ˊᵕˋ)੭* ̀ˋ
Mi dispiace davvero molto per il ritardo (non vado d'accordo con la puntualità), purtroppo però i banner per me sono importantissimi e trovare del cibo verde è stato... impossibile °□°

Ad ogni modo, a inizio capitolo vi ho chiesto di leggere l'angolo autrice per il semplice fatto che il quarto capitolo non è ancora pronto e, sebbene io abbia già in mente qualche idea, non so ancora come metterle insieme per creare qualcosa di decente. Purtroppo, quindi, non posso neanche calcolare minimamente il tempo che ci impiegherò. (っ- ‸ - ς)

Spero di aver reso adeguatamente la parte che riguarda Aomine e di non averla resa inverosimile o banale, sono molto preoccupata a dire il vero ლ(ಠ益ಠლ)
E ne approfitto per ringraziare Martuccia (♥) che mi ha fatto da Beta!

Leggere le vostre recensioni mi renderebbe davvero molto felice e mi inciterebbe a scrivere il prima possibile il prossimo capitolo༼ つ ◕◡◕ ༽つ

Anyway, mi impegnerò il più possibile. Non abbandonatemi! ᕙ( ͡° ͜ʖ ͡°)ᕗ♥

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Capitolo 4
*** Searching for a sweet surrender ***


Ciao a tutti, mi dispiace per l'attesa e spero che questo capitolo ne sia valsa la pena. Fatemi sapere in un commento!
Ci rivediamo nell'angolo autrice ( •ॢ◡-ॢ)-♡

Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(3)

 
Fin da sempre Kise era stato convinto che il suo peggior difetto fosse affezionarsi agli altri troppo velocemente. E, be’, lui di difetti ne aveva tanti. La sua parlantina e l’egocentrismo traspariva nei momenti meno opportuni non potevano essere minimanente paragonati a questa sua natura che non gli aveva portato niente se non delusioni o dolore. Per un motivo o per un altro, finiva sempre per affezionarsi a chiunque riuscisse a sopportarlo per più di un’ora e Aomine Daiki era da poco entrato a far parte di quella cerchia di persone che, seppur un tempo molto grande, aveva finito per stringersi fino a comprendere solo lo stesso Kise.
Non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi che la gente si avvicinasse a lui per un secondo fine. Forse era cresciuto semplicemente nella bambagia e nessuno gli aveva insegnato come mettere da parte la sua genuina ingenuità nei confronti delle persone, ma non riusciva davvero a capacitarsi di come la gente riuscisse ad avvicinarsi a qualcuno, facendo finta di essergli amica per poi andarsene, senza rimanerne scottati. Forse era stata colpa di Yukio, che lo aveva abituato troppo bene per gli standard di quella società.
Il solo pensare a dargli la colpa di una simile sciocchezza lo faceva sentire una feccia. Chi era lui per poter accusare l’altro? Si sentiva in colpa solo a pronunciare o a pensare il suo nome. Ogni volta che lo evocava si sentiva come se stesse bestemmiando, come se stesse gettando fango su di lui, perché, dall’inizio – o forse sarebbe stato meglio dire dalla fine – la colpa era stata solo sua.
Aprì gli occhi, assonnato, riportando alla mente quello che era successo quella stessa mattina. Aomine aveva avuto un attacco di panico e lui era scoppiato a piangere, completamente terrorizzato che quello che aveva vissuto al liceo potesse ripresentarsi di nuovo. Perché alla fine Kise sarebbe rimasto sempre lo stesso egoista di sempre, lui non aveva pianto per Aomine, aveva pianto per se stesso.
In qualche modo aveva convinto Daiki a farlo rimanere da lui, troppo preoccupato per lasciarlo da solo, e avevano cercato di passare un pomeriggio nella normalità, facendo finta che non fosse successo niente e senza menzionare in nessun modo l’accaduto. Malgrado ciò, Kise non era riuscito a stare tranquillo. Un fastidioso senso di ansia all’altezza del petto rendeva difficile persino la respirazione, a quanto pareva era tornata a fargli visita per ricordargli che quello che aveva fatto non era stato affatto superato. Perciò aveva convinto Aomine a farlo rimanere lì anche per dormire. Probabilmente Daiki aveva accettato perché Ryouta sembrava un cucciolo smarrito senza una casa a cui tornare e Kise ne era certo, se fosse andato a dormire da solo, la notte sarebbe stata fin troppo lunga.
Si sporse per prendere il telecomando che era finito a terra, spegnendo la tv. L’orologio poggiato sul tavolino segnava le 3.42 del mattino e Kise dovette ricredersi, anche con Aomine accanto a sé, la notte sarebbe stata molto lunga. Si girò per guardare l’altro: si teneva la testa con un braccio e si ritrovò a ridacchiare notando che, non solo russava, ma aveva anche un po’ di bava ai lati della bocca. Chissà cosa stava sognando.
Si raggomitolò sul divano, cercando di occupare meno spazio possibile, poggiando la fronte sulle sue ginocchia cercando di far placare quel senso di ansia che lo stava portando alla pazzia. Cercava di dirsi che con Aomine non sarebbe finito allo stesso modo, che sarebbe riuscito a passarci sopra e che avrebbe continuato a vivere senza pensare a Kasamatsu sentendosi l’errore ma, mentre si sentiva sempre più schiacciato dall’oscurità, sembrava che tutto stesse perdendo forma: lui stesso, il mondo circostante e infine i suoi pensieri.
-
Ryouta venne svegliato da un piacevole profumo di zuppa di tofu – la sua preferita – e riso. Che Aomine stesse preparando la colazione?
Mugugnò qualcosa, stiracchiandosi, e si accorse che era stato coperto da un plaid. Sentì le guance andargli a fuoco. Era rimasto a casa di Daiki per prendersi cura di lui e invece era stato il contrario. Che avesse insistito per rimanere perché in fondo sapeva che stare da solo sarebbe stato difficile più per lui che per il ragazzo con la pelle ambrata?
Si portò la coperta sulla faccia quando sentì Aomine dire: «Ti ho sentito, muoviti ad alzarti», ma Kise si sentiva come una ragazzino che doveva alzarsi per andare a scuola, con un test di matematica ad attenderlo. Quello che aveva vissuto ieri gli sembrava un incubo ma la consapevolezza che non era stato un frutto della sua immaginazione lo spingeva a rimanere su quel divano per sempre, sperando che la forza di gravità lo schiacciasse fino al centro della terra.
«Oi» questa volta la voce di Aomine era più vicina, ma si rese conto che era a pochi centimetri da lui solo quando gli tolse la coperta di dosso. Kise in tutta risposta si mise a pancia in giù facendo sprofondare il viso su un cuscino. «Ti ho preparato la colazione e questo è il tuo ringraziamento?»
«Altri cinque minuti» disse cercando di strappargli la coperta di mano con la faccia ancora spiaccicata contro il cuscino.
«Mi hai scambiato per tua mamma?» Ryouta, ormai rassegnato, e sentendo un certo languorino, decise di andare fino alla tavola e, eventualmente, dormire sulla sedia. Seguì Daiki fino all’altra stanza, mentre il profumo della colazione gli inondava le narici e sembrava gli stesse rimettendo in moto il cervello. Strofinandosi gli occhi si sedette, trovando di fronte a sé una tavola talmente ben apparecchiata e così tanto piena di cibo che pensò di essere finito a casa di sua madre.
«Dopo questa colazione penso che sì, potrei scambiarti per mia mamma» Aomine sbuffò, lievemente in imbarazzo e Kise afferrò le bacchette pronto per mangiare.
La tavola era avvolta da un silenzio per niente imbarazzante. Kise si era abituato molto facilmente alla presenza di Aomine, per la maggior parte del tempo era silenzioso – a parte le volte in cui veniva infastidito ed esplodeva come un vulcano urlando talmente forte da sovrastare il rumore di un trapano. Aomine gli ricordava un Savannah, un gatto ibrido, metà domestico e metà selvatico.
Purtroppo però, per quanto si sforzasse di pensare ad altro, i ricordi di ieri gli balenavano in mente ogni volta che chiudeva gli occhi, come se quelle scene fossero state marchiate a fuoco sotto le sue palpebre, indelebili. Avrebbe preferito che Aomine non uscisse l’argomento, o si sarebbe sentito in dovere di spiegare troppe cose che non voleva ricordare, eppure, anche se l’avesse fatto, non avrebbe potuto di certo dargli torto. Era stata un’esperienza devastante: neanche quando aveva ripreso quel vecchio album fotografico in mano, mentre sistemava gli oggetti presenti nei pacchi che stava svuotando dopo il trasferimento, i ricordi avevano preso così il sopravvento di lui, le mani non avevano certo preso a tremargli in quel modo e le lacrime non avevano cominciato a scorrere incessantemente. Di nuovo capì quanto fosse egoista, lì, seduto al tavolo di Daiki, mentre si preoccupava più per se stesso, per il suo passato e per i suoi ricordi che di Aomine e del presente che lui stava vivendo.
Quando si riscosse dai suoi pensieri, si accorse che Aomine lo stava guardando con un’espressione preoccupata. “Dovrei essere io a preoccuparmi per lui ma è lui che si preoccupa per me. Stanno succedendo proprio le stesse cose, eh?”.
«C’è qualche problema? Forse qualcosa non ti piace?» Kise scosse la testa, con un mezzo sorriso.
«No, è che…» si fermò. Sarebbe stato meglio non andare avanti. «Niente. Lascia stare.»
Aomine sospirò, massaggiandosi la radice del naso. «Per caso riguarda quello che è successo ieri?»
Kise si sentì un idiota, anche se non voleva parlarne aveva finito per far uscire il discorso. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Sì, ovviamente, e poi? Avrebbe dovuto continuare a parlare di quanto la sua vita al liceo fosse stata una merda, di quanto lui fosse una merda, tanto che non era riuscito a salvare il suo migliore amico? Non voleva deprimere nessuno con la sua vita ma anche se avesse cercato di negare i fatti l’altro avrebbe sicuramente capito che invece sì, pensava a quello che era successo il giorno prima e niente andava bene.
«Sì» si limitò a dire, reprimendo tutto quello che fino ad ora aveva cercato di tenere a bada. Eppure lui stesso sapeva che prima o poi anche lui si sarebbe spezzato, per quanto cercasse di far finta di essere la persona allegra e solare che non era. Perché la vita di Kise Ryouta non era affatto così perfetta.
«Posso chiederti una cosa?» l’atmosfera si stava facendo sempre più tesa. Se era vero che anche Kise aveva un punto di rottura, probabilmente stava per sbriciolarsi in mille pezzi. Si limitò ad annuire. «Ti sei messo a piangere solo perché ti sei fatto prendere dalla paura?»
«No» disse secco. Non voleva andare oltre ma si sentiva in dovere di dirglielo, di parlargliene e la ragione non la sapeva neanche lui. Forse perché sapeva che Daiki avrebbe potuto capirlo, avrebbe potuto consolarlo. Forse.
«Ti ricordo che al nostro primo incontro tu mi hai fatto una domanda inopportuna?» fece una piccola pausa, probabilmente per vedere quale reazione Kise avrebbe avuto. «Questa volta posso essere io a farmi gli affari tuoi?» a Kise sfuggì un sorriso, guardando un punto indefinito del tavolo, annuì. «Perché hai pianto?»
Kise prese un bel respiro. Era arrivato il momento di parlarne, per la prima volta. Non si sentiva pronto, ma era necessario e forse l’avrebbe aiutato ad andare avanti.
«Tutti pensano che la mia vita sia perfetta. Dicono che sono bello, già da questa età lavoro come modello, la mia è una famiglia agiata, niente problemi, niente preoccupazioni» sorrise amaramente scompigliandosi i capelli. «Mi fa ridere pensare a quanto la gente possa essere superficiale. Giudicano le mie esperienze di vita guardando il mio conto in banca, ma se la mia vita è perfetta allora la loro deve proprio fare schifo» strinse le labbra in una linea sottile. «Penso che la storia che più ti interesserebbe sapere inizi alle superiori. Dicono tutti che gli anni delle medie siano i peggiori e quelli delle superiori i migliori, ironia della sorte:entrambi sono stati una totale merda.» Aomine lo stava ascoltando con attenzione mentre Kise cercava di trovare le parole giuste. «A metà del primo anno incontrai questo ragazzo, Kasamatsu, era un anno più grande di me ma, stranamente, andavamo davvero d’accordo. Alla fin fine non avevamo niente in comune ma, in un modo o nell’altro, dopo le lezioni stavamo sul tetto della scuola a parlare del più e del meno. Una cosa che mi è rimasta molto impressa è che i suoi occhi brillavano quando parlava, anche se l’argomento era una sciocchezza, lui metteva sempre una tale passione in quel che diceva che spesso rimanevo zitto perché non riuscivo più ad aprir bocca. Ora che ci penso, parlavamo molto di me e lui mi ascoltava. Lui però non mi parlò mai di se stesso, della sua famiglia, dei suoi sogni per il futuro, dei suoi altri amici. E io non glielo chiesi mai. Dopo un anno in cui ogni giorno, dopo la scuola, ci ritrovavamo sul tetto, mancò per un’intera settimana da scuola. Lì per lì mi sembrò normale, fino a quando, una settimana dopo non si ripresentò con il volto coperto di lividi. Ci scherzai su, dicendo che doveva smetterla di fare il bulletto in giro…» gli si spezzò la voce, e sentì la prima lacrima calda scivolargli fino al mento. «… e lui rise, e solo adesso realizzo quanto quella risata fosse triste, come se avesse potuto scoppiare a piangere da un momento all’altro, come se… come se avesse potuto gettare via la sua vita in quell’istante. La storia si ripetè ancora e ancora, si assentava spesso e al suo ritorno era ricoperto di lividi. Col passare dei giorni quella luce negli occhi che mi piaceva tanto stava scomparendo, nell’ultimo periodo arrivò addirittura a sembrare una persona differente» Kise si fermò, non sapeva come continuare. Sentirsi raccontare quelle cose successe così tanto tempo fa gli faceva venire alla mente così tante cose, suoni, sensazioni. Riguardando al passato capì che Kasamatsu in realtà parlava spesso di sé, molto velatamente, ma nei suoi discorsi lui c’era sempre e non era mai riuscito a capirlo. «Ancora oggi mi sento in colpa, avrei dovuto intuire molte cose, chiedergli molte cose. Probabilmente non avevo la maturità adatta, ma ancora adesso non mi perdono tutto quel tempo sprecato a parlare di me, senza parlare di lui. Così forse avrei capito meglio tutto. Il periodo davvero peggiore è stato negli ultimi mesi invernali del secondo anno, ormai Kasamatsu era divento un’altra persona e io continuavo a chiedermi se domandargli di più sulla sua vita sarebbe stata una scelta giusta, se avrebbe reagito male, se avrebbe continuato ad essere mio amico. Erano ragionamenti molto stupidi e adesso me ne rendo conto, ma il solo pensiero di poter perdere una persona così importante mi stava logorando. È stato in quel periodo che tutto mi è divenuto più chiaro: Kasamatsu cominciò ad avere seri problemi, come attacchi d’ansia o di panico. Mi sono documentato più volte su internet per sapere cosa fare, per capire come farlo stare meglio, perché stesse così. Era come se la terra si stesse sgretolando sotto i miei piedi, probabilmente consideravo Kasamatsu la mia ancora di salvezza. Il senpai migliore del mondo, che sarebbe stato lì, sul tetto, ad aspettarmi per sempre. Un pomeriggio gli chiesi di promettermelo, di non mollare, che l’avrei trovato sempre lì sul tetto ad aspettarmi. Non mantenne la promessa» Kise cominciò a singhiozzare. «Nonostante questo, non posso incolparlo, perché la colpa di tutto è stata mia. Perché non sono stato lì e ho scoperto tutto dopo, insieme agli studenti della scuola, come se fossi stato uno qualunque, un ragazzo che aveva incontrato per caso nei corridoi» provò ad asciugarsi le lacrime con il palmo della mano ma continuavano a scendere, ininterrottamente. «Kasamatsu era omosessuale e a suo padre non andava bene. Suo padre non voleva un figlio come lui, gli ha fatto del male, fisicamente e psicologicamente, lo ha logorato dentro privandolo di tutto e strappandolo da me» Ormai non si sforzava più di asciuagarsi le lacrime, per la prima volta aveva raccontato questa storia a qualcuno e mentre raccontava la loro storia gli sembrò che Kasamatsu stesse rivivendo in quelle stesse parole. «Mi parlava sempre della fioritura dei ciliegi negli ultimi giorni, ma si è tolto la vita prima di vederli sbocciare. Mi ha lasciato anche una lettera, chiedendomi scusa e di portargli dei fiori di ciliegio appena sarebbero fioriti» la voce gli si spezzava ad ogni parola, queste distorte dai singhiozzi continui.  «Quindi sì, ieri non ho pianto per te, ma per me e per lui. Forse ti sembrerò egoista e, credimi, lo sono. Sai, volevo rimanere qui perché pensavo di essere preoccupato per te, forse invece avevo solo paura per me stesso. E-»
«Smettila di dire cazzate» Aomine lo guardava, arrabbiato, e Kise non capiva il perché. «Smettila di dire che la colpa è stata tua, tu non c’entri proprio niente» Kise smise per un attimo di respirare. «Smettila di addossarti tutte le responsabilità, come se il mondo girasse solo attorno a te. Tu non c’entri nienti, è colpa di suo padre, non tua.» dopo una breve pausa continuò. «Secondo me ti è molto grato» le lacrime ripresero a scendere. «Dopotutto l’hai sostenuto, senza fargli domande, penso che in quel periodo lo facessi anche ridere, facendogli dimenticare tutto quello che aveva alle spalle. Non incolparti per cose inutili. Potranno sembrare delle parole banali ma, te lo assicuro, lui non vorrebbe vederti così. Vorrebbe vederti continuare a vivere felice, facendo le esperienze che lui non ha fatto. Ogni volta che respiri, che sbatti le palpebre, che ti batte il cuore, lo stai facendo per entrambi. Hai capito brutto pezzo di scemo?» Kise sentì la mano di Aomine sui suoi capelli. Il biondo si aggrappò alla maglietta dell’altro, come se fosse l’unico appiglio per non cadere in un baratro.
Kagami era davanti al portone del condominio con le chiavi della macchina di Himuro in mano. Gliele aveva chieste all’improvviso, ma era per un buon motivo quindi aveva fatto di tutto per farsele dare. A dire il vero, il problema maggiore era stato Murasakibara, il ragazzo del suo migliore amico. A volte era davvero infantile e fastidioso e a pensarci sentì la rabbia salire.
«Chissà dov’è finito Kuroko» disse scompigliandosi i capelli. Per arrivare a casa dei genitori dell’altro ci sarebbero volute tre ore e non era abituato ad alzarsi presto, soprattutto dopo aver passato la serata a riguardarsi alcune partite dell’NBA. Anche se si sentiva uno sciocco, non era ancora riuscito a rinunciare al suo sogno di diventare un giocatore professionista ma non poteva certo biasimare suo padre per averlo convinto ad intraprendere gli studi universitari.
«Buongiono, Kagami-kun» sentì una flebile voce provenire da un punto indefinito e saltò all’indietro, urlando in maniera non proprio mascolina, ritrovandosi Kuroko davanti. Non aveva idea di quando fosse arrivato, sapeva solo di aver perso sei anni di vita, se non di più.
«’Giorno» si limitò a dire, con la fronte corrucciata. «Non dovresti far spaventare le persone così.»
«Non è colpa mia. Ti ho solo dato il buongiorno» non sapeva perché, ma sentiva che dietro quelle semplici parole si nascondesse della tristezza.
Istintivamente gli appoggiò una mano sulla testa, scompigliandogli un po’ i capelli. «Su, andiamo, non vorrai far aspettare ancora il tuo cagnolino.»
A dire il vero, dopo il primo incontro con Kuroko, Taiga aveva pensato più e più volte a quel nanetto dai capelli azzurri. Nonostante fossero vicini di casa non l’aveva mai notato e persino quella mattina non l’aveva visto avvicinarsi. Anche in quel momento, che era seduto nel sedile accanto a lui, gli sembrava che potesse sparire da un momento all’altro. Era una presenza strana, ma riusciva a sentirsi a suo agio. Con lui il silenzio non era per nientepre imbarazzante, sembrava la normalità. Era come se si conoscessero da anni, come se in una vita precedente si fossero già conosciuti. Lo scorso pomeriggio era stato addirittura piacevole; aveva preparato del caffè in più per il semplice scopo di invitarlo a casa sua e scoprire che tipo di persona era e ne era rimasto piacevolmente sorpreso. Scoprire, poi, che anche lui amava il basket lo aveva mandato in estasi. Era da tempo che non incontrava qualcuno con le sue stesse passioni e il solo pensare di poter fare un one-on-one contro qualcuno dopo così tanto tempo lo mandava fuori di testa.
 «Dovrai farmi da navigatore, lo sai?» disse Kagami con un mezzo sorriso. Tetsuya annuì, nascondendosi dentro la felpa che aveva addosso. «Hai il viso rosso, ti senti bene?» Tetsuya cominciò a tossire e Kagami sperò che non gli morisse in macchina.
«Sì, tutto bene» si limitò a dire, cercando di nascondersi ancora di più.
«Allora» disse Taiga tossicchiando. «Il tuo cane, quanto è grosso, esattamente?»
«È un cucciolo di Husky, quindi non è ancora tanto grande.»
«Capisco» Kagami sospirò sollevato, più piccolo era, meno avrebbe sofferto. Sin da piccolo aveva avuto una certa paura dei cani, forse da quando il cane di suo zio aveva cominciato a rincorrerlo dopo aver indossato una maglietta con un hot-dog stampato sopra.
«Quindi Kagami-kun ha paura dei cani?»
«Assolutamente no» disse troppo in fretta, arrossendo come un peperone. «Semplicemente non vado molto d’accordo con loro. Preferisco i gatti.»
«Come mai hai paura dei cani?»
«Ti ho detto che non ho paura!» si scompigliò i capelli lanciandogli un’occhiataccia. «Be’, comunque, una volta, quando ero molto piccolo, il cane di mio zio ha cominciato a corrermi dietro. È stato decisamente traumatizzante perché ancora non sapevo correre bene ed inciampavo ogni due passi.»
«E i tuoi genitori?»
«Erano entrati dentro per prendere borse e cappotti, quel maledetto cane ha aspettato il momento in cui ero solo per aggredirmi.»
«Non hai mai preso in  considerazione l’ipotesi che stesse giocando?»
«Assolutamente no. Non puoi neanche immaginare la malvagità che luccicava in quegli occhietti neri» a Kuroko scappò una risata e Taiga arrossì, di nuovo.
«Se ti può consolare, cercherò di non farti “aggredire” da Nigou.»
«Nigou? Perché si chiama così?»
«Dicono che io e lui siamo molto simili, quindi abbiamo deciso di chiamarlo Tetsuya Nigou, detto Nigou.»
«Come fa un cane ad assomigliarti?» chiese ridendo.
«Lo capirai vedendolo.»
-
Appena Kagami mise un piede a terra, sentì un cane abbaiare e una palletta nera correre verso Kuroko. Kagami non era ancora preparato psicologicamente alla vista di quell’animale e di sicuro sapere che era ancora piccolo non gli importava, dopotutto era sempre un cane.
Stava cercando di stare il più lontano possibile da quella palla di pelo, ma quando Tetsuya se ne accorse non perse tempo ad andargli incontro, portando quella bestiola tra le mani.
«Kagami-kun, ti presento Nigou» il cane, per tutta risposta, abbaiò e Kagami sentì un brivido di freddo salirgli lungo tutta la schiena. Nonostante il terrore, rimase pietrificato anche nell’accorgersi della somiglianza tra i due, in qualche modo il loro sguardo era simile e la cosa lo inquietava un po’.
Kuroko stava continuando ad avvicinare Nigou al suo viso quando fu salvato – o quasi – dalla madre del ragazzo con i capelli azzurri. Infatti, sentirono la porta sbattere ed un urlo.
«Tetsu-chan!» Taiga per un attimo pensò di aver perso l’udito.
«Mamma non urlare» la donna aveva le lacrime agli occhi.
«Ci sei mancato così tanto!» disse abbracciandolo. Kagami, osservando la donna si disse che madre e figlio erano troppo diversi per essere parenti, l’unica cosa che avevano in comune erano i capelli. Qualche secondo dopo si accorse che dietro i due c’erano un uomo – riuscì a stento a trattenere un urlo – e intuì che probabilmente quello era il padre. Lo stava fissando e Kagami non riuscì a smettere di sudare freddo. Perché lo stava guardando in quel modo? Aveva fatto qualcosa di male? L’aveva scambiato per l’assassino di suo padre?
«E questo giovanotto chi è?» stavolta l’attenzione della donna era rivolta a lui e per un attimo temette il peggio. Perlomeno adesso l’attenzione del padre di Tetsuya era rivolta al figlio e non a lui.
«Sono il vicino di casa di Kuroko» disse. «Mi chiamo Kagami Taiga. Piacere di conoscerla signora.» disse inchinandosi. La donna gli diede una pacca – neanche troppo leggera – sulla spalla.
«Suvvia, non essere così formale.  Puoi chiamarmi Eiko-chan e io ti chiamerò Taiga-chan, ok?» annuì, sentendo dire al padre di Tetsuya “perché quando noi ci siamo conosciuti hai insistito per farti chiamare Sasaki-sama mentre con lui sei così gentile?”.
Taiga era decisamente disorientato, possibile che la famiglia di Kuroko potesse essere così strana?
«Sono così felice che Kuroko sia venuto con un amico! Non lo sei anche tu, caro?» l’interpellato si limitò ad annuire, sembrava depresso. Sentì Kuroko dirgli “stai tranquillo papà, sai com’è fatta la mamma”. 
Senza che gli fosse data la possibilità di respirare, pensare, dire qualcosa di intelligente, la madre di Kuroko lo spinse dentro casa.
Erano seduti in salotto, Kagami lanciò un’occhiata a Kuroko che sembrava stesse chiedendo a dio di ucciderlo all’instante. “Eiko-chan” stava continuando a parlare, ininterrottamente, e ancora, si chiede da chi avesse preso Kuroko. Forse quello più simile al figlio era il padre, di sicuro neanche lui si faceva notare molto. “A proposito, dov’è?”. Quando si girò trovò l’uomo accanto a sé. Il trauma fu troppo per urlare, probabilmente morì per un attimo e dio, avendo pietà di lui, decise di rispedirlo sulla terra. Tutti i componenti di quella famiglia erano troppo per lui. Stava cercando di ricomporsi quando all’improvviso la madre di Kuroko smise di parlare. Non sapeva cosa questo silenzio potesse comportare, ma dalle poche esperienze fatte finora con quella famiglia, non prevedeva nulla di buono.
«Non ho cucinato abbastanza per tutti!» urlò e vide Tetsuya impallidire visibilmente.
«Ti avevo detto di non preparare nulla. È già tanto se sono passato di mattina e non di sera» sua madre gonfiò le guance.
«Perché devi essere sempre cattivo con tua madre? Ho preparato il pranzo con tanto amore» lo sguardo della donna si spostò verso Kagami. «Taiga-chan tu vuoi rimanere per pranzo, vero?» il rosso rimase pietrifato. Cosa doveva rispondere? Si girò verso Kuroko che aveva un’espressione tetra, sembrava volesse dire “se dici di sì ti ammazzo”, a quel punto si girò verso Eiko-chan che aveva sul viso un sorriso tanto minaccioso da poter essere scambiata per l’anticristo. Sembrava volesse dire “se dici di no ti ammazzo”. Kagami maledisse se stesso e il momento in cui aveva proposto a Tetsuya di accompagnarlo.
«Per me non c’è alcun problema» disse, sperando di poter rimanere imparziale. «Decidete voi-»
«Decidi, adesso» dissero nello stesso momento. La loro voce rimbombò per la casa. Kagami era terrorizzato.
«Lasciate stare questo povero ragazzo» disse il padre di Kuroko, dando una pacca sulla spalla a Kagami. «Anche se è alto, e muscoloso e tutto quello che non sono stato io in gioventù e lo odio, non prendetevela con lui» Taiga stava per mettersi a piangere. Kuroko non aveva sicuramente preso da lui.
«Zitto tu» dissero ancora contemporaneamente. «Kagami-kun per favore, sbrigati a decidere» disse questa volta Kuroko. Dopo un’attenta riflessione, aveva capito che sarebbe stato meglio assecondare il suo vicino di casa, quel piccoletto avrebbe potuto davvero ucciderlo e, ancora peggio, la sua incredibile capacità di passare inosservato avrebbe anche impedito che la polizia lo arrestasse.
«Forse è meglio anda-» il suo stomaco cominciò a brontolare.
«Credo che Taiga-chan abbia deciso» “merda”.
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Dopo che il suo stomaco aveva cominciato a brontolare, che il signor Kuroko era andato da qualche parte probabilmente a deprimersi e dopo che Tetsuya aveva cominciato a mandargli occhiate assassine, Eiko-chan si era diretta in cucina. In quell’ultima mezz’ora aveva capito quanto quella famiglia potesse essere anormale ma in qualche modo si sentiva a suo agio.
Eiko-chan aveva esortato il figlio a fare salire Taiga in camera sua e, mentre salivano per le scale, Kagami non potè far a meno di pensare a quanto fosse bello il sedere di Kuroko. Si sentì uno stupido ma ehi, aveva dei pantaloni stretti e fare certi pensieri, quando il soggetto delle tue attenzioni sta per giunta salendo le scale, è più che naturale. Solo in quei pochi secondi si rese conto della cura che Tetsuya aveva messo nel vestirsi mentre lui si era vestito come un rapper fallito.
Quando Kuroko lo fece entrare in camera, Kagami si accorse di quanto l’altro fosse imbarazzato. Taiga non gli diede tanto peso, probabilmente era per quell’inconveniente avuto con sua madre e, be’, anche lui sarebbe stato molto in imbarazzo se qualcuno fosse entrato in camera sua. La camera di Tetsuya era molto semplice, a dir la verità. Non c’era quasi più nulla sulle mensole, tranne qualche vecchio libro di scuola. L’unica cosa che rimandava a Kuroko forse erano i poster dell’NBA attaccati alle pareti.
Kagami si sedette sul letto e Tetsuya, dopo un attimo di esitazione, si sedette accanto a lui, con Nigou sulle gambe. Taiga guardò un attimo quella creturina pelosa, per quanto avesse timore dei cani, apprezzava il fatto che almeno Nigou non stesse ad abbaiare tutto il tempo come gli altri. Quel cane aveva uno sguardo intelligente e il fatto che non la smettesse di fissarlo lo metteva in soggezione. Dopo pochi secondi si sentì un idiota, come poteva un cane metterlo in soggezione?
«Ti sei già abituato alla presenza di Nigou. È sorprendente.»
«È che non mi accorgo della sua presenza, non abbaia mai» come a farglielo apposta, Nigou abbaiò. Kagami istintivamente si spostò.
«Dovresti provare ad accarezzarlo» disse Tetsuya senza guardarlo. Era da quando si erano seduti sul suo letto che non smetteva di accarezzare e di guardare quel cagnolino.
«Passo» per un attimo nella stanza cadde il silenzio. «Sono belli questi poster» Kuroko sorrise.
«Mi fa piacere sentirtelo dire, Kagami-kun.»
«Ma qui in Giappone non è difficile trovarli?» disse Taiga, stiracchiandosi. «Ora che ci penso, in America ne ho trovati un sacco.»
«America?» nonostante Kuroko sembrasse sorpreso, Kagami trovò fastidioso il fatto che prestasse attenzione solo a quel cane.
«Ho vissuto in America fino alle superiori, poi sono tornato qui in Giappone.»
«Ed è bella l’America?»
«Abbastanza, sì.»
«Mi piacerebbe andarci prima o poi.»
«Un giorno ti porterò lì con me» disse sorridendo e notò che anche sul volto di Kuroko era spuntato un sorriso. Stava per dire ad alta voce qualcosa di stupido come “che bel sorriso”, quando la madre di Tetsuya li chiamò per andare a tavola.
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Si sentiva come un ragazzino delle elementari a casa del suo compagno di giochi mentre Kuroko lo guidava fino alla cucina e si sentì davvero catapultato nel passato quando si rese conto che ogni piatto era decorato con cuoricini o altra roba del genere. Erano così carini che gli dispiaceva mangiarli.
Stranamente la tavola era silenziosa, ognuno mangiava senza dire una parola, ma comunque sentiva lo sguardo della madre di Kuroko addosso. Quando alzò lo sguardo, stava guardando suo figlio con aria dubbiosa e quando si girò verso di lui, notando che Taiga la stava guardando, gli fece l’occhiolino e riprese a mangiare in silenzio, pensando a qualcosa. Per il resto, Tetsuya, seduto di fronte a lui, stava mangiando – sembrava abbastanza irritato – mentre il signor Kuroko sembrava depresso.
Le pietanze si susseguirono una dopo l’altra e, per quanto fosse abituato a mangiare più del normale, lentamente sentiva che lo spazio nel suo stomaco stava per esaurirsi – soprattutto perché quando avanzava del cibo, Eiko-chan lo metteva tutto nel suo piatto. Dall’altro lato, Kuroko sembrava stesse già per morire, con la faccia spiaccicata sul tavolo, cercando di respirare per quanto il suo stomaco pieno glielo permettesse.
«E adesso, il dolce!» urlò Eiko-chan. Si chiese come avesse potuto preparare tutta quella roba. Poggiò sul tavolo una torta interamente ricoperta di cioccolato, uscendo poi dal frigo una torta fatta apposta per Nigou. Era la seconda volta che vedeva una torta per cani, la prima era stata al Boss delle Torte e aveva preferito cambiare canale per non avere degli incubi la notte stessa.
Kuroko si era limitato a dirle, con quella poca forza che gli rimaneva, che si sarebbe portato un pezzo a casa, e, nonostante Kagami avesse adottato la stessa strategia del suo vicino di casa, la donna si era limitata a dirgli “zitto, che sei grande e grosso”, mettendogli una porzione fin troppo grande nel piatto. Il padre di Kuroko invece si era alzato poco prima che servisse il dolce, forse già consapevole del fatto che, se fosse rimasto ancora lì, la fuga sarebbe stata impossibile.
«Oh dannazione» disse Eiko-chan guardando l’orologio. «È tardi e rischio di perdermi quel programma che mi piace tanto. Taiga-chan, non ti dispiace se vado di là, vero?» che gli avesse fatto di nuovo l’occhiolino? Kagami non lo sapeva, voleva far finta di no, forse così non avrebbe patito le conseguenze.
Non appena la donna scomparve nell’altra stanza, Kagami posò la forchetta sul piatto, ancora metà fetta lo aspettava.
«Non ce la faccio più» disse portandosi le mani sulla pancia. Dopo tutto quel cibo, gli addominali che si era fatto con così tanta fatica sarebbero diventati presto grasso.
«Se vuoi ti posso aiutare» disse Kuroko con voce flebile. Sembrava stesse per vomitare.
«Se non ce la fai non sforzarti, non vorrei vedere del vomito sul pavimento» Tetsuya prese una forchetta e cercò di portare un pezzo di torta alla bocca, prima che potesse gustarla si accasciò sul tavolo dicendo “non ce la faccio”. Taiga rise, scompigliandogli i capelli.
«Grazie lo stesso.»
-
Finalmente era arrivato il momento di andarsene, nonostante Eiko-chan gli avesse proposto di fare un gioco da tavolo, aveva preferito rispondere subito prima che qualcos’altro li trattenesse.
Taiga aveva insistito perché Kuroko salisse in macchina mentre lui posava tutte le buste di cibo per cani nel cofano della macchina. Quel nanetto dai  capelli azzurri aveva un aspetto terribile e non voleva affaticarlo, anche se a mali estremi avrebbe vomitato nel suo giardino e non nella macchina di Tatsuya.
Stava per salire in macchina quando Eiko-chan si avvicinò al suo orecchio ssurrandogli: «per favore, prenditi cura di Tetsu-chan.»
Non sapeva esattamente cosa volesse dire e, quando cercò una risposta nello sguardo della donna, quella era già andata a salutare il figlio.
La sveglia di Takao era suonata da più di un’ora ormai, ma non aveva né la forza, né la voglia di alzarsi dal letto. Ringraziò il cielo perché quella mattina non aveva lezioni o le avrebbe perse tutte, senza alcun rimpianto. Quegli ultimi giorni erano stati semplicemente distruttivi e sperava con tutto se stesso che qualche gatto alieno stesse pianificando di rapirlo per portarlo sul suo pianeta pieno di quelle creature soffici.
Ripercorrendo il filo dei suoi pensieri, si era reso conto che tutti i suoi problemi erano stati causati da quel dannato del suo vicino di casa. All’improvviso si era messo in testa di diventargli amico o, comunque, di stargli attaccato come una cozza su uno scoglio e non capiva il perché. Per quale motivo un soggetto con un gradiente di sociopatia non indifferente come Midorima Shintaro voleva avvicinarsi a lui di punto in bianco?
Si sentiva lo stronzo della situazione, il suo vicino di casa stava cercando di costruire un’amicizia e lui lo stava respingendo. Le cose però non stavano affatto così, lo stronzo non era sicuramente lui e Shintaro avrebbe fatto bene a metterselo in testa e a realizzare al più presto il concetto. Kazunari si era decisamente stancato.
Si rotolò sul letto quando il suo naso si scontrò con il muso del suo gatto. Istintivamente allungò la mano sul suo pelo e cominciò ad accarezzarlo mentre l’animale lo deliziava con le sue fusa.
Pensare alla ramanzina che gli aveva fatto il giorno prima Midorima lo mandava in bestia, a dir la verità, e sentirsi chiamare maleducato da uno del genere gli dava non poco fastidio. Era vero che Midorima non era nessuno per chiamare Kazunari maleducato, ma Takao doveva comunque ammettere che il suo comportamento non era stato corretto. Diventare maleducati a causa un individuo del genere non era proprio il caso, decisamente no.
“Se c’è una cosa che ho imparato dai tuoi continui tentativi di approcciarti a me, è che non bisogna mai lasciar perdere qualcuno.”
Le parole di Shintaro gli rimbombarono in mente chiare e limpide, come se le avesse pronunciate in quel preciso momento. Non appena le aveva sentite, Takao aveva percepito un senso di malessere, come se al posto dello stomaco si fosse aperto un buco nero pronto a risucchiarlo dal suo interno. Si portò una mano sugli occhi, mentre un sorriso si faceva spazio sul suo viso. Una cosa che sopportava ancora meno del suo vicino di casa era il fatto che quelle parole lo avessero reso così felice. Eppure gli aveva risposto che aveva ricevuto il messaggio sbagliato e si sentiva stupido perché era vero, lui aveva questa brutto vizio: non voler lasciar perdere le persone, a qualunque costo, perché sapeva che gli altri non avrebbero mai messo così tanto impegno per non farlo andare via. Quindi la storia si ripeteva sempre, che fossero amici o fidanzati, lui si impegnava troppo e gli altri troppo poco e nonostante tutto, lui non li voleva mai lasciare andare, non riusciva ad allentare la presa, fino a quando non erano gli altri a recidere ogni legame.
Forse si sentiva così male perché aveva realizzato che aveva sbagliato la persona da lasciare perdere, perché Shintaro era stato l’unico che gli aveva dimostrato qualcosa di concreto, mettendosi in ridicolo davanti alla sua porta.
A quel punto, il ricordo di Moriyama gli balzò in mente come se fosse stato lì da tanto tempo, nascosto, nell’attesa di uscire fuori perché anche se cercava di distrarsi pensando a Midorima e a quello che era successo ieri, il ricordo della loro rottura era sempre lì.
Questa volta però, non era stata la stessa storia. Il dolore era stato solo momentaneo, forse per lo shock di essere lasciato, ancora, ma ogni volta che ci ripensava provava solo un certo disagio, perché quella relazione non poteva neanche definirsi tale. Non aveva un senso o un suo perché, persino il motivo per cui si erano messi insieme era stato stupido: entrambi si erano lasciati da poco e avevano voglia di ricominciare, ed eccoli lì, ad atteggiarsi come una coppia di fidanzati che non erano. Quello che Moriyama provava nei suoi confronti era solo un senso di possesso, forse in fondo c’era dell’affetto, ma non poteva essere chiamato amore. Giocava a fare il fidanzato geloso e Takao cercava di trattenersi dal non mollargli un pugno solo perché si rendeva conto che se se ne fosse andato anche lui sarebbe rimasto irrimediabilmente solo. In qualche modo Moriyama voleva che lo mettesse sempre al primo posto, anche se l’altro non metteva certo davanti ai suoi bisogni gli interessi e il bene di Kazunari e la loro storia era finita come tutte le altre. Una storia a senso unico, dove anche questa volta l’unico a metterci impegno era stato Takao. Però non poteva negare che in parte era stata colpa sua: era tutto iniziato con l’arrivo di Midorima, ironia della sorte. Non poteva negare di essersi preso una sorta di cotta per il nuovo arrivato e si era sentito anche in colpa perché, dopotutto, era fidanzato, sempre se quella potesse essere considerata una relazione. Non sapeva se l’avesse fatto per il senso di colpa o perché non sapeva che argomenti tirar fuori per una conversazione, fatto sta che spesso e volentieri la maggior parte dei discorsi di Takao erano incentrati su quel nuovo vicino di casa che continuava a salutare ma che non ricambiava mai. Moriyama probabilmente cercò di sopportare per quanto potè, fino a quando non minacciò Kazunari di lasciarlo. Come al solito, Takao preferì tacere anziché rimanere da solo. Aveva continuato a salutare Midorima, ma più quello si ostinava a non rispondergli, più la cotta di Takao andava affievolendosi e più saliva l’irritazione nei confronti di quel tizio con i capelli verdi. Poi però si era presentato con quel gatto in mano, cercando consigli, e quando aveva cercato di baciarlo solo quel briciolo di buon senso che gli era rimasto gli aveva fatto afferrare prontamente il suo gatto per proteggersi dalle labbra dell’altro. E a quel punto l’argomento Shintaro Midorima era ritornato sulle labbra di Kazunari ogni volta che i due fidanzati non sapevano di cosa parlare, quindi Moriyama aveva deciso di mettere da parte le parole per passare ai fatti, lasciando Takao.
«Tu sarai l’unico Shintaro della mia vita, te lo giuro» si ritrovò a sussurrare, coccolando il suo gatto e mettendosi seduto. Il gatto si accoccolò tra le sue gambe. «Tu cosa ne pensi? Non sono io lo stronzo, vero?» il gatto si limitò a miagolare e Takao alzò gli occhi al cielo. «Capisco che essere gentili non mi costava nulla però… lui non merita la mia gentilezza. Andiamo, l’ho salutato per così tanto tempo e lui niente. È venuto solo perché serviva a lui» il gatto rimase in silenzio, fissandolo.«Scommetto che l’hai fatto apposta, ad andare da lui» prese il gatto in braccio. «Ma hai fatto male i conti, caro mio. Non ho più una cotta per quel tipo» Shintaro allungò una zampetta per toccare il naso di Takao. «Ah, ma chi voglio prendere in giro?!» si ritrovò ad urlare buttandosi sul letto.  «Come faccio ad autoconvincermi che non ho più una cotta per lui se sono stato lasciato proprio perché parlavo sempre di lui?» il suo gatto era seduto a pochi centimetri da lui e continuava a fissarlo, come se volesse dire “questi umani sono stupidi” e Kazunari si sentì davvero un idiota, stava pure parlando con il suo gatto dei suoi problemi, come se si aspettasse delle vere risposte. «Non ho una cotta per Midorima, non ce l’ho. Quindi non guardarmi con quella faccia, se parlo di lui è perché lo odio e il detto “dove c’è odio c’è amore” è una grandissima stronzata. Intesi?» il gatto si limitò a miagolare e Takao pensò che lo aveva addestrato davvero bene.
-
Dato che non riusciva a mettere in ordine i suoi pensieri e temeva che il suo cervello potesse sciogliersi e colare giù dalle sue orecchie, aveva deciso di tirar fuori il pallone dall’armadio e di andare a fare due tiri nel campetto lì vicino. Era ormai quasi un anno che non giocava più a basket, nonostante fosse una delle sue più grandi passioni e nonostate si fosse ripromesso di continuare a giocarci, malgrado l’università. Purtroppo, gli impegni erano troppi e quando aveva del tempo libero preferiva passarlo a poltrire sul divano.
Facendo rimbalzare il pallone, stava per entrare nel campetto da basket quando una presenza familiare lo fece bloccare con il pallone in mano e lo spinse a nascondersi dietro una siepe. Cosa diavolo ci faceva quel soggetto del suo vicino di casa in quel campetto? Probabilmente il dio-gatto aveva deciso di punirlo perché si era sentito stupido a parlare con il suo animale domestico, non c’era altra spiegazione.
Si prese la testa fra le mani, cosa doveva fare? Andarsene? Aspettare che fosse l’altro ad andar via? Si sporse un attimo, giusto in tempo per ammirare il tiro di Midorima, sempre se tiro si potesse definire. La palla aveva percorso tutto il campetto fino ad arrivare al canestro. Non si sarebbe stupito se fosse riuscito a far arrivare la palla fino al suo balcone.  Ormai tornarsene a casa e giocare a basket con il suo gatto al posto della palla e la sua cuccia al posto del canestro sembrava l’opzione migliore. Era pronto a strisciare via quando vide un’ombra coprirlo del tutto, non aveva via di scampo. Alzò la testa stiracchiando le labbra in un sorriso forzato.
«Buongiorno» Takao si rimise in piedi. «Stavo per andare» disse indicando l’uscita. Midorima alzò un sopracciglio.
«E allora perché ti sei nascosto dietro a quella siepe?»
«Sono inciampato» si ritrovò a dire. «Sì, esatto, ero qui di passaggio e sono inciampato.»
«E perché hai una palla da basket con te?»
«Ah, parli di questa?» Kazunari non sapeva più cosa inventarsi. «Ah! Questa! E da quanto tempo è qui? Chi lo sa, io non l’ho mai vista» calciò il pallone via e Shintaro sbuffò.
«Vedi che ti ho visto entrare palleggiando, è inutile che ti inventi queste scuse. Se vuoi andartene, vai» Takao si grattò la guancia imbarazzato, in qualche modo lo faceva sempre passare per lo stronzo.
«Non volevo disturbarti, sembri così concentrato mentre tiri» scrollò le spalle. «Ero venuto solo per fare qualche tiro, quindi posso anche passare più tardi.»
«Ti va di fare un one-on-one?» Takao rimase lì immobile. Aveva sentito bene? Lui, contro un mostro del genere? Proprio no.
«Contro di te? Non se ne parla proprio» Midorima scrollò le spalle.
«Se non sai giocare fa niente» Kazunari si massaggiò la radice del naso, il peso poggiato su un solo piede. Quella mattina era andato al campetto di basket per scaricare lo stress e quell’idiota non stava facendo altro che irritarlo più del dovuto. Ignorando la sua palla, che era rotolata qualche metro più in là, afferrò quella di Shintaro.
«Dammi qua, ti faccio vedere chi non sa giocare» disse correndo verso il centro del campo, mentre gli si formava un ghigno sul viso. Si girò verso Midorima, che dal canto suo stavo sorridendo soddisfatto. «La sola idea di smerdarti non mi alletta abbastanza per dare il massimo» disse Kazunari stiracchiandosi. «Che dici se chi vince può dare un pugno all’altro, eh, Shin-chan?» Midorima sbatté le palpebre.
«Shin-chan?» disse alzandosi gli occhiali sul naso.
«Non ti piace come soprannome?»
«Mi prendi in giro?» a Takao scappò una risata.
«Allora, ti va bene ricevere un pugno?» Midorima scrollò le spalle.
«Fai come vuoi.»
-
Entrambi erano stesi per terra, sudati fradici. Kazunari non aveva la minima idea di poter sudare così tanto senza morire disidratato. Nonostante questo, era ancora incredulo per la sua vittoria: poco prima di iniziare la partita si era reso conto di quanto fosse stato stupido da parte sua proporre di dare un pugno allo sconfitto, dato che con ogni probabilità sarebbe stato lui quello a perdere. Fortunatamente, da quando avevano iniziato la partita Shintaro gli sembrava decisamente distratto e alla fine, per un pelo, era riuscito a guadagnarsi la vittoria. Se quel gigante fosse stato nel pieno delle sue facoltà l’avrebbe battuto senza esitazione.
Si asciugò il sudore che aveva in fronte con la maglia, il respiro non era ancora regolare. Midorima invece sembrava essersi ripreso e gli stava porgendo una mano per alzarsi.
«Come mai non hai quelle ridicole fasciature sulla mano?» disse, tirandosi all’indietro i capelli. Shintaro si guardò un attimo la mano.
«Quando gioco a basket le tolgo e le rimetto quando finisco. È un’abitudine che mi porto dietro da anni.»
«Certo che sei strano» disse, lanciandogli un’altra occhiata. «Allora» si stava scrocciando le nocche. «Sei pronto per ricevere il tuo pugno?» Midorima spalancò gli occhi, che se lo fosse scordato? O forse non lo aveva preso sul serio?
«Pugno?» disse, cercando di sembrare il più composto possibile, tirandosi su gli occhiali.
«Pensavi stessi scherzando?» Kazunari aveva un sopracciglio alzato e ghignava, forse un po’ troppo divertito. «O forse il piccolo Shin-chan non ha mai ricevuto un pugno in vita sua?» disse sfiorandogli la guancia. «Vediamo… dove dovrei colpirti? Sul naso?» Midorima sembrava scioccato e spaventato allo stesso tempo e Takao si stava divertendo un mondo a prenderlo in giro. «Dai, sto scherzando!»
«Quindi non mi darai più un pugno?»
«No, scherzavo sul darti un pugno sul naso.»
«Ah.»
«Sei pronto?» non sapeva perché non gli stesse semplicemente dicendo “invece del pugno mi farò offrire il pranzo” ma stesse continuando a prenderlo in giro. Forse il pugno voleva darglielo davvero, come risarcimento per tutte le volte che non aveva ricambiato il suo saluto e per averlo fatto lasciare con il suo ragazzo. In fondo aveva bisogno di sfogarsi usando quell’idiota del suo vicino di casa, un’occasione del genere non gli sarebbe capitata di nuovo. Stava guardando le sue dita chiuse in un pugno e quando alzò lo sguardo, trovò quello stupido di Midorima con gli occhi e i pugni chiusi, rigido; le palpebre gli tremavano. “Che idiota” pensò Kazunari, e gli venne da sorridere. Nonostante avesse una gran voglia di lanciargli un pugno dritto nello stomaco, guardarlo immobile e terrorizzato mentre aspettava di ricevere un pugno in faccia lo faceva sorridere. Un essere così irritante poteva essere allo stesso tempo così adorabile? Kazunari sospirò.
«Sta arrivando, sei pronto?» disse in un sussurro. Midorima sussultò ma annuì, gli occhi ancora chiusi. Takao non sapeva cosa stesse facendo esattamente, voleva semplicemente farlo e non pensarci più, avrebbe chiarito con se stesso e non avrebbe avuto più ripensamenti. Pur di fare chiarezza nella sua mente era disposto a fare una cosa del genere. Chiuse gli occhi e appoggiò le mani sulle spalle dell’altro, facendolo sussultare. Si alzò sulle punte dei piedi e unì le sue labbra a quelle dell’altro. Era stato un contatto leggero, le loro labbra si erano toccate per qualche secondo e quando aprì gli occhi si ritrovò addosso lo sguardo di Shintaro. La sua espressione era indecifrabile, probabilmente si stava chiedendo che diamine gli fosse saltato in mente. Quando Kazunari posò l’intera pianta del piede a terra si rese conto del grande, grandissimo errore commesso.
«Oh merda» si era ritrovato a sussurrare ed era scappato via, come se fosse stato inseguito da un serial killer. Aveva il viso bollente, si sentiva male. Perché prima che facesse un atto così sconsiderato quella gli era sembrata un’idea così brillante mentre adesso si rendeva conto di quanto fosse stata una cazzata? Se la sua intenzione era stata quella di mettere chiarezza nei suoi sentimenti, aveva sicuramente scelto il momento e il modo sbagliato. Sentì Midorima chiamare il suo nome.  Questa volta ne era certo: nel suo stomaco si era davvero aperto un buco nero.
-
«Sono un idiota!» si ritrovò a piagnucolare in un angolo della stanza con il suo gatto in braccio. «Perché l’ho baciato?» in tutta risposta, Shintaro gli diede un colpetto in testa con la zampa.



 

 
Shintaro sapeva di essere il gatto più bello del mondo e si sentì offeso quando il suo padrone sottolineò il fatto che sarebbe stato l’unico Shintaro della sua vita. Non era ovvio? Di sicuro quella sorta di zucchina del loro vicino di casa non aveva una coda morbida come la sua o delle orecchie adorabilmente pelose. Non a caso, i croccantini che il suo padrone gli dava erano gli ideali per mantenere la lucentezza del suo pelo. “Ah, quanto sono bello”, pensò, “eppure continua a parlare di quella sottospecie di pisello surgelato e scaduto”. «Scommetto che l’hai fatto apposta, ad andare da lui» disse poi prendendolo in braccio. A volte il suo padrone gli sembrava stupido, come tutti gli umani d’altronde. Talmente ingenui da farsi soggiogare da delle fusa e delle code soffici. Presto la loro razza sarebbe diventata il capo dell’universo ma loro continuavano a trattarli come delle creaturine graziose. Quando sarebbe diventato il nuovo capo del Giappone, avrebbe provveduto a sterminarli tutti. «Ma hai fatto male i conti, caro mio. Non ho più una cotta per quel tipo» Non sapeva neanche di cosa stesse parlando oramai, tanto era preso dalla sua bellezza. Che fortuna aveva avuto, per nascere gatto. Niente stress, niente preoccupazioni. Era solo una creatura talmente perfetta che pagavano anche per accudire. Shintaro allungò una zampetta per toccare il naso di Takao, “per quest’oggi, ti concedo il piacere di nutrirmi, plebeo”.


 
Ciao a tutti ragazzi ೖ(⑅σ̑ᴗσ̑)ೖ
Mi scuso di nuovo per il ritardo ma lo sappiamo tutti che l'ispirazione è una escort che va e viene e non si ferma mai ლ(ಠ益ಠლ)

L'ho scritto mentre avevo le mestruazioni e la febbre a 38 quindi non so esattamente che razza di aborto sia venuto fuori quindi, per favore, lasciatemi un commento. Ci tengo davvero tanto ༼;´༎ຶ ۝ ༎ຶ༽

Tante novità in questo capitolo, eh? (⌐■_■)
Cosa ne pensate di questo cambio di punto di vista? Ero molto indecisa se farlo o no ma ehi, oramai è scritto e anche se vi fa schifo dovete accettarlo lo stesso

Ancora tanto angst sul fronte Aokise. Gli darò mai una tregua? Saranno mai felici? Riuscirò mai a non far soffrire i miei personaggi?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo. (Spoiler: no).
Spero di avervi comunque sollevato un po' il morale con la Kagakuro. Kagami è sempre un idiota e io mi son trovata nel panico una volta che ho iniziato a scrivere dal suo punto di vista.
(╯°□°)╯︵ ┻━┻
Spero amiate la famiglia di Kuroko quanto la amo io. Voglio vivere con Eiko-chan per sempre. (;´༎ຶД༎ຶ`)
La Midotaka sta decollando.
ALLELUJA.
Sì perché le loro parti sono le più difficili perché li adoro e tutto ciò che scrivo su di loro deve essere bello bellissimo (per quanto ne sono capace).

└[∵┌]└[ ∵ ]┘[┐∵]┘
Inoltre, cosa ne pensate del  bacio? Di Takao che tra poco ha una sincope? Di Midorima che è un gran menomato e che tra poco non capisce nemmeno come si chiama? (σ̑˽σ̑)

La parte del gatto è un po' un grande disagio ma sono stata costretta a metterla, spero l'abbiate apprezzata e che vi abbia fatto dimenticare tutto quell'angst che si nasconde tra le righe di questo capitolo し(*・∀・)/♡

Ne approfitto per ringrazie Marta (che mi ha fatto da beta), Mariantonia e Nora (che mi aiutano quando mi mancano le idee). Vvb.
Ringrazio inoltre chi mi ha lasciato recensioni finora, siete davvero dolcini e vi ringrazio dal profondo del cuore. Senza il vostro supporto non avrei continuato a scrivere.
(°̥̥̥̥̥̥̥̥ᴗ°̥̥̥̥̥̥̥̥ )♥♥♥♥

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci terrei a leggere un vostro parare(●⌃ٹ⌃)
A presto (´∀`)♡

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