Forse un mattino

di Queen of Superficial
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le rose rosse e gialle. ***
Capitolo 2: *** Tra gli uomini che non si voltano ***
Capitolo 3: *** Cemetery gates ***
Capitolo 4: *** The heart of the matter ***



Capitolo 1
*** Le rose rosse e gialle. ***


Se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna
la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio,
di Dio il sorriso.
- Fabrizio De André

 

 

“Dottoressa, sono arrivati questi.”
Il camice bianco abbassò lo sguardo su un fitto sciame di rose rosse e gialle. Non poté fare a meno di sorridere, scoprendo due file di denti bianchi troppo dritti per essere naturali; eppure, lo erano. Spostò tutte le cartelle cliniche sotto un braccio per allungare una mano curata a leggere il bigliettino che pendeva dal gambo di una rosa. Whatever, baby. B.
Un neurologo non è una persona più logica delle altre, ma è senz'altro molto più stanca. Sbuffò una risata lieve, tintinnante. “Io chiudo, qui, Gladis.”, disse, poggiando tutto il pesante carico di cartelline sul bancone delle infermiere. L'altra donna, sensibilmente più bassa e anziana, la guardò confusa per un momento: “Che ci faccio con questi, dottoressa?”
“Li porti alla 102, la signora Fitz è qui da due giorni e non ha ancora ricevuto nulla da nessuno.”
La dottoressa corrugò la fronte, pensierosa. La vecchia signora Fitz era stata ricoverata dopo una chiamata del vicino, che aveva riferito ai colleghi del pronto soccorso quanto segue: la signora stava scambiando le consuete chiacchiere mattutine con lui, quando all'improvviso aveva iniziato a produrre suoni che non significavano nulla. Cosa vuol dire suoni che non significano nulla?, aveva chiesto DiBenedetto, il medico di turno, all'interlocutore dall'altra parte della cornetta. Che diceva parole a caso, ma le pronunciava convinta, come se stesse dicendo cose del tutto normali. Il vicino di casa della signora Fitz non era anziano. Era un pastore di mezza età, sposato con tre figli. Si chiamava Joseph Sullivan. DiBenedetto lo conosceva per vie traverse, alla lontana. Aveva chiamato immediatamente lei, che stava dormendo il sonno dei giusti nella villetta prospiciente il mare a un solo isolato dal luogo in cui si stava consumando quel piccolo, incomprensibile psicodramma. Puoi andare a controllare cosa c'è che non va? Sono indeciso se mandare o no un'ambulanza. La dottoressa lo aggredì; un po' perché detestava essere svegliata, e un po' perché le cose tra di loro qualche tempo prima erano andate peggio che male. Quando era arrivata sul posto, la signora Fitz stava cercando di spiegare, a modo suo, che non capiva come mai quel trambusto. In fondo, probabilmente, lei si stava solo lamentando delle oscillazioni climatiche che impedivano alle begonie di fiorire come si deve. La dottoressa era in maglione e pantacollant, con i cerchi scuri del sonno arretrato che le impreziosivano gli occhi. Senza presentarsi che con il proprio nome di battesimo, aveva rassicurato la donna e aveva chiesto al pastore di procurarle una sedia. Elda Fitz continuava a blaterare termini e sbocconcellare congiunzioni senza soluzione di continuità. La dottoressa le aveva puntato una torcia negli occhi, le aveva fatto seguire il dito, le aveva misurato la febbre appoggiandole le labbra sulla fronte. Cos'ha la signora Fitz, Chloe? , le aveva chiesto Joe, seguito a stretto raggio dal figlio con una sedia in mano. Si chiama Clio, papà. Non Chloe. La dottoressa Clio alzò gli occhi su James, tutto spettinato. Probabilmente dormiva anche lui, quando era stato chiamato in causa da quell'incidente neurologico. Vi conoscete? Anche la signora Fitz disse qualcosa, qualcosa che includeva padelle e mandarini. Alzò un dito verso James e si alterò, incomprensibile. Secondo me vuole dirti che l'hai stordita per anni con quella maledetta batteria, ingiunse Clio, soave, facendo sedere la donna. Vi conoscete?, ripeté Joe. La signora Fitz fece l'imitazione di qualcuno che suona la batteria, agitando le vecchie braccia con uno sguardo truce. Poi, lentamente, ripeté: Unbreak me, unchain me, I need another chance to live. I due uomini si scambiarono uno sguardo perplesso. È tutto passato, Clio?, chiese Joe. Ma la signora Fitz aggiunse un commento a quella frase, un commento che non significava niente. Clio scosse la testa. Ricorda solo il linguaggio automatico. Le canzoni, le preghiere. Sono abilità superstiti. Penso soffra di un'afasia transcorticale mista, che di solito è non fluente, nel senso che i pazienti dispongono di un linguaggio del tutto incomprensibile. Lei mi capisce, signora Fitz? La signora Fitz la capiva. Dobbiamo portarla in ospedale, non so se il medico con cui ha parlato le ha detto che farà arrivare un'ambulanza. Joe disse che non ne era sicuro. James la guardò. Ti accompagno io, le disse. Le tenne una mano sulla gamba per tutto il tragitto, mentre la signora Fitz, nei sedili posteriori, scivolava in un sonno senza sogni.
Clio si riscosse da questi pensieri mentre entrava in macchina e quasi riusciva a sentire ancora la mano di lui sulla coscia. Scosse la testa. Due giorni prima era tutto normale, due giorni dopo niente significava più niente.
Era il 29 dicembre.
Faceva freddo.

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Capitolo 2
*** Tra gli uomini che non si voltano ***


Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregati.
Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali.”
- Emily Dickinson

 

 

Guidava verso casa con il vento del Pacifico che le mescolava i pensieri.
Quello che intendo, Clio, le diceva Scarlett, in qualche angolo oscuro della sua memoria, è che la fisica quantistica non spiega l'aldilà, ma apre una porta che possa consentirci di pensare che qualcosa di noi coesiste eternamente, in fin dei conti, con le miriadi di atomi di cui da miliardi di anni è composto il mondo che noi chiamiamo casa. È un esperimento da folli, un'acrobazia intellettuale, ma non si può escludere che l'elettricità che ci anima il cervello resista alla decomposizione e allo smembramento di tutto quel complesso gioco di squadra che è il nostro corpo. Ed è quella, l'anima. Capisci? Ricordi, esperienze, volti che hai amato, tutto ciò che ti rende te stesso e che il tuo cervello immagazzina ed elabora; tutto questo potrebbe sopravvivere. Potrebbe sopravviverti.
Avrebbe voluto crederci, in quel momento, Clio che guidava verso casa. Clio che usciva ed entrava da un ospedale così bianco e intricato che sembrava lui stesso una riproduzione in scala architettonica di un cervello. Clio che apriva il cranio delle persone e ci guardava dentro con affetto, con l'amore accorto che si riserva soltanto alle passioni che ti riempiono la vita e ti fanno respirare aria carica, mai ferma, mai scontata. Le passioni calmano, le passioni legittimano giorni grigi e altrimenti tutti uguali. Quale altra ragione potrebbe esserci, sennò, a questa ridicola abitudine che è svegliarsi al mattino?
Clio non sapeva se ascrivere anche James alla ristretta cerchia di quelle che considerava le sue passioni. Sapeva però, perché l'aveva studiato, che una parte del suo cervello rispondeva a lui come uno strumento musicale fa con un diapason. Una parte della sua anima si irradiava da lei per abbracciarlo, per inglobarlo, per farlo diventare cosa sua. Non è così, Scarlett. L'unica vita eterna a cui possiamo aspirare è quella che resta nelle persone che lasciamo indietro, quando moriamo. Parti di noi che somigliano a riproduzioni grossolane di quel che eravamo in vita, filtrate attraverso altri occhi e rielaborate con i mezzi di chi vuole conservarle. E quest'è. Per questo sopravvive, l'anima, ammesso che ne abbiamo una. Perché qualcuno la custodisce, e la ricorda. Perché qualcuno non si rassegna ad averti perso per sempre.

Era il pomeriggio del 27 dicembre e James l'aveva accompagnata in ospedale, per ricoverare la signora Fitz. L'anziana se ne stava accoccolata su una sedia, in silenzio, con le mani in grembo e un sorriso enigmatico; intorno a lei, uno stuolo di dottori si affaccendava tra cartelle e fiale di fisiologica.
“Dottoressa, lei è certa che si tratti di afasia?”
Clio nemmeno rispose, presa com'era a studiare il mistero di quell'anziana donna. L'afasia transcorticale mista scomponeva la capacità di linguaggio: le persone che ne erano affette credevano di star facendo discorsi perfettamente coerenti, ma in realtà pronunciavano parole a caso. Gli scienziati non sapevano in base a quale associazione queste parole che non c'entravano nulla con il pensiero venissero scelte e quindi dette, e Clio aspettava qualcosa. Qualunque cosa. James era accanto alla finestra; non c'era stato verso di farlo uscire dalla stanza, così gli aveva messo addosso un camice bianco preso da un armadietto a caso e una sciarpa al collo per coprire quelle assurde manette tatuate, e lo aveva presentato a tutti come il Dottor Sullivan.
“Di cosa si occupa, Dottor Sullivan?”, avevano chiesto.
“Di battiti.”, aveva risposto lui, tranquillissimo. Perfino Chris DiBenedetto, impegnato a studiare qualcosa dello storico clinico della signora da una cartelletta, aveva sorriso.
Elda Fitz si riscosse e stornò lo sguardo su di lui.
“Lei è credente, James?”
Un paziente in afasia recupera difficilmente la facoltà di linguaggio, e di certo non così all'improvviso. Si voltarono tutti verso di lei, piombando in un gelido, confuso silenzio.
James la guardò a lungo: “Ci sono cose in cui credo, sì.”
La signora Fitz sorrise, materna, e intonò con una voce strana: “Forse un mattino, andando in un'aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi, come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi, case, colli, per l'inganno consueto. Ma sarà troppo tardi, ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
L'intera stanza, gremita di specialisti, piombò in una sistole organizzativa; si guardarono spaesati giusto il tempo di calcolare l'ampiezza della diastole e riavventarsi, con gli occhi, sul soggetto della loro attenzione.
“Signora Fitz? Elda? Mi sente?”
L'anziana donna guardò il dottor DiBenedetto con un misto di indignazione e perplessità, non avendo gradito di essere stata scossa per le spalle. Articolò un pensiero completamente assurdo, gridandogli addosso parole senza correlazione.
“Sta fingendo?” chiese Chris a Clio, voltandosi preoccupato. Clio scosse la testa.
James ancora la guardava, intenso, rigirandosi in bocca le parole che la donna gli aveva appena rivolto.
“Ma cosa ha detto?”, chiese qualcuno, chissà chi.
“E' una poesia.”, rispose Clio, guardando James. Lui le sorrise. Non gli andava di vederla stanca e preoccupata.
Ma sarà troppo tardi, ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”, ripeté, a voce bassa.

 

Di nuovo il 29 dicembre. Il vialetto di casa era avvolto nel grigiore delle nuvole che coprivano il cielo in quel tardo pomeriggio particolarmente gelido. Clio aprì la porta con le chiavi e si chiese se non c'era qualcosa di estremamente sbagliato in tutte le correlazioni che le balzavano in testa, come se volesse per forza trovare un senso e una coerenza in cose che non erano altro che strane coincidenze.
Aprì la porta e Brian era lì, stravaccato sul divano con in mano un bicchiere di liquore forte.
“Sei tornata presto, oggi.”
Clio sospirò, buttando la borsa e il golf sulla poltrona che era stata di suo nonno. Non gli chiese neanche cosa ci facesse lì, e come fosse entrato.
“Grazie dei fiori, B.”, disse, andandosi a sedere accanto a lui e puntando gli occhi stanchi nel soffitto. Brian si girò il bicchiere tra le mani: era evidente che moriva dalla voglia di farle una domanda, o forse venti.
“Novità?”, le chiese infine, tenendosi sul vago.
Clio non rispose. Affondò la schiena nella spalliera del divano e chiuse gli occhi; dietro le sue palpebre, si affannarono rincorrendosi miriadi di immagini prive di ordine e criterio. Erano altri occhi, come i suoi ma di un chiarissimo blu. Erano le espressioni di Scarlett, china sui tomi di fisica quantistica che traduceva con la devozione di uno scriba orientale. Le espressioni di Scarlett quando fumavano davanti a un caffè, parlando di quanti, di conti, di scienza e di progetti. Le braccia di sua madre, le mani lunghe che le passavano distratte tra i capelli quando scriveva avvolta da uno scialle sul divano della sua vecchia casa; quella voce, che stai facendo?, alla quale lei dava sempre risposte vere solo in parte.
“Novità di quella faccenda lì?”, incalzò Brian, gli occhi scuri che cercavano quelli di Clio.
Lei si voltò, e i capelli produssero nell'aria la parabola di una frusta.
“Vuoi dire novità su come mai James sia clinicamente morto e miracolosamente risorto nello spazio di sette ore senza spiegazione, e sul perché lui non voglia parlarne assolutamente? No, non ho novità.”
Si guardarono per un momento, carichi di tensione.
“Scusa.”, disse ancora lei, “Sono agitata. È sotto osservazione, le funzioni sono normali. Domani potrete vederlo di nuovo. Non c'è spiegazione, Brian. È assurdo, ma è successo.”
Il cellulare di Clio squillò una, due, tre volte.
“Clio?”
Era Chris DiBenedetto, agghiacciato.
“Dimmi.”
“Ciao, scusa, non volevo disturbarti dopo la fine del tuo turno ma... la signora Fitz si è svegliata.”
“Svegliata?”
“Sì. Si era addormentata e si è svegliata.”
“E allora?”
Dall'altra parte del ricevitore seguì un lungo sospiro.
“So che si è svegliata perché è sparita, Clio.”
L'espressione di Clio mutò così velocemente che Brian si sporse in avanti per la sorpresa.
“Il letto è vuoto, accuratamente rifatto. Lei non si trova più. È svanita nel nulla.”
Clio piombò gli occhi in quelli di Brian. Le parole lottarono per uscirle dalla gola, senza successo.
“Sì.”, disse Chris, capendo ciò che lei non aveva detto, “E' sparito anche James. Ho già chiamato la polizia.”

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Capitolo 3
*** Cemetery gates ***


E tornava bambino, tornava bambino
quando stava da solo a giocare nei viali di un immenso giardino;
la fontana coi pesci dai riflessi d'argento
che poteva soltanto guardarla,
mai buttarcisi dentro.”
- Roberto Vecchioni

 

 

Brian e Clio correvano a perdifiato nella notte appena scesa.
Per un po' si erano anche tenuti per mano, a causa dello spirito di compensazione che interviene in tutti quelli che si sentono persi, alla deriva. Non sapevano dove andare, non sapevano in che direzione muovere i propri passi. La testa di Brian gli faceva un male rovente, mentre cercava, febbrile, di richiamare alla mente un posto in cui James potesse voler andare. Qualche luogo che gli era stato caro, in qualche tempo; un bar, una casa, una porzione di spiaggia. Qualunque cosa potesse dare a lui e alla sua amica almeno un bersaglio a cui puntare, con quella corsa rocambolesca e inutile.
Perché non abbiamo preso la macchina?, si scoprì a pensare mentre faticava a tenerle dietro. Lei era più veloce, più affusolata ed era abituata a pensare per compartimenti stagni; forse era più lucida di lui, in quel momento, perché l'avevano educata così. Un problema alla volta, mai lasciarsi prendere dal panico o seppellire vivi dalla paura. Brian non sapeva che nella testa di Clio si affollavano le immagini di prima; la sua amica Scarlett, la fisica dei quanti, le mani di sua madre. Scarlett detestava la letteratura; non la capiva, non le sembrava rilevante. Clio non era così; cercava di spiegarle la vita attraverso le parole dei poeti, ma Scarlett scuoteva la testa, sorridendo.
Altre fotografie ancora le sciamavano dietro gli occhi; una pista da sci congelata dalla brina e dalla neve; un cespuglio arso dal sole al centro del parco nazionale Tsavo Est, in Kenya; le gambe di Jimmy che tenevano il tempo del rumore delle rotaie che sferragliavano sotto il tram, a New Orleans. New Orleans. Cosa le aveva detto, James, mentre svoltavano l'angolo di Bourbon Street arrivando da Canal, decisi a bere fino all'ultima goccia di Hurricane che trovavano? Clio, bambina, le aveva detto, non sottovalutare le lapidi. Clio si bloccò in mezzo alla strada e Brian per poco non al travolse, inchiodando in tutta fretta sulle scarpe da ginnastica e mulinando le braccia per aria nel tentativo di mantenere l'equilibrio.
“Che c'è?”, quasi le urlò. Ma Clio sentiva ancora la voce di James, dentro, da qualche parte. Per capire i vivi, bisogna saper parlare con i morti, le aveva detto mentre un'ombra scura calava su Bourbon Street, facendola rabbrividire. È una citazione di un film, le aveva detto poi, non l'hai mai visto? Si chiama Mezzanotte nel giardino del bene e del male.
Clio si voltò verso Brian a occhi sgranati – agitata, cercava di ricomporre i pezzi, di raddrizzare il tiro dei neuroni che le vorticavano impazziti nel continuum spazio-temporale in cui era incastrata la sua memoria, tra passato e presente.
Mezzanotte nel giardino del bene e del male.
“Al cimitero, Brian”, soffiò, quasi senza fiato, “Andiamo al cimitero.”
Erano quasi arrivati a casa di Brian, ormai; si diressero lì e presero la macchina parcheggiata nel vialetto avvolto dal pulviscolo notturno. Il chitarrista guidava fumando una sigaretta dopo l'altra e provò più volte a indagare le ragioni della decisione strategica che lei aveva preso, cioè andare al cimitero, alla quale comunque lui non si era opposto. Le offrì una sigaretta, tremando. “Per capire i vivi, bisogna saper parlare con i morti”, disse Clio a voce troppo bassa perché lui potesse davvero sentirla; Brian, tuttavia, la sentì.
“Jimmy è vivo, Clio.”, disse, più a se stesso che a lei.
Clio annuì, pensierosa.
“Brian.”, provò a ragionare, guardando oltre il parabrezza con un dito che giocava con le sue labbra e la sigaretta che le fumava troppo vicino ai capelli, “E se tutto questo non fosse, come dire, reale?”

 

Buio. Freddo. James sentiva il livore della rabbia avvolgerlo come una pianta rampicante; gli partiva dallo stomaco e seguiva il corso del suo sistema cardiocircolatorio, ostruendogli le vene. Provò ad aprire gli occhi, ma non c'era nulla che potesse vedere. Provò allora a chiuderli, ma non riusciva a cogliere la differenza. Non sapeva se era sveglio, se non lo era, se gli stavano dando sedativi troppo forti in ospedale. Si strofinò i pugni sugli occhi e gli giunse un suono ritmico, legnoso, scricchiolante. Ci vedo, si disse, e provò a spalancare le palpebre. Elda Fitz faceva la maglia su una sedia a dondolo sotto la finestra. James, incredulo, tastò la superficie vicina ai suoi fianchi. Era decisamente un divano. Il divano di Brian. Improvvisamente, rimise insieme i pezzi. La vecchia sedia a dondolo, la finestra da cui entrava sempre troppa luce, quell'orrendo parquet poggiato da un piastrellista pazzo. Casa di Brian. La signora Fitz canticchiava a bocca chiusa, senza dare segni di averlo visto.
“Ben svegliato, James. Cosa vuoi sapere?”
Jimmy si tirò a sedere, guardando quella figura innaturale fare avanti e indietro sulla sedia a dondolo con gli occhi fissi su uno spesso gomitolo di lana. La luce che filtrava dalla finestra era la luce della luna, intensa come un faro nella notte scura.
Pensò a una domanda - una qualunque – da fare a quella strana signora. Aveva come la sensazione - forse solo quello, ecco, una sensazione - che lei conoscesse risposte a quesiti che non si era mai voluto realmente porre.
“Che senso ha?”, si sentì dire, senza sapere precisamente neanche a cosa si riferisse.
Elda Fitz alzò gli occhi dal gomitolo: occhi verde scuro di una potenza così assoluta che avrebbero scongelato un ghiacciaio.
“La vita, James? La nostra inspiegabile, truculenta permanenza su questa palla di acqua e fango che è la Terra? Non lo so. Tu ti sei fatto qualche idea?”
Jimmy rivolse uno sguardo sofferente all'arredamento della stanza: era come se la ricordava, ma un po' diversa.
“No. Non sono così naif.”
L'anziana piegò la testa di lato, osservandolo incuriosita.
“Volevo sapere che senso ha tutto questo. Che ci facciamo qui.”
Elda si strinse nelle spalle. “Ho paura che la mia risposta sia ancora una volta non lo so, James.”, disse, tranquilla, senza staccare gli occhi, “Sei tu che mi hai portato qui.”

 

Clio sentiva il sudore congelarsi sulla fronte, mentre vagava senza scopo tra le lapidi del Forest Lawn. Brian le teneva dietro come poteva, guardando tra l'erba che cresceva rigogliosa e verde sopra il riposo eterno di qualcun altro.
“Ci sono almeno cinque cimiteri, a Los Angeles. Perché proprio questo?”, lo sentì mormorare Clio, senza farci caso. Voleva rispondergli qualcosa di sensato, ma al momento non sapeva cosa.
Sorpassò la bella costruzione della Little Church of the Flowers e le girò intorno, gettando uno sguardo reverenziale alla facciata avvolta dalla notte. Inciampò in un vaso di rose, rovesciandolo. Erano rose rosse e gialle. “Brian.”, chiamò, con una voce impossibilmente ferma. Sentì i passi del chitarrista avvicinarsi a ritmo sostenuto; continuava a fissare i fiori caduti, il vaso d'argento riverso sull'erba, l'acqua che ne fuoriusciva in piccoli rivoli. “Cosa... cos'hai trovato, Clio?”
Clio stava ferma, ipnotizzata dal colore dei petali. Era un neurologo, ma anche una ragazzina. Qualche parte di lei, confinata in decenni prima, era rimasta intatta e ora scalpitava, strepitando per uscire. Voleva avvolgere la Clio ventiseienne con un panico gelido, maestoso, ancestrale. Voleva l'apostasia, la spaccatura netta dell'anima, voleva che si lasciasse cadere a terra tra i singhiozzi e che aspettasse che fosse Brian a sorreggerla, ad abbracciarla, Brian che le voleva bene nonostante nella vita non avesse davvero tenuto quasi a nessuno, che le avrebbe dato la forza e si sarebbe fatto carico degli aspetti più orribili e insopportabili di quella faccenda. Come tutto quel cercare James, cercarlo, cercarlo senza trovarlo mai. Ma Brian era fragile, e spaventato, Brian era umano e precario, Brian amava James e come lei non riusciva a trovarlo. Come lei, respingeva il panico sovrastandolo con una forza che non aveva per amore di qualcosa che non poteva permettersi di perdere. Con uno scatto, Clio si chinò a raccogliere le rose; si punse con le spine, le rimise nel vaso e gettò uno sguardo alla lapide davanti alla quale li stava risistemando. James Sullivan, c'era scritto. Il cuore le mancò un battito e il respiro le si bloccò in gola. Brian si stava guardando intorno, preoccupato dai rumori del cimitero; Clio non voleva che lo vedesse anche lui. Era chiaramente un caso di omonimia – la data di morte, sotto il nome, era il 1935 -, ma le parve una cosa così orribile da non dover essere condivisa. Prima di alzarsi e spostare l'attenzione di Brian su qualcos'altro, fece in tempo a leggere la frase inscritta nel marmo in caratteri solenni. “Home is where the heart is.”
Lo scatto che Clio fece per rimettersi in piedi quasi sbalzò Brian sull'erba soffice. La notte virava a una tonalità più scura, puntando verso quell'ora che era il suo cuore.
“Andiamo a casa.”, disse Clio, sentendo brividi che non erano di freddo coprirle le gambe, “Subito.”

 

Elda Fitz attese un po' che il ragazzo – no, l'uomo – davanti a lei prendesse familiarità con l'ambiente che aveva intorno.
“Qual è il problema, James caro?”, disse infine, intessendo una fitta trama arancione con la lana che aveva in grembo.
Jimmy si sforzò di ricordare. Si era svegliato, in ospedale, e si era alzato dal letto. Aveva un cerchio alla testa così stretto che sembrava una corona. Aveva appoggiato i piedi sul pavimento, era freddo. Si era vestito con le cose che aveva trovato nell'armadio, chissà chi le aveva portate, poi, e si era diretto di gran carriera verso la stanza 102. Elda Fitz guardava fuori dalla finestra, sotto le coperte, con un gomitolo quasi disfatto tra le mani.
“Cosa mi è successo? Perché sono...”
“... morto?”
“... tornato.”
L'anziana donna scosse le spalle in un movimento che le increspò la camicia da notte. “Non volevi andare. Sei tornato da lei. Da loro.”
James chiuse gli occhi e si abbandonò contro il divano.
“C'era un'aria irreale.”, disse soltanto, riferendosi alla notte in cui il suo cuore si era fermato.
Elda Fitz sorrise.
Forse un mattino, andando in un'aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo.”, disse, un po' cantilenando. Anche James sorrise, con gli occhi chiusi.
“Il miracolo in questione non era il nulla, vedi, James caro. Era tutto il resto.”
Lui aprì un occhio.
“Ma lei non aveva perso la capacità di parlare?”
La signora si lasciò andare a una lieve risata, una risata da nonna. “Forse sono gli altri che hanno perso la capacità di ascoltare.”, gli rispose.
Per un po', l'unico suono nella stanza fu il rumore sferragliante dell'uncinetto unito al cigolare della sedia a dondolo.
James alzò la testa all'improvviso, facendo sussultare leggermente la sua strana interlocutrice.
“Lei cos'è, di preciso, signora Fitz?”

 

 

 

Forse niente di tutto questo è reale
forse nemmeno io sono reale
ma questo fuoco
questo fuoco
deve essere reale.”
- Stephen King, 1408

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Capitolo 4
*** The heart of the matter ***


Grazie a te ho una barca da scrivere
un treno da perdere”
- Fabrizio De André

 

 

Brian e Clio viaggiavano nella notte e la notte viaggiava in loro, lasciando scie chimiche di ricordi alle loro spalle. Mancavano due giorni – forse uno? - a Capodanno, ma le cinque del mattino sono le cinque del mattino ovunque.
Clio continuava ad essere colpita da quelle immagini a velocità supersonica. Non capiva perché non fosse mai riuscita ad evitare di fare le cose che le mettevano malinconia. Era stata come una corsa a ostacoli per andarsi incontro, lei e il dolore, per tutta la vita. Un abbracciarsi e respingersi e dimenticarsi e guardare altrove per distrarsi, ma nella visione periferica c'era sempre, immobile, il dolore, pronto a riaccoglierla tra le sue braccia che certe notti somigliavano a spire e le ricordavano tutto il tempo andato che non le sarebbe stato ridato indietro, non importava quanto lei pregasse e sperasse in un po' di sole. Il domani migliore che lei voleva purtroppo era un concetto retroattivo, inghiottito dalle nebbie del tempo, incastrato in cimiteri non diversi dal Forest Lawn. Aveva sempre fatto la conta delle mancanze e delle attese, nella vita, fino ad arrivare al punto in cui attendere era diventato stupido, perché sapeva già che non sarebbe arrivato niente. Nonostante ciò, lei sedeva sul balcone con un libro di neurologia applicata in grembo, e aspettava. Non riusciva a farne a meno. Forse si trattava di abitudine, di follia, o di una leggera forma di autismo; ciononostante, aspettava.
Brian le colpì leggermente il braccio per segnalarle che la finestra di casa sua era aperta; potevano vedere le tende muoversi sospinte dal vento anche da lì, nel buio pesto del cortile. Il cellulare di Clio vibrò ripetutamente e lei rispose senza dire nulla di preciso, tenendosi la fronte con la mano.
In lontananza, una sirena della polizia risuonava solitaria tra le palme avvolte dall'oscurità.

 

Every smile you fake, every claim you stake, I'll be watching you.
“Dipende.”, gli disse la donna.
Gli occhi di James riuscivano a distinguere il profondo verde di quelli di Elda Fitz nonostante il buio avesse smussato anche la forma dei mobili, nel salotto di casa Haner. Stavano chini, fissavano un gomitolo che sempre più velocemente diventava qualcosa. Una sciarpa. Jimmy scoprì, d'un tratto, che quel che le aveva chiesto non gli interessava davvero: non voleva sapere, voleva parlare. E parlò.
“Non dovranno mai sapere cos'è accaduto durante quelle sette ore.”
L'anziana fermò il lavoro a maglia per rivolgergli un'occhiata che aveva un vago retrogusto di divertimento.
“Cos'è accaduto, James?”, gli chiese, sentendo che lui si aspettava quella domanda.
“Ho visto.”
“Cos'hai visto?”
Alla signora Fitz l'argomento interessava davvero, e per un motivo molto semplice: sentiva chiaramente di star morendo. Forse non sarebbe stata questione di giorni, forse sarebbero passate ancora delle settimane, magari dei mesi, ma lei aveva, per la prima vera volta in vita sua, la netta sensazione di avere i giorni contati. Poteva vedere l'eco di quel sentimento dentro gli occhi calmi in modo innaturale di James, seduto su quel divano come nel confessionale di un prete.
“La vita senza di me.”, disse.
Non c'era bisogno che lei chiedesse cosa intendeva, tanto era chiaro, lampante: un ammasso di fotografie scattate in quella che la gente considera la noiosa quotidianità dell'esistere con un vuoto in qualche angolo. Un posto vuoto a tavola, una sagoma mancante accanto a uno sposo, un buco tra fratelli; quel gap che le persone che perdono qualcuno che amano tendono inconsciamente a lasciare per ricordarsi di un'assenza, mossi dal timore che anche i ricordi, un giorno, cadano nell'oblio. Ci costringiamo a pensare con una costanza ammirevole a ciò che abbiamo irrimediabilmente perso, viviamo infestati dalla memoria, diventiamo martiri volontari di un tempo che fu e che non potrà mai più essere. Nella mente di Clio, che in quel momento si trovava fuori dalla porta con Brian, indecisi se entrare o meno, le immagini erano piene, invece, cariche di significato, senza mancanze, prive di sottintesi, di refusi, di rimpianto. Onda, dopo onda, dopo onda, in una sequenza di stelle cadenti che non erano mai arrivate a terra. Fotografie prive della violenza brutale di uno strappo, ecco cosa c'era nella sua testa: ma James non lo sapeva, e si mosse a disagio sul cuscino del sofà, come punto da un calabrone.
“Sarebbe stata una vita con te comunque, anche se non ci fossi stato, James.”, disse Elda Fitz, riprendendo a tessere la sciarpa arancione, “Il peso della tua assenza avrebbe costituito una presenza ingombrante quanto la tua immancabile presenza; solo, in senso opposto. Gli avrebbe oppresso i giorni, invece di riempirli.”
Stettero in silenzio, ascoltando una chiave girare incerta nella toppa.
“Vedi, James”, disse ancora la signora Fitz, sorridendogli con tutto l'amore paziente di una nonna che ha visto più cose di quante le vada di raccontare, “La vita è come questo lavoro a maglia. Materiale grezzo che, lavorato dalle mani giuste, si trasforma in qualcos'altro. Qualcosa che sa avvolgere, e proteggere dal freddo. L'anima è come un gomitolo di lana, come un violino. Quando non ci siamo più noi a lavorarla per farla diventare qualcosa, per renderla melodia, qualcun altro lo farà al posto nostro. Qualcuno che ha amato il materiale grezzo con la stessa potenza e la stessa inevitabile, soddisfatta stanchezza con cui amerà l'opera finita che ne verrà fuori quando il processo di creazione sarà concluso. Che tu ci creda o no, c'è stata gente a questo mondo che ha visto bellissime sculture nei pezzi di marmo ben prima di poggiarci sopra uno scalpello, quando erano nient'altro che un freddo, inanimato, anonimo blocco di pietra. Se ne sarebbero fatti qualcosa della tua assenza allo stesso modo e con la stessa intensità con cui sono riusciti a trarre meraviglie dalla tua presenza. Certo, il rovescio della medaglia sarebbe stato il dolore.”
“Ne ho le palle piene, del dolore.”
Una voce lieve, spezzata, femminile. La voce di Clio. Tutti e due si voltarono verso la porta e loro erano lì, Brian e Clio, vicini e indecisi come due bambini che sconfinano in un terreno sconosciuto.
“Cosa ci fate qui?”, chiese Brian, sentendosi in dovere di dire una cosa qualunque, possibilmente quella giusta.
Elda Fitz sorrise.
“James voleva sapere da me perché non era disposto a dirvi addio.”
Tutti tacquero, facendo piombare la stanza buia in un silenzio innaturale.
Elda Fitz continuò.
“Immagino avrei dovuto rispondergli perché vi ama, che poi è l'unica cosa logica che si potrebbe dire. Ma amare non è mai stato un concetto semplice. Almeno, non per voi. Per cui, gli ho detto la verità.”
Attese, ma nessuno si decideva a incitarla a continuare. Sbuffò lievemente e fece da sola: “Gli ho detto che sareste precipitati in un gelido, liquido terrore, ma che ve ne sareste fatti una ragione. Che avreste saputo cosa farvene, della sua assenza. Probabilmente l'avreste resa melodia, perché riecheggiasse nei secoli.”
Clio si mosse piano, cercando di ignorare gli occhi spalancati di Brian, e andò a sedersi sul divano accanto a Jimmy. Lui si sporse verso di lei e lei gli poggiò una mano sulla gamba, come James aveva fatto quando l'aveva accompagnata in ospedale: fu un sollievo stupido quello che trovò nell'accorgersi di sentirlo solido, tridimensionale sotto le dita.
“Chi ha capito che ci avreste trovati qui?”
Brian inghiottì un po' troppa saliva e fece un gesto con la testa in direzione di Clio.
“Ah, certo.” soggiunse, sognante, la signora Fitz, “Beh. Gli ho fatto vedere questa sciarpa.”, disse, sollevando il lavoro a maglia, “E gli ho spiegato che la vita e l'eternità che ci portiamo dentro sono così. Niente più che un embrione, un'idea, finché due mani esperte non decidono di renderle qualcosa con un'identità e una funzione. Si preoccupava dell'immortalità dell'anima.”
Clio tenne gli occhi in quelli verdi della donna davanti a sé per un tempo che parve infinito.
“Come si sente, signora Fitz?”, chiese, cauta. Non medico, no. Ragazza.
“Splendidamente, cara. Grazie.”
La tenda si mosse più forte, catturando tutti gli sguardi per una frazione di secondo.
“Bene.”, disse Clio, “Perché mi hanno chiamato dall'ospedale. Hanno trovato il suo corpo nel cortile sul retro, proprio vicino alle scale.”
L'anziana sorrise, come se si fosse appena ricordata di qualcosa di molto divertente: “Ah!”, disse, “Ecco perché quella strana sensazione.”
“Quale sensazione?”, indagò, cauto, Brian.
“La sensazione di star facendo qualcosa per l'ultima volta.”

 

Clio aprì gli occhi di scatto, urlando agghiacciata.
“Hey, hey! Stai giù! Non è nulla! È solo un brutto sogno!”
Con una fatica terribile, ancestrale, mise a fuoco la stanza intorno a sé: era una camera da letto degli ospiti. Quella di Brian. Jimmy, accanto a lei nel letto, aveva un libro dischiuso sul torace.
“E' passato Chris DiBenedetto, prima. Mi ha detto che non so quali agenzie governative di altissimo livello erano state sguinzagliate per la mia fuga dall'ospedale; comunque è tutto ok, ma ho dovuto firmare dieci miliardi di carte. Hai dormito bene?”
Il libro aveva perso il segno: era uno dei suoi, parlava di fisica quantistica e percezione della realtà. Clio aveva un mal di testa terrificante.
Brian entrò fischiettando: “Meno male, temevo di aver interrotto qualcosa. Lo prendi, un po' di caffè?”
La ragazza sbatté le palpebre, infastidita dalla luce che filtrava attraverso le tende.
“Come?”
“Caffè!”, scandì l'altro, quasi urlandole in faccia. Era insolitamente giulivo.
“Sì, grazie.”, disse, confusa, abbandonandosi all'indietro, sul braccio forte di Jimmy.
“Hai avuto un incubo?”, le chiese questi. Clio si voltò. Spettinato. Incredibile. Ricordava ogni dettaglio di quanto era accaduto la notte prima, ma a quanto pare era l'unica.
“Senti, quelle sette ore...”
“E' un bellissimo mattino d'inverno. Dobbiamo proprio parlarne?”
Clio scoppiò a ridere, di fronte alla sua espressione evasiva e per nulla gravata dagli assurdi giorni che erano appena trascorsi. Si sporse a baciarlo, dolcemente, tra la guancia e l'angolo della bocca, in un punto particolarmente morbido del viso.
“No.”, gli disse, “No. Non dobbiamo parlarne affatto, se non ti va. Non dobbiamo fare nulla che non ci vada di fare. Mai più.”
Jimmy sorrise.
“Andiamo di là a prendere il caffè prima che Brian faccia saltare in aria la casa.”
Forse era stato davvero tutto un sogno. Forse avevano bevuto, chi lo sa. Troppo vivido, però. Troppo preciso, troppo colorato, troppo dettagliato per essere soltanto un delirio indotto dall'alcol. Ma che importanza aveva? Mentre uscivano dal letto, le gambe nude di Clio si erano decise che, da quel giorno in poi, sarebbero andate solo ed esclusivamente nella direzione in cui si sentivano di andare. La sua testa, sempre funzionante a temperatura lavica, avrebbe dovuto rallentare e smetterla con tutte quelle domande, quegli algoritmi, quelle ossessioni, che le piacesse o no. Era un nuovo giorno. Un nuovo mondo. Tutto quello che sarebbe stato da lì in poi avrebbe contenuto quanti meno punti interrogativi possibile. Voleva vivere, Clio, senza stare continuamente a chiedersi che ne sarebbe stato o come stavano davvero le cose. Voleva meravigliarsi, e ridere, e bere caffè nel cuore della notte, se le andava, o anche la mattina a casa degli amici. Voleva che la malinconia prendesse un'altra strada, si trasferisse da un'altra parte, perché non avrebbe più avuto tutto quel pensare come invincibile alleato per trascinarla a fondo. Jimmy l'aveva preceduta, sentiva lui e Brian battibeccare in lontananza, quelle loro parole concitate simili a una melodia scherzosa. Forse era davvero stato tutto un sogno, un sogno inquietante e inspiegabile che aveva avuto lo scopo di insegnarle che non tutto, nella vita, può essere scomposto e ricomposto per trovarne il senso profondo fino ad andare al manicomio senza passare dal via. Si sorrise nello specchio del corridoio e spalancò la porta che dava sul salotto.
It's a new dawn, it's a new day, it's a new life for me... and i'm feeling good.”, canticchiò, soave.
Il salotto invaso dalla luce del sole non recava ricordi della notte appena trascorsa. Abbracciò Jimmy da dietro, come spesso faceva. Bevve caffè, mangiò biscotti, chiamò l'ospedale per farsi spostare di turno. Salutò tutti con un affetto intriso di gioia e percorse a piedi la Ocean Lane, inalando il profumo dell'oceano. Magari tutto accade per una ragione, magari no, ma l'unica cosa di cui possiamo essere certi al 100% è che accade. Accade e basta, non vale la pena di perdere il sonno a cercare di capire come mai. Imboccò il vialetto di casa con un cenno di saluto alla vicina che falciava il prato. Una doccia calda, e poi al lavoro, e poi la vita. La vita vera, genuina, la vita che era anche rose, chiese e teorie sulla fisica dei quanti, ma era soprattutto serate fresche accarezzate dal vento, bicchieri di vino e risate senza scopo. Aprì la porta di casa e mollò, come di consueto, il golf e la borsa sulla vecchia poltrona che era stata di suo nonno. Era così presa a pensare al resto della giornata, così piena di gioia immotivata per essersi svegliata accanto a James e aver preso quel banale caffè con quei biscotti ipercalorici che quasi non la vide: sulla pelle marrone e consunta della poltrona spiccava, come una rosa selvatica in un prato di un altro colore, una lucida, brillante sciarpa di lana arancione.
Il bigliettino che la accompagnava era quello dei fiori che le aveva mandato Brian. Whatever, baby. B. diceva. Se lo girò tra le mani, senza sorpresa, senza sgomento, senza orrore. Dietro, vergata con una grafia elegante, da signora, c'era una frase di Robert Lee Frost.
In three words I can sum up everything I learned about life: it goes on.
Prese la sciarpa e la portò al piano di sopra, nel cassetto dei ricordi. Guardò a lungo il cellulare, meditando di chiamare Jimmy e Brian e di dirglielo. Come le avrebbero risposto? Come glielo avrebbe spiegato? E se non se ne ricordassero proprio, del fantasma di Elda Fitz che faceva la maglia nel salotto di Brian? Sorrise, sentendosi scivolare in quell'enigma. Poi scosse la testa. Se era vero che, nella vita, le persone trattavano le assenze come le presenze, allora non c'era ordine nel loro andare nel mondo, né senso in quel che continuamente accadeva. Cosa importava, dunque, trovare una sciarpa tessuta da un morto su una vecchia poltrona? Era vita. Vita che accade, vita che scorre, vita che ti ricorda che, tra le cose che hai e quelle che hai perso o non hai mai avuto, al mondo ci sono sempre state persone che hanno visto sculture nei blocchi di marmo prima di dare anche un solo colpo di scalpello sulla pietra. Decise di non dire nulla, non sapeva neanche perché. Forse un giorno, durante un inverno più freddo di quello, gliel'avrebbero vista al collo e avrebbero detto qualcosa, o magari proprio niente. Magari si sarebbero limitati a guardarla, cercando di rimettere insieme i pezzi di un evento che poteva essere un ricordo ma anche un'illusione, qualcosa di mai davvero accaduto e soltanto immaginato, tanto le due cose finiscono per somigliarsi, man mano che passa il tempo. Mentre apriva l'acqua della doccia, una strana serenità si impossessò di lei. Era il 30 dicembre; l'indomani, il mondo si sarebbe aperto, carico di speranza e di sogni ancora da realizzare, a un nuovo inizio, una nuova era.
“Ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”, sussurrò al vapore acqueo che, lentamente, la avvolgeva.

 

 

 

Forse un mattino, andando in un'aria di vetro
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo
il nulla alle mie spalle, il vuoto
dietro di me, con un terrore di ubriaco
Poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto
ma sarà troppo tardi, ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano
col mio segreto.

- Eugenio Montale




 

 

Allora.
Sentivo di dover scrivere due righe sulla questione.
È sabato sera e non sono del tutto sobria, quindi saranno due righe non filtrate e assolutamente come vengono.
Tutti quanti nella vita attribuiamo la colpa a un sacco di cose per ciò che non va: ce la prendiamo con divinità invisibili, con il caso, con il destino, con le persone che ci circondano e con quelli che ci hanno cresciuti. Elda Fitz è la risposta all'enigma del perché le cose accadono: un enigma a sua volta, oscura e imprendibile e intenzionata a fare un'ultima, ultimissima cosa prima di andarsene, cioè spiegare a James perché era rimasto. Il motivo per cui quest'uomo ha colpito così profondamente il mio immaginario è una lunga quaestio aeterna sospesa tra i fatti miei e quello che tutti sanno. La ragione più comprensibile è che, semplicemente, mi piacciono le anomalie. Le crepe nel muro, i disturbi di frequenza, lo straordinario che fa il nido nell'ordinario, quei piccoli, involontari picchi di poesia di cui la razza umana è capace. Mi affascinano, mi rapiscono, mi irretiscono con la stessa sconvolgente forza con cui da bambina mi attiravano gli aggettivi. La parola ridondante conteneva, per me, più senso di un intero capitolo passato a spiegare il perché della scelta di quella parola. E ancora ancestrale, inqualificabile, solenne, corruttibile, carminio, atipico, gelatinoso, dolceamaro. Gli aggettivi e gli avverbi mi parlavano come a certe persone parla la musica classica e a certe altre la preghiera. Mi sono sempre piaciute le persone-aggettivo, quelle che, con la loro sola presenza, riuscivano a cambiare completamente il senso di un costrutto. Jimmy è una persona-aggettivo, per me. Ecco perché questa volta gli ho scritto una storia il cui senso è racchiuso in quella frase di Elda Fitz: che tu ci creda o no, c'è stata gente a questo mondo che ha visto bellissime sculture nei pezzi di marmo ben prima di poggiarci sopra uno scalpello, quando erano nient'altro che un freddo, inanimato, anonimo blocco di pietra. Il potere illimitato che ci dà la forza di andare avanti, che poi è quello dell'immaginazione; ma immaginazione è un vocabolo dalla definizione imprecisa, inefficace. L'immaginazione, secondo me, è il potere di aggiungere gli aggettivi.
Spero mi capiate.
Detto questo, Forse un mattino è una dedica agli amici, specialmente a quelli che non si rassegnano.
A presto,

Love,
Q.  

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