Homo Homini Lupus. [51th Hunger Games]

di yoyo_whitehole
(/viewuser.php?uid=491686)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pseudo Prologo e paternali barbose. ***
Capitolo 2: *** ALEA IACTA EST. Parte I ***
Capitolo 3: *** ALEA IACTA EST. Parte II ***
Capitolo 4: *** ALEA IACTA EST. Parte III ***
Capitolo 5: *** Biglietto di sola andata ***
Capitolo 6: *** Finché il rosa non si fosse tinto di rosso ***
Capitolo 7: *** Arbeit Macht Frei ***
Capitolo 8: *** È solo un trucco ~ parte I ***
Capitolo 9: *** È solo un trucco ~ parte II ***
Capitolo 10: *** Strateghi e Gamberi ***
Capitolo 12: *** HOMO HOMINI LUPUS ***
Capitolo 13: *** L'unica verità ***
Capitolo 14: *** Numeri ***
Capitolo 15: *** Alba ***
Capitolo 16: *** Fame ***



Capitolo 1
*** Pseudo Prologo e paternali barbose. ***







Pioggia. Se c’era una cosa che Lamelle odiava, era la pioggia.
E se c’era qualcosa che Lamelle odiava più della pioggia, erano le Mietiture con la pioggia.
Sgambettò irritata sul palco, il suo nuovo parrucchino nero a svolazzi pendente tristemente sul viso.
-Distretto 1, buongiorno… Per modo di dire- salutò, urlando per farsi sentire sopra il martellio dell'acqua, senza cercare di nascondere il malumore. La folla di ragazzini la scrutava, grigiastra nella poca luce.
Dopo aversi dovuto sorbire, fradici fino al midollo, lo squallidissimo video di cui Lamelle non aveva mai del tutto colto l'utilità, la pioggia era aumentata dando il colpo di grazia alla sua parrucca.
-Sarete impazienti quanto me di tornare al caldo, quindi non indugiamo!-Lamelle raggiunse la boccia, infilò la mano tra i bigliettini e la rigirò. La sensazione di terribile potere la incantò mentre le sue dita sfioravano i fogli, scegliendo tra nomi, sogni, affetti, vite.
Strinse infine il biglietto e lo aprì. Per un istante Lamelle fece vagare lo sguardo sui volti di qualche ragazzo, spaventato, deciso, orgoglioso. Un tuono, in lontananza. Poi dischiuse le labbra e la sua voce piombò sulla piazza, grave e definitiva come l’ascia del boia…


______________________________________



Buongiorno/sera, popolo di Efp!
Perdonatemi per le due righe banali lì sopra, ma non mi era venuta in mente nessuna idea originale e i prologhi delle interattive sono tutti uguali :( quindi, tanto valeva partire dalla mietitura.
Questa interattiva è molto “interattiva”, perdonate la squallida ripetizione, perché potrete:
  • Creare i personaggi (massimo 2).
  • Essere i loro stilisti, ideando gli abiti di sfilata e intervista.
  • Essere i loro mentori, consigliandoli sulle strategie e le alleanze.
  • Essere i loro sponsor, “comprando” materiale da inviare nell’arena di cui vi indicherò il costo, partendo da un numero di “soldi” per utente prefissato. Naturalmente potrete sponsorizzare qualsiasi tributo, non solamente i vostri.
  • Proporre idee per l'arena.

Tutte queste ipotesi sono facoltative e non dipendono l’una dall’altra, eccezion fatta per la c (necessario aver creato il personaggio per esserne il mentore). Spiegherò meglio più avanti.

Nome:
Distretto:
Età:
Aspetto fisico:

Passato: 
Aspetto caratteriale:
cercate di specificare il più possibile. Una persona non si descrive in tre, quattro aggettivi; potrei arricchirla io nel caso la trovassi irrealisticamente povera, sempre non andando contro le vostre informazioni. Sono particolarmente fissata con la caratterizzazione.
Abilità e caratteristiche:
cercate di essere il più realistici possibile, vi prego. 
Altro: portafortuna, famiglia, robetta varia...


La prenotazione e l'invio delle schede avvengono per messaggio privato.
Grazie a chiunque vorrà partecipare. Ou revoir! (Se si scrive così)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ALEA IACTA EST. Parte I ***


ALEA IACTA EST. Parte I




Distretto 1


"Non è oro tutto quello che luccica; ma bisognerebbe equamente aggiungere che neppure luccica tutto quel che è oro."


Swyd aprì la mano, raccogliendo le gocce d’acqua nel palmo. Lo rilassava, la pioggia. Era facile confondersi nel grigiore e scomparire.
Lamelle, la presentatrice, aveva il biglietto in mano. I suoi occhi socchiusi vagavano imperscrutabili per i volti delle ragazze.
-Gehenna Sunshine Iskra Shinespark-
Calò una cortina di silenzio stranito e teso. Le numerose mani per metà alzate si abbassarono ad una ad una, esitanti.
Swyd capiva bene il perchè. Gehenna. Il solo significato del nome era sinistro e inquietante, la fama della ragazza ancor di più. Nell’arena con Gehenna… L'istinto di scappare via lo ghermì, ma fu un solo istante.
E dove dovrei scappare, dopotutto? Non ci sono via di fuga, non dalla mia vita.
La piazza si era fatta così silenziosa che poté udire ogni passo della ragazza. Avanzò verso il palco, snella e tonica, con lunghi capelli di una particolare sfumatura biondo scuro, quasi color pesca. Sarebbe potuta sembrare anche attraente, finché non si incrociava il suo sguardo.
Si fermò a fianco della presentatrice, sul viso inespressivo l’accenno di un sorriso vacuo. Gli occhi smeraldini, da sopra le occhiaie, erano persi nel vuoto. Swyd tentò di scrutarla, di carpire qualcosa di lei dal suo sguardo fisso e assente, ma non vide nulla. Inquieto, distolse gli occhi dal suo viso.
Lamelle, decisamente di pessimo umore, non degnò alla diciassettenne più di un'occhiata. Fece un passo verso la seconda boccia... Swyd chiuse gli occhi. Era arrivato il momento. Si morse la lingua, ignorando il cuore martellante nel petto, cercando di tornare il più lucido possibile. Difficile, per lui, quando si trattava di Hunger Games.
-Mi offro volontario- gridò, controllando il tono di voce. Sicuro, era così che doveva apparire, da lì a una settimana. Da adesso, sono sotto le telecamere. A dire il vero, da quando era nato si sentiva sotto le telecamere.
Si costruì sul viso un sorriso spavaldo, orgoglioso. Un sorriso da Favorito. Una volta sul palco, Lamelle lo guardò con lo stesso interesse che avrebbe dedicato a un ciocco di legno. -Un applauso ai tributi dei 51esimi Hunger Games!- disse frettolosamente. -Su, su ragazzi, al riparo-
Gehenna spostò lentamente lo sguardo su di lui. Il sorriso della ragazza si era allargato, lasciando intravedere i denti candidi. Un brivido interminabile corse giù per la schiena di Swyd, che quasi si rimproverò. Avrebbe dovuto pensare a qualcos’altro, a suo fratello, alla sua famiglia. A suo padre.


Wonder mi se le mani in tasca, guardando di sottecchi la sua famiglia. Erano tutti in piedi, ad aspettare, dietro quella porta.
-Come… come dobbiamo comportarci, mamma?- mormorò Amethyst.
Diamond sorrise incerta, l’espressione sul viso combattuta tra dolore e paura. -Fatele capire che l’amiamo. Solo questo.-
-Silver- bisbigliò Wonder al fratello maggiore -Secondo te, mamma spera che muoia?-
-No, santo cielo, no- il ragazzo si abbassò per arruffargli affettuosamente i capelli, l’espressione esitante -Ma…- cercò disperatamente qualcosa da dire -La sua vita è sempre stata un inferno... Forse…- gli sfuggì un singhiozzo, e non riuscì a continuare.
-Oh, al diavolo!- disse suo padre, e con un unico colpo deciso aprì la porta. Lei era lì.
Gehenna, in piedi davanti a loro, si stava scrocchiando le dita della mano destra, come faceva sempre. I suoi occhi si spostarono sulla sua famiglia e sorrise contenta. I farmaci rendevano ogni suo movimento un po’ più lento, più innaturale.
A dispetto dell’esitazione di tutti, Wonder corse verso la sorella e l’abbracciò d’impeto. Diamond soffocò un gemito di paura. Non mi farebbe mai del male, avrebbe voluto dirle Wonder. Mai.
Gehenna lo strinse a sé. -Wonderful significa meraviglia.- disse quando l’abbraccio si sciolse, con voce candida e dolce. -Silver, Amethyst. Diamond. Sono nomi che luccicano-. Le sfuggì una risatina -Secondo voi, il mio nome luccica?-
Diamond le poggiò una mano sulla spalla e la guardò con gli occhi lucidi. -Gehenna…» cercò invano qualcosa da aggiungere.
-Cerca di restare controllata. E non toccare assolutamente… forbici- completò per lei Amethyst, decisa. Se c’era qualcuno in quella stanza che non accettava una resa della sorella, era lei. Wonder la guardò con un pizzico di consolazione, sebbene quella frase, rivolta a Gehenna, non avesse alcun senso.
Alla sola parola forbici, la ragazza si era risvegliata. -Le forbici luccicano- mormorò, con un sorriso meno perso di quello che stagnava abitualmente sul suo viso. Per un istante, gli occhi smisero di fissare il vuoto e brillarono di una luce ambigua.
L’espressione di sua madre si fece ancor più terrorizzata. Chiuse gli occhi e la sua stretta della mano sulla spalla di Gehenna divenne ferrea. Disperata.
Wonder capì. Quello che Diamond temeva era rivedere sua figlia, in quell’arena. Rivederla senza farmaci.
Sentire di nuovo la sua risata.



Distretto 2

"Senza problemi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia."

-Alber Einstein


Un cielo grigio e grave incombeva su tutta Panem.
Samuel si passò una mano tra i capelli biondo scuro, lucidi per la cera che li teneva all’indietro, guardando accigliato le nuvole. In tutti i modi aveva sognato la sua ultima Mietitura, ma mai con il brutto tempo.
Espirò profondamente, tirò fuori il suo solito sorriso beffardo e uscì fuori di casa, precedendo i suoi genitori.
Diciotto anni. Era la sua ultima possibilità.
L’ultima possibilità per la sua famiglia.
Si avviò con le mani in tasca, fischiettando un allegro motivetto insensato che stonava con il grigiore diffuso.
L’arena era gremita di gente vestita a festa, ma l’entusiasmo era inevitabilmente smorzato. Anche la presentatrice, sul palco, fissava le nuvole con un pizzico di ansia.
-Sam!- si sentì chiamare, appena fatto pungere il dito per le firme. -Allora?- gli chiese Trent, da sotto la sua zazzera di capelli scuri, con un sorriso concitato.
-Sì- affermò Samuel, come se fosse cosa da niente. Poi diede un’occhiata pigra al cielo -Se proprio deve piovere, quando mi offrirò volontario voglio un tuono. Sarebbe alquanto teatrale, non credi?-
Gli occhi di Trent brillarono in un sorriso divertito. -Sarebbe alquanto terrificante-
Quel giorno, però, il cielo fu clemente. Quando la presentatrice, Ellie Milson, proruppe in un -E ora, finalmente, vediamo chi saranno i nostri tributi nella 51esima edizione!- l’intera piazza vibrava di eccitazione e attesa.
-Walda Mcpone!- chiamò Ellie, stringendo febbrilmente il bigliettino tra le mani.
-Volontaria- Una mano alzata. La folla si divise per lasciar passare una sedicenne. Alta e slanciata, salì sul palco con passo deciso. Sulla schiena, una lunga coda di capelli rosso intenso.
Quando si girò, Samuel poté vederla in volto. Occhi verde chiaro, una spruzzata di lentiggini sul viso, sguardo determinato. A giudicare dall’espressione, era il giorno più bello della sua vita. La capiva perfettamente.
-Qual è il tuo nome, cara fanciulla?- domandò Ellie.
-Scarlett Jackson-
La donna sorrise e si avvicinò all’altra boccia. -Quest’anno vinciamo, oh sì- borbottò soddisfatta.
Concordo, pensò Samuel, ora pesca questo stramaledetto bigliettino.
Seguì il movimento delle sue mani con rapimento, assaporando ogni istante. -Mi offro volontario!- gridò infine, prima che la presentatrice finisse di leggere il nome. Avanzò con passo tranquillo, inseguito da grida di entusiasmo.
Una volta salito, sorrise spavaldo alla piazza in fermento.
-Samuel Narper- si presentò rapidamente. Ellie Milspor, nonostante l’enorme cappello blu, gli arrivava a stento alle spalle.
Sam scrutò la sua probabile alleata con sfavillanti occhi nocciola. Lei stava facendo lo stesso, per nulla intimidita. Si rivolsero un breve, reciproco sorrisetto di sfida.
-Oh, che ragazzo coraggioso- esclamò banalmente la presentatrice, genuinamente felice, prima di salutare il distretto.
Samuel non le prestò ascolto, in un istante dimenticò anche l’avversaria di fronte a lui. Aveva gli occhi pieni di sua sorella. Di com’era quattro anni prima, su quello stesso palco.
Ti vendicherò, promise, vincerò dove tu hai fallito.
Vincerò, vincerò, vincerò.


Scarlett camminava su e giù per la stanza con aria esaltata. Finalmente avrebbe potuto mettersi alla prova. Avrebbe potuto dimostrare chi era, a Panem, ma soprattutto a se stessa.
Sarebbe stato più saggio aspettare qualche altro anno, negli ultimi giorni non aveva smesso di ripeterselo, ma quando aveva visto la presentatrice estrarre un nome l’adrenalina aveva vinto.
Impose alle sue gambe a fermarsi, strinse i pugni e prese un lungo respiro.
Sei qui, sei nei Giochi. Si concentrò su quell’unica frase, calmandosi.
Appena la porta si aprì suo padre piombò su di lei, abbracciandola. Sorpresa, Scarlett subì inerme quell’inusuale gesto d’affetto.
-Scarlett. Scarlett. Non potevi rendermi un padre più orgoglioso- la guardò con gli occhi lucidi. Aveva cercato per anni di convincerla a partecipare ai Giochi, non perdonandosi per non averlo fatto lui stesso, da giovane. Non era stato svelto ad offrirsi volontario, tutto lì.
Sua madre Melyanna le si avvicinò con un sorriso rassegnato, e fu un abbraccio più sincero e più caldo quello che si scambiarono. Eppure, quando la guardò in volto, il vuoto negli occhi della donna sconvolse Scarlett.
-Hai fatto la tua scelta- le disse. La ragazza dovette soffocare un accenno di paura e incertezza che quel tono di voce tanto triste, tanto sconfitto le aveva instillato. Perché sua madre sapeva cos’erano gli Hunger Games. Aveva vinto nella trentesima edizione, e l’idea che sua figlia potesse andare nell’arena l’aveva sempre terrorizzata.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quella situazione, in quella frase.
-Ho fatto la mia scelta- concordò Scarlett -ma non mi sono offerta volontaria per te, papà. Né per te…- guardò sua madre con tutta la determinazione che riuscì a racimolare. -L’ho fatto per me.-
-Tempo- disse un Pacificatore, l’aria annoiata.
-So di poter vincere. So che vincerò- assicurò velocemente ai suoi genitori. Dall’ultimo sorriso che Melyanna le rivolse, capì perfettamente che sua madre non temeva solamente la sua morte. Temeva anche la sua vittoria.
Scarlett fissò per qualche istante il punto in cui la sua schiena era scomparsa, poi annuì al Pacificatore. E quando salì sul treno, il sorriso arrogante che sfoggiava non aveva nessuna incrinatura.



Distretto 3

"L'eterno è immobile, la vera bellezza è nel tocco fugace dell'arcobaleno che, per un istante, ci abbraccia tra terra e cielo."


No. Non lui.
Eppure sembrava proprio che il presentatore avesse detto il suo nome.
Aveva sentito male. Si era distratto, la paura aveva fatto il resto. Certo.
Ma allora, perché la folla si era aperta davanti a lui? Mentre la sua mente realizzava lentamente l’accaduto, il presentatore sembrò perdere la pazienza. –Harvey Lewis Cadwalader- scandì. -Stavolta sono riuscito a dirlo tutto senza annodarmi la lingua, e non ho alcuna intenzione di riprovarci-
Sì, questa volta aveva detto proprio il suo nome.
Harvey si morse la lingua a sangue, facendo il primo passo. Il terrore gli annebbiava la vista. Ma non aveva paura per sé. Aveva paura per i suoi fratellini, David, Cooper, per i piccoli gemelli, per suo padre e la sua sedia a rotelle, per sua madre. Sua madre, il cui stipendio non bastava per mantenere tutti. Beh, forse sì, anche per me.
Non sapeva bene come ci fosse arrivato, ma fu sul palco, di fianco al presentatore.
-Ce l’abbiamo fatta, a quanto pare- concluse l’uomo, un sorriso arzillo sul volto truccato. Harvey, invece, avrebbe trovato più facile sollevare una montagna che gli angoli della sua bocca.
I suoi occhi scuri fissavano la piazza alla ricerca della sua famiglia. Ci ho provato, ce l’ho messa tutta per proteggervi. Non posso fare più nulla. Cercò di ritrovare il suo spirito, di non lasciarsi prendere dalla disperazione. Si accarezzò istintivamente il braccio sinistro, dove, nascosta dalla manica, c’era la sua lunga cicatrice. Un sorriso, è solo un sorriso. Se c’era una cosa che aveva sempre saputo fare, qualsiasi cosa succedesse, era questo.
Ma stavolta era diverso. Non era solo lui ad essere in gioco. Non posso fare più nulla, non posso fare più nulla. Quelle parole rimbombavano dentro di lui come rintocchi funebri.
Sentì qualcuno prendergli la mano. Era una stretta dolce e calma. Si girò verso il tributo femmina del suo distretto, stupito. I suoi occhi scuri si persero in quelli ambrati di Alyson, rassegnati, ma così tranquilli, così sereni. La ragazza aveva quindici anni, ovvero uno più dei suoi, e teneva una margherita tra le dita. –Ciao.- disse semplicemente.
-Ciao- ricambiò meccanicamente Harvey. Il sorriso si era di nuovo formato sulle sue labbra.


Quando la porta si aprì, fu Jasmine ad irrompere nella stanza. Alyson sorrise nel vederla.
L’amica la strinse a sé con disperazione. –Tornerai?- le chiese. Aveva l’aria scoraggiata di chi sa già la risposta.
-Se anche tornassi, non sarebbe per molto- le ricordò dolcemente. Gli occhi di Jasmine lottarono per trattenere le lacrime. –Perché? Perché sei entrata nella mia vita, se… Se…-
Se amare significa soffrire? Sarebbe una frase banale da dire. Eppure non ci entra mai in testa, non è meraviglioso? Io ho sempre amato vivere.
-Avresti preferito il contrario?- domandò. L’amica scosse la testa. –No. No.-
-Anche i ricordi sono doni- disse Alyson, serena. Jasmine annuì e le strinse per un ultimo istante la mano, prima che il Pacificatore la portasse via.
Alyson la guardò scomparire dalla stanza, e dalla sua vita. Poi il suo sguardo cadde sulla margherita che teneva in mano. Era così bella, candida e fine. Sfiorò i morbidi petali con il dito, perdendosi nella bellezza del fiore, e la tristezza si dissipò.
La porta si riaprì ed entrò sua madre. Non disse niente, semplicemente la baciò in fronte, senza tentare di nascondere le lacrime. –Alyson…- mormorò, scostandole la frangetta di capelli castano dorato dagli occhi. Non c’era nessuna disperazione nel suo sguardo. Solo rassegnazione.
Alyson sorrise ai suoi genitori. –Sapevate che sarebbe successo. Dopotutto, sono stati belli, no? Questi quindici anni-
Sentì un singhiozzò di suo padre. –Sono stati meravigliosi. Tu sei meravigliosa-
Alyson lo abbracciò, assaporando quel calore così familiare. Quando si sa che i tuoi istanti sono contati, ognuno diventa prezioso. E lei lo sapeva da sempre.
Passarono quei due minuti semplicemente così, stretti l’uno all’altro, in un amaro, dolce addio.



Distretto 4

"A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati. Saranno esclusi gli specialisti. saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i Piccoli Numeri.
Sarai scelto tu.
Sarò escluso io."

-Primo Levi

 


-E ancora una!- esclamò Stephen, tirando indietro la canna da pesca. L’ombrina scintillò al sole, lanciando una miriade di gocce nell’aria prima di finire sul legno del molo.
Carl mugugnò un non è ancora finita, mentre combatteva con un pesce che non ne voleva sapere di andare a galla.
Stephen guardò soddisfatto il suo cesto, pieno di merluzzi e ombrine. –Mi sa che ti dovrai arrendere. Ho già vinto-
-Oh, andiamo…- sibilò l’amico, tirando la lenza.
-Scommetto un merluzzo che si spezzerà- commentò serenamente Stephen. A dispetto del brutto tempo nel resto di Panem, il sole rischiarava i suoi capelli castani.
-Lo so che stai cercando di distrarmi, brutto pallone gonfiato- disse Carl. Con un ultimo strattone, il pesce saltò fuori dall’acqua e rimase a dimenarsi appeso alla lenza, enorme e gocciolante.
-Questo...- mormorò Stephen –Questo è il cefalo più grande che io abbia mai visto-
Carl sogghignò, ammirando la preda mentre la toglieva dall’amo. –Il destino è triste. Non hai vinto neanche oggi-
Successe in un istante. Il pesce, libero dall’amo, diede un colpo di coda improvviso e cadde sul ponte. Un altro salto, poi un ploff.
Carl rimase con l’amo in mano, e un’espressione sul viso alquanto scioccata.
Dopo qualche istante di smarrimento, Stephen scoppiò a ridere di cuore. –Ah, Carl. Non credo che rivedrò mai qualcosa di così patetico-
Lui lasciò cadere la canna da pesca e crollò seduto sul ponte. –Non sai quanto mi secca darti ragione, Steph- disse ridacchiando. –Ehi, guarda chi c’è-
Stephen seguì il suo sguardo. Un anziano sedeva, all’altro capo del molo, con accanto una ragazza con un’enorme chioma di capelli rossi. Stavano pescando, scuri nell’ultima luce dell’alba.
-Ciao, Coral. Quanti ne hai presi, oggi?- chiese Stephen, sorridendo.
La ragazza gli gettò un’occhiata diffidente. –Come se ti interessasse- rispose, tornando a guardare l’acqua smeraldina.
-E’ così bella- mormorò Carl, con un sorriso sognante.
-E’ così simpatica- concordò Stephen, dando una pacca sulla spalla dell’altro. –Prima o poi riuscirai a farti rivolgere la parola, ne sono certo.-
-Steph- Carl aveva cambiato tono. –Ti offrirai?-
Il ragazzo fece una smorfia, non apprezzando il cambio repentino di discorso.
–No. Non lo farò.- Aveva partecipato agli allenamenti per Favoriti, ma gli Hunger Games non erano affatto nei suoi interessi.


-Che magnifica giornata, nel Distretto 4! Chissà che non sia segno di prossima vittoria?- esordì Yalen, allargando le braccia come ad abbracciare la folla.
Coral scrutò la presentatrice con i suoi occhi verde chiaro. I capelli della donna brillavano di perle argentate, cadendo lunghi sull’enorme vestito d’oro con le maniche a palloncino.
–E ora, il video!-
L’entusiasmo mi soffoca, pensò Coral. Quando finirà questa stupida giornata? Non le piaceva la folla. Troppe persone, troppi occhi puntati su di lei.
Le altre ragazze stavano parlottando tra di loro e, come al solito, nessuno le rivolse la parola. Non che fosse un male.
L’afa era soffocante, ma l’odore di salsedine intenso. Coral si lasciò scivolare addosso quei minuti, ma quando l’ora del sorteggio arrivò, si pentì quasi per la sua impazienza.
-Allora- disse Yalen, mescolando i bigliettini nella boccia. Ne aprì uno.
Coral si morse le labbra. Un istante forse fatale e tutto quello che si può fare è aspettare, le mani in mano.
-Coral… Sahara… Smith- pronunciò teatralmente la presentatrice, guardando poi curiosa la folla.
Per la ragazza, ognuna di quelle tre parole era stata un colpo nello stomaco. Immediatamente, fu al centro dell’attenzione.
Gli attimi passarono, e nessuno si stava offrendo volontario. Coral ricambiò le occhiate con puro odio, poi si costrinse a ignorarle. Ridipinse nella sua mente il sorriso calmo di sua nonna, morta qualche anno prima, e ne trasse forza per avanzare.
Sopra il palco. Guardò il suo distretto impavida, non molto sicura di sentirsi davvero così.
Il suo sguardo si perse sul mare, in lontananza. La pesca con suo nonno, la danza, la sua vita. Avrebbe dovuto dire addio a tutto ciò.
-Carol, sei meravigliosa­- esclamò la presentatrice.
Nessun modo migliore di peggiorare la situazione. La ragazza strinse gli occhi, lo sguardo ribollente ostilità. Mi chiamo Coral, imbecille.
-Passiamo ora al nostro ragazzo- continuò la presentatrice, forse offesa dall’assenza di qualsiasi accenno di risposta.
-Carl Meylon!-
Qualche istante di silenzio. –Vado volontario- disse poi una voce vagamente familiare.
Stephen Williams si fece largo tra la gente.
Coral lo conosceva, seppur vagamente. Uno dei classici ragazzi alti e abbronzati inseguiti da una fiumana di corteggiatrici, tra quelli che più spesso tentavano di fare amicizia con lei.
-Conoscevi quel nome?- chiese Yalen, in un secondo tentativo di far parlare un tributo.
-Sì, certo. Ma sarei andato comunque-
Che sorpresa. Stephen conosceva praticamente tutti, nel Distretto.
-Grandioso- squittì la presentatrice. –Un applauso ai nostri bellissimi tributi-
Stephen le offrì la mano per la simbolica stretta, sorridendole gentilmente.
Coral la accettò, lentamente, lasciando brillare nei suoi occhi quello che avrebbe voluto dirgli. Non mi fido di te.

-Ti prego, promettimi che ce la metterai tutta- Sua madre si morse le labbra, come sempre quand’era nervosa. Era un gesto così dolorosamente familiare che Coral dovette usare tutta la sua forza per impedirsi di piangere.
-Tieni- disse con un sorriso triste suo nonno, porgendole un involto. Coral lo aprì delicatamente, scoprendo un paio di piccole scarpine da danza. La commozione le bloccò la gola per un istante.
-Sono… sue?-
Suo nonno si limitò ad annuire. Coral strinse al petto le scarpine, ancora di dolcezza nel terrore. Nonna. Per un istante, la ragazza fu certa di sentire di nuovo il suo odore. La sua voce, mentre la invitava a danzare.
Ti piace questa musica, vero? Vieni, Coral, ti insegno una cosa.
-Sì, mamma. Ce la metterò tutta.-
Riuscì a sorridere.


 
NOTE DELL'AUTORE RITARDATARIO:



Preparatevi a un lungo discorso sconclusionato.

a) Se di alcuni personaggi avete capito a stento 1% di ciò che pensavano/facevano sono soddisfatta ^-^ non disperate, spiegherò più avanti il loro passato con flashback e roba varia.
b) Aspetto prenotazioni per gli abiti dei distretti. Ricordo (di nuovo) che si possono creare i vestiti per uno o due distretti obbligatoriamente IN BLOCCO. (maschio e femmina)
Stilisti disponibili:
Distretto 3,5,7,10,11,12

c) CI SONO ANCORA TRIBUTI DISPONIBILI.
Ragazze: distretto 10
Ragazzi: distretto 9
DATEMI AL PIU' PRESTO LE SCHEDE DEI TRIBUTI PER IL PROSSIMO CAPITOLO (DISTRETTO 4,5,6,7), SCRIVO IN MAIUSCOLO PER METTERVI FRETTA :)
Chi vuole può creare un terzo tributo.
d) Se _Krzyz si aspetta che scriva qualcosa dal punto di vista di Gehenna, sappia che mi ha messo abbastanza in difficoltà già così o.o No, vabbè, ci penserò.
e) A parte chi me li ha già comunicati, preferirei che aspettaste un poco prima di mandarmi i consigli del mentore del vostro personaggio. Anche per conoscere i tributi: se i favoriti si scoprono una banda di pazzi (... tanto per dire...) io non direi al mio allievo di allearsi con loro, per esempio.
f) Ricordo che potete inviarmi proposte per l'arena, se avete belle idee comunicatemele.
g) Ricordo (uffa) che anche se non avete creato nessun personaggio potrete seguire la storia, sponsorizzare i tributi e proporre arene.
h) Vi spiegherei la sponsorizzazione ma ho tempo e vi ho annoiati abbastanza. Mi sta finendo l'alfabeto D:
l) Recensite se volete, anche perchè ci sono alcuni tributi che non ho la più pallida idea se li abbia descritti bene o abbia scritto bestialità.


Ho finito, per la vostra gioia. Cercherò di aggiornare ogni 4-5 giorni.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** ALEA IACTA EST. Parte II ***


ALEA IACTA EST. Parte II


 

Distretto 5

"Ogni felicità è un'innocenza"

-Margarite Yourcenar

 

-Hazel!- gridò un bambino, dondolandosi su una semplice altalena di corda. La ragazza gliela aveva costruita pochi giorni prima, sul ramo dell’alberello. –Perché tutti dicono che è un giorno speciale, oggi?-
-Jon- mormorò Hazel, che stringeva una bambina per mano –La Mietitura è…- La prova della ferocia dell’uomo. –Un incontro particolare, sì. Chi viene estratto parte per un lungo viaggio-
Il bimbo aggrottò le sopracciglia –Ma poi torna?-
-Certo- confermò dolcemente Hazel, stringendo ancora più forte le mani delle due piccole. Sophie e Daisy. O quel bambino di sei anni di fronte a lei, Jonny. Mancavano anni prima che potessero partecipare alla prima mietitura; ma gli anni passano in fretta.
Ho paura. Questi bambini che non dovrebbero essere nulla per me. Eppure, ho già paura di perderli. Perché?
-Sophie, credo sia il tuo turno- disse Hazel, stavolta nel suo solito tono distaccato. Jon scese malvolentieri dall’altalena, lasciando il posto ad una bambina dai lunghi riccioli biondi. Hazel cominciò a spingerla da dietro, piano. Una quieta tristezza aveva incupito i suoi occhi nocciola.


-Guarda, Arcturus- la voce di suo nonno, quel tono grave e gentile che riesce sempre a rassicurarlo. –Non è successo niente, si è solo ferito a una zampa-
E il bambino guarda, mordendosi il labbro per non piangere. Il piccolo cerbiatto è lì, incastrato tra le radici di un albero, con gli occhi lucidi di terrore. Dalla zampetta scende qualche rivolo di sangue, rosso acceso tra il verde.
Arcturus emette un piccolo gemito. –Muore?-
-No, piccolo. Adesso portiamo delle bende dall’ospedale di mamma, che ne dici?-
Arcturus guarda il viso dolce del nonno e si riempie di sollievo. Pochi istanti, e l’entità oscura, terribile della morte lascia il posto al semplice profumo dell’aria fresca dei boschi.
-E sarai tu a curarlo-

Arcturus si svegliò placidamente, i colori di quel ricordo ancora stampati nella mente. Era un buon auspicio, giusto? La morte avrebbe lasciato anche quel giorno. Qualche ora, poi sarebbe tornato l’odore di terra bagnata, di funghi, e il calore della sua vita.
Anche in virtù di quel pensiero, si alzò subito dal letto e trotterellò verso la cucina, sbirciando i suoi nonni tranquillamente seduti a tavola. Si rasserenò.
-Ciao- salutò in tono leggero, prendendo una fetta di pane.
-Buongiorno, scricciolo- disse Dafne. Non era uno scricciolo, in verità: a quattordici anni, era già alto quanto lei.
-Hai deciso di svegliarti, finalmente- disse sua madre sorridendogli. Nei giorni della Mietitura, sorrideva più spesso, e in modo più falso.
Arcturos salutò i suoi genitori con la mano, la bocca troppo piena di pane e latte per rispondere.
L’ora di andare arrivò presto, come sempre. Quando Arcturus uscì dalla porta, fu accolto da un cielo grigio e piatto. Fece qualche passo, schiaffeggiato dal vento, poi aprì lentamente le braccia lasciando che la sua giacca rossa si gonfiasse d’aria. Per una manciata di istanti si sentì uno strano uccello scarlatto. Rise, chiedendosi che senso avesse. Piccole nuvole di condensa intepidirono l’aria fredda.
Andrà tutto bene.


-Hazel…- perché era così difficile pronunciare il nome di un tributo? Davis si chiese di quale ragazza stesse decidendo il destino. Si chiese se avesse scelto bene, si chiese se il Distretto sarebbe riuscito finalmente a vincere.
Ma la sua voce proseguì imperturbata dai suoi pensieri. –Tanner-
Davis accartocciò il biglietto tra le dita e lo lasciò cadere a terra. Non sapeva cos’altro fare, mentre una ragazza – di quindici anni, ad occhio - si avvicinava al palco. Passo incerto, la bocca socchiusa, le sopracciglia lievemente incurvate all’insù e lo sguardo spaesato. Lo sguardo di chi ha subito una qualche terribile ingiustizia. No, non credo di aver scelto bene.
Il volto di Hazel era pallido sotto i morbidi boccoli, dello stesso castano profondo dei suoi occhi. Carina, timida e incapace, dedusse Davis, poteva andare peggio.
Il presentatore le fece un sorriso di incoraggiamento, sebbene fosse lui stesso scoraggiato.
Non perse tempo e affondò la mano nella seconda boccia, afferrando il primo biglietto in superficie.
-Arcturus Nominem-. Ci furono i soliti istanti di silenzio che Davis aveva imparato a contare, uno per ogni domanda. Quanti Arcturus Nominem esistono nel distretto? Sono proprio io? Perché io? Sbuffò.
Alla fine, un ragazzo si fece avanti, sebbene in modo meno signorile rispetto ad Hazel.
Aveva capelli biondicci che gli cadevano con una frangetta sugli occhi verdi. Era alto, ma dai lineamenti del viso non poteva avere più di quattordici anni. Atterrito, confuso e incapace. Ecco, ora va peggio.


-Avrei voluto fare di più.- Una lacrima scese lenta per la guancia di suo padre –Avrei voluto esserci di più. Vederti crescere, stare con te ogni istante. Dovevo farlo.-
Hazel gli sorrise mestamente, le braccia strette attorno al suo fratellino Maxim.
-Non potevi. Lo sai-
-Avevate bisogno di soldi, sì. Ma anche di un padre. E adesso…- non continuò.
-Più che perdonarti dovrei ringraziarti, papà-. Hazel tacque.
-Adesso cosa fai, Haz? Te ne vai?- una vocina incerta, speranzosa.
La ragazza guardò Max e gli arruffò i capelli sulla testa. Era questo che avrebbe fatto nostra madre? O sarebbe riuscita a consolarlo, a spiegargli…
Avrebbe consolato anche me?
Mi avrebbe spiegato perché mai queste cose devono succedere?
Hazel voleva rispondergli con le stesse parole che aveva usato per Jon, ma la sua voce era fuggita via dalla gola. Sto per piangere?
Guardò la sua famiglia, pensò ad ogni singolo bambino del distretto che aveva accudito. Pensò alle persone che non era riuscita a non amare, e l’idea di doversele lasciare alle spalle la straziò. Ho sbagliato, ho sbagliato di nuovo. E ora soffrirò.
Ventiquattro tributi, ventitré morti. Perché dava per certo che non sarebbe riuscita a tornare?
Ventiquattro tributi, venitré morti. C’era sempre una speranza, giusto?
Giusto?
Dentro di lei, rispose solo il silenzio.


 

Distretto 6

 
"Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione."
 


-Ehi!- si lamentò Xen, con un’occhiata più divertita che risentita al suo topo. Non si morde. Non alla mano che ti nutre, almeno.-
-Lascia stare quell’ingrato, Xen. Preparati- sua madre stava trafficando nell’armadio, alla ricerca di qualcosa di decente da fargli mettere.
Il bambino lanciò un ultimo pezzo di pane al topo, che schizzò nel suo buco. Il motivo di quell’improvvisa fuga non poteva che essere Macchia. Xen accarezzò il pelo rosso e morbido del micio, che gli mordicchiò un dito. Doveva avere un ottimo sapore, la sua mano.
-Xen!- il bambino saltò in piedi. –Sì, sì, ora mi vesto-
Suo padre apparve dalla porta –Piove- sentenziò. Aveva una voce stanca, sebbene quella fosse una delle pochissime mattine in cui non lavorava nella fabbrica tessile.
Sì, pioveva. Xen sperò solo che non scoppiasse una tempesta. Lo attraversò un brivido, al solo pensiero. L'unico tributo sorteggiabile ad avere più paura di un temporale che della Mietitura.   
-Ti aspettiamo qui, dopo, va bene?- disse sua madre, celando la preoccupazione nella voce. Xen annuì. Aveva una sola nomina, le probabilità che fosse estratto erano troppo minime per spaventarlo.
Non aveva mai assistito ad una Mietitura, perciò la calca gli parve mostruosa. Ma a dir la verità, non era mai stato difficile per lui scomparire nella folla.
Scrutò il palco, dove una donna con un vestito di un terrificante rosa shocking e una parrucca di un altrettanto terrificante verde pisello discuteva animatamente con un uomo. Xen fissò le sue scarpette di un arancione vivace a strisce viola. Sarà daltonica?
Ad un certo punto, la donna parve perdere la pazienza e strillò qualcosa. Nessuno la sentì. Un altro grido, poi un fischio acutissimo d’elettricità. Xen si portò le mani alle orecchie. Microfono rotto, constatò. Intirizzito dal freddo, si tirò su il cappuccio per guardare meglio. La presentatrice diede qualche altro colpo al microfono, finché gli stridii strazianti non ridussero la piazza al silenzio.
-Buongiorno!- espirò, praticamente senza voce. Essendo quasi in prima fila Xen riuscì a sentirla. –Questo sarebbe il distretto delle tecnologie? Al diavolo- scoppiò a ridere. Di certo non era una persona irritabile.
Con pochi passi decisi arrivò all’urna, vi tuffò dentro la mano e prese un numero spropositato di bigliettini. Lasciò che cadessero a terra, ad esclusione di uno –Naomi Green- tossì un paio di volte, accettando con cuore il bicchiere d’acqua che le porsero.
Nel frattempo, il nome fu sussurrato da fila a fila, finché non si propagò per tutta la piazza.
Naomi. Xen l’aveva vista, una o due volte. Una ragazza dai capelli neri e splendidi occhi azzurri, sui diciassette anni. Non sapeva di più.
-Mi offro io!- una voce energica e risoluta. Xen, allibito, vide una minuscola dodicenne correre sul palco. Sulle sue ossa doveva esserci più o meno la stessa quantità di carne che si avrebbe ricavato spolpando un pipistrello.
Perché mai…? Naomi era forse sua sorella? Non appena la vide in volto escluse l’ipotesi. Le assomigliava quanto il Sole alla Luna: una zazzera bagnata di capelli castani corti, occhi castani e lunghe sopracciglia aggrottate.
-Chi… Chi sei tu, piccola?- chiese l’accompagnatrice, a metà tra il perplesso e il curioso.
Gli occhi della bambina guardarono fissi la telecamera. –Io sono Momo. Momo Centodue- scandì –E se morirò non avrò rimpianti- Aveva una voce ferma, quasi autoritaria.
Xen si arrovellò cercando di capire. Centodue. Gli unici bambini con dei cognomi del genere, numerati, erano gli orfani che lavoravano e vivevano nei cantieri. “I ragazzi delle 24 ore”, gli pareva fossero chiamati.
-Musica per le mie orecchie!- esclamò la presentatrice, sempre più perplessa che gioiosa. –Ora passiamo al nostro bel bimbo-
Xen respinse l’ondata improvvisa di paura. Non ce n’è ragione, si ripeté.
-Sam…- la donna strinse gli occhi un paio di volte –No, scusate. Xen Miranx!-
Fu un colpo a tradimento. Con la pioggia che scendeva implacabile nella sua faccia, nei suoi abiti e nella sua anima, fece il primo passo. Guardava a terra, concentrandosi sulle sue scarpe che avanzavano tra le gocce. No, no, no, no, no. Parole che gli rimbalzavano in testa una filastrocca senza senso.
-Oh- si lasciò sfuggire la presentatrice, mentre il Distretto si animava di disapprovazione per il secondo tributo dodicenne.
Xen salì il primo gradino, cercando di arginare l’orrore che sentiva inondare tutto il suo essere. Due gradini. Tre.
-Nessun volontario?- chiese la donna. Forse se l’era solo immaginato, ma gli sembrò ci fosse una nota di disperazione in quella voce.
-Bene- rispose poi al silenzio, cercando di ricomporsi con un lungo respiro. –Allora…-
Xen alzò gli occhi da terra e gettò una fugace occhiata alla sua compagna. Le braccia incrociate, Momo Centodue stava guardando la pioggia.
-…Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere in favore di questi due valorosi giovani- disse la presentatrice, ma la sua voce sembrava animata da un sarcasmo cupo. Poi voltò le spalle al distretto e se ne andò dal palco.


Ti voglio bene.
Aspettami, io tornerò.
La bambina firmò con la sua scrittura lenta e squadrata. Non era il massimo, come lettera, ma tanto bastava. I lunghi addii li scrive chi è convinto di non tornare.
La prima ad entrare fu Naomi, che riuscì a sostenere il suo sguardo per un solo momento. Abbastanza per farle vedere le lacrime. –Grazie. E’ una parola stupida, ma non so cos’altro dire.-
-Non l’ho fatto solo per te. Derek ti ama- Tu sei il suo motivo per vivere. E io voglio che viva.
-Non più di quanto ami sua sorella!- esclamò Naomi, combattuta tra gratitudine e disperazione.
-Ma io tornerò- concluse Momo, in tono ovvio.
Silenzio.
Un silenzio pieno di dubbi.
Poi un secondo, fioco “grazie” e la porta si chiuse con un cigolio.
Contrariata da quello scetticismo, Momo si sedette sulla poltroncina lussuosa, con in mano la sua letterina. Ma ebbe neanche un istante per riflettere su come consegnarla a suo fratello, che la porta si riaprì. Momo sapeva che la sua fama fosse grande nel distretto, ma non così.
–Spero non te ne dovrai mai pentire- le disse un rivoluzionario, dello stesso gruppo di aveva fatto parte Derek. Era lui ad aver elaborato il sistema di scrittura cifrato per comunicare tra ribelli. Era lui che scriveva le lettere e gliele consegnava, perché le portasse a destinazione.
Le visite continuarono per ore intere. Il vecchio con il figlio ferito da un Pacificatore, che gli affidava le lettere da portare nel suo ospedale. L’uomo la cui fidanzata era in prigione, dove solo lei sapeva arrivare. E i bambini delle 24 ore del suo cantiere: a tutti fu permesso incontrarla.
Per un istante l’idea di abbandonarli, di non poterli più aiutare la inondo' di un vuoto colpevole. Ma poi l’istante finì: un motivo in più per vincere.
Gli occhi di Momo rimasero valorosamente asciutti fino all’ultima persona. Una bambina di sette anni, Esmeralda, che rimase incerta sulla soglia.
Momo aveva ancora la sua letterina in mano, sconsolata e dimenticata.
–Ciao- la sua voce si era stancata di rassicurare.
-Lo so che vincerai- la interruppe la bimba. Poi le tese la mano –L’avevi lasciato nel dormitorio. Pensavo che ti sarebbe piaciuto portarlo con te-
Sul palmo, luccicava un anellino di semplice metallo, decorato con sottili geometrie incise.
-Grazie- Noemi ha ragione. E’ una parola stupida, che non dice niente.
Sorrise nel metterselo al dito, assaporando il ricordo del bambino che gliel’aveva regalato.
La guardò negli occhi, sicuri e fermi come i suoi, e decise.
-Grazie- ripeté Momo abbracciandola, per celare alle telecamere lo sfiorarsi delle loro mani. Furono due i fogli che le passò: la lettera, e la mappa delle prigioni.
-Portagliela. Portala a Derek- sussurrò. La bambina rimase un istante basita, poi annuì più decisa che mai, stringendo i due foglietti tra le mani. Era tra le più portate, tra le più brave a seguirla nelle sue consegne. Ce l’avrebbe fatta.
-Il Distretto ha bisogno di te- aggiunse in un soffio Esmeralda, chiudendosi la porta alle spalle.
Momo restò sola con il suo anello, impiegando qualche attimo per dare un nome all'inusuale calore la riscaldava da dentro.
Commozione.

Distretto 7

La speranza è un rischio da correre. E' addirittura il rischio dei rischi.

-Georges Bernandos

 
Un lenta musica si alzava lieve dalle ombre dei pini. Un melodia che sapeva di ricordi mai sbiaditi, di malinconia e di speranza.
Di vita.
Il destino gravava incorruttibile e imperscrutabile sul distretto 7. Era il giorno in cui ogni sogno, ogni frammento di allegria, di affetto e di futuro attendeva sospeso nell’aria. Dimenticato, almeno fino al termine di quella giornata, privo di senso alcuno.
Vita e morte. Tutto il resto non era che un soffio di vento nell’uragano.
La musica del flauto cullava triste e quieta la foresta, la luce tenue dell’alba frammentata dalle chiome ondeggianti.
Alek soffiò un’ultima, lunga nota. E tacque.
C’era qualcosa di sbagliato nel suonare, di mattina, pensando a suo fratello. Perché ogni volta lo ricordava come se fosse ancora vivo. Lontano, ma vivo.
E quando la melodia finiva, rassegnarsi alla realtà non era mai facile.
-Suoni bene- una voce schietta infranse il silenzio con malagrazia. –Ma non è il sottofondo ideale per spaccare legna-
Alek si girò, squadrando stupito la ragazza. Gli parve di averla già vista, forse al villaggio dove andava a vendere la legna. Difficile non notarla, a pensarci. Sulla testa aveva una improbabile zazzera di ciuffi castani, cortissimi. La luce del sole, in balia del vento tra le fronde, li faceva risplendere a tratti di riflessi scarlatti. Aveva un viso liscio e fine, da cui spiccavano due allegri occhi azzurri. O forse verdi, Alek non sapeva dirlo con certezza.
-Non sto spaccando legna- rispose alla fine, cauto.
-Ma io sì- detto ciò, la ragazza si passò l’accetta alla mano sinistra, soppesandola. Adocchiato il ramo giusto, portò indietro il braccio e diede un colpo deciso.
Alek la osservò incerto mentre si spazzava trucioli e nevischio dal viso e ritentava. Aveva pantaloncini corti oltre le ginocchia, cosa assurda per qualsiasi persona a sangue caldo del Distretto 7. Stavolta il ramo si piegò e cadde a terra con un tonfo sordo, liberando qualche frammento di neve candida.
Alek ripose il flauto, decidendo che non aveva più niente da fare, lì. Raccolse la sua mastodontica ascia, che doveva pesare bene o male otto volte quella di lei, e si alzò.
Sollevò la mano in segno di saluto. –Comunque, mi chiamo Alek-
Lei lo imitò. –Axe-
Axe. Pochi, dalle sue parti, non conoscevano quel nome.
Circospetto, Alek osservò la mano alzata della ragazza. L’anulare e la prima falange del mignolo erano tranciati di netto. Con un lieve brivido, le rivolse un cenno d’assenso col capo e se ne andò.


Emily Watson, al suo primo anno da presentatrice, guardava la piazza affollarsi spaventata. –Come li saluto?- chiese al mentore del distretto, ottenendo in risposta solo un cenno vago e un’occhiata scettica.
-E’ ora?- domandò sempre più terrorizzata, guardandosi nello specchietto. Decine di fiori colorati le intrecciavano i capelli, e tutto il viso era dipinto con motivi floreali.
Il mentore ridacchiò. -Sì-
Ondata di ansia, poi la presentatrice usci a passettini dall’ombra e guardò la piazza, quasi intimidita. –Allora…- mormorò con il microfono stretto spasmodicamente nella mano –Ciao a tutti- l’ultima parte quasi la sussurrò, bloccata dalle occhiate ostili dei ragazzi.
Emily ingoiò qualsiasi altra frase avesse in mente e prese il primo biglietto ad una velocità sorprendente. –Alek Snowden. Cara, vieni qui-
Seguì un silenzio perplesso. Poi Emily si accorse di aver pescato dall’urna maschile e divenne paonazza per l’imbarazzo. Una risata sciolse l’ansia nella piazza, mentre qualcuno camminava verso il palco. E ora cosa faccio?
Il tributo maschile era un vero e proprio gigante, tant’è che Emily dovette costringersi a non indietreggiare quando la affiancò.
Aveva lineamenti squadrati, capelli biondi e gentili occhi azzurri. Accanto a lei, spiccava come un enorme pilastro di muscoli.
-Oh… Scusami- Prima o poi finirà, questa giornata…
Ripromettendosi che quello sarebbe stato l’ultimo anno da presentatrice – tanto con risultati del genere l’avrebbero licenziata comunque - estrasse il biglietto dalla boccia femminile, mettendoci qualche istante ad aprirlo con le dita sudate. –…Jamie… Abigail Jamie Hiddenwood-
Qualche gemito nella piazza, poi una ragazza avanzò, l’espressione cupa ma salda. Emily sgranò gli occhi nel vedere il taglio assurdo di capelli coperto da un cappellino di stoffa verde, e i pantaloni corti che indossava. Le ginocchia erano sporche e bagnate di neve.
Emily rabbrividì di freddo. –Vuoi.. Dire qualcosa?-
-Sì, ma non sarebbe molto educato- rispose Abigail, sorridendo cortesemente. –E mi chiamo Axe.-
Dato che per sdegnarsi bisognerebbe avere un briciolo di dignità, Emily schizzò via dalle telecamere senza un saluto. Lasciando i due tributi soli, a stringersi la mano, tra il sollievo e la disperazione della piazza.


Dopo aver lasciato la presentatrice a meditare sull’idea del suicidio, Abigail cominciò a misurare a grandi passi la stanza. Per quanto ci si possa preparare all’idea, per quanto se lo si aspetti, la falce della Mietitura prende tutti di sorpresa.
La porta si aprì con un rumore secco, e i suoi otto fratelli si riversarono nella sala. Strinse suo padre con tutte le sue forze, che non erano poche.
-Non so se sia sensato dirlo, ma vi prometto che combatterò. Fino alla fine- Qualunque fine sia.
Lo sguardo di Ezra incontrò il suo viso e si infranse in lacrime. Fu come la ceduta di una diga, e quasi l’intera famiglia cominciò a singhiozzare. –Chi è la femmina, qui?- cercò di ironizzare Axe. Tentativo caduto nel vuoto.
Ethan, il maggiore d’età, le mise una mano sulla spalla. –Fino alla fine- ripeté –…Ce la puoi fare. Ti invieremo gli sponsor, costi quel che costi.- Come abbiamo fatto con Marcus. Ma io non sono Marcus. Io vincerò.
-Alla fine avevo ragione io- disse Axe al padre, con un sorriso lontano. –Se mi fossi lasciata convincere a giocare alle bambole e indossare gonne, non avrei speranza.-
Suo padre le porse qualcosa. Un morbido cappellino, rosso a strisce arancio. Il sorriso di Axe si allargò nell'indossarlo.
-Volevo dartelo per il tuo compleanno- spiegò l'uomo -Noi crediamo in te-
-Sii forte- mormorò Ezra, frenando il pianto. Era il fratello più vicino a lei per l’età. Avevano superato insieme la perdita di Marcus… E delle sue due dita. Quante volte glielo aveva detto, allora? Sii forte. Sii forte.
E lo era stata. Guardò la sua famiglia, lasciando che i suoi occhi dicessero tutto quello che c’era da dire.

 

Distretto 8

Nessuno comprende l’altro. Siamo solo isole; tra noi si inserisce il mare della vita che ci limita e separa. Per quanto una persona si sforzi di sapere chi sia l’altra persona, non riuscirà a sapere niente se non quello che la parola dice – ombra informe sul suolo della sua possibilità di intendere.

-Fernando Pessoa


 
Il cielo scintillava terso e libero da ogni nuvola, nel Distretto 8. Il fumo delle ciminiere saliva in morbide, lente volute, alle spalle del Palazzo di Giustizia.
E del palco.
E del presentatore in un elegante smoking color rosa confetto.
Del bigliettino che teneva in mano. L'uomo socchiuse la bocca, chiuse gli occhi…
-Hai paura, Whys?- chiese Arcaen, accanto a lui.
-Ho una sola nomina. E se sarò estratto mio fratello si offrirà volontario- rispose il bambino piattamente, senza nemmeno guardarlo.
-La dolce donzella che vincerà… Se non morirà...- il presentatore fece una pausa ad effetto. Che durò. E durò. Tutti gli occhi del distretto erano puntati sulla sua bocca socchiusa, troppo in ansia per irritarsi.
-È Amber Hamilton!- proruppe infine l’uomo, portando teatralmente la mano destra sulla fronte, addolorato.
Un mormorio invase la piazza, mentre la ragazza saliva lentamente sul palco, rigida e altera.
-Amber Hamilton! Era la figlia del supervisore dei lavori in fabbrica, vero?-
Whys pensò che in nessun modo avrebbe potuto convincerlo del contrario; quindi tacque.
Erano in pochi a non conoscere quella ragazza. Alta e snella, guardava il distretto con occhi color ghiaccio, e uno sguardo altrettanto freddo. Sotto i fluidi capelli biondi, il suo viso era liscio e pallido come porcellana. Gli ricordava vagamente una statua.
-Meraviglioso- gongolò il presentatore, stavolta in tono innaturalmente smielato. Whys si chiese se li stesse prendendo in giro.
Arcaen aveva finito le idee per continuare la conversazione, e lui non aveva alcuna intenzione di fornirgliele. Il presentatore era già arrivato alla seconda urna. Con fare melodrammatico, immerse la mano tra i fogli e la ruotò con esasperante lentezza.
Whys aveva paura.
Whys non aveva una sola nomina, lì.
Whys non aveva un fratello che si sarebbe offerto volontario.
-Clyph Earles!-
E soprattutto, Whys non si chiamava Whys.
Arcaen lo guardò sconcertato mentre muoveva i primi passi verso il palco.
Clyph Earles. Mi chiamo Clyph Earles. Ci mise qualche istante a riabituarsi all’idea. Non ho paura.
Il panico gli faceva tremare le gambe. Non ho paura.
Avanzò tra i mormorii confusi delle persone che lo conoscevano. Che credevano di conoscerlo. A volte non era sicuro di conoscersi neanche lui.

Amber fissava la porta. Era perfettamente levigata, di un chiaro legno di mogano. Lucidissima per qualche strana vernice che la ricopriva.
E, soprattutto, chiusa.
Amber pensò che avrebbe dovuto sentirsi triste. Spaventata. Disperata. Qualunque cosa.
Invece il vuoto la avvolgeva come una candida nuvola. Forse era sempre stato così, e se ne era accorta solo adesso. Adesso che il destino le imponeva di riflettere, come mai aveva fatto.
Perché lei era vuoto. Una statuina bellissima e altezzosa da ammirare, meritevole dello stesso cordoglio di una bomboniera in frantumi. Era inutile mentire a sé stessi. Lo sei sempre stata.
Fu in quel momento che la porta girò silenziosamente sui cardini, ed entrarono i suoi genitori. Amber li guardò con le ciglia socchiuse, senza sorridere, senza che il vuoto immobile nel suo petto si increspasse.
-Amber, ci dispiace immensamente- La donna era vestita con un elegante abito di seta blu, la scollatura impreziosita da una fine collana di perline.
Era talmente entrata nel ruolo di madre disperata da esser riuscita a cacciar fuori una lacrima. Amber la fissò affascinata, tonda e brillante all’angolo del suo occhio. In attesa che scivolasse lungo la guancia.
Non successe.
Suo padre le scostò i capelli dal viso. –Sei bellissima- disse. Sono cresciuta tra le adulazioni. Morirò tra le adulazioni. E’ questo che mi stai dicendo, padre?
-Ti aiuterà ad ottenere sponsor. Terrai alto in nome degli Hamilton, e del Distretto-
Amber annuì, silente e fredda. Il silenzio di chi non ha niente da dire, né vorrebbe farlo.
Quando la porta si richiuse, la ragazza si sedette sulla poltroncina, sola, com’era sempre stata.
Il suo sguardo si perse oltre la finestra, sul cielo terso.
La vita di una persona si misura nelle lacrime che ne accompagnano la fine, aveva sentito dire.
Forse potrei riuscire a piangere almeno io, prima di morire. Forse.



____________________________________________________________________________________________________________

Spazio bla bla bla:


TRIBUTI AL COMPLETO! Ma vogliatemi bene, inviatemi le schede! :( Me ne mancano parecchie per il prossimo capitolo.
C'è la possibilità che alcuni tributi tornino liberi, se non mi arrivano entro qualche giorno.
Di stilisti disponibili invece ce ne sono parecchi, ma anche qui non ho molte schede. Vero che c'è tempo fino a due settimane prima della sfilata, ma comincio a temere che vi siate dimenticati : / quindi cercate di inviarmele al più presto.
Stilisti disponibili: distretti 7, 10. Non ricordo bene se il 6 era libero, e in caso di no non mi ricordo chi l'abbia prenotato. Non sono il massimo come organizzatrice, lo ammetto.
Per altre informazioni rileggere le note del capitolo precedente.

Quindi. Niente, sono sorpresa di non aver già più niente da scrivere per scocciarvi. Oh, già, adoro le vostre recensioni e tutti voi :)
Il prossimo aggiornamento lo prevedo in un tempo compreso tra 5 giorni e 2 settimane. Frustante, sì? Ringraziate chi non mi invia le schede u.u io mi do' al collaudo di divani, finché non arrivano.
Ho finito, ciaociao, ora evaporo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** ALEA IACTA EST. Parte III ***



ALEA IACTA EST. Parte III




Distretto 9
"Quando gli fu chiesto quale virtù fosse migliore fra coraggio e giustizia, disse che il coraggio non serviva a niente in assenza della giustizia; d'altra parte, se tutti fossero stati giusti, non ci sarebbe stato nessun bisogno del coraggio"
-Plutarco
 
Alex giocherellava con le poche monete che teneva in tasca, frutto di un altro lavoretto onesto. Lo aiutava a scaricare la tensione, quasi palpabile nell’aria fresca della piazza.
C’era qualcosa di strano, nello stare nella fila dei diciassettenni. Ragazzi con una casa , una famiglia, che parlottavano tra loro agitati. Alex osservava il palco e taceva, con la sola compagnia di sé stesso, senza niente a cui aggrapparsi per pensare. Vagabondo, senza posto in cui tornare, senza certezze. Libero da tutto e da tutti. Ridacchiò. Ora sì che penso come un filosofo depresso.
La presentatrice aveva un naso dalla forma vagamente quadrata e rosa confetto, da dove lunghe linee di trucco nero si irradiavano sulle guance. I capelli erano schiacciati sulla nuca e tirati all’indietro, per lasciare scoperta la fronte.
-E sono qui anche quest’anno, che onore!- esclamò, sfoggiando gli enormi denti sporgenti. -Lo sentite?- domandò alla piazza, stavolta a bassa voce. Il ragazzo sospirò. Era uno degli anni in cui voleva tirarla per le lunghe.
-…Questo silenzio…- sussurrò complice –Vibrante di attesa… di pathos… di paure e emozioni che si mescolano nei nostri cuori, indistinte, contradditorie, mutanti…Cercando di trovare un motivo, un pretesto qualsiasi per considerarsi al sicuro- fece una pausa ad effetto, mentre Alex sospirava di nuovo. –Ma nessuno è al sicuro, non oggi-
Poi si staccò improvvisamente dal microfono e aprì le braccia. –Felici Hunger Games!- il suo tono era di nuovo raggiante. Chiuse gli occhi, si portò la mano al cuore e intonò l’inno di Capitol City. Alex alzò le sopracciglia, perplesso. Quello non lo aveva mai fatto.
Finalmente si decise ad andare verso l’urna femminile. Prese la nomina e la sollevò in alto, facendola svolazzare davanti agli occhi del distretti. –Bene, bene…- la aprì lentamente. –Sapphire Catarina… Jayenne? Leggo bene?-
La ragazza si fece avanti. Aveva capelli corvini, pelle abbronzata e, sotto le sopracciglia aggrottate, occhi blu zaffiro.
-Il destino ha parlato- disse lentamente la presentatrice, sorridendo. –Qualcosa che vorresti dire?-
Sapphire attese qualche istante, pensierosa. –Non sapevo che un sorcio potesse essere tanto stonato- disse alla fine, sostenendo senza sforzo lo sguardo scioccato della donna.
-Non capisco cosa intende, signorina- disse rigidamente, rossa in viso.
-Mi chiedevo solo se la somiglianza con un roditore fosse voluta o involontaria- fu la risposta tranquilla. E stavolta, la presentatrice si infuriò. –Non credo che possa permetterti questo atteggiamento. Esigo le tue scuse-
Alex sorrise. Era una scena ridicola, ma la donna non sembrava intenzionata a lasciar correre. –Signorina!-
-Mi scuso per aver offeso i suoi gusti- disse Sapphire abbassando la testa, desolata e servile.
Probabilmente la presentatrice si era accorta di esser presa in giro, ma decise di far finta di nulla. Stavolta non ci furono né vagheggi sul destino né silenzi contemplativi: prese il biglietto tra due dita e si avvicinò al microfono. –Jake McLoran-
Il sole sembrò offuscarsi. Alex rimase immobile mentre il mondo intorno a lui si popolava di ombre. Non Jake.
Si rese conto che, in verità, una casa, una certezza e una famiglia l’aveva sempre avuta. Ed era quel ragazzo ricco che l’aveva sempre aiutato, sempre mantenuto, sempre cercato di fargli abbandonare la vita di strada. Il ragazzo che, adesso, si stava incamminando sul palco.
La sua mente si accavallò di pensieri confusi. Doveva decidere, in fretta, e per sempre.
Poteva continuare la sua vita, vuota e senza senso, tra furti, paura e lavori. Oppure poteva portare colore nel grigio della sua esistenza.
L’idea in qualche modo lo allettava. L’eroismo, l’idealismo, il sacrificio nel nome dell’amicizia erano cose che mai si sarebbe sognato di sfiorare.
Non ho mai guardato oltre il semplice respirare, e adesso…
-Vado volontario!- Jake si immobilizzò sul primo gradino, guardandolo con occhi sgranati mentre correva verso il palco. Quello sguardo, che non aveva mai pensato di incrociare, lo riempì di un sentimento indistinto e strano. Forse paura, forse esaltazione, dubbio, confusione, semplice tristezza.
La presentatrice sorrise, l’irritazione scomparsa dal volto. –Alex Sunshine- la anticipò.
-Il Fato ha scelto. Forse c’è un disegno, dietro le vie del destino… O forse è solo un’illusione, e questi ragazzi non sono che foglie nel vento?- mormorò suadente. –Cercate di trovare una risposta. Al prossimo anno, miei cari-
Strappò la nomina di Jake con un suono secco. Due parti, poi quattro. Alex guardò inquieto i pezzi di carta svolazzare nell’aria, in lenti giri, e ricadere silenziosi sul palco.

Sapphire si maledisse per l’ennesima volta. Le sarebbe stato così difficile rimanere in silenzio, tanto per cambiare? Stupida, stupida.
Si guardò intorno, nella stanza lussuosa del palazzo di Giustizia. Ma come sono finita qui?
Gli Hunger Games erano così lontani dalla sua vita e dal suo interesse che mai considerato l’idea di venire estratta. Lei non apparteneva a quei Giochi, o a Capitol City.
Lei apparteneva al campo di suo padre, al frumento dorato che ondeggiava al vento, al suo mondo.
-Sapphire!- la voce di sua sorella esplose da dietro di lei. Le saltò addosso e Sapphire l’abbracciò con forza, senza lasciare che l’espressione decisa del suo volto si sciogliesse nella confusione, nella paura, nel dolore. Ormai era lì, inutile rimuginarci sopra.
-Sapphire…- fece eco sua madre.
-Papà mi ha detto che devo salutarti. Ma perché devo salutarti? Io non voglio lasciarti- la interruppe Tehrese, la vocina tremante. Perché non trovo niente da dire? Era la prima volta che succedeva. La ragazza tacque.
-Però mamma mi ha comprato un peluche, come mi aveva promesso. Lo vuoi vedere?- andò avanti Tehrese.
-Quale animale è, stavolta?- chiese Sapphire, non trattenendo un sorriso. La sorellina glielo mostrò: un maialino di stoffa, imbottito di paglia. –Lo vuoi tenere? Così è un po’ come se restiamo con te, anche se devi andare… io che è mio, mamma che me l’ha comprato, papà che l’ha convinta a farlo. Così ci ricordi… Ma perché nessuno mi dice dove devi andare?- scoppiò a piangere, sciogliendosi dall’abbraccio.
Sapphire strinse il peluche tra le braccia, cercando di pensare. Ma le parole continuavano a non venire in suo soccorso.
-Perché non mi viene niente da dire, se non che tornerò?- chiese ai suoi genitori. –Io tornerò. Tre settimane, e sarò ancora qui, pronta per la mietitura. Per un altro tipo di mietitura-
-Lo sappiamo- disse suo padre. -Veramente, Sapphire. Non perderemo... Nessuna speranza-
La donna tacque e le diede un lieve bacio sulla fronte.
Eppure Sapphire sapeva che non sarebbe stato così. Una volta là dentro, per vincere sarebbe dovuta diventare qualcun altro. Ma io voglio vivere.
Affrontare persone che la volevano morta. Affrontare l’idea di doverle uccidere. Pagare la sua vita con il sangue altrui, o fissare un prezzo per la sua morte: erano queste le regole.
E Sapphire era pronta a giocare.



Distretto 10

"Per sanare i traumi psichici può bastare l'amore degli altri. Ma per i traumi dell'anima, è indispensabile l'amore per sé stessi."
 
“Non dirai niente, vero, piccola mia? Non dirai niente…” Un sorriso bianco nell’ombra. E Amina tacque.
-Amina, ci sei?- La voce di suo fratello Dray la riscosse. Quando la ragazza aprì gli occhi, la luce di quelle fiamme lontane brillava ancora nei suoi occhi verdi. “…Vero, piccola mia?”
Amina abbozzò un sorriso e annuì, lisciandosi le maniche della maglietta. Lunga, anche se non faceva freddo. Per nascondere i tagli, per nascondere… Me.
-Felicità- approvò il ragazzo. –Beh…- stavolta si rivolse a tutta la famiglia –Non ci resta che augurarci buona fortuna, giusto?-
-Buona fortuna!- esclamò il piccolo Timmy. Amina annuì di nuovo, allungando una mano verso la spalla destra. Accarezzare le piume del suo pappagallino aveva sempre il potere di rasserenarla, ma Koko svolazzò via, infastidito dal vento. La ragazza fischiò: tre suoni corti, uno più acuto. –Ti voglio bene- disse la voce rauca del pappagallo. –Ti voglio bene. Ti voglio bene-
Suo padre sorrise. –Quando sarà finito ti porto al nostro circo, che ne dici, Timmy? Amina ti farà vedere come si addestra una tigre-. Il bambino si morse il labbro contento. –Anch’io voglio addestrare una tigre!-
Ben poca, invece, era l’approvazione di sua madre Patty, nonché sindaco del distretto. –Faremo tardi, a forza di parlare di… Scempiaggini- occhiata penetrante al marito. -Ciao, ragazzi miei-
Difficile capire come una persona come suo padre avesse potuto sposare il disprezzo e la severità di quella donna, né come lei avesse fatto ad accettare la scempiaggine del loro circo. A volte, Amina se lo chiedeva ancora.
Si mise in fila per la puntura, soffiando un fischio lungo e uno più corto. -Felici Hunger Games- gracchiò il pappagallo posandosi sulla sua spalla, solo per essere di nuovo scacciato dal vento.
Non meno in difficoltà era il presentatore che, sul palco, si teneva con una mano le treccine blu in balia dell’aria. –Distretto!- salutò –Sarà meglio sbrigarci, prima che mi cada la parrucca e questi Hunger Games diventino davvero memorabili-
Amina, sola nella fila delle quindicenni, rispose alle occhiate distratte delle ragazze con timidi sorrisi. E’ normale che mi guardino così? Ho qualcosa che non va? Ma certo che aveva qualcosa che non andava. Tutta me.
-Ah, lo dicevo che non era impossibile- il presentatore era finalmente riuscito ad aprire il biglietto con una sola mano, l’altra sempre a trattenere la parrucca. Amina fu quasi certa che quella nomina sarebbe volata via.
-Amina Seen-
Non era volata via.
Amina ebbe paura per un solo istante, poi più nulla. Le sue emozioni scolarono via dall’anima velocemente, passo dopo passo. Quando infine fu sul palco, il vuoto dei suoi occhi e nel suo viso era assoluto. Chi sono? Perché respiro? Dovrei sentire qualcosa? Domande piatte, senza risposta. E perché dovrei volere una risposta?
-Hai qualcosa da dire?- chiese frettolosamente il presentatore, guardando preoccupato al pappagallino verde che lottava contro il vento.
La voce riecheggiò dentro di lei.. “Non dirai niente…Non dirai niente…”
Amina tacque.
L’uomo non sembrò dispiacersene e passò immediatamente al tributo successivo.
-Sono un fenomeno- disse meravigliato, al secondo bigliettino che non gli sfuggì dalla mano. –Matthew Stephenson-
-Vado volontario!-
Qualche istante di silenzio assoluto, poi un urlo -NO! Non puoi farlo! Nathan...- La voce si spense in un sussurro, mentre passi pesanti si avvicinavano al palco.
Amina si girò verso il ragazzo, inespressiva, immersa e cullata dal nulla. Capelli castani lisci, occhi verdi e limpidi.
-Sorprendente. Ci degnerai del tuo nome, ragazzo?- fece il presentatore.
-Nathaniel...- si scandì la voce. -Sono Nathaniel Moore. Distretto 10, vi prometto che mi rivedrete... E non intendo dentro una bara!-
-Com'è simpatico- commentò l'uomo. Dal tono, poteva significare qualsiasi cosa. -Vi chiederei di applaudire per i nostri tributi, ma sono qui da cinque anni e non l'avete mai fatto. Perciò... Felici Hunger Games!-
-Felici Hunger Games!- echeggiò Koko, lugubre. -Felici Hunger Games!-
Amina deglutì. Perché, improvvisamente, faceva tanto freddo?

-Era una mia scelta!- gridò Matthew, furioso, disperato. -Una mia scelta-
Nathan sorrise. -Anch'io avevo il diritto di scegliere. Adesso l'ho fatto.-
Non aveva alcuna intenzione di pentirsene, ma gli occhi del cugino, con tutto il loro dolore, gli iniettarono una tristezza che non provava da anni. Ogni istante diventava più difficile dissimulare il terrore.
Ti sei sempre preso tutte le tessere. Non hai mai permesso che io o tua sorella facessimo la nostra parte. Non potevi costringerci a restare con le mani in mano, in preda ai sensi di colpa, mentre ti vedevamo morire.
Tutto questo Nathan non lo disse. -Tu sei l'unico in grado di mantenere la famiglia.-
-Dannato eroe- mormorò amaramente Annabeth, sua cugina, prima di abbracciarlo con tutte le sue forze.
Sua nonna si limitò a sorridere, triste e dolce. -É inutile disperarsi quando c'é speranza. Si corre il rischio di disperarsi due volte, o inutilmente-
-É inutile disperarsi e basta- aggiunse Nathan. Si corre il rischio di sprecare la nostra vita, di farci male, e far male agli altri. L'aveva imparato molto, molto tempo prima.
Cercò di riportare alla mente il volto dei suoi genitori, ma l'unica immagine che trovò fu la maschera terribile della malattia. Allontanò il pensiero, l'orrore che gli strisciava nel petto. Per qualche istante, si sentì il bambino sperduto di allora, come se niente fosse cambiato in quegli anni... No. Non posso permettermelo. Annabeth gli asciugò dolcemente una lacrima, scivolata lungo la guancia. No...
-Tornerò da voi- disse, controllando il fremito, gli occhi chiusi. Cercando di ritrovare sé stesso. Tornerò. Tutto tornerà come era prima.



Distretto 11
"La speranza, la felicità e la vita sono bellissimi fiori, ma bisogna avere il coraggio di coglierli sull'orlo di un precipizio."


Tic. Tac.
Tic. Tac.
Ronnie aspettava con gli occhi socchiusi l’inarrestabile ticchettare dell’orologio, unico suono nella palude lugubre del silenzio. Unico pensiero nel buio immobile delle prigioni.
Tic. Tac.
Un secondo in meno alle Mietiture. Due.
Una lamina di luce squarciò l’oscurità, e il rettangolo della porta divenne oro. –E’ l’ora. Fuori- una voce rauca dalla sagoma scura del carceriere.
Ronnie tirò un lungo sospiro, poi sorrise e si alzò. Il trambusto cresceva, man mano che le celle si aprivano e si svuotavano. –Honoré?- chiamò, una volta fuori –Kevin?-
Rispose una voce femminile. –Buongiorno, bambolotto. Sono qui- di solito Honoré aveva un tono meno cupo, ma certo non quel giorno.
Ronnie la vide appoggiata alla parete, sul volto un sorriso che non si rifletteva negli occhi scuri.
-Mi chiami ancora bambolotto?- chiese, inclinando la testa. Era da due anni che non glielo sentiva fare. Da quando avevano dato fuoco alla casa del Pacificatore, da quando erano stati imprigionati.
Honoré alzò le sopracciglia. –Ma tu sei un bambolotto- replicò, ironicamente affettuosa, dandogli buffetto sul naso. A detta sua nessuno, vedendolo, riusciva a non pensarlo: innocenti occhi azzurri, capelli biondi e lineamenti infantili, sebbene avesse sedici anni.
–Ho perso di vista Kevin. Sarà già andato, sbrighiamoci- Honoré proseguì per il corridoio e si ritrovarono all’aperto, immersi in una nebbia fine che offuscava il sole.
Il resto dei Dogs era in fila per la colazione. La divisa dei prigionieri era di un grigio sporco, che si confondeva con i colori di quell’alba livida. –Quanto darei per un tiro di erba- mormorò Honoré, sedendosi al tavolo, vicina a suo fratello.
-Quanto darei per qualcosa di commestibile- aggiunse Ronnie, assaggiando una sorta di frullato marroncino sulla cui natura preferiva non indagare.
-Quanto darei per un po’ di silenzio- concluse Kevin, il capobanda, con rabbia. –La Mietitura, gente. E’ la Mietitura. Un’altra, ennesima, Mietitura-
“Non ti senti un idiota, Ronnie?” Gli aveva detto una volta “Combattiamo per gente che accetta gli Hunger Games senza muovere un dito. A volte mi chiedo se dovrei odiare più Capitol City o i Distretti”
–Grazie per avercelo ricordato, Kevin. Caso mai ce ne fossimo dimenticati- lo schernì Honoré, amara.
-Abbiamo perso- la voce spenta di Dylan. –Siamo qui, e neanche una scintilla di ribellione nel Distretto. Né solidarietà, né rabbia. Semplicemente niente-
Era la realtà dei fatti. E Ronnie non sapeva proprio come le cose potessero cambiare.
Non lo sapeva… Fino a quando la voce del presentatore non scandì il suo nome.

Ester corse tra le corsie colorate del mercato di fiori di sua madre, finché non la raggiunse. Riprese fiato, sorridendo con le guance rosse. –Sono… in ritardo, vero?- riuscì a chiedere.
-Molto in ritardo- sospirò la donna. –Non potrò mai convincerti del fatto che trascorrere l’alba della Mietitura nei campi non abbia alcun senso, vero?-
-Vero!- concordò allegramente Ester, schizzando verso la casetta adiacente. Quando ne uscì, indossava un morbido vestito azzurro ricamato con dei fiori viola.
-Connor e Luis?- chiese, sistemandosi frettolosamente i lacci delle scarpette.
-Sono già in piazza. Su, Ester, dobbiamo andare-
Una volta arrivate, Ester ingoiò il sorriso e il suo volto si fece serio. In quel giorno essere felici era un insulto, un torto a chiunque fosse stato estratto. Una vita intera stava per dissolversi nel vento di quella mattina nebbiosa, buttata via come straccio inutile. Crudeltà e stupidità. Non esiste unione peggiore. Ester guardò con astio il presentatore che, sul palco, era già alle prese con la prima urna.
-O signori, sento un biglietto promettente qui…- disse in tono confidenziale, leccandosi le labbra con la lingua.
Ester non osò sperare di non essere lei. C’era qualcosa di irrispettoso e ingiusto nel farlo. Perché non io? Merito di vivere più di chiunque altro? Ma i suoi denti presero a tremare ugualmente, dimentichi di quel pensiero. Già, perché non lei?
-Ester Maddison Wright!-
La piazza sembrò oscillare per un istante. Eppure non fu più difficile che in un qualsiasi incubo, avanzare nella nebbia, la vista offuscata, il mondo che vorticava intorno a lei. Salire sul palco fu straziante, e il groppo che le era comparso in gola le impediva di respirare in modo regolare.
Di fianco al presentatore, cercò di ritrovare la sua forza. Non voglio morire. Non voglio morire. Voleva il frutteto di suo padre, l’odore dolce dei fiori, il campo di suo nonno e i tramonti trascorsi arrampicata sulla grande quercia. Voleva la sua vita, perché l’amava ogni istante di più.
-Cinque anni da accompagnatore, e non ho mai scelto una ragazza brutta! Un applauso, distretto 11!- disse inchinandosi. Ester per un momento fu certa di poterlo uccidere, ma cercò di calmarsi accarezzando la treccia di capelli biondo scuro. –Non voglio morire…- osò sussurrare alla nebbia. Un brivido di freddo la attraversò. O forse era qualcosa più del freddo.
-Siete curiosi di sapere chi sarà il suo cavaliere?-
La piazza, da dietro la foschia, era piena di visi scuri, stanchi, inespressivi. Curiosi non era la parola giusta.
-…Ronnie Dalton!-
Il ragazzo che si materializzò dalla nebbia era bello, molto bello. Biondo, occhi azzurri, viso tondo e liscio. Un lato della bocca era sfregiato da una lunga cicatrice.
-Non mi deludete mai!- esclamò commosso il presentatore. –La stretta simbolica, ragazzi-
Ronnie le offrì la mano, pensieroso, senza guardarla negli occhi.
-E possa la buona sorte…- La nebbia sembrò infittirsi. Una coltre bianca celava la luce del sole.
-Essere sempre..-
Ester guardò il cielo opaco, sentendo qualche lacrima tracciarle solchi bollenti lungo le guance fredde.
-A vostro favore!-
Era tutto così bello, prima.

-Ascoltami. Andrà tutto bene- disse suo fratello Connor, prendendo le piccole mani di Ester tra le sue, enormi e forti da ventitreenne. Neanche in quella situazione riusciva a non trattarla da bambina piccola.
Non era tanto la paura della morte a devastarla, ma uno squallido senso di perdita. Tutto quello che prima era colore, entusiasmo e voglia di vivere stava sbiadendo nel grigio. Era finita. E senza nessun motivo… Ma perché sto pensando a come morirò, e non a come vincerò? Non era da lei.
-Ester- questa volta era suo nonno a parlare. –Non darti per spacciata. Sai usare la falce, conosci le erbe, sei agile. Saprai prendere sponsor. Vivi, Ester, vivi.-
La ragazza lo abbracciò, con gli occhi chiusi, cercando di non pensare a niente.
-Piccola mia- disse suo padre, piano. –Vuoi qualcosa, da portare con te?-
Ester guardò i suoi genitori, improvvisamente decisa. –Non ho bisogno di un oggetto per ricordarmi di voi-
Avrebbe vissuto quello che le restava da vivere nel migliore dei modi possibili. Felice.
Se sprecassi questi pochi giorni nella disperazione, non sarei degna di continuare a vivere.

Ronnie riuscì a soffocare la disperazione senza troppi sforzi. Io ero il più adatto per essere estratto. Non ho niente da perdere, se non anni inutili in prigione. E forse poteva davvero fare qualcosa. Forse.
Poi la porta si aprì. Eric Dalton, suo padre, lo squadrò cupo, mentre gli occhi di sua madre erano pieni di lacrime. Eppure si teneva in disparte, dietro al marito, cercando di non guardare il figlio negli occhi.
Fu a suo padre che Ronnie si rivolse. –Questa faccenda ti dispiace?- chiese –Non azzardarti a dire di sì- Perché Eric Dalton era dalla parte di chi li aveva organizzati, gli Hunger Games. Ronnie riuscì a nascondere il disprezzo della sua voce. Non voleva andarsene gettando rancore sulla sua famiglia.
-Sì, Ron, mi dispiace- rispose, sommessamente. –Ma è così che deve essere.-
Stavolta dissolvere la rabbia fu meno facile, ma Ronnie resistette. C’era un’ultima cosa che avrebbe fatto, prima dell’addio. Doveva, non importava quanto non si sentisse sicuro. Abbracciò sua madre, che cercò di ritrarsi con un gemito stridulo. Il ragazzo non glielo permise e affondò il viso sulla sua spalla. –Non ha alcun senso ormai. Non mi ucciderai, mamma.- le sussurrò. –Non mi ucciderai.- La donna – forse per la prima volta nella sua vita - sembrò convincersene. Lo strinse, prima esitante, poi con disperazione. –Perdonami, perdonami...- singhiozzò.
Era solo una depressione post-partum. Avresti potuto essere una madre magnifica, se non avessi avuto paura.
-Certo che ti perdono- la rassicurò, sentendo la felicità dilagare nel buio della paura –Ti avrei perdonato da subito, se me lo avessi permesso.-



Distretto 12

"La persausione che la vita umana ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono, ma per noi la questione è più semplice.
Oggi e qui, il nostro scopo è arrivare a primavera."

 


-Diana! Lascia perdere-
La ragazza si lasciò la voce di Rina alle spalle, gettandosi all’inseguimento. Il coniglio saltò in cespuglio fitto e continuò la sua corsa. Diana ansimò e lo perse per qualche istante, poi un rumore tra le felci la guidò.
Girandosi a destra, individuò una macchia grigiastra tra le foglie, appena visibile da sotto la neve che cadeva. Schiena contro un albero, incoccò la freccia. E’ mio.
-Più alto il gomito- la voce di Nathan fece sobbalzare il coniglio che, con un ultimo balzo, scomparve.
-Io ti odio- disse Diana stupefatta, mentre il suo sguardo si spostava dalla boscaglia al ragazzo.
Nathan ridacchiò. La brina si stava sciogliendo tra i suoi capelli neri, corti e spettinati. –Bene, la prossima volta ti ricorderai di tenere alto il gomito-
Diana rabbrividì al contatto delle sue mani che le posizionavano il braccio in posizione corretta. Erano innaturalmente calde, in quel mondo innevato. Ignorò il rossore sulle guance e scoccò. Con un suono secco, la freccia si conficcò nella corteccia bianca di un albero, e polvere di neve scese nell’aria.
I suoi occhi verdi incrociarono quelli scuri di Nathan. Fu un bacio goffo, dolce, a fior di labbra. Diana assaporò il suo calore, mentre la neve continuava a scendere, lenta e placida.

Dopo qualche ora, la neve non era né lenta né dolce. Balthasar fissava rosso d’ira la tormenta; migliaia di fiocchi vorticavano incessanti nell’aria grigia. Uscì con il vento che gli fischiava nelle orecchie, intabarrato dal collo ai piedi in una pelliccia più grande di lui. Si tirò giù il cappello, coprendosi completamente la fronte.
Perché non hanno rimandato le mietiture? Perchè non sono loro a prendersi la polmonite, giusto.
Si avvicinò al microfono consapevole di sembrare un enorme orso stizzito.
Il suo mal di gola protestò quando cercò di parlare, quindi decise di saltare a pié pari qualsiasi saluto e prese la prima nomina, impiegando un tempo ridicolo per aprirla con i guanti.
-Diana Jensen- tossì.
Cercò di aprire gli occhi, lacrimevoli per il vento e la neve, poi ci rinunciò. Tanto, con questo tempo, non vedrei neanche a un palmo dal mio naso.
Squadrò la ragazza solo quando la sentì a fianco a sé. Aveva degli occhi verdi e confusi, il viso incorniciato da morbidi capelli rossicci.
-Vuoi dire qualcosa?- la ragazza aprì la bocca -No. Perfetto, procediamo- tossì di nuovo, poi estrasse la seconda nomina.
-Liam.. Appody.- Ma che razza di cognome era, Appody?
Un ragazzo salì con calma glaciale. I suoi capelli mori risaltavano dal bianco della neve, che continuava a vorticare, furiosa e implacabile. -Spero che nessuno dei due parta già con un malanno. E neanche io, magari, quindi diamoci una mossa- mugugnò il presentatore. -Felici Hunger Games, possa la buona sorte eccedera eccedera-

Chiuso in quella stanza, mentre guardava la tormenta di fuori, Liam non poté che pensare al destino innegabile che aveva fatto estrarre la sua nomina. Era così poetico, così drammatico, così denso di significato che lui si trovasse lì, ora.
Il volto di suo fratello continuava a balenargli davanti agli occhi. La sua voce gli riempiva la mente. "È tutta colpa mia, Liam. È tutta colpa mia..."
Le orecchie presero a fischiargli, mentre la nausea gli saliva in gola.
Fu il suono di una porta che si apriva a riportarlo alla realtà.
-Liam!- gridò suo padre, stritolandolo. -Dimmi che non è vero, dimmi che...- stava singhiozzando. Liam aveva voglia di imitarlo, ma non avrebbe fatto che peggiorare le cose.
-Perdonami, figlio mio, perdonami...-
-È stata una mia scelta prendere quelle tessere- cercò di dire, ma sapeva che niente avrebbe potuto lenire i suoi sensi di colpa. Una ridda di pensieri confusi e contraddittori gli riempivano la mente. Non è tua la colpa della nostra povertà, è di Geremy. E non è colpa tua se ora è morto, è colpa mia e solo mia.
Sua madre lo guardò con gli occhi sbarrati. -Geremy...- mormorò -ti prego, non lasciarmi... Ti prego...-
Una stanchezza atona gli appesantì la voce. -Mamma, io sono Liam. Guardami. Lo sai-
Gli occhi della donna si fecero vacui. -No!- strillò istericamente. Il dolore si stava facendo strada dentro Liam. Sapeva quanto fosse crudele riscuoterla dal suo mondo, ma non voleva che lo scambiasse per il fratello anche prima dell'addio.
-Dov'è Geremy?- mormorò spaesata.
-Geremy si è suicidato- sussurrò il ragazzo, piano. La donna chiuse gli occhi e cominciò a piangere, mentre il marito le metteva un braccio intorno alle spalle.
Liam alzò una mano per toccarla, ma cambiò idea. Riportò il braccio sul fianco e chinò la testa. -Io vincerò. Vincerò per lui, per voi, ad ogni costo. Ve lo prometto.-
Hunger Games.
I Giochi ai quali suo fratello voleva offrirsi volontario.
Una punizione del destino per quello che Liam aveva fatto. O un'occasione per riscattarsi, redimersi, mettere a tacere il senso di colpa che da troppi anni lo attanagliava, che da troppi anni cercava di dimenticare.
Liam sentì il peso del segreto gravare sulla sua anima. Voleva dirlo, prima di lasciarli. Dovevano sapere...
-Tempo-
Il ragazzo li guardò andarsene, le parole ancora in attesa sulle sue labbra.



__________________________________________________________________

NOTE DELL'AUTORE CHE STA PER ESSERE LAPIDATO:

Chi non ha mai fatto un ritardo scagli la prima pietra.

13 giorni. Mi sento in colpa D:
Sembra che stia ritardando e allungando ogni capitolo, vedrò di accorciarli (a darmi una mossa) nei prossimi. Ho avuto parecchio da fare.
Le Mietiture sono finite, applauso ai tributi! Sono carucci, sì. Mi sento come se li avessi adottati *-*
Va bene, del ragazzo del Distretto 12 non avrete capito assolutamente nulla e la ragazza non l'ho quasi descritta. Non avevo tempo neanche per rileggerlo, quindi mi impegnerò di più in seguito, su questi due.

Vorrei sapere cosa ne pensate, anche perché non è sempre facile far emergere il carattere con una focalizzazione interna alla terza persona, ma a parer mio è l’unico modo per mostrare la complessità psicologica… *comincia a divagare con i paroloni*
Ho provato a diversificare un po’ le Mietiture, ed è anche questo il motivo per cui ho ritardato il capitolo. (la mia creatività aveva dato sciopero)< Fra poco toccherà alle sfilate (non so se inserire un capitolo sul viaggio in treno o meno). Non voglio farvi aspettare per avere tutti i vestiti, quindi o me li comunicate prima che cominci a scrivere il distretto o li creo io (ahimé. E’ finito lo sciopero?)
Fatemi anche sapere se, dato che quando faccio una previsione per la pubblicazione del capitolo non la rispetto MAI, volete un messaggio di avviso quando finisco.
Grazie a chi recensisce, a chi legge, a chi leggerà e a chi recensirà.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Biglietto di sola andata ***


 
Biglietto di sola andata
____________________________




Distretto 12


Diana si massaggiò le tempie con le dita, cercando di dar pace al mal di testa che la opprimeva.
Non le era molto chiaro come ci fosse finita, in quel treno.
Ma di certo le era chiaro dove la stesse portando.
C’era confusione, tra i suoi ricordi. Devo essere svenuta dopo i saluti. Istintivamente le sue dita sfiorarono il ciondolo a stelle, pensando al sorriso di sua madre mentre glielo dava. Era freddo contro il suo petto.
-Tutto bene?- chiese una voce maschile. Diana aprì di scatto gli occhi: il suo compagno di distretto la stava osservando, pensieroso. Il suo tono era gentile, ma non sorrideva.
Quanto poteva sentirsi bene qualcuno che è stato appena estratto la Mietitura? –Più o meno- mormorò.
Liam si stese sul divanetto, le braccia incrociate dietro la testa. Le dette l’idea di una pantera stravaccata al sole, rilassata e vigile allo stesso tempo.
-Noi due ci conosciamo, vero?- Diana cercò di continuare la conversazione. –Ti ho visto con tuo padre, ogni tanto-
Il padre di Liam aveva una macelleria dove Rina e Nathan erano soliti fare affari, e spesso se la trascinavano dietro.
-Mi pare. Cacci nei boschi, giusto?-
Ringraziandolo per non aver usato l’imperfetto, Diana annuì. Era illegale, ma in quel momento veramente non aveva senso preoccuparsene. Caccio nei boschi. Ricordò la leggerezza di quel bacio tra la neve, solo un giorno prima, e non fu sicura di riuscire a trattenere le lacrime.
Nel silenzio che seguì, però, si rese conto dell’errore. Aveva appena mostrato a quel ragazzo la sua carta migliore.
Diana deglutì, rimproverandosi della sua ingenuità. Ma è così difficile considerare un ragazzo disperato quanto me un nemico… -Cioè, io… Stavo ancora imparando.- cercò di sminuire. Non era mai stata brava a mentire.
-Venivano con te altre persone, di solito. Tuoi fratelli?- chiese ancora Liam, sempre tranquillo.
-No. Amici.- Diana cominciò a tamburellare le dita sul divanetto, ansiosa. Ora che ci pensava, le pareva che ci fosse stato anche un altro ragazzo, nella macelleria. Non lo vedeva da un paio di anni, però. –Tu sei figlio unico?-
Fu una domanda infelice. Gli occhi verde mare di lui si persero oltre il finestrino. -Sì-
-Allora è qui che vi eravate rintanati!- Sulla porta apparve un ragazzo sui diciassette anni, alto e con una massa spettinata di capelli neri.
Liam si mise seduto. –Lei è?-
-Haymitch Abernaty, la vostra unica speranza- disse con un accenno di inchino, poi si accomodò sul divano. –Speranza- ridacchiò, amaramente, poi stappò una bottiglia e bevve un sorso. –E’ quella che pensano di avere tutti, quella che avevo anche io. Sperate di vincere?-
Sì. Diana sentì la mano alzarsi verso una spalla, istintivamente, dove di solito aveva la faretra. Per ricordare a se stessa la sua forza.
-Nessuno vince gli Hunger Games- disse Haymicht. –Capitol City viene incoronata, ogni volta. Puoi pensare di aver vinto, e ritrovarti la tua casa vuota e piena di fantasmi.-
Il ragazzo bevve un altro sorso e fece una smorfia. –E’ amara, questa roba.- concluse, mettendo la bottiglia da parte.
Diana si morse il labbro. – E la gloria, la villetta, il premio in denaro..?-
Le labbra serrate di Haymitch si schiusero in una fragorosa risata.
-Cosa c’è?- fece la ragazza, un po' contrariata. –Sei il primo tributo vincitore della storia del nostro Distretto, dovresti esserne più che contento. E senza dubbio sei anche ricco sfondato.-
Haymitch continuò a ridere finchè non gli mancò il respiro, ma quando smise non sembrava affatto più felice di prima.
-Rispondi a questo, ragazzina: se in cambio della vita di tutti coloro che ti sono più cari ti dessero una casupola, quattro soldi e tanto onore, tu come reagiresti?-
Diana lo fissò interdetta, non sapendo cosa dire. Haymitch annuì mesto, per poi riempirle il bicchiere di vino. –Ti do un suggerimento-



Distretto 1


"Tom, he was a piper's son,
He learnt to play when he was young"
La voce di Gehenna era lenta, vellutata.
"And all the tune that he could play
Was 'over the hills and far away"

Swyd fissava inquieto le dita affusolate di Gehenna muoversi lente sul pianoforte, toccando qualche singola nota dolce.
"Over the hills and a great way off,
The wind shall blow my top-knot off."

Cercava di pensare, di fare chiarezza tra ciò che provava, ma tutto quello che gli riempiva la mente era quella lenta canzoncina.
"Over the hills and great way off, the wind shall blow, my top-knot off..."
Ci fu silenzio per qualche istante. Gli occhioni da pesce di Gehenna fissavano il vuoto davanti a lei, il pallido sorriso che aleggiava sempre sulle sue labbra.
-Sono le mie parole- mormorò con la sua voce soffusa. -Sono le mie parole, volo nell'aria...-
Swyd cercò con tutte le sue forze di ignorarla, fissando il panorama che scorreva via dal finestrino. Si interrogò, cercando di capire cos'era il sentimento indistinto che gli strisciava dentro.
-L'uomo è parole... Che si dissolvono nel vento...-
Per qualche istante si era illuso che fosse speranza, come se ci fosse stato davvero qualcosa che potesse sperare.
-Vento e parole. Ora sento... Il silenzio-
Non era speranza, affatto.
Swyd spostò di nuovo lo sguardo su gli occhi socchiusi di Gehenna. In qualche modo, era sollevato di dover stare in quel treno con una pazza. Non doveva preoccuparsi di cosa farle pensare, di che atteggiamenti assumere. E allo stesso tempo non poterla capire, non poterla inquadrare gli dava dava una spiacevole sensazione di incertezza.
-E nel silenzio... Non siamo... Nulla...- Ogni parola aveva un suono strano sulle sue labbra.
Swyd deglutì. -Noi non siamo nulla- sussurrò. Gehenna gli sorrise, poi suonò qualche nota, piano.
La melodia dolce della canzoncina tornò a riempire la stanza, e Swyd tornò a guardare il finestrino. -Vento e parole- mormorò ancora al vetro, senza un motivo preciso. Vento e parole...
-Oh, questa canzone sì che ispira il sonno- disse poi la voce impastata del mentore, mentre si stiracchiava. -Scusate. Beh, cominciamo. Io mi chiamo Albert, piacere-
Swyd rispose con un cenno. Sicurezza e disinteresse, decise. Sorrise con distacco.
-Suppongo sappiate già come funziona- continuò il mentore. -Mostratevi terribili, fedeli a Capitol City, invincibili... La solita roba. Gli sponsor arriveranno, come al solito, e uno di voi vincerà, come al solito. Io non mi sono offerto per la gloria, mi sono offerto per i soldi. I soldi sono il più grande motore dell'universo, tenetelo a mente.-
Gehenna lo fissò senza guardarlo, senza sbattere le palpebre. Il mentore si accigliò.
-Tu non sei andata volontaria, giusto?-
Non rispose.
-Bene, ora che abbiamo messo a punto una strategia impeccabile e originale, tornerei a dormire. Con permesso.-
Swyd non ebbe occasione di dire una sola parola. Non che gli dispiacesse.
Mancavano poche settimane, e sarebbe stato nell'arena. Si immaginò suo padre mentre guardava severo lo schermo, aspettando di vederlo vincere.
E cosa succederà, se vincerò? Mi adorerà, smetterà di picchiare mia madre, sarà orgoglioso di me?
...Anche se vincerò, non sarà la mia vittoria.

Pensieri senza colore. Perché non me ne importa nulla?
Mio fratello, lui, aveva vinto.
Poi il silenzio si animò di ombre. E di suoni: l'eco fioco di un attizzatoio che calava, calava, calava, e le urla...



Distretto 2


-Quasi lo sento già, sulla testa, il peso di quella corona...-
-Abbiamo una cosa in comune, sembra- replicò Scarlett. Samuel rispose con un occhiolino e un sorriso. Ma avrebbe dovuto essere cieca per non cogliere la minaccia del suo sguardo.
-Allora, ragazzi, non assaggiate nulla del rinfresco?- chiese l'accompagnatrice, scintillante di brillantini.
-Con piacere- disse Samuel, sgranocchiando una fettina di formaggio. Scarlett fece una smorfia.
-La paura di entrare nell'arena ti toglie l'appetito?- la canzonò Samuel. - Non hai capito veramente nulla della vita, ragazza mia-
La ragazza lo fulminò con un'occhiata, poi prese una fetta di salame piccante e se la ficcò in bocca senza cerimonie.
Samuel ridacchiò. -Oh, oh, oh... Devo essermi sbagliato. L'ansia di uccidere fa venire fame-
Scarlett lo guardò. Fisico allenato come il suo, braccia muscolose, fascino pronto per gli sponsor e neanche un'ombra di insicurezza sul viso. Ma non è invincibile, nessuno è invincibile.
E lei lo era?
Scarlett sorrise. Se non fossi destinata a vincere, non sarei nata. Era la frase che si era preparata per l'intervista quella mattina.
Quando parlò, il suo tono non celava la sfida. -Non sarai cannibale, vero? Non ricordo che abbia fatto una bella fine, il cannibale dell'altra edizione-
Samuel sorrise e socchiuse gli occhi, leccandosi le labbra. -Non hanno fatto una bella fine neanche le persone che ha ucciso. Ricordo.-
-I miei tributi!- gongolò la presentatrice commossa. Poi li lasciò soli, a fissarsi in silenzio.



Distretto 3


Harvey inghiottì un dolcetto al limone, con un retrogusto amaro che si adattava perfettamente al suo umore.
Il mentore del Distretto 3 lo fissava pensieroso. -Cadwalder- mormorava tra sé. -Non suona poi tanto male.-
-Cadwalader- lo corresse Harvey. Era così calma e ovattata l'atmosfera in quel treno, che si sentiva immerso in un limbo sereno.
-Bene, Cadwalader. Se la smettiamo di strafogarci di dolcetti forse evitiamo il diabete. Me ne passi uno?-
Harvey sorrise. -No?-
-Saggia risposta- sospirò tristemente il mentore, ravviandosi i capelli bianchi. Aveva vinto una delle prime edizioni, quando ancora gli Hunger Games erano una punizione tremenda e non una frivola festa capitolina.
-Prima di qualsiasi strategia, dimmi... Hai qualcosa per cui tornare?-
Quelle parole lo fecero tornare alla cruda realtà. Certo che aveva qualcosa per cui tornare. -La vita di tutta la mia famiglia- mormorò. -Senza di me...- ammutolì.
Ora che ci pensava, forse i soldi di Capitol City avrebbero potuto aggiustare le gambe di suo padre. L'immagine dell'uomo, in piedi e senza sedia a rotelle, bastò a riempirgli gli occhi di lacrime. Quante volte aveva pregato perché potesse succedere? Quante volte ho pregato di poter fare qualcosa per lui?
A volte i desideri venivano esauditi. Il fato doveva avere un notevole senso dell'umorismo.
-Bene- continuò la voce seria del mentore. -Ricordali. Quando ti scontri con qualcuno, quando cercherai cibo, quando verrai ferito, quando sentirai echeggiare i colpi di cannone... Quando... Uccidi... Devi avere sempre, sempre in mente perché combatti.-
Harvey deglutì, chiedendosi come avrebbe potuto dimenticarsene. E trovò la risposta: nell'arena, non doveva essere troppo difficile perdere la sanità mentale. Sentì le mani tremargli lievemente.
-Ma dove si è cacciata quella.. Alyson, giusto?-
-C-credo sia nel vagone finestra.- disse, alzandosi. Improvvisamente aveva la nausea di quei dolcetti, di quelle parole, di quei pensieri.
Trovò la ragazza dove si aspettava, a guardare la prateria attraverso la cupola di vetro che ricopriva completamente il vagone.
Gli sorrise e Harvey rispose, seppure incerto.
-Non vieni ad ascoltare Jaime?-
-Non credo di averne bisogno- mormorò lei. -Si sta così bene, qui.-
Gli piaceva osservare il sorriso di Alyson. Era tanto quieto e sincero da rasserenarlo.
-Già- concordò, sedendosi vicino a lei.
-Non è bellissimo?- chiese la ragazza, rovesciando la testa all'in sù. Dietro il vetro, il cielo era di un blu cupo e profondo. -Amo questo colore. È così intenso, così vivido. E le nuvole... Hai mai visto due nuvole con la stessa forma?-
Harvey chiuse gli occhi, riuscendo per qualche attimo a non pensare a niente.
-A volte sono veli, strisce candide, altre piccoli batuffoli che riempiono il cielo. A volte sono lontane, irraggiungibili, come se appartenessero a un altro mondo. Altre... Sembra che per sfiorarle, basti alzare un dito...- la sentì prendere un respiro profondo. -È così bello, il mondo in cui viviamo.-
Quando abbassò il viso sorrideva ancora, ma Harvey vide qualche lacrima brillarle agli angoli degli occhi ambrati, e lungo la guancia.


Distretto 4


-Vuoi un pezzo di torta?- chiese Stephen. Coral scosse la testa, e i suoi capelli rossi ondeggiarono con lei. Ma tutti i tributi, in treno, non fanno che rimpinzarsi?
-Ti ricordi ancora come si parla?- Stephen sorrise. -Perchè io non mi ricordo l'ultima volta che lo hai fatto-
Coral sbuffò. -Per favore. Lasciami in pace-
Stephen scrollò le spalle, perplesso, ma prima che potesse risponderle Coral decise di lasciare la stanza. Non aveva intenzione di fare amicizia, meno che mai con qualcuno che avrebbe dovuto uccidere di lì a poco.
Gironzolò tra vagone e vagone, senza saperne bene il perché. Il rombo cupo del treno sui binari riempiva tutto.
Forse sperava di sentire una qualche musica, di poterla seguire nota dopo nota e arrivare al prato dietro casa sua, chiudere gli occhi, danzare.
Riuscì quasi a sentire l'odore di salsedine, il suono delle onde che accarezzavano la sabbia, il vento umido sulle guance bollenti.
-Dove stai scappando?- la voce spazzò via in un solo colpo quell'illusione.
Coral si girò di scatto. -Non sto scappando, e non vedo perché dovrei dirtelo-
-Forse perchè vuoi sopravvivere più di qualche minuto nell'arena?- disse la donna. Era sulla quarantina, aveva occhi castani cupi e fluidi capelli chiari. Coral si ricordò solo in quel momento che era la sua mentore. Stupida, sono una stupida. -La mia era solo un'ipotesi. Allora?- continuò lei.
Tardò a trovare la voce, mentre la disperazione le crollava addosso come un sudario. Non era momento, quello, per vagabondare in giro pensando al passato. In quello stesso treno, c'era chi desiderava ucciderla.
-Più di qualche minuto- rispose, decisa. -Assolutamente-
-Mi sembra un'ottima stanza per una chiacchierata.- La mentore prese posto sul divano viola. Erano alla coda del treno: l'orizzonte, chiaro attraverso i finestrini, non era interrotto da nulla.
Coral si sedette, o meglio sprofondò, su una poltroncina di velluto. Forse sarebbe stata meno tesa se fosse rimasta in piedi.
-Coral Sahara Smith- fece la mentore. Kilia, le pareva si chiamasse. - Hai partecipato agli allenamenti per favoriti?-
-No-
-Hai un fisico abbastanza pronto, però. Cosa sai fare?-
-Ballare- disse neutra, senza abbassare lo sguardo. -E pescare-
-Ballare- lei ridacchiò. -Io alla tua età mi divertivo a tagliare le pinne ai pesci-
Coral guardò la mentore, non sicura di aver capito bene. -Vivi- specificò. Un sorrisetto sognante sul suo volto le confermò che non stava scherzando.
Ti sorprende tanto? Ha vinto gli Hunger Games.
-Quindi suppongo che tu non entrerai nell'alleanza dei Favoriti-
Ancora più diffidente, Coral assentì.
-Ti serve un alleato. Stephen è un Favorito, perciò non ti resta che far conoscenza durante l'addestramento.-
Coral si irrigidì. -Che ci provino, a rivolgermi la parola.-
-Cara, abbi pazienza- rispose tranquilla la donna, mentre tirava fuori un accendino. -Prima di decidere di comportarti da idiota devi solo farmi finire il discorso e i consigli, così quando ti farai ammazzare io non mi sentirò in colpa- spiegò dolcemente, accendendosi la sigaretta.
Le labbra di Coral formarono una linea perfetta. Non dire nulla. Perchè se avesse parlato, in quel momento, non avrebbe detto niente di educato.
-Trovati un alleato, istrice. Cerca di mostrarti affidabile, sincera, leale. Né incapace, né particolarmente pericolosa.-
-Ognuno di loro mi vuole morta- disse gelida, riuscendo a non urlarglielo in faccia.
-Non è un buon motivo per accontentarli-


Distretto 7


La campagna correva a massima velocità dietro il finestrino. Alek non riusciva a guardare altro. Suo fratello aveva viaggiato per quella prateria, per quei boschi, aveva visto lo stesso cielo che adesso vedeva lui.
Ecco cosa provava. Ecco cosa si dovrebbe provare, nel sentirsi liberi.
Alek sentì di non averlo mai capito a pieno solo in quel momento, mentre un treno lo portava dove mai, mai avrebbe voluto andare, e un finestrino mostrava cosa significasse scegliere la propria strada fra mille direzioni possibili.
Suo fratello l'aveva scelta. E non era tornato.
Per me, invece, hanno scelto altri. Ma io... Io voglio tornare.
C'era un prezzo, però.
Lanciò un'occhiata ad Abigail, insolitamente silenziosa, gli occhi fissi sull'interno del suo cappello. La ragazza alzò lo sguardo di scatto. –Ma la nostra accompagnatrice è ancora viva?- chiese accigliata.
-Non ne sono molto sicuro.- La sua voce gli sembrò estranea, nell'atmosfera quieta e carica d'ansia di quel treno.
-Neanche io- disse una vocina incerta. L'accompagnatrice fece timidamente il suo ingresso, seguita dall’unico mentore. Poi abbozzò un sorriso e scappò via.
-Ma guarda- commentò Axe. -Ha un minimo di senso dell'umorismo-
Il mentore la guardò poco interessato. -Come ti sei fatta quello?-
La ragazza portò la mano mutilata davanti al viso e la fissò. -Ho avuto una disputa con la mia ascia… Mi sa che ha vinto lei. Oh, e penso mi interesserebbe più parlare di come uscire viva dall'arena-
Il mentore sospirò. -Mi dai una ragione per cui dovrei aiutarti?-
Qualche istante di silenzio, poi Abigail scoppiò a ridere. -Non ho mai desiderato la mia ascia come in questo momento!-
Alek, per quanto perplesso, non potè fare a meno di sorridere.
-Tu, come ti chiami?- chiese il mentore.
-Axe-
-Axe, sono stati estratti altri ventidue marmocchi. Perchè io dovrei volere che vinca tu, e non chiunque altro? -
Axe sbuffò e sorrise, a metà tra l'incredulo e il divertito, ma l'altro non la lasciò rispondere: -Sì, lo so. Dovete tornare, avete una famiglia, una sorellina malata, un gatto, siete troppo giovani e troppo importanti per morire. Speciali- accennò un sorriso derisorio. -Nessuno è speciale, ficcatevelo in testa.-
Alek lo stava già pensando da sé. C'era un prezzo. Un prezzo di sangue, impossibile da comprendere fino a fondo prima di pagarlo.
Quella che non si fece impressionare fu Abigail, che a quel punto non era più molto divertita. -Sono gli stramaledetti Hunger Games- la sua voce vibrava di rabbia. -Sì è mai parlato di meritare la vittoria? Di essere speciali? Siamo nei dannati Giochi dell'egoismo. Mio fratello aveva un alleato, sapete? Dal Distretto 4. Gli ha piantato un coltello nello stomaco e ora Marcus è morto, mentre l'alleato vive affogato di soldi in una villa. Questi sono gli Hunger Games, un mentore dovrebbe saperlo. Vincere o morire, e nient'altro.-
Di nuovo silenzio. Poi l’uomo scrollò le spalle, e se ne andò.
-Ora sì che sono convinto di potermi fidare di te- ironizzò Alek, mentre la sua mente assorbiva lentamente quelle parole. Era peggio osservare la morte di un fratello in diretta televisiva, o salutarlo una mattina e non vederlo mai più?
Abigail sorrise, stiracchiandosi. –Già. Il discorso sull’egoismo e la ferocia convince tutti-


Distretto 5


Arcturus camminava stordito fra i tavoli dei buffet. C'erano dolci ricoperti di glassa, bicchieri colmi di liquidi di ogni colore, biscotti, salse e altro che non sapeva bene cosa fosse.
Vagamente intimorito, guardò l'enorme lampadario brillante sopra di lui. Sembrava fatto di vetro.
-Cristallo- disse la ragazza, dietro di lui. -Non avevi mai visto un lampadario così?-
Arcturus scosse la testa. -A volte mamma me ne aveva parlato-
Hazel sorrise. -Anche la mia-
La sua voce era fredda, distaccata. Il suo sorriso, però, aveva una punta di dolcezza. Arcturus si sentì improvvisamente meno solo.
-Hazel- sussurrò. Non sapeva cosa dirle. Voleva solo scappare, fuggire da quel treno orribile, e da ciò che lo aspettava. -Non è un incubo, vero?-
Hazel esitò un istante, poi esalò un sospiro. -Non lo è-
Arcturus sentì una specie di sasso duro e gelido in gola. Non che avesse pensato che Hazel avrebbe potuto salvarlo, o consolarlo, ma le speranze assurde erano tutto ciò che gli rimaneva, in quel momento.
Quel pensiero disparve in un attimo, mentre i suoi occhi si posavano su un piattino pieno di mandorle. Mandorle! Finalmente qualcosa che gli era familiare.
Cominciò a mangiucchiarne qualcuna, e un'ombra di letizia tornò a illuminargli gli occhi.
Rincuorato, incrociò lo sguardo di Hazel. Per un attimo gli sembrò di vedervi una specie di malinconica tenerezza, poi lei sbatté le palpebre e tornò neutro.
-Ciao- disse, voltandosi.

Hazel fece un respiro profondo, scacciando dalla mente il viso di suo fratello, che tanto le ricordava quello del suo compagno di Distretto.
Max era molto più piccolo di Arcturus, ma quel ragazzino le sembrava tanto indifeso che le era difficile pensare che avesse solo un anno in meno di lei.
Ed è qui, in viaggio verso la morte, come me.
Non poteva permettersi la compassione, meno che mai l'affetto. Non poteva proteggerlo, non poteva neanche sperare che vincesse, perchè non riusciva neanche a sperare realmente che vincesse lei.
Aprì la porta della sua stanza e ci si fiondò dentro. Seduta sullo splendido letto scarlatto, incrociò le mani in grembo e chiuse gli occhi.
Nel buio delle palpebre, cominciarono a emergere i visi dei bambini che aveva accudito. Max. Suo padre.
Tutti quelli che invece speravano, e che probabilmente avrebbe deluso. Tutti quelli che avrebbe perso.
Per ultima, vide sua madre, e sentì la tristezza dilagare dentro di lei. Non voleva morire. Non così.
Come se volere sia mai servito a qualcosa.


Distretto 10


Nathaniel cercava di ascoltare con attenzione il mentore, ma i suoi occhi continuavano a guizzare sulla sua compagna di distretto. Amina era dall'altra parte della stanza e stava giocando con un accendino, raccattato chissà dove.
Giocare era un termine inesatto. Se ne stava lì a fissare la fiammella, senza nemmeno sbattere le palpebre, immobile.
-...Non si chiamano così per caso. Il cibo è sempre un problema, sempre la prima cosa a cui devi pensare. Senza il cibo sei debole, e se sei debole, sei morto-
Nathan tornò a guardare il mentore. –E’ meglio cercare di.. uccidere, o posso sperare di vincere solo sopravvivendo, nascondendomi?-
-Per sperare, puoi sperare- assentì il mentore.
-Sperare è il mio forte- sorrise Nathan, poi tornò a guardare Amina. Normalmente si sarebbe alzato, avrebbe cercato di fare amicizia, ma il suo sguardo perso gli smuoveva dentro una strana sensazione di inquietudine.

C'era qualcosa di terribilmente magnifico nel fuoco. Amina guardava la fiammella guizzare, danzare al ritmo del suo respiro, vibrante di vita.
Incantata, la ragazza si riempì gli occhi verdi del suo colore. La fiamma era composta di tre parti distinte: il corpo arancio intenso, brillante, una tenue aura dorata e infine il cuore. Il cuore d'ombra, netto e oscuro, che la luce non riusciva a nascondere.
Sentì gli occhi bruciarle, ma non li chiuse. Il suo dito si avvicinò alla fiammella, che tremò appena, riscaldandolo. Sentì il calore diventare acuto, la pelle riempirsi di fuoco...
-Ehi. Amina, giusto?-
La ragazza quasi sussultò, vedendo il ragazzo di fronte a sé. La fiamma dell'accendino si spense di scatto. 
Fischiò. Un suono corto, due lunghi.
-Sono muta- gracchiò Koko, in quel momento mezzo addormentato sul davanzale, poi svolazzò di nuovo verso la spalla della ragazza. Fischio lungo, fischio corto, fischio corto. -Koko parla per me- disse il pappagallo.
Il suo compagno restò interdetto, poi però sorrise e si sedette vicino a lei.
Amina lo guardò vagamente impaurita. Nathan era male. Era un nemico, stare con lui era sbagliato. Non doveva.
-È bellissimo- disse il ragazzo, allungando un dito verso Koko. Il pappagallino saltellò sulla sua mano. Anche quello era sbagliato.
Il ragazzo fece uno sbuffo divertito e gli accarezzò le piume sulla testa. -Conosce molte parole?- chiese.
Fischio breve. -Sì- rispose il pappagallo. Amina ricambiò il sorriso, chiedendosi perchè le stesse parlando, quando lei non aveva parole. Non dirai niente...
Il sorriso del ragazzo si era allargato. Qualsiasi cosa volesse, era male.
Amina si morse le labbra, insicura. Doveva parlare, doveva conoscerlo? Forse.Tutto quello che sapeva era che voleva tornare a guardare il fuoco.
Sebbene il suo volto non mostrasse altro che un sorriso un po' incerto, Nathan dovette intuire qualcosa.
La salutò, e fu di nuovo sola con il suo silenzio.


Distretto 11


-Quindi tu eri in prigione- disse Ester, prendendo la mira. –Come mai?-
-Sicura di volerlo sapere?- ribatté il ragazzo. La leggerezza del suo tono bastò a rassicurarla.
La freccetta si conficcò con un fischio nel bordo del cerchio.
Soddisfatta, Ester si girò verso Ronnie. -Sto migliorando, non vedi?-
Lui alzò le sopracciglia, divertito. -Dovremmo dirlo a Lavigne. Forse tornerebbe qui senza temere più attentati ai suoi occhi-
Ester rise. -Andiamo, non l'ho neanche sfiorata!- lanciò di nuovo.
-Hai presente dov'è il bersaglio, vero?- s'informò Ronnie garbatamente.
La ragazza sbuffò, andandosi a riprendere la freccetta caduta. Quando si chinò, sentì un sibilo sopra di se; il dardo di Ronnie finì a qualche pollice dal centro. Ester sbuffò di nuovo, ma non riuscì a nascondere un sorriso. -Se pensi che finirà qui...-
-Ester- Ronnie aveva cambiato tono. -Vieni qui-
Esitante, la ragazza gli si avvicinò, fino ad essere a un soffio dal suo viso. Lo guardò interrogativa, scostandosi il ciuffetto che le ricadeva sugli occhi.
-Tu odi Capitol City?- più che sussurrare, Ronnie mosse le labbra.
Quelle parole spazzarono via l'atmosfera allegra della stanza. Rimase, strisciante e opprimente, la sensazione di pericolo. C'erano telecamere lì? Probabile.
Odio Capitol City? La risposta aveva il nome dei ragazzi che aveva visto andarsene, il colore del loro sangue, il suono delle loro lacrime.
-Più di qualsiasi cosa-
La ragazza avvertí una lieve vertigine confonderla, perdendosi negli occhi chiari di Ronnie. -La vera domanda è...- sussurrò ancora lui -Quanto sei disposta a sacrificare?-


Distretto 8


Amber sentiva le gocce martellare sulle mattonelle e accarezzarla, deliziosamente calde. Forse era la sensazione più vicina alla felicità che avesse mai provato.
Attese, finché l’acqua non lavò dalla sua pelle tutto ciò che era stata fino ad allora, poi sospirò un’ultima volta e uscì.
Seduta sulla sponda del letto, avvolta dal tessuto morbido dell'accappatoio, immersa nella pace.. Amber chiuse gli occhi.
-Ragassuoli!- disse la vocina dell'accompagnatore da dietro la porta. -Ssarebbe ora di cenare-
Cenare. Almeno in quello, Amber era brava.
Rovistò nell'armadio della stanza, ammirando ogni capo. Alcuni erano un po' stravaganti, altri decisamente di cattivo gusto, ma c'erano anche piccoli capolavori dell'arte tessile. Amber scelse un elegante vestito blu notte, si pettinò i lunghi capelli biondo cenere e fu nel salone cena.
Clyph, il suo compagno di Distretto, indossava ancora la maglietta grigiastra della Mietitura.
Con una smorfia, si sedette accanto a lui.
-Buon appetito!- esclamò l'accompagnatore. Clyph guardò giulivo le olive da sotto il caschetto di capelli castani, poi ne prese una manciata con la mano.
Vedendolo schiaffarsele in bocca, Amber inorridì. -Così mangiano gli animali- disse sprezzante. Clyph non sembrò molto interessato.
-Io ho un gatto- disse poi il bambino, finito di masticare. -E mangerebbe olive solo quando è affamato... Cioè mai- si ingarbugliò.
Amber socchiuse gli occhi, scettica. -Vieni da una famiglia ricca?-
-Quasi- rispose Clyph. -Mamma insegna, papà lavora in industria ed è amico del sindaco, quindi non ci manca niente-
Poi l'espressione giuliva scomparve in un attimo dalla faccia. Cupo, giocherellò con l'ultima uliva rimasta nel piatto. -Non ho fame- disse, alzandosi di scatto.
-Ssignorino!- lo riprese l'accompagnatore.
-Non ho fame- ripeté Clyph, quasi rabbioso, imboccando il corridoio. Perplessa, Amber decise di lasciarlo perdere.
Il suo mentore era seduto di fianco a lei, chino sul tavolo, l'aria assente. Nel Distretto, si sapeva che aveva tentato il suicidio solo un anno prima.
-Salve, io sono Robert Fisk. Trentatreesima edizione- disse stancamente, quando incrociò il suo sguardo.
-Onorata di conoscervi- rispose Amber, con impeccabile cortesia.
-Non scherzare con me, ragazzina- fraintese lui. -C'è qualcosa che sai fare?-
So suonare il pianoforte...
-No, ma so imparare.- Niente di più falso.
-A giudicare dal tuo corpo, non mi sembri adatta ad armi pesanti. Potresti provare con le trappole, sei hai mani abili-
-Coltelli?-
-Ragazzina- la schernì. -Chiunque è in grado di piantare un coltello nella schiena di qualcuno. E veramente pochi riescono a imparare in tre giorni come sopravvivere a un duello, se quel qualcuno è armato... Potresti provare a lanciarli, ma fossi in te mi concentrerei più sulla sopravvivenza-
-Non sono sicura di voler sopravvivere- le sfuggì dalle labbra, parole che non aveva neanche confessato a sé stessa.
Il mentire abbassò gli occhi. -E che consigli vorresti da me?- chiese. -Come morire?-
Amber distolse lo sguardo. -Come dare un senso alla mia morte, forse- mormorò, più che altro a sé stessa.
Perchè la mia vita non l'ha avuto.
-Questo credo non dipenda dai miei consigli- disse Robert. -Ma posso dirtelo? Difficilmente la morte può avere senso-


Distretto 9


L'inno di Capitol City risuonò per l'intero vagone. Sapphire affondò i denti nel dolce, senza distogliere gli occhi dallo schermo dove, da lì a poco, sarebbero apparsi di volti dei tributi.
Alex si sedette di fianco a lei, mentre il programma cominciava.
-Perchè nessuno si è offerto volontario?- chiese Alex, arrivati al Distretto 1.
Dall'espressione, il tributo femminile sembrava o molto scioccato, o molto stupido.
-Gehenna...- mormorò. C'era qualcosa in quel nome che ricordava, ma non riusciva ad afferrare cosa.
Due volontari per il Distretto 2, uno solo per il 4. I Favoriti erano i soliti ragazzoni montati di orgoglio e altre scempiaggini.
In un tripudio di luci multicolori e applausi, finalmente le telecamere puntarono sui Distretti remoti. Quando arrivò al 9, Sapphire si vide mentre avanzava verso il palco con una decisione pari a quella dei Favoriti. Lo schermo mostrò un primo piano del suo viso, poi tagliò immediatamente. La presentatrice, da dietro di loro, strillò: -Mi licenzieranno, per colpa tua!-
-I sensi di colpa mi soffocano- sospirò Sapphire, senza staccare gli occhi dallo schermo. Di certo, cambierai pettinatura e trucco. E il mondo sarà migliore.
-Chi era?- chiese, indicando il ragazzo che si afflosciava sui gradini, mentre Alex si offriva.
-Amico- rispose lui, laconico. Sbuffò, quasi divertito. -Non sapevo che sarebbe mai potuto succedere-
-Che fosse estratto?-
-Che io mi offrissi-
La conversazione cadde, mentre il programma andava avanti.
Un volontario anche per il Distretto 10. –Commovente- commentò. Chissà da dove era uscito, tutto quell'eroismo. Ma eroismo significava coraggio, e coraggio significava un nemico in più da sconfiggere.
Allungò la mano sotto la giacca, accarezzando il morbido tessuto del peluche.
-Ha maglietta e pantalone grigio- osservò, vedendo il tributo dell'11.
-È la divisa dei carcerati di quel distretto. Credo- disse Alex, cupo.
Oh, meraviglioso. Ora sì che il tutto diventava inquietante.
Di nuovo l'inno, poi il servizio finì. La mentore, dietro di loro, battè lentamente le mani. Poi esplose in una fragorosa risata.
Sapphire la guardò perplessa. -Tutti affrontano la morte in modi diversi- disse lei, poi smise di ridere e le lacrime cominciarono a scorrere lungo il suo viso. -Anch'io ho affrontato la morte- il labbro le tremò. -Tante morti!- strillò istericamente, singhiozzando.
Alex alzò le sopracciglia senza dire niente. Sapphire invece aveva parecchi commenti sarcastici che le frullavano in testa, ma per una volta decise di lasciarli dov'erano.
La donna si asciugò le lacrime. -Io mi chiamo Rota e uno di voi due vincerà. O almeno, è quello che continuerò a ripetermi fino alla fine, per non tentare di suicidarmi. Sono stata... Chiara?-
Tutti nel Distretto conoscevano Rota. La vincitrice che non si era mai ripresa dal trauma cranico rimediato nell'arena.
Sapphire non riuscì a capire se la donna, ora, stesse singhiozzando o ridendo. Forse entrambe le cose.
In effetti, io mi sento allo stesso identico modo.



Distretto 6


-Quindi devo nascondermi- disse Xen, con voce flebile.
-Già. È la tua unica possibilità- rispose calmo il suo mentore, sorridendogli. Era un sorriso che ispirava fiducia, il suo. Xen si sentì quasi sereno. -Posso imparare a mimetizzarmi?-
-Puoi provarci- concordò lui. Era giovane, sui venticinque anni. -Ti ricordi tutto quello che ti ho detto sulle piante commestibili?-
-Credo di sì-
Di colpo, Xen sentì crollargli addosso tutta la stanchezza e le emozioni di quel giorno. Aveva solo dodici anni, per quanto cercasse di ignorarlo. Aveva bisogno di stendersi su un letto, chiudere gli occhi, cercare di dimenticare.
-Dai, vai a dormire. Domani non sarà facile-
-Sì. Grazie- mormorò Xen. Si avviò un po' barcollante per il corridoio, cercando di ricordarsi dov'erano gli alloggi dei tributi. Si appoggiò alla parete, consapevole che ogni istante il treno lo portava più lontano dalla sua casa.
-Cosa ci fai qui?- Xen sobbalzò, girandosi verso la ragazzina. Momo Centodue, in qualche modo, si era materializzata dietro di lui.
-Pensavo fossi andata a letto- riuscì a dire. Per quanto ci ragionasse su, Xen non era ancora riuscito a capire niente di lei.
-Ti senti bene?- fece Momo, dubbiosa, guardandolo sempre appoggiato alla parete.
-Sono solo stanco- rispose incerto. Ed era vero. -La mia stanza era di lì, giusto?- puntò il pollice verso destra.
-No, a sinistra. Ti accompagno, se vuoi- Momo, al suo contrario, non sembrava affatto assonnata.
Xen annuì. Forse si sarebbe dovuto alleare con lei, nei Giochi. Era così che si faceva, no? Distretto con Distretto… Però devo conoscerla, in qualche modo.
-Perché ti sei offerta volontaria?- chiese, quasi sorprendendosi della propria audacia.
Momo si morse il labbro, continuando a camminare di fianco a lui. –Un’amica. Non mia, però-
Ora sì che ho le idee chiare. Xen, sempre più dubbioso, ripensò alla scena della Mietitura. Nessuno si era offerto volontario per lui. Era una sensazione orribile guardare il distretto dall’alto, e non trovare neanche una persona in grado di sostenere il tuo sguardo.
Nessuno si era offerto volontario.
Nessuno si offriva volontario, mai.
Guardò di nuovo Momo, stavolta con una sorta di ammirazione. Chiunque fosse Naomi, decise che quella bambina gli stava simpatica.
-Qui, fermo- lo bloccò Momo, indicandogli il vagone. –Grazie. Buonanotte- disse,  sebbene quella non sarebbe stata affatto una buona notte.
Momo sorrise e lo salutò con un cenno.

La notte era vivida e suadente attraverso il finestrino. Dall’interno della sua stanza, Momo continuò a guardarla, poggiando la fronte sul vetro. Se fosse stata nel suo distretto, quella sarebbe stata una finestra. La finestra del dormitorio da dove sgattaiolava via ogni volta, saltando sul ramo dell’albero di fronte.
Il buio la osservava. Momo amava la notte, amava sentirsi diventare un’ombra fra tante. Bambini delle ventiquattro ore, così venivano chiamati gli orfani dei cantieri. Ma lei, delle ventiquattro ore previste, ne passava lì forse la metà.
Era strano essere costretta a dormire, con la notte fuori dal vetro. Ma non poteva fare molto altro, e girovagare per il treno non si era rilevato granché soddisfacente.
Si tolse i vestiti. Prima di mettersi la vestaglia, accarezzò il tatuaggio che aveva sulla schiena: un canarino con le ali aperte, sul punto di prendere il volo. Chiusa in una stanza chiusa e opprimente, dove lo specchio le mostrava soltanto il timbro “102” sul braccio, aveva bisogno di ricordarsi di quel disegno. Di ciò che significava. Io non sono un numero.
Si lasciò cadere di peso sul letto e ci sprofondò dentro. Non aveva mai creduto che potessero esistere cose così morbide.
Giocherellò con il suo anello, cercando di ricordarsi il viso di Joseph mentre glielo regalava. Da quando l’amico era morto, temeva di dimenticarsene.
Pensò a Derek, nella sua cella, che in quel momento sicuramente stava aspettando che sua sorella arrivasse, per portargli una delle solite lettere di Noemi. Si chiese se Esmeralda fosse riuscita a portargli la sua, di lettera. Si chiese se lui avrebbe creduto a quello che gli aveva scritto frettolosamente nella stanza degli incontri. Sì. Derek non è come Noemi, mi conosce. Sa che tornerò.
Si chiese se i bambini dell’orfanotrofio stessero già piangendo la sua morte. Si chiese, si chiese, si chiese, finché decise che non c’era niente di più odioso che restarsene lì, segregata in un vagone a fissare il soffitto, piena di pensieri.
Sbuffò e si girò su un lato, gli occhi persi nel cielo nero, senza stelle, dietro il finestrino.


 


Note deprimenti dell'autore ammalato

Buonasera a tutti, o lettori!
Sono in ritardo ma questa volta non mi sento in colpa. Perchè? Perchè questa settimana mi sono presa tre acquazzoni in testa, ho finito qualche centinaio di pacchetti di fazzoletti e ho la febbre. Ma non vi interessa, quindi passiamo avanti!

a) Lo so, ho fatto il punto di vista di un solo personaggio a Distretto, ma nel prossimo capitolo saranno invertiti. Do not worry.
b) Haymicht veramente ho tirato a caso nell'interpretazione. Ha appena vinto, ha appena perso la famiglia, ha diciassette anni; poteva essere così e il contrario di così.
c) Perdonate per l'html, ci saranno sicuramente errori. Ci ho litigato per un giorno intero, odio l'html.
d) Il capitolo è banale e ho il terrore di aver banalizzato anche i personaggi. Veramente, mi annoio anche a rileggerlo: questi capitoli intermedi non hanno né il pathos della Mietitura né quello dell'arena...
In più è troppo, troppo, troppo lungo. Devo smetterla con l'introspezione. I miei personaggi pensano di continuo, non li sopporto più (?): dal prossimo capitolo tutte queste matasse di pensieri non ci saranno. Perché il treno alla fine è un momento di triste riflessione, più avanti si abituano all'idea e... Il loro carattere sarà mostrato da come si comportano, non da cosa pensano. O almeno ci proverò.
e) Per chiunque se ne sia scordato: potete essere i mentori dei vostri tributi. In ogni momento, da qui all'arena, per messaggio privato, potrete scrivermi cosa viene suggerito al tributo. Con chi provare ad allearsi se vi siete fatti un'idea dei personaggi, su cosa allenarsi all'addestramento, su che strategia adottare in arena, su come mostrarsi a Capitol City. Non è detto che lui vi ascolti, però...
d) Credo di poter aggiornare ogni dieci giorni, ma ormai lo so che non mi credete più :(
e) La mentore del 9, Rota, è stata suggerita da un utente, non è mia.
f) Grazie. A tutti quelli che recensiscono, che leggono, che hanno creato personaggi meravigliosi. Vi ringrazierò ogni volta :)
g) Non vi preoccupate, ho finito. Saluti da yoyo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Finché il rosa non si fosse tinto di rosso ***


 

 

Finc il rosa non si fosse
tinto di rosso

 
♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦

 


Appena Reeva seppe che il carico di tributi era arrivato, si fiondò nella camera da pranzo carica d’emozione.
Quando la donna vide i suoi ragazzi seduti a tavola, ebbe un tuffo al cuore. Sentì la felicità scintillare negli occhi grigio azzurri, e non poté che battere le mani, estasiata. Dai guanti di velluto cadde una pioggerellina di brillantini rosati.
-Ciao!- esclamò, con un sorriso d’incanto –Sono Reeva Dynams, la vostra stilista. Sono sicura che sarà bellissimo lavorare con voi-
Il tributo femmina le lanciò uno sguardo obliquo. –Meraviglioso, direi. Ma azzardati a tingermi i capelli di rosa e giuro che me li strappo ad uno ad uno-
Perché? Non era splendido il rosa? Reeva si accarezzò una ciocca di capelli lilla. –Ma è il colore dei fiori di ciliegio- obiettò dolcemente –Come vi chiamate?-
-Alek Snowden- disse il ragazzo. Era un energumeno, ma aveva capelli biondi e occhi azzurri.. e Reeva amava i capelli biondi e gli occhi azzurri. –Axe- disse l’altra, assaggiando scettica il pasticcio di piccioni.
Osservandola, Reeva rimase un po’ perplessa. Adorava quella tonalità degli occhi, a metà tra il verde e il blu, ma non capiva i capelli tagliati fin sopra la nuca in ciuffi sparsi e le ginocchia scoperte e sudice. -Sei caduta?- chiese. Axe sbuffò.
Reeva prese posto a tavola più sorridente che mai. –Di solito gli stilisti non passano molto tempo con i tributi. Ma è bello stare insieme, no?-
Axe sbuffò di nuovo, e Reeva rise. -Sono sicura che gli abiti che ho disegnato staranno benissimo su di voi!- poi si guardò intorno. –Ma… la vostra accompagnatrice? Dov’è Emily?-
-Quale Emily?- rispose Axe, scrollando le spalle. La stilista le sorrise; com’erano simpatici, i suoi tributi.
Qualche secondo di silenzio. –In cosa consistono…- chiese poi Alek, esitante –i nostri abiti…?-
La stilista, sfolgorante di entusiasmo, tirò fuori uno schizzo. Il mentore del distretto 7, che fino ad allora era rimasto silenzioso a mangiare, guardò prima il disegno, poi i tributi, poi di nuovo il disegno. E scoppiò a ridere di tutto cuore.
__________Distretto 8

Se a Clyph gliene fosse importato qualcosa, avrebbe certo provato pena per il suo stilista.
-Ho preparato questo abito da… Anni! Anni! E dovevi capitarmi proprio tu?-
Era un vestito da principe azzurro: pantaloni e maglietta aderenti, cintura e sandali argentati, e un mantello di tulle celeste. Il tutto fosforescente.
-Sembri un bambino di otto anni!- sbottò lo stilista disperato.
-Ho nove anni- ribatté tranquillamente Clyph. –Ho preso il posto di mio fratello alla Mietitura, perché lui era troppo debole di cuore. Ci somigliavamo tanto. Io mi chiamo Whys.-
-Taci! Quale sfacelo- sospirò di nuovo l’uomo , contemplandolo. –Quale iniquità, quale spreco, quale sciagura…-
Il suo vestito, su di Clyph, sembrava una simpatica caricatura. Era tanto minuto che il mantello l’avrebbe fatto inciampare ad ogni passo, e un principe azzurro che non arrivi nemmeno alle spalle della principessa era da strozzarsi di risate.
-Fra quanto inizierà la sfilata?- Amber si rigirò il cappello rosso tra le mani, senza sollevare gli occhi dal fiore che lo ornava. Dal tono gelido, neanche lei doveva essere entusiasta della figura che stavano per fare.
Lo stilista si ricompose. -Mi dicono che c’è stato un problema con le casse, ma fra una decina di minuti dovrebbero risolvere. Quel tubino...- i suoi occhi si riempirono di lacrime amare. -Quel tubino ti sta d'incanto.-
Amber annuì e si girò verso il carro, lasciando che il velo sottile del suo mantello si sollevasse al buio con uno sfarfallio iridescente. A Clyph dava l’impressione di una ragazzina viziata, altezzosa e arrogante, ma perlomeno non sembrava intenzionata a fare amicizia. Poteva capitargli di peggio.
Guardando lo stilista, fu tentato di chiedergli se si poteva avere informazioni su sua madre. Ma decise che non aveva nessuna voglia di raccontare a quel tipo di come era svenuta nel Palazzo di Giustizia, prima di salutarlo.
Non ho paura, tentò di dirsi. Non funzionò.
Sono troppo intelligente per credere alle mie bugie.
__________Distretto 1

Swyd non riusciva a liberarsi da quella strana sensazione che gli opprimeva la gola. Quando vide Capitol City e realizzò che fra qualche minuto avrebbe fatto il suo ingresso negli Hunger Games, temette di poter piangere.
Quel pensiero che lo spiazzò: si piange solo se si ha veramente qualcosa che conta, nella vita. E lui non aveva mai pensato di averla.
Sbatté le palpebre.
-L'ultima volta che ho pianto avevo sette anni- mormorò a Gehenna. Gli venne da ridere: era la prima volta che provava a confidarsi con qualcuno senza nessun obiettivo, nessun motivo. E aveva scelto una sconosciuta completamente pazza.
-Mio padre aveva rotto due denti a mia madre con un pugno. Io ero lì, mentre urlava. Urlava sempre, quell'uomo, non ho mai capito bene il perchè-
-Le lacrime luccicano- disse dolcemente Gehenna, seduta sul carro con le mani in grempo.
-Nes mi abbracciava, quando succedeva. Mio fratello. Otto anni dopo morì lui, e non piansi-
I colpi dell'attizzatoio tornarono nella sua mente, e non fece nulla per scacciarli. -Sei volte- disse. -Li ho contati. Sei colpi. Sei urla. Poi tornò il silenzio-
-Sei- confermò Gehenna, scoppiando in una tenue risata cristallina. -Sono rimaste sei pasticche. Tutto finisce... Tranne il silenzio-
-Sei... Pasticche?- Swyd sentì una vaga sensazione di gelo. Sperò con tutto il cuore di sbagliarsi.
-Tutto finisce, sei pasticche finiscono... Presto. Sono amare. Ora vedo solo nebbia, mentre quando non le prendo... Il mondo... Luccica.-
 
__________Distretto 9
 
Alex si sfiorò le spighe di grano sul petto nudo. Non sapeva cosa fosse la sostanza appiccicosa che le teneva incollate così, ma di certo non aveva mai sentito tanto prurito.
Per il resto, però, lo avevano conciato in modo accettabile. Pantaloni verde e oro, i capelli ricci al naturale, e una corona di chicchi di mais.
-Oddio- esclamò Sapphire, toccandosi le trecce dietro la nuca, composte in una complessa geometria. –Mi sembra di avere delle forcine anche nel cranio-
La mentore, Rota, le posizionò la corona di spighe di grano intrecciate sui capelli neri. Sorrise. –Alla mia edizione, eravamo vestiti da zappatori. Alla mia edizione… Il mio compagno aveva una falce, si chiamava…- non riuscì a terminare la frase, mentre le lacrime ricominciarono a inondarle il viso. Perlomeno stavolta non urlò.
Alex si girò verso i capitolini. Era uno spettacolo orribile di pettinature sgargianti, risolini, urla acute di eccitazione. Sentì una scarica di odio attraversarlo, fargli formicolare le punta delle dita.
Sono cresciuto nell’odio, per colpa vostra. Sono cresciuto solo, per colpa vostra.
Ricordò i due spari. Il primo, il secondo. Era stato un attimo, una parola in più del dovuto, uno scatto d’ira dei Pacificatori. No, neanche uno scatto d’ira: puro e semplice fastidio.
Le sue iridi color ghiaccio continuavano a vagare per la folla. Guardava capitolini qualsiasi, ma ognuno dritto negli occhi. Non li avrebbe salutati, non avrebbe sorriso. Sono qui per scelta mia, non devo inchinarmi davanti a nessuno. Avevano spezzato le vite dei suoi genitori, ma non la sua. Il ragazzo si portò le mani al petto, grattandosi via quelle stupide spighe di grano.
Mi hanno tolto tutto quello che potevano togliermi, ma morirò sapendo cos’è la libertà.

 
__________Distretto 6

Xen guardava i tributi e pensava. Tecnicamente le sue speranze di tornare erano uno su ventiquattro. I Favoriti però avevano bene o male cinque volte le sue probabilità di vincere, ed erano sei, il che portava ad una probabilità di uno su ventiquattro meno sei più cinque per sei, ovvero una su quarantotto che, contando l’energumeno del distretto 7, si abbassavano a…
Xen la smise.
D’altronde, avrebbe dovuto rifare i calcoli dopo la sfilata, l’addestramento e l’intervista. Meglio quindi non scoraggiarsi fin da subito, se non altro perché lo scoramento abbassa la probabilità di almeno i due terzi, il ché…
Xen la smise.
I calcoli non mi tireranno fuori di qui. Stava per cominciare a ripassare tutto quello che aveva appreso sulle piante, ma un’ombra lo distrasse. Si guardò intorno, cercando di capire cosa aveva sentito muoversi, ma non vide niente. Dov’è finita Momo?
Fece due più due e cambiò domanda. Ma cosa sta facendo?

 
__________Distretto 2

Scarlett si tolse l’elmo dalla testa e sorrise. Aveva un tale quantità di acciaio addosso che si sentiva pesare quando il carro intero, ma sostenerla senza fatica le dava una piacevole sensazione di forza. Forza che fremeva dalla voglia di essere messa alla prova. Con l’elmo sotto braccio, si avvicinò a Samuel, impegnato ad agganciare la fibbia del mantello. Anche lui aveva il pettorale in armatura, ma la sua gonnellina da eroe greco lasciava le gambe scoperte; Scarlett indossava una morbida tunica argentea invece dei gambali.
-Uhm. Sembra che il mio pennacchio sia più grande del tuo- notò lui, con sorriso che le diede i nervi.
-Ma tu non hai uno scudo con la testa di Medusa- ribatté schioccando le dita. Un senza-voce si avvicinò con l’Egida in mano.
Samuel allargò il sorriso e sollevò la spada. Ti do l’impressione di aver bisogno di uno scudo? Non ebbe bisogno di dirlo, bastò lo sguardo. Stizzita, Scarlett si voltò verso folla di capitolini, in emozionata attesa dei tributi. Sorrise, sentendo già gli applausi scrosciarle dentro. Applausi che erano sono un assaggio di quelli che avrebbe ricevuto, una volta uscita da quella arena e dimostrato di meritarli. -Lo sai, vero?- le arrivò la voce tranquilla di Samuel –che Ares e Atena erano nemici giurati?-
Lo mormorò più a sè stessa che a lui. -E sai chi ha sempre vinto, fra Ares e Atena?-
 
__________Distretto 11
 
Ronnie sentiva il fiato mancargli al pensiero di tutta quella folla. Della felicità sfavillante tra i volti dei capitolini, delle vittime che sorridono e salutano i carnefici.
Capitol City. Era a Capitol City.
Probabilmente, se al suo posto ci fosse stato Kevin, sarebbe già corso a tirare pugni sugli spalti.
I suoi pensieri si interruppero bruscamente quando vide una pioggerellina di semi e brillanti cadergli attorno.
Ester fece un giro su sé stessa, sollevando i veli colorati del vestito, poi affondò la mano nel suo cestino e gli lanciò una seconda pioggerellina scintillante. –E’ divertente!-
Ronnie rise, passandosi una mano sui capelli per togliersi i chicchi di grano. Ma non ci riuscì, dato che erano intrecciati di rametti secchi.
-Sai cos’ha detto la nostra stilista?- disse Ester, a metà tra l’allegro e il malizioso. –Che dovrei salirti sulle spalle e gettarli sul pubblico.-
-Non vedo l’ora- Ronnie alzò le sopracciglia, incredulo. -Credo che sarei io a gettare qualcuno giù dal carro-
Ester rise. –Niente polverina brillante, quindi?-
-Niente saluti e, ti prego, niente baci. Ma niente occhiate criminali e maledizioni. Cerchiamo solo di apparire sicuri-
Ester annuì. –Hai capito cosa fare?- stavolta non si riferiva più alla sfilata. Ronnie la guardò per qualche istante, poi annuì. -Forse ci avrai già pensato, ma il problema dei Giochi non sono gli strateghi né l’arena. Sono i tributi. I 1tributi che credono la loro vita più importante di tutte le altre, più importante dell’adorare chi li ha mandati a morire, e soprattutto più importante del futuro di Panem-
-Ma in un certo senso è così. Ogni vita è importante. Infinitamente importante- obiettò Ester.
-No, la vita in sé non è nulla. Siamo noi a renderla importante, e se seguiamo le regole in quell’arena noi non esistiamo più.- Ronnie cercò di recuperare il discorso. –Sono i tributi a combattersi, sono i tributi a voler vincere, non Capitol City. Ci uccidiamo solo perché sappiamo che l’altro farebbe lo stesso con noi, che le regole sono quelle, ma il presidente non può stabilirle: sono i nostri giochi, questi. Il controllo dell’intera Panem si basa sulla sfiducia e sulla divisione, e nell’unico momento in cui i Distretti possono comunicare e sostenersi a vicenda, per cinquant'anni non si è fatto altro che fomentare sfiducia e divisione. Ester, tu ti fidi di me?-
Il sorriso sbocciò spontaneo sulle labbra della ragazza. Bastò il suo sì , e Ronnie seppe di aver già sconfitto gli Hunger Games.
La speranza lo infiammò al pari di una scarica di adrenalina. –Mi serviranno alleati. Molti alleati.-
 
__________Distretto 4

-Sai per chi mi sono offerto?-
-Carl- sbuffò Coral.
-Ha risposto!- Stephen si voltò verso i mentori, ironicamente estasiato. -Gente! Non solo mi ha ascoltato, ma mi ha anche risposto!-
-Smettila- Coral stavolta non sembrò particolarmente irritata, solo stanca. Malinconica, quasi.
Stephen la smise davvero. –Carl. L’avrai visto qualche volta, mentre tentava di rivolgerti la parola-
Coral annuì, assente.
-Era innamorato di te.- continuò il ragazzo, sorridente –Sceglievamo quel molo solo perché era lo stesso dove venivi tu-
La ragazza si irrigidì. –Non mi interessa, in questo momento- guardò la folla in fermento, fuori, forse cercando una via di fuga.
­-Interessa a me- ribatté Stephen –E poi dai, mi sto annoiando, dammi qualcosa su cui fare conversazione. L’altro argomento sarebbe “come ti sta bene quel vestito” ma mi sembra banale. Perché l’hai sempre ignorato?-
I capelli rossi le scesero tristemente sul viso. –Amici... Io avevo la mia vita, e mi bastava- alzò gli occhi di scatto. Era un tipo di sguardo diretto, privo di qualsiasi timidezza. –E’ un piacere fare conversazione con te. Ora, preferirei andare a prendere a craniate qualcosa di duro-
-Ti consiglierei il carro- disse Stephen, ridendo, mentre se ne andava. Era riuscito a strapparle ben tre frasi. Ora posso morire felice. O quasi.

 
__________Distretto 6 (di nuovo)

Gli occhi castani di Momo, nascosti dietro il carro, fissavano attenti il tributo dell’11. Era vestito di veli colorati, come la sua compagna, ma i suoi erano ingrigiti e in alcuni punti strappati, ad effetto. E se la ragazza aveva tra i capelli fiori appena sbocciati, lui solo rami secchi.
Ma non era la bravura del loro stilista a interessarla.
-…Molti alleati-
-…Come li convinceremo a fidarsi? E, Ron, qual è il piano?-
La voce divenne un sussurro, ma Momo riuscì comunque a sentire qualcosa.
-…molta fortuna. Immagina un’alleanza di... Soli, nell’arena. Questo è il momento… fermi, aspettando… strateghi… decidere... Magari mano nella mano, che è sempre commovente…- e poi quell’unica parola, decisa, chiara, terribile: -Ribellione-
Momo aveva riconosciuto la divisa da prigioniero che quel ragazzo indossava, alla Mietitura, perché suo fratello ne aveva una identica. Era il motivo per cui lo stava spiando. E aveva riconosciuto anche quell’intonazione di voce, piena di forza e di fede, per niente domata.
La somiglianza tra quel tributo e Derek era tanto strana da affascinarla.
-Ma… non stare ai patti… qualcuno possa…- questa è la voce della ragazza.
-Lo so, Ester. Possiamo solo… tutti facciano...- Momo si perse il resto del discorso, però sentì chiaramente l’ultima parte. -E’ un salto nel vuoto, sì, ma negli Hunger Games ogni passo è un salto nel vuoto.-
Quando il ragazzo si girò a destra, Momo si appiattì di scatto contro il legno. Passi: il tributo si stava avvicinando, ma non ebbe il tempo di vederla. Un solo istante, e la bambina scomparve sotto il carro, nascosta dalla ruota. Rotolò dall’altro lato, poi si rialzò in piedi e corse via.
Fino a qualche minuto prima, Momo sapeva cosa doveva fare, cosa avrebbe fatto: vincere per Derek. Ma, forse, c’era qualcosa che suo fratello desiderava più del suo ritorno. Qualcosa che, forse, era molto vicino, concreto, e che forse non era destinato a morire. Quella parola, che ancora echeggiava dentro di lei. Ribellione.
Momo non aveva mai amato i forse.
 
__________Distretto 10

Amina stava accarezzando lentamente la criniera del suo cavallo. I suoi occhi nocciola la tranquillizzavano; caldi, quieti, forti. Al distretto, tutti si chiedevano da dove venisse la sua dote. La mia unica dote. Non c’era animale che la temesse, che non la adorasse. Era per quello che si sentiva bene solo insieme a loro, ai loro occhi che pur guardando non cercavano di vedere. Gli unici occhi in grado di amare lei.
-Hai paura?- le chiese Nathaniel. Amina alzò le spalle e fischiò.
-Sì- gracchiò Koko, posandosi sul braccio di Nathan. La ragazza accennò un sorriso, poi si toccò con un dito il suo vestito e fischiò di nuovo. –Questo- tradusse il pappagallo. –Paura. Paura-
Nathan scoppiò a ridere –Sì, anche a me fa paura come ci hanno conciato-
Era un completo penoso, il loro. Bianco a macchie da mucca, per lei marroni e per lui nere. –Non ti preoccupare per la sfilata- disse il ragazzo, sorridendole. –Fra poco sarà finita-
Un attimo dopo, Amina si trovò imprigionata tra le sue braccia. Per un momento si irrigidì dalla sorpresa, poi però la realtà sfumò nel ricordo di un altro abbraccio, sette anni prima.
“Mi stai stritolando!” una voce. Una voce forte, allegra, la voce della bambina che era stata.
“Lo so che ti piace” Questa è la risata di suo fratello. Dray la depone sul letto. “Sei riuscita a insegnare a quei due sacchi di pulci come ballare su due zampe?”
“I cani non sono sacchi di pulci” ribatte Amina, avvolgendosi tra le coperte.
“E chi li ha chiamati così?”
“Tu!”
“Quando?” il sorriso di Dray diventa irritante.
“Ora”
“Che cosa ho detto?”
Amina sbuffa, nascondendosi sotto le coperte. Dray scoppia a ridere di nuovo. “E va bene, piccola. Buonanotte”
“Buonanotte”
Un soffio sulla candela, e cala il buio.
La ragazza sentì la confusione annebbiarle i pensieri. Quella notte. La finestra che si rompe. L’urlo ucciso da una mano sulla sua bocca, che lottava per uscire. L’aria gelida della notte. Il fazzoletto tra le labbra, il buio. Il cantiere abbandonato. I bambini, le loro urla, il dolore, il dolore, il dolore. L’uomo, l’uomo del dolore, l’uomo del buio. Nessuno saprà cos’è successo. Non dirai niente, vero, piccola? Non dirai niente… Le fiamme scarlatte, le fiamme oro, che divampano nella notte, che danzano nella notte. Le fiamme, i bambini, il dolore, le fiamme, le urla, le fiamme, le fiamme, le fiamme.
Amina sbatté le palpebre, tornando di colpo alla realtà. La confusione divenne panico, il panico divenne ira. Lasciami! Avrebbe voluto urlare. Mi stai ingannando, tu non mi vuoi bene, nessuno può farlo, lasciami!
Ma la voce continuava a rimbombare nelle sue orecchie, non dirai niente, non dirai niente, non dirai niente. Nessun grido uscì dalla sua bocca. Si limitò a divincolarsi con rabbia dalla stretta, e scappare via.

 
__________Distretto 12 (con intrusione dall' 11)

-O cercate di conoscere qualcuno, o vi fate i fatti vostri, o tentate la fuga e vi fate sparare addosso.-
Era tutto ciò che Haymitch aveva detto prima di lasciarli lì. Diana aveva scelto la prima opzione, Liam la seconda. Il ragazzo staccò una piuma scarlatta dalla criniera del suo cavallo e cominciò a giocherellarci. Tanto per noia.
-Liam Appody, giusto?- si voltò, sorpreso, ritrovandosi faccia a faccia con la ragazza dell’11.
-Sì. Non ho la tua memoria, tu saresti?-
-Ester Wright- sorrise. –In verità era il mio compagno di distretto a sapere il tuo nome, come quello di tutti i tributi. Neanch’io so bene come faccia-
Liam ricambiò il sorriso, stiracchiandosi. –Ronnie Dalton: l’unico nome che mi ricordo. Beh, la sua non è una divisa che passa inosservata-
–Già- concordò allegramente Ester. -Sai perché era in prigione?-
-Ha ucciso suo fratello?-
-Era entrato in un gruppo di rivoluzionari.-
Rincuorante.
-Hai già scelto con chi allearti?- continuò lei.
Liam pensò a Diana, in quel momento chissà dove, e alzò le spalle. –No- ..ma credo che io e un prigioniero andremmo molto, molto d’accordo. –Dai, comincia a elencarmi i motivi per cui dovrei scegliere voi-
Ester ampliò il sorriso. –Prima tu.-
-Con ordine- sospirò Liam, dissimulando la diffidenza. –Non ho ucciso mio fratello- cominciò –Non… Volontariamente, almeno.- Ester ebbe un istante di smarrimento, prima di realizzare che fosse umorismo. Umorismo, sì. –So come si affetta una capra- continuò Liam –Non accoltello i miei alleati, beh, non quando sono svegli... E ho un vestito da schianto-
Ester scoppiò a ridere di nuovo. In verità, non era nulla di particolare: un completo rosso vermiglio sporcato di polvere di carbone.
-Potrebbe andare- acconsentì la ragazza. –Hai una famiglia da cui tornare?-
Fece scorrere il dito sulla piuma, lentamente. –Come mai questa domanda?-
-Capitol City lo saprà, e non vuoi perderli, giusto? La nostra è un’alleanza pericolosa, un’alleanza strana. O almeno Ronnie ha detto di dire così.- Ester assunse un'aria pensosa, poi lanciò i coriandoli argentati del suo cestino verso il cavallo. –Perché mi sono fissata con questa roba?- si chiese, osservandosi i brillantini rimasti sulla mano.
Liam ebbe tutto il tempo per pensare a quel dialogo di frasi a casaccio. Rivoluzionario, perdere la famiglia, alleanza pericolosa. –Diciamo di…- ..attento a quello che dirai ora. –Sì. Una famiglia ce l'ho. Ma se avete un piano, sono più che disposto ad ascoltarlo-
O il tutto era una pazzia, oppure offriva più possibilità di vincere. E Liam doveva vincere. Chissà, forse avrebbe potuto vivere libero dalla sua colpa. Oppure… Si sarebbe moltiplicata per ventitré volte.

 
__________Distretto 7 (con intrusione del 12)

-E’… Particolare- disse Diana, avendo almeno la cortesia di non scoppiare a ridere. Axe alzò le sopracciglia e la fissò, finchè la ragazza non si corresse: -...Molto particolare-
Indossava solamente una gonna, apparentemente di cartone e quasi orizzontale, decorata come se fosse fatta di scarto di matita. Il petto era nudo e dipinto di verde acqua.
"Ero disperata, ragazzi: con il foglio davanti e nessuna ispirazione... Finchè non ho guardato la mia matita, e... Non è stata una splendida idea? Le matite sono di legno!"
Quando Axe aveva sentito la stilista raccontarglielo, non aveva potuto che pensare a come sarebbe stato bello il viso della donna con un'ascia piantata in mezzo agli occhi.
-Poteva andarmi peggio- riconobbe. -Qualcosa di ancora più particolare, per esempio- indicò con il pollice Alek alle sue spalle.
Il ragazzo sorrise con rassegnazione. Era una matita semovente: tuta sottile a strisce verticali nere e gialle, e cappello nero a forma di cono. Sarebbe stato meno ridicolo se non fosse stato alto sette piedi.
Per essere simpatico è simpatico- disse Alek.
Un applauso ai temibili, valorosi tributi matite. Passeremo alla storia.
-Vi starete chiedendo perché io sia qui...- mormorò Diana. Abigail si era completamente dimenticata di lei.
 -Non ho smesso un istante di chiedermelo- sorrise. -Sei venuta ad elemosinare alleanze?-
-Beh, il mio mentore mi ha consigliato di andare a conoscere i tributi o di tentare la fuga-
-Puoi provare, ma credo che ti ritroveresti una pallottola nella schiena-
-Deve fare male- aggiunse Alek.
-Suppongo di sì- concordò Diana. -E avevo optato per la prima cosa, se ve lo steste chiedendo.-
-E' stata la nostra aria da bravi ragazzi a farti venire da noi?- chiese Abigail. La ragazza squadrò Alek, che nonostante il vestito aveva una certa stazza impressionante. -Più o meno- rispose. -Ti chiami Abigail?-
-Abigail Jaime. Ma preferisco Axe-
La ragazza si rigirò il cappellino rosso tra le mani. Le avevano permesso di tenerlo, finché la sfilata non fosse iniziata.
Nell'interno, era cucita una foto. Il volto di suo fratello Mark, sorridente com'era stato prima della Mietitura. E una scritta.
Torna per lui.
Sentì un sorriso strano incresparle le labbra.
 
__________Distretto 3

Alyson si piegò in due, sentendo gocce di sudore gelido velarle il viso, più pallido della veste candida che indossava. I suoi respiri divennero spezzati, raschianti, ma il bisogno d’aria non accennava a diminuire. Quando percepì la vista annebbiarsi, chiuse gli occhi. Sentì una persona chiamare il suo nome, poi il mondo divenne sempre più vago, indistinto, lontano. Guardò le piccole macchie di colore nel buio delle sue palpebre, bellissime mentre pulsavano, cangiavano , si fondevano. Era strano che nessuno lo notasse mai, quanto fossero belli i colori quando si chiudono gli occhi. Era strano che neanche lei ci avesse mai fatto caso, almeno finché non aveva capito che i suoi anni, i suoi giorni, i suoi minuti non erano affatto infiniti.
Ricordò la sé stessa di cinque anni prima, la disperazione dei suoi primi attacchi, delle sue prime febbri, quando ancora si concentrava sul dolore e non sulla bellezza di quelle lievi luci danzanti.
Poi passò, come sempre. Il viso tornò del suo rosa abituale, il cuore smise di battere impazzito e il respiro divenne più regolare.
-Alyson- un sussurro indistinto. La ragazza aprì lentamente gli occhi, e riuscì a mettere al fuoco il viso preoccupato di Harvey. Il ragazzo le stava stringendo una mano, mentre l’accompagnatore accorreva. –Cos’è successo?- le chiese l’uomo, agitato. Alyson cercò i suoi occhi da sotto gli strati di trucco. E’ orribile, nascondersi dietro una maschera di ombretto e mascara.
Vedendo i capitolini, non riusciva a non provare una strana pietà. –Niente, è passato-.
-Hai qualche problema?- chiese ancora l’accompagnatore, mentre Harvey la aiutava a mettersi in piedi. –Nulla di importante- rispose, lisciandosi l’abito. Era soffice come una nuvola, largo sulle maniche e stretto in vita.
-Nulla di importante?- le fece eco Harvey, inquieto. Alyson sorrise ancora, ma non rispose.
Il ragazzo non insistette, ma continuò a tenerle la mano. Salirono insieme sul carro.

 
__________Distretto 5

Arcturus balzò sul carro, guardandosi attorno spaesato. Hazel accettò la mano che gli offriva e le loro dita si intrecciarono. Il ragazzo cercò di concentrarsi unicamente sul calore di quella stretta, mentre le grida dei capitolini si alzavano di tono.
Tre squilli di tromba, e il carro iniziò a muoversi. Arcturus deglutì e cercò di sorridere. Non sorrise per Capitol City e quella folla urlante. Sorrise per sua madre, per suo padre, che in quel momento lo stavano guardando. Sorrise per i suoi nonni, Carlos e Dafne.
E soprattutto sorrise per sé stesso.
-Cerca di far colpo- gli sussurrò Hazel. Ma anche lei si stava limitando a un accenno di sorriso, e un saluto ogni tanto. Arcturus non aveva mai visto un’edizione completa degli Hunger Games, ma sapeva che gli sponsor erano essenziali.
Sollevò la mano e strillò: –Ehi! Sono in tv!-. Nascose l’ironia dietro un tono entusiasta e ingenuo. I Capitolini abbastanza vicini da sentirlo scoppiarono a ridere; Arcturus rivolse loro un infantile sorriso a trentadue denti, comicamente emozionato.
Mentre il carro proseguiva per la città, il ragazzo ebbe paura di star esagerando: e se i capitolini non avessero capito che stava scherzando? Un tributo stupido non lo sponsorizza nessuno.

Le microscopiche lampadine che ricoprivano il suo vestito cominciarono a brillare a intermittenza. La luce dipingeva ampie onde sui loro corpi, cambiando colore dall’oro al verde, all’azzurro, al rosso fuoco. Impaurita, Hazel strinse la mano di Arcturus. –Pronto?- sussurrò, sfiorandosi il pulsantino nella manica. Il loro stilista non aveva mai parlato della possibilità di finire fulminati, ma non le aveva neanche dato l’impressione di essere un tipo affidabile.
Al momento giusto premettero i loro pulsanti. Hazel sentì una lieve scossa attraversarla, mentre il campo magnetico si stabilizzava attorno ai suoi vestiti. La luce delle lampadine tremolò e si fece più intensa, espandendosi. Abbagliata, Hazel si impose di non chiudere gli occhi e sorridere ai Capitolini. Tutti gli occhi erano fissi sul loro carro, scintillante di colori; non solo erano ancora vivi, ma avevano anche attirato l’attenzione più di chiunque altro.
Hazel prese un respiro forte, mentre l’idea la stordiva. Doveva permettersi di sperare? Era un’idea dolce, che la riscaldò e la terrorizzò. Se riusciva a inventarsi qualcosa per la prova privata e l’intervista, se gli sponsor fossero stati con lei… Poi guardò Arcturus, alla sua destra, splendente di luce blu e di felicità, e sentì la speranza colare via dal suo animo lasciando solo il crudo realismo. Non vale la pena fidarsi della vita. Non di nuovo.
 
______________________________________________________________________________

Reeva avrebbe potuto saltellare dall'emozione, quando i corni suonarono e la musica di Capitol City le entrò nelle orecchie a piena potenza.
In quanto stilista, le avevano riservato un posto in prima fila: anticipati dagli zoccoli dei cavalli, i carri cominciarono a comparire. Migliaia di riflettori ruotarono su di loro, facendo scintillare la pelle trattata di Reeva. E scintillavano i suoi occhi, mentre si riempivano delle immagini di quei tributi.
I Favoriti del due non le piacquero molto: le loro armature erano troppo aggressive per i suoi gusti.
Le tuniche candide del Distretto 3 invece erano rivestite di perline, cangianti dall'oro bianco al grigio. Reeva seguì incantata il disegno che si andò a creare: lente volute di fumo che si rincorrevano a spirale, come se provenissero direttamente dalla ciminiera dei loro pantaloni neri.
Distretto quattro: meno appariscente ma altrettanto delizioso. La ragazza aveva un soffice corpetto bianco a svolazzi, decorato con linee rosso corallo, e una lunga gonna azzurra arricciata alla fine. Sembrava… un’onda. I capelli del maschio, dipinti di rosso come quelli della compagna, erano intrecciati con minuscole conchiglie. Pantaloni azzurri, camicia bianca abbellita da ricami di filo rosso a forma di pesce.
-Sono meravigliosi- si complimentò con la stilista accanto, ma non riuscì ad ascoltarne la risposta.
I tributi del 5 avevano cominciato a brillare di colori sgargianti, irradiando con potenza innaturale tutto il carro. Era un effetto tremolante, di luci che si spegnevano e si accendevano a intermittenza. Il pubblico esplose in uno scroscio di ovazioni e applausi. Anche Reeva, inebriata da tutto quello stupore collettivo, si lasciò scappare un gridolino commosso. Che però si spense, quando incrociò lo sguardo della ragazza. Era così vero, così pieno di risentimento e tristezza, così… spaventosamente umano. Quella che non avrebbe dovuto essere che un incantevole sfarfallio di luci colorate le sembrò per qualche istante una bambina. Fragile.
Innocente.
Ma quel pensiero svanì in un attimo quando apparvero i suoi tributini. Si alzò in piedi con sorriso entusiasta: i suoi genitori sarebbero stati orgogliosi di lei. L’abito che aveva disegnato sembrava fatto appositamente per loro. Batté le mani e cercò di salutarli, ma non la videro.
A riscuoterla dal suo torpore estatico furono i tributi dell’11, ma di nuovo si concentrò più sullo sguardo che sull’abito di veli colorati. Guardavano verso i palazzi capitolini, lontani all’orizzonte, con un sorriso calmo rivolto solo a loro stessi. La ragazza affondò la mano destra nel suo cestino e stese il braccio: al movimento delle sue dita, una lunga scia di brillanti accompagnò la corsa del carro. Reeva la fissò affascinata.
Come in un sogno, osservò i carri riversarsi nell’Anfiteatro e posizionarsi a semicerchio.
–Capitol City è lieta di accogliere…- la voce del presidente risuonò tonante per tutta la piazza. – I tributi dei 51esimi Hunger Games!-
Reeva si perse gran parte del discorso. Era tutto così perfetto, così delizioso: i carri, i tributi, la folla, gli Hunger Games come sempre li aveva sognati. L’entusiasmo, l’inno nazionale, l’emozione, i suoi ragazzi…
-E possa la fortuna essere sempre, sempre a vostro favore!-
Ma Reeva non sapeva cosa avrebbe provato, quando tutta quella bellezza si fosse tinta di rosso.









Note dell'autore nullafacente.

Cose che non interesseranno mai a nessuno:
Di nuovo dodici giorni :( io ce l'ho messa tutta. Non ho un secondo di tempo libero, in più mi hanno sequestrato il computer e ho dovuto aspettare la scheda di uno stilista per parecchi giorni, ma per qualche oscuro motivo non è arrivata.
La parte di me fissata con la caratterizzazione dei personaggi non è mai stata tanto insoddisfatta di un capitolo al pari di questo qui. Spero di riuscire ad arricchire i caratteri nel prossimo.
Ve l'ho mai detto che odio le sfilate?


Cose importanti:
Un applauso e un grazie di cuore agli stilisti! I distretti di cui non ho inventanto io l'abito sono stati: 1,2,4,5,7,8,9,10,11,12
E mi dispiace molto se dell'1 non è arrivata la scheda con il disegno, non so se è colpa della casella postale. Ma non potevo tardare più di tanto, che lo stilista mi perdoni.



Questo è l'abito della femmina del 7: http://api.ning.com/files/InLfR-Lol4vRuVBJ07*nalu4jwF2umI8qOv*zhcUe57TsVOsIup0TIxsyro651IFVXn3zUqUTNGG72-EA3CyKSGEzNnA3dn6/MadamePaperDress1.jpeg

La stilista, Reeva, è stata creata da un utente e probabilmente tornerà più avanti. Beh, io adoro Reeva.

Tornando alla storia, vi anticipo che nel sistema di sponsorizzazione, oltre a voi, conteranno anche i punti della sfilata. I tributi che hanno riscosso più successo sono il distretto 5, l'11, il 3. Ma spiegherò meglio dopo l'intervista cosa significherà il tutto.
Ronnie eccedera eccedera: non so se il suo piano funzionerà, ma se andrà a buon fine la storia diventerà un what if; vi consiglio di non dare nulla per scontato.
Aggiornerò... Meglio non dirlo, porta sfortuna. Forse, dopo la prima settimana scriverò a inizio capitolo quanti giorni mancano, probabilmente, alla pubblicazione.
Che altro dovevo dire? Mi sarò di certo dimenticata qualcosa. Pazienza.

Grazie come al solito a tutti quelli che leggono, recensiscono, che mi sopportano, che hanno inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite. Se c'è qualche errore grammaticale/di battitura o qualcosa che potrei migliorare, dei personaggi e in generale, fatemelo sapere. Spero a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Arbeit Macht Frei ***






Il lavoro rende liberi









(Campo di concentramento
di Auschwitz)














 
Il capitolino sbadigliò. -Dunque, signori, benvenuti nelle sale di addestramento- indicò con gesto pigro della mano le varie sezioni. -postazione spade a destra, postazione sopravvivenza da quella parte, lì in fondo poligono di tiro... Non starò e elencarvi tutto il resto- fece le spallucce. -Questa, diciamo, potete considerarla la postazione orientamento. Divertitevi-


Un istante dopo, Swyd aveva un coltello per mano. -Dov'è la tua compagna?- gli chiese la Favorita del due, mentre si legava i capelli rossi. Gli pareva si chiamasse Scarlett.
Swyd rifletté velocemente sul timbro di voce, sulle parole e sull'espressione da indossare. Devo guadagnarmi il loro rispetto, ma non il loro timore.
-Lontana, fortunatamente. Shinespark non è adatta alla nostra alleanza-
-Preferirei giudicarlo con i miei occhi- ribatté il tributo del due. Di lui non riusciva a ricordarsi il nome.
-Gehenna è mentalmente ritardata-
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. -Si vedrà. Vuoi deciderti a tirarli, quei coltelli?-
La sua lama roteò sibilante, per piantarsi a fondo nella spalla di un manichino. Un istante dopo, una freccia lo trafisse da tempia a tempia.
-Morto- commentò il tributo del 4, abbassando l'arco. -Salve gente. Sono Stephen Williams.-
-Onorati- l'altro ragazzo inclinò il capo -Io sono Samuel. Pensavo che il mio taglio di capelli fosse originale, invece...-
Stephen si accarezzò il ciuffo di capelli castani, tirati all'indietro con il gel come quelli dell'altro -Capita-
Sebbene sapesse che era la cosa peggiore che potesse fare, Swyd sentiva crescere il desiderio di defilarsi.
-La tua compagna è quella lì?- chiese ancora Samuel, guardando il tributo in disparte dietro Stephen. -Sì, si chiama Coral e sa parlare- scattò lei.
L'altra Favorita, Scarlett, le si parò davanti. Entrambe avevano capelli rossi, occhi verdi, lineamenti delicati.
-Siete sorelle?- cercò di scherzare Swyd. L'umorismo non era mai stato il suo forte.
Le due si fissarono per un lungo, curioso momento, poi Coral scrollò le spalle. -Sono qui solo per dirvi che non mi unirò a voi. Non sono una Favorita-
L'altra ragazza si incupì. -Perfetto- mormorò, continuando a guardarla. Aveva un'espressione strana, che Swyd non riuscì a inquadrare.
-Saluti.- fece Samuel -Ne riparleremo al Bagno di Sangue-
Coral, già voltata per andarsene, si fermò. -Già. Spero solo che tu non faccia la fine di tua sorella, Samuel Narper- sibilò.
Calò il silenzio. Tutti i Favoriti, Swyd compreso, guardavano il sorriso che lentamente si allargava sul volto del ragazzo.
-Pace e amore...- tentò di dire Stephen, ma in quello stesso istante il Favorito scattò verso Coral e la sbattè contro un manichino, piantandole la mano destra nel collo. -Non azzardarti... A nominare... Mia... Sorella-
Swyd fu l'unico abbastanza vicino da sentire il suo sibilo raschiante. Poi Samuel tolse la mano e la ragazza ansimò, rossa in volto. Guardò ogni Favorito negli occhi, a lungo. Swyd sostenne il suo sguardo, cercando di dargli un nome. Non paura, non rabbia. Forse un misto di tristezza e disprezzo.
La ragazza scosse la testa, si voltò e si allontanò a passi veloci.


Sapphire soppesò la falce. Aveva creduto che fosse simile a quella che usava nei campi, ma non era abituata a un'arma a due mani.
Pazienza. Tentò di sferrare un colpo dal basso verso l'alto. Il bilanciamento le era familiare, ma il movimento no; in più non era peso da poco.
Il secondo colpo, stavolta da sinistra verso destra, tagliò di netto un braccio al manichino. -Dà una certa soddisfazione!- esclamò. Poi restò qualche momento ferma, guardando la lama nera della falce. Soddisfazione? Non era quella la soddisfazione, era... Mietere il frumento brillante di rugiada, sotto il cielo. Il sudore spazzato via dalla brezza, la consapevolezza che il grano tagliato sarebbe rifiorito più forte e dorato di prima.
-Non è per questo che andrebbe usata una falce- mormorò, con un sorriso di biasimo.
Ma la stretta delle sue dita attorno al manico non si allentò.


Coral si accarezzò il collo, dove il segno delle dita del Favorito stava sicuramente diventando un livido. Cosa mi è preso? Era stata impulsiva, era stata stupida, e sapeva di non essere nessuna delle due.
Non ricordava di aver mai perso il controllo per la rabbia, prima di quel giorno, ma essere minacciata di morte da quell'idiota le aveva mosso qualcosa dentro.
Forse era colpa della consapevolezza di esser davvero così... Vicina a quell'arena...
Non mi riconosco più.
Si guardò in giro, resasi conto di non sapere cosa fare. Era nel poligono di tiro.
Tanto vale provare, si disse, afferrando un arco e una faretra.
Incoccò la freccia e cercò di allineare il corpo all'arma, senza avere la più pallida idea di come si prendesse la mira. Fu più che altro per stanchezza che le sue dita lasciarono partire la freccia. Non immaginava che tendere un arco potesse essere così faticoso.
Quando il dardo si conficcò nella fronte del manichino, per poco non le sfuggì l'arco dalla mani per la sorpresa.
-Bel colpo.-
La ragazza del nove era dietro di lei, con in mano una falce a due mani.
-Perché sei qui?- chiese Coral, sbuffando.
-I complimenti sono uno dei pretesti migliori per cercare un'alleanza- rispose con semplicità.
-Immagino- ribatté secca Coral. Avrebbe voluto allontanarsi, ma il ricordo delle parole della sua mentore la convinse a pensarci.
-Anch'io sono molto contenta di conoscerti- continuò l'altra ragazza, sfoggiando un sorriso da un orecchio all'altro. -Sapphire Catarina Jayenne-
Coral si impose di ignorare la sua diffidenza. Di idiozie, quel giorno, ne aveva già fatte abbastanza. -Coral Sahara Smith- si presentò, cauta, stringendole la mano.

 
(I paragrafi vanno avanti nel tempo. Siamo al secondo giorno dell'addestramento)

Nathaniel odiava la presenza vaga, pesante e immobile della morte. L’aveva odiata in quella stanza, nell’odore acido di vomito, nei rantoli della febbre dei suoi genitori.
Ma mai l’aveva odiata come negli occhi di quei tributi. Pieni di luce. Pieni di paura. Pieni di cose, e destinati a spegnersi.
La speranza è infinitamente più dolorosa della morte.
Scosse la testa, e quella sensazione disparve. Se l’unico modo che aveva per non scoraggiarsi era scuotere la testa e non pensare a niente, tanto valeva farlo. Loro non se ne fanno niente del mio sconforto. E neanch’io.
-Perché non c’è una piscina, al centro di addestramento?- chiese ad Harvey, che stava cercando di intrecciare qualche filo elettrico.
-Trovano gli annegamenti divertenti. Credo- rispose lui. –Uhm… Contatto!- Harvey strofinò un filo elettrico scoperto con l’altro. Le tenaglie di ferro, irte di denti, si chiusero con uno scatto secco.
-Ho capito! Basta intrecciare i cavi in questo modo- spiegò, lieto –… Così che siano arrotolati intorno a queste due assi. Quando la trappola è in funzione, si creano quattro cariche opposte e il tutto scatta. Può innescarla un semplice interruttore, in questo caso il contatto manuale di due fili- Gli occhi gli brillavano, ma Nathaniel dubitò che fosse per la soddisfazione di poter mettere in atto l’arma nell’arena. Piuttosto, il semplice entusiasmo della scoperta.
Gli diede una pacca sulla spalla. –Non potevo trovare alleato migliore- disse, con sincera allegria. Harvey non fece in tempo a rispondere.
-Gran bel lavoro- esultò l’omino della postazione, con un sorriso a trentadue denti. Denti di un innaturale color blu brillante. –Potreste provare con le tecniche esplosive, che ne dite? Altrimenti, di lì- indicò un altro ambiente della sala –Insegnano tipi di trappole più complesse, che liberano nell’aria gas tossici-
-Grazie- disse Harvey. –Ma dovremmo andare dalle nostre compagne, forse-
Nathaniel annuì, cercandole con lo sguardo. Erano nella postazione ami, a “chiacchierare”.
Amina non gli sembrava la persona più raccomandabile per un’alleanza, ma non gli importava, come non gli importava che non fosse riuscito a scambiare con lei più di qualche frase. Sentiva un misto di affetto e protezione spingerlo a non abbandonarla, nonostante quando guardasse nei suoi occhi non vedesse niente di limpido.
-Ma…- disse Harvey, a metà strada. –Chi è quella ragazza?-


Amina ascoltava Alyson parlare, senza dire niente.
-Dicono che non ci sia differenza tra l'alba e il tramonto- continuò, intrecciando un nodo -Ho passato mesi a osservarli, perchè non mi sembrava così. Nel mio distretto il sole era sempre... pieno di fumo. Anche il fumo ha una sua bellezza, sai? Di solito si tende ad associarlo allo squallore, allo sporco. Ma sono i nostri occhi ad essere ciechi-
Quella ragazza parlava senza alcun filo di discorso, e senza alcun pretesto di dire qualcosa di sensato. Ma c'era qualcosa, nella sua voce, che la incantava.
-Però il fumo mi impediva di vedere bene il tramonto. Quindi oltrepassai il cancello- sorrise, sognante. -Avevo nove anni, quando scappai per scoprire la differenza tra alba e tramonto. Restai tutta la giornata fuori-
Lunga pausa. Amina la guardò, sentendo il bisogno che continuasse. Perchè era strano, per lei, essere cullata da quel discorso sconclusionato. Si sentiva quasi... Serena. La voce dell'uomo del buio era indistinguibile sotto quel fiume di parole.
-Il sole è degli stessi colori. Il cielo è degli stessi colori. È solo una cosa ad ad essere diversa, sai?- Alyson finí il nodo, e lo confrontò con l'immagine del libro. -...Noi. Le emozioni che alba e tramonto mettono in luce. Dopo la notte, e dopo la vita-
Amina non era sicura di aver capito, ma non le interessava molto.
-Luce...- Non era stata Alyson a mormorarlo. Se possibile, questa voce era ancora più dolce.
Amina alzò lo sguardo e incontrò due occhi verde foglia, spalancati e persi nel vuoto. La ragazza aveva il numero 1 stampato sulla tuta.
-Ciao- disse Alyson.
-Cos'è... La luce?- fece l'altra. Amina la squadrò senza capire.
-Come ti chiami?- chiese di nuovo Alyson. La ragazza fece un risolino delizioso. -Il mio nome brucia- rispose. -Non smette mai di bruciare. La Gehenna brucia, brucia, brucia... Ma brucia solo la cenere- rise ancora.
Nella mente di Amina, l'immagine rassicurante di un tramonto mutò in una vampata di fuoco vermiglio.
-La cenere può essere bruciata?- chiese Alyson, con la consueta dolcezza. Se era perplessa, non lo dava a vedere.
-La vita brucia in cenere. La cenere brucia in vita...- il sorriso della ragazza si fece stinto, quasi inquietante. Poi si girò lentamente e ciondolò via. Alyson la guardò andarsene, pensierosa. -Gehenna...- mormorò. -Ho già sentito questo nome-
 
(Terzo giorno)

Quando glielo chiesero, Alek non aveva avuto pensarci. Razionalizzando, era una fortuna incredibile, insperata; le sue possibilità di vittoria si erano fatte improvvisamente concrete.
Il sfuggí quasi dalle labbra. Samuel sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. -In effetti, quest'anno eravamo un po' in carenza di Favoriti-
Favoriti. Fu quella parola a spezzare il raziocinio e lasciarlo in balia dell'orrore.
Gettò un'occhiata fugace ad Axe, che in quel momento stava cercando di tirare con l'arco insieme a Diana. Con quali parole le avrebbe spiegato che la loro alleanza era rotta, e che veva deciso di entrare in un branco di assassini?
Idiota. Che senso ha sentirsi in colpa? Deve morire, devono morire tutti.
-Ragazzi!- urlò Samuel, camminando verso gli altri Favoriti. -Il gigante è con noi!-
La morsa di vergogna tornò a soffocarlo. Se c'era una cosa di cui era certo, era che non voleva allearsi con Samuel. Non si tratta di volere o meno un'alleanza, ma di voler tornare o meno a casa.
No. No. Più cercava di darsi pace, più sentiva qualcosa lacerarsi dentro, e più aveva voglia di sfasciare qualche manichino a pugni.
Si ricordò del sé stesso di quattro anni prima, mentre distruggeva a colpi d'ascia i tronchi della foresta. In quel periodo a lottare contro la ragione non c'era la vergogna, né l'orrore, ma la speranza. Però la sensazione era la stessa.
Risentì la voce di suo padre. Cercarlo? Partire? Ragiona, ti prego, Al. Finirei per perdere anche te. Non c'è speranza di trovarlo, lo capisci? Potrebbe essere ovunque. Tuo fratello... Mio figlio... É morto.
-E se fossi partito?- mormorò, piano, con una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco. Guardò di nuovo Axe, che si era spostata nella postazione per le arrampicate. -E se fossi partito?-


Seduta a gambe incrociate, Amber si stava fissando le mani, malinconica.
Non ricordava l'ultima volta che la parola solitudine, per lei, avesse avuto senso. Le era entrata nella pelle come un veleno, senza che se ne accorgesse, nascosta dai complimenti vuoti di chi la conosceva. Ormai non riusciva a sentire più neanche la compagnia di sé stessa.
Eppure, in quel momento, si sentiva desolatamente sola. La Mietitura ha cambiato tutto.
Tornò a guardare il mucchietto i legna che avrebbe dovuto accendere, senza molta voglia di provarci.
Forse materializzata dai suoi pensieri, Ester piombò seduta accanto a lei e afferrò la pietra focaia. Quando la batté contro il coltellino, si sprigionò qualche piccola scintilla. -Ehi! Ci sono quasi riuscita!- esclamò. Amber non riusciva a capire come facesse, a stamparsi sempre in faccia quel sorriso entusiasta. A pensarci, non credeva di aver mai capito nessun sorriso entusiasta. Li aveva sempre odiati, perchè la facevano sentire... Vuota.
-'Giorno- bofonchiò una voce maschile. Insieme a Ester, Liam era l'unico tributo con cui era riuscita a scambiare qualche parola.
Amber accennò un piccolo sorriso. Chissà se apparisse freddo come sempre, o la Mietitura avesse cambiato anche quello. -Ciao-
In quel momento si alzò una sottile linea di fumo. Ester alzò un sopracciglio, allegra. -Me lo sentivo che questa era la volta buona! Sono due giorni che litigo con questa postazione-
Liam sorrise, poi guardò Amber con i suoi occhi verde cupo. -Ester...-
La ragazza si morse il labbro. -Okay, dovremmo dirti una cosa...Che dovrebbe rimanere un segreto, più o meno-
-Che genere di cosa?- chiese Amber, incerta. Erano poche le volte che qualcuno le avesse parlato per altro, oltre che adularla.
-Allora. Ho imparato il discorso di Ronnie a memoria- Ester si concentrò. -Ci sono tributi decisi a non arrendersi a Capitol City-
Capitol City era sempre stato l'ultimo interesse di Amber, ma in quel momento non le importò. -Quanti tributi?-
-Per adesso... tre- rispose Liam, armeggiando con un altro mucchietto di legna.
-Non mi interrompete, è difficile- Ester cercò le parole. -Immagina una grande alleanza, nell'arena. Immaginala vincere su tutte le altre, soltanto difendendosi, e rimanere sola. È il momento in cui i patti si sciolgono, e i membri scappano o si uccidono a vicenda. Noi non lo faremo- Ester aggrottò la fronte. -Qui c'era tutta la parte sull'idealismo, la giustizia e il coraggio, ma non me la ricordo-
-Lasciando stare idealismo, giustizia e coraggio- continuò Liam. -A questo punto ci divideremo in due gruppi. Chi di noi ha famiglia scapperà, me compreso. Gli altri rimarranno fermi-
-Mano nella mano, che è sempre commovente- riprese Ester, con un sorriso radioso. -Dimostreremo che Capitol City può prendersi le nostre vite ma non le nostre anime, la nostra fiducia, la nostra volontà, che non può vincere su tutto. Saranno gli strateghi, l'arena e gli ibridi a decidere il vincitore. Non noi, non le nostre lame... Vinceremo tutti, ma non una coroncina da parte dei nostro carnefici: vinceremo moltò di più.- Ester espirò, soddisfatta. -L'ultima parte la sapevo-
Quel fiume di parole si impresse lentamente nella mente di Amber. Aprì la bocca per rispondere ma il fiato le mancò.
-Commovente- tagliò corto Liam. -Pensiamo che Capitol City risparmierà le nostre famiglie, se saremo in tanti, o rischierà davvero di fomentare la rivoluzione... Tranne quella del vincitore, naturalmente. Per questo, se vuoi avere comunque una speranza di sopravvivere e di non essere punita, puoi scappare via. Diremo che non ci avevano messo al corrente del piano, o che non eravamo daccordo, che non ci fidavamo ma abbiamo visto un'opportunità in più di vincere...- restò qualche istante a fissare il vuoto, ma Amber non ci fece molto caso.
Il cuore le batteva nel petto, sempre più forte, sempre più irregolare. Era qualcosa di più della speranza. -Io...- la sua voce le sembrò estranea. -Non ho famiglia-. Mamma, papà... Perdonatemi.
-Rimarrò fino all'ultimo- sorrise. No, il suo sorriso freddo era cambiato. Non ne era sicura, ma pensava che stavolta fosse uno di quei sorrisi entusiasti che l'avevano sempre irritata.

Qualcuno piangerà per me...


La domanda era più che chiara. Odio Capitol City più di quanto amo me stesso?
Alex sorrise aspramente. –Appena gli strateghi capiranno, non credo esiteranno a farci sprofondare sotto terra.-
-Al contrario- ribatté Ronnie. –Noi dobbiamo rivelare cosa abbiamo intenzione di fare, o almeno non tentare di nasconderlo. Se finissimo ammazzati diventeremmo martiri, saremmo ancora più pericolosi. L’unica cosa che loro possono sperare è che la nostra alleanza vinca, e che una volta rimasti soli..-
-Uno di noi ci tradisca. Uccidendoti- completò Alex. Il discorso quadrava.
-Vincerà solo una persona- continuò Ronnie. –Questa non è regola che possiamo cambiare. Ma per Panem non conta se l’intera alleanza verrà uccisa dai Favoriti il secondo giorno, contano le nostre intenzioni.- sospirò. –Hai detto di non avere una famiglia-
Alex fece una smorfia. –Non più. Avevo sette anni, i Pacificatori…- un pensiero gli trafisse la testa come una freccia. -La persona per la quale sono andato volontario. Capitol City potrebbe…-
Ronnie annuì, riponendo il kopis sul banco. –Potrebbe. Se non te la senti potresti scappare alla fine; è quello che farà Ester. Se vincerà, potrà fingere di non essersi fidata del piano di quest’alleanza. Anche se il presidente non se la berrà, sterminare la sua famiglia equivarrebbe a dichiarare che sia davvero un ribelle. Un ribelle vincitore- sottolineò. -Questo sperando sempre che non la faranno pagare anche alle famiglie dei ribelli morti-
Odio Capitol City più di quanto amo me stesso? Alex si ripose la domanda. La risposta bruciava nella sua testa, bruciava in tutto sé stesso, ma a inondarlo fu solo una tristezza vuota. Non c’era nulla di eroico in quel sì, ma solo desolata, buia amarezza.
Deglutì, perché intuiva l’enormità di quello che stava per dire. Non si torna indietro.
-Io non vincerò.-
Nella sua anima, quelle parole piombarono come tre pietre tombali. –Non ho intenzione di fuggire, né di mettere in pericolo il mio unico amico- disse, mentre la tristezza si perdeva nel fiume dell’odio. –Quando mi sono offerto sapevo come sarebbe finita. Prima o poi tutti muoiono. Non ho paura-
Si sentì gli occhi di Ronnie addosso, velati da una strana stanchezza. –Anch’io dico sempre così.-


Lasciando Alex ad allenarsi con un machete, Ronnie si allontanò e prese un profondo respiro. Il peso di quello che stava per fare lo schiacciava.
Che uno di noi tradisca. Uccidendoti.
Non poteva fare nulla contro l’istinto di sopravvivenza umano. Se qualcuno della sua alleanza avesse deciso di accoltellarlo, il presidente avrebbe avuto tutti gli interessi a farlo vincere. Avrebbe potuto essere Alex. Liam. Forse Ester stessa.
Era un bene o un male che la sua alleanza fosse numerosa? Scegliere persone in cui mettere in mano la vita sua, degli altri alleati e di Panem intera in base a qualche futile chiacchierata. Come va la vita nel distretto? Che lavoro facevi? Ti andrebbe di entrare in un’alleanza rivoluzionaria del tutto retta sulla fiducia e, gentilmente, evitare di uccidermi?
Ti andrebbe di entrare in un’alleanza rivoluzionaria del tutto retta sulla fiducia di cui uno dei membri ti ucciderà, se non sceglierò bene?
Di certo, non fidarsi significava perdere a priori. Ma non era solo tutta quella responsabilità a fargli venire il mal di testa. Che uno di noi tradisca. Uccidendoti.
Uccidendo lui. Era il capo della ribellione, si era fatto due anni di carcere per aver dato fuoco alla casa di un Pacificatore. Se anche tutto fosse andato per il meglio, Capitol City non avrebbe permesso che fosse proprio lui a vincere.
Strinse le dita sulla lancia che teneva in mano, ricordandosi di quando le usavano per demolire le finestre dei Pacificatori. La sua vita era già finita, due anni prima, e quella era la morte migliore che potesse sperare. Ma ripeterselo non bastava a sopprimere quei pensieri.
Certo, sarebbe stato tutto più facile, se ci fosse andato di mezzo soltanto lui. Pensò ai suoi genitori. Vi sto per uccidere.
Se anche Capitol City non avrebbe punito le famiglie degli altri ribelli, non sterminare la sua era fuori questione. Chissà, forse l’intero gruppo dei Dogs…
Aveva davvero abbastanza forza? Non c’era modo di scoprirlo.
Di una cosa, però, era sicuro: la forza di tornare a casa o morire senza tentare, quella no, non l’avrebbe mai avuta.
Ronnie riaprì gli occhi e fissò le sue mani. Poi i manichini di stoffa della sala. I coltelli ordinati nell’armeria. I ventitré tributi, uno per volta. Poi suo sguardo corse quasi inevitabilmente sul palco degli strateghi.
Gli ultimi. Erano anni che non si sentiva inondato da quel calore trascinante, elementare - lo stesso che l'aveva reso la persona che era, lo stesso che durante la prigione si era soltanto sopito - e d'improvviso, fu come tornare a respirare. Questi Giochi saranno gli ultimi.


-Ho sempre voluto un gatto- disse Arcturus.
-Io ho un gatto- disse Xen.
-Anch'io ho un gatto- disse Clyph.
E non è morto di fame tre mesi fa.
-Allora- mormorò Hazel, riprendendo a leggere. -Mancinella. Altamente velenosa; le sostanze che sprigiona anche solo spezzando un ramoscello causano irritazione agli occhi e alla pelle... Problemi respiratori...-
-Ma gli ibridi- la interruppe Arcturus -Si potrebbero addomesticare? O sono programmati per uccidere fin da quando sono stati creati? Come fa Capitol City a renderli così... Mostruosi?-
-Non tutti gli ibridi sono feroci- rispose Xen. -Sono solo animali diversi-
-Uno dei miei fratelli- intervenne Clyph -Aveva un'amico che ha vinto i Giochi. Nella sua edizione c'erano zanzare che succhiavano via il veleno, e l'hanno salvato. E anche una specie di riccio con degli aculei lunghissimi, che seguiva i tributi dappertutto ma non li attaccava-
Hazel lo guardò. -Che edizione era?-
-I Quarantunesimi- mentì con scioltezza. Sorrise. -L'amico di mio fratello aveva dodici anni-
-Vinse? A dodici anni? Come si chiamava?- chiese Xen, mordendosi il labbro.
-Sì, vinse- Clyph spostò lo sguardo sul libro nelle sue mani, pensoso. -Il suo nome era..- si sorprese, sentendo una piccola lacrima bruciargli sulle ciglia. -Whys-


Axe saltò, aggrappandosi al settimo ramo con entrambe le braccia.
-Ti raggiungerò- gridò Diana, sotto di lei. Axe trattenne un sorriso, lanciandosi verso l'altro albero. Il tonfo che sentì dietro di lei la informò che l'altra non aveva avuto altrettanto successo.
-Ehm- disse Diana, quasi cinque metri più in basso. Si era ritrovata appesa a un ramo, le gambe penzoloni nel vuoto.
-Sicura di non volere aiuto?- disse Axe, aggrappata per le gambe a un ramo, a testa in giù.
-Vieni... Subito...- ansimò Diana, cercando invano di tirarsi su.
-Non ti preoccupare, non vorrei mai ferire il tuo orgoglio- Axe inclinò la testa verso il basso. -Oh, guarda. Forse anche Alek vuole provare-
-Axe...- implorò Diana.
-Credo voglia parlarmi. Ora scendo-
-Axe-
-Sì! Scendo!-
Axe si tirò su, e si lanciò verso i rami più bassi. Era quasi arrivata da Diana, quando lei si diede un'ultima spinta e riuscì a risollevarsi. -Grazie- le disse, con un sorriso sfrontato. Che Axe ricambiò.
-Beh?- apostrofò Alek, una volta giù.
Lui la guardò negli occhi per un istante, prima di distogliere i suoi. -Sono tra i Favoriti, adesso-
Axe ebbe l'impressione che una secchiata d'acqua gelida le fosse piombata giù per la schiena.
-Favoriti- ripeté, senza riconoscere la propria voce. Posata e fredda.
Il ragazzo deglutì. -Avrebbe senso dire... che mi dispiace?-
-Certo che ti dispiace- Axe non tentò di nascondere il disprezzo. -Ognuno sceglie come morire- Si voltò, i pugni stretti.
Non posso fidarmi. Di nessuno di loro. Alek era il tributo che credeva di conoscere meglio, e mai avrebbe immaginato che sarebbe entrato fra i Favoriti. Fidarsi?
Ripensò al viso di Mark che si contorceva in preda agli spasmi, il sangue che usciva a rivoli dal naso, dalle orecchie e dagli angoli degli occhi. E lo sguardo del suo avvelenatore, del tributo del distretto 4, mentre gli si avvicinava con il coltello per finirlo.
-Dannazione!- urlò, sferrando un pugno secco al tronco dell'albero. L'ira e il dolore le offuscarono la mente, come quella notte. Guardò la sua mano, quasi si aspettasse di vedere l'anulare e il mignolo pieni di sangue.
Respirò a fondo un paio di volte, prima di calmarsi.
-Abigail?- la chiamò Diana.
-Hai intenzione di uccidermi?-
La ragazza si accigliò, confusa. -Cos'è successo?-
Axe si staccò dal tronco, per guardarla negli occhi. -Alek non è più tra i nostri alleati-
Diana tacque per qualche istante. -È per questo che...?- indicò con un cenno il tronco di metallo.
-No- rispose, massaggiandosi le nocche dolorati della mano sinistra -É l'attesa di entrare in questa maledetta arena che mi fa impazzire- poi Axe tirò fuori un sorriso, e i suoi occhi tornarono a scintillare. -Sai cosa ti dico? Mi sono stancata di archi e alberi. Ora è il turno delle asce-


Momo era acquattata dietro la colonna, attenta. Più ascoltava Ester parlare, più l'adrenalina la invadeva, più una feroce voglia di unirsi all'alleanza combatteva contro l'altrettanto feroce voglia di tornarsene al suo distretto, senza ulteriori complicazioni.
Solo che quell'ultima prospettiva cominciava a non attrarla più. Non era per sottomettersi in quel modo che si era fatta tatuare, sulla schiena, un canarino sul punto di prendere il volo.
Se anche fosse tornata al suo distretto, non sarebbe stata capace di guardare suo fratello negli occhi. O di guardare quel tatuaggio. Lanciò un'occhiata veloce agli strateghi, un'occhiata ostile.
Nessuno riuscirà a piegarmi così.
-Rimarrò fino all'ultimo- disse Amber. Momo si rialzò e si appoggiò al lato della colonna, allo scoperto.
-Anche io- disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ester praticamente balzò all'indietro, sgranando gli occhi. -Da quanto... Ci stavi...-
-Tre giorni e un paio di ore- rispose, con la stessa semplicità.
-Splendido- disse Liam, squadrandola scettico. -Hai detto di volerti unire?-
Momo annuì, con un piccolo sorriso.
-Quanti anni hai, ragazzina? Sei?- la schernì. E Momo detestava essere schernita.
-Dodici. E ho un nome-
-Sarebbe?-
-Momo Centodue, ragazzino-
Il tributo si voltò verso le altre due ragazze. -Accettiamo bambine nell'alleanza?- si informò, curioso.
Gli occhi scuri di Momo lampeggiarono, ma non fece in tempo a dire niente.
-Beh?- riconobbe all'istante quella voce. Si girò di scatto verso Ronnie, fissandolo a testa alta dieci spanne più in basso. -Sei tu il capo? Bene. Io sono con voi, ma se quello lì apre di nuovo bocca potrei cambiare idea-
-Quello lì sarei io- specificò Liam, con tutta l'aria di chi sta per scoppiare a ridere.
Ronnie alzò le sopracciglia, con un sorriso perplesso, e Momo incrociò le braccia al petto. Non abbassò gli occhi. -Questa cosa va organizzata meglio. Senza armi siamo persi, perciò dobbiamo trovare il modo di procurarcele alla Cornucopia. Tra i nostri i migliori a correre dovrebbero essere tu, Alex e Liam. Se sopravvivrò al bagno di sangue, andrò a cercare membri eventualmente dispersi e torneremo un unico gruppo. Una volta armati l'unica alleanza che potrebbe darci battaglia sarà quella dei Favoriti, e la nostra unica preoccupazione sarà evitarla e restare in vita. Cosa sapete delle tecniche di sopravvivenza? Io ho studiato i primi due volumi sulle erbe- Inclinò la testa di lato, aspettando una risposta, che tardò.
Fu Alex, apparso da chissà dove, a interrompere un lungo silenzio stranito. -Fa tenerezza- mormorò, senza un'intonazione particolare.

 





________________________________

Note dell'autrice che implora pietà. E che sta cominciando a divertirsi con l'HTML

Buongiorno a tutti! Esatto, sono viva, vegeta e in ritardo (comincio a diventare monotona). L'interattivaro più lento della storia, credo. Sopportatemi.
Ogni volta che mi metto a scrivere sento il bisogno di saltare a piè pari i capitoli intermedi e passare all'arena. Io voglio PATHOS. Mancano solo le interviste...
E io non so scrivere interviste. Siete avvisati.
Allordunque, scusatemi se in questo capitolo alcuni personaggi sono comparsi più degli altri, ma ritenevo più importante descrivere l'addestramento di alcune persone piuttosto che dilungarmi, per esempio, sui Favoriti.
Questo è un capitolo che va letto lentamente, però: molte cose caratteriali e non dei personaggi le ho scritte tra le righe, vedete Alek. Ma la parte migliore di tutto ciò mi sa proprio che è il titolo, e... Non so se dovrei compiacermi o disperarmi per questa affermazione. Arbeit Macht Frei. Amatemi.
Devo imparare ad essere meno logorroica, quindi sarà meglio troncare qui queste note. Tremate, però, perchè nel prossimo saranno più lunghe del capitolo: ho tutta la sponsorizzazione da spiegare. Scriverò la data di probabile aggiornamento dopo una settimana, come questa volta, e potrà cambiare. Tenetela d'occhio, insomma.
Saluti a tutti!
Grazie, lettori e recensori, di aver letto.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** È solo un trucco ~ parte I ***



Caesar Flickerman, splendente nei suoi trent’anni, nel suo sorriso smagliante e nel vivace verde shocking dei suoi capelli, fece il suo ingresso sul palco dell’Anfiteatro.
-Buonasera a tutti, Capitol City e Distretti! Siete elettrizzati a sufficienza?- I cerchi di luce dei riflettori rotearono attorno a lui, mentre il pubblico esplodeva in acclamazioni in falsetto. -Cosa ci riserveranno i tributi dei Cinquantesimi Hunger Games? Non morite come me dalla voglia di scoprirlo?- altre grida. –Allora, diamo loro il benvenuto che meritano!-



IN FONDO, E' SOLO UN TRUCCO
~Parte I

 
Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.

-La grande bellezza, monologo finale. Da leggere lentamente, con enfasi e sofferenza.


 
__________Distretto 1

Uno scroscio di applausi. Non ne aveva mai sentiti di così rintronanti, prima d’ora. Swyd vide Gehenna avanzare verso Caesar, con quel suo minuscolo sorriso di denti bianchi.
-Allora, mia cara, come ci si sente a stare qui?- iniziò Caesar, mentre la ragazza si accomodava senza degnarlo di un’occhiata. Guardava un punto fisso nel vuoto, davanti a sé.
-Colori, troppi colori… Non riesco a…- alla voce ipnotizzante di Gehenna, il pubblico si acquietò. –Vederli…-
Era impossibile che Caesar non sapesse del manicomio dov’era stata rinchiusa. A Swyd non parve sorpreso, anche se sotto quello strato di trucco color muschio era difficile dirlo.
-Non vedi i colori?- chiese. Gehenna si alzò in piedi di scatto, continuando a guardare il vuoto. –Le pillole sono finite- disse, e sembrò che la sua voce avesse perso parte di quella incantevole dolcezza. –Manca… così poco… E i colori torneranno…-
Swyd dubitò che qualcuno, in tutta Capitol City, avesse capito qualcosa. Solo lui. Purtroppo.
-Sei davvero teatrale, Gehenna!- sorrise Caesar. –Ma raccontaci di te. Vuoi svelarci qualcosa sul tuo sette in addestramento?-
La testa della ragazza ciondolò a sinistra. –Erano di… Lamelle… Brillavano…-
-Cosa?- provò dolcemente Caesar, cercando di velocizzare il ritmo dell’intervista.
-Me le hanno… Tolte…- Gehenna sembrava completamente persa. Cominciò a battersi il pugno destro sulle gambe, a intervalli regolari. Swyd si ricordava di averglielo visto fare anche in treno.
Caesar guardò il pubblico con fare confidenziale, un sopracciglio alzato –Sarà nervosa?-
-Tom, he was a piper’s son…-
Swyd aveva cominciato ad amarla, quella canzoncina. Non sapeva bene perché. Cercò di rilassarsi, mentre la voce della sua compagna deliziava il pubblico perplesso.
-Sei un talento! Non ho ragione?- chiese Caesar agli spalti, poco prima che il segnale acustico squillasse.
Swyd si alzò con un sorriso rilassato, che nulla lasciava intravedere del tumulto nel suo petto. Salutò il capitolino e si mise a sedere, con l’aria di chi non è mai stato tanto a suo agio in vita sua. Riflettori sopra di lui. Riflettori davanti a lui. Telecamere ovunque. Lasciò vagare lo sguardo per gli spalti, senza togliersi dalla faccia quel sorriso idiota. In effetti, potrebbe essere casa mia…
-Perché ti sei offerto volontario?- fu la prima domanda. Swyd alzò le spalle. –E’ così misera, la vita nel distretto. Misera non di ricchezze quanto di senso, di obiettivi. Io sono troppo importante per sprecarmi. Voglio essere ricordato, voglio sentire l’adrenalina nelle vene, e voglio la gloria- scoccò al pubblico un’occhiata a metà tra il seducente e l’intrigante.
-Questo è parlare- approvò Caesar, sfogliando il suo registro. –Qui mi risulta un dieci tondo tondo. Non vuoi parlarci dei tuoi talenti segreti?- lo stuzzicò. Swyd si dipinse in volto sentito dispiacere. –Temo terminerebbe l’intervista prima che li finisca-
Caesar scoppiò a ridere, come da copione –Questo ragazzo ha scritto in fronte “scommettete su di me”, non pensate?-
Swyd cercò di rimanere indifferente al tumulto entusiasta sugli spalti. Quando c’erano troppi… Rumori, troppe voci… Il panico lo assaliva.
-Sentiamo, a chi dedicheresti la tua vittoria?-
Gli sarebbe piaciuto poter pensare “A mio fratello”. Ma se fosse stato ancora vivo, Nes gli avrebbe sputato in faccia. Ancora non posso credere di averlo tradito così. Di essermi offerto.
-A mio padre- oh, sì. Sei contento, papà? Tuo figlio è con te. Bastardo quanto te. Soppesò la risposta qualche istante, poi aggiunse: –E a una ragazza-
Concesse un sorrisetto al pubblico, che scoppiò in piccoli gridolini commossi.
-Ah-ha!- Caesar gli fece l’occhiolino. –Lo sapevo. Chi è?-
-Caesar… Io sono una persona riservata- disse adagio, mentre si stiracchiava teatralmente sulla poltrona. O forse è solo che non mi va di inventare un nome.
L’uomo accennò una risata. -Suppongo che quindi la mia prossima domanda non avrà molto successo-
-Chissà?-
–Vuoi dirci qualcosa della tua compagna di distretto?-
In effetti potrei dire che è la mia migliore amica, pensò, e se non fosse stato lì sarebbe scoppiato a ridere. E il fatto che sia pazza e che la conosca da tre giorni dà da pensare sulle mie amicizie.
Si limitò ad alzare le spalle. –Oh… Lamelle ha perso un paio di forbici stamattina-
 
__________Distretto 2
 

Scarlett ascoltò l’intervista di Swyd torturandosi la leggera tunica rosa pallido.
-Nervosa?- le bisbigliò Samuel, che non lo sembrava affatto. Scarlett sbuffò divertita. –Da quello che diremo in due minuti potrebbero dipendere le nostre vite. O si è nervosi o si è molto stupidi-
-Devo essere proprio un idiota- commentò Samuel, ma non ebbe tempo di rispondergli.
Trillo acuto. Toccava a lei.
Sfoggiò il suo miglior sorriso arrogante, mentre le telecamere la puntavano.
-E l’ora della dea guerriera, della bellissima Scarlett Jackson!-
Inebriata dagli applausi, Scarlett si avviò verso la sua poltroncina a passo deciso, guardando gli spalti, mentre la tensione scioglieva nell’eccitazione.
Caesar le baciò la mano e lei si accomodò, resistendo alla tentazione di pulirsela contro il vestito.
-Allora, parlaci di te. Chi ti aspetta a casa?-
-La mia famiglia e qualche amico. Prima che me lo chieda, nessun fidanzato-
-Una ragazza così bella e nessun fidanzato?- replicò, sorpreso.
Scarlett roteò gli occhi. –I ragazzi del distretto sono tutti degli emeriti idioti-
-Prego?- L'ultima cosa che si aspettava, in quel momento, era la voce allegra di Samuel. Il pubblico, Caesar compreso, esplose in risate assordanti. Scarlett però non apprezzò l’interruzione. Mi sta rubando la scena.
–Ho detto: i ragazzi del distretto sono degli emeriti idioti.- gli ripeté educatamente, senza girarsi  –Ma perlomeno ci sentono bene. A parte te, naturalmente-
I Capitolini non avevano molto senso dell’umorismo. Qualsiasi idiozia si dicesse, scoppiavano a ridere.
E infatti scoppiarono a ridere.
-Beh, cara mia, forse è ora che tu prenda in considerazione qualche altro partito- disse Caesar, prendendole galantemente la mano. Ma che razza di pagliacciata sta diventando…
-Prima la vittoria, poi il matrimonio- ribatté, allontanando il braccio.
-Sii certa che tiferò per te, allora- sorrise Caesar –Continuiamo. Cosa ti ha spinto ad andare volontaria?-
-Mettermi alla prova- disse, con il primo sorriso sincero dall'inizio dell'intervista. –E’ da quando avevo cinque anni che mi alleno, che mi dicono di esser capace di grandi cose. Devo provarlo a me stessa, e devo farlo qui, negli Hunger Games- intrecciò le mani, tenendo a freno l'emozione. –Solo così, per me, avrà senso vivere-
-Sono questi i tributi che adoriamo!- esclamò Caesar, rivolto al pubblico. –Non vedo l’ora di vederti in arena-
-Se non fossi destinata a vincere, non sarei nata.-
Acclamazioni. Sarebbe arrivato il momento in cui le avrebbe potute godere fino all’ultimo.
-Cosa pensi dei Favoriti di questa edizione?- continuò Caesar.
-Alleati alla mia altezza. Potrei riuscire a sopportarli- a eccezione di…
Segnale acustico. Intervista finita. Scarlett lanciò un’ultima occhiata altera alla folla, salutò brevemente Caesar e lasciò il palco a passo deciso.

Samuel si lasciò cadere nella poltrona ad occhi chiusi. –Sono la cosa di Capitol City che apprezzo di più- disse. –Le poltrone-
-Non posso che condividere- Caesar si abbandonò sulla spalliera, sospirando. –Potrei restare così per ore… Ma ho un intervista da fare-
-Sembrerebbe- Samuel non soffocò uno sbadiglio. -Prima domanda?-
Caesar diede una rapida occhiata al suo registro.
-Narper. Ci ricordiamo già di questo cognome, non è vero?- chiese al pubblico, in tono grave. Samuel si passò la lingua sulle labbra, lentamente, mentre il silenzio calava attorno a lui. Ricordò sua sorella, su quello stesso palco, ricordò ogni singola battuta che aveva scambiato con Caesar. Ricordò la sua voce. “Cosa voglio dire al mio distretto? Samuel, guardami e impara come si usa decentemente la lancia”
-Sì, e continuerete a ricordarvene- affermò infine, senza che il suo sorriso beffardo si incrinasse. Trasforma il dolore in furia, e sarà la tua forza. Era quello che gli ripeteva sempre suo padre.
 –Samuel Narper si meriterà un posto d’onore nella storia di Capitol City. E vorrei dire, a chiunque non si sia dimenticato dell’intervista di mia sorella, che ho imparato come si usa la lancia-
Caesar di certo se ne ricordava, perché scoppiò a ridere. –E’ così che hai ottenuto il tuo dieci all’addestramento, ho indovinato?- disse con un sorriso furbo. Idiota, era solo una frase ad effetto. Odiava le lance.
-Suppongo lo vedrete domani-
-E domani sia- Caesar proseguì allegramente. –Qual è la prima cosa che compreresti con i soldi della vittoria?-
Samuel si stravaccò eloquentemente sulla poltroncina. –E me lo chiedi?- replicò.
L’uomo ridacchiò, poi ritornò ad una parvenza di serietà. –Dedicherai la vittoria a Sarah Narper?-
Samuel ampliò il sorriso. –No. La dedicherò a me.-
Era così che avrebbe risposto Sarah, con lo stesso sorriso aspro, beffardo, di orgoglio palese e affetto silente. Nel mio caso, nostalgia silente.

 
__________Distretto 3


Alyson raggiunse il palco con passo delicato, avvolta da un abito dello stesso color ambra dei suoi occhi. Caesar le baciò la mano, galantemente. –Qual splendore scorge oggi il mio sguardo…-
Qualche anno prima, Alyson sarebbe arrossita. O avrebbe seguito alla lettera le raccomandazioni del suo mentore: punta tutto sull’immagine del tributo delicato e gentile, cerca gli sponsor. Ma non quando mancava una sola notte alla sua morte.
-Ciao- disse, accomodandosi, mentre osservava curiosa l’Anfiteatro e i capitolini. C’era colore, luce, troppa luce. Aveva una sua bellezza, ma era esagerata, abbagliante. Luce che più che illuminare nascondeva.
-Ditemi, per voi è giusto che questa ragazza abbia preso un due?- esclamò Caesar, rivolto al pubblico. Alyson non si girò nemmeno per vedere la reazione dei capitolini. Non si era stupita del suo voto, dopo aver passato tutto il tempo disponibile parlando di tramonti, cieli blu, dei suoi dipinti e della vita nel Distretto. 
Guardò Caesar, con i capelli di quel verde stordente e il trucco elegante che gli appesantiva il viso. –Perché cambi parrucca ogni anno?- chiese.
-Pensavo di dover essere io a fare domande- osservò Caesar.
-Ma non diventerà monotono, così?- replicò candidamente, ricambiando il sorriso.
-Non lo vorrei mai!- concordò Caesar, poi schioccò la lingua. –Allora, i miei capelli… E’ lo stesso motivo: non sarebbe monotono altrimenti? Ogni anno è nuovo, merita un nuovo colore. Nuova edizione, nuovi tributi… I colori ravvivano la vita!-
-Per chi non riesce a farla brillare da solo- mormorò Alyson. Caesar probabilmente non sentì. –Parliamo di te, ora. Hai una famiglia che ti aspetta?-
-Di che colore sono i tuoi capelli?- chiese la ragazza, fissandolo. Caesar rise. –Ne andrebbe della mia fama, se te lo dicessi.- scherzò. –Okay, niente famiglia. Cosa ti ha colpito di Capitol City, oltre alla mia parrucca?-
-Voi- rispose quietamente Alyson. Si guardò intorno. –Voi capitolini. Caes, perché hai scelto questo mestiere?-
-Una domanda tu e una io, è questo il gioco?- l’uomo sorrise. –Accetto. Non so: mi piace parlare con le persone, conoscerle, farle conoscere…-
-Sfiorare la loro vita, per un istante- completò Alyson, prima che se ne uscisse in qualche battuta. –Anch’io. Sono così diverse le nostre vite, il nostro modo di pensare… Eppure siamo tutti persone, giusto? Potremmo capirci. Comprenderci. O no?-
Per un attimo, Caesar non seppe cosa dire, e sul palco calò il silenzio. Non era una pausa ad effetto.
Poi si riscosse. -Accidenti. Mi sa che non le ho capite bene, le regole del gioco-
Caesar rise forte, e con lui Capitol City. In tutto quel clamore il suono della sirena quasi non si sentì.
Alyson avrebbe dato la qualsiasi cosa per un po’ di tempo in più. Basterebbe così poco…

-Ricordatevi di questa ragazza!- fece Caesar, mentre Alyson voltava le spalle al pubblico. –Perché se vincerà, forse le cederò il posto da intervistatore… Forse. Ma prepariamoci ad accogliere su questo palco…- No, no, no, no, no. - il prossimo tributo: Harvey Lewis Cadwalader!- applausi e fischi. –Accidenti, spero di averlo pronunciato bene- finì Caesar.
Il quattordicenne unì i palmi sudati e stiracchiò un sorriso. Okay, okay, non sarà niente di terribile…
Cercò di concentrarsi unicamente sui passi che faceva, perché non voleva far colpo per come si schiantava sui gradoni. –Salve, Caesar- disse, lieto che la sua voce suonasse calma. Un applauso, qualche saluto entusiasta, una stretta di mano e finalmente poté sparire dentro la poltroncina viola.
-E’ un portafortuna quello al tuo polso?- domandò Caesar. Harvey si fissò il braccialetto di fili elettrici colorati, seminascosto dalla manica a frange nere del suo vestito. –E’ molto più di un portafortuna- asserì, pacatamente. –E’ la ragione per cui farò di tutto per tornare da questi Hunger Games- lo sollevò per le telecamere, chiedendosi se fosse stato meglio stillarsi qualche lacrima commovente o mostrarsi forte e determinato. Farò come andrà, decise, nauseato. –L’hanno intrecciato per me due dei miei fratellini. Scott e Daisy. Per ricordarmi che lotto anche per loro, con loro- per ricordarmi chi sono.
Caesar rispose con un sorriso. –Molte persone ti aspettano a casa?-
Su mille argomenti possibili, dovevamo toccare proprio questo?
Harvey raccolse tutta la sua sicurezza e azzardò un’occhiata al pubblico. Centinaia di capitolini lo scrutavano, in attesa di una risposta. –Otto- la sua voce stava per incrinarsi. –Sei fratelli…- valutò per qualche istante se aggiungere che senza di lui non avrebbero avuto abbastanza soldi per vivere, ma si morse la lingua per non farlo. Sia perché in quel momento lo stavano guardando, sia perché sperare di ottenere sponsor appellandosi all’umanità dei capitolini non era granché sensato.
-Sono sicuro che saranno fieri del tuo sette in addestramento- lo salvò Caesar.
Oh, sì, immagino che in questo momento la fierezza li stia soffocando. –Credo anch’io- sorrise, con gentile accondiscendenza. –Credo che… Siano sempre stati fieri di me. E non voglio che l’arena cambi questa cosa-
Forse un capitolino non avrebbe capito, ma la sua famiglia sì. Se mai tornerò, dopo aver ucciso… Mi accetteranno? E io, io mi accetterò?
-Sono sicuro che non li deluderai. E non deluderà neanche noi, non è vero?- Dal pubblico si alzarono gridolini entusiasti.
-Che altro ci dici, Harvey? Come va la vita nel distretto?- riprese Caesar.
Credo di essere uno dei pochi a chiamarla vita. Aprì e chiuse le labbra, alla ricerca qualcosa da dire, poi sentì il felice trillo salvarlo e si limitò a sorridere, pieno di sollievo.
-Buona fortuna- lo salutò Caesar, facendogli l’occhiolino. Harvey strinse la mano che gli offriva. –Grazie, a tutti- cercò lo schermo di una telecamera, consapevole di tutta la sua famiglia riunita davanti la tv. Dedicò loro un sorriso pieno di speranza, poi si voltò e tornò al suo posto. Il cuore gli pulsava in petto con una calma innaturale.
 
__________Distretto 4


Coral si accorse a stento che il presentatore stava chiamando il suo nome. Fu con puro odio che fissò le telecamere, ma poi si costrinse ad abbassare lo sguardo. Si sarebbe giocata tutto in quei due minuti.
Scese i gradini di fretta, con un sorriso emozionato in volto. Dovette fare uno sforzo enorme per evitare di fuggire all’abbraccio amichevole di Caesar, e un altro per non strofinarsi via dalla guancia quei due baci umidi che le lasciò.
-Come ti trovi qui?-
Coral guardò il pubblico con meraviglia estatica. Penso che mi troverei molto meglio in una fossa di serpenti. –E’ tutto così pieno di vita! Non vedo l’ora di tornarci il prossimo anno come mentore-
Caesar sorrise. –Già, già. E dì la verità, fra tutte queste persone chi ha più gusto? Chi ha più fascino? Chi ha la miglior pettinatura dell’anno?- si accarezzò i capelli verdi.
-E’ una domanda retorica?- ribatté Coral. Caesar scoppiò a ridere. –Ovviamente. Senza offesa- si scusò con il pubblico. Nelle risate che seguirono, la ragazza ebbe il tempo di soffocare il disgusto per quella gente e per sé stessa.
-Di cosa vogliamo parlare?- continuò l’uomo. Coral alzò le spalle.
-Bene… Cosa ti ha spinto ad allearti con la ragazza del nove?-
Me lo sto chiedendo anch'io. –La falce che teneva in mano- rispose, senza molta convinzione. Caesar rise comunque. –Una falce? Non vi sembra cruento?-
-A voi piacciono le cose cruente- replicò, pentendosi all'istante della sfumatura di rabbia che aveva invaso la sua voce.
-Diciamo che rendono tutto più avvincente- sorrise Caesar. -Che ne dici, quest'edizione sarà ricca di emozioni?-
Coral dovette chiudere e riaprire i pugni un paio di volte, prima di riuscire a rispondere un -Forse- atono. Non sarebbe riuscita a continuare così ancora a lungo.
-Sei soddisfatta del sei che hai preso all'addestramento?-
-Domani andrò a morire e dovrei sprecare tempo a rispondere a queste domande?- sbottò Coral, rendendosi conto con qualche secondo di ritardo di ciò che aveva detto. Guardò la sua mentore, chiedendosi se avesse appena fatto un'idiozia. In risposta, la donna sospirò e si passò lentamente un dito sul collo.
La ragazza pensò di aver afferrato il concetto. Domani andrò a morire. La disperazione accumulata in tutti quei giorni le crollò addosso come un sudario. Dovette mordersi il labbro per impedirgli di tremare, e l’unico modo che trovò per non far vedere la sua rabbia fu chiudere gli occhi. La furia è l'unica cosa che mi tiene in piedi. Capitol City mi ha già cambiata.
-Non si può dire che non abbia carattere!- la voce di Caesar le arrivò alla mente offuscata, indistinta, lontana.
Non poteva finire tutto l'indomani. Rivoleva indietro la sua vita, e quello che era stata. La nostalgia si portò dietro una colata incandescente di vuoto e solitudine.  Non voglio morire.
Lo squillo prolungato del segnale acustico la riportò alla realtà. Coral batté le palpebre e le lacrime scomparvero dai suoi occhi.
Senza dire una parola, si alzò e se ne andò.

Stephen passò per un istante accanto a Coral, prima di raggiungere il palco. Le sorrise, e per una volta non vide traccia di fastidio nei suoi occhi verdi.
Sentì il bisogno di dirle qualcosa, di toccarla, ma non c'era consolazione che poteva offrire. Nel migliore dei casi, sarebbe morta. Nel peggiore, l'avrebbe uccisa lui stesso. No, nel peggiore mi ucciderà lei.
Poi il momento passò, e Stephen salutò Caesar Flickerman con una pacca sulla spalla. –Ti facevo più alto-
-Tributo impertinente: è il mio genere preferito- il presentatore sorrise. -Sei preoccupato?-
-Sono molto preoccupato – Stephen tamburellò ansiosamente le dita sul bracciolo. –Ho il dubbio di essermi dimenticato la mia fionda quando io e la mia famiglia abbiamo preparato i bagagli. Mamma- si rivolse alla telecamera –Potresti controllare? Non vorrei trasferirmi al Villaggio dei Vincitori senza. E’ un ricordo d’infanzia-
Caesar rise e Stephen lo squadrò per qualche istante, dai capelli verdi all’abito arancione vivace. Vanno di moda le carote, a Capitol City?
-Chi fa il tifo per te, nel Distretto?-
Stephen tirò fuori un sorriso rilassato. –A parte i miei genitori e i miei amici? Credo di avere un’orda di spasimanti.- tutte delle idiote, per citare Scarlett.
-Non ne ho mai dubitato- disse Caesar. –Nessuna ha fatto breccia?-
-Non vorrei spezzare cuori in diretta televisiva… Ma no, nessuna-
Caesar sospirò. –Mi dispiace, ragazze, mi dispiace. Cosa pensi della tua compagna di distretto, invece?-
-Credo vi riserverà delle sorprese- mentì, senza sapere neanche perché. –E’ un peccato che non abbia scelto la nostra alleanza-
Caesar non insistette. –E che ci dici del tuo nove in addestramento?-
-Fai sempre le stesse domande, Caes- rispose, in tono leggero.
-Non è facile, ragazzo mio- sospirò di nuovo.
-Beh, Alyson ci ha provato, e con discreti risultati-
Caesar rise. –Va bene, dammi un’altra possibilità. Qual è il tipo di arena che preferiresti?-
Stephen sorrise pensieroso per qualche istante. –Il mare. Sì, adoro il mare. Mare blu e immenso, con le pedane d’inizio sott’acqua. Ho il record di tempo in apnea del distretto, sapete?-

 
__________Distretto 5


Hazel guardò il suo portafortuna. Un foglio di carta vecchia e ingiallita, arrotolato su sè stesso. Sapeva benissimo cos'era.
Suo padre glielo aveva messo in pugno prima che se ne andasse, e davanti ai suoi occhi imploranti non aveva avuto cuore di rifiutarlo.
Le sue dita ne accarezzarono la superficie ruvida. É solo uno stupido foglio. E invece erano anni e anni che non lo apriva. Chiuse gli occhi, deglutì. Cominciò a svolgerlo, lentamente, mentre le risate di Capitol City svanivano nel suo silenzio.
Riaprì gli occhi. Il disegno era davanti a lei: una bambina dal viso dolce, contornato da sbuffi di ricci castano scuro, illuminato da un sorriso spontaneo e felice - che si rifletteva negli occhi nocciola.
Mamma diceva che avevo degli occhi speciali. Che brillavano come stelle. Che ha scelto il mio nome nel momento in cui li ha visti. Che meritavano di essere ritratti, perciò ha ripreso in mano i pennelli e le bacche per dipingere.
La bambina aveva le braccia spalancate, offerte al vento: anche se non si vedevano, Hazel sapeva che stava correndo tra i canneti.
Quando era bambina amava farlo, con l'acqua intorno a sè, il cielo sopra di sè. Un po' come volare, dicevo. E adesso ho un vestito con due ali d'oro che non significano nulla.
Si era aspettata di sentire l'impulso di piangere, invece era più calma che mai. Sorrise, quasi.
Quando Caesar chiamò il suo nome, lo arrotolò velocemente e lo infilò di nuovo nella manica.
Camminò verso il palco ondeggiando, come le aveva detto la sua mentore, per far ammirare al pubblico le sfumature cangianti di ogni colore che si riflettevano nell'argento dell'abito. Sembrava ricoperto di luccicante rugiada iridescente, mentre due ali di tessuto dorato le cadevano dolcemente lungo i fianchi.
Caesar le prese la mano per baciarla, e vide le dita colorate come i raggi di un arcobaleno.
-Dopo quello della sfilata, non pensavo che costume potesse più stupirmi. Sei magnifica-
Hazel arrossì, sebbene non credesse che il suo vestito avesse nulla di speciale rispetto agli altri. -Credo che dovrei sembrare Iris- disse, esitante. -La dea dell'arcobaleno-. Era anche la dea che portava i messaggi funesti tra gli dei. Buffo, che fosse stata associata ai colori.
-Accomodiamoci, le mie vecchie giunture non ce la fanno- Caesar si sedette con un radioso sorriso. Hazel cercò di ricambiare, poi si sedette sulla poltroncina sperando di cuore che la inghiottisse, o almeno di scomparirci dentro.
-Raccontaci, Iris, come vivevi nel distretto?-
Raccogliere le idee, fare colpo, tenersi stretta la possibilità di sperare. O forse era meglio libersene e basta. Molto meglio.
-Vivevo con dei bambini. Non miei- rispose goffamente. -Stavo con loro mentre i genitori erano al lavoro...- forse avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di più sensazionale.
-Ti pagavano?- domandò serenamente Caesar.
-Sì. Ma... L'avrei fatto comunque- si morse il labbro, cercando invano qualcosa da aggiungere.
-Sarà un caso che la tua alleanza comprenda due dodicenni?- fece Caesar.
Hazel riuscì a sorridere, sebbene quella questione non fosse delle più felici. Per l'esattezza, è la più grande idiozia che potessi fare, e l'ho fatta.
-...Oh, non credo- abbassò il capo, e qualche boccolo nocciola le nascose gli occhi. Ragazzina dolce e calma, amante dei bambini e degli arcobaleni: aggiungendo determinazione e intelligenza, forse poteva bastare per gli sponsor. Nonostante il quattro in addestramento? Mi voglio prendere in giro?
-Uno di quei bambini...- trovò finalmente cosa dire. -La mattina della Mietitura mi ha chiesto cosa succedesse ai ragazzi estratti. Gli ho risposto che partivano per un meraviglioso viaggio, per poi tornare- fece una pausa, spostando lo sguardo su tutta la platea -e io non mento mai.- Sto mentendo?
-Capisco, capisco...- Caesar si concesse una breve pausa ad effetto. -Qual è la prima cosa che vorresti fare, una volta tornata?-
Stavolta, Hazel non ebbe esitazioni. -Andrei dalla famiglia del mio compagno, per scusarmi di non averlo saputo proteggere- anche se non è mia la colpa, se non potevo fare niente. Alcune cose vanno fatte e basta.
E poi...
...Poi andrò a volare tra i canneti. Quel pensiero la spiazzò. Lo cacciò via, insieme alle lacrime, ma sentì la nostalgia sfiorarla per qualche istante.
Mi sentivo viva, quando correvo lì. Adesso sto per morire.
Trillo. Il suo tempo era scaduto. Si alzò incerta dalla sedia, rispose con un sorriso strano all"in bocca al lupo" di Caesar e salutò il pubblico con la mano.
Perchè diamine ho smesso di andare tra i canneti? Avrei voluto farlo, almeno un'ultima volta. Ad esso non potrò mai più. Non rivedrò mai più quel blu. Mai più.
Ormai era fuori dalle telecamere.
Mai più.
E Hazel decise. Inclinò appena la manica, lasciando che il disegno di sua madre scivolasse dolcemente.
Mai più. Le sue dita lo sfiorarono per un ultimo, lieve addio, poi la carta cadde a terra. E lì rimase.
Mai più. Con l'eco martellante di quelle due parole ancora nella testa, Hazel si sedette al suo posto, di nuovo calma.

Arcturus si buttò allegramente sulla poltrona. -Ciao- disse ai capitolini, con lo stesso sorriso che avrebbe rivolto a qualche buffo animale.
-Sembri contento di essere qui- disse Caesar.
-E come non esserlo?- pensando a quello a cui sto evitando di pensare, forse. -Non ho mai mangiato così bene come in questi giorni! A dire il vero... Non ho mai mangiato così tanto come in questi giorni!-
Caesar rise. -Vero, la pancia piena mette di buon umore. Sarà per questo che il capo stratega è sempre così scontroso? Non hai ancora finito la dieta?- si stava rivolgendo al palco rialzato dei strateghi. L'uomo in questione lo fissò di sbieco, senza rispondere, forse solo per stare al gioco.
-E infatti- concluse Caesar ridacchiando. -Ora si spiega il tuo voto in addestramento-
-Cinque non è poi così male- Arcturus allargò il sorriso. -E in fondo a cosa varrà un voto nell'arena?-
-Già, già. Ma parliamo di altro. Chi ti aspetta a casa?-
-Oh, molti- Arcturus cercò di non perdere letizia. -Oltre alla mia famiglia, avevo un sacco di amici, e tutti credono in me-
-Sono venuti a trovarti, dopo la Mietitura?-
-Sì- disse, ritrovando decisione. -E mi hanno detto tutti la stessa cosa: che ce la posso fare-
Caesar annuì con convinzione. -Finora non ha mai vinto un quattordicenne... Perciò non posso non tifare per te-
-Proprio perché non è mai successo, è molto probabile che succeda. Si chiama "legge dei grandi numeri"... O almeno così dice Xen- e il suo sorriso si allargò ancora. Dopotutto, conquistare sponsor con l'immagine del ragazzo allegro e spensierato non gli risultava tanto forzato. Basta non pensare a domani.
-Adoro la matematica!- Ceasar sospirò. -Va bene, non è vero, ma sono certo che hai ragione. Visto che l'ho chiesto anche alla tua compagna, cosa pensi della vostra alleanza?-
-Che non mi posso fidare di nessuno come di Hazel. Che Xen è un genio e che Clyph...- è tra le poche persone di cui non so cosa pensare. -..ha una fortuna incredibile con le scommesse. Per esempio, ieri abbiamo...-
Il segnale acustico suonò prima che potesse raccontare niente.
-Fiducia, intelligenza e fortuna- concluse Caesar. -Si può sperare di meglio?-
Arcturus si alzò dalla sedia con un balzo. -Ciao a tutti!- esclamò -Ricordatevi di scommettere su di me-
L'applauso del pubblico fu il suono più dolce che Arcturus avesse mai sentito.

 
__________Distretto 6

-Chi non ha sentito parlare della dodicenne con un punteggio di otto, otto all’addestramento? Non siete curiosi di conoscerla? Diamo il benvenuto a Momo Centodue!-
Momo scese verso il palco, senza smettere di pensare che il vestito da bambola assassina, con tanto di trucco nero intorno agli occhi e finti tagli ricuciti sul viso, fosse quanto di più insensato si potesse inventare.
-E’ piuttosto inquietante- commentò Caesar, con un sorriso a trentadue denti. Momo ricambiò lo sguardo a testa alta, anche perché considerando la sua statura non erano possibili molte altre prospettive.
-Incredibile, per poco non totalizzavi più punti degli anni che porti- disse Caesar –Come hai fatto?-
Momo sorrise lievemente, ricordando l’espressione degli strateghi mentre stendeva davanti a sé il campionario della refurtiva. C’era un ciondolo dal distretto 12, un cappello e un flauto dal sette, un paio di scarpe da ballerina dal 4, addirittura un maialino di peluche dal 9...
-Soffro d’insonnia- si limitò a rispondere, atona.
-Intendi dire che la scorsa notte ti sei preparata qualche asso nella manica?- chiese Caesar.
Momo scrollò le spalle, guardando accigliata gli spalti. E’ davvero contro questi pezzi di plastica colorata che Derek combatteva? Caesar alzò gli occhi al cielo, rassegnato. –Va bene, va bene. Parlerò più tardi con chi ha deciso questa noiosa regola della privacy. Allora, Momo… Hai un cognome particolare-
Caesar doveva sapere benissimo che proveniva dai cantieri, ma a quanto pareva voleva che fosse lei a raccontarlo. Momo sbuffò. –Non è il mio cognome-
-Uhm…- Caesar assunse un tono più pacato. –Sembra una storia triste. Non hai conosciuto i tuoi genitori?-
Una volta sì. Ma adesso di loro era rimasto solo il ricordo di due occhi neri, lo spettro di un sorriso, la memoria di una voce lontana. Derek, invece, li aveva conosciuti. Derek sapeva tutto.
Momo decise di infischiarsene degli sponsor: con quello che sarebbe successo, di certo non ne avrebbero avuti. Fissò la telecamera, sperando con tutta l’anima che Derek avesse avuto il permesso di assistere agli Hunger Games dalle prigioni. –Se tornerò, mi dirai tutto. Mi dirai come sono morti, e mi dirai qual è il mio cognome.-
Prima di unirsi a Ronnie, non avrebbe neanche usato il condizionale.
Caesar restò interdetto, ma si riebbe subito. –Era un messaggio per qualcuno del tuo distretto?-
-Era un messaggio solo per qualcuno del mio distretto.-
Caesar si portò un mano alla fronte e si abbandonò teatralmente sullo schienale. –Non ci svelerai mai qualcosa per intero, giusto?-
Momo incrociò le braccia al petto e sorrise, senza distogliere gli occhi dalla telecamera. –Non temete per me, perché io non ho paura. Sono dove devo essere-
-Devo cercare di indovinare o non c’è speranza?- chiese ancora l’uomo. Momo non gli prestò ascolto. Guardava quel piccolo schermo tondo, vedeva gli occhi di Esmeralda, di Colette, la sua migliore amica, di ogni singolo bambino delle ventiquattro ore che aveva liberato da una vita insulsa nel cantiere. Ogni abitante del distretto che aveva conosciuto, aiutato, con cui aveva vissuto. Non abbassò lo sguardo nemmeno per un istante. –Non dovete avere paura. Non dovete avere paura di niente e nessuno- scandì di nuovo, lenta e ferma. E stavolta suonò più come un ordine. Il distretto sei sarebbe insorto, e non avrebbe avuto paura.
-Ne riparleremo, dopo la vittoria, vero?- tentò un'ultima volta Caesar, nello stesso istante in cui suonò il segnale acustico.
Momo lo degnò di un’occhiata obliqua. –Lo prendo per un sì- decise l’uomo.

Xen, a dir la verità, non aveva mai visto delle interviste così strane in nessuna edizione.
-Senza perdere tempo, continuiamo con… Xen Miranx!-
Si mordicchiò il labbro tremante, dolorosamente consapevole dei milioni di occhi improvvisamente puntati su di lui. Sono due minuti, sono solo due minuti…
Cominciò a scendere i gradini, con un sorriso pietrificato in viso.
-Ehm… Ciao- provò, ma il suo tono era pericolosamente incerto. Si schiarì la voce.
-Accomodiamoci, accomodiamoci!- disse Caesar, prendendo posto. –Non vedo l’ora di capire cos’è questa legge dei grandi numeri-
Xen si sedette resistendo all’impulso di raccogliere le ginocchia al petto. Non era abituato a tanti occhi su di lui. -Immagina di avere un sacchetto con dentro delle palline. Metà sono blu, metà rosse- Nel silenzio, si sentì più sicuro. Dopotutto, non poteva sperare in una domanda migliore.
–Se ne estraiamo una, ci sono le stesse probabilità che sia rossa o blu. Magari ne estraiamo nove, ed escono tutte rosse: quante possibilità ci siano che anche la prossima sia blu? Sembrerebbe sempre il cinquanta per cento, perché le palline sono le stesse, non è cambiato nulla.- prese fiato. –Ma quante probabilità ci sono che per dieci volte di seguito esca lo stesso colore? Il cinquanta per cento viene moltiplicato per sé stesso dieci volte… E il risultato è meno di un millesimo.-
Xen si chiese se qualcuno fra i capitolini avesse capito qualcosa. In ogni caso, non aveva importanza. –Qui le cose sono un po’ diverse, perché direte che un quattordicenne e un diciottenne non hanno le stesse possibilità di vittoria come la palline blu e le rosse avevano le stesse di venire estratte: ma dopo cinquantuno edizioni, il fatto che nessun quattordicenne ha vinto fa diventare molto, molto probabile la sua vittoria- Xen sapeva benissimo di aver escluso un dato importante: oltre ai diciottenni, c’erano i diciassettenni, i sedicenni, i quindicenni e i dodicenni con le loro possibilità in rapporto con il numero di volte in cui avevano vinto. Il ché rendeva la Legge dei Grandi Numeri veramente poco consolatoria.
Caesar annuì, un po’ sconcertato, ma sempre sorridente. –…Beh, la domanda te l’ho fatta io, quindi non posso incolparti se mi è venuto il mal di testa.-
Anche Xen si permise un sorriso, ripromettendosi di ringraziare Arcturus.
-Oltre ai quattordicenni- osservò Caesar. -finora non ha mai vinto neanche un dodicenne. Quindi puoi considerarti fortunato, giusto?-
…Neanche uno? E Whys? Xen intuì che non fosse il momento adatto per chiederlo. –La fortuna non esiste. Tutto il mondo è… Numeri-
- Già, già. Come hai imparato tutto questo? Ve lo insegnano alla scuola del distretto?-
-Non proprio- ammise. –Ma in famiglia abbiamo qualche libro di matematica. Mio nonno era amico del sindaco precedente… E lui amava i libri, così ce ne ha regalati-
-Che ne dici di cambiare argomento?- continuò Caesar -Cosa pensi della tua alleanza?-
Xen si era già preparato la risposta, visto che l’aveva chiesto a tutti. –Una squadra come la nostra viene sottovalutata da tutti i tributi… E’ un vantaggio, no? Ma solo se non ci sottovaluteranno anche gli sponsor-
-Dopo quest’intervista, non credo proprio che succederà- sorrise Caesar. –Insomma, non so voi, ma io sono impressionato. Questo dodicenne è un prodigio!-
Xen arrossì, imbarazzato, ma le voci entusiaste del pubblico lo convinsero che era andato tutto per il meglio.
Poi il segnale acustico squillò. –Tempo scaduto- sospirò Caesar. Tempo scaduto. La neonata esaltazione di Xen disparve, mentre guardava l’orologio in alto.
Dodici ore e trentasette minuti. Mancano dodici ore trentasette minuti.



NOTE DELL'AUTORE TROPPO STANCO PER CURARSI DELL'HTML.


Ehm. Buongiorno. Buonanotte. Quello che è.
...
Non voglio neanche contarli, i giorni. Ma non è colpa mia! Storia, verifiche, totale antipatia per le interviste... Volete una zolletta di zucchero? :c Va bene, sono patetica. Andiamo per ordine, come al solito.

1) Non ho letto il primo libro e non ricordo molto del secondo, quindi Caesar l'ho fatto un po' a casaccio. Se non ci ho indovinato, fingete che sia il suo gemello.
2) Vi giuro che quello che ha detto Xen ha senso.
3) Una volta che avevo finalmente pubblicato, ho riletto e mi sono pentita di averlo fatto.
4) Vorrei che consideraste questo non come un capitolo a parte, ma parte del prossimo: forse è meglio che aspettaste e li recensiate insieme, se volete.
5) No, non pensate che da adesso ogni capitolo arriverà in un mese. Cercherò di recuperare, anche perchè è vacanza... Va bene, non so se le vacanze aumenteranno il mio tempo libero visto che partirò, ma ce la metterò tutta.
6) L'Arena è vicina! Tanto vicina ^-^ ed io non l'ho ancora scelta. Potevate evitarmi di suggerirmi tutti arene meravigliose? Non so come farò.
7) Grazie a tutti quelli che ho ringraziato negli altri capitoli. Perdonatemi se non ripeto l'elenco, ma oggi sono stata tutto il giorno a scrivere e fra poco mi cadono gli occhi. Ecco, sentitevi in colpa.  

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** È solo un trucco ~ parte II ***


 

IN FONDO, E' SOLO UN TRUCCO
~Parte II
 
"Il segreto del successo è la sincerità. Se riesci a fingerla, ce l'hai fatta."





Axe lanciò via il cappellino di fiorellini rosa che la sua stilista le aveva affibbiato. Fiorellini... Rosa... Si mise in testa il suo portafortuna, consapevole che pochi cappelli stonavano come quello sul suo vestitino a veli e pizzo lilla.
Si voltò verso la stilista in prima fila: Reeva la guardava con gli occhioni spalancati e la bocca a forma di "o".
Abigail Jamie le rivolse un sorriso amabile, poi raggiunse Caesar sul palco guardandolo scettica. Vanno di moda le carote, a Capitol City?
Caesar le andò incontro, porgendole la mano. Axe l'afferrò con ostentata educazione, ma non poté trattenere una sorrisetto divertito quando il presentatore si accorse delle due dita mancanti.
-Non ci siamo ancora presentati, e già mi riservi delle sorprese- esclamò Caesar. -posso mostrarlo?-
Doveva essere una domanda retorica, perchè le aveva già sollevato la mano per le telecamere. -E se dicessi di no?- commentò Abigail.
-Sarebbe tardi. - rispose Caesar, accomodandosi. -Ci vuoi raccontare come ti sei procurata un così minaccioso biglietto da visita?-
-No.-
-No?-
-No.-
-Neanche se ti sponsorizzassi una collezione di figurine di Caesar Flickerman appena uscite?-
Axe fece un sbuffo, più simile a una risata esasperata. -Stavo tagliando legna... Ed è successo. Ti aspettavi una chiacchierata più interessante?-
-Non dev'essere stato molto divertente- commentò Caesar. -A proposito di chiacchierate, Abigail, in città ne stanno girando parecchie sul tuo voto in addestramento. Qualche indizio su cosa hai fatto?-
-Mi chiamo Axe- si rilassò sulla poltroncina, incrociò le braccia e chiuse gli occhi. -Mi sono arrampicata su un albero con un'ascia in mano, poi l'ho lanciata e si è piantata nel cranio di uno stratega.-
Qualche istante di silenzio. -Adesso ho capito a cosa serve la regola sulla privacy- Caesar scoppiò a ridere insieme al pubblico. Beh, perlomeno hanno capito che era una battuta.
-Doveva essere uno stratega davvero antipatico, se ti hanno messo otto. Bene, Axe, credo di aver intuito il perché di questo nome... Ricordo un'altra persona, su questo palco, con il tuo stesso co...-
-Marcus- lo interruppe Axe, e il sorriso le aveva già lasciato il volto. -Mio fratello, e sappiamo tutti chi era e cosa meritava. Sono qui per prendere la corona che sarebbe dovuta spettare a lui.- sono qui per salvarmi la pelle.
-Sono d'accordo- Caesar rabbrividì, e Axe dubitò che stesse fingendo. La morte di Mark è stata la più terribile in cinquanta anni di Hunger Games.
Squillo acuto. Axe rispose con un cenno e un sorriso ai saluti di Caesar, diede pigramente un calcio al cappellino di fiori rosa ancora sul palco e tornò al suo posto.

Alek era stanco. In quei suoi diciotto anni di vita mai aveva sentito una stanchezza così stremata, apatica.
Era stanco di quel continuo pensare all'indomani, era stanco di quel continuo combattersi. Alek aveva passato l'intera notte a pensare, pensare e pensare, con nella testa la confusione rintronante di due eserciti in guerra.
L'istante prima era convinto di aver fatto la cosa giusta, che rifiutare sarebbe stata pura e immotivata pazzia. L'istante dopo, si rigirava nel letto dandosi del mostro. L'istante dopo ancora, le parole assennate di suo padre gli rimbombavano in testa:  "Ragiona, Alek, ragiona". Poi si rigirava di nuovo, e un'altra voce gli invadeva la mente. Quella di suo fratello prima di partire. "Ragionare? Papà, se sento di nuovo quella parola non so cosa farò. Sì, posso morire: la morte aspetta tutti. Ma perlomeno, prima potrò dire di aver vissuto."
Alek era stanco. Stanco di pensare.
Non gli importava più nulla di quelle voci, dell'intervista che stava per fare, e di quello che sarebbe successo l'indomani. Tutto quello che voleva era una notte di sonno.
-Signore e signori, ho l'onore di presentarvi quello che si può ben dire il più grande tra tutti i tributi: diamogli un benvenuto altrettanto grande! Alek Snowden!-
Alek camminò sul palco, sorridendo con una punta di tristezza all'applauso dei capitolini.
-Accomodati- disse Caesar, impressionato. -Spero che la poltrona regga-
Resse. Ed era anche deliziosamente morbida. Alek dovette fare uno sforzo per non chiudere gli occhi.
-Quest'anno il Distretto 7, dopo il 2, è stato quello che ha totalizzato più punti in addestramento! Ci credete?- fece Caesar, poi lo squadrò pensoso. -Io sì-
Dato il silenzio di Alek, Caesar proseguì. -Qualche indizio sul tuo dieci? E non dirmi che è morto un altro stratega, ti prego-
-Non ti preoccupare, non è morto nessuno-
-È questo l'indizio?-
Alek annuì, tranquillo. Caesar si sporse verso di lui con fare cospiratorio. -Neanche se ti...-
-No- lo interruppe Alek, sorridendo e alzando le mani in segno di resa. -Ti prego, le figurine di Caesar Flickerman no. Ho fatto quello che faccio sempre: tagliare alberi-
Rompere l'involucro di metallo di quell'aggeggio da arrampicata era molto più faticoso del legno, ma era anche vero che l'ascia dell'addestramento era molto più affilata. E pesante.
-Questo si chiama vandalismo- rise Caesar. -Ma immagino ne valga la pena, per un voto da Favorito. A proposito, hai deciso di entrare nella nostra alleanza preferita, vero?-
Alek era stanco di pensarci. Semplicemente stanco. -Così è andata- rispose, atono.
-Hai qualche programma per quando tornerai nel distretto?-
Se fosse stato meno stanco, Alek avrebbe riflettuto. Ma le parole che gli giunsero sulle labbra non avevano niente di ragionevole. -Credo che partirò-
-Non penso sia possibile- osservò Caesar, spiazzato.
-Era quello che diceva anche mio padre- è illegale, è una pazzia, è insensato. Quasi quanto dirlo a Caesar in diretta televisiva.
Ma si rese conto che, alla fine, non gli importava molto.
Partirò. Cercherò mio fratello. Anche se era troppo tardi per trovarlo. Almeno avrebbe trovato le sue parole, perse in un cielo terso e lontano, e le avrebbe capite.
"Alek, tu non sai cosa vuol dire sentirsi libero."

 
__________Distretto 8


Amber avanzò verso il palco con l'incedere più elegante di cui era capace. Le labbra giallo limone erano curvate in un sorriso sincero. Era una sensazione strana, come camminare sulle nuvole.
Caesar le baciò la mano, incantato. -In tutta sincerità... Non ho mai visto una ragazza più bella-
-Caesar, sei sposato- osservò Amber. Non riconobbe la naturalezza della sua voce, né il tono caldo e leggero.
-Oh, sì!- rise il presentatore, sedendosi. -Non devo dimenticarmene. Allora, come ti trovi a Capitol City?-
-Trovo sia bellissima. Adoro i vostri vestiti- si passò una mano tra i capelli, pieni di perline oro e smeraldo, e sorrise ancor di più.
-Chi non ama il nostro look?- Caesar si accarezzò compiaciuto i capelli verdi, imitandola. -Il tuo distretto, invece? Ti manca?-
-No.- Amber si era già scordata della sua vita prima della Mietitura, della sé stessa prima della Mietitura. -No, per niente. Venire qui è stata la cosa migliore che mi potesse capitare- la sua voce si spense.
-Una frase da Favorita! Non intendi solo per i vestiti, immagino-
-No- Amber cercò di raccogliere le parole, ingarbugliate in una matassa indistinta. Come dovrei spiegarlo?
-Non puoi sentirti davvero viva finché non affronti la morte- disse infine. Una frase banale, ma é vera, così meravigliosamente vera...
Caesar sorrise. -Forse hai ragione. Cambiando argomento... Ci vuoi parlare delle tue sessioni di addestramento? Come sono andate?-
-Non... Non avevo molta esperienza con armi, tecniche di sopravvivenza e altro- ammise -Però qualcosa ho imparato-
-Per esempio?-
Le parole avevano un sapore dolce e irreale sulle sue labbra. -Ho imparato a sperare.-
I capitolini si lasciarono sfuggire un sospiro commosso. Il sorriso sognante era ancora stampato sul suo volto, e Amber si chiese se l'avrebbe mai lasciato. Tutto questo finirà, voi finirete, e sarà anche merito mio. La sentì per la prima volta, la sua forza, bruciarle dentro come fuoco. La vita le aveva dato una seconda possibilità, anche se non lo meritava, e non l'avrebbe sprecata.
A stento si accorse del segnale acustico. Caesar le offrì la mano per aiutarla ad alzarsi. -Signore e signori, Amber Hamilton!-
Si sentì incendiata da una sensazione indefinibile, forte, nitida, tremendamente viva. La sua battaglia stava per iniziare.

Clyph lasciò vagare gli occhi per la platea - occhi azzurri, freddi e inespressivi.
-Raccontaci della tua Mietitura. Come ti sei sentito?-
-Avevo paura per mio fratello Clyph- rispose, senza neanche guardarlo -Quindi l'ho sostituito. Anche se avevo nove anni. L'ho salvato, e adesso è tardi perché possiate fare qualcosa- quella storia gli piaceva particolarmente.
Caesar sembrava incerto tra il ridere o il credergli, ma il modo in cui Clyph lo guardò bastò a convincerlo.
-È molto eroico- disse infine. Sì, è eroico. Perchè l'eroismo esiste, perchè questo mondo è pieno di altruismo e di luce. Clyph aveva davvero un fratello. Un fratello che, quando lui era stato estratto, era rimasto a guardare. Nessuno si era offerto volontario.
-Sto cercando di capire se ci stai prendendo in giro- aggiunse Caesar, sorridendo.
Clyph non la capiva, tutta questa passione umana verso la verità. Non si può mai essere certi di distinguere il falso dal vero. La verità è solo una menzogna raccontata meglio delle altre.
E se è tutto un'illusione, cosa c'è di sbagliato nell'illudermi da solo?
Clyph tacque per un lungo istante. -Mi chiamo Whys- Il sorriso sul suo viso si allargò.
-Whys...- povero, povero Caesar. Clyph aveva voglia di ridere. -Lasciamo stare. Devi essere molto affezionato alla tua famiglia, non è vero?-
-Mi mancano tantissimo- rispose. Me ne è mai importato qualcosa di loro?
-Ti sei portato qualche portafortuna?- chiese Caesar, in tono paterno.
-È in camera. Un bracciale di palline di stoffa che abbiamo fatto insieme, io e le mie due sorelle.-
-Mi sarebbe piaciuto poterlo vedere. Ci racconti la storia della scommessa di Arcturus? Ormai sono curioso-
Clyph amava raccontare. -Il capo stratega ci stava guardando.- inventò giulivo -Aveva quello strano orecchino, lungo e...-
Il segnale acustico trillò. -Non è possibile- sorrise Caesar esasperato. -Comincio a odiarla, quella campanella. Signori, Clyph Earles, il piccolo principe!-
Il pubblico applaudì svogliatamente. Il volto di Clyph si incupì di colpo. Se ne andò con un'ultima occhiata impenetrabile, senza salutare.

 
__________Distretto 9


-Cara mia, sei splendida!-
-Anch'io ti trovo bene- Sapphire fissò lietamente Caesar. Vanno di moda le carote, a Capitol City? -Vanno di moda le carote, a Capitol City?-
Scoppiò a ridere. -Questa è stata malvagia. E cosa mi dici, tu, dei chicchi di grano?-
Stavolta fu Sapphire a scoppiare a ridere. Il suo vestito a forma di uovo, ricoperto di mais e con lunghe spighe che si alzavano dalle maniche, era una trovata idiota: sembrava un seme di frumento in tutto e per tutto. -Colpita e affondata. Forse se vincerò andranno di moda, non credi?-
-Ho sempre desiderato vestirmi da grano- concordò Caesar. -Dimmi, i chicchi di frumento si siedono?-
-E le carote?- Sapphire si accomodò. Va bene, quest'intervista sta diventando patetica. -Va bene, quest'intervista sta diventando patetica. Credo sia colpa del mio stilista-
-Ci vuole un po' di allegria, ogni tanto!- fece Caesar, sedendosi. -Avevi qualche idea più simpatica per il tuo vestito?-
-Immaginavo qualcosa come un lungo mantello nero con cappuccio, maschera da scheletro e falce in mano-
-Ho presente- Caesar si finse vagamente impaurito. -Davvero simpatico, sì. C'è la tua falce dietro al sette dell'addestramento?-
Sapphire ridacchiò al ricordo. La sua sessione non era durata neanche un minuto: con quell'arma più alta di lei le era bastato un colpo per tagliare un manichino a metà, dalla testa al bacino. "Credo possa bastare. Certo, bisogna avere stomaco forte" aveva detto andandosene.
-Chissà come l'hai capito, Caes- rispose.
-Pura intuizione. A proposito di falci, come hai vissuto il momento della Mietitura?-
-Intendi l'anno scorso? È stati faticoso, sì, ma particolarmente gratificante. Davvero un ottimo raccolto-
Caesar rise. -Parlavo di..-
-Oh, già!- Sapphire si batté la mano sulla fronte, strappando qualche risata al pubblico. -Quella Mietitura. Preferirei non parlarne, o temo mi uscirà fuori qualche frase particolarmente, beh, diretta, e credo che me ne pentirò.-
-Penso di aver capito. La sincerità prima di tutto- commentò Caesar. -E se parlassimo della tua famiglia?-
-Ho una sorellina di quattro anni, Tehrese- raccontò Sapphire, con un sospiro. -Ed è soprattutto per lei che lotterò con tutte le forze per tornare. Non credo che io, o qualsiasi altro, meriti la morte, ma di certo Tehrese non merita di vedere la mia. Mia madre fa l'insegnante, mio padre il contadino. Ho sempre vissuto divisa tra libri e campi di frumento.- sorrise, malinconica. -Immagino non sarà più così, comunque vada-
-Credo anch'io- disse Caesar, ma il segnale acustico squillò prima che potesse aggiungere altro.

-Voglio un benvenuto più che caloroso per il primo volontario del distretto 9! Alex Sunshine!-
Alex fece un respiro profondo. Scese i gradini senza fretta, si sedette e guardò i capitolini. Non fece nulla per nascondere l'odio. "Se rimanete fino alla fine, potete essere sinceri." aveva detto Ronnie. "Basta non destare sospetti, per adesso. Beh, non abbiamo niente da perdere. Credo sarà divertente"
-Ciao, Caesar- salutò Alex, freddo e tranquillo.
-Non vedevo l'ora della tua intervista!- esclamò l'uomo -Allora, perchè ti sei offerto? Chi era il ragazzo estratto?-
Jake. L'unica persona ad averlo protetto, sempre, non solo dalla fame ma anche dalla solitudine. Forse lo faresti anche adesso, se fossi qui. Ma non puoi proteggermi da me stesso.
-Non lo conosco.- rispose. -Ma senza i soldi della vincita sarei morto di fame, e non ne avevo molta voglia. Morto per morto, venire qui sembrava più divertente-
Caesar e il pubblico risero. Ho fatto una battuta? -Ridi?- chiese Alex, sempre più freddo e sempre più tranquillo. -Ridete? Io sto andando a morire e voi ridete? Personalmente, non sarei così felice se domani le mie mani si dovessero sporcare del sangue di ventiquattro ragazzi. Così tanto sangue che vi scivolerà dalle dita, vi insozzerà i vestiti di rosso...- si alzò e sorrise pacatamente. -Ho pietà di voi. A volte provo a immaginarmi il peso che un assassino deve sostenere. Vi rendete conto? Ventiquattro per cinquantuno, sono milleduecento ragazzi.- cominciò ad allontanarsi dal palco, sempre sorridente. -Un lungo, lungo fiume di sangue con cui dovete convivere ogni volta che vi guardate allo specchio. Chiamarli tributi aiuta?-
Si voltò con una scrollata di spalle e risalì i gradini, immerso in un silenzio allibito. Sì, credo di aver fatto colpo.

 

__________Distretto 10


Amina si sfiorò incerta il fiore di plastica rosso tra i capelli, che la stilista le aveva permesso di tenere. Regalo di Dray.
Dray, che aveva detto che non l'avrebbe lasciata mai. Dray, che aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Dray, che aveva detto che bisognerebbe viverlo con leggerezza, questo mondo, per quanto pesante sia. Dray, che aveva detto che le voleva bene.
Ma Dray non era lì.
Nemmeno suo padre.
Forse non sentono neanche la mia mancanza.
Amina era sola. Terribilmente, spaventosamente, ineluttabilmente sola.
Nessuno sente la mancanza di una come me, mai. Chi sono io? Cenere, solo cenere. Nient'altro che cenere.
Amina avrebbe voluto che un'attacco di vuoto arrivasse a liberarla da quei pensieri, ma stavolta non successe. Si piantò le unghie del braccio, con cattiveria, con disperazione. Cenere. Cenere.
-Hey, Amina. Successo qualcosa?-
La ragazza fissò Nathaniel negli occhi verdi, coperti da ciocche di capelli castani; il genere di viso che ispirava fiducia. Lui non l'aveva abbandonata, non ancora. Amina aveva una sola parola per spiegare tutte quelle grida dentro di lei. Fischiò, e sorrise.
-Freddo- rispose Koko. -Freddo-
-Beh, io muoio di caldo sotto questo smoking.-
Fu in quel momento che i riflettori si spensero di botto, e sull'Anfiteatro calò il silenzio.
-Cosa...- fece Nathan, basito. -Mi sono perso l'intervista più interessante?-
-Avrebbero dovuto censurare prima- commentò lieta la ragazza dell'undici, alla sua sinistra. -Qualche addetto deve essersi addormentato di brutto-
Amina guardò il palco, confusa. Toccava a lei? La attraversò un brivido di panico.
-Chiudiamo questa spiacevole parentesi- riprese Caesar -E diamo il benvenuto a un tributo veramente speciale. Amina Seen!-
-Andrà tutto bene- fece in tempo a sussurrarle Nathan. Parole che le echeggiarono in testa solo dopo qualche istante.
Amina si fermò a metà scalini, e il sorriso le appassì sulle labbra. Mi hanno solo ingannata. Non è mio amico, è un bugiardo, come Dray. Non doveva dimenticarlo.
Suo fratello aveva detto che sarebbe andato tutto bene, quando l'aveva trovata con il polso premuto su un coltello di Moulier. Ed ero anche felice, tanto felice. Ho pensato che qualcuno tenesse davvero a me, che non sarei mai rimasta sola.
Amina non si rese conto di essere arrivata sul palco finché il presentatore non la salutò con un'abbraccio. Neanche lui era suo amico, non si sarebbe più fatta ingannare.
Koko svolazzò attorno a Caesar, che rise. -Come si chiama?- chiese.
Amina si sedette lentamente sulla poltroncina, prima di fischiare. -Koko parla per me- disse il pappagallo, posandosi sulla sua spalla. Caesar gli accarezzò le piume, deliziato.
-Koko? Quante cose sa dire?- le chiese. Amina si mordicchiò il labbro, cercando una risposta. -Felici Hunger Games!- se ne uscì allegramente Koko. Era la frase che amava di più.
-Immagino che lo scopriremo, allora- concluse Caesar, con un sorriso divertito. È mio nemico, mio nemico, come tutti qui. Tranne Alyson.
-Sei muta dalla nascita?- continuò. Di nuovo, Amina non seppe cosa rispondere. Devo mentire? È più semplice, vero? Non ho parole per raccontare quella notte, quelle fiamme.
Si decise a a fischiare flebilmente. -Sì- disse Koko. -Felici Hunger Games!- insistette poi, alzandosi di nuovo in volo.
-Non è certo l'unico motivo per cui ti conosciamo- disse Caesar, riferendosi al pappagallo. -Otto. Un inaspettato, fenomenale otto all'addestramento!-
Amina sorrise lievemente. Aveva fatto il suo numero da circo preferito con i coltelli, e per un attimo era stato come essere a casa. Mi applaudivano, lì. Dicevano che ero bravissima... Ma io non valgo un otto, forse non valgo nulla.
Due fischi lunghi intervallati da uno più breve. -Grazie- gracchiò Koko, ora appollaiato su una telecamera.
-Non puoi dirci proprio niente?- sospirò Caesar -So mantenere i segreti-
Alla battuta, Amina fece un risolino silenzioso. Chissà dov'era, la sua voce. Forse le sarebbe bastato cercarla, ma aveva troppa paura."Non dirai niente, vero, piccola mia? Non dirai niente..."
Scrollò le spalle esili e tacque.
-Dovremo tenerci il dubbio. Ti piace Capitol City?-
Domande facili, a monosillabi. -Sì-
-Hai paura per domani?-
-Sì-
-Hai una famiglia? Ti manca?-
-Sì.-
Amina si estraniò da tutto. Continuava a fischiare il sì per Koko, in un motivetto ipnotizzante. Suono lungo, suono corto. Lungo, corto.
-Posso provare?-
-Sì-
Caesar imitò la sequenza di fischi, ma Koko era occupato a grattarsi sotto l'ala con il becco. -Felici Hunger Games- gracchiò di nuovo. Amina gli accarezzò le piume sulla testa, senza poter evitare di pensare che l'indomani l'avrebbe abbandonata anche lui. Tornerà al distretto e non lo rivedrò più. Morirò sola.
-Beh, con tutti questi buoni auguri, non potrà che essere un'Edizione favolosa!-
Amina stavolta lo sentì arrivare, il vuoto, in un abbraccio bianco e confortante. Il freddo non diminuiva, ma almeno lì perdeva importanza.

Nathaniel scese i gradini guardando gli spalti, con un sorriso da orecchio a orecchio. Il suo stilista avrebbe potuto inventarsi qualcosa di più originale di uno smoking nero, ma tutto sommato Nathan aveva una certa paura dei suoi slanci creativi.
-Nathaniel Moore!- Caesar si accorse che il ragazzo era già dietro di lui e sobbalzò teatralmente. -Che scatto, ragazzo!-
Nate sorrise, lasciandosi cadere sulla poltroncina. -Modestamente-
-Anche per il distretto 10, un volontario! Questo è l'anno del coraggio!-
Nathan scosse la testa, divertito. -Io non sono affatto coraggioso, Caesar. Mi sono offerto perchè avevo paura-
-Di cosa?- chiese Caesar, abbassando il tono.
-Paura di sentirmi in colpa. Non sono un eroe, sono un vigliacco.- alzò le spalle, sempre sorridente. -Matthew era mio cugino, ma vivevamo insieme. Ha sempre impedito a me e a sua sorella di prendere le tessere, accumulandole ogni anno. Se fosse morto per causa nostra... Immagini come mi sarei sentito? L'eroe non sono io-
-Capisco...- disse Caesar, comprensivo. Il pubblico si lasciò sfuggire qualche sospiro commosso.
-Anche se morirò domani saprò di aver fatto la cosa giusta. Scusa, Matthew.- Breve pausa. -Ma hey! Chi dice che dovrei morire?-
-Di certo non io- rispose Caesar. -Hai detto che Matthew era tuo cugino, ma vivevate insieme. Era orfano?-
-No, l'orfano ero io- rispose, senza perdere il sorriso. -I miei genitori sono morti sette anni fa, per un'epidemia influenzale-
-Ci dispiace- un'altra breve pausa, poi Caesar tornò in tutta la sua allegria. -Parliamo di cosa meno importanti. Koko risponde anche ai tuoi fischi?-
Nathan scrollò le spalle. -Oh, no. Ci provo sempre, ma continua ad augurarmi felici Hunger Games-
-Beh, l'ottimismo non manca- dagli spalti, qualche risata sciolse l'atmosfera pesante.
-No, quello non mi è mai mancato. Qualche altra domanda, Caes! Sta per scadere il tempo-
-Subito, subito- sorrise l'uomo. -Come hai passato questi giorni?-
-Benissimo. Quello che succederà domani non è certo un motivo per smettere di vivere già da adesso.- ..e se la vita mi ha scelto per questi Giochi, un perchè ci sarà. Anche se posso non vincere, forse Matthew farà un figlio con il mio nome, che rovescerà l'intero sistema degli Hunger Games. O che semplicemente regalerà una palla di stoffa a una bambina che piange...
-Forse c'è un disegno, in tutto quello che succede. Il fatto che non lo conosceremo mai non è un buon motivo per non crederci. Per questo sono felice, e che sia vero o no essere felici è sempre la scelta migliore-
Trillo di campana. Il pubblico applaudì commosso, mentre Nate abbracciava Caesar con autentico trasporto e nel cuore una speranza più profonda e inebriante del semplice tornare vivo. Andrà tutto bene.
Prima o poi, andrà tutto bene.

__________Distretto 11


-Davvero lo vuoi fare?-
-Certo, Ron. Scommetti che rideranno?-
-La mia stima per i capitolini non è il massimo, ma nessuno può avere un umorismo così basso-
Ester alzò le sopracciglia con sfida. -Secondo me li sopravvaluti-
-Direttamente dal distretto 11, un applauso per Ester...- Caesar lanciò un'occhiata al suo registro. -Ester Maddison Wright!-
Ester raggiunse il palco con il suo solito sorriso raggiante. Pensare che in quel momento la sua famiglia la stava guardando era straziante, perciò decise di non farlo.
-Cara mia- iniziò Caesar, dopo che si furono accomodati -Ci vuoi parlare dei tuoi assi nella manica?-
-Vorrei, Caes, ma sto cercando di fingermi debole- gli fece un occhiolino poco convincente, e l'uomo rise. -E va bene. Hai già una strategia per domani?-
Ester rovesciò la testa all'indietro e rise. Ma sì, credetemi ammattita. -Non farmi ammazzare penso sia un'ottima idea. Vero?-
-Semplicemente geniale- concordò Caesar. -Nei giorni d'addestramento ti ho visto insieme a molti tributi. Hai stretto un'alleanza?-
-Sì.- Ester si schiarì la voce. -Ronnie Dalton, il mio compagno di distretto. Liam Appody, Distretto 12. Amber Hamilton, Distretto 8. Momo Centodue, Distretto 6. Alex Sunshine, Distretto 10-
-Questa è una vera e propria armata!- sbottò Caesar, incredulo. -Siete più dei Favoriti di quest'anno, se conto bene-
-È per questo che la nostra alleanza vincerà gli Hunger Games- Ester sorrise. Perlomeno, la mia intervista avrà una qualche utilità. Se qualcuno morirà al bagno di sangue, sapranno comunque che anche lui era con noi.
Pensiero pericoloso. Il suo sorriso traballò un po', così Ester si riscosse alzandosi in piedi. -Volete vedere cosa ho imparato in questi giorni?- si tolse il fazzoletto rosso dai capelli biondi e lo infilò per bene nel pugno della mano destra.
Sollevò le braccia per le telecamere, poi aprì con lentezza studiata le dita. Vuote.
-Nessuno si è accorto che un fazzoletto è caduto a terra, giusto?- chiese allegramente, facendo finta di coprire qualcosa sul pavimento con la scarpetta.
Il pubblico ridacchiò.
-La stupidità fa parte del fingermi debole- bisbigliò Ester a Caesar, poi guardò il microfono. -Ops- disse, e scoppiò a ridere.
Il presentatore la imitò, anche se un po' perplesso. Sì, sì, sono ammattita.
-E va bene!- sbottò Ester -Non posso più fingere. Mi suonate un rullo di tamburi?- chiuse la mano destra a pugno con in un'unica mossa vi sfilò qualcosa di rosso.
-Magia- sussurrò, con un sorriso estatico, mentre sventolava il fazzoletto davanti a sé. Stavolta il pubblico rise. Non pensavo che fare interviste idiote potesse essere così divertente. Unico vantaggio di non doversi preoccupare degli sponsor.
-Vero che ho talento teatrale?- chiese a Caesar, che in quel momento probabilmente si stava sentendo molto inutile.
-Verissimo, ragazza mia!- rispose, e rise di nuovo. -Signore e signori, Ester Maddison Wright!-
Quando risalì le scale, Ronnie la guardò incredulo. -Direi che ho perso-
Ester rispose al sorriso, ma quando il compagno fu lontano si passò la mano sulla fronte. Sentiva già il mal di testa in agguato dietro gli occhi. Guardò i tributi alla sua destra, chiedendosi quanti di loro sarebbero morti l'indomani e quanti avrebbero ucciso.
Sono terrorizzata, è questa la verità, e non solo per quello che succederà a me.
Sospirò, stanca. Egoisticamente, irrazionalmente, tutto quello che riuscì a desiderare in quel momento fu di non vedere.


-Sarei indiscreto a chiederti perchè gli ultimi due anni li hai passati in prigione?-

"Mi sono già accordato con Caesar: hai rubato un sacchetto di mele per darlo a un orfano affamato, e ti hanno visto."
"E perchè avrei dovuto rubarlo, quel sacchetto, se avrei potuto comprarne in quantità industriali?"
"Chissene importa" sbottò il mentore "Dirai che hai oltrepassato la recinzione per raccogliere castagne, che hai ucciso tuo padre, quello che ti pare. L'unica cosa che il pubblico non deve sapere è la verità, ti è chiaro il concetto?"

-Ho dato fuoco a una casa di Pacificatori- rispose, con semplicità.
Caesar rise a lungo, come se avesse fatto la battuta migliore dell'Edizione. -E va bene, se vuoi tenerti il segreto noi...-
-Lo ammetto- lo interruppe Ronnie -Ho anche lottato, disprezzato e sognato un mondo democratico. Ho sollevato le masse contro Capitol City, sottratto armi e vestiti ai Pacificatori e infangato la loro reputazione. Ho distrutto le loro case, ho usato le loro finestre come bersagli per il tiro con l'arco e ne ho riso.- insieme a Honoré. Honoré che non era lì. Honoré che non aveva neanche potuto salutare. Honoré che non avrebbe rivisto mai più.
Era calato un silenzio di piombo. -Oh, ma sono un pentito- concluse Ronnie, sorridendo serafico. L'espressione sul viso di Caesar bastò a ripagarlo della fatica di cinque anni di idealismo.
-Ho...- l'uomo tossicchiò, e abbozzò un sorriso. -Ho quasi paura a chiederti di come ti sei fatto quella cicatrice-
Ronnie si sfiorò il lungo segno sulle labbra. -Questa?- chiese, con un sorriso che era tutto tranne che rassicurante. Caesar annuì, e il ragazzo vide qualche goccia di sudore brillargli sulla sua fronte.
-Allora...- Ronnie si rilassò sulla poltroncina e chiuse gli occhi. Chi è che ha talento teatrale, Ester?
-Successe quattro anni fa. Io e i miei amici stavamo liberando un bel numero di topi nella casa di Ernest Birder, un Pacificatore che aveva certi motivi per vergognarsi di sé stesso. L'impresa è riuscita a metà, però: Birder stava dando una festicciola con gli altri omini bianchi. Una di quelle serate con brindisi e prostitute affamate del distretto, hai presente? Beh, fatto sta che è scoppiata una rissa, e a me è toccata una bottiglia di vetro rotta in faccia.- E aveva anche perso due denti, che suo padre si era subito imposto di ricostruire. Il ricordo del capitolino venuto a casa loro per eseguire l'ennesimo capriccio di Eric Dalton continuava a riempirlo di rabbia. Non mi ha potuto togliere la cicatrice, almeno.
-Sono molto, molto pentito- finì, sempre più serafico, nel nuovo silenzio che si era creato. -Caes, quanto ci mettono a censurare un video?-

__________Distretto 12


Diana guardò attonita i riflettori spegnersi per la seconda volta.
-Vorrei poterlo fare anch'io- disse Liam, alla sua sinistra. La ragazza lo guardò smarrita, mentre i battiti del suo cuore acceleravano.
-Oggi non è la mia Edizione fortunata- borbottò Caesar. -Proseguiamo con la bellissima quattordicenne del Distretto 12. Diana Jensen!-
Diana deglutì, sorrise, si calmò. Mentre scendeva, in un improvviso lampo di orgoglio disobbedì al suo stilista e si tirò fuori dal vestito il ciondolo a stella di sua madre. Vederlo sul suo petto la rassicurava, specie dopo che era misteriosamente sparito dalla sua stanza per un giorno intero.
-Mai ho visto qualcosa di più splendido- la salutò Caesar, baciandole la mano. Diana arrossì, lisciandosi le pieghe del vestito rosso.
Nell'occhiata repentina che Caesar le lanciò prima di cominciare, lesse un ti prego, collabora.
-Come ci si sente ad essere sugli schermi di tutta Panem?-
La ragazza si torse le mani in cerca di una risposta. -Importanti...-
-E infatti! Io sono molto importante, non è vero?- Caesar ammiccò seducentemente al pubblico, stillando qualche risata.
-Parliamo di te. È la prima volta che mi capita di vedere un tributo del dodici con i capelli rossi- continuò.
-Nella mia zona siamo solo io e... mio padre- rispose Diana, senza pensare. Si morse il labbro. -È un commerciante capitolino-
Pur sapendo di essersela cercata, temette la prossima domanda.
-Sembra una bella storia. Ci parli della tua famiglia?-
Gli occhi verde mare di Diana si posarono su una telecamera, lottando contro la vertigine. Mi stanno guardando. Nathan, mamma, papà, Rina.
-Sono figlia unica, siamo solo io e i miei. Grazie a loro ho sempre vissuto da privilegiata. Non so ancora cos'è, la fame- dovevo venire qui, per scoprirlo? -Mi mancate tanto- concluse in un bisbiglio, pericolosamente flebile. Sperando quasi che arrivasse solo a loro, a miglia di distanza, senza che Caesar e nessun altro sentisse. 
Era così bella l'aria che respiravo al distretto. Il profumo di cannella nei capelli di sua madre, l'allegro litigare di Nathan con Rina per il miglior posto dove piazzare le trappole, il sapore dolce di un bacio nella neve.
Diana intrecciò le mani in grembo, nella speranza che smettessero di tremare. 
-E a parte loro, c'è qualcuno che aspetta il tuo ritorno?-
Caesar di certo non aiutava. -Rina, un'amica di mia madre- nonché cacciatrice di frodo... -e suo figlio Nathan-
Nonostante tutto, riuscì a sorridere. -Se tornerò...-
-Una storia d'amore? Ti prego, dimmi che è una storia d'amore!-
Diana prese un respiro profondo, poi guardò la telecamera senza più vacillare. -Tornerò, perchè un solo bacio è stato troppo poco-
-Ah, finalmente!- Caesar fece il sorriso più largo di tutta la serata. -Ti ha dato un portafortuna romantico?-
Diana aprì il medaglione a stella e ne estrasse un rettangolino di carta. -No, me l'ha dato sua madre.-
Caesar guardò la foto di Nathan che gli offriva, poi la sollevò per le telecamere. -Hai ottimo gusto, ragazza- si complimentò. -Continua a raccontare. Cosa ti ha detto prima che te ne andassi?-
-Che sono abbastanza forte- e il suo tono deciso sembrò confermarlo. -E io gli credo-
Segnale acustico. Davvero gli credo? Ero forte quando ero vicina a lui.
Non si trattava più di conigli o cervi. Per quello lo era di certo. Ma il sangue non è sempre lo stesso? Mentre si risiedeva al suo posto, provò a pensare come sarebbe stato tornare e incontrare gli occhi di Nathan. Cosa vi avrebbe letto dentro. E per la prima volta in vita sua, quell'immagine le fece correre un interminabile brivido di paura lungo la schiena.

Liam scoccò al pubblico un sorriso affascinante. Sperare negli sponsor era inutile, ma non era solo a quello che puntava.
-Dulcis in fundo, eccoti qui.- disse Caesar. -Ti sei annoiato, in tutto questo tempo?-
-Tutt'altro. Sono state interviste davvero interessanti-
-Su questo concordo anche io. Tributi stancanti, però- si asciugò il sudore dalla fronte, poi riattizzò il sorriso. -Cosa ci dici del tuo sette in addestramento?-
Liam si stravaccò per bene sulla poltroncina. -In questi giorni ho scoperto un certo amore per le lance-
-Dato che l'ultima volta sono stato fortunato... C'è qualcun'altra per cui nutri amore?-
Mia madre, che è impazzita per colpa mia. -Diciamo di...- lunga pausa -...e se vi lasciassi nel dubbio?-
Caesar ridacchiò. -Non ti preoccupare, abbiamo già capito la risposta. Ragazza, chiunque tu sia, sei davvero fortunata-
Liam fece l'occhiolino alla telecamera. Sì, cara tizia inesistente, sei fortunata ad avere un fidanzato pronto per essere scaraventato nell'arena.
-Vuoi parlarci anche tu della tua famiglia?- continuò il presentatore.
Oh, giuro, non vedevo l'ora. -Mio padre fa il macellaio, mia madre la sarta. Avevo un fratello- troppa sincerità. Cosa mi è preso?
-Avevi?- mormorò Caesar. Forse era colpa dell'arena imminente, ma quella volta Liam non provò niente: nessuna fitta di dolore, nessun senso di colpa. -Sì. Giocava d'azzardo con i Pacificatori, e ha riempito la famiglia di debiti. Poi la sua fidanzata è morta negli Hunger Games e lui si è ucciso-
Caesar lo guardò un po' sorpreso, forse per il tono piatto e sbrigativo con cui aveva parlato. -È veramente una triste storia. E il debito, c'è ancora?-
-Il padre della fidanzata morta era sindaco del distretto, l'ha pagato per noi. Caesar, dovresti cambiare argomento o diventerà un'intervista deprimente.-
-Detto, fatto!- il presentatore sfoderò un secondo, nuovo sorriso. -Che idea hai dei tributi della vostra alleanza?-
-L'intervista di Ester è stata memorabile: tanto per rovinarle la scena, ha un pollice di plastica finto dove scompare il fazzoletto. Amber è abbastanza bella e gentile da provvedere agli sponsor da qui all'eternità. Momo è la dodicenne più strana che abbia mai visto e non può che starmi simpatica. Alex e Ronnie... Forse è meglio se non ne parlo-
-Forse sì- approvò Caesar, sorridendo sconsolato a Ester sugli spalti. -Un'ultima domanda: credi di poter vincere quest'Edizione?-
Io devo vincere, perchè non posso togliere a mio padre anche l'ultimo figlio, e a mia madre l'unica misera àncora per sfuggire alla follia. Ma non è cosa che posso dire davanti a Ronnie.
Si limitò a un banale -Secondo te, Caesar?- nello stesso istante in cui suonò la campana.
-Tempismo perfetto, non c'è che dire- commentò l'uomo.
Liam guardò i capitolini mentre applaudivano, tra volti stirati fino all'inverosimile e sguardi sfavillanti di pura estasi. Guardò i ventitré ragazzi pronti a morire, che quella sera avevano fatto di tutto per intrattenerli.
Avete ridicolizzato anche la morte. È un crimine molto peggiore che uccidere, e un'impresa molto più difficile del ridurre dodici distretti in schiavitù.
Senza alcun motivo, Liam provò un'irresistibile voglia di mettersi a ridere.
Tanto, ai morti non interessava.




 
f


Note dell'autore che sta per essere lapidato:
Chi non ha mai fatto due ritardi consecutivi di quaranta giorni scagli la prima pietra.


Qualcosa mi dice che stavolta avrò meno fortuna, eh?
Prima rispondo alla domanda che tutti avrete in testa: che senso ha una farfallina di fine capitolo? Non ne ha. Fa simpatia.
Seconda risposta alla seconda domanda che tutti avrete in testa: sì, vanno di moda le carote a Capitol City.
Gente, ho pianificato il bagno di sangue. Mappetta del luogo, mosse dei tributi, colpi di cannone. Sono emotivamente instabile, perchè io mi ero affezionata tantissimo ai miei piccoli. Ora capisco perchè è molto meglio usare il narratore onnisciente: perdere punti di vista è straziante.
E anche esaltante.
Soprattutto esaltante.
Va bene, sto perdendo il filo del discorso. Terza domanda del pubblico: come deciderò le morti?
Attenzione, consiglio di bersi un caffé prima di cominciare a leggere. Allora, allora: ho piazzato le pedane, e estratto a sorte per le posizioni dei tributi. Ho seminato armi e zainetti casualmente in giro.
Ho i caratteri dei tributi e quindi le scelte che tenderanno a fare. Ho l'arena e i provvedimenti che tenderanno a muovere gli strateghi. Ho la caratterizzazione del Primo Stratega.
Ho i vostri sponsor, che spiegherò come mandare nel prossimo capitolo perchè già queste note sono lunghe. Ho una splendida monetina da lanciare per quando sono indecisa (e l'ho già fatto al Bagno di Sangue.)
Non mi resta che intrecciare il tutto e vedere cosa ne esce fuori. Certo, alcune scelte non dipenderanno solo dai tributi e sarò costretta a farle io. Quindi qualcosa di mio ci sarà, nel caso non abbia dadi e monetine a portata di mano; poco, però.
Perchè? Perchè odio forzature e deus ex machina, in misura eccessiva rovinano completamente il fascino della storia. Non farò innamorare quello e caio se il racconto mi porterà da tutt'altra parte, come non aiuterò l'alleanza di Ronnie a uscire viva dal Bagno di Sangue, come non salverò quello e quell'altro perchè è un personaggio bellissimo.
Potrà venir fuori qualcosa di poco commovente e emozionante, direte voi, rispetto alle situazioni che potrei creare se ci mettessi la mano. Però, io sono convinta che il crudo realismo -pur non privo imprevisti- del nostro mondo sia molto più ricco di emozioni di qualche deux ex machina.
Perciò non adatterò ciò che succede al romanzo, ma il romanzo a ciò che succede. Anche i messaggi che voglio comunicarvi, sempre che ci riesca.
Dovete tremare se qualcuno è in pericolo, non crogiolarvi nella sicurezza di niente. E i vostri sponsor avranno massima importanza, di sicuro cambieranno la storia, perchè la storia, appunto, non esiste.

Discorso sulle morti concluso, mi complimento con voi perchè siete ancora svegli.
Prima che me ne dimentichi, i voti dei tributi!

DISTRETTO 1
Swyd: 10
Gehenna: 7

DISTRETTO 2
Samuel: 11
Scarlett: 10

DISTRETTO 3
Harvey: 7
Alyson: 2

DISTRETTO 4
Stephen: 9
Coral: 6
DISTRETTO 5
Arcturus: 5
Hazel: 4

DISTRETTO 6
Xen: 6
Momo: 8

DISTRETTO 7
Alek: 10
Abigail Jamie: 8

DISTRETTO 8
Clyph: 4
Amber: 5

DISTRETTO 9
Alex: 7
Sapphire: 7

DISTRETTO 10
Nathaniel: 6
Amina: 8

DISTRETTO 11
Ronnie: 9
Ester: 6

DISTRETTO 12
Liam: 7
Diana: 7


Le note in verità sono finite qui: se invece vi va di annoiarvi ancora un altro po', o se volete immaginarvi quale morte violenta aspetta il vostro tributo, ecco a voi le aaarmi!
Quelle che i tributi sanno usare meglio. Naturalmente non è un elenco di tutti i tributi, ma solo quelli che hanno mostrato all'addestramento abilità particolari. Alcune erano nelle schede, la maggior parte... No. Scusatemi.
Quindi ecco a voi il frutto della passione irrazionale (e contagiosa) di mio fratello (prendetevela con lui!) per le armi. A proposito, il realismo nei combattimenti è assicurato.

SAMUEL: una vedova per mano! E spadone a due mani.

 
SCARLETT: arma inventata da mio fratello, per cui niente immagine. Cioè, sì.
Il resto non l'ha mostrato.



Non vi preoccupate, non escono dalle mani!
 
ALEX: pugnale e... Kopis! Ma dico, quanto può essere... ricurvo... *-*

 
 
 
SAPPHIRE: Falce Dacica. Un metro e ottanta. Amore della mia vita.


 
ESTER: Kopesh. Un falcetto, ma con più classe.


LIAM: lancia con barbigli
(ha imparato all'addestramento, non è un fenomeno)


ALEK: Ascia a due mani. Sa usare anche asce da lancio,
ma fanno molto meno scena.

 
Tu, lettore coraggioso. Sappi che ti voglio bene, non volevo spaventarti.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Strateghi e Gamberi ***





~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~


-Gamberetti!- Bartheon Greyson schioccò le dita, e lo stratega accorse a riempirgli il piatto.
-I tributi sono tutti nei cilindri?- chiese il Capo Stratega, sgranocchiandone uno.
-La ragazza dell'1 dà problemi.- rispose il suo secondo, Lucius Blackwood, guardando accigliato lo schermo.
-Propongo di sedarla- disse un altro stratega, Marcus Duckfield o qualcosa del genere.
Bartheon continuò a sgranocchiare. -Stratega dei gamberetti, dimmi. Per sbaglio, in questi giorni, ho dato l'impressione di interessarmi alle proposte?-
-...Non credo, signore.- lo rassicurò l’uomo -E mi chiamo Rober...-
-Era una domanda retorica. O forse dò l'impressione di interessarmi alle tue risposte?- Bartheon Greyson schioccò di nuovo le dita. -Stratega del vino!-
-Sì, signore?-
-Per cosa ti chiamo, di solito?-
Il liquido rosso si versò dolcemente nella coppa. Bartheon diede un lungo sorso soddisfatto, accarezzandosi il pancione. -Ora sono pronto. Il problema è stato risolto?-
-Sì- disse Lucius, guardandolo con quell'aria a metà tra lo schifato e il supponente che Bartheon trovava ogni volta più divertente.  -É anche lei nella capsula. Dò l'avvio?-
-Forse vogliamo far morire i tributi di inedia prima di cominciare?-
L'uomo spinse il pulsante e le pedane cominciarono a sollevarsi.
-Facciamo esplodere qualcuno, durante il countdown?- chiese Lucius -Due anni fa, al pubblico è piaciuto-
-Il maschio del 9- propose un altro stratega -O quello dell'11. É meglio che i distretti dimentichino le loro interviste il più presto...-   rendendo le loro morti memorabili?
-Stratega dei gamberetti, secondo te potrò mai mangiare senza questo vociare intorno?- chiese Bartheon.
-Mi chiamo...-
-Stratega dei gamberetti. Ora tacete-.
Bartheon ingrandì sulla zona del Bagno di Sangue, che apparve nitida e tridimensionale al centro della sala. E allora, sì, cadde il silenzio.
 


~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~

Spazio dell'autore    Spazio mappetta e tanta roba inutile cui siete abituati.

Dunque! Questo è un capitoletto tanto per, ma era da un po' che non aggiornavo e mi serviva lo spazietto mappetta per farvela consultare durante il Bagno di Sangue, che arriverà... Quando questo benedetto mese-verifiche lo permetterà. Naturalmente Bartheon tornerà durante i prossimi capitoli. 
Ribadendo: tributi posizionati a sorte. Se c'è qualche problema nella visualizzazione dell'immagine, ecco qui il link:
http://imageshack.com/a/img844/8993/iwvm.jpg




OPERA DI DESPONSORIZZAZIONE: NON COMPRATE PENNARELLI CARIOCA!

Potete avere un'idea delle situazioni che si creeranno, se riuscite a intuire chi andrà alla Cornucopia e chi sceglierà di scappare. Per darvi un'idea delle dimensioni, ogni ponte è lungo circa trenta/quaranta metri. 
Diritti d'autore: l'ambientazione mi è stata descritta da TheBerserker, e io ci ho costruito sopra la mappa. Ebbene sì, ho scelto la tua arena, perchè è quella più pericolosa per l'alleanza di Ronnie. Fortuna che ho provveduto a cancellare lo spoiler... Non l'avete letto, vero?
In compenso al dado l'alleanza rivoluzionaria sta simpatica, sono capitati quasi tutti sullo stesso ponte. 
Dimenticavo: dal prossimo aggiornamento l'interattiva cambierà titolo, perché... Perché sì. Sarà lo stesso titolo del Bagno di Sangue. Non perdetela e tenetela d'occhio, insomma. Ora devo piantarla di scrivere a vanvera e continuare il capitolo. 
Ciao a tutti!



 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** HOMO HOMINI LUPUS ***


 
Piccola premessa: vi avverto che il principale difetto di questo capitolo è l’ obbrobriosa lunghezza: 16 pagine word. E richiede anche una certa attenzione per capirci qualcosa. Scusatemi, non ho saputo accorciarlo.
Non leggerlo tutto di fila però rovinerebbe la tensione... Va bene, mi defilo. Buon Bagno di Sangue!



Arcturus prese in mano la penna, tremante. Il libricino che sarebbe stato consegnato alla sua famiglia, se fosse morto, era ancora chiuso. Avrebbe dovuto trovare il coraggio di aprirlo, forse, ma tutto quello che riuscì a fare fu restare fermo, a fissarne la copertina di un bianco immacolato.

Coral fece una smorfia quando l'ago le perforò il braccio. Il localizzatore brillò rosso sotto la sua pelle. -Sicura di non avere altri consigli per me?- chiese alla sua mentore.
-Solo uno- La donna si accovacciò per guardarla dritta negli occhi. -Stai pensando di fare la cosa giusta? Beh, tutti lo pensano. Lascia che ti spieghi come stanno le cose: se uccidi qualcuno, è ingiusto. Se qualcuno ti uccide, è ingiusto. Se tu vinci e ti condanni a una vita da incubo, è ingiusto. Se perdi e condanni qualcun altro a questa vita, è ingiusto. Sentirsi in colpa per essere stati costretti a fare qualcosa di ingiusto, è ingiusto. Non farlo è altrettanto ingiusto.- scrollò le spalle. -Lotta e basta, ragazzina, lotta per uccidere, lotta per vincere: è il tacito patto tra tutti i tributi. Non è meno ingiusta delle altre scelte, ma perlomeno si passa il tempo.-

Reeva guardava la sua ragazza con gli occhi stranamente apatici, smarriti, vuoti. Devi andare per forza? Parole che affogarono nel nulla prima di giungere alle labbra. L'ingenuità era la sua ultima àncora per l'illusione, e Reeva lo sapeva. Ma non voleva lasciarla andare, l'illusione di quei giorni e degli Hunger Games. Perchè aveva paura che, crollata quella, di lei non rimanesse più nulla.
"Venti secondi"
-Qualcosa di intelligente sulle nostre tute?-
Reeva fissò Abigail, confusa. Indossava una tuta nera, completamente nera, con un mantello rosso sufficientemente corto da non dare fastidio. -E' termica...-
-Questo l'avevo capito. Si rischia l'assideramento?-
-Solo in una distesa completamente ghiacciata. In montagna no, a parte se... Ci sono bufere...- la voce di Reeva si assottigliò fino a spegnersi.
"Dieci secondi"
-Scusa per il cappello rosa- disse Abigail, in un tono che era tutto tranne che dispiaciuto. Entrò nel cilindro. -Ma chi l'avrebbe sopportato, prima di vedere il sangue di ventitrè ragazzi? C'eri già tu a fare fin troppo colore- una smorfia passò sul suo viso.
-Ciao- sussurrò Reeva. Abigail le sorrise senza emozione. -Ciao-
Poi il cilindro di vetro calò, e fu sola.
-Ciao- disse ancora Reeva, al nulla. -Ciao-. Ma il silenzio la avvolse comunque.

Alek sentiva la piattaforma salire con una lentezza straziante. Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne, cercando di trattenere quel poco di lucidità che gli era rimasta. Non trovava modo di spiegarsi quell'insensata euforia che lo pervadeva. Disinteresse e neonata pazzia, forse. Chissene importa. É davvero possibile indovinare la cosa giusta da fare in questo dannato mondo?
Aveva ancora gli occhi chiusi, quando una carezza gelida di vento gli sfiorò la guancia bollente.
-Signore e signori- tuonò la voce metallica di Osmund Kettleblack -Che i Cinquantunesimi Hunger Games abbiano inizio!-

60... 59... 58…
Hazel aprì gli occhi, e non vide niente. Si girò, cercando qualcosa che non fosse buio, infinito e opprimente quanto una cappa gelida. Guardò ovunque, febbrilmente, roteando la testa con la stessa frenesia del martellio che sentiva nel petto. Nero, nero, solo nero. Un’ondata di vertigini fuse terra e cielo, e Hazel crollò in ginocchio.
Allungò la mano tremante davanti a sé, e sentì sotto le dita la superficie terribilmente fredda della pedana.
57... 56... 55...
Stelle. Minuscole fiaccole di bellezza fredda, fioche e lontane. Alyson guardava il cielo, punteggiato di bianco, vacuo come la sua tristezza. Vacuo come le parole di sua madre, che le cullavano la mente. "Non c'è speranza". Alyson guardava il cielo, lontano come i singhiozzi di una bambina di dieci anni condannata a una consapevolezza spaventosamente più devastante della semplice morte. "Non c'è speranza". Alyson guardava il cielo, ma il suo sorriso sapeva di lacrime.
54... 53... 52...
Forse il brillio delle stelle era aumentato, o erano i suoi occhi ad essersi abituati al nero. Alex vide una pedana, alla sua sinistra, e una figura maschile. -Alex!- urlò, sovrastando il lieve vento che si stava alzando. -Sono Liam!- rispose il tributo. Nel buio, Alex sentì un sorriso increspargli le labbra.
51... 50... 49...
Ghiaccio. Sapphire distinse un enorme distesa brillante davanti a sé, forse di forma ovale, e le parve di vedere l'ombra nera della Cornucopia.
La sue dita sfiorarono il peluche nella tasca della tuta, così caldo in quel mondo freddo, piccolo lume di innocenza nella notte.
Aveva paura, Sapphire. E sapeva che stringere un'arma in mano era il rimedio più efficace per la paura.
48... 47... 46...
Un boato secco e frastornante, il suono del ghiaccio che si frantumava e un improvviso getto di gas. Gli occhi sbarrati di Xen videro nell'uniforme argento del disco di ghiaccio, in lontananza, aprirsi una scaglia rosso sangue. Luminosa, terribilmente luminosa. La sua bocca si socchiuse lentamente, ma non ne uscì alcun suono.
45... 44... 43...
Stephen poteva vedere le ombre dei tributi perdersi in un semicerchio, sempre più lontane e vaghe. Vicino a lui c’era solo una ragazza, alla sua destra. La vide fissare la Cornucopia, poi lui, poi di nuovo la Cornucopia.
-Ne sei così sicura?- le chiese con allegra, irrazionale sfrontatezza. Non ricevette risposta.
Il rombo si ripeté, ma stavolta spaventosamente vicino. Una sorta di geyser esplose di fronte a lui, e Stephen fece appena in tempo a proteggersi il viso con la mano. Dove prima c'era il ghiaccio, una luce intensa squarciò il buio. Quando la vampata di calore lo investì, non ebbe più dubbi.
42... 41... 40...
Lava. La distesa di ghiaccio era sospesa sopra un lago di lava. Ester osservava le correnti di fuoco liquido scorrere, ribollire, scontrarsi e fondersi con interminabili venti ardenti che si alternavano al gelo. I geyser continuavano a esplodere. Era un'atmosfera apocalittica, irreale.
-Ester!- la sua voce sgorgò quasi estranea dalla bocca.
-Alex!- sentì rispondere. Un sorriso incredulo le solcò le labbra.
-Liam è accanto a me- disse il ragazzo. –Noi corriamo alla Cornucopia-
Ester annuì, pur sapendo che non poteva vederla. La paura tornò.
-Non ci seguire- continuò Alex –Scappa ai margini del bosco. Vedi come andrà a finire e dove andiamo. Poi raggiungici.-
Vedi come andrà a finire. Ester si lisciò debolmente la treccia bionda. Vedi come andrà a finire.
39... 38... 37...
-Ronnie!- gridò Ronnie. Sentì una voce rispondergli -Momo!- ; era accanto a lui.
-Provo a correre alla Cornucopia. Prendi qualche zaino, coprimi le spalle, ma cerca di restare in disparte-
-Sì-
Ronnie sentiva il tempo scorrere, crudele, inesorabile. Una patina di sudore gli rivestiva la fronte. Una sola corsa, e tutto era in gioco. Il ghiaccio sfavillava argenteo, la speranza gli animava gli occhi di un fioco brillio. Troppo, troppo fioco per illuminare quel buio.
36... 35... 34...
Ormai i geyser esplodevano regolarmente, in nubi di vapore e sibili stordenti, distruggendo il ghiaccio in mille colonne di luce cangiante. Clyph respirava piano, impercettibilmente. Forse, se l’avesse fatto ancora più piano, e il cuore avesse smesso di martellare con quel volume assordante, sarebbe riuscito a fondersi con la notte e scomparire nel buio.
Il suo respiro però lo tradiva, continuando a formare piccole nuvole di condensa, pallidi, esili spettri di sé.
33... 32... 31...
Momo sfiorò la paura dentro di sé, poi la liberò nell'aria gelida. La paura ti avverte di quello che stai per fare, ricordatelo. Ma quando minaccia di condizionare le tue scelte, devi lasciarla andare. Non ricordava chi glielo avesse detto. Joseph, forse. Joseph. Il dolore stava diventando più pericoloso della paura, così lascio andare anche quello. Momo chiuse gli occhi e cominciò a contare.
30... 29... 28...
Samuel guardò quasi incantato il ghiaccio spezzarsi in lunghe venature, lottando per non sciogliersi. Alcuni pezzi cadevano senza nessun geyser, per sfrigolare e sibilare contro la lava. Lo vedeva, il corno nero al centro della piattaforma di ghiaccio. Distesa che, ormai, era più rosso che argento.
Non doveva guardarla, la Cornucopia. Perché insieme ad essa rivedeva sua sorella, il Giorno del Bagno di Sangue, in una pozza di sangue.
L’unico modo per non essere vittima era essere carnefice. Sua sorella aveva esitato. All’ultimo momento, sua sorella aveva esitato, e il tributo le aveva conficcato un coltello nello stomaco.
Sarah era stata una vittima, ma Samuel non era Sarah. E intendeva dimostrarlo.
27... 26... 25...
Diana guardò il terreno sotto la pedana. Sembrava semplice terra, con qualche velo scintillante di brina. Si girò. A circondare la superficie ghiacciata, una ripidissima discesa riempita dalle sagome cupe degli alberi.
Sembravano essere nel punto più alto dell’Arena; l’orizzonte, tempestato di stelle, non era interrotto da nulla.
In quel momento, Diana scelse il ricordo che avrebbe voluto portare con sé nella morte. L'ultimo che voleva rivivere. Non era il bacio di Nathan, né la prima volta che era uscita fuori dal distretto. Era il sorriso rassegnato di Rina, offuscato dalle lacrime di sé stessa bambina. Si rivide, mentre accarezzava la pelliccia sporca di sangue del coniglio. La sua prima vittima. "Prima correva tra i canneti..." aveva sussurrato "Sentiva l'odore di funghi e foglie bagnate. Ora non è più niente..."
24... 23... 22...
Non era vera luce, quella. Non spezzava le tenebre, non vi si fondeva. Più aumentava, più il ghiaccio diventava un'ombra netta e oscura.
Amber si chiese se non fosse stato meglio morire prima, invece che riempirsi di cose da perdere. Ormai era tardi. Non si era mai sentita tanto viva come in quel momento. Né tanto terrorizzata. Una luce intensa crea ombre ancora più scure.
-Amber!- gridò per la seconda volta, la voce rotta dalla disperazione.
21... 20... 19...
I geyser non esplodevano a caso. Harvey vide che il ghiaccio aveva formato un lungo ponte verso la Cornucopia, irregolare e frastagliato, alla sua destra. All'inizio del ponte c'era la sagoma scura di uno zaino. Esattamente, a metà tra la sua pedana e quella del tributo accanto a lui.
Harvey deglutì a fatica. Ogni respiro erano mille schegge di ghiaccio conficcate nei polmoni.
18... 17... 16...
Un ponte e uno zaino per ogni coppia di tributi. Scarlett guardò la pedana alla sua sinistra, e sorrise, perché la buona sorte era davvero a suo favore.
-Corri alla Cornucopia- le urlò Samuel. -Io vedo se c'è qualcosa che posso fare qui-
-Non hai armi-
-Non ne ho bisogno-
-Pazzo- sbuffò.
-E corri veloce- aggiunse l’altro. Nel buio, Scarlett poteva immaginare il suo sorriso obliquo.
Si mise in posizione di scatto, e un lungo fremito le percorse le membra. Stese lentamente le dita delle mani e respirò a fondo, sentendo l’aria fredda incendiarla al pari di un fuoco ardente.
15... 14... 13...
Nathaniel fissava gli occhi azzurri del tributo del distretto 7, luccicanti ai bagliori luminescenti della lava. Lo capì in quel momento: nessuno dei due avrebbe rinunciato allo zainetto a metà del ponte.
Le sue mani corsero al ciondolo sul suo collo. Accarezzò il profilo della spirale di metallo, fredda e sottile. Il simbolo dell’infinito, aveva detto sua cugina prima di regalargliela.
La sera prima, Nathan aveva pensato che il mondo avrebbe continuato a girare. Dopo. Che arrivati all’ultimo giro della spirale tutto avrebbe avuto senso. Il mondo avrebbe continuato a girare.
Per qualche fugace istante desiderò solo che smettesse di farlo, quando lui non fosse più stato lì per vederlo.
12... 11... 10...
Liam percepiva l’entità possente e inesorabile della notte. La sentiva avvilupparsi in spire intorno a lui, avvolgerlo come un mantello, nero e gelido.
Quasi lo sentiva, Liam, il bacio della morte sulla fronte. Era una sensazione raggelante, ma non poté che coglierne l'ironia. La morte è l'unica certezza che abbiamo in un mondo di ombre. Eppure le riserviamo sempre quest’accoglienza sorpresa, orripilata, sdegnata. Come se non fosse suo diritto entrare nella candida utopia delle nostre vite e romperla.
9... 8... 7...
Amina amava il rosso. Non riusciva a distogliere gli occhi dai movimenti viscosi, avvolgenti, incessanti e pieni di luce delle correnti di lava. Il rosso è calore che brucia, luce che divora, vita che uccide. Il rosso non mente, è la realtà senza veli e senza illusioni.
Amina odiava il rosso. Ma odiava di più il mondo, e il rosso, il mondo, lo distruggeva.
6... 5... 4...
Il vento vorticava impazzito, furioso, disperato. Swyd guardò sotto la sua pedana, chiedendosi quante mine ci fossero. Sarebbe bastato così poco. Un solo passo.
Poi i suoi occhi tornarono al cielo stellato, sformato a tratti dalla nube candida del suo respiro. Non fu un improvviso impeto di amore per la vita a fermarlo, ma pura, semplice indifferenza.
Codardo, urlava il vento. Swyd quasi sorrise. Codardo, codardo, codardo.
3... 2... 1...
Due anni. La ragazza volse lo sguardo alla sua destra. Sulla pedana c'era una ragazzina, e sembrava del tutto intenzionata a fuggire. Non le piacque.
Due anni. Volse lo sguardo alla sua sinistra, poco più lontano. Un ragazzo le voltava le spalle, ignaro. Le labbra della ragazza si arcuarono in un sorriso sottile.
Due anni. Due anni di vita offuscata, con la stessa consistenza irreale e malsana del sogno. La ragazza respirò e sentì il fuoco rovente nei polmoni.
Due anni. Due anni di vita soffocata, annegata nel bianco, inabissata nel silenzio. La ragazza stese le braccia e sentì l'ebbrezza divorante del freddo sulla pelle. Alzò gli occhi, occhi nitidi, scintillanti. Uno scintillio abbagliante e torbido, di vita esaltata e corrotta, di fuoco e di tenebre.
Due anni, e Gehenna Sunshine Iskra tornò a bruciare.





 
      Homo          
              Homini
                         Lupus
.


 
Un'azione estremamente crudele è definita inumana. È un sistema usato comunemente dall'uomo per scagionare e assolvere se stesso."






Il gong suonò.

Ventiquattro tributi scattarono dalle piattaforme in un’unica vampata di terrore, puro e primordiale come uno spasimo atroce dell’anima.
Lui e il gigante del 7 si lanciarono insieme. Nathan riuscì a fare solo due metri, poi la spallata lo fece piombare a terra.
Sentì il freddo umido della neve sotto la schiena, e il suo viso si distorse in una smorfia. Ma non c’era tempo per niente.
Si rimise in piedi, nel pugno un velo di gelido bianco. Che non poté che ricordargli che, in una notte in quell’arena senza coperte, avrebbe potuto perdere le dita. C’era ancora uno zaino, che il tributo del 7 aveva lasciato dietro di sé.
Alla fine del ponte.
Vicino alla Cornucopia.
Corse, Nathaniel; come mai aveva corso in vita sua. Ogni istante più disperatamente vicino lo zaino, ogni istante più nitida la sensazione di correre nella direzione sbagliata.
A volte, aveva provato a immaginare come dovesse essere sporgersi sull’orlo di un precipizio e guardare in basso. Quando vide la traiettoria del tridente, nero e sibilante davanti a lui, fu certo di provare la stessa identica sensazione. La vertigine durò solo un folle attimo.
Si accorse di essere riuscito ad abbassarsi in tempo quando l’arma si schiantò nel ghiaccio alle sue spalle con un rumore secco.
Quello di cui non si accorse era il vuoto sul quale stavano poggiando i suoi piedi.
Nathaniel non capiva, e le sue gambe si agitavano nell’aria. Non capiva, e il fuoco ghermiva il suo corpo.


Harvey guardava lo zainetto tra sé e il tributo.
Tributo; un ragazzino, della sua età, alto e dai capelli biondi. Non ne sapeva il nome.
Harvey guardava lo zainetto, poi il tributo, poi di nuovo lo zainetto. E l’altro faceva lo stesso.
Una sfida di sguardi, mentre gli istanti si srotolavano insensati davanti a loro. Harvey stava per perdere, ne era sicuro. Sarebbe scappato nel bosco e il tributo avrebbe avuto lo zaino.
Oppure poteva scattare. Non era veloce, ma se scattava per primo una possibilità ce l’aveva. Doveva scegliere in fretta, o avrebbe scelto il tributo per lui.
Fu in quel momento che la vide. Una ragazza, che correva verso la pedana del tributo con le braccia buttate all’indietro e degli occhi che gli iniettarono un terrore ancora più atavico di quello del gong. L’altro le voltava le spalle, continuando a fissarlo.
In quell’istante Harvey avrebbe voluto urlare è dietro di te, corri.
Ma la lucidità riuscì a vincerlo, e fu lui a correre. Verso il bosco.
Dopotutto, era solo un tributo.
Segui le regole. Non pensare. Ti prego, non pensare.
Harvey si morse la lingua a sangue, ma non si voltò indietro.


Successe tutto d’un tratto; Arcturus guardò gli occhi del tributo di fronte a lui sbarrarsi, e con un guizzo di gioia vide le sue gambe scattare verso il bosco. Era suo, lo zaino era suo.
Si stava per lanciare, quando colse un’ ombra dietro di sé. Gli occhi di Gehenna Shinespark a un soffio da lui, mentre balzava sulla sua pedana.
Non ci fu tempo per raggelare; l’attimo dopo, Arcturus stava già correndo. No, non lì, cercò disperatamente di pensare, ma era troppo tardi per cambiare direzione.
Il ponte incombeva nero di fronte a lui, quando fece il primo passo.


Soffi di vento gelido le frustavano il viso congestionato, stordendola. Amber correva con tutta la forza che aveva in corpo. Superato l’orlo del cratere sarebbe stata salva. Non avrebbe mai pensato di poter considerare quella schiera di cime scure una meta sicura, ma in quel momento era il suo unico appiglio.
Tutto quello che era successo in quei giorni sembrava essersi volatizzato in una pulsante, lucida follia. Le tenebre la accerchiavano, la inseguivano, ridevano della sua illusione. Difficilmente la morte può avere senso, le urlava dentro la testa il suo mentore.
Amber era sola. Di nuovo, Amber era sola.
O almeno, così credeva.
Con crescente orrore distinse i passi che le correvano dietro. Ansimò, accelerò, il suo respiro si fece raschiante e spezzato. Tossì, continuò a correre.
Poi una stilettata improvvisa di dolore, la neve smise di sfrecciarle attorno e Amber gemette. Un gemito lieve, che si perse nel vento.
Il tributo l’aveva afferrata per i capelli. Era il Favorito del distretto due. La girò verso di sé, ed Amber sentì il suo fiato caldo sul viso. Vide una mano alzarsi e le sue pupille si dilatarono di colpo.
Amber si spostò a sinistra per schivare il pugno, che le prese lo zigomo destro. La testa le scattò all’indietro e mille puntini rossi le accecarono la vista per il dolore. Le sue gambe divennero completamente molli. Il Favorito la teneva su per i capelli come una marionetta.
Amber alzò la mano destra alla cieca, cercando di artigliargli il viso. Le sue dita trovarono gli occhi, strinsero…
Il Favorito lasciò di colpo la presa sui suoi capelli, scagliandola a terra con violenza. Amber batté un fianco sul terreno gelato e gemette di nuovo, cercando invano la forza di alzarsi su. I capelli le ricaddero davanti agli occhi. Se fosse morta lì, niente avrebbe avuto senso. Nessun riscatto, nessun valore. Non era così che doveva finire.
Il tributo le piombò sopra, le gambe avvinghiate al fianco di Amber come una morsa e un braccio di traverso sul suo petto per immobilizzarla. L’altro braccio, invece… Amber lo fissava incombere su di lei, mentre i frammenti dell’illusione la pugnalavano a morte.
Non tentò neanche di divincolarsi. Digrignò i denti e una tremenda smorfia consapevole sfregiò la liscia bellezza del suo volto.
Bastò un solo pugno per sfondarle il setto nasale.
Amber morì nell’ombra.


Scarlett strinse l'arco nella mano e passò la faretra sulla spalla, assaporando la sensazione di forza che il legno le infondeva. Poi uscì dalla Cornucopia, estrasse una freccia e la incoccò in un unico, fluido movimento. E trovò la sua preda.
La ragazzina del distretto quattro, Coral, si stava chinando per prendere uno zaino. Scarlett tese la corda, socchiuse gli occhi. Stava per scoccare, quando il tributo alzò lo sguardo e la vide.
Occhi verdi, capelli rossi. Carnagione chiara, lentiggini sul viso.
Come i suoi, e come quelli di sua madre.
Della vincitrice dei 30esimi Hunger Games.
Sua madre.
Scarlett sentì il tempo dilatarsi all'infinito, fermarsi. Risentì le urla della donna, nel letto. Si rivide, bambina, mentre si avvicinava chiedendo cosa fosse successo. “E’ stato solo un brutto sogno”, le rispondeva sempre. “Scarlett, non ti offrirai mai, vero?”
Occhi verdi fissi su occhi verdi. Così simili e così diversi. Quelli di Coral pieni di terrore, come avrebbero potuto essere quelli di sua madre venti anni prima, come sarebbero stati i suoi.
Morte, urlavano quegli occhi. E Scarlett, alla morte, non ci aveva mai pensato.
Le sue dita accarezzarono la corda dolcemente, con la naturalezza di un musicista che suona la sua arpa.
La freccia partì con uno schiocco secco. Scarlett avrebbe voluto non vedere, ma i suoi occhi restarono conficcati in quelli di Coral, così dannatamente identici ai suoi. Quando il dardo le trafisse la gola Scarlett lo sentì, dentro di sé, incandescente e terribile. Sentì tutto il dolore del respiro gorgogliante, il terrore degli ultimi istanti, il sapore del sangue in gola. Il verde dei suoi occhi perse luce insieme a quello di Coral.
E quando lo sparo del cannone invase l'aria, per un attimo non seppe dire chi, tra loro, fosse morta.


Ho ucciso una persona. Stephen si chiese perché quella frase suonasse tanto strana.
Forse perché non era accompagnata da nessun senso di colpa.
Forse perché non riusciva a ricordarsi perché avrebbe dovuto provarne.
A quel punto qualcosa lo distrasse. Qualcuno lo distrasse.
Scosse Scarlett per la spalla e glielo indicò. –Dove diamine corre?-
Alek era letteralmente sommerso di zaini. Teneva ammucchiate tra le braccia almeno quattro asce, e stava fuggendo verso un ponte con un’andatura un tantino troppo buffa per la situazione. Quel carico doveva pesare quanto il gigante. E pesava tanto, ad occhio, il gigante.
Un istante dopo la freccia si conficcò in uno dei suoi zaini, sulla schiena. Come difesa, tutta quella roba era indubbiamente utile.
-Gli hai tirato contro- osservò Stephen. Scarlett alzò le spalle con semplicità, mentre prendeva un altro dardo.
-Così magari si fermava-


Quando Ester vide la sua compagna di ponte correre verso i boschi, lasciandole via libera, non ebbe dubbi.
Scattò, ma dritta sullo zainetto a metà del ponte.
Non c’è alcun pericolo. Lo prendo e scappo via. Poi vedo come finisce. Vedo come finisce e…
Rallentò, concentrandosi sui suoi passi mentre cercava di ignorare l’abisso ai suoi fianchi. Ma era di un rosso così vivido che sarebbe stato impossibile.
Un geyser eruttò dietro di lei. Il mondo si spaccò in mille scaglie di ghiaccio.
Ester serrò gli occhi, cercando convulsamente di rimanere in equilibrio. Le sue dita trovarono la stoffa ruvida dello zaino e la strinsero. Maledetti strateghi. Fissava sconcertata la frattura del ponte a un soffio da lei. Se avessi corso un minimo meno veloce, mi avrebbero fatto saltare in aria.
Non le restava che correre nell’unica direzione possibile.


A qualche passo dalla Cornucopia, la lava creava veloci geometrie di luce, eleganti e spettrali. Demoniache, avrebbe detto Alex.
Liam aveva trovato le sue armi affisse sulla parete della Cornucopia, Ronnie era all’interno, Momo più lontana a prendere zaini. Alex vide di sfuggita l’ombra di una ragazza raccogliere un arco, poi il giavellotto di Liam che le piombò a un soffio dalla gamba la convinse a fuggire.
Ma vide anche qualcos’altro, e molto più pericoloso. Il Favorito si stava chinando a terra per prendere un set di coltelli. Non c’era tempo per ragionare; l’istante dopo li avrebbe visti tutti quanti e attaccati. E allora addio equipaggiamento, addio sopravvivenza, addio tutto.
Alex scattò fulmineo. Con un balzo gli fu addosso, e il suo braccio sinistro immobilizzò il Favorito dal collo.
Il ragazzo non fece in tempo a girarsi che Alex gli sferrò un pugno in faccia con l’altra mano. Cosa sto facendo? Sentì il suono atroce del naso che si spezzava.
L’altro cercò come poteva di contrattaccare con un pugno, ma bastò tirare indietro la testa per schivare. Erano entrambi piegati sulle ginocchia, con Alex che lo teneva avvinghiato da dietro in un macabro abbraccio. Sferrò un altro colpo, e al contempo strinse la presa del braccio attorno al collo del Favorito. Lo sentì gemere e ansimare. Lo trattengo, dò il tempo agli altri di prendere le armi, e poi…
Una lama gelida gli si piantò fino all’elsa nell’avambraccio sinistro. Alex urlò, mollando la presa all’istante. Il Favorito era riuscito ad estrarre un coltello. Lo strappò via senza pensarci due volte. Strinse i denti, impedendo al dolore di annebbiargli la mente, e si rialzò incespicando. L'altro stava fuggendo, disarmato.
Alex era già stato ferito abbastanza volte da sapere che, con un braccio stretto al petto, non poteva fare molto. Non gli restava che tenersi in disparte e sperare - il suo turno era finito.


Arcturus non degnò il suo zaino di un’occhiata, continuando a correre a perdifiato. Gehenna, invece, si chinò a prenderlo regalandogli qualche metro di vantaggio. E un filo di speranza.
Poi inciampò, e tanti saluti al vantaggio. Per un soffio riuscì a non precipitare e si rimise a correre ansimando.
Era alla Cornucopia, ormai, nel cuore del Bagno di Sangue, ma non si soffermò a pensarci per più di un istante.
Sfrecciò in mezzo a un gruppo di tributi. Due stavano lottando, avvinghiati a terra in una stretta mortale.
Più avanti, un ragazzo correva goffamente verso il ponte con una mezza dozzina di zaini sulle spalle e quattro asce strette al petto.
Un’ombra, dall’altra parte della Cornucopia, scappava con un’enorme falce tra le mani.
Arcturus non riusciva a credere di essere lì. Era tutto tremendamente sbagliato.
Come i passi di Gehenna Shinespark alle sue calcagna.
Scivolò di nuovo, si rialzò, sentendo di odiare le sue gambe con tutto sé stesso.
Uccidetela, vi prego, uccidetela…
Attimo dopo attimo, Arcturus raggiunse il ponte di uscita, le gambe insensibili e il fiato mozzo.
Nessun colpo di cannone suonò.
Non l’avevano uccisa.


Momo si era caricata il secondo zaino in spalla quando sentì l’urlo. Era poco lontano da lei.
Si voltò, e vide Alex artigliarsi un braccio con la mano, una smorfia di dolore in viso. Seguì il suo sguardo; un Favorito dai capelli neri stava correndo via con passo malfermo.
Momo sgusciò fino alla parete d’ossidiana della Cornucopia, poi si acquattò nell’ombra e lo aspettò. Tra le dita, la consistenza fredda e liscia dell’acciaio.
Scattò e affondò. Il coltello aprì un arco di sangue nel polpaccio del Favorito, schizzandola. Sfortunatamente mancò il tendine; lui continuò ad arrancare a fatica. Non lo voleva uccidere, ma contava almeno di metterlo fuori gioco fino alla fine del Bagno di Sangue.
Non ebbe bisogno di inseguirlo. Il Favorito cadde a terra con un gemito, guardando allibito il giavellotto di Liam che gli fuoriusciva dalla coscia.
Momo si scostò dalla faccia i capelli sporchi di sudore e sangue, obbligandosi a regolarizzare il respiro affannato. E’ adrenalina, non paura, si disse. Ma per la prima volta non ne era molto sicura.
-Lo uccidiamo?- chiese Alex, la voce arrochita dal dolore.
-E’ un Favorito- disse Momo.
Liam si avvicinò. –Devono morire almeno diciotto persone-
Fu la voce di Ester a bloccarli. –No!-
Momo non sapeva perché si trovasse lì, e non fosse ancora scappata via, ma di certo non era nulla di buono. –Non possiamo!- gridò la ragazza, ancora ansimante per la corsa.
-Un Favorito in più è un nemico in più- Momo si voltò. Ronnie era lì, uscito indenne dalla Cornucopia, e stringeva un arco in mano.
-E’ ferito- protestò Ester, disperata –Non può ostacolarci in nessun modo-
-Basta che gli arrivi una medicina, e domani sarà di nuovo in piedi a darci la caccia- disse Ronnie, cupo.
Momo guardò il Favorito. Aveva gli occhi chiusi, le mani premute sulle orecchie, e degli spasmi inspiegabili gli percorrevano il viso. La pozza di sangue sotto di lui si stava allargando.
-Ronnie, ti prego- Ester sussurrò –Cosa cambierebbe tra noi e loro?-
-Non abbiamo…- la voce di Ronnie si spezzò in un urlo di dolore. Momo spostò gli occhi su di lui con un sussulto; una freccia gli spuntava dal fianco. Ronnie chinò il volto, portò lentamente le mani sull'asta, ma cadde in ginocchio prima di poterla sfiorare.
-Razza di idioti!- imprecò Liam, estraendo di scatto il giavellotto dalla coscia del Favorito. La punta arrossata si alzò sollevando schizzi di sangue. Poi scese di nuovo.
Momo non distolse lo sguardo.


Il ghiaccio scricchiolò e si ruppe sotto i suoi piedi. Arcturus cadde in ginocchio per la seconda volta, si rialzò, continuò a correre senza osare guardarsi indietro. La morte si ostinava a non arrivare.
Ce la posso fare. Devo solo correre.
Mancavano forse quindici metri e avrebbe rimesso i piedi a terra, ma il ghiaccio che lo sorreggeva cadeva a pezzi, spaccato dai geyser e dal caldo tremendo, e il ponte che lo collegava al bordo del cratere continuava ad assottigliarsi. Arcturus non osava nemmeno guardare giù. Ce la posso fare. Era già successo due volte, sarebbe bastato così poco per scivolare.
Anche uno zaino.
L’urto gli arrivò sul collo, attutito dalla stoffa, ma bastò a fargli perdere di nuovo l’equilibrio. Arcturus cercò di rialzarsi, ma stavolta le sue gambe trovarono il vuoto. Cercò disperatamente, freneticamente un appiglio, conficcò le unghie nel ghiaccio, affondò le dita nel freddo, e con sua grande sorpresa riuscì a fermarsi. Metà sopra, metà sotto. Metà vivo, metà morto.
Gehenna incombeva sopra di lui, il viso reclinato leggermente a sinistra, e lo osservava dimenarsi con tutta la calma del mondo. Volse pigramente lo sguardo un po’ più in là, dov’era lo zaino che gli aveva lanciato addosso, lo raccolse e cominciò a frugarci dentro. Arcturus tentò di risollevarsi con tutte le forze che gli restavano, ma lei, senza nemmeno prestargli attenzione, gli mise un piede sulla fronte. Il ragazzo si immobilizzò all’istante, la testa piegata verso l’alto, e vide l’altra tirare fuori qualcosa di luccicante e letale come le sue pupille nere. Avrebbe voluto rivolgere i suoi ultimi pensieri alla famiglia, ma era del tutto ipnotizzato dai riflessi della lava sull’acciaio. Vermigli, sinuosi, cangianti.
Effimeri.
Gehenna tolse il piede dalla sua fronte, si chinò, lo guardò dritto in faccia. E gli conficcò il pugnale nell’occhio.
Arcturus cadde.


E’ un Favorito.
Diciotto morti…
No! Non possiamo!
Un Favorito in più…
Ti prego…
Voci, voci, voci. Swyd le odiava. Rumori. Gemiti, frecce che volano, geyser che sibilano, vento che si schianta sul mondo, troppi rumori.
Arrivò, come sempre.
L’attizzatoio. Il suono dell’attizzatoio che cala. Un colpo. Un urlo. Altre voci, lontane, molto più lontane.
“Tu non sei mio figlio!”
Secondo colpo. Stavolta sulla spalla. Altro rumore. Il suono secco delle ossa che si rompono. Sky che geme.
“Avevi detto che ti saresti offerto! Era il tuo ultimo anno, cazzo!”
Suo fratello geme di nuovo, non risponde. Terzo colpo, sulla schiena. Sky urla, un tonfo, cade a terra.
“Fermati!” La voce si sua madre che si incrina in un singhiozzo. E’ isterica, folle di terrore. “Lo ucciderai! Ucciderai tuo figlio!”
“Lui non è mio figlio!”
La voce di Sky. “No… Non lo sono…”
Swyd è al piano di sopra e fissa la notte oltre la finestra. Non può vedere, però sente. Sente tutto.
Sente anche quel rantolo – veloce, flebile, chiaro - che scivola dalle labbra di Sky: “Io ho vinto”
Quarto colpo. Il suono della testa di suo fratello che esplode in una cascata di sangue. E poi il quinto, e il sesto. Cinque, sei. Swyd li conta ad uno ad uno sulle dita. Fa rumore, l’attizzatoio. Fa tanto rumore.
-Sky- rantolò Swyd. –Sky, non…- non sapeva cosa dire, era quella la verità. Swyd non aveva più niente di sensato da pensare. Né lacrime. Né nulla. Lo sapeva da quando l’attizzatoio aveva sfracellato la testa di Sky e lui non aveva pianto.
Quindi contò, semplicemente. Come aveva fatto con l’attizzatoio. Gli attimi che lo separavano dalla fine. Uno, due, tre…
Un urlo improvviso di dolore. –Razza di idioti!- la lama uscì dalla sua coscia strappandogli un gemito.
Poi il giavellotto gli trafisse il petto, inchiodandolo al suolo. Non una lacrima scese dalle sue ciglia.


Samuel si osservò le nocche. Nessuna traccia di sangue.
-Un lavoro pulito, già?- disse al corpo ai suoi piedi. Amber Hamilton lo fissava con sguardo vacuo.
-Ora però ho voglia di un’arma. Qualcosa di… Grande, affilato…-
Samuel socchiuse gli occhi, guardando meglio il tributo che correva verso di lui. Teneva un’enorme falce tra le mani. –Sì, una cosa come quella-
Era una ragazza, forse quella del distretto 9, data l’arma che aveva scelto. Sapphire qualcosa.
-Ci ho sempre saputo fare, con le ragazze-
Samuel saltò via dal cadavere e con un passo superò l’orlo del cratere, entrando nella foresta. Va proprio verso di me. Sì, piccola falce, vieni qui…
Si appostò dietro un tronco e snudò i denti in un ghigno. Sconfiggere a mani nude un tributo armato sarebbe stato perfetto per gli sponsor. Esattamente quello che sperava quando aveva deciso di non andare alla Cornucopia.
Doveva solo giocarsela bene, con le battute giuste al momento giusto. E non farmi ammazzare.
La neve era di un colore metallico ai bagliori delle stelle. Il tronco ruvido e freddo contro la sua schiena. Il tributo stava rallentando. Ma certo, ormai sei al sicuro.
Quando i passi si fecero sufficientemente vicini, Samuel scattò, e le fu addosso. La ragazza però riuscì a voltarsi in tempo e roteò la falce alla cieca, mentre cercava di recuperare l’equilibrio. La lama tagliò la cortina della notte in un lampo d’argento, a una spanna dal volto sconcertato di Samuel. Fortunatamente, non le avrebbe lasciato una seconda possibilità.
Afferrò la falce con entrambe le mani, una vicina all’estremità del manico e l’altra quasi sulla lama. Sentì l’acciaio ferirgli il palmo, ma non ci fece caso.
Sapphire, anche se sbilanciata, non aveva mollato la presa; la falce restava orizzontale in mezzo a loro. Samuel tentò di strappargliela via con un strattone verso di sé, poi le sferrò una ginocchiata nello stomaco. La ragazza si piegò in due con un ansito, ma appena rialzò gli occhi ricevette una brutale testata sulla fronte.
Finalmente riuscì a gettarla a terra, ma neanche allora la ragazza tolse le mani dall’arma, così lo trascinò con sé. Imprecò, rovinandole addosso.
La ragazza cercò disperatamente di dibattersi, mentre Samuel si metteva cavalcioni su di lei. Le schiacciò l’asta della falce sul collo. Vide i suoi occhi azzurri sbarrarsi sgomenti e le labbra schiudersi in un gorgoglio strozzato.
Poi iniziò a soffocare.
Samuel strinse i denti e affondò l’asta con più forza, nella speranza che morisse in fretta. Poteva specchiarsi nelle pozze fredde di quegli occhi, che scavavano nei suoi.
Cosa cerca? Pietà? Sensi di colpa?
Il brillio dello sguardo di Sapphire si velò di lacrime, poi cominciò ad offuscarsi. La sua presa sulla falce si allentò gradualmente, le braccia stavano per abbandonarsi al suolo…
Samuel urlò quando lei gli conficcò i pollici negli occhi. Si portò le mani al viso in un moto istintivo e la falce volò lontano. Sapphire diede uno strattone e rotolò di lato, liberandosi.
Quando si tolse le mani dalla faccia, la ragazza stava già correndo via, spettro pallido nella notte.
Si gettò all’inseguimento imprecando, ma dopo qualche balzo la rabbia era sbollita abbastanza da permettergli di pensare. Doveva tornare dagli altri Favoriti, e in ogni caso era difficile che riuscisse a raggiungerla in quella dannata oscurità.
Si fermò, ascoltando il suono del suo respiro per qualche istante. Poi imprecò di nuovo, mentre il bruciore per la sconfitta si attenuava.
Questa sarebbe la battuta giusta al momento giusto?
Non se l’era giocata bene. Ma non si era fatto ammazzare.
Bisognava sempre vedere il lato positivo delle cose.
E ho anche una falce.
La raccolse da terra, poi si avviò a passo veloce verso la Cornucopia. Aveva contato cinque colpi di cannone, di cui uno suo. Diciannove tributi ancora vivi.


-Sei ancora vivo- lo salutò Scarlett, una volta arrivato.
-Mi dispiace deluderti-
I loro respiri formavano nuvole di vapore nel buio torbido. I geyser avevano smesso di eruttare. Anche il vento si era quietato, e una strana calma era sospesa sul lago rosso.
In giro vide solo qualche zaino, le sue due vedove, una spada, un falcetto e gli artigli di Scarlett. Lei si sistemò l’arco sulle spalle, poi gli indicò con un cenno un corpo poco lontano dalla Cornucopia. Swyd.
-Diciamo che poteva andare meglio- Stephen sbucò dietro di lui. –Il tizio del 7 ci ha mollati portandosi dietro metà Cornucopia. E l’alleanza di sei tributi ha provveduto all’altra metà-. Cinque tributi. Cinque.
-Qualche buona notizia?- Samuel alzò le sopracciglia.
-Abbiamo ucciso la ragazza del 4 e il maschio del 10, ferito quello dell’11. Poi però la sua compagna di distretto se l’è trascinato via, e tutta quell’alleanza se n’è andata-. Non tutta. Stephen giocherellava con qualcosa che lanciava tenui bagliori argentei nel nero. –E.. ho trovato delle forbici-
-Forbici- sbuffò stancamente Scarlett, infilandosi un paio di guanti. –Tre Favoriti. E un’alleanza di sei tributi da fronteggiare. Come diamine faremo a tenere la Cornucopia?-
Un tuono squarciò la quiete. Un geyser eruttò, così vicino che la polvere di ghiaccio investì Samuel strappandogli un verso roco. Tossì.
Qualcuno lo spinse indietro tirandolo rudemente per il braccio. Scarlett. Anche Stephen arretrò, confuso.
Altri due geyser, talmente violenti che sibilarono con dolore vivo nelle orecchie di Samuel. Un ponte semi distrutto scricchiolò, oscillò, poi iniziò una lenta, inesorabile caduta.
Non riuscì a staccargli gli occhi di dosso, il respiro pesante, mentre i geyser eruttavano ovunque.
-Come è sospesa la Cornucopia sulla lava?- gridò Scarlett, sovrastando il rumore.
-Un pilastro di roccia innevata?- ipotizzò Stephen. –Oppure sono i ponti a tenerla in equilibrio-
Il serpente di ghiaccio piombò nel lago in uno sfrigolio stridente e distorto, sollevando un’enorme vampata di lava. Getti incandescenti arrivarono fino in superficie, stagliandosi di un arancio vivo nella notte.
Altri due ponti cominciarono a crollare.
-Cosa…-
-Vogliono intrappolarci alla Cornucopia- rilevò Stephen, esterrefatto.
Fu Scarlett a iniziare a correre.
-Le armi, dannazione!-
-Non c’è tempo!-
-Io prendo gli zaini!-
Samuel raccolse una spada da terra, con ancora la falce in mano. Vide Scarlett gettarsi nella porta della Cornucopia e l’oscurità la inghiottì.
Stephen si era messo due zaini in spalla, il tridente stretto saldamente con una rete impigliata sopra. Intorno a loro, le esplosioni diventavano ogni istante più spaventose, tra ondate di lava e schegge di ghiaccio.
Samuel si lanciò su un ponte ancora in piedi, sperando che lo rimanesse un altro po’. -Dietro di me!- gridò, la voce rauca.
Un fragore assordante scosse la terra. Gli schianti dei geyser continuavano, furiosi, devastanti. Il ghiaccio crollava come i massi di una frana.
Quando Samuel mise piede a terra, non riuscì a credere di esserne davvero uscito vivo. Anzi, che tutti loro ne fossero usciti vivi.
Oltre all’arco, Scarlett era riuscita a salvare una faretra e i suoi artigli. Rimasero lì, ansimanti sull’orlo del cratere, a fissare l’apocalisse.
I ponti erano crollati. Tutti. Il disco di ghiaccio che sorreggeva la Cornucopia oscillò paurosamente, cominciò a sgretolarsi, cedette.
Samuel guardò allibito il corno nero scendere sempre più veloce, tra scossoni e lapilli. Affondare nel lago rosso. Scomparire nel lago rosso.
Ci fu qualche istante di silenzio sconcertato, tutti gli occhi fissi sulla lava che tornava calma.
-Sai, Scarlett- Samuel le passò un braccio attorno alle spalle. –Secondo me la Cornucopia si difende benissimo da sola-
Stephen rise.




N. d. A ____________________________

Buongiorno, popolo di efp! Sono consapevole del ritardo (sto cercando un capitolo in cui non lo dico) ma è stato un mese e un capitolo molto impegnativo. Prima di tutto...

Scaletta dei morti:
Coral Sahara Smith, distretto 4
Nathaniel Moore, distretto 10
Swyd Polchrer, distretto 1
Arcturus Nominem, distretto 5
Amber Hamilton, distretto 8
Scaletta dei feriti, malati, bisognosi, morti di fame, senzatetto e tutto il resto:
Ronnie Dalton, grave, distretto 11
Alex Sunshine, distretto 9
Alek Snowden, distretto 7
Samuel Narper, un paio di graffi e tanto bisogno di amore, distretto 2
Gehenna Shinespark, in ottima salute ma senza forbici, e non va bene, distretto 1

Le morti mi sono dispiaciute veramente tanto, li adoravo tutti. Senza contare che per la maggior parte erano i personaggi che credevo di aver caratterizzato meglio.
Per darvi un’idea di come ho ragionato; Swyd si è trovato circondato da tutta l’alleanza di Ronnie e non c’era alcuna possibilità che ne uscisse vivo, per Amber la monetina ha detto croce, per Sapphire testa, e così via. Su con la vita.
A volte considero anche la probabilità: per Sapphire l’ho lanciata due volte, per Amber una sola, perché non aveva una falce di otto piedi in mano. Per farla breve, non prendetevela con me, prendetevela con i dadi. Ah, e con mio fratello. “Cosa farebbe una pazza assetata di sangue armata con un pugnale a un ragazzino inerme sull’orlo di un abisso di lava?” gli ho chiesto. “Suppongo gli ficcherebbe il pugnale nell’occhio”
Questo è il costo del realismo. Ci ho messo una settimana a superare il trauma.
Animo, poteva andare peggio. Ronnie la freccia non se l’è presa in testa.
Bisogna sempre vedere il lato positivo delle cose.
A proposito, credete che non farei andare la ferita in cancrena se non gli sponsorizzate una pomata al più presto? *fischietta*



 
****LA SPONSORIZZAZIONE****
(perchè il capitolo in sè non era già abbastanza enorme)


Può sponsorizzare chiunque di voi. Recensore o non, creatore o non, mentore o non.
Per comodità ho diviso la spiegazione in punti.

1. Ogni utente ha 10 soldi, con cui potrà comprare per qualunque tributo (creato o non creato da voi) qualunque cosa gli passi per la testa. L'elenco qui sotto è solo un campionario base, per darvi un'idea dei costi. Potete sponsorizzare anche peluche a forma di panda, non mi importa u.u
Gli strateghi non lasceranno passare solo qualche cosa, tipo granate già attivate, messaggi rivoluzionari dei Dogs, roba atomica e simili.
Però, dato che c'è scritto che il tridente è lo sponsor più costoso mai entrato nell'arena, non parlatemi di mitragliatrici, bazooka e bombe a orologeria.
Anche se un po' l'idea stuzzicava anche me.

2. Se avete dubbi su quanto vi costerà un oggetto, o su qualsiasi altra cosa, chiedete per messaggio privato.

3.Quando siete sicuri di voler sponsorizzare qualcosa, inviatemi una lettera; risponderò dicendovi il numero di soldi che vi rimangono. 
NON SPONSORIZZATE NELLE RECENSIONI, ma sempre e solo con messaggio privato, a meno che non vogliate che l'amministrazione mi fucili.

4.Potete sponsorizzare anche più tributi a capitolo, però non con più di un oggetto allo stesso tributo in un solo capitolo. Evviva le ripetizioni.

5.L’arrivo degli oggetti sponsorizzati è sicuro al 100% se avviene entro cinque giorni dopo la pubblicazione del capitolo. Più avanti invece non è detto che ci riescano; se ho già scritto la morte di un tributo quando mi inviate l'antidoto, l'antidoto si suiciderà in un fiume di lava dicendo addio al mondo crudele. Cerco di scriverle per ultime, le cose che possono essere stravolte da un vostro intervento, ma non contateci troppo u.u

Ripeto: 10s per ognuno di voi.


                                SOPRAVVIVENZA

Pacchetto di fiammiferi/acciarino: 2s
Pagnotta: 2s
Corda: 2s
Borraccia d'acqua: 2s
Guanti: 2s
Bende: 2s
Pomata poco efficace: 2s
Pomata contro le ustioni: 3s
Antidolorifico: 3s
Pece (o altra roba infiammabile): 3s
Coperta: 4s
Kit oggetti da costruzione (viti, martelletti, scalpelli etc): 4s
Diavolerie elettriche varie per le trappole: 5s
Occhiali infrarossi: 4s
Kit pronto soccorso (contiene bende, laccio emostatico, stecche di legno, pomata poco efficace, antidolorifici): 5s
Pomata molto efficace: 5s (è quella della gamba di Katniss)
Veleno nelle sue più svariate tipologie: da 3 a 5, dipende dal veleno. Ve lo indicherò io quando mi specificherete i sintomi (potete anche inventarveli, ma nei limiti del realismo)
Antidoti vari: da 4 a 6, dipende dal veleno u.u

               ARMI 

Armi improprie (coltellino, fionda, bastoni... forbici...): 2-3s.
Armi leggere (Machete, pugnali di vario genere, coltelli da lancio x5, cerbottana +6 dardi non avvelenati..): dai 3 ai 5s
Armi medie (Falcetto, asce a una mano/da lancio, giavellotti x3, frecce x6, spade e simili, artigli di Scarlett...): dai 6 ai 8s
Armi pesanti (Più che altro armi a due mani. Falce, asciona, arco + 6 frecce, spadone, martello, lancia, tridente...):dai 8 ai 10s


 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** L'unica verità ***


 



  L'unica verità.

 
 Essere morti significa svegliarsi dalla parte sbagliata dei propri sogni.
 




Alyson aveva sempre desiderato vedere una montagna, prima di morire. Fece roteare la margherita bianca che aveva colto, respirandone il profumo. Sapeva di casa.
Alla Mietitura aveva una margherita, in mano. Era stato il suo portafortuna, prima che appassisse lentamente.
Accarezzò appena i petali del fiore, lasciò che una singola lacrima vi cadesse. Si divise in due minuscole gocce, e due brillii tenui sfiorarono il buio. Un istante. Poi scivolarono dolcemente lungo il petalo e caddero a terra senza un suono.
Alyson sorrise, sciolse le dita e restò a guardare la margherita volare via, perdendosi nel buio. Si sedette a terra e aspettò. Cosa, non lo sapeva. Che il tempo le scivolasse addosso come la lacrima sul petalo, e tutto finisse.
Alyson aveva sempre desiderato vedere il cielo nevicare, prima di morire. Perciò aspettava.
 
 
Sapphire deglutì, e un dolore bruciante le scese giù per la gola.
Fortuna. Ne aveva sempre avuta tanta, sia buona che cattiva.
Sbuffò un accenno di risata che si trasformò in una smorfia per il dolore. Non avrei mai pensato di dover ringraziare la mia stilista.
Si guardò le unghie, lunghe e affilate, pensando a quanto sarebbe stato bello se fosse riuscita a cavare gli occhi al Favorito. Magari avrebbe avuto ancora la sua falce.
Poi i suoi occhi passarono dalla mano a un mucchietto di neve. Perché il mucchietto di neve si era appena mosso.
Trattenne il respiro mentre tentava un passo cauto verso la lepre bianca, che alzò la testa e annusò l’aria, circospetta. Poi tuffò via con un balzo.
Sapphire si gettò all’inseguimento, senza la più pallida idea di come avrebbe fatto a raggiungerla, né di come ucciderla, né di come scuoiarla. L’unica cosa che sapeva era che non aveva mai desiderato la sua falce come in quel momento.
Corse tra gli alberi, per poco non scivolò su una roccia innevata, saltò un tronco abbattuto, girò freneticamente su sé stessa e fu a quel punto che si accorse di averla persa.
Continuò disperatamente a guardare le tenebre, soffocando un'improvvisa vertigine. Poi si appoggiò a un tronco, aspirando lunghe boccate d’aria fredda che le laceravano la gola come artigli.
Si passò lentamente le dita tremanti sul collo, lì dove la falce aveva dipinto una collana di lividi. Sperando in uno sponsor, un miracolo, qualsiasi cosa. La morsa delle tenebre minacciava di soffocarla.
Poi, un fruscio tra le felci. Sapphire si immobilizzò, e il respiro ansante le raspò dolorosamente in gola nel tentativo di trattenerlo. Poteva essere un ibrido, un tributo, un Favorito, Coral, o solo vento.
La lepre saettò davanti a lei, balzò e scomparve dietro un salice.
Sapphire fissò scossa il punto dov’era svanita. Avanzò a passi lenti, scostò le foglie.
Liscio, silenzioso e immobile, il lago scintillava freddo.
Sapphire si lasciò cadere sulla sponda, guardando incredula la lepre che beveva poco distante. E sorrise.
Fortuna. Ne aveva sempre avuta tanta, sia buona che cattiva.
Bevve tra le mani a coppa finché non si sentì di nuovo sul punto di vomitare, poi sfregò tra di loro le dita insensibili e si alzò. Dormire lì sarebbe stata una pazzia, chiunque avrebbe potuto seguire un animale e trovare il lago.
Quando fu abbastanza lontana si raggomitolò su sé stessa, le mani strette a sfiorare le labbra. Doveva solo sperare che il suo fiato le proteggesse dall’assideramento, che nessuno la trovasse e che l’alba prima o poi sorgesse a sciogliere il freddo. Sperare. Niente di più facile.
Nel frattempo, però, la prigione del buio continuava a stringersi attorno a lei.
 
 
Gli occhi scuri di Honoré. La sua voce, impastata dall'erba.
"Ronnie, tu sei sprecato per questo mondo"
Il fiume scorre lento tra le volute di fumo della canna. Il sole crea riverberi d'oro nel verde scuro dell'acqua, il cielo limpido è solcato da brandelli di nuvole. L'aria sa di rugiada e sogni.
"Tu sei sprecato per questo mondo" dice Honoré. Gli occhi di Ronnie guizzano nei suoi. "Possiamo sempre cambiarlo"
Honoré sorride.
 
I suoi occhi si aprirono sul nero. Una foschia malsana a nascondere il mondo. Il buio. Il ronzio assordante nelle sue orecchie.
Poi la vertigine tornò a inghiottirlo.
 
C'è una donna, sulla riva del fiume. Ha tra le braccia un bambino. Lo culla con gli occhi cerchiati di rosso. Non sorride.
"Non puoi vivere nel mio mondo" singhiozza. Il suo labbro trema. "Non... Non puoi vivere nel mio mondo!" urla, le lacrime che le solcano il viso.
Il vento soffia gelido, il tempo passa. Sua madre lascia scivolare il bambino, forse senza neanche accorgersene. Nel fiume.
Ronnie sente l'acqua gorgogliare. Il fiume ribolle di schiuma, sibila nelle sue orecchie. Il sole è un disco infuocato e deforme attraverso il velo blu. Poi diventa più lontano, sempre più lontano.
L'acqua è tutto quello che rimane del mondo, entra nella bocca aperta, nei polmoni, negli occhi. Ronnie si abbandona al suo abbraccio gelido, mentre catene gli imprigionano il respiro, lo trascinano a fondo. Bolle nere sfrecciano attorno al suo viso, ridono nelle sue orecchie. Poi tutto scompare, e cade, e cade, con languida lentezza, verso la fredda oscurità...
 
Ronnie spalancò gli occhi. Una vaga macchia bianca stagliata sul nero. Parole, labbra che si muovono, echi indistinti, stridenti contro il silenzio.
-La freccia-
Un fiotto di dolore lancinante. Non sapeva da dove veniva, forse dalla sua testa. Un urlo. Il suo. Poi tutto precipitò di nuovo nel nulla.
 
Gli occhi scuri di Honoré. La sua voce, impastata dall'erba.
"Ronnie, tu sei sprecato per questo mondo"
Il fiume scorre lento tra i ribollii della lava. Un sole rosso come l'occhio di un orbo scocca scintille color sangue nell'arancio rovente dell'acqua, il cielo scuro è spazzato di venti neri. L'aria sa di freddo e di furore.
"Tu sei sprecato per questo mondo" dice Honoré. Gli occhi di Ronnie guizzano sui suoi. "Possiamo sempre cambiarlo"
Honoré sorride, un sorriso che si allarga, diventa un ghigno che non è il suo. Ride, una risata cattiva. Dietro di lei, strisce di nero e di rosso artigliano il buio.
"È più facile cambiare sé stessi"
 
Un respiro spezzato gli raschiò nei polmoni. Ronnie chiuse le dita, tra le mani la consistenza umida della terra. Sentì i denti serrati stridere e si costrinse a rilassare la mandibola.
Batté per qualche istante le palpebre, cercando di spazzare via la nebbia dalla sua mente. Gli occhi neri di Ester fuggirono i suoi appena riuscì a mettere a fuoco. -Oh- disse. Parve accorgersi solo in quel momento della freccia completamente rossa che teneva in mano. La gettò via come se l'avesse scottata.
I ricordi si riallinearono lentamente. Il Favorito a terra. La voce di Ester. Il momento di scegliere - la frase che sembrava volergli spaccargli la testa. Scegliere tra un male e un male minore è sempre qualcosa di ripugnante. La freccia. Il Favorito morto. 
Ronnie cercò di parlare, ma gli uscì solo un farfuglio confuso. -Morti?-
-Non sono ancora apparsi i volti.- Fu la voce di Liam a rispondere. -Per quanto ne sappiamo, nessuno dei nostri. Tu ci stai provando-
Ronnie cercò di tirarsi su, poi giudicò che stava bene anche sdraiato. -Non.. vi preoccupate. Ho intenzione di restare vivo.- E chissà se sarebbe bastato.
Qualcosa gli bagnava il braccio destro. Sangue. Deglutì, e il mondo riprese a vorticare.
Una mano scattò involontariamente verso le bende, cercando di trovare il punto dove la ferita aveva squarciato la tuta.
-No- sussurrò.
-Ho macerato la lavanda in una borraccia, arrivata dagli sponsor un'ora fa- continuò Ester, con una voce troppo flebile per essere la sua. -Ho messo l'impacco e le bende ma...-
Ronnie esalò un sospiro spezzato. La mano si allontanò dal fianco e ricadde a terra inerte.
La freccia aveva preso l'intestino.
-Devo ricucirlo- disse Ester in un soffio. -Domani, con il sole. Io non... -
Ronnie capiva benissimo quello che non riusciva a dirgli. Le ferite all'intestino si infettavano facilmente anche con i farmaci, senza non c'erano speranze. Gli rimanevano forse due, forse tre giorni. Due, tre giorni.
Era troppo esausto per l'enormità di quel pensiero. Lo rimandò. -Cos'è successo, dopo..?-
-Sei svenuto. Parecchie volte- rispose Liam -Siamo scappati fino al margine del primo bosco, sarà stato due ore fa. Stiamo facendo turni di guardia, Alex e Momo dormono, Amber è dispersa.-
-Hai la febbre- aggiunse Ester.
La foresta aveva cominciato a oscillare in macchie di ombra, dandogli un senso di nausea crescente. -Sì, lo so- biascicò.
-Potrei fare un infuso con la lavanda. I miei fratelli lo usano spesso come calmante-
-Fratelli?- chiese Liam.
-Ho...- Ester tacque. -Avevo due fratelli guaritori.-
Le tempie gli pulsavano, mentre scariche di brividi gelidi gli attraversavano la parte sinistra del corpo. Non che il dolore fosse un brutto segno; perdere sensibilità avrebbe significato dire perdere ogni possibilità di guarire.
-Ho la borraccia e posso farlo bollire vicino al canale di lava, ma abbiamo finito l'acqua.-
-Neve- propose Liam.
-C'è il rischio che gli strateghi la abbiano avvelenata, come nell'edizione di due anni fa. Quando...-
-Rischio?- Ronnie aspirò l'aria tra i denti, sentendo l'ennesima fitta togliergli il fiato. -Ho qualcosa da rischiare?-
Non avrebbe potuto vedere il suo piano attuarsi né fallire. Aveva lottato anni per un mondo che non avrebbe visto sorgere. Sarebbe finito tutto in quella foresta, con la mente annebbiata da qualche infuso di lavanda.
L'ultima cosa che si aspettava di provare, in quel momento, era la rabbia. Eppure la sentiva, calda in fondo allo stomaco.
Dopotutto, la disperazione non ce farei a sopportarla, quindi cos'altro mi rimane?
Ronnie chiuse gli occhi, mentre la risposta si formulava lentamente. Un compito. Aveva ancora un compito.
-Vado- disse Ester, interrompendo il silenzio. Aveva un tono spaventosamente vuoto, ed era la prima cosa che Ronnie non poteva permettersi. La afferrò per il polso prima che si alzasse. -Non è stata colpa tua- disse.
Ester non rispose, ma per un attimo incrociò il suo sguardo. Poi la lasciò andare e sentì l'eco dei suoi passi perdersi nel silenzio. Sospirò a fondo.
L'alleanza aveva bisogno di un capo, una guida. Qualcuno che sapesse scegliere a freddo la cosa giusta da fare, per quanto tremenda fosse. Il suo sguardo cadde su Liam, ma lo escluse subito. Non lo conosceva bene, non aveva motivi particolari per odiare Capitol City e non sapeva ancora se fosse ragionevole o solo crudele. Lì, a dire il vero, il confine tra crudeltà e ragione era molto sottile.
-Alex- decise Ronnie, schiarendosi la voce. I miasmi dolciastri del sangue riempivano l'aria. -Se morirò, la guida passerà ad Alex-
Gli occhi di Liam scintillarono appena, nella notte. -Afferrato-
Ronnie lo guardò più a fondo, la vista offuscata dalla febbre. -Perché?-
-Perché cosa?-
-Perché in tutta la mia vita non ho visto uno straccio di lieto fine e continuo ancora a sperarci? Perché sono così... Così...-
-Idiota?-
-Ottimista. Volevo dire ottimista-
Lo vide scrollare le spalle. -Suppongo sia meglio che piangersi addosso-
Ronnie chiuse gli occhi. -Forse. Ma fa male, ogni volta di più-
Finché non si arrivava al punto in cui non si era più capaci di sopportarlo. Il punto oltre il quale montava la rabbia.
E Ronnie aveva la sinistra impressione di aver appena superato la soglia.
 
 
Diana si appoggiò a un albero, esalando un sospiro che poteva essere di sollievo come di sconforto. Più di sconforto, forse.
Aveva attraversato la piccola foresta che circondava il cratere, camminato per almeno un’ora allo scoperto e finalmente raggiunto quel bosco. Forse era sufficientemente lontano dalla Cornucopia da essere sicuro.
Dei suoi alleati, nessuna traccia. Anzi, della sua alleata, nessuna traccia. Diana a volte si dimenticava che Alek era tra i Favoriti. Da tre erano diventati due.
Attese accigliata qualche istante, poi si rassegnò a correggere di nuovo il pensiero. Da tre, sono sola.
Chissà se Abigail era ancora sua alleata. Sapeva com’era morto suo fratello, aveva visto quell’edizione: immaginava quanto potessero andare a genio le alleanze a una come lei. E forse è più saggia di me. Perlomeno lei non è in una foresta senza zaini e senza armi.
Era stata Abigail a convincerla a scappare. “Andrò io a prendere equipaggiamento alla Cornucopia, poi ci ritroveremo” aveva detto. Magari voleva solo disfarsi di lei e continuare i giochi da sola. Magari era morta. Comunque, non poteva fidarsi più di tanto.
Diana prese un profondo respiro, chiedendosi se riposare o continuare la marcia. La risposta era ovvia. Non sarebbe mai riuscita a dormire.
Le serviva solo una direzione, per non rischiare di girare in tondo. Diede un’occhiata agli alberi. Di solito il muschio cresceva a sud, ma in quei tronchi ce ne erano chiazze ovunque, su ogni lato. Sorrise senza l’ombra di allegria. Bene, non mi posso fidare neanche del muschio.
Alzò lo sguardo. Il cielo, frammentato dalle chiome nere degli abeti, era a malapena visibile. Sospirò di nuovo, poi individuò l’albero giusto e cominciò ad arrampicarsi.
Gli abeti erano un intreccio inestricabile di rami. Quando Diana riuscì a issarsi sufficientemente in alto, era contusa e stanca, con i muscoli allo stremo, piena di graffi e abbondantemente pentita di aver cominciato l’impresa.
Si sedette tra due rami, appoggiò la schiena al tronco e soffiò delicatamente sulle mani. Erano doloranti per la corteccia dura, arrossate per l’attrito, tremanti per... un sacco di motivi, immagino. Se le poggiò calde sul viso e rimase immobile per un po'. Una calma fredda gravava sul bosco sotto di lei. Non c’era un filo di vento. Non un rumore.
Alzò gli occhi al cielo. Non aveva mai visto tante stelle e tanto luminose, e forse qualche settimana prima sarebbe rimasta senza fiato. Non quel giorno, però.
Ritrovò subito il carro, e da lì la stella polare e il Nord. Non aveva avuto bisogno di studiare le costellazioni all’addestramento; non riusciva a contare le serate che aveva passato, sdraiata sul tetto di casa sua, a osservare il cielo con Nathan.
Era stato lui a insegnarle come capire l’ora basandosi sulla posizione del carro. Ci mise un po’ a fare i calcoli necessari, ma alla fine ottenne che dovevano essere circa le due. C’era ancora tempo per marciare prima dell’alba. A quel punto l’idea sarebbe stata di scendere, ma di colpo non le sembrava più tanto entusiasmante.
Le stelle la fissavano vuote dall’alto, e Diana ricambiava lo sguardo altrettanto inespressiva. Con la sola compagnia del proprio respiro, di sé stessa e di una cupa disperazione. Almeno, la paura era più eccitante.
Restò a lì, con un ginocchio stretto a petto e l’altro piede che dondolava nel nulla, sotto uno sterminio di stelle. Per la prima volta, non riuscì a trovarci niente di poetico; nessun brivido, nessuna vertigine, nessun incanto. Non lo proverò mai più. Anche se uscissi di qui, avrebbe già perso qualsiasi significato.
Diana distolse gli occhi, nauseata. Dopotutto, il cielo sarebbe rimasto a guardare. Come sempre.
 
 
Il buio scintillava.
Il nero, scintillava.
Tutto tremava, vibrante di vita, pregno di sussurri di morte.
Perché sussurrava, la morte. Parole che solo lei capiva - che lei ripeteva, le labbra che si muovevano mute, mosse da una lentezza estatica.
Flebile, ma più nitido e vero dell'inconsistenza della vita. La melodia che portava all'abisso, la vertigine ancestrale della notte.
Lo seguì, lo rincorse tra le ombre, quel sottile richiamo che si affievoliva in un fruscio di vento e poi rideva lieve, fuggendo in geometrie invisibili, reclamandola a sé. E aumentava d'intensità, si dilatava nell'aria, martellava l'aria, disegnando scie infuocate nel gelo.
Poi scomparve, e il silenzio si distese come un sudario sulle chiome degli alberi. Soffocarono i suoni, soffocarono le luci, finché rimasero soltanto due ombre.
 
Era arrivata.
 
 
Nell'arena non ci sono modi per risparmiare vite. Essere realisti non è motivo per sentirsi in colpa.
Liam continuava a ripetersi quelle parole nella mente come un mantra.
Si pensa che nell'uccidere una persona succeda qualcosa, il cuore si fermi, tutto cambi consistenza, il cielo crolli a inghiottire la terra.
Invece era tutto fin troppo semplice. Una lama che affondava, un po' di macchie di sangue sui vestiti, e il mondo che smetteva di fingere.
Essere realisti non è motivo per sentirsi in colpa... Liam esalò un sospiro di vapore bianco. Tanto valeva che la smettesse di dirselo, perché la verità la sapeva. A volte ci provava, a mentire a sé stesso, ma con lui non funzionava più da tempo.
E la verità era che Liam non si sentiva affatto in colpa.
Anzi.
C'era una sorta di macabro sollievo nel potersi finalmente considerare un assassino. Anch'io ho smesso di fingere. Fece un sorriso amaro, ascoltando il silenzio. Forse è una fortuna aver rinunciato a credermi una persona decente anni fa.
Per alcuni uomini far pace con sé stessi significava vincere, per altri semplicemente smettere di lottare.
-C'è qualcuno- a malapena un sussurro, ma infranse la quiete sottile come un pugno sul vetro.
-C'è qualcuno!- ripeté Ester, balzando in piedi con il giavellotto in mano. Liam socchiuse gli occhi, liberandosi da qualsiasi pensiero. Non sentiva niente.
-Dove?- la voce di Momo, del tutto sveglia.
-Ci sono...- gli occhi di Ester rincorsero gli alberi tetri della foresta, confusi. -Ombre- soffiò, con un filo di voce.
Liam si sollevò su un ginocchio, guardandosi attorno. La foresta dormiva placida.
-Cosa...- mugugnò Alex.
Ester si girò di scatto, come se avesse sentito qualcosa. -Lì!-
-Non c'è niente- replicò Momo, le sopracciglia aggrottate.
-Niente- concordò Liam.
-C'è qualcosa, vi dico- sibilò lei.
Liam seguì il guizzare del suo sguardo. -Sono ovunque- disse Ester, arretrando. Era pallida. -Dei riflessi neri. Non li vedete? Non li sentite?-
-Cosa dovremmo sentire?- chiese Liam.
-Passi- rabbrividì, voltandosi di nuovo. -Una risata...-
Momo le strappò il giavellotto dalla mano. -Non c'è nessuna risata- sentenziò. -Farò io la guardia-
-È dietro di te!- strillò Ester, gli occhi sgranati. Passarono istanti folli. Non successe niente.
-È tutto a posto?- domandò Liam, squadrandola. Con lo sguardo assente e gli occhi iniettati di sangue, non aveva l'aria di una persona all'apice della tranquillità mentale.
-È scomparso- bisbigliò Ester.
-Cosa?- anche nella voce di Alex c'era una punta di diffidenza.
-Non lo so.. bene- la ragazza si accasciò lentamente a terra, poi affondò la faccia tra le mani. Le nocche le diventarono bianche per la pressione. -Sento delle.. fitte.. alla testa- disse, la voce rotta.
La cappa della notte si era fatta improvvisamente più pesante. Liam distolse gli occhi da Ester, cogliendo il luccichio di qualcosa nel buio. Ma non era un riflesso nero, né un'allucinazione. -Sull'albero!- il richiamo incredulo di Momo. Liam impiegò qualche istante a mettere a fuoco, qualcun altro a crederci, poi ogni dubbio svanì.
Lì, nell'incavo dei rami, c'erano due paracaduti argentati.
 
 
Hazel si chiese se accendere un fuoco. Alla fin fine, se doveva morire, preferiva non farlo con le dita blu.
D’altra parte si diceva che la morte per assideramento fosse tra le migliori. Scivoli nel sonno, non ti svegli più…
Hazel scosse la testa, liberandosi da quei pensieri stupidi e inutili. O meglio, sono intelligenti e razionali, ma non mi illudo di essere abbastanza intelligente e razionale da attuarli.
Crollò contro un tronco, cercando nella tasca del mantello la manciata di mirtilli che aveva trovato.
Alla fin fine, se doveva morire, preferiva non farlo con lo stomaco vuoto.
Attese qualche istante, guardando le bacche invitanti sul suo palmo, poi le rimise al loro posto e si avvolse nel mantello.
L’inno di Capitol City esplose in tutta la sua potenza. Hazel alzò lo sguardo, incontrando gli occhi del Favorito dell’1 che la guardavano dal cielo.  I caduti si susseguirono, uno dopo l’altro. Arcturus era tra di essi.
Hazel appoggiò la testa al tronco. Chiuse gli occhi. Immobile, ascoltò l’inno affievolirsi e spegnersi nel nulla, mentre il freddo penetrava lentamente dalla stoffa fino alle sue ossa.
 

Il mondo non aveva senso.
Amina lo sapeva.
La vita non aveva senso.
Fissava il cielo nero, da dove il volto di Nathaniel la scrutava sorridente.
Poi scomparve anche quello.
Koko, Nathaniel, il circo, Dray, suo padre. Erano tutto quello che aveva, e ora non aveva niente. Solo sé stessa e il suo caos.
Né rabbia, né dolore. Irrequietudine, pericolo, stanchezza, confusione, incertezza, solitudine, vaga vertigine; un miscuglio tale da spossarla senza che neanche sapesse perché.
Amina voleva che qualcuno la liberasse da quel veleno che sembrava scorrerle al posto del sangue. Ma nessuno poteva, perché era lei la prigione.
Lacrime le bruciavano in gola. Si lasciò cadere a terra, le braccia avvolte su sé stessa in un abbraccio silenzioso, come a voler tenere insieme i pezzi.
Poi successe. Non seppe perché. Un dolore diverso si fece strada in lei, appena distinguibile nella matassa confusa che erano i suoi pensieri.
Stanca, inaspettata e quieta, Amina sentì la nostalgia. Erano anni che non la provava, ma erano anche anni che non si sentiva così sola.
Nostalgia di qualcosa che le sfuggiva, ma era certa di aver provato una vita prima. Nell'ultimo abbraccio in cui si fosse davvero abbandonata - quando ancora riusciva a crederli veri. Quello di Dray, la notte del rapimento.
Non riusciva più a ricordarla, la sensazione di calore soffuso, fermo, calmo, che avrebbe imposto note morbide e lievi nelle pennellate nette, sfolgoranti e furiose della sua vita.
Ma in quel momento, la tela era vuota.
Bianca.
Amina doveva riempirla, e Nathaniel non c'era per farlo, Dray nemmeno. La tenerezza era morta da tempo, l'aveva sotterrata lei stessa.
Voleva piangere. Urlare fino a farsi male. Bruciare. Attaccarsi a una bottiglia di vino e bere, bere, sentire il fuoco liquido dilaniarle la gola, annientare quel vuoto. O annientare sé stessa, chissà.
Chissà dov'era la differenza.
Strinse il pezzo di corteccia tra le mani, lo sentì penetrare nel palmo. Dolore. Dolce, familiare. Si sentì di nuovo viva.
Amina sorrise. Strinse le ginocchia al petto e vi poggiò sopra il mento, sentendo piccole gocce di sangue riscaldarle le mani chiuse a coppa.
Era nell'arena.
Per quanto non volesse crederci.
Era nell'arena, senza zaino, senza cibo, senza armi, senza nessuno.
Poi, un rumore tra le fronde.
Amina alzò gli occhi, lasciandoli vagare per qualche istante nella notte. Lì dove incontrarono quelli di Harvey Cadwalader.

 
Scarlett sentì la schiena di Samuel dietro di sé. Nessuno fiatava, mentre osservavano la radura intorno a loro, alla ricerca di un guizzo tra le foglie, di un rumore qualsiasi, un attacco o qualcosa da attaccare.
Perché c’era, quel qualcosa. Scarlett l’aveva visto, un secondo prima che si dissolvesse.
-Sei sicura?-
-Sam, l’ho visto anch’io- rispose Stephen al suo posto. –Era…- sollevò il tridente, indicando un albero.
Scarlett sentì le dita formicolare mentre afferrava gli artigli, indossandoli senza staccare gli occhi dal tronco. L’acciaio brillò freddo.
-Lì!- Scarlett si girò di scatto, e per un istante fu certa di averlo visto. Una sagoma appena più sbiadita sul ramo dov’era appena balzato; poi l'ibrido sfumò nelle venature del legno, o del buio.
-C’è ne è un altro- disse Samuel, piano. Scarlett si avvicinò a passi lenti verso il punto dove era scomparso, divorando la corteccia con lo sguardo.
Poi una seconda ombra la costrinse a voltarsi di nuovo.
-Scarlett, dietro di me. Dobbiamo proteggerci le spalle a vicenda- non aveva mai sentito la voce di Samuel tanto seria. Obbedì, senza smettere di guardarsi intorno. L'ombra era scomparsa.
-Li vedete?- sussurrò Stephen.
-Sono troppo veloci- disse lei.
Un altro guizzo tra le fronde. Scarlett cercò di controllare il respiro, mentre la tensione si faceva via via più opprimente. E pensare che un tempo l'aveva amata, la tensione.
Qualcosa si muoveva attorno a loro, ma appena Scarlett ci posava sopra lo sguardo vedeva solo buio.
-Vogliono farci impazzire- disse Stephen.
-Vogliono ucciderci- disse secco Samuel.
-Tacete- disse Scarlett, concentrandosi. Ad animare il silenzio, solo il verso cupo di un gufo.
-Non fanno alcun rumore- rilevò Stephen.
Qualcosa saltò tra gli alberi. Scarlett incoccò la freccia, mentre il cuore accelerava. -L'avete visto?-
-Cosa?-
-Grande, con una coda attorcigliata.- rispose Stephen. -Sì, io sì. Ma non è l'unico-
Scarlett strinse i denti con uno scricchiolio, poi si voltò di scatto.
-Ho come l'impressione che ci stiano circondando- fece Stephen.
-Siamo già circondati- corresse Scarlett. -Ora stanno... Stringendo il cerchio-
Scagliò via l'arco, con una certa riluttanza. Non c'era spazio per usarlo.
-Solo un prestito- Samuel le sfilò una freccia dalla faretra, brandendola insieme alla spada.
Anche Stephen lasciò cadere la rete, estraendo il loro unico pugnale, il tridente stretto nell'altra mano.
Restarono lì, spalla contro spalla, ad ascoltare il suono del loro respiro.
-Sono scomparsi- osò sussurrare Stephen. E fu in quel momento che l'ibrido attaccò.
Uno scatto fulmineo dell'artiglio destro, ma Scarlett fendé solo l'aria.
-Era un...- Scarlett cercò freneticamente di ricordarsi il nome, ma non ci riuscì.
-Non l'hai preso?- chiese Samuel.
Era quello il problema. -Non ne ho la più pallida idea- sussurrò.
Poi, fu l'inferno.
Scarlett sferrò un colpo alla cieca, l'artiglio sinistro ripiegato a proteggerle il viso. Gli ibridi saltavano ovunque in un assalto di ombre confuse.
-Sono camaleonti- ringhiò Samuel. Era quello il nome, quindi.
Quando Scarlett si era offerta, sperava in combattimenti, adrenalina, nervi a fior di pelle. Forse erano i sogni ad essere illusori, o forse era lei ad essere cambiata. Perché tutto quello a cui riusciva a pensare, in quel momento, era a come rimanere viva.
Gli ibridi si susseguivano ondata dopo ondata, troppo veloci, numerosi e sfuggenti per mettere a fuoco altro che il pericolo. Il combattimento si protraeva sempre più a lungo, e lei si stancava sempre di più, ma ogni sforzo, ogni attacco, non incontrava altro che l'aria.
Scarlett ringhiò quando l'ennesimo pugno andò a vuoto. Si sentiva ridicola, ed era il sentirsi ridicola a farle crescere una rabbia sordida.
Fece un passo in avanti, roteò su sé stessa e affondò entrambi gli artigli. Nelle tenebre. La parte ragionevole di lei cercava di imporle lucidità, ma ormai era una parte piccola e senza senso.
I suoi colpi stavano diventando veloci, furiosi e scoordinati, guidati solo dall'odio. Odiava il buio, odiava quella dannata arena, odiava sé stessa. E quella sensazione bruciante annientava qualunque altra cosa.
Scarlett non se ne accorse.
La schiena di Samuel non era più dietro la sua. L'attimo in cui lo capì fu lo stesso in cui si rese conto di essere circondata. La rabbia lasciò spazio a una frenetica disperazione - perché non riusciva, neanche in quel momento, a chiamarla paura - mentre si voltava di scatto per ritrovare la sua posizione. Ma era troppo tardi.
Non ebbe neanche il tempo di capire, di pensare a niente. Due gigantesche iridi gialle, poi il camaleonte piombò sul suo viso.
La notte continuò a scorrere. Il dolore non arrivò. Dimentica del turbinio di ibridi attorno a lei, Scarlett posò la mano sulla guancia, facendo attenzione a non tranciarsi il collo. La sua pelle era liscia e intatta.
-Fermatevi!- gridò. -Maledizione, state fermi-
-Che stai dicendo?- Samuel affondò la freccia davanti a sé, colpendone un altro con il pomolo della spada.
Alcuni ibridi cominciarono a svanire, confondendosi nella notte.
Scarlett staccò dagli altri Favoriti, con un sorriso incredulo e il respiro ancora affannato. -Non sono reali. Stephen! Samuel! Non sono reali-
Si piegò su sé stessa, quasi stordita dal sollievo.
-Illusioni- constatò Stephen, esterrefatto. Qualche altro salto, poi tutti si furono dissolti nel buio.
-Ologrammi?- Samuel girò lentamente su sé stesso, forse cercandone ancora qualcuno tra le ombre.
-Sembrava impossibile che cercassero di farci fuori la prima notte- Scarlett si tirò via la frangia di capelli rossi dalla fronte, aspirando una boccata d'aria dolce come nettare. Era viva. Era ancora viva.
Eppure, nessuno dei tre sembrava ansioso di riporre le armi.
-Ma perché...- Samuel non finì la frase. Un boato secco e deciso percosse l'aria.
-Altri ibridi?- chiese Stephen, la voce non troppo entusiasta.
-Se è così sono lontani- Scarlett scattò verso il suo arco, mentre il sollievo svaniva. Il suono si ripeté.
-Fin troppo vicini per i miei gusti- Samuel raccolse due zaini in un colpo solo. -Andiamocene di qui-
Un fragore sordo, terrificante. Poi come un fruscio sommesso e il suono di qualcosa che si sgretolava. Scarlett non aveva alcuna voglia di scoprire cosa.
-Andiamocene di qui- confermò, strappando via la freccia dalla mano di Samuel. Concesse un ultimo sguardo alla radura, prima di immergersi nelle tenebre.
Si era offerta. Era ora che affrontasse il peso delle sue scelte, e solo i deboli potevano permettersi di guardarsi indietro.

 
Alek si deterse il sudore dalla fronte e sorrise. Avrebbe fischiettato, se fosse stato solo un gradino più in alto nella scala della pazzia. Ah, ma ci arriverò, prima o poi. Un passo per volta.
Caricò, poi sferrò un altro colpo al tronco steso di fronte a lui. L’ascia colossale si piantò nel legno con il solito schiocco, diffondendo nell’aria l’odore pungente di resina. Odore di casa.
Pensò all’espressione che doveva avere suo padre in quel momento mentre lo guardava, e per poco non si mise a ridere. Un ultimo colpo, poi gettò a terra l’ascia. Flettere la schiena gli dava solo un leggero fastidio, la sua ferita da freccia era poco più di un graffio.
Si sedette a cavalcioni sull’albero abbattuto, adesso spaccato in due, e sollevò davanti a sé la sezione circolare di tronco che aveva tagliato. Oltre all’indubbio fascino tattico, aveva la bellezza geometrica di centinaia di anelli concentrici che partivano dal centro e si allargavano fino ai margini, facendosi strada tra le venature del legno.
Prese l’accetta dalla cintura e riprese a tagliare il suo cerchio, cercando di dargli una forma più adatta a uno scudo. Riuscì appena ad abbozzarla, ma non si era aspettato niente di più. Aveva sempre amato la falegnameria, solo che non si era rivelato mestiere per lui. L’unica cosa che suo fratello era riuscito a insegnargli come intagliare era il flauto.
Sono sempre stato più bravo a distruggere che a costruire. E lì, dove distruggere era l’unica cosa che contava, stava riprovando. Era certo che ci dovesse essere dell’ironia, da qualche parte.
Alek rimise a posto l’accetta e prese il coltello. Quattro fori in tutto, due a destra e due a sinistra, uno sopra l’alto. Poi si tagliò due lunghe strisce elastiche dalle maniche della tuta e annodò le cinghie. Trepidante, ci infilò dentro il braccio sinistro e impugnò la sua ascia con entrambe le mani.
Provò a proteggersi il petto con lo scudo, sferrare un fendente, alzarlo sopra la testa, tentare un colpo dall’alto in basso e tornare in difesa. Sorrise alla notte.
Non intralciava la lama e la presa era abbastanza salda. Non sapeva quanti colpi avrebbe potuto reggere, ma era sempre stato un'ottimista.  Mollò l’ascia e si sedette di nuovo, il respiro appena affannato, poi passò una mano tra i capelli. I trucioli di legno caddero a terra con un ticchettio gentile, familiare, rassicurante.
Alek passò le dita sulla corteccia dello scudo, sentendo una lieve fierezza riempirlo. Poi staccò un ramo dal tronco e cominciò piano ad intagliare.
Mancavano ore di veglia prima dell’alba, e lui voleva un flauto.

 
Le due pietre brillavano, artigliando il nero di scaglie argentate. Le prese, lisce e fredde contro il palmo. Il suo sguardo scivolò più in là, dov'era la sagoma scura, e un sorriso bianco le si disegnò sul viso.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra in un'esplosione di scintille. Si attorcigliarono in spirali invisibili, che bruciarono per un solo istante prima che il buio le reclamasse a sé.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra. L'aria fremeva, ribolliva e pulsava, di diafane trame e invisibili promesse.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra. Stridente ed empia - l'attesa.
Tlin. Le pietre si affilarono l'una sull'altra. Sibilo inafferrabile di una carezza letale.
Tlin. L'attesa. Il sottile equilibrio sul filo di una lama, liscio e incorruttibile, limpido e fragile, come l'increspatura invisibile in una pozza d'acqua calma.
Tlin. L'attesa. Inevitabile - irrinunciabile. Perchè a volte la sofferenza finisce troppo in fretta.
Tlin. La sagoma scura dormiva. Gehenna la osservava, tanto vicina da sentire il suo respiro.
Tlin. La prima cosa ad arrivare era la confusione. L'illusione di non capire, l'ultima difesa; lo spazio interminabile di un respiro, poi si infrangeva come ghiaccio sottile. E il viso rimaneva scoperto, vulnerabile - pronto a infrangersi anch'esso.
Tlin. Era allora che arrivava la paura. Il risveglio, dilagante, corrosivo.
E poi c'era l'istante. Quel bellissimo, interminabile istante che si illude di ingannare il tempo, l'istante che passa tra il taglio e il dolore.
Tlin. Un sussulto. L'incredulità, troppo veloce anche solo per percepirla. Crollava. Crollava,  e il sasso cadeva nella pozza d'acqua calma.
Tlin. Allora arrivava, inesorabile come il divampare di un incendio. Il bacio del dolore.
Tlin. E si scioglievano i lineamenti, le espressioni, i pensieri. Si scioglievano le persone, nell'ardere di un fuoco insaziabile. Verace e imperscrutabile, puro e purificatore.
Tlin. Infine, le ali si aprivano a coprire il cielo. L'oblio arrivava lentamente, silente come il volo della cenere al vento.
Tlin. Il lamento del ferro torturato, il canto dell'inevitabile.
Tlin. Le ali si chiudevano. La sofferenza finiva, la pozza tornava calma. L'aria scintillava un ultimo istante, poi, come il respiro straziante dopo il soffocamento, si quietava.
Tlin. Oblio. Perchè la notte dimenticava in fretta.
Gehenna sollevò il sasso. Un singolo riflesso nero scivolò lungo il filo, viscido e sottile come un serpente, e cadde nel buio.
 
Era stata bella, l'attesa. Ma come tutto ciò che è bello, era destinata a una fine.
 

Axe cercava Diana.
Erano quattro ore che Axe cercava Diana.
Erano quattro ore che Axe cercava Diana con il suo arco in mano.
-A saperlo avrei preso uno zaino- sibilò. Aveva deviato lungo il cratere per incrociarla, dato che doveva essere scappata - gliel'aveva detto lei stessa.
Axe scostò con la mano un ramo che le intralciava il cammino, sentendo il nevischio crollare giù a bagnarle la tuta. Sapeva che avrebbe dovuto essere contenta di quell'Arena; dopotutto, era per abituarsi al freddo della tundra che aveva sempre indossato anni i pantaloncini corti anche d'inverno. Per prepararsi.
L'arco rimbalzava contro la sua gamba, un tenue e regolare struscio che non la aiutava a pensare. No, non era affatto contenta di quell'arena. Perché ogni passo le ricordava quella di Marcus, la neve che cadeva candida nel sangue, che beveva il suo sangue.
Axe si bloccò. Ho visto male. Devo aver visto male.
Però era lì, un mucchietto nero rannicchiato su sé stesso.
Fece due passi indietro, descrivendo una silenziosa curva tra gli alberi, con un mano alzata a sfiorare il morbido impennaggio delle frecce.
Idiota. Perché diavolo si è fermata lì? Perché non si è allontanata prima di mettersi a dormire come se stesse facendo una gita in montagna? Perché...
Axe strinse l'arco, sentendo le nocche sbiancare per la forza. Grandioso. Neanche un giorno, e già gli Hunger Games le offrivano l'opportunità di rovinarsi la vita.
Era la ragazza del distretto nove, quella che aveva davanti. La dannatissima ragazza del distretto nove.
Axe imprecò tra i denti, trattenendosi dall'istinto di indietreggiare. Era lei quella con l'arco in mano, eppure non si era mai sentita tanto braccata. Lepre nella rete. Nessuna via di scampo.
Prese una freccia, senza distogliere gli occhi dal tributo. Una ragazza addormentata, disarmata, con niente per difendersi.
Una vigliaccata. Ecco cosa sarebbe stato quell'assassinio.
Axe scosse bruscamente la testa, affondando i denti nel labbro inferiore. Cosa vorrei fare, svegliarla, buttare via l'arco e proporre uno scontro leale? Al meglio su tre, magari?
Ai morti non importava di essere finiti a putrefarsi onorevolmente o meno.
Di possibilità sensate ne aveva solo due; fuggire, sperare che la uccidesse qualcun altro e bearsi della purezza della propria anima non era tra queste.
Abigail si accorse che le sue mani non tremavano mentre incoccava la freccia.
 
-Marcus, non lo fare, non lo fare...-
La voce sommessa di suo padre, con gli occhi fissi sullo schermo. Lì, dove suo figlio aveva un'ascia in mano e osservava un tributo addormentato, l'indecisione negli occhi.
Abigail non riusciva a respirare, né a distogliere lo sguardo. Le dita di Ezra incontrarono le sue e le strinsero.
Marcus fece un passo più pesante degli altri, un ramo scricchiolò. Il tributo aprì gli occhi e lo guardò. Era solo uno schermo piatto, opaco e graffiato, ma Abigail vide comunque il terrore. La disperazione. La rassegnazione.
Passarono istanti surreali.
Poi, il tintinnio di un'ascia che cadeva a terra. -Alleati?- chiese Marcus, tendendo la mano.
 
Abigail Jaime scoccò.
L'istante dopo, il sangue macchiò l'oscurità come un lampo nel cielo terso.
Axe abbassò l'arco, camminò verso il tributo, un silenzio frastornante nella mente. Non era del tutto cosciente di sé, mentre si chinava su di lei, forse per assicurarsi di non doverla finire. O forse solo perché sapeva che qualsiasi codardo sarebbe scappato.
La ragazza soffiò un urlo che risuonò più come un sospiro. Si portò le mani appena sotto la gola e rigagnoli rossi le ruscellarono tra le dita. Fu quel colore, vivido, vero, a spazzare ogni illusione. Era successo davvero.
Abigail le si sedette accanto. Non disse niente. Non fece niente. Semplicemente aspettò.
-Non... Pensavo...- poco più di un rantolo. La ragazza alzò una mano scossa tra i fremiti.
Senza sapere perché, Axe l'afferrò.
E per qualche altrettanto assurdo motivo, l'altra ricambiò la stretta.
Il tributo sputò un fiotto di sangue e arcuò spasmodicamente le dita, artigliandole il palmo. Axe non scappò, mentre il respiro della ragazza si faceva gorgogliante e straziato.
Axe non scappò. Neanche quando il colpo di cannone si dilatò nel nulla. Restò lì, tra le ombre, mentre le dita del tributo diventavano fredde e rigide tra le sue.
Fu un quieto scintillare di argento che gliela indicò. Conficcata in un albero, minuscola e silenziosa.
Abigail strinse l'erba sotto il suo palmo, poi fissò la telecamera. La fissò, e gli istanti passarono l'uno dopo l'altro. La fissò, l'abbraccio del silenzio saldo come quello della terra che custodisce i morti.
La fissò, con tutta la furia che un ragazza di quindici anni potesse contenere.
-Non sarò io a dannarmi l'anima per questo- sussurrò.
 
Tlin.
Sono solo animali al pascolo, pensa Clyph. Seduto sul tetto della sua casa, guarda in alto.
Tlin.
"Campane a lutto", sussurra una voce. Clyph si volta e vede sé stesso. "E sai per chi suonano" continua Whys.
Tlin.
"Non è vero. Mamma non è morta. È solo svenuta"
"Era malata, lo sai"
Tlin.
"No, è solo un sogno. Tu non esisti nemmeno."
"Pensi davvero di poter distinguere la realtà da un sogno?"
Clyph guarda le praterie perdersi in lontananza. Tlin. Sono solo animali al pascolo.
"La realtà è come la vogliamo vedere noi" dice Clyph.
"E se non fosse così?"
"Non lo sapremo mai. Quindi, se ci crediamo, lo diventa."
Il silenzio trema.
"Non sono animali al pascolo"
Tlin. Ora il suono sembra spaventosamente vicino.
"Se la verità non si può definire, non esiste il falso, né il vero. Li scegliamo noi" dice Clyph.
"Bugiardo"
Tlin.
Clyph alza gli occhi al cielo. Si sta scurendo. "Non sono campane"
"Lo sai per chi suonano?"
Clyph socchiude gli occhi. "Posso decidere io. È il mio sogno, la mia realtà"
"È vero. Ma non puoi decidere tutto". Whys si avvicina, un sorriso innaturale sulle labbra. "Non tutto. C'è una verità"
Clyph tacque. "Non suonano per mia madre"
"Non per lei"
Tlin. Quel tintinnio che sembrava divorare qualsiasi altro suono. Tlin. Tlin.
"C'è una verità" ripete Whys, quel suo ghigno demoniaco in viso. "Una sola."
Qualcosa vola nel cielo. Un cerchio nero di uccelli. Le loro ali oscurano il sole.
Tlin. "Non puoi fermarla. Non puoi ingannarla. Non puoi scegliere" dice Whys. Tlin. "È l'unica verità"
Le campane funebri. Clyph tace, guarda gli avvoltoi sopra di lui. Il cielo ora è nero.
"L'unica verità" dice Whys. Si avvicina, gli prende il mento tra le mani. Ha le dita gelide, le sente sul collo. I suoi occhi sono pozze fredde di divertimento. "L'unica verità" sussurra.
Gli avvoltoi gridano rauchi, un grido che gli penetra tra le orecchie fino a stordirlo. Le loro ombre sfrecciano sul mondo. Tlin, tlin, tlin, quel tintinnio che adesso è risata e adesso è ruggito, che stride dentro di lui, che echeggia fino a far tremare l'aria. Tlin. Tlin. Tlin. Tlin.
 
Clyph si svegliò di colpo, e sentì la consistenza gelida di una lama sul collo.
Aprì la bocca per urlare, e fu in quell'istante che la sua gola si aprì come un fiore rosso.
-Shh...- sussurrò Gehenna, un soffio quieto come alito di vento. -Dormi-
 
L’aurora sorse lenta.
Una foschia sottile e immobile velava il cielo di una cappa grigia, intorbidendo l’aria e trasformando il sole in una chiazza rosso cupo. Un singolo raggio color del sangue secco era cristallizzato lungo l’orizzonte.
Eppure, Xen non era mai stato tanto contento di vedere l’alba. Fece ancora qualche passo incerto nella foresta, un lungo giro su sé stesso per accertarsi di essere solo, poi si lasciò cadere sul terreno gelato.
Ansimò. I piedi sembravano andargli a fuoco nelle scarpe della tuta, unico punto caldo del suo corpo e unico vantaggio di aver marciato sei ore ininterrotte.
Aveva girato nel boschetto attorno al cratere fino a ritrovarsi dall’altro lato delle pedane, con il fiato dei Favoriti sul collo. A ripensarci, sentiva ancora il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma era servito. Non solo a sapere che la Cornucopia era affondata in un lago di lava e che i Favoriti erano rimasti in tre: il cratere era il punto più alto dell’arena, il migliore per farsi un’idea di come fosse fatta.
Xen cominciò a disegnare un abbozzo di mappa su un velo di neve. Non che temesse di dimenticarsela, ma voleva che gli sponsor capissero quanto sapesse. L’arena aveva una forma rotonda, e dal cratere partiva un’interminabile discesa che finiva su un’ampia striscia blu, che poteva essere una cosa sola. Passò il dito lungo il contorno, dubbioso. Mare. Forse il nemico più pericoloso, forse il posto più di sicuro dove stare. In ogni caso, la sua meta. Tanto, di fortuna ne dovrò comunque avere tanta. E dare un nome alla speranza è più rincuorante di qualsiasi cosa.
Tracciò i profili dei boschi che si ricordava, segnando quelli più vicini alle pedane iniziali e quelli più vicini ai ponti d’uscita, dove probabilmente aveva puntato la maggior parte dei tributi. Una lunga linea, l’itinerario più sicuro che aveva trovato, e la sua posizione. Ci aveva messo meno del previsto ad arrivare a quel bosco, e si era fatto un’idea delle distanze; sarebbe arrivato al mare dopo un altro giorno di marcia. Ad occhio l’arena poteva essere sui dieci chilometri di raggio, o poco più.
Il suo dito curvò lungo un ampio cerchio attorno alla Cornucopia, e lo fissò mordendosi il labbro. L’area di caccia dei Favoriti. Avrebbe dovuto ingrandirla ogni giorno.
Divise l'arena in altri due centri concentrici, sezionati da quattro raggi che partivano dal cratere. Canali di lava, come quello che aveva fianco in quel momento. L'unica speranza di non morire assiderati.
Tanto, bisognava essere realisti. In qualsiasi scontro sarebbe morto, l’unica carta che poteva giocare era nascondersi e sopravvivere. Arrivato al mare sperava di poter trovare provviste, e forse avrebbe anche potuto costruirsi un rifugio; come, non lo sapeva ancora, ma era meglio avanzare un passo per volta.
Pensò ai suoi alleati, di cui uno era già morto, e rabbrividì. Nessuno avrebbe potuto seguirlo in quella marcia infinita. Sarebbe rimasto solo, da lì fino al duello finale – o almeno, così sperava.
Il duello finale. Xen scacciò via il pensiero in un istante, tornando a concentrarsi sull’immagine del mare che si perdeva all’orizzonte.
Perché non credersi spacciato era l’unico modo che aveva per non esserlo. O almeno, così sperava.



N.d.A.



 

Dicono che scrivere sia educativo.

 

Scaletta dei morti:

Clyph Earles, distretto 8

Sapphire Caterina Javenne, distretto 9

Scaletta di malati, feriti, bisognosi, morti di fame, senzatetto e tutto il resto:

Ronnie Dalton (già sponsorizzato e fuori pericolo), distretto 11

Alex Sunshine (idem sopra), distretto 9

Alek Snowden, in via di guarigione, distretto 7

 

Samuel non lo metto perché è praticamente guarito, aveva solo qualche graffio vicino agli occhi. 
Le direzioni dei tributi le ho scelte un po' dalle loro posizioni al Bagno di Sangue, un pò dai loro piani, un po' a sorte. Sapphire e Clyph hanno incontrato Axe e Gehenna per puro caso - loro non dovevano morire! Solo che le altre non erano della stessa opinione.

Clyph, caro Clyph, da bugiardo patologico ti ho trasformato in pseudo seguace della filosofia scetticista. Involontariamente, poi. Ho collegato solo ora.

Il POV non mi ha permesso di spiegarlo, ma Whys l'ho usato come proiezione del sé stesso felice, che vive nella realtà come la vuole vedere e plasmare lui. Quello che vince a dodici anni, quello il cui mondo è pieno di volontari ed eroismo, quello che ha un gatto non morto di fame. Il sogno è criptico, come un po' tutto questo capitolo, e non so se si capisce qual è l'unica verità; cioè, a me sembra scontato, ma tra le due cavie che ho usato solo una ci è arrivata. In ogni caso, mi scuso con la creatrice per la libera interpretazione che ho fatto della sua scheda.

Il POV di Gehenna mi ha traumatizzata definitamente, spero non sia stato lo stesso per voi.

Ah, e c'è una cosa che avevo dimenticato di dire alla sponsorizzazione. Avevo accennato, qualche capitolo fa, al fatto che i personaggi che più avrebbero fatto colpo su Capitol City avrebbero avuto qualche vantaggio.

È irrealistico che non siano più sponsorizzati degli altri, perciò mi sono concessa anch'io 7 soldi, che potrò usare, almeno per ora, esclusivamente su:

 

Samuel

Stephen

Scarlett

Alek (chi non ha scommesso su Alek?)

Gehenna (ovvi motivi)

 

E i restanti 3 punti per:

 

Harvey

Amina

Xen

 

Ovviamente i preferiti dei capitolini possono cambiare, vi avviserò.

Detto questo! Dell'arena non avrete capito niente, ma dal prossimo capitolo le cose si faranno più chiare. Forse.

Scusate il ritardo (ho un dejavu), se queste sono vacanze io vivo in Svizzera. A forza di amiche e viaggi la maggior parte del capitolo l'ho scritta dall'una alle tre di notte. Beh, se fossi un mio lettore avrei già smesso di sopportare aggiornamenti così, perciò se volete mandarmi a quel paese vi capisco.

In compenso ho pensato parecchio, e scritto pezzetti a caso del prossimo capitolo (la mia maledetta ispirazione fa come le pare) perdendo altro tempo. E perdendo ancora più tempo mi sono preparata pov e caratterizzazione di personaggi nuovi, che inizieranno una storia parallela a questa... Credo... Fra due capitoli.

Okay, lo ammetto. Sto provando a programmare una ribellione, ma la maggior parte delle ipotesi finisce con qualche distretto raso al suolo dopo tre o quattro giorni e il presidente Snow che ride. O che indica alla nipote dei deliziosi funghi atomici e fuochi d'artificio (?)

A proposito, io non sono una fan sfegatata di hunger games e quindi l'ultimo libro l'ho riletto una volta sola e non le quindici che penso essere la media. Su internet non ho trovato un niente, dunque, posso fare qualche domanda ai recensori per evitare di scrivere idiozie?

-Capitol City ha armamentario atomico? Sono quasi sicura di sì, ma chiedo conferma

-C'è scritto all'incirca quanti abitanti ci sono per ogni distretto? Io immagino sul milione, e un po' più nell'11.

 

La buona notizia è che pubblicherò tra poco, e questa volta credo di essere sincera, perchè le prossime tre settimane non avrò letteralmente niente da fare tutto il giorno. Oh sì.

Tenterò anche di accorciare i capitoli, almeno questa volta: 14 pov non sono veramente fattibili. Credo che nel prossimo ne metterò solo 8 e ignorerò chi non ha molto da fare o da pensare. Non vogliatemi male, sono stufa di aggiornare ogni mese e così annacquato il capitolo diventa noioso. Ho intenzione di pubblicare tra 7-10 giorni. Ma voi è meglio se non ci credete

Spero che leggere non vi sia dispiaciuto troppo. Grazie, lettori, recensori e non.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Numeri ***


 
Tra persone e numeri.

"Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per descrivere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci è stata rivelata: siamo arrivati sul fondo. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, i capelli. Ci toglieranno anche il nome. E se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa di noi, di noi quali eravamo, rimanga."  
-Primo Levi






Lo scroscio dell’acqua che scorre. Reeva rabbrividì. Era gelida.

-Sei sicura di volerlo cambiare? E’ un colore bellissimo-  cinguettò la parrucchiera, prendendole i capelli tra le mani.
-Lo stesso dei fiori di ciliegio-  confermò fiocamente Reeva. L’odore delizioso di sapone alla fragola riempiva l’aria.
-Io consiglio il celeste- continuò la parrucchiera. –Si intonerebbe benissimo al colore dei tuoi occhi.-
Reeva scoprì di invidiarla. La invidiava perché lei poteva permettersi di essere frivola e superficiale.  –No- disse semplicemente, poi tornò a guardare lo schermo con il cuore in gola.
Sentiva male, con il gorgoglio dell'acqua nelle orecchie, ma poteva vedere benissimo Alek che marciava su un territorio di roccia grigia, con sprazzi di erba e qualche pianta a spuntare tra le insenature. 
-Lavanda-  la parrucchiera colse il suo sguardo. –E’ un colore meraviglioso, non trovate? Anche quello sarebbe…-
-No- ripeté Reeva. Non voleva essere maleducata, ma la donna si chiuse in un silenzio offeso che durò un unico, bellissimo minuto.
Le telecamere tornarono a inquadrare la ragazza del 5, poi i Favoriti in marcia. Reeva deglutì. E non c’era niente, niente che potesse fare. Solo sperare che i suoi ragazzi non morissero e veder cadere gli altri, uno dopo l’altro, rinunciando a capirne il motivo.
Solo smetterla con quella finzione, con quella maschera di bellezza.
-Mio marito ha scommesso sul tuo tributo, sai? Il ragazzo del 7- riprese allegra la parrucchiera.
-Ha fatto bene- mormorò. Improvvisamente, l’odore del sapone alle fragole diventò talmente nauseante che il suo stomaco minacciò di rivoltarsi.
Sentì la consistenza ruvida di un foglio nella tasca del vestito, lo tirò fuori. Era un suo vecchio schizzo, un tributo femminile vestito da elfo, con un ventaglio di foglie in mano e lievi brillii di lucciole che le volavano intorno.
-Prometto di non dire niente- la parrucchiera fece un risolino insensato. –Ma sai già come far vestire i tuoi tributi il prossimo anno?-
Reeva accartocciò il foglietto tra le dita, poi sorrise. –Da alberi-
-Oh- commentò l’altra, dopo un istante.
-Non ti piace?-
-Non intendevo… Solo… Sarà originale?- fece, poco convinta.
Reeva si limitò a sorridere ancora di più. Non ti deve piacere. A nessuno dovrebbe piacere.
La tintura cominciò a colare, lentamente. Coprendo il rosa, inquinandolo come una pozza di petrolio. Tanto, era solo colore.
Li vestirò da alberi, ripeté a sé stessa. L’anno prossimo. Quello dopo. E quello dopo ancora.
-Ho finito- disse la parrucchiera. Reeva si tirò su, con un groppo in gola. Batté un paio di volte le palpebre, raccolse il coraggio, sollevò gli occhi verso lo specchio. E sorrise.
I capelli le ricadevano lisci e bagnati a incorniciarle il viso, la pelle trattata anni prima perché scintillasse alla luce. Ma nonostante le lampade abbaglianti e colorate della sala, quelle ciocche non riflettevano niente. Nere, come le ali di un corvo.
Sì, Reeva sorrise. Perché non era una persona più bella, o più felice, quella che la fissava dallo specchio. Ma una persona migliore, o semplicemente una persona vera, quello sì, lo era.
 
 -Ho una borraccia d’acqua.  Mi hanno sponsorizzato- disse Harvey. Solo per interrompere il silenzio incerto che si era creato.
Amina alzò gli occhi dall’orizzonte a lui. Non avrebbe saputo dire se quella nel suo sguardo fosse paura, ostilità, diffidenza o tutte e tre le cose. Dopotutto, non si erano parlati molto all’addestramento, ed erano diventati alleati solo per via di Alyson e Nathaniel.
Si schiarì la voce, a disagio. –Hai sete?-            
Amina scosse la testa, poi mosse un dito in un cerchio vago prima di indicare un albero sporco di neve.
-La neve? Hai bevuto la neve?-
Annuì.
-Sembra troppo facile- mormorò Harvey. –Di solito gli strateghi la avvelenano. Ma penso che ormai tu sia fuori pericolo.-
Amina fece un sorriso timido, aprendo le dita delle mani. Era straziante non sapere cosa stesse pensando un persona.
-Sai scrivere, vero?- domandò, ricambiando il sorriso. Amina tacque, di nuovo chiusa in un’ombra di diffidenza. Poi, quasi impercettibilmente, annuì.
Harvey staccò un pezzo di corteccia da un tronco e glielo porse insieme a un sasso appuntito. La vide esitare, stringendolo forte tra le dita. Come se avesse paura.
Alyson?, scrisse infine. Aveva una scrittura minuta e veloce. –Non so dov’è- rispose Harvey. –Ma penso sia viva-
Amina fissava la corteccia con un’espressione indecifrabile. Poi con lentezza straziante, scrisse. Non gli mostrò niente, ma Harvey riuscì comunque a vederla, la frase incisa quasi con violenza. Andrà tutto bene.
Ingoiò aria. Non aveva una risposta, ma quella non sembrava una domanda.
-La mano…- notò all’improvviso. Amina si guardò i graffi che aveva nel palmo, dai quali stillava un’unica goccia di sangue, e sembrò impallidire. Alzò le spalle come se se ne fosse accorta in quel momento.
-Il sasso è troppo appuntito.- cercò di ipotizzare –Posso cercarne un altro-
Non mi lasciare sola, finì di scrivere lei. Harvey la fissò stupito negli occhi verdi, ed era una preghiera terrorizzata quello che vi lesse stavolta. Come se avesse un disperato bisogno di qualcosa, bisogno di… Lui.
-Sì- promise. Lei lo guardava con un’adorazione silente che non poté che imbarazzarlo ancora di più. –Beh, no… Non lo farò-
Amina sorrise di nuovo, mentre nascondeva la mano graffiata contro il fianco. Indicò il sole.
-Sì, è l’alba- tradusse Harvey. –Dovremmo continuare la marcia-
Amina annuì, poi alzò appena le sopracciglia, interrogativa.
-Dove?- Harvey si guardò intorno, e vide solo alberi. In lontananza, non del tutto nascosti dalla foresta, due canali di lava si intersecavano perpendicolarmente.
Quando tornò a guardare la sua compagna, c’era una scritta sulla corteccia, e una scintilla strana nei suoi occhi.
Verso il fuoco?

-Okay. Sì...- Alex vide Ester deglutire, il volto pallido come quello di un impiccato. In effetti, anche lui avrebbe preferito mille volte essere in esplorazione con Momo, in quel momento.
Persino lui, che nelle lotte di strada di ferite ne aveva viste tante. Persino lui, che si era preso un intero pugnale nell'avambraccio. Persino a lui, la sola idea di ricucire un intestino faceva venire i brividi.
Ester tagliò via con il coltellino la stoffa della tuta vicina al foro. Ronnie aveva gli occhi chiusi sotto le ciocche di capelli biondi, incollate alla fronte per il sudore, ma era chiaro che non era incosciente. Il suo petto si alzava e si abbassava velocemente.
Alex si azzardò a toccargli una spalla, e i suoi occhi azzurri si spalancarono su di lui. Ronnie forzò un sorriso pallido. -Cercherò di non urlare-
-È per questo che sono qui- Alex gli offrì il pezzo di stoffa da stringere tra i denti, poi passò ad Ester l'unguento. Ancora non si capacitava che dopo le loro interviste li avessero sponsorizzati, e con addirittura due medicine, di cui una era tra le più potenti sul mercato. Chiunque sia stato, non potrà farlo di nuovo.
Mancava poco. Poco, e si sarebbero dichiarati.
Deglutì. Ester aveva finito di spalmare la pomata. -Ago e filo- mormorò. Alex li prese dallo zaino, guardandola dubbioso mentre si mordicchiava il labbro, con tutta l'aria di qualcuno che sta per vomitare.
-Sai quello che fai?-
Ester spostò lo sguardo vacuo su di lui. -Posso solo sperarlo-
Alex fece una smorfia, osservando le sue mani che fissavano il filo, animate da un fremito impercettibile.
-Sembra che ti debba fidare di me- sussurrò lei a Ronnie. Il ragazzo sorrise di nuovo.
-Devo ricambiare il favore, ricordi?-. Si infilò la stoffa tra i denti e rimase immobile, con il capo abbandonato sulla coperta e gli occhi di nuovo chiusi.
Alex lo osservò esitante per qualche istante. E decise. -Vedi di restare vivo- disse. Anche perché non ho alcuna intenzione di diventare io il capo.
Senza aspettare una risposta, strinse il pugnale in una mano, con l'altra gli sollevò la testa.
-E scusa-
Lui riaprì gli occhi di scatto. –Cosa?-
Affondò l'arma. Un singolo colpo, fulmineo e mirato. Ester lanciò un urlo, mentre Ronnie si accasciava esanime sulla coperta.
-Perché... hai...-
-Non ce la facevo, va bene?- sbuffò Alex, gettando via la lama. -E fidatevi, un pomolo di pugnale sulla nuca è miglior antidolorifico che esista-
-Efficace- commentò Liam, seduto a qualche metro di distanza.
-Avresti potuto avvertire- protestò Ester, la voce incrinata.
Alex scrollò le spalle.
-Avrebbe cambiato qualcosa?-
Liam fece un sorriso pacato. -Sarebbe stato meno divertente-.
 
L'orizzonte era un cerchio blu scuro. Le onde si rincorrevano lente, scomparendo e danzando tra la schiuma in un caleidoscopio di cristalli di luce. Artigli d'acqua si scioglievano nella sabbia bagnata.
Una brezza fredda gli scompigliò i capelli rossi, mentre l'odore di salsedine quasi gli dava alla testa. Gli occhi di Xen si persero con una lieve vertigine nel punto in cui il mare si fondeva con il cielo, non interrotto da nulla. E si riempirono di lacrime amare.
Mai si era sentito più vicino alla libertà e mai ne era stato più lontano. Perché lo sapeva, che era tutto fittizio. Le onde in lontananza, l'orizzonte, tutto dipinto su un campo di forza a non sapeva quanti metri dalla riva. Era in una meravigliosa prigione di plastica.
Come vedere la speranza da dietro un impalpabile muro di vetro, troppo vicina perché potesse distoglierne gli occhi e troppo lontana per poterla anche solo sfiorare. Era tutto così... Sbagliato.
Lentamente, spostò lo sguardo verso il canale.
La lava si riversava nell'acqua gelida a lente, incessanti ondate incandescenti, con sibili duri e colonne di fumo che si attorcigliavano nell'aria. Il blu cupo dell'acqua era scosso da ribollii furiosi.
Era una bellezza selvaggia, spaventosa, surreale eppure terribilmente vivida. Xen si avvicinò con un timore quasi reverenziale, prima di lasciarsi cadere a gambe incrociate sulla sabbia.
Fu mentre i suoi occhi rincorrevano le sfumature sanguigne della lava che se accorse. Al centro del canale scorreva, anche se più lentamente rispetto all'alta quota, perché non c'era pendenza; ma ai margini il flusso era praticamente fermo.
Xen osservò la lunga linea venata di un rosso più scuro. Non c'erano dubbi. Stava cominciando a solidificarsi.
Ci pensò, e il dettaglio da insignifican
te divenne sospetto, da sospetto sinistro.
Cercò di mettere a fuoco, fissando inquieto il fumo. Se il canale si fosse completamente solidificato... Se la lava non avrebbe più potuto liberarsi nel mare... E se come pensava il cratere assicurava un flusso costante...
Xen si passò una mano tra i capelli, sollevando gli occhi alla cima della montagna. Troppi sé per prevedere qualcosa e troppo pochi per tranquillizzarlo.
O forse, semplicemente, non voleva capire.
 
-Ci serve un capo- disse Scarlett.
-Sono d’accordo- disse Samuel.
-Qualcuno che coordini gli attacchi.-
-Giusto-
-Come l’altra volta con gli ibridi-
-Già-
-Che comandi i turni di guardia, i ruoli…-
-Esatto-
-Che decida dove cacciare e cosa fare, che…-
-…Che sia amato dagli sponsor. Che sia carismatico, intelligente, con il senso dell’umorismo e…-
Scarlett ringhiò. –Non ci pensare nemmeno-
-Oh, suvvia. Sono certo che lo stai facendo anche tu.-
Stephen lanciò un’occhiata pigra ai suoi compagni, l’uno comodamente appoggiato a un tronco con le braccia incrociate, l’altra in piedi a pugni stretti.
 –Io non prenderò ordini da te.-

-Sì?- Samuel sbadigliò.
-Cosa ci avresti comandato di fare, alla Cornucopia? Andare in giro ad ammazzare tributi a mani nude? Se ci fossi stato anche tu, forse…-
-E’ così dannatamente poco originale-
Stephen inghiottì il pinolo con cui stava giocherellando, smettendo di ascoltarli. Aveva il sospetto non troppo vago che avrebbero finito per ammazzarsi.
Li squadrò di sottecchi, mentre si avvicinavano sempre più pericolosamente, senza smettere di berciare. O meglio, ad avvicinarsi era Scarlett, perché Samuel non sembrava intenzionato a smuoversi da quell’albero. Assassini dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Alzò gli occhi alla chioma dell’albero sopra di lui. Come me.
La sua mano scivolò nella tasca del mantello, sfiorando la scarpetta da danza che era stato il portafortuna di Coral.
Non aveva visto Scarlett ucciderla, ma un cadavere con una freccia piantata nel petto lasciava ben poco all’immaginazione. Non avrebbe dovuto biasimarla. Tutti avevano ucciso, lì, e con o senza di loro ventitré tributi sarebbero morti in ogni caso. Le scuse sembravano quasi formularsi da sé.
Solo che lei era Coral. Lui l’aveva vista vivere, sperare, disperare. Danzare sulla sabbia, una volta, mentre credeva di essere sola.
Era per quello che aveva preso il suo portafortuna, per ricordarsi che dietro ogni cadavere c’era stata una persona. Che gli importasse o meno, quella era un’altra questione, e preferiva non porsela affatto. Perché non era sicuro che la risposta gli sarebbe piaciuta.
Rievocò lo sguardo di Coral al termine dell’intervista, e cercò di imprimerselo a fuoco nella mente. Doloroso, sì, ma necessario. Lo doveva a lei, a sé stesso, o a quello che ne era rimasto da quando si era offerto.
Poi le sue dita scivolarono più giù e incontrarono il paio di forbici. Stephen iniziava a pensare che stessero sviluppando una sorta di mania febbrile che le impediva di stare ferme, perché cominciarono a giocherellare anche con quelle. Tic tic tic tic…
-Che stai facendo?- sbottò d’improvviso Scarlett, girandosi verso di lui.
Le forbici si fermarono di scatto, insieme ai suoi pensieri. Stephen alzò innocentemente le sopracciglia, mentre il silenzio si prolungava. E scoprì che il modo in cui Samuel stava cominciando a fissarlo non gli piaceva per niente.
-Oh, no, no-
-Oh, sì- sorrise Samuel. –Carismatico, intelligente, con il senso dell’umorismo…-
Stephen guardò Scarlett, e l’espressione pensosa che incontrò annientò anche la sua ultima speranza.
Sorrise tristemente. Forbici. Maledette forbici.
 
Diana si immerse con un sospiro di sollievo nella seconda foresta, lasciandosi il terreno scoperto alle spalle. Sollievo che durò poco.
Aveva sete. Fame, anche. E non c'era niente che potesse fare.
Si addentrò a passo stanco nel boschetto, giocherellando inquieta con il medaglione sul suo petto.
Aveva un bisogno disperato di sentirsi al sicuro, ma non poteva. Chissà, forse anche un pericolo concreto, una possibilità di reagire e difendersi l'avrebbe aiutata a non impazzire.
Ma era questo che davvero non sarebbe riuscita a sopportare. Aspettare, aspettare, aspettare, con la consapevolezza che la sua vita era completamente nelle mani nel caso e non di sé stessa. Aspettare che il senso di impotenza la bruciasse da dentro.
Diana si appoggiò contro un tronco, addentando con rabbia le poche piante che aveva trovato, nel tentativo di mettere a tacere quei pensieri. Timo, piantaggine e un'altra di cui non si sarebbe mai ricordata il nome, ma che tra tutte era la più amara.
Odiava non dover permettersi di pensare a cosa stava per perdere, a chi stava per perdere, perché aveva troppa paura di rompersi.
E odiava il fatto che non ci riusciva, a non pensarci.
Sfiorò la corteccia di un tronco con le dita, chiudendo gli occhi. Il profumo di resina e quello delle nuvole gremite di neve. Il verde quieto che aveva sempre considerato la sua casa.
Era la seconda cosa che le avevano già strappato via. La prima era stata il cielo stellato.
Perché comunque andasse non sarebbe mai riuscita a guardare un bosco senza pensare all'arena. Mai più. 
-Ma ti rendi conto di cosa stai mangiando?-
Diana alzò gli occhi di scatto. E la vide. Appollaiata sulla quercia, seminascosta dalle fronde, c'era Axe.
-Abigail- esalò.
-Parla più piano, i Favoriti potrebbero sentirci- disse Axe. -Riflessi pronti?-
Diana afferrò al volo la faretra che le lanciò, barcollando per l'impatto. Qualche freccia si riversò a terra, riflettendo la luce.
-Grazie... Per il pensiero- mormorò, allibita.
-Non serve ringraziare. Mi bastano due pasti al giorno tutti i giorni-
Axe scese dall'albero con una velocità sconcertante, si tolse l'arco dalla schiena e glielo porse, un sopracciglio inarcato e il suo sorriso sempre vagamente derisorio sulle labbra.
Tutti i suoi pensieri sul non fidarsi più di tanto sbiadirono in pochi secondi, e a travolgerla fu semplicissimo sollievo.
-Nessun'ascia?-
-Troppi...- Axe roteò la mano in aria -Giavellotti che volavano.-
Sebbene non ci fosse niente di divertente, Diana sentì un sorriso involontario fiorirle sul viso. Strinse l'arco tra le dita, quasi incapace di crederci.
-Sono profondamente commossa anch'io. Adesso vuoi andare a caccia o preferisci continuare a ruminare erbetta?-
Andare a caccia. Bastarono quelle sillabe, e l'adrenalina la inondò, calda e confortante, come una boccata d’aria dopo una lunga apnea. Per un attimo si sentì di nuovo nel suo distretto.
Non era più lei la preda.
 
-Ora- un sussurro.
Ester si girò verso Ronnie, il cuore in gola. –Hai ancora la febbre…-
-Ora- ripeté lui. E stavolta la parola d’ordine sferzò l’aria come una frustata.
Ci fu silenzio. Un silenzio carico di promesse.
-Vado a cercare cibo- disse Liam.
-Tu non conosci le piante. Andiamo insieme- propose Alex.
-Cercate Momo- aggiunse Ester. Si schiarì la voce per impedire che le tremasse. Basta con le debolezze.
Rimasero soli. L’uno accanto all’altra.
Ester rabbrividì, stringendosi nella coperta. -Fa freddo-
-Vieni qui- Ronnie la strinse a sé dal fianco sano, e lei abbandonò il capo sul suo petto. Avrebbe dovuto essere Amber a fare quella parte, ma Amber era morta. Appoggiò l'orecchio sull'incavo della spalla, distinguendo il flebile battito del suo cuore. Veloce, esattamente come il suo.
-Dovrei contare le volte che sono svenuto- disse Ronnie, in tono leggero. Ester non rispose. Rivide involontariamente ogni istante di quel maledetto giorno, il Favorito immerso in una pozza di sangue, il peso di Ronnie sulla sua spalla, la marcia pesante tra gli alberi.
La consapevolezza che presto sarebbe morto, che era tutta colpa sua, che nell'Arena non c'erano modi per salvarsi l'anima. E’ tutta questione di numeri, le aveva sussurrato Liam. Tutta questione di numeri.
-Ronnie…-  non riuscì a continuare. Non che sapesse bene cosa dire. Forse voleva chiedergli di perdonarla, ma non ne aveva il diritto. E le parole non avrebbero cambiato i fatti. –Secondo te una vita può essere considerata un numero?-
Silenzio. Il respiro di lui nell'ombra. Forse sarebbe stata l'unica risposta che avrebbe mai ricevuto.
-Una vita? No. Tante vite a confronto?- Ronnie tacque. –Che scelta abbiamo?-
Stiamo per salvare una nazione, o per dar vita a una carneficina?
Ester si rese conto che era un’altra la domanda realmente spaventosa. C’è una vera differenza tra le due cose?
-Non lo so- sussurrò. –Ron, non lo so. Ma promettimi che non perderai te stesso-
-Come?- sentì la sua voce graffiante, quasi roca. –E’ l’unica cosa che mi rimane-
Ester scosse la testa contro il suo petto.
- No- disse. -Hai anche me.-
-Allora… Non ho intenzione di perdere nemmeno te-
Ester ripensò al suo distretto, ai tramonti sull’albero. Una vita prima. Nell’arena quel mondo non esisteva più, ma lei c’era, c’era ancora. Ignorò la paura, il desiderio di fuggire e regalarsi una speranza di tornare alla sua famiglia. Per Panem, sì, ma anche per un motivo più semplice ed egoistico. Non sono pronta a dire addio a me stessa. E forse questo è l’unico modo che ho per non farlo.
Ronnie la strinse tra le braccia, senza fretta, perché si vedeva che gli costava dolore.
-Non ti lascerò andare- ripeté, lentamente, forse perché l’emozione gli bloccava la gola come a lei. –Non ora che ti ho trovato-
Ester sentì il suo odore. Lo sentì, sotto il sangue e il sudore. Caldo e rassicurante.
Si avvolse più stretta tra le sue braccia, poi accarezzò piano il filo del pugnale, tra le sue dita. Lo lasciò scivolare dolcemente fino alla spalla di Ronnie, e sentì che lui stava facendo lo stesso con la sua. La vertigine la travolse in una morsa opprimente di paura e adrenalina. Stava per succedere. Stava per succedere davvero.
-Non voglio andarmene- sussurrò. Sentì il suo fiato tiepido sulle labbra, mentre le percorreva il profilo del mento con un dito. La mano che impugnava il coltello tremò leggermente. Ester si morse la lingua, forte, sempre più forte.
I loro occhi si incontrarono, e in quello sguardo c'era tutto. Trattenne il respiro, mentre il tempo si dilatava e le iridi cristalline di lui brillavano più luminose.
E in quel momento, ne fu sicura, ogni singolo abitante di Capitol City e dei distretti li stava guardando. Un brivido ghiacciato le graffiò la schiena, un unico pensiero le trafisse la testa. Non può essere vero.
Le loro labbra furono a un soffio dallo sfiorarsi. Fu quello l'istante in cui Ester diede un colpo deciso, sorprendentemente sicuro, e il suono della tuta strappata risuonò nel bosco.
I due numeri 11, i numeri del loro distretto, caddero a terra.
Ci fu un singolo attimo sospeso, poi qualcosa nell'aria si spezzò, definitivamente. L'avevano oltrepassato. Il punto di non ritorno.
-Se distoglieste le telecamere da noi- Ronnie si alzò di scatto, e un sorriso degno della parola demoniaco gli sfregiò il viso. -Significherà che avete qualcosa da nascondere, non è vero?- 
Il cuore le martellava nel petto. Si lisciò la treccia disfatta, cercando invano di tranquillizzarsi, solo che non era vera paura quella le bruciava nei polmoni.
-Noi non ci uccideremo. Né ora, né mai. Non uccideremo nessuno che non tenti di ostacolarci-
-È finito il tempo in cui altri scelgono per noi- disse Alex, materializzandosi da dietro gli alberi, anche lui con la spalla scoperta.
-È finito il tempo in cui altri si illudono di poter prendere più delle nostre vite- disse Liam.
-Siamo noi a decidere in cosa credere- disse Momo.
-Siamo noi a decidere per cosa combattere.-
-Ora.- disse Ronnie. -Ora, perché ogni giorno che passa qualcuno muore di fame e di quella morte ci rendiamo responsabili-
-Ora. Perché abbiamo aspettato troppo tempo-
-Ora prendiamo in mano le nostre vite. Ora prendiamo quello che è sempre stato nostro.-
-Ora inizia la guerra.-
-E non potete fermarci. Non potete, sapete perché?-
-Perché noi non siamo un numero- disse Momo.
Ester inspirò una boccata d’aria, gelida, incandescente, e un sorriso infuocato si spalancò sul suo volto.
-E’ finito il tempo delle illusioni- sentì la propria voce echeggiare nella radura, dura come l’acciaio. –E’ finito il tempo di Capitol City-
 
···
 
Un silenzio ghiacciato strisciava nella stanza degli strateghi.
-Uccidili- sibilò Lucius. –Questa è una dichiarazione di guerra. Uccidili subito, o…-
Bartheon batté il pugno chiuso sul tavolo. Lucius tacque.
-Ucciderli significa temerli, pezzo di genio- continuò a fissare lo schermo, con una calma che era solo in parte simulata. –Significa martirizzarli-
-E allora cosa dovremmo fare?- Per una volta, non c’era traccia di disprezzo nel tono del suo Secondo.
Spezzarli. Bartheon sospirò piano, fissando il tributo dell’11 con ammirazione mista a tristezza. Vorrei avere scelta.
-E’ la mia arena. Ho tutte le carte che mi servono- intrecciò le dita e vi poggiò il mento. –Cominceremo dalla ragazza-
Lucius tacque per un po’. –Cosa succederà? Se avranno successo?-
-Beh, suppongo…- Bartheon alzò le sopracciglia e lo guardò. –Che avrai guadagnato un avanzamento di carriera. Stratega del vino?-
-Sì, signore?-
Bartheon sbuffò. Rispondeva sempre così. –Qual è il tuo compito?-
-Versare… Vino?-
-Allora perché il mio bicchiere è vuoto?-
Tornò a fissare lo schermo. Cinquanta anni prima era stato una testa calda, piena di amore per le sfide. Non sapeva quando l'aveva perso di preciso. Forse si era sgretolato gradualmente, sparatoria dopo sparatoria, smarrito nel sangue, bruciato nelle trincee.
Così, Bartheon sospirò soltanto, portandosi il vino alle labbra.
E guerra sia.



E’ finito il tempo di Capitol City.
Lì vicino, nascosta dietro un albero, Alyson ascoltò. 
Ascoltò tutto. Rimase immobile per un lungo istante, 
poi si voltò e si allontanò lenta tra le ombre.
Le ombre del tramonto.

 ______________________________
Note dell'autrice che ha finalmente capito come mettere i margini
 
O quasi.
Salve gente! Ebbene sì, sono ancora in grado di pubblicare in quasi due settimane. E di non fare o quasi capitoli chilometrici. Anche se il prossimo mi sa che sarà parecchio più lungo, non ho altra scelta.

Ovviamente, le frasi melense di Ronnie ed Ester non hanno nessun pretesto di essere profonde o sensate, era giusto un teatrino da mettere su e ai capitolini sarebbe bastato per concentrare le telecamere su di loro. E avrete capito che l"emozione" era per tutt'altra cosa. Il mio genere di romanticismo. 
Da adesso in poi, l’alleanza non potrà più ricevere sponsor. Muahahah (?) Bartheon non farà arrivare nulla, significherebbe mostrare che la nazione è solidale con Ronnie. A proposito, Barthy ha settanta anni ma dovete immaginarvelo sui cinquanta, perché (contradditemi se sbaglio) immagino che i trattamenti capitolini abbassino l'età dimostrata di circa quindici anni. 
La storia di Reeva – il fatto che si tinga i capelli e tutto – è sempre stata indicata dalla creatrice, Kirlia. E a me è piaciuta troppo per non descriverla. Lei sarà la stilista di Johanna nei 75°.
Oggi nessun morto, ma non vi preoccupate, rimedierò in fretta. Da adesso in poi i capitoli saranno strutturati sempre notte-giorno, con anche salti temporali; quindi, se tra i pensieri dei personaggi non ci sono quelli che vi aspettate, può essere semplicemente perché non è la situazione adatta. Per questo nessuno pensa a Nathaniel o ad Amber, sarebbe stato forzato, ma non vuol dire che non l’abbiano già fatto. Io seguo solo un flusso di pensieri spontaneo.
Altra cosa, mi sembra inutile specificarlo ma avrete capito che oggi mi va di cianciare: nei POV quello che pensano i personaggi non è necessariamente quello che penso io. Se Ester si crede spacciata è perché è confusa, disperata mezza traumatizzata, non vuol dire che per me lo sia. E cambiano anche le opinioni sui personaggi, sulle situazioni e ogni cosa: non c'è neanche l'ombra di oggettività, cerco di filtrare tutto. Insomma, non fidatevi troppo dei personaggi.

However, questo capitolo non mi soddisfa molto (altro dejavu) . Mah, facciamo che quando uno lo farà, vi avviserò.
Dal prossimo iniziano i nuovi POV. Non avrei mai pensato di dirlo, ma la loro storia è addirittura più esaltante da scrivere che l'arena. E infatti ho già pronte sei versioni diverse dei primi tre paragrafi (??)
Spero che la storia vi stia piacendo, e se qualcuno mi può spiegare com'è matematicamente possibile che io abbia scritto in totale tredici capitoli e questo per efp sia il quattordicesimo...

 


(Lo so, si legge male. E ho dovuto modificare l'immagine su paint perché non si vedevano le scritte, e questo è il capolavoro risultante. No, okay, lo migliorerò prima dei prossimi.
"Alleanza" sta per Ronnie, Alex, Ester, Momo, Liam. Le scritte sono l'area generale in cui si trovano i tributi mentre le palline l'ubicazione precisa. A quelle più grandi corrispondono le alleanze più grandi. E le scritte in bianco sono i morti recenti, muahahah.)



PS: Mio fratello ha messo a punto un simulatore di combattimenti fra tributi, basato su abilità, situazioni, dadi e strategia. E' qualcosa di bellissimo; abbiamo provato a far scontrare l'alleanza di Ronnie con i Favoriti, tutti armati e in campo aperto. Sono morti, in ordine: Momo, Scarlett, Alex, Samuel, Ester, Liam, Stephen e Ronnie è rimasto in piedi. O quasi, perché è finito con una gamba mezza mozzata.
In conclusione: sperate che non si incontrino mai. Perché, ora come ora, sono a un solo testa o croce di vicinanza...

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Alba ***





 



Alba.
 

 Appena il primo angelo suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra.

Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.

-Tratto dall'Apocalisse.

 





-Per me e mia moglie. Da quando nostro figlio è nell’arena troviamo difficile dormire.-
-Capisco. Questo è il nostro prodotto migliore, vuole fare una prova?-
-L'ho già usato una volta. E’ un sonnifero famoso-
-Stenderebbe un plotone-
-Mi basta molto meno. Me ne può fornire una scorta annuale? Pago in contanti-
-Certo. Firmi qui.-
 
-Ma non mi dire, Eric Dalton! Che ci fai da queste parti?-
-Salutare un vecchio amico non è più una motivazione sufficiente?-
Il Capo Pacificatore afferrò la bottiglia dallo scaffale, poi si accomodò e gli riempì il bicchiere fino all’orlo. –Oh, andiamo. Quando mai sei venuto da me se non per… Affari?-
Eric Dalton bevve un sorso, mentre Iulius Nero faceva lo stesso. Quando andavo a trovare mio figlio.
–Oggi, sembrerebbe- ​
-Vino da due soldi- bofonchiò Nero. –Vorrei poter offrire di meglio, ma sono pur sempre le prigioni-
-Il vino è l’ultimo dei miei problemi-
-Ah- Nero non cambiò espressione. –Mi dispiace per tuo figlio-
Eric passò le dita sul bordo del bicchiere. –Lui non sembra dispiaciuto per me.-
-Non ti mentirò; penso questa storia ti possa mettere in pericolo.- Nero si scolò il resto del vino. Questa storia mi ucciderà, e lo sappiamo entrambi.
Nell’esatto istante in cui i numeri 11 erano caduti a terra, Eric Dalton aveva capito di essere un uomo morto. Strana sensazione, essere uccisi dal proprio figlio, il giorno dopo avergli salvato la vita.
-Voglio essere positivo. Il Presidente sa essere magnanimo, e non penso che Ronnie possa durare tanto a lungo da fare qualcosa di serio-
-Lo spero, amico mio.- Nero gli riempì di nuovo il bicchiere, sebbene non lo avesse finito. –Confido che, in caso di disordini nel distretto, possa contare su di te-
Eric rivide qualcuno dei volti che aveva denunciato, venduto, imprigionato, condannato a morte. La ladra orfana di tredici anni. L'uomo che cacciava nei boschi. La ragazza che rubava libri censurati.
Aveva sempre contato su di lui, e non se ne era mai pentito. Fino a quel giorno.
-Certo.- Certo, farò il possibile per rendere vano il martirio del mio stesso figlio.
-Fra due giorni sarà il tuo compleanno, mi sbaglio?- cambiò argomento Eric. Il Capo Pacificatore sorrise. –Lieto che qualcuno se ne ricordi. Sono dieci anni che non lo festeggio-
-E sono anche dieci anni da quando ci conosciamo- Eric tornò al suo solito tono leggero. –Ho un’ottima annata in cantina. Che ne diresti di dare una festa con del vino accettabile?-
Gli occhi di Nero scintillarono, allettati. -Non posso uscire dal carcere tranne che nei giorni di licenza. A volte, penso di essere io il prigioniero-
-Non devi uscire. Quanti Pacificatori ci sono qui dentro?-
-Sessantadue-
Sessantadue. Perfetto.
-Beh, credo di poter trovare abbastanza vino per tutti-
Iulius Nero lo guardò in silenzio per un momento. –Ti conosco, Eric. Non dai mai niente per niente. Cosa vuoi in cambio?-
Eric sorrise, piantando i suoi occhi azzurri in quelli castani del Pacificatore. -Stavolta? Solo una visita-
Di solito, aveva bisogno di corromperlo per vedere Ronnie. Ma anche lui lo conosceva, Iulius Nero, e sapeva che parlare di vino era altrettanto efficace.
 

 
Xen si sfilò la cintura dalla tuta e la avvolse attorno al mucchio di fascine. Cercò di legarle ma le sue dita non gli obbedivano.
Si concesse un solo, preziosissimo istante per imporsi di fermare il tremito, poi finì il nodo e i suoi occhi risalirono involontariamente verso l'alto. E a quel punto fu impossibile distogliere lo sguardo.
I canali di lava si stagliavano nitidi nell'uniforme manto della notte, lampeggianti di quella luce che sembrava nutrirsi dal buio stesso. Un'unica, brillante e sottile striscia arancione si faceva strada tra la lava solidificata verso il mare. Senza riuscire a raggiungerlo.
Xen ci aveva messo un'ora, dall'anello rosso sopra di lui, ad arrivare dov'era. Ma si sa, la lava è molto più veloce di un bambino.
Serpenti scarlatti straripavano dal canale e scendevano in linee casuali, tracciando complessi disegni di luce lungo il fianco della montagna. Ogni istante più numerosi, più rapidi, più vicini, rigagnoli che diventavano ruscelli e ruscelli che diventavano fiumi.
Due foreste bruciavano.
Xen si passò lentamente la lingua sui denti, incapace di capire quanto tempo stesse passando, se tutto quello che vedeva fosse reale. Anche la notte sembrava rifulgere, nero vivido e lucente, straziato dal vento gelido.
A interrompere l'incantesimo fu l'infrangersi di un'onda sulla sabbia. Xen si voltò di scatto verso la spiaggia e non seppe capire da cosa dovesse fuggire. Il mare in tempesta era un inferno di inchiostro che si riversava in lenti cavalloni alti come macigni.
Xen avrebbe dovuto scattare, lo sapeva. Invece riuscì solo a rimanere fermo, con il suo salvagente di legna sotto il braccio, cercando di realizzare che a breve sarebbe morto.
Poi, una zaffata di fumo lo investì come schiaffo in pieno viso. -No- sussurrò Xen. Lasciatemi morire qui, lasciatemi morire qui. Non voglio lottare. Non posso.
Fu il puro istinto di sopravvivenza a muovere le sue gambe verso il mare. L'acqua ghiacciata gli arrivava al petto quando la prima onda lo trascinò giù. Il nero lo inghiottì. Xen spalancò gli occhi e non riuscì a vedere altro. Era tutto troppo irreale anche solo per il terrore. Quello che sentì fu un lento abbandonarsi.
La corrente lo riportò in superficie. Xen prese una boccata d'aria disperata, muovendo convulsamente le gambe per allontanarsi dalla riva, rendendosi conto di non aver la più  pallida idea di come fare.
La sensazione di galleggiare, completamente nuova, bastò perché la vertigine prendesse possesso di lui. Xen si aggrappò con ogni briciola delle sue forze al mucchio di legna, mentre il cielo stellato compariva e scompariva tra turbini di bolle scure. Respirò acqua e spuma di un bianco sfavillante gli si riversò addosso con la forza di un uragano. 
Un sibilare avvolgente e confuso gli invase la testa. E capì. Capì che la lava aveva raggiunto il mare.
Al freddo che gli divorava la pelle succedette una vampata di vapore bollente. Avrebbe urlato, ma tutto intorno a lui c'era solo acqua. Una spinta e si rimise a distanza, prima che la seconda onda lo trascinasse di nuovo verso la riva.
Nel suo distretto, sua madre lo abbracciava ogni volta che scoppiava un temporale. Sei al sicuro, sussurrava, ma non serviva. Perché il terrore che lo assaliva ad ogni tuono, a ogni fulmine, nel vedere il cielo schiantarsi sulla terra, era il non poter essere altro che uno spettatore. Non poter essere al sicuro. Non poter controllare niente, osservare niente, comprendere niente, quando si è solo qualcosa di insignificante nell'immenso.
Un brivido di dolore nella forza primordiale di un mare infuocato, una scintilla di vita in abissi infinitamente più grandi. Anche la paura annegò.
Un istante prima di scivolare nell'incoscienza, Xen capì davvero cosa significasse perdersi.
 

 
Bartheon inghiottì un gamberetto, fissando incuriosito la pazza dell’1. Tutta Capitol City la adorava, ma un vincitore malato di mente non sarebbe stato accettabile. Pensava che la colata di lava avrebbe risolto il problema, ma la ragazza per ora era ancora viva. Saltava tra i ruscelli rossi, con il suo paracadute argentato sotto braccio, alla ricerca di un via verso l’altro lato del canale. In effetti era piuttosto vicina.
Tic. Si connesse alla telecamera 5045. I Favoriti stavano fronteggiando gli ologrammi, come la notte prima. Probabilmente come tutte le notti da lì a quando sarebbero morti.
-Stratega chimico?- Bartheon tamburellò le dita, senza staccare gli occhi dallo schermo mentre l’uomo lo affiancava. L’unico che avesse una qualche utilità lì dentro.
-Signor Greyson?-
-Voglio un’illusione nuova-
-Un ologramma?-
Nello schermo, i Favoriti cercavano di attaccare i camaleonti. Ma finché non riuscivano ad essere certi di averli colpiti a vuoto, non potevano neanche essere certi che non fossero reali.
-Un’illusione personale- rispose Bartheon, poi fermò il video. Ingrandì.–Voglio lui. Il Favorito del distretto 2. E preparate anche la sua compagna-
-E’ un disegno complesso- obiettò Chimico. –Potrei farlo completare in parte da un ricordo. Ma ci vorranno comunque…-
-Ho ideato io le illusioni e pensi che non sappia quanto ci vorrà?- Bartheon sbuffò. –Ti do cinque giorni. Prendilo come un dovere patriottico.-
Chimico boccheggiò, ma prima che potesse dire qualcosa la porta si aprì sbattendo.
-Il Presidente Snow richiede la sua presenza- affermò un Pacificatore. Bartheon inarcò un sopracciglio, vedendone altri dietro di lui. E chi se lo sarebbe mai aspettato?
-Quell’uomo riesce sempre a sorprendermi- commentò.
-Cosa sta succedendo?- strillò Lucius, che era riuscito a rimanere in silenzio per quasi cinque minuti.
-Snow ha deciso che ho tempo da perdere- Bartheon si alzò dalla sedia e avanzò verso la porta, mentre il Pacificatore lo squadrava a braccia conserte.
-Lucius- continuò –Tieni i Favoriti fuori dai guai, mi servono vivi o addio tutto. Invia le illusioni personali all’alleanza ribelle, per il resto... Attento… A non toccare… Pulsanti-  scandì. Chissà, forse avrebbe fatto meglio a fidarsi dello Stratega dei Gamberetti piuttosto che di lui. –Chimico, il futuro di Panem dipende da te, quindi raduna il tuo branco di scienziati schizzati e mettetevi al lavoro-
-Andiamo- ordinò il Pacificatore. Bartheon fece un altro passo verso l’uscio, poi si voltò. –E tu- si rivolse all’unica stratega della sala. –Vedi di procurarmi fegato d’oca-
 
 
  
Harvey la tirò per un braccio, gridò qualcosa che non sentì. Un albero si schiantò a terra, un fiume di lava serpeggiò tra i rami in mille rigagnoli, protraendosi verso di loro. Amina ne sentì il richiamo, silenzioso e invisibile. Fino a quel momento, ignorarlo era servito solo a consumarsi giorno dopo giorno.
Alzò una mano, le sue dita si stesero lentamente verso la lava.
Harvey cercò ancora di scuoterla. Amina lo fissò. Lui era come tutti gli altri. Stava marcendo in un mondo insensato proprio come tutti gli altri.
Non si mosse.
 
-Buonanotte- dice Dray.
-Buonanotte- dice Amina. E cala il buio.
 
Harvey la guardò, la implorò, stava piangendo. Le sue dita lasciarono il suo braccio, lentamente. Resta, avrebbe voluto dirgli Amina. Guardiamo il mondo bruciare, insieme. Resta con me.
Ma Harvey era come tutti gli altri. Fuggì. Amina inspirò fuoco ed espirò furia. Non poteva, lo aveva promesso.
Il rosso non glielo avrebbe permesso, mai. Non sarebbe riuscito a scappare.
Amina sorrise.
 
La finestra che si rompe. Vetri rotti a terra. L'urlo ucciso da una mano sulla sua bocca.
-Va tutto bene, piccola. Va tutto bene. Voglio portarti in un posto-
 
Amina sorrise. Un sorriso obliquo, che scopriva i denti, un sorriso cattivo.
Rovesciò la testa all'indietro, sentendo la carezza spietata del fuoco sul viso. Un altro albero cadde, artigli grigi si liberarono nell'aria. Lo sfrigolio, familiare, pieno di promesse.
 
Due bambini, due bambine. Sono legati, bendati, ma nessun fazzoletto copre la loro bocca.
-Ci divertiremo, Amina...- l'uomo del dolore, l'uomo del buio. Il rapitore. Suo zio. Parker Seen prende la benzina e la rovescia sul primo bambino. Il bambino urla, sputa, piange. Amina osserva.
 
Amina fece un passo in avanti, mentre tutto attorno a lei fremeva e danzava, oro, rosso, arancio, blu, i colori del fuoco. L'odore del fumo si stese su di lei come un vecchio mantello.
 
Fumo. Odore di carne bruciata. Il bambino ha smesso di urlare, ma le fiamme non si sono estinte. Divorano, metodiche, instancabili.
Amina osserva. Il secondo bambino singhiozza.
-Vi state divertendo?-
 
Il suo sorriso si allargò in un ghigno demoniaco, pregno di ira euforica. Amina corse, mentre la lava ribolliva, mentre il fuoco esplodeva dietro di lei, con lei, vivo e devastante. Scorreva ebbro nelle sue vene, bruciava rovente nei suoi polmoni. Amina sfiorò con le dita la corteccia di un albero, avvolto da lingue rosse ed oro che guizzavano e scomparivano, squarciando la cortina grigia del fumo. Assaporò il dolore fino all'ultima stilla, posò lentamente la mano sul tronco. Le fiamme la lambirono, fuoco su cenere.
Erano sette anni che non si sentiva così viva.
 
La bambina giace nuda, con la gola squarciata e gli occhi aperti verso un cielo vuoto. L'eco delle sue urla riempiva il buio.
 
L'aria si dilatava in nuvole di fuoco, contorcendosi in spirali di luce. Sette anni prima le fiamme avevano risparmiato la sua vita. Quella era solo la resa dei conti.
Lei apparteneva al fuoco, il fuoco apparteneva a lei. Non esisteva altro. Solo un debito mai ripagato, e la sua, personale, fine del mondo.
Il cerchio si stava per chiudere.
 
La bambina è ancora viva quando la pala comincia a ricoprirla di terra. C'è sangue sul suo viso, dove dovrebbero esserci gli occhi. C'è sangue, e una lingua sul pavimento.
Nel quarto rogo, sulle fiamme, solo un bulbo oculare.
 
Un colpo di cannone. Amina aprì le braccia e sollevò il volto al cielo, un cielo rosso e non più vuoto.
Rise. Una risata infinita e liberatoria, mentre riprendeva a correre. Verso il dolore e le fiamme e sé stessa.
Perchè c'era lei, in quel rogo. La sé stessa bambina, che era diventata cenere sette anni prima. Doveva solo trovarla.
La bambina che Amina reclamava e il fuoco che reclamava la sua vita.
Il cerchio si stava per chiudere.
 
-Ti è piaciuto?-
Il fiato dell'uomo del buio. Amina mente, fa cenno di sì.
Non l'ha risparmiata. Respira, ma non è viva, è bruciata nel rogo insieme a un bulbo oculare.
 
Crollò in ginocchio. Il fumo correva intorno a lei, le fiamme ruggivano nella sua testa.
Amina smise di ridere.
Ansimò, sollevò davanti a sé la mano ustionata, un terrore divorante le afferrò le viscere.
La sua vita era stata soltanto paura. Troppa paura quella notte per fare qualcosa. Troppa paura per cercare la sua voce. Troppa paura di scoprire che la sua voce fosse diventata cenere, come il resto di lei.
Ma mai aveva avuto paura come in quel momento, proprio dopo aver pensato di essersene liberata per sempre.
 
Parker le tiene la mano mentre la accompagna a casa. Si ferma davanti alla finestra della sua stanza, in mille pezzi, si inginocchia davanti a lei e le toglie il fazzoletto dalle labbra.
-Nessuno saprà cos'è successo- un sorriso bianco nell'ombra. -Non dirai niente, vero, piccola mia? Non dirai niente...-
 
 
Aveva paura perché aveva sentito una risata. Una risata che divampava nell'aria, piena di vita, la normale risata di una quindicenne.
Il cerchio della lava era sempre più vicino.
 
Amina torna nel suo letto. Il piumino la avvolge, tiepido e morbido. Ora può dimenticare,  pensa, dimenticare tutto.
Ma appena chiude gli occhi sono fiamme quelle che si stagliano contro il buio. Cerca di urlare, cade dal letto, piange. È sola. Non c'è nessuno con lei per salvarla.
 
Amina cadde a terra, rannicchiandosi su se stessa. Il fuoco tacque.
Il mondo sbiadì e si oscurò lentamente, lontano, sempre più lontano. Poteva quasi sentire il battito del suo cuore, flebile e irregolare. Restò ad ascoltarlo, sentendo i pensieri svanire, ad uno ad uno, annullandosi in esso. Un torpore strano iniziò a chiudersi su di lei.
Ma la sentiva ancora, quella risata, la sua risata. La sua voce non era cenere.
Lei non era mai stata cenere.
Non poteva salvare quei bambini, ma forse avrebbe potuto salvare sé stessa. Rimettere insieme i pezzi, dimenticare, ricominciare a vivere.
Non era mai stata cenere. Lo sarebbe diventata, ora.
 
La sua mano urta il vetro rotto. Amina la solleva davanti a sé, le sue dita tremano. C'è una goccia di sangue sul palmo.
È ancora viva, forse. Stringe il vetro tra le dita, forte, più forte che può, e chiude di nuovo gli occhi.
Le fiamme ci sono ancora, rosse contro il nero.
Ma adesso, Amina pensa solo che non ha mai visto niente di così bello.
 
La fitta caligine le bruciava gli occhi. Ogni istante che passava le palpebre diventavano più pesanti, e lei era stanca, stanchissima. Sentiva il buio premere ai margini della sua mente.
-Buonanotte- sussurrò Amina. L'ultima cosa che aveva detto sette anni prima.
Era la stessa voce. La sua voce.
-Buonanotte- sussurrò, con l'unico soffio di fiato che le restava. Era troppo tardi per qualsiasi altra parola.
Il cerchio si era chiuso.
 
-Buonanotte- dice Dray.
-Buonanotte- dice Amina. E cala il buio.
 
 
 
Alyson si rigirò il paracadute argenteo tra le mani, prima di aprirlo. Molto più dubbiosa che felice, prese l’oggetto metallico e lo rigirò alla luce fioca delle stelle per esserne certa. La cerbottana era fredda contro il suo palmo.
La ripose a terra accanto a sé, estraendo il resto. Uno dei sei dardi acuminati le punse il dito.
Restò a guardarlo con le labbra schiuse, affascinata e stupita. Più stupita che affascinata, forse.
Aveva detto chiaramente al suo mentore che non voleva sponsor e che non avrebbe combattuto contro nessuno; in più, lei una cerbottana sapeva a stento cosa fosse.
Qualche veleno saprei prepararlo, però. Forse qualche capitolino fuori di testa aveva scommesso su di lei, ma comunque non poteva sapere che aveva passato metà della sua vita fuori dal distretto a studiare erbe.
Le sue ipotesi si spensero ad una ad una mentre leggeva il biglietto del suo mentore sul fondo del contenitore.
Usa te stessa nel modo migliore possibile.       - Jaime.
Alyson si alzò, ripose il foglio e chiuse il paracadute. Da una parte il tutto aveva perso ancora più senso, dall’altro forse ne aveva trovato uno. Tanto, di alternative non ce ne erano; la cosa migliore che poteva fare era liberarsi di quell’oggetto e darlo a qualcuno che avesse ancora bisogno di combattere per qualcosa. Qualcuno che non potesse ricevere sponsor.
Alyson cominciò a camminare nella direzione opposta da quella prefissata, scorrendo con gli occhi le piante che la circondavano, oltre il buio, attenta e concentrata. Perché era sicura di averla vista, la Stella del Tramonto.
Era a metà strada quando chiuse le mani su un candido fiorellino a forma di stella a cinque punte, vellutato e bianco. Nel suo distretto aveva un mortaio, ma il contenitore metallico e un bastone di legno sarebbero bastati ugualmente.
Da sola, una cerbottana non serviva a molto.
Olio essenziale di Stella del Tramonto. Potenzialmente letale. Esitò qualche istante, prima di sradicare l’intera pianta. Dose massiccia per un effetto rapido, minima per proprietà guaritrici. Un solo fiore in meno e sarebbe stato un semplice rimedio per il mal di stomaco, uno in più e forse si sarebbe resa complice di un omicidio. Non uccideremo nessuno che non tenti di ostacolarci, avevano detto. Gli ibridi non erano il loro unico nemico in quell’arena.
Eppure mai le sue mani erano mai state tanto ferme, mentre riponeva il quarto fiore nel contenitore. Era una sensazione strana, più affascinante che spaventosa, creare la morte dalla vita. Il mondo le mostrava un altro lato di sé, completamente diverso da quello che era abituata ad amare, opposto, inscindibile. C’era tutta la candida bellezza di un fiore bianco, in quel sottile cerchio di liquido scuro.
Non l’avrebbe diluito. Alyson rimase per un po’ a contemplare il risultato, con una sorta di vertigine immobile che le faceva formicolare le dita.
Aspetta che cominci a nevicare. Aspetta solo questo.
Fu quella voce quieta a riscuoterla. Distolse lo sguardo e chiuse il coperchio, stringendo quasi convulsamente con le mani che le tremavano. Raccolse la cerbottana, si alzò, si rimise in marcia. Ogni passo più disperatamente veloce, guidata da una frenesia bruciante che assomigliava fin troppo alla paura.
Fu una fitta al petto a fermarla. Una fitta al petto, e il brusio di voci in lontananza.
Alyson si piegò su sé stessa, con il fiatone. La vista si oscurò, il sangue le pulsò nelle tempie in una lenta ondata di dolore fin troppo familiare. No, non ora, non ora...  Si accasciò su un tronco, cercando di contrarre dita che non sentiva più. No, no, no…
Pensieri sconnessi si agitarono dentro di lei. L'immagine di fiore bianco a forma di stella a cinque punte. Un sorriso pieno di sangue. Un tramonto dello stesso colore. Aspetta solo che cominci a nevicare. Fiocchi bianchi a coprire la cenere.
Una boccata d’aria bruciante le assalì la gola, amara come fiele, ma sentì la morsa del buio allentarsi per un altro respiro. Riaprì gli occhi, e li vide. Erano lì, tre sagome scure in piedi e una quarta seduta in disparte.
Non si era persa. Loro non si erano allontanati.
Per un attimo, Alyson riuscì a provare solo un sollievo esultante, poi la frase del suo mentore la assalì di nuovo con il suo strascico di tristezza indistinta. Usa te stessa nel modo migliore possibile.
Voleva che lei si unisse a quell’alleanza, era chiaro. Lei non aveva niente da perdere. Era una nuova occasione, nuova vita, un nuovo scopo, tutto quello che fino a un giorno prima avrebbe voluto.
Alyson chiuse gli occhi e ci provò davvero, a immaginare un futuro per cui combattere, un significato al di fuori di quell'Arena. Vide solo una mezzaluna di liquido scuro. Riuscì quasi a sentirne l'odore, avvolgente e affilato.
Era giunta sull’orlo dell’abisso e non poteva più distogliere gli occhi da esso. Ci era arrivata lentamente, in cinque anni, l'aveva accettato, si era liberata di tutto un passo dopo l'altro.
Aspetta che cominci a nevicare. Un sussurro. Un ordine. Aspetta solo questo.
Ricominciare avrebbe fatto solo male. Alyson sfiorò con le dita la Stella del Tramonto nella tasca del mantello. L'unica bellezza che le appariva ancora vivida in un mondo che ogni giorno diventava più estraneo.
Aspetta che cominci a nevicare. Era quell'unica frase, quell'unico pensiero a tenerla ancorata alla vita. La sua morte, però, le apparteneva ancora.
L'unica cosa che potesse offrire. E l'avrebbe fatto. Ma non in quel modo.
Alyson si rialzò, prese un ultimo respiro pesante. Voltò le spalle al contenitore argentato ai suoi piedi.
E scappò via.
 
 
Bartheon inclinò la testa.  –Presidente-
-Signor Greyson- Snow sorrise. Un sorriso gelido, che non si rifletteva sul volto inespressivo. Era il sorriso di un teschio.
-Gradisce del thè?-
-Sarebbe scortese rifiutare-
Snow gli fece cenno di accomodarsi, mentre un senzavoce riponeva un vassoio con due tazze sul tavolino.
–Dopo quasi un anno, mi rincresce che il nostro incontro debba avvenire in circostanze tanto sgradevoli-
-Devo dire che mi rincrescono più le circostanze.- replicò Bartheon.
Snow si accarezzò la barba nera, con calma misurata. –E’ strana, la pace, il potere. Con il tempo ci si abitua, si comincia a dimenticare cosa significa sentire il fiato della guerra sul collo. A dimenticarne l’esistenza-
-Già, dimenticare. - Bartheon inarcò un sopracciglio. –Sembra che a voi venga facile-
Avrei voluto che fosse facile anche per me. Ma dopo aver visto i corvi banchettare con le orbite dei cadaveri, lui non era tornato sé stesso e Capitol City non era tornata il suo mondo.
-I distretti sono irrequieti, e i sobillatori aumentano ogni anno.- continuò il presidente. -Ci sono stati disordini nell’8, dopo l’ultima Edizione della Memoria.-
–Sorprendente- commentò Bartheon, con uno sbuffo sarcastico, senza distogliere gli occhi da quelli freddi di Snow. Ricordò il tavolo del Consiglio, cinquantuno anni prima. -Forse non avrei dovuto votare a favore-
Coriolanus sorseggiò il suo thè, non concedendogli più di un’occhiata penetrante. Ma lo sapeva, lo sapeva benissimo, che quella per cui Bartheon aveva votato a favore era una punizione seria, non la stupida festa capitolina in cui Snow aveva lentamente trasformato gli Hunger Games. Una punizione che non avrebbe permesso di sbandierare su tutti gli schermi di Panem la ricchezza di Capitol City.
-Voltarsi verso il passato può essere pericoloso, visto cosa ci riserva il presente- sussurrò il presidente. Apparentemente, il suo tono di voce non era cambiato. Bartheon gli regalò una scheggia di sorriso.
-Non mi farò prendere alle spalle, se è questo che intende.- Prese la tazza tra le mani, fissandola per un istante. Non poteva essere avvelenata, non finché gli fosse stato più utile che pericoloso. Forse è solo questione di tempo. Tutta la politica di Snow, compresa quella facciata degli Hunger Games, mirava a sudditi stupidi e superficiali, vuoti e manipolabili; lui sapeva di non essere niente di tutto ciò.
-Ha un piano?-
A quanto pareva, le amichevoli chiacchiere introduttive erano finite. Bartheon bevve un lungo sorso, poi posò il thè. –Ci stavo lavorando, prima che mi trascinassero qui-
Parve non averlo sentito. -Per ora, cerchi di tenere in vita il tributo dell’11, o almeno quello del 9-
-Perché?- Bartheon alzò le sopracciglia. –Forse lui è l’unica cosa che li tiene uniti.-
-Non amo gli interrogativi, signor Greyson. Preferisco pensare a soluzioni che possa controllare- Snow tacque, assorto. -Se rimarranno soli, in Arena, e nessuno volterà gabbana… Li uccida tutti. Tutti tranne il leader-
Bartheon aveva la sgradevole sensazione di aver capito. –Vuole Ronnie Dalton come vincitore?-
-Oh, no- Snow si passò di nuovo le dita sul mento, lentamente. –Non sarà un vincitore. Solo un pezzo di carne viva nelle mie mani-
-…E dimostrerà che è quello che siamo noi tutti. In diretta. Un bel messaggio, e un finale grandioso per gli Hunger Games- completò Bartheon. Sensato e abominevole. Nello stile di Snow. –Non si arriverà a tanto, se andrà come immagino-
L'altro lo fissò. -Posso chiederle cosa immagina, signor Greyson?-
-Non ne sono ancora certo. Sto cercando il modo migliore di barare.- Bartheon accennò un sorriso amaro. -Per adesso, presidente, si goda pure i Giochi-
 Snow annuì pacatamente. -Se l’ho nominata Capo Stratega, è perché mi fido della sua intelligenza-
Bartheon non si trattenne dall'inarcare un sopracciglio. –Allora posso chiederti perché sono qui? Mi stancano le minacce velate, Snow, e so bene quanto te che se fallirò verrò impiccato-
-Mi fido della sua intelligenza, e di nient’altro.- Adesso, Coriolanus non sorrideva. Lasciò passare qualche istante gelido, poi rimarcò il concetto. –Per questo lei è qui. Volevo assicurarmi che fosse… Dalla parte giusta della sparatoria-
Non ho l’aria di un lealista capitolino?  Bartheon ampliò il sorriso. Tanto, se si conoscevano abbastanza, Snow non si sarebbe bevuto un’espressione intimorita. –Penso che le sparatorie siano antiquate. Chi dice che l’uomo non progredisca? Ad ogni guerra si uccide in modi diversi e nuovi.-
-Estrazione retorica dai tempi andati- disse Snow. I suoi occhi erano pieni di ghiaccio, in attesa di una risposta.
Quando Bartheon gliela diede, era serio. –Credimi. Se c’è qualcosa per cui posso ancora lottare, è per non rivivere mai più una sparatoria.-
 
 
 
-Ester!- Ronnie la afferrò per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi. -Qui non c'è niente-
Momo sbuffò. -Solo alberi.- Erano nel cuore della notte e quella storia andava avanti da ore intere.
Ma Ester scattò all'indietro, sottraendosi alla presa. -Era un artiglio- sussurrò. -E c'è ancora. Si sta nascondendo-
Sembrava il delirio di un folle. E, Momo ne era certa, era quello che stavano pensando tutti.
-L'altra notte cosa vedevi?- sospirò Liam.
-L'altra notte?- echeggiò Ronnie.
-Eri incosciente- chiarì Momo.
-No, no... Era diverso- Ester indietreggiò, gli occhi fissi sul bosco. -Adesso ne sono sicura. Io... io l'ho visto-
L'ho visto, lo vedo, lo vedo. Non sembrava capace di dire altro.
-Dove? Dimmi solo dove- Momo sbuffò ancora, spazientita. La ragazza continuò a fissare un cespuglio di more. Aprì la bocca per parlare, me ne uscì solo un mormorio strozzato.
Momo affondò il giavellotto nei rovi con un gesto secco, lo rigirò, strappò e affondò di nuovo. Ester si lasciò sfuggire un gemito atterrito.
-Se continui a fare rumore i Favoriti ci troveranno- le disse Momo, ritirando l'arma. Era un dato di fatto.
-Non so voi, ma io gradirei dormire- bofonchiò Liam.
Ester guardò Ronnie, supplice. -L'ho visto- ripeté in un sussurro. -L'ho visto davvero...-
Momo sbuffò di nuovo. Non aveva senso. Non aveva senso niente da quando avevano messo piede lì.
Ronnie si era bloccato con una mano sulla tempia e una smorfia strana in viso. -Qualsiasi cosa fosse- tentò di calmarla -Adesso non è qui, giusto?-
Ester si lasciò scivolare contro un albero, la testa tra le mani. -Sì- soffiò, la voce incrinata.
-Se ci avessero voluto uccidere l'avrebbero già fatto- sentenziò Momo.
-E non ci vogliono uccidere- concordò Ronnie. Aveva l'aria di chi stesse vivendo l'emicrania peggiore della sua vita. -Ester?-
Nessuna risposta.
Poi, un mormorio. Lento e chiaro, come se stesse cercando di realizzare sillaba per sillaba.
-Vedo cose che non ci sono-
Vedo cose che non ci sono. Momo pensò con orrore che non era la prima volta che sentiva una frase del genere.
Numero 47. Martin, si chiamava, ed era un orfano dislocato nel suo stesso cantiere.
Aveva iniziato dicendo di sentire voci, sussurri e risate, poi credendo di vedere demoni e chissà cos'altro. Dopo una settimana aveva cominciato a delirare. Dopo due si era rotto il polso contro un vetro.
Dopo un mese, i Pacificatori l'avevano abbattuto come si fa con i cani rabbiosi.
Momo fissò Ester lottando contro la disperazione. Era la stessa sensazione di impotenza di quel periodo, impotenza che diventava inutile senso di colpa. Non si può salvare nessuno da se stesso, le aveva detto Colette mille volte. Ma non era servito.
-Hai bisogno di dormire- Momo sapeva che era una scusa stupida, ma non aveva altro. -Siamo svegli da due notti-
-Ho dormito fin troppo ultimamente- Ronnie sorrise appena. -Resto io per il turno di guardia-
Lo scrutò critica. -No. Non stai ancora bene, lo farò io-
-È solo mal di testa- Ronnie afferrò un giavellotto appoggiato a un albero. -E fa meno male degli incubi-
-Vi prego- la voce di Ester era sempre un bisbiglio incerto, ma qualcos'altro aveva sostituito il panico. -Il... Paracadute, lì. C'è davvero?-
Era più probabile che ci fossero artigli ed ombre piuttosto di quello.
Piuttosto di un paracadute argenteo steso sotto un barattolo di metallo.
Eppure, era esattamente ciò che Momo stava fissando.
Ad ogni passo l'incredulità aumentava, mentre distingueva l'oggetto accanto al contenitore.
-Una cerbottana?- rilevò Ronnie, non meno attonito.
Momo si chiuse in un silenzio quasi sacrale, mentre ruotava il tubicino argenteo tra le dita e i colori di un'intera vita la assalivano.
La sua vecchia cerbottana nelle mani, i Pacificatori di guardia che le voltavano le spalle, distratti dal rumore di un sfera di legno lanciata lungo il corridoio. Gli schermi delle telecamere messi fuori uso dai dardi.
-Qualcuno l'ha già aperto. Non era destinato a noi- mormorò Ester.
Forse, la Mietitura non aveva cambiato niente. Non c'era Colette, non c'era nessuno che conoscesse, ma era una missione come le altre. La notte era la stessa, muoversi nelle ombre le dava la stessa sensazione di eccitazione fredda, anche se si trattava di studiare l'Arena invece che recapitare un messaggio.
In un certo senso, anche in quel momento aveva un messaggio tra le mani, anche se infinitamente più grande di una semplice lettera. Era una granata già attivata.
E in quel momento, Momo seppe di aver quasi raggiunto la meta.
-Non a noi- disse. -Era destinato a me.-
Fronteggiò lo sguardo interrogativo di Ronnie con un inevitabile accenno di sorriso. Era la fierezza, quel fervore caldo che iniziava a riempirla. Fierezza verso la sua gente.
-Questo è un metallo strano, modificato e leggero, lo stesso con cui costruivamo gli hovercraft. Io lo so, ero incaricata del trasporto nelle fabbriche. E sapevano che usavo la cerbottana. Non tutto il distretto, ma molti-
Momo fu costretta a frenarsi. Non poteva parlare di traffici illegali di lettere e gruppi rivoluzionari davanti a chissà quante telecamere. Non poteva tradirli.
Fortunatamente, nessuno chiese dettagli. -Di solito è il sindaco a sponsorizzare, nei distretti poveri- disse Ester -oppure qualcuno con la sua autorizzazione.-
-Comunque proviene dal distretto 6- ribadì Momo. -È costoso, devono averlo pagato in tanti. Tantissimi. Ed è qui anche se Capitol City non l'avrebbe mai permesso.-
-Ci sono le basi- sussurrò Ronnie. -E sono più solide di quanto avessi sperato. Non...- prese un respiro veloce, la speranza palpabile nella voce. -Non siamo i soli-
-Sono l'unico a chiedermi chi l'ha portato qui?- Momo si voltò verso Liam. Fino a un attimo prima credeva che stesse dormendo. -E come faceva il distretto a sapere che l'avrebbe fatto?-
-Non lo so- rispose Ronnie. -Ma dubito che sia di qualcuno che lo ha dimenticato in una foresta, e non c'era prima di oggi. Chiunque sia stato è vivo, e sa cosa sta facendo.-
-E quali sono i tributi ancora vivi?- provò Ester.
Momo si ricordava a stento un paio di volti. Il suo compagno di distretto e l'alleanza dov'era finito, di cui era rimasta solo Hazel Tunner.
-Dal distretto 12 e lasciando stare i Favoriti- iniziò Ronnie -Diana Jensen... Non riesco a immaginarmela. Di Amina Seen non so niente, Abigail Hiddenwood non la escluderei. Avrei tentato di farla unire, ma aveva sia un'alleanza sia una famiglia abbastanza numerosa da formare un esercito. Ricordate la sua intervista? Il cappello lanciato per terra?-
Momo avrebbe risposto di no, ma doveva essere una domanda retorica.
-Xen è improbabile, Hazel non saprei. Non sembrava avere tanto carattere per fare qualcosa del genere, ma ci ho parlato una volta in tutto. Harvey Lewis Cadwalader. Beh, non era abbastanza folle, e aveva solo quattordici anni. Alyson... Prima della sua intervista l'avrei esclusa- qui fece una pausa. -Al Bagno di Sangue era una pedana a sinistra della mia e all'inizio è fuggita nel bosco vicino al nostro. Noi ci siamo mossi poco, quindi la tempistica ci potrebbe stare-
-Grazie per il resoconto- finì Liam. -Beh, Diana cacciava illegalmente nei boschi, nonostante fosse figlia di un capitolino.-
-Quindi potrebbero essere Abigail, Alyson e forse Diana- Ronnie annuì tra sé, con un sorriso sempre meno incredulo. Forse il mentore del 6 si era messo d'accordo con un altro. Forse qualche tributo aveva saputo, prima o durante l'Arena.
O forse, più semplicemente, niente aveva senso.
Visto ciò che era successo in quell'Arena, non era una teoria del tutto improbabile.
-Non c'è solo una cerbottana-
Era stato Liam a parlare.
Momo prese il contenitore che le porgeva, in silenzio. Ci mise qualche attimo a comprendere, poi capì.
E si ricordò perché non era affatto una missione come le altre.
 
 
 
Era l'alba. Il momento migliore per nascondere il fumo.
Alek sfilò l'ascia a una mano dalla cintura, mentre i suoi piedi si muovevano da soli, passo dopo passo.
Un coniglio su un fuocherello di pigne e legna secca. Nient'altro.
Non aveva sentito colpi di cannone, quindi chiunque l'aveva arrostito era ancora in giro. C'erano due soli motivi per cui dovesse essersi allontanato mentre la carne ancora cuoceva: fuggire, oppure... tendere un'imboscata.
-Se urli muori.- E dovette dire che c'era riuscita.
Alek si girò lentamente verso di Axe. La freccia già incoccata, la corda tesa per metà.
La fissò negli occhi senza degnare l'arco di più di uno sguardo. E si accorse di non avere paura.
-Non mi hai tirato alle spalle- notò.
-Perché voglio sapere dove sono i Favoriti.- la sua voce era ferma, le sue labbra una linea dura.
Sorrise tristemente. -Chiedi a uno di loro-
Lei si limitò ad socchiudere gli occhi. -Se hai fatto quello che penso tu abbia fatto, sei persino più idiota di quanto credessi-
-Mi sopravvalutavo anche io, quando ho accettato- convenne. La sua voce era tanto calma da rasentare la follia. -Cosa stai...-
-Sto valutando le possibilità-
-Ah-
Continuò a scrutarlo, assorta. -Se finissi di tendere questo arco mi attaccheresti. Forse farei in tempo a scoccare, ma potresti parare con lo scudo e avresti tutto il tempo di lanciarmi quell'ascia. Anche se non riuscissi a parare, una freccia non ti fermerebbe all'istante e...-
La sua ascia cadde a terra, scivolò fino ai piedi di Axe con qualche stridio metallico. Un riflesso d'argento ne accarezzò la lama, affilato, letale.
-Rivaluta- disse Alek.
Lei alzò gli occhi dall'arma e lo fissò. Si fissarono. A lungo.
Poi, Axe inarcò un sopracciglio. Alek non seppe bene come interpretare il lampo nei suoi occhi, finché non sussurrò: -Fatto. Sei morto-
In quel momento una figura comparve da dietro di lei, scostando quasi distrattamente l'arco con la mano. -Chi mi spiega che sta succedendo?-
Axe cercò di rimettere in linea l'arma, ma Diana si era già piazzata tra lei e il bersaglio.
Alek sentì le proprie percentuali di sopravvivenza salire sopra lo zero. -Togliti di mezzo- ringhiò Axe, ma non fece nulla per spostarsi.
-Non ci vuole uccidere. C'è tutto il tempo per parlare- disse Diana, semplicemente.
-Cosa vuoi che cambino le parole? Non siamo bambini che hanno litigato- sibilò Axe -E non c'è nessuno che ucciderei più a cuor leggero di un traditore-
Alek aggrottò appena la fronte. Faceva male, nonostante tutto. Detto da lei faceva male.
 -Avrei potuto non dirvi di essere tra i Favoriti. Meno possibilità di essere ucciso al bagno di sangue e più di uccidervi. Non vi ho mai tradite.-
-Non si tratta di tradire noi- ribatté Axe -Hai lasciato tutte le tue alleanze e adesso vuoi implorarne un'altra? Sei solo troppo codardo per non sperare di sopravvivere- lanciò un'occhiata cupa all'ascia a terra. -E troppo codardo per avere la decenza di combattere-
Alek non negò.
Abigail fece lentamente un passo verso di lui, scostando Diana. -Se cambiassi idea di nuovo?- domandò. -Durante il tuo turno di guardia? Cosa faresti?-
Alek aprì e chiuse la bocca. Avrebbe potuto contraddirla. Fingere. Ingannarla o ingannarsi.
-Non lo so- mormorò. -Ma sto cominciando a fidarmi di più di me stesso-
-Hai preso quattro asce- si intromise Diana. Axe non ci mise molto a capire cosa voleva intendere.
-Ci stavi cercando, vero?-E L'idea non sembrò piacerle. -Cosa ti faceva credere che non ti avremmo ucciso?-
-Niente- le sorrise, scrollando le spalle. -Volevo fidarmi di voi-
Axe aveva l'aria di chi non avesse mai sentito un'idiozia più colossale. Il ché era assolutamente plausibile. -A questo punto potevi fidarti anche dei Favoriti e rimanere con loro-
-Cosa?- Alek alzò le sopracciglia, stupito. -No, non me ne sono andato dai Favoriti perché non mi fidavo di loro. Me ne sono andato perché volevo farlo.- tacque un attimo, prima di aggiungere: -Dovresti farlo anche tu-
-Fidarmi?- Axe si lasciò sfuggire uno sbuffo incredulo, ma Alek non la lasciò continuare.
-No. Scegliere in base a quello che vuoi, non a quanto ti fidi. Vuoi avermi come alleato?- aprì le dita delle mani. -Allora fallo. Io ho cominciato dal Bagno di Sangue e, beh, tutto ha molto più senso di prima-
Abigail lo guardò, inespressiva. -Mio fratello ha scelto quello che voleva-
-Sì? Anche il mio- sorrise. -Questo dovrebbe dirci qualcosa-
Axe aggrottò le sopracciglia, confusa. Per la prima volta da quando la conosceva, Alek vide il suo sguardo vacillare. -Anche il tuo?- ripeté.
Annuì pacatamente. -Si chiamava Khem ed è morto per una follia. Sapeva come sarebbe andata a finire, l'ha scelta comunque. Io sapevo qual era il prezzo quando ho lasciato i Favoriti. Tuo fratello sapeva quali erano i rischi quando si è alleato. Come può essere sbagliata una scelta che vogliamo fare?-
-Forse quando ti fa finire ammazzato- disse Axe.
-Prima o poi, tutte le scelte portano alla morte. Forse prima, forse dopo, non lo saprai mai. Potresti vincere per merito mio, Axe, o morire per colpa mia.- Alek sfiorò distrattamente il flauto nella sua cintura. -Non ti sto chiedendo di non uccidermi, ti sto chiedendo di non lasciar scegliere al ricordo di tuo fratello. Marcus...-
-Marcus probabilmente sarebbe ancora vivo, se non si fosse fidato- lo interruppe Axe. -Era tra gli ultimi tre-
-Oppure sarebbe morto comunque. Dopo qualche giorno o qualche anno, ma chiedendosi ogni attimo cosa sarebbe successo se avesse scelto quello che voleva scegliere. Rimpianti e nessuna risposta, eppure la stessa, identica fine. La ragione conduce a morti molto più stupide della follia-
-Mio fratello si è alleato perché non ha avuto il coraggio di uccidere un tributo- specificò Axe. -È morto per codardia. Questa non la consideri una morte stupida?-
Alek scosse appena la testa. -Non lo è. Non ci si può pentire di qualcosa che si ha voluto fare, a qualsiasi strada porti. Tuo fratello ha deciso di rischiare anche se non si fidava, di mettersi in gioco, di compiere la sua scelta e affidare a sé stesso il suo destino. Pensi che ci voglia più coraggio per fare una cosa del genere o per lasciarsi trascinare dall'istinto di sopravvivenza?-
Axe tacque, lo sguardo fisso su di lui. Alek ebbe quasi l'impressione di sentire i suoi denti scricchiolare.
-È un peso terribile, ma è anche l'unica cosa per cui abbia senso vivere. O morire. Io non pensavo all'essere o meno un codardo mentre lasciavo i favoriti. Ho solo deciso che preferisco morire per quello che ho voluto fare, piuttosto che per quello che ho fatto cercando di non morire.-
-Non parli come qualcuno che si è unito ai Favoriti.- disse infine Axe. C'era un'amarezza nuova nel suo tono. -Perché, Alek?-
Sollevò gli occhi al cielo, appena schiarito dall'alba. -Fingevo di essere una persona ragionevole. Dev'essere bello, quando la cosa che vuoi fare coincide con quella più logica. Poi mi sono ricordato che sono molto più simile a mio fratello di quanto sperassi essere. Anzi- si corresse -Mi sono ricordato che io sono orgoglioso di mio fratello.-
Di nuovo, fu silenzio.
-Tu lo sei del tuo?- chiese Alek, piano.
Non ci fu risposta.
-Il coniglio è pronto- Diana fece di nuovo sentire la sua voce, china sulle ceneri del fuoco.
Alek prese il coltellino dalla cintura, staccò una coscia e si sedette su un tronco abbattuto. -Fallo, Axe- ripeté, in tono leggero. -Scegli quello che vuoi scegliere, infischiatene del resto- e nel frattempo, addentò.
Rivolse un sorriso sereno agli sguardi attoniti di entrambe. Era per metà troppo crudo, per metà troppo cotto, andando per il sottile anche povero di sale.
-Pensateci- masticò il secondo boccone. -Mangio anche poco-
Carne di coniglio. Non sentiva quel sapore da quando suo fratello aveva finito di cacciare. Da quando era scomparso.
Fu Axe a spezzare l'ennesimo silenzio. Piombò seduta a terra di spalle a lui. -Alek- disse.
-Sì?-
Scagliò via l'arco. -Fottiti-
 
 
 
-E tu saresti?-
Le celle erano tutte uguali: senza telecamere, come quella di Ronnie.
Fu la prima cosa che Eric Dalton controllò. Dopo, posò lo sguardo sul prigioniero.
Alto e slanciato, con i capelli neri scarmigliati e gli occhi color pece che brillavano di diffidenza, non era difficile immaginarlo a bruciare case di Pacificatori.
-Eric Dalton-
Era solo un nome. Il suo nome. Ogni giorno più pesante.
Lo sguardo cupo di Kevin si assottigliò. –Oh, Eric Dalton- ripeté, e il sorriso si spalancò sul suo volto come una ferita. -Conosco una persona chiamata così. Che spiava e denunciava crimini ai Pacificatori. Che nessuno riusciva a spiegarsi da dove prendesse i soldi. Un gioiello di…-
-Ronnie ti ha parlato di me?-
Kevin fece un passo verso di lui, sovrastandolo. –Solo dopo che ci sbatterono in prigione. Quando non potevo cacciarlo fuori dai Dogs per il sospetto che fosse una spia anche lui, né diffondere la voce-
Eric inspirò. Non aveva ancora iniziato e già erano cominciati gli imprevisti. –Vedete gli Hunger Games dalle prigioni?-
-Il tuo interesse verso le nostre condizioni è commovente.- Kevin si avvicinò ancora, lentamente, senza distogliere gli occhi dai suoi. Eric non arretrò. –Mi stavo chiedendo… Chi ci ha fatto rinchiudere qui? Ci avrebbero davvero scoperto? L’attacco dei Pacificatori è stato sorprendentemente… Tempestivo.-
Eric prese un lungo respiro, senza scomporsi. Non gli capitava spesso di incontrare persone tanto stupide.
-Certo. Sono così disumanamente privo di scrupoli da non veder l’ora di vendere mio figlio. Credi quello che vuoi, Kevin, se avere qualcuno da odiare ti fa stare meglio.- rispose pacatamente. Ma in qualche modo doveva convincerlo a fidarsi di lui. –Chiediti anche altro, però. Ad esempio, se i Pacificatori non avessero intenzione di giustiziarvi tutti, prima che io ci parlassi-
Sul volto di Kevin non c’era più traccia di sorriso. –Perché sei qui?-
Eric Dalton intrecciò le dita delle mani, senza fretta.
–Per liberare Panem.-
Qualche istante di silenzio, poi Kevin si piegò in due e scoppiò a ridere. Una risata graffiante, forzata, disperata. –Scusa- fiatò, riprendendosi. –Non avevo mai…-
Eric lo zittì con un gesto secco. -Eri il capo, vero?-
-In persona. Kevin Heaven.-
Kevin Heaven, che gli aveva portato via suo figlio. Kevin Heaven, che l’aveva solo raccolto quando Eric l’aveva perso.
Il dolore gli appesantì la voce. –Vedete gli Hunger Games dalle prigioni?- ripeté.
-Vai al punto-
-Ronnie-
-Ronnie. A differenza di te ha spina dorsale-
E servirà solo a farci ammazzare tutti, così che possa continuare a crogiolarsi in un'utopia. Gli idealisti pensavano che bastasse schioccare le dita per mettere su un rivolta, che la giustizia fosse sempre dalla parte della morale più alta. Che le morali avessero senso quando si cominciava a spargere sangue.
Sorrise. -Non mi considererai mai un amico, e non devi. Ma ti assicuro… Per esperienza…-
-La metà di chi ti credeva suo amico ti ha confidato i suoi segreti per poi finire in questo carcere.-
Eric odiava essere interrotto, ma non lo diede a vedere. –Quello che volevo dire. E’ dagli amici che bisogna guardarsi le spalle- sorrise ancora di più. E vide l’odio nei suoi occhi.
-Per esperienza. Certo. Mai fidarsi di un amico. E di chi dovrei?-
Di nessuno. –Di chi ha i tuoi stessi nemici-
Kevin tacque.
-Avvisa i prigionieri, tutti i prigionieri. Fra due giorni, all'alba- Eric lo guardò a fondo per un momento, come per valutarlo. –Ci sarà una festa.-
Non seppe quanto tempo fosse passato, prima che uscisse da quella cella. Chiamò il Pacificatore, che la richiuse non senza lanciargli un’occhiata torva.
-Qual è il tuo nome?- chiese Eric.
-Domitius. Perché?-
Scrollò le spalle. Quando poteva, voleva sapere come si chiamavano le persone, prima di ucciderle. Perché si dimentica troppo in fretta.
–Iulius, Domitius- mormorò, allontanandosi. Due nomi. Ne mancavano altri sessanta.
Scrollò le spalle di nuovo, poi accelerò il passo.
 





Note dell'autrice che è valorosamente riuscita a non far schiattare Alek di infarto 


Scaletta dei morti:

Harvey Lewis Cadwalader, distretto 3
Amina Seen, distretto 10

 
Scaletta dei malati, feriti, morti di fame, senza tetto, bisognosi etc.

Xen Miranx, distretto 6



Buongiorno a tutti! *balla di fieno che rotola in lontananza*
No, veramente, non so quale folle potrebbe seguire una ff con i miei tempi di aggiornamento. Se continuo così dovrei inserire un "riassunto del capitolo precedente" ad ogni pubblicazione. Io vi consiglierei di leggere la storia solo dopo che l'ho completata, per non odiarmi e non dimenticarvi niente.
Il motivi del ritardo di stavolta è *rullo di tamburi* Alek. In generale, questo è stato il capitolo più impegnativo di tutta la mia vita. Ci credete se vi dico che il paragrafo di Alek l'ho riscritto dieci - DIECI- volte? E non voglio parlavi della convocazione di Bartheon e Eric. Un inferno di capitolo. Sappiate che era tutto pronto da due settimane e mezza, se non fosse stato per Alek. Lo voglio uccidere. Veramente, sta rischiando di brutto.
Dunque, è troppo tempo che non faccio un elenco numerato.
  1. Comincio con i convenevoli: mi dispiace per Harvey e Amina. Lui è morto soffocato, ho provato a scrivere un suo punto di vista ma toglieva fascino. Il POV di Amina è una matassa di roba verosimile o meno, un miscuglio tra la svalutazione di Harvey (perché Amina è era un personalità borderline), il semipassaggio da un atteggiamento vittimistico post trauma e un atteggiamento aguzzino post trauma, in mezzo al tipico flusso di ricordi post trauma, il tutto dentro uno stato dissociativo causato dalla piromania. La presa di coscienza finale forse ha senso e forse no, io non sogno neanche di poter esprimere opinioni su chi è stato traumatizzato; quello era un giudizio di Amina su se stessa. Tanto per darsi la colpa per l'ultima volta.
  2.  Sono l'unica a trovare gli Hunger Games un'idea idiota? Spesso le dittature si fondano sul fatto che il popolo non si rende del tutto conto della diversa distribuzione dei beni. Per questo ho immaginato che all'inizio non fossero una festicciola sfarzosa con tanto di sfilata etc, ma una vera carneficina in diretta. Snow potrebbe averli cambiati lentamente, lungo il processo per rendere i capitolini... Capitolini. Finché la Collins non spiega, interpreto.
  3.  Io ho dadi eccessivamente socievoli, bisogna darci un taglio. Però adesso l'arena è di un terzo più piccola, saranno tutti ammucchiati. Spero si sia capito il processo della colata. E sì, l'Apocalisse è scritta in modo così elegante che non potevo non citarla.
  4. Con tutta probabilità il prossimo capitolo - il prossimo notte/giorno- sarà cortissimo. Massimo quattro, cinque punti di vista. Effettivamente non sarebbe realistico se tutti i giorni in Arena succeda chissà che cosa.
  5. Kevin era già apparso alla Mietitura di Ronnie circa un anno fa, Eric è suo padre e mi sono francamente innamorata del suo nome. Eric Dalton, Eric Dalton, suona mostruosamente bene. Comunque, se non sapete cosa pensare di lui ho raggiunto il mio scopo.
  6. Sappiate che Xen è esausto, ustionato, intento a sputare e gorgogliare acqua mentre muore di sete su una spiaggia.
  7. Sappiate che Gehenna è stata sponsorizzata u.u ah, e se si muove più degli altri nella mappetta è perché di notte non dorme.
  8. Ah già, la mappetta. Comunque, la lava del terzo anello è adesso riunita in canaletti distinti, ma all'inizio della colata è straripata ovunque e il 90% delle foreste è bruciato. Ovvero niente da mangiare per Xen.
  
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Fame ***


     

 
Fame

 
    

 
L'uomo è un mostro. Il peggiore che io abbia mai visto, dall'ultima volta che ho guardato nello specchio. La verità? Sto anch'io marcendo. Sono sotterrato vivo e già marcisco.
Se non fossi un tale codardo ucciderei me stesso, ma lo sono, quindi devo accontentarmi di uccidere gli altri nella speranza che un giorno, se solo riuscirò a sguazzare abbastanza a fondo nel sangue, ne uscirò fuori pulito. 
            -Joe Abercrombie, "The Heroes"      


 





«Presto, Rich!» Diamond deglutì, afferrando i polsi della sua bambina. Sun inarcò la schiena e fu allora che i suoi occhi si rovesciarono all'indietro, fissandola con il bianco della cornea. «È lei, è sempre lei», si ripeté, come ogni volta.
«Sunshine. Sun. Gehenna...» Le gambe della bambina scattarono convulsamente verso l'alto e poi persero ogni forza. Diamond sussurrò, implorante. «Resisti»
La depose a terra con delicatezza, ma Sun contorse il busto e un verso inarticolato sfuggì alla sua gola.
Il polso destro ruotò e si storse. La donna si costrinse a lasciare la presa per non farle del male. «Rich!» urlò.
«Sono qui»
Il petto di Sun si alzava a scatti feroci. Le dita della mano libera si inarcarono, artigliando il legno del pavimento. «Fra poco sarà finita. Fra poco sarà finita»
Rich si chinò su di Sun, afferrandole il viso con le mani e voltandolo verso di lui. Diamond le strinse le guance per spingerla ad aprire la bocca e aspettò che deglutisse il piccolo pezzo di carne cruda.
«Non dovremmo farlo» disse Rich. «Le farà male, dobbiamo ritentare con i farmaci. Ci deve essere un'altra soluzione»
Diamond accarezzò il dorso della mano della bambina. Un ultimo fremito la attraversò, poi Sun tornò al ritmo lieve del suo respiro. «Continueremo a cercare, ma non ce ne sono» disse. Un velo di lacrime di sollievo la costrinse a sbattere gli occhi.
Le palpebre di Gehenna furono scosse da un lieve tremito, poi, lentamente, si aprirono. Il verde dei suoi occhi non le era mai parso così bello, anche se offuscato, non del tutto cosciente.
«Passerà, mamma?»
La sua voce. Fine, limpida, appena udibile, ma dolce come un balsamo per Diamond. Alla fine di ogni attacco epilettico chiedeva rassicurazioni, inconsapevole che era sua madre ad avere bisogno di quella domanda, di quella voce, per rassicurare sé stessa. Le passò una mano sulla fronte, scostandole i capelli biondi, e sorrise. «Sì, Sun. Passerà»
E quella volta fu vero – fu l’ultima.
 
Il telecomando era poggiato sul suo palmo. Freddo. Diamond non aveva la forza di abbassare il volume, e non lo fece.
I suoi occhi attraversavano lo schermo senza vedere. Gehenna era lì, e stava guardando le forbici nella sua mano. Forbici pesate, ricurve e affilate; potevano uccidere.
«Rich, manda via i ragazzi» disse Diamond. Atona.
«Mamma» protestò Amethyst, sommessamente.
«Voi non vedrete questi Giochi» disse Diamond. Ma la sua voce aveva perso ogni severità, ogni fermezza.
Senza smettere di fissare lo schermo, vide Silver chinare il capo. «Non possiamo non farlo»
Sun si era scostata i capelli dal viso, passandosi le forbici nella mano destra. La lama luccicava.
Diamond rivide i suoi occhi, e luccicavano anch'essi, da dentro le occhiaie.
Sun aveva sempre amato i gioielli di suo padre che brillavano al sole.
 
«Sunshine!»
Diamond piombò sul corpo di sua figlia, chino sul pavimento, in mano un pezzo di carbone. Lo stesso carbone che ricopriva tutto, le punte dei suoi capelli, il legno dell'armadio, il muro bianco.
Gehenna non urlò - non l'aveva mai sentita urlare, neanche una volta, neanche da bambina - ma in uno scatto d'ira si liberò dalla presa.
Diamond gemette, sbattendo contro il piede del letto. «Sun!» gridò. Qualcosa continuava a sfregare contro il pavimento. Ricacciando indietro le lacrime, Diamond le afferrò la mano, gelida e sottile come quella di uno spettro, e le strappò via il carbone.
Gehenna non si fermò. Le sue unghie grattarono il legno, incessanti e feroci, incidendo e graffiando.
«Sun...» ripeté, in un sussurro. Gehenna si girò e nei suoi occhi verdi c'era il nulla. «È lei, è sempre lei» si disse Diamond, meccanicamente. E per la prima volta quel pensiero le trasmise un brivido di terrore.
Sopra di loro, un lepre con la gola squarciata era conficcata alle parete, trafitta da un paio di forbici. Come il libro bruciato, la bambola, il fiore secco, e il topo in decomposizione.
Diamond capì di avere paura. Paura di sua figlia.
«Mamma» disse Sun. Si guardò le unghie sporche di sangue. Tremava. «Vattene da qui»
E Diamond decise di farlo, di fuggire, di cedere. Codarda, si disse, ma non era vero. Era solo stanca, di una stanchezza abissale e disperata.
I suoi occhi si posarono sui segni incisi, sui trucioli scuri, sulla polvere di carbone.
E fu allora che capì. Non erano segni. Erano parole.
Quella stessa sera chiamò il manicomio.
 

Gehenna alzò le forbici davanti a sé e cominciò a ridere. Dapprima un gorgoglio strozzato, stridente, sabbioso, poi una risata sguaiata e affilata che trafiggeva l’aria, la infuocava come una pioggia di scintille ardenti. Diamond si rese conto di non averla mai scordata, in due anni.
Iskra significava scintilla.
Tornerà.
Non aveva mai dimenticato quelle scritte. Le uniche frasi che era riuscita a leggere, prima di scappare.
Diamond guardò i lineamenti di sua figlia, distorti in una risata atroce. Eco di migliaia di altre, di migliaia di incubi. Tornerà come il fuoco alla cenere.
Lo disse lentamente, avvinta in una calma fredda. «Sarà Gehenna a vincere gli Hunger Games»
«Perchè?» mormorò Amethyst.
«Perchè io lo so» Diamond batté le palpebre, senza espressione. «L'ho letto»
Tornerà, e sarà morte e sangue e stridore di denti.
 
Haymicht aveva preso il primo sorso, prima di allontanare la bottiglia dalle labbra. Una risata senza senso aveva riempito l'aria.
Si voltò verso lo schermo. Il tributo dell'uno aveva affondato nel suo braccio quelle che sembravano forbici, e strappava via sangue e brandelli di carne, senza smettere di ridere.
Haymicht fissò la lama che entrava e usciva dalla sua pelle. Poi l'aggeggio metallico caduto sull'erba, tra il sangue e la neve. Il localizzatore. «Ah» biascicò.
Ripose la bottiglia sul tavolo, continuando a fissare lo schermo. Dovrei smetterla di bere.
 
 
 
Non era stata Hazel a sceglierlo. Non davvero, alla fin fine.
Lei sapeva benissimo quanto fosse idiota tutto quello.
Ma la fame sorda che sentiva invadere il suo corpo e la sua mente pezzo dopo pezzo, strappandola alla ragione, non le permetteva neanche di staccare gli occhi dalla pila di zaini al centro della radura, figurarsi di scappare.
Eppure, la cosa ancora più idiota era che in tutto quello, prima ancora della voglia feroce di darsela a gambe, ad aver tentato di dissuaderla era stato quel senso di dubbio e repulsione per sé stessa. La correttezza morale di un furto? In Arena? Cosa sta succedendo nella mia testa?
Hazel avanzò. Non vedeva nessuna sentinella, e non sapeva se ciò avrebbe dovuto rassicurarla o inquietarla. Avanzò, passo dopo passo, l’erba che frusciava sotto i suoi scarponi, il respiro che le raspava in gola, il tumulto incessante nel suo petto, il frenetico bisogno di ritrovare lucidità. Calmati. Calmati o morirai.
Si bloccò e un ansito le sfuggì dalle labbra, appena udibile, ma che alle sue orecchie suonò imperdonabile. Cinque sagome scure, cinque coperte. Non c’è nessuna sentinella. Ritrovò il controllo di sé stessa, aggrappandosi a quell’unico pensiero sensato.
La pila di zaini era così vicina che, istintivamente, Hazel sollevò il braccio tremante.
Non mancava che qualche passo, quando un tonfo secco spezzò la quiete dietro di lei. Hazel voltò la testa di scatto, e i suoi occhi si scontrarono con quelli del tributo nello stesso momento in cui due braccia le cinsero il busto da dietro, immobilizzandola. Hazel urlò, a metà tra un gemito e un urlo, prima ancora di realizzare.
Era quasi ovvio, nascondere la sentinella su un albero. Chiunque l’avrebbe fatto e chiunque avrebbe potuto capirlo, se solo non stesse morendo di fame.
«Non sono armata» riuscì a dire, in un sussurro soffocato.
«Io sì» Era una voce maschile. «Quindi sta ferma»
Hazel non tentò neanche di divincolarsi. Stette ferma, respirando piano, guardando gli altri tributi alzarsi dalle coperte, sagome appena distinguibili al brillio della luna nascente.
«Ha cercato di rubarci le provviste» disse la sentinella. Hazel rabbrividì nel sentire il suo fiato sul collo.
Distolse gli occhi dai suoi assassini, mentre la sua mente correva senza sosta, alla ricerca di qualsiasi pensiero. Non sono qui. Non sono davvero qui, non sono io. Non posso essere morta… Stava cercando di ricordare. Ricordare a cosa avrebbe dovuto pensare prima di morire, una situazione qualsiasi, un paesaggio qualsiasi, un volto familiare del suo distretto. Ma un lento oblio si stava facendo strada nella sua mente, e nel buio, un’unica domanda coerente. Perché non mi ha ancora ucciso?
«Cosa, cosa dovremmo fare?» cantilenò un tributo che non conosceva. Hazel seguì i suoi occhi, e lo trovò; quasi tutte le alleanze avevano un capo. La sua vita era nelle mani di un ragazzo alto, biondo, con una lunga cicatrice che gli spaccava le labbra.
«Ronnie» Non poteva essere la sua voce. Non così calma. «Ronnie Dalton?»
Il ragazzo annuì, facendo un passo incerto verso di lei. «Hazel Tunner» rispose, e nel suo tono non c’era ostilità. Ma non serve odiare per uccidere. «Xen è con te?»
Scosse la testa, provando a immaginarsi la sensazione di una lama nel petto, il freddo, il sangue. Non ci riusciva. Non dovrei star piangendo?
«Potremmo lasciarla andare» Hazel spostò gli occhi sulla ragazza che aveva parlato.
«Ester?» quasi sussurrò. Ci aveva parlato un paio di volte, all’addestramento. Lei ricambiò lo sguardo sgomenta.
«E farla uccidere dai Favoriti o... Morire di fame?» Il tono tranquillo del ragazzo che aveva parlato per primo. «Sì, mi sembra sensato»
«Liam...» Ronnie e lui si scambiarono un’occhiata che Hazel non riuscì ad interpretare, poi il capo tornò a guardarla. Un lungo brivido le fece percepire di essere ancora viva. Il terrore tornò a pulsarle ai margini della mente, mentre realizzava la minaccia implicita in quelle parole.
«Deve unirsi»
A dirlo fu una voce decisa ma sottile, inconfondibilmente di bambina. «E’ vero, non ha senso lasciarla andare, e non possiamo darle le nostre provviste» continuò la dodicenne. Hazel sentì che la morsa della sentinella sulle sue braccia si era allentata.
Più tutta la situazione perdeva senso, più la speranza attonita e imperterrita che cercava di scacciare ne acquistava. Ma con essa accresceva la tensione, fredda e bruciante. Un attimo, e divenne insopportabile.
Vi prego, ti prego, basta. Uccidetemi. Ma Hazel non lo disse. Perché la speranza le bloccava la gola. Coerente con me stessa fino all’ultimo.
 
 
«Questa non è un’alleanza come le altre» mormorò Ronnie. Non dire che avete giurato di non ammazzare tributi indifesi. Non dirlo... «Se saremo noi a resistere fino al termine dei Giochi nessuno ucciderà nessuno. Tutta Panem sa cosa abbiamo intenzione di fare»
E non nominò neanche famiglie o rischi. Liam lo guardò con un certo stupore.
«E’ una specie di rivolta?» mormorò Hazel. Dall’espressione, non sembrava trovarla un’idea geniale. Doveva essere più intelligente di quello che sembrava. «Siete… Agitatori di masse?»
Situazione interessante. E a giudicare dal silenzio che seguì, anche Ronnie doveva rendersene conto.
Ormai glielo avevano chiesto, e se la ragazzina non avesse accettato il messaggio ne sarebbe uscito piuttosto ammaccato. Liam incrociò le gambe, appoggiando la schiena al tronco. «Una cosa del genere»
Hazel fissava alternativamente Ronnie ed Ester, ed era chiaro quello che stava pensando. C'era da vedere se aveva il fegato di dirlo ad alta voce.
«E se rifiutassi?» sussurrò.
Liam lo notò mentre Ronnie si passava le dita sul collo, forse cercando di pensare. La sua mano tremava impercettibilmente. E se rifiutassi? Metteresti davvero il tuo egoismo davanti al destino del mondo e a qualsiasi valore di fiducia, speranza e sacrificio? Certo, buon martirio. Ciao.
«C'è sempre...» Ronnie alzò appena le sopracciglia, con un lieve sorriso triste. «La prima possibilità»
Il silenzio si prolungò a lungo. Liam osservò con curiosità gli altri membri dell'alleanza. Momo aveva le sopracciglia aggrottate e un'espressione indecifrabile, Alex guardava Ronnie confuso, le mani ancora strette sulle braccia di Hazel. Neanche Ester sembrava sapere come interpretare quella frase.
Il ché significa che forse ha funzionato.
Mentre Hazel stava esaminando quella che per lei poteva benissimo essere una minaccia di morte, per il resto di Panem era solo una decisione tra l'unirsi o il seguire l'alternativa di Ester. Credessero tutti a quello cui vogliono credere.
A giudicare dal pallore terreo sul suo viso, Hazel non sembrava avere il coraggio di chiedere precisazioni.
«Va bene» la ragazza abbozzò un sorriso «Va bene. Sono con voi»
Alex lasciò la presa, e Liam lasciò che la sua mente abbandonasse quella scena. Abbassò lo sguardo, chiedendosi cosa fosse inquietudine confusa che l’aveva invaso. Ripercosse quello che era successo, e cominciò a capire. Scosse la testa, scacciando quella sensazione estranea di smarrimento, eppure non  poté impedirsi di guardare Ronnie. In quel momento stava ridendo a una qualche battuta, mentre lanciava ad Hazel uno zaino. Pensavo esistessero due sole categorie di idealista.
Ronnie incrociò i suoi occhi e si avvicinò. Liam pensò che volesse offrirgli qualcosa da mangiare, invece si sedette accanto a lui.
«Non si fiderà mai, non dopo oggi» sussurrò, il tono abbastanza basso da sfuggire alle telecamere, soffocato dal vociare di Ester.
«Beh, non che ci fosse un’alternativa migliore» rispose Liam. Ronnie si limitò a un lieve sospiro.
«Stavi cercando di farlo anche tu?»
 Liam scrollò le spalle. «Doveva sentirsi o molto affamata o molto minacciata per unirsi. Tanto avrà l’opportunità più avanti per scegliere davvero»
Ronnie tacque. Liam inclinò la testa, gettandogli un’occhiata a metà tra curiosità e perplessità. «Non dirmi che ti stai sentendo in colpa»
Dopo un istante, lui scosse la testa. «No, non proprio, solo… Fino a ieri non mi credevo capace di una cosa simile»
«Neanche dopo aver ucciso un Favorito?»
Ronnie ebbe un lieve sussulto. «Già» Nella sua voce c’era un fremito impercettibile. «Magari è difficile cambiare opinione su di sé dopo sedici anni»
Liam si voltò verso di lui e per un attimo i ricordi lo investirono, togliendogli il fiato. «Non farlo» disse lentamente. «Non smettere di fidarti di te stesso, perché è il primo passo verso il fondo» indicò Hazel con un cenno. «Le hai allungato la vita. Magari ti puoi perdonare per aver accorciato quella di un altro»
«Tu l’hai fatto?»
Liam non immaginava neanche che Ronnie avesse potuto vedere chi era stato a dare il colpo di grazia. «Se lo sognassi di notte» mormorò prima di rendersene conto «Sarebbe un miglioramento rispetto alla media dei miei incubi»
Ronnie tacque un momento. «Sogni l'Arena?»
«Mio fratello» Trattenne un mezzo sospiro, sentendosi di colpo mortalmente stanco.
«Come si chiamava?» mormorò Ronnie, ma sembrò pentirsene quando il silenzio si prolungò. «Scusami, al tuo posto neanch'io vorrei parlar-»
«Si chiamava Geremy ed era un egoista, un bastardo e un idiota» lo interruppe Liam, pacatamente. «Ha speso tutti i soldi di famiglia in alcol e gioco, mentre io spendevo le mie notti a riguadagnarli e a trascinarlo fuori dalle bettole perché i nostri genitori non lo scoprissero. Io lo detestavo e lui detestava me, eppure restavamo fratelli, o almeno… Almeno così volevo sperare»
Lasciò che un sorriso triste gli affiorasse sul volto. Perché mi piace così tanto parlare senza motivo?
«Io speravo il contrario» Ronnie lo sussurrò. «Con mio padre»
Non si aspettava una replica. Liam lo guardò, e c’era un turbamento più profondo del dolore nel viso di Ronnie. «Vi odiavate?»
«E’ stato lui a sponsorizzarci. Non poteva essere nessun altro, e lui è ricco, molto ricco. Mi ha salvato la vita e io l’ho praticamente assassinato il giorno successivo»
Si alzò di scatto, forse per non dargli il tempo di assorbire quelle parole, forse perché neanche lui voleva farlo. «Avranno tolto le telecamere di mezzo. Bisogna parlare con Hazel»
«Ronnie» lo fermò Liam «Sei la persona più incredibile che abbia mai conosciuto»
 Quando non pensava, quando non voleva controllarsi, ogni cosa che diceva era fine a sé stessa. Liam si accorse che riusciva ad essere sincero su sé stesso solo quando nessuno avrebbe mai potuto capire. Chi sono diventato, ormai?
«Prima o poi riuscirò ad avere una conversazione normale con te» mormorò Ronnie. Gli porse una fetta di pane e Liam la afferrò. Casualmente, e per un attimo solo, le loro dita si toccarono.
 
Sollevò la mano davanti a sé, con lentezza. Il suo respiro tremava, le sue dita tremavano, un fremito freddo che si irradiava dalle braccia a tutto sé stesso, stordendolo, raggelandolo, lacerandolo.
Liam chiuse gli occhi. Chiuse gli occhi, ma restò il calore sul suo palmo, viscido, malsano.
Chiuse gli occhi, ma restò vivido e feroce dietro le palpebre il colore del sangue.
 
Percepì una scossa attraversargli l’avambraccio, una stilettata di panico confondere la realtà. Riaprì gli occhi e si accorse di aver ritirato la mano di scatto. La guardò un istante ancora, cercando di regolarizzare il ritmo del respiro, poi incrociò lo sguardo di Ronnie. «Ma…»
Liam raccolse il pane e scosse la testa. «Scusa, alcune volte mi capita»
Non alcune volte. Con alcune persone. Ronnie esitò. «Liam, va tutto bene?»
«No, affatto» replicò all’istante. «Vai, non sprecare tempo. Nessuno sa quanto ce ne rimane»
Vattene. Mentre Ronnie si allontanava, appoggiò la testa al tronco e lasciò che il dolore si tramutasse in amarezza e poi svanisse, come sempre. Eppure lo sentì, per un attimo soltanto, il desiderio di trattenerlo. Abbandonarcisi, e provare a tornare sé stesso almeno un’ultima volta.
 
 
Ronnie non aveva mai sperimentato la sensazione di non sostenere lo sguardo di qualcuno, e avrebbe preferito non farlo mai. Ogni volta che incrociava gli occhi di Hazel un gelo viscido gli scivolava lungo il collo unendosi al mal di testa.
Per l'ennesima volta, distolse i suoi. «Ester?» chiamò. Doveva solo pregare che nessuno schermo li stesse riprendendo, in quel momento, mentre la portava in disparte – tanto gli strateghi non avevano interesse a render pubblica quella conversazione.
«Parla con Hazel, per favore, e spiegale il resto del piano. Se non sbaglio aveva una famiglia»
Ester aggrottò appena le sopracciglia, pensierosa. «Dovresti farlo tu»
«Dovrei. Ma di tutti noi sei tu quella di cui si fida di più.» e io quello di cui si fida di meno.
«Ronnie» disse Ester. «Che cosa hai fatto?»
Non c'era tono d'accusa, nella sua voce. Ma la stessa paura irrazionale di prima lo fece esitare.
«Non lo so. Ho agito d'istinto e il risultato è stato un'idiozia, probabilmente, ma ha funzionato»
La sua mano destra si posò sulla tempia, mentre realizzava cosa aveva appena detto. Il mio istinto non sarebbe mai stato minacciare di morte, prima di entrare qui dentro.
Ester lo fissò, senza biasimo. Solo incredulità. «Non penso che ci tradirà» mormorò alla fine.
«Starà pensando di scappare uno di questi giorni. Per questo deve sapere subito che c'è una possibilità – e che non l’avremmo uccisa in nessun caso»
«Sì, glielo dirò» accennò un sorriso. «Una volta saputo tutto vorrà accettare»
«Oh, nel caso non volesse» aggiunse Ronnie «Avvisala che ho intenzione di dormire durante il mio turno di guardia»
Il sorriso di Ester si ampliò, divenne una mezza risata. «E non ti senti in colpa?»
Il ricordo della conversazione precedente tornò, impedendogli di rispondere a tono. «Mi porto dietro Liam e vado a caccia» decise in quel momento «O il prossimo tributo che cercherà di derubarci non troverà niente»
«Sarebbe scortese» concordò Ester, ma il sorriso le scivolò via dal volto quando lui si chinò per prendere l’arco.
«C'è un'altra questione di cui ti volevo parlare. Hai presente quella cosa chiamata coesione di gruppo? Fiducia, amicizia, equilibrio, rispetto e cose così.» Ronnie sorrise, gettandosi la faretra sulle spalle. «Essenziale, no? Devo lavorarci ancora un po'. Per esempio, cosa dovrei fare se un membro è convinto di avermi piantato una freccia nel fianco e ogni volta che mi fa male mi guarda... Come mi stai guardando tu adesso?»
Ester schiuse la bocca, sorpresa, ma riuscì solo a fare un passo indietro. E Ronnie coprì di nuovo quella distanza, spietatamente. «Non lo sopporterò ancora a lungo, Ester. Facciamo un patto? Se tu non…»
«Eri morto!» sibilò lei, nello sforzo di non alzare la voce. «Capisci cosa vuol dire? Ho messo in pericolo tutta l'alleanza perché mi sono comportata da stupida, e ho discusso una tua decisione. E poi quello… E poi quello che ho detto non aveva senso, risparmiarlo sarebbe stato come rimandare la sua morte o come uccidere qualcun altro al posto, se avesse vin...»
Ronnie la fermò con un gesto della mano. «Non è colpa tua se sei migliore di tutti noi»
«Era l'unica cosa sensata da fare» mormorò Ester, con un filo di voce.
«Certo che era l'unica cosa sensata da fare» Ronnie sbuffò amaramente, senza smettere di sorridere. «Ma nessuna persona decente sarebbe riuscita a farla. Non sarebbe riuscita a non esitare. Non sarebbe riuscita a capirlo»
«Io...» Ester sbatté le palpebre, gli occhi lucidi, e non continuò.
Così lo disse. Piano, per attenuare il dolore. «Tu sei sprecata per questo mondo»*
Senza aggiungere altro, Ronnie si allontanò, le dita contratte intorno all'arco.
 
 
 
Cambiare zona di caccia. Quando Scarlett l'aveva proposto, non era ben chiaro se si riferisse alle provviste o ai tributi, ma a Samuel non interessava più di tanto. Qualche tributo in meno in arena avrebbe migliorato il suo umore quanto qualcosa in più nello stomaco.
«Per essere grossi, sono grossi» disse Stephen.
Samuel arcuò le sopracciglia, osservando uno degli ibridi che costeggiava il canale. «Quasi preferivo i camaleonti»
Era qualcosa di molto simile a un dinosauro, con zampe corte e massicce, il muso a scaglie allungato e due piccoli occhi scuri incastrati ai lati. Stava brucando l'erba rada a qualche metro dal canale, dove la coda corazzata di un altro, lunga ed elegante, solcava la lava. Non avevano un'aria chissà quanto pericolosa, ma erano ovunque, macchie nere che spiccavano nel verde e nel bianco. E più ci si avvicinava al canale, più se ne incontravano.
«È come se li avessero messi di guardia a qualcosa» disse Scarlett.
«A una distesa di terra bruciata, lava e desolazione» Stephen sospirò. «Ottima zona di caccia, Scarlett»
«Beh, io vedo prede ovunque» replicò lei, atona.
«C'è una buona possibilità che siano illusioni» rifletté Samuel. «Una ottima possibilità che non siano commestibili. E una discreta possibilità che ci uccidano tutti»
Alzò un angolo della bocca. «Scarlett, perché non gli tiri una freccia?»
Stephen si riscosse un'istante troppo tardi, staccando gli occhi dall'ibrido a lui. «Aspetta, cos'hai detto?»
La freccia saettò nell'aria, scendendo con un’elegante traiettoria a parabola, prima di abbattersi sul collo del mostro. Cadde a terra rimbalzando sulla corazza, e il Guardiano sollevò il muso da terra, voltandolo verso di loro.
«Niente» rispose Samuel, portando una mano sulla spalla. Sfoderò la falce.
«La morte più stupida in cinquantuno edizioni» mormorò Stephen.
«Quella è una possibilità»
«E l'altra?»
«La vittoria più gloriosa» rispose Scarlett.
«Speravo quasi che fosse fuggire» Stephen trasse un respiro profondo. «Okay, prima di tutto lasciamoci seguire più lontano. Qui ce ne sono troppi»
L'ibrido aveva cominciato a caricare verso di loro. Non era troppo veloce, forse meno di un Favorito in corsa, ma aveva un'aria ben più minacciosa di prima. Le sue zampe si abbattevano sul terreno come massi, sollevando ali di polvere.
Samuel cominciò a indietreggiare senza voltare le spalle al mostro, ma quest'ultimo frenò la carica nello stesso momento. Le scaglie sul suo corpo si rizzarono, disponendosi a corona intorno alla testa. Un ruggito penetrante e prolungato scosse l'aria.
Adesso, sì, sembrava minaccioso.
«Le placche della corazza sono abbassate sulla pelle se non è sotto attacco, quando nuota, per difenderlo dalla lava» rilevò Stephen, in fretta. «Magari negli interstizi tra le scaglie è vulnerabile»
«Non sembra voglia seguirci» disse Samuel.
L'ibrido si era fermato a una quarantina di metri di distanza da loro, continuando a fissarli, con le fauci aperte.
«È un guardiano, no?» mormorò Scarlett.
«E sia, ci toccherà combattere vicino al canale» Stephen continuava a non sembrare entusiasta dell'idea, ma ormai era troppo tardi. I Favoriti non potevano tirarsi indietro davanti agli sponsor.
«Bene» continuò Stephen «Qualcuno deve distrarlo, fare da esca. Mentre gli altri due lo attaccano dai lati dove vi ho detto»
«Ah-ha» disse Samuel. “Chi sarebbe l'esca?»
«Qualcuno che non abbia armi utili. Come un arco e...»
Scarlett sbuffò. «Gli artigli li tengo, non danno fastidio. Ma datemi quella spadina»
«Kopis» corresse Samuel «Si chiama Kopis»
Stephen guardò l'ibrido in lontananza con un lieve sospiro. «Se mi farò mangiare... Sentitevi in colpa»
 
 
Le onde sfioravano la sabbia con uno sciabordio lento, delicato, dolce e freddo.
Un torpore strano partiva dal dolore sordo alla bocca dello stomaco, irradiandosi vero la gola bruciante per l'arsura, raggiungendo il morso delle ustioni che gli divorava la gamba. Il dolore c'era, ma era lui ad essere altrove.
Non voleva aprire gli occhi. La nebbia che lo avvolgeva era tiepida. Percepì il calore della sabbia sotto di lui.
Non era un brutto posto dove morire.
Bastava aspettare, con solo l'inarrestabile canto del mare ad ancorarlo alla realtà.
Fino a quel momento era sopravvissuto per paura. Paura di morire.
Sdraiato su quella spiaggia, Xen non aveva paura.
Fino a quel momento, era sopravvissuto per dovere. Un ordine cui era troppo debole per sottrarsi.
Xen non aveva paura.
Le onde si susseguivano imperturbabili.
Aprì gli occhi e il dolore gli assalì la mente. Rabbrividì, sentendo la carezza gelida dell'acqua lambirgli la caviglia ustionata.
Davanti a lui, la sabbia era scura. Poteva vedere uno spicchio di cielo, dietro il telo di un paracadute argentato che si gonfiava nel vento.
Xen ricordò la sua casa, il suo distretto, il topo e il gatto a cui dava da mangiare. E si rese conto che adesso erano quelli i ricordi intrisi di irrealtà, non l'Arena, non il mare, non il rosso della lava.
Capì che se si fosse rialzato, non sarebbe stato più il bambino che aveva terrore dei fulmini. Se si fosse rialzato, non sarebbe stato per nascondersi.
Non avere paura significa poter scegliere.
Xen socchiuse gli occhi. Stava per chiuderli di nuovo, invece si limitò a sbattere le palpebre.
Se si fosse rialzato, non sarebbe stato per sopravvivere.
Stese il braccio, artigliando la sabbia ruvida, e non gemette quando le gambe gli mandarono una fitta di dolore.
Sarebbe stato per vincere.
Xen fece leva sui gomiti, si tirò su.
 
 
L'ibrido indietreggiava.
Con la bocca sempre aperta, le piastre quasi del tutto abbassate, nero contro il sole, l'ibrido indietreggiava.
Scarlett continuò ad avanzare, chiedendosi solo per un attimo cosa l'avesse spinta a lanciare quella freccia. Dopotutto, era per quello che si era offerta. Per vincere, certo, ma prima di tutto per combattere.
Ma quella logica sembrava avere molta poca importanza, mentre fissava l'ibrido che arretrava lentamente e il brutto presentimento che sentiva aumentava passo dopo passo.
«Sta scappando?» mormorò, stringendo inquieta la presa sul kopis.
«Nessun ibrido è programmato per scappare» sbuffò Stephen «Suppongo sia più intelligente di...» Si bloccò. «Non sentite qualcosa di strano?»
«Sentire cosa?» chiese Samuel.
Scarlett tossì e si scostò un ciuffo di capelli che il vento le aveva trascinato sul volto, poi sgranò gli occhi.
L'ibrido aveva smesso di indietreggiare. Chinò la testa, e il lunghissimo corno nero si abbassò contro di loro. Ruggì di nuovo, un verso più forte e basso del primo, e le scaglie si rizzarono intorno al suo collo in un'esplosione di acciaio nero.
Poi si chiusero di scatto, e cominciò a caricare.
«Okay» disse Stephen, senza arretrare «Sì. Samuel, vai a sinistra, io a destra. Scarlett, non... Farti ammazzare»
Scarlett fissò la punta del corno che si avvicinava istante dopo istante, fece un mezzo passo indietro e buttò fuori l'aria dai polmoni.
L'ibrido lanciò un secondo ruggito, sollevando appena le scaglie, e Scarlett poté guardarlo negli occhi. Scuri, opachi, inespressivi, terribilmente vicini.
«Ora!» fece Stephen. I due Favoriti scattarono ai suoi lati, e in un attimo Scarlett fu sola di fronte al mostro, la terra che vibrava per l'impeto della carica.
Scivolò di lato a un soffio dal farsi trafiggere. L'ibrido frenò con un ringhio gutturale, riabbassò le scaglie e Scarlett si preparò al secondo attacco.
Invece, l'enorme muso dell'ibrido si diresse verso Stephen. Un tridente era affondato nel suo fianco.
«Guardami in faccia, bastardo!» Scarlett gli sferrò un colpo secco con il kopis sul collo.
Rimbalzò inutilmente sulle piastre della corazza, e una stilettata di dolore le risalì il braccio; scattò all’indietro incespicando e le zanne del mostro si chiusero schioccando a una spanna da lei. Indietreggiò. Il corno si drizzò verso il suo viso, gli occhi neri si piantarono nei suoi.
Scarlett abbassò la spada, l'impugnatura viscida dal sudore, e continuò ad arretrare. Alza quelle piastre, alza quelle piastre... Le zampe del mostro avanzarono lente nella sua direzione, il muso si tese verso di lei, e Scarlett ne fu certa. Sarebbe stata la sua prima preda.
Nello stesso istante in cui le scaglie scattarono in alto, lo stesso in cui il corno si abbassò pronto alla carica, un soffio di vento le inondò le narici di un odore pungente, inconfondibile. “Non sentite qualcosa di strano?”
Il suo sguardo saettò sul canale di lava alla sua destra, un'ondata di spaventosa consapevolezza le mozzò il respiro.
-Via da qui!- gridò Stephen. Ma l'aria divampò, e le sue parole furono divorate dal boato del fuoco.
 

Xen bevve l’ultimo sorso dalla borraccia, poi se la gettò alle spalle. Non aveva più una cintura, e in ogni caso non poteva permettersi altro peso.
Sapeva che difficilmente il suo Distretto avrebbe mai sponsorizzato un dodicenne senza possibilità, perciò doveva essere stato un capitolino impietosito. Forse qualche giorno prima avrebbe ringraziato quello sponsor insperato, ma ora seppe di odiarlo più degli altri. Tutti loro l’avevano portato dov’era, e aiutarlo era solo un’orribile beffa, una macabra derisione.
Scavalcò un tronco spezzato, carbonizzato per metà. Non sapeva con quale forza riuscisse ad andare avanti, ma lo stava facendo, con la fame che gli squarciava la mente. Era diversa da quella cui era abituato, lieve, incostante e sopportabile: quella era una fame dura e atroce che gli attanagliava il ventre come pugnalate ininterrotte.
Se si fosse fermato, non sapeva se sarebbe riuscito a continuare la marcia. Se avesse continuato la marcia, le gambe avrebbero ceduto presto. Se le gambe avessero ceduto, sarebbe morto nello stesso punto dove sarebbe caduto.
Sollevò gli occhi all’orizzonte. Il bosco, oltre la curva scintillante del canale di lava, era ancora lontano. C’erano quattro ibridi a intervalli regolari, quegli ibridi mastodontici e tutto sommato miti, ma troppo vicini tra loro perché potesse passarci in mezzo senza essere caricato.
Doveva mangiare, e in fretta, ma per mangiare doveva attraversare. Xen lasciò vagare i suoi occhi e si sforzò di pensare.
Gli ibridi attaccavano se ci si avvicinava al canale, l’aveva imparato a sue spese, ma non si allontanavano mai molto da esso. Poteva spingere quello più a destra a caricare verso di lui e trascinarlo lungo la striscia di lava, lontano dagli altri, per poi correre di nuovo in quella foresta bruciata e attraversare. Il Guardiano non l’avrebbe inseguito per molta strada; doveva solo essere più veloce di lui nel primo tratto.
Alla fine, Xen si fermò. Non gli ci volle molto per capire che quella era l’unica alternativa sensata che gli rimaneva. Quella, o morire di fame.
Si fermò perché se davvero in lui c’erano abbastanza energie per due corse e un salto – da un lato
all’altro del canale – ne avrebbe avuto bisogno fino all’ultima stilla.
Si forzò a respirare lentamente, e chiuse gli occhi. Interrogò il proprio corpo, e si rese conto che la fatica si era dissolta, lasciando solo uno strano formicolio e una percezione calda e pulsante.
Sapeva il perché. Quando non ha alcuna speranza di sopravvivenza, il corpo annienta il dolore, smette di forzare la mente al risparmio, e concentra ogni forza per l’ultimo atto. Quello era l’ultimo atto.
Ho tutto me stesso per portarlo a termine.
Non sarebbe morto di fame.
 
 
Era un sibilare sordo, un ronzio continuo, che echeggiava e si disperdeva nell'aria inghiottendo qualsiasi altro suono, qualsiasi altra cosa.
Oltre il sibilo, oltre il drappo infuocato del bagliore che riempiva il mondo, bianco e oro, oro e bianco, nebbie di realtà oscillavano e si confondevano come la fiamma incerta di una candela.
Due mani, le dita affondate nell'erba e affilate, deboli lingue di fuoco che danzavano tra i fili verdi, a squarciare la cortina della luce con la luce.
Le sue mani. Samuel lo capì.
L'aria che gli entrò nei polmoni era fumo, gas e sibilo.
Quando si rialzò, il vortice dei colori si oscurò e poi tornò a cangiare, ma lentamente, una lentezza ipnotica, incessante danza tra cielo, erba, fuoco e pilastri di fumo che lambivano i contorni di ogni cosa. Il mondo che scorreva piano nel sibilo, uno scorrere fluido e incerto, come un respiro morente.
Accanto a Scarlett che si contorceva a terra in un bozzolo di fiamme, Samuel vide la falce e si chinò su di essa. Sentiva l'elsa bruciare come un cristallo di fuoco tra le sue dita, e allo stesso tempo non sentiva niente.
L'ibrido davanti a lui sfumò in una macchia nera, sbandò, tornò al suo posto.
Samuel alzò la falce e l'urlo echeggiò nell'aria senza spezzare il sibilo, mentre l'orizzonte oscillava, cielo e terra, cielo e terra.
Forse era il suo, di urlo. Forse no. Samuel non sapeva che importanza potesse avere.
La lama guizzò con lentezza irreale tra le piastre, facendo leva per incastrarsi più a fondo. Le scaglie si sollevarono del tutto e un ruggito scosse l'aria - ma quella volta, Samuel ne era certo, non era stato lui. Il sibilo fremette e si incrinò, poi riprese, meno forte, cominciando a scemare.
Divelse la falce. Le piastre ora erano completamente sollevate, e il sangue brillava, sbiadiva e poi brillava di nuovo.
Samuel piantò il piede su una scaglia, fece forza e si tirò su. L'orizzonte oscillò verso di lui, poi tornò piatto, quietamente, senza vertigini.
Sulla groppa del mostro, vide Stephen che cercava di rialzarsi - nessuna fiamma, lui, ombra avvolta dalle lame di luce che si sprigionavano da ogni cosa - e lo fissava con gli occhi sgranati.
Posizionò la punta della falce verso il basso, le dita di entrambe le sue mani si avvolsero attorno all'elsa incandescente. L'ibrido si mosse in avanti verso Stephen, lanciò un altro ruggito - l'ultimo. Avrebbe dovuto essere un ruggito feroce, agonizzante ma feroce, un boato da far tremare l'aria, che le imprimesse il marchio indelebile della morte. L'ultimo ruggito, che echeggiava nel silenzio, padrone di tutto, almeno per un istante.
Invece, Samuel urlò più forte.
Un attimo prima di affondare, si vide riflesso nella lama, un bagliore tenue, opaco. Sul suo petto, a lambirgli la tuta, guizzavano piccole luminescenti lingue di fuoco. Ne sentì lo sfrigolio contro la pelle - e sì, realizzò, faceva caldo.
Poi la falce calò, in un'esplosione di sangue bollente da sotto i suoi piedi, e calò ancora, più a fondo, sempre più a fondo.
Il mostro si accasciò al suolo.
Il sibilo si spense.
 
 
L’ibrido era morto. Morto non rendeva l’idea.
L’ibrido era stecchito, stramazzato a terra in mezzo a un terreno di ceneri ed erba carbonizzata. Xen aveva sentito l’esplosione mentre correva per allontanarne uno, e tornato lì ne aveva trovato un altro – quello più vicino, quello che ora aveva lasciato il passaggio libero – in un piccolo scenario infernale di fumo e sangue. Il gas era ancora nell’aria; venuto a contatto con la lava, doveva esser stato la causa di tutto.
Xen non riuscì comunque a non fissare l’ibrido allibito, con ancora il cuore che gli martellava le tempie a ritmo forsennato e la vita che gli fuggiva via ad ogni battito.
Qualunque possibile colpo di cannone sarebbe stato coperto dal boato. Il tributo che l’ibrido aveva preso d’assalto – sempre che non fosse stato un qualche incidente - era probabilmente morto. Non può che essere morto.
Nell’aria c’era odore di carne bruciata. Arrivava persino a lui, trasportato nel vento, trasportando nel vento ricordi di una vita prima. Un arrosto di vitello, un’unica sera, dopo la vittoria del Distretto 6 e gli aumenti degli stipendi. L’illusione che, forse, qualcosa da sperare sarebbe sempre rimasto. Qualcosa per essere felici.
Insopportabile. Invincibile.
Xen corse verso l’animale, poi smise di correre e cominciò ad arrancare. L’odore cominciò a portarsi dietro calore, un calore che non era quello feroce delle ustioni che gli ardevano sulla gamba destra né quello spietato di una foresta in fiamme. Il tepore semplice e fermo di un fuoco nel camino, del braccio di sua madre che gli cingeva le spalle.
Di nuovo l’irrealtà seguì quei pensieri e confuse il suo mondo. Come se la sua vita fosse diventata prima un ricordo e poi un sogno, e come un sogno arsa in cenere.
Se non avesse bevuto l’acqua della borraccia, forse gli occhi non gli si sarebbero mai riempiti di lacrime di speranza, forse sarebbe sopravvissuto. Perché forse avrebbe potuto distinguere il movimento, vedere la testa del Favorito alzarsi da dietro la carcassa prima che il Favorito vedesse lui. Forse.
Il Favorito vide e sul suo volto passò lo stupore.
Anche Xen vide. Avrebbe potuto, avrebbe dovuto capirlo, che sarebbe stato meglio aspettare l’Hovercraft per avere la certezza che non ci fosse nessuno vivo.
Forse aveva capito; ma la certezza è duro acciaio. La fame era da sempre più forte  – persino la fame di una speranza bruciata, persino quella della sua memoria.
«Oh, ma dai» imprecò piano il Favorito. E sollevò il tridente.
Xen si asciugò le lacrime con la manica. Tutto divenne più chiaro.
Non sarebbe morto di fame. 




* "Tu sei sprecato per questo mondo", lo dice Honoré a Ronnie nel flashback nel capitolo L'unica verità. (Tratto dalla scheda della creatrice, tra l'altro)







N.d.A_________________________________________

Scaletta dei morti:
Xen Miranx, Distretto 6
 
Scaletta dei malati, feriti, bisognosi, morti di fame, senza tetto etc
Scarlett Jackson, Distretto 2
Samuel Narper, Distretto 2

Buonsalve, lettori, sono contenta che qualcuno di voi sia rimasto a leggere queste note. Ho parecchie cose da dire e cercherò di riassumere, per vedere se le mie capacità riassuntive in quest'annetto sono migliorate o no.

a) Sì, ho ripreso la storia, perché ormai mi ci sono affezionata e non me ne libererò molto facilmente - in più, non sono neanche in alto mare. Quanti capitoli possono mancare? Sparando un numero a caso, direi sette.
b) Mi dispiace per aver reso vana la sponsorizzazione di Xen, ma era così nei guai da aver bisogno di un altro lancio di monetina riuscito per farcela - dopotutto, visto che i Favoriti stavano scendendo un canale e lui ne stava risalendo uno, era probabile che si trattasse dello stesso. Ringrazio comunque Claireroxy che mi ha permesso di farlo morire in modo più bello e più triste. Mi mancherà il piccolo Xen.
Visto che non so se si capisce tutto, spiego: gli ibridi non sono soltanto sul "cerchio" di lava che deve oltrepassare per arrivare al bosco non bruciato e mangiare, ma anche intorno ai raggi di canali che vanno dal cratere al mare - è lì che ha già "imparato a sue spese" il loro comportamento durante la marcia. Oh, e gli ibridi emettono gas dalla bocca; appena la nube raggiunge il canale kaboom.
Infine, Xen non vede i Favoriti in tempo perché Stephen ha trascinato gli altri due praticamente inconscienti accanto all'ibrido, per nasconderli almeno in parte finché non si fossero ripresi. E Xen è capitato dal lato sbagliato.
c) Scarlett e Samuel sono andati a fuoco, ya, ma non sono morti, hanno solo un po' - un po' tante - ustioni gravi e un aspetto alquanto terrificante.
d) Mi rendo conto che il dialogo di Ronnie e Liam è pesante, ma non avevo scelta. Tutto quello che si dicono era essenziale e se non così avrei dovuto parlarne in parecchi pov. Oh, e se non avete capito un accidenti di cosa sta succedendo nella testa di Liam ne avete tutte le ragioni - non ho ancora scritto la sua visione del mondo, che è frutto di una riflessione lunga e complessa, e che Ronnie gli ha praticamente sfracellato con una sola frase.
e) Volevo inserire qualcosa del passato di Gehenna, perché tutti quei dettagli della scheda sono squisitamente inquietanti e non volevo buttarli via. E se si è tolta il localizzatore vuol dire che non la vedrete più sulla mappetta u.u che cosa malvagia.
f) Il prossimo capitolo sarà corto (stavolta davvero), a cinque pov non ci arrivo. Ma sarà abbastanza esaltante da scrivere, succederanno un paio di belle cose (beh, dipende dai punti di vista u.u)
Nel frattempo, ciaociao. *Fa ciaociao con la manina*



 
.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2408286