Frammenti - Nives Frost

di Levyan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Frammenti - Orizzonte ***
Capitolo 2: *** Frammenti - Cold As Ice ***
Capitolo 3: *** Frammenti - Lost In The Echo ***
Capitolo 4: *** Frammenti - New Day ***



Capitolo 1
*** Frammenti - Orizzonte ***


Orizzonte

Frammenti - Orizzonte

 

Frammenti.
Deboli soffi di vita nella violenta tempesta che è l’esistenza. A volte destinati a sparire, a volte pronti a moltiplicare. Come un soffio di vento trasporta il polline che andrà a fecondare un'altra pianta dalla quale nascerà la vita, alcuni momenti, per quanto brevi, danno il via a qualcos’altro, qualcosa di più grande.
 
L’aria era fredda, il gelido inverno era alle porte e i sempreverdi costellavano i boschi innevati che circondavano la cittadina di Nevepoli. Quell’anno, le grandi nevicate erano arrivate prima e già, il ventesimo giorno di dicembre, i fiocchi di neve scendevano copiosi sui tetti della città.
Lo spettacolo che davano quelle minuscole e complesse opere d’arte di cristalli di ghiaccio, passando di notte sotto la luce dei lampioni per poi andare a posarsi a terra sciogliendosi, era qualcosa di meravigliosamente inquietante. Un gelido calore pervadeva le strade, ridotte ormai a soffici torrenti di neve.
Nell’attimo in cui le lancette scoccarono le due, un forte vento iniziò a soffiare rompendo il mistico silenzio diffusosi in ogni piccolo anfratto di Nevepoli.
La bufera imperversò per tutta la notte, andando a scemare solamente di  prima mattina, quando il sole iniziava a fare capolino al di là della Via Vittoria. Una debole calura prese a diffondersi nelle strade mentre la luce emanata dalla stella, riflessa e amplificata dal ghiaccio, pervase tutta la regione di Sinnoh.
 
- Vieni, Glaceon!
Il volpino celeste si trovava a proprio agio a correre affondando le zampe nella neve.
- Dai corri!
Il Pokémon Nevefresca era intento a tenere il passo con la sua Allenatrice. La ragazza, protetta dal freddo solamente da una giacca blu scura di due taglie più grandi, un paio di stivali bianchi ed una sciarpa dello stesso colore stretta attorno al collo, correva libera tra le sterpaglie innevate del bosco appesantita solamente da una borsa tutta rovinata dello stesso colore della giacca.
Finalmente raggiunse il luogo che cercava, un piccolo promontorio sul versante est del Monte Corona. Immersa nella solitudine, nel silenzio, nella calma, salì su un albero parecchio alto che spiccava sul punto più rialzato di quel luogo magico. La scalata non fu difficile, soprattutto per lei che aveva anni di esperienza nel campo. Si posizionò in mezzo a due rami che le fecero da branda permettendole di tenere lo sguardo fisso verso l’orizzonte e assicurò la pesante tracolla su un ramo vicino. La luce del sole la avvolgeva con un caloroso abbraccio e la faceva sentire protetta e accolta.
Si sentiva bene, si sentiva come non si era mai sentita prima. Né con la sua famiglia né con le maestre o tantomeno con i suoi compagni, stava bene solamente con i suoi Pokémon, loro non la picchiavano, non la trattavano male, non la discriminavano come invece facevano tutti gli altri.
Già. Tutti gli altri. Forse, era proprio a causa di queste esperienze che non era mai riuscita a trovare nulla di buono nelle falle della sua vita fatta di solitudine comunemente etichettate come “gli altri”. Le erano stati appioppati aggettivi vari: “sociopatica”, “inquieta”, addirittura “disagiata”, “asociale” ma il più delle volte “strana”. Lei era Nives Frost, quella strana.
Lei era strana perché non si trovava a suo agio con gli altri. Va bene, ma era un problema? Molto probabilmente sì, ma a lei non importava.
 
- Hai visto che bello? - Chiese con voce atona al suo Pokémon riferendosi al roseo spettacolo a cui stavano assistendo.
Quello, per tutta risposta, le si aggomitolò sulle ginocchia. La pelle della ragazza fu scossa da un brivido al momento del contatto con il pelo di Glaceon, il finissimo manto gelido della volpe le diede come l’impressione di star carezzando un ghiacciolo.
La scena era melodiosa, il colore della pelle chiarissima delle sue gambe scoperte era tutt’uno con la splendida pelliccia di Glaceon, i suoi corti capelli color indaco, arruffati e spettinati, le davano un aspetto ribelle e poco raccomandabile, ma il tutto era smentito dai suoi occhi, riflesso del suo carattere calmo e silenzioso, chiuso ed introverso. Il suo volto magro era quasi sempre contorto in un’espressione indecifrabile che era tutto tranne che un sorriso. Lo stesso Glaceon l’aveva vista esprimere gioia pochissime volte, ma un’espressione che non traspariva emozioni, atona, vuota.
 
Mentre Nives, sulla cima dell’albero, insieme al suo Pokémon, si godeva la silenziosa mattinata, da dietro il tronco su cui era adagiata sbucò fuori una strana sagoma.
- Froslass! - Esclamò Nives appena accortasi della presenza.
Il Pokémon Suolneve fluttuò verso la ragazza per disporsi vicino a lei silenziosamente.
- Sarei venuta io a chiamarti, ma sono felice che tu sia qui! - Disse senza esprimere quella fantomatica gioia di cui parlava.
Froslass emise una specie di sospiro gelido acutissimo, quel verso piaceva così tanto a Nives.
- Sono fuori, posso andarmene dall’orfanotrofio... - balbettò con la voce che sembrava quasi un sospiro. - Volevo dirti una cosa...
Froslass la guardò come per dare un segno della sua attenzione.
- Penso che sia il caso di andare da qualche parte... di viaggiare, di incontrare gente nuova... - abbozzò. - ...che ne dici di venire con me e Glaceon? - Chiese poi.
Il Pokémon Suolneve, stupita dalla notizia, prese a fluttuare in aria con leggiadria lasciando scintille di ghiaccio al suo passaggio.
Nives ammirò quello spettacolo. Poche volte aveva visto Froslass così contenta. La prima volta che, fuggita dalle maestre dell’orfanotrofio, si era nascosta su quell’albero, quel Pokémon le aveva risparmiato una probabile morte, lei aveva perso l’equilibrio ed era caduta, era normale, aveva solo dieci anni. Per fortuna, l’intervento del Pokémon Suolneve era stato vitale. Da quel momento, ogni pretesto era divenuto buono per lasciare le maestre con un palmo di naso per dirigersi in quel luogo meraviglioso e guardare l’alba assieme ai due Pokémon. Non le era permesso tenere Froslass dentro l’orfanotrofio, quindi poteva incontrarsi con lei solo fuori.
 
“Continui a nasconderti?”
La piccola Nives si rintanava sempre di più nello stretto angolo tra il muro della sua camera e il guardaroba.
“Guarda che ti trovo...”
La voce dell’uomo era inquietante. I suoi passi si facevano sempre più vicini. Il cuore della bambina mancava di un battito ad ogni minaccia pronunciata dal suo aguzzino.
“Vieni fuori...”
Nives si accorse di star mordendo il bordo della sua manica destra. Quando lo tolse dalla sua bocca, non poté fare a meno di notare una macchia rossa rimasta sul tessuto chiaro della sua felpa. Si portò le dita al labbro superiore per poi spostarle davanti ai suoi occhi, appurò le sue ipotesi. L’aveva colpita così forte?
“Eccoti!”
Davanti a lei comparve l’imponente figura di quell’uomo grassoccio e dalla barba di qualche giorno. La sua camicia intrisa di sudore emanava un fetore allucinante e le sue mani bramose si allungavano febbrilmente verso il corpo tremante della bambina.
“Papà, no, per favore! Non voglio!”
La mano sudaticcia dell’uomo la afferrò all’avambraccio appena sotto il polso. Quello le diede un violento strattone costringendola ad alzarsi.
“No, papà!”
Il genitore la prese di peso e la portò fino al suo letto. Le sue sporche mani la toccavano ovunque e il suo corpo veniva lentamente profanato e il suo spirito sporcato in maniera permanente. Per la terza volta.
Aveva da poco compiuto dieci anni.
 
Non vedeva i suoi genitori da anni. Ma non rimpiangeva la loro assenza. Non le mancavano le botte e gli insulti di sua madre e suo padre. L’orfanotrofio era un luogo insignificante. I bambini erano quasi tutti più piccoli di lei e nessuno era interessato a farle del male. I pochi ragazzini della sua età la ignoravano e le poche volte che la importunavano, lei riusciva sempre a scamparla. Le sue compagne di stanza erano sempre state delle ragazzine anonime che se ne erano andate dopo poco tempo. Lei invece no, lei era rimasta in quel maledettissimo orfanotrofio per anni, tutte le famiglie portavano a casa le altre bambine.
Lei era troppo grande, lei non rideva, lei non adorava i Pokémon carini e dolci, lei non faceva amicizia facilmente.
 
“Nives... sai che è un bellissimo nome?”
Gli occhi color indaco della ragazzina sembravano vergognarsi di rimanere aperti a fissare il vuoto.
“Chi ti ha dato questo nome?”
Nives alzò lo sguardo. La donna dai capelli castani la guardava con fare affettuoso aspettando una risposta. Accanto a lei, un uomo dai capelli ingrigiti dal tempo sorrideva spensierato.
Tra lei e i due coniugi c’era un muro insormontabile. E la scrivania che li separava ne era la prova.
Ad ogni frase della donna, Glaceon, accovacciato a terra accanto alla gamba della bambina, trasmetteva un brivido alla pelle candida di lei.
“Allora?” Fece smielata la donna.
Nives la guardò mogia mogia.
“La mamma... la mamma mi ha chiamata così..." La sua voce era tremolante, come se stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. I suoi occhi tornarono a fissare il pavimento, le sue palpebre si chiusero.
Dolore. Fisico e morale. Il dolore che si prova quando si viene picchiati, disprezzati, degradati, odiati dalla persona che ti ha messo al mondo. Questa era la sensazione che il nome di sua madre scaturiva nei ricordi di Nives.
“Scusatemi!” Esclamò la bambina iniziando a piangere e correndo fuori dalla stanza. Si nascose dietro lo stipite della porta e, mettendo la testa tra le ginocchia, prese a piangere silenziosamente.
“Ci dispiace, è sempre stata un po' strana...” la maestra parlava ai due coniugi con fare deluso. “...se volete, possiamo farvi conoscere un’altra bambina.”
 E a quel punto le sue lacrime aumentavano. Si sentiva sbagliata, inadatta. Le sembrava che tutto andasse contro di lei e che lei andasse contro tutto.
All’inizio soffriva per questo. E poi...
 
- Ragazzi... - la voce di Nives si disperse nell’aria tagliente come il respiro di un Glalie.
I due Pokémon le si avvicinarono.
- Andiamocene... - disse guardando il cielo.
Froslass e Glaceon rimasero a guardarla per un interminabile secondo come ipnotizzati dalla bellezza di quel raro sorriso sognante che era nato sul suo viso candido.
Nives distese le gambe e si alzò in piedi. Il suo senso dell’equilibrio era innaturale. Con calma camminò fino alla punta del ramo su cui si era appoggiata.
Piccole e delicatissime creste di neve si erano formate su di esso e alcuni delicati ghiaccioli di forma conica pendevano immobili dalla punta del ramo. Alcuni di loro caddero al passaggio di Nives.
La ragazza allargò le braccia. Dietro di lei, Glaceon e Froslass la seguivano incuriositi. Per un interminabile secondo si lasciò carezzare dal vento. Si sentiva leggera, libera.
Il sole era alto nel cielo, era iniziato il ventunesimo giorno di dicembre. Nives era pronta a passare l’ennesimo compleanno sola con i suoi Pokémon. Eppure, quel giorno, era diverso dagli altri.
Era il primo compleanno che festeggiava in serenità, libera e in pace con se stessa.
 
 
 
 
 
Minuscolo Diedro di Universo
Beh, ci sono anche io...
Siamo finalmente al 22 Agosto, mio complemese e soprattutto data della pubblicazione del quinto Frammento. Dopo di me ci sarà AuraNera_ che pubblicherà la sua One Shot e poi ve lo passeremo in culo a tutti con una nostra Longfic devastante quindi tenetevi pronti brutti bastardi che leggete e non recensite (sì, perché quelli che leggono e recensiscono li conto sulle dita di una mano, li conosco tutti e sono delle bravissime persone).
 No dai scherzo, vi voglio tanto bene e ogni volta che vedo la cifra delle letture aumentare mi si scalda il cuore.
Spero di esservi piaciuto e spero che questo personaggio vi piaccia dato che sono l’unico membro del Team che gestisce un personaggio del suo sesso opposto (eccetto la cara _beatlemania is back alla quale abbiamo appioppato addirittura una coppia). Ma che dire, purtroppo i Soulwriters sono quasi tutti maschi.
Non c’è altro, grazie a tutti di tutto e non me ne vogliate, soprattutto voi maschietti con i mobiletti azzurri, gli zainetti di Dragon Ball e la stupida ostinazione a fare i cattivi e i duri, ma questa Nives sarà una che di palle ne taglierà a milioni.
Fate meno i duri e riempite più Durex.

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Capitolo 2
*** Frammenti - Cold As Ice ***


Cold As Ice

Frammenti - Cold As Ice

 

Frammenti. Piccole scaglie di un lungo ponte che collega le persone tra di loro. Un ponte chiamato amore. Amore per la propria famiglia, per la propria metà, per chiunque vi stia a cuore.
Sono i piccoli pezzi a creare le grandi costruzioni. Così si può costruire l’armonia tra le persone.
 
- Glaceon, Froslass, seguitemi...
La voce di Nives era simile ad un sospiro gelido e silenzioso. Il suo alito formava candide e intangibili nuvolette che si disperdevano subito nell’aria. La ragazza, seguita dai suoi fedeli Pokémon, camminava a passo lento nella neve lasciando impronte effimere che si sarebbero subito andate a riempire.
- Devo vedere due persone, abbiamo da catturare un Weavile...
 
- Mamma, mamma, posso uscire a giocare a palle di neve con papà?
Il timbro di voce acuto del ragazzino era così tenero e supplicante da riuscire a convincere qualsiasi adulto. O almeno ad esasperarlo.
- Va bene, Max, ma indossa sia la sciarpa, non vorrei che ti prendessi un brutto raffreddore. - Rispose la donna mentre con le mani si occupava della pentola piena di zuppa che bolliva sul fuoco del caminetto.
Era una signora sui quarantacinque, i suoi capelli castani iniziavano a perdere il loro colorito striandosi sempre più di un grigio antico e laido. Aveva indosso una vestaglia marrone a quadri che, oltre a tenerla al caldo, fasciava le sue forme burrose e ormai decadenti. Il tempo non era stato crudele con lei, anzi, ma oramai non aveva più il corpo di una ragazza. I suoi “bei tempi andati” erano solo un ricordo e un vecchio album di foto ingiallite da riaprire quando si era davanti al falò con la famiglia.
Le faceva male. Lucy, questo era il nome della donna, Lucy Dawnstone. E le faceva male ricordare le vecchie esperienze.
La sua era sempre stata una vita semplice, aveva compiuto studi mediocri, trovato marito, e poi aveva sempre vissuto senza lavorare. Una donna di casa, costantemente chiusa nel suo gineceo personale dove l’unico modo per passare il tempo era occuparsi dei figli e della casa. I figli, però, non gradiscono troppo l’eccessiva invadenza del genitore e la casa non ha sempre bisogno di essere spazzata o pulita. A quel punto rimane solo la miglior amica di ognuno di noi. La televisione.
Sinnoh Tv, un ammasso di programmi deculturati e di basso livello morale. Gare Pokémon, reality e quiz show, documentari sempre uguali riguardanti gli ecosistemi più bizzarri della regione e stupidi servizi di gossip su attori, vari Coordinatori Pokémon e vip del Parco lotta.
Le giornate di Lucy erano farcite di noia e ricerca di qualcosa che occupi il tempo meglio dell’ozio o del lavoro casalingo.
I pettegolezzi con le altre signore non erano nella lista, lei era sempre stata uno dei fantocci più spettegolati della sua città, era una donna da sparlare, non con cui si sparlava.
Per fortuna, da quando c’era Max, le cose si erano fatte molto più movimentate. Il ragazzino era solare e iperattivo, un grillo. Ma l’arrivo del figlio faceva parte del secondo periodo della vita della donna.
Prima c’era l’arrivo dell’uomo che Lucy aveva accolto in casa e che aveva scosso parecchio la sua vita. Riempito le sue tasche, più che altro. Richard Frost, businessman di grande fama e nome importante della borsa di Giubilopoli, riccone annoiato e presissimo dal suo lavoro che non avrebbe mai avuto tempo per una relazione seria.
Si erano conosciuti all’inaugurazione della nuova palestra di Nevepoli, la signorina Bianca era finalmente riuscita a superare l’esame di ammissione e la Lega le aveva concesso di fondare una palestra nella sua città natale. Lucy era ancora una giovane donna, piaceva agli uomini e le piaceva piacere agli uomini. Si era sempre saputa divertire.
Purtroppo, quello che le era sembrato l’uomo della sua vita, si era rivelato presto una delusione. Richard Frost, l’uomo che si era portata sull’altare, aveva abbandonato presto la sua fetta di talamo nuziale. Usciva la mattina presto e rientrava la sera dopo cena. Le poche volte che c’era, era sempre occupato e il suo cellulare trillava insistentemente anche la domenica. Aveva una sola passione, quella che aveva da tempo rimpiazzato il suo sentimento per la moglie. Adorava sua figlia, la bambina che era frutto del loro frugale rapporto.
Giocava spesso con lei, spendeva le sue ultime energie per stare con la figlia. Era letteralmente ossessionato da quella piccola e innocente creatura.
Quella bambina che aveva abbandonato la famiglia tempo dopo. Per gli avvocati, i due genitori non avevano mai riconosciuto la figlia all’anagrafe. Per le donne che spettegolavano invece il marito era talmente ossessionato da quella bambina che persino la moglie stava iniziando ad ingelosirsi.
Perché certi uomini sostituirebbero la loro moglie noiosa e sfiorita con una ragazzina. Soprattutto quando si parla di riempire un vuoto che era un tizzone ormai spento del debole falò del loro rapporto coniugale. Insomma, ogni uomo ha bisogno di sentirsi tale.
Come andò, come non andò, la loro figlioletta era scomparsa dalle loro vite. Orfanotrofio. Piccola e sola, abbandonata dai genitori
Naturalmente i due ne avevano approfittato per trasferirsi. Un’enorme villa a Giubilopoli era la loro nuova dimora. Molto propinqua agli uffici che erano sede economica della regione, permetteva a Richard di non stare via da casa troppo tempo.
La nuova sistemazione era stata per Lucy il simbolo di una rinascita. Aveva voluto dimenticare la figlia, la vecchia vita del marito e i pettegolezzi che tanto tempo erano girati per le vie di Nevepoli che riguardanti lei e la sua famiglia. Era arrivato il momento di ricominciare.
 
- Io vado, mamma! -  Esclamò felice quello fiondandosi fuori dalla casetta di legno.
- Preparaci qualcosa di buono che saremo affamati al nostro ritorno. - Avvisò il marito.
L’ometto sostava sulla soglia. Aveva anche lui indosso il piumino pesante come il figlio e portava un ridicolo cappello bianco coi pon pon ai lati delle orecchie. Era in ferie, si era preso un paio di settimane sotto Natale per passare le vacanze in famiglia. Per la vigilia avrebbero chiamato due parenti ma nulla di più.
La donna annuì sfoggiando un sorriso splendente e il marito era anche lui uscito affondando i doposci nello spesso strato di neve.
Avevano comprato molto tempo prima una piccola baita vicino a Frescovilla, a Kalos, precisamente appena sotto la Caverna Gelata, e avevano deciso di confinarsi lì per festeggiare un Natale differente. Solo loro tre e la natura.
La modesta abitazione era stata festosamente addobbata dalla famiglia che l’aveva riempita di festoni luccicanti e alberi pieni di luci che la facevano assomigliare più al Banana Club che ad una calma baita persa nel nulla.
Era il ventuno dicembre, era appena entrato l’inverno, il pranzo si avvicinava e il sole splendeva in alto riflettendosi sul bianco asfalto ghiacciato e creando un paesaggio mozzafiato. Era una bella giornata e si prospettava un Natale tranquillo e calmo.
Lucy cucinava mentre dalla finestra teneva d’occhio i due uomini di casa che giocavano a palle di neve come due ragazzini. Ogni tanto Richard si gettava a terra e si fingeva morto, ma quando il piccolo Max gli si avvicinava per appurare la sua salute, trovava l’occasione di sorprenderlo con un colpo a tradimento.
Tutto scorreva serenamente.
Attorno alle cinque, il buio iniziò a scendere su Kalos, l’aria si fece più fredda e il cielo più scuro.
- Forza, rientrate, è quasi ora! - Esclamò la donna affacciandosi sull’uscio.
I due avevano fatto un grosso pupazzo di neve. Stavano ancora lavorando alla testa, ma il corpo era già completo.
- Sì, finiamo di costruire... - Max si interruppe. - ...papà, come lo possiamo chiamare? - Chiese il ragazzino riferendosi al pupazzo di neve.
- Non lo so, secondo te è un maschietto?
- Certo!
- Allora possiamo chiamarlo Jack. - Affermò il babbo.
- Perché Jack? - Chiese Max titubante.
- Te lo racconterò dopo, ora finiamo di creargli una testa...
- Va bene! - Esclamò il bimbo entusiasmato.
 
Il fuoco scoppiettava felicemente. I tre erano riuniti accanto al falò e, nascosti sotto una coperta e sdraiati sul divano, sorseggiavano della cioccolata calda dalle loro tazze. La tv era accesa ma a volume molto basso.
- Allora papà, dovevi raccontarmi quella cosa. - Fece contento Max ignorando la tele.
- Sì, ecco vedi... - l’uomo si sistemò meglio facendo attenzione a non far cadere la cioccolata. - ...devi sapere che c’è un ragazzo elfo che è uno dei più importanti aiutanti di Babbo Natale. Lui va in giro per le case e fa comparire il ghiaccio sulle finestre quando scende l’inverno, sulle foglie dei pini lascia sempre una sottile patina di brina e sotto i tetti appende quegli strani ghiaccioli a forma di cono. Lui fa arrivare l’inverno e fa scendere la neve, vedi... -
Max pendeva dalle sue labbra. Per quanto fosse stentato e mal narrato quel racconto, al bambino stava piacendo.
- ...lui porta l’inverno, lui fa venire il freddo e ci permette di giocare a palle di neve e di venire in vacanza qui per stare tutti insieme a bere cioccolata calda. Il suo nome è Jack Frost ed è considerato il padre dell’inverno. - Concluse con voce profonda per enfatizzare.
- Wow, ma è fantastico. Va bene, allora il nostro pupazzo si chiamerà Jack! - Esclamò il ragazzino entusiasta.
La mamma sorrideva, era felice di veder il suo pargolo così contento. Il suo sorriso era un secondo sole per lei.
- Mamma, papà, voi avete mai visto Jack Frost portare la neve? - Chiese tutto contento.
- Io no, non ho mai avuto il piacere... - rispose Lucy calma.
- E io invece l’ho pure accompagnato a casa sua! - Esclamò Richard saltando in piedi e caricandosi il figlio in spalla.
Il ragazzino rideva a crepapelle reggendosi al padre e quest’ultimo correva e lo scombussolava come fosse sopra ad un’astronave.
- L’ho visto che volava e ad un certo punto è caduto sopra al tettuccio della mia auto, quindi mi ha chiesto uno strappo per tornare a casa sua sulla cima del Monte Corona!
- No, davvero? L’elfo che porta l’inverno al mondo abita nella nostra regione? - Chiese Max tutto confuso.
- Lui ha milioni di case, su tutti i monti più alti del mondo. - Rispose il padre felice abbracciandolo.
- Che bello... - si staccò dall’abbraccio del padre. - ...allora quando sarò grande vorrò assolutamente cercare tutte le sue case e scalare tutti i monti più alti! - Esclamò contento.
- Certo. - Intervenne la madre ricostringendolo in un abbraccio a tre.
 
- Papà, adesso possiamo fare finta che tu sei il mostro enorme e io e la mamma dobbiamo sconfiggerti?
Max aveva il naso rosso a causa del freddo. I guanti da neve foderavano le sue mani che erano ormai divenute esperte nel fare palle di neve perfette.
Il sole era sorto da poco, era la vigilia di Natale. Un giorno magico per ogni bambino ma speciale un po’ per tutti.
- Dai, scivoliamo ancora con lo slittino! - Aizzò il genitore.
- No, voglio fare a palle di neve! - Rispose il bambino.
- Diamo retta a lui... - disse la madre. - ...tanto siamo qui fuori per farlo divertire. - proseguì passiva come sempre.
- Eh, va bene dai... - ammise Richard ironicamente deluso.
- Dai papà! - Max lanciò la prima palla all’uomo colpendolo in pieno petto.
- Ah! - Questo si gettò a terra. - Ah! Che dolore! Come soffro! - Cominciò ad agonizzare.
- Papà!
Max corse immediatamente dal padre. Disperato si gettò su di lui e cominciò a scuoterlo. Quello non apriva gli occhi. Nel frattempo Lucy si godeva la scena da lontano nascondendo al figlio un sorriso.
- Papà, svegliati! Che ti è successo? Non volevo farti male, non ho fatto apposta! - Esclamò disordinatamente il bambino con gli occhi lucidi.
- Ti ho fatto tanto male?
L’uomo stava fermo a terra con la lingua di fuori e gli occhi vuoti.
- Per favore papà, dimmi che non ti sei fatto male... - Max iniziò a piagnucolare.
- Max... - fece il padre con voce soffocata. - ...voglio dirti una cosa...
Il ragazzino lo fissò senza esprimere nulla ma con gli occhi ancora zuppi che dicevano tutto su quanto fosse scosso e spaventato.
- Prima che me ne vada... - tossì per finta. - ...voglio chiederti di portare quel pupazzo di neve davanti alla casa di Jack Frost sul Monte Corona... - chiese imitando una voce ansimante.
- Certo papà, farò tutto per te.
Max abbracciò il padre stringendolo forte e versando tutte le sue lacrime.
- Ehi, Max. - Cantilenò ad un certo punto Richard.
- Eh? Papà?
L’uomo aveva alzato la testa.
- Ci sei cascato, ci sei cascato! - Prese a canzonarlo.
- Papà! - Lo sgridò lui ridendo gioiosamente.
- Stavo solo scherzando, tesoro, il babbo non se ne va...
Come tre giorni prima, con l’intervento della madre, i tre si strinsero forte in un caldo abbraccio familiare in mezzo alla neve fresca.
 
- Forza, tocca a te, amico.
Weavile affilò le unghie passandosi la lingua sulle labbra.
Nives sostava, come suo solito, sulla cima di un albero. Il Pokémon appena catturato si scaldava il pelo a contatto col suo corpo.
- Forza, fai quello che ti ho detto.
 
- Papà, papà! Mamma, mamma!
Era impossibile, quel “coso strano” era comparso dal nulla. Era nero e molto veloce. Aveva colpito in un lampo.
Max affondava nella neve goffamente mentre guizzava da un corpo all’altro.
Casa sua distava pochi metri, come era potuto accadere? Stavano giocando serenamente, suo padre gli aveva appena detto che non se ne sarebbe andato facilmente. Tremava terrorizzato e coi brividi di ciò che aveva visto che gli percorrevano il corpo.
La superficie bianca circostante era tutta intrisa di sangue, le membra esanimi dei genitori, dilaniate oscenamente, giacevano a terra. Le sue lacrime scorrevano copiose e cadevano nel vuoto fino a depositarsi su quello scempio che c’era sul manto nevoso.
 
Poco lontano, a godersi la scena, c’era una ragazza dai capelli e gli occhi celesti. Accanto a lei solo un Glaceon, un Froslass e un Weavile.
- Buon Natale, mamma e papà... ti voglio bene fratellino...

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Capitolo 3
*** Frammenti - Lost In The Echo ***


Lost In The Echo

Frammenti - Lost In The Echo

 

Nives era addossata al tronco di un pino, seduta su un ramo a tre o quattro metri d’altezza.
Sentiva freddo alle dita e al naso e respirava lentamente. Accanto a lei c’era Glaceon e Froslass fluttuava poco sopra. Non sapeva assolutamente da quanto fosse lì, ma di sicuro non da poco tempo.
Si sporse ancora un po’ a destra del tronco.
Il ragazzino era scomparso, Weavile anche.
I cadaveri sventrati dei due uomini giacevano ancora nella neve, il bianco manto cristallino di quest’ultima, nei pressi dei due corpi era completamente ricoperto da una mistura di sangue e acqua.
Nives sbatté gli occhi tre volte. Aveva sonno.
Scese lentamente dall’albero e si incamminò voltando le spalle alla baita.
Doveva andarsene.
 
Camminò per un tempo indefinito, attorno a lei si innalzavano milioni di sempreverdi ricoperti di neve e sopra la sua testa si estendeva l’immensa pianura del cielo turchino che lentamente si accingeva a scurirsi sempre più. La ragazza dai capelli indaco camminava affondando gli stivali nel nevischio che si faceva via via sempre più sottile e rado.
Si ritrovò in mezzo al nulla a rimuginare sulla sua vita che nel cielo si era levata la luna piena, ma sia le stelle sia parte del satellite erano criptate dalle nuvole.
Ad un certo punto la piccola volpe celeste che la accompagnava emise il suo verso sottile e delicato mentre il Pokémon Suolneve trasse un sospiro tagliente. Nives, che da alcuni minuti camminava alla cieca sondando il terreno a spalle ricurve, alzò lo sguardo.
Davanti a lei, due file opposte di pini andavano sempre più a restringersi fino a formare una specie di galleria stretta, come un meandro nascosto nella boscaglia. Alla fine di quella particolare galleria brillava una debole luce rossa.
- Che cos’è quella... cosa? - si chiese Nives a voce alta.
Si sentì incredibilmente attratta verso quel bagliore, le sue gambe si mossero da sole e si inoltrò per quell’angusto passaggio insinuato tra i folti rami degli alberi. I suoi Pokémon la seguivano fedeli.
La ragazza si sporse verso la luce, il rosso, man mano che si avvicinava, si rivelava sempre più fievole ed effimero.
- Uhm, ahh... - emise mentre cercava di liberarsi dai rami che le bloccavano il passaggio.
Finalmente, dopo essersi districata in un labirinto di foglie e aghi, giunse nell’anfratto celato tra gli alberi. La luce era scomparsa, dietro di lei, i suoi Pokémon non c’erano più. Nives si accorse in quel momento che uscire da quel piccolo buco tra la vegetazione sarebbe stato difficile quanto lo era stato entrarvi. La fessura in cui si era imprudentemente voluta infilare si era rivelata molto più soffocante. Gli alberi sembravano sporgersi verso di lei sempre più come a volerla soffocare e la fioca luce della luna non riusciva a raggiungerla.
Si sentiva chiusa in una gabbia, stritolata da quegli alberi i cui rami le sembravano tendersi verso di lei come degli arti.
Ad un certo punto, presa da quell’irrazionale paura, dalla stanchezza e dal suo senso di disorientamento, cadde a terra svenuta. L’ultima cosa che vide furono proprio i folti rami degli alberi che, protesi verso di lei, la raccoglievano da terra delicatamente.
 
Il fruscio delle foglie si diradò. Nives aprì gli occhi a fatica, e cercò di mettere a fuoco ciò che la circondava.
Nebbia, solamente nebbia. Una fitta cappa di bruma soffocante e spessa la circondava e aleggiava tetra in quello che sembrava un prato dall’erba rada e ingrigita.
Si ritrovò in ginocchio, quasi sostenuta senza volerlo dalle sue gambe. Cercando di riprendere coscienza e controllo di se stessa, finì a carponi sul terreno ruvido.
Nell’esatto momento in cui le sue mani toccarono l’erba rinsecchita e rovinata, terrorizzata dalla sensazione, Nives si ritrasse involontariamente emettendo un gridolino spontaneo.
La terra aveva una consistenza quasi fangosa ma asciutta e l’erba sembrava intrisa di acqua ma manteneva una fragilità secca e grottesca. La ragazza, ignorando l’annichilimento in cui si trovavano i suoi muscoli, scattò in piedi.
- Uff, uff, che diavolo...
Nives impiegò attimi infiniti per riprendere fiato. Vincendo la agghiacciante paura di pentirsene, si accinse a guardare cosa componesse quel terreno tanto particolare. Si piego avvicinando il volto all’erba. Lasciandosi sfuggire un gemito, scattò all’indietro. Il terreno era costellato da buchi nel quale proliferavano e brulicavano un numero incredibile di vermi. Erano ovunque, Nives si accorse di star camminando su una distesa di vermi e terra. Spaventata e quasi rivoltata, corse via.
Attraverso la nebbia senza pensare tanto a cosa avrebbe trovato, ma preoccupandosi soltanto di scappare da quell’abominevole spettacolo. Fece cinque o sei passi e poi si ritrovò davanti una parete di rovi; una siepe alta quasi tre metri le stava bloccando il passaggio, era fittissima e spogliata dal suo manto di foglie.
- No!
Voltò a destra. Null’altro.
Si rese conto di star correndo rasente ad un cerchio di rovi che circondava il prato in cui si trovava.
In quel momento si rese conto di essersi persa. Che posto era, quello? Come ne sarebbe uscita?
- Dove sono?! - esclamò esasperata Nives quasi aspettandosi davvero una risposta.
Non arrivò nessun chiarimento. Solo un rumore di rami spezzati che proveniva da un punto preciso della siepe. Nives attese un ulteriore suono o quantomeno una voce terrorizzata e in apnea totale, persino il suo cuore smise di battere.
Un altro rumore.
Un altro ancora.
Un altro ancora.
Il terrore della ragazza si tramutò gradualmente in isteria.
- Chi c’è?! Che cosa volete?! - prese a strillare. - Che cosa volete da me?! Dove mi trovo?! - esclamò trattenendo lacrime frenetiche e disperate.
Lentamente, una sagoma prese forma nella nebbia. Sembrava un uomo, aveva una forma quantomeno umana. Nives la attese di nuovo impietrita al suo posto. La sagoma camminava insicura e molto traballante.
Quando fu abbastanza vicino da distinguerne le reali fattezze, a Nives non fu concesso scappare.
La ragazza soffocò un grido, non riuscì a tirarlo fuori.
Uno spaventapasseri di rami, fieno e con la testa che era una zucca, le saltò addosso senza tanti problemi. Nives cadde all’indietro sul terreno verminoso, ma in quel momento non pensò a che cosa avesse sotto, bensì a che cosa aveva sopra. La creatura si dimenava e Nives faceva lo stesso, nessuno dei due stava avendo la meglio, ma quell’ammasso di ramoscelli e fieno pareva penetrare sempre più le difese della ragazza che senza metodo, in preda alla foga e alla paura, cercava di allontanarlo.
La zucca che quello spaventapasseri aveva al posto della testa era intagliata e una fessura zigzagata che doveva essere una bocca la percorreva per quasi tutta la sua circonferenza. Tutt’ad un tratto, la fessura si spalancò. Al suo interno, scoprì Nives, brillava la stessa luce che prima l’aveva attirata verso quell’antro tra gli alberi, ma ciò non le chiarì nulla. Lo spaventapasseri, senza farsi troppi problemi, inghiottì la testa della ragazza.
Nives per qualche istante si sentì come chiusa all’interno di un vuoto spettrale che non le permetteva nemmeno di respirare, poi, piano piano, la sua ragione scomparve e cadde svenuta ancora una volta.
 
Un ronzio si infiltrava nella testa di Nives con la violenza di un trapano. La ragazza si ritrovò appoggiata ad un albero, era a testa in giù e delle piante rampicanti molto elastiche e flessibili le legavano le caviglie.
Sentiva la testa pesante, aveva un’emicrania molto intensa e le gambe indolenzite. Provò a tirarsi su con le braccia, ma non le riuscì. Ogni sua fibra muscolare era sotto sforzo e il sangue, che confluiva pericolosamente verso la parte superiore del suo corpo, le rendeva difficile ogni movimento.
Iniziò a sentirsi gonfia e ad avere paura.
Ancora quella sensazione di dispersione nell’ambiente, un terribile non sapere dove ci si trova.
Nives, avvertendo di nuovo un ronzio particolare, guardò a terra. Inorridita, rimase inorridita.
Insetti su insetti su insetti che si ammassavano su se stessi formavano quel terreno movimentato e agghiacciante a vedersi.
La povera Nives cacciò un grido che fu interrotto da un’orrenda sensazione che le pervase il corpo. La causa, un rumore come di arbusti spezzati, una sensazione di discesa graduale.
Convincendosi del contrario, la ragazza realizzò che le piante che la tenevano appesa si stavano strappando.
Un ultimo “stac”.
Il corpo di Nives cadde nell’oscurità.
Non ci fu alcun impatto, alcun contatto con quelle maledette creature, nulla. Solo una caduta nel nero delle sue palpebre che si chiusero istintivamente.
 
Il sonno, il buio, l’assenza di materia e la leggerezza della sua mente nel vuoto etereo.
 
- Nives, tesoro!
Uno dei suoi perlati occhi indaco si aprì placido e stralunato.
- Siamo qui. - avvertì una voce conosciuta. - vieni dalla mamma!
Entrambi i suoi occhi si riaprirono, ma subito una lacrima li appannò entrambi. Nives si trovò seduta per terra a poca distanza da sua madre che, calma e posata come sempre, operava ai fornelli come una buona casalinga. Il padre sfogliava lentamente il giornale, sprofondato nella sua poltrona scarlatta e attorno a lei si ergeva calda, terribile e cara la sua vecchia casa.
- Vai dalla mamma, piccola... - la incitò anche il padre.
Nives non si mosse, si accorse di star piangendo. Le mani con cui stava stritolando i suoi polpacci tremavano dalla frenesia e le sue palpebre sbattevano convulsamente. Un singhiozzo le spezzò la gola e avvertì i suoi genitori del fatto che lei non si sarebbe alzata facilmente da quel suo nido di solitudine separato da tutto e da tutti. Si accorse che aveva etichettato come tale il tappeto rosso sul quale ogni volta giocava con il padre.
- Nives, non mi ascolti? - fece infine la madre voltandosi verso la figlia e muovendo alcuni lenti passi verso di lei.
Nives, sconfortata ma allo stesso tempo vogliosa di farlo, alzo lo sguardo.
Sua madre. Non era sua madre.
Davanti a lei sostava una bambola di pezza con dei bottoni al posto degli occhi e la bocca trapuntata e la pelle fatta all’uncinetto. La creatura giochicchiava con i guanti da cucina che aveva in mano e la guardava con un’espressione così benevola da sembrare quasi reale.
Nives cadde di schiena facendosi anche male. Non emise suono, ancora una volta.
- Ragazza, che cos’hai oggi? - chiese il genitore abbassando il giornale.
Stesso spavento per Nives. Anche lui era una bambola.
- Dai, perché, non vieni a darmi una mano?
- Mh, penso sia il caso di lasciarla in pace, cara... - consigliò il padre.
- Già, forse hai ragione, tanto non accetta di vivere con le persone diverse da lei. - affermò Lucy con una voce tremendamente cavernosa.
Le trapunte sul suo corpo iniziarono ad aprirsi e le cuciture a strapparsi, lo stesso per il padre. Piano piano, in preda a terribili gemiti mortiferi, le bambole si aprirono rovesciando a terra sul parquet il loro contenuto. Organi e sangue in quantità.
Un odore acre si diffuse nella stanza, Nives trattenne un conato di vomito e scattò in piedi. Sbatte la nuca contro una mensola e cadde a terra. Svenuta ancora una volta.
 
- Ah?!
Nives si ritrovò sulla cima di un albero. Era freddo, c’era la neve. Un vociare spensierato proveniva da un posto vicino. Un ragazzino e un uomo stavano giocando a palle di neve. Una donna si avvicinava a loro affondando gli scarponi nella neve.
Froslass poco vicino fissava Nives curiosa e Glaceon stava appisolato sulle sue cosce.
I due adulti, giunti accanto al ragazzino, lo abbracciarono stringendolo da ogni parte. Erano così felici.
Nives si voltò spaesata. Dietro di lei, Weavile sostava sul ramo in attesa di ordini. Aveva le unghie ben affilate e uno sguardo gelido negli occhi.
L’animo della ragazza prese ad attaccare battaglia con il suo sterno per uscire fuori come meglio poteva. Quel dolore che si sente nella gabbia toracica quando il cuore manca un battito.
L’abbraccio dei tre si sciolse.
Nives crollò definitivamente. Si gettò sul tronco dell’albero e lasciò uscire le lacrime. Per alcuni minuti interminabili rimase ferma a sfogarsi. Quindi tornò in sé.
- Vai, Weavile, sei libero... - sussurrò. - Qua non c’è nulla da fare.
 
Frammenti, piccoli pezzi del nostro animo invincibile quanto effimero.
L’uomo è un essere di terra, può cambiare, solo quando la vita, che è acqua, lo leviga con il suo scorrere.
La vita ci cambia passando da fuori, mentre qualcosa modifica il nostro essere all’interno, il nostro animo, prendendo e sistemando i suoi frammenti come più gli piace.
La paura.
 
 
 
 
 
Minuscolo Icosaedro di Universo
Allora, eccomi qua anche io!
Frammento di Levyan con protagonista Nives appartenente alla squadra del Soulwriter Team...
Blablablabla, sempre le solite cose.
Ho deciso che d’ora in poi, tutti i miei Frammenti/Capitoli inerenti al Team avranno come titolo il titolo di una canzone che reputo importante o bellissima.
Perché sì.
Nel capitolo precedente avevamo Cold As Ice dei M.O.P., capolavoro.
Questo invece ha il titolo di Lost In The Echo dei Linkin Park. Mi piace la canzone, ma non ha mai simboleggiato nulla per me.
Perché vi chiederete.
Allora, niente discorsi morali o metafore con l’eco.
Οίκος, in greco, significa casa, ambiente, patria.
Ambiente, natura, dal quale in italiano la particella “eco” di ecologia, ecologo, ecologico.
Ho pensato di fare un esperimento linguistico (di merda) intendendo Lost In The Echo come “perso (in questo caso, persa) nell’ambiente, nella natura”, come si ritrova Nives, e non come “persa nell’eco”.
Se pensate che sia una cosa simpatica, grazie.
Se pensate che sia un a genialata, ricoveratevi.
Se pensate che sia una stronzata, probabilmente avete ragione.

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Capitolo 4
*** Frammenti - New Day ***


New Day

Frammenti - New Day

 

Nives si legò i capelli con elastico fucsia. Aveva le mani doloranti. Si sedette stanca sul primo cuscino che le capitò a tiro. Il grembiule che aveva indosso la stritolava e sognava di liberarsene al più presto.
- Nives, vieni con noi a prenderti qualcosa da bere? - chiese Gwen seguita da due sue amiche togliendosi il grembiule. La bionda sorrideva alla ragazza, le altre la imitavano.
- Sì, perché no... - rispose la ragazza dai capelli indaco.
- Allora ti aspettiamo fuori.
- Ok. - fece infine alzando il pollice.
Le tre fanciulle passarono oltre camminando sul tatami del teatro di Amarantopoli. Nives sospirò e poi si lasciò sfuggire un sorriso. Tolse il grembiule, si dette una rassettata generale, quindi prese la borsa e uscì.
- Ehi, Nives, andiamo? - chiese Sheela, un’altra sua collega.
- Certo.
Le quattro ragazze si incamminarono verso il bar più vicino.
 
- E allora, sei sicura di questo? - chiese Derek.
- Mh... - l’anziana mise la sua mano sopra quella del nipote. - ...certo, se vuoi ti racconto anche com’è andata. - disse con voce calda.
- Va bene, mi piacerebbe tantissimo. - annuì entusiasta lui.
- Allora, devi sapere che appena dopo Natale, mentre ero ad occuparmi del mio giardino, vidi una ragazza che camminava disorientata proprio per questa via. Non l’avevo mai vista e, essendo Amarantopoli una città abbastanza ristretta, ho subito capito che si trattava di una forestiera. - prese a raccontare la vecchia signora.
Il neo diciottenne ascoltava molto interessato le parole della nonna.
- Dopo qualche minuto di girovagare, si decise finalmente a chiedermi indicazioni. Quando l’ho vista in faccia, ne sono subito rimasta impietosita. Aveva due occhioni tristi e lucidi, era stanca e sciupata, stava camminando da molto tempo. Mi ha fatto subito compassione, era in cerca di un posto dove dormire. A quel punto le ho detto immediatamente di fermarsi a casa mia, mi faceva così pena, poverina... - proseguì la nonna.
Derek, ingoiando un altro biscotto, si mise comodo sulla sua poltrona preferita, la sua giacca di pelle sibilò leggermente al suo strusciare con il tessuto.
- Lei all’inizio sembrava restia all’idea, ma poi si convinse. Tanto era stanca che appena le feci vedere il letto vi si precipitò sopra e si addormentò dopo alcuni secondi con i vestiti ancora addosso. Comunque lei è rimasta da me per poche settimane, proprio nel periodo in cui tu eri a Unima e in quel periodo ho avuto modo di conoscerla meglio. È una ragazza tanto dolce, ma sente sempre il bisogno di stare da sola e quando qualche mia amica veniva a casa a farmi compagnia lei trovava sempre il modo di filarsela. Si fidava di poche persone e con le altre evitava ogni contatto, era leggermente sociopatica... - sorrise la donna. - Ma comunque in poco tempo riuscì a trovarsi un piccolo impiego. È diventata un delle assistenti delle Kimono Girl, si occupa di trucco, vestiti e di altri lavori nel teatro, vive in un appartamento con due sue colleghe con le quali va anche all’università. Sai, è un po’ cambiata, ma rimane sempre la ragazza timida che era prima. - concluse la signora con fare nostalgico.
- Mh, e adesso? Vi sentite più? - chiese il ragazzo.
- Sì, ogni tanto passa a salutarmi e mi racconta cosa le è successo importante negli ultimi giorni. Mi fa sentire in imbarazzo, lei così giovane, così introversa, così... dolce, che viene da me e ogni volta non dimentica mai di ringraziarmi per averla ospitata. Mi ha raccontato di aver avuto dei problemi con i suoi genitori, ma nulla di più, mi viene da pensare che sia una fuggiasca, una scappata dai suoi.
- Dici? - chiese Derek.
- Ne ho come la sensazione, effettivamente non l’ho mai vista né parlare con i genitori al telefono né tantomeno i suoi la sono mai venuta a trovare. E poi, insomma, quale genitore degenere lascerebbe che la figlia andasse in una nuova città senza posti dove dormire o mangiare? - fece leggermente irritata.
- Giustamente... - annuì il nipote.
- Ma perché mi hai chiesto se la conoscessi? - lo punzecchiò la signora.
- Mah... - Derek, arrossendo, distolse lo sguardo. - ...così, perché è la prima volta che la vedo da queste parti e così ho voluto...
- Mh... sai che è sempre seguita dai suoi due Pokémon, Glaceon e Froslass?
- Davvero? - chiese lui illuminandosi.
- Sì, sono due tipi ghiaccio con lettera maiuscola, si vede che sono cresciuti nella natura. Sono esemplari unici. - disse guardando il soffitto.
- Wow... - commentò il ragazzo affascinato. - ...avevo proprio bisogno di studiare due Pokémon come quelli, soprattutto Froslass...
- Beh, allora che aspetti a fare la sua conoscenza, magari le sei simpatico, tanto domani tornerai anche tu all’università dopo lo scambio studenti con la scuola di Unima, no? - chiese la signora sempre con un tono quasi sarcastico.
- Nonna! Dai, non ti impicciare... - rispose lui lamentoso arrossendo ancora una volta.
- Va bene, va bene, starò zitta... - fece lei ammiccando.
 
- E quindi ho colpito l’avversario con Idrocannone, boom! KO! Al secondo colpo! Sono già ai quarti di finale. - esclamò entusiasta Jack. - Hai capito, Derek, sto scalando il torneo a velocità impressionante. Derek... - il ragazzo si accorse che il suo migliore amico non stava prestando attenzione alle sue parole. - Derek, mi stai ascoltando? - chiese scendendo dal letto.
La loro camera era disordinata, la tv era accesa e nessuno dei due si accingeva a prendere l’ultimo pezzo di pizza coi funghi rimasto nel cartone, oramai freddo e schifoso. Derek, il moro, era steso sul letto con gli occhi celesti persi nel bianco del soffitto. Jack, il biondo, si era appena seduto sul suo letto.
- Derek, che hai? - fece più serio. - Non ti vedo così dai tempi delle medie, con Veronica... - si fermò un momento. - Ahhhh... capisco! Chi hai conosciuto? - comprese subito.
L’amico non gli stava prestando attenzione.
- Dimmi un po’, Jack... - fece lento.
Il ragazzo tese subito l’orecchio.
- Credi nei colpi di fulmine?
 
Il vento soffiava insistentemente spingendo il bordo del colletto della giacca di Derek contro il suo collo e facendogli solletico tanto che, ogni trenta secondi, era costretto a sistemarlo.
C’era vento.
Il ragazzo era completamente spettinato e la sua chioma lunga danzava sulle spire del vento. Portava la borsa contenente i suoi libri in mano svogliatamente. Non si preoccupava del Growlithe che gli gironzolava attorno alle gambe. Anzi, il calore che emanava era anche gradevole.
La ragazza era lì, a pochi passi da lui, seduta a ripassare qualcosa su un libro che non riusciva ad identificare. Era molto carina, portava anche lei i capelli sciolti e i suoi occhi leggermente assonnati seguivano le righe placidamente.
Derek la fissava insistentemente. Senza muoversi di un millimetro.
Ad un certo punto, una campana suonò ripetutamente. La ragazza si alzò, e per un momento, il vederla scappare così in fretta senza neanche averle parlato mandò in panico il suo cuore.
La ragazza assicurò di aver chiuso la borsa, lasciò qualche moneta come mancia sul piattino della cioccolata calda che aveva appena bevuto e poi si incamminò verso la facoltà.
Un secondo.
Il cuore di Derek non stava battendo, la ragazza stava venendo verso di lui.
Due secondi.
Quello stupido muscolo rosso involontario che aveva nel petto non si decideva a ripartire.
Tre secondi.
La ragazza era di fronte a lui. Il suo cuore, in quel momento non sarebbe servito neanche come fermacarte.
Quattro secondi.
La ragazza passò oltre.
Derek gettò fuori tanta aria quanta può essere contenuta in un pallone aerostatico di notevoli dimensioni. Il suo cuore aveva ripreso a battere ora che non aveva più l’immagine di quella studentessa davanti. Si voltò con calma.
Stava camminando con lentezza verso l’edificio che si trovava dall’altra parte del college. Con la divisa della scuola era incredibilmente carina. Un momento di crisi, ebbe il ragazzo. Frenesia mista a mancato autocontrollo.
Qualcosa lo spinse verso quella ragazza che si stava allontanando da lui. Se gliel’avessero chiesto, avrebbe risposto che nella piazza dell’università c’erano solo loro due in quel momento.
Se un pazzo omicida fosse uscito da una finestra e con un mitra avesse sparato a tutte le forme di vita che si trovavano in quel posto tranne che a Derek e alla ragazza dai capelli indaco perché in quell’esatto istante un ufo era caduto tra loro e il tizio con la mitragliatrice e l’uomo, spaventandosi per l’accaduto e rientrando in fase “pazzia pura”, si fosse fatto esplodere attivando l’interruttore che controllava le bombe a orologeria che aveva attorno al petto, lui avrebbe comunque risposto che nella piazza c’erano solo lui e la ragazza dai capelli indaco.
E se anche...
- Ciao, mi chiamo Derek, sono rientrato a scuola da poco e mi hanno detto che hai un bellissimo esemplare di Froslass, vorrei...
 
Frammenti, pezzi di una vita in cui non sempre riusciamo ad identificarci, come in uno specchio che non ci riflette a dovere.
Quando non siamo soddisfatti della nostra vita è come se avessimo visto un’immagine sbagliata nel riflesso ci spaventiamo e rompiamo lo specchio.
Ma a differenza di uno specchio normale, la nostra vita potrà sempre ricomporsi. Sempre.
 
 
 
 
 
 
Minuscola Fossa di Universo
Ehilà, gente!
Sono qui, apro l’ultimo turno di Frammenti del Soulwriter Team perché Andy Black deve fare lo schiavo in un pub lavorare tanto tanto (detto con la voce di Ciccio Cessa). Mi dispiace per lui, ma che posso fare io? Pubblico al suo posto.
Che potete fare voi? Schiavizzatevi e sottomettetevi alla sua figura.
No, seriamente, ora, fatelo.
Babbè, la cosa del titolo la sapete, New Day dei celebri Jay-Z e Kanye West. Il concept l’avete capito e l’antifona la sapete. Poi vabbè, mi pareva carino anche perché, oltre ad avere uno stretto rapporto con la trama, rappresenta anche un po’ il primo del mese.
L’argomento di questo giro non ci sarà.
Queste ultime OS serviranno solamente per “completare” le storie dei nostri personaggi per ricollegarli poi alla Long misticissima e superpontentissima che pubblicheremo, finalmente, soddisfacentemente, sul nostro cazzo di profilo di gruppo!!
*cori angelici*
Soulwriter Team.
Cercate ‘sta cosa e arriverete al nostro profilo dove, quando saremo pronti, inizieremo a pubblicare la nostra Long cazzutissima.
Bene, recensite amori miei e leggete anche le altre OS che usciranno ogni settimana sui profili dei miei compagni.
Bye!

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