Lost stars in smocking heart.

di Vas Happening_Mary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Premettendo che la storia NON è una traduzione, ma che sia stata scritta da me medesima e basta...
Ciao! E' un piacere avervi qui, a leggere, e spero davvero che il prologo sia interessante abbastanza da spingervi a continuare.
Avrei voluto scrivere tantissime cose nell'introduzione, ma lo spazio è quello che è.
E' vero, la storia dovrebbe rientrare nelle Sovrannaturali; però, ragà, non è che mi importa che siano angeli, mi importa la storia che c'è dietro.
Dunque... Andrea è presentato nell'introduzione -e in parte qui-, Riley la scoprirete piano piano. Oltre loro due, troveremo altri personaggi che incontreremo già nel primo capitolo.
Non c'è molto altro da sapere, quindi vi lascio a questo pezzettino illustrativo!
A presto -spero-
May. 
Ps: se sapete come togliere la particolarità "traduzione", ditemelo! :D
 

Prologo.

 

Victor Hugo diceva che gli angeli hanno dentro di sé sia un uomo che una donna.
Diceva, credeva, che una volta caduti si separano per potersi ritrovare in forma umana e morire.
E, chi non cade, non si è mai amato veramente.
 
Un altro, un certo Paul Verlaine, diceva che gli angeli caduti sono Satana adolescenti.
 

 
Andrea era un po’ uno e un po’ l’altro. 
Quando la sua stella cadde, lui aveva appena tremila anni; un bambino, si può dire.
Non sentì la sua dolce metà staccarsi, e portarsi via un organo di vitale importanza.
Il cuore.
Aveva vagato sulla terra per altri trentamila anni, in forma bambina, aspettando di crescere.
Chi lo vedeva, chi provava a toccarlo, lo identificava come vampiro, perché il suo cuore non batteva. Era assente, un posto vuoto nella cassa toracica che lo faceva sentire straordinariamente bene. Per questo non moriva. Per questo non poteva morire.
Era stato anche fortunato, lo sapeva. Molti angeli dividevano il proprio cervello, costringendo entrambi – o solo uno dei due- ad una vita ridotta. Andrea ne aveva visti tanti così, ridotti su una sedia a rotelle per l’incapacità di muoversi o di ragionare lucidamente. O anche in piedi, mano e mano con i propri genitori terrestri, costretti a restargli accanto per non perdersi in un mondo che sembrava non appartenergli. E, dall’altra parte, potevano esserci sia angeli umani più intelligenti del dovuto, sia angeli ridotti alle stesse condizioni dei compagni.
Alle volte, invece, alcuni angeli atterravano senza polmoni. Semplicemente, morivano. Anime sprecate come se niente fosse, come se il loro non fosse stato un sacrificio enorme –donare la vita. In quel caso, i loro compagni avevano i polmoni iper sviluppati. Atleti di corsa olimpionica, calciatori, nuotatori professionisti… ma potevano anche dividerseli, uno ed uno. I soggetti asmatici, aveva sentito chiamarli così, con malformazioni che impedivano una respirazione corretta.
C’erano anche quelli senza gambe, con più braccia, senza bocca, malati in partenza… e c’erano i sordi, gli angeli più dolci, frastornati dall’impatto con la Terra. E c’erano i ciechi, quelli che non avevano accettato la loro sorte e avevano chiuso gli occhi per non vedere oltre.
Andrea non era nato. Aveva solo subito un forte impatto contro il suolo, un meteorite che si schianta sulla Terra. Aveva visto la storia dei mondi, ne aveva fatto parte. C’era con i primi esseri viventi, c’era con gli Homo Sapiens per aiutarli a procacciarsi il cibo, c’era alla scoperta dell’America, alle guerre fredde, alle lotte contro gli Ebrei. Andrea era lì, ogni volta incapace di morire. Aveva conosciuto tanti, troppi esseri umani che lo vedevano solo come un ragazzino di diciassette anni o giù di lì, uno sguattero, un incaricato delle pulizie a bordo delle navi pirata e un fattorino nel periodo delle guerre Napoleoniche. Aveva visto tutto quello che c’era da vedere.
Si era sorpreso di come, con il passare degl’anni, la gente cominciasse ad evolversi. Non capiva le loro lotte, le trovava inutili e stupide, e non accettava certi comportamenti. Aveva vissuto tra loro, imparato i loro usi e costumi, senza mai approvarli del tutto. Aveva vissuto con dei poliziotti e aveva visto l’ingiustizia celata dietro la divisa; aveva frequentato degl’avvocati e aveva imparato l’arte della corruzione nascosta da centinaia di carte; era stato con dei politici, uomini di potere in varie epoche, e aveva capito che non tutto ha una fine.
Ma mai, in tutti quegl’anni, era riuscito a ritrovare il suo cuore.
La sua anima era lì, ma priva di amore. Non poteva ritrovare ciò che non aveva mai saputo di avere.
Ricordava appena la sua vita da fascio di luce, prima di cadere, e sapeva bene che l’altra anima si reincarnasse di vita in vita, incapace di fermarsi. Sapeva che il suo cuore era deformato, piccolo e fragile, e sapeva che in vite passate aveva amato ed era stata amata. Era riuscito a conoscere alcuni dei suoi figli, persone importanti nella Storia come un uomo di nome Alessandro e un altro di nome Giulio, ma arrivava sempre troppo tardi. Il suo nome restava inciso da qualche parte, a volte riusciva a vedere anche un suo ritratto, ma in ogni vita era diversa. Aveva doti diverse, caratteri diversi, bellezze diverse. Non avrebbe mai potuto riconoscerla.
Ma Andrea voleva morire. Aveva la voglia assoluta di morire, stanco di vedere il Mondo girare inutilmente su se stesso e attorno al Sole. Voleva poter ricominciare, o poter scomparire, azzerare tutto - game over.
E avrebbe trovato il modo, perché il modo era trovare lei.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Mi scuso solo per il ritardo... per il resto, son libera di non emetter suono.
May.



Una bambina dai capelli rossi sventolò la mano verso la platea.
“Visto, mamma? Ho nuotato!”.
Veniva dal Kentucky, non aveva mai visto una piscina in vita sua.
Andrea non riuscì a vedere la madre ma, dal sorriso che fece la piccola, capì che era felice.
Nuotò ancora, bracciata dopo bracciata, fino a raggiungere la fine della corsia. Era buffa e dolce al tempo stesso; prendeva male le boccate, spesso respirava acqua, eppure non si fermava.
Barcolla ma non molla.
Andrea si voltò verso l’orologio, sollevato dal vedere la fine della sua giornata lavorativa.
L’indomani sarebbe stato tutto uguale; stesse facce, stessi costumi, stessa acqua.
Eppure, il sorriso di quella bambina, gli diede un messaggio segreto. Qualcosa che gli diceva “mi godo il momento più che posso”, anche se in realtà non poteva pensarlo davvero; era troppo piccola.
Capì da quello che non l’avrebbe rivista l’indomani.
Uscì dall’acqua con l’aiuto di uno dei tanti istruttori e si tolse gli occhialini rosa. Aveva gli occhi blu come il mare, il colore che Andrea amava tanto. Qualche lentiggine era sparsa qua e là per il viso grondante d’acqua, incorniciato dai capelli ora liberi dalla cuffia; rossi, come i ciuffi che prima ne fuoriuscivano. Si guardava spaesata attorno, forse cercando la madre.
Andrea assottigliò lo sguardo, come era solito fare, e gonfiò il petto. Con le mani intrecciate dietro la schiena, da vero intenditore quale però non era, si avvicinò a lei.
“E beh? Tutto qui?” le chiese, cercando di risultare severo.
La bimba indietreggiò, mordicchiandosi il piccolo labbro arrossato per il freddo che stava patendo.
Non rispose, non ci provò neanche, né alzò lo sguardo verso lui.
Gli scappò un sorriso, che nascose subito, e disse ancora: “Si lavora, sai? Non puoi venire a fare nulla!”. Ma in realtà non era vero; la Swim4Fun era nota per il divertimento che gli allenatori offrivano ai bambini dai quattro ai dieci anni e ai giovanotti dai tredici ai diciotto.
“Che fai? Non rispondi?”.
E allora la piccola alzò la testa, senza però guardarlo in faccia. Si torturò per poco le mani e disse, sottovoce, qualcosa di simile ad un “mi spiace”.
“Non ho capito bene. Che hai detto?”.
Chiunque lì avrebbe capito il suo scherzo, eppure la piccola sembrava essere davvero in difficoltà.
“Mi dispiace…” sussurrò, arrossendo d’improvviso.
Andrea le si avvicinò ancora e giurò di vederla trattenere il fiato. “Guarda che scherzo” confessò con dolcezza, inginocchiandosi davanti a lei. “Non devi preoccuparti. Ognuno fa quel che può”.
La bambina alzò per un attimo lo sguardo, solo un attimo, e provò a sorridere.
“Come ti chiami?”.
“Ho tanti nomi…”.
“Dimmeli tutti”.
Lei sembrò esitare, guardandosi attorno prima di prendere fiato e recitare: “Rihana Ilary Luce Elisabeth Yona”.
Andrea rise di gusto, “Sì, hai proprio tanti nomi!”. Anche lei rise, e la tensione di prima si sciolse.
“Posso chiamarti Riley?”.
“Riley?” chiese lei, sbigottita. Scosse la testa e fece una strana smorfia.
“Non ti piace?”.
“Sì, ma io mi chiamo…”.
“Son troppi!”. E risero di nuovo entrambi, mentre Riley annuiva copiosamente.
“Quanti anni hai?” gli chiese ancora.
“Quattro, tra poco ne faccio cinque”.
“Quando?”.
“Il 10 dicembre!”.
“Ma mancano ancora tre mesi!”.
Lei sorrise e scosse la testa, “Il tempo non è importante”.
“E questo chi te lo ha detto?”.
“Peter Pan!”.
 
 
 
Andrea odiava gli incivili.
Odiava quelle persone che, come se niente fosse, buttavano per strada i loro sacchi d’immondizia.
Lui camminava tutte le sere fino all’incrocio per buttarli e loro li lasciavano a casaccio.
Prima o poi li avrebbe denunciati.
Strinse con la destra il sacco nero e con la sinistra il guinzaglio rosso; Alcatraz camminava a passo fiero poco più avanti in tutta la sua compostezza di Australian Shepherd Red Merle. Aveva metà faccia bianca e metà rossa, con gli immancabili occhi azzurri e il resto del pelo tamponato da chiazze rosse e bianche. Andrea a volte lo prendeva in giro per questo.
L’ennesima macchina sfrecciò loro accanto.
La serata si era svolta come al solito; avevano mangiato, aveva pulito i piatti, il tavolo, la ciotola del cane, ed era uscito. La televisione non amava guardarla, preferiva leggere un buon libro.
“Sembra che hai lo shatush.” Ma quello lo ignorò completamente, come sempre.
Sbuffò quando arrivarono all’incrocio e buttò il pesante sacco nel cassonetto dell’indifferenziata.
Una donna aprì la porta della sua villetta e lo salutò cordialmente, rivolgendo un commento d’apprezzamento alla fiera belva. Andrea ricambiò senza fermarsi più del dovuto, stringendosi nelle spalle per il freddo che solo la fine di novembre poteva offrire.
“Andrea! Insisto!” urlò la donna in lontananza. “Per favore, solo una tazza di cioccolata calda! Non accetti mai, eppure sono anni che mi conosci!”. Era vero. In tre anni che viveva in quella via, aveva sempre rifiutato il suo invito ad entrare in casa. Il perché non lo sapeva nessuno dei due; semplicemente, voleva evitare di legare con persone che entro un anno non avrebbe più rivisto. Con quel problemino dell’invecchiamento che aveva, era raro che qualcuno non si accorgesse del suo aspetto immutato dopo più di cinque anni.
Si fermò e tirò un grosso respiro. Alcatraz lo guardò e inclinò la testa a destra e poi a sinistra, in attesa di ordini; era addestrato, anche piuttosto bene, e Andrea era felice di averlo accanto.
“Va bene, okay. Ma solo per una cioccolata!”.
“Per quello che vuoi, figlio mio; non sai quanto è bello saperti in casa mia!”.
 
Era tutto come se l’era sempre aspettato.
Una casa rustica, per lo più in legno, fatta per una donna di quarantanove anni che non ha mai trovato un uomo giusto per sé. La cucina era la parte più bella; gli ricordava una casa in montagna, con le mensole in legno chiaro e i piatti di porcellana vecchia esposti nelle vetrine. Anche il salotto gli piaceva, però: grande libreria piena di volumi dal 600 al 2010 –soprattutto enciclopedie-, tavolo in legno massiccio coperto con una tovaglia bianca fatta a mano, le mattonelle beige sotto i suoi piedi, una televisione anni 80 su un vecchio comodino, quadri sparsi in giro di lei e della sua famiglia, e un tappeto rosso e bianco sotto l’arco che collegava la stanza al corridoio principale.
“Bella casa, signorina Marvel” disse, facendo segno ad Alcatraz di sedersi.
“Oh, Andrea, chiamami pure Gloria” rispose lei dalla cucina. Andrea avrebbe voluto dirle che preferiva chiamarla per cognome, come la rigida etichetta del 500 imponeva ad ogni nobil uomo, ma sarebbe stato piuttosto strano da spiegare.
Guardò la belva e lesse nei suoi occhi, molto chiaramente, la frase “Non è neanche più signorina”; si trattenne dal ridere e gli diede una gradita carezza, sorridendo.
“Allora,” disse Gloria, poggiando un vassoio con tre tazze fumanti e biscotti sul tavolo. “parlami un po’ di te. Che fai tutto solo in casa? Non ti annoi?”.
“Mah, a dirle la verità no. Io e Alcatraz stiamo bene anche da soli, pur ricevendo visite da alcuni miei amici di tanto in tanto”.
La donna annuì, assolta, senza accennare a voler lasciar cadere la conversazione. “Quindi non hai parenti, giusto? E chi ti mantiene?”.
“Ho una madre, in Olanda.” rispose, cercando di sembrare credibile. “Ma la vedo poco e mai, solo per Natale, quando i soldi bastano. Lavoro, faccio l’assistente nella piscina qui accanto”.
“Davvero? E da quanto lo fai? Credo che tu abbia una specializzazione, no?”.
“Già, ho frequentato un corso per avere il brevetto a sedici anni e ho fatto nuoto per dieci. Avevo le carte in regola, insegno ed assisto da quasi tre anni ormai”.
“Ne hai diciannove? Ti facevo più grande… non è un offesa, assolutamente, ma sembri più maturo”.
“La ringrazio”.
Fece cadere lo sguardo sulla tazza fumante che aveva davanti a sé, senza toccarla.
“Anche mia nipote fa nuoto, lo adora. Da quando la madre - mia sorella - ci ha lasciate, lei vive qui”.
“Sì?” chiese, anche se non con reale interesse.
“Oh, sì… poverina, aveva un tumore all’utero e se ne è accorta troppo tardi. E’ morta due anni fa, e sua figlia si è chiusa in un mondo tutto suo senza più uscirne perché, sai com’è, una poi si sente…”.
E si perse.
La sua mente era concentrata su tutt’altro; sul suo cane, sulla cioccolata, sul vento fin troppo fresco che entrava da uno spiffero della finestra principale, sull’odore caldo che gli arrivava… su tutto, tranne che sulle parole della donna. Alle sue orecchie giungeva solo un flebile ronzio malinconico, lo stesso di chi ha molto da dire ma nulla da raccontare; non che non gli piacesse ascoltare la gente, anzi, Andrea amava dare la sua disponibilità a chiunque ne avesse bisogno. Eppure quella donna, con i capelli di uno strano giallo canarino e gli occhi eccessivamente cadenti e azzurrini, non lo ispirava particolarmente. Conosceva la sua vita, l’aveva vista nascere, e sapeva come e quando si sarebbe conclusa; che senso aveva fingere di ascoltare qualcosa che sapeva già? Come quando, a lezione di storia, era costretto a subire le lezioni sulle guerre fredde. Lui c’era, ovvio che in classe non prestava mai attenzione! Ma per fortuna gli anni di scuola erano finiti da 900 anni, ai diciotto terrestri, e non li avrebbe mai più dovuti rivivere.
“…e quindi, ti dicevo, un giorno Philip mi chiese di uscire. Io accettai, ma la sera stessa del nostro appuntamento morì d’infarto… che avrei dovuto pensare?”.
Che fosse una scusa bella e buona.
“Che il fato è contro di me, ovviamente! Non è un caso che mi trovi qui, ora, senza un marito e dei figli!”.
Andrea annuì distrattamente, maledicendosi per essere entrato in quella casa. Maledisse anche Alcatraz, quello stupido presuntuoso, che aveva solo seguito l’odore dei biscotti fatti in casa.
“Ad ogni modo, io non credo alla fortuna, sai?”.
Ma va?
La faccia di Andrea divenne una maschera di ironia. Se avesse parlato, avrebbe svelato il trucco da solo; si limitò a scuotere la testa il più tristemente possibile, cercando di sembrare indignato.
“Tu sì che sei un buon giovane, ben educato! Ma prego, serviti pure!”.
Non aspettava altro, anche se non lo diede a vedere. Prese due biscotti, uno per sé ed uno per Alcatraz, e cominciò a bere la cioccolata ormai tiepida. Però era buona, e dolce.
Si chiede distrattamente di chi fosse la terza tazza, sperando non per il cane; ma no, non era così rimbambita quella donna da poter dare della cioccolata ad un cane…
“Alcatraz, puoi andare a chiamare mia nipote Elisabeth? E’ in camera sua, terza porta a destra”.
O forse sì; almeno, lo era abbastanza da mandare un cane a chiamare una ragazzina.
Per sua fortuna, Al sapeva perfettamente dove andare. Andrea lo aveva scelto con cura dalla cucciolata della sua nona cagna; era il primo maschio che prendeva da più di quindici generazioni. Sei stelle di eccellenza per la razza più bella ed addestrabile tra le razze da pastore; non poteva esserne più felice, visto che quella razza l’aveva creata lui con anni di fatica su incroci.
“Vedrai, ti piacerà” gli disse la donna, facendogli l’occhiolino in modo osceno. “E’ proprio una bella ragazza!”.
Andrea sorrise, piuttosto imbarazzato, e portò alle labbra la tazza piacevolmente tiepida. L’orologio sulla parete segnava le dieci e venti; anche troppo tardi, per i suoi standard.
“Signora, io dovrei lavorare domani mattina…”.
“Un secondo solo, il tempo di presentarti mia… eccola qua!”.
Gloria si alzò in piedi ed abbracciò una ragazza dalla figura esile e bassina. Aveva i capelli rossi e mossi che ricadevano morbidi sulle spalle; due occhi blu, contornati da occhiali neri su un viso dai lineamenti dolci e morbidi, esaltavano ancora di più la delicatezza di quel corpo. Era in pigiama, non si poteva non notarlo; maglietta a maniche lunghe con coni gelato, pantalone lungo bianco panna, e pantofole imbottite rosa ai piedi.
Andrea trattenne il respiro.
“Zia, che succede? Di chi è questo cane? Perché era in camera mia?”.
La sua voce arrivò nitida alle orecchie del ragazzo. Ma, più che la sua voce, Andrea sentì altro.
Dum Dum Dum.
No, si stava sicuramente sbagliando. Non poteva essere proprio lei, dopo tutto quel tempo passato senza vederla, dopo tutte le sue vite… forse si era confuso, magari aveva sentito male.
“Non succede nulla, tranquilla! Lui è Andrea, il ragazzo che abita con questo splendido cane alla fine del vialetto! Non è carinissimo?”. Lei arrossì all’improvviso.
DUM DUM DUM.
“Zia Gloria…”.
Andrea espirò, famelico d’aria. Tossicchiò un paio di volte, attirando su di sé gli occhi vispi della ragazza. Eppure, a ricordar bene, fino a qualche anno prima non sarebbe mai riuscita a sfidare il suo sguardo in quel modo… era lei, ora ne era certo.
Riconosceva la sua stessa sfacciataggine in quello sguardo carico di curiosità e fastidio, ma anche di timidezza ed imbarazzo per la strana situazione. Riconosceva quei capelli, quegl’occhi, riconosceva quel sorriso… e quel battito. Forte, deciso, che nascondeva però un cuore debole e fragile.
Ma perché non se ne era accorto prima? Doveva essere successo qualcosa, quel giorno, che gli aveva impedito di ascoltare il suo battito.
Così bello, così libero, così indipendente… così suo.
Continuò a tossire per qualche altro secondo, cercando le forze per smettere di farlo.
“Stai bene, Drew?” gli chiese Gloria, battendo una mano sulla sua spalla destra.
Lui annuì frettolosamente e si ricompose, drizzando la schiena e sospirando come non faceva da tempo. Che avrebbe dovuto fare?
“Grazie, davvero, ma devo proprio andare. Alcatraz domani ha una sessione di allenamenti alle 12 e alle 6 devo essere in palestra per l’allenamento mio. E’ stato un piacere, la cioccolata era ottima, spero di avere la possibilità di rincontrarla presto. Detto questo, arrivederci!”.
Ma magari fosse stato così facile. Non disse nulla, si limitò a sorridere come un’ebete con una paralisi facciale, e restò con lo sguardo fisso su Gloria per un po’ di secondi.
“Caro, così mi lusinghi…”.
Sbatté le palpebre e mise a fuoco la figura china su di lui. “Oh, mh… mi scusi, stavo pensando ad una cosa e non mi ero accorto di fissarla”.
Lei parve delusa, ma fu un attimo. “Bene. Elisabeth, lui è Andrea. Andrea, mia nipote Elly”.
“Tu... tu mi ricordi qualcuno" disse, senza accennare ad una stretta di mano o altro.
Andrea non se ne stupì molto; “Si?”.
“Si”.
“Che strano, non credo di averti mai vista prima” disse, scuotendo la testa un paio di volte.
“Dici? Mi starò sbagliando, allora...”
“Ma non è un problema”.
Elisabeth assottigliò lo sguardo e fece un passo avanti; “Scusa?”.
“Dico, non è un problema. Potremmo sempre rimediare”.
La sua bocca sembrò toccare terra, poco dopo. Gloria osservava la scena in silenzio, con la tazza ormai fredda stretta tra le mani; sembrava… stupita, alquanto, ma non troppo. Come se, in qualche modo, avesse capito tutto prima di loro.
Andrea non si rese subito conto delle sue parole. A dire il vero, se ne accorse solo dopo, mentre tornava a casa con le mani strette nelle tasche per il freddo.
Elisabeth aveva alzato le mani e se ne era tornata in camera sua senza aggiungere altro, così si era deciso a recuperare la belva ed uscire da quella casa.
“Visto? Che strana cosa, il destino”. Ma Alcatraz continuava a camminare sfacciato, senza alcun peso sulle spalle. Ad ormai nove anni di vita, Andrea avrebbe dovuto cominciare a provvedere per un erede. “Che ne dici? Lo fai un cuccioletto per me, da tenere per i prossimi anni?”.
Al abbaiò al buio della strada con un latrato sonoro e il padrone sorrise.
“Come immaginavo. Andiamo dentro và, credo proprio che sia ora di dormire”.
Ma in realtà non dormì affatto. Restò tutto il tempo sul letto, a pancia all’aria, coperto fino al mento con un pled pesantissimo. Le ombre del passato gli ronzavano intorno come mosche fastidiose che girano attorno ad un povero cavallo, e lui non sapeva come scacciarle; poteva solo allontanarle momentaneamente. Avrebbe lasciato tutto correre. Si sarebbe tenuto a distanza da quel dolce richiamo e avrebbe, lentamente, trovato il modo per riprendersi quel che gli spettava di diritto. Eppure, la faccia innocente e bambina di quella sedicenne continuava a persistere in lui. Con quale coraggio avrebbe potuto…? Chiuse gli occhi e, lentamente, si lasciò cullare da una poesia che da anni imbrattava la sua mente. Prima o poi, si disse, sarebbe andato a scriverla da qualche parte. Non fece in tempo a pensare al dove, la sua mente si era già spenta e, per quella notte, avrebbe potuto riposare in pace.
 
 
Come ombre di pensieri
Tu fluttui attorno a me
Presente in tutti i sentieri
Che intraprendo senza un perché
 
Sempre lì
Nel passato e nel domani
E ammetto di essere assente
Se non sento le tue mani
 
Con voglia fugace
Uno sguardo precoce
Di solito mi piace
Più che sentir la tua voce
 
Ma a questo ora mi assento;
basta un tuo sorriso
felice e distaccato
a far apparir il mio sgomento
 
e muoio all’infinito.

 

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