No Happy Ending

di A li
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** No Hope ***
Capitolo 2: *** No Love ***
Capitolo 3: *** No Glory ***
Capitolo 4: *** No Happy Ending ***



Capitolo 1
*** No Hope ***


*No Happy Ending*

NdA: Grazie a te che hai aperto questa pagina! XD

Solo alcune piccole cose prima di cominciare.

Questa storia non vuole essere una storia d’amore, perciò, anche se questo capitolo potrà indurvi a pensarlo, state tranquilli che non sarà così.

L’idea è abbastanza vecchia e i primi due capitoli li ho scritti cinque mesi fa, perciò se notate un cambio di stile (e sarebbe come a dire che sono migliorata XD) fatemelo notare!

La storia si comporrà di quattro capitoli, tutti già completi, perciò non c’è rischio che rimanga incompleta.

Beh, che direr ancora… Buona lettura! E lasciate un commento, per favore! XD

 

 

*No Happy Ending*

 

 

No Hope, No Love, No Glory.

No Happy Ending.

 

Happy Ending – Mika

 

 

Anno 2013

1. No Hope (senza speranza)

 

- Mmm… Questo no. -

- Perché? E’ carino… - azzardai.

- No, non fa per me. - ribatté lei decisa.

Sospirai rumorosamente per attirare la sua attenzione, ma non sembrò capirlo. Forse attribuiva la mia stanchezza al viaggio che avevo appena concluso, in America. In realtà ero stufa di starle dietro, mentre lei cercava l’abito adatto ad un’uscita col suo ragazzo, un’uscita come tante altre, che io non trovavo così degna di attenzione.

Era un po’, in effetti, che non passavo del tempo con mia sorella: mi ero dimenticata di come fosse fissata sull’abbigliamento. Ma del resto a me piaceva così.

La guardai di sottecchi mentre, con espressione corrucciata, squadrava una canottierina e una maglietta a maniche corte come se fosse dilaniata dall’indecisione. Sorrisi.

- Allora, quale ti piace di più? -

Lei si voltò di scatto, alzando un sopracciglio, stupita da tanta curiosità.

- Io… - rispose, tornando ai vestiti – non saprei, veramente. -

Alzai gli occhi al cielo per un attimo, ma lei non mi vide.

- Provatele, no? – feci, scettica.

Allargò di scatto occhi e bocca, come colpita da un’illuminazione.

- Hai ragione! – esclamò. E corse nel camerino più vicino, sparendo dietro la tenda rossa, che volteggiò un attimo per poi fermarsi.

Ah, la mia Volle.

Finalmente libera mi guardai intorno.

Prima ero stata letteralmente trascinata nel reparto ‘eleganza’ da mia sorella a tutta velocità e non avevo avuto il tempo materiale di capire dove mi trovassi. In teoria doveva essere un negozio abbastanza lussuoso: non avevo mai visto tanti commessi, né tanti capi d’abbigliamento, per non parlare dei camerini: erano una specie di baldacchino con legno dorato intagliato e una tenda rosso acceso.

Non sapevo perché, ma quel locale mi metteva una certa ansia. Poteva spuntare una commessa da un qualunque angolo e attaccarti. E allora dovevi per forza comprare.

Non ci tenevo a fare quella fine.

Figurati: parli del diavolo e spuntano le corna.

Una commessa con il nome ‘Leda’ stampato sulla maglietta voltò l’angolo.

Presa da un insensato panico arretrai velocemente e rischiai di travolgere un ragazzo. Quello mi lanciò un’occhiata furtiva, poi se ne andò per la sua strada, senza nemmeno aspettarsi uno ‘scusa’.

Mi voltai velocemente e cercai di orientarmi, ma sembrava che in pochi secondi avessi fatto chilometri, perché non riconoscevo più i camerini in cui avevo lasciato mia sorella.

‘Beh, pazienza’ pensai.

Osservai gli abiti che mi circondavano: probabilmente ero nel reparto ‘skin’, o come chiamavo io la roba attillata. Qualche anno prima era quello il nome ufficiale, ma adesso sembrava che il nome fosse ‘kaun style’ o qualcosa del genere.

Erano passati anni dai miei mitici diciotto. Bei tempi.

Purtroppo dopo aver raggiunto la maturità mi ero trasferita in America ed ero tornata pochi giorni prima.

Mi accorsi di come tutto suonasse tragicamente familiare. Mi era davvero mancata la mia Germania.

- Ich heiβe Laika -

Voltai la testa. Una bambina faceva le prove davanti allo specchio, fissando la propria immagine, compiaciuta.

Sì, anche il tedesco mi era mancato. Tutto quell’inglese! Non ne potevo davvero più.

L’America non era così male e se abitavi in un altro stato quello era un buon posto per studiare, ma non potevo negare a me stessa che in realtà avrei preferito studiare in patria.

Ma avevo scelto di fare la traduttrice; in particolare dall’inglese. E avevo dovuto per forza trasferirmi per un po’. Comunque adesso i risultati erano davvero stupefacenti e, pur non appartenendo a nessuna associazione, avevo già ricevuto il mio primo lavoro in merito all’impegno scolastico.

Insomma, ero stata raccomandata dai miei professori.

E ora avevo ventitre anni. Percepivo già la giovinezza andarsene dalla mia anima: mi sentivo consumata dentro, come se avessi già fatto tutto quello che ci si potesse aspettare dalla vita.

- Ailka! -

Quella voce che mi chiamava mi fece riscuotere.

Scossi la testa per allontanare i cattivi pensieri, ma non c’era nessuno accanto a me.

Me lo dovevo essere immaginato. Eppure quella voce… mi sembrava di averla già sentita.

Ad un tratto le luci si spensero e il negozio fu avvolto nell’oscurità.

Mi ci volle un momento per registrare il fatto, poi capii. Miseria, ero rimasta talmente assorta nelle mie riflessioni da non accorgermi che il locale stava chiudendo. Probabilmente ormai erano già andati tutti via, ma se avevo fortuna potevo avere ancora qualche possibilità di uscire.

Cominciai a correre alla cieca, fidandomi del mio istinto, quando urtai contro qualcosa di indefinito che veniva dalla direzione opposta. Caddi a terra.

- Scheiße! – esclamammo insieme io e la cosa che mi aveva travolta. Allora era umana.

- Io… - cercai di dire.

Ma la figura mi interruppe bruscamente. – No, aspetta. –

Sentii che si alzava e tornava da dove era venuto.

Aspettai imbambolata per alcuni minuti, senza motivo. Non sapevo perché, ma quella voce mi era tremendamente familiare e qualcosa dentro di me mi implorava di star ferma e attendere.

E infatti qualche attimo dopo la luce sopra la mia testa si accese nuovamente, mostrandomi che ero seduta di fronte al camerino in cui avevo lasciato Volle. Ma, come immaginavo, lei non c’era. Magari aveva pensato che fossi già tornata a casa e se ne era andata. Ma in che pasticcio mi ero cacciata?

Tentai di mettermi faticosamente in piedi, ma un dolore tagliente alla caviglia mi impose di restare seduta. Mi ero anche presa una storta?

Doveva essere stato quando avevo urtato contro quella persona. Ma chi era? Era stata sicuramente lei ad accendere di nuovo le luci. Ma adesso dov’era?

Udii uno scalpiccio qualche metro più indietro, alle mie spalle. Qualcuno stava correndo verso di me.

- Ah, eccoti! -

Ignorando il dolore, costrinsi tutto il mio corpo a girarsi verso la voce.

L’avevo riconosciuto.

Come avevo fatto a non capirlo prima?

Gli fissai i piedi che calzavano due grossi anfibi e lentamente, con il terrore di essermi sbagliata, percorsi il suo profilo magro fino al viso.

Un’espressione preoccupata su un viso angelico avvolto in una cascata di capelli neri a meche bionde.

Era lui.

Era Bill Kaulitz.

Un tremito mi scosse tutta e un’onda di ricordi e rimpianti mi travolse completamente inaspettata.

Un concerto a Oberhaussen.

L’amore sconfinato per qualcuno che non mi avrebbe mai nemmeno guardata.

Anni passati ad ammirare poster attaccati al muro della mia camera.

La possibilità di incontrarli quel giorno di giugno.

La delusione di rimanere fuori dall’hotel, sotto la pioggia, senza averli nemmeno visti da lontano.

Pianti interminabili nella mia stanza e un’estate buttata nel cesso. A causa loro.

Il giuramento che non li avrei mai più ascoltati.

La partenza per l’America.

Mi ero dimenticata. Tutto. Negli anni trascorsi all’estero ero riuscita nel mio intento: mi ero del tutto scordata dei Tokio Hotel. Per me non erano mai esistiti. Mi ero ripromessa che se un giorno li avessi mai visti non li avrei guardati in faccia, come loro avevano fatto con me.

Ma avevo appena infranto il giuramento, perché guardavo ad occhi spalancati il ragazzo che mi stava di fronte. Le lacrime minacciavano di scendere, ma la rabbia era decisamente più forte di ogni altro sentimento. Che collera insensata.

Ignaro di tutto, Bill mi fissava ancora interdetto.

Ad un tratto un sorriso apparve sul suo volto. Mi porse una mano.

- Allora non c’è speranza che possa aiutarti ad alzarti? -

Puntai lo sguardo nel suo, risvegliata dalla sua voce.

- No. – sussurrai, cercando di reprimere la rabbia. Aveva rovinato due anni della mia vita.

Pensando che scherzassi, aggiunse: - Oh, allora sono senza speranza? –

Abbassai lo sguardo a terra, tentando di trattenermi ancora una volta. Ma, come un congegno ad orologeria, il mio furore scoppiò e non potei far niente.

- Tu! – gridai.

Le lacrime cominciarono a correre sulle mie guance.

Questa volta Bill si spaventò davvero.

- Ma cosa…? -

- Tu! Tu mi hai rovinato la vita! – 

- Io…no…- balbettò confuso.

Impotente, senza avere la forza di alzarmi da terra, svuotata da quel semplice urlo, rimasi piegata contro il pavimento. Con i gomiti incollati a terra, osservai le lacrime di cinque anni cadere e confondersi con la polvere grigia.

Cosa avevo creduto di fare? Avevo pensato di poter negare tutto a me stessa?

Che stupida ero stata.

Stupida ad innamorarmi di lui, stupida a credere di dimenticarlo.

Stremata e scossa dai singhiozzi mi distesi ed il contatto del pavimento fresco contro il mio viso bollente mi portò un senso di benessere enorme. Smisi di piangere e chiusi gli occhi.

Che stupida.

 

Osservo il poster appeso sopra la testa del letto in cui dormo.

Bill Kaulitz. Bill Kaulitz. Bill Kaulitz.

Leggo e rileggo il nome più volte. Come suona bene. E’ un nome così bello!

Fisso per l’ennesima volta il volto ritratto nell’attimo in cui canta ad Oberhaussen.

Quell’espressione così decisa… Dev’essere un ragazzo perfetto.

Mi avvicino al muro e appoggio la testa sulla sua potenziale spalla, poi mi ritraggo un po’ e, con lentezza esasperante, appoggio le labbra sulle sue di carta, sognando di poterlo fare un giorno.

Mio padre entra in camera e mi guarda un momento.

- Ailka… Sei proprio senza speranza… -

 

No Hope.

Senza Speranza.

 

 

Note finali:

Spero vivamente che almeno un po’ vi sia piaciuta!

Ok, l’inizio non è bellissimo, scusate, ma vi assicuro che più va avanti, più migliora! XD

Spero nei vostri commenti… Aggiornerò presto!

Alla prossima…

 

Aki

 

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Capitolo 2
*** No Love ***


*No Happy Ending*

NdA:

Ringrazio tantissimo, con tutto il cuore, chi si è fidato di me e ha recensito!

vero94

broken93

Gufo

Grazie anche a

angie83

sbadata93

che mi hanno messa tra i preferiti! XD

 

Spero che questo nuovo capitolo vi faccia piacere!

Commentate, eh? XD

 

*No Happy Ending*

 

 

No Hope, No Love, No Glory.

No Happy Ending.

 

Happy Ending – Mika

 

 

Anno 2013

2. No Love (senza amore)

 

- In Die Nacht… -

Una voce dolce canticchiava una melodia familiare poco distante da me.

Mentre dal dormiveglia una forza sconosciuta mi riportava alla realtà, una forza altrettanto sconosciuta mi diceva di non aprire gli occhi.

E io non lo feci. Ma portai alla mente tutte le informazioni che avevo per stabilire in che luogo fossi.

Analizzai la voce che pian piano si affievoliva, come in balia dei ricordi che la trascinavano lontano e, in un secondo, tutto quello che mi era successo nel negozio riaffiorò alla memoria.

Il terrore mi scosse in un tremito violento e la voce interruppe anche i pensieri, dopo la cantilena, e si rivolse a me.

- Tutto bene? -

Spalancai di scatto gli occhi e mi ritrovai a fissare una massa grigia a cui la mia faccia era incollata.

A fatica piegai le braccia, facendomi forza su quelle per sollevare di poco la schiena ed il viso.

La vista che mi si presentava non era certo delle migliori: ero in cinque metri quadrati di pavimento, stesa a terra, circondata da attaccapanni pieni di jeans e felpe e con una persona, che in fondo al cuore odiavo, davanti.

- Oh… Ben svegliata. -

Alzai lo sguardo ed incrociai il suo, tra l’ironico e lo spaventato. Non dovevo avere un bell’aspetto.

- Grazie. – sussurrai, fredda.

Bill Kaulitz si rabbuiò e il sorriso, che fino a poco prima aveva sfoggiato, scomparve dalla sua faccia.

Restò in silenzio per qualche minuto, fissandomi di soppiatto, mentre riprendeva a cantare quelle canzoni che la mia mente, contro la mia volontà, aveva conservato. Le sapevo a memoria: non c’era una nota che uscisse dalle sue labbra che io non conoscessi prima di udirla.

Ma faceva troppo male.

Già, male. Guardai l’orologio che aderiva al polso del mio braccio destro, ricordandomi in che razza di situazione ero. Le lancette segnavano le sette e mezza di mattina. La sera prima dovevo essermi addormentata dopo la sfuriata.

Che stupida.

Mi ero comportata come una bambina, come quella ragazzina illusa da cui tanto avevo cercato di scappare e che invece avevo conservato gelosamente dentro di me, pronta a riaffiorare. Avevo gridato contro Bill Kaulitz (che avevo sempre sperato di conoscere, nonostante cercassi di negarlo) per colpe che lui non aveva. Come poteva riguardarlo il cuore infranto di una ragazzina di 18 anni? Come poteva importargliene quando lui non sapeva nemmeno della mia esistenza? Quali colpe aveva se una stupida bambina si era rovinata due anni di vita inseguendo un sogno impossibile?

Nessuna.

- Ich schrei in Die Nacht... -

I miei occhi agirono incontrollati e si puntarono su quel ragazzo che era stato il dilemma della mia giovinezza. Lo fissai per un attimo di troppo e, incollata alla sua figura dall’aspetto androgino, non potei più abbassare lo sguardo.

Quanto era cambiato.

Erano passati cinque anni, miseria, solo cinque anni. Eppure mi sembrava di non posare gli occhi sul suo profilo da una vita. I suoi capelli erano più corti di quelli che aveva a diciotto anni, erano tornati simili al taglio che aveva all’epoca di “Schrei (so laut du kannst)”. Però le meche bionde arricchivano perennemente le sue ciocche scure. Gli occhi erano ancora come me li ricordavo, marcati da quelle strisce di matita nera che lo rendevano così particolare. Il fisico però non rappresentava le mie memorie: sembrava persino più basso di come lo ricordassi.

Ma non era questo a preoccuparmi.

Non era tanto l’aspetto a renderlo così diverso ai miei occhi. Era che… sembrava… stanco, molto stanco. Sotto il nero disegnato al contorno delle palpebre riuscivo ad intravedere pesanti occhiaie, che non poteva sperare di mascherare: erano troppo evidenti.

E poi lo sguardo. Me lo ricordavo così pieno di vita e forza, che il dolore e la rassegnazione che vi lessi mi fecero salire i brividi sulla schiena.

Sembrava invecchiato di dieci anni, nonostante ne avesse solo cinque in più. Pareva che il dolore gli avesse risucchiato a tradimento due anni alla volta,

Chissà cos’erano diventati i Tokio Hotel in tutto questo tempo. In America non erano così popolari come in Europa e non ne avevo sentito più parlare da quando ero partita per andarci a studiare. Probabilmente avevano tirato fuori altri album belli come i primi, ma mi risultava particolarmente difficile immaginare canzoni migliori di quelle scolpite nei miei ricordi.

E Bill, ignaro dei miei pensieri, continuava a canticchiare tristemente ‘Spring Nicht’, con il volto e lo sguardo rivolti a terra. Ma la voce non era più chiara come prima, c’era qualcosa che mi faceva pensare che rivolgesse a se stesso le suppliche di ‘non saltare’ presenti nella canzone.

Un altro brivido mi percorse tutta e questa volta lui si voltò.

Sostenni il suo sguardo indagatore con una certa difficoltà.

- Allora… - cominciò, tornando a guardare con straordinario interesse il pavimento – Non mi hai detto come ti chiami. -

- Ailka. Ailka Benzner. – risposi con voce ferma. A ventitre anni non mi sarei certo emozionata di fronte a Bill Kaulitz, avevo da tempo superato quella stupida adolescenza.

- Ailka… - soppesò un momento la parola pronunciata – Immagino che tu mi abbia riconosciuto… -

Sorrisi. – Si è visto, eh? –

Non sapevo perché, ma una voglia strana di farlo sorridere cresceva dentro di me, alla vista del suo aspetto desolato.

Per fortuna lui rispose al sorriso.

- Sì, mi è sembrato che, oltre a conoscermi, fossi un po’ arrabbiata con me. – fece una pausa voluta.

Ma io non replicai e lui andò avanti.

- Comunque non importa. Già solo il fatto che tu ti sia accorta di me mi fa onore. -

Dovevo avere sulla faccia un’espressione così esplicitamente interrogativa da farlo sorridere ancora.

- Che c’è? – chiese, sinceramente curioso.

Alzai un sopracciglio. – Non credo di aver capito bene la parte sul fatto dell’ “onorato” eccetera. –

- Beh,… - replicò lui, visibilmente confuso – Ho detto che sono contento di essere stato riconosciuto, non mi capita spesso, sai? – aggiunse, ironico.

Ma io non colsi niente del genere, avevo semplicemente e totalmente la mente in subbuglio. Poi un’idea si fece spazio tra le altre.

- Vuoi dire che nessuno ti riconosce più? – chiesi, sconvolta.

- … sì… - affermò lui, cauto.

- Quindi – continuai – non sei più famoso? –

Conclusi la frase con gli occhi spalancati.

Bill mi fissò un momento come una malata di mente, poi si sforzò anche lui di ragionare come avevo fatto io. E anche lui centrò in pieno la situazione. Per un attimo fu colto da una risatina.

- Da quanto tempo non sei in Germania? -

Abbassai gli occhi e li rialzai quasi subito. – Cinque anni. –

Sospirò e appoggiò i gomiti al pavimento dietro di lui.

- Beh… - disse infine - Ti sei persa un bel po’ di cose. -

- A quanto pare… - 

Restammo in silenzio. Io riflettevo, lui giocherellava con le gambe tese al pavimento.

All’improvviso mi sentii in dovere di dare spiegazioni.

- Scusa. – esclamai, d’istinto.

Bill mi rivolse un’occhiata indecifrabile.

- Per ieri, dico, io… -

- Non fa niente. – replicò lui, tornando al solito posto con lo sguardo.

Lo fissai nuovamente di sottecchi.

- Io… - esitai, le guance stavano diventando pericolosamente calde. – Sai… Ero innamorata di te, da ragazzina. Beh, cinque anni fa, intendo. -

Mi pentii subito delle mie parole, sia perché non capivo come avessi potuto trovare il coraggio di spiattellargliele lì, sia perché lui chiuse gli occhi e sospirò.

- E’ sbagliato. -

Aggrottai le sopracciglia, tra il confuso e l’attento.

Bill mi si rivolse tristemente. – E’ sbagliato innamorarsi così, immagino tu l’abbia capito, ormai… -

- Forse non ancora abbastanza. – le parole mi uscirono automaticamente.

Un altro sospiro.

- Però l’ho sofferto, tanto, questo amore. – sussurrai. Non sapevo perché gli stessi raccontando la mia vita, le mie disgrazie, ma sentivo che poi sarei stata meglio. Forse infondo era un suo diritto conoscerle, dato che era lui il mio centro, attorno a cui ruotava quell’insensata esistenza. – Ho pianto tante di quelle notti, di nascosto, che nemmeno ricordo di essere stata felice da ragazzina. Pensavo che tu saresti stato mio un giorno, mi dicevo che in qualche modo saresti venuto a prendermi, come il principe azzurro. Ci credevo davvero. – una risatina mi sorse alle labbra – Che assurdità. -

Lui taceva. Senza voltarmi, ma sempre fissando il pavimento, il viso ed il corpo parallelo ai suoi, potevo udirne il respiro irregolare, ansioso.

- Poi, un giorno, i Tokio Hotel hanno deciso di venire ad Oberhausen. Un concerto. Ed io avevo i biglietti dei meet&greet. -

Mi interruppi un momento. Bill emise un gemito soffocato.

Continuai, pur con una strana preoccupazione in corpo.

- Ma il momento non arrivò mai.  Restai ad aspettarli sotto la pioggia, con in mano quei biglietti inutili. Per un attimo, ti vidi passare all’entrata dell’hotel, per andare al furgoncino e sparire. Rimasi solo con la tua immagine per ricordo e le lacrime come scudo. Ma ero una ragazzina. Ed avevo dei sogni.

Ora ho imparato che i sogni non servono a nulla. Nella vita conta solo il presente. -

Avevo finito. Non mi aspettavo niente, né una parola di conforto, né un commento indifferente, nulla. Desideravo solo che lo sapesse, che mi ascoltasse, una volta nella mia vita.

Ciò che sentii mi sconvolse.

Un gemito, più forte questa volta.

- Io sapevo. – sussurrò, la voce flebile – Io sapevo. Quella sera, quando partimmo con il furgoncino, sentii dentro di me che avevamo cambiato la vita di molte persone. Mi rendevo conto che le fan ci amavano, che un tradimento sarebbe stato per loro molto più grave di come noi ce l’immaginavamo. Sapevo che loro non ci avrebbero perdonato. Tu hai smesso di sperare, hai smesso di sognare per quel giorno odiato. Ma cosa potrebbero aver fatto molte altre? Alcune mi hanno scritto, le loro parole ancora mi ossessionano… ‘Ti amo, Bill, ma ho capito che non c’è speranza, allora è meglio andarsene’’Bill, mi spiace, non posso più vivere con questo dolore.’… Capisci? -

Bill mi fissava con occhi spalancati. Una lacrima scese sulla linea perfetta del suo viso bianco.

- Io… -

Io… Io cosa? Non c’era niente da dire. Non ero stata stupida, ero stata cieca. Avevo pensato al mio dolore, solo e soltanto al mio, senza pensare che potevano esserci altre ragazze che condividevano la mia pena, o una peggiore. Ero stata egoista, persino il dolore avevo voluto tenerlo solo per me, come avevo sempre voluto fare con Bill. Molte avevano perso la vita, quella notte, mentre io mi ero separata da loro, quando forse avrei potuto aiutarle.

- Alcune – riprese Bill, la voce più calma, ma con una terribile nota di rassegnazione – mi scrissero che avevano rinunciato ai genitori, alla loro protezione, che avevano perso degli amici, per me. Solo per me. E che adesso che io non le avrei nemmeno guardate, non avevano più niente. Lo sai cosa vuol dire? – alzò improvvisamente la voce – Sai cosa significa il peso di venti vite sulla coscienza? -

Io lo guardavo, impotente e attonita.

Il silenzio piombò di nuovo tra noi.

Un sospiro da parte sua, uno da parte mia. In fondo avevamo tutti e due qualcosa di sbagliato alle spalle.

- Quella sera, anzi, quella notte, si registrò il più alto tasso di suicidi dell’anno, a Oberhausen. E sembra stupido pensare che sia a causa nostra… Gente che muore per noi! Ma, purtroppo, venti persone su quaranta che quella notte posero fine alla loro esistenza, lo fecero a causa dei Tokio Hotel. A causa nostra! Solo e solamente per noi! Nessuno in tutta la Germania ci volle credere e per un anno si discusse di questo caso. Alla fine dovettero ammettere che era così. Fu solo il primo passo verso la fine.

- Cominciai a guardare le fan con apprensione e a non sopportare più i loro pianti ai concerti. Non riuscivo a non ricordare quelle parole delle ultime lettere ricevute… Non so perché lo feci, forse fu per disperazione, ma decisi di trovarmi una ragazza tra loro. Probabilmente ero confuso, non trovavo una via d’uscita ai sensi di colpa, forse volevo donare ad una di loro l’amore che avevo negato a tutte. Scelsi Julia, una sera d’ottobre. Ma fu un errore. Non riuscii, per quanto mi sforzassi, ad amarla. Feci soffrire anche lei, come tutte. E la persi: se ne andò una notte di febbraio del 2009. Rimasi solo, ma era giusto così. –

Il mio respiro era accelerato, il cuore non contava i battiti.

Perché? Perché Bill si era rovinato così?

- Non avevo capito che ero troppo sensibile per essere una star del rock. Avrei dovuto guardare con distacco le sofferenze delle fan. Ma come avrei potuto? -

Chiuse gli occhi un'altra volta e appoggiò la testa al muro dietro di lui.

- Sono felice. – dissi, spontaneamente.

Lui grugnì la sua confusione, in risposta.

- Infondo sei sempre stato quello che immaginavo.  Solo senza peccati e… senza amore. -

Bill Kaulitz strinse i pugni.

Capii che c’era ancora qualcosa del suo passato che non mi aveva detto.

 

No Love.

Senza Amore.

 

 

Note finali:

Allora… La storia comincia a prendere corpo.

Era questa la mia intenzione primaria: immaginare un futuro diverso per Bill, qualcosa che lo facesse riflettere e cambiare.

Spero che l’idea venga apprezzata!

Se vi è piaciuto lasciate un commentino! XD

Alla prossima!

 

Aki

 

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Capitolo 3
*** No Glory ***


*No Happy Ending*

NdA:

Ringrazio tantissimo chi ha scritto le recensioni, che sono salite! XD

Non smetterò mai di ringraziarvi! ç-ç

vero94

angeli neri

sbadata93

broken93

Gufo

Grazie anche a

angie83

sbadata93

sognatrice

broken93

sunsetdream

tokiohotellina95

Ora i preferiti sono a quota sei! XD

 

Contenta che il vecchio capitolo vi sia piaciuto (e dispiaciuta immensamente per l’enorme ritardo – causa scuola ç_ç), vi presento questo nuovo capitolo! Un altro aspetto del passato di Bill sarà svelato! XD Spero vi piaccia… Commentate!

 

 

*No Happy Ending*

 

 

No Hope, No Love, No Glory.

No Happy Ending.

 

Happy Ending – Mika

 

 

Anno 2013

3. No Glory (senza gloria)

Che cosa c’è di peggio se non avere per tutta la vita il cuore oppresso dai sensi di colpa?

Bill Kaulitz viveva così; da quanto tempo, non mi era dato saperlo.

Lo guardai ancora una delle tante volte in cui l’avevo fatto in questo negozio, dentro il quale eravamo chiusi da due giorni. Nessuno veniva ad aprire, probabilmente perché la domenica era chiuso.

- Che ore sono? – chiese improvvisamente Bill, catturando la mia attenzione.

Spostai gli occhi al mio orologio da polso. – Quasi le dieci. –

Sospirò. Probabilmente pensava che avrebbe dovuto star chiuso ancora molte ore prima della mattina, che gli avrebbe portato la libertà.

Mi sistemai meglio allo scalino a cui ero appoggiata e continuai a restare chiusa nel mio mutismo, come avevo fatto dalla mattina, dopo che Bill mi aveva raccontato la sua storia.

Ora camminava avanti ed indietro, in quei cinque metri quadrati, fissando i grossi anfibi che portava ai piedi. Mi sembrava così solo che non potei fare a meno di pensare al suo passato.

Era arrivato in vetta alle classifiche, al massimo della fama in soli tre anni. Aveva sempre avuto tutto ciò che aveva voluto, dalla popolarità all’amore di suo fratello. Era restato sotto gli occhi del mondo intero nel corso del 2008, facendo un tour che partiva dall’Europa e arrivava alla mitica America.

Aveva avuto apparentemente tutto. Tutto: una parola senza capo né fine, una parola che mi aveva sempre spaventato… Quando hai tutto e non ti manca niente, per cosa puoi ancora vivere?

- Bill… - sussurrai.

Lui si voltò, ancora una volta con quello sguardo desolato e stanco, ancora una volta trapassandomi il cuore.

- Cosa volevi davvero dalla tua vita? -

Abbassò gli occhi, come per raccogliere quei tratti di ricordi e coscienza che gli rimanevano.

- Solo essere accettato per quello che ero, dimostrare a tutti che sarei arrivato in alto anche senza dover cambiare. -

Ci fu un attimo di silenzio: pensavo che avrebbe proseguito, invece non disse nulla.

- E non l’hai ottenuto? -

Sembrò pensarci un attimo. – Sì. –

- Ma non è bastato, giusto? -

Vidi il suo sguardo scurirsi un istante e poi tornare opaco come sempre.

- No. – rispose, sincero – No. -

Si passò una mano tra i capelli neri, sciupati dal dolore. Ma quale dolore? Solo quello dei sensi di colpa che lo attanagliavano? Possibile che potessero avergli rovinato la vita in quel modo definitivo, inesorabile?

Lui restò muto e io non osai chiedergli null’altro.

Restammo uno di fronte all’altro, lui in piedi e io seduta, per quasi un’ora, senza pudore e vergogna di guardarci negli occhi. Sentivo una familiarità nel suo dolore, da non capire se stessi guardando lui o me stessa di cinque anni fa. Me stessa del 2008. Quella ragazzina illusa che si era innamorata di Bill Kaulitz stella della musica.

Quel Bill Kaulitz non aveva niente a che fare con il ragazzo che catturava la linea del mio sguardo e la incrociava per trovarci qualcosa di suo, il ragazzo che ora mi stava di fronte. Questo Bill Kaulitz era qualcosa di nuovo, qualcosa di così diverso da ciò che mi ero immaginata da sconvolgermi.

Quel silenzio mi bastava. Avevo gridato così tante volte il suo nome cinque anni prima, che ora ne avrei fatto facilmente a meno. Potevo vivere, ora, tutto ciò che avevo sempre sognato: guardare il ragazzo di cui mi ero innamorata fissare me. Me e solo me. Potevo finalmente sentirlo rivolgermi una parola, due o tre, senza essere accomunata sotto il nome impreciso di “fan”.

Ma nonostante tutto, solo adesso capivo che quel ragazzo che avevo desiderato tanto conoscere non era niente in confronto a Bill Kaulitz. Lui aveva qualcosa di mio, un istinto così familiare da farmi rabbrividire. Potevo leggere nel suo sguardo quasi i miei stessi pensieri: i pensieri di solitudine, angoscia, puro e inutile dolore.

E in quell’ora che passammo immobili conobbi di lui più di quello che avevo raccolto in due anni di ricerca maniacale di informazioni. Seppi dai suoi stessi occhi che avrebbe dato di tutto pur di smettere di soffrire.

Io me n’ero andata dal mio paese e avevo dimenticato tutto, per smettere di soffrire. Ma lui che cosa aveva fatto? Era indubbio che ci avesse provato, ma come? C’era una parte di lui che ancora mi nascondeva, una fetta della sua vita che avrei tanto desiderato veder uscire dalle sue labbra.

- Hai qualche famigliare che sa dove ti trovi? -

Bill interruppe quel contatto intimo e prolungato, con una frase troppo banale ed inutile ai miei occhi.

- Sì, mia sorella. E’ strano che non abbia chiamato, visto che è un giorno che manco da casa… -

-Il cellulare non prende qui dentro. – mi prevenne lui, perché non aprissi inutilmente la borsa.

Ricadde il silenzio. Successe perché in realtà non erano quelle le parole che avremmo dovuto dirci.

La verità era che avremmo dovuto piangere, finalmente liberi di farlo, gridare che il nostro dolore non aveva senso, cercare conforto l’uno nell’altra.

Ma sapevo, dentro di me, che non l’avremmo mai fatto.

Lo fissai ancora, perché mi era impossibile non farlo, ma lui non cercò più di ristabilire quel contatto speciale che avevamo trovato nei nostri occhi. Mi voltò le spalle e rimase immobile, con lo sguardo puntato su qualcosa che io non potevo vedere.

- Bill… -

Per la seconda volta lo chiamai.

Pronunciare quel nome ed essere sicura che, per la prima volta nella mia vita, lui lo avrebbe udito, mi faceva sentire  sulla lingua un sapore aspro di rimpianto.

Lui non si voltò.

- Dimmelo, ti prego… - mormorai.

Non capii il senso delle mie parole. Restai muta a sentirne l’eco, spiazzata dalle emozioni che mi crescevano dentro. Volevo sapere. Sapere perché il suo sguardo fosse così carico di dolore, sapere cos’era stato e cosa fosse in quel momento. Sapere, e basta.

Ero sicura che, anche lui, stesse ascoltando l’eco delle mie parole.

- Cosa? – chiese, sospirando.

Mi morsi le labbra.

- Tutto… - dissi con un filo di voce, la gola chiusa dal dolore.

Lo sentii ridere, senza alcuna felicità nella voce.

- Tutto… - ripeté.

Fece un passo avanti, verso gli abiti appesi davanti a lui, all’altezza della vita. Appoggiò le mani sul metallo gelido. Quando entrarono in contatto, le vidi fremere. Ma non era il freddo.

- Da quando sono nato, - disse – ho sempre solo pensato a me stesso. -

La frase mi spiazzò. Cercai di replicare, ma m’interruppe subito con un gesto. Si accasciò più profondamente sull’appendiabiti in metallo e lo vidi tremare.

- Anche quando nacquero i Tokio Hotel, io non cambiai. – proseguì – Mi dicevo che il gruppo era mio, che era famoso grazie a me. – la voce gli si ruppe un momento, poi riprese potenza – Nonostante questo, io ho sempre amato mio fratello. -

Fece una pausa.

Io mi chiesi se avessi mai messo in dubbio una cosa del genere.

- Ma il mio egocentrismo mi è costato caro. -

Senza vederlo, sapevo che stava sorridendo amaro. – Dopo il tour europeo 2008, dopo il concerto a Oberhausen, questo mio atteggiamento si esasperò. Nelle interviste non parlavo più nemmeno di mio fratello, lasciavo fuori Georg e Gustav. Loro cercarono di non badarci, pensarono che il mio atteggiamento fosse dovuto allo shock che avevo subito il giorno del concerto, quando quelle venti persone si erano tolte la vita. –

Fece un’altra pausa.

Ogni volta il silenzio scendeva, come un sipario invisibile. Io aspettavo che si alzasse di nuovo, che mi aprisse ancora la scena di Bill, quel Bill che non avevo mai conosciuto.

- Quando avevamo formato il gruppo, avevamo giurato che non ci saremmo mai divisi, che avremmo fatto musica insieme fino alla fine: era il nostro patto.

Nel 2009, anche a causa mia, ero il più famoso nel gruppo. Sui giornali apparivo sempre solo, nelle pose più stupide e con gli argomenti più impensabili. Ma ero sempre solo. Pian piano, il nome Tokio Hotel venne quasi del tutto cancellato. Al suo posto restava Bill Kaulitz. –

La sua risata mi fece rabbrividire. – A pensarlo ora, direi che fu un’anticipazione di quello che venne dopo. –

Finalmente si girò a guardarmi.

Trasalii: le lacrime gli scendevano sulle guance pallide, il trucco era sbavato.

Sentii il bisogno di alzarmi e stringerlo forte.

Non lo feci.

- Mio fratello me lo disse, una notte che eravamo soli. – continuò, la voce sottile e rotta. – Me lo disse, che stavo sbagliando. Me lo ripeté tantissime volte. Io non lo ascoltai.

Successe un giorno, durante il rinnovo del contratto discografico. Un promoter mi disse che se avessi voluto, c’era per me una possibilità di rinnovare il contratto come solista.

Quando lo disse, io non pensai. Semplicemente lo guardai un momento e mi feci dare il foglio con le clausole, per studiarlo con calma.

- Loro erano lì con me, in quel momento… – sussurrò, il panico nella voce e gli occhi spalancati dall’orrore.

Io ero impietrita a terra, senza la possibilità di muovermi, il cuore a mille.

- Quella sera, Tom entrò nella mia stanza. Mi chiamò piano, a voce bassa, come non aveva mai fatto. Mi disse semplicemente “Adesso basta, Bill.” Nella sua voce, sentii un disprezzo che non avrei mai immaginato.

Se ne andarono quella notte. Tutti e tre.

I Tokio Hotel finirono così. –

Mi sentii morire. Fu un attimo, ma me ne accorsi. Due anni prima, Bill aveva cercato di togliersi la vita, glielo leggevo negli occhi. Alla fine, ne ero sicura, non ci era riuscito.

- Mi salvò mio fratello. – sussurrò, ormai accasciato a terra, il viso stravolto.

Una lacrima scese sulla mia guancia: una sola, ma bastò a fargli capire che sapevo a cosa si riferiva.

- Mi lasciò un biglietto, mi scrisse “Non farti del male”.

In quella frase cercai di leggere una traccia dell’amore che aveva provato per me, del fratello che era stato. Ma forse fu solo una mia illusione, fu solo quello che avrei voluto vedere. –

Restammo in silenzio, una volta ancora, pensando al nostro dolore, a quanto fossimo simili e allo stesso tempo a come appartenessimo a due mondi diversi che non si sarebbero mai incontrati.

- Bill… - mormorai, con voce di supplica.

Lui sorrise.

- Sono stato uno stupido. Mi sono lasciato scappare tutto ciò che era la mia più grande fortuna, quello che distingueva la mia vita da tutte le altre. Alla fine, ho avuto solo ciò che meritavo. -

La sua voce sicura s’incrinò ad un tratto. – Avrei solo voluto vedere mio fratello, ancora, per dirgli che gli voglio bene, nonostante tutto quello che ho fatto. –

Non seppi che rispondere. Il suo dolore mi era famigliare, ma comunque estraneo. C’era qualcosa, in tutto questo, che mi diceva che non c’entravo nulla, che la mia strada era un’altra.

- Bill… Mi dispiace. -

Ma la banalità di quelle parole mi colpì nel petto. Non erano abbastanza per descrivere quello che aveva sofferto.

Mi alzai e gli andai incontro.

Quando mi piegai su di lui, ripensai a cinque anni prima, quando, di fronte a quel poster, sognavo di poter assaggiare le labbra perfette di Bill, un giorno, di poterlo avere per me.

Ora, mentre mi spingevo verso di lui e lo abbracciavo forte, cercando di trovargli dentro qualcosa che somigliasse alla vita, non era più quello che cercavo.

Mentre lo sentivo aggrapparsi a me, con disperazione, rabbia e frustrazione, con tutto il dolore di cinque anni che gli pesava sulle spalle, capii che non avrei mai più cercato in lui l’amore che avevo disperatamente provato a 18 anni.

Lo strinsi forte sulla mia pelle, semplicemente perché sentivo dentro di lui qualcosa di così enorme da essere capace di distruggere tutte le mie difese, un dolore così intenso da non trovarvi un paragone. Nemmeno in me stessa.

- Grazie… - sussurrai.

Non mi capì, lo so di certo.

Lo ringraziai perché, se non fosse stato per quell’incontro, avrei continuato ad amare disperatamente una persona che non esisteva, rovinandomi. Lo ringraziai perché, finalmente, dentro di lui avevo ritrovato me stessa.

Lo ringraziai perché lo avrei amato sempre, ma non l’avrei desiderato mai più.

In quel momento, pensai che avevo sempre creduto che fosse il ragazzo più fortunato al mondo e che noi, esseri umani insignificanti, non potevamo competere.

Le cose stavano diversamente, e ora lo capivo davvero.

Mentre rimanevamo immobili e stretti l’uno all’altro, sicuri che se ci fossimo lasciati saremmo caduti in pezzi, pensai che Bill aveva perso la possibilità di amare, di sperare e ora, perfino la gloria.

Quella che, anche se ti porta via il resto, spesso rimane.

Ma Bill aveva perso tutto.

 

No Glory.

Senza Gloria.

 

 

Note finali:

Ecco, ecco… Il prossimo capitolo (già scritto, come avevo detto in partenza) concluderà tutto.

Solo più un piccolo sforzo!

Lasciato un commentino, ok? XD

Baci a tutti…

 

Aki

 

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Capitolo 4
*** No Happy Ending ***


*No Happy Ending*

NdA:

Grazie a coloro che hanno recensito e hanno avuto la pazienza di aspettare:

vero94

angeli neri

sbadata93

broken93

Sognatrice

Grazie anche a

angie83

betta94_th

sbadata93

sognatrice

broken93

kiku_san

sunsetdream

tokiohotellina95

Ora i preferiti sono 8! XD

 

Mi prostro ai vostri piedi per l’enorme ritardo – spero vorrete concedermi ancora il vostro perdono…

Eccoci all’ultimo capitolo. Non anticipo niente… Spero solo che vi piaccia. XD

 

*No Happy Ending*

 

 

No Hope, No Love, No Glory.

No Happy Ending.

 

Happy Ending – Mika

 

 

Anno 2013

4. No Happy Ending

                   (senza lieto fine)

Mi svegliò il suono del suo respiro.

Non so cosa ci fosse in quel tiepido ritmo di differente rispetto agli altri rumori che udivo. Forse, la mia anima aveva bisogno di sentire che dentro di lui c’era ancora qualcosa di vivo.

Quando lo trovai, poco lontano da me, seduto contro lo scalino del pavimento che avevamo condiviso in quei due giorni, mi sembrò di essere in un sogno.

Bill lo era sempre stato per me. Ma finalmente avevo scoperto la verità.

La verità era che Bill Kaulitz non aveva niente a che vedere con la visione che avevo io di lui: la persona che per tanto tempo avevo creduto di amare non esisteva, era una creazione della mia anima perduta. Ora, davanti a lui, sentivo solo il bisogno di abbracciarlo, per consolarlo del dolore che provava.

Gli volevo bene, come ad un fratello, perché, nonostante tutto, era stato una parte importante della mia vita.

Mentre lo osservavo, con quello sguardo che lui perdeva lontano, sentii sulla mia pelle il peso del tempo.

Dai miei diciott’anni era passato davvero tantissimo. Ora, percepivo sul corpo lo scorrere di ogni singolo minuto: dopo aver perso la mia giovinezza nel dolore, la paura di sprecare ogni singolo attimo era incontrollabile.

Dentro di me ero sicura, adesso, che il tempo che stavo passando con Bill non era sprecato.

Sospirai, senza accorgermene realmente, perché fino a pochi giorni prima, se avessi pensato di ritrovarmi in una situazione del genere, avrei maledetto ogni Dio esistente.

- Sei sveglia? -

Fu solo un sussurro, una frase di circostanza.

Qualcosa che ci desse l’impressione di esistere ancora.

- Sì. – risposi.

Mi alzai faticosamente a sedere, inarcando la schiena intorpidita e sciogliendo le spalle. Era tutto buio intorno, quello che mi aveva permesso di scorgere gli oggetti intorno a me era la luce d’emergenza, sempre accesa. Doveva essere ancora notte fonda.

Stiracchiando ancora un braccio che aveva preso a formicolare, vidi Bill mordersi il labbro inferiore. Sembrava nervoso. Ma c’era qualcosa di differente nei suoi occhi, rispetto al giorno prima. Mi sembrava quasi di vedere una luce nuova: piccola, ma presente.

- Bill… - lo chiamai.

Lui si voltò, sorridendo tirato.

Probabilmente non aveva dormito niente, da quando eravamo chiusi lì dentro. Mi guardava come si fa in preda a quel dolore che vuoi tenere per te. Ma stava in silenzio.

Abbassò lo sguardo stanco sui suoi piedi, sentii che voleva dirmi qualcosa.

- Bill… - ripetei, cercando la sua risposta.

Ma lui continuava a mordersi le labbra, forse cercando in sé la forza che non aveva.

La voglia di piangere mi chiuse la gola, come il giorno prima. Presi a torturarmi le labbra, per evitare che lui capisse cosa provavo. Perché soffriva così?

- Ailka… - mi disse.

Il suono del mio nome detto da lui mi fece rabbrividire. Senza saperlo davvero, avevo sempre desiderato che mi pronunciasse il mio nome. E non mi sembrò, in quel momento, una cosa stupida.

- Perdonami per quello che ti ho fatto. -

Sussultai e il nodo in gola mi fece male. Una lacrima che non ero riuscita a trattenere scivolò giù dalla mia guancia.

Non volevo che soffrisse ancora. Ma sapevo che i suoi sensi di colpa non l’avrebbero mai abbandonato.

- Bill, non… - tentai.

- Ti prego, lascia stare. – mi interruppe – Se ho fatto del male alle persone a cui tenevo di più, questo è quello che mi merito. -

Sentirlo ripetere ancora una volta, come la sera prima, quelle parole, mi creò un buco nel petto. Perché se non lo avrei più desiderato, comunque l’avrei amato sempre e non volevo che soffrisse.

Ma la vita di Bill era stata così, dall’inizio e io non potevo certo fare qualcosa.

- Per favore… - disse ad un tratto.

L’urgenza nella sua voce mi fece capire che era quello ciò che realmente aveva voluto dirmi fin dall’inizio.

Deglutì, cercando di trattenere le lacrime.

- Per favore… Dimmi che non sarà così per sempre. -

Tremai, mentre pronunciava quella frase. Altre lacrime scesero, seguendo la prima.

Cosa avrei dovuto rispondere?

Nel mio cuore una dolorosa certezza mi diceva che Bill avrebbe sofferto per sempre.

Mi chiesi se fosse la punizione di un qualche Dio che governava il mondo. Ma ero sicura che, se fosse esistito, avrebbe concesso a Bill una vita migliore.

- Non sarà così per sempre, Bill. -

Alla fine, mentii. Perché il mio cuore andava contro la mia razionalità.

Perché forse in questo modo avrebbe sofferto davvero di meno.

Calò il silenzio. E sentii che in quei pochi secondi Bill avrebbe saputo che la verità era un’altra: lui avrebbe scontato quella punizione per sempre e lo avrebbe fatto da solo.

Il panico s’impadronì di me. Come potevo abbandonarlo, ora?

Mentre lo abbracciavo forte, come la sera prima, ripensai a mia sorella. Per lei lo avrei fatto: sarei rimasta con lei sempre e l’avrei aiutata a sopravvivere, anche se mi sarebbe costata la sofferenza più grande.

Se fosse stata accanto a me, in questo momento, lei avrebbe saputo cosa fare. Mi avrebbe detto: “Non abbandonarlo, Ailka, perché ha bisogno di te.”

In realtà, forse avrebbe detto qualcos’altro. Nella mia mente le parole giuste si composero.

“Aiutalo, Ailka, perché gli vuoi bene, anche se ti ha fatto del male.”

Per la prima volta, lo sentii singhiozzare contro la mia schiena. Le sue lacrime mi bagnarono i vestiti, ma non me ne curai.

Finalmente il suo dolore uscì.

Perché anche se ammetteva di essere colpevole, di meritare tutto quello che stava soffrendo a causa sua, Bill era pur sempre un essere umano. E gli esseri umani sono esseri soli e tristi.

Gli esseri umani piangono se la loro vita non ha senso.

Sentii tutto quello che aveva taciuto per anni uscire fuori.

Uscì non perché io fossi diversa dalle altre persone, ma perché Bill aveva raggiunto il limite della sopportazione.

Su di me, lo sentii cercare l’affetto di Tom, lo sentii tentare di afferrare quel calore che aveva irrimediabilmente perso.

Per un attimo, sperai di poterglielo donare. Ma era solo un’illusione.

Restammo così per molto tempo, ognuno perso in quegli universi che non combaciavano.

- Cos’è questo…? – lo sentii chiedere, la voce roca per il troppo piangere.

Lasciai che si districasse dalle catene del mio corpo.

In quel momento, sentii anch’io quello che aveva sentito lui.

- Fumo…? -

Mi alzai in piedi, seguendo la linea del suo sguardo per l’enorme locale di cui non avevamo scoperto quasi niente, ma in cui avevamo capito noi stessi.

La paura si materializzò prima che capissi. L’istinto fece presa sul mio cuore.

- Cosa…? – balbettai, con occhi spalancati.

Lui non rispose, ma mi afferrò il polso con urgenza e si mise a correre verso la prima uscita di sicurezza di cui lesse l’indicazione. Quando gli arrivò di fronte, ci si gettò contro e cercò di aprirla.

Restò chiusa.

Il panico s’impadronì di me. Faticavo a respirare e non riuscivo a stare dietro al passo veloce di Bill.

Quando mi guardai alle spalle, vidi che le fiamme arancioni, contro il buio dell’edificio, si stavano espandendo.

- Bill! – cercai di dire, ma mi venne fuori solo un rantolo.

Come poteva essersi acceso un incendio?

Nel panico, con la pura per me e per lui, non riuscivo a ragionare lucidamente. Non parlavo e non gridavo. Non piangevo neppure. Sentivo solo le gambe molli e un senso d’impotenza crescente.

Bill si guardava intorno, cercando probabilmente una soluzione, ma nei suoi occhi non c’era la minima traccia di paura. Il dolore e la rassegnazione che vedeva nel suo futuro gli permettevano di ragionare lucidamente. Freddo, tentava di aggrapparsi alla vita. Ma qualcosa mi disse che non era la sua, di vita.

Sempre tenendo forte il mio braccio, si mise a correre su per le scale che aveva intravisto al fondo del magazzino e mi trascinò dietro la sua corsa.

Il piano di sopra era pieno di scatoloni, le fiamme avevano raggiunto l’angolo alla nostra destra.

- Bill… - mormorai, disperata. Era tutto ciò che riuscivo a dire.

Senza guardarmi, riprese a correre verso il punto in cui le fiamme avevano distrutto quasi tutto. Non mi chiesi perché lo stesse facendo: senza più un briciolo di forza di volontà, prosciugata dai due giorni di reclusione e dalla paura, lo seguii.

Quando arrivammo alla parete, capii. Sul muro, c’era una porta scardinata, l’unica uscita. Al di là, c’erano le scale antincendio. Ci sarebbe bastato sorpassare una zona pericolante in cui il pavimento era ceduto, e avremmo raggiunto la salvezza.

Studiando con attenzione, nei pochi secondi che ci rimanevano, Bill si avvicinò. Si tolse la maglia che portava e me la legò su una mano. Senza sapere perché, rimasi immobile.

- Ascoltami. – disse, serio.

Era la prima cosa che gli sentivo dire da quando avevamo iniziato a fuggire e il suono della sua voce mi spaventò. Il crepitio delle fiamme mi riempiva le orecchie del rumore di morte.

- Vedi quella barra lassù? – mi chiese.

Io alzai lo sguardo verso una spranga di ferro che era appesa poco lontano dalla porta scardinata e annuii.

- Adesso ti prendo in braccio; tu appenditi lassù. Poi stai attenta a tenerti bene e salta dall’altra parte. -

Senza attendere una risposta, mi afferrò le gambe e mi issò verso la barra di ferro. Feci appena in tempo a chiedermi come facesse ad avere ancora quella forza, poi dovetti appendermi. Usai la mano che Bill mi aveva coperto con la sua maglia e capii perché l’avesse fatto: al di là del tessuto, sentivo il ferro scottare.

- Ci sei? – mi urlò, sopra il rumore assordante del fuoco.

Cercai di rispondere sì, ma non ci riuscii, avevo la gola completamente secca. Lui capì comunque.

Mi spinse avanti. Facendo leva sulle mie ultime forze, saltai oltre la voragine che si apriva sotto i miei piedi e atterrai rovinosamente sul piano della scala antincendio, oltre la porta.

In quel momento, sentii un rumore assordante alle mie spalle. Mi voltai di scatto, la lucidità recuperata.

La barra che mi aveva sorretto era appena caduta.

Per la prima volta, capii le reali intenzioni di Bill. Oltre il muro di fiamme che saliva sempre di più, sorrideva nella mia direzione. Era seduto a terra, affaticato e sporco di fuliggine. Sembrava felice.

- Hai visto? – gridò, perché sentissi – Per la prima volta ho fatto qualcosa per un’altra persona. -

Quando compresi le sue parole, il panico mi assalì. E fu peggiore di quello che la paura poteva darmi.

- Bill! – gridai – Salta di qua! -

Lui sorrise ancora e scosse la testa. – Non voglio. –

La verità era che non poteva, ma le sue parole mi fecero capire che era una sua scelta.

Scoppiai a piangere, senza contegno, protendendomi verso il baratro che ci avrebbe sempre diviso.

- Bill! – gridai, più forte – Bill! Non farlo, ti prego! -

Ma lui mi fissava felice, per la prima volta e scuoteva la testa.

- Va bene così. – disse.

- No! – lo implorai, allo stremo – Bill, non lasciarmi! -

A quelle parole, si rabbuiò. – Hai la tua vita, Ailka, non sprecarla. –

- No! – gridai ancora, protendendo un braccio verso di lui.

Dall’altra parte, lui tese il suo. – Mi spiace per quello che ti ho fatto. Ci sarò sempre.

Faresti un’ultima cosa per me? – aggiunse, ma quasi non lo sentivo più.

Le lacrime gli inondarono il volto, ma lui sorrideva.

- Dì a Tom che gli ho sempre voluto bene e che sempre gliene vorrò. -

Poi tacque.

Nonostante tutto il frastuono che sentivo intorno, nonostante il fuoco che lambiva sempre più da vicino la sua figura, nonostante le sirene dei vigili del fuoco che cominciai a sentire dietro le spalle, nonostante tutto questo io udii quel silenzio. Lo sentii forte.

E ne ebbi paura.

In quel momento, la certezza che Bill se ne sarebbe andato per sempre, mi colpì assoluta.

Il rumore dei miei singhiozzi mi parve assordante più di ogni altra cosa.

Guardai ancora Bill sorridente e cercai di tenere a mente il suo sorriso.

Poi il soffitto cadde.

Fu l’ultima cosa che vidi.

Mentre perdevo coscienza, mi sembrò di morire.

Di una cosa ero certa: una parte di me sarebbe morta insieme a lui.

Ma io avrei continuato a vivere. E lo avrei fatto anche per lui.

 

 

This is the way that we love (Questo è il modo in cui amiamo)

Like it’s forever (Come se fosse per sempre)

Then live the rest of our life (Poi viviamo il resto della nostra vita)

But not together (Ma non insieme)

 

No hope, no love, no glory

No happy ending

 

 

FINE

 

 

Note finali:

Direi che non ha bisogno di commenti. Sono pronta a farmi uccidere…

Purtroppo il finale era già scritto e non ho voluto cambiarlo, anche se forse oggi avrei fatto concludere diversamente questa storia.

Spero commenterete comunque! ^^

Grazie e a presto!

 

Aki

 

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