Oggetti

di D per Dolcetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E lei disegnava ***
Capitolo 2: *** Who cares? ***
Capitolo 3: *** Ciò che non sono ***



Capitolo 1
*** E lei disegnava ***






One-shot prima classificata nel secondo "C per Concorso" organizzato da "D per Dolcetta"





Tema:
Oggetti
Titolo: E lei disegnava
Autrice: Ariadne/ AriadnesLinon





Tutto era cominciato quando le avevano messo in mano la prima matita.

Non aveva neanche cinque anni, allora, ma il ricordo era vivo nella sua mente.

Era alla scuola materna, ed era sola. Gli altri bambini non volevano la sua compagnia: la additavano, le dicevano cose brutte, le tiravano i capelli e la prendevano in giro per il suo nome.

Quel giorno, erano stati più cattivi del solito: avevano preso un’intera ciotola di tempera viola, e gliel'avevano rovesciata in testa, ridendo.

Poi avevano cantilenato.

Lei se le ricordava bene, quelle voci; e ricordava bene se stessa lì, inerme e schiava della crudeltà ingenua che solo i bambini possono avere.

« Violet, sei contenta? Ora sei viola! »

« Violet, perché non dici niente? »

« Violet! Violet! »

« Ma secondo voi Violet ce l'ha la lingua?! »

« Secondo me no! »

« Violet, faccela vedere, facci vedere se hai la lingua! »

E i bambini le facevano la linguaccia, storcendo le bocche in smorfie cattive.

Violette sentiva un fuoco dentro, una rabbia senza fine che le premeva le tempie, le strizzava il cervello, le faceva prudere le mani... Le chiudeva la gola.

E Violette non riusciva a parlare.

Quella volta era stata la maestra a salvarla.

« Se non riesci a dirlo, disegnalo » le aveva detto porgendole la matita.

Insieme a quella matita, c'era anche un album; era grosso, voluminoso, forse un po' troppo per una bambina.

Ma Violette decise che l'avrebbe tenuto; avrebbe cominciato da lì.

Così, quando i bambini la prendevano in giro e la rabbia l'assaliva, lei prendeva l'album da disegno.

I bambini le facevano la linguaccia, i bambini ridevano.

E Violette prendeva il suo album.

E Violette disegnava, disegnava disegnava...

 

Poi era stata la volta della professoressa delle medie.

Era una donna alta, austera, dall'aspetto acido e il volto severo; guardava Violette come si guarda un insetto che fa troppo schifo anche solo per poterlo schiacciare.

Lei li sopportava, quegli sguardi, con la testa che le scoppiava e la furia che le infiammava il petto, ma ogni volta che la donna le faceva una domanda la rabbia le bloccava le labbra e non riusciva a proferire parola.

« Violet, come morì Giulio Cesare? »

Violet non rispondeva, e allora la professoressa le lanciava sguardi disgustati dall'alto della cattedra, allora proclamava con voce crudele:

« Vedete, ragazzi? Questo è un esempio da non prendere, è la peggior specie di alunno: quello muto ».

Il cuore di Violette batteva forte, le mani le dolevano, ma la donna non lo sapeva e continuava a guardarla male.

La professoressa la guardava, la professoressa rideva.

E Violette prendeva il suo album,

E Violette disegnava, disegnava disegnava...

 

Poi, era cresciuta.

Era cresciuta nel silenzio dei suoi quadri, gli unici a farle davvero compagnia; era diventata una ragazza minuta, dall'apparenza fragile, coi capelli tinti di viola perché non le tirassero più la vernice.

Aveva quasi accettato se stessa e aveva imparato a far parlare i disegni al posto suo.

C'era quasi riuscita, a smettere di sentire quella rabbia.

Allora era arrivata Ambra.

Ambra, con i suoi vestiti firmati, con la sua schiera di leccapiedi, Ambra con gli occhi di ghiaccio talmente duri che le tagliavano il respiro.

Ambra, che aveva la voce cattiva e che la sapeva usare.

Violette aveva tentato, aveva provato ad ignorarla, a far finta di non sentire, ma non c'era riuscita.

Ed erano ricominciati gli insulti, erano ricominciati gli scherzi, le bugie.

E Ambra che vedeva il suo peluche e lo diceva a tutta la scuola.

Ed erano ricominciate le tempie che pulsavano, ed era ricominciata la rabbia ed era ricominciata la follia.

Ma Ambra non lo capiva e le tirava il peluche in faccia.

Ambra tirava il suo peluche, Ambra rideva.

E Violette prendeva il suo album.

E Violette disegnava, disegnava disegnava ...

 

Per ultimo c'era stato Alexy, con la sua voce così gentile.

Era un ragazzo dolce, Alexy, era un ragazzo che ascoltava: chiacchierava tanto, ma qualche volta faceva silenzio e la incoraggiava a parlare. Con lui c'era quasi riuscita, a sentirsi normale.

Si sedevano in cortile, all'ombra della magnolia, e lui le raccontava la sua vita; le parlava di suo fratello, della sua passione per la musica, del suo prossimo vestito, e poi la guardava con quegli occhi enormi e le diceva che gli piaceva il suo nome, che assomigliava a lei.

Violette era stata felice, con lui, ci aveva quasi creduto, aveva quasi pensato di aver trovato un posto per il proprio cuore.

Si era innamorata, di quei pochi silenzi, di tutte quelle parole.

E alla fine gliel'aveva detto, con la gola libera come non era mai stata, il cuore che pompava forte, questa volta per l'emozione.

Ma lui l'aveva rifiutata.

A lui lei non piaceva, si era sentita dire, non sarebbe mai potuta piacere: lui voleva braccia forti e guance ispide, voleva qualcosa di diverso che lei non gli poteva dare.

Lei era meravigliosa, davvero, ma lui proprio non ci riusciva; l'avrebbe amata volentieri, se avesse potuto, ma non era capace, non ci riusciva e sapesse quanto questo lo faceva soffrire...

Poi aveva lasciato cadere una lacrima stanca, una sola.

Ed era stato allora, più di tutte le altre volte, che Violette aveva ricominciato a sentire la rabbia.

Ormai il cuore le bruciava, le mani sembravano in fiamme per il dolore; la testa pareva voler esplodere da un momento all'altro, e la gola era arsa, e la lingua inerme, bloccata.

Alexy avrebbe dovuto capirlo, invece l'aveva rifiutata.

Alexy la rifiutava, Alexy piangeva.

E Violette prendeva il suo album.

E Violette disegnava, disegnava disegnava...

 

*

 

Jean, Pauline, Roxanne e Philippe erano rimasti amici anche dopo aver finito il liceo; avevano deciso di trasferirsi, prendere un appartamento e andare all'università insieme.

Si conoscevano fin da bambini, andavano d'accordo e non avevano mai litigato. Vantavano un sacco di amici, erano di bell'aspetto, simpatici e non avevano mai discusso seriamente con qualcuno.

Per questo, nessuno seppe chi incolpare quando i loro corpi vennero ritrovati in fondo ad un burrone, gli occhi vitrei e gli arti scomposti e spezzati. Le bocche, spalancate, lanciavano mute grida di aiuto.

Nessuno le avrebbe mai sentite: le lingue erano state mozzate.

Accanto ai corpi, sporco di terra e sangue, un disegno; i tratti erano infantili, abbozzati. Ritraeva dei bambini.

Bambini che facevano la linguaccia, silenziosi.

E Violette strappava il suo album da disegno.

E Violette rideva, rideva rideva.

 

Aghate era una donna stanca, vecchia e sopraffatta dalla vita.

Ormai da tempo conduceva un'esistenza ritirata, dedita allo studio di nozioni antiche e dimenticate; anni prima era stata una professoressa, ma l'anzianità e la durezza del suo cuore l'avevano costretta ad allontanarsi dai posti in cui la vita era troppo forte e si faceva sentire.

Era sola, Aghate; perciò, nessuno sentì la sua mancanza, quando la trovarono morta nel suo piccolo studio.

Giaceva inerme, riversa sulla sua scrivania, coperta dal sangue secco delle ferite; sul suo corpo, ventitré pugnalate*, inferte da una mano sconosciuta.

Le orbite, spalancate, erano vuote… incapaci di lanciare ancora quegli sguardi disgustati.

Fra le sue mani, stropicciato, un disegno: una donna stava in cattedra, gesticolava.

Una donna senza occhi, silenziosa.

E Violette strappava il suo album da disegno.

E Violette rideva, rideva rideva.

 

A neanche trent'anni, Ambra aveva raggiunto l'apice della sua carriera di donna d'affari; si era fatta strada con le unghie e con i denti, letteralmente, mettendoci in mezzo anche le gambe e la taglia del reggiseno.

Era ricca, Ambra, più di quanto non fosse stata da ragazza, ed era ancora bella come prima; aveva successo, molta gente la cercava, così tanta che aveva acquistato una bellissima villa sul lago, per stare da sola con qualche amante, ogni tanto, per starsene in pace.

Perciò, erano passati ormai giorni quando la trovarono; sedeva nella veranda, assassinata.

Era in vestaglia, come se si fosse appena alzata, e aveva le mani pallide abbandonate in grembo, legate. La testa era piegata in un'angolazione strana e la pelle, tinta del gelido candore della morte, strideva con il segno rosso lasciato dai lacci sul suo corpo seminudo.

In bocca, spinto giù fino alla gola, a soffocarla fino a morire, qualcosa di bianco: l'imbottitura di un peluche, quello che giaceva sventrato ai suoi piedi.

Una busta era stata lasciata al suo fianco, una lettera da un mittente fatale. Dentro, un disegno che raffigurava una ragazza bionda col volto coperto da una pecorella rosa.

Ambra col suo peluche in faccia, silenziosa.

E Violet strappava il suo album da disegno.

E Violet rideva, rideva rideva.

 

Alexy era rimasto quello di sempre, anche quando era cresciuto.

Non portava più vestiti tanto colorati né lenti a contatto rosa a coprire il suo azzurro naturale, e i capelli erano più scuri, forse, ma aveva tenuto lo stesso sorriso e la stessa voglia di vivere che lo avevano sempre caratterizzato. Era un ragazzo allegro, felice di aver accettato se stesso e sicuro di essere amato: aveva conosciuto Gabriel in un negozio di musica, una sera che era in cerca di un regalo di Natale.

Si sarebbero sposati con Elton John a fare da sottofondo, di lì a qualche mese.

La sua, per tutti, fu la morte più dolorosa.

Fu Armin a trovarlo, di ritorno da un congresso di lavoro; era steso sul suo letto, immobile, freddo e senza più quella vita che tutti avevano tanto ammirato.

Non una traccia di sangue macchiava il suo volto; i suoi occhi erano chiusi, la sua espressione serena. Indossava un bellissimo abito elegante, nuovo di zecca, nero con tanto di giacca e cravattino; all'occhiello portava un fiore: una violetta, una sola.

Sul petto, vicino al cuore, c'era un foglio di carta ripiegato con cura. Sopra, un disegno: due ragazzi.

Lui aveva il viso allegro e bellissimo, lei i capelli viola e l'abito da sposa.

Alexy che sposava lei, felice.

E Violet bruciava il suo album da disegno.

E Violet piangeva, piangeva piangeva...







 

*ventritrè pugnalate: il modo in cui è stato ucciso Cesare; riprende la domanda che la professoressa le pone nella prima parte.




 

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Capitolo 2
*** Who cares? ***


Who Cares?

 
Autrice: Sakyo91



Le note del pianoforte che risuonavano nel palazzo provenivano da una delle stanze agli ultimi piani.
Quella melodia era così affascinante che Lysandre ebbe la voglia, per la prima volta in dodici anni, di salire le innumerevoli rampe di scale che portavano alle vette più alte della sua dimora.
Ogni gradino, un sussulto al cuore. Non aveva mai sentito una musica tanto bella. Raffinata sì, ma potente. Il musicista di corte non poteva competere in alcun modo con chi stava dando vita a quel connubio di suoni tanto… vigoroso.
La corsa su per le scale di pietra, il fiatone per cercare di arrivare prima che l’esibizione finisse, l’aspettativa che aumentava come l’acqua di un fiume in piena.
Percorse quel lungo e buio corridoio col cuore in gola, in altre circostante avrebbe avuto paura di trovarsi lì, ma la curiosità era più forte di tutto il resto.
Finalmente si trovò di fronte la porta che racchiudeva quella straordinaria magia.
Esitò appena un momento, poi abbassò piano la maniglia d’ottone, sperando con tutto il cuore che il misterioso pianista non interrompesse la sua musica…
Ciò che gli si presentò dinanzi agli occhi lo fece rimanere senza fiato.
Una bambina dai capelli dorati sedeva al grande pianoforte sotto la vetrata da cui penetravano i raggi del sole, talmente accecanti da velare ogni figura dentro la stanza.
D’istinto Lysandre si portò una mano sugli occhi, cercando di attenuare quella luce tanto forte. Pian piano, la sagoma della bambina si delineò sotto al suo sguardo concentrato.
Gli occhi chiusi per respingere il sole, o chissà, per assorbire totalmente la melodia a cui stava dando vita, un vestito argentato che catturava ogni singolo raggio di luce e creava impossibili giochi di colore ad ogni suo dolce movimento, le braccia esili e diafane e le mani minuscole, così piccole che sembravano quasi ridicole su quella distesa di tasti bianchi e neri.
Una bambola di porcellana che aveva catturato ogni singola fibra del corpo di Lysandre.
Paralizzato, era questo lo stato in cui si trovava.
La bambina continuò a suonare e quando finì, le ultime note vibrarono nell’aria alcuni istanti prima di sparire completamente, lasciando un senso di eternità in quella stanza miracolosa.
Con disinvoltura, si voltò verso Lysandre e inclinò un po’ la testa, lasciando ricadere i riccioli biondi nel vuoto.
Non sapeva se lo aveva sentito, o solamente immaginato, ma credeva che la bambina gli avesse rivolto una domanda.
«Sì» rispose, e la sua voce risuonò inadatta in quel luogo fuori dalla realtà.
Sentendo quell’unica misera parola, la bambina, più o meno della sua età, sorrise gioiosa, e la luce del suo sorriso illuminò ancor di più le mura che li circondavano.
 
***
 
Passeggiavano ore e ore per i sentieri del palazzo, inseguivano gli scoiattoli e si rotolavano per i giardini, sgualcendo di terra le loro vesti pregiate.
Non parlavano mai, o meglio, Lysandre qualche volta ci provava, ma aveva capito da subito che era inutile.
«Mio fratello dice che nella foresta ci sono dei cervi, ma io non ne ho mai visti»
La bambina lanciò uno sguardo verso la foresta, ma la notizia non sembrava interessarla più di tanto.
Lysandre allora cercò di trovare un argomento che potesse incuriosirla.
«Una volta ho visto un tasso! Era così buffo, sai?»
Il suo tentativo andò a buon fine, perché la bambina assunse un’espressione interrogativa. «Non sai cos’è un tasso?»
Cercò un bastoncino in mezzo alla terra per fare un disegno, ma non ne trovò.
«Come posso descriverlo…»
Mentre si tormentava, la bambina frugò in una taschina del suo vestito e poco dopo ne tirò fuori un libricino consumato.
Glielo porse, sorridendo.
«Cos’è?» chiese, iniziando a sfogliarlo.
Non era un libro, bensì un taccuino, su cui la bambina aveva annotato delle cose.
A Lysandre non parve buona educazione mettersi a sbirciare in un oggetto così personale, perciò la guardò in attesa di spiegazioni.
La bambina frugò ancora nella tasca e stavolta tirò fuori una penna d’oca e una piccola boccetta d’inchiostro.
«Ah, vuoi che disegni qui sopra!» esclamò Lysandre quando capì le sue intenzioni.
L’altra annuì energicamente, e si avvicinò ancora di più a lui per osservarlo mentre era all’opera.
Lysandre arrossì, sia per la richiesta che per la vicinanza inaspettata della bambina. Non era molto bravo a disegnare, suo fratello se la sarebbe cavata sicuramente meglio di lui, ma se questo era il desiderio della bambina…
Impugnò la penna e iniziò a disegnare un tasso.
Il risultato fu uno scarabocchio talmente insensato che lui stesso si chiese cosa diavolo fosse quella roba sul foglio.
«Ehm, forse era meglio descriverlo a parole…»
L’imbarazzo nascente fu subito sovrastato dalla risata più cristallina che avesse mai sentito.
La bambina non parlava, ma sapeva ridere di gusto.
Anche lui venne contagiato, e insieme risero così tanto da farsi venire le lacrime agli occhi.
Intanto, il vento solleticava le pagine del taccuino poggiato a terra, un oggetto di poco valore ma che per qualcuno sarebbe diventata la cosa più preziosa del mondo.
 
***
 
La foresta al calar del sole diventava un luogo spaventoso, ma l’unico ad essere impaurito era Lysandre. Camminava dietro la bambina, che al contrario procedeva sicura, con portamento fiero, noncurante dei rami che strappavano il suo vestito.
Una civetta spiccò il volo e il battito improvviso delle sue ali fece sobbalzare Lysandre, che a stento trattenne un urlo.
La bambina si voltò e con fermezza gli prese la mano. Lysandre avvampò, ma grazie a quel contatto si fece coraggio.
Arrivarono nei pressi di una radura e si appoggiarono ad una roccia ricoperta di muschio.
«Perché siamo venuti qui?» domandò Lysandre, continuando a guardarsi intorno nervosamente.
La bambina si mise un dito davanti la bocca, per suggerirgli di restare in silenzio.
Lui la guardò cercando di capire cosa volesse fare, e d’improvviso sentì qualcosa di umido sulle sue labbra.
La bambina lo baciò, e gli strinse la mano.
Lysandre non riuscì a muoversi, e quando lei si staccò lui notò che le sue ciglia erano lunghissime, ma di un biondo trasparente che rendeva impossibile vederle a una certa distanza.
«Come… Ti chiami?»
A quella domanda la bambina prese il suo taccuino e scrisse qualcosa, sorridendo mestamente.

 
Che importanza ha?
 
Indicò un coniglio che saltellò velocemente fino a sparire dietro il tronco di un albero, e strinse ancor più forte la mano del ragazzo.
Lysandre aveva la sensazione di voler dire qualcosa, ma in fondo… Che importanza avevano le parole?
Lei annuì, come se gli avesse letto nel pensiero, e di colpo iniziò a cantare.
Fu la prima volta che sentì chiaramente la sua voce.
Non erano parole, quelle che uscivano dalle sue candide labbra.
Erano suoni senza senso, ma erano i suoni più belli che Lysandre avesse mai udito.
Gli parve quasi che ad accompagnare quella voce celestiale vi fosse la melodia del pianoforte che la bambina aveva suonato il giorno del loro primo incontro.
Continuò a cantare, mentre il vento smuoveva la vita nella foresta, e lui si sentì contemporaneamente pervaso da gioia sconfinata e tristezza infinita.
Si accorse che stava piangendo solo quando iniziò a sentir freddo alle guance.
La luna, quella sera, era uno spettacolo miserabile di fronte a quello a cui lui aveva assistito con le orecchie e con il cuore.
 
***
 
«Castiel, Castiel!»
Lysandre aveva un aspetto decisamente trafelato quando raggiunse l’amico.
«Mh?»
Il rosso lo squadrò dalla testa ai piedi: ancora quel bizzarro stile di vestiti che ricordava il principe di un’epoca lontana. Non che ormai non ci fosse abituato, ma vederlo correre in mezzo a orde di studenti vestiti con normalissimi jeans e t-shirt gli faceva sempre un certo effetto.
«Hai visto il mio taccuino, per caso?» chiese con aria decisamente preoccupata.
«L’hai perso ancora?» Castiel scosse la testa, «Non fai prima a comprartene un altro? Oltretutto quello è talmente vecchio che…»
«Ah, lascia stare…» tagliò corto Lysandre. Se avesse detto la verità, di certo nemmeno il suo miglior amico gli avrebbe creduto.
Era inspiegabile, ma il taccuino gli appariva ogni volta in un luogo diverso. La sera, prima di andare a dormire lo poggiava sul comodino, e la mattina non c’era più. Lo ritrovava poi sul banco di scuola, nell’armadietto, nei bagni, nel giardino della città, addirittura nel negozio del fratello.
Non era colpa della sua memoria, ne era certo.
Ma non poteva spiegarlo a Castiel, come non poteva spiegargli il motivo per cui andava in giro con un abbigliamento considerato da tutti inadatto all’epoca moderna…
«Trovato» annunciò, e come per magia tutta la preoccupazione svanì dal suo volto. Stavolta era finito sotto una panchina del cortile.
Si sedette e fece un respiro profondo. Sfogliò quel piccolo blocchetto malandato, come ogni giorno. Non era cambiato nulla.
C’erano ancora tutte le sue canzoni, gli appunti illeggibili e frettolose annotazioni.
E poi c’erano quelle due pagine, vecchie e ingiallite. Una riportava lo strano disegno di un tasso, mentre l’altra aveva una scritta in una calligrafia minuscola ma elegante.
 
Che importanza ha?
 
Sorrise. Non avrebbe mai saputo se ciò che sognava tutte le notti era accaduto realmente, magari in una vita precedente… L’unica cosa che sapeva con certezza era che poteva perdere il taccuino infinite volte, ma alla fine era sempre lì, tra le sue mani.
Ogni tanto gli capitava di scorgere qualche ricciolo biondo tra le ragazze del suo liceo, ma nel momento in cui riusciva a vedere anche il viso, il suo cuore sembrava rompersi in mille pezzi.
Ispirò a pieni polmoni l’aria fresca che scuoteva le foglie degli alberi e la sua chioma argentata.
Un giorno avrebbe ritrovato la vera proprietaria di quel taccuino.
Lo sentiva nella musica, lo sentiva nel vento.

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Capitolo 3
*** Ciò che non sono ***


OggettiAlexycuffie

Gozaru

Oggetti
Le cuffie di Alexy







Un sorriso perfetto, forse anche troppo.
Quanto ti ci è voluto a costruirlo?


Stravaccato su di una panchina, il corpo completamente abbandonato allo schienale e il braccio che su di esso si stende e lascia le dita libere di picchiettare il legno rovinato dalle intemperie degli anni a ritmo di una musica che molti non definirebbero tale.
Le cuffie, quelle verdi che adori tanto e non lasci mai toccare a nessuno, calcate sulla testa, a tratti nascoste dalle ciocche azzurre e ribelli. Gli occhi chiusi seguono un ritmo che accenni anche con il capo.
Una gamba abbandonata sull'altra; la caviglia che lascia molleggiare il piede sospeso per aria.
Sei completamente coinvolto in ciò che ascolti; ogni muscolo è legato a quella 'melodia'.

Te ne stai lì, seduto, ad aspettare che il tempo scorra cullato dal ritmo della techno che le tue amate cuffie ti pompano nelle orecchie, nel cervello, nelle viscere, fin dentro le ossa. Una melodia ben scandita e minimale che aiuta i minuti a scivolare via più facilmente da un'altra giornata che speri finisca il più presto possibile.
Il viavai di gente è ormai smorzato, ma nessuno si avvicina a te, in parte perché emani un'aura estatica che nessuno vuole distruggere -ed è consuetudine non disturbare qualcuno che, indossate le cuffie, si è immerso nel suo mondo- e, soprattutto, per via delle note che si espandono in un raggio d'azione che comprende un buon metro dalla tua figura.
C'è chi si chiede se i tuoi timpani non siano completamente andati, come se la cosa li toccasse profondamente. Ma anche loro se ne vanno senza accennare nemmeno un saluto.
La folla di studenti che la mattina anima il liceo è sparita: nel cortile ci sei solo tu, con i tuoi pensieri e la tua musica.

Riapri gli occhi, ancora scocciato da questo rituale che ti serve più dell'aria.
Ti guardi intorno spostando lentamente lo sguardo da una parte all'altra del cortile.
Ti sfili piano le cuffie, facendole scivolare lungo i tuoi capelli per poi appoggiarle, come di consueto, attorno al tuo collo.
Il ritmo della techno supera ogni resistenza creando una sensazione di bolla attorno a te. Le note aiutano a dare quell'inibizione tale per cui non ti senti nemmeno poi tanto solo su quella panchina che ami tanto condividere.

Ricordi che solo poche ore prima qualcuno ti aveva tirato una pacca sulla spalla. L'aveva fatto amichevolmente, ma tu comunque detesti questo genere di approccio. Dicono tutti di accettarti per come sei, ma se non ti ignorano o è perché cercano lo stereotipo sbagliato che la televisione manda in onda dai tempi di "Will & Grace", oppure cercano di capire se possono rimetterti a posto. Non ti piace, non ti è mai piaciuto, ma hai promesso a te stesso di non mostrare mai attrito verso le persone che ti circondano.
Ti sei abituato a morderti la lingua quando sentivi le risatine sommesse e i commenti sussurrati ogni volta che ti presentavi a qualcuno.
Hai stretto i pugni anziché scagliarti addosso senza pensarci due volte contro i bulletti che nei vari club sportivi pensavano tu non fossi mai abbastanza.
Hai distolto lo sguardo troppo a lungo, ma la verità è che le tue orecchie hanno sempre udito. Quelle stesse orecchie che cerchi di distruggere con della pessima musica che non sai nemmeno tu se ti piaccia o meno.

La musica s'interrompe: la traccia è finita e sai benissimo che significa.
Stringi tra le dita una cuffia ma, prima di rimettertela all'orecchio, esiti.
Di che hai paura?
Di niente, in realtà: sei consapevole di ciò che sentirai per i prossimi trentasette minuti e sai anche che quella è una tua precisa scelta da cui non puoi né vuoi sottrarti.
Ti chiedi, semplicemente, se tutto ciò stia funzionando davvero.
Torturi con gli incisivi il tuo labbro inferiore mentre riposizioni le casse delle cuffie sulle tue orecchie.
Intorno a te, il silenzio. Se qualcuno si avvicinasse ora dubiterebbe che tu stia ascoltando qualcosa.
Ma sulla base vuota parla una voce che ripete tutto ciò che per anni ti sei ripetuto da solo.

Chiudi gli occhi stringendo le palpebre.
Adori quelle parole, così capaci di farti sentire forte e fragile al tempo stesso. Sono parole che bucano il silenzio e l'anima di una persona insicura come te.
Sorridi, ti dice, facendo affiorare tutti i ricordi dolorosi di quando hai dovuto mascherare dietro a due labbra ricurve un pianto isterico che avresti detto irrefrenabile.
Nessuno può giudicarti, continua.
Ti sembra tutta una menzogna, perché più parla e più senti il dolore del giorno appena passato che si aggiunge ad una vita in cui hai dovuto censurare te stesso.
Ti aggrappi con tutte le tue forze, le dita si sbiancano, alla plastica dura e verde delle tue cuffie.
Quelle cuffie che sai non ti tradiranno mai, che sai di poter stringere tutta la vita, che saranno sempre con te, pronte a sussurrarti parole dolci che ti permettono di andare avanti.
E mentre una lacrima scorre sulla tua guancia, un Alexy diverso emerge nella solitudine in cui è sempre vissuto.



«Nessuno ha il diritto di farti del male.
Non c'è niente di sbagliato in te.
Tutti hanno il diritto di essere felici.»

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