Il sangue del vicino è sempre più rosso.

di pandaivols
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo – You have every right to be scared. ***
Capitolo 2: *** All the shit they love. ***
Capitolo 3: *** Strike a violent pose. ***
Capitolo 4: *** They'll laugh as they watch us fall. ***
Capitolo 5: *** Fifteen thousand people scream – Inizio. ***
Capitolo 6: *** Fifteen thousand people scream – Svolgimento. ***
Capitolo 7: *** Fifteen thousand people scream – Fine. ***
Capitolo 8: *** We won't see the setting sun. ***
Capitolo 9: *** No one wants to die (wanna try?). ***
Capitolo 10: *** Kids are victims in this story. ***



Capitolo 1
*** Prologo – You have every right to be scared. ***



Piccola, minuscola premessa: vi invitiamo caldamente a leggere le note autore a fine capitolo, dopo aver letto il prologo, naturalmente.
















Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 








Prologo
.

You have every right to be scared.






There are some nights I hold on to every note I ever wrote
Some nights, I say "fuck it all" and stare at the calendar
Waiting for catastrophes, imagine when they scare me

Into changing whatever it is I am changing into...

And you have every right to be scared.
[
Some nights (Intro) - Fun]





Il ragazzo del 2 e quello del 3 si azzuffavano nella distesa verde che circondava la Cornucopia. Era uno scontro mortale, quello, ma il tributo proveniente dal Distretto più grigio di tutta Panem era troppo piccolo rispetto al Favorito di quell'edizione. Di quella prima edizione.
Brock - così pareva che si chiamasse il colosso scuro - brandiva la sua spada per cercare di colpire il minore, (s)fortunatamente più rapido di lui nello schivare le mosse. Digrignando i denti e smosso dalla rabbia e dalla ferocia che lo caratterizzavano, riuscì ad afferrare il mingherlino per le spalle e, con una sonora testata, lo fece cadere a terra con un tonfo, dolente, mentre il suo avversario impugnava l'arma e si preparava a dargli il colpo di grazia esattamente al centro del petto.
Alzò le mani in alto, con la spada stretta nelle mani congiunte, quando un sibilo otturò le sue orecchie e qualcosa lo trapassò dalla pancia alla schiena. 
Nessuno si era accorto di lei, nascosta fra gli arbusti della foresta che circondava il piazzale, poco più in là, accovacciata su un ramo, con l'anello di smeraldo che brillava al buio sul suo anulare sinistro e l'arco teso dopo l'imminente freccia scoccata. 
Brock, suo ex-alleato, lanciò l'urlo più lancinante che la giovane tributa dell'1 avesse mai sentito in vita sua; quello si voltò, individualizzandola, mentre rigettava sangue dalla bocca.
La bionda tese nuovamente l'arco, incoccò una freccia ed un attimo dopo quella s'infilzò dritta nella fronte del ragazzo, che cadde a terra mentre veniva privato della sua vita.
Il ventiduesimo cannone sparò, riempiendo l'aria. Il volto del ragazzo del 3 si trasformò in un'espressione speranzosa, quella briciola a cui cercava di aggrapparsi, pensando che forse sarebbe potuto tornare a casa, vivo.
La ragazza non perse tempo: sfoderò la lama che aveva preso alla morte del suo compagno dell'1 e balzò dal ramo dell'albero, atterrando sul terreno e scattando prontamente verso l'ultimo avversario. Quello si rialzò goffamente da terra, recuperando la spada del tributo del 2 e pronto a difendersi; le bionde trecce della giovane svolazzavano mentre correva dritta verso il suo bersaglio, mosse dal vento, ed i suoi occhi verde smeraldo erano fissi sulla sua prossima ed ultima vittima, pieni di rabbia.
L'impatto fra le due lame provocò un sibilo quando si scontrarono, poi con un aumento di pressione del polso, la maggiore disarmò l'altro, facendo volare la spada più in là. Non gli diede nemmeno il tempo di capire cosa stava accadendo, che la sua testa fu mozzata, rotolando per terra mentre il corposi accasciava a terra, privo di vita.
Il ventitreesimo ed ultimo cannone sparò.
Aveva vinto.
Rimase ferma ed immobile, il petto si alzava ed abbassava, forse per l'affaticamento, forse per la troppa rabbia che la pervadeva.
Solo la voce di Titus Bartimeus Bones spezzò il silenzio, riecheggiando nell'Arena: « Signore e signori, sono lieto di presentarvi la vincitrice dei primi Hunger Games, Jewel Walker, tributo del Distretto 1! »




* * *


Una folla di capitolini in delirio applaudiva e fischiava di gioia, emozionandosi per l'ennesima volta in cui vedevano la fine dell'edizione precedente, come se fosse la prima in diretta. 
Jewel Walker faticava a staccare gli occhi da quello schermo, mentre i ricordi di quell'Arena riaffioravano nella sua mente come se fosse stato ieri. Era passato un anno, invece, ma lei la notte ancora piangeva per tutte le morti che aveva causato, tra cui quella di Blaze, il suo compagno.
Chiuse gli occhi, ripetendosi che doveva essere forte di fronte a Capitol City, cercando di scacciare quei fantasmi che persistevano nella sua mente. 
Le urla estasiate della platea attonivano la sua mente, convincendola a voltarsi. Non riusciva a togliere la preoccupazione dal suo viso, vedendo tutta quella gente gioiosa della morte di ventitré persone, ma felici della sua vittoria.
L'amavano.
Jewel si sforzò di regalare un sorriso al suo pubblico, che applaudì ancora più forte, poi la risata di Augustus Flickerman la riportò alla realtà dei fatti.
Su quel palco Augustus sedeva esattamente nella piccola poltrona di fronte a lei, con lo smoking verde acqua, in tinta con gli alti capelli cotonati, la barba e le lenti a contatto poste a coprire quel banale color nocciola con cui era nato. Batteva le mani e rideva, godendosi la morte dell'ultimo tributo, che aveva visto poco prima.
Augustus Flickerman odiava i Distretti di Panem tanto quanto loro odiavano Capitol City, semplicemente perché era risaputo che i Giorni Bui avevano portato via anche la sua promessa sposa; solo che cercava di non darlo a vedere, in fondo era un conduttore ed il suo ruolo si basava sulla perfetta recitazione, ma la sua vendetta consisteva nel mettere in difficoltà i poveri tributi che intervistava. 
Cercò di riprendersi, tossicchiando per non scoppiare nuovamente a ridere, ma lasciando il ghigno sadico sulle proprie labbra. Si voltò verso Jewel, posandole una mano sul suo lungo e stretto abito a squame di serpente, all'altezza della coscia accavallata sull'altra.
Aspettò che il pubblico si calmasse, tirò ancor più in alto il suo ghigno e finalmente parlò: « Sei splendida oggi, Jewel » l'adulò e non perché volesse prenderla in giro, ma perché era la verità.
I soldi della vittoria avevano reso Jewel così ricca da poter essere considerata una capitolina.
« Grazie, Augustus » rispose di cortesia, sorridendogli con gentilezza, ma non abbassando la guardia.
L'uomo si voltò di poco verso il pubblico, spalancando le braccia verso la bionda al suo fianco. « E voi? Non trovate che sia splendida? »
I capitolini gridavano, fischiavano ed applaudivano, trasmettendo l'eccitazione e l'ammirazione che c'era in sala.
« Splendida come il filmato che abbiamo visto prima. Chi è d'accordo con me nel trovare il modo in cui ha tagliato la testa del suo avversario a dir poco meraviglioso? »
Il pubblicò scoppiò più di prima ed Augustus poté farsi sfuggire la sadica risata che tanto stava trattenendo.
Assassino; era quella la parola che Jewel usava per descrivere lui, il pubblico, Capitol City ed anche sé stessa. In fondo Augustus non aveva mai ucciso nessuno, anzi. Era lei quella con le mani macchiate di sangue.
Lo sguardo del presentatore tornò a posarsi su di lei, facendo sparire il sorriso dalle labbra ed assumendo un'espressione particolarmente seria.
Le mani di Flickerman presero quelle della vincitrice e quel gesto affievolì il mesto sorriso che la ragazza del Distretto 1 si era convinta ad inscenare.
« Eri rabbiosa nel tuo scontro finale. » Le labbra di Jewel si contrassero e tutto il suo corpo s'irrigidì per l'imminente domanda. « Deduco che fosse per la morte del tuo compagno di Distretto. Come si chiamava? »
« Blaze » rispose fredda e senza esitazione. « Blaze Price » puntualizzò.
« Certo, Blaze Price » ripeté l'uomo, nascondendo il piacere che provava nello stuzzicarla. « Cosa hai provato quando l'hai visto morire per mano tua? »
Le mani della bionda tremavano per la rabbia e ciò attirò l'attenzione del conduttore, che aveva ottenuto ciò che voleva: metterla in difficoltà. Quel bastardo aveva centrato il punto che la ragazza aveva tanto sperato di evitare; si permetteva di prendersi gioco di lei, chiamando in causa l'unica persona che mai avrebbe dovuto nominare. Ma di certo non avrebbe ceduto così, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di vincere.
« Era necessario per la mia vittoria » si limitò a rispondere, seria, e sperò vivamente, in cuor suo, che chi la stava guardando da casa avrebbe capito.
Il pubblicò applaudì, contenendosi, forse per sostenerla, mentre alcuni sospirarono, ricordando la morte del ragazzo dell'1 in quella prima edizione.
« Certo » sentenziò Augustus, felice di aver toccato quel tasto dolente, ma frustrato per via del modo in cui la ragazza aveva osato tenergli testa. « E' stato duro, ma ti ha reso una vincitrice. »
La diciottenne fece un mesto sorriso, per assecondarlo.
Flickerman si rivolse ancora al pubblico, per allentare la tensione: « Ma in questa serata siamo in attesa per la proclamazione di una nuova edizione degli Hunger Games, che avranno un nuovo vincitore! »
Il pubblicò esordì ed Augustus dovette alzare il tono della voce per sovrastare l'ovazione. « Diamo il benvenuto al consigliere Frank Hidden! »
Gli applausi stavolta non erano di gioia, ma di rispetto; sui volti della folla si poteva osservare l'orgoglio per la propria nazione e ciò che quel nome significava per loro.
Frank Hidden entrò a passo solenne da una delle quinte, guardando di fronte a sé e non rivolgendo neanche uno sguardo al pubblico; non che questo potesse notare dov'erano rivolti i suoi occhi, visto che sopra quell'alto e robusto corpo, stretto in uno smoking tempestato di pietre preziose, vi era un'enorme ed inquietante maschera di cervo al posto della testa. 
Solo pochi di coloro che avevano vissuto gli anni antecedenti ai Giorni Bui ricordavano il vero volto del politico, persino Jewel l'aveva visto da bambina in qualche programma televisivo, ma era passato così tanto tempo da quando Hidden mostrava il suo volto che ora era impossibile averne memoria. Da quando i Ribelli l'avevano rapito e torturato, il suo viso era stato completamente sfregiato ed era irriconoscibile; nemmeno le cure di Capitol City erano riuscite a riportarlo alla normalità ed una maschera era la soluzione migliore per coprire i segni della Ribellione oppressa e sconfitta.
« Signor Hidden, benvenuto! » lo salutò Flickerman, gioioso, mentre l'altro si accomodava sulla poltrona vicino la neo-vincitrice. « Sappiamo che è stato così bravo l'anno scorso che l'hanno confermato come Capo Stratega anche per quest'edizione. »
Hidden attese qualche attimo, poi iniziò il discorso con la sua voce profonda, che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque: « Ho affiancato a lungo il Presidente Rigel e la sua morte è il simbolo che i Giorni Bui non hanno fatto altro che portare disgrazia alla nostra terra. Ma ora affiancare suo figlio per me è un vero onore. Naturalmente sono certo che la mia nomina a stratega è dovuta al mio ingegno, che mi è servito come cancelliere per tutti questi anni. »
« Non ne abbiamo dubbi! » esclamò Augustus, assecondandolo, per poi rivolgersi all'altra intervistata. « Cara Jewel, invece per te questo sarà il primo anno da mentore, l'unica, tra l'altro. Cosa provi? »
« Beh, cercherò di preparare i miei protetti al meglio e spero di portare onore al mio Distretto anche quest'anno » spiegò, cercando di scacciare le pene che altri due adolescenti avrebbero dovuto subire, come aveva fatto lei.
Augustus annuì, tornando all'uomo-cervo. « Signor Hidden, vuole invece rivelare ai telespettatori cosa dovranno aspettarsi i nuovi ventiquattro tributi di quest'anno dall'Arena? »
Nessuno poteva vedere la sua espressione, questo era uno dei vantaggi che aveva contro i suoi nemici, ma il tono della sua voce ad orecchie attente poteva apparire più... divertito. « Ti dirò la verità, Flickerman: penso proprio nulla. »
Il volto del conduttore era la sorpresa e la confusione fatta persona, così come tutte le altre facce che componevano la platea di quella sala.
Inaspettatamente, dopo essersi goduto la reazione che aveva suscitato, Frank Hidden continuò: « Perché potrebbero aspettarsi veramente di tutto. »
Un coro di espressioni sorprese - e desiderose di vedere quei secondi Hunger Games in azione - si sparse per tutto il pubblico.
A Jewel si creò il groppo in gola, vivamente preoccupata, rabbrividendo e sentendo la paura scorrerle nelle vene, come se lei stessa dovesse ritornare nell'Arena; mentre persino lo stesso Augustus era compiaciuto per le parole del Capo Stratega. Il presentatore si alzò, spalancando le braccia ed annunciando a gran voce: « Signore e signori, che i secondi Hunger Games abbiano inizio! »
Lasciando Augustus Flickerman a godersi le ovazioni, la linea s'interruppe, oscurando gli schermi di tutta Panem.





 

La guerra è il massacro di persone che non si conoscono, per conto di persone che si conoscono ma non si massacrano.
(Anonimo)















 








L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Questa è una storia interattiva, dove i tributi saranno creati proprio da voi lettori.
Però, cosa molto importante, non è una storia qualsiasi. E con questo stiamo dicendo tutto e niente; quindi, onde evitare spargimenti di insulti nonsense da parte vostra, passiamo immediatamente alle cose serie.

  • Questa è un'interattiva sui secondi Hunger Games che non ha il fine di aumentare le recensioni, né le richiede a scopo di votare i tributi per eventuali evergenze. Votazioni, richieste e moduli verranno svolti privatamente ed indirizzati direttamente alle strateghe; per tanto se volete recensire vorremmo che ci deste un parere sulla trama, per cui ci siamo impegnate e ci stiamo impegnando veramente tanto.
  • Le prenotazioni avverranno tramite recensioni solo ed unicamente per questo capitolo, in seguito tutte le burocrazie avverranno solo ed esclusivamente sul gruppo facebook che verrà creato in seguito.
  • Chiariamo che è possibile creare solo un tributo a testa.
  • Non verranno prese in considerazione recensioni col solo scopo di prenotare, ma solo quelle che ci danno una recensione - da potersi chiamare tale - della storia. Se avete qualcosa in contrario, potete mandarci al diavolo e non partecipare, nessuno vi obbliga, ma dovete capire che non vogliamo assolutamente violare il regolamento di EFP e le recensioni al fine di votazione e le interattive create solo per aumentare le recensioni sono assolutamente vietate e questo non è il nostro caso, perché non è nostra intenzione.
  • Sono concesse prenotazioni a nome di un altro utente, ma solo se giustificate per eventuali problemi o se si vuole occupare un determinato distretto o avete già una storia in comune (ne dubito fortemente che avvenga già così presto, data la sorpresa di quest'edizione); comunque la prenotazione dovrà essere confermata in seguito. Non accettiamo prenotazioni da parte di qualcun'altro solo perché così si risparmia tempo ed in modo da ottenere Distretti Favoriti più comodamente; nel caso non siate soddisfatti del vostro Distretto potrete sempre scambiare il vostro tributo con quello di qualcun'altro chiedendo direttamente all'utente e poi avvertendoci dello scambio.
  • Non inviate le schede nelle recensioni, solo in seguito, rispondendo alle recensioni, vi daremo lo schema necessario ed obbligatorio da seguire, che dovrà essere inviato privatamente a questo account, avvertendo inoltre entrambe le strateghe su facebook o in qualsiasi modo per contattarle.
  • Il vostro tributo non avrà relazioni né con fratelli morti in precedenti edizioni degli Hunger Games - a meno che non sia quella precedente, ma è molto improbabile e chiederne prima l'autorizzazione perché alcuni personaggi sono già stati segnati - e né con i mentori, perché non esistono. Se volete gente morta a caso prendete come esempio/scusa i Giorni Bui, che hanno causato anche fin troppe morti.
  • Il gruppo facebook verrà creato in seguito all'occupazione di tutti - o della maggior parte de - i tributi. Aggiungete Ivana G. Bellamy e Letizia 'Mito' Leo su facebook per qualsiasi quesito e vi chiederemmo gentilmente di lasciare il vostro nome facebook nella recensione o mandandoci un mp.
  • Per ultima cosa, ma non meno importante, vi invitiamo ad inviarci un mp con il numero dei punti recensione che avete ottenuto recensendo al prologo. Non fatevi idee strane, serve a noi per farci un'idea sul metodo che dobbiamo applicare sulle sponsorizzazioni e sui prezzi dei viveri e delle armi che serviranno in futuro ai vostri tributi e che potrete eventualmente comperare. 


Probabilmente abbiamo dimenticato di dire qualcosa, quindi per qualsiasi domanda o dubbio o cotoletta, contattateci privatamente e vi spiegheremo ben benino tutto quello che non vi è chiaro.
Speriamo che immergervi in quest'avventura vi piacerà almeno quanto a noi piace progettarla e realizzarla ♥
Tanti bao a tutti.





 

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Capitolo 2
*** All the shit they love. ***







Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 








All the shit they love.
.






Owls and crosses were to make his anger rise
 He don't believe in nothing
 Randy doesn't care about protest
 and all the shit they love
 A cock in a pot, that's what you are,
 but that's not what meets your eye
 I will never be the superhero they're expeting me to be,
 but I could always.
 [Caries - About Wayne]




Atto I - Di morte e bambole.
Attorno a Kenia c'era un movimento mai visto prima, erano tutti indaffarati coi vestiti, mentre lei se ne stava in silenzio, dondolandosi sui talloni, vicino a Delphi Roxen, il suo accompagnatore.
Era un uomo alto, così magro da parere schletrico, i capelli rasati che lasciavano ricadere solo un ciuffo ribelle sulla fronte; due magnetici occhi color ghiaccio, orecchie leggermente a sventola, un accenno di barba, due labbra carnose dove quello inferiore era circondato da un central labret. Girava solo in lunghi pantaloni neri e scarpe laccate, perché il corpo era completamente ricoperto da tatuaggi di ogni genere.
A Kenia Reaper faceva paura, ma nel suo staff era il più normale, visto che i suoi stilisti erano un uomo trasandato, pallido e dai denti aguzzi, che aveva più l'aspetto di un pedofilo che di uno stilista; e una donna magra e completamente blu... sembrava un cadavere, se si metteva in conto anche che al posto del braccio sinistro avesse un vero e proprio osso.
Delphi era silenzioso, la metteva a disagio, ma in fondo non c'era nulla di divertente in quel gioco in cui il suo adorato Logan aveva perso. Così guardava il suo vestito azzurro - come i suoi occhi, anche se viravano più verso il verde, quelli che la sua oramai defunta nonna odiava perché erano la prova dello stupro della madre - e le giunture che erano state dipinte accuratamente sugli arti, per farla sembrare una vera bambola.
Kenia stringeva la sua fra le mani, se l'era portata da casa ed era l'unica cosa che le rimaneva di sua nonna; mentre di fronte a sé arrivavano una ragazzina completamente color pece - sia il vestito, che i capelli che il viso - che pareva più un tozzo di carbone, dotata di un fanale spento come cintura, un paio di ali metalliche sulle spalle a ricordare vagamente gli hovercraft e un fischio a vapore legato sul capo.
Stringeva la mano di un uomo vestito esattamente come Delphi, lasciando scoprire i tatuaggi sul corpo che lo rendevano un perfetto scheletro. Kenia rabbrividì e pensò che era stata fortunata ad avere uno come Delphi, invece di quell'essere così spaventoso. Si voltò verso il suo accompagnatore e ne rimase veramente colpita quando un piccolo sorriso comparve sulle labbra dell'uomo. Non l'aveva mai visto sorridere per tutto il tempo che erano stati assieme.
« Winnow! » esclamò, andando ad abbracciare l'amico con una pacca sulla spalla.
« Delphi, amico mio! » contraccambiò l'altro e Kenia intuì che dovevano conoscersi da molto.
Wednesday Addams, così si chiamava la tredicenne color pece, proveniva dal Distretto 6 e odiava tutto ciò che riguardasse il romanticismo. Tutto ciò che le interessava erano le torture, il dolore e la morte. Comunemente si sarebbe tenuta il più lontano possibile dal suo staff - come faceva con Saevera Spectral, la sua odiosa accompagnatrice, che ora era a parlare con un certo Augustus Flickerman o come si chiamava - ma Winnow Spottiswoode era esattamente il ritratto della morte e la piccola Wednesday poteva dire di adorarlo, anche perché l'aveva accontentata, realizzandole un abito completamente nero. Andavano d'accordo come il pane e la nutella, benché l'uomo preferisse non parlare e comunicare con gli occhi, contornati per intero da uno strato di inchiostro nero per tatuaggi.
Wednesday rivolse lo sguardo verso la coetanea di fronte a sé - sempre non staccando la mano da quella dell'uomo, che era intento a chiacchierare tranquillamente con l'amico - e poi si soffermò su ciò che la riccia teneva fra le mani, stringendo più a sé la sua Maria Antonietta.
« Mi piace la tua bambola » commentò, tirando gli angoli della bocca in un'espressione altezzosa e di superiorità.
Kenia le rivolse un timido sguardo, mentre i loro occhi che si scontravano parevano una petroliera che affondava nell'oceano. Diede uno sguardo alla bambola dell'altra e poi rispose: « Anche a me » accennando un piccolo sorriso, come una bambina consapevole che il suo giocattolo fosse il migliore.
 
 
Atto II - Di acqua, fuoco e rivalità.
La risata sprezzante di Mizar Rankine, stilista del Distretto 2 dai capelli rosso fuoco a spazzola, riempì l'aria attorno a lui. « Pensi veramente che i tuoi vestiti siano i migliori? »
Rhymer Fairbrain, stilista del Distretto 4 dai corti capelli blu, nonché acerrimo e storico rivale di Mizar, per tutta risposta continuò a rovesciare bacinelle d'acqua sul capo e su tutto il corpo nudo di Beryl Straw, che sentiva l'imbarazzo crescere in lei ed il vomito di parole che le saliva in gola.
« Ma l'acqua non si asciugherà col vento, sul carro? » chiedeva. « Rhymer, mi si appiccicano i capelli sul volto. Sei sicuro che sia più carina coi capelli sul volto? Ma perché devo andare nuda sul carro e completamente bagnata? Rhymer, puoi rispiegarmelo? Oh, menomale che lo staff ha fatto un buon lavoro con la ceretta! » Ed ancora: « Spero di piacere al pubblico. Ocean, tu credi che gli piacerò? Mi ricordo che una volta mi ero improvvisata una modella per Chord, per farlo divertire, così sono andata in spiaggia ma lui mi ha detto che lo distraevo e facevo scappare tutti i pesci. Però, effettivamente qui non ci sono pesci. O i capitolini hanno la faccia da pesci lessi? Ocean, ma questo tizio rosso è del Distretto 2, vero? Ed anche gli altri due? Oh, per favore non litigate! »
Era un fiume di parole che avrebbe fatto impazzire chiunque, finché Ocean - anch'egli completamente nudo - non le prese il viso fra le mani, le scostò una ciocca di capelli castani dal viso, fece incontrare i loro occhi azzurri e le rivolse un gran sorriso.
« Beryl » la chiamò.
« Sì? »
« Sta' zitta » le suggerì, continuando a sorridere e passandosi una mano nei capelli biondi.
« Ok » rispose l'altra, iniziando a saltellare sui piedi, incapace di star ferma.
Ocean Keats si chiese come Pomeline Selkirk, la loro accompagnatrice, avesse potuto abbandonarli ad un elemento del genere, anche se, da quel poco che l'avevano conosciuta, immaginava fosse andata a racimolare qualche sponsor tra la platea; ma in fondo anche Clarity Valentine si chiedeva come Blye Overwhill avesse potuto lasciarli ad una persona ancora più fuori di senno dell'altro. 
« Ti dimostrerò che i miei saranno i migliori! » gridò Mizar, strattonando Ty verso di sé.
Peregrine D'Erin - al secolo conosciuto semplicemente come 'Perry' - si lanciò subito verso l'uomo dai capelli rossi. « Lascia stare la mia ragazza! » urlò, cercando di essere minaccioso; purtroppo la sua goffagine lo fece inciampare nei suoi stessi piedi, facendolo finire a terra, mentre Ty alzava gli occhi al cielo. 
La scena fece scappare una risata a Beryl, mentre Ocean corse subito a tendergli la mano per aiutarlo.
I tributi del Distretto 2 erano insoliti: indossavano solamente delle lunghe lingue di fuoco in alcune parti del corpo, che lasciavano poco all'immaginazione, mentre i loro capelli erano stati cotonati e tirati tutti verso l'alto. Perry non si sentiva a proprio agio con quel vestito, ma aveva tirato un sospiro di sollievo quando si era reso conto che la voglia sulla spalla - quella di cui si vergognava tanto - era coperta da una striscia rossa. Rhymer, invece, non era affatto tranquillo: quel vestito gli sembrava banale e se credeva di conoscere Mizar, c'era qualcosa di losco sotto.
 
 
Atto III - Di puttane e puttanieri.
Naomi Heloise Free era vestita semplicemente di una tuta aderente e trasparente, che però pareva brillare di luce propria per tutta la polvere di pietre preziose che rilasciava ogni qual volta si spostasse di qualche passo. I lunghi capelli scuri erano raccolti in curate trecce sul capo e fermate da perle e smeraldi, che completavano e ornavano l'acconciatura. Forse Maximus Lionheart, il suo stilista dai capelli che parevano formati da mille carote sparate in ogni direzione, poteva sembrare folle, ma a Naomi il suo vestito non dispiaceva affatto: tutti avevano gli occhi puntati sul suo corpo, come piaceva a lei.
Si avvicinò a Jewel, la sua mentore, che da dietro le quinte sbirciava il pubblico, così le avvinghiò le braccia al collo e posò il mento sulla sua spalla. La bionda non si scompose, teneva le braccia conserte nel suo lungo vestito verde da sera e continuava a puntare gli occhi dello stesso colore in uno degli spalti.
« Quella è Constance Lovestock » la informò, facendo un cenno del capo verso una donna vestita completamente di bianco e con un gigantesco copricapo a forma di cigno.
Naomi ne aveva sentito parlare quando era ritornata nel Distretto 1 dopo anni di prigionia. Doveva odiarla a pelle, perché era colpa sua se si era lasciata sottomettere da Capitol City ed aveva convinto i Distretti a schierarsi contro i ribelli. Aveva tradito il suo popolo ed ora faceva parte dell'élite, con tanto di posto riservato.
« Sì è sposata ed ora è incinta » proseguì Jewel, « ma alcuni non sono sicuri che il padre sia Menenius Snow. »
Naomi afferrò il concetto con disprezzo, ma qualcosa in lei decise di portare l'argomento su un altro piano, ancor più delicato. Si strinse a Jewel in quella presa e le sussurrò all'orecchio in modo seducente: « E sei sicura che nel Distretto 1 non ci sia nessuno incinta di un bambino che dovrebbe essere di Chris? »
La bionda s'irrigidì sul posto al sol sentir pronunciare il nome di suo marito. Aveva sempre odiato Naomi nel Distretto ed era stata sempre felice di non esser capitata nella sua classe, seppur coetanee. Lei e Lucy l'avevano sempre etichettata come una puttana, ma dopo gli Hunger Games Jewel era cambiata e non aveva più le forze per giudicare gli altri. Anche se la mora premeva la sua pazienza.
« O magari di Blaze. »
Il nome del defunto compagno fece traboccare il vaso. La mentore si voltò, pronta ad imprimere la sua mano sul volto di Naomi con rabbia, ma qualcuno le afferrò il polso.
« Cosa diavolo pensi di fare? » la rimproverò Klaire Green, la donna-serpente che faceva loro da accompagnatrice. Naomi sghignazzò e si allontanò, fiera del suo lavoro, mentre Klaire prendeva fra le mani il viso della minore e le ripeteva, sicura: « Non puoi permetterti di piangere, lo sai. Non ora. » Ma Jewel era stufa, si teneva tutto dentro, eppure continuò a reprimere le lacrime e a camminare a testa alta.
Mason Carter, il diciottenne dai corti capelli scuri, poco più in là cercò di sottrarsi alle grinfie di Maximus - intento a riempirlo di perle - non appena si accorse della scena. Corse dietro la compagna, fermandola per un braccio.
« Cosa diavolo le hai fatto? » ringhiò a denti stretti, conoscendo bene la natura subdola dell'altra. « Quando hai intenzione di lasciarla in pace e smettere di fare la stronza? »
Per tutta risposta, la mora gli si avvicinò maggiormente, facendo combaciare i loro corpi e gli sussurrò all'orecchio, maliziosa: « Quando tu avrai intenzione di lasciare il mio letto. »
 
 
Atto IV - Di elettroni che girano e misantropia.
Natalie Raphaëlle Maëlys Clothilde Dawson - comunemente chiamata Nate - non si stupiva affatto che Althea l'avesse lasciata nelle mani dei suoi stilisti; non perché volesse il meglio per lei, anzi. La bionda accompagnatrice odiava i tributi che le erano toccati ed ancor di più la bionda diciassettenne che aveva sabotato la Mietitura, distruggendole i capelli con della polvere da sparo. Ma stare con Ottavius ed Orchid le faceva ricordare gli anni rinchiusa in ospedale, quei due parevano resuscitati dall'oltretomba, un po' come si sentiva lei. Nella sua mente era facile che apparissero visioni di cadaveri che la circondavano e inquietavano.
I lunghi capelli erano come sempre raccolti in un alto e perfetto chignon, stavolta senza ciocche fuori posto, con una chiave inglese usata come una delle tante forcine; indossava un corpetto metallico ed una gonna fatta di una rete di ferro che si gonfiava come un tutù e si fermava fino a metà coscia, ornata di ingranaggi d'orologio in funzione. Le avevano permesso di tenere la sua piccola chiave antica ed arruginita al collo, a completare l'abbiamento. Come se qualcuno potesse davvero convincerla a togliersela, poi! 
Scrutava più in là una ragazza dai capelli bicolore - alquanto insoliti per una ragazza non capitolina, a dire il vero, bianchi sopra e neri sotto - che discuteva coloratamente con il suo compagno di distretto; poi la sua attenzione fu attirata da un ragazzo vicino a lei, completamente nudo, se non fosse per quelli che sembravano palloncini rossi e blu che ricoprivano la sua vita, con delle orbite metalliche che circondavano il nucleo e su cui ruotavano delle specie di elettroni. Nate, ragionando un po', avrebbe potuto spiegare come diavolo facessero a reggersi campando in aria, ma non ne aveva tutta questa voglia.
« Ti girano gli elettroni? » chiese Fannia Monzac a Jason Bennet, l'alto ragazzo dai folti capelli neri tirati all'indietro col gel e dai penetranti occhi color cioccolato.
Quello si destò un po' dai suoi pensieri e le rivolse uno sguardo interrogativo, mantenendo la sua compostezza. « Prego? »
« No, sai, perché a me girerebbero se dovessi andare in giro conciata così » rispose, facendo cenno al suo vestito da atomo.
« Peccato che tu non ce li abbia » le ricordò il suo collega.
« Potrei averceli » obiettò l'altra, ostinata.
Jason fece finta di ignorarli, rivolgendo lo sguardo da tutt'altra parte, che si posò su una bionda e scheletrica ragazza dagli occhi azzurri che lo stava fissando. Per tutta gentilezza, il ragazzo fece un cenno di inchino nella sua direzione.
Nate si eresse ancor di più in tutta la sua altezzosità, lasciandosi per un attimo il tempo di guardare nella direzione dove si trovava Elle, accucciato in un angolo e che la guardava di sottecchi. La diciassettenne del Distretto 3 tornò all'altro tributo del 5 e, essendo di indole ben educata, ricambiò il mezzo inchino. All'apparenza sembrava uno di quei gentiluomini altezzosi che rispecchiavano il nome che le avevano dato. Un po' come lei, se togliamo la gentilezza, perché Nate non ne aveva, era solo educata e ciò non significava che dovesse avere altri pregi.
Un senso di ripudio le salì in gola quando vide che quello le si stava avvicinando. In fondo, rispondere a quel saluto, lo aveva invitato a pensare di poter permettersi di rivolgerle la parola. Nate avrebbe tanto voluto allontanarlo, schifata dalle persone e così abituata ad evitarle, ma cercò di mantenere dritta la sua schiena e, per una volta, lasciò correre, benché il suo viso fosse espressivo quanto una lastra di marmo ghiacciato. 
 
 
Atto V - Di sabotamenti e gentili inviti all'inferno.
Elle 'L' Lawliet aveva litigato per l'ennesima volta con Althea Wellwood - la sua accompagnatrice color latte, dagli occhi azzurri ed i capelli biondi come un leone... nel senso che aveva proprio la faccia di un leone scolpita fra i capelli - ed ora se ne stava rannicchiato in un angolo, benché quella gli ripetesse sempre che doveva avere un portamento eretto e non ingobbirsi ancor di più. L però aveva cominciato ad ignorarla e nel frattempo si stava mordicchiando il pollice, escogitando un modo per sabotare tutta quella merda di sfilata.
Il vestito argenteo completamente ricoperto da ingranaggi era scomodo ed oltretutto gli stilisti avevano accentuato le sue occhiaie per non si sa quale motivo; forse le trovavano più attraenti visto che anche loro due - somiglianti più a dei vampiri che a normali esseri umani - ne erano dotati, o almeno così si era detto il caro L.
Rivolse uno sguardo verso la sua Nate, che stava parlando con un tizio alto, moro e praticamente nudo; e già che Nate familiarizzasse con qualcuno gli suonava strano. Elle non aveva idea di chi era ma a giudicare dalla ricostruzione di un atomo che gli copriva i gioielli di famiglia, con tanto di orbite ed elettroni in movimento attorno, dedusse che fosse il tributo del Distretto 5. Ovviamente Nate preferiva passare il tempo con quello là, piuttosto che con lui, che con quel vestito assomigliava tanto ad un ammasso di rottaglia.
Barcollò fino a uno dei carri in posizione, lo studiò attentamente e poi si accucciò di nuovo, cercando di allentarne una ruota.
« Hai bisogno d'aiuto, ragazzo? »
Una voce cristallina e gentile fece subito drizzare in piedi L dopo anni ed anni, di fatti la sua schiena fece un sonoro crack mentre si allungava. Perfetto, se tutto andava bene aveva la schiena rotta prima di entrare nell'Arena.
Elle alzò lo sguardo e vide un uomo alto, mingherlino, con degli occhi azzurri gentili, un sorriso dipinto sulle labbra, dei morbidi ricci biondi ed una divisa bianca da Pacificatore. Gli occhi neri di Elle saettarono al carro e poi di nuovo verso quell'uomo. « Penso che i carri non siano poi così sicuri » affermò.
« Davvero? » l'altro - che dalle medaglie sulla divisa Elle dedusse dovesse essere un sergente alquanto importante - inclinò il capo, sorpreso. « Non si preoccupi, ci penserò io. Lei torni pure alla sfilata » gli intimò ed Elle fu costretto ad allontanarsi dalla sua missione, trascinando i piedi sclazi come al solito.
Poco più in là Brian Will Stark, tributo del Distretto 8, aveva osservato tutta la scena. Molte volte era stato tentato di andare lì e chiedere a quel bizzarro gobbo cosa stesse facendo, aiutarlo magari a sabotare Capitol City, o magari salvarlo da quel Pacificatore; ma l'esperienza gli aveva insegnato che mai e poi mai bisognava immischiarsi nelle questioni altrui. 
Intanto i suoi stilisti-zombie - o almeno così li chiamava, consdierando che neanche se ne ricordava i nomi - erano intenti a realizzare delle giunture sulla sua pelle scura, o a sistemargli il papillon rosa shocking sopra la giacca azzurra di seta a giromaniche, o... Ma ecco che, quando vide lo stilista pronto a fissargli una folta parrucca in testa, si scostò bruscamente, gridando un « Andate al diavolo! » e scappando da quei fuori di testa, che comunque cercarono di inseguirlo anche dietro le quinte. 
 
 
Atto VI - Di scambi di figurine e stilisti inquietanti.
Nymeria Ironborn si sentiva a suo agio in quelle braghe da minatore, perché era felice di non dover indossare una gonna; inoltre il casco le copriva i corti capelli castani e si ritrovò a desiderare che qualcuno le coprisse anche i suoi occhi azzurri. Azzurri, non grigi.
Sbuffò, incrociando le braccia, scocciata dal fatto che Sagitarya Wishart - la sua accompagnatrice dalla pelle scura, dai lunghi e mossi capelli rossi e con le curve al posto giusto - avesse lasciato lei e Jeremy da soli con uno psicopatico, mentre quella si era allontanata per pettegolare con una donna dai lunghi e lisci capelli blu - probabilmente l'accompagnatrice del Distretto 4 - con fare civettuolo, pronta a pugnalare l'amica alle spalle alla prima occasione. Ora si trovava con Huck Duncain, il loro stilita col volto sfregiato e dipinto come un pagliaccio affetto da qualche problema psicologico, che era intento a spargere fuliggine sulla pelle già scura e per niente tonica di Jeremiah Wilson, mentre lei fortunatamente indossava una canotta bianca.
Come se in pochi l'avessero vista nuda, poi.
Il continuo leccarsi le labbra di Huck lo faceva assomigliare ad uno dei suoi clienti, mentre quello, al contrario di quando si era occupato di lei, stava facendo storie per aggiustare i capelli scuri e ribelli di Jeremy che gli sfuggivano persino dal casco.
« Dannazione, basta! » sbottò, nervoso, muovendo le mani a scatti ed allontanandosi di poco.
Si guardò attorno, soffermò la visuale per qualche secondo verso un ragazzo completamente vestito di nero, bianco latte e pieno di ferite su tutto il corpo, con terribili occhiaie e capelli neri arruffati in ogni direzione, che al posto delle mani aveva delle lunghe lame affilate con cui era intento ad acconciare i capelli di due tributi. Huck non perse tempo, afferrò bruscamente i ragazzi del 12, che protestarono vivacemente, e li portò da quel gruppetto, dove era in corso una sfuriata.
« Ma che razza di problemi hai? » chiese Benvolio Fredrick Winslet, il bel giovane diciassettenne dai folti e lisci capelli biondo cenere e gli occhi azzurri, conosciuto anche come il tributo del Distretto 9 della seconda edizione degli Hunger Games.
Notando il colore degli occhi di quel ragazzo, Nymeria si bloccò per un attimo, stringendosi di più verso Jeremy, come a volersi proteggere. Ma la sua attenzione venne subito attirata dall'altra ragazza dai capelli bicolore: bianchi sopra e neri sotto, raccolti in trecce complicate ed appuntate sul capo da qualche spiga di grano.
« Sei stato tu! Mi hai toccato e mi dà fastidio. Come ti permetti? Neanche ti conosco! » gli gridò in faccia Melanie.
Entrambi erano vestiti di eleganti abiti d'oro, il cui ornamento era formato solo da chicchi di cereali sparsi qua e là, assieme a qualche spiga.
Huck se ne fregò altamente dei due e si rivolse al cupo stilista del 9: « Tu! » gli puntò addosso il dito, « Taglia un po' i capelli di questo qua! » per poi indicare il diciassettenne moro; e l'altro obbedì, non proferendo parola.
« Sei uscita di testa, forse? Se soffri di bipolarità, almeno non venire a rompere a me! » continuò Benvolio.
Bipolarità. Ma magari, pensò Melanie.
« Ma chi ti credi di essere? » sbottò, per poi puntare gli occhi sui nuovi arrivati ed indicarli bruscamente. « E chi cazzo sono loro? »
Restò immobile a fissarli, come quelli stavano facendo con lei, del resto; ma gli occhi verde muschio della diciassettene erano vacui, persi nel vuoto ed il suo compagno di distretto la osservò bene, perché aveva notato quello strano comportamento già diverse volte da quando si erano conosciuti.
Huck si avvicinò a lei, incuriosito e stranamente attratto dalla ragazza, leccandosi le labbra dipinte di rosso. « Come ti chiami? » domandò.
Giusto il tempo di cinque secondi e gli occhi della ragazza tornarono a fissare normalmente il suo interlocutore, ma più timidi, più imbarazzati, come dimostrava il suo collo che rientrava nelle spalle, il capo che si chinava ed il volto che avvampava con un evidente rossore.
« Phoebe. Phoebe Woody » confessò.
Nymeria alzò gli occhi al cielo, sospirando. « Che c'è? Ora vuole fare a cambio di tributi, tipo con le figurine? »
Jeremy, accanto a lei, ridacchiò, dandole un buffetto sul gomito ed attirando la sua attenzione. « Guarda il lato positivo, dolcezza: forse ora avrò un taglio di capelli più decente » scherzò, sorridendole e facendole l'occhiolino, mentre lo stilista del 9 studiava un modo per tagliare la sua folta chioma scura.
Nymeria venne percorsa da un brivido al sol sentir pronunciare quel nomignolo, ma poi si sciolse e si costrinse a sollevare cautamente gli angoli della bocca, per dedicare un sorriso divertito al suo compagno, giusto per accontentarlo.
 
 
Atto VII - Di lettura del cuore e ferite dell'animo.
Zhu Koeyn, da dietro i lisci capelli scuri che gli scendevano sul viso, aveva visto la scena coi suoi occhi ambrati. Generalmente i Pacificatori gli riportavano alla mente i brutti ricordi dei Giorni Bui e di quello che gli era capitato e che era stato costretto a fare. Però quello non era un semplice Pacificatore, perché Zhu conosceva quei ricci biondi, quel corpo alto e mingherlino, quel sorriso gentile e misterioso; non poteva dimenticare i volti dei soldati capitolini che si nascondevano nel rifugio di suo padre nel Distretto 6, non poteva dimenticare l'unica persona che aveva provato a sprecare una parola per dissuadere il capofamiglia dal fare il gesto che aveva segnato Zhu per sempre, seppur invano: il sergente Frederick Donowitz.
I suoi ricordi si interruppero solo quando vide una bambina vestita di frutta - coi capelli lisci e neri legati sul capo e gli occhi a mandorla - che fissava imbambolata il suo viso. 
I suoi stilisti avevano provato a coprire l'enorme ustione che gli sfregiava la parte sinistra del suo viso con la fuliggine, ma evidentemente era ancora troppo appariscente e lo sguardo di quella bambina non fece altro che portargli tristezza.
« Cos'hai da guardare? » chiese duramente, troppo avventato, com'era suo solito fare. Go Nakai fu percorsa da un brivido, che la fece indietreggiare di qualche passo. Non voleva arrecargli fastidio, ma era impossibile non essere attirati dal viso del giovane. Però lei lo sapeva, che gli uomini erano tutti cattivi.
La dodicenne accorciò il collo, chinando leggermente il capo. « Scusa » mormorò, quasi impercettibilmente, prima di allontanarsi.
Zhu non voleva, non era colpa di quella ragazzina, ma il troppo orgoglio gli impediva di chiedere scusa apertamente; così non ci pensò due volte e reagì d'impulso, raggiungendola velocemente e sfiorandole la spalla, in modo che Go si voltasse velocemente verso di lui, spaventata da quel contatto. Zhu esitò, vedendo la sua reazione, ma in fin dei conti lui non era uno che rimuginava troppo su qual era la cosa giusta o sbagliata da fare.
« Mi dispiace, non volevo » riuscì a dire.
Go non sciolse completamente i muscoli tesi, perché quello era un estraneo e per di più un uomo, non poteva di certo fidarsi; però lei riusciva a percepire i sentimenti di quel ragazzo. In fondo, ci era sempre riuscita con le persone. E questo la spinse a decidere di provarci, almeno un po'. 
Il risultato fu un lieve rossore sulle gote ambrate ed il domandarsi costante del perché quel ragazzo si sentisse così incompleto. 
 
 
Atto VIII - Di osservatori inattenti, ombre e furbizia.
Fortunatamente, ora era pronto. Prima era stato accerchiato da una marea di persone: Raff Floodplain, un giovane stilista dalla pelle ed i capelli rosa; sua sorella gemella, che era la copia spiccicata tanto da assomigliare ad una big bubble alla fragola umana; e Gliese Lickprivick, che pareva poco più che una bambina, sebbene indossasse un vestito succinto multicolor, sopra dei tacchi vertiginosi, dotata di un corno in testa sopra i lunghi capelli biondi e, ciliegina sulla torta, probabilmente doveva essere la ragazza della Gomma-da-masticare, visto che si erano addirittura baciate di fronte a lui, traumatizzandolo, mentre fissavano accuratamente la frutta sul suo abito, lo truccavano cercando di mettere in risalto i suoi occhi verdi ed ornavano la folta chioma scura con delle foglie. 
Ora, fortunataente, con Logan Jeremy Mackinley c'era solo la sua accompagnatrice, una piccola e dolce ragazzina di colore dai ricci che sfumavano verso il celeste e il lilla. Era preoccupata per lui e cercava di dargli consigli sulla sfilata. Era incredibile, ma Jeyl - preferiva farsi chiamare così - provava simpatia per una capitolina, che aveva in comune con lui più di quanto pensasse, visto che entrambi erano soli e con una famiglia a carico, disposti a tutto pur di mantenerla.
Ma i veri pensieri di Jeyl ora erano rivolti verso la sua piccola compagna di distretto, che non riusciva a ritrovare; era così tanto concentrato sulla dodicenne asiatica che non si accorse che un'altra piccola figura esile e dai ricci scuri rubò furtivamente una mela dal suo abito, senza che se ne accorgesse.
La tredicenne Lila Larin andò a sedersi sul carro, aspettando l'inizio della sfilata, mentre addentava il frutto "gentilmente preso in prestito". Nessuno si era accorto di lei. Nessuno mai lo faceva, era come una ragazza da parete che analizzava ciò che la circondava, cercando di capire i sentimenti degli altri tributi. Abbassava il capo, per paura che qualcuno potesse notarla ed era veramente difficile visto che Spectral e Merope Edenthaw - due sorelline somiglianti più a panda dai capelli bizzarri che persone, parte del suo staff assieme allo stilista Bise Herriot, che praticamente si credeva un vero pirata, con tanto di dred chilometrici e barba incolta - le avevano confezionato un lungo e scomodo vestito fatto di carne puzzolente. Teneva una mannaia in mano e di certo quello non era un abito adatto ad un'ombra come lei, ma al momento nessuno sembrava notarla, nemmeno Ryder Farm, l'unico che al momento era accanto a lei.
Aveva sempre provato simpatia per quel ragazzo, andava sempre a rubare nella fattoria dei suoi nonni e lo ascoltava parlare con gli animali, fin quando non venne beccata e quello decise di smettere di confidarsi nella scuderia. Sentiva che la colpa era sua e si rattristava al fatto che avrebbe dovuto uccidere una delle poche persone che le andasse a genio. Ma l'istinto di sopravvivenza era maggiore.
Né lei, né Chatty - così lo schernivano gli abitanti del Distretto 10, come una legge del contrappasso per contrasto - avevano voglia di parlare ed era meglio così, si facevano forza l'uno accanto all'altro, nel loro silenzio.
Poco più in là, Haylee Scott avrebbe tanto voluto andare da loro e vomitare sopra quell'abito. Aveva già preso in giro i suoi stilisti per tutto il tempo della preparazione, visto che uno era un indiano con tanto di ridicolo corvo sul capo e l'altra era una rossa provocante con una gamba di legno; Haylee era fermamente convinta che avesse ottenuto quel lavoro prostituendosi. Indigo Wentworth non pareva molto intelligente ed alle sue battutine pungenti iniziava a parlare di tutt'altro, mentre Silver Ballantynn era decisamente più furba e la teneva d'occhio. Un po' lei e quella donna erano simili e non solo per il colore dei capelli, ma anche perché erano due gnorri che analizzavano la situazione attorno a loro.
Solo che la quattordicenne aveva il viso pieno di lentiggini che la rendevano più candida a suo favore e, se si era permessa di insultare il suo staff, di certo non poteva farlo con gli altri tributi: doveva mantenere la maschera da bambina indifesa che si era costruita ed il corto e pomposo abito di foglie e la corona di rami e fiori la aiutavano nella sua impresa.
Così non doveva far altro che aspettare vicino al carro, in attesa di iniziare la sfilata.
 
 
Atto IX - Di vuoti di memoria e lieti balletti in punta di piedi.
Jamie Light Emily Sunders, tributo del Distretto 5, era vestita unicamente da un lungo nastro strutturato come il DNA, che l'avvolgeva e proseguiva nei lunghi capelli castano scuro, tirati verso l'alto e modellati nella stessa maniera. Le piaceva giocherellare col suo vestito, pensando di usarlo come un oggetto da palcoscenico per un suo balletto; prima, addirittura, si era messa a ballare ed Ice Stage - la sua accomagnatrice albina e dalla pace interiore e spirituale tanto calma e serena quanto quella di Jamie - si era messa ad applaudire e le aveva donato uno dei fiori della sua corona, ma poi erano arrivati Fir Caldwell e Fannia Monzac - i suoi cupi stilisti pressocché identici, entrambi con la pelle cadaverica, i capelli ricci sparati in ogni direzione e quasi sempre vestiti a righe - e non gliel'avevano semplicemente strappata di mano, bensì l'avevano tagliata con uno zac di forbici. Avevano provato anche a tagliarle i capelli, ma lei era scappata ed ora era pronta per salire sul carro.
Prima, però, decise di chiudere gli occhi e di farsi trasportare da una musica immaginaria che suonava nella sua mente, mentre i piedi cominciavano a muoversi da soli in modo aggraziato.
D'un tratto sentì un lento battito di mani e si arrestò, scorgendo una figura alta, dai capelli corti e castani, gli occhi verde smeraldo, un vestito fatto di fogliame e vari fiori che lo ornavano, anche sul capo. Jamie abbassò leggermente il capo, imbarazzata, ma sorrise gentilmente verso quel ragazzo che evidentemente era del Distretto 7.
« Rimani sempre bravissima, Jamie! » si complimentò quello, avanzando di qualche passo.
Cercava di sorridere perché in fondo lei era la sua Jamie, non voleva rabbuiarla con la sua vita, nella quale oramai non vi era più nulla per cui sorridere realmente. Ma era difficile farlo, perché oramai era abituato all'espressione dura che aveva adottato da anni, dura come la legna che spaccava.
Al sentir pronunciare il suo nome la quattordicenne s'irrigidì, sgranando gli occhi ambrati ed arretrando immediatamente. Nella sua testa ora riaffiorava qualche scena fatta di Pacificatori e grida dannatamente familiari. Scosse vigorosamente la testa, per cacciare via quel ricordo.
« Jamie, cos'hai? » domandò il diciottenne, preoccupato e nettamente confuso. Poi un lampo gli attraversò il cervello: erano passati molti anni, ovviamente entrambi erano cresciuti, lui aveva visto le repliche delle mietiture in treno ed aveva riconosciuto Jamie solo perché non esistevano ballerine brave come lei nel Distretto 5. « Non mi riconosci? Sono io, Will! »
Ma quando il ragazzo provò a tendere il braccio verso di lei, quella sfruggì via, verso i carri, lasciando William Alexander Wyngardaen solo e col cuore infranto.
 
 
Atto X - Finalmente la fottuta sfilata.
Augustus Flickerman, sempre nel suo impeccabile smoking verde acqua, in tinta con i capelli, raggiunse la sua postazione da telecronista sugli spalti, dove ad aspettarlo c'era già il suo collega, Titus Bartimeus Bones, intento a mordicchiare una stecca di cioccolata ancora incartata.
Augustus aveva appena finito di parlare con Saevera Spectral - la sorella della sua defunta Juliet - che ora lavorava come accompagnatrice del Distretto 6, che dai suoi racconti era messo alquanto male. Lei gli aveva fatto gli auguri, consapevole che suo fratello, Hadrian Flickerman, aveva annunciato le sue nozze. Non che la donna fosse un tipo che esprimeva facilmente la propria gioia, la sua era solamente una gentilezza verso l'uomo che condivideva il suo stesso dolore per una perdita comune.
« Benvenuti signore e signori alla sfilata della seconda edizione degli Hunger Games! » esclamò Augustus dal suo microfono. « Allora, Titus, come stai? »
« Oh, non vedo l'ora di iniziare! » rispose l'altro presentatore, battendo le mani e sorridendo a trentadue denti. « L'anno scorso è stato così eccitante, mi piaceva fare annunci nell'Arena, ma la mia parte preferita è stata dire il nome del vincitore: Jewel Walker! Jewel Walker! Jewel Walker! »
Il collega finse una risatina, cercando di placarlo. « Abbiamo capito che ti piace, Titus. Bene, ricordatevi, cari telespettatori, che dopo ci sarà in diretta il discorso del nostro presidente: Adamas Rigel! »
« Oh, ed ecco i carri! » fece notare il pallido uomo, che si aggiustò il cilindro sul caschetto color cioccolato.
I carri partirono dal fondo, susseguendosi uno dietro l'altro e facendo la loro scena.
« Sembrano delle fate » commentò Titus sul Distretto 1, i quali vestiti lasciavano una polvere di gemme brillantata, che luccicava per tutta la passerella.
A seguire, i vestiti del Distretto 2, fatti unicamente di lingue rosse, presero sul serio fuoco, lasciando il pubblico a bocca aperta.
« Originale » aggiunse Augustus, ignaro che il suo commento fece gongolare Mizar Rankine e morire d'invidia Rhymer Fairbrain, « speriamo che i tributi facciano altrettante scintille nell'Arena. »
Il Distretto 3 arrivò con i suoi robot, suscitando una piccola risata piuttosto acuta da parte del presentatore più giovane, mentre quello verde-acqua faceva una smorfia di disgusto verso la postura del tributo maschile, che lo faceva apparire con la gobba. Dietro di loro, due figure completamente nude e bagnate sfrecciavano sul carro, col vento che pungeva sulla pelle.
« Tremano come pulcini » osservò Titus, indicando con una mano guantata i tributi del distretto della pesca.
A seguire, il carro del Distretto 5 in cui il ragazzo era coperto solo da una fascia di palloncini rossi e blu in vita, che stavano a simboleggiare i protoni ed i neutroni, mentre la ragazza aveva un nastro che le si attorcigliava per tutto il corpo.
« Non ho ancora capito cosa c'entra il DNA col Distretto 5 » fece notare Augustus, con disappunto.
« Sono sempre cose scientifiche e noiose, Flickerman, a chi vuoi che importi » rispose l'altro, seppur il presentatore verde-acqua non fosse d'accordo, ma stavolta lo lasciò stare, conoscendo la parziale insanità mentale del collega.
Il Distretto 6 seguì con i suoi tributi completamente acconciati di nero, ma la piccola dodicenne dalle trecce scure tirò il filo collegato al fischio sul capo e quellò risuonò, esaltando il pubblico. Il Distretto 7 entrò vestito di fogliame ed i due del Distretto 8 ricordavano due bambole: Barbie e Ken con la pelle scura.
Ad un tratto, però, l'attenzione di tutti venne attirata dai tributi del Distretto 2, i quali vestiti sfuggirono al controllo, mandando a fuoco sia loro che il carro, e generando un coro di esclamazioni simil preoccupate da parte del pubblico. Immediatamente Clarity e Perry si gettarono a terra; lei cominciò a rotolarsi sul suolo, cercando di spegnere le fiamme, mentre Perry correva in preda al panico verso il carro del 4. Inciampò, afferrando la mano della ragazza che a sua volta afferrò quella di Ocean, facendo così cadere entrambi. Beryl precipitò addosso al tributo del 2 ed il suo corpo bagnato ed i suoi capelli zuppi d'acqua spensero le fiamme del vestito dell'altro, in un sonoro sbuffo di fumo.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui tutto sembrò risolto ed i quattro malcapitati si rialzarono, finché una baraonda si levò dal pubblico e tutti - ma proprio tutti - presero a fissare la ragazza del 2, che aveva i capelli quasi completamente bruciati.
La risata di Flickerman si alzò dal microfono, riecheggiando per tutta la struttura. « La miglior scena di sempre! » continuava a ripetere fra le risa, che per poco non lo portarono alle lacrime.
Titus, che lo accompagnava con una risata isterica, riuscì solo a dire che l'abito del Distretto 9 era banale, notando quei due punti gialli che rispendevano nel loro completo fatto di cereali. La sfilata sembrava bloccata, coi cavalli impazziti dal caos che si era creato, distogliendo l'attenzione dal Distretto 10 coi loro vetiti fatti di carne, quelli del Distretto 11 fatti i frutta ed i due del 12 vestiti da minatori.
Alcuni Pacificatori invasero la passerella, per cercare di salvare quella serata; ma quando tutto sembrava perduto, Lila Larin, Distretto 10, iniziò a staccare pezzi di prosciutto dal suo abito ed a lanciarli al pubblico di Capitol City, che si distrasse dall'accaduto, scoppiando in un'ovazione, intenta ad afferrare la carne. 
Augustus Flickerman si ritrovò a pensare che in quella scena non vedeva la genialata di una piccola tredicenne che risolveva la situazione, bensì i corpi macellati dei tributi dati in pasto ai capitolini assetati di vendetta; e la sua ilarità si tramutò in un sadico ghigno. Non era stato fatto neanche a posta, ma quella scena era carica di un significato fortemente macabro che neanche i telespettatori potevano permettersi di comprendere. Non ancora, almeno.
Sugli spalti posti sopra al palco dell'anfiteatro, si potevano notare i posti d'onore e Naomi vide sulla sinistra la figura bianca e pomposa di Constance Lovestock, con un'espressione un po' malinconica, mentre al suo fianco c'era colui che doveva essere Menenius Snow; quella visione le fece ricordare le parole di Jewel e qualcosa nella sua mente si auto-impose di tenere ben strette quelle informazioni. A parere suo, l'ex-spia del Distretto 1 era stata una vigliacca a tradire i ribelli e schierarsi con Capitol City, ma in fondo anche Naomi aveva commesso un grave errore in passato. 
Poco più in là c'era lo spazio dedicato alla telecronaca di Agustus Flickerman e Titus Bartimeus Bones, mentre a destra quello degli strateghi, tra cui uno solamente per Frank Hidden. Al centro, la figura alta e muscolosa del presidente Adamas Rigel - chiuso nel suo smoking, con gli occhi di un grigio penetrante ed i capelli curati di un bianco candido, seppur la sua giovane età - si eresse dalla sua comoda poltrona ed avanzò verso il microfono:
« Cittadini di Panem » iniziò con tono solenne, facendo calare il silenzio totale nell'anfiteatro, « come tutti ben sapete, sono passati pochi anni dalla fine dei Giorni Bui, in cui stiamo cercando di ricostruire una nazione sgretolata. Troppo pochi per quanti ne abbiamo combattuti. Troppo pochi per colmare il vuoto che mio padre ha lasciato, facendomi capire che dovevo occupare il suo posto di presidente e ribaltare la situazione. Possiamo vedere tutti i segni brutali che la rivolta ha lasciato, fino a quano Randy Wane e Hans Coin, capi dei ribelli, sono stati uccisi assieme a tutti i sindaci dei vari Distretti che si erano opposti alla capitale. » Si guardò attorno, coi suoi piccoli occhi indagatori e calcolatori, come a voler sottolineare che neanche le mosche si sarebbero dovute azzardare a fiatare. « Beh, spero vivamente che l'Arena sia divertente quanto questa sfilata » disse sorridendo apparentemente gentile e sincero verso il suo popolo, seppur nascondesse un sadico sentimento di vendetta nelle sue parole. Quasi un desiderio spietato e più importante di qualsiasi altra cosa.
Bastarono semplicemente quelle parole a far gelare chiunque in quell'edificio, come se il tempo si fosse fermato in un invalicabile baratro di soggiogazione. 


 

Quando si guardano troppo le stelle, anche le stelle finiscono per essere insignificanti.

(Jules Renanrd)















 








L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Abbiamo palesemente copia-incollato questo intro perché non avevamo sbattimento di farne un altro.
Ebbene sì, siamo - finalmente - giunte all'inizio di questa fantabolosa avventura, dove i vostri pargoli verranno uccisi brutalmente e la responsabilità non sarà nostra ma...
Ok, non divulghiamo.
Vi avevamo detto di cercare di indovinare di cosa avrebbe trattato il capitolo e solo gattapelosa ci è riuscita, di fatti per questo abbiamo voluto far venire la genialata del prosciutto proprio al suo tributo.
Come avrete capito, questo capitolo è il primo di molti altri che saranno ancora più nonsense di questo. Per questo vi sveleremo che il nome di Titus Bartmeus Bones deriva dal fatto che quando ancora non aveva un nome veniva chiamato "Tizio Bao Bao" nel capitolo, abbreviamo in TBB; così, non volendo cambiare le iniziali fighe, abbiamo messo tre nomi a caso in base ad esse.
Ora, continuando a parlare di personaggi, abbiamo un nuovo quesito per voi: entro ventiquattro ore dalla pubblicazione di questo capitolo dovrete cercare di indovinare il maggior numero possibile di personaggi a cui ci siamo ispirati per realizzare i vari personaggi quali stilisti/staff/cotolette e via dicendo. Vincerà un premio chi ne indovinerà di più e non chi indovinerà per primo, attenzione.
Tralasciando il fatto che abbiamo l'alzheimer e che ci siamo scordate come minimo il novantanove virgola nove per cento delle cose che dovevamo dirvi; siamo buone e vi mettiamo lo schema dei tributi, così capite:
  • Distretto 1: Mason Carter e Naomi Heloise Free
  • Distretto 2: Peregrine D'Erin e Clarity Valentine
  • Distretto 3: Elle 'L' Lawliet e Natalie Raphaëlle Maëlys Clothilde Dawson
  • Distretto 4: Ocean Keats e Beryl Straw
  • Distretto 5: Jason Bennet e Jamie Light Emily Sunders
  • Distretto 6: Zhu Koeyn e Wednesday Addams
  • Distretto 7: William Alexander Wyngardaen e Haylee Scott
  • Distretto 8: Brian Will Stark e Kenia Reaper
  • Distretto 9: Benvolio Fredrick Winslet e Phoebe Melanie Woody
  • Distretto 10: Ryder Farm e Lila Larin
  • Distretto 11: Logan Jeremy Mackinley e Go Nakai
  • Distretto 12: Jeremiah' Wilson e Nymeria Ironborn
Bene, come ultima cosa ci teniamo a precisare che Rhyzar, Ridden e Dephinnow sono assolutamente canon.
E chi non li shippa vedrà i propri tributi morire al Bagno di Sangue... No, sul serio.
Bao e cotolette.
 
pandaivols.

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Capitolo 3
*** Strike a violent pose. ***






 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

Strike a violent pose.

.




 
They said all teenagers scare
the living shit out of me
They could care less as long as someone’ll bleed
So darken your clothes
Or strike a violent pose
Maybe they’ll leave you alone
But not me.

 [Teenagers - My Chemical Romance]


 
Atto I – Di istruttori meschini e pronostici di morte. 
C’era stato un tempo in cui Soul Thanatos non lavorava come istruttore, un tempo in cui era un valente soldato e combatteva contro i ribelli, un tempo in cui avrebbe potuto raggiungere il livello di Adamas Rigel in persona, se ne avesse avuto l’occasione. 
E invece dopo la rivolta tutto ciò che gli avevano assegnato era stato… quel lavoro infimo e inutile. Un lavoro stupido che gli dava sui nervi. Soul non avrebbe voluto salvare neanche uno tra quei ventiquattro sfigatelli, ma purtroppo era costretto ad adempire al proprio compito di addestratore e spiegare loro, almeno, le regole basilari di sopravvivenza. 
Sono fortunati, si disse in quel momento con una scrollata di spalle. Ricordava che il suo addestramento, in tempo di guerra, era stato di gran lunga più duro e complicato; lui non aveva avuto nessuno che gli insegnasse a sopravvivere: i capi impartivano gli ordini e basta.
In effetti non gli passò nemmeno per la mente il fatto che in realtà lui non avesse avuto soltanto tre giorni di tempo per prepararsi al combattimento, ma abbandonò quel pensiero, osservando i tributi entrare in fila per due, Distretto per Distretto. 
Si posizionò al centro esatto della sala, segnato con un fregio artistico, che in realtà di artistico non aveva proprio nulla, se non un richiamo allo stile pacchiano della capitale.
Spostò lo sguardo freddo su tutti loro, soffermandosi su quelli che sembravano più giovani. Era difficile che un dodicenne o un tredicenne avesse una qualche possibilità di vittoria - la bella Jewel Walker stessa lo aveva dimostrato - quindi diede i più giovani subito per spacciati. Non che gli altri fossero messi meglio, comunque. Si guardavano attorno spaesati, indugiando sulle armi e su quell’ambiente a loro così estraneo; alcuni invece si soffermavano sul suo disgustoso ed orripilante aspetto e ciò lo infastidiva non poco.
Soul pensò che la maggior parte di loro poteva considerarsi fortunata se aveva avuto un tetto stabile sotto cui vivere, figurarsi aver visto prima d’allora un Centro all’avanguardia come quello. Probabilmente alcuni di loro, in ogni caso, avevano persino preso parte alla rivolta e lui non poteva saperlo. Se avesse saputo chi erano li avrebbe fatti fuori in quel momento stesso, senza batter ciglio. Nessuno poteva contrastare Capitol City, la città che come una madre si era presa cura dei propri Distretti a lungo, accudendoli e non facendo mancare loro nulla. Era naturale che i ribelli avessero e avrebbero dovuto pagare per quella rivoluzione e gli Hunger Games gli sembravano una punizione piuttosto sufficiente. Se fosse stato lui il presidente, comunque, avrebbe inflitto agli abitanti dei Distretti pene infinitamente peggiori, facendoli prostrare tutti ai propri piedi. 
Però lui non era presidente. Anche se sarebbe potuto esserlo. 
« Quest’oggi » annunciò, dimenticandosi per un momento del più grande rimpianto della sua vita e camminando a passi cadenzati sui bordi del fregio, « avrete l’opportunità di apprendere le principali tecniche di combattimento e sopravvivenza, quindi vi consiglio di fare molta attenzione a tutto ciò che gli addestratori vi spiegheranno. » 
Molti tributi non lo stavano ascoltando, presi com’erano a osservare l’ambiente circostante: un'enorme sala attrezzata dal pavimento traslucido piena di postazioni d’ogni genere. 
Soul s’innervosì. Detestava che qualcuno non gli prestasse ascolto. 
Alcuni ragazzi cominciarono a parlottare tra loro, ignorandolo, così che fu costretto a richiamare l’attenzione generale con un « Silenzio! » molto poco amichevole. Solo allora i tributi si zittirono completamente, forse intimiditi dal suo tono autorevole e dall’aspetto inquietante. 
Gli occhi rossi di Soul serpeggiarono nella loro direzione, annientandoli senza neanche aggiungere altre parole o rimproveri. Si posarono sulla giovane Go, che automaticamente fece un passo indietro dinanzi alla spietatezza di quello sguardo inumano dalle pupille verticali. 
« Tu » disse l’istruttore, scostante, indicandola con un’alzata di mento. « Quanti anni hai? Mi sembri una bambina capitata nel posto sbagliato. » 
Go strinse le mani dietro la schiena, torcendole nel tentativo di alleviare la tensione che quell’addestratore le aveva trasmesso. La dodicenne pensò che nel cuore di quell’uomo non doveva esserci davvero nulla di positivo: solo rabbia, bramosia e rimpianti. Lo capì con poche e veloci occhiate. 
« Dodici » rispose flebilmente. 
Soul le si avvicinò e le strinse una mano dal colorito pallido e malaticcio intorno al braccio, per poi trascinarla accanto a lui al centro della sala, sul fregio, con poca delicatezza. La esaminò nello stesso modo in cui si esaminerebbe della merce in vendita. « Bassa, poco robusta, innocente e silenziosa » commentò, girandole intorno come per schernirla. « Devi stare molto attenta, Distretto… » si sporse per guardare il numero sulla sua tuta, « … 11. » 
Go sembrò farsi ancora più piccola davanti a quei commenti, ma non disse nulla e non provò neanche ad abbassare la testa. 
Jeyl, suo compagno di Distretto, fece un passo avanti. « Ehi » disse contro l’istruttore, impulsivamente, indispettito dal suo comportamento. « Lasciala in pace. » 
Soul si voltò a guardarlo severamente, ma non replicò. L’indisponenza era un’altra delle qualità che decisamente non apprezzava. 
« A dispetto di quelli che sono le vostre corporature e i vostri caratteri, comunque » continuò, poggiando una mano viscida sulla spalla di Go - al che Jeyl borbottò qualcosa nella sua direzione - « tutti avete delle abilità, nascoste o meno. Il compito del Centro Addestramento è quello di farle uscire allo scoperto. » Ritornò a guardare la dodicenne e si abbassò di poco per poterla guardare meglio in faccia. « Anche per te, Distretto 11, c’è speranza. » In realtà non lo pensava davvero, ma il copione di istruttore gli imponeva di dire anche quello. 
Allargò le braccia ed indicò tutta la sala: « Qui troverete postazioni di ogni genere. Vi do un consiglio: concentratevi prima su quelle di sopravvivenza, poi su quelle dedicate alle armi. Tutti di sicuro fremono dalla voglia di provare un’arma, ma la maggior parte di voi morirà per cause naturali. » Fece una breve pausa. « Tu, per esempio » aggiunse indicando Elle con una smorfia, « mi sembri il classico morto per disidratazione; e tu » continuò, rivolgendosi stavolta a Zhu, con un’espressione altrettanto penetrante e irrisoria, « il classico morto per avvelenamento. » 
Zhu strinse i pugni e fece per ribattere al volo, ma Wednesday, la sua compagna di Distretto sussurrò qualcosa con cui si trovò particolarmente d’accordo – almeno da un lato, si intende: « Se continua così sarà lui il primo a morire. Già gli mancano il naso, i capelli e le sopracciglia, sarebbe divertente cavare quei suoi occhi strani fuori dalle orbite… » 
Il ragazzo del Distretto 6 osservò di sottecchi la dodicenne dalle trecce nere, che aveva il viso ornato da un sorrisetto furbesco. Non aveva mai conosciuto nessuno di più sadico, prima. Nessuno di più sadico, ovviamente, eccetto… Scosse la testa, ritornando ad ascoltare stizzito il discorso dell’istruttore. 
« L’assideramento uccide quanto la lama di un coltello, certo, ma ci sarà qualcosa di infinitamente peggiore di entrambi » disse Soul, lasciando però la frase in sospeso. 
Tutti e ventiquattro i tributi si aspettavano che specificasse cosa ci fosse di infinitamente peggiore, ma l’addestratore smise di parlare e incrociò le braccia, fissandoli con sguardo di sfida. Forse si trattava dell’arena e delle sue trappole. Trappole imprevedibili, tra l’altro, perché nessuno sapeva ancora di che cosa si trattasse, strateghi esclusi, che sicuramente stavano osservando, da una postazione sicura, cosa stava accadendo dentro il Centro.
« Detto questo » fece Soul, in conclusione, « … divertitevi e non fatevi, uhm, troppo male. »

Atto II – Di canzoncine del secolo scorso. 
Soul non fece neanche in tempo a vedere i tributi sparpagliarsi per la sala che sentì qualcosa tirarlo per la manica della propria tuta d’istruttore. Si girò di scatto e la prima cosa che vide della ragazzina accanto a sé fu la folta chioma riccia e bruna che le ricadeva sulle spalle e le incorniciava il viso fanciullesco. 
« Signore » fece lei, non staccando la mano affusolata dalla sua manica, mentre nell’altra stringeva una bambolina tutta rattoppata con due bottoni al posto degli occhi. Soul guardò il numero sulla sua tuta: 8. Una volta ci aveva combattuto, nel Distretto dei tessuti; neanche ricordava quanti ribelli avesse ucciso in quel territorio. « Signore, posso chiederle una cosa? » chiese la ragazzina innocentemente. L’addestratore annuì poco convinto, strattonando il braccio dalla presa gentile eppure salda della dodicenne. « Cosa c’è di peggiore dell’assideramento e della lama di un coltello? » domandò quindi, gli occhi sbarrati dalla curiosità per ciò che Soul aveva detto a tutti loro poco prima. 
« Lo scoprirai presto, ragazzina » ghignò l’istruttore. Che ingenua. 
« Mi chiamo Kenia. Kenia Reaper » precisò lei, gonfiando le guance. « E comunque non dovrebbe spiegarcele lei queste cose, signore? » 
Soul si bloccò per un minuscolo istante. Reaper. L’aveva già sentito da qualche parte, tra le file alleate della ribellione. Squadrò Kenia dall’alto in basso, soffermandosi sulla sua figura innocente e cercando di ricordare. 
La dodicenne, dinanzi a quello sguardo freddo e penetrante, strinse involontariamente la propria bambola a sé. 
Soul rifletté per qualche istante: se i Reaper facevano parte degli alleati, lui avrebbe potuto dare anche una mano a quella bambina – perché di una bambina si trattava. La meritava molto più di quegli stupidi figli di ribelli, nonostante detestasse dare il proprio aiuto a qualcuno. Ma in fondo che aveva da perdere? 
« Vuoi proprio saperlo? » sussurrò con un mezzo sorriso obliquo. Il viso di Kenia si illuminò e annuì vivacemente, facendo ondeggiare anche i suoi capelli riccioluti. Soul appoggiò le mani sulle ginocchia e si piegò per abbassarsi al suo livello. « Cascate. Tieni d’occhio le cascate. » 
Lo disse così velocemente e flebilmente che Kenia avrebbe potuto non capire. E invece aveva colto ogni parola, da brava ascoltatrice qual era. 
Sgranò le iridi verdemare ancor di più, lasciando trasparire tutto lo stupore del mondo. Forse neanche lei si aspettava che proprio quello strano addestratore senza naso le avrebbe rivelato un dettaglio così importante dell’arena… ed in effetti Soul stesso se ne pentì lievemente poco dopo. Cancellò l’espressione affabile dal suo viso rovinato e raddrizzò la schiena. 
Kenia capì che non avrebbe dovuto farne parola con nessuno e mormorò prontamente un « Grazie, signore! » e poi corse via, sempre con quella strana bambola stretta tra le mani. 
Soul assottigliò lo sguardo. Aveva fatto un errore? Forse no. Forse, nonostante anche Kenia non sembrasse destinata a sopravvivere, ne avrebbero viste delle belle. 

Kenia saltellò in direzione del suo compagno di Distretto. « Brian! » lo chiamò con un sorriso sulle labbra. « Brian! » 
Il quindicenne, sentendo quella voce cristallina, si voltò di scatto nella sua direzione e serrò le labbra. Che voleva quella tizia da lui? 
« Che c’è, stavolta? » sbottò, sbuffando. « Hai fatto fare un triplo salto mortale alla tua Bessy? »
« Si chiama Betty » precisò Kenia. 
« Benny, Bessy, Betty… è lo stesso » fece Brian scrollando le spalle. « Allora? » 
« Allora cosa? » 
« Che vuoi? » 
La ragazzina continuò a sorridere spensierata; il suo compagno, d’altronde, non poteva sapere che quello strambo ed inquietante istruttore l’aveva appena avvantaggiata con un indizio sull’arena. Si era già silenziosamente complimentata con sé stessa per aver conseguito quella vittoria. 
Fece spallucce a sua volta. « Oh, niente, volevo solo vedere come te la cavavi ad accendere un fuoco. » 
Brian borbottò qualcosa sottovoce e poi aggiunse: « Non sono fatti tuoi. Perché non torni a giocare con quella tua pezza? » 
Kenia s’incupì leggermente. Perché cercava di fare amicizia e le persone reagivano così, Brian in particolare? Solo Delphi era stato gentile con lei. Certo, non che quello fosse un uomo di molte parole, ma le stringeva sempre silenziosamente la mano proprio quando Kenia ne sentiva il bisogno, era gentile nei modi di fare, benché il suo sguardo di ghiaccio faceva raggelare chiunque, poi la mattina a colazione le lasciava tutte quelle ciambelle dolciastre coperte di glassa al cioccolato che i capitolini chiamavano "donuts" ed inoltre la sera le rimboccava le coperte prima di andare a dormire, proprio come faceva Kingsley. 
Già, Kingsley... 
Per un attimo gli occhi chiari di Kenia si persero nel vuoto, sentendo la testa farsi pesante per tutte quelle voci che iniziavano a parlare sempre più forti. Ma poi pensò che forse poteva farsi coraggio e chiedere a Delphi di raccontarle una fiaba prima di dormire e, mentre lo fece, le sue guance si tinsero di porpora e quelle voci, stranamente, si placarono. Scrollò il capo e riportò l'attenzione su Brian, che la fissava confuso e poco interessato.
« Non ho voglia di giocare, adesso. » 
« E allora fai altro e non venire a rompere le scatole a me. »
La dodicenne abbassò la testa, lasciando che un riccio le scivolasse sulla fronte. « Perché non vuoi che ti faccia compagnia? » 
« Forse perché non voglio la tua compagnia? » ribatté sarcasticamente. « Ah, proprio non ci arrivi. » 
Gli occhi di Kenia si sarebbero velati di lacrime, se solo non fosse che l’ultima volta che aveva pianto era stata all’incirca un anno prima, quando il suo Logan era ritornato dall’arena in una bara di legno. Forse quando sarebbe ritornata in camera avrebbe versato qualche lacrima silenziosamente, o forse no. O forse meglio tra le braccia di Delphi, sì, perché lui stranamente riusciva sempre a darle ciò di cui aveva bisogno, anche se non lo diceva apertamente. 
« Perché mi odi? » chiese stavolta, seriamente dispiaciuta. « Che cosa ti ho fatto? » 
Brian strinse i pugni, ma non rispose. Non poteva rispondere a quella domanda. Un’ondata di rabbia lo percorse da capo a piedi, ma fu qualche altra cosa ad emergere insieme alla collera… compassione? Una piccola, minuscola briciola di compassione. Gli sembrava innocente, in quel momento. Innocente e sincera, a dispetto di quello che Clary aveva detto sul suo conto: « Ho sentito che in famiglia la chiamano Barbie, Brian. » 
« Lasciami in pace, Barbie » disse allora, risoluto, ignorando quella strana ed estranea sensazione, sottolineando quel nomignolo col tono della voce. 
Kenia sgranò gli occhi, sconvolta. Nessuno, al di fuori dei suoi parenti, sapeva di quel soprannome. 
Senza aggiungere un’altra parola, scappò lontano da lui. Si avvicinò a un’altra postazione distrattamente e cominciò a canticchiare uno di quei motivetti che le aveva insegnato la nonna: « Un vestito bianco per la sposa, un giglio bianco tra i capelli suoi, un velo bianco sul viso candido… » cantò con la voce tremante, fingendo, come tutte le volte che cominciava a cantare, che andasse tutto bene. 

Ryder si guardò un’ultima volta intorno, cercando di decidere in quale postazione fiondarsi per prima. Considerò le varie opzioni velocemente, poi preferì dedicarsi alla mimetizzazione, perché forse gli sarebbe tornata utile; e inoltre, in realtà, stava soltanto cercando di rimandare la lezione d’arrampicata, visto che aveva la fobia delle altezze. 
La postazione non era ancora particolarmente affollata, c’erano soltanto un paio di tributi non molto interessati che poco dopo cambiarono idea e si dedicarono ad altro. 
Ryder quasi tirò un sospiro di sollievo: preferiva di gran lunga stare da solo invece di confrontarsi con altre persone; infatti non aveva ancora il coraggio di pensare all’intervista. A lui non piaceva parlare, perché lui parlava con gli occhi. Peccato però che solo gli osservatori migliori riuscissero ad accorgersene. 
Meglio così, pensò in quel momento con una scrollata di spalle. Non voglio essere disturbato da nessuno. 
L’addestratore di mimetizzazione gli spiegò in fretta e furia alcune delle tecniche basilari, poi lo abbandonò per andare a parlare con un’altra istruttrice dall’aria avvenente. Ryder alzò gli occhi al cielo e continuò a pitturarsi il braccio da solo, stando bene attento a ricreare il motivo verdeggiante della finta aiuola dietro la quale avrebbe dovuto provare a nascondersi. 
Dopo aver finito la sua opera – ovvero dopo aver fatto diventare l’intero avambraccio di un verde scolorito – si avvicinò al cespuglio, ma prima che avesse potuto anche solo sfiorarlo, una testa riccioluta fece capolino dalle foglie. 
Ryder sobbalzò e fece automaticamente un paio di passi indietro, colto alla sprovvista. Non si era proprio accorto che ci fosse un’altra persona con lui. Altra persona che per di più era la sua giovane compagna di Distretto. 
Le guance di Lila si imporporarono lievemente e lei abbassò lo sguardo. « N-non ti stavo spiando » balbettò, scrollandosi alcune foglie dalle spalle esili. 
Ryder impallidì per un secondo, poi però le credette. Dopotutto non aveva motivo di mentirgli. L’ultima volta che si erano visti nella stalla era stato molto tempo addietro e proprio da quel giorno il ragazzo aveva perso l’abitudine di andarci, perché era stato colto in flagrante mentre parlava con i suoi cavalli. Ricordava ancora come Lila – prima della mietitura non sapeva nemmeno il suo nome – fosse sbucata dall’ombra e gli avesse detto che le piaceva da morire mettersi lì, nascosta e accucciata, ad ascoltare i suoi discorsi dolcemente malinconici. La verità era che Ryder preferiva molto di più confidarsi con gli animali che con le persone, perché loro non potevano schernirlo o insultarlo, ed essere scoperto da una ragazzina così silenziosa come lui lo aveva messo profondamente in imbarazzo. Per questo di sera non era andato più nella stalla, anche se sapeva che Lila vi si recasse ancora, speranzosa, per continuare ad ascoltare le sue parole nel buio. 
Ryder le sorrise debolmente, alzando gli angoli delle labbra. La tredicenne lo guardò bene e per un momento si rasserenò, perché aveva notato che le iridi verde scuro del ragazzo stavano sorridendo allo stesso modo e quindi non era un sorriso falso. Lila, d’altronde, non aveva mai dubitato che Ryder fosse una persona onesta.

Atto III – Di strette di mano e corpo a corpo. 
Haylee Scott si dondolò sui talloni. Era riuscita a controllare l’irrefrenabile voglia di schernire il capo-istruttore con domandine sarcastiche del tipo “Mi può prestare un fazzoletto per soffiarmi il naso?”, oppure “Riesce ancora a scaccolarsi conciato così?”, per cui si era allontanata velocemente da lui ridacchiando, camminando poco distante dal suo compagno di Distretto, che sin da quando avevano visto i filmati delle altre mietiture, sul treno, aveva assunto un’aria distante e pensierosa. Haylee si era domandata che cosa gli fosse preso, ma non aveva indagato più di tanto. Era di natura curiosa, certo, ma non provava molto interesse nel ficcare il naso negli affari altrui. 
In quel momento pensò che parlare di “ficcare il naso” con Soul sarebbe stato divertente, ma venne bloccata giusto in tempo da William, che le chiese in tono sbrigativo: « Hai visto la ragazza del 5? » 
Haylee inarcò le sopracciglia. Lei nemmeno si ricordava chi fosse la ragazza del 5. 
« Sarà in giro, no? » gli rispose altrettanto risolutamente. William sembrò pentirsi di aver rivolto quella domanda a lei, ma poi individuò l’oggetto delle sue ricerche e la lasciò perdere, avvicinandosi a Jamie con una sottospecie di sorriso affranto. 
La rossa alzò gli occhi al cielo: trovava che fosse molto stupido trovarsi degli alleati agli Hunger Games, considerando che prima o poi soltanto uno su ventiquattro sarebbe rimasto in vita. Lei proprio per questo non voleva alleati. Che senso aveva se poi avrebbe dovuto ucciderli o vederli morire? Non rientrava proprio nello spirito dei Giochi. 
Qualcuno le picchiettò su una spalla con la mano. « Ehi, tu, tizia. » 
Haylee si voltò vogliosa di sapere chi fosse il rompiscatole ed un ragazzo alto e snello e dai capelli in disordine le si parò davanti.
« Che vuoi? » fece bruscamente, alzando un sopracciglio – che era una cosa che faceva veramente spesso, tra l’altro. 
« Ti è caduto questo » rispose lui con una smorfia, indispettito dal fatto che la ragazza avesse reagito così. Le porse un piccolo pezzo di stoffa scolorita. 
Haylee, dopo aver visto di che cosa si trattava, glielo strappò dalle mani, sgranando gli occhi. « Dove diavolo l’hai trovato? » domandò in un sibilo. 
Il ragazzo del 12 – perché il numero sulla tuta le aveva suggerito che appartenesse a quel Distretto – incrociò le braccia e arricciò le labbra. « A terra. Ti è caduto prima e ho pensato di riportartelo. » 
La rossa strinse involontariamente quel pezzettino di stoffa a sé. « E’ mio. » 
« Ma va? » rimbeccò l’altro. 
« Cioè, non è proprio mio mio, ma… » ... di mio padre. Si bloccò, scuotendo la testa. « Lascia perdere. » 
Haylee si mise la stoffa in tasca e Jeremy studiò le sue mosse per qualche secondo. 
« Neanche un “grazie”? » chiese con un sorrisetto sarcastico. 
« No » ribatté. « Avrei anche potuto raccoglierlo da sola » continuò, sbattendo le ciglia innocentemente. 
Jeremy alzò gli occhi al cielo. « Prego lo stesso » disse, « Miss Antipatia. » 
« E’ stato un piacere » replicò lei, stringendogli la mano saldamente e sorridendogli con finta gentilezza. 
Il ragazzo ricambiò la stretta e per qualche istante entrambi credettero che le loro dita avrebbero anche potuto scricchiolare. 

Jamie si limitò a fissare affascinata tutto il Centro Addestramento per dieci minuti buoni. Sfiorava ogni cosa con la punta delle dita, girovagando con un sorriso sulle labbra. Salutò gentilmente un’istruttrice chinando il capo e si sgranchì un po’ le gambe. 
Aveva già riflettuto sul fatto che la danza avrebbe potuto aiutarla nel combattimento corpo a corpo, per cui aveva deciso di provarci. 
Jamie non voleva uccidere nessuno, in realtà. Da quel che aveva potuto vedere sino a quel momento, tutti gli altri tributi – o la maggior parte – erano ragazzi come lei, con i propri sogni, le proprie speranze e le proprie preoccupazioni. Le sarebbe dispiaciuto davvero molto doverli veder morire uno ad uno come bambole di pezza, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tornare a casa. Jamie era buona, certo, ma non stupida. Per questo aveva deciso che avrebbe imparato a difendersi, perché non voleva farsi cogliere del tutto impreparata. 
Si avvicinò alla postazione del combattimento corpo a corpo e vide che non era ancora stata occupata da nessuno; l’istruttore se ne stava lì con le braccia conserte ad aspettare un qualche tributo da poter allenare alla lotta. Quando vide Jamie, però, storse il naso. 
(E qui Haylee avrebbe trovato un altro argomento divertente da discutere con Soul.)
La ragazza intuì subito cosa stesse pensando: una quattordicenne esile e leggiadra come lei che voleva combattere? Per un attimo sembrò assurdo persino a sé stessa. 
« Sei sicura di voler provare? » chiese acidamente il nerboruto addestratore. Jamie annuì senza riflettere. D’altronde non aveva nulla da perdere. L’uomo le fece cenno di salire sulla pedana, alzando gli occhi al cielo. « Allora, di sicuro non hai più di quindici anni e sei molto magra, quindi di conseguenza dovresti puntare tutto sulla velocità e sull’agilità. Così facendo non dovresti avere molti problemi a combattere anche con un maschio. »
La ragazza ascoltò bene e apprese la tecnica che avrebbe dovuto utilizzare: velocità e agilità. Si trattava di questo. Forse sarebbe riuscita a stupire l’addestratore e anche gli altri tributi. 
« Per ora ti conviene riscaldarti e fare un po’ di stretching » continuò l’uomo, « e dopo ti farò vedere le mosse basilari. » 
Jamie corse in tondo sulla pedana per un paio di minuti, poi si dedicò allo stiramento dei muscoli, specialmente a quello delle gambe. Si prese una caviglia e tirò la gamba indietro, forzando lievemente i quadricipiti e rimanendo in equilibrio; le piaceva moltissimo quell’esercizio, la rilassava. 
Stava giusto cambiando gamba quando si accorse di essere osservata da un paio d’occhi verde smeraldo. Le piaceva il verde, le ricordava gli alberi, ma quegli occhi erano molto più profondi e penetranti. 
Smise di fare stretching seduta stante, arrossendo sulle gote, perché quel ragazzo era lo stesso che l’aveva fermata durante la sfilata. 
« Jamie? » sussurrò lui piano, ma l’addestratore lo notò e lo incitò a salire sulla pedana con lei. 
« Ecco » disse soddisfatto, quindi. « Ti abbiamo trovato un avversario bene in forze, ragazzina. » 
Jamie abbassò la testa, imbarazzata. Non aveva poi molta voglia di combattere proprio contro di lui. 
Il ragazzo del Distretto 7 la osservò per qualche istante, poi scosse la testa: « Non posso combattere con una ragazza. » 
« Sì che puoi » ribatté l’istruttore. « Ti ricordo che i primi Hunger Games sono stati vinti da una ragazza. » William lo fissò sconcertato, perché in fondo aveva ragione. « E comunque questo è solo un allenamento » precisò l’uomo. « Non dovete farvi del male sul serio. » 
Jamie rialzò la testa e annuì, come se volesse mettersi alla prova. Di sicuro non voleva essere sminuita, per cui si avvicinò a William con passi cadenzati, alzando le braccia davanti al viso. Sembrò addirittura incitarlo con lo sguardo. 
Prima che potesse difendersi e prima che l’istruttore le spiegasse che cosa dovesse fare, Jamie gli sferrò un calcio nell’addome, facendolo piegare in due. William emise un verso di dolore, tenendosi una mano sulla zona colpita, ed il viso dell’uomo si colorò di un’espressione esterrefatta. Jamie gli diede stavolta un calcio negli stinchi e William cadde steso sulla pedana. La ragazza allora abbandonò subito il proprio intento, spalancando le iridi color ambra. Non voleva ferirlo per davvero. 
Gli si accucciò accanto e lo scosse delicatamente per una spalla, pregando che stesse bene. Lui alzò gli occhi e incontrò i suoi: sembravano pervasi da mille parole, le stesse mille parole che non avrebbe mai pronunciato perché Jamie non parlava proprio con nessuno. 
« Sto bene » fece allora con un sorriso storto. « Sto bene, non ti preoccupare. » 
La quattordicenne sembrò sollevata, ma non staccò la mano dalla sua spalla, perché quel contatto, inspiegabilmente, le dava una sensazione di casa. Lo aiutò a rialzarsi, mentre il grosso istruttore diceva soddisfatto: « Ah, però, Distretto 5! Penso che su di te si possa scommettere. »

Atto IV – Di inutili erbe curative. 
La postazione delle piante era occupata in quel momento da quattro persone, che a dire il vero neanche si guardavano in faccia, intente nell’esaminare i diversi tipi di bacche, fiori e radici. 
L’unico che sembrava leggermente in difficoltà, comunque, era il ragazzo del Distretto 5, completamente estraneo a vegetali vari. Jason sapeva – o almeno, l’aveva capito – che negli Hunger Games gli sarebbe servita una buona conoscenza in materia, perché, se non avesse avuto sponsor a sufficienza, il cibo se lo sarebbe dovuto procurare da solo. 
Lesse qualche altra definizione senza realmente concentrarsi e prese a grattarsi la voglia rossa sotto il collo, cosa che avveniva spesso quand’era immerso nei propri pensieri. 
Jason non aveva paura dell’arena in sé per sé, non dopo tutto quello che gli era capitato, ma aveva paura di morire, come tutti gli altri tributi in quella sala. O quasi. 
Wednesday Addams, la cupa dodicenne del 6, infatti, sembrava non veder l’ora di mettere piede nell’arena e di ammazzare qualcuno. Prima di aggirarsi per la postazione delle erbe era stata tutto il tempo a torturare manichini in un angolo e, quando un addestratore le aveva rivolto la parola, lei gli aveva lanciato un’occhiataccia eloquente, rigirandosi il coltello che aveva tra le mani con un sorrisetto a dir poco inquietante. Jason infatti si domandava come mai quella stessa ragazzina ora fosse intenta a leggere un piccolo manuale di botanica, la fronte corrugata e le labbra socchiuse che mormoravano ciò che c’era scritto. 
« Stupidaggini » disse in quel momento la dodicenne, gettando il libricino in un angolo con nonchalance. « Se si combinano due veleni si crea un veleno più potente, non un antidoto. » 
Il ragazzo la osservò di sottecchi, cercando di non apparire maleducato. Quella ragazzina sembrava saperne più di lui. 
Anche un altro tributo, precisamente la ragazza del 12, guardò Wednesday con sguardo a metà tra l’ammirazione ed il turbamento. Nymeria era un’esperta di erbe curative – e come non avrebbe potuto esserlo, quando si era impegnata anima e corpo per accudire suo fratello dopo l’attacco? – ma molte di quelle piante non crescevano nel suo Distretto e non le aveva neanche mai viste. Aveva deciso di dedicarsi per qualche minuto a quella postazione, perché l’avrebbe fatta sentire a casa anche se per poco, dopodiché sarebbe passata ad altro. 
« E’ vero? » le domandò gentilmente una voce poco lontana. 
Nymeria si voltò di scatto, trovandosi vicino il tributo del Distretto 5, l’unico ragazzo intento a familiarizzare con i vegetali. 
« Cosa? » chiese, lievemente spaesata. 
Non sembrava avere cattive intenzioni, ma, eccetto suo fratello e pochi altri, tutti gli uomini che avesse conosciuto pretendevano da lei una cosa sola. 
« Quello che ha detto la ragazzina » specificò Jason, indicando Wednesday con un’alzata di mento. Vedendo che Nymeria non ribatteva, però, aggiunse in segno di scuse: « Mi dispiace, credevo che tu ne sapessi più di me in materia. » 
La ragazza lo osservò pensierosa per qualche momento. Non aveva un’aria minacciosa o irriverente, a differenza di Niklaus. Provò a sorridere. « Nella maggior parte dei casi sì, dipende dal veleno. »
Jason sembrò sollevato dal fatto che gli avesse dato una risposta soddisfacente. « Capisco. E, invece, come si fa a creare un antidoto? » 
Un luccichio pervase in pochi istanti gli occhi azzurri di Nymeria. « Si possono creare degli antidoti sfruttando dei veleni, ma mai due veleni insieme… sarebbero letali. Per esempio » cominciò a spiegare, indicandogli alcune cose sul bancone davanti a sé, « l’infuso di questi fiori misto all’estratto di queste bacche velenose, crea sollievo contro un’infezione. » Jason sgranò leggermente gli occhi dalla curiosità; quella ragazza sapeva spiegare le cose molto meglio dell’addestratore capitolino. « Per fortuna » continuò lei, abbozzando un’espressione di modestia, « queste piante sono abbastanza diffuse. » 
Il ragazzo annuì. « Io non ho la minima idea di cosa aspettarmi dall’arena. Alla prima mietitura mi ricordo che avevano detto che poteva cambiare di anno in anno. » 
« Sinceramente non lo so neanche io » replicò Nymeria, che arricciò le labbra a quel pensiero. « Spero… spero che vada tutto bene. » 
Un manto gelido calò sul discorso, perché entrambi sapevano bene che solo uno tra ben ventiquattro ragazzi sarebbe sopravvissuto. 
« Andrà tutto bene » disse Jason, allora, con un sorriso gentile. Gli suonava molto strano, ma quel momento si sentiva di doverla rassicurare. Subito dopo si passò una mano dietro la nuca per nascondere l’imbarazzo. 
Gli occhi di Nymeria si ingrandirono. Perché le stava dicendo quello? Perché un estraneo stava cercando di confortarla?
« Come ti chiami? » chiese lei allora, di slancio, tendendogli una mano. 
« Jason » rispose l’altro, stringendola. 
La ragazza tentò di nascondere la pelle d’oca. Le sembrava una coincidenza assurda. « Oh, proprio come mio fratello… Io sono Nymeria, comunque. Né ‘Nym’, né ‘Meria’.» 
Jason le posò lievemente le labbra sulle nocche, continuando a guardarla negli occhi. Non credeva di aver mai visto un azzurro più tormentato, come un mare in tempesta. « E’ un piacere. » 
La ragazza spostò lo sguardo altrove, perché si sentiva messa a nudo, molto più di quando era uno dei Pacificatori del Distretto 12 a spogliarla. Perse un istante a riflettere quanto quel ragazzo sembrasse così radicalmente diverso da Niklaus e ritirò la mano quanto meno bruscamente le fosse possibile. Nonostante le costasse moltissimo ammetterlo, Niklaus era la persona più importante della sua vita – dopo suo fratello – ed era sicura che non sarebbe mai riuscita a sostituirlo con nessun altro, neanche con un gentiluomo del Distretto 5. 
« Anche per me, Jason. »

Wednesday stava aspettando il suo turno sbuffando. Quella ragazzina dell’11 ci stava impiegando più del previsto, per cui cominciò a fissarla per metterla a disagio. E ci riuscì, perché Go si voltò verso di lei con sguardo infastidito, nonostante gli occhi a mandorla le conferissero una perenne espressione dolce e innocente in viso. 
« Potresti muoverti? » le chiese la giovane Addams, arrotolandosi una delle due trecce nere intorno alle dita. « Tocca a me. » 
« E’ il mio turno » protestò Go, stringendo il libro a sé di riflesso. 
« Non è vero » ribatté l’altra arrogantemente. « Dammelo. » 
« Non credo ti interessino le erbe curative » disse la minore, quasi perforandola con gli occhi. « Mi sbaglio? » 
Wed incrociò le braccia e si lasciò sfuggire un ghigno. « Sono felice che la gente l’abbia capito, ma comunque è il mio turno. » 
Go preferì lasciar perdere, perché non aveva voglia di mettersi contro nessuno e perché lei ne sapeva già abbastanza di botanica, grazie alla sua nonna. Al pensiero della donna il cuore della dodicenne si rilassò: Kaori l’aveva preparata per la vita e si era presa cura di lei come neanche due genitori avrebbero saputo fare. Lasciò il libro nelle mani di Wednesday e si allontanò verso un’altra postazione. La sua coetanea, da ciò che aveva potuto intuire, non le ispirava nulla di buono. 
La ragazza del Distretto 6, comunque, dopo aver perso qualche minuto a leggere quelle che considerava sciocchezze, buttò anche quel libro in un angolo, alzando gli occhi al cielo. 
Lo sapeva che i capitolini erano stupidi, ma non credeva fino a quel punto. 
Andò a recuperare la sua bambola dall’abito ottocentesco, che aveva lasciato su una panca – guai a chi si fosse azzardato anche solo a sfiorarla – e le sussurrò come si farebbe ad una bambina vera: « Queste stupide erbe non serviranno a curare un’emorragia o uno sbudellamento, vero Maria Antonietta? » Fece una breve pausa, sogghignando. « Adesso andiamo a decapitarti un po’. »

Atto V – Di tagli di capelli e sguardi (in)discreti. 
« Perché hai fatto tardi prima? » domandò Perry, mettendo una mano sulla spalla a Ty e riservandole uno sguardo preoccupato.
« Oh! » sbottò la ragazza, scrollandosi il fidanzato di dosso senza tante cerimonie. Non era decisamente in vena. « E me lo chiedi pure? » Ty sbatté le palpebre, irritata. « E’ tutta colpa di quello stronzo di Mizar Rankine! » esclamò, fregandosene del fatto che gli altri tributi la stessero sentendo e che avrebbe dovuto concentrarsi sull’addestramento. « Quanto mi piacerebbe strangolarlo! » Il ragazzo tentò di replicare, ma Clarity lo bloccò sul nascere. « Lo odio! Mi ha rovinato i capelli, guarda! » gridò, indicandosi la chioma bruna ora cortissima. « Non posso andare in giro così! » 
« Sei bellissima anche così, Ty » le disse lui con un sorriso sincero. 
L’altra si zittì un secondo, addolcita dagli improvvisi complimenti del ragazzo, ma poi riprese: « La voglia di ammazzarlo mi resta lo stesso… Secondo te è legale sventrare qualcuno davanti a tutti? » 
Perry ridacchiò, passandole una mano fra i capelli ora così tanto corti quanto i suoi. « Può darsi. » 
« In ogni caso lo farei diventare legale, io. » 
La ragazza, ancora infuriata per tutto ciò che le era capitato in circa quarantotto ore, avrebbe continuato ad urlare qualche altra cosa, ma fu fermata dal capo-addestratore, che le se si avvicinò con passo austero e sguardo severo. 
« Signorina, potrebbe starnazzare di meno? Sa, gli altri starebbero cercando di lavorare. » 
Starnazzare?, pensò tra sé, accendendosi di rabbia. « Non ho neanche il diritto di incazzarmi per quello che mi ha fatto il mio stilista? » chiese incapacitata. 
« E che cosa le avrebbe mai fatto? » domandò Soul, scocciato, incrociando le braccia al petto. Se solo avesse potuto, ora avrebbe sollevato un sopracciglio.
« Non ha visto i miei capelli? Guardi come me li ha ridotti! E lui dovrebbe essere uno stilista professionista?! » 
« Tutto qui? » domandò con cipiglio serio l'istruttore, squadrandola da capo a piedi. 
« Tutto qui? » 
« Ha la minima idea di ciò che quell’imbecille di Rankine abbia fatto a me? »
Ty arricciò le labbra e alzò il mento in segno di sfida. Non le importava che quell’uomo avrebbe potuto aiutarla a sopravvivere, voleva semplicemente toglierselo dalle scatole. « Che cosa? Sentiamo. »
Soul strinse i pugni ed aspettò qualche secondo prima di rispondere, inspirando lentamente. « Secondo lei a cosa devo il mio aspetto deturpato? »
La replica che la ragazza si stava preparando mentalmente le morì in gola; rimase a fissare il volto dell’addestratore con una certa insistenza, soffermandosi sui due piccoli fori che aveva al posto del naso e sull’assenza di sopracciglia e capelli. Socchiuse le labbra per rispondere, ma Soul l’anticipò: « Esatto, signorina. La prossima volta cerchi di lamentarsi di meno. »
Ty incrociò le braccia e disse innocentemente: « Ferite da fuoco? Io credevo che lei ci fosse nato, così brutto. »
Il capo-istruttore sembrò impallidire dalla rabbia a vista d’occhio e – se le avesse avute – gli sarebbe uscito del fumo dalle narici. « Che cosa ha detto? » sibilò a denti stretti.
« Ferite da fuoco o bruttezza capitolina? Questo è il dilemma » fece la ragazza con un sorrisetto sarcastico, mentre Perry tentava di ammonirla stringendole un braccio.
« Ty, smettila… » borbottò lui, ma quella pareva non ascoltarlo neanche.
Clarity in genere si presentava come una persona abbastanza solare e accomodante, ma certe volte non riusciva a fare a meno di lasciar uscire allo scoperto quel lato caparbio della sua personalità, soprattutto in momenti del genere.
« Dannatissime ferite da fuoco » gridò Soul, stavolta, fissandola negli occhi come a volerla incenerire con lo sguardo. A quelle parole, però, un altro tributo interruppe ciò che stava facendo per girarsi nella loro direzione, con l’espressione dura e le sopracciglia aggrottate.
Zhu Koeyn si sentì chiamato in causa, per un motivo che – nel bene o nel male – in quella sala conosceva lui soltanto.
« Sa quanti interventi ho dovuto sopportare a causa di quel piromane incapace? » continuò Soul, imperterrito. « Sa che cosa significhi sentire la propria pelle bruciare? »
Una goccia di sudore freddo scese lungo il collo di Zhu, sebbene ci fosse l’aria condizionata, come a volergli ricordare tutto ciò che aveva passato. Da un lato si stupiva che ancora nessuno gli avesse chiesto come si fosse procurato quell’ustione orribile, ma dall’altro non voleva la compassione degli altri. O forse non voleva gli altri e basta.
Ty non si scompose e sbatté le palpebre. « E lei sa che cosa significhi essere buttata in una stupida arena come carne da macello? » controbatté con un’improvvisa calma glaciale. Una calma che avrebbe fatto gelare e spaventare chiunque – Perry in particolare – più di qualunque altro scatto di rabbia. Nel dirlo, anche la ragazza si rese pienamente conto del peso di quell’affermazione e la frustrazione per i suoi capelli si dissolse vagamente.
Soul assottigliò lo sguardo, sino a renderlo tagliente come due lame. « Ho come l’impressione che lei avrà qualche problema, nell’arena, signorina. »
Clarity rabbrividì, ma non lo diede a vedere e si finse tranquilla. « Sono pronta al peggio. »
« Perfetto » concluse l’istruttore, voltando i tacchi ed allontanandosi da quella scena, magari per dire agli strateghi che avrebbero dovuto punire quel tributo come si deve. Peccato che forse gli strateghi non sarebbero stati a sentire un addestratore senza naso con manie di grandezza.
« Ti rendi conto di quello che hai fatto? » domandò allora Perry con voce tremante, inseguendola tra le varie postazioni, mentre lei era partita in quinta e si aggirava per la sala, incupita. « Ty! Ascoltami! »
Le afferrò un polso e Clarity si voltò di scatto verso di lui.
« Non pensi a Noah, Derek e Meredith? » chiese il ragazzo, allora, a bassa voce. Gli occhi di lei si addolcirono a quei nomi e la sua testa di abbassò di poco, come se si sentisse in colpa per loro.
Abbracciò Perry di slancio, affondando il viso nella sua spalla. « Oh, hai ragione, Peregrine D’Erin. E’ stato più forte di me. »
Il ragazzo provò a sorridere e le accarezzò la schiena. « Lo so. »
Zhu aveva seguito tutta la scena, soltanto perché la discussione tra Ty e Soul gli aveva riportato in mente quell’infausto giorno di tre anni prima.
Quando Ty alzò lo sguardo, notò gli occhi ambrati del ragazzo del 6 ad osservarla intensamente ed uno strano senso di inquietudine le pervase le membra. Forse era a causa di quell’orribile cicatrice rossa che gli rovinava la zona sinistra del volto. O forse a causa di quello sguardo così duro e contemporaneamente profondo.
Zhu si voltò dall’altro lato, colto in flagrante, e prese a dirigersi verso la postazione delle armi, in barba al discorso dell’istruttore sull’importanza delle tecniche di sopravvivenza.
Perry si girò nella stessa direzione della fidanzata, incuriosito. « Che cosa stai guardando? »
« Niente » rispose Ty, evasiva. Eppure si ritrovò a pensare inconsapevolmente che, a differenza di Soul, quel ragazzo dall’aria tesa e nervosa doveva avere molte più ferite di tutti loro messi insieme.  

Atto VI – Di doppi sensi, pettegolezzi e tute sintetiche. 
« Ehi, Mimi- aspetta, posso chiamarti così, vero? Vero che posso? » 
Naomi si voltò di scatto verso la ragazza, alzando un sopracciglio. « Certo che no. Se proprio lo vuoi sapere, tesoro, solo i miei amanti più passionali mi chiamano così quando li sto facendo divertire a dovere. »
Beryl arrossì, ma continuò a seguirla per la sala. « Ma è carino come soprannome! Io avevo un pesciolino rosso che si chiamava Mimi, anche se non ero proprio certa che fosse una femmina, però non sapevo come distinguere i pesci maschi dai pesci femmine, poi però è morto dopo qualche giorno e Chord mi ha detto che avrei dovuto nutrirlo meglio… Ah, mi sono sentita così in colpa! »
« Al paese mio i pesci c’entrano solo con i maschi » ribatté Naomi, scocciata, rigirandosi tra le dita una ciocca di capelli. « Ma forse tu sei ancora troppo piccola per saperlo. »
Beryl gonfiò le guance e si mise le mani sui fianchi. « Ho quattordici anni » disse. « Non sono piccola. E comunque che cosa volevi dirmi su Rhymer? Perché hai detto che il mio stilista non è quello che sembra, eh? Lui è simpatico, gentile e mi tratta benissimo! » riprese. « Ocean! E’ vero che Rhymer è eccezionale? » domandò, alzando la voce e facendo voltare il suo compagno di Distretto, a qualche metro di distanza. 
Ocean annuì ridendo: « Certo, certo. »
Naomi alzò gli occhi al cielo. « Tutti convinti che sia un santarellino. Quegli occhioni azzurri nascondono ben altro, credimi. »
Ocean si aggiunse alla conversazione, mettendo una mano sulla spalla di Beryl come a volerla proteggere dalla lingua tagliente dell’altra. « E che cosa nascondono? » chiese lui per la quattordicenne, a metà tra lo scettico e l’incuriosito.
La bruna ammiccò lievemente e alzò gli angoli delle labbra carnose verso l’alto. « Volete proprio saperlo? Potrei scandalizzarvi. »
Beryl acconsentì senza pensarci e Ocean rimase ad ascoltarla, pur essendo del tutto certo che quella ragazza avrebbe anche potuto riempirli di menzogne solo per raggiungere i propri scopi.
« Oh, va bene » ribatté Naomi con uno sbuffo fintamente irritato. « Rhymer prima di fare lo stilista era una Drag Queen e si divertiva a spezzare i cuori degli uomini quando venivano a sapere che anche lui era un ragazzo. Però ci è stato, con degli uomini, e uno di questi è lo stilista del Distretto 2. »
« Mizar Rankine? » domandò Beryl, sgranando i grandi occhi verdi. « Lo stilista di Perry e Ty? »
« Proprio lui » assentì l’altra.
« Ma loro due si odiano a morte » puntualizzò Ocean.
« E da quando in qua odio e amore non vanno di pari passo? » chiese Naomi, retorica. E con quella stessa frase rifletté che in realtà non lo pensava davvero. Perché lei odiava, certo, ma non amava nessuno. 
« Oh, sarebbero carinissimi insieme! » esclamò allora Beryl, illuminandosi. « Io lo sapevo, lo sapevo che c’era sotto qualcosa! Non sei mica omofoba, Mimi, vero? »
« Non sopporto i gay, tesoro, mi dispiace » replicò. « Mi fanno ribrezzo. »
Che bugiarda che sei, Naomi, complimenti davvero, si disse invece, perfettamente cosciente del fatto che tutto ciò che l’aveva legata a Lucy – la sua Lucy – fosse qualcosa di molto più profondo e morboso di una semplice amicizia o di una comunissima affinità.
Beyl la ignorò e continuò : « Devo fare qualcosa per farli mettere insieme, starebbero benissimo. Acuqa e fuoco, blu e rosso, giorno e notte, yin e- »
« Beryl » la bloccò Ocean. « Può darsi che tutto ciò sia falso. »
« Senti, bel fusto, le mie fonti sono più che attendibili » ribatté la mora. « Devo ricordarti che ho l’unica mentore di quest’edizione, la persona normale più vicina a Capitol che io conosca? »
« Sono solo pettegolezzi, cosa vuoi che ci importi? » disse il biondo, scuotendo la testa.
« Ma sono carini! » protestò Beryl, strattonando Ocean per un braccio.    
« Siete stati voi a chiedermelo » fece Naomi con una scrollata di spalle. « E poi io l’ho scoperto per caso. »
Il ragazzo non si convinse neanche un po’. « Non è una bella cosa, la diffamazione » 
« Non è colpa mia se Rhymer si divertiva a fare il travestito » controbatté l’altra con un piccolo sorriso di trionfo. « E, per la cronaca, nessuno può interferire nelle scelte delle altre persone, omosessuali o meno. »
Detto questo, la diciassettenne lasciò i tributi del Distretto 4 con le proprie convinzioni e si affrettò a raggiungere, invece, il suo compagno. Era più forte di lei: adorava avere l’ultima parola.

« Ciao, M. » disse la ragazza, ancheggiando in direzione di Mason. 
« Stavi sentendo la mia mancanza? » borbottò il ragazzo, stringendo la presa sull’elsa della spada. 
« In realtà sì » fece Naomi. « Gli altri sono così stupidi… » continuò, avvicinandoglisi felina e accarezzandogli un braccio con le dita, come a voler promettere chissà quali meraviglie.
Mason, per quanto gli dispiacesse e per quanto gli costasse ammetterlo, si scostò da lei e prese a concentrarsi sull’arma che aveva tra le mani, tentando di ignorare la compagna di Distretto.
« Ti sei subito fiondato sulle armi, eh? » cotinuò la diciassettenne, imperterrita. « Non hai ascoltato quello che ha detto Soul? »
« E tu? Non l’hai ascoltato? » controbatté il ragazzo. « Perché non ti alleni invece di andare a disturbare gli altri? »
Naomi sorrise sarcastica. « Quanto siamo scorbutici oggi, Signor M. E comunque rilassati, ho tutto sotto controllo. »
« Mi spieghi come faccio a essere rilassato » domandò Mason alzando un sopracciglio, « quando so che tra cinque giorni andremo a morire? »
Naomi stava per ribattere, ma proprio in quel momento Soul passò a fare un giro d’ispezione e diede loro un’occhiata veloce. Loro fecero buon viso a cattivo gioco, mentre il capo-istruttore passava oltre.
« … E quando quello passa ogni tanto a controllare tutto ciò che facciamo? » aggiunse il diciottenne con uno sguardo eloquente.
« Lascialo perdere » rispose l’altra con un veloce gesto della mano. « Jewel ci ha detto che non dobbiamo soffermarci troppo su di lui. »
« Mi riesce un po’ difficile, ma comunque… »
« E pensare che voleva fare il modello » commentò la ragazza, ridacchiando. « Almeno fino a quando non è successo l’incidente con il fuoco e si è arruolato nell’esercito. »
« Già » assentì Mason. « Per fortuna abbiamo come mentore una persona competente… in un certo senso siamo avvantaggiati, rispetto agli altri. »
Naomi fece un sorriso soddisfatto. « Sicuramente. Come faremmo senza di lei? »
L’altro la guardò di sottecchi. « Che cosa stai insinuando? »
La ragazza fece spallucce e continuò a sorridere. « Nulla, M. E, per favore, potresti alzare un po’ la spada – ecco, così – che mi rifaccio un attimo il mascara? Queste tute sintetiche fanno schifo, ma hanno moltissime tasche. »

Atto VII – Di arrampicamenti, aiuti inaspettati e vaghe somiglianze.
Sfortunatamente, anche la lezione d’arrampicata non aveva ottenuto un gran numero di interessati. Interessati che, tra l’altro, ammontavano semplicemente a… uno.
Benvolio non sapeva perché avesse deciso di partire proprio con quella postazione, quando lui in realtà di arrampicata se ne intendeva già abbastanza. Forse lo faceva per sentirsi a casa, si era detto; forse perché non aveva proprio idea da dove partire.
La parete era alta fino al soffitto, a cui era legata una corda elastica, e aveva diverse prese per mani e piedi. Ogni tributo che volesse partecipare alla lezione, avrebbe dovuto prendersi un’imbragatura e allacciarla alla corda, e poi si sarebbe potuto arrampicare in tutta tranquillità.
Dopo aver indossato l’imbragatura velocemente ed aver controllato che la corda lo reggesse, Benvolio si accostò alla parete e prese a scalarla lentamente ma abilmente. Certo, era discretamente bravo, ma non aveva mai avuto a che fare con prese così strette e scivolose.
Ogni passo gli sembrava più faticoso dell’altro ed ogni presa gli sembrava più piccola della precedente. Era arrivato circa a metà, che si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano. E, quando rimise la suddetta mano sul piolo successivo, qualcosa in lui vacillò all’istante.
Era sporco di fango.
Se ne rese conto giusto il secondo dopo, che anche il piede si appoggiò su un’altra presa sporca di fanghiglia scivolosa, mentre l’altra mano toccò una presa fasulla che si staccò dalla parete a contatto con la sua stretta.
Benvolio, prima di scivolare completamente, fece un risolino nervoso. Aveva pur sempre l’imbragatura. Peccato che anche l’imbragatura stessa non era stata allacciata correttamente.
Non ne prese completamente atto finché non urtò violentemente contro il pavimento traslucido del Centro, il braccio destro piegato sotto di lui in una posizione innaturale.
Neanche il dolore arrivò subito, solo un vago senso di stordimento che gli annebbiò la vista e gli otturò le orecchie per qualche istante. Poi il formicolio che sentiva all’avambraccio diventò una fitta pungente che gli fece lacrimare gli occhi quasi senza che se ne accorgesse.
Vide una decina di persone accerchiarsi intorno a lui e nel frattempo la sofferenza diventava sempre più insopportabile.
Eppure avevo allacciato tutto correttamente…, ebbe la forza di pensare, mentre una rabbia sconosciuta iniziava ad affiorargli dalle membra irrigidite. L’avevano fatto a posta, gli addestratori. Non era stato un caso.
Qualche altro tributo lo osservò mentre veniva trascinato via da un paio di braccia forti e possenti e colse giusto lo sguardo preoccupato della sua compagna di Distretto che le porte della sala d’Addestramento si chiusero davanti a lui.
Benvolio, inerme quasi del tutto, si chiese come sarebbe stato in grado di proseguire di pari passo con gli altri.

« Ho detto che mi dispiace. »
« Potevi stare un po’ più attento. »
« Non l’ho fatto a posta! » si difese ancora il ragazzo, alzando di poco la voce, sebbene non fosse di sua abitudine. « Quante volte devo ripetertelo? »
« Sto dicendo soltanto che faresti meglio a guardare dove metti i piedi » ribatté Natalie, incrociando le braccia con uno sguardo di ghiaccio – ancora più glaciale del solito. « Sai? Nell’arena non saranno tanto misericordiosi. »
Jeyl rimase a fissarla, incapacitato. Non avrebbe mai pensato che quella ragazza dai modi così composti potesse nascondere tanta puntigliosità. Né Coraline né Virginia erano così.
Già, Virginia.
« Lo so, non sono stupido » replicò. « E non c’è bisogno che tu me lo dica. »
Nate inarcò le sopracciglia e strinse le labbra. Normalmente era una persona pacata e posata, ma bastava una piccolezza per renderla così irritabile. E, purtroppo per lui, Jeyl aveva varcato questa minuscola soglia, scontrandola per sbaglio nella postazione dei nodi.
« Scusami, pensavo avessi bisogno di una rinfrescata di memoria » fece la bionda con i pugni stretti. La propria mente stava già elaborando dei piani magnifici per far esplodere le cervella dell’altro tributo.
Le sarebbe bastata una pistola e tutti i suoi sogni si sarebbero realizzati, in quel momento.
Non era un caso che la polvere da sparo fosse la sua migliore amica, insieme alla chiave di metallo arrugginita che portava sempre al collo, legata ad un semplice laccetto.
I suoi pensieri sorvolarono sulla polvere da sparo e la parte più oscura di sé sembrava incitarla ad ammazzarlo seduta stante. La chiave. La punta. Nell’occhio sinistro. Sangue.
Nate inspirò profondamente e stirò la bocca in un’espressione seriamente infastidita e dall’aria pericolosa.
Ma Jeyl non si lasciò intimidire e rispose ugualmente irritato, facendo un passo verso di lei: « Io credo che tu abbia bisogno di rivedere le tue priorità, invece. »
Lascia stare, Nate, lascia stare… continuava a ripetere la parte ragionevole della ragazza, ma l’altra aveva una voglia spasmodica di stendere l’interlocutore al suolo. Anche lei, comunque, fece un passo in avanti, come a voler rimarcare il fatto che la sfida contro di lei fosse persa in partenza.
« Non starai dicendo sul serio, Distretto 11. »
« Ce l’ho un nome e, sì, sto dicendo sul serio. »
A Jeyl non era mai capitato di intrattenere una discussione per un argomento così futile e sorvolabile.
Nate avrebbe voluto ribattere molto altro – e non solo con semplici parole – ma prima che potessero continuare quella lite, il Pacificatore che stava controllando un po’ il comportamento di tutti i tributi si accostò a loro con fare professionale.
Non sembrava minaccioso, ma la sua uniforme e tutte le spille e medaglie appuntate ad essa incutevano una certa soggezione.
« C’è qualche problema? » chiese Donowitz, guardandoli attentamente.
Jeyl fu il primo a ragionare e scosse la testa. « No, nessun problema. »
Nate non rispose. Di problemi ce n’erano tanti nella sua vita.
« Non serve a nulla litigare o azzuffarsi prima di entrare nell’arena » precisò il Pacificatore con tono da paternale. I due ragazzi rimasero in silenzio. « Beh, in realtà neanche allenarvi per la Sessione Privata, ma, fatto sta… » - l’uomo si schiarì la voce - « Buona giornata, ragazzi.  »
Entrambi, abbandonando la questione iniziale, si guardarono negli occhi per un singolo, minuscolo istante. Che cosa aveva voluto dire? 
Perché, effettivamente, non serviva allenarsi per la Sessione Privata?
Le menti di entrambi fecero mille e più ipotesi, mentre ognuno tornava ai propri nodi senza accennare alla discussione precedente.
Forse a Capitol, per quanto facessero fatica a crederlo, c’era qualcuno che voleva aiutarli.

Phoebe era seduta su una panca ed era intenta a scrivere qualcosa con una matita sottilissima su un bigliettino. Sembrava strano a molte persone e tutti si chiedevano il perché, ma lei aveva sempre bisogno di portare un blocco per gli appunti con sé.
“Non fare sciocchezze, Mel, per favore” aveva appena scritto. Ripose il bigliettino in tasca e si alzò, guardandosi in torno.
Phoebe aveva tanta voglia di provare a maneggiare qualche arma, ma non sapeva proprio da dove cominciare. Inoltre, non era esattamente propensa ad avvicinarsi a qualche istruttore e chiedere informazioni.
Aveva visto il suo compagno di Distretto cadere dalla parete d’arrampicata ed essere trascinato via con un braccio rotto, quindi non aveva intenzione di dedicarsi a quella postazione. Benvolio era il suo unico punto di riferimento, tra tutta quella gente, ed ora che se n’era andato si sentiva totalmente spaesata.
Proprio mentre stava facendo un primo passo verso la postazione dei vegetali, qualcuno spuntò da dietro le sue spalle, facendola sobbalzare.
« Scusami » fece il ragazzo del Distretto 3, squadrandola con i suoi occhi grandi e neri contornati da occhiaie altrettanto scure. Camminava con atteggiamento ingobbito e aveva i piedi scalzi. « Ti avevo scambiata per un’altra persona. »
Quasi come a voler confermare la sua ipotesi, Elle avvicinò ancora di più il viso alla ragazza, osservandola attentamente. « Uhm » fece, « vi somigliate molto. »
Phoebe ritrasse il viso di scatto, inquietata dal fatto che quello strambo tributo dai capelli scarmigliati le stesse così vicino. « D-davvero? » balbettò.
« C’è un nove per cento di probabilità che siate imparentate » disse con un sorrisetto storto. « Una probabilità minima, ma non insignificante. »
Detto questo, Elle cacciò un cioccolatino da una tasca, lo scartò con la punta delle dita, quasi come se quel dolcetto si potesse disintegrare con una pressione appena più leggera, e se lo infilò in bocca senza batter ciglio, per poi allontanarsi verso chissà quale meta.
Phoebe rimase lì imbambolata e per un irrefrenabile impulso prese a mangiarsi le unghie, come nei momenti in cui era più nervosa. Solo che questa volta si trattava di qualcosa di molto più radicale, come se un barlume di luce si fosse acceso nei suoi ricordi sbiaditi.

 

Non si è mai troppo prudenti nella scelta dei propri nemici.

(Oscar Wilde)















 








L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
E' la seconda volta che copia-incolliamo l'intro e lo faremo per molto altro tempo ancora!
Ci sono stati vari imprevisti nel corso di questo aggiornamento, alcuni recenti, che avrebbero dovuto posticipare la data, ma... hey, siamo delle gran trollone! Che ci vogliamo fare.
Tvb - e non vvb - perché la cara Ivz ha preso il morbo del tvb da amighe babbane e quindi deve trasmetterlo a tutti.
La verità è che in questo capitolo i tributi non si stanno allenando... Stanno facendo un'orgia.
Ora ci sono da precisare alcune cose, come sempre:
  • Alcune citazioni di Soul sono riprese da Atala, l'addestratrice in Hunger Games, giusto per tener fede al protocollo che i capi-istruttori devono recitare.
  • Sì, Soul è palesemente ispirato al caro Voldy perché Mito ed Ivola sono delle fangirlz ed ogni cosa scritta in quest'interattiva nasce da qualcos'altro altamente nonsense.
  • Sì, c'è da shippare Nate con Jeyl semplicemente per il fatto che con quella citazione fanno molto Hermione Granger e Ron Weasley.
  • Frederick Donowitz è l'ammoveh.
  • Sì, esatto, Rhymer prima di diventare stilista era una drag queen, ma verrà spiegata meglio la loro storia quando pubblicheremo la raccolta che parlerà unicamente di Mizar e Rhymer.
  • Orgie e ships ovunque.
  • Ora passiamo ad una cosa seria: mi piacciono gli elenchi punta- no, volevamo dire che ogni domanda che poniamo dopo un capitolo, come indovinelli o quant'altro, è per far ricevere un premio o una pena ad un tributo, a seconda del capitolo da scrivere. Per esempio, i tributi che hanno ricevuto un premio in questo capitolo sono Kenia, Jeyl e Nate. Kenia e Nate per aver indovinato la sfida sugli stilisti. Jeyl per aver indovinato il significato del nome di Adamas Rigel. Benvolio, invece, ha avuto una pena, ovvero si è rotto un braccio, perché ha indovinato il significato del nome di Frank Hidden. Questo significa che voi non potrete mai sapere quali saranno i premi e quali le pene (Naomi was here) e ve lo stiamo dicendo ora, quando abbiamo usato questo metodo anche in precedenza e lo continueremo ad usare ancora.
  • Non vi preoccupate per il braccio di Benvolio, i medici di Capitol City fanno miracoli.
  • Finiamo col dire che non abbiamo ignorato le vostre richieste sulle abilità, ma questo è solo il primo giorno di addestramento, quindi verranno svelate in seguito.
E' stato un capitolo sudato e molto sfigato. Non potete immaginare che stratagemmi abbiamo dovuto inventarci per poterlo scrivere e betare. Quindi amateci.
Bao e cotolette.
 
pandaivols.

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Capitolo 4
*** They'll laugh as they watch us fall. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

They'll laugh as they watch us fall.


.




 
They'll laugh as they watch us fall,
The lucky don't care at all,
No chance for fate,
It's unnatural selection.

 [ Unnatural Selection - Muse ]


 
I. Primo tempo – Di strateghi scansafatiche e cubi di legno.
« Finalmente! » esclamò il biondo generale Gilbert von Krapfen, scomponendosi dalla sua posa annoiata ed alzando gli occhi azzurri sulla figura che si stava avvicinando al tavolo. 
« Allora ti sei degnato di tornare e graziarci della tua lieta presenza? »
Lucius Crane, vestito di uno smocking azzurro metallizzato con le rifiniture dorate e con la sua barba scura sempre perfettamente curata e dagli angoli spigolosi, lanciò un'occhiata divertita al suo collega che aveva parlato: Jean-Paul Carter. Nettamente più alto del ritardatario - non che ci volesse molto - Jean-Paul Carter era completamente diverso, con i suoi piccoli ricci color carota e gli occhi azzurri. Effettivamente, se si osservava i presenti nella stanza, Lucius sembrava un po' la pecora nera della situazione. E lo era, altroché.
« Era ironia quella nella tua voce? Non sapevo avessi preso lezioni di sarcasmo » lo schernì, piuttosto divertito.
« Cos'è successo in bagno? » intervenne Jim Carson, appariscente col suo cilindro abbinato al frac lilla, i capelli biondi ed impregnati di gel in una messa in piega a dir poco perfetta, i grandi e luminosi occhi azzurri e quel suo viso così perfetto da sembrare una bambola di plastica. E meno male che non ci siamo soffermati a parlare del sorriso che era solito sfoggiare, perché a vederlo il sole si sarebbe spento e la leggenda che circolava sul suo conto non specificava quanti chili di sbiancante avesse dovuto ingerire per ottenere quell'effetto. « Pensavamo fossi morto » aggiunse, poi.
« Lo speravamo » precisò Jean-Paul, mormorando fra sé e sé.
Lucius fece schioccate la lingua contro il palato, segno che stava per iniziare un'altra delle sue storielle. « Avete presente l'addestratrice del tiro al bersaglio? » chiese, non aspettando neanche una risposta per continuare: « Beh, una sveltina nella pausa non fa mai male a nessuno. »
« Ma io sapevo che si stava sentendo con l'istruttore del corpo a corpo » a parlare fu Shelly, la moglie di Jim. Quel giorno indossava una parrucca bionda lunga e pomposa, delle lunghissime ciglia rosa, un vestito di tulle dorato che le arrivava fino al ginocchio, un paio di stivaletti beije di camoscio ed un bellissimo diadema di pietre preziose - di cui si vantava sempre, raccontando che gliel'avevano riportato direttamente dal Distretto 1 - a cui era fissato un velo bianco che si portò all'indietro. Ma, la cosa che più evidente in lei - e che aveva in comune col marito - erano le giunture sulla pelle. Ci erano voluti anni di interventi per i due coniugi affinché diventassero vere e proprie bambole viventi, ma alla fine non se ne erano mai pentiti.
« Non era quello delle erbe? » domandò Gilbert, aggrottando le sopracciglia.
« Io sapevo che voleva darle l'anello di fidanzamento » commentò Jim.
« Hai capito la puttanella! » esclamò l'unico moro, col solito sorrisetto malizioso. 
Il generale alzò gli occhi, sbuffando e decidendo che forse era meglio accantonare per un momento il pettegolezzo. « Sorvolando sul fatto che non ho la minima intenzione di indagare e che tu dovresti avere una moglie ed un figlio... possiamo procedere? »
« E' meglio se andiamo in ordine » suggerì il signor Carson.
La moglie fece un cenno di acconsenso, partendo immediatamente a leggere i nomi dei tributi: « Il primo era Mason Carter e poi la sua compagna, Naomi Free. »
« Chi? » domandò prontamente Crane, confuso.
Gilbert von Krapfen gli lanciò un'occhiata torva. « Non è colpa nostra se sei arrivato in ritardo. »
« Come al solito » puntualizzò Jean-Paul, che si mise a braccia conserte, già sapendo che quella sarebbe stata una lunga e turbolenta riunione.
Shelly tentò di spiegare, sempre con la sua voce acuta e perforante: « Mason Carter è quel ragazzo alto, la pelle scura... »
« Chi se ne frega di lui! » la zittì immediatamente Lucius, accompagnando la voce da un gesto della mano. « Voglio sapere della ragazza: è gnocca? »
« Dai che l'hai vista » Jim cercò di riportargliela alla mente, « quella col seno grosso e i capelli- »
« Ah! La gnocca, sì » esclamò l'interessato.
Gilbert si coprì il volto con una mano, scuotendo il capo. « Potresti cercare di essere più professionale? »
« Dovremmo procedere » puntualizzò il Ken della situazione, togliendosi il cilindro per aggiustarsi i capelli biondi all'indietro, per poi rimetterselo per bene, aiutato dalla moglie.
« Ma chi si ricorda cos'hanno fatto! » si lamentò la pecora nera, scocciato.
Jean si schiarì la voce, picchiettando con una matita il blocco di fogli davanti a sé. « E' per questo che ho preso appunti. »
Lucius sbarrò leggermente gli occhi, accompagnando la sua espressione con un'alzata di sopracciglia. « Ah, wow, ha preso appunti. Bravo, dottore! » disse con tono tanto meravigliato e sincero che Jean-Paul non gli credette per niente, conoscendolo. « Prendi esempio, Capitan Bicipite » aggiunse, dando una pacca sulla spalla di Gilbert.
Il biondo alzò un sopracciglio, infastidito. « Stai parlando con me? »
« Ti ho già detto che non sono un medico » borbottò Carter, sovrastando con la voce l'altro collega.
Ignorando il generale, Lucius diede una piccola pacca anche allo stratega dai capelli color carota, alzando le spalle. « Come vuoi, Jean, cercavo solo di alzarti l'autostima. Comunque io a quella lì darei un dieci solo per l'aspetto. »
« Quella lì, chi? » domandò Shelly, indispettita dal tono strafottente dell'uomo.
« Dai, lo sai, la gnocca. »
Le sue parole fecero arricciare il naso all'unica donna. « Naomi Free? »
« Non lo so, si chiama così? Dovremmo giudicarli in base all'aspetto, risparmieremmo tempo » propose il moro.
« Hai detto così anche l'anno scorso » si lamentò il generale.
« E ancora non mi date retta? »
« Non lo faremo neanche quest'anno » precisò Jean-Paul, guardandolo torvo.
« Ma come dovrei giudicarla? Insomma qui c'è scritto che è entrata nuda nella stanza e si è messa a leccare il cubo! E, credetemi, avrei voluto vederla! Mi sono perso il più bello spettacolo di sempre! » si lamentò. « Per me ha talento e anche originalità. »
« Non è colpa nostra se arrivi in ritardo » precisò von Krapfen, mormorando più fra sé e sé.
« Per me ha solo le gambe allargate più del dovuto » commentò Jean-Paul disgustato, con una smorfia sul volto.
« Era osceno! » esclamò Shelly, inorridita al ricordo.
Lucius Crane roteò gli occhi, fermamente convinto della sua posizione. « Chiamasi creatività. »
« Perché, vogliamo parlare di quel Mason Carter? » intervenne Jim Carson, trattenendo a stento una risata. « Ha iniziato ad imprecare e battere quel cubo come un uomo primitivo, fino a che, lanciandolo a terra dalla frustrazione, non è rimbalzato e l'ha colpito in fronte! »
Al ricordo di quella scena, il gruppo di strateghi scoppiò in una risata generale, persino Crane, che come al solito al momento della sessione di Mason non era ancora arrivato.
« Donowitz ha dovuto praticamente trascinarlo fuori e portarlo dai medici » sghignazzò Gilbert, indicando con un cenno del capo il soldato alto e dai riccioli biondi che se ne stava zitto ed immobile sulla porta.
Rispetto all'anno precedente, che alla fine si era rivelato molto noioso, questa volta gli strateghi avevano pensato a come perfezionare la Sessione Privata, non migliorandola, bensì stravolgendo totalmente le regole: non vi erano né armi né null’altro nella sala che potesse aiutare i tributi a dare un’effettiva prova di se stessi; bensì l'unico oggetto situato al centro del pavimento, di fronte alla postazione degli strateghi, altro non era che un cubo di legno, formato da vari tasselli, tre per tre su ogni lato. Ognuno aveva avuto cinque minuti di tempo per - parole dei giudici - fare qualsiasi cosa si fosse in grado di fare con un cubo. Inutile a dirsi che era stato maledettamente divertente vedere quelle povere ventiquattro vittime  confuse e disperate.
« Gli darei un sei solo per la scena dannatamente divertente! » esclamò Jim.
« Esatto! » concordò Shelly, ridendo.
« No » obiettò il ricciolino arancione, con un'espressione divertita in volto. « La miglior sessione è stata in assoluto quella di Peregrine D'Erin. Ma lo avete visto? Lo studiava, lo annusava, l'ha addirittura morso! »
« Un tre per quello è già tanto » concordò il biondo in divisa. 
« Un tre? » chiese Lucius, alzando un sorpacciglio scuro. « Per aver annusato un cubo, siete seri? »
« Era carino » sghignazzò Shelly, ignorando l'occhiata rigida del marito. « Insomma, alla fine se l'è messo in testa, camminando in equilibrio per immedesimarsi in una vera principessa! Tutto il contrario della sua compagna » aggiunse, rabbuiando il sorriso.
Il più muscoloso dei quattro si massaggiò la parte superiore della fronte, digrignando i denti per colpa del ricordo, mentre Lucius rideva soddisfatto sotto i baffi. « Ti sei fatto la bua, Mr. Muscolo? Non sei poi così forte » lo schernì.
Il biondo gli lanciò un'occhiata, mentre tutti gli altri sogghignavano, addirittura Shelly e Jean-Paul gli accarezzavano la testa come un bambino. « Sta' zitto, Crane. »
« Ha dimostrato di avere mira e precisione, però » fece notare la bambolina, sbattendo le ciglia.
« Ed è stata veramente brava! » esclamò Jim Carson, prendendo una mano della moglie. « Che dici, cara? Le diamo un otto? Potremmo anche scommettere su di lei » le bisbigliò.
Non che la sessione di Clarity Valentine fosse stata poi così diversa da quella di Perry o di Mason, solo che aveva avuto la differenza di aver centrato in pieno la testa del generale (50 punti a Grifondoro!, qualcuno avrebbe sicuramente scherzato) dopo un attacco d'ira. 
« Io invece ho temuto il peggio con i tributi del Tre » rabbrividì Shelly, stringendosi al marito. 
« Devo dire che Elle Lawliet effettivamente ci è andato molto... molto vicino » riflettè Jean, lisciandosi il mento.
« Già, ma non ce l'ha fatta » concluse Jim, ghignando soddisfatto.
« Pensate se fosse riuscito a sistemare i tasselli nella giusta combinazione in tempo! » esclamò il generale, meravigliato.
« Non sarebbe cambiato poi così tanto, la scommessa l'hai persa comunque » gli ricordò Lucius, dando ordine al sergente Frederick Donowitz di portargli qualche avanzo del banchetto svolto durante le sessioni. « Ad Elle proporrei un cinque, visto che non è riuscito a risolvere il rompicapo in tempo » ghignò, addentando un tramezzino.
« E' una bastardata! » squittì Shelly, con una mano sul petto e la bocca spalancata.
Lucius scosse le spalle, disinteressato. « Non è colpa mia, ma sua. Così Fragolina Dolcecuore avrà il suo dodici e Verginello dovrà pagare la scommessa a Carter. Fidati che al momento non c'è cosa che mi ecciti di più, a parte quelle ali di pollo fritto e la moglie di Menenius Snow. » 
« Verginello? » chiese innervosito il diretto interessato, incrociando le braccia al petto - pettorali - e alzando un sorpacciglio.
« E' una brutta storia, lo so. Dovresti rimediare, però non sposarti mai, il matrimonio è solo un'enorme trappola » gli consigliò e Shelly, dall'altra parte del tavolo, pompò il petto indispettita e lo guardò con aria torva, tanto che Lucius, sentendosi osservato, domandò un « Che c'è? » al quale la donna si voltò di lato, indignata. 
« E' stata una bella fortuna per Beryl Straw, però, muovere i tasselli, inconsapevole di ciò che avrebbe comportato » riflettè Jim.
« Non ha comportato un corno, alla fine! » esclamò Gilbert. « Solo un maledetto carillon che si è inceppato e ci siamo dovuti sorbire ininterrottamente per tutte le restanti quindici sessioni!  Ed io avevo già il mal di testa per colpa di quella svitata del Due! »
« Sedici » lo corresse Lucius, « erano sedici sessioni restanti. »
« Devi escludere la sessione di Wednesday Addams, visto che alla fine Zhu Koeyn era riuscito a trovare un meccanismo per spegnere quella maledetta canzone » gli ricordò l'altro.
« Io neanche sapevo che c'era un congegno per spegnerla! » esclamò Jean-Paul, stupito, ed il collega muscoloso gli diede ragione.
« Ma, che poi... che cosa aveva fatto oltre a quello nei suoi cinque minuti? » domandò Jim Carson, cercando di ricordare, benché l'unica cosa che gli tornava in mente era quel bel cocktail di gamberetti in salsa. Il resto degli strateghi scosse la testa o alzò le spalle.
« Per un attimo avevo veramente sperato che la mia testa potesse riposarsi, ma invano, visto che quell'idiota di William Wyngardaen l'ha riacceso per sbaglio! E come se non bastasse, quell'altra... ehm, come si chiama? Haylee Scrat? Scott? Sì, insomma, come diavolo ha fatto ad alzare il volume a quel coso? Con tutte quelle riverenze e quelle scuse da innocente santarellina... Volevo ucciderli » ringhiò il generale, massaggiandosi la testa ancora dolorante.
Nessuno lo vide, ma Frederick Donowitz, sempre sull'attenti di guardia alla porta, sorrideva, beffandosi un po' di tutta quella combriccola un po' svitata. La realtà era che il sergente aveva sentito la ragazza del Distretto 7 - all'apparenza così dolce ed educata - borbottare ed inveire contro gli strateghi e dir loro le peggio parole, mentre lui l'accompagnava all'uscita, per andare a chiamare il prossimo tributo. Gli faceva ridere quella situazione, ma non disse nulla, anche perché i suoi pensieri si spostarono verso il tributo del Tre che qualche giorno prima aveva visto boicottare il carro alla sfilata e subito dopo i suoi pensieri andarono al ragazzo del Sei. Era palese che Zhu Koeyn si sentiva a disagio in sua presenza e cercava di non incrociare il suo sguardo, ma - anche se Frederick non aveva detto nulla - l'aveva subito riconosciuto, perché era impossibile dimenticare il volto di qualcuno che hai visto sfregiare. Si ricordava come aveva cercato di convincere il signor Koeyn a lasciar perdere, ma la sua parola non aveva avuto molta importanza, visto che quelle erano situazioni famigliari. Lui, in fondo, era solo un soldato, doveva limitarsi allo svolgere il proprio dovere, ma sapeva che quei ragazzi non erano cattivi. Purtroppo, era consapevole anche del fatto che nessuno sceglie dove nascere. Neanche lui. 
« Quella ragazzina, Wednesday Addams, invece non mi è piaciuta per niente. Arrivare qui come se fosse superiore a tutti e dire che la Sessione è una cosa inutile. Eppure pensavo che i tributi fossero a conoscienza che è da noi che dipendono le loro vite » borbottò il ricciolino, storcendo il muso per niente compiaciuto.
« Io invece sono ancora spaventata da quella del Tre » commentò l'unica donna.
Natalie Dawson poteva pure apparire come una perfettina schizzinosa e maniacale, ma ciò che era successo durante la sua Sessione Privata aveva lasciato sbalorditi tutti gli strateghi: era salita sul palco, prendendo il vassoio delle patate di contorno con un sorriso gentile ma fintissimo e, mettendo al centro il cubo, l’aveva deposto su un letto giallo di ortaggi; poi  aveva sciolto il suo chignon - sempre in perfetto ordine - facendo ricadere i lughi e biondi capelli lisci sulle spalle e ripiegando le forcine per agganciarle fra loro l'una dietro l'altra; aveva collegato l'estremità della prima ad una delle patate nel vassoio, mentre l'ultima l’aveva inserita in una patata un po' più grande. Aveva letto in uno dei libri tenuti nella biblioteca degli Addams - la sua famiglia "adottiva" - che le patate potevano fungere da conduttori di corrente elettrica. Quando le era venuta l'idea, aveva cercato di ricordarsi esattamente cosa avrebbe fatto Latasha, perché quella volta, a fine lettura, era stato impossibile impedire alla ragazza di testare quell'esperimento, creando un congegno esplosivo. E in quel momento Nate aveva voluto riprodurlo. Dal lato opposto a quello delle forcine, nella patata finale più grande, aveva inserito la sua adorata chiave arruginita da cui non si separava mai, ma prima di poter verificare con la corrente se il marchingegno funzionasse veramente… ecco che il tempo era scaduto, lasciando insoddisfatta la bionda diciassettenne. 
« Da brividi! » trillò Shelly, con la pelle d'oca al pensiero che una bomba fosse stata poco lontana da lei. 
Lucius Crane alzò le spalle, impassibile. « Non c'era poi da preoccuparsi, il cubo all'interno è fatto di un metallo indistruttibile. Non sarebbe esploso veramente, al massimo ci saremmo ritrovati coperti di patate. »
« Immagino che tu ne saresti stato felice » disse Gilbert con tono scocciato, pronto all'ennesima battuta.
Il moro, però, sentendo quella frase si riempì di gioia. « Hai sentito, Carter? » diede una gomitata al pel di carota, che grugnì infastidito. « Cicciobello ha dato i primi accenni di una qualche base per una futura struttura di una battuta a sfondo pseudo-sessuale! Il nostro bambino sta crescendo! »
« Il nostro bambino? »
Von Krapfen fece una faccia ancora più sconvolta e confusa di quella del collega, alquanto offeso dalle parole del maggiore. « Mi chiedo se tu sappia il mio nome. »
« Certo che lo so, zio Fritz! » ribatté prontamente Lucius, accendendosi un sigaro nella stanza, sotto lo sguardo adirato della Barbie vivente.
« Ah, davvero, e quale sarebbe? » domandò sarcastico, mettendolo alla prova.
« Te l'ho detto: Fritz. Che altro, altrimenti? »
Il biondo si coprì il volto con una mano, scuotendo la testa. « Non posso crederci... ci conosciamo da cinque anni! »
« Fatto sta » li interruppe Jim, cercando di riportare un po' di serietà in quella sala, « che tutto è stato meglio di quel... Ocean Keats? Insomma, cosa mi rappresenta prendere il cubo in mano e dire "Questa sessione è un vero in-cubo"? » Dopo aver detto la battuta, lo stratega si fermò di colpo, sotto lo sguardo preoccupato e confuso degli altri. Dopo aver finalmente realizzato che cosa voleva intendere Ocean, Jim scoppiò in un'interminabile risata. « Oddio, ora l'ho capita! »
Shelly sospirò, cercando di non badare al marito. « A me invece dispiace per Jason Bennet. Sembrava un ragazzo così ben educato, quando l'ho osservato durante l'addestramento, e invece... » lasciò in sospeso, con un broncio dipiaciuto sulle labbra, ripensando a come il tributo del Distretto 5 li aveva mandati tutti a quel paese per averli fatti allenare inutilmente, inserendo piuttosto qualcosa che non vi era nell'addestramento e su cui non avrebbero potuto prepararsi, seppur con un tono calmo e con un ironico inchino finale. « Beh, almeno è stato... ehm... gentile. »
Jean-Paul Carter lanciò un’altra occhiata al blocco appunti, leggendo il nome della tributa del Cinque. « Io trovo che Jamie Sunders sia stata eccezionale, invece. »
Lucius lo smentì subito con una smorfia. « Capirai, stare in equilibrio su un cubo e farlo roteare mentre si esegue qualche passo di danza non è poi così sbalorditivo. »
« Non ho mai visto nessuno danzare in quel modo! » obiettò il più alto del gruppo, pronto a prendere le difese della ragazza. « Crane, lei non stava ballando... Lei stava combattendo! Sono convinto che alcuni dei miei soldati neanche saprebbero farle quelle cose. »
« Forse i tuoi soldati non sono bravi abbastanza » controbbattè. « Perché non chiediamo a Donowitz se sa fare qualcosa del genere? Anzi, ho un'idea migliore: perché non ce lo fai tu un balletto? »
Dopo uno sbuffo di Shelly, il marito si affrettò ad intervenire per cambiare discorso: « A me ha fatto ridere quando Brick Stark, del Distretto 8, è salito sul palco per cercare di tagliare - o spappolare? - le braciole di maiale col cubo. »
« Era indecente! » commentò la moglie, con un'espressione alquanto disgustata in viso. Cercò di riprendersi, sistemandosi la parrucca sul capo e tirando fuori uno specchietto dalla sua pochette per controllarsi il trucco. « Invece ho trovato carina quella dodicenne scura, Kenia Reaper, con la sua bambolina, Betty. »
« Lei e il suo compagno sembravano le vostre versioni scure e più giovani » fece notare Lucius, tenendo un'appiccicosa ala di pollo fra le dita, con la quale stava indicando i due coniugi. « Barbie e Ken. »
« Più che carina era strana » puntualizzò il generale. « canticchiava quella canzoncina inquietante, ha infilzato quella povera pezza con degli aghi e poi li ha colpiti col cubo, come si fa con un martello e dei chiodi » spiego, « e dopo di che ho sentito una strana sensazione di dolore al petto. »
Jean-Paul Carter l'osservava, alquanto confuso e non molto fiducioso delle sue parole. « Esiste persona più sfigata di te? » chiese.
« Sì » rispose prontamente il biondo, guardandolo ed indicando l'unico moro nella sala, « in fondo tu lo conosci da più anni di me. »
Sentendosi chiamato in causa, quello alzò un calice di vino che si era fatto portare prima assieme al pollo, sorridendo fiero di se stesso. « E mi ha chiesto anche di fargli da testimone! »
« No, ergo » obiettò il riccio, « ti sei presentato in chiesa senza invito e hai fatto tutto da solo. »
« Per me la miglior sessione, comunque, rimane quella di Benvolio Winslet » li interruppe Shelly, facendosi scappare una risatina sognante.
Jim Carson la fulminò con lo sguardo. « Non direi proprio che fare uno spogliarello sia una cosa da premiare... Per di più con quel braccio ingessato l'ho trovato anche abbastanza ridicolo. »
A quel commento, Shelly si riprese, schiarendosi la voce e assumendo una posa altezzosa. « Beh, sempre meglio di quella Phoebe Woody! » squittì, facendo diventare la sua voce ancora più acuta per via della rabbia che iniziava a risalirle. « Niente più della sua scenata mi ha fatto sentire tanto offesa in vita mia! Ma dico, come si permette? Che razza di modi erano quelli? »
Jim le prese una mano, dandole corda. « Hai ragione, tesoro, nessuna fanciulla dovrebbe avere un simile comportamento. Sembra che questa nuova generazione sia stata educata da maiali. »
« Ma lo è » intervenne Lucius, « in fondo sono i figli dei ribelli. Sono ignoranti ed inferiori, non possiamo aspettarci chissà cosa. »
« Vero » concordò Gilber von Krapfet, alzando le spalle, « però a me è piaciuto molto quel gioco di prestigio che ha fatto il tributo del Dieci. »
Jean-Paul Carter abbassò lo sguardo sulla sua scaletta e lesse: « Ryder Farm. »
« Sì, ecco. Come ha fatto sparire il cubo con il tovagliolo e poi l'ha fatto comparire sotto il cilindro di Jim; insomma... è stato divertente. »
Lucius fece una smorfia, scrollando le spalle. « Almeno non mi ha fatto prendere un colpo come... come si chiamava quella del Dieci? »
« Lila Larin » gli suggerì pel di carota.
« Avevo perso un po' di concentrazione alla fine » si giustificò.
« Quando mai » mormorò l'altro, tenendo il capo basso sul foglio.
« Stavo andando tranquillo a tagliare il maiale e al posto della mela ho visto quel cubo. Mi è preso uno spavento! »
« Io non mi sono accorto neanche che fosse entrata! » aggiunse Jim, meravigliato. 
« Ma era così piccola... » fantasticò la stratega, attaccandosi al braccio del marito, il quale non sapeva a cosa stava realmente pensando la donna. 
La vista di una dodicenne così minuta le faceva venir voglia di una figlia tutta sua. Non ne aveva mai veramente parlato col signor Carson, semplicemente sperava che quello se ne accorgesse da solo, come pretendere che avesse dei sensori per leggerle nella mente.
Frederick Donowitz ascoltava tutto silenziosamente e svolgendo comunque il suo lavoro. Gli era piaciuto come quella bambina aveva rubato la mela e nessuno se ne era accorto, non le aveva detto nulla quando aveva cominciato a mangiarla mentre usciva. L'intenzione di rimproverarla neanche gli era passata per l'anticamera del cervello, anche perché quella, gentilmente, gli aveva chiesto se ne voleva uno spicchio, che lui aveva rifiutato. In fondo sarebbe potuta essere una delle ultime cose che quella bambina avrebbe mangiato, mentre il sergente lo sapeva bene che la sua vita sarebbe stata sicuramente più lunga di quella della dodicenne. Forse.
« Io non ho capito molto cos'ha fatto Logan Mackinley » iniziò il biondo generale, martellando le dita sul tavolo. « Che senso ha disegnare una faccina sul cubo con la salsa e poi farlo stare in equilibrio su uno spigolo? »
Jean alzò le spalle. « Beh, in fondo penso che non avesse molte idee. Neanche io ne avrei avute, se fossi stato al loro posto, devo essere sincero. »
« Questo succede perché manchi di originalità » si affrettò a dire Lucius Crane che, stravaccato sulla sua sedia, aveva appoggiato i piedi sul tavolo con molta nonchalance. 
« Cielo, che maleducato! » protestò Shelly, inviperita.
Lucius scostò di poco i piedi per vederla meglio, accarezzandosi la curata barba. « Vuoi che mi tolga le scarpe? » 
Shelly scosse immediatamente la testa, inorridita, e Jim, in aiuto della moglie, cercò di spostare l'attenzione altrove: « Allora, qual è il prossimo? » domandò, rivolto a Carter.
Il riccio scorse la lista e si bloccò improvvisamente, con un'espressione poco rassicurante in volto. « Go Nakai » pronunciò flebilmente, come se le parole gli stessero morendo in gola.
La sala si raggelò e tutti si fermarono per qualche istante, calando nel più profondo silenzio e guardandosi attorno imbarazzati. Si sentivano stranamente a disagio, ripensando alla sessione della piccola dodicenne, di come non avevano potuto fare a meno di ridere di lei quando era entrata e di come quella, subito dopo, aveva parlato con parole dure, come un'adulta, spiattellando loro in faccia la realtà: cos'erano veramente, le loro paure, i loro sentimenti... Si erano sentiti messi a nudo da una ragazzina, come se quella avesse letto le loro menti; anzi, come se avesse letto i loro cuori. 
Jean abbassò lo sguardo, desideroso di dimenticare tutta la faccenda e sperando che gli altri facessero lo stesso, perché si vergognava delle cose che Go aveva detto su di lui - e su tutti gli altri - quindi alzò il capo, sforzando un sorriso. « Allora, il prossimo è Jeremiah Wilson » disse, come se nulla fosse e come se Go non fosse più esistita.
« Quello lì dovrebbe darsi una sistemata ai capelli. Insomma, il suo stilista non prende provvedimenti? » chiese la Barbie, pignola come sempre.
« Dopo "L'incidente Rankine" penso che la maggior parte dei tributi tema i propri stilisti » le spiegò il marito.
« Il suo discorso è stato strano, ma in senso positivo... credo. Penso che alla fine si sia fatto travolgere un po' troppo dalle sue emozioni » riflettè Gilbert, con l'aria un po' scombussolata al ricordo di quella penultima sessione. Forse per la stanchezza, forse perché ciò che aveva fatto Jeremy non era cosa da tutti i giorni.
Il ragazzo del Distretto 12 era semplicemente salito sul cubo, cercando di tenerlo stabile sotto i suoi piedi, ed aveva iniziato un discorso sul patriottismo e sul significato della vita, trattando gli strateghi come se fossero soldati da spronare.
« Erano un mucchio di stronzate, secondo me » obiettò Lucius, alquanto annoiato. 
« La prossima volta che devo parlare al mio esercito mi conviene chiamare lui, ha la parlantina da leader. »
« Ti fai rimpiazzare da un ragazzino, Schiaccianoci? » lo schernì il solito Crane, ridacchiando sotto i baffi.
Gilbert alzò un sopracciglio. « No, ok, questa dello Schiaccianoci non l'ho capita. »
« Noce, come l'albero di cui è stato fatto il cubo, giusto? » s'immischiò Jim, ripensando all'ultima sessione. « Nymeria Ironborn è stata brava a riconoscere il tipo di legno e ad intuire che l'interno fosse fatto di metallo, semplicemente dando qualche colpetto al cubo col pugno. Mi chiedo come abbia fatto. »
Improvvisamente qualcosa vibrò nella tasca di Jean-Paul, che tirò fuori il suo cellulare, osservando lo schermo.
« Pronto? » alzò la voce Lucius, quasi esasperato, ignorando le considerazioni di Jim sulla ragazza del Dodici. « Lo schiaccianoci era un soldatino di legno! »
« Mi stai dicendo che hai visto lo Schiaccianoci? » domandò Gilbert, scioccato.
Lucius avvampò, cercando di giustificarsi: « Tutti sanno di cosa parla lo schiaccianoci! »
Shelly alzò gli occhi al cielo, sbuffando. « Ditemi che abbiamo finito, vi prego. » Poi la sua attenzione si spostò su Jean, che ne se stava ancora a fissare lo schermo del proprio cellulare, con un'espressione spaventata sul volto, da far accapponare la pelle. « Tutto bene, Jean? » chiese Shelly, preoccupata, avendo paura persino a tendergli una mano.
A quelle parole, gli altri due arrestarono il loro battibecco e ora l'attenzione di tutti era rivolta verso il capitolino dai capelli arancioni. 
Quello sollevò lentamente il capo, con occhi sbarrati e bocca spalancata, boccheggiando in cerca d'aria e non trovando le parole per esprimersi.
« Mia moglie ha appena partorito » annunciò, ancora scosso dalla notizia. « E' una femmina. »

II. Secondo tempo – Di soffici sofà e stragi di voti.
Il morbido sofà su cui era seduta Naomi non la distrasse minimamente dalla tensione che provava in quel momento. Certo, era sicurissima delle proprie abilità, ma non era convinta di riuscire a conquistarsi la vittoria a suon di spogliarelli e occhiolini vari. A casa – qualora ne avesse ancora una – era molto più facile riuscire ad ottenere tutto ciò che voleva: a volte bastava persino un semplice battito di ciglia. 
Dopo aver piegato le gambe di lato, appoggiò il gomito al bracciolo del divanetto e, a sua volta, il mento al palmo della mano, fingendosi più annoiata di quanto già non fosse.
Augustus Flickerman si stava ancora limitando a fare battute a discapito del suo collega dall’aria trasognata, ridacchiando con quanta più finzione gli era possibile e mettendo i mostra i bianchissimi denti che gli conferivano un sorriso smagliante. Quando si decise ad annunciare i voti delle sessioni private, Naomi rizzò le orecchie, pur rimanendo ferma nella sua posizione.
« Per Mason Carter, Distretto 1 » annunciò l’uomo dai capelli verdemare, « … un 6. »
La ragazza si voltò nella direzione del compagno, che era in piedi a qualche metro di distanza affiancato dalla loro mentore. Quello parve tirare un sospiro di sollievo, quasi come se si fosse aspettato di peggio.
Naomi non indagò, perché in quel momento le importava solo del proprio risultato. « Per Naomi Free… 10. »
La mora arricciò le labbra in un sorriso più che soddisfatto.
« Si può sapere cosa diamine hai fatto con quel cubo per prendere un 10? » domandò Mason esterrefatto. 
L’altra ammiccò lievemente. « Immagina, M. So giocare benissimo le mie carte. »
Il ragazzo incrociò le braccia, innervosito. « Ti sei portata a letto Lucius Crane? »
Naomi scoppiò in una risata calda. « No, sciocchino, anche se devo ammettere che quell’uomo ha il suo fascino. Non trovi anche tu, Jewel? »
« Certo, davvero un grande stratega » commentò con sarcasmo la bionda. « Faresti meglio a stare più attenta, Naomi, troppe provocazioni verso Capitol potrebbero danneggiare la tua incolumità. »
« O potrebbero procurarle un mucchio di sponsor » aggiunse il diciottenne, prima di lasciare il salotto, stizzito. 
Jewel non volle ammettere che forse Mason non aveva tutti i torti: per quanto Naomi le desse sui nervi, era stata capace di far cadere gli strateghi ai suoi piedi. 

Perry continuava a cambiare posizione sul divanetto di pelle, tentando di poter buttare almeno uno sguardo al televisore, dove presto sarebbero stati annunciati i risultati delle sessioni private… ma Ty e Mizar proprio non si spostavano, occupandogli gran parte della visuale.
« Se avrò preso un voto basso, sarà stata solo e soltanto colpa tua » ringhiò Clarity verso il proprio stilista, che le teneva testa pur essendo più basso di lei di qualche spanna.
« Ti sbagli, non è colpa mia se sei solo una stupida bambina viziata che soffre di manie di protagonismo » controbattè Rankine.
« Senti chi parla! » esclamò la ragazza, ironica. « Sai quante voci girano sul tuo conto, rosso? »
Mizar digrignò i denti e stava per replicare a tono, quando finalmente Perry si decise a dividerli. « Porco Rigel, smettetela! State diventando insopportabili! » 
Non contenti, entrambi erano sul punto di rispondergli per le rime e il diciottenne si salvò solo grazie all’intervento della voce eloquente di Augustus Flickerman che annunciava i risultati del secondo Distretto.
« Per Peregrine D’Erin… un 3. Che peccato » commentò il presentatore fingendo una smorfia dispiaciuta. « Per fortuna però la sua compagna è stata di gran lunga migliore… un 8 a Clarity Valentine! »
I tre rimasero bloccati, ignorando i risultati successivi.
« Oh » fu capace di dire Ty. « Ho… ho preso 8... »
Mizar grugnì poco amichevolmente e voltò i tacchi, lasciando i due giovani a scrutare lo schermo come imbambolati. 
« Ed io 3… » fece mestamente Perry. L’altra scosse la testa, scacciando chissà quali pensieri, e gli strinse una mano. « Dai, principessa, non è la fine del mondo » gli disse, facendogli spuntare un sorriso a fior di labbra.

Nate se ne stava compostamente seduta sul sofà ignorando il compagno di Distretto che, accanto a lei, continuava a trangugiare fragoline con molta nonchalance, seduto in modo che avesse le ginoccha al petto.
« Ne vuoi una? » le chiese. 
« No, grazie » rispose educatamente la bionda, con le mani posate in grembo in attesa dei risultati delle sessioni. Il solo pensare al cibo le faceva venire la nausea; per non parlare di tutte le patate lesse che aveva dovuto toccare a mani nude per cercare di far esplodere quel maledetto cubo di legno; e, ancora, di tutti quei dolci che volevano offrirle durante il suo soggiorno pre-Hunger Games… le venivano i brividi. Nate detestava il cibo.
« Sicura? » insistette Elle, ficcandosi un’altra fragolina in bocca. « Sono fresche. E’ raro trovarle nel nostro Distretto. »
La ragazza lo fissò accigliata. « Ho detto di no. »
Elle fece spallucce, dispiaciuto dalla reazione delle ragazza, ma continuò comunque a mangiare da solo.
Rimasero in silenzio fino a quando la loro attenzione non venne catturata dallo schermo del televisore che annunciava i voti del Distretto 3. 
« Oh, chi abbiamo qui? Ma i due cervelloni, certo! » esclamò Augustus nello sfogliare le schede dei tributi. Nate strinse i pugni, ma non disse niente, mentre Elle se ne stava a fissare il volto incipriato del presentatore con gli occhi spalancati, in attesa.
« Per Elle Lawliet… 5. »
Il ragazzo fece un sorriso storto e subito dopo tornò a mangiare le sue fragole. La bionda lo ignorò, ancora.
« E, invece, per Natalie Dawson… ma che meraviglia, un 9! » 
Nate si complimentò con sè stessa in silenzio, alzando appena gli angoli delle labbra. Se solo il congegno fosse esploso per davvero avrebbe anche potuto prendere un voto più alto, ma andava bene così. Avrebbe potuto utilizzare i suoi giocattoli in arena; di sicuro a Latasha avrebbe fatto molto piacere.
« Complimenti, Nate » le disse Elle, recuperando un cucchiaino per la coppetta di gelato posata sul tavolino. « Le tue possibilità di vittoria si alzano almeno del 10%. »

L’intero piano del Distretto 4 era animato da un fitto chiacchiericcio. Beryl Straw, naturalmente, ne era la causa principale. La quattordicenne andava in giro per il salotto nervosamente e Rhymer la seguiva a ruota cercando di tranquillizzarla. Peccato che lo stilista non conoscesse il motivo reale della sua agitazione.
« Su, Beryl » provò a dirle il ragazzo dai capelli blu, « sarai andata sicuramente benissimo… »
« Oh, Rhymer, non capisci! Non si tratta della sessione, e neanche dei Giochi, e neanche di Capitol… io… come devo dirtelo? » disse l’altra, continuando a camminare avanti e indietro.
« Qual è il problema? » domandò allora Rhymer, perplesso.
« Vedi, è che io – e non è stata colpa mia, sai, è successo per caso – ho scoperto che tu- »
« Beryl! » la chiamò Ocean, che intanto se ne stava appollaiato sul morbido sofà rivestito in velluto azzurro (tanto per rimanere nel tema del Distretto), « tocca a noi, vieni qui! »
La ragazzina si bloccò all’istante, raggiunse il compagno sul divanetto e, incapace di star ferma, si aggrappò ad un suo braccio e glielo strattonò violentemente quando Augustus Flickerman annunciò: « E’ il turno di Ocean Keats, Distretto 4, con un voto di… 4. »
« Ma come! » esclamò la quattordicenne, dispiaciuta. « Che cattivi! »
Ocean scosse la testa. « Me l’aspettavo, sai? Dopotutto l’unica cosa che sono riuscito a fare è stata una pessima battuta sui cubi, senza contare che l’avevo inventata al moment- » 
Non riuscì a finire la frase perché dei prolungati ‘oooh’ meravigliati si diffusero per tutto il piano – e forse per tutto il Centro Addestramento – quando venne rivelato il voto della sessione di Beryl.
« Per la pelliccia di Wane! » stava giusto esclamando Augustus. « Abbiamo un 12 per Beryl Straw! Muoio dalla voglia di intervistarla. »
Un lungo applauso estasiato si levò da tutto lo staff del Distretto della pesca, mentre Beryl strabuzzava gli occhi, più sorpresa che mai. 
Rhymer la abbracciò e la sollevò da terra ridendo. « Bravissima, fragolina! »
« Ma io… » balbettò lei, per la prima volta in vita sua senza parole. « Non ho fatto niente di speciale… ho solo sbloccato quella canzoncina… »
Lo stilista le posò un bacio sulla fronte. « Non importa, Beryl, il 12 è tutto tuo! »

L’atmosfera sul piano del Distretto 5 non era la stessa di quello precedente; piuttosto, entrambi i tributi se ne stavano silenziosamente ad aspettare i risultati in tv senza mostrarsi eccessivamente nervosi o sicuri di sé. Ice, la loro accompagnatrice, trotterellava in giro per il salotto come un cerbiatto a primavera, “parlando” con i senza-voce e tentando di intrattenere una conversazione pacifica con i due stilisti, che invece si limitavano a schernirla con commenti cattivi.
Allora la capitolina dai capelli bianchi ornati da una coroncina di fiori si era andata a sedere accanto a Jamie e, mentre aspettavano il loro turno, le aveva fatto una treccia elaborata in pochi secondi. « Sei bellissima, gioia » le aveva detto.
Jamie aveva sorriso in risposta e si era rigirata la treccia tra le dita, per trascorrere quel tempo che sembrava non passare mai.
Solo dopo un po’, finalmente, Augustus Flickerman giunse ai loro nomi. Sfogliò la cartellina e disse con un sorriso velatamente sarcastico: « Qui abbiamo Jason Bennet, Distretto 5, a cui gli strateghi hanno assegnato un… 1. » 
Ice lanciò un urletto addolorato. « U-uno? » mormorò. « Che accidenti hai fatto, Jason? »
Il diretto interpellato scrollò le spalle senza mostrare eccessivo interesse. « Li ho gentilmente mandati a quel paese per non averci avvisato del vero tema di questa sessione privata. »
« Mandati… a… quel paese? » balbettò Ice sconvolta, impallidendo. 
« Sì. »
Gli stilisti, poco più in là, scoppiarono a ridere. « Tipo “vi invito ad andare a fanculo?” »
« Esatto. »
« Ma la tua vita dipende anche da loro, tesoro mio » protestò l’accompagnatrice, sventolandosi una mano davanti al viso per evitare un possibile svenimento. 
« Anche » ripeté Jason, tornando a guardare lo schermo del televisore con disinteresse.
« E, per quanto riguarda Jamie Sunders… un bell’8 tondo! » aveva intanto continuato Augustus, sempre con quel fastidioso sorriso apparentemente perfetto e cordiale.
Jamie aveva strabuzzato gli occhi color dell’ambra e le sue labbra si erano schiuse come per pronunciare qualcosa… peccato che Jamie non avrebbe mai ripreso a parlare così facilmente.
Il compagno le diede un buffetto sul braccio, sorridendole per incoraggiarla ed Ice, abbandonando la “questione Jason” – sulla quale sarebbe sicuramente tornata più tardi – andò ad abbracciare la sua protetta. « Ti va di venire a danzare con me, dopo? »

Winnow Spottiswoode sorseggiava una tazza di caffè amaro mentre aspettava pazientemente i risultati del Distretto 6, con la cara Wednesday appiccicatagli, intenta a torturare la sua cara Maria Antonietta.
Zhu sembrava nervoso: se ne stava fermo e in piedi, accanto al televisore così da non occupare tutta la visuale, con le braccia incrociate. Nel pugno stringeva una sottospecie di piccola pietra traslucida e sbozzata, che riprendeva il motivo delle onde del mare. Lo teneva saldo tra le dita da quando era cominciata la trasmissione e difficilmente se ne sarebbe liberato.
« Che cos’è quel coso, Koeyn? » 
Zhu si voltò di poco verso Wednesday, che lo fissava con un sorrisetto maligno dall’alto del suo metro e cinquanta. Il ragazzo assottigliò lo sguardo. « Non ti interessa » le disse, serrando ancora di più il pugno sul ciondolo di Katae.
« Come sei scortese » lo prese in giro la dodicenne, lisciandosi una delle due trecce nere perfettamente in simmetria con il resto del viso. « Winnow sa essere molto più gentile di te, pur essendo macabramente pauroso. »
Winnow sorrise di sbieco, bevendo un altro sorso di caffè. Era incredibile come lui e quella ragazzina fossero simili.
Zhu affondò le unghie nel palmo libero. « Sai quanto me ne importa. »
La cordiale discussione dei due si interruppe – probabilmente sul più bello – quando Augustus era giunto ai voti del loro Distretto.
« Per Zhu Koeyn… un 11! » eslamò il presentatore con un sorriso smagliante.
Il diciassettenne corrugò la fronte, confuso. Dopotutto non aveva fatto nulla di spettacolare durante la sua sessione… oltre a qualche mossa di combattimento aveva soltanto mosso qualche tassello del cubo di legno, spegnendo quella canzoncina fastidiosa.
Wednesday gli lanciò un’occhiata di superiorità, pur essendo a conoscenza del fatto che la sua “prova” non fosse andata bene quanto quella dell’altro.
E infatti… « Per Wednesday Addams… un 2. »
La dodicenne scoppiò a ridere, ma quella non era non era una risata divertita, anzi, tutto l’opposto: fredda, vuota. « Che idioti » commentò, uscendo di scena con la sua Maria Antonietta tra le braccia, di fondamentale importanza per lei almeno quanto il ciondolo azzurro per Zhu.

Haylee, dopo aver finito il piatto di profiteroles al cioccolato, si leccò le dita con un’espressione estasiata. « Devo baciare il cuoco del Centro » affermò, spaparanzandosi sul sofà di pelle e ignorando William che, di conseguenza, dovette sedersi su una poltrona al lato, biascicando qualcosa tra i denti.
« Non credo sia tutta questa bellezza » commentò Volumnia Inchcape, la loro accompagnatrice, con una sigaretta accesa tra le dita sottili. « Mi hanno detto che è vecchio e grasso. »
« Chi se ne frega » ribatté la rossa, mettendosi più comoda. « Non ho mai mangiato niente di più buono. »
Volumnia storse il naso e rilasciò una nuvoletta di fumo, tornando a puntare gli occhi sullo schermo del televisore. « Diventerai obesa ancor prima di entrare in arena. »
Haylee ridacchiò. « Mi fai fare un tiro? »
« Come, scusa? »
« Voglio provare » disse lei scrollando le spalle. « Potrebbe essere l’ultima cosa trasgressiva che faccio prima di morire, no? »
Volumnia sbattè le palpebre. « Daresti fuoco all’intero piano, bella mia. »
Haylee sbuffò. « Tu hai mai fumato, Chopper? » chiese al compagno, utilizzando il soprannome con cui lui era conosciuto al Distretto.
William alzò un sopracciglio. « No, perché? »
« Curiosità. E la tua amichetta, come si chiama, Jamie?, ha mai fumato? »
Il ragazzo la fissò, a metà tra l’offeso e l’imbarazzato. « Che t’importa? »
« In realtà niente » ridacchiò Haylee. « Volevo semplicemente vedere la tua faccia. Ti piace, vero? Jamie, intendo. Te lo si legge negli occhi. »
William le stava per dare una risposta puntigliosa, ma in quel momento Augustus Flickerman aveva preso ad annunciare i loro voti: « … e qui abbiamo i tributi del Distretto 7, Haylee Scott e William Wyngardaen, a cui gli strateghi hanno assegnato una coppia di 3. »
Il ragazzo scosse la testa con disappunto, mentre Haylee non mostrò alcun dispiacere, dopotutto la sua strategia consisteva nel passare per una debole.
« Solo 3?! » esclamò Volumnia, irritata che i suoi tributi fossero andati entrambi male alle sessioni. 
« Che cosa avresti fatto tu con un semplice cubo di legno canterino? » fece Will.
« Non lo so, ma… gli altri hanno preso voti più alti. »
« Beh » disse la rossa, passando accanto all’accompagnatrice per rubarle personalmente la sigaretta dalle mani, « forse gli altri si sono esibiti in danze migliori. » 

« Per te » aveva detto Delphi, porgendo a Kenia una scatola dall’aria antica. 
La ragazzina l’aveva presa tra le dita minute con attenzione e gli occhi luminosi: aveva già intuito cosa fosse. Le sue supposizioni si rivelarono fondate quando, nel poggiarla sul tavolino basso di fronte al divanetto, la aprì delicatamente. Una scacchiera.
« E’ bellissima » mormorò, accarezzando una delle pedine ammassate sul lato. « Grazie, Delphi » disse all’accompagnatore, dandogli un bacio sulla guancia. 
Si sedette sul pavimento e si mise tranquillamente a sistemare le pedine, una ad una, posizionandole sui vari tasselli intagliati nel legno. 
« Bianchi contro neri » spiegò il trentenne, aiutandola. « Fai scacco matto mangiando il Re dell’avversario, ma la Regina è il pezzo più importante. »
« So come si gioca » replicò la ragazzina. « Vuoi fare una partita? »
Delphi sorrise. « Non hai paura di perdere? »
« Io non perdo mai » lo sfidò Kenia sorridendo egualmente. L’uomo si sedette sul pavimento di fronte a lei, dalla parte dei bianchi. 
Brian, nel frattempo, era rimasto a guardare la trasmissione con aria seccata, tralasciando gli altri due che giocavano a scacchi, finché non arrivò il loro turno.
« Ehi » disse, « tocca a noi. »
Entrambi alzarono la testa in direzione del televisore, abbandonando la partita per un attimo.
« E qui invece abbiamo Brian Stark, Distretto 8, con un voto di… 5 » fece il presentatore verde-acqua, ammiccando in direzione dei telespettatori, ammaliante come al solito.
Il quindicenne sbuffò, non soddisfatto del risultato ottenuto, nonostante si fosse già preparato a ricevere un voto basso. 
« Maledetto cubo » borbottò tra sé, ripensando a come aveva cercato di spappolare la carne con quell’aggeggio. Non gli era venuto niente di meglio in mente, quando gli avevano spiegato che in soli cinque minuti di tempo avrebbe dovuto fare “tutto ciò che riteneva idoneo fare con un normalissimo cubo di legno”. Che poi tanto normale non era, se si considerava quella fastidiosissima canzoncina pseudo-allegra che sembrava tanto essersi impallata da un bel po’ di tempo.
« … e Kenia Reaper » continuò Augustus, « con un 6. »
Kenia stirò le labbra in un’espressione amareggiata. Avrebbe potuto prendere un voto più alto, se solo gli strateghi avessero compreso l’utilità della sua bambola. Ma comunque non aveva importanza. Si sarebbero resi conto solo in seguito di quanto la sua Betty potesse essere letale, che loro lo volessero o meno. D’altronde l’avrebbe usata in tutti i modi possibili, pur di ritornare a casa dalla sua famiglia e vincere gli stessi Giochi in cui il suo Logan era morto.
Tornò alla partita senza batter ciglio, con i pensieri, tuttavia, irrimediabilmente rivolti al Distretto 8.

« Com’è andata la tua prova? » domandò distrattamente Benvolio, sfogliando una rivista di sport di Capitol City – non che la stesse leggendo, ma stare fermo lì ad aspettare era frustrante, senza contare il braccio ancora ingessato. I medici, tuttavia, gli avevano assicurato che per quando sarebbe entrato nell’arena il suo braccio sarebbe tornato come nuovo. Faceva fatica a crederci, ma ormai, anche se sembrava tutto contro di lui, non restava che aspettare.
Phoebe si torse le mani. « Ehm… bene. »
« Bene? » chiese stupito Benvolio. « Cosa hai fatto con quel cubo? »
La compagna abbassò la testa e non rispose. Di che diavolo stava parlando? Un cubo? Come poteva ricordarselo, d’altronde, se non era stata lei ad affrontare la sessione privata?
« Ehi? » la chiamò il ragazzo. « Puoi dirmelo, sempre se vuoi. »
« Beh… » mormorò l’altra, « … posso dirtelo dopo i risultati? »
Benvolio annuì senza troppa convinzione. « Come vuoi. La mia invece è andata malissimo, tanto per essere ottimisti. »
« Mi dispiace » replicò Phoebe.
« Avevo sperato che ci fossero più strateghe donne, e invece… »
La ragazza mostrò un’espressione interrogativa. « Perché… cosa… ? »
« Non essere timida » la schernì Benvolio. « Non ti mangio mica. »
« Cosa hai fatto nella tua sessione? » domandò allora Phoebe, le guance lievemente colorate di rosa. 
Il biondo ridacchiò. « Facciamo che te lo dico anch’io dopo i risultati. » Lei mostrò la parvenza di un sorriso e solo allora Augustus Flickerman si decise ad annunciare i loro voti, immediatamente dopo quelli del Distretto 8.
« Per Benvolio Winslet… » cominciò, « un 5. »
Il ragazzo scosse la testa con un sorriso amaro. « Pensavo peggio » commentò, rilassando la schiena sulla spalliera del sofà.
« E invece, per Phoebe Woody… » disse, ma improvvisamente si bloccò, lasciando la frase in sospeso. « … ci deve essere un errore, non è possibile. »
Phoebe impallidì, presa dal nervosismo, e si asciugò le mani impregnate di sudore sul pantalone incolore fornito dal Centro Addestramento. Anche il compagno sembrava interdetto.
« Non so quanto questo voto possa essere attendibile » continuò Augustus, « ma qui c’è segnato uno zero. »
La ragazza sbiancò quasi del tutto, sgranando le iridi verde muschio, e si fece più piccola che mai. Benvolio si voltò verso di lei, sconcertato, e chiese spiegazioni con un semplice sguardo.
Phoebe non disse niente; si alzò e si diresse nella sua camera e, una volta che fu sola all’interno, prese il suo indispensabile block-notes e scrisse su un pezzettino di carta: “Che cosa è successo alla sessione privata?” Fatto ciò, lo ripose in tasca e chiuse la porta a chiave.

I senza-voce addetti al piano del Distretto 10 avevano appena portato un vassoio pieno di dolciumi prelibati e lo avevano appoggiato su un tavolino. Gli unici interessati alle pietanze, però, sembravano i membri dello staff dei due tributi che, invece, se ne stavano sul divanetto ad aspettare i propri voti.
Ryder teneva lo sguardo fisso nel vuoto, completamente estraneo alle battute di Augustus ed i pensieri altrove; Lila si osservava le unghie corte – ancora ricoperte dallo smalto lucido – senza reale interesse.
Il tempo sembrava trascorrere molto lentamente ed entrambi non stavano badando quasi a nessun altro tributo, troppo immersi nella tensione del momento.
Non avevano molte aspettative – visto e considerato che ci erano stati persino un 1, un 2, tre 3 e persino uno zero – eppure speravano in un risultato decente. Era stato loro detto, infatti, che negli Hunger Games gli sponsor erano una risorsa fondamentale ed un voto alto avrebbe aiutato decisamente molto a conquistare i capitolini avidi di scommesse.
« Bene, dopo questo inconveniente » proseguì il presentatore, riferendosi alle perplessità sul voto della ragazza del 9 – appunto, zero –, « passiamo ai tributi del Distretto 10. Per Ryder Farm… un 7. Finalmente cominciamo ad aumentare un po’ la media! »
Ryder sospirò di sollievo. Sette era un voto che gli andava benissimo; era entrato in panico quando gli avevano rivelato che tutta la sessione privata non solo sarebbe durata cinque minuti, ma sarebbe anche stata basata interamente su un semplice cubo di legno. Per fortuna gli era venuto in mente quel simpatico gioco di magia che gli aveva insegnato suo nonno quando era piccolo, o sarebbe stato spacciato.
« Sei stato bravo » si complimentò Lila a bassa voce, pur non guardandolo in faccia. A quanto pareva, a nessuno dei due piaceva parlare molto. Ryder, però, sorrise di sbieco in risposta.
« E 7 anche per Lila Larin! » disse Augustus, ammiccando al pubblico.
La tredicenne s’illuminò. Probabilmente anche la sua prova era stata apprezzata; forse era stato merito di quel simpatico – o quasi – generale che faceva la guardia, sulla cui targa c’era segnato “Frederick Donowitz”. Ricordava persino il sapore della mela che si era portata appresso di nascosto, le era venuto del tutto spontaneo.
Ryder le sfiorò una spalla con la mano e Lila si voltò verso di lui. Si lanciarono uno sguardo d’intesa, dicendosi che, sì, forse avevano qualche possibilità di tornare a casa e, anche se potevano considerarsi nemici, in quel momento non importava. 

« Ehi, Go » disse Jeyl, entrando nella salotto con un po’ di ritardo, « cosa mi sono perso? »
La ragazzina fece spallucce. « Niente di che, non preoccuparti. E’ quasi il nostro turno. »
Il ragazzo si accomodò poco lontano da lei con una fumante tazza di latte caldo. « Non riuscivo a trovare questo » spiegò, giustificando la sua assenze e mostrandole un piccolo anello argentato. « L’avevo appoggiato sul comodino e quando sono tornato in stanza e non l’ho più visto sono andato nel panico; probabilmente qualche senza-voce doveva averlo spostato nel cassetto. »
« Che cos’è? » domandò Go, incuriosita da quel piccolo cimelio.
« E’ il mio portafortuna » rispose Jeyl con un sorriso nostalgico. « Me l’ha dato la mia migliore amica, Coraline. »
« Che bel nome » commentò la dodicenne. « Dovete essere davvero molto affezionati. »
« Sì » assentì il moro, « senza di lei non so cosa farei. Molti in giro credono che stiamo insieme, ma non è così. »
Go notò l’espressione del ragazzo farsi più distante, come se avesse la testa al Distretto 11, a casa.
« Eri innamorato di qualcuno, vero Jeyl? » chiese lei, cercando di non essere troppo indiscreta. 
L’altro fu come colpito da un fulmine a ciel sereno e sulle prime non seppe cosa rispondere. « Credo… » balbettò, disarmato di fronte alla perspicacia della compagna. « … credo di sì. Sai, mi piaceva talmente tanto che negli ultimi giorni mi è parso di vedere qualcuno che le somigliasse… »
Go gli rivolse un sorriso tranquillizzante. « Era bella? »
« Non sai quanto. »
Jeyl avrebbe continuato per ore a parlare di Virginia, per di più con una buona ascoltatrice come quella ragazzina, ma la loro attenzione venne distolta dall’annuncio dei risultati.
« Manca poco alla fine » stava giusto dicendo Augustus. « Siamo al Distretto 11! »
Entrambi i tributi si fecero tutt’orecchi.
« Abbiamo Logan Mackinley, con un voto di… 4. »
Per Jeyl fu come materializzarsi d’improvviso dai campi del suo distretto a quel salotto pieno di comodità ma che non aveva la stessa aria di casa. Quattro non era decisamente un buon voto per procurarsi degli sponsor, ma ormai non poteva farci nulla, la sua prova non era stata eccellente. E come avrebbe potuto, quando l’unica cosa che gli era venuta in mente di fare era stata dipingere una faccina sul cubo con le salse del buffet? Scosse la testa con disappunto, sperando che almeno Go fosse andata meglio.
« E Go Nakai, con un voto di… 6. Sicuramente meglio del ragazzo » disse il presentatore, accarezzandosi la barba verdemare. 
La ragazzina non aggiunse nulla: una semplice sufficienza; non che avesse sperato in qualcosa di migliore, ma così di certo non avrebbe fatto colpo sul pubblico. 
Si disse che l’intervista sarebbe andata meglio, si disse che non tutto era ancora perduto. Lei aveva ancora una persona per cui combattere, ancora una ragione per non arrendersi, ancora una ragione per sopravvivere e tornare tra le braccia della nonna. 

Nymeria si era già infilata il pigiama per stare più comoda - benché fino ad un attimo prima lo staff di preparatori aveva continuato a polemizzare sui suoi atteggiamenti da maschiaccio e lo stile trasandato, che lei aveva bellamente ignorato - ed ora stava a gambe incrociate sul divano, ascoltando attentamente le parole di Augustus Flickerman, con l'ansia che le cresceva nel petto. Per fortuna che di Huck, il suo stilista, non vi era neanche l'ombra ed era meglio così, non aveva bisogno di qualcun'altro a complicarle la vita.
Jeremy si avvicinò alla compagna, trasportando due piatti con una fetta di Red Velvet cheesecake ciascuna; si andò a sedere vicino alla ragazza sul largo divano, posò un piatto sulle gambe e prese una forchettata dall'altro, che condusse direttamente alla bocca di Nymeria, la quale aprì la bocca e mangiò il dolce senza staccare gli occhi. 
« Adoro il fatto di avere l'attimo e tutti questi dolci » commentò Jeremy, porgendo l'altro piatto alla compagna, che lo prese rispendendo con un « Grazie » educato.
« Siamo arrivati alla fine, Titus! » esclamò Augustus dallo schermo, attirando l'attenzione dei due, molto propensi a sbrodolarsi la panna sui vestiti per la tensione. « Oh, sembra che al nostro caro Jeremy Wilson non sia andata bene: un 4, che peccato! » finse di dispiacersi il presentatore, mentre era palese che Titus e lui - più di tutti - stavano ridendo sotto i baffi.
« Ma come! » protestò il moro, imbronciato. « Ci ho messo passione e sentimento in quel discorso! »
« Che cos'hai fatto? » chiese Nymeria indagatoria, alzando un sopracciglio, per poi sciogliersi in un tono divertito. « Uno dei tuoi soliti discorsi rivoluzionari e patriottici? »
Jeremy scrollò le spalle, grattandosi il naso. « Diciamo che mi sono lasciato prendere la mano, come al solito » aggiunse.
Finito lo scambio di battute con Titus, Agustus riprese la sua telecronaca: « Mentre per Nymeria Ironborn abbiamo un bel 7. Direi niente male. »
« Dobbiamo tenero conto che il Distretto 12 è uno dei più poveri, è sorprendente » concordò il collega.
La ragazza non poté fare a meno di sorridere e sentì una gomitata da parte del compagno; si abbracciarono d'istinto, ridacchiando ed incoraggiandosi a vicenda. Era sorprendente come Jeremy le facesse passare sempre tutte le preoccupazioni di dosso.
« Uh, aspetta » si bloccò improvvisamente il moro, passando con il dito vicino la bocca della diciottenne e leccando la panna con cui si era sporcata, cogliendola di sorpresa. « Ti eri sporcata. »
Lo scatto della porta fece sobbalzare entrambi i tributi, che si voltarono verso una Sagitarya appena entrata. 
« Allora » incominciò, « avete fatto tanto schifo? »

 

Il potere vestito d'umana sembianza
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.

(Fabrizio De Andrè)















 








L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Eh, già, abbiamo copia-incollato un'altra volta l'intro e sempre lo faremo.
E' mezzanotte, buon anno nuovo, ma anche no. In poche parole: cercheremo di essere brevi perché siamo stanche morte.
Capitolo sudato che all'inizio doveva essere cortissimo ed invece... E dire che abbiamo fatto di tutto per renderlo corto! 

Non voglio illudervi, ma programmiamo di postare circa due capitoli - o quasi - durante le vacanze, più un regalo per tutti voi, quindi è meglio se tenete d'occhio il nostro account.
Come sempre, ci piacciono gli elenchi puntati:
  • in primis, scusateci per l'abnorme ritardo con cui postiamo, ma ultimamente siamo state entrambe impegnatissime e non siamo riuscite a concordarci con gli impegni.
  • In secundis, sappiate che non abbiamo messo i nomi completi dei tributi perché troviamo più probabile che i capitolini li chiamino solamente per primo nome e cognome, invece dei loro settantordicimila platani, per comodità.
  • In ter- vabbè, abbandoniamo il latino che Ivols non si ricorda neanche più le declinazioni pur andando ad un liceo classico, le percentuali di . sono relative. Ovvero, un modo carino per dire che sono campate in aria, totalmente arrandom, visto che facciamo schifo in matematica.
  • Poi... amate le imprecazioni made in pandaivols, come "Porco Rigel!" o "Per la pelliccia di Wane!", devono diventare parte integrante del vostro dizionario; perché se andiamo su Asgard, sicuramente diranno "Porco Odino" e le pandaivols, entrambe ritenendo che le religioni oramai siano quasi estinte dalla nuova società di Panem, allora pensano che la gente si attenda all'attualità ed utilizzino personaggi contemporanei di quel tempo per... ma come platano stiamo parlando? Sofisficato is the way, yo yo.
  • Beryl prende 12 perché la sua creatrice ha indovinato la soluzione dell'indovinello precedente; idem Zhu, la cui creatrice si era avvicinata moltissimo. E poi Beryl è figa e dovete shipparla con Rhymer perché la loro friendship è l'ammoveh.
  • E poi, se non si fosse capito, gli strateghi approvano che una abbia scoperto il meccanismo della canzoncina e che l'altro sia riuscito a spegnerlo.
  • Zio Fritz alias Gilbert/Lucius/Jean-Paul rulez. Best triangle evah.
  • L'indovinello per il prossimo capitolo è: a quali personaggi/attori si ispirato i tre strateghi principali (Lucius Crane, Jean-Paul Carter e Gilbert Von Krapfen)? Mandate un messaggio al- no, ok, scrivetecelo dove vi pare, in privato; avete un solo tentativo ma tempo illimitato (si intende, fino a che non pubblicheremo il nuovo capitolo... ovvero tra non troppo per- ehm, motivi segreti).
  • Volevamo dire qualche altra cosa ma sicuramente ci siamo dimenticate.
  • Punto a caso.
La mamma di Mito la sta guardando male e Ivols ha sonno.
Quindi, detto ciò...
Amateci lo stesso.
Bao e cotolette.
 
pandaivols.


Ps: questo capitolo era nato per essere corto, lo giuriamo su Rigel.
Pps: scusateci per la strage di voti, ma ricordatevi che siamo pur sempre ai secondi Hunger Games (vedi: prova del cubo).

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Capitolo 5
*** Fifteen thousand people scream – Inizio. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

Fifteen thousand people scream.


Inizio


.




 
I'm falling down
And fifteen thousand people scream
They were all begging for your dreams.

 [ Falling down - Muse ]


 
Saevera scacciò con uno sguardo pungente la stilista che stava appuntando il microfono sullo smoking verde acqua di Augustus e prese lei stessa ad annodargli per bene la cravatta.
« Gentile da parte tua » disse sarcastico e con un sorriso malizioso.
« Sai qual è l’unico motivo per cui ti parlo » gli ricordò con tono gelido, neanche alzando lo sguardo, « e vorrei che non ricacciassimo più l’argomento in futuro. »
Il sorriso di Augustus si spense e il suo viso diventò improvvisamente duro. « Cos’è, vogliamo limitarci a vederci solamente il giorno dell’anniversario della sua morte? »
Saevera scrollò le spalle, prendendo realmente in considerazione quell’idea e scostandosi da Augustus per vedere se era pronto. « Piuttosto cos’hai intenzione di fare? Metterli alle corde coi tuoi stupidi giochetti mentali? »
L’uomo si accarezzò la barba, incrociando lo sguardo severo e penetrante della donna. « Di solito le chiamano “interviste”, ma apprezzo il tuo sforzo. »
« Tanto odio i due sfigati che mi hanno assegnato e gli altri non sembrano migliori, tutti falliti. Non vedo l’ora che muoiano per finire il mio lavoro » commentò acida, spostando lo sguardo sulla fila di tributi in attesa di essere chiamati. Poi si voltò nuovamente verso l’uomo, osservandolo per qualche istante. « Devi andare in scena. »
Augustus annuì, consapevole, e si allontanò verso il palco senza nemmeno salutarla. Riconobbe la voce di Titus Bartimeus Bones annunciarlo sul palco e poi le luci lo inghiottirono, fingendo un carismatico sorriso, che oramai gli veniva così bene e facile da fare.
« Signore e signori, sono lieto di annunciarvi che oggi sarà l’ultimo giorno in cui vedremo i nostri cari ventiquattro tributi di questa seconda edizione degli Hunger Games, prima che entrino in Arena. » Il pubblico fischiò e applaudì, eccitato. « Senza indugi, allora, chiamiamo qui sul palco la bellissima Naomi Heloise Free! »
La mora ragazza del primo distretto salì sul palco ancheggiando e ammiccando in direzione delle telecamere. Indossava un abito nero, succinto e corto, che apparentemente sembrava diviso in un top e in una gonna tenute insieme da alcune striscie di stoffa intervallate dalla pelle nuda. L’abbigliamento era completato da un paio di tacchi vertiginosamente alti e da un bracciale borchiato che portava al polso destro. La cosa che impressionò di più l’intero pubblico, tuttavia, fu il boa – vivo – che Naomi portava sulle spalle. Quando Maximus, il suo stilista, aveva parlato di un boa, lei aveva pensato alle piume e non che stesse parlando sul serio di un vero serpente. C’era voluto un bel po’ per convincere la ragazza, ma alla fine aveva acconsentito: tutto, pur di impressionare i capitolini.
Il rettile muoveva appena la testa squamata, attorcigliandosi intorno alle braccia della diciassettenne e cacciando fuori la lingua biforcuta per sibilare in direzione di Augustus, che per un momento rimase impietrito di fronte a quella scena, come tutto il resto degli spettatori.
« Meraviglioso » commentò l’intervistatore, astenendosi dal baciare la mano della ragazza per non entrare in contatto con le squame del serpente. « Sembra che i tuoi stilisti abbiano avuto un’idea originale per il tuo look, stasera. »
Naomi alzò gli angoli delle labbra verso l’alto. « Lo credo anch’io » rispose, sedendosi sulla poltrona di pelle bianca ancor prima che Augustus la invitasse a farlo. Accavallò sensualmente le gambe e con una mano prese ad accarezzare la testa del serpente. Non sembrava neanche lontanamente intimorita, per cui l’uomo decise di cominciare con le domande.
« Allora, Naomi » esordì, « come ti trovi qui a Capitol City? »
La diciassettenne fece vagare i suoi occhi decorati con una fitta linea di eyeliner per tutta la platea, mantenendo l’atteggiamento volutamente misterioso. « Benissimo, anche se la ricordavo un po’ diversa. »
Augustus inarcò un sopracciglio. « Intendi dire che ci eri già stata? »
« Mi è capitato, una volta » ribatté la minore. « Tanto tempo fa. »
L’uomo dai capelli verdemare capì immediatamente che si stava riferendo alla rivolta, per cui lasciò virare l’intervista verso un’altra direzione. L’avrebbe avuta vinta lui, alla fine, non poteva permetterle di condurre il gioco. « E cosa ti ha colpito di più durante il tuo soggiorno al Centro Addestramento? »
« Vedi, Augustus… » fece Naomi, continuando ad accarezzare il boa con disinvoltura. « La cosa più sconcertante è che qui girano veramente tante… voci. E la cosa non mi dispiace affatto. »
Il capitolino assottigliò lo sguardo. « Che genere di voci? »
« Voci sul Presidente, sugli Strateghi, sugli accompagnatori, sugli stilisti, su Augustus Flickerman… » disse, prima di sussurrare, coprendosi la bocca coperta dal suo amato rossetto color ribes, come se si sentisse in colpa: « Oh. » Lanciò all’altro una risata maliziosa e quello raggelò lo sguardo.
« Questa è Capitol City » ribatté lui, facendo spallucce. Avvicinò il volto alla ragazza e disse più a bassa voce, come se le stesse facendo una confidenza: « Sai, anche sui tributi girano molti pettegolezzi. C’è una certa Naomi Free che da queste parti viene considerata una meretrice… povera bambina. »
Il boa sibilò al posto della ragazza, che si conficcò le unghie nei palmi delle mani. « Povera bambina? » chiese, sarcastica. « Io credo che abbia capito tutto della vita! »
Il pubblico maschile esplose in un’ovazione decisamente prolungata, che fece tornare quel sorriso malandrino sulle labbra rosse di lei. Tra gli applausi calorosi si udì distintamente anche un “Naomi, sei bona!” provenire dagli spalti più alti, proprio in direzione del posto d’onore di Lucius Crane.
« Dunque » riprese Augustus, tentando di placare il pubblico, « tu e il tuo compagno di distretto avete il privilegio di avere al vostro fianco l’unica mentore di questa seconda edizione. Che rapporto hai con lei? »
« Jewel? » domandò la mora, inclinando un po’ la testa di lato. « E’ come la mia sorella maggiore. »
« Oh, allora sicuramente avrai preso spunto da lei per quanto riguarda le tue nobili abitudini » disse il conduttore, infangando pesantemente la reputazione dell’ex vincitrice.
Naomi non si lasciò scalfire, anche se dopo si sarebbe dovuta sorbire l’ira di Jewel. « No, lei mi ha soltanto insegnato a tenere gli occhi aperti. »
E anche qualcos’altro, avrebbe voluto aggiungere Augustus, ma i tre minuti a disposizione erano scaduti. « Magnifico, adesso salutate la splendida Naomi e date il benvenuto al suo compagno di distretto: Mason Carter! »
La ragazza si alzò dalla poltrona e ammiccò un’ultima volta in direzione del pubblico e, nell’istante in cui si incrociò con Mason nel ritornare dietro le quinte, gli sussurrò a bassa voce: « Ti prego, uccidilo. »
Il compagno raggiunse in pochi passi la poltrona bianca accanto l’intervistatore, che lo accolse con una – decisamente poco – amichevole pacca sulla spalla. Il pubblico, invece, gli dedicò un applauso prolungato, anche se si spense prima di quello di Naomi.
Mason indossava una splendete armatura da cavaliere, debitamente lucidata a dovere da almeno una decina di senza-voce; il costume rifletteva su di sé tutte le luci dello studio, ammaliando gli spettatori. Sembrava pesante, con tutte le sue rifiniture in argento e bronzo, e la cintura dotata di una grande spada custodita in un fodero di cuoio nero. Inoltre, il giovane portava sotto braccio l’unica parte mancante dell’armatura, un elmo finemente lavorato nei minimi particolari, con il piumaggio scarlatto in cima e la visiera impreziosita da quelli che sembravano cristalli. Di sicuro non era stato fatto per indossare, esattamente come la spada che pendeva al suo fianco, sulla cui elsa erano incastonate altre pietre preziose. Non avrebbero mai messo un’arma vera in mano a un tributo ancor prima di entrare in arena, comunque.
« A quanto pare gli stilisti dell’Uno hanno fatto un lavoro persino migliore dell’anno precedente » commentò Augustus, osservando compiaciuto l’armatura. « Sembri un vero cavaliere, le ragazze saranno ammaliate da te. »
Mason non diede segno di assenso e si limitò a stirare le labbra, tutt’altro che soddisfatto. Detestava quella gente, detestava essere lì e soprattutto detestava quell’uomo così dannatamente falso. Aveva ascoltato ogni parola dell’intervista di Naomi e aveva notato quanto Augustus avesse cercato di farla cadere con ogni mezzo a sua disposizione. Le insinuazioni su Jewel, poi, avevano completato il quadro generale della sua rabbia.
« Non posso che esserne felice » mentì, stringendo la presa sull’elmo. Era una bugia bella e buona, dal momento che lui desiderava soltanto una ragazza, l’unica e sola che sapeva tutto quello che aveva passato, perché l’avevano passato insieme. L’unica, tuttavia, che per essere felice doveva portarsi a letto un’altra cinquantina di ragazzi prima di stare un po’ con lui, o almeno fingere che ci tenesse.
« Dicci, Mason, sicuramente avrai già conquistato il cuore di qualche capitolina, ma… cosa si dice al Distretto 1? Qualche bella bambolina ti aspetta a casa? »
« … no » disse flebilmente il ragazzo, in un atteggiamento che sembrava più imbarazzato che scontroso. Per cui, si decise ad aggiungere, seppure controvoglia: « Già parti con le domande scottanti, Augustus? » Jewel gli aveva consigliato di provare almeno a conquistare il pubblico, perché senza sponsor la sua vita non sarebbe durata a lungo, nonostante avesse già un discreto numero di capitolini dalla sua dal momento che il Distretto 1 era stato il primo ad arrendersi durante la rivolta, per poi allearsi con la capitale.
L’uomo dai capelli verdemare rise con apparente calore e gli spettatori in sala dietro di lui. « Preferivi che ci girassi prima intorno? »
Mason fece un sorrisetto che sarebbe dovuto essere accattivante. « Sì, l’avrei preferito. »
« Oh, il nostro macho è un gran timidone! » riprese Augustus, facendo l’occhiolino alle telecamere. « L’esatto contrario della sua compagna! Visto che siamo in tema “donne”, allora, cosa ci dici di Naomi? »
L’altro sulle prime inarcò le sopracciglia. Se la sarebbe dovuta aspettare una domanda del genere. « Noi… andiamo abbastanza d’accordo » rispose, buttando appena un’occhiata dietro le quinte, dove una Naomi contrariata scuoteva la testa.
« Oh, conoscendo lei… immagino » ribatté Flickerman. « Scommetto che il vostro argomento di conversazione preferito siano wurstel e uccelli. »
La maggior parte del pubblico ridacchiò, mentre Mason digrignò i denti e per un secondo la sua finta aria socievole – sempre se così si poteva chiamare – crollò del tutto. « No, Augustus, quello è l’argomento preferito di tua moglie. »
Probabilmente tutto lo studio – o meglio, tutta Capitol City – si zittì e Mason collegò dopo qualche secondo quale immensa cazzata avesse appena detto. La moglie di Augustus era morta durante la rivolta. Jewel gliel’aveva detto. E, inoltre, gli aveva anche raccomandato di andarci piano.
Tornò a buttare un’occhiata nervosa dietro le quinte: la sua mentore quasi sembrava sudare freddo tanto era pallida, mentre Naomi sorrideva soddisfatta. Sì, in fondo aveva fatto quello che lei gli aveva detto: l’aveva ucciso.
Quando tornò a guardare verso l’intervistatore quasi ne rimase spaventato: la sua aria fintamente amichevole era stata completamente sostituita da un’espressione cupa e rabbiosa, completamente in contrasto con il suo abbigliamento colorato.
L’uomo gli strinse un polso saldamente e, guardandolo con occhi di brace, annunciò con un tono molto più freddo di quello che aveva usato in precedenza: « Diamo il benvenuto alla magnifica Clarity Valentine. »
Il tempo dell’intervista non era nemmeno scaduto, ma Mason non poté fare altro che alzarsi e raggiungere il retro del palco, esattamente com’era entrato, con l’elmo sotto braccio e la spada finta che gli pendeva al fianco.
I capitolini accolsero con un applauso poco caloroso i tributi del Distretto 2, che erano saliti sul palco insieme, tenendosi per mano, un po’ confusi per essere stati chiamati prima del tempo.
Augustus lanciò loro un’occhiata in tralice. « Temo di essermi espresso male, adesso è il turno di- »
« Sì, lo sappiamo » lo interruppe Peregrine, accarezzando con il pollice il dorso della mano della fidanzata, per placare il suo nervosismo appena accennato. « La regia ci ha dato il permesso di essere intervistati insieme. »
Un cameramen, al lato del palco, alzò il pollice nella sua direzione in segno di conferma.
Augustus allora con un sospiro esasperato si risedette sulla propria poltrona bianca, lasciando che i due se la sbrigassero da soli con il problema dei posti a sedere, dal momento che ce n’era soltanto un altro. Perry si sedette di fronte al capitolino per primo, poi lasciò che Ty si sedesse in braccio a lui. Il ragazzo la cullò debolmente e questo fece scaturire un verso di tenerezza da parte degli spettatori, che trovarono pane per i loro denti; mentre un misto di nostalgia e rabbia s’insidiò dentro il cuore del presentatore.
Clarity salutò con la mano tutto il pubblico presente in sala, sorridendo radiosamente. Ecco come avevano deciso di impietosire e conquistarsi le simpatie di Capitol City: comportandosi come se fossero più innamorati che mai.
« Anche tu sei splendida stasera, Clarity » fece Augustus, aggiustandosi la cravatta abbinata allo smoking per scaricare la tensione. Dopotutto anche lui, esattamente come i tributi, doveva apparire impeccabile.
La diciottenne indossava un lungo vestito aderente completamente fatto di piume di pavone, che viravano dal bianco delle maniche al verde acqua del corpetto al blu scuro della gonna che terminava con un piccolo strascico di piume. La schiena era quasi completamente scoperta, anche a causa dei capelli della ragazza che ormai erano corti ed erano stati lasciati spettinati, decorati appena con una spruzzata di lacca brillantinata. Non aveva accessori perché l’abito già feceva la sua bella figura, eccetto un paio di orecchini d’avorio che le sfioravano il collo.
« Grazie » rispose con gentilezza lei, « Rankine per una volta si è impegnato. »
« Oh! » commentò l’uomo, come se se ne fosse ricordato solo in quel momento. « E’ stato lui a bruciarti i capelli alla sfilata! »
« Già » ribatté la ragazza con una punta di acidità.
Le telecamere inquadrarono tutte contemporaneamente il volto di Mizar Rankine, che in quel momento esibiva un’espressione sprezzante e di superiorità. Accanto a lui, lo stilista Rhymer Fairbrain scosse la testa e ridacchiò sotto i baffi, cosa che fece infuriare il diretto interessato. Il loro battibecco, tuttavia, fu censurato e le telecamere tornarono a riprendere i tributi del Due.
« E tu, Peregrine… » continuò Augustus. « Un abito da… genio? Però, originale! »
« Solo “Perry” » specificò il ragazzo, grattandosi la nuca per dissimulare l’imbarazzo. Effettivamente, anche la stilista di Perry aveva avuto un’idea niente male: aveva vestito il ragazzo proprio da genio della lampada, con i pantaloni larghi che riprendevano il colore del vestito della fidanzata, un gilet bianco lasciato aperto sul petto nudo e un turbante altrettanto bianco ma decorato con una pietra verde acqua e una piuma di pavone. Inoltre, sulla pelle delle braccia erano stati disegnati vari e numerosi ghirigori blu oltremare.
« Ed io soltanto “Ty” » fece invece la compagna. « A entrambi non piace il nostro nome… ecco una delle tante cose che abbiamo in comune! »
« A noi spettatori sembra invece che voi siate diversi come il giorno e la notte » ribatté l’altro con un sorrisetto. « Cos’altro avete in comune? »
« Beh » Perry tentennò leggermente, « sono veramente molte. Non ci piacciono le linguine al peperoncino dello chef del nostro appartamento qui, per esempio. » Il pubblico rise.
« Credo che quella sia una delle sue specialità » disse Augustus. « Potrebbe offendersi. »
Ty fece un gesto con la mano come se stesse scacciando un insetto fastidioso. « Gli ho già urlato contro le peggiori parole per avermi fatto andare la bocca in fiamme, non preoccuparti. E’ quell’idiota di Rankine che le adora e continua a ordinarle per farmi incazzare! »
Stavolta, però, le telecamere non ripresero lo stilista, sia perché avevano paura di ciò che sarebbe potuto succedere, sia perché oramai i buttafuori stavano cercando di trascinare Mizar e Rhymer fuori gli studi per finire la loro discussione interminabile.
Gli spettatori risero ancora; stava andando bene, anche se dovevano portare l’intervista su un altro tono prima che scadesse il tempo. Avrebbero conquistato tutti, ne erano certi.
« E… piccola curiosità » riprese il conduttore, « chi tra voi due comanda? »
Ty e Perry si guardarono per un millesimo di secondo.
« Io. »
« Lei. »
Il pubblico applaudì calorosamente.
« Ah, è risaputo che le donne comandano sempre » commentò l’uomo. « Tornando alle cose in comune… cos’altro sapete dirci? »
« La lista è lunga » riprese il ragazzo, « ma ci sono sicuramente tre cose che vanno citate. I loro nomi sono Noah, Derek e Meredith. »
Ty in quel momento sembrò lasciar crollare la sua aria di ragazza forte; le iniziarono a lacrimare gli occhi decorati di blu e lei dovette asciugarsi le lacrime con l’indice prima ancora che cadessero. Non pensava che tutto ciò le avrebbe fatto quell’effetto. Perry la strinse a sé, mentre Augustus si affrettò a domandare: « E chi sono Noah, Derek e Meredith? »
« I nostri figli gemelli » sussurrò Ty, reprimendo un singhiozzo. Chissà se li stavano guardando in quel momento, chissà se avevano avuto anche solo il tempo di capire.
Tutta la platea esplose in un’esclamazione di sorpresa, in molti si coprirono con le mani le bocche spalancate. Anche Augustus per qualche istante non seppe cosa dire.
« Genitori giovani… » borbottò l’uomo, ripensando a quanto la sua Juliet desiderasse un bambino, prima di morire, e anche a quanto ingiusta fosse stata la sua vita: quasi tutti i suoi colleghi erano stati allietati da nuove entrate in famiglia. Jean-Paul Carter, suo fratello Hadrian, suo cugino Alexander… Tutti felici e contenti, a Capitol City. Tutti tranne lui.
« Combatteremo perché uno di noi due torni a casa » riprese Perry, ignorando lo sguardo penetrante di Augustus e i soffi dei capitolini nei fazzoletti. « Lo giuriamo. »
Fu così che si concluse la doppia intervista dei tributi del Distretto 2, che si alzarono dalla poltrona e furono salutati con un lungo applauso, prima che il conduttore chiamasse sul palco la ragazza del Tre.
« Dopo questo momento di commozione generale, chiamiamo sul palco... » Augustus si bloccò, e fu costretto a recuperare la cartellina con i nomi dei tributi perché quello era estremamente lungo e complicato, « ...Natálie Raphaëlle Maëlys Clothilde Dawson. » Sperò di averlo pronunciato bene.
La ragazza che salì sul palco era tutt’altro che una figura femminile. La platea rimase interdetta, nessuno capiva perché indossava un abito chiaramente da uomo. Si trattava di uno smoking che le stava abbastanza largo, come se invece di risaltare le sue poco accentuate forme lo stilista avesse voluto fare il contrario; l’ampia giacca, abbottonata alla meno peggio, le cadeva addosso come il saio di un monaco. Era fatta completamente a quadri, bianchi e neri, come se volesse richiamare una scacchiera e, a sua volta, la risaputa intelligenza dei tributi del Distretto 3. Anche i pantaloni richiamavano quel motivo e le stavano altrettanto larghi. Un paio di scarpe nere e lunge, sempre maschili, completava il quadro.
Tutt’altro era stato pensato per il suo viso: i capelli di Natálie erano raccolti in alto, in una grande e ordinata crocchia bionda, piena di quelle che sembravano forcine fatte di cristallo e che le illuminavano la pelle altrimenti smorta. Uno strato di ombretto grigio e delle ciglia finte bianche conferivano al suo sguardo freddo e determinato un tono misterioso, leggermente rovinato dal resto dell’abbigliamento.
« Che piacere, cara » disse Augustus, invitandola a sedere e ridacchiando piano. « O forse dovrei dire caro? Cosa diavolo ha combinato il tuo stilista, Natálie? »
La diretta interessata arricciò le labbra, probabilmente trattenendosi dal rispondere in modo sgarbato. « Non lo chieda a me, Augustus. Quando sono entrata nel camerino c’era quest’abito e mi hanno costretta a indossarlo perché non c’era tempo. Credo che a me e al mio compagno di distretto abbiano scambiato i vestiti… aspetti di vedere lui, lì potrà davvero mettersi a ridere. »
« Oh, ma non mi dare del lei, Natálie, siamo tra amici » commentò l’intervistatore, rivolgendosi poi al pubblico: « Vero, gente? » Ebbe un applauso di risposta, ma dopo tornò a concentrarsi sulla ragazza.
« Preferisco di sì, invece » ribatté quella, appoggiando le mani intrecciate sulle gambe, composta. « Negli Hunger Games non ci sono amici. »
Quella risposta raffreddò l’atmosfera, ma da un lato era normale: ovunque ci fosse Nate, lì c’era anche il gelo, come se lei fosse capace di portare l’inverno con sé.
« Questo è vero » fece l’altro, grattandosi un po’ la barba verdemare, « ma a conquistarsi delle simpatie non c’è nulla di male. »
La diciassettenne si strinse nelle spalle. « Questo è un problema mio, se permette. »
« Va bene » le concesse Augustus, ormai già irritato, « passiamo alle domande vere e proprie, aspettando di vedere il vestito da donna del tuo compagno di distretto. Che ne pensi di Capitol City? » Domanda calcolata, comunque. Il Presidente aveva voglia di sentire il pensiero dei tributi, per decidere chi catalogare come “eliminabile” o meno, e l’intervistatore ne era pienamente cosciente.
Nate arricciò ancora le labbra e strinse di più le mani, come se davvero si stesse trattenendo per urlargli contro chissà cosa. « E’ molto diversa dal mio distretto. »
« Su questo non c’erano dubbi! » rise Augustus. « In senso buono o no? »
« In nessun senso » replicò la più giovane, guardandolo fisso negli occhi. Per un attimo molto breve l’uomo si sentì inquieto, sembrava che tutto l’odio del mondo fosse racchiuso in quelle iridi più azzurre del ghiaccio stesso. « Sono diverse come la follia e la lucidità. E forse saprei anche dire chi è cosa. »
Tra gli spettatori ci furono dei mormorii indistinti, che non aiutarono a migliorare il clima ormai saldamente instaurato. Augustus si aggiustò nuovamente la cravatta; ormai quel piccolo gesto era il sintomo della sua insofferenza. « Dunque » riprese, ignorando l’ultima considerazione dell’altra, « chi hai salutato prima di partire? »
Nate si raddrizzò sulla poltrona. Non voleva parlare della sua famiglia. Non avrebbe voluto parlare e basta, in realtà, ma ormai c’era dentro fino al collo. « Tutti. Ho salutato tutti: Clarissa, Price, Babilon, Chris, Tonio… anche se sento di aver dimenticato qualcuno. »
« Senti di aver dimenticato qualcuno? » ripeté Augustus, che non aveva neanche idea di chi fossero le persone citate dalla ragazza.
« Qualcuno di importante » specificò, come se stesse pensando ad alta voce. « Forse è soltanto colpa di Latasha che mi confonde le idee. »
« Chi è Latasha, Natálie? » domandò l’uomo, ormai stanco di provare a portare quella ragazza sotto una buona luce – sempre che l’avesse mai voluto fare.
Nate sembrò bloccarsi letteralmente. Spalancò gli occhi e guardò verso un punto imprecisato dello studio. « Lei è mia… » tentennò, « … sorella. » Improvvisamente quella parola le suonò strana. Se la ripeté in mente finché il suono non cominciò a sembrarle assurdo. Sorella, sorella, sorella.
Latasha è mia sorella? Chi è Latasha? Io ho una sorella?
I suoi pensieri furono interrotti dall’intervistatore, che la riportò alla realtà. « E lei non l’hai salutata? »
« No. Posso ammettere di odiarla » cercò di inventarsi una scusa, sfoggiando il suo solito atteggiamento di superiorità, sebbene quella fosse una bugia solo a metà.
« Bene, i minuti a nostra disposizione sono purtroppo scaduti » rivelò l’uomo.
Nate si alzò ancora prima che le venisse richiesto. « E’ stato un piacere » disse, altra bugia che era tradita dal tono volutamente disgustato.
« Adesso invitiamo sul palco – ammetto che non ne vedevo l’ora – L. Lawliet! » annunciò poi Augustus.
I capitolini in studio applaudirono ancora prima che il ragazzo appena chiamato salisse sul palco, ansiosi di vedere il suo costume da donna – quello che in realtà sarebbe dovuto andare alla sua compagna di distretto. Non che fosse strano vedere un uomo vestito con abiti femminili nella capitale, ma lì tutti cercavano solo un pretesto per umiliare i tributi.
L con un sospiro grave si decise a raggiungere Augustus. L’applauso aumentò di volume e ad esso si aggiunsero risatine di scherno e fischi. Alcune ragazze in mezzo al pubblico gridarono: “L, sei il più bello!”, quando invece lo stavano soltanto prendendo in giro.
L non poteva definirsi propriamente bello, non conciato così, almeno. Quello che indossava era anche un bell’abito, ma addosso a lui tutto il quadro cambiava: era un lungo e stretto vestito di seta color ferro, con lo scollo a barca e le maniche lunghe, completamente ricoperto di paillettes e fili argentati. Un abbigliamento da un lato molto elegante, adatto a una persona come Nate. Nate, appunto.
Il suo stilista, per rimediare all’errore dello scambio degli abiti, aveva provato invano a domargli i capelli sparati in tutte le direzioni; alcune ciocche erano ricoperte di gel, mentre altre sembravano addirittura cotonate – no, forse quella era soltanto la vera qualità della sua chioma ispida. Il viso smunto e scavato era stato velocemente decorato con uno strato di crema colorata per dargli più colore, ma comunque le sue occhiaie perenni erano ancora in bella vista.
L aveva fatto di tutto per evitare quella tortura – l’abito infatti gli stava talmente stretto che una parte della cerniera sulla schiena era rimasta aperta – ma mancavano soltanto pochi minuti alla sua intervista e aveva dovuto indossarlo per forza dal momento che qualcuno gli aveva nascosto i suoi adorati jeans. Aveva persino considerato l’opzione di restare in canotta e mutande, ma aveva già sentito le urla di un altro tributo che minacciava di rimanere nudo pur di non indossare un completino rosa.
Per fortuna non l’avevano costretto a indossare dei tacchi vertiginosi, tant’è che da circa cinquecento secondi – li aveva contati lui stesso – stava camminando a piedi scalzi. Non che a lui dispiacesse, dal momento che quella era più un’abitudine che un evento occasionale.
« Vieni, L » lo incitò Augustus, ridacchiando insieme alla platea, « accomodati pure qui. »
L fu tentato di rimanere in piedi, perché con quel vestito gli era impossibile qualsiasi tipo di movimento. Tuttavia, riuscì ad alzarselo un poco con le mani per potersi finalmente sedere nella sua posizione tradizionale, ovvero con le ginocchia al petto e le mani su di esse. Ciliegina sulla torta – ciliegina che in quel momento avrebbe mangiato volentieri –, i suoi occhi grandi e indagatori erano puntati sull’obiettivo delle telecamere, come se stesse guardando più gli spettatori a casa che quelli lì presenti.
Il pubblico non smise di fare commenti irrisori, ma al ragazzo tutto ciò importava meno di zero. Una percentuale nulla, secondo la sua opinione.
Il loro quoziente intellettivo si abbassa di secondo in secondo, pensava, con un sospiro e un sorrisetto intelligente. Gli ci vorrebbe proprio un bel lavaggio del cervello, in senso letterale.
« Perché ti siedi così? » domandò l’intervistatore, sinceramente curioso e un po’ sconcertato.
L scrollò le spalle. « Mi siedo sempre così. »
Augustus preferì sorvolare. « Sai che qui tutti ci stiamo domandando perché il tuo nome si limiti ad una sola lettera dell’alfabeto? »
« Lo so » rispose lui, portandosi il pollice al labbro, « è fatto a posta, per farvi rimanere a rimuginare per ore e ore. »
« Ah » fu capace di commentare il maggiore, tamburellando leggermente con le dita sul bracciolo della propria poltrona. « E il tuo vero nome quale sarebbe? Leonard? Lewis? »
L ridacchiò piano, come se quella fosse una battuta. « Segreto. »
« Visto che sei così misterioso e ostinato » proseguì l’uomo, già stufo dell’atteggiamento di quel tipo, « andiamo avanti con le domande serie. I tuoi genitori devono essere sicuramente di discendenza orientale, giusto? »
« Sì, potrebbe darsi » disse L, come se ci stesse riflettendo sul serio. « Ma potrebbe darsi anche di no. Effettivamente, però, la percentuale di probabilità è molto alta… circa il quarantanove per cento. »
« Perché quarantanove? » chiese di getto Augustus.
« Ti dovrei stare a spiegare diversi e complicati calcoli della probabilità » spiegò il più giovane, « ma non abbiamo molto tempo. Ti basti sapere che potrei benissimo avere soltanto un genitore con discendenze orientali, o magari entrambi, o magari nessuno dei due, c’è da considerare anche la ramificazione dell’albero genea- »
« Va bene, va bene » lo interruppe l’altro seccamente. « Sinceramente non interessa a nessuno. »
Mi sembra ovvio, pensò L in quel momento, mordicchiandosi l’unghia del pollice.
« Ti capita spesso di ragionare in termini di percentuale? » riprese il presentatore, guardando al timer vicino alle telecamere per capire quanto mancasse alla fine dell’intervista.
« Molto spesso » replicò il ragazzo.
« E, secondo te, qual era la percentuale di vittoria dei distretti su Capitol City? » Augustus alzò lo sguardo sul posto d’onore del Presidente Adamas Rigel, cercando una muta approvazione per quella domanda che, probabilmente, ottenne. Dopotutto ricavarsi un po’ di stima dai piani alti non avrebbe fatto per niente male.
« Minima, assolutamente. » Il tono con cui lo disse fu un po’ troppo strascicato, tanto che il conduttore non capì se stesse mentendo, se stesse dicendo la verità e confermando la potenza di Capitol o se stesse accusando la capitale. Il pubblico sembrò non cogliere le possibili e velate sfumature e applaudì, senza una minima traccia di sarcasmo, a differenza di qualche minuto prima.
« Sicuro » commentò quindi l’uomo, tuttavia continuando a scrutarlo con i suoi occhi verde acqua. Decise che dopo la fine del programma avrebbe fatto ascoltare la registrazione di quell’intervista a qualche psicologo, così da smascherarlo in caso di insinuazioni pericolose.
« Adesso ti dobbiamo proprio salutare » fece infine, con voce fintamente dispiaciuta. « Chiama un principe azzurro, se non riesci a muoverti con quel vestito. »
L non rispose e se ne andò con un sorrisetto un po’ ambiguo e impertinente, ormai capace di muoversi in quel mare di paillettes. In fin dei conti, però, fu soddisfatto di come era riuscito a evitare le domande sul suo passato.
Augustus non ebbe neanche il tempo di chiamare il tributo successivo che quello, o meglio quella, si presentò immediatamente sul palco, camminando a grandi passi nella sua direzione.
« E’ il mio turno, sì? » fece con un grande sorriso nervoso. « No? Oddio, ho sbagliato! »
La ragazza fu in procinto di tornare indietro con la stessa velocità con cui era entrata, ma il presentatore la acciuffò per un polso prima che sparisse dietro le quinte.
« Sì, cara, è il tuo turno » ridacchiò, seguito dal pubblico. « Ecco a voi, signore e signori, Beryl Straw! »
Beryl si illuminò e si affrettò a raggiungere la propria poltrona bianca, scortata dall’uomo. Indossava un lungo abito fatto completamente di seta trasparente ma ornato in gran parte da perline azzurre e argentate, disposte in verticale. Più sul basso, l’abito si apriva in uno spacco e terminava con uno stile a sirena, tant’è vero che anche la parte superiore richiamava l’affascinante figura mitologica. Sul seno ancora poco accennato, poi, le perline si univano a formare quelle che sembravano delle grosse conchiglie simmetriche. L’abbigliamento di Beryl era composto soltanto da questo: i capelli le erano stati lasciati liberi, con alcune ciocche bagnate, i piedi erano scalzi e il trucco del viso si limitava a un po’ di ombretto azzurrino sulle palpebre che le faceva risaltare il colore degli occhi. Beryl apprezzava molto quell’abito, se n’era innamorata dal primo istante e Rhymer ne era stato felicissimo perché aveva pensato per lei qualcosa che la facesse brillare senza riempirla di lustrini e ornamenti inutili. Inoltre, le aveva lasciato tenere il suo portafortuna, un ciondolo a forma di barca, che le ricordava tutto ciò che per lei era “casa”.
« O dovrei dire Straw-Berryl? » commentò Augustus, interrompendo l’applauso degli spettatori e prendendo posto accanto a lei. « Scommetto che già in molti ti hanno fatto notare che- »
« Sì, esatto » rispose prontamente la quattordicenne, incrociando le gambe sulla poltrona. Molti non avrebbero apprezzato quel portamento, ma molti in platea si addolcirono per il suo atteggiamento da ragazzina. « Ho perso il conto delle persone che mi chiamano “Fragola”, “Fragolina”, “Berry”, “Strawberry”… a volte è frustrante, ma a me non dà fastidio, è come avere qualcosa che ti segna per sempre. Beh, è anche vero che mi fa strano pensare che la gente mi associ alle fragole, a me piacciono molto le fragole, però Chord per esempio preferisce le ciliegie, anche se sono più rare. A volte andiamo a comprarle insieme e il signor Ross ce ne conserva sempre una porzione in più perché sa che la frutta ci piace molto. E poi- »
« Beryl, aspetta » tentò di bloccarla Augustus, « chi sono Chord e il signor-? »
« Chord è tutto per me » ribatté velocemente, avvampando, « mio fratello, il mio migliore amico, mia madre, mio padre, il mio raga- no, il mio ragazzo no, anche se… no, no, siamo consanguinei. Cioè, non siamo veri e propri consanguinei, i nostri genitori sono sposati ma Seth non è mio padre e mia madre non è sua madre. Il mio vero papà è morto durante la rivolta e mi manca molto, però Seth non è male, anche lui vuole molto bene alla mamma e l’ha aiutata tantissimo dopo che io e lei siamo arrivate nel Distretto 4. Sai, io amo il mio distretto, mi piace un sacco andare a pescare con Chord, anche se in verità è lui a pescare, io lo guardo soltanto e gli parlo e a volte lui dice che faccio spaventare i pesci, ma non è vero, o forse sì… uhm, lui sa suonare anche la chitarra! Una volta mi portò in spiaggia all’alba e mi fece ascoltare una canzone bellissima- »
Augustus tentò di approfittarne di quella brevissima pausa per poterle finalmente fare una domanda e bloccare il suo monologo, ma quella riprese a parlare ancora prima che potesse accorgersene.
« Non mi ricordo le parole » fece lei, corrugando la fronte, « però la melodia era tipo na na-na, na na na, na-na-na, naaaa. Va bene, sono stonata, però dovresti ascoltarla anche tu, è una canzone molto bella che parla d’amore. Tu sei stato mai innamorato, Augustus? »
Eh, bella domanda. Lo era stato eccome, ma non capiva proprio cosa fosse successo dal momento che di solito era lui a fare le domande.
« Io non so ancora bene cosa sia l’amore, però sono sicura che è quel sentimento che ti fa battere il cuore all’impazzata e non ti fa ragionare, come se fosse una forza più grande di te. A volte vorrei dire “ti amo” a una persona speciale, però non so proprio a chi dirlo. Cioè, in realtà lo so, però non posso. No, no, non posso per niente. Mi piacerebbe ma… no. Anche se… no, no, glielo dirò soltanto quando tornerò a casa. Perché io proverò a tornare, lo giuro! »
Per quanto la situazione fosse drammatica, Beryl continuava a sorridere e parlare con disinvoltura. Il presentatore la stava fissando con un viso sconcertato e provava a interromperla in tutti i modi, ma finora tutti i tentativi erano stati vani. Il pubblico pendeva dalle sue labbra, anche se ogni tanto si perdeva nel discorso o ridacchiava per le sue considerazioni ad alta voce.
« Ho anche preso un dodici alla sessione privata! Non me lo sarei mai aspettata, quando sono entrata e ho visto quel cubo sono rimasta un bel po’ di tempo a fissarlo senza sapere cosa fare, poi ci ho giocato un po’ ed è partita una canzoncina strana… era una sorta di meccanismo, però sono contenta che gli strateghi l’abbiano apprezzato, pensavo di essere andata da zero… oddio, e pensare che c’è davvero stato uno zero! Non ricordo chi l’ha preso, però mi dispiace molto, non deve essere bello, è come partire svantaggiati sin dall’inizio. Anche se devo ammettere che gli strateghi hanno pensato a una sessione privata davvero strana, ci hanno addestrato per ben tre giorni e poi ci hanno fatto fare qualcosa di assolutamente diverso… spero tanto che le cose che ho imparato mi serviranno, in arena, tipo riconoscere le piante… prima non ne ero proprio capace, e poi quell’istruttore era simpatico, anche se il capo-addestratore era un po’ strano. Ovvio, comunque, qui a Capitol sono tutti un po’ strani. »
Le sfuggì una risatina e Augustus, guardando il timer vicino a una delle telecamere, decise che era arrivato il momento di congedarla. Già non ne poteva più di quella ragazzina.
« Allora, Beryl, ti ringraziamo per la tua simpatia, ma adesso- »
« Comunque i capitolini sono tutti strani, però tutti diversi l’uno dall’altro. Per esempio il mio stilista, Rhymer, è una persona fantastica! Mi ascolta sempre e cerca sempre di farmi sembrare bella… questo vestito è stupendo, non trovi? Mi ricorda il mare e le sirene, anche se non esistono… credo. Beh, sì, chi lo dice che non siano mai esistite? Comunque Rhymer e Mizar dovrebbero proprio fare la pace, non mi va giù che abbiano litigato per una sciocca bugia, loro si- »
Prima che potesse finire la frase, mentre le telecamere inquadravano nuovamente i due stilisti tanto discussi che dopo un’interminabile battibecco erano tornati in platea – quello con i capelli blu elettrico guardava Beryl con un misto di affetto, divertimento e rimprovero, il rosso invece aveva stretto i pugni e stava cercando in tutti i modi di incenerire la ragazza, provando a ignorare l’altro accanto a sé –, il compagno di distretto della quattordicenne, Ocean Keats, salì sul palco e si caricò la ragazza in spalle, sparendo dietro le quinte così com'era venuto, per poi ricomparire con nonchalance e un sorriso sereno dipinto sulle labbra.
Con un fazzoletto di seta il presentatore si asciugò la fronte imperlata di sudore, attento a non far scambiare il trucco, esprimendo un muto ringraziamento verso il diciassettenne.
« E dopo la spumeggiante Straw-Berryl, ecco a voi Ocean Keats! » annunciò, poggiando una mano sulla spalla dell’interessato. I capitolini lo applaudirono e le donne si scambiarono commentini estasiati; del resto, ne avevano tutte le ragioni. Complessivamente, Ocean era un bel ragazzo già di suo, ma con quell’abito aveva assunto un’aria di gran lunga più affascinante.
Si trattava di un costume da capitano di una nave: aveva i pantaloni bianchi, un gilet rosso con bottoni dorati, abbottonato sopra una camicia altrettanto bianca, al collo una corta cravatta nera, una lunga giacca nera con gli stessi bottoni del gilet e il classico cappello da capitano. Dulcis in fundo, tra le sue labbra pendeva una pipa ancora spenta.
« Grazie per la presentazione, Augustus » replicò il giovane, prendendo posto accanto all’intervistatore. « Per un momento devo ammettere che mi sono sentito davvero importante, oltre che il salvatore della situazione. Sai, Beryl è una chiacchierona e ci vuole sempre qualcuno che la freni, ma ti assicuro che è una persona meravigliosa. »
Augustus fece un sorrisetto obliquo. « Sì, questi sono i minuti della tua vita, a quanto pare. Quelli che determineranno, inoltre, le possibilità della tua morte imminente. Sai, gran parte di esse dipende proprio da Capitol City. »
« Lo so perfettamente » disse Ocean, recuperando la pipa tra le dita per non farla cadere. « Sono… grato… a Capitol City per permetterci di avere almeno una probabilità di vittoria. »
Che bugia, si disse tra sé, fingendo e sorridendo con disinvoltura in direzione della platea, che lo applaudì immediatamente e con calore dopo quell’affermazione.
« Devo dedurre quindi che durante la rivolta la tua famiglia stesse dalla nostra parte? » chiese l’uomo, scettico, accarezzandosi la barba.
Ocean ci mise qualche attimo per rispondere. Non aveva granché idea delle possibili conseguenze, ma valutò che dire di essere dalla parte dei ribelli avrebbe soltanto scatenato l’ira contro di lui, quando invece tutto ciò che doveva fare era attirarsi le simpatie del pubblico e, naturalmente, degli sponsor. « Esatto. »
Altri, lunghi applausi.
« Finalmente qualcuno che ragiona! » commentò Augustus, dandogli una pseudo amichevole pacca sulla spalla. « E, dicci, come hai affrontato la rivolta? »
« Mio padre e mio fratello hanno combattuto… » cominciò lui con la voce un po’ incrinata. Sperava davvero di non cacciarsi nei guai. « Tutti in famiglia siamo stati contenti della vittoria di Capitol, un po’ meno quando sono stato estratto alla mietitura » aggiunse con un sorriso amaro.
« Oh, quindi hai dei soldati in casa » fece l’altro, ignorando l’aspetto drammatico della situazione. « Come si chiamano? »
Ocean cominciò a sudare freddo. « Drayon ed Elijah Keats. »
Augustus rimuginò qualche istante, scrutandolo con i suoi occhi verdemare. « Mai sentiti. »
« Beh » tentò di spiegare sbrigativamente lui, « l’esercito di Capitol City è grande, è impossibile ricordarsi il nome di tutti i soldati. »
Il conduttore, come altri capitolini influenti, squadrarono Ocean per un po’ e soppesarono le sue parole. Frank Hidden, il capo stratega, decise che sarebbe andato a controllare quei nomi per scoprire se effettivamente i Keats avevano combattuto per la capitale o meno. Poi avrebbe agito di conseguenza.
« Dunque » continuò Augustus, poi, « parlando del Distretto 4… cosa ti manca di più? »
« Tutto » rispose Ocean, lanciando uno sguardo di nostalgia verso le telecamere, del tutto sincero rispetto al discorso precedente.
« E c’è qualcuno per cui non vedi l’ora di ritornare a casa? »
Il ragazzo stirò le labbra in un sorriso ancora più amaro del precedente. « Certo che c’è. Leila » disse. « La mia futura moglie. »
I capitolini in studio lanciarono un “oooh” che sembrava dispiaciuto, Ocean non sapeva dire se anche la loro fosse una maschera, esattamente come quella che stava indossando lui. Qualcuno si commosse perfino e lui lo trovò esagerato. Dopotutto, erano stati loro stessi a mandarli a morte, a distruggere la loro vita e a rovinare il loro futuro.
« Le hai davvero chiesto di sposarti? » domandò l’uomo, che si sentiva punto nel vivo tutte le volte che entrava in ballo l’argomento “amore” o “matrimonio”. « Insomma, sei così giovane… »
« No, non gliel’ho ancora chiesto » precisò Ocean. « Però sono sicuro che lei è la persona giusta, non c’è nessun altro con cui vorrei trascorrere il resto dei miei giorni. Se… se dovessi tornare… la sposerei appena possibile. Io la amo, Leila. »
A quel punto decisamente i pianti e gli applausi aumentarono a dismisura. Come da copione, gli abitanti della capitale erano assai affezionati a quelle storie strappalacrime e si commuovevano come se stessero guardando un film romantico al cinema. Saffra e Pomeline, rispettivamente la sua stilista e la sua accompagnatrice, gliel'avevano detto e Ocean si sentì sollevato nell'aver seguito il loro suggerimento, seppur espresso con tutta sincerità.
« Questo ti fa onore » borbottò Augustus, constatando che anche il tempo della sua intervista era scaduto. « Spero proprio che tu riesca a vincere per sposare la tua ragazza, così da poter essere felici e contenti. »
C’era un che di falso e viscido in quella frase, come tutte le cose che Augustus diceva, ma Ocean non vi badò. Si alzò dalla poltrona e fece un piccolo inchino, per poi lanciare il cappello da capitano in mezzo a un gruppetto di capitoline nella platea, che quasi si presero a capelli per accaparrarsi quell’omaggio del ragazzo, il quale dopo un’ultimo sorriso di speranza si avviò nuovamente dietro le quinte per lasciare spazio al prossimo tributo.
Anche i meno perspicaci poterono accorgersi che a dispetto del suo atteggiamento gentile e composto tutto, nel suo sguardo, sembrava urlare: tornerò!

 

 

Essere innocenti è pericoloso perché non si hanno alibi.
(
Boris Makaresko)













 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Il copia-incolla è un'arte.
Come da copione, sveliamo l'indovinello del precedente capitolo, prima che ce ne scordiamo: Lucius Crane è ispirato a Robert Downey Jr, Jean-Paul Carter a Jude Law e Gilbert Von Krapfen a Chris Evans. Quindi la nostra cara _lu vince un premio per la sua Nymeria. ♥
Ora ci prendiamo qualche momento per esporvi il Cisalpina Tour che le pandaivols hanno indetto. Prima di tutto: che cos'è il Cisalpina Tour? Siccome siamo fighe abbiamo stabilito che era meglio scrivere le interviste in blocco e suddividerle, in modo da postarle tutte a distanza di un breve lasso di tempo, piuttosto che far aspettare cent'anni per ogni capitolo. Purtroppo, però, questo ha avuto il suo lato negativo e avete dovuto aspettare di più per leggere il nuovo capitolo.
Le date, ricapitolando, sono:
05 APR - GENUE
12 APR - MITOD
19 APR - ESTATHEF
Ogni nome della "tappa" ha un suo significato. Il "genue" era in riferimento a Beryl e Ocean, che sono i genui supremi, di fatti le pandaivols hanno deciso che la loro ship si chiamerà proprio Genui, così come la ship di Djibril e Louis (due personaggi di pandamito e Martezia, appartenendi alla fanfiction Beautiful Walking Disaster, che se non seguite siete proprio dei pandracchi) viene chiamata Cosini. Il termine "genue" inoltre è stato coniato proprio dalle pandaivols in un momento della loro dislessia acuta, in quanto la parola "geni" (vedi: Perry) era proprio impossibile da pronunciare in quel momento.
Ora sta a voi capire il perché dei nomi delle altre tappe.
Comunque sia per equilibrare ai lunghi periodi senza capitoli, le pandaivols hanno iniziato alcune raccolte di flashfic, delle sorte di spin-off sul passato degli altri personaggi secondari. Per ora vi sono Bianca come la neve e rossa come il sangue del vicino su Adamas Rigel e Randy Wane e Butterflies and Hurricanes su Mizar Rankine e Rhymer Fairbrain.
Non provate a lamentarvi col fatto che "ma mi mancano i tributi", perché le raccolte sono fighe, solo noi siamo le originali che le facciamo e siete voi gli screanzati che non ce le cagano, visto che sono importantissime per la fanfiction, se volete capirci qualcosa. Inoltre le flashfic consentono di avere punti bonus per gli sponsor. ♥
Vi lasciamo dicendo che Ivola doveva andare a vedere Divergent e la prossima settimana partirà, lasciando Mito da sola al freddo e al gelo. Ovviamente sarà Ivola a sentire di più la mancanza della propria partner, perché non riesce proprio a stare senza di lei, dedicandole ogni attimo della sua vita, elogiandola per la sua bellezza, la sua intelligenza, la sua bravura e per il fatto che sia infinitamente più brava di lei a scrivere, calcando sempre più il fatto che mentre Mito riceverà un premio Nobel per la pace, Ivola si ritroverà a fare la barbona, senza soldi né lavoro, mangiando scatole di fagioli sotto i ponti. (Questo ovviamente l’ha scritto Mito, in realtà sarò io a mancarle di più perché senza di me non sa come vivere, ndIvols).
Quindi, cosa accadrà a Nymeria? Quanto sono swag L e Nate che si sono scambiati i vestiti per sbaglio? Quanto sono shippabili i Rhyzar? Quanto è l'amore, Beryl? Quanto vi è cascato l'angst quando si scopre che uno dei Genui è già impegnato? Lucius Crane viene veramente da Roma? Riuscirà Lucius Crane a portarsi a letto la cara Naomi H. Free oppure l'ha già fatto? Ma c'è veramente ancora qualcuno che pensa che Augustus sia il padre di Caesar, davvero? Chi sarà mai il misterioso tributo che minacciava di andare nudo a costo di non indossare il completo rosa?
Lo scoprirete qui, nella prossima puntata di Il sangue... del vicino... è sempre più rosso! #feellikeChrisMcLean
Bao e cotolette, ce se vede il 12 con MITOD!

 
pandaivols.


 

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Capitolo 6
*** Fifteen thousand people scream – Svolgimento. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

Fifteen thousand people scream.


Svolgimento


.




 

I was calling your name
But you would never hear me sing
You wouldn’t let me begin.

 [ Falling down - Muse ]


 

 

Salutato Ocean Keats, Augustus si allentò la cravatta verdeacqua, pronto a chiamare « L’incantevole Jamie Light Emily Sunders! » sul palco.
Quando Jamie entrò in scena, era veramente incantevole: aveva silenziosamente pregato Ice, la sua accompagnatrice albina, per indossare le sue punte e quella l’aveva accontentata. I capelli castani di Jamie erano fermati da un diadema e tirati indietro in una treccia a spirale che finiva in uno chignon a forma di fiore. Il viso era cosparso da uno spesso strato di cipria bianca, come tutto il corpo, pieno di glitter. Gli occhi ambra erano enfatizzati da un trucco a forma di ali di cigno che le occupava tutta la fascia degli occhi, coi colori neri e argento. Al collo portava il nastro di raso con il ciondolo a forma di punte da ballerina come portafortuna e indossava un body stretto a cuore, ricoperto completamente da piccole piume bianche.
« Guardate, il nostro piccolo brutto anatroccolo si è trasformato in un cigno! » esclamò, ma il commento non toccò minimamente la serenità della quattordicenne. « Il tuo abito è un tributo alla nostra cara Constance Lovestock? »
I riflettori inquadrarono fra le file d’onore la moglie del potente Menenius Snow, che stavolta non indossava il suo solito copricapo a cigno, bensì era ornata di gioielli e i capelli castani erano coperti da una riccia parrucca bianca piena di ragnatele, in cui vi era incastonata una pomposa corona, che la faceva somigliare ancor di più a una regina. Si reggeva il pancione, sorridendo dolcemente alla tributa del Distretto 5, sinceramente colpita.
Augustus si sedette sulla comoda poltrona, ma, osservando che l’altra restava in piedi, in una posa classica e raffinata, cercò di attirare la sua attenzione: « Jamie, hai intenzione di stare in piedi tutta la sera? » ridacchiò.
La castana fece un leggero inchino nella sua direzione, che lo lasciò confuso, per poi inchinarsi più profondamente verso il pubblico. E a quel punto iniziarono le danze.
Jamie prese davvero a ballare, elegantemente, come un uccello che vola a primavera, come le onde calme del mare che si trasformano in spuma.
Non poteva parlare, così danzava e raccontava la sua storia: i suoi ricordi iniziavano da quando la sua intera famiglia – madre, padre e le due sorelle – venne uccisa dall’esercito di Capitol City durante i primi anni di rivolta. Prima di quell’evento, il buio. Jamie mostrava la sua salvezza in quella caduta, che l’aveva fatta separare dal resto della sua famiglia, che le aveva fatto incontrare quell’anziana signora di nome Mealh, che poi l’aveva nascosta e accudita. I Giorni Bui erano stati davvero privi di luce, aveva vissuto senza corrente elettrica, nascosta sotto terra, scampando all’esplosione della centrale nucleare. Al ritorno in superficie, pochi sopravvissuti e la costante paura di non poter avere figli. Ma Jamie raccontò coi suoi movimenti fluidi anche di come era riuscita a trovare la serenità in tutto il resto della sua vita, dove non trovava il bisogno di parlare, dove veniva discriminata, dove non giudicava nessuno.
Quando finì, fece di nuovo alcuni profondi inchini e un boato di applausi esplose tra la folla di capitolini, ove alcuni si erano lasciati sfuggire qualche lacrima per quella danza, tra cui la nominata Constance.
« Voglio darle il mio sponsor » sussurrò al marito, al suo fianco.
L’uomo, annoiato, ci rifletté un poco. « Si potrebbe fare » mugugnò, « in fondo ha preso un bell’otto alla sessione. »
Augustus, sinceramente sconvolto e confuso, cercò di riprendersi, frustrato da tutti quegli applausi, e tossì per interrompere quel momento e riprendere la voce che la ragazza del Cinque sembrava avergli portato via.
« Insolito » commentò. « Ma non indugiamo, chiamiamo sul palco colui che abbiamo conosciuto come “il ragazzo a cui giravano gli elettroni”: un bell’applauso a Jason Bennet! »
Il moro entrò vestito con un abito ottocentesco: un frac blu scuro che si divideva in due punte sul retro, sotto un panciotto bianco, dei pantaloni di stoffa beije a vita alta e degli stivali da fantino; sul capo teneva un cilindro, al collo una cravatta bianca piena di merletti e in mano un bastone da passeggio.
Dopo una stretta di mano, i due si sedettero l’uno di fronte all’altro e Augustus sperò che almeno lui parlasse, non come la sua compagna.
« Allora, Jason, hai fatto colpo su molte donne alla sfilata » strizzò l’occhiolino a lui e alla folla, nella quale alcune donne si lasciarono sfuggire qualche gridolino eccitato. « Ma passiamo alla tua famiglia e non al tuo aspetto. Mi è giunta voce che siete numerosi a casa. »
« Ne eravamo di più » ammise, sincero, con una scrollata di spalle. Augustus inclinò il capo, spronandolo a continuare, mentre la nostalgia del passato si insinuava nel cuore del riccio. « Prima della rivolta eravamo in otto. »
« Una rivolta che vi ha auto-distrutti » lo interruppe. Jason fulminò il presentatore con uno sguardo, ma quello non vi badò, per poi continuare: « Tutti maschi? »
« Tutte femmine. »
« Non ti invidio. Io con un fratello sono fin troppo a posto » ridacchiò, seguito dal pubblico.
Jason non sapeva cosa trovarci di tanto divertente in quella frase, ma, paziente, proseguì il suo racconto: « Mio padre, mia madre, Jane, io, Elizabeth, Mary, Kitty e Lydia. Ci mantenevamo col lavoro da bibliotecario di mio padre, non che mia madre ne fosse contenta. »
« E poi, cosa successe? » chiese il presentatore, fingendosi interessato.
« Mia madre, Kitty e Lydia sono morte, uccise. Non avevamo un gran legame, ma erano pur sempre parte della famiglia. » Jason non riusciva a fingere un tono particolarmente grave per quelle morti, consapevole che, in fin dei conti, aveva odiato la madre e le sorelle per i loro comportamenti frivoli e capricciosi. Si considerava inopportuno a pensare che dopo che se ne fossero andate aveva vissuto meglio, ma era pur sempre la verità. « Mio padre è morto nell’esplosione della centrale nucleare e Mary… » lasciò la frase in sospeso, stavolta rattristandosi sul serio, « beh, lei non è più la stessa, non può più… »
Si accarezzò il collo, proprio nel punto dove aveva la grossa voglia rosso scuro sotto al mento, come sempre quando era pensieroso, ma che ora gli doleva; pensò che forse anche ad Elizabeth ora stesse facendo male, che soffriva come lui al pensiero di Mary che pian piano si riduceva sempre più a un vegetale. Non riusciva a trovare le parole giuste per parlare e rifletteva sul fatto che forse era meglio omettere l’incontro della sua famiglia col colonnello ribelle Hugo Fitzwilliam e dell’amico Charles Bingley. Non voleva mettere nessuno in pericolo con la storia dei ribelli, soprattutto ora che Jane era riuscita ad aprirsi con Bingley e a trovare in lui un appiglio, dopo la morte di Fitzwilliam.
« E quella voglia? » domandò Augustus, risvegliando il diciassettenne dai suoi pensieri.
« Oh, questa » la indicò, alzando le spalle. « Non lo so, dopo l’esplosione è misteriosamente comparsa sia a me che ad Elizabeth. Pensavamo fosse un semplice neo, ma poi pian piano si è ingrandita. »
« Come mai? »
« Forse perché siamo gemelli » rispose sinceramente, dicendo la prima cosa che gli era passata per la mente. Il pubblico trovò quella frase stramente divertente, ma Jason non capì perché ridessero.
« No, nel senso, non hai paura che possa peggiorare? »
Jason trattenne l’istinto di grattarla ancora una volta, lanciando un’occhiata truce a Flickerman. « Beh, ora ne ho. »
Augustus ridacchiò, sadico, e si alzò per salutare Jason, che si allontanò scocciato.
« Dopo Jason Bennet, è l’ora di Wednesday Friday Addams! »
La dodicenne entrò con la pelle più bianca del solito, dipinta a teschio come quella del suo stilista, ma con decori messicani; occhi e labbra erano nero pece, come i capelli raccolti in due lunghe e morbide trecce che le ricadevano lungo le spalle. Nonostante la sua statura, portava un lungo vestito nero, con uno strascico che si prolungava per circa tre metri; era a collo alto, smanicato e aperto per tutta la schiena, dove vi erano delle ossa incrociate tra loro a reggere i due lembi di stoffa. Vi era disegnato tutto l’intero apparato scheletrico, con ossa aggiuntive che creavano un motivo a righe per tutto il vestito e continuava sullo strascico, dando l’impressione di una coda di drago. Le spalline erano costituite da due veri e propri crani e le braccia erano guantate sempre di nero e con lo stesso motivo scheletrico; fra le cui la giovane Addams stringeva la sua cara Maria Antonietta.
Wednesday si accomodò sulla poltrona senza il permesso di nessuno e neanche salutando il pubblico o lo stesso Augustus, che fece una smorfia irritata.
« Devo raccontare la storia della mia vita, vero? » sbuffò, annoiata.
Augustus la guardò di traverso: odiava chi metteva i bastoni fra le ruote al suo lavoro. « Bah, se la ritieni interessante. »
« Mio nonno, in realtà, era un capitolino » iniziò e il presentatore dovette ricredersi, perché a quella storia ora voleva sinceramente stare attento, « ma si fece costruire una villa nel Distretto 6 – ai margini della Zona Ovest, ora distrutta – perché in fondo, diciamocelo, questo posto è pieno di idioti. » La folla protestò, offesa, ma la dodicenne li ignorò e continuò il suo racconto: « Beato lui, è morto. Magari una simile fortuna a me! »
Flickerman sgranò gli occhi, incredulo. « C-come, prego? Fortuna? »
« Certo » confermò la mora. « Magari morissi io, meno male che mi hanno estratta, i primi Hunger Games sono stati così noiosi; forse il Fato voleva che mi estraessero per renderli cruenti come si deve e non una semplice passeggiata nel bosco, com’è stata per quella Jewel Walker. »
Il presentatore diede uno sguardo al pubblico, sinceramente attaccato alla preziosa vincitrice, ma lui si stava divertendo e cercò di reprimere un ghigno. Forse quella ragazzina gli avrebbe dato ciò che voleva: più sangue e dolce vendetta.
« Comunque mi è rimasta mia nonna materna. Lei e mia madre sì che ne sanno di erbe, non come quegli istruttori del Centro, dicevano un mucchio di cazzate. » Il pubblico scoppiò in un boato inorridito e pieno di proteste, che Wednesday continuò bellamente ad ignorare. « Poi, vediamo, rimane mio padre, Mano… »
Augustus la interruppe, notando quello strano nome. « Mano? Perché chiamate qualcuno così? »
Wednesday lo fissò seria, incrociando le braccia, alquanto scocciata, come se la risposta fosse ovvia. « Mi sembra chiaro, perché è una mano. » Augustus sgranò gli occhi ancora una volta, mentre l’altra proseguiva: « Lurch – il nostro maggiordomo – e poi ci sono i miei fratelli: quell’idiota di Pugsley, il maggiore, e, purtroppo, Pubert, il minore. »
Il presentatore verde-acqua ridacchiò nervosamente, allentandosi il colletto. Ora capiva perché Saevera parlava male dei suoi tributi. « Come mai così ostile verso tuo fratello? »
« Non so ancora perché non muore. Forse aspetta anche lui gli Hunger Games per essere estratto e vincere il premio come peggior morto della storia, quella schiappa. Ma il solo pensiero che Winnow possa toccarlo mi fa ribrezzo – e io allevo ragni! Pubert non sarà mai degno delle sue magnifiche creazioni. »
« Winnow Spottiswoode, se non sbaglio, è il tuo stilista » osservò l’uomo, unendo i palmi delle mani l’uno contro l’altro, vicino la bocca.
La dodicenne annuì. « Lui dice che sto attraversando quello strano periodo in cui tutte le ragazze hanno un chiodo fisso. »
L’altro ghignò, pensando che alla fin fine anche quella ragazzina fosse inutile come tutti gli altri, perdendosi in cose così frivole. Lei non avrebbe mai conosciuto il vero amore come l’aveva vissuto lui. Lei non l’avrebbe mai avuto perché il suo destino era morire e così doveva essere. Così Augustus si sarebbe potuto vendicare.
« Oh, l’amore? »
« No, l’omicidio. » Wednesday si alzò, sbadigliando. « Abbiamo finito? » chiese, ma prima che l’uomo potesse obiettare, aggiunse un « Pare di sì » e uscì di scena col suo strascico, pulendo il pavimento già lucido del palco.
A passo svelto, subito dopo, entrò il tributo del Distretto 6 conosciuto come Zhu Koeyn, che teneva i capelli castani raccolti in un alto codino e indossava un kimono rosso dalle rifiniture dorate, trasportando una katana in spalla.
Augustus, ancora al suo posto, lo guardò interrogativamente. « Non ti ho ancora chiamato… » mormorò.
A quella frase, Zhu si immobilizzò subito, sentendosi a disagio. « Ah » si lasciò sfuggire, « non pensavo fosse necessario. »
Si sedette immediatamente, in imbarazzo e maledicendo la propria impulsività. Anche se non lo voleva ammettere, era così nervoso per l’intervista che aveva pensato che prima fosse finito quello strazio, meglio sarebbe stato.
« Non indugiamo con futili convenevoli » iniziò il presentatore, tenendo sulle spine Zhu, che temeva quello che gli avrebbe potuto chiedere. « Tutti si staranno chiedendo quale sia la storia della tua cicatrice. »
Zhu si paralizzò, neanche prese fiato, non sapendo cosa dire, anche se si era già aspettato una domanda del genere. Non voleva incrociare il suo sguardo con quello chiaro dell’uomo, ma sembrava incapace di distogliere gli occhi, fissi come una calamita.
Cosa avrebbe dovuto dire? Che si era lasciato sfuggire che lo sterminio di innocenti fosse una cosa disumana nel bel mezzo di una riunione militare anti-ribelli in casa sua? Che suo padre – che tanto lo odiava – l’aveva sfidato in combattimento e alla fine l’aveva marchiato col fuoco, provocandogli quella gigantesca ustione?
Ripensò istintivamente a quel sergente, Frederick Donowitz, di come aveva provato a difenderlo. Non aveva cambiato nulla, ma Zhu aveva apprezzato quel gesto. Lo stesso che avrebbero fatto suo zio Roi o sua madre, ma che per un motivo o per un altro non erano lì quel giorno.
« Siamo curiosi di sentirla » lo spronò Augustus, che teneva ancora gli occhi fissi su di lui.
Zhu si voltò verso il pubblico e notò che era calato in uno strano silenzio: tutti pendevano dalle sue labbra, tutti desideravano ascoltarlo. Ma lui non poteva proprio riportare a galla quello spiacevole evento.
« Io… » tentennò, guardando la platea, a disagio, e cercando di farsi forza, quella che aveva sempre dimostrato. « Io sto cercando di riprendermi il mio onore » confessò infine, deludendo tutti.
Augustus storse il muso in una smorfia seccata, notando però che il moro aveva chinato il capo e stringeva fra le mani un ciondolo azzurro legato ad un cinturino di cuoio e non perse l’occasione di mettere il dito nelle questioni del povero sventurato.
« E’ il tuo portafortuna, Zu-Zu, dico bene? » domandò, sorridente, attirando l’attenzione del diciassettenne che notò la coincidenza con cui l’uomo aveva usato lo stesso soprannome che talvolta usava sua sorella Zula. « Apparteneva a qualcuno in particolare? »
E ora? Certo che apparteneva a qualcuno in particolare, ma chissà se era ancora viva. Aveva passato talmente tanto tempo a combattere il gruppo di ribelli di Katae, che lui stesso non riusciva a capire cosa provasse, nemmeno se fosse una nemica o qualcuno di cui fidarsi. Ricordava chiaramente il giorno in cui, combattendo, il terreno da poco bombardato franò sotto i loro piedi e si ritrovarono imprigionati sotto terra. La cosa che più spaventava il giovane Koeyn, però, era che l’aveva trovata affine, simpatica, come lui, ma allo stesso tempo dannatamente diversa. E alla fine l’aveva lasciata scappare, aveva preferito tornare a casa piuttosto che vivere da ribelle; e l’unica cosa che gli rimaneva di lei era quel ciondolo trovato per caso tra le macerie.
Ma non poteva dire la verità. Come l’avrebbe giustificato a suo padre e sua sorella? E se Capitol City l’avesse trovata e fatto del male?
« Era di mia madre » mentì, « ma lei è scomparsa. »
« Scomparsa? »
« Morta » si corresse. In realtà Zhu non aveva mai pensato che sua madre fosse morta veramente. Lui lo sapeva che non era così, che qualunque fosse stato il motivo per cui se n’era andata era stato per proteggerlo; ma Azoi, suo padre, non ne voleva sapere nulla e riteneva la donna oramai bella che morta e sepolta.
Da dietro le quinte un addetto alle luci fece segno di troncare l’intervista e Augustus annuì, scattando in piedi, seguito dal diciassettenne.
« Beh, chissà se non la rincontrerai con gli Hunger Games » rise l’uomo, stringendo la mano al ragazzo e congedandolo.
Zhu sentì improvvisamente la rabbia ribollire nelle sue vene e chissà cos’avrebbe fatto, se non fosse stato per Winnow dietro le quinte che gli ordinava di scendere dal palco; e nessuno gli tolse il permesso di borbottare imprecazioni mentre ubbidiva.
« Per voi, la dolce Haylee Scott! » gridava Flickerman, nel frattempo.
I capelli lunghi e rossi di Haylee erano stati cotonati e modellati con un frisé per renderli più gonfi e non lisci come spaghetti come apparivano di solito; sotto erano state applicate extension di lunghe e morbide trecce che le arrivavano fino ai piedi, ornate da piume di corvo. Aveva delle finte ciglia piumate, le palpebre decorate solo con una sottile e lunga scia di eye-liner e le piccole lentiggini non erano state coperte col fondotinta. Il lungo vestito le ricadeva a terra, ampliandosi, e dal basso, sulla stoffa bianca, partivano linee nere di vari spessori, che si ramificavano in diverse direzioni e tendevano verso l’alto, creando una vera e propria foresta. L’abito, privo di spalline, presentava una scollatura lunga fino all’ombelico, coperta però dal motivo ramificato dell’abito che risaliva fin sopra le spalle e dilungava per le braccia.
Ad Haylee quel vestito sapeva enormemente di casa, di quegli alberi tra cui giocava da bambina e che erano andati distrutti dall’incendio durante i Giorni Bui.
« Dopo il cigno, abbiamo il corvo » commentò Augustus, baciando la mano di Haylee e facendola accomodare. « Dio mio, Haylee! » esclamò l’uomo, fingendosi sconvolto. « Che cos’hai fatto per meritare un tre alla Sessione Privata? »
La rossa subito assunse un’espressione mortificata, mettendo su il suo miglior tono dispiaciuto e sorpreso. « Lo giuro, Augu – posso chiamarti “Augu”, vero? –, non è stata colpa mia! Un terribile incidente! Gli strateghi, però, non hanno voluto sentir ragioni. A mio parere sono stati fin troppo severi. »
Flickerman annuì, dandole ragione. « Ma, purtroppo, devono esserlo. »
« Certo, certo » confermò Haylee, fingendo di comprendere la situazione.
Quei due, se solo la gente avesse saputo, sarebbero potuti andare dannatamente d’accordo: così falsi e senza scrupoli soltanto per raggiungere i propri obiettivi.
« Dicci: come hai affrontato la rivolta? » domandò il presentatore, cercando qualche punto debole nella ragazza.
« Che vuoi che ti dica, Augu? » sospirò la ragazza. « Si fa quel che si può e finché si obbedisce al volere di Capitol City non c’è nulla da temere. Insomma, se non si ha fatto niente, di cosa ci si dovrebbe preoccupare? » sorrise, voltandosi verso il pubblico, che l’applaudì.
All’uomo già stava dando sui nervi: stava facendo tutte quelle moine e stava dicendo tutte quelle cazzate solo per ingraziarsi il pubblico. Non aveva capito che lì era lui a condurre i Giochi.
« E in famiglia? » proseguì con le domande.
Haylee iniziò a contare sulle dita. « Allora… siamo mia madre, mio fratello Jeremy, io e mia sorella Emma. »
« Se non sbaglio c’è un Jeremy fra i tributi » rifletté Augustus, accarezzandosi la morbida barba verdeacqua. « Del Distretto 12, sì. Non ti fa strano dover uccidere qualcuno con lo stesso nome di tuo fratello? »
Ad Haylee, ripensando al tributo appena citato e a cosa era successo durante l’addestramento, venne il nervoso; se poi si aggiungeva che i suoi fratelli non l’avevano mai sul serio presa in considerazione e che li riteneva inferiori, allora proprio non poteva sopportarlo.
« Suppongo di sì » rispose, facendosi sfuggire una punta di acidità nella voce.
« E tuo padre? »
A quella domanda, però, qualcosa in Haylee si incrinò: si disse che doveva convincersi a piangere, che era la sua occasione per attirare sponsor con una storia drammatica; ma allo stesso tempo odiava che quell’arrogante presentatore avesse osato tirare in ballo suo padre, l’unica persona che avesse avuto realmente l’affetto della rossa. Ma non doveva imporsi di piangere. Senza rendersene conto lo stava già facendo, e quelle lacrime erano vere.
Sentì la mano dell’uomo accarezzarle il viso e costringerla a guardarla. Il capitolino le rivolse uno sguardo fintamente dolce e comprensivo, per poi rivolgersi al pubblico: « Uccello del malaugurio? Ma guardatela: non vi sembra un tenero coniglietto? »
Il pubblico applaudì, addolcito e commosso, ma ad Haylee ribolliva la rabbia nelle vene: nessuno poteva chiamarla con quel nomignolo, nessuno che fosse ancora in vita!
Prima che potesse fare o dire qualsiasi cosa, fu congedata da un altro baciamano e Augustus annunciò « William Alexander Wyngardaen » come prossimo tributo.
Il moro diciottenne indossava uno smoking completamente a quadri, di tonalità che andavano sul verde e sul rosso, col papillon dello stesso motivo, che però faceva risaltare i suoi occhi verde smeraldo.
« Iniziamo subito: Will, so che tuo padre è a capo di una delle più importanti falegnamerie del Distretto 7, il Giardino. »
William annuì, momentaneamente a suo agio. « Sì, aiuto mio padre col legname, sono piuttosto bravo, tanto che oramai la gente mi chiama Chopper. Sai, Augustus, effettivamente erano anni che non sentivo il mio vero nome, fino a che la mia accompagnatrice non l’ha letto su quel biglietto. »
Il pubblico rise e applaudì, prendendo quelle parole come uno scherzo. A dirla tutta, quella era proprio la verità e William non ci avrebbe scherzato così tanto, se non fosse stato per Volumnia – appunto, la sua accompagnatrice – che l’aveva praticamente minacciato di mostrarsi amichevole per attirare qualche sponsor. “Un piccolo sforzo e poi potrai fare il porco del comodo tuo ed essere scontroso quanto ti pare!”, gli aveva detto e lui l’aveva presa in parola.
« Ma per te la rivolta non deve essere stata facile. Tutti siamo a conoscenza dell’allagamento nel Distretto 7 » proseguì il maggiore, con tono grave.
Il moro sospirò, chinando il capo e immergendosi nei ricordi. « Beh, non è stato proprio quello il problema principale. »
« Vuoi parlarcene? Scommetto che in molti sono ansiosi di ascoltare la tua storia » e accompagnò quelle parole con un gesto del braccio, indicando il pubblico silenzioso.
« Beh… abbiamo viaggiato molto… » cercò le parole giuste da dire per omettere che suo padre era stato un ribelle molto attivo e ricercato. « La mia famiglia era originaria del Distretto 5, ma con l’esplosione della centrale nucleare e la morte di mia sorella Roxanne, i miei genitori decisero che quello non era più un posto sicuro e allora partimmo in cerca di un posto dove andare. »
« Eravate solo in due, come fratelli? » chiese l’uomo, fingendosi interessato, per lo più cercando di far sfuggire dalla bocca di William qualcosa di segreto e inopportuno.
« Beh, dovevo avere anche un fratello maggiore, ma è morto alla nascita. Io e Roxanne eravamo gemelli » spiegò.
« E dove volevate andare? »
« Nel Distretto 13, ma la diga del Distretto 7 ci ha bloccati. »
« Per fortuna! » si affrettò ad esclamare Augustus. « Se foste veramente riusciti ad arrivare nel Distretto 13, ora di certo non saresti qui, mio caro Chopper. »
« Già, per fortuna… » ripeté William, costringendosi in un sorriso appena abbozzato. Ripensò alla sua famiglia nascosta per non farsi trovare dai soldati capitolini, a suo padre che cercava di mandare telegrammi agli altri ribelli, a quello scantinato buio e puzzolente dove doveva sempre rifugiarsi per non venir catturato. Ma poi gli spuntò un flebile e sincero sorriso sulle labbra, pensando che se avessero davvero raggiunto il Distretto 13, non avrebbero mai incontrato quel ragazzino di nome Isadore Nicodemus. « Nel Sette mia madre – dottoressa – ha cercato di aiutare come poteva » proseguì. « Tanto che prese a cuore un bambino ustionato e ferito, senza un braccio. All’inizio pensavo che i miei genitori volessero rimpiazzare Roxanne, ma poi… »
« Ma poi ti ci sei affezionato » concluse il presentatore e Will annuì. « Oltre a lui – e Roxanne, se solo ci fosse ancora – hai lasciato qualcun altro di molto importante? »
William si fece serio, respirando profondamente. Ci mise un bel po’ a riflettere se fosse giusto farlo o no. Ma, in fondo, che cosa aveva da perdere? Forse sarebbe morto l’indomani, in fin dei conti.
« C’era una bambina, nel Cinque » iniziò, titubante, tamburellando le dita sulla poltrona in pelle, « ma oramai è cresciuta, ovviamente » ridacchiò, nel completo silenzio della sala, sentendosi forse anche un po’ stupido. « Ho provato varie volte a riavvicinarmi a lei, ma sembra non ricordare nulla. Sembra avermi dimenticato, forse non ero poi così importante » si lasciò sfuggire, smettendo di fissare il pavimento e guardando un punto imprecisato nel pubblico, lasciandosi sfuggire un sorriso malinconico. « Sai, a lei piaceva davvero ballare. Era bravissima. »
Il pubblico esplose in un tumulto di mormorii e sussurri, pieni di capitolini con facce stupite e sconvolte dalla notizia. Persino Augustus era realmente colpito, benché i suoi occhi facessero trapelare un’eccitante fremito di gioia nell’aver scoperto quel piccolo legame che avrebbe potuto giocare a suo favore.
Diede una pacca sulla spalla a Chopper e, dopo un cenno, si strinsero le mani e chiamò « Kenia Reaper! » a gran voce, mentre il moro usciva.
Shelly e Jim Carson sarebbero stati enormemente fieri della dodicenne dalla pelle scura: la lunga cascata di riccioli bruni era legata in due alte codine ornate di giganteschi fiocchi rosa confetto, l’unico colore di cui la piccola Reaper era vestita. Era piena zeppa di gioielli e perline ovunque, truccata con del semplice ombretto e mascara e del lucidalabbra pieno di glitter. Portava un corto abito a palloncino, la gonna era formata da più veli e merletti e sotto di essa sembrava indossare dei mutandoni d’epoca. Le spalline erano bombate, i bordi tutti ricamati e un grosso fiocco era appuntato sul petto, mentre alle gambe indossava delle parigine e ai piedi delle alte zeppe sempre in tema. E, ovviamente, fra le braccia vi era la sua adorata e malandata Betty.
« So che il pubblico ha soprannominato te e il tuo compagno come “Barbie e Ken”, titolo che prima toccava a due nostri cari strateghi. »
Augustus le porse una mano – che Kenia accettò – per sedersi.
« Non volevo rubare il titolo a nessuno » ammise innocentemente, « ma oramai penso che questo nome mi perseguiterà per sempre. Anche a casa mi chiamano così. »
« Davvero? » chiese il presentatore in tono curioso, accarezzandosi la curata barba verdeacqua.
La dodicenne sospirò, pronta a raccontare, come aveva visto fare ad altri quattordici tributi prima di lei: « Non ho mai conosciuto i miei genitori, in realtà. Ho sempre vissuto con mia nonna, cucivamo bambole, finché non è morta. »
« Sei dovuta stare in orfanotrofio, quindi? » La riccia annuì, timidamente, e Augustus rifletté un momento: « Anche l’anno scorso c’è stato un tributo proveniente dall’orfanotrofio del Distretto 8. »
« Loggy » si affrettò a dire Kenia, spalancando gli occhi, come se il presentatore avesse la facoltà di dirle che il suo Biondino non era realmente morto, ma sarebbe stato lì sul palco accanto a lei fra qualche istante.
« Logan Reaper, esatto » confermò l’uomo con un cenno della testa, ricollegando tutti i pezzi del puzzle. « Quindi tu devi essere la figlia di Kingsley Reaper. E’ stato un ottimo soldato durante la guerra, me lo ricordo. »
« Kingsley ha adottato me e Logan durante la rivolta » continuò il suo racconto. « E’ stato così che ho ricevuto il mio soprannome. »
Kenia ricordò il periodo trascorso in orfanotrofio, del suo rapporto rispettoso ma diffidente fra lei e Logan, di come una volta le aveva detto “Io non faccio male a te, tu non fai male a me”, di come era stata terribilmente invidiosa quando Logan venne adottato mentre lei no. E poi venne la febbre e Kingsley la salvò e la portò a casa sua, dove Kenia poté avere finalmente una famiglia.
« C’è Cher, la mia sorellastra, che dà soprannomi a tutti. Lei si fa chiamare Occhi Blu, ma secondo me è un nome ridicolo » osservò, con una punta di superiorità, che fece divertire alcuni capitolini fra il pubblico. « Denny è Diamond, Marcus è Golem, Sun e Moon sono gli Angeli della Morte, Charlie è Blade e infine Cip e Ciop sono gli Scoiattoli. »
Augustus ridacchiò per via di quei nomi bizzarri. « Come mai tutti questi soprannomi? A tua sorella non piacevano quelli veri? »
La mora ripensò a come Cher le aveva spiegato, il primo giorno in quella casa, come funzionava il “lavoro” e quale era la gerarchia da seguire; le aveva illustrato tutti i soprannomi, come ognuno di essi fosse collegato ai loro talenti e al modo in cui uccidevano le vittime che Kingsley affidava loro.
Kenia scrollò le spalle. « Stiamo parlando di una che si fa chiamare Occhi Blu. »
Il pubblico rise a come la dodicenne si divertiva a schernire la propria sorellastra e la giovane Reaper sorrise in risposta, contenta che il suo racconto stesse piacendo al pubblico.
« E tu? » domandò il presentatore, catturando l’attenzione. « Perché “Barbie”? »
La riccia sollevò Betty, come se la risposta fosse ovvia. « Mi piacciono le bambole » e quella, effettivamente, era una mezza verità.
« Non ho mai capito perché Kingsley e sua moglie adottassero così tanti bambini. »
« Perché loro sono buoni » si affrettò a concludere la mora.
Bugia.
Kenia aveva gonfiato le guance e fissava il presentatore negli occhi, con lo sguardo di una bambina testarda che difendeva la propria famiglia, anche se quella le aveva mentito, anche se l’avevano solamente usata e le fiabe che Kingsley le raccontava la notte non erano altro che storie di politici corrotti che lei avrebbe dovuto uccidere.
Come avrebbe voluto una storia di Delphi, in quel momento, perché sentiva le lacrime pungerle sull’orlo degli occhi e le voci mormorare pian piano sempre più alte nella sua mente e sapeva che quando Delphi le insegnava una nuova canzone, quelle si placavano immediatamente.
Augustus colse quello sguardo come una sfida e accavallò una gamba, proseguendo con le domande. « E qual era il soprannome di Logan? »
La riccia si arrestò, il suo sguardo chiaro non era più duro. D’un tratto, Kenia si sentì andare in mille pezzi, come una bambola di porcellana. Di nuovo.
« Il Biondino » confessò, piano, cercando di reprimere il tremolio della sua voce e aggrappandosi ai braccioli della poltroncina in pelle.
« Un’ultima domanda, Barbie, poi ti lascio in pace » sussurrò il presentatore con finto tono dolce. « I tuoi occhi s’intonano con me. E’ strano vedere una bambina così scura con degli occhi così chiari. Come mai? »
La dodicenne tentennò: aveva sempre considerato quegli occhi una maledizione. Anche se sua nonna non glielo diceva esplicitamente in faccia, l’aveva sempre capito da come la guardava quando incrociava il suo sguardo, da come cercasse sempre di non guardarla negli occhi.
« Non lo so » ammise, debolmente.
« E’ tutto » concluse l’altro, soddisfatto, alzandosi per congedare Kenia, che fuggiva dietro le quinte su quelle zeppe poco stabili. « Il prossimo tributo, signore e signori, è Brian Will Stark! Un bell’applauso! »
Seguirono gli applausi del pubblico, ma del tributo neanche l’ombra, il che fece calare un silenzio imbarazzante nella sala, mentre Augustus si costrinse a fare un sorriso nervoso per calmare il pubblico. Tese nuovamente la mano verso le quinte, sperando che quell’insulso ragazzino non rovinasse il suo spettacolo.
« Brian Will Stark! » ripeté. « Brian, ci sei? Non essere timido, qui nessuno ti mangia… se ti presenti. Vero, ragazzi? » chiese al pubblico, che rispose con un freddo applauso d’incoraggiamento.
Finalmente il quindicenne alto e scuro si decise a entrare a passo svelto sul palco, vestito con dei semplici boxer bianchi e un elastico viola legato al polso, e si sedette al suo posto, incrociando le braccia al petto con un sonoro sbuffo contrariato e lasciando tutti gli spettatori a bocca aperta.
« Brian… Vuoi illuminarci sul tuo vestito per l’occasione? » lo spronò Augustus, sedendosi cautamente al suo posto, anch’esso stupefatto.
« In realtà no » ribatté il tributo del Distretto 8 con un grugnito, « ma voglio aggiungere solamente che i miei stilisti sono delle totali teste di cazzo e che io quel completo rosa di lino non lo metto neanche a crepare! » sbottò, gridando e gesticolando minacciosamente verso le quinte. « E tu » si voltò verso l’uomo verdeacqua, guardandolo aspramente, « prova anche tu a chiamarmi “Ken” e giuro che ti ritrovi il microfono in bocca, passando per qualche altro buco! »
Augustus si allentò la cravatta, a disagio. « Vedo che non ti è piaciuto il soprannome che ti ha dato Capitol City… Beh, pazienza, spero che almeno ti sia piaciuto il tuo appartamento. » Brian fece un altro grugnito in risposta e il presentatore decise che era meglio cambiare discorso: « Ho sentito che la tua compagna di distretto ti chiama Brick. Questo posto sembra spopolare di soprannomi. Puoi dirci come mai? »
« Perché una volta ho ucciso un Pacificatore con un mattone » confessò, senza pensare alle conseguenze. Di fatti l’intero pubblico capitolino rimase scandalizzato, alcuni lanciarono vari  gridolini terrorizzati e sconcertati da quella crudeltà. Crudeltà?, penso Brian con la rabbia che gli ribolliva nelle vene. Come potevano quegli eccentrici scandalizzarsi se stavano mandando a morire ventiquattro poveri e “innocenti” ragazzini? Brian avrebbe tanto voluto metterli al loro posto. « Stava uccidendo la mia ragazza! » si giustificò, cercando di rimediare al danno, ma accorgendosi troppo tardi di quello che aveva appena detto. « Cioè, no, non era la mia ragazza, non lo era ancora. No, no, non voglio dire che ora lo è, Clary non è assolutamente la mia ragazza! » gridò, alzandosi di scatto dalla poltrona e gesticolando con le mani.
Si guardò attorno e saltò giù dal palco, correndo verso il cameraman più vicino e prendendo la telecamera fra le mani. « Clary, se stai guardando, non ascoltarmi. Non intendevo sul serio, me lo sono lasciato sfuggire per il nervoso! Cioè, non sono nervoso… No, non sono nervoso, lo giuro. Clary, se provi a ridere di me quando torno ti faccio… »
Si fermò improvvisamente, a disagio; si grattò la nuca e poi, mogio mogio, salì nuovamente sul palco, ponendosi al centro di esso e riacquistando la sicurezza che sempre – o quasi – l’aveva caratterizzato.
Aprì le braccia, di fronte alla platea, in tutta la loro lunghezza. « Beh, sapete che vi dico? Fanculo! » gridò, mentre la folla andava in subbuglio. « E chi se ne frega, facciano quello che pare a loro, tanto se devo morire voglio mettere le cose in chiaro: sì, voglio molto bene a Clary, è più di una sorella, anche perché non è neanche mia sorella, magari mia madre se la fa con suo padre, però non me l’ha voluto dire neanche prima di partire quinti ‘sti cazzi. E non statevi a scervellarvi su chi sia Clary, perché chi se ne frega di lei. Cioè, no, a me frega, ma a voi non deve. Insomma… » batté un piede per terra, frustrato dalle parole che si accavallavano l’una sopra l’altra, confondendolo. « Beh, io l’ho salvata e non me ne pento! E’ morto quel Pacificatore? Oddio, mi dispiace! » si atteggiò da capitolino, facendo loro il verso. « Ma vi sentite? Vi guardate? Ci state mandando a morire tutti e vi interessa di un pover’uomo che stava per uccidere una ragazzina! Quando il vero nemico è proprio vicino a voi! E non parlo di quella sciocca di Kenia Reaper, che fa tanto la santarellina ma poi quasi ha ucciso la mia Clary, una volta. No, io intendo sopra le vostre teste! Sì, esatto, è lui il vero volto della morte, il nostro caro pre- »
Improvvisamente degli uomini vestiti di bianco irruppero sul palco e buttarono a terra il quindicenne, provocando più scompiglio di quanto già non ci fosse.
 

Ci scusiamo per l’interruzione.
Per motivi tecnici la connessione è stata sospesa.
Restate sintonizzati sul canale.
Il programma riprenderà tra breve.

 

Essere innocenti è pericoloso perché non si hanno alibi.
(
Boris Makaresko)













 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Il copia-incolla è un'arte. Anche il copia-incolla del copia-incolla.
L'indovinello degli strateghi, l'abbiamo detto nel capitolo precedente, l'ha indovinato _lu, mentre stavolta non avete neanche provato a indovinare che il tributo del vestito rosa era Brian, che poteva essere uno sponsor bonus.
Vi invitiamo ancora a leggere le raccolte sui Giorni Bui Bianca come la neve e rossa come il sangue del vicino e Butterflies & Hurricanes, perché danno dei punti bonus per gli sponsor.
Benvenuti, signore e signori, alla seconda tappa del Cisalpina Tour della band Pandaivols! Cos'è il Cisalpina Tour l'abbiamo già detto nel precedente capitolo e quindi non lo ripetiamo.
Se il capitolo precedente era chiamato Genue per via dei Genui, ovvero la ship Beryl/Ocean, questo ovviamente è Mitod perché Mito ha una ship cone le D e quindi ha colpito ancora. Ivola esprime tutto il suo odio verso questa coppia canon che shippa pure, ma che... va be, lasciamo perdere.
Do re mi fa sol la si. Queste sono le note di oggi. La prossima tappa è:
19 APR - ESTATHEF
Che come gli altri ha un nome ragionato. E' pure il compleanno di James Franco e, nessuno può saperlo, ma anche James è collegato indirettamente col capitolo.
L'indovinello, inoltre, verrà detto nel prossimo episodio.
To be continued.
Bao e cotolette, ce se vede il 19 con ESTATHEF! #copiaincolla

 
pandaivols.


 

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Capitolo 7
*** Fifteen thousand people scream – Fine. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 






 

 

Fifteen thousand people scream.


Fine


.



 

 

Falling down,
Now the world is upside down,
I'm heading straight for the clouds.

 [ Falling down - Muse ]


 

La truccatrice sistemò il vestito di Augustus e subito dopo sparì dietro le quinte. L’elegante capitolino si guardò attorno, soffermandosi a guardare la platea che sembrava essersi calmata; alcuni Pacificatori erano appostati alle uscite, altri fra le file per tranquillizzare il pubblico meglio che potevano. L’attenzione del presentatore verde-acqua fu catturata da un cameraman che faceva il conto alla rovescia per avvisarlo che stava per riandare in onda.
« Signore e signori, bentornati in onda! In diretta da Capitol City, le interviste dei nostri fantastici ventiquattro tributi, che domani mattina metteranno piede nell’Arena. Per chi non lo sapesse – ma ne dubito – io sono Augustus Flickerman e il prossimo tributo è… direttamente dal Distretto 9: Phoebe Woody! »
Il pubblico, ancora frastornato per l’improvvisa interruzione del programma, applaudì con fare incerto, attendendo che la ragazza appena citata dal presentatore salisse sul palco.
Phoebe fece capolino da dietro le quinte dopo qualche istante, camminando a passo sicuro, quasi sfacciato, in direzione di Augustus, che le fece il baciamano. La ragazza rispose con una smorfia apparentemente compiaciuta, ma che nascondeva una punta di disgusto.
I capitolini, alla vista di quella ragazza così particolare, si rianimarono subito e ripresero ad applaudire con più calore. Phoebe indossava un abito molto corto color porpora che arrivava giusto a coprirle la zona inguinale, lasciando totalmente scoperte le gambe non magrissime. La vera particolarità di quel vestito, però, era il fatto che fosse un fiore, nell’esatto senso del termine. Il corpetto senza spalline era fatto tutto di petali, così come la gonna che si apriva a palloncino; le scarpe erano del medesimo colore e sulla punta erano decorate con piccoli fiori dello stesso tipo. Alcuni petali le erano stati annodati intorno al polso destro a mo’ di bracciale, mentre i capelli erano raccolti, in alto, a formare una stretta crocchia di capelli bianchi, al di sotto dei quali, invece, si poteva scorgere la parte di chioma nera, completata da un ciuffo bicromatico. Il trucco era semplice, dal momento che già l’abito faceva la sua parte: un rossetto acceso che rendesse accattivanti quelle belle labbra carnose e sugli occhi verde muschio l’accostamento di una matita nera e una fucsia.
« Sei uno splendore, Phoebe » si complimentò Augustus, accomodandosi sulla sua poltrona.
Phoebe fece lo stesso, sbuffando leggermente. « Chiamami Melanie. »
L’uomo aggrottò le sopracciglia, confuso. « Perché? »
« Beh » tentennò la ragazza, quasi come se fosse stata colta alla sprovvista, « … è il mio nome d’arte. Sì, ecco. Melanie Ukai. »
« Nome d’arte? » ripeté il maggiore. « Fai la cantante? »
Gli spettatori sembrarono trovarlo divertente e alcuni si misero a ridere.
« No » ribatté Phoebe, accavallando le gambe, più per il nervosismo che per altro. « Tutti al distretto mi conoscono così. »
« Come vuoi, Melanie Ukai » acconsentì Augustus, « ma adesso partiamo con le domande vere e proprie. Tutti ci siamo chiesti – e mi sembra giusto – quali cose assurde tu abbia fatto alla sessione privata per prendere uno zero… vuoi illuminarci? »
« Oh » commentò lei, ridacchiando, « questa è facile. Sai, vero, che l’intera sessione consisteva nel fare tutto ciò che era possibile con un misero cubo di legno? Ecco, io quando l’ho scoperto mi sono incazzata di brutto. Insomma, ci hanno fatto allenare per tre giorni e poi se ne sono usciti con questa stronzata! Mettiti nei miei panni! »
« Sì, ma l’allenamento vi servirà anche per l’arena… »
Phoebe fece un gesto con la mano come se stesse scacciando un insetto. « Questo non c’entra. E comunque li ho semplicemente presi a parole… sì, d’accordo, ho anche insultato tutte le loro famiglie e la loro progenie… e i loro antenati… ma mi sono sentita insultata! Io volevo soltanto prendermi il mio fantastico 6 e riportare il mio fantastico culo su nel mio fantastico appartamento. Dimmi, tu cosa avresti fatto al posto mio? »
La gente in platea, quasi inaspettatamente, continuò a ridere.
« Sarei stato più educato, tesoro » replicò Augustus con un sorrisetto tra l’accusatorio e il divertito. « Adesso lo zero te lo tieni. »
« Sì, me lo tengo » fece la ragazza, studiandosi le unghie delle mani con nonchalance, « tanto ho comunque grosse probabilità di vittoria. »
« A quanto pare sei una ragazza sicura di te… buono a sapersi. Ma, dicci un po’, come l’ha presa la tua famiglia quando sei stata estratta? »
Phoebe sembrò diventare più seria. « Come pensi l’abbia presa? Male, no? »
Augustus non si lasciò scalfire dalle sue insinuazioni. « E sono venuti a salutarti? »
La diciassettenne tentennò ancora. « Sì. Ma comunque la mia famiglia si limita a Peter, mio fratello maggiore. » Detto ciò, diede brevemente le spalle al conduttore per mostrargli una cosa. « Guarda, ho anche una P tatuata dietro al collo. » Le telecamere inquadrarono il suddetto tatuaggio, poi lei continuò: « Lui ha una M sul braccio. »
Augustus ridacchiò sotto i baffi. « Credevo che l’incesto fosse vietato dalla legge di Panem. »
Phoebe impallidì e dopo arrossì di botto. « Sei impazzito? Lui è mio fratello, mica il mio amante! C’è una bella differenza! »
« Oh, sicuro » ribatté l’uomo. « E… i tuoi genitori, comunque? Dove sono? »
« Morti » commentò laconicamente lei. Che suo padre era morto era vero – era successo durante la rivolta, quando avevano bruciato delle persone nel Mulino – ma sua madre era ancora viva e vegeta… soltanto, rinchiusa in una sottospecie di manicomio. Phoebe, a dire il vero, non voleva spifferare i fatti suoi in giro, né rendere pubblico il disturbo mentale di sua madre che aveva portato anche lei stessa in quella condizione di instabilità, per questo aveva preferito tenere la bocca chiusa.
Chi si fa i fatti suoi campa cent’anni, diceva un vecchio proverbio.
« Mi dispiace molto » finse Augustus. « Ora però il tempo è scaduto e dobbiamo proprio salutarti. »
La ragazza si alzò dalla poltrona, ma improvvisamente si bloccò, prendendo a fissare il vuoto davanti a sé. Non si mosse per qualche secondo, come in tralice, dopodiché si riprese e si voltò verso il conduttore. Sobbalzò e lanciò una piccola esclamazione, fissando tutto il pubblico quasi terrorizzata. Prese a guardarsi il vestito e arrossì di botto e soltanto dopo qualche istante di sconcerto generale fuggì dietro le quinte inciampando nei suoi stessi passi.
« Ragazza strana… » fece l’uomo, interdetto, « ma ora chiamiamo qui sul palco il suo compagno di distretto, Benvolio Fredrick Winslet! »
Il tributo successivo aveva lo stesso fascino di Phoebe e si avviò sul palco con un portamento altrettanto deciso. Era biondo, alto e sorrideva alle telecamere.
Benvolio indossava un completo alquanto strano che, tuttavia, nel complesso risultava abbastanza piacevole da guardare: si trattava di uno smoking dello stesso colore dell’abito della compagna, porpora, con sopra ricamati tanti piccoli… panda. Il pubblico ridacchiò, ma continuò ad applaudire comunque – le donne soprattutto, esortate dal fascino del ragazzo.
Il look curioso era completato dal gesso non più candico e immacolato che ancora portava al braccio.
Dopo averlo fatto accomodare sulla poltrona, infatti, la prima domanda che gli fece Augustus fu: « Allora, Benvolio, come va con questo braccio? »
« I medici mi hanno detto che sono in via di guarigione » rispose lui, scompigliandosi i capelli privi di gel con una mano. « Sono abbastanza fiducioso. »
« Devi esserlo » commentò il presentatore, « i medici qui fanno miracoli. E’ un vero peccato che un tributo parta in svantaggio rispetto ad altri, il giorno del Bagno di Sangue. »
« Domani, Augustus » gli ricordò Benvolio. « Domani c’è il cosiddetto Bagno di Sangue. »
« Giusto » disse quello. « Qui sono tutti impazienti. Non è vero, amici? » chiese agli spettatori, che applaudirono e fischiarono, estasiati.
Che stronzo, pensò il diciottenne, continuando a sorridere per compiacerlo. Se solo non fosse dovuto apparire al meglio per gli sponsor gli avrebbe già piantato un pugno in quella faccia fintissima.
« Sei nervoso? » gli domandò Augustus. « O anche tu non vedi l’ora di farti un bel bagnetto? »
Benvolio digrignò i denti. « Sì, Augustus, devo ammettere che sono entusiasta di fronte all’idea di una possibile e imminente morte. »
Qualcuno rise, ma altri rimasero in silenzio. Dopotutto, secondo Capitol, i tributi meritavano la loro sorte in quanto figli dei ribelli.
« Immagino » ridacchiò l’uomo. « E… dunque, tornando al braccio, chi diavolo te li ha fatti tutti questi stupidi disegnini? »
Benvolio si guardò il gesso, che fu inquadrato dalle telecamere. « Phoebe… anzi, cioè, Melanie. »
« Melanie, che singolare fanciulla » fece Augustus. « Avete fatto… amicizia? »
« Puoi constatare tu stesso » replicò il più giovane, indicandogli il gesso al braccio, pieno di scritte colorate.
« Qui c’è scritto… oh, “Ps: I love you(r cock)”… a me avevano detto che tu hai una ragazza, Benvolio! » disse il presentatore, sogghignando.
« Ce l’ho, la ragazza » ribatté il biondo, « ma io e Melanie ci prendiamo sempre in giro. Siamo un po’ come Rigel e Hidden: best friends forever. » A quella battuta i capitolini scoppiarono sul serio a ridere e anche Augustus fu compiaciuto di quella sdrammatizzazione. Il Presidente un po’ meno, ma in quel momento nessuno poteva saperlo.
« Ne deduco che avete stretto un’alleanza, è così? » chiese quindi.
« Non nell’esatto senso del termine. » Benvolio si rigirò l’anello che teneva all’anulare e che gli ricordava casa, come sempre quando era nervoso. « Dopotutto negli Hunger Games nessuno può considerarsi davvero alleato di qualcun altro… anche se di lei mi fido, più o meno. Vedremo il da farsi a Giochi iniziati. »
« Magnifico » commentò l’altro. « La tua ragazza non sarà gelosa, comunque? »
« Giselle » rispose, « vuole che torni a casa da lei, con qualsiasi mezzo. Un’alleanza non mi farà male, credo lo sappia benissimo. »
« E anche tu, come Ocean Keats, se dovessi tornare indietro le chiederesti la mano? »
Una domanda che Benvolio già si aspettava, ma che comunque gli fece fermare il battito cardiaco. Lui voleva tornare a casa. Lo voleva a tutti i costi.
« Certo » replicò il ragazzo, « lei è la mia anima gemella. »
« Indubbiamente. » Augustus ghignò ancora. « Eppure qualche uccellino mi ha detto che un tempo eri uno dei giocattoli preferiti delle capitoline… »
Benvolio, questa volta, stava davvero per prendere a pugni il presentatore, se solo non avesse avuto ancora un briciolo di buon senso – per fortuna. « Lo ero. »
« Vuoi raccontarci qualche dettaglio scottante? » chiese allora il maggiore, accarezzandosi la barba verde-acqua.
« No » rispose prontamente l’altro. « Il tempo dell’intervista è finito, Augustus. » Detto ciò, il ragazzo si alzò senza invito, fece un inchino veloce e vagamente sarcastico al pubblico e poi tornò a passo veloce dietro le quinte.
Augustus rimase interdetto, così come gli spettatori. « Suscettibile, questo Benvolio. Ma veniamo al Distretto 10. E’ il turno della dolcissima… Lila Larin! »
Nessuno salì sul palco per qualche secondo abbondante e i capitolini incominciarono a innervosirsi. I tributi scorbutici e timidi non piacevano quasi a nessuno. Dopo un po’ annoiavano.
« … Lila Larin? » ripetè il conduttore.
Solo allora la tredicenne del Distretto 10 si decise a venir fuori. Aveva la testa bassa e camminava molto lentamente, guardandosi le scarpette dorate. L’applauso per lei durò pochissimo, a causa del tentennamento iniziale, sebbene il suo vestito fosse delizioso: un abitino con la gonna gonfia che aveva la sagoma e i motivi di una farfalla, con i colori oro, bianco, nero e rosso. Ai piedi portava due ballerine abbinate e i capelli ricci – o meglio, indomabili – erano stati lasciati sciolti, anche se qua e là sul capo erano state posizionate mollette a forma di farfalla.  
« Vieni, tesoro, accomodati » la invitò l’uomo, sedendosi sulla poltrona a sua volta. Aspettò che la ragazzina si fosse seduta e poi le domandò: « Allora… partiamo con le domande semplici. Come ti trovi qui a Capitol City? »
Lila arrossì e si morse le labbra. « B-bene. »
« Bene? Tutto qui? » la incitò il maggiore. « Come ti sembra il tuo staff di preparatori? Mi sembra ti abbiano acconciata bene, no? »
« S-sì » balbettò la tredicenne, che proprio non riusciva a guardarlo in volto, « Columbae all’inizio mi sembrava antipatica, p-però… non lo è, invece Bise crede di essere un… pirata. »
« Ah, il famoso Bise Herriot! » commentò Augustus. « E chi se lo scorda, è un folle! Come gli è venuta l’idea di questo vestito, per te? »
« N-non lo so. »
« Uhm, però, sei molto esaustiva » fece l’altro, sarcastico. « Forza, non farmi tirare le parole dalla tua bocca… Che ci dici del tuo compagno di distretto? »
Lila, se possibile, arrossì ancora di più. Se solo pensava che Ryder era dietro le quinte e che centinaia di telecamere la stavano inquadrando proprio in quel momento… « R-Ryder? Ehm… lui è… un tipo a posto, sì. Non ci parlo molto. »
« Peccato » disse il presentatore. « Qui a Capitol abbiamo sempre bisogno di nuovi pettegolezzi. Non l’avevi mai visto prima? » continuò, visto che Lila non si decideva a parlare da sola. Da un lato non voleva agevolarla – d’altronde a lui cosa importava di quegli stupidi tributi? –, ma non si poteva condurre un’intervista nel silenzio più totale. Ne andava della sua reputazione.
« M-mai » mormorò la tredicenne, tamburellando le dita sui braccioli della poltrona di pelle. Bugia, si disse nel frattempo, mordendosi ancora le labbra e sperando che Ryder non se la sarebbe presa per il fatto che non aveva raccontato la verità. Beh, conoscendolo, non se la sarebbe presa di sicuro.
Augustus si allentò la cravatta. « Sto esaurendo le domande, Lila. Non voglio che sia un interrogatorio. Allora… cosa ti manca di casa tua? »
« I Topi » rispose di getto lei, pentendosene immediatamente. Non poteva di certo spiegare chi erano!
« … topi? » fece l’uomo, quasi allarmato. « Stai scherzando, spero. »
« N-no… l-loro sono… i miei amici » balbettò Lila, « cioè, non sono topi… topi. »
« E cosa sono? »
Lila non voleva spiegare chi erano i Topi. Non poteva, per il loro bene. « Te l’ho detto, i miei… amici. »
Augustus fece una faccia ancora più stranita, se possibile, e il pubblico non applaudì affatto, sconcertato almeno quanto il presentatore. « D’accordo » disse, « i tuoi amici. E la tua famiglia? »
No, non poteva rispondere che la sua famiglia erano i Topi, o dopo avrebbe dovuto spiegare anche quello e non voleva. « Non ce l’ho una famiglia. » Fece una breve pausa. « Adesso posso andare? »
Augustus guardò il timer dell’intervista. « Se proprio insisti. E’ stato un piacere » ridacchiò, praticamente incitandola ad andarsene. Lila si alzò con uno scatto dalla poltrona e in men che non si dica sparì di nuovo dietro le quinte.
« Ah, questi ragazzini di oggi… » sospirò l’uomo, scuotendo la testa. « Tutti con la testa tra le nuvole. Ora, però, bando alle ciance! Un bell’applauso a Ryder Farm! »
Il sedicenne biondo, a differenza della compagna di distretto, salì sul palco quasi immediatamente, a passi svelti, come se avesse già fretta di finire quella farsa. Ryder era sempre stato un tipo fondamentalmente orgoglioso e questo era dimostrato anche dal suo atteggiamento, sempre schivo e attento. L’unica cosa che tradiva il suo comportamento era lo sguardo: occhi verde scuro, occhi di fenice, che parlavano al posto di mille parole. Peccato che non avrebbe mai potuto concludere l’intervista servendosi unicamente di quelli.
Ryder era molto elegante nel suo completo beije: indossava dei pantaloni di stoffa morbida, una camicia bianca e una giacca finemente lavorata su cui si concentrava tutta l’attenzione. Su quella giacca era rappresentata tutta la cartina di Panem, nei minimi particolari, come se fosse stata una carta geografica. Erano tracciati meridiani, paralleli, confini, autostrade… di tutto. A Ryder piaceva, perché non era nulla di eccessivo. Non avrebbe mai indossato, del resto, abiti come quelli del ragazzo del Due, del Tre o del Nove. Loro sì che avevano avuto un bel coraggio.
I capitolini stavolta applaudirono, sperando in un’intervista migliore della precedente.
« Un ragazzo bene in forma! » fece Augustus, dandogli una pacca sulla spalla. « Il lavoro al distretto deve averti formato più di qualunque altra cosa. »
Ryder annuì, semplicemente, sedendosi sulla poltrona e cominciando a battere ritmicamente il piede sul pavimento, nervoso.
« Dunque » cominciò il presentatore, sfregandosi le mani, « come ci si sente a portare indosso Panem intera? »
Ryder avrebbe preferito di gran lunga rimanere in silenzio, a contemplare il vuoto o le facce finte e fin troppo truccate dei capitolini in platea, ma dopo qualche istante di silenzio assoluto si sentì costretto a rispondere. « Fa uno strano effetto. » Laconico, come al solito. Ma non c’era da stupirsi, Ryder odiava parlare.
Nel Distretto 10, chi lo stava vedendo, sicuro era rimasto sconcertato; chi lo conosceva sapeva che Ryder non parlava mai, mai, mai. E Ryder avrebbe preferito di gran lunga serrare le labbra come al solito, o – meglio – non presentarsi proprio. Ma Columbae, la sua accompagnatrice, l’aveva letteralmente minacciato, costringendolo a parlare in pubblico, almeno per quei tre minuti. Poi, aveva detto, poteva pure tagliarsi la lingua.
« Posso solo immaginarlo » ridacchiò l’uomo, seguito dal pubblico poco dopo. « Le donne qui avranno un bel daffare dopo, per decidere chi sponsorizzare. Tutti di bella presenza, questi tributi. »
Ryder si grattò dietro la nuca senza aggiungere nulla. Già la situazione era imbarazzante, figurarsi se si aggiungevano quelle insinuazioni impertinenti.
« A casa ce l’hai la fidanzatina? » chiese quello, calcando la mano.
« No » disse, il che era vero. La sincerità andava bene, decise. Sincerità a monosillabi, tuttavia.
Augustus ammiccò in direzione del pubblico. « Non ci credo nemmeno se mi paghi! Avanti, ci sarà sicuramente qualcuna che ti piace… »
« No, non c’è » ripeté Ryder, ormai più che a disagio. Prese a strofinare i palmi delle mani sui pantaloni, tanto era il nervosismo.
« Che vita triste, figliolo » commentò il presentatore, « una vita senza donne. »
Augustus non lo sapeva, ma aveva centrato in pieno l’argomento: niente donne. Non aveva più sua madre, non aveva più sua sorella, non aveva più sua nonna paterna. Ecco, quelle erano le donne che aveva amato un tempo. Prima che la rivolta le portasse vita una dietro l’altra.
« Lo so. »
Il presentatore lo scrutò con sguardo indagatore. « Hai paura di morire, Ryder? »
« Tantissima » ammise il giovane, distogliendo il suo sguardo da quello verde-acqua dell’altro.
« E che cosa ti aspetti dall’arena? »
Questa volta il silenzio non fu premeditato. Scese su tutto il pubblico come una densa nebbia di tensione. « Non ne ho la minima idea. »
« Uff, certo che con questo Distretto 10 devo proprio faticare per tirarvi due parole da bocca! » si lamentò il maggiore, allentandosi ancora una volta la cravatta abbinata allo smoking. « Collabora un po’, avanti, usa la tua immaginazione! Come pensi che sarà l’arena di quest’anno? »
Ryder si sfregò più velocemente le mani sui pantaloni. « Un bosco lo escludo… troppo semplice » riflettè spontaneamente. « Forse un paesaggio marittimo, o innevato… »
« Hai poca fantasia, ragazzo » borbottò Augustus. « Fidati che Hidden può fare grandi cose. »
Il sedicenne lo guardò in tralice. « Non lo metto in dubbio. »
« Buon per te » ribatté lui. « Qui tutti dovrebbero preoccuparsi della macabra genialità di quell’uomo. »
Le telecamere inquadrarono il posto d’onore riservato al Primo Stratega e gli schermi a casa furono occupati dalla sua maschera di cervo. Lui fece un cenno con la mano, come per salutare gli spettatori, e probabilmente sotto quel travestimento sorrise d’un sorriso inquietante. Tutti lo sapevano lì dentro, Augustus aveva ragione.
« Beh » concluse il conduttore, quindi, « direi che anche quest’intervista è andata. Buona fortuna, chiacchierone. »
Ryder si alzò con un sospiro arrabbiato, pensando che persino a Capitol gli avevano dato quel soprannome – che al distretto era un amabile “Chatty” – e senza aggiungere nulla, ovviamente, lasciò il posto al tributo successivo.
« Diamo un caloroso benvenuto a Go Nakai! » annunciò allora Augustus.
La ragazzina che salì sul palco era ancora più minuta di Kenia, Wednesday e Lila, alta un metro e quaranta scarso. Il pubblico si addolcì nel vederla camminare a testa alta, giudicandola come una creatura innocente e pura. Creatura che, guarda caso, era finita agli Hunger Games. Che fortuna.
Go, a conferma del suo aspetto orientale – e più precisamente di discendenze nipponiche –, indossava un grazioso kimono che le scendeva fino ai piedi, rosato e con una fascia rossa in vita. Le maniche erano talmente ampie che non era possibile vedere le sue mani e ai piedi portava i classici sandali della cultura orientale. I capelli erano raccolti in alto e decorati con un fiore di loto, per riprendere il motivo del kimono. Non aveva trucco, se non un filo di cipria bianca per sottolineare la sua purezza di bambina – perché lo era ancora.
« Benvenuta » la accolse Augustus, facendola sedere sulla poltrona accanto a lui.
« E’ un piacere conoscerti » disse Go in tono freddo, congiungendo le mani in grembo.
« Anche per me, cara » replicò l’uomo. « Dunque, a quanto pare anche tu splendi come una stella stasera… hai qualche parola per il tuo stilista o per il tuo staff? »
Go stirò le labbra. « Beh… grazie. » Se ne stava seduta sulla poltrona compostamemte e rigidamente.
« A quanto pare » considerò Augustus, « i tributi di quest’edizione sono per la maggior parte silenziosi. Non avrai mica paura di me, Go? »
« No » rispose la dodicenne, « ma la nonna mi ha sempre detto di non fidarmi mai degli sconosciuti, soprattutto se sono uomini. »
« Oh, che nipotina ubbidiente! » esclamò lui ridacchiando. « Tua nonna sarà sicuramente molto fiera di te. E il resto della tua famiglia? »
« Mia nonna è tutto ciò che mi rimane » fece la minore, stringendosi nelle spalle. « E’ stata lei a insegnarmi tutto. »
« Tutto cosa? » si interessò Augustus. « Per aver preso Sei alla sessione privata devi essere stata sicuramente avvantaggiata da questi insegnamenti… »
« E’ un segreto » fece timidamente, sorridendo appena. « Se avrò fortuna, svelerò quello che so fare nell’arena… ormai manca poco, giusto? »
L’uomo ghignò. « Giustissimo. Non ne vediamo l’ora. »
I capitolini in platea, come al solito, applaudirono, impazienti di veder entrare finalmente quei tributi in arena e vederli ammazzarsi a vicenda, come se fosse il più grande spettacolo del mondo. Beh, per loro lo era.
« E… cos’altro ci dici di te? » domandò il conduttore, ancora. « Ti piace Capitol City? »
« Sinceramente no » ribatté la ragazzina. « Per carità… è molto grande e luminosa, non c’è dubbio, ma è molto diversa da casa mia, che un luogo semplice e ospitale. E io credo che non esista un posto più bello della propria casa. » Augustus storse il naso e lei continuò: « Per te non è così? »
« Io amo Capitol City » sottolineò il maggiore.
« Ma non ami i distretti » specificò l’altra, « perché Capitol è casa tua. Dimmi, vorresti mai vivere da qualche altra parte? »
Augustus prese a fissarla con sguardo sconcertato. « No, certo, ma a pochi questa città non piace. C’è qualche motivo in particolare? »
« Troppo rumorosa, forse » replicò Go, stringendosi le mani. « A me piace il silenzio, non c’è niente di più bello. »
« Ah, ecco perché sei così timida. »
« E tu? » chiese ancora lei. Augustus ormai non riusciva a capire perché fossero i tributi a fare le domande, in quelle interviste. « Perché sei così cattivo? »
Il pubblico si zittì e le telecamere si concentrarono sul volto della più giovane. « Cattivo io? »
« Lo so che la rivolta ha portato via tua moglie » disse, « ma non sei stato l’unico a subire delle perdite. La rivolta ha cambiato tutti, anche chi non pensa di essere cambiato. A volte dobbiamo solo essere forti, sai? Essere forti e andare avanti. Un passo dopo l’altro. Non è difficile, ci vuole solo un po’ di coraggio. »
Augustus, per la prima volta nella sua vita, non seppe veramente cosa rispondere. Cosa ne voleva sapere lei di Juliet, della capitale e di tutti gli uomini che erano morti? Aveva soltanto dodici anni!
« E tu ne hai di coraggio, bambina? » ebbe l’istinto di domandare.
« Io… » tentennò Go, come se stesse cercando le parole giuste. Ce n’erano sempre, per ogni situazione. « Credo di sì. »
« Lo spero per te » fece Augustus, con più acidità di quanto avrebbe voluto. « Un bell’applauso a Go Nakai e ai suoi discorsi pacifisti! Che gli Hunger Games possano risolvere tutti i conflitti tra capitale e distretti! »
I capitolini, di conseguenza, applaudirono, come tante piccole e insulse marionette. A Go salirono le lacrime agli occhi: nessuno aveva capito niente, niente, di quello che aveva detto. Nessuno aveva anche solo lontanamente pensato che i Giochi della Fame fossero un’ingiustizia, lì, ma solo un modo per dimostrare la vittoria di Capitol e risanare le ferite. La più grande delle quali era, ovviamente, la vendetta. 
Go si mise in piedi e si allontanò con quell’applauso in sottofondo.
« Adesso mettiamo da parte la commozione » continuò Augustus, fingendosi ammirato per il temperamento della dodicenne, quando invece quella non aveva fatto altro che alimentare la sua rabbia, « e chiamiamo sul palco Logan Jeremy Mackinley! »
L’applauso si fece ancora più vigoroso, specialmente dopo che il ragazzo comparve da dietro le quinte, abbigliato con uno stile che in quel periodo a Capitol andava molto in voga: il cosiddetto “punk”. Non si conosceva il motivo per cui gli stilisti avessero scelto quel look per lui, ma Jeyl, seppur lievemente imbarazzato, lo indossava cercando di apparire disinvolto. Pantaloni di pelle nera, maglia di cotone a righe rosse e nere e sopra una giacca con le spalle borchiate. Ai piedi portava degli anfibi dai lacci rossi, varie collane con teschi al collo e i suoi capelli erano stati acconciati in una cresta abbastanza altra, senza contare gli occhi decorati con una matita nera e lo smalto dello stesso colore sulle unghie delle mani.
« Ah, però, Logan! » commentò Augustus, evitando di dargli una pacca sulla spalla per non ferirsi con tutte quelle borchie. « Che originale il tuo abbigliamento! »
« Chiamami Jeyl, Augustus » fece lui, cercando di sorridere.
« Tutti a quanto pare hanno un soprannome, da queste parti » borbottò il maggiore, sedendosi nuovamente, pronto per quella nuova intervista. « Jeyl a cosa è dovuto? »
« Alla mia amica Coraline » spiegò il sedicenne. « Lei dà soprannomi a tutti. E trovava che chiamarmi con i nomi del mio bisnonno e di mio nonno – entrambi morti di vecchiaia molto prima dei Giorni Bui, beati loro – fosse poco appropriato. Ormai Jeyl mi si cuce perfettamente addosso e tutti mi conoscono così. »
« Buono a sapersi, Jeyl » ribatté Augustus. « Parlaci un po’ di questa tua amica, Coraline… sicuro che non è qualcosa di più, per te? »
« Sicurissimo » rispose il ragazzo. « Tutti al distretto pensano che stiamo insieme, non sei il primo a chiedermelo. Eppure siamo come due fratelli! »
« Da quanto tempo vi conoscete? » si interessò l’intervistatore.
« Da… » cominciò Jeyl, contando mentalmente, « … dieci anni. »
« Che storia commovente » ridacchiò Augustus, « una ragazza, Coraline, abbandonata nella friendzone da dieci anni. »
« Ma no! » protestò il giovane, con una risata nervosa. « Ti stai sbagliando! E comunque, se proprio vuoi qualche pettegolezzo, al distretto c’era una ragazza che mi piaceva… »
Augustus prese ancora ad accarezzarsi la barba, come se la cosa lo interessasse. « Oh, raccontaci. »
« Anche lei all’inizio era una mia amica… » cominciò a spiegare Jeyl, anche se con molta meno allegria di prima.
« Ma poi, a differenza di Coraline, ha avuto la fortuna di non essere friendzonata » si intromise il maggiore, facendo ridere gli spettatori.
Il sedicenne fece un sorriso amaro. « Non l’ha mai saputo che mi piaceva. E’ morta durante la rivolta… o almeno credo. »
« E questo è il pegno per le persone che cercano di contrastare Capitol City » aggiunse Augustus. Jeyl strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi. Proprio non riusciva a capire perché quell’uomo non avesse nemmeno un briciolo di empatia, eppure anche lui aveva subito una perdita. « Come si chiamava? » chiese.
« Virginia » rispose l’altro, guardando un punto imprecisato nella platea. « E’ stata catturata durante il terzo anno dei Giorni Bui e portata a Capitol City. Se solo fosse ancora viva… »
Augustus tentennò per un istante. Era la stessa Virginia che stava pensando lui? Decise che il pubblico avrebbe apprezzato quella storiella e che il Presidente si sarebbe complimentato con lui per aver dato un briciolo di speranza agli abitanti dei distretti. Un briciolo, appunto, un minuscolo granello di sabbia in un deserto di paura. Un po’ di speranza andava bene, troppa sarebbe stata dannosa. « Sai, Jeyl? Non voglio affrettare i collegamenti, ma… mi pare che ci sia una Virginia nel mio staff di truccatrici. »
Il cuore di Jeyl si fermò per un tempo che a lui parve infinito. Virginia è ancora viva. Questo fu il primo pensiero che gli balzò in mente. E se non è lei?, si disse subito dopo, preoccupato di poter restare deluso, come se nella sua vita non lo fosse stato già abbastanza spesso.
« Non può essere… » mormorò appena, le mani che presero a tremargli.
« Chiamiamola sul palco! » improvvisò Augustus, alzandosi dalla poltrona e accogliendo a braccia aperte l’applauso del pubblico, estasiato da quel colpo di scena. In quel momento, il presentatore stava vendendo gratuitamente pane per i loro denti.
Jeyl si alzò in piedi di scatto, nel momento esatto in cui una ragazza esile e bassina fu spinta sul palco, anche se non indossava un abito adatto alla diretta: una misera divisa da senza-voce. Si bloccò non appena si ritrovò Jeyl davanti e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Il ragazzo spalancò i suoi, verdi come il prato del Distretto 11 – o almeno, il prato com’era un tempo.
Virginia.
Era lei, era lì, davanti a lui. Era cresciuta, cambiata, era diventata assai più smunta ed esile, ma era lei, con i suoi ribelli capelli rossi e i grandi occhi azzurri.
Corse ad abbracciarla senza dire niente, la strinse a sé come se potesse svanire tra le sue braccia da un momento all’altro.
« Grazie… » riuscì a mormorare, senza un interlocutore preciso.
Virginia nascose il viso nel suo petto e scoppiò in un pianto liberatorio, mentre anche i capitolini in platea si emozionavano a quella scena.
« Direi che stasera abbiamo ricongiunto due cuori » fece Augustus, con un tono a metà tra il soddisfatto e il sarcastico. « Adesso, Jeyl, devi solo sperare di vincere per poterla rivedere, anche se adesso l’idea di baciarla ti farà sicuramente senso… »
Jeyl arrossì e si voltò brevemente in direzione di Augustus. « Lo farò, stanne certo. Tornerò. »
Gli applausi si prolungarono per qualche altro minuto, poi entrambi furono costretti a scendere dal palco.
« Che momenti, amici! » esclamò il conduttore, asciugandosi una finta lacrima che premeva per cadergli da un occhio. « Succede solo agli Hunger Games! Adesso, però, siamo tutti impazienti di conoscere la fanciulla del Distretto 12… diamo il benvenuto a Nymeria Ironborn! »
I capitolini continuarono a fischiare e a incitare, curiosi di conoscere dal vivo gli ultimi due tributi ed elettrizzati perché dopo le interviste sarebbero finalmente cominciati gli Hunger Games, l’evento che tutta la nazione stava aspettando.
Nymeria salì sul palco con un alone di mistero indosso, ampliato dal lungo e spesso mantello rosso che la copriva quasi completamente, testa compresa. Augustus, interdetto, la invitò ad avanzare.
« Nymeria! » esclamò il presentatore, tentando si sbirciare il suo volto sotto lo spesso cappuccio. « Perché non ti togli questo mantello? I miei amici, qui, desiderano vedere il tuo bel visino. »
« Non ti piace, Augustus? » chiese lei, lisciandosi una piega del mantello. « E’ di velluto. »
« Beh, se sei nuda, sotto il mantello, non so come rimediare al tuo problema… ma almeno mostraci il tuo volto. »
« Sei così impaziente di vederlo? » disse, sorridendo appena, anche se le sue labbra erano coperte dall’ombra del cappuccio. Sembrava un personaggio delle fiabe, se solo… « Questo, secondo me, ti piacerà ancora di più. » Detto ciò, si sfilò piano il mantello, lasciando che cadesse a terra dopo qualche istante, rivelando il suo vero abbigliamento.
Tutti i presenti nello studio si ammutolirono, uno dietro l’altro, dinanzi a quella palese provocazione. Nymeria indossava un semplice abito azzurrino, fatto di stoffa semi-trasparente, lungo fino alle caviglie. Aveva i piedi scalzi e sotto era davvero nuda, ma ciò che sconvolse di più i capitolini fu la pelliccia che portava intorno alle spalle. Era la pelliccia di un lupo.
Ora, a chi non avesse conosciuto gli avvenimenti precedenti agli Hunger Games quell’accessorio sarebbe risultato semplicemente di buono – o cattivo? – gusto, perché faceva il suo effetto. Il pelo grigio, la coda che virava verso il bianco, la testa a penzoloni su una spalla, le fauci dischiuse… insomma, era un lupo vero. Ma tutti lì sapevano che il lupo era il simbolo di Randy Wane, il capo dei ribelli. Dopo la fine della rivolta, tutti i lupi di Panem erano stati braccati e uccisi, solo alcuni erano stati conservati per degli esperimenti genetici.
Quello di Nymeria era, in effetti, un riferimento alla ribellione in tutto e per tutto. E anche i capitolini più stupidi se ne accorsero subito.
Nymeria sorrise in quel silenzio tombale e si andò a sedere tranquillamente sulla poltrona di pelle bianca. Qualcuno dalla platea urlò qualche insulto, ma nessuno vi badò, nemmeno Augustus Flickerman. Augustus che, decise, gliel’avrebbe fatta pagare cara anche solo per aver indossato quell’abito.
Ignorando bellamente la tensione, il presentatore si sedette accanto a Nymeria, sorridendo con le labbra tirate. « Allora, Nymeria. Sei davvero incantevole. »
« Grazie » rispose la giovane, fissandolo con uno sguardo pieno di sottintesi. Se proprio doveva morire, pensava lei, avrebbe onorato il defunto Randy Wane prima di lasciare questo mondo.
« L’abitino è persino in tinta con i tuoi occhi! » esclamò l’uomo. « Sarà sicuramente fatto a posta… »
« Lo è » confermò la diciottenne. « Anche se ho sempre odiato i miei occhi. »
« Oh, stai scherzando? Sono meravigliosi, davvero » si complimentò lui, sebbene gli facesse assai strano che i capitolini in studio se ne stessero completamente in silenzio. Si sentivano soltanto le voci di loro due, il che era inquietante, oltre che inusuale.
« Sono gli stessi occhi di mia zia » spiegò Nymeria. « Tutti in famiglia li hanno grigi, come il ferro del mio cognome… grigio scuro, grigio chiaro, grigio tempesta… tranne me e lei. E lei è morta giovane, il che è sempre stato un cattivo presagio per me. »
« Che bella storia » commentò il maggiore, sorridendo sarcasticamente, « la tua sembra essere una famiglia particolare. »
« Non particolare quanto pensi tu » rispose l’altra. « E poi Jason è tutto ciò che mi rimane. »
« Jason? » ghignò l’intervistatore. « Il tributo del Distretto 5? »
« N-no » si affrettò a spiegare Nymeria, « Jason Ironborn, mio fratello. E’ la persona a cui tengo di più al mondo. » E quella era una mezza verità, in effetti. Erano due, le persone a cui teneva di più al mondo.
« Questo nome l’ho già sentito » fece Augustus di sana pianta, rimuginando per qualche secondo. « Se non sbaglio… qualche giorno fa, al telegiornale, tra i nomi dei ribelli scovati. »
Nymeria sbiancò improvvisamente. « Cosa? » domandò, repentina, stringendo le dita sui braccioli della poltrona.
« Ma sì… Jason Ironborn! » esclamò l’uomo, come se avesse avuto un’illuminazione. « Uno degli ex ribelli giustiziati ieri al Distretto 12! »
Il volto della ragazza si fece terreo, come se il sangue le fosse completamente defluito dal viso. Schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca. Rimase immobile per un lasso di tempo che le parve infinito, dopodiché si alzò in piedi di scatto, facendo sventolare le pieghe dell’abito. « Non è possibile! » esclamò, gli occhi spalancati puntati addosso ad Augustus. « Stai mentendo! »
« Mi dispiace, cara » fece lui, fingendosi costernato. « Avrà avuto una morte veloce, stai serena. Adesso, per la tua felicità non ci sarà più nessuno con gli occhi grigi in famiglia. »
Nymeria gli si avvicinò con uno scatto e lo schiaffeggiò con tutta la forza che aveva, gli occhi pieni di lacrime che sarebbero state versate a breve. Voltò i tacchi e scappò da quel palco, facendo sparire la coda di lupo dietro le quinte.
Augustus si massaggiò debolmente la guancia. « Hai capito la Ironborn, che caratterino. » Fece spallucce e, come se niente fosse, riprese a parlare con il pubblico, nonostante ribolisse di rabbia per lo schiaffo appena ricevuto. L’aveva trattata fin troppo bene, quella ragazza, con la storia del fratello. Avrebbe potuto andarci giù più pesante. « Per fortuna queste interviste sono quasi finite. Ora è il turno dell’ultimo tributo: Jeremiah Wilson! »
Jeremiah – o meglio, Jeremy – salì sul palco con un viso un po’ sconcertato per quello che era successo alla sua compagna di distretto e non si rese nemmeno conto di essere arrivato accanto ad Augustus, che fu sul punto di inciampare nella poltrona.
« Ops » eslcamò il ragazzo, imprecando nella sua testa contro quel malcapitato oggetto. « E dire che le entrate in scena una volta erano il mio forte! »
Anche stavolta il pubblico rimase in silenzio. Normalmente avrebbe riso per una gaffe simile, ma dopo l’abito di Nymeria anche quello di Jeremy fu subito smascherato per l’implicito – o quasi – riferimento alla rivolta: indossava dei semplicissimi pantaloni marroni, una camicia bianca e delle bretelle. Un costume semplice e, forse, d’effetto, se solo non avesse rappresentato in tutte le sfaccettature quello che era Hans Coin, il secondo capo della rivolta e seguace di Randy, disperso a differenza sua. Gli stilisti del Distretto 12, quell’anno, avevano proprio rischiato grosso.
Jeremy, per niente in imbarazzo per quella situazione, si grattò dietro la nuca con disinvoltura. « Mi siedo? » domandò ad Augustus. « Oppure questa poltrona tenterà di uccidermi ancora? »
L’uomo sogghignò, riscuotendosi dalle proprie considerazioni. « Non saprei. »
Il ragazzo si sedette con finta circospezione, analizzando il sedile, lo schienale e i braccioli di pelle, poi fece una smorfia compiaciuta. « Uhm, sì, è comoda. »
« Tutti con questi vestiti anticonvenzionali, stasera? » domandò Augustus, sedendosi dopo di lui. « Ammetto che l’anno scorso furono meno… originali. »
« Solo il meglio per il Distretto 12! » ironizzò il minore, accavallando le gambe con nonchalance. « Non trovi che sia il distretto più bello? »
« Uhm » fece Augustus, fingendo di pensarci su, ormai fin troppo irritato da tutti quei tributi. Dopo ventiquattro interviste aveva decisamente i nervi a fior di pelle, « il Distretto 4 ha il mare, ad esempio. »
« Quello non fa per me » ribatté Jeremy. « Non so nuotare. Non potevo di certo imparare a nuotare nelle miniere. »
« Allora la tua teoria crolla » disse l’altro. « Per te cos’ha di bello il tuo distretto, visto che ci tieni tanto? »
« La gente, ad esempio » rispose prontamente il diciassettenne. « O meglio, me. Sono l’attrazione principale di tutto il distretto, e non faccio fatica ad immaginare perché. » Ammiccò alle telecamere e fece un occhiolino assai poco provocante. D’altronde Jeremy non era tutta questa bellezza, era il classico ragazzo in fase adolescenziale.
Augustus si portò una mano alla fronte e scosse la testa. « Hai molta autostima, ragazzo. »
« Dico semplicemente la pura verità » affermò. « Anche tu sei un bel vedere, però, non sminuisci mica, di fianco a me. »
Il presentatore alzò un sopracciglio, raffreddandosi più di prima. « Ti ringrazio. Detto da te è sicuramente un complimento. »
Ci fu qualche istante di silenzio che Jeremy non seppe colmare, ma dopo di ciò disse, per cercare di riparare la situazione con il pubblico – o gli sponsor non sarebbero mai arrivati: « Posso cantarti una canzone? E’ per Capitol, sai… lo showbiz. »
Augustus alzò le mani come in segno di resa. « Come vuoi, basta che non stoni come la ragazzina del Quattro. »
« Allora » cominciò Jeremy, « questa canzone si intitola “Le piogge di Randy”, e fa tipo così: And who are you, the proud Wane said, that I must bow so low? Only a wolf of a different coat, that’s all the truth I know » – e qui si alzò in piedi sulla poltrona, lasciando sbalorditi Augustus e tutti i presenti – « In a coat of gold or a coat of red, a lion still has claws… And mine are long and sharp, my Rigel, as long and sharp as yours. And so he spoke, and so he spoke » – qui la voce si fece più solenne – « the lord of rebellion. But now the rains weep o’er his hall, and not a soul to hear. » Sul gran finale Jeremy spalancò le braccia e qualcuno lo applaudì blandamente, perché aveva cantato una canzone contro la ribellione, anche se il testo era di gran lunga reversibile. La maggior parte, però, la interpretò come lui voleva che andasse interpretata e divenne meno diffidente nei suoi confronti. Con un balzo Jeremy scese a terra e fece un breve inchino.
« Grazie, grazie » disse, con tono esageratamente commosso, « è stato un gran momento, lo riconosco. » Si prese le bretelle con i pollici e, voltandosi verso Augustus, disse: « Lode alla capitale! » Quello gli fece un cenno d’assenso poco convinto. « Ora è tempo che vada, signori. Buona serata e guidate piano! »
Detto ciò, lasciò il palco a grandi passi, lasciando tutti basiti. Augustus si alzò dalla propria poltrona. « Beh, che dire di questi tributi? Uno più singolare dell’altro. » Si aggiustò la cravatta un’ultima volta. « Adesso però devo dare ragione a Jeremiah Wilson, è ora di salutarci! » disse, accogliendo gli applausi che arrivarono. « A presto, amici miei, con l’Arena dei secondi… Hunger Games! »
Le esclamazioni aumentarono e il presentatore le lasciò durare un po’, mentre uno spettacolo di luci artificiali completava la sua uscita di scena. Dopo qualche secondo il palco si oscurò e allora l’uomo fu libero di tornare dietro le quinte. Un po’ di riposo, in fondo, lo meritava anche lui.
Augustus si lasciò il palco alle spalle, ove pian piano si spegnevano le luci, in attesa che il pubblico uscisse dalla sala. Era frustrato, irritato da quelle insignificanti pedine pronte per andare verso il patibolo. Ripensò a Saevera che era venuta a trovarlo prima dello spettacolo, l’unica donna che condividesse il dolore per la sua amata Juliet; avrebbe dovuto sposarla, dovevano essere loro a vivere per sempre felici e contenti, non il suo stupido fratello minore, Hadrian, e la sua stupida moglie, Joy Holy. Annegavano nella felicità del loro matrimonio, dimenticandosi di lui, dimenticandosi di Juliet, dei ribelli, di tutto. Un sorriso si arricciò sulle labbra di Augustus al pensiero che finalmente i ribelli avrebbero pagato per aver rovinato la vita a lui e a molte altre persone.
Camminando dietro le quinte, scorse l’alta ed esile figura di Jewel Walker, nel suo vestito lungo e stretto, composto da edera di cristalli verde smeraldo; Augustus aspettò che la bionda, con le lunghe trecce appuntate sul capo,  lo notasse, per poi avvicinarsi a lei con passo spedito e composto.
« Jewel, sembra che quest’anno il mio stilista mi voglia coordinare con te » sorrise Augustus, prima baciandole la mano e poi mostrandole il suo smoking.
La bionda trattenne per un attimo il fiato, oramai sempre a disagio da quando aveva capito con quanta fragilità le sue parole potessero avere importanza sulla vita di qualcuno. Si sforzò di sorridere, gentilmente, dandogli corda. « Ti ringrazio, Augustus. »
« Beh, sembra che tutto il mondo voglia coordinarsi con te, oramai » fece notare il conduttore, tornando composto con la schiena e scrutando con gli occhi ciò che lo circondava, come per accrescere la credibilità delle sue parole – non che ce ne fosse il caso, « tranne l’Arena » aggiunse infine, guardando la ragazza dritta negli occhi brillanti.
Jewel ebbe un fremito e il suo sorriso si affievolì, mentre sentiva il cuore iniziarle a pulsare nella gola.
Il maggiore sembrò volerla sorpassare, ma poi le si accostò all’orecchio, sempre sorridendo con naturalezza, e sussurrandole con un tono che fece raggelare il sangue della vincitrice: « Che ne dici, J, l’anno prossimo ci vestiamo di rosso? »  






 

Essere innocenti è pericoloso perché non si hanno alibi.
(
Boris Makaresko)













 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Il copia-incolla è un'arte. Anche il copia-incolla del copia-incolla. E anche il copia-in... vabbé, ci siamo capiti.
Sì, vi abbiamo sconvolto un’altra ship: Benvolio è fidanzato e Phoebe/Melanie si incesta col fratello – anche se la sua mentore non vuole ammetterlo.
Si nota tanto che per gli ultimi distretti non avevamo più idee per gli abiti? Sì? Bao oh.
Dài che Augu è simpaticissimo ♥♥♥ Non lo amate anche voi? Sembra un po’ pedo-bear con Lila e Go, in effetti.
E compatite la povera Coraline friendzonata.
Che poi c'è anche un personaggio che non viene detto ma è stato trasformato in senza-voce. E' stato nominato in queste interviste, quindi se indovinate vi diamo un biscottino.
Adesso amate il vestito di Nymeria, che è il premio di _lu per aver indovinato il precedente indovinello. E, beh, la storia del fratello poi sarà chiarita, perché non finisce qui.
L’indovinello per il Bagno di Sangue è questo, di difficolta decisamente più elevata: cosa c’è di strano? Esatto, avete capito bene. In questi tre capitoli abbiamo aggiunto qualcosa di strano, qualcosa che li accomuni a cui sicuramente non avete fatto caso. Se trovate questo qualcosa, avrete un premio. Semplice, no? ♥
Quest'ultima tappa (che si svolge lo stesso giorno del compleanno del bribissimo James Franco) del Cisalpina Tour si chiama “Estathef” perché… è una lunga storia. Allora. C’è un tributo di Ivola, Estefan soprannominato “Tef”, del Distretto 1, su cui una volta Mito scrisse una one-shot per un’inziativa su un gruppo facebook, precisamente una rating rosso con una sua tributa, Salome, del Distretto 6 (in quanto teoricamente ‘sti due andrebbero agli Hunger Games insieme nell’interattiva di Martatrice, sempre se comincia). In questa Rossa Tef veniva paragonato al lupo e Salome a Cappuccetto Rosso. Ciancio alle bande, quindi, Ivola è fissata con Il Trono di Spade e quindi disse “ah, ma quindi dei metalupi di GoT Tef chi sarebbe? Estate (nome del metalupo)?” E allora nacque il nome “Estatef”, solo che è stato trasformato in “Estathef” perché a Mito ricordava il famoso tè freddo. Questo capitolo, quindi, ha questo nome nonsense in riferimento all’abito di Nymeria, senza contare che il nome Nymeria viene proprio da uno dei suddetti metalupi del Trono di Spade, di cui è anche cominciata la quarta stagione da poco e Ivola sta sclerando da giorni perché finalmente è morto uno che le stava sul platano invece dei suoi preferiti, come accade sempre. Mentre Mito si dispera perché non riesce a riprendersi dalla morte del suo personaggio preferito, appunto.
Adesso applaudite per questa bella storiella, noi vi diamo un biscotto.
QUI vi lasciamo una bellissima immagine di Randy cuoroso... o curioso?
La canzone che Jeremy canta nella sua intervista è volutamente ispirata a “Le piogge di Castamere”, colonna sonora sempre de Il Trono di Spade – giusto per restare in tema. QUI il link del testo ufficiale, la traduzione la scrive Ivola ché quelle trovate sul web in giro fanno un po’ piangere. (TRADUZIONE: E chi sei tu, disse il fiero lord, per dovermi inchinare così in basso? Solo un gatto con una pelliccia diversa, ecco tutta la verità che so. In una pelliccia d’oro, o in una pelliccia rossa, un leone ha sempre i suoi artigli. E i miei sono lunghi e affilati, mio lord, lunghi e affilati proprio come i tuoi. Così disse, così disse, il lord di Castamere, e ora le piogge cadono sulla sua casa, con nessuno lì a poter ascoltare, e ora le piogge cadono sulla sua casa, senza nessun’anima lì ad ascoltare.) Non vi dico di cosa parla questa canzone perché è spoiler (non è vero, è solo un'incitazione a vedere GoT, se non l'avete ancora fatto, pandracchi. Ok, Ivola, forse ora dovresti smetterla).
Quindi… Speriamo davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, è stato una fatica come al solito e ci abbiamo sudato tanto, tra connesioni internet scarse, improbabili modi per betare, attacchi di ridarella, lacrime amare… Bao. Vi salutiamo, con un alone di mistero perché nessuno sa di cosa tratterà il prossimo capitolo. ZANZAN. Un po’ di suspense non fa mai male.
… Guidate piano! (cit.)

Bao e cotolette.
 
pandaivols.


 

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Capitolo 8
*** We won't see the setting sun. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

We won't see the setting sun.


.




 
There’s no place where we can run
Baby, we won’t see the setting sun
Will you take away my fear?
Look around, walk around
There’s no place where we can hide tonight.

 [ Armisael - The Electric Diorama ]


 
I. Primo tempo – L'ultima notte.
Jewel stava ancora osservando la pioggia battente fuori dalla finestra, come al solito. Era tornata in quel posto alla distanza di un anno ininterrotto di lavoro, dove non doveva far altro che sorridere e apparire forte, come la volevano tutti; il motivo per cui Capitol City l'aveva fatta vincere: per avere il suo gioiello da ostentare al mondo.
Automaticamente si toccò l'anulare sinistro, lì dove portava quell'anello tanto amato quanto odiato, quel piccolo oggetto smeraldino che Chris le aveva regalato prima di partire per l'Arena, lo stesso con cui per sbaglio aveva ucciso Blaze con quella lama nascosta al suo interno.
Ma come poteva fingere di sorridere se tutti quelli che amava erano morti per colpa sua? Come, se suo marito oramai era diventato un'ombra malinconica?
Si sentiva sfruttata, non era più lei, non lo era mai stata da quando aveva vinto e ora si sentiva sola, non aveva più nessuno: suo padre morto nei Giorni Bui combattendo al fianco di Capitol City, Lucy e la madre morte per i suoi sciocchi errori, persino Blaze, il suo Blaze... L'unico rimastole affianco era stato Chris, ma ora che l'aveva sposato, l'uomo sembrava aver dimenticato di amarla, era diventato quasi un vegetale, quando prima le aveva dedicato tutta la sua vita e lei non se ne era accorta. E a Jewel faceva schifo la sua vita, odiava ascoltare la voce di Maximus che voleva costringerla a fare qualche intervento chirurgico, o sentire i rimproveri di Klaire. Ma cos'altro poteva fare?
Due braccia esili le circondarono la vita e delle soffici labbra al gusto di ribes le baciarono una guancia umida.
« Cosa c'è che ti preoccupa, J? » chiese Naomi con tono suadente. « Pensi che il tuo bel maritino possa tradirti? O stai escogitando un modo per uccidere anche lui? » sghignazzò. « Stavolta la lama puoi fartela impiantare direttamente sotto le unghie, ora che hai un mucchio di soldi. Domani mi faranno la manicure prima di entrare in Arena, giusto? »
Jewel non si scompose, aveva lo stesso sguardo triste e vuoto di prima. Si allontanò di poco, andandosi a sedere cautamente.
« Sai, anche io prima ero come te. Una puttana » iniziò la bionda, con un tono calmo e innaturale. Jewel Walker aveva così tanto odiato Naomi Free in passato, che ora non riusciva più a farlo, perché aveva capito che non aveva più senso. « Poi, però, ho vinto i Giochi. »
La mora strinse i pugni dalla frustrazione causata da quelle parole, sentiva le unghie penetrarle nei palmi, ma forzò un sorriso malizioso.
« E cosa c'è che ti ha fatto cambiare così tanto, mia cara mentore? » domandò con finta dolcezza e interesse, schernendola.
Le labbra della vincitrice tremarono a quel nome che le faceva male solo pronunciare e gli occhi le diventarono più grandi e lucidi di prima, scossi da un fremito: « Lucy. »
Naomi impallidì e il suo corpo divenne una statua di pietra. « Smettila di fare la vittima » le ringhiò contro, trattenendo la rabbia, « perché oramai hai vinto. »
Si affrettò a rinchiudersi in camera, perché anche se sapeva che quella non era la Lucy - la sua Lucy - di cui parlava lei, le faceva lo stesso male. Si spogliò il più rapidamente possibile, quasi strappandosi i vestiti di dosso con tutta la frustrazione e la rabbia che aveva addosso, buttandoli a terra con foga; si accucciò ai piedi del letto e osservò la sua figura nuda allo specchio dell'armadio, lasciando che il mascara calasse sul viso.
Lo faceva sempre, perché aveva bisogno di vedere la persona orribile che era diventata, aveva bisogno di dirsi quanto facesse schifo. Perché lo sapeva che non era né Capitol City, né i ribelli. Il vero mostro era lei.
« Perché non la lasci in pace? »
La porta si aprì e la voce dura di Mason la fece scattare in piedi. Il moro la osservò, confuso, non riuscendo a trovare la Naomi che aveva sempre conosciuto. Conosceva ormai alla perfezione ogni singola cicatrice sul corpo della coetanea, sapeva di Lucy, sapeva del suo dolore, sapeva di quanto la ragazza si odiasse e sapeva anche che era l'ultima contro cui voleva mettersi, perché ricordava bene che lei alla roulette russa era la migliore, quando li avevano catturati. In fondo Mason era quello che la conosceva di più, l'unico che le era rimasto.
Ma chi era quella povera ragazza che gli si stava avventando contro e lo baciava avidamente, come se ne valesse della sua vita? Non era uno dei loro soliti baci fatti solo di lussuria, quello era disperato e supplicava pietà per una povera bambina privata dell'amore. Non stava stringendo Naomi fra le sue braccia, ma qualcuno di fragile, spoglio e in cerca di aiuto.
Piano le loro labbra si allontanarono e Mason osservò il viso di Naomi che non riusciva a guardarlo.
« Se proprio domani devo morire, voglio almeno godermi l'ultima scopata decente della mia vita. »
 
* * *
 
L'unica cosa di cui Mizar Rankine era ufficialmente certo era che odiava Clarity Valentine con tutto se stesso. Non riusciva proprio a capacitarsi di come si era lasciato coinvolgere in quella pagliacciata.
« ... E quindi vi dichiaro marito e moglie » sospirò alla fine, felice di aver concluso quell'interminabile cerimonia, benché avesse saltato molti pezzi e ne avesse inventati altri.
Gli occhi verdi di Peregrine si rifletterono in quelli più scuri della sua nuova moglie, che rispondeva con un sorriso altrettanto dolce.
Il rosso guardò impaziente i due, mentre si sfioravano delicatamente e con un poco d'imbarazzo. Teoricamente sarebbe stato un momento romantico, ma Mizar non solo ne aveva le palle piene, ma era convinto che di lì a poco avrebbe potuto vomitare sulla torta che Byle aveva fatto preparare per loro.
« Se non l'avessi capito ora puoi baciarla, scoparla e sfornarci altri tre gemelli » commentò acido come al solito e allontanandosi verso il tavolo dove vi era servita la cena. « Dammi una fetta di torta, Byle, non ne posso più. »
Il pel di carota sorrise gentilmente, porgendogli una torta e sorseggiando il suo tè. « Per una volta hai fatto una cosa buona, Rankine. »
L'altro emise un grugnito contrariato, sentendosi puntati addosso gli occhi di colori differenti dell'accompagnatore, sotto quello spesso strato di mascara.
Ty alzò gli occhi al cielo, sbuffando per il comportamento dello stilista, mentre Perry ridacchiò, non badandovi. Quando la castana tornò a fissare suo marito, finalmente quello si decise a baciarla, accompagnato dagli applausi calorosi del loro staff e dal disgusto non proprio silenzioso di Mizar.
Il ragazzo cercò di prendere in braccio la sposa, con ancora addosso i vestiti dell'intervista, ma appena provò a sollevarla, gli sembrò di portare in braccio un macigno. La fece alzare di pochi centimetri da terra, per poi posarla nuovamente, imbarazzato. Prese un respiro profondo. « Ok, riproviamo » mormorò con decisione. Nuovamente, cercò di alzarla, diventando rosso in viso per lo sforzo, mentre Ty si reggeva attorno al suo collo con un braccio, annoiata e al quanto a disagio per la figuraccia che stava facendo suo marito di fronte agli altri. La vergogna però toccò l'apice quando Perry si sforzò troppo, emettendo un piccolo ma chiaro rumore, che attirò l'attenzione di tutti nella stanza. Colto alla sprovvista, il castano lasciò la presa, facendo cadere a terra la ragazza, che non si fermò dal bestemmiare qualche parola.
Perry sgranò gli occhi, mortificato e pronto a scusarsi, quando Ty si rialzò furiosa e gli puntò un dito contro. « Non osare fiatare » gli ordinò, sollevandolo e riuscendolo a prendere in braccio al primo tentativo. « La torta tienicela per colazione, Byle » fu l'ultima cosa che disse prima di sparire nel corridoio.
« Non ci sarà nessuna colazione se domani sarete ne- » la bocca dell'odiato stilista venne coperta da quella dell'accompagnatore.
« Più torta per te » affermò alla fine, solo per farlo stare zitto e per dare un po' di speranza ai neo-coniugi.
Fra risa e sghignazzi, Ty si chiuse la porta alle spalle e si buttò assieme al ragazzo sul letto, che non perse tempo per baciarla con passione e iniziare a spogliarsi.
« Marito e moglie » mormorò la giovane, fra un bacio e un altro. « Ma ci pensi? »
Perry accarezzò la vita della diciottenne, mordendole il collo. « Ed è anche la nostra prima notte di nozze » alluse, facendole l'occhiolino.
Lo sguardo di Clarity si fece serio, ribaltando la situazione e immobilizzando il corpo del giovane sotto al suo. « Non ho intenzione di rimanere incinta un'altra volta, Peregrine D'Erin. Specialmente in uno stupido reality show in cui potrei morire. »
Il sorriso del coetaneo si spense subito, sostituito da un'espressione preoccupata che l'altra condivise. La strinse semplicemente fra le sue braccia, cullandola. « Ti ricordi quando mi snobbavi? »
Ty sorrise dolcemente, ricordando gli anni passati. « Prima ero solo una ricca ragazzina viziata che odiava le proprie sorelle e poteva addirittura permettersi dei domestici. Ora guardami: ne ho appena sposato uno, sono madre di tre gemelli e molto probabilmente domani morirò. » Perry le sfiorò le labbra coi polpastrelli e la giovane chiuse gli occhi, trattenendo le lacrime che sembravano voler improvvisamente calare dai suoi occhi, mentre l'altro posava le labbra delicate sulle sue nocche. « Pensi che li rivedremo? »
Il marito tacque per qualche istante, rivolgendo i pensieri ai propri figli. « Non lo so » ammise, baciandole innocentemente la fronte.
 
* * *
 
Più Nate cercava di ricordare e più le ombre nella sua mente si facevano confuse e offuscate. Chi era prima? Come ci era finita lì dentro? Eppure Natalie Dawson aveva sempre abitato in quell'ospedale da che ricordasse. Ma oramai che importava? Non vedeva l'ora di finire quello stupido gioco e tornare a casa. Gli mancava confidarsi con Babilon, sentirsi chiamare "principessa" da Chris, ma più di tutti gli mancava Tonio, il suo adorato Tonio.
Solitamente il viso di Nate era sempre austero e distaccato, minime erano le sue emozioni, ma stavolta si rabbuiò ancora di più a come aveva rifiutato di sposarlo, a come gli aveva spezzato il cuore proprio prima di partire. Se Nate avesse dovuto scegliere una persona con cui vivere per sempre di certo sarebbe stata Antoin, ma sposarsi... Le sembrava di ritornare in gabbia, la stessa da cui era riuscita a uscire dopo una vita intera.
Gli occhi scuri e a mandorla di L la fissavano penetranti senza batter ciglio, con un pollice in bocca e rannicchiato sulla sedia con le ginocchia al petto. Erano circa venti minuti che continuavano a fissarsi imperterriti senza proferire parola e nessuno dei due sembrava cedere, curiosi di sapere l'uno dell'altro.
« Tu non sei Nate » mormorò L, studiandola.
La bionda non si scompose, bevendo un sorso d'acqua dal calice di vetro. « E chi dovrei essere? » chiese, interessata al gioco a cui i due avrebbero potuto dar vita.
« E' incredibile come siate simili » continuò il moro, che sembrava non darle retta.
« E' incredibile come non ti abbiano mai preso, Elle » lo stuzzicò, ghignando leggermente. Sulla sua sedia, però, il diciottenne non si smontò, anzi, restò interessato al proseguimento del discorso. Sapeva che la bionda era scaltra e furba e voleva capire fino a dove sarebbe riuscita a spingersi. « Sei decisamente troppo intelligente per i miei gusti. »
Il ragazzò allungò una mano verso il piatto di fragole con panna, deciso a deliziarsene, ma un sibilo tagliò l'aria e una forchetta si conficcò nel tavolo al posto della mano di L, che fu costretto a ritirarla, volgendo un'occhiata truce alla compagna. « Dobbiamo essere tutti a tavola, prima di poter iniziare a mangiare » obiettò quella, aggiungendo: « e non poggiare i gomiti sul tavolo, è maleducazione. »
Lawliet obbedì, valutando che fare come gli era stato detto non costituiva un problema. Non aveva paura, aveva vissuto cose peggiori di una ragazzina disturbata e dal passato oscuro, lui stesso aveva un'identità da celare, anche se tutti quelli che ne erano a conoscenza erano morti, persino il suo fidato e vecchio Watari.
Ripensò a lui e a come l'aveva accudito in tutti quegli anni, mentre un senza-voce si avvicinava con in mano un vassoio argentato. Un tempo era Watari a cucinargli, era convinto che i capitolini l'avrebbero servito solo quando i ribelli avrebbero vinto la guerra e non perché era stato estratto per uccidere ventitré persone.
Nate si alzò, andando incontro al senza-voce e portando lei stessa il pesce cucinato in tavola. Dal corridoio, invece, spuntò Althea Wellwood, la loro bionda accompagnatrice nei cui capelli vi era scolpita la testa di un leone. Si sedette senza tanti convenevoli e neanche degnando i suoi protetti di uno sguardo.
« Vi consiglio di mangiare quanto più potete, non so se potrete di nuovo farlo una volta arrivato l'indomani » disse schietta e con la solita punta di acidità nella voce.
« Fugu » affermò Nate, ignorando l'altra, quasi entusiasta nel nominare il termine corretto del piatto. « E' molto difficile cucinare il pesce palla » spiegò, sedendosi nuovamente al suo posto e ricordando di aver letto alcune cose in proposito nella biblioteca degli Addams nel Distretto 3. « Trovo che i pesce palla siano carini. Sembra che possano scoppiare da un momento all'altro. »
« E' solo un pesce » la smontò la maggiore, già addentandone una fetta e lanciando un'occhiata al moro tributo. « Ti fa tanto schifo metterti composto? »
L la ignorò, notando il ghigno che la compagna le stava rivolgendo, mentre alzava in alto il calice. C’era qualcosa che non andava in quella situazione, qualche dettaglio che gli era sfuggito…
Solo guardando Nate negli occhi capì ogni cosa. Si alzò immediatamente, con appena un « Ferma, aspetta! », ma il rumore di uno scoppio improvviso bloccò ogni suo tentativo di limitare il danno. Qualcosa lo investì. Le mura si riempirono di schizzi di rosso, così come il pavimento, il tavolo e ogni mobile lì vicino; sia lui che Nate erano ricoperti di sangue e vi erano pezzi di membra e resti di materia grigia sparsi ovunque. Di Althea, invece, nessuna traccia. La testa dell’accompagnatrice era esplosa e quello che era rimasto del suo corpo si era accasciato sulla sedia.
L sgranò gli occhi: la ragazza del Tre aveva sabotato in qualche modo il pesce palla, trasformandolo in una bomba. La cosa peggiore era che avrebbe potuto far saltare in aria anche lui, ma la bionda era perfettamente a conoscenza che L mangiava praticamente solo dolci.
« Il primo morto dell'edizione. » La diciassettenne si portò un dito insanguinato alla bocca, assaporandolo e storcendo il muso. « Non è dolce. Non sarebbe piaciuto nemmeno a una zanzara, figuriamoci a te » disse, allontanando il piatto dalla sua vista come se ne fosse disgustata. « E poi sono convinta che il sangue di qualsiasi altro accompagnatore sarebbe stato più rosso e dolce del suo, che peccato. »
« Come il proverbio? » chiese Elle, ritornando a sedersi nella sua solita posizione. « L’erba del vicino è sempre più verde? »
La Dawson alzò un sopracciglio. « E che c’entra, scusa? »
Il moro alzò le spalle, apparentemente rilassato ma profondamente – e forse piacevolmente – sorpreso. « Per dire. Me l'hai ricordato. »
L'altra si sforzò di sorridere maliziosamente a quel pensiero. « Giusto. Il sangue del vicino è sempre più rosso. »
 
* * *
 
Beryl finì di passare il rossetto perlato sulle labbra di Rhymer, osservandolo estasiata e quasi senza parole.
« Come fai a essere così bello anche da donna? » domandò la ragazza, sognante, con una punta di gelosia nello sguardo.
Aveva praticamente costretto lo stilista a vestirsi e truccarsi da donna per puro divertimento, dopo che lo aveva finalmente convinto a potersi fidare di lei (grandissimo errore) e a raccontarle la storia di lui e Mizar; ma ora che lo osservava, constatò che era anche la donna - oltre che l'uomo - più bella che avesse mai visto. Anche più di Chord! Non che avesse mai visto Chord vestito da donna, s'intende. Avrebbe tanto voluto essere così bella agli occhi del fratello, però.
Rhymer sorrise malinconicamente, accarezzando i lunghi capelli castani di Beryl e facendole poggiare la testa sul suo petto. La ragazza si appollaiò accanto a lui sul divano, abbracciandolo.
« Rhy, perché tu e Mizzi non tornate assieme? »
L'uomo dai capelli blu sospirò, cominciando ad accarezzare la ragazza come se fosse un gatto. Nessuno si sarebbe stupito se quella avesse iniziato a fare le fusa.
« Io e Rankine non siamo mai stati assieme, fragolina » le ricordò, faticando a riportare a galla cose che aveva sempre sperato di poter dimenticare, invano.
La castana sollevò leggermente lo sguardo, curiosa. « Ma un tempo vi amavate, giusto? Insomma, lui ti amava, te l'ha detto » piagnucolò, come una bambina insoddisfatta dalla fine di una fiaba senza il "e vissero tutti felici e contenti".
« Non amava me, capisci? » cercò di farle comprendere gentilmente in un sussurro.
« Amava Mare? » domandò e l'altro confermò con un cenno malinconico del capo. Beryl per una volta stava pensando prima di partire col suo fiume di parole, ma tutto ciò che le uscì fu: « Ma in fondo che male c'è ad ammettere i propri sentimenti? Lui l'ha fatto e tu pure... Non penso che una persona debba aver paura di amare. »
Lo stilista sospirò e la ragazza si alzò col busto, implorando una risposta con gli occhi. « La differenza è che io gli ho mentito per tutto il tempo. » Beryl si alzò in piedi, cercando di chiarirsi le idee e stampando un bacio sulla guancia dell'altro. Il maggiore le baciò la fronte, lasciandole il segno del rossetto. « A domani, fragolina. Cerca di dormire bene. »
Beryl sparì nel corridoio per entrare nella stanza di Ocean il più silenziosamente possibile - senza successo - e lo trovò a leggere un libro di Rhymer sul mimetismo, mentre teneva fra le mani una corda e la intrecciava meccanicamente, come gli aveva insegnato suo fratello Elijah quando era nella marina.
« Devo trovare il modo per far fare loro pace, Ocean. E domani non ci sarò più a tenerli d'occhio! Come faccio? » si lamentò, iniziando a camminare su e giù per la stanza, mentre il biondo richiudeva il libro e la seguiva con lo sguardo.
« Non è la tua battaglia, Beryl. Devi pensare solo a domani, d'accordo? »
« Invece sì che lo è! Ci tengo a lui. Loro si amavano, lo sapevano, ma è stato solo un grande malinteso, capisci? » obiettò la castana, cercando di tenere basso il volume della propria voce per non farsi sentire da Rhymer. « Il problema è che Mizzi credeva di amare un'altra persona, ma non è così! E' come ogni volta che sto con te mi sembra di tradire Chord, tanto da farmi impazzire! E Chord neanche sa che lo amo, perché pensa sia solo sua sorella e quindi mi fa pensare che sarebbe più giusto stare con te, ma tu hai Leila e io... »
Improvvisamente, la ragazza del Quattro si fermò all'istante, tappandosi la bocca. Era stata capace di farsi sfuggire l'unico segreto che era riuscita a mantenere per anni, semplicemente per un piccolo attacco di panico. Si maledisse per la sua lingua lunga e fin troppo sincera.
Ocean sbarrò gli occhi, sorpreso. Cosa avrebbe dovuto fare in quel momento? La compagna aveva appena confessato di provare qualcosa per lui - e non solo per il fratellastro - ma proprio non ce la faceva a vederla sotto questo aspetto, perché l'aveva sempre considerata come una sorella minore, qualcuno da proteggere, un animaletto da compagnia tutto da coccolare... Okay, forse stava andando verso l'esagerazione, ma Ocean amava Leila, ne era convinto, e avrebbe continuato a farlo, come sapeva che Beryl avrebbe continuato ad amare Chord, ora che aveva confermato di provare qualcosa di più.
La ragazza fissò il pavimento, imbarazzata, torturandosi i capelli e le mani. « E' che semmai Mizar riuscisse ad ammettere i suoi sentimenti, forse anch'io saprei cosa fare. Capisci? »
Il biondo si scrutò attorno, per controllare dove fossero le telecamere e a quel punto si alzò. Nessuno li avrebbe visti, a meno che Capitol City non voleva divertirsi a mandare filmati inediti per tutta Panem. Si ritrovò di fronte la figura bassa ed esile della compagna, prendendole il viso fra le mani.
« Non è tradire, Beryl. Non lo è mai quando si sta per morire. »
Si abbassò e fece unire le loro labbra nel modo più dolce possibile, circondandosi a vicenda in un abbraccio.
« Grazie, 'Cean » sussurrò la minore a fior di labbra, affondando il viso nel petto nel compagno.
Dopodiché, qualcuno suonò alla porta dell'appartamento.
 
* * *
 
Jamie non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, di cosa sarebbe accaduto d’ora in avanti. Quel ragazzo del Distretto 7 che la perseguitava aveva praticamente fatto capire al mondo che un tempo loro due si conoscevano, che lui teneva - tiene - a lei. Ma allora perché Jamie non ricordava nulla? Più si sforzava e più la sua mente si offuscava, provocandole un gran mal di testa. Le apparivano solo immagini di fumi, dei grandi boati che le tappavano le orecchie, luci e fuochi ovunque come se tutto il mondo fosse in festa, ma invece delle risa, Jamie sentiva le grida... Le grida della sua famiglia.
Istintivamente ritirò le gambe al petto, chiudendo di scatto gli occhi e tappandosi le orecchie.
Non era reale, oramai era tutto finito, continuava a ripeterselo, come faceva la vecchia Maelh quando aveva gli incubi. Ma Maelh ora non c'era più a rassicurarla, ora Jamie era sola, non aveva più nessuno. Ricordò come l'anziana signora che si era presa cura di lei per tutti quegli anni era venuta a farle visita al Palazzo di Giustizia prima di partire. Non le aveva dato consigli su come vincere, ma su come vivere la vita stessa e per questo Jamie gliene sarebbe stata per sempre grata. Ma poi aveva visto i suoi occhi sgranati, la debole figura della donna accasciarsi e le forze abbandonarla. Quella volta Jamie aveva gridato, non ricordava neanche da quanto non aprisse bocca, eppure aveva chiamato aiuto, disperata e fra le lacrime; ma l'unica cosa che aveva ottenuto era stato lo scherno dei Pacificatori.
« Ah, ora parli » l'aveva derisa uno, mentre l'altro lo seguiva a ruota con gli sghignazzi, prima di portare via il cadavere, affermando che oramai non c'era più nulla da fare.
Come potevano esistere persone così crudeli? Come potevano i Giochi della Fame spegnere il sorriso perennemente dipinto sulle labbra di Jamie? Come erano riusciti a infrangere la sua pace interiore e portarla sull'orlo delle lacrime in un modo così disperato e vile?
Jason sentì i singhiozzi e, alzando il capo dal suo bicchiere di scotch - Ice gli aveva permesso di berlo, alla fine -, seguì lo sguardo dell'accompagnatrice fino al divano, dove vi era rannicchiata la sua compagna di distretto.
Il diciassettenne si sentì addosso lo sguardo azzurrino di Ice sotto quelle ciglia finte di una tonalità ancora più accesa; ma concordava con la sua muta decisione nel voler tirar su di morale Jamie. Si poteva dire che Jason odiasse l'intera truppa del suo staff, tranne Ice, perché almeno lei era sempre gentile e disponibile ad aiutarli, era un po' come la loro sorella maggiore e in qualche modo colmava la lontananza che lo separava dalle sue sorelle, benché ovviamente non potesse rimpiazzare il legame speciale che c'era fra lui ed Elizabeth. Istintivamente si grattò la voglia rosso scuro sul collo e poi si alzò dal tavolo all'unisono con la donna dai capelli argentei, andando a sedersi vicino alla compagna.
Quando l'accompagnatrice poggiò la propria ghirlanda di fiori sul capo di Jamie, quella alzò lo sguardo verso gli altri due, che presero posto accanto a lei.
« Sei turbata per quel ragazzo, vero? » chiese gentilmente Ice, prendendo le mani della castana tra le proprie.
« Forse non è come ha detto lui » ipotizzò Jason, « forse si è inventato tutto ed è solo uno che ti ha preso di mira. »
« Non credo metterebbe in scena uno spettacolo simile » disse sinceramente la donna. Jamie chinò il capo, affranta e l'accompagnatrice se ne dispiacque ancor di più. « Non sai proprio chi è? » La quattordicenne scosse la testa. Era inutile oramai, ogni volta che provava a ricordare, la sua mente sprofondava ancor di più nella nebbia.
Jason sospirò, circondando le spalle di Jamie con un braccio col quale la ragazza si sentì stranamente protetta. « Senti, non so quanto può essere d'aiuto » iniziò il riccio, « e a quanto pare a nessuno di noi piace parlare molto, ma se può farti sentire bene, ora ti racconterò una storia. » Il moro cercò con gli occhi l'approvazione dell'albina, che gli sorrise teneramente. « C'era una volta un giovane bibliotecario che non si sa per quale ragione si sposò ed ebbe dei figli. Amava il suo lavoro tanto quanto amava i suoi bambini, ma la moglie non era contenta di ciò, lei non voleva altro che arricchirsi. Però la famiglia, seppur divisa, si voleva bene. Poi all'improvviso scoppiò una grande guerra, che li costrinse a fuggire e nascondersi. Incontrarono un colonnello di nome Hugo Fitzwilliam e il suo fidato soldato semplice Charles Bingley; furono di grande aiuto perché senza di loro probabilmente sarebbero tutti morti. Però la moglie del bibliotecario e le due figlie minori morirono, così come il colonnello Fitzwilliam. L'uomo si rese conto che la guerra non era come nei libri che aveva custodito per una vita intera, non sempre i buoni vincevano e non tutti i personaggi sopravvivevano. La maggiore delle figlie, Jane, si chiuse in sé stessa, perché lei... lei ci teneva tanto a Fitzwilliam. Il secondogenito aveva una gemella, Elizabeth, e lui... lui le voleva bene e ne voleva anche a Jane; così, anche se era un po' geloso, non disse nulla quando lei trovò conforto in Bingley, perché lui non voleva vederla triste e se quello era l'unico metodo per confortarla, allora andava bene. Però... Però l'aria era malsana, non... e Mary... Mary era la terzogenita, sì, ma lei non era più la stessa, non... non ragionava... » Jason s'interuppe, notando che oramai non riusciva più a far filare una frase e che la sua voce si stava iniziando ad incrinare. Si massaggiò le tempie, sospirando. « Scusa, Jamie. Effettivamente non è una bella storia, non ha un lieto fine. »
Improvvisamente un bacio si posò sulla guancia del diciassettenne e lui fu sorpreso nel vedere la sua compagna che gli sorrideva comprensiva, posando le proprie mani sulle sue. Si addolcì, cercando di scacciar via la malinconia, ma d'un tratto la voglia rosso scuro sul collo gli prese a dolere in un modo così lancinante che gli sembrava di stare per svenire.
E ciò poteva significare solo una cosa: era accaduto qualcosa ad Elizabeth.
 
* * *
 
Zhu non si dava pena di nascondere il broncio che aveva sulla bocca, stando a braccia conserte il più lontano possibile dalla sua compagna di distretto e sbuffando sonoramente ogni tanto. Wednesday, invece, se ne stava tutta pimpante accanto a Winnow, curiosando su cosa lo stilista stesse disegnando. La dodicenne aveva un sorriso trionfante. Entrambi i tributi erano in "punizione", ma era come se la mora avesse vinto.
Tutto era iniziato a cena, da una raffica di polpette lanciate a mo' di catapulta con un cucchiaio, alle quali Zhu aveva perso la pazienza e aveva risposto, dando vita a una vera e propria guerra di cibo. Winnow non si era fatto problemi, era rimasto a farsi i fatti suoi senza dire nulla, ma Saevera non li aveva uccisi semplicemente perché doveva evitare che si ferissero prima di entrare in Arena. Li aveva letteralmente costretti a stare lontani, seduti e in silenzio senza far nulla, supervisionati dallo stilista, nel frattempo che lei andava a chiamare un senza-voce per ripulire tutto quel macello. La punizione era che i due tributi del Sei avrebbero dovuto aiutare a far tornare la sala splendente come prima.
L'accompagnatrice dai lunghi capelli viola rientrò furibonda e rigida come sempre, accompagnata da una senza-voce dalla pelle scura, gli occhi blu, i capelli castani raccolti in uno chignon come tutte le altre domestiche e la tipica divisa austera.
Zhu sgranò gli occhi appena la vide.
Katae.
Era lei! Impossibile confonderla, perché era la ribelle per cui Zhu aveva quasi tradito il padre, colei che l'aveva terribilmente confuso. Quella rimase immobile nel riconoscere la figura dello sfregiato, non parlò perché non poteva, ma i suoi occhi lo fecero per lei. Quando però Saevera le diede uno scossone, si accovacciò immediatamente sul pavimento, iniziando a lavare il pavimento con secchio e spugna. L'accompagnatrice ordinò agli altri di unirsi, così Wednesday cominciò a passare la pezza bagnata sul tavolo, mentre Zhu si unì nel pulire a terra.
Voleva parlarle, dirle qualsiasi cosa gli venisse in mente; effettivamente non sapeva nemmeno cos'avrebbe potuto anche solo balbettare, ma voleva ricevere almeno un cenno in risposta, per fargli capire che si ricordava di lui. Ma come fare? Si guardò alle spalle: Winnow stava ancora facendo qualche schizzo sul suo blocco da disegno, mentre Saevera era sparita nel corridoio. Colse al volo l'occasione e si avvicinò a gattoni alla senza-voce, facendo sfiorare le loro mani, seppur visibilmente nervoso.
« Come hanno fatto a prenderti? » sussurrò, attirando l'attenzione dell'altra.
« Che cosa diavolo stai facendo, moccioso? » tuonò l'accompagnatrice, che gli sbucò alle spalle, facendolo sussultare. « Ti ricordo che i senza-voce sono dei ribelli e come tali devono scontare la propria pena. Non è visto di buon occhio socializzare con loro, non puoi parlarci, specialmente vista la posizione di tuo padre come aiutante di Capitol City. O vuoi che venga a ustionarti anche l'altra metà della faccia? »
Zhu s'irrigidì. Come faceva quella donna a sapere che era stato suo padre a sfigurarlo? La verità, però, era che Saevera poteva pure fregarsene del mondo e rimanere perennemente insoddisfatta, ma si informava bene di chi la circondava, perché le faceva comodo e perché, semplicemente, lei non si fidava più di nessuno da anni.
« E quello dell'Undici? E' stato Augustus Flickerman a- »
« Tutto ciò che fa Flickerman è per audience » lo interruppe. « E la cosa che mi fa venire il nervoso è che ci riesce anche bene. Tu » puntò il dito verso Katae, considerando la discussione terminata lì, « vai a cambiare l'acqua del secchio. E tu » stavolta afferrò Zhu per la maglia, costringendolo ad alzarsi in piedi e spintonandolo, « piuttosto renditi utile e pulisci il porcile che avete combinato sulle pareti. »
Wednesday sghignazzò nel vedere il compagno maltrattato. « Posso andare in bagno? » chiese in tono fintamente docile, posando la pezza.
« Come ti pare » sbuffò l'accompagnatrice, andando a visionare una pila di fogli sul divano.
Mogio mogio il moro cominciò a togliere i residui di sugo sul muro, ripensando alle parole della donna. Ora Katae aveva perso la sua voce, in qualche modo era stata sfigurata anche lei, seppur non in così bella vista.
D'un tratto si sentì il rumore di un tonfo provenire dalla camera della Addams, che attirò i presenti.
Saevera sbuffò e si alzò dal divano, andando a vedere che cosa stesse succedendo. « Che cosa diavolo sta combinando ora quella là? »
Zhu la seguì, incuriosito, stando a molti passi di distanza da lei, mentre Winnow sembrava non interessato e intento a farsi gli affari suoi.
La donna aprì la porta della camera e ciò che vide fu la dodicenne intenta a strangolare la senza-voce, a terra, piena di tagli sulla pelle provocati da un coltello sbalanzato poco lontano dalle due e che probabilmente la minore aveva rubato dalla tavola.
Wednesday era scocciata dal fatto che quella si dimenasse, al contrario invece di suo fratello Pugsley, che era facile da sottomettere; ma in fondo così era più divertente e per questo la corvina rideva istericamente, eccitata dal brivido di quel "gioco". Zhu si precipitò immediatamente su di lei, scaraventandola a terra, mentre Saevera li acchiappava entrambi per la collottola per dividerli.
« Stava per ucciderla! » gridò il giovane, accusando l'accompagna e guardando preoccupato il corpo di Katae che giaceva a terra, respirando faticosamente. « Fa’ qualcosa! »
Saevera lo squadrò con i suoi occhi di ghiaccio e l'espressione seria. « Anche mia sorella è stata uccisa dai ribelli, eppure nessuno ha mosso un dito per salvarla mentre la violentavano. »
A quelle parole il ragazzo del Distretto 6 strinse i pugni, ammutolendosi, e in quell'istante comparve Winnow alla porta, che si precipitò sul corpo della senza-voce per aiutarla.
« Stavo giocando e mi ha interrotto » si lamentò Wed, credendo di trovare conforto nel proprio stilista.
L'uomo aggrottò le sopracciglia, sebbene fosse impercettibile notarle sotto tutti quei tatuaggi. « Non dovresti fare certe cose » la rimproverò.
La piccola Addams fu sorpresa da quelle parole. Mai si sarebbe aspettata che proprio la figura che fino ad allora aveva adulato fosse delusa propria da lei.
Arricciò le labbra, indispettita. « Proprio tu che hai disegnato uno scheletro su tutto il corpo mi vieni a parlare che non è giusto uccidere?! »
Winnow si alzò, prendendo la ragazza svenuta in braccio. « Questo tatuaggio non è perché mi piace la morte » spiegò, « ma perché stavo per morire. » E, con quelle parole, lasciò l'appartamento.
 
* * *
 
William si teneva il viso tra le mani, in paranoia forse da ore, mentre Haylee aveva deciso di mangiare più che potesse prima di entrare in Arena. Aveva scoperto il cioccolato e ancor più che fosse talmente delizioso da avere le mani e la bocca sporche per la fonduta.
« La pianti? » sbottò, leccandosi le dita. « Non frega a nessuno che tu ti sia dichiarato in diretta nazionale. Anzi, almeno forse ora potrai attirare qualche sponsor. »
Il moro sollevò il capo, lanciando un'occhiata truce alla compagna. « E tu la smetti di fare la carina con tutti se poi sei soltanto una vipera? »
La quattordicenne alzò le spalle, ignorando gli insulti che tanto era abituata a ricevere. « Perché non vai direttamente da lei? »
« Ma se neanche si ricorda di me! Mi avrà preso per pazzo! » esclamò, alzando le braccia al cielo.
« E ci credo » commentò la rossa, squadrandolo. Si pulì mani e viso con un tovagliolo, per poi andare vicino al compagno. « Andiamo a spiarla » propose.
Will alzò un sopracciglio, sperando di aver capito male. « Come, scusa? »
Haylee gli afferrò il mento, stringendo sulle guance fino a fargli sembrare le labbra come quelle di un pesce. « Dai, Choppy, quelli dello staff si sono tutti rintanati nelle loro camere, quell'idiota della nostra accompagnatrice è uscita. Facciamoci un giro anche noi, voglio vedere se anche gli altri distretti hanno la fontana di cioccolato. »
Senza lasciargli tempo per controbattere, Haylee prese il diciottenne sotto braccio e lo trascinò fuori dall'appartamento. Per tutto il tempo che aspettarono l'ascensore la rossa non fece altro che canticchiare motivetti; Will avrebbe tanto voluto Roxy o Nico a confortarlo, non quella mocciosa.
Una volta usciti dall'ascensore, il maggiore si guardò attorno, notando però il numero del piano e aggrottando le sopracciglia. « Che stupida » sbuffò, rivolgendosi alla compagna, « hai sbagliato a premere, questo è il piano del Distretto 6. »
L'altra scosse la testa. « No no, sei tu lo sciocco fra i due. Come spia sono meglio di te » affermò, incitandolo a seguirla con un cenno della mano.
La minore aprì la finestra in fondo al corridoio, mentre il moro sperava che nessuno del Distretto 6 uscisse dall'appartamento e li scoprisse.
« Vedi, quello è il balcone del Distretto 5 » affermò Haylee, sporgendosi dalla finestra e indicando il balcone del piano inferiore.
Chopper si affacciò, continuando a pensare che fosse stupida. « E allora, ora che vorresti fare? » Nemmeno a finire la frase, che la rossa aveva strappato le tende con qualche colpo secco. « Che diavolo fai?! » domandò istericamente il moro, che fu bellamente ignorato dalla compagna, che intanto legava un'estremità della tenda alla maniglia della finestra.
« Ci caliamo giù con questa. Il peso farà chiudere la finestra in modo che non si sciolga la presa e allo stesso tempo la finestra non potrà chiudersi completamente, permettendoci di rientrare una volta risaliti » spiegò.
« Tu sei pazza » mormorò il maggiore, chiedendosi come l'altra avesse fatto a ideare una cosa del genere.
Haylee gli strinse nuovamente le guance con una mano. « Choppy-choppy sarà il nostro segnale di avvertimento se qualcosa dovesse andare storto. Dillo. » Will cercò di parlare, ma la stretta ferrea gli permetteva solo di borbottare parole indecifrabili. « Dai, dillo. »
Strattonò bruscamente la mano della minore per allontanarla, massaggiandosi così la mascella. L'altra alzò le spalle, stringendo il tessuto della tenda e facendo per calare. « Peggio per te, ma per vedere la tua ragazza devi fare come dico io. »
« Non è la mia ragazza » obiettò il Wyngardaen.
« Come ti pare » concluse Haylee, alzando le spalle e calandosi.
Come previso, la finestra si chiuse, ma solo apparentemente perché la stoffa la bloccava. Sospirò e controvoglia aprì la finestra una volta accertatosi che quella stesse giù, poi iniziò a scendere e anche stavolta la finestra si chiuse. Quando atterrò sul balcone, vide il sorriso soddisfatto stampato sul volto di Haylee e grugnì, contrariato. La finestra dell'appartamento era quasi interamente coperta dalla tenda, se non per pochi centimetri di spiraglio. Entrambi si appostarono per sporgere e osservare che cosa stesse succedendo all'interno. Will riconobbe Jamie sul divano, accanto a lei la sua accompagnatrice e poi il suo compagno di distretto che le parlava.
« Non si sente nulla » si lamentò, ma fu azzittito con un gesto dalla rossa, che non distoglieva un attimo gli occhi dalla scena.
Poi vide chiaramente le labbra di Jamie posarsi sulla guancia del compagno e a William parve che l'avessero improvvisamente trafitto con una dozzina di lame nel petto. Qualcuno gli afferrò la mano: era Haylee.
« Hey, tutto ok? » domandò, ma Chopper non rispose, si limitò a contraccambiare lo sguardo fisso. La quattordicenne lanciò un'occhiata all'interno dell'appartamento, poi si avvicinò al maggiore, attirandolo a sé e rischiando di essere scoperti. « Fanculo la tua ragazza, falle vedere che anche tu puoi distrarti con chi vuoi. »
« Non è la mia ragazza » ripeté il giovane. Forse per ripicca o perché era geloso, ma si lasciò convincere e i due si scambiarono un breve bacio.
Si staccarono quasi immediatamente, schifati, allontanandosi quasi fossero contagiati dalla peste. Era stato strano, troppo strano. Iniziarono a sputare di sotto e a raschiarsi via la lingua o strofinarsi le labbra con le maniche della maglia per cercare di scacciar via quel gesto avventato.
« E' strato uno sbaglio, è stato uno sbaglio! Un enorme sbaglio! » continuava a ripetere la minore, sul punto di vomitare.
« Mai più! » concordò il ragazzo. « Il peggior bacio della mia vita! »
Haylee alzò gli occhi al cielo, continuando a sputare. « Oh, certo, siccome hai l'aria di uno che ha avuto chissà quante donne nella sua vita... »
Chopper le lanciò uno sguardo truce, per poi guardare nell'appartamento: non era cambiato nulla, evidentemente non li avevano visti e quasi se ne dispiacque, ma forse era meglio così. Strattonò Haylee, attirandola verso di sé. « Andiamo » la incitò, iniziando a risalire la tenda.
Come previsto dal piano, una volta in cima la finestra si riaprì tranquillamente, ma appena anche la rossa fu sana e salva, ecco che la porta dell'appartamento del Distretto 6 si aprì, facendo gelare il sangue ai due complici, impauriti che potessero beccarli. Ma uscì solamente un uomo completamente tatuato col motivo di un teschio, che portava in braccio una ragazzina scura vestita da senza-voce e che si diresse spedito verso l'ascensore, senza nemmeno notarli.
 
* * *
 
La voglia di Brick di imparare quello stupido gioco era meno di quella di immischiarsi in qualche rissa. E lui non vi prendeva mai parte se c'era già qualcuno a lottare, non dopo che aveva cercato di salvare la vita a Clary e lei l'aveva rimproverato, insultato e picchiato. Non aveva molta voglia di ripetere quell'esperienza, ma sicuramente più di stare vicino a quella poppante.
« Tu sei nettamente più forte di lei » gli aveva detto Delphi in privato, « non riuscirebbe a spostarti neanche con tutte le sue forze in un corpo a corpo. Ma devo ammettere che, anche se tremendamente ingenua, lei è indubbiamente più agile, scaltra e intelligente di te. Quindi sotterra l'ascia di guerra, prima che sia lei a decidere di ucciderti. »
Le parole dell'accompagnatore gli rimbombavano nella testa. Era colpa sua se ora si trovava immischiato in quella situazione, l'aveva praticamente costretto, ma Brick non aveva accettato quell'alleanza, l'avrebbe solo valutata.
« La scacchiera è formata da coordinate, come a battaglia navale » spiegò la piccola Kenia Reaper.
« Non ho mai giocato a battaglia navale » confessò il quindicenne in tono brusco.
La riccia tentennò. Il ragazzo la trattava sempre male, eppure lei non voleva altro che essergli amica. « Non importa. Però, vedi, è formata da delle coordinate. Le coordinate sono- »
« So cosa sono le coordinate, idiota. »
Kenia si zittì, mortificata. « Scusami... » sussurrò, cercando di continuare: « Ci sono pezzi bianchi, che appartengono a me, e pezzi neri, che muoverai tu. »
« Perché io sono i pezzi neri? » domandò Brick, frustrato.
« Se vuoi possiamo fare a cambio. »
« No, mi piacciono i neri. »
Kenia rimase confusa da quel comportamento, ma cercò di non commentare e di limitarsi solamente a spiegargli il gioco. Era già tanto che il compagno le parlasse visto che la odiava, accusandola di aver quasi ucciso la sua sorellastra.
Sorellastra. Brick doveva ricordarsi cos'era Clary per lui ogni tanto.
« I pedoni possono muoversi solo in avanti o lateralmente. La prima mossa può essere di due caselle, mentre per tutto il resto del gioco potrà essere solo di una. L'alfiere si può muovere diagonalmente quante caselle vuole, la torre lo stesso ma invece che seguire le diagonali segue le rette. La regina può andare dove vuole, il re anche ma può avanzare solo di una casella e il cavallo è un po' più complesso... »
« Cioè? » la interruppe, aggrottando le sopracciglia.
« Può muoversi solo a L. »
« Che? Come quello del Distretto 3? »
La dodicenne ridacchiò. « No, si può muovere di una casella in avanti e due lateralmente a sua - cioè tua - scelta. »
Il ragazzo cercò di riflettere su ciò che aveva assimilato, abbandonandosi sulla sedia e incrociando le braccia. « Perché il cavallo è quello più strano? »
La minore alzò le spalle. « Non lo so, è così il gioco. Forse perché è un animale, non cammina mica come noi. »
« Sì, ma la torre è una fottutissima torre. Come cazzo fai a spostarla se è di pietra? »
« Magari non è di pietra ma di carta » suggerì.
« E allora è un gioco del cazzo. Non puoi pretendere di attaccare o difenderti con una torre di carta » sbottò il moro. Kenia chinò il capo, a disagio. Nessuno aveva mai messo in discussione quel gioco e le sue regole; erano così e basta e la piccola Reaper non si era mai posta quelle domande perché non ne aveva mai sentito la necessità. Ma in fondo non aveva mai fatto domande neanche quando Kingsley l'aveva sfruttata per uccidere tutti quei ribelli. Forse Brick era più intelligente di lei perché aveva avuto il coraggio di fare ciò che lei non si era mai posta il problema di fare: domandare e fermare il gioco. Chissà se sarebbe riuscito a fermare anche gli Hunger Games. Il ragazzo notò però che la minore era assorta nei suoi pensieri, così decise di interrompere quel silenzio con un’altra domanda: « Secondo te io sono una torre? »
La dodicenne alzò il capo, squadrandolo e poi annuendo. « Sì, però di pietra. »
« E perché mai? »
La riccia accorciò il collo, vergognandosi delle parole che stava per dire. Non sapeva in che modo l'altro avrebbe potuto reagire. « Perché sei forte e determinato, sei un pezzo importante e capace di molto, però tendi a non allargare i tuoi orizzonti. Ti limiti a vedere solo il tuo punto di vista, vai avanti e indietro e di lato, ma non provi mai le diagonali. »
Brick rifletté su quel discorso e dovette ammettere a se stesso che quella bambina pelle e ossa aveva ragione. « E tu, Barbie? »
La giovane osservò la scacchiera, spaesata. Non ci aveva mai realmente pensato. Lei... lei che ruolo aveva in quel gioco?
La comparsa di Delphi nella stanza attirò l'attenzione nei due. L'uomo mingherlino e tatuato sollevò di peso la protetta, mettendola a terra e invitandola a uscire.
« E' ora di andare a nanna » annunciò.
« Io resto ancora un po' qui » disse Brian, stringendo fra le mani il pezzo della torre nera, rimuginando fra sé. Delphi acconsentì con un cenno del capo.
Kenia alzò il capo verso l'uomo, supplicandolo. « Ti prego, posso restare anch'io? »
L'accompagnatore storse il muso, indeciso. « Meglio di no, Barbie. Devi riposare. »
E lanciando un ultimo sguardo al suo compagno, la riccia fu pronta ad ascoltare l'ultima storia della buonanotte che Delphi gli avrebbe raccontato.
 
* * *
 
« Hey, Mani di Forbice, è possibile tingersi i capelli per domani? Voglio entrare in Arena con qualcosa di diverso, mi sono rotta ad avere questa specie di ying e yang in testa » sbottò Phoebe Melanie Woody al suo stilista, mentre lei se ne stava sdraiata sul divano, accando ad un Benvolio annoiato intento a fare zapping. Lo stilista del Distretto 12 aveva fatto richista per cambiare col 9, ma gliel'avevano negato; Melanie avrebbe voluto tanto indossare il vestito di Nymeria, ma anche il suo le era piaciuto tantissimo, solo che aveva perso così tanti petali che l'intero pavimento ne era cosparso, così aveva colto l'occasione di mettersi il pigiama appena erano tornati. « Fredrick, tu che dici? Che colore ti piace di più? » chiese, mostrandogli il catalogo che stava sfogliando con le tinte più in voga a Capitol City.
La ragazza allungò un piede fino a sfiorare una guancia del biondo, che l'allontanò, infastidito. « Che ne so » sbottò, « a me sembrano tutte uguali. »
La compagna piegò le labbra all'ingiù, sconcertata da come l'altro non capisse. « Ti sbagli » obiettò, puntellando sulla rivista e tornando a infastidire Benvolio mettendogli il piede in faccia. « Questo è biondo ossigenato, questo è biondo scuro, quest'altro biondo cenere e questo biondo grano » spiegò, per poi continuare, toccandosi le punte dei capelli: « Voglio farmi bionda. Un po' come te. Magari avremo più sponsor se appariamo come una coppia. E' che voglio proprio cambiare colore di capelli. »
« Non l'avevo capito » rispose sarcastico l'altro, afferrandole il collo del piede in modo da fermarlo una volte per tutte, forse stringendo anche un po' troppo forte.
La diciassettenne emise un gemito inizialmente di un lieve e improvviso dolore, ma che poi si mutò in una risatina maliziosa. « Che c'è, Fredrick, non sono abbastanza bella per te? »
« Sono gentile, fino a quando non mi fanno girare le palle » affermò.
La ragazza dai capelli bicolore continuò a sghignazzare. « Felice di esserci riuscita. »
Benvolio le permise di allungare semplicemente le gambe sulle sue, mentre lui si portò alla bocca un po' di tabacco avvolto in una sottile cartina e ne accese un'estremità da una fiamma proveniente da un piccolo contenitore molto diffuso a Capitol City. La chiamavano sigaretta e Phoebe non ne aveva viste molte in giro nel Distretto 9, solitamente le possedevano i più ricchi o gli uomini di contrabbando, ma poteva ammettere di averne fumata qualcuna che suo fratello Peter era riuscito a procurarsi. Che poi, chissà come stava Peter in quel momento e se pensava a lei. « Se fai scattare l'allarme anti-incendio, sono cazzi. »
« Stai zitta » l'ammutolì. « Devo ancora capirti, Melanie. »
La compagna alzò un sopracciglio, alquanto sorpresa. « Nome azzeccato, Fredrick » quasi si complimentò. Attese qualche secondo, prima di azzardare a chiedere: « Te l'ha detto? »
Improvvisamente un suono acuto e ripetitivo prese a suonare fastidiosamente, attirando l'attenzione dei due tributi; neanche il tempo di rendersi conto da dove provenisse che dal soffito iniziò piovere, facendo imprecare entrambi.
Il ragazzo lanciò un'occhiata truce alla minore. « Non provare a dirlo. »
« Che cosa? » chiese innocentemente, facendo la gnorri. « Te l'avevo detto? Oh, non lo dirò » sghignazzò, alzandosi dal divano e prendendo per mano – quella del braccio non fasciato – Benvolio, che la seguì nel corridoio, prima che entrambi diventassero completamente zuppi. « Allora… Phoebe te l'ha detto? »
« No » confessò semplicemente, leggermente spaesato.
« E come l'hai capito? »
« Non ho capito un cazzo » ammise, mentre venne condotto nella stanza di Phoebe, all'asciutto, chiudendosi la porta alle spalle. « Semplicemente odi che ti chiami Phoebe quando sembra tu abbia il ciclo e... quando mi chiami col mio secondo nome. »
L'altra si avvicinò pericolosamente al compagno, spingendolo verso la porta e facendo aderire i loro corpi. La mascella di Benvolio si contrasse, mentre lei gli sfiorava le labbra con le dita.
« Facciamo così: la mia scopata migliore finora è stata con mio fratello Peter, una notte che eravamo entrambi ubriachi. Vediamo cosa sai fare » lo sfidò, maliziosa. « E se vinci, ti dirò qualcosa. »
Il maggiore si avvicinò al viso della giovane, aggiustandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio e facendo sfiorare i loro nasi. « Non è giusto nei suoi confronti, lo sai, vero? »
« Fidati, lei vorrebbe lo stesso » mormorò, cercando di mordere le labbra del compagno.
Benvolio ammiccò. « Allora sei sicura di esser pronta a vedere il mio Big Ben? Anche se... » si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole: « Forse penso tu l'abbia già visto. »
Melanie non capì a cosa quello si riferisse, ma guardandolo negli occhi ricordò: era stato tanto tempo fa, una notte in cui suo fratello voleva divertirsi come suo solito e lei aveva compreso che non solo le donne potevano prostituirsi.
A Melanie venne da ridere, buttata di forza sul letto della sua camera, mentre veniva schiacciata dal peso di quel corpo che continuava a torturarle il collo in un modo così piacevole. « E cosa penserà la bella figlia del sindaco che ti piace tanto? » domandò.
Il giovane la strinse maggiormente a sé, unendo le loro labbra dolcemente fino a schioccare; col polpastrello le accarezzò una guancia, scivolando poi a scoprirle una clavicola. « Non dovrà scomodarsi a pensare nulla, se non lo verrà a sapere. Ti ricordo che domani potremmo morire entrambi. »
La ragazza fece un sorriso storto. In fin dei conti aveva ragione. L’indomani sarebbero potuti morire entrambi. Fu così che, mandando al diavolo tutto e tutti – Phoebe compresa –, riprese a baciarlo con foga.
 
* * *
 
« E bravo Ryder » si complimentò Columbae, finendo di mangiare il profiterole al cioccolato. « Lo vedi che riesci a parlare anche con le buone? »
Il tributo fece una smorfia contrariata, incrociando le braccia al petto.
L'accompagnatrice si alzò dal tavolo, passandosi un altro strato di lucidalabbra glitterato; mentre qualcuno suonò alla porta dell'appartamento e Columbae andò immediatamente ad aprire, camminando velocemente sui propri trampoli. Alla porta vi era una donna identica all'accompagnatrice del Dieci, se non fosse stato per la parrucca, il vestito e il trucco: Eustace Ivory, accompagnatrice del Distretto 9.
Columbae sorrise. « Io esco con la mia adorata gemellina, voi riposatevi per domani » li salutò, chiudendosi la porta alle spalle.
Il silenzio piombò improvvisamente nella sala da pranzo, dove i due giovani erano seduti, rimuginando sui propri piatti e sull'indomani.
Lila ingoiò una forchettata di piselli, accompagnandoli con un po' di pollo, mentre con la coda dell'occhio scrutava il biondo compagno e con una mano imboccava Ken, il suo topo, appollaiato comodamente sulle sue gambe.
« Hai parlato oggi, all'intervista... » prese coraggio Lila, sebbene sapesse che Ryder era stato praticamente minacciato. Ma si doveva apprezzare lo sforzo: Lila non si poteva definire una ragazza che prendesse l'iniziativa o che venisse notata.
Il sedicenne la ignorò, restando in silenzio nella stessa identica posa di prima, fissando il piatto.
Lila chinò il capo, sconfortata, giocando con qualche pisello. « V-volevo solo dirti che... i-io n-non vo-volevo spa-paventarti quel giorno » balbettò, inceppandosi nelle parole come suo solito. Ma doveva farsi forza, in fondo era la sua unica possibilità per scusarsi una volta per tutte. Prese un bel respiro, decidendo di dire tutto d'un fiato. « Mi dispiace, perché mi piaceva veramente tanto ascoltarti. Puoi metterla così: fai finta fossi un animale, così dimentichiamo tutta questa storia e almeno i cavalli potranno ascoltarti di nuovo. »
Ryder voltò leggermente il capo nella direzione della tredicenne, che stavolta stringeva forte gli occhi chiusi per il troppo imbarazzo e cercava di coprirsi la faccia coi lunghi ricci castani.
« Tu... sei un Topo, giusto? » chiese improvvisamente il maggiore, spiazzando la compagna.
Lila sgranò gli occhi, incredula. « M-ma t-tu... mi parli! » esclamò, stupefatta.
L'altro scrollò le spalle, non ritenendola una cosa strabiliante e difficile. « Certo, non sono mica muto. Quella di non parlare è una mia scelta » spiegò, per poi aggiungere, impaziente: « Quindi, sei un Topo? »
Lila strabuzzò gli occhi, ancora un po' confusa. Sapeva esattamente a cosa si riferiva Ryder: alla sua famiglia. Quella banda di bambini ladruncoli che viveva nelle fogne di Panem e che l'avevano trovata nella via da cui deriva il suo nome. Ripensò istintivamente alla morte di Matt, a come dopo di essa i rapporti con Dorian si fossero un po' incrinati e a come, sebbene avesse cercato di allontanarlo, lo stesso Dorian fosse venuto a trovarla dopo la Mietitura, dimostrandole che le voleva ancora bene.
« Sì » disse con fierezza - cosa che non faceva praticamente quasi mai - decisa che non c'era nulla da nascondere a Ryder, visto che lei sapeva praticamente qualsiasi suo segreto, « sono un Topo. »
« E allora è come se avessi parlato a un animale » concluse quello, scrollando nuovamente le spalle.
« Cosa? » Lila non credeva alle sue orecchie. Quel ragazzo la stava sorprendendo ora più di quanto avesse fatto tutte le volte che era andata a origliarlo nella stalla dei suoi nonni. « Insomma, tutto qui? Abbiamo fatto... pace? »
« Non che avessimo proprio litigato, eh » le fece notare.
Lila si concesse qualche secondo per assimilare il tutto, ancora più confusa di prima. « Ma tu... » balbettò ancora, mentre le parole le si accavallavano sulla lingua. « Tu perché parli proprio adesso? »
Sebbene la domanda potesse parere un po' bizzarra, Ryder la comprese perfettamente, dando un morso alla propria coscia di pollo. « A cosa serve parlare o restare in silenzio, oramai? Tanto dovrò morire comunque. »
La mora restò colpita da quelle parole così sincere e si limitò a sorridere, addentando un'altra manciata di piselli e finalmente in pace con se stessa.
 
* * *
 
Odiava il fatto che Augustus Flickerman potesse avere ragione: Jeyl non aveva ancora osato baciare Virginia, benché avesse dichiarato alla nazione intera che l'amava. Ma Virginia amava lui? Non lo sapeva, non avrebbe potuto mai sentirlo, tanto meno aveva il coraggio di chiederglielo.
« Non preoccuparti » gli sussurrò piano Go in un orecchio, « tu le piaci. Solo che... »
A quell'interruzione, Jeyl si fece prendere dal panico, spronando la dodicenne a continuare, ma cercando di non alzare la voce: « Solo che... cosa? »
La piccola asiatica alzò le spalle, sedendosi a sua volta a gambe incrociate fra quelle del moro, che la cinse da dietro in un abbraccio e poggiò il mento sui capelli scuri della minore.
« Solo che... non so se ci sia stato qualcun altro per lei » sputò il rospo.
Il sedicenne aggrottò le sopracciglia, confuso. « Qualcun altro? Com'è possibile? E' stata rapita e tenuta prigioniera a Capitol City, non si è mica fatta una vacanza » disse sempre a bassa voce.
« Anche i due tributi del Distretto 1 erano dei prigionieri, eppure... Beh, sinceramente non saprei dire che genere di rapporto abbiano. »
« Aspetta, che ne sai tu che sono stati catturati anche loro? » continuò con le domande, confuso.
La dodicenne fece ancora spallucce, parlando con sincerità: « Lo si capisce appena li vedi. Sono persi. »
Jeyl lasciò stare quel discorso, non faceva altro che aumentare le ansie per l'indomani che aveva un po' dimenticato con il ritrovo della sua amica. Poteva anche esserci qualcun altro, poteva anche non amarlo, magari era stata veramente catturata assieme a quelli del Distretto 1 e gli avrebbe potuto dire qualcosa su di loro, ma una cosa era certa: Logan Jeremy Mackinley non l'avrebbe mai più lasciata andare. Effettivamente da quando era salita sul palco non l'aveva persa di vista neanche un secondo, ancora col timore che potesse sfuggirgli via dalle mani come anni fa.
Ora era poco distante da lui, Pliny le stava parlando tranquillamente come al suo solito, sistemando i cuscini vicini fra loro. Avevano deciso tutti assieme di ricreare un fortino di lenzuola per la loro ultima sera; beh, in realtà l'idea era della giovane accompagnatrice, ma tutti avevano approvato. Avevano praticamente svaligiato l'intero appartamento, raggruppando tutti i cuscini e le lenzuola nel salotto per dare vita al loro progetto.
Jeyl era grato di avere Pliny come accompagnatrice, era convinto che fosse la migliore che ci potesse essere ed era sicuro che anche Go la pensava così, visto che la ragazzina non aveva avuto problemi a fidarsi di lei. Aveva raccontato loro la sua storia, di come era arrivata lì: non doveva essere per niente facile per lei prendersi cura dei suoi nove fratelli minori, tenerli al sicuro durante la guerra, vedere i propri genitori morire, farsi carico di tutte quelle bocche da sfamare e poi... Le immagini dei ribelli che la violentavano erano ancora impresse nella sua mente e non sarebbe mai riuscita a cancellarle via. Aveva pensato molte volte di togliersi la vita, all'inizio, ma non aveva mai avuto il coraggio di lasciare da sola i suoi fratelli, eppure, quando nacque il bambino che portava in grembo, non l'aveva odiato come aveva pensato, non era riuscita neanche a uccidere lui benché non avesse idea di chi fosse il padre e comunque odiava chiunque lo fosse. Appena lo vide, Pliny non riuscì altro che ad amare quel bambino che aveva preso forma e vita dentro di lei. E così aveva dovuto cogliere al volo l'occasione per diventare accompagnatrice, una volta visto l'annuncio, anche se l'idea non l'allettava, comunque era stato il metodo più veloce e sicuro per guadagnare da vivere per se stessa e per la sua famiglia.
Jeyl la osservò: statura media, pelle scura, grandi occhi olivastri, folta chioma riccia che le arrivava fino alle spalle, dalle sfumature di lilla e indaco, e corporatura gracile per la quale il sedicenne ancora non si capacitava di come avesse saputo affrontare una gravidanza benché avesse solo un paio d'anni in più di lui.
Forse era per tutto quello che aveva passato che Pliny aveva accolto calorosamente Virginia nel loro appartamento, a differenza invece di come avrebbe fatto qualcun altro, che disgustava i senza-voce e li trattava come schiavi. I due tributi non l'avrebbero mai ringraziata abbastanza per essere stata una così buona sorella maggiore per loro.
« Pronti? » l'accompagnatrice risvegliò i due protetti dai loro pensieri, sorridendo loro, mentre assieme alla rossa senza-voce tirava un paio di piccole funicelle e magicamente si sollevò un ampio lenzuolo che ricoprì le loro teste, annunciando il completamento del fortino.
La riccia andò a spegnere le luci, mentre Jeyl posizionò strategicamente una torcia per far luce su una parete e Virginia porgeva un piccolo flauto traverso a Go, sorridendole dolcemente.
La piccola asiatica fissò l'oggetto, rispondendo al gesto e prendendo il flauto fra le mani, stupita. « Grazie » disse gentilmente.
E mentre la dodicenne prendeva a suonare, gli altri giocavano con le ombre delle proprie mani, formando figure e storie. E se qualcuno li avesse visti da fuori, avrebbe potuto pensare che fossero davvero una famiglia.
Peccato che quello fosse la loro ultima sera felice.
 
* * *
 
Jeremy aprì la porta, entrando lentamente. Nymeria piangeva ancora, rannicchiata sul proprio letto, senza badare minimamente a lui.
Suo fratello era morto. Che senso aveva restare ancora in vita? Tutto quello che aveva fatto era stato per suo fratello, la sua unica famiglia, e ora non c'era più. Da chi poteva tornare? Per chi avrebbe potuto lottare? Non c'era più nessuno ad aspettarla a casa. Eccetto...
Il moro si grattò la nuca, imbarazzato. « Ti prego, non piangere tutte le tue lacrime. Sono solo entrato! Che cosa farai al mio funerale? » La diciottenne non smise di singhiozzare e Jeremy si morse subito la lingua, dandosi dello stupido per ciò che aveva appena detto. « Ok, battutaccia. Non ci so proprio fare. »
Il ragazzo andò a sedersi vicino a lei sul letto, rosicchiandosi le unghie per la tensione. Odiava non sapere come comportarsi. Che razza di leader era se non riusciva neanche a confortare una ragazza? Sospirò, dandosi coraggio e decidendo che forse la compagna si sarebbe sentita meglio se lui fosse stato il primo a confidarsi.
« So che forse non sono la persona giusta per dirtelo, ma anche se tuo fratello è morto, lui ti voleva bene e sapeva che l'hai protetto fino alla fine. »
« No » obiettò prontamente la castana, « l'unica cosa che mi rimarrà, se tornerò nel Giacimento, è il mio titolo. Sai come mi chiamano, vero? » domandò. Non ricevette risposta, comprendendo che il compagno lo sapeva benissimo. « La puttana dei pacificatori. Se vinco o muoio, ecco tutto ciò che la gente si ricorderà di me. Almeno tu hai la tua banda e la tua famiglia che ti aspetta. »
Jeremy sorrise, beffeggiando se stesso. « Ti sei sacrificata una vita intera per badare a Jason, io non merito di vincere. Potrei motivare un esercito intero, ma rimarrei comunque egoista. »
« Ti sei offerto per tuo fratello! » intervenne prontamente la Ironborn.
« Perché mio fratello maggiore mi ha costretto a farlo! » sbottò, togliendosi un peso. Notò che Nymeria lo guardava a occhi sgranati e si affrettò a spiegare: « Giuro che avrei voluto vedere Abel morto a questi stupidi Giochi della Fame. Poi arriva Benson e praticamente mi minaccia di offrirmi. Al Palazzo di Giustizia mio padre ha creduto in me, ma Benson... ha detto che è sicuro che morirò di una morte lenta, dolorosa e alquanto stupida. »
Nymeria rimase scioccata da quella confessione e per alcuni istanti rivide il volto di ogni singolo tributo di quella seconda edizione nella sua mente. Quante ce ne sarebbero state per porre fine a quel massacro? Ripensò a Jason, il ragazzo del 5, che era stato così gentile con lei, e poi puntò gli occhi azzurri in quelli nocciola di Jeremy. Erano così diversi da Niklaus.
Niklaus...
E lui, l'avrebbe voluta ancora, se fosse tornata a casa? Avrebbe dovuto uccidere ventitrè persone per stare con lui, l’unica persona che le rimaneva.
Non ci rifletté neanche, si lanciò verso Jeremy e lo baciò, prendendogli il viso fra le mani. Non le importava cos'avrebbe significato, non sapeva bene nemmeno lei perché lo stesse facendo.  Le labbra carnose del moro assaporarono quelle della ragazza per qualche istante, per poi respingerla.
Nymeria abbassò il capo, imbarazzata, sentendosi una sciocca. « Scusa, non avrei dovuto farlo. »
« No, non è niente » la tranquillizzò l'altro.
Gli occhi azzurri le iniziarono di nuovo a pizzicare e prima di accorgersene aveva ripreso a piangere. « Invece sì, perché sono ridicola e perché mi sono innamorata di un uomo che potrei benissimo odiare, se solo lo volessi. Mentre tu sei... tu sei il primo che mi abbia rifiutata, sai? »
« Non volevo rifiutarti, solo che... non lo trovo giusto » confessò, anche se il suo sembrava un tono di scuse.
La castana sorrise, rendendosi conto che il diciassettenne era sincero; così fece cenno col capo, dandogli ragione. « Grazie, Jeremy » mormorò, dandogli un semplice bacio sulla guancia e arrossendo sulle gote per la proposta: « Puoi dormire con me, stanotte? »
Il minore la strinse a sé, accarezzandole i corti capelli. « Ti abbraccerei stretta anche durante lo scontro di domani nell'Arena, se solo tu me lo chiedessi. »



II. Secondo tempo – Buio.
Kenia si guardò il vestito, confusa sul perché gli strateghi avessero deciso di far indossare ai tributi una cosa del genere. Si trattava di un abito azzurro cielo lungo fino ai piedi, abbastanza scomodo, un po’ pomposo e pieno di fronzoli e decorazioni di pizzo bianco, senza contare le maniche a palloncino, il sottogonna e il corpetto rigidi e quella complicata acconciatura di boccoli in cui le avevano aggiustato i capelli quella mattina stessa. Anche così sembrava una bambola, ma questa volta di porcellana.
Improvvisamente nella mente della dodicenne balenò una domanda: ma gli altri avrebbero indossato il suo stesso vestito? Anche i maschi?
« Purtroppo neanche gli stilisti sanno in cosa consista l’Arena » la informò Delphi, facendole calzare le scarpette bianche dotate di un piccolo tacco, « è un’informazione riservata solo agli strateghi. »
Kenia fece spallucce, giustificandolo perché sapeva che non era colpa sua. In fondo già il fatto che avesse chiesto al suo stilista di poterle fare compagnia l'aveva di gran lunga confortata; il suo staff le infondeva una terribile ansia, mentre con l'accompagnatore si sentiva più tranquilla.
Delphi rimase in ginocchio per stare all’altezza della bambina dalla pelle scura, prenderle il viso fra le mani e accarezzarle le guance con i polpastrelli dei pollici, per poi darle un dolce bacio sulla fronte.
« Hanno detto che puoi portarla con te » le sussurrò, sebbene non ci fosse nessuno ad osservarli - o quasi -, porgendo alla protetta la bambola che tanto amava.
« Betty! » gridò estasiata, stringendola a sé, felice come non mai. L'accompagnatore del Distretto 8 sorrise e improvvisamente si sentì stritolato da esili braccia in un così tenero modo; la neo-tredicenne affondò la testolina piena di riccioli scuri nell’addome nudo e tatuato, non riuscendo ad arrivare all’altezza dell’uomo. « Grazie » mormorò felicemente, mentre l’altro le accarezzava i capelli.
« Ora però è quasi ora di andare » l’avvertì con tono malinconico, più del solito.
Kenia si staccò piano, già avendo nostalgia di quell’uomo che l’aveva accudita meglio di Kingsley, meglio di un padre, quella figura che lei non aveva mai avuto realmente.
Delphi frugò nelle tasche dei jeans, estraendo una piccola scatolina: l’aprì e all’interno vi era una minuscola pillola bianca con sopra impresso lo stemma di Capitol City in dorato.
« Prima però dovresti prendere questa » spiegò, porgendole la pillola su un indice, « è nel regolamento. »
Kenia la osservò, nervosa. « Devo ingoiarla? » domandò, un po’ intimorita.
Il trentenne le sorrise, alquanto divertito. « Non preoccuparti, si scioglie in bocca » la rassicurò.
Kenia spalancò la bocca e cacciò la lingua, su cui Delphi posò la pasticca; poi le porse un bicchiere d'acqua che aveva già pronto, dal quale la tredicenne bevve per mandar giù la pillola.
Improvvisamente si sentì il suono di una sirena e la lampadina sopra la porta si illuminò di rosso.
Delphi la guardò tristemente, per poi prendere la mano della bambina e dirigerla verso una pedana.
« Non muoverti dalla pedana, rimani sempre al centro e non ti spaventare quando l’aria ti comprimerà e ti porterà su » l’avvertì, premuroso. « Andrà tutto bene, Barbie. Tu vinci sempre. »
Kenia ebbe un brivido, ripensando alle parole d’addio che Logan le aveva detto l’anno scorso, e stava per rispondere, ma d’un tratto un vetro s’innalzò attorno a lei e, spaventata, strinse ancor più forte Betty fra le braccia, osservando Delphi per un’ultima volta, con occhi sbarrati pieni di terrore.
Sentì la testa farsi più pesante, iniziava a girarle e si sentì improvvisamente debole, ma attribuì tutti questi sintomi alla paura e al getto d’aria che l’avrebbe investita di lì a poco.
Alla mora, però, parve di leggere un « Mi dispiace » in labiale da parte dell’uomo.
Poi, il buio.

 

 

Quando il sole va a dormire, tu non hai più niente da dire.
Aspetta domani, forse sarà un giorno migliore di ieri.

(Lucia Quarta)















 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Ormai vi sarete abituati all'intro, perché per noi è diventata una prassi. 
Quante cose abbiamo da dire su questo capitolo? Tante, come sempre. Stavolta diciamo che Mito ha sudato un po' di più, ma Ivola ha sudato ancora di più per betarla perché è risaputo che Mito e tastiera non vanno d'accordo (errori di battitura tvb).
Comunque ammettetelo che pensavate tutti che fosse il Bagno di Sangue ♥ Se non siamo troll non siamo noi, anche se questa come mossa era abbastanza prevedibile (a differenza delle future... *inserire risata malvagia qui*).
Avrete notato che il secondo tempo è mooolto più corto del primo e che abbiamo usato il PoV di Kenia - non perché siamo razziste nei confronti degli altri tributi, ma perché il suo ci sembrava il PoV più innocente da usare in una situazione del genere. E guardate che figo l'abito dell'arena, sì 8D
In questo chap abbiamo shippato tanto tutte le coppie dello stesso distretto, se non si nota, quindi fatelo anche voi perché altrimenti siete delle persone cattive (parliamo dei Choppy-choppy di Haylee, pls, nd Ivols).
La storia dei Rhyzar qui non è spiegata come dovrebbe, quindi per maggiori chiarimenti da ora in poi affidatevi alla raccolta Butterflies & Hurricanes, interamente su di loro.
Prima che ce ne dimentichiamo, le scommesse sono apertissime! Scommettete su qualsiasi cosa, mi raccomando, ché se vincete potete guadagnare una buona dose salvavita di punti sponsor/bonus (SPONUS!).
Per quanto riguarda i due indovinelli che vi abbiamo proposto sul gruppo fb...
1) L'indovinello dello scorso capitolo chiedeva cosa ci fosse di strano e inusuale che accomunasse i tre capitoli delle interviste. Ebbene, nessuno ci è arrivato. Volete la soluzione? Provate a cliccare sui link dei nostri profili nelle note a fine di quei tre capitoli... (e qui ci sarebbe da aprire un altro discorso su quanto siamo troll perché tutti hanno riletto i capitoli un migliaio di volte per capire cosa non andasse (y)).
2) Chi è il primo morto? Nessuno ha indovinato, perché il primo morto dell'edizione è Althea Wellwood, l'accompagnatrice del Distretto 3! :D Ricordiamo inoltre che è proprio Nate a citare il titolo dell'interattiva perché è un omaggio alla sua mentore, Marty, il cui compleanno era ieri. Le pandaivols le dedicano amorevolmente il capitolo ♥ (sei vecchia! nd Ivols). E notate tutti il parallel assolutamente involontario con la 4x08 di GoT.
Che altro...? Tutti odiano le ragazze di Ocean e Benvolio perché distruggono le OTP, ma in realtà ci serviranno quindi nelle nostre mani sono al... ehm, sicuro. E poi, cos'è successo ad Elizabeth? Phoebe/Melanie si tingerà davvero i capelli? Che fine farà Katae? Quanto è bribi Winnow? In quanti capiranno che tra i vari spezzoni degli appartamenti c'è una vera e propria timeline, un filo conduttore? Quanto sarà figa l'arena? Quando posteremo il Bagno di Sangue?
Lo scoprirete soltanto vivendoooh ♥ ♥ ♥ Alla prossima puntata e guidate sempre piano! (ri-cit.)
Bao e cotolette.
 
pandaivols.

 

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Capitolo 9
*** No one wants to die (wanna try?). ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

No one wants to die (wanna try?)


.




 
Everybody wants to change the world
Everybody wants to change the world
But no one,
No one wants to die
Wanna try, wanna try, wanna try
Wanna try, wanna try, oh?
I’ll be your detonator.

 [ Na Na Na - My Chemical Romance ]


 
I. Primo tempo – L'uomo nero.
Le parve di essere lì da una vita intera, gli arti erano intorpiditi e anche la testa era pesante, ma pian piano riusciva a controllare il suo corpo e tutto sembrava tornare normale. Gli occhi neri puntavano sul posto d'onore in alto, così familiare...
Naomi era già stata lì, ne era certa. Si guardò attorno: in alto il luogo era completamente circondato dalla platea e lei si trovava nella piazza sottostante, brulicante di gente; si soffocava lì per quanta gente ci fosse, non si riusciva neanche a respirare, ma a Naomi non importò, perché ricordava chiaramente di aver sfilato in quella piazza su un carro, appena pochi giorni prima.
Sentiva il corpo pervaso da una strana sensazione, come se stesse dormendo o come se si fosse appena svegliata. Era confusa, ma lo fu ancor di più quando tornò a fissare di fronte a lei, in alto, su quel posto d'onore. L'ultima volta vi aveva visto la chioma chiara come la neve del presidente Rigel e anche la maschera da cervo di Hidden. Ora invece vi era un uomo alto, piazzato, dal volto squadrato coperto dalla barba incolta, i capelli biondo-rossicci scompigliati e gli occhi azzurri; a fianco vi era un uomo molto più giovane, era poco più che un ragazzo, coi capelli biondi così chiari da far più male degli occhi puntati fissi sul sole e le iridi quasi trasparenti.
Naomi non capiva. Che cosa diavolo stava succedendo? L'ultima cosa che ricordava era di aver ingerito quella dannatissima pillola e di essere entrata in una specie di tubo.
Avrebbe tanto voluto Mason o Jewel accanto a sé, o perfino Klaire e Maximus, chiunque le sarebbe andato bene, bastava che le spiegasse che cosa stava accadendo, cosa significava tutto ciò e, soprattutto, che cosa dovesse fare.
« Guarda, Amanda, là sopra c'è il tuo papà. »
Quelle parole attirarono l'attenzione della mora: si trattava di una donna nella fila davanti a lei, aveva i lunghi e lisci capelli biondi, gli occhi azzurri, un viso paffuto e sorridente, che teneva in braccio una bimba in fasce. La piccola mano nella neonata andò a sfiorare la folta barba scura dell'uomo accanto alla bionda, che cercava di far ridere la bambina facendo delle smorfie buffe.
Distolse lo sguardo, che si posò sulla donna accanto a sé: lunghi capelli mossi, neri come gli occhi, un sorriso malinconico, ma quasi liberatorio.
« Mamma » la chiamò, la voce inaspettatamente flebile, quasi non riuscisse a tirarla fuori. La donna si voltò, incrinando il capo e continuando a mantenere quel triste sorriso. Teneva gli occhi aperti per paura che sbatterli avrebbe potuto mandar via tutto quello che stava vedendo, ma ora iniziavano a dolerle. « Che succede? »
« Il nuovo presidente sta per fare un discorso » spiegò come se fosse ovvio, ma pazientemente.
Nuovo presidente? La mente della ragazza si riempì di nuove domande che si aggrovigliavano le une sulle altre. Tutto ciò non aveva senso. Quell'uomo, Randy Wane, era morto, ne era certa; e anche il suo compagno, Hans Coin, molto probabilmente era finito ridotto in cibo per ghiandaie dopo le bombe.
La testa di Naomi scattò nella direzione opposta, scrutando fra la gente, ansimando, alzandosi sulle punte per scorgere qualche volto familiare. Fino a che non vide Jewel e per un attimo si sentì al sicuro. Prese a correre, senza nemmeno riflettere.
« Naomi, dove vai? » le gridò dietro sua madre, ma lei non vi badò. Se era viva e se tutto quello era vero, l'avrebbe ritrovata.
Non ricordò un momento in cui era stata così felice e sollevata, quando notò che vicino alla mentore c’era anche Mason.

 
* * *
 
Kenia si guardò attorno: era circondata da bambini frignanti, rinchiusi in una sala grigia e spoglia, cadente. Non stringeva più Betty al petto e questo la disorientò, facendola entrare nel panico. C’era qualche Pacificatore che faceva avanti e indietro e così, prendendo coraggio, andò da loro. Erano Pacificatori, in fondo, non le avrebbero mai fatto del male una volta chiarito chi fosse suo padre.
« Mi scusi, signore. » Tirò il lembo della divisa di uno, attirando la sua attenzione. « Dove siamo? »
L'uomo la spintonò col manico del fucile, facendola cadere. « Sta’ alla larga, ragazzina. »
Kenia si alzò, tentando di nuovo: « Mi scusi, ma forse lei conosce mio padre. Si chiama Kingsley Reaper. »
La ormai tredicenne non riusciva a vedere gli occhi dell'uomo sotto quella visiera, ma comunque li sentiva fissi su di lei. « Kingsley Reaper? » ripeté lentamente, stringendo il fucile in mano e puntando la canna di scatto sulla fronte della minore, che sobbalzò, spaventata. Era questo il modo in cui sarebbe morta? Sparata da un Pacificatore?
Un collega intervenne, distogliendo la canna dalla traiettoria della riccia, che non osava tirare un respiro di sollievo. « Ma che fai? »
Il primo Pacificatore strattonò l'arma, togliendola dalla presa dell'altro. « Hai ragione. Tanto il resto della sua famiglia è andata a farsi fottere sotto terra. »
Il cuore le si bloccò e capì che di certo quelli non erano i Pacificatori che conosceva e con cui suo padre aveva lavorato durante i Giorni Bui. Ma cosa significavano quelle parole?
Qualcuno la tirò velocemente indietro, tappandole la bocca in modo da non poter urlare. « Vuoi chiudere quella tua dannata bocca? » le intimò, rabbioso.
Kenia vide il volto del suo Logan di fronte a lei. Lo sapeva che sarebbe tornato! Lo sapeva che lui vinceva sempre! Sorrise di gioia, ma non osò abbracciarlo e poi, dietro di lui, riconobbe Charlie, Cip e Ciop, strette fra loro e visibilmente spaventate. « Ci farai uccidere tutti. » La costrinse stare giù e a restare col resto dei bambini frignanti, abbassando il tono della voce: « Dobbiamo aspettare, te l'ho già ripetuto, solo così riusciremo a scappare. »
Avrebbe tanto voluto chiedergli perché e da dove dovevano scappare, ma Kenia preferì non fare domande, come era abituata con Kingsley. L'unica che non voleva abbandonare la sua mente era dove si trovasse Delphi in quel momento.

 
* * *
 
Quando Go aprì gli occhi le sembrò esattamente di averli sempre tenuti aperti, per un tempo interminabile, tanto che fu costretta a sbattere ripetutamente le palpebre perché la luce per poco non l’accecò. Si rese conto che c’era veramente tanta… folla, intorno a lei, e cercò di capire in che luogo si trovasse. Non poteva di certo essere l’Arena, quella, a meno che tutte quelle persone non fossero state dei mostri cannibali pronti a mangiarla. Un piccolo brivido le scese lungo la spina dorsale; poi notò che c’erano anche molti bambini, per cui si tranquillizzò e si lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra. Forse quello era un effetto collaterale della pillola. O forse doveva stare più attenta di quello che pensava.
Si voltò a destra e a sinistra, dove trovò una donna che la teneva per mano – non ci aveva fatto nemmeno caso, le sue membra sembravano troppo intorpidite –, con i suoi stessi tratti orientali e i lunghi capelli neri come o più dell’ebano, il ciuffo raccolto da una forcina decorata da un piccolo ma finto fiore di loto. Si domandò per un istante perché non fosse sua nonna, poi prese a fissarla timidamente, sperando che non le avrebbe dato fastidio. Ma se quella non era Kaori, allora non poteva essere altri che sua…
« Mamma? »
La donna si voltò verso di lei con un sorriso luminoso. « Sì, tesoro? »
Go mormorò qualche frase di stupore che sua madre non colse. « D-dove siamo? » balbettò la dodicenne, sentendosi la mano sempre più sudata. Accarezzò le dita della donna, le sembravano così vere. Possibile che fosse soltanto un’allucinazione? Eppure doveva essere così per forza, sua madre era morta, quando lei era ancora molto piccola.
« Come “dove siamo”? » chiese. « Il discorso di Randy Wane, hai dimenticato? »
Go le riservò un’occhiata a dir poco perplessa. « Randy Wane? » Che razza di allucinazioni provocava, quella pillola?
Sua madre sembrò stranita, ma prima che potesse ribattere, guardò alle sue spalle e cambiò completamente espressione. « Go, tesoro! » esclamò con gioia, portandosi la mano libera alla bocca. « Sanguini! »
La bambina sobbalzò; girò il capo e si guardò la schiena, tentando di capire da dove sanguinasse e perché. Non sentiva alcun tipo di dolore, eccetto che un fastidio alla pancia.
Eppure notò che la gonna che indossava era davvero tutta insanguinata, dal fondoschiena in giù. All’inizio si spaventò, ma poi capì perché sua madre fosse così felice. Non si aspettava che quel momento sarebbe arrivato proprio adesso.
Le sue guance arrossirono di botto per l’imbarazzo e sua madre la trascinò, sempre sorridendo, via di lì.
« Forza, cerchiamo il bagno » disse. « Ora sei una donna, bambina mia! »
Go continuò a stringere la mano della madre senza poter fare altrimenti. Qualcosa le diceva che avrebbe preferito avere nonna Kaori accanto a sé, ma non aveva idea di dove potesse essere.

 
* * *
 
Confuso come in quel momento non lo era mai stato, neanche quando l'esercito l'aveva strappato dalle braccia di sua madre e l'aveva rinchiuso in una cella sotterranea di Capitol City.
Qualcuno picchiettò sulla sua spalla, facendolo voltare di scatto. Mason tra poco non ci rimaneva secco nel vedere sua madre. Le afferrò il volto di getto, senza neanche pensarci, osservandola e tastandola, incerto se fosse reale o no.
Quella sbatté le palpebre, perplessa. « Mason, che fai? » chiese, benché le venisse un poco da ridere. Gli prese le mani nelle sue, dolcemente, per poi sussurrargli all'orecchio: « Vado a informarmi sui cadaveri. » La donna si scostò, alzando le spalle e sentendosi un po’ sciocca. « Probabilmente i capitolini avranno gettato il suo corpo molto tempo fa, ma mi piacerebbe seppellirlo... se lo ritrovano. »
Mason annuì, vedendo sua madre allontanarsi, ma fu un'azione meccanica, in quel momento non riusciva a concretizzare nulla. Sua madre di certo stava parlando di suo fratello. Si era ritenuto sempre fortunato ad essere vivo, a non essersi beccato una pallottola in testa alla roulette russa, al contrario di Alec. Strinse i pugni, mentre la rabbia cominciava a ribollirgli, come ogni volta che iniziava a domandarsi chi avesse mai sparato a suo fratello. Ma in fondo come poteva biasimare quell'assassino? Era in gioco la vita sua o quella di Alec e ben pochi si sarebbero sacrificati per salvare un estraneo.
Qualcuno gli accarezzò il pugno, infondendogli tranquillità e stringendogli la mano. Si voltò e riconobbe un paio di occhi verdi smeraldo, i lunghi capelli biondi lisci che iniziavano ad arricciarsi col caldo. Poteva benissimo essere scambiata per Jewel, ma lui l'aveva conosciuta fin troppo bene per essere così sciocco da non distinguerle. Eppure Lucy Hall, la sua ex compagna di classe, gli stava tenendo la mano e gli sorrideva teneramente come non aveva mai fatto.
« Va tutto bene » disse, come se già sapesse, confondendo ancora di più Mason.
Durò solo un attimo, però, perché subito dopo iniziò a pensare che se c'era Lucy, allora doveva esserci anche Jewel. Spostò lo sguardo e riconobbe la sua figura da dietro. I ricci che le scendevano sulle spalle, la figura alta e snella. Era di fronte a lui.
« Jewel? » la chiamò, quasi con timore, mentre sentiva i suoi occhi iniziare e prudergli.
La ragazza si voltò: era lei. Le labbra di Mason si tirarono in alto in un sorriso e si lanciò ad abbracciarla, a stringerla sul suo petto, intrecciando le mani nei suoi capelli per assicurarsi che stesse bene. Da quando Mason non sorrideva? Da quando non abbracciava una persona sentendo che teneva veramente a lei?
Ma due mani premettero sul suo torace, spingendolo via. Le sopracciglia aggrottate della sua mentore, gli occhi smeraldini lo fissavano duri, la bocca contratta.
« Che diavolo stai facendo con la mia ragazza? » domandò bruscamente una voce. Mason ne scorse il proprietario e fu certo che non avrebbe mai rischiato di avere un infarto se non in quel momento. Alto, muscoloso, chioma bionda di capelli e i tipici occhi verde smeraldo del Distretto 1. Mason non stava capendo più nulla. Come era possibile che Blaze Price era di fronte a lui se era morto, ucciso per sbaglio nell’arena dalla stessa Jewel, di cui ora stringeva possessivamente la mano?
Spostò lo sguardo sulla mentore, cercando una spiegazione, ma ottenne solamente un'occhiata accusatoria. Avanzò di un passo. « Ricordati che hai già una ragazza » sibilò a denti stretti, per non farsi sentire dagli altri.
Mason strabuzzò gli occhi, guardandosi alle spalle, dove Lucy era rimasta a guardare, sentendosi a disagio e forse anche tradita. La bionda chinò il capo, non riuscendo ad affrontare le sue iridi scure che la puntavano. Conosceva Lucy Hall da anni e l'aveva sempre vista forte, invece ora gli pareva la ragazza più fragile del mondo.
Ma lui? Loro? Com'era possibile? No, Mason non aveva una ragazza, nulla del genere, almeno da quando li avevano catturati. E improvvisamente il diciottenne si ricordò chi fosse realmente importante in quel momento.
« Jewel! » sentì la sua voce, poco lontano, e gli parve un'allucinazione. « Mason! » gridò di nuovo e stavolta il ragazzo si costrinse a voltarsi, vedendo la chioma scura di Naomi che arrancava fra la gente, facendosi strada con braccia e spintoni.
Gli saltò addosso e lui non esitò a stringerla, preoccupato, quasi sul punto di piangere, di confessarle che aveva paura e che non capiva più nulla. Avrebbe attaccato a farle tremila domande, se non fosse per il pugno in pieno viso che lo colpì, facendogli perdere l'equilibrio e facendolo finire a terra. Sentì alcune grida, la gente si spostò, facendogli spazio.
Naomi non si rese conto inizialmente di cosa stesse succedendo, ma le parole le uscirono di bocca, senza che potesse fermarle. « Che cazzo di problemi hai? » chiese, riconoscendo in seguito l'aggressore.
Christian Adams era di fronte a lei, impossibile non riconoscerlo coi suoi inusuali capelli castani e quella tonalità differente di verde che variava verso l'olivastro nelle sue iridi. Si concesse qualche istante per analizzare la situazione: Mason era a terra, Chris di fronte a lei, dietro Lucy Hall era scoppiata a piangere e di fianco vi era Jewel, stretta a... No, si disse, non era possibile.
« Tu eri morto... » mormorò in direzione di Blaze, sentendo il sangue gelarsi nelle sue vene. Nessuno sembrava averle dato retta.
« Tu dovresti spiegarmelo! » le urlò contro Chris, visibilmente confuso e infuriato.
« Te la fai ancora con lei, non è vero? » gridò Lucy fra le lacrime, mentre Mason cercava di rimettersi in piedi.
Gli occhi di Naomi guizzarono subito in direzione del suo compagno, sperando che lui sapesse qualcosa in più.
« Perché perdi tempo con lei, Chris? » domandò aspramente Jewel, osservandola con lo sguardo sprezzante che le rivolgeva un tempo. « Non cambierà mai, te l'avevo detto che ti avrebbe tradito. »
« Smettila! » la zittì il moro, allontanandola con un gesto della mano. « Lo sai che non voglio che parli di lei così. »
« Perché no? » domandò, permalosa. « Non è colpa mia se è fedele peggio di un cane. »
Blaze, stringendola a sé, corrugò la fronte, perplesso. « Tesoro, ma i cani sono fedeli. »
« Si sposano? Si giurano eterno amore? Celebrano matrimoni? » Ovviamente la bionda non si aspettava una risposta. « No. Si scopano qualsiasi cagna che hanno di fronte, come lei » additò la mora, proseguendo: « Quindi no, i cani non sono fedeli. »
Naomi cercò di farsi scivolare via tutte quelle accuse, come era sempre stata abituata. Ma notò che parole del genere facevano ancora più male se dette da Jewel. Scansò quel pensiero solo perché un altro in quel momento occupava la sua mente.
Quasi non le venne da ridere, ma per il nervoso. « Noi due non stiamo assieme » affermò convinta a Chris.
« Mi stai lasciando? » chiese lui, puntandole gli occhi tristi addosso. Additò Mason, accusandolo. « Per lui? »
Lucy, dietro, si passò una mano fra i capelli, sul punto di avere una crisi isterica e la migliore amica tentò di abbracciarla per consolarla.
« No » rispose prontamente. « Cioè... è impossibile che stiamo assieme. A me piacciono le ragazze! »
« Cosa? » Naomi serrò la bocca non appena capì cosa si era lasciata sfuggire. L'espressione di Chris diventò ancora più cupa. « Quindi non sono che un rimpiazzo? »
« Allora devo stare attenta che non punti me invece che il mio ragazzo! » sbraitò Lucy.
« Ovvio, lei ti lascia e tu vieni a consolarti da me. Che stupido, aveva ragione J. » continuò il maggiore.
Quella frase fece nascere un brivido di rabbia in tutto il corpo di Naomi. « Lei non mi ha lasciato » sibilò, tentando di trattenere tutta la sua frustrazione. Aveva risposto immediatamente, pensando a Lucinda Harvey, la sua Lucy, non quella biondina di fronte a lei che le serbava solo odio. « Lei non mi ha lasciato! » ripeté a voce più alta.
« Certo, ti ha solo gentilmente chiesto di non avere più niente a che fare con lei e poi se ne è ritornata nel Distretto 2 per... che ne so, progettare giocattoli per bambini. »
Uno sprazzo di speranza le attraversò la mente. Era tornata nel Distretto 2? Lucy? « Lei è... viva? » sussurrò, flebile.
« Sei forse impazzita, Naell? » domandò Jewel, prendendola seriamente per matta. Come l'aveva chiamata? Naell? Naomi era come pietrificata. Jewel non aveva mai conosciuto il suo vero cognome, né lei gliel'aveva mai rivelato. Ma allora com'era possibile? Non se l'era immaginato, aveva proprio detto "Naell".
« Pensavo che quell'anello contasse qualcosa per te. Ma forse mi sbagliavo » sputò Chris, deluso e ferito.
Istintivamente Naomi si guardò le mani e riconobbe sull'anulare sinistro un anello che ultimamente aveva visto fin troppo spesso. Non aveva dubbi, era quello di Jewel, era quello che Chris le aveva regalato prima di andare in Arena, quello in cui era nascosta una piccola lama e con cui aveva ucciso Blaze.
Non riuscì a pensar altro, che venne bruscamente afferrata e trascinata via da Mason. « Vieni! » gridò, iniziando a correre nella folla per allontanarsi da lì. Naomi non capiva, ma poi, dietro al gruppo di ragazzi, vide una figura alta e imponente, completamente nera e incappucciata, ma senza volto, che avanzava decisa verso di loro, a passo svelto. Eppure sembrava che nessuno vi badasse.
Sentì qualcuno gridar loro dietro, ma Naomi era così confusa da essere incapace persino di distinguere le voci.
« Lei è viva » riuscì solamente a mormorare, incredula. « Lei è viva, Mason! »
« Lo so, lo so. Ma ora dobbiamo andarcene di qui se vogliamo vivere anche noi » rispose il moro, « e capire cosa cazzo succede. »

 
* * *
 
« Hey, Will, cosa ne dici di questo? » chiese una ragazzina dai capelli e occhi castani. Sembrava più piccola di lui, non l'aveva mai vista in vita sua e gli stava mostrando quello che pareva essere un abito da sposa.
Qualcuno gli schioccò le dita di fronte agli occhi, facendolo sussultare. « Pronto? Ti sei imbambolato? » fece un’altra voce femminile accanto a lui.
Si voltò e vide Roxy coi suoi lunghi capelli scuri, gli occhi verdi e il piccolo naso cosparso di delicate lentiggini, alta e gracile come uno stuzzicadenti come se la ricordava prima che esplodesse e il suo corpo si tramutasse in brandelli di viscere e poltiglia quasi disintegrata.
Le palpebre erano dannatamente pesanti e quasi gli sfuggì un sorriso: in fondo non era raro che la sua gemella gli parlasse in sogno.
« Ah, sei viva » mormorò, perdendosi fra i frammenti felici che i sogni potevano donargli.
« Perché, dovrei essere morta? » domandò, alzando un sopracciglio.
« Perché ti ho visto saltare in aria » bofonchiò, sbadigliando.
« Su un tappeto elastico, magari » scherzò. « Ma se vuoi costruisco una macchina del tempo, torno indietro, salvo mamma e papà e prendo il loro posto. Così, a random, magari poi divento anche l'eroina della ribellione e pretendo che tu mi faccia costruire una statua. La voglio d'oro e gigantesca. »
Qualcuno ridacchiò, poco lontano da loro, ma William non vi badò e quasi preferì ritornare a chiudere gli occhi.
« Un'eroina, come la moglie di Randy Wane. »
« Ah, quanto è bella! » esclamò qualcun'altro.
« Bah, mica tanto » si aggiunse una terza voce.
« Hey, Jamie, dì qualcosa al tuo promesso sposo. Sta decisamente dormendo in piedi, oggi! »
A quel nome William aprì di nuovo gli occhi e, fra tutto quel bianco e tutti quei vestiti, riconobbe l'esile figura della sua Jamie di fronte a lui, su un piedistallo, con addosso un sontuoso e lungo abito. Ne rimase estasiato e si convinse ancora di più che quello fosse un sogno. Le pareva bellissima come un angelo e restò a bocca aperta, senza la forza di dire nulla.
« Non sai sceglierteli, gli uomini » la rimproverò Roxy, schioccando la lingua sul palato e prendendo in giro l'espressione da ebete del gemello.
Jamie lo guardò intimorita coi suoi occhioni ambrati. Si sentiva spaesata, inconsapevole del perché stesse in un negozio di abiti da sposa e del perché ne stava indossando uno. All'inizio essere circondata da quei volti sconosciuti l'aveva spaventata, ma poi pian piano ne aveva riconosciuto i lineamenti, troppo simili ai suoi. L'ultima volta che aveva visto quelle tre ragazze che la circondavano erano poco più che bambine, ma forse erano una delle poche cose che ricordava del suo passato: Margaret, Andreah, Jonah... ricordava chi fossero le sue sorelle così come ricordava che erano state fucilate davanti ai suoi occhi, mentre lei era caduta rimanendo indietro e l'anziana Maelh l'aveva trovata, salvandola.
Will si torturò le mani, nervoso per quella situazione, ma le sue dita toccarono qualcosa di freddo e metallico. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani e vide un anello di fidanzamento, sottile e argenteo. Alzò di scatto gli occhi verdi verso quelli di Jamie, notando che anche lei aveva avuto la sua stessa reazione.
Qualcosa gli balenò improvvisamente nella mente, stringendogli il cuore in una morsa. « Roxy, dov'è Nico? » domandò.
La mora assottigliò lo sguardo, non capendo. « Nico? » ripeté. « Che razza di sogno hai fatto? Lo sai che andare a dormire senza mangiare ti fa male. »
 
* * *

« Molto probabilmente ci faranno evacuare per un po' dal Distretto 4, in modo da ripulire le tubature dell'acqua. »
Ocean fu attirato immediatamente dalla voce inconfondibile di suo fratello Elijah. Sbarrò gli occhi nel riconoscere i ribelli Wane e Coin che parlavano sulla tribuna.
« Ma non erano morti? » domandò, ma le ultime sillabe gli morirono in gola. Prima di tutto, perché suo fratello era nell'Arena? Secondo, che razza di Arena era? Terzo, perché Elijah non era su una sedia a rotelle? Era lì, accanto a lui, in piedi, forte e fiero come l'aveva sempre ricordato prima dei Giorni Bui. « Le tue gambe! » gridò.
Elijah se le guardò, disinteressato. « Che hanno fatto? »
« Dove hai trovato i soldi per l'operazione? » chiese il diciassettenne, scandalizzato.
Elijah corrugò la fronte, non capendo di cosa il minore stesse parlando. « Quale operazione? »
« Ma... le tue gambe... insomma... Dove sono papà e mamma? » cambiò domanda, notando che stava iniziando a balbettare e che quella fosse la cosa più giusta da chiedere.
Elijah lo guardò sconvolto, domandandosi se stesse dicendo sul serio. « Al cimitero » rispose, come se fosse ovvio.
Ocean aggrottò le sopracciglia. « E che ci stanno a fare? »
Il maggiore si guardò attorno, sentendosi preso per il culo. « I morti non hanno ancora imparato ad andarsene in giro, Ocean. »
Il biondo si paralizzò, stavolta l'avrebbe voluta lui una sedia a rotelle, perché sentiva le gambe farsi molli. « Dov'è Leila? »
« Sicuro di sentirti bene? » Per Elijah suo fratello si stava comportando in modo fin troppo strano. Perché poi voleva sapere dove fosse la nipote del sindaco? « Dovrebbe stare fuori » concluse, pensando che era meglio non indagare troppo.
Il minore iniziò a correre fra la folla, facendosi strada. Doveva trovarla, ma allo stesso tempo era ansioso di prendere una boccata d'aria. Uscì dal padiglione, respirando a pieni polmoni. Sopra di lui si ergevano i grattacieli vertiginosi di Capitol City, molti distrutti e le strade dovevano ancora essere completamente ripulite dalle macerie, ma più o meno gli era tutto familiare, per quel poco che aveva visto della metropoli. Nei paraggi di una delle entrate minori della struttura notò Leila – coi biondi capelli intrecciati laboriosamente per l'occasione – intenta a parlare con qualcuno. Le corse incontro, desideroso di abbracciarla, ma dovette fermarsi immediatamente quando la vide baciarsi con quella persona.
Sgranò gli occhi, sconvolto. « Che fai? » li interruppe.
I due furono costretti a separarsi e Leila ridacchiò, imbarazzata, aggiustandosi il vestito per controllare che fosse in ordine. La cosa più sconvolgente fu riconoscere il ragazzo: folti capelli biondo scuro che urgevano un taglio, grandi occhi azzurri, labbra carnose e carnagione abbronzata.
« Hey, Ocean » lo salutò Leila – che per lo meno fino a qualche minuto fa credeva la sua ragazza – ma lui per una volta la ignorò, concentrandosi sull'altro.
« Chord, dovè Beryl? » gli domandò duramente, preoccupato.
Il ragazzo sembrò fin troppo perplesso. « Chi è Beryl? » 
 
* * *

« Sarà un caso che Ophelia ha smesso di piangere proprio quando Randy ha cominciato il discorso? » domandò una voce estremamente familiare accanto a lui.
All’inizio Benvolio si sentì la testa talmente pesante che non riuscì nemmeno a girarla; quando poi si voltò, trasalì di botto. « Giselle? » chiese, stupito e terrorizzato al contempo. « Cosa ci fai qui… l’Arena… Randy…? »
Giselle lo osservò con uno sguardo a metà tra il rimprovero e la beffa. « Ma che stai dicendo, Ben? »
Benvolio prese a fissare il frugoletto dalle treccine castane che la sua fidanzata aveva tra le braccia e il suo cuore perse un battito. « Chi è questa bambina? » continuò a domandare, gli occhi spalancati.
Giselle sembrò avere una paresi facciale per quanto rimase atterrita. « Ben, mi stai spaventando. E’ tua figlia, Ophelia! Che cavolo ti prende? »
Una serie di altre domande si affollò nella mente del biondo e lui inspirò profondamente per tentare di calmarsi. Perché Giselle era lì, perché diceva che avevano una figlia? Una figlia! Lui non ci aveva neanche mai pensato, a dei figli.
E poi la ragazza aveva parlato di Randy Wane… e in effetti lo vedeva perfettamente, lì in posizione eretta sulla tribuna d’onore dell’anfiteatro dove, diamine, pochi giorni prima c’era stata la parata dei tributi.
Era davvero quella, l’Arena? Una ricostruzione di Capitol City? No, impossibile. Giselle era al sicuro a casa sua, al Distretto 9 e Randy Wane era morto, fatto a pezzi dalle bombe di Rigel.
Che sta succedendo?
Se a quello si aggiungeva che appena la sera prima aveva tradito Giselle con Melanie – anche se alla fine non aveva ancora capito perché proprio nel momento cruciale la sua compagna di distretto si fosse messa a urlare, e non di piacere o di dolore, e perché l’avesse cacciato dalla stanza, così da non concludere un bel niente – era sicuro che sarebbe impazzito a breve.
« Sì, scusami… » mormorò in direzione della fidanzata, che sembrava alquanto contrariata dal suo comportamento. « Mi gira un po’ la testa… »
L’espressione di Giselle cambiò l’istante successivo. « Forse è questa maledetta tuta da Pacificatore che non ti fa respirare » disse, apprensiva, e con una mano gli allentò il colletto della tuta.
Benvolio sentì una goccia di sudore scivolargli lungo la tempia. Effettivamente aveva molto caldo e si sentiva soffocare. Si guardò gli abiti: una bianca tuta da Pacificatore, proprio come aveva detto la ragazza; eppure ricordava che l’avevano fatto vestire in tutt’altro modo per l’Arena. Un’altra stranezza che si andò ad aggiungere a tutto ciò che già lo circondava. Se impersonava un Pacificatore, allora perché poteva permettersi di avere una moglie – l’aveva capito dalla fede che Giselle portava all’anulare – e una figlia? Più i minuti passavano, meno capiva.
« Vado… » biascicò, scrutando la folla in cerca di una via di fuga, « vado a prendere una boccata d’aria. » Giselle annuì e lo lasciò andare.
Benvolio cominciò a camminare a passo spedito, facendosi strada tra uomini e donne di varia età e ceto sociale, tra spinte e spallate poco gentili a cui seguirono delle imprecazioni altrettanto sgarbate.
Doveva fare qualcosa, era tutto troppo strano.
Raggiunse finalmente un luogo relativamente isolato e si appoggiò con le mani alle ginocchia, respirando piano. Decise che per prima cosa avrebbe provato ad uscire dall’anfiteatro, quando vide poco lontano un Pacificatore – un collega, magari?, anche se lui portava il classico casco – che gli si avvicinava con una certa fretta.
« Hey, Winslet! » lo chiamò. « C’è bisogno di te, abbiamo un problemino nelle ultime file. »
Benvolio si chiese se stesse chiamando proprio lui, ma non c’erano altri Pacificatori o Winslet in zona, e così decise di seguirlo, perché non aveva alternativa migliore. Forse qualcuno di loro gli avrebbe spiegato cosa stesse accadendo, anche se ne dubitava altamente.
 
* * *

La prima cosa che percepì nel ritornare cosciente fu qualcosa di morbido e umido che si poggiava sulle proprie labbra. Rimase con gli occhi chiusi, così, ad assaporare quella sensazione meravigliosa, inebriandosi del profumo di cannella che gli invase le narici.
Sembrava quasi che stesse baciando qualcuno…
Prima ancora che potesse decidersi a guardare cosa stesse accadendo, sentì delle mani piccole che fecero pressione sul proprio petto, allontanandolo.
« Jeyl, ma cosa stai facendo? » Un sussurro timido, eppure contrariato.
Jeyl spalancò gli occhi di botto a quella voce e ciò che vide lo lasciò spiazzato. « V-Virginia? » balbettò, imbarazzato, a pochi centimetri di distanza da lei. Si erano davvero baciati? Ma lui non doveva essere in Arena? E lei…
« Parli? » chiese, ancora, rendendosene conto solo in quel momento e scattando in piedi dalla panchina su cui era seduto.
La ragazza lo fissò con sguardo perplesso. Non rispose a quella domanda così assurda, limitandosi a dire, piuttosto: « Non so cosa tu abbia capito, Jeyl, ma io ti vedo solo come un amico… Mi dispiace… »
Jeyl sentì il cuore comprimersi in una morsa, ma cercò di collegare i punti nella sua testa invece di rimanere ferito da quelle parole. « Virginia… io… » provò a dirle, prendendole il viso tra le mani. Prima che potesse concludere la frase, però, la rossa strabuzzò gli occhi e gli indicò con un cenno del capo qualcosa poco lontano da lì.
Jeyl si voltò e notò Coraline che si era bloccata a qualche metro di distanza, con un paio di coni gelato tre le mani, e che li fissava senza la capacità di proferire parola. Il ragazzo le sorrise, esterrefatto – ma cosa diavolo era quell’Arena? – quando poi si accorse che le sue guance erano rigate di lacrime fresche.
« Coraline » tentò di chiamarla, ma lei fu più veloce, voltò i tacchi e scappò nella frazione di un secondo, lasciando cadere i gelati a terra.
Jeyl rimase quasi imbambolato e fu Virginia a riscuoterlo dal torpore, tirandogli una manica della maglia. « Perché fai così? Insomma, ormai state insieme da due anni! »
« Cosa? » domandò l’altro in un sibilo. « Non è vero! Lei è la mia migliore amica! »
« Avanti, stupido, va’ da lei! » lo incitò la rossa, scuotendo la testa. « Sei forse impazzito, oggi? »
E in realtà Jeyl non lo sapeva, perché se lo stava domandando anche lui. Schizzò in avanti con uno scatto e seguì i passi di Coraline, correndo e tentando di raggiungerla. Vide i suoi capelli neri sparire ad una curva e quindi imboccò la stessa strada, senza smettere di correre.
L’amica – amica? – non riuscì a seminarlo, per cui se lo trovò alle costole dopo pochi istanti. Jeyl le afferrò un polso saldamente, ma senza essere troppo rude, per frenarla.
« Che vuoi?! » urlò Coraline, versando altre lacrime, ma fermandosi finalmente davanti a un negozio di abiti da sposa. « Vattene via! Torna da Virginia, se è lei che ami! »
Il ragazzo avrebbe voluto rispondere che sì, era lei che amava, ma non gli sembrò il caso di dirlo in quella situazione. Piuttosto, avrebbe preferito capirci qualcosa.
« Hey, Cora… » cominciò, ansimando un poco per la corsa, « mi spieghi cosa sta succedendo? Io… non lo so, davvero. »
Coraline sembrò trattenere con rabbia un singhiozzo e si liberò della sua presa con uno strattone. « Ah, io dovrei spiegartelo? Sei stato tu a baciarla! »
Jeyl tentennò. « Non… non mi riferisco a quello… è che… insomma, gli Hunger Games, l’Arena… » Non seppe più come continuare la frase e si passò una mano sul volto. « Senti, forse sono morto o forse è una specie di sogno, ma devi aiutarmi a capire, per favore. »
Coraline fece un’espressione indignata e si asciugò le lacrime con la manica della maglietta. « Non mi chiedi nemmeno scusa… lo sapevo, sei solo come tutti gli altri… uno… uno… » sembrava trattenersi dal dire qualcosa di cattivo, ma alla fine sbottò: « uno stronzo! »
 
* * *

Beryl non badò né a Randy Wane, né ad Hans Coin. L'unica cosa su cui si concentrò quando riprese conoscenza fu il brusio di gente che la circondava. Tirò un sorriso involontario, perché la quattordicenne amava essere fra la folla. Non pensava, però, che un'Arena potesse essere di quel tipo. L'anno precedente era stata così spoglia e misera, invece ora vi erano luci, spalti e persone tutte intorno.
« Ocean! » le venne da gridare, in un barlume di panico quando si rese conto che non conosceva nessuna delle facce che scorgeva.
« Tesoro, che hai? »
Quella voce maschile attirò subito l'attenzione della ragazza, dapprima vedendo sua madre e poi un uomo alto e magro, con dei corti capelli rossi, un accenno di barba e spiccanti occhi verdi.
Per la prima volta nella sua vita Beryl non sapeva cosa dire, non le uscivano proprio le parole e credettee che il suo cuore si fosse veramente fermato.
« Papà! » gridò, saltandogli al collo, fra le lacrime. L'uomo la strinse fra le braccia, ridacchiando, ma poi la quattordicenne si staccò quando un terribile pensiero le attraversò la mente. « Oddio, sono morta? »
Entrambi i suoi genitori scoppiarono a ridere e fu la madre a risponderle: « No, sciocchina. Tutto il contrario! La parata deve averti fatto male. »
Il sorriso le si allargò fino a farle dolere gli zigomi e non riusciva più a smettere di piangere dalla gioia, ma non le importava. « Non vedo l'ora di dirlo a Chord! » trillò entusiasta, non accorgendosi che aveva iniziato a saltellare sul posto.
« Chord? » intervenne suo padre. « Chi è Chord? »
« Ah, è mio fratello » rispose sbrigativamente, eccitata. « Devo raccontarti un mucchio di cose! »
Ebony sbuffò, scocciata dalle fantasie che spesso aveva la giovane. « Quale fratello? Hai sbattuto la testa, per caso? »
Suo padre ridacchiò, lanciando un'occhiatina alla moglie. « Beh, se vuoi, Beryl, potrai averne uno. » Quel commento fece arrossire la donna, che non gli risparmiò un buffetto sul braccio.
Beryl cominciò a rendersi conto che la situazione era strana, preoccupandosi. Era stata felice di vedere suo padre in un primo momento, ma ora si accorgeva che tutto ciò che diceva non corrispondeva a ciò che gli altri credevano.
« Comunque, dicevo che appena finisce il discorso è meglio tornare nel Tredici. La gente in queste occasioni si fa prendere un po' troppo la mano » commentò Aaron, l'uomo.
« Ma il Distretto 13 è stato distrutto, che ci andiamo a fare? »
Gli altri due si scambiarono uno sguardo, preoccupati, e la madre scosse la testa. « Beryl, smettila di giocare. »
Non volle sentire altro, un po' perché odiava quando sua madre la rimproverava, un po' perché non ci capiva più nulla. Fuggì, non guardandosi indietro e svoltando non appena fu uscita da uno dei portoni. Riprese fiato, guardandosi attorno, sperando di riconoscere qualcuno che potesse aiutarla. Le si illuminarono gli occhi quando riconobbe Chord da lontano.
« Chord! » lo chiamò, riprendendo a correre.
La sua voce fece voltare di scatto Ocean, che sgranò gli occhi. « Beryl! » gridò, andandole incontro.
« Ocean! » La ragazza aumentò la velocità, aprendo automaticamente le braccia e stringendole attorno al collo del ragazzo una volta che questo la sollevò in aria. Una volta con i piedi di nuovo per terra, lo sorpassò, riconoscendo Leila vicino al suo fratellastro. « Chord! » lo chiamò di nuovo, andandolo ad abbracciare, ma quello indietreggiò, scansandola.
« La conosci? » gli sussurrò Leila e il sedicenne scosse la testa, intimorito.
Beryl si sentì schiacciare il petto da un masso, restando paralizzata.
Lo sguardo dei tributi del Quattro, però, si focalizzò oltre i due ragazzi, sulla figura nera e incappucciata che era appena spuntata dall'angolo della via e si stava dirigendo verso di loro a passo spedito, con le braccia lungo i fianchi e i pugni stretti. Ciò che li attirò fu il fatto che quell'uomo era senza volto, al cui posto c’era soltanto una porzione informe di pelle.
Ocean afferrò prontamente la mano della compagna, trascinandola e allontanandosi di corsa nelle vie di Capitol City.
« Perché non mi riconosce? » domandò la minore, con le lacrime agli occhi.
« Non ne ho idea » rispose sinceramente il biondo.
« Dove stiamo andando? »
« Non ne ho idea, Beryl. »
« E chi era quel tizio? Perché non aveva la faccia? »
« Non ne ho idea » ripeté, facendo trapelare la paura nella sua voce.
 
* * *

« Magnifica idea quella di venire a visitare le rovine di Capitol City, mia cara » si complimentò il signor Gomez Addams, sfoggiando un passionale baciamano alla moglie.
Wednesday si scrutò attorno: era in una casa decadente, che un tempo doveva esser stata la ricca dimora di qualche capitolino con un orribile e pacchiano gusto nel design, ma ora i muri cadevano a pezzi, era tutto impolverato o distrutto.
« Dobbiamo ricordarci di portare qualcosa alla nonna » ricordò Morticia.
Zio Fester curiosava in giro per la stanza, aprendo barattoli e rovistando nei cassetti ancora intatti, in cerca di chissà cosa.
« Guarda cos'ho trovato » gridò Pugsley, attirando l'attenzione della sorella e sventolando di fronte al naso qualche posata argentea. « Quello che doveva abitare qui ne ha parecchie, una collezione intera, ma sono scadenti. »
Wednesday non si soffermò a domandarsi che cosa stesse accadendo, perché era con la sua famiglia e perché stavano visitando delle rovine... a Capitol City, per giunta; tanto meno si pose la domanda di dove fosse Pubert e perché non era con loro, tanto le fregava di quell'inutile marmocchio.
La dodicenne ghignò e l'unica cosa degna della sua attenzione fu il coltello che suo fratello stringeva fra le mani. « Proviamoli » suggerì, già eccitata nell'iniziare una nuova serie di torture su Pugsley.

 
* * *
 
« Non capisci? Devi sposarmi! »
Clarity iniziò a boccheggiare, come se per tutto quel tempo non avesse respirato. Effettivamente, era come se fosse morta e poi rinata, o almeno era la sensazione che provava. Si scrutò attorno, spaesata, puntando i volti delle persone che la circondavano e non riconoscendone neanche uno. Poi sentì le spalle pizzicarle e notò che i suoi capelli erano ancora lunghi come un tempo. Prese qualche ciocca, rigirandosela fra le mani e non capendo.
« Se non lo farai rischierai che un giorno di questi ti piantino una pallottola in testa come hanno fatto con la tua famiglia. »
Accanto a lei c'era Jeremy Cost, tutto rivestito e sempre con la puzza sotto al naso che, per qualche strano motivo, le stava parlando. Ty digrignò i denti in una smorfia di pieno disgusto.
« Io sono già sposata » sputò, sfuggendo alla presa del ragazzo. Anche il solo stargli vicino le faceva ribrezzo. Come aveva potuto andare a letto con lui quando lei e Perry avevano litigato? Che cosa le era saltato in mente? Ma, soprattutto, di cosa diavolo stava parlando quell'arrogante?
« Che stai dicendo? » chiese quello, aggrottando la fronte.
I pensieri di Ty balzarono immediatamente su suo marito, tralasciando tutto il resto; istintivamente portò lo sguardo all'anulare sinistro e notò che non vi era nulla. L'anello! Dov'era l'anello?
Prese a correre tra la folla senza pensarci due volte, gridando « Perry! Perry! Perry, dove sei? » senza mai prendere fiato, cercando di esaminare ogni volto in quell'immensa folla che la circondava.
Dov'era finita? Che cosa stava succedendo? Come ci era finita in quel posto? Che posto era? E, soprattutto, che cosa stava facendo prima? La sua testa era così pesante, ma allo stesso tempo così vuota.
Si fermò, credendo che da un momento all'altro sarebbe svenuta, come era successo quando era salita sulla pedana. Poi, improvvisamente, i suoi occhi finirono sul volto di un ragazzo, in lontananza: alto, asciutto, pelle chiara, lineamenti affilati, occhi scuri leggermente a mandorla e i capelli scuri raccolti in un codino. A Ty sembrava di conoscerlo, eppure era sicura di non averlo mai visto. Eppure, se solo cercava di immaginare il suo volto diversamente, se solo la metà di quel viso...
I suoi occhi nocciola si sgranarono.

 
* * *
 
Non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato, ma sia lei che gli altri continuavano a restare in silenzio perché Logan non aveva ancora fatto il segnale per attuare il loro piano di fuga.
L'attenzione di Kenia fu destata solamente quando una ragazzina all'ingresso prese ad indicarla, parlando con alcuni Pacificatori. Strinse gli occhi in due fessure perché quella ragazzina le era terribilmente familiare, ma non riusciva a ricordare dove l'avesse già vista: aveva lunghi capelli neri e mossi, la carnagione scura, gli occhi color pece e uno sguardo duro rivolto verso di lei.
Clary.
La voce di Brian le rimbombò nella mente, facendole venire l'illuminazione. Si alzò di scatto, pensando che forse quella ragazza sapeva cosa stava succedendo e dov'era Brick; ma quando tentò di raggiungerla, un Pacificatore la colpì alla testa con il fucile. Cadde a terra, dolorante e, portandosi una mano alla tempia, vide che aveva iniziato a sanguinare. Cercò subito di rialzarsi, tendendo la mano verso la mora, ma quella girò i tacchi con indignazione e sparì nel giro di pochi secondi.
« Dove credi di andare? » domandò l'uomo che l'aveva colpita.
« Lei non capisce! » strillò, impaurita nel perdere di vista Clary. « Devo parlare con quella ragazza! »
« Io non credo proprio. » La risata sprezzante del Pacificatore le perforò le orecchie, facendola sentire indifesa.
« Ci penso io » intervenne un altro uomo in bianco. Era quello di prima che le aveva risparmiato una pallottola in fronte, lo riconosceva dalla voce. L'afferrò per un braccio e la costrinse ad alzarsi, spintonandola davanti a lui e puntandole il fucile contro per farla avanzare. « Vieni con me » le intimò.
La riccia vide Logan alzarsi in piedi di scatto, digrignando i denti, ma appena un paio di canne furono puntate verso di lui, tutto il suo impeto si spense; rivolse un'ultima occhiata verso la sua Barbie e poi si rimise a sedere verso le sorellastre minori. Kenia lo sapeva che il suo Loggie non avrebbe fatto nulla, gliel'aveva sempre ripetuto che doveva cavarsela da sola, avrebbe sempre pensato alla propria sopravvivenza piuttosto che alla sua, doveva accettarlo.
Percorse un corridoio austero, vuoto, con le pareti ingiallite e piene di crepe. Non sapeva dove la stava portando, ma man mano che avanzava incontrava sempre meno Pacificatori e ciò un po' la rassicurava. O forse non doveva? Forse la stava portando a morire? Il cuore cominciò a martellarle forte nel petto, perché la piccola Reaper non aveva mai pensato davvero alla morte, eppure era una cosa che l'aveva sempre perseguitata. Specialmente quel giorno, quello del suo compleanno.
Dopo qualche svolta, arrivarono alla fine del labirinto di corridoi, ritrovandosi davanti una porta sgangherata e con la vernice sbiadita. L'uomo la sorpassò, aprendo piano la porta e rivelando un vicolo all'apparenza normale e senza anomalie. L'uomo si tolse il casco bianco, rivelando un volto che Kenia aveva conosciuto solo qualche giorno prima: aveva i ricci biondi e dei piccoli occhi azzurri, il viso scavato, un naso aquilino e delle labbra sottili tirate in un gentile sorriso. Era il soldato che l'aveva accompagnata nella Sessione Privata e ora con un dito sulla bocca le intimava di fare silenzio e scappare.
La dodicenne acconsentì con la testa, ripetendosi che non doveva scoppiare in lacrime e che doveva smetterla di tremare. Avrebbe tanto voluto abbracciarlo per ringraziarlo, invece fuggì in un baleno fuori da quella porta, correndo e non voltandosi più indietro.

 
* * *
 
Tutte quelle luci gli facevano male agli occhi; continuava a sbattere ripetutamente le palpebre da... non sapeva neanche quanto. Il suo sguardo scuro era fisso sulla tribuna centrale più in alto, vi erano due figure che non aveva mai visto dal vivo, ma avrebbe potuto riconoscerle fra gli abitanti di tutta Panem per come glieli avevano descritti un sacco di volte e per tutte le foto e i documenti che aveva visto analizzare da suo padre su di loro. Eppure erano diversi da come i soldati di Capitol City li avevano sempre raffigurati, avevano qualcosa di diverso, di più... nobile.
Uno sbuffo attirò la sua attenzione verso destra e per poco non ci rimase secco: Katae era di fianco a lui, teneva gli occhi blu puntati verso i due capi ribelli e le braccia incrociate al petto. Al collo, il ciondolo che anni prima lui stesso le aveva preso.
La gola gli divenne improvvisamente secca e tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un tremulo mormorio: « S-Stai... stai bene? »
La castana si voltò, alzando un sopracciglio. « Si, perché? Tu, piuttosto. Stai sudando » osservò.
« Forse è meglio se vai a prenderti una boccata d'aria, figliolo. Qui dentro non si respira. »
La testa di Zhu scattò alla propria sinistra, accorgendosi della presenza dello zio. Non riusciva a formulare una frase decente che avesse un significato, continuava solamente a balbettare cose senza senso come « Tu... lei... perché... cosa... dove... ? » ai quali i due rispondevano con espressioni confuse.
« Meglio se fai come ti ha detto » concluse Katae, ritornando a fissare davanti a sé, « così almeno mi fai ascoltare il discorso in pace. »
« Ma... voi state qui... vero? » chiese col timore di abbandonarli. Sentì che stava iniziando a tremare, eppure quasi gli sembrava di soffocare lì dentro. Non riusciva a formulare un pensiero sensato e ciò lo faceva impazzire.
Suo zio ridacchiò, bonario come sempre. « E dove dovremmo stare? »
Zhu si allontanò lentamente, voltandosi ogni tre passi per guardare se effettivamente erano ancora lì. E c'erano, c'erano sempre.
Si portò le mani alla testa, sorreggendola e asciugandosi il sudore dalla fronte; fino a che si bloccò e i suoi occhi s'incatenarono a quelli scuri di una ragazza, che lo osservava da lontano. Aveva di nuovo i capelli lunghi, ma la riconobbe come una dei piccioncini del Due. Capì che anche quella l'aveva riconosciuto quando vide la sua espressione mutare e trasformarsi in una maschera di paura, per poi fuggire.
« No! » gridò, prendendo a inseguirla. « Aspetta! »
Forse lei sapeva qualcosa.

 
* * *
 
« Devo rimanere qui fino a che non finisce il discorso, ma poi ti porto a cena fuori » promise Fitzwilliam, per poi stringere a sé Jane e unire le loro labbra. Jason in una situazione normale avrebbe messo come priorità domandarsi dove fosse e perché Fitzwilliam stesse baciando sua sorella, se solo non fosse assolutamente certo che lui era morto.
La sua faccia doveva risultare disgustata, inorridita, sconcertata e chi più ne ha più ne metta, era una tavolozza di emozioni contrastanti e gli altri se ne dovevano essere accorti, perché sua sorella Mary lo strattonò e si mise a ridere.
« Ti fanno ancora schifo queste cose? » chiese, alzando un sopracciglio. « Abituatici. Sennò come farai quando ci presenterai una fidanzata? »
Non disse nulla in risposta e non perché non volesse, ma Jason si rese conto che la voce gli era morta in gola e non riusciva a spiccicar parola. O forse solamente non sapeva da dove cominciare con le domande che si aggrovigliavano nella sua mente.
Dove sono? Che succede? Perché Fitzwilliam è vivo? Perché ha baciato Jane? Perché Mary sta bene? Perché... perché... ? Si guardò attorno e poco distanti vide una donna che parlava con autorità a due ragazze. Sgranò gli occhi e spalancò la bocca ancor di più. Perché sua madre, Kitty e Lydia erano vive?
« Dev'essere un sogno... » mormorò, riuscendo finalmente a pronunciare qualcosa, per poi lanciare un'occhiata alle tre donne lì vicino, continuando: « O forse no. »
« Sì, è un sogno » confermò Mary entusiasta, prendendolo a braccetto e rivolgendo lo sguardo verso il palco. « Non posso ancora credere che abbiamo vinto. »
Vinto? Che significava che avevano vinto?
Guardò ciò che stava succedendo sul palco e vide due uomini impossibili da non riconoscere se si era vissuti nei Giorni Bui. Due uomini che sarebbero dovuti essere morti.
Tornò nuovamente a guardare in giro, contando le persone che conosceva e notò immediatamente che c'era qualcosa che non andava. Dov'era Bingley? Dov'era suo padre? Ma, soprattutto, dov'era Elizabeth?
Sentì il cuore iniziare a scoppiargli nel petto e l'intero corpo prendere a tremare. Stava entrando nel panico. Cercò di controllare il respiro, ma ci riusciva a malapena, era innaturale e Mary se n'era accorta, corrugando le sopracciglia e dicendogli qualcosa. Ma Jason non riusciva a sentire nulla, solo i suoi pensieri confusi che si accavallavano l'uno sopra l'altro nella sua testa.
Gli occhi scuri si assottigliarono nel momento in cui notò che assieme a Randy Wane e Hans Coin c'era qualcun'altro, qualcuno che gli sembrava di aver già visto.
La scena che seguì, però, gli tolse il fiato, mandandogli il cuore in gola e facendolo impazzire. Continuava a tremare, Jason, ma dalla paura di ciò che aveva appena visto. Il corpo di Hans Coin si era tramutato in una figura orribile, nera e anormale, che ora scrutava nel pubblico fino a giungere a lui. Non aveva la faccia, non aveva occhi per guardare, eppure Jason era convinto che gli stesse leggendo l'anima, fisso su di lui. Ma quell'essere – quel mostro – spostò il capo verso un'altro punto e si diresse deciso in mezzo alla folla.
Non osò tirare un sospiro di sollievo, nessun'altro sembrava avere paura o solo essersi accorto di cosa fosse successo su quel palco.
« Cos'è quello? » domandò, continuando a fissare l'uomo nero e incappucciato.
Mary seguì il suo sguardo, cercando di capire a cosa si riferisse. « Cosa? » domandò, non capendo.
« Quella... cosa. » Jason non riusciva a trovare un termine con cui definire quel mostro.
« Ehm... il nuovo presidente? » azzardò la sorella, guardando il palco come se nulla fosse accaduto.
Jason invece di seguire la figura dell'essere provò a guardare verso il punto che voleva raggiungere e a quel punto sentì la pelle accapponarsi. Scosse la testa, terrorizzato.
« No, no! » gridò, strattonandosi dalla presa di Mary e fuggendo via, cercando di farsi un varco tra la folla. « Mi sbagliavo, questo è un incubo! »
« Jason, aspetta! Dove vai? » sentì la sorella che gli urlava dietro, ma ora il suo obiettivo era raggiungere lei prima che lo facesse quell'uomo senza volto.
Ovunque si trovasse era certo che fosse peggio degli Hunger Games. Quella che gli avevano dato era la speranza, bramata, presa e gettata via un attimo prima che chiunque potesse raggiungerla.
 
* * *

« Natálie, ci vuoi anche il mais assieme al petto di pollo, stasera? » domandò una donna alla sua sinistra, accarezzandole delicatamente una spalla. Era bionda e con gli occhi azzurri, un viso delicato, ma molto diverso dal suo, diverso da qualsiasi altra persona che avesse mai visto, perché Nate non aveva la minima idea di chi fosse. Guardò la mano della donna con riluttanza, mentre quella stringeva la sua spalla. « Dico » proseguì, « Katyusha ci vuole le verdure, mentre Ivan il mais. Tu che preferisci? »
Nate non le rispose, continuò a rivolgerle una fredda occhiata, spostando poi gli occhi alla sua destra, dove vi era una ragazza alta e snella, il viso angelico ma segnato da un'espressione dura, coi lunghi capelli castano scuro e gli occhi nocciola; stringeva la mano di un bambino dagli occhi identici e i capelli di una tonalità più chiara, sul ramato.
« Decidi, tesoro. » Stavolta la voce provenne da un uomo alle sue spalle, era praticamente la fotocopia del bambino in versione matura.
Quei gesti, quelle occhiate, quei sorrisi, quel discorso, le facevano venire da vomitare. Chi diavolo erano quelle persone? Perché le parlavano? Come avevano osato chiamarla Natálie? Ma, soprattutto, come facevano i due maggiori capi ribelli ad essere ancora vivi se erano dati per morti e sepolti? Li aveva notati, lì, sulla tributa dell’anfiteatro capitolino dove appena qualche giorno prima avevano sfilato per la parata dei carri, a pronunciare un lungo discorso di ringraziamento che… a dire il vero non sapeva nemmeno quando fosse cominciato. A dire il vero, non sapeva nemmeno perché ci fosse tutta quella gente e non era certa che quella fosse davvero l’Arena. Era così diversa da quella dell’anno precedente, d’altronde…
« A Latasha non piace mangiare » affermò convintamente.
La donna incrinò la testa, curiosa. « Chi è Latasha, tesoro? »
« Mia sorella » si limitò a rispondere, come se fosse ovvio.
La ragazza di fianco a lei si voltò, fulminandola con lo sguardo. « Prova a sbagliare nome un'altra volta e ti do fuoco ai capelli. »
Quei visi d’un tratto le parevano così familiari, eppure la loro vista le provocava un gran mal di testa. Sospirò per cercare di calmarsi, sentendo i conati di vomito che le risalivano lungo la gola. Doveva andarsene, e subito.
« Natálie, dove vai? » domandò l'uomo.
« A prendere un po' d'aria, qui non si respira. »
Non ascoltò neanche la replica a quelle parole, l'unica cosa importante in quel momento era andare via da lì, da quella folla opprimente. Non voleva più stare con quella gente, la facevano sentire a disagio. Chi diavolo erano? Come osavano toccarla? Si proclamavano la sua famiglia, ma non lo erano, non aveva nessun ricordo di loro, non esistevano nel suo passato. La sua unica famiglia erano Babilon, Tonio e Chris e il resto degli Addams. Solo di questo era certa, ormai.
Il resto era un tunnel vuoto e oscuro, probabilmente senza fine.
 
* * *

Ryder si sarebbe aspettato di spuntare da una pedana, di avere lo stesso corno d’oro dell’anno precedente davanti a sé con il conto alla rovescia, di osservare i volti degli altri ventitré tributi prima di lanciarsi in quello che avevano soprannominato “Bagno di Sangue”… a dire il vero si sarebbe aspettato di tutto, meno che quello.
Quando aveva ripreso conoscenza, si era accorto di star trasportando un carrello manegevole, pieno di cibo in scatola e bibite gassate. Si era bloccato di botto, guardandosi attorno, e aveva capito di stare in una specie di magazzino per alimentari; ai suoi lati c’erano scaffali e scaffali di carne surgelata e più avanti riusciva a scorgerne uno dedicato solamente a vini pregiati.
Sbatté più volte le palpebre. In che razza di posto era finito?
Ricominciò a camminare, sempre trasportando il carrello per inerzia, e svoltò dove terminavano gli scaffali, per poi ritrovarsi davanti la figura di una donna alta e magra che sobbalzò nel vederlo. « Oh, Ryder, mi hai spaventata. Vieni, forza, non vorrei fare tardi al discorso di Randy Wane. »
Ryder si bloccò nuovamente, prendendo a fissare sua madre, che per qualche strana ragione era viva e parlava del capo dei ribelli che era morto. L’assurdità della situazione quasi lo disarmò.
« … mamma? » disse a bassissima voce, tanto che nemmeno lei lo sentì.
La donna continuò, piuttosto, guardandosi l’orologio da polso: « Oh, no, forse è già cominciato, dobbiamo sbrigarci! Hai preso tutto quello che ti avevo detto? »
Ryder continuò a fissarla con gli occhi spalancati, senza riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Il suo stupore si intensificò quando da un altro corridoio di scaffali spuntarono Milo e Pandora, suo fratello e sorella minori, che erano morti esattamente come la madre durante i Giorni Bui. Li… li aveva visti morire davanti a lui, lo ricordava benissimo, riviveva spesso quel momento nei suoi incubi.
« Bravi i miei piccoletti! » disse Kaya, accarezzando i capelli dei bambini che le avevano portato delle buste di caramelle da offrire ai bambini.
« Possiamo comprare le barrette al cioccolato, adesso? » domandò Milo con un sorriso sornione, ma la madre scosse categoricamente la testa.
« Potrete mangiare tutti i dolci che vorrete al buffet » rispose, « adesso andiamo alla cassa, mi sembra che ci sia tutto » aggiunse, dando una veloce occhiata al carrello trasportato da Ryder.
Ryder che, continuava a pensare che fosse tutto un sogno. Era l’unica possibilità, per cui decise di assecondarlo.
Seguì la madre e i due fratelli alla cassa. Mentre Kaya pagava con banconote che non aveva mai visto, domandò flebilmente: « Adesso dove andiamo? »
La donna prese a infilare il cibo nelle buste velocemente, come se fossero in un gravissimo ritardo. « Ma all’anfiteatro, no? Non dimenticarti che ci siamo offerti volontari insieme ad altre famiglie per organizzare il buffet gratuito dopo il discorso del nuovo presidente! »
« Nuovo presidente…? »
« Randy Wane, scemotto » rispose Pandora, strattonandogli un polso. « E’ così figo. »
Kaya alzò gli occhi al cielo e diede alcune delle buste ai figli per farsi aiutare a portarle. « Sbrigatevi, su. »
Ryder si mosse automaticamente, senza pensare davvero a quello che stava facendo, mentre il nome di Randy gli rimbombava in testa. Non avrebbe mai pensato che la sua mente sarebbe arrivata al punto di giocargli scherzi del genere.
Quando uscirono dal supermercato, si diressero verso la fermata dell’autobus più vicina. Aspettarono qualche minuto, mentre Milo e Pandora ridevano spensierati.
« Ryder, ma… cosa c’è? Sembri giù di morale… » gli disse poi sua madre, in apprensione. Per fortuna non ebbe modo di rispondere, perché l’arrivo di un pullman li costrinse ad abbandonare quel principio di conversazione.

 
* * *
 
Jeremy si sentiva la testa incredibilmente pesante, tanto che dovette sorreggersela con entrambe le mani, se non voleva temere che gli si staccasse dal collo. Ma non solo… C'erano troppi rumori, troppe grida affinché le sue orecchie potessero distinguere i suoni. Era come essere all'interno di una gigantesca baraonda. Si stropicciò gli occhi e quando li aprì per bene capì che era proprio quello in cui si trovava.
Riconobbe suo padre e i suoi fratelli stringerlo e saltare come pazzi, assieme ad altre facce conosciute e amici del Distretto 12. C'era persino la sua banda al completo. Urlavano tutti, ma di gioia, e Jeremy non riusciva a comprendere cosa diceva ognuno di loro, riuscì a capire solo le frasi più ripetute, come « Abbiamo vinto! » e i nomi di Randy Wane e Hans Coin sulle bocche di tutti.
Si voltò improvvisamente verso il palco rialzato che fungeva da tribuna d’onore. Riconosceva quel posto, l'ultima volta che l'aveva visto era vestito da minatore, era su un carro e il presidente Rigel aveva fatto il suo discorso inquietante per la parata. Ma ora vi erano, fieri, i due leggendari capi ribelli a fare promesse e a portare gioia in quella nuova Panem. Si strofinò nuovamente gli occhi, ma non lo avevano ingannato.
Le labbra di Jeremy si tirarono in un sorriso così ampio da poter essere considerato quasi disumano. Improvvisamente dimenticò tutto, non si pose neanche una domanda e cominciò a sua volta a saltare allegramente in quell’ammasso di gente. « Sono vivi! Sono vivi! » esclamò eccitato, abbracciando tutti gli altri compagni. In quel momento non riusciva a odiare neanche suo fratello Abel.
Neanche si rese conto che ben presto si ritrovò attaccato a qualche bottiglia che gli avevano passato e beveva come se avesse trovato l'acqua in mezzo al deserto dopo giorni di cammino senza sosta.
Amava quell’atmosfera di festa, erano tutti uniti per una vittoria comune e Jeremy si sentì realizzato perché era proprio quello in cui aveva sempre sognato di ritrovarsi e magari un giorno al posto di quei due valorosi ribelli ci sarebbe stato lui e tutti l’avrebbero omaggiato e rispettato.
Forse era per il troppo alcol che aveva assunto in corpo, ma un’idea folle passò nella sua mente, così l’afferrò al volo e non ci pensò due volte ad agire, con la paura che un’occasione del genere non gli sarebbe mai più capitata. Si precipitò nelle prime file, velocemente sfuggì al blocco dei Pacificatori e corse su per le scale che portavano alla tribuna di Wane e Coin.
I due si accorsero di lui quando si avvicinò e rimasero perplessi; Jeremy invece era emozionato come non mai e non riusciva a smettere di sorridere come un ebete. Fece uno scatto e strinse le loro mani, iniziando a farneticare parole come « Oddio, non ci credo! » o « Siete i miei idoli! ». I due capi si scambiarono un’occhiata spaesata, ma quando poi Jeremy iniziò a parlare senza sosta, confidando quanto li ammirasse e quanto avrebbe voluto essere come loro – neanche fosse Beryl Straw – allora Randy iniziò a ridere bonariamente.
Era proprio come Jeremy se l’era sempre immaginato: un uomo alto, robusto, con un sorriso fiero sulle labbra, uno a cui daresti fiducia subito. Hans Coin invece lo fissava con un sorriso dolce e comprensivo, era proprio il ragazzino uscito dal nulla e che aveva imparato a combattere con le proprie forze come era stato descritto.
Il biondo si allontanò di poco, andando a prendere il microfono e tornando con esso. Un brivido di eccitazione percosse Jeremy; mentalmente si rimproverava di dover tornare coi piedi per terra, ma non poteva non immaginare che magari Hans Coin gli avrebbe concesso di parlare davanti ai cittadini di Panem. Lo pensò fino a quando il biondo ribelle non si trasformò in un battito di ciglia in un essere senza volto, che si era liquefatto, e gli attorcigliò velocemente il filo del microfono attorno al collo, stringendo la presa.
Jeremy si sentì soffocare, non riusciva a respirare e dalla bocca non riusciva ad emettere nient’altro che grida strozzate. Cadde in ginocchio e tentò di strappare il filo a mani nude, ma non riusciva neanche a prenderlo, figuriamoci ad allentarlo.
Aveva sempre pensato di morire combattendo contro le oppressioni, non perché era quasi riuscito a raggiungere il proprio sogno o perché uno dei suoi idoli si era trasformato nel suo assassino.
 
* * *

Il suo paffuto fratello era legato nel letto distrutto di chissà quale capitolino di cui un tempo era la casa che ora stavano visitando; era praticamente seminudo con tagli e segni di forchettate per tutto il corpo, le mani strette alla testata del letto con degli stracci trovati. Non sembrava provare dolore, anzi, stava ridendo, come se la sorella gli facesse il solletico.
Wednesday si era già stufata e lo lasciò lì, senza aiutarlo a slegarsi, uscendo dall'appartamento senza dire nulla.
« Stai uscendo a visitare qualche altra rovina? » domandò sua madre.
« Divertiti! » aggiunse suo padre.
La minore non rispose; continuò ad andare per la sua strada, stringendo la sua onnipresente bambola fra le braccia, uscendo dal palazzo e incamminandosi fra le vie di Capitol City. Quel posto era una noia mortale, non vi era nulla degno della sua attenzione, persino vedere zone completamente distrutte l'annoiava.
Si fermò solamente quando notò un piccolo negozio di tatuaggi dall'altra parte della strada. Attraversò senza guardare, ma in fondo non passava anima viva... e neanche morta! Socchiuse gli occhi, riducendoli a due fessure e riconobbe immediatamente le due figure oltre il vetro. Wednesday Addams non era famosa per la sua varietà di espressioni, eppure si sentiva chiaramente sorpresa da quella visione.
Sentì il rumore di alcuni veloci passi e, quando voltò la testa di lato, vide Kenia Reaper del Distretto 8 correre verso di lei e fermarsi non appena la riconobbe. I loro sguardi si incatenarono l'uno all'altro, poi entrambi si volsero verso la vetrina.
La riccia soffocò un urlo, lanciandosi ad aprire la porta. Wednesday tentò di afferrarla per un braccio, ma le sfuggì e non poté che correrle dietro, entrando a sua volta in quel negozio.
I due uomini presenti si voltarono a fissarle, domandandosi chi fossero. Winnow era disteso su una poltroncina e Delphi teneva l'ago in mano, con cui stava incidendo la carne dell'altro per ripassare il tatuaggio di un osso sulla spalla.
« Vi serve qualcosa? » domandò il presunto accompagnatore dell'Otto.
La piccola Reaper non ci pensò due volte e si gettò ad abbracciarlo, scoppiando in lacrime. L'uomo rimase interdetto, non sapendo cosa fare e trovandosi a disagio nel rispondere a quell'abbraccio, così restò con le mani – e l'ago – sospesi in aria.
Wednesday si limitò solamente a tirare un accenno di sorriso verso Winnow, che rimase impassibile a fissarla coi suoi occhi di ghiaccio. Se la secondogenita degli Addams avesse conosciuto la serenità, l'avrebbe di certo provata in quel momento, perché si era aspettata esattamente che lo stilista avrebbe avuto quella stessa reazione: il nulla, l'indifferenza, l'impassibilità. Si sentì quasi sollevata, perché voleva dire che era rimasto lo stesso. Sapeva però che la ragazzina dell'Otto avrebbe mandato tutto a monte per la sua sciocca impulsività.
Winnow spostò lo sguardo sull'amico, celando una muta domanda a cui Delphi rispose con la chiara confusione impressa sul viso.
Accadde, poi, tutto molto velocemente. All’improvviso i tatuaggi sul corpo dell'uomo-scheletro iniziarono a sciogliersi, scorrendo liquidi sulla sua pelle chiara, fino a toccare terra e a iniziare a solidificarsi, raggruppandosi come blob, innalzandosi e prendendo forma.
Dopo anni qualcuno avrebbe finalmente potuto vedere Winnow Spottiswoode al naturale, come era veramente sotto quello strato d'inchiostro perenne. Kenia, però, notando cosa stava accadendo, si strinse ancor di più al proprio accompagnatore, fissando il liquido nero che aveva preso la forma di un uomo incappucciato, alto, imponente e dalle spalle larghe. L'unica cosa che spiccava in quell'ombra era il volto indefinito sotto il cappuccio – o meglio, il fatto che ne fosse privo.
« Ops » si lasciò sfuggire la Addams, ghignando e strattonando l'altra dodicenne a sé, la quale cercò addirittura di ribellarsi. L'essere avanzò di un passo e gli occhi scuri di Wed notarono che gli altri due uomini erano rimasti esattamente nelle stesse posizioni di prima, come se non si accorgessero di ciò che stava accadendo. L'uomo senza volto fece uno scatto e la ragazzina fece altrettanto, trascinandosi dietro Kenia e uscendo il più velocemente possibile da quel negozio. La riccia buttò uno sguardo alle spalle e vide l'ombra inseguirle, ma non stava correndo, camminava solamente con ampie falcate, eppure sembrava restare sempre alla stessa distanza da loro, anche se cercavano di correre più veloce che potevano. Non riuscivano a seminarlo.
Si bloccarono immediatamente quando se lo ritrovarono davanti. Nessuna delle due capì come avesse fatto, visto che erano sicure che un attimo prima fosse alle loro spalle. L’uomo allungò la mano verso Wednesday, ma non avanzò neanche di un passo.
Kenia osservò la scena, non capendo cosa volesse fare, ma vide la mora iniziare ad avere degli spasmi e accasciarsi molto lentamente a terra. Non gridava, non sembrava neanche che avesse paura o forse non aveva avuto il tempo di realizzare, ma la sua espressione pareva più incredula e indignata. Wednesday Addams non era certo il tipo da perdere, non a quel modo.
Quando il suo corpo fu a terra e immobile, Kenia vide come bava e sangue iniziavano a uscire dalla sua bocca e ne rimase inorridita.
Tornò a puntare le iridi verdi verso quel mostro senza volto; gli occhi erano grondanti di lacrime e tutto il suo gracile corpo aveva preso a tremare. « No, no, ti prego » lo supplicava disperatamente, indietreggiando. L’uomo avanzò e Kenia sapeva di non avere scampo, anche se fosse fuggita lui l’avrebbe raggiunta, come aveva già fatto, e non era stata addestrata per combattere contro stazze del genere. « Non uccidermi, ti prego, io non ti ho fatto nulla! » gridò in preda ai singhiozzi.
Ma l’uomo nero le afferrò la testa col palmo di una sola delle sue mani e, chiudendolo in un pugno, mentre l’altra cercava di dimenarsi, il cranio di Kenia si frantumò come burro, facendo afflosciare il corpo a terra senza nulla sulle spalle.
 
* * *

Era come se avesse preso a respirare solo in quel momento: fu scossa da un brivido, inspirò profondamente e sentì i polmoni riempirsi finalmente d’aria e il cuore tornare a pompare.
Si sentiva soffocare, era circondata da persone mai viste prima ma che sembravano… normali; la stavano per schiacciare e Nymeria non capiva dove fosse e cosa ci facesse tutta quella gente lì. Ricordava di aver ingerito una pillola e poi niente, il buio. Che quella fosse l’Arena? Che razza di Arena era? Si aspettava un bosco come l’anno precedente o qualcosa del genere.
Alzò la testa in alto e capì improvvisamente che lei in quel posto ci era già stata e solo qualche giorno prima. O almeno così credeva. Ma sulla tribuna non c’era il presidente Rigel e neanche il suo fidato Frank Hidden. Quei due… quei due erano… dovevano essere morti!
Sgranò gli occhi non appena notò la terza figura lì presente e la riconobbe immediatamente. Ma che diavolo ci faceva Jeremy lì sopra con due fantasmi o zombie o quello che erano? Che Capitol City avesse ritrovato i loro corpi e li avesse trasformati in ibridi? Se fosse stato così avrebbe dovuto salvare Jeremy, avrebbe dovuto avvertirlo. Che razza di stupido, solo lui poteva credere che quelli fossero veramente i suoi due eroi.
Però in fin dei conti tutta quella situazione le sembrava così reale…
Improvvisamente il volto di Hans Coin iniziò a liquefarsi, così come i capelli, lasciando spazio a una figura ben più alta, imponente, spalle larghe e completamente nera, se non per il volto… Un volto che non aveva né occhi, né naso, né bocca. Come temeva, quei due non erano i capi ribelli che sembravano.
« Jeremy! » urlò invano, consapevole che non sarebbe riuscito mai a udirla in quella mischia.
L’uomo senza faccia attorcigliò il filo del microfono attorno al collo di Jeremy, che si dimenava per liberarsi. Presa dalla paura di perdere il suo compagno, Nymeria tentò di raggiungerlo per salvarlo. Ma i suoi occhi azzurri videro chiaramente il collo del moro spezzarsi e la testa di lui penzolare senza un sostegno, riuscì quasi a sentire il crack che mise fine alla sua vita.
L’urlo che Nymeria emise fu qualcosa di disumano e mai sentito prima, così forte che riuscì a sovrastare quella baraonda e le persone si voltarono a guardarla, allibite. Eppure Nymeria continuava a gridare disperata, il corpo paralizzato, i muscoli tesi, gli occhi e la bocca spalancati e le lacrime che le rigavano il viso come il delta di un fiume.
Improvvisamente si sentì afferrata per le spalle e, lanciando ancora qualche urlo, combatté per dimenarsi da quella presa.
« Nymeria! Nymeria, sono io! »
Riconoscere la voce di suo fratello le parve un sogno in mezzo a quell’orrendo incubo. La castana si bloccò, ma non smise per un attimo di piangere. Suo fratello era vivo e di fronte a lei. Lo squadrò e scosse la testa, non capendo perché non fosse su una dannata sedia a rotelle.
No, anche quello non era reale. Eppure lo sembrava… O era lei che voleva convincersene?
Lo tastò e le braccia forti e muscolose di lui erano così vere; iniziò a imprimere le sue mani su ogni centimetro di pelle e scoppiò in una piccola risata di gioia perché credeva che non avrebbe mai più rivisto Jason, né toccato come stava facendo ora. Gli prese il viso e la barba scura di lui le pizzicava come ricordava.
« Nymeria, cos’hai? Che ti è successo? » domandò lui, visibilmente preoccupato per il comportamento della ragazza.
La diciottenne l’abbracciò di slancio, affondando il viso sconvolto e in lacrime nel suo petto.
« Credevo fossi morto » singhiozzò.
Jason le accarezzò il capo, stringendola a sua volta. « Suvvia, mi ero solo allontanato un attimo. Non c’è bisogno di esagerare. » Ma, visto che quella non accennava a calmarsi, aggiunse, più dolcemente: « Non ti preoccupare, va tutto bene, tranquilla. »
La fanciulla si staccò di poco, tirando su col naso e facendosi forza, benché fosse ancora visibilmente terrorizzata. « Jeremy… l’hanno ucciso » mormorò, cercando di non ricadere in un attacco di panico.
Jason corrugò la fronte. « Jeremy…? »
« Wilson » precisò la minore.
« Perché, lo conosci? » chiese, incredulo. Scrutò in mezzo alla folla, in cerca del ragazzo o della sua famiglia. « No, i Wilson li ho visti prima, c’era pure lui. Stanno bene. »
« C-Che c-cosa? » balbettò, incredula, voltandosi verso il palco. « No, no! L’hanno ucciso, lì. Guarda! Coin! »
Jason scosse la testa, non capendo. « Nymeria, io non vedo nulla di strano. »
Ma la minore invece lo vedeva bene: quell’essere incappucciato che stava puntando verso di lei. Scosse la testa ripetutamente non appena iniziò ad avanzare, lanciando altre grida.
« No! Jason, scappa! » fu il suo primo pensiero, ma improvvisamente qualcuno la spintonò, afferrandola. Nymeria cercò di strattonarsi da quella presa, dimenandosi contro l’aguzzino. In lui riconobbe il tributo del Distretto 5 che aveva conosciuto durante l’allenamento. « Jason! Jason! » gridò.
« Sì, sì, sono io! » rispose l’altro, cercando di trascinarla con sé.
« Non tu » fece l’altra, allontanandolo. « Mio fratello! Jason! »
Il ragazzo del Cinque le tappò la bocca con una mano, cercando di assestare i calci della giovane nel miglior modo possibile e trascinandola via di lì.
« Ci ucciderà! » le spiegò. « Come ha ucciso il tributo del Dodici. »
Nymeria riuscì a liberarsi la bocca e fu sorpresa nel sentirlo dire quella frase. « Tu l’hai visto? » domandò. « Nessuno l’ha visto! »
« Lo so » rispose il moro, « per questo dobbiamo scappare. »
E così Nymeria si decise a dargli fiducia, smettendo di combattere e afferrando la sua mano in modo da non perdersi mentre correvano il più velocemente possibile fuori da lì.
 
* * *

Gli bastarono meno di tre secondi per capire che qualcosa non andava. Randy Wane e Hans Coin erano più vivi che mai e Watari gli stava parlando con un certo orgoglio nella voce. L sapeva che i fantasmi non esistevano, quindi o Watari era ancora vivo, i ribelli avevano vinto e per qualche strana ragione lui si era immaginato un destino diverso, o qualcosa aveva alterato la realtà che conosceva. Le sue probabili teorie furono confermate quando Watari gioì nel dire « Finalmente potremmo ritornare nel Distretto 13. » Il Tredici era stato distrutto, bombardato, e chissà dove erano finiti i superstiti, sempre se qualcuno era riuscito a salvarsi.
I suoi occhi scuri e penetranti divennero due fessure, osservando come la situazione sul palco si stesse facendo più movimentata. Riconobbe l'esuberante ragazzo del Distretto 12 che saliva gioioso sul palco; e di certo quella non poteva essere una coincidenza, come pensava, era un trucco degli strateghi; lui assieme agli altri tributi si trovava veramente in un'Arena che avrebbe portato molti di loro alla pazzia. Si domandò chi sarebbe cascato in quella trappola ben architetta e mentalmente si fece anche uno schema dei tributi probabili.
Ma abbandonò tutti quei pensieri quando vide Hans Coin trasformarsi in un alto e incappucciato uomo nero senza volto. Sgranò gli occhi, cercando di capire cosa fosse e da cosa potesse essere provocato. Era forse uno di quegli ibridi che i capitolini avevano generato e conservato durante i Giorni Bui? Ibrido o no, non cambiava il fatto che si avventò sullo sventurato Jeremy Wilson, stringendogli intorno alla gola il filo di un microfono finché questi non soffocò nel giro di pochi secondi e finché la sua testa non si staccò dal collo per poi cadere a penzoloni da un lato.
Il brusio della folla era fatto solo di chiacchiere e risa, nessuno aveva urlato, nessuno sembrava interessato, nessuno vedeva realmente cosa stava succedendo, anche se teneva gli occhi fissi sulla scena.
L sapeva che l'uomo lo stava puntando, così come avrebbe puntato tutti gli altri ventidue tributi rimanenti. Eppure, nessun cannone sparò, gli unici rumori provenivano dalla gente che lo circondava; ma ora il suo unico problema era come affrontare quella sottospecie di ibrido.
Non ebbe il tempo né di gridare né di agire, che una mano lo afferrò per la caviglia, tirandolo giù e facendolo sprofondare in un baratro. L rimase sospeso nel vuoto, scorgendo ciò che poteva grazie luce proveniente dalla fessura che si richiudeva velocemente. Doveva adattare i suoi occhi al buio, ma dal tanfo e dal poco che aveva visto, poteva dedurre che si trovava in una fogna, qualcuno lo stava sorreggendo e se lasciava la presa di certo sarebbe morto, spiaccicato sul fondo, fra rifiuti e letame, buono solo come cibo per topi e chissà cos'altro celavano quei cunicoli.
« Riesci ad aggrapparti? » chiese la voce di un bambino, iniziando a far oscillare il diciottenne. L protese le mani in avanti, fino ad afferrare una barra di ferro. I piedi nudi si appoggiarono sul medesimo materiale, poco più in basso e capì di essere su una scala. Lentamente cercò di scendere giù, aumentando velocità man mano che si abituava al ritmo, alla distanza fra le barre e al buio. Capiva di rallentare chi gli stava sopra, che dai rumori leggeri dovevano essere tre bambini più o meno dello stesso peso e altezza e decisamente abituati a quel posto.
Una volta toccato l'umido e lurido suolo, L vide finalmente i volti dei suoi salvatori - o rapitori? Erano due bambini, uno dai capelli neri e l'altro più tendenti al ramato, mentre la terza era una bambina pressoché della loro stessa età, coi lunghi capelli ricci scuri; tutti e tre avevano delle perle nere al posto degli occhi che sembravano brillare nel buio, ma i differenti tratti somatici suggerivano che non erano fratelli.
« Lui è Matt » disse la riccia indicando il ramato, « e lui è Dorian. » Spostò l'indice verso il moro e poi le sue iridi scure si scontrarono con quelle altrettanto profonde di L, che non accennava a dare segni di risposta. « E io... io sono Lila » concluse, timidamente.
Non era stupida, L l'aveva capito, anzi era alquanto piena di risorse e di certo non si aspettava che da un momento all'altro lo tartassasse di domande sulla rivolta e su quel nuovo esito che aveva sconvolto pienamente le loro realtà, per non parlare del fatto che l'ultima cosa che ricordava era di essere entrato in un tubo d'aria che avrebbe dovuto portarlo in Arena. Ma quella non sembrava affatto un'Arena, era una città vera e propria. Era Capitol City. Gli occhi di Lila celavano così tante incognite, ma dalla sua bocca non uscì un suono.
« Ti abbiamo preso solo perché ci ha pregati questa topolina qua » sbuffò Matt, indicando la compagna, che avvampò violentemente. « Ma dopo dovrai spiegarci un bel po' di cose... anzi, tutti e due » puntualizzò, spostando lo sguardo intimidatorio dal maggiore alla minore e viceversa.
Dorian sganciò l'elmetto che aveva appeso alla cintura, se lo mise in testa e accese una piccola luce incorporata, illuminando la galleria. « Con l'esito della guerra potremo sperare di risalire presto, ma è meglio far calmare le acque, almeno fin quando non saranno finiti i festeggiamenti. Non si è mai troppo prudenti, c'è fin troppa gente per i gusti dei Topi » spiegò.
L non chiese riguardo cosa fossero i Topi, da come ne aveva parlato il ragazzino doveva riferirsi a una sorta di gruppo, ma si limitò a seguire quella piccola banda di amici, coi due maschi che aprivano la fila e la piccola riccia che restava al suo fianco. Si accorse che spesso gli rivolgeva delle occhiate furtive, ma fece finta di nulla.
Lila avrebbe tanto voluto trovare l'occasione giusta per parlargli faccia a faccia, ma non poteva di fronte ai suoi due amici. Si era "risvegliata" sempre in quelle fogne, mentre si stava arrampicando, tanto che quasi aveva rischiato di cadere per lo stupore; ma la cosa che veramente le aveva fatto perdere un battito era stata rivedere Dorian vivo e vegeto di fronte a lei e non era riuscita ad emettere suoni se non strani balbettii, come al solito quando era agitata. Matt non si era scomposto, anzi, si comportava come se la presenza di Dorian fosse normale e questo Lila proprio non se l'era riuscito a spiegare. Quando si era affacciata dal tombino e aveva riconosciuto L e poco più in là quell'inquietante essere senza volto, l'istinto le aveva suggerito che doveva aiutarlo. Teoricamente era un suo nemico, questo era vero, ma doveva avere delle risposte e lui era stata la prima persona che potesse dargliele. E poi Dorian era vivo, non le sarebbe importato più di tanto se l'altro avesse tentato di ucciderla, di certo con la vincita della guerra da parte dei ribelli non si aspettava che sarebbe stata notata da qualcuno.
Improvvisamente i due - ex? - tributi si fermarono all'unisono, come paralizzati. Di fronte a loro, in fondo alla galleria, nell'ombra era apparsa di nuovo quella figura inquietante, coi pugni stretti lungo i fianchi. Anche se non aveva gli occhi, Lila capì che puntava verso di loro. Nessuno le aveva mai dedicato attenzioni, eppure sembrava che quell'essere fosse concentrato solo su di lei.
Matt e Dorian si bloccarono e si voltarono verso gli altri due. « Che avete fatto? » chiese il ramato, curioso.
« Ve la date una mossa? » continuò l'altro. Ma i due rimasero immobili, col sangue che si congelava nelle loro vene.
« Scappa » sussurrò L, deciso.
Lila lo scrutò con la coda dell'occhio, la paura che si insediava sotto la sua pelle. « Ma- » tentò di contestare.
« Scappa! » gridò l'altro, spintonandola via. Gli arti della tredicenne si mossero da soli, presero a correre come non mai, spinti dal terrore che la divorava internamente.
« Hey, dove vai, Lila? » chiese uno dei due ragazzini. Sembravano non accorgersi dell'oscura presenza alle loro spalle.
L'uomo nero avanzò spedito e L lo attese, assumendo una posizione di difesa; l'altro iniziò a correre e quando fu abbastanza vicino, il diciottenne fece roteare la gamba, sollevandola e sferrandogli un calcio lì dove avrebbe dovuto avere un volto. Calcio che non andò mai a segno. L'uomo gli bloccò la gamba con una sola mano, la presa solida si chiuse attorno al muscolo del ragazzo con la facilità di qualcuno che stava spappolando della ricotta. Strinse così forte che l'osso sembrò sgretolarsi e L cadde a terra, lanciando un grido strozzato, senza aver avuto la capacità di fare qualcosa; non riusciva a muovere la gamba e il dolore gli annebbiava la mente. Cercò di mettersi su, ansimando e aiutandosi coi gomiti, ma l'ombra calciò uno dei suoi bracci, facendolo scivolare e L sbatté il mento sul freddo suolo umido, sputando sangue.
I ragazzi rimasero impassibili, continuando a farsi gli affari loro, come se quella scena non stesse veramente accadendo, come se né L né l'uomo esistessero. Poi l'essere affondò un piede nella testa del ragazzo, frantumandola e facendola esplodere così come era toccato all'accompagnatrice del Tre.
 
* * *

Staccava con le mani piccoli pezzi di zucchero filato rosa, mentre quello le si appiccicava tutto sulle mani e attorno alla bocca.
Si era risvegliata e non sapeva il perché si trovasse in un Luna Park, ma suo padre si stava cimentando in una gara di tiro al bersaglio, mentre lei indossava un ridicolo e infantile vestito da coniglietta – anche se forse lo preferiva a quel corpetto stretto e quell’abito con le spalle pompose e la gonna decisamente troppo ampia e pesante, per non parlare di quell’orribile coso attorno al collo pieno di merletti che le sembrava tanto un collare per cani e che le dava enormemente fastidio e che le avevano fatto indossare per l’Arena.
Haylee era fin troppo furba per non capire che tutto quello era un trucco, ma dall’altra parte desiderava così tanto ritornare bambina e stare al fianco del padre che decise che non le sarebbe importato di nulla per un po’.
Suo padre era riuscito a vincere e aveva scelto un enorme peluche a forma di coniglio proprio in onore del suo soprannome e la rossa aveva sorriso così tanto per la gioia che le erano iniziati a dolere gli zigomi. Poi Chris Scott le aveva lasciato un buffetto sul naso e si era allontanato dicendole che sarebbe tornato subito.
Haylee girovagava spensierata, non allontanandosi troppo da dove l’aveva lasciata il padre, stringendo il bastoncino con lo zucchero filato alla fragola in una mano e Messer Coniglietto – come aveva deciso di chiamare il suo peluche – nell’altra.
L’unica cosa che attirò la sua attenzione, facendole distogliere lo sguardo dalla sua soffice nuvola rosa, furono solamente due ragazzi più grandi che stavano correndo nel parco, capitati lì chissà come, e che sembravano averla notata. In verità li avrebbe ignorati, ma riconobbe il maschio del duo come il ragazzo del Distretto 5, soltanto perché era andata a spiare lui e la sua compagna di cui Choppy-Choppy era innamorato.
Jason e Nymeria erano fuggiti dall’anfiteatro e si erano inoltrati nelle vie di Capitol City, girovagando a caso in cerca di un rifugio, imbattendosi in quel Luna Park e pensando che magari si sarebbero potuti confondere fra la gente.
« E’ una trappola! » gridò la ragazza dai capelli corti e gli occhi azzurri. « Dobbiamo andarcene di qui, ci ucciderà tutti! »
Ma dai?, avrebbe tanto voluto dirle Haylee, ma si limitò a continuare a mangiare pezzi di soffice zucchero e a fissarla con superiorità, sebbene fosse una situazione un po’ strana visto com’era vestita.
I due sembrarono squadrarla, perplessi ma anche un po’… divertiti. Fu Jason a prendere parola: « E’ il tuo vestito per l’Arena? » domandò. « Il mio è scomparso quando mi sono… ehm, risvegliato. »
« Certo che no » obiettò acida la rossa. « Mi piacciono i conigli » si limitò a dire, mostrando loro il suo peluche di Messer Coniglietto.
I due non commentarono, ma ad Haylee cadde l’occhio sulle loro mani e notò che erano intrecciare fra loro. Si trattenne dal fare una smorfia, perché quella situazione le faceva venire la nausea.
« Il mio compagno di distretto è morto » dichiarò Nymeria, con la voce ancora tremante. Buon per noi, si limitò a pensare sarcasticamente la minore. « E’… è stato un tizio senza faccia, ci stava rincorrendo e… »
« Che? » Haylee alzò un sopracciglio, ritenendo che in circostanza normali la storia di quella tizia sarebbe stata assurda e priva di senso.
« Ci siamo risvegliati nell’anfiteatro dove abbiamo fatto la sfilata, ricordi? » spiegò Jason con più calma, dando un ordine alle parole confuse di Nymeria. « Tu sei sempre stata qui? »
La quattordicenne annuì, tranquilla. « Sì, perché? »
« Non ti è successo nulla? Non è capitato nulla di strano? » Haylee stavolta scosse la testa, omettendo il fatto che lì con lei ci fosse anche suo padre. Jason sembrò pensieroso e spaventato. « E’ come se fosse un’altra realtà, un sogno, dove i ribelli però hanno vinto. »
« Che razza di mente ha potuto ideare questa farsa se in realtà il suo desiderio è di ucciderli tutti, i ribelli? » commentò Nymeria, portandosi una mano a stringersi i corti capelli castani.
« C’era Randy Wane. E anche Hans Coin, si è trasformato in un uomo alto quasi due metri, era vestito di nero, incappucciato e non aveva… non aveva né occhi, né naso, né bocca! » continuò Jason, sul punto di delirare. « Voleva attaccarci, siamo fuggiti. Non l’hai visto qui, vero? »
« Chi? » chiese Haylee, leccandosi le labbra appiccicose e indicando col pollice alla propria sinistra. « Jimmy senza faccia? »
I restanti due si voltarono all’unisono nella direzione indicata dalla rossa e sobbalzarono nel vedere proprio l’essere che nell’anfiteatro aveva cercato di attaccarli e aveva ucciso Jeremy, proprio di fianco a loro, che sembrava fissarli insistentemente pur non avendo gli occhi.
 
* * *

« Vedrai che ti troverai bene. »
Phoebe sobbalzò nell’udire quella voce ancora prima di aprire gli occhi. Anche se fu una sensazione stranissima perché era esattamente come se li avesse già aperti e fosse lì da tempo immemorabile. Ma lì dove, con precisione? Girò la testa con uno scatto e spalancò gli occhi nel riconoscere sua madre e suo fratello accanto a lei, che camminavano lungo un pavimento piastrellato di bianco. Si rese conto che anche lei stava camminando, per cui si bloccò di botto.
« Che ti prende adesso? » sbuffò Peter, nel fermarsi a sua volta per guardarla negli occhi con uno sguardo che non ricordava mai averle rivolto, nemmeno quando era Melanie a prendere il controllo.
Melanie. Il suo nome le viaggiò nella testa alla velocità della luce. Si sentiva così dannatamente vuota… I battiti del suo cuore aumentarono all’improvviso, riusciva a sentirli nel petto, nella gola, nelle orecchie. Dov’era Melanie? Era come… come… come se non ci fosse affatto, come se non fosse mai nemmeno esistita.
Continuando a guardare Peter con sguardo scioccato, si tastò le tasche dei pantaloni – ma non indossava un abito lungo, prima di entrare in quel tubo? – per cercare il suo inseparabile blocco note, ma non trovò altro che il vuoto.
« Allora, ti vuoi muovere? » la incitò il fratello con un tono vagamente più acido. Sua madre la guardava, torva, con le mani sui fianchi. « La segretaria non sta ai comodi tuoi. »
Phoebe, invece di avanzare, fece un passo indietro. Ma di cosa diavolo stavano parlando? E dove si trovava? Era forse l’Arena, quella? No, non poteva essere… Era talmente irreale e concreta al contempo da sconvolgerle i pensieri.
« Phoebe » la chiamò Peter, avvicinandosi con uno scatto quasi velocissimo e stringendole un polso, « ne abbiamo già parlato. Non fare storie, avanti. »
La madre li fissava come se volesse perforare le loro teste con lo sguardo e Phoebe si sentì incredibilmente a disagio. Nemmeno lei l’aveva mai guardata così.
Si decise a muovere qualche passo, perché non aveva la minima idea di come comportarsi. La testa le girava incredibilmente e quel vuoto nello stomaco le stava facendo desiderare di rimettere tutto quello che aveva mangiato a Capitol City in quei giorni.
Ripresero a camminare in un silenzio tombale e Phoebe ne approfittò per osservare l’ambiente. Pensò che sembrava proprio una struttura della capitale e i suoi sospetti si confermarono quando misero piede in un’ampia sala dal soffitto alto decorata con un grande tappeto con lo stemma di Capitol. Avrebbe voluto dire finalmente qualcosa, ma venne subito interrotta da una donna molto alta e magra con una gonna a tubino e l’acconciatura alta che si avvicinò a loro con un sorriso cordiale e allo stesso tempo estremamente freddo. Il rumore dei suoi tacchi a spillo si diffuse tra le pareti imponenti.
« Lei deve essere la signora Woody » disse, allungando una mano verso sua madre, che la strinse piano.
« Sì, buongiorno, sono io » rispose lei. « Questi invece sono i miei figli, Peter e Phoebe. »
« Allora tu sei la famosa Phoebe, eh » commentò quella che aveva l’aria di essere una segretaria, aggiustandosi gli occhiali dalle lenti rettangolari sul naso. « Benvenuta al Deyer Institute, siamo felici che tu ti sia iscritta qui. »
Phoebe sbatté le palpebre per qualche istante e la donna sembrò aspettare una risposta da lei. « G-grazie… » balbettò, senza sapere cos’altro dire. Perché sua madre l’aveva portata in un istituto privato a Capitol City? E con quali soldi?
« Dunque » continuò la segretaria, « io sono Marie. Adesso vi accompagnerò per la visita, dopo potrai sistemarti nella tua camera al quinto piano. Per fortuna o sfortuna, non hai ancora una coinquilina, anche se da quando Capitol è stata ricostruita le studentesse aumentano all’ordine del giorno… presto potrai ritrovarti in compagnia. »
Phoebe tentò di ingoiare il groppo che aveva in gola. Notò solo in quel momento che Peter teneva nella mano destra un borsone dall’aria pesante, mentre l’altra era stretta in una morsa intorno al proprio polso. Le stava facendo male, per cui provò a sottrarsi da quella presa, ma inutilmente.
Marie e sua madre s’incamminarono per prime e loro due le seguirono a qualche metro di distanza.
« Stammi bene a sentire » le disse a un certo punto Peter con tono duro ma sottovoce, in modo che le donne non lo sentissero, « farci scoprire è stata un’emerita cazzata. Se mamma dovesse rinchiudere in uno stupido collegio anche me sarà soltanto colpa tua, chiaro? »
« F-farci scoprire…? » mormorò la sorella. Davvero non aveva idea di cosa stesse accadendo o di cosa lui stesse parlando.
Peter le strattonò il polso e Phoebe gemette piano. « Ti sei fottuta il cervello? Avevamo stabilito che potevamo scopare in casa solo quando mamma non c’era. E invece è stata tutta colpa tua. »
La diciassettenne sgranò gli occhi e un conato di vomito le risalì lungo la gola. « Ma, Peter… noi non… »
« Noi non cosa, Phoebe? Adesso lei pensa che siamo due schizzati e che dobbiamo stare lontani, per il nostro bene. Cazzate, senza di te non sto bene! » Alzò appena un po’ la voce e subito sua madre si voltò verso di loro, con l’ennesimo sguardo truce. Peter cercò di rispondere a quell’occhiata con un sorriso tirato. Quando la donna tornò a parlare con Marie, il ragazzo continuò, biascicando tra i denti: « Devi andartene da qui. E’ vero, ci sono le telecamere e ti sorveglieranno ventiquattro ore al giorno, ma… devi trovare un modo. » Allentò di poco la presa sul suo polso e Phoebe pensò che non si sentiva più la mano.
 
* * *

Lila continuava a correre senza mai voltarsi, il fiato corto, le lacrime agli occhi che le appannavano la vista e le gambe dolenti che le giocavano brutti scherzi, facendola inciampare sui propri passi. Quindi i Giochi erano cominciati?
Appena vide una scala, si lanciò nel risalirla, credendo che raggiungere la superficie le avrebbe dato un briciolo di salvezza. Le mani la sollevavano sempre di più, meccanicamente, abituate a quel tipo di movimento, tanto che sembrava andassero da sole. Lila oramai non riusciva più a dare dei veri e propri comandi al suo corpo, si lasciava guidare dall'istinto di sopravvivenza che l'aveva sempre caratterizzata. Toccò il tombino di ferro, cercando di alzarlo, ma qualcosa le strattonò la gamba, facendola scivolare e perdere la presa.
Si sentì sospesa nel vuoto, le braccia che arrancavano in cerca di un appiglio, ma che afferravano solamente l'aria. Gli occhi le pizzicavano più che mai, ma non riuscì a gridare, né a fare qualsiasi altra cosa. Era la fine? La sua mente si svuotò all'improvviso, così come lo stomaco, ogni organo sembrava in subbuglio, niente era al proprio posto e si sentiva le budella in gola.
Era investita dalla pressione e dal getto d'aria della caduta. La sua schiena si schiantò al suolo, facendole inarcare la schiena, togliendole il respiro. Il suo petto venne compresso, facendole emettere un suono indistinto. E, infine, l'impatto del cranio contro il cemento pose fine all'inutile vita di Lila Larin.
 
* * *

Non riuscì a ragionare lucidamente per molti, moltissimi secondi. Continuava a sbattere le palpebre come se la luce lo stesse accecando, ma in realtà era solo incredibilmente confuso, come se stesse giusto imparando a muovere i primi passi nel mondo.
Sentì il proprio cuore pompargli delle orecchie e questo, paradossalmente, gli fece scorrere l’adrenalina lungo tutto il corpo. Era pronto per l’Arena: ora o mai più.
Eppure quando vide con chiarezza ciò che lo circondava rimase più attonito che mai. C’era folla, così tanta che per poco non lo sommergeva, e si trovava nell’anfiteatro di Capitol City dove alcuni giorni prima c’era stata la parata dei tributi.
Brian alzò istintivamente la testa verso l’alto, cercando con lo sguardo la tribuna d’onore dove si aspettava di trovare il presidente Adamas Rigel, ma ciò che vide lo lasciò ancora più scombussolato: lì, in piedi sul palco, Randy Wane e Hans Coin sorridevano e parlavano alla folla con una naturalezza e un carisma straordinari, facendo anche qualche battuta ogni tanto.
Brian non riuscì ad ascoltare nessuna parola del loro discorso non solo perché il brusio della gente era troppo alto, ma anche perché la sua testa era troppo affollata di pensieri per permettergli di ragionare con ordine.
Strinse i pugni in due morse ferree, fino a sentirsi le unghie premute nei palmi delle mani. Poi, si guardò intorno e riconobbe accanto a lui e davanti a sé dei conoscenti del Distretto 8 facenti parte della sua banda di ribelli, che ogni tanto gli sorridevano o commentavano il comportamento di Randy. « Ma l’avete visto? Andiamo, non poteva esserci presidente migliore di lui! »
Brick scosse la testa. Ma che diavolo di sostanza stupefacente avevano introdotto in quella pillola? Non era stupido, capiva perfettamente che quella situazione era troppo surreale per essere vera. Tutta quella gente si comportava come se i ribelli avessero vinto la rivolta e lui avrebbe tanto voluto crederci a sua volta, ma… proprio non ci riusciva. Doveva trattarsi di uno scherzetto degli strateghi e quella doveva essere l’Arena, anche se non sembrava affatto.
Cercò di individuare gli altri tributi tra la folla, ma non vide nessuno di loro e per questo si spazientì. « Avanti, Hidden! » disse apertamente, allargando le braccia e alzando il tono più del previsto. « E’ tutto qui quello che sai fare? Resuscitare un paio di morti? »
Qualcuno cominciò a voltarsi verso di lui, incapacitato e gli intimò di stare zitto. Ma Brick non demorse. « Avanti, razza di stratega cornuto! Fa’ cominciare la carneficina, sono pronto, se è questo che vuoi! » Le sue parole erano piene di bruciante sarcasmo e di odio represso, non riusciva a trattenerle.
Aveva sopportato per giorni stilisti cretini e spettatori urlanti per… niente? Brick sapeva che urlare così il proprio rancore ai quattro venti fosse un mezzo suicidio perché gli strateghi avevano il coltello dalla parte del manico, ma d’altronde lui era sempre stato un amante del rischio e del pericolo.
Qualche secondo più tardi gli si avvicinò un Pacificatore con aria guardinga, anche se non riusciva a vedere la sua espressione perché aveva il capo ricoperto dal classico casco della divisa. « C’è qualche problema? »
Brick non ci pensò due volte e gli si avventò contro, colpendolo con calci e pugni. Il Pacificatore era addestrato per quello e rispose alla colluttazione, ma l’altro era cresciuto per le strade e sapeva benissimo come cavarsela in quelle situazioni. Una volta ne aveva anche ucciso uno, di Pacificatore, colpendolo con un mattone – da cui il soprannome che era costretto a tenersi. Brian si chiese se non avrebbe ucciso anche quello, oppure se sarebbe stato lui stesso a morire.
Presto arrivarono dei rinforzi per il Pacificatore e in meno di un istante il quindicenne si ritrovò inchiodato dalla presa di due di loro. « Non mi avrete mai! » urlò, quasi fuori di sé. « Non sono una vostra fottutissima pedina! » Avrebbe continuato ad urlare, se solo non avesse riconosciuto in uno di quei tizi il tributo del Distretto 9… com’è che si chiamava, Marvolio?
« Ehi, tu! » gridò. « Che diavolo sta succedendo? »
Il biondo mise una mano sul braccio del Pacificatore e gli disse sottovoce: « Lo conosco, lasciatelo pure. » Per fortuna lo stava difendendo e non voleva ucciderlo. Alleato inaspettato?
Tuttavia, i Pacificatori non lo liberarono. « Ha aggredito uno di noi e sta seminando scompiglio » ribatté quello accanto al ragazzo. « Merita una punizione. »
Una punizione…?, pensò Brick, digrignando i denti. Maledetta Capitol City… era ovvio che ci fossero di mezzo gli strateghi.
Il Pacificatore gli sferrò un manrovescio che gli fece voltare il volto dall’altro lato, così forte che per poco non sentì la mandibola spostarsi con uno scatto. Dopodiché, cominciò a prenderlo a calci nello stomaco, mentre il ragazzo del Nove tentava di bloccarlo, ma non serviva a niente. Il supplizio continuò ancora, e Brick cercò di non produrre alcun suono che dimostrasse la sua paura, ma dopo che sentì il sapore del sangue sulla lingua e sulle labbra cominciò a gemere di dolore. Non si sentiva più le costole.
Infine, il Pacificatore gli prese il collo tra le mani. Brick provò a guardarlo in faccia, ma… persino da sotto la visiera del casco, sembrava non averceli nemmeno, degli occhi. « Ma cosa…? » mormorò, sputando sangue sulla divisa del Pacificatore, che pose fine alla sua vita spezzandogli l’osso del collo con uno scatto inumanamente veloce.
« L’hai ammazzato! » gridò Benvolio, vedendo il corpo dell’altro tributo afflosciarsi sull’asfalto.
Il Pacificatore, in risposta, si levò il casco dal capo, rivelando la sua vera identità. O quasi. Il suo volto… praticamente non esisteva: nessuna traccia di occhi, naso, bocca, niente.
Prima che potesse fare qualsiasi cosa, prima ancora che riuscisse a pensare qualcosa di senso compiuto, quella creatura tolse la propria pistola dal fodero appeso al fianco e gli sparò in mezzo alla fronte.
Nessuno si voltò al rumore di quello sparo.

 
* * *

« Sei… sei bellissima. » Trovò il coraggio di dirlo solo dopo quelli che gli sembrarono secoli. Dopotutto, se quello era un sogno, Jamie non si sarebbe imbarazzata troppo, giusto?
Non aveva ancora capito da dove riuscisse a partorire quelle idee così strambe. Lui e Jamie, futuri sposi. Insieme.
La ragazza sembrò farsi più piccola di quanto non fosse già e arrossì leggermente, guardandolo fisso negli occhi e poi abbassando lo sguardo. Sembrava… Will non riusciva a trovare un aggettivo adatto. Disorientata, forse. Proprio come quando l’aveva fermata alla parata dei carri per farsi riconoscere – tentativo miseramente fallito, tra l’altro.
Will non se lo aspettava: se quella era davvero un’allucinazione, un prodotto della propria mente, Jamie avrebbe dovuto almeno parlare, riconoscerlo e vissero per sempre felici e contenti. Eppure sembrava esattamente che quella fosse la Jamie che aveva rincontrato agli Hunger Games. E molte cose non tornavano. Roxanne, le sorelline di Jamie, l’inesistenza di Nico… Le sue convinzioni cominciarono a sgretolarsi al passare dei secondi.
« Jamie, allora, quale ti piace di più? » domandò intanto la gemella di lui, girando intorno alla pedana su cui la ragazza stava in piedi, con circospezione, come se dovesse essere lei a sceglierle l’abito. « Io sinceramente preferivo quello a sirena, questo è troppo ampio. »
Jamie appoggiò le mani sulla gonna del vestito e ne accarezzò la stoffa voluminosa.
« Che c’è, oggi il gatto ti ha mangiato la lingua? »
« Ma questo è così carino, Roxy! » disse una delle sorelle di lei, intanto. « Sembra una vera principessa, gliel’ha detto anche Will! »
Il ragazzo avrebbe voluto ripeterle altri complimenti all’infinito, ma qualcosa in quel momento distolse la sua attenzione da quella visione angelica e dai suoi dubbi interiori.
Era un semplice manichino, poco lontano, voltato verso di loro. Sebbene quello fosse un negozio di soli abiti da sposa, quello era un corpo nudo maschile, pallido come la morte e senza l’ombra di un volto. Ed era così innaturalmente alto e sgraziato che prese a fissarlo, rapito e inquietato al contempo.
« Will, anche tu preferisci questo, quindi? »
« Roxy… » tentennò lui, « guarda che strano, quel manichino » la interruppe.
La gemella si voltò nella sua stessa direzione, ma invece di condividere la sua inquietudine gli lanciò un’occhiata perplessa. « Quale manichino? »
Will deglutì. Possibile che non lo vedesse? Ogni secondo quel… coso… sembrava qualche centimetro più vicino. Era così umano, eppure così innaturale. « Quello lì, guarda » glielo indicò. Tutte le ragazze si voltarono verso quella direzione, anche se nessuna di loro sembrò particolarmente impaurita o scossa come lo era lui. Nessuna… tranne Jamie.
La ragazza fece uno scatto indietro, spaventata, e per poco non cadde dalla pedana addosso a Roxanne, che borbottò: « Cosa diavolo vi siete fumati tutti e due? »
Will allora cominciò a collegare i punti nella propria mente. Tutto, in quel momento, gli diceva di fuggire il più veloce possibile, specialmente quando il manichino avanzò di un paio di passi in avanti. Lasciò che l’istinto vincesse e alzandosi di botto dalla poltrona su cui era seduto, prese Jamie per mano e la trascinò lontano da lì.
A nulla valsero le proteste delle altre ragazze, che sembravano non essersi accorte di niente, perché loro due continuarono a correre verso l’uscita. Dopo pochi secondi, imboccarono la porta d’ingresso del negozio – mentre la commessa gridava loro minacce di chiamare i Pacificatori – e si ritrovarono in un’ampia via un po’ trafficata, alla luce del sole.
Ma il manichino, che sembrava ormai più un uomo deforme, era proprio dietro di loro. Afferrò Will per una gamba, facendolo cadere a terra e lui riuscì soltanto a urlare: « Jamie, scappa! » prima che quello gli schiacciasse il petto all’altezza del cuore con il piede, con una tale forza da fargli spruzzare violentemente dei fiotti di sangue dalla bocca.
 
* * *

Go ancora non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Aveva provato a ragionarci su, mentre sua madre la riempiva di carta igienica, ma era tutto troppo strano per essere vero, eppure così maledettamente reale per essere finto.
« Ancora non ci credo! » stava intanto esclamando sua madre, sognante. « Sembra ieri che ti tenevo tra le mie braccia, in fasce… » sospirò, accarezzandole piano i capelli.
Trovare il bagno era stato un po’ faticoso perché l’anfiteatro era immenso – il luogo migliore per ospitare migliaia e migliaia di persone –, ma Go, inaspettatamente, aveva saputo come muoversi perché in quel luogo ci era già stata. Ricordava quasi ogni cosa della parata dei carri, persino il discorso del presidente Rigel.
E lui è morto, ora?, si domandò, provando a dedurre cosa fosse accaduto in quella versione. Probabilmente era morto, allora. Forse ammazzato da Randy Wane stesso.
« Vieni a sciacquarti le mani, tesoro » la chiamò sua madre, uscendo dal bagno per dirigersi alla fila di lavandini sistemati in un grande androne, fuori. Go la seguì senza ribattere e aspettò che la donna finisse di lavarsi le mani per prima; poi, per qualche strana ragione, prese a fissare l’acqua che scorreva dal rubinetto con insistenza. Assottigliò gli occhi – forse aveva preso un abbaglio o forse la luce le stava giocando brutti scherzi.
L’acqua era nera.
Non sporca, solo… nera, come se fosse inchiostro. Ad un certo punto cominciò a strisciare verso l’alto, come un serpente liquido, e poi verso il basso, senza spargersi sul pavimento. Piuttosto, una volta a terra, si innalzò in aria.
« Mamma… » mormorò la dodicenne, facendo un passo indietro, spaventata.
« Sì? »
Il serpente d’acqua cominciò ad espandersi, come se avesse vita propria, prendendo pian piano la forma di un essere umano… o quasi. La figura che ne uscì infine era molto simile a quella di un uomo, tranne per il fatto che avesse braccia e gambe troppo lunghe e il capo coperto da un cappuccio, sotto il quale non c’era nemmeno traccia di un volto. Go lanciò un piccolo urlo, prima che la porta dell’androne si aprisse, rivelando quelli che la ragazzina riconobbe come i tributi del Distretto 1.
« Oddio, è anche qui! » gridò Naomi, facendo immediatamente un passo indietro nel vedere quell’essere. Quindi loro due riuscivano a vederlo, al contrario di sua madre, che sembrava tranquilla mentre si asciugava le mani.
La creatura senza faccia, senza esitare, staccò il rubinetto da uno dei lavandini come se fosse attaccato ad esso con lo scotch e con una breve rincorsa, che tuttavia risultò velocissima ai tre tributi, lo spaccò sul cranio di Mason, ammaccandolo e facendolo cadere a terra privo di vita. Naomi urlò d’orrore, ma ebbe i riflessi pronti e scappò dal bagno, mentre il mostro rimase a fissare Go, pur non avendo gli occhi.
La dodicenne si appiattì contro uno dei lavandini, terrorizzata, mentre sua madre era uscita e probabilmente l’aspettava fuori. Ma Go già sapeva che non sarebbe mai uscita da lì dentro. Non viva, almeno.
L’acqua zampillava dal lavandino rotto e le bagnava gli abiti puliti; l’essere le scaraventò il rubinetto addosso, ma lei fece in tempo ad abbassarsi, così che quell’oggetto rompesse lo specchio in mille pezzi. La creatura non si arrese e recuperò un pezzo di vetro più grande degli altri e raggiunse l’angolino in cui si era raggomitolata Go, troppo lontana dalla porta anche solo per pensare di scappare.
Il mostro senza faccia le si avvicinò ancora prima che riuscisse ad accorgersene, già paralizzata dal terrore, e le piantò il grosso e appuntito pezzo di vetro in un occhio, facendolo poi spuntare dall’altro lato del cranio.
Il corpo di Go Nakai si accasciò sul pavimento piastrellato senza un rumore.

 
* * *

Perry non aveva idea da quanto tempo si fosse svegliato e non aveva intenzione di chiederselo per almeno un altro po’. Sebbene il suo distretto durante i Giorni Bui si fosse schierato dalla parte di Capitol, alla fine, Perry era stato felice di scoprire che in quella sorta di sogno fossero stati i ribelli a vincere.
Aveva sorriso nel constatare che Randy Wane e Hans Coin fossero entrambi vivi, poi i suoi pensieri si erano concentrati su dove potesse essere Ty. Aveva scrutato tra la folla, ma poi suo fratello Corin, accanto a lui, gli aveva chiesto per favore di andargli a prendere una bibita perché stava morendo di caldo. Aveva dedotto che quella non fosse l’Arena, ma soltanto una specie di allucinazione, per cui poteva darsi anche che Ty non ci fosse. Non c’era traccia degli altri tributi, infatti.
Si era incamminato per l’esterno dell’anfiteatro capitolino, cercando un bar o un distributore automatico, ma non aveva ancora trovato nulla. Anche lui aveva molta sete, del resto, sembrava che l’estate non fosse mai stata così calda.
Avanzando di qualche passo per le vie non affollate come l’interno della struttura, cominciò a riflettere sull’assurdità della situazione. L’avevano fatto entrare in una stanza con il suo accompagnatore, Byle, mentre Ty era stata portata in un’altra con Mizar – sperava davvero che non si mettessero a litigare in quel momento –, poi, dopo un conto alla rovescia prima del lancio e dopo aver preso una pillola con sopra inciso lo stemma della capitale in miniatura, era entrato in un lungo tubo di vetro spesso, di cui non si vedeva la fine.
Perry poi aveva perso i sensi, ma si era risvegliato in quel posto circondato dalla folla. La prima cosa che aveva fatto era stata domandarsi perché non indossasse più quella curiosa veste da faraone egizio, confuso, ma il resto lo aveva ipotizzato di conseguenza. Un sogno, per forza. Non c’era altra spiegazione, secondo lui.
Continuò a camminare fischiettando, chiedendosi cosa avrebbe fatto quando si sarebbe risvegliato in Arena. Lui e Ty si erano detti di scappare dalla carneficina iniziale, per cui continuava a sperare di essere abbastanza veloce.
All’improvviso, comunque, apparve da lontano qualcosa che lo fece bloccare sul posto. Non riusciva a vederlo perfettamente, ma sembrava un uomo – o forse no? – con le spalle possenti e gli arti eccessivamente lunghi. Infine, assottigliò lo sguardo per rendersi conto che quella cosa non aveva nemmeno un volto.
Perry rimase lì, paralizzato, quando si rese conto che quell’essere lo stava fissando – sì, proprio fissando, anche se non aveva gli occhi. Si guardò intorno, accorgendosi che nessun altro sembrava fare caso a lui. Avrebbe voluto correre via, ma nel voltarsi si scontrò per sbaglio con una donna dai capelli lunghi e scuri e inciampò, cadendo a terra. Imprecò qualcosa tra le labbra, ma, tuttavia, quando si rialzò si ritrovò la creatura senza faccia davanti, come se si fosse avvicinato in meno di un secondo.
Non ebbe più tempo di balbettare nulla perché l’essere gli infilzò un braccio nel torace e gli strappò il cuore.
E tanti saluti alla bibita che voleva portare a suo fratello.
 
* * *

Jamie riuscì addirittura a vedere gli occhi di Will che si rivoltarono all’indietro nelle orbite e urlò come non faceva da tempo immemore. Quasi non credeva di avercela più, una voce.
Al suo grido disperato un gran numero di passanti si voltò sconvolto verso di lei, ma nessuno sembrò fare caso al corpo privo di vita del ragazzo sull’asfalto, proprio a un palmo dal loro naso. Uno di quelli, tuttavia, le fece definitivamente capire cosa stesse accadendo: era il ragazzo del Distretto 11, proprio lì accanto, che prima probabilmente stava tentando di consolare una sua coetanea, e che aveva urlato quasi quanto lei. Era quella l’Arena, dunque. O meglio, forse. L’unica cosa che glielo faceva dubitare era il fatto che nessun cannone aveva ancora sparato per la morte di un tributo.
Era tutto così strano, che Jamie non ebbe la forza di farsi altre domande. Si sentì le guance bagnate di lacrime calde, ma l’istinto di sopravvivenza fu più forte. Quell’essere era ancora lì, invisibile a tutto il resto del mondo, e adesso sembrava puntare a lei e Jeyl.
Jamie si voltò e corse, corse a più non posso, con ancora i tacchi ai piedi e il vestito che le svolazzava attorno. Vide un autobus poco lontano, ad una fermata, e velocizzò la corsa per raggiungerlo e salire.
Bloccò giusto in tempo le porte prima che l’autista potesse chiuderle e, respirando affannosamente, s’infilò tra i passeggeri.
L’autobus prese a viaggiare normalmente, mentre la gente la fissava senza ritegno. D’altronde, dove si era mai vista una sposa che scappava e piangeva così? Non ebbe neanche il tempo di prendere un respiro, che l’autista svoltò nel vicolo del negozio degli abiti da sposa, dove adesso anche il corpo di Jeyl era riverso a terra, insanguinato e col petto trafitto, proprio accanto a quello di Will.
Il manichino era sparito.
Jamie barcollò all’indietro e fu sul punto di vomitare, ignorando la commessa del negozio che l’aveva intravista dai finestrini e che le stava mandando minacce di morte per aver rubato un abito. Will si era sacrificato per lei, per una sconosciuta… Dei lampi le attraversarono la mente e così prese a singhiozzare, perché era tutto maledettamente confuso e sbagliato. Quello di distruggere la felicità un attimo dopo avertela donata era la mossa più meschina che Capitol potesse fare.
Jamie si aggrappò ad un asta di ferro del pullman, sul punto di crollare, e sobbalzò quando qualcuno le mise una mano sulla spalla. Si voltò di scatto, terrorizzata, riconoscendo poi un altro tributo, quello del Distretto 10. Ricordava che si chiamasse Ryder.
Lui non disse niente – era taciturno esattamente come lei – ma il suo sguardo bastò più di mille parole: avevano entrambi cominciato a capire. Tuttavia, qualcosa li riscosse dalle loro mute considerazioni. Sgranarono gli occhi, lucidi di disperazione, quando si resero conto che all’improvviso tutti i passeggeri di quell’autobus si erano trasformati in orride fotocopie del manichino senza volto.
Jamie avrebbe voluto urlare, ancora, ma non ne ebbe nemmeno il tempo perché l’istante successivo l’autobus si schiantò violentemente contro il muro di un edificio.
 
* * *

« Nasconditi qui » le disse, aprendo un cassonetto non troppo maleodorante, trovato in un vicolo apparentemente dimenticato dal mondo.
« Ma, Ocean… » tentò di dissuaderlo Beryl, in una piccola protesta.
« Non preoccuparti, vado a cercare qualcuno o qualcosa per eliminare il tizio che ci segue » ribatté lui. « Tu aspetta qui buona, torno subito. Non ti troverà nessuno. »
La ragazza per una volta nella sua vita sembrava a corto di parole. « Ma… insomma… »
Ocean le posò un bacio sulla fronte e la invitò con un gesto eloquente ad entrare nel cassonetto. « Non è un bel posto per nascondersi, lo riconosco, ma almeno è qualcosa. »
Beryl annuì controvoglia e lo abbracciò, prima di infilarsi nel nascondiglio. « Torna presto, ti prego » disse flebilmente. « Non lasciarmi da sola. »
Ocean provò a farle un sorriso di incoraggiamento, poi chiuse la copertura del cassonetto e si allontanò di lì il più veloce possibile. Continuò a correre affannosamente, mentre tutto nella sua testa era ancora troppo confuso per delinearsi in pensieri di senso compiuto.
Dopo qualche minuto giunse in un ampio spiazzale non troppo affollato, dove le persone camminavano passivamente e per i fatti loro: fu proprio questo che all’inizio non gli fece notare il corpo di un ragazzo riverso a terra, bocconi. Perché nessuno sembrava calcolarlo?
Ocean si avvicinò con circospezione, riconoscendo poi il tributo del Distretto 2. « Perry… » mormorò, spalancando gli occhi. « Perry? »
L’asfalto intorno a lui era vermiglio di sangue fresco e poco lontano dal suo braccio c’era… un cuore, che sembrava essere rotolato proprio dal petto del tributo. Un conato di vomito premette nella sua gola. Quindi era davvero morto, quindi erano davvero in Arena.
Ma chi era stato capace di fare una cosa del genere…? Quale forza sovraumana?
Ocean si guardò intorno, constatando come nessuno si fosse accorto del cadavere e domandandosi perché, perché quella pillola, perché l’anfiteatro e perché la vittoria dei ribelli.
Niente sembrava avere un senso, neanche lontanamente.
Fu sul punto di andarsene, ma un inusuale fastidio alla tempia gli fece capire di essere osservato. Si voltò di scatto, e riconobbe l’essere da cui stavano scappando lui e Beryl all’inizio.
Avrebbe voluto gridare o scappare ancora, ma un pensiero fulmineo lo fece già rassegnare alla sua imminente fine. L’uomo nero non si mosse, continuava solamente a puntargli contro lo spazio vuoto al posto della faccia, eppure Ocean si sentì qualcosa risalirgli le viscere e andargli in gola. Iniziò a tossire e della bava iniziò a scendergli dalla bocca, accorgendosi che non riusciva più a respirare e che qualcosa gli si era bloccato in gola. Annaspò, ma inevitabilmente il suo corpo si accasciò di fianco al cadere del tributo del Distretto 2, soffocando.
 
* * *

Haylee si sentì trascinare per entrambi i polsi verso chissà dove, un braccio dal tributo del Cinque e l’altro dalla ragazza dai capelli corti di cui non ricordava nome né distretto. Non era forse quella che aveva scoperto che era morto il fratello in diretta nazionale?
« Messer Coniglietto! » gridò quando quelle prese le fecero cadere sia il suo zucchero filato che il suo peluche, lasciandoli indietro e a terra, mentre l’essere – che aveva affettuosamente battezzato col nome di Jimmy – li inseguiva a grandi falcate. A quanto pare aveva ucciso il compagno della tizia coi capelli corti, e dire che a lei era sembrato così simpatico.
Un pensiero le balenò per la mente. Se quella era chi pensava che fosse voleva dire che era del Dodici e ciò significava che il suo compagno era… esattamente il ragazzo che durante l’addestramento aveva ritrovato il fazzoletto di suo padre. Gonfiò le guance ripensando a quella scena e inaspettatamente dispiacendosi po’ per quel ragazzo, ma in fondo quello era un gioco in cui lo scopo era uccidere gli altri, era stata fortunata a non dover essere stata lei a farlo.
« Un mostro senza faccia è in piedi ad ascoltare i nostri discorsi e tu ce lo dici con tutta la calma del mondo? » sbraitò il ragazzo del Cinque.
« E che ne sapevo io! » si giustificò Haylee. « Pensavo fosse uno dei costumi della Casa dell’Orrore! » La rossa venne trascinata e costretta a balzare al volo su una delle cabine della gigantesca ruota panoramica. Si sentiva come un ostaggio, quando invece il loro intento era quello di salvarla… forse. « Ah, che bella idea. Andiamo sulla ruota panoramica, così sicuro che siamo in trappola. E che facciamo? Lui ci aspetta sotto quando finiamo il giro e poi ci invita a prendere un tè? » sbottò, ritenendo che quella fosse una pessima idea.
I due accusati invece si sedettero e lanciarono alcuni sospiri di sollievo, potendo riposare per qualche istante.
« Se rimaniamo qui sopra sarà impossibile raggiungerci » spiegò Nymeria.
Improvvisamente la cabina tremò, bloccandosi in aria. I tre si aggrapparono dove poterono, spaventati da quell’urto, poi fu Haylee a strisciare fino al bordo e a dare un’occhiata di sotto.
« Ne sei sicura? » chiese, attirando l’attenzione degli altri, che si sporsero a loro volta. « Jimmy sta salendo. »
« Ma è impossibile! » esclamò la diciottenne, inorridita.
La ruota era ferma, loro erano sospesi in aria e il caro Jimmy – ma da dove era uscito quel nome? – si stava arrampicando a mani nude, scalando gli ingranaggi di metallo della giostra.
« E’ inumano » commentò Jason, facendo roteare gli occhi in aria alla minore del trio, pesando che quella fosse una frase che si poteva benissimo risparmiare. « Ma che diavolo è? »
« Al Distretto 10 facevano esperimenti sul DNA » disse Haylee, spiazzando gli altri due. « Magari è uno degli ibridi nati dagli esperimenti. »
« No » obiettò Nymeria, assottigliando lo sguardo verso quel mostro che scalava velocemente la struttura come se stesse gattonando su una superficie piana, « è qualcosa di peggio. »
Il trio indietreggiò quando Jimmy risalì il braccio metallico che reggeva la loro cabina, e osservò la sua testa priva di volto mentre si avvicinava. Jason si sporse dal bordo della cabina, rivolgendo lo sguardo verso l’alto e osservando Jimmy intento a stringere fra le mani lo spesso e solido gancio che reggeva e faceva ondeggiare la cabina.
« Che sta facendo? » chiese Nymeria, barcollando per le oscillazioni.
« Sta cercando di spezzare il gancio della cabina con le mani o qualcosa del genere » le rispose il diciassettenne, dubbioso.
« Ridicolo! » esclamò la quattordicenne, schernendolo. « E’ fatta di ferro, è impossibile spezzarla con le mani! »
La maggiore rabbrividì, sapendo cosa sarebbe successo se quell’uomo ci fosse riuscito. « Io non ne sarei così sicura. E’ riuscito a scalare una giostra alta non si sa quanti metri con quelle mani. »
Ed aveva ragione, perché l’uomo senza volto piegò il gancio come plastilina tra le mani di un bambino e lo spezzò, lasciando che la cabina precipitasse in picchiata ad alta velocità. Si schiantò al suolo nel giro di qualche secondo, ma nessuno sembrò neanche minimamente interessato.
 
* * *

Avevano svoltato in un corridoio, mentre Marie parlava senza sosta. Non aveva ascoltato nessuna parola del suo sproloquiare, pensando in continuazione al discorso che le aveva fatto Peter, che sosteneva che loro… che loro… Il solo pensiero le fece scendere un brivido lungo la spina dorsale.
Erano saliti in un ascensore ampio e grigio, dalle porte metalliche e ora se ne stavano all’interno, in silenzio, guardando i numeri che lampeggiavano ad ogni piano superato.
Per quanto potesse essere moderno, quell’ascensore era dannatamente lento; inoltre, superò il quinto piano citato prima dalla segretaria per dirigersi al nono.
Phoebe quasi si sentiva soffocare, lì dentro, e sperò con tutto il cuore che le porte si aprissero in fretta. Solo quando un piccolo campanello indicò che erano arrivati al piano desiderato si sentì di tirare un flebile sospiro di sollievo; fu la prima a mettere piede sulla moquette esterna, ma, non appena si voltò per aspettare Marie, suo fratello e sua madre, le porte si richiusero nuovamente, quasi di botto. Sentì in lontananza un’imprecazione di Peter e subito dopo il silenzio più totale, così pesante che la investì come il più forte dei rumori, facendole ronzare le orecchie.
Phoebe deglutì e aspettò che l’ascensore risalisse, ma per quanti minuti passarono, cominciò a capire che non sarebbe più risalito. Forse era guasto. Sì, doveva essere così.
Si guardò intorno per i corridoi e sembrò quasi che non ci fosse anima viva. « C’è nessuno? »
Che stupida, si disse poi, scuotendo la testa. Era ovvio che non ci fosse nessuno.
Cominciò a camminare, aprendo porte a caso solo per scoprire che erano per la maggior parte bloccate – dovevano essere camere private, quelle – e cercando almeno una di quelle mappe che si attaccano sui muri per indicare il percorso da seguire in caso di incendio.
Non seppe dire per quanto tempo camminò sullo stesso piano, finché non trovò una delle mappe tanto ardentemente desiderata. Memorizzò dove si trovavano le scale e seguì le indicazioni.
Destra, sinistra, sinistra, sinistra, destra, destra.
Si aspettò le scale, ma incontrò soltanto un muro che le sbarrava la strada, senza alcuna porta o finestra. L’unica cosa appesa era un’altra mappa che indicava le scale antincendio. Il cuore cominciò a martellarle nel petto, ma tentò comunque di memorizzare questo secondo percorso. Fece dietro front.
Sinistra, destra, destra, sinistra, destra.
Ancora un altro muro. Phoebe andò a sbatterci con le mani sopra, così sicura che avrebbe trovato le scale… E invece… I battiti aumentarono a dismisura, quasi erano l’unico rumore che riusciva a percepire. « Dove sono…? » mormorò, atterrita. Cominciò a vagare ancora una volta per i corridoio alla rinfusa, non trovando nessun accenno di porte accessibili, finestre o scale. Non riusciva nemmeno più a trovare l’ascensore, sembrava tutto un maledetto labirinto.
Sentiva che entro pochi minuti sarebbe caduta nelle reti del panico, per cui si costrinse a sedersi a terra sulla moquette e ad appoggiare la schiena al muro. Tentò di respirare per calmarsi – inspira, espira – ma tutto ciò che riuscì a fare fu mettersi a piangere e coprirsi gli occhi con i palmi delle mani.
Avrebbe tanto voluto Melanie con sé, in quel momento, avrebbe tanto voluto il suo istinto e il suo spirito dell’avventura. Si attirò le ginocchia al petto e vi affondò il viso, terrorizzata.
Phoebe perse la cognizione del tempo e quando si rialzò da terra non aveva idea nemmeno se fosse ancora giorno. Tirò su con il naso e si decise a cercare un’altra via d’uscita; fu sul punto di muovere qualche passo, quando sentì dei rumori provenire dal piano di sopra.
Passi, veloci.
Sobbalzò all’istante e svoltò nel primo corridoio che le capitò davanti, trovando addirittura…
le scale. Una voce esultò dentro di sé, quando poi si accorse che erano scale che portavano soltanto ai piani superiori. Poco male, si disse, era già qualcosa. E poi poteva chiedere aiuto. Ma erano sempre state lì? Lei credeva di esser venuta da quella parte, prima di accasciarsi sul pavimento.
Prese un respiro profondo e imboccò le scale, stringendo forte il corrimano come se avesse paura di cadere all’indietro.
Il piano successivo era totalmente buio e desolato. Alcune porte scricchiolavano e nessuna luce illuminava l’ambiente, senza contare che non vedeva una finestra da quelle che pensava fossero ore. Sembrava notte fonda e sentiva quasi il rumore… della pioggia… lontano…
Rabbrividì e camminò piano lungo il nuovo corridoio tappezzato di moquette – marcia –, chiedendo: « C’è qualcuno che può aiutarmi? »
Sobbalzò, quando vide un’ombra muoversi in lontananza.
« Hey! » esclamò, con più voce di quanta pensava di possedere. « Aspetta! »
Rincorse quell’ombra a passo spedito, svoltando ancora un paio di volte nei meandri di quel labirinto. Vide una porta sbattere e vi si precipitò come se ne andasse della sua stessa vita.
Girò la maniglia, rendendosi conto di avere le mani fin troppo sudate perché scivolò un paio di volte dalla sua presa, ed entrò nella stanza – o meglio, nell’aula. C’era un’ampia cattedra bianca addossata al muro, un paio di lavagne verdastre e innumerevoli banchi macchiati d’inchiostro.
E lì, accanto ad un mappamondo e alla ricostruzione di uno scheletro del corpo umano, c’era una ragazza alta quanto lei e bionda, che la fissava con sguardo stralunato.
La riconobbe e trattenne il respiro. Era la ragazza del Distretto 3.
Un tributo, proprio come lei.
 
* * *

Non riuscì a resistere a lungo.
Beryl era accucciata all’interno del cassonetto tra sacchetti di plastica di spazzatura e si teneva le ginocchia strette al petto come per auto-proteggersi. Ocean le aveva detto che sarebbe tornato, non doveva preoccuparsi. Eppure una paura sorda si faceva strada dentro la sua testa, pensando all’essere senza volto con il cappuccio che li aveva rincorsi fino a quel momento.
In teoria l’avevano seminato, ma non c’era da starne certi con un seguito di strateghi che desiderava soltanto far fuori ventitré tributi. Beryl cominciò ad avere davvero paura solo in quel momento: a Capitol in quei giorni si era distratta, chiacchierando con Rhymer e altri capitolini, ma adesso c’erano soltanto lei, Ocean e l’Arena. Eppure le sembrava assurdo che fosse davvero quella, visto che era così diversa da quella dell’anno precedente…
Affondò il viso nelle ginocchia con un verso di frustrazione. La puzza della spazzatura non la turbava minimamente, considerata la situazione assurda in cui si trovava.
Passarono molti, troppi minuti da quando Ocean se n’era andato, e perciò Beryl decise di uscire a cercarlo. Non era giusto che lui facesse il lavoro sporco al posto suo, anche se era un maschio. Non avrebbe mai permesso che si sacrificasse per lei.
Con un salto sbucò dal cassonetto e per un attimo le sue narici si inebriarono dell’aria pulita che respirarono. Tuttavia, prima di cominciare a cercare Ocean o di pensare da che parte andare, venne letteralmente investita da un’altra ragazza che era spuntata da un angolo del vicolo. Urlarono entrambe, cadendo sull’asfalto.
« Da dove diavolo sbuchi, razza di-? » iniziò a domandare quella, rialzandosi e prendendo poi a fissarla come se avesse visto un fantasma. « Ma tu sei quella del Quattro! »
« E tu sei Mimi! » esclamò Beryl, saltando addosso a Naomi e stritolandola in un abbraccio. « Che bello incontrare qualcun altro! »
« Se ti azzardi a chiamarmi così ancora una volta ti stacco la testa dal collo a mani nude » biascicò Naomi, tentando di sfuggire a quell’abbraccio soffocante. Quello sarebbe stato il caso di ucciderla, forse, ma per qualche strano motivo non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Tutto ciò che invadeva la sua mente era l’essere mostruoso senza volto che aveva ucciso Mason. « Puzzi di spazzatura » aggiunse poi, scostandosi bruscamente dalla minore.
« Lo so, mi ero nascosta lì e… scusa. Non ci credo di aver trovato un altro tributo! » cominciò a dire Beryl, quasi in iperventilazione. « Hai visto che strana l’Arena? Ma cosa cavolo si sono inventati gli strateghi? Vogliono farci impazzire? L’hai visto anche tu quel tipo senza faccia? »
Naomi la bloccò sul nascere. « Sì, ho visto, ho visto. E credimi che non ne ho idea. »
« E’ tutto così strano, sembra quasi un sogno, ma è troppo reale per non esserlo… insomma, Randy Wane, Hans Coin… sembra che abbiamo vinto la rivolta, ma io so che non è così, purtroppo, non può essere andata così… però papà era ancora vivo e per un momento ho pensato di essere morta, ma mamma non può essere morta e ha fatto una faccia strana quando ho parlato di Chord e- »
« Beryl, non devi credere alle stronzate che ci hanno appena propinato » ribatté Naomi con un pizzico di acidità. « A me volevano far credere di essere fidanzata con il marito di Jewel, ma no… a me non è mai piaciuto! Volevano farmi credere che la mia Lucy fosse ancora viva, capisci? » continuò, prendendole le spalle e scuotendola un poco. « Sono solo degli stronzi bugiardi. »
Beryl la abbracciò di nuovo, questa volta con più dolcezza. « Mi dispiace, Mimi. »
Naomi tentò di non badare a quel soprannome che odiava tanto e allontanò ancora una volta il naso da lei. « Perché ti eri nascosta in un dannatissimo cassonetto pieno di scritte vandaliche? » le chiese, quindi. Concentrò appena lo sguardo su una scritta che spiccava più delle altre, in rosso scarlatto: “Viene notte e cavaliere”. Non si domandò nemmeno cosa potesse significare, perché Beryl interruppe i suoi pensieri.
« Me l’aveva consigliato Ocean e- oh! Devo andare a cercarlo! Aveva detto che sarebbe tornato ma non l’ha ancora fatto… mi accompagni? »
« Senti » disse Naomi, nervosa e leggermente scocciata, ancora scossa per tutto quello che stava accadendo, « l’unica cosa che dobbiamo fare è scappare. Quella… cosa… potrebbe spuntare da un momento all’altr- »
La mora non finì neanche la frase che la copertura del cassonetto si spalancò di botto con un rumore assordante, come se qualcuno l’avesse aperta dall’interno. Entrambe sobbalzarono e arretrarono di scatto.
Incredibile a dirsi, ma proprio dove prima era accucciata Beryl, adesso era comparso l’uomo senza volto – se l’avesse avuto, in quel momento, avrebbe sicuramente mostrato loro un’espressione agghiacciante e minacciosa.
Naomi urlò e spintonò Beryl verso l’uscita del vicolo, ma la creatura con un balzo si parò davanti ad entrambe; provarono a fare dietrofront, ma un altro di quegli esseri era dall’altra parte a bloccare il passaggio.
Erano bloccate in mezzo a quel vicolo. Si misero spalla contro spalla, senza sapere davvero cosa fare, e guardarono i due mostri picchiare con un pugno il muro di mattoni del palazzo a cui era appoggiato il cassonetto. Bum. Bum. Bum.
Una mano di Beryl andò a cercare e strinse quella di Naomi, che stavolta non replicò nulla, anzi corrispose alla presa, come se avesse bisogno di un’ancora a cui aggrapparsi.
Dopo un altro pugno, una montagna di pietre, detriti e mattoni, cadde violentemente su di loro, seppellendo i loro copri già morti per l’impatto.
 
* * *

« Ehi! » continuava ad urlare il ragazzo dietro di lei, inseguendola come se ne valesse della sua stessa vita. Ma scappare era più importante. Ty aveva capito che molto probabilmente i Giochi erano già cominciati, quindi poteva significare soltanto che chiunque al di fuori di Perry desiderasse ammazzarla per portare la pellaccia a casa. E non poteva biasimarlo, perché… anche lei c’era dentro, ormai, e doveva comportarsi di conseguenza.
Cercò di aumentare la velocità, ma dopo un po’ il suo respiro cominciò a farsi affannoso e le gambe pesanti. Non era poi così abituata a correre, e infatti Zhu Koeyn la raggiunse e la afferrò per un polso; lei, tuttavia, con uno strattone si liberò della presa, ma l’altro non demorse facilmente e per fermarla le si buttò addosso. Caddero entrambi a terra, ansimanti e doloranti.
Zhu ci mise qualche istante a mettere insieme le parole. « Aspetta… tu… hai visto cosa… »
Ty non gli diede il tempo di continuare perché gli sferrò di botto un pugno alla mascella, stordendolo. « Allora vuoi la guerra? » domandò retoricamente, eppure nella sua voce il panico era chiaro. Ty non desiderava davvero ucciderlo, ma era necessario per la sua sopravvivenza. La ragazza approfittò della sua momentanea debolezza per dargli un violento calcio nei fianchi, ma Zhu si scostò e faticosamente si rialzò in piedi. Lui biascicò qualcosa tra i denti e non sembrò perdonarle il pugno al viso, per cui le si avventò contro quasi con egual foga – certo, era una donna, ma anche lei menava pesantemente.
Dopo qualche minuto un gruppetto di persone si radunò intorno a loro, inneggiando alla rissa e facendo il tifo per l’uno o per l’altra. Non c’era ancora traccia di Pacificatori.
Zhu fu sul punto di scagliarsi contro la ragazza, ma per sbaglio, dopo aver preso una breve rincorsa, colpì alla spalla uno – o meglio, una – degli spettatori che li avevano accerchiati senza nemmeno lasciargli un po’ d’aria.
« Oh, ma che voi? » domandò quella con voce indignata, tastandosi la zona colpita. « Statti un po’ più attento! »
« Sono un attimino impegnato al momento » ribatté Zhu con sarcasmo innato. Pensava che quella ragazza con i corti capelli rossi e ricci l’avrebbe lasciato stare, ma invece sciolse la stretta tra la sua mano e quella della tizia mora con gli occhiali accanto a lei e fece qualche passo in avanti, entrando a far parte della mischia.
« Senti, teso’ » disse in direzione di Ty, « devi esse’ più decisa. » E così diede al giovane una ginocchiata nel ventre, facendolo piegare in due per qualche secondo.
Il diciassettenne, esterrefatto dalla situazione, tentò di rispondere, ma nel casino che ormai si era creato anche la compagna di quella ragazza s’intromise. « Tocca la mia ragazza e sei morto! »  
Zhu non si domandò perché quelle due si fossero messe in mezzo così prontamente e nemmeno perché indossassero delle magliette con scritto “panda-qualcosa”, ma si affrettò a replicare: « Dannazione, statene fuori! »
Ty, perplessa dalla scena esattamente come lui, rimase con un altro pugno sospeso a mezz’aria. « Ma chi siete…? » chiese.
« Senti, tu fai quello che diciamo noi » mise in chiaro la ragazza coi capelli scuri, puntandole un dito contro. « E tu » aggiunse, spostando l’indice sul ragazzo, « taci perché siamo le più fighe di Panem. »
« A voja! » assentì la rossa, con un sorrisetto a metà tra il compiaciuto e lo scherzoso.
« Bella Mì! » esclamò l’altra, battendo il cinque con quella che aveva definito la sua ragazza – che poi lo fosse davvero era un arcano, sembravano più due sorelle deliranti che altro.
La riccia spostò lo sguardo altrove e incitò i due tributi a fare altrettanto. « Toh, guardate, c’è Jimmy. »
« Jimmy…? » chiesero in contemporanea Zhu e Ty, confusi. Seguendo lo sguardo della ragazza, però, rimasero inorriditi nel comprendere di chi stava parlando.
Poco lontano, controluce ma perfettamente visibile, si ergeva una figura alta e possente, con un cappuccio calato sulla fronte. Li guardava pur non avendo gli occhi né altre parti del volto, come se stesse per ammazzarli con il pensiero da un istante all’altro. E in effetti…
Ty assottigliò lo sguardo giusto in tempo per rendersi conto che quello aveva cominciato ad avvicinarsi pericolosamente, per poi tentare una fuga azzardata, ma Jimmy fu subito accanto a lei e le trapasso il ventre con la mano nuda, tirandole fuori con uno scatto tutte le budella e lasciandole cadere sull’asfalto impolverato, che si riempì di sangue.
Zhu inorridì e indietreggiò, ma a lui toccò una sorte simile: se lo ritrovò alle spalle, come se fosse sempre stato lì dietro, e non poté reagire in alcun modo perché si sentì le sue dita attorno al collo e sollevarlo come se fosse una piuma. Zhu iniziò a scalciare come un dissennato, ma le grandi dita dell’altro gli perforarono la gola. Lanciò un urlo straziato, per poi ricadere a terra privo di vita, con la gola bucata come uno scolapasta.
Gli spettatori della rissa si erano già dispersi e nessuno in particolare sembrò aver notato qualcosa di strano, né tantomeno diese segno di aver visto l’assassino di quegli omicidi raccapriccianti. Eccetto le due ragazze, ancora ferme lì, accanto ai cadaveri.
« Bravo, Jimmy, hai fatto il tuo lavoro » si complimentò quella con i capelli castani. La rossa lo prese sottobraccio e s’incamminò con lui. « Adesso torniamo dalla Lisa, che altrimenti si incazza. Lo sai quanto è suscettibile. »

 
* * *

Nate sgranò gli occhi nel buio. Erano rare le cose che la sorprendevano, ma per una volta fu stupita di averci visto giusto: erano in Arena. Quella era l’Arena. La ragazza del Nove stava ora di fronte a lei, probabilmente terrorizzata.
Dopo aver abbandonato quella che si era proclamata la sua famiglia, Nate era corsa via dall’anfiteatro con una velocità di cui non pensava essere capace e aveva raggiunto uno degli edifici più vicini. Non aveva idea del perché, ma era entrata in quella sorta di istituto perché… diamine, le ricordava troppo il manicomio in cui era stata rinchiusa anni interi della sua esistenza. Era stata una sorta di attrazione fatale… non appena aveva visto quelle mura, aveva sentito il disperato bisogno di entrarci. Aveva camminato, corso, si era nascosta dai collaboratori dell’istituto ed era salita ai piani superiori, quando tutto aveva cominciato a diventare buio e tetro… Sembrava un incubo, come quelli che faceva quando era segregata in quel dannato ospedale. Come quelli che Latasha tanto amava.
« Distretto 9? » mormorò, con un impercettibile sorriso obliquo.
Phoebe fece un passo indietro e annuì come se non avesse scelta.
« Ma che hai fatto ai capelli? » domandò, incrociando le braccia. « Pensavo ce li avessi bianchi e neri. »
L’altra sembrò accorgersi solo in quel momento che la sua chioma aveva un colore diverso dal solito, molto più naturale. Si prese una ciocca tra le dita e se la esaminò con uno sguardo stupito: era castana. Poi tornò ad alzare gli occhi su di lei e prese a scrutarla come se stesse guardando qualcosa di distorto in uno specchio. « Tu… tu sei… »
« Natálie, ma è meglio se mi chiami Nate » concluse la ragazza del Tre, avvicinandosi piano all’altra. « Non preoccuparti, non voglio ucciderti. » Fece una piccola pausa d’incoraggiamento. Se se la fosse fatta amica prima, poi sarebbe stato più divertente ammazzarla. « Cerchiamo una via d’uscita, piuttosto. »
Phoebe annuì ancora una volta, più convinta. « Sto girando in tondo da… da ore, credo. » Si morse le labbra e uscì per prima dalla porta.
Insieme, fianco a fianco, s’incamminarono per i corridoi bui e deserti. Stettero in silenzio per molto tempo, ma non riuscirono più a trovare le scale che le avevano fatte salire fin lì. Solo altre scale, altre scale che salivano.
« Natálie… » tentennò Phoebe, ma Nate fu più veloce e, alzando gli occhi al cielo per il suo nome completo che tanto detestava, salì i gradini per prima. Del resto non avevano nulla da perdere, prima o poi quel palazzo sarebbe dovuto finire. Forse.
Giunsero in un altro piano, se possibile ancora più deserto e vuoto del precedente, camminando nel buio più totale.
Nate appoggiò una mano al muro per non inciampare, quando poi cominciò a riflettere che dovevano trovarsi all’undicesimo piano. Eppure credevo di averne visti solo nove, dall’esterno.
Quando imboccarono un altro corridoio, qualcosa si scontrò con un piede di Nate. La ragazza si abbassò e raccolse quella che si rivelò essere una torcia, per fortuna carica.
La accese e la puntò prima sul volto di Phoebe, pallido, e poi sul muro di fronte, dove a caratteri cubitali c’era una scritta che recitava “Tredicesimo piano”.
La bionda a quel punto decise che era arrivato il momento di agire. Quello era un chiaro segno che quell’istituto fosse opera degli strateghi, per cui era ora di attaccare. Con uno scatto sbatté la testa di Phoebe contro il muro, guardando poi il suo corpo accasciarsi a terra privo di forze. La ragazza lanciò un urlo debole e l’altra salì a cavalcioni su di lei, impugnando la piccola chiave arrugginita che portava sempre al collo. Con quella sarebbe stata capace di aprirle il cranio. Aveva intenzione di dare spettacolo a quei mentecatti dei capitolini – se solo avesse saputo dov’erano le maledette telecamere…
Phoebe tentò di dimenarsi, ma Nate, seppure più magra di lei, le aveva artigliato il collo con una mano, mentre con l’altra stringeva la chiave. « Un ultimo saluto ai telespettatori? »
Quelle, tuttavia, furono le sue ultime parole. La torcia era caduta a terra e illuminava il corpo disteso della ragazza del Nove, per cui nessuna delle due riuscì a vedere ciò che veramente accadde.
Nate si sentì trascinare da dietro da una forza improvvisa e sovraumana, da due braccia possenti che le bloccarono ogni iniziativa di movimento. Non riuscì nemmeno a produrre alcun tipo di suono, perché all’improvviso quelle stesse braccia si strinsero intorno alla sua gola, mozzandole il respiro a metà strada. Annaspò in cerca d’ossigeno, ma quelle braccia stringevano così forte che le avrebbero presto spezzato – frantumato – persino l’osso del collo.
Sentì in lontananza un tonfo e un altro urlo di Phoebe.
All’improvviso una luce sopra di loro si accese, rivelando l’identità dei due assalitori: due uomini senza volto – o forse uno solo che si era sdoppiato? – che le stavano soffocano una di fronte all’altra, come in uno specchio, mostrando ad entrambe come tutti avessero lo stesso identico terrore negli occhi prima di morire. 



II. Secondo tempo – La porta.
Non aprì gli occhi, erano già aperti, ma lei si sentiva come se si fosse appena svegliata da un lungo, lunghissimo sonno.
Che cos’era successo? Non era morta?
Si guardò attorno, notando che era in piedi al centro di una piccola stanza fatta da quattro mura che la circondavano e che sembravano soffocarla per quanto fosse limitato quello spazio buio e grande quanto una cabina, e di fronte a lei un’unica e sola porta, dove proiettati da non si sa dove comparivano dei numeri, come un conto alla rovescia. Le ricordava tanto il conto alla rovescia che agli Hunger Games precedenti – l’aveva visto in tv – era stato proiettato sopra quell’enorme corno d’oro posto al centro dell’Arena.
Fra le braccia stringeva nuovamente la sua Betty e questo le fece tirare un sospiro di sollievo: avere accanto quella bambola la tranquillizzava. Guardandosi le maniche a palloncino si rese conto che stavolta era nuovamente vestita con l’abito che ricordava, quello antico, azzurro e di seta.
Allora è stato tutto un sogno…
Inevitabilmente ripensò al suo Logan, a come era andato, a come non era tornato e a come aveva visto la sua figura immobile in quella bara di legno, con Diamond che le diceva che oramai il suo Loggie non avrebbe parlato più.
Era morto il giorno del suo compleanno, esattamente come sua nonna, esattamente come sua madre, che non aveva conosciuto mai, così come suo nonno ed il suo vero padre. E, ironia della sorte, il suo compleanno era proprio oggi.
Si chiese se magari anche lei sarebbe morta, che cos’avrebbe provato. Perché prima non era morta davvero, era stata solo un’orrenda sensazione, un incubo raccapricciante.
Strinse ancor di più Betty al petto, stritolandola e continuando a fissare quella porta, mentre i numeri continuavano a diminuire.
Ma se quello di prima era solo un sogno, allora ora dove si trovava? Quelli erano gli Hunger Games? Ma erano diversi dall’anno prima! Kenia nella sua mente protestò come la bambina che era, ma che allo stesso tempo non era più.
Voleva continuare ad esserlo, perché quando si è bambini è sempre tutto più facile, si è sempre giustificati e non ci si deve curare di nulla, perché sono gli altri a badare ai bambini. Ma non era da molto che Kenia aveva scoperto di giocare come un’adulta e non con l’innocenza di sempre.
Ripensò alle favole di Kingsley, alla dolcezza di Queen, alla sicurezza di Diamond, alla forza di Golem, agli scherzi di Sun e Moon, alla lealtà di Blade, alla sincronia di Cip e Ciop e al loro dolore comune per la morte di Logan. Ripensò persino a Cher, che era stata quella più sincera, che aveva ammesso da subito di odiarla.
No, oramai erano tutti falsi, tutti le avevano mentito, l’avevano ingannata ed usata; perché in fondo Kenia non voleva far del male a nessuno, lei voleva solo giocare.
Una strana melodia acuta risuonò nelle orecchie della ormai tredicenne, facendosi sempre più pungente e costringendola a portarsi le mani sulle orecchie.
Delphi non le aveva mai mentito, invece; lui le lasciava sempre le ciambelle alla fragola a colazione, le rimboccava le coperte la sera e quando Kenia gli chiedeva di giocare a scacchi, lui non rispondeva mai di no, anche se doveva lavorare. E, soprattutto, le raccontava le favole più belle che Kenia avesse mai sentito. Non erano come quelle cattive di Kingsley, dove alla fine le faceva credere che il bene trionfasse sempre sul male; le favole di Delphi erano più malinconiche, rendevano Kenia sempre triste, ma non capace di staccarsi dal racconto, le facevano capire com’era la realtà e le raccontavano il vero, anche se a volte non avevano un lieto fine. Le favole di Delphi erano le verità, la vita vissuta con tutti i suoi imprevisti.
Kenia capì che quella musica acuta e assordante nella sua testa non era melodia, bensì era il tumulto di voci che urlavano, le voci di tutte quelle persone che lei era parzialmente consapevole di aver ucciso, che ora continuavano a perseguitarla e a cercare di riscattarsi. Voleva che cessassero, non voleva sentirle più. Basta, basta, basta… implorava, mentre cercava di trovare un po’ di pace.
Una bassa e dolce sinfonia, però, si fece pian piano strada fra quelle voci e Kenia la riconobbe come la ninna nanna che Delphi le cantava prima di dormire. Diede fiato alla bocca, cercando di ricordare le parole esatte.
« E questa storia non ha significato » iniziò e ad ogni parola sentiva sempre di prendere più il ritmo, mentre le voci si diradavano quasi fino a scomparire, « è come fare il vino col bucato. »
Tese una mano verso la maniglia della porta, per poi arrestarsi e prendere ad osservare Betty per bene. « E’ come dire buonanotte al muro » cantò, tastando la bambola di pezza.
Quando non sentì nulla pungerla, un orribile presentimento si insediò dentro di lei: l’ago non c’era. Era stato tolto.
Abbassò il capo, tendendo la mano sulla maniglia, tristemente.
Ecco, ora era sola come quando era nata; ecco, ora avrebbe portato sventura e morte come aveva sempre fatto; ecco, era meglio che la gente si allontanasse da lei, se non voleva altro che disgrazie. Ecco, alla fine anche Delphi le aveva mentito.
« E farsi un bagno nel cianuro. »
Kenia non ebbe neanche il tempo di pensare veramente, quando aprì la porta, sentì tutto e nulla nello stesso tempo: ogni cosa si arrestò, anche le voci nella sua testa, anche la sua melodia, nessun suono arrivava alle sue orecchie e gli occhi presero a bruciarle così forte che non vide più nulla, ma non ebbe neanche il tempo di chiuderli. Sentiva la pelle prendere fuoco, l’aria calda avvolgerla e non permetterle di respirare, mentre i suoi capelli diventavano paglia e velocemente scomparivano. Sentiva qualcosa nel petto che cercava di uscire, facendole male, lacerandola.
Non ebbe tempo di pensare alla nonna, né a Kingsley, né a Logan, ma a proteggere Betty fra le braccia come se ne valesse della sua stessa vita. E riuscì a chiedersi, un’ultima volta, perché anche l’unica persona che le era rimasta l’aveva ingannata. Come succedeva sempre, d’altronde.
Buon compleanno, Kenia!

 

 

La realtà attorno a noi è solo una delle infinite facce del dado.

(Leonardo Patrignani)















 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Do re mi fa sol la si. 
E queste erano le note, arrivederci e grazie.
E questo era il capitolo peggio sudato, lungo e spezzafeels della storia... per ora. Speriamo vivamente che i prossimi siano più corti visto che entreremo nella storia... si spera.
Ivola partirà per Dublino a bere birra e ubriacarsi come la barbona qual è, mentre Mito resterà a piangere a casa per non essere al Giffoni da Dylan O'Brien.
Se siete arrivati fin qui a leggere queste note, comunque, vuol dire che è passato tipo un giorno perché veramente per leggere sto capitolo vi sarete dovuti prendere vacanze dalle vacanze o qualcosa del genere.
Ora la domanda fatidica: qual è la vera Arena? E la vera Arena siamo sicuri che sarà la vera Arena e che in realtà quella vera non sia questa?
Io vorrei solo far notare che a volte vengono descritti dei vestiti che i tributi avevano indossato precedentemente per entrare nell'Arena e vorremmo che li teneste d'occhio.
Ebbene sì, il primo morto - per così dire - è Kenia. Anche se oramai con tutti questi morti dubiterei che anche lei lo sia. Ma c'è un motivo se è lei la prima sfigatella. Ovvero tempo fa vi avevamo chiesto quale fosse la prima cosa che vedono i tributi una volta in Arena e AriiiC_ fu la prima a rispondere correttamente, ovvero una porta, come anche dice il titolo del secondo tempo. Il punto è che le pandaivols decisero prima di annunciare l'indovinello che il tributo di colui che avesse risposto correttamente sarebbe stato il primo morto. Non siamo razziste, dai, non fino in fondo, almeno. Comunque sul gruppo facebook un giorno posteremo gli screen di tutte le prove della nostra lealtà(?), anche degli indovinelli futuri che a volte sono a trabocchetto, sì.
Ovviamente le scommesse che avete fatto non valgono, visto che non è il vero Bagno di Sangue, anche perché quando pubblicheremo il vero Bagno di Sangue le pandaivols cambieranno finalmente i loro nomi su facebook ed è per questo che ancora non l'abbiamo fatto.
Vi diciamo però che sono capitati molti casi in cui ciò che dicevate era inconsapevolmente uno spoiler oppure che le vostre ipotesi fossero giusto, però abbiamo notato che erano sempre quelle per prima scartate perché voi le ritenevate fin troppo assurde. Ecco, avete presente nel prologo quando Hidden dice che ci si può aspettare di tutto? Non stava scherzando, perchè ci saranno cose veramente che vi porteranno a credere che potrà accadere qualunque cosa.
Dopo l'avvertimento, vi consigliamo di continuare a leggere anche dopo, nel caso il vostro tributo morisse, perché il caro G. TremilaR Martina ci ha plagiato il metodo di scrittura e quindi noi meglio di lui diciamo che non è mai detta l'ultima parola e che inoltre i tributi - anche quelli porti - potranno avere influenza nella storia, ma leggerete meglio con i capitoli che verranno, per comprendere poi il tutto finale.
Inoltre ricordate che dovete cercare di ottenere sponsor per il vostro protetto e non tributo. Lov lov.
Mito vorrebbe anche sputtanare Ivola dicendo che si è cagata sotto a scrivere di Phoebe e Nate e di fatti non voleva che Mito l'abbandonasse perché aveva paura ed era da sola a casa, al buio. Ora potete scommettere su chi ha scritto quale pezzo.(?) Che poi penso si possa pure fare come scommessa... uhm.
Ecco, infatti volevamo precisare che non ci sarà un indovinello qui per il prossimo capitolo, solo vi ricordiamo di fare scommesse e cercare di ottenere sponsor per i vostri protetti. E ottenere punti sponus! (?) Perché anche se non rispondiamo alle recensioni perché abbiamo da fare tipo scrivere capitoli Ocean-ici tipo questo o drogarci, sappiate che le leggiamo e che vanno tutte a vostro favore.
Questo capitolo inoltre è stato confusionario, ma scritto a posta così in modo tale che vi sentiste spaesati, proprio come i vostri tributi, un po' come abbiamo già fatto per la sfilata. 
E... avete notato chi fa la comparsa? A parte Jimmy, lui è il peggio figo e si shippa sia con Lisa che con Haylee e Haylee a sua volta si shippa con Messer Coniglietto. Ora ringraziamo John Stephens e L'Atlante di Fuoco per il nome dato al peluche.
No, comunque, quelle bellissime due comparse sono Panda 1 e Panda 2, tipo Coso 1 e Coso 2 del film "Il gatto e il cappell matto" che se non avete visto proprio non avete una vita visto che è della Dreamworks, il Gatto è interpretato da Jim Carrey ed è ispirato al libro del Dr. Seuss che ha scritto anche Il Grinch, Lorax e... *Mito viene trascinata via perché si è appropriata dello spazio autore e si vede*
Infine, ultimo omaggio, citazione o come volete chiamarla, è proprio Jimmy, che è un personaggio di Freaks! e se non avete visto Freaks! allora fate proprio schifo e che ci parlate a fare con noi. Io ve l'ho sempre detto che dovete vedervi Freaks! per capire come va la vita- *Mito viene trascinata di nuovo via e Ivola la picchia*
Un giorno vi faremo vedere anche tutti i nostri bloopers di come ci sono venute le idee, che sempre ci vengono per sbaglio e molto ma molto spesso a causa (o grazie?) alla nostra dislessia.
Siccome ora non ce la fate più a leggere vi diciamo solo tanti auguri (soprattutto a Chenia col ci-acca) a tutte le persone per cui volevamo pubblicare il capitolo come regalo di compleanno, tipo darkangel98, Clary1835, JadenJD e non ricordiamo se ce ne sono stati altri e se ce ne sono stati auguri in ritardo anche a loro. Perché le pandaivols sono sempre in ritardo solo perché si devono far desiderare. (Ma dove?)
Mi raccomando, guidate piano! [cit.]
Ah, ok, ultimissimissima precisazione è che il compleanno di Kenia è il 22 Giugno quindi sì, il Bagno di Sangue si svolge il 22 Giugno. Una curiosità che in realtà non volevate sapere.

 
Bao e cotolette... O dovremmo dire "viene notte e cavaliere"? #spoiler
 
pandaivols.

 

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Capitolo 10
*** Kids are victims in this story. ***


 

Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

Kids are victims in this story


.




 
Let this train wreck burn more slowly,
kids are victims in this story.
Drown our youth with useless warnings,
teenage rules, they're fucked and boring.

 [ The Anthem Part Two - blink-182 ]


 
Atto I – Ferro e fuoco.
Elle capì immediatamente che sarebbe dovuto restare lì dentro, in quella piccola stanza spoglia e quadrata, fino a quando il conto alla rovescia proiettato sulla porta non si fosse azzerato. Si chiedeva cosa avessero in serbo per loro gli strateghi e ammirava come avessero raggiunto il loro scopo di confondere i tributi, sebbene non la reputasse un’azione onorevole. Spregevole, certo, eppure ingegnosa.
Si domandò se però quelli avessero scoperto che in passato aveva aiutato il Distretto 13 a penetrare nei sistemi computerizzati di Capito City, perché era praticamente seminudo, aveva solo un paio di mutande a coprirgli i genitali e dei calzari di cuoio, per il resto era completamente scoperto, se non per il lungo e pesante mantello rosso che gli copriva le gracili spalle e per l’elmo dorato col pennacchio che nascondeva il suo viso. Ma in fondo forse non era più vergognoso che affrontare una sfilata vestito da donna.
Mentre i numeri continuavano a diminuire, all’improvviso si sentì il tuono di un’esplosione e L s’irrigidì. Era chiaro, chiunque avesse aperto la porta prima del tempo sarebbe esploso. Solo uno sciocco ci sarebbe cascato.
Il cuore di Jason, invece, perse un battito e per alcuni secondi non riuscì più a sentire nulla, si fermò anche dal combattere con la cotta di maglia che indossava per restare in allerta.
Che cosa stava succedendo fuori? Che stessero già combattendo mentre il suo unico avversario lì era il suo costume da cavaliere medievale?
Quando l’udito sembrò tornargli, cautamente aprì la porta con timore, ma nel preciso momento in cui la serratura scattò, Jason imparò che neanche il ferro della sua armatura poteva combattere contro il fuoco; e in vita avrebbe ritenuto quell’informazione a dir poco inutile.
 
Atto II – Cornucopia.
D'istinto si mise in posizione di combattimento appena si sentì riprendere conoscenza. Ma attorno a lui non vi era nessuno, se non quattro solide mura a rinchiuderlo e di fronte a lui una porta su cui venivano proiettati da chissà dove dei numeri. Con la coda dell’occhio si guardò attorno, sebbene la stanza fosse illuminata solamente dalla luce che producevano quei numeri, ma poi abbassò le braccia e tornò in una posizione dritta e rigida, non abbassando mai la guardia. Forse quella era la vera Arena, si diceva, e se era così, meglio non toccare nulla, neanche quelle pareti che sembravano essere di semplice e dura pietra.
Si concentrò invece su cosa indossava: gli abiti che gli avevano fatto indossare prima di entrare in quel tubo d’aria, tra l’altro altamente imbarazzanti, a parere suo. L’avevano costretto a indossare una calzamaglia scura decisamente troppo aderente, calzari bassi e morbidi ma scomodi, la camicia larga era coperta dallo stretto farsetto oro rifinito in rosso e con le spalle larghe, chiuso da troppe stringhe per contarle; le braghe erano più corte rispetto all’altezza del ginocchio e notò che con delle cinghie gli avevano allacciato una braghetta che gli parasse le parti intime. Avvampò e ringraziò il cielo che nessuno potesse vederlo in quel momento di completo imbarazzo. La slacciò con rabbia, scaraventandola a terra. Aveva resistito dallo strapparsi quei vestiti di dosso perché voleva aspettare almeno di scoprire perché lo avevano conciato così, ma quello era troppo.
Si tastò il colletto bianco della camicia che fuoriusciva e fu leggermente più sollevato nello scoprire che la collana azzurra di Katae era ancora attorno al suo collo, al sicuro.
Ma ora a quale versione dei fatti doveva credere? Quella in cui Katae era in fin di vita per colpa della sua compagna di Distretto o quella in cui lei e suo zio erano accanto a lui e gli sorridevano? Aveva paura di scoprire la verità, ma di una cosa era certo: Wednesday meritava solo di morire, era proprio come sua sorella.
Sentì un esplosione e s’irrigidì. Subito dopo una seconda. Che cosa stava succedendo lì fuori? Che stessero già combattendo? La sua impulsività l’avrebbe spinto ad aprire immediatamente quella porta per controllare, ma qualcosa gli suggerì di aspettare per non correre rischi.
E di fatti, quando il contatore si azzerò, la voce di Titus Bartimeus Bones lo circondò, annunciando: « Signore e signori, che i secondi Hunger Games abbiano inizio! »
Con un veloce scatto aprì la porta, soffermandosi giusto qualche istante a osservare cos’aveva di fronte: l’Arena non era come quella che aveva visto in tv l’anno precedente, non c’era nessuno spiazzo, nessun enorme corno d’oro pieno di provviste e armi; si ritrovava in una stanza circolare, senza finestre o vie d’uscita, vi erano solo porte identiche alla sua disposte per tutto il perimetro e l’unico oggetto dorato che somigliava a un corno era molto più piccolo di quello che pensava: si trovava attaccato al soffitto, esattamente al centro della stanza, e da esso fuoriusciva perpendicolarmente un fascio di luce giallastra fino al pavimento.
Fu solo qualche istante, perché il rumore delle porte che si aprivano quasi contemporaneamente lo attirò, ricordandogli che non doveva far altro che concentrarsi sui suoi avversari. Si voltò alla sua destra e si precipitò subito su una preda, preferiva non concentrarsi su chi fosse per paura che ciò avrebbe potuto bloccarlo nei movimenti, ma poi riconobbe che era la ragazza del Distretto 5 e si focalizzò solo su di lei e su nessun altro tributo, per impiegare al massimo le sue forze ed eliminarla. Cercò di sferrarle un pugno in pieno viso, per stordirla, ma la castana ebbe i riflessi pronti e bloccò il colpo alzando in alto la gamba. Jamie piegò l’altra gamba, dandosi una spinta e saltando in aria; con la gamba libera diede un calco nelle parti basse di Zhu, facendolo piegare, mentre lei afferrò bene con entrambe le mani il braccio teso del ragazzo, per appoggiarsi, e poi lo fece ruotare assieme al suo corpo, che in pochi secondi fu schiena a terra. Il tributo del Sei in quel momento rimpianse amaramente di aver buttato via la braghetta.
L’aveva vista al Centro d’Addestramento e ricordava come era brava nel corpo a corpo e ora stava sperimentando quell’abilità sulla sua pelle.
Il diciassettenne le afferrò una caviglia, facendola cadere a sua volta e poi, dandosi una spinta con le mani, si rimise subito in piedi, ruotando su se stesso e sferrando un calcio nella pancia della castana. Quella tossì dolorante, ma riuscì a rotolare via quando il pugno di Zhu toccò terra. Il moro urlò, imprecando, mordendosi poi la lingua per non mostrare la sua debolezza e cercando di reprimere il dolore che provava alla mano e sorvolando sul sangue che usciva dalle nocche rotte. Le strinse ancor di più, pervaso dalla rabbia.
Fece una capovolta, camminando sulle mani e usando le proprie gambe e i propri piedi per colpire la giovane, che indietreggiava a zigzag. Jamie continuava a evitare i colpi con scioltezza, ma non riuscì a prevedere il colpo basso di Zhu che la fece scivolare a terra. Con prontezza la castana gli fece lo sgambetto e, proprio mentre il moro stava per cadere sopra di lei, lo spintonò via con entrambe le mani.
Zhu fu investito dal fascio di luce al centro della stanza e poi cadde a terra, ma quando si rialzò non vide più quella sala circolare in cui si trovava prima, non c’era più né la ragazza del Cinque né gli altri. Ciò che vedeva era semplicemente… se stesso.
 
Atto III – Fascio di luce.
Gli occhi di Beryl erano aperti, ma quando iniziò a sbattere le palpebre capì che tutti i sensi erano ritornati al proprio posto, aveva provato la stessa sensazione quando si era risvegliata nell’anfiteatro, ma stavolta era in un altro luogo ancora, mai visto prima. Era una stanza quadrangolare, un metro quadrato scarso, e di fronte a lei vi era una porta su cui era proiettato un conto alla rovescia.
Si toccò istintivamente la testa, come per assicurarsi che fosse tutta intera. Nel tastare i suoi capelli però si rese conto che erano tirati e pieni di gel, fermi in una acconciatura simile a una sottospecie di chignon articolato, ma sentiva anche vari fermagli e… fiori, sì.
Ricordava chiaramente di essere… morta; lei ricordava il dolore. Ma com’era possibile che fosse stato solamente un sogno? E Mimi? Anche lei era viva?
Ricordava anche il conto alla rovescia nei primi Hunger Games e di come qualche ragazzo era morto proprio perché era sceso dalla pedana prima del tempo, ma lì non vi era alcuna pedana.
Mentre rifletteva, però, l’occhio le cadde sul proprio vestito: sembrava un’enorme tovaglia – o al limite un telo per asciugarsi – attorcigliata attorno al suo busto, era leggera e morbida, celeste, piena di motivi articolati e cosparsa di fiori di loto; le maniche erano così ampie che ci sarebbe potuta entrare persino un’altra se stessa; un’enorme fascia rossa era stata passata più volte attorno al suo corpo, stringendola così tanto che faceva fatica a respirare, ed era legata in un grande fiocco dietro la schiena; la veste ricadeva sulle sue gambe, ma seppur di morbida stoffa, la gonna le impediva i movimenti, stretta e lunga fino a coprirle i piedi, su cui indossava dei calzini e dei sandali scomodissimi.
Improvvisamente sentì un boato lontano, come il rumore di un’esplosione, e qualche istante dopo lo sentì forte e chiaro alla sua sinistra, facendola scattare in quella direzione. Il cuore le batteva a mille per lo spavento e non riusciva a non chiedersi cosa fosse stato.
La voce di Titus Bartimeus Bones la riportò alla realtà, suggerendole che ora poteva aprire la porta in tutta tranquillità. O almeno così sperava. Ma non successe nulla quando girò la maniglia, era una porta normale.
Contemporaneamente a lei si aprirono altre porte, riversando fuori i restanti tributi. Notò che due porte erano completamente distrutte, dentro non vi era nessuno, ma vi erano alcuni segni di bruciatura sulle pareti vicino le stanze vuote, una delle due era proprio quella accanto alla sua. Si chiedeva chi ci poteva essere stato. Le salì il groppo in gola al pensiero che forse quell’orrenda sorte era toccata proprio a Ocean.
Puntò i suoi occhi al centro della sala e non poté fare a meno di essere rapita dal fascio di luce perpendicolare che emanava il corno d’oro appeso al soffitto. Si ritrovò subito a pensare a cosa diavolo fosse. Evidentemente le stramberie non erano ancora cessate.
Eppure quel fascio di luce l’attirò, forse perché non aveva mai visto qualcosa di così… strano e allo stesso tempo affascinante; voleva vederlo da vicino. E così spiccò a correre, fra quelle figure che nel giro di pochi istanti si sarebbero voltate in cerca delle loro prime prede.
La porta di Ocean scattò immediatamente dopo la fine del countdown, consapevole di doversi difendere e probabilmente di dover attaccare. Sebbene quell’armatura particolare pesasse e la ritenesse ingombrante, un po’ fu sollevato dal fatto che almeno sarebbe stato più difficile ucciderlo con quella addosso.
La sua testa però era affollata da mille pensieri. Aveva abbandonato Beryl in quel cassonetto e ora chissà che fine aveva fatto, se era sopravvissuta o morta… come lui. Ma, in verità, la domanda che lo attanagliava riguardava il perché non fosse morto.
Il suo sguardo azzurro fu subito catturato dal fascio di luce che spuntava dal piccolo corno d’oro appeso sul soffitto, esattamente al centro della stanza circolare. Ma ebbe un tuffo al cuore quando, dietro di esso, vide la figura di Beryl, quasi irriconoscibile, con tutta quella cipria bianca sul volto. Quando però la vide correre verso la luce, le sue paure aumentarono. Corse verso di lei senza neanche pensarci due volte, cercando di essere il più veloce possibile; si buttò volontariamente per terra, scivolando, per poi rialzarsi prontamente e afferrare il polso della compagna.
Beryl si voltò, per un attimo spaventata, ma quando sotto quello strano elmo – che sembrava più un caschetto di ferro ornato con due lunghe e alte corna d’oro – riconobbe gli occhi azzurri di Ocean, si sollevò e sfoggiò un sorriso.
« Vieni! » lo intimò, strattonandolo, come se così facendo avrebbe salvato la vita di entrambi. E prima che potesse replicare, Ocean fu investito dall'abbagliante getto di luce.
 
Atto IV – Colpi involontari e assassini appena nati.
Brick era furioso, avrebbe voluto prendere a pugni qualsiasi cosa. E lo fece, in realtà. Si mise a tirare calci e pugni contro le mura di quella minuscola stanza, ma cessò quando capì di star facendo male più a sé che… beh, dovunque fosse.
Insomma, che razzo di scherzo era quello? Quasi preferiva quella strana realtà – o sogno, non aveva ancora le idee chiare – con quell’inquietante tizio senza faccia. Tutto tranne dover ritornare a indossare la tuta che l’avevano costretto a mettere prima di entrare in quel tubo. Era il vestito più ridicolo che avesse mai visto. Beh, forse dopo quello che volevano fargli indossare per la sfilata. Portava stretti pantaloni bianchi a vita così alta che quasi gli arrivavano a metà petto, con alti stivali neri da fantino, una specie di frac blu con rifiniture rosse che lo faceva somigliare all’incrocio fra un perfetto soldato e un capitolino con un pessimo gusto nel vestire – e a parere di Brick avevano tutti un pessimo gusto nel vestire – a una di quelle stupide feste che organizzavano a Capitol City. E in più quella... giacca, o come doveva chiamarla, aveva persino le spalline dorate coi fronzoli. E magari fosse finita lì. Oh, no, doveva avere pure una gigantesca e orrenda feluca in testa!
Voleva uscire, andare lì fuori e spaccare tutto per la rabbia. Sì, avrebbe fatto proprio così.
I sessanta secondi terminarono, Brick strinse i pugni, digrignò i denti, spalancò la porta e uscì, voltò a destra e cadde a terra. Haylee, uscendo dalla sua stanza, non aveva minimamente notato il tributo dell’Otto e l’aveva centrato in pieno in faccia con la propria porta, di fatti quello era caduto a terra tramortito, gemendo di dolore e portandosi le mani alla testa.
Haylee, invece, si stava stupendo di come fosse riuscita a uscire dalla porta con quell’ingombrante vestito. I suoi capelli erano stati arricciati e tenuti in alto con non si sa quale prodotto – effettivamente molto resistente – che faceva rimanere i suoi capelli in alto, sfidando le leggi della gravità, come se fossero un casco compatto, ornati da un fermaglio di perle che faceva ricadere un piccolo e leggero velo nero che arrivava fino all’altezza del collo, dove vi era un enorme e pomposo collare bianco elisabettiano che le faceva vedere a fatica. Le spalline erano grandi e a palloncino, così come le maniche, mentre al contrario il corpetto era così stretto da farla respirare a fatica; e la gonna… era bianca con ghirigori dorati, così come tutto il vestito, ma in vita vi era un ferro che la manteneva rigida e decisamente troppo ingombrante. L’unica cosa comoda erano le ballerine piene di merletti ai piedi.
Abbassò lo sguardo a terra e, quando si rese conto di Brick steso accanto a lei, lanciò un urlo, spaventata dal fatto che avrebbe potuto attaccarla, e si mise a correre in una direzione a caso della stanza circolare, agitando le braccia.
Peccato per lei che quella reazione non fece altro che prendere alla sprovvista il giovane Benvolio, il quale, vedendo la ragazza urlare e correre non appositamente verso di lui, si precipitò a prendere una grossa scheggia di legno superstite della porta distrutta di Kenia e conficcargliela prontamente nel petto.
 
Atto V – Puttana di nome o di fatto.
Non l’allettava molto il fatto di essere vestita solo con qualche misero straccio di pelle di animale addosso, ma trovò il lato positivo nel constatare che meno vestita sarebbe stata e più sponsor avrebbe ricevuto. In realtà aveva domande ben più importanti di una simile preoccupazione, ma sapeva che il tempo non avrebbe aspettato che i suoi dubbi si chiarissero.
Così, Mason o non Mason, uscita di lì andò subito all’attacco, consapevole che se il compagno fosse stato vivo, avrebbe mantenuto il loro patto di alleanza, così come avevano stabilito negli appartamenti e come voleva Jewel.
Naomi si rese conto che non c'era traccia di armi, né della Cornucopia di cui la sua mentore aveva tanto parlato. Piuttosto, l'unica cosa simile al suddetto corno dorato era appesa al soffitto e l'unica... arma... che produceva era una lama di luce giallastra. Per un attimo si domandò se l'Arena si limitasse davvero a quell'unica stanza circolare in cui era capitata, perché non c'erano altre porte o vie di fuga visibili. Gli strateghi volevano semplicemente che i tributi quell'anno si uccidessero l'un l'altro finché non ne sarebbe rimasto soltanto uno? E con quali mezzi?
Naomi strinse i pugni e pensò che avrebbe dovuto dare spettacolo in ogni caso pur di ottenere sponsor e pur di salvarsi la pelle, per cui sarebbe stata capace di uccidere anche a forza di morsi e unghiate. Decise che avrebbe agito lo stesso e individuò subito qualcuno da ammazzare.
Fu felice nel constatare che la sua vittima era la ragazza del Distretto 12, quella che si diceva facesse la puttana. Lo trovò molto ironico da parte del destino.
Inaspettatamente per l’altra, Naomi le sferrò d'improvviso un pugno in pieno volto, facendola barcollare. Nymeria, tuttavia, le afferrò prontamente i capelli scuri, tirandoglieli, mentre la mora dell’Uno emetteva un grido contrariato. Dimenò le mani, trovando la pelle di Nymeria e lacerandola con le unghie, graffiandola in modo che sicuramente le sarebbero rimaste le cicatrici. Viso e braccia erano ormai scorticate, fino a che Nymeria si decise a trascinare l’altra ancora per i capelli e, con una spinta, la lasciò cadere nel fascio di luce, che la inghiottì.
Nymeria non si era resa conto neanche di cosa fosse esattamente successo, non aveva avuto il tempo di pensare una volta uscita dalla stanza, ma solamente di agire, e ora si rendeva conto che aveva spedito l’avversaria… Non lo sapeva, non sapeva neanche se quella strana Cornucopia portasse da qualche parte o uccidesse solamente. Forse quel fascio di luce disintegrava la gente, perché Naomi era... sparita nel nulla. Non c'erano altre spiegazioni, del resto.
« Naomi! » gridò una voce roca e possente alle sue spalle.
Neanche ebbe un istante per girarsi verso la persona da cui proveniva quel suono arrabbiato e spaventato al contempo, che due forti mani si avvolsero prepotentemente attorno alla sua gola, stringendosi su di essa e facendola accasciare a terra. L’intento di Mason, preso dalla vendetta, era quello di strozzarla, ma le sue braccia e i suoi miseri tentativi di graffiarlo o colpirlo, sembravano totalmente inutili.
« Lasciala! » gridò qualcun altro, qualcuno che alle orecchie di Nymeria suonò estremamente familiare. Jeremy si era avventato su Mason, cercando di afferrargli il collo a sua volta, ma quello lo buttò a terra con un brusco movimento della mano, tornando alla ragazza che sotto il suo peso continuava ad agitarsi come un pesce fuor d’acqua.
Jeremy si alzò, dolorante, guardandosi intorno in cerca di qualsiasi cosa per aiutare la compagna. Riluttante, si avvicinò al corpo di Haylee. Era morta? Forse non lo era ancora... Lo seppe per certo perché il petto le si alzava e abbassava, anche se raramente, ma, accecata dal dolore, non riusciva ad alzarsi.
Jeremy prese semplicemente il pezzo di legno dalle sue mani - se l'era tirato fuori dal costato per far diminuire il dolore, ma in realtà l'aveva soltanto peggiorato - a disagio, ma poi tornò comunque dalla compagna. Conficcò l'enorme scheggia nella schiena di Mason, che lasciò la presa sulla ragazza – la quale poté finalmente ricominciare a respirare normalmente – e si rotolò sul pavimento in preda al dolore. Jeremy gli si mise a cavalcioni e la punta di legno perforò il petto nudo del tributo del Distretto 1 così come in passato la bambina dell’Otto riempiva la sua bambola di aghi.
Nymeria si rialzò, ansante, guardando incredula il compagno; neanche Jeremy riuscì a credere di poter aver fatto una cosa simile, ma dopo qualche breve cenno del capo, prese la mano della compagna e si tuffò nel fascio di luce assieme ad essa, sperando di trovare in esso una via di fuga.
 
Atto VI – Una principessa da salvare.
Non era ripugnante il fatto di dover indossare la parrucca di un caschetto nero, solo che era più pesante di quello che immaginava e semplicemente il nero era un colore troppo scuro per lei, avrebbe tanto voluto indietro i suoi veri capelli. Vedeva altri avversari riversarsi nella mischia, uscendo dalle proprie stanze, e si soffermò ad analizzare la stanza. Era circolare e vi erano delle porte disposte su tutto il perimetro, tranne due che erano esplose, entrambe abbastanza lontane da lei. Ognuna delle porte però riportava un numero inciso sopra. Sembrava essere all’interno di un orologio, i numeri andavano da uno a dodici, ma le porte erano ventiquattro e Ty notò che ogni numero si ripeteva due volte. Le porte con lo stesso numero erano sempre disposte esattamente l’una opposta all’altra; notò anche che mancavano una porta del Cinque e una dell’Otto, ma non si soffermò a vedere quali tributi vi erano o no.
Individuò, come aveva intuito, la porta col numero Due esattamente dalla parte opposta alla sua e, senza soffermarsi a riflettere, spiccò una corsa per attraversare la baraonda di tributi che si stava creando.
Qualcuno le piombò addosso, ma – forse per l’adrenalina che le circolava in corpo – lo respinse indietro nella massa senza neanche vedere chi fosse.
Si chiedeva, però, come mai la porta col Due fosse ancora chiusa. Abbassò la maniglia, cercando di aprirla, ma quella sembrava bloccata. Bussò violentemente alla porta, gridando il nome del marito.
« Ty? Ty! » gridò l’altro di rimando. La porta che li separava faceva arrivare la voce ovattata sia all’uno che all’altro. Perry bussò di rimando. « Sono rimasto bloccato, non riesco ad aprire la porta! »
La diciottenne alzò gli occhi al cielo, pensando che una cosa del genere potesse capitare solo a lui. « Va bene, spostati » ordinò alla fine, esasperata.
Perry, una volta che si era ritrovato lì dentro, aveva provato ad aprire la porta, ma non ci era riuscito, deducendo che forse si era incastrata e la sua preoccupazione fu quella di rimanere lì dentro fino a che sarebbe morto di solitudine e di fame.
Si ritirò contro la parete non appena la moglie glielo ordinò e, dopo una serie di colpi, Ty riuscì a sfondare la porta a calci.
« Oh, cielo » mormorò la ragazza, inorridendo non appena vide il vestito di Perry. Anche lui indossava la parrucca col caschetto nero, coperta da un copricapo da faraone con una testa di serpente scolpita nell’oro, il panno che gli ricadeva sulle spalle era a righe nere e oro, indossava quel che sembrava una lunga gonna di lino, in vita una cintura sempre a righe e attorno al collo anche lui portava una grossa collana d’oro; in mano teneva un lungo scettro d’oro anch’esso scolpito con la faccia di un serpente. Se non fossero stati in pericolo di morte, di certo avrebbe riso e l’avrebbe preso in giro per il resto della sua vita.
Perry invece strabuzzò gli occhi verdi, affascinato dalla lunga veste di lino che accentuava le forme – seppur non molto sviluppate – di Clarity, ornata con bracciali e una massiccia collana d’oro. « Sei bellissima » farfugliò.
Ty non aspettò neanche un istante, lo prese in braccio come aveva fatto la sera prima dopo il matrimonio e pregò con tutto il cuore che qualcuno non si impossessasse di chissà quale arma e li facesse fuori in due secondi, mentre si affrettava a correre il più rapidamente possibile nella mischia.
« Ti pare il momento di farmi i complimenti? » sbottò quella, agitata.
Perry ritirò il collo nelle spalle, borbottando qualcosa come « Ma è la verità » o « Potrebbe essere l’ultimo » ma la giovane moglie non gli badò.
Inciampò su qualcosa, o meglio la mano di qualcuno l’aveva afferrata per la caviglia e aveva fatto cadere sia lei che suo marito, che si lasciò sfuggire lontano lo scettro. Si sentì trascinare indietro e cercò inutilmente di affondare le unghie nel pavimento e aggrapparsi a qualcosa. Perry, stordito, cercò di tirarsi su, ma appena notò la ragazza in difficoltà, si precipitò a tirarla verso di sé per le mani. Ty si sentiva come una fune tesa. Sentì le unghie dell’aggressore penetrarle nella carne della gamba e lacerarla; lanciò un grido, cercando di divincolarsi, poi, mentre Perry cercava di sottrarla alle grinfie del suo probabile assassino, lanciò uno sguardo per vedere chi fosse e riconobbe la ragazza del Distretto 3, di cui però non ricordava il nome. La bionda conficcò una delle sue forcine nella gamba della castana con violenza, come se fosse stato uno spillo; Ty gridò ancora e le assestò un bel calcio in viso, che le fece lasciare la presa e che, se non le avesse rotto il naso, sicuro le avrebbe lasciato un grosso livido evidente.
Perry la fece alzare immediatamente, attirandola a sé. Nate, però, ripartì immediatamente all’attacco. Rispetto a molti altri nella stanza era avvantaggiata dal fatto che il suo vestito non fosse ingombrante, era una semplice stoffa che le scendeva lunga fino a piedi, ai quali indossava dei sandali, e appuntata con una grossa spilla dorata sulla spalla, fresca e leggera, le permetteva dei fluidi movimenti; inoltre il suo staff le aveva arricciato i capelli e fatto un’acconciatura alla greca, così che non avesse i capelli d’impiccio.
La bionda afferrò i capelli di Ty per trattenerla, ma ciò che strinse fra le mani e che scivolò dal capo della castana, fu solo la parrucca nera ornata di gioielli. Strabuzzò gli occhi per qualche istante che le fu fatale, visto che Ty le diede un pugno sempre in pieno viso. Adirata, Nate l’agguantò le un braccio e le graffiò la faccia con le lunghe unghie affilate, facendola gemere.
« Lasciala! » gridò Perry, intervenendo, e scaraventando l’avversaria lontano da sua moglie con una spinta. La tributa del Distretto 3 perse l’equilibrio e cadde nel fascio di luce generato dalla Cornucopia, svanendo magicamente.
Perry sgranò gli occhi, con Ty ansimante al suo fianco. « Ho quasi picchiato una ragazza » farfugliò, stupefatto. La ragazza si ritrovò ancora una volta ad alzare gli occhi al cielo, visto che per poco non ci restavano secchi per colpa di quella. Ma a gelarle il sangue fu la frase che seguì: « Dovremmo attraversarlo anche noi. »
Voltò la testa di scatto, guardando il marito come se fosse uscito del tutto di senno. « Sei impazzito? Quel coso fa sparire la gente chissà dove! Magari la uccide! »
« Sempre meglio che venire uccisi comunque da probabili assassini che fino a ieri pensavi fossero pezzi di pane » alluse ai vari combattimenti che stavano avvenendo alle loro spalle.
Ty gettò un’occhiata indietro, dubbiosa. « E se c’è ancora quella psicopatica? » chiese, timorosa, vedendo però che già qualche altro tributo li aveva adocchiati e stava per venire verso di loro.
Perry le strinse saldamente una mano. « Ce la siamo cavata piuttosto bene prima. » E così, anche se Clarity Valentine non era convinta del tutto di quell'affermazione, i due saltarono assieme dentro quel fascio di luce e sparirono come gli altri prima di loro.
 
Atto VII – Nastri e flauti.
Rimase con la mano tesa verso la maniglia, ma non la aprì. Attese, incerta.
Il suo staff le aveva tagliato i capelli neri e ora erano corti poco sotto le orecchie, solo le due ciocche più avanti finivano con le punte verso l’alto, per il resto erano così impregnati di gel e lacca che sembrava l’avesse leccata una mucca, decorati con un nastro attorno alla testa che richiamava le paillettes del vestito e una lunga piuma che spuntava dall’accessorio. Per non parlare che indossava un corto vestito nero, le arrivava poco sopra il ginocchio, aveva delle spalline sottili e una profonda scollatura che cercava di coprire con una lunga collana di perle, tutto pieno di fronzoli e paillettes d’oro e argento; le stava come una scura tovaglia con quattro stecchetti come braccia e gambe, vista la sua totale assenza di curve. Per finire i tacchi non eccessivamente alti ai suoi piedi facevano rumore al minimo spostamento. Sarebbe stato facile farsi scoprire con quelle addosso, se ci fosse stato bisogno di mimetizzarsi. Per non parlare dei lunghi guanti e del boa di piume – e non come quello che aveva portato la tributa del Distretto 1 alle interviste – di un colore così acceso di rosa che le dava alla testa.
Go non voleva uccidere, aveva paura come era lecito, ma si attaccò al pensiero che forse, se fosse rimasta lì dentro, nessuno avrebbe notato la porta chiusa nella confusione, si sarebbero dimenticati di lei e, quando sarebbe potuta uscire, avrebbe escogitato un piano.
Purtroppo per lei la porta si spalancò ed entrò una ragazza poco più alta di lei. I capelli neri erano legati in una retina di perle, sulla pelle pallida spiccava una piccola catenina con una croce che riempiva il vuoto nella parte del collo. Il vestito era interamente color rosso sangue, con piccole rifiniture e motivi in oro; stretto al petto, non c’era nulla da accentuare, un nastro con un fiocco era legato proprio lì sotto, dove poi partiva alta la lunga gonna che toccava terra come uno strascico, dove sotto vi erano nascoste un paio di ballerine dal tessuto morbido; le spalline erano grandi e a palloncino, mentre poi le maniche erano strette e terminavano in un bordo pieno di merletti.
Go riconobbe che era la tributa del Distretto 6 solamente dal sadico sorriso che aveva in volto. Appena la vide le si gelò il sangue, consapevole di essere con le spalle al muro.
Wednesday si sfilò velocemente il nastro col fiocco sotto al petto, all’attaccatura della gonna, e si avventò contro la dodicenne, cercando di strozzarla. La buttò a terra e le montò sulla schiena, tenendo teso il nastro con cui avvolgeva stretta la gola dell’asiatica. Go cercò di afferrare il nastro con le mani, ma non riusciva ad allentarlo e presto sentì l’aria mancarle.
Furtiva, la minore sollevò uno dei guanti, dove sul braccio vi era nascosto il vecchio e piccolo flauto di sua nonna. Diede un colpo alla cieca dietro di sé e sentì di aver colpito qualcosa di duro, probabilmente la testa dell’avversaria. Si voltò rapidamente, saltandole addosso e cercando di soffocarla col boa.
Wed si dimenava furiosamente sotto il peso dell’altra, agitando le braccia per scaraventarla di lato, ma quella non demordeva. Quando però riuscì a conficcarle le dita negli occhi, la ragazza dell’Undici emise un gemito e allentò la presa, portandosi le mani sul viso. Wed ne approfittò e, strappandole via il flauto, lo utilizzò per colpirla in testa e tramortirla, così tante volte fino a che il capo di Go non si deformò.
 
Atto VIII – Intelligenza e istinto.
Elle cominciò a capire dopo pochi secondi che qualcosa non andava. In realtà l'aveva già intuito da tempo – più precisamente quando gli avevano fatto ingerire quella pillola bianca con lo stemma di Capitol City – ma ora che quei tributi erano finiti in quel curioso fascio di luce dorata e dal momento che non sembravano esserci altre uscite da quella stanza circolare... le carte in tavola cambiavano.
Quel fascio doveva essere l'uscita. Era assurdo, ma non c'era neanche l'ombra di altre spiegazioni razionali. Era l'unica possibilità.
Elle decise che per salvarsi la vita avrebbe dovuto gettarvisi come avevano già fatto altri tributi.
Scattò in direzione della luce con velocità, nonostante il suo costume fosse scomodissimo, sperando di scansare i tributi che gli si paravano davanti, ma prima che potesse anche solo realmente avvicinarsi un ragazzo gli si fiondò addosso.
« Non la toccare! » gridò questo, facendolo cadere sul pavimento e cadendo insieme a lui. « Non ti azzardare neanche! »   
Elle sbatté leggermente la testa a terra e tutto divenne confuso per qualche secondo. Di chi stava parlando? Della sua ragazza?
Non appena riconobbe nel proprio assalitore il ragazzo del Sette capì che, sì, probabilmente stava cercando di proteggere quella che tutti credevano fosse la sua ragazza, poco distante da loro, anche lei vicina al fascio di luce e in posizione d'attacco.
Cercò di riprendersi il più velocemente possibile, contrattaccando non appena lo stordimento della botta cessò. Bloccò i polsi di William – ricordava il suo nome, aveva sempre avuto una memoria eccezionale – nonostante la momentanea debolezza e, dopo aver caricato una ginocchiata nel suo addome, invertì le posizioni, sovrastandolo con il proprio corpo.
Lottarono lì sul pavimento per qualche minuto, quasi disperatamente, con la sola forza di calci e pugni. Dopo poco Elle decise in un angolo della sua mente che quel combattimento era assolutamente inutile: nessuno dei due sarebbe morto così, perché erano entrambi molto abili nel corpo a corpo, ma non avevano affatto intenzione di uccidere, lo si leggeva nel loro sguardo.
Il ragazzo del Distretto 3 si alzò e si allontanò di qualche passo da Will, pur mantenendo i pugni in alto in posizione di difesa e il proprio sguardo puntato su di lui per controllare che non azzardasse qualche mossa pericolosa. Poi fece un mezzo sorriso ermetico, alzando appena gli angoli delle labbra. « Ci vediamo in Arena » disse Elle, facendo improvvisamente dietrofront e lanciandosi in un balzo verso il fascio di luce dorata.
Will rimase totalmente sopraffatto da quella sequenza di scene, così tanto che quasi non si accorse del corpo del suo avversario che spariva di botto nel fascio, come per magia.
All'improvviso qualcosa scattò nella sua testa: quel tipo si era gettato volontariamente... e lui era il genio del gruppo, quello del Tre. Non poteva essere stato tanto stupido da suicidarsi, quel gesto sconsiderato doveva per forza avere un'altra spiegazione.
Forse quella luce aveva la capacità di smaterializzare la gente... o qualcosa del genere. In quel momento non aveva neanche il tempo di ragionare sensatamente.
Si guardò attorno per un breve istante e vide altre minacce, altre persone che volevano ucciderlo. E poi, a qualche metro di distanza... Jamie. Doveva proteggerla, ne andava della propria vita. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvarla, ne era più che certo.
Jamie lo stava guardando di rimando con occhi colmi di paura, come se si fidasse di lui ma avesse paura di ammetterlo.
« Vieni! » le gridò Will all'improvviso, correndo verso di lei, afferrandole un polso e gettandosi insieme nella misteriosa luce dorata.


Atto IX – Homo homini lupus.
Che cosa aveva appena fatto?
Benvolio guardò la ragazza che aveva trafitto con uno spuntone di porta distrutta barcollare e poi cadere con un tonfo, tra tulle, stoffa e velluto. La fissò per qualche istante, incapace di muovere un muscolo. Non avrebbe mai pensato che uccidere gli facesse quell'effetto: l'aveva bloccato, annientato. Era questo quello che a Capitol volevano? Era questo che faceva tanto divertire i capitolini, una vendetta ingiusta e immotivata?
Benvolio ricordava ancora la rivolta, i campi di grano bruciati, il mulino distrutto, il sangue in piazza e le sparatorie all'ordine del giorno. Erano morte già abbastanza persone, ribelli compresi, ma la capitale non aveva ancora soddisfatto la propria sete di sangue... e Adamas Rigel nemmeno.
In quella stanza circolare ormai regnava il caos e Benvolio fu costretto a darsi una mossa per non essere ucciso a sua volta. Incredibile, nonostante tutto, come il suo istinto lo stesse salvando da una situazione paradossale, in cui tutti cercavano di uccidere tutti pur di salvarsi la pelle. Forse era proprio quello stesso istinto che l'aveva spinto ad uccidere la ragazza del Sette. Una volta qualcuno diceva "homo homini lupus", l'uomo è un lupo per l'uomo. Non poteva esistere detto più appropriato, in quel momento. La loro parte animale stava vincendo su quella razionale, per dare spazio alla sopravvivenza, nuda e cruda.
O la morte o la vittoria, non esistevano vie di mezzo.
Benvolio lasciò Haylee sanguinante e moribonda sul pavimento, pronto a trovare una nuova vittima o qualcosa con cui difendersi. Si stupiva di se stesso: certo, al Nove gli era capitato di partecipare a qualche rissa, ma non avrebbe mai immaginato di poter pensare in questi termini. E si sentiva male, per questo, ma non aveva scelta. Doveva tornare a casa.
Nella confusione generale vide corpi e volti che non era in grado di riconoscere lucidamente; qualcuno sparì nel fascio di luce verticale in mezzo alla stanza, senza lasciare traccia.
Una vocina nella sua testa gli suggerì di buttarsi a sua volta – sembrava la soluzione più allettante, in quel momento di panico –, ma Benvolio desiderava soltanto attaccare, e attaccare ancora.
Uccidere gli aveva donato quella sensazione che, pur non ammettendolo, ogni essere umano vorrebbe provare almeno una volta nella vita: il potere. Avere il potere di disporre della vita di altre persone aveva scioccato, disturbato e allettato al contempo Benvolio. Una contraddizione calzante, se paragonata al tumulto che stava abitando il suo cervello.
In quell'istante qualcuno gli andò a sbattere contro malauguratamente e Benvolio ringraziò che il suo frac nero ottocentesco – ancora non era riuscito a capire il perché di quella scelta degli stilisti – avesse le spalline imbottite e che non gli fosse caduto il cilindro da testa.
Senza neanche pensarci o accertarsi di chi fosse, diede uno spintone molto più forte alla persona che gli era capitata a tiro, facendola cadere a terra con un gemito.
La ragazza si ritrasse con un verso di paura e dolore, strisciando di qualche centimetro sulle assi fredde con gli occhi spalancati sul proprio assalitore. « A-aspetta... » balbettò lei, in panico.
Quella voce lo restituì finalmente alla realtà, facendolo impallidire per ciò che stava per fare.
Phoebe. Stava per uccidere Phoebe. Melanie o meno, era certo che nessuna delle due gliel'avrebbe mai perdonato.
« Scusa » mormorò, prendendola per una mano e aiutandola ad alzarsi. « Non mi ero reso conto che... » scosse la testa, interrompendosi. « Vieni, dobbiamo andarcene! »
« E come? » chiese Phoebe. « Non ci sono vie d'uscita, a parte... »
Benvolio le indicò il fascio di luce con un cenno evidente del capo e così entrambi, dopo un leggero tentennamento della ragazza, vi si gettarono con una breve rincorsa come se ne valesse della loro vita.
E in effetti era così.   
 
Atto X – Ombre sul muro.
Detestava ammetterlo, ma era terrorizzata. Non aveva mai sentito così tanta paura scorrere nel proprio corpo, una paura che le abitava nel sangue ma che non la paralizzava. La rendeva più lucida, le permetteva di agire per puro istinto di sopravvivenza.
E, d'altronde, Lila aveva dovuto sopravvivere per la maggior parte della propria vita, da quando ne aveva memoria; questo Bagno di Sangue – con le dovute proporzioni – non era poi così diverso dalla realtà che conosceva.
I giorni della rivolta erano ancora vividi nella sua testa e non si sarebbero spenti tanto facilmente, per cui l'avrebbero aiutata a non rimanere uccisa in quella carneficina.
La prima cosa che aveva fatto, quando era uscita dalla propria porta, era stata schiacciarsi contro il muro immediatamente vicino. Complici gli abiti da poveraccia che le avevano fatto indossare, neanche fosse una spazzacamini, non era stata ancora notata da nessuno. Quegli stracci erano brutti a vedersi, ma per sua fortuna estremamente comodi e utili – e non poi tanto lontani all'idea di abiti a cui era abituata lei – rispetto ad altri costumi che aveva visto in giro.
Si era domandata con velata curiosità, e forse preoccupazione, perché gli strateghi avessero deciso di spedirli in arena con abiti di epoche storiche tutte diverse. Non che avesse avuto il tempo di rendersene conto appieno, ma aveva fatto caso che ogni coppia di tributi per ogni distretto aveva un tema comune: individuò Ryder da lontano, ma senza osare avvicinarsi, con gli abiti di un povero contadino, con tanto di basco e piedi scalzi.
I suoi occhietti rapidi vagarono per qualche minuto sulla scena che si andò a generare: disordine totale, tributi trafitti, tributi che si gettavano nel fascio di luce al centro della sala. Il tempo sembrava trascorrere quasi a rallentatore e Lila riuscì a vederne ogni fotogramma, come uno spettatore esterno.
Fa' che non facciano caso a te, si diceva, strisciando silenziosa contro la parete, come un'ombra sul muro.
Per qualche istante si concentrò solo sulla luce che cadeva verticalmente dalla piccola Cornucopia dorata posta sul soffitto – ma non era gigante e piena di oggetti, l'anno scorso? –, cercando di capire che cosa fare. Non c'erano armi, a parte gli spuntoni delle due porte esplose, non c'erano vie di fuga e pian piano tutti i tributi stavano scomparendo nel fascio di luce.
Quando vide anche L, il ragazzo del Tre, gettarsi a sua volta dentro di esso e dissolversi come fumo, Lila cominciò a considerare seriamente di imitarlo: era lui il più intelligente, dopotutto, forse aveva capito il meccanismo dell'arena e seguirlo poteva essere un buon punto di partenza.
Quasi in cenno d'assenso ai suoi pensieri, qualcosa squittì nell'unica bisaccia – all'inizio vuota – di cuoio che le avevano dato. La testa di un piccolo topolino bruno di campagna spuntò dalla tasca anteriore e Lila fu costretta a ricacciarlo dentro.
Ken, non dobbiamo farci scoprire!, pensò, ma naturalmente il suo topolino portafortuna non poteva sentirla pensare. Ken, per fortuna – e qui Lila pensò con velata ironia che al tributo dell'8 forse avrebbe fatto piacere sapere che c'era qualcun altro con il suo stesso soprannome – rimase nella borsa e non squittì più, come se avesse percepito la paura e l'adrenalina dell'amica.
Fu sul punto di gettarsi nella mischia per attraversare il fascio di luce, ma un movimento praticamente accanto a lei la distolse dall'intento: proprio lì, schiacciato al muro esattamente come lei, se ne stava il tributo dell'Undici, vestito con uno smocking color panna dotato di panciotto beije, cravatta dorata e gemelli sulle maniche. Il fazzoletto che era prima infilato nel taschino sul petto ora gli asciugava la fronte imperlata di sudore freddo.
« Credi che non ci noteranno, così? » chiese il ragazzo, a dir poco ingenuamente.
Lila lo guardò stupita. Come aveva fatto a non accorgersi di lui? Da quanto tempo cercava di passare inosservato – con ottimi risultati – come lei? Rimase in silenzio, fissandolo senza sapere cosa dire o fare. Logan – o Jeyl, come si faceva chiamare – tuttavia, non aveva l'aria di qualcuno intenzionato ad ucciderla.
Lila gli fece un segno leggero verso la Cornucopia, poi scattò verso il fascio di luce, immergendosi e scomparendo dentro di essa.
Jeyl rimase solo qualche secondo a fissare il punto in cui Lila si era dissolta, prima di seguirla.
 
Atto XI – Gli ultimi saranno i primi.
Il caos si era quasi spento del tutto. La maggior parte dei tributi – tra quelli ancora in vita – si era lanciata nel fascio di luce con la speranza che fosse una via di fuga da quell'assurda stanza circolare, ma due persone stavano ancora combattendo all'ultimo sangue. Si trattava dei tributi dell'Otto e del Dieci, che si erano scagliati contro l'uno contro l'altro per mancanza di altri avversari.
La lotta durava ormai da molti minuti e Brick sentiva di essere più stremato del dovuto: il labbro inferiore era spaccato e le costole gli facevano male per i pugni disperati dell'avversario.
Tuttavia, anche Ryder non era messo meglio, visto che un ematoma violaceo si andava sempre più delineando sulla sua guancia sinistra.
Continuarono quell'assurdo e violento combattimento corpo a corpo per quelli che sembrarono secoli, ma alla fine entrambi caddero a terra privi di forze, con il respiro mozzato dalla fatica.
Ryder fu il primo a ragionare seriamente e, approfittando della distrazione momentanea di Brian, si rialzò a tentoni fino ad arrivare al fascio di luce: quella di buttarsi dentro di esso era l'unica e ultima soluzione.
Inutile aggiungere che anche l'altro tributo, convinto di essere l'ultimo rimasto, non vide altra scelta che gettarsi a sua volta, per non rimanere a fare compagnia ai cadaveri. Era proprio il caso di trovare un rifugio e sperare che gli sponsor gli mandassero qualche antidolorifico per i muscoli e le ossa affaticati dal combattimento.
Anche Brick, come molti altri prima di lui, scomparve misteriosamente nella luce della piccola Cornucopia dorata.
Una delle due porte con l’Undici inciso, però, scricchiolò aprendosi lentamente. Una ragazzina uscì dalla piccola stanza, il suo vestito era sporco di sangue, ma era difficile distinguerlo visto la tonalità di rosso dell'abito; alle sue spalle, il cadavere di una bambina col cranio sfondato. Ma Wednesday non si voltò indietro.
Osservò la stanza circolare con la Cornucopia, ma ora era completamente vuota. Se ne erano andati tutti, ma c'erano due cadaveri stesi a terra. Andò vicino ad uno di essi: era la ragazza rossa del Distretto 7, con il petto e le mani completamente insanguinati; poi si spostò verso il bestione, era quello dell'Uno, rivolto a pancia all’ingiù e con la schiena piena di pugnalate.
Sorrise quasi impercettibilmente, perché in realtà non le importava più di tanto di quei due corpi. Puntò verso la stanza dell’Otto, quella senza porta e con le pareti bruciacchiate vicino ad essa. Ovviamente era vuota, la porta era saltata in aria e i pezzi di legno – quelli non disintegrati – erano sparsi per terra. Però a Wednesday colpì una strana curiosità, notando qualcosa all’interno della stanza. Avanzò, senza paura, fino a raccogliere Betty da terra, stranamente intatta.
« E tu? » l’apostrofò la dodicenne. La osservò e in lei nacque pian piano un senso di nuova eccitazione. Kenia era letteralmente esplosa e quella bambola era rimasta immacolata. Non era una cosa normale. Ma questi interrogativi passarono in secondo piano quando Wednesday si rese conto che ora era in suo possesso, il segreto di Kenia che aveva scoperto da tempo ora era nelle sue mani e l’avrebbe potuto usare come più le pareva.
Improvvisamente si sentì osservata e fece scattare la testa fuori dalla porta, ma non c'era nessuno. Uscì da lì, fermandosi davanti alla Cornucopia e abbassando la testa alle due bambole – invece che una – che teneva fra le braccia.
« Sembra che abbiamo una nuova amica, Maria Antonietta » annunciò, chiedendosi se anche Betty fosse così soddisfacente da decapitare.
 
Atto XII – Riflesso.
Era come vedere la sua caduta, il suo fallimento, ma da un altro punto di vista. Si voltò attorno, ma era completamente circondato da centinaia di sue immagini riflesse: davanti, dietro, destra, sinistra, in alto e persino sul suo pavimento. Dovunque vi era il suo volto sfregiato, i suoi ridicoli vestiti, non riusciva a vedere né finestre, né porte, né niente, solamente specchi.
Quello doveva essere un incubo, pensò, il suo peggior incubo.
« E’ uno scherzo? » gridò all’aria, sperando che gli strateghi lo sentissero, benché sapeva che nessuno gli avrebbe risposto.
Strinse i pugni, più furioso che mai, e si strappò il farsetto di dosso, rimanendo impigliato per poco in tutti quei lacci inutili e fastidiosi. Si limitò a tenersi la camicia, sebbene volesse sbarazzarsi dell’intero ridicolo costume.
Prese a correre, cercando di arrivare a una porta e l’agitazione crebbe in lui quando vide tutte quelle immagini riflesse fare esattamente la stessa cosa. Improvvisamente, però, andò a sbattere contro uno di quegli specchi, non prestando attenzione a dove stava andando. Si massaggiò il naso, in preda a un dolore lancinante e quando osservò la propria mano la ritrovò insanguinata. Si tastò ancora il naso e si guardò allo specchio: stava proprio sanguinando, probabilmente si era rotto il naso perché il liquido rosso sgorgava come un fiume in piena, e aveva anche la fronte tutta rossa per l’impatto con lo specchio, su cui vi era impresso il suo sangue.
Non poté fare a meno di rivolgere il proprio sguardo all’ustione che suo padre gli aveva provocato anni fa, marchiandolo a vita e rovinandogli metà viso.
Ringhiò a se stesso nello specchio e lo frantumò con un pugno deciso, preso dalla rabbia. Quello si distrusse in mille pezzi, ma Zhu strinse la propria mano che ora gli provocava delle fitte sia per il pugno sulla pietra di prima che per l’impatto di ora.
No, non poteva permettersi di apparire debole. Cercò di controllare le proprie emozioni, ricordandosi che lo stavano osservando in tutta Panem, quasi sicuramente anche suo padre e sua sorella.
Prese a correre nuovamente, tastando gli specchi con le mani e segnandoli col sangue per capire in quale percorso fosse già passato e in quale no. Ma più avanzava, più voltava gli angoli di specchi e più gli sembrava di essere in un enorme e infernale labirinto in cui la sua paura era proprio se stesso.
Fino a che gli sembrò che tutti gli specchi fossero pieni di sangue. Il suo sangue.
 
Atto XIII – Lisa.
Ad L sembrò di essere trascinato nell'aria alla velocità della luce, ma solo per pochi e brevissimi secondi. Quando riaprì gli occhi, infatti, si trovava ancora una volta in posizione eretta, ben saldo sulle proprie gambe, seppur con la sua solita postura gobba.
Sbatté piano le palpebre e si guardò intorno.
L'ambiente era colorato di una calda luce soffusa, prodotta dai candelabri appesi alle pareti e dal grande lampadario ugualmente fatto di candele sopra la propria testa. Sembrava di trovarsi nell'elegante atrio di una magione, e la sua tesi venne confermata da due rampe di scale che, alla sua destra e sinistra, si diramavano verso il piano superiore.
Di fronte a sé c'era un grande camino spento, sul quale erano poggiati piccoli cimeli apparentemente preziosi. Sopra di essi, ancora, spiccava in maniera particolare un quadro dall'ottima fattura: L sapeva che la Mona Lisa, o Gioconda, era stato uno dei dipinti che più aveva fatto parlare di sé, prima della fondazione di Panem, ma era andato probabilmente perduto. Quella doveva essere, dunque, una copia ben fedele. Tutti i dettagli sembravano al loro posto, la tecnica era perfettamente copiata dall'originale.
L si chiese se quella non fosse la vera Mona Lisa, ma le probabilità gli suggerivano che mai gli strateghi avrebbero sprecato un simile capolavoro per gli Hunger Games se l'avessero davvero avuto tra le mani. Nonostante ciò, L si rese conto che quel dipinto sortiva su di lui l'esatto effetto di cui la gente tanto aveva parlato negli anni: lo sguardo della donna ritratta sembrava seguirlo qualsiasi movimento facesse. Era come se i suoi occhi fossero vivi e potessero spostarsi a loro piacimento per osservare i tributi.
L, neanche si trovasse davanti a una persona in carne ed ossa, ricambiò lo sguardo, assottigliando le palpebre. La Gioconda, naturalmente, non fece alcun movimento, restandosene ferma nella sua posizione statica, seduta con una mano appoggiata sull'altra e il misterioso sfondo alle spalle. L trovò il suo sorrisetto, accentuato dall'assenza delle sopracciglia, inquietante, oltre che enigmatico. Come se fosse un avvertimento.
Scosse la testa tra sé a quelle considerazioni e fece per voltarsi per andare ad esplorare la villa, ma una voce lo bloccò. « Aspetta, Elle Lawliet. »
Un brivido quantomeno inaspettato scese lungo la colonna vertebrale di L. Chi aveva parlato? Ma, soprattutto, come faceva a conoscere il suo vero nome?
Era una voce di donna, non aveva alcun dubbio; si guardò intorno, ma non vide nessuno... eppure quella voce gli era sembrata così vicina... Si disse che probabilmente era stata quella pillola a provocargli delle allucinazioni, uditive o visive che fossero, e che non doveva lasciarsi ingannare.
Prima ancora che potesse nuovamente voltarsi, però, la voce irruppe di nuovo: « Non puoi andartene. Non ancora. »
L alzò lo sguardo sul dipinto e notò che gli stava ancora sorridendo. Possibile che...?
« Perché non posso? » chiese lui.
La Mona Lisa sbatté le palpebre e L pensò che il suo cuore si fosse fermato. « Devi prima risolvere questo indovinello per me » disse la donna nel dipinto, tranquilla. « Se indovinerai, potrai andare, altrimenti morirai. »
L la fissò negli occhi per qualche istante, poi annuì: se quel quadro era una sorta di Sfinge greca, allora lui avrebbe risolto l'indovinello per proseguire i suoi Giochi.
« Sono pronto » disse con voce atona.
« Dunque » cominciò lei,  « un uomo se ne sta tranquillo in un laghetto a pescare, sulla propria barca, ma ad un certo punto una folata di vento gli fa cadere il cappello in acqua, poco lontano. Come lo prende, il cappello? »
L capì immediatamente che quello era un indovinello a trabochetto: la risposta era scontata, ma restò qualche minuto a pensare ai possibili giochi di parole che gli avrebbero potuto dare la soluzione. La sua mente fredda e razionale si concentrò sulla risposta più plausibile – e comica, al contempo – che gli era balenata all'improvviso.
« Bagnato » rispose con un sorriso leggermente soddisfatto. « Lo prende bagnato, il cappello. »
Lisa rimase in silenzio per qualche istante, facendogli pensare che, avendo indovinato, fosse tornata ad essere un quadro normalissimo.
L, finalmente, si sentì libero di andarsene e si allontanò di qualche passo, prima che la voce della donna lo interrompesse di nuovo. « Sbagliato. Il cappello lo prende con le mani. »
L ebbe giusto il tempo di lasciarsi pervadere dalla rabbia mista a stupore e delusione, che nel girarsi ancora una volta verso il quadro fu stroncato da un repentino arresto cardiaco che pose fine alla sua vita, facendo cadere il suo corpo a terra, sul parquet costoso.
Lisa lo osservò, mantenendo il suo sorrisetto enigmatico. « Viene notte e cavaliere, Elle Lawliet » disse, prima di tornare a essere nient’altro che una immobile donna dipinta.
 

 

Il vero guaio della guerra moderna è che non da a nessuno l'opportunità di uccidere la gente giusta.

(Ezra Pound)















 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Comunque ogni volta a fine del foglio word dobbiamo scrivere di ricordarci di scrivere (?) le note, che sennò ce ne scordiamo sempre di prendere appunti sulle cose da dire.
Ci scusiamo immensamente per il ritardo, sappiamo tutti di chi è la colpa, ma sorvoleremo. E dire che volevamo fare un capitolo corto.
Come mai i vestiti sono tutti diversi?
Che diavolo è questa Cornucopia? Perché è una fottutissima Passaporta, sempre che lo sia veramente?
Dov’è finito Zhu? E dove sono gli altri?
Lo scopriremo nella prossima puntata del Pandaivols’ Show!
Quindi diciamo che con questo capitolo potete iniziare seriamente a fare le scommesse e, soprattutto, a raccogliere sponsor per i tributi che vi sono stati assegnati. A breve, tipo la prossima settimana o giù di lì, pubblicheremo il listino prezzi con ciò che potrete mandare ai vostri protetti, sempre se lo vogliate. In caso contrario, in realtà, sareste delle cattive persone, ma va bé.
Riassumendo, in ordine i morti sono: Kenia, Jason, Haylee, Mason, Go e L.
Detto ciò vi salutiamo perché non abbiamo più sbatti né di scrivere né di aspettare.
Però vi meritate un'immagine bonus -> [x]

 
Bao e cotolette... O dovremmo dire "viene notte e cavaliere"? #spoiler
 
pandaivols.

 

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