Saving Sherlock Holmes [Traduzione di miseichan]

di earlgreytea68
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

autrice: earlgreytea68
traduzione di miseichan

 

 

Riassunto: Sherlock Holmes, studente. Sì, in pratica è tutto. 

 

 

Note autrice: Okay. Allora. Questo in origine doveva essere una specie di prologo dello show di tre o quattro capitoli. Qualcosa come “cosa è accaduto durante l’infanzia degli Holmes per farli diventare quello che sono oggi”. Ecco perché la storia è ambientata in questo periodo, così da lasciarli poi al punto in cui inizia lo show. E poi... mi sono lasciata un po’ trasportare e ho pensato, Ecco qui i due giovani ragazzi Holmes. Ora cosa accadrebbe se, invece di farli aspettare per vent’anni, gli dessi ciò di cui hanno bisogno per aggiustarsi proprio ora?
Quarantatré capitoli dopo, ecco a voi questa storia. 

 

Note traduttrice: Conoscete tutti Earlgreytea68. E se non è così, caspita, rimediate al più presto. Le sue storie sono il meglio (a mio avviso, ovviamente). Ne ha scritte tante, così tante da farti pensare Ancora Sherlock e John? No, basta, ormai non ci sarà niente di nuovo, niente di bello, niente che valga la pena... Ma no, gente. Non è mai così. Possono ritrovarsi alle prese con un piccolo clone, nella stessa squadra di baseball, costretti a passare assieme il Natale, incontrarsi alle olimpiadi invernali, tutto insomma. In tutti gli universi possibili e immaginabili. E lei riuscirà comunque a creare la magia. 
Li amerete, li odierete, li odierete sapendo di amarli. Riderete. 
Earlgreytea68 non delude mai, fidatevi. 
Della mia traduzione, invece, non posso dire altrettanto. Sono alle prime armi perciò per qualsiasi nota, consiglio, correzione o lavata di capo, non stateci neanche a pensare: scrivetemelo. Del tipo: prima sparate, poi fate domande.
E, sempre ovviamente, se ve la cavate con l’inglese la storia originale resterà sempre e comunque migliore: ci sono giochi di parole, frasi e concetti a cui l’italiano, purtroppo, non può rendere giustizia. 


 


 

 

 

Ottobre 1987

 

Ciò che Mycroft Holmes non dimenticherà mai del funerale di sua madre è che quel giorno pioveva e lui non aveva un ombrello. 
Era una costante, inesorabile pioggia, che aveva appiattito i riccioli ribelli di Sherlock formando piccoli ruscelli, cascate improvvisate sulla topografia dei suoi capelli. Erano entrambi fradici quando corsero dalla porta della casa di Londra fino alla macchina che li stava aspettando, ed erano zuppi fino al midollo quando si precipitarono in chiesa. 
L’acqua sgocciolava dai capelli troppo lunghi di Sherlock fin nel suo colletto; Mycroft si chiese perché non aveva avuto il buon senso di portare un ombrello e promise che mai una cosa del genere sarebbe accaduta di nuovo. Consapevole delle persone in attesa all’interno della chiesa, più grandi, convinte di essere più sagge e pronte a dire cose come Oh, cielo, non si è nemmeno ricordato di portare un ombrello per coprire la testa del povero Sherlock, Mycroft trascinò Sherlock in un angolo buio e cercò un fazzoletto. Pensò che sicuramente doveva avere uno di quelli su cui la madre aveva fatto cucire il monogramma per lui. 
Sherlock restò fermo e in silenzio, gli occhi fissi su un punto del muro alla sua sinistra dove delle targhe commemorative ornavano la chiesa. Era silenzioso e remissivo da giorni e Mycroft era in parte sollevato per la tregua concessagli mentre cercava di riassestarsi, in parte terrorizzato dalla prospettiva che non avrebbe parlato mai più.
Trovò il fazzoletto, lo tirò fuori e mentre lo passava velocemente sui capelli grondanti acqua di Sherlock, si chiese perché non aveva insisto affinché Sherlock li tagliasse prima del funerale. Quando pensi che il ragazzo abbia avuto il suo ultimo taglio di capelli? A cosa sta pensando Mycroft? Poteva sentire la disapprovazione sollevarsi dalla congregazione fino alle volte del soffitto. 
Sherlock non si mosse, nemmeno quando Mycroft strofinò il fazzoletto con un po’ di forza in più nei suoi capelli, e Mycroft si corrucciò pensando a quanto lo rallegrasse che Sherlock non stesse mettendo il broncio e a quanto lo rattristasse che Sherlock non stesse mettendo il broncio. 
“Non posso permettere che tu prenda un raffreddore,” disse a mo’ di spiegazione e passò il fazzoletto ormai bagnato sul retro del collo di Sherlock. 
Sherlock rabbrividì un po’,  quasi a confermare i timori di Mycroft, e poi fece qualcosa che non aveva fatto per giorni. Parlò. “Il Latino è sbagliato,” disse. 
“Cosa?” disse Mycroft, sorpreso dal sentire la sua voce dopo tutto questo tempo. 
“Il Latino su quella lastra è sbagliato. Penseresti che qualcuno sarebbe stato abbastanza intelligente da controllare cosa sta per far incidere nella pietra. Come possono le persone essere così stupide?”
Mycroft guardò la lastra che Sherlock stava guardando. Il Latino era sbagliato. 
“Sherlock,” disse con un sospiro. “Temo che questo sia solo un piccolo esempio di quanto stupida la gente in realtà sia.” 
Sherlock prese un respiro profondo e strattonò la cravatta che portava al collo. 
“Per favore, smettila,” gli disse Mycroft, rimettendola al suo posto. 
Sherlock lo guardò. Da qualche parte, giù in quegli occhi senza fondo e senza colore che aveva, Mycroft riuscì a vedere che lo sguardo puntato su di lui era malevolo, ma era davvero davvero in profondità, lontanissimo dalla superficie. La superficie dello sguardo di Sherlock era freddo, distaccato e disinteressato. Mycroft disse, sperando sarebbe stato d’aiuto, “Non durerà ancora a lungo.”
“Non essere idiota, Mycroft,”disse con fare annoiato Sherlock. “Durerà per il resto delle nostre vite.”

 

***

 

Sherlock si rifugiò di nuovo nel silenzio. Mycroft cercò di guardarlo attraverso gli occhi della severa congregazione. Alto per la sua età ma fin troppo magro, il tutto enfatizzato dal modo sbagliato in cui gli calzava il completo, perché Mycroft non aveva avuto il tempo di farlo modificare per le sue misure. I suoi capelli si stavano asciugando in nuvole di ciuffi ribelli che imploravano di essere pettinati, e Mycroft tornò a pensare che avrebbe dovuto portare Sherlock dal barbiere a un certo punto. Ma quand’è che aveva avuto un momento libero? Da quando ricevi una brusca chiamata che ti informa della morte di tua madre al giorno in cui riesci a organizzarle un improvviso funerale, quand’è che hai il tempo di preoccuparti di cose mondane come un taglio di capelli? Mycroft sapeva che l’intera questione era sciocca, di intrattenimento solo per le stupide persone schierate dietro di lui nella chiesa; ma sapeva anche che quelle erano le stesse stupide persone che avrebbero deciso se lui era o meno adeguato a prendersi cura di Sherlock da quel momento in poi, e che avrebbero discusso dello stato dei capelli di Sherlock perché la gente - Sherlock aveva ragione - è stupida.
Fortunatamente, nessuno menzionò i capelli di Sherlock con lui. 
Menzionarono Sherlock, invece, costantemente. Come la sta prendendo? Povero ragazzo. Deve essere stata davvero dura, per lui, averla trovata in quel modo. Ne ha parlato con te? Cosa ha detto? Mycroft avrebbe voluto dire che Sherlock ovviamente non ne aveva parlato con lui. Perché chiunque con un minimo di cervello avrebbe voluto parlare di qualcosa del genere? E Sherlock aveva infinitamente più di un minimo di cervello. 
Voleva dire che anche se Sherlock ne avesse parlato con lui, l’intera situazione era confidenziale fra gli Holmes, non oggetto di voyeurismo. 
Ma Mycroft aveva infallibili istinti sociali. Così gli era stato detto. Aveva preso da sua madre. Parlava in maniera aggraziata il ‘banalitese’, una delle molte lingue che padroneggiava facilmente. Chiocciò con fare comprensivo, scosse il capo con fare dolente e odiò ogni persona all’interno di quella casa che ora era sua e di Sherlock. Quantomeno, presumeva fosse sua e di Sherlock. Di chi altri avrebbe potuto essere? Ma quella sembrava un’altra rivelazione che non avrebbe finito per sorprenderlo. 
Si era fidato di sua madre più di qualunque altra persona nella sua vita e lei lo aveva ricompensato morendo senza neanche una singola parola di avvertimento. Gli sembrò coerente con tutto il resto se il suo testamento avesse lasciato ogni loro avere a qualche dimenticato cugino di diciassettesimo grado e Mycroft avesse dovuto trovare da solo un modo per mandare Sherlock a Eton e mantenere se stesso a Cambridge. 
Non riuscì a star dietro a Sherlock, nessuno sembrò riuscirci. Volevano sapere di lui, ma nessuno voleva realmente avvicinarlo. Sherlock non era il tipo di bambino - ragazzo - giovane uomo - Mycroft lasciò perdere il tentativo di classificarlo, ma qualsiasi cosa fosse, non invitava a fare conversazione. Era riservato e distante sotto le migliori circostanze, e le circostanze attuali erano ben lontane dall’essere le migliori. 
Mycroft realizzò che era scomparso dal raduno nei primi trenta minuti e decise che era la cosa migliore che avesse potuto fare. Sherlock non sarebbe scappato o scomparso, Sherlock si sarebbe nascosto per ricomparire nel momento più opportuno per lui, presumibilmente quando la casa fosse stata vuota e lui abbastanza affamato. 
La casa alla fine, fortunatamente, si svuotò. Mycroft non aveva permesso a nessuno di fermarsi, nonostante alcune anziane zie avessero provato a insistere. 
Mycroft aveva bisogno di sentire la vastità della casa senza sua madre e non avrebbe potuto sopportare di dover recitare la sua parte a quell’ora. Alla fine il maggiordomo accompagnò fuori l’ultimo ospite e si girò verso di lui con aria interrogativa, come se Mycroft sapesse cosa avrebbero dovuto fare. Mycroft sapeva cosa prospettava il futuro più prossimo. 
Il giorno dopo ci sarebbe stata la lettura del testamento, l’avvocato di sua madre aveva detto così, e numerosi distanti parenti avevano insistito per essere presenti. Ecco cosa riservava loro il futuro più prossimo. 
Era tutto quello che sarebbe venuto dopo che a Mycroft sembrava fuori dalla sua portata e Mycroft non era abituato a una sensazione del genere, perciò non era contento che sua madre gli stesse facendo questo. 
Mycroft guardò il maggiordomo e disse, stancamente, “Si gela in casa.” 
In parte, Mycroft lo sapeva, era per via del freddo che aveva preso prima sotto la pioggia, ed era stata colpa sua. Si chiese se Sherlock non fosse sulla buona strada per morire di polmonite proprio in quel momento. 
“Accenderò un fuoco per lei in biblioteca, signore.”
Mycroft era sollevato che il maggiordomo gli avesse offerto la biblioteca, perché sua madre la usava di rado e Mycroft, al momento, non avrebbe sopportato il salotto. Lo avevano dovuto utilizzare necessariamente per la riunione ed era stato agghiacciante. C’era stata una discussione con il maggiordomo per la collocazione della scacchiera di sua madre: il maggiordomo, timoroso di un suo rovesciamento, si era offerto di toglierla del tutto ma Mycroft era spaventato all’idea di spostare i pezzi dal posto in cui sua madre li aveva lasciati l’ultima volta che aveva giocato. Sapeva che alla fine sarebbe successo e che era illogico da parte sue rifiutare di farlo quando avevano bisogno di spazio, ma aveva insistito ed erano giunti a un compromesso spostandola attentamente in un angolo dove Mycroft aveva passato l’intero pomeriggio a guardarla. 
Mycroft lanciò un’occhiata al salotto ora. Il fuoco era stato coperto, le luci spente e tutto nella stanza sembrava... abbandonato. Mycroft proseguì improvvisamente e tirò fuori le porte a scomparsa. Opposero resistenza, non riusciva a ricordare l’ultima volta che erano state usate, e non volevano saperne di muoversi, ma le scosse energicamente finché alla fine non si chiusero e lui non dovette più guardare il salotto. 
Quindi, soddisfatto, si girò ed entrò nella libreria, incrociando il maggiordomo che ne usciva. “Mi porti un vassoio da tè,” disse, e il maggiordomo annuì. 
Mycroft prese posto sul divano vicino al  fuoco e rimase a fissarlo mentre cominciava ad accendersi, domandandosi dove fosse Sherlock e se andare a cercarlo avrebbe migliorato o peggiorato le cose. 
Il maggiordomo arrivò con il vassoio da tè mentre Mycroft stava ancora considerando la situazione; si riscosse dal suo stupore contemplativo per ringraziare il maggiordomo che disse solamente, “Devo chiudere la porta?”
“Sì,” disse Mycroft, perché non voleva che la pressione del resto della casa lo disturbasse. “Se vede il signorino Sherlock, però, gli dica che mi piacerebbe vederlo.”
“Sì, signore,” disse il maggiordomo chiudendo la porta, e Mycroft guardò il vassoio da tè. 
In realtà non aveva voglia di tè, ma completò l’atto rituale di prepararlo, guardò il risultato e sentì che l’ultima cosa che gli andava di fare era berlo. Una parte di lui voleva raggomitolarsi sul divano e dormire durante la prossima parte della sua vita. 
Una della porte che davano sul giardino posteriore venne aperta e chiusa, e Mycroft sospirò. “Sei stato fuori per tutto questo tempo?”
Naturalmente, Sherlock non rispose. Raggiunse una delle sedie vicino al fuoco e vi si lasciò cadere, irradiando onde di scontenta irritazione. Lanciò un’occhiata accusatoria a Mycroft, come se la colpa di tutto fosse sua; il che, a parte la mancanza dell’ombrello nella mattinata, decisamente non era vero. 
Mycroft si alzò e camminò fino in fondo alla biblioteca, dietro la scrivania che era stata di loro padre più anni fa di quanti Sherlock ne avesse, in realtà. Inclinò il libro che aveva visto  inclinare a suo padre, tutti quegli anni fa, e la libreria scivolò verso di lui. 
Sherlock, come Mycroft sapeva avrebbe fatto, saltò su immediatamente e corse verso di lui. “Come sapevi che era lì?” chiese. 
“Papà era solito usarla,” disse Mycroft, valutando le bottiglie di alcol che scintillavano sulle mensole. 
“Perché non me lo hai mai detto?”
“Perché non lo hai scoperto da solo?” replicò Mycroft, delicatamente. 
Sherlock si accigliò e disse, “Quell’alcol non può essere ancora buono.”
“Cosa importa?” chiese Mycroft, scegliendo una bottiglia di Scotch e sollevandola verso le luci come se sapesse cosa stava facendo. “Ad ogni modo, l’alcol diventa migliore con il tempo, non peggiore.”
“L’alcol propriamente conservato,” disse Sherlock, fingendo di non essere interessato al resto di ciò che occupava le mensole. 
“Puoi esplorare finché ti va un’altra volta,” disse Mycroft, sospingendo fuori Sherlock per poter chiudere la porta. “E dove hai imparato così tanto sull’alcol?”
Sherlock emise un rumore che poteva liberamente essere tradotto in So leggere, Mycroft, grandissimo idiota. Seguì Mycroft fino al camino, e lì Mycroft prese una tazza da tè pulita e ci versò dello Scotch. Poi prese un’altra tazza, versò altro Scotch e la porse a Sherlock. 
Sherlock lo guardò prima con grande meraviglia, poi con sospetto. “Cosa vuoi?”
Mycroft sospirò, sedette e poggiò la tazza nuovamente sul vassoio, prendendo la propria. “Niente. E’ stato il tipo di giornata che richiede un drink.”
“Ma ho undici anni.”
“Sì, ecco perché te ne ho versato poco. Ho pensato avresti voluto testare scientificamente gli effetti di dieci anni di abbandono sul sapore dello Scotch. Ad ogni modo, hai preso freddo e presumibilmente lo Scotch aiuta ad allontanare un raffreddore.”
“E’ una vecchia diceria,” disse Sherlock, tornando a sedersi. Strinse la sua tazza con cautela, la annusò e poi fissò al suo interno. Mycroft lo guardò catalogare tutte le sue impressioni per annotarle più tardi. Quindi bevve un piccolo sorso e lo considerò per un lungo momento prima di annunciare, “E’ terribile.”
Mycroft fece un mezzo sorriso e posò la sua tazza senza berne un solo sorso, di colpo non lo interessava più. “Sherlock...”
“Non ti preoccupa davvero che io prenda il raffreddore,” gli disse Sherlock, mettendo giù la sua tazza.
“Certo che mi preoccupa,” replicò Mycroft. 
“Ti preoccupa solo ciò che la gente penserà se prendo il raffreddore.”
“Perché non possono preoccuparmi entrambe le cose?” chiese Mycroft, dopo un secondo.
“Se eri tanto preoccupato avresti dovuto portare un ombrello.”
“Lo so. Mi dispiace,” disse, perché era vero. 
Sherlock mise i piedi sulla sedia, tirando le ginocchia al petto e sembrando molto più un bambino piccolo e solo. Qualcuno gli aveva detto, durante quell’interminabile giornata, che Sherlock non sarebbe mai stato di nuovo un bambino, ma la verità era che era così dolorosamente giovane da terrorizzarlo. Se Sherlock non fosse più stato un ragazzino sarebbe stato tutto più semplice, ma gli undici anni sono un’età terribile, a metà di tutto, e Mycroft non aveva idea di come comportarsi. 
“Sarei dovuto venire in chiesa con te,” disse Sherlock, guardando il fuoco. 
“Sei venuto in chiesa con me,” commentò Mycroft. 
“Non oggi. Prima. Quando ti stavi occupando dell’organizzazione e mi hai chiesto di venire e io non ho voluto.”
“Non dovevi farlo, Sherlock.” Mycroft si era sfinito abbastanza facendo tutte le cose che andavano fatte, non ci sarebbe stato motivo di sottoporvi anche Sherlock se non voleva essere coinvolto. 
“Ma mi sarei accorto del Latino sulla lastra,” disse Sherlock ostinatamente. “Tu non lo hai notato. La mamma lo avrebbe odiato.”
“Sherlock,” disse Mycroft, pensando che in qualche modo avrebbe migliorato le cose, “alla mamma non importa più di niente.”
Sherlock lo fissò con orrore, sorprendendolo perché, senza contare il funerale in chiesa, erano cresciuti senza un vero senso di religione, e non aveva mai pensato che Sherlock potesse star aggrappandosi a una qualche idea di vita nell’aldilà con quel suo cervello così scientifico. La scienza è temprata dalla filosofia, diceva sua madre, e Mycroft comprese l’errore commesso. 
“Oh,” disse, stupidamente, perché non riuscì a pensare ad altro da dire.
Sherlock inalò ed espirò un respiro carico di rabbia e disapprovazione nei suoi confronti e poi disse, devotamente, “Non indosserò mai più una cravatta, e tu non mi costringerai a farlo, hai capito?”
“Non mi importa se indosserai mai una cravatta,” disse Mycroft onestamente. “Ma dovrai indossarne una a scuola...”
“Perché devo andare a scuola? So già tutto quello che c’è da sapere.”
“Cosa proponi in alternativa?”
“Potrei fare il pirata.”
“Non puoi essere ancora fissato con quest’idea della pirateria,” sospirò Mycroft. 
“Non capisco perché pensi che i pirati facciano parte del passato. Il mare è l’ultima grande frontiera su questo pianeta, l’ultimo posto senza leggi.”
“Posso assicurarti l’esistenza di leggi che governano gli oceani. Se andassi a scuola, lo impareresti da te.”
Sherlock si corrucciò. “Voglio dire che le leggi non sono facilmente applicate.”
“Sherlock, non dire cose del genere.”
“Perché no?”
“Perché ti fanno sembrare un giovane criminale in erba.”
Sherlock ci pensò. “Scommetto che i giovani criminali non vanno a scuola.”
“Quelli intelligenti lo fanno. Senti, evitiamo di discutere della scuola proprio adesso.”
“Non voglio parlare della mamma,” disse Sherlock all’istante, i piedi che scivolavano sul pavimento mentre si sedeva correttamente.
“Non lo faremo,” disse Mycroft, non sentendosela di parlare di lei a sua volta. “Non parliamo e basta. Ho dovuto parlare tutto il giorno.”
“Ma a te piace parlare. Ti piace il suono della tua stessa voce.”
“Il bue dice cornuto all’asino,” disse Mycroft, e Sherlock gli sorrise. Per un momento fu come se niente, negli ultimi giorni, fosse accaduto. “Hai davvero passato l’intera giornata fuori? Fa freddo, ed eri già bagnato da questa mattina.”
“Sono stato fuori solo poche ore,” disse Sherlock. Scivolò giù dalla sedia e andò a sedersi proprio davanti al camino. 
“Dovresti andare a metterti qualcosa di asciutto,” gli disse Mycroft.
“Cosa succederà domani?” chiese Sherlock. C’era un fondo di ansietà in quella domanda che nessuno a parte Mycroft avrebbe mai sentito. 
“Niente,” disse Mycroft, perché non voleva che Sherlock se ne preoccupasse. “Assolutamente niente. Te lo prometto.”
Non sapeva per quanto tempo le sue promesse avrebbero avuto un peso, ma apparentemente funzionavano ancora perché Sherlock annuì e si voltò in direzione del fuoco, dandogli le spalle; Mycroft lo guardò e cercò di non preoccuparsi. 

 

***

 

Mycroft non riusciva a dormire. 
Aveva voluto che la lettura del testamento avvenisse di mattina, perché voleva farla finita, ed era contento di aver preso quella decisione perché significava poter facilmente lasciar perdere l’idea di dormire per dedicarsi alla scelta di una cravatta. 
A Mycroft sembrò di non riuscire a ricordare l’ultima volta che non aveva indossato un completo, perché durante quest’intero sfacelo aveva scoperto che era di grande importanza che lui sembrasse più grande dei suoi diciott’anni ed era sicuro che in questo particolare giorno fosse ancora più importante. Si chiese se avrebbe mai smesso di indossare completi tutti i giorni, mai smesso di preoccuparsi di sembrare più grande e competente di quello che di fatto poteva essere. 
Decise di scendere per la colazione anche se non aveva un briciolo di fame, solo perché era appropriato e perché voleva dire di essere un sostenitore dei tre pasti fondamentali, da responsabile essere umano qual era. Prima di scendere si affacciò nella camera di Sherlock per assicurarsi che di fatto fosse lì, perché davvero non poteva permettere che Sherlock scomparisse mentre era sotto la sua tutela nel giorno in cui prevedeva di dover discutere delle sue capacità nel prendersi cura di lui. 
Sherlock era nella sua camera, fortunatamente, anche se stava dormendo alla scrivania invece che nel suo letto, con  i resti di un qualche esperimento attorno a sé. Mycroft ipotizzò che quello era il tipo di cose che non avrebbe dovuto assolutamente permettere; doveva insistere affinché Sherlock andasse a letto a orari ragionevoli, ma gli sembrò di aver aspettato troppo per cominciare ora a insistere che si comportasse normalmente. 
Mycroft strisciò nella stanza, scostò le coperte dal letto, raggiunse la scrivania di Sherlock e lo tirò in piedi. Era docile per via del sonno e si svegliò solo a metà, giusto il necessario per lanciare a Mycroft un’occhiata carica di disapprovazione ed emettere un’esile protesta prima di essere spinto nel letto. Rimboccò le coperte su di lui e Sherlock vi si rannicchiò farfugliando, “Stavo bene alla scrivania.”
Era così ostinato, pensò Mycroft, e poi, subito dopo, gli venne in mente che non aveva mai davvero chiesto a Sherlock chi volesse che si occupasse di lui. Sherlock: difficile, ostinato e problematico; Sherlock forse non sarebbe stato d’accordo con la decisione di Mycroft in materia e Mycroft non voleva costringerlo. 
“Sherlock,” disse mantenendo la voce bassa, perché era davvero presto e discuterne ad alta voce gli sembrava melodrammatico. “C’è qualcuno con cui vorresti andare a vivere?”
“Stephen Hawking,” rispose Sherlock, prontamente, la voce ancora annebbiata dal sonno, rigirando la testa sul cuscino. 
Mycroft represse un sospiro. “Intendevo dire qualcuno che non sia me.”
“Tu non sei Stephen Hawking,” gli fece notare Sherlock, e sbadigliò. 
“Eccellente,” disse Mycroft. “Ottima osservazione. Ma c’è qualcuno di realistico che preferiresti si occupasse di te? Qualcuno della famiglia? O qualcuno che conosci?”
Era ridicolo. Non conoscevano davvero nessuno a parte loro stessi. 
Gli occhi di Sherlock si aprirono bruscamente, fissandolo, e Mycroft desiderò subito poter fare marcia indietro. 
“Come chi?” chiese Sherlock mettendosi a sedere. “Da chi stanno provando a mandarmi?”
“Nessuno,” disse Mycroft. 
“Devi essere tu,” lo informò Sherlock. “Se sarà chiunque altro scapperò via e nessuno mi troverà mai.”
“Io ti troverei.”
“Alla fine. Forse,” concesse Sherlock con riluttanza. “Pensavo saresti stato tu. Perché dovrebbe essere qualcun altro? Mi sono appena rassegnato a te. So come manipolarti. Non voglio dover cominciare d’accapo.”
“Molto toccante,” disse Mycroft. “Grazie per il tuo voto di fiducia. Sarò io. Mi assicurerò che sia così.”
Sherlock lo guardò dubbiosamente e Mycroft lo vide risvegliarsi, la mente che tornava in azione. “Serve che io...”
“Non serve che tu faccia alcunché. Mi occupo io di te. Promesso. Torna a dormire.”
Sherlock esitò, poi lentamente si sdraiò, sistemando le coperte attorno a sé. “Perché dovrebbe essere qualcun altro, Mycroft?”
Per un milione di ragioni. Mycroft sapeva che Sherlock era sensazionalmente intelligente e non riusciva a capire come potesse non vederle tutte. 
Avrebbe voluto elencargliele. Sono a mala pena maggiorenne. Frequento l’università. Non ho un posto in cui farti vivere con me. Non ho idea di come crescere un ragazzino di undici anni. Non conosco lo stato delle nostre finanze, perciò non so se ci sono soldi a sufficienza per fornire a te le cose che meriti e al contempo dare a me ciò che mi aspettavo. E, se così non fosse, non ho idea di come guadagnarli con le mie attuali qualifiche. E tu non sei un bambino facile, hai bisogno di guida e disciplina, mentre io ti lascerei fare tutto quello che vuoi perché sei più sveglio di chiunque altro conosca. 
Mycroft non ne disse nessuna, sapeva che per Sherlock sarebbero state irrilevanti. 
Sherlock si considerava già grande e il fatto che la legge non lo vedesse come un adulto era un’inopportuna seccatura, niente di più. Una formalità con cui credeva Mycroft sarebbe stato d’accordo. Non c’era bisogno di educare alcun bambino per Sherlock Holmes - lui era già oltre quel punto. Nella mente di Sherlock, lui aveva solo bisogno che qualcuno gli assicurasse del cibo quando era affamato, niente di più; e Mycroft era la persona giusta per quello. Non doveva essere più che maggiorenne per farlo e, ad un undicenne, diciotto anni sembravano tanti comunque. 
Mycroft disse, invece, “Non sarà nessun altro. Te lo prometto. Torna a dormire, non scappare e cerca di non dire ad altre persone che vuoi che sia io ad occuparmi di te perché sai già come manipolarmi.”
“Non sono un idiota, Mycroft,” disse Sherlock, ma i suoi occhi si stavano chiudendo ed era prossimo a riaddormentarsi. Mycroft lo trovò incredibile, perché aveva lo stomaco contratto per il nervosismo e dormire gli era risultato impossibile. Ma Sherlock dormiva pacificamente, come se non avesse un solo pensiero al mondo, perché Mycroft gli aveva promesso che era così. 
Che diavolo, pensò Mycroft. Forse dovrei trovare qualcun altro. 
Guardò il caos disseminato nella camera di Sherlock, pensò a chi avrebbe cercato di ripulire quella manifestazione di genio e respinse immediatamente l’idea. 
Sherlock aveva ragione. Doveva assolutamente essere lui. 

 

 

 

§









 

Link della storia originale: http://archiveofourown.org/works/514787/chapters/908428

Link account autrice:  http://archiveofourown.org/users/earlgreytea68/pseuds/earlgreytea68

Link account traduttrice: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=87678

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

Mycroft si costrinse a mangiare meccanicamente. 
Guardò il quotidiano che il maggiordomo gli aveva portato senza davvero registrare ciò che leggeva finché il suono del campanello non riecheggiò nella casa. Allora ripiegò il giornale con attenzione, impegnandosi affinché fosse diritto e ordinato, e il maggiordomo fece entrare l’avvocato di sua madre nella sala da pranzo. 
Lo aveva incontrato una volta, brevemente, il giorno della morte di sua madre. A Mycroft non era servito che si presentasse: gli era bastato uno sguardo per capire esattamente chi fosse. Gli avvocati si riconoscono facilmente. 
“Mr. Harbrough,” disse adesso, educatamente, dopo essersi alzato e avergli stretto la mano. “Perché non si siede mentre le verso del tè?”
“Grazie, sì,” rispose Harbrough, e prese posto sulla sedia indicatagli da Mycroft. “Spero non le spiaccia che io sia in anticipo. Volevo un’opportunità per parlarle da solo e ieri non mi è sembrato il momento adatto.”
Mycroft lo ascoltò mentre si impegnava a versare il tè. “Affatto,” disse, automaticamente, e gli passò la tazza con un sorriso. 
“E’ stato un funerale piacevole,” commentò Harbrough.
“Questo,” disse Mycroft con cautela, così da non sembrare offeso nonostante in realtà lo fosse, “è un ossimoro.”
“Oh,” disse Harbrough dopo un momento, e tossì; Mycroft aveva notato che era un suo tic nervoso. Harbrough posò la sua tazza. “Volevo parlarle di Sherlock.”
Ovviamente, pensò Mycroft. “Oh?” Inarcò un sopracciglio per spingerlo a continuare. 
“Dov’è?”
“Sta dormendo. Ho pensato fosse meglio non svegliarlo.”
“Certamente,” convenne Harbrough. “Immagino non stia dormendo bene dopo...”
Mycroft sospettava che Sherlock stesse dormendo molto meglio di lui. Non voleva dire che in realtà lo aveva lasciato dormire per evitare che fosse intrattabile e non cooperativo durante una possibile disputa incentrata su di lui, perciò si limitò a rispondere con un mormorio imparziale.
Harbrough tossì di nuovo nervosamente. “Il testamento di sua madre è stato scritto anni fa, dopo la morte di vostro padre. Temo non sia stato aggiornato. Una svista comune. Le persone non vedono mai la propria morte imminente, non è vero?” Harbrough fece un pallido sorriso, come se ci fosse qualcosa di cui sorridere. 
“E’ vero,” commentò Mycroft, “una felice caratteristica dell’evoluzione il non spendere le nostre vite rimuginando sulla possibilità della nostra morte. O così ho sempre pensato.”
Harbrough esitò, insicuro su cosa fare, e poi tossì. “Non era maggiorenne.”
“Quando mio padre morì? No, non lo ero.”
“No, lo so; non volevo...” Harbrough s’interruppe per tossire. Mycroft si chiese se avrebbe dovuto mettere fine alle sue sofferenze e decise che la mancanza di sonno e la tensione generale lo stavano rendendo più apertamente ostile del solito. Inoltre, non sopportava il tono di Harbrough: lento e gentile come se Mycroft fosse un idiota a cui tutto andava detto per filo e per segno, inclusa l’età che aveva quando aveva perso il padre. Come se Mycroft avesse potuto dimenticarlo. Infine, immaginava che Harbrough non avesse fatto un buon lavoro con la stesura del testamento e già sapeva che avrebbe dovuto sistemare le cose al posto suo; non aveva nessuna voglia di aiutarlo ad annunciare il problema esistente. 
Perciò Mycroft non fece niente, sorseggiò il tè e aspettò che Harbrough continuasse.
“Vostra madre aveva dato istruzioni affinché si occupassero di entrambi, nel caso della sua morte. Ciò non si applica più a lei, ovviamente, dato che ha raggiunto la maggiore età. Sherlock, d’altro canto...”
“Perché non sono state prese misure affinché Sherlock restasse con me, nel caso della morte di mia madre, dopo che avessi raggiunto la maggiore età e prima che lui avesse raggiunto la sua? Mi sembra che avrebbe dovuto essere un’eventualità da includere.” 
Il modo in cui Mycroft lo disse era gentile in superficie, ma con abbastanza ghiaccio in agguato al di sotto da far trasalire Harbrough.
“Be’,” disse. Quindi, “Sì...” E poi tossì.
Mycroft poggiò la sua tazza con un sonoro tintinnio, posizionò i gomiti sul tavolo, unì le mani e guardò obiettivamente Harbrough. “Con chi dovrò combattere per questo?”
Harbrough represse un colpo di tosse. “Vostra prozia Iphigenia.” 
Mycroft lo aveva ipotizzato e le aveva prestato attenzione il giorno prima, durante il raduno. Aveva girovagato implacabilmente, preoccupandosi di lui e studiando il salotto, quasi stesse già immaginando come cambiare le tende. “La conosco appena,” disse, il che era vero. Sua madre non era stata legata a nessuno dei suoi parenti. Mycroft pensò di aver incontrato Iphigenia meno di cinque volte in tutta la sua vita. 
“Era la parente più prossima di sua madre.”
Anche questo era vero, ed ecco perché Mycroft aveva ipotizzato che sarebbe stata nominata nel testamento. “Difficilmente significa qualcosa,” disse. “Perché dovrebbe prendersi cura di Sherlock?”
“Ci sono dei soldi messi da parte per la sua tutela,” disse Harbrough, delicatamente. “Una somma considerevole.”
Mycroft lo aveva previsto e così, apparentemente, aveva fatto Iphigenia. Era comunque un sollievo che l’esistenza dei soldi fosse confermata. Aveva posto grande fiducia nell’intelligenza di sua madre per cifre, finanze e investimenti, ma considerando come si era dimostrata imprevedibile alla fine di tutto, aveva temuto di vedersi piovere debiti di migliaia di sterline fra capo e collo. 
“Ci sarà un dibattito?” chiese Mycroft. “Legalmente? Per far sì che sia io a farmi carico di lui. Se insisto per la sua custodia, potrà contrastarmi?”
“Se è quello che desidera fare... sì. Sì, è una disputa legale.”
Mycroft ne prese nota con un’espressione appena accigliata e passò oltre. “Mi dica di più delle finanze. Non i soldi messi da parte per Sherlock. Il resto.”
“Avete ereditato il resto dei soldi. Il mio ufficio sta cercando di calcolare la cifra esatta, ma lei e Sherlock dividete la somma equamente. Dato che non è maggiorenne, la sua metà verrà messa in un fondo fiduciario controllato da lei... lo stesso vale per le proprietà terriere: questa casa e la tenuta di campagna.”
“Avrà accesso al fondo fiduciario una volta compiuti i diciotto anni?” chiese Mycroft, perché a quell’età lui aveva avuto accesso al suo. 
“Al fondo stabilito per lui alla sua nascita, sì. A quello creato dalla morte di sua madre, no. Non potrà accedervi fino ai venticinque anni.”
Mycroft ne fu sorpreso. “Ma non sarà così anche per me?”
Harbrough gli fece un piccolo sorriso. “Vostra madre insistette sulla differenza. Disse che poteva fidarsi di lei per occuparsi di tutto, ma che già sapeva che Sherlock sarebbe stato più come suo padre e che avrebbe avuto bisogno di essere guidato.”
“Lo sapeva dieci anni fa,” disse Mycroft, lusingato dalla sua fiducia e orgoglioso della sua intelligenza. 
“Così pare,” disse Harbrough.
“Perciò c’è una somma rassicurante. Abbastanza per mantenere le cose come sono finché non avrò finito l’università?”
“Più che sufficiente per quello.”
“Eccellente. Allora devo solo accordarmi con zia Iphigenia.”
Harbrough esitò, Mycroft si irrigidì e aspettò che parlasse. Naturalmente, il discorso fu preceduto da un colpo di tosse. “Potrebbe esserle d’aiuto, Mycroft. Potrebbe non essere un’idea così malvagia...” Harbrough vide l’espressione sul viso di Mycroft e perse il filo. 
“Crede non sarebbe un’idea così malvagia? Mandare mio fratello Dio sa dove con una donna anziana che non ha mai incontrato e che non ha idea di chi lui sia?” Mycroft si morse la lingua prima di dire ciò che stava pensando, e cioè che gli Holmes avevano immediato bisogno di un nuovo avvocato. 
Preferibilmente uno meno stupido di questo. A cosa stava pensando la mamma? Non c’era da domandarsi come mai lo avesse ritenuto in grado, all’età di otto anni, di gestire la situazione qualora fosse morta. Lui a otto anni era più capace di quanto quest’idiota lo fosse tutt’ora.
Mycroft fece un respiro profondo e disse, “E’ un’idea terribile. Non la suggerisca di nuovo. Contratterò con zia Iphigenia e lei farà quello che le dico.”
“A meno che non sia illegale...” cominciò Harbrough, perdendosi in un colpo di tosse quando Mycroft gli lanciò un’occhiata truce. 
“Come se,” disse Mycroft, seccamente, “l’illegalità fosse in bianco e nero.”
Harbrough tossì ancora. 

 

***

 

Mycroft aveva detto al maggiordomo di scortare i familiari, una volta giunti, nella biblioteca. Non voleva usare il salotto di sua madre per la lettura del suo testamento. Sarebbe stato inopportuno, pensò. E la sala da pranzo doveva ancora essere sgomberata dai piatti della colazione. Perciò aveva deciso per la biblioteca. 
La prozia Iphigenia entrò di slancio e cercò di dargli un bacio, ma lui si scansò abilmente senza dar a vedere di starla evitando. Poi cominciò ad agitarsi e preoccuparsi per lui. 
Mycroft non era sicuro di quanti anni avesse, ma quali che fossero, erano decisamente troppi per agitarsi in quel modo. 
Iphigenia era seguita da tre arcigni fratelli, tutto ciò che restava della famiglia Whitcombe a cui sua madre apparteneva. I tre a loro volta avevano figli, che avevano figli, e tutti quanti avevano girato per la casa il giorno prima; era contento che fossero venuti da soli.
Mycroft conosceva l’albero genealogico a memoria, ma gli sembrò che ammetterlo avrebbe dato l’erronea impressione che gliene importasse qualcosa, quando la verità era che a sua madre non era importato di nessuno dei suoi parenti. Sua madre aveva avuto numerosi conoscenti - ancora, Mycroft sentiva di aver parlato con tutti quanti loro il giorno prima - ma non aveva avuto amici; quello era uno dei suoi assiomi. Un vero amico giocherà subito a scacchi con te, Mycroft, gli aveva detto una volta, sorseggiando una tazza di tè e studiando la sua ultima mossa. Ma è una cosa che accade raramente, perché le persone sono per lo più incredibilmente stupide. 
“Dov’è il caro Sherlock?” chiese Iphigenia. 
Mycroft voleva dirle che il fatto che lo avesse chiamato “caro Sherlock” indicava quanto poco davvero lo conoscesse, invece si preparò a rispondere che aveva pensato fosse meglio che non presenziasse alla lettura del testamento. 
Sherlock, però, entrò nella stanza prima che potesse dirlo. Indossava lo stesso completo del giorno prima, anche se, fedele alla sua parola, non aveva la cravatta. Il vestito era probabilmente ancora umido, e quello era parte del motivo per cui Mycroft lo guardò male. La restante parte era che davvero non lo voleva lì; Sherlock gli lanciò uno sguardo che diceva, Sul serio pensavi che ti avrei aiutato restandomene a dormire?
Mycroft continuò a guardarlo storto, ma sapeva che era uno spreco di energie. Sherlock era insensibile alle sue occhiatacce che anzi, Mycroft sospettava, erano per lui fonte di divertimento. 
“Sherlock, caro!” tubò Iphigenia, cercando di avvicinarlo abbastanza da carezzargli i riccioli. 
Sherlock odiava le persone che gli toccavano i capelli, odiava le persone che lo toccavano e basta; ma, invece di dire qualcosa di scortese e pungente, come Mycroft temeva, balzò via da Iphigenia e raggiunse il fianco di Mycroft, standogli molto più vicino di quanto si sarebbe aspettato, appena a un respiro dall’aggrapparsi a lui. 
Era così inusuale da parte sua che Mycroft abbassò allarmato lo sguardo su di lui, per poi realizzare esattamente cosa stava facendo. Sherlock aveva giustamente dedotto che sarebbe stato vantaggioso far credere a tutti i presenti nella stanza che era completamente dipendente da Mycroft e che sarebbe stato perso senza di lui. Bene, decise, se Sherlock aveva intenzione di essere d’aiuto non aveva niente in contrario. 
Harbrough tossì fastidiosamente un’altra volta e Sherlock lo guardò, corrucciandosi appena. Mycroft sapeva cosa stava pensando: Che problema hai? Schiarisciti a dovere la gola, o smettila del tutto di tossire - è irritante. Sherlock, insolitamente, non diede voce a quei pensieri. Si girò verso Mycroft, invece, eliminando l’espressione accigliata dal volto e chiedendo, con il suo tono di voce più angelico, “Posso restare a sentire cosa dice?”
Mycroft sollevò impercettibilmente le sopracciglia, così che solo Sherlock potesse accorgersene, intendendo trasmettergli la risposta Sei ridicolo, non pensare che sia soddisfatto di te. Sapeva che Sherlock aveva ricevuto il messaggio, perché era bravissimo a cogliere quei messaggi tanto quanto lo era ad ignorarli. 
Mycroft disse ad alta voce, “Sì, credo di sì.”
Sherlock regalò a Mycroft il suo miglior sorriso radioso, che dal punto di vista di Mycroft era assolutamente allarmante: quella bocca piegata in un sorriso che lo faceva sembrare un beatifico cherubino. 
L’improvviso pensiero che avrebbe dovuto lasciare Sherlock a Iphigenia gli attraversò la mente: le sarebbe stato di lezione. 
Sherlock capì a cosa stava pensando, smise di sorridere, si accigliò un po’ e prese posto sul divano; tutti gli altri, però, si comportavano ancora come se Sherlock fosse la creatura più adorabile a cui era stato permesso di camminare sulla terra. 
Iphigenia disse a Sherlock, avvicinandosi al divano, “Povero ragazzo, come ti senti questa mattina?”
“Ha mal di gola,” rispose Mycroft, sedendosi affianco a Sherlock sul divano prima che Iphigenia potesse farlo. 
Sherlock si allargò appena per assicurarsi che non ci fosse spazio per lei dall’altra parte e gli lanciò una breve occhiataccia, seccato che avesse dedotto subito il suo mal di gola. 
Iphigenia li guardò con aspettativa, attendendo che le facessero posto sul divano. 
“Forse se si siede potremmo cominciare,” suggerì gentilmente Mycroft. 
Iphigenia continuò a guardarli. 
“C’è una sedia proprio alle sue spalle,” disse Sherlock seccamente.
Iphigenia sospirò e prese la sedia dietro di lei; Sherlock smise di allargarsi così tanto. 
“Per favore, cominci,” disse Mycroft a Harbrough, che cominciò con un colpo di tosse. Mycroft sentì Sherlock fremere al suo fianco per lo sforzo di non dire nulla su quella tosse dannatamente fastidiosa. 
“Ecco, in realtà non c’è molto da dire,” disse Harbrough. “Il testamento è semplice e diretto. Ha lasciato tutto a voi due. Diviso equamente.” Harbrough sorrise a Sherlock e Mycroft come se quelle fossero delle ottime notizie. Vostra madre è morta. Ora siete molto ricchi. Congratulazioni! “Ovviamente,” disse Harbrough a Sherlock, parlando molto lentamente, e facendo così aumentare le sue vibrazioni rabbiose, “lei è troppo giovane per ereditare tutto subito, perciò vostro fratello ne avrà cura per voi. Significa che...”
“So cosa significa,” lo interruppe Sherlock, irritato. “Quando potrò accedere al fondo?”
Harbrough sembrò preso in contropiede. “A venticinque anni.”
“Venticinque,” ripeté Sherlock. “Ma lui non ha venticinque anni, adesso. Chi governerà il fondo per lui?”
Ci fu un momento in cui Harbrough guardò Mycroft come se volesse che fosse lui a rispondere. Mycroft lo ignorò, perché non voleva essere lui a dirlo, e alla fine Harbrough continuò. “Per lui non è così; ha accesso al fondo dai diciotto anni.”
Sherlock lanciò a Mycroft un rapido sguardo contrariato. Mycroft si limitò a sorridergli. 
“E a proposito della custodia del caro Sherlock?” chiese Iphigenia, la voce carica di preoccupazione. 
“Mi prenderò io cura di lui, ovviamente,” disse Mycroft, seriamente, pensando che sarebbe stato molto carino da parte di Iphigenia rispondere solo, Oh, giusto, naturalmente, e chiudere lì la questione. 
Iphigenia lo guardò in silenzio per un lungo, dubitativo momento, poi si voltò verso Harbrough. “Ma cosa dice il testamento?”
Harbrough tossì nervosamente e Sherlock si agitò al fianco di Mycroft. “Il testamento affida Sherlock a lei. Con un fondo creato appositamente per i costi necessari.”
Iphigenia guardò Sherlock, gli occhi scintillanti per quella che Mycroft riconobbe essere avidità ma che immaginò lei volesse far passare per affetto. 
“Non importa cosa dice il testamento,” disse Mycroft come dato di fatto. “Mi prenderò io cura di Sherlock.”
“Non essere ridicolo, Mycroft,” gli disse Iphigenia con leggerezza. “Tu sei occupato con l’università, ovviamente. Non devi preoccuparti. Badare a lui sarà impegnativo, ne sono sicura, e sono più che disposta ad aiutarti con...”
Mycroft voleva aspettare che finisse di parlare prima di dirle che si sbagliava, ma avrebbe dovuto sapere che Sherlock non avrebbe fatto lo stesso. 
“Io non sono ‘impegnativo’,” disse Sherlock, profondamente offeso. 
“Sherlock,” disse Mycroft. 
“Le persone stupide e noiose sono ‘impegnative’,” continuò Sherlock. “Io non sono ‘impegnativo’.”
Iphigenia sorrise a denti stretti, come se fosse già sul punto di perdere la pazienza, e Mycroft pensò che soltanto un dilettante poteva spazientirsi dopo sole tre frasi di Sherlock. 
Bisognava arrivare almeno alla decima frase per poter perdere la pazienza, o non si aveva alcuna possibilità contro di lui. 
“Ora, Sherlock, caro, sii ragionevole...”
“Essere ragionevole?” ripeté Sherlock, gli occhi spalancati per l’indignazione. 
“Sherlock,” disse nuovamente Mycroft, conscio di star parlando a vuoto ma provandoci lo stesso. 
“No. Lei vuole che io sia ragionevole? Sono l’unica persona che conosco ad essere sempre ragionevole!”
La cosa preoccupante era che Mycroft sapeva che Sherlock ci credeva con tutto il cuore. “Lasciamo...” cominciò, ma Iphigenia lo interruppe.
“Non puoi essere davvero così egoista da obbligare tuo fratello a occuparsi di te quando è...”
Sherlock emise un suono soffocato, ma fu Mycroft a interromperla con furia. “Non. Un’altra. Parola.” 
Iphigenia si zittì bruscamente, come se Mycroft avesse tolto tutta l’aria dalla stanza, e lo guardò scioccata dal suo tono. Persino Sherlock si voltò con un’espressione stupefatta che Mycroft ignorò; si alzò e gli disse, con una voce sorprendentemente calma, “Devi andare in camera tua.”
Lo stupore crebbe sul viso di Sherlock. Lo fissò e disse, “Io devo fare cosa?” e Mycroft capì, perché l’idea di ordinare a Sherlock di andare in camera sua era risibile e lo sapeva. 
“O dove vuoi.” si corresse. “Non mi interessa. Non qui.”
“Ma non è giusto,” disse Sherlock, facendosi più piccolo sul divano per rendere più difficile l’essere rimosso. 
“Sono d’accordo. Ma non posso buttare fuori da casa Iphigenia fintanto che abbiamo degli affari da discutere, perciò il minimo che posso fare è dare ad almeno uno degli Holmes il sollievo di non dover più sopportare la sua presenza.”
Iphigenia squittì, come se sapesse di doversi sentire offesa ma non avesse afferrato esattamente il perché. Mycroft aspettò, sperando che Sherlock, considerate le circostanze, decidesse di collaborare; Sherlock guardò Mycroft, quindi Iphigenia e, miracolosamente, si alzò. 
“Bene,” disse, e passò alle spalle di Mycroft per poter vedere Iphigenia. “Non vivrò con nessuno che non sia Mycroft,” proclamò. “Se provi a costringermi, ti avvelenerò molto lentamente e in un modo tale che nessuno potrà determinare come tu sia morta.”
Oh, magnifico, pensò Mycroft. Non avrebbe potuto lasciare la stanza senza minacciare un omicidio?
Sherlock se ne andò sbattendo elegantemente i piedi, una cosa che solo lui poteva fare; Mycroft si voltò verso i tre uomini arcigni e disse, “Fuori.”
Loro sembrarono seccati perché le cose chiaramente erano appena diventate interessanti, ma se ne andarono immediatamente, senza protestare. Mycroft era contento che qualcosa sul suo viso o nel suo tono non permettesse repliche, nemmeno da Sherlock. Chiuse risolutamente la porta dietro di loro e fronteggiò Iphigenia. 
“Parliamo di affari,” disse, avvicinandosi al vassoio con il tè che nessuno aveva toccato. 
“Affari?” ripeté lei, tutta moralistica indignazione. “La tutela di un bambino non riguarda gli affari.”
Mycroft versò il tè con attenzione e competenza e disse, “Gli hai appena dato dell’egoista. Ha undici anni e desidera restare con la sola persona rimasta nella sua vita che realmente sappia qualcosa di lui. Sherlock è incredibilmente egoista, hai ragione; ma qui, in questo frangente, non avrebbe dovuto essere accusato di essere ‘egoista’. Per niente.” 
La raggiunse, bilanciando le due tazze. “Perciò non fingere di essere interessata al benessere di Sherlock, se così fosse non gli avresti mai detto una cosa talmente spietata.” 
Le porse la sua tazza con un sorriso educato e lei la prese, non sapendo cos’altro fare.
“Dunque parliamo di affari. Perché onestamente non penso tu voglia davvero discutere dell’adeguatezza della tua casa per un bambino di undici anni, con i tuoi giovani, virili e ben pagati aiuti.” Mycroft mise abbastanza enfasi su quella parola da assicurarsi che Iphigenia non potesse fraintendere. 
Iphigenia impallidì e si alzò. “Come osi...”
“Siediti,” disse Mycroft. “Non uscirai da questa casa senza prima aver rinunciato a tutti i tuoi diritti su Sherlock.”
“Cosa ti fa pensare che...”
“Il fatto che so tutto di te. E quello che non so, lo saprò. Non sottovalutarmi e non pensare che questa sia un’esagerazione. Acconsentirò che tu ottenga il fondo creato per la tutela di Sherlock, che è ciò che davvero vuoi, in ogni caso. Lo prenderai e mi lascerai Sherlock, fine della storia.” Mycroft sorseggiò il suo tè. Si era dimenticato di metterci lo zucchero, realizzò. 
Iphigenia tornò lentamente a sedersi, considerando palesemente l’offerta. 
Harbrough tossì, ma Mycroft lo ignorò. 
Iphigenia disse, alla fine, “Non so cosa vostra madre si aspettava che diventaste, crescendovi così come ha fatto.”
Mycroft sorrise senza divertimento, sforzandosi di mantenere la presa sulla tazza lieve e tranquilla, e di non pensare troppo a come quella donna stesse insultando sua madre il giorno dopo il suo funerale. Disse, “Immagino si aspettasse che diventassimo quello che volevamo. Sarebbe molto fiera, questa mattina.”
Iphigenia lo fissò, ma non dissentì.
Harbrough tossì nel silenzio e disse, in imbarazzo, “Devo redigere i documenti?”
“No,” disse Mycroft, senza guardarlo. “Un avvocato competente redigerà i documenti. Ora ho bisogno solo che metta nero su bianco quanto sufficiente a vincolarci a questo accordo finché i documenti ufficiali non mi saranno recapitati.” Mycroft si alzò, mise giù la tazza e raggiunse la scrivania; aprì il primo cassetto sulla destra e ne estrasse un foglio di carta intestata e una bellissima penna stilografica. Li passò entrambi a Harbrough e disse, “Scriva ciò che le serve. E se non reggerà, le farò causa fino a rovinarla.”
Harbrough sembrò allarmato ma cominciò a scribacchiare. 
Mycroft lesse man mano che scriveva, rimpiangendo di non conoscere meglio la legge. Pensò che andava abbastanza bene e anche che Iphigenia era talmente terrorizzata che non avrebbe cercato di tirarsi indietro davanti ai veri documenti. Questo era il miglior accordo per lei, davvero. Tutto quello che voleva erano i soldi: la sua preoccupazione per Sherlock serviva solo a salvarle la faccia. Mycroft firmò il pezzo di carta e lo passò a Iphigenia per la firma che lei scarabocchiò dopo un momento d’esitazione. 
Mycroft non disse una parola. Piegò il documento, lo sistemò nella tasca interna della giacca e mostrò a Iphigenia e Harbrough l’uscita. “Passate una piacevole giornata,” disse, sbattendo la porta; guardò le armature nell’angolo per un po’ e poi disse “Allora?” a Sherlock, consapevole della sua presenza in cima alle scale. 
“Sei stato piuttosto veloce,” commentò Sherlock. 
“Impressionato?” chiese, salendo le scale per unirsi a lui. 
“Le hai dato l’intero fondo, non è vero?”
“Sì.” Mycroft si mise a sedere accanto a lui sull’ultimo scalino. 
“Allora no, non sono impressionato. Era tutto quello che voleva. Avresti potuto mercanteggiare e farle abbassare la somma.”
Mycroft lo sapeva bene. Sapeva anche che Sherlock era un risultato troppo prezioso per rischiare di mercanteggiare. Lui voleva Sherlock e Iphigenia lo sapeva, Mycroft le avrebbe dato anche più del fondo se avesse dovuto. Si considerava fortunato ad essersela cavata così, in realtà. Ma se glielo avesse detto, Sherlock avrebbe deriso la sua sdolcinatezza.
Perciò disse, “E’ stata una piccola, graziosa recita quella all’inizio: sederti vicino a me sul divano e tutto il resto.”
Sherlock sorrise, soddisfatto di sé. “Grazie.”
“Avresti potuto lanciarmi anche qualche sguardo adorante per concludere l’esibizione.”
“Non sarei riuscito a farli sembrare reali,” disse Sherlock. “Bisogna riconoscere i propri limiti. Esagerare è sempre il primo passo per farsi beccare.”
“Vero,” concesse Mycroft, sorridendo mentre si appoggiava all’indietro sui gomiti. 
“Cosa faremo adesso?” chiese Sherlock dopo un momento. 
Mycroft non ne aveva idea. Doveva pensare a un qualche piano per il futuro: non solo per le successive ore o giornate, ma al modo in cui avrebbero vissuto. In quel momento, però, non sapeva da dove cominciare. “Tu dovresti tornare a letto.”
“Non sono veramente malato,” fece Sherlock, tirando su col naso. 
“Hai un esperimento in corso lì, l’ho visto.”
Sherlock esitò. “Sì, campioni di terra, ma... non ho più campioni da analizzare. La mamma e io...”
Mycroft dedusse il resto. La mamma lo accontentava, portandolo in giro per tutta Londra a raccogliere campioni. Avrebbero proprio dovuto passare la giornata dentro casa - Mycroft sapeva che Sherlock aveva mal di gola e che doveva riposare - ma aveva smesso di piovere e la casa sembrava essere soffocante. 
“Andiamo,” disse, e si alzò. “Ne prenderemo altri, allora.”
Sherlock sollevò lo sguardo su di lui e sorrise. Non il sorriso smagliante e melodrammatico che aveva fatto in biblioteca. Solo un sorriso. 
Era infinitamente migliore. 

 

§



 

Un grazie immenso per il caloroso benvenuto che avete dato a questa storia, 
siete stati gentilissimi, dolcissimi e chi più ne ha più ne metta. *manda barrette di cioccolata a tutti*
Spero che la storia continui a piacervi,
alla prossima, 
Sara










 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 


 

Sherlock era passato dal negare di essere malato all’essere, come diceva lui, in punto di morte. Mycroft si sarebbe preoccupato per lui se avesse detto di non esserlo. Rassicurato, invece, dal fatto che il tipico melodramma alla Sherlock significava che si trattava di un semplice raffreddore, Mycroft lo aveva messo a letto (guadagnandosi un’occhiataccia) e aveva chiesto al cuoco di preparare del brodo di pollo per cena. 
Sherlock chiaramente non era rimasto a letto, giudicando dal suono di violino che proveniva da dietro la porta chiusa della sua camera. Preferiva violare le direttive di Mycroft nel modo più ovvio possibile invece di limitarsi a fare qualcosa di meno ribelle, come lavorare ai suoi esperimenti. 
Mycroft si sistemò nello studio di sua madre, lontano dalla stanza da letto. Poteva sentire il violino anche da lì ed era confortante, in realtà. Fin tanto che Sherlock suonava il violino, allora si sentiva abbastanza bene da essere molesto, e quello era un bene. Prese un respiro profondo e aprì il primo cassetto della scrivania. 
Sua madre era stata una persona organizzata e Mycroft aveva sempre apprezzato quel lato di lei. Non gli ci era voluto molto, davvero, per occuparsi della maggior parte delle cose a cui bisognava pensare. Decise che la cosa primaria di cui doveva preoccuparsi ora era, come sempre, Sherlock: non sarebbe andato a Eton prima di due anni, perciò Mycroft doveva decidere come gestire quel periodo. 
Avevano, pensò, due opzioni: Sherlock poteva cambiare scuola e andare in un collegio, il che gli avrebbe permesso di non preoccuparsi per lui mentre era all’università, vacanze scolastiche a parte. O poteva restare nella sua scuola attuale e Mycroft avrebbe cercato qualcuno che lo tenesse d’occhio mentre lui era lontano. 
Sua madre aveva sempre lasciato a Sherlock tantissima libertà, trasformandolo nella testarda, ostinata creatura che era, ma Mycroft sapeva che non era possibile lasciarlo solo nella casa, senza altra supervisione che quella del maggiordomo. 
Così prese una decisione, raggiunse la camera di Sherlock e bussò rapidamente sulla porta. 
Il suono del violino s’interruppe. “Puoi entrare!” disse Sherlock dopo un secondo. 
Mycroft aprì la porta e aggrottò le sopracciglia in direzione di Sherlock che, rimboccato nelle coperte fino al mento, lo guardava con fare innocente. 
“Posso sentirti suonare il violino, Sherlock,” disse. 
“Non so di cosa stai parlando,” replicò lui, vagamente, gli occhi gioiosi per il raggiro. 
Fortunatamente per quello e non per la febbre, pensò Mycroft, entrando nella stanza e spostando la sedia della scrivania vicino al letto. “Dobbiamo parlare,” disse. 
“Altrimenti non avresti interrotto la mia convalescenza,” commentò Sherlock, allegramente. 
“Cosa vorresti fare con la scuola?”
“Non andarci,” disse Sherlock. 
“Non è un’opzione.”
“Perché no?”
“Perché devi andare a scuola. La questione è chiusa.”
“La questione non è chiusa,” disse Sherlock e cominciò a tossire con l’entusiasmo della sua asserzione.
“Sarebbe saggio da parte tua scegliere battaglie che hai la possibilità di vincere. Questa non è una di quelle. So che sei molto intelligente e che probabilmente potresti insegnare gran parte delle lezioni tu stesso.”
Tutte le lezioni,” lo corresse Sherlock, un po’ rauco dopo l’attacco di tosse. 
“Va bene. Tutte quante. Non è solo per quello che esiste la scuola. Devi imparare a stare insieme ad altre persone; è una cosa che dovrai fare per tutta la vita.”
“Sono tutte noiose. Le odio.”
“Le persone generalmente sono noiose. E perché dovresti fare qualcosa di diverso dall’odiarle? Bisogna coltivare delle conoscenze, Sherlock, non degli amici, lo sai.”
Mycroft guardò Sherlock e pensò alle parole che la mamma gli aveva inculcato durante oh, così tante partite a scacchi. Tenerci non è un vantaggio, Mycroft.* 
Mycroft guardò Sherlock, a cui ovviamente teneva, e pensò a tutte le cose che ultimamente aveva fatto proprio per questo. Sua madre aveva valutato bene cosa comportava affezionarsi a qualcuno, ma Mycroft non vedeva come avrebbe potuto cambiare la situazione. 
Decise che al momento il tenere a Sherlock non sarebbe stato la causa della sua rovina. Avrebbe vinto ogni sfida che gli si fosse presentata e si sarebbe occupato di Sherlock al tempo stesso. Se qualcuno poteva riuscirci, quel qualcuno era lui. 
Presa quella decisione, Mycroft prestò la sua attenzione al problema più prossimo. “Ti piacerebbe cambiare scuola?”
Sherlock non sembrò eccitato all’idea. “E andare dove?”
Mycroft scrollò appena le spalle. “Sono sicuro che troveremo delle opzioni. Il punto è che potresti alloggiare da qualche altra parte.”
“Invece che vivere qui?” chiese Sherlock.
“Esattamente.”
Sherlock restò in silenzio per un lungo momento, lo sguardo imperscrutabile. Poi disse, soppesando le parole, “Preferirei di no.”
Mycroft lasciò correre. C’era un fondo di vulnerabilità nella risposta di Sherlock e sapeva che lui la odiava. Se Sherlock desiderava restare in questa casa, allora sarebbe rimasto in questa casa. Avrebbe già dovuto affrontare grandi sconvolgimenti, non era necessario che Mycroft lo costringesse anche ad andare in collegio.
“Allora ti farebbe piacere cambiare scuola qui?”
Sherlock valutò la cosa. “No,” decise. “Immagino che la Hall sia buona quanto qualunque altra.”
“In più, è dove sono andati tutti gli Holmes,” gli fece notare Mycroft.
Sherlock sembrò dubbioso su quel punto ma disse, semplicemente, “Resterò alla Hall. Se devo andare a scuola.”
“Devi andare a scuola. Proprio come io devo andare a Cambridge.” Mycroft esitò. “Ecco... Non ti aspetti che io...” Sherlock lo guardò, colpito da quell’inusuale insicurezza nel parlare. Mycroft prese un bel respiro. “Era mia intenzione tornare all’università. Non resterei qui con te.” Gli venne in mente che non sapeva cosa avrebbe fatto se Sherlock si fosse lamentato di quello, se lo avesse voluto più vicino. Davvero non aveva preso in considerazione la possibilità di lasciare Cambridge. 
“Ovviamente devi tornare all’università,” disse Sherlock. “Se io devo andare a scuola, tu devi andare a Cambridge; e di certo non ti voglio qui.” Starnutì per sottolineare il punto. 
Mycroft sorrise, sollevato. “Così avevo previsto. Dovremo assumere qualcuno per stare con te.”
Sherlock sembrò oltraggiato. “Cosa?”
Mycroft ignorò l’esclamazione. “Qualcuno che si assicuri che tu mangi decentemente, vada effettivamente a scuola e che ti pettini i capelli di tanto in tanto.”
“Ho un maggiordomo per quello.”
“Non è compito del maggiordomo prendersi cura di te in quel modo.”
“Ho undici anni,” annunciò Sherlock, con il tono più altezzoso che il suo naso chiuso gli permise di ottenere. “Spetta solo a me badare a me stesso.”
“E’ mio compito prendermi cura di te,” disse Mycroft. “Cosa potrei mai dire a Iphigenia se dovesse accaderti qualcosa mentre sono all’università? Come potrebbe mai sopravvivere, Sherlock caro? Ne sarebbe distrutta.”
Sherlock ridacchiò, una cosa che faceva di rado, e Mycroft ne fu contento. 
“Credo che la perseguiterei,” decise Sherlock. “Se qualcosa dovesse accadermi.”
“Buono a sapersi che perseguiteresti lei e non me. Non di meno dovrei avere qualcuno qui che faccia le mie veci. Altrimenti, lasciato a te stesso, daresti fuoco alla casa solo per poter poi testare le ceneri.”
Sherlock assunse un’espressione pensosa. 
“Non era un suggerimento,” si affrettò a dire Mycroft. “E questo spiega esattamente perché dobbiamo assumere qualcuno per tenerti d’occhio mentre non ci sono.”
“Una tata,” disse Sherlock, aspramente. “Stai suggerendo una tata.”
“Puoi aiutarmi a sceglierla. O sceglierlo.” suppose Mycroft. 
“Posso avere l’ultima parola?” propose Sherlock. 
“Assolutamente no. Ma ascolterò i tuoi punti di vista sulla questione.”
“Sono io che dovrò vivere con questa persona.” protestò Sherlock. 
“Se ti lasciassi l’ultima parola, non mi faresti assumere nessuno.”
Sherlock tirò su col naso con rabbia e si coprì drammaticamente la testa con le coperte. “Sei impossibile,” si lamentò. “Sarei dovuto andare a vivere con Iphigenia. Scommetto che non mi avrebbe costretto ad avere una tata. Probabilmente non mi avrebbe nemmeno fatto andare a scuola.”
“Questa è una tragedia degna di Euripide,” disse Mycroft. “Di cui studierai a scuola.”
“So chi è Euripide,” insisté Sherlock dal suo rifugio. 
No, non lo sapeva, pensò Mycroft, e sorrise al bozzolo di coperte. “Vado a prenderti del tè con limone e miele.”
“Non sono malato,” disse Sherlock. 
“No? Poco fa eri in punto di morte.”
Sherlock restò in silenzio per un momento. “Credo di odiarti. A scuola dirò a tutti quanto odioso tu sia.”
“Bagnerò il cuscino di lacrime ogni notte.”
“Vattene,” disse Sherlock, una replica che significava che si dava per vinto per quel round, perciò Mycroft andò in cerca del tè. 
Sherlock dormiva quando fu di ritorno, Mycroft lasciò il tè sul comodino e andò a contattare l’agenzia per assumere quella che Sherlock decisamente non voleva considerare una tata. 

 

***

 

Mycroft era determinato ad assumere la persona giusta in qualità di “fastidiosa, inutile idiota” di Sherlock, come lui l’aveva ufficialmente rinominata. 
Non importava quanto tempo gli ci sarebbe voluto per trovare la “fastidiosa, inutile idiota” più adatta; avrebbe raggiunto un qualche accordo con il suo tutor per qualsiasi cosa stesse perdendo a Cambridge. Imparare a coesistere con gli altri era il fine della scuola tanto per lui quanto per Sherlock, e Mycroft in quel particolare ambito era molto più avanti di quanto pensava Sherlock sarebbe mai arrivato. 
Perciò era disposto a fare con calma e non era un problema che Sherlock continuasse a fare domande inappropriate durante i colloqui, per lo più perché non aveva ancora incontrato una sola persona che a suo giudizio sarebbe stata capace di gestirlo. 
Sherlock chiedeva cose come: Hai una notevole collezione di pornografia. Quale articolo definiresti il tuo preferito? E: Se sostituissi tutto l’alcol presente in casa con dell’acqua, ti troverei a rovistare nel mobiletto delle medicine per del collutorio? E ancora: Non sono favorevole all’essere rapito e tenuto in ostaggio per ripagare i tuoi debiti di gioco. 
Be’, l’ultima non era una domanda, ma Mycroft aveva già raggiunto la stessa conclusione sul candidato che gli stava di fronte; perciò quando Sherlock lo disse, si limitò a fare un mediocre tentativo per trattenere il sorriso. Numerosi candidati gli avevano detto che così non faceva altro che incoraggiare l’inaccettabile comportamento di Sherlock; Mycroft suppose fosse vero e che avrebbe dovuto essere più severo con lui, ma era difficile quando era quasi sempre dalla parte del giusto. Mai educato, ma quasi sempre nel giusto. 
“Non troveremo mai qualcuno,” gli disse Sherlock, studiando attentamente le diverse varietà di garza che aveva trovato sul tappeto della biblioteca. 
“Sì, invece,” disse Mycroft senza sollevare lo sguardo dal libro di poesia che stava leggendo. 
“Non troveremo mai qualcuno e io dovrò andare andare a vivere su una nave pirata.”
“Sei consapevole che non saresti il capitano di questa nave pirata,” commentò Mycroft e voltò pagina. 
“Lo sarei!” protestò Sherlock.
“Non subito. E non sei abbastanza paziente da aspettare di essere promosso, perciò cercheresti di farti strada a forza fra i ranghi per essere infine buttato in mare e lasciato a morire.”
Sherlock era silenzioso e Mycroft combatté la voglia di girarsi per poter leggere l’espressione sul suo volto. 
“No, non andrebbe così,” decise Sherlock, alla fine.
“Oh no? Perché no?” Mycroft allora lo guardò, in attesa, interessato al suo scenario alternativo. 
Sherlock ricambiò lo sguardo freddamente. “Perché tu mi salveresti. Tu non permetteresti che mi accadesse niente del genere.” Non c’era ombra di dubbio nella sua affermazione; poi si voltò, tornando ad esaminare la garza. 
Mycroft sapeva che era la verità, ma era un po’ preoccupato dalla certezza granitica che Sherlock sembrava riporvi. “Come farei a salvarti dall’essere gettato in mare? Non ci sono telefoni sulle navi pirata. Come faresti ad avvertirmi?”
Sherlock non si curò nemmeno di alzare lo sguardo. “Non dovrei farlo. Tu lo sapresti e basta. Sei Mycroft Holmes. Un giorno, sarà una cosa terrificante. Di fatto, lo è già.”
“Tu, signorino, sei il più gran ruffiano che io abbia mai incontrato,” disse Mycroft in tono forzatamente leggero, prendendo un cuscino dal divano e lanciandolo verso la testa di Sherlock.
Sherlock lo evitò e sorrise.

 

***

 

Avevano esaminato tutti candidati con esperienza nell’educazione dei bambini che l’agenzia aveva mandato. Dopo averci riflettuto, Mycroft arrivò alla conclusione che non avrebbe mai dovuto cercare fra persone con quel tipo di esperienza. Sherlock non era un tipico bambino sotto nessun aspetto. Le persone abituate a prendersi cura dei bambini non avrebbero avuto idea di cosa fare con lui. Mycroft aveva bisogno di qualcuno del tutto diverso. 
Sapeva che l’agenzia era seccata con lui. Non capivano come potesse star cercando una tata (Mycroft non li corresse con “fastidiosa, inutile idiota”) e richiedere persone senza alcuna conoscenza dei bambini. Gli fecero domande sarcastiche: se volesse, ad esempio, fare un colloquio a degli impiegati a tempo indeterminato e Mycroft si ritrovò ad accettare, chiedendogli di mandare i loro candidati meno qualificati. 
Il che spiegava come lui e Sherlock si ritrovarono in sala da pranzo con Martha Hudson. 
Su carta era, be’, praticamente nulla. Le sue esperienze lavorative erano minime e il tutto risaliva a decenni prima. Un lungo periodo del suo passato non era documentato e Mycroft si accigliò chiedendosi da dove cominciare con le domande. 
Sherlock, al solito, fece la prima domanda. “Dov’è suo marito?”
“E’ morto,” gli disse la signora Hudson. 
Mycroft guardò lei e quindi Sherlock: la stava studiando attentamente, lo sguardo assottigliato, catalogando cose del suo aspetto; Mycroft tornò a guardarla. 
In fatto di aspetto era nulla quasi quanto il foglio che aveva davanti. Abbastanza anziana da poter essere loro madre, probabilmente vicina all’età che lei aveva avuto, ma tanto diversa quanto la notte lo era dal giorno. 
Sicuramente la loro madre non avrebbe mai indossato il completo che la signora Hudson portava, una strana combinazione di troppo giovanile e troppo vecchio assieme. 
Aveva preso la metropolitana per arrivare e bevuto una frettolosa tazza di tè in mattinata; aveva un debole per i rimedi alle erbe, una sorella a cui voleva bene ma che viveva fuori dal paese - nel Surrey, probabilmente - e che non andava a trovare tanto spesso quanto le sarebbe piaciuto. Quel tanto era facilmente deducibile. Il resto era un’incognita. 
“Signora Hudson,” cominciò Mycroft, mettendo da parte l’inutile pezzo di carta. 
“Morto dove?” chiese Sherlock.
“Florida,” gli rispose la signora Hudson. “Sei mai stato in Florida? Fa terribilmente caldo. Va bene se hai un’anca malandata, come me. Devo prendere dei rimedi per quella. E’ un problema?” Guardò ansiosamente da Sherlock a Mycroft. 
“No,” le rispose Sherlock, riportando l’attenzione della signora Hudson su di sé. 
E ottenne anche l’attenzione di Mycroft. Sherlock sembrava... interessato. Il che era più di quanto fosse stato con chiunque altro fino a quel momento. 
Mycroft posò nuovamente lo sguardo sulla signora Hudson e cercò di capire cosa ci fosse di attraente in lei. Forse l’aspetto da matrona? Allettante per un ragazzo reso recentemente e inaspettatamente orfano? Ma avevano visto altre donne anziane e Sherlock non era stato colpito da nessuna di loro. 
“Così è stata in Florida di recente?” chiese Mycroft, rivolgendosi alla signora Hudson e considerando il colloquio più seriamente di quanto non avesse fatto. 
“Sì, sono appena tornata a casa. E’ bello tornare a casa, non è vero? Voglio dire, alla fine, è lì dov’è la famiglia.”
“Faccio molti esperimenti scientifici,” annunciò Sherlock bruscamente, lo sguardo ancora assottigliato, come se fosse un test. 
“Che tipo?” chiese con interesse la signora Hudson.
“Il tipo importante,” rispose Sherlock. “Non può toccarli o interferirci in alcun modo. Niente nella mia stanza può essere toccato.”
La signora Hudson sembrò un po’ offesa. “Be’, io non sarei la tua governante.”
“A volte dimentico di mangiare,” continuò Sherlock. “Dovrà portarmi il tè, penso. Mycroft, non dovrà portarmi il tè?”
“Ecco...” cominciò Mycroft, pronto a dire che avevano un cuoco che gli avrebbe fatto il tè e che quello non era necessariamente compito della signora Hudson. 
A volte ti porterò il tè, ma non sono la tua governante,” disse la signora Hudson a Sherlock. 
Sherlock ci pensò. “E i biscotti?”
“Forse,” disse la signora Hudson.
Mycroft sapeva che in realtà significava Sempre e lo sapeva anche Sherlock che si sistemò nella sedia con evidente soddisfazione. 
“Sono morbosamente affascinato dalla morte,” proclamò Sherlock con piacere. 
Un insegnante lo aveva detto di lui anni prima: la mamma ne aveva riso, portando Sherlock a trovarlo profondamente divertente e ad essere molto fiero di quella valutazione. 
“Questo è indecente da parte tua,” disse la signora Hudson, ma gli sorrise come se già gli volesse bene e pensasse che fosse la cosa più intelligente che avesse mai visto. 
Mycroft alternò lo sguardo fra i due, sconcertato dall’ovvio affetto ricambiato e deciso a non guardare in bocca al caval donato. Chiunque guardasse Sherlock con tenerezza dopo aver passato cinque minuti con lui valeva tanto oro quanto pesava. 
“Quando può cominciare?” chiese.

 

 

 

§


 


 

* Caring is not an advantage. - vuoto totale, gente. Quando mi sono ritrovata questa frase davanti ho avuto un vuoto totale: come tradurla? Sono andata a cercare la puntata in cui Mycroft lo diceva (2x1, min. 47) e il doppiatore dice Soffrire non è un vantaggio.
Eh, no. Non mi è andata bene come traduzione. Perché il caring non si riferisce direttamente al soffrire, bensì al voler bene, all’affezionarsi... non trovate? Così ho optato per tenerci, se vi dovesse venire in mente qualcosa di meglio fatemelo sapere :)





 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

 

Per quanto ne sapeva Mycroft, le cose andavano egregiamente. 
I corsi erano come se li aspettava, parecchi soldi erano stati usati per degli investimenti sicuri, Iphigenia aveva rinunciato ai suoi diritti su Sherlock e restava silente, e nessun altro aveva sollevato problemi riguardo alla sua decisione di occuparsi di lui. 
Sherlock stesso non aveva commesso alcun crimine e appariva fiorente. Sembrava adorare la signora Hudson, cosa che Mycroft aveva dedotto dal suo silenzio. Se Sherlock avesse avuto problemi, avrebbe dato voce alle lamentele fragorosamente e con veemenza; invece era silenzioso, il che significava che doveva essere soddisfatto da come stavano le cose e Mycroft ne era contento. 
Gli piaceva pensare che fossero riusciti a superare la parte più difficile. I resoconti sia della signora Hudson che del maggiordomo erano rassicuranti. Il maggiordomo disse che Sherlock creava un’enorme quantità di problemi e che ultimamente stava studiando quanto a lungo le rane potessero vivere senza mangiare, come parte di un esperimento. La signora Hudson disse che Sherlock stava facendo una gran confusione in casa con carcasse di rane, “santo cielo.” E Mycroft pensò che forse tutto sarebbe andato bene, dopo tutto. 
Il giorno che ricevette la grossa busta che era riuscito a dimenticare di star aspettando, si chiuse nella sua stanza, prese un bel respiro e lesse il rapporto dell’autopsia di sua madre. Due volte. Poi chiamò Sherlock. 
Rispose la signora Hudson e Mycroft disse, con automatica cortesia, “Buona sera, signora Hudson. Come sta?”
“Oh, Mycroft,” disse lei, dando l’impressione di essere contenta di sentirlo. “Come stai? Le cose vanno bene?”
“Sì,” rispose vagamente, non interessato. “Sherlock è lì?”
“Certo che c’è.” La sentì chiamarlo. “Sherlock! Tuo fratello è al telefono!”
Ci fu un po’ di trambusto e poi la voce di Sherlock disse, “Cosa puoi mai volere?” 
“Sherlock!” Mycroft sentì la signora Hudson rimproverarlo. “Sii gentile.”
“E’ solo che hai interrotto un esperimento davvero importante,” gli disse Sherlock. 
“Non stavi facendo niente,” Mycroft sentì la signora Hudson dire. 
“Stavo pensando di fare qualcosa,” si difese Sherlock, indignato. “Pensando molto intensamente. Cosa vuoi?”
Mycroft si chiese perché mai stava trovando tanto difficile dirlo. “Ho ricevuto il rapporto dell’autopsia della mamma, oggi.” 
“Perché lo hai ricevuto tu?” si lamentò Sherlock. “Perché hai tu tutte le cose divertenti solo perché sei il più grande?”
“Non è divertente, Sherlock,” disse Mycroft, un po’ brusco. 
Sherlock restò in silenzio per un momento e Mycroft riuscì perfettamente a immaginarsi la sua espressione ferita. Non si scusò e Sherlock non ne sembrò sorpreso. 
“Come dice che è morta?”
“Shock anafilattico,” rispose Mycroft. 
Sherlock non parlò per un lungo momento. “Non può essere esatto. Devono aver sbagliato. Idioti. Ecco perché avresti dovuto lasciar fare a me l’autopsia.”
Mycroft si massaggiò la fronte, cercando di scacciare il principio di emicrania. “Non hanno sbagliato, Sherlock.”
“Sai cos’è lo shock anafilattico?” domandò Sherlock.
“Certo che lo so,” scattò Mycroft.
“A cosa era allergica? Non era allergica a niente!”
“L’autopsia dice che sono state le noci.”
“Noci?” ripeté Sherlock, praticamente gridando. “Noci? Dobbiamo riesumare il corpo e far ripetere l’autopsia.”
Mycroft si arrese e appoggiò pesantemente la testa sulla mano. “Noi non... Ha sviluppato un’allergia alle noci, Sherlock, ed è morta di shock anafilattico. E’ quello che è successo.”
“Ma quello... le probabilità che accada sono...” La voce di Sherlock si affievolì fino a scomparire. 
“Improbabile,” disse Mycroft, stancamente. “Non impossibile.”
“Perciò il tutto è stato che... ha mangiato delle noci.” Sherlock parlava come se non riuscisse a crederci e Mycroft sapeva cosa stava provando, ecco perché aveva letto il rapporto due volte. Non era sicuro di che ragione si aspettasse per spiegare come mai una donna in salute fosse morta improvvisamente, ma non era di certo questa qui. 
“Ha mangiato delle noci,” continuò Sherlock, lentamente, “un giorno in cui nessuno era a casa. E’ stato... è stato tutto lì.”
Mycroft sapeva che Sherlock stava ripensando a tutto quello che aveva osservato su loro madre, correndo fra i corridoi del suo palazzo mentale in un’irrequieta catalogazione, cercando di trovare un senso. 
“In nessun modo avresti potuto sapere che aveva sviluppato un’allergia alle noci, Sherlock.”
Lui restò in silenzio. 
“Sherlock?”
“Vuoi parlare di nuovo con la signora Hudson?” gli chiese Sherlock, il tono smorto. 
“Sherlock,” disse, ma fu la signora Hudson a rispondergli. 
“Mycroft? Va tutto bene? Cosa gli hai detto?”
“Dov’è?”
“Sta tornando al piano di sopra proprio adesso, ma è bianco come un lenzuolo.”
Mycroft sospirò. “Nostra madre è morta per una reazione allergica alle noci.”
La signora Hudson mormorò comprensivamente. “Poveri cari. Lo avete scoperto ora?”
“Ho appena ricevuto il rapporto dell’autopsia.” Mycroft esitò. “Signora Hudson, Sherlock ha trovato nostra madre, il giorno che è morta. Forse dovreste saperlo.”
“Oh,” disse la signora Hudson, ma quell’unica sillaba era piena di significato. Ci fu un attimo di pausa e Mycroft lasciò che capisse come questo avrebbe potuto influire sul comportamento di Sherlock nell’immediato futuro. 
“Forse dovresti inviargli il rapporto,” suggerì lei, alla fine. “Potrebbe tirarlo su di morale. Sai, la parte scientifica. Gli piacciono quelle cose.”
Mycroft provò a immaginare qualcun altro in grado di capire che Sherlock potesse essere rallegrato dal ricevere il rapporto dell’autopsia di sua madre. Si chiese, non per la prima volta, cosa avrebbero fatto se non fossero inciampati in quella gemma della signora Hudson. 
“Sì,” concordò Mycroft. “Grazie. Lo farò, signora Hudson.”

 

 

***

 

 

Sherlock Holmes aveva trovato sua madre morta nel giorno che tutti quanti nella casa conoscevano come il Giorno Libero, quando cioè nessun membro dello staff era di turno. 
Lei diceva sempre che era più facile ricordare un solo giorno senza domestici che dover tenere a mente una tabella di turni. Perciò Sherlock non si era aspettato di essere accolto all’entrata, quando l’autista lo aveva accompagnato a casa dopo la scuola. Era entrato da solo come faceva sempre e poi si era immediatamente fermato nell’atrio. Perché lo aveva capito.
Nonostante in seguito avesse cercato tante volte di individuare cosa esattamente lo avesse spinto a sapere che sua madre era morta subito dopo aver varcato la porta d’ingresso, non era stato in grado di giungere a una conclusione soddisfacente. 
Semplicemente, in qualche modo, aveva sentito che il suo prossimo passo gli avrebbe cambiato irrevocabilmente la vita. 
Le cose che ricordava sulla scoperta del corpo di sua madre erano diligentemente annotate in un taccuino, fra i suoi altri dati scientifici; solo una pagina in più da sfogliare. 

 

Posizione supina
Testa approssimativamente a 7 mt. dalla porta
Braccio sinistro piegato, mano sinistra appoggiata al collo
Braccio destro completamente steso verso il telefono sul tavolino da caffè, mano destra serrata
Occhi leggermente gonfi
Livido sulla tempia destra
Pelle dal colorito bluastro - fredda al tocco - principio di rigor mortis - morta da tre ore?
Oggetti sul pavimento: 
_ Pezzi degli scacchi sparpagliati - torre bianca, 2 pedoni bianchi, 3 pedoni neri, cavallo nero, alfiere nero
_ Piattino da dessert
_ Fetta di torta di carote lasciata a metà

 

 

Sherlock sedette sul letto e rilesse gli appunti per la diciassettesima volta in tre giorni. 
Lesse, come aveva già fatto, torta di carote lasciata a metà, e si chiese come aveva potuto non cogliere l’ovvietà di quell’indizio. Aveva pensato che forse si era strozzata: la sua morte gli era sembrata coerente con il soffocamento. E lui era arrivato tre ore troppo tardi per esserle di qualunque aiuto. 
Lo aveva saputo subito, dopo averla trovata. Perciò non aveva chiamato il pronto intervento. A cosa sarebbe servito? Aveva telefonato a Mycroft. E poi, dopo avergli fatto capire che no, non stava scherzando, aveva rimesso al loro posto i pezzi degli scacchi ed era salito al piano di sopra per mettere nero su bianco queste scrupolose note. 
Non sapeva a cosa gli erano servite: non aveva previsto la causa della morte che Mycroft gli aveva detto. Era stato un idiota a non averlo capito. 
La signora Hudson bussò alla porta. Be’, qualcuno bussò alla porta, ma doveva essere la signora Hudson perché lei era l’unica a farlo. Gli altri membri dello staff lo evitavano quanto più era possibile. 
Sherlock chiuse il suo taccuino, lo fece cadere con noncuranza sul pavimento, dall’altro lato del letto, e poi disse, “Cosa?”
La signora Hudson entrò, agitando una busta. “Tuo fratello ha mandato il rapporto dell’autopsia, Sherlock. Ho pensato avrebbe potuto farti piacere dargli un’occhiata.” 
Gli sorrise luminosamente. 
Sherlock guardò corrucciato la busta. Al tempo stesso voleva e non voleva dare un’occhiata. Quello che voleva davvero era un nuovo rompicapo. Qualcosa di diverso. Qualcosa di cui lui non aveva colpa. 
Prese la busta, la fece cadere dall’altro lato del letto assieme al taccuino e guardò la signora Hudson. “Vostro marito non è morto.”
Lei sembrò leggermente allarmata. “Cosa?”
“Ha mentito a riguardo, quel giorno. In qualche modo. Ma non è una bugia semplice. C’è qualcosa di strano nell’intera situazione che non sono riuscito a capire. Mi dica cos’è.”
Lei esitò. Poi, però, sedette ai piedi del letto e lo guardò. 
La signora Hudson, Sherlock aveva imparato, raramente gli negava qualcosa che aveva chiesto direttamente. “Lui è... quasi morto. Non ancora morto.”
Sherlock la studiò. “Malato?” provò, ma non gli sembrò corretto, non era coerente con ciò che sapeva. 
Lei scosse la testa. “Lui è...”
“Aspetti,” disse Sherlock, lo sguardo sottile, pensando. “Non me lo dica. Mi lasci pensare. Florida. Lui è in Florida. Non è tornato qui con lei. Florida e quasi morto, ma non malato. In attesa della morte - è nel braccio della morte? Vostro marito è un assassino?” 
Sherlock sapeva che non avrebbe dovuto esserne contento. Normalmente non gli importava di che cosa avrebbe o non avrebbe dovuto rallegrarlo, ma era diverso quando si trattava della signora Hudson. Non voleva offenderla. 
“Scusi,” si corresse velocemente. “Mi dispiace. Vostro marito è un assassino?” Lo chiese molto sobriamente, cercando di imitare il tono comprensivo che Mycroft usava in situazioni del genere. 
La signora Hudson rise. “Tu davvero, davvero non dovresti entusiasmarti per cose come questa, Sherlock. Le persone penseranno cose terribili di te.”
“A chi interessa cosa pensano le persone?”
“A me interessa.”
“Ecco perché non dite a nessuno che vostro marito è nel braccio della morte.”
“Non è il tipo di cosa che va detta in giro, Sherlock.”
Sherlock la ignorò. Quello che stava davvero pensando era che la cosa era meravigliosa. Un intero magnifico rompicapo, solo per lui. “E’ stato accusato ingiustamente?” chiese, eccitato, sedendosi meglio. “Vuole che provi la sua innocenza e che gli salvi la vita per lei?”
La signora Hudson lo guardò. Sembrava più seria di quanto Sherlock l’avesse mai vista. Si chiese cosa avesse detto di sbagliato. 
“Potrei, lo sa,” insistette, pensando che forse lei non era sicura delle sue capacità. 
“Oh, non ho dubbi che potresti,” disse, lentamente. “Ma è un uomo terribile, Sherlock. Un... è un uomo terribile.”
“E’ colpevole,” realizzò Sherlock.
“Del crimine di cui è stato accusato. Di molto altro. E’... terribile.”
Sherlock osservò le mani della signora Hudson, strette saldamente in grembo, e la guardò di nuovo, accigliato. “Siete spaventata.”
“Forse un pochino,” disse lei con un piccolo sorriso tremante. 
“Di cosa? Di lui? E’ nel braccio della morte.”
“Ma se... Esistono così tante possibilità di ricorsi in appello, Sherlock. Così tante tecnicità. Il sistema legale americano...”
Questo, pensò Sherlock, era inaccettabile. La signora Hudson non avrebbe dovuto essere spaventata. Mai. Di niente. Non quando c’era lui. 
“Non glielo permetterò,” decise Sherlock.
“Permettere cosa?”
“Farla franca. Uscirne. Sfruttare le tecnicità. Mi assicurerò che resti dov’è, che sia giustiziato e che non le faccia mai più del male.” 
Guidato dall’impulso poggiò le mani su quelle nervose della signora Hudson, perché aveva visto persone farlo e supponeva fosse confortante. E in qualche modo lo era. Le strinse. 
“Non deve essere spaventata,” promise. “La terrò al sicuro.”
La signora Hudson sembrò non avere parole. Sherlock si domandò se per caso stesse per piangere. “Tu non... non è compito tuo tenere me al sicuro.”
“Gli Holmes sono bravi a tenere le persone al sicuro, sa.” Pensò un attimo a sua madre e si corresse, “Di solito. E’ molto meglio averci come alleati che come nemici.”
Sapeva che almeno l’ultima parte era vera, perché sia la mamma che Mycroft lo dicevano frequentemente. 
“Sei molto più dolce di quanto lasci vedere a tutti gli altri,” commentò la signora Hudson, stringendogli a sua volta le mani. 
Il che significava, pensò Sherlock, che aveva acconsentito. Si accomodò soddisfatto contro la testiera del letto e disse, “Dovrò vedere tutti i documenti che ha pertinenti al caso di suo marito.”

 

 

 

 

 

§

 

 

 

E con questo capitolo chiudiamo la prima parte della storia. 
Dal prossimo ci spostiamo nel 1992, a Eton (la più famosa e prestigiosa scuola privata del Regno Unito) - ovvio che Sherlock ci vada, no?
Finalmente arriverà John. Sì, credo lo steste aspettando tutti impazientemente, non è così? E Lestrade. Oh, sì, anche quel cucciolo di Greg. 
Grazie ancora per l’immenso supporto che mi state dando, 
alla prossima, 
Sara

 

P.s. il prossimo capitolo sarà, se non erro, di più di 10 pagine.
        Tutto per John, insomma ;)












 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***





Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

 

Seconda Parte

 

Settembre 1992

 

 

John Watson voleva che Eton fosse il tipo di posto in cui avrebbe potuto semplicemente... mimetizzarsi. Volare basso per un po’. Non essere notato. Non aveva davvero creduto che sarebbe successo, ma aveva desiderato che andasse in quel modo. Questo si era ripetuto mentre preparava le valigie, cercando di ignorare le opinioni di sua madre, convinta che lui stesse aspirando a troppo e che avrebbe dovuto sapere qual era il suo posto. 
Un Watson a Eton? gli aveva detto. Capiranno immediatamente che sei un impostore. 
Non era un impostore, ovviamente. Aveva ottenuto la sua ammissione lealmente; le occhiate curiose che continuava a ricevere, però, mentre girovagava alla ricerca del suo dormitorio, lo facevano di certo sentire come tale. E come se stesse fallendo miseramente nel suo tentativo di mimetizzarsi. 
“Hai l’aria sperduta,” gli disse un altro studente, alla fine. “Hai bisogno di aiuto per trovare il dormitorio?”
John desiderò non sembrare così ovviamente perso. Avrebbe voluto avere semplicemente l’aria di qualcuno che è uscito per fare una passeggiata. Uno che si sta divertendo. Trascinandosi dietro la sua valigia. Oh, al diavolo, ovviamente sembrava essersi perso. 
“Io... sì,” disse, decidendo che era stupido negarlo. “Sto cercando Holland House.”
“Oh, è facile. E’ proprio lì.” Lo studente indicò l’edificio adiacente a quello a cui stavano davanti e John si sentì un idiota per non averlo capito prima. 
“Grazie,” disse, le labbra piegate in un sorriso sicuro di sé che stava a significare Non mi sento per niente un idiota.
“Non dirlo neanche. Io sono Mike Stamford.” Gli porse la mano. 
John si sentì rincuorato. Questo, pensò, era un primo passo per farsi un amico. Gli strinse la mano. “John Watson.”
“A che anno sei?” chiese Mike con curiosità. 
“L’ultimo,” rispose John. 
Mike inclinò la testa, l’espressione ancora più curiosa, ma disse solo, “Anche io, allora immagino che ci vedremo in giro.” S’incamminò, sicuramente già impegnato ad andare da qualche parte, a incontrare persone che già conosceva; vivendo il suo ultimo anno in un ambiente ormai familiare. 
Improvvisamente John si chiese se non fosse impazzito del tutto decidendo di venire qui. 
Trascinò la valigia verso l’edificio indicatogli da Mike: un grande, imponente palazzo a due piani con i muri ricoperti di edera rampicante; guardò le file simmetriche di finestre e non poté fare a meno di confrontarlo con l’appartamento delle case popolari da cui arrivava. Era ancora convinto di star compiendo una follia, ma fissò la sua nuova casa e disse a se stesso, ‘Sei a Eton’. Non si sentì più fiducioso, ma era più che mai determinato a non far percepire a nessuno la propria insicurezza. 
La porta della stanza che gli era stata assegnata era aperta e dentro c’era qualcuno. 
Anzi, c’era più che un qualcuno. C’era una moltitudine di cose, oltre a quel qualcuno. La camera era un caos totale di... John non sapeva di che cosa. Era decisamente troppo da catalogare. Pile traballanti di libri, giornali e riviste. Capsule di Petri e boccette sparpagliate su tutto il pavimento. Quello che sembrava in tutto e per tutto un teschio umano. 
“Ti serve qualcosa?” domandò il qualcuno nella stanza senza alzare lo sguardo; John smise di fissare il teschio e guardò la persona che aveva parlato: un altro studente, ipotizzò, piegato su un microscopio e impegnato ad aggiustarne la messa a fuoco. 
“Io... Ci deve essere un errore. Scusa,” disse John, sentendosi un idiota per la centesima volta quel giorno. 
“Nessun errore.” Scarabocchiò qualcosa su un pezzo di carta. “Questa è la tua stanza.”
John lo aveva appena confermato a se stesso: a meno che non c’era stato un disguido con l’amministrazione, questo era decisamente il numero della camera che si era annotato. 
Guardò di nuovo l’occupante della stanza che ora, seduto alla scrivania, lo osservava con schietto interesse. Indossava l’uniforme di Eton, cravatta a parte, e John provò la brutta sensazione di non essere vestito in modo appropriato. Del resto, tutto di lui lo faceva sentire non appropriato, come se la sua intera persona avesse bisogno di essere ripensata e stirata. C’era qualcosa di drammatico e irreale in quel ragazzo: gli zigomi erano così alti che avrebbero dovuto dargli un’aria strana, aliena, e invece lo rendevano solo particolarmente affascinante. Le labbra erano talmente incurvate da sembrare impossibili, ma ancora, non gli davano un’aria stupida, bensì paradossalmente aristocratica. Gli occhi erano di un colore pallido che John non riusciva a identificare da dove si trovava, ma quale che fosse, erano taglienti; i capelli erano un’informe massa di scuri riccioli ribelli. 
Tutto in lui era melodrammatico, non necessario, memorabile e maestoso. 
John, in confronto, si sentì assolutamente risibile. Si chiese se questo era il tipo di creature che esistevano a Eton e se sarebbe stato cacciato perché non abbastanza Byroniano. 
L’intruso sconosciuto unì le dita ridicolmente lunghe ed eleganti, le tamburellò brevemente su quell’improbabile bocca e poi disse, di colpo, “Un qualche delizioso tipo di ricatto. Non vedo l’ora di scoprire di cosa si tratta.”
John batté le palpebre, la mano che rafforzava la presa sulla valigia. “Prego?”
“Sei nuovo. Il tuo ultimo anno. Nuovo al tuo ultimo anno? Non succede mai. Proveniente da una casa popolare e da una scuola statale, niente meno. Anche se fossi l’essere umano più intelligente mai nato avresti avuto bisogno di qualcos’altro per essere qui.”
John, accigliato, fece per dire che niente di tutto questo erano affari suoi. 
“Non dirmelo,” disse il ragazzo, bloccandolo sul nascere. “Voglio scoprirlo da solo.”
John sentì crescere l’irritazione. “Non stavo per dirti un bel niente.”
“Ah, allora c’è qualcosa da dire,” concluse trionfalmente lui. 
Inalò con frustrazione. “Non sono affari tuoi. Come sapevi tutte quelle cose, comunque?”
Il ragazzo emise un mugugno sprezzante. “Niente di impegnativo da dedurre. Io sono Sherlock Holmes.”
Aveva un nome snob e ridicolo, pensò infastidito John, coerente con il suo aspetto snob e ridicolo e con la sua snob e ridicola voce. Trascinò la valigia attraverso i detriti sul pavimento. 
“Attento,” disse bruscamente Sherlock Holmes quando inciampò su uno scoiattolo imbalsamato. 
“Che stai facendo nella mia stanza?” chiese John, riuscendo infine a raggiungere il letto ricoperto di fogli pieni di equazioni. 
“E’ il mio laboratorio,” rispose Sherlock Holmes. 
John lo guardò, incredulo. 
“Be’, non è che tu la stessi usando,” puntualizzò Sherlock. “E a me serviva lo spazio.”
“Non hai una camera?”
“Certo che ce l’ho. La stanza proprio accanto alla tua.”
“Ottimo,” disse John. “Allora dobbiamo solo spostare tutta questa roba nella stanza accanto.”
“Non possiamo assolutamente.”
“Non vedo perché no.”
“La mia camera non può essere così disordinata. Finirei nei guai e mi succede già più che a sufficienza. Tu non finirai nei guai. Hai un delizioso tipo di ricatto in corso che possiamo usare a nostro vantaggio.”
“Noi?” ripeté John. “Nostro?”
Sherlock Holmes annuì. “Ovviamente. Ora che condividiamo questa stanza.”
“No,” disse John, “Noi non condividiamo questa stanza. Questa è la mia stanza.”
“E’ la tua stanza e il mio laboratorio. Di conseguenza, condividiamo.”
“Non è il tuo laboratorio,” insisté John. “E’ la mia stanza. Punto.”
“E’ entrambi.”
“Come può essere entrambi?”
“Ci sono attrezzature di laboratorio e un letto.”
“Un letto ricoperto di... Quella è una gomma da masticare?”
Sherlock si alzò in piedi per la prima volta. Era più alto di John, cosa che servì solo a irritarlo maggiormente, più delle snob eleganti linee di cui Sherlock Holmes sembrava essere fatto. Superò John con grazia e cominciò a togliere le cose dal letto. 
“E’ per un esperimento. Pulirò un po’, lo sai. Naturalmente.”
Sherlock appariva lievemente imbarazzato e a John sembrò una piccola vittoria. “Sì,” concordò, poggiando la valigia sul letto. “Pulisci. E non voglio niente sul letto, è mio.”
Sherlock annuì e fece cadere le cose che erano state sul letto su una delle altre pile nella stanza. John realizzò in quel momento di aver appena permesso che la parte di stanza che non era il suo letto fosse il laboratorio di qualcun altro. Come era successo? 
Sospirò e guardò Sherlock fare inefficacemente qualcosa che lui considerava ‘pulire’, e che consisteva nello spostare cose da un mucchio di roba ad un altro. 
“Per che tipo di esperimento ti serve un pollo di gomma?” chiese John. 
“Oh, no,” rispose Sherlock con un fuggevole sorriso. “Quello era per uno scherzo.” Si raddrizzò, arretrò di un passo e sembrò soddisfatto, come se avesse ordinato abbastanza.
John non era d’accordo e stava per dirglielo quando lui parlò di nuovo.
“Dovresti venire con me.”
“Venire con te dove?” chiese, perché non era sicuro di che cosa quel tipo folle stesse suggerendo.
“Ti hanno inserito nella visita guidata di Eton, ma quella sarà con i nuovi ragazzi.”
“Io sono nuovo.”
“No, no, intendo dire le matricole, i tredicenni. Non vuoi fare il tuo primo giro a Eton con il rettore e gli ultimi arrivati: non impareresti niente.”
John pensò che Sherlock potesse avere ragione. 
“Perciò ti farò visitare io Eton e, in ogni caso, voglio il tuo consiglio su una cosa.”
“Il mio consiglio?” chiese John, scherzosamente. 
“Sì, in qualità di scienziato.” Sherlock uscì dalla stanza mentre lo diceva. 
“Aspetta. Cosa ti fa pensare che io sappia qualcosa di scienza?”
Sherlock rimise la testa nella stanza e gli sorrise. “Mi stai lasciando tenere un laboratorio nella tua camera da letto. Ora muoviti.” Sembrò sul punto di mettersi a ballare per la gioia. “Potrebbe essere pericoloso.”

 

 

***

 

 

John non riusciva a decidere se la visita guidata di Sherlock a Eton fosse estremamente utile o incredibilmente inutile. Principalmente consisté in Sherlock che camminava molto velocemente, con John che cercava di stargli al passo, e che indicava edifici in lontananza dicendo cose come ‘Quello è l’edificio con tutte le lezioni noiose su cose che non hanno alcuna importanza,’ e ‘Evita quel palazzo. Sono ragionevolmente sicuro che tutti lì dentro stiano lentamente morendo per avvelenamento da mercurio, ma nessuno sta mai ad ascoltarmi.’
John si appuntò mentalmente quale fosse il palazzo del mercurio e lo seguì attraverso un campo, alla volta di un gruppo di alberi stagliati nel crepuscolo di Settembre. 
“Sei del mio anno?” chiese, perché sarebbe stato carino poter semplicemente seguire in giro Sherlock finché non avesse avuto un po’ di orientamento. 
“No, penultimo,” rispose lui senza fermarsi. “Ma potremmo avere alcune lezioni in comune. Seguo dei corsi dell’ultimo anno.”
“Perché?” chiese John. 
“Perché pensano di mettermi alla prova, così facendo. Perché sono degli idioti.” La sua voce era piena di disprezzo.
“Oh.” realizzò John, arrivando a questa conclusione: “Perché tu sei molto più intelligente di chiunque altro qui. Naturalmente.”
Sherlock smise di camminare, si eresse al massimo della sua altezza e lo guardò male. “Non dovrei neanche essere a scuola,” proclamò. 
John non poté fare a meno di trovarlo divertente. “Perché ci sei, allora?”
Sherlock si adombrò maggiormente e si girò, di nuovo in cammino verso gli alberi. 
John sorrise e lo seguì. “Dove stiamo andando?”
“Al fiume, dove è isolato, silenzioso e non saremo disturbati.”
“Cosa faremo al fiume?”
Sherlock si fermò nuovamente e lo scrutò. “Sei spaventato?”
La domanda sorprese John. Guardò cautamente il campo vuoto che li circondava. “Dovrei esserlo?”
“Mi hai appena incontrato. Ti ho detto che ti sto portando in un posto isolato. E dovresti sapere che conosco innumerevoli modi per uccidere una persona. Li ho studiati assiduamente.”
John aggrottò le sopracciglia. “Senza offesa, amico, ma sono cresciuto in una casa popolare e tu sei la cosa più chic che io abbia mai visto. Perciò, credimi, posso gestirti.”
Sherlock assottigliò un po’ lo sguardo, ma non sembrò contrariato, piuttosto... In realtà John non aveva idea di cosa significasse la sua espressione. Dopo un momento riprese a camminare e John ricominciò a seguirlo. 
“Cosa ti fa pensare che non saprei cavarmela in una rissa?” chiese Sherlock, strada facendo. 
“Ne saresti in grado?” domandò John invece di rispondere.
“Bisogna imparare le tecniche di sopravvivenza, John,” replicò Sherlock. “Anche qui a Eton.” 
Erano arrivati al fiume e Sherlock cominciò entusiasticamente a cercare qualcosa nel fango sulla riva. John fece una smorfia quando lo vide inginocchiarsi per avere una visuale migliore, pensando allo stato in cui stava riducendo i costosi pantaloni di Eton che indossava. Tutto in quella scuola costava un’oscena quantità di soldi, ma chiaramente Sherlock non aveva mai avuto un pensiero simile in tutta la sua vita. Al momento stava gattonando nel fango in un’uniforme il cui prezzo John, pochi mesi prima, non avrebbe nemmeno preso in considerazione. 
Sherlock strappò la sua camicia contro un ramo sporgente, borbottò qualcosa che sembrò ‘merda’ e continuò a strisciare attorno al tronco di uno degli alberi, pericolosamente vicino al ruzzolare giù dalla sponda. 
“Stai attento, okay?” disse John, sperando che sapesse nuotare, per niente attratto dall’idea di dover entrare nel fiume per salvarlo. 
“Sto bene,” lo rassicurò Sherlock e poi si allungò molto al di là della riva per tirare su qualcosa, un lampo di trionfo negli occhi. “Aha!”
Era una considerevole asse di legno, lunga quando il braccio di Sherlock, che lui portò fieramente dove John stava aspettando. 
John ignorò l’asse, concentrato sullo stato della sua uniforme. “Mio Dio, come sei conciato.”
Sherlock lanciò un’occhiata incurante ai vestiti. “Normale amministrazione, John. Guarda!”
“Come fa a essere normale amministrazione?” disse John, spostando la sua attenzione sulla tavola di legno. La luce cominciava a diminuire e non riuscì a vedere cosa c’era di tanto importante. “Cos’è?”
“E’ muffa, John.” Sherlock sorrise raggiante, indicando le tre diverse crescite di muffa sull’asse. 
“Sì. Bene. Buio, bagnato, caldo: condizioni perfette per la crescita della muffa.”
“Se non fosse che io ho fatto crescere questa muffa.”
“Come fai ad essere stato tu? E’ stata l’asse a farla crescere, e la muffa stessa. Non l’hai fatta crescere tu.”
Sherlock sembrò infastidito. “Le ho dato io l’avvio. Solo una piccola spinta. Ho messo la muffa sull’asse e l’ho portata qui per vedere se sarebbe cresciuta.”
“Quando l’hai fatto?” chiese John, pensando che il semestre era appena iniziato. Poi improvvisamente gli venne in mente. “Non torni a casa per le vacanze?”
“Certo che torno a casa per le vacanze. L’ho messa qui a fine anno.”
“Hai lasciato qui un esperimento prima di tornare a casa per l’estate?”
“Naturalmente.”
“Come hai fatto a incasinare a tal punto la mia camera se sei appena tornato anche tu?”
“Di che stai parlando? La stavo tenendo in ordine per te!”
Sherlock sembrò intenderlo sinceramente, perciò John lasciò perdere e tornò a guardare la muffa. “Eccellente. Ottimo lavoro. Hai cresciuto una muffa.”
“E’ aspergillus,” disse Sherlock, orgoglioso. 
“Hai cresciuto una muffa velenosa,” si corresse John, arretrando di un passo. 
“Sapevo che avresti saputo cos’era.” Sherlock era deliziato. “Non preoccuparti, non ti ucciderà. Ma ero curioso di vedere quanto sarebbe stato facile farla crescere. Se, per esempio, qualcuno volesse uccidere qualcun altro, quel qualcuno in teoria potrebbe far crescere dell’aspergillus e usarla come arma del delitto? Sarebbe un modo pulito per uccidere, non pensi?”
John ci pensò. “Sì, in effetti. Non lascerebbe prove. Voglio dire, non sarebbe immediato come, prendi, l’arsenico.”
“Ma sarebbe meno rintracciabile,” gli fece notare Sherlock. “Tutte le armi hanno dei pro e dei contro.”
“Avresti bisogno di una quantità enorme di muffa per uccidere un adulto. Gli adulti possono resistere a molta aflatossina. E anche in quel caso non ci sarebbe certezza...” John perse il filo, realizzando di colpo di cosa esattamente stava discutendo. Sollevò lo sguardo dalla muffa a Sherlock. “C’è qualcuno che vuoi uccidere?” chiese, scherzosamente, perché l’intera situazione era molto strana. 
Lui sembrò sorpreso dalla domanda. “No. Be’, voglio dire, certo, ci sono persone che mi infastidiscono, ma no, non sto attivamente cercando di uccidere qualcuno.”
“Allora...” John indicò l’aspergillus.
Sherlock la guardò. “Cosa?”
“Perché stai crescendo una muffa velenosa?”
Sherlock lo fissò come se fosse la persona più stupida che avesse mai incontrato. “Te l’ho già detto. E’ un esperimento. Andiamo.” Mise l’asse sotto braccio e s’incamminò per dove erano venuti. 
John fece una smorfia. “Ora hai la camicia piena di muffa aspergillus.”
“Vuoi essere un dottore,” disse Sherlock. 
Batté le palpebre sorpreso e si affrettò a raggiungerlo. “Come lo sai?”
“Una deduzione abbastanza semplice. Conosci quali effetti avrebbe una muffa sul sistema immunitario umano. Inoltre, sei premuroso. Mi hai lasciato tenere un laboratorio nella tua camera perché non vuoi che finisca nei guai; e ancora, ci siamo appena conosciuti, eppure continui a preoccuparti per i miei vestiti e per l’eventualità che io cada nel fiume. Sì. Sei decisamente premuroso. Decisamente un dottore. Il che ha senso. E’ il motivo per cui sei qui, improvvisamente, adesso, al tuo ultimo anno di scuola. Perché cominciare l’ultimo anno in una nuova scuola? Perché vuoi diventare un dottore e Eton ti aprirà le porte delle migliori università. Ma tu hai sempre voluto essere un dottore: nessuno impara così tanto sulla muffa come semplice divertimento estivo. Eppure non sei venuto a Eton fino ad ora. Sei intelligente, ma non avresti neanche provato a venire qui prima, perciò qualcosa è cambiato quest’estate. O all’inizio dell’anno. Soldi, una grade quantità. Non sei schizzinoso - lo si capisce facilmente vedendo cosa indossi - di conseguenza la tua preoccupazione per i miei vestiti è legata unicamente al loro costo. Hai soldi a sufficienza per essere qui, non grazie a una borsa di studio, ma non sei abituato ad avere così tanto denaro. Però, un improvviso afflusso di quest’ultimo non sarebbe stato abbastanza per far accedere un ragazzo delle case popolari a Eton, no; non ho ancora capito come quei soldi siano connessi alla scuola, ma ci arriverò.”
“E’ stato... geniale,” disse John. 
Sherlock smise bruscamente di camminare e lo fissò. “Davvero?”
John inclinò la testa, sorpreso dalla sua reazione. Sicuramente Sherlock era consapevole di essere stato brillante, per questo doveva averlo fatto: per mettersi in mostra. “Sì, davvero.”
“Non è quello che dicono normalmente le persone.”
“Cosa dicono di solito?”
“Fuori dai piedi.”
John scoppiò a ridere e Sherlock piegò le labbra in un rapido e incerto sorriso, in parte sorpreso e in parte compiaciuto. Poi si girò e si rimise in cammino. 
John, seguendolo, pensò che non c’era da sorprendersi che avesse dovuto imparare a sopravvivere a Eton, ma preferì non parlarne. Disse, invece, “Che ore sono?” chiedendosi se per caso avevano saltato la cena. 
“Sì, mi dispiace per quello,” disse Sherlock, rispondendo chiaramente alla domanda che John non aveva espresso a voce. “Ecco perché sarebbe stato meglio se mi avessero permesso di portare con me la signora Hudson. Lei ci avrebbe portato da mangiare.”
“Chi è la signora Hudson?” chiese John. Erano arrivati ad Holland House e si stavano facendo strada fra gli studenti nei corridoi: tutti quanti lanciarono strane occhiate a Sherlock, tenendosi a debita distanza. 
“La signora Hudson è la mia... è difficile da spiegare.” 
Un qualche tipo di aiuto domestico, concluse John. Sherlock aveva dei domestici. Non che fosse chissà quale sorpresa; tutti in questo posto li avevano, probabilmente. 
Sherlock si fermò davanti alla porta di John e l’aprì tranquillamente con una chiave. 
John spalancò gli occhi. “Aspetta. Hai una chiave?”
“Ovviamente. Come farei a entrare e uscire, altrimenti?” Era già entrato nella stanza e stava facendo spazio sulla scrivania per l’asse con la muffa velenosa. Si fermò per guardare John. “Ti infastidisce?”
“Io...” disse, perché Sherlock aveva ragione: doveva pur accedere alla parte della camera che era il suo laboratorio. John ancora non aveva ben chiaro come Sherlock avesse fatto a convincerlo che parte della sua stanza dovesse essere il suo laboratorio, tanto per cominciare, ma si ritrovò a dire, “Niente andirivieni nel cuore della notte.”
Sherlock ci pensò. “Molti.”
“Cosa?”
“Non molti andirivieni nel cuore della notte.”
“Sherlock, durante la notte io gradirei dormire.”
“Ma non puoi mai sapere quando arriverà l’ispirazione scientifica, John.”
“Niente andirivieni nel cuore della notte, Sherlock.”
Lui si strinse appena nelle spalle, tornando alla sua tavola con la muffa, e John pensò che significava che sarebbe entrato e uscito nel bel mezzo della notte a suo totale piacimento. 
“Inoltre,” disse John, spostandosi verso la sua valigia e decidendo che era arrivato il momento di disfarla, “Non ho intenzione di dormire con della muffa velenosa. Puoi tenerla in camera tua, grazie tante.”
Sherlock agitò la mano, concentrato ad osservare la muffa al microscopio. 
John si avvicinò all’armadio, aprì il cassetto e sospirò. “Sherlock.”
“Oh. Sì. Avevo bisogno di spazio per i miei calzini.”
“Non hai abbastanza spazio per i calzini nel tuo armadio?”  
“No,” disse lui, assente, come se quello rispondesse del tutto alla domanda. 
John sospirò di nuovo e spinse di lato i calzini per far spazio ai suoi. 
“Attento,” disse Sherlock. “C’è un ordine. Se mi lasci i tuoi calzini posso organizzarli anche a te.”
“Non sento il bisogno di avere i calzini organizzati.”
“L’ordine dei calzini è importante, John.”
“No, non lo è. E non ho intenzione di lasciarti i miei calzini.”
“Come vuoi.” disse Sherlock. John lo guardò e si disse che era assurdo sentirsi come se lui si stesse comportando egoisticamente. 
“Tu devi essere Sherlock Holmes,” disse una voce alle sue spalle. 
John si girò e Sherlock sollevò lo sguardo dal microscopio. 
Un uomo in completo se ne stava appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate, e guardava Sherlock con un’espressione sarcastica. Non era tanto vecchio, pensò John: ventinove anni, forse trenta, con i capelli e gli occhi castani e un’aria parecchio indulgente. 
“Tu chi sei?” chiese Sherlock.
“Il tuo nuovo tutor,” rispose l’uomo, divertito.
“Cosa? Che ne è stato di Ackerley?”
“E’ imbarazzante,” disse lui, “ma sembra che il rettore non sia riuscito a consultarti prima di prendere questa decisione.” La sua espressione seria quasi non lasciò trapelare la presa in giro. 
Sherlock non sembrò minimamente divertito. 
L’uomo alla fine si voltò verso John, l’espressione che mutava in piacevole franchezza. “Tu devi essere John Watson. Benvenuto a Eton. Io sono il signor Lestrade, non sono il tuo tutor, ma sarò il tuo professore di biologia.”
Stese la mano e John si affrettò a stringerla, desideroso di fare una buona prima impressione; non era sicuro di starci riuscendo, tuttavia, considerando l’attuale presenza nella sua camera di una muffa velenosa e di un lurido Sherlock Holmes. 
“Ora,” disse Lestrade. “Avete entrambi saltato la cena. Il rettore non era contento, ma gli ho assicurato che dovevate avere un’eccellente ragione per essere assenti.”
“Sherlock mi stava facendo fare un giro visita,” disse John, sincero. “Non voleva che mi sentissi umiliato facendolo con le matricole.”
“Gentile da parte sua,” disse Lestrade, notando le condizioni in cui era ridotta l’uniforme di Sherlock. “E questo giro comprendeva anche un’escursione, non è così?”
Sherlock si accigliò. 
Lestrade, con sorpresa di John, ridacchiò. “Andate a mangiare,” disse. “E domani siate puntuali a lezione, così non avrò già la reputazione di essere troppo permissivo.”
“Non sono mai in orario,” annunciò Sherlock. 
“Così mi hanno detto,” commentò Lestrade. “Fremo all’idea di passare tante ore di punizione in tua compagnia.” Gli fece l’occhiolino, si raddrizzò e andò via. 
Sherlock rilasciò un respiro arrabbiato. “E’ completamente intollerabile.”
“Mi è sembrato gentile,” disse John. “Ti lascerei qui seduto a tenere il broncio, ma il tuo giro visita ha omesso l’importante locazione del cibo di cui lui stava parlando.”
“Va bene,” cedette Sherlock. “Andiamo a mangiare.” 
“Prima, però, sposta la muffa velenosa nella tua stanza. 
Sherlock sbuffò con impazienza, ma portò davvero la muffa nella sua camera da letto. 

 

 

 

 

§

 

 

 

Posh.

*si schiarisce la voce*

Dunque, parliamo un po’ di questa parola. Posh. 
Significa diverse cose: snob, chic, elegante, fine, che ha stile... come vedete non sono tutte cose negative. Diciamo anche che, volendo, l’una non elimina l’altra. Con la traduzione italiana diventa un po’ difficile scegliere di volta in volta quale usare: fate conto che John definirà sempre Sherlock ‘posh’. 
Alcune volte intendendo denigrarlo perché snob e altezzoso; altre volte (più in là) lo dirà volendo solo sottolineare che è un tipo più elegante, preciso e fine di lui. 

C’è anche un film: ‘The Riot Club’.  Nelle sale italiane è uscito con il titolo ‘Posh’ perché i protagonisti (Max Irons, Sam Clafin e Douglas Booth) sono per l’appunto ragazzi così: Posh. Ricchi, ben vestiti, abituati al meglio del meglio. 
E quando nel film la tipa di turno parla con il bell’Irons, lo definisce proprio Posh. 
Non c’è traduzione con il doppiaggio. Semplicemente Posh. 
A buon intenditore poche parole, insomma.












 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

“Continuo a credere che sia un’idea terribile,” disse il rettore a Greg Lestrade. 
Greg tamburellò le dita sul bordo della sua tazza di tè e considerò le possibili risposte a quell’affermazione. Decise per, “Io non la penso così.”
“Ne sono consapevole, ma lei non conosce Sherlock Holmes. Credo dovremmo trasferire immediatamente John Watson, prima che Holmes lo possa corrompere più di quanto non abbia già fatto.”
“Non penso che lo stia corrompendo,” disse Greg. Era convinto che il rettore fosse troppo affezionato alle iperboli. In realtà, era più che sicuro che tutti quanti a Eton lo fossero. 
“Gli ha fatto saltare la cena, ieri sera.”
“Il che difficilmente può essere considerato corruzione. E Sherlock gli stava facendo fare un giro visita del posto.” Greg omise la parte in cui Sherlock, durante quel giro, sembrava essersi rotolato nel fango. “Davvero, mi è parso che stessero andando d’accordo.”
“Cosa ancora più pericolosa,” soffiò il rettore. “Non capisce quanto dannosa possa essere l’influenza di Holmes su questo ragazzo.”
“John non mi ha dato l’impressione di essere un fragile ragazzino. Di fatto, è riuscito ad ottenere un accordo legale dalla morte del padre alcolista in un caotico incidente stradale e ha trovato un modo per farsi ammettere a Eton. A quanto mi risulta questo è l’opposto di essere fragile.”
“Continua a pensare che lui possa avere una buona influenza su Holmes.” Il rettore lo disse come se Greg avesse appena annunciato che la teiera sul tavolo stava cantando. 
“Penso che cose ben più strane siano accadute,” insisté Greg. “E che valga la pena fare un tentativo.”
Qualcuno bussò alla porta e apparve una delle segretarie. “Mi scusi per l’interruzione, ma abbiamo già una nota.”
“Una nota?” disse Greg, sorpreso. “Il primo giorno del semestre? Perché non limitarsi a un richiamo?”
La segretaria che aveva consegnato la nota - Greg cercò di ricordare come si chiamasse, ma lì c’erano 150 professori, senza contare i 1500 studenti, e la sua testa al momento straripava di nomi - gli scoccò un sorriso che Greg giudicò decisamente infelice.
Il rettore glielo confermò. “Una nota e non un richiamo perché è Holmes e lui ha una reputazione.” Gli porse il foglio di carta con espressione compiaciuta. 
“Cosa può aver mai combinato in così poco tempo?” chiese Greg, affrettandosi a leggere cosa c’era scritto. 
Apparentemente Sherlock aveva detto alla sua professoressa di chimica che quel semestre non avrebbe seguito le lezioni, perché già a conoscenza di molte più cose inerenti quella materia di quanto lei stessa non fosse. 
“Magnifico,” sospirò, desiderando che Sherlock gli rendesse il lavoro meno difficile. “Me ne occuperò io,” disse al rettore. 
“E’ consuetudine che sia io ad occuparmene,” gli fece presente lui. 
“E’ consuetudine non dare una nota a uno studente il primo giorno dell’anno.” 
“Sembra se lo sia meritato, tuttavia.”
“Gli parlerò,” disse Greg. “Mi dia almeno una settimana prima di decidere che è una causa persa.”
“Ho preso quella decisione tre anni fa,” grugnì il rettore. “Sono sempre stato favorevole alla sua espulsione: suo fratello dona grandi somme di denaro alla scuola, ogni anno, per far sì che non accada. Ma lei può avere una settimana con Sherlock Holmes, e molto prima che i sette giorni siano passati, sarà di nuovo qui a sentirmi dire ‘te l’avevo detto’.”
“Ha ragione,” disse Greg, senza crederci davvero. Si alzò e guardò la segretaria, “Sa dov’è? E’ ancora a lezione di chimica?”
“Oh, no.” Sembrava quasi divertita dalla situazione. “La professoressa ha detto che non lo voleva lì a rovinare l’umore dell’intera classe. Dev’essere stato mandato in camera.”
“Come fa a sapere queste cose?”
“Pettegolezzi di corridoio. Deve prenderci la mano, Greg.” Gli sorrise e gli fece l’occhiolino, come se la sua domanda fosse stata esilarante. 
“E lui sarà davvero andato nella sua stanza?” chiese, seguendo la segretaria fuori dall’ufficio del rettore. 
Lei si strinse nelle spalle. “Forse.”
Il che non era esattamente d’aiuto. Greg aveva letto il fascicolo di Sherlock, ma non aveva trovato niente di simile a ‘nascondigli prediletti’. 
“Dove potrebbe essere andato altrimenti?”
“Solo Dio lo sa. Ovunque non dovrebbe essere,” disse la segretaria. “Buona fortuna.”
Si allontanò da lui, andando nella direzione opposta alla sua; Greg sospirò, infilò la nota nella tasca della giacca e si incamminò verso la camera di Sherlock. 
La porta era chiusa: bussò e non ottenne risposta. Ci pensò per un secondo, quindi fece un passo laterale e bussò alla porta di John Watson. 
Dopo un momento carico di tensione, Sherlock schiuse leggermente la porta e disse, immediatamente, “Dannazione.”
“Ciao,” lo salutò Greg.
Lui sembrò contrariato. “Ho pensato potesse essere John che aveva dimenticato la chiave.”
“Mi dispiace,” disse Greg. “No. Puoi stare nella stanza di John quando lui non c’è?”
“A John non importa,” insisté Sherlock. 
Greg fece un verso scettico ma decise che quello era l’ultimo dei suoi problemi. “Vieni in camera tua. Non avrò questa conversazione nella stanza di qualcun altro.”
“Non dobbiamo per forza parlarne.”  
“Della nota? Sì che dobbiamo. Sono le regole.”
“Può dire che lo abbiamo fatto e, invece... andarsene.” Sherlock apparve speranzoso. 
Greg inclinò la testa. “E’ quello che faceva il tuo ex-tutor?”
“No, ma sarebbe stato carino da parte sua farlo.”
“Fuori di qui e in camera tua,” disse Greg, fermamente, e Sherlock sospirò ma obbedì. Il più lentamente possibile. Greg alzò gli occhi al cielo, specialmente quando alla fine si lasciò cadere sul letto. Avrebbe dovuto entrare a far parte della compagnia teatrale, pensò. 
Si appoggiò al muro di fronte al letto di Sherlock, incrociò le braccia al petto e disse, “Perché mai segui le lezioni di chimica se non ti interessano?”
“Perché dovevo riempire la mia scheda. Non hanno permesso che la lasciassi in bianco, a quanto pare non è permesso.”
“Avresti potuto scegliere una scienza in cui non fossi altrettanto ferrato,” commentò Greg. “Astronomia, magari.”
“Perché ho l’impressione che abbia imparato a memoria il mio fascicolo?” chiese Sherlock, guardandolo con sospetto.
“Perché sei di gran lunga lo studente più problematico dell’intera scuola.”
Lui sorrise compiaciuto. “Lo sono? Magnifico.”
Greg sospirò e sperò che Sherlock non intuisse il suo divertimento. Pensò che il problema con quel ragazzo era ovvio; non si capacitava di come nessuno prima di lui lo avesse capito: era annoiato. No, più che annoiato. Era annoiato a morte. Tutto indicava che era sveglio, intelligente ben oltre la loro portata, e nessun corso poteva essere per lui sufficientemente stimolante. “Parlerò con la tua professoressa di chimica,” disse. 
Sherlock fece una smorfia. “Per favore, non lo faccia. E’ un’orribile vacca.”
“Neanche tu sei un principe,” replicò Greg, e lui emise uno squittio offeso. “Per tua fortuna, però, io sono piuttosto affascinante.”
Sherlock gli lanciò un’occhiata dubbiosa. “Oh, davvero? E perché questo giocherebbe a mio favore?”
“Perché ho intenzione di convincere la tua professoressa a darti i crediti per quel corso e a lasciare che tu segua, invece, delle lezioni private con me.”
Sherlock roteò epicamente gli occhi. “Di male in peggio.” proclamò. 
“Dovresti stare a sentirmi.”
“Perché?” chiese, indisponente. 
“Taman Shud.” gli disse Greg. “Sai che cos’è?”
“Un’altra lingua, chiaramente.”
“E il Rubaiyat? Sai cos’è?”
“Mi sta interrogando in letteratura?” si lamentò Sherlock. “Perché...”
“Il primo dicembre del 1948 un uomo non identificato è stato trovato morto sulla spiaggia Somerton di Adelaide, in Australia. In tasca aveva un piccolo pezzo di carta e due parole ritagliate da una copia del Rubaiyat, una raccolta di poesie Persiane.”
“Taman Shud,” disse Sherlock. “Quelle due parole.”
Si era girato interamente verso Greg, quegli occhi inusuali fissi su di lui. Aveva ottenuto la sua attenzione: più di quanto avesse in realtà sperato. “Sì. Quelle due parole.”
“Cosa significano?”
“Dovresti scoprirlo. Così come l’identità dell’uomo.”
Sherlock esitò, combattuto fra l’esprimere il suo interesse per quel nuovo mistero e il dare a Greg anche la minima soddisfazione. Alla fine decise per l’indifferenza. “Va bene,” disse, agitando una mano verso di lui. “Quando dobbiamo rivederci?”
“Prenditi il tuo tempo,” gli disse Greg, allontanandosi dal muro. “Ci vediamo a lezione di biologia. E sii gentile con John. Sono abbastanza sicuro che potrebbe conciarti per le feste se non lo fossi.”

 

***

 

Il primo giorno di John a Eton fu uno dei più strani della sua vita. E ultimamente ne aveva vissuti alcuni davvero particolari. Ma il surrealismo di trovarsi lì li superò tutti. 
In verità, l’apprendere che suo padre era morto non era stata surreale: John, mentre glielo dicevano, aveva realizzato che, inconsciamente, aveva sempre saputo che sarebbe successo.
Il resto era stata tutta un’altra storia. Lo scoprire che l’incidente non era avvenuto per colpa di suo padre era stato più sorprendente della notizia della morte stessa. Ne era risultato un accordo legale; il venire poi a sapere che il conducente dell’altro veicolo in questione, colpevole e affranto dai sensi di colpa, aveva abbastanza agganci a Eton da permettere che sostenesse un esame di ammissione al suo ultimo anno, era stato francamente incredibile. Ma niente di tutto questo era sembrato davvero reale fino a che John non concluse il suo primo giorno, realizzando che ce ne sarebbero stati molti altri ancora. 
Incontrò il suo tutor: abbastanza simpatico ma spaventosamente preoccupato per il suo trasferimento durante l’ultimo anno. “Non succede mai; come faremo a valutarti a dovere all’esame? E’ scioccante; ma ah, be’, troveremo un modo.” Gli era stata inoltre imposta una scadenza per decidere quali corsi avrebbe desiderato seguire e il tutto era, sinceramente, un tantino destabilizzante. 
Cenò con gli altri alunni del suo anno e si guardò attorno, studiando la casuale sontuosità che tutti gli altri sembravano dare per scontata e promettendosi di non permettere mai che niente di questa vita diventasse per lui normale.
I suo compagni di classe sembravano abbastanza cordiali. Non aveva quasi niente in comune con loro, ma se lo era aspettato. In realtà, ammise a se stesso, sentiva la mancanza di Sherlock: era completamente pazzo, certo, ma non faceva tante domande. Era come se lui sapesse già tutto su John e fosse fiducioso nelle sue abilità di scoprire qualsiasi cosa gli potesse essere sfuggita; ed era rilassante non dover eludere domande sul suo passato. 
Da dove veniva, che scuola aveva frequentato, come era riuscito a farsi ammettere al suo ultimo anno, che lavoro facevano i suoi genitori. Sapeva che quelle domande erano del tutto normali, ma era terrorizzato all’idea di dover rispondere e avrebbe decisamente preferito che Sherlock fosse lì con lui per parlare dei diversi modi di uccidere qualcuno. 
Realizzò cosa stava pensando e si disse che forse aveva fatto male a rifiutare di andare in terapia come il suo avvocato gli aveva consigliato. 
Sherlock non si presentò a cena, ad ogni modo. John non lo aveva più visto da quando, in mattinata, era stato cacciato malamente dall’aula di chimica. Si era aspettato di trovarlo in camera sua e, trovando invece la stanza deserta, capì di star anelando la sua compagnia. 
Non era abituato ad avere dello spazio, a quella solitudine. Si chiese se questo era in parte il motivo per cui non si era opposto con più forza al laboratorio improvvisato di Sherlock. Aveva nostalgia di casa, pensò, tornando verso il dormitorio una volta finita la cena. Forse avrebbe potuto chiamare Harry. 
La sua stanza era ancora vuota quando entrò; scacciò via il fremito di delusione e si decise a telefonare a Harry. Anche lei aveva iniziato a frequentare una nuova scuola e lo stordì di chiacchiere entusiaste, riempiendolo poi di domande su Eton. Le disse tutto sulle lezioni ma non nominò Sherlock: non era sicuro di riuscire a parlare di lui in un modo che non li facesse sembrare entrambi folli. 
Una volta conclusa la conversazione, posò il telefono e considerò la sua camera; i contorni non familiari, i suoni a cui non era abituato: la calma della campagna, i fievoli mormorii delle persone nelle altre stanze, gli scricchiolii di un vecchio edificio che si assesta. 
Aveva dormito poco la notte precedente, agitato e nervoso, e improvvisamente si sentì esausto. Forse questa volta avrebbe riposato meglio: ora che la giornata era finita e il letto non era più sconosciuto, ma uno in cui aveva già dormito. Spense le luci e si infilò sotto le coperte; era sul punto di addormentarsi quando la porta venne spalancata e le luci bruscamente riaccese. 
Trasalì, il cuore che aumentava i battiti per l’adrenalina, ma era, ovviamente, solo Sherlock che scivolò nella stanza e si accovacciò a terra rovistando in una delle pile.
“Sherlock,” protestò John. 
“Sto cercando una cosa,” disse lui, come se quella fosse una risposta, e cominciò letteralmente a gettare cose all’aria per aiutarsi nella ricerca. 
“E io sto cercando di dormire,” gli fece notare. 
Sherlock si girò versò di lui e si lasciò cadere ai piedi del suo letto. Indossava ancora l’uniforme, senza cravatta ed era leggermente arruffato; i suoi capelli erano improponibili e gli occhi davvero, davvero luminosi. 
“Lestrade mi ha dato un omicidio irrisolto,” annunciò, entusiasta. Rimbalzò anche un po’ sul letto, facendo tremare il materasso. 
John abbandonò l’idea di dormire, perché era chiaro che Sherlock non se ne sarebbe andato tanto presto. “Cosa significa?”
Sherlock lo guardò irritato. “Significa un omicidio il cui colpevole non è stato trovato.”
John sospirò. “So cos’è un omicidio irrisolto. Che intendi dicendo che Lestrade te ne ha dato uno?”
“Ha detto che, invece di seguire le lezioni di chimica, potevo lavorare su questo caso.”
“Sì, a proposito di chimica, era davvero necessario quel siparietto che hai creato questa mattina?”
Sherlock agitò con noncuranza una mano. “La chimica era uno spreco del mio tempo, John.”
“Farai sì che ti caccino da tutti i divs*? Perché mi piaceva l’idea di avere almeno un amico a farmi compagnia.”
Sherlock lo guardò in un modo stranissimo, come se avesse appena cominciato a parlare in un’altra lingua, e John fu assalito dal panico. 
“E’ così che voialtri chiamate i corsi, no? ‘Divs’?” Aveva pensato di essere riuscito a capire il loro gergo, ma tutto a Eton apparentemente aveva una parola diversa; era sconcertante. 
“Sì,” disse Sherlock, lentamente. “Li chiamiamo divs.” Si schiarì la voce e si sistemò meglio ai piedi del letto. “Il primo dicembre del 1948 un uomo non identificato è stato trovato morto sulla spiaggia Somerton di Adelaide, in Australia.”
“Questo è il caso che ti ha dato Lestrade?” indovinò John. 
Sherlock non si diede neanche la pena di confermarlo. “Aveva diverse cose in tasca: un biglietto del pullman usato, un biglietto del treno ancora nuovo, una gomma da masticare, sigarette, fiammiferi e, proprio in fondo alla tasca, un pezzo di carta con due parole scritte sopra: Taman Shud.”
“Cosa significa?”
“Finito. Concluso.”
“Perché erano nella sua tasca?”
“Nessuno lo sa. Nessuno sa nemmeno chi sia l’uomo. Quarantaquattro anni e non sono stati neanche in grado di identificare la vittima, figuriamoci l’assassino. Questo caso è come il Natale.”
“Se lo dici tu,” disse John, inevitabilmente divertito da quanto Sherlock fosse eccitato per un omicidio irrisolto vecchio quasi mezzo secolo.
“Lo risolverò,” annunciò lui con sicurezza.
“Risolverai un omicidio australiano avvenuto quarantaquattro anni fa dalla tua camera a Eton?”
“No,” disse Sherlock, sorridendogli irreprensibilmente. “Dalla tua camera.”
John roteò gli occhi. “Vattene così posso tornare a dormire,” disse, ma non era davvero sicuro di volerlo. “Non dovresti entrare e uscire di qui la notte.”
“Non molto,” disse lui. “Non dovrei entrare e uscire molto la notte.”
“Non erano questi gli accordi.”
“Sì, invece. Ne abbiamo parlato oggi pomeriggio.”
“Non ero qui questo pomeriggio.”
“Non è colpa mia se non stavi prestando attenzione.”
John sospirò. Sherlock era impossibile. “Sul serio. Vattene.”
“Sto cercando una cosa,” gli disse Sherlock, saltando già dal letto e tornando al suo mucchio di roba. “Ho fatto un esperimento sulle sigarette e sul tabacco, volevo controllare una cosa per smentire le prove del caso. Non pensare a me. Torna a dormire.” 
Sherlock ricominciò a lanciare cose per la stanza alla rinfusa. 
John avrebbe voluto fargli presente che nessuno sarebbe riuscito a dormire con tutto il rumore che stava facendo; era sul punto di dire qualcosa quando, invece, si addormentò. 

 

 

 

§

 

 

 

Divs.
Aiuto. Per l’appunto, è una parola gergale. Letteralmente significa: stupido, imbecille. 

Nella storia, invece, gli studenti la usano riferendosi ai corsi. I ‘divs’.
Non mi è venuta nessuna idea per tradurla, se avete proposte fatevi avanti! :)










 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

Settembre era stato un mese insolitamente calmo. 
Non per quanto riguardava la politica globale, ovviamente, no, quella era come sempre un problema, bensì nei riguardi di Sherlock. 
Tutto taceva su quel fronte, il che rendeva Mycroft nervoso oltre ogni dire. 
Era ormai abituato a un crescendo di telefonate provenienti da funzionari della scuola in difficoltà. Le prime vacanze dell’anno si stavano avvicinando e normalmente, a questo punto, aveva già avuto modo di parlare con il tutor, il coordinatore ed il rettore, e stava valutando a quanto avrebbe dovuto ammontare il primo assegno per far sì che Sherlock non venisse espulso. Il suo telefono, invece, era rimasto silenzioso: non un solo squillo per problemi relativi a suo fratello; il che significava che o loro avevano perso il suo numero o Sherlock era morto, concluse Mycroft. 
Perciò telefonò a Eton, così, per essere sicuro. 
Il coordinatore sembrò divertito di sentirlo. “Signor Holmes, non posso negare di aver sentito la mancanza delle nostre chiacchierate. Ne deduco che sono mancate anche a lei?”
“Non so cosa fare senza,” commentò Mycroft, sinceramente. “Non mi ha mai chiamato dall’inizio di questo semestre.”
“Non l’ho fatto perché non avevo niente di cui lamentarmi.”
Mycroft sentì la paura serrargli lo stomaco. “Cos’è successo a Sherlock?”
Il coordinatore rise. “Niente. Sembra stare bene. Non ha parlato di lui con il suo nuovo tutor?”
Sulla sua scrivania c’erano due diverse pile di documenti: una relativa al peggioramento della situazione nel Medio Oriente, l’altra a Sherlock. La seconda era la più grande.
Proprio in cima era in bella mostra un fascicolo su Gregory Lestrade, il suo nuovo tutor. La maggior parte degli alunni dell’ultimo anno aveva la facoltà di scegliere il proprio tutor, ma era stato il rettore a scegliere quello di Sherlock. 
Mycroft aveva accettato senza problemi che fosse lui a prendere quella decisione, ma era stato incerto su Lestrade: certamente qualificato ma con un’esperienza ben diversa da quella dei tipici professori di Eton. Non si era preso la briga di contattarlo, convinto che si sarebbe fatto sentire lui stesso in tempi brevi con la solita litania di lamenti su Sherlock. 
Ora si chiese se le persone normali fossero abituate a parlare con i tutor per informarsi sui progressi, senza limitarsi semplicemente ad aspettare le brutte notizie. 
“No,” disse Mycroft. “Non ho parlato con lui. Ma lo chiamerò.”

 

***

 

Greg aveva ricevuto un messaggio da Mycroft Holmes. 
Riconobbe il nome, ovviamente, e esitò prima di richiamarlo. Principalmente perché aveva davvero pensato che le cose stessero andando bene con Sherlock; forse, però, si era sbagliato e il ragazzo si era lamentato con il fratello. 
Prese un bel respiro, compose il numero e gli rispose una voce femminile. Greg chiese di Mycroft Holmes. La donna disse, “Per favore, attenda,” con tono ufficiale e lui pensò che era stato leggermente folle ad accettare quel lavoro, ritrovandosi così catapultato nel mondo di quelle persone che hanno delle segretarie a rispondere per loro. 
La maggior parte del tempo Eton gli piaceva: i ragazzi erano svegli e non così malvagi, avevano solo bisogno di qualcuno che non li trattasse sempre come se fossero speciali; ma di tanto in tanto, in momenti come questo, si sentiva disperatamente fuori luogo. 
“Signor Lestrade,” disse la voce all’altro capo del telefono, fine e sottile, con un accento più snob di quello che aveva Sherlock. “Grazie per avermi richiamato subito.”
“Nessun problema,” disse Greg, arrotolando il cavo del telefono attorno al dito. “C’è per caso qualcosa che non va?”
“Volevo farle io questa domanda,” disse Mycroft Holmes. “Sa, normalmente a questo punto dell’anno sono subissato di chiamate inerenti alle numerose cose che non vanno bene con Sherlock. Lei, invece, non mi ha ancora contattato neanche una volta.”
“Non c’è niente che non va. Sherlock si sta comportando bene.”
Ci fu un silenzio così lungo dall’altra parte che Greg disse, “Pronto?” Non aveva sentito il segnale di linea libera, ma il silenzio gli era sembrato durare troppo. 
“Ci sono,” lo rassicurò Mycroft. “Stavo solo pensando. Che aspetto ha mio fratello?”
“Che aspetto ha?” ripeté Greg, incerto. 
“Di che colore sono i suoi occhi?”
“Sono... Non saprei. Blu? Bluastri? All’incirca.”
“Sembra una giusta descrizione dei suoi occhi,” concesse Mycroft, pensieroso. 
“Aspetti,” Greg capì il perché della domanda di Mycroft. “Pensa che Sherlock mi abbia in qualche modo ingannato, facendomi credere che un altro studente fosse lui?”
“Non incolperei lei. Sa essere brutalmente ingegnoso.”
“E lei è estremamente sospettoso.”
“Affatto. Sono estremamente realistico.”
Greg ne fu infastidito. “Sherlock si sta comportando bene,” ripeté. 
“Mi perdoni, ma devo chiederle quale magia ha compiuto per trasformare mio fratello in uno studente modello.”
“Sa, era solo annoiato,” commentò Greg. 
“Lo so. Raramente mi dice qualcosa di diverso.”
“Perciò gli ho dato un enigma.”
“Che tipo di enigma?”
“Un crimine irrisolto. Uno dei più famosi.”
“Gli ha dato un crimine irrisolto? Perché?”
“Perché lo risolva, è chiaro.”
“Ha senso.” La voce di Mycroft risuonò come se stesse finalmente mettendo insieme tutti i pezzi. “A Sherlock piacciono i misteri e lei aveva iniziato criminologia prima di decidere per biologia. Hmm, e chimica, anche. Calza a pennello con i suoi interessi.”
“Sta leggendo un fascicolo su di me?” chiese Greg, incredulo. 
“No, sto leggendo il fascicolo su di lei,” rispose Mycroft con leggerezza. 
Greg considerò l’idea di arrabbiarsi, ma decise che davvero non era il caso. Chiunque Mycroft Holmes fosse - e Sherlock non parlava mai di suo fratello, o di qualsiasi cosa che non fosse il mistero del Taman Shud - aveva chiaramente accesso a cose che Greg avrebbe preferito continuare a pensare fossero inaccessibili. Invece, optò per il riportare la loro conversazione su Sherlock. “Ho preso accordi con gli altri suoi professori per far sì che debba continuare a seguire solo i corsi che realmente gli interessano. E’ comunque troppo sveglio anche per quelli, ma almeno li tollera e non li vede come una totale perdita del suo tempo. E il rettore mi ha dato il permesso di riempire il resto della sua scheda con quello che abbiamo deciso di chiamare ‘studio individuale’.”
“Astuto,” disse Mycroft, suo malgrado impressionato. “Ha avuto un’ottima idea. Perché non sono stato contattato per essere messo al corrente di questi cambiamenti?”
“Dovrebbe chiedere al rettore, è stato lui a darmi il via libera. Non credevo rientrasse nei miei compiti anche l’ottenere il suo consenso.”
“Quale caso irrisolto gli ha dato?”
“Un uomo non identificato trovato morto sulla spiaggia di Somerton in...”
“Il Taman Shud,” lo interruppe Mycroft, sorprendendolo. “Molto bene. Quello dovrebbe tenerlo impegnato per un bel po’ di tempo.”
“Fino a questo momento sembra aver funzionato. Sherlock non le ha detto nulla in proposito?”
“Non abbiamo avuto modo di parlare.”
“Non avete avuto modo di parlarvi... da quando?” chiese Greg, confuso. 
“Dall’inizio del semestre, naturalmente,” rispose Mycroft, come se fosse una cosa ovvia. “Lo vedrò a breve per il fine settimana di vacanza; glielo chiederò allora.”
Greg disse, “Ad ogni modo, lui sembra davvero preso dal caso. Dovrebbe vedere quanto si sta impegnando: un’intera parete della camera di John è ricoperta da appunti e altre cose che nessuno di noi riesce a capire, ma...”
“John?” lo interruppe Mycroft. 
Oh, realizzò Greg. Mycroft non aveva parlato con Sherlock dall’inizio dell’anno. “Già. John Watson. Un nuovo ragazzo al suo ultimo anno, ha la stanza vicino a quella di Sherlock. Sono diventati buoni amici.”
“Deve essere in errore,” disse Mycroft. 
Greg non riuscì a capire il perché di quella reazione. “Su cosa?”
“Sherlock non ha amici.”
Diverse volte quella conversazione lo aveva irritato, ma ora era decisamente arrabbiato. “E’ una cosa orribile da dire su suo fratello.”
Mycroft lo derise. “Oh, per cortesia, lo ha incontrato. Sa che è la verità.”
Greg sapeva che Sherlock, apparentemente, non aveva altri amici oltre John: non era il tipo di ragazzo che sarebbe mai diventato popolare. Questo, però, non sembrava infastidirlo: per quanto ne sapeva Greg, l’unica opinione di cui gli interessava almeno un po’ era quella di John. Non riusciva a spiegarsi il perché, ma accettava quella verità: Sherlock Holmes avrebbe preferito avere un solo John Watson che dozzine di altri amici. 
Alle volte aveva provato a immaginare come fosse stato per lui stare lì prima di quest’anno: annoiato a morte e senza nessuno; non lo sorprendeva neanche un po’ che Sherlock fosse stato considerato difficile: tutti, anche coloro non inclini a essere scortesi, arroganti, insofferenti geni come lo era lui, avrebbero fatto i difficili. 
Greg davvero non pensava fosse giusto che Mycroft discutesse dell’argomento con tale leggerezza. “Sa,” cominciò, duramente, “l’unica cosa che non va con Sherlock è che ha imparato a essere grande, senza prima imparare a essere buono.”
“Oh, immagino che incolpi me di questo?” 
“No, incolpo chiunque lo abbia cresciuto.”
Io l’ho cresciuto.”
“Allora sì, incolpo lei,” disse Greg, incurante del pericolo. 
“Io sono sempre gentile con lui. Lui non è gentile con me.”
“Una risposta incredibilmente adorabile e matura,” commentò Greg. 
“Il suo atteggiamento è completamente inappropriato.”
“Ecco qualcosa che suo fratello e io abbiamo in comune. Può benissimo chiudere la chiamata e andare a lamentarsi di me con il rettore. So che è quello che più di ogni altra cosa vuole fare al momento, ma dovrebbe davvero riflettere sul fatto che per la prima volta da quando Sherlock è a Eton, non ha ricevuto una singola chiamata di lamentele per tutto il mese di Settembre. E non intendo una chiamata da parte nostra, ma da Sherlock.”
Mycroft rimase in silenzio e Greg capì di aver avuto pienamente ragione. 
“Ho una lezione,” mentì, perché credeva fosse il caso di smettere di parlare con Mycroft Holmes prima di dire qualcosa che avrebbe finito per farlo licenziare. “C’è qualcos’altro di cui voleva discutere?”
“No,” disse Mycroft, seccamente. 
“Bene. Arrivederci, allora.” 
Non aspettò di ricevere risposta prima di chiudere la telefonata. 

 

***

 

Mycroft raramente era stupefatto.
Il che era specialmente vero per quanto riguardava Sherlock: niente di quello che faceva lo sorprendeva più, a questo punto. Era sicuro di poter ormai prevedere le sue scenate melodrammatiche, senza tuttavia conoscerne i dettagli. Ma fino ad oggi non ce n’era stata neanche una e questo era sorprendente. 
Sherlock, volendo credere al suo nuovo tutor, stava allegramente indagando su un crimine irrisolto. Sherlock, sempre stando al suo attuale tutor, aveva un amico
Mycroft non sapeva cosa pensare. Era possibile che un tumore al cervello stesse alterando la sua personalità. 
A chiunque altro, pensò, quelle notizie avrebbero fatto un immenso piacere; invece in lui non creavano altro che preoccupazione: non sembrava nemmeno più Sherlock. 
Ovviamente, proprio il giorno in cui avrebbe dovuto andare a prenderlo per il fine settimana, fu costretto ad occuparsi di una dozzina di problemi inaspettati; così mandò un autista in sue veci, e quando lui stesso raggiunse la tenuta era molto più tardi di quanto aveva voluto. 
Sherlock preferiva la tenuta di campagna: aveva detto che odiava tornare nella casa di Londra e Mycroft lo aveva accontentato. Anche la signora Hudson era più contenta così, perché in questo modo era più vicina alla sorella; Mycroft pensò che quindi andava più che bene per tutti. 
Le sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia del viale mentre raggiungeva l’entrata e fu sorpreso di vedere la porta aprirsi prima ancora di averla raggiunta, la luce dell’atrio che delineava la sagoma della signora Hudson. 
“Mycroft,” disse lei, un velato rimprovero nella voce. “Non avresti dovuto guidare così tardi.”
“Se avessi aspettato fino a domattina,” rispose stancamente, “Sarei a mala pena riuscito a vedere Sherlock prima di doverlo riportare a scuola; e poi qualche altro impegno avrebbe potuto trattenermi a Londra.”
“Entra,” disse la signora Hudson, affaccendandosi attorno a lui. “Vado a prenderti qualcosa da mangiare.”
“Lei non è la mia governante,” le ricordò Mycroft, gentilmente, seguendola in cucina e togliendosi il cappotto. 
La signora Hudson gli sorrise con affetto e cominciò a prendere vari ingredienti. Toast al formaggio con pomodori fritti, dedusse Mycroft, e decise che era un’idea meravigliosa. 
Prese posto al tavolo e disse, “Dov’è Sherlock?”
La signora Hudson stava affettando il pane, un’appetitosa pagnotta del negozio in città, e Mycroft sentì l’acquolina in bocca. “Dovrebbe star dormendo, ma sappiamo entrambi che non è così. Se sei ansioso di vederlo, sono sicura che sta leggendo al piano di sopra. Ha portato con sé un’enorme pila di libri. Dice di star risolvendo un omicidio.” 
Rise, mettendo il pane a tostare e cominciando a tagliare il formaggio. 
“Le sembra stia bene?” chiese Mycroft. 
Era concentrata sui pomodori, ma sollevò di scatto la testa e sembrò sul punto di mettersi a piangere. Mycroft sentì il peso di tutte le paure che erano andate crescendo durante quel silenzioso Settembre. 
“Cos’ha che non va?” chiese, sperando di non suonare tanto terrorizzato quanto in realtà era. 
La signora Hudson scosse il capo e disse, la voce tremante, “Oh, Mycroft, non sta bene.”
Mycroft ipotizzò tutte le cose che potevano star andando male, processando rapidamente, catalogando dove avrebbero trovato i migliori dottori, tutto ciò che i soldi potevano comprare, ma le successive parole che sentì fermarono quel treno di pensieri. 
“E’ felice.”

 

***

 

Quando andò a letto non avrebbe saputo dire se Sherlock stesse dormendo oppure no. La luce nella sua camera era ancora accesa, filtrava da sotto la porta, ma non sarebbe stata la prima volta che si addormentava senza spegnerla. Decise che, tutto considerato, la cosa migliore sarebbe stata parlargli in mattinata. 
Sherlock si degnò di scendere a fare colazione sul tardi, indossando ancora la maglietta a mezze maniche e i pantaloni del pigiama in cui aveva chiaramente dormito; aveva con sé un libro, un piccolo taccuino e una penna. I capelli erano una massa disordinata e Mycroft pensò che era un po’ troppo magro; non salutò nemmeno prima di lasciarsi cadere su una sedia, gli occhi fissi sul suo libro. 
Mycroft, però, capì esattamente perché la signora Hudson aveva detto che era felice. 
C’era in lui una lucentezza rilassata e casuale che non aveva mai visto e non poté evitare di sentirsi irrazionalmente irritato per questo. Nel giro di un mese, Gregory Lestrade, con o senza l’aiuto di John Watson, era riuscito a far scattare un qualcosa in Sherlock che lui non era mai neanche riuscito a trovare. Il che era dannatamente fastidioso. 
“Buongiorno,” disse a Sherlock, un po’ più duramente di quanto avesse voluto; la signora Hudson, mentre poggiava una tazza di tè sul tavolo, gli lanciò un’occhiata sorpresa e carica di disapprovazione. 
Sherlock sollevò brevemente lo sguardo dal libro. “Sei ingrassato,” commentò. 
Mycroft si accigliò. “Anch’io sono contento di vederti.”
“E’ perché il tuo è un lavoro da ufficio che ti tiene occupato tutto il tempo: quando sei impegnato mangi automaticamente senza nemmeno accorgertene,” gli spiegò Sherlock, come se lui non fosse già perfettamente consapevole della cosa, prima di bere un sorso di tè. 
“Signora Hudson,” disse Mycroft, sarcastico, “come riusciamo a vivere tutti i giorni senza le illuminanti osservazioni di Sherlock?”
Sherlock gli sorrise e tornò a guardare il suo libro. 
Mycroft prestò attenzione al titolo per la prima volta. “Stai leggendo il Rubaiyat?”
“Sì,” rispose lui seccamente, prendendo nota di qualcosa. 
“L’originale? In Persiano?”
“Come farei altrimenti a essere sicuro di che cosa parla? Non puoi fidarti dei traduttori, sono degli idioti.”
“Non sapevo conoscessi il Persiano.” Mycroft tentò di non far trapelare il suo stupore. 
“L’ho imparato.”
“In questo mese?” Cercò di non suonare tanto impressionato quanto era in realtà. 
Sherlock sbuffò con impazienza. “Questa conversazione è importante? Perché non ho tempo da perdere.”
La porta secondaria che dava sulla veranda si aprì, Molly Hooper guardò verso di loro e disse, la voce carica di allegria nervosa, “Toc toc!”
“Oh, Dio,” borbottò Sherlock, il tono abbastanza alto da essere facilmente udibile da tutti. 
La signora Hudson lo guardò male e lui si nascose dietro il libro. 
“Molly, cara,” disse gentilmente la signora Hudson. “Perché non vieni a sederti? Sherlock stava proprio per fare colazione.”
“No, non è vero,” disse lui da dietro il libro. 
“Devi mangiare qualcosa,” commentò Mycroft, capendo il perché della sua eccessiva magrezza: Sherlock non mangiava quando era occupato a pensare a qualcosa. Che razza di amico era quel John Watson per non accorgersene?
“Tu mangi a sufficienza per entrambi.”
“Se solo fosse davvero così,” disse Mycroft; si girò verso Molly, seduta su una sedia e combattuta fra il fissare con sguardo adorante Sherlock - il che significava guardare in adorazione il suo libro - e l’agitarsi per l’imbarazzo. 
Molly viveva in città e aveva cominciato le sue visite alla tenuta quando la signora Hudson, esperta pettegola, aveva sentito dire che era intelligente e interessata alla scienza. La loro biblioteca traboccava di libri sull’argomento, grazie all’apporto delle mentalità scientifiche di diverse generazioni Holmes, così la signora Hudson le aveva proposto di venire a consultarli e Mycroft non si era opposto. Che lei si sarebbe poi infatuata di Sherlock non lo aveva previsto nessuno, meno di tutti Sherlock che disapprovava sia lei che la sua cotta. 
Mycroft non ci vedeva nulla di male e apprezzava Molly a sufficienza, ma dubitava che lei sarebbe riuscita a gestire Sherlock alla fine. O anche solo al momento. 
“Buongiorno, signorina Hooper,” le disse. “Spero che stia bene.”
Molly gli sorrise raggiante, sollevata per quell’accoglienza. Mycroft non era mai stato meno che educato con lei, ma ciò non le impediva, apparentemente, di comportarsi come se temesse che lui potesse staccarle la testa a morsi alla prima occasione. 
“Molto bene, grazie. Ho pensato di fare un salto visto che questo poteva essere un fine settimana festivo.” Lanciò un’occhiata veloce al libro di Sherlock. 
“Ottima deduzione, Molly,” disse lui da dietro il suo scudo. 
“Sherlock, smettila di fare il maleducato e parla alla tua ospite,” lo rimproverò la signora Hudson. 
“Non è mia ospite; non l’ho invitata,” replicò Sherlock. 
Molly si colorò di rosso, ma la signora Hudson lo ignorò e le disse, gentilmente, “Vorresti qualcosa da mangiare?”
“No. Sto bene. Sono passata solo per dire che io e altri ragazzi andremo a vedere un film, stasera, Sherlock. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere venire?” Guardò il libro piena di speranza. 
“Accodarmi a un mucchio di stupidi idioti che vogliono solo discutere di chi ha baciato chi e quando e dove e dell’eventualità che si tratti di ‘tradimento’ o dell’esistenza di un ‘triangolo’, e che poi, quando non staranno parlando di tali futilità, guarderanno un film talmente stupido da istigare le loro cellule cerebrali alla fuga, dichiarandosi infine anche divertiti da cotanta visione? Assolutamente no.”
“Sherlock!” esclamò la signora Hudson. 
“...Oh,” disse Molly, non sapendo cos’altro dire, un sorriso forzato sulle labbra. “Va bene, allora. Magari un’altra volta?”
Sherlock girò pagina. 
“Forse,” disse al posto suo Mycroft, pensando che quella fosse la cosa più stupida che avesse mai detto, ma provando al contempo dispiacere per la povera Molly. 
Lei gli lanciò un veloce sorriso e disse, alzandosi, “Immagino che ci vedremo in giro. Passa un buon fine settimana, Sherlock.”
Sherlock mugugnò qualcosa e Molly corse via, salutando velocemente con la mano. 
La signora Hudson aspettò che la porta si chiudesse prima di strappargli via il libro dalle mani. 
“Sei stato molto scortese, Sherlock Holmes,” gli disse, severamente. “Le piaci.”
Sherlock, in mancanza del libro, sbocconcellò la sua colazione. “Esattamente. E’ estremamente fastidiosa.”
“Dovresti essere gentile con lei,” gli disse la signora Hudson. 
“Così peggiorerei le cose,” rispose lui. 
“E’ una ragazza così dolce e vuole solo portarti al cinema con sé. Cosa c’è di tanto sbagliato?”
“Sarebbe noioso. Mycroft, diglielo.”
“Sarebbe noioso,” convenne Mycroft. Aveva evitato di andare al cinema con ragazze dolci quanto Molly da quando aveva avuto modo di verificare in prima persona che era davvero noioso. 
La signora Hudson sospirò, lasciò il libro di Sherlock sul tavolo e si mise a lavare i piatti. 
“Però dovrei farti andare in città per scusarti con lei,” continuò Mycroft. 
Sherlock lo guardò con incredulità. “Scusarmi per che cosa?”
“Per essere stato scortese. Sei incredibilmente pessimo nel coltivare le tue conoscenze.”
“Non ho bisogno di coltivare le mie conoscenze. Ho te per quello.”
Mycroft avrebbe voluto chiedergli del suo apparente amico John Watson, ma Sherlock sembrava sul punto di mettere il broncio, ben più nervoso di quando era sceso, e non gli sembrò il caso di parlarne mentre era di cattivo umore. 
Azzardò, invece, “Come va la scuola?”
“Noiosa,” rispose automaticamente Sherlock. 
“Non mi hai chiamato per lamentarti di questo, recentemente.”
“Perché non ascolti mai le mie lamentele,” ribatté con leggerezza lui. “E’ come parlare a un muro di mattoni.”
“Sono terribilmente irragionevole,” disse Mycroft.
Spaventosamente irragionevole,” disse Sherlock e aprì di nuovo il suo libro. 

 

 

 

 

§

 

 

 

“Non puoi fidarti dei traduttori, sono degli idioti.”
Awww, Sherlock sì che mi capisce.
Sappiate che se siete tutti d’accordo con lui entro in sciopero. u.u



















 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***





Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

John era terrorizzato all’idea di tornare a casa per il fine settimana. 
Avrebbe davvero preferito non farlo. Si sentiva in colpa per averlo pensato: sapeva che Harry voleva rivederlo e sentiva la mancanza di sua sorella, ma era come se il mese appena passato a Eton fosse stato magico e temeva che qualcuno a casa gli avrebbe fatto notare che quella vita non poteva in alcun modo appartenergli. 
Anche Sherlock non era entusiasta all’idea di tornare a casa, ma lui si preoccupava solo del tempo che non avrebbe potuto dedicare al caso del Taman Shud: nella sua opinione, qualsiasi cosa non riguardasse l’attiva ricerca del colpevole di un omicidio di quarant’anni prima era completamente inutile. 
John avrebbe voluto poter dire che Sherlock lo stava facendo diventare matto continuando a lavorare nel suo ‘laboratorio’ alle ore più assurde, invece si era talmente abituato ad averlo sempre fra i piedi da non riuscire a immaginare un intero fine settimana senza di lui. 
Alla fine ebbe davvero poco tempo per rammaricarsi dell’assenza di Sherlock, occupato com’era ad affrontare la litania di continue lamentele di sua madre riguardanti il suo recente comportamento: ovvero l’essere partito per Eton, tralasciando così tutto il lavoro che avrebbe potuto aiutare a fare nel loro appartamento. 
John, aggiustando un rubinetto che perdeva nel bagno, disse, “Perché non hai assunto qualcuno per occuparsene?”
“Oh, pensi che i soldi ci escano dalle tasche adesso, non è vero?”
“Certo che no, ma ne abbiamo abbastanza da permetterci di assumere qualcuno di tanto in tanto,” replicò John. Il silenzio con cui rispose sua madre la diceva lunga. 
Interruppe ciò che stava facendo, la guardò e lesse la verità sul suo viso prima ancora di porre la domanda. “Hai speso tutti quelli che ti spettavano?”
“Naturalmente no,” disse lei, sulla difensiva. “E’ solo che non voglio sprecarli.”
Ma era ovvio che stava mentendo. John aspettò che bevesse fino a perdere i sensi prima di chiedere a Harry. 
“Non ho idea di come li abbia spesi,” disse lei, versando a entrambi un generoso bicchiere dell’economica vodka che la mamma aveva bevuto. “Alcol? Gioco d’azzardo? Che diavolo ne so? Ma sono abbastanza sicura che siano finiti.”
“E tu quanto hai bevuto?” chiese John, notando la facilità con cui Harry aveva ingurgitato la vodka. 
Harry si strinse nelle spalle e gli sorrise. “Andiamo, non festeggiate selvaggiamente in quella scuola? O bevono champagne tutto il tempo?”
“Dom Perignon,” le disse John. “Non smettono mai. Sto scendendo di livello, qui con te.”
Sorseggiò la vodka e fece una smorfia melodrammatica, guadagnandosi uno scapaccione da Harry. Risero insieme per un secondo, poi John tornò serio. 
“I tuoi soldi sono al sicuro, invece, giusto?”
Lei annuì. “Il fondo è inviolabile. La mamma non può accedervi.”
John si sentì sollevato. “Ottimo. Quelli sono per noi.”
“Salute!” Harry fece tintinnare insieme i loro bicchieri con entusiasmo. 
“E non vanno sprecati.”
“Istruzione. Capito. Ci sto lavorando.”
“Davvero?” si preoccupò per lei. Non aveva voluto trasferirsi, John lo aveva desiderato disperatamente e lei gli aveva detto di andare. Ancora si sentiva in colpa per averla lasciata lì a cavarsela da sola. “Come va la scuola?”
“Bene. Tutto bene. Sono più interessata alla tua scuola. Ho detto a Sarah che saresti tornato a casa per il fine settimana e lei ha risposto di non voler mai più rivedere la tua faccia. Le ho detto che probabilmente non avrebbe avuto niente di cui preoccuparsi perché avresti finito per diventare gay, innamorandoti di un qualche snob cretino.”
“Grazie, Harry,” le disse John, ironicamente, “quella sicuramente era la cosa migliore da dire.”
Lei si strinse nelle spalle, irreprensibile. “Come sta andando a Eton?”
“Bene, è... incredibile. Ho scelto i miei corsi, sai. Resterò a Londra. Non mi avvicinerò neanche a Oxbridge. L’University College è la mia prima scelta. Dovrò ottenere dei risultati eccezionali, però; non sono certo di riuscirci.”
“Ce la farai.” Harry aveva la sicurezza che a lui mancava. “So che ci riuscirai. Raccontami degli altri, sono terribili?”
“Sono...” John ci pensò. “Non sono poi tanto diversi da qui, davvero. Voglio dire, sono sempre persone: ci sono stupide cricche e inutili litigi, solo che è un po’ peggio perché sono bloccati tutti insieme nello stesso posto per tutto il tempo; non possono allontanarsi l’uno dall’altro e lasciar perdere. Ma le lezioni sono fantastiche, Harry. Sono davvero interessanti. Biologia è un sogno. Vivisezioniamo tantissimo, è magnifico. Sto imparando tantissimo, sul serio.” Realizzò di star esagerando e si impose di star zitto. 
“E stai giocando a rugby,” notò Harry. “Sembri in forma. I compagni di squadra sono gentili?”
“Abbastanza,” concesse John. 
“Non sei solo, non è vero?” si agitò lei. “Mi preoccupo per te, lo sai.”
John stava per dirle di Sherlock: ce l’aveva proprio sulla punta della lingua. No, non sono solo. Ho questo brillante, insopportabile, affascinante, incredibile amico che fa sì che non mi annoi mai. Ma non lo disse. 
Temeva che non avrebbe capito Sherlock, che avrebbe preso in giro le sue stranezze senza riuscire a comprendere la grandezza della sua genialità, e lui era troppo... troppo... qualcosa; John non avrebbe permesso a nessuno di sminuirlo. 
Sherlock apparteneva a lui, a questa vita in cui era John Watson, Come-Avrebbe-Voluto-Essere, e non John Watson, Come-Tutti-Gli-Altri-Volevano-Che-Fosse. 
Voleva essere egoista con Sherlock: tenerlo tutto per sé, impedendo alle persone che facevano parte del resto della sua vita di toccarlo, pungolarlo, criticarlo e giudicarlo. 
Perciò disse solo, sinceramente, “Non sono solo.”

 

***

 

Sherlock era prigioniero nella sua macchina sulla strada di ritorno a Eton e Mycroft ne era deliziato. Certo, era perfettamente evidente che Sherlock intendeva ignorarlo tanto quanto gli era possibile. Se ne stava raggomitolato sul sedile del passeggero a leggere un libro sui primi stadi della guerra fredda, il che significava che aveva finito il Rubaiyat. 
Mycroft lo lasciò leggere. Be’, ad essere sinceri stava solo rimandando il momento in cui avrebbe iniziato la conversazione. Sherlock irradiava una contentezza a cui davvero non riusciva ad abituarsi; pensò fosse possibile che stesse anche respirando più intensamente. 
Alla fine, però, azzardò, “Parlami del tuo nuovo tutor.”
Sherlock mugugnò senza sollevare lo sguardo dal libro. “Cosa vuoi sapere?”
“Ti piace?”
“E’ tollerabile. E’ il migliore dei peggiori, immagino.”
Il che era un gran complimento, detto da Sherlock. “Ti sta facendo lavorare sul caso del Taman Shud?”
Sherlock lo guardò con sospetto con la coda dell’occhio. “Come lo sai?”
“Stai leggendo il Rubaiyat e libri sulla guerra fredda. Facile da dedurre. A che punto sei?”
Sherlock esitò. Poi si lanciò in quello che divenne un monologo sul caso: le sue teorie, le conclusioni a cui era arrivato, lo stupido modo in cui la polizia aveva condotto l’indagine e il fatto che chiaramente l’uomo era morto a causa della digitalina, non c’erano altre possibilità. Mycroft lo ascoltò, cercando di nascondere il suo totale sbalordimento: perché Sherlock non parlava mai così tanto se non per lamentarsi, e queste sicuramente non erano lamentele. Continuò a parlare anche quando arrivarono a Eton, spiegando in che modo aveva decifrato il codice che era stato trovato nella valigetta, prima di zittirsi di colpo. 
Mycroft gli lanciò un’occhiata, chiedendosi se avesse appena realizzato che erano ormai a destinazione e che aveva parlato per un insolito lasso di tempo, ma Sherlock stava guardando qualcuno con una strana, intenta espressione in viso, a metà fra la gioia e la paura. Parcheggiò la macchina e seguì lo sguardo del fratello fino a un ragazzo dai capelli biondo sabbia che aveva appena girato l’angolo di Holland House. Il suo aspetto era piuttosto ordinario, tralasciando l’orribile maglione che indossava. 
Mycroft spostò nuovamente lo sguardo su Sherlock e non ebbe bisogno di porre domande. Non lo aveva mai visto guardare nessuno in quel modo: quello doveva essere John Watson. 
Sherlock si mosse improvvisamente, slacciando la cintura di sicurezza. “E’ stato bello vederti, Mycroft. Ci rivedremo fra qualche settimana.”
Ovviamente voleva evitare di fare le presentazioni, ma Mycroft non sarebbe assolutamente andato via senza. Si tolse la cintura, scese dall’auto e disse, ad alta voce, “Eccoci qui, Sherlock!”
Al che, come aveva previsto, il ragazzo biondo si fermò e si girò verso di loro con aria di attesa. Sherlock lo guardò in un modo che, se malauguratamente avesse avuto i superpoteri, lo avrebbe incenerito sul posto. Poi, rassegnato, scese anche lui. 
“Ciao,” disse il ragazzo che chiaramente era John Watson, più contento di vedere Sherlock Holmes di chiunque altro Mycroft avesse mai visto. Gli andò incontro quasi saltellando.
“Ciao,” disse Sherlock, per lo più imbronciato ma con un fondo di insicurezza. 
Mycroft non credeva che potesse essere insicuro: tutto in questa situazione testava i limiti del possibile.
John gli porse un libro. “Ti ho preso questo. Veleni non rintracciabili. Nessuno avrebbe lasciato che Sherlock Holmes lo prendesse, ma non hanno battuto ciglio quando a farlo è stato John Watson.”
Sherlock mormorò, “Idioti,” ma lo disse devotamente, l’espressione di chi credeva possibile che il sole sorgesse e tramontasse grazie a John Watson e alla sua abilità nel prendere in prestito libri dalla biblioteca. 
John gli sorrise calorosamente e disse, “Per ripagarmi, però, stasera dovrai mangiare un pasto completo.”
Al diavolo, pensò Mycroft a quel punto, ora anche lui amava John Watson. Si schiarì rumorosamente la gola.
Una smorfia di disappunto ombreggiò l’espressione adorante di Sherlock. “Ricordi quando ti ho raccontato che non ho dei genitori, ma che ho un Mycroft?” disse a John. “E tu mi hai chiesto ‘Cos’è un Mycroft?’”
John sorrise divertito. “Sì.”
Sherlock annuì in direzione di Mycroft. “Ecco un Mycroft.”
John lo guardò, sorpreso. “Oh,” disse. “Mi dispiace. Non avevo capito che... un autista è venuto a prendere Sherlock venerdì, perciò non ho pensato che... Scusi, scusi, scusi.” Si affrettò a raggiungere l’altro lato della macchina. “Mi dispiace così tanto. Io sono John Watson. Ho sentito... più che altro niente su di lei.” Sorrise e gli porse la mano. 
“Ah, lo stesso vale per me,” disse Mycroft, stringendogli educatamente la mano. “Sono certo che a questo punto sai bene che se gli dai un libro sui veleni non rintracciabili, poi non devi assolutamente mangiare o bere niente che sia stato nelle sue vicinanze.”
“Sì, signore,” convenne John, serio. 
“Non essere ridicolo,” s’imbronciò Sherlock. “Non avvelenerei mai John.”
“Molto,” disse John, sorridendogli con affetto. Mycroft sentì un capogiro per lo stupore. 
Sherlock lo guardò, confuso. “Cosa?”
“Non mi avveleneresti molto. Non mi aspetterei altrimenti.”
Sherlock sembrò infastidito e, se possibile, ancora più incantato; Mycroft, che non lo aveva mai visto impressionato da qualcuno, studiò quel ragazzo con attenzione, cercando di capire che cosa in lui era stato in grado di catturare l’attenzione dell’essere umano più impegnativo al mondo. All’esterno non aveva assolutamente niente di particolare. 
Desiderò intensamente che Sherlock non fosse lì con loro, perché così avrebbe potuto avere una conversazione con lui: avrebbe ascoltato tutte le sue risposte e compreso che cosa lo rendeva speciale, perché Sherlock era attratto da lui e se tutto questo avrebbe finito per migliorare le cose o peggiorarle più che mai. 
“Dovresti venire a trovarci durante le prossime vacanze,” suggerì, mentre Sherlock si irrigidiva, il panico negli occhi. “A Sherlock farebbe piacere.”
Era vero, pensò Mycroft. E se poi, durante quella settimana, avrebbe anche avuto modo di mettere spalle al muro John, be’, tanto meglio. 

 

 

§













 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***







Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

Sherlock era terribile sul fronte del mangiare, il che comportava che non cenavano quasi mai assieme. John di solito metteva insieme degli avanzi e li portava poi nella loro camera, dove passava il resto della serata cercando inutilmente di convincerlo a mangiarli; Sherlock, imperterrito, continuava a lamentarsi del fatto che il processo digestivo gli consumasse il cervello
John non aveva mai sentito niente di così ridicolo, ma Sherlock ne era convinto. 
Per quella ragione, finiva per mangiare con gli altri ragazzi del suo anno che apprezzava a sufficienza. Non credeva che sarebbero mai diventati amici davvero stretti, ma era come se la sua amicizia con Sherlock fosse tale da portarlo a considerare inevitabilmente secondari tutti gli altri. 
E una notte, una settimana prima delle vacanze, Musgrave gli disse, “Siamo tutti curiosi di sapere lui com’è.”
John si era distratto pensando all’imminente settimana di vacanza e al fatto che aveva deciso di passarne parte a casa di Sherlock, a come avrebbe fatto a dirlo a sua madre e a come avrebbe potuto impedire a Harry di insospettirsi troppo; così disse, vago, “Chi?”
“Holmes. Noi altri abbiamo cercato di capirlo, ma non siamo mai arrivati a niente. Trevor in quel senso è quello che ha ottenuto di più, prima che Holmes lo fermasse dicendo di essersi annoiato.”
I ragazzi ridacchiarono, ma Trevor non sembrò offeso. Disse, allegramente, con l’aria di chi ha già raccontato parecchie volte una storia e si diverte a farlo, “E dopo che molto gentilmente avevo fatto venire lui per primo, anche. Ecco cosa si ottiene comportandosi educatamente.”
Di colpo John capì di cosa stavano parlando. Realizzò di essere stato un po’ più lento di comprendonio di quanto sarebbe stato in una diversa situazione, semplicemente perché l’idea che Sherlock potesse aver preso parte alle attività sessuali che erano la normalità lì ad Eton non lo aveva mai sfiorato. 
Sherlock era sempre così riservato: John non era sicuro di averlo mai visto parlare con altri studenti all’infuori di lui. Non aveva mai pensato che potesse aver interagito con gli altri ragazzi e alla sola idea sentì un’improvvisa e completamente irrazionale ondata di gelosia. Non perché Trevor era riuscito a entrare nei pantaloni di Sherlock, ma perché apparentemente aveva parlato con lui. 
John si accorse che tutti lo stavano guardando in attesa di una risposta; accennò un pallido sorriso e disse, “Non è come pensate.”
“No, lo sappiamo che non siete froci,” disse Musgrave, quello che aveva dato il via alla discussione. “Be’,” si corresse. “Sappiamo che tu non lo sei. Non abbiamo idea di come classificare lui.”
Per quel che ne sapeva John, tutti a Eton si lasciavano entusiasticamente coinvolgere in attività sessuali gli uni con gli altri senza tuttavia che nessuno si ritenesse per questo un omosessuale. Ne capiva il motivo: aveva trascorso la gran parte della sua adolescenza in una scuola dove aveva avuto modo di sperimentare sessualmente con delle ragazze, questi ragazzi invece no e lui non li avrebbe certo giudicati. Non che sarebbe stato diverso se fossero stati davvero gay. Era solo che John, con un passato da eterosessuale, non voleva prendere parte alle sfinenti pratiche sessuali di Eton. Preferiva la frustrazione sessuale a cui si stava sempre più abituando, in parte perché non riusciva mai a rimanere solo. 
O solo quantomeno per quanto gli sarebbe bastato a rilassarsi, senza la preoccupazione che qualcuno spalancasse di colpo la sua porta. 
Scosse brevemente la testa, sorrise di nuovo e disse, “No, davvero, siamo solo amici.”
Risero tutti come se avesse appena detto una battuta esilarante. John li guardò confuso. 
“Lui non ha amici,” disse Musgrave. 
John ribatté, “Ha me.”

 

***

 

La lezione di biologia era appena finito e John stava raccogliendo i suoi libri quando Sherlock si materializzò davanti al suo banco. Di solito uscivano insieme per tornare ad Holland House, dove John si sarebbe preparato per il rugby e Sherlock avrebbe messo il broncio perché John aveva altre cose da fare che non ruotavano solo attorno a lui. 
In realtà era un battibecco che avevano così spesso che John davvero non avrebbe dovuto più registrarlo come tale, se non fosse che la sera prima gli avevano dato la scioccante notizia che Sherlock era stato amichevole con qualcun altro quel tanto che bastava da procurarsi un orgasmo; e davvero a John non avrebbe potuto importare meno del sesso, sul serio no, ma irragionevolmente odiava qualsiasi cosa fosse accaduta prima del sesso. 
Non poteva farne a meno. 
“Penso che dovresti saltare il rugby oggi,” disse Sherlock, come faceva tutti i giorni in cui John aveva allenamento. 
“Non posso,” rispose John, come faceva tutti i giorni in cui aveva allenamento. 
Uscirono fuori insieme: era una giornata umida e grigia e John desiderò che potesse saltare il rugby per fare qualsiasi cosa Sherlock avesse in programma; fin tanto che fosse stato previsto un tetto sopra la testa. 
“Ho bisogno del tuo aiuto per un esperimento di chimica a cui sto lavorando,” disse Sherlock. 
Detto da chiunque altro avrebbe potuto sembrare un tentativo di rimorchio, ma John sapeva che Sherlock intendeva il tutto letteralmente. “No, non è vero. Sono pessimo in chimica e lo sai. Quello che davvero vuoi che faccia è complimentarmi per la tua genialità mentre porti avanti l’esperimento e grattarti di tanto in tanto la spalla perché sei troppo pigro per sollevare il braccio e farlo da solo.”
Sherlock sorrise soddisfatto. “Sì, esattamente.”
John non riuscì a trattenere una risata. “Be’, non succederà; devo giocare a rugby.”
Sherlock fece una smorfia. “E’ davvero svantaggioso per me che tu conosca altre persone.”
E per qualche motivo, in quel particolare giorno, quella frase lo irritò. “Sai,” disse, girandosi bruscamente verso di lui, “non puoi davvero lamentarti di questo, non è vero?”
Sherlock sembrò sorpreso dalla sua reazione. Sbatté le palpebre. “Cosa?”
“Il conoscere altre persone. La camera di chi usavi come laboratorio prima della mia? Quella di Trevor?”
“Non usavo la camera di nessuno prima della tua. Chi è Trevor?”
John roteò gli occhi e riprese a camminare. “Oh, smettila, Sherlock.”
“Oh,” disse lui e John riconobbe un accenno di comprensione nella sua voce. “Trevor. Aspetta, tutto questo riguarda la terribile tecnica di fellatio di Trevor?” Sherlock lo raggiunse. “Perché quello era un esperimento.”
John cercò di non pensare a Sherlock e al sesso orale e disse, “Ovvio che lo fosse. Non avrebbe dovuto esserlo. Non puoi semplicemente usare le persone in quel modo.”
“Perché no? Perché Trevor ha importanza? E’ un cretino.”
John sapeva che lo era, ma si stava comportando in modo irrazionale al punto da arrivare a difenderlo. “Avresti dovuto dirmelo. Sono sembrato un idiota perché non lo sapevo.”
“Non sapevi cosa?” chiese Sherlock con rabbia. “E perché stavi parlando di quello, tanto per cominciare?”
La domanda provocò a John una fitta di colpevolezza. “Possiamo chiudere qui questa conversazione, adesso?”
“Sei stato tu a iniziarla,” gli fece notare Sherlock, freddamente. “Ti stai comportando in maniera profondamente illogica al momento e sai quanto io lo detesti.”
Sherlock ruotò su se stesso con eleganza e riuscì ad apparire aristocratico anche mentre si allontanava sbattendo i piedi. 
John pensò che alle volte lo odiava davvero.
“Hey!” gli gridò dietro, seccato perché l’accusa di Sherlock era stata del tutto corretta, ma lui continuò a camminare in direzione del laboratorio di scienze senza accennare a voltarsi e John soppresse l’impulso di tirargli in testa il libro di biologia. 
Lestrade uscì dall’edificio alle loro spalle giusto in tempo per cogliere l’ultimo e infruttuoso richiamo di John e notare la rabbiosa figura di Sherlock in allontanamento. 
“Problemi in paradiso?” chiese, gentilmente. 
“Noi non siamo una coppia,” scattò John, e marciò via verso Holland House. 

 

***

 

John si cambiò rabbiosamente per l’allenamento di rugby e poi disordinò di proposito i calzini di Sherlock. Sapeva che era un comportamento meschino, soprattutto visto che non era nemmeno del tutto certo di non dover essere proprio lui a porgere le sue scuse a Sherlock, ma era nervoso, e il cambiare l’ordine dei calzini riuscì a farlo sentire meglio. 
Era già fuori dalla porta, intenzionato ad andare all’allenamento, quando il suo cervello realizzò ciò che aveva visto sul muro; tornò indietro e guardò meglio. Quel giorno Sherlock vi aveva attaccato un pezzo di carta con su scritta un’equazione chimica, cerchiata e con un punto esclamativo accanto. John era davvero terribile in chimica, ma riconobbe che ciò che Sherlock aveva cerchiato era il “cloro”.
Corrucciato, lasciò la sua stanza e si avviò in direzione del campo di rugby; compì quattro passi completi prima di girare su se stesso e dirigersi invece verso il laboratorio di scienze. Perché Sherlock, com’era naturale che fosse, avrebbe probabilmente inalato il cloro e rischiato di ammazzarsi. 
Come John aveva predetto, quando aprì la porta del laboratorio il sentore di cloro era molto forte e gli occhi cominciarono subito a pizzicargli. Sherlock stava indossando degli occhiali protettivi, per questo probabilmente i suoi occhi sembravano star bene, e guardò John con espressione accigliata al di sopra del becco di Bunsen che aveva acceso. 
“Cosa vuoi?”
John raggiunse le finestre e cominciò ad aprirle. “Devi ventilare la stanza se stai per lavorare con del cloro.”
“Non sono un idiota,” disse Sherlock, offeso. “La concentrazione di gas non ha ancora raggiunto il livello per cui sia necessario far ventilare.”
“Sarebbe opportuno arieggiare prima di raggiungere il punto in cui non saresti più in grado di respirare,” commentò John. 
“Sono più che capace di badare a me stesso.”
“Nessuno ha detto il contrario.”
“Tu lo stai implicando.”
“Sto solo implicando che alle volte riponi fin troppa fiducia nelle capacità della tua stessa intelligenza di salvarti da tutte le spericolate cose che fai.”
“Non mi servono i tuoi consigli in materia,” borbottò Sherlock. 
John alzò le mani, frustrato. “Certo che no. Perché dovresti stare ad ascoltarmi? Sono solo un tuo amico.”
“Io non ho amici,” sbottò Sherlock. 
La stanza divenne improvvisamente così silenziosa che John, attraverso le finestre che aveva appena aperto, riuscì a sentire gli allenamenti di rugby in lontananza. 
Aveva cenato, la sera scorsa, e insistito con gli altri suoi compagni che proprio quello non era vero sul conto di Sherlock - che Sherlock aveva lui - ed era impreparato per come lo fece sentire, proprio dalla voce di Sherlock, che non era ciò che pensava anche lui. 
Cos’erano, se non amici? Per quanto riguardava John, Sherlock era indubbiamente il suo migliore amico. E il livello di dolore che provò mentre ciò gli veniva negato, anche se erano nel bel mezzo di una discussione, lo colse del tutto di sorpresa. Avrebbe difeso Sherlock fino alla morte. Era la prima volta che dubitò che lui avrebbe fatto lo stesso. 
Sherlock non sembrava pensare di aver appena oltrepassato alcun confine: resse duramente il suo sguardo, per lo più seccato dal fatto che John aveva avuto l’ardire di suggerirgli di arieggiare la stanza prima di sperimentare con dei gas tossici. 
Era quasi divertente, pensò John, quanto stupidamente si stesse comportando.
“No,” concordò, sardonicamente. “Mi chiedo come mai.”
E poi marciò fuori dal laboratorio. Lasciò volutamente la porta aperta dietro di sé, in parte per sottolineare il concetto della ventilazione e in parte per dare a Sherlock l’opportunità di richiamarlo indietro per scusarsi con lui. 
Dietro di sé non sentì altro che il silenzio. 

 

***

 

Prima che John uscisse dal laboratorio di scienze, l’opinione di Sherlock sulla discussione che stavano avendo era che era stupida e il risultato della stupidità di John. Non voleva neanche prendersi la pena di cercare di capire perché mai la stupida cosa con Trevor aveva sconvolto John fin dall’inizio. 
Quando John uscì dal laboratorio di scienze, Sherlock realizzò improvvisamente di aver commesso un terribile sbaglio. 
John era suo amico. Sherlock restò immobile, pietrificato, e pensò a quanto fosse stato idiota a non capirlo prima. John aveva parlato di loro come amici fin dal primo giorno in cui si erano conosciuti, ma Sherlock aveva ignorato la cosa. John era quel tipo, il tipo che era amico di tutti, e perciò non aveva voluto leggere troppo in quella parola. Ma ora, sei settimane dopo, John sembrava considerarsi davvero ancora amico di Sherlock; almeno fino a pochi minuti prima. 
E John era leale. Sorprendentemente leale, dolorosamente leale. 
Avrebbe tollerato qualsiasi cosa da parte di Sherlock, ma non il tipo di tradimento che aveva appena compiuto negando la loro amicizia. Era possibile che avesse appena rovinato ogni cosa. Sentì un vago malore e desiderò poter incolpare la concentrazione di cloro nella stanza, ma no, John, con quella sua premurosità che insisteva a riservare anche a Sherlock, aveva ventilato l’area per lui. 
Si sentì male per la paura
Aveva avuto un amico e stupidamente non lo aveva realizzato finché non era stato troppo tardi. 
Spense il becco di Bunsen e cercò di pensare a cosa fare. Cosa fanno le persone che hanno degli amici? Come fanno a tenersi stretti quegli amici? Di solito ciò includeva cose che lui non sopportava: inutili conversazioni sul tempo e sulla salute altrui, ma non con John, mai con John; ecco perché doveva risolvere la situazione. 
John era proprio come il teschio che la signora Hudson gli aveva dato per compagnia la prima volta che era andato a Eton, solo migliore
Andò al campo, dove l’allenamento era ancora in corso, e sedette sul pendio della collina per considerare cosa avrebbe dovuto dire. Qualcosa di divertente, forse? Essere divertenti era parte fondamentale dell’amicizia. Sherlock lo aveva osservato tantissime volte. Quasi mai ciò che avrebbe dovuto essere divertente lo era davvero, ma sembrava che funzionasse sempre. Cercò di pensare a qualcosa di divertente da dire. 
Non appena l’allenamento giunse al termine, Sherlock visse il suo primo momento di vera paura: e se John non fosse andato verso di lui? E se lo avesse ignorato, andando via con i suoi altri amici? E se non gli avesse parlato mai più?
Prese un respiro profondo, cercando di ossigenare il sangue così da placare l’irrazionale crescita di adrenalina. Sarebbe andato tutto bene, si disse, anche se John non gli avesse parlato mai più. Aveva vissuto tutto la sua vita senza parlargli, che importanza avrebbe avuto se non gli avesse mai più rivolto la parola?
John si allontanò dalla folla sul campo e puntò infallibilmente nella sua direzione. 
Sherlock rilasciò un sospiro di sollievo e si accorse di aver avvinghiato l’erba sotto di sé per la tensione. Si forzò a rilassare le dita mentre lo guardava avvicinarsi. 
John rallentò appena al suo fianco prima di continuare a camminare; ma non avrebbe scelto quel percorso se non avesse voluto parlare con lui, decise Sherlock, e si alzò in piedi per seguirlo. 
“L’allenamento è andato bene,” azzardò. 
“Sai qualcosa di rugby?” gli chiese John senza rallentare il passo. 
Sherlock era sul punto di rispondere che avrebbe potuto sapere tutto del rugby se avesse voluto, ma ricordò a se stesso che quella probabilmente non era una cosa amichevole da dire; così rispose, “No.”
“Allora perché stai parlando di rugby?”
“Ho pensato che potesse servire a rompere il ghiaccio,” mormorò Sherlock, onestamente. 
“Non ti si addice. Io mi atterrei al ghiaccio.”
Questo, pensò Sherlock, non sembrava star procedendo bene. 
Aveva avuto un amico - uno splendido amico - e aveva rovinato tutto. 
“John...” cominciò, disperato. 
“Va bene così,” disse John, coinciso, ma era chiaramente una bugia. 
“Intendevo davvero quello che ho detto,” gli disse Sherlock, accanitamente. 
John rise aspramente e continuò a camminare. “Oh, davvero?”
“Io non ho amici. Ne ho solo uno.”
John smise di camminare. 
Non si girò per guardarlo, ma almeno si era fermato.
“Giusto,” disse dopo un secondo. 
Sherlock desiderò che John si girasse: era molto più facile capirlo quando poteva guardarlo negli occhi. Avrebbe potuto andargli davanti, ma non voleva fare niente che potesse in alcun modo infastidirlo.  
Alla fine si limitò a dire, “Per favore, vieni a trovarmi durante le vacanze. Per favore.”
Normalmente non diceva ‘per favore’. Mai. Sembrava una strana parola, proveniente dalla sua bocca, ma non poteva sopportare l’idea che John non sarebbe stato con lui durante le vacanze come aveva detto che avrebbe fatto. 
Gli amici passano del tempo a casa dei loro amici. Mai nessuno era andato a trovare Sherlock e ora John sarebbe venuto a stare da lui; il che non era per niente paragonabile a come quando tutti gli altri ospitavano i loro noiosi, stupidi amici: lui era John
Sherlock realizzò improvvisamente di non vedere l’ora di scoprire quanto sarebbe piaciuto alla signora Hudson e quanto lei sarebbe poi stata contenta di lui per aver trovato non solo un amico, ma un fantastico amico. Non poteva in alcun modo tollerare il pensiero che John avrebbe potuto cambiare idea, dando modo a Mycroft di dire che lui aveva sempre saputo che Sherlock non sarebbe stato mai in grado di tenersi un amico come John
John alla fine si girò a guardarlo, l’espressione sinceramente confusa, come se Sherlock fosse il mistero lì; il che era completamente assurdo dato che era lui ad essere impossibile da comprendere. 
John disse, “Ho già detto che sarei venuto, non è così?”
Sherlock sbatté le palpebre. “Sì, ma...” Avrebbe voluto fargli notare che avevano appena litigato, o almeno era quello che lui pensava, ma forse aveva male interpretato l’intera situazione e la cosa migliore era non dire un bel niente. “Giusto,” disse, rapidamente. “Hai detto che saresti venuto. Eccellente. Era solo per confermare.”
“Era solo uno stupido litigio, Sherlock,” gli disse John. “Non leggerci troppo con quell’iper reattiva immaginazione che hai.”
Sherlock si sentì così sollevato da riuscire a ignorare la sensazione di essersi comportato da stupido. Sentì improvvisamente l’impulso di sprofondare in John e rifiutare di lasciarlo andare. Non provava mai impulsi del genere, ma di colpo gli sembrò sgradito stare lì con dello spazio fra di loro. Pensò che la sua testa si sarebbe modellata alla perfezione con la spalla di John, la faccia premuta nella curva del suo collo. 
Il battito di John sarebbe stato veloce per via dell’allenamento e pensò che avrebbe potuto contare i battiti premendo la lingua contro la pelle sopra la sua arteria carotide. Avrebbe avuto il gusto del sudore; e se Sherlock avesse stretto le mani nella sua maglietta e reso evidente che non voleva che si muovesse, John sarebbe rimasto fermo per lasciargli leccare la sua clavicola e poi su fino al suo collo e dietro il suo orecchio finché non fosse stato soddisfatto del fatto che il sapore di John Watson sarebbe rimasto indelebilmente sulla sua lingua?
Sherlock guardò l’orecchio di John che spuntava appena da sotto il suo cappello e disse, “Non ho un’immaginazione iper reattiva. Sono tutti gli altri ad averne una poco reattiva.”
John roteò gli occhi e si rimise in cammino, questa volta molto più lentamente. 
Sherlock mise le mani nelle tasche, deglutì e si affrettò a raggiungerlo per camminare al suo fianco e non restare dietro di lui a studiare i capelli affusolati sul suo collo. 
Cambiò argomento di conversazione perché al momento non si fidava appieno della sua reattiva-in-un-modo-perfettamente-normale immaginazione. 
Non toccò l’argomento John, anche, perché gli sembrò la scelta più sicura. 
“L’uomo sulla spiaggia è stato visto per l’ultima volta mentre mangiava un dolcetto. L’impasto dei dolci, lo sai, è solito avere dei buchi. Alcuni tipi di impasto, almeno. Il dolcetto non era avvelenato, stando all’autopsia. E se a contenere il veleno non fosse stato l’impasto bensì l’aria al suo interno?”
“Questo è il motivo per cui stai cercando di ucciderti con il cloro?”
“Non stavo cercando di uccidermi con il cloro.”
“Non osare farmi ingerire alcun dolcetto contenente del cloro per poter testare questa tua teoria.”
“Non sei divertente.”
“Per essere un ragazzo sveglio, non hai idea di quale sia la definizione della parola ‘divertente’; eppure è una parola così semplice.”
John gli sorrise: provocatorio, allegro e bellissimo. Come aveva fatto a non realizzare prima quanto bellissimo fosse, quanto facesse praticamente male anche solo guardarlo?
Sherlock decise di andare a cenare quella sera, perché così avrebbe fatto felice John. 
John gli avrebbe sorriso e quello, stava ormai comprendendo, era un risultato straordinariamente importante. 

 

 

 

 

§




 

Vi lascio il link del gruppo su fb, qualora foste interessati: https://www.facebook.com/groups/322279614453686/
Non che serva davvero a qualcosa, sia chiaro. 
Più che altro potrete trovarci avvisi su eventuali ritardi negli aggiornamenti o, non so, altre catastrofi del genere. 

Come sempre, poi, grazie infinite per tutto il supporto che mi state dando. 
Sapere che la storia riesca a farvi ridere, sciogliere e fangirlare è un piacere immenso <3

Alla prossima, 
Sara





 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***






Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

John non chiese il permesso per andare a trovare Sherlock durante le vacanze. 
Non sarebbe cambiato nulla, francamente, che lo avesse avesse avuto oppure no. Lui sarebbe partito e sua madre avrebbe notato la sua assenza solo qualora si fosse rotto qualcosa e lui non fosse stato lì pronto ad accorrere. Ne ebbe conferma quando lei mostrò genuina sorpresa nel vederlo entrare in casa, per poi affermare che non era più affar suo tenere conto dei suoi impegni ora che andava in quella nuova scuola. 
Harry, almeno, era felice di vederlo; John pensò che avrebbe potuto raccontarle i suoi progetti ma continuò a rimandare fino a quando Sherlock non chiamò, rendendogli così  impossibile posticipare ancora. 
Il telefono suonò mentre stava leggendo The Rubaiyat: non l’originale in persiano, perché  lui non era un esibizionista come Sherlock. Sentì Harry rispondere e poi, dopo un secondo, dire incuriosita: “Solo un momento.” 
Si sporse verso di lui e mormorò, il tono provocatorio: “È per te.”
John realizzò che doveva aspettarsi che Sherlock avrebbe in qualche modo trovato il suo numero di telefono per poterlo chiamare e confermare il programma. 
“Pronto?” disse, cercando di ignorare Harry che stava indirizzando drammatiche, ridicole mimiche di baci nella sua direzione. 
“Tua sorella,” rispose Sherlock senza preamboli, “sta uscendo con un ragazzo di Manchester.”
John non aveva idea se fosse vero oppure no, perché si era imposto di non fare domande alla sorella sulla sua vita amorosa. Premura che Harry non sembrava voler ricambiare visto come al momento era china su di lui, cercando di cogliere cosa Sherlock stesse dicendo. 
John si allontanò da lei quel tanto che il telefono gli permetteva. “Chiami per domani?”
“Ovviamente,” rispose Sherlock, impaziente come al solito. “Ho cercato in tutti i modi di convincerlo a non farlo, ma Mycroft insiste che è suo dovere venire a prenderti così da poter assicurare a tua madre che non ti uccideremo mentre dormi. Il che è profondamente ridicolo dato che Mycroft è l’uomo più pericoloso che potrete mai incontrare e che potrebbe decisamente ucciderti mentre stai dormendo, solo che lui assumerebbe qualcun altro per farlo perché odia lavorare. Comunque, ti suggerirei di ignorarlo e venire qui da solo se non fosse che poi dovremo sentircelo nelle orecchie per l’intera vacanza, perciò forse la cosa migliore è lasciare che si comporti in maniera ridicola venendoti a prendere. Probabilmente scoprirà di essere impegnato e manderà da te solo l’autista.”
Il problema era che John non aveva sentito la voce di Sherlock per cinque giorni e, mentre avrebbe dovuto concentrarsi e prestare attenzione, non poté fare a meno di distrarsi, sorpreso di aver dimenticato quanto quella voce ricordasse cose preziose e lussuriose in cui sprofondare e lasciarsi andare; come il velluto e l’ermellino. La morbidezza della crema. Il brio dello champagne. Il -
Cosa diavolo aveva appena detto? Il cervello di John riavvolse le parole di Sherlock. 
“No, no, no,” disse, un leggero senso di panico mentre si guardava attorno nella piccola e scialba cucina. “Mycroft non può venire qui.”
“Mycroft, come ti ricorderebbe lui stesso, può andare dove vuole,” borbottò Sherlock. 
“Ma...” John si raffigurò l’uomo che aveva incontrato: elegante e preciso nel suo impeccabile completo, e cercò di pensare a cosa avrebbe detto sua madre vedendolo. “Oh, mio Dio. Avrei semplicemente preso il treno. Posso semplicemente prendere il treno, Sherlock.”
“Lo so. È quello che ho detto a Mycroft. Lui ha risposto di no e ha detto che se avessi cercato di organizzare qualcosa per impedirgli di venire da te, avrebbe dichiarato una guerra e preso il controllo dei binari ferroviari.”
Sherlock sembrava credere che Mycroft avrebbe realmente fatto una cosa del genere. 
John decise che non gli importava cosa Mycroft potesse e non potesse fare: aveva problemi più grandi di guerre e binari ferroviari. Principalmente il fatto che al momento sua madre era ubriaca e priva di sensi come nella norma. 
“John?” 
Sherlock sembrava vagamente esitante. L’unica altra volta in cui John lo aveva sentito così era stata quando avevano litigato e lui era stato chiaramente terrorizzato all’idea che John non volesse più essere suo amico. 
Sherlock non aveva amici, aveva lui, ed era preoccupato che non sarebbe più andato a trovarlo. Onestamente, John non aveva proprio preso in considerazione la possibilità di cancellare il viaggio. Il giorno seguente sarebbe stato un disastro ma non era importante fin tanto che alla fine di tutto ci fosse stato Sherlock: quello bastava a far sì che ne valesse la pena. 
John considerò che il modo in cui stava ragionando avrebbe probabilmente dovuto allarmarlo, ma il pensiero di dover aspettare ancora più tempo prima di poter rivedere Sherlock gli sembrò inaccettabile e non si prese la briga di esaminarne a fondo i motivi. 
“Va bene così,” disse. “Ci vediamo domani.”
Attaccò il telefono e si girò verso un’elettrizzata Harry: stava praticamente vibrando dalla gioia. “Chi era quello? Un amico? Un amico snob? Viene a trovarti domani?”
“No, sono io che vado a fare visita a lui. Per il resto delle vacanze.”
Harry sollevò le sopracciglia. “Passerai il resto delle vacanze con un tipo dalla voce sexy?”
“Non ha una voce sexy.”
“Sì, ce l’ha.”
“Gli hai sentito dire sì e no una frase,” le ricordò John.
“Sì, ed è stato abbastanza. Non so come hai fatto a restare in piedi mentre ascoltavi tutto quel suo parlare. Perciò. Chi è e perché non lo hai menzionato prima?”
Harry non sembrava intenzionata a lasciarlo andare via finché non avesse risposto ad alcune domande e lui aveva bisogno del suo permesso per partire, non di quello della madre.
John sospirò e si rassegnò, appoggiandosi al bancone della cucina. “Si chiama Sherlock.”
Sherlock?” ripeté Harry, scettica. “Che diavolo di nome è quello?”
“Il suo,” disse John, un filino irritato. Davvero, il nome gli calzava a pennello. John non riusciva a immaginarselo con un nome comune; necessitava un nome altamente drammatico come quello che aveva. 
Harry piegò la bocca, divertita, come se stesse mantenendo un segreto meraviglioso. “Mio Dio, ti piace.”
“Certo che mi piace,” disse John, serio. “È mio amico.”
Harry continuò a sorridere. “Non riesco a credere che tu non abbia mai parlato di lui.”
“Non c’è niente da dire. È un amico.” John prese un respiro profondo e decise che non era il caso di provare a spiegare meglio cosa fosse Sherlock. Aveva un problema più grande al momento. “Lui è... non lo so, molto ricco, credo, e suo fratello verrà domani per assicurare la mamma che sarò al sicuro nella loro... tenuta estiva.”
Harry inarcò le sopracciglia. “Mettiamola così: se vuoi che io sposi questo Sherlock, per far sì che tu abbia facilmente accesso a lui e che io abbia un facile acceso a posti come ‘tenute estive’, sarei più che disposta a farlo. Giusto perché tu lo sappia.”
John scosse la testa. “Non è come pensi.”
“Dovresti farlo sapere anche a lui,” rispose Harry. 
Lui non è così.”
“Stai arrossendo.”
“Possiamo concentrarci sul vero problema?”
Con suo grande sollievo Harry non disse, Quale?  - domanda che sarebbe stata pienamente giustificata -  ma lanciò un’occhiata a loro madre che stava russando sul divano. “Questo fratello è snob quanto Sherlock?”
“Suo fratello si chiama Mycroft,” rispose John. 
“Oh, Dio,” disse Harry. “Forse posso fingere di essere io tua madre.”

 

 

***

 

 

Sua madre era sveglia e ragionevolmente sobria, perciò notò che aveva con sé un bagaglio. Non poteva semplicemente sgattaiolare via. 
“Stai andando da qualche parte?” domandò.
John ammise, “Vado a stare da un amico. Per il resto delle vacanze.”
Sua madre disse, “Un amico? Che tipo di amico?”
“Cosa intendi con ‘che tipo di amico’?”
“Un amico di scuola?”
“Non c’è bisogno di esserne così sbalordita,” fece John, seccato. 
“Oh, non dovrei?” 
“Un amico di scuola mi ha invitato a casa sua. Perciò ci vado.”
“Non hai pensato di chiedere prima il permesso a tua madre?” domandò lei. 
John la guardò duramente. “No,” disse semplicemente. “Non ci ho pensato.”
Lei abbassò lo sguardo con aria colpevole e John provò un contorto senso di trionfo di cui non andava particolarmente fiero. 
“Chi è questo amico?” chiese sua madre con minore veemenza. “Ci saranno anche i suoi genitori?”
“Non ha i genitori. Ha un fratello maggiore.”
Sua madre sembrò scettica e John avrebbe voluto farle notare che, per quanto ne sapeva lui, Harry era costantemente priva di supervisione e che era ipocrita da parte sua preoccuparsi improvvisamente di adolescenti senza controllo. 
“Maggiore di quanto?” chiese dubbiosa. 
John non ne era sicuro. “Di tanto,” si limitò a dire. 
“Dove vive?”
“Fuori Londra,” rispose John, non volendo darle troppe informazioni; il che sembrava avvenire ogni qual volta si trattava di Sherlock. “Così, adesso vado.”
John voleva essere già fuori quando Mycroft sarebbe arrivato. Non voleva che lui vedesse il suo appartamento; non riusciva a immaginare niente di più imbarazzante. 
“Hai bisogno di soldi per il treno?”
Sua madre si stava comportando in maniera estremamente gentile e John si sentì in colpa perché se le avesse detto che non avrebbe preso il treno, lei avrebbe insistito per accompagnarlo giù e lui non voleva che incontrasse Mycroft Holmes. Si vergognava di questo impulso - del fatto che si vergognava di lei, di star trattando gli Holmes come se in qualche modo fossero migliori di lui - ma non poteva farne a meno. Aveva già abbastanza cose di cui dover occuparsi. Troppe. Desiderava che la parte della sua vita che era Sherlock rimanesse in disparte e in perfette condizioni. Non voleva che il resto del suo mondo ne entrasse a contatto e se questo suo comportamento era egoista, che così fosse.  
Disse, senza mentire del tutto, “Sono a posto,” e poi, per placare il suo senso di colpa, salutò sua madre con un bacio sulla guancia. 
Lei ne fu piacevolmente sorpresa e gli arruffò i capelli come era solita fare quando era piccolo, prima che tutto andasse a rotoli. 
Chiudendo la porta dietro di sé, John non poté evitare di sentirsi come se stesse uscendo da una vita per entrare in un’altra. 
Alla fine la macchina di Mycroft arrivò, attirando il tipo di occhiate curiose che John si aspettava. Era ben conscio del fatto che la notizia di un’auto lussuosa ferma lì per lui sarebbe immediatamente arrivata a sua madre; riconsiderò la sua decisione, pensando che forse avrebbe dovuto farla scendere, ma poi Mycroft scese dalla macchina con indosso un elegante impermeabile nero, guanti neri di pelle e un paio di scarpe che luccicavano. Il tutto probabilmente costava più di quanto loro vedevano in un mese e John decise che per nessun motivo sua madre poteva incontrarlo. Mycroft sarebbe stato educato, l’istinto di John gli diceva che era sempre educato, ma avrebbe saputo. E sua madre non lo avrebbe più lasciato in pace, lamentandosi della sua nuova vita lussuosa, dei suoi nuovi amici snob, e di come aveva tradito tutto ciò che era in realtà. John odiava avere il sospetto che forse non aveva mai avuto la possibilità di essere tutto ciò che davvero era; per questo stava cogliendo l’opportunità adesso: con gli Holmes. 
“John,” disse Mycroft affabilmente, i suoi occhi erano attenti su di lui. Non erano dello steso inclassificabile colore di quelli di Sherlock, ma erano chiari come quelli del fratello; era come se avesse deciso che gli occhi di Sherlock erano troppo appariscenti e deciso di renderli più rispettabili. Erano familiari e sconosciuti al tempo stesso. 
“Da quanto tempo stai aspettando qui fuori al freddo?”
Non ne aveva idea. Troppo, perché non sentiva più le guance. “Non molto,” mentì. 
Mycroft lo scrutò ma evitò di smentirlo. “Dov’è tua madre? Volevo assicurarmi che sapesse-”
“Mi dispiace, è dovuta uscire. Si scusa per non aver avuto modo di conoscerti, ma voleva farti sapere di avere fiducia nel fatto che tu non mi avresti, lo sai, ucciso nel sonno.”
Lo sguardo di Mycroft era serio e sconcertante. John sorrise e non abbassò il proprio. Gli occhi dell’altro si spostarono velocemente sul palazzo popolare, quindi tornarono su John.
“Bene, suppongo sia il caso di avviarci. Altrimenti Sherlock diventerà ansioso, accusandomi di averti rapito.” Mycroft sorrise in modo non particolarmente confortante e scivolò di nuovo in macchina. 
John lasciò il bagaglio sul sedile posteriore e prese posto davanti con lui, cercando di non sentirsi come se tutto fosse incredibilmente imbarazzante. 
Mycroft restò in silenzio mentre guidava attraverso Londra ma, una volta sull’autostrada, chiese, “Com’è vivere con Sherlock? Un inferno, posso immaginare.”
Inferno non era il termine che John avrebbe usato: meraviglioso era più appropriato, ma così sarebbe sembrato un idiota. Decise cautamente per, “Non mi annoio mai.”
“Bene,” disse Mycroft. “È un bene, non è così?”
John non sapeva come interpretare la domanda, perciò restò in silenzio. 
Mycroft, infine, mormorò, “Hai intenzione di continuare questa tua...” si fermò, pensando, “associazione,” decise alla fine, “con Sherlock?”
“‘Associazione’?” ripeté John, non sicuro della parola. Non era esattamente a proprio agio con le possibile implicazioni. Rispose, sulla difensiva, “Non credo siano affari tuoi di chi è amico Sherlock.”
Gli occhi di Mycroft si spostarono su di lui per un secondo. “Sì, invece. Molto.”
John si accigliò. 
“Mi stai fraintendendo, credo,” continuò lui. “Non desidero scoraggiare la vostra... la chiami amicizia? Se scegli di portarla avanti, sarò felice di pagarti considerevolmente e regolarmente per... rendertelo più facile.”
John lo fissò. Non riuscì a evitarlo. A mala pena riusciva a comprendere ciò che Mycroft stava dicendo. “Perché?”
Mycroft sorrise senza allegria, concentrato sul traffico. “Potrai essere recentemente incappato in un’inaspettata fortuna, ma non sei benestante. E hai una madre e una sorella di cui devi occuparti, non è così?”
John serrò la mascella. Non si chiese neanche come potesse sapere queste cose, Mycroft probabilmente sapeva ogni cosa. “In cambio di cosa?”
“Informazioni,” rispose lui. “Niente di indiscreto. Niente che ti crei... problemi dirmi. Riferiscimi solo ciò che sta facendo.”
“Perché?”
“Mi preoccupo per lui,” disse Mycroft. “Costantemente.”
John capì che Mycroft potesse preoccuparsi per Sherlock, allo stesso modo in cui lui faceva per Harry. E sapeva che Sherlock non parlava davvero con lui, mai. Perciò non era impossibile comprendere le sue motivazioni. Ma era incredibile quanto fosse insultante il pensiero che avrebbe mai potuto tradire Sherlock in quel modo. 
“No,” disse John. 
Ci fu un altro scatto degli occhi di Mycroft verso di lui. “Ma non ti ho ancora detto una cifra.”
“Non disturbarti a farlo.”
Mycroft restò in silenzio per un lungo momento. “Sei molto leale.”
“Doveva essere un insulto?” controbatté John. 
Mycroft sorrise di nuovo e questa volta sembrò più sincero. “Non sei spaventato da me, non è vero?”
“Non fai davvero paura,” lo informò John. 
Lui lo guardò, sempre sorridendo. “Ti fidi di Sherlock.” Ne sembrava meravigliato.
“Certo che mi fido di lui. E lui si fida di me. Credevi davvero che avrei accettato dei soldi per fare la spia su di lui?”
Mycroft considerò la domanda. “Non sapevo cosa pensare. Non sei esattamente facile da interpretare,” disse rivolto al traffico e John, nell’imbarazzante silenzio, ponderò quella risposta per il resto del viaggio.

 

 

***

 

 

Sherlock stava facendo impazzire la signora Hudson. 
Era possibile che non avesse affatto dormito durante le vacanze tanto era agitato in previsione dell’imminente visita di John. Non che Sherlock avrebbe mai ammesso di essere in agitazione, ma era chiaro quanto lo fosse. C’era una lunga lista di cose che lei poteva e non poteva fare mentre John era lì: partendo dal non chiedergli della sua famiglia (in particolar modo del padre) perché a lui non piaceva parlare di loro, fino al fatto che ‘polipo’ era la parola che a John piaceva meno e che quindi non avrebbe dovuto essere usata in sua presenza. 
“Non credo di aver mai detto la parola ‘polipo’,” la signora Hudson informò Sherlock.
“Si assicuri solo di non usarla mentre John è qui,” le disse Sherlock, estremamente serio per la gravità della situazione. 
“È molto particolare, questo tuo John?” domandò la signora Hudson, nonostante conoscesse già la risposta. Non era John ad essere particolare, ma Sherlock: pretendeva niente meno della perfezione da se stesso e per estensione dalla sua ospitalità.
“Quasi niente,” la informò Sherlock, “è in grado di turbare John. Ecco perché è compito mio fare in modo che niente di sconvolgente accada mentre è qui.”
“Sono sicura che la sua visita non sarà rovinata dalla parola ‘polipo’,” disse la signora Hudson.
Sherlock si accigliò.
“Ma starò attenta a non usarla,” lo rassicurò in fretta.
E Sherlock si tranquillizzò.
Giovedì era un giorno terribile. Sherlock era convinto che gli orologi non stessero funzionando a dovere: aveva smontato e rimontato l’orologio del nonno, infastidito perché era certo che il tempo stesse scorrendo più lentamente di quanto fosse normale. 
L’orologio del nonno almeno lo aveva distratto: una volta rimessolo assieme non gli era rimasto altro da fare a parte gironzolare avvilito in cucina, assillandola mentre preparava il pollo arrosto che, come le aveva assicurato, era il preferito di John. 
“Spero,” disse seccamente Sherlock, guardandola, “che sia sicura di star preparando del buon cibo.”
“Sherlock,” sospirò esasperata la signora Hudson. “Vai a leggere un libro o qualcosa del genere. Mi stai rendendo nervosa.”
“Non sia nervosa,” le disse Sherlock. “John è davvero gentile.”
“Allora perché tu sei nervoso?”
Sherlock le lanciò un’occhiata indignata. “Io non sono nervoso. Non sono mai stato nervoso in tutta la mia vita.”
“Se non sei mai stato nervoso in tutta la tua vita come puoi essere sicuro di non essere nervoso in questo momento?” gli chiese la signora Hudson. Imparavi a fare domande del genere dopo aver passato parecchio tempo con Sherlock - lo zittivano per un po’.
Questa in particolare riuscì nell’intento. Sherlock la ponderò e poi disse, “John dovrebbe avere un telefono.”
“Ha un telefono. Lo hai chiamato ieri.”
“No, un telefono da portare con sé tutto il tempo. Così potrei sapere dove si trova.”
“Pensavo odiassi parlare al telefono,” gli fece notare la signora Hudson. 
“Infatti.” Sherlock meditò. “Qualcuno dovrebbe inventare un modo per comunicare che preveda solo il comporre parole.”
“Qualcuno lo ha fatto,” disse la signora Hudson. “Si chiama ‘corrispondenza’.”
Sherlock corrucciò le sopracciglia. “No, invece dovrebbe avvenire istantaneamente. Così da non dover aspettare la posta. Come un cercapersone, solo migliore: più veloce e facile da usare. Un cercapersone con una tastiera. Ma portatile.”
“Be’, perché non ne inventi uno, allora? Scommetto che potresti aver quasi finito prima ancora che John arrivi qui.”
“Potrei,” disse Sherlock. “Ma non mi interessa.” Batté le dita sul tavolo della cucina e per un po’ guardò imbronciato fuori dalla finestra; poi scattò: “Cosa crede che gli stia dicendo, Mycroft?”
“Niente di tremendo, Sherlock.”
Sherlock schioccò scetticamente la lingua. 
“Mycroft ti vuole bene, Sherlock.”
Sherlock emise un suono ancora più incredulo. 
La signora Hudson sospirò. “Non dirà niente di brutto su di te. Cosa mai potrebbe dire, in ogni caso?”
Sherlock ci pensò. Quindi azzardò, cautamente, “Quella volta in cui ero convinto che i gioielli della signora Rainey erano stati rubati da un famoso ladro di gioielli.”
“E invece si scoprì che era stato un tasso,” ricordò la signora Hudson, scoppiando a ridere. Sherlock mise il broncio e lei si scusò, contrita, “Mi dispiace, caro, non volevo ridere. Ma fu divertente.”
“Fu un errore in buona fede!” protestò Sherlock. “Ha mai sentito di tassi che si introducono in casa e rubano gioielli? Come avrei dovuto prevederlo?”
La signora Hudson sorrise e aprì il forno per controllare il pollo. 
Sherlock annunciò di colpo: “Sono qui,” e scattò in direzione della porta principale. 
La signora Hudson non si disturbò neanche a chiedersi come facesse a saperlo; Sherlock notava sempre cose che a lei sfuggivano. Si asciugò le mani su uno straccio e lo seguì a passo più tranquillo. Quando arrivò all’ingresso Sherlock stava dicendo al ragazzo arrivato con Mycroft, “Ti ha raccontato la storia del tasso?”
Mycroft girò attorno alla macchina. Roteò gli occhi in direzione della signora Hudson e si avviò verso la porta. “No,” rispose, scomparendo in casa. 
“Davvero, non lo ha fatto,” il ragazzo che doveva essere John Watson rassicurò Sherlock. 
Non era alto quanto Sherlock, ma questo non la sorprese; aveva i capelli color sabbia: erano appena un po’ troppo lunghi, ma ben più docili degli indomiti riccioli di Sherlock. Era un ragazzo abbastanza bello, ma non ciò che la signora Hudson si era aspettata. 
Sherlock era sempre stato talmente drammatico, la forza della sua personalità così travolgente: aveva dato per scontato che la prima persona in cui avrebbe mostrato interesse sarebbe stata altrettanto affascinante e rumorosamente carismatica. John appariva come un ragazzo normalissimo, gradevole e senza pretese: incontrandolo per strada, probabilmente gli avrebbe sorriso e pensato che ragazzo carino per poi dimenticarlo subito dopo. Accanto a Sherlock diventava quasi invisibile. 
“Che cosa ti ha detto?” domandò Sherlock, sospettoso. 
“Niente. Smettila di essere scortese e presentami.” E tutto ebbe senso, improvvisamente. 
Nell’affettuoso tono di comando nella sua voce, nel modo in cui superò Sherlock e si avvicinò a lei con un semplice sorriso. Lui non scompariva, non lasciava che Sherlock lo maltrattasse né cercava di placare il suo modo di essere: si limitava a muoversi tranquillamente nelle sue vicinanze. Era proprio lì nella sua calma: un’irresistibile forza in grado di attrarre che era difficile notare senza prestare attenzione. Sherlock lo aveva fatto.
O forse era talmente intelligente da essersene accorto subito. 
Improvvisamente, il perché dell’ovvia infatuazione di Sherlock per questo ragazzo le fu perfettamente chiaro. 
“Lei deve essere la signora Hudson,” disse allegramente John, affascinante senza sforzo e in un modo che Sherlock probabilmente gli invidiava. Lui doveva sforzarsi duramente per riuscirci e di conseguenza il più delle volte lo riteneva noioso, stupido e inutile. 
“Colei che è tutto tranne una domestica, mi è stato detto,” continuò John. 
Così Sherlock doveva averla descritta, in un modo che lei trovò talmente adorabile da farle venir voglia di abbracciarlo se solo così facendo non lo avesse fatto morire di imbarazzo. 
La signora Hudson avrebbe voluto abbracciare John. Avrebbe voluto dirgli, Ci preoccupiamo sempre che Sherlock si senta solo, come potremo mai ringraziarti per averlo reso talmente felice? Ma sarebbe stata un’idea peggiore di abbracciare Sherlock, perciò si limitò a dire, “E tu devi essere il dottor Watson.”
Lui guardò Sherlock, confuso. “Non ancora...”
“Be’, ovviamente no, ma Sherlock mi ha parlato delle tue ambizioni. E non preoccuparti: starò attenta a non usare la parola che non ti piace mentre sei qui con noi.”
“Io...” John rifletté per un secondo e poi si girò verso Sherlock. “Ho una parola che non mi piace?”
“Signora Hudson,” disse Sherlock, ovviamente seccato. “Non dovrebbe star preparando la tavola?”
“E tu non dovresti prendere il bagaglio del tuo ospite e mostrargli la sua stanza?” ribatté lei. 
Sherlock corrugò le sopracciglia e prese la borsa di John, “Da questa parte.”
La signora Hudson sorrise guardandoli incamminarsi su per le scale e sentì John dire, divertito, “Raccontami la storia di questo tasso.”
Tornò in cucina, dove Mycroft aveva tolto il polo dal forno e preso un pezzo di pelle. 
“Sai quanto faccia male quella roba?” gli chiese. 
“Io so tutto, signora Hudson,” rispose lui. 
“Incluso il fatto che il pollo era pronto, suppongo.” Controllò il pollo.
È pronto.”
Non poté controbattere perché aveva ragione. “Prepara la tavola,” gli disse, rigidamente.
Lui si leccò le dita prima di lavarsi le mani e poi prese quattro piatti. 
“Com’è stato il viaggio?” gli domandò. 
Mycroft le dava la schiena, ma lei lo conosceva abbastanza bene da poter immaginare la sua espressione infastidita quando rispose, “Silenzioso.”
La signora Hudson scosse la testa e tolse le patate dalla padella. “Non puoi passare tutta la tua vita pagando persone per essere sicuro che lui stia bene.”
“Pago lei per questo,” le fece notare Mycroft.
“Non potrai farlo per sempre.”
“Sì, invece. Non pensi neanche una cosa del genere. Non so come gli Holmes potrebbero mai funzionare senza di lei.”
Lo disse con leggerezza, come diceva sempre tutte le cose più gentili; la signora Hudson desiderò ardentemente poterli abbracciare entrambi senza infastidirli, perché alle volte ne avevano davvero bisogno. Disse, ritornando al punto della conversazione, “Non puoi pagare i suoi amici.”
“Non c’erano prove che lui lo fosse fino a oggi, perché non ha mai avuto degli amici.”
“Dovresti essere contento per lui, lo sai. Contento del fatto che ha un amico adesso e che è felice.”
“Ne sono contento,” disse Mycroft e si spostò al suo fianco per tagliare il pollo.
La signora Hudson lo guardò. “Sei geloso.”
Mycroft si concentrò sull’infilzare una forchetta nel pennuto per tenerlo fermo. “Geloso di un diciassettenne con un terribile gusto in maglioni e un orribile taglio di capelli?”
“Nessuno lo conosceva meglio di te prima di John.”
Il coltello continuò a muoversi con movimenti veloci e precisi. “Il suo lavoro è prendersi cura di Sherlock,” le fece notare.
“Sì,” concordò lei. “Mi prendo cura di te nel tempo libero.”
Mycroft scoppiò a ridere, rallegrandola: era un arduo compito far ridere i suoi ragazzi. 
“Il suo pensiero è stato annotato,” le disse, ammettendo a modo suo che aveva ragione. Portò il pollo a tavola e annunciò, “Vado a chiamarli per la cena.”
“Lo hai minacciato?” gli domandò bruscamente. 
Mycroft esitò prima di uscire e tornò in cucina. “Non lo so. Non credo. Non sono mai certo di ciò che gli altri considerino una ‘minaccia’. So che non è facile sconcertalo: non l’ho spaventato, ma non ci sarei riuscito nemmeno provando.”
“Avresti potuto minacciarlo, lo sai. Giusto un pochino.”
Lui inarcò le sopracciglia. “Davvero? Pensavo mi avrebbe sgridato per aver anche solo preso in considerazione una cosa del genere.”
“Non mi lamenterei se lo minacciassi di sguinzagliargli dietro una squadra speciale se mai dovesse spezzare il cuore di Sherlock.”
“Ha passato troppo tempo con mio fratello, ultimamente,” disse Mycroft. “L’ha contagiata con la sua tendenza al melodramma. Nessun cuore verrà spezzato, qui, e certamente non quello di Sherlock. Lui non è così.”
La signora Hudson scosse la testa e disse, “Mycroft. Come può proprio questa essere l’unica cosa che non sai?”

 

 

§

 




Comincio ora a rispondere alle recensioni, promesso.
Il prossimo capitolo è già tradotto per metà, perciò l’attesa non sarà lunga. 

Spero che con questo caldo non siate bloccati a una scrivania come la sottoscritta, bensì in piscina, o al mare, o sotto una doccia (qualsiasi cosa, davvero)... se invece così non fosse, be’, almeno c’è il nuovo capitolo! ;)









 

 

 

 

 

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