Titanic

di A lexie s
(/viewuser.php?uid=122156)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


I personaggi e le ambientazioni non sono miei, la storia non è scritta a fini di lucro. 

Titanic

Image and video hosting by TinyPic

Capitolo 1.

Si trascinava stanca per tutta la piccola casa, le forze ormai non l’accompagnavano più ed anche camminare le risultava pesante.
Si avvicinò lentamente alla cucina, sostenendosi al piano di marmo, spense il gas e prese la teiera.
L’acqua calda le riscaldò le mani per qualche secondo, chiuse gli occhi lentamente perdendosi in quella sensazione di tepore. Non aveva più potuto tollerare l’acqua fredda, non da quella notte, così adesso anche in estate necessitava che l’acqua fosse quantomeno tiepida per riuscire ad immergersi nella vasca. Immerse una bustina di tè e tagliò qualche scorza di limone.
“Lascia stare nonna, ti aiuto io.” Si offrì Leila, avvicinandosi al piano e togliendole il coltello dalla mano.
“Grazie cara” rispose l’anziana signora, lasciando che la nipote ultimasse il tutto al suo posto e accomodandosi nella poltrona accostata ad un piccolo tavolino dove solevano prendere il tè.
Quel giorno la casa era meno silenziosa del solito, due bambini si rincorrevano per la piccola cucina. Le tendine gialle lasciavano penetrare una luce tenue dalla finestra, e quei raggi abbattendosi sulla poltrona la riscaldavano.
“Bambini, fate piano.” Li ammonì Leila, si avvicinò amorevolmente ai figli Liam e David e li accompagnò sul divano.
“E’ l’ora della storia?” Chiesero i bambini allegramente, la madre annuì e cominciò a narrare una delle storie preferite dai figli.
La signora continuava a guardare la televisione di fronte a lei, stavano trasmettendo quello che le sembrava essere un documentario. Non riusciva a sentire granché bene, oramai, il tempo aveva inciso parecchio sul suo udito, mentre la sua vista era rimasta più acuta.
Era sempre stata una donna dinamica, anche adesso alla veneranda età di novantotto anni riusciva ad essere, in parte, indipendente. Non poteva fare grandi cose, ma riusciva a camminare e a svolgere qualche attività casalinga.
“Leila, alza il volume, per favore.” Chiese alla nipote, scorgendo un ritratto che sapeva di conoscere.
Una bella ragazza, giovane e aggraziata, distesa su un divano con una collana al collo.
Le sembrò di ritrovarsi lì per un attimo, di sentire ancora il profumo della vernice fresca e di sorseggiare il tè nei servizi di porcellana che non erano ancora mai stati usati prima.
“Nonna qualcosa non va?” Chiese la donna leggermente allarmata, si avvicinò e poggiò una mano su quella rimasta a mezz’aria dell’anziana signora.
“Sono io.” Sussurrò quest’ultima, l’espressione persa e gli occhi verdi, ancora luminosi nonostante l’età, smarriti.
Leila non riuscì a capire in un primo momento, poi si riscosse e indirizzò lo sguardo verso la televisione. Vide la stessa immagine che aveva scorto sua nonna in precedenza, rimase interdetta, un ritratto? Sua nonna non aveva mai accennato ad una cosa del genere prima di allora, ciò che più la sorprese fu il capire dov’era stato ritrovato quel ritratto. Sul Titanic.
“Nonna cosa dici?” Domandò spaesata, facendo vagare lo sguardo più volte.
“Mamma continui la storia?” Piagnucolarono i bambini, ma la madre li mise a tacere ed affidò il compito di narrarla al marito, che si trovava nella stanza accanto.
Charles accolse la richiesta di buon grado, portandoli con lui in salotto e raccontandogli la fantastica avventura di un ragazzo che non voleva crescere mai. Mentre la moglie tornò a rivolgersi alla nonna con aria interrogativa.
“Cara, ho una storia da raccontare e mi sembra giusto che tu la conosca. Non ho mai voluto rivivere quel giorno, prima di oggi, ma adesso sono pronta a farlo!” Sentenziò prendendo con mano tremolante la tazza che stava sul tavolino, poi si rivolse nuovamente alla nipote e la invitò con un cenno a prendere posto sul divano.
Chiuse gli occhi.
 
 *************

Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
 
Mancava poco meno di un’ora alla partenza e la stradina che conduceva al porto era affollata, dopo qualche minuto di attesa la macchina accostò in prossimità dell’entrata e da questa scese Neal Cassidy.
L’abito scuro che lisciò prontamente una volta fuori dall’auto, si sgranchì le gambe stanche e si girò per porgere la mano alla sua fidanzata.
Emma Swan l’afferrò con prontezza ed uscì, respirando finalmente l’aria salmastra e fresca del mattino. I capelli biondi legati in un morbido chignon, i lineamenti sottili erano contratti e gli occhi verdi sprizzavano tutta la vitalità di una giovane donna di appena vent’anni. Indossava un tailleur gessato, troppo stretto e difficile da portare, coordinato ad un cappellino che richiamava il colore delle strisce del vestito.
Si aggiustò leggermente con le mani, per quanto i guanti di raso permettessero e guardò la nave attraccata al porto poco lontano da lei. La fissò per qualche secondo e successivamente accennò una piccola smorfia di dissenso.. Sopravvalutata pensò.
“Non capisco il motivo di tutto questo gran chiasso, non mi sembra molto più grande del Mauretania!” Affermò convinta, rivolgendosi a Neal. “ Emma si può essere blasé riguardo ad un sacco di cose, ma non riguardo al Titanic. E’ almeno trenta metri più lungo del Mauretania, ed è anche molto più lussuoso.” Concluse questo, aiutando a scendere dall’auto la sua futura suocera, Mary Margaret. “Sua figlia è piuttosto difficile da impressionare,” sussurrò all’orecchio di questa, accennando un breve sorriso.
Poco più avanti dei membri dell’equipaggio stavano imbarcando i vari bagagli, mentre altri si occupavano delle operazioni di routine, quali visite mediche e vari controlli, per i membri della terza classe. Nulla che li riguardasse, loro erano membri di prima classe e non avevano bisogno di simili perdite di tempo, Emma si addolorò vedendo il modo in cui gli altri venivano trattati, controllati a distanza come se avessero qualche malattia contagiosa.
Lei era, quel che si diceva, una ragazza con un temperamento forte ed un carattere molto spiccato. Non amava le distinzioni di classe o trattare gli altri con sufficienza, era tutto il contrario della madre che si sentiva potente nella posizione che ricopriva.
“Sarebbe questa la nave che dicono inaffondabile?” Domandò Mary Margaret, camminando con passo spavaldo ed aprendo un piccolo ombrellino, ornato di piume e fronzoli, per ripararsi dal sole che aveva cominciato a sollevarsi nel cielo chiaro. Cominciava a fare caldo, nonostante dovesse essere una tiepida giornata d’Aprile.
“E’ inaffondabile!” Rimarcò Neal, prima di riporre una considerevole mancia nella mano di un fattorino per farsi caricare le valigie sulla nave evitando sconvenienti perdite di tempo. Lasciò il suo collaboratore, Jefferson, a dettare ordini sulla disposizione delle valigie nelle due suite che avevano prenotato. 
“Benvenuta sul Titanic, signora!” Sussurrò un uomo ad Emma, aiutandola a salire. Lei sorrise, un sorriso cordiale ma distaccato. Per gli altri quella era la nave dei sogni, mentre per lei era una nave carica di schiavi che la riportava in America in catene, all’apparenza era tutto quello che una ragazza di buona famiglia doveva essere, ma dentro aveva un gran bisogno di urlare.

 
 
Poco lontano in una piccola locanda, un gruppetto di ragazzi giocava a poker.
Killian Jones continuava a guardarsi intorno con circospezione, i suoi vispi occhi azzurri vagavano dal viso del compagno a quello degli altri giocatori. Rivolse lo sguardo nuovamente alle sue carte e poi si decise. Bisogna rischiare nella vita si disse, e se sei fortunato con questa manche riuscirai a risolvere tante cose. Fissò per un attimo fuori dalla vetrata, il Titanic si ergeva maestoso e mancavano pochi minuti alla partenza. Doveva prenderlo, doveva riuscirci per arrivare in America e fare fortuna, così da poter tornare a casa sua, in Irlanda, con qualcosa di più del suo bel faccino.
“Punto tutto!” Esclamò, la sigaretta in bocca e l’aria spavalda. Filippo lo guardò seriamente preoccupato, aveva puntato tutti i loro soldi, non gli rimaneva più nulla e se fosse andata male probabilmente lo avrebbe strozzato.
“Sei pazzo, hai scommesso tutto quello che abbiamo” gli sussurrò.
“Quando non hai niente, non hai niente da perdere.”
Killian osservò il tavolo, il bottino era ricco, monete d’argento e sotto il logo della White Star line ad indicare i biglietti d’imbarco. Si accarezzò i folti capelli e passò la mano anche sull’accenno di barbetta, l’adrenalina gli percorse la schiena come un brivido. “Okay, questo è il momento della verità, la vita di qualcuno sta per cambiare” proruppe, poi si rivolse verso l’amico. “Filippo, tu cos’hai?” Chiese al compagno, che rivelò le sue carte. Niente. 
Si rivolse a ciascuno dei componenti del tavolo, il primo non aveva niente, l’altro uomo sulla trentina abbassò due coppie.
“Scusa tanto, Filippo” cominciò. L’altro lo fissò di rimando, il viso ormai paonazzo, “ma vaffanculo, Jones. Hai scommesso tutti i nostri soldi e..” Le parole uscirono a raffica, tanto era adirato.
“Mi dispiace perché non rivedrai tua madre per un bel po’ di tempo, perché noi ce ne andiamo in America. Full, ragazzi!” Concluse, buttando le carte sul tavolo con aria vittoriosa.
Filippo saltò letteralmente dalla sedia, prese i biglietti e cominciò ad agitarli in aria, mentre Killian si apprestò a raccogliere tutti i soldi sul tavolo. L’uomo di fronte a lui si alzò nervoso, strinse la mano a pugno e lo afferrò per il bavero della camicia. Il ragazzo si spaventò, pensando che stesse per colpirlo, ma alla fine la direzione del pugno mutò e l’uomo colpì il suo amico, seduto di fianco, perché aveva scommesso non solo i loro soldi ma anche i loro biglietti per l’America.
Killian rise fragorosamente e cominciò a saltellare insieme a Filippo, “andiamo in America, andiamo in America” intonarono entrambi all’unisono.
“No amici, il Titanic va in America… Tra 5 minuti.” L’informò un uomo che stava dietro al bancone a servire birre.
Loro si guardarono intorno con aria preoccupata, poi raccolsero le borse dal pavimento e cominciarono a correre per raggiungere la nave.
“Sei un pazzo!” Esclamò Filippo mentre correvano.
“Può darsi, ma li ho trovati io i biglietti.” Concluse, girandosi e alzando un sopracciglio.
Quello era il gesto che lo caratterizzava, era una parte di lui e delle volte gli capitava di farlo senza che se ne rendesse conto. Ma non era quello il caso, voleva sottolineare che la sua lungimiranza e il suo “azzardo” erano serviti a qualcosa, perché quella volta la fortuna girava dalla sua parte ed una delle navi più grandi, se non la più grande del mondo, lo avrebbe accolto. Nel suo viaggio inaugurale poi, proprio una gran fortuna, sarebbe stato un avvenimento da poter raccontare ai posteri.
“Aspetti, aspetti siamo passeggeri”riuscì a bloccare il portellone giusto prima che questo si chiudesse.
“Avete fatto i controlli sanitari?” Domandò il membro dell’equipaggio.
“Si, e comunque non abbiamo pidocchi, siamo americani.” Mentì, ma fu sufficiente per lasciarli passare. Entrarono sulla nave e salirono sul ponte principale. Il paesaggio circostante era meraviglioso visto da quell’altezza e tutte le persone sembravano minuscole. Tutti i passeggeri si sporgevano per salutare i loro cari rimasti.
“Addio, non ti dimenticherò mai. Addio.” Cominciò a gridare il ragazzo, scuotendo le braccia avanti ed indietro.
“Ma chi saluti? Conosci qualcuno?” Chiese Filippo, a quanto sapeva non vi era nessuno che conoscessero e nessuno che dovessero salutare.
“Non è questo il punto. Saluta e basta.” Rispose l’altro ridendo e continuando a gridare, così l’amico lo seguì e cominciò a fare come lui. “Addio, non mi scorderò mai di te!” Urlò ridendo. 
La frenesia, quella sorta di eccitazione mista alla gioia, si era radicata nell’animo di Killian. Era su quella nave da circa dieci minuti, ed ogni singolo attimo si era impresso vividamente nella sua mente, facendo aumentare la voglia di scoprire quanto più potesse e di catturare con lo sguardo quante più cose riuscisse a scorgere.
Vennero tolte le ancore e finalmente il Titanic si apprestò a partire, la potenza con il quale lo fece provocò quasi lo scontro con una piccola barca poco distante, ma questa fortunatamente riuscì a virare prima che lo spostamento d’acqua la risucchiasse.
Con il borsone ancora in mano, Killian e Filippo si diressero verso i loro alloggi di terza classe. Le loro stanze erano quelle che si trovavano nella parte più profonda della nave, mentre le suite e le stanze lussuose si trovavano più in superficie. Killian non si preoccupò, non aveva mai avuto grandi problemi con l’acqua ed era anche un ottimo nuotatore, l’unica brutta esperienza risaliva a quando aveva circa dodici anni, ma non voleva pensarci in quel frangente felice, così la scacciò ed entrò nella stanza con Filippo al suo seguito.
“Ciao” salutò un ragazzone riccioluto, “Io sono Killian e lui Filippo, pare che condivideremo la stessa stanza” concluse avvicinandosi e porgendogli la mano. L’altro l’afferrò sorridendo, “Piacere ragazzi, io sono Robin.”
La stanza era piuttosto sfoglia, ma ben ordinata e le lenzuola profumavano ancora di pulito. Vi erano due letti a castello, uno affiancato ad una parete ed uno ad un’altra. In ogni parte vi era un armadio con due ante separate e una piccola scrivania al centro. Poco lontano c’era un lavabo con una bacinella piena d’acqua, mentre il bagno evidentemente doveva essere dislocato altrove, sicuramente in uno spazio comune con gli altri passeggeri.
L’oblò si trovava nella parte alta della parete e non era molto grande, ma permetteva di vedere un mare molto scuro a causa della profondità.
Le pareti erano grigie e tutto l’arredamento era sui toni neutri del grigio e del bianco, non il massimo dell’allegria ma erano solo dieci giorni ed inoltre con le meraviglie che c’erano ai piani superiori chi avrebbe passato tutto il tempo chiuso in quella stanza?!
“Io dormo sopra!” Esclamò Killian, buttando il suo borsone sul letto e svuotandolo delle cose di cui aveva bisogno per sistemarsi. Filippo acconsentì, ma non disse nulla, si sdraiò solamente sul letto sotto e rimase a contemplare il nulla, come se quello fosse solo un sogno dal quale presto si sarebbe svegliato.
“Amico, già dormi?”
“No Killian, stavo solo pensando che siamo stati davvero fortunati” ribadì, sollevandosi appena e appoggiandosi ad un gomito per fissare meglio il ragazzo che era rimasto accanto alla porta.
“Tutta classe.” Sottolineò l’altro, battendosi una mano sul petto e  tamburellando con il piede sul parquet.
Robin continuava ad ascoltare con aria interrogativa lo scambio di battute tra i due, Killian si voltò e capì l’espressione di curiosità sul suo volto così si apprestò a spiegare: “abbiamo vinto i biglietti giocando a poker, giusto cinque minuti prima che la nave partisse.”
“Allora dobbiamo giocare insieme uno di questi giorni” propose il ragazzo, lo sguardo deciso di chi lancia una sfida. “Come no, amico.” Replicò l’altro, avvicinandosi e porgendogli la mano per suggellare quella sfida.
“Adesso, ho decisamente bisogno di un bagno, vado a cercarlo.”
“E’ una porta situata tra la stanza dodici e la quattordici” lo informò Robin che lo aveva già utilizzato prima di lui.
“E la stanza numero tredici?” Chiese Filippo, guardando entrambi i compagni di stanza. “Non esiste.” Rispose l’altro, ma vedendo lo sguardo interrogativo dei suoi interlocutori, “superstizione” si affrettò ad aggiungere scrollando le spalle con disinteresse.
Come se un numero potesse fare la differenza.
Killian prese un cambio, uno dei pochi visto che la partenza non era nemmeno messa in conto quella mattina, d’altronde non aveva molto e si portava sempre tutto dietro. Si avviò lungo il corridoio e cominciò a leggere i numeri affissi nelle placche d’ottone al di sopra delle porte delle varie stanze. Lui si trovava nella stanza venticinque, quindi il bagno doveva essere a circa una decina di porte di distanza, mentre percorreva il viale non poté fare a meno di guardarsi intorno.
Le porte erano tutti di un bianco candido così come le pareti, ad attraversarle soltanto degli stretti corrimano in ottone. I pavimenti erano rivestiti da una moquette blu e percorsi da un lungo tappeto rosso con degli intarsi in oro. Degli ampi lampadari si trovavano a circa quattro metri gli uni dagli altri, mentre altre lampadine erano installate alle pareti.
Trovò tutto molto raffinato, nonostante quelli non fossero i corridoi dell’elité britanniche.
E pochi passi più avanti, scorse anche la porta del bagno, il lavabo presente in camera non era sufficiente per rinfrescarsi in maniera adeguata, per fortuna non dovette aspettare molto e poté usufruirne liberamente per un bel quarto d’ora.
Si cambiò rapidamente, mettendo in una busta di pezza i vestiti ormai sporchi, e indossò un paio di pantaloni color cachi, ed una camicia di qualche tonalità più bassa. Attaccò le immancabili bretelle e si strofinò i capelli neri per asciugarli. Raccolse il tutto e si riavviò verso il suo alloggio.
Era strano trovarsi di nuovo in mare, gli ricordava casa in un certo senso. Gli vennero in mente i pomeriggi trascorsi con suo padre a navigare lungo le coste irlandesi, il loro peschereccio ormai vecchio riportava un piccolo teschio sulla parte della prua, per questo suo padre da piccolo gli raccontava che quella fosse la loro nave pirata, la Jolly Roger. Passava intere notti a fantasticare di lasciare l’Irlanda con quella, ma adesso che si trovava veramente lontano da casa provava quella sensazione di mancanza.
Dopo quelle navigazioni, s’imbarcò soltanto un’altra volta. Lo fece davvero per lasciare casa, attraversò l’Irish sea per raggiungere la Gran Bretagna, ma i suoi sogni di gloria s’infransero nuovamente quando non riuscì a trovare fortuna nemmeno lì.
Faceva lavoretti occasionali e si adattava a tutto quello che gli capitava tra le mani, dopo qualche mese proprio a Southampton, città della contea dell’Hampshire situata lungo il bordo meridionale della Gran Bretagna, conobbe Filippo. Questo era italiano di nascita, ma aveva vissuto lì da quando ne aveva memoria, i genitori infatti avevano lasciato l’Italia quando era ancora in fasce, anche loro alla ricerca di qualcosa che il proprio paese non riusciva ad offrirgli.
Non era quello il momento di pensare al padre perché poi avrebbe pensato alla madre, morta quando aveva appena dodici anni, e questo avrebbe portato sentimenti di tristezza che non era il caso di contemplare. Quello era il giorno del cambiamento, della rinascita.
L’America era tutta un’altra storia, lì sarebbe riuscito ad affermarsi e avrebbe smesso di essere il povero ragazzo rimasto senza madre troppo presto e con un padre distrutto da quella perdita.
Indossò nuovamente la maschera di compostezza che lo caratterizzava, prima di entrare definitivamente nella stanza.
Non vi era nessuno, sicuramente Filippo e Robin dovevano essere andati a fare un giro per scoprire le meraviglie della nave. Forse era meglio così, non era sicuro di essere riuscito ad assumere un’espressione convincente.
Allontana i cattivi pensieri Jones, si rimbeccò mentalmente e ripose i vestiti nel suo borsone ripromettendosi che sarebbe passato dalla lavanderia quel pomeriggio.
Prima di chiuderlo, la sua attenzione fu attirata da un album, lo prese tra le mani e lo sfogliò distrattamente. Lo conosceva bene, aveva sempre amato disegnare e lo aveva fatto anche per professione talvolta, ma si, magari era una buona idea rilassarsi con qualche disegno.
La quiete della stanza non era granché d’ispirazione così raccolse i carboncini ed il blocco e si avviò verso il ponte principale.
La nave pullulava di persone, tutta gente felice che parlottava e canticchiava per i corridoi. Alcuni bambini giocavano poco più avanti con dei sassolini che gettavano a terra, altri intonavano filastrocche ai genitori. L’atmosfera era diversa ai piani superiori, più saliva e più era tesa.
“Stai dritta con la schiena.” “Cammina a testa alta.” “Togli quelle mani dalle tasche.” Erano i continui ammonimenti con cui i genitori richiamavano i figli, questi camminavano come perfette statuine. I bambini avevano rigidi completi e i capelli impomatati e le bambine indossavano degli scomodi vestitini e cappellini abbinati. Non giocavano, non ridevano, si limitavano a mantenere il decoro sui loro volti. Sembrano degli adulti in miniatura.
Killian rimase sconvolto e rattristato da quella visione, che infanzia triste doveva essere quella, nonostante le ricchezze.
Camminò con passo disinvolto e con sguardo fiero. Era bello, alto, la mascella squadrata e la figura imponente. Gli occhi azzurri poi, quegli occhi avevano fatto impazzire molte donne. D’altro canto lui lo sapeva, era a conoscenza della propria prestanza fisica, ma non ostentava e preferiva servirsi dell’intelligenza piuttosto.
Vide una panchina vuota pochi metri più avanti e decise che si sarebbe accomodato lì. Il sole era ormai alto nel cielo, mancava giusto un’oretta all’ora prestabilita per il pranzo. Cominciò a guardarsi attorno per cercare qualche viso che lo ispirasse. Una bambina in braccio al padre che agitava le manine, un neonato in una carrozzina poco distante, due innamorati che si stringevano teneramente guardando il mare.

 
 
“Desidera che li tiri tutti fuori, signora?” Chiese la cameriera, o collaboratrice come preferiva chiamarla Emma, una ragazza alta e dai lunghi capelli scuri.
Alzò una tela dipinta e la fissò meglio, ne rimase affascinata per qualche minuto. “Si Ruby, grazie. Questi li distribuiamo qui, serve un po’ di colore a questa stanza.” Concluse Emma, avvicinando alla parete.
La suite era molto lussuosa, le pareti di un intenso color ocra s’intravedevano appena, coperte da grandi mobili color ciliegio con intarsi in oro. Comprendeva un salotto con uno sfarzoso camino e due divani posti lateralmente, una camera con al centro una struttura in ferro battuto che accoglieva il letto corredato da un ampio baldacchino ed infine un bagno privato.
Emma distribuì i vari dipinti sul divano, il tessuto verde era soffice al tatto e la struttura era arricchita da diversi ornamenti.
“Ancora questi dipinti fatti con le dita? Sono stati uno spreco di denaro” La voce di Neal giunse alle sue spalle, questo estrasse l’orologio dal taschino dei pantaloni di velluto e sorseggiò piano una qualche bevanda chiara che Emma non riconobbe, forse champagne.
“Sai Ruby, tra il gusto per l’arte che ha Cassidy ed il mio c’è una piccola differenza, io ce l’ho!” Affermò ignorando il fidanzato e rivolgendosi alla ragazza, la considerava un’amica non una domestica come sua madre si ostinava a chiamarla.
“Sono affascinanti, sembra come di trovarsi in un sogno o nelle vicinanze. C’è verità, ma non c’è logica.” Gli occhi ardevano dall’intensità con cui ne parlava, l’arte era una delle sue grandi passioni, l’unico modo in cui sentiva di poter evadere da quella prigione dorata che la madre aveva costruito attorno a lei.
“Come si chiama l’artista?” Domandò allora la ragazza, sinceramente interessata.
“Un qualcosa tipo Picasso.”
“Non sfonderà mai” si affrettò a dire Neal, “almeno sono costati poco.” Aggiunse appoggiando il calice sul tavolo in legno.
Emma finì di sistemare i dipinti e poi si preparò per il pranzo. Si cambiò d’abito, indossando un vestito verde pallido con bordature in seta bianca e si fece sistemare i capelli che si erano sfatti durante il viaggio in auto.
La sua suite era allocata nel piano rialzato, attraversò l’ampio balcone privato e si recò insieme alla madre verso gli ascensori per scendere a pranzo.
Incontrarono un’anziana signora, la vedova Lucas, ma tutti la chiamavano semplicemente Granny. Si raccontava che suo marito avesse trovato l’oro da qualche parte nel west, quindi lei faceva parte di quelli che sua madre definiva i nuovi ricchi.
Si recarono nell’immenso salone e si sedettero ad un tavolo con altri amici di famiglia, e cominciarono a pregustare il primo banchetto al bordo del Titanic.



Killian aveva fatto ben tre ritratti in quell’unica ora, gli sembrava propedeutico disegnare, come se quel blocchetto e quei carboncini lo aiutassero ad entrare nel suo mondo, un mondo giusto, diverso da quello in cui viveva.
“Amico è ora di pranzo” lo sorprese alle spalle Filippo, facendolo sobbalzare leggermente.
“Voglio prima vedere una cosa,” sentenziò quello, si avviò verso la prua della nave e salì sulla prima grata, si sporse quanto bastava per poter vedere il mare. “Lo hai visto?” Chiese, indicando un delfino, pieno di entusiasmo. Non era una novità per lui fare simili avvistamenti, anche con suo padre li aveva visti spesso, ma rimaneva sempre una forte emozione poterli vedere nuotare, così liberi.
L’altro annuì contento, per lui invece era la prima volta, non si era mai spostato da Southampton, non aveva mai avuto abbastanza soldi, solo quelli giusti per sopravvivere.
“Riesco già a vedere la statua della libertà” proruppe Filippo, indicando un punto indefinito di fronte a se, “minuscola naturalmente” aggiunse ridendo.
“Sono il re del mondo!” Urlò Killian, alzando le braccia al cielo.
Gli tornarono in mente le fantasie che aveva da piccolo, “Sai che da bambino sognavo d’essere un pirata.” Disse voltandosi e facendo ridere a crepapelle l’amico. “Davvero? Come nella fiaba di J.M Barrie?” Chiese poi.
“Si, ricordo che mia mamma me la lesse quando uscì, mi pare di aver avuto circa undici anni. Solo che io sognavo che fosse Capitan Uncino il buono.”
“Capitan Uncino, vuoi per caso avere una mano sola?” Domandò ridendo il ragazzo.
“No, non potrei più fare i miei ritratti” constatò l’altro scuotendo il capo, poi allontanò i pensieri della sua infanzia e riprese ad osservare i delfini e a ridere felice scuotendo le mani verso l’alto.
 Il vento gli scompigliava i capelli e la nave andava sempre più veloce.
“Uncino, sono sicuro di aver sentito il tuo stomaco brontolare, direi che dovremo andare a pranzo.” Concluse l’amico qualche minuto dopo, scuotendolo per un braccio e facendolo scendere.
“Direi.” Rispose l’altro semplicemente, lasciandosi condurre verso la sala da pranzo riservata alla terza classe.
 


Emma accese una sigaretta con fare distaccato, mentre la compagnia continuava a parlare della costruzione della nave, si erano aggiunti al loro tavolo anche il signor Marco ed il figlio August,  entrambi si erano personalmente occupati della costruzione di quell’enorme piroscafo.
Continuavano il racconto di com’era stato progettato e della sua costruzione, muovendo energicamente le mani per dare più spessore alla narrazione.
“Lo sai che non è di mio gradimento, Emma.” Sussurrò la madre al suo orecchio, indicando con la mano inguantata la sigaretta che la figlia stava fumando.
Questa si voltò verso di lei, ed in tutta risposta lasciò andare un’ondata di fumo vicino al suo viso.
“Lo sa.” La rimproverò Neal, togliendole la sigaretta di mano e spegnendola.
Si rivolse poi al cameriere e ordinò le portate per entrambi. Emma si sentì privata anche della possibilità di scegliere il proprio cibo, tanto che stava quasi per ribattere, ma.. “Hai intenzione di tagliarle anche la carne, Neal?” Intervenne, giusto appunto, Granny sorridendo.
“Se permettete avrei bisogno d’aria” fece Emma, alzandosi svelta dal tavolo e congedandosi dal resto della compagnia.
Tutto quel parlottare, quel disprezzare ogni singola cosa e quelle maniere così composte poi, tutto la soffocava, aveva bisogno d’aria. Il corsetto inoltre, non aiutava affatto, le stringeva il petto in una morsa non lasciandola respirare.  
Uscì fuori e cominciò finalmente ad inspirare l’aria marina, mentre il suo sguardo si perdeva nell’orizzonte.
 
 

Una volta finito di pranzare, Killian riprese il blocco e si avviò con Filippo e Robin alla panchina in cui era seduto poco prima. Mentre i ragazzi parlottavano della costruzione della nave, vi era un dibattito su dove fosse stata costruita, se in Inghilterra o in Irlanda, Killian continuava a disegnare colpito dalla moltitudine di scenette famigliari che gli si paravano di fronte agli occhi.
Osservò un gruppo di cani dal pelo lungo e folto, “tipico, i cani di prima classe vengono a farli qua i loro bisogni” osservò Robin con in mano un bicchiere di birra. La sorseggiava lentamente, alternandola a delle brevi constatazioni. Jones abbassò gli occhi e sorrise, scosse la testa leggermente,“ci fa capire quale posto occupiamo nell’ordine delle cose” concluse amareggiato.
“Riesci a farci dei soldi con quelli?” Domandò indicando il blocco con la mano libera.
Killian nemmeno lo sentì davvero, le parole arrivarono solo alle sue orecchie, ma non ebbero significato. Si persero nell’aria, mentre era ben più occupato ad osservare la figura femminea che stava attraversando il ponte di prima classe.
Un vestito chiaro di cui non riuscì nemmeno a decifrare il colore, troppo preso dal suo volto. I boccoli biondi le sfioravano il viso ed erano tirati indietro e raccolti insieme, la pelle pareva come di porcellana, le labbra rosa scure e gli occhi, gli occhi erano di un intenso verde.
Quel verde gli ricordava casa sua, gli ricordava le passeggiate con la madre sul prato ed i rientri in casa col padre dopo un giorno di pesca, quando finalmente poteva abbandonare tutto quell’azzurro per godersi il verde delle colline.
Quel verde, sembrava avesse le praterie dell’Irlanda negli occhi. Ed in quel momento un pensiero si materializzò nella sua mente, senza che avesse il tempo di controllarlo e razionalizzare.
Doveva vedere quel verde più da vicino, doveva guardarlo, perdercisi dentro e scrutare l’anima di quella ragazza solo attraverso i suoi occhi.
“Ah, lascia perdere amico, dovrai sputare una miniera di carbone prima che tu possa avvicinarti ad una come lei.” Non fu difficile scorgere dove Killian stesse guardando e fare altrettanto, Robin sorrise amaramente nel pronunciare quelle parole poi, per le persone come loro non era contemplato innamorarsi di creature come quella e lui ne sapeva qualcosa.
Aveva amato solo una donna nella sua vita, la sua dolce Marian e lei stranamente lo ricambiava, ma erano di condizioni e discendenze diverse, i genitori non approvavano quell’unione e decisero di trasferirla in una residenza in campagna. Durante il percorso ebbe un incidente e morì tragicamente.
Non era stato più lo stesso da quel giorno e adesso aveva deciso di ricominciare, per quanto potesse, da un’altra parte del mondo, così da non dover rivedere tutti quei luoghi che aveva condiviso con lei.
Killian non riusciva a staccare gli occhi dal viso di quella ragazza, come se uno strano magnetismo lo attirasse verso di lei senza che lui potesse opporsi. Lei si voltò ad osservarlo e mantenne lo sguardo per qualche secondo.
Il ragazzo costatò che avesse un viso dolce, benché sembrasse afflitta e l’espressione risultasse parecchio tirata.
Filippo seduto accanto a lui, fece scorrere più volte la mano vicino al suo volto per distoglierlo, ma senza risultati.
La ragazza si voltò quando vide arrivare qualcuno alle sue spalle, un uomo alto e vestito come un damerino, un damerino ricco però.
L’afferrò per un braccio, e Killian riuscì a sentire chiaramente lei che gli intimava di lasciarla in pace. Voleva alzarsi e correre in suo soccorso, ma si sentiva come bloccato.
Lei lo guardò un’ultima volta prima di scostare l’uomo e rientrare.


Spazio all'autrice:
Ciao a tutti ^^
Questo è un nuovo progetto, ho un'altra storia in corso ma visto che sta per concludersi, ho pensato di trascrivere nero su bianco quest' idea che avevo in mente da tempo.
Come già detto le vicende seguiranno quelle del Titanic (con possibili e probabili cambiamenti), soprattutto per quanto riguarda i personaggi perché cercherò per quanto mi è permesso di caratterizzarli, tuttavia non escludo un possibile OOC.
Spero che quest'idea possa piacere, quindi per qualsiasi parere, consiglio o critica non esitate a recensire. 
P.s. Grafica mia, spero vi piaccia! :)
A presto!
Un bacio :*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

2.Capitolo

Molti la consideravano una ragazza fortunata. Insomma, agli occhi della società aveva ed era tutto ciò che si poteva desiderare. Una ragazza di buona famiglia, con un’educazione egregia, un bel viso, un corpo sinuoso, degli hobby ed anche uno degli scapoli più ambiti della sua generazione.
Dentro però, Emma si sentiva come morire. Avrebbe volentieri scambiato tutto per poter essere semplicemente libera, una ragazza modesta, non ricca e non bellissima. Ma al mondo o si nasce semplici, o si nasce come lei.
Le responsabilità la opprimevano, ed il dover sposare un uomo che non amava era una cosa che non riusciva a sopportare.
Continuava a ripetersi che doveva farlo, che non poteva fare altrimenti per salvare la sua famiglia o quello che ne rimaneva.
Suo padre era morto qualche tempo prima, lasciando lei e la madre nel disastro più assoluto. I debiti sembravano sopraffarle, ed il loro buon nome non bastava di certo a tenere a bada i creditori. Poi, sua madre aveva trovato il modo per risalire. Le aveva propinato un uomo ricco, molto ricco e l’aveva convinta a frequentarlo.
Lui era così invaghito di lei, che la proposta di matrimonio era arrivata appena qualche mese dopo.
Emma aveva sempre creduto di essere libera di sposarsi per amore, con un uomo arguto, spiritoso, qualcuno che avesse un’anima viva come la sua.
Non credeva proprio che il matrimonio fosse solo un contratto stipulato tra due famiglie, non credeva proprio di essere data al miglior offerente come se fosse un oggetto messo all’asta.
Lei non era mai stata così, non era mai stata un quieto agnellino che faceva ciò che le veniva detto. Lei era sempre stata vispa e ribelle, aveva voglia di volare Emma, e adesso le avevano tagliato le ali.
Faceva male, così maledettamente male. Un dolore all’altezza del petto, più come una voragine che non poteva essere riempita.
Dopo aver discusso con Neal sul ponte, gli aveva intimato di lasciarla in pace e di non seguirla. Voleva stare un po’ da sola, voleva essere libera di pensare liberamente e non voleva qualcuno che le ordinasse il cibo, voleva ordinarselo da sola il suo maledetto pasto.
Non voleva persone che le rivolgessero frasi cortesi, ma false e sorrisi pieni di approvazione. Voleva qualcuno con cui litigare, qualcuno che le sbattesse in faccia la verità, qualcuno che non acconsentisse ad ogni minima cosa volesse. Voleva qualcuno che non conosceva ancora, e probabilmente non avrebbe nemmeno capito di volerlo, abituata com’era alla sua vita piatta e monotona.
Si era recata nelle sue stanze ed aveva trascorso il pomeriggio a contemplare i suoi quadri e a leggere. Più volte Ruby si era avvicinata per chiederle se desiderasse qualcosa, ma lei aveva continuato a negare solamente con il capo senza proferire parola.
Era quasi sul punto di addormentarsi quando sua madre entrò come una furia nella camera da letto.
“Emma, cos’è questa storia dello stare rinchiusa in camera?” La sua voce contrariata le giunse alle orecchie, svegliandola dal torpore in cui si trovava.
“Anche se uscissi da qui, non potrei comunque fare nulla” rispose la ragazza svogliatamente.
“Puoi fare molte cose: passeggiare con me, parlare con il comandante e avresti potuto sicuramente prendere il tè con noi. Neal pensava che ti saresti fatta viva, nonostante il vostro piccolo malinteso.” Quella voce melensa le faceva saltare i nervi, avrebbe voluto alzarsi e gridargli contro che quelle cose non le appartenevano, non le erano gradite, ma poi sua madre avrebbe ricominciato a dirle quanto fosse ingrata, che era giusto sacrificarsi per la famiglia e l’avrebbe fatta sentire in colpa come al solito.
Perciò decise semplicemente di tacere, non avrebbe detto nulla, si sarebbe tenuta tutto dentro. Tutti quei sentimenti che non stavano facendo altro che soffocarla lentamente, ogni giorno.
“Potresti provare a goderti questo viaggio, no?” Le chiese avvicinandosi, si sedette sul letto vicino a lei e le accarezzò i capelli dolcemente. Emma annuì poco convinta, ma si sforzò di sorridere.
“Vieni prepariamoci per la cena” stese la mano per invitarla, ed Emma si lasciò trascinare nella stanza accanto dove Ruby l’aiutò a prepararsi.

 
Killian aveva trascorso il resto del pomeriggio in compagnia di Filippo e Robin. Avevano fatto un giro della nave, era passato dalla lavanderia come si era ripromesso ed infine si era accomodato per qualche ora sulla solita panchina, ma non era riuscito a disegnare nulla, se non due occhi verdi che aveva fissato nella sua mente in maniera così vivida che gli sembrava di poterli rivedere davvero.
Era consapevole che quella ragazza era fuori dalla sua portata, non perché fosse altezzosa o altro, semplicemente perché era un dato di fatto che venissero da mondi differenti.
Non capiva nemmeno perché si stava perdendo in quei pensieri, del resto non c’era stato nulla tra loro, soltanto uno sguardo.
Solo che lei era così perfetta, sembrava una dea, non riusciva a smettere di pensare ai suoi boccoli biondi e alla sua pelle bianca, il corpo sinuoso sotto a quell’ammasso di stoffa e gli occhi verdissimi. Erano senza dubbio la cosa che lo incantava maggiormente, nonostante apprezzasse molto anche tutto il resto.
Cosa c’era di male a volerli vedere più da vicino?
Continuava a disegnarli in ogni parte di quel foglio bianco, ma c’era sempre qualcosa che non andava, una luce che non riusciva bene a trasmettere attraverso i disegni. Non gli era mai capitato, solitamente riusciva a cogliere tutte le sfumature di un viso e persino di uno sguardo, ma stavolta era diverso.
Nessuno dei suoi disegni rendeva giustizia a quelle gemme.
Rassegnato posò i carboncini, si mise il blocco sotto il braccio e si avviò in camera per posarlo e per andare a cenare.
Mangiò avidamente tutte le portate, era veramente molto affamato quella sera, così concluse velocemente e fece per andarsene.
“Amico vieni con noi? Hanno organizzato una serata di ballo.” Lo informò Filippo, bloccandolo per un braccio.
"Fumo qualche sigaretta prima, vi raggiungo in serata” rispose, recandosi definitivamente fuori.
Si stese in una panchina e cominciò a contemplare le stelle. Non vi era nemmeno una nuvola in cielo, questo permetteva di vederle con maggiore facilità, si ricordava persino qualche costellazione. Suo padre era un appassionato di astrologia e aveva sempre cercato di trasmettergli quella sua passione, tanto da renderlo un amante a sua volta.
Il ponte era quasi deserto, sicuramente tutti i passeggeri si trovavano ancora a cena, del resto lui aveva finito così rapidamente, lasciando gli altri ancora seduti ai propri tavoli.
Non ci sarebbe stata possibilità di rivederla quella sera, sospirò chiudendo gli occhi e lasciandosi andare al sonno.
 
 
Poche ore più tardi, Emma era seduta al tavolo con la solita compagnia di persone. Si erano creati dei piccoli gruppi che discutevano di questioni diverse, le dame parlavano per lo più di argomenti frivoli come un nuovo tessuto, il colore che andava di moda quella primavera o l’organizzazione di alcuni balli, mentre i signori parlottavano delle ultime partite di polo a cui avevano assistito.
Emma stava in silenzio mangiando piano il cibo che aveva davanti, tutti ridevano divertiti e nessuno sembrava accorgersi del suo stato d’animo.
Non c’era nessuno a cui importasse che lei stesse male, nessuno che almeno riuscisse ad accorgersene e a capirla.
Le sensazioni di quel pomeriggio tornarono prepotentemente e la voragine si fece più larga che mai al centro del suo petto.
Si alzò con la scusa di doversi recare in bagno ed uscì lentamente fuori, il suo passo lento si trasformò in una corsa quando giunse nei corridoi. Urtò diverse persone e per la prima volta non si preoccupò nemmeno di scusarsi, ma continuò a correre disperatamente. Percorse tutto il ponte principale e scese le scalette per giungere alle ringhiere che le avrebbero permesso di scorgere il mare. I capelli le si sciolsero durante la corsa, rivelando dei magnifici boccoli biondi ancora più dorati a contrasto con la luna.
Si avvicinò piano alla ringhiera, salì e guardò di sotto. Il mare era buio come la notte, faceva paura e fu sul punto di tirarsi indietro, ma poi deglutì e si arrampicò meglio sporgendosi dalla parte opposta.
“Non lo faccia.” Disse una voce alle sue spalle. Si voltò lentamente e vide un ragazzo, un bel ragazzo. Alto, capelli neri e gli occhi dello stesso colore del mare, un mare calmo però e azzurrissimo non come quello della notte. Era lo stesso ragazzo che aveva scorto dopo pranzo, prima della discussione con Neal. Lo aveva guardato per qualche minuto e lui aveva fatto lo stesso, poi però era andata via.
“Stia indietro” gli intimò, voltandosi nuovamente a guardare il mare sotto di lei. “Non faccia un altro passo” aggiunse poi.
“Andiamo, tesoro. Mi dia una mano, così posso aiutarla a tornare a bordo” si avvicinò di qualche passo, stendendo il braccio e porgendogli la mano.
Tesoro? Doveva essere un ragazzo davvero scortese, come si permetteva una simile confidenza.
“No, rimanga lì dov’è. Mi butto.” La sorpresa per le parole di lui venne sostituita dalla sua voce tremante per la paura.
Il ragazzo non disse nulla, prese la sigaretta che teneva stretta tra le labbra e la gettò in mare. Poi mise le mani in tasca e guardò l’orizzonte per qualche secondo.
“Non lo farà” sentenziò convinto.
Un’altra persona che voleva imporsi su di lei, un’altra persona che le diceva cosa poteva o non poteva fare. Come se fosse una novità nella sua vita.
“Non creda di venirmi a dire cosa farò o cosa non farò. Lei non mi conosce.”
“Mi piacerebbe farlo, però” le sorrise in maniera ammiccante. “ Ad ogni modo, se avesse voluto, lo avrebbe già fatto.”
Emma si lasciò catturare per un attimo da quel sorriso, da quello sguardo convinto e sexy? Si, sexy era la parola giusta.
Lui, dal canto suo, era completamente rapito da lei. Nonostante la situazione piuttosto ambigua, il poter vedere da vicino quei prati verdi era magnifico, non aveva desiderato altro da quando l’aveva vista qualche ora prima.
“Lei mi sta distraendo” ammise Emma confusa, facendo vagare lo sguardo tra il mare chiaro dei suoi occhi e quello scuro della notte. “Vada via.”
“Non posso” disse lui cominciando a spogliarsi. Lei lo guardò stranita, non riusciva a capire che intenzioni avesse. Voleva forse buttarsi in mare per lei? Una ragazza che conosceva da appena due minuti. “Ci sono dentro ormai, se lei si butta, dovrò buttarmi in acqua per salvarla.” Arrivò la sua conferma.
“Non dica sciocchezze, morirebbe.” Lo avrebbe fatto davvero, si sarebbe davvero buttato per lei? Doveva essere un pazzo.
“So nuotare benissimo, amore.”
Tesoro? Amore? Ma gli sembrava forse quello il momento di flirtare?!
“La smetta.”
“Di fare cosa esattamente?” Chiese avvicinandosi pericolosamente, stava invadendo il suo spazio.
“Di trattarmi come un fragile fiorellino” concluse lei, fissandolo e sfidandolo con aria sicura. Lei non era un fiorellino, non lo era, maledizione! E nessuno sembrava capirlo.
“Non lo è?” Domando l’altro con aria innocente, abbassandosi e sfilandosi le scarpe agilmente.
“No, so cosa voglio!”
“Morire?” Lei poté leggere tutto il sarcasmo sul suo viso, il sopracciglio di lui si alzò conferendogli un’espressione ironica. Quel ragazzo aveva ragione però, non era buttandosi che avrebbe risolto le cose, sarebbe servito solo a dimostrargli che non era abbastanza forte da combattere, ma lei lo era!
“Basterebbe l’impatto con l’acqua ad ucciderla” eluse la domanda che gli aveva posto e la sostituì con una semplice constatazione, forse serviva anche a provocarlo un po’.
“Bene non mi farebbe, non dico certo il contrario” deglutì lentamente. Dei ricordi gli vennero in mente, dei ricordi legati al peschereccio e all’incidente che aveva avuto da ragazzino, “mi preoccupa molto di più l’acqua fredda” ammise.
“Quanto fredda?” Emma si spaventò, non aveva considerato l’eventualità che l’acqua fredda potesse atrofizzarle il corpo facendola soffrire lentamente, pensava più che altro ad una cosa veloce come tirare via un cerotto, non ad una cosa che le portasse altro dolore.
“Gelida, forse un po’ di gradi sotto lo zero. Amore, le assicuro che non è piacevole, mi dia ascolto” continuò a porgerle la mano.
“L’ha già provato?” Lesse qualcosa negli occhi di lui, un misto di paura e rimorso. Lo aveva già provato ne era sicura, non importava cos’avrebbe risposto. Vide il suo sguardo perdersi, vagare in quello che era stato un passato difficile. Lui era combattuto, non sapeva se dirle la verità o negare.
“Si, ma non sono cose di cui amo parlare” ammise alla fine.
“E’ stato doloroso?” Domandò curiosa.
“Lo è ancora adesso” rispose avvicinandosi e appoggiando le mani alla ringhiera, “ho perso mia madre per questo”.
Il dolore nei suoi occhi era molto più grande di quello che riconobbe in se stessa, eppure lui lo affrontava, non stava cercando di uccidersi. Non seppe che dire, quindi preferì tacere lasciandogli il tempo che gli serviva per riprendersi.
“Quindi non penso mi biasimerà se spero che mi risparmi questa incombenza” disse spezzando il silenzio.
“Lei è pazzo” fu tutto quello che riuscì a rispondere e non seppe nemmeno spiegarsi perché lo avesse detto. Forse era stato troppo lo sgomento nel credere che lui nonostante avesse perso sua madre in mare, si sarebbe comunque buttato per lei.
“Con tutto il rispetto che merita signorina, non sono io quello appeso alla grata di una nave. Per favore allunghi la mano, non vorrà mica commettere una simile sciocchezza.” Le afferrò il braccio dolcemente e lei si lasciò guidare dalla sua mano. Si voltò lentamente e furono occhi negli occhi. Il verde nel blu. Il prato nel mare.
“Mi chiamo Killian Jones” si presentò, sospirando visibilmente, il suo viso si rilassò per il sollievo di averla lì tra le sue mani.
“Emma Swan” rispose lei. Poi alzò il piede per risalire a bordo, ma prese con la punta la stoffa del vestito e scivolò. Un urlò le sfuggi dalle labbra, un attimo prima voleva buttarsi ed ora non voleva morire.
La mano di Killian afferrò la sua con forza.
“L’ho afferrata” la sua voce si perse nel vento serale, prese un respiro profondo e cominciò a tirarla su. Stava quasi per riuscirci, quando qualcosa andò storto e lei gridò nuovamente attirando l’attenzione di qualche membro dell’equipaggio che parlottava dall’altra parte.
“Mi aiuti, per favore” lo implorò gridando, non aveva pensato che sarebbe successo tutto questo qualche minuto prima, quando era determinata a volerla fare finita.
“Mi ascolti, io non la lascerò andare.” Promise lui, la sincerità dei suoi occhi era completamente disarmante e lei si fidò. Lui fece ancora leva sulle sue braccia e la tirò un poco, poi riuscì ad afferrarla per la vita, se la tirò addosso con tutta la forza che aveva e caddero insieme sulle assi in legno del pontile.
“Avrei voluto farlo diversamente” le sussurrò all’orecchio. Lei scoppiò a ridere e lui fece altrettanto. Ed era così strano che stessero ridendo di quel momento di panico, quasi surreale.
I soccorsi arrivarono qualche secondo dopo, trovarono lui ancora su di lei e fraintesero tutto. Gli intimarono di allontanarsi, lui si alzò ed arretrò di qualche passo mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni.
Lei non riuscì a dire nulla, spaventata com’era.
“Chiamate il commissario di bordo!” Ordinò allora un uomo, rivolgendosi a dei ragazzi che sicuramente ricoprivano un rango inferiore al suo.
“No aspetti” Emma cercò d’intervenire, nonostante il respiro affannoso.
“Non si preoccupi signorina, adesso è al sicuro.” Concluse quello fraintendendo.
L’ufficiale arrivò qualche minuto dopo, insieme a Neal Cassidy. L’uomo era livido in viso e si scagliò contro Killian, lo prese per il colletto della camicia, “cosa ti fa pensare di poter mettere le mani addosso alla mia fidanzata” gridò.
“Neal è stato un incidente” disse Emma alzandosi e stringendosi più forte al pesante plaid in lana che le avevano dato per riscaldarsi.
“Un incidente?” Chiese scettico il fidanzato.
Emma gli spiegò di essersi sporta troppo per vedere le eliche, non poteva certo dirgli che voleva uccidersi per non rivedere più il suo viso altezzoso, concluse dicendo che il signor Jones l’aveva salvata e quindi nessun errore era stato commesso. Neal continuava a guardare entrambi con aria scettica, ma abbassò il capo mettendo fine alla discussione. Il commissario di bordo si complimentò con Killian per l’atto eroico e tornò al suo brandy.
“Forse qualcosa per il ragazzo?” suggerì però, prima di entrare.
“Jefferson, credo che un biglietto da venti basti.”
“Così poco vale la vita della donna che ami?” Domando Emma disgustata.
“Il mio fiorellino è scontento” proruppe Neal, Killian incrociò lo sguardo di Emma giusto in quel momento ed entrambi ricordarono la discussione avvenuta poco prima.
Si sentì improvvisamente triste per lei.
“Signor Jones, le andrebbe di unirsi a cena domani sera, così potrà deliziarci con la storia del suo eroico salvataggio?!” La sua aria di superiorità era così irritante che Killian lo avrebbe volentieri preso a pugni, ma non si abbassò al suo livello.
“Sarò dei vostri” rispose annuendo e rimettendosi le mani in tasca.
Mentre gli altri si avviavano dentro, Emma gli lanciò un’ultima occhiata e lui ricambio con un sorriso, non uno di quelli ammiccanti che le aveva riservato poco prima, ma un sorriso sincero e rassicurante.
“Hey amico, posso spillarti una sigaretta?” Jefferson si avvicinò e gli porse il pacchetto. Killian estrasse due sigarette, una la mise dietro l’orecchio e l’altra in bocca.
“E’ strano che la signorina sia scivolata così improvvisamente e che lei abbia avuto il tempo di togliersi giacca e scarpe, le consiglio di allacciarle. Potrebbe cadere e farsi male, seriamente.”
Il tono di minaccia che sentì nella sua voce non era sicuramente frutto della sua immaginazione.
Annuì, ma non le riallacciò. Lo guardò un’ultima volta con un sorriso beffardo e si avviò nella sua stanza.
Percorse rapidamente il pontile, si avviò verso gli interni per scendere al piano sottostante.
“Killian” la testa di Filippo sporse dalla porta del salone, “vieni, ti aspettavamo” lo invitò a raggiungerli scuotendo le mani per incitarlo.
Il ragazzo si avvicinò velocemente, prese il boccale di birra che Robin gli porse e cominciò a divertirsi con i suoi amici. Doveva scrollarsi di dosso la sensazione di non essere abbastanza per un attimo, anche se quello era un dato di fatto, cominciò a ballare e a divertirsi, ma gli occhi di Emma non lo lasciarono mai completamente.
 
 
Nel frattempo, Emma nella sua stanza continuava a pettinarsi i capelli. Aveva liquidato Ruby quella sera, poteva fare benissimo da sola ed aveva bisogno di pensare. Aprì il carillon che le aveva regalato suo padre da piccola, uno dei bei ricordi della sua infanzia, una dolce melodia invase tutta la stanza. Si fissò nello specchio cercando di imprimersi in mente la sua immagine attuale ed in quel momento si ripromise che non sarebbe stata più debole e che avrebbe affrontato tutti i problemi a testa alta cercando di essere coraggiosa.
Si lasciò andare spesso al pensiero di due occhi azzurri, cercava di reprimerli e ci ricascava nuovamente come una giostra dalla quale non si può scendere. L’avevano guardata così spaventati e complici nello stesso tempo, come se condividessero un dolore simile. Avevano perso entrambi uno dei genitori, la differenza stava nel fatto che lui probabilmente si sentiva responsabile e questo gli si leggeva in faccia, ciò nonostante rimaneva fiero e coraggioso ed era così diverso da Neal, così poco costruito.
Aveva dei modi divertenti, ma era anche affascinante, lo era tanto. Sembrava avere anche un tic al sopracciglio,  lo alzava senza rendersene conto ed era buffo ed attraente.
Non si era fatto problemi a chiamarla amore o tesoro, quasi con insolenza. Doveva ammettere che si prendeva troppa confidenza, però era sicuro e caparbio. Soprattutto l’aveva salvata.
Doveva smetterla di pensarci, era assurdo, era sbagliato e lo conosceva appena. Non doveva lasciarsi andare a quei pensieri. Era misterioso ed intrigante.
Basta Emma, si maledì per esserci ricascata.
Sarai sicuramente solo un bel faccino Killian Jones si ripeté e cercò seriamente anche di convincersi che ciò fosse vero.
“Posso entrare” la voce di Neal interruppe i suoi pensieri.
Lei annuì semplicemente, posando la spazzola sul comodino.
“So che sei malinconica, in questi giorni, non so perché e so che non vuoi dirmelo.” Disse entrando e avvicinandosi, chiuse il carillon e la musica cessò di spandersi nell’aria. Pensava che fosse solo un problema passeggero? Lei era sempre malinconica, era la sua vita che la rendeva così ed anche quello stupidissimo galà di fidanzamento che si sarebbe tenuto qualche settimana dopo. Quello avrebbe messo fine alla sua libertà, sarebbe stata intrappolata per sempre in un matrimonio che non voleva, con un uomo che voleva ancor meno.
Era ovvio che fosse malinconica, si stava quasi uccidendo tanta grande era la malinconia che provava e lui entrava e ne parlava come se fosse una fase che avrebbero superato a breve.
Non poteva nemmeno tirarsi indietro, sua mamma l’avrebbe uccisa con le sue mani probabilmente, non avrebbe mai accettato di vedere il loro buon nome macchiato dai debiti. Era ancora peggio il fatto che lei non volesse deluderla, nonostante fosse asfissiante, autoritaria e talvolta delirante, lei non voleva che soffrisse. Era pur sempre sua madre e non era un mostro, voleva quello che credeva fosse il meglio per lei, anche se non lo era, anche se si sbagliava.
Era sua madre e le voleva bene.
“Avevo intenzione di conservarlo per dartelo al galà di fidanzamento, ma ho deciso che voglio dartelo adesso.” Aprì lentamente la scatola che teneva in mano e le mostrò il suo contenuto.
Una collana imponente fece capolino, emanando un bagliore che illuminò quasi la stanza. La catenina era fatta di piccoli diamantini ed il ciondolo era grande ed imponente, il colore era un blu intenso ed intagliata al centro una figura inconfondibile. Un cigno.
“Tu sei il mio cigno, Emma” le sussurrò avvicinandosi per baciarle una guancia, lei non si sottrasse ma non cercò in alcun modo di creare un contatto maggiore. Accarezzò con la mano quel ciondolo, non poteva negare che era bellissimo, ma non le serviva una collana e non bastava di certo a renderla felice. Non era una di quelle donne dedite ai vestiti e ai gioielli.
“Sono diamanti” sottolineò l’uomo, prendendo la collana e poggiandola al suo collo per allacciargliela. Accarezzò piano il ciondolo con le dita  “Cinquantasei carati per essere esatti. Lo indossò Luigi XVI e lo chiamarono Le lac des cygnes.” Concluse guardandola, i suoi occhi marroni si fecero più caldi ed intensi in quel frangente.
“Il lago dei cigni.” Ripeté lei lentamente.
Lui annuì ed un sorriso si formò sul suo volto. “E’ prodigioso” constatò Emma, accarezzandolo a sua volta. Era anche parecchio pesante al dire il vero.
“E’ da reali, mia cara.” Concluse Cassidy. “Sai, – cominciò inginocchiandosi, - non c’è niente che io non possa darti, niente che ti negherei, se tu non negassi me. Aprimi il tuo cuore Emma!”
La ragazza non disse nulla, era colpita dal suo gesto, ma non poteva semplicemente comprare il suo cuore con un gioiello.
Abbassò lo sguardo e lui decise che era il momento di lasciarla da sola.
Lei si tolse la collana e la ripose nel cofanetto in pelle che la custodiva, la guardò un’ultima volta e la mise nella cassaforte.
Poi scostò le coperte e finalmente le sue spalle trovarono la morbida consistenza del materasso. Non pensava di essere così stanca, ma ovviamente l’esperienza ravvicinata con la morte doveva averla spossata parecchio, così come gli occhi azzurri del tenebroso Killian Jones.
Si addormentò con quella immagine impressa a fuoco nella mente.
 
 
“Ragazzi, io sono stanco, me ne vado a letto.” Disse Killian, posando il resto della sua birra sul tavolo e dirigendosi verso la porta.
“E’ ancora presto” fecero gli altri all’unisono.
“Infatti, voi rimanete e divertitevi. Filippo ho visto quella biondina che ti fa gli occhi dolci” lo provocò scherzosamente dandogli una pacca sulla spalla.
Aveva passato una bella serata, aveva conosciuto nuove persone, aveva bevuto e ballato. Aveva giocato a poker e aveva vinto la sfida contro Robin, non fece nulla per rinfacciarglielo, ma era segretamente orgoglioso di se stesso.
Filippo aveva incontrato una biondina, Aurora, ed era rimasto a ballare con lei. Sembrava che fosse anche lei italiana, quindi avevano sicuramente degli argomenti comuni e non solo!
Robin invece era rimasto a bere birra e giocare a carte. Quel ragazzo si portava una tristezza dietro che Killian non riusciva a spiegarsi, ma ognuno aveva la sua dose di drammi nella vita, e lo conosceva da solo un giorno per impicciarsi.
Percorse il corridoio ed arrivò velocemente nella sua stanza. Si lavò il viso e lo asciugò accuratamente, poi si tolse i vestiti e s’infilò sotto le coperte.
Era stata una giornata ricca di emozioni, ed anche impegnativa in un certo senso. Ora che si rilassava poteva sentire chiaramente i muscoli distendersi e la spalla che gli doleva, sicuramente per lo sforzo.
Cosa poteva spingere una ragazza come lei, che all’apparenza aveva tutto, a compiere un gesto del genere?
All’apparenza amico, ma l’apparenza inganna si rispose subito dopo.
Era stato bello stringerla per un attimo, ed era stato bello vedere le sue espressioni dapprima scandalizzate dalla sua insolenza distendersi fino a trasformarsi in una risata, quando le aveva detto che gli sarebbe piaciuto farlo diversamente.
Quando abbandonava la sua espressione e sorrideva era ancora più bella.
Il suo fidanzato però era una vera testa di cazzo. Una testa di cazzo ricca però, Killian.
Maledetta coscienza.
Aveva rimediato un invito, ed anche se non era entusiasta di cenare con degli altezzosi ricconi, almeno poteva rivederla ancora. Lei era diversa.
Non pareva altezzosa, solo spaventata e triste, tanto triste.
Lui avrebbe fatto ritornare il sorriso sul suo bel visino. Emma Swan, il suo nome continuava a riecheggiare nella sua mente, si abbandonò al sonno continuando a pensarla.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 3

“ Signor Jones” lo chiamò Emma dal ponte di prima classe. Il ragazzo stava fumando tranquillamente una sigaretta ed il suo sguardo rimaneva fisso sul mare. Non la sentì inizialmente, tanto che lei fu costretta a ripetere il suo cognome facendo girare molti dei signori che passeggiavano tranquillamente sul ponte. Non era consueto che una ragazza con la sua educazione si ritrovasse ad alzare la voce in quel modo, solitamente le ragazze seguivano un corso di dizione e di modulazione della voce per imparare a parlare lentamente e nella giusta maniera. Emma non aveva quelle idee già precostituite su cosa potesse o non potesse fare, o meglio le aveva ma le ignorava deliberatamente cercando di essere quanto meno spontanea la maggior parte delle volte. Soprattutto quando la madre non era nelle vicinanze e lei era libera di respirare qualche attimo.
Insomma, aveva soltanto voglia di ringraziarlo per il salvataggio della sera precedente. Qualche ora di sonno l’aveva aiutata a riflettere sull’enorme sciocchezza che stava per fare, che avrebbe fatto probabilmente se lui non fosse stato lì ad impedirlo.
Killian si voltò improvvisamente, portò una mano davanti agli occhi per ripararsi dal sole e per favorire la vista anche se inizialmente non sortì l’effetto sperato. Socchiuse lentamente gli occhi e riuscì a mettere a fuoco, lei era lì ed era assolutamente perfetta come il giorno precedente. La salutò facendo un breve inchino e le suscitò una breve e allegra risata. Lui si sorprese, pensando che era così bello vederla sorridere, soprattutto dopo le circostanze poco felici del giorno precedente.
Emma gli fece segno di avvicinarsi ed allora il ragazzo attraversò rapidamente il ponte e salì le scalette in ferro bianco che portavano al piano superiore. Fece un respiro prima di uscire dalla zona di ombra in cui si trovava, non fare cazzate e non straparlare Killian, si ammonì bonariamente passandosi una mano sulla fronte e poi si avvicinò alla ragazza.
“Signorina Swan – ripropose l’inchino che aveva fatto in precedenza. – Mi fa davvero piacere rivederla in altre circostanze, non pensavo d’incontrarla prima di cena” sottolineò, ricordandole l’invito che il suo fidanzato gli aveva fatto, nel caso lo avesse dimenticato. “Ovviamente, mi fa molto più piacere poterla rivedere lontana da altri occhi” riprese poi, già il passare la serata insieme a tutti quegli altolocati signori snob non lo entusiasmava, era contento di poter conversare con lei in privato per qualche tempo.
“Siete un tantino insolente, signor Jones” lo ammonì, volgendo il busto verso di lui per guardarlo meglio. Il suo vestito giallo risplendeva alla luce del sole, ed insieme ai suoi boccoli dorati creava una perfetta cornice per il suo volto.
“Non penso vi dispiaccia, mia signora.”
“Magari si? Chi può dirlo, non penso mi conosciate così bene da poterlo affermare.” Lei avrebbe sempre risposto a tono, non si sarebbe mai fatta lasciare indietro soprattutto dalle sue provocazioni.
“Magari mi piacerebbe farlo!” Esclamò appena lei finì di parlare. Vide la sua espressione smarrita, “conoscervi intendo” si affrettò ad aggiungere, passando la mano tra i folti capelli neri.
Emma rimase interdetta per alcuni secondi, quella confessione così spontanea e sincera l’aveva impressionata sicuramente, nessuno si era mai preoccupato di conoscerla realmente. Nel suo mondo era la bambolina da sfoggiare ai balli e la conquista del suo fidanzato, non era contemplato che avesse delle idee, dei sogni e delle ambizioni!
“Ad ogni modo, volevo solo ringraziarla signor Jones” riportò l’attenzione sul motivo che l’aveva spinta a chiamarlo, lui parve deluso inizialmente, ma mascherò tutto con la solita espressione beffarda e sorrise mostrando una schiera di denti bianchi e perfetti.
“E’ stato un piacere, amore!” L’aveva chiamata “amore” di nuovo, fu attraversata da un brivido, ma imputò tutto all’aria fresca che stava cominciando a levarsi. “Chiamami Killian, ti prego, dopo ieri credo sia inutile tutta questa formalità” aggiunse poi, si avvicinò per aggiustarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ma lei si scansò sorpresa da quel gesto e lui riabbassò la mano.
Si era creata una sorta di tensione, come se entrambi fossero sospesi su un filo invisibile e nessuno si rischiasse a parlare o a muoversi per paura di cadere di sotto. Fu Emma a spezzare l’imbarazzo che in un certo senso era nato dopo il suo tirarsi indietro, “le va di fare una passeggiata e di parlarmi un po’ di lei?” Chiese, facendogli un cenno con la mano. Oh, gli interessa parlare di me fu l’unica cosa che udì Killian, come a voler sottolineare che questo voleva dire che probabilmente le interessava lui o era almeno curiosa di conoscerlo. “Non avevamo abbandonato le formalità?” Chiese di rimando.
“Oh no, io non avevo detto nulla al riguardo” lo prese in giro lei, portandosi una mano davanti le labbra e ridendo sommessamente, tanto da suscitare la stessa reazione in lui. “Comunque, se non le dispiace allora preferisco chiamarla semplicemente Jones.” Concluse, facendosi seria, c’era qualcosa nel suo cognome che l’attirava e non sapeva definire cosa, forse pronunciarlo le risultava particolarmente melodioso. Stupida, si ammonì mentalmente.
“Swan” ricambiò lui, alzando un sopracciglio e ridendo. “Ti si addice molto, devo dire.”
“Questo perché ti sembro pura e fragile come un cigno?” Domandò un po’ scocciata, sperava che lui avesse guardato oltre quella facciata.
“No, o almeno in parte. Sei pura come un cigno, ma hai anche la sua stessa fierezza e lo stesso sguardo malinconico” spiegò, poi si riscosse e la invitò a camminare con lui.
Rimase sorpresa, e piuttosto turbata a dirla tutta, allora forse quel tizio aveva capito davvero qualcosa di lei.
“Comunque non amo parlare di me” disse mentre camminavano, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
“Sei piuttosto criptico, Jones.”
“Preferisco misterioso, tesoro” rispose facendola ridere di nuovo, e rimase nuovamente incantato.
Il momento ilare passò e si trovarono ad affrontare altri argomenti.
“Sicuramente avrai pensato al motivo che… Beh, che mi spingesse a compiere una simile scelleratezza” constatò, torcendosi più volte le mani in lieve apprensione. “Cosa può tormentare quella povera ragazzina ricca” rise, una risata piuttosto isterica, si bloccò e rivolse lo sguardo al mare.
“Veramente, ho pensato cosa potesse essere capitato per spingere una ragazza a compiere un simile gesto, ma nulla riguardo alla ragazzina ricca.. Andiamo io non penso che tu sia felice.” Asserì, raggiungendola e portando le sue braccia sulla ringhiera per mettersi in una posizione più comoda.
“Tu pensi davvero di capirmi così bene?” Proruppe, inchiodandolo con lo sguardo. Andiamo, doveva essere piuttosto presuntuoso per poter asserire una cosa del genere, la conosceva da quanto, un’ora?
“Sei come un libro aperto per me.”
Pensò qualche minuto a quelle parole, poi decise di lasciar cadere il discorso. Non avrebbe saputo come controbattere, anche se non credeva possibile che lui riuscisse dove tutti gli altri avevano fallito e continuavano a farlo. Capirla non era semplice, lei non era semplice.
Alzò semplicemente la mano, mostrandogli l’anello di fidanzamento che copriva il suo anulare. Un grosso ed imponente diamante circondato da piccole pietre azzurre. “Davvero impegnativo” sussurrò il ragazzo, mandando giù il groppo che gli era salito in gola.
“Sono stati inviati cinquecento inviti, saranno presenti tutte le famiglie più importanti..” Il panico trapelava visibilmente dalla sua voce.
“Lei lo ama?” Domandò Killian, un semplice domanda che ebbe il potere di scatenare l’irritazione della ragazza.
“Io.. Cosa? Come si permette?” Chiese indignata, nascondendo la mano dietro la schiena. Lui rise, visibilmente allegro di quella reazione così esagerata. “Lo ama o no?” Ripeté, non riuscendo a trattenersi dal riderle in faccia.
“Io penso che questa conversazione sia inutile.. Volevo ringraziarla e adesso che l’ho fatto me ne vado.” Dichiarò alla fine, ancora arrabbiata. Si voltò senza dargli nemmeno il tempo di rispondere, ma si bloccò un attimo dopo. “Aspetti, questo è il mio settore, vada via lei!” Ordinò, avvicinandosi e puntandogli un dito al petto.
Killian le afferrò il polso saldamente, ma con dolcezza. Cominciò a disegnare dei cerchi immaginari, provocandole dei brividi e poi l’avvicinò maggiormente a sé. La ragazza si riscosse nel giro di qualche secondo, quello era un pontile pubblico, non poteva essere così stupida da lasciarsi andare e non poteva farlo nemmeno se fosse stato privato, insomma stava per sposarsi.
“Cominciamo a puntare i piedi, amore?”
“La smetta di chiamarmi così” sentenziò, ancora più irritata. Ce l’aveva più con se stessa per essersi quasi lasciata andare che per le parole di lui.
“Siamo tornati alle formalità?” Domandò nuovamente spaesato, lasciando il suo polso e fissandola con attenzione. Lo sguardo di lei s’incatenò al suo, fino a quando non notò un blocco sotto al suo braccio.
“Cos’è questo coso che porta con sé?” Senza lasciargli il tempo di rispondere, lo prese e si accomodò in una panchina lì vicino.
Lo aprì e cominciò a sfogliarlo, fu catturata da diverse immagini. Una bambina in braccio al padre, una coppia d’innamorati, una donna nuda ed infine degli occhi, degli occhi che le sembravano così familiari.
“Lei è un’artista, sono davvero belli.” Concluse, pensando ad alta voce. Lui rimase fermo ad osservarla, rapito dai suoi movimenti e dall’incanto che leggeva nei suoi occhi. “Questa ragazza è presente tante volte. Stavate insieme?” Non voleva veramente chiederlo, ma la sua curiosità ebbe la meglio sulle buone maniere.
“No no, ci sono molte ragazze disposte a spogliarsi per posare. In realtà, era una prostituta con una gamba sola, ma aveva veramente delle belle mani.” Rispose, tracciando i contorni di quel disegno e facendola ridere di cuore. “Chiamami Killian, davvero. Mi fai sentire vecchio!” Affermò, poi alzò il braccio e provò per la seconda volta a sistemarle un boccolo dietro l’orecchio e lei lo lasciò fare.
Emma scrollò leggermente le spalle ed annuì imbarazzata, prese un altro disegno in mano e lo osservò. Due occhi, due occhi davvero troppo familiari e non ci volle molto tempo per capire che si trattassero dei suoi. Lo guardò meglio e poi corrucciò le labbra cercando di capire il motivo che lo avesse spinto a disegnare i suoi occhi. Non era difficile da immaginare, ma questo non le impedì di chiederglielo comunque: “mm, credo che questi mi appartengano” proruppe, voltandosi e fissandolo.
Killian sorrise, una scintilla d’imbarazzo gli attraversò il volto, ma la sostituì prontamente con il solito sorriso sghembo, “sono proprio belli, ma non sono riuscito a cogliere quella scintilla che li attraversa.” Puntò il suo sguardo su quelle pozze verdi e continuò a fissarle per qualche secondo, mentre lei lo guardava di rimando. Era una sorta di sfida silenziosa, nessuno voleva arrendersi e staccare gli occhi dall’altro.
Un rumore li fece sussultare e la magia in un attimo fu spezzata. Prese il disegno e lo ripose nel blocco senza aggiungere altro e poi gli porse il tutto, le loro mani s’incontrarono e una scarica invase i corpi di entrambi. Emma si ritrasse rapidamente e si alzò, “aspetta” la richiamò, prima che potesse avviarsi verso gli interni.
“Voglio solo farti vedere una cosa” si alzò e le porse la mano. La ragazza fece vagare lo sguardo tra quella e gli occhi, l’azzurro più brillante che avesse mai visto. Come diavolo era possibile che, anche la sera prima con il buio della notte, fossero così azzurri?
La domanda rimase sospesa in una parte della sua mente, mentre l’altra stava elaborando una possibile risposta.
“Fidati di me” colse subito l’indecisione sul suo volto, voleva solo che lei si fidasse e si lasciasse andare. Sapeva che era caparbia e che probabilmente l’avrebbe seguito, ma c’era qualcosa che la bloccava.
“Io non so, non penso sia il caso, se Neal mi vedesse far..”
“Non voglio costringerti, ma vedo che sei triste e voglio solo aiutarti” poggiò la mano sulla sua spalla, “ricorda Emma, sei tu e solo tu che puoi decidere per la tua vita.” Dopo di che, lasciò cadere la mano e si voltò per andarsene.
“Va bene” un sussurro lo colpì alle spalle, si fermò, le mani ancora dentro le tasche dei pantaloni e un sorriso stampato sul volto.
“Andiamo Swan” si voltò e fece un passo verso di lei. Avrebbe voluto afferrarle la mano, lo avrebbe voluto così tanto che la sua era percossa da un continuo formicolio, come se un impulso lo spingesse a prenderla per confortarla, aiutarla, infonderle coraggio, o forse per aiutare se stesso. Non lo fece però, per evitare che occhi indiscreti potessero compromettere la sua posizione, strinse la mano a pugno, la strinse così forte che le unghie corte gli si conficcarono nel palmo e le nocche sbiancarono. La invitò a camminare di fianco a lui, tanto vicina che avrebbe potuto sfiorarla con un piccolo movimento e magari poteva davvero farlo fingendo qualche sbandamento, ma ancora una volta non lo fece e proseguì dritto. Smettila di fare il coglione si ammonì, quella vocina nella sua testa che continuava a dirgli che lei era troppo, che doveva smetterla di fare lo stupido e lasciarla semplicemente in pace.
La conosceva da quanto? Un giorno e mezzo. Ed era già a questo punto? Si stava già interrogando mentalmente su cosa fosse giusto o meno. Stupido, imbecille, coglione!
“Dove stiamo andando?” Chiese Emma, le sorprese non le erano mai piaciute. Ricordava ancora quando Neal le aveva detto di avere una sorpresa per lei, aveva organizzato un ballo e le aveva chiesto di sposarlo davanti ad un centinaio di persone. Che cos’avrebbe dovuto fare a quel punto? Non poteva rifiutarlo o poteva? Voltandosi verso la madre, vide la sua espressione raggiante e riuscì a leggere chiaramente l’aspettativa nei suoi occhi. Sembrava che avesse scritto sulla fronte: “accetta o saremo rovinate, io sarò rovinata. Non deludermi.”
Così quando aveva pronunciato quel flebile “si”, il suo cuore si era spezzato e la gabbia attorno a lei si era rafforzata. No, le sorprese non le piacevano proprio!
“Vedrai” rispose Killian, interrompendo il flusso di pensieri che investiva entrambi.
Entrarono velocemente e presero l’ascensore per scendere ai piani inferiori. Solo quando uscirono da quello ed il corridoio era praticamente deserto, lui afferrò la sua mano e lei sorprendentemente non si ritrasse. Si voltò a guardarlo sorridendo, non un sorriso timido, ma sicuro e consapevole. La condusse davanti alla porta della sala da pranzo per i membri di terza classe, non era ancora ora di pranzo per cui era deserta così come il corridoio. Sembrava che tutti fossero spariti, evidentemente si godevano la bella giornata di sole o erano chiusi nelle loro cabine a dedicarsi ad altre attività.
Al centro della sala c’era un pianoforte. In tutte le altre navi non vi erano mai stati strumenti come quello nelle sale riservate alla terza classe, ma i costruttori e gli arredatori del Titanic volevano che questo fosse quanto più lussuoso possibile, così avevano introdotto diverse migliorie.
“Che vuoi fare?” Domandò spaesata, quando lui le accostò una sedia per farla accomodare poco lontano dallo strumento.
“Voglio suonare per te e voglio che smetti di pensare per qualche minuto” il conforto le gonfiò il cuore rapidamente, senza nemmeno conoscerla si stava prendendo cura di lei come nessun altro faceva da tempo.
Si sedette al piano e le sue dita cominciarono a muoversi fluide sulla tastiera, accordi e armonie venivano fuori così facilmente e non sembrava possibile che stesse producendo tutto quello solo con due mani. Due mani che si muovevano svelte accarezzando i tasti ed una melodia dolcissima riempì tutta la sala. Rimase incantata, non riusciva a togliergli gli occhi di dosso e lui se ne accorse quando alzò lo sguardo per guardarla a sua volta. Continuava a suonare, senza nemmeno guardare i tasti e lei arrossì subito, tanta era l’intensità del suo sguardo.
Quando la musica finì, lei si alzò battendo lentamente le mani e avvicinandosi allo strumento. Si appoggiò al legno con il gomito e lo guardò, Killian rimase ancora a fissare i tasti per qualche secondo e poi sollevò lo sguardo verso di lei.
“Non ho mai ascoltato nulla di più dolce, sei veramente un’artista Jones” si complimentò, ridendo piano. Quella risata cristallina coinvolse anche il ragazzo per qualche secondo, “ho imparato da mia madre” confessò poi, tornando a guardare e ad accarezzare i tasti. Perché si stava esponendo? Perché confessare qualcosa che riteneva così intima? Stupido, imbecille e coglione!
“Doveva avere un animo davvero gentile” disse Emma, percorrendo con le mani il pianoforte, passando sui tasti bianchi e neri fino a sfiorare la sua mano.
“Lo aveva” ammise lui, tornando a guardarla e voltando il palmo per stringerla nella sua.
“Riesci a fare così tante cose con le mani” constatò, pensando alla capacità che aveva di suonare o disegnare, le sarebbe piaciuto essere brava in quelle attività.
“Nemmeno immagini, tesoro, quante altre cose so fare con questi gioiellini” le mostrò le mani con un sorriso sfrontato.
Si alzò e si avvicinò a lei.
Invasione dello spazio personale - una vocina continuava a gridare nella testa di Emma, ma lei non riusciva ad indietreggiare e perciò rimase ferma, mentre lui si avvicinava sempre più pericolosamente.
Pericolo-pericolo-pericolo, la voce diventava sempre più acuta e strillante.
Si fermò a qualche centimetro dal suo volto, “Emma..” sussurrò, vicinissimo alle sue labbra.
“Non posso.. Io non posso, Killian” si riscosse, appoggiò per un breve momento la fronte alla sua e si guardarono negli occhi, poi mise una mano sul suo petto e si allontanò.
“Aspetta” la richiamò come aveva fatto precedentemente, si avvicinò prendendole la mano e baciandole le nocche. “Io.. Mi dispiace davvero, ma non andare via” mormorò, il viso contratto per il dispiacere di averla messa in quella posizione, anche se non riusciva a pentirsene veramente.
“Io devo andare via. Devo prepararmi per il pranzo, mi dispiace, Jones.” Ritrasse lentamente la mano e si avviò verso l’uscita. “Ci vediamo dopo sul ponte, raggio di sole.” Le disse alle spalle, le vide scuotere la testa, ma prima di varcare la soglia scorse un sorriso sul suo volto.
“Ci sarai?” Chiese impaziente, passandosi una mano tra i capelli come faceva sempre quando qualcosa lo preoccupava.
“Può darsi” rispose solamente e andò via.

 
 
“Emma, non ti unisci a noi?” Chiese Mary Margaret, avviandosi verso la sala per prendere il tè. Continuava a lisciarsi il vestito e a sventolarsi con l’altra mano in modo teatrale.
“Magari vi raggiungo più tardi” promise la ragazza, consapevole che in realtà non l’avrebbe fatto.
La madre annuì e lasciò la stanza senza dire altro. Ruby le stava sistemando i capelli, aggiustandoli in boccoli e legandoli dietro per evitare che le ricadessero sul viso. Emma pensò per un breve attimo alle dita di Killian che cercavano di sistemarle i capelli dietro l’orecchio, ma si diede della stupida ed allontanò quell’immagine prima che potesse radicarsi ancora più profondamente nella sua testa.
Il rumore di un pugno che colpiva la porta ridestò le ragazze, “avanti” disse Emma volgendo la testa per capire di chi si trattasse.
“Victor, che ci fai qui?” Chiese Ruby, accarezzandosi leggermente la fronte con apprensione. Emma sorrise davanti a quella scena. “Ho visto la signora uscire e Cassidy sta fumando con altri signori nella sala da gioco. Volevo solo salutarti Ruby.. Emma” disse poi, si tolse il cappello ed accennò un breve inchino ad entrambe.
“Io esco, Ruby vai pure con Victor, ma evita di farti vedere da mia madre. E tu Victor, tratta bene la mia amica” lo ammonì. Si avvicinò a Ruby, le pizzicò una guancia, l’abbracciò lievemente ed uscì.
 
 
 
“Uncino” Filippo richiamò ridendo Killian, prima che questo uscisse dalla stanza.
“Non ti racconterò più nulla, amico” disse il ragazzo, prendendo un cuscino dal suo letto e lanciandolo in faccia all’amico.
“Dove te ne vai stasera eh?” Cominciò a sfotterlo, rilanciandogli il cuscino. Quello lo prese e lo sistemò di nuovo al suo posto, poi si rivolse all’altro nuovamente, “ripeto, non ti racconterò più nulla.”
“Ti perderai la festa che abbiamo organizzato” fece Robin, che osservava tutta la scena dal suo letto.
“Un’altra? Avete intenzione di organizzare festini ogni sera, non vi è bastata quella di ieri?”
“Ragazzo mio, noi sappiamo come divertirci.” Intervenne nuovamente Filippo, incrociando le braccia dietro il collo e fissando il soffitto con un’espressione da ebete.
“Ho visto la biondina con cui ballavi ieri” ammise Killian, alzando un sopracciglio e sorridendo apertamente.
“Oh si, Aurora è una fata!” L’espressione trasognata di Filippo diceva tutto, non occorrevano altre parole.
Killian pensò se avesse la stessa espressione quando pensava ad Emma, forse sembrava ancora più idiota o forse riusciva a mascherare le sue emozioni.
“Vado a fumare una sigaretta” informò i ragazzi, mentre frugava nel borsone in cerca del pacchetto.
“Si, Killian.. A fumare” lo rimbeccarono entrambi ridendo. Quei due erano davvero stupidi, ma in modo positivo, almeno fino a quando non insistevano nel rompergli le scatole.
“Siete due idioti, ed io devo andare.” Concluse, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle, mentre i due ridevano come pazzi.
 
 

“Aspetti qualcuno?” Una voce colpì alle spalle la ragazza che era rimasta ad osservare il mare davanti a lei. I colori erano così caldi, il sole non era ancora tramontato, ma il cielo cominciava ad assumere tinte sempre più soffuse. L’arancione ed il rosa si mischiavano con l’azzurro, creando una sorta di armonia. Le persone erano troppo occupate per fermarsi ad osservare le cose del mondo, anche le cose più banali, quelle presenti da sempre, ma che rimangono ugualmente bellissime. Quelle che ogni volta possono suscitare meraviglia e possono riempire di emozione. Quel cielo, in quel momento, era una di quelle cose.
“No, in realtà” rispose Emma, voltandosi e guardandolo con aria di sfida mentre si mordicchiava il labbro inferiore.
“Questo mi ferisce” Killian portò teatralmente una mano sul cuore e fece finta di essere sul punto di cadere.
“Sei uno stupido, Jones!” Lo ammonì, in realtà aveva solo voglia di ridere, ma non voleva dargliela vinta.
“Ed è anche per questo che mi trovi attraente” si fece serio in volto, mentre si avvicinava a lei con passo spavaldo.
“Sei tu quello che cerca di saltarmi addosso” ribatté, assumendo un’espressione scandalizzata come aveva fatto lui in precedenza. “Touché, milady” fece un inchino, ed appoggiò i gomiti alla grata. Prese una sigaretta dal pacchetto e se la rigirò in mano un paio di volte, prima di accenderla.
“Senti Emma, scusami davvero per prima. Non avrei dovuto avvicinarmi così, so di essere terribilmente affascinante e che ti è difficile resistermi.” Allargò le braccia e s’indicò per attirare il suo sguardo su di lui, la sigaretta in un angolo della bocca e la posa strafottente lo rendevano sexy davvero. Lei rise, per l’ennesima volta quel giorno e lo guardò un attimo prima di rispondere. “Signore, la sua autostima e il suo ego sono spropositati per i miei gusti” disse, agitando un dito davanti al suo volto per prenderlo in giro, poi si voltò e torno a guardare il mare.
Calò il silenzio, non uno di quelli imbarazzanti, ma un silenzio confortante. Uno di quelli in cui regna una sorta di comprensione reciproca, anche senza che le parole definiscano nulla. Entrambi guardavano il mare e il cielo, il sole che piano si abbassava ed i colori che si attenuavano.
“Cosa c’è che non va, Emma?” Le domandò alla fine, voleva che lei si aprisse con lui e che confessasse il suo malessere, solo così poteva superarlo. La ragazza sospiro ed abbassò lo sguardo sulle sue mani che improvvisamente erano appiccicose e sudate.
“Nulla.”
“Questa è una bugia.” La riprese, fissando i suoi occhi verdi. Le leggeva dentro, non poteva mentirgli così.
“Stavo pensando ai tuoi disegni. Tu hai un dono, Killian, riesci a sentire le persone” era vero quello che si diceva sull’animo degli artisti e lei riconobbe subito quell’anima in lui, un’anima tormentata, ma forte e sensibile. Oltre le mille sfumature del suo carattere che stava scoprendo grazie alle conversazioni che avevano avuto quel giorno.
“Sento te” ammise, accarezzandole il dorso della mano.
“Eh quindi?”
“Non ti saresti buttata, e adesso mi stai mentendo” le disse, togliendo la mano e riportandola sul ferro freddo della ringhiera, la sensazione di calore lo abbandonò e si sentì un attimo spaesato.
“Tutto” confessò alla fine, “mi sento come se fossi chiusa in una gabbia, come se quello che voglio non contasse nulla. Vorrei viaggiare, vedere il mondo, scoprire tante cose e vederle con i miei occhi, non solo attraverso i libri o l’esperienze altrui.”
“Un giorno lo faremo” asserì, “berremo birra da quattro soldi, andremo sulle montagne russe fino a vomitare e cavalcheremo sulla spiaggia e tu dovrai farlo come un vero cowboy, niente cavalcata all’amazzone.”
“Vuoi dire una gamba per ogni lato?” Chiese, scuotendo la testa e facendolo ridere. “Dovrai insegnarmi come si fa” chiarì infine.
“Certo” rispose tranquillamente, divertito dalla scintilla di vita che vide nei suoi occhi. “T’insegnerò a cavalcare come un uomo e masticare il tabacco come un uomo” cominciò a muovere le mani, preso dalla situazione.
“E a sputare come un uomo” aggiunse lei.
“Non te l’hanno già insegnato al collegio femminile?” Domandò, con una finta faccia scandalizzata. Lei scosse la testa ripetutamente, mordicchiandosi l’interno della guancia. “Dai, vieni, ti faccio vedere” disse, afferrandole la mano e portandola dall’altra parte del ponte così da riuscire a sporgersi meglio sul mare.
“No, aspetta.. Killian” cercava di trattenerlo, ma lui non volle saperne e continuò fino a quando non furono davanti alla nuova ringhiera.
“Osserva attentamente” prese un respiro, fece un lieve rumore di gola e poi buttò fuori.
“O Dio, ma è disgustoso!” Esclamò Emma ridendo.
“Va bene, adesso tocca a te” cercò di impartirle qualche istruzione, ma la ragazza non riuscì a produrre nulla. S’inumidì solo le labbra e vi passò subito una mano per pulirsi, non aveva mai fatto nulla del genere. Quella sciocchezza riuscì a farla sentire libera per un momento.
“Devi espettorare al massimo, cerca di far leva usando le braccia” si riportò indietro e fece lo stesso procedimento che aveva fatto in precedenza. “Hai visto la portata di quello” continuò ad indicarlo con la mano e a ridere. Emma riprovò ed andò meglio, lui si complimentò e decise di farle vedere per una terza volta come doveva fare per riuscire a produrne uno di grande portata. La ragazza si voltò, vedendo la madre che passeggiava con le amiche sul pontile e cominciò a dare dei colpetti al braccio di Killian per invitarlo a non proseguire.
Il ragazzo si pulì velocemente le labbra con la manica della camicia e si voltò verso la donna.
“Mamma, posso presentarti Killian Jones” lo indicò con la mano.
“Incantata” rispose Mary Margaret con un’espressione quasi disgustata. Continuava a guardarlo come se fosse un insetto, un insetto pericoloso che doveva essere schiacciato velocemente.
“Beh, Killian, pare che sia buono averti a portata di mano quando si è nei pasticci” intervenne la signora Lucas – Granny – rivolgendosi al ragazzo e alludendo ovviamente al salvataggio di cui avevano sentito parlare a pranzo.
Poi uno squillo di tromba annunciò che era quasi ora di cena ed Emma salutò Killian e si avviò con la madre alla loro suite per cambiarsi d’abito.
 

 
“Ragazzo, hai idea del guaio in cui ti stai cacciando?” Chiese Granny, dopo che le altre avevano lasciato il ponte.
“Non proprio” mentì lui, certo che lo sapeva, ma ormai c’era dentro.
“Stai per entrare nella fossa dei serpenti, cosa indosserai?” Domandò squadrandolo. Il ragazzo si puntellò sui piedi, portando le mani in tasca ed indicando che avrebbe mantenuto lo stesso abbigliamento con cui lo vedeva al momento.
Granny scosse la testa e lo condusse alla sua stanza, aveva dei vestiti del figlio che doveva avere circa la sua stessa taglia. Gli porse un completo nero, corredato da panciotto, camicia, papillon e scarpe lucide e lo invitò a cambiarsi nell’altra stanza.
Killian indossò tutto velocemente ed uscì, avviandosi verso il lungo specchio che vi era in salotto.
“Avevo ragione, tu e mio figlio portate la stessa taglia. Sei splendente come un penny lustrato!” Esclamò felice, portando le mani sulle spalle del ragazzo per sistemargli la giacca.
“Grazie, veramente Granny” il ragazzo l’abbracciò velocemente, mentre lei continuava a dargli pacche nella schiena. Era contenta di aiutarlo, perché conosceva la sensazione del non sentirsi abbastanza. Quelle vecchie arpie la trattavano in modo diverso anche adesso, credendo che lei non se ne accorgesse, nonostante avesse più soldi di loro e solo perché non aveva un titolo dalla nascita.
“Prego figliolo e adesso vai, vai.” Lo esortò, spingendolo scherzosamente verso la porta. Killian le lanciò un ultimo sorriso di gratitudine prima di avviarsi. 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic
Capitolo 4

Non aveva mai visto nulla di così sfarzoso. Un cameriere gli aveva aperto cordialmente una delle due porte in vetro e lui era entrato guardandosi intorno con aria meravigliata. Due enormi scalinate in legno precedevano la sala, una struttura in vetro decorava l’alto soffitto ed una musica aleggiava nell’aria dolcemente.
Scese le scale con passo sicuro ed osservando il comportamento degli altri signori, notò come questi camminassero a testa alta senza tener conto di dove mettessero i piedi, come la loro figura apparisse rigida e composta e com’erano soliti mettere un braccio dietro la schiena, mentre con l’altro accompagnavano la propria dama.
Si appoggiò ad una colonna in legno ed attese che dalle scale scendesse lei.
Emma non si fece attendere molto, scese le scale preceduta dalla madre e da Neal. Questi passarono accanto a Killian con aria indifferente, probabilmente non l’avevano nemmeno riconosciuto in quei nuovi abiti eleganti. Lei invece rimase subito ipnotizzata dai suoi occhi, come le succedeva spesso. Con una mano teneva il suo vestito rosso, mentre con l’altra si reggeva al corrimano in legno per evitare di cadere.
Killian rimase estasiato a guardarla per qualche minuto. Il corpetto metteva in risalto le sue forme e la gonna dondolando produceva un suono piacevole. I capelli erano raccolti, solo due boccoli le ricadevano davanti incorniciandole il viso rosato.
Si avvicinò lentamente prendendole una mano per baciarla lievemente, mentre continuava a guardarla negli occhi. L’aiutò a scendere gli ultimi gradini e le porse il braccio per invitarla a camminare con lui.
“Tesoro, senz’altro ti ricorderai del signor Jones?!” Chiese Emma, rivolgendosi al fidanzato e guardando successivamente anche la madre.
“Signor Jones, è stupefacente.. Potrebbe passare quasi per un gentiluomo” ammise sfacciatamente Neal, una chiara provocazione che Killian s’impose di lasciar correre.
“Quasi” confermò, accennando un sorriso e ricacciando l’irritazione che quell’uomo gli suscitava. Dopo di che, smisero di parlare e si avviarono verso il loro tavolo. Neal accompagnava la suocera, mentre Emma rimaneva salda al braccio di Killian, illustrandogli le professioni e i visi dei vari gentiluomini che le passavano accanto.
Il ragazzo era piacevolmente colpito dal notare che dietro la maschera di perfezione, si celassero più scandali di quanti non ve ne fossero nei ceti più umili. Mogli tradite dai mariti, uomini facoltosi in viaggio con le proprie amanti, gentil donne appassionate al disegno di biancheria audace. L’apparente perfezione nascondeva sempre qualcosa.
“Ti va di scortare una signora a cena?” Domandò Granny avvicinandosi ai ragazzi ed interrompendo quello sproloquio d’informazioni.
“Certamente” rispose Killian, porgendole l’altro braccio.
“Un gioco da ragazzi vero? Ricorda, impazziscono per il denaro, perciò se fingi di aver una miniera d’oro, entrerai a far parte del clan” gli sussurrò all’orecchio.
Il ragazzo annuì, era sicuramente molto nervoso però riuscì a nasconderlo egregiamente, sfoggiando sorrisi ed ostentando un’innata sicurezza.
Si sedettero al tavolo e cominciarono ad intrattenersi con conversazioni che avevano gli argomenti più disparati, mentre le portate cominciavano ad arrivare.
“Ci parli degli alloggi di terza classe” suggerì Mary Margaret, rivolgendosi a Killian con un sorriso sulle labbra sottili.
“Sono i migliori che abbia mai visto, solo qualche topo qua e là” asserì il ragazzo, suscitando le risate del resto dei commensali.
Neal si affrettò a spiegare del salvataggio avvenuto la sera prima, ed Emma aggiunse di ritenere il signor Jones un’artista dopo aver visto i suoi splendidi disegni.
“Emma ed io abbiamo opinioni differenti sull’arte, ma con questo non voglio certo criticare i suoi disegni” commentò Cassidy, spostandosi leggermente per permettere al cameriere di versargli dell’altro champagne.
Killian alzò un sopracciglio, ma poi lasciò cadere il discorso accennando un breve sorriso accompagnato da un gesto della mano.
Quando abbassò lo sguardo sul tavolo, rimase stupito dal numero di posate che vi erano. Okay, quella non doveva essere di certo una cosa semplice. Come diavolo doveva capire quale utilizzare per ogni portata? Lanciò uno sguardo interrogativo ad Emma, che gli fece segno di togliere il tovagliolo dal piatto e così fece.
“Queste posate sono tutte per me?” mormorò all’orecchio di Granny che era seduta accanto a lui, mentre Emma sedeva a qualche posto di distanza purtroppo.
“Parti sempre dall’esterno” suggerì la donna, afferrando la prima forchetta per fargli vedere quale scegliere.
I discorsi tornarono a concentrarsi sulla nave, sulla sua progettazione e costruzione e tutti tornarono a complimentarsi con Marco ed August che erano seduti al loro tavolo.
“Dov’è che vive esattamente signor Jones?” Infierì nuovamente Mary Margaret, concentrando l’attenzione di nuovo sul ragazzo.
“Al momento il mio indirizzo è la terza classe del Titanic, dopo di che sarò nelle mani di Dio” concluse, asciugandosi le labbra con il tovagliolo di stoffa, sicuramente anche quella era pregiata vista la morbidezza.
“Se posso permettermi, dove ha trovato i mezzi per viaggiare sul Titanic?”
“Ho vinto i biglietti giocando a poker, una mano davvero molto fortunata” disse, rivolgendo il proprio sguardo ad Emma.
“A lei piace quest’esistenza priva di radici?” Ormai sembrava quasi un interrogatorio, piuttosto che qualche domanda posta per conversare amabilmente.
“Si, mi piace. Ho tutto quello che mi serve, ho aria nei polmoni e qualche foglio immacolato. Mi piace svegliarmi la mattina senza sapere cosa mi capiterà o chi incontrerò. Proprio l’altra notte ho dormito sotto un ponte ed oggi mi ritrovo sulla più imponente nave del mondo a bere champagne con dei signori raffinati come voi!” Alzò il calice per permettere al cameriere di riempirlo e poi ne bevve un sorso. “Secondo me, la vita è un dono e non ho intenzione di sprecarla. Non sai mai quali carte ti capiteranno nella prossima mano, impari ad accettare la vita come viene così ogni singolo giorno ha il suo valore” concluse, Emma era rimasta affascinata dalle sue parole, completamente rapita da quel senso di libertà di cui parlava.
“Al valore di ogni singolo giorno” propose la ragazza, alzando il calice ed invitando gli altri a fare lo stesso. Ed il brindisi mise fine a quell’interrogatorio.
Il resto della cena trascorse tranquillamente, tutti si concentrarono sulle proprie portate e finirono di mangiare quasi in assoluto silenzio. Killian apprezzò il fatto che le domande fossero finite, si gustò la sua pietanza alternando lo sguardo tra il piatto ed il viso di Emma. La ragazza lo guardò più volte, cercando di mantenere un’espressione serena e rilassata, forse il fatto che lui fosse lì rendeva davvero quella serata più gradevole.
Più tardi, tutti si alzarono da tavola. Il ragazzo li guardò stupito, non sapeva cosa stesse succedendo ed il fatto che si fossero alzati contemporaneamente l’aveva confuso.
“Adesso, inizia la serata da ballo. Dobbiamo spostarci in un’altra sala” chiarì Emma, leggendo la confusione sul suo volto.
“Vuole unirsi a noi, signor Jones?” Propose Neal, sistemandosi la giacca e porgendo il braccio alla futura suocera. Emma lo guardò piena di speranza, mimando un ‘per favore’ con le labbra, così annuì e porse un braccio a Granny ed uno alla ragazza per avviarsi.
La sala adiacente era molto simile, stesse pareti e stesso arredamento. Un grande pianoforte a coda si trovava sul margine destro ed ovviamente non vi erano i grandi tavoli per i pasti, ma qualche tavolino in vetro e qualche poltrona per i signori che volevano fumare il sigaro e bere brandy.
“Tesoro io devo parlare d’affari con il signor Mendell, non ti dispiace vero?” Chiese Neal, la bionda annuì ben contenta di non averlo tra i piedi, così Cassidy lasciò le donne alle loro discussioni ed andò ad accomodarsi in una di quelle poltrone.
“Non dovrebbe lasciarti sola, sai.” Sussurrò Killian, avvicinandosi lentamente all’orecchio della ragazza.
“Che intendi?” Lo interrogò, portando il suo sguardo su di lui. L’uomo si guardò intorno e decise che non era il caso di chiarire le cose in quel frangente, così optò per porgerle la mano “vuoi ballare?” domandò inchinandosi lentamente.
Emma rise, si sentiva così allegra quando lui era nei paraggi, credeva anche di poter recuperare in una sera tutte le risate che si era negata negli ultimi tempi, che gli altri le avevano negato.
“Certo, signore” rispose, accettando la mano e si lasciò condurre in un angolo libero della grande sala. Tutte le coppie volteggiavano, lasciandosi trasportare dalla musica.
“Dicevo solo che non dovrebbe lasciarti sola così facilmente, con tutti gli uomini liberi che farebbero la fila per sorprenderti e stare al tuo fianco” riprese la discussione che prima aveva volutamente lasciato in sospeso. Poi portò una mano alla sua vita, tastando la consistenza di quel tessuto rosso ed afferrò dolcemente l’altra sua mano. Lei si lasciò trascinare ancora un po’ imbarazzata dalle sue parole, ma comunque lieta della dolcezza che le stava riservando.
“Sei un ottimo ballerino” constatò, facendo una leggera giravolta prima che lui la riportasse stretta a sé.
“Mia madre” ripeté lui, esattamente come aveva fatto quel pomeriggio. Sua madre gli aveva insegnato così tante cose, ed il suo ricordo gli rievocava un misto di emozioni che aveva paura di non riuscire a controllare adeguatamente.
Le luci del grande lampadario si riflettevano sui capelli dorati della ragazza, creando una sorta di arcobaleno su cui Killian si concentrò per calmare il respiro e tornare a rilassarsi. Sorrise e tornò a guardarla negli occhi.
“La musica è finita, sarà meglio andare” dichiarò Emma, staccandosi lentamente dal corpo dell’uomo. Il calore dalla quale era avvolta sparì istantaneamente e fu tentata di stringerlo ancora, ma ignorò quell’impulso e si tenne a distanza.
“Potrebbe arrabbiarsi?” La interrogò, lanciando uno sguardo alle sue spalle all’uomo che sembrava perso in una discussione animata.
“Potrebbe” ammise lei, prendendo il suo braccio e trascinandolo verso il resto del gruppo che si erano lasciati dietro.
“Sembra preso dalla conversazione.”
“Non hai ancora visto niente, tra qualche ora si sposteranno nella sala da poker e cominceranno a divertirsi seriamente” sottolineò ridendo la ragazza, ma voltandosi vide il volto di Killian spaventosamente serio.
“Che c’è?” Scosse piano la mano per colpirlo delicatamente al petto ed attirare la sua attenzione. Lui si riscosse subito e si voltò nella direzione di lei, “quando la festa finirà e lui andrà a giocare a poker, tu vieni con me?!”
“Come?”
“Si, vieni con me. Ti porterò ad una vera festa e vedrai che ti sentirai libera” sentenziò, leggendo ancora una volta ciò di cui avesse bisogno.
“Io non so se..”
“Per favore, Emma, vieni con me” la interruppe, stringendo contemporaneamente il braccio intorno al suo polso per fare in modo che rimanesse lì, vicino al suo petto.
I suoi occhi brillarono sotto quelle luci, le sembrò che quell’azzurro si fosse sciolto, come se potesse nuotarci dentro. Dio, come faceva a rifiutare? Come faceva a dire di no, quando lui continuava a guardarla con quell’intensità?
“Si” sussurrò, proprio un attimo prima di raggiungere gli altri.
“Cosa cara?” Intervenne Mary Margaret, molto curiosa di sapere a cosa si riferisse.
“Nulla, lo stavo informando circa gli ultimi dipinti che ho comprato, prima a cena vi avevo riferito che il signor Jones è un’artista” improvvisò piuttosto bene.
La donna abbassò la testa e tornò a parlare con le altre signore. “Io vado, ti aspetto all’orologio?” Mormorò pianissimo per non farsi udire da nessuno, Emma annuì impercettibilmente per non farsi notare.
“Signore, è stato un vero piacere stare in vostra compagnia, ma adesso devo andare” Killian sorrise a tutte, si congedò e lasciò la grande sala.
 
 
 
Stava percorrendo velocemente il corridoio che l’avrebbe condotta alla scalinata con l’orologio in cui avevano appuntamento. Era passata circa mezz’ora da quando lui era andato via, la festa non era ancora finita ma quando Emma aveva visto Neal ritirarsi, per la consueta partita di poker, aveva deciso di fingere un mal di testa per poter lasciare la sala. E adesso si sentiva come se stesse scappando di prigione, muovendosi clandestinamente in quella sala dorata e guardandosi intorno con circospezione.
Lo vide subito, in alto sulla prima rampa di scale. Una mano infilata nella tasca dei pantaloni neri e l’altra appoggiata alla colonna di legno chiaro.
“Hai fatto prima del previsto, è già finita la festa?” La guardò avvicinarsi e le porse gentilmente la mano per sostenerla, vedeva quanto quel vestito fosse ingombrante, seppur riconoscendo quanto fosse bella e quanto il rosso donasse alla sua carnagione chiara e si sposasse con il verde dei suoi occhi.
“No, ho finto di avere mal di testa. Ragion per cui, è meglio non fare tardi stasera” s’impose di assumere un’espressione seria davanti alla sua faccia da cucciolo, ma poi il suo tentativo fallì e si ritrovò a fargli gli occhi dolci e ad accarezzargli la barbetta.
Maledizione. Quant’era difficile resistere a quell’uomo.
Lui chiuse istantaneamente gli occhi, godendosi quel contatto e desiderando ardentemente di potersi avvicinare, di poterle afferrare i fianchi ed immergersi nei suoi capelli per constatare quanto fossero morbidi. Non aveva mai provato un’attrazione così forte, tanto forte da sentirsi scuotere interiormente.
“Andiamo?” La sua voce lo riscosse e lo spinse a riaprire gli occhi, lei rise notando il suo sguardo famelico e si allontanò per permettergli di riprendere il controllo.
Killian deglutì rumorosamente, un dolore all’altezza del petto si propagò velocemente nel resto del corpo e si sentì intorpidito per qualche secondo prima che riuscisse a riscuotersi e a parlare. “Vieni, ti porto ad una vera festa.”
Percossero rapidamente il corridoio, presero l’ascensore e si recarono in una sala da ballo del tutto differente. Nessun vestito pomposo o ornamento particolare, ma tutti sembravano divertirsi, ridere e ballare con movimenti buffi e scomposti.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“Certo” s’incamminò al tavolo e recuperò da sola un bicchiere con una bevanda color giallastro che non riuscì ad identificare. Bevve velocemente rigettando il bicchiere su un punto del tavolo e con l’altra mano si sciolse i capelli, rimuovendo le due forcine che li tenevano insieme. I suoi boccoli dorati si sparsero sulle sue spalle, riflettendo la luce delle lampadine che illuminavano la sala, lui rimase lì, fermo, incapace anche di respirare. Totalmente coinvolto ed affascinato dai movimenti fluidi della donna. Sicura, forte e autorevole!
Gli si avvicinò, alzò una mano per sfiorargli la giacca scura. Andò oltre i bottoni e s’insinuò fino a toccare la stoffa bianca della camicia.
“Emma, che stai facendo?” annaspò Killian, respirando freneticamente sotto al suo tocco.
Lei si avvicinò lentamente al suo orecchio, provocandogli un brivido che si propagò in tutta la schiena. La sua mano afferrò qualcosa nel taschino interno del completo elegante, “volevo una sigaretta” gli sussurrò all’orecchio prima di allontanarsi lievemente.
“Potevi anche chiederla” la riprese lui, schernendola con il suo sorriso beffardo.
“Perché? Ti ha dato fastidio?” Chiese e ritrasse rapidamente la mano. Lui le afferrò il polso, bloccandola e riportandola sul suo petto. Il suo palmo aperto aderì perfettamente, modellandosi e seguendo i respiri che scuotevano il petto dell’uomo. Killian fece un’ulteriore passo avanti, si avvicinò e fece finalmente quello che poco prima non si era concesso. Afferrò il suo fianco e sfiorò il suo collo con il naso. Era il suo turno di farla impazzire, come aveva fatto lei poco prima.
 “No” mormorò. “Tutto il contrario, amore” concluse, continuando a sfregare le labbra sul suo collo.
“Killian..”
 
La voce di Robin riscosse entrambi, sciogliendo la tensione che si era creata attorno a loro. L’uomo procedeva spedito con una moretta di fianco.
“Amico mio, finalmente ti sei unito a noi. Questa è Regina” la ragazza porse la mano a Killian e ad Emma, che si presentarono a loro volta.
“Emma è un piacere conoscerti” rispose Robin, schiacciando un occhio in direzione dell’amico.
“Il tuo vestito è bellissimo” disse Regina, rivolgendosi nuovamente ad Emma ed attirando l’attenzione dei due uomini su di lei. La ragazza sorrise lievemente, “già, sei proprio bellissima” sottolineò Killian, passando una mano sulla sua schiena.
“Posso parlarti un attimo?” Chiese Robin, dando una pacca nella spalla a Killian e portandolo da un’altra parte della sala.
Le ragazze rimasero a conversare del più e del meno, mentre dall’altro lato gli uomini toccavano argomenti del tutto differenti.
“Si può sapere in che guai ti stai cacciando?” Proruppe, lanciandogli uno sguardo diffidente.
“Lo so, amico, ma non posso farci nulla. Andiamo, l’hai vista? E non è solo questo, ma il suo carattere, la sua forza ed io non riesco a farne a meno.”
“Sei un sentimentale, Killian” lo prese in giro, ridendo e continuando a colpirlo sulla spalla.
“Smettila, idiota!” Lo rimbeccò quello, sghignazzando a sua volta.
“Ti capisco, non pensavo che Regina potesse provocarmi questo sconvolgimento. Non mi era mai interessata nessuna, dopo il mio primo amore” constatò imbarazzato, spostandosi i capelli dalla fronte imperlata da goccioline di sudore.
“Allora smettila di farmi la morale, già basta Filippo, piuttosto dov’è?” Si guardò intorno, ma non riuscì a scorgere il suo volto tra tutti i presenti.
“Sarà con Aurora da qualche parte” la discussione si era conclusa così, ed erano tornati dalle ragazze che avevano cominciato a conoscersi e a ridere insieme.
 
 
“Andiamo a ballare” disse, trascinandola senza nemmeno attendere la sua risposta.
“Non ho idea di come si balli questa musica” ammise lei, non era abituata a sentire un ritmo così movimentato e non sapeva come fare a seguirlo, e non era di certo aiutata dal suo abito ingombrante.
“Lasciati semplicemente andare e smetti di pensare” la rassicurò, cominciandosi a muovere in modo fluido al suo fianco. Lei rimase ferma a soppesare la cosa per qualche attimo, poi fece come le aveva detto.
Si tolse le scarpe cacciandole in qualche angolo, cominciando a saltellare spensierata, inconsapevole di essere osservata da Jefferson che appostato dietro ad un pilastro stava osservando il suo comportamento per riferirlo a Neal.
L’aveva vista sgusciare via dal ballo, ed era troppo allegra per stare male davvero. Aveva perso le sue tracce, poi aveva sentito della musica ed era giunto appena in tempo per vederla ballare.
Apparentemente si stava solo divertendo, era arrivato da poco e non aveva visto nessuna effusione particolare con il signor Jones, stavano soltanto saltellando come due idioti a suo dire. Decise che quella visione era abbastanza e si avviò per riferire tutto a Neal che stava ancora giocando a poker.
“Signore, posso disturbarla?” Chiese gentilmente, avvicinandosi all’uomo e prendendo posto al suo fianco.
“Non vedi che sto giocando” lo riprese l’altro, stringendo con più forza le carte e gettando via la cenere della sigaretta.
“Lo vedo, ma credo ci sia qualcosa che vogliate sapere” sottolineò, guardandolo in modo serio. L’altro si riscosse, si scusò e chiese un attimo di pausa per parlare con il suo dipendente.
“Allora, parla” lo esortò, cacciando via il fumo che era rimasto tra le sue labbra. Si portò le mani alle tasche dei pantaloni e spostò il peso da un piede all’altro in attesa.
“Ho visto la signorina Swan ballare una musica piuttosto allegra con il signor Jones” affermò, aspettando la reazione dell’altro.
“Come? Stavano ballando? Erano vicini?” Le domande proruppero a raffica dalla sua bocca, prima che la contraesse per il nervosismo.
“No, no.. Quando li ho visti non si sfioravano nemmeno, ma lei sembrava divertirsi.”
“Domani la farò divertire io, non permetto a nessuno di mettermi in imbarazzo. Adesso torno alla mia partita, tu vedi di controllarla.” Ordinò, prima di tornare al tavolo nascondendo tutto il risentimento dietro ad un finto sorriso.
Quando Jefferson tornò di sotto, loro erano già andati via.
 
 
 
“Vieni” la prese per mano e la condusse fuori dalla sala, si avviarono verso l’uscita. L’aria fresca della sera scompigliò i capelli di entrambi, risero di cuore davanti a quella spensierata serata. Avevano ballato, scherzato e c’erano stati anche momenti che avevano fatto scalpitare il cuore di entrambi.
Le aveva poggiato la giacca sulle spalle per ripararla dall’aria pungente e si erano seduti su una panchina, rimanendo lì per un tempo che non seppero definire.
“Dovrei andare adesso” constatò lei, era parecchio tardi ed era sicura che la festa da ballo fosse già finita. Quindi era giunto il momento di abbandonare quella fantastica serata e ritornare alla realtà. Una realtà che le fece contrarre istintivamente lo stomaco per quanto non la volesse.
Quella serata, quei momenti erano stati una boccata d’aria fresca, una delle poche volte in cui avesse respirato e riso liberamente. Tutto questo grazie ad una persona che conosceva appena, ma che le aveva fatto vivere momenti che difficilmente avrebbe dimenticato. E adesso, mentre erano lì a fissare le stelle, nel ponte deserto della nave, lei non riusciva a fare a meno di guardarlo.
Guardava lui e guardava il cielo, guardava lui che fissava il cielo con meraviglia. Gli occhi risplendevano di luce propria, le labbra appena dischiuse ed i capelli trasportati dalla brezza leggera. La panchina su cui erano seduti sembrava improvvisamente troppo grande e lei sentiva l’impulso di stringersi e farsi scaldare dal freddo pungente della sera. Il suo corpo era percorso da un leggero formicolio, strinse le labbra più forte cercando di trattenere quelle sensazioni dentro di lei, reprimerle ed impedire che prendessero il sopravvento sulla sua razionalità.
Strinse più forte le braccia al petto, imprimendosi le dita nelle costole e sospirando pesantemente.
Lui si voltò ad osservare il suo volto, la sua postura lo fece quasi ridere, era dolce il modo in cui cercava di darsi sollievo e come continuasse a sfregarsi le braccia per evitare di muoversi. Le passò una mano dietro le spalle, la lasciò lì, immobile, sospesa sulla sua spalla per darle conforto. Non sapeva che solo guardarlo le dava conforto.
“Vorrei non doverti lasciare andare” sussurrò, disegnando qualcosa sulla sua spalla. La consapevolezza nel suo sguardo le causò un rimorso interiore. Nemmeno lei avrebbe voluto andare, nemmeno lei avrebbe voluto tornare alla realtà perché quella sera lì con lui, sotto un manto di stelle, avvolti dal profumo e dal rumore del mare era esattamente come avrebbe voluto passare il resto della sua vita.
Abbassò gli occhi, l’improvvisa tristezza aleggiava nel suo cuore rendendolo pesante più del solito. Killian le alzò il mento con un dito e la fissò per un momento, “mi dispiace, non volevo turbarti” si scusò, catturandole una ciocca di capelli e sistemandola dietro al suo orecchio.
“Non lo hai fatto” s’impose di mantenere una voce decisa e forte, le sue parole però s’incrinarono verso la fine, tanto da fargli cogliere quel che gli bastava per fare ciò che avrebbe voluto fare dalla prima volta che l’aveva vista.
Voltò il suo viso con il pollice e si avvicinò alle sue labbra, chiudendo gli occhi. Lei s’intenerì vedendolo così, tutta la sua spavalderia aveva lasciato il posto alla dolcezza e lei avrebbe davvero voluto abbandonarsi completamente a quella e a lui, ma la sua testa continuava a pulsare e a suggerirle di scappare. Le diceva che la situazione era già complicata senza quel bacio, che dopo quello tutto sarebbe peggiorato, che aveva delle responsabilità verso la sua famiglia, verso il suo fidanzato. Gli aveva dato la sua parola accettando di sposarlo e non era giusto tradirlo anche se non lo amava.
“Che stai facendo?” Chiese, riprendendo le parole che aveva utilizzato lui qualche ora prima. I suoi occhi blu si aprirono di scatto, lasciandola inchiodata e riflettendo la sua immagine. Le sembrava di trovarsi di fronte ad uno specchio, e di vedere la sua anima riflessa lì, aperta e vulnerabile. Forse, per questo lui riusciva a leggerla così bene, avrebbe voluto essere misteriosa come lui. Anche se, lui non faceva mistero del trasporto che nutriva per lei e questo la faceva sentire euforica ed orgogliosa, sentimenti che non avrebbe dovuto provare.
“Di sicuro non voglio accendermi una sigaretta adesso” la rimbeccò scherzando e le sue labbra s’incurvarono verso l’alto.
“Tu sai che non posso” gli ricordò, accarezzandogli il viso con la mano.
“Allora dovresti allontanarti subito, perché non ho intenzione di lasciarti scappare stavolta” sputò fuori quelle parole così velocemente che lei non ebbe nemmeno il tempo di riflettere su quello che stava facendo. Killian si avventò sulle sue labbra come se si trovasse nel deserto e fossero la sua oasi.
Catturò il labbro inferiore con dolcezza, facendo scorrere lievemente la lingua per lambire quel morso appena accennato e poi s’insinuò dentro di esse come un affamato. Il cervello di Emma aveva smesso di funzionare, doveva essere per forza così perché la ragazza non riusciva a sentire nulla se non lui. Le sue mani che si avvinghiavano alla sua vita sottile, mentre muoveva famelicamente le labbra sulle sue. Rispose al bacio con tutta la passione di cui era capace, portò la mano tra i suoi capelli, stringendo qualche ciocca e facendolo gemere piano sulle sue labbra.
Killian spostò la mano, percorrendole il viso dolcemente ed accarezzandole i capelli. Le sue labbra lasciarono la bocca di lei per spostarsi sul suo collo e risalire velocemente fino a ricongiungersi esse, mentre lei con gli occhi socchiusi si godeva quel vortice di sensazioni che avevano invaso il suo corpo e la sua anima.
Si allontanò un attimo per respirare e la ventata di ossigeno, le riportò a galla tutti i pensieri che aveva lasciato da parte. Si scostò da lui, mettendogli una mano sul petto ed allontanandolo. Killian aprì gli occhi per guardarla, completamente spaesato per la sua reazione dopo quel magnifico bacio. Un lampo di dolore s’insinuò nel suo sguardo, provocando una nuova fitta di tristezza nel cuore di lei.
“Dannazione, Emma!” Esclamò, comprendendo le sue intenzioni, mentre lei si era già alzata abbandonando la giacca in un angolo della panchina.
Si voltò, dandogli le spalle, non volendo più incrociare quello sguardo che le avrebbe reso difficile anche parlare. Le guance ancora in fiamme per il momento che avevano appena condiviso.
“Non deve più succedere, signor Jones.” Sottolineò forte il suo cognome, per fargli credere di essere distaccata, ma lui poteva vedere le sue spalle scosse da alcuni spasmi mentre parlava. Ogni cosa della sua posizione celava ciò che con la voce avrebbe voluto nascondere.
“Emma..”
Nemmeno si girò, cominciò a camminare avviandosi dentro, mentre delle piccole lacrime le imperlavano gli occhi e scendevano sulle sue guance. Le asciugò velocemente, ricacciando tutto dentro di sé.
Lui continuò a guardarla andare via, il suo passo lento e l’andatura aggraziata, i capelli mossi dal vento.
Avrebbe voluto così tanto correrle dietro e stringerla, ma non fece nulla.
Rimase lì a fissarla sparire oltre la porta, si toccò le labbra e chiuse gli occhi nella speranza di risentire quel calore.


Autrice:
Eccoci al quarto capitolo! Le cose cominciano a muoversi, che dite?
Spero davvero che vi sia piaciuto, non vedevo l'ora di pubblicarlo per inserire la nuova grafica che amo. 
Ringrazio tutte le persone che leggono e commentano la storia, siete fantastiche e vi adoro tutte!
Ringrazio anche chi ha inserito la storia nelle varie categorie e chi legge silenziosamente. 
Un bacio <3 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 5


Si sentiva male per averlo lasciato lì, aveva sentito il suo sguardo perforarle la schiena per tutto il tempo prima di chiudersi la porta alle spalle e sparire dentro l’ascensore.
Aveva dormito poco quella notte, il mal di testa alla fine le era venuto davvero, portandosi dietro anche degli incubi vividi e verosimili.
Scossa aveva continuato a rigirarsi nel letto e adesso si sentiva esattamente come la sera prima, se non peggio. Delle occhiaie violacee le contornavano gli occhi ed i capelli erano una massa indistinta, le occorreva una bella e potente spazzolata per poterli riportare all’ordine.
“Ruby, ti prego aiutami” disse affranta, portandosi una mano alla fronte.
La ragazza si avvicinò lentamente, prendendo la spazzola che era adagiata sul mobiletto di marmo e cominciando a spazzolarle i capelli.
“E’ successo qualcosa?” Chiese con voce pacata, non voleva essere indiscreta ma semplicemente aiutarla ed Emma lo sapeva, però non era pronta a parlarne. Parlare dei suoi dubbi significava renderli reali e palpabili, ammettere che c’erano e che la opprimevano terribilmente, era sconveniente dal momento che sentiva di non poterli dissipare in alcun modo.
“No, sta tranquilla. Va tutto bene, ho solo riposato male” mezza verità le sembrava abbastanza in quel momento. Ruby annuì senza chiedere altro, stava pensando ancora al pomeriggio passato con Victor e manteneva quell’espressione sognante che caratterizza l’amore.
Emma finì rapidamente di sistemarsi, dopo che Ruby le ebbe sistemato i capelli, indossò un vestito color avorio con qualche accessorio coordinato e si diresse verso il balcone privato dove Neal l’attendeva per fare colazione insieme.
Si sedettero rimanendo in silenzio per qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri mentre zuccheravano il proprio caffè. Dio, era quello che ci voleva per svegliarla, un buon caffè nero.
“Speravo che venissi da me stanotte” disse Neal all’improvviso, distraendola dalla bevanda ed attirando i suoi occhi. Si portò la tazzina alle labbra e tastò il gusto amaro del caffè, mentre la ragazza lo fissava stupita.
Il cervello di Emma ci mise qualche secondo per elaborare quelle parole e trovarvi una risposta adeguata, “ero stanca” optò per una mezza verità anche in quel caso, nonostante non fosse la vera ragione che le aveva impedito di recarsi da lui.
“La tua esuberanza ti avrà senz’altro spossata” i suoi occhi si ridussero ad una fessura, ed Emma capì che lui era a conoscenza di quello che era successo la sera prima, anche se non sapeva quanto sapesse.
“Vedo che mi hai fatta seguire da quel becchino del tuo servitore” disse indignata, non aveva il diritto di continuare a legarla a sé in quel modo, farla seguire come se lei fosse di sua proprietà, un oggetto che poteva muovere a suo piacimento.
“Non ti comporterai mai più in quel modo, Emma. Sono stato chiaro?!” Posò delicatamente la tazza che stava tenendo in mano e si avvicinò a lei, il suo sguardo minaccioso le suggeriva di andare via, di allontanarsi da lui e dalla sua stupida pretesa.
“Non puoi comandarmi come se fossi di tua proprietà, io sono una persona, sono la tua fidanzata.” Sussurrò cercando di imprimere una certa sicurezza nella sua voce, nonostante sentisse una sorta di paura farsi strada nel suo cuore e nella sua mente.
“La mia fidanzata, la mia fidanzata… Si lo sei, praticamente sei mia moglie, lo sei pur non essendolo ancora per legge quindi mi rispetterai” gridò furioso, colpendo il tavolino e scaraventando tutto sul pavimento. Si avvicinò a lei, poggiando le mani sulla sedia di vimini in cui era seduta e la fissò con occhi furenti. “Non farò la figura del pagliaccio, qualcosa non ti è chiaro?” Concluse alla fine. Emma deglutì furiosamente, mentre cercava di allontanarsi per mettere distanza tra loro ed annuì, “no” sussurrò dopo qualche secondo.
“Bene, con permesso” le spostò una ciocca di capelli, nonostante la ragazza cercasse di allontanarsi e poi lasciò il balconcino privato.
Emma rimase lì invece, ancorata alla sedia come se fosse l’unica cosa che non le permettesse di affondare. Ruby fu subito al suo fianco, le sfiorò la mano con dolcezza e non disse nulla. “Noi abbiamo avuto una discussione” asserì la ragazza, poi si abbassò a raccogliere i cocci di tutte quelle tazzine frantumate. Si scusò per tutto quel disordine, mentre l’altra continuava a guardarla in apprensione. “Non è niente” le rispose, accasciandosi vicino a lei e accogliendola tra le sue braccia quando la ragazza non riuscì più a trattenere i singhiozzi. “Non è niente” ripeté, passandole la mano sulla schiena per darle conforto.
 
 
 
Si sentiva un peso enorme dentro al petto, una sensazione che non riusciva a scacciare. Aveva bisogno di rivederla, doveva chiederle di perdonarlo per averla baciata e di tornare come prima, ma Dio, lui non voleva tornare come prima. Come poteva pentirsi di aver fatto ciò che desiderava? Voleva baciarla, voleva fare molto di più che baciarla, voleva stringerla, confortarla, spazzare via le sue paure ed impedire che si allontanasse da lui. Era assurdo provare quelle emozioni verso una persona che conosceva appena, ma come poteva controllarlo? Come poteva farlo, quando lei aveva sgretolato tutte le sue certezze ed era entrata in lui sin dal primo sguardo?
Doveva fare in modo di vederla, non poteva fare altrimenti. Doveva vederla, scusarsi e dirle che poteva farlo, poteva tenere le mani al proprio posto o poteva stringerla, insomma poteva fare tutto ciò che lei voleva. Se lei voleva che fosse semplicemente un suo amico poteva riuscirci, pur di vederla. Almeno fino a quando poteva vederla ancora, perché sapeva che quando la nave avrebbe attraccato non ci sarebbero state più opportunità per lui, per loro.
Uscì velocemente dalla stanza e si recò sul ponte.
La vide lì, mentre guardava il mare. Le spalle erano scosse da alcuni fremiti e capì che probabilmente stava piangendo. Si avvicinò lentamente, le mani in tasca ed il passo tranquillo.
Non disse nulla, voleva godersi il più possibile quello spettacolo.
Lei si accorse della sua presenza dopo qualche secondo, come se le sue spalle fossero state colpite da una scossa, una scintilla che entrambi condividevano. Si voltò, e fu allora che lui vide i suoi occhi imperlati di lacrime.
Le guance rosse ed il respiro spezzato.
“Emma..” sussurrò avvicinandosi, una mano protesa quasi a volerla toccare.
Lei scosse una mano davanti al suo volto per fermarlo e lo superò velocemente.
“Senti Emma, se è per colpa mia, ti prego non farlo. Non piangere” la pregò, voltandosi rapidamente e vedendola lì di spalle. Si era fermata per ascoltarlo, ma non riusciva a dire nulla per paura di non poter controllare i singhiozzi.
Un minuto, due minuti, tre minuti.
Nessuno dei due parlava, lei rimase di spalle e lui continuava a guardarla nella speranza che si voltasse. Emma si appoggiò una mano sul petto, come se quel gesto potesse alleviare le sue sofferenze.
“Non prenderti colpe che non hai” cercò di rassicurarlo, ma la voce uscì affranta e ridotta ad un sussurro appena udibile.
“Ma io..” Voleva parlare, voleva dirle tante di quelle cose. Sdolcinate, prive di logica oppure farle qualche allusione per suscitare il riso in lei e cancellare le lacrime. Non ebbe il tempo di dire nulla però, si ritrovò da solo su quel ponte per la seconda volta, mentre la guardava andare via come la sera prima. Ed un’altra volta aveva sentito un pezzo di cuore staccarsi, un dolore fisico propagarsi in tutto il suo corpo ed una lacrima solitaria scese anche dai suoi occhi.
La spazzò via velocemente, non era il tipo lui. Figurarsi.
 
 
 
L’aveva rivisto a pranzo e a cena, ma non aveva avuto il coraggio di incrociare il suo sguardo e quando lui si era avvicinato per cingerle il fianco, porgerle il braccio o sussurrarle qualcosa all’orecchio, lei si era allontanata ancora scossa da quello che era successo quella mattina. Nessuno sembrò accorgersi di loro, anche perché Emma era sempre parecchio scostante nei suoi confronti e non si era mai lasciata andare ad effusioni di alcun genere.
Quella giornata era trascorsa così, in modo dolorosamente lento e senza nulla che valesse la pena di essere fatto. Emma aveva cercato di mantenere un profilo basso, non entrando in merito di nessuna conversazione, ma dispensando lievi sorrisi per evitare di scoppiare a piangere da un momento all’altro.
La notte trascorse in modo molto più burrascoso, continuava a rigirarsi nel letto non riuscendo a prendere sonno. Tutti i pensieri le affollavano la testa, chiedendo di essere liberati, ma lei si ostinava a non farlo. Allora, cercò di distrarsi cantando mentalmente, cercando di rimembrare alcune poesie che suo padre le aveva insegnato da piccola oppure contando tutti gli intarsi in rilievo che riusciva a tastare nell’elegante coperta che era adagiata sul suo corpo.
Quando finalmente prese sonno, l’incubo di Neal che uccideva Killian la ridestò in malo modo. Le lacrime che sgorgavano copiose dai suoi occhi e la fronte madida di sudore.
Non riuscì più a stare in quella posizione così si alzò e aspettò che il sole sorgesse, affacciata al balcone della sua suite.
“Emma, devi prepararti. Oggi ci sarà la funzione, l’hai dimenticato?” Domandò Ruby, entrando nella stanza. Avevano questa sorta d’accordo, quando non c’era nessuno Ruby evitava tranquillamente le formalità, non perché Emma volesse che le distanze fossero rispettate in presenza di altri ma solo perché gli altri non avrebbero capito, troppo presi dalla loro arroganza.
Emma adorava Ruby e la ragazza ricambiava, ma non voleva avere guai con la madre di lei, quindi in sua presenza cercava di rimanere distaccata e professionale.
“Hai ragione, non mi ero accorta dello scorrere del tempo” troppo persa nei propri pensieri, si alzò e cominciarono insieme la preparazione giornaliera. Un bagno caldo che l’aiutò a sciogliere la tensione che aveva accumulato durante il giorno precedente e poi quello stretto bustino da dover indossare che, al contrario, le mozzò nuovamente il respiro.
“Ruby, faccio io. Puoi prepararmi una tazza di tè?!” Ordinò Mary Margaret, prendendo il posto della ragazza e stringendo in modo deciso i laccetti del corpetto.
“Non devi più rivedere quel ragazzo” la ammonì, continuando a stringere. La donna si era accorta dell’atteggiamento di sua figlia in presenza di quel Killian, e la cosa non le andava bene per niente.
“Smettila mamma” replicò la ragazza, voltandosi a guardarla per fronteggiare il suo atteggiamento.
“Non ti capisco, Emma. Tu e Cassidy siete una coppia perfetta, questo garantirà la nostra sopravvivenza. Non comportarti in maniera egoista” la pregò, accarezzandole il braccio lievemente.
“Io egoista? Ah, adesso sarei io l’egoista?!” Chiese alterata, scostando la madre con un movimento brusco e avviandosi dall’altra parte della stanza.
“Sai in che condizioni ci troviamo, tuo padre non ci ha lasciato altro che debiti e allora vuoi vedermi lavorare come cucitrice? Questo vuoi? Vuoi che tutte le nostre belle cose vengano vendute all’asta e che il nostro nome, l’unica cosa che ci resta, venga macchiato dalla vergogna?” La voce della donna si spezzò, lasciando trapelare tutta la preoccupazione che provava ed Emma si rabbonì.
“No, mamma, ma è così ingiusto” sussurrò, riavvicinandosi e voltandosi per permettere alla donna di finire il lavoro.
“Certo che è ingiusto, Emma. Lo è sempre” si portò una mano alle labbra e poi lasciò un tenero bacio sul viso della figlia, prima di lasciare la stanza convinta che quella conversazione avesse sortito il suo effetto.
 

 
Era passato un giorno, un’intera giornata spesa a non fare assolutamente nulla. Nemmeno disegnare che solitamente era ciò che lo rilassava, riusciva a placare la sua inquietudine ed il turbinio di sensazioni che sentiva dentro l’anima.
Uscì velocemente dalla sua stanza, le gambe si muovevano da sole verso un’unica direzione. Non riusciva a controllare il suo corpo, così come non poteva controllare la sua mente. Prese l’ascensore, percorse i vari corridoi fino a ritrovarsi davanti alla porta dove si svolgeva la funzione. Cercò di entrare ma fu subito bloccato da due inservienti vestiti in maniera elegante.
“Signore, lei non può entrare qui” chiarì uno, con un tipico accento britannico. Mise una mano davanti al suo petto e gli sbarrò definitivamente la strada.
“Ma.. Ma ieri io sono stato qui, mi avete fatto passare. In ogni caso, ho bisogno di un attimo, devo solo parlare con una persona” asserì, cercando di convincerli a lasciarlo entrare.
La discussione venne interrotta dalla figura incravattata di Jefferson che aveva visto tutto dalla sua posizione, mise una mano in tasca ed estrasse qualche banconota, “i signori la ringraziano ancora per i suoi servigi, ma non gradiscono più la sua presenza” concluse, mettendogli i soldi in mano.
Delusione.
Non seppe precisamente perché quell’emozione gli stava squarciando il petto, combattendo per venir fuori, ma la sentiva forte e prepotente. Gli restituì le banconote sdegnato da quel gesto e indietreggiò di alcuni passi, indeciso su cosa fare.
“Io volevo solo parlarle un attimo” optò per tentare un’ultima strada, ma il segno di diniego dell’altro gli fece capire che non aveva alternative se non quella di andarsene.
Percorse il corridoio a ritroso, le mani in tasca e le spalle curve come se stesse portando un profondo fardello. Decise di aspettarla fuori dalla porta principale del ponte, sicuramente prima o poi sarebbe passata da quelle parti e con un po’ di fortuna magari non era braccata da nessuno.
Dopo qualche ora, la fortuna decise di girare a suo favore e la vide uscire. “Emma” chiamò lentamente, la ragazza si voltò, lo vide e scappò via.
Si sentì ferito nuovamente dal suo comportamento. Allora, era vero quello che aveva detto Jefferson?! Era lei a non volerlo più vedere, non era una scusa che aveva inventato per tenerlo lontano.
Non poteva andare così, non si sarebbe arreso così facilmente e senza nemmeno una parola.
Non voleva vederlo? Bene, ma avrebbe dovuto dirglielo in faccia e guardandolo negli occhi. Ed allora, lui si sarebbe fatto da parte, lo avrebbe fatto per lei.
 

Continuava a camminare su quel ponte, continuava ad andare avanti e poi indietro nella speranza di trovare un modo per rivederla. L’ora di pranzo era ormai passata da un pezzo e non aveva nemmeno avuto il coraggio di scendere al piano di sotto per non abbandonare quel ponte. In conclusione, non aveva mangiato nulla e adesso si sentiva stanco, affamato e piuttosto irritato.
Il cielo si stava tingendo di colori più tenui e caldi, segno che il sole stava pian piano calando. Killian era ancora appoggiato alla porta principale, ma non poteva entrare nel ponte coperto riservato ai signori di prima classe. Poco più avanti, abbandonata in un panchina c’era una giacca nera. Il suo possessore era qualche metro più avanti, appoggiato alla ringhiera che si godeva il fresco con una signorina.
Camminò lentamente e sporse il braccio per afferrarla, il tizio non si accorse di nulla e lui sospirò di sollievo. La indossò velocemente, con quella sarebbe sicuramente passato inosservato e difatti qualche minuto più tardi riuscì ad intrufolarsi dentro, giusto in tempo per vedere Emma che passeggiava insieme a dei signori e alla madre.
Fece il giro largo per potersi ritrovare davanti a lei, ma poi capì che quello non era l’approccio migliore. Emma tendeva a chiudersi a riccio quando le cose le sfuggivano di mano, ed il ragazzo lo aveva capito subito questo.
Così Killian s’intrufolò in uno stanzino vuoto e aspettò che lei passasse. Quando la vide, si sporse fuori dalla porta e la tirò per un braccio per portarla dentro. Fuori nessuno si era accorto di nulla, continuavano a camminare e a conversare amabilmente.
“Che diavolo fai?” Domandò alterata.
“Devo parlarti” rispose lui, spingendola dolcemente verso la parete della stanza.
“E non potevi farlo come tutte le persone normali. C’era bisogno di tutto questo?” Allargò le braccia, indicando quella stanza e la situazione in cui si trovavano al momento.
“Tu mi stai evitando” spiegò lui, puntando lo sguardo su di lei. Vide le sue pupille dilatarsi ed il suo respiro accelerare improvvisamente.
“Non ti sto evitando” ribatté piccata la ragazza, non era pronta ad ammettere che vederlo faceva vacillare le sue convinzioni.
“Allora, era un’altra Emma quella che prima è scappata come se avesse visto un fantasma?” Chiese con tono sarcastico, roteando gli occhi ed indietreggiando per lasciarle un po’ di spazio.
“Allora Jones, cosa vuoi?” Incrociò le braccia al petto e assunse un tono deciso. Si era ripresa dal giorno precedente, la discussione che aveva avuto con la madre l’aveva turbata, rattristata ma l’aveva fatta anche infuriare.
Comunque riteneva inutile continuare a piangere, le lacrime non avrebbero risolto di certo la sua situazione. Poteva abbandonarsi a quelle o continuare a camminare a testa alta e con fierezza.
Killian si sentì improvvisamente imbarazzato, tutta la caparbietà che aveva dimostrato fino a quel momento era improvvisamente scemata davanti agli occhi fieri di Emma. Voleva parlare e dirle quello che pensava, ma il timore che potesse farla soffrire e vederla piangere come il giorno prima gli impediva qualsiasi cosa.
“Io..” boccheggiò, le parole non uscivano e la distanza divenne improvvisamente troppa, come se avesse l’esigenza di toccarla, respirare il suo profumo e guardarla più da vicino. Come se sentisse il suo corpo percorso da fremiti che non riusciva a trattenere, si umettò le labbra e deglutì con fatica prima di tornare a guardarla, e finalmente si riavvicinò.
“Emma, io avevo bisogno di parlarti” mise le mani sulle sue spalle, girando i pollici in circolo per massaggiarle delicatamente.
“Sono qui, parlami adesso” disse Emma, avvicinandosi a lui lentamente. Portò la mano sul suo petto e lui credette che volesse allontanarlo, ma non lo fece. Afferrò la camicia e chiuse il pugno, lo tirò verso di sé e s’infranse sulle sue labbra.
“Non ti evitavo” mormorò bocca contro bocca, continuando a baciarlo con passione. Tracciò con la lingua il contorno delle sue labbra, prima di trovare libero accesso alla sua bocca che famelica contraccambiava quella passione.
“Si, invece” replicò, passandole le mani sulle braccia per poi scendere ad afferrare la sua vita. La strinse con forza, come se lui dipendesse da quel contatto. Le morse il labbro inferiore, succhiandolo un attimo dopo, mentre una mano si spostava su quei boccoli dorati.
“Perché sapevo che finiva così” commentò Emma, staccandosi piano e fissandolo. Stava ammettendo di averlo evitato, ma l’aveva fatto perché era attratta da lui e questo non poteva che farlo sentire gratificato.
“Allora lo ammetti?!” Affermò, catturando nuovamente quelle labbra.
“Cosa?”
“Che mi stavi evitando” biascicò, non riuscendo a parlare bene perché questo significava stare troppo tempo lontano da quelle e lui non voleva farlo.
Non avrebbe voluto lasciarle mai più, le sue labbra, i suoi capelli, la sua fierezza, lei. Non voleva lasciare lei.
“Si” ammise apertamente. Intrecciò le mani dietro la sua nuca, accarezzandogli piano i capelli neri e spettinandoli lentamente. L’urgenza era stata sostituita dalla dolcezza, sfregò piano la guancia sulla sua godendosi il pizzicore causato dalla barba.
“Mi dispiace” sussurrò Emma poi, poggiò la fronte sulla sua e fece scontrare i loro nasi lentamente.
“Che vuoi dire?” Domandò Killian spaesato. Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre e che non esistesse nessun altro all’infuori di loro e di quella stanza, ma non era così e riconosceva il tormento nello sguardo di Emma.
Quello sguardo gli suggeriva che lei stava per dire quelle parole, le parole che avrebbero distrutto nuovamente la bolla felice in cui si trovavano in quel momento.
“Mi dispiace di dover fare questo” ammise spostandolo, attenta invano a non ferirlo ulteriormente. I suoi occhi s’imperlarono nuovamente di lacrime, nonostante si fosse ripromessa di non piangere più.
Killian alzò una mano e le accarezzò il volto, catturò le lacrime con i polpastrelli e le spazzò via per poi avvicinarsi a baciarle gli occhi. “Allora non farlo” mormorò piano.
“Devo farlo, non ho altra scelta” asserì, poi si spinse piano tra le sue braccia e poggiò la testa sul suo petto, lasciandosi cullare dolcemente. Il suo respiro tornò piano regolare, così come i battiti del cuore di Killian.
“Starai bene?” L’apprensione traspariva chiaramente dalla sua voce.
“Si” mentì lei, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo, perché non capisse che stesse mentendo.
“Senti non sono uno stupido. So come funziona il mondo, io non ho nulla da offrirti e solo.. Solo che ci sono troppo dentro, salti tu, salto io. Ricordi? Non posso voltarti le spalle senza avere la certezza che starai bene” dichiarò, sollevandole il mento con una mano per fissarla. Fissarla era esattamente quello che fece, scrutò dentro di lei, scandagliò la sua anima in profondità nonostante non ne avesse bisogno. Sapeva già che stava mentendo, lo capiva semplicemente dalla sua voce rotta, dai suoi occhi cupi e da ogni cosa scorgesse sul suo viso.
“Starò bene” ripeté una seconda volta, quasi a voler convincere se stessa di quelle parole.
“Davvero? Io non credo” sentenziò, lasciando correre le braccia lungo i fianchi.  “Ti tengono in trappola, Emma, e morirai se non ti liberi, forse non subito perché sei forte ma prima o poi quell’ardore che amo tanto in te, quell’ardore si spegnerà” le riportò una mano sul viso, accarezzandolo piano.
“Non spetta a te salvarmi, Killian.”
“Hai ragione, solo tu puoi farlo.” Ammise sconfitto, aveva tentato almeno. Chi diavolo voleva prendere in giro? Tentare non bastava, voleva riuscirci. Convincerla, ma cos’altro poteva fare?
Nulla, non poteva fare nulla.
Aveva avuto la prova che lei ricambiava le sue emozioni, sensazioni, sentimenti, non sapeva bene come definirli. Aveva avuto la prova che non gli era indifferente, l’aveva visto con i suoi occhi, lei gli aveva dimostrato tutto il coinvolgimento che provava per lui, ma non sarebbe servito a nulla.
Tutto ciò che aveva fatto non era servito a nulla.
L’ammissione di lei provocava soltanto maggior dolore ad entrambi e non alleviava la sua sofferenza in alcun modo.
Emma era ancora lì davanti a lui, piano allontanò la sua mano dalla guancia per mettere distanza tra loro e lui si sentì subito privato del suo calore.
“Io devo andare” concluse, spostandosi lentamente verso la porta. Una mano toccava già la maniglia, stava quasi per aprire quando lui la richiamò: “Emma..”
Disse solo il suo nome, ma il tormento che c’era nella sua voce le addolcì il cuore e le lacrime minacciarono di fluire nuovamente dai suoi occhi. Lottò per ricacciarle indietro, si voltò verso di lui e lo raggiunse svelta. Poggiò dolcemente le labbra sulle sue, durò un attimo, un battito di ciglia. Lo baciò velocemente come se fosse un’abitudine, come se avessero potuto continuare a farlo per il resto della loro vita.
“Perdonami” mormorò ritraendosi di nuovo, si passò una mano sul volto per asciugarsi gli occhi.
“Voglio solo che tu stia bene” un sospiro, due, tre. Nessuno dei due riusciva a muoversi, poi Emma cercò di sorridere ed annuì.
 
 
 
Killian si trovava vicino alla prua della nave. Il luogo da cui si era sporto qualche giorno prima gridando di essere il re del mondo, ma adesso tutta quella eccitazione era passata, adesso non si sentiva più così. Per la prima volta in vita sua maledì le sue modeste origini, poi però si sentì in colpa per quel gesto e si scusò mentalmente con suo padre e poi con la madre, sperando che lei potesse sentirlo ovunque si trovasse.
Era inutile sentirsi in quel modo quando non poteva fare nulla per cambiare le cose. Voleva assicurarsi che lei stesse bene e benché non lo credesse possibile, lei aveva cercato di rassicurarlo ed era andata avanti per la sua strada.
Non poteva continuare ad inseguirla, l’unica cosa che gli rimaneva da fare era rispettare la sua scelta. Osservarla da lontano per quel piccolo frangente in cui potevano ancora stare vicini e poi lasciarla andare.
Si sdraiò su una panchina poco lontana e prese a guardare il cielo. Ormai il sole era tramontato quasi completamente, gli ultimi sprazzi di colore lo illuminavano ancora, rendendolo una visione quasi poetica.
Aveva visto tanti tramonti in vita sua, il tramonto era il momento più dolce della giornata secondo lui. Il sole lasciava piano spazio alla luna, promettendo di risorgere il giorno successivo. Quindi la giornata finiva sempre con una promessa.
Ed in quel momento, osservando quello spettacolo, si rendeva conto che avrebbe voluto condividere quella promessa con lei, la promessa che sarebbero comunque stati insieme il giorno successivo. Una promessa che ormai non poteva più essere mantenuta. O forse si?!


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Image and video hosting by TinyPic

TITANIC

Capitolo 6
 
Ci sono giorni in cui ci si sveglia con l’assoluta convinzione che tutto possa andare bene, mentre altri in cui si crede che nulla possa aggiustarsi.
Tutto rimane lì, instabile sul filo del rasoio, nessuna mossa può essere fatta per non rischiare di cadere da una parte o dall’altra. Si finisce per rimanere in bilico, nell’indecisione e nella paura.
Rimanere fermi, cercando di stare in equilibrio nella mediocrità della propria vita o cadere giù sperando di atterrare su qualcosa di meglio? Magari sperare di non cadere affatto, bensì di riuscire a spiegare le ali e volare.
Emma non sapeva perché quel giorno si sentisse così diversa, forse per quello che era successo la sera prima o che sarebbe potuto succedere. Non sapeva ancora cosa volesse dalla vita, ma sapeva ciò che non voleva.
Quella convinzione divenne così tangibile in lei, così presente e forte da convincerla a rischiare.
Neal si era recato da lei la sera precedente, avanzando chissà quale pretesa, ed era stato deciso e duro.
Lei era la sua fidanzata e avrebbe dovuto smetterla di comportarsi in modo tanto sconsiderato, esigeva il suo rispetto ed anche il suo amore.
“Non posso amarti solo perché è quello che vuoi” gli aveva risposto in maniera scontrosa, ritraendosi rispetto alla posizione in cui si trovava lui.
“Potresti almeno fingere meglio” le aveva intimato lui, cercando un contatto che lei non era disposta a dargli.
“Posso provarci, ma adesso lasciami sola” quella richiesta non l’aveva sorpreso molto, si aspettava che lei reagisse così. Era così testarda, caparbia, forte. E lui l’amava per questo, ma riconosceva di aver sbagliato con lei.
Aveva cercato di bloccare il suo spirito libero per legarla a lui, cosciente che la sua famiglia fosse in difficoltà e che lei non avesse altra scelta.
Aveva creduto di poter essere ricambiato un giorno, ma quello non era amore, era possessione.
“Come vuoi” aveva acconsentito, avviandosi verso la porta e chiudendola alle sue spalle, dopo aver ammirato per un’ultima volta i lineamenti perfetti della ragazza.
 
Quella situazione diventava sempre più intollerabile, non vedeva Killian da mezza giornata e sentiva già la mancanza della sua risata sfacciata e delle sue labbra calde quando si muovevano insieme alle sue.
Sua madre contava sul fatto che lei sposasse Cassidy, doveva sacrificarsi per salvare la famiglia. Salvare!
Che strano verbo, lei doveva salvare qualcun altro e se stessa contemporaneamente, mentre ogni pezzo del suo spirito si frantumava sotto quella costante pressione.
Non poteva davvero rinunciare a ciò che era, non poteva vivere con quel peso. E non riusciva nemmeno a rinunciare a lui. Si era sentita più libera in quei quattro giorni trascorsi insieme che in tutta la sua intera vita.
Killian le mostrava la bellezza del mondo attraverso quello sguardo azzurrino, la caparbietà del suo spirito tanto simile al suo, la fiducia nella vita ed il calore di due mani forti che ti stringono.
Cose che non aveva mai provato, emozioni che non aveva mai vissuto.
Ed era questo, oltre al fatto che fosse inappropriato e che stesse ferendo sua madre, che le faceva paura. Il provare queste emozioni per un uomo che conosceva da poco tempo e non saperle gestire.
Non era riuscita a controllarsi il pomeriggio precedente in quello stanzino, perché lui era a pochi centimetri da lei, il suo alito caldo le riscaldava il volto ed il suo profumo le inebriava i sensi.
Ed era giusto, così giusto, maledettamente giusto che si trovasse lì con lui e che lo baciasse con tutta la passione di cui era capace. Poi, la paura era riaffiorata e lei si era tirata indietro ancora una volta.
Non voleva e non poteva continuare a vivere così e lui aveva ragione, quello spirito che era così forte in lei si sarebbe indebolito fino a non lasciare più traccia della donna che era.
Non era disposta a perderlo come non era disposta a perdere se stessa, e poteva sembrare stupida o incosciente o qualsiasi altra cosa, ma non avrebbe permesso più agli altri di manipolarla.
Si alzò velocemente dal letto ed indossò un vestito semplice, non chiese nemmeno a Ruby di acconciarle i capelli, aveva bisogno di fare una cosa e doveva farla velocemente. Lasciò che i boccoli le scivolassero sulle spalle e si diresse verso il primo ascensore.
Era euforica, felice, continuava a camminare rapidamente per evitare che la paura la bloccasse, ma dentro di sé sapeva che ormai aveva scelto di vincerla.
Si bloccò nel corridoio della terza classe, non sapeva quale fosse la sua stanza. Che stupida!
“Emma?” Una voce alle sue spalle attirò la sua attenzione. Si voltò ed incontrò lo sguardo caldo di una bella ragazza, la riconobbe subito. Regina si avvicinò con passo calmo e le chiese cosa stesse facendo.
“Sto cercando la stanza di Killian, devo parlargli” disse sicura la ragazza.
“Parlargli eh?” Replicò la mora con un sorrisetto sghembo, “ad ogni modo si, è in camera con Robin ed io stavo giusto andando da lui, dobbiamo andare a fare una passeggiata di sopra” chiarì sorridente, sembrava davvero felice.
Si fermarono di fronte ad una porta bianca con il numero venticinque inciso sulla placca in ottone. Regina bussò dolcemente alla porta e salutò Robin con un leggero bacio, prima di spostarsi e di permettergli di vedere che non era sola.
“Andiamo” disse, tirandolo per il braccio e conducendolo fuori. Quello non disse nulla, ma lasciò un sorriso ad Emma prima di farsi trascinare via.
“Robin, la porta potresti anche chiuderla!” Urlò Killian, alzandosi dal letto ed avvicinandosi alla parete che aveva di fronte e fu in quel momento che la vide.
Era rimasta lì, ferma. Le mani cadevano libere lungo ai suoi fianchi, il viso un po’ accaldato ma comunque bellissimo.
“Che stai facendo qui?” Domandò il ragazzo, portandosi le mani nelle tasche dei pantaloni e dondolando un po’ sui talloni. Vederla gli faceva bene e male contemporaneamente, come quando si aspetta qualcosa per tanto tempo e poi quando finalmente si ottiene, si finisce per perderla nuovamente. Però forse non era un paragone adeguato, infondo lei non era mai stata sua, le sue labbra quel pomeriggio però dicevano altro.
Emma non disse nulla, si limitò a guardarlo in quegli occhi che tanto le erano mancati e a ritrovarvi se stessa.
Si mosse velocemente, un passo deciso e lo baciò, lasciandolo sorpreso e immobile.
Le mani andarono velocemente dietro la sua nuca, tirò una ciocca di capelli neri vedendo che non si muoveva, spaventata dalla possibilità che lui non la volesse più. Stava per staccarsi, quando lui si riscosse, le impedì di allontanarsi e la portò su di sé.
Strinse la sua vita con una mano, mentre con l’altra le accarezzò il viso in modo dolce. Quel bacio divenne subito appassionato, Killian chiuse la porta con un calcio mentre Emma insinuava una mano sotto la sua camicia leggera. Lo spinse sul letto e si lasciò cadere su di lui che prontamente ribaltò la posizione catturandola sotto la sua morsa.
Si staccarono per riprendere fiato, tutto intorno a loro sembrava avere un colore diverso, più chiaro e cristallino. Lui percorse il suo profilo con le dita, soffermandosi a tracciare il contorno di quelle labbra umide che tanto adorava baciare.
“Che ci fai qui, Emma?” Ripeté, sospirando piano per la paura che lei potesse fuggire via di nuovo.
“Avevi ragione” ammise la ragazza, abbassando lo sguardo sulle sue labbra e avvicinandosi per riprendere a baciarlo.
“Come sempre, tesoro, ma a cosa ti riferisci di preciso?!” La stuzzicò, mordendole il labbro inferiore e beandosi dei respiri mozzati che le provocava.
“Sei davvero egocentrico” Emma rise, tornò subito sicura di sé e riprese ad approfondire il bacio.
“Ma non mi hai risposto” si lagnò Killian, facendo scivolare una mano languidamente sulla sua schiena coperta dalla leggera stoffa del vestito.
Lei gli aprì la camicia con fervore, facendo saltare anche qualche bottone e lui rimase lì a guardarla incantato dalla sua sicurezza, “non dovevo allontanarti” mormorò sulla sua bocca, passando ad insinuarvi la lingua subito dopo. Scese a baciargli la mandibola ed il collo, facendosi strada verso il suo petto. “Già” concordò Killian, accarezzandole i boccoli che ricadevano scomposti intorno a lui.
“Stai con me, Emma” quelle parole uscirono quasi come una preghiera, un bisogno, un’urgenza di averla sua e di tenerla con sé, più vicino come se i loro corpi potessero fondersi insieme e le carni bruciare sotto il tocco dell’altro.
“Si” acconsentì, risalendo quella scia di baci fino a giungere nuovamente alle sue labbra, “si” ripeté decisa, sorridendo subito dopo e facendo ridere anche lui. Si ritrovarono a ridere in quella situazione così surreale, così appassionata e dolce.
Poi le risate vennero nuovamente sostituite da una scintilla che balenò nello sguardo di Killian e lei colse subito, tornando seria a sua volta e aspettando che lui parlasse. “Mi rendi così felice” disse, la dolcezza di quella frase le riscaldò il cuore velocemente e avrebbe voluto davvero rispondere, magari sussurrargli che era lui ad averla salvata più volte e che le faceva avere ancora speranza, ma non riuscì a dire nulla e preferì semplicemente sfiorare il suo naso e accarezzargli la fronte mentre lo guardava con commozione.
Rimasero fermi per qualche attimo in quella posizione, poi lei fece passare la camicia sulle sue braccia per toglierla lentamente mentre continuava a non abbandonare il suo sguardo. Killian le aprì il vestito facendolo scivolare malamente a causa della posizione, tanto che lei dovette scacciarlo via con i piedi e lo stesso fece con i pantaloni di lui. Le mani di Killian percorrevano tutto il suo corpo, lasciando delle scie infuocate che la riscaldavano dentro mentre spazzava via l’ultima stoffa e la lasciava completamente nuda in balia del suo sguardo rovente.
“In una stanza di terza classe, eh?” Mormorò dispiaciuto, di certo lei non era abituata a trovarsi in luoghi come quello e lui avrebbe davvero voluto poterle dare di più.
Emma colse subito quella scintilla di tristezza che gli aveva attraversato gli occhi, gli accarezzò il viso con il palmo aperto della mano e cercò di catturare il suo sguardo. “Hey, guardami. Non c’è nessun altro posto in cui vorrei essere in questo momento, davvero.” Giurò con una sincerità disarmante.
Si avvicinò per baciarla nuovamente, mentre con una mano le accarezzava le natiche e con l’altra faceva scivolare l’ultimo indumento che li divideva. Si unì a lei lentamente, appoggiandosi ad un gomito per non gravarle addosso. La lentezza fu presto sostituita dalla passione di entrambi, i tocchi frenetici, le carezze roventi, gli occhi che si cercavano e le labbra che si sfioravano continuamente.
“Emma..” Sussurrò una volta, due volte, tre volte. Il suo nome usciva così dolcemente dalle sue labbra che la ragazza non si stancava mai di ascoltarlo e la dolcezza era accompagnata sempre da quello sguardo languido e quel sorriso sghembo che amava già, nonostante fossero passati solo pochi giorni da quando lo aveva conosciuto.  
“Oh, Killian” ricambiò, un attimo prima che la passione sconvolgesse entrambi e che si accasciassero insieme ancora uniti in un unico corpo.
 
 
 
“Voglio che tu faccia una cosa per me” disse trascinandolo dall’altra parte del corridoio, mentre nell’altra mano teneva l’album con i carboncini del ragazzo.
“Sono sempre disponibile, tesoro” asserì, lasciandosi trascinare e stringendo con decisione le dita attorno alla sua mano.
“Ci siamo appena rivestiti, Killian. E poi dovresti essere stanco.” Lo provocò, fermandosi e avvicinandosi a lui mentre con un dito gli lasciava delle scie lungo il petto.
“Sono sempre pronto e smettila di fare questo” ribatté, bloccando il suo polso e alzandolo all’altezza della sua spalla.
“Questo?” La sua voce divenne fintamente innocente, mentre il suo viso si avvicinava sempre di più a quello di Killian.
“Si, mi fai impazzire” ammise, facendola ridere e schioccando un bacio leggero sulle sue labbra ancora dischiuse.
Poi Emma tornò a prendergli la mano e ricominciò a trascinarlo verso gli ascensori.
Salirono rapidamente fino alla suite della ragazza ed entrarono, “potrebbe beccarci” disse Killian spostandosi verso i divanetti che ornavano il salotto.
“No, questa è l’ora della partita di poker, ma dobbiamo finire prima che venga a cercarmi per il pranzo.”
“Finire?” La interrogò ridendo.
“Voglio che tu faccia una cosa” si avviò verso la cassaforte e girò la manopola rapidamente inserendo il codice per aprirla. Tirò fuori un cofanetto in pelle e lo aprì davanti ai suoi occhi, “voglio che tu mi ritragga con questa addosso, solo con questa addosso” concluse, mentre Killian deglutiva platealmente.
“Ecco spiegata la presenza dei carboncini” rise.
Sistemò il divanetto trascinandolo sotto la luce per avere una vista migliore, posizionò i cuscini e poi passò ad affilare i suoi carboncini. Pochi minuti dopo, Emma uscì con indossò solo un accappatoio che fece scivolare languidamente lungo il suo corpo, poi prese la collana e la porse a lui per invitarlo ad aiutarla.
Si stese sul divanetto e lui le suggerì la posizione più comoda ed adatta per il ritratto, poi prese il blocco e cominciò il suo disegno.
“Ti dirò che faccio parecchia fatica a rimanere concentrato” ammise, staccando gli occhi dal foglio e fissandola sorridendo.
“Oh, stai già arrossendo” lo prese in giro lei, sorridendo, prima che lui le ricordasse di rimanere ferma.
“Poi non dovresti preoccuparti di quello” aggiunse con malizia.
Rimasero in silenzio per il resto del tempo, lui continuava a tratteggiare il suo profilo con polso fermo, poi passava a sfumare le ombre con il dito ed il ritratto acquisiva sfumature nuove. Emma invece continuava a pensare a quanto le cose sembrassero diverse dal giorno precedente, il cigno raffreddava il suo collo facendola rabbrividire più volte, cosa che cercò di nascondere per evitare le battutine del ragazzo.
“Ecco fatto” disse lui quando ebbe finito, firmò il ritratto e lo ripose in una custodia di cuoio. Si avvicinò a lei e la baciò lentamente prima di porgerglielo, “ecco a lei, signorina.”
 
 
Emma ripose la collana nell’astuccio in pelle e scrisse un biglietto, la calligrafia chiara diceva: “Così potrai tenerci entrambe in cassaforte”.
Li porse a Killian, “puoi riporli tu in cassaforte, mentre mi vesto?” Il ragazzo annuì e lei si avviò nell’altra stanza.
Tornò qualche minuto dopo con un vestito chiaro che le fasciava il corpo dolcemente ed i cappelli sempre sciolti, si avvicinò al ragazzo che era rimasto seduto sul divano e gli porse la mano invitandolo ad alzarsi.
“Andiamo” gli strinse la mano, le loro dita s’incastrarono perfettamente infondendo calore, pace e amore ad entrambi. Quel momento venne spazzato via velocemente da qualcuno che bussava alla porta.
Sussultarono preoccupati dall’eventualità che fosse Cassidy, o peggio sua madre. Poi Emma prese coraggio e chiese, sentendo la voce cristallina di Ruby dall’altro capo della porta.
“Ruby sei tu” spalancò la porta con sospiro di sollievo e l’abbracciò. La ragazza rimase sorpresa, ma ricambiò con un sorriso prima di notare la figura di Killian qualche passo più indietro.
“Per favore, se mi cercano per il pranzo menti dicendo che sto male” la pregò, tenendo le sue mani in una stretta rassicurante, Ruby annuì e si fece da parte mentre i due lasciavano la stanza.
 
 
 
“Emma, ci sei?” Urlò Cassidy, sbattendo ripetutamente il pugno contro il legno della porta. Si guardò intorno, tutto sembrava tranquillo, mise le mani nelle tasche dei pantaloni aspettando qualche minuto prima di ricominciare ad imprecare verso la stanza.
“La signorina non sta bene” gridò Ruby, spaventata dall’idea di aprire la porta e trovarselo davanti, “la raggiungerà più tardi” aggiunse per levarselo definitivamente di torno.
Neal rassegnato decise che era il momento di andare via, non voleva rischiare di farsi udire da tutto il resto dei signori che si trovavano su quel piano, anche se la maggior parte doveva ormai essere nella sala da pranzo.
 
Ore 21:30.
Neal tornò a bussare ripetutamente alla porta, “so che sei lì” disse serio, “Emma, aprimi o sfondo questa maledetta porta” la sua minaccia giunse duramente alle orecchie di Ruby, spaventandola, e così aprì, seppur con riluttanza.
“Dov’è?”
“Non lo so” rispose, spingendosi sempre più vicino al muro, si sarebbe sotterrata se avesse potuto.
“E’ con lui” sputò l’uomo tra i denti, battendo un pugno sul muro e facendo cadere un quadro sul pavimento. Poi si avviò verso la cassaforte per vedere se mancasse qualcosa, afferrò la copertina di cuoio e l’aprì rivelando il suo contenuto.
Una lettera gli scivolò tra le mani e quelle parole s’incisero in lui pesantemente. Prese il disegno, lo accarezzò piano e poi pensò di strapparlo, fermandosi all’ultimo.
“Va via!” Intimò alla ragazza che era ancora alle sue spalle e poi chiamò Jefferson.
“Trovali” gli ordinò, “e fai tutto il necessario per riportarla qui, subito!” Gridò furente, afferrando la collana e nascondendola nella tasca del lungo cappotto nero.
 
 

“Ormai si saranno accorti della tua assenza” mormorò Killian, mentre continuavano a passeggiare sul ponte. Avevano pranzato nella sala di terza classe, il loro primo pranzo insieme quanto alla cena avevano deciso di saltarla. Emma annuì, consapevole che Ruby non poteva averli trattenuti fino a quell’ora. Mille domande affollavano la sua mente, come avrebbero trascorso il resto dei dieci giorni che servivano per arrivare in America?!
Non lo sapeva, davvero non sapeva come avrebbero potuto farlo, ma sapeva che non voleva tornare indietro e non si pentiva della sua scelta.
“Ci stai ripensando?” Domandò preoccupato, stringendo un po’ di più la sua mano per rassicurarla e perché voleva tenerla sua quanto più poteva.
Già sua, la sentiva così ormai.
“Mai” promise Emma, bloccandosi e gettando la testa sul suo petto caldo, “non so come faremo, però.”
“Troveremo un modo. Solo promettimi che qualsiasi cosa succeda, quando arriveremo in America scenderemo insieme.”
“Lo prometto.”
Si avvicinò per sfiorare piano le sue labbra quando alle sue spalle scorse la figura di Jefferson che guardava da un’altra parte, non li aveva ancora notati. Emma si bloccò e fece un cenno a Killian, quando l’uomo li vide e cominciò a correre verso di loro.
“Andiamo” gridò Killian, afferrandole la mano e trascinandola verso una porta. Continuarono a correre, aprendo porte a caso quando arrivarono nella parte inferiore della nave dove si trovavano le caldaie.
“Scusate” mormorarono ridendo agli uomini che lavoravano e poi continuarono a correre aprendo una porta poco lontana da lì.
Avevano seminato Jefferson ed adesso si trovavano in una stanza piena di valige, al centro vi era anche un auto nera.
Killian porse la mano ad Emma e l’aiuto a salire dietro, mentre lui prese il posto del conducente.
“Dove la porto signorina?” Chiese alzando il mento e guardando indietro.
“Sull’isola che non c’è” sorrise lei e lui rimase fermo a fissarla. “Non vuoi crescere, hai paura che ti vengano le rughe?” Domandò ridendo.
“No, ma potresti essere il pirata che viene a salvarmi e potremmo stare insieme, lontano da tutti, sulla tua nave.” Concluse, spiegando le sue teorie. Davvero aveva detto questo? Killian sorrise, un sorriso genuino che illuminò anche il suo sguardo. Aveva sempre amato i pirati ed il pensare alle sue parole gli aveva messo una profonda ilarità.
“Sai, ho sempre pensato che Capitano Uncino non fosse il cattivo della favola, non prendermi per una sciocca” mormorò imbarazzata, intrecciando le braccia attorno a lui e facendo ricadere le mani sul suo petto.
“E’ incredibile. L’ho sempre pensato anche io.” Killian sorrise e si lasciò trascinare sul sedile posteriore. Le labbra di lei reclamarono con urgenza le sue, mentre l’allegria lasciava il posto ad una rinnovata passione.
“Qui?” Sussurrò lui, sorridendo maliziosamente sulla sua bocca.
“Qui.” Confermò lei, sbottonandogli la camicia.
La temperatura era piuttosto bassa in quella parte della nave, si spogliarono a vicenda e si strinsero più forte per riscaldarsi, si unirono magicamente come la prima volta e allo stesso modo provarono quella sorta di comprensione reciproca, pace e benessere.
“Hai freddo?” Chiese Emma, cullandolo contro il suo petto e accarezzandogli piano i capelli scuri.
“No” mentì Killian, appoggiando una mano al vetro della macchina e  lasciandolo un po’ appannato. Si aiutò con quello per sollevarsi un po’ di più e per incatenare il blu nel verde di lei, rivedendo in quello sguardo la sua casa.
Sentirono una porta che sbatteva dalla parte opposta e si riscossero rivestendosi velocemente. Non potevano uscire da dov’erano entrati, visto che quasi sicuramente qualcuno doveva aver indicato a Jefferson il loro nascondiglio. Si guardarono intorno e scorsero una piccola porta bianca dall’altra parte della stanza, così optarono per quella soluzione e corsero lì.
 

“Guardate bene lì dietro” ordinò Jefferson, a lui si erano uniti dei membri dell’equipaggio che aveva pagato profumatamente. Tutti cominciarono a cercare i due ragazzi in quella grande stanza, spostando varie valigie e dei mobili che erano stanziati lungo l’estremità sinistra.
Controllarono più volte senza ottenere risultati, non vi era nessuna traccia di loro, nessun segno del loro passaggio.
“Guardi qui!” Esclamò Peter, uno dei membri più giovani dell’equipaggio. Era scaltro ed intelligente, ma quel suo viso da bambino celava l’infamia che si nascondeva nel suo animo.
Attirò l’attenzione di Jefferson che si avvicinò all’auto nera ed aprì la portiera lentamente, godendosi il momento in cui li avrebbe beccati, del resto non c’era altra spiegazione. Eppure non erano nemmeno lì, il sorriso cattivo gli morì sulle labbra rese scure dal freddo.
“Si sono divertiti a quanto pare.” Mormorò Peter, indicando il vetro ancora appannato dell’auto.
“Non possono essere andati lontano” constatò, trascinando un dito su quel vapore condensato.
 

 
“Elsa, vieni. Tocca a noi salire di vedetta.” Kristoff urlò oltre al vetro della cabina di comando per attirare l’attenzione della ragazza.
“Non capisco come mia sorella possa essere interessata a te, sei un tale rompiscatole.” Rispose scocciata la ragazza.
Elsa era l’unico membro donna dell’equipaggio, mentre la sorella si occupava di servire ai tavoli ai signori di prima classe. Era così aggraziata che l’avevano trovata perfetta per quel ruolo, mentre Elsa preferiva qualcosa di più tenace e duro, per questo aveva deciso di occuparsi di un altro settore.
Kristoff aveva aiutato entrambe ad ottenere il lavoro, del resto offrivano una bella paga ed avevano bisogno di soldi per allestire il matrimonio, mentre Elsa aveva bisogno di una somma che potesse garantirle gli studi.
“E’ il nostro lavoro, ed è quello che ci permette di sopravvivere quindi non abbiamo altra scelta.”
“Non dobbiamo accontentarci di sopravvivere, bisogna vivere. Mia sorella lo ripete sempre, ma ancora non ti è entrato in testa” mormorò scocciata, suscitando in lui una risata.
“Lo so bene, ma per adesso dobbiamo accontentarci di questo. Quindi muoviti e vieni di vedetta.” Le rivolse uno sguardo di rimprovero e si accinse a salire le scalette per posizionarsi in alto nel luogo che gli avrebbe permesso di vedere meglio se ci fossero stati iceberg in vista.
La ragazza lo seguì velocemente, prese posto vicino a lui e si fermò a scrutare il buio della sera.
Il mare era incredibilmente calmo ed il cielo terribilmente scuro. L’aria era gelida, benché non ci fosse freddo e quella sembrava sicuramente la serata più tranquilla del mondo.
“Il mare è troppo calmo, non è un buon segno.” Mormorò Kristoff, stringendosi le braccia intorno al corpo per scaldarsi, l’aria usciva dalla sua bocca condensandosi in una spirale di fumo grigio.
“Perché?” Chiese la ragazza, quello era il suo primo viaggio ed era la prima volta che svolgeva una simile mansione quindi doveva ancora fare esperienza, ma sicuramente sembrava tollerare il freddo meglio del suo collega.
“Perché non possiamo sentire le onde che s’infrangono contro il ghiaccio e la visibilità è piuttosto scarsa. Inoltre, abbiamo ricevuto degli avvisi di allarme iceberg, ma il comandante non ha voluto rallentare per vincere quel maledetto nastro azzurro.” Disse scocciato, portando una mano davanti agli occhi per cercare di vedere meglio.
“Nastro azzurro?” Lo interrogò impaziente, Elsa non era di certo un’esperta di competizioni navali ma se c’era qualcosa che sapeva era che non bisogna giocare con il ghiaccio.
Aveva rischiato di perdere sua sorella per colpa di quello, quando da bambine stavano pattinando sul lago ghiacciato la sera della vigilia di Natale. Pensavano che il laghetto fosse resistente, ma non era stato così. Il ghiaccio aveva ceduto ed Anna era caduta di sotto, e lei era troppo piccola per riuscire a tirarla fuori da sola.
Tre minuti, fu il tempo che impiegarono i genitori per tirarla fuori. Quattro minuti, per assicurarsi che stesse bene. Cinque minuti, per riuscire a calmare il battito del suo cuore impazzito.
I cinque minuti più lunghi della sua vita.
“Si, il premio riservato a chi percorre la traversata atlantica più veloce” chiarì, soffiandosi un po’ d’aria sulle mani fredde. Poi estrasse dei guanti neri dal cappotto e se l’infilò lentamente.
“Perché è così importante?” La curiosità aveva avuto la meglio, o forse stava solo cercando di fare conversazione con quello che di lì a poco sarebbe diventato suo cognato.
Insomma, doveva ammettere che alla fine era un bravo ragazzo. Le aveva trovato un lavoro, un modo per finanziarsi gli studi e soprattutto rendeva felice Anna, e questa era la cosa più importante per lei.
Dopo la morte dei genitori, lei era l’unica persona cara che le era rimasta.
Doveva proteggerla, era quello che si era ripromessa quando l’aveva vista stesa sul lago ghiacciato. Nessuno le avrebbe fatto del male.
Aveva fallito quando quell’imbusto di Hans l’aveva ferita ed usata, ma con Kristoff era diverso. Lui l’amava sinceramente. Il suo sguardo si riempiva di gioia quando parlava di lei, quindi doveva essergli grata per questo.
“Immagino per il potere” mormorò, i denti presero a sbattergli velocemente. Si strinse meglio nel cappotto pesante e tornò a guardarla.
“Puoi stare tranquillo Kristoff, io riesco a fiutarlo il ghiaccio!”


Autrice:
Ciao bella gente! :*
Dopo tutti questi fantastici momenti CaptainSwan nel telefilm, non ho saputo resistere ed avevo voglia di concedergli qualche momento felice. 
Volevo ringraziare tutte le persone che leggono la storia e quelle che recensiscono, inoltre un ringraziamento speciale a tutte le ragazze che sclerano con me. Siete fantastiche e vi adoro!
Adesso, fatemi sapere tutte le vostre supposizioni su quello che succederà. 
Un bacio!



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 7

“Puoi stare tranquillo Kristoff, io riesco a fiutarlo il ghiaccio!”
Il ragazzo sorrise e si sporse per vedere meglio, “guarda quei due” indicò un punto del ponte ad Elsa. Due ragazzi si stavano baciando dolcemente, stringendosi per scaldarsi dal freddo della notte. “Loro si che si stanno riscaldando, avrei dovuto farti ottenere il lavoro di Anna, così lei sarebbe con me al posto tuo.” Le diede una pacca sulla spalla ed assunse una buffa espressione.
“Sarebbe stato meglio, non avrei dovuto sopportare la tua compagnia” sussurrò l’altra con espressione scocciata, prima di voltarsi e ridergli in faccia apertamente. Lo stava solo prendendo in giro.
Risero insieme, fino a quando Elsa si voltò per osservare davanti a lei e scorse qualcosa in lontananza.
“Maledizione!” Esclamò, girandosi ed afferrando una spessa corda che le permetteva di suonare la campana posta sopra le loro teste. Il rumore assordante ridestò Kristoff che si voltò a sua volta afferrando l’apparecchio posto accanto alla sua postazione e chiamò velocemente. “Rispondete bastardi” sputò tra i denti, continuando a muoversi freneticamente in quello spazio angusto.
“C’è qualcuno?” Urlò, quando il suono dello squillo cessò.
“Si” rispose un uomo, “cosa vedi?” aggiunse poi preoccupato.
“Iceberg, dritto di fronte a noi” gridò quello, la voce si spezzò subito dopo a causa del freddo, o della paura che iniziava ad emergere, ma almeno era riuscito a trasmettere il messaggio.
“Ricevuto” fece l’altro, prima di mettere giù per avviarsi ad informare il Capitano.
Fu ordinato di virare tutta la barra a tribordo, tutti si muovevano freneticamente, eseguendo meticolosamente gli ordini che gli venivano impartiti.
“Vira, vira più veloce” urlò qualcuno. Rapidamente qualcun altro attivò lo stato d’emergenza che avrebbe avvisato gli uomini di smettere di alimentare le caldaie così che la nave potesse rallentare la sua andatura.
“Tutta la barra” gridò allora un tenente, constatando che ormai il timone virava completamente a tribordo.
Nella zona delle caldaie c’era il caos, uomini che correvano da tutte le parti, chi cercava di ridurre la produzione di vapore ed altri che si occupavano di chiudere tutti i regolatori di viraggio.
“Perché non virano?!” chiese Elsa, guardando spaventata Kristoff ed afferrandogli la mano per darsi conforto.
La nave si trovava ormai a distanza ravvicinata con il grosso blocco di ghiaccio che aveva davanti, ma ancora non accennava a virare nonostante tutte le operazioni fossero state eseguite correttamente ed in un tempo relativamente veloce.
Graham Humbert, primo ufficiale del Titanic, si trovava fuori in quel momento. Dopo aver impartito gli ordini di virata ai suoi sottoufficiali, continuava a fissare la nave dirigersi verso l’iceberg, “forza, forza” sussurrava tra sé. “Andiamo vira” continuava la lenta cantilena nella speranza di sventare il pericolo, mentre dai suoi occhi cerulei era possibile cogliere la paura che, rapidamente, si faceva largo dentro di sé.
La nave cominciò a rallentare e a virare, nonostante la distanza fosse ormai minima. “Si, si” cominciò ad esultare, e la nave effettivamente virò, non colpendo l’iceberg frontalmente, ma sbattendo comunque lungo la fiancata destra.
 


Le labbra di Emma si staccarono rapidamente da quelle di Killian, un terribile scossone fece perdere l’equilibrio alla ragazza che fu afferrata al volo prima di potersi scontrare al suolo.
“Ti ho presa” sussurrò lui, stringendole la vita saldamente prima di riportarla al suo fianco e stringerla nuovamente.
“Che sta succedendo?” S’interrogò guardandosi intorno, presi com’erano da quel momento d’intimità non si erano nemmeno accorti che la nave si accingeva a scontrarsi con quell’ammasso di ghiaccio e che vi si fosse scontrata effettivamente, sebbene lateralmente.
“Tutta a babordo” sentirono urlare un uomo poco distante e si voltarono verso di lui.
Il pericolo Iceberg non era ancora superato, e loro si trovavano sul ponte più esterno ed erano soggetti maggiormente all’impatto.
“Attenta” grido Killian, tirando Emma per i fianchi prima che un pezzo di ghiaccio si staccasse e finisse sul ponte a qualche passo di distanza da loro.
Rimasero a fissare la scena completamente sbalorditi, inermi davanti alla grandezza di ciò che gli si proiettava davanti. Una volta che l’iceberg fu sorpassato, si avviarono alle grate per guardare indietro e per constatare l’effettivo danno che la nave aveva subito.
“Mio Dio, Emma!” Esclamò Killian, prendendo la mano della ragazza e portandosela al petto. Lei si avvicinò e si strinse al suo fianco, spaventata per quello che sarebbe potuto succedere. La situazione sembrava essersi stabilizzata, ma non era effettivamente così nel piano delle caldaie.
La nave aveva cominciato ad imbarcare acqua velocemente, le paratie stagne stavano cominciando a chiudersi per evitare che questa potesse allagare le zone che erano rimaste illese dall’impatto e gli uomini correvano da tutte le parti per cercare di non rimanere intrappolati lì dentro.
Tutti gli allarmi cominciarono a suonare e tutte le luci cominciarono a tingersi di rosso, “annota l’ora sul diario di bordo” mormorò Humbert, ed in quell’esatto momento il comandante, Hopper, entrò nella cabina.
“Cos’è successo, signor Humbert?” Gracchiò preoccupato, portandosi una mano tra i capelli chiari.
“Un iceberg, signore. Ho virato tutto a tribordo, ho mandato i motori indietro a tutta forza ma era troppo vicino, ho tentato una virata rapida a sinistra, ma l’ha colpito lo stesso.”
Questo non gli diede il tempo di finire ed uscì dalla cabina per appurare di persona i danni causati dall’impatto. “Fermate i motori.” Ordinò perentorio.
Nonostante la chiusura delle paratie stagne, la nave continuava ad imbarcare acqua. Il piano di terza classe cominciava ad allagarsi rapidamente mentre tutti scappavano preoccupati. Robin si alzò dal letto, svegliando Filippo e correndo nella stanza di Regina ed Aurora.
 
 
“Vieni, Emma” la esortò Killian, prendendole la mano e trascinandola verso il chiacchiericcio poco lontano. Gli uomini, tutti tenenti ed ufficiali dato l’abbigliamento, parlavano dell’impatto appena avvenuto. La gravità della situazione era maggiore di quella che ritenevano possibile. Videro passare Marco ed August con una serie di cartine in mano, che vennero stese rapidamente sul largo tavolo in legno e da lì le voci si fecero più acute e frenetiche, non riuscirono ad afferrare bene diverse parole, ma una cosa era certa. La situazione stava degenerando rapidamente, ed avrebbero dovuto avvertire gli altri.
“Devo dirlo a mia madre” mormorò Emma, portandosi una mano vicino le labbra. Sembrava quasi divertente, doveva tornare nella stanza dalla quale era scappata poco prima per rivedere persone a cui aveva deciso di voltare le spalle. Il peso di quella consapevolezza la fece sussultare e Killian se ne accorse subito. La strinse in un abbraccio consolatorio e portò le labbra alla sua fronte, “andrà tutto bene” promise. La ragazza chiuse gli occhi così che quelle parole potessero radicarsi profondamente nel suo animo e poi si alzò sulle punte per baciarlo. Un bacio casto, veloce come una farfalla che si poggia su un fiore per poi volare via.
“Okay, andiamo” asserì, prendendolo nuovamente per mano e avviandosi verso il piano superiore. Il pollice di lui continuava a disegnare cerchi intorno alla sua pelle candida, come a voler alleviare le sue paure e farsene carico o affrontarle insieme.
“Sono qui, non ti lascio” le sussurrò in un orecchio, e lei annuì con vigore.
“Qualunque cosa accada?” Chiese un attimo dopo fermandosi, le parole uscirono piano, esitando. Non voleva mostrarsi insicura o debole, perché non lo era dopo quello che avevano condiviso, ma aveva bisogno di sentirsi dire nuovamente che sarebbero rimasti insieme nonostante tutto.
“Si, sempre.” Le scostò una ciocca di capelli, portandola dietro l’orecchio e ripresero a camminare lentamente. Una scintilla le attraversò lo sguardo, scacciò via la paura per riacquistare decisione.
La sua mano si stringeva attorno a quella del ragazzo sempre con più decisione, man mano che si avvicinavano alla suite. Quando poi videro Jefferson fermo accanto allo stipite della porta ad entrambi tornarono in mente flashback di quella serata. Una stanzetta di terza classe, il ritratto, loro che correvano via, il momento in cui avevano fatto l’amore dentro l’automobile, il modo in cui si erano stretti come se il resto del mondo non esistesse, come se fossero soli nella loro piccola bolla privata. Purtroppo non era così, il resto del mondo c’era e spingeva per tornare prepotentemente a galla. A galla?! Sembrava un eufemismo. Un grandissimo e ridicolo eufemismo. Tutto tornava a galla, mentre loro stavano affondando.
“Vi stavamo cercando” asserì rigido, avvicinandosi ai due e facendo scivolare il prezioso gioiello nella giacca del ragazzo. Questo lo scostò rapidamente, ma non abbastanza dal rendersi conto del gesto che l’altro aveva appena fatto, quindi ignaro di tutto entrò nella stanza continuando a stringere la mano di Emma.
“E’ successa una cosa gravissima” disse lei, rivolgendosi alla madre e a Neal che si trovavano a pochi passi di distanza. I due annuirono mestamente, “lo so” suggerì l’uomo, accarezzandosi la barba con la mano, decisamente più incolta del solito.
Emma sussultò, se loro sapevano era stato inutile tornare ad avvisarli e avrebbero potuto risparmiarsi tutto quel teatrino.
“Stasera sono sparite due cose essenziali per me, e adesso che una è stata ritrovata sono certo di sapere dove si trova l’altra” fece un gesto con la mano, e Jefferson si posizionò alle spalle di Killian e cominciò a scavargli nelle tasche.
Quello si ridestò velocemente allontanandosi, ma l’altro aveva già afferrato l’oggetto che vi aveva riposto poco prima e continuava a sventolarlo di fronte al viso di una confusa Emma.
“No, Emma, non l’ho presa io.” Si giustificò Killian, “ti giuro, devono avermi incastrato” fece, avvicinandosi alla ragazza che si era spostata di qualche passo.
“Non può essere” sussurrò lei, portando una mano alle labbra e cercando di ricordare il momento in cui l’aveva lasciato solo con il gioiello.
“Io non sono un ladro, devono avermelo messa in tasca” urlò il ragazzo, rivolgendosi a tutte le persone nella stanza.
“Non può essere, sono stata tutto il tempo con lui.”
“Forse lo ha fatto quando ti stavi rivestendo cara” la schernì Cassidy con un finto sorriso stampato sul volto tirato.
“Nemmeno la tasca è tua, vero figliolo?! Infatti il proprietario è un certo signor Scarlet, proprio oggi è stato denunciato il furto” constatò Jefferson, girando il risvolto del colletto per accettarsi del marchio.
“Io l’avevo solo presa in prestito.”
“Portalo di sotto e assicurati che vi rimanga” sorrise crudele Neal, mentre Emma continuava a rimanere ferma, senza dire nulla.
“No, Emma. Ti giuro che mi hanno incastrato.” Ripeté Killian, cercando di divincolarsi dalla presa di quell’uomo corpulento, quando sentì un’arma sfiorargli il fianco si arrese e rimase fermo. Il suo sguardo era una maschera di dolore, non poteva credere a quello che stava succedendo.
“Devi fidarti di me” sussurrò piano, le parole uscirono appena e la ragazza fece un passo verso di lui, la mano protesa in aria mentre Neal la tratteneva per un braccio e Killian veniva portato via.
 
 

August continuava a fissare le carte stese sul grande tavolo di legno massiccio. L’enorme modellino cartaceo del Titanic era lì in bella vista di fronte al suo viso e a quello del comandante Hopper.
“In dieci minuti quattro metri e mezzo d’acqua nel gavone di prua, in tutte tre le stive e nel locale della caldaia. Sono già cinque i compartimenti allagati, può sopportare uno squarcio e rimanere a galla con quattro compartimenti allagati, ma non cinque. Mentre affonda a prua, l’acqua passerà sopra le paratie del ponte E, arrivando fino a poppa e non c’è modo di evitarlo” disse sconfitto. “Qualsiasi cosa facciamo, il Titanic affonderà.”
“Questa nave non può affondare” sussurrò qualcuno alle sue spalle, nella sala si diffuse un vociare confuso che squarciava il silenzio di qualche attimo prima.
“E’ fatta di ferro, vi assicuro che può affondare e affonderà” asserì voltandosi, il tono della voce alterato dalla paura. La nave che aveva costruito con suo padre, l’ultimo progetto a cui probabilmente avrebbero lavorato insieme sarebbe affondata e non sarebbe rimasto nulla di lei.
“Quanto tempo abbiamo?” Domandò Hopper, facendo schioccare la lingua nel palato e battendo rumorosamente un dito sulla superficie del tavolo.
“Un’ora e mezza, massimo due” rispose l’altro.
“Quante sono le persone a bordo, signor Humbert?”
“Duemiladuecento anime, signore” mormorò l’altro.
“Ho l’impressione che finirà in prima pagina comunque” disse tra sé, non avrebbe dovuto ordinare di aumentare la velocità per vincere quel maledetto nastro azzurro. Non l’avrebbero nemmeno completata la traversata atlantica ed inoltre quella mancanza di accortezza sarebbe costata la vita a centinaia di persone. Ed era colpa sua.
 

 
Emma rimase in camera con Neal, mentre la madre aveva ritenuto opportuno lasciarli soli per “chiarire”. Prima di andarsene aveva riservato ad Emma uno sguardo carico di rimprovero per ciò che aveva fatto, ma anche di speranza nell’aggiustare le cose, peccato che la ragazza non voleva aggiustare nulla.
Cassidy si avvicinò con passo felpato, un lento e pesante incedere, fissò la ragazza negli occhi ed alzò un braccio per colpirla, ma Emma non si lasciò cogliere impreparata. Non era una bambola di porcellana, ed aveva imparato a suo tempo a difendersi dai possibili attacchi, così si abbassò prontamente lasciando che la mano dell’uomo andasse a vuoto e si allontanò di qualche passo rapidamente.
“Sei una sgualdrina” le urlò arrabbiato, cercando di riavvicinarsi, ma in quel momento qualcuno aprì la porta scusandosi per il disturbo e informandoli che avrebbero dovuto recarsi al ponte principale.
“La discussione è solo rinviata” fece Neal, avviandosi verso l’armadio per prendere il suo pesante soprabito.
“Non c’è nulla da discutere, non sono la tua bambolina ed ormai neanche la tua fidanzata” asserì Emma, la voce dura. Sapeva che la situazione era più grave di quanto volessero far credere, non erano semplici precauzioni quelle che stavano prendendo. Lui fece per afferrarle il braccio, lei si scostò bruscamente, afferrò un salvagente dalla mensola vicino la porta ed uscì in fretta.
“Emma, torna qua” le urlò contro, ma lei era già corsa via.
I corridoi erano affollati, tutti si spostavano freneticamente da una zona all’altra indossando indumenti pesanti per proteggersi dal freddo.
“E’ solo una precauzione” cantilenavano i membri dell’equipaggio, invitando tutti a mettere anche il salvagente, mentre il ponte cominciava a riempirsi.
Distante da occhi indiscreti, il primo ufficiale stava impartendo ordini di salvataggio. Quasi tutti erano impegnati nel posizionare le scialuppe in modo da permettere alla gente di salire, ma nessuno dei passeggeri era stato informato, tutti credevano che si trattasse di un’esercitazione o di semplice burocrazia da seguire per precauzione.
Ben presto, il freddo pungente cominciò ad entrare fin dentro le ossa delle persone convincendole a spostarsi nella sala antecedente a quella da pranzo, uno spazio abbastanza grande da poter ospitare quasi tutti i membri di prima classe.
Emma incrociò il viso pallido della madre dirigersi verso di lei e cambiò strada per non incontrarla, si nascose dietro un signore grassoccio e scorse Neal passare dietro questo per avviarsi verso Mary Margaret.
Dall’altra parte un uomo elegante camminava con sguardo vitreo, il suo incedere lento suggeriva qualcosa di profondamente spaventoso.
“August, che sta succedendo?” Chiese preoccupata, avviandosi verso di lui e sfiorandogli il braccio con una mano, “per favore, dimmi la verità” lo pregò.
“Emma” gridò Neal alle sue spalle avvicinandosi, ma la bionda non gli prestò attenzione e continuò a fissare quelle iridi spaventate. Qualcosa nello sguardo della donna, spinse l’uomo a non tacere. “La nave affonderà” ammise, abbassando lo sguardo e fissandosi le scarpe. “Tutto questo si ritroverà sul fondo dell’Atlantico” concluse, puntellandosi sui piedi e cercando di trasmettergli delle mute scuse.
“Che cosa?” Intervenne l’altro che ormai era vicino abbastanza ed aveva sentito la discussione.
“Avvertite solo chi necessario, non voglio essere responsabile di una crisi di panico e trovatevi una scialuppa. Emma, ricorda ciò che le ho detto sulle scialuppe?” Domandò, rievocando la discussione di un pomeriggio soleggiato sul ponte. La ragazza capì subito a cosa si riferisse. Le scialuppe non erano abbastanza per tutti e molte persone sarebbero morte per questo.
August le appoggiò le mani sulle spalle per un breve lasso di tempo, poi le fece un cenno ed andò via.
 

 “Muoviti” gracchiò Leroy, il sottoufficiale, spingendo Killian verso un palo di metallo e stringendogli delle manette attorno ai polsi. Un uomo alle sue spalle lo chiamò, dicendo che c’era bisogno di lui per una rissa che si era scatenata in terza classe, il panico li aveva sicuramente raggiunti e cominciava a dilagare imperterrito.
“Può andare, ci penso io a tenerlo d’occhio” disse duro Jefferson, estraendo nuovamente l’arma dalla fondina appesa ai pantaloni eleganti.
Si sedette su una sedia e cominciò ad osservarlo senza dire nulla.
 
 
Più il tempo passava, più la nave imbarcava acqua inesorabilmente. Tutti i signori e le signore di prima classe erano stati radunati vicino alle varie scialuppe. L’ordine era quello di far salire solo donne e bambini per il momento, i membri dell’equipaggio cercavano di mantenere l’ordine, invitando tutti a stare calmi. Il buio della notte era squarciato soltanto da alcuni razzi luminosi che venivano lanciati verso il cielo per dare l’allarme, una sorta di SOS che le navi vicine potevano cogliere.
Il capitano continuava a camminare sul ponte, le mani nelle tasche dell’uniforme ed il mento sporto verso l’alto.
“Capitano, una nave ha risposto al messaggio di soccorso!” Disse un ufficiale alle sue spalle, bloccando il suo passo e facendolo voltare verso di lui.
“Solo una?”
“La Carpathia è l’unica nelle vicinanze, signore!” Asserì quello.
“Quanto tempo ci metterà ad arrivare?” Domandò allora l’uomo, accarezzandosi il mento ed aggiustandosi il cappello sulla testa prima che volasse a causa del vento. Che pensiero stupido da fare in quel momento si disse.
“Quattro ore!” Affermò l’altro deciso.
“Quattro ore?” Chiese sbalordito, poi riacquistò compostezza, lo ringraziò e lo congedò.
Il Titanic sarebbe affondato in appena due ore, non le avevano quattro maledette ore. Si tolse il cappello, lasciò che il vento gli scomponesse i radi capelli chiari e si appoggiò rassegnato al parapetto, quella avrebbe dovuto essere la sua ultima traversata e lo era davvero, in tutti i sensi.
I violinisti adagiarono delle sedie sul ponte, si sedettero e cominciarono a suonare una marcia nuziale. La musica si dissolveva nell’aria ed il vociare preoccupato della gente la sovrastava, ma loro continuavano imperterriti. Emma, poco distante, continuava a guardarsi intorno come in stato di trance. Sapeva quello che doveva fare, quello che voleva fare, ma non riusciva a muoversi.
Vedeva le madri che stringevano i propri bambini e che si avvicinavano piano in attesa di salire sulle scialuppe, vedeva i violinisti ancora dediti al loro lavoro anche in quel momento critico, non accennavano a voler abbandonare la loro postazione. Sentiva gli ordini impartiti dagli ufficiali e gli squarci di luce che dilaniavano il cielo, vedeva le coppie che si stringevano strette nella speranza di continuare a stare insieme e continuava a chiedersi che accidenti stava facendo lì. La madre era accanto a lei, Neal alla sue spalle e lei continuava a domandarsi perché si trovava lì da sola.
 
“Sai, credo proprio che questa nave affonderà” constatò Jefferson, alzandosi dalla sedia in cui era rimasto fino ad allora. L’acqua aveva ormai coperto quasi del tutto l’oblo, mentre all’interno cominciava ad allagarsi allo stesso modo. Killian lo guardò di rimando, ostentando sicurezza e lo sguardo fiero di chi sa il fatto suo.
“Mi è stato chiesto dal signor Cassidy di darti un segno della nostra riconoscenza” si avvicinò e gli assestò un pugno in pieno stomaco, facendolo contrarre per il dolore. Un ghigno si dipinse sul suo volto, afferrò la chiave delle manette dal tavolino ed andò via lasciandolo lì a morire.
 
 

“Le scialuppe sono divise per classe?” Chiese Mary Margaret guardandosi intorno con fare altezzoso, dalle porte cominciavano ad uscire donne e bambini di terza classe, mentre gli uomini erano ancora trattenuti al piano inferiore per non permettergli di creare confusione. “Vorrei che non fossero troppo affollate.”
“Mamma, che dici? Sta zitta” l’ammonì Emma, scuotendole le spalle profondamente irata. “Non ci sono scialuppe sufficienti, la metà di queste persone morirà” disse risentita, portandosi una mano al petto.
“Non la metà che conta” fece Cassidy alle sue spalle. Sfacciato, arrogante e presuntuoso.
Granny lì vicino salì sulla scialuppa ed invitò Mary Margaret ed Emma a fare lo stesso.
“E’ un peccato che non mi sia tenuto quel disegno, varrà molto di più domani” disse l’uomo in modo sprezzante, esplicitando il fatto che Killian non aveva opportunità di scampo. Quella fu la scossa che spinse la ragazza a muoversi, a smettere di stare ferma. In ogni caso, sapeva che non sarebbe riuscita a salire su una scialuppa e lasciarselo alle spalle. Non avrebbe mai potuto voltare le spalle a colui che l’aveva salvata, non solo quella volta quando aveva tentato il suicidio, ma anche cento volte dopo. L’unico che riusciva a farla sentire viva, a farle vibrare l’anima, a sfidarla.
“Sei un maledetto bastardo!”
Lo fissò disgustata per qualche secondo e poi lo sorpassò per andarsene. Sua madre continuava a gridarle dietro di salire sulla scialuppa, ma lei non voleva nemmeno sentirla, quella possibilità non era nemmeno contemplata nella sua mente. Non lo avrebbe lasciato, lo sapeva anche prima, aveva soltanto bisogno di sbloccarsi dalla paura di essere ferita, dalla paura di essersi sbagliata sul suo conto.
“Cosa? Stai andando da lui?” Chiese Cassidy furente, la tirò per un braccio e la spinse a voltarsi. “Per fare la puttana di un topo da fogna?” Le urlò contro strattonandola.
“Preferisco essere la sua puttana, piuttosto che tua moglie” si rivoltò, ma lui non accennava a lasciarla andare nonostante l’avesse ferito con quelle parole.
“No, ho detto no!” La riportò contro di lui, afferrandole le spalle con forza, imprimendo le dita nella sua carne con eccessiva pressione. Ed Emma fece ciò che Killian le aveva insegnato qualche giorno prima su quello stesso ponte, prese un respiro profondo, espettorò e gli sputò dritto in un occhio.
L’uomo rimase sconvolto da quel gesto tanto da lasciar andare la presa sulle sue spalle, allora la ragazza approfittò della situazione e corse via velocemente.
Aveva freddo, si sentiva tutti i muscoli intorpiditi ma questo non le impedì di correre con tutta l’energia che aveva in corpo, varcò la soglia e si diresse verso i corridoi.
“August” gridò. L’uomo si voltò e si avviò verso di lei, “Emma, che sta facendo ancora qui?” Chiese preoccupato.
“Quando il sottoufficiale arresta qualcuno dove lo porta?” Domandò lei, in preda al panico.
“Che sta dicendo? Vada a rifugiarsi una scialuppa.” Rispose l’altro in tono perentorio, passandole un salvagente.
“Farò questa cosa in ogni caso, solo che sola ci metterò molto di più!” Affermò, la mano di August si avvicinò alla sua schiena e la sospinse verso il corridoio vicino.
“Prenda l’ascensore fino al ponte E, passi dal corridoio riservato all’equipaggio e poi svolti a sinistra, si troverà di fronte ad un lunghissimo corridoio, prosegua sempre dritto fino a quando si troverà una porta davanti.”
“Grazie, August.” Gli strinse la mano e riprese a correre.
Nella foga urtò diverse persone, ma dopo qualche minuto si ritrovò di fronte all’ascensore. L’inserviente si rifiutava di portarla giù, asserendo che la parte inferiore si stava già allagando ed era impossibile scendervi.
“Ho detto di portarmi giù” lo minacciò, spingendolo con forza e convincendolo a cedere, ci misero qualche secondo ad arrivare al piano inferiore, l’acqua le arrivava quasi fino al ginocchio e ciò le rendeva difficili i movimenti. I corridoi erano tutti bianchi di fronte a lei, continuava a dimenarsi da una parte all’altra cercando quello riservato all’equipaggio e alla fine lo trovò.
“Killian, Killian, dove sei?” Gridò, senza ottenere alcuna risposta. Continuò a camminare per alcuni metri e poi riprovò a chiamarlo con tutto il fiato che le era rimasto.
“Emma, sono qui!” Una voce le giunse in lontananza, chiuse gli occhi per cercare di capire da dove venisse e poi si avviò verso quella direzione. Cercò di correre, nonostante l’acqua, nonostante il vestito, nonostante tutto e finalmente arrivò alla porta bianca di cui le aveva parlato August.
“Killian” chiamò entrando e fiondandosi nella sua direzione. “Killian, mi dispiace, ti prego devi perdonarmi, io lo so che non sei stato tu e che non l’avresti mai fatto.”
“Emma, tranquilla. Vieni qui!” Disse disperato. Non poteva muoversi a causa delle manette che gli impedivano qualsiasi spostamento, ma aveva bisogno di averla vicino per un momento prima di ripensare a tutto quello che dovevano affrontare.
“Vieni qui” ripeté lentamente, lei si avvicinò scostando una sedia che le stava galleggiando davanti intralciandole il percorso.
Si fiondò letteralmente verso di lui, gli circondò il collo con le mani e lo baciò.
Le mani di Killian formicolavano incessantemente dal bruciante desiderio di toccarla e stringerla, ma l’unico movimento che poté concedersi fu una rapida carezza al suo viso quando lei si avvicinò spontaneamente alle sue mani, poi cercò di nuovo la sua bocca, trovandola poco dopo e sentendosi nuovamente in pace.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 8

Azzurro.
Tutto quello che Emma riusciva a vedere era l’azzurro degli occhi di Killian che la guardavano preoccupati. Nulla in confronto al nero che s’intravedeva ormai fuori da quell’oblò, l’acqua ai loro piedi continuava a crescere rapidamente mentre lei non riusciva a vedere nulla se non l’azzurro.
Si concentrò su quelli, rimase a fissarli a lungo e cercò se stessa in quel riflesso, lui la guardava senza dire nulla con il desiderio pungente di far scorrere le dita tra quei capelli d’oro.
“Mi dispiace, mi dispiace tanto” mormorò la bionda, adagiando la fronte su quella del ragazzo. Lui sorrise, chinando il capo ed indicando le manette, “lo so, ma adesso dobbiamo andare via da qui” asserì tranquillo. Paradossalmente la sua espressione era rilassata e non tradiva la paura che invece provava, che entrambi provavano. Lo faceva per lei, non voleva che si agitasse ancora di più, doveva rimanere concentrata ed aveva bisogno che restasse lucida qualora lui non fosse riuscito a liberarsi dalle manette perché a quel punto avrebbe dovuto proseguire da sola e lasciarlo lì.
Emma annuì con vigore, facendo scorrere le dita sul metallo stranamente caldo, ormai la sua temperatura era così bassa che cominciava a sentire i piedi intorpiditi e formicolanti, “come posso fare?”
“Vedi quell’armadietto” indicò sul lato opposto della stanza un mobiletto color ciliegio. Emma fece cenno di si ed andò ad aprirlo, rimase sconvolta dalla quantità di chiavi che facevano capolino lì dentro, insomma a che diavolo dovevano servire e cosa mai potevano aprire? Scacciò velocemente quei pensieri dalla sua testa e si voltò verso Killian.
“Ci dovrebbe essere una piccola chiave d’argento.”
Una chiave d’argento, una chiave d’argento.. Cominciò a frugare in quell’ammasso indistinto di chiavi ma non vi era nessuna chiave d’argento, soltanto chiavi in ottone di tutte le dimensioni e forme. “Dove sei maledetta chiave?” Mormorò a se stessa, mentre continuava a rigirarsele tra le mani, gli occhi vagavano per tutto il mobile. Cercò di accertarsi che non fosse caduta a terra, ma con tutta quell’acqua non era di certo un’impresa semplice.
“Non c’è nessuna chiave d’argento, solo maledetto ottone” proruppe voltandosi, il viso provato da quella consapevolezza ed il panico che in cuor suo continuava a crescere.
Gli occhi di Emma erano sinceri, forse enigmatici, ma sinceri. Chi sapeva guardare riusciva a scorgere di tutto in quelle pozze verdi, tutto l’ardore e l’intensità che nascondeva dentro di sé, mentre altri non potevano decifrare nulla della complessità della ragazza. Killian vi aveva letto sempre mille sfumature del suo carattere, fin dalla prima volta in cui si erano incontrati, o meglio, fin dalla prima volta che l’aveva vista su quel ponte. In quel momento aveva capito che voleva immergersi in lei, anche se non aveva diritto di farlo, anche se non avrebbe dovuto portare caos nella sua vita.
“Okay Emma, stai tranquilla, forse dovresti solo.. Andare” sussurrò piano, gli occhi che non riuscivano a sostenere il verde limpido e spaventato di lei.
“No, che stai dicendo? Stai scherzando? Io non ti lascio.” Urlò, gettando tutte quelle chiavi in acqua e spostando pezzi di mobili che galleggiavano vicino a lei.
Corse da lui, nonostante i movimenti le risultassero complicati, gli accarezzò il viso, stringendolo nella morsa delle sue mani e si avvicinò nuovamente per inchiodarlo con lo sguardo, “io non ti lascio” mormorò piano stavolta.
Killian annuì, un ciuffo nero gli ricadde davanti agli occhi e lei con i polpastrelli lo scostò piano, poi si tirò indietro perché se volevano uscirne vivi doveva in primo luogo trovare un modo per liberarlo.
“Vado a cercare aiuto” sostenne convinta, “tornerò tra poco” gli intimò a bassa voce, mentre si avviava verso la porta.
“Non mi muoverò da qui” scherzò lui, conquistandosi uno sguardo di disapprovazione e poi un sorrisino.
Quanto doveva essere stupido per riuscire a scherzare in un momento simile? No, non lo era. Aveva imparato che nella vita bisognava godere dei momenti, attimi di felicità e lui li aveva vissuti. Dio, se li aveva vissuti.
Si era aggrappato a loro con così tanta forza da poterne sentire l’odore e il sapore sulla lingua. Aveva vissuto momenti che non sognava nemmeno di poter avere, veri attimi di paradiso sulla terra ed ora la vita veniva a riscuotere, maledetta legge del contrappasso.
Sentiva le urla di Emma che chiedeva aiuto, consapevole che non ne avrebbe trovato perché non c’era più nessuno in quel luogo della nave, tutti erano ormai scappati per mettersi in salvo.
Continuava a sentire le sue urla, ma nella sua mente la scena era differente. C’erano loro nudi e stretti in un abbraccio caldo, confortante e amorevole. Un abbraccio quasi bruciante, profondo e forte. Le urla di Emma si trasformarono in parole sussurrate al suo orecchio e la paura si trasformò in benessere. Pensò a quanto sarebbe stato bello poter godere ancora di quei momenti e di altri che ancora dovevano vivere, lei poteva e doveva andare, mentre lui rimaneva lì. Magari davvero il mare prende tanto quanto dona, aveva passato la sua vita nel mare, tutti i suoi ricordi d’infanzia erano legati a gite che faceva con i genitori grazie alla Jolly Roger. Suo padre era così fiero di quel peschereccio e dell’attività che aveva creato dal nulla per sfamare la sua famiglia, poi il mare aveva deciso che era abbastanza ed aveva portato via sua madre. La stessa cosa era successa con Emma, il mare gli aveva concesso di prenderla, di amarla e adesso non gli permetteva di vivere con lei.
“Questa può andar bene?” La ragazza tornò nella stanza con una grande ascia, cercando di trascinare quel peso ingombrante si avvicinò a lui interrompendo i suoi pensieri ormai divaganti.
Gli occhi di Killian si aprirono di scatto, l’azzurro si fece più scuro mentre focalizzava l’attenzione sull’oggetto che la sua Emma teneva nelle mani, inghiottì piano il nodo che gli era salito alla gola ed i suoi occhi si fecero vacui per un attimo mentre immaginava la scena che di lì a poco gli si sarebbe parata davanti.
“Possiamo provarci” mormorò, cercando di distanziare le mani il più possibile mentre la ragazza si accingeva a portare indietro l’oggetto, “aspetta, non è che ti sei fissata con l’idea di Capitan Uncino e vuoi tagliarmi una mano vero?” La schernì ridendo, cercando di farla rilassare. Dopo tutto lui si fidava di lei, ed aveva bisogno che lei si fidasse di se stessa.
“Killian, ti sembra il momento di scherzare?” Lo ammonì bonariamente, mentre cercava di distanziare le gambe per acquisire maggiore stabilità.
“Aspetta” fece di nuovo lui, l’espressione di Emma mutò nuovamente assumendo un’aria interrogativa, il suo sguardo si acuì in cerca della nuova spiegazione per quell’interruzione, “prova prima lì” spiegò lui, indicando il mobile in cui precedentemente aveva cercato la chiave.
La ragazza si avviò e riprese posizione di fronte a quello mentre lui le impartiva diverse istruzioni – distanzia le gambe, metti una mano vicino al margine, focalizza e colpisci con sicurezza due volte – ed Emma fece così, colpendo però due direzioni opposte ed agitandosi maggiormente per non essere riuscita ad avvicinarsi al primo colpo.
“Okay, Emma.”
“Okay? Ho colpito due parti opposte” fece lei agitata, l’ascia era decisamente pesante per lei nonostante la donna avesse un corpo tonico.
“Io mi fido di te, vieni e prova qui direttamente.” Allargò nuovamente le mani per invitarla a farsi avanti e così fece.
Tirò l’oggetto indietro e seguì nuovamente le sue indicazioni, bastava un colpo forte e deciso. Focalizzò il punto in cui l’ascia doveva colpire e distanziò un po’ le mani prima di fare un respiro profondo ed agire.
Un tonfo breve e profondo risuonò nelle orecchie di entrambi. Killian abbassò lo sguardo sulle sue mani ed Emma fece lo stesso, c’era riuscita, si sentì orgogliosa e soddisfatta mentre le braccia del ragazzo l’avvolgevano in un abbraccio disperato e le sue labbra la ringraziavano con ardore.  
“Grazie” gemette piano sulle labbra della ragazza, mentre il respiro di lei usciva a rantoli.
Si staccarono poco dopo per avviarsi verso la porta e cercare un modo per salire al piano superiore.
I corridoi sembravano tutti uguali, l’acqua ormai raggiungeva i busti dei due ragazzi mentre camminavano continuando a tenersi per mano. Ripercorsero la strada a ritroso, il corridoio riservato all’equipaggio fino a giungere all’ascensore che Emma aveva usato per scendere.
“Dobbiamo trovare le scale, vieni.” Disse Killian, sospingendola lungo la parte opposta. La ragazza si lasciò trascinare fino a quando sentì il pianto di un bambino, rivolse uno sguardo preoccupato a Killian e gli lasciò la mano.
“Non possiamo lasciarlo qui.” Era buona la sua Emma, lei pensava sempre agli altri prima che a se stessa. Il ragazzo si guardò intorno per qualche secondo, scorse l’immagine del bambino nascosto dietro una porta semichiusa.
“Okay, vado a prenderlo. Rimani qui.” La implorò con lo sguardo, mentre correva verso quella porta, verso quel bambino. La ritrovò alle sue spalle qualche secondo dopo, incurante delle parole che le aveva rivolto, “non fai mai come ti dico” alzò gli occhi al cielo e si passò una mano sui capelli bagnandoli.
Afferrò il bambino da sotto le ascelle e se lo caricò addosso, seguendo Emma per tornare a cercare le scale. Un uomo uscì come una furia da dietro l’angolo, avviandosi verso i due ragazzi e sottraendo il bambino dalle braccia di Killian in malo modo. “Volevamo soltanto aiutare” mormorò quello, lasciando andare il bimbo a quello che probabilmente era suo padre, ma l’uomo non capiva una sola parola, spintonò Killian e si avviò verso la fine del corridoio.
“Sta andando dalla parte sbagliata” fece Emma, in procinto di seguirlo, ma quello non ne volle sapere di tornare indietro.
“Emma, lascialo andare, non possiamo fermarlo” le afferrò una mano e la inchiodò con lo sguardo, “dobbiamo andare” sussurrò di nuovo, aumentando la stretta.
“Okay, andiamo.” La ragazza annuì e si avviarono nuovamente, svoltarono l’angolo per trovarsi di fronte ad un altro corridoio. Non era facile trovare la strada giusta, ma dopo aver svoltato un paio di volte riuscirono a trovare le scale, salirono velocemente, l’acqua per fortuna non aveva ancora raggiunto il piano superiore.
Una porta in ferro però non gli permetteva di proseguire, Killian cominciò a scuotere le sbarre sperando che cedessero ma risultò tutto inutile.
“Aspetta” disse Emma, togliendosi un fermaglio dai capelli e rompendone le punta. La inserì nella fessura, “solo questione di leve” mormorò, armeggiando un po’ con gli ingranaggi fino a quando udì un click e la porta si aprì.
“Come ci sei riuscita?” Chiese stupito, mentre spalancavano le sbarre e si accingevano a salire di sopra.
“Mio padre mi ha insegnato che è solo questione di leve.” Sorrise lei.
“Mi stupisce sempre di più, signorina Swan” asserì sorridendo mentre continuavano a salire.
Nonostante avessero i vestiti bagnati, riuscivano a muoversi con più fluidità senza tutta quell’acqua che li circondava. In pochi minuti si ritrovarono al piano superiore, ma anche lì le porte erano bloccate ed una folla di gente continuava a scuoterle per cercare di uscire.
“Permetteteci di metterci in salvo” le urla spaventate arrivarono ben presto alle orecchie dei due ragazzi che si accinsero a chiedere spiegazioni. Tra la folla trovarono anche i loro amici, Filippo corse verso Killian abbracciandolo e lo stesso fece Robin, mentre Emma si avvicinava a Regina stringendole le mani tra le sue.
“Che succede?” Chiese, indicando la folla che continuava ad inveire contro i membri dell’equipaggio che si trovavano dalla parte opposta.
“Non ci lasciano passare” rispose Robin per lei, la sua voce salì di parecchi toni mentre riusciva a malapena a trattenere la collera.
Killian si fece spazio tra gli uomini per avvicinarsi alle grate, “lasciateci uscire” urlò.
“Sono state avviate le procedure di salvataggio, uscirete quando toccherà a voi.” Concluse uno, sfidandoli con sguardo di sufficienza.
“Robin, Filippo datemi una mano” fece cenno verso una panchina che si trovava lì vicino ed aiutati da altri uomini riuscirono a sollevarla ed a sbatterla contro quelle grate, un primo colpo e non successe nulla mentre gli uomini continuavano ad urlargli di fermarsi. Al secondo colpo, la porta cedette e la folla si accalcò per uscire, “Emma” gridò Killian prendendole la mano per non perderla, le cinse un fianco con il braccio mentre la conduceva al piano superiore.
 
 
 
Quando Neal Cassidy aveva messo piede sul Titanic non avrebbe mai pensato che le cose sarebbero potute andare in quel modo. Del resto, gli capitava spesso di sentirsi così.
Sembrava un uomo distinto, austero, un maniaco del controllo, ma in realtà non aveva mai controllato nulla della sua vita piuttosto si era sempre lasciato trasportare dagli eventi.
Era stato un bambino allegro, aveva trascorso una bella infanzia fino all’età di undici anni quando tutto era cambiato. Non gli mancava nulla, continuava a vivere nel lusso, ma non era più la stessa cosa.
Sua madre era scappata di casa, stanca, e l’aveva lasciato lì, non aveva deciso di portarlo con lei o di andarlo a trovare, era semplicemente andata via lasciandoselo alle spalle, come se non fosse mai esistito.
Il padre, invece, era sempre via. Si spostava da un luogo all’altro, intraprendendo viaggi lunghissimi che lo tenevano lontano per mesi interi, soltanto per soddisfare la sua sete di potere ed il piccolo Neal era affidato alle cure di due balie. E se materialmente non gli mancava nulla, c’era qualcosa che non poteva ottenere con il denaro ma continuava a bramare con tutte le sue forze. L’affetto.
Questo l’aveva reso duro, ambizioso e molto somigliante a suo padre. Si era ripromesso di non commettere quell’errore, si era ripromesso di trattare Emma diversamente da come suo padre trattava la madre. Non voleva che lei fosse un oggetto e alla fine, invece, aveva fatto l’esatto contrario.
Continuava a riflettere sui suoi errori mentre intorno a lui si era scatenato il caos totale. Gente che correva da ogni parte, ufficiali che cercavano di mantenere ordine servendosi perfino delle armi, quegli sciocchi musicisti che si ostinavano a suonare nonostante nessuno li ascoltasse. Un po’ più lontano scorse un prete intento a benedire le anime dei fedeli accerchiati intorno a lui, così colpito da un’improvvisa voglia di redimersi per gli sbagli commessi si avviò verso di lui.
Cominciò a camminare quando qualcosa, o meglio qualcuno, alle sue spalle attirò la sua attenzione. Tutti i suoi buoni propositi andarono in fumo nell’esatto momento in cui una chioma bionda fece capolino dalla parte opposta.
“Emma” un unico urlo.
 

 
“Maledizione Neal” imprecò la ragazza tra i denti, mentre la sua mano si stringeva di più a quella di Killian. Il passo era sicuro e deciso, non tradiva l’agitazione che le cresceva dentro.
Il vento freddo della notte la colpì velocemente, ed i vestiti bagnati le si attaccarono addosso provocandole dei brividi.
“Vieni qui” disse Killian, passando il braccio attorno alle sue spalle e sfregandole per darle un minimo sollievo, anche lui era fradicio ed aveva freddo, ma stare vicino a lei riusciva sempre in qualche modo a riscaldargli il cuore.
“Forse dovremmo andare dall’altra parte” propose, scorgendo un gruppo di persone che si era radunato vicino ad una scialuppa.
“Non possiamo evitarlo per sempre, anche perché se non te ne fossi accorta presto ci ritroveremo tutti in delle piccole e anguste scialuppe” fece una faccia fintamente sconvolta, provocando le risa della bionda.
“Chi ha detto che debba trovarsi nella nostra?” Domandò lei, soltanto pochi passi la dividevano ormai da quello che era il suo ex fidanzato.
“Il fatto che quella” indicò una scialuppa ai margini del ponte, “è l’unica scialuppa vuota rimasta e spero proprio di salirci” concluse, scuotendo le spalle.
Le altre scialuppe erano già in mare, la maggior parte delle quali anche mezze vuote. Non sapevano quanto peso potessero sopportare e questo aveva comportato l’incapacità di riempirle a sufficienza. Il mare era buio come il cielo, le luci cominciavano a spegnersi man mano che l’acqua raggiungeva i generatori di corrente e presto si sarebbero ritrovati nel buio totale. La gente continuava a correre disperata alla ricerca di qualsiasi cosa a cui appigliarsi prima che la nave cominciasse ad inclinarsi definitivamente. Emma continuava a stringersi nell’abbraccio di Killian e stava bene, si appigliava a lui, si ancorava al suo busto e stava bene.
“Emma, sei fradicia, metti questo” fece Neal, una volta avvicinatosi alla ragazza. Si tolse il lungo cappotto nero e lo passò dietro di lei, Killian lo scostò malamente ed aiutò la ragazza ad indossare il cappotto. Del resto, desiderava solo che stesse bene e al caldo, quindi era disposto ad accettare che questo fosse merito di Neal e non suo.
“Ho promesso a tua madre che ti avrei fatta salire su una scialuppa” continuò l’uomo, i capelli corvini gli ricaddero davanti e con un colpo di mano tornò a metterli a posto mentre si girava indicando una scialuppa.
“Io non vado senza di te” asserì Emma, girandosi verso Killian ed avvicinandosi di più al suo fianco.
“C’è una scialuppa per me e per il signor Jones dall’altra parte, ho dato dei soldi ad un ufficiale quindi staremo bene.. Tu però devi salire in questa” mentì Neal con un finto sorriso benevolo stampato in faccia. Killian lo capì subito, nonostante non conoscesse l’uomo da molto riuscì a cogliere dello scherno nella sua espressione, ma voleva soltanto che Emma si mettesse in salvo e se questo voleva dire accordarsi con quell’uomo lo avrebbe fatto. Avrebbe fatto di tutto per lei.
“Si, amore. Vedrai, staremo bene” sorrise, sistemandole una ciocca di capelli e sospingendola verso la scialuppa seguito a ruota da Cassidy.
La ragazza si lasciò trascinare, tuttavia qualcosa dentro le suggeriva che non avrebbe dovuto fidarsi delle parole di Neal. Killian le cinse i fianchi con il braccio e si avvicinò al suo volto piano mentre Neal si voltava disgustato, forse ferito, da quella visione.
“Andrà tutto bene. Sali in questa scialuppa, per favore, ho bisogno di saperti al sicuro.” Poggiò la sua fronte contro quella di lei e sfregò piano i loro nasi freddi, una carezza lenta e leggera. L’aria condensata che usciva dalla sua bocca le riscaldava le guance offrendogli una sensazione di tepore che non avrebbe voluto lasciare.
“Ti prego, Emma.” Continuò il ragazzo, mentre le mani si spostarono automaticamente sul suo viso per stringerlo piano, le labbra di entrambi si avvicinarono spontaneamente, e quando finalmente si toccarono Emma sentì un calore invadergli il corpo, mille piccoli brividi percorsero le sue terminazioni nervose e, stavolta, non per il freddo.
Killian abbandonò il suo viso, mentre una mano si spostava dietro la testa della ragazza per spingerla maggiormente verso di lui. Le loro lingue si trovarono poco dopo, intrecciandosi per poi fuggire via, per poi ritrovarsi nuovamente insieme.
“Dovete continuare per molto?” Gracchiò Cassidy, la sua voce era scura, cupa e arrabbiata ed interruppe il momento dei due ragazzi.
Emma sospirò staccandosi piano ed aprendo gli occhi per incatenarli a quelli di Killian. Lui annuì, dicendole silenziosamente tutto quello che lei avrebbe voluto sentirsi dire. Andrà tutto bene, staremo bene, ci ritroveremo.
“Adesso vai, per favore” mormorò poi, e lei lo fece davvero. Lo guardò, il suo cuore si spezzò per l’incertezza, ma poi fece per una volta ciò che lui le aveva chiesto.
Salì sulla scialuppa e dopo pochi minuti avviarono le procedure per calarla in mare. Man mano che Emma si abbassava, continuava a mantenere lo sguardo alto per non abbandonare il suo che la osservava dolcemente. Un po’ di centimetri ancora e un pensiero balenò nella sua mente. Frasi sconnesse del loro primo incontro, sembravano passati anni ed invece erano trascorsi appena pochi giorni.
Le condizioni erano poco felici così come in quel momento, una sensazione di mancanza le invase il petto mozzandole il respiro e sentì un’enorme voragine aprirsi nel suo stomaco. La sensazione di vuoto che aveva provato prima di incontrarlo e che non aveva più sentito dopo, minacciava di invaderla nuovamente mentre gli occhi cominciavano ad appannarsi piano e le sue parole continuavano a frullarle nella testa.
“Mi chiamo Killian Jones”- “Mi ascolti, io non la lascerò andare.”- “Avrei voluto farlo diversamente”. Ed ancora, altre parole, il suo sorriso mentre si presentava, l’espressione spaventata ma decisa mentre cercava di tirarla su per non lasciarla precipitare.
“E’ stato un piacere, amore!” - “Preferisco misterioso, tesoro” - “Veramente, ho pensato cosa potesse essere capitato per spingere una ragazza a compiere un simile gesto, ma nulla riguardo alla ragazzina ricca.. Andiamo io non penso che tu sia felice.” Era riuscito a capirla fin dalla loro prima discussione, era riuscito a conquistarla con quei modi sfacciati che nascondevano una facciata completamente diversa, pulita, dolce, bella.
Le tante espressioni che le aveva donato in quei giorni si susseguivano rapidamente nella sua mente.
“Lasciati semplicemente andare e smetti di pensare” - “Vorrei non doverti lasciare andare” , e poi ancora la scena cambiò nuovamente, e c’erano solo loro, una camera, dei sospiri e delle parole sussurrate.
“Stai con me, Emma” -  “Mi rendi così felice”.
“Anche tu, anche tu” mormorò nella sua testa, poi i suoi occhi si aprirono di scatto e la dolcezza di quella visione, lasciò il posto alla dura realtà. La realtà era che lei non poteva farlo, non poteva lasciarsi scivolare giù mentre lui continuava a rischiare tutto per lei. Si alzò in piedi e saltò dalla scialuppa, aggrappandosi alla grata della nave. Qualcuno l’aiuto afferrandola da sotto le ascelle per evitare che cadesse in mare e per aiutarla a scavalcare la ringhiera.
“No, Emma” gridò Killian, il panico si diffuse nella sua voce mentre cominciò a correre per recarsi al piano inferiore seguito da Cassidy.
Corse, ma d’altronde correvano tutti, quindi questo non suscitò una particolare sorpresa. Attraversò le porte e scese velocemente le scale in legno per raggiungerla. La vide poco dopo che gli correva incontro, nonostante l’acqua le avesse superato le caviglie, ed un qualcosa si sciolse nel suo stomaco regalandogli un istantaneo sollievo.
“Emma, stai bene?” Gridò, prima di lanciarsi su di lei.
I loro corpi si scontrarono in modo deciso ma dolce. Lui passò una mano dietro la sua schiena e l’ancorò a sé, mentre buttava la testa sulla sua spalle per perdersi tra i suoi capelli.
“Non potevo lasciarti, non potevo farlo” si scusò la ragazza, non sciogliendo la presa dal suo corpo. Killian annuì piano, lasciandole un bacio umido sulla spalla e poi si tirò indietro per guardarla.
“Va bene, troveremo un modo… Insieme” concluse prima di avventarsi sulle sue labbra. Era affamato, letteralmente affamato di lei, bramava quel contatto così intensamente da non riuscire a staccarsi. I gemiti di Emma riempirono lo spazio intorno a loro e le sue mani afferrarono qualche ciocca dei suoi capelli neri, stringendoli disperatamente. Si staccarono per riprendere fiato, giusto in tempo per permettere ad Emma di scorgere Neal alle sue spalle sull’ultimo gradino affiancato da Jefferson.
Lo sguardo dell’uomo passò dal doloroso all’ironico per poi diventare furioso. Afferrò la pistola che si trovava nella fondina del suo dipendente e la puntò verso i due ragazzi.
La bionda scosse Killian in malo modo, il ragazzo si ridestò preoccupato e gettò un’occhiata alle loro spalle sentendo il tonfo sordo del proiettile nell’acqua accanto ai loro piedi.
Si presero per mano e scesero ancora più giù, mentre l’uomo continuava ad inseguirli e a sparare colpendo il legno del passamano, una colonna lì accanto, poi si fermò di colpo ma loro proseguirono senza guardarsi indietro.
“Che sto facendo?” Sussurrò, prendendosi la testa tra le mani. Era disperato, questo non era lui, non era l’uomo che voleva. Chi diavolo era diventato?
Lasciò cadere la pistola nell’acqua e si voltò per tornare al piano superiore. Jefferson l’aveva già raggiunto, salì con lui ma rimase in silenzio fino a quando la risata di Neal squarciò la quiete intorno a loro, e lui non resistette dal chiedere spiegazioni.
“E’ così divertente” proruppe, continuando a ridere. “Avevo conservato il gioiello nel cappotto, ed il cappotto l’ho dato a lei” gridò poi.
Poi rassegnato si attaccò al corrimano, come se quello potesse sostenerlo dallo sprofondare verso il basso e salì le scale mestamente.
“Dobbiamo trovare un modo per metterci in salvo” affermò Jefferson, esortandolo ad andare più veloce.
“Tranquillo, i soldi comprano tutto, anche un posto su una maledetta scialuppa.”
“Allora è meglio sbrigarsi, ne erano rimaste solo due” ed entrambi si avviarono rapidi verso le scale principali.
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic
Capitolo 9

C’era qualcosa di rassicurante nel modo in cui lui continuava a stringerle la mano.
Così nonostante stessero tornando al punto da cui erano partiti e nonostante il nodo stretto che continuava a sentire allo stomaco, Emma non si sentiva persa.
“Dobbiamo tornare di sopra” sussurrò Killian, arrestandosi bruscamente di fronte a quello che si ritrovava davanti. L’acqua aveva ormai sommerso l’intero piano e loro non potevano continuare a scendere le scale, quindi l’unica alternativa era salire ed affrontare la situazione da cui erano scappati, ammesso che Neal non stesse correndo dietro di loro.
“Ha una pistola, non possiamo tornare.” Disse Emma, voltandosi per guardare alle loro la spalle.
Rimasero indecisi sul da farsi per qualche secondo, mentre l’acqua continuava a salire e le luci cominciavano a spegnersi, l’unica luce proveniva dal piano superiore, quello che ancora non si era allagato.
“Ci sono delle altre scale a circa metà del corridoio, quanto tempo riesci a trattenere il respiro?” Chiese, stringendo più forte la sua mano per ridestarla dai suoi pensieri.
“Non lo so, forse un minuto, un minuto e mezzo” rispose lei. Qualcosa scattò nella sua testa, un ricordo che s’insinuò piano provocandole una fitta al cuore.
Un pomeriggio assolato, una spiaggia di sabbia bianca finissima e, davanti a lei, il mare.
 
“Emma”aveva gridato David, correndo dietro la bimba che sgambettava ovunque lasciando le impronte dei suoi piedini sulla sabbia. Il sole illuminava i boccoli biondi che le ricadevano davanti appiccicandosi sul suo viso bagnato, la bambina correva e rideva tanto, mentre il padre la inseguiva lasciando delle grandi impronte accanto alle sue prima che il mare nascondesse entrambe.
“Ti ho presa”aveva mormorato poi, sollevandola e buttandosi insieme a lei sulla sabbia.
“Papà, mi hai riempito di sabbia” aveva replicato lei, fintamente scocciata, lasciandosi andare poi nuovamente ad una risata e abbracciandolo piano.
Poi, entrambi si erano alzati ed avevano corso verso il mare, schizzandosi a vicenda. Emma aveva proposto di gareggiare a chi riuscisse a trattenere per più tempo il respiro, e David aveva ceduto dopo ben venti secondi per lasciarla vincere.
Aveva dovuto tirarla fuori, afferrandola da sotto le ascelle perché testarda com’era continuava a sostenere di poter resistere ancora per più di un minuto.
“Lo so, Emma. So che ci riesci, ma non significa che tu debba provarmelo.” L’aveva ammonita quando lei si era lamentata del suo comportamento.
Ed aveva solo dieci anni.
 
Doveva provarlo dopotutto, in una circostanza del tutto differente.
“Un minuto basta, stai tranquilla, io sarò sempre vicino a te.” Il pollice di lui le accarezzava lentamente il dorso della mano per infonderle coraggio, lei annuì piano convinta che quella fosse l’unica soluzione possibile, prese un respiro profondo e si portò dietro di lui.
Il tempo che trascorsero sott’acqua fu qualcosa che non riuscì a definire, le piaceva nuotare, l’aveva amato fin da bambina, ma non a quella temperatura così bassa. Il gelo sembrava pervaderle le ossa, ma non si lasciò distrarre bensì mosse le mani più velocemente perché muoversi l’aiutava a sentirsi meglio. Killian continuava a voltarsi verso di lei per vedere come andasse e sembrò rassicurato dalla caparbietà che stava dimostrando anche in quel momento.
Tutto si susseguì velocemente, quando lui poggiò il piede su un gradino la tirò per la mano e le afferrò la vita per riportarla al suo fianco. Riemersero entrambi, prendendo una lunga boccata d’aria e proseguendo nel salire le scale senza perdersi in chiacchiere.
Continuarono a salire fino a quando si ritrovarono nuovamente nella sala principale, ma dalla parte opposta a quella che avevano occupato in precedenza. Si guardarono intorno per vedere se vi era traccia di Cassidy e quando si accorsero che ormai dentro non vi era nessuno, si affrettarono verso l’esterno.
Nel ponte si era scatenato un caos ancora maggiore di quello che aveva regnato pochi minuti prima. Non vi era più traccia di scialuppe, l’ultima era avviata nella procedura per scendere e sopra vi scorsero Neal con una bambina in braccio, aveva trovato un modo per salvarsi che non comprendesse l’uso dei soldi, ma era un’azione ancora più ignobile dopotutto.
Si avviarono decisi verso la parte opposta, cercando di non farsi notare da lui che fortunatamente non volse mai lo sguardo verso di loro.
“Non ci sono più scialuppe” mormorò il ragazzo turbato, “il non saperti al sicuro mi tormenta, ed il fatto che tu non lo sia a causa mia mi distrugge ancora di più” continuò, abbassando lo sguardo verso le assi in legno.
“Sono più al sicuro qui con te che in qualsiasi altro posto.” Killian scosse la testa come a voler negare le parole della ragazza e poi aggiunse, “io ti ho messa in pericolo”.
“No, tu mi hai salvata.” Ribatté lei nuovamente, portando le mani intorno al suo collo e cingendolo. Glielo aveva già detto nel corso di quelle ore, ma lui sembrava proprio non capire quanto lei gli fosse grata, come se farlo fosse stata una cosa del tutto spontanea e naturale e, forse, lo era stata davvero.
“Non ti saresti buttata” disse lui, rievocando le stesse parole che le aveva detto giorni prima.
“Non mi riferisco solo a quel salvataggio, e lo sai bene. Tutti possono aiutare qualcuno che si trova in evidente difficoltà, ma tu mi hai salvato dalla mia stessa vita, leggendo nei miei occhi tutto quello che non riuscivo nemmeno a pronunciare e questa, Killian, questa è una delle cose più difficili. Ti sei messo in pericolo per me, per salvarmi da me stessa. Quindi si, io sono al sicuro con te!” Concluse, avvicinandosi piano alle sue labbra.
Gli occhi di Killian si allargarono per la sincerità di quelle parole, il suo respiro divenne più rapido mentre lei si avvicinava e quando le loro labbra finalmente s’incontrarono si spezzò per un attimo ed il cuore sembrò fermarsi, prima di riprendere a galoppare più velocemente di prima.
Lui si staccò e passò a baciarle dolcemente la guancia per arrivare poi al collo, nascondendosi in quella zona che gli offriva tutto il calore necessario. Le sue braccia forti le strinsero la vita inchiodandola al suo corpo ed era quasi come un fondersi insieme, unire tutto ciò che potevano per portare un pezzo dell’altro con sé quando avrebbero dovuto separarsi.
E mentre tutti correvano, loro si dondolavano piano accompagnati dalla musica dell’orchestra che non aveva ancora smesso di suonare.
Purtroppo la realtà ruppe, fin troppo presto, la bolla in cui si erano rinchiusi. La nave che già aveva cominciato ad inclinarsi dalla prua velocizzò il ritmo a causa dell’acqua che aveva ormai allagato quelle zone, così loro corsero verso poppa come facevano gran parte delle persone. Alcune cercarono soltanto un appiglio, altre, ormai rassegnate, preferirono buttarsi subito per evitarsi ulteriori paure.
Emma e Killian volevano più di questo così non contemplarono neppure la possibilità di arrendersi. Ed avevano paura, entrambi, una grande paura ma andava bene così perché si ha paura soltanto quando si ha qualcosa da perdere e loro non volevano perdersi la possibilità di una vita insieme.
Mentre la nave continuava ad inclinarsi, mentre le persone precipitavano giù come sassi provocando un tonfo ben più forte però, mentre le luci si spegnevano e le urla squarciavano il buio, mentre la nave dei sogni affondava, loro cercavano di tenersi stretti alla grata abbracciandosi disperatamente per far rimanere a galla il loro amore.
“Questo è il posto in cui ci siamo conosciuti” mormorò Emma, i denti che battevano tra loro per il freddo e per la paura, e gli occhi lucidi di un pianto che si ostinava a ricacciare indietro.
Killian non disse nulla, le prese la testa e portò le loro labbra a scontrarsi brevemente. Quella stessa grata che li aveva salvati una volta, adesso li portava in basso. La fissò cercando di comunicarle con lo sguardo quello che la voce strozzata non riusciva a dire, il mare azzurro si sciolse nei suoi occhi ed era caldo nonostante il freddo, era rassicurante nonostante il terrore, era vita nonostante la morte.
Ed in quel momento, Emma comprese cosa aveva visto nei suoi occhi fin dal primo momento. Vi aveva visto le passeggiate in spiaggia ed il calore dei raggi del sole sulla pelle, vi aveva visto la libertà di chi non sa dove sta andando ma sa che qualunque sarà il luogo in cui arriverà ci saranno nuove avventure ad aspettarlo, vi aveva visto il cielo azzurro che libera tuttavia milioni di colori in base alle ore del giorno.
Vi aveva visto suo padre, quando la sua famiglia era ancora felice e sua madre non era una rigida signora altezzosa, ma una giovane donna piena di sogni e speranze. Ed erano le stesse speranze che non poteva fare a meno di provare stando accanto a quel ragazzo che in una serata fredda e scura aveva portato luce e calore nella sua vita.
Ed era quello che provava anche lui perché in Emma aveva sempre visto le sue praterie Irlandesi, la sua casa. Ed aveva pensato fin da subito a quanto potesse essere bello portarla con sé, portare un pezzo della sua casa in giro per il mondo. In seguito, un altro pensiero si era materializzato nella sua testa, qualcosa di più intrinseco e profondo che non aveva mai creduto di poter volere perché in realtà con lei vicino, poteva anche non viaggiare affatto. Poteva rimanere fermo in qualsiasi luogo, in un letto a fare l’amore per ore o semplicemente dormirle accanto, sentendo la sua piccola ma forte presenza stretta al suo fianco. Avrebbe fatto qualsiasi cosa con lei, per lei.
Sarebbe stato qualsiasi persona di cui avesse bisogno, un fidanzato, un marito, un amante, un amico, un confidente, una figura paterna. Quel verde destabilizzò ancora una volta i suoi pensieri, ed alla fine si ritrovò a chiedersi come fosse possibile sentire di amarla così tanto in così poco tempo, sentire i suoi sogni con lei sfumare prima ancora di nascere concretamente, prima ancora di definirsi, di essere quel noi che tanto agognava.
Lo sapeva però, sapeva che erano un “noi” più profondo loro in quei pochi giorni che molte coppie legate dagli anni.
Sentirono un tonfo profondo e uno scossone quando metà della nave si staccò completamente scendendo negli abissi e dopo pochi minuti anche la parte che ancora galleggiava si accinse ad affondare definitivamente.
“Quando ti dirò io, prendi un respiro profondo e lascia le grate. Dobbiamo lasciarle subito o la pressione ci trascinerà giù. Okay?” Le accarezzò piano la mano, la ragazza annuì velocemente e si guardò intorno.
L’acqua era così buia, le scialuppe si erano allontanate per evitare di essere risucchiati ed intorno a loro l’unica cosa che potevano vedere – oltre alle persone che le erano accanto – erano i corpi di chi aveva già perso la vita. I salvagente bianchi continuavano a tenerli a galla, ed erano in netta contrapposizione con il blu scuro del mare, sembrava quasi un cielo stellato soltanto molto più lugubre e molto più triste.
“Adesso” urlò Killian, giusto in tempo per vederla respirare a pieni polmoni e lasciarsi andare.
Tutto quello che avvenne dopo fu una massa indistinta di confusione.
Il ragazzo emerse poco dopo, ma di Emma non vi era traccia. C’era troppo buio e troppo persone che si agitavano per riuscire a capirci qualcosa. Il panico cominciò ad inondargli lo stomaco, flashback attraversarono velocemente la sua mente come squarci nell’oscurità. Un enorme distesa d’acqua, un peschereccio poco lontano, il rumore assordante dei tuoni e la pioggia che gli batteva sul capo, l’unica parte di lui che rimaneva fuori dall’acqua. L’immagine di sua madre che lo afferrava dalle spalle e poi l’enorme onda che la travolse scagliandola contro una grande roccia ed infine un corpo galleggiante e le urla disperate del padre.
Non doveva andare allo stesso modo, non doveva essere lui quello a salvarsi stavolta.
“Emma” gridò con tutto il fiato che gli era rimasto, sbracciandosi per spostarsi velocemente. Urtò con le mani parecchia gente che affollava lo spazio di Oceano accanto al suo, quando ad un certo punto la vide che cercava di liberarsi da un uomo che la stava usando come appoggio.
Nuotò verso di lei e spostò l’uomo bruscamente, “Emma, stai bene?” sussurrò, la ragazza tossì per sputare fuori l’acqua che aveva bevuto ma poi fece un cenno d’assenso. E Killian finalmente tornò a respirare.
Poggiò la fronte contro la sua e si lasciò andare nuovamente ad un respiro profondo, mentre cercava di calmare i battiti che minacciavano di fracassargli le costole.
“Ho avuto così paura” ammise liberamente, sciogliendo il nodo che sentiva in gola. Si avvicinò rapidamente e la baciò -anche se quella era una situazione critica, anche se intorno a loro molte persone erano già morte e altre urlavano in agonia -, aveva soltanto bisogno di baciarla, di appurare che per il momento stavano bene entrambi ed erano insieme, si perse sentendo il suo respiro freddo sulle sue labbra, mentre il bacio era salato, umido e scivoloso ma bello come tutti quelli che si erano scambiati.
 
*
 
“Dovremmo fare dei turni” balbettò Emma, stringendosi di più tra le braccia mentre era accasciata su una delle porte di legno che prima ornavano la grande sala da pranzo.
“Sto bene qui” accennò piano lui, non riusciva quasi più a parlare, il freddo gli aveva penetrato le ossa portandolo quasi all’ipotermia. Il suo colorito era più bluastro che rosa, nemmeno quello di Emma era al meglio ma lo stare  relativamente all’asciutto l’aiutava.  
Avevano trovato quella porta poco lontano dal luogo dell’affondamento, avevano provato a salirci entrambi perché era abbastanza grande, ma era pur sempre un tavola di legno instabile in mezzo all’oceano, una tavola di legno che non sopportava il peso di entrambi.
Killian aveva costretto Emma a salirci sopra, nonostante le proteste della ragazza e adesso lentamente stava cominciando a perdere sensibilità, non sentiva più le gambe e le mani formicolavano prepotentemente a causa del mal flusso della sua circolazione sanguigna.
“Non stai bene, stai congelando.. Killian, ti prego.” Lo implorò, volgendo la testa verso di lui per guardarlo. Una mano gli sfiorò il viso, ma lui non mollò. Non voleva saperne di prendere il suo posto, voleva che lei stesse al sicuro, voleva che lei avesse una possibilità nella vita, la possibilità di essere libera perché era stata rinchiusa in una gabbia d’oro per troppo tempo ed il suo cigno meritava di spiegare le ali.
“Sono io a pregarti, Emma.”
 
*
 
“Killian, Killian” mormorò scuotendo piano il suo braccio. Le forze la stavano abbandonando ormai, si sentiva tanto stanca ed aveva maledettamente freddo. Continuò a scuoterlo cercando una risposta che ancora le sue orecchie non udivano, si voltò con il busto verso di lui e gli afferrò la mano. A quel tocco lui aprì gli occhi leggermente e lei sospirò piano, liberando dalle sue labbra una nube d’aria. “Killian, non chiudere gli occhi.”
Le labbra del ragazzo si tirarono verso l’alto come a voler formare un sorriso che però non nacque, “sto bene” sussurrò, cercando di muovere la mano nella sua ma quella non si spostò minimamente.
“Non è vero, ed è colpa mia.” Un singhiozzò le scosse piano il petto, mentre le lacrime che non potevano uscire le risuonavano all’interno.
“Vuoi dire che sei stata tu ad affondare quella grossa nave?” Lui era così e continuava ad esserlo anche in quelle circostanze, non poteva fare a meno di rassicurarla o farla ridere con le sue battute, anche se quello non era il momento, anche se quella era quasi la fine.
“Killian, io..” C’era qualcosa che voleva dirgli, qualcosa che sentiva di dovergli dire.
“Lo so” ed i suoi occhi, se è possibile, si illuminarono per un attimo.
Era importante solo che lui lo sapesse, così preferì tacere per perdersi e ritrovarsi nel suo sguardo che la confortava anche allora.
Prese quelle parole e le custodì nel suo cuore come uno scrigno prezioso, non era giusto lasciarle andare lì ed in quel momento, in mezzo alla confusione ed alla paura. Non era giusto che quella fosse la prima e l’ultima volta che le pronunciava perché quelle parole avrebbero dovuto rappresentare l’inizio e non la fine, quindi lasciò che risuonassero soltanto all’interno e che producessero un suono più forte di quello che avrebbero potuto produrre all’esterno strozzate da un filo di voce.
Ed era convinta che anche lui l’amasse, non aveva bisogno di altre conferme perché cosa poteva fare qualcuno più di salvare chi ama in tutti i modi possibili?
Lui non aveva fatto altro da quando si erano incontrati la prima volta ed aveva continuato fino a quel momento.
C’erano delle altre parole quindi che poteva dirgli.
“Grazie.” Uscì chiaro e limpido dalla sua bocca, sfiorandole piano le labbra e librandosi nell’aria intorno a loro. Poté giurare di vedere una nuova espressione nel volto di lui, un misto tra lo stupore e la serenità, tra il desiderio e l’amore. Un lampo che illuminò il suo sguardo e lo accese nuovamente per un attimo.
Gli strinse la mano cercando di sollecitare una maggiore pressione, ma era difficile e quasi non la sentiva.
Il contatto poteva anche essersi affievolito, ma quello visivo rimaneva ed in quello si giurarono amore per i minuti successivi prima che lui catturasse le forze per dirle quello che voleva facesse.
“Ho bisogno che tu vada avanti” la sua voce si spezzò più volte prima di riuscire a completare quella semplice frase.
“Noi dobbiamo farlo insieme” replicò lei, senza dargli nemmeno il tempo di continuare.
“Lo so, ma se non dovessi farcela, io ho bisogno che tu vada avanti.” Emma fece per ribattere - probabilmente voleva rassicurarlo ma entrambi vedevano la situazione, era lì davanti ai loro occhi chiara e limpida – qualcosa nello sguardo di lui la convinse a tacere. Doveva dargli l’opportunità di parlare, di dirle tutto ciò che voleva farle sapere per quanto fosse dolorosa da ascoltare, per quanto il solo pensiero le strozzasse il respiro e le stringesse il cuore in una fitta maledettamente forte e dolorosa. Non poteva negarglielo però, così chiuse la bocca e stette ad ascoltare.
“Promet-promettimi – inspirò piano e continuò – che non ti lascerai morire, non ora, non qui al freddo. Promettimi che lotterai per sopravvivere, per andare avanti anche se sarà difficile e doloroso, anche se dovessi lasciarti qualcuno alle spalle, anche se dovessi lasciarti me alle spalle. Promettimi di essere libera di scegliere, sempre, e di non perdere mai quell’ardore e quella forza che tanto amo in te. Promettimi di viaggiare, così che io possa vedere tutto attraverso i tuoi occhi, e quegli stessi occhi qualcuno dovrà pur ereditarli perché non possono andare persi quindi promettimi di crearti una famiglia, di trovare qualcuno che ti ami e di amarlo a tua volta. Sii felice, Emma. Vivi e sii felice.” Balbettò piano quel discorso e vi riversò tutto il suo amore e tutte le sue energie, si era impegnato tanto per fare uscire ciò che voleva dirle ed era contento di esservi riuscito.
“E adesso baciami, perché non ho più la forza di muovermi” concluse piano, mentre si sentiva completamente svuotato da tutta quella forza su cui aveva cercato di far leva.
“Te lo prometto” fu l’unica cosa che disse lei, mentre voltava di più il capo e si avvicinava alle sue labbra fredde come il ghiaccio come lo erano le sue d’altronde. Gli sfiorò le dita con la mano ed adagiò il capo vicino al suo braccio.
 
*
 
Le operazioni di salvataggio erano durate molto più del previsto. Le scialuppe si erano allontanate molto per evitare di subire altri danni e altre perdite, dopo di che avevano cercato di avvicinarsi in modo da poter distribuire le persone che vi erano sopra e creare più spazio, ma nonostante le varie esortazioni di alcuni ufficiali, il tempo era trascorso velocemente ed adesso avevano probabilmente più spazio di quello che potevano riempire.
Dovevano tornare indietro però, dovevano farlo ed accettarsi delle condizioni delle altre persone, vedere se qualcuno era sopravvissuto al gelo e, qualora lo fosse, portarlo in salvo.
Si avviarono piano, scostando con le mani i corpi che gli passavano accanto ed accertandosi se respirassero o meno. La situazione era molto più grave di quella che credevano ed era uno spettacolo così triste e sconvolgente che furono più volte tentati dal lasciar perdere, ma il senso di giustizia prevalse e mentre scorgevano una madre con il suo piccolo stretto al cuore, il respiro di tutti si fermò notando che era morta ma era riuscita a salvare il suo bambino ed un nuovo senso di speranza si diffuse. Lo recuperarono e lo coprirono affidandolo ad una donna che se lo strinse al petto per scaldarlo e cercare di tenerlo in vita. Non poteva fare molto, ma poteva fare al meno questo. Stringerlo.
 
*
“Killian, stanno tornando. Le scialuppe tornano a prenderci.” Disse Emma, voltandosi nuovamente verso di lui.
Scosse piano la sua spalla, ma non ottenne risposta, “Killian” riprovo con voce strozzata.
Poi continuò ancora per una, due, tre, dieci volte, ma il ragazzo non dava nessun segno di vita.
Le lacrime scossero più volte il suo petto, mentre tornava ad adagiarsi vicino a lui. Poi però le sue parole riecheggiarono dentro di lei. Sentì la sua voce nelle orecchie ed il suo respiro sulla pelle.
<< Vai avanti, lo hai promesso. >> Continuava ad urlare la vocina nella sua testa e più la scuoteva come per scacciarla, più questa continuava prepotentemente a tormentarla.
Immaginò il suo sorriso sghembo e malizioso diventare dolce e rassicurante, “puoi farcela” sentì qualcosa nel suo cuore che lottava per venir fuori.
Non riuscì tuttavia a lasciarlo sprofondare perché voleva che riuscissero a ritrovare il corpo, voleva avere un posto in cui tornare per portargli un fiore o per stargli semplicemente più vicino. Non poteva lasciare che il mare lo inghiottisse.
Lo guardò un’ultima volta, certa che se avesse continuato a farlo avrebbe abbandonato ogni tentativo di rispettare la sua promessa per rimanere lì a continuare a fissarlo, così che sarebbe stato lui la sua ultima immagine.
Le sue labbra si mossero, formulando un “ti amo” che però non pronunciò, perché era giusto che rimanesse con lei e non che lo lasciasse andare. Poi cosa le sarebbe rimasto? Di lui, di loro e del loro amore? Uno squarcio che aveva attraversato il cielo per poi finire.
In verità, le sarebbe rimasto molto di lui, cose che non poteva tastare con mano ma che poteva sentire col cuore.
L’idea di dimenticare il suono della sua voce o i tratti del suo volto con il tempo, la colpì violentemente e la spaventò più di quanto non lo fosse stata fino a quel momento. Poi si disse che era normale, quello che non avrebbe dimenticato però era l’effetto che la sua voce le provocava dentro o la sensazione che aveva quando i suoi occhi la guardavano o altre mille piccole cose che aveva notato e amato in quei giorni.
Prese coraggio e si lasciò cadere in acqua. L’impatto fu doloroso, tuttavia meno della prima volta perché lei e l’acqua avevano temperature simili ormai.
Si voltò indietro solo una volta, poi proseguì proprio perché lo amava ed amava il modo in cui credeva in lei e non poteva tradirlo.
Nuotò e si avvicinò ad un uomo a cui in precedenza aveva sentito suonare un fischietto e lo cercò con lo sguardo, trovando l’oggetto poco dopo. Lo staccò a forza dalle sue labbra ormai congelate e lo portò alle sue cercando di soffiarvi dentro. Non ci riuscì all’inizio, dovette riprovare due volte prima di poter produrre un po’ d’aria così da far suonare il fischietto, ma quando vi riuscì il suono arrivò dritto alle orecchie di quelli che si trovavano sulla scialuppa più vicina. Emma continuò a nuotare, incapace di rimanere ferma a pensare, non voleva pensare affatto. E la scialuppa le venne incontro fino a quando due uomini l’afferrarono per le braccia e la issarono su, passandole poi un cappotto per riscaldarla.
Fino a poche ore fa avevano condiviso tutto e adesso era sola, di nuovo. Si sentì persa, ma ricordò che c’era qualcosa che lui le aveva ridato e che adesso non aveva ancora perso: se stessa e la libertà.
“Grazie per avermi salvato” mormorò piano, gli uomini annuirono pensando che quelle parole fossero rivolte a loro, non lo erano ma Emma non disse nulla. Si tolse il cappotto che le aveva dato Neal, adagiandolo sulle gambe e si strinse in quello asciutto che le avevano dato. Non vi era nessuno che conosceva in quella scialuppa ed era meglio, così avrebbe potuto essere semplicemente ciò che voleva.


Note:
Mi dispiace se vi ha messo tristezza, mancano ancora tre capitoli quindi qualcosa succederà di sicuro.
Voi avete ancora speranza? 

Ero troppo depressa per fare la grafica quindi devo ringraziare maryclaire94 che si è impegnata a realizzarla per me, mi piace veramente tanto quindi grazie tesoro. :*
Un ringraziamento ovviamente anche a chi legge solamente, e a chi recensisce! 
C'è un indizio importante nel capitolo, spero sappiate coglierlo e, forse, vi farà stare meglio.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 10

Erano trascorse altre due ore prima che la Carpathia arrivasse. Due ore in cui nessuno aveva osato proferire parola, tutti avevano preferito mantenere un religioso silenzio non solo per rispetto di chi aveva perso la vita, ma perché non avevano proprio nulla da dire. Nessun discorso profondo avrebbe mai potuto compensare la tragedia, nessuna chiacchiera poteva alleggerire gli animi di chi era sopravvissuto e tantomeno avrebbe potuto affievolire la tristezza per la perdita delle persone amate.
Passarono due ore a guardarsi intorno con gli occhi vacui ed i visi spenti, i corpi freddi ed i cuori spezzati.
Le scialuppe si erano nuovamente allontanate di qualche centinaio di metri e rimanevano distanti anche tra loro, ed interiormente Emma era grata di questo, ma solo di questo, perché il risentimento che sentiva verso tutta quella situazione era enorme e disperato.
Non sapeva se qualcun altro delle persone in mare fosse sopravvissuto, non sapeva nemmeno come stesse sua madre ed il suo animo era combattuto tra la voglia di rivederla e quella di non trovarla mai più.
E lo sapeva che poteva sembrare insensibile, persino crudele però abbracciava l’idea del cambiamento che lui le aveva suggerito. Voleva onorare la sua memoria, voleva vedere il mondo e permettergli di vederlo attraverso i suoi occhi e poi rimanere ferma a piangere per ore perché quel maledetto freddo non gli aveva nemmeno permesso di piangerlo. Le lacrime si rifiutavano di uscire ed aveva bisogno di sfogarsi, di buttarle fuori, di rannicchiarsi su se stessa per cercare di riattaccare i pezzi tra loro.
Il cappotto sulle sue gambe si era ormai asciugato, tornò a metterlo e guardò davanti a lei. La Carpathia era lì, grande ed imponente come lo era stato anche il Titanic.
 
*
Le operazioni per riportare tutti sulla nave durarono parecchi minuti, Emma non aveva voglia di rimanere lì a guardare, così si avvolse più stretta nella calda coperta che uno dei membri dell’equipaggio le aveva dato e si accucciò su una panchina, finendo per addormentarsi. I primi raggi del sole mattutino la svegliarono ed uscire dallo stato d’incoscienza fu traumatico, la realtà le piombò addosso prepotentemente mentre si guardava intorno e vedeva tutti nelle sue stesse condizioni.
La maggior parte delle stanze erano regolarmente occupate, soltanto qualcuna rimasta libera fu occupata da alcuni membri di prima classe mentre gli altri si ritrovarono in due grandi sale comuni.
I membri di terza classe invece dormivano un po’ dove capitava, ovviamente la nave non era stata progettata per tutte quelle persone quindi tutti cercarono di adattarsi, condividendo letti improvvisati, panchine e coperte.
Tutti avevano imparato che avere un luogo caldo e una scodella di minestra era più che necessario, senz’altro meglio di trovarsi in acqua a temperature bassissime e nonostante le abitudini fossero dure a morire, anche i passeggeri di prima classe che si ritrovarono tutti insieme in un unico spazio non si lamentarono.
Emma non aveva rivelato il suo ceto sociale, non parlava molto in realtà e di lei conoscevano soltanto il nome. Le era capitato più volte di vedere Neal passare da un corridoio o l’altro, ma aveva sempre fatto in tempo a nascondersi od a cambiare strada. D’altronde lui la credeva morta, affogata insieme al suo amore quindi non aveva pensato proprio a cercarla.
“Signorina, qui non può entrare.” Sentì una voce alle sue spalle, si voltò e vide una giovane donna che trasportava lentamente un carrellino.
Emma tolse la mano dalla maniglia ed indietreggiò per lasciarla passare, dalla tenuta e da ciò che trasportava sembrava proprio essere un’infermiera.
“Mi scusi, ma cosa ci fa in questa parte della nave?” Chiese poi, voltando le spalle verso di lei e guardandola con espressione interrogativa.
“Mi ero persa” mentì la bionda, in realtà era fuggita per evitare d’incontrare qualcuno di sua conoscenza e voleva soltanto rifugiarsi in una stanza da sola, dove nessuno potesse parlarle e rivolgerle domande.
La donna annuì bonariamente verso di lei ed aprì piano la porta, richiudendosela alle spalle.
C’era qualcosa di strano in quel luogo, uno strano magnetismo che la spingeva ad entrare, una forza d’attrazione che non riuscì a comprendere e rimase lì, indecisa a fissare quella porta bianca.
“Signorina che ci fa ancora qui?” Domandò nuovamente la donna, aprendo la porta per tornare ad uscire.
“Stavo andando via” si scusò Emma, mentre scacciava via quella sensazione e le voltava le spalle.
“Può prendermi le coperte che ci sono in quel carrello?” La interruppe nuovamente quella, prima che lasciasse il piano, la ragazza annuì ed afferrò tre grandi coperte dal primo ripiano in vetro, poi si avvicinò per riporle nelle mani della donna. Cercò di sbirciare dentro, ma non riuscì a vedere nulla se non una tendina bianca che copriva sicuramente una serie di letti.
“Grazie” sussurrò l’infermiera, tornando nuovamente dentro ed Emma andò via spaesata.
 


Il secondo giorno era successa una cosa che l’aveva sconvolta.
Voleva farsi un bagno caldo ed indossare dei vestiti puliti che gentilmente altri passeggeri avevano messo a disposizione, così aveva preso tutto il necessario ed aveva raggiunto il bagno comune.
Riempì la vasca, dopo aver riscaldato l’acqua. Quando si ritenne soddisfatta del lavoro appoggiò le bacinelle lì vicino e si apprestò a togliersi i vestiti, non li aveva ancora cambiati da quando era salita su quella nave, non aveva avuto la forza ne la voglia di fare molto.
Quando lasciò scivolare il cappotto sul pavimento, qualcosa cadde a terra facendo più rumore del tonfo sordo che si sarebbe sentito altrimenti.
Le lac des cygnes rotolò via, rivelandosi in tutto il suo splendore. Emma rimase interdetta per un momento, bloccata con il braccio a mezz’aria non sapendo se raccoglierlo o meno. Successivamente si decise, prese il diamante e si rigirò la catenina tra le dita.
Un flashback.
 “Voglio che tu mi ritragga con questa addosso, solo con questa addosso.”
Scacciò velocemente il pensiero di lui e delle sue mani che si muovevano rapide sul foglio bianco, scacciò dalla sua mente i suoi occhi languidi che fissavano il suo corpo nudo mentre la ritraeva. Appoggiò bruscamente la collana sul mobile e si svestì rapidamente per immergersi nella vasca, l’impatto con quel tepore fu un sollievo. L’acqua bollente sciolse i suoi muscoli ancora tesi, ma sciolse anche i suoi pensieri tanto da non riuscire più a frenarli.
Quando l’acqua cominciò a diventare fredda uscì come un automa, senza rendersi veramente conto di quello che stava facendo si asciugò e si rivestì.
Capì subito che non sarebbe più riuscita a sopportare il freddo perché, anche adesso in quel luogo caldo, continuava a sentirlo dentro le ossa.
Prese la collana e tornò a metterla nella tasca del cappotto, trascorse tutto il resto del giorno così, passeggiando solitariamente e pensando a cosa fare.
Non voleva rischiare di andare da Neal per restituirgliela, ma non poteva nemmeno tenerla e non sarebbe riuscita nemmeno a venderla. Ed anche se non sapeva come sopravvivere al momento, dove andare o dove dormire non appena sarebbe sbarcata in America, non voleva ottenere qualcosa in quel modo e non voleva privarsene per darla al miglior offerente. Era pur sempre un simbolo, aveva condiviso uno dei più entusiasmanti momenti della sua vita con quella addosso.
Pensò nuovamente a cosa aveva provato quando stesa su quel divanetto, lui l’aveva vista indugiando più volte sulle sue curve morbide. Pensò a come si fosse sentita viva nel suo sguardo e libera, non poteva darla via così.
Quando la notte calò inesorabile come sempre, si ritrovò a sgattaiolare via verso il ponte. In giro non vi era praticamente nessuno, era una notte serena, il cielo era ricco di stelle ed il mare era così calmo.
Si avvicinò alla grata ed estrasse nuovamente il gioiello dalla tasca, da quando aveva scoperto che fosse lì il cappotto sembrava pesare molto più di quanto non avesse fatto in precedenza.
Lo portò più vicino agli occhi per vederlo meglio un’ultima volta e poi lo lasciò cadere, ed era il mare che nuovamente si prendeva qualcosa di suo.
Fu quasi una liberazione lasciarlo andare, calde lacrime sgorgarono dai suoi occhi e si ritrovò inginocchiata su quelle assi di legno.
Aveva bisogno di farlo, di piangere, di sfogarsi. Il dolore doveva pur venir fuori in qualche modo, solo così avrebbe potuto affrontarlo, perché come si può affrontare qualcosa che non viene fuori?
 
*

“Hai preparato la colazione” constatò felice, girandole intorno e posizionandosi dietro di lei per cingerle la vita con le mani.
Emma si voltò lentamente, notando amabilmente quanto il suo petto nudo fosse caldo e accogliente, le sue labbra strisciarono tracciando il contorno dei suoi addominali scolpiti, percorrendoli fino a giungere al collo e poi alla bocca già dischiusa.
“Per inaugurare la nostra nuova casa” mormorò. Un bacio, poi un altro ed uno ancora.
“Credevo che l’avessimo già inaugurata stanotte” arricciò le labbra, prima di farle scorrere piano dietro al suo orecchio scatenandole una miriade di brividi lungo la schiena.
“Abbiamo inaugurato solo una stanza” ribatté lei, le braccia si attaccarono al suo collo mentre le mani di lui passavano sotto al suo sedere per tirarla su. Emma rispose subito, circondandogli la vita con le gambe lunghe e passando una mano tra i suoi capelli neri. Li scompigliò piano, erano così morbidi e belli, amava accarezzarli.
Gli occhi chiusi assaporavano quelle lente carezze.
“Dobbiamo rimediare allora.” Le sue parole la colpirono piano e con un sussulto aprì gli occhi per essere inchiodata subito dal suo sguardo azzurrino. Mugugnò piano in segno di assenso e riappoggiò le labbra sulle sue.
Il vento freddo del mattino le scompigliò i capelli, insinuandosi sotto gli strati di vestiti che aveva addosso. Si portò una mano sugli occhi, stropicciandoli un po’ fino a quando riuscì ad aprirli. Sbatté le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco dove si trovasse, non vi era nessuna casa accogliente, nessuna colazione o braccia a cingerla. Non vi era niente di quel calore che aveva sentito fino a qualche momento prima, ma vi era soltanto una panchina fredda ed ancora il mare. Capì di essersi addormentata lì la sera prima, probabilmente in lacrime dato le condizioni in cui versavano i suoi occhi e le sue guance.
Chiuse nuovamente gli occhi in modo deciso, stringendosi nelle braccia per darsi conforto. Voleva assolutamente fuggire da lì e tornare nel suo sogno, tornare in quel posto caldo, tornare tra le sue braccia. Ed era così irrazionale volersi rifugiare in una fantasia, qualcosa che ormai non era più realizzabile. Non era solo irrazionale, era anche stupido.
<< Lasciarsi andare alla speranza non è mai stupido, Emma. >> Le parole di sua madre risuonarono nelle sue orecchie, provocando un gran trambusto. Portavano ancora il ricordo dolce amaro di quello che era prima di perdere il marito. Mary Margaret era una persona diversa, dolce e solare. Profondamente innamorata di suo marito, così tanto da andare via con lui quando era morto. Quello che traspariva adesso era solo una scorza dura e incattivita dagli eventi, la sua parte buona, la sua parte dolce era andata via con David. Quando il cuore dell’uomo aveva cessato di battere, anche quello della donna aveva perso una battito, non riusciva ad essere più quella di prima. Nemmeno per sua figlia, nemmeno per il bambino che aspettava e che aveva perso in seguito allo shock. Ed adesso a distanza di anni, c’era ancora qualcosa che bruciava in lei e che la uccideva ogni volta che vedeva il suo David negli occhi verdi di Emma.
<< Lo è, quando non vi è più speranza. >> Lo disse ad alta voce, ripetendolo a se stessa come un mantra per cercare di convincersene.
Voleva soltanto sognarlo ancora, voleva vivere con lui almeno lì, nei suoi sogni ed invece adesso era più sveglia che mai, i raggi del sole si erano fatti alti nel cielo e la gente cominciava a popolare il ponte. Questo voleva dire non avere più l’opportunità di dormire, anzi sarebbe stato meglio tornare nell’ombra.
Si alzò lentamente per avviarsi verso gli interni quando una voce la costrinse a voltarsi.
“Emma, sei tu?” L’uomo le corse in contro, fermandosi a pochi centimetri da lei. La guardò bene, era lei nonostante gli occhi rossi e le occhiaie profonde.
La bionda annuì piano, cercando di tirare su le labbra in un debole sorriso ma fallendo miseramente.
“Emma, dov’è Killian?” Una pugnalata, il coltello le penetrò il cuore in modo forte e deciso, poi le si rivoltò dentro per farla soffrire ancora di più perché un taglio netto non bastava.
Non disse nulla, non riuscì proprio a parlare. Un singhiozzo le salì in gola, così che quando aprì bocca per dare fiato alle parole non vi riuscì e dovette richiuderla. Voltò semplicemente la testa a destra e a sinistra, mentre continuava a guardare Robin.
Si portò una mano in bocca per impedire ai singhiozzi di uscire e si lasciò andare nell’abbraccio caldo dell’uomo.
Anche quello era visibilmente scosso, si era affezionato così tanto a quel ragazzo e sapere che non ce l’aveva fatta era straziante.
Emma si ritrasse, doveva essere forte perché era quello che lui voleva. Poteva rimanere a compiangersi soltanto altri due giorni, il tempo di arrivare in America, poi avrebbe dovuto prendere in mano la sua vita e rispettare la promessa che gli aveva fatto.
Con una mano si asciugò il viso, ciocche di capelli le ricaddero davanti in maniera scomposta e cercò di riportarle indietro per evitare che si attaccassero alle lacrime.
“Regina invece?” Non sapeva cosa aspettarsi, Robin era visibilmente sconvolto per la notizia che aveva appena ricevuto ed anche lui quasi sul punto di piangere.
“Lei.. Lei sta bene.” Abbassò gli occhi, quasi mortificato dal fatto che entrambi ce l’avessero fatta mentre i suoi amici no. Lei lo vide e gli afferrò una mano tra le sue, “sono contenta per voi” mormorò piano, cercando in ogni modo di sorridere ma facendo uscire solo l’ennesima smorfia.
“Vieni, sarà davvero contenta di vederti” le poggiò una mano dietro la schiena e la condusse dentro con sé.
 
*

Emma aveva trascorso tutto il resto della giornata con loro. Regina era stata molto contenta di rivederla, le aveva stretto le mani nelle sue e, quando aveva saputo della brutta notizia, l’aveva abbracciata forte.
Era stata grata della compagnia dei suoi amici, ma vederli insieme era così doloroso.
Si sentì in colpa più volte durante la giornata, maledicendosi mentalmente per quei pensieri. Loro stavano bene ed erano insieme, e lei era felice per loro, felice davvero. Tuttavia, c’era un’altra sensazione che le stringeva forte il petto, una sensazione che non avrebbe voluto provare, il rammarico.
“Io vorrei rimanere da sola adesso, perdonatemi.” Si scusò, mentre si alzava dalla panchina in cui avevano trascorso parte del pomeriggio, e si congedò.
Ritornando dentro, fu percorsa dalla voglia di riscendere nel luogo in cui aveva incontrato quell’infermiera. Non sapeva per quale motivo si sentisse così legata a quel luogo, come se uno strano magnetismo la spingesse a scendervi, aveva cercato di ignorare quella sensazione e vi era riuscita per parte del tempo, ma adesso era ritornata prepotentemente e non poteva fare altro che cedervi. Cedere davanti alle sue sensazione e alla sua curiosità.
Percosse velocemente il corridoio e si accinse a scendere le scale. Pochi minuti più tardi era nuovamente davanti a quella porta chiusa.
Una mano andò a posarsi, involontariamente, sulla maniglia in ottone.
“Ti serve qualcosa cara?” Nuovamente una voce alle sue spalle, la stessa voce, l’aveva beccata anche stavolta. Si chiese come mai quell’infermiera continuasse ad entrare ed uscire da quella stanza ma accantonò velocemente quel pensiero per voltarsi verso di lei.
“Ah, sei ancora tu.” Sottolineò la donna, avvicinandosi a lei bonariamente.
“Io, io mi chiedevo se potevo dare una mano” propose Emma.
“Ti ringrazio cara, ma riesco a cavarmela da sola. Ci sono persone che hanno solo bisogno di altre cure e riposo, sono sicura che potrai renderti utile al piano di sopra, magari in cucina.” Le concesse, un sorriso gentile ad illuminarle il volto.
La ragazza annuì e nuovamente sconfitta si recò al piano superiore.
Fece come l’infermiera le aveva consigliato però, non riusciva più a stare ferma a far nulla. La sua mente vagava troppo nei meandri di pensieri dolorosi e questo rischiava seriamente di farla impazzire. Doveva impegnarsi in qualcosa, tenersi occupata o sfiancarsi tanto da crollare addormentata non appena si fosse messa a letto, o in qualsiasi luogo della nave in cui potesse appoggiarsi a riposare.
Era quasi ora di cena, per cui si recò silenziosamente nelle cucine e pregò perché le facessero fare qualcosa, così trascorse qualche ora immersa tra alimenti e stoviglie da lavare, tuttavia la sua mente non riusciva proprio a distrarsi ed il dolore non si affievoliva per nulla. Colpiva costantemente ad ondate continue, senza un attimo di pausa, senza nemmeno darle il tempo di fare un respiro.
Non aveva ottenuto il risultato sperato, ma almeno si era resa utile in qualche modo.
Lasciò le cucine una volta che la cena fu servita a tutti, portandosi dietro un piatto di brodo caldo. Non aveva fame, ma aveva la costante sensazione del freddo sulla pelle e così bevve quella poltiglia bollente nella speranza di trarne sollievo.
Mancava appena un giorno, soltanto un giorno e avrebbe rimesso piede sulla terra ferma. Sicuramente diversa da com’era quando dieci giorni prima si accingeva a lasciare il porto di Southampton, forse più forte ma segnata da qualcosa che non sapeva come lasciare andare.
E dire che gli aveva promesso che lo avrebbe fatto, che se lo sarebbe lasciato alle spalle. Come aveva potuto essere così stupida?
Prese una coperta e si adagiò in un angolino, sperando di essere abbastanza stanca d’addormentarsi senza pensare così da potersi lasciare andare prima ai sogni e magari, se avesse avuto fortuna, rivederlo lì.
Rivederlo mentre si occupavano di quella quotidianità che non avevano avuto il tempo di sperimentare, o semplicemente sentirlo vicino mentre si abbracciavano tra le coperte calde, sul divano o in qualsiasi altro posto purché fossero insieme almeno nei sogni.
 
*

Il risveglio fu più doloroso di quello del giorno precedente, il motivo le fu subito chiaro. Non aveva sognato nulla, o forse come diceva Freud – ricordava di aver letto un suo scritto sull’interpretazione dei sogni – semplicemente lo aveva dimenticato. E se lo aveva dimenticato era impossibile che si trattasse di lui, lui che era stato al centro dei suoi pensieri fin dal primo momento, a meno che non si trattasse di un evento così doloroso che la sua mente si era rifiutata inconsciamente di riprodurre.
In ogni caso, il risveglio era stato pessimo. Forse doveva semplicemente essere grata che non le venisse nuovamente sbattuto in faccia tutto quello che non avrebbe avuto, ma non lo era.
Si alzò lentamente, e si preparò per affrontare quell’ultima giornata su quella nave. L’arrivo era previsto per il tramonto, ora più, ora meno.
Durante la mattina vide Robin e Regina, che con sua grande sorpresa erano in compagnia di Filippo e Aurora, anche loro ce l’avevano fatta quindi. Sorrise, era felice per loro ma non se la sentiva di parlargli. Non voleva vedere lo sguardo che sapeva le avrebbero rivolto e la pietà che inconsapevolmente nasceva dopo.
Rimase appartata, vide sul volto di Filippo la felicità scemare piano e trasformarsi in dolore. E poi, lo vide chiaramente mentre stringeva il corpo di Robin per ricevere conforto.
Si dispiacque per lui, ma non se la sentiva proprio di avvicinarsi e, anche se lo avesse fatto, non avrebbe comunque saputo come confortarlo visto che non riusciva a confortare nemmeno se stessa.
- Magari un giorno, magari riuscirai a parlare con loro - si disse, mentre voltava le spalle per tornarsene dentro.
 

Le operazioni di sbarco erano durate parecchio tempo, aveva sentito chiaramente le eliche smettere di girare ed il tonfo profondo della grossa ancora che veniva gettata in mare. Era rimasta sul ponte, in un angolo appartato, per assistere chiaramente a tutte le operazioni che si stavano svolgendo. I capelli bagnati dalla pioggia le ricadevano davanti appiccicandosi al suo viso, ma a lei non importava granché, non le importava proprio in realtà.
Una grande quantità di persone ingombrava le strade del porto, probabilmente alcuni stavano aspettando per avere notizie di parenti, amici, colleghi. La notizia doveva pur essersi diffusa in quei giorni, l’allarme di SOS era stato lanciato subito dopo l’impatto, e difatti c’era pure qualche giornalista che sicuramente voleva documentare la scena.
In ogni caso, avevano dato istruzioni di non allontanarsi dal porto perché dovevano segnare i nomi di tutti i passeggeri per comprendere quale fosse la reale situazione e quanti fossero i sopravvissuti. Non l’avevano fatto prima perché a bordo della nave risultava parecchio difficile stabilire un ordine, mentre adesso che erano arrivati sarebbe stato più facile.
 
*

Emma si trovava davanti alla statua della libertà da alcuni minuti, era così grande, molto più di quanto ricordasse.
Era tornata a casa, ma non si sentiva sollevata. Non aveva più una casa in cui tornare, forse l’aveva ma non voleva tornarvi. In realtà, non sapeva nemmeno dove avrebbe trascorso la notte. Una grande avventura l’attendeva, un’avventura chiamata vita.
Passò diverso tempo ad interrogarsi su cosa avrebbe fatto, ma non aveva risposte. La prospettiva di vivere alla giornata era meno spaventosa quando pensava che sarebbe stata con lui.
Invece adesso era un grande e preoccupante punto interrogativo.
Notò un ufficiale che s’incamminava verso di lei, probabilmente per avviare le pratiche di riconoscimento. La pioggia continuava a battere violentemente sul suo viso, e nonostante il freddo continuava a starsene ferma.
“Signorina, può dirmi il suo nome?” Chiese, coprendola con l’ombrello che teneva tra le mani.
“Emma” pronunciò piano, voltandosi verso di lui e poi tornando ad osservare l’enorme monumento. L’ufficiale appuntò il nome in un taccuino aspettando che la ragazza gli dicesse anche il cognome, ma quella sembrava persa in chissà quale pensiero e perciò dovette attirare nuovamente la sua attenzione.
“Il suo cognome?” Chiese piano, quasi dispiaciuto dal doverla distrarre.
“Jones” sussurrò lentamente, scandendo in modo chiaro ogni lettera. Rivolse nuovamente lo sguardo verso di lui, aspettando che scrivesse anche il cognome dopo di che l’uomo annuì e andò via, lasciando che la pioggia tornasse a bagnarla.
“Non sapevo che fossimo già sposati” una risata cristallina la colpì alle spalle, provocandole un tumulto interiore che non seppe controllare. Si voltò automaticamente e lo vide.
Lui era lì, i capelli neri bagnati gli ricadevano sulla fronte ed i suoi occhi azzurri erano più luminosi che mai.
Tutto successe in un attimo poi, lei non era più ferma immobile ma era nuovamente tra le sue braccia. Fu tutto un incontro di braccia che si stringevano e labbra che si assaporavano ancora una volta. Killian portò le sue mani sul viso della sua Emma, scostandole i capelli davanti e appoggiando la fronte sulla sua prima di baciarla ancora.
La pioggia si confuse con le sue lacrime mentre continuava a stringerlo così forte da mozzargli il respiro, da fargli male, ma lui non disse nulla. Si lasciò abbracciare e ricambio con altrettanta intensità, ed anche dai suoi occhi sgorgarono calde lacrime che si fusero con quelle di Emma in un intreccio d’amore e speranza.
“Tu eri lì, com’è possibile?” Singhiozzò forte la ragazza, non voleva staccarsi per paura che svanisse, che fosse tutto frutto della sua immaginazione che voleva farle male.
Non poteva essere, lui era lì, il suo corpo era caldo, le sue lacrime reali e sentiva il suo respiro sulla pelle. Non poteva essere un’illusione.
“Sono qui, Emma.” La cullò ancora tra le sue braccia, continuò ad asciugare le lacrime che le rigavano il viso ed a stringerla contro il suo cuore.
“Io ero così persa” pianse ancora, immergendosi con il viso nel suo petto e lui le accarezzò i capelli e le baciò il capo, la fronte e qualsiasi punto potesse raggiungere.
“Mi sono sentito perso anch’io, ed ho avuto paura di non ritrovarti. Poi mi sono convinto che fosse impossibile, ti ritroverò sempre.” Il panico era chiaro nella sua voce, voleva soltanto stringerla e stare abbracciato a lei per tutta la vita. Non gli importava di mangiare, di bere o di respirare, voleva stare soltanto lì abbracciato a lei e non lasciarla mai andare.
“Non mi perderai mai più” un singhiozzo sfuggì alle sue labbra, “ma-a dove sei stato? Come..” Mille domande affollavano la sua mente stanca, non riusciva a capire come avesse potuto non vederlo se erano stati cinque giorni sulla stessa nave.
“Ti spiegherò tutto, solo non adesso.” Lei annuì, non le importava delle spiegazioni, importava soltanto che lui fosse con lei.
“Ti amo.” Disse a gran voce, puntando i suoi occhi verdi nell’azzurro. Killian sorrise di un sorriso puro e genuino. Tutto il suo corpo si protrasse verso di lei in automatico come se fossero due calamite ed Emma sentì nuovamente quello strano magnetismo, quella sensazione che la spingeva a voler aprire quella porta.
“Ti amo anch’io, Emma.” Quello era davvero l’inizio, il loro inizio!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Image and video hosting by TinyPic

Titanic

Capitolo 11
 
 
Fill the sky with all they can drop,
when it’s time to make a change.

Make it rain.
 
La pioggia continuava a scendere senza sosta mentre i due ragazzi continuavano a baciarsi sotto di essa. Il freddo non scuoteva le loro calde anime, riscaldate dalle sensazioni che stavano provando stretti nel loro abbraccio.
Era tutto diverso, le circostanze erano diverse ed anche loro erano cambiati dopo quell’esperienza, tuttavia qualcosa era rimasto immutato ed era destinato a rimanere tale per sempre, l’amore reciproco che nutrivano e che aveva squarciato il loro mondo senza preavviso, pulsava ancora più forte in quel momento ed era un suono talmente forte e nitido che potevano sentirlo entrambi nelle proprie orecchie.
E mentre la pioggia scendeva lasciando rivoli sul viso dei due, Killian continuava ad accarezzare le gote arrossate di Emma scostandole dolcemente i capelli che le si erano appiccicati alla fronte e lei, d’altro canto, continuava ad inchiodarlo con quelle pozze verdi che gli promettevano tutto il calore possibile. Non lo faceva soltanto per dar vita ad una muta promessa, ma anche perché nutriva il bisogno di imprimere nella sua memoria ogni singolo istante ed ogni singola sfumatura dei suoi occhi blu, resi scuri dalla sera ma più brillanti che mai.
“Grazie” mormorò all’improvviso, staccandosi un attimo dalle sue labbra e facendo scorrere la mano sulla sua guancia arrivando al lobo del suo orecchio e dietro al collo, un punto particolarmente sensibile per il ragazzo.
“Per cosa?” Chiese lui, portando i pollici sotto ai suoi occhi per raccogliere qualche lacrima che si era fusa con le gocce di pioggia.
“Grazie per non essere morto” confessò ed un singhiozzo le fece tremare il petto, mentre il cuore batteva più freneticamente nella sua cassa toracica ed il respiro si spezzava un po’, prima di far rinascere sulle sue labbra rosee il sorriso che lui tanto amava vedervi. Le mani di Killian scesero subito a cingerle le spalle dapprima con dolcezza e poi in modo più protettivo, una piccola pressione e lei si ritrovò di nuovo tra le sue braccia, il suo viso poggiato al petto di lui e le braccia intrecciate attorno alla sua vita.
“Ho fatto del mio meglio per tornare da te.”
 
 
“Killian” una voce alle loro spalle riscosse entrambi, ed un gruppetto di quattro persone si avviarono freneticamente verso di loro, “sei vivo” una domanda retorica spezzò il silenzio che si era creato, un silenzio bello non di quelli imbarazzanti, un silenzio di felicità che non aveva bisogno di essere riempito da stupide parole. La curiosità però ebbe la meglio ed allora Filippo aveva permesso alla sua bocca di formulare quelle due parole, che poi erano un dato di fatto.
Con le mani gli scosse le spalle, voleva accettarsi che non fosse frutto della sua immaginazione. Impossibile tra l’altro visto che lo vedevano anche gli altri, ed utilizzando la logica non avrebbe avuto bisogno di strattonarlo, ma la logica non esisteva in quel momento, sostituita dall’euforia e dalla gioia.
“Lo sono, ammesso che tu smetta di strattonarmi” lo sfotté, poi subito dopo abbracciò sia lui che Robin. Regina abbracciò calorosamente Emma, davvero felice di non vedere l’espressione che aveva scorto sul suo volto qualche giorno prima. Quell’espressione persa, spenta e piena di dolore. Le erano bastati un paio di minuti con il suo amore per ritrovare lo spirito guerrigliero che aveva sempre mosso il suo animo.
“Dobbiamo festeggiare!” Esclamarono in coro i due uomini, ed un’espressione maliziosa si dipinse sul viso di Killian perché effettivamente c’era un modo in cui voleva festeggiare. Non gli importava di stare fuori a far baldoria, voleva solo stringerla tra le sue braccia ed il luogo non era importante. Quella era la sua precisa idea di festeggiamento, l’averla con sé.
“Ne avevamo tutta l’intenzione” disse ammiccando, rivolgendo il busto ed il viso verso la sua donna che era rimasta di qualche passo più indietro per permettere agli altri di abbracciarlo. Allungò il braccio per afferrarle la mano, fece scivolare le dita tra le sue permettendo a quell’incastro perfetto di crearsi e la trascinò un po’ più vicina al suo corpo.
“E’ giusto fratello. Parleremo meglio domani, quando saremo tutti un po’ più tranquilli” Filippo lo rassicurò con una pacca sulla spalla, poi rivolse lo sguardo verso il resto della compagnia e li fissò qualche secondo con aria spaesata.
“Ma.. Dove dormiremo stanotte?” Chiese, il suo tono buffo suscitò una risata generale, tuttavia la sua era una preoccupazione più che legittima.
“C’è una pensione a qualche isolato da qui, prima ho sentito degli ufficiali che ne parlavano ed hanno offerto ospitalità per la notte a tutte le persone coinvolte nella tragica vicenda che non avevano parenti qui ad aspettarli. E’ solo per una notte, ma meglio che niente. Da domani, dovremo inventarci qualcosa.” Regina spiegò tutto con tono tranquillo, ma Robin riusciva a scorgere perfettamente la preoccupazione che celava dietro a quell’apparente imperturbabilità.
“Sono appena tornato dal regno dei morti, suvvia ragazzi, state tranquilli domani ci inventeremo qualcosa.” Ed era questa una delle doti di Killian Jones, lui riusciva ad infondere sicurezza e coraggio alle persone. Aveva vissuto situazioni peggiori, come quella appena scampata, ed era sopravvissuto contro ogni aspettativa e logica quindi pensava di potercela fare, che tutti loro potessero farcela realmente a reinventarsi. La vita era un’immensa distesa di possibilità, doveva soltanto cogliere quelle giusta ed anche se faceva paura era comunque elettrizzante, soprattutto adesso che sentiva la voglia di condividere tutto con un’altra persona.
 
 
Qualche ora più tardi si ritrovarono in una stanza veramente piccola ma anche molto pulita ed accogliente. Il letto era posto al centro ed era ornato da una bella coperta blu e dorata. Una piccola scrivania si trovava appoggiata al muro sotto la finestra ed un piccolo tavolo con qualche sedia nella parte opposta, inoltre vi era un armadio abbastanza grande di legno bianco ed una piccola porticina che portava probabilmente ad un piccolo bagnetto.
“So che sei abituata a stanze diverse” sussurrò al suo orecchio, mentre l’avvolgeva tra le braccia e camminavano insieme senza sciogliere quel contatto.
Emma si voltò, sfregando il suo naso nel palmo della mano di Killian ed ispirando il suo odore muschiato. “Non mi importa affatto il luogo in cui starò, m’importa con chi ci starò.”
“Devo preoccuparmi?” Rise lui, e la sua risata riempì tutta la stanza.
“No, sciocco. Parlavo di te, io parlerei solo e sempre di te.” E la sincerità disarmante che vi lesse in quegli occhi, gli fece capire che non ne avrebbe mai dubitato.
“Ti amo.” Annuì piano, un unico sorriso che illuminò tutto il suo mondo.
La sua fronte si appoggiò automaticamente a quella di Emma ed i loro respiri si fusero insieme.
“Ti va di fare un bagno con me?” Le domandò, sfregandole piano le braccia e facendola voltare verso la piccola porta all’angolo della stanza che presupponeva, giustamente, essere il bagno.
“Almeno questo sarà più caldo dell’ultimo” disse lei e quelle parole sfuggirono alle sue labbra senza alcun controllo e le provocarono un brivido che si diffuse in tutto il corpo, mentre le immagini di quella gelida sera le infestarono il cervello come un fantasma dalla quale non riusciva a liberarsi.
“Lo supereremo, Emma. Siamo insieme e riusciremo a superarla” prese un respiro profondo e continuò: “e adesso stenditi qualche minuto, vado a riempire la vasca.”
“No, vado io. Tu dovresti stenderti e riposare per questa sera” lo ammonì.
“Sono stato a letto per quattro giorni senza la possibilità di venire da te, quindi adesso basta. Sto bene, sono qui e sto bene!” Afferrò le sue mani e le portò sul suo viso come per farle comprendere che era lì, che non sarebbe andato da nessuna parte, non senza di lei.
 
‘Cause honey your soul can never grow old, it’s evergreen.
 
Dopo una buona manciata di minuti, la vasca era piena e l’acqua era calda e piacevole. Lui si spogliò completamente di tutti quegli indumenti ancora umidi a causa della pioggia. Li spinse con i piedi in un angolo e si avviò verso la vasca, il contatto con l’acqua e la differenza di temperatura gli provocò un brivido che col tempo divenne piacevole. Appoggiò la testa al bordo bianco e lasciò che le braccia cadessero a penzoloni ai lati.
“Emma, il bagno è pronto.” La chiamò, e la ragazza lo raggiunse subito trovandolo già comodamente immerso. I suoi occhi attraversarono in modo languido tutto il suo profilo, scorrendolo un po’ di volte prima di avvicinarsi. Scompigliò piano i suoi capelli neri mentre lui chiudeva automaticamente gli occhi per bearsi di quel contatto, poi la sua mano scese piano tastandogli la barbetta ispida ed i peli del petto e scontrandosi con l’acqua, ed era così piacevolmente calda che la voglia di immergersi divenne molto prepotente. Killian le bloccò il polso, aprendo gli occhi di scatto ed inchiodandola in uno sguardo malizioso. La fece abbassare piano per avvicinarsi al suo orecchio, “credo sia arrivato il momento di togliere tutti questi inutili indumenti” la voce sempre più ruvida ed il respiro di lei si alterò quando lui soffiò piano sul suo orecchio. Era una visione, non il vederlo lì, ma lui. Lui era veramente una visione, ed era così sexy in quella posizione, con il ciuffo bagnato ed i peli del petto in bella vista.
Emma si alzò piano e cominciò a togliersi i vestiti molto lentamente. Troppi strati di stoffa la coprivano ai suoi occhi e lei toglieva ogni indumento con una lentezza esasperante così che quando anche l’ultimo pezzo raggiunse il pavimento, lo sguardo di lui si allargò e gli mancò per un attimo il respiro.
“Sei ancora più bella di quanto ricordassi” mormorò, poi porgendole la mano la invitò ad entrare nella vasca con lui. I piedi di lei sfiorarono le gambe muscolose del ragazzo che si contrassero dopo quel contatto, poi le allargò un po’ per permetterle di posarvisi in mezzo. L’eccitazione di entrambi cresceva ad ogni secondo, ancor di più quando i glutei di Emma si appoggiarono sul fondo della vasca e nel farlo strusciarono contro il membro di Killian. Lui le avvolse le braccia con le sue e lasciò che le sue mani si appoggiassero sui suoi seni che prese lentamente ad accarezzare, mentre la ragazza riversava la testa sulla sua spalla e gemeva piano. I capelli dorati si sparpagliarono sul petto di lui, che vi avvicinò il naso per ispirare forte il suo profumo. Poi la sua mano scese abbandonando il suo capezzolo e seguendo il profilo dell’acqua accarezzandole le gambe, scendendo fino al polpaccio e risalendo su, insinuandosi piano nel suo centro pulsante di desiderio, Emma strinse le gambe automaticamente attorno alla sua mano per spingerlo a fare di più e lui l’accontentò, prese a stuzzicarle il clitoride prima di affondare piano due dita in lei. Il respiro della donna diventò sempre più irregolare, la sua testa dondolava frenetica sostenuta dal petto di lui ed i seni si abbassavano ed alzavano seguendo quel ritmo, i suoi gemiti riempirono la stanza facendo eccitare Killian ancora di più mentre accompagnava il tutto con tocchi più veloci, per poi tornare ad essere lento e poi veloce ancora.
“Oh.. Killian” il suo nome che risuonava sulle labbra di lei era come una dolce poesia. Un ultimo spasmo la scosse profondamente mentre raggiungeva il piacere ed un sospiro pesante l’accompagnò prima di riadagiarsi sul suo petto accogliente.
“Sei una visione” le sussurrò all’orecchio.
 
Will your mouth still remember the taste of my love.
 
Emma voltò il capo per arrivare al suo viso ed appoggiò le labbra ancora un po’ tremanti sulle sue tirate già a formare un sorriso, un bacio casto e appena accennato che dopo qualche minuto fu sostituito da qualcosa di più profondo. Killian si prese il tempo necessario per esplorare la sua bocca, tastando ancora il gusto dolce delle sue labbra mentre l’acqua cominciava a raffreddarsi disturbando un po’ entrambi. Sciolsero il contatto e la passione di poco prima lasciò il posto alla tenerezza, così il ragazzo prese ad insaponarle piano le spalle, alternando quel massaggio a piccoli baci che tracciavano il profilo del collo e della bianca schiena, fermandosi sulle piccole lentiggini che costeggiavano la parte alta delle spalle. E poi fu il suo turno di bearsi delle carezze della sua Emma, mentre lentamente gli sfiorava il petto muovendo le dita in lenti movimenti circolari.
Dopo qualche minuto si risciacquarono e Killian si alzò scostandola dolcemente per uscire dalla vasca mostrando la sua gloriosa nudità ed a lei non sfuggì affatto, non le era mai sfuggito quanto fosse bello. Il ragazzo prese una tovaglia avvolgendosela ai fianchi e poi una più grande con cui avvolgere completamente lei.
“Mi racconterai quello che è successo?” Domandò lei, mentre si asciugava completamente.
“Non stasera.” La prese per mano, lasciando che l’asciugamano scivolasse via e rimanesse sul pavimento. La condusse nell’altra stanza, invitandola a posizionarsi al centro del letto.
“Domani?” Voleva essere sicura che lui le parlasse, perché voleva condividere la sua paura ed il suo dolore, voleva farsene carico ed alleggerirlo un po’.
“Domani” promise Killian, prima di abbassarsi a baciarla nuovamente.
Lei ricambiò simultaneamente e le sue mani si posarono sulle spalle larghe del ragazzo per trascinarlo giù.
“Saranno stati giorni difficili” pronunciò piano, toccandole gli occhi con la punta delle dita, i suoi occhi verdi erano belli e luminosi ma dicevano ciò che lei in realtà non aveva confessato. Non doveva aver dormito molto in quegli ultimi giorni.
Emma annuì, “non riuscivo a dormire senza di te.”
“Possiamo dormire adesso, a me basta solo stare al tuo fianco ed abbracciarti per sentirmi felice. Potremmo rimandare queste piacevoli attività” fece scorrere lentamente la mano sul suo fianco, “a domani.” Concluse, baciandole una guancia dolcemente.
“No, sto bene e ti voglio adesso. Siamo stati lontani troppo a lungo, ed io voglio tutto di te.” Una mano impertinente si fece largo sulla schiena di lui raggiungendo la sua natica destra ed accarezzandola piano.
“Fai l’amore con me.” Emma soffiò quelle parole sulle sue labbra, dolcemente e sensualmente. Un misto di sensazioni invasero lo stomaco di Killian e la lussuria riempì il suo sguardo. Si puntellò sui gomiti per non pesare su di lei e si abbassò piano fino a far sfiorare i loro nasi, “sono un ragazzo molto fortunato ad averti.”
“Puoi dirlo forte” lo prese in giro lei, prima di annullare definitivamente le distanze e scagliarsi sulle sue labbra.
Il bacio fu lento e profondo, le labbra di Killian si spostarono ovunque. Percorsero il suo profilo, sugli occhi, sul naso, sulla fronte e poi di nuovo sulle labbra e sul collo. Emma ribaltò la posizione portandolo sotto di lei e curandolo con lente carezze, i suoi seni sfregarono sul suo petto aumentando l’eccitazione del ragazzo che volle tornare alla posizione originaria per farla finalmente sua, di nuovo.
Emma trattenne il respiro per qualche secondo, e lui rimase fermo permettendole di adattarsi a quell’invasione che lei giudicava più che piacevole.
Dopo qualche secondo prese a muoversi in modo esasperatamente lento, ciocche di capelli neri gli ricadevano davanti accompagnando quei movimenti che man mano diventarono più frenetici.
“Emma..” Sussurrò più volte il suo nome tra i gemiti, aumentando tutte le sensazioni che la ragazza stava provando in quel momento.
 
Place your head on my beating heart.
 
“Ti amo, Killian.” Ed entrambi raggiunsero il culmine insieme, la testa del ragazzo andò ad appoggiarsi al petto di lei dove fu cullato per qualche attimo dal battito del suo cuore, poi si alzò per posarle un bacio sulle labbra dischiuse e le si mise accanto avvolgendola nel suo abbraccio. La ragazza si avvicinò, adagiando a sua volta il capo sul suo cuore palpitante, le loro gambe si aggrovigliarono ed il ragazzo prese ad accarezzarle piano i capelli.
“Dormi mia Emma, io sono qui con te e ci sarò sempre.” Lasciò che quelle parole la cullassero, poi pronunciò un “ti amo” tra i suoi capelli biondi e si addormentò anche lui.
 
 
Emma si svegliò di soprassalto mettendosi a sedere, la sua mano si mosse automaticamente percorrendo lo spazio accanto che trovò vuoto. Il sole non era ancora sorto, “Killian” chiamò piano, guardandosi intorno lungo la stanza.
“Sono qui” disse il ragazzo, uscendo dal bagno ed avviandosi verso di lei.
Tornò a riprendere posto al suo fianco e le accarezzò la fronte imperlata di sudore, le posò una ciocca di capelli dietro l’orecchio ed allargò il braccio per invitarla ad appoggiarvisi.
“Stai bene?”
“Si, solo un brutto sogno.” Ammise lei, nascondendo meglio la testa nel suo petto. “Scusami, io non voglio metterti pressioni e farti parlare di qualcosa di doloroso..”
 
But I don’t have to be so, please go back to sleep.
 
“Ma se io ti raccontassi, staresti meglio” concluse lui, alzando un po’ il cuscino ed appoggiandosi al muro. Nella penombra riusciva a distinguere ogni tratto del suo viso, in realtà vi riusciva anche al buio perché ogni suo singolo lineamento era impresso nella sua mente ed era stato quello che l’aveva tenuto in vita, il pensiero di lei.
“Non se fa stare male te” chiarì lei, accarezzandogli piano il petto e stringendosi un po’ di più alle coperte.
“Hai freddo” constatò lui, afferrando un lembo e tirandolo bene per coprire entrambi.
“Voglio condividerlo con te per aiutarti, condividerei tutto con te” ammise lei dolcemente.
“Lo so, ed io voglio parlartene, ma adesso? Non hai sonno?”
“No, sto bene così.” Ed allora il racconto cominciò.
 
 
Quando ho aperto gli occhi credevo di essere morto, non c’era più dolore e non sentivo più freddo. Intorno a me c’erano solo mille persone congelate, ricordo ancora i loro volti e penso che il mio fosse simile, quindi compresi che non potevo essere morto perché c’era ancora troppo intorno a me, mentre la morte avrebbe dovuto essere più semplice. Tu non c’eri più ed ero contento, significava che avevi mantenuto la tua promessa, o che quantomeno ci stessi provando e questo pensiero mi riscaldò il cuore. Ho cercato di tirarmi su per mettermi sulla porta, ma non riuscivo a muovermi. Ricordo di aver staccato con difficoltà le mani dal legno, ed erano così pesanti che davvero non riuscivo a fare nulla, non mi restava che rimanere lì ad aspettare che la morte sopraggiungesse, non potevo durare ancora molto.”
 
Emma rabbrividì e lui aumentò un po’ la presa per stringerla di più, ma sapeva che quelli non erano brividi dovuti al freddo. Si fermò e la guardò dolcemente, accorgendosi delle piccole lacrime che le imperlavano gli occhi ma che lei non voleva lasciare andare per dimostrargli che era forte e che poteva sostenerlo, e l’amò ancora di più in quel momento. Nemmeno per lei era stato facile, era stato traumatico per tutti e non era un’esperienza che avrebbero potuto dimenticare, potevano portarne il ricordo insieme però.
 
“Vidi una scialuppa che si avvicinava, degli uomini scostavano piano i corpi ghiacciati delle persone, ma erano ancora lontani da me ed io non avevo modo di richiamarli. Poi mi accorsi che forse uno strumento per fare rumore lo avevo ancora.” Le mostrò i polsi, facendoli ruotare sotto il suo sguardo e la ragazza dapprima non capì cosa intendesse, fece scivolare le dita su quelli ed erano perfettamente normali. Allora lo guardò per incitarlo a continuare e lui lo fece: “le manette” specificò.
“Avevo ancora le manette ai polsi, anche per questo li sentivo molto più pesanti.. Beh, oltre al freddo ovviamente. Ad ogni modo, avevo ancora le manette, perciò con tutta la volontà che nacque dal desiderio di rivederti, ho cominciato a sbatterle contro il legno della porta. Dapprima, non ci riuscivo molto ed il rumore non era nemmeno lontanamente udibile, però dopo qualcosa è cambiato, sentivo scorrere nuovamente l’adrenalina ed alla fine mi hanno sentito, ho visto la scialuppa tornare indietro ed è tutto quello che ricordo di quella notte. Successivamente, mi sono svegliato in un letto dopo qualche giorno ed avrei voluto subito venire da te, ma l’infermiera mi ha imposto di non uscire dalla stanza. Però ci sono stati dei momenti negli ultimi giorni in cui sentivo uno strano impulso spingermi fuori, uno strano magnetismo che mi esortava ad alzarmi, ma quando ero sul punto di uscire da quella stanza l’infermiera è tornata e mi ha beccato ed allora mi ha rimesso a letto.”
Ed allora Emma ricordò di aver provato la stessa sensazione, era stata proprio lì ad un passo da lui. Era così vicino, solo una porta bianca li aveva divisi per tutto quel tempo e se l’infermiera non l’avesse fermata quando stava per aprirla, l’avrebbe ritrovato molto prima.
“Conosco quella sensazione, mi sentivo così attratta dall’aprire quella porta. Sentivo un impulso fuori controllo di vedere cosa ci fosse dentro, ma sono stata beccata anch’io. Io ti sentivo, Killian. Sentivo quella sensazione che provo sempre quando sono con te. Ti sento.” Concluse, facendo scorrere ancora una volta la sua mano tra i capelli neri di lui, l’aveva fatto tante volte quella sera ma non si stancava mai di accarezzarli.
“Tu eri lì?” Chiese, voltandosi per poggiare la fronte contro la sua.
“Ero lì” acconsentì lei, “ero lì, amore mio.” Ripeté, gli accarezzò il viso e raccolse la sua commozione.
 
Tell me if you need a loving hand to help you fall asleep tonight.
 
“E poi, dopo come hai fatto a trovarmi?” Erano scese un sacco di persone da quella nave, non doveva essere stato facile riuscire a trovarla, c’era il rischio che si perdessero perché lei non sapeva nemmeno di poterlo cercare.
“L’America è la tua casa, ed io non lo so perché ma ero sicuro che saresti andata sotto la statua della libertà. Forse era l’istinto, forse perché so che rappresenta un simbolo per te e speravo che stessi continuando a rispettare la tua promessa, ero sicuro in realtà. Non sei più in gabbia, Emma, adesso sei libera. Siamo liberi di costruire la nostra vita insieme ed io so, credimi lo so, che non posso darti quello che avevi prima. Quindi spero che ti basti il mio amore e la promessa di una lunga vita con me.” Le sue grandi mani giocavano con le dita di lei, mentre con fatica ammetteva di non poterle offrire il mondo, le stava offrendo il suo cuore però che per lei rappresentava il mondo intero. Le offriva il suo cuore e la libertà di vivere fuori dalla sua gabbia dorata.
“E’ tutto quello che voglio e di cui ho bisogno” lo rassicurò, stringendogli saldamente la mano.
Si riaddormentarono così, le dita intrecciate ed il respiro condiviso.
 
I caldi raggi del sole penetravano dalla finestra, l’alba era passata da un po’ e dopo la pioggia della sera prima, era finalmente spuntato l’arcobaleno. Gli occhi di Killian si schiusero piano, una mano andò subito a ripararsi da quella luce a cui non era abituato dopo la lunga notte al buio. Si voltò verso di lei e rimase a fissarla per un po’, i capelli cadevano morbidi in piccoli boccoli che coprivano tutto il cuscino e la sue espressione era rilassata e felice, le labbra appena dischiuse e le loro mani ancora intrecciate. Quello era il paradiso, ed aveva attraversato l’inferno per raggiungerlo ma alla fine ci era riuscito. Quando l’aveva vista in piedi davanti alla statua della libertà aveva riprovato le stesse sensazioni di quando l’aveva vista la prima volta, e quando lei aveva pronunciato il suo cognome aveva quasi perso un battito.
Si avvicinò piano, lasciandole dei baci pigri sul collo e le guance fino a quando la sentì mugugnare qualcosa con la voce ancora impastata dal sonno.
 
‘Cause I love the way you wake me up.
 
“Pretenderò di essere svegliata così ogni mattina” chiarì dopo, tossendo per far tornare la voce e stirandosi per posargli un bacio sulle labbra.
“Mmm adorerò svegliarti ogni mattina allora” con un colpo di bacino fece in modo che finisse sotto di lui e prese a baciarle il collo con tocchi leggeri.
“Dobbiamo alzarci, vedere gli altri e trovare un posto dove stare.” Lo ammonì lei, ridendo e cercando di sottrarsi a quelle carezze.
“Lo faremo” cercò di convincerla lui.
“Adesso.” Ribatté lei, approfittando della sua distrazione per scostarsi e raccogliere le coperte. Si alzò velocemente lasciandolo lì, con un sorriso da ebete sulle labbra mentre la osservava camminare piano verso il bagno.
 
I’ll wake with coffee in the morning
but she prefers two lumps of sugar and tea.
 
Dopo qualche ora erano pronti, pronti per uscire da quella camera ed affrontare la vita, insieme.
Scesero le piccole scale in legno, trovarono un tavolo ed un’anziana signora gli servi la colazione, Emma prese una tazza di tè con due zollette di zucchero mentre Killian prese solamente un caffè nero.
Consumarono le bevande molto lentamente, mangiando anche qualche pezzo di pane caldo. Si stavano godendo quei momenti di quotidianità. Le cose semplici che fanno iniziare bene la giornata con accanto la persona giusta.
Scrissero una lettera nella quale dicevano agli altri che li avrebbero aspettati in un parco che avevano visto passando la sera prima ed uscirono mano nella mano godendosi la brezza mattutina.
Di fronte a loro: un viale di possibilità.
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Epilogo ***


Image and video hosting by TinyPic Epilogo 

Nelle settimane che seguirono, si raccontarono di tutto. Parlavano tanto Emma e Killian, alternando silenzi confortanti più delle parole, sguardi languidi e pelle che si sfiorava.  Lei gli raccontò della sua infanzia, dell’amore del padre e del cuore puro della madre prima che questo fosse macchiato dal dolore. Ed il ragazzo, a sua volta, le raccontò del mare e dei verdi prati. Le lunghe gite con la Jolly Roger, quel peschereccio ne aveva davvero passate tante. Si alternavano momenti felici e momenti tristi, ed il più straziante era stato ovviamente la morte della madre. Il suo sguardo si perdeva affogando nei ricordi, ed in quei momenti, nei suoi occhi illuminati da un piccolo lumino ad olio, Emma vi scorgeva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.*
Era stato battuto dal mare una volta, ma poi si era riscattato rifiutandosi di morire. Gli occhi lucidi di chi racconta le proprie paure e lo sguardo perso in un passato che non poteva dimenticare. Era bello vivere quei momenti insieme, quando ogni barriera veniva giù e rimanevano solo loro due a guardarsi con amore.
“Sai Emma, gli sono grato alla fine” sussurrò una volta, tracciando con le dita il profilo roseo della ragazza. Lei si perse in quei movimenti lenti, ed i suoi occhi si fecero curiosi.
“A chi?” Chiese, sistemandosi più vicino al suo fianco aspettando di ricevere una risposta. La pioggia batteva lenta contro il vetro della camera in cui alloggiavano. Non avevano ancora trovato una sistemazione stabile, lavoravano alla giornata. Killian era stato preso come aiutante al porto, ed Emma aiutava la signora che li ospitava nella locanda. Blue era una simpatica signora di quarant’anni, si era subito mostrata disponibile ad aiutarli, quasi come una fata madrina. Li aveva accolti ed aveva offerto loro un posto dove stare, ancora prima che Killian potesse pagarla, poi lui aveva trovato lavoro e le cose erano andate meglio. Si sentiva più soddisfatto come uomo, e non tornava più con l’espressione sconfitta e con il senso di colpa per la prospettiva di vita che stava offrendo ad Emma lei cercava sempre di alleggerirgli l’anima facendogli capire che era perfettamente contenta di stare con lui e che le cose sarebbero migliorate col tempo.
Killian fece un respiro profondo e poi puntò l’azzurro nel verde ancora una volta, ritrovandovi sempre qualcosa di intimo e familiare come il profumo delle crostate che sua madre gli preparava o le corse sul prato la domenica mattina quando papà era libero e si divertivano ad esplorare la terra, anziché la solita distesa blu cobalto.
“Al mare” mormorò piano, le scostò una ciocca di capelli che le era ricaduta sul volto e poté notare la sua espressione stupita, così si affrettò a spiegare, “mi ha dato tanto quanto mi ha tolto, mi ha dato te e non ero.. Non sono sicuro di meritare una simile fortuna.”
“Certo che la meriti. Il tuo animo è puro, sei un uomo buono ed hai lottato per me quando persino io ero stanca di lottare per me stessa.” Lo rassicurò, le sue dita scorrevano pigramente sul suo petto mentre assaporava quella consapevolezza, quella profonda verità. L’aveva salvata.
“Sono stato egoista, non avevo il diritto di sconvolgere la tua vita e ti ho messa in pericolo più volte. Hai abbandonato la scialuppa per venire a cercarmi e continui ad abbandonare il tuo mondo per stare in questa stanzetta con me. Ed inoltre mia madre è morta per colpa mia, per una mia caduta, per un mio errore.”
“Shh, sei tu il mio mondo.” Mise un dito sulle sue labbra per impedirgli di continuare e poi lo sostituì con le sue labbra per imprimere chiara quella promessa. “E non è stata colpa tua, eri solo un bambino, non continuare a punirti per quello.. Vieni qui!” Condusse il capo del ragazzo sul suo petto, appoggiò le labbra su quei capelli corvini e prese ad accarezzarli lentamente, mentre Killian si lasciava cullare dal suo respiro e si addormentava lentamente.
 
****
 
Le cose avevano cominciato a girare per il verso giusto un anno dopo, Killian aveva deciso di conciliare la sua passione per i viaggi con un lavoro che potesse offrire a lui ed alla sua Emma anche una stabilità economica. Quando lo aveva comunicato ad Emma, lei si era mostrata pronta ad incoraggiarlo ma anche molto spaventata. Era un sabato pomeriggio, il sole era alto nel cielo ed avevano appena finito di pranzare nei pressi del porto. Emma era andata a trovare Killian a lavoro con un cestino stracolmo di cibo che aveva appositamente preparato per lui insieme a Blue.
“Vorrei parlarti di una cosa” esordì l’uomo, accarezzandosi la barba leggermente incolta.
“Puoi dirmi tutto” lo rassicurò Emma, percependo la preoccupazione nei suoi occhi cristallini. Era facile leggerci dentro quando erano così limpidi, ma talvolta risultavano complicati, persino enigmatici e misteriosi.
“Voglio darti di più, Emma. Voglio che tu abbia una casa con un piccolo giardino, voglio portarti a cena fuori ed anche a ballare. Voglio avere dei figli con te, e magari anche un cane. Potremmo chiamarlo Buckley.”
“Hai scelto il nome del cane?” Le risate coprirono la commozione che la ragazza provava in quel momento per le parole del suo uomo.
“Si, ho sempre voluto un cane. Ne ho avuto uno da piccolo, ma per poco tempo. Era un randagio e le sue condizioni non erano buone, così dopo qualche settimana è morto. Con lui è stato un periodo felice, lo ricordo con grande affetto.”
“Suppongo che avremo un cane allora.” Concluse la donna, perdendosi un attimo a fissare l’orizzonte e ricordando quanto lo avesse desiderato anche lei da piccola.
“Quello che cerco di dirti, seppur in modo così confuso, è che voglio renderti felice. Voglio un lavoro che possa realizzare i nostri sogni ed offrirci anche la stabilità economica. Voglio diventare Capitano.” Disse in un fiato, aspettando la reazione di lei.
“Vuoi diventare Capitano?” Domandò lei, un po’ sconvolta da quella rivelazione.
“Si, durante il mio lavoro qui al porto, ho conosciuto un sacco di Capitani. Uno in particolare, il vecchio Devy. E’ anziano ormai, mi ha visto interessato ed è disposto ad aiutarmi a seguire questa strada per prendere il suo posto. Penso sia una grande occasione per me, per noi.” Concluse eccitato come un bambino, aveva mosso concitatamente le mani per tutto il tempo per illustrarle i benefici di quella opportunità.
“E’ una bella cosa, se è ciò che vuoi ti supporterò ma non devi farlo solo per darmi tutte queste cose, io sto bene anche così.” Chiarì Emma.
“Mi farà sentire più vicino a mio padre” pronunciò l’uomo, alzandosi ed avvicinandosi al mare.
“Ma non ti ricorderà tua madre? La situazione che noi stessi abbiamo vissuto, insomma non sarà troppo doloroso rivivere tutto ogni volta?”
“Forse lo sarà o forse no, in fondo non possiamo saperlo. Quello che so è che voglio farlo. Il mare mi ricorderà mia madre, ma anche mio padre e tutti i bei momenti che la nostra famiglia ha vissuto a bordo del nostro peschereccio. Mi ricorderà l’inizio della nostra storia, la prima volta che abbiamo fatto l’amore e come ci siamo salvati a vicenda. Non sarà solo doloroso, forse più malinconico ma anche ricco di ricordi belli. Sarò sempre vigile e diventerò un buon Capitano nelle tempeste e cercherò di evitare che altre persone subiscano ciò che abbiamo vissuto noi, ma ho bisogno di te per farlo, ho bisogno che tu creda in me.”
“Io crederò sempre in te, Killian Jones. Se questo è quello che vuoi fare, sarò sempre pronta a supportarti.” Anche Emma si avvicinò e lo abbracciò da dietro, le sue braccia si mossero intorno alla sua vita e la sua testa si poggiò sulla sua schiena forte.
“Andiamo” disse lui, voltandosi ed afferrando la mano della ragazza.
“Voglio fare l’amore con la mia futura moglie” fece poi serio, mentre la trascinava dalla parte opposta.
“La proposta me la sono persa, tesoro.” Lo prese in giro lei, mentre lo precedeva verso la stanzetta di guardia che era stata testimone più volte del loro amore.
“Andiamo, Emma, ti ho detto che voglio passare il resto della mia vita con te.”
“Non te la caverai così facilmente, Capitano!” Lo tirò per la camicia e mise fine alle distanze. Killian si ritrovò contro la porta, mentre la donna gli sbottonava il colletto e lui mugolava tra le sue labbra, afferrò la chiave appesa alle bretelle dei suoi pantaloni ed aprì la porta seppur con fatica. La stanza era poco illuminata e l’unico arredo che vi era consisteva in un letto di cui il ragazzo si serviva durante i suoi turni di notte. I vestiti di Emma raggiunsero presto il pavimento, seguiti a ruota da quelli di Killian. Carezze lascive, pelle che si esplorava ancora una volta e corpi che si amavano come avevano fatto nel corso di quell’anno vissuto insieme. Raggiunsero il letto e vi si buttarono sopra, senza staccarsi minimamente. Le labbra di lui scesero in lente carezze umide che raggiunsero il collo e poi i seni, mentre le mani di lei si spingevano più in là per farlo impazzire. Gemiti strozzati si diffusero nell’aria circostante, quando finalmente i loro corpi si ricongiunsero in un incastro perfetto, come due pezzi unici delle stesso puzzle. I loro nomi riecheggiavano intorno come un’antica cantilena che conoscevano da sempre. Una volta raggiunto il culmine, si accasciarono stanchi rimanendo abbracciati a farsi cullare dai loro respiri che pian piano si regolarizzavano.
 
****
 
A distanza di qualche anno, avevano entrambi trovato le loro strade. Queste non era come due vie parallele tanto vicine quanto inconciliabili, erano piuttosto una serie di fitti incroci che si sradicavano lungo kilometri. Emma non aveva mai desiderato rimanere a casa ad aspettare un marito perlopiù assente, così aveva trovato la sua passione in quella stessa nave, e non perché non riuscivano a stare lontani piuttosto perché volevano continuare a vivere quell’enorme avventura insieme. Aveva seguito diversi corsi prima di poter diventare un’infermiera professionista, ma la gratificazione che provava nell’aiutare gli altri era una giusta ricompensa per tutto il lavoro fatto.
“Pranziamo insieme?” Chiese la donna irrompendo nella cabina di comando dove il Capitano era intento a leggere diverse carte srotolate su un tavolo in mogano.
“Certo” rispose Killian, spostando tutto da una parte per fare spazio al vassoio con le pietanze.
“Devi essere molto emozionato” constatò Emma, accarezzandogli un mano con fare rassicurante.
“Non vedo l’ora di far vedere ad Henry le immense praterie in cui giocavo da bambino” confessò l’uomo, sorridendo alla moglie con dolcezza. Proprio in quel momento le urla del bambino si diffusero intorno a loro, seguite dai richiami di Regina. Erano rimasti tutti amici, nonostante i continui viaggi e i vari impegni. Erano un bel gruppetto affiatato e Regina adorava occuparsi di Henry, avevano deciso di partire tutti insieme per tornare in Irlanda per un breve periodo e Killian era riuscito a conciliare il tutto con il viaggio che doveva intraprendere per la compagnia in cui lavorava.
“Vieni qui ometto” disse, allargando le braccia per accogliere il piccolo. Questo si lasciò cullare per qualche secondo prima di togliere il cappello al padre e metterlo sulla propria testa ridendo.
“Sembri proprio un piccolo Capitano” assentì Emma, spostandogli una ciocca che gli ricadeva sopra al viso.
Henry era arrivato due anni dopo il matrimonio, ed il viso di Killian alla notizia di diventare padre era un ricordo che Emma custodiva segretamente nel cuore. La loro vita trascorreva serena e felice, non avevano smesso un solo secondo di supportarsi a vicenda e di infondersi il coraggio necessario ad affrontare la vita. Emma aveva persino recuperato il rapporto con la madre, Mary Margaret era diversa dopo la tragedia vissuta o meglio era tornata quella di un tempo. Aveva avuto un grosso risarcimento ed aveva ricominciato da lì, esattamente come avevano fatto tutti gli altri.
 
***
 
“Hey, non correre.. Vieni qui ragazzino” lo richiamava la madre, mentre il bimbo zampettava allegramente e poi si lasciava rotolare nel verde. Killian corse verso il figlio e si stese insieme a lui, rotolando nell’erba e ridendo.
“Non so chi sia più bimbo tra di voi” asserì Emma, guardandoli con tenerezza mentre si avvicinava a loro con passo lento. Il vento le scompigliava i capelli, lei si strinse nelle braccia per proteggersi dal freddo, appoggiando una mano sul ventre ed accarezzandolo piano.
Quando si trovò abbastanza vicino ai suoi uomini, si sedette vicino a loro ed allora Killian si mise seduto a cingerle la vita con un braccio e stringendo la mano della donna con la sua. Poi si voltò ad incrociare i suoi occhi, trovandoli ancora più luminosi del solito. Si fermò a fissare l’erba intorno a loro e poi torno all’amore della sua vita. In una frazione di secondo un pensiero si fece largo nella sua mente, la prima volta che aveva visto quegli occhi li aveva paragonati proprio a quelle praterie ed adesso aveva entrambi lì. E quando era lontano dalla sua patria, aveva sempre vicino qualcosa che gli ricordava casa sua. Qualcuno che era diventato casa sua, perché nonostante fosse sempre in viaggio aveva sempre lei vicino. Lei e il loro bambino.
“Killian, la prossima volta che torneremo qui. La prossima volta che torneremo in Irlanda non saremo più solo noi tre” strinse più forte la sua mano ed annuì piano con il capo, mentre l’uomo al suo fianco prendeva consapevolezza di quella notizia.
La sua mano grande si aprì sulla pancia di lei, accarezzandola dolcemente e nessuna parola poteva esprimere quello che stava provando, così chiuse il tutto in un bacio e s’infranse sulle sue labbra. Emma scattò un’istantanea nella sua mente e conservò anche quella nel suo cuore come tutto ciò che lo riguardava e che riguardava la loro storia.
“Siete tutta la mia vita.”
 
 
“Ed è così che dopo sette mesi nacque tua madre.” L’anziana signora si sistemò meglio sulla sedia e fissò in attesa la nipote. I grandi occhi blu di Leila erano sgranati ed umidi, commossi per quella storia che non aveva mai conosciuto fino a quel momento.
“Nemmeno tua madre conosce questa storia, tesoro. Ho sempre pensato che un giorno, quando sarei stata abbastanza vecchia avrei dovuto cederla e permettere a qualcun altro di custodirla. Tuo nonno è ancora l’amore della mia vita ed io so che col tempo l’amore tende ad affievolirsi ma così non è stato per noi. Non è un amore da favola, abbiamo affrontato molte difficoltà, non pensare che l’amore sia facile. Bisogna lavorare ogni giorno per permettere alle cose di andare bene. Qualsiasi momento tu e Charles stiate affrontando, io vedo nei vostri occhi lo stesso amore quindi non abbiate paura di parlarne insieme e di sistemare le cose.” La mano rugosa si posò su quella liscia della giovane e la strinse dolcemente.
“Grazie nonna, sono contenta di aver sentito la tua storia e grazie per le tue parole.” Una lacrima sfuggì al controllo della ragazza che si accinse a raccoglierla con l’altra mano.
“E adesso, cuciniamo per il pranzo di Natale. I tuoi genitori ed i tuoi zii saranno presto di ritorno.” La ragazza annuì e si alzò dalla sedia.
Dopo pochi minuti la porta si aprì e tutti furono di ritorno dalla funzione che si era svolta la mattina. Henry e sua moglie Grace si recarono in cucina, seguiti da Evelyn e suo marito John. Killian aveva voluto chiamare come sua madre la bambina che Emma aveva dato alla luce sette mesi dopo il viaggio in Irlanda. Una flotta di bimbi riempirono di schiamazzi la casa.
“Come ti senti, cara?” Un anziano capitano si avvicinò alla moglie con apprensione per constatare che stesse bene.
“Era solo un’emicrania, Killian.” Sorrise la moglie, stringendo la sua mano tra le sue.
“Lo immaginavo, non sarei andato altrimenti” sottolineò sorridendole.
“Lo so.”
 
Poche ore più tardi erano tutti seduti intorno al tavolo per trascorrere un altro Natale insieme. Emma e Killian erano molto vecchi, ma nessuno sembrava intenzionato a lasciare l’altro per primo. Tutti erano del parere che non appena uno dei due avesse esalato l’ultimo respiro, l’altro l’avrebbe seguito dopo poco tempo perché non si muore mai di fronte ad un amore come quello. Ci si aggrappa stretti alla vita e loro l’avevano fatto e continuavano a farlo. Nessuno sapeva se quello sarebbe stato l’ultimo Natale insieme, l’ultimo giorno, l’ultima settimana, l’ultimo mese o l’ultimo anno, per questo continuavano a godersi quei momenti vicini. Ed anche se molte cose erano cambiate e loro avevano un aspetto diverso, c’era qualcosa che rimaneva uguale - oltre al loro amore – i loro occhi che si guardavano con ardore. Al di là delle rughe che ricoprivano i loro visi, gli occhi rimanevano accesi di una luce sempre nuova. Ed il blu era ancora nel verde. Ed erano sempre a casa. Insieme.



Note:
Ciao a tutti! 
Sono passati quasi otto mesi dall'inizio di questa storia e finalmente sono riuscita a scrivere l'epilogo che segna la fine delle (dis)avventure di Emma e Killian sul Titanic. Mi rendo conto di essere in estremo ritardo ma gli impegni universitari (il non voler lasciare andare la storia), non mi hanno permesso di concludere prima quindi chiedo venia e spero di ritrovarvi tutti qui a leggere l'epilogo. 
Mi rendo conto che iniziare a leggere questa storia non dev'essere stato facile viste le prospettive di vita dei protagonisti, per questo mi sento di dover ringraziare tutti quelli che l'hanno fatto e spero di non aver deluso le vostre aspettative. 
Ringrazio davvero tutti, chi ha letto silenziosamente, chi ha aggiunto la storia nelle varie categorie ma soprattutto tutte le splendide persone che recensendo mi hanno spronata ad andare avanti per dare una fine diversa e meno drastica rispetto al film. Abbiamo bisogno di un lieto fine. 
Un ringraziamento speciale alle mie fantastiche amiche del CSgroup, vi adoro!

Mi prendo uno spazietto per ringraziare le ragazze che hanno commentato il capitolo scorso, mi scuso per non avervi risposto singolarmente ma quello che voglio dire è simile per tutte quindi lo riporto qui: grazie, grazie, grazie! Per aver seguito la storia, per averla amata e per aver avuto fiducia in me anche se qualcuna (non faccio nomi xD) pensava fossi tanto crudele da uccidere il nostro Killian, il pericolo è stato scampato per entrambi.
Spero di ritrovare il vostro parere anche in questo capitolo, con la speranza che sia stato all'altezza delle aspettative e della lunga attesa. 
Un ringraziamento anche alla mia splendida beta che si è prodigata per correggere tutte le mie sviste, grazie per avermi fatta ridere con le note e per aver eseguito questo lavoro egregiamente: 
maryclaire94.
P.s (*) la frase è tratta dal libro Oceano Mare di Baricco.

L'immagine non è mia, però mi sembrava perfetta per la storia.. Ringrazio chiunque l'abbia creata e la mia amica Graziella per avermela proposta. :* Le note stanno diventando più lunghe del capitolo quindi credo sia giunto il momento di dileguarmi.
Un bacio. <3

 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2793045