Mirai Nikki: The revolution

di Midori Kumiko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Coincidenze? ***
Capitolo 4: *** Il primo delitto ***
Capitolo 5: *** La casa dell'orrore ***
Capitolo 6: *** Scontro al buio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Mirai Nikki: the revolution
 
Prologo
 
POV AISU
 
Buio, si riuscivano a malapena a distinguere gli oggetti nella stanza: l’arredamento messo a soqquadro, le carte da parati strappate in modo brutale e selvaggio lasciando intravedere il muro ocra scuro rovinato dal passare degli anni e quelle strisce rosso scarlatto che macchiavano indelebilmente il pavimento facendomi venire il voltastomaco.
 
Ogni volta che ci ripensavo, sentivo un liquido viscido, caldo e denso, in realtà immaginario, tra le mie mani deboli e diafane e le sfregavo tra loro cercando di levare quell’orribile sensazione che continuava a torturare la mia mente costringendola ad una pressione tale che da un giorno all’altro non avrei più sopportato quella pressione.
 
Erano ormai otto anni che subivo quello strazio, ed erano ormai otto anni che sfogavo le mie sofferenze su quel “diario” che era l’unico a conoscenza di ciò che avevo subito e l’esperienza di essere tradita da tutti descritta nei minimi dettagli. Se avessi avuto un coltello, avrei volentieri messo fine a quella vita che ormai era diventata quasi un peso ma avevo decidere di resistere a causa della mia testardaggine nel cercare di dimostrare che non sono inutile.                                                                       
 
Continuavo a fissare lo schermo luminoso del telefono in quell’oscurità appuntando il continuo dolore che provavo al petto ed alla testa fino a quando non comparvero delle note che, tuttavia, non ero stata io a scrivere. Delle note che indicavano il futuro…
 
POV FUJIKO
 
Era una splendida giornata di sole, il cielo era sereno e soffiavo un gradevole venticello in quella stradina di città circondata da gelaterie, negozi, abitazioni e palazzi in compagnia delle mie fantastiche amiche
 
 –Ho voglia di pollo! - urlò una delle amiche con grande grinta.
                                                                                                             
–Ma come Kim?! Abbiamo da poco fatto colazione e ti viene in mente il pollo?!- chiese un’altra amica, Alice, con tono allarmato
 
– Fujiko! Diglielo anche te che non è di certo l’ora di mangiare pollo! - si rivolse alla ragazza castana che camminava allegramente in mezzo alle due.
                                                                                                                                        
–Beh, il pollo è buono– risposi allegramente sorridendo euforica –Non è questo il punto! - brontolò provocandomi una sonora risata.  
                                                                                                                  
–Era uno dei punti! - la presi in giro e lei mi guardò come per dire “mi stai prendendo in giro?!” facendomi di nuovo sorridere. Cominciai a guardare il cielo per poi passare al mio “diario”, descrivendo la bellissima giornata che stavo passando in compagnia delle mie amiche, divertendosi e scherzando.      
                                                                                                                                                      
Mentre camminavo con passo tranquillo, un delizioso profumo di pane appena sfornato mi invase dandomi una piacevole sensazione così come l’allegria della gente della piazza: vi erano bambini che giocavano con colorati palloncini ed aquiloni, vecchietti seduti su panchine per tenersi compagni tenendosi a braccetto per farsi forza l’uno all’altro e negozianti che gridavano con aria gioiosa per attirare l’attenzione di qualche cliente.
 
La parte più bella della città, però, era il parco giochi con le montagne russe, le case dell’orrore e, la mia preferita, la ruota panoramica: adoravo osservare la città dall’alto ed osservare le persone che da lì le sembravano così piccole e delicate.                                                                                                                                                                       
 
–Ora vorrei dello zucchero filato! - disse questa volta Kim facendomi di nuovo ridere.                                                                                        
 
–Ti ho detto che non è ora di pensare al cibo! - protesto nuovamente Alice che però non venne ascoltata da Kim, la quale corse verso uno stand di zucchero filato. Sorrisi nuovamente vedendo Alice inseguire Kim, presi il telefono per aggiornare il “diario” e rimasi sorpresa nel vedere delle note che non mi appartenevano e a giudicare dal contenuto, sembravano indicare il futuro…
 
ANGOLINO DELLE AUTRICI
 
Salve a tutti questa è la nostra prima fanfiction! Speriamo con tutto il cuore che sia di vostro gradimento e ringraziamo in anticipo chiunque recensisca o semplicemente legga <3
 
Midori e Yuki <3

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


Capitolo 1
L’incontro
 
 
P.O.V. FUJIKO
 
La mattina dopo ero distrutta perché non ero riuscita a chiudere occhio leggendo e rileggendo quelle informazioni sul mio diario. Avevo notato alcune stranezze: gli appunti che avevo sul diario si realizzavano dopo pochi secondi lasciandomi a bocca aperta.
 
 La sera prima, per esempio, nelle note era scritto che sarebbe arrivato il gatto alla mia porta e, dopo pochi secondi da quando l’avevo letto, sentii dei rumori alla porta allora aprendola mi accorsi che il mio gatto Luna stava grattando con le sue zampette sulla porta in legno per entrare. Avevo in mano il mio futuro e grazie al mio diario potevo prevedere tutti gli insuccessi così come le vittorie o gli imprevisti che mi sarebbero capitati. Indossai la mia divisa velocemente in modo frettoloso e sbrigativo ed andai a fare colazione in cucina.
Mia madre era già uscita ed aveva lasciato un biglietto sul tavolo con sopra scritto:
 
“Tesoro tornerò dopodomani. Sono all’estero per lavoro. Fai la brava mi raccomando”. Mia madre era una direttrice di un’azienda internazionale e per questo motivo si trovava all’estero molto spesso per motivi lavorativi.
 
Dopo aver fatto colazione ed essermi pettinata con cura i lunghi capelli castani, andai allo specchio e osservai la mia divisa per controllare che fosse a posto: era composta da una camicia bianca con lo stemma della scuola sul petto, una cravatta blu a quadri e una gonna anch’essa blu a quadri. Dopo aver preso la cartella carica di libri, uscii di casa e mi incamminai verso la scuola. Presi il telefono iniziando a leggere le note appena comparse.
 
“Ore 8:10 Cancello della scuola. Kim e Alice arrivano alle mie spalle per farmi uno scherzo e spaventarmi”
 
Non persi tempo e mi girai e, se devo essere sincera, non mi stupii del fatto che erano a pochi passi da me sghignazzavano perfide. Ovviamente non funzionò grazie alle mie “note del futuro” e le guardai soddisfatte pensando: “Che bello! Grazie a questo diario non può succedermi niente di brutto! È fantastico, sono una vincente!”.
 
Ci dirigemmo tutte e tre in classe e ci sedemmo ai nostri banchi mentre ancora ripensavo a tutto ciò che era capitato quella mattina ed alla fortuna che avevo avuto senza neanche preoccuparmi di da dove provenisse quel “potere del futuro”. Passò circa un quarto d’ora quando sentimmo la porta bussare e la professoressa l’invitò ad entrare: dalla soglia apparì una segretaria.
 
-Professoressa, c’è una nuova alunna. Entra pure cara- disse semplicemente invitando ad entrare qualcuno che era rimasto fuori dalla porta: era una ragazza piuttosto alta, snella e abbastanza formosa. Aveva lisci capelli biondi, lunghi quanto i miei, occhi azzurri, pelle molto chiara ed indossava la divisa portando con sé una valigetta scolastica marrone chiaro.
 
I nostri occhi, per qualche strano motivo s’incrociarono: io la guardai leggermente sorpresa e curiosa di conoscerla lei invece sembrava non avere espressioni facciali e dopo poco rivolse lo sguardo non solo a me ma all’intera classe.
 
-Il mio nome è Aisu Negira. Piacere di conoscervi- si presentò scrivendo il suo nome alla lavagna per poi fare un inchino a novanta gradi.
 
P.O.V. AISU
 
Per la prima volta in quasi due mesi passati seduta in quella stanza sudicia e malridotta, avevo deciso di uscire per qualche strano motivo: quella notizia mi aveva sconvolto, era qualcosa di irrazionale e senza senso ma di quei tempi avevo messo da parte la ragione per lasciar vagare la mente continuamente torturata dal passato.
 
“Esco per la prima volta da tre settimane. Ho voglia di fare un giro” le note scritte sul telefono erano quelle ma era un’azione ancora non compiuta ma era proprio quello che avevo intenzione di fare. Mi svestii della camicetta a vestito con bretelle bianca che indossavo da un bel po’ di tempo ed indossai una gonna blu scuro sbiadito, una maglietta bianca con sopra un giacchetta di lana nero, delle calze nere e degli stivali beige.
 
Aprii la porta scorrevole scricchiolante della casa per uscire e subito il vento fresco d’autunno solleticarmi il volto e scostarmi leggermente i capelli: come prima cosa avrei fatto un giro in città così da avere anche modo di verificare se le mie teorie sulle note del futuro fosse infondata o veritiera.
 
La gente girava allegra per le vie facendo compere o fermandosi in qualche bar per prendere qualcosa di caldo. Osservavo tutta quell’allegria indifferente non comprendendo tutta quell’euforia ma un brontolio proveniente dal mio stomaco mi distolse dai miei pensieri suggerendomi di andare a prendere qualcosa da mangiare.
 
Mi ero fermata in un bar ed avevo preso una ciambella zucchera: era fin troppo dolce per i miei gusti ma non potevo di certo fare la schizzinosa dopo aver passato cinque giorni senza cibo. Ricominciai a passeggiare con le mani in tasca quando un foglio appeso ad un palo attiro la mia attenzione:
 
“Scuola superiore Hikari: iscrizioni aperte fino al 4 novembre” diceva l’avviso e mi venne in mente che in pratica io non ero quasi mai andata a scuola. Un suono simile ad un’interferenza proveniente dal mio telefono attirò la mia attenzione, così lo tirai fuori dalla tasca e notai che si erano aggiunte delle note: la più evidente fu quella che diceva che avrei preso in considerazione la possibilità di andare a quella scuola e che alla fine avrei accettato anche se solo per mettere alla prova il mio cervello e per il fatto che mi stavo annoiando e volevo fare qualcosa di diverso.
 
Ormai era palese dire che quelle note indicassero il futuro visto che io non l’avevo scritte e che azzeccavano sempre, così decisi che tanto valeva seguire quello che dicevano le scritte e mi diressi alla scuola dove mi diedero un modulo da compilare e portare il giorno dopo e se fosse stato in regola avrei potuto partecipare alle lezioni subito: avrei semplicemente falsificato la firma del mio tutore che, in realtà, se ne era andato in vacanza da non so quanti anni.
 
Mi avevano anche consegnato la divisa composta da una camicia bianca con lo stemma della scuola sul petto, una cravatta a quadri blu, una gonna sempre blu a quadri.
 
Quella notte non avevo chiuso occhio (come al solito) e delle leggere occhiaie erano sotto i miei occhi azzurri che però non davano segni di stanchezza. Presi un autobus e giunsi ad una fermata non troppo distante dalla scuola ed una volta là, aspettai che suonasse la campanella ed andai in segreteria a consegnare il modulo per l’iscrizione e l’accompagnarono in quella che sarebbe stata la sua nuova classe.
 
Una volta davanti alla classe, la segretaria che mi aveva accompagnato bussò alla porta ed entrò annunciando l’arrivo di una nuova alunna e facendomi cenno di entrare.
 
Entrai a passo lento e calmo e quando rivolsi lo sguardo alla classe, i miei occhi incontrarono, quasi per sbaglio, quelli di una ragazza dai lunghi capelli marroni che mi guardava con aria sorpresa ma io rimasi indifferente per poi distogliere lo sguardo.
 
-Il mio nome è Aisu Negira. Piacere di conoscervi- mi presentai così alla nuova classe scrivendo il mio nome alla lavagna e facendo un profondo inchino.
 
ANGOLINO DELLE AUTRICI
Ecco il nuovo capitolo scritto da entrambe le autrici
Midori e Yuki che finalmente ha un account suo! YEEE!
Il mio nome però è Yuki Fujiwara. Speriamo vi piaccia questo
nuovo capitolo e ringraziamo in anticipo chiunque recensisca
o anche semplicemente legga.<3
Baci, Midori e Yuki.  

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Capitolo 3
*** Coincidenze? ***


 
Capitolo 2
Coincidenze?
 
P.O.V.  FUJIKO
 
- Bene ragazzi, mi raccomando! Siate gentili e non fatela sentire a disagio, va bene? – la classe rispose in modo affermativo in coro, ma c’era un qualcosa di lamentoso nella loro voce, quasi cantilenante. Mi sa che la mia era l’unica voce entusiasta del gruppo.
 
- Allora, vediamo dove puoi andare a sederti…- fa che venga qui, ti prego, fa che venga qui, pensai in quell’istante con tutta me stessa. Ero sempre stata una ragazza sempre alla ricerca di nuove conoscenze e amicizie, ma in particolare quella ragazza aveva un qualcosa che m’incuriosiva e spingeva a volerla conoscere più affondo.
 
 – Siediti vicino a Fujiko: quella ragazza dai capelli castani lì in fondo- dentro di me esplodevo di felicità (peccato che i miei desideri non si esaudissero in questo modo anche quando speravo di non essere interrogata!), finalmente una nuova compagna, e per lo più sarebbe stata seduta vicino a me. Ero sicurissima che avremmo fatto subito amicizia.
 
 –Ciao Aisu!- la salutai sorridendole -il mio nome è Fujiko. Piacere di conoscerti!- dissi  tendendo la mano verso di lei, con tutta la sicurezza e la vivacità che avevo in me. Lei, da parte sua, lanciò un’occhiata quasi riluttante alla mia mano.
 
– Ciao- disse lei non stringendomela, ma guardandomi con i suoi occhi di ghiaccio, un misto fra azzurro e grigio, priva di espressioni facciali: sembrava un vero e proprio blocco di ghiaccio. La guardai mentre tirava fuori dalla valigetta un astuccio nero; m’ignorò totalmente per il resto del tempo.
 
Lei continuava a fissare un punto imprecisato della classe; sembrava intenta a pensare, mentre io ne approfittavo squadrarla meglio, per capire che tipo di persona potesse essere, ma solo il tempo me lo avrebbe rivelato. In tutta risposta, ricevevo solamente delle occhiatacce da parte sua, che mi facevano immediatamente distogliere lo sguardo. Forse pensava che fossi una specie di maniaca!
 
Le ore di scuola passarono in fretta tra equazioni di secondo grado e ripasso delle leggi di Mendel: una noia insomma. Aisu, durante le ore successive, si presentò alle professoresse sempre con il suo fare freddo e distaccato, e ogni volta che tornava al banco, quando i nostri sguardi s’incontravano, lei mi guardava con un’occhiataccia e distoglieva lo sguardo.
 
Finalmente la campanella suonò e subito dopo essere uscita dal cancello scolastico, cercai di seguire Aisu sperando di poterle chiedere di passare un po’ di tempo insieme.
 
- Ehi Aisu! Senti, ti andrebbe di venire con me a mangiare qualcosa al centro per pranzo? Potremmo approfittarne per conoscerci meglio e magari diventare amiche!- lei mi squadrò e mi disse freddamente senza alcun interesse nella sua voce – No, ho altri programmi.
 
Provai a insistere afferrando un lembo della sua divisa – Ma dai! Vieni con me! Vedrai che ti divertirai!-
 
A quel punto mi scostò la mano e mi disse – Senti, non intendo sprecare altro tempo con una tipa rose e fiori come te. Non insistere: tanto non accetterò - disse guardandomi con i suoi occhi di ghiaccio. Quelle parole mi avevano ferita.
 
Il vento le fece muovere fluentemente i suoi bellissimi capelli biondi e alcuni fiori di ciliegio volavano spinti dal vento e uno di questi si posò sulla mia mano.
 
Lei se ne andò lasciandomi lì spiazzata.
 
Sentivo qualcosa di strano nel petto, come un dolore che prontamente scacciai con un profondo sospiro. Desideravo conoscerla meglio: sembrava una ragazza che dal suo modo di fare nascondesse quello che provava! Non mi sarei arresa facilmente!
 
P.O.V. AISU
 
La professoressa mi indicò un banco in fondo alla classe, dove era seduta una ragazza castana che aveva tutta l’aria di essere un’esaltata: aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata e aveva cominciato a fissarmi da quando ero entrata. Mi sedetti, poggiai la cartella a fianco al banco e tirai fuori un astuccio nero.
 
-Ciao Aisu! Il mio nome è Fujiko, piacere- disse lei tendendomi la mano, la guardai per un momento, guardando prima lei e poi la mano. La salutai con indifferenza prendendo un quaderno per prendere appunti: non avevo mai capito quella cosa di stringersi la mano, la ritenevo inutile e insensata.
 
 Dopo qualche minuto, il mio sguardo si perse per la classe: non pensavo a niente di preciso, ascoltavo semplicemente la lezione, poiché mi ero stufata di prendere appunti. Quella tipa accanto a me, Fujiko, continuava a fissarmi pensando che io non me ne accorgessi e dopo tanti anni passati dentro quella casa al buio, mi ero dimenticata quanto fosse fastidiosa la sensazione di qualcuno che ti fissa.
 
Ogni tanto l’ammonivo con lo sguardo, giusto per farle capire che non ero tonta, ma dubito avesse recepito il messaggio.
 
Nel corso delle varie ore si presentarono diverse prof e dovetti presentarmi a tutte loro, una ad una. Almeno non era poi così noioso quello che blateravano in classe e le ascoltavo apprendendo cose di cui non sapevo l’esistenza come “Equazioni di secondo grado” o “Legge di Mendel.
 
Nonostante tutto, le ore passarono con una lentezza assoluta, sembrava quasi che quel maledetto orologio alla parete si prendesse gioco di me, come se le lancette fossero attaccate con la colla e non si volessero smuovere. Quando il suono della campanella segnò la fine definitiva di quel giorno, mi alzai di scatto afferrando la cartella e dirigendomi verso l’uscita. Osservavo i miei piedi mettersi uno davanti all’altro nel sentiero che stavo percorrendo, ogni tanto calci a qualche sasso.
 
L’aria frizzante di quella mattina mi colpiva in pieno volto, solleticandomi leggermente il naso, così come il polline che viaggiava nell’aria a causa del venticello che tirava da un po’. Una voce squillante e fastidiosa come la sirena di un’ambulanza in piena notte mi colpi i timpani facendomi strizzare gli occhi un momento per il fastidio. Mi voltai di 180 gradi rivolgendo un occhio nella direzione della voce e, come sospettavo, era quella tipa del banco.
 
- Ehi, Aisu! Senti ti andrebbe di venire con me a mangiare qualcosa al centro per pranzo? Potremmo approfittarne per conoscerci meglio e magari diventare amiche!- quella voce era talmente fastidiosa. Mi davano veramente sui nervi le tipe insistenti come lei.
 
-No, ho altri programmi- la liquidai con questa scusa piuttosto generica, ma in parte vera: avevo ben altro da fare che fare amicizia con una tipa che sembrava avere una paralisi facciale del sorriso. Mi voltai per andarmene prima che cominciasse ad insistere, ma sentii qualcosa tirarmi per la camicia e rivolsi gli occhi al cielo chiedendomi perché dovessero capitare tutte a me.
- Ma dai! Vieni con me! Vedrai che ti divertirai! – mi aveva veramente stufato, era meglio mettere le cose in chiaro fin dal principio. Scostai la sua mano dalla mia divisa con uno strattone e la fissai con espressione gelida, per farle capire che non scherzavo.
 
- Senti, non intendo sprecare altro tempo con una tipa rose e fiori come te. Non insistere: tanto non accetterò. – fui chiara e concisa, come sarei dovuta essere fin dall’inizio. Almeno non mi avrebbe più dato fastidio, peccato che me la sarei ritrovata pochi giorni dopo di fianco a me nel banco di scuola. Mi girai del tutto dandole le spalle e lasciandola lì con quell’espressione imbambolata a guardarmi la schiena.
 
Mi era difficile orientarmi con i mezzi, quali autobus e metro: non ci ero abituata e le prime volte mi ero dovuta sforzare nel chiedere all’autista come funzionasse e mi aveva guardata come se non fossi un essere di quella terra. Magari aveva pure ragione.
 
Non ci misi molto a tornare a casa, circa un quarto d’ora. Purtroppo ero sempre costretta a percorrere un grande pezzo a piedi, poiché la mia casa era piuttosto isolata. Il percorso stesso, una stradina stretta e putrida, era sempre deserta, se non per alcuni ubriaconi che la attraversavano la sera tardi, rovesciando il a terra il contenuto delle bottiglie per poi buttarle a terra in una pioggia di vetri. Io stessa non mi fidavo a percorrere quelle zone la sera tardi, a meno che non avessi qualcosa con cui tenere a bada eventuali scocciatori.
 
 Una volta arrivata di fronte all’ingresso, lo spalancai per poi richiudermelo alle spalle. Gettai svogliatamente quella ridicola valigetta in un angolo del salotto, svestendomi immediatamente di quella divisa stretta e scomoda. Sopra le calze nere, indossai un paio di pantaloni neri di un vecchio pigiama sgualcito e consumato, con sopra un maglione a collo alto del medesimo colore e tessuto.
 
Mi sedetti di fronte alla toletta del bagno, da cui fuoriuscivano ancora schegge di legno, e guardai la mia immagine riflessa nello specchio, il cui angolo era una ragnatela di crepe. Uno di quei frammenti era mancante, ma lo ricordavo bene: quando lo avevo fracassato con un pugno, la mia mano si era rigata di un liquido scarlatto, mentre un frammento di specchio era rimasto infilato nel dorso.
 
Era stato atroce toglierlo, ogni millimetro che lo estraevo, corrispondeva a un gemito di dolore e un urlo soffocato. Era rimasto un lieve segno bianco da quell’episodio, ma, quando la guardavo, sentivo ancora il bruciore della ferita sotto la schiumetta bianca dell’acqua ossigenata.
 
Mi spazzolai i lunghi capelli con una spazzola rossa dalle setole consumate, non ricordavo nemmeno da quanto tempo la possedessi. I miei capelli, sotto la luce chiara e spettrale del piccolo bagno, sembravano bianchi, come lunghi fili di platino.
 
 Metteva inoltre in risalto la mia carnagione chiara e borse scure sotto gli occhi azzurri-grigi. Le labbra carnose e rossicce spiccavano in quell’insieme latteo, come della neve macchiata di sangue. Ci mettevo sempre un’eternità per spazzolare quella chioma infinita. Più di una volta avevo pensato di tagliarli: erano un vero impiccio.
 
D’estate, quando quell’abitazione si trasformava in un contenitore di aria bollente e viziata, quell’ammasso di capelli s’incollava alla mia schiena sudata. Una vera tortura. D’inverno, invece, dopo le rare docce che facevo, era uno strazio il doverli asciugare, anche perché il mio phone era talmente vecchio e logoro che rischiava di esplodere da un momento all’altro.
 
Dopo aver finito con gli ultimi nodi, presi fra le mani il telefono, leggendo le ultime note: non diceva niente d’interessante. Probabilmente, l’unica pecca era quella: il mio diario mi dava poche informazioni, perché, quando arrivavano, erano utili per vendicarsi. Prima di entrare in classe, per esempio, mi era arrivata una notifica. Diceva che, all’intervallo, un gruppo di ragazze alla mia destra avrebbe sparlato di me, mentre prendevo qualcosa alle macchinette e che per vendicarmi avrei rubato il portafogli a una di loro. In compenso, grazie a questa messaggio, seppi che la ragazza in questione lo nascondeva in una tasca esterna della borsa firmata che portava con sé.
 
Fingendo di scontrarmi erroneamente con lei, glielo avevo furbescamente sottratto: mi chiesi come una ragazza potesse portarsi tutti quei soldi a scuola. Per farci cosa, poi? Comprarsi l’intera macchinetta? Sapevo però che, finché non cambiavano le note, non avevo nulla di cui preoccuparmi, se non di quello strazio della scuola. Stavo cominciando a cambiare idea: forse non era un gran che essere una studentessa, ma il bello di una sfida era il saperla vincere.
 
Stravaccai a terra, sul pavimento lurido, che mi sarei dovuta decidere a pulire una buona volta. Non mi andava di fare compiti o robe varie: gli unici testi letterali che volevo leggere erano quelli che mi forniva il mio nikki. All’improvviso sentii uno strano rumore, simile a un’interferenza radiofonica: spalancai gli occhi dalla sorpresa, portando il telefono di fronte ai miei occhi. Lessi la frase in men che non si dica, elaborando pian piano le informazioni e sviluppando nella mia mente un piano.
 
Ero una tipa che restava sulle sue, solitamente, ma se qualcuno mi sfidava, o metteva in dubbio quel che dicevo, potevo essere al pari di Lucifero, bello e terribile.
 
Si era fatta quasi mezzanotte, dopo essermi vestita in modo adeguato e aver preso “il necessario” per la serata. Indossavo dei pantacollant neri e una felpa verde scuro dai motivi mimetici, insieme a degli anfibi scuri, le scarpe adatte a ogni occasione.
 
 I lunghi capelli erano nascosti all’interno del cappuccio della felpa, completamente invisibili. Probabilmente si notava comunque che fossi una ragazza, ma forse i vecchi ubriaconi non erano abbastanza sobri per constatarlo. Gli autobus di quella zona, a quell’ora, erano ormai fuori servizio, ma ebbi la fortuna di incrociare un taxi, che mi portò al luogo prestabilito.
 
Il taxista era un bel po’ riluttante a lasciarmi in quel posto, così malandato, e ci misi un po’ a convincerlo. D’altronde il cliente ha sempre ragione. Mi richiusi di botto la portiera alle spalle, sentendo il taxi andarsene lungo la strada, illuminata dolo dai pochi lampioni non fulminati.
 
Di fronte a me, un piccolo e malridotto supermarket, simile a una baracca dall’insegna al neon mezza distrutta. Era ancora aperto, si notava dalle luci provenienti dalle porte scorrevoli. Le attraversai con passo sicuro, coprendomi un po’ meglio con il cappuccio della felpa. Vidi la figura del cassiere, un signore grasso e dall’aria assonnata, e un cliente in una delle cinque corsie presenti. Sorrisi sotto i baffi, fingendo che la mia attenzione fosse rivolta alla sezione frigo, fissando le etichette dei prodotti, pur non leggendole realmente.
 
Sentii il rumore delle porte scorrevoli: un altro scocciatore a intralciare i miei piani. Voltai di poco il capo, giusto quel che bastava per osservare con la coda dell’occhio il nuovo arrivato. Quando lo vidi, mi morsi impercettibilmente il labbro.
 
Oh, no. Perché doveva sempre mettersi in mezzo
 
P.O.V. FUJIKO
 
Comunque rassegnata, tornai a casa con l’autobus incontrando le mie amiche Alice e Kim che iniziando a parlare del più e del meno mi fecero una domanda:
 
- Senti Fujiko…- io guardai Alice la quale mi aveva rivolto la domanda – ma la ragazza nuova, come si chiamava… ah sì Aisu! Come ti sembrava? Mi spiego meglio, qual è stata la tua prima impressione?- quella domanda precisa non me l’aspettavo! La mia prima impressione…
- Diciamo che è una ragazza un po’ sulle sue che sembra non voglia fare amicizia con nessuno… ma avanti! È solamente il primo giorno! Sono sicura che con il tempo diventeremo amiche!- le mie amiche mi guardarono e poi mi sorrisero.
 
- Forse è solamente una ragazza chiusa in se stessa per chissà che cosa, ma con il passare del tempo potresti scoprire molte cose di lei! Poi essendo sua compagna di banco potrai conoscerla a fondo- esclamò Kim. Sorrisi in segno di assenso e, accorgendomi della fermata del bus premetti il pulsante di prenotazione della fermata e scesi.
 
Durante il cammino per tornare a casa mia mi misi ad ascoltare della musica, l’ideale per scaricare un po’ la tensione e isolarmi in una dimensione tutta mia.
 
Mi incamminai e iniziai a leggere il diario, e continuando ad accorgermi che le informazioni sul mio futuro erano cambiate ed erano ancora scritte lì! Pensai che questa fosse una cosa molto strana, insomma leggere informazioni del genere non capita di certo tutti i giorni. Eppure a me tutto ciò sembrava irreale, un’allucinazione che delle note su avvenimenti futuristici si trovassero scritte nel mio diario!
 
Non aveva senso continuare a rimuginare sul fatto che tutto ciò potesse essere solo un sogno ad occhi aperti, perché continuando a rifletterci sopra, non avrei trovato le risposte ai dubbi nella mia testa!
 
Svoltai l’angolo che mi separava dalla via di casa, solamente che, appena guardai dritto davanti a me, la musica nelle cuffiette aumentò il volume improvvisamente ed essendo assorta nei miei pensieri sobbalzai per lo spavento. Dopo essermi ripresa, levai di scatto le cuffie e mi misi a ridere per sdrammatizzare e far riprendere al mio cuore un battito “umano”. Probabilmente, chiunque mi avesse visto in quel momento avrebbe pensato che fossi una pazza.
 
Arrivata davanti a casa, inserii la chiave nella toppa rigirandola all’interno ed entrando sentii un invitante profumo di stufato provenire dalla cucina. Quel profumo mi ricordava la mia infanzia: ricordavo che mia madre me lo cucinava nelle fredde sere d’inverno, quando ci raggomitolavamo entrambe sotto le coperte sul divano per guardare un film. Mi sfilai le scarpe e le posai all’ingresso, ma improvvisamente due mani mi coprirono gli occhi.
 
- Ti ho presa…- sentì sussurrare. Inizialmente il mio cuore perse un battito, ma la voce mi risuonò più volte in mente, accorgendomi che c’era qualcosa di familiare in essa. Presi le mani “dell’estraneo” e le spostai dai miei occhi voltandomi verso quest’ultimo…
-Mamma!- urlai abbracciandola. Il suo delicato profumo mi avvolgeva come una ventata fresca, dandomi un senso di tranquillità e familiarità, dopo lo spavento di poco prima– mi hai fatto prendere un accidente!-
 
 A quella mia esclamazione sorrise – Eheh, piaciuta la sorpresa?- sciolsi l’abbraccio e la guardai negli occhi con felicità. Oh, sì che mi era piaciuta. Mi sembrava un’eternità che non la vedevo, eppure avrei dovuto esserci abituata, no?
 
-Come mai sei tornata così presto? Nel foglio che tu mi avevi lasciato, avevi scritto che saresti tornata dopodomani-  Lei mi superò e si diresse in cucina continuando a parlarmi.
 
- Fortunatamente non era una cosa impegnativa! Un cliente molto importante voleva comprare i prodotti della mia azienda e sono riuscita a convincerlo subito. Ovviamente li ha presi in cambio di un po’ di grana… ma sono sicura che mi chiameranno presto!-
 
- Sicuramente sarà stato sorpreso dal trattamento che gli hai riservato… praticamente gli hai presentato tutti i prodotti e poi l’azienda che gestisci è praticamente la migliore del paese nel rapporto qualità-prezzo nell’ambito tecnologico.
 
Pur essendo una donna ricca e benestante, mia madre era una donna dai gusti semplici ma raffinati. Bastava vedere la nostra casa, che era una semplice villetta a schiera, ma che poteva benissimo essere un superattico.
 
Mia madre però trovava uno spreco una casa troppo grande per due persone semplici e modeste come noi, che necessitavano solo del minimo indispensabile.
 
Arrivata in cucina notai che era tutto apparecchiato e che la mamma stava posando sul tavolo una pentola di ceramica rossa dalla quale proveniva il profumo di stufato, che mi stuzzicava l’appetito. Sentendo l’invitante profumo, come risposta, il mio stomaco brontolò e arrossii sedendomi a tavola.
 
-Che bello! Hai cucinato lo stufato!- esclamai porgendole il mio piatto, per avere una porzione bella abbondante di quella portata gustosa e succulenta che mi faceva sempre leccare i baffi.
 
Tesoro ti ho portato una cosa da New York! – disse con enfasi. I miei occhi si illuminarono dalla felicità.
 
Mi porse una busta colorata di giallo canarino e appena la aprii con mia grande soddisfazione trovai una pallina di vetro con la neve rappresentante lo skyline newyorkese e dei cioccolatini.
 
Mi avventai sui doni e istintivamente aprii un cioccolatino e ne mangiai uno: era un cioccolatino bianco ripieno di crema al cioccolato al latte. Era delizioso e ne porsi uno a mia madre che rifiutò dicendomi che era sazia dal pranzo.
 
Finito di mangiare mia madre mi disse una frase odiosa:- Tesoro… appena vai su ricordati di studiare- disse con tono quasi sadico, evidenziando l’ultima parola.
 
Quella frase mi colse alla sprovvista, ma mi rassegnai e salì in camera mia dopo aver salutato mia madre, iniziando a studiare.
 
Impiegai diverse ore a finire il tutto e si erano fatte all’incirca le dieci di sera. Per sfizio, controllai le informazioni sul mio diario dove vi era scritto che sarei andata in salone trovando mia madre addormentata sul divano. Doveva essere sfinita dopo tutto quel lavoro.
 
Scesi e andai in salotto, notando lì mia madre. La coprii amorevolmente con la coperta e, dopo essere andata in cucina, aprì il frigorifero, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Mi feci giusto un panino con della mortadella, per placare l’appetito della sera.
 
Notai, inoltre, che il latte era finito e sapevo che mia madre amava fare colazione con del latte fresco e dei cornetti così, per farla contenta, uscì di casa per andare a comprare il tutto.
 
Presi l’autobus per andare fino all’alimentari più vicino. Era strano prendere l’autobus la sera. Lasciavo vagare lo sguardo lungo il paesaggio illuminato appena dai lampioni. La stanchezza della giornata, però, si fece sentire, e le palpebre si fecero pesanti, fino a chiudersi completamente.
 
Sentii una voce in lontananza che mi chiamava: - Scusi…- mi svegliai di soprassalto –Signorina, mi scusi, ma l’autobus è arrivato al capolinea…-
 
Era il conducente che mi stava parlando. Possibile che mi fossi addormentata e fossi arrivata fino al capolinea?!?
 
Ringraziai il conducente con un debole e assonnato “grazie” e scesi alla fermata.
 
Mi fermai, alla ricerca di un qualche negozio aperto dove chiedere informazioni e magari, con un po’ di fortuna, avrei fatto la spesa. Vidi un alimentari proprio vicino alla fermata con la scritta a neon del supermercato quasi scarica.
 
Entrai per prendere del latte. Inizialmente, mi guardai semplicemente intorno, per osservare meglio il locale e scorsi una figura incappucciata vicino al banco frigo. Questa aveva un corpo chiaramente femminile e dal cappuccio fuoriusciva appena una ciocca di capelli biondi.
 
La vidi voltarsi appena verso di me e scorsi una luce fredda negli occhi della figura, una freddezza a me familiare. Era Aisu! Meno male! Non mi andava di rimanere sola con quel cassiere inquietante e quel cliente! Mi avvicinai a lei. Stavo per salutarla, ma a pochi metri dietro di me, con la coda dell’occhio, notai il cliente dalla lunga giacca verde estrarre dalla tasca interna qualcosa che emetteva un luccichio metallico…
 
ANGOLINO DELLE AUTRICI
Buongiorno o buonasera a tutti!
Ecco il nuovo capitolo scritto da Midori e Yuki <3
Nel prossimo capitolo le cose si faranno interessanti…
Noi speriamo vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto e ringraziamo chiunque recensisca o semplicemente legga!
Al prossimo capitolo!
Saluti, Midori e Yuki.

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Capitolo 4
*** Il primo delitto ***


P.O.V. AISU
Accadde tutto nello stesso istante: la tonta, la mia rabbia, il tipo, la lama del coltello, il mio braccio che si muove d’istinto a estrarre la pistola dall’interno della giacca. Quando vidi il luccichio del coltello avvicinarsi, mi abbassai per schivarlo, sapendo però che, probabilmente, ne aveva altri nella giacca. Prima che potesse afferrarne uno, però, gli avevo già puntato la pistola in fronte, ma ritrassi il braccio, dopo aver avvertito il freddo della lama sul gomito e la stoffa della giacca che si lacerava. Approfittando del suo slancio, che doveva avergli fatto perdere l’equilibrio, appoggiandomi con la mano libera a terra, gli sferrai un calcio nello stomaco, nonostante le mie mire fossero più basse. Lui andò a sbattere contro uno scaffale, da cui caddero alcune bottiglie di olio che s’infransero al suolo, ungendolo e facendomi scivolare quando tentai di avvicinarmi. Fantastico, non poteva andare meglio. Proprio quando dopo diversi tentativi ero riuscita a rimettermi in piedi, finalmente stabile, vidi che anche lui era in piedi, grazie all’aiuto dello scaffale. Ero pronta a puntagli la pistola e a sparargli: quante possibilità c’erano che lo mancassi da una distanza di tre quattro metri? Intenta ad alzare il braccio con la pistola, avvertii qualcosa di duro colpirmi in testa, dandomi una dolorosa fitta. Emisi un piccolo urlo di sorpresa misto a dolore, mentre mi massaggiavo la testa voltandomi verso colui-che-sarebbe-morto-di-lì-a-poco-per-la-sua-azione: ovvio, era la tonta. Ma cazzo faceva?!
 
-Ma che mira di merda hai?!- le urlai contro e lei mormorò uno dei suoi insopportabili scusa. Non mi servivano le sue scuse, mi serviva che non m’intralciasse in quel modo. Quando mi voltai di nuovo verso il mio avversario, lui era già a pochi centimetri da me e mi fece cadere. Me lo ritrovai sopra di me, a cavalcioni, mentre tentava di conficcarmi quel coltello in testa, ma io lo tenevo fermo per il polso. Con l’altra mano, però, lui mi stritolava il collo e io, con la mano che aveva perso la pistola a pochi centimetri da lì, tentavo di liberarmi dalla sua morsa. Non riuscivo quasi più a respirare, e presto anche la mia presa sul suo polso sarebbe cessata. Tutta colpa di quella tipa.
 
-Prendi questo!- sentii urlare Fujiko, e per un attimo pensai che avesse in mente di fiondarsi sull’uomo in un corpo a corpo, ma, se lo avesse fatto, era sicuro che ci sarebbe rimasta secca. Sorprendentemente, invece, vidi un grande cocomero verde colpire l’uomo sopra di me, che si accasciò a terra. Subito ripresi a respirare affannosamente, sgusciando da sotto di lui e afferrando la pistola, approfittando del momento per colpirlo. Nell’aria risuonava un colpo di pistola e il proiettile gli finì in testa, mentre a terra si allargava un enorme pozzanghera di sangue.
 
Con il respiro ancora affannato per l’adrenalina del momento, lanciai un’occhiata alla svampita, che era completamente sbiancata alla vista dell’uomo morto. Nonostante fossi stata io a ucciderlo, non mi degnò di uno sguardo: tanto meglio così. Asciugai le goccioline di sangue finite sul dorso della mano che impugnava la pistola sui pantacollant neri. Ora dovevo solo eliminare le prove della videosorveglianza, sperando di non incontrare il cassiere, altrimenti lo avrei dovuto uccidere. Mi alzai, aiutandomi con la mano libera, per poi dirigermi verso la porta opposta nel supermercato, passando difronte alla ragazzina pietrificata. Pensai di trovare la porta bloccata, ma evidentemente quel tipo era talmente nulla facente che non si era nemmeno assicurato di chiuderla per bene. Fu più semplice del previsto: trovai il tasto apposito per scaricare tutta la registrazione di quel giorno su un disco che spezzai più volte per poi gettare i pezzi in un cestino. Un lavoro pulito pulito. Tornando sul luogo del “delitto”, trovai la svampita ancora imprigionata in quella rigida posizione. Mi avvicinai a lei, con quel mio passo silenzioso, fino a poterle sussurrare all’orecchio:- Fossi in te, non direi niente a nessuno di ciò che hai visto.- la vidi sussultare a quel mio avvertimento. Mi avvicinai un’ultima volta alla salma insanguinata del tipo a terra, controllando nell’interno della sua giacca, giusto per accertarmi che fosse veramente un possessore. Trovai un vecchio cellulare mal ridotto con una grande scritta sullo schermo: “DEAD END”. Bingo.
 
Ora che avevo sporcato delle mie impronte digitali il telefono, sarebbe stato meglio portarlo con me. Proprio mentre riponevo l’oggetto in una tasca, arrivò il grasso cassiere incredulo dello scenario che gli si poneva davanti. Usai uno degli ultimi proiettili rimasti per farlo fuori, beccandolo sul collo. Avrebbe fatto meglio a restarsene fuori: avrebbe evitato di morire.
 
-Ci vediamo a scuola, tonta.- la salutai un’ultima volta. –Fossi in te, chiamerei un taxi. Ha perfino cominciato a piovere.
 
 
P.O.V.  FUJIKO
Ero rimasta completamente sola in quel supermercato, dove erano appena avvenuti due omicidi. Non sapevo cosa fare: seguii il mio istinto e, anche sotto la pioggia, corsi più veloce che potei. Era incredibile ciò che avevo appena visto: un uomo incappucciato aveva appena provato ad assassinarmi con un coltello, e la mia nuova compagna di classe aveva fatto fuori sia lui che il commesso con una tale disinvoltura che faceva quasi paura; come se per lei fosse una cosa normale. Mi sentivo sopraffatta dall’ansia, ma cercai di calmarmi e di ragionare, come mi aveva insegnato mia madre: perché, entrando nel panico, nulla si sarebbe risolto.
 
Parlando proprio di mia madre, la mia corsa fu interrotta dal rumore della suoneria del mio telefono.. ed era lei; ci misi un po' a rispondere a causa del panico: possibile che ogni fottuta volta che si è agitati o di fretta non si riesca a far funzionare correttamente i telefoni?! Ditemi che non sono l’unica…
 
-Si può sapere dove sei finita?! Sai che ore sono?!-  mi sfondò il timpano. – Scusami mamma, mi sono addormentata sul bus…- la sentii sospirare allora intervenni – Tranquilla, prendo un taxi e sono subito da te! - -va bene ci vediamo dopo! - e attaccò.
 
Continuai a correre sotto la pioggia e fermai un taxi; dopo avergli detto l’indirizzo di casa con voce tremante mi sedetti e partì.
 
Probabilmente il conducente si sarà domandato per quale assurdo motivo avessi gli occhi spalancati e guardassi dritto davanti a me senza proferire parola. Pagai in silenzio e corsi a casa. Trovai mia madre che mi stava aspettando.
 
-Mi hai fatto preoccupare.- mi disse con tono dolce abbracciandomi –Scusa… ora vado a letto.- le dissi io per poi andare in camera mia e, dopo essermi messa un pigiama, mi rifugiai sotto le coperte ancora nel panico.
 
Lo stress accumulato mi fece addormentare tardi, e ovviamente mi svegliai in ritardo per la scuola. Dopo essermi vestita di fretta senza neanche aver fatto colazione, arrivai al cancello scolastico che era deserto, indice che era proprio tardissimo! Corsi per i corridoi scolastici e arrivai in classe scusandomi con il professore che mi rimproverò duramente per il ritardo.
 
Dopo aver tirato un sospiro per rilassarmi mi avvicinai al mio banco e notai che Aisu aveva indosso dei normali indumenti, bianchi e neri, ignorando la divisa scolastica e tutte le norme riguardo l’abbigliamento da tenere nell’istituto. Lei mi squadrò e io, dopo aver posato la borsa, mi allontanai con la sedia da lei, ancora scioccata dall’altra sera.
 
Durante il corso delle lezioni, continuò a lanciarmi delle occhiatacce mentre continuavo a fare dei bozzetti di disegno sul mio sketcbook, agitando nervosamente la porta mine.
 
Dovevo sapere che cosa diavolo era successo quella sera! Dovevo sapere per quale motivo potessi vedere il futuro attraverso il mio telefono! Ero sicura che Aisu conoscesse le risposte a tutte queste mie domande, e per questo dovevo rivolgermi a lei, anche se ero certa che, con quel suo brutto carattere, non mi avrebbe dato retta.
 
Finite le lezioni, senza neanche salutare le mie amiche, me ne andai con l’autobus in centro.
 
Avevo ideato un piano per estorcerle quelle risposte, ma avevo bisogno di un piccolo aiuto: avrei usato qualunque mezzo per capire. Vidi da lontano il mio obbiettivo e silenziosamente mi avvicinai a lui. Le trafficate vie di Tokyo erano l’ideale per distrarre l’agente, ed era un male lasciare qualcosa di così prezioso per il suo lavoro nelle tasche laterali.
 
Mia madre mi aveva insegnato come agire furtivamente, dato che poteva sempre servire; presi l’oggetto senza difficoltà e lo nascosi nella cartella continuando a camminare come se nulla fosse. Era stato semplice e, con un sorrisetto, me ne tornai a casa e, notando che mia madre era uscita a fare la spesa, me ne andai in camera senza pranzare dato che non avevo fame.
 
La mia giornata proseguì normalmente e dopo aver fatto i compiti e cenato con mia madre me ne andai a dormire presto per avere energie a sufficienza per il giorno seguente.
 
Mi svegliai di buon mattino, mi vestii facendo attenzione a non svegliare mia madre e uscii di casa;
 
Vidi che Aisu stava camminando verso la scuola allora mi avvicinai a lei, chiamandola dopo aver preso l’oggetto rubato all’agente del giorno prima.
 
-Aisu!- la chiamai prendendo il suo braccio di sorpresa. Si voltò e con le manette mi ammanettai a lei.
 
-Adesso mi racconti che cosa diavolo è successo l’altra sera!-
 
 
ANGOLINO DELLE AUTRICI
A volte ritornano.
E dopo secoli e secoli (amen) siamo qui con un nuovo capitolo. Speriamo che vi piaccia e dateci un vostro parere.
Ringraziamo tutti i nostri lettori e recensori.
Per nostra curiosità fateci sapere chi preferite tra Aisu e Fujiko <3
Grazie in anticipo.
Midori e Yuki

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Capitolo 5
*** La casa dell'orrore ***


Capitolo 5: La casa dell'orrore
 
-Adesso mi racconti cosa diavolo è successo l’altra sera!- mi urlò in faccia quella squilibrata ammanettatrice di persone. Insomma, nemmeno io mi portavo a presso un paio di manette! Comunque, avrei dovuto immaginare che avrebbe fatto tutte queste domande: mi era sembrato fin troppo bello che, il giorno prima, fosse stata sempre in silenzio.
 
-Ma che cazzo fai?! Lasciami andare, squilibrata!- gli urlai, tentando di tirare dalla parte opposta, sperando che quelle manette fossero giocattoli e che si rompessero subito. E invece niente.
 
-Ora non ti lascerò andare fino a quando non mi avrai spiegato il perché dell’altra sera, al supermercato!- mi guardò con sguardo serio e determinato, forse convinta che quello stratagemma potesse funzionare. Cosa gli costava aspettare qualche giorno per ricevere direttamente da lui spiegazioni?
 
-Non m’importa quello he tu vuoi, io me ne vado.- dissi cominciando a dirigermi verso la fermata, trascinandola lungo la strada: prima o poi si sarebbe stancata, no? La gente per strada ci guardava male, forse pensando che stessimo svolgendo qualche gioco perverso, ma in quel momento non me ne fregava niente. L’importante era togliersi di torno quella palla al piede. Per fortuna, o sfortuna, l’autobus arrivò subito: lì, di certo, con tutta quella gente, non avremmo potuto parlare di omicidi al supermercato e  di telefoni che predicono il futuro. Una volta entrate, infatti, quella papera stava per aprir bocca, ma si bloccò all’istante, ragionando sulla possibile reazione degli altri passeggeri. In questo modo, potei godermi pochi minuti di adorato silenzio.. fino a quando non scendemmo dal mezzo.
 
-Ora puoi darmi delle spiegazioni!- insisteva lei, mentre ormai non si opponeva più nemmeno a essere trascinata, anzi, mi seguiva. Non avevo intenzione di farla entrare in casa mia, così intrapresi un percorso più lungo per tornare. Ero persino scesa qualche fermata più in là, per ritardare quell’inferno, ma non era servito a granché. L’anatra continuava a starnazzare insulse domande riguardo “il mio gesto spregevole al supermercato”, ed io ero stata costretta a ripetere più volte il giro della via per non condurla nella mia casa. Ormai si era fatto tardi, il cielo stava assumendo una tonalità blu oltremare, dopo il fiammeggiante tramonto visto poco prima. Possibile che non gli cedessero le gambe? Erano già passate diverse ore, e lei continuava a parlare: ma non gli si seccava la lingua?! Stanca di ripetere sempre lo stesso giro, deviai ancora una volta, inoltrandomi in una via mai presa, o comunque che non doveva essere molto frequentata, a giudicare dalle finestre e le porte sbarrate degli appartamenti della via. Davanti a noi, passò un gatto nero dagli occhi verde smeraldo, luccicanti come fanali. Non ero mai stata una tipa superstiziosa, ma ero sicura che quella fifona lo fosse quanto bastava per farla scappare, oppure convincerla a togliere quelle stupide manette. Di fatto, la sentii immobilizzarsi dietro di me, puntando i piedi per terra e certamente guardando in direzione dell’animale. Era fatta.
 
-Oh mio Dio! Che gattino stupendo! Awwwww! Vieni qui micio!- con una forza a dir poco sovrumana, mi trascinò con sé verso quel gatto che, vedendo quella pazza, era scappato all’interno di un edificio abbandonato. Avrei voluto tanto poterlo fare anch’io.
 
-No, gattino! Non scappare!- incredibile come una ragazzina fosse disposta a infilarsi in un edificio del genere pur di guardare un stupido gatto spelacchiato. Forse l’avevo sottovalutata: un minimo di coraggio doveva averlo, se era seriamente disposta a entrare in una casa del genere. Il palazzo si stagliava nel cielo notturno senza stelle, illuminato appena da un lampione dalla spettrale luce azzurrina e dal pallore della luna piena semicoperta dalle nuvole. L’esterno era dipinto di un orrido grigio metallico, macchiato in diversi punti: doveva essere piuttosto vecchio e malandato, poiché erano ancora visibili sotto la vernice le passate dei passati intonaci bianchi. Le finestre o erano un barlume di vetri infranti e tende semi ammuffite o erano sbarrate da assi di legno marcio. Un pennuto, poi, dall’alto del malandato camino sul tetto dalle tegole rosicchiate, sembrava osservare la scena con malvagio divertimento, con quei suoi occhi giallognoli, luminosi come fari nella notte. Assorta nelle mie osservazioni, non mi accorsi di essere stata trascinata da quella gattomane malata all’interno della casa spettrale.
 
-Dove sarà finito..?- si chiese tra sé e sé, irritandomi ancor di più. Ma che cazzo gliene fregava di un gatto spelacchiato, probabilmente affetto da qualche strana forma di rabbia?!
 
-Aspetta.. Ma dove siamo finite?!- ok. Ora avevo raggiunto il limite di sopportazione umana massima.
 
-Dove siamo finite?! Vuoi sapere in quale fottuto posto siamo finite per colpa tua?!- esplosi, mentre lei mi fissava con sguardo da pesce lesso. -Sai, vorrei tanto saperlo anch’io, peccato che non abbia con me la mia palla di vetro!- urlai qualche altra imprecazione al cielo, trattenendomi dal prendere a pugni il muro, per timore che quella catapecchia mi crollasse in testa. Però, pensandoci bene, almeno quella gattara e quel micio spelacchiato sarebbero crepati all’istante. La mocciosa se ne restò in silenzio, mentre le tremava il labbro inferiore e i suoi occhi si riempivano di lacrime: ci mancava solo che si mettesse a frignare. Era colpa sua se ci trovavamo in quella situazione. Udii alle mie spalle uno strano rumore, come lo scatto di una chiave nella serratura di una porta, ma non ci feci troppo caso: probabilmente si trattava solo di qualche asse di legno caduta, o di qualche strano animale, poteva persino essere quel maledetto gatto.
 
-Senti,- cominciai, rivolgendomi alla ragazzina, trattenendomi dall’urlare per non sentirla lagnare. –evita di metterti a piangere, la situazione è già abbastanza problematica. Piuttosto, prendi le chiavi di queste maledette manette e finiamola con questa buffonata.- le dissi con tono risoluto, ma lei non accennava ad aprirle, ma, anzi, i suoi occhi si riempirono ancor più di lacrime.
 
-Senti, finora mi sono trattenuta, ma ti assicuro che, se non mi togli queste cazzo di manette, potrei diventare estremamente violenta, e tu pregheresti non avermi mai incontrata.- le intimai con tono minaccioso,  non certo per fare scena, ma perché ero talmente infuriata che avrei potuto fare veramente qualunque cosa. –Anzi, sarebbe un’ottima occasione per..- stavo per ammettere, ormai seriamente intenzionata a farla fuori: non avrei fatto altro che anticipare l’inevitabile. Proprio mentre mi avvicinavo a lei, bloccandole il polso ammanettato, lei m’interruppe, pronunciando una frase talmente sussurrata da essere inaudibile.
 
-Che?!- le urlai contro, intimandole di ripetere, già frustrata per quel suo fastidioso modo di fare. Possibile che non fosse nemmeno capace di comporre una frase di senso compiuto?!
 
-NON HO LA CHIAVE!- urlò allora la mocciosa con tutta la voce che aveva, sgolandosi e facendo rimbombare l’urlo su tutte le pareti malandate, con un conseguente eco sinistro. Silenzio. Rimasi in silenzio, guardando fissa il terreno, perché sapevo, ne ero certa, che se l’avessi guardata negli occhi l’avrei uccisa seduta stante.
 
-Cosa cazzo significa che non hai le chiavi?!- le urlai contro, e seguirono i suoi lamenti accompagnati da altre lacrime.
 
-Me le sono dimenticate!- mi disse lei per giustificarsi: ma dove cazzo le aveva prese quelle manette?!
 
-Come è possibile che tu non abbia le chiavi?!- immaginavo le avesse prese da un qualche negozio compromettente, ma era chiaro che dovessero avere compresa la chiave!
 
-Insomma, dove cavolo le hai prese?! Le hai rubate a un poliziotto demente?!- le chiesi con tutta la rabbia trattenuta fino a quel momento, ficcandomi le unghie nel palmo per trattenermi dallo strozzarla, perché altrimenti non avrei saputo come togliere le manette.
 
-….- rimase in un preoccupante silenzio lei.. e io non potevo credere che quella fosse la reale provenienza delle manette. No, non poteva essere stata idiota a tal punto da fregare delle manette e dimenticarsi la chiave. Questo non potevo accettarlo. Cominciai a dirigermi a sguardo basso e a grandi falcate verso il portone da cui eravamo entrate.
 
-C-che cosa fai?! Dove mi trascini?!- chiese la ragazzina con tono tremante, proprio quando aveva appena finito di frignare.
 
-Voglio uscire da questo posto. è già abbastanza soffocante averti vicina, se ci si aggiunge la muffa e la polvere di questo posto muoio di asfissia.- afferrai la maniglia cigolante e arrugginita della porta, abbassandola e tirandola verso l’interno. La porta non si mosse di un centimetro. Riprovai e riprovai, ottenendo sempre lo stesso risultato. Pensai di provare a sfondarla, ma di certo non ci sarei riuscita con quel peso morto affianco.
 
-P-perché non si apre?!- perfetto. La serata ideale. Ammanettata a una gattomane, rinchiusa in una casa polverosa, con un gatto malato vagante, e con un possessore nei paraggi.
 
 
P.O.V. FUJIKO
 
Continuammo a ispezionare a passo lento e controllato quella casa dell’orrore, dove qualunque cosa poteva celarsi nell’ombra, senza che noi ce ne accorgessimo minimamente. Ogni volta che la suola delle mie scarpe incontrava il vecchio e scricchiolante legno delle assi del pavimento, degli inquietanti e prolungati cigolii si diffondevano per tutta la casa, immersa nel silenzio. Tutto ciò, ovviamente, contribuiva ad aumentare il mio battito cardiaco, quasi la pressione sanguigna minacciasse di salire fino a quando le mie vene non fossero scoppiate dal terrore.
 
 Stanca di arrancare nel buio a quel modo, senza nemmeno sapere dove mettere i piedi senza il rischio d’inciampare, estrassi con mano leggermente tremante il telefono dalla tasca, cercando di rischiarare l’oscurità che ci circondava con la luce del display. Quella luce abbaiante mi accecò per qualche secondo, fino a quando non mi abituai e fui in grado di dirigere il fascio di luce difronte a me.
 
Davanti a me, Aisu camminava a passo sicuro, senza esitazione, quasi ci fosse stata anche prima della luce a illuminare il passaggio. Compieva passi lunghi e felpati, tanto che in confronto a me lei faceva cigolare la metà delle volte quelle maledette e inquietanti assi. Procedeva certamente più velocemente di me, che non avevo affatto pretta d’inoltrarmi ulteriormente in quella casa, anche se l’idea di quel micio sperduto in quell’orribile abitazione mi faceva sentire terribilmente in colpa. Aisu non si voltò nemmeno una volta per guardarmi, semplicemente mi trascinava dietro di sé come fa un prigioniero con un blocco di cemento legato a una caviglia. Sembrava quasi sperasse che il suo polso, o più probabilmente il mio, si staccasse a forza di essere trascinato, in modo da potersi il più possibile allontanare da me. beh, non potevo certo biasimarla: quella di ammanettarci era senz’altro stata una scelta avventata (e folle), specialmente essendomi dimenticata di rimediare le chiavi. Mi chiesi più volte che cos’avrebbe pensato mia madre se avesse saputo che qualche giorno prima avevo assistito a un omicidio in un supermercato, che avevo sottratto delle manette a un onesto e autorevole poliziotto per mettere “in trappola” la mia nuova compagna di classe e che ora mi ritrovavo a vagare con quest’ultima in una casa abbandonata a quell’ora tarda alla ricerca di un gatto. Quella donna aveva partorito una pazza criminale, a quanto pareva.
 
In quella situazione così spettrale e paurosa, non potei fare a meno d’immaginarmi la rilassante scena di me e mia madre sdraiate insieme sul divano, sotto una calda e comoda trapunta rossa, sorseggiando cioccolata calda la Vigilia di Natale. Erano rare le volte in cui io e mia madre riuscivamo a intraprendere dei veri momenti madre-figlia, poiché lei viaggiava molto spesso per lavoro. Riuscivamo a trascorrere insieme la maggior parte delle festività, ma era capitato comunque diverse volte che mamma dovesse partire improvvisamente per un impegno, costringendomi a unirmi ai festeggiamenti delle famiglie di Kim e Alice, come un vero parassita. Ovviamente, le due mie amiche non mi avevano mai fatto pesare la cosa, conoscendo la complicata situazione lavorativa di mia madre. Tutto il contrario: spesso erano loro a invitarmi a festeggiare con le loro famiglie, accogliendomi sempre come benvenuta, con immenso calore. Purtroppo, in quel momento mi ritrovavo in una situazione ben diversa da quella di una rimpatriata fra amiche e parenti, e il gelido vento della cruda realtà mi trapassò le ossa facendomi rabbrividire.
 
Fiduciosa dell’apparente gran sicurezza di Aisu, mi lasciai trasportare da lei, stando solo ben attenta a dove mettere i piedi, giusto per non caderle addosso. Detto fatto, improvvisamente mi ritrovai a sbattere con la fronte chinata contro la schiena di Aisu, ora immobile davanti a me. Perché si era fermata?
 
 Mi sporsi leggermente da dietro di lei, illuminando la scena col telefono, per vedere meglio cos’avesse attirato la sua attenzione. Dinnanzi a noi, si trovava un particolare porta socchiusa: anch’essa era costituita da un legno piuttosto secco e malandato, che probabilmente di sarebbe sbriciolato con poco, ma qualcuno sembrava averlo preventivato. I bordi della porta, infatti, erano stati rinforzati con un qualche tipo di metallo grigio scuro dall’aria piuttosto resistente. Strano che in una casa di una tale età, per di più abbandonata da chissà quanto, fosse stata effettuata una restaurazione del genere…
 
-Mettiti qui- ordinò perentoria Aisu, trascinandomi oltre la soglia della porta, mentre lei rimaneva nella stanza, ponendo così la catena delle manette in mezzo al passaggio della porta. Non compresi le sue intenzioni fino a quando non afferrò saldamente la maniglia dall’aria nuova di zecca della porta, sbattendo violentemente la porta nel tentativo di spezzare le manette. Quella catena, però, non era poi così lunga, e i nostri polsi erano piuttosto vicini al punto di contatto tra il metallo della porta ed essa. All’idea del mio piccolo polso frantumato da quei colpi brutali, mi lasciai sfuggire un urletto di terrore all’ennesimo colpo della porta.
 
-Ti ho fatto male?- domandò lei, oltre la porta socchiusa, senza che riuscissi a leggere la sua espressione. Era la prima volta che mostrava il minimo interesse nei miei confronti, per lo meno che si preoccupasse della mia salute.
 
-N-no.- balbettai titubante in risposta, ancora scossa all’idea del polso rotto, che presi a massaggiare con l’altra mano come se si fosse realmente fratturato.
 
-Ah,- asserì lei semplicemente. –Peccato.- a quel suo commento gelido, freddo, indifferente ed estremamente perfido, ogni mia minima speranza che avesse cominciato ad accettarmi come essere umano mi crollò addosso come un enorme macigno.
 
Che antipatica, possibile che non abbia un minimo di riguardo verso gli altri?! Non la sopporto proprio!, m’infuriai mentalmente. Erano rare le volte in cui mi arrabbiavo a tal punto per il comportamento di una persona: la mia filosofia era sempre stata “sorridi e gli altri ricambieranno il tuo sorriso!”, ma quella tipa nemmeno sorrideva! Era inutile insistere con lei: se continuava a ostentare quell’aria da dura, io non ci potevo fare niente. D’altronde, non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire, no?
 
Dopo qualche altro colpo, i cerchi delle catene sembravano finalmente deformarsi, fino ad arrivare al punto di rottura, lasciandoci finalmente libere, anche se le due estremità rimanevano comunque legate ai polsi.
 
-Finalmente- mormorò lei: immaginavo la sua gioia nel non essere più vicina a un essere vivente, senz’altro una sensazione rigenerante e appagante per una sociopatica come lei.
 
Aisu non perse tempo, riprendendo subito a camminare a passo svelto e silenzioso, costringendomi a velocizzare l’andatura per starle dietro: poteva almeno aspettarmi, quell’antipatica. Mentre attraversavamo l’ennesima stanza buia, non potei fare a meno di far roteare il mio telefono nel tentativo di mettere a fuoco ogni angolo della camera, giusto per accertarsi che non ci fossero mostri i agguato o gattini indifesi e impauriti nascosti da qualche parte. Fortunatamente e sfortunatamente, nemmeno l’ombra di mostri e gattini, ma la sagoma di un oggetto attirò la mia attenzione. Sembra proprio.., decisi di avvicinarmi per verificare se si trattasse effettivamente di ciò che pensavo. Avvicinatami al tavolo malandato su cui era poggiato, potei accertare che le mie speranze erano fondate: che fortuna sfacciata!
 
-Aisu, guarda!- presi in mano quella grossa mascherina dall’aria anche piuttosto pesante che, grazie ai numerosi film d’azione e di spionaggio, ero riuscita a identificare come occhiali da visione notturna. Aisu li afferrò senza tanti convenevoli, subito indossandoli e premendo a caso un po’ di tasti, fino a quando non sembrò trovare quello giusto per accenderli.
 
-Sono occhiali da vista notturna: con questi si vede benissimo.
 
Continuammo a camminare mentre seguivo lei che si muoveva con un passo sempre più sicuro e rapido mentre io, intimorita, mi facevo luce col telefono. Per curiosità, mi fermai un attimo per guardare che ore fossero, poiché mi sembrava fosse passata un eternità dal nostro ingresso nella casa. Non ebbi neanche il tempo di guardare il telefono che Aisu era già scomparsa dalla mia vista.
 
-Maledizione!- imprecai tra me e me. Iniziai a sentire il cuore battere più velocemente, le gambe tremare ed il respiro sempre più veloce. "Merda. Non adesso, non è il momento! Calmati!" Mi appoggiai un attimo alla parete di legno per riprendere controllo di me stessa e del mio corpo.
 
-Ok, forza Fujiko andrà tutto bene...- mi ripetevo, ricominciando a camminare con il sudore freddo e col cuore ancora in gola.
 
Arrivai alla fine di quel corridoio lunghissimo e vidi una figura dietro l'angolo. Senza pensarci due volte corsi verso di essa, credendo fosse Aisu. Mi gettai d'impulso tra le sue braccia ma subito notai che qualcosa non quadrava. Era molto più alto di me e le sue braccia più possenti. La luce del mio telefono a contatto con il suo corpo mostrava muscoli ed una camicia bianca. Non era Aisu...
 
D'impulso mi staccai da lui spingendolo via ma con la luce del telefono notai che fece uno scatto verso di me.
 
A causa della spinta di prima inciampai in qualcosa e caddi a terra. Ero terrorizzata! Stava venendo verso di me! Senza pensarci due volte, presi la prima cosa da terra che mi capitò tra le mani; non riuscii a capire cosa fosse, data la scarsa illuminazione, ma era molto pesante. Diedi due colpi alla cieca: il primo non colpii nulla, ma subito al secondo si sentì un suono sordo ed il tizio cadde a terra. Subito lasciai cadere tutto ciò che avevo tra le mani accasciandomi al suolo. Il cuore mi batteva forte. Notai che il tizio non si muoveva più e mi misi le mani alla testa urlando dal terrore.
 
"Cazzo Cazzo cazzo oddio ho ucciso una persona.”

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Capitolo 6
*** Scontro al buio ***


Capitolo 6: Scontro al buio
                                                                                                                                                                           
P.O.V. AISU
 
Trovare quegli occhiali era stata una mano santa: con quelli, era possibile distinguere ogni singolo dettaglio all’interno della casa. Ciarpame. Ecco da cosa era composta quell’abitazione: nient’altro che ciarpame: libri dall’antiquata e polverosa rilegatura con le pagine spiegazzate, disgustose trappole per topi disposte a ogni due passi, assi di legno alzate dal pavimento e sedie e mobili rovesciati. Tutto quel disordine, molto simile a un percorso a ostacoli, però, non sembrava naturale: sembrava quasi che qualcuno avesse fatto in modo di occupare ogni singolo spazio sul pavimento pur d’impedire un libero passaggio. La porta d’entrata casualmente chiusa a chiave al nostro ingresso, poi, contribuiva a rinforzare la mia ipotesi: doveva esserci qualcun altro all’interno. E di certo non aveva intenzione amichevoli. Ma, d’altronde, nemmeno io. Quegli occhiali da visione notturna, tra l’altro, discordavano totalmente con il resto della casa: era come vedere un smartphone all’epoca di Cesare. Tutto in quel malandato edificio, poi, era ricoperto da un sottile strato di polvere, mentre quegli occhiali sembravano appena usciti dal negozio. Era tutto fin troppo innaturale, costruito, palese. Era meglio tener d’occhio il telefono, per essere pronta a ogni evenienza.
 
All’improvviso, mi accorsi che c’era un silenzio fin troppo profondo e rilassante: mancava qualcosa, una componente di disturbo, morbosa e fastidiosa. Ah, già: non sentivo la voce della mammoletta. Che si fosse decisa a chiudere quella fogna stagnante? Magari era caduta, aveva battuto la testa ed era morta: sarebbe stato un sogno che diveniva realtà. Ma era alquanto improbabile che fosse accaduto ciò: se fosse stato vero, l’eco della sua testa vuota rimbombare in tutto il Giappone.
 
Proprio in quell’istante, dei pesanti rimbombi, riconoscibili come passi sul parquet vecchio e lercio, si diffusero per l’edificio, facendo vibrare le pareti: sembrava quasi che un rinoceronte stesse scendendo le scale. Afferrai il telefono, aprendo immediatamente la pagina delle note, mi accostai con la schiena contro una parete, in modo tale da avere una visione totale della scena, senza dovermi aspettare attacchi alle spalle. Mi sarei senz’altro arrangiata con una delle centinaia di cianfrusaglie a terra. Chiunque fosse, di certo non avrebbe passato una bella nottata. Ma perché mai, dopo essersi sforzato tanto con tutti quei dettagli, il fantomatico nemico sarebbe dovuto uscire allo scoperto così all’improvviso? Senza nemmeno impegnarsi per un assalto a sorpresa? Tutto si chiarì quando, anziché un potenziale avversario, comparve nella sala quell’idiota con gli occhi sbarrati come un pesce e pieni di lacrime. Ma non poteva rimanersene in disparte, magari cercando il gatto senza rompermi le palle? Avanzava correndo in modo strambo, quasi avesse una dislocazione alle rotule, facendosi luce con il display del telefono e superando a malapena il percorso a ostacoli creato a terra, inciampando un paio di volte e facendo scattare diverse trappole per topi. Ma quella tipa proprio non concepiva il concetto di silenzio?
 
-Aisu..!- piagnucolò lei, avvicinandosi pericolosamente, così io mi spostai prontamente da un lato, evitando un suo potenziale abbraccio zuccheroso e stritolante. Dopo essersi ritrovata con la faccia al muro, letteralmente, la mammoletta si girò in mia direzione con ancora i lacrimoni agli occhi: ci mancava solo che si mettesse a piangere e lamentarsi come una neonata. –Aisusonounassassinaeunapersonaorribileiononvolevomamihamessopauraqueltipocredevofossitumanonloerael’hocolpitointestaedecadutoe..- le tappai la bocca con il palmo: ma era scema?! Stava praticamente urlando, e non si capiva un accidente di ciò che diceva. Non ero una maestra d’asilo, non dovevo farle da balia e, se non si fosse calmata, avrei finito per darle una testata in fronte. Era il caso di mettere le cose in chiaro, altrimenti sarei finita ammazzata anch’io appresso a lei.
 
-Taci, cogliona. O vuoi per caso ritrovarti agonizzante a terra? Magari con un bel bozzo sul cranio? O preferisci con la mascella dislocata? Non è una brutta idea, almeno non potresti più parlare..- non so come fosse possibile, ma riuscii a vedere il colore defluire dal suo viso nonostante la sfumatura verde che aveva assunto ogni cosa attorno a me. Quando sembrò essersi finalmente ammutolita, tolsi la mano e pulii il palmo sulla stoffa dei pantaloni: non volevo essere contagiata dalla sua idiozia.
 
-Sappi una cosa: non me ne importa assolutamente nulla di ciò che fai, dove vai o cosa vuoi. Per me puoi benissimo restartene qui dentro a vagare e inciampare al buio alla ricerca di quello stupido gatto, l’importante è che tu mi stia alla larga.- misi in chiaro, peccato che non potesse vedere il mio sguardo in quel momento.
 
-Ma io..- possibile che ogni mia parola le entrasse da un orecchio e le uscisse dall’altro? Era sorda? Scema forse? Probabilmente sì.
 
-Smettila di parlare, cazzo.- l’azzittii io, già pronta a incamminarmi per andare il più lontano possibile da lei. Proprio quando feci il primo passo, tuttavia, avvertii un rumore: era stato lieve, effimero, innocuo, praticamente inesistente, ma c’era stato. A esso, seguì il suono delle note del telefono che cambiavano. Mi bloccai, guardandomi lentamente attorno alla ricerca della fonte di quel suono: se avessi guardato le note in quell’istante, avrei finito per distrarmi e farmi prendere di sorpresa da chiunque fosse nascosto in quella stanza. Era stato simile a quello del lieve fruscio di una porta, ed ero più che sicura di non essermi sbagliata. L’idiota lì accanto mi guardava con aria interrogativa, ma non avevo motivo di spiegarle nulla, quindi proseguii con la mia ricerca. Scansandomi dal muro per evitare quel pericoloso abbraccio, però, avevo perso quella copertura e sicurezza del muro alle spalle: ora ero totalmente scoperta, e il resto della stanza dietro di me era l’unico punto in cui non avevo ancora guardato. Il silenzio regnava sovrano nella stanza, e fu proprio quello che mi permise di percepire un ulteriore rumore, questa volta dal pavimento in legno, alle mie spalle. Senza pensarci due volte, mi voltai di scatto. La prima cosa che vidi fu un tubo di metallo, una spranga di ferro, pronta a colpirmi in pieno volto, così mi abbassai sulle ginocchia, evitandolo prontamente. Approfittai di quella mia posizione accovacciata per cercare un qualche oggetto a terra che potesse aiutarmi in quella lotta, mentre la ragazzina alle mie spalle lanciava un urletto acuto e irritante. Non avevo tempo per esaminare ogni singola cianfrusaglia lì presente, e a prima vista non mi pareva di vedere niente di utile. Tuttavia, in quel frangente in cui il tempo sembrava essere rallentato, l’aria essersi fermata e i miei sensi svegliati come accadeva ogni volta che l’adrenalina della lotta mi saliva in corpo, avvistai un tavolo con una sedia malandata accanto. Non era troppo lontano, a circa tre metri di distanza alla mia sinistra: non sapevo quanto quel tipo fosse abituato a quel genere di oscurità, ma io ero senz’altro avvantaggiata con quegli occhiali. Senza pensarci due volte, mi diedi lo slancio giusto con le gambe per lanciarmi verso quel tavolo, prima che il tipo si accorgesse di ciò che stava accadendo. Era di legno, leggera e decisamente sporca, ma non esitai minimamente ad afferrarla e nel fiondarmi con essa contro l’uomo che ora tentava di parare disperatamente il colpo con la spranga. Non fece però in tempo a sollevarla per coprirsi che lo avevo già tramortito con un colpo in testa, per poi dargli un forte calcio alla rotula che cedette, facendo accasciare l’uomo a terra. Era ancora vivo, ovviamente. Dopo avergli dato un paio di calci sul fianco, per poi finire in bellezza con una violenta taccata in mezzo alle scapole, sferrai con tutta la forza che avevo le gambe della sedia sulla sua schifosa testa, fino a quando il legno marcio non si spezzò. Dal liquido scuro che ora si allargava sul pavimento intorno al suo capo semicalvo, compresi che ormai doveva essere finito.
 
Per conferma, mi accasciai accanto a lui, dopo aver mollato quella sudicia sedia. Gli tastai le tasche della giacca e dei pantaloni, fino a quando non trovai il suo cellulare in una tasca interna del cappotto scuro. Il display segnava a caratteri cubitali la scritta “DEAD END”. Mi lasciai sfuggire un lieve sorrisetto di soddisfazione, per poi alzarmi e schiacciate sotto la scarpa il telefono, fino a quando lo schermo ormai crepato non si spense definitivamente. Il corpo dell’uomo si contorse orribilmente, piegandosi e arrotolandosi su se stesso, fino a quando non scomparve, come risucchiato da un buco nero. Due in meno. Mi volta in direzione di Fujiko, dall’espressione decisamente sconvolta, lo sguardo spiritato ancora diretto verso la macchia di sangue sul pavimento, dove fino a pochi secondi prima si trovava il corpo inerte dell’uomo. Nulla mi vietava di fare immediatamente la terza vittima, in quel preciso istante. Le circostanze me lo permettevano, erano più che perfette.. ma non ci sarebbe stato alcun divertimento.
 
L’idiota alzò il suo sguardo scioccato e tremante, ancora appannato dalle lacrime, in mia direzione. Adoravo quel terrore nei suoi occhi: mi faceva sentire ancora più potente di ciò che fossi già. Io, in risposta a quella silenziosa accusa, risposi ponendomi l’indice sulle labbra, in segno di silenzio. Una chiara ammonizione per non azzardarsi a parlare di ciò a nessuno, di crogiolarsi nel suo dolore, nel suo shock, fin quando il peso del silenzio non l’avesse portata alla pazzia.

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