Fumo sull'acqua di Jo_The Ripper (/viewuser.php?uid=116460)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dead man walking ***
Capitolo 2: *** Once upon a dream ***
Capitolo 3: *** Cold blooded ***
Capitolo 4: *** Gluttony ***
Capitolo 5: *** The sound of silence ***
Capitolo 1 *** Dead man walking ***
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di: sir
Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat ed il network BBC.
[Sherlock
& John; What if dell’episodio 1x03;
Drammatico-introspettivo, angst]
Dead man walking
La più
orribile delle infermità è la mancanza di cuore
Jean Cardonnel
Il mare era
cupo e gorgogliante di schiuma. Le dense nubi plumbee si stagliavano
nel cielo, ormai svuotate del loro carico di roboanti tuoni e scoppi di
folgori. Si disperdevano, mosse dal vento, con la stessa misurata
lentezza di un corteo funebre. Qualche lampo ametista illuminava ancora
l’etere con il suo bagliore, gettando uno spiraglio di luce
in quel grigiore altrimenti soffocante.
Le onde mi
sollevavano e sballottavano mentre provavo a tenermi ben saldo ad
un’asse di legno, un misero appiglio di quello che ormai era
il relitto del vecchio brigantino sul quale viaggiavo.
L’albero
maestro, con un ultimo, agonizzante rantolo, si spezzò per
poi sprofondare nei flutti oscuri assieme alle sartie, come una croce
che cade sotto il peso del peccato e distrugge l’ultimo
baluardo di fede e speranza dell’anima.
Anche la
galea cedette, si inarcò e si inabissò generando
un’onda che mi spinse ancora più lontano.
Ero
stremato, la battaglia contro la tempesta mi aveva privato di ogni
energia. Ad ogni istante che passava, sentivo i cancelli del reame
della morte sferragliare sui cardini arrugginiti e aprirsi per
accogliermi come nuovo ospite, trascinato alla deriva dalla corrente.
Con il
respiro mozzato dal freddo delle acque, in lontananza vidi emergere
dalla nebbia un vascello. La prua fendeva in due le onde di quella buia
marea, attraversando i resti della nave e spazzandoli via alla stregua
di misere foglie in balìa del maestrale.
Sollevai la
testa e, con le ultime forze che mi rimanevano, in un muto grido
d’aiuto, allungai una mano in direzione della nave dalle vele
rosso cremisi.
“Rosso,
come il sangue sparso sul pavimento bianco.”
La debolezza
mi fece annebbiare la vista ma, quando riuscii a recuperarla, i miei
sensi ormai moribondi riacquistarono un barlume di vigore e seppi che lui era
lì.
Mi fissava
con occhi malevoli e sapevo che con quella semplice occhiata stava
scandagliando la mia anima con tutta l’abilità di
un chirurgo.
Mi stava giudicando.
Con
avidità ed ingordigia scrutò nel mio essere e in
quel momento seppi che mi aveva trovato un posto.
La nave
gettò in mare le sue reti per catturare i resti degli
annegati. L’esiguo numero di persone che nella mia vita erano
state importanti, che mi avevano fatto nascere, che mi avevano fatto
dono della loro amicizia e dei loro insegnamenti, che contavano, erano
lì.
Occhi spenti
e vitrei, corpi gocciolanti, pelle bianca, raggrinzita e gonfia, labbra
blu violacee.
Inorridii di
fronte alla consapevolezza che l’essere sopravvissuto sanciva
la mia condanna ad un destino peggiore.
E lo meritavo.
Gli occhi
dell’uomo sul ponte, che ora potevo distinguere essere di un
blu acceso, brillavano come fuochi fatui su un cimitero di lapidi
sommerse. Continuava ad osservarmi, ma se quegli occhi mi avessero
cercato di proposito o si fossero posati su di me per caso, non potevo
saperlo.
Io aspettavo
lui o lui me?
“Sherlock.”
Il mio animo
si riempì di terrore. Quella voce…capii
ciò che voleva, ed era più di quanto potessi
dargli.
“Sherlock.”
Sotto il
peso di sensi di colpa che laceravano la mia anima al ricordo di quella
morte che avevo causato, agonia e sfinimento unirono gli sforzi contro
di me, trionfando.
Le gambe
divennero pesi di piombo e le mani allentarono la loro presa,
scivolando sulla superficie levigata del legno.
Vidi il mare
chiudersi sopra di me ed inghiottirmi, avvolgermi nel suo tetro
abbraccio, accogliermi nella sua oscura viscera.
“Sherlock.”
Il mio nome,
l’ultima parola che udii mentre la vita abbandonava il mio
corpo.
E
suonò come un richiamo per i dannati.
*
Qualcosa, da
qualche parte, stava suonando.
“Non una canzone, un
trillo. È lo squillare insistente di un cellulare.” Elaborò
la sua mente ancora annebbiata dal sonno.
Emerse dalle
coperte e si mise supino. Aprì piano gli occhi e
aspettò che il mondo tornasse nella giusta prospettiva,
cancellando i contorni sfumati del regno del sogno. Un pallido raggio
di sole filtrava dalla tenda di quel colore bianco sporco che sua madre
aveva tanto insistito a comprargli.
Richiuse gli
occhi, non era il sole che voleva. Voleva tornare nella sua caverna
oscura, rifugiarsi nell’angolo più buio e remoto
del suo palazzo mentale.
Il cellulare
smise di squillare e lui emise un sospiro di sollievo.
Si
portò il braccio agli occhi e, con il dorso della mano,
sfiorò la fronte: la trovò madida di sudore.
“Avresti
dovuto rispondere.”
Dalla sua
posizione rilassata, si irrigidì di colpo, il corpo percorso
da un brivido freddo. Aprì gli occhi e si voltò
in direzione della voce.
In piedi,
accanto al comodino, c’era John.
Il telefono
riprese a squillare.
“Chi
è?” borbottò tirandosi a sedere.
Assottigliò le palpebre per evitare che il sole gli ferisse
gli occhi. Li sentì ugualmente bruciare come se fossero
trapassati da un pungolo.
Da quando
era diventato così fotosensibile?
“Lestrade.
Dovresti rispondere, Sherlock.”
Il detective
annuì, ruotò il busto in direzione del cellulare,
sporse il braccio per afferrarlo ed accettò la chiamata. La
sua espressione divenne mortalmente seria. Scambiò delle
stringate parole con l’ispettore, un indirizzo ed un lasso di
tempo per poi terminare la conversazione.
John
continuava a fissarlo a braccia conserte, improvvisamente preoccupato.
“Non
devi andarci per forza, hai una pessima cera.”
Sherlock non
si prese la briga di rispondere, si alzò e si diresse verso
il bagno, ignorando il caos totale in cui versava la sua camera da
letto. La sua mente registrò solo dei particolari.
I peggiori.
Il cucchiaio
ormai bruciato dalla fiamma che giaceva sulle coperte, le bottiglie
d’acqua vuote, il laccio emostatico abbandonato sul comodino,
le piccole bustine di plastica accartocciate e gettate sul pavimento
assieme ad uno dei tanti completi eleganti. Da qualche parte,
constatò, dovevano esserci anche delle siringhe che, in quel
momento, erano nascoste chissà dove.
Nascoste,
come i mostri sotto al letto e dietro le porte del suo palazzo mentale:
arrancavano nel buio, tendendo i loro artigli e spalancando le loro
fauci che esalavano effluvi mefitici, pronti a spezzare
l’ultimo filo di sanità mentale che lo teneva
ancorato al presente.
Chiuse la
porta del bagno, si liberò dei vestiti inzuppati di sudore e
si sistemò nella vasca.
Trasalì
a contatto con la fredda ceramica, ma si costrinse a rilassarsi.
Aprì
il getto d’acqua calda per lavarsi via di dosso la
spossatezza e l’odore acido dei suoi stessi succhi gastrici
nella bocca.
Non aveva
detto a John del suo incubo.
Non gli
aveva detto che l’aveva visto sul ponte della nave,
incarnazione stessa della tenebra, venire a reclamare la sua anima e
soddisfare la propria vendetta.
Non gli
aveva detto di aver visto morire anche gli altri senza poter fare nulla
per salvarli.
Richiuse gli
occhi intenzionato a scacciare le immagini del suo incubo. Si immerse
fino ai capelli nella vasca e restò lì, fermo,
con il respiro bloccato in gola, in un limbo galleggiante di pace
fittizia.
Quando
uscì dalla vasca, un lieve tremore scuoteva le sue mani
mentre provava a vestirsi. La sua immagine, riflessa nello specchio,
rimandava le fattezze di un viso che non riconosceva come suo: era
dimagrito, il volto, già spigoloso, era diventato una
maschera appuntita, le labbra, una volta piene, si erano trasformate in
un terreno riarso, secche e sottili. Persino gli occhi, un tempo
caratterizzati da un cangiante e vibrante verde azzurro, erano coperti
da un velo opaco e febbrile.
“Sherlock,
sbrigati o farai tardi.” Lo ammonì la voce di John
al di là della porta.
“Sì,
sono pronto.” Replicò atono prima di aprire il
mobiletto delle medicine e prendere una manciata di tranquillanti.
Inspirò
profondamente e, quando uscì dal bagno, John era scomparso.
Dove fosse
andato, non lo sapeva.
Prima di
recarsi sulla scena del crimine, Sherlock salutò un
appartamento vuoto.
*
Lestrade
sollevò la striscia gialla che circoscriveva
l’area interdetta del Battersea Park, mentre un piccolo
capannello di ficcanaso cercava di sbirciare, spinto dalla
curiosità.
“Stesso
modus operandi?” chiese Sherlock mentre si dirigeva verso il
luogo del ritrovamento.
L’ispettore
al suo fianco annuì.
“È
stata trovata dal guardiano del parco questa mattina. Galleggiava con
il viso riverso nel lago.”
Sherlock si
avvicinò al corpo della donna che giaceva
sull’erba per esaminarlo. Era giovane, non doveva avere
più di venticinque anni.
“La
causa della morte non è l’annegamento e questa non
è la scena del crimine primaria, ma solo il luogo
dell’abbandono. Anche a lei è stato asportato
qualcosa.”
Il viso di
Lestrade mutò in un’espressione di estremo
disprezzo e disgusto.
“Holmes,
ci troviamo davanti ad un sadico psicopatico seriale: le è
stato asportato il cuore.”
“Il
cuore...come alle altre è stato preso il cuore...”
mormorò Sherlock cercando di aggiungere anelli alla sua
catena di ragionamenti.
“E tu, Sherlock? Tu ce
l’hai un cuore?” la
voce di John risuonò fastidiosa nella sua testa. La
scacciò con un gesto del collo.
“Fammi
avere al più presto il referto autoptico.”
Ordinò prima di voltarsi per andare via ma Lestrade lo
trattenne.
“Sherlock,
dammi qualcosa su cui lavorare, non riuscirò a tenere la
stampa e i superiori a bada per sempre.”
L’atteggiamento
quasi implorante dell’ispettore, i cui occhi elemosinavano
una briciola di aiuto, gli procurò un moto di orgoglio.
“Vanità.” Lo
corresse John.
Era bello
essere l’unico detentore della conoscenza, arrivare dove gli
altri non potevano spingersi con il solo ingegno della mente.
“Superbia.” Insistette
la voce del dottor Watson.
“Il
soggetto che dovete cercare è un maschio bianco, tra i 25 ed
i 35 anni, uno che non si nota a prima vista, capace di confondersi tra
la folla. La natura violenta dei crimini suggerisce che abbia la fedina
penale sporca, microcriminalità, magari piccoli furti.
È un assassino organizzato: prudente, segue la cronaca,
è attento all’igiene, furbo…e visto che
è furbo le uniche prove fisiche che troviamo sono quelle che
lui vuole lasciarci. Ha una macchina in buone condizioni, forse con i
vetri scuri per poter trasportare i corpi nei luoghi di abbandono. Deve
avere una storia di paranoia prodotta da un trauma non superato, magari
la morte di un genitore, di uno della famiglia o un amico. Attraverso
l’omicidio deve soddisfare una pulsione o compensare una
mancanza, un bisogno viscerale, un disperato senso di potere. Gli
assassini organizzati provano un grande interesse per
l’applicazione della legge, è come se volessero
inserirsi nello svolgimento delle indagini. Possono arrivare a fingersi
testimoni per scoprire cosa sa realmente la polizia, questo li fa
sentire dominanti, controllanti...quindi è anche possibile
che l’abbiate già sottoposto ad un interrogatorio
o che sia stato presente su tutte le scene del crimine.”
“Qualcuno
come te, Sherlock.” gli mormorò John
all’orecchio. Il detective deglutì, la gola era
diventata improvvisamente disidratata.
“Bene,
grazie Holmes, questo ci sarà d’aiuto.”
Il detective
fece un cenno di congedo all’ispettore ed andò via.
*
Il 221B di
Baker Street era silenzioso. Sherlock varcò la porta
d’ingresso ed un capogiro lo colse. Cercò il
sostegno del muro e della mobilia, riuscendo con parecchi sforzi ad
arrivare al divano, sul quale si stese con poca grazia.
Poi
cominciarono i brividi di freddo. Afferrò la coperta che
teneva sulla spalliera e vi ci si avvolse dentro, continuando a tremare.
Con estrema
lentezza riuscì ad alzarsi e a trascinarsi verso il bagno,
dove vuotò la boccetta di calmanti e poi strisciò
fino al letto.
Con le
palpebre pesanti, stanco e spossato, il mondo cominciò ad
assumere toni indefiniti e si addormentò.
*
Quando
riprese conoscenza era ormai notte fonda e la crisi di astinenza stava
tornando.
Doveva
combatterla, doveva resistere. Il sudore scendeva dalla tempia
solcandogli la linea del collo, le articolazioni bruciavano come se
qualcuno lo stesse marchiando a fuoco.
Si
rannicchiò in posizione fetale, digrignando i denti in preda
a spasmi sempre più forti.
“Hai
visto, Sherlock? C’è la luna piena
stanotte.”
“Vattene
via, John.”
Il dottore
gli si avvicinò, sedendosi sul letto e posandogli la mano
sulla spalla. Aveva uno sguardo comprensivo, un sorriso gentile ed
incoraggiante, come quelli che soleva rivolgergli quando qualcosa lo
turbava.
“Non
posso andarmene, Sherlock. Io sono qui.” La sua mano si
spostò sul capo in una carezza leggera e delicata.
“Esci
dalla mia testa!” gli gridò contro il detective,
balzando dall’altra parte del letto, mettendo quanta
più distanza poteva tra lui e quell’uomo.
John
guardò dapprima con livore la figura rannicchiata ed
ansimante contro il muro, ma poi la sua espressione si
ammansì, regalandogli un sorriso docile ma al contempo
malevolo.
“È
una notte troppo bella per litigare, Sherlock. Dovremmo uscire e andare
a bere qualcosa, tu ed io. Dovremmo cercare di dare giustizia a quelle
ragazze.”
Il detective
si appiattì contro la parete, tenendosi il capo tra le mani,
oscillando leggermente.
“Esci
dalla mia testa, esci dalla mia testa, esci dalla mia
testa...” ripeteva come una nenia.
“Avanti,
Sherlock, tu non vuoi che io vada via, vero? Non hai intenzione di
scacciarmi…per farlo dovresti soltanto estrarti il cervello.
E tu ci tieni al tuo cervello, no? È il cuore che ti manca,
per questo dobbiamo uscire a cercarne uno.”
“No!”
sbottò il detective. “Io ho un cuore, non me ne
serve uno nuovo!”
“Ne
sei sicuro? E dimmi, signor saputello, dov’era il tuo cuore
quando Moriarty mi ha fatto saltare in aria? Tu mi hai lasciato morire
pur di risolvere un caso e catturare un criminale. Hai lasciato che il
peccato di presunzione vincesse sull’amicizia.”
Le parole
velenose scatenarono un flash nella mente di Sherlock che
sgranò gli occhi, impietrito.
Rivide
se stesso camminare sul pavimento bianco piastrellato della piscina,
con le mani intrecciate dietro la schiena si rigirava tra le dita una
pendrive.
Cominciò
una filippica sfrontata, che trasudava scherno e derisione,
all’indirizzo di Moriaty.
Le
parole, però, gli morirono in gola alla vista di John e di
ciò che traspariva sotto il giaccone che indossava.
E
poi il confronto con Moriarty, i suoi discorsi beffardi.
“Ti
brucerò il cuore.” Gli aveva ringhiato contro e
lui era rimasto impassibile.
“Mi
dispiace, ma ho saputo da fonte certa che non ce
l’ho.”
“Ma
sappiamo entrambi che non è così.” Gli
aveva risposto Jim provocatorio.
Con
la pistola ancora stretta tra le mani a seguire ogni suo movimento,
Sherlock lo vide allontanarsi di qualche passo, un sorriso stampato sul
volto.
E
prima che il suo cervello potesse dedurre alcunché, Moriarty
premette il detonatore.
La
conflagrazione lo fece cadere riverso di schiena qualche metro
indietro. Con le orecchie che fischiavano, Sherlock si
sollevò e, senza pensare, gridando il nome di John,
sparò a sua volta, svuotando il caricatore.
La
risata del consulente criminale si spense mentre il suo corpo si
accasciava al suolo, privato della vita.
Sherlock
si avvicinò a quello che una volta era stato il suo migliore
amico, John Watson. Cadde sulle ginocchia accanto al suo corpo
devastato, posò le mani sul pavimento, senza sentire
veramente la sensazione del caldo viscoso che le avvolgeva.
Stette
lì fino a quando non arrivò suo fratello, con la
sola compagnia di lacrime amare che credeva essere incapace di versare,
e della sua anima che si lacerava al ritmo in cui le scanalature del
pavimento e l’acqua della piscina si riempivano del sangue di
John Watson.
“Tu
non sei reale, devi andare via, io non posso, non posso...”
la voce di Sherlock si ridusse ad un sussurro incrinato.
“Certo
che sono reale. Guarda, lo senti il calore delle mie mani sulla tua
pelle? Smetti di tremare, Sherlock. Sai cosa devi fare per far passare
questo dolore. Devi trovare un cuore e solo così sarai in
pace.”
Il detective
sollevò gli occhi, incrociando quelli benevoli del suo amico.
“Solo
così...” mormorò.
“Solo
così.” Ripeté John.
Sherlock si
alzò e cominciò a raccogliere il necessario.
Aprì il comodino, prese la dose ed una siringa.
Recuperò il cucchiaio e, con l’aiuto di un
accendino, sciolse il contenuto della bustina mischiandolo a
dell’acqua distillata. Strinse il laccio emostatico attorno
al braccio con i denti, aprì e chiuse la mano per far
aumentare la pressione del sangue.
Si sentiva
un cacciatore d’oro all’inferno, alla ricerca della
vena fortunata.
Quando ci fu
riuscito, iniettò la sostanza e si rilassò contro
la parete del muro.
Il suo
tormento fu spazzato via da un’ondata di euforia alla quale
non poteva resistere.
“Va
meglio, non è vero?”
“Sì,
John.” Esalò con l’ombra di un sorriso
che gli incurvava le labbra.
“Vieni,
adesso andiamo a cercarti un cuore nuovo.”
Sherlock
afferrò la mano di Watson e sparì nel cuore della
notte londinese.
*
La ragazza
non oppose resistenza, fu facile per lui convincerla a seguirlo.
Ora, con le
mani ferme e decise, i guanti e la sua lama, era pronto per il passo
finale.
John lo
osservava, compiaciuto.
Il coltello
affondò nella carne come se fosse stata di burro, il sangue
cominciò a scorrere scivolando nei solchi della grata sotto
di lui.
Una volta
che la sua operazione fu completa, prese un barattolo che aveva
precedentemente riempito con della formaldeide e vi pose con estrema
attenzione il cuore all’interno, maneggiandolo con la stessa
delicatezza e reverenza riservata ad oggetti di inestimabile valore.
Lo vide
galleggiare per poi fermarsi al centro del recipiente.
“Come
ti senti?” gli chiese John, seduto a terra, in un angolo di
quella casa isolata.
Sherlock
rifletté per un istante. L’adrenalina viaggiava
veloce nel suo corpo, facendogli vivere un’esperienza molto
simile ad un salto dal tetto di un palazzo a braccia spalancate.
“In
pace. Credi che questo sia...un peccato, John? Tu hai mai provato
niente di simile?”
“Sherlock,
io credo che se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati,
rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di
originalità.” Sorrise per poi guardare il trofeo
all’interno del contenitore. “Adesso hai un cuore
nuovo.”
Sherlock si
lasciò andare ad un sospiro di puro sollievo.
L’effetto indotto dalla droga stava svanendo e presto i
demoni sarebbero tornati a tormentarlo. L’avrebbero
trascinato lontano dalla luce della coscienza del reale e scaraventato
in un pozzo di profonde, inconoscibili tenebre.
L’oblio
lo stava chiamano e lui era ben felice di rispondergli.
Con palpebre
pesanti e libero dai sensi di colpa, lo accolse con piacere.
*
La notizia
dell’arresto di Sherlock Holmes ebbe un’eco di
rilevanza internazionale. L’ispettore Lestrade venne radiato
dalla polizia, la sua testa fu la prima a saltare perché
aveva permesso ad un serial killer di occuparsi di indagini ufficiali.
Al suo posto
subentrò il sergente Sally Donovan che, appoggiata dal capo
della scientifica Anderson, aveva da sempre sostenuto
l’implicazione del ‘geniaccio’ nei
delitti.
Chi, meglio
di Holmes, corrispondeva al profilo?
La notte
dell’arresto il detective, ormai sull’orlo del
collasso, venne trovato riverso sul pavimento di casa sua, una siringa
stretta nella mano, in overdose da eroina.
Durante il
processo la corte stabilì che fosse ricoverato in un
ospedale psichiatrico criminale.
Il suo
psichiatra, dopo una serie di sedute, diagnosticò che il
paziente Sherlock Holmes era affetto da un disturbo raro, noto come
sindrome di Cotard. Questa, aggiunta al trauma di aver assistito alla
morte del suo amico, il medico John Watson, era stata il fattore
scatenante della follia omicida.
Con il
passare del tempo, questi elementi erano sfociati in allucinazioni che
avevano assunto le fattezze di John Watson.
La sua
personalità deformata, dominante, aveva cominciato a
prendere il sopravvento nella mente di Sherlock, arrivando a creare un
vero e proprio sdoppiamento.
John,
infatti, negò di aver commesso gli omicidi, imputandoli a
quella che era diventata la personalità remissiva, ossia
Holmes.
Divorato dai
sensi di colpa per non essere riuscito a salvare il suo amico, Sherlock
aveva cominciato ad abusare di droghe che avevano acutizzato il suo
disturbo dissociativo dell’identità e la sua
sindrome di Cotard, facendogli credere che non avesse un cuore.
E per
Sherlock, additato più volte di essere una macchina fredda e
senza sentimenti, il sentirsi dire da John di non avere un cuore, era
la più terribile delle accuse.
Perché
lui era morto e solo un cuore poteva riportarlo alla vita.
Note
-
La descrizione del profilo dell’assassino
è tratta dall’episodio 1x01 di Criminal Minds.
-
Il dialogo flashback Sherlock - Moriarty è tratto
dall’episodio 1x03 della serie.
-
“Se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri
peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di
originalità” cit. di Khalil Gibran.
-
La sindrome di Cotard conosciuta come Sindrome Walking Corpse
o del cadavere che cammina, è una rara patologia
psichiatrica caratterizzata dalla presenza del cosiddetto delirio di
negazione, che spinge chi ne è colpito a convincersi di aver
perso alcuni dei propri organi e di essere morti. Cotard
definì che tale sindrome è accompagnata da
sentimenti di colpevolezza, intenzioni e ideazioni suicidarie.
Nonostante egli, nei suoi lavori scientifici, ritenga che il delirio di
negazione esprima un disturbo depressivo, è pur sempre vero
che la sindrome che da lui prende il nome, è stata osservata
anche nel corso di disturbi psicotici, disturbi bipolari e in altre
condizioni organiche, come traumi cranici, sclerosi multipla, tumori
cerebrali, lesioni cerebrali causate da sostanze stupefacenti.
***
Salve!
Non datemi
mai una settimana pesante, un vecchio episodio di Hannibal e la notizia
che Benedict Cumberbatch si sposa che il mio cervello parte per la
tangente, partorendo mostruose e angstiose (?) e psicologicamente folli
one shot.
Scherzi a
parte, avevo scritto questa…cosa per partecipare ad un
contest, ma avendo il cervello nocciolina ho dimenticato la data di
scadenza per iscrivermi e quindi tanti saluti al secchio.
Così l’ho lasciata a fare la muffa nel pc e solo
oggi mi è venuta la brillantissima idea di revisionarla e
pubblicarla.
La sindrome
di Cotard, come dicevo poche righe sopra, mi è stata
ispirata dall’episodio 1x12 della serie Hannibal.
Chi mi segue
sa del mio amore morboso per il cannibale e il consulente detective
<3 (che questa volta è di un OOC allucinante ma ehi,
ha parecchi problemi alla sua deliziosa testolina riccioluta)
Detto questo
vi lascio alle sentenze, spero sia stata una lettura piacevole.
See ya
dearies and thank you for reading!
|
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Capitolo 2 *** Once upon a dream ***
[Molly &
Sherlock; slice of life di una possibile 4x01; introspettivo]
Once upon a dream
I know you, I walked
with you once upon a dream
Lana Del Rey
– Once upon a dream
Il laboratorio
è silenzioso, calmo, carico di un’energia statica
che lo rende un luogo sospeso nel tempo.
Molly ripone
la tazza nel lavello, passandosi la lingua sulle labbra per catturare
gli ultimi residui dell’ Earl Grey appena bevuto.
Esce dal
cucinino e comincia ad attraversare il laboratorio con il solo suono
dei tacchi di gomma delle sue scarpe sul pavimento a farle da eco.
Si stiracchia
fino a sollevarsi sulle punte dei piedi e fa schioccare le dita delle
mani. Osserva il tempo da una delle piccole finestre rettangolari della
stanza: fuori il cielo si sta lentamente rischiarando.
Alza il collo
per poter scrutare meglio l’esterno; le piace guardare il
cielo, coglierne le più sottili sfumature, osservare le
nuvole che lo attraversano pigre o contare le stelle.
Riconosce lo
sfondo zaffiro sul quale si posano delicate pennellate di blu cobalto e
ceruleo e, all’orizzonte, proprio dietro uno dei palazzi
della City, una striscia blu reale che presto si tingerà dei
caldi colori dell’alba.
I suoi occhi
ritornano al laboratorio.
È
stata una notte tranquilla, ha dovuto solo effettuare un esame in
emergenza su un campione di tessuto prelevato in sede operatoria, poi
tutto ha taciuto.
Osserva il
familiare spazio, la sua seconda casa.
Si perde nella
contemplazione dei dettagli che conosce così bene:
l’odore dei detergenti di cui sono pregni i muri, gli agenti
chimici disposti in pile ordinate sugli scaffali di metallo, il
riverbero delle luci bianche sulle pipette e sui contenitori graduati,
i guanti blu che fanno capolino dallo scatolo poggiato sul tavolo
servitore.
E poi i
microscopi, suoi fedeli alleati ed il freddo acciaio del tavolo
autoptico, che sembra aver assorbito l’essenza di coloro che
lo utilizzano come ultima sosta nel mondo dei vivi.
Tutto
è familiare, tutto è casa.
Molly entra
nel suo ufficio, non chiude la porta, si siede semplicemente alla
scrivania e rilassa la schiena contro la spalliera di pelle.
Dondola per
qualche minuto, passa le dita nei capelli raccolti in una coda di
cavallo, pensa a tutto e niente.
Il suo turno
finirà tra un’ora e mezza e potrebbe anche usare
quel tempo rimanente per riposare prima di andare via.
Curva il busto
ed incrocia le braccia davanti a sé, posando la testa nella
piega del gomito. Il cotone del camice profuma di ammorbidente alla
lavanda e disinfettante.
Socchiude le
palpebre mentre fuori la città sta piano piano
risvegliandosi dal torpore. Il sonno comincia a gravare su di lei, dopo
giorni in cui non l’ha degnata della sua presenza.
Ha trascorso
varie notti sveglia nonostante si sentisse esausta, a fissare
l’oscurità della sua camera da letto con ogni
sorta di pensieri che le bombardavano il cervello.
Ora, invece,
nel cuscino delle sue braccia, con la sola compagnia del silenzio della
sua mente, chiude gli occhi e si addormenta.
E sogna.
*
Molly sogna.
Sogna arazzi
tessuti di stelle, caotiche nebulose, supernove esplosive che creano
una ragnatela di colori sgargianti ed iridescenti.
Viaggia
e bagna i piedi nell’acqua salata
dell’oceano, sente il rumore della risacca sulla battigia,
guarda il sole senza che gli occhi le brucino. Raccoglie conchiglie
madreperlacee e le rigira tra le dita, saggiandone la liscia superficie.
Molly sogna, e
nei suoi sogni John è acqua che scorre placida e serena. Il
suo moto quasi sonnolento placa le turbe dell’anima,
rassicura e tranquillizza. Ma lei sa che, quando una forza agisce su di
essa e turba la sua misurata quiete, l’acqua si ingrossa e
spazza via ogni cosa con la sua furia.
- Sono acqua le
lacrime di rabbia e dolore di John dopo il suicidio di Sherlock. -
Si lascia alle
spalle le onde ritmiche e dolci dell’oceano e corre
su un pendio scosceso, fino a raggiungere un campo appena arato,
costeggiato da ulivi e tassi in fiore.
Le zolle di
terra sono sollevate, pronte per la semina.
Le osserva, si
inginocchia e vi immerge le mani all’interno, come faceva da
bambina. Al tatto sono umide e morbide.
Molly sogna, e
nei suoi sogni la signora Hudson è terra.
La riconosce
perché madre amorevole, generosa, dal ventre accogliente e
tiepido. Ospita i semi e li cresce e cura con pazienza ed
amore. Molly accarezza la terra, la fa sua, si bea della sua
protezione.
- È
l’abbraccio consolatorio dopo la rottura con Tom. -
Ma deve andare
via, il sogno continua a trascinarla verso nuove mete.
Vede una
colonna di fumo bianco sollevarsi dalla cima di una vetta innevata.
Una pira sta
ardendo.
Le fiamme
guizzano in lingue dalle sfumature vermiglie, aranciate e gialle,
crepitano sul legno, lo consumano.
Molly sogna, e
nei suoi sogni Greg è fuoco.
Fuoco della
giustizia che punisce i criminali, che redime, che protegge e riscalda.
Si avvicina e allunga i palmi inglobando dentro sé un
po’ di quel nucleo di calore.
- È
l’ardente tenacia con cui da’ la caccia a Jim dopo
il suo ritorno. -
Poi,
improvvisamente, si blocca, il corpo percorso da un brivido gelido.
Sposta lo sguardo nella macchia degli alberi e scorge un indefinita
sagoma scura.
Molly sogna, e
nei suoi sogni Sherlock è ombra.
L’ombra
nera che si muove fluida
- Passi sicuri nel
corridoio dell’ospedale, mani nelle tasche del Belstaff
scuro. -
e che lei individua
solo con la coda dell’occhio.
Il fuoco si spegne ma
resta solo il fumo.
E Molly sa che
lui è ancora lì.
Molly sogna, e
nei suoi sogni Sherlock è fumo.
Fumo che la
circonda avvolgendola completamente.
Lo respira,
facendolo penetrare a fondo nei polmoni. La riempie,
si impossessa di ogni angolo di lei. Sherlock
è una figura dai labili contorni inconsistenti ed
inafferrabili di fumo.
- Sa che
c’è ma non potrà mai toccarlo. Binari
paralleli destinati a non incrociarsi mai. -
Molly sogna e, nei suoi sogni, emerge
dalla nebbia creata dal fumo.
La terra che calpesta
è rossa, brulla ed arida, scricchiola sotto il peso dei suoi
piedi, si sbriciola in granelli di polvere. Non ci sono più
alberi, solo grossi monoliti di pietra grigia e bianca, crepacci e
insenature sul suolo.
Davanti a lei
compare una fontana a due piani, ricoperta di rampicanti secchi. L’acqua, che
dovrebbe sprizzare dalla sommità e riempire le due vasche
è prosciugata.
Molly
è inquieta, il cuore comincia a batterle nel petto mentre
attraversa quel deserto sotto un cielo di uno strano colore ametista.
Nell’aria
volteggiano fiocchi di cenere di un fuoco ormai estinto.
- È paura
di veder morire le persone a lei care. -
Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è morte. Lo vede
svettare su una pila di corpi, seduto su un macabro trono di vite
spezzate.
- La vita di Sherlock
è intrecciata alla morte: la cerca, la brama, la sfida, la
usa. -
La guarda solo
per un istante e lei trema. Si circonda
il busto con le braccia e stringe forte.
- Cerca la pace di John, il calore di Greg, il conforto della signora
Hudson. -
Vorrebbe
sollevare lo sguardo ed affrontarlo ma lo sforzo è talmente
gravoso e insostenibile che le ginocchia cedono e cade.
La terra sotto
di lei si sgretola e viene inghiottita
nell’oscurità.
Galleggia,
come una novella Alice nella tana del Bianconiglio.
Atterra in un
cimitero di vecchie lapidi.
Croci celtiche
e pietre coperte di muschio si stendono a perdita d’occhio
nell’erba verde.
Molly sente le
lacrime pizzicarle gli occhi, le lascia cadere.
Molly sogna, e
nei suoi sogni suo padre è legno.
Legno di una
fredda bara.
Chiude gli
occhi e sente il rumore della cassa che viene chiusa ed il suo cuore
perde un battito.
Ripercorre con
la mente la superficie liscia e le leggere scanalature, si sofferma
sulla corona di fuori intrecciata, posta al centro del sarcofago.
Molly sogna, e
nei suoi sogni sua madre è una corona di fiori.
Fiori colorati
e vivaci, che coprono la tomba di suo padre.
- Si completano nella
morte così come quando erano in vita. -
Molly si terge
le lacrime dal viso con il dorso della mano e si lascia quel luogo di
riposo eterno alle spalle, un timido sorriso indirizzato alla memoria
di coloro che le hanno dato la vita.
Si dirige
verso un dirupo che dà sul mare che si agita sotto di lei.
La visuale
è pulita e libera, la spuma delle onde le solletica il viso,
l’orizzonte è infinito.
Chiude gli
occhi, allarga le braccia e salta.
Molly sogna, e
nei suoi sogni lei è vento.
Brezza
gentile, fredda bora, caldo scirocco, impetuoso maestrale. È
soffio di vita che alimenta il fuoco, smuove l’acqua,
disperde i semi nella terra.
Vento che
trascina via il fumo e cancella l’ombra.
Il cielo si
riempie di nubi plumbee gravide di pioggia.
Roboanti tuoni
e fulmini lo attraversano. Grosse gocce cominciano a cadere sempre
più fitte sulla sua pelle.
Molly sogna, e
nei suoi sogni Sherlock è tempesta che si sposa con il
vento, che può placarla o fomentarla.
- È il lampo dell’intelligenza nei suoi occhi, la
velocissima conduzione elettrica di impulsi nervosi di milioni di
neuroni in moto, l’irruenza arrogante della sua
personalità. L’energia inesauribile della sua
mente brillante. -
Molly sogna, e
nei suoi sogni sente qualcosa di caldo posarsi sulle spalle.
Non importa la
pioggia che cade sul suo corpo inzuppandole i vestiti, non sente freddo.
Molly sogna,
ma il suo sogno sta per finire.
Le palpebre
hanno un fremito, le apre con lentezza misurata, cattura ultimi attimi
di quel sogno a cui il cervello si sta già affannando a
trovare un senso logico.
Nella stanza,
ad occhi aperti, non è sola.
Molly si
sveglia e vede Sherlock davanti a lei.
La osserva, un
sopracciglio arcuato, la schiena ritta e le mani intrecciate dietro di
essa.
Molly si sente
a disagio: c’è qualcosa di molto intimo
nell’essere osservati mentre si dorme e si sogna (specie se
chi hai sognato si trova proprio davanti a te).
Si tira su
dalla sua posizione e solo allora si accorge di cosa ha sulle spalle.
“Buongiorno.”
Dice semplicemente e, con le dita, tira a sé il lembi del
cappotto di Sherlock.
Lui si muove
ed è come se una statua prendesse vita.
“Cosa
hai ricavato dal tuo sogno, Molly Hooper? Niente di costruttivo, dato
che i sogni sono soltanto frammenti della nostra attività
psichica notturna.” Afferma saccente.
Molly lo
guarda comprensiva, si alza e gli restituisce la giacca. La sua voce
non è fievole ed impastata, ma decisa e solenne.
“E a
quelli che credono che le avventure siano pericolose io dico: provate
la routine. Vi uccide molto più velocemente.”
Sherlock stira
le labbra in un sorriso, recupera il Belstaff e lo appende. Volta la
schiena e si dirige verso il laboratorio a prendere posto davanti al
microscopio.
Molly lo
osserva e davanti a lei sfilano le immagini del sogno: Sherlock
è ombra, fumo, tempesta. Morte.
Sherlock
è tutto e, allo stesso tempo, non lo è.
Molly si muove
silenziosa verso la porta del laboratorio, il commiato con il detective
non è necessario.
È
sicura che lui sappia già.
Imbocca a
passi veloci il corridoio ed esce dall’ospedale.
Il vento del
mattino di Londra le solleva i capelli facendoli danzare.
Fuori splende
il sole.
***
Solo lavoro e
niente divertimento rendono Jo una ragazza annoiata.
Sto studiando
per gli esami, comprendete una povera anima affranta che cerca di
destreggiarsi in un corso integrato di sei, tremende materie.
Vogliatemi
bene ugualmente e lasciatemi un pensierino consolatorio <3
P.S.:
purtroppo l'ispirazione non è stata sognare Sherlock, ma
credetemi se vi dico che mi piacerebbe davvero tanto farlo in loop
continuo!
|
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Capitolo 3 *** Cold blooded ***
[One
shot seconda classificata al contest:
“Film e telefilm: dimmi qual è il tuo” di
Aturiel.
Sherlock Holmes e Irene Adler; missing moment della 2x01 – A
scandal in Belgravia]
Cold
blooded
There’s one
thing you must understand
You can’t
trust a cold blooded
Can’t trust a
cold blooded
Can’t trust a
cold blooded
Woman (man)
The Pretty Reckless
– Cold blooded
Sherlock non
sapeva esattamente ciò che l’aveva spinto a farlo.
Era stata una decisione dettata dall’impulso e lui non si era
mai considerato un impulsivo.
Lo avevano
definito in tanti modi, ma così, nemmeno una volta. Questo
almeno a quanto ricordava. Se l’avevano fatto, le parole non
dovevano nemmeno aver varcato la sua soglia dell’attenzione,
scartate ed etichettate preventivamente come inutili e superflue.
Nel dubbio,
però, rettificò mentalmente la cosa, dicendosi
che quella era stata una decisione ragionevolmente impulsiva, basata
quindi su un’analisi mirata di location, nemico e vittima.
Questa definizione soddisfece il suo ego, troppo orgoglioso per
ammettere che le motivazioni erano da inquadrare in quella che era la
grande, orripilante, sconosciuta e scriteriata sfera dei sentimenti.
Giunse le mani
e vi appoggiò su il mento, in quella che era la sua
caratteristica posa da oculato e freddo pensatore.
Forse era
stato tutto frutto dell’intrigante scontro di menti in cui si
era ritrovato, una danza fatta di giochi di potere, occhiate penetranti
e studio delle più impercettibili espressioni della mimica
facciale.
Quella che
combatteva contro di lei era una guerra di ingegno e astuzia, elementi
che sembravano essersi radicati nella loro indole fino ad avvilupparsi
alla doppia elica del DNA.
Non era stato
difficile tenere Mycroft all’oscuro delle sue intenzioni; per
lui quella
donna
era solo l’ennesima seccatura governativa da rimuovere alla
stregua di un fastidioso dente del giudizio.
Sogghignò
pensando che quella
donna,
con le sue esaustive richieste dopo la faccenda del cellulare
impenetrabile, era riuscita a far dimagrire il volto segreto del
governo inglese qualche etto. Ma adesso che la questione era stata
archiviata, per suo fratello non era diventata altro che un misero
granello di polvere nell’aria.
Un cipiglio
gli corrugò la fronte, mentre la sua mente ricreava
l’immagine di Mycroft seduto tronfio sull’elegante
poltrona del Diogene’s Club, intento a sorseggiare un qualche
liquore costoso. Sicuramente doveva aver pensato che terroristi
pakistani gli avevano risparmiato un sacco di fatica con il loro
intervento.
“Lento,
incapace e goffo Mycroft.”
Voltò
il capo verso sinistra, osservando la donna che sedeva composta accanto
a lui. Le mani intrecciate in grembo recavano ancora qualche
escoriazione, non vi era nemmeno più traccia del vistoso
smalto rosso che usava per la manicure.
Teneva la
testa rilassata contro lo schienale, i capelli raccolti in una bassa
coda laterale. Si girò a guardarlo, un sorriso sottile a
incresparle le labbra.
Sherlock si
sentì come un bambino beccato con le mani nel vasetto di
marmellata.
“Ti
piace quello che vedi, Sherlock?”
Ecco che
faceva una delle sue tipiche domande arroganti ed sfacciate. Il
detective liquidò la questione con uno sbuffo della mano.
“Niente
che non abbia già visto.”
Lei
continuò a sorridere in una maniera composta e gentile che,
per un attimo, le alleggerì i tratti del viso, stanchi per
il lungo viaggio.
“In
effetti perché dovrebbe piacerti questa mise insulsa e
scialba, quando hai memorie molto più interessanti da
richiamare alla mente? Indossavo il mio abito da battaglia quando ci
siamo conosciuti, ricordi?”
“Sì,
e qualora avessi scambiato le mie deduzioni per un atto di primordiale
ammirazione, ci tengo a sottolineare che ci hanno tratto
d’impaccio in una situazione poco piacevole.”
Irene rise,
una risata argentina e calda che scivolava sulla pelle come una carezza
di seta. Gli batté piano una mano sulla spalla.
“Su,
fammi passare, devo sgranchirmi le gambe.”
Sherlock si
alzò e, quando lei gli passò accanto, non fece
nulla per impedire alla sua piccola mano di sfiorargli
l’avambraccio, alla ricerca di un sostegno di cui non aveva
bisogno.
Questo lui lo
sapeva bene, poiché nessuno dei contatti di Irene era
lasciato al caso.
Tendeva a
toccarlo ogni volta che poteva, doveva mantenere una
fisicità, fargli avvertire la sua presenza.
Come se fosse
stato possibile riuscire ad ignorarla.
La vide
ancheggiare verso lo spazio riservato alle hostess e non fu
l’unico a fissarla sottecchi. Alcuni degli uomini
d’affari dell’aereo abbassarono leggermente i loro
giornali e la squadrarono da sotto le loro costose montature.
Quella donna -
no,
la donna,
corresse immediatamente il suo cervello - aveva un fascino magnetico al
quale era difficile sfuggire. Avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo in
quella cabina e garantirsi un’esistenza quantomeno agiata
fino a quando avesse voluto.
Irene
rientrò con in mano due flûte di champagne. Ne
porse uno a Sherlock, sfiorandogli le dita in un gesto di calcolata
naturalezza.
“Facciamo
un brindisi.”
“A
cosa dovremmo brindare?”
Lei
inclinò leggermente il capo e gli sorrise.
“A
noi. Ad una lunga e proficua amicizia.”
Il detective
prese un respiro e posò il calice nel portabicchieri.
“Sai
bene che dopo averti lasciata negli Stati Uniti ognuno di noi
andrà per la sua strada.”
Lei
batté le palpebre e lo guardò con
un’espressione di scherno.
“Quanta
pena che ti sei preso, povero Sherlock! Avresti potuto lasciarmi a
Karachi.”
Sherlock
allungò le dita e rigirò la base del
flûte. Mise su la posa più arrogante, superba e
noncurante che conosceva, il tutto per zittirla una volta e per sempre.
Non avrebbe tollerato ulteriori domande da parte sua, non quando non
desiderava darle una risposta, data l’evidente tendenza della
sua accompagnatrice a manipolare con le parole. L’insistenza
di Irene sapeva essere intollerabile e snervante quasi quanto quella
dei suoi genitori, quando volevano costringerlo a sorbirsi un irritante
musical.
“Perché
mi hai pregato di salvarti. O hai dimenticato anche questo piccolo
particolare?”
Doveva aver
colpito il bersaglio perché Irene contrasse leggermente i
muscoli del viso e per lui, quel gesto muto, equivalse ad una scenata
plateale con un pianto singhiozzante seguito da un accesso di rabbia.
“Allora
brinderò al brillante, audace e nobile Sherlock Holmes,
salvatore di sventurate damigelle in difficoltà.”
Sollevò beffarda il bicchiere e se lo portò alle
labbra con fare teatrale.
Sherlock
osservò il movimento della sua gola, man mano che il calice
veniva vuotato. Si chiese se, per caso, non avesse drogato il suo. Ad
una prima analisi, visiva ed olfattiva, non sembrava corretto con
qualche sedativo o farmaco, ma la prudenza non era mai troppa.
Fu tentato dal
chiederle se necessitava di un altro giro, ma scartò
quell’opzione.
In ogni caso
non avrebbe bevuto.
*
Trascorsero il
resto del viaggio da Karachi in silenzio, fino allo scalo ad Abu Dhabi,
dove li attendeva la loro coincidenza per New York.
Sherlock
allungò il passaporto all’operatrice del check-in
e, con la coda dell’occhio, si assicurò di tenere
sotto controllo la donna al suo fianco.
Sarebbe
bastato veramente pochissimo perché gli sfuggisse dalle dita
come aria.
Fu solo quando
l’aereo decollò che il detective riuscì
a rilassarsi. Quanto ad Irene, lei era più che tranquilla.
Osservava placidamente il panorama sotto di lei, il deserto, la
città e poi le nuvole a circondarla. Prese le cuffie e
cominciò a vedere un film.
La traversata
sarebbe durata più di 20 ore, un tempo davvero lungo per
testare la resistenza dei nervi del detective, che già si
sentiva erodere dall’interno dal malefico tarlo della noia.
Era come
un’auto da corsa che doveva procedere a passo
d’uomo: una vera crudeltà per il proprietario ed
uno spreco di prestazioni di alta ingegneria.
Tamburellò
le dita sulle ginocchia e Dio, quanto avrebbe voluto una sigaretta in
quel momento!
Si costrinse a
placarsi, trovando rifugio in una delle camere del suo palazzo mentale.
Si sedette a gambe incrociate sul parquet di una stanza alla fine di un
lungo corridoio, e aprì un baule usurato posto davanti a
lui. I vecchi cardini cigolarono quando ne alzò il
coperchio, ed uno zaffo di polvere si sollevò riempiendogli
i polmoni. Con la mano pescò uno dei fascicoli su alcuni
casi irrisolti e prese a studiarlo alacremente.
I suoi
pensieri furono interrotti dall’hostess, che si
avvicinò a loro con modi affabili per servire la cena.
Una volta che
fu andata via, Irene lanciò un’occhiata divertita
a Sherlock. Il detective parve perplesso.
“Alla
fine siamo riusciti a cenare insieme.” Dichiarò
lei semplicemente. Sembrava aspettare quell’occasione da
quando erano partiti.
Lui
rovistò nel piatto con la forchetta, esaminando i vari
ingredienti e reprimendo una strana forma di nausea che gli
attanagliava la bocca dello stomaco.
“Contro
ogni aspettativa sì, è così.”
“Potresti
anche smetterla di mettere il broncio come un ragazzino capriccioso e
ammettere che la cosa non ti dispiace.”
“Io
non sono un ragazzino capriccioso!” esclamò
oltraggiato e si rese subito conto di aver appena commesso una
madornale gaffe. Lei sembrò compiacersene e la cosa
finì per irritarlo ulteriormente.
“Allora
dimostralo.”
Eccola la
provocazione, la sfida che il detective attendeva.
Per
l’ennesima volta si stavano scontrando su un terreno
precario, fatto di botta e risposta. Lei avrebbe cercato di condurlo
nell’inesplorato e oscuro territorio dei sentimenti, quella
massa abbozzata che giaceva come un cumulo di mobili usurati e
anticaglia varia in un punto recondito ed imprecisato del suo palazzo
mentale, e lui avrebbe dovuto deviare il discorso su Moriarty, alla
ricerca di informazioni sostanziali.
“Dovresti
scegliere con più accuratezza gli uomini dai quali
pretendere delle dimostrazioni.”
Irene
accavallò le gambe e quel gesto attirò su di
sé lo sguardo del detective.
“Oh,
se ti riferisci a Jim, lui era ben felice di dimostrare.” Il
tono basso, quasi gutturale e il lieve dilatarsi delle sue pupille,
resero chiaro il concetto a Sherlock.
“Dimostrare
qualcosa che ti ha quasi fatta uccidere.”
“Che
fortuna aver incontrato te, allora.” Replicò lei
mandando giù un sorso di vino. “Non vuoi sapere
cosa mi ha spinto a cercare Moriarty?”
Sherlock
ghignò, era facile, fin troppo facile.
“Non
c’è bisogno che tu me lo dica, è di
certo lo stesso motivo per cui lui ha accettato la tua offerta: la
noia. Eppure dovevi sapere che non ci avrebbe pensato due volte a
liberarsi di te quando non gli saresti stata più utile. La
vera domanda, quindi, è cosa lui ha ottenuto da
te.”
Irene fece un
piccolo applauso.
“Ancora
una volta sei stato arguto e pronto, ma mi dispiace deludere le tue
aspettative con una banale rivelazione: da me ha ottenuto solo un sano
divertimento.”
Un balenio
scettico attraversò i limpidi occhi di Sherlock.
“Mi
riesce difficile pensare che sia stato solo questo.”
“La
parola chiave è proprio questa, Sherlock:
pensare.” Il detective assottigliò lo sguardo,
conscio che quella donna, grazie ad una risposta sibillina, lo stava
sfidando a provare il contrario.
Il fatto poi
che non possedeva prove per confutare l’affermazione, lo
spazientiva oltre misura.
Irene riprese
a mangiare con fredda e calcolata calma. Lui, invece, non aveva
minimamente fame, troppo lanciato in una catena elaborata di
ragionamenti. Vedeva la risposta davanti a lui, ma quando allungava la
mano per afferrarla, questa gli sfuggiva, diventava inconsistente e si
ritrovava solo con un pugno di mosche.
Quand’ebbe
finito, la donna si tamponò le labbra con un fazzoletto e
incrociò le posate nel piatto.
“Su,
Sherlock, non dirmi che non mangi perché credi che ti abbia
messo una qualche droga anche nel cibo. Sarebbe ridicolo, non
trovi?”
“Ma
perfettamente nel tuo stile.”
Irene si passo
una mano tra i capelli, riavviandoli.
“Mi
sogni mai con un frustino in mano, Sherlock? Sogni mai di implorarmi
due volte?”
Si fece
più vicina ed il detective sostenne impassibile il suo
sguardo.
“No.”
Rispose lapidario.
“No,
e come potresti? Tu non sei mai affamato.” Lei si
tirò indietro, sprofondando nella poltrona e mettendo
distanza tra di loro. “Oppure non sei affamato di quello che io ho da
offrire.” Insinuò con un sorriso malevolo che lui
ignorò.
“Non
ho bisogno di niente che tu o altri possiate offrirmi.”
“E
qui incappi in un errore. Ti ho mai detto cosa ho provato quando ti ho
visto la prima volta?” si sporse come un felino, mise la mano
sulla sua e gli sfiorò la guancia con il naso, raggiungendo
l’orecchio per potervi mormorare la sua confessione.
“ Mi hai attratta in un modo che mi ha raggelato il sangue
nelle vene. La seduzione che trasmette una mente originale, acuta,
intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi
attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale;
è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi
in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il
sovrannaturale, senza essere un dio.*” Le sfumature della sua
voce continuarono a risuonargli nell’orecchio quando la vide
scostarsi e fronteggiarlo. I suoi occhi lucidi si appuntarono in quelli
di lui con tutta la loro intensità, mentre la piccola mano
aumentò la pressione sulla sua. Il suo respiro, lievemente
accelerato e dolce di vino, gli solleticò la punta del naso
e, nei suoi occhi appannati, poté chiaramente leggere la
volontà di chiudere la distanza tra loro e baciarlo. Per un
momento il cervello, sfuggendo ad ogni ferrea logica, gli
inviò l’ancestrale impulso di assecondarla. Le
reazioni innescate nel suo corpo tradivano quell’illusione di
controllo che si era addestrato ad avere. Poteva sopprimere un bisogno,
farlo languire sotto la superficie, ma non sarebbe mai sparito del
tutto. Era come quando aveva bisogno della droga, qualcosa di forte e
potente in grado di tonificare la sua mente e, contemporaneamente, di
distruggerla. Per quanto si ostinasse a negarlo, era un uomo, con tutti
i suoi pro e contro. Sottrasse bruscamente la mano con
l’intento preciso di allontanarla da lui.
“Non
sono interessato.” Scandì secco ogni parola.
Irene
sollevò gli occhi al cielo, occhi che conservavano ancora la
loro scintilla seduttrice. Rimaneva pur sempre una donna esperta
nell’arte dell’irretire i sensi e lusingare gli
animi fino ad ottenere quello che voleva. Non si sarebbe arresa
così in fretta e lui lo sapeva.
“Forse
ho esagerato.” Affermò lei cominciando ad
arrotolarsi una ciocca di capelli attorno al dito. “Non avrei
dovuto essere così sfrontata. Non dopo averti preso in
prestito i vestiti a Karachi.” Ghignò.
“Questo
è un eufemismo. Mi stavi puntando contro la pistola caduta a
quel terrorista.”
Irene sorrise
e annuì.
“In
compenso è stato uno spettacolo molto piacevole. Mi ha dato
modo di fantasticare su quanti segni avrei potuto lasciare sulla tua
pelle bianca.” Si umettò leggermente le labbra e
osservò il detective continuare a studiarla con quella che
giudicò essere la sua finta espressione fredda e distaccata.
La
razionalità, la fermezza e il rifiuto spietato delle sue
avances da parte di Sherlock, sapevano essere un’affilata
arma che si insinuava sotto la sua pelle come l’abile bisturi
di un chirurgo affermato.
In quel
momento acquisì la solida consapevolezza che Holmes era il
gioco più grande a cui mai avrebbe rinunciato.
“Atterreremo
tra circa 16 ore, ti consiglierei di riposare.” Senza neanche
darle modo di replicare, lui si alzò dalla poltrona e si
dileguò nell’aereo.
Irene
sospirò. Una parte di lei temeva l’arrivo
dell’ora in cui si sarebbe dovuta separare dal detective.
L’altra parte invece sapeva che, prima o poi, le loro strade
si sarebbero incrociate di nuovo.
*
Spesse nubi
coprivano il cielo sopra New York. L’aereo vi si
inoltrò e, dopo una lieve turbolenza, planò
atterrando dolcemente sulla pista. Sherlock scese con passo sicuro e
scortò Irene al ritiro bagagli. Una volta recuperata la
valigia la accompagnò fuori dall’aeroporto.
“E
così ci salutiamo qui, Sherlock Holmes.” Fece lei
una volta sistemato il suo bagaglio all’interno di un taxi.
“È stato un piacere. Un piacere che possiamo
sempre approfondire.”
Il detective
intrecciò le mani dietro la schiena, assumendo un aspetto
impettito ed austero.
“Spero
che non crederai ancora che sono interessato a te in alcun
modo.”
“Piuttosto
pretenziosa come affermazione, non ti pare?”
Sherlock la
fissò intensamente e, quando si mosse, sembrò che
una statua prendesse vita. Le si avvicinò e le
sussurrò all’orecchio, come aveva fatto lei in
precedenza.
“Sono
l’unico uomo a cui non potrai mettere un
guinzaglio.” Vide l’espressione di Irene
distendersi in un sorriso divertito.
“A
questo possiamo sempre rimediare.”
Fu il turno di
Sherlock di sorridere impercettibilmente. “Addio, Irene
Adler.”
“Arrivederci,
Sherlock Holmes.”
Entrò
nell’auto e, mentre stava per dire all’uomo
l’indirizzo a cui il detective le aveva detto di recarsi, si
voltò nella sua direzione. Voleva farlo tornare a Londra con
un ultimo regalo.
“Comunque
Moriarty voleva che dimostrassi che tu hai dei sentimenti. Ed il fatto
di essermi venuto a salvare ne è stata la prova lampante.
Quindi attento a ciò che provi, Sherlock. Non fare in modo
che possa essere usato contro le persone che contano di più
per te. Arrivederci!” Irene disse l’indirizzo ed il
taxi partì alla volta della metropoli.
Sherlock
rimase fermo sul marciapiede, con lo sguardo fisso in direzione
dell’auto inghiottita dal traffico, per un tempo che parve
lunghissimo. Stette lì, con gli occhi sgranati, la mascella
contratta ed i pugni serrati.
Era una
trappola, una maledetta trappola e lui c’era finito in pieno.
Moriarty non
aveva solo sfruttato Irene ed i suoi segreti, ma anche il rapporto che
aveva instaurato con lui per ottenere ancora più
informazioni.
Se Mycroft
l’avesse scoperto l’avrebbe sicuramente deriso fino
alla fine dei suoi giorni. Come poteva essersi fatto raggirare in quel
modo?
Una volta
salito sull’ennesimo aereo che l’avrebbe ricondotto
a casa, esaminò la faccenda a mente calma. Forse Irene gli
aveva fornito un indizio fondamentale: Moriarty non era a conoscenza di
tutte
le
persone di cui Sherlock si fidava.
Questo era un
vantaggio enorme, che sarebbe potuto tornare utile alla prima
occasione. Sherlock sorrise.
La sua
contromossa era appena cominciata.
*
Al ritorno a
casa fu facile omettere la verità con John. Dapprima aveva
ingannato Mycroft facendogli credere che Irene fosse morta, poi aveva
realizzato fedelmente la bugia che suo fratello gli avrebbe raccontato,
ossia la protezione testimoni in America. In piedi, davanti alla
finestra del 221B, sotto il suono della pioggia battente, Sherlock si
rigirava tra le mani il cellulare di Irene, soddisfatto del suo
operato. Con delicatezza aprì un cassetto e lo ripose
all’interno. Pensare a lei, a quella donna, gli procurava una
sensazione piacevole, nonostante l’avesse manipolato a
dovere.
Era riuscita a
farlo essere esattamente dove voleva, e a portarlo sulla strada che
voleva percorresse.
Aveva
progettato tutto, contando sul fatto che lui, ormai stuzzicato dalla
sua personalità, decidesse di salvarla. Non era certo una
donna da sottovalutare.
“La
donna… la donna.” Ripeté mentre fuori
la pioggia continuava a scrosciare.
Sorrise e
diede le spalle alla finestra ritornando verso la cucina.
Aveva un
esperimento da terminare.
***
-
“La seduzione che trasmette una mente originale, acuta,
intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi
attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale;
è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi
in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il
sovrannaturale, senza essere un dio.” Cit. Paola Melone
Dopo svariati
secoli, eccomi di ritorno in questo fandom *parte il pernacchio*. Che
dire, ho ritrovato la mia musa grazie al contest di cui sopra, a questa
intervista
a
Steven Moffat che mi ha linkato un’amica, e alla fine della
sessione estiva d’esami. Non avrei mai pensato di scrivere
qualcosa su Irene Adler, personaggio complesso ma al contempo molto
affascinante, che si diverte a stuzzicare Sherlock come più
le aggrada. Spero inoltre di aver saputo rendere bene questi due
personaggi, per quanto la stesura sia stata scorrevole (‘na
volta tanto), il tarlo del dubbio dell’IC mi tormenta, anche
se a volte mi chiedo come si possano mantenere sempre IC personaggi
così pieni di sfaccettature.
Bene, dopo lo
sproloquio mi auguro che la storia sia piaciuta e spero di rivedervi su
questi schermi.
Intanto buone
vacanze a tutti!
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Capitolo 4 *** Gluttony ***
[Kid!Moriarty;
Attenzione, questa one shot fa riferimento a maltrattamenti. Mi scuso
qualora la tematica delicata dovesse turbare la
sensibilità di alcuni lettori.]
Gluttony
I
want it, I want it, I want it, I want it
I need it, I need it, I
need it, I need it
I love it, I love it, I
love it, I love it
A gluttony on me has
started
Buckcherry –
Gluttony
Tutto comincia
con un capriccio. La tipica ingordigia di un’età
che ti porta a non essere mai sazio, a infrangere le regole, a
diventare petulante fino a sfiancare pur di ottenere ciò che
vuoi. La cupidigia che ti fa desiderare la torta della vicina, il cui
profumo, di cannella ed arancia candita, ti sta stordendo. Il vasetto
di marmellata che tua madre centellina la domenica e il cioccolato che
arriverà a Natale
“solo se farai il bravo.” E tu sai bene che non
sarai mai bravo, non come quei bambini dai sorrisi sdentati che
camminano mano nella mano con genitori accomodanti.
La sera, a
tavola, tuo padre ti guarda severo mentre ti ostini a tenere lo sguardo
fisso nel piatto, concentrato sulla brodaglia informe che lo riempie.
L’unica cosa che potete permettervi.
“Il
signor Riley ti ha visto rubare delle caramelle dal suo
negozio.”
La voce
cavernosa e severa ti fa sussultare, il cuore aumenta i battiti e la
gola si fa secca. La presa sul cucchiaio si fa più salda,
nonostante i palmi sudino.
“Sei
solo uno sporco ladruncolo goloso e in casa mia i ladri non sono
tollerati.”
Alzi gli occhi
quel tanto che basta per incrociare quelli di tua madre. Lei sa cosa
sta per succedere e anche tu. Trema impercettibilmente ma, da remissiva
succube qual è, non fa niente per impedire a lui di alzarsi
e di afferrarti l’orecchio.
Un piccolo
gemito di dolore ti sale dalla gola mentre tuo padre - il devoto
pastore
- lo torce con più forza.
“Quelle
caramelle… ho dovuto pagargliele.” Afferma con
livore e si fa più vicino a te. Il suo respiro ansante di
rabbia si infrange contro la tua guancia. “Non hai niente da
dire?”
Tu taci,
incapace di proferire parola anche se il desiderio di farlo ti
serpeggia dentro.
Vorresti
dirgli che ti maledici per esserti fatto beccare come uno stupido e che
la prossima volta non succederà.
Vorresti
dirgli che saresti pronto a rifarlo altre cento volte.
Vorresti
dirgli che non sei pentito.
Perché
lo vuoi, ne hai bisogno.
Perché
ti piace.
“Sei
una delusione, Jim. Una grandissima delusione.”
La mano di tuo
padre ti strattona e costringe il tuo corpo gracile a sollevarsi
bruscamente, tanto che la sedia cade con un tonfo sul pavimento. La
porta della sua camera da letto è socchiusa e lui la
spalanca facendola sbattere contro al muro. I tuoi piedi si impuntano,
la mano si tende ad afferrare lo stipite e provi a rimanere fuori. I
tuoi tentativi vengono spazzati via con facilità,
perché lui è forte. Troppo forte per un ragazzino
come te. Non puoi far altro che rannicchiarti contro il muro e
stringere gli occhi. Il fruscio della cintura sfilata dal pantalone ti
fa ingoiare a vuoto.
Mentre aspetti
che ti punisca la tua memoria rievoca la morbidezza zuccherina di
quelle caramelle. Gli incarti dai colori vivaci, i gusti variegati, le
forme diverse, la consistenza differente sotto ai denti. Le dita che
succhi per recuperare gli ultimi residui appiccicati, perché
non vuoi sprecare nemmeno un granello del tuo bottino.
Quando
nell’aria vibra il primo colpo ti mordi il labbro inferiore,
e il sapore che avverti non è quello dolce delle tue
caramelle: è quello metallico del tuo sangue.
***
Bentrovati!
Da tempo
desideravo scrivere qualcosa su Moriarty, il nostro villain preferito.
Questa sarebbe dovuta essere la prima di una raccolta sulla sua vita,
ispirata ai sette vizi capitali. Purtroppo dopo gola mi sono fermata a
lussuria e sto aspettando l'ispirazione per gli altri peccatucci.
Come
già detto in precedenza, so che questa è una
tematica delicata da trattare, ma io ho sempre immaginato l'infanzia di
Moriarty come davvero infelice. Molti criminali provengono da un
background familiare disastrato, quindi ho ipotizzato lo stesso decorso
anche per lui. Un padre padrone, una madre succube, ed una sua
gracilità che lo porta ad essere deriso da tutti, con
conseguenti problemi relazionali. Qui si è accesa quella
scintilla che lo ha portato a diventare il Napoleone del crimine, una
mente geniale al servizio del lato oscuro. Cose molto carine, dolci e
simpatiche insomma.
Bene, dopo
quest'ulteriore delucidazione vi lascio.
Alla prossima!
P.S: a
dispetto del mio nome d'arte, non faccio male a nessuno se mi lasciate
una recensione XD
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Capitolo 5 *** The sound of silence ***
[John centric; missing
moment dell’episodio 2x03 – The Reichenbach fall;
angst is the way, introspettivo]
The
sound of silence
Hello
darkness, my old friend
I’ve come to
talk with you again
Because a vision softly
creeping
Left its seeds while I
was sleeping
And the vision
That was planted in my
brain
Still remains
Within the sound of
silence
Simon and Garfunkel
– The sound of silence
John Watson
ricordava con estrema precisione il giorno in cui aveva smesso di
sentire.
La giornata
uggiosa, il cielo una lapide bianca nebulosa, con poche nuvole plumbee
che lo solcavano. Ricordava l’odore del taxi che aveva preso:
stantio e dolciastro, come se qualcosa vi marcisse
all’interno; la strada del Barts insolitamente vuota,
così nera in confronto al bianco sporco
dell’edificio.
Il telefono
aveva preso a squillare, era Sherlock. Gli disse di guardare sul tetto
dell’ospedale, e lo vide lì, fermo come un mago in
procinto di lanciare un incantesimo.
John non
poteva immaginarlo che quella sarebbe stata la loro ultima
conversazione, nonostante Holmes avesse cominciato un discorso che il
suo cervello rifiutava perché era così
dannatamente surreale.
Era tutto vero.
“John,
eliminato l’impossibile, ciò che resta, per
improbabile che sia, deve essere la verità.”1
Lui era un
bugiardo, aveva inventato Moriarty per i suoi scopi.
“John,
è un errore enorme teorizzare a vuoto. Senza accorgersene,
si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie,
anziché il viceversa.”2
Nessuno poteva
essere così
intelligente.
“Non
posso vivere se non faccio lavorare il cervello. Quale altro scopo
c’è nella vita? Sai bene che nulla è
insignificante per una mente superiore.”3
Le persone
lasciano un biglietto.
“Il
modo migliore per recitare una parte è quello di
viverla.”4
Dicono addio.
“Il
tocco supremo dell’artista: sapere quando fermarsi.”5
E poi un solo
movimento, un salto a braccia spiegate, il loro annaspare violento, il
cappotto gonfiato dall’aria prima di impattare al suolo.
Il mondo
attorno al dottor Watson si ammutolì improvvisamente.
John, la bocca
spalancata in un grido strozzato, cominciò a correre, prima
di essere investito da un ragazzo in bicicletta.
Stordito, con
le orecchie gli fischiavano, non sentiva nemmeno il dolore della
caduta. I suoi occhi erano fissi su Sherlock, sulle persone che,
correndo, si accalcavano attorno a lui per prestargli soccorso.
Non gli
giunsero all’orecchio nemmeno le sue stesse parole, dette
mentre incespicava incredulo verso quell’involucro vuoto
che “No,
non può essere Sherlock, perché Sherlock ha
sempre un piano, è uno scherzo, tutto uno stupido
scherzo…”
“Lasciatemi
passare, sono un dottore, lui è mio
amico…” esalò mentre un gruppo gli
faceva da barriera per non lasciarlo avvicinare.
La vista gli
si annebbiò ed un conato gli avvinghiò lo stomaco
di fronte allo spettacolo del sangue di Sherlock che scorreva nelle
scanalature del marciapiede, raccogliendosi in una pozza sotto di lui.
Come un
disperato naufrago alla ricerca di un appiglio per restare a galla e
non venire sballottato dalle onde, John allungò la mano per
sentirgli il polso.
Niente.
Eppure la
pelle di Sherlock era ancora calda, tanto calda da sembrare
così viva.
Lo strinse più che poté, rafforzando la presa
attorno a quel corpo che doveva
ancora conservare un soffio vitale.
Si
accasciò tra le braccia di un paramedico quando voltarono il
corpo del detective.
I capelli
impiastricciati di sangue, gli occhi di vetro, fermi a fissare il
vuoto. Il suo viso una maschera cerea segnata dalle ferite.
“No…
Dio, no.”
I paramedici
caricarono Sherlock su una barella e lo portarono all’interno.
John
riuscì ad alzarsi e, incurante della pioggia che aveva preso
a cadere, fissò impotente l’ingresso del Barts.
Davanti a lui
si era spalancata una voragine.
E in quel
momento sperò che qualcosa, oltre al silenzio, lo
inghiottisse.
*
I giorni
seguenti trascorsero in uno strano limbo irreale, di cui non ricordava
molto.
Al funerale il
celebrante gli chiese di dire qualche parola.
Fu uno sforzo
titanico alzarsi e trascinarsi sul pulpito. La bara di Sherlock, con i
suoi intarsi e ghirlande di fiori sembrava occupare tutto lo spazio.
Il silenzio
era così soffocante.
In quel
momento, mentre faceva vagare lo sguardo sui pochi presenti,
l’anima ammutolita del dottore si accese di rabbia.
Un sentimento
che gli bruciava la pelle, gli rodeva le viscere e spingeva per uscire
a gran voce. John avrebbe voluto urlare, maledire quell’uomo
tanto geniale quanto stupido che aveva commesso un gesto
così folle, avventato ed incosciente.
John si
sentiva tradito. E arrabbiato.
Perché
Sherlock gli aveva mentito? Perché l’aveva
abbandonato con una fottuta telefonata? Perché aveva dovuto
anteporre sempre le vite degli altri alla sua?
“Sherlock Holmes era un egoista figlio di puttana. Un uomo
senza mezze misure. Ma io nutro ancora una fede cieca e incrollabile in
lui.”
Ecco cosa
avrebbe voluto dire in quel momento agli amici sofferenti, alla
famiglia distrutta.
Le parole,
però, gli morirono in gola. Mormorò delle scuse
stentate e tornò a sedere.
Quando tutto
finì, qualcuno si avvicinò a lui per dirgli
qualcosa. Parole vuote che lui non ascoltò.
*
Il silenzio di
Baker Street gli pesava sulle spalle come una cappa di piombo. Sapeva
che rimanere lì non sarebbe stato facile.
Di notte si
rigirava continuamente nel letto ma, non appena provava ad abbandonarsi
al sonno, le immagini di Sherlock, del suo viso imbrattato di sangue,
della sua bocca dischiusa senza respiro, si impadronivano prepotenti di
lui.
Così
si alzava e rimaneva seduto per ore, con le braccia mollemente distese
sulle ginocchia, a fissare la poltrona di fronte alla sua.
La quiete
della notte si caricava della sua rabbia mai sopita e del senso di
colpa. Quel sentimento s’insinuava nella sua anima,
pungolandola, tormentandola, scomponendola in frammenti infinitesimali.
Cosa aveva
fatto per salvarlo? Niente. Non aveva nemmeno saputo trovare parole
adatte a dirgli che si sbagliava su tutto, perché lui
credeva.
Credeva e
avrebbe sempre creduto in Sherlock Holmes.
Ma in quel
silenzio, quella coltre spessa, quel fumo denso che gli penetrava nei
polmoni e gli impediva di respirare, stava smarrendo anche se stesso.
L’atmosfera della casa non era più pregna delle
macchinazioni del detective, del lieve respiro quando si rifugiava nel
suo Mind Palace, dell’attesa spasmodica e della
concentrazione quando seguivano un caso. Non sentiva il silenzio del
tempo che trascorrevano seduti su quelle poltrone senza il bisogno di
dirsi alcunché, ma con la consapevolezza di essere
l’uno presenza indispensabile nella vita dell’altro.
Ora che era
rimasto solo, quel silenzio malsano stava crescendo attorno a lui come
un cancro aggressivo.
A volte
rimaneva alla finestra per ore e, se aguzzava la vista, allora gli
sembrava di scorgere una figura allampanata vestita di nero in un cono
di luce proprio sotto al lampione all’angolo della strada.
Il suo cuore
mancava un battito ma la figura fugace spariva in un battito di ciglia,
beffandosi del suo dolore. Così rimaneva immobile, a fissare
la notte diventare giorno e il giorno ritramutarsi in notte.
Perché
il tempo continuava a scorrere? Perché le persone andavano
avanti con la loro vita? Che diritto ne avevano loro, che non erano
niente di speciale? Nessuno si soffermava a pensare a Sherlock? Non era
forse ancora affamato di vita anche lui?
John ormai
vedeva un mondo spezzato che, ignaro della sua sofferenza, disperazione
e angoscia, andava avanti anche senza Sherlock.
E in quel
mare, in quella spirale di nero abisso, John si scoprì a
nuotare da solo.
*
La pioggia
torrenziale non lasciava speranze alla comparsa del sole. La sua era
una cacofonia cadenzata, un’orchestra composta da tetti dei
palazzi, automobili, asfalto, foglie degli alberi.
Lo studio
della sua analista era uguale a come lo ricordava l’ultima
volta che c’era stato.
Prima della
caduta.
Prima di
Sherlock.
Prima del
silenzio.
“Perché
oggi?” un tuono fece vibrare le finestre e John
abbassò lo sguardo sulla propria mano intenta a tracciare
segni invisibili sul bracciolo della sedia.
“Vuole
proprio sentirmelo dire?”
“Sono
passati diciotto mesi dal nostro ultimo appuntamento.”
Quel tono di
sottile rimprovero innervosì John.
“Li
legge i giornali?”
“A
volte.”
“E
guarda la televisione? Lo sa perché sono qui.”
“Perché i
miei amici mi hanno obbligato. Perché mi hanno detto che
devo vincere il silenzio. Perché non ce la faccio
più.” Proseguì la voce del
suo inconscio.
John prese un
altro respiro.
“Sono
qui perché…” faceva male. Era normale
che facesse così male? Quel dolore era arroventato e gli
lacerava la gola, i polmoni e il cuore. Chiuse gli occhi alla ricerca
di sollievo, provando a regolarizzare il respiro spezzato.
“Cosa
è successo, John?” insisteva la dottoressa.
“Sherl…”
un’altra pausa e si sentiva sempre più scoppiare.
La voce ridotta ad un lieve fiato gracchiante.
“Deve
riuscire a dirlo.”
Annuì
debolmente, alla ricerca di un ultimo appiglio di coraggio e forza per
mostrare la sua fragilità.
“Il
mio migliore amico… Sherlock Holmes… è
morto.”
La donna lo
guardò e lui trovò nel suo sguardo una disgustosa
compassione. Di quella proprio non sapeva cosa farsene. Era ancora
così arrabbiato, così ferito…
“Questo
come la fa sentire, John?”
Il dottore
fece scattare la testa, un’espressione esterrefatta gli si
appuntò sul viso e dalle labbra uscì una
soffocata risata isterica.
“È
seria? Come crede che dovrebbe farmi sentire la cosa?”
“Non
lo so, John. Me lo dica lei.”
Come poteva
spiegarle anche la metà di quello che provava?
Perché non riusciva ad arrivarci da sola? Possibile che non
avesse perso nessuna persona a lei cara?
John in quel
momento avrebbe voluto alzarsi e andarsene. Ma se si trovava
lì era perché aveva bisogno di aiuto, per quanto
avesse provato a negarlo a se stesso. Attinse alla sua fonte di
determinazione e provò ad illustrare la parte più
oscura di sé, quella che non gli dava più un
briciolo di pace.
“Ha
presente quei quadri di Picasso, quelli dove nulla è al suo
posto? Ecco, io mi sento esattamente così. Niente
è più al suo posto, anche se il contenitore
è integro. Mi sento come se nulla dentro di me possa
proseguire a funzionare come prima.”
“Crede
sia dovuto al fatto che i mass media hanno distrutto
l’immagine che tutti avevano del signor Holmes e che lei non
abbia potuto fare niente per riabilitarlo? ”
John scosse la
testa in diniego.
“I
giornalisti pensino quello che vogliono, alla fine volevano solo un
cattivo da sbattere in prima pagina. Una storia succulenta su cui
mettere le mani e voilà!” Watson aprì
le dita a ventaglio in aria, disegnando un immaginario fuoco
d’artificio.
“Io
non ho potuto fare nulla, il peso che mi porto dentro
resterà sempre una parte di me. Ho sempre creduto che
Sherlock Holmes fosse una persona speciale. Quell’ultimo
caso, però, mi ha esposto crudelmente alla
fragilità di quell’idea. Sherlock era
più umano di quanto lasciasse trasparire e alla fine il
conto è venuto a bussare alla sua porta, reclamando il suo
tributo. E con lui mi sono spezzato anch’io.”
John
rilassò le spalle contro la sedia, uno strano senso di
torpore gli formicolava sulle gambe.
“Mi
sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in
frantumi. Mille schegge tenute insieme dalla prossimità, ma
che hanno perso la nitidezza dell’insieme.”
“Ci
sono cose che avrebbe voluto dire… ma non ha
detto.”
“Esatto.”
John ingoiò un grumo di saliva che gli stringeva la gola.
“Le
dica adesso.”
“No…”
strinse le labbra in una linea dura e cominciò a torcersi le
mani in grembo. Il fiato sempre più soffocato da quelle
lacrime che faticavano a mostrarsi. “Mi dispiace, non ci
riesco.”
*
Quel mattino
aveva promesso alla signora Hudson di accompagnarla al cimitero. Il
viaggio in taxi trascorse senza proferir parola ma la buona padrona di
casa si sentiva in dovere di riempire quel vuoto. Le sue
preoccupazioni, i suoi ricordi, vennero snocciolate come un fiume in
piena: cosa fare della roba di Sherlock, i segni sul tavolo, i colpi di
pistola al mattino, la confusione, i campioni nel
frigorifero…
“Non
posso tornare a Baker Street.”
La signora
Hudson aveva capito e, poco dopo, lo lasciò solo davanti
alla lapide di Sherlock.
John
masticò a vuoto, voltandosi brevemente per scorgere la sua
ex padrona di casa allontanarsi con un fazzoletto stretto tra le mani.
Adesso erano
soli, lui e Sherlock.
Trasse un
respiro e cominciò quel discorso che per troppo tempo era
stato inghiottito dal silenzio.
“Ok…
una volta mi hai detto che non eri un eroe.” Si
fermò espirando rumorosamente. “Ci sono stati dei
momenti in cui ho pensato che non fossi umano, ma ti dico una
cosa… eri l’uomo migliore e l’essere
umano più umano che io abbia mai conosciuto, e nessuno mi
convincerà che tu mi abbia mentito. Ecco…
l’ho detto.” Si umettò le labbra,
spostò il peso da un piede all’altro, dondolando
al verso di un corvo che si era andato ad appollaiare su un ramo
rinsecchito.
John si
avvicinò e andò a toccare il freddo marmo nero
della lapide in una carezza leggera.
“Ero
davvero molto solo e ti devo tanto.”
Si
voltò per ripristinare la distanza tra loro, aprì
e chiuse le mani in un pugno, cercando di mettere a tacere quel suo
desiderio irrealizzabile, quella fantasia che ancora lo portava ad
illudersi, a non scendere a patti con se stesso, ma che sapeva di dover
confessare.
“Ma,
ti prego, c’è un’ultima cosa.
Un’ultima cosa, un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non
essere morto.”
La speranza
era un demone crudele che continuava a prendersi gioco di lui.
“Potresti
farlo, per me? Smettila, smettila!” soffiò prima
di abbassare lo sguardo al suolo.
Un silenzio
dalle tinte cupe dell’amarezza e del cordoglio lo
riempì come una marea. E le lacrime, quel tanto atteso
sfogo, arrivarono.
John si
strinse le mani sugli occhi, bagnando i polpastrelli,
dopodiché strusciò i palmi attorno agli occhi per
cancellarne le tracce.
La sua
espressione si fece determinata, nonostante nel suo cuore ci fosse
ancora una ferita aperta e sanguinante, ma doveva andare avanti.
Si
lasciò alle spalle la tomba di Sherlock con la marcia fiera
di un soldato.
Ed i suoi
passi echeggiarono nel suono del silenzio.
Note
1-2-3-4 sono
tutte citazioni tratte dai libri di Sherlock Holmes di sir Arthur Conan
Doyle.
I
dialoghi sono in parte gli stessi dell’episodio, tranne la
parte in cui John parla con la dottoressa di come si senta spezzato (ma
tanto sono sicura che le battute le ricordate a memoria, birichine/i XD)
***
Fa caldo, devo
studiare, Game of Thrones è finito, #Hiddlexit dal mondo dei
single, in sostanza #mainagioia.
Traduzione del
delirio: non c’è niente la sera in TV ed io rivedo
l’episodio che ha gettato tutti nella più cupa
disperazione.
Si vede
proprio che “All work and no play makes Jo a dull
girl.”
Con molto
amore vi saluto e spero di non far passare altri 9 mesi per il prossimo
aggiornamento ^^
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