Fumo sull'acqua

di Jo_The Ripper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dead man walking ***
Capitolo 2: *** Once upon a dream ***
Capitolo 3: *** Cold blooded ***
Capitolo 4: *** Gluttony ***
Capitolo 5: *** The sound of silence ***



Capitolo 1
*** Dead man walking ***


Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di: sir Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat ed il network BBC.

[Sherlock & John; What if dell’episodio 1x03; Drammatico-introspettivo, angst]

fumo

Dead man walking


La più orribile delle infermità è la mancanza di cuore 
Jean Cardonnel

Il mare era cupo e gorgogliante di schiuma. Le dense nubi plumbee si stagliavano nel cielo, ormai svuotate del loro carico di roboanti tuoni e scoppi di folgori. Si disperdevano, mosse dal vento, con la stessa misurata lentezza di un corteo funebre. Qualche lampo ametista illuminava ancora l’etere con il suo bagliore, gettando uno spiraglio di luce in quel grigiore altrimenti soffocante. 
Le onde mi sollevavano e sballottavano mentre provavo a tenermi ben saldo ad un’asse di legno, un misero appiglio di quello che ormai era il relitto del vecchio brigantino sul quale viaggiavo. 
L’albero maestro, con un ultimo, agonizzante rantolo, si spezzò per poi sprofondare nei flutti oscuri assieme alle sartie, come una croce che cade sotto il peso del peccato e distrugge l’ultimo baluardo di fede e speranza dell’anima. 
Anche la galea cedette, si inarcò e si inabissò generando un’onda che mi spinse ancora più lontano.
Ero stremato, la battaglia contro la tempesta mi aveva privato di ogni energia. Ad ogni istante che passava, sentivo i cancelli del reame della morte sferragliare sui cardini arrugginiti e aprirsi per accogliermi come nuovo ospite, trascinato alla deriva dalla corrente.
Con il respiro mozzato dal freddo delle acque, in lontananza vidi emergere dalla nebbia un vascello. La prua fendeva in due le onde di quella buia marea, attraversando i resti della nave e spazzandoli via alla stregua di misere foglie in balìa del maestrale.
Sollevai la testa e, con le ultime forze che mi rimanevano, in un muto grido d’aiuto, allungai una mano in direzione della nave dalle vele rosso cremisi.
“Rosso, come il sangue sparso sul pavimento bianco.”

La debolezza mi fece annebbiare la vista ma, quando riuscii a recuperarla, i miei sensi ormai moribondi riacquistarono un barlume di vigore e seppi che lui era lì.
Mi fissava con occhi malevoli e sapevo che con quella semplice occhiata stava scandagliando la mia anima con tutta l’abilità di un chirurgo.
Mi stava giudicando.
Con avidità ed ingordigia scrutò nel mio essere e in quel momento seppi che mi aveva trovato un posto.
La nave gettò in mare le sue reti per catturare i resti degli annegati. L’esiguo numero di persone che nella mia vita erano state importanti, che mi avevano fatto nascere, che mi avevano fatto dono della loro amicizia e dei loro insegnamenti, che contavano, erano lì. 
Occhi spenti e vitrei, corpi gocciolanti, pelle bianca, raggrinzita e gonfia, labbra blu violacee.
Inorridii di fronte alla consapevolezza che l’essere sopravvissuto sanciva la mia condanna ad un destino peggiore.
E lo meritavo.
Gli occhi dell’uomo sul ponte, che ora potevo distinguere essere di un blu acceso, brillavano come fuochi fatui su un cimitero di lapidi sommerse. Continuava ad osservarmi, ma se quegli occhi mi avessero cercato di proposito o si fossero posati su di me per caso, non potevo saperlo.
Io aspettavo lui o lui me?

“Sherlock.”


Il mio animo si riempì di terrore. Quella voce…capii ciò che voleva, ed era più di quanto potessi dargli.

“Sherlock.”

Sotto il peso di sensi di colpa che laceravano la mia anima al ricordo di quella morte che avevo causato, agonia e sfinimento unirono gli sforzi contro di me, trionfando.
Le gambe divennero pesi di piombo e le mani allentarono la loro presa, scivolando sulla superficie levigata del legno.
Vidi il mare chiudersi sopra di me ed inghiottirmi, avvolgermi nel suo tetro abbraccio, accogliermi nella sua oscura viscera.

“Sherlock.”

Il mio nome, l’ultima parola che udii mentre la vita abbandonava il mio corpo.
E suonò come un richiamo per i dannati.

*

Qualcosa, da qualche parte, stava suonando.
“Non una canzone, un trillo. È lo squillare insistente di un cellulare.” Elaborò la sua mente ancora annebbiata dal sonno.
Emerse dalle coperte e si mise supino. Aprì piano gli occhi e aspettò che il mondo tornasse nella giusta prospettiva, cancellando i contorni sfumati del regno del sogno. Un pallido raggio di sole filtrava dalla tenda di quel colore bianco sporco che sua madre aveva tanto insistito a comprargli.
Richiuse gli occhi, non era il sole che voleva. Voleva tornare nella sua caverna oscura, rifugiarsi nell’angolo più buio e remoto del suo palazzo mentale.
Il cellulare smise di squillare e lui emise un sospiro di sollievo. 
Si portò il braccio agli occhi e, con il dorso della mano, sfiorò la fronte: la trovò madida di sudore.
“Avresti dovuto rispondere.”
Dalla sua posizione rilassata, si irrigidì di colpo, il corpo percorso da un brivido freddo. Aprì gli occhi e si voltò in direzione della voce. 
In piedi, accanto al comodino, c’era John. 
Il telefono riprese a squillare.
“Chi è?” borbottò tirandosi a sedere. Assottigliò le palpebre per evitare che il sole gli ferisse gli occhi. Li sentì ugualmente bruciare come se fossero trapassati da un pungolo. 
Da quando era diventato così fotosensibile?
“Lestrade. Dovresti rispondere, Sherlock.”
Il detective annuì, ruotò il busto in direzione del cellulare, sporse il braccio per afferrarlo ed accettò la chiamata. La sua espressione divenne mortalmente seria. Scambiò delle stringate parole con l’ispettore, un indirizzo ed un lasso di tempo per poi terminare la conversazione.
John continuava a fissarlo a braccia conserte, improvvisamente preoccupato.
“Non devi andarci per forza, hai una pessima cera.”
Sherlock non si prese la briga di rispondere, si alzò e si diresse verso il bagno, ignorando il caos totale in cui versava la sua camera da letto. La sua mente registrò solo dei particolari. 
I peggiori. 
Il cucchiaio ormai bruciato dalla fiamma che giaceva sulle coperte, le bottiglie d’acqua vuote, il laccio emostatico abbandonato sul comodino, le piccole bustine di plastica accartocciate e gettate sul pavimento assieme ad uno dei tanti completi eleganti. Da qualche parte, constatò, dovevano esserci anche delle siringhe che, in quel momento, erano nascoste chissà dove.
Nascoste, come i mostri sotto al letto e dietro le porte del suo palazzo mentale: arrancavano nel buio, tendendo i loro artigli e spalancando le loro fauci che esalavano effluvi mefitici, pronti a spezzare l’ultimo filo di sanità mentale che lo teneva ancorato al presente.
Chiuse la porta del bagno, si liberò dei vestiti inzuppati di sudore e si sistemò nella vasca.
Trasalì a contatto con la fredda ceramica, ma si costrinse a rilassarsi. 
Aprì il getto d’acqua calda per lavarsi via di dosso la spossatezza e l’odore acido dei suoi stessi succhi gastrici nella bocca. 
Non aveva detto a John del suo incubo. 
Non gli aveva detto che l’aveva visto sul ponte della nave, incarnazione stessa della tenebra, venire a reclamare la sua anima e soddisfare la propria vendetta. 
Non gli aveva detto di aver visto morire anche gli altri senza poter fare nulla per salvarli. 
Richiuse gli occhi intenzionato a scacciare le immagini del suo incubo. Si immerse fino ai capelli nella vasca e restò lì, fermo, con il respiro bloccato in gola, in un limbo galleggiante di pace fittizia.
Quando uscì dalla vasca, un lieve tremore scuoteva le sue mani mentre provava a vestirsi. La sua immagine, riflessa nello specchio, rimandava le fattezze di un viso che non riconosceva come suo: era dimagrito, il volto, già spigoloso, era diventato una maschera appuntita, le labbra, una volta piene, si erano trasformate in un terreno riarso, secche e sottili. Persino gli occhi, un tempo caratterizzati da un cangiante e vibrante verde azzurro, erano coperti da un velo opaco e febbrile. 
“Sherlock, sbrigati o farai tardi.” Lo ammonì la voce di John al di là della porta.
“Sì, sono pronto.” Replicò atono prima di aprire il mobiletto delle medicine e prendere una manciata di tranquillanti.
Inspirò profondamente e, quando uscì dal bagno, John era scomparso. 
Dove fosse andato, non lo sapeva.
Prima di recarsi sulla scena del crimine, Sherlock salutò un appartamento vuoto.

*

Lestrade sollevò la striscia gialla che circoscriveva l’area interdetta del Battersea Park, mentre un piccolo capannello di ficcanaso cercava di sbirciare, spinto dalla curiosità.
“Stesso modus operandi?” chiese Sherlock mentre si dirigeva verso il luogo del ritrovamento.
L’ispettore al suo fianco annuì.
“È stata trovata dal guardiano del parco questa mattina. Galleggiava con il viso riverso nel lago.”
Sherlock si avvicinò al corpo della donna che giaceva sull’erba per esaminarlo. Era giovane, non doveva avere più di venticinque anni.
“La causa della morte non è l’annegamento e questa non è la scena del crimine primaria, ma solo il luogo dell’abbandono. Anche a lei è stato asportato qualcosa.”
Il viso di Lestrade mutò in un’espressione di estremo disprezzo e disgusto.
“Holmes, ci troviamo davanti ad un sadico psicopatico seriale: le è stato asportato il cuore.”
“Il cuore...come alle altre è stato preso il cuore...” mormorò Sherlock cercando di aggiungere anelli alla sua catena di ragionamenti.
“E tu, Sherlock? Tu ce l’hai un cuore?” la voce di John risuonò fastidiosa nella sua testa. La scacciò con un gesto del collo.
“Fammi avere al più presto il referto autoptico.” Ordinò prima di voltarsi per andare via ma Lestrade lo trattenne.
“Sherlock, dammi qualcosa su cui lavorare, non riuscirò a tenere la stampa e i superiori a bada per sempre.”
L’atteggiamento quasi implorante dell’ispettore, i cui occhi elemosinavano una briciola di aiuto, gli procurò un moto di orgoglio.
“Vanità.” Lo corresse John.
Era bello essere l’unico detentore della conoscenza, arrivare dove gli altri non potevano spingersi con il solo ingegno della mente.
“Superbia.” Insistette la voce del dottor Watson.
“Il soggetto che dovete cercare è un maschio bianco, tra i 25 ed i 35 anni, uno che non si nota a prima vista, capace di confondersi tra la folla. La natura violenta dei crimini suggerisce che abbia la fedina penale sporca, microcriminalità, magari piccoli furti. È un assassino organizzato: prudente, segue la cronaca, è attento all’igiene, furbo…e visto che è furbo le uniche prove fisiche che troviamo sono quelle che lui vuole lasciarci. Ha una macchina in buone condizioni, forse con i vetri scuri per poter trasportare i corpi nei luoghi di abbandono. Deve avere una storia di paranoia prodotta da un trauma non superato, magari la morte di un genitore, di uno della famiglia o un amico. Attraverso l’omicidio deve soddisfare una pulsione o compensare una mancanza, un bisogno viscerale, un disperato senso di potere. Gli assassini organizzati provano un grande interesse per l’applicazione della legge, è come se volessero inserirsi nello svolgimento delle indagini. Possono arrivare a fingersi testimoni per scoprire cosa sa realmente la polizia, questo li fa sentire dominanti, controllanti...quindi è anche possibile che l’abbiate già sottoposto ad un interrogatorio o che sia stato presente su tutte le scene del crimine.”
“Qualcuno come te, Sherlock.” gli mormorò John all’orecchio. Il detective deglutì, la gola era diventata improvvisamente disidratata.
“Bene, grazie Holmes, questo ci sarà d’aiuto.” 
Il detective fece un cenno di congedo all’ispettore ed andò via.

*

Il 221B di Baker Street era silenzioso. Sherlock varcò la porta d’ingresso ed un capogiro lo colse. Cercò il sostegno del muro e della mobilia, riuscendo con parecchi sforzi ad arrivare al divano, sul quale si stese con poca grazia.
Poi cominciarono i brividi di freddo. Afferrò la coperta che teneva sulla spalliera e vi ci si avvolse dentro, continuando a tremare. 
Con estrema lentezza riuscì ad alzarsi e a trascinarsi verso il bagno, dove vuotò la boccetta di calmanti e poi strisciò fino al letto.
Con le palpebre pesanti, stanco e spossato, il mondo cominciò ad assumere toni indefiniti e si addormentò.

*

Quando riprese conoscenza era ormai notte fonda e la crisi di astinenza stava tornando.
Doveva combatterla, doveva resistere. Il sudore scendeva dalla tempia solcandogli la linea del collo, le articolazioni bruciavano come se qualcuno lo stesse marchiando a fuoco. 
Si rannicchiò in posizione fetale, digrignando i denti in preda a spasmi sempre più forti.
“Hai visto, Sherlock? C’è la luna piena stanotte.”
“Vattene via, John.”
Il dottore gli si avvicinò, sedendosi sul letto e posandogli la mano sulla spalla. Aveva uno sguardo comprensivo, un sorriso gentile ed incoraggiante, come quelli che soleva rivolgergli quando qualcosa lo turbava.
“Non posso andarmene, Sherlock. Io sono qui.” La sua mano si spostò sul capo in una carezza leggera e delicata.
“Esci dalla mia testa!” gli gridò contro il detective, balzando dall’altra parte del letto, mettendo quanta più distanza poteva tra lui e quell’uomo.
John guardò dapprima con livore la figura rannicchiata ed ansimante contro il muro, ma poi la sua espressione si ammansì, regalandogli un sorriso docile ma al contempo malevolo.
“È una notte troppo bella per litigare, Sherlock. Dovremmo uscire e andare a bere qualcosa, tu ed io. Dovremmo cercare di dare giustizia a quelle ragazze.”
Il detective si appiattì contro la parete, tenendosi il capo tra le mani, oscillando leggermente.
“Esci dalla mia testa, esci dalla mia testa, esci dalla mia testa...” ripeteva come una nenia.
“Avanti, Sherlock, tu non vuoi che io vada via, vero? Non hai intenzione di scacciarmi…per farlo dovresti soltanto estrarti il cervello. E tu ci tieni al tuo cervello, no? È il cuore che ti manca, per questo dobbiamo uscire a cercarne uno.”
“No!” sbottò il detective. “Io ho un cuore, non me ne serve uno nuovo!”
“Ne sei sicuro? E dimmi, signor saputello, dov’era il tuo cuore quando Moriarty mi ha fatto saltare in aria? Tu mi hai lasciato morire pur di risolvere un caso e catturare un criminale. Hai lasciato che il peccato di presunzione vincesse sull’amicizia.”
Le parole velenose scatenarono un flash nella mente di Sherlock che sgranò gli occhi, impietrito. 

Rivide se stesso camminare sul pavimento bianco piastrellato della piscina, con le mani intrecciate dietro la schiena si rigirava tra le dita una pendrive. 
Cominciò una filippica sfrontata, che trasudava scherno e derisione, all’indirizzo di Moriaty. 
Le parole, però, gli morirono in gola alla vista di John e di ciò che traspariva sotto il giaccone che indossava.
E poi il confronto con Moriarty, i suoi discorsi beffardi.
“Ti brucerò il cuore.” Gli aveva ringhiato contro e lui era rimasto impassibile.
“Mi dispiace, ma ho saputo da fonte certa che non ce l’ho.”
“Ma sappiamo entrambi che non è così.” Gli aveva risposto Jim provocatorio.
Con la pistola ancora stretta tra le mani a seguire ogni suo movimento, Sherlock lo vide allontanarsi di qualche passo, un sorriso stampato sul volto. 
E prima che il suo cervello potesse dedurre alcunché, Moriarty premette il detonatore.
La conflagrazione lo fece cadere riverso di schiena qualche metro indietro. Con le orecchie che fischiavano, Sherlock si sollevò e, senza pensare, gridando il nome di John, sparò a sua volta, svuotando il caricatore.
La risata del consulente criminale si spense mentre il suo corpo si accasciava al suolo, privato della vita.
Sherlock si avvicinò a quello che una volta era stato il suo migliore amico, John Watson. Cadde sulle ginocchia accanto al suo corpo devastato, posò le mani sul pavimento, senza sentire veramente la sensazione del caldo viscoso che le avvolgeva. 
Stette lì fino a quando non arrivò suo fratello, con la sola compagnia di lacrime amare che credeva essere incapace di versare, e della sua anima che si lacerava al ritmo in cui le scanalature del pavimento e l’acqua della piscina si riempivano del sangue di John Watson.

“Tu non sei reale, devi andare via, io non posso, non posso...” la voce di Sherlock si ridusse ad un sussurro incrinato.
“Certo che sono reale. Guarda, lo senti il calore delle mie mani sulla tua pelle? Smetti di tremare, Sherlock. Sai cosa devi fare per far passare questo dolore. Devi trovare un cuore e solo così sarai in pace.”
Il detective sollevò gli occhi, incrociando quelli benevoli del suo amico.
“Solo così...” mormorò.
“Solo così.” Ripeté John.
Sherlock si alzò e cominciò a raccogliere il necessario. Aprì il comodino, prese la dose ed una siringa. Recuperò il cucchiaio e, con l’aiuto di un accendino, sciolse il contenuto della bustina mischiandolo a dell’acqua distillata. Strinse il laccio emostatico attorno al braccio con i denti, aprì e chiuse la mano per far aumentare la pressione del sangue. 
Si sentiva un cacciatore d’oro all’inferno, alla ricerca della vena fortunata. 
Quando ci fu riuscito, iniettò la sostanza e si rilassò contro la parete del muro.
Il suo tormento fu spazzato via da un’ondata di euforia alla quale non poteva resistere. 
“Va meglio, non è vero?”
“Sì, John.” Esalò con l’ombra di un sorriso che gli incurvava le labbra.
“Vieni, adesso andiamo a cercarti un cuore nuovo.”
Sherlock afferrò la mano di Watson e sparì nel cuore della notte londinese.

*

La ragazza non oppose resistenza, fu facile per lui convincerla a seguirlo. 
Ora, con le mani ferme e decise, i guanti e la sua lama, era pronto per il passo finale. 
John lo osservava, compiaciuto.
Il coltello affondò nella carne come se fosse stata di burro, il sangue cominciò a scorrere scivolando nei solchi della grata sotto di lui. 
Una volta che la sua operazione fu completa, prese un barattolo che aveva precedentemente riempito con della formaldeide e vi pose con estrema attenzione il cuore all’interno, maneggiandolo con la stessa delicatezza e reverenza riservata ad oggetti di inestimabile valore.
Lo vide galleggiare per poi fermarsi al centro del recipiente.
“Come ti senti?” gli chiese John, seduto a terra, in un angolo di quella casa isolata.
Sherlock rifletté per un istante. L’adrenalina viaggiava veloce nel suo corpo, facendogli vivere un’esperienza molto simile ad un salto dal tetto di un palazzo a braccia spalancate.
“In pace. Credi che questo sia...un peccato, John? Tu hai mai provato niente di simile?”
“Sherlock, io credo che se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di originalità.” Sorrise per poi guardare il trofeo all’interno del contenitore. “Adesso hai un cuore nuovo.”
Sherlock si lasciò andare ad un sospiro di puro sollievo. L’effetto indotto dalla droga stava svanendo e presto i demoni sarebbero tornati a tormentarlo. L’avrebbero trascinato lontano dalla luce della coscienza del reale e scaraventato in un pozzo di profonde, inconoscibili tenebre.
L’oblio lo stava chiamano e lui era ben felice di rispondergli.
Con palpebre pesanti e libero dai sensi di colpa, lo accolse con piacere.

*

La notizia dell’arresto di Sherlock Holmes ebbe un’eco di rilevanza internazionale. L’ispettore Lestrade venne radiato dalla polizia, la sua testa fu la prima a saltare perché aveva permesso ad un serial killer di occuparsi di indagini ufficiali. 
Al suo posto subentrò il sergente Sally Donovan che, appoggiata dal capo della scientifica Anderson, aveva da sempre sostenuto l’implicazione del ‘geniaccio’ nei delitti.
Chi, meglio di Holmes, corrispondeva al profilo?

La notte dell’arresto il detective, ormai sull’orlo del collasso, venne trovato riverso sul pavimento di casa sua, una siringa stretta nella mano, in overdose da eroina.
Durante il processo la corte stabilì che fosse ricoverato in un ospedale psichiatrico criminale.
Il suo psichiatra, dopo una serie di sedute, diagnosticò che il paziente Sherlock Holmes era affetto da un disturbo raro, noto come sindrome di Cotard. Questa, aggiunta al trauma di aver assistito alla morte del suo amico, il medico John Watson, era stata il fattore scatenante della follia omicida.
Con il passare del tempo, questi elementi erano sfociati in allucinazioni che avevano assunto le fattezze di John Watson. 
La sua personalità deformata, dominante, aveva cominciato a prendere il sopravvento nella mente di Sherlock, arrivando a creare un vero e proprio sdoppiamento. 
John, infatti, negò di aver commesso gli omicidi, imputandoli a quella che era diventata la personalità remissiva, ossia Holmes.
Divorato dai sensi di colpa per non essere riuscito a salvare il suo amico, Sherlock aveva cominciato ad abusare di droghe che avevano acutizzato il suo disturbo dissociativo dell’identità e la sua sindrome di Cotard, facendogli credere che non avesse un cuore.
E per Sherlock, additato più volte di essere una macchina fredda e senza sentimenti, il sentirsi dire da John di non avere un cuore, era la più terribile delle accuse.
Perché lui era morto e solo un cuore poteva riportarlo alla vita.

Note

-    La descrizione del profilo dell’assassino è tratta dall’episodio 1x01 di Criminal Minds.
-    Il dialogo flashback Sherlock - Moriarty è tratto dall’episodio 1x03 della serie.
-    “Se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di originalità” cit. di Khalil Gibran.
-    La sindrome di Cotard conosciuta come Sindrome Walking Corpse o del cadavere che cammina, è una rara patologia psichiatrica caratterizzata dalla presenza del cosiddetto delirio di negazione, che spinge chi ne è colpito a convincersi di aver perso alcuni dei propri organi e di essere morti. Cotard definì che tale sindrome è accompagnata da sentimenti di colpevolezza, intenzioni e ideazioni suicidarie. Nonostante egli, nei suoi lavori scientifici, ritenga che il delirio di negazione esprima un disturbo depressivo, è pur sempre vero che la sindrome che da lui prende il nome, è stata osservata anche nel corso di disturbi psicotici, disturbi bipolari e in altre condizioni organiche, come traumi cranici, sclerosi multipla, tumori cerebrali, lesioni cerebrali causate da sostanze stupefacenti.

***
Salve!
Non datemi mai una settimana pesante, un vecchio episodio di Hannibal e la notizia che Benedict Cumberbatch si sposa che il mio cervello parte per la tangente, partorendo mostruose e angstiose (?) e psicologicamente folli one shot.
Scherzi a parte, avevo scritto questa…cosa per partecipare ad un contest, ma avendo il cervello nocciolina ho dimenticato la data di scadenza per iscrivermi e quindi tanti saluti al secchio. Così l’ho lasciata a fare la muffa nel pc e solo oggi mi è venuta la brillantissima idea di revisionarla e pubblicarla.
La sindrome di Cotard, come dicevo poche righe sopra, mi è stata ispirata dall’episodio 1x12 della serie Hannibal.
Chi mi segue sa del mio amore morboso per il cannibale e il consulente detective <3 (che questa volta è di un OOC allucinante ma ehi, ha parecchi problemi alla sua deliziosa testolina riccioluta)
Detto questo vi lascio alle sentenze, spero sia stata una lettura piacevole.
See ya dearies and thank you for reading!

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Capitolo 2
*** Once upon a dream ***


[Molly & Sherlock; slice of life di una possibile 4x01; introspettivo]

Once upon a dream


I know you, I walked with you once upon a dream
Lana Del Rey – Once upon a dream

Il laboratorio è silenzioso, calmo, carico di un’energia statica che lo rende un luogo sospeso nel tempo.
Molly ripone la tazza nel lavello, passandosi la lingua sulle labbra per catturare gli ultimi residui dell’ Earl Grey appena bevuto.
Esce dal cucinino e comincia ad attraversare il laboratorio con il solo suono dei tacchi di gomma delle sue scarpe sul pavimento a farle da eco.
Si stiracchia fino a sollevarsi sulle punte dei piedi e fa schioccare le dita delle mani. Osserva il tempo da una delle piccole finestre rettangolari della stanza: fuori il cielo si sta lentamente rischiarando.
Alza il collo per poter scrutare meglio l’esterno; le piace guardare il cielo, coglierne le più sottili sfumature, osservare le nuvole che lo attraversano pigre o contare le stelle.
Riconosce lo sfondo zaffiro sul quale si posano delicate pennellate di blu cobalto e ceruleo e, all’orizzonte, proprio dietro uno dei palazzi della City, una striscia blu reale che presto si tingerà dei caldi colori dell’alba.
I suoi occhi ritornano al laboratorio.
È stata una notte tranquilla, ha dovuto solo effettuare un esame in emergenza su un campione di tessuto prelevato in sede operatoria, poi tutto ha taciuto.
Osserva il familiare spazio, la sua seconda casa.
Si perde nella contemplazione dei dettagli che conosce così bene: l’odore dei detergenti di cui sono pregni i muri, gli agenti chimici disposti in pile ordinate sugli scaffali di metallo, il riverbero delle luci bianche sulle pipette e sui contenitori graduati, i guanti blu che fanno capolino dallo scatolo poggiato sul tavolo servitore.
E poi i microscopi, suoi fedeli alleati ed il freddo acciaio del tavolo autoptico, che sembra aver assorbito l’essenza di coloro che lo utilizzano come ultima sosta nel mondo dei vivi.
Tutto è familiare, tutto è casa.
Molly entra nel suo ufficio, non chiude la porta, si siede semplicemente alla scrivania e rilassa la schiena contro la spalliera di pelle.
Dondola per qualche minuto, passa le dita nei capelli raccolti in una coda di cavallo, pensa a tutto e niente.
Il suo turno finirà tra un’ora e mezza e potrebbe anche usare quel tempo rimanente per riposare prima di andare via.
Curva il busto ed incrocia le braccia davanti a sé, posando la testa nella piega del gomito. Il cotone del camice profuma di ammorbidente alla lavanda e disinfettante.
Socchiude le palpebre mentre fuori la città sta piano piano risvegliandosi dal torpore. Il sonno comincia a gravare su di lei, dopo giorni in cui non l’ha degnata della sua presenza.
Ha trascorso varie notti sveglia nonostante si sentisse esausta, a fissare l’oscurità della sua camera da letto con ogni sorta di pensieri che le bombardavano il cervello.
Ora, invece, nel cuscino delle sue braccia, con la sola compagnia del silenzio della sua mente, chiude gli occhi e si addormenta.
E sogna.

*

Molly sogna.
Sogna arazzi tessuti di stelle, caotiche nebulose, supernove esplosive che creano una ragnatela di colori sgargianti ed iridescenti.

Viaggia e  bagna i piedi nell’acqua salata dell’oceano, sente il rumore della risacca sulla battigia, guarda il sole senza che gli occhi le brucino. Raccoglie conchiglie madreperlacee e le rigira tra le dita, saggiandone la liscia superficie.

Molly sogna, e nei suoi sogni John è acqua che scorre placida e serena. Il suo moto quasi sonnolento placa le turbe dell’anima, rassicura e tranquillizza. Ma lei sa che, quando una forza agisce su di essa e turba la sua misurata quiete, l’acqua si ingrossa e spazza via ogni cosa con la sua furia.
- Sono acqua le lacrime di rabbia e dolore di John dopo il suicidio di Sherlock. -

Si lascia alle spalle le onde ritmiche e dolci dell’oceano e  corre su un pendio scosceso, fino a raggiungere un campo appena arato, costeggiato da ulivi e tassi in fiore.
Le zolle di terra sono sollevate, pronte per la semina.
Le osserva, si inginocchia e vi immerge le mani all’interno, come faceva da bambina. Al tatto sono umide e morbide.

Molly sogna, e nei suoi sogni la signora Hudson è terra.
La riconosce perché madre amorevole, generosa, dal ventre accogliente e tiepido. Ospita i semi e li cresce e cura con pazienza ed amore. Molly accarezza la terra, la fa sua, si bea della sua protezione.
- È l’abbraccio consolatorio dopo la rottura con Tom. -

Ma deve andare via, il sogno continua a trascinarla verso nuove mete.
Vede una colonna di fumo bianco sollevarsi dalla cima di una vetta innevata.
Una pira sta ardendo.
Le fiamme guizzano in lingue dalle sfumature vermiglie, aranciate e gialle, crepitano sul legno, lo consumano.

Molly sogna, e nei suoi sogni Greg è fuoco.
Fuoco della giustizia che punisce i criminali, che redime, che protegge e riscalda. Si avvicina e allunga i palmi inglobando dentro sé un po’ di quel nucleo di calore.
- È l’ardente tenacia con cui da’ la caccia a Jim dopo il suo ritorno. -

Poi, improvvisamente, si blocca, il corpo percorso da un brivido gelido. Sposta lo sguardo nella macchia degli alberi e scorge un indefinita sagoma scura.

Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è ombra.
L’ombra nera che si muove fluida
- Passi sicuri nel corridoio dell’ospedale, mani nelle tasche del Belstaff scuro. -
e che lei individua solo con la coda dell’occhio.
Il fuoco si spegne ma resta solo il fumo.
E Molly sa che lui è ancora lì.

Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è fumo.
Fumo che la circonda avvolgendola completamente.
Lo respira, facendolo penetrare a fondo nei polmoni.  La riempie, si impossessa di ogni angolo di lei.  Sherlock è una figura dai labili contorni inconsistenti ed inafferrabili di fumo.
- Sa che c’è ma non potrà mai toccarlo. Binari paralleli destinati a non incrociarsi mai. -

Molly sogna e, nei suoi sogni, emerge dalla nebbia creata dal fumo.

La terra che calpesta è rossa, brulla ed arida, scricchiola sotto il peso dei suoi piedi, si sbriciola in granelli di polvere. Non ci sono più alberi, solo grossi monoliti di pietra grigia e bianca, crepacci e insenature sul suolo.
Davanti a lei compare una fontana a due piani, ricoperta di rampicanti secchi. L’acqua, che dovrebbe sprizzare dalla sommità e riempire le due vasche è prosciugata.
Molly è inquieta, il cuore comincia a batterle nel petto mentre attraversa quel deserto sotto un cielo di uno strano colore ametista.
Nell’aria volteggiano fiocchi di cenere di un fuoco ormai estinto.
- È paura di veder morire le persone a lei care. -

Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è morte. Lo vede svettare su una pila di corpi, seduto su un macabro trono di vite spezzate.

- La vita di Sherlock è intrecciata alla morte: la cerca, la brama, la sfida, la usa. -

La guarda solo per un istante e lei trema.  Si circonda il busto con le braccia e stringe forte.

- Cerca la pace di John, il calore di Greg, il conforto della signora Hudson. -


Vorrebbe sollevare lo sguardo ed affrontarlo ma lo sforzo è talmente gravoso e insostenibile che le ginocchia cedono e cade.
La terra sotto di lei si sgretola e viene inghiottita nell’oscurità.
Galleggia, come una novella Alice nella tana del Bianconiglio.

Atterra in un cimitero di vecchie lapidi.
Croci celtiche e pietre coperte di muschio si stendono a perdita d’occhio nell’erba verde.
Molly sente le lacrime pizzicarle gli occhi, le lascia cadere.

Molly sogna, e nei suoi sogni suo padre è legno.
Legno di una fredda bara.
Chiude gli occhi e sente il rumore della cassa che viene chiusa ed il suo cuore perde un battito.
Ripercorre con la mente la superficie liscia e le leggere scanalature, si sofferma sulla corona di fuori intrecciata, posta al centro del sarcofago.

Molly sogna, e nei suoi sogni sua madre è una corona di fiori.
Fiori colorati e vivaci, che coprono la tomba di suo padre.
- Si completano nella morte così come quando erano in vita. -

Molly si terge le lacrime dal viso con il dorso della mano e si lascia quel luogo di riposo eterno alle spalle, un timido sorriso indirizzato alla memoria di coloro che le hanno dato la vita.
Si dirige verso un dirupo che dà sul mare che si agita sotto di lei.
La visuale è pulita e libera, la spuma delle onde le solletica il viso, l’orizzonte è infinito.
Chiude gli occhi, allarga le braccia e salta.

Molly sogna, e nei suoi sogni lei è vento.
Brezza gentile, fredda bora, caldo scirocco, impetuoso maestrale. È soffio di vita che alimenta il fuoco, smuove l’acqua, disperde i semi nella terra.
Vento che trascina via il fumo e cancella l’ombra.
Il cielo si riempie di nubi plumbee gravide di pioggia.
Roboanti tuoni e fulmini lo attraversano. Grosse gocce cominciano a cadere sempre più fitte sulla sua pelle.

Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è tempesta che si sposa con il vento, che può placarla o fomentarla.

- È il lampo dell’intelligenza nei suoi occhi, la velocissima conduzione elettrica di impulsi nervosi di milioni di neuroni in moto, l’irruenza arrogante della sua personalità. L’energia inesauribile della sua mente brillante. -


Molly sogna, e nei suoi sogni sente qualcosa di caldo posarsi sulle spalle.
Non importa la pioggia che cade sul suo corpo inzuppandole i vestiti, non sente freddo.

Molly sogna, ma il suo sogno sta per finire.
Le palpebre hanno un fremito, le apre con lentezza misurata, cattura ultimi attimi di quel sogno a cui il cervello si sta già affannando a trovare un senso logico.
Nella stanza, ad occhi aperti, non è sola.

Molly si sveglia e vede Sherlock davanti a lei.
La osserva, un sopracciglio arcuato, la schiena ritta e le mani intrecciate dietro di essa.
Molly si sente a disagio: c’è qualcosa di molto intimo nell’essere osservati mentre si dorme e si sogna (specie se chi hai sognato si trova proprio davanti a te).
Si tira su dalla sua posizione e solo allora si accorge di cosa ha sulle spalle.
“Buongiorno.” Dice semplicemente e, con le dita, tira a sé il lembi del cappotto di Sherlock.
Lui si muove ed è come se una statua prendesse vita.
“Cosa hai ricavato dal tuo sogno, Molly Hooper? Niente di costruttivo, dato che i sogni sono soltanto frammenti della nostra attività psichica notturna.” Afferma saccente.
Molly lo guarda comprensiva, si alza e gli restituisce la giacca. La sua voce non è fievole ed impastata, ma decisa e solenne.
“E a quelli che credono che le avventure siano pericolose io dico: provate la routine. Vi uccide molto più velocemente.”
Sherlock stira le labbra in un sorriso, recupera il Belstaff e lo appende. Volta la schiena e si dirige verso il laboratorio a prendere posto davanti al microscopio.
Molly lo osserva e davanti a lei sfilano le immagini del sogno: Sherlock è ombra, fumo, tempesta. Morte.
Sherlock è tutto e, allo stesso tempo, non lo è.
Molly si muove silenziosa verso la porta del laboratorio, il commiato con il detective non è necessario.
È sicura che lui sappia già.
Imbocca a passi veloci il corridoio ed esce dall’ospedale.
Il vento del mattino di Londra le solleva i capelli facendoli danzare.
Fuori splende il sole.

***
Solo lavoro e niente divertimento rendono Jo una ragazza annoiata.
Sto studiando per gli esami, comprendete una povera anima affranta che cerca di destreggiarsi in un corso integrato di sei, tremende materie.
Vogliatemi bene ugualmente e lasciatemi un pensierino consolatorio <3
P.S.: purtroppo l'ispirazione non è stata sognare Sherlock, ma credetemi se vi dico che mi piacerebbe davvero tanto farlo in loop continuo!

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Capitolo 3
*** Cold blooded ***


[One shot seconda classificata al contest: “Film e telefilm: dimmi qual è il tuo” di Aturiel. Sherlock Holmes e Irene Adler; missing moment della 2x01 – A scandal in Belgravia]

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Cold blooded


There’s one thing you must understand
You can’t trust a cold blooded
Can’t trust a cold blooded
Can’t trust a cold blooded
Woman (man)
The Pretty Reckless – Cold blooded

Sherlock non sapeva esattamente ciò che l’aveva spinto a farlo. Era stata una decisione dettata dall’impulso e lui non si era mai considerato un impulsivo.
Lo avevano definito in tanti modi, ma così, nemmeno una volta. Questo almeno a quanto ricordava. Se l’avevano fatto, le parole non dovevano nemmeno aver varcato la sua soglia dell’attenzione, scartate ed etichettate preventivamente come inutili e superflue.
Nel dubbio, però, rettificò mentalmente la cosa, dicendosi che quella era stata una decisione ragionevolmente impulsiva, basata quindi su un’analisi mirata di location, nemico e vittima. Questa definizione soddisfece il suo ego, troppo orgoglioso per ammettere che le motivazioni erano da inquadrare in quella che era la grande, orripilante, sconosciuta e scriteriata sfera dei sentimenti.
Giunse le mani e vi appoggiò su il mento, in quella che era la sua caratteristica posa da oculato e freddo pensatore.
Forse era stato tutto frutto dell’intrigante scontro di menti in cui si era ritrovato, una danza fatta di giochi di potere, occhiate penetranti e studio delle più impercettibili espressioni della mimica facciale.
Quella che combatteva contro di lei era una guerra di ingegno e astuzia, elementi che sembravano essersi radicati nella loro indole fino ad avvilupparsi alla doppia elica del DNA.
Non era stato difficile tenere Mycroft all’oscuro delle sue intenzioni; per lui quella donna era solo l’ennesima seccatura governativa da rimuovere alla stregua di un fastidioso dente del giudizio.
Sogghignò pensando che quella donna, con le sue esaustive richieste dopo la faccenda del cellulare impenetrabile, era riuscita a far dimagrire il volto segreto del governo inglese qualche etto. Ma adesso che la questione era stata archiviata, per suo fratello non era diventata altro che un misero granello di polvere nell’aria.
Un cipiglio gli corrugò la fronte, mentre la sua mente ricreava l’immagine di Mycroft seduto tronfio sull’elegante poltrona del Diogene’s Club, intento a sorseggiare un qualche liquore costoso. Sicuramente doveva aver pensato che terroristi pakistani gli avevano risparmiato un sacco di fatica con il loro intervento.
“Lento, incapace e goffo Mycroft.”
Voltò il capo verso sinistra, osservando la donna che sedeva composta accanto a lui. Le mani intrecciate in grembo recavano ancora qualche escoriazione, non vi era nemmeno più traccia del vistoso smalto rosso che usava per la manicure.
Teneva la testa rilassata contro lo schienale, i capelli raccolti in una bassa coda laterale. Si girò a guardarlo, un sorriso sottile a incresparle le labbra.
Sherlock si sentì come un bambino beccato con le mani nel vasetto di marmellata.
“Ti piace quello che vedi, Sherlock?”
Ecco che faceva una delle sue tipiche domande arroganti ed sfacciate. Il detective liquidò la questione con uno sbuffo della mano.
“Niente che non abbia già visto.”
Lei continuò a sorridere in una maniera composta e gentile che, per un attimo, le alleggerì i tratti del viso, stanchi per il lungo viaggio.
“In effetti perché dovrebbe piacerti questa mise insulsa e scialba, quando hai memorie molto più interessanti da richiamare alla mente? Indossavo il mio abito da battaglia quando ci siamo conosciuti, ricordi?”
“Sì, e qualora avessi scambiato le mie deduzioni per un atto di primordiale ammirazione, ci tengo a sottolineare che ci hanno tratto d’impaccio in una situazione poco piacevole.”
Irene rise, una risata argentina e calda che scivolava sulla pelle come una carezza di seta. Gli batté piano una mano sulla spalla.
“Su, fammi passare, devo sgranchirmi le gambe.”
Sherlock si alzò e, quando lei gli passò accanto, non fece nulla per impedire alla sua piccola mano di sfiorargli l’avambraccio, alla ricerca di un sostegno di cui non aveva bisogno.
Questo lui lo sapeva bene, poiché nessuno dei contatti di Irene era lasciato al caso.
Tendeva a toccarlo ogni volta che poteva, doveva mantenere una fisicità, fargli avvertire la sua presenza.
Come se fosse stato possibile riuscire ad ignorarla.
La vide ancheggiare verso lo spazio riservato alle hostess e non fu l’unico a fissarla sottecchi. Alcuni degli uomini d’affari dell’aereo abbassarono leggermente i loro giornali e la squadrarono da sotto le loro costose montature.
Quella donna - no, la donna, corresse immediatamente il suo cervello - aveva un fascino magnetico al quale era difficile sfuggire. Avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo in quella cabina e garantirsi un’esistenza quantomeno agiata fino a quando avesse voluto.
Irene rientrò con in mano due flûte di champagne. Ne porse uno a Sherlock, sfiorandogli le dita in un gesto di calcolata naturalezza.
“Facciamo un brindisi.”
“A cosa dovremmo brindare?”
Lei inclinò leggermente il capo e gli sorrise.
“A noi. Ad una lunga e proficua amicizia.”
Il detective prese un respiro e posò il calice nel portabicchieri.
“Sai bene che dopo averti lasciata negli Stati Uniti ognuno di noi andrà per la sua strada.”
Lei batté le palpebre e lo guardò con un’espressione di scherno.
“Quanta pena che ti sei preso, povero Sherlock! Avresti potuto lasciarmi a Karachi.”
Sherlock allungò le dita e rigirò la base del flûte. Mise su la posa più arrogante, superba e noncurante che conosceva, il tutto per zittirla una volta e per sempre. Non avrebbe tollerato ulteriori domande da parte sua, non quando non desiderava darle una risposta, data l’evidente tendenza della sua accompagnatrice a manipolare con le parole. L’insistenza di Irene sapeva essere intollerabile e snervante quasi quanto quella dei suoi genitori, quando volevano costringerlo a sorbirsi un irritante musical.
“Perché mi hai pregato di salvarti. O hai dimenticato anche questo piccolo particolare?”
Doveva aver colpito il bersaglio perché Irene contrasse leggermente i muscoli del viso e per lui, quel gesto muto, equivalse ad una scenata plateale con un pianto singhiozzante seguito da un accesso di rabbia.
“Allora brinderò al brillante, audace e nobile Sherlock Holmes, salvatore di sventurate damigelle in difficoltà.” Sollevò beffarda il bicchiere e se lo portò alle labbra con fare teatrale.
Sherlock osservò il movimento della sua gola, man mano che il calice veniva vuotato. Si chiese se, per caso, non avesse drogato il suo. Ad una prima analisi, visiva ed olfattiva, non sembrava corretto con qualche sedativo o farmaco, ma la prudenza non era mai troppa.
Fu tentato dal chiederle se necessitava di un altro giro, ma scartò quell’opzione.
In ogni caso non avrebbe bevuto.

*

Trascorsero il resto del viaggio da Karachi in silenzio, fino allo scalo ad Abu Dhabi, dove li attendeva la loro coincidenza per New York.
Sherlock allungò il passaporto all’operatrice del check-in e, con la coda dell’occhio, si assicurò di tenere sotto controllo la donna al suo fianco.
Sarebbe bastato veramente pochissimo perché gli sfuggisse dalle dita come aria.
Fu solo quando l’aereo decollò che il detective riuscì a rilassarsi. Quanto ad Irene, lei era più che tranquilla. Osservava placidamente il panorama sotto di lei, il deserto, la città e poi le nuvole a circondarla. Prese le cuffie e cominciò a vedere un film.
La traversata sarebbe durata più di 20 ore, un tempo davvero lungo per testare la resistenza dei nervi del detective, che già si sentiva erodere dall’interno dal malefico tarlo della noia.
Era come un’auto da corsa che doveva procedere a passo d’uomo: una vera crudeltà per il proprietario ed uno spreco di prestazioni di alta ingegneria.
Tamburellò le dita sulle ginocchia e Dio, quanto avrebbe voluto una sigaretta in quel momento!
Si costrinse a placarsi, trovando rifugio in una delle camere del suo palazzo mentale. Si sedette a gambe incrociate sul parquet di una stanza alla fine di un lungo corridoio, e aprì un baule usurato posto davanti a lui. I vecchi cardini cigolarono quando ne alzò il coperchio, ed uno zaffo di polvere si sollevò riempiendogli i polmoni. Con la mano pescò uno dei fascicoli su alcuni casi irrisolti e prese a studiarlo alacremente.
I suoi pensieri furono interrotti dall’hostess, che si avvicinò a loro con modi affabili per servire la cena.
Una volta che fu andata via, Irene lanciò un’occhiata divertita a Sherlock. Il detective parve perplesso.
“Alla fine siamo riusciti a cenare insieme.” Dichiarò lei semplicemente. Sembrava aspettare quell’occasione da quando erano partiti.
Lui rovistò nel piatto con la forchetta, esaminando i vari ingredienti e reprimendo una strana forma di nausea che gli attanagliava la bocca dello stomaco.
“Contro ogni aspettativa sì, è così.”
“Potresti anche smetterla di mettere il broncio come un ragazzino capriccioso e ammettere che la cosa non ti dispiace.”
“Io non sono un ragazzino capriccioso!” esclamò oltraggiato e si rese subito conto di aver appena commesso una madornale gaffe. Lei sembrò compiacersene e la cosa finì per irritarlo ulteriormente.
“Allora dimostralo.”
Eccola la provocazione, la sfida che il detective attendeva.
Per l’ennesima volta si stavano scontrando su un terreno precario, fatto di botta e risposta. Lei avrebbe cercato di condurlo nell’inesplorato e oscuro territorio dei sentimenti, quella massa abbozzata che giaceva come un cumulo di mobili usurati e anticaglia varia in un punto recondito ed imprecisato del suo palazzo mentale, e lui avrebbe dovuto deviare il discorso su Moriarty, alla ricerca di informazioni sostanziali.
“Dovresti scegliere con più accuratezza gli uomini dai quali pretendere delle dimostrazioni.”
Irene accavallò le gambe e quel gesto attirò su di sé lo sguardo del detective.
“Oh, se ti riferisci a Jim, lui era ben felice di dimostrare.” Il tono basso, quasi gutturale e il lieve dilatarsi delle sue pupille, resero chiaro il concetto a Sherlock.
“Dimostrare qualcosa che ti ha quasi fatta uccidere.”
“Che fortuna aver incontrato te, allora.” Replicò lei mandando giù un sorso di vino. “Non vuoi sapere cosa mi ha spinto a cercare Moriarty?”
Sherlock ghignò, era facile, fin troppo facile.
“Non c’è bisogno che tu me lo dica, è di certo lo stesso motivo per cui lui ha accettato la tua offerta: la noia. Eppure dovevi sapere che non ci avrebbe pensato due volte a liberarsi di te quando non gli saresti stata più utile. La vera domanda, quindi, è cosa lui ha ottenuto da te.”
Irene fece un piccolo applauso.
“Ancora una volta sei stato arguto e pronto, ma mi dispiace deludere le tue aspettative con una banale rivelazione: da me ha ottenuto solo un sano divertimento.”
Un balenio scettico attraversò i limpidi occhi di Sherlock.
“Mi riesce difficile pensare che sia stato solo questo.”
“La parola chiave è proprio questa, Sherlock: pensare.” Il detective assottigliò lo sguardo, conscio che quella donna, grazie ad una risposta sibillina, lo stava sfidando a provare il contrario.
Il fatto poi che non possedeva prove per confutare l’affermazione, lo spazientiva oltre misura.
Irene riprese a mangiare con fredda e calcolata calma. Lui, invece, non aveva minimamente fame, troppo lanciato in una catena elaborata di ragionamenti. Vedeva la risposta davanti a lui, ma quando allungava la mano per afferrarla, questa gli sfuggiva, diventava inconsistente e si ritrovava solo con un pugno di mosche.
Quand’ebbe finito, la donna si tamponò le labbra con un fazzoletto e incrociò le posate nel piatto.
“Su, Sherlock, non dirmi che non mangi perché credi che ti abbia messo una qualche droga anche nel cibo. Sarebbe ridicolo, non trovi?”
“Ma perfettamente nel tuo stile.”
Irene si passo una mano tra i capelli, riavviandoli.
“Mi sogni mai con un frustino in mano, Sherlock? Sogni mai di implorarmi due volte?”
Si fece più vicina ed il detective sostenne impassibile il suo sguardo.
“No.” Rispose lapidario.
“No, e come potresti? Tu non sei mai affamato.” Lei si tirò indietro, sprofondando nella poltrona e mettendo distanza tra di loro. “Oppure non sei affamato di quello che io ho da offrire.” Insinuò con un sorriso malevolo che lui ignorò.
“Non ho bisogno di niente che tu o altri possiate offrirmi.”
“E qui incappi in un errore. Ti ho mai detto cosa ho provato quando ti ho visto la prima volta?” si sporse come un felino, mise la mano sulla sua e gli sfiorò la guancia con il naso, raggiungendo l’orecchio per potervi mormorare la sua confessione. “ Mi hai attratta in un modo che mi ha raggelato il sangue nelle vene. La seduzione che trasmette una mente originale, acuta, intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale; è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un dio.*” Le sfumature della sua voce continuarono a risuonargli nell’orecchio quando la vide scostarsi e fronteggiarlo. I suoi occhi lucidi si appuntarono in quelli di lui con tutta la loro intensità, mentre la piccola mano aumentò la pressione sulla sua. Il suo respiro, lievemente accelerato e dolce di vino, gli solleticò la punta del naso e, nei suoi occhi appannati, poté chiaramente leggere la volontà di chiudere la distanza tra loro e baciarlo. Per un momento il cervello, sfuggendo ad ogni ferrea logica, gli inviò l’ancestrale impulso di assecondarla. Le reazioni innescate nel suo corpo tradivano quell’illusione di controllo che si era addestrato ad avere. Poteva sopprimere un bisogno, farlo languire sotto la superficie, ma non sarebbe mai sparito del tutto. Era come quando aveva bisogno della droga, qualcosa di forte e potente in grado di tonificare la sua mente e, contemporaneamente, di distruggerla. Per quanto si ostinasse a negarlo, era un uomo, con tutti i suoi pro e contro. Sottrasse bruscamente la mano con l’intento preciso di allontanarla da lui.
“Non sono interessato.” Scandì secco ogni parola.
Irene sollevò gli occhi al cielo, occhi che conservavano ancora la loro scintilla seduttrice. Rimaneva pur sempre una donna esperta nell’arte dell’irretire i sensi e lusingare gli animi fino ad ottenere quello che voleva. Non si sarebbe arresa così in fretta e lui lo sapeva.
“Forse ho esagerato.” Affermò lei cominciando ad arrotolarsi una ciocca di capelli attorno al dito. “Non avrei dovuto essere così sfrontata. Non dopo averti preso in prestito i vestiti a Karachi.” Ghignò.
“Questo è un eufemismo. Mi stavi puntando contro la pistola caduta a quel terrorista.”
Irene sorrise e annuì.
“In compenso è stato uno spettacolo molto piacevole. Mi ha dato modo di fantasticare su quanti segni avrei potuto lasciare sulla tua pelle bianca.” Si umettò leggermente le labbra e osservò il detective continuare a studiarla con quella che giudicò essere la sua finta espressione fredda e distaccata.
La razionalità, la fermezza e il rifiuto spietato delle sue avances da parte di Sherlock, sapevano essere un’affilata arma che si insinuava sotto la sua pelle come l’abile bisturi di un chirurgo affermato.
In quel momento acquisì la solida consapevolezza che Holmes era il gioco più grande a cui mai avrebbe rinunciato.
“Atterreremo tra circa 16 ore, ti consiglierei di riposare.” Senza neanche darle modo di replicare, lui si alzò dalla poltrona e si dileguò nell’aereo.
Irene sospirò. Una parte di lei temeva l’arrivo dell’ora in cui si sarebbe dovuta separare dal detective. L’altra parte invece sapeva che, prima o poi, le loro strade si sarebbero incrociate di nuovo.

*

Spesse nubi coprivano il cielo sopra  New York. L’aereo vi si inoltrò e, dopo una lieve turbolenza, planò atterrando dolcemente sulla pista. Sherlock scese con passo sicuro e scortò Irene al ritiro bagagli. Una volta recuperata la valigia la accompagnò fuori dall’aeroporto.
“E così ci salutiamo qui, Sherlock Holmes.” Fece lei una volta sistemato il suo bagaglio all’interno di un taxi. “È stato un piacere. Un piacere che possiamo sempre approfondire.”
Il detective intrecciò le mani dietro la schiena, assumendo un aspetto impettito ed austero.
“Spero che non crederai ancora che sono interessato a te in alcun modo.”
“Piuttosto pretenziosa come affermazione, non ti pare?”
Sherlock la fissò intensamente e, quando si mosse, sembrò che una statua prendesse vita. Le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio, come aveva fatto lei in precedenza.
“Sono l’unico uomo a cui non potrai mettere un guinzaglio.” Vide l’espressione di Irene distendersi in un sorriso divertito.
“A questo possiamo sempre rimediare.”
Fu il turno di Sherlock di sorridere impercettibilmente. “Addio, Irene Adler.”
“Arrivederci, Sherlock Holmes.”
Entrò nell’auto e, mentre stava per dire all’uomo l’indirizzo a cui il detective le aveva detto di recarsi, si voltò nella sua direzione. Voleva farlo tornare a Londra con un ultimo regalo.
“Comunque Moriarty voleva che dimostrassi che tu hai dei sentimenti. Ed il fatto di essermi venuto a salvare ne è stata la prova lampante. Quindi attento a ciò che provi, Sherlock. Non fare in modo che possa essere usato contro le persone che contano di più per te. Arrivederci!” Irene disse l’indirizzo ed il taxi partì alla volta della metropoli.
Sherlock rimase fermo sul marciapiede, con lo sguardo fisso in direzione dell’auto inghiottita dal traffico, per un tempo che parve lunghissimo. Stette lì, con gli occhi sgranati, la mascella contratta ed i pugni serrati.
Era una trappola, una maledetta trappola e lui c’era finito in pieno.
Moriarty non aveva solo sfruttato Irene ed i suoi segreti, ma anche il rapporto che aveva instaurato con lui per ottenere ancora più informazioni.
Se Mycroft l’avesse scoperto l’avrebbe sicuramente deriso fino alla fine dei suoi giorni. Come poteva essersi fatto raggirare in quel modo?
Una volta salito sull’ennesimo aereo che l’avrebbe ricondotto a casa, esaminò la faccenda a mente calma. Forse Irene gli aveva fornito un indizio fondamentale: Moriarty non era a conoscenza di tutte le persone di cui Sherlock si fidava.
Questo era un vantaggio enorme, che sarebbe potuto tornare utile alla prima occasione. Sherlock sorrise.
La sua contromossa era appena cominciata.

*

Al ritorno a casa fu facile omettere la verità con John. Dapprima aveva ingannato Mycroft facendogli credere che Irene fosse morta, poi aveva realizzato fedelmente la bugia che suo fratello gli avrebbe raccontato, ossia la protezione testimoni in America. In piedi, davanti alla finestra del 221B, sotto il suono della pioggia battente, Sherlock si rigirava tra le mani il cellulare di Irene, soddisfatto del suo operato. Con delicatezza aprì un cassetto e lo ripose all’interno. Pensare a lei, a quella donna, gli procurava una sensazione piacevole, nonostante l’avesse manipolato a dovere.
Era riuscita a farlo essere esattamente dove voleva, e a portarlo sulla strada che voleva percorresse.
Aveva progettato tutto, contando sul fatto che lui, ormai stuzzicato dalla sua personalità, decidesse di salvarla. Non era certo una donna da sottovalutare.
“La donna… la donna.” Ripeté mentre fuori la pioggia continuava a scrosciare.
Sorrise e diede le spalle alla finestra ritornando verso la cucina.
Aveva un esperimento da terminare.

***
- “La seduzione che trasmette una mente originale, acuta, intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale; è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un dio.” Cit. Paola Melone

Dopo svariati secoli, eccomi di ritorno in questo fandom *parte il pernacchio*. Che dire, ho ritrovato la mia musa grazie al contest di cui sopra, a questa intervista a Steven Moffat che mi ha linkato un’amica, e alla fine della sessione estiva d’esami. Non avrei mai pensato di scrivere qualcosa su Irene Adler, personaggio complesso ma al contempo molto affascinante, che si diverte a stuzzicare Sherlock come più le aggrada. Spero inoltre di aver saputo rendere bene questi due personaggi, per quanto la stesura sia stata scorrevole (‘na volta tanto), il tarlo del dubbio dell’IC mi tormenta, anche se a volte mi chiedo come si possano mantenere sempre IC personaggi così pieni di sfaccettature.
Bene, dopo lo sproloquio mi auguro che la storia sia piaciuta e spero di rivedervi su questi schermi.
Intanto buone vacanze a tutti!

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Capitolo 4
*** Gluttony ***


[Kid!Moriarty; Attenzione, questa one shot fa riferimento a maltrattamenti. Mi scuso qualora la tematica delicata dovesse turbare la sensibilità di alcuni lettori.]

Gluttony

I want it, I want it, I want it, I want it
I need it, I need it, I need it, I need it
I love it, I love it, I love it, I love it
A gluttony on me has started
Buckcherry – Gluttony

Tutto comincia con un capriccio. La tipica ingordigia di un’età che ti porta a non essere mai sazio, a infrangere le regole, a diventare petulante fino a sfiancare pur di ottenere ciò che vuoi. La cupidigia che ti fa desiderare la torta della vicina, il cui profumo, di cannella ed arancia candita, ti sta stordendo. Il vasetto di marmellata che tua madre centellina la domenica e il cioccolato che arriverà a Natale “solo se farai il bravo.” E tu sai bene che non sarai mai bravo, non come quei bambini dai sorrisi sdentati che camminano mano nella mano con genitori accomodanti.
La sera, a tavola, tuo padre ti guarda severo mentre ti ostini a tenere lo sguardo fisso nel piatto, concentrato sulla brodaglia informe che lo riempie. L’unica cosa che potete permettervi.
“Il signor Riley ti ha visto rubare delle caramelle dal suo negozio.”
La voce cavernosa e severa ti fa sussultare, il cuore aumenta i battiti e la gola si fa secca. La presa sul cucchiaio si fa più salda, nonostante i palmi sudino.
“Sei solo uno sporco ladruncolo goloso e in casa mia i ladri non sono tollerati.”
Alzi gli occhi quel tanto che basta per incrociare quelli di tua madre. Lei sa cosa sta per succedere e anche tu. Trema impercettibilmente ma, da remissiva succube qual è, non fa niente per impedire a lui di alzarsi e di afferrarti l’orecchio.
Un piccolo gemito di dolore ti sale dalla gola mentre tuo padre - il devoto pastore - lo torce con più forza.
“Quelle caramelle… ho dovuto pagargliele.” Afferma con livore e si fa più vicino a te. Il suo respiro ansante di rabbia si infrange contro la tua guancia. “Non hai niente da dire?”
Tu taci, incapace di proferire parola anche se il desiderio di farlo ti serpeggia dentro.
Vorresti dirgli che ti maledici per esserti fatto beccare come uno stupido e che la prossima volta non succederà.
Vorresti dirgli che saresti pronto a rifarlo altre cento volte.
Vorresti dirgli che non sei pentito.
Perché lo vuoi, ne hai bisogno.
Perché ti piace.
“Sei una delusione, Jim. Una grandissima delusione.”
La mano di tuo padre ti strattona e costringe il tuo corpo gracile a sollevarsi bruscamente, tanto che la sedia cade con un tonfo sul pavimento. La porta della sua camera da letto è socchiusa e lui la spalanca facendola sbattere contro al muro. I tuoi piedi si impuntano, la mano si tende ad afferrare lo stipite e provi a rimanere fuori. I tuoi tentativi vengono spazzati via con facilità, perché lui è forte. Troppo forte per un ragazzino come te. Non puoi far altro che rannicchiarti contro il muro e stringere gli occhi. Il fruscio della cintura sfilata dal pantalone ti fa ingoiare a vuoto.
Mentre aspetti che ti punisca la tua memoria rievoca la morbidezza zuccherina di quelle caramelle. Gli incarti dai colori vivaci, i gusti variegati, le forme diverse, la consistenza differente sotto ai denti. Le dita che succhi per recuperare gli ultimi residui appiccicati, perché non vuoi sprecare nemmeno un granello del tuo bottino.
Quando nell’aria vibra il primo colpo ti mordi il labbro inferiore, e il sapore che avverti non è quello dolce delle tue caramelle: è quello metallico del tuo sangue.

***
Bentrovati!
Da tempo desideravo scrivere qualcosa su Moriarty, il nostro villain preferito. Questa sarebbe dovuta essere la prima di una raccolta sulla sua vita, ispirata ai sette vizi capitali. Purtroppo dopo gola mi sono fermata a lussuria e sto aspettando l'ispirazione per gli altri peccatucci.
Come già detto in precedenza, so che questa è una tematica delicata da trattare, ma io ho sempre immaginato l'infanzia di Moriarty come davvero infelice. Molti criminali provengono da un background familiare disastrato, quindi ho ipotizzato lo stesso decorso anche per lui. Un padre padrone, una madre succube, ed una sua gracilità che lo porta ad essere deriso da tutti, con conseguenti problemi relazionali. Qui si è accesa quella scintilla che lo ha portato a diventare il Napoleone del crimine, una mente geniale al servizio del lato oscuro. Cose molto carine, dolci e simpatiche insomma.
Bene, dopo quest'ulteriore delucidazione vi lascio.
Alla prossima!
P.S: a dispetto del mio nome d'arte, non faccio male a nessuno se mi lasciate una recensione XD

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Capitolo 5
*** The sound of silence ***


[John centric; missing moment dell’episodio 2x03 – The Reichenbach fall; angst is the way, introspettivo]

The sound of silence
Hello darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while I was sleeping
And the vision
That was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence
Simon and Garfunkel – The sound of silence

John Watson ricordava con estrema precisione il giorno in cui aveva smesso di sentire.
La giornata uggiosa, il cielo una lapide bianca nebulosa, con poche nuvole plumbee che lo solcavano. Ricordava l’odore del taxi che aveva preso: stantio e dolciastro, come se qualcosa vi marcisse all’interno; la strada del Barts insolitamente vuota, così nera in confronto al bianco sporco dell’edificio.
Il telefono aveva preso a squillare, era Sherlock. Gli disse di guardare sul tetto dell’ospedale, e lo vide lì, fermo come un mago in procinto di lanciare un incantesimo.
John non poteva immaginarlo che quella sarebbe stata la loro ultima conversazione, nonostante Holmes avesse cominciato un discorso che il suo cervello rifiutava perché era così dannatamente surreale.

Era tutto vero.
“John, eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.”1

Lui era un bugiardo, aveva inventato Moriarty per i suoi scopi.
“John, è un errore enorme teorizzare a vuoto. Senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie, anziché il viceversa.”2

Nessuno poteva essere così intelligente.
“Non posso vivere se non faccio lavorare il cervello. Quale altro scopo c’è nella vita? Sai bene che nulla è insignificante per una mente superiore.”3

Le persone lasciano un biglietto.
“Il modo migliore per recitare una parte è quello di viverla.”4

Dicono addio.

“Il tocco supremo dell’artista: sapere quando fermarsi.”5

E poi un solo movimento, un salto a braccia spiegate, il loro annaspare violento, il cappotto gonfiato dall’aria prima di impattare al suolo.

Il mondo attorno al dottor Watson si ammutolì improvvisamente.

John, la bocca spalancata in un grido strozzato, cominciò a correre, prima di essere investito da un ragazzo in bicicletta.
Stordito, con le orecchie gli fischiavano, non sentiva nemmeno il dolore della caduta. I suoi occhi erano fissi su Sherlock, sulle persone che, correndo, si accalcavano attorno a lui per prestargli soccorso.
Non gli giunsero all’orecchio nemmeno le sue stesse parole, dette mentre incespicava incredulo verso quell’involucro vuoto che  “No, non può essere Sherlock, perché Sherlock ha sempre un piano, è uno scherzo, tutto uno stupido scherzo…”
“Lasciatemi passare, sono un dottore, lui è mio amico…” esalò mentre un gruppo gli faceva da barriera per non lasciarlo avvicinare.
La vista gli si annebbiò ed un conato gli avvinghiò lo stomaco di fronte allo spettacolo del sangue di Sherlock che scorreva nelle scanalature del marciapiede, raccogliendosi in una pozza sotto di lui.
Come un disperato naufrago alla ricerca di un appiglio per restare a galla e non venire sballottato dalle onde, John allungò la mano per sentirgli il polso.
Niente.
Eppure la pelle di Sherlock era ancora calda, tanto calda da sembrare così viva. Lo strinse più che poté, rafforzando la presa attorno a quel corpo che doveva ancora conservare un soffio vitale.
Si accasciò tra le braccia di un paramedico quando voltarono il corpo del detective.
I capelli impiastricciati di sangue, gli occhi di vetro, fermi a fissare il vuoto. Il suo viso una maschera cerea segnata dalle ferite.
“No… Dio, no.”
I paramedici caricarono Sherlock su una barella e lo portarono all’interno.
John riuscì ad alzarsi e, incurante della pioggia che aveva preso a cadere, fissò impotente l’ingresso del Barts.
Davanti a lui si era spalancata una voragine.
E in quel momento sperò che qualcosa, oltre al silenzio, lo inghiottisse.

*

I giorni seguenti trascorsero in uno strano limbo irreale, di cui non ricordava molto.
Al funerale il celebrante gli chiese di dire qualche parola.
Fu uno sforzo titanico alzarsi e trascinarsi sul pulpito. La bara di Sherlock, con i suoi intarsi e ghirlande di fiori sembrava occupare tutto lo spazio.
Il silenzio era così soffocante.
In quel momento, mentre faceva vagare lo sguardo sui pochi presenti, l’anima ammutolita del dottore si accese di rabbia.
Un sentimento che gli bruciava la pelle, gli rodeva le viscere e spingeva per uscire a gran voce. John avrebbe voluto urlare, maledire quell’uomo tanto geniale quanto stupido che aveva commesso un gesto così folle, avventato ed incosciente.
John si sentiva tradito. E arrabbiato.
Perché Sherlock gli aveva mentito? Perché l’aveva abbandonato con una fottuta telefonata? Perché aveva dovuto anteporre sempre le vite degli altri alla sua?
“Sherlock Holmes era un egoista figlio di puttana. Un uomo senza mezze misure. Ma io nutro ancora una fede cieca e incrollabile in lui.”

Ecco cosa avrebbe voluto dire in quel momento agli amici sofferenti, alla famiglia distrutta.
Le parole, però, gli morirono in gola. Mormorò delle scuse stentate e tornò a sedere.
Quando tutto finì, qualcuno si avvicinò a lui per dirgli qualcosa. Parole vuote che lui non ascoltò.

*

Il silenzio di Baker Street gli pesava sulle spalle come una cappa di piombo. Sapeva che rimanere lì non sarebbe stato facile.
Di notte si rigirava continuamente nel letto ma, non appena provava ad abbandonarsi al sonno, le immagini di Sherlock, del suo viso imbrattato di sangue, della sua bocca dischiusa senza respiro, si impadronivano prepotenti di lui.
Così si alzava e rimaneva seduto per ore, con le braccia mollemente distese sulle ginocchia, a fissare la poltrona di fronte alla sua.
La quiete della notte si caricava della sua rabbia mai sopita e del senso di colpa. Quel sentimento s’insinuava nella sua anima, pungolandola, tormentandola, scomponendola in frammenti infinitesimali.
Cosa aveva fatto per salvarlo? Niente. Non aveva nemmeno saputo trovare parole adatte a dirgli che si sbagliava su tutto, perché lui credeva.
Credeva e avrebbe sempre creduto in Sherlock Holmes.
Ma in quel silenzio, quella coltre spessa, quel fumo denso che gli penetrava nei polmoni e gli impediva di respirare, stava smarrendo anche se stesso. L’atmosfera della casa non era più pregna delle macchinazioni del detective, del lieve respiro quando si rifugiava nel suo Mind Palace, dell’attesa spasmodica e della concentrazione quando seguivano un caso. Non sentiva il silenzio del tempo che trascorrevano seduti su quelle poltrone senza il bisogno di dirsi alcunché, ma con la consapevolezza di essere l’uno presenza indispensabile nella vita dell’altro.
Ora che era rimasto solo, quel silenzio malsano stava crescendo attorno a lui come un cancro aggressivo.

A volte rimaneva alla finestra per ore e, se aguzzava la vista, allora gli sembrava di scorgere una figura allampanata vestita di nero in un cono di luce proprio sotto al lampione all’angolo della strada.
Il suo cuore mancava un battito ma la figura fugace spariva in un battito di ciglia, beffandosi del suo dolore. Così rimaneva immobile, a fissare la notte diventare giorno e il giorno ritramutarsi in notte.
Perché il tempo continuava a scorrere? Perché le persone andavano avanti con la loro vita? Che diritto ne avevano loro, che non erano niente di speciale? Nessuno si soffermava a pensare a Sherlock? Non era forse ancora affamato di vita anche lui?
John ormai vedeva un mondo spezzato che, ignaro della sua sofferenza, disperazione e angoscia, andava avanti anche senza Sherlock.
E in quel mare, in quella spirale di nero abisso, John si scoprì a nuotare da solo.

*

La pioggia torrenziale non lasciava speranze alla comparsa del sole. La sua era una cacofonia cadenzata, un’orchestra composta da tetti dei palazzi, automobili, asfalto, foglie degli alberi.
Lo studio della sua analista era uguale a come lo ricordava l’ultima volta che c’era stato.
Prima della caduta.
Prima di Sherlock.
Prima del silenzio.
“Perché oggi?” un tuono fece vibrare le finestre e John abbassò lo sguardo sulla propria mano intenta a tracciare segni invisibili sul bracciolo della sedia.
“Vuole proprio sentirmelo dire?”
“Sono passati diciotto mesi dal nostro ultimo appuntamento.”
Quel tono di sottile rimprovero innervosì John.
“Li legge i giornali?”
“A volte.”
“E guarda la televisione? Lo sa perché sono qui.”
“Perché i miei amici mi hanno obbligato. Perché mi hanno detto che devo vincere il silenzio. Perché non ce la faccio più.” Proseguì la voce del suo inconscio.
John prese un altro respiro.
“Sono qui perché…” faceva male. Era normale che facesse così male? Quel dolore era arroventato e gli lacerava la gola, i polmoni e il cuore. Chiuse gli occhi alla ricerca di sollievo, provando a regolarizzare il respiro spezzato.
“Cosa è successo, John?” insisteva la dottoressa.
“Sherl…” un’altra pausa e si sentiva sempre più scoppiare. La voce ridotta ad un lieve fiato gracchiante.
“Deve riuscire a dirlo.”
Annuì debolmente, alla ricerca di un ultimo appiglio di coraggio e forza per mostrare la sua fragilità.
“Il mio migliore amico… Sherlock Holmes… è morto.”
La donna lo guardò e lui trovò nel suo sguardo una disgustosa compassione. Di quella proprio non sapeva cosa farsene. Era ancora così arrabbiato, così ferito…
“Questo come la fa sentire, John?”
Il dottore fece scattare la testa, un’espressione esterrefatta gli si appuntò sul viso e dalle labbra uscì una soffocata risata isterica.
“È seria? Come crede che dovrebbe farmi sentire la cosa?”
“Non lo so, John. Me lo dica lei.”
Come poteva spiegarle anche la metà di quello che provava? Perché non riusciva ad arrivarci da sola? Possibile che non avesse perso nessuna persona a lei cara?
John in quel momento avrebbe voluto alzarsi e andarsene. Ma se si trovava lì era perché aveva bisogno di aiuto, per quanto avesse provato a negarlo a se stesso. Attinse alla sua fonte di determinazione e provò ad illustrare la parte più oscura di sé, quella che non gli dava più un briciolo di pace.
“Ha presente quei quadri di Picasso, quelli dove nulla è al suo posto? Ecco, io mi sento esattamente così. Niente è più al suo posto, anche se il contenitore è integro. Mi sento come se nulla dentro di me possa proseguire a funzionare come prima.”
“Crede sia dovuto al fatto che i mass media hanno distrutto l’immagine che tutti avevano del signor Holmes e che lei non abbia potuto fare niente per riabilitarlo? ”
John scosse la testa in diniego.
“I giornalisti pensino quello che vogliono, alla fine volevano solo un cattivo da sbattere in prima pagina. Una storia succulenta su cui mettere le mani e voilà!” Watson aprì le dita a ventaglio in aria, disegnando un immaginario fuoco d’artificio.
“Io non ho potuto fare nulla, il peso che mi porto dentro resterà sempre una parte di me. Ho sempre creduto che Sherlock Holmes fosse una persona speciale. Quell’ultimo caso, però, mi ha esposto crudelmente alla fragilità di quell’idea. Sherlock era più umano di quanto lasciasse trasparire e alla fine il conto è venuto a bussare alla sua porta, reclamando il suo tributo. E con lui mi sono spezzato anch’io.”
John rilassò le spalle contro la sedia, uno strano senso di torpore gli formicolava sulle gambe.
“Mi sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in frantumi. Mille schegge tenute insieme dalla prossimità, ma che hanno perso la nitidezza dell’insieme.”
“Ci sono cose che avrebbe voluto dire… ma non ha detto.”
“Esatto.” John ingoiò un grumo di saliva che gli stringeva la gola.
“Le dica adesso.”
“No…” strinse le labbra in una linea dura e cominciò a torcersi le mani in grembo. Il fiato sempre più soffocato da quelle lacrime che faticavano a mostrarsi. “Mi dispiace, non ci riesco.”

*

Quel mattino aveva promesso alla signora Hudson di accompagnarla al cimitero. Il viaggio in taxi trascorse senza proferir parola ma la buona padrona di casa si sentiva in dovere di riempire quel vuoto. Le sue preoccupazioni, i suoi ricordi, vennero snocciolate come un fiume in piena: cosa fare della roba di Sherlock, i segni sul tavolo, i colpi di pistola al mattino, la confusione, i campioni nel frigorifero…
“Non posso tornare a Baker Street.”
La signora Hudson aveva capito e, poco dopo, lo lasciò solo davanti alla lapide di Sherlock.
John masticò a vuoto, voltandosi brevemente per scorgere la sua ex padrona di casa allontanarsi con un fazzoletto stretto tra le mani.
Adesso erano soli, lui e Sherlock.
Trasse un respiro e cominciò quel discorso che per troppo tempo era stato inghiottito dal silenzio.
“Ok… una volta mi hai detto che non eri un eroe.” Si fermò espirando rumorosamente. “Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non fossi umano, ma ti dico una cosa… eri l’uomo migliore e l’essere umano più umano che io abbia mai conosciuto, e nessuno mi convincerà che tu mi abbia mentito. Ecco… l’ho detto.” Si umettò le labbra, spostò il peso da un piede all’altro, dondolando al verso di un corvo che si era andato ad appollaiare su un ramo rinsecchito.
John si avvicinò e andò a toccare il freddo marmo nero della lapide in una carezza leggera.
“Ero davvero molto solo e ti devo tanto.”
Si voltò per ripristinare la distanza tra loro, aprì e chiuse le mani in un pugno, cercando di mettere a tacere quel suo desiderio irrealizzabile, quella fantasia che ancora lo portava ad illudersi, a non scendere a patti con se stesso, ma che sapeva di dover confessare.
“Ma, ti prego, c’è un’ultima cosa. Un’ultima cosa, un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non essere morto.”
La speranza era un demone crudele che continuava a prendersi gioco di lui.
“Potresti farlo, per me? Smettila, smettila!” soffiò prima di abbassare lo sguardo al suolo.
Un silenzio dalle tinte cupe dell’amarezza e del cordoglio lo riempì come una marea. E le lacrime, quel tanto atteso sfogo, arrivarono.
John si strinse le mani sugli occhi, bagnando i polpastrelli, dopodiché strusciò i palmi attorno agli occhi per cancellarne le tracce.
La sua espressione si fece determinata, nonostante nel suo cuore ci fosse ancora una ferita aperta e sanguinante, ma doveva andare avanti.
Si lasciò alle spalle la tomba di Sherlock con la marcia fiera di un soldato.
Ed i suoi passi echeggiarono nel suono del silenzio.

Note
1-2-3-4 sono tutte citazioni tratte dai libri di Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle.
I dialoghi sono in parte gli stessi dell’episodio, tranne la parte in cui John parla con la dottoressa di come si senta spezzato (ma tanto sono sicura che le battute le ricordate a memoria, birichine/i XD)

***
Fa caldo, devo studiare, Game of Thrones è finito, #Hiddlexit dal mondo dei single, in sostanza #mainagioia.
Traduzione del delirio: non c’è niente la sera in TV ed io rivedo l’episodio che ha gettato tutti nella più cupa disperazione.
Si vede proprio che “All work and no play makes Jo a dull girl.”
Con molto amore vi saluto e spero di non far passare altri 9 mesi per il prossimo aggiornamento ^^

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