Muro di pietra

di Princess of the Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ottobre 1961 ***
Capitolo 2: *** Orientamento ***



Capitolo 1
*** Ottobre 1961 ***


Era stato il ticchettio incessante della pioggia che batteva sul vetro della finestra a svegliarlo dal suo sonno disturbato. Italia aprì faticosamente gli occhi, completamente esausto nonostante la lunga dormita, e rimase per qualche minuto immobile, cercando di trovare le forze per potersi almeno mettere seduto e bere qualche sorso d’acqua dalla bottiglia posta sul comodino accanto al letto; ma il suo corpo sembrava rifiutare qualunque ordine impartito dal suo cervello, e dopo l’ennesimo tentativo di muovere qualcos’altro oltre le dita decise di rinunciare e rimanere sdraiato ancora per qualche minuto, cercando di non badare al braccio che gli aveva fatto da cuscino per tutto il pomeriggio, al respiro, caldo e umido, che gli solleticava leggermente la nuca, e alla mano che gli massaggiava con dolci movimenti circolari il ventre ancora indolenzito dalla spropositata quantità di gelato che aveva mangiato a pranzo nel tentativo di consolarsi.
Deglutì lentamente e si mosse fino ad assumere una posizione fetale, soffocando un lamento di dolore provocato da un’improvvisa fitta allo stomaco. Trattenne il respiro quando sentì la persona dietro di lui spostarsi con delicatezza, forse perché convinta che fosse ancora addormentato e con l’intenzione di non disturbarlo. Richiuse subito gli occhi, non volendo incominciare una discussione su quanto accaduto a pranzo, e rabbrividì quando avvertì il fiato caldo dell’altro sulla guancia; dopo qualche istante, sentì una mano sollevargli delicatamente la testa e poggiarla sul cuscino e il cigolare del letto quando l’altra persona si alzò, le coperte gli vennero rimboccate fino a sotto il suo mento, sistemate in modo da tenerlo più al caldo possibile; le dita dell’altro, fredde e leggermente secche, gli carezzarono con dolcezza la fronte, e scostarono alcune ciocche di capelli che erano scese sul suo viso; sentì infine i passi dell’altro dirigersi verso la porta, il rumore della maniglia che veniva abbassata, un lieve cigolare, e infine il rumore della porta che si chiudeva.

Veneziano riprese a respirare solo in quel momento; con lentezza si voltò verso l’uscio della stanza e rimase a fissarlo per qualche attimo prima di dirigere lo sguardo verso il soffitto bianco, leggermente ingiallito a causa dell’umidità in alcuni punti. Al rombo di un tuono istintivamente tirò le coperte fin sopra la testa, chiudendosi in posizione fetale e singhiozzando pateticamente, mentre davanti ai suoi occhi passavano le immagini di quella maledetta e dolorosa guerra che sembrava proprio non voler abbandonare i suoi incubi e lasciarlo finalmente in pace. Ma visto quello che era accaduto nelle ore precedenti, forse poteva permettersi di piangere senza sentirsi patetico, stupido e inutile, e semplicemente sfogare tutta la tensione accumulata.

Sembrava un incubo pronto a diventare realtà: quel boom, quell’enorme fungo rosso che avrebbe dovuto cancellare l’umanità con le sue onde di calore, l’ultimo e definito atto dell’ennesima guerra scoppiata per quelli che sembravano futili motivi se messi a confronto col valore delle tante vite spezzate, era di nuovo sul punto di scoppiare. Tutta la tensione accumulata in quei mesi, tutte le minacce più o meno velate che si erano rivolte le parti in causa, tutta la paura e l’angoscia – e, anche se mai lo avrebbe ammesso, la speranza- che fosse l’inizio della fine: un’arma a cui era stata tolta la sicura, pronta ad uccidere non appena fosse stato premuto il grilletto. Un alto muro a dividere Berlino a metà, una striscia di cemento innalzata da neanche un giorno per impedire lo spopolamento della Germania dell’Est*.

L’italiano ispirò lentamente, sperando così di calmare il dolore – aumento spropositatamente da quando l’altro aveva smesso di massaggiargli lo stomaco - sempre più lancinante, dovuto più alla tensione che non al gelato mangiato quel pomeriggio. Tutto inutile: si girò sul fianco, abbracciò il cuscino e ci affondò dentro la testa, soffocando un lamento. Sussultò quando sentì un profumo intenso – un misto tra acqua di colonia e sudore - provenire dalla federa, e per poco non urlò dalla frustrazione. Diede un pugno al materasso, disperato, e affondò ancora di più il viso nel cuscino, ancora incapace di comprendere come e perché tutta quella situazione fosse degenerata fino a quel punto.

Come erano passati dall’aver posto fine alla guerra più tremenda della storia, che aveva lasciato cicatrici ancora sanguinanti in tutte le nazioni, a convivere nuovamente col terrore che ogni minima azione mal interpretata potesse portare nuovamente il mondo sul rischio del baratro? Come e perché era successo a neanche una generazione di distanza? Dove era stato il loro errore?
Com’era frustrante quella situazione, soprattutto pensando che tutto questo poteva essere evitato già una trentina di anni prima, se la sete di vendetta e di rivincita non avessero guidato le decisioni di Francia e di Germania.
Purtroppo, la storia non si fa né con i ‘se’, né con i ‘ma’, questo lo ha imparato da molto tempo. L’unica cosa da fare era andare avanti, nonostante la paura, nonostante la consapevolezza – la maledetta consapevolezza - che gli umani non avrebbero imparato mai dai loro errori, e che tutto si sarebbe ripetuto in un circolo vizioso di distruzione e lacrime fino a quando sarebbe giunto l’ultimo giorno della sua esistenza; allora avrebbe potuto finalmente dire addio a quella stancante vita di nazione, fatta di pochi affetti e tanta, troppa solitudine e diffidenza nei confronti di un mondo che ce la mette tutta per sembrare cattivo ai suoi occhi. Come, per esempio, quel muro che adesso divideva Berlino in due, che impediva ai cittadini della Germania Est di varcare il confine e rifugiarsi ad Ovest; un’idea di Russia, il quale non poteva permettere che il suo modello comunista, la perfetta alternativa al rozzo e corrotto mondo capitalista esportato da America, venisse infangato dall’esperienza della gente affamata, che doveva aspettare ore in fila per poter prendere la propria razione di cibo e di averi, costretta ad emigrare mentre chi stava al potere conduceva uno stile di vita molto più vicino al modello capitalistico che dicevano di odiare così tanto.
Ora c’era una striscia di centosei chilometri di calcestruzzo che impediva qualunque collegamento tra le due Germanie: non si poteva attraversare il confine, non si poteva chiamare i propri cari che stavano dall’altra parte, a momenti non si poteva neanche vedere quel muro senza venire crivellati dalle guardie sovietiche.

<< Italien, sind Sie schon wach? >>
L’italiano sussultò, per poi alzare lo sguardo verso la porta. Non si era accorto del ritorno dell’altra nazione; non appena il suo sguardo si posò su di essa, il suo cuore si strinse in una morsa di sensi di colpa e di disperazione. Riuscì tuttavia a formare un debole sorriso con le labbra, e a rispondere con un tremante: << Mi sono svegliato adesso. >> prima di mettersi seduto, avvolto nelle pesanti lenzuola, e prendere la tazza di fumante tè al limone e i biscotti magri  portigli dall’altro.

<< Come va lo stomaco? >>

<< U-Un po’ meglio, ve. >> Veneziano sorseggiò lentamente la bevanda calda, per poi intingere un biscotto a mordicchiarlo con poca voglia di mangiare. Il dolore alla pancia non era diminuito per niente.

L’altra nazione annuì lentamente, evidentemente poco incline a credere alle sue parole.

<< Non ho messo lo zucchero nel tè perché credevo potesse farti male. Se vuoi te ne posso portare un po’.  >>

<< P-Preferirei del miele. >> mormorò l’italiano, per poi poggiarsi contro la testiera del letto e continuare a mangiare di controvoglia il biscotto. L’altro annuì, e si alzò per poter andare a prendere quanto gli era stato chiesto.

Veneziano inspirò ed espirò; lentamente, per evitare che il groppo che gli bloccava la gola si sciogliesse in un pianto senza fine. Per aiutarsi, si strinse ancora di più dentro le coperte e bevve un altro sorso di tè, ignorando i crampi alla pancia.

Quella situazione era dolorosamente ai limiti dell’assurdo. Ricacciò indietro le lacrime, prese il barattolo portogli dall’altra nazione – un brivido percorse la sua schiena quando le sue mani toccarono accidentalmente quelle grandi e callose dell’altro – e mise nel tè due cucchiai abbondanti di miele, cercando in ogni modo di evitare il contatto visivo con gli occhi violacei  che lo stavano insistentemente fissando.

<< Ti senti meglio? >>

<< La pancia mi fa meno male. >>

<< Non intendevo quello. >>

Veneziano sospirò debolmente, per poi voltarsi verso la finestra; sapeva che, dietro la palazzina che gli stava di fronte, c’era la prova fisica della “Cortina di Ferro”, come l’aveva chiamata il capo di Inghilterra**; un muro alto tre metri e sessanta centimetri, con sopra un folto cespuglio di fil di ferro, probabilmente sorvegliato da soldati sovietici armati con l’ordine di sparare a chiunque avesse tentato il contatto con l’altra parte – e, come a sottolineare questo aspetto, il rumore di alcuni spari riecheggiò nella città.
Un muro che segnava la competizione tra Russia ed America, la tensione tra la parte di mondo che aveva scelto il capitalismo e quella che aveva scelto il comunismo, un vulcano addormentato pronto a svegliarsi al minimo sussulto.
Un muro che gli impediva di comunicare con il suo migliore amico, proprio nel momento in cui aveva deciso di raccogliere tutto il suo scarso coraggio e provare a parlargli, per recuperare un poco di quell’amicizia a lui tanto cara e che la guerra aveva crudelmente reciso prima che potesse esserci un chiarimento.

Una mano forte – come la sua – e leggermente callosa a causa del lavoro – come la sua – si posò sulla sua spalla con un tocco quanto più delicato possibile – ecco, questa era una differenza: lui era troppo goffo nel contatto fisico per poter essere così gentile – e lo costrinse a voltarsi. Veneziano chiuse gli occhi, e respirò a fondo per cercare di calmarsi; poi li riaprì, e per poco non si mise ad urlare alla vista di quegli occhi violacei, della pelle particolarmente pallida e della cicatrice che sfigurava la guancia sinistra dell’altro – di come quel viso fosse tremendamente simile al suo.

<< Italien? >> la voce dell’altro lo fece rabbrividire, provocandogli anche una certa nausea. Era inutile: per quanto si sforzasse, non sarebbe mai riuscito ad associare quel corpo – fatto come il suo: di uomini, di donne, di bambini, l’incarnazione di un’ideale che li univa tutti – a Germania.

<< Perdonami, >> mormorò l’italiano, chiudendo gli occhi, << sono ancora stanco. >>

<< Vuoi dormire un altro po’? >>

<< No, non ho sonno. >> Veneziano sorrise debolmente, continuando poi a bere a piccoli sorsi il tè e a mangiare un paio di biscotti, senza che lo sguardo violaceo dell’altra nazione lo lasciasse neanche per un secondo.

Calò il silenzio, interrotto solo dal ticchettio persistente della pioggia e da qualche tuono. Il Settentrione non aveva la ben che minima voglia di parlare, e il padrone di casa sembrava ben disposto a voler rispettare il suo silenzio nonostante la voglia apparente di iniziare una conversazione. Da un lato gli faceva pena: fin da quando si erano conosciuti, l’altra nazione aveva cercato di fare amicizia con lui, probabilmente perché gli sembrava un viso familiare e perché la solitudine del suo isolamento iniziava a stargli stretta, ma Veneziano si era aperto con molta riluttanza e controvoglia.  La prima volta che lo aveva visto, seduto dall’altro capo del lungo tavolo della sala del consiglio di ***, con un’espressione neutra sul volto, lo aveva scambiato per Germania, e il conflitto di emozioni che gli aveva tempestato il cuore – felicità, rabbia, tristezza, sollievo, preoccupazione, disgusto, - per poco non lo aveva fatto svenire; aveva creduto che Prussia fosse andato con Russia, salvandosi dalla morte incarnando la parte orientale del paese ora sotto il giogo sovietico, mentre Germania avrebbe dovuto rappresentare la parte occidentale; quando aveva provato a parlargli, quei lievi cambiamenti che subito aveva immediatamente notato – gli occhi diventati di un viola scurissimo, e capelli ancora più biondi, e la pelle pallidissima, nonché una cicatrice sulla guancia che aveva ricondotto in un primo momento ad una qualche ferita causata dal conflitto appena concluso – non gli avevano dato pensiero: non era raro che una nazione cambiasse il proprio aspetto, anche radicalmente, dopo eventi disastrosi; ma poi, quando gli si era timidamente avvicinato, chiedendogli come stava con voce tremante a causa del pianto appena trattenuto, l’altra nazione lo aveva guardato interrogativamente prima di voltarsi ostinatamente dall’altra parte. Veneziano, in un primo momento, era rimasto ferito da quel comportamento, ma aveva pensato che dopo il voltafaccia del 1943 forse quel silenzio ostinato era la punizione che si meritava; poi Francia era entrato nella stanza, portando un vassoio di caffè caldo e alcuni biscotti, e aveva sussultato quando li aveva visti prima che un triste cipiglio gli ombrasse il volto; dopo aver poggiato tutto quanto sul tavolo, lo aveva preso per mano, portandolo fuori dalla stanza sotto lo sguardo mesto del tedesco, aveva chiuso la porta, infine, gli aveva detto quanto era accaduto in quei mesi, già pronto con un abbraccio e con parole consolatorie per poter calmare il pianto isterico che di lì a poco lo avrebbe sconvolto.

Prussia era definitivamente scomparso; Germania, troppo debole per potersi opporre a qualunque decisione presa sul suo conto, era stato portato via da Russia, a est, al momento della divisione del paese; l’uomo dentro la sala del consiglio altro non era che un nuovo essere, che rappresentava tutta la parte occidentale: a conti fatti, Germania Ovest, una neonata nazione adatta ad eseguire i piani machiavellici del capo di America.

Germania prigioniero di Russia: Veneziano aveva avuto un crollo nervoso solo a sentire quelle parole che andavano oltre qualunque sua immaginazione. Francia aveva dovuto portarlo in un’altra stanza e stare con lui per svariate ore, facendogli praticamente saltare la riunione, a dirgli di calmarsi, che andava tutto bene, che anche lui era rimasto sorpreso da quell’inaspettata svolta negli eventi, ma che non c’era nulla da temere e che presto tutto si sarebbe risolto. Veneziano aveva accettato il conforto di quelle parole, ma non aveva creduto a nulla di quanto dettogli. E visti gli eventi successivi, aveva fatto bene.

Da quel giorno erano passati una decina di anni, e non aveva mai trovato il coraggio di andare da Germania per vedere se almeno stesse bene o se avesse bisogno di qualcosa: troppa la paura del rifiuto e dell’umiliazione, troppo delicata la situazione nel suo paese perché potesse allontanarsi.
Poi, una volta stabilizzata l’Europa, con una ripresa economica ormai avviata, aveva pensato che fosse giunto il momento di provare a contattare il suo vecchio amico. Anche se con timore e molta reticenza, aveva chiesto all’Ovest tedesco di ospitarlo per qualche giorno – e come si erano illuminati gli occhi di quella giovane nazione: gli aveva poi spiegato che quella era la prima volta che qualcuno gli rivolgeva la parola per cose che non riguardavano affari internazionali – e questi aveva accettato. Era partito la mattina che erano state gettate le basi del muro: quando era sceso dall’aereo, era stato appena proclamato l’embargo di Berlino Ovest, e si era praticamente trovato prigioniero in quel paese. Aveva saputo della situazione quando era arrivato a casa del tedesco – la vecchia casa di Germania, ora annerita e un po’ polverosa all’interno perché l’altra nazione non era così fissata con le pulizie come il suo predecessore, e probabilmente aveva pulito solo per il suo arrivo: per la prima volta, dopo svariati anni, ebbe un nuovo crollo nervoso.
Ovest aveva fatto di tutto per calmarlo: lo aveva portato in soggiorno e lo aveva fatto sedere sul divano, gli aveva portato un bicchiere di acqua fresca e aveva ascoltato fino alla fine una serie sconclusionata di parole che uscivano dalla sua bocca senza che il suo cervello riuscisse a metterle in ordine, tenendogli saldamente le mani tremanti; dopo che era riuscito a calmarlo un poco e a fargli bere tutto il bicchiere d’acqua, era uscito per una decina di minuti, il tempo di prendere una vaschetta di gelato tutta per lui - << Spero di aver preso i gusti giusti. >> gli aveva detto, un po’ imbarazzato nonostante l’evidente preoccupazione, mentre apriva la confezione contenete pistacchio, crema e stracciatella – porgendogliela assieme ad un cucchiaio. Veneziano aveva mangiato tutto quanto, continuando a piangere sommessamente e mormorare frasi sconnesse su quanto Dio lo odiasse, perché non c’era altra spiegazione per le continue disavventure che lo perseguitavano dalla nascita; lentamente, era riuscito a riprendere il controllo di sé, mentre Ovest continuava ad ascoltarlo in religioso silenzio, massaggiandogli la schiena.
E infine era crollato contro il petto dell’altra nazione, senza sentire imbarazzo tanto era drenato delle proprie energie, preferendo immaginare che al suo posto ci fosse Germania, anche se questo gli provocò una nuova crisi di pianto; quasi gli sembrava di sentire la sua voce, piena di timorosa vergogna, mentre tentava di vincere la sua reticenza al contatto fisico e di abbracciarlo per poterlo consolare e dirgli che era un idiota patentato, che non aveva motivo di preoccuparsi perché sarebbe andato tutto bene.
Effettivamente, un abbraccio ci fu: Ovest aveva avvolto le braccia attorno alle sue spalle, delicatamente, e lo aveva lasciato singhiozzare ancora contro la sua spalla per un tempo indefinito, fino al momento che una fitta allo stomaco aveva fatto piegare l’italiano in due dal dolore; a quel punto lo aveva portato nella stanza degli ospiti e lo aveva fatto stendere sul letto, coprendolo con le lenzuola; aveva fatto poi per andarsene, ma Veneziano lo aveva afferrato per la manica della camicia e lo aveva praticamente supplicato di restare, la mente annebbiata da una lieve febbricciola dovuta alla spossatezza. Non era pienamente in sé quando gli aveva fatto quella richiesta, ma Ovest aveva annuito con un’espressione indecifrabile sul volto, e si era steso accanto a lui, massaggiandogli piano lo stomaco sperando di potergli alleviare il dolore..

E ora, eccolo lì, avvolto nelle pesanti coperte di un letto su cui si era sempre rifiutato di dormire quando Germania abitava in quella casa, a sorseggiare un tè ormai freddo mentre Ovest faceva vagare lo sguardo nella stanza, evidentemente combattuto. Certo le cose non erano andate come si era aspettato quel pomeriggio: dal fare un pranzo leggero per poi prendere la metropolitana*** e raggiungere la parte orientale di Berlino per incontrare l'altro Germania, e si era invece ritrovato a prendersi cura di un Settentrione italiano ormai mentalmente esaurito. Forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa - infondo, lo aveva ospitato a casa sua e lo aveva accudito senza battere ciglio: ma cosa? “Ehi, perdona il crollo nervoso ma non mi sono ancora ripreso dalla guerra e sono anni che non riesco a dormire decentemente, e ora so che il mio migliore amico, verso cui ho immensi sensi di colpa misti a rabbia per quello che mi ha fatto durante la suddetta guerra, è tenuto prigioniero in un sistema che so per sentito dire rasenta lo schiavismo mentre io riesco finalmente ad avere una ripresa economica dopo decenni di miseria, e adesso io non gli posso più parlare per poter chiarire e lui è dall’altra parte di un muro di cemento, completamente solo, a lanciarmi tutte le maledizioni di questo mondo perché io so  che pensa che la sua sconfitta sia stata causata dal mio volta faccia, non me lo ha detto ma lo so. E scusa se praticamente la tua prima vera conversazione che non discuteva di politica si è rivelata uno sfruttamento da parte mia per farmi stare a scrocco a casa tua. Che devi farci? Sono inutile, lo sanno tutti.”

Italia sussultò quando sentì qualcosa di freddo e leggermente calloso rimuovere le lacrime dalla sua guancia; Ovest ritirò subito la mano, mormorando un << Scusa. >> mentre di voltava verso il muro, completamente rosso in  viso.

<< N-No, non fa niente. >> disse l’italiano, usando il lembo del lenzuolo per asciugarsi la faccia, per poi fare un lungo respiro per calmarsi sperando di non scoppiare a piangere di nuovo.

Ovest rimase in silenzio per qualche istante, imbarazzato: << Non ho mai visto qualcuno piangere così tanto. >>

<< V-Ve, perdonami. S-Sono solo molto… Stanco. >> cercò di giustificarsi, per poi nascondere il viso dietro la tazza.

<< Non è una cosa di cui vergognarsi. >>

<< Scusa. >>

<< E di che? >>

<< Non lo so, scusa. >> ripeté Veneziano, maledicendosi per i singhiozzi che sembrava proprio incapace di riuscire a trattenere.

<< Non piangere, dai, >> Ovest si sedette vicino a lui, e posò una mano sulla sua spalla, sorridendogli, << o meglio, se vuoi piangere perché ti fa sentire meglio fai pure, cioè, non è che mi da fastidio. Forse è meglio che dormi un altro po’. Vuoi che ti faccia dell’altro tè? >>


<< No. >> l’italiano tirò su col naso, stringendo spasmodicamente la tazza. Un po’ era grato all’altra nazione per la considerazione mostratagli, ma dall’altro i suoi sensi di colpa non facevano che aumentare. Non si meritava tutta quella gentilezza

<< Che… Che posso fare? >>

<< Uh? >>

<< Per farti stare meglio. Che posso fare? >> chiese Ovest, guardandolo negli occhi con la sincera speranza di potergli in qualche modo essere utile; Veneziano sentì tutto il gelato mangiato a pranzo tornare su.

<< Hai già fatto abbastanza. >> rispose, per poi voltarsi verso la finestra, incapace di sostenere quello sguardo violaceo.

<< È solo che... Non so come metterlo a parole, ecco… insomma, >> sentì il tedesco sospirare pesantemente, probabilmente imbarazzato – e non poté non ripensare a tutte le volte che Germania era solito sospirare, per vergogna o per esasperazione nei suoi confronti - << ecco… non mi, piace, vederti piangere, non so perché. >>

Il Settentrione sussultò leggermente, incrociando lo sguardo dell’altro attraverso il riflesso sul vetro della finestra: come aveva immaginato, Ovest era piuttosto imbarazzato, le guance leggermente rosse, ma non aveva abbassato gli occhi. Anche se vagamente, gli ricordava la volta che Germania aveva accettato di diventare suo amico, poco tempo dopo la fine della Grande Guerra, quando ancora non c’erano disgraziati propositi di vendetta ad oscurargli la mente.

<< È… Carino, da parte… tua, >> disse infine l’italiano, deglutendo lentamente per ricacciare la nausea e il pianto, << p-però, n-non ti dovresti preoccupare. I-Io starò bene. Ho solo bisogno di tempo. È… sempre stato così. >>

Ovest annuì, ma non sembrava per niente convinto. Un ulteriore indefinito tempo di silenzio imbarazzante fu evitato quando si sentì il telefono della casa squillare. Il tedesco si alzò e velocemente andò in salone per rispondere,  lasciando l’italiano da solo. Questi posò la tazza sul comodino, e si risistemò sul letto cercando di non fare movimenti bruschi per non avere di nuovo fitte allo stomaco; si nascose sotto le coperte, cercando di tenersi più al caldo possibile, e per poter dormire un poco. Avrebbe dovuto pensare ad un modo per poter tornare in Italia al più presto, o di mettersi in contatto con Romano per fargli sapere che stava bene, ma era troppo stanco ed indolenzito per poter fare uno sforzo del genere.

Quando Ovest tornò nella camera trovò Veneziano sepolto sotto le coperte, già addormentato.
 

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*Il muro di Berlino venne innalzato per evitare i tedeschi residenti nella zona Est se ne andassero nella zona Ovest. I motivi dell'emigrazione sono vari: regime  opprimente, la Stasi, la miseria diffusa che cozzava con la ricchezza che si vedeva al di là del confine, ecc. Era uno smacco troppo grande per il modello comunista che l'URSS intendeva esportare.
**Churchill, primo ministro inglese negli anni quaranta e nei primi anni cinquanta, fu colui che coniò il termine "Cortina di Ferro" per indicare l'inasprirsi dei rapporti tra gli USA e l'URSS. Spesso viene erroneamente associato al muro di Berlino: l'espressione è del 1946, mentre il muro venne costruito nel 1961.
***Il modo più diffuso per poter passare da una parte all'altra di Berlino prima del muro era usare la metropolitana; nel momento in cui ci fu l'emigrazione verso Ovest, sembra ridicolo dirlo, ma molta gente raccogliava tutto quello che aveva, prendeva la metro, e si trovava a Berlino Ovest, pronta a stabilirvisi o a partite verso la Germania Ovest. Infatti, ancora di gettare le basi del muro e mettere il filo spinato, la prima cosa che fecero i soldati sovietici fu quello di interrompere le linee della metro che portavano a Ovest.


Ehm... che dire? Io ci provo a fare una nuova long ma... non prometto nulla, ecco.
La fic nasce da una piccola riflessione e una domanda "what if": e se 2pGermania fosse andato a rappresentare la parte Ovest mentre 1pGermania la parte Est con Prussia bello che caput? Si, so che ormai è confermato che Prussia abbia rappresentato la parte Est, ma ehi: si chiama what if apposta no?

Spero nei prossimi capitoli di suscitare tutti i peggiori feels del mondo, farò del mio meglio!

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Orientamento ***


La mattina dopo Veneziano si svegliò più stanco del pomeriggio precedente, senza che il lungo sonno gli avesse restituito un goccio di energia. Ovest non era vicino a lui; che avesse dormito in un’altra stanza?
Faticosamente, si mise seduto e si stiracchiò, sibilando quando la schiena scrocchiò dolorosamente, e rabbrividì quando la fredda aria della stanza entrò in contatto con la sua pelle ancora calda di letto; si alzò di controvoglia, dirigendosi poi verso il salotto avvolto in una coperta.
Trovò Ovest seduto sul divano, la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi, addormentato. Italia notò che la sua pelle sembrava piuttosto pallida, profonde occhiaie segnavano i suoi occhi e il suo respirò sembrava un po’ rarefatto. Gli toccò la fronte con la mano, e rimase sorpreso quando la sentì fredda e madida di sudore. Subito coprì l’altra nazione con la coperta in cui si era avvolto, e cercò di farlo stendere sul divano poggiando la sua testa su un cuscino, corse in cucina e mise su l’acqua; aprì il frigorifero, prese un limone e ne tagliò un paio di fette, che mise dentro una tazza assieme ad una bustina del tè. Cercò nella dispensa un qualcosa di dolce da fargli mangiare: prese una busta di biscotti che trovò aperta, ne prese una decina e li mise su un piattino, e poi aspettò che l’acqua si scaldasse, mettendosi seduto su una sedia. Solo in quel momento si rese conto del freddo che permeava la casa, e che i riscaldamenti non erano accesi. Se non ricordava male, la caldaia era situato nello scantinato.
Veneziano si strofinò le braccia, per recuperare un po’ di calore, e si diresse verso le scale che portavano al sotterraneo. Arrivato davanti al pannello, e cercò  di comprendere come si potessero accendere i riscaldamenti e di destreggiarsi tra i vari pulsanti e le due manovelle. Alla fine, temendo di far esplodere la casa in caso di un suo errore, optò per accendere il camino: tornò in salotto, radunò un po’ di legna e alcune cartacce nel braciere, e accese tutto quanto con un fiammifero; tempo qualche minuto,  e un piccolo fuoco iniziò da subito ad irradiare calore nel salone. Fortunatamente, il divano non era molto lontano dal camino, e non ci volle molto perché il calore raggiungesse la giovane nazione ancora incosciente.
In quel momento, si ricordò che l’acqua era ancora sul fuoco, probabilmente ormai in ebollizione: velocemente, andò in cucina e spense la fiamma, prese il pentolino con un canavaccio – non prima di essersi scottato quando ne aveva istintivamente afferrato il manico in metallo – e ne versò il contenuto dentro la tazza assieme ad un bicchierino di acqua fredda per riequilibrare la temperatura del tè. Prese dalla dispensa il barattolo di miele e quello di zucchero – non sapendo quali potevano essere i gusti di Ovest – e tornò in salotto, poggiando tutto quanto su un mobile basso posto davanti al divano.
Italia si lasciò cadere sul sofà, sorpreso che quelle poche attività avessero esaurito quasi del tutto le sue energie. Probabilmente era colpa del sonno agitato, che non lo aveva riposato per niente. Sospirò pesantemente, e si voltò verso un piccolo mobile in legno di quercia posto vicino a lui, con sopra una lampada e una radio. Rimase immobile per qualche istante, per poi prendere l’apparecchio e accenderlo, sintonizzandosi sulla prima stazione che potesse dargli informazioni sulla situazione attuale, mentre un timore crescente iniziava a soffocarlo. Dopo qualche tentativo e aver regolato il volume, una voce maschile uscì finalmente dalle casse dell’apparecchio: confermava la notizia della costruzione di un muro che separava completamente le due metà della città, e accennava ad un embargo imposto dai sovietici che impediva agli alleati di comunicare con Berlino Ovest se non con il permesso della Germania Est, nonché ad un numero non precisato di carrarmati in movimento verso il centro.
Veneziano per poco non lasciò cadere a terra la radio. Questo voleva dire che era intrappolato? Che diavolo era saltato in mente a Russia e al suo boss?! Che razza di provocazione! America come avrebbe risposto a questo? Oh no, oh no, sarebbe scoppiata un’altra guerra? No no, non voleva nemmeno pensare a questa eventualità! Cristo, perché tutto questo!? Perché?! Non di nuovo, non di nuovo!
<< I-Italien? >>
L’interpellato sobbalzò sul posto, volgendosi velocemente verso Ovest, trovandolo seduto sul divano  intento ad osservarlo con occhi lucidi ed arrossati. Da quanto tempo era sveglio?
<< T-Ti sei svegliato, >> disse l’italiano, posando la radio sul comodino; fece per spegnerla, ma Ovest gli fece cenno di tenerla accesa, << h-hai sentito tutto? >>
Ovest annuì: << Più che altro, sono cose che già sapevo. Questa notte, mentre tu dormivi, sono stato chiamato dal mio governo. Avrebbero voluto che mi presentassi a Bonn, ma l’embargo di Russland mi ha impedito di muovermi. Così ho richiamato,  e mi hanno detto di aspettare e che ci avrebbero pensato England e Frankreich, e che mi avrebbero ricontattato non appena avessero avuto qualche notizia. >>
<< Le linee telefoniche non sono staccate? >>
<< Nein, non credo. >> Ovest fece per alzarsi e andare a prendere il telefono, ma Veneziano subito lo costrinse a risdraiarsi.
<< Per favore, non muoverti, deve essere stata una notta molto dura per te. Controllo io se non ti dispiace. Ehm… potrei fare una chiamata? Credo che Romano, mio fratello, sia molto preoccupato e... Bè ecco… >>
Ovest annuì lentamente, per poi portare un braccio sugli occhi e riposare qualche altro minuto. Il Settentrione si diresse velocemente verso lo studio dell’altra nazione, aprì la porta e rimase sulla soglia per qualche istante, investito dalla nostalgia. La stanza non era molto diversa da come la ricordava prima del quarantatré, solo molto più impolverata: al muro c’erano le solite due enormi librerie piene zeppe di libri e di enciclopedie, e alcuni quadri di famosi artisti tedeschi più un paio di litografie; davanti alla finestra era posta la scrivania, piena di carte poste un po’ disordinatamente sulla superficie e alcune penne di buona fattura con ancora il tappo aperto. Veneziano le richiuse, per poi prendere il telefono posto in un angolo della scrivania e alzare la cornetta, componendo il numero di casa sua sperando che le linee telefoniche non fossero state tagliate e che la telefonata non costasse troppo.
Dopo appena uno squillo, un urlato << Veneziano sei tu?! >> partì dalla cornetta, rendendolo quasi sordo: << Veneziano, Cristo Iddio dimmi che sei tu! >>
<< V-Ve, R-Romano? >> mormorò l’italiano, allontanando di nuovo il ricevitore quando  partì una tempesta di improperi irripetibili.
<< Cazzo Veneziano, mortacci tua e di chi non te lo hai mai detto! Hai la più pallida idea di che ore sono, porca puttana ladra!? Nella capitale di quel demente mangiapatate arrivano i cazzo di carri armati e tu non mi fai neanche una fottuta chiamata! Cazzo sei una merda, una testa di cazzo, un fottuto irresponsabile! Giuro che appena torni qui a casa ti riempio come una zampogna! Ma che cazzo ti è saltato in mente per la miseriaccia!? >>
<< R-Romano, p-per favore, calmati. >> pigolò il Settentrione, sospirando piano quando comprese che gli insulti sarebbero andati avanti per un buon quarto d’ora se non fosse riuscito a fermarlo in qualche modo, << Roma, per favore. >>
<< Per favore un cazzo, Venezia’! Hai la più pallida idea di come sono stato questa notte?! Non ho dormito un minuto! Un cazzo di fottutissimo minuto! Sono stato ad aspettare una tua cazzo di telefonata tutta la cazzo di notte! Non mi hai mandato nemmeno un cazzo di telegramma! Niente di niente! Come ti è saltato in mente, razza di stronzo!? Lo sai che cosa è stata per me questa notte, eh?! >>
<< Roma, per favore. >> il Settentrione singhiozzò debolmente, sentendosi sempre più in colpa, al punto che dovette sedersi sulla sedia dietro la scrivania, << Roma, per favore, calmati. >>
Dall’altra parte della cornetta ci fu un momento di pausa prima che tornasse la voce di suo fratello in un tono decisamente più calmo: << Stai piangendo? >> chiese, prima di tornare alla carica alzando nuovamente il tono, << Ti prendi anche il lusso di piagnucolare adesso?! >>
<< Romano, per favore, basta! >> Veneziano scoppiò infine a piangere, completamente esausto. Riuscì a malapena a sentire il sospiro di Romano, e la sua voce tanto scocciata e un po’ dispiaciuta.
<< Aò, smettila di piangere, cazzo, >> sbottò il Meridione, seguito da quello che sembrava il rumore di un pugno che sbatteva sul tavolo, << non sai fare altro?! >>
<< Roma’, ho paura, >> confessò infine il Settentrione, appoggiandosi sullo schienale della sedia e puntando lo sguardo sul soffitto bianco, senza smettere di singhiozzare, << ho tanta paura. Che sta succedendo? Perché Russia deve venire qui a Berlino con i carri armati? Perché? >>
Romano rimase in silenzio per qualche istante, per poi sospirare pesantemente, e parlare con un tono più calmo: << Sono andato da *** qualche ora fa. Ha detto che è stata una cosa improvvisa, che nessuno si aspettava. Non si è capito cosa sia successo, e… Ascolta, adesso, si sta mettendo in contatto con America e il suo boss per decidere sul da farsi. Sa che sei a Berlino, mi ha detto di dirti… in caso ci fossimo messi in contatto, di nasconderti e di non far sapere a nessuno della tua presenza. Nessuno deve sapere che non sei a casa o che sei lì, potrebbe peggiorare la situazione. >>
Veneziano tirò su col naso, gemendo quando sentì i primi cenni di un mal di testa: << B-Basta? A-Aspetta c-che c’entra America? Perché deve venire qui? >>
<< Venezia’, nun fa lo gnorri, per cortesia! Figurati se quello yankee non viene qui a scassare i coglioni a mezza Europa- >>
<< M-Ma questo p-provocherà Russia e-e… E p-potrebbe arrabbiarsi e… Oddio, Romano no, no! >>
<< Veneziano! >>
<< Non voglio un’altra guerra Romano, no! Non ce la posso fare, Romano! >> strillò il più giovane, isterico, la voce raschiante.
<< Veneziano calmati cazzo! >>
<< Romano ho paura! Ho paura, non voglio! Non voglio di nuovo vivere tutto questo no, ti prego no, Romano no- >>
<< Fa silenzio cazzo! >> sbottò Romano, sovrastando la voce di suo fratello, << Non succederà nulla di niente, sta tranquillo cazzo! Non sei l’unico che si ricorda come è finita l’ultima guerra, razza di cretino! Non succederà nulla! >>
Veneziano cercò di inghiottire i singhiozzi e di calmarsi: << Romano, che succederà adesso? >>
Suo fratello rimase per qualche attimo in silenzio, prima di inspirare lentamente – forse nel tentativo di controllare la rabbia – e infine rispondere: << Non lo so Veneziano. Adesso devo sentire cosa dice lo yankee, e poi potrò darti una risposta. >>
Veneziano tirò su col naso, desiderando ardentemente che Romano potesse tranquillizzarlo in qualche modo, che mettesse da parte il suo lato burbero e mostrasse quel suo lato dolce che, anche se con difficoltà e sempre mascherato in un atteggiamento infastidito, emergeva ogni volta che una persona lui cara aveva bisogno di lui. << Ho paura, Romano. Ho troppa paura. >>
<< Vene, stai calmo, ok? >> la voce di suo fratello si era abbassata di qualche tono, << Senti… Io non… Ascolta, appena attacchi, io chiamerò lo yankee, e lo aggiornerò sulla situazione – Vene fammi finire. Tu dove sei adesso? >>
<< A casa di… G-Germania Ovest. >> disse, accorgendosi che quella era la prima volta che chiamava la nazione germanica col suo nome. Che strano effetto chiamarlo così.
<< Oh cazzo ce mancava questa! >> Romano mormorò un paio di bestemmie, prima di riuscire a riprendere il controllo di sé, << Ascolta, tanto quel crucco è sorvegliato a vista dagli scagnozzi di America. Non ti farà del male. >>
<< Fratellone, guarda che è stato molto gentile con me! >>
<< Se, come l’altro crucco prima de sant’Anna*. >>
<< Romano! >>
<< Romano un cazzo! Te l’avevo detto che non mi piaceva l’idea che stessi lì in mezzo ai crucchi, figuriamoci adesso che sei costretto a stare a casa del clone del crucco di merda! >>
Veneziano si massaggiò una tempia con la mano libera, ed inspirò a fondo: << Per favore Romano, non essere così prevenuto. >>
<< Li mortacci tua Venezia’! Non esse’ così prevenuto!? Te vorrei ricordà che è proprio perché nun dovevo esse’ così prevenuto che semo stati coinvolti in quella cazzo di guerra! >> urlò il Meridione, seguito dal suo pugno che sbatteva sul tavolo. L’altro sussultò violentemente, incassando la testa tra le spalle, incapace di replicare al fratello. Era da quando era finito il conflitto che non faceva altro che insultarlo e accusarlo della miseria in cui aveva gettato la loro casa. Ogni volta Veneziano si era limitato ad abbassare il capo, prendendosi silenziosamente tutti quelle ingiurie che un po’ sentiva veritiere ed appropriate, un po’ gli sembravano esagerate: che colpa poteva averne lui se ogni volta che cercava di fare amicizia con qualcuno questo si rivelava un approfittatore, o governato da capi folli e sanguinari? Era stato da solo per troppo tempo – lui non aveva avuto qualcuno come Spagna che, nel bene o nel male, era sempre pronto a diventare una spalla su cui piangere - non poteva più sopportare la solitudine: era davvero così grave pretendere di volere qualcuno a cui appoggiarsi?
Dall’altra parte del telefono, Romano respirava quasi affannosamente, segno che ancora non si era calmato del tutto. Il Settentrione non osava spiccare parola nel timore di subire una nuova valanga di insulti; dopo qualche minuto, sentì Romano sospirare: << Veneziano ci sei? >>
<< S-Si. >>
<< Rimaniamo d’accordo così: andrò da America assieme a *** e vedremo che possiamo fare. Tu non ti muovere da casa di… dell’affare crucco, ok? >>
<< Romano, Ovest non è un “affare crucco”! >> esclamò Veneziano, indignato da quel blando disprezzo. Perché suo fratello doveva avercela con qualcuno che non aveva nessuna colpa per quanto era accaduto durante quella guerra?!
<< … Veneziano devo andare. >>
<< Romano aspetta. >> disse l’italiano più giovane, andando nel panico; sentire la voce di suo fratello lo aveva un poco rasserenato, e per nulla al mondo voleva ricadere preda del panico.
<< No devo andare! E’ arrivato ***, stiamo andando dallo yankee. Vedrò se riesco a richiamarti in serata ok? >>
Italia del Nord annuì anche se Romano non poteva vederlo, stringendo spasmodicamente la cornetta del telefono. Doveva essere positivo, pregare affinché tutto andasse per il meglio, e confidare nel disegno di Dio e nel buon senso del resto del mondo, <<  Va bene. Ci sentiamo presto, ok? >>
<< Si si. Ah Vene, un’altra cosa. >>
<< Che c’è? >> sussultò leggermente, intimorito dal tono della voce di Romano: il tono da “Sto per dire una cosa che ti disgusterà ma io la penso così e del tuo buonismo di merda me ne infischio.”
<< Fai quel che più ritieni opportuno, ma non fidarti, per nessuno motivo, di quel nazista, chiaro**? >>
<< R-Roma- >>
<< A stasera Veneziano. >> Romano non gli diede il tempo di rispondere, e attaccò immediatamente.
Italia del Nord rimase con la cornetta in mano per qualche istante, allibito dalla veemenza delle parole di suo fratello. Lentamente, rispose l’apparecchio telefonico al suo posto, per poi lasciar cadere le mani lungo i fianchi e fissare il soffitto.
Non gli erano piaciute le parole di Romano, le considerava sbagliate sotto ogni punto di vista: Ovest era appena nato, probabilmente neanche era a conoscenza di quanto era successo nella guerra precedente, e anche nel caso sapesse degli eventi certo non ne era minimamente responsabile; e perché parlare come se la colpa di quanto accaduto fosse solo sua? Non vero che anche loro due avevano ricoperto una parte non indifferente in quel disastro? Non avevano forse anche loro le proprie colpe da scontare? Chi, infondo, non aveva avuto qualche colpa?
Ma c’era una parte di lui, una parte che lui considerava infima, che invece concordava perfettamente con suo fratello, una parte che si richiamava ai morti che non avevano ancora ricevuto giustizia e al fischio dei treni in partenza carichi di vite presto spezzate, e che reclamavano qualcuno a cui far pagare tutto il quel sangue versato.
Veneziano scosse la testa, e dopo qualche minuto in cui rimase ad osservare assente il soffitto, decise di alzarsi e tornare a da Ovest, per vedere come stava e se aveva bisogno di qualcosa. Lo trovò sveglio, seduto sul divano mentre sorseggiava il tè che gli aveva portato prima.
<< Ehi, ti sei svegliato, >> disse mostrandogli un sorriso che vacillò quando notò che la sua pelle era ancora estremamente pallida, << c-come stai? >>
Ovest lo osserva per qualche attimo in silenzio prima di rispondere: << Meglio, anche se mi sento un po’ frastornato. >> disse infine, prendendo un biscotto dal piatto che Italia aveva prima portato, e mangiandolo lentamente.
<< Forse dovresti riposare qualche altro minuto. >>
<< No no, sono quasi le undici, è tardi. Tra un po’ mi dovrebbe chiamare il mio boss per aggiornarmi sulla situazione. Le linee telefoniche funzionano? >>
<< Si. >> Italia si sedette vicino alla nazione germanica, tradendo una certa preoccupazione. Perché oberare quel povero paese di così tante preoccupazioni ad una così giovane età? Non era giusto, per niente.
<< Hai parlato con tuo fratello? >>
<< Si, ha detto che avrebbe parlato con America per discutere della situazione e vedere se riescono a riportarmi a casa. >> rispose l’italiano, senza accennare alla conclusione infelice della telefonata.
<< Ah, >> Ovest abbassò brevemente lo sguardo, per poi sorridere all’altro senza allegria, << g-gut. >>
<< T-Ti senti bene? >> chiese Veneziano, sfiorando la fronte del tedesco per vedere se avesse la febbre, sentendo la pelle fredda e sudata.
<< J-Ja, c-credo sia la mancanza di sonno. >> Ovest bevve un altro sorso di tè, e si appoggiò allo schienale del divano. Veneziano prese la coperta e gliela sistemò addosso.
<< Tanto tra un po’ mi devo alzare. >>
<< No no, risposati dai, non c’è fretta! >>
<< N-Nein, devo chiamare il mio capo prima, >> Ovest si alzò tenendosi la coperta sulle spalle, e si rivolse all’altra nazione, << quindi rimarrai qui? >>
<< S-Si, >> Veneziano arrossì leggermente, grattandosi la nuca imbarazzato, << s-senti, s-se non ti dispiace… I-Io non so d-dove andare e… Potrei rima- >>
<< Ja! >> disse Ovest, recuperando improvvisamente un po’ di energia e di colore, per poi arrossire una volta resosi conto di quanto strana poteva sembrare la sua reazione<< c-cioè, per me non c’è problema! Fai con comodo. >>
<< Ve, grazie! >> Veneziano gli sorrise dolcemente, non potendo non intenerirsi davanti a quel puerile entusiasmo, non potendo, però, non pensare a quanto Ovest si potesse sentire solo.
Quest’ultimo, con un rossore messo in risalto dalle guance pallide, si diresse verso il corridoio per andare nel suo studio; prima di girare l’angolo, si voltò verso Veneziano e disse con imbarazzo: << Scusa per il macello che hai trovato nello studio. Non ho molto tempo per pulire. >>
<< No, tranquillo, posso capire. Senti, per  cortesia, potrei usare il bagno, vorrei farmi una doccia. >>
<< Certo, c’è quello vicino- >>
<< Alla camera degli ospiti lo so. Danke shön. >> il Settentrione gli sorrise mentre di alzava e si dirigeva nella stanza doveva aveva dormito per prendere il cambio dalla valigia, sotto lo sguardo stupito di Ovest. Una volta prese un paio di mutande e una canottiera, si diresse verso la doccia canticchiando un vecchio motivetto veneziano; si spogliò velocemente, prese dall’armadietto posto sopra il lavello una boccetta di shampoo e una con del detergente per il corpo, e si buttò dentro la cabina, sospirando piacevolmente quando il getto di acqua calda investì la sua pelle, sentendosi già un po’ più rinvigorito. Si versò un po’ di shampoo sul palmo della mano e iniziò a massaggiare i capelli con lenti movimenti circolari, chiudendo gli occhi per meglio godere della sensazione.
Fece per sciacquarsi e per lavarsi anche il resto del corpo quando lo colpì un pensiero, una realizzazione che lo investì con una marea di ricordi dolceamari  che gli fecero tremare le ginocchia, gli occhi di nuovo pieni di lacrime.
Nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che era stato ancora in quella casa, ancora riusciva a muoversi agilmente, come se nulla fosse accaduto.
 


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*La strage di sant'Anna è uno dei tanti eccidi compiuti dai nazisti dopo il voltafaccia del 1943. Quello accenato da Romano è uno dei manifesti di propaganda della Repubblica di Salò, dove i tedeschi sono dipinti come dei liberatori dall'inetto governo italiano e dagli angloamericani: a tutti gli effetti, un dichiarata gentilezza che nascondeva le stragi dei civili.

** Non intendo assolutamente offendere nessuno, si chiaro; ma questa frase è figlia della necessità di essere accurati e veritieri nella storia: dopo quanto accaduto nella WW2, non posso non far avere a Romano questa opinione, mi sembrerebbe OOC e storicamente inaccurato. 

Bé, vedo che siamo già al secondo capitolo... brutta cosa, di solito vuol dire che starò un anno senza far nulla ^^'''''
Spero di poter mantenere questo livello di aggiornamento, anche se raccattare le info sul Muro di Berlino si sta rivelando sorprendentemente ostico. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima! <3

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