Ali di piombo

di Evanescente84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lacrime ***
Capitolo 3: *** correre per volare ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La paura non è che il confine.
Un cartello di legno mezzo marcio, con sopra delle parole incrostate e severe, e dice: "fine della strada. The end." E allora l'unica cosa che puoi fare è voltarti e andartene, tornare da dove eri arrivato. Eppure il cartello resta sempre lì e non è che c'è scritto:" non andare oltre." , ti avverte solo che la strada che conoscevi è finita.
Ora sta a te scegliere. Tornare indietro ad occhi bassi o restare lì, fermo immobile a guardare oltre quel confine. Chiudere gli occhi.
La paura è la linea che separa dal burrone, quella striscia di terra che neanche l'erba osa superare e sulla quale si affaccia terrorizzata. Pazzia, ecco il burrone.
Occhi chiusi. Braccia aperte.
L'ebbrezza del vuoto e l'aria che ti accarezza dolcemente le guance e ti scompiglia i capelli con fare materno.
Vuoto sotto i piedi...un passo. E la paura rimane a terra, lassù. Le tue ali si aprono e spicchi il volo, libero dalla vita, libero dagli abbracci soffocanti, libero dal dolore, libero dalle catene che ti sei costruito per conto tuo.

Un volo. Poi niente. Silenzio.

Cos'è la morte? É la vita da un altro punto di vista? Éil suo contrario? Cos'è la morte? È il buio? La fine o l'inizio.
Certo: nessuno lo sa. Nessuno è mai tornato indietro.
Forse fu proprio questo a fermarlo. Il fatto che non sarebbe piú tornato indietro a vedere le facce dei suoi genitori, dei suoi compagni, dei suoi amici... "Ah, già" un pensiero amaro sfioró la sua mente: non aveva nessun amico. Solo un nemico. Uno solo, ma il più terribile (e dal quale gli era impossibile scappare).
Si guardó le mani. Si toccó le guance. Erano bagnate, completamente fradicie.
I singhiozzi non lo lasciavano andare. Strinse i denti mentre le lacrime continuavano ad uscire, una dopo l'altra, lente e strazianti, sgorgavano direttamente dalla sua anima ferita. Non riusciva a fermarle, erano più forti di lui.
Forse tutti i suoi compagni di classe avevano ragione a dire che era una femminuccia, un frocio, uno stupido! E non avrebbe mai avuto amici...Avevano ragione i suoi genitori, i suoi insegnanti. Era un fallito.
E voleva solo non sentire più niente.
Cadde in ginocchio sul selciato con un suono secco. Ma non badó al dolore dell'impatto, anzi non lo sentiva quasi. Si sentiva come una sottilissima finestra a vetri che va in frantumi.
Il fatto era che aveva immaginato così tanto quel momento, lo aveva organizzato, descritto nei suoi minimi dettagli, ma aveva tralasciato un punto... Quel salto lo aveva ossessionato cosí tanto che non aveva preso in considerazione l'idea che non ce l'avrebbe fatta.
Perchè? Non lo sapeva, anzi lo sapeva ma non voleva ammetterlo. Aveva paura. Ma non sapeva il perchè.
(si ha sempre paura quando si ama...)

Strinse le mani convulsamente, i singhiozzi s'insinuarono nei suoi pensieri rintronanti. I suoi occhi offuscati riuscivano ancora a distinguere il cielo limpido e il sole che tentava invano d'insinuarsi dappertutto, illuminare tutto.
Cosí tentava di guardare, mentre le sue lacrime si mischiavano con la polvere sotto i suoi palmi. Incontrollabili.
Si sentiva un paradosso.

Non riusciva a vivere. Non riusciva a morire.
Era un doppio fallito.

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Capitolo 2
*** Lacrime ***


"Una goccia solitaria cadde pigramente sul suolo di pietra. Dal cielo grigio non traspariva nessun'emozione, solo il freddo penetrante di un giorno monotono. Un'altra goccia cadde sul pavimento da un tubo mezzo arrugginito aggrappato disperatamente al muro di una casa vecchia, ingiallita dal tempo.
Sembrava ormai che solo i rampicanti ne fossero i proprietari all'esterno e stessero per conquistarne l'interno.
Una goccia ancora, uguale alle altre, si buttò placida sul suolo. L'unico rumore che si udiva erano quelle goccie intervallate da lunghi istanti di straziante silenzio.
Il suono di quelle goccie piccolissime riempivano l'aria come un attore su un palcoscenico vuoto. L'erba morta si muoveva impercettibilmente, scossa da un vento flebile e svogliato. Le crepe della casa facevano compagnia solo all'edera selvatica ed alle colonie di ragnatele. Solo una finestra si apriva vuota su quel modesto deserto, come gli occhi di una bambola che guardano il cielo senza vederlo.
Puntualmente un'altra goccia si uní alla miserabile pozzanghera. L'odore di erba bagnata penetrava acutamente, e come mille spilli pungeva le narici.
Tutto pareva immobile.
Ed è proprio quando tutto pare immobile che la vita sta macchinando i più grandi cambiamenti. Eppure ogni cosa pareva ferma; l'unica eccezione la faceva un vento talmente debole e moribondo che solo con enorme fatica riusciva a smuovere quasi impercettibilmente le poche foglie esanimi sopravvissute all'inverno.
Un botto sordo all'improvviso vibró nell'aria, come una chitarra che cade per terra e rimbomba in un silenzio quasi spettrale. La casa tremó tutta impaurita, come se dovesse crollae da un momento all'altro. Poi...
Poi piú niente. Silenzio mortale.
Il suono inconfondibile della goccia riecheggió nell'aria di nuovo. Tutto era tornato alla stessa monotonia di prima, o almeno così sembrava...ma niente è mai quello che sembra, si sa.
È nel silenzio che avvengono i cambiamenti, e avvengono in silenzio.
Un ragno microscopico comparve sulla parete scrostata, per poi sparire nel pozzo nero di una crepa.
Ma di tutta quella desolazione nessuno si accorgeva, nessuno faceva niente, nessuno la vedeva, nè la guardava, e forse non c'era nessuno lí... Solo due occhi.
Due occhi limpidi e attenti spiavano quel luogo avidamente, come per nutrirsi dei suoi piú profondi segreti. Così, da lontano, scrutavano le foglie, studiavano le goccie che pian piano uscivano timidamente da quel tubo sgangherato. Quegli occhi, quegli occhi cercavano qualcosa...ma cosa?
Forse non lo sapevano nemmeno loro e lo avrebbero saputo solo appena fossero riusciti a trovare ciò che stavano cercando... Trovare come un senso al loro perenne guardare. E puntualmente quegli occhi riapparivano sempre, convinti che sarebbero riusciti a trovare un senso...
Stavano nascosti, quasi soffocati, dalle piante rampicanti che popolavano il cancello affacciato al giardino di quel rudere morente.
Erano sempre lì, tutti i giorni, quegli occhi... A volte piú limpidi, a volte velati da una coltre opaca di pensieri. Ma sempre rubavano cupidamente qualcosa al cielo, al mondo. Chissà se avrebbero mai trovato un senso al loro guardare...o forse il senso stava semplicemente nel guardare...
Forse erano gli occhi di un ladro o quelli di un gatto (no, non potevano essere di un animale, erano troppo umani, troppo intelligenti).
Anche quel giorno quei due occhi grandi e curiosi si aprivano sul paesaggio desolato, su quella casa misteriosa abbandonata. E sembrava che solo uno sguardo sarebbe riuscito a rompere la serratura, arrugginita da troppo tempo ormai, pure se neanche la chiave (ovunque fosse) non sarebbe stata in grado di farlo.
Anche quel giorno erano là, quegli occhi, al solito posto, celesti. Erano lucidi. Sapevano.
Una goccia si fermó all'angolo di un occhio per poi scendere lenta lungo una guancia liscia e morbida, forse un po' troppo pallida per una persona sana. Ma la goccia (una lacrima calda e leggera) non potè finire il suo percorso, fermata da una mano rosea e delicata, troppo liscia e troppo piccola per appartenere ad un adulto.
Era un bambino.
E lui sapeva...ma non poteva fare niente. E non sapeva perchè sapesse...
Un boato simile ad un tuono percorse tutta la terra, facendo tremare perfino le nuvole.
Il bambino spaventato chiuse gli occhi. Per la prima volta.
Fu allora che tutto cominció a crollare.
Riaprì gli occhi, si guardó le mani. Si stavano sgretolando.
Guardò il rudere che crollava insieme a lui.
E allora capì.
Il senso era nel suo sguardo, era lui il senso. E aveva chiuso gli occhi per paura che tutto crollasse.
E tutto era crollato e di lui, della casa non rimaneva che sabbia e fango. "

Si svegliò di soprassalto.
Più stanco di prima. Era la prima volta dopo anni che faceva un sogno così, cioè un sogno che non fosse proprio un incubo a tutti gl'effetti.
Quella casa era magica...non sapeva dove si trovasse, nè se esistesse. Probabilmente no, era solo un'illusione. Ma da piccolo la sognava sempre...poi aveva smesso, smesso di sognare. Si diceva spesso: "I sogni sono robe da bambini, da pazzi o da persone felici, senza difetti. Non certo per quelli come me (ammesso che esistano)" .
Ma sta volta, quel sogno era diverso. Questa volta la casa crollava, e crollava anche lui insieme a lei. Non sapeva bene cosa significasse, spesso i sogni fanno così: sono incomprensibili anche ai loro autori. Sapeva una cosa peró: quella casa era crollata per lui, quella casa era lui...

Da un po' di giorni non andava piú al ponte...a fissare l'oscuritá oltre il Tevere, sporco come al solito.
Non si ricordava neanche che giorno fosse o se fosse giorno...quanto tempo era passato? Quanto aveva dormito? Si alzò lentamente ma subito un conato di vomito lo attaccó e lo costrinse a sedersi di nuovo.
Si guardó intorno. La stanza era buia, solo una pallida luce arancione proveniva dalle altre stanze.
Non ricordava cosa avesse fatto prima di arrivare lì... Ah sì, era andato al ponte con l'intenzione di buttarsi giú. Semplice. E poi? Poi se ne era tornato a casa e probabilmente era svenuto sull'uscio. Casa sua distava almeno dodici kilometri dal fiume, una bella camminata, e una lunga doccia sotto la grandine.
Non si ricordava niente del viaggio, solo che quel gesto lo aveva tormentato per tutto il tempo. Ogni minuto era occupato dal pensiero ossessivo di quello stupido inutile salto nel vuoto, verso la libertà, verso il buio.
"Ho avuto paura?" interrogó sè stesso. Sì. Decisamente. Era l'unica cosa che sapeva, ma non sapeva di cosa... Ma sapeva, sapeva che aveva avuto paura. Tutto il resto era oblio, vuoto, niente, nisba, nada, nihil...
Una luce accecante lo fece rintanare sotto le coperte, come un topo che scappa da un gatto.
«Ah, ti sei svegliato...» . Era sua madre con tono decisamente altero, stizzito come una persona che sta per esplodere (era sempre così).
Esplose: « HAI IDEA a che ora sei tornato a casa l'altra notte? Con la grandine!» pausa di due secondi « ALLE DUE SEI TORNATO! E il cellulare?! Ovviamente un IDIOTA come te lo poteva solo lasciare a casa, eh? Mi chiedo COME FAI AD ESSERE COSÍ STUPIDO! E perchè? Perchè devi fare SEMPRE di testa tua?! Dove cazzo eri a quell'ora? A spacciare, eh? Con i tuoi quattro amici coglioni, eh? NON PUOI PIÚ USCIRE DI CASA da qui alla fine delle vacanze. Mi hai capito?» .
Silenzio.
«SIRIO, HAI CAPITO? rispondi a TUA madre!» (se avesse avuto un mitra in mano non avrebbe fatto meno paura).
Sirio annuí bofonchiando qualcosa che non aveva capito neanche lui.
"Fantastico" pensó il ragazzo.
Mancava ancora tempo per la fine delle vacanze di Natale e lui sarebbe dovuto rimanere chiuso in casa tutto quel tempo...non aveva libri in cui nascondersi (apparte quelli di scuola) ; i suoi genitori buttavano via ogni romanzo che trovavano. Risparmiavano solo saggi o libri sul diritto romano, enciclopedie... "tutta roba pallosa da morire." pensava lui.
Ma tanto il suo destino era già stato scelto, gliel'avevano scelto i suoi genitori, come se l'avessero ordinato su un catalogo. O l'avvocato, o qualcosa di quel genere lì punto. No choice, nessuna scelta o via di fuga...neanche da quella stanza.
Non aveva niente con cui fuggire, non aveva mai avuto giochi o una tv, o amici che lo distraessero. Aveva solo un quaderno sgualcito che illegalmente aveva nascosto sotto il materasso. Lì ci scriveva tutto quello che gli passava per la testa. Afferrava i pensieri, i sogni e li ribchiudeva lì, su quel quaderno per mezzo di una penna mezza mangiucchiata.
In effetti un posto dove fuggire ce l'aveva. Quel quaderno, l'unico posto in cui la sua anima poteva cantare.
Un forte botto lo fece sussultare. Sua madre aveva sbattuto la porta, aveva girato la chiave e si allontanava gridando: « vedrai mo' quando verrà tuo padre. Te le suona di santa ragione!»
Quella frase gli fece correre un brivido per tutto il corpo. Aveva una paura terribile (ma davvero terribile) di suo padre, un uomo grande e grosso spalle e piedi grandi, ben piantato, origini russe. A volte ci si chiedeva se quel ragazzino pallido e gracilino fosse davvero figlio suo, ma nessuno azzardava dare voce a quest'ipotesi...
Insomma era un imponente uomo d'affari elegante,serio, altoborghese, ma duetro a quella sua maschera da pinguino straricco c'era una violenza inspiegabile, forse era data dalle sue origini, o forse era cosí in tutti e la sua unica colpa era quella di non saper reprimere la rabbia.
Ogni volta che picchiava Sirio gli lasciava ferite indelebili, piú psicologiche che fisiche. Ma anche fisiche (non indelebili per fortuna): dei lividozzi neri che se ne andavani via dopo due o tre mesi...
Il ragazzo corse alla porta e guardó nel buco della serratura. Non c'era nessuno. Via libera.
Prese cautamente da sotto il letto il suo quaderno sgualcito, quasi fosse un crimine, impugnó la penna pronto a combattere contro tutto e tutti. Inizió prima a morderla con foga alla ricerca di qualche idea a cui aggrapparsi per volare via, via da quella stanza, via dai problemi, via da quella vita di merda...
La foga si trasformó in parole il cui inchiostro si mischiava alle lacrime su quell'oggetto proibito ed essenziale. Parole confuse, arrabbiate...

"Non ho idea di che giorno sia. Il piano è fallito...mi sento un fallito. Un doppio fallito: pensavo di riuscirci ma non ci riesco...perchè? PERCHÈ? PERCHÈ NON RIESCO AD UCCIDERMI? Perchè non sono riuscito a saltare? Accidenti!" non poteva scrivere parolaccie, abitudine. I suoi compagni le dicevano, aiosa ne dicevano (è normale), e lo prendevano in giro. Per tutto. Iniziando da quel suo nome strano e buffo:" Sirio" ...cioè nessuno chiamava suo figlio Sirio...ma che razza di nome è? É il nome di una stella... Cosí lo soprannominavano anche "Stellastellina". E lui...lui non faceva niente.
Quando era un bambino piangeva, soprattutto quando i soliti bulli gli facevano i soliti scherzi (che chissà perché sono sempre uguali nei secoli dei secoli) e si divertivano un mondo facendogli male e coprendolo di ridicolo.
Ai suoi genitori non importava. Niente. Lo trattavano come un cane, se fa male botte se fa bene niente botte. Così passava i pomeriggi e le notti a studiare. Per questo era anche chiamato "Secchia".
Nonostante tutto sua madre gli urlava sempre contro che era uno stupido e doveva vergognarsi di sé stesso. E lui si vergognava di sè stesso. Anche adesso che era in seconda liceo.
Ma i bulli c'erano ancora. Forse non erano loro i bulli, forse era lui... Cioè lui era quello che aveva qualcosa che non andava, perció si sentiva sempre fuori posto, perció si sentiva così un...
"...un errore, ecco come mi sento" continuó a scrivere " cime una virgola tra soggetto e predicato, una H dove non va, un errore di calcolo, un segno sbagliato, qualcosa di fermo, inutile. Debole. Non avró mai amici con lo stupido carattere che mi ritrovo" odiava il suo carattere.
Odiava sè stesso. (credeva di odiare sè stesso)
" Perchè sono cosí solo? È solo colpa MIA! Mia!mia!" a questo punto la scrittura si fece piú marcata e disordinata. Rabbia, frustrazione emanavano dall'inchiostro bollente.
Sirio ormai non riusciva a distinguerle, aveva un velo di lacrime sugli occhi. Forse lui era l'unico ragazzo(ossia quasi-uomo) al mondo che piangeva. E se in quel momento fosse passato suo padre e l'avesse trovato così, accovacciato su un letto, con un quaderno sulle ginocchia e la faccia bagnata di lacrime, sicuro l'avrebbe ammazzato di botte.
Un'idea balenó fulminea nella sua mente: "ma se mio padre mi ammazza di botte, non avró piú bisogno di tentare di ammazzarmi altre volte...ci penserà lui...e poi nasconderà il mio cadavere..."
Ed ecco che succedeva. Come gli era sempre successo.
La sua mente spiccava un salto e iniziava a volare. Nuotava per chilometri e chilometri tra le nuvole soffici per poi andare in picchiata lungo una cascata, velocissima, e poi di soppiatto nei sotterranei di una casa, in un armadio, una foresta, un mondo diverso; diventava visibile e invisibile, poteva fare tutto. Era libera...
Ma poi, poi andava a sbattere contro il solito muro: la realtà.
E ritornava da quel ragazzino debole e problematico che scriveva, scriveva, scriveva.
Scriveva per scappare da qualcosa dal quale non poteva scappare. Ma non aveva la piú pallida idea di che diavolo fosse...

Sentì dei passi avvicinarsi. La paura prese il posto della fantasia che aveva preso il posto della tristezza.
Mise velocemente il quaderno sotto al letto.
Suo padre aprì la porta mentre il ragazzo si stava asciugando le ultime lacrime che gli imperlavano ancora una parte di guancia.
« Ah, vedo che hai pianto di nuovo. Frigna, frigna femminuccia, ti do io mo' un motivo valido pe' frigna' »
E iniziò a picchiarlo.

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Capitolo 3
*** correre per volare ***


Si svegliò nel cuore della notte, anzi non era proprio riuscito a dormire, ogni punto del corpo gli doleva tremendamente, come se fosse schiacciato sotto le macerie di sé stesso. C'erano giorni in cui suo padre lo picchiava un po' di meno; ebbene questo non era uno di quei giorni. Per fortuna almeno il diario era rimasto ben nascosto sennó gliel'avrebbero bruciato. Peccato che non potesse nascondersi pure lui, e non potesse nemmeno nascondere il suo dolore in un ricordo. Quale ricordo? Quel male fisico era vero e pulsava sotto la pelle.
Gli facevano male pure gli occhi a furia di piangere.
Si disse che non poteva continuare così, che doveva raccogliere tutto il suo coraggio.
"Gli uomini non piangono" si disse a ripetizione continua..per convincersi forse, invano poiché sapeva che quello slogan non voleva dire niente.
Si mise a guardare il soffitto pensieroso.
Quella era vita?
Se vita fosse solo mangiare, respirare e tutte le funzioni vitali...beh quella era vita. Ma vivere era qualcosa di più, se lo sentiva. Era la libertà.
E lui voleva vivere e scappare da quella prigione ammobiliata; non sarebbe arrivata nessuna lettera per una qualche scuola di magia.
Ma Sirio aveva già progettato un piano, gli mancava solo il coraggio di metterlo in pratica.
L'alternativa era o fuggire o morire, ambedue gli sembravano migliori della condizione in cui si trovava. Tuttavia ogni volta che tentava di fuggire ritornava inesorabilmente a casa, spinto dall'istinto. Forse era masochista.
Decise che non poteva continuare, era l'ora di fare qualcosa nella sua vita. Qualsiasi cosa purché apportasse cambiamenti.

Si alzó a fatica cercando di non pensare al dolore che gli martellava sottopelle. Annaspando raggiunse la porta.
«E dai Sirio, smettila di fare tante scene» si disse e si ammutolì.
La porta era stata chiusa a chiave, infondo lui era in punizione. I suoi chiudevano sempre la porta a chiave, forse per sottolineare che loro erano i padroni e potevano farlo uscire solo quando volevano.
Fortuna che c'era la finestra, doveva solo stare attento che nessuno lo vedesse.
La sua finestra dava su un balcone che dava sul giardino. Sirio non sapeva che ore fossero ma fuori era abbastanza buio,con un po' di cautela sarebbe passato inosservato.
Prese lo zaino di scuola che aveva riempito con materiale per la sopravvivenza: una borraccia, un bel po' di pane, un coltellino svizzero, due barrette di cioccolato, una coperta, una giacca, sapone, vestiti di ricambio, un accendino, pesino il kit pronto soccorso e tutti i soldi che aveva. Non erano tanti, perció sarebbe stato piú prudente muoversi a piedi, anche perché non aveva documenti, e non voleva assolutamente essere riconosciuto.
Questo pensiero gli fece venire l'idea. Prese il rasoio elettrico.
« ora non si torna più indietro» si disse e si rasó a zero. I suoi erano al piano di sotto con la tv al massimo volume, nessuno poteva sentirlo.
Ora era pronto. Si guardó ad uno specchio nell'armadio, sembrava un ex carcerato con l'occhio nero e i capelli rasati a zero. Ma non aveva nessun passamontagna, e poi pensó che se avesse avuto il passamontagna qualcuno avrebbe potuto sparargli.

Con cautela uscì dalla finestra richiudendola dal fuori, aveva preparato i classici cuscini sotto le coperte, una registrazione della sua voce che diceva "vai via" con un registratore giocattolo collegato da un meccanismo un po' rudimentale ma quasi invisibile alla porta. Quando la porta si apriva, e la madre gli portava il cibo come un carceriere, dopo cinque secondi scattava la voce malata e la madre se ne andava senza approfondire. Per quanto riguardava il cibo non c'erano problemi, Sirio da piccolo aveva un topo, e molto probabilmente c'era ancora, l'avrebbe mangiato lui.
Era un piano perfetto, regolato nei più minuscoli dettagli, ci avrebbero messo settimane per accorgersi della sua mancanza, ma per allora lui sarebbe stato già lontano.
Fece un balzo un po' rumoroso sul balcone sottostante. Il cuore gli si stoppó in gola e risentí il dolore che gli attanagliava le membra. Un grosso respiro. Uno, due, te .
Capitombolò sul giardino, fortunatamente lo zaino aveva assestato il colpo, ora doveva solo scavalcare il cancello e andare via, lontano, piú veloce che potesse, dove non lo sapeva nessuno, non lo sapeva neppure lui.

E quando si ritrovó fuori da quell'odioso cancello si sentì libero. Assaporó nel gelido torpore della notte quella libertá quasi irreale. Era stato troppo facile per essere vero.
Si diede qualche pizzicotto timoroso di svegliarsi nel suo letto, ma un dolore gli afferró il braccio sempre nel buio della strada. Non era mai stato così felice di provare dolore. Era un dolore nuovo, un dolore di libertà.
Si sentiva leggero come l'aria, avrebbe potuto volare. E lo fece.
Si mise a correre lontano percorrendo vie conosciute e poi sconosciute, non aveva portato nessuna cartina perché non aveva nessuna intenzione di tornare.
I suoi polmoni dolevano ma aui non importava, gli importava solo di correre via da quell'inferno. In una via scorse un orologio, era quasi mezzanotte.
Decise di prendere la metro, a quell'ora chiudevano ma forse era ancora in tempo. Non c'era gente che controllasse, quindi fu una passeggiata scavalcare i tornelli e prendere l'ultima metro.
Sirio non guardó neanche dove andasse. Scese a capolinea.
Quando uscì dalla stazione si trovó in un ambiente completamente estraneo, un po' inquietante, desolato.
Si sentì pervadere dalla paura, era solo, ma infondo lo era sempre stato. Questo pensiero gli diede un po' di qualcosa che poteva assomigliare al coraggio. Poi decise di continuare a camminare per non pensare.
Non aveva idea di quello che avrebbe potuto incontrare.

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