Leggenda di Ghiaccio

di Hugin BenMar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo meritava ***
Capitolo 2: *** Le Nebbie di Sovngarde ***
Capitolo 3: *** Lo è sempre stato ***



Capitolo 1
*** Lo meritava ***


  

Capitolo I: lo meritava

All'inizio era il Nulla.
Chiaro, tutto comincia sempre dal Nulla.
Quel vuoto che non è vuoto ma non è pieno perché a tutti gli effetti non è assolutamente niente.
Non c'era luce, non c'era buio.
Non c'era.
Poi è stato.
In un solo secondo, Tutto ha preso il posto del Nulla e si è dato una Forma.
Forma doveva essere proprio una bella persona perché ha preso Tutto e lo ha modellato dandogli un senso che, forse, da solo non avrebbe mai avuto.
Però Nulla era geloso della bellezza di Tutto e di Forma e non voleva non essere senza compagnia: Nulla decise quindi che se gli altri erano e lui era l'unico a non essere allora anche Tutto e Forma sarebbero diventati Nulla così che lui non sarebbe più stato solo.
Fu Nulla a creare Alduin.
Alduin, il divoratore di mondi, così è conosciuto il Drago che il Nulla creò come principio. Il suo destino? Beh, il suo destino era quello di far tornare ad essere Nulla Tutto.
Le sue ali nere erano tanto grandi da oscurare il sole, ombre spaventose si abbattevano sulla terra e gli uomini, creati dall'amore tra Tutto e Forma, anche combattendolo, non potevano fare niente perchè Alduin parlava e loro non lo sapevano fare.
La voce di Alduin riempiva i cieli di quella che oggi è Skyrim, ma allora era poco più di una landa di neve e roccia. Il cielo risuonava di ruggiti, fiamme e ghiaccio e gli uomini mugolavano e imploravano spaventati: pregavano con pensieri che non sapevano formulare che Tutto e Forma li aiutassero.
Tutto e Forma compresero ciò che gli uomini volevano e crearono la Lingua.
Lingua entrò con la forza in quella battaglia vinta in partenza dal Drago. Alduin non era capace di mangiare Lingua come faceva con ogni cosa perché lei era troppo veloce, serpeggiava e fuggiva, entrava in ogni dove, si nascondeva e proprio quando Alduin si distraeva lo colpiva.
E allora in quei momenti tutti gli uomini sentivano quale sarebbe presto stato il vero destino di Alduin, i cieli dolci di Skyrim si riempivano del suono forte della Lingua, chiamato Thu'um, che veloce com'era spazzava via le ali del drago nero.
Lingua però aveva bisogno di un campione perché era immateriale e non sapeva trasformare il suo suono in voce, così Forma prese un mortale e lo nutrì di Lingua donandogli la Voce.
Fu Voce a distruggere definitivamente Alduin: la natura del mortale lo portava, coraggioso, a brandire la spada contro il ventre di scaglie del drago e Voce lo aiutava.
Voce era come il soffio di fuoco di Alduin, Voce era come il soffio di gelo di Alduin, Voce era come le ali nere di Alduin ma invece di oscurare faceva luce.
La battaglia fu feroce, tra il drago e il mortale, ma Lingua, Voce, Forma e Tutto fecero luce di nuovo sul niente del Nulla e il grande Drago Alduin scese negli abissi della terra nascondendosi per paura di quella cosa che non si era piegata al suo volere.
Egli, prima di fuggire, aveva guardato il mortale e aveva gridato “Dovahkiin” che il mortale stesso aveva capito volesse dire Sangue di Drago. Del resto, loro due erano gli unici a poter parlare.
Il Drago aveva visto nel mortale se stesso, aveva sentito il suo stesso ruggito e lo aveva quindi chiamato fratello.
Il Sangue di Drago insegnò agli altri mortali le parole ma essi non le pronunciavano forte come faceva lui, loro non riuscivano a usare la Voce a proprio piacimento, loro usavano Parola, la sorella minore e più debole di Voce anche se dentro di loro ciascuno la portava nascosta
Alduin scoprì questo millenni dopo, scoprì che i mortali non sapevano di Voce e che lui sarebbe stato, ancora una volta, forte più di loro.
Alduin tornò, ma di nuovo dovette affrontare un mortale.
Il nome di questo mortale era Koll, ma lui, come apprenderete dal mio racconto, non era il Sangue di Drago. Tuttavia il suo coraggio e il cuore grande che ha avuto gli hanno regalato un posto tra quegli eroi.
Tutto accadde circa settant'anni fa quando avevo solo trent'anni ed ero un giovane soldato della legione imperiale.
Tuttavia io in questo centro ben poco, preferisco sia la storia a parlare per sé.

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Anche l'aria in quella cella umida doveva essere stata pesante da sopportare: nessuno nella legione imperiale aveva mai visto il viso di quell'uomo così sciupato.
I capelli biondi, così strani per loro che vivevano nel cuore dell'impero ma così tipici delle regioni da cui proveniva il Nord, erano appiccicati alla fronte dell'uomo come se egli, in quella cella gelida, avesse sudato; i suoi occhi blu erano cupi e pieni del grigiore delle nebbie di Sovngarde, terra dei morti, quasi come se egli riuscisse già a vederle anche se la morte non lo aveva ancora raggiunto; le sue unghie erano incrostate di terra, pietrisco e sangue.
Steinbjorn lo osservava incupito da dietro il tronco di un albero, guardava lui e i due legionari che trascinavano l'uomo al patibolo.
Lo meritava. Sì, lo meritava. Meritava la morte perché li aveva traditi tutti, perchè si era finto un legionario mentre il suo cuore combatteva per i Nord di Skyrim e Ulfric Manto della Tempesta, quel re Nord che stava guidando una feroce ribellione contro l'impero.
Meritava di morire perché aveva ucciso l'imperatore.
Steinbjorn raschiò con le unghie la corteccia dell'albero dietro il quale si trovava.
Ma se Koll, questo era il nome del traditore, meritava di morire perché vederlo andare al patibolo gli faceva male allo stomaco tanto da fargli salire le lacrime?
Più di tutti gli altri si sentiva tradito dal biondo, più di tutti gli altri aveva motivo di dirgli parole composte di rabbia furiosa: lo aveva visto girargli le spalle mentre un mostro alato oscurava il cielo con la sua mole, lo aveva visto prendere la spada e andare verso l'imperatore.
Era stato il primo a capire cosa stesse accadendo, ad afferrarlo per la manica: ancora gli bruciava il taglio che Koll aveva fatto sulla sua guancia, voltandosi per allontanarlo, mentre il drago, che si era fermato su una torre, bruciava con il suo fuoco i loro compagni.
Il suo sangue sulla lama dell'uomo era andato a unirsi qualche secondo dopo a quello dell'imperatore mentre il traditore compiva il gesto tremendo di mettere fine alla vita dell'uomo che li aveva guidati.
Il cuore gli batteva forte al ricordo, le sue sue unghie raschiavano così forte la corteccia che da esse usciva sangue e una finì addirittura per staccarsi: sperava che il dolore che stava infliggendo a se stesso scacciasse quello aveva in petto.
I legionari avevano ormai scortato Koll al patibolo, vi era un ceppo là e la sua testa sarebbe poi rotolata dentro il cesto appena sotto.
Koll si mise in ginocchio volontariamente sapendo che ormai non avrebbe piegato la testa a nessun ingiusto regnante non essendovene più.
Quella posizione era quasi comoda per morire.
Il boia non aveva volto, aveva un cappuccio nero calato in testa e si vedevano appena gli occhi marroni di chi aveva ucciso così tante persone da non provare più nulla, eppure sembravano quasi tristi in quel momento.
Steinbjorn capiva il perché: Koll aveva sempre avuto più coraggio di tutti loro e aveva sempre combattuto con grande onore, non era mai stato né il più bravo né il più forte, ma aveva sempre avuto una forza d'animo tale che anche il guerriero migliore sarebbe finito con l'invidiarlo; i suoi modi burberi e freddi da persona cresciuta nella neve lo rendevano strano e simpatico ai soldati abituati a trattare prima di passare alle maniere forti. Steinbjorn ricordava bene il giorno in cui il Nord era arrivato: indossava una divisa troppo piccola per la sua corporatura e lui si era messo a ridere ricevendo come risposta un pugno in pieno viso.
Con quella strana presentazione i due si erano promessi di non permettere che qualcosa accadesse all'altro. Tante erano state le volte in cui si erano protetti a vicenda, tante le volte in cui si erano addormentati l'uno accanto all'altro coperti da un unico mantello, tante quelle in cui Steinbjorn si era svegliato avvolto nel mantello del compagno che, abituato ai climi nordici della regione di Skyrim, sopportava meglio il freddo di quanto non facesse lui.
Digrignò i denti ingoiando un paio di lacrime che erano scivolate fino alle sue labbra.
Steinbjorn si era reso conto che non stava mantenendo la promessa.
Koll posò la testa sul ceppo, il cuore che batteva come le ali delle lucciole, che consumava i battiti che sarebbero dovuti appartenere a un'intera vita in pochissimi istanti.
Quasi gli faceva male il petto.
Avrebbe dovuto chiudere gli occhi o tenerli aperti fino alla fine? Avrebbe dovuto gridare qualcosa prima che la scure calasse?
No, non poteva neanche augurare morte all'imperatore.
Gli faceva male il cuore, ma sorrideva.
Sentì pesante la scure alzarsi sopra la sua testa e decise di chiudere gli occhi.
Gli istanti successivi parvero infiniti, la scure non calava mai, i pensieri si facevano pensanti e scuri nella sua mente mentre immaginava cosa avrebbe trovato tra le nebbie di Sovngarde: avrebbe visto sua madre? Avrebbe incontrato altri morti come lui? Avrebbe forse trovato lo stesso imperatore?
Un gemito spezzò l'aria e gli fece aprire gli occhi di scatto, un paio di gambe erano ferme davanti al cesto in cui la sua testa sarebbe dovuta finire, delle braccia avevano fermato quelle del boia mentre tentava di fare il suo lavoro.
- Non potete uccidere quest'uomo. - La voce di Steinbjorn risuonò perentoria, quasi egli parlasse con lo spirito del defunto imperatore, per chi lo avesse guardato bene avrebbe notato i suoi occhi rossi ed impauriti desiderosi di un unico fine.
Ma per fortuna nessuno riusciva a vederlo.
- Avete visto cos'è accaduto quel giorno. Quando questi ha trafitto il cuore dell'imperatore e il sangue nobile di lui è stato versato in terra, il drago si è levato dalla torre muovendo le sue grandi ali come se qualcosa lo avesse spaventato a morte. Ebbene cos'altro avrebbe potuto spaventarlo se non il gesto di questo traditore? - La voce dell'imperiale tremò a pronunciare quella parola, dalle sue labbra spuntò per un istante la lingua che andò svelta ad umettargli le labbra mentre il fiato gli si faceva corto a pronunciare quelle menzogne. - Il drago ha visto ciò che noi non possiamo neanche percepire: ha visto la sua anima. Ha visto se stesso nel suo gesto ed è per questo che ha avuto paura, che è fuggito. -
Koll alzò gli occhi verso il compagno il quale era oscurato dalla luce del sole che sorgeva e che stava proprio dietro le sue spalle: era un segno far cadere la testa del condannato verso il sole che sorgeva, significava l'inizio di un nuovo giorno e il tramonto degli orrori compiuti dal criminale.
Sì, doveva essere per un motivo simile.
- Non si spiegherebbe perché altrimenti, aveva già la vittoria nelle zanne e la stringeva tra gli artigli: quale motivo avrebbe avuto di fuggire da noi che potevamo solo bruciare nel suo fuoco? Questo assassino è l'unico che possa portare tutti noi a vedere di nuovo il sole sorgere. - I suoi occhi marroni cercarono qualcosa cui aggrapparsi per continuare quel discorso, trovarono solo le iridi azzurre del Nord. - Costui non è altro che uno sporco, vile, ignobile traditore, ma è anche quello che nelle leggende è chiamato Sangue di Drago. Se i draghi sono tornati questi saranno giorni e notti di morte, buio e paura in cui un male molto più grande di una ribellione si abbatterà su di noi e forse questa volta non ci sarà sufficiente combattere insieme. Credo dunque che se lui può uccidere quella creatura prima che se ne risveglino altre non solo pagherebbe per i suoi crimini ma anche nel modo peggiore per quelli della sua razza: darebbe vita lunga e salda all'impero. -
Neanche uno di quelli presenti osò respirare troppo forte.
Le parole dell'altro ancora risuonavano nell'aria, si insinuavano tra le crepe delle pietre di cui erano costruite le case, sotto le scarpe di ferro dei soldati, tra le dita di chi stringeva le armi, e giungeva, infine, nelle loro menti.
Ciascuno di loro ricordava con paura gli occhi di quella bestia: Le iridi gialle, alla luce del fuoco che sputava dalla bocca, erano diventate rosse, piene di noia per la vista della loro mortalità; piene di odio per coloro che avevano rinchiuso la sua immensità nelle profondità della terra a marcire; piene di divertimento a vedere la paura di quelle formiche senza speranza.
Forse gli stessi soldati sapevano che ciò che stavano sentendo erano mere menzogne, ma forse avevano bisogno di crederci per scacciar via la paura.
Le parole di Steinbjorn presero dunque posto dalla mente al cuore dei più e molte grida si levarono nella folla.
Koll non riusciva a credere alle sue orecchie: liberatelo, dicevano, lasciate che lui uccida il drago.
Il Nord ancora sentiva il peso della scure sulla testa mentre titubante si alzava da terra: giunse persino a chiedersi non fosse in realtà già morto e quelle parole non fossero altro che i pensieri di un cadavere giunto nell'altro regno.
Ma sentì il cuore battergli forte nel petto e comprese di essere vivo.
Lui e Steinbjorn sarebbero partiti il giorno seguente alla volta di quell'impresa assurda.
A Koll gli imperiali parevano stupidi.

Stupidi.

Tutti quegli occhi, tutte quelle voci. Leggeva forse speranza nei loro sguardi? Poteva davvero la paura essere un'arma così grande da far sembrare un assassino un eroe?
Lui non era un eroe e sarebbe fuggito nel momento stesso in cui lui e il suo compagno avessero messo piede fuori dalla provincia imperiale.
Sì, sarebbe fuggito.
Eppure speranza. C'era davvero speranza in quegli occhi marroni.
Li conosceva uno per uno, sapeva i loro nomi e i nomi dei loro figli.
Sapeva che quello che era in piedi accanto a lui l'aveva salvato per qualcosa di più grande della menzogna che aveva detto e sicuramente non per concedergli una fuga da vigliacco.
Koll mai avrebbe pensato di fingersi un eroe, ma tacendo si proclamava tale.

Nulla e Tutto si guardarono di nuovo in viso: Nulla nel suo niente, senza colori, senza forma, senza e basta; Tutto nel suo ogni cosa, con colori, con forma, con.
Nulla aveva posto Alduin, Re del regno di Niente, sulla scacchiera.
Tutto aveva messo poco distante da lui Koll, poco meno di un Alfiere del regno di Ogni Cosa.
La partita cominciata all'alba dei tempi avrebbe avuto una fine.

Nulla era certo di vincere, Tutto sapeva che non avrebbe perso.

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Capitolo 2
*** Le Nebbie di Sovngarde ***


Capitolo II: Le Nebbie di Sovngarde



I due viaggiatori avevano raggiunto la parte settentrionale della regione di Skyrim circondati dal più profondo silenzio.
Steinbjorn non parlava e la sua espressione era dura, impenetrabile, non si scorgeva neanche l'ombra dei suoi soliti, caldi sorrisi.
A Koll, invece, si erano gelati sia il cuore sia l'anima.
Guardando le luci che si perdevano nel cielo la notte creando strisce piene di colore che si riflettevano nella neve si era sentito infinitamente piccolo.
Poteva davvero lui pretendere di fronteggiare una creatura in grado di solcare i cieli e inghiottire persone e anime? Poteva davvero avere la presunzione di sopravvivere?
Cercando una risposta a quelle domande, aveva guardato il profilo di Steinbjorn che gli camminava accanto: il naso prominente che puntava all'insù; le guance più pallide del solito per quel viso quasi sempre abbronzato; gli occhi marroni che saettavano intorno con l'aria colpevole e la mani che, frenetiche, non riuscivano a trovare una posizione a loro comoda e ora la destra toglieva la pelle al pollice sinistro, ora la sinistra grattava il mignolo destro.
Parevano il viso e le mani di un uomo che aveva compiuto un crimine, ma di fatto egli non aveva fatto nulla di male, anzi, agli occhi del Nord l'imperiale avrebbe dovuto portare dentro di se solo astio verso il compagno e non verso se stesso.
Lo aveva salvato, aveva salvato un uomo che in effetti avrebbe meritato solo la morte.
Lo aveva salvato e liberato mentendo.
Dunque lì era il grande crimine di cui Steinbjorn si vergognava: la menzogna che aveva detto per salvare il compagno; la menzogna che aveva detto e che avrebbe ritardato la morte dell'altro se non fosse fuggito.
Agli occhi di Koll quell'atto di disperata bontà ora sembrava quasi la più spietata vendetta di un amante tradito.
Inconsapevolmente Steinbjorn stava mandando Koll a morire tra le fiamme di un drago, Koll lo aveva capito, Steinbjorn lo sospettava e basta.
Il rumore dei passi che procedevano aritmicamente era una compagnia migliore delle parole e Koll cercò di farne tesoro, ma i pensieri erano fissi al giorno in cui, senza alcuna esitazione, aveva firmato la sua condanna.
Mai aveva pensato di riuscire, una volta morto l'imperatore, a fuggire, aveva creduto lo avrebbero ucciso senza neanche un processo, che avrebbero preso la sua testa e appeso il suo corpo a testa in giù come trionfo, invece si era trovato a fuggire disarmato per qualche metro.
Ricordava la striscia di sangue che aveva lasciato a terra mentre cercava una via di fuga verso la porta della città, ricordava l'ombra del drago sotto la quale aveva pensato di morire, sotto la quale aveva temuto di morire.
Ricordava i ruggiti, le parole, i visi attoniti e il suo orgoglio: non era mai stato tanto orgoglioso di un'azione come in quel giorno.
Avrebbe solo voluto dimenticare la mano che lo aveva fermato e il viso di Steinbjron pieno di odio e ribrezzo.
Steinbjorn, quasi sentendosi chiamato in causa, richiamò l'attenzione del compagno.
La mano dell'imperiale si posò sul suo gomito fermando i suoi pensieri e riportandolo alla realtà.
- Perché non te ne vai? - la voce dell'uomo non era la stessa di sempre, era preoccupata, spaventata. - Perché rimani qui e non fuggi? -
Koll si ritrovò di nuovo a scontrarsi con le iridi scure del compagno, il mare dei suoi occhi si infranse sugli scogli dell'altro e rimase in silenzio non sapendo cosa rispondere.
Lo sguardo si spostò sul terreno mentre rifletteva: sì, sarebbe stato più facile; sì, non avrebbe dovuto avere paura.
Ma avrebbe mai potuto guardare in viso qualcuno sapendo di essere sfuggito alla morte per pura codardia?
No, certo che no, purtroppo l'onore era una forza ancora più grande della voglia di vivere e nel suo cuore le due non si erano neanche dovute scontrare perché il primo prevalesse.
Non posso. -
La risposta giunse come un sussurro alle orecchie del compagno che lo guardò con occhi increduli: non poteva? Cosa voleva significare che non poteva?
In fin dei conti gli sarebbe bastato correre verso il primo bivio e sparire dalla sua vista: era ovvio che materialmente potesse.
- Hai detto che ucciderò il drago, lo hai detto a quelle persone e credo loro ci abbiano creduto. - mormorò Koll, cercando di dare all'altro una spiegazione. - Io per questo non posso andare via senza almeno aver provato, forse se non lo farò io non lo farà nessun altro. -
I pensieri del giovane dai capelli biondi corsero immediatamente alla gente della sua città natale, sapeva anche lui che se il drago avesse distrutto le città dell'impero di certo non avrebbe risparmiato quelle delle regioni vicine.
Già vedeva le case di legno bruciare, le urla delle donne levarsi alte nel cielo e le ali del mostro spazzar via ogni cosa e rinchiuderla nella loro oscurità.
Non gli importava degli imperiali, non gli importava delle loro città di pietra sapendo comunque sarebbero bruciate anche quelle, non gli importava delle loro donne e dei loro bambini, aveva odiato ogni singolo abitante di quella terra e la pena non lo coglieva, non per loro ma per i suoi fratelli e le sue sorelle sì, per sua madre che viveva sola, per i soldati suoi compagni.
Per loro avrebbe combattuto.
Per loro e solamente per loro avrebbe messo la sua vita in pericolo.
Sì, cercò così di convincersi che Steinbjorn non fosse nei suoi pensieri, ma in realtà vedeva anche la sua fine: lo vedeva steso a terra nella sua divisa; gli occhi spalancati e pieni di terrore; il petto aperto dagli enormi artigli della bestia che lo avevano ferito e scagliato lontano contro una roccia aguzza. Lo vedeva ancora stringere la spada e non potersi più salvare.
Scosse la testa scacciando quelle immagini per concentrarsi sul petto mosso dai respiri dell'altro.
- Il Sangue di Drago è forse una delle più belle leggende che io abbia mai letto, ma è una leggenda e come tale non esiste. -
Giunsero dure le parole del Nord al compagno, - E se non esiste nessuno darà una speranza a chi ora soffre. -
Gli occhi del giovane Steinbjorn si fermarono su quelli dell'altro mentre si chiedeva cosa lo spingesse a tanto: lui non si sarebbe mai finto un eroe per qualcuno che non avrebbe mai apprezzato; lui se ne sarebbe andato, li avrebbe lasciati a morire.
L'imperiale socchiuse gli occhi e in uno slancio dettato dal rancore e dalla paura colpì forte con un pugno il viso di Koll sorprendendolo e costringendolo ad arretrare.
- Ma non capisci che così morirai? - il gesto era rabbia, le parole amore.
Koll non aveva mai sentito tanto amore venire dall'altro, neanche quando si stringevano, neanche quando lo baciava durante la notte quando nessuno li poteva vedere.
Abbassò gli occhi, Koll, senza dire una parola, la sua mano prese quella dell'altro, i guanti che impedivano alle dita di toccarsi separandole di pochi millimetri.
Le mani parevano separate da una forza senza tempo e senza luogo e, per quanto l'uno sentisse la stretta forte dell'altro, non potevano percepire il calore, la presenza rassicurante di qualcosa di vivo.
Lacrime salate di rabbia uscirono dagli occhi di Steinbjorn a quel tocco e la sua ira fu tale che quasi strappò via il quanto al compagno scivolando sul selciato e cadendo in ginocchio davanti all'altro tenendogli forte la mano.
La portò al viso, la fece sbattere contro la guancia e la graffiò con la barba folta vicino al mento mentre la tirava a destra e a sinistra cercando di sentirne il calore.
Le dita di Koll raccolsero quelle lacrime lasciandole asciugare contro la pelle rimasta calda grazie ai guanti ti pelliccia.
Premette il pollice sotto l'occhio dell'altro per fargli sentire che era lì e attese, attese che il viso di Steinbjorn si rilassasse, attese che le lacrime smettessero di bagnargli quei bellissimi occhi marroni, attese che la stretta attorno al proprio polso diventasse minore.
Attese che il compagno capisse che ancora aveva davanti un uomo vivo.
Le ginocchia di Steinbjorn quasi congelarono a contatto con il sottile strato di neve, le lacrime gli raffreddavano il viso ma non poteva allontanare l'altro da sé.
Lo aveva salvato, lo aveva salvato per vederlo vivo non per condurlo a morire di nuovo.
Il petto scosso da tremiti non accennò a calmarsi almeno fino a quando il suo viso venne in contatto con quello del Nord.
Koll si era piegato e sistemato a terra vicino a Steinbjorn e lo aveva tirato a sé stringendolo tra le braccia.
Steinbjorn pianse, anche se lo odiava, pianse: non era in grado di trattenere le lacrime che gli rigavano le guance.
Eppure aveva ucciso l'imperatore, eppure gli aveva mentito per mesi, eppure si meritava di morire.
Tuttavia lo voleva vivo perché infondo ancora lo amava.
Anche l'abbraccio finì per sciogliersi e il soldato dovette alzarsi, le ginocchia gelate e il viso freddo come se morto fosse lui, ma un po', posto davanti alla sola idea, lo era.
Con un solo sguardo decisero sarebbero rimasti lì quella notte, avrebbero dormito al confine quasi come se così facendo tutto quanto sarebbe stato lontano e niente mai troppo vicino da far loro paura.
Nella notte, dormirono l'uno accanto all'altro scaldandosi a vicenda con teneri abbracci che significavano molto più di parole che nessuno dei due sapeva pronunciare.
La luna li cullò, sorridendo e illuminando di luce fredda la tenda sotto cui si erano riparati, sorrideva pallida guardando i destini di ciascuno dei due: di uno lo vedeva eroico dell'altro triste e tetro.


Koll si sentiva perso.


Camminava ma non trovava la via.
Una fitta nebbia lo avvolgeva e non gli permetteva di vedere se oltre a sé c'era qualcun altro o qualcos'altro.
Non sentiva i piedi.
In realtà non sentiva neanche le gambe, non si sentiva affatto eppure sapeva di esserci, di essere qualcosa di diverso dalla nebbia anche se non lo sembrava.
E poi pensò.
E se tutta la nebbia fosse fatta da qualcuno che dice “io non sono nebbia!”? Triste come destino, 
triste come luogo: tutti insieme per sempre a fare la nebbia chissà dove.
Koll non voleva fare la nebbia.
Voleva camminare, correre, fuggire, andare via dalla nebbia e diventare luce, diventare materia, qualcosa che potesse ancora vedere, muoversi e distinguere ciò che aveva intorno.
Koll si rese conto che più tentava di fuggire più restava legato a quel mondo senza fine, senza una porta, senza un cielo e senza un pavimento.
Si lasciò cadere nella nebbia anche se non poteva toccare terra perché Terra non esisteva più.
Era strana la nebbia: ne aveva paura ma era bella.
Bella da morire.
Lasciò così che quel miscuglio di Nulla e di Tutto lo attirasse a te e chiuse gli occhi.


Koll si svegliò di soprassalto e, di conseguenza, anche Steinbjorn che gli riposava accanto si svegliò e, intontito, tentò di capire cosa stesse accadendo.
Ci mise poco a mettere a fuoco il petto del Nord andare su e giù freneticamente, in cerca d'aria quasi come non ne avesse sentita nei polmoni per lungo tempo.
Quasi immediatamente, si tirò a sedere porgendogli la mano affinché la prendesse e calmasse il suo respiro pieno di spavento e ansia.
Non dovette chiedere: la spiegazione giunse da sé.
- Ho sognato di morire. Ho sognato le nebbie di Sovngarde. -
Conoscendo il presagio, anche a Steinbjorn si gelò il respiro e la luna per un attimo temette davvero di perdere entrambi i destini.
Essendo però una brava madre e un'ottima compagna, ella pose un sorriso rassicurante sulle labbra dell'imperiale e diede alla sua bocca facoltà di parlare e dire parole di tranquillità per rendere di nuovo il sonno del biondo più calmo.
Ma Steinbjorn non si addormentò più e i suoi occhi castani rimasero attenti sul petto dell'altro controllando che ogni respiro giungesse fino infondo.


 

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Capitolo 3
*** Lo è sempre stato ***


Capitolo III: Lo è Sempre Stato

 

Con il suo vegliare, Steinbjorn tenne lontani Nulla e Tutto dal mortale che dormiva, i suoi occhi, ogni giorno più stanchi, erano una barriera insormontabile per quelle due forze che facevano la guerra attorno all'uomo addormentato.
L'uno gli dava speranza di un futuro per ogni essere e l'altro gli mostrava il buio del Niente, ma quando i due piccoli sassi negli occhi del moro guardavano il Nord i due non riuscivano ad avvicinasi e l'altro dormiva senza timore di essere preso mentre non poteva guardare.
Per mesi, durante la notte, Tutto e Nulla ruggivano nel cielo urli senza fine che rimbombavano in ogni valle, ma nessuno si accorse perché per tutti erano solo tuoni di un temporale senza fine che avrebbe, invece, portato alla morte del Tempo.
Per mesi i due mortali camminarono verso la meta, i passi coperti e soffocati dai boati del temporale, per mesi si guardarono, si parlarono e risero insieme fingendo che tutto non sarebbe mai finito.
Per mesi si illusero ma Tempo tolse loro la possibilità di fingere facendoli giungere all'alta montagna su cui dimorava il drago.
L'avevano trovata un po' grazie alle mille leggende del drago addormentato nel tumulo della montagna, un po' sentendo persone narrare, forse inventando, forse no e un po' seguendo le urla spaventate degli uomini che avevano visto la belva.
Avevano impiegato poi tre giorni a raggiungerne la cima, era così alta che pareva infinita: il sentiero si vedeva appena e, tutt'intorno vi erano Tutto e Nulla che lottavano creando una fitta nebbia che non era altro che materia esistente senza forma simbolo di morte e disfacimento.
Le mani dei due mortali si strinsero, Steinbjorn teneva salda quella di Koll e lo guidava mentre l'altro a vedere la nebbia si spaventava ricordando i sogni che non l'avevano fatto dormire.
Il tortuoso sentiero diveniva sempre più difficile da percorrere a ogni passo che facevano: l'aria era pesante, la nebbia più fitta, la montagna chiamata Gola del Mondo, era tanto spaventosa quanto lugubre.
Salendo i due riuscivano a sentire urla.
Urla di morto e urla di vivo.
Si scontravano nell'aria creando gelo, terrore e orrore e ghiacciando i cuori e la pelle di entrambi i mortali visitatori.
I due quasi riuscivano a vedere gli occhi spenti delle anime che vagavano intrappolate nella nebbia, ne sentivano il respiro, sì, quel vento non poteva che essere fiato di povere anime distrutte e costrette a nutrire il Divoratore di Mondi in quel Limbo terrestre. In quel perenne campo di battaglia tra Tutto e Niente.
Koll, il quale era più abituato a resistere al freddo, teneva stretto Steinbjorn il cui corpo era abituato a climi più caldi: il braccio destro gli cingeva le spalle coperte già dal mantello mentre la mano sinistra era ferma sulla sua testa a scaldargli la punta gelata delle orecchie.
I due camminavano così e continuarono fino a quando il sentiero non finì.
In quel punto, quando il fiato dei morti era l'unica cosa respirabile, quando solo i loro occhi erano visibili e quando solo le loro grida e null'altro poteva essere udite, lì il vento gelido del Nulla era così forte da non permettere di camminare oltre e spingeva indietro i corpi di coloro i quali tentavano di più.

Oppure li inghiottiva.

Poi un occhio si aprì.
Grande, iniettato di sangue, la pupilla serpentina e le iridi le cui tinte riprendevano quelle dell'alito di fuoco del drago.
La creatura uscì dall'ombra facendo tremare il terreno e facendo sbilanciare i due uomini che si erano posti di fronte a lei.
Un passo.
Due passi.
Koll e Steinbjorn caddero a terra e furono costretti a separarsi trovandosi ciascuno a fissare con i propri occhi quelli grandi del drago che vedevano per la seconda volta.
Il serpente alato mosse di scatto la testa guardando l'uno e l'altro. Il suo sonno era stato disturbato da una presenza diversa dalle altre.
Tuttavia non era l'odore di vita ad essere di disturbo, no, era qualcosa di diverso.
Era lo stesso odore che lo aveva portato a volare sulle città che aveva distrutto, era lo stesso odore che lo aveva convinto a dare fuoco a case e persone.
La sua lingua passò sull'interno dei denti prima che aprisse la bocca.
- Chi osa disturbare il mio sonno? -
La sua voce era sussurro, la sua voce era così antica e così forte che la terra tremò sotto di essa e Koll, in un momento di paura, si nascose mentre invece Steinbjorn rimase in piedi a lato della bestia.
Il drago vide con l'occhio rosso il soldato e girò la testa verso di lui compiendo altri lenti passi nella sua direzione e annusandolo con le sue enormi narici.
Ma no.
No.
Non era l'odore di quel mortale a disturbarlo, non era la sua carne a infastidirlo, non era la sua voce a portargli ansia né, tantomeno, la sua spada poteva arrecargli danno e questo Alduin lo sapeva.
Così prese fiato e la sua gola si riempì di caldo fuoco: quel figlio del Nulla lasciò crescere in sé l'alito infuocato facendolo risalire per la gola fino alla bocca dalla quale lo fece sgorgare nella direzione del soldato che si riparò in fretta dietro lo scudo che aveva al braccio.
Spaventato, Steinbjorn si tolse in fretta il mantello che aveva preso fuoco cercando di allontanare da sé il calore e la paura mentre si trovava costretto a lasciar cadere a terra lo scudo diventato bollente.
Il serpente, così, fece un altro passo avanti guardando il viso del mortale scottato dal suo alito.
Egli, ugualmente, non fuggiva.
Aprì la bocca deciso a finirlo con un morso e a nutrirsi delle sue carni, la spada di ferro non lo avrebbe protetto dalle sue fauci.
I denti si chiusero poco dopo rompendo l'armatura in ferro e lasciando tre grossi solchi sul petto del soldato.
Steinbjorn ricadde all'indietro.
La terra tremò di nuovo mentre il grosso drago nero si avvicinava sovrastando del tutto con la sua mole l'uomo a terra morente.
Piegò la testa annusando di nuovo il corpo quasi senza vita. Eppure un odore gli dava fastidio ma non veniva dal mortale davanti a lui.
Quindi da dove poteva arrivare?
Da dove poteva arrivare quell'odore che in tanti avevano chiamato forza di volontà?
Improvvisamente il grande Alduin sentì un dolore alla coda ricoperta di scaglie e girò il lungo collo notando che qualcuno l'aveva trafitta da parte a parte con una spada lunga ma quel qualcuno non c'era più.
Scosse la coda in preda alla rabbia scagliando lontano, forse addirittura giù dalla montagna ricoperta di nebbia, l'arma che un mortale aveva usato contro di lui.

Che il portatore dell'odore aveva usato contro di lui.

- Chi osa sfidarmi? - la sua voce fece tremare forte gli alberi ma nulla accadde, nessuno si fece vedere, pareva davvero che l'unico intruso Alduin lo avesse già sistemato.
Un altro colpo, questa volta alla schiena.
Il drago si girò trovandosi così faccia a faccia con Koll.
Koll stava in piedi e al grande figlio del Nulla venne da ridere nel vedere con quanta sicurezza quel mortale osasse sfidarlo.
Tutto, però, stava al fianco di Koll rendendolo forte e coraggioso.
Alduin annusò l'aria con un ampio movimento della testa e sì, l'odore antico che sentiva giungeva proprio da lui.
Era un odore tanto famigliare quando totalmente estraneo, come se ciò che lui conosceva fosse stato mascherato da altro.
Koll non attese, non era né un uomo d'onore né il combattente più scaltro, tuttavia voleva difendere il compagno ferito e sapeva bene che attaccare il mostro distratto gli avrebbe certo portato un grande vantaggio.
Così si scagliò contro la bestia accompagnato dalle anime che giacevano nella nebbia, anime che combattevano ma non potevano ferire e si scontravano tra di loro come se in corso fosse una grande battaglia.
Anime nere accompagnavano Koll, anime di uomini che avevano peccato e che giuste non sarebbero mai potute essere, come non lo sarebbe stata la sua. Alduin era, invece, accompagnato da anime impalpabili che lo circondavano senza essere visibili, che esaltavano la sua mole e di cui lui si nutriva per avere forza.
Tutto quello Koll non poteva vederlo essendovi in mezzo ma gli occhi stanchi di vegliare di Steinbjorn potevano vedere la grande battaglia della fine dei tempi.
Nulla e Tutto si fronteggiavano e lui che era da parte si chiedeva come Nulla avrebbe potuto esistere senza Tutto su cui appoggiarsi e come Tutto avrebbe potuto regnare senza Nulla da governare.
Alduin colpiva il mortale e Koll colpiva il drago, entrambi con una rabbia che non veniva da loro perché a renderli nemici non era la loro natura ma ciò per cui combattevano.
Una zampata si abbatté sull'uomo che barcollò crollando all'indietro e le anime che gli stavano accanto presero a girargli intorno e curare le sue ferite.
Chissà perché, si chiedeva Steinbjorn, nessuno si preoccupava delle ferite che aveva lui.
Un colpo di spada ne seguì un altro, entrambi i contendenti parevano intoccabili, uno immateriale e l'altro fatto di così tanta materia da averne tanta da sprecare.
I movimenti lenti del drago erano però potenti e forti e sbalzavano via il ragazzo che gli si opponevano che per evitarli era costretto a muoversi in fretta e a nascondersi quando possibile.
Poi, un'altra zampata segnò la fine del conflitto.
Koll si trovò intrappolato tra gli artigli della bestia, le sue vesti trafitte dalle unghie e il suo petto schiacciato sollo il palmo di quello.
Si agitava sentendosi soffocare e anche le anime tentavano, ma non riuscivano, di spostare la zampa dell'essere e liberare il loro campione.
Alduin si chinò su di lui inspirando ancora l'odore che la sua pelle emanava e parlando con il fiato che puzzava di zolfo: - Ho un ricordo di te. -
Koll pensò all'omicidio dell'imperatore ma i ricordi del drago andarono molto più indietro nel tempo e si fermarono a quando ancora Nulla esisteva e Tutto stava solo cominciando a prendere Forma con se per diventare Mondo.
Koll vide Nulla invidioso nascondersi a Tutto e tenere bassa la sua testa inesistente: accudiva qualcosa, Nulla, lo teneva nella sua morsa e lo cullava piano cantandogli le canzoni più belle del Silenzio, insegnando così al suo piccolo quali parole antiche dire.
Erano canzoni di Silenzio e di Vendetta che fecero crescere quella massa di fumo pallido tra le braccia di Niente e gli donarono così tanto Odio che ne nacque il figlio più bello che Nulla poteva sperare.
Il figlio del Nulla e Silenzio, cresciuto da Vendetta e Odio non aveva un nome perché solo Nessuno lo aveva visto e Nessuno, per definizione, non sapeva cosa fosse Parola.
Nulla lasciò dunque che suo figlio e le sue fauci minacciassero il mondo di Tutto.
E le grandi ali nere fatte di Niente fendevano l'aria come se fossero qualcosa così come il suo fiato di fuoco che non poteva esistere distruggeva e bruciava ogni cosa.
Koll vide i suoi antenati spaventarsi e fuggire, alcuni combattere, ma tutti morire.
Alduin diceva “Fuoco” e fuoco usciva dalla sua bocca, Alduin diceva “Ghiaccio” e un vento, così gelido da ghiacciare chiunque, veniva sputato dalle sue fauci nere e gli uomini che non sapevano parlare non dissero mai né “Fuoco” né “Ghiaccio” e sperarono di uccidere la parola con la spada.
Uno tra tutti però si era levato ed era diverso, aveva ascoltato Alduin e la sua lingua e l'aveva capita ed imparata inventando gli altri termini che nessuno dei due, né lui né il drago potevano conoscere e aveva parlato anche lui.
Aveva detto “Fuoco” e la sua voce era diventata, in aria, fuoco e aveva detto “Ghiaccio” ed era diventata ghiaccio.
Così era stato sconfitto all'inizio dei tempi: un uomo era diventato con l'anima di drago imparando da lui a parlare e rendendosi suo pari.
Per la prima volta un uomo aveva puzzato di Volontà.
Ma cosa centrava, si chiedeva Koll, lui con tutto quello? Lui non era niente di diverso da un uomo senza dono della Voce. Parlava ma non aveva Voce.
Le sue parole non erano Forza, non erano Fuoco e non erano Ghiaccio, erano solo parole senza alcun potere perché lui non conosceva il nome che quegli elementi avevano per Alduin o per il primo uomo che aveva usato la Voce.
Non era un dono fatto a lui.
Se Koll non capiva Alduin vedeva: vedeva gli occhi dell'uomo che stava schiacciando sotto di se e ricordava gli occhi dell'uomo che aveva parlato per la prima volta.
Erano uguali.
Non di colore, non di forma, non avevano niente di fisicamente identico ma avevano lo stesso identico sguardo, la stessa identica inconsapevolezza.
Erano anche quelli gli occhi di un uomo senza alcun potere la cui forza di volontà poteva essere molto più pericolosa di qualsiasi altra cosa.
Alduin ricordava tutti i tentativi fatti da quell'uomo per pronunciare la parola fuoco, “yol” aveva detto imitando la Voce del drago, ma essendo quella del drago non aveva ubbidito.
“Yol” aveva ripetuto più forte per farsi sentire dal cielo e dalla terra, pieno di rabbia e paura, ma niente, il fuoco non nasceva.
Così lo aveva ripetuto una terza, una quarta e una quinta volta, lo aveva ripetuto infinite volte fino a quando la Volontà e il Coraggio non erano diventati tali da dargli una Voce tutta sua.
E aveva detto Yol e il fuoco era nato, aveva detto Fo ed era stato freddo, aveva detto altre parole e ne aveva inventate tante, così tante da creare in una sola battaglia una lingua intera.
Fus era la forza che spingeva via il drago, Feim era lo spirito che gli permetteva di non essere toccato, Raan aveva richiamato un lupo e un orso e li aveva fatti gettare in battaglia al fianco del povero uomo che parlava.
Alduin pensava mentre schiacciava Koll e Koll lo sentiva pensare così forte che credette di essergli nella testa.
Sentiva ogni parola e ne capiva il significato ma dirla no, quello non avrebbe saputo farlo perché non era compito suo.
Sentiva la zampa farsi sempre più pesante e sentiva se stesso abbandonare il proprio corpo.
Ecco: poteva persino vedere la propria anima tra le altre.
Quell'anima che tirava più forte la zampa era la sua e ne era certo, era la sua ma non aveva la sua forma: aveva i capelli corti e pettinati, la barba tagliata corta per essere in ordine e gli occhi marroni, sì vedeva gli occhi anche se non avevano colore.
Quell'anima che sentiva sua era quella di Steinbjorn che giaceva senza vita e che, intrappolata in quel limbo, cercava almeno di salvare lui.
Forse fu paura, forse fu rabbia, forse fu amore, ma Koll parlò.
- Iiz Slen Nus! - La terra e la montagna tremarono mentre la voce dell'uomo si mescolava a quella del drago che gridava “Tiid Klo Ud”.
L'uno aveva ordinato al mondo di ghiacciarli e l'altro aveva chiesto che il tempo si fermasse imprigionandoli per l'eternità
Le scaglie del drago divennero piano piano di ghiaccio mentre toglieva la zampa dal mortale che afferrò la spada e fece per colpirlo di nuovo.
Si gelarono così.
L'uno con la zampa alzata e l'altro con la spada puntata al petto del mostro.

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Dunque siamo giunti al termine di questa leggenda che volevo raccontavi.
C'è però un'ultima piccola confessione che io, Steinbjorn, ho da fare.
Ricordo che quando mi svegliai da quello che era parso davvero un brutto incubo, sulla cima di quella montagna la nebbia se n'era andata ed erano tornati a spuntare, là dove il sangue di Koll e il mio di erano posati, piccoli fiori di montagna.
Ricordo che io non ero l'unico ad essermi svegliato: altri uomini e donne si guardavano intorno non ricordandosi dove fossero stati.
Io però me lo ricordavo: eravamo morti e tornati in vita.
Tornati in vita grazie al mio Koll.
Mai piansi tanto quanto feci quel giorno nel vederlo congelato. Rimasi ad abbracciarlo per giorni sperando che il ghiaccio si sciogliesse e di poterlo stringere di nuovo.
Ogni giorno per anni andai a vederlo, lì, fermo, immobile, sempre bello e immutabile.
Ormai, però, sono anni che non posso vederlo perchè la vecchiaia mi impedisce di salire la montagna ma so che presto, morendo, lo riabbraccerò.
Sono sicuro che la sua anima stia aspettando impaziente il giorno in cui il suo corpo si scioglierà e lui sarà abbastanza forte per salvarci tutti di nuovo.

Probabilmente nessuno lo riconoscerà mai come un eroe, ma per me lo è sempre stato e forse questo basta a renderlo tale.

 

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