Did you miss the Dark Lord?

di Smaugslayer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. ***
Capitolo 19: *** I can see everything. ***
Capitolo 20: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


 
La Sala d’Ingresso dell’Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche era piacevolmente vuota quando John Watson terminò il proprio turno di lavoro. Aveva trascorso una giornata pesante e non vedeva l’ora di godersi un po’ di quiete e il meritato riposo lontano dai pazienti e dalle loro magagne.
 
Accanto a lui, il suo amico Simon Church si stava mettendo la giacca; benché fosse ormai giugno inoltrato, si ostinava a voler indossare quel pastrano nero, che secondo John doveva fare parecchio caldo.  “Un’altra giornata così e scoppio” mugugnò, lottando per infilare una manica.
 
John lo guardò: Simon era magro, allampanato; aveva un naso dritto e largo, labbra sottili e mento piuttosto pronunciato; nei suoi occhi grigio-verdi era sempre possibile cogliere il luccichio di una risata repressa, benché in realtà ridesse raramente ad alta voce. Aveva l’età di John, ma era americano ed era stato educato nella scuola di magia di Durmstrang.
 
 “Già. Fortuna che domani abbiamo il giorno libero” disse John, solidale. “Dovrò passare da Mary, è una settimana che non la vedo” rifletté.
 
“Non ti sei ancora deciso, eh?” disse l’altro con vena ironica, che non mancava mai di utilizzare quando il discorso verteva sulla fidanzata storica dell’amico.
 
“Lo sai che voglio aspettare” si giustificò John stancamente. “Con lo stipendio che recepisco ora, non potremmo nemmeno permetterci una casa decente.”
 
“Sì, ecco, a proposito…” cominciò Simon, strisciando un piede per terra con nervosismo; “ho una proposta.”
 
Una ragazza del loro corso li superò, salutandoli con un cenno della mano e un sorriso, e si Smaterializzò; l’Ingresso, o Sala d’Accettazione, era l’unico luogo dell’ospedale in cui fosse consentita la Materializzazione.
 
Mentre John ricambiava il saluto, Simon non diede segno di averla vista.
 
Era così da lui… Simon gli ricordava Sherlock Holmes. John non poteva ignorare quell’idea, benché gli procurasse un certo malessere. Erano entrambi sagaci, maniacali e piuttosto asociali… John odiava paragonarlo con il suo vecchio migliore amico, perché sapeva bene che lui non sarebbe mai stato incredibile come Sherlock, ma non poteva trascurare la loro somiglianza.
 
“Stavi dicendo?”
 
“Ecco, sì. Ho deciso di trasferirmi e avrei già adocchiato un alloggio in centro a Londra. È una zona costosa, e anche se la proprietaria sarebbe disposta a farmi un prezzo di favore, da solo non posso comunque permettermelo. Quindi mi chiedevo se… tu… volessi… insomma, sì. Diventare coinquilini.”
 
“Scherzi?” John era già entusiasta. “Ti ricordo che vivo in un appartamento minuscolo con quattro imbecilli, anche solo ridurre il numero sarebbe fantastico!”
 
“Mi hai appena dato dell’imbecille?” chiese Simon, sorridendo.
 
“No, non… cioè…”
 
“Se sei d’accordo, potremmo visitarlo domani” propose Simon.
 
“Certo! Ci incontriamo qui alle… undici? Va bene?”
 
Simon annuì. “Ci vediamo domani, allora” disse a mo’ di saluto prima di Smaterializzarsi “A proposito, l’indirizzo è il 221B di Baker Street”.
 
John riapparve in camera propria pochi secondi dopo. Era contentissimo di poter lasciare quel tugurio: si era diplomato a Hogwarts sei anni prima, e da allora aveva sempre vissuto lì, ma non lo aveva mai sentito suo.
 
…E poi cavoli, andare ad abitare con il suo migliore amico! Quanto poteva essere forte?
 
Sapeva che anche il nuovo alloggio sarebbe stato temporaneo, perché prima o poi avrebbe dovuto cercarne uno da condividere con la sua ragazza, ma avrebbe valutato la questione matrimonio a tempo debito: non si sentiva ancora pronto a compiere quel passo, qualcosa lo frenava.
 
Qualcosa… sapeva che era sciocco, insensato e controproducente, ma non aveva dimenticato di aver avuto dei dubbi, un tempo, e in particolare durante il suo ultimo anno a Hogwarts. E quei dubbi avevano riguardato Sherlock Holmes.
 
Sherlock Holmes. Il suo stomaco si contrasse nel pensare a quel nome. Dopo sei anni, la ferita non si era ancora rimarginata. Quante volte aveva immaginato di ritrovarselo davanti, con un sorrisetto sghembo e le sopracciglia inarcate, vivo e vegeto… quante volte aveva sognato che cosa si sarebbero detti in quel caso, quante volte si era esercitato a modulare perfettamente la sua possibile reazione… ma Sherlock era morto, e non sarebbe tornato, punto.
 
Si sforzò di scacciare i fantasmi del passato concentrandosi sul presente, e in particolare sulle attività del giorno dopo: alle undici c’era la casa da vedere, e poi sicuramente avrebbe pranzato con Simon; doveva scegliere il regalo di nozze per Rachel e Denis, suoi vecchi compagni della squadra di Quidditch di Grifondoro, e infine era d’obbligo una visita a Mary, o c’era il rischio che dimenticasse di essere fidanzata…
 
 
 
La sveglia trillò puntualmente alle otto e trenta.
 
La spense con una bacchettata e si costrinse ad aprire gli occhi.
 
Fece scivolare una gamba fuori dal letto, sperando che il resto del corpo la seguisse; constatato che ciò non sarebbe accaduto, buttò giù anche l’altra gamba e si girò su un fianco.
 
Con uno sforzo immane riuscì a mettersi seduto e a stiracchiarsi.
 
Si guardò intorno con espressione vacua, raccogliendo le forze per tirarsi in piedi.
 
Per prima cosa, una volta alzatosi, aprì la finestra per arieggiare la stanza. Notò che il cielo si stava rannuvolando rapidamente e rabbrividì quando una corrente gelida lo investì in pieno petto.
 
Si affrettò a rifugiarsi in bagno e ad aprire l’acqua della doccia perché si scaldasse; nel frattempo, si svestì saltellando da un piede all’altro per combattere il freddo.
 
C’era qualcosa nella sua testa.
 
Si sforzò di richiamare un qualche sogno avuto quella notte, ma non ne ricordava alcuno.
 
Tuttavia, percepiva chiaramente che qualcosa nella sua mente era cambiato.
 
Entrò sotto il getto d’acqua calda e si spremette lo shampoo sulle mani, continuando a riflettere.
 
Era una sensazione curiosa. Era come se il suo cervello fosse un gigantesco magazzino, e qualcuno avesse improvvisamente spostato uno degli oggetti archiviati: lui notava la modifica, ma non capiva che cosa di preciso era cambiato.
 
Agguantò l’asciugamano appoggiato sul lavandino e si affrettò ad avvolgervisi e ad asciugarsi, tremante.
 
Passandosi distrattamente una mano sul mento, notò che la barba aveva bisogno di una rasatura. Per qualche minuto lo sforzo di restare concentrato per non tagliarsi una guancia occupò completamente i suoi pensieri, ma poi ritornò alla strana cosa nella sua testa.
 
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, ora, era Sherlock.
 
Sherlock.
 
Si stupì rendendosi conto che quel ricordo non lo straziava come al solito. Sherlock era morto da sei anni, e mai una volta era stato capace di pensare a lui senza sentire una morsa nello stomaco… tranne quel giorno.
 
Ma a pensarci bene…
 
 
 
 
… “John, dovrai spiegarci parecchie cose.”
 
… “Ricordi che stavo preparando la Pozione Polisucco? Te l’ho fatta bere, e sono diventato te. Credevo davvero che sarei morto” …
 
 
 
 
Era vivo! Per sei anni gli aveva fatto credere di essere morto… ed era vivo!
 
Ma allora come mai solo adesso John ricordava tutto? Doveva concentrarsi… cos’altro era successo quella notte?
 
 
 
 
… “I Mangiamorte sono pronti a risorgere, e che metà di loro è ancora a piede libero. Anche senza Moriarty… non possiamo permetterlo. Ho trascorso gli ultimi due anni ad indagare, posso farlo ancora una volta. Devo farlo. Estrarrò i vostri ricordi recenti e li sostituirò con altri ricordi modificati.” …
 
 
 
 
Gli incantesimi di Memoria non avevano effetto temporaneo, e soprattutto non era possibile che i ricordi estratti fossero ritornati da soli. Questo significava che… John trasalì, e nel farlo si soffocò con la sua stessa saliva e iniziò a tossire.
 
Doveva per forza essere così, doveva avergli restituito i ricordi. Dopo tutti quegli anni…
 
Doveva trovare Sherlock, più di ogni altra cosa, lui doveva…
 
Ma era vero? Era davvero sopravvissuto?
 
Svegliarsi una mattina con i ricordi modificati –o ristorati?- non era un peso facile da sopportare: significava dover rivedere parte della propria esistenza, rendersi conto di essere vissuti per anni nell’errore. Mentre lui credeva che Sherlock fosse morto, Sherlock se ne andava in giro tranquillamente per il Regno Unito.
 
Per sei anni John era stato costretto a sopportare una dolorosa, straziante menzogna.
 
Era vivo!
 
Ma certo che è vivo, idiota, pensò.
 
La cosa più buffa era che adesso il solo contrario pareva inconcepibile.
 
 
 
 
“Tornerò, John, te lo prometto.”
 
 
 
 
Era vivo!
 
Insomma, lui era stato lì, lo aveva visto, era proprio vivo. Lui aveva preso le sue sembianze e poi l’aveva pregato di non abbandonarlo… e lui l’aveva fatto lo stesso.
 
Era stato davvero disposto a morire pur di salvarlo? Perché? Certo, ricordava di aver provato forti sentimenti per lui, all’epoca, ma poi lui era morto, e…
 
Rischiò di soffocarsi di nuovo.
 
…e non era morto.
 
Doveva trovarlo.
 
Oh, e poi lo avrebbe ucciso.
 
Indossò meccanicamente una camicia e un paio di pantaloni per non morire di freddo mentre rifletteva.
 
Pianificazione. Serviva pianificazione.
 
Come poteva ritrovare un tizio che si era nascosto a Londra per sei anni?
 
Un pezzetto di pergamena ripiegata sul suo comodino attirò la sua attenzione: era sicuro di non averne appoggiato alcuno. Lo prese in mano per capire cosa fosse, ma, non appena lo toccò, si sentì strattonare verso l’alto, come se qualcuno avesse attaccato una canna da pesca al suo ombelico, e in un istante si ritrovò in un posto completamente diverso.
 
Era al centro di una piazzetta, su una macchia di erba incolta.
 
Si guardò attorno. Le facciate sudice delle case circostanti non erano accoglienti; alcune avevano i vetri rotti, la vernice di molte porte era scrostata e mucchi di immondizia giacevano davanti a parecchi gradini d’ingresso.
 
“Che diavolo…” sbottò, abbassando lo sguardo sul bigliettino che teneva ancora in mano.
 
Diceva:
 
Il Quartier Generale dell’Ordine della Fenice si può trovare al numero dodici di Grimmauld Place, Londra.
 
John osservò di nuovo le case. Si trovava proprio a metà tra il numero undici e il numero tredici, ma del dodici non c’era traccia.
 
“Ma qui…”
 
Nel momento esatto in cui ripensò a cosa c’era scritto nel foglietto, una porta malconcia affiorò dal nulla tra l’undici e il tredici, seguita dal resto di una dimora scalcagnata quanto le altre della via: era come se si fosse gonfiata fra le altre case.
 
A John cadde la mascella.
 
In quel momento, la porta del numero dodici si aprì.
 
John sfoderò la bacchetta, puntandola davanti a sé. Certo, avrebbe potuto Smaterializzarsi seduta stante e ritornare a casa propria: ma la curiosità ebbe la meglio; avanzò cautamente verso la casa, sempre con la bacchetta sguainata. Aveva i nervi tesi, pronti a scattare al minimo segno di pericolo. Per precauzione, pose attorno a sé uno scudo difensivo.
 
Entrò in una sala d’ingresso cupa e illuminata solo dalla fioca luce di una lampada a gas. Si voltò appena in tempo per vedere la porta richiudersi.
 
Una mano si posò sulla sua spalla e lui balzò di lato, brandendo la bacchetta contro il suo malvagio assalitore: un uomo dalla barba incolta e i capelli neri, disarmato e dall’aria del tutto innocua.
 
“John Watson, suppongo” disse lo sconosciuto con un sorriso.
 
“E lei chi è?” chiese John, sospettoso.
 
“Vieni con me.”
 
Sempre continuando a tenerlo sotto tiro, John, titubante, lo seguì per un corridoio lungo e lugubre; la carta da parati era strappata e rovinata, e ogni passo sollevava una nuvola di polvere; le tende pesanti tende erano tirate, e non un raggio di sole filtrava dalle finestre sudice. Scesero per una stretta scala a chiocciola, che li condusse in una sala cavernosa, per metà occupata da un massiccio tavolo di legno dalle gambe ricurve. Una persona vestita con un completo scuro stava accendendo il fuoco del caminetto all’altro lato della stanza.
 
John batté le palpebre, spaesato.
 
“Benvenuto al dodici di Grimmauld Place” disse l’uomo dalla barba arruffata in tono ironico.
 
Il locale, presumibilmente la sala da pranzo, era più illuminato dell’androne, e John poté studiare con più attenzione il suo anfitrione: aveva i capelli lunghi, gli occhi neri e le rughe di un invecchiamento prematuro, e aveva un’aria vagamente familiare.
 
“Meglio che non ti presenti subito” disse una seconda voce, appartenente alla persona che prima dava loro le spalle, e che ora si era girata verso di loro.
 
Il cuore di John perse svariati battiti.
 
Come ipnotizzato, si scostò dall’uomo arruffato, che si fece da parte con un mezzo sorriso.
 
In piedi davanti al caminetto, con la testa leggermente inclinata e le sopracciglia inarcate, c’era Sherlock Holmes.
 
John inspirò a fondo, tremante.
 
“La cosa più assurda” esordì con voce rotta, allargando le braccia. “È che lo sapevo che eri vivo.”
 
John Watson, sei un idiota, disse una voce nella sua testa. Per sei anni si era preparato a quell’evenienza, aveva praticamente steso un copione, e ora se ne usciva con un “lo sapevo che eri vivo.” Idiota.
Sherlock non era cambiato molto in quegli anni: era sempre magro e allampanato, con una zazzera di riccioli scuri. I lineamenti del suo viso erano più affilati e sembrava più muscoloso, ma per il resto era esattamente uguale a prima.
 
John deglutì a fatica. Aveva deciso che ripetersi mentalmente “idiota” era la cosa più saggia che potesse fare. Altrimenti, il suo cervello avrebbe iniziato a formulare altri pensieri, e l’avrebbe costretto a saltare al collo di Sherlock, per abbracciarlo o più probabilmente per strozzarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
“I’m back, bitches! –A”
Vi ricorda qualcosa questo primo capitolo? Ovviamente NO. Ve lo dico io: il primo capitolo di Quidditch con delitto. Prima John chiacchiera con i suoi amici/amico, poi Sherlock ritorna e lo sciocca. Inoltre, come avete visto, la conversazione con Simon Church è avvenuta appena prima dell’epilogo della storia precedente… oh, già, Simon Church. Hehe. Scommetto che lo odiate già, perché ha preso il posto di Sherlock, e ora John definisce LUI “migliore amico”…
Tra l’altro, voglio raccontarvi due cose Sherlock-related che mi sono successe ieri.
  1. Interrogazione di storia sull’Illuminismo: il prof cita il filosofo JOHN LOCKE. PER FORTUNA non mi ha fatto nessuna domanda nei successivi tre minuti, perché se fossi stata costretta ad aprire bocca gli sarei scoppiata a ridere in faccia.
  2. Ieri pomeriggio ho deciso di prendermi avanti con i compiti d’inglese per lunedì. Allora prendo il diario, controllo cosa c’è da fare da fare, vado alla pagina corretta e vedo che l’esercizio è relativo a un dipinto; vado a leggere la consegna e l’occhio mi cade sul titolo del quadro: THE GREAT FALL OF THE REICHENBACH.
RENDIAMOCI. CONTO.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


 
Sherlock batté una volta le mani. “Bene” disse. “Suppongo che tu abbia qualche domanda.”
 
Dove sei stato per tutto questo tempo? Perché non ti sei mai messo in contatto con me? Perché non mi hai restituito i ricordi subito dopo l’inchiesta? Dove diavolo ci troviamo? Chi è quest’uomo? Cos’è l’Ordine della Fenice?
 
“Qualche domanda” ripeté John, al limite dello sconcerto. Non riuscì a non trovare l’intera situazione paradossalmente spassosa.
 
“Da dove vuoi iniziare? Black, spieghi tu?”
 
“Oh, no.” L’uomo chiamato Black, oscuro come il suo nome, si diresse alla porta. “Io ero qui solo per fare gli onori di casa, adesso che ci siamo conosciuti ve la vedete voi.” Sembrava più giovane quando sorrideva, come se l’allegria cancellasse il marchio degli anni dal suo volto.
 
“Black? No, aspetta: Sirius Black? Il terrorista?” John spostò il dito da lui a Sherlock e viceversa, come per assicurarsi di aver capito bene. “Sto parlando con un ricercato?”
 
Sirius Black il ricercato sogghignò. “Oh, no. Credo che fosse il ricercato a parlare con te.”
 
John rimase perfettamente immobile per una manciata di secondi dopo che lui fu uscito.
Sempre senza staccare gli occhi dalla porta, disse: “Sono appena stato portato nella dimora di un terrorista per incontrare il mio migliore amico che fino a ieri sera ricordavo morto sei anni fa?”
 
“Già” replicò laconicamente Sherlock.
 
“Sherlock, quell’uomo ha ucciso tredici persone. Io credevo che tu li sconfiggessi, i Mangiamorte come lui.”
 
“Sì, è così.”
 
“E allora come mai ci troviamo nella casa sua gonfiabile?”
 
“Oh, ma lui non è un vero Mangiamorte! Non è stato lui a tradire la famiglia Potter come credono tutti, era un complotto ordito da uno dei suoi migliori amici per incastrarlo” spiegò Sherlock, come se la faccenda fosse del tutto ovvia e irrilevante.
 
“Bene” disse seccamente John. “Quindi in questo momento mi trovo nello stesso edificio di un uomo ingiustamente bollato come psicopatico e di un sociopatico iperattivo che ha finto la sua morte.”
 
Sherlock non rispose subito. “Generalmente corretto” disse infine.
 
“Allora spiega: cos’è l’Ordine della Fenice?” Aveva deciso che, di tutti gli interrogativi possibili, quello era il più innocuo che potesse porre.
 
“È una società segreta fondata per combattere i Mangiamorte e Voldemort.” Notando che John stava per parlare di nuovo, Sherlock lo precedette: “Se hai intenzione di rettificare le tue precedenti constatazioni, penso di essere in grado di farlo anche io: adesso stai per chiedere se per caso ti trovi nel Quartier Generale di una società segreta dal nome altisonante fondata da un sociopatico e uno psicopatico per combattere una setta che il sociopatico (che tra parentesi sarei io, ciao) avrebbe dovuto distruggere anni fa.”
 
“In realtà mi stavo chiedendo perché combattere Voldemort, visto che è morto.”
 
“A quello ci arriveremo più tardi. Intanto ti avverto che metà di quello che hai detto è sbagliato.”
 
“Metà di quello che tu hai detto, vorrai dire.”
 
“Questa società è stata fondata da Albus Percival Wulfric Brian Silente…”
 
“Era la sua grafia, quella sul biglietto!”
 
“…ancora al tempo della Prima Guerra Magica. Io avrei effettivamente dovuto debellare la razza dei Mangiamorte da questo pianeta, ma molti sono riusciti a sfuggirmi… per mancanza di prove.” Sherlock, contrito, cambiò bruscamente argomento: “Hai letto la Gazzetta del Profeta nelle ultime settimane?”
 
“Di sfuggita.”
 
“Trovato nulla sul Torneo Tremaghi?”
 
“No, non mi pare, se avessero decretato il vincitore sarebbe stato in prima pagina.”
 
Quando Sherlock gli mise in mano un trafiletto ritagliato da un giornale, John commise l’errore di guardarlo negli occhi.
 
 
 
“Abbiamo diciassette anni. Che cosa credevamo? Tu sei il mio migliore amico, e voglio averti intorno ad infastidirmi ancora per parecchio tempo senza preoccuparmi che tu possa perdere interesse.”
“Quindi… amici e basta? …No, hai ragione. Forse quello non era un errore, ma… continuare lo sarebbe.”
 
 
 
“John?”
 
John si affrettò a riabbassare gli occhi sulla carta, rammentando a se stesso di essere ormai cresciuto.
 
Harry James Potter vince il torneo Tremaghi” lesse. “Che cosa? Dopo tutti gli articoli e le interviste… scrivono questo? Sono sì e no tre righe! La coppa e il premio di mille galeoni d’oro gli sono stati consegnati dal Primo Ministro Caramell in persona, che da sempre si occupa dell’istruzione giovanile e favorisce iniziative di scambio culturale tra le scuole. Gli studenti e i Presidi di Beauxbatons e Durmstrang si sono dimostrati entusiasti dell’esperienza condivisa con Hogwarts e dell’andamento del Torneo. Ma se volevano un articolo propagandistico, perché non pubblicarlo in prima pagina? Non dicono nemmeno qual è stata l’ultima prova… e le altre due avevano avuto pagine e pagine di speciali… di quando è?”
 
“Una settimana fa, circa.”
 
“Strano… ma cosa c’entra con l’Ordine della Fenice?”
 
“Vorrei che non ti spaventassi quando ti dirò che… che Voldemort è tornato.”
 
John emise un suono a metà tra una risata, un grugnito e uno sbuffo: “Certo.”
 
“John, riflettici un attimo: c’era un elemento anomalo nel Torneo, ed era Harry Potter. Harry Potter, il ragazzo-che-è-sopravvissuto. Lui ha sempre giurato di non aver mai messo il proprio nome nel Calice di Fuoco, e ha ragione! Non è più dotato di altri della sua età, e non avrebbe mai potuto riuscirci. Eppure in qualche modo il biglietto col suo nome è finito lì dentro, e in qualche modo lui, a soli quattordici anni, è riuscito a superare prove pensate per studenti del settimo anno, ed è arrivato in finale. C’era qualcuno che tirava i fili, è ovvio! E come mai di quella finale è stato scritto solo un misero articoletto? Perché qualcuno ha messo tutto a tacere. John, mi spiace di doverti presentare in questo modo la verità, ma è andata così: Tom Riddle ha rapito Harry Potter e l’ha usato per risorgere durante l’ultima prova del Torneo Tremaghi.”
 
John era ancora scettico, ma era troppo esausto per obiettare. Gli ultimi eventi lo avevano sfinito, prosciugato di ogni combattività. Il suo mondo era crollato, e lui non aveva forze per opporsi al cambiamento.
 
“Conosci Alastor Moody” disse Sherlock. Non era una domanda, stava dando per scontato che fosse così.
 
“Non è quell’Auror mezzo matto che era stato assunto come insegnante di Difesa?”
 
“Già. Be’, è venuto fuori che l’uomo che ha effettivamente coperto la carica di professore per l’intero anno era Barty Crouch Junior, il Mangiamorte. E che era lui a tirare i fili.”
Barty Crouch…”
 
“Già. Il vero Moody è rimasto chiuso in un baule per nove mesi, lunga storia. Comunque, avevo lavorato con lui –con quello vero- e così lui mi ha contattato e portato qui, al Quartier Generale, altresì conosciuto come la dimora della rispettabile famiglia Black, che ora è ridotta a un latitante traditore del suo sangue.”
 
“Credo di avere una qualche parentela con i Black” commentò John; “cugini di secondo grado, forse.”
 
“Naturale; sei un Purosangue, siete tutti imparentati.”
 
“Possiamo saltare tutte le altre premesse e arrivare al punto in cui mi spieghi bene cos’è l’Ordine della Fenice?”
 
“Durante la Prima Guerra Magica, un gruppo di Auror, insegnanti e neodiplomati si riunì sotto Albus Silente per opporre resistenza ai Mangiamorte. Ne facevano parte, fra gli altri, James e Lily Potter, Sirius Black e, come ho detto, Alastor Moody. Erano deboli e disorganizzati, e la maggior parte di loro fu spazzata via.”
 
“E quel gruppo era l’Ordine della Fenice.”
 
Grandi abilità deduttive, John… ora che Voldemort è risorto, Silente ha riunito i sopravvissuti del gruppo originario e ne sta reclutando di nuovi. Ha posto il nuovo Quartier Generale qui in casa Black ed è ben deciso a non commettere i passati errori, creando una resistenza operativa ed efficacie… ed è per questo che ha convocato me e te.”
 
Me?”
 
“Noi due, sì. Io e lui abbiamo elaborato un piano che ci consentirà di guadagnare un vantaggio su Voldemort e i Mangiamorte.”
 
“No, uhm, no, ok…” John spalancò gli occhi, rendendosi conto di stare blaterando a vuoto e cercando di riorganizzare i pensieri. “Tralasciando tutta la parte del te che ritorni e Voldemort che risorge, sono per caso appena entrato a fare parte di un gruppo clandestino di resistenza o è solo una mia erronea impressione?”
 
“Sì, lo sei. Ma tu in realtà servirai solo di copertura.”
 
Servirò? Copertura?”
 
“Già. Tu sei il mio alibi. Oggi vai a vedere un appartamento, vero?”
 
“Sì, alle undici… aspetta, tu come fai a saperlo?” chiese John, sconcertato.
 
Per tutta risposta, i lineamenti di Sherlock gorgheggiarono e si fusero. I capelli si schiarirono e si ritrassero nella testa; il naso si appiattì e si allargò; i suoi meravigliosi occhi assunsero una tonalità grigio-verde.
 
John sentì montare la rabbia dentro di sé: giurò a se stesso che quello era l’ultimo degli affronti che avrebbe subito da Sherlock. “Capisco tenermi d’occhio” sibilò. “Ma trasformarti in Simon…” Simon, oltre a Mary, era l’unica persona che gli fosse stata vicina dopo Hogwarts. Sherlock non aveva alcun diritto di ricopiare in quel modo il suo aspetto, come se questo bastasse a far dimenticare che era stato Simon, e non lui, a ricoprire il ruolo di migliore amico di John negli ultimi quattro anni. Perché era vero, era così: Simon gli era stato accanto, e aveva condiviso con lui ogni piccolo aspetto del lavoro e della vita quotidiana, mentre Sherlock era stato via chissà dove. Quando Sherlock era tornato dal San Mungo, sei anni prima, John era stato preoccupato che il periodo in cui erano stati separati potesse frapporsi tra loro in modo insormontabile, allontanandoli per sempre. Adesso lui aveva sei anni di vita di cui Sherlock non sapeva nulla: come fare a recuperarli? Era impossibile. Per quanto fosse doloroso, Sherlock non poteva più occupare il posto che pure gli spettava di diritto.
 
“Come al solito, stai sbagliando tutto. Io non mi sono trasformato in Simon Church. Io sono Simon Church.”
 
John ci impiegò qualche secondo a processare quella frase. “S-Simon Church” balbettò, “Simon Church… sei tu? Abbiamo lavorato insieme per quattro anni e non mi hai mai detto niente? Simon sei tu?
 
“Credevi che sarei rimasto per sempre nell’ombra? Sherlock Holmes è ufficialmente morto, ma io non lo sono, dovevo pur ricostruirmi una vita. Le mie abilità di metamorfomagus mi sono tornate utili.”
 
“Andremo a vivere insieme?” Non capiva nemmeno lui come mai questo lo sconvolgesse più di ogni altra cosa.
 
“L’idea era quella. Tu e Simon Church fate parte della copertura. Vedi, Simon si infiltrerà tra le fila dei Mangiamorte.”
 
“A-ha. Stai scherzando.”
 
“Perché dovrei? Ci servono delle spie. L’Ordine ne ha già una, ma una sola non basta. Tu sei un Purosangue, quindi vivere con te sarà una copertura perfetta.”
 
“Perciò mi hai restituito i ricordi” realizzò John. “Perché ti servivo.”
 
Con un’ultima occhiata a Simon Church, John si fiondò verso la porta, deciso ad uscire per sempre da quell’edificio infernale e dimenticare tutto ciò che aveva visto e sentito.
 
Una mano gli afferrò saldamente il braccio. John si divincolò ed estrasse la bacchetta dalla tasca dei jeans dove l’aveva riposta, ma quando guardò chi lo stava trattenendo vide il solito Sherlock Holmes, con i ricci scuri e gli occhi verdi. Liberò il braccio con uno strattone. “Ricordi che cosa è successo l’ultima volta che ci siamo parlati?” chiese a denti stretti.
 
“Ti ho proposto di essere il mio coinquilino.”
 
“Non con Simon Church. Con Sherlock Holmes.”
 
“In tal caso, sono successe molte cose.”
 
“Ti ho detto che tu facevi sempre accadere l’inaspettato.”
 
“Ah, già.” Sherlock abbassò lo sguardo. “Non si può dire che non avessi ragione.”
 
“No, decisamente non si può dire.”
 
Una parte di John desiderava imparare di nuovo a conoscere giorno per giorno il suo migliore amico. Una parte di lui, però, non poteva che essere delusa e ferita; aveva sempre accettato le decisioni di Sherlock perché era lui quello intelligente, quello che sapeva sempre cosa fare, ma era stanco di sentirsi così poco considerato. Da Sherlock non provenivano che menzogne e menzogne, ed era sempre più difficile accettarlo e volergli bene comunque; anche se si sforzava di dimenticare tutte le volte in cui gli aveva mentito o gli aveva nascosto qualcosa, non poteva eliminarle completamente. E Sherlock di certo non dava segno di aver cambiato abitudini.
 
“Mi spiace, Sherlock, ma… vorrei davvero che tutto questo non fosse accaduto.”
 
Il volto deluso di Sherlock somigliava a quello di un bambino di otto anni a cui vengono negati i biscotti. “Vorresti ancora credere che io sia morto?” azzardò, senza poterci credere.
 
“Sì” rispose semplicemente lui. “Sarebbe più facile.”
 
“Più facile?” ripeté.
 
“Hai sentito perfettamente.”
 
“E da quando vuoi che le cose siano più facili?”
 
Da quando quelle difficili ti hanno strappato via da me. Da quando la mia vita è diventata ordinaria, perché tu non c’eri. Da quando ho smesso di credere che i tuoi occhi potessero davvero cambiare colore, perché li ho dimenticati. Da quando ho accettato che non ti avrei più rivisto e ho deciso di passare oltre. Da quando ho capito che non ci sarei riuscito. Da quando ti conosco, Sherlock Holmes, desidero solo che le cose possano essere maledettamente facili, perché stare con te non ha mai significato altro che provare dolore, e non so se potrò sopportarlo ancora.
 
“Forse ti sei dimenticato come sono realmente. Capita, quando si sta via per sei anni.”
 
“Tecnicamente, sono solo due.”
 
“Tecnicamente, sei un coglione, però io non te lo faccio pesare.”
 
“Come posso farti cambiare idea?” chiese Sherlock.
 
“Be’, potresti iniziare con… con… con il mostrarmi questo posto.”
 
“Oh, lo farò. Prima, però, credo che sia ora di andare a visitare il nostro nuovo alloggio.”
Mentre Sherlock assumeva le sembianze di Simon Church, John distolse lo sguardo.
 
“Puoi guardare, adesso.” Persino la voce di Simon era diversa: era più acuta e nasale, aggettivi che in effetti erano applicabili a tutte le voci, comparate a quella di Sherlock.
 
Simon controllò l’orologio. “Undici meno dieci. Io vado lì, tu raggiungimi tra qualche minuto, o sembrerà troppo sospetto.” Detto questo, si Smaterializzò.
 
John si sedette su una delle sedie scalcagnate, facendola scricchiolare.
 
Non riusciva ancora a credere a ciò che era successo, e allo stesso tempo trovava l’intera situazione assurdamente ovvia. Insomma, sapeva benissimo che Sherlock era sopravvissuto: l’unico problema era che l’aveva ricordato solo quella mattina…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Sono sicura al 99% che non vi aspettavate quella cosa di Simon.
Be’, diciamo 75% (wow, la percentuale è calata di un buon 24%). Il motivo è semplice: DOVEVO ambientare la storia durante il ritorno di Voldemort e la Seconda Guerra Magica, però non volevo farli seriamente restare lontani per sei anni, perché sarebbe stato davvero troppo, così ho tenuto i due anni della serie e poi ho fatto arrivare Simon. *ta-daaa*
Comunque sì, era proprio Sirius Black. Ho deciso di inserire molti più elementi dell’universo di Harry Potter, perché insomma, Guerra Magica eccetera.
Uhm, quello che ho detto non ha senso vero?
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


 
“Ehi!” Sirius Black si affacciò alla porta. “Si è Smaterializzato? Ho sentito un crac.
 
“Sì, perché?” John non poté trattenere un tremito all’idea di trovarsi accanto a un uomo che fino a dieci minuti prima avrebbe volentieri ammazzato per ciò che aveva fatto… o meglio, che credeva avesse fatto.
 
Black era attonito. “Perché non si può usare la Materializzazione all’interno di Grimmauld Place!”
 
“Non…” Dopo un attimo di smarrimento, John scoppiò a ridere. “Oh, questo è esattamente il genere di cose che lui è capace di fare!”
 
“Già.” Black sembrava titubante; dopo un attimo di incertezza entrò nella stanza e si accomodò accanto a John, che si scostò un po’ con la sedia. Sembrava molto imbarazzato, ma finalmente riuscì a formulare una frase: “Senti. Non so molto su di Holmes, ma a quanto pare tu sai ancora meno, giusto?”
 
“Mi sono un po’ perso gli ultimi sei anni, già.” John fece una smorfia. “Dunque… tu… non sei un Mangiamorte” disse per chiarire la questione una volta per tutte.
Black sorrise amaramente. “No, non lo sono, ma ho trascorso comunque dodici anni ad Azkaban.”
 
“Mi… dispiace.”
 
“E… il mio migliore amico –be’, l’unico rimasto…” proseguì Black, “ha creduto per dodici anni che io avessi tradito James… James Potter. Quindi, come vedi… ci sono anche cose peggiori che credere che il tuo migliore amico sia morto.” Il tuo tono era leggero, scherzoso, ma le sue parole non lo erano. Quell’uomo doveva essere spezzato, all’interno; per di più, era latitante e chiuso nell’orripilante dimora di famiglia. John non lo invidiava. “Ma no, non era questo che volevo dirti. Sarà che forse un po’ mi ritrovo nella sua situazione, dato che entrambi non dovremmo essere qui, e soprattutto non dovremmo essere vivi… solo, non essere troppo duro con lui per come si comporta.” Black sostenne lo sguardo di John con fierezza, come sfidandolo a contraddirlo.
 
“Sì, be’, capisco che siate in sintonia” replicò John con asprezza; “ma negli ultimi quattro anni io e lui siamo stati amici e io non l’ho mai saputo, e ho sempre continuato a crederlo morto, e ora mi ha restituito i ricordi solo perché gli servo. Come faccio a non essere arrabbiato, hm?”
 
“Semplicemente perché tu non gli servi: senza offesa, ma non cambia nulla che tu sia dentro o fuori da questa storia. Ti ha restituito i ricordi perché per lui la situazione stava diventando insopportabile, e aveva bisogno che voi tornaste ad essere… insomma… insieme.” Black virgolettò le ultime parole e si grattò la testa con evidente imbarazzo. “Be’, almeno questo è ciò che mi è stato fatto notare da... altri. Altri più bravi di me ad analizzare questo genere di situazioni.”
 
John non sapeva che dire. Non riusciva a processare ciò che l’altro gli aveva fatto notare, e ad inserirlo nel contesto degli ultimi avvenimenti.
 
“Io… io, uhm, credo di dover uscire prima di Smaterializzarmi, allora.”
 
Sirius Black sollevò le sopracciglia e annuì in modo pratico, lasciando cadere senza una protesta l’argomento precedente. “Sarebbe meglio, già.”
 
 
 
Rivedere Simon Church nell’atrio del San Mungo fu scioccante. Erano lì, nel luogo in cui avevano lavorato fianco a fianco per quattro anni, circondati ogni giorno daa pazienti e Guaritori, ma adesso Simon non esisteva più, era solo l’ennesimo dei travestimenti di Sherlock. E dopo ciò gli aveva fatto notare Black… in effetti, era piuttosto ovvio: da quanto gli era stato spiegato, John non aveva alcuna rilevanza nell’operazione. Ma perché svelarsi proprio ora, perché non farlo prima? Se Sherlock era così ansioso di riavere John per sé, e non per Simon, perché non dirlo sin da subito, anzi, perché non restituirgli i ricordi subito dopo l’inchiesta sulla sua morte? Perché, perché, perché… era davvero stanco di non avere alcuna certezza.
 
“Ciao, Simon.”
 
“Ehilà, Watson, eccoti qui!” Sherlock sorrise meccanicamente e piccole rughe gli spuntarono ai lati degli occhi. “Allora, andiamo? Se ti aggrappi al braccio ti porto io.”
 
“Sicuro, andiamo.”
 
John non amava particolarmente il contatto fisico, ma nemmeno lo rifuggiva; benché di certo quella non fosse la prima volta che toccava Simon, fu la prima volta in cui se ne rese davvero conto: c’era la sua pelle, lì, sotto il tessuto della giacca, e le dita di John erano strettamente avvolte su di essa, e probabilmente lui ne sentiva la pressione…
 
In un crac si ritrovarono in una stradina tranquilla, con le auto parcheggiate sul ciglio della strada; erano di fronte a una porta nera dal battente dorato, marcata dal numero 221B. John si guardò intorno: alla sua destra c’era un piccolo bar con i tavolini sul marciapiede, la cui tenda rossa recava il nome di Speedy’s; pochi metri a sinistra si apriva una porta blu di stampo decisamente più moderno del 221B. Le palazzine erano di mattoni, schiacciate e uniformi, di quattro piani ciascuna, con una balconata che correva ininterrottamente intorno al primo.
 
Un uomo in tuta da ginnastica passò davanti a loro correndo.
 
“221B, Baker Street” disse Sherlock, accostandosi al portone e bussando due volte con le nocche.
 
Dall’interno si sentirono dei passetti affrettati, e pochi secondi dopo la porta fu aperta da una vecchia signora scarna e minuta.
 
“Professoressa Hudson!” esclamò John, sconcertato.
 
“John! John, caro, come stai?” squittì la sua vecchia professoressa di Antiche Rune. Era cambiata poco in quegli anni: era sempre la stessa vecchia strega esile, fragile, dall’aria bonaria e dal gusto datato in fatto di vestiario; i suoi occhi luccicavano dall’emozione quando abbracciò il suo ex studente.
 
John si voltò verso Sherlock. “Sher… Simon, cosa…?”
 
Entra” ordinò lui spingendolo all’interno, mentre la donna si faceva da parte per lasciarli passare nello stretto corridoio. “Lei sa chi sono. È una dei nostri.”
 
“Con i nostri, intendi l’Ordine della…”
 
Shh! Non qui!”
 
Senza smettere per un istante di blaterare quanto era felice di vederli così sani e forti e cresciuti, la Hudson li condusse al piano superiore, in un appartamentino piccolo ma ordinato, provvisto di un bagno e due camere da letto, con un ampio soggiorno e un caminetto.
 
 “Eccoci qui!” esclamò lei. “Non è molto spazioso, ma per due persone basta e avanza, giusto?”
 
“Sì…” fece per rispondere Sherlock, ma a quanto pare lei non aveva ancora finito:
 
“Oh, sono così contenta che siate di nuovo insieme, voi due! Mi ricordo ancora quanto ci divertivamo a lezione…” I due amici si scambiarono un’occhiata incredula. “Oh, e quella volta di… com’era che si chiamava? Richard. Richard Knight. Sapevo che tra voi due doveva esserci qualcosa! Era palese.”
 
 
 
Uscendo dall’aula –Sherlock si stava ancora aggiustando la cintura dei pantaloni- incapparono nella professoressa Hudson.
“Ohh!” esclamò lei, il volto che si apriva in un sorriso di trionfante beatitudine. “Chi abbiamo qui!”
“No! Professoressa, noi stavamo… noi non…”
“Oh, state tranquilli. Vivi e lascia vivere, questo è il mio motto. Ora scusatemi ma devo andare a parlare con il professor Vitious. Ah, l’amore!”
 
 
 
Sherlock si schiarì la voce e si aggiustò il nodo della sciarpa. “Ehm, già.” Avvampando, John lo fulminò con un’occhiataccia. “Dunque, Silente le avrà spiegato.”
 
“Oh, certo. Io e Albus abbiamo parlato parecchio, e sono d’accordissimo con quanto volete fare. Era da tanto che non ci facevamo una bella chiacchierata, io e lui! È una persona così a modo, e naturalmente era contentissimo dell’idea di avervi di nuovo riuniti.” La donna sorrise a trentadue denti nel ricordare la conversazione col Preside di Hogwarts, soprattutto perché, a quanto sosteneva, lui si era dichiarato d’accordo con lei. John trovava difficile che Silente avesse davvero detto una cosa del genere, ma lasciò correre.
 
“Ma non volete visitare l’appartamento?” propose la signora Hudson.
 
Sherlock sollevò le spalle con noncuranza. “Abbiamo altro da fare, siamo venuti solo perché dovevamo farci vedere. Tanto, lo prendiamo in ogni caso.”
 
“Giusto” lei sembrò sentirsi improvvisamente molto sciocca, perché perse tutto il suo brio e si incurvò. “E quando vi trasferite?”
 
“Domani. John, domani?” Sherlock si voltò verso l’amico con titubanza, come temendo di essere stato troppo precipitoso
 
John stava valutando quanto dovesse essere comoda la poltrona rossa ad arabeschi di fronte al caminetto, e non aveva ascoltato una parola. “Eh? Sì sì, domani.”
 
“Oh, non vedo l’ora!” chiocciò lei con un sorrisone. “Dovrò procurarmi i tappi per le orecchie, eh?” chiese poi con aria cospiratoria.
 
Cosa?” proruppero loro contemporaneamente con espressione terrorizzata.
 
“Ohh, niente, niente.”
 
 
 
Avevano concordato di incontrarsi nuovamente a Grimmauld Place, ma quando John si Materializzò davanti alla casa si accorse che l’amico non era con lui. Si diede una manata sulla fronte, rendendosi conto che lui doveva essere comparso dentro alla casa casa; proprio in quel momento Sherlock aprì la porta.
 
“Benvenuto al dodici di Grimmauld Place” scherzò mentre John lo superava per entrare. “Senti, credi di riuscire a ritornare in cucina? Ho una pozione sul fuoco di sopra che devo completare.”
 
“Certo, vai pure” annuì lui.
 
John sfilò con crescente soggezione per il cupo corridoio, appesantito da colori scuri e spesse tende di velluto tarmato; i precedenti inquilini dovevano aver avuto un pessimo gusto in fatto di arredamento. Inoltre, erano stati sicuramente una famiglia di Serpeverde: ovunque, sulla tappezzeria, campeggiavano i colori e i simboli del suo fondatore. Davvero qualcuno ci aveva realmente vissuto, in quel maniero opprimente? Più che una dimora, sembrava una casa degli orrori, o un tugurio infestato dai fantasmi come la Stramberga Strillante. Aveva preferito non focalizzarsi troppo sul set di teste di elfi domestici in fondo alle scale, ma i giganteschi ragni che si annidavano negli angoli del soffitto non erano uno spettacolo migliore.
 
Sirius Black era in cucina insieme a un uomo dai capelli castani che si presentò cordialmente con il nome di Remus Lupin. “Chiamami pure Remus” aggiunse con un sorriso gentile. John lo apprezzò all’istante: aveva un’aria pacata, quasi docile, e grandi occhi castani che gli conferivano un’espressione serena e intelligente.
 
“John Watson, piacere” disse a sua volta, stringendogli brevemente la mano.
 
“Prego, siediti” disse Remus Lupin, che a quanto pareva aveva deciso di fare gli onori di casa al posto di Black, che se ne stava seduto con aria corrucciata davanti a una bottiglia tappata di Burrobirra. “C’è anche Sherlock Holmes con te?”
 
“Sì, ma è di sopra. Aveva… una pozione? Può essere?”
 
“Gli piace fare esperimenti, vero?” disse Black, alzando finalmente lo sguardo dal tavolo per scambiare un’occhiatina divertita con l’amico, che sogghignò, roteò gli occhi e scosse la testa.
 
“Sherlock? Oh sì, moltissimo.” John si sentì stringere il cuore nel vederli così in sintonia. Tra lui e Sherlock non era mai stato così… tranne forse nei primi anni della loro amicizia, prima che Sherlock sparisse; da quando era tornato c’era sempre stata una certa tensione tra loro, oltre al fatto che non avevano avuto un attimo di tregua. Sirius Black era stato ad Azkaban, perciò lui e Lupin dovevano essere stati separati per più di dieci anni, eppure questo non sembrava aver intaccato la profonda amicizia che evidentemente li legava… John desiderò che anche tra lui e Sherlock fosse così.
 
“È una bella storia, la vostra, eh?” chiese Remus Lupin con noncuranza, prendendo un bicchiere dalla credenza e versandosi dell’acqua da una caraffa appoggiata al bancone. John trasalì, credendo per un attimo che l’altro gli avesse letto nel pensiero.
 
Sirius Black gli diede man forte anticipando la domanda di John: “No, non è stato lui a raccontarcelo… Silente mi ha detto qualcosina, te l’ho spiegato. So che ha lavorato parecchio con Alastor Moody, in questi ultimi anni.”
 
In quel momento, due singoli tonfi riverberarono nell’aria, facendo tremare la cristalleria nella credenza. “La porta!” esclamò Black, alzandosi dalla sedia. “Se non mi vedete tornare, era Piton.”
 
John sorrise al riferimento al suo vecchio professore di Pozioni, che aveva sempre odiato lui e gli altri Grifondoro.
 
Con l’uscita di Black la stanza piombò nel silenzio.
 
Lupin sorseggiò dell’acqua. John stava per tirare un sospiro di sollievo quando Lupin aggiunse: “E poi c’è il fatto che dovrebbe essere morto, ovviamente. Mi ricordo quando è uscita la notizia sui giornali, è stato un bello shock per tutti. Tu sai come ha fatto a sopravvivere?”
 
“Uhm, in realtà sì, ma non so se…”
 
“Tranquillo, non voglio saperlo. Comunque, l’ho conosciuto ieri sera a cena, e non ha fatto altro che parlare di te.” Lupin sorrise da un lato della bocca.
 
“Sul serio?” John arrossì.
 
“Be’, per quel poco che ha parlato, sì. Sembrava molto nervoso all’idea di rivederti.”
 
“Sul serio?” John raddrizzò la schiena e si lisciò i capelli, lasciando cadere la mano quando si rese conto di quanto dovesse sembrare stupido. “E che ha detto?”
 
“Intanto che hai sicuramente fatto onore al nome dei Grifond… oh, finalmente.”
 
“Eccomi” disse Sirius Black rientrando in cucina insieme a Sherlock, che aveva la faccia sporca di fuliggine. “Non sono morto. Ops, scusate.”
 
Sherlock sogghignò.
 
“Chi era?” si incuriosì Lupin.
 
“Moody.”
 
“Oh. Poveretto. Preferiamo evitare i traffici di gufi” spiegò Lupin a John. “Così ogni volta che qualcuno deve riferire un messaggio è costretto a venire qui di persona.”
 
“Ha detto che porterà un’Auror del suo dipartimento a cena: vuole entrare nell’Ordine. Una ragazza. Credo che sia mia parente.”
 
“Silente farà meglio a venire, allora” commentò allegramente Lupin. “O penserà che siamo un gruppo di pazzi.”
 
“Ma noi siamo un gruppo di pazzi, Lunastorta” rise Black.
 
John vide Sherlock raggelare, ed ebbe la stessa reazione quando il significato di quelle parole gli arrivò al cervello.
 
Lunastorta?” ripeté Sherlock con urgenza.
 
Loro ridacchiarono. “Era il soprannome che gli davamo a scuola” spiegò Black.
 
“Ne avevamo tutti uno. Io ero Lunastorta, Sirius era Felpato…”
 
“E poi Ramoso e Codaliscia” completò John. “Voi siete…”
 
“Gli autori della mappa di Hogwarts” terminò a sua volta Sherlock. “L’abbiamo usata, al settimo anno.”
 
“Era geniale!” si scaldò John.
 
“L’avete usata anche voi?” fece Sirius, un tantino sconcertato. “Adesso ce l’ha Harry. Harry Potter, intendo.”
 
“Gazza me l’ha confiscata” disse John, avvilito. “Ma sono contento che sia ancora in circolazione.”
 
“Dovete essere estremamente versati nelle arti magiche” mormorò Sherlock. “Creare una mappa del genere è… be’, praticamente impossibile! E la vostra conoscenza di Hogwarts…”
 
I due Malandrini sollevarono le spalle, come se si fosse trattato di un lavoretto da nulla. “Nah. È bastata un po’ di inventiva” minimizzò Sirius.
 
“In ogni caso, siete stati geniali.”
 
“E se lo dice lui è vero, credetemi.”
 
“Be’… vi fermate a pranzo?” domandò Sirius, camuffando il tono speranzoso con una risatina.
 
“I ragazzi non si vedono da anni, lascia loro un po’ di spazio!” lo rimproverò Remus.
 
“È che mi annoia tanto vedere sempre solo la tua vecchia faccia…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Ehm… meh. Mi rendo conto di aver parecchio affrettato tutte le conversazioni… eh, vabbè.
Insomma, la signora Hudson è tornata! E, come promesso, ecco qualcosa di ancora più sensazionale di Sherlock e John che incontrano Sirius Black: Sirius Black e Remus Lupin che shippano Sherlock e John. Non potevo non aggiungere Lupin, è il mio personaggio preferito e dovevo farlo comparire…
Mi piacerebbe aggiungere qualcosa, ma in realtà non ho molto altro da dire, quindi… peace out!
Oh, p.s.: sto riguardando la terza stagione e non avete idea di quanti “subetxts” sto trovando.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


 
Vivere con Sherlock Holmes era un’esperienza alquanto bizzarra.
Innanzitutto, Sherlock aveva l’abitudine di occupare ogni superficie disponibile –tavolini, banconi, ripiani, scaffali, materassi, il lavandino, e via dicendo- con ingredienti di pozioni, ampolle e calderoni di vario genere. I casi in cui John trovava la tavola sgombra per poterci mangiare erano più unici che rari.
 
Inoltre, Sherlock sembrava divertirsi nell’appioppargli di nascosto i suoi intrugli con lo scopo di testarne gli effetti. John era piuttosto sicuro di aver perso un mercoledì e di aver creduto, durante incalcolabili ore di follia, di essere innamorato di un mandarancio. Inoltre, una volta aveva trovato Sherlock che si affannava per spegnere senza bacchetta un incendio causato da una banana messa nel forno, e per tre giorni aveva convissuto con un porcellino d’india fosforescente.
Sherlock non tollerava quello che comunemente viene definito “ordine”. Si incolleriva non appena la loro padrona di casa, la signora Hudson (ormai non era più “professoressa”), adoperava qualche incantesimo di pulizia; in quei casi rimetteva maniacalmente tutti gli oggetti al proprio posto: le conserve nel cassetto della biancheria, i cerotti nelle ciabatte, e via dicendo. John aveva imparato che il caffè stava sotto il lavabo e la credenza conteneva solitamente resti umani, e questo gli bastava.
 
La dualità Sherlock/Simon gli procurava perenni giramenti di testa; a casa, c’era Sherlock: creativo, appassionato, fervente sostenitore –nonché membro- dell’Ordine della Fenice. In pubblico esisteva solo Simon Church, altrettanto creativo e appassionato, ma anche affascinato dalla causa perseguita dal Signore Oscuro. Da quando aveva udito il discorso di commiato di Silente alla scuola, in cui era stato rivelato che Voldemort era tornato (e qui Simon si lanciava nella spiegazione di come l’avesse saputo dal fratello di un amico di un cugino, qualcosa del genere), accennava sempre più spesso alla possibilità che potesse essere davvero così. Non poteva mostrare apertamente il fatto che forse, in un certo senso, secondo lui la cosa potesse rivelarsi vantaggiosa; ma a chi avesse ascoltato attentamente i suoi sproloqui sarebbe parso chiaro che era così.
 
John doveva imporsi fermamente di non detestare Simon, e ad un certo punto Sherlock se ne accorse: da allora, quando affrontavano quel genere di conversazioni, gli occhi grigio-verdi di Simon lampeggiavano del consueto azzurro di Sherlock, come a rammentare a John che lui era lì, celato alla vista ma sempre presente.
 
Sherlock aveva restituito i ricordi a Mary, che non aveva fatto una piega nel ricordare di aver ucciso Jim Moriarty ai tempi di Hogwarts. I genitori della ragazza erano fondamentali per la riuscita del piano: avevano fatto parte delle schiere di Mangiamorte ed erano in stretto contatto con il mondo dei Purosangue; per Simon fu uno scherzo farsi presentare ed accedervi personalmente.
 
A John la comunità magica non era mai parsa tanto decadente: sembrava che ogni Purosangue londinese covasse il recondito desiderio di assistere alla rinascita del Signore Oscuro, ma nel frattempo Albus Silente veniva privato degli onori per aver accennato a questa eventualità, e Harry Potter veniva continuamente sbeffeggiato e deriso.
 
John vide per la prima volta il Ragazzo Sopravvissuto durante le feste di Natale, al San Mungo. Uscirono contemporaneamente da due stanze attigue e si incrociarono in corridoio; gli occhi di John balenarono sulla cicatrice a forma di saetta, e presero rapidamente nota degli occhiali tondi, dei capelli spettinati, degli occhi verde smeraldo e della corporatura scarna. Solo dopo averlo superato si voltò a guardarlo, accorgendosi solo allora che era in compagnia di una ragazzetta dai capelli crespi e di due giovani la cui chioma in fiamme gli ricordò quella di Charlie Weasley.
 
Era quello il prescelto, in cui l’Ordine della Fenice riponeva le sue speranze? Il ragazzo che aveva vinto il Torneo Tremaghi ed era sopravvissuto a Voldemort ben due volte? Sembrava così fragile e impotente, con quegli occhialetti storti, il viso lungo e scarno e i jeans dall’orlo sdrucito. Eppure era lui; era il ragazzo che, secondo Silente, era destinato a uccidere il Signore Oscuro e porre fine al regno di terrore una volta per tutte.
 
John avrebbe davvero voluto fare qualcosa di più per l’Ordine; non era spaventato dai possibili pericoli: era un Grifondoro, per Godric, il coraggio era praticamente nella sua natura. Sapeva, però, che qualsiasi contatto con la resistenza avrebbe potuto danneggiare la copertura di Sherlock, che era sicuramente più importante. E così era costretto a chinare la testa e fingere di ignorare ogni notizia allarmante.
 
Poche settimane dopo Natale ci fu un’evasione di massa dalla prigione di Azkaban e Sirius Black fu accusato di esserne il colpevole.
 
John e Sherlock sorrisero amaramente nel ripensare al povero diavolo rinchiuso nella sua tetra dimora, che odiava i Mangiamorte ed era stato così cortese con loro. Sherlock riferì a John che i Dissennatori erano passati al lato oscuro, ed erano stati loro a favorire l’evasione per permettere a Voldemort di riunirsi con i suoi seguaci.
 
Dopo la fuga, la comunità magica cominciò ad agitarsi; nonostante la propaganda ministeriale promulgata dalla Gazzetta del Profeta, era impossibile non collegare questo fatto a ciò che Albus Silente e Harry Potter ripetevano ormai da più di sei mesi.
 
A marzo la ridicola rivista chiamata “Il Cavillo” pubblicò un’intervista esclusiva con Harry Potter, che creò un certo scalpore. Sherlock commentò malignamente che per la prima e unica volta quel giornale aveva presentato qualcosa di sensato.
 
La vita del 221B di Baker Street sembrava procedere con placida calma, come una bolla isolata dal mondo. Ogni mattino John Sherlock (camuffato da Simon Church) si recavano al lavoro all’Ospedale, dove restavano fino alle cinque del pomeriggio; tornati a casa, John sonnecchiava in poltrona o leggeva un libro, oppure si Materializzava a casa della fidanzata, mentre Sherlock si dedicava alle sue pozioni. Fu verso aprile che avvenne una considerevole svolta.
 
John stava dormendo da qualche ora quando sentì bussare alla porta dell’appartamento. Sapeva che Sherlock era ancora in piedi, affaccendato in qualche esperimento, ma si alzò ugualmente per vedere chi si era presentato nel bel mezzo della notte.
 
Barcollando dalla stanchezza, indossò una camicia sopra la canottiera che usava come pigiama e un paio di vecchi pantaloni di felpa e si diresse in salotto.
 
C’era un uomo seduto sul divano; era magro, aveva una lunga barba argentea e portava una veste da mago color blu cobalto.
 
“Ah, ecco il signor Watson” disse, fissandolo con penetranti occhi azzurri da dietro le lenti a mezzaluna.
 
“P-professor Silente” balbettò John. “Che cosa… mi scusi, ma che cosa ci fa qui?”
 
“Stavo giusto offrendo del gustoso idromele al signor Holmes” disse il Preside, sorridendo. “E anche a lei, se ne vuole.”
 
“No, grazie” rispose John, sconcertato.
 
Sherlock era seduto impassibile su una sedia accanto al divano, ma John sapeva bene che moriva dalla voglia di scoprire perché Silente si era presentato lì a quell’ora.
 
“Professore, come…”
 
“Pazienza, pazienza. Avrete sicuramente modo di scoprire perché mi sono assentato da Hogwarts domattina, se leggerete la Gazzetta del Profeta. Intanto, sappiate che sto, come dire, facendo un giro di visite prima di sparire.”
 
Sparire? Non tornerà a Hogwarts? Che cosa…”
 
“Oh, non ho intenzione di scappare, ma ho delle indagini da portare a termine prima che sia troppo tardi.”
 
Indagini?” Lo sguardo di Sherlock si fece più acuto e attento. “Posso aiutare?”
 
Silente ridacchiò. “No, temo di no. Ho diverse piste che devo seguire per conto mio per scoprire… Ma non divaghiamo: sono qui per un altro motivo. John, puoi sederti anche tu.”
 
John Appellò una seggiola dalla cucina e la accostò a quella di Sherlock.
 
“Bene” proseguì il Preside. “Vedi, Sherlock, io ripongo la massima fiducia in te e nel tuo compito, che tuttavia è tanto importante quanto pericoloso e complicato da portare a termine.” John notò che l’uso del “lei” era scomparso insieme al tono affabile, sostituito da uno più pratico.
 
“Con tutto il rispetto” ribatté Sherlock in modo decisamente poco rispettoso, “se intende dire che sono troppo giovane, io…”
 
“Oh, sì, intendo dire proprio questo, ma non per questo ti considero inadatto. Io so perché combatti, Sherlock, so che non è il puro diletto a spingerti a metterti in gioco: tu sei ben consapevole di avere un incarico della massima importanza.”
 
Sherlock si ritrasse sullo schienale, abbassando lo sguardo.
 
“Vorrei poterti dare di più” proseguì il Preside, “ma in questo momento sono solo un povero vecchio che è appena stato licenziato da tutte le sue cariche. Non che mi importi, finché non mi tolgono dalle figurine delle Cioccorane… ma purtroppo questo significa anche che non sono più in potere di fare alcunché.”
 
Sherlock unì le dita sotto il mento e attese in silenzio con la testa leggermente inclinata.
 
“Hai affrontato più pericoli tu della maggior parte dei maghi adulti, e se il nostro piano andrà a buon fine ne affronterai ancora molti, ma questo non implica che tu non sia ancora inesperto… e chi è inesperto finisce inevitabilmente col commettere degli errori, che possono costare molto caro. Voglio fornirti la capacità di rimediare, nel caso che questo accada.”
 
 “Cosa… no, è illegale” protestò debolmente Sherlock, che ovviamente aveva già capito dove voleva andare a parare.
 
Silente ridacchiò sotto i baffi. “Le sembra che ci sia qualcosa di legale nei paraggi, signor Holmes?”
 
“Che cosa è illegale?” chiese John, sentendosi come al solito molto tardo.
 
“Rubare una Giratempo. Ha detto di volermi fornire la capacità di rimediare ai miei errori, e l’unico modo per farlo, per farlo davvero, intendo, è tornare indietro nel tempo e cambiare gli eventi. Dico bene?”
 
Silente annuì. John ebbe la netta impressione che sapesse benissimo che cosa sarebbe successo nel futuro: era impossibile, ovviamente, eppure… sicuramente l’Ordine della Fenice contava diversi membri che svolgevano compiti ben più pericolosi di quello di Sherlock, però Silente aveva deciso di aiutare proprio lui a procurarsi una Giratempo, e questo era piuttosto strano.
 
 “Non posso prenderne una io per te, perché in questo momento accedere al Ministero della Magia sarebbe un’azione impensabile; ma posso fornirti tutte le indicazioni per procurartene una.”
 
“Una rapina al Ministero.”
 
“Precisamente. Potrei persino sentirmi in colpa, se riponessi ancora un qualche genere di fiducia nel nostro Primo Ministro.” L’ex Preside sorrise con aria furba. “Peccato che non sia così.”
 
“Mi dica cosa devo sapere per portare a termine la missione, allora.” Sherlock si sporse in avanti sulla sedia, con gli occhi che brillavano.
 
“Con piacere.”
 
A John scappò un risolino, e solo allora Sherlock parve ricordarsi che lui era ancora lì.
 
“Scusate” disse John, ricomponendosi. “Scusi, Preside. Ma vi stavate fissando in un modo che… oh, andiamo Sherlock, non fare quella faccia!”
 
“Vai a letto, John.”
 
Scusa? Non ricordavo che mi madre fosse in grado di prendere le tue sembianze.”
 
“Sherlock ha ragione, John” sospirò Silente. “Io e lui dovremo discutere anche di altre questioni, prima che me ne vada, e meno persone ne saranno a conoscenza meglio sarà.”
 
“Oh, e va bene!”
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Salve gente! Forse siete un po’ spaesati dal fatto che siano passati nove mesi, ma, be’, vi ricordo che solo all’interno della terza stagione passa più di un anno… presto gli eventi inizieranno a condensarsi, ma capite bene che prima dell’inizio della guerra non è che Sherlock nostro possa fare molto. A parte rubare una Giratempo, ovviamente. Il perché –al di là del “voglio fornirti una possibilità di rimediare”, che come motivazione fa un po’ schifo- lo scoprirete tra un poco ;) Suppongo che abbiate capito che cosa sta succedendo a Hogwarts nel frattempo, e perché Silente si è assentato e che cosa sta andando a fare… in ogni caso, basta aspettare l’edizione della Gazzetta del Profeta di domani per scoprirlo.
Bene, vi lascio. Devo andare a prepararmi psicologicamente all’episodio finale di Doctor who di stasera.
Peace out!
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


 
L’atrio del Ministero della Magia era immerso nella frenesia del primo mattino, quando i dipendenti ancora rasentano l’iperattività e cercano di dare l’impressione di essere molto occupati.
 
Un mago con la divisa da Auror urtò la spalla di John, si voltò per scusarsi e restò piuttosto perplesso nel vedere che non c’era nessuno: John, infatti, era sotto l’effetto di un Incantesimo di Disillusione che lo rendeva invisibile.
 
Sherlock, accanto a lui, si stava aggiustando la cravatta e squadrava tutti con aria di superiorità. Era appena uscito da uno dei camini dorati posti ai lati della lunga Sala d’Ingresso del Ministero, adibiti all’uso della Metropolvere. Esattamente al centro dell’atrio c’era una fontana che presentava un complesso di statue dorate: un mago e una strega in posizione sopraelevata, guardati con adorazione da un centauro, un folletto e un elfo domestico. L’espressione superba del mago era nulla paragonata a quella di Sherlock, che stava facendo di tutto per somigliare il più possibile al fratello Mycroft.
 
Soprattutto perché, per l’occasione, aveva assunto il suo aspetto.
 
Per darsi un’aria di maggiore rispettabilità, aveva optato per tenere sottobraccio una copia arrotolata della Gazzetta del Profeta. John notò che molti maghi e streghe la stavano leggendo mentre camminavano, e sembravano tutti decisamente sconvolti. Lui ne conosceva bene il motivo: “Albus Silente licenziato, Dolores Umbridge Preside di Hogwarts”.
 
“Di qua” bisbigliò Sherlock al compagno, camuffando le parole con un colpetto di tosse. Superò la fontana a passo sostenuto e si diresse verso gli ascensori. Per fortuna di John, l’aura emanata da Mycroft Holmes era tanto minacciosa che le persone di mantenevano ad almeno un metro di distanza da lui, cosicché John poteva restargli accanto senza essere percepito. Quando si infilarono in uno degli stridenti ascensori dorati, decisamente troppo pieno perché John potesse passare inosservato, Sherlock agitò distrattamente la bacchetta e lo sollevò in aria, lasciandolo penzolare a due metri e mezzo da terra insieme ai promemoria interuffici a forma di aereoplanini color lilla.
 
John si accorse che accanto a Sherlock aveva preso posto un volto familiare: Greg Lestrade, di Tassorosso; si era tagliato i capelli e indossava una divisa da Auror. Continuava a fissare Mycroft Holmes con un’espressione riassumibile nel termine “timore reverenziale”, e a sussultare ogni volta che l’altro lo sfiorava. Sherlock, ovviamente, non poteva dare segno di conoscerlo, così si limitò ad osservarlo per un paio di secondi con un sopracciglio inarcato prima di distogliere lo sguardo.
 
Furono costretti ad attendere che l’ascensore salisse fino al primo livello e poi riscendesse al nono piano sotterraneo. Oltre a Sherlock e John, solo un altro mago rimase con loro per tutto il tragitto: un uomo magro, quasi scheletrico, con la mascella squadrata e sporgenti occhi grigi.
 
“Lei è un Indicibile” constatò Sherlock una volta che tutti e tre ebbero superato l’ottavo livello.
John –che era sceso a terra quando l’ascensore si era svuotato- gli si avvicinò con cautela. Il mago lo superava in altezza di almeno trenta centimetri, era vestito con ricercatezza ed emanava un penetrante odore di dopobarba.
 
“Corretto. Lei è Mycroft Holmes.”
 
Nessuno dei due ebbe la cortesia di tendere la mano all’altro.
 
“Altrettanto corretto. Se è un Indicibile, potrà esaudire le mie richieste: ho bisogno di prelevare una Giratempo.”
 
Crini.”
 
Unicorno.”
 
“Vedremo.”
 
John quasi si soffocò nel trattenere uno scoppio di risa. I due si erano evidentemente appena scambiati una parola d’ordine, ma era comunque tremendamente divertente vedere due uomini adulti dire quel genere di cose con la massima serietà nel bel mezzo di tutt’altra conversazione.
 
Quando l’ascensore si fermò, una gelida voce femminile annunciò “Ufficio Misteri”, e la grata mobile mostrò loro un corridoio deserto.
 
Davanti a loro si apriva un’unica porta nera e lucida, l’unico accesso all’Ufficio. L’Indicibile invitò Mycroft a seguirlo con un cenno della testa.
 
Oltrepassando la soglia, si ritrovarono in una grande stanza circolare. Tutto era nero, pavimenti e soffitto compresi; nelle pareti neri si susseguivano a intervalli regolari porte nere tutte uguali, prive di contrassegni o maniglie, e fra l’una e l’altra ardevano grappoli di candele dalle fiammelle azzurrine.
 
“Chiuda la porta, signor Holmes” ordinò l’impiegato.
 
Non appena egli ebbe obbedito –non senza aver lanciato un’occhiata sdegnosa all’Indicibile- la stanza ruggì e le pareti cominciarono a ruotare sempre più velocemente, tanto che per un istante tutte le fiammelle si fusero in un’unica striatura azzurra. Di colpo com’era iniziato, il rombo si spense e il movimento si fermò.
 
Durante quei pochi secondi l’Indicibile si era portato vicino a Sherlock e John aveva estratto la bacchetta, per prepararsi in caso di guai.
 
L’uomo si allontanò di scatto dal suo ospite e fissò proprio John, che raggelò dalla sorpresa e dalla paura.
 
“Questo” disse l’Indicibile con voce gelida “è il momento in cui controllo che i visitatori non abbiano cattive intenzioni. Portarsi dietro un amico su cui è stata praticata la Disillusione implica cattive intenzioni da parte del visitatore.”
 
John si guardò freneticamente intorno: era impossibile capire da quale porta erano venuti, quindi non potevano semplicemente scappare via. La Smaterializzazione era un’opzione altrettanto impraticabile, così l’unica soluzione era combattere; anche se l’Indicibile fosse riuscito a colpire uno di loro, l’altro avrebbe comunque potuto sopraffarlo.
 
Si sentì improvvisamente molto sciocco. Era tutta colpa sua se adesso Sherlock era nei guai! Avrebbe potuto andare lì da solo, dire la sua parolina d’ordine e spacciarsi per suo fratello, ma John aveva voluto accompagnarlo, ed ecco il risultato!
 
“Se il visitatore ha cattive intenzioni, è la prassi che venga arrestato e condotto alla sede degli Auror per essere interrogato. L’Ufficio Misteri protegge molti segreti, e chiunque lo violi deve scontare una pena molto cara. Ogni tentativo da parte del visitatore di usare la magia contro di me sarà rilevato e segnalato immediatamente.”
 
Lo stomaco di John sprofondò oltre il lucido pavimento nero. Lanciò un’occhiata disperata a Sherlock, sperando che lui gli comunicasse in qualche modo cosa fare; l’ultima cosa che si aspettava era di vederlo sorridere.
 
“Già, è proprio così” disse Sherlock ammiccando.
 
“Be’, allora direi proprio che possiamo proseguire. Ci saranno parecchi moduli da compilare” disse l’Indicibile con una scrollata di spalle. Levò la bacchetta verso l’alto ed esclamò: “Cursum!”, e dalla bacchetta fuoriuscì del fumo violaceo che serpeggiò per l’intera stanza prima di addensarsi davanti a una delle tante porte. “Da questa parte.”
 
John non osava accostarsi a Sherlock per chiedergli spiegazioni. Dopo un attimo di smarrimento, seguì i due in una sala illuminata da una luce bianca e accecante. Orologi luccicarono da ogni parte, grandi e piccoli, appesi o posati su ripiani paralleli. Un ticchettio costante riempiva la stanza. La luce, fredda e scintillante come pietre preziose, proveniva da una gigantesca campana di vetro posta su un tavolo.
 
John si fermò a guardarla, rapito: al suo interno un uovo minuscolo era sospinto verso l’alto in un turbinio di luce; salendo, si dischiuse e ne emerse un colibrì dalle piume verdi e azzurre, che immediatamente ridiscese ridiventando un uovo. John osservò il curioso processo per tre o quattro volte prima di focalizzarsi su altri elementi della stanza.
 
Il ticchettio ritmico stava diventando fastidioso: ricordava quello di una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. John si accorse di avere il cuore in gola: il battito incessante gli procurava un forte senso di inquietudine. Gli orologi ben allineati sui tavoli sembravano fissarlo con insistenza, come a ricordargli che il tempo trascorreva e presto o tardi sarebbe cessato, insieme alla sua vita.
 
Uno degli orologi, in particolare, attirò la sua attenzione: era una cipolla da taschino, bronzea, di piccolo diametro; il suo elemento distintivo stava nel fatto che segnava sempre le 11:00 e zero secondi. John allungò timorosamente la mano e lo afferrò con uno scatto fulmineo; se lo rigirò tra le dita con gesti febbrili, notando che l’involucro anteriore era decorato da un cameo, mentre sui bordi era incisa una scritta in rune a caratteri minuscoli. John non traduceva le rune da anni, ma fu comunque in grado di comprenderne il significato, almeno sommariamente: parlava di un orologio ticchettante che alla fine avrebbe scoccato l’ora; si poteva pensare che fosse bloccato, ma… qui John fu costretto a riflettere: la traduzione sembrava essere “ma semplicemente non è il suo tempo”, però non aveva molto senso.
 
Si guardò intorno: Sherlock e l’Indicibile stavano parlottando davanti a una vetrinetta, e nessuno dei due guardava nella sua direzione. Senza nemmeno pensarci, intascò l’orologio. Mentre in mano gli era sembrato leggero, ora lo sentì pesare nella tasca della giacca, tanto da costringerlo a tirarlo fuori per assicurarsi che fosse ancora lo stesso.
 
Non era mai stato colto da simili attacchi di cleptomania, e non capiva perché quel cipollotto lo attirasse così tanto, ma sentiva istintivamente di doverlo possedere. Era assolutamente certo che fosse così, anzi, era vitale. Era come se fosse stato lì per lui, non poteva essere altrimenti. Parte di lui si chiese se l’orologio fosse incantato, e decise immediatamente di sì. Nessun altro, dei tanti articoli esposti, lo attraeva in quel modo; John li passò in rassegna tutti, ma solo quella cipolla sembrava appartenergli.
 
Finalmente Sherlock e l’Indicibile si staccarono dalla vetrinetta e procedettero per ritornare all’ascensore. John si affrettò a seguirli, continuando a soppesare il suo bottino nella tasca.
 
Il silenzio dell’Ufficio Misteri come la confusione dell’atrio furono musica per le sue orecchie, dopo il ticchettio della stanza degli orologi.
 
Sherlock e John usarono la Metropolvere per tornare a Baker Street, dove Sherlock riprese il proprio aspetto abituale e John si liberò dell’Incantesimo di Disillusione.
 
“Mi spieghi chi diavolo era?” sbottò John non appena furono tornati alla normalità.
Sherlock controllò il proprio orologio da polso. “Le dieci e diciassette. Te lo spiego alle… dieci e diciotto. Dieci e diciannove, se sono in ritardo.”
 
Estrasse la nuova Giratempo da sotto la camicia e fece girare tre volte la clessidra con un sorrisetto, mentre spiegava brevemente: “è giunto il momento di collaudarlo. Sarò padrone del tempo, ma dal tempo sarò soggiogato. Devo sbrigarmi, o ci sarà un…” In quel momento, scomparve.
John tossicchiò, piuttosto confuso. Stava per andare a sedersi sulla sua poltrona preferita –quella rossa con gli arabeschi- quando il caminetto si accese di fiamme verdi e l’Indicibile dell’Ufficio Misteri ne fuoriuscì con la bacchetta puntata contro di lui. John emise un’esclamazione di sorpresa, affrettandosi ad alzare le mani al livello delle spalle, ma al posto di scagliare una maledizione o una minaccia l’indicibile scoppiò a ridere. I suoi lineamenti si fusero, e in pochi istanti tornarono ad essere quelli di Sherlock Holmes.
 
John crollò sulla poltrona, come folgorato. “Non ho capito niente.”
 
“Elementare, Watson” lo prese in giro Sherlock, stravaccandosi sulla poltrona nera di fronte a lui. “Sapevo che avresti voluto venire con me, ma vero Indicibile ti avrebbe immediatamente smascherato, così alle dieci e diciassette di stamattina, dopo aver preso la Giratempo, sono tornato indietro nel tempo di tre ore per individuare un vero Indicibile e sostituirmi a lui. Mentre la stanza circolare ruotava, quando le luci si sono affievolite, mi sono avvicinato al me del passato, quello camuffato da mio fratello Mycroft, e gli ho rivelato la mia vera identità, perché non si spaventasse e non mi colpisse.”
 
“Aspetta, fammi capire bene questo significa che eri in due posti contemporaneamente? Una volta come Mycroft, e una come quell’uomo? E anche se io ti ho visto scomparire meno di trenta secondi fa, tu hai vissuto di nuovo le stesse tre ore?”
 
Sherlock sembrò soddisfatto. “Precisamente.”
 
“Ecco perché sapevi che c’ero anche io!”
 
“Lo so, avrei potuto rivelarmi, ma temevo di essere scoperto da qualcun altro degli impiegati.”
 
“Hai autorizzato te stesso a prendere una Giratempo.” John sogghignò.
 
“Incrociare se stessi è molto più facile quando si può assumere qualsiasi forma. Inizialmente avevo addirittura pensato che Silente, ieri sera, potessi essere io, ma non credo: in quel caso avrei fatto in modo di farmi riconoscere. I viaggi nel tempo sono complicati, possono causare continui paradossi.”
 
“Quindi tu, in questo momento, potresti essere anche in qualunque altro posto.”
Sherlock si sporse verso di lui, guardandolo negli occhi con espressione esaltata. “Non dirlo a nessuno” sussurrò in tono cospiratorio. “Ma Voldemort in realtà sono io.”
 
John si pose esattamente di fronte a lui, e con lo stesso tono di voce bisbigliò: “In realtà, io sono te.”
 
Sherlock sorrise. “Potresti esserlo per davvero. Per quanto ne so, potrei anche aver deciso di tornare indietro nel tempo fino a quando avevo dodici anni per crearmi un amico.”
 
John lo fissò aggrottando le sopracciglia, ma lui continuò come se fosse niente: “È questo il problema di essere un metamorfomagus che viaggia nel tempo, non sai mai se le persone che ti circondano sono delle tue versioni future.”
 
“Deve essere molto confondente.”
 
“Lo è.” Sherlock poteva anche essere confuso, ma in realtà sembrava trovare l’intera situazione davvero spassosa.
 
“Che cosa intendevi dire, prima, con: sarò padrone del tempo, ma dal tempo sarò soggiogato? L’hai detto almeno tre volte, questa mattina.”
 
“È una cosa che mi ha detto Silente ieri sera prima di andarsene. Non ho ancora capito a cosa si riferisca, ma ci sto lavorando.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Avviso a chi shippa i Mystrade: questa sarà l’unica cosa che avrete da me di quei due.
Ecco, adesso che l’ho detto quei due si metteranno assieme nei primi quindici minuti della 4x01. Sono ovviamente disponibile a spiegare con più chiarezza il viaggio di Sherlock, ma se ci pensate bene non è molto diverso da quello di Harry e Hermione nel Prigioniero di Azkaban, soprattutto nel punto in cui Harry salva se stesso dai Dissennatori.
Dunque, Sherlock ora ha una Giratempo (buon per lui) e una frase bizzarra di cui vuole conoscere il significato. Questo capitolo è stato decisamente un punto di snodo, perché ha introdotto due elementi fondamentali della storia… ora mi fermo, se no finisco per dire troppo.
Alla prossima settimana gente!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


 
Sirius Black fu ucciso alcune settimane più tardi in uno scontro al Ministero della Magia, e il ritorno di Voldemort fu ufficialmente riconosciuto da Cornelius Caramell in persona.
 
Non era difficile notare quanto Sherlock fosse abbattuto, benché lui cercasse di non darlo a vedere; non era mai stato in stretti rapporti con Black, ma lo considerava uno dei maghi più versati mai esistiti per aver contribuito alla creazione della Mappa del Malandrino, e credeva quindi che la sua morte fosse un grandissimo spreco di potenziale.
 
John pensava a Remus Lupin, che aveva atteso la verità per dodici anni e ora aveva perso l’unico amico che gli era rimasto. Possibile che la sorte fosse tanto ingiusta? Sembrava impossibile per quell’uomo trovare un momento di pace.
 
“Si sta avvicinando il vento da est, John” commentò Sherlock di punto in bianco quel pomeriggio.
Erano entrambi seduti davanti al caminetto spento. Mentre John leggeva il giornale, Sherlock era rimasto in silenzio per ore, perso nelle sue riflessioni. Il sole stava calando e il cielo si era rannuvolato, ma l’aria era stranamente pesante e afosa, come in una giornata d’agosto.
 
“Non credo” disse John, riponendo a terra il volume. “Fa molto caldo, oggi.”
 
Sherlock sogghignò a questa sciocca risposta. “È la guerra, John. Il vento dell’est è la guerra. E faremo meglio a coprirci molto bene, perché sarà fredda e impetuosa, e noi ci saremo dritti in mezzo.”
 
“Da dove deriva l’espressione?” domandò John, più incuriosito che turbato da una simile predizione.
 
“Era così che i miei genitori chiamavano la Prima Guerra Magica, soprattutto dopo che mio... insomma, ora il vento dell’est sta tornando, anzi è già qui. Il ritorno di Voldemort è stato rivelato, e gli scontri si sono finalmente aperti. Ormai non è più possibile ignorare la realtà.”
 
In quel momento, un gufo picchiettò alla finestra dell’appartamento. John la aprì con un cenno della bacchetta e il volatile gli posò in grembo una lettera, per poi appollaiarsi con un frullo d’ali sopra la credenza, in attesa di riconsegnare la risposta.
 
“È di Mary” constatò John, rigirandosi la busta fra le mani.
 
“Certo, ovvio.”
 
John alzò gli occhi al cielo, strappando la fragile pergamena con un dito ed estraendo il foglio contenuto al suo interno. Sherlock vide il suo volto accigliarsi sempre di più man mano che leggeva. “Alcuni amici danno una cena stasera e i genitori di Mary estendono l’invito a me e Simon” riportò John con una smorfia di disgusto, appallottolando la pergamena e scagliandola in un angolo della stanza con uno scatto rabbioso. “Un uomo muore e loro danno una festa.”
 
“E noi ci andremo. Sarà un’occasione d’oro per Simon.” Sherlock unì le dita sotto il mento con un sorrisetto furbo.
 
“Lo so, lo so, ma comunque… per Merlino, non vedo l’ora che questi Purosangue si estinguano una volta per tutte. Ci saranno molti meno problemi, allora. E anche molti meno idioti.”
 
“Tu e Mary siete di sangue puro” gli fece notare Sherlock, inclinando la testa da un lato.
 
“Sì, e allora? Non è che ne vada fiero.” Disse John inarcando le sopracciglia.
 
“Se avrete figli…”
 
“Oh, sta’ zitto.”
 
Si alzò di scatto e si spostò a passì pesanti in camera propria per prepararsi, sentendo Sherlock fare lo stesso dopo pochi secondi. Si vergognava della propria asprezza e del proprio atteggiamento brusco, ma non riusciva a comportarsi in modo diverso. A Hogwarts era stato un ragazzino impacciato, insicuro, e forse un po’ troppo sentimentale. Da quando Sherlock se n’era andato, era diventato sempre più rigido e distaccato, e non riusciva più ad abbandonare quell’atteggiamento. Soprattutto, non si sentiva più in grado di recuperare il suo vecchio rapporto con l’amico. Da quando Sherlock era stato trasferito al lavoro si vedevano poco, e a casa erano entrambi cupi e chiusi in se stessi; le pure e semplici chiacchiere erano scomparse, sostituite da pesanti silenzi che nessuno dei due provava a riempire. Nonostante ciò, John sapeva di non poter fare a meno di lui: aveva trascorso troppi anni senza averlo al suo fianco, e la sua sola presenza lo calmava e lo confortava. Nel corso degli anni Sherlock lo aveva coinvolto in innumerevoli avventure rischiose, ma averlo accanto lo faceva comunque sentire al sicuro.
 
Circa mezzora dopo si presentarono a casa Morstan, tirati a lucido e impeccabili.
 
Un’elfa domestica aprì loro la porta e li condusse nel vestibolo con modi ossequiosi, lasciandoli sudare nell’ambiente saturo di vapori in attesa che qualcuno li ricevesse. John non conosceva bene quel posto, perché Mary non viveva lì stabilmente e lui c’era stato poche volte, nessuna delle quali gli aveva lasciato un piacevole ricordo; tuttavia, non gli era mai parso che la casa venisse riscaldata costantemente in quel modo.
 
La fidanzata di John lo raggiunse poco dopo, elegantissima nel suo impalpabile vestito lilla, ma molto pallida in viso. Abbracciò rapidamente Sherlock e si concesse di indugiare tra le braccia del fidanzato. “Scusate per la temperatura” disse, districandosi da lui e levando gli occhi al cielo con esasperazione. “I miei hanno il terrore dei Dissennatori. Dicono che stanno già occupando le strade e presto invaderanno le case. Che sciocchezza. Ah!” La ragazza fece una smorfia di dolore e si strinse lo stomaco con un braccio, mentre con l’altro cercava a tentoni una parete su cui appoggiarsi.
 
“Mary. Ehi, Mary, va tutto bene” tentò di tranquillizzarla Sherlock, seppur confuso.
 
John la prese per le spalle. “Mary, che succede?”
 
Lei raddirizzò la schiena, assumendo una posizione impettita per darsi contegno, e annuì. “Va tutto bene, non ti preoccupare. Partiremo tra poco con la Metropolvere.”
 
“Chi sarà presente alla cena?” chiese Sherlock in tono leggero.
 
“Oh, solo qualche amico di mamma e papà” rispose Mary, con un’aria da ragazzina frivola che non le apparteneva. “Credo che l’età media si aggiri attorno ai 130 anni. Sono contenta che abbiate accettato l’invito con così poco preavviso, o mi sarei annoiata da morire.” Parlava in modo formale, dicendo ciò che ci si aspettava di sentirle dire a beneficio di eventuali ascoltatori indiscreti. “Credo che ci saranno i Fawley, i Greengrass e forse qualcuno dei Malfoy.”
 
I due non replicarono, limitandosi a scambiarsi un’occhiata.
 
“Mary, stai tremando” fece notare Sherlock dopo qualche secondo.
 
John non aveva mai visto la sua ragazza così scossa. La costrinse ad appoggiarsi al muro rivestito di pannelli di legno, sorreggendola perché non scivolasse a terra.
 
“No, sto bene” protestò debolmente lei. “È solo un po’ di influenza.”
 
“Bene un corno. Che cosa succede?”
 
Lei guardò implorante Sherlock, che levò la bacchetta ed esclamò “Muffliato… Ecco, ora puoi parlare liberamente. Nessuno ti sentirà.”
 
“Non…” Mary si portò una mano allo stomaco, boccheggiando per prendere fiato.
 
Mai John si era sentito tanto impotente. Non capiva nemmeno se il malessere di lei fosse fisico o psicologico.
 
“John, tu mi ami, vero?” mugolò lei.
 
Spiazzato da quella domanda, John lanciò un’occhiata all’amico, che però rimase impassibile. “Certo che ti amo, ma si può sapere che cos’hai?”
 
Mary trattenne un conato portandosi una mano alla bocca, e il suo respiro si fece affrettato.
 
“È incinta” disse seccamente Sherlock.
 
Lei sospirò e annuì.
 
“È… è fantastico” disse John dopo un attimo. “Un figlio. Noi avremo un figlio.”
 
La possibilità che Mary fosse in grado di rimanere incinta non gli aveva mai nemmeno sfiorato il cervello, ma ora… ora lei era lo era, era incinta, avrebbero avuto un bambino, lui sarebbe diventato padre, sarebbe stato padre, era tutto reale, stavano per diventare genitori…
 
“John, ti sei bevuto il cervello?” L’acidità della voce di lei lo riportò bruscamente al presente, dove i due lo fissavano come se fosse pazzo. “C’è una guerra là fuori.”
 
“Fra nove mesi potrebbe essere finita. E poi siamo entrambi Purosangue, no? Voldemort non verrà a tormentare la nostra famiglia.”
 
La nostra famiglia. Loro erano una famiglia.
 
“Come puoi…”
 
“John, Mary, voi due dovete parlare” si intromise Sherlock. “John, porta la madre di tuo figlio fuori di qui. Io troverò una scusa per coprirvi a cena.”
 
“No, dobbiamo partecipare…”
Sherlock si rifiutò categoricamente di ascoltarli. “Non siete in grado di affrontare un incontro del genere. Avete bisogno di discutere e decidere del vostro futuro. Andate a mangiare qualcosa per conto vostro e… fate quello che dovete fare.”
 
“E va bene” acconsentì John, in realtà ben felice di assentarsi dalla cena. “Mary…”
 
“Sì, bene. Vado a prendere il cappotto” disse lei, alzandosi faticosamente. “Ci metto un minuto.”
 
Una volta che furono soli, John si piazzò davanti a Sherlock, affrontandolo con un cipiglio. “Tu lo sapevi.”
 
Sherlock si sforzò di non incrociare il suo sguardo ed emise un prolungato e acuto “ehh”. Notando che l’amico non mostrava alcuna reazione, e anzi si limitava ad attendere a braccia conserte, recuperò il suo solito atteggiamento flemmatico e disse: “Sì, lo sapevo. L’ho notato l’ultima volta che ci siamo visti.”
 
“Ricordami di non ignorare più le tue allusioni” disse John stringendo le labbra.
 
“Meglio che io vada, adesso. Sarà una grande serata, per Simon.”
 
“Forse un po’ meno per John” replicò lui. “Diventerà padre.”
 
Sherlock si accigliò per un attimo, poi sorrise. I sorrisi di Simon erano sempre così ridicolmente entusiastici che era impossibile non esserne rallegrati.
 
 
 
Quando John tornò a Baker Street, Sherlock era già a casa. Era stravaccato sulla poltrona nera e fissava con sguardo vacuo un punto fisso di fronte a sé.
 
“Com’è andata?” domandò.
 
“Potrei diventare un Mangiamorte entro breve. Urrà.”
 
“E riguardo a me e Mary?”
 
“All’inizio ho detto che avevate le vostre cose da fidanzati da fare, ma non sembravano molto contenti, così ho raccontato che volevi approfittare dell’occasione per fare una sorpresa a Mary e portarla fuori a cena per chiederle di sposarti.”
 
“Non molto lontano dalla verità, in effetti” disse John sedendosi in poltrona di fronte a lui. “Abbiamo convenuto che a questo punto sposarci è la soluzione migliore. Tanto prima o poi sarebbe successo comunque. Insomma, ho ventisei anni, sarebbe anche ora. Non so cosa stessimo aspettando…”
 
Sherlock aveva preso in mano la propria bacchetta e la stava esaminando con aria molto assorta, così John si zittì con un sospiro.
 
L’orologio posato sulla mensola del caminetto ticchettava sommessamente, e John si sorprese a tastare con le dita il cipollotto che aveva sgraffignato all’Ufficio Misteri. Era ancora fermo alle 11:00, ma John poteva quasi sentire l’energia scorrere attraverso i suoi ingranaggi.
 
“Be’, presumo che le nostre strade si divideranno” mormorò Sherlock con voce funerea.
 
“Che intendi?”
 
“Da quando sono stato trasferito di reparto ci vediamo poco, tu te ne andrai da Baker Street; io sarò impegnato a combattere una guerra, tu a crearti una… una famiglia.”
 
“Non dirlo come se fosse una cosa disgustosa” ringhiò John, improvvisamente irato. “E poi non è vero! Verrò a trovarti.”
 
“Ora che la guerra è iniziata, la mia posizione si farà sempre più instabile. Se si scoprisse che sono una spia, tua moglie e tuo figlio sarebbero in pericolo. È meglio che tu smetta di starmi vicino e basta, John.”
 
Quelle parole ebbero l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco.
 
La parte peggiore era che avevano un fondo di verità: Mary e il bambino dovevano avere il meno a che fare possibile con la guerra, ed essere il migliore amico di un doppiogiochista di Silente non aiutava. Ma sacrificare la loro amicizia, sacrificare Sherlock… John non era pronto a compiere quel passo, non era preparato, e non aveva alcuna intenzione di farlo.
 
“No” disse seccamente. “Smettila di comportarti da reginetta del dramma. Prenderò le precauzioni necessarie, porrò un Incanto Fidelius su casa nostra, farò di tutto per proteggerci nel caso che qualcosa vada storto, tranne perdere te un’altra volta.”
 
“John, è per il tuo bene. In fondo, non ci perdi molto…”
 
“No, sul serio, piantala. Sherlock, se pensi che io stia con te perché non ho nessun altro… be’… oh, ecco perché di solito non faccio grandi discorsi! Se pensi che io stia con te perché non ho nessun altro, sì, è vero, ma ti posso assicurare che anche da solo starei benissimo, quindi se siamo ancora amici c’è una ragione, e non ho intenzione di fingere che quella ragione non esista e iniziare ad ignorare te.”
 
“E quale sarebbe questa ragione?” domandò Sherlock in tono pacato.
 
John aprì la bocca per rispondere, scoprendo così che non aveva idea di cosa dire. Per qualche secondo si limitarono a fissarsi, immobili.
 
Sul serio, qual era la ragione? Non gliene veniva in mente alcuna. Eppure c’era, c’era di sicuro, lui lo sentiva, di non poter fare a meno di Sherlock… e allora perché non riusciva a pensare a un singolo motivo per cui continuare a stargli accanto? Sentiva un impellente bisogno di chiedergli perché erano amici. Sherlock era, obiettivamente, una pessima persona: era freddo, teatrale, privo di tatto, saccente e condiscendente in modo inconcepibile. E allora perché lui, John, un uomo del tutto… ordinario, aveva bisogno di lui?
 
“In ogni caso, fai quel che ti pare” sbuffò Sherlock.
 
“Infatti lo farò” ribatté lui piccato.
 
“E la prossima volta che vuoi fare un discorso ti lascio cinque minuti per programmarti una scaletta. L’esposizione era frammentaria, l’argomentazione piuttosto debole, e la conclusione lasciava parecchio a desiderare.”
 
“Idiota” borbottò John, irritato.
 
“E io che dovrei dire, allora?” sbottò Sherlock. “È da un anno che vivi a tre metri da me e mi ignori.”
 
Ti… Sherlock, hai bevuto per caso?” Solo ora se ne rendeva conto: lo sguardo trasognato, la posizione scomposta, i discorsi assurdi… era ubriaco. Non completamente, forse, ma lo era.
 
“Sì, molto champagne –non sapeva di niente, tra parentesi- e sì, mi ignori. Fingi che tutto sia rimasto uguale a prima, solo che adesso non ti fidi più di me. Ti ho detto che mi dispiace, ti ho preso parte dei miei progetti, ti ho rivelato che ero vivo quando avrei potuto restare Simon per sempre, e tu ancora non ti fidi di me!”
 
“Oh, poverino” ringhiò lui con spaventoso sarcasmo. “Ti sei addirittura rivelato, che faticaccia dev’essere stata! Sai una cosa, Sherlock? Io fingo che sia tutto uguale a prima perché accettare l’evidenza mi farebbe impazzire! Hai idea di cosa significhi rendersi conto che sei anni della propria vita sono stati una menzogna?”
 
“Tu non sai cosa…”
 
“No, è proprio questo il problema! Io non so mai niente! Tanto in fondo è solo questo che vuoi, qualcuno che ti segua ciecamente come un cagnolino, niente chiacchiere, niente domande, niente di niente, solo uno a cui tu possa mostrare quanto sei figo e intelligente!”
 
“No. Sarebbe noioso.”
 
“Ah, noioso? Vuoi che io mi fidi di te? Fidati tu di me, per una volta, e poi ne riparliamo.”
Sherlock era così contrito e allibito che John quasi si pentì di quell’esplosione; ma lui si sentiva davvero meglio, dopo aver esplicitato i propri sentimenti. “Mi dispiace” si scusò, ma non era vero, non del tutto.
 
Sherlock si prese il volto tra le mani con un sospiro di stanchezza.
 
“Questa è l’ultima volta che facciamo questa cosa del parlare, ok?” disse tristemente John.
 
“Perché è così difficile?” borbottò Sherlock da dietro il palmo della mano.
 
“Che cosa è difficile?”
 
“Evitare di commettere errori.”
 
“Non capisco.”
 
“Sono umano anche io, John.”
 
John allargò le braccia e inarcò le sopracciglia. “Stai parlando in indovinelli?”
 
“No. Lascia perdere.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Dunque dunque. Ho un po’ invertito gli eventi della serie, per quanto riguarda il matrimonio e il bambino… hehe, sì, Mary è proprio incinta. Spero si sia capito che si comportava in quel modo perché aveva la nausea e stava male, non perché l’ho fatta diventare un personaggio debole e lacrimoso. Onestamente, credo che quel “John, ti sei bevuto il cervello?” fosse piuttosto da lei.
Sirius è morto, sì. Anche qui, sì. Sorry. E il doloroso riferimento al mio adorato Remus era d’obbligo, perché è dannatamente vero che quell’uomo non ha un attimo di tregua: prima tutti i suoi migliori amici muoiono e lui crede che l’unico rimasto sia il loro assassino, poi scopre che non è così, e appena due anni dopo questi viene ucciso, e proprio quando si pensa che possa costruirsi una famiglia HAHAHAHAHAH NO, lui muore.
Passando alla parte che forse vi interessa di più, ecco uno Sherlock mezzo ubriaco con i freni inibitori completamente fuori uso… Sherlock che non può evitare di commettere errori… *coff coff* commettere ERRORI… *coff coff*.
Avete visto cos’ha twittato la BBC3 sabato scorso? Ogni sabato scrivevano dei tweet assurdi sulla Johnlock, ma sabato scorso… oh, dei dell’Olimpo. Ditemi che l’avete visto. Chiaramente sto evitando fino all’ultimo di svelarlo perché nel caso che non l’abbiate letto voglio tenervi sulle spine fino all’ultimo.
Hanno scritto che ci sarà un bacio tra John e Sherlock nel Christmas special del 2015.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***


 
Poco tempo dopo, Sherlock fu costretto a provare la propria fedeltà al Signore Oscuro per poter entrare tra schiere dei Mangiamorte.
 
“Hanno detto che ci andrò da solo, ma naturalmente all’ultimo secondo mi affibbieranno uno dei loro per assicurarsi che non mi tiri indietro e compia il mio lavoro come si deve. Non si scherza col test rosso… non mi hanno ancora comunicato chi dovrò uccidere, ma ho un paio di idee. Mi dispiace, ma dovrò farlo. Devo portare avanti il mio compito, e se in futuro potrò salvare delle vite lo farò, ma non questa volta.”
 
Era sera, e i due coinquilini stavano oziando in salotto al lume di una lampada. John aveva un libro aperto sulle ginocchia; non leggeva da quando l’amico aveva iniziato a parlare, ma nemmeno gli rispose: Sherlock non stava realmente conversando con lui, stava solo cercando di ripulirsi la coscienza. Aveva già ucciso una volta, ma in circostanze completamente diverse: l’aveva fatto per tenere fede a una promessa, e la sua vittima era un uomo che meritava davvero di morire. Stavolta avrebbe dovuto assassinare un innocente.
 
“John, non mi ignorare. Lo vedo che stai ascoltando.”
 
John levò lo sguardo verso di lui e alzò le spalle. “Che vuoi che ti dica? Che ti perdonerò se stanotte ammazzerai qualcuno? Non posso farci niente, io, se la causa dell’Ordine vuole che tu diventi un Mangiamorte. …E dai, ammettilo” aggiunse poi, dopo una pausa “in fondo adori tutti questi pericoli, i doppi giochi, rischiare la vita…”
 
“Tu sai perché lo sto facendo, vero? Oltre all’adrenalina, e al fatto che odio Voldemort perché attacca chi è diverso” disse Sherlock in tono grave, sporgendosi sulla sedia.
 
“Che intendi?” John chiuse il libro e lo ripose a terra, come a intendere che con quella frase aveva catturato la sua attenzione.
Sherlock aveva le mani congiunte e i gomiti posati sulle ginocchia. Teneva gli occhi bassi, come se non osasse guardarlo. “Come già sai, mia madre è Purosangue, mentre mio padre è nato Babbano.”
 
John annuì. “Mhm.”
 
“Durante la Prima Guerra Magica, nel 1980, due Mangiamorte fecero irruzione a casa nostra. Credo che l’obiettivo fosse mio padre, ma i due presero di mira tutta la famiglia. Uno di loro era lì per il test d’iniziazione… come me stanotte.”
 
John sapeva che entrambi i genitori di Sherlock erano tuttora vivi e vegeti, e si chiedeva dove sarebbe andato a parare con la narrazione.
 
Sherlock prese un profondo respiro e batté una volta le mani. “Per farla breve, Mycroft non è il mio unico fratello.”
 
“Davvero? Non mi hai mai detto di averne un altro.” Come al solito, John non aveva afferrato la questione fondamentale.
 
“Non ne ho un altro. Non più.”
 
Cosa?”
 
“Ne avevo un altro. Aveva circa dieci anni più di me. E…”
John sbuffò e alzò le braccia. “Sherlock, ci sarà una volta in cui mi racconterai tutta la verità su di te? Mi pare che ne avessimo già parlato.”
 
“Lo sto facendo ora.”
 
“Bene. Vai avanti” sospirò John.
 
“Quando i due Mangiamorte fecero irruzione, mia madre prese mio fratello Mycroft e si Smaterializzò con lui in un rifugio sicuro che i miei avevano predisposto in precedenza. Io ero dall’altro lato della casa da solo, nascosto sotto un letto, quando i due mi trovarono…
 
 
 
Il pavimento era freddo e polveroso, ma se fosse rimasto nascosto non lo avrebbero trovato. Aveva addirittura lasciato spenta la luce della stanza, ingoiando la propria paura per il buio, perché non capissero dove si era rintanato. Quando sentì i loro passi in corridoio si ritrasse contro il muro, aderendo completamente al battiscopa per essere certo di non sporgere fuori dal letto. I due si affacciarono alla porta, esaminando ogni angolo della stanza con la luce delle bacchette.
 
Il più alto tra loro era spaventoso: i suoi capelli biondi sembravano bianchi, aveva il viso lungo e smunto e occhi pallidi. Il più basso era anche più robusto e più giovane, e aveva ancora la faccia butterata dai brufoli. “Dovremmo dividerci” propose.
 
“Non se ne parla” replicò l’altro con acidità. “Devo tenerti d’occhio.”
 
“Ci metteremo ore se…”
 
Sherlock sentì un familiare pizzicore al naso mentre la polvere gli solleticava le narici e si tappò la bocca, ma ormai era troppo tardi per bloccare lo starnuto.
 
Ci fu un lungo silenzio. Il bambino tenne le mani davanti al volto, senza osar muovere un muscolo. Quasi sperava ancora di non essere stato udito. Poi vide le ginocchia dei due uomini piegarsi e le loro luci abbassarsi e si rannicchiò di scatto, come se questo potesse renderlo invisibile ai loro occhi.
 
“È solo un bambino” grugnì quello alto con delusione. “Muoviti, andiamo.”
 
“È uno schifoso mezzosangue” sputacchiò quello basso in uno scatto d’ira.
 
“Non siamo qui per questo” lo rimbrottò l’altro, tirandolo per una manica. “Dobbiamo cercare il vecchio.”
 
“Bene! Vediamo se uscirà fuori più facilmente, una volta che avremo il ragazzino.”
 
Sherlock li fissava ad occhi spalancati, senza reagire. Quando quello basso si avvicinò lui si ritrasse ancora di più, e i due scoppiarono a ridere.
 
“Lascialo in pace! Stupeficium!” urlò una voce in corridoio: suo fratello, senza dubbio. Quello alto, che era ancora fuori dalla stanza, fu colpito da una luce rossa e fu scaraventato via, fuori dalla sua visuale.
 
Quello basso corse fuori, esultante, con la bacchetta sguainata. “Holmes! Sapevo… protego! …oh, non provarci con me, vecchio Babbano! Scagliami una fattura, e io avrò tutto il tempo di colpire tuo fratello!”
 
“Lascialo stare, è mio padre che state cercando. Lui non c’entra nulla” disse la voce di suo fratello al di là del muro.
 
“È uno schifoso Mezzosangue, proprio come te, e tu lo sai benissimo. Oppure adesso neghi addirittura di aver nascosto a tutti di essere figlio di un Nato Babbano, a Hogwarts?” ringhiò quello con disprezzo.
 
“Non nego nulla” disse suo fratello con voce glaciale. “Ero un idiota, e ora me ne pento. Tu eri un idiota allora, e un idiota sei rimasto.”
 
Sherlock si rese conto che l’uomo vestito di nero non lo stava guardando, era troppo preso da suo fratello. Gli ci volle un attimo per decidere: prestando molta attenzione a non fare rumore, strisciò fuori dal letto e zampettò fino al muro, scivolando poi sulla parete per non farsi notare. Dalla nuova angolazione, vide che suo fratello distava meno di tre metri dal suo aguzzino, ma non si era accorto del suo spostamento: stava fissando un punto dritto davanti a sé, quasi senza sbattere le palpebre. I suoi capelli castani erano piatti e gocciolanti d’acqua, e indossava una tuta da ginnastica e una maglietta sformata: doveva essere sotto la doccia, quando i due Mangiamorte erano arrivati.
Sherlock doveva dargli un vantaggio per permettergli di colpire quello basso.
 
In quel momento suo fratello urlò: “Ora!”
 
Colto di sorpresa, lui fece l’unica cosa che gli venne in mente: si buttò con tutto il peso addosso all’uomo nero, mandandolo a sbattere contro il muro del corridoio e facendogli perdere la presa sulla bacchetta.
 
In quell’esatto momento, una terza voce gridò: “Expelliarmus!”, ma l’incantesimo, anziché colpire l’uomo in nero, che era appena crollato addosso alla parete, colpì suo fratello.
 
L’uomo nero ruggì, scrollandosi di dosso il bambino e gettandolo a terra; si scagliò addosso al vecchio compagno a mani nude, senza recuperare la bacchetta e rotolò, con lui per diversi metri.
 
“Sherlock!” chiamò suo padre, correndo da lui. Avrebbe desiderato scagliare una fattura al Mangiamorte, ma lui e il figlio erano avvinghiati troppo stretti, un groviglio di corpi, e non poteva rischiare di tramortire la persona sbagliata. Così avvolse tra le braccia il bimbo e si Smaterializzò insieme a lui.
 
 
 
…Attendemmo per ore che mio fratello ci raggiungesse. Invano. Quando finalmente i miei osarono tornare a casa, lo trovarono lì, in corridoio, ucciso da una Maledizione Senza Perdono.”
 
Per Godric, Sherlock…” John era rimasto a bocca aperta.
 
“E io stasera sarò quell’uomo.” Sherlock non aveva ancora osato sollevare lo sguardo. “Stasera io –Simon- sarà quel fanatico disposto a uccidere chiunque si metta sul suo cammino di distruzione.”
 
John era ancora sconvolto. “No, non è vero. Tu dovrai solo fingere di essere quel fanatico. Non lo sarai per davvero.”
 
“Hai mai notato che mio fratello Mycroft è la persona più fredda e insensibile del Regno Unito?” replicò Sherlock.
 
“Anche del resto del mondo, probabilmente.”
 
“L’ha imparato quel giorno, ad evitare qualsiasi coinvolgimento emotivo, quando ha visto il fratello maggiore morire per aver provato dei sentimenti.”
 
“Tuo fratello doveva amarti molto se è morto per te” si lasciò sfuggire John. “Scusa” si affrettò a dire non appena si rese conto dell’inadeguatezza delle proprie parole.
Sherlock alzò per la prima volta gli occhi, fissandolo con sguardo penetrante. “Sì, doveva amarmi molto se è morto per me” concordò. “Forse però Mycroft non ha tutti i torti: mi servirebbe un po’ della sua freddezza, stasera…” aggiunse poi in tono leggero. “Be’, rallegrati, John. Domattina sentirai parlare delle mie imprese.”
 
 
 
Amelia Bones, membro del Wizengamot, fu trovata morta il mattino seguente. Le autorità Babbane impazzirono nel risolvere il mistero del suo omicidio, poiché quando era stata uccisa la donna era barricata in casa con porte e finestre sbarrate dall’interno.
Sherlock si prese un giorno libero dal lavoro, e quando John tornò a casa, quella sera, lo trovò a suonare il violino.
 
Aveva sempre trovato curiosa la passione di Sherlock per la musica, una forma di poesia che aveva espressione nelle emozioni e nei sentimenti suscitati nell’ascoltatore. Sherlock riversava tutto se stesso nei suoi componimenti, come se non potesse esprimersi in altro modo. Di solito la sua musica era melanconica e nostalgica, mentre stavolta sembrava che volesse bruciare l’archetto eseguendo una successione sempre più rapida di note stridenti; stava riprendendo spartiti celebri, storpiando accordi e melodie nell’agghiacciante parodia del perfetto violinista classico.
 
Non appena notò il coinquilino sulla soglia di casa, Sherlock gettò il violino nella custodia e si acciambellò sulla sua poltrona come un gatto.
 
John avrebbe preferito che continuasse a suonare; ora non poteva più chiudersi nella propria stanza e ignorarlo, ma non aveva la più pallida idea di cosa dirgli. Non si era mai sentito così a corto di idee.
 
“Sei stato tu, vero?” No, John, pessimo, pessimo inizio.
 
“No. È stato Simon Church.”
 
“Sì. Giusto. Porte chiuse dall’interno?”
 
“Il mio collega riteneva che fosse divertente mettere i Babbani in difficoltà. L’ho assecondato.”
 
“Non aveva figli, lei, vero?”
 
“No. Era sola. Ed era una brava persona.”
 
Sherlock si alzò dalla poltrona e gli andò incontro, continuando a guardarlo negli occhi. Si arrotolò la manica sinistra della camicia, esponendo il Marchio Nero tatuato sull’avambraccio. La pelle attorno al disegno era rossa, probabilmente infettata dalla maledizione. Una vena pulsava all’impazzata nell’incavo del suo gomito.
 
“È stato… è stato doloroso?”
 
Sherlock arricciò le labbra mentre rifletteva. “Non proprio. Non ha fatto male al braccio. Ma non è stata nemmeno indolore: indica pur sempre una sottomissione volontaria a un mago oscuro.”
 
“Oh.”
 
“Mi hanno dato anche la maschera e il mantello. Se non sapessi cosa fanno abitualmente, penserei che siano una qualche ridicola confraternita di teatranti. Per di più sono davvero scomodi, non ho idea del perché li usino.”
 
Sherlock tentava di scherzare per alleggerire la situazione, e John gli diede corda. “Già, mi chiedo se il prossimo passo saranno delle maschere da Carnevale Veneziano.”
 
“Bellatrix Lestrange potrebbe vestirsi da Colombina” aggiunse Sherlock con un sorrisetto forzato.
 
John si allontanò da Sherlock facendo un passo indietro. “Ok, basta così.”
 
“Oh, Mary, eccoti qui.” Sherlock si tirò giù la manica della camicia e riabbottonò il polsino tenendolo stretto contro il petto.
 
“Mary!”
 
“John, sei tornato!” La ragazza gli si avvicinò per baciarlo. “Ero venuta a trovare Sherlock, e la signora Hudson mi ha chiesto di aiutarla con una piccola faccenda” spiegò.
 
John sorrise, senza sapere bene come replicare. “Bene” tentò. “Come va con… insomma…”
 
“Sherlock mi ha dato un medicinale contro la nausea, per fortuna, quindi sto bene. A proposito, Sherlock, mi ero dimenticata di dirti che dobbiamo andare a fare le prove del tuo abito, sabato.”
 
“Il mio cosa?” disse Sherlock, allibito, e John scoppiò a ridere.
 
“Il tuo abito da testimone! Devi provarlo, prima di indossarlo.”
 
“Sì, giusto.” Sherlock scosse la testa e inviò all’amico un’occhiata terrorizzata. “Ehm, sì. Come stavo dicendo, John, ho inviato un messaggio in codice a Silente per informarlo che ha una nuova spia. Ne è stato piuttosto soddisfatto.”
 
“Aspetta, cosa intendi con nuova? Non sei l’unico?” chiese John, accigliandosi.
 
“Certo che no, che sciocchezza. Cosa credevi? Silente ha sempre avuto le sue risorse.”
 
“Però la Giratempo te la sei dovuta rubare da solo.”
 
“Ecco, a questo proposito… stavo riflettendo sulla cosa che Silente mi ha detto quella sera, ti ricordi? Che quell’orologio mi avrebbe permesso di diventare padrone del tempo, ma alla fine dal tempo sarei stato soggiogato. Te lo ricordi, no?”
 
“L’avrai ripetuto almeno cinquantasette volte da allora…”
 
“All’inizio ho creduto che fosse una citazione e ho provato a ricercarla, pensando che potesse essere un indizio o un consiglio che non poteva pronunciare ad alta voce, ma poi ho scartato l’idea. Quando l’ho contattato per informarlo che il nostro progetto procede, stamattina, gli ho chiesto delucidazioni. Lui mi ha inviato questo.” Sherlock estrasse dalla tasca dei pantaloni un pezzettino di pergamena pieghettato e glielo porse. “Io e Mary stavamo aspettando te per passare alla prossima fase del piano.”
 
“«R.J.L., 1980, metamorfomagus, ?»” lesse John. “Cosa significa? E di quale piano parli?”
 
“Ho fatto delle ricerche. Quel cartiglio accompagnava una delle profezie conservate all’Ufficio Misteri che si sono rotte durante l’incursione di Harry Potter e dei suoi amici. Sappiamo che questa profezia è stata pronunciata nel 1980 da un veggente il cui nome inizia per R. J. L., giusto? Così mi sono travestito da mio fratello, sono andato a controllare negli archivi del Ministero –c’è il libero accesso a tutti, lo sapevi? - e ho scoperto che esiste solo una persona con il dono della Vista e con quelle iniziali che era in vita vent’anni fa e lo è tuttora: Reyna Jane Hartnell, nata Reyna Jane Lindsey. Attualmente risiede a Chiswick, Londra con il marito e la figlia. Io e Mary pensavamo di farle una visitina.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Dunque, dunque. Dato che l’unica cosa che sappiamo del terzo Holmes è che ha avuto uno slancio di amore fraterno ed è probabilmente finito male, ho voluto fare lo stesso. Ho deciso di non dargli un nome perché non mi andava di inventarlo, nel caso che poi comparisse davvero in una delle prossime stagioni.
Nonnn ho molto altro da dire, quindi… alla settimana prossima! Preparatevi ad incontrare Reyna Jane Hartnell ;)
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


 
Presero la metropolitana da Baker Street a Chiswick.
 
Non erano abituati ad usufruire dei mezzi Babbani per spostarsi, ma non c’era altro modo di arrivare in un luogo che non avevano mai visto. Sherlock camminava in testa, sbuffava impaziente ogni volta che gli amici restavano bloccati ai tornelli, o non avevano la sua stessa rapidità nell’estrarre i biglietti, o esitavano prima di salire sulle scale mobili per timore di sbilanciarsi e cadere. John sosteneva Mary per un braccio, benché lei gli avesse più volte ripetuto di essere perfettamente in grado di cavarsela da sola: se già durante le prime settimane lui la trattava come se fosse all’ottavo mese, cosa avrebbe fatto quando lei fosse effettivamente giunta all’ottavo mese?
 
Attraversarono a piedi un quartiere residenziale di casette a schiera finché Sherlock, con l’aspetto di Simon Church, si fermò davanti a una di esse, saltò con un balzo i tre gradini fino all’ingresso e suonò il campanello.
 
Mary scrollò gentilmente il braccio perché John si staccasse da lei e lui infilò entrambe le mani in tasca.
 
Una figura si stagliò contro il vetro smerigliato, e pochi istanti dopo la porta si aprì. Davanti a loro stava una donna di circa trentacinque anni, con la pelle caramellata e i capelli scuri raccolti in una crocchia da cui sfuggivano ciuffi scompigliati; indossava un cardigan nero, una camicetta azzurra e una larga gonna a pieghe che le arrivava alle ginocchia. John notò che il braccio che la donna teneva dietro la schiena si era contratto: stava sicuramente stringendo una bacchetta magica, in caso di un’eventuale aggressione. Quella donna, realizzò, aveva paura. I suoi occhi scuri fissavano i tre sconosciuti sulla soglia con sguardo truce e risoluto; la sua espressione, tuttavia, divenne istantaneamente perplessa non appena notò che i tre sconosciuti erano appena dei ragazzini e sembravano totalmente innocui.
 
“Buonasera” disse, piuttosto interdetta.
 
“Lei è Reyna Jane Hartnell, nata Lindsay?”
 
“Sì, sono io. Lei chi è?”
 
“Il mio nome è Simon Church, e questi sono i miei amici John Watson e Mary Morstan. Siamo qui per via della profezia che lei ha pronunciato sedici anni fa.”
 
“Oh.” Reyna Hartnell sembrò stupita. “Be’, allora… oh.” La donna fissò intensamente il ventre di Mary, che diventò dello stesso colore della sua giacca rossa.
 
“Cosa…”
 
“È una bambina” constatò Reyna Hartnell, stropicciandosi un occhio.
 
“Sì. Come diavolo fa a saperlo?”
 
“Ho una specie di sesto senso” rispose quella senza alcuna traccia di ironia. “Anne è un buon nome, però io preferisco Grace.”
 
Sherlock si voltò verso i due amici, e poi di nuovo verso la veggente. John scambiò con lui un’occhiata sconcertata. “Anne è il nome che vorrei darle io, mentre Mary preferisce Grace” balbettò a mo’ di spiegazione. “Ma…”
 
“Non vi preoccupate… prego, entrate.”
 
Reyna Hartnell si fece da parte e li condusse lungo uno stretto corridoio fino al salotto in aperta comunicazione con la sala da pranzo. L’intera stanza era invasa di scatoloni; gli scaffali e le librerie erano completamente sgombre, gli armadietti della cucina erano spalancati e vuoti, il divano su cui Reyna li fece accomodare era coperto da un telo di plastica. John si sedette con crescente disagio tra l’amico e la fidanzata.
 
Lei si occupò la poltrona di fronte a loro e li osservò con la testa inclinata. “Bene, cosa posso fare per voi?” domandò.
 
“Ci chiedevamo se potesse dirci qualcosa in più sulla profezia” spiegò Sherlock con un sorrisino accattivante, di quelli che Simon Church sapeva produrre in modo perfetto.
 
“Perché? Come avete fatto a sapere della sua esistenza? Le profezia vengono conservate all’Ufficio Misteri, e solo i diretti interessati possono prelevarle. Oltretutto, meno di un mese fa molte delle più recenti sono andate perdute.”
 
“Un nostro conoscente potrebbe essere proprio il diretto interessato e abbiamo deciso di fare delle ricerche” balbettò Sherlock, impreparato per tutte quelle obiezioni. “Della sua profezia si è salvato solo il cartiglio, temo, ma è sufficiente quello per sapere che lei ha parlato di un metamorfomagus.”
 
John si sentiva un completo idiota.
 
“Ma davvero?” disse lei in tono ironico, per nulla impressionata, socchiudendo gli occhi con aria sospettosa. “Be’, in tal caso…”
 
Dal piano superiore provenne un tonfo, e il rumore di oggetti che si sparpagliavano sul pavimento. Pochi secondi dopo, una scatoletta di legno scuro entrò volando nella stanza e atterrò in grembo alla donna, che l’aprì con uno scatto metallico. “Di solito faccio profezie stupidissime” spiegò, sogghignando. “Tipo, i numeri della lotteria, o se ci sarà un rincaro dei prezzi del pane. Non sono un granché come veggente, però mi capita spesso. L’unica profezia decente l’ho pronunciata che ero ancora adolescente, dicono che sia stato perché ho ricevuto un trauma… comunque, da allora sono sempre stata attenta, nel caso si fosse avverata.” Aprì la scatola con uno scatto metallico e iniziò a tirarvi fuori una serie di fotografie. “Allora, quello di voi con il ciuffo stupido e il mento sporgente è il metamorfomagus, giusto? Scusa, ho dimenticato il tuo nome. Be’, tanto non è nemmeno quello vero.”
 
Sherlock e John si scambiarono un’occhiata atterrita. “Non…”
 
“No, non serve che mentiate. A giudicare dalle vostre espressioni, ho centrato il bersaglio, eh? Sei un metamorfo. Desideravo giusto procurarvi queste reazioni, per accertarmi che non steste mentendo. In quel caso non vi avrei rivelato nulla, ovviamente. La prossima volta che volete ottenere delle informazioni, presentatevi con una scusa migliore di un nostro conoscente potrebbe essere il diretto interessato. Era patetico.”
 
“Saggia mossa, signora Hartnell.”
 
“Oh, chiamami Reyna” chiocciò lei, improvvisamente molto più calorosa di prima. “Volete qualcosa da bere? Tè, caffè, succo di zucca…?”
 
“Succo di zucca andrà bene, grazie. John? Mary?”
 
“Succo di zucca anche per noi, sì.”
 
Reyna mosse distrattamente la bacchetta, e due bicchieri uscirono fuori dalla credenza e iniziarono a riempirsi da soli. “Scusate per il disordine, ci stiamo trasferendo.”
 
“State scappando dal paese, invece. Suo marito e sua figlia sono già partiti, perché suo marito è Babbano e potrebbe essere preso di mira. Ancora una volta, saggia mossa” disse Sherlock.
 
“È così. Come fai a…”
 
“Non se lo chieda” la interruppe John. “Io lo conosco da anni e devo ancora capire come fa.”
 
“Lei invece come ha fatto a capire che sono io quello che può cambiare aspetto?” domandò Sherlock.
 
Lei scosse la testa, tornando a focalizzarsi sulle sue foto. “Attualmente ci sono cinque metamorfomagus in circolazione, li conosco tutti. L’unica cosa certa di quella profezia è che ha un metamorfo come protagonista, quindi mi sono tenuta aggiornata: nomi, età, avvenimenti importanti… voglio sempre avere in mente chi potrebbe essere colpito. Da quando ho pronunciato la profezia, due di loro sono morti, e uno era appena stato ucciso. Lui lo conoscevo di persona, e dicono che sia per quello che la mia Vista si è improvvisamente risvegliata.” Estrasse un ritaglio di giornale e lo fissò per qualche secondo, riponendolo poi nel contenitore. “Due di loro erano Holmes, sapete? Dovete saperlo di sicuro, il più giovane è morto in circostanze molto misteriose.” Reyna inarcò un sopracciglio con inaspettata eleganza. “Del resto, lo ricordereste lo stesso.”
 
John aveva iniziato a sudare a quell’accenno così specifico a Sherlock. Quella donna sembrava molto perspicace, e la conversazione non stava andando esattamente dove loro avevano sperato.
 
“Uhm, sì” provò a rispondere. “Ma quindi, la profezia…”
 
“Sentite, io non credo nei miracoli, però non credo nemmeno nelle coincidenze” disse Reyna con espressione seria. “Ma se per caso ci credessi, be’, sarebbe davvero una bella coincidenza se John Watson e Mary Morstan, migliori amici di Sherlock Holmes e coinvolti nella sua morte, fossero diventati migliori amici di un altro dei mutaforma, tre dei quali hanno più di quarantacinque anni, e uno –il terzo fratello Holmes- non sembra decisamente il tipo da trascinarsi dietro due compagni di avventure. Correggetemi se sbaglio, ma a meno che tu… Simon… non sia Ninfadora Tonks, direi che qui è avvenuto un miracolo. Ma forse, sto dicendo solo un mucchio di stupidaggini.”
 
“Mi dica, com’è finita una donna intelligente come lei nei sobborghi di Londra, sposata a un Babbano sottopagato e amante della fantascienza?” domandò Sherlock senza traccia di ironia.
 
Lei scoppiò a ridere genuinamente. “Perché lo amavo, e lo amo tuttora, ovviamente.”
 
“Amore” sbuffò Sherlock. “Difetto chimico.”
 
“Tu non sei Ninfadora Tonks, eh?”
 
“No, non lo sono” rispose Sherlock quietamente. “Il maggiore dei fratelli Holmes è morto l’anno che lei ha pronunciato la profezia. Era lui il metamorfo che conosceva?”
 
“Sì, era lui. Era un bravo ragazzo. Era proprio come te.” La donna sorrise, divertita. “Non che disprezzasse i sentimenti, li trovava solo futili e un po’… noiosi. Mi è dispiaciuto per lui… e la profezia è venuta fuori proprio pochi giorni dopo la sua morte. Naturalmente sapevo che era un metamorfomagus, quindi che sia stato un caso o no, questo non te lo so dire. Ho conservato anche la sua foto, se vuoi.”
 
John si sporse sul divano per guardare la fotografia che lei aveva posato sul tavolino; ritraeva un ragazzo alto, vestito con la divisa di Hogwarts, che fissava l’obiettivo con aria di sfida o faceva smorfie scherzose. Somigliava più a Sherlock che a Mycroft, benché il suo volto fosse molto meno particolare; era più attraente di entrambi, ma aveva decisamente meno fascino del fratello minore.
 
Sherlock gli dedicò un misero istante prima di riportare l’attenzione alla profetessa, che nel frattempo aveva appellato i bicchieri di succo di zucca e li aveva appoggiati accanto alla foto.
 
“La predizione…”
 
“Giusto, giusto, siete qui per questo. Vediamo un po’… come ho detto, tre metamorfomagus hanno più di quarantacinque anni: uno ne ha quarantasette e lavora al Dipartimento Auror, uno ne ha settantaquattro e ha una libreria a Newcastle, uno ne ha novantanove e lavorava anche lui come Auror, ma ora fa l’arbitro alle partite di Quidditch amatoriali di Glasgow. Poi c’è Ninfadora Tonks, Auror anche lei –molti mutaforma scelgono questa carriera per le facilitazioni che i loro poteri comportano-, e infine Mycroft Holmes, neanche trent’anni, che come tutti sappiamo occupa una posizione di discreto rilievo al Ministero della Magia.”
 
“In realtà, vorremmo ascoltare la profezia, prima di tutto.”
 
“Che sciocca!” esclamò lei, dandosi una manata sulla fronte. Prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e iniziò a recitare: “I morti vendicheranno i morti, quando due ingannatori che giocano con la vita si scontreranno in una lotta impari, e il mutaforma, padrone del tempo, dal tempo sarà soggiogato se avrà affrontato la sua peggiore paura.”
 
Sherlock, John e Mary si guardarono.
 
“Il protagonista della profezia è un padrone del tempo” proseguì Reyna, ignorando il loro turbamento. “Quindi suppongo che debba avere la capacità di manipolarlo a suo piacimento, magari di viaggiarci. Per il resto, però… non lo so, non l’ho mai capito. I morti vendicheranno i morti? Non ha senso, a meno che non si riferisca a degli Inferi. I due ingannatori che giocano con la vita potrebbero essere due assassini, persone che hanno poca considerazione della vira altrui, ma quell’ingannatori mi lascia sempre perplessa. Quanto alla peggiore paura, temo che possa saperlo solo il diretto interessato.”
 
“Ma… dovrebbe essere una cosa positiva o negativa essere soggiogati dal tempo?” domandò Mary.
 
“Entrambe, suppongo. Se ci pensi, noi siamo costantemente sotto il suo potere. Essere padrone del tempo potrebbe significare sfuggire momentaneamente a questa costrizione… ma è difficile stabilirlo, senza un contesto.”
 
“Non c’è dubbio, parla di me” disse Sherlock. “Sarei pronto a scommettere di essere l’unico metamorfo in possesso di una Giratempo.”
 
“E i due ingannatori che giocano con la vita”, ripeté John. “Cosa pensi che significhi?”
 
“Ho ventisette ipotesi, per ora. E quella frase di Silente, il padrone del tempo che dal tempo sarà soggiogato, ora finalmente ha un senso!”
 
“Dovrai capirlo, però, per decidere se affrontare questa paura” fece notare John. “Non può essere un Molliccio, vero?”
 
“Non credo che l’oracolo si disturberebbe a profetizzare lo scontro tra un metamorfomagus e un Molliccio: li abbiamo studiati al terzo anno, non è che siano creature di alto livello.”
 
“Sai già quale potrebbe essere questa paura?”
 
“No, non ne ho idea.”
 
Lotta impari, soggiogato, peggiore paura… non prevedevano nulla di buono, soprattutto considerato il clima attuale. Il futuro di Sherlock dipendeva dalla sua capacità di affrontare questo timore, ma qual era? Non sarebbe stato meglio evitare di combatterlo, se esso avrebbe comportato il suo soggiogamento?
 
Merlino, come se la situazione non fosse già stata abbastanza complicata. Non bastavano Voldemort, i Mangiamorte, l’Ordine, i giochi di spie, i problemi di Mary e il bambino in arrivo, doveva mettersi in mezzo anche una dannatissima profezia.
 
John notò improvvisamente che Mary e Reyna si stavano scambiando delle occhiatine complici, ridacchiando sotto i baffi mentre lui e Sherlock discutevano. Anche Sherlock sembrò accorgersene, perché si ritrasse sullo schienale e unì le dita sotto il mento come suo solito. “Signora Hartnell… Reyna… lei non sembra minimamente turbata dal fatto che un uomo morto si sia appena rivelato vivo. Posso conoscerne il motivo?”
 
Lei sbuffò. “Ragazzo, hai presente quell’uomo che avrebbe dovuto essere morto da sedici anni? Lo chiamano Lord Voldemort, forse ne hai sentito parlare.”
 
“Lei è stata incredibilmente veloce a dedurre la mia identità” osservò lui.
 
“Una volta escluso l’impossibile, ciò che resta deve essere la verità.”
Sherlock sembrò colpito da quelle parole. Una volta escluso l’impossibile, ciò che resta deve essere la verità. “E così è partita dal presupposto che io stessi mentendo quando sostenevo di seguire delle ricerche per conto di un conoscente, ha ricordato –dato che si è sempre tenuta informata- che John Watson e Mary Morstan erano stati miei amici e quindi le loro identità non potevano essere fittizie; io ero l’unico rimasto, per cui il mutaforma dovevo essere io. Eliminando quelli tra loro che non potevano essere amici di John e Mary, ha ristretto il campo a me e Ninfadora Tonks e mi ha chiesto chi dei due ero, probabilmente già certa della mia risposta, dato che Ninfadora Tonks non avrebbe motivo di nascondersi… le risulta che siamo parenti?”
 
Reyna sorrise sorniona. “Corretto. La deduzione, intendo, non che siamo parenti.”
 
“Può dirci altro riguardo alla profezia?” chiese Mary.
 
 “Purtroppo, averla pronunciata non mi permette anche di conoscerla meglio” disse Reyna. “Mi dispiace, ma non posso aiutarvi più di così.”
 
“Oh.” In verità, Sherlock non sembrava particolarmente deluso di non poter avere ulteriori informazioni. “Be’, grazie del suo tempo, comunque.”
 
“Figurati, è stato un piacere.”
 
Sherlock scattò in piedi, e John lo seguì a ruota, aiutando anche Mary ad alzarsi. Reyna li accompagnò alla porta, osservandoli quasi con insistenza mentre indossavano i mantelli.
 
“Sherlock?”
 
I tre amici sussultarono quando lei pronunciò quel nome. “Sì?”
 
“Somigli a tuo fratello più di quanto tu creda, sai? Anche lui, verso la fine, aveva commesso lo stesso errore. Errore secondo il suo punto di vista, ovviamente.”
 
Errore?” ripeté John, senza capire.
 
“Del resto, nessuno è perfetto” disse Reyna, con l’ombra di un sorrisetto sghembo.
 
“No, infatti” replicò Sherlock dopo una pausa. “Arrivederci, signora Hartnell.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Reyna Reyna Reyna! La mia adorata Reyna Jane. L’unica esperienza che noi Potterheads abbiamo avuto con una veggente è stata quella con la Cooman, quindi ho voluto creare un personaggio totalmente diverso. E così è nata Reyna, che viene continuamente colta da ispirazioni profetiche ma al massimo prevede che il treno arriverà in ritardo.
Comunque preparatevi, il prossimo capitolo sarà uno di quelli in cui passano meeeesi e meeeesi con luuuunghe ellissi e piccoli stralci di vita quotidiana. Però vi regalerò uno dei miei “dialoghi alternativi” come bonus.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


 
John era indeciso se spostare o meno la sua poltrona.
 
Aveva già trasportato tutti i suoi averi nella casa nuova, e ora restava da prendere quell’ultima decisione. Lui e Mary avevano comprato una villetta in periferia, in un quartiere residenziale pulito e piuttosto tranquillo; l’avevano arredata di tutto punto, ed erano pronti a trasferirvisi appena tornati dalla luna di miele, che avrebbero trascorso tra le scogliere della Cornovaglia (John si vergognava di non potersi permettere di più, ma Mary non sembrava dispiaciuta di non poter andare in vacanza a Goa, o sul Mar Rosso).
 
Mary e sua madre si erano immerse completamente nei preparativi per il matrimonio, correndo da un capo all’altro della città alla ricerca di abiti e bomboniere. Avevano deciso di tenere il ricevimento nella magione di campagna dei Morstan, un’incantevole villa circondata da uno splendido giardino all’inglese che avrebbe sicuramente “fatto rodere d’invidia tutti gli invitati”.
 
Da giorni, ormai, continuava a scrutare la poltrona per decidere cosa farne. Insomma, quella era la sua poltrona, Sherlock non la usava mai, quindi non ne avrebbe di certo sentito la mancanza se lui l’avesse portata via. Al contempo, però, sembrava che quello fosse proprio il suo posto: accanto al camino di Baker Street, di fronte alla moderna poltrona nera di Sherlock. John non si sarebbe sentito in pace con se stesso se l’avesse sradicata dal suo habitat naturale.
 
Ma lui adorava quella poltrona; adorava sprofondarvisi e sonnecchiare, oppure leggere il giornale o un libro… attività che però, in effetti, lui compiva sempre mentre di fronte a lui Sherlock languiva meditabondo, immerso nei suoi pensieri, e che forse non avrebbe apprezzato così tanto in circostanze diverse. Era una decisione davvero sofferta.
 
Il terzo giorno Sherlock lo sorprese a fissare la poltrona e gli chiese cos’avesse intenzione di farci.
 
“Non lo so ancora” ammise lui. “La signora Hudson dice che posso prenderla, ma non ne sono sicuro.”
 
“A me non cambia” disse Sherlock con noncuranza.
 
“Grazie, sei di grande aiuto.”
 
Sherlock si strinse nelle spalle. “Fai come vuoi, tanto a me non serve.”
 
Già, Sherlock si rivelava sempre molto utile.
 
Alla fine, decise di non rimuoverla: gli sarebbe parso di compiere un reato. Quella poltrona era legata, nella sua mente, alla presenza di Sherlock: in qualche contorta maniera, rappresentava i silenziosi momenti di reciproca compagnia, e John non poteva sopportare l’idea di recidere quel legame.
 
Lui e Mary si sposarono alla fine dell’estate. Il sabato che avevano scelto si rivelò cupo e piovoso, ma ormai nessuno faceva più caso al freddo o alla nebbia, con i Dissennatori che scorrazzavano liberamente per tutto il Regno Unito. Era possibile percepirli anche quando non erano nelle vicinanze per la sensazione di panico e di gelo acuto che si infiltrava nelle ossa e non andava più via.
 
Il matrimonio fu, per dirla in breve, un’agonia.
 
John e Mary (e Sherlock) ce l’avevano messa tutta per organizzare una cerimonia vivace e tranquilla, ma i loro sforzi furono vani. Sherlock aveva pregato di invitare Molly Hooper e Greg Lestrade: ufficialmente, perché gli tenessero compagnia; in realtà, perché gli serviva un supporto morale per superare la giornata. Purtroppo per loro, in pubblico lui poteva mostrarsi solo come Simon Church, che era molto più gioviale dell’originale e sarebbe stato quasi apprezzabile… se non fosse stato un Mangiamorte. I due sapevano che in realtà era tutta una copertura, ma Sherlock era un attore terribilmente bravo, e si calava talmente bene nel ruolo che a volte c’era il rischio di dimenticarsi chi fosse veramente e iniziare a detestarlo. Dunque, Simon era un Mangiamorte, i genitori di Mary erano Mangiamorte, e John e Mary dovevano fingere di essere schierati dalla loro parte, se non desideravano terminare prematuramente la propria esistenza (non lo desideravano): così, al matrimonio non ci furono altri invitati che seguaci del Signore Oscuro, e in pratica le conversazioni a tavola furono totalmente incentrati sulla sua grandezza.
 
L’unico momento piacevole fu quello del discorso del testimone tenuto da Sherlock, anche se Molly Hooper temette fino all’ultimo che non sarebbe riuscito a pronunciarlo per intero. Vedere John sposarsi doveva essere una tortura, e il povero Sherlock non poté neppure andarsene presto dalla festa per trovare sollievo, perché sarebbe parso sospetto e la gente avrebbe iniziato a farsi delle domande.
 
Quando tutti gli invitati iniziarono definitivamente a parlare di politica, John e Mary si scusarono e si ritirarono; Sherlock li seguì a breve, dicendo di essere stanco dopo essere rimasto sveglio tutta la notte. Vedendolo salire, Molly e Greg si scambiarono un’occhiata e gli andarono dietro. Lo trovarono disteso sul letto, ancora in completo scuro e panciotto bianco; quando entrarono, lui non fece alcuno sforzo per alzarsi.
 
Quanto avvenne dopo non era stato assolutamente premeditato, ma, col senno di poi, fu una delle decisioni migliori che Molly e Greg potessero prendere.
 
“Sherlock” esordì lei, inspirando a fondo e lanciando un’occhiata a Greg per chiedergli sostegno, dato che non sapeva come continuare.
 
“Sherlock, non è la fine del mondo” disse quello con molto tatto.
 
“No” rispose lui quietamente, senza guardare verso di loro.
 
“Ma quelle persone… quelle che sono giù, loro sì che la provocheranno, la fine del mondo.”
 
“Be’, forse metafori…”
 
“Ci deve essere qualcosa che possiamo fare” lo interruppe Greg alzando gli occhi al cielo.
 
“Sì, qualcosa per fermare tutto questo!” lo sostenne lei.
 
Solo a questo punto Sherlock si tirò su dal letto; dopodiché chiuse la porta con la bacchetta e insonorizzò la stanza con un incantesimo. “C’è, in realtà, qualcosa che potete fare” disse. “Potete unirvi all’Ordine della Fenice.”
 
Da quel momento iniziò la loro doppia vita. Di giorno Molly e Greg svolgevano impieghi ordinari, ma di notte proteggevano i Babbani, cercavano di far uscire i Mezzosangue dal paese, e accumulavano prove contro i sospetti Mangiamorte. Benché il Quartier Generale si trovasse in campagna, i membri dell’Ordine avevano un punto di ritrovo a Londra dove discutere i piani d’azione o nascondere temporaneamente i fuggitivi. Tra loro parlavano in codice, usando tecniche sempre diverse per inviare messaggi criptati.
 
Far parte dell’opposizione significava rischiare la vita ogni giorno, perché il minimo sospetto portava alla morte. Per il momento il Ministero della Magia era ancora avverso a Voldemort, ma la situazione era precaria e tutti si chiedevano quanto avrebbe retto. Finché il Signore Oscuro non fosse stato ucciso, non avrebbe fatto altro che peggiorare. Tutti vivevano nel terrore.
 
Prima che John tornasse a vivere a Baker Street, Molly faceva spesso visita a Sherlock, che aveva iniziato a lavorare a casa per conto suo e doveva sentirsi terribilmente solo. Aveva persino rimosso la poltrona rossa, per il dolore di vederla sempre vuota.
 
Nonostante tutti i buoni propositi, infatti, John si era allontanato da Sherlock. Dopo il matrimonio, iniziò a vederlo sempre più raramente; inoltre, ormai non lo nominava più giornalmente, e anzi a volte sembrava essersi completamente dimenticato della sua esistenza.
 
Una qualsiasi altra donna avrebbe creduto che i sentimenti del marito verso il migliore amico si fossero raffreddati, ma non Mary Elizabeth Watson.
 
John aveva rincominciato ad avere incubi, cosa che non succedeva da più di un anno. Si svegliava nel bel mezzo della notte sudato e con il respiro affannoso, e trascorreva ore e ore rigido e con gli occhi sbarrati senza più riuscire ad addormentarsi.
 
Mary sapeva che John la amava. Sapeva anche, però, che per lui Sherlock Holmes era come una droga: ne aveva bisogno, come aveva bisogno dell’adrenalina che gli scorreva in corpo quando combinavano qualcosa di pericoloso insieme. John desiderava disperatamente unirsi all’Ordine della Fenice e scendere in campo in quella guerra, anche a costo della vita, ma per colpa della posizione di Simon e delle parentele di Mary era costretto a stare tranquillo e fuori dai guai, e questo lo innervosiva e lo frustrava. Inoltre, continuare a vedere Sherlock era doloroso per diverse altre ragioni: Mary non aveva dimenticato che cosa era successo durante l’ultimo anno a Hogwarts… John la amava, sì, ma solo perché non riusciva ad accettare i propri sentimenti per l’amico; Mary era convinta che finalmente il marito se ne fosse accorto, e stesse cercando di ignorare la realtà ignorando anche Sherlock.
 
A ottobre il padre di Mary ebbe un attacco di cuore che lo mandò all’altro mondo nel giro di pochi secondi, perché non c’era nessuno che potesse soccorrerlo. Lei non gli era particolarmente affezionata, ma la sua morte la scosse tanto che iniziò a comportarsi in modo diverso.
 
La ragazza cominciò ad andare a trovare Sherlock sempre più spesso, sedendosi sul divano in silenzio mentre lui era occupato con i suoi esperimenti, perché non riusciva a stare a casa da sola quando John era al lavoro. Assurdamente, la morte del padre le aveva lasciato un buco più grande di quanto avrebbe creduto possibile; e benché non lo vedesse mai quando era vivo, iniziò a percepire il vuoto quando se ne fu andato.
 
Dopo Natale, però, divenne sempre più irrequieta e suscettibile, ed iniziò ad evitare tutti, compreso il marito. Trascorreva le sue giornate rannicchiata su una sedia, avvolta in strati e strati di lana, e si rifiutava di parlare con chiunque. Andava spesso a fare visita a sua madre, trascurando invece Sherlock. Tutti attribuirono questo comportamento agli ormoni della gravidanza e la lasciarono in pace.
 
Una sera, John la trovò in lacrime sul divano. Non singhiozzava, non urlava, non si disperava; se ne stava semplicemente seduta con lo sguardo perso nel vuoto e le lacrime che scorrevano lungo le guance.
 
“Mi dispiace, John. Mi dispiace così tanto” gemette non appena notò la sua presenza.
 
Lui lasciò cadere a terra la giacca e si precipitò verso di lei, prendendole le mani fra le sue e guardandola con orrore. “Che cosa è successo? Stai bene? Sherlock sta bene? Mary, dimmi che…”
 
“Lui sta bene, e anche io” annuì lei, tirando su col naso e asciugandosi il viso con le maniche del maglione. “Mi dispiace tanto.”
 
“Mary, che è successo, dimmelo…”
 
“Il bambino. Ho perso il bambino.”
 
John si alzò, in shock. Non riusciva a muoversi, a parlare, nemmeno a processare quanto lei gli aveva detto. La camera per la piccola era già pronta, decorata e arredata, c’erano già la culla, il fasciatoio, i sonagli e i peluches…
 
“D-da quanto?” balbettò.
 
“Oggi. John…”
 
John le crollò accanto e la circondò con le braccia, lasciando che si abbandonasse contro il suo petto e gli bagnasse il maglione di calde lacrime. Ancora in stato catatonico le accarezzò ritmicamente la schiena, mentre visioni della vita futura che non avrebbe mai avuto gli scorrevano davanti agli occhi: non ci sarebbero state le ninnenanne, le partite di pallone, i giochi da tavolo, gli incontri con le maestre, la lettera per Hogwarts, la scelta della bacchetta, il primo gufo… niente di niente. La creatura che stava crescendo nel corpo di Mary era andata per sempre. Scomparsa. Morta.
 
“Possiamo provarci di nuovo” disse piano. “Non era la nostra unica chance.”
 
“Preferirei aspettare un po’” disse lei, scivolando distesa e appoggiando la testa contro il suo grembo. “Va bene?”
 
“Certo. Certo che va bene.”
 
“Resteremo sposati?”
 
“Sì! Perché, non vuoi?”
 
Lei si sciolse finalmente in un singhiozzo, e John si passò una mano sul volto con stanchezza. “Se pensi che ti abbia sposata solo perché eri incinta, be’ sappi che non è così. Io ti amo, va bene? E se tu vuoi lasciarmi perché stavi con me solo perché avremmo avuto un figlio allora mi sta bene, ma io…”
 
“Certo che voglio stare con te” replicò lei, ricacciando indietro nuove lacrime.
 
“Come è successo?” domandò lui, preoccupato. “La gravidanza era a uno stadio avanzato, di solito queste cose succedono nei primi mesi… ti sei fatta male? Hai fatto un incidente?”
 
Lei si irrigidì e strinse le braccia contro il petto. “No” rispose seccamente. “Te l’ho detto, io sto bene. Non so cosa sia successo. Andresti a prepararmi una tazza di tè, per favore?”
 
“Certo.”
 
Poche settimane dopo la madre di Mary si ammalò, e lei preferì trasferirsi temporaneamente a casa sua per accudirla; così, John decise di tornare a Baker Street.
 
Sherlock aveva rimesso al suo posto la vecchia poltrona rossa senza un singolo commento e lo accolse come se fosse uscito cinque minuti prima a comprare il latte.
 
Gli dispiaceva per la piccola Watson. John e Mary erano entusiasti di avere un figlio, nonostante i conflitti iniziali, e anche lui aveva segretamente accarezzato l’idea di avere una bimbetta tra i piedi: le avrebbe insegnato a comportarsi in modo intelligente, sperando che l’influenza dei genitori non la rimbecillisse troppo; avrebbe fatto di lei la strega più dotata della sua età, l’avrebbe resa un’esperta mondiale di Pozioni… forse la sua immaginazione si era spinta un po’ troppo in là con quei propositi quasi utopistici, ma non gli sembrava che ci fosse nulla di sbagliato nel fantasticare sulla vita futura. Solo che quel futuro non sarebbe mai giunto, perché la piccola Sherlock Watson (nella sua testa lei si chiamava così, altro che Anne Grace; aveva anche spiegato a John e Mary che in alternativa avrebbe accettato il nome “Reyna”) non esisteva più. Avrebbe dovuto mettere da parte quelle fantasie per quando John e Mary fossero stati pronti a riprovarci di nuovo, e nel frattempo sarebbero rispuntati i vecchi sogni, quegli orribili, dolorosi sogni che non riusciva a controllare, per quanto cercasse di ostacolarli. Quei sogni che lo riportavano a Hogwarts, al tempo dello scontro con Moriarty, nella Stramberga Strillante…
 
Le condizioni della madre di Mary non miglioravano, e la permanenza di John a Baker Street si prolungò più del previso. Sembrava quasi di essere tornati ai vecchi tempi.
 
Poi Albus Percival Wulfric Brian Silente fu ucciso.
 
E i Mangiamorte decisero di organizzare un colpo di stato.
 
Appoggiato allo stipite della porta, John attendeva che Sherlock terminasse di prepararsi. Erano già entrambi vestiti dei loro più eleganti completi da sera, e Sherlock doveva solo infilare la Giratempo sotto la camicia per essere pronto.
 
John era nervoso. Il ricevimento che i Greengrass avevano organizzato sarebbe stato di grandiose proporzioni, e avrebbe riunito l’élite della comunità magica Purosangue.
 
John non riusciva a non pensare alla Guerra Civile Americana. Il giorno dell’inizio dei conflitti, prima del bombardamento di Fort Sumter, dove i Confederati avevano sbaragliato le truppe dell’Unione, qualcuno a Charleston doveva aver tenuto una festa. Dovevano essersi sentiti potenti, i generali della Confederazione, addirittura invincibili; ma alla fine, nonostante tutte le battaglie vinte, avevano perso la guerra.
 
Albus Silente era stato ucciso meno di una settimana prima durante un’irruzione di Mangiamorte a Hogwarts, e la sua morte aveva segnato una svolta definitiva.
 
“In battaglia” disse Sherlock in tono drammatico uscendo dalla stanza.
 
Forse John aveva sbagliato a paragonare la situazione attuale a Fort Sumter: la guerra non era solo iniziata, sembrava già vinta, ora che l’unico uomo in grado di fermarla era morto. Certo, c’era ancora Harry Potter… ma era solo un ragazzino: era solo questione di tempo prima che fosse trovato e distrutto una volta per tutte.
 
“Era ora. La Passaporta parte fra meno di cinque minuti.”
 
Il volto di Sherlock mutò in quello di Simon Church, e John distolse come sempre lo sguardo.
 
“Mary deve ancora arrivare” commentò Sherlock con impazienza.
 
“Arriverà, sta’ tranquillo.”
 
“Come sta sua madre?”
 
“Oh, a quanto pare sta migliorando. Mary dice che tra qualche settimana potremo tornare a casa.”
 
“Bene. Buon per lei. Allora: i Mangiamorte vogliono usare la Maledizione Imperius sui membri del Ministero per prenderne il controllo. Non sappiamo quando abbiano intenzione di attuare questo piano, ma l’Ordine della Fenice arriverà dopo un’ora dall’inizio della festa. Nel frattempo, dovremmo intrattenerci con gli altri invitati e tenerci pronti. Ricorda: tu non approvi i metodi violenti dei Mangiamorte ma sei d’accordo con i loro ideali, la morte di Silente ti ha scioccato perché speravi che si potesse ancora agire pacificamente, non sei assolutamente interessato a unirti alla lotta, quindi non lasciarti abbindolare dai loro tentativi di reclutarti solo perché pensi che potrebbe essere utile. Hai intenzione di mettere su famiglia e condurre un’esistenza normale e non vuoi farti coinvolgere negli scontri.”
 
“Lo so, me lo ricordo” ribatté John piccato. “Non serve che me lo ripeti di continuo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Domani diventerò maggiorenne nel mondo magico, e non potevo sopportare di concludere un anno con QUESTO capitolo al posto che con uno qualsiasi dei prossimi. Così ho deciso di pubblicare qualcosa che avrei dovuto pubblicare molto tempo fa… ve lo ricordate il dialogo alternativo di John e Mary sull’alzabandiera? Be’, io e la stessa amica con cui avevo prodotto quello ne abbiamo scritto un altro, intitolato: “Cosa successe con quel mandarancio”. Come ho detto qualche capitolo fa, Sherlock aveva appioppato a John una pozione che lo aveva fatto innamorare di un mandarancio… ed ecco cosa è successo.
Come per la volta scorsa, se avete un animo sensibile NON LEGGETE perché potrebbe urtarvi.
«J: “Sherlock, credo di amarlo. Io lo amo.”
S: “Eh-ehm…”
J: “Gelosone.”
S: “Chi, io?”
J: “Sì, tu sei geloso perché lui è più bello di te!”
S: “Bene, John, innamorati del mandarancio.”
J: “Sì! È più attraente.”
S: “Dichiaragli il tuo amore, allora. Chissà, magari ricambia.”
J: “È quello che farò! Guarda che muscoli scolpiti! Che lignaggio! Che buccia così arancione!” La buccia del mandarancio sembra brillare di luce propria, felice di essere ammirata. “…Sherlock, credo di piacergli! Oh, mandarancio, ti prego, rispondimi! Tu mi ami, vero o falso?” Il mandarancio lo fissa con espressione vacua. “…Chi tace acconsente. Vedi, Sherlock? Mi ama.”
S: “Sai una cosa, John? Dovresti proprio stare con lui.”
J: “Dici davvero?”
S: “Sì, guarda, sembra che stia arrossendo. Bacialo.”
J: “Cosa?! Sherlock, io non posso, io…”
S: “Cos’è, non ti piace abbastanza?”
J: “No, la nostra relazione va ben oltre! Il nostro amore trascende il tempo e lo spazio!”
S: “Sembri un fan di Star Trek posseduto.”
J: “Taci! Platone mi capirebbe.”
S: “Platone?”
J: “L’inventore delle relazioni platoniche, no?”
S: “Quel genere di relazione che a quanto pare sono destinato ad avere con te.”
J: “Mandarancio mio, perché non mi parli? Sei forse a disagio? Hai ragione, qui in giro ci sono troppe persone. Sherlock, get out. Io e mandarancio non possiamo esprimerci. Shall I compare thee to a summer’s day, ‘cause you are hot.”
Sherlock inizia a prendere a testate il muro. “È un’arancia, John.”
J: “E tu dovresti essere mio amico.”
S: “Tu dovresti essere il mio amante.”
J: “Gli amici si supportano a vicenda!”
S: “Uh-oh. Sento la friendzone che si avvicina.”
J: “Boom, sei stato mandarancio-zoned.”
S: “Quella parola è inesistente!”
J: “Sì, come il tuo cuore.”
S: “Io ce l’ho un cuore.”
J: “Non me l’hai mai mostrato.”
S: “Non posso materialmente mostrarti il mio cuore. Ti mostrerei più volentieri le mie mutande.”
J: “Non dire queste cose davanti ai nostri arancini.”
S: “Oh, ora avete anche dei figli?”
J: “Ti presento Orange juice, Guglielmo d’Orange e i gemelli Orange Orange.”
S: “Sarò padrino?”
J: “No, tu no.”
S: “Mandarancio disapprova. Lui mi capisce.”
J: “No, mandarancio è mio!”
S: “E se io lo mangiassi?”
J: “Non osare. Ti odio.”
S: “Io ti amo.”
J: “Se mi ami tanto, perché non mi hai mangiato?”
S: “Non si mangiano le persone.”
J: “Sì ma io amo il mandarancio e lo voglio mangiare, come lo spieghi?”
S: “Elementare, sei a dieta. Anche l’attività fisica fa dimagrire, soprattutto una certa particolare attività.”
J: “Non sono portato per gli sport, a parte il Quidditch.”
S: “Tranquillo, tu saresti il passivo.”
J: “Il che?”
S: “La cosa positiva di tutto questo è che sono matematicamente certo che tu e quel coso non potreste mai combinare alcunché.”
J: “Vuoi vedere? Ora lo bacio!”
S: “Sì, sono curioso.”
John tenta di baciare il mandarino, che però gli cade dalle mani. Sherlock lo raccoglie e lo sbuccia.
J: “Assassino! …e di professione superspia, molto eccitante. Ma io amo lui. Mandarancio, mandarancio, perché sei tu mandarancio? Rinnega il tuo nome!”
S: “Queste cose gliele dovevi dire prima, adesso è morto.”
J: “Sarà per sempre il mio angelo custode.”
S: “Secondo me è andato all’inferno. Girone dei lussuriosi.”

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. ***


 
“Sei sicuro di voler venire?” domandò Sherlock.
 
“Certo. Perché non dovrei?”
 
“Perché ci sarà uno scontro, sarà pericoloso e potremmo restare uccisi. Se l’Ordine della Fenice non interviene in tempo, useranno la Maledizione Imperius su tutti i funzionari del Ministero che non vogliono unirsi spontaneamente a Voldemort.”
 
“E allora?” scherzò John. “Saprò cavarmela, grazie.”
 
In quel momento si udì un crepitio proveniente dal salotto, e John corse a vedere; dal camino acceso di fiamme verdi spuntò Mary Elizabeth Watson in tutto il suo fulgore.
 
Indossava un abito di raso nero attillato, a maniche lunghe e ampie, com’era di moda quell’anno, ma con le spalle scoperte; davanti la gonna svasata si apriva rivelando un sottogonna color cobalto drappeggiato. Tra i capelli biondi e ondulati era fissato un cerchietto di semplici pietre blu, tanto piccole e fitte da sembrare un nastro unico.
 
John sorrise, spalancando le braccia per lo stupore e la meraviglia. “Sei… wow, Mary, sei…”
 
“Lo so” replicò lei, civettuola. L’impressione di raffinata eleganza svanì, tuttavia, non appena si sporse verso il corridoio e gridò: “Sherlock, prima donna che non sei altro, quanto ci metti a vestirti?”
 
“John, mi ritengo offeso da tua moglie!” esclamò Sherlock di rimando.
 
Quando Mary si accostò al marito per lisciargli le pieghe del completo, lui la prese tra le braccia per baciarla.
 
“È molto sexy, stasera, signor Watson” sussurrò lei. “Quel panciotto le sta divinamente, dovrebbe portarlo più spesso.”
 
John stava per replicare, ma Sherlock, entrando in salotto, lo precedette: “E rinunciare ai suoi soliti maglioni? Non credo proprio.”
 
“Già, per una volta hai ragione” ridacchiò Mary. Strinse Sherlock in un abbraccio e lo baciò su una guancia.
 
“Ragazzi, la Passaporta” li avvertì John, scacciando una punta di fastidio.
Una penna sulla mensola del caminetto aveva iniziato ad illuminarsi, e i tre la toccarono appena in tempo prima che si attivasse. Si sentirono tirare da un gancio invisibile che rivoltò loro le viscere, facendoli precipitare in un vortice indistinto in cui furono sballottati come sacchi di tela prima di rispuntare in un luogo completamente diverso e cadere nel vuoto. Mentre John e Mary atterrarono con grazia sul vialetto di ghiaia, Sherlock crollò scompostamente a terra e si affrettò a rialzarsi come se non fosse successo nulla, guardandosi intorno con preoccupazione per timore di essere stato visto, facendo scoppiare a ridere gli altri due.
 
“Ok, andiamo” disse con dissimulata indifferenza, riaggiustandosi il cravattino.
 
La villa si stagliava di fronte a loro alla fine del viale che attraversava il parco. Sebbene l’esterno fosse buio e silenzioso, John era certo che l’interno sarebbe stato chiassoso e illuminato a giorno.
 
“Pronti?” chiese Sherlock, rivolgendo loro uno dei sorrisi infantili tipici di Simon Church e lisciandosi i capelli all’indietro.
 
John prese Mary a braccetto e seguì l’amico, dirigendosi verso l’ingresso a seguito dell’amico.
 
Due elfi domestici tirati a lucido li accolsero alla porta e li condussero in due vestiboli separati, uno per gli uomini e uno per le donne. Quello maschile era sfarzoso come un vero salotto, con il soffitto affrescato e le pareti letteralmente ricoperte di arazzi. Sherlock e John sfilarono i mantelli e li consegnarono ai valletti, e dalla piccola stanza passarono direttamente al salone principale.
 
Un gigantesco lampadario pendeva dall’alto, gettando su tutta la sala la luce di centinaia di candele rifratta da minuscoli cristalli a forma di goccia. Il soffitto rappresentava una volta celeste, e le stelle più grandi pulsavano di una debole luce rossastra. Alle pareti viola scuro erano appesi altri arazzi e cornici rese ancora più magnificenti dalla patina del tempo. Una serie di ampie portefinestre erano state aperte per lasciar entrare la brezza primaverile, e attraverso di esse si poteva scorgere il giardino sul retro illuminato, che non si vedeva dal lato anteriore.
 
La sala era gremita di gente vestita in modo sontuoso e dall’aspetto altero. Gli abiti delle donne gareggiavano per ampiezza e lunghezza, e tutti gli uomini sfoggiavano un’aria di arrogante autocompiacimento che fece salire la bile nella bocca di John.
 
“Devo andare dal padrone di casa” disse immediatamente Sherlock. “Tu aspetta Mary, e non fare niente di stupido.”
 
“Guarda che non sono un idiota, ho capito. E ti sarei grato se mi dessi un po’ di fiducia, ogni tanto.”
 
“Dobbiamo affrontare questa conversazione adesso?” sospirò Sherlock in modo teatrale, scandagliando la sala con lo sguardo alla ricerca di uno dei Greengrass.
 
“Non cercavo di affrontare una conversazione” ribatté John. “Volevo solo…”
 
“Proseguiamo dopo” tagliò corto l’altro. “Devo proprio andare.”
 
“Non fare niente di stupido” lo rimbeccò lui.
 
Mentre Sherlock si addentrava tra la folla, John cercò di mimetizzarsi con il muro e diventare invisibile. Per ora, tutti lo ignoravano. Era troppo sperare che fosse così per tutta la serata?
 
In quel momento Mary uscì dal camerino, lo adocchiò e gli andò incontro. “She… Simon è già andato via?”
 
Lui annuì.
 
La ragazza si guardò intorno, a disagio, e cercò di nascondersi abbassando la testa e guardando verso il muro, ma non fu fortunata.
 
“Mary!” strillò una vocetta acuta, e John sospirò mentre Mary gli lanciava un’occhiata atterrita. Furono placcati da una donna vestita di broccato rosso, che baciò la ragazza sulle guance lasciandole una traccia di rossetto color prugna. “Mary, cara, è tanto che non ci vediamo! Chi è quest’uomo splendido?” chiese con aria civettuola, squadrando John.
 
Reprimendo una smorfia, lei presentò il marito alla padrona di casa. John le tese rigidamente la mano con un sorriso forzato. “È un piacere, signora Greengrass.”
 
“Oh, galante! Che lavoro fai?” domandò lei sospettosa, stringendo gli occhi chiarissimi contornati da uno spesso strato di trucco.
 
“Guaritore. Lavoro all’ospedale San Mungo” bofonchiò lui.
 
“Bene… è un piacere anche per me, caro! Sono sicura che Mary ha fatto la scelta giusta, sposandoti. Andiamo, prendete una coppa di spumante!” esclamò, schioccando le dita. Un elfo domestico si materializzò istantaneamente accanto a loro, porgendo a tutti e tre dei calici sottili ricolmi di un liquido verdino con le bollicine. La signora Greengrass lo trangugiò in un sorso, diventando subito rossa in volto. “Forza, bevete!” li incitò.
 
Con un certo malessere, John e Mary accostarono il bicchiere alle labbra e sorseggiarono; in effetti, la bevanda non era cattiva: sapeva di succo di mela alcolico.
 
“È buono” azzardò Mary, terminando di bere.
 
“Prendine ancora!” la incoraggiò la donna, facendo comparire un altro calice.
 
“Oh, no, sono…”
 
“Avanti, se ti piace! Non sei più incinta, no?”
 
Mary svuotò anche il secondo bicchiere, temendo che l’altra gliel’avrebbe fatto trangugiare a forza se avesse rifiutato.
 
La signora Greengrass stava stava ancora osservando John di sottecchi. “Ma tu non sei il coinquilino di Simon Church?” esclamò ad un certo punto, illuminandosi tutta. “Quel caro ragazzo! Non è venuto?”
 
“Sì, ci siamo separati poco fa. Credo sia andato a salutare suo marito.”
 
“Ho avuto il piacere di discorrere con lui proprio pochi giorni fa. È scapolo, vero? Vorrei tanto che incontrasse Daphne, mia figlia maggiore. Non hanno tanti anni di differenza, in fondo, e lei è una ragazza tanto bella…”
 
In quel momento, John si accorse che un uomo li stava fissando. Era a circa cinque metri di distanza e teneva in mano un bicchiere di champagne ancora pieno; era solo, e non gli staccava gli occhi di dosso.
 
“…credi che potrebbe essere interessato?” terminò la padrona di casa, e lui si concentrò di nuovo su di lei con un mezzo sussulto di sconcerto.
 
“Simon, dice? A dire il vero non lo so, non…”
 
Furono raggiunti da un’altra donna, alta, con i capelli biondo grano e un vestito di pizzo azzurro.
 
“Mary Morstan!” salutò in tono glaciale, prendendo a braccetto la signora Greengrass e sfilandole di mano il bicchiere per bere un sorso di spumante.
 
Mary cercò di sorridere, riuscendo a produrre solo una smorfia mezza storta. “Buonasera.”
 
“Non ti fai vedere da un po’… troppo occupata con tuo marito?”
 
La donna bionda parlava come se John non si trovasse lì, e lui iniziò a distrarsi, lasciando vagare lo sguardo per la sala. L’uomo che prima lo stava fissando stava ora conversando con altri due signori, ma gli pareva che continuasse a lanciargli delle occhiate di tanto in tanto. Era sicuro di non averlo mai visto, eppure gli sembrava stranamente familiare; si disse che probabilmente era per via della sua camicia viola, molto simile a una che possedeva Sherlock.
 
“E tuo marito, non si è ancora unito a noi, vero?” chiese la donna bionda, e John si riscosse.
Mary era in uno stato pietoso, sembrava febbricitante. “Oh, no, lui non è il tipo” balbettò.
 
“Ma dovrebbe seguire il tuo esempio! Non si è mai vista una donna più coraggiosa del consorte…”
 
“Scusateci un secondo” sbottò Mary. “Dovrei parlare in privato con John.”
 
Lei spalancò gli occhi; erano davvero inquietanti, con quelle iridi di un celeste quasi trasparente e le lunghe ciglia simili a ragni morti. “Certo. Sì. Parlate pure. Non avevi mai bevuto quel tipo di bevanda, vero? Fa sempre un certo effetto, le prime volte. Be’, magari ci vediamo più tardi.”
 
Mary lo prese per mano e lo trascinò nello spogliatoio femminile. Gli si gettò addosso non appena la pesante porta scura si fu richiusa dietro di loro, affondandogli le mani fra i capelli e spingendolo contro il muro.
 
“Mary…” provò a fermarla lui, ma lei lo zittì baciandolo con forza; gli sfilò freneticamente la giacca e iniziò a sbottonargli il panciotto.
 
John era sconcertato. Mezzo soffocato dal bacio, aprì gli occhi e si guardò intorno per assicurarsi che fossero soli: erano circondati da pellicce e piume, ma non c’erano esseri viventi in vista. Davvero Mary voleva fare quella cosa adesso? La bevanda che le avevano propinato doveva essere veramente forte. Be’, lui non si sarebbe di certo tirato indietro, soprattutto se questo significava stare lontani dal ricevimento. Mary gli mise le mani sulla nuca, e le ampie maniche del suo vestito scivolarono fino al gomito.
 
John si bloccò. “Cos’hai sul braccio?” chiese, scansandosi da lei: il suo braccio sinistro era coperto da diversi giri di bende bianche.
 
“Niente.” La ragazza gli si accostò di nuovo, ma lui era tornato lucido e non aveva intenzione di approfittarsi del suo stato. “Mary, sul serio.”
 
“Eddai, John, devo parlarti.”
 
“No, non è vero. È solo quella roba che ti hanno dato, o c’è qualcos’altro? Dimmelo.”
 
“Non avremmo dovuto venire” confessò lei. “Non torniamo di là!”
 
“Ma ormai siamo venuti, che altro vorresti fare? E poi Simon è ancora qui.”
 
“Allora digli che sto male e poi ce ne andiamo. Io ti aspetto qui.” Mary si sedette su una panca incrociando braccia e gambe. Non era decisamente in sé: il suo sguardo era offuscato, e si comportava in un modo del tutto estraneo al suo solito.
 
John esitò, ma poi si convinse che parlare con Sherlock sarebbe stata la cosa migliore da fare e ritornò nel salone principale.
Perché le donne dovevano indossare abiti così ingombranti? Sembravano bomboniere, e John pestò almeno cinque inutilissimi strascichi mentre cercava l’amico nella sala sovraffollata. Lo individuò insieme ad un grasso funzionario che per l’occasione sembrava vestito da nobile settecentesco.
 
“Signor Fawley” lo salutò con voce roca, chinando il capo. “Simon, se non ti dispiace dovrei parlarti.”
 
L’uomo annuì appena e li congedò con un cenno del capo, lasciando Sherlock libero di seguire John fino a un angolo della sala.
 
“Mary si sta comportando in modo strano” bisbigliò lui. “Ha parlato con la signora Greengrass e ha bevuto due bicchieri di una cosa, poi è arrivata un’altra tizia e lei mi ha trascinato via e ha cercato di… be’… e poi ha una benda sul braccio e si rifiuta di mostrarmela …”
 
“Quale braccio?”
 
“Il sinistro, ma non era di questo che volevo parlare! Vuole fingere di stare male per andarsene, non capisco.”
 
“No, non potete andare via.” Sherlock scosse la testa. “La gente lo noterebbe, potrebbe mettervi in pericolo. Hai detto che ha bevuto? Lo spumante verde, per caso?”
 
“Sì, esatto.”
 
“Non mi stupisco che si comporti in modo strano, quella roba contiene stupefacenti.”
 
“E c’è un’altra cosa.”
 
“Cosa?”
 
“Un tizio mi sta fissando da quando siamo arrivati.” John gli indicò con la testa l’uomo alto e magro con il suo bicchiere di champagne ancora pieno, che evidentemente l’aveva seguito per tutta la sala. Sherlock lo guardò e, dopo qualche secondo, annuì. “Non devi preoccuparti” lo rassicurò con voce fredda. “Piuttosto, torna da Mary, dalle un bicchiere d’acqua e convincila a riposarsi un po’ e poi tornare di qua.”
 
“Non potresti aiutarmi?”
 
“Va bene, tanto ormai Fawley è occupato. Andiamo.”
 
Mary stava fingendo teatralmente un’emicrania quando entrarono nello stanzino. “Oh, siete voi” disse, riacquistando un’espressione normale.
 
“Mary, non potete andare a casa, qualcuno lo noterà e finirete nei guai” cercò di farla ragionare Sherlock. “A proposito, cos’hai fatto al braccio?”
 
“Oh, niente” disse lei in tono vago. “Una scottatura.”
 
“Fammi vedere, posso guarirtela.” Sherlock tese la mano per prenderle il braccio, ma lei si tirò indietro e lo nascose dietro la schiena.
 
“Davvero, non è niente! Piuttosto: non potrei fingere di essere incinta di nuovo e di stare male? Non sarebbe sospetto se me ne andassi con questa scusa.”
 
Sherlock corrugò la fronte con espressione indecifrabile, scoccò una rapida occhiata a John e scattò avanti per afferrarle la spalla, sfilandole le bende con un colpo di bacchetta.
 
“Oh.”
 
“Be’, questo sì che è un colpo di scena.”
 
Mary si portò le braccia al petto. Sembrava terrorizzata a morte, e ne aveva ben donde. “John…” mugolò.
 
Il marito la fissò per qualche secondo, poi si voltò e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Sherlock guardò Mary, ma lei non sembrava più in grado di vedere alcunché. Il suo sguardo era vacuo, immobile nel punto in cui John era uscito.
 
“Mary” la chiamò Sherlock con cautela. “Da quanto?”
 
“Mesi” gracchiò lei. “Secondo te perché me ne sono andata di casa? Secondo te perché ho perso mio figlio?”
 
Ma certo” sussurrò lui. “L’Iniziazione. Mary, se ti hanno minacciata, io posso aiutarti.”
 
Lei si riscosse, spostando lo sguardo verso di lui e poi sul proprio avambraccio, dove il Marchio Nero le segnava la pelle candida. “Ormai non puoi più fare niente” replicò con voce distante.
In quel momento si udì il primo urlo, e il rumore di una finestra che andava in frantumi.
 
Dimentichi per un attimo dei propri drammi, Sherlock e Mary sguainarono le bacchette e si precipitarono nel salone principale.
 
Dove prima era il trionfo della compostezza, ora era il caos. Le persone gridavano e scagliavano incantesimi in ogni direzione, illuminando la sala di lampi colorati. Molti stavano provando a Smaterializzarsi, invano. Mary gli lanciò un’occhiata disperata e si fece largo tra la folla, verso quello che pareva il centro dello scontro. Sherlock tentò di seguirla, ma fu spinto a terra da una donna in lacrime; non aveva ancora fatto in tempo ad avvertire il bruciore alle ginocchia che qualcosa lo afferrò per la collottola e lo scagliò in avanti, in mezzo a un ammasso di maghi e streghe che si affannavano intorno ad un oggetto.
 
“Tocca qui, ragazzo!” ruggì una voce nel suo orecchio. Sherlock si sentì strattonare da un gancio invisibile, e pochi secondi dopo cadde faccia a terra su una distesa erbosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Salve gente! Capitolo lievemente incasinato… non me la sentivo di rendere Mary l’assassina psicopatica che in realtà è, perché nonostante tutto le voglio bene, e poi soprattutto non avrebbe avuto senso considerato quello che è successo in Quidditch con delitto. Ora però si spiega perché durante il corso dell’anno era diventata irrequieta, e aveva iniziato a passare un sacco di tempo dai suoi genitori anche prima di perdere la bambina, e ovviamente perché poco dopo l’aborto se n’era andata di casa: è facile nascondere qualcosa sul braccio quando puoi indossare un sacco di maglioni e sostieni di non voler fare niente con tuo marito per riprenderti dal trauma, ma dopo un po’ sarebbe diventato sospetto, soprattutto se con il caldo avesse continuato ad indossare le maniche lunghe… e ovviamente Sherlock ha indovinato la verità quando John gli ha detto che si copriva il braccio sinistro, perché per lui non è così difficile fare due più due. Quindi, Mary è una Mangiamorte ed è andata a combattere contro l’Ordine della Fenice (sì, sono loro ovviamente. Dovevano interrompere il ricevimento a qualunque costo), Sherlock è stato costretto a toccare una Passaporta ed è finito non si sa dove, e John… boh. E poi c’è quell’uomo che li fissava…
Detto questo, ci risentiamo al prossimo capitolo (che vi piacerà un sacco, ne sono sicura), e… buon Natale a tutti!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***


 
John si risvegliò in una cella. L’unica fonte di luce era data da una singola lampadina che pendeva dal soffitto, ben diversa dall’imponente lampadario del salone. L’aria stantia sapeva di muffa, e il pavimento su cui era stato gettato era viscido e scivoloso. La sua mano cose subito in cerca della bacchetta, senza però trovarla da nessuna parte.
 
Cosa diavolo era successo? La testa gli pulsava da morire.
 
Ricorda, John, ricorda… Dei maghi a cavallo di scope avevano fatto irruzione nella stanza, iniziando a colpire chiunque capitasse loro a tiro. Gli ospiti attorno a John avevano immediatamente provato a Smaterializzarsi, ma sull’area doveva essere stato gettato un incantesimo che impediva loro di scappare. Rendendosi conto che gli intrusi dovevano essere i membri dell’Ordine della Fenice, John non aveva esitato nell’aiutarli nel loro intento… poi, più nulla. Doveva essere stato colpito e catturato, era l’unica spiegazione.
 
John si fiondò verso la pesante porta di legno, cercando di forzare la serratura o abbatterla a pugni. Cosa lo attendeva? L’avrebbero torturato per scoprire cosa ci faceva un avversario dei Mangiamorte a una loro festa? Oh, Merlino, non sapeva se avrebbe resistito. E se avesse tradito Sherlock? Non voleva nemmeno pensarci. Il suo ruolo era fondamentale, la sua vita era fondamentale, non…
 
La porta si aprì, colpendolo in fronte e gettandolo a terra.
 
“John!” Sherlock si chinò su di lui, aiutandolo a rialzarsi. Era proprio lui, non era Simon Church, era Sherlock, però indossava abiti diversi da prima: un mantello scuro sopra una semplice camicia viola. “Sono venuto il prima possibile.”
 
“Come… cosa…” John si rese conto di avere ancora le mani fra le sue, e si affrettò a ritirarle.
 
“Ti porterò fuori di qui. Andiamo” disse Sherlock con urgenza.
 
“Sherlock, non ho la bacchetta.” John scosse la testa, ancora scioccato dal vedere lì l’amico.
 
“Non c’è tempo, ora. Te ne procureremo un’altra, ma adesso andiamo.”
 
“Come hai fatto…”
 
“Te lo spiego dopo!”
 
“No, dimmelo! Come hai fatto a trovarmi? Che è successo?”
 
“L’unico modo di scappare era usare le Passaporte, e mi hanno costretto a toccarne una. Ho provato a tornare indietro con la Materializzazione, dopo, ma non c’è stato verso. Così ho usato questa.” Sherlock si scostò il colletto della camicia e gli mostrò la catenella da cui pendeva la Giratempo. “Sono tornato indietro di un’ora. Ti ricordi quel tizio che ti fissava alla festa? Ero io. Non ti ho perso di vista un’istante. Quando sei stato catturato sono rimasto nascosto e sono venuto a liberarti non appena ho potuto. E ora andiamo, dobbiamo uscire dal perimetro della villa prima di Smaterializzarci!”
 
Salirono silenziosamente l’angusta scala di pietra che conduceva al primo piano della magione, non osando accendere le luci per paura di essere scoperti. Sherlock lo condusse attraverso un infinito labirinto di stanze polverose che parevano abbandonate da anni, finché giunsero finalmente al portone d’ingresso. Lo aprirono, erano quasi fuori, quando una voce strillò “Fermi!”
 
Sherlock e John si voltarono. Una ragazza si stagliava in fondo al lungo corridoio. Aveva i capelli neri come l’inchiostro e indossava una vaporosa camicia da notte color crema; il braccio che reggeva la bacchetta tremava, e il suo volto era esangue. “Fermi, o vi uccido” ripeté.
 
Nessuno si mosse.
 
“Lasciaci andare, ragazzina” ringhiò Sherlock. “Non costringermi a farti del male.”
 
“Ci sono i miei parenti, di là” disse lei. “Siete in minoranza numerica. Arrendetevi.”
 
“Ma nell’esatto momento in cui tu ti distrarrai per chiamarli, noi faremo un passo indietro e ci Smaterializzeremo.”
 
“Arrendetevi, o vi uccido. Per favore.”
 
“Scusa, ragazzina. Non è il tuo giorno fortunato.”
 
Sherlock scattò all’indietro, schermando John con il proprio corpo e ruotando su se stesso per svanire. John vide il lampo di luce scaturire dalla bacchetta della giovane Greengrass un attimo prima che l’aria gli uscisse dai polmoni.
 
Quando riapparvero al 221B di Baker Street, Sherlock gli si accasciò addosso con un gemito.
 
John si affrettò a farlo sedere sulla poltrona, e non poté trattenere un’esclamazione di orrore: la sua camicia viola era lorda di una sostanza scura che si spandeva in rivoli dalla sua spalla. John gli strappò di mano la bacchetta e la usò per togliergli i vestiti, rivelando così una spaventosa ferita alla clavicola: la carne era ridotta in poltiglia, e l’osso sembrava addirittura frantumato.
 
Incantesimo Reductor” mormorò Sherlock con un fil di voce. “Ben fatto.”
 
John formulò una serie di incantesimi per arrestare l’emorragia, ma non aveva idea di cosa fare con il resto della ferita.
 
Ho bisogno di Ossofast” suggerì Sherlock.
 
“Già, peccato che non ne abbiamo.”
 
Posso dirti come preparare qualcosa che ci somigli con quello che abbiamo in casa.”
 
John non sapeva nemmeno come riuscisse a parlare in quelle condizioni, ma seguì punto per punto le sue istruzioni, e in capo a quindici minuti avevano una pozione.
 
“Da quello che c’è dentro e da come l’abbiamo preparata, dovrebbe dare i suoi effetti nelle prime tre o quattro ore, ma proverai fitte per tutta la notte, sarai febbricitante e dolorante” disse in tono esperto mentre gliela versava in bocca. “Inoltre abbasserà le tue inibizioni, quindi occhio a non rivelare segreti scottanti” scherzò poi per farlo sorridere.
 
Lo so. Cercherò di non svelare tutti i più reconditi sentimenti che provo per te” mugugnò Sherlock.
 
John lo prese tra le braccia per adagiarlo sul letto. La guarigione era già iniziata.
 
 
 
“John.”
 
“Oh, ti sei svegliato, finalmente. Come ti senti?”
 
Tu come ti senti?”
 
Sherlock aveva fatto saltare la sua copertura, era stato brutalmente ferito a una spalla, aveva trascorso una notte terribile e ancora si preoccupava più dei sentimenti di John che di se stesso. John, dal canto suo, aveva deciso di rimuovere dalla memoria ciò che aveva scoperto su Mary, o sarebbe impazzito del tutto.
 
“Ti ho preparato il tè.”
 
“John… è successo qualcosa di particolare stanotte di cui dovrei essere a conoscenza?”
 
Per un pelo John non fece cadere la tazza. “No” rispose, forse un po’ troppo prontamente.
Sherlock rimase in piedi dov’era e aprì la bocca come per parlare, ma la richiuse subito. Ripeté la stessa azione almeno quattro volte prima di riuscire ad emettere un suono: “Vorrei crederti, ma sarebbe un insulto alla mia intelligenza ignorare la tua impronta sul mio materasso e il tuo odore…” si annusò il petto e un braccio come esplicazione di quanto stava dicendo “…su di me.”
 
“Oh.” John dovette fare uno sforzo immenso per non urlare. O ridere. O piangere. “Be’, uhm. Tu avevi freddo, io avevo sonno, la mia sedia era scomoda, così abbiamo trovato un compromesso.”
 
Sherlock sembrò tranquillizzato, perché gli si avvicinò e si sedette a tavola per fare colazione.
 
“Quindi” disse dopo un po’ con nonchalance, “non ti ho rivelato i sentimenti più profondi che provo per te, uh?”
 
La prima cosa che balzò in testa a John fu: “wow, non avrei mai creduto che fosse in grado di pronunciare quelle parole in quell’ordine.” Poi si rese conto del significato di quelle parole, e improvvisamente il bricco scoppiò e il tè schizzò sul soffitto in un’eruzione in miniatura.
 
Dopo qualche penoso minuto impiegato a ripulire il disastro, John si decise a porre la domanda fondamentale: “Quindi ti ricordi cosa è successo?”
 
 
 
“John” chiamò Sherlock.
 
John si ridestò dal proprio torpore, ritornando lucido in un istante, e controllò subito l’orologio; erano le due di notte: la fase più gravosa della guarigione era terminata.
 
Si accostò all’amico, che seguiva i suoi movimenti con sguardo annebbiato. “Va tutto bene, il peggio è passato” lo rassicurò.
 
Lui non diede segno di averlo sentito. “John, ho freddo” mormorò.
 
Gli posò una mano sulla fronte, scostando le ciocche di capelli appiccicate alla pelle sudata. “Hai ancora un po’ di febbre” sentenziò. “Non posso darti un’altra coperta, bisogna lasciar scendere la temperatura.”
 
Sherlock chiuse due volte gli occhi, azione che John interpretò come un cenno di assenso.
 
“Ho freddo. Ho freddo!” strepitò Sherlock, come drogato; i suoi occhi erano velati e quasi spiritati, e non aveva nemmeno la forza di tirarsi a sedere. Nonostante ciò, John sapeva che doveva essere ben più sveglio di quanto sembrasse.
 
“Te l’ho detto, non posso coprirti, o la febbre non passerà.”
 
Sherlock crollò supino sui cuscini, calmandosi di nuovo.
 
John si sedette di nuovo sulla sedia accanto al letto, che nonostante qualche incantesimo rimaneva comunque molto scomoda, e appoggiò la guancia sulla mano per sorreggere la testa. Stava crollando dal sonno, ma non poteva permettersi di addormentarsi. Si massaggiò gli occhi per tenerli aperti. La stanza era piombata nuovamente nel silenzio, ora che Sherlock non si muoveva più. John sapeva che di quel passo non sarebbe mai riuscito a superare la notte senza prendere sonno.
 
“John?” gracchiò Sherlock.
 
“Dimmi.”
 
“Sono un idiota.”
 
“Se è un modo per farti dare la coperta, sappi che non funziona.”
 
“No, sono un idiota.” Sherlock digrignò i denti. “Sono un idiota egoista. Non faccio… non faccio altro che metterti in pericolo, e solo perché sono-un-egoista. Non riesco a stare lontano da te.”
Stava sognando? Stava sicuramente sognando, Sherlock non avrebbe mai potuto dire una cosa del genere. John dovette afferrare saldamente i braccioli della poltrona per assicurarsi che fossero reali. Lo erano. Non stava sognando, dopotutto.
 
“Stai delirando, calmati.”
 
“Non sto delirando!” si alterò lui. “Io ci ho provato! Non era così male essere Simon Church, avrei continuato ad esserlo, ma poi ho visto l’occasione, e non ho saputo resistere, perché sono uno stupido egoista. Ero geloso di me stesso, ti rendi conto?”
 
Geloso. John deglutì; aveva qualche difficoltà a respirare regolarmente. Sherlock era geloso di Simon Church e non riusciva a stare lontano da lui.
 
“E volevo che tu mi…” proseguì Sherlock. “…mi vedessi come ero realmente, e… mi guardassi di nuovo come una volta.”
 
Sembrava che il suo cuore stesse per fracassargli la cassa toracica.
 
Continuava a ripetersi che era tutto effetto della pozione, ma non era stato proprio lui a dire a Sherlock che avrebbe potuto rivelare qualche suo segreto? Possibile che Sherlock stesse… no, non poteva… ma se davvero la pozione aveva abbassato le sue inibizioni, allora…
 
“E guarda cos’ho fatto, cosa continuo-a-farti! Mary… io… l’ho lasciata andare verso lo scontro, non sono riuscito a proteggerla…”
 
“Come?” lo interruppe John. Non voleva pensare a sua moglie. Non voleva pensare a tutte le bugie che lei gli aveva raccontato, e Dio solo sapeva quante fossero. Non era pronto ad affrontare l’argomento. “Hai detto che volevi che ti guardassi di nuovo come una volta. Come?”
 
Aveva paura di quale potesse essere la risposta. Aveva paura come non ne aveva mai avuta, ma doveva sfruttare quel momento per sapere. Quando cercò di ispirare, il respiro fu frammentato, come se stesse tremando.
 
Tutto l’astio di Sherlock se n’era andato, quando rispose. Ora sembrava soltanto infinitamente triste. Parte di lui probabilmente si rendeva conto di cosa stava accadendo, ma non riusciva a fermarlo. “Volevo che mi guardassi di nuovo come quando eri innamorato di me, John.”
 
John sentì le viscere afflosciarsi e sprofondare. Voleva dire qualcosa, ma temeva che anche le sue corde vocali avessero fatto i bagagli.
 
“Una volta cercavo di ignorare ciò che provavo, di dirmi che mi bastava anche solo che tu mi guardassi in quel modo, anche se nemmeno te ne rendevi conto. E adesso” la sua voce, che si era fatta sempre più acuta, si spezzò; “non ho più nemmeno quello.”
 
John chiuse gli occhi, respirando scompostamente, massaggiandosi il naso, gli occhi e la fronte nel disperato tentativo di calmarsi, e di calmare la belva ruggente che gli si era svegliata nel petto al suono di quelle parole.
 
Lui era sposato. Sua moglie era una bugiarda, questo era vero, ma era comunque sposato, aveva fatto una promessa davanti a tutti, Sherlock compreso…
 
 Ma Sherlock non gli aveva mai detto di provare quelle cose; in realtà, se gliel’avesse detto da cosciente lui non gli avrebbe comunque creduto, perché avrebbe pensato a un qualche scherzo con un secondo fine. Adesso, però, Sherlock non aveva motivo di mentire, e non ne aveva nemmeno le capacità… quindi quella doveva essere la verità. Ma lui… era convinto che Sherlock avesse un debole per sua moglie. Per Mary. Sherlock non era l’insentimentale che avrebbe desiderato essere, e questo John l’aveva capito; cercava in tutti i modi di scordarlo perché era meno doloroso credere che non potesse avere delle emozioni, piuttosto che pensare che avesse una cotta per sua moglie. Non si era mai reso conto che Sherlock provasse dei sentimenti per lui. Almeno, non quel genere di sentimenti.
 
In qualche modo la voce gli uscì da sola, senza che il cervello avesse inviato alcun impulso. “E cosa ti fa pensare che non sia più così?”
 
Sherlock lo guardò con occhi spalancati, molto più lucido di quanto non fosse stato finora. Si tirò faticosamente su a sedere reggendosi sui gomiti, gesto che dovette procurargli un dolore immenso, ma non gli fece emettere alcun lamento. Il suo sguardo era incatenato a quello di John. “Lo è?” sussurrò, più speranzoso che mai.
 
Ricorrendo a tutto il proprio coraggio, John si alzò. Temeva che le gambe non lo reggessero, ma, a quanto pareva, erano anch’esse dotate di vita propria. Appoggiò un ginocchio al materasso, sentendolo sprofondare sotto il suo peso, e si sedette accanto a Sherlock. Persino da quella distanza poteva percepire il calore febbrile che lui emanava. Non l’aveva mai visto così elettrizzato, speranzoso e spaventato allo stesso tempo.
 
Lui aveva sonno, Sherlock aveva freddo: quella era un’idea buona come un’altra.
 
Si distese accanto a lui a pancia in su, chiedendosi che diavolo stesse facendo.
 
Trasalì sentendo che Sherlock si era spostato e aveva posato la testa sulla sua spalla; improvvisamente non ci furono più la stanza, o il letto: esisteva solo quel punto, da cui provenivano piccole scosse elettriche che si irradiavano in tutto il suo corpo.
 
“Non ho idea di cosa sto facendo, ma se fossi del tutto cosciente non credo che lo farei” borbottò Sherlock con voce impastata.
 
“Già, troppo imbarazzante” convenne John.
 
“Non voglio dimenticare questo. Promettimi che domattina me lo racconterai.”
 
“Eh? Mhm.”
 
“Domani mattina io non esisterò più” proseguì Sherlock, che sembrava essersi addentrato in una fase pessimistica. “Lui, il me di domattina, non ricorderà più nulla di tutto questo.”
 
“Ehi, vacci piano con l’allegria.”
 
John credette che la sua spalla stesse per andare in fiamme quando Sherlock si mosse. Il suo migliore amico febbricitante, sofferente e alterato guardò verso di lui, e fu allora che John davvero capì: possibile che non si fosse mai accorto prima di quello sguardo?
 
 
 
Sherlock spalancò gli occhi. “No. Stavo solo citando quello che avevi detto ieri sera. Ma allora ho davvero detto qualcosa! Che cosa?”
 
“Stavi delirando” si affrettò a spiegare John. “Non lo pensavi veramente, lascia perdere.”
 
“Era qualcosa di scortese?” indagò lui, più curioso che dispiaciuto.
 
“No! Per Merlino, no, non lo era…”
 
“Era qualcosa di carino?” Adesso Sherlock sembrava indignato, imbarazzato e anche un po’ disgustato, tanto che John scoppiò brevemente a ridere.
 
“Be’, uhm, sì. Lo era.”
 
“E questo c’entra qualcosa con il fatto che poi abbiamo dormito nello stesso letto?”
 
John gli lanciò un’occhiata disperata. Lo Sherlock che non esisteva più, quello della notte prima, lo aveva pregato di non mantenere segreto ciò che era successo. Ma quello Sherlock era delirante, non sapeva che cosa faceva, non era in sé, e ora si sarebbe senz’altro vergognato. E anche lui, John, provava vergogna: aveva approfittato della condizione dell’amico per compiere azioni che altrimenti non avrebbe compiuto, e pronunciare parole che mai avrebbe voluto ripetere alla luce del giorno.
 
“John, se è davvero accaduto qualcosa, è inutile fingere che non sia successo nulla, capisci? Perché dalla tua reazione è evidente che si tratta di qualcosa di importante, anche se io non me lo ricordo, tu invece sì, e non riuscirai ad ignorarlo e andare avanti come sempre. Che cosa-ho-detto.”
 
“Delle tante opzioni che stai visualizzando nella tua testa, sicuramente la più esaustiva” confessò John con un sospiro rassegnato.
 
“Ah.” Sherlock si afflosciò e per un po’ rimase in silenzio. “Ovviamente hai capito che ciò che ho detto era qualcosa che già pensavo, vero?” chiese poi.
 
John esitò a girarsi verso di lui. Guardarlo avrebbe significato affrontare la verità, e non era sicuro di esserne capace. Preferiva di gran lunga restare fermo così com’era, con una tazza in mano e la bacchetta magica puntata contro il bricco. Il colore scuro del caffè, il manico freddo tra le sue dita, la familiare impugnatura della bacchetta… quelle cose erano tangibili e reali. I sentimenti non lo erano. Erano ambigui, incomprensibili e dolorosi.
 
“Forse era inevitabile che succedesse, prima o poi” proseguì Sherlock.
 
Finalmente, John si voltò. Sherlock si alzò immediatamente in piedi, ed ora erano lì, uno di fronte all’altro, pronti ad affrontare la realtà.
 
E poi un’esplosione squarciò l’aria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Ehm. Uhm. Sì. Saaalve. *tossicchia*. Sento che dovrei dire qualcosa ma in realtà non so bene cosa. È da più di un mese che lavoro su questo capitolo, e so che mi pentirò di averlo pubblicato non appena l’avrò fatto perché avrei potuto cambiare o aggiungere delle cose, ma non vedevo l’ora di arrivare finalmente a questo punto e sono molto contenta di liberarmene. In effetti, questa scena è più o meno il motivo per cui ho creato un sequel a Quidditch con delitto… be’, spero che vi sia piaciuta. Un po’. Circa. Mi sto già pentendo di tutte le mie scelte. Insomma, ci risentiamo la settimana prossima.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***


 
Si Materializzarono su una collina e caddero a faccia in giù sull’erba, boccheggiando nel tentativo di riprendere fiato.
 
John riuscì a mettersi a carponi e si chinò subito verso Sherlock, che tossiva e cercava di alzarsi senza risultato a causa della spalla ferita.
 
“Merlino… Sherlock? Sherlock!” chiamò, preoccupato e sconvolto.
 
“Sto… bene” gemette lui. “Per fortuna avevo la bacchetta in tasca.”
 
John lo costrinse a girarsi a pancia in su e controllò subito che non si fosse Spaccato durante la Smaterializzazione, ma sembrava tutto a posto: era pallido come un cadavere, ma intero.
 
Sherlock respirava ancora a fatica, ma con l’aiuto di John riuscì a tirarsi seduto. “Strano che non si siano mossi prima” ansimò. “Evidentemente non eravamo il loro primo problema.”
 
“Cosa intendi? Che è successo?”
 
“Sanno benissimo chi siamo e dove abitiamo, era solo questione di tempo prima che i Mangiamorte venissero a farci una visitina, ora che sanno anche che siamo dei traditori.”

“Intendi dire che sono stati i Mangiamorte a far esplodere la facciata di casa nostra?”
 
“Certo, chi altri pensavi che fossero? Fortuna che eravamo vicini, o non sarei riuscito a portare entrambi in salvo in tempo.” Sherlock fece forza sugli addominali e riuscì finalmente ad alzarsi in piedi con il sostegno dell’amico.
 
“Dove siamo, comunque?” chiese John.
 
“In realtà ho un po’ sbagliato le coordinate” disse lui guardandosi intorno. “Dobbiamo andare lì.” Indicò vagamente l’ovest, e John scorse una villa in lontananza.
 
“Che posto è?”
 
“Casa di mio fratello. Temo che Baker Street sarà off-limits per qualche tempo, quindi Smaterializzandomi ho subito pensato che avremmo potuto nasconderci e decidere il da farsi da qui. Andiamo?”
 
John annuì. “Niente più Smaterializzazione, però. Ce la fai a camminare?”
 
Per tutta risposta, Sherlock iniziò a marciare a grandi falcate verso la villa. “Sai, la pozione che abbiamo preparato è stata sorprendentemente efficace, esclusi quei due o tre effetti collaterali” disse allegramente, voltandosi indietro e facendogli cenno di seguirlo. John si riscosse e fece una corsetta per raggiungerlo.
 
Stavano costeggiando il fianco di una collina verdeggiante e totalmente spoglia, probabilmente utilizzata per far pascolare gli animali, anche se in quel momento non se ne vedevano. John arrancava per avanzare nell’erba alta e stare al passo dell’amico, che sembrava davvero essersi completamente ripreso. “A quel proposito…” disse, sapendo che l’altro avrebbe capito fin troppo bene a cosa si stava riferendo.
 
“Non ho ancora idea di cosa io abbia detto, ma posso capire che dev’essere stato qualcosa di inaspettato da parte tua” disse Sherlock in tono conciliante. “Forse sono stato un po’ troppo precipitoso a chiederti di ripetermelo.”
 
“…sì, forse. Non lo so. Devo pensarci.” Tutto il coraggio di pochi minuti prima era svanito, perso lo slancio iniziale. Aveva bisogno di riflettere per decidere cosa dirgli e cosa fare, perché al momento la situazione in cui si trovava gli sembrava piuttosto disperata, e non solo sul fronte Sherlock. C’era Mary, innanzitutto, e poi l’insignificante fatto di trovarsi in pericolo di vita, se i Mangiamorte avevano deciso che era un traditore.
 
Restarono in silenzio finché non giunsero a destinazione, ognuno immerso nei propri pensieri.
 
La magione in cui abitava il fratello di Sherlock era strutturata su cinque livelli diversi e aveva anche una torretta. L’ingresso principale era esattamente identico al numero 10 di Downing Street, cosa che John trovò piuttosto insolita da parte di un mago. Come se gli avesse letto nel pensiero, Sherlock spiegò velocemente: “Mycroft lavora sia al Ministero della Magia sia per i Babbani. È nell’MI6, servizi segreti.”
 
Sherlock bussò con il battente, e meno di quattro secondi dopo una donna aprì la porta; era sulla trentina, con i capelli castani lunghi fino alle spalle e un tailleur scuro molto professionale. Non appena vide in che stato si trovava Sherlock si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa.
 
“Santo cielo! Signor Holmes!”
 
“Oh, non scandalizzarti” la rimproverò Sherlock seccamente. “Facci passare, Anthea.”
 
“Un momento, lei chi è?” chiese la donna, squadrando John.
 
“Lo sai benissimo chi è.” Sherlock la scansò ed entrò in casa, e John alzò le spalle per scusarsi con la ragazza e lo seguì.
 
“Anthea è l’assistente di mio fratello” bisbigliò Sherlock a John mentre percorrevano il lungo corridoio. “È una Magonò, nata da famiglia di maghi ma senza magia. Non si chiama Anthea per davvero. Credo sia una specie di nome d’arte.”
 
Mycroft stava venendo loro incontro dal piano superiore, scendendo lungo la gradinata di marmo, e si bloccò non appena vide il fratello minore.
 
Merlino, Sherlock, che hai fatto?” sbottò inorridito. In effetti, Sherlock non si presentava bene: indossava solo un paio di pantaloni di felpa grigia, era spettinato e stravolto, e la sua spalla era orribilmente tumefatta.
 
“Copertura saltata” replicò lui laconicamente. “E credo di aver bisogno di cure mediche.”
 
John si fece timidamente avanti, allungando una mano verso Mycroft. “Signor Holmes” disse, schiarendosi la gola. “Sono…”
 
“Lo so chi sei” lo interruppe lui con un sorrisetto altezzoso. “Potrei fare un tuo ritratto ad occhi chiusi, con tutto quello che Sherlock mi ha detto di te.”
 
“Ci serve un alloggio temporaneo” disse Sherlock in tutta fretta, quasi sperando che John non avesse sentito. “E John ha bisogno di una bacchetta nuova.”
 
Mycroft sorrise alla reazione del fratellino. “Sì, dovrei riuscire a procurargliene una in pochi giorni” disse in tono pacato, poi si rivolse a John: “se dai ad Anthea le caratteristiche di quella vecchia, te ne farà arrivare una simile.”
 
“E mi servirebbe anche un gufo” osò aggiungere John. “Devo spedire una lettera.”
Sherlock si voltò di scatto verso di lui. “A chi?”
 
“Non sono affari tuoi” lo redarguì il fratello.  “Io e te dobbiamo chiarire un paio di cose al più presto. Anthea?”
 
“Sì, signore?”
 
“Accompagna il signor Watson in una delle stanze degli ospiti e procurargli ciò che gli serve.”
 
“Sì, signore.”
 
Lui e Sherlock non si videro più fino a quella notte.
 
John restò chiuso in camera tutto il giorno, pensando e ripensando agli ultimi avvenimenti. Solo a tarda sera osò finalmente bussare alla stanza di Sherlock, che era tre porte più in fondo rispetto alla sua. Aveva riflettuto a lungo e sperava solo di riuscire a portare avanti il suo proposito. Anthea gli aveva portato anche dei vestiti, e lui aveva indossato una camicia a quadri pulita sopra i suoi jeans; si era reso conto di avere ancora in tasca l’orologio che aveva rubato all’Ufficio Misteri e l’aveva lasciato lì dov’era, temendo che Mycroft o Anthea lo trovassero.
 
Sherlock gli aprì quasi immediatamente, e lo invitò ad entrare con un cenno formale, senza una parola, come se prevedesse cosa stava per succedere. Si era rasato la barba e lavato, ma indossava ancora solo i vecchi pantaloni di felpa grigia.
 
La stanza era piccola, c’era a malapena spazio per il letto, un armadio e una scrivania; era illuminata da una singola candela che ardeva in un candelabro appeso al muro.
 
“Come sta la spalla?” si informò John.
 
“Bene” disse lui. “Anthea l’ha curata completamente. Non riesce nemmeno a far Levitare una penna, ma con le pozioni è piuttosto brava.”
John annuì e si guardò intorno per cercare di alleviare la tensione.
 
“Ho preso una decisione” disse infine in tono grave.
 
Sherlock non sembrò sorpreso: annuì, aspettando che si spiegasse.
 
“Me ne vado dall’Inghilterra. Chiederò a tuo fratello di aiutarmi ad uscire dal paese e mi trasferirò altrove, lontano da tutto questo, per ricominciare. Mi costruirò una nuova vita.”
 
“Mi sembra…”
 
“No, non ho finito.” John lo fulminò con lo sguardo. “Farò tutto questo, ti giuro che lo farò, a meno che tu non mi dia un buon motivo per restare qui.”
 
“Sarai più al sicuro all’estero” ribatté Sherlock con aria triste. “Perché dovresti restare?”
 
“Non mi interessa la sicurezza, lo sai. Ti sembra che me ne sia mai importato qualcosa? Ma se me ne andrò, voglio essere sicuro di farlo senza lasciarmi niente alle spalle. Ho già spedito una lettera a Mary per informarla.”
 
“Io rimarrò qui.”
 
“Lo so. Quindi… vuoi che resti anche io?”
 
“John” lo rimproverò Sherlock, “qui non si tratta di ciò che voglio io. Starai meglio se te ne andrai, anche se io non sarò con te, questi sono i fatti. Non posso chiederti di restare solo perché è nel mio interesse. Credo che per te lasciare il paese sia l’alternativa migliore.”
 
“Sì, ma lasciando perdere per un attimo la mia sicurezza, tu vorresti che restassi?”
 
“Non puoi decidere in base a questo!”
 
“Credo di essere in grado di scegliere da solo su cosa basarmi” ribatté John. “Allora, hai un motivo o dobbiamo salutarci per l’ultima volta?”
 
Gli sembrava incredibile che Sherlock fosse davvero così cieco. Lui voleva solo che ripetesse le parole della notte prima, per assicurarsi che fossero vere. Sherlock gli aveva praticamente rivelato di amarlo, e John non poteva continuare ad essergli amico fingendo che non fosse successo nulla, non poteva più sopportarlo; ma non poteva semplicemente schiaffare in faccia a Sherlock ciò che gli aveva detto mentre delirava.
 
Sherlock non avrebbe mai voluto arrivare a quel punto. Lui aborriva i sentimenti, aborriva l’amore, e avrebbe volentieri lasciato andare John verso un luogo più sicuro piuttosto che accettare quelle emozioni che tanto disprezzava e che sperava di nascondere per sempre. Ma ormai il danno era fatto, giusto? La notte prima aveva rovinato tutto. John non sarebbe mai stato felice senza di lui, soprattutto ora che conosceva la verità. La soluzione, per una volta, era chiara; nessun sacrificio, nessuna repressione, nessuna bugia: non poteva più fingere di non amarlo; doveva lasciarsi andare, per una volta, tralasciare la sua adorata razionalità e avventurarsi per sentieri sconosciuti.
 
Non era sicuro di esserne capace.
 
E aveva paura.
 
“Allora? Niente?” chiese John impaziente, guardandolo con aria di sfida.
 
“Il motivo è che…” la voce gli uscì stridula e insicura, e si affrettò a tossicchiare per schiarirla. “È che io sono umano.”
 
“No, oggi non giochiamo agli indovinelli.”
 
“No, non stavo giocando. Il motivo è che sono umano, e… oh… insomma, questo.”
 
Accadde tutto in un istante. Sherlock gli prese il volto tra le mani e posò la bocca sulla sua. Le labbra di John, secche e screpolate, si dischiusero istintivamente al suo tocco; John si sollevò sulle punte per avvicinarsi a lui, ma si ritrasse subito dopo, indietreggiando di alcuni passi, in preda allo shock. Avevano entrambi il respiro affannoso, e ansimavano per riprendere fiato senza nemmeno comprenderne la ragione, fissandosi ad occhi spalancati. Nessuno dei due voleva credere a quanto era appena successo.
 
Per Sherlock, l’espressione di John non avrebbe potuto essere più eloquente. “Stupido… stupido!” gemette con rabbia verso se stesso, stringendo i pugni e voltandosi per non doverlo guardare in faccia. In quel momento, si odiava. Si odiava con tutto se stesso per aver appena rovinato tutto, perché ovviamente aveva frainteso l’intera situazione, e John voleva solo sentirsi dire qualcosa di carino tipo “tu sei il mio migliore amico e non ci separeremo mai”, quel genere di romanticherie platoniche che gli facevano rivoltare lo stomaco.
 
“Sherlock…”
 
Doveva, in qualche modo, salvare la situazione. “Non so cosa mi sia preso, ti prego, perdonami, ho perso il controllo, ti assicuro che ce ne sono altri cento di motivi…”
 
“A me questo pareva piuttosto valido” disse John con voce roca.
 
Sherlock si bloccò, pietrificato, e girò lentamente il busto verso di lui come una bambola meccanica. “Scusa?”
 
John mosse cautamente un passo avanti, quasi annullando la breve distanza che si era creata tra loro. “Ho detto che mi è sembrato piuttosto valido.”
 
“Tu…” Sherlock ridistese i pugni e lo fissò con sguardo perso. “Anche tu…”
 
“Sì” rispose John semplicemente, guardandolo dritto negli occhi. “Allora… è vero quello che hai detto ieri.”
 
“Non lo so, non me lo ricordo.”
 
“Be’, per una volta sei tu quello smemorato.”
 
Quella era la sua ultima occasione per tirarsi indietro e negare tutto. L’ultima in assoluto.
 
E, per una volta, aveva tutte le intenzioni di gettarla via.
 
“Quindi resterai?”
 
John sogghignò. “E me lo chiedi pure.”
 
Sherlock esitò. Finalmente nella sua testa i pezzi del puzzle si incastravano alla perfezione: John che si offriva di morire al posto suo. John che lo perdonava per essere stato una completa testa di cazzo. John che restava al suo fianco sempre, sempre. John che non si comportava mai esattamente come un bravo migliore amico. Che sembrava sempre sul punto di cercare il suo contatto, di dire qualcosa in più…
 
John Watson, il suo John Watson. Sherlock espirò a fondo, svuotando tutta l’aria che aveva in corpo. Era vero. Era tutto vero. L’aveva baciato davvero, e lui era stato d’accordo. Lui, che era un uomo normale, e aveva una moglie e una vita ordinaria e non aveva bisogno del pericolo e degli intrighi, aveva desiderato baciarlo. Cos’aveva fatto per meritare una simile sorte? Il suo John Watson
 
Questa volta non cercò le sue labbra, ma appoggiò la testa sulla sua spalla e si abbandonò alle sue braccia, inspirando a fondo il suo odore; percepiva la tensione dei suoi muscoli oltre la sottile camicia a quadri, e provò l’impulso di strapparne via i bottoni seduta stante per poter toccare la sua pelle nuda. Era la prima volta dopo anni che toccava un essere umano in quel modo. Sua madre lo stritolava al suo petto, e a volte scambiava degli abbracci o dei bacetti sulla guancia con la sua amica Molly, ma questo contatto non c’era stato da molto tempo: adagiarsi completamente contro qualcuno, contro John… non credeva che sarebbe accaduto di nuovo, dopo quell’ultimo anno a Hogwarts. Sentiva l’irrefrenabile impulso di sorridere e chiudere gli occhi, ma allo stesso tempo la vicinanza di John lo teneva vigile e reattivo e lo faceva trasalire ad ogni suo movimento.
 
Fremette sentendo il suo respiro caldo sul collo e quasi sobbalzò quando John gli posò le labbra sulla pelle sensibile, solleticandola e facendogli emettere un buffo verso involontario sospettosamente simile a un mugolio. Si sciolse dall’abbraccio e lo guardò finalmente negli occhi, sorridendo nel notare la sua espressione supplichevole.
 
Voleva prolungare quel momento il più possibile: aveva sognato per anni di viverlo davvero, e desiderava imprimerlo perfettamente nella propria testa. Voleva ricordare, anche a distanza di anni, di aver portato portato le mani al collo bollente di John, lasciandole poi scivolare fra i suoi capelli cinerei; e il fatto che le sue pupille fossero così dilatate che dell’iride azzurra era rimasta solo una striscia sottile, e il fatto che stesse respirando piano, dilatando le narici, come se cercasse disperatamente di dominarsi. Il suo sguardo scivolò sul suo corpo in tensione, prendendo rapidamente nota del sudore che gli scorreva sulla fronte, della sua bocca semiaperta e della sua respirazione accelerata e controllata a stento.
 
Voleva ricordare di essersi abbassato dolcemente fino ad incontrare le sue labbra, ma non andò in questo modo, perché John non era disposto ad indugiare così tanto: si aggrappò al suo collo e lo trascinò verso di sé.
 
Oh, era bello. Era davvero bello. I baci gli sembravano sempre un po’ ridicoli, a pensarci, ma in quel momento nella sua testa non c’era spazio che per la bocca di John, il suo respiro sulla sua pelle, le sue mani sul suo petto. Sherlock poteva percepire il battito martellante del suo cuore attraverso la cassa toracica. Lasciò scendere una mano sulla sua schiena, esercitando una lieve pressione in modo che il corpo di John si inarcasse e aderisse ancora di più al suo.
 
Qualcosa rotolò fuori dalla tasca dei pantaloni di John e cadde a terra con un tonfo sordo. Un ticchettio sommesso si diffuse per la stanza.
 
John si ritrasse, spalancando gli occhi di scatto. “Non è possibile” mormorò.
Sherlock era confuso. “Che cosa non è possibile?”
 
“L’orologio.” John si chinò a raccogliere ciò che gli era caduto, un tondo orologio da taschino di bronzo. “Sta funzionando.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Intanto… Buon anno a tutti! :D
Sto ricontrollando il capitolo per l’ultima volta mentre aspetto che si carichi l’episodio di Supernatural che sto guardando, e continuo a fare confusione: ogni volta che ritorno qui a leggere devo ricordarmi che Sherlock e John si stanno baciando e non stanno sanguinando a morte né lottando contro un demone.
Mhh, Supernatural mi sta influenzando. Improvvisamente sento il bisogno di aggiungere qualcosa di doloroso e sanguinoso… ma non in questo capitolo, questo lo lascio al fluff. (E all’orologio che finalmente si è sbloccato.) Ad essere sincera è un sollievo anche per me che ‘sti due tordi si siano finalmente baciati.
Un avvertimento: dai prossimi capitoli (non vi dirò esattamente dove, ovviamente) succederanno delle cose che probabilmente vi sembreranno un po’… come dire, forzate? Be’, è probabile che vi sembrino forzate perché c’è dietro qualche grosso complotto che scoprirete più avanti. Ve lo dico solo perché altrimenti poi sarei costretta a darvi spiegazioni più precise, o a ignorare i vostri dubbi…

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. ***


 
“Che cos’è?” domandò Sherlock, infastidito.
 
“Un orologio. Solo che… prima non funzionava. Era bloccato sulle undici.” Le lancette ora segnavano le undici e quarantacinque; evidentemente, la tasca ne aveva attutito il rumore fino a quel momento.
 
“Fammi vedere.”
 
Riluttante, John glielo porse.
 
“C’è una scritta in antiche rune” notò immediatamente Sherlock. “Leggila” ordinò, tendendogli indietro l’oggetto.
 
“Hai studiato rune anche tu” obiettò John con un sorrisetto.
 
“Sì, ma le ho eliminate, occupavano troppo spazio ed erano inutili. Fino ad ora, almeno.”
 
Alzando gli occhi al cielo, John prese l’orologio, e ciò che vide lo lasciò allibito. “N-non erano le stesse, prima. Prima che si sbloccasse, intendo.”
 
“Dove l’hai preso?” indagò Sherlock, assottigliando gli occhi.
 
“Ufficio Misteri” borbottò lui velocemente.
 
“Hai rubato un cimelio dell’Ufficio Misteri?”
 
“Non l’ho rubato!” si difese John. “Mi stava… chiamando.” Scosse la testa nel rendersi conto dell’assurdità di ciò che aveva appena detto. “Sì, suppongo di averlo rubato. È stato mentre tu… e tu… stavate esaminando le Giratempo.”
 
Sherlock gli strappò di nuovo l’oggetto di mano. “Ben lavorato” commentò, esaminandolo. “Opera dei Folletti, ovviamente. Protetto da incantesimi di conservazione solo all’esterno, dove infatti è ancora lucido e perfetto, mentre all’interno le lancette sono un po’ ossidate e lo sfondo è ingiallito. C’è un cammeo sul retro… il profilo ricorda quello di Mary, non ti pare? Curioso. Dunque, dici che si è improvvisamente risvegliato… se era custodito all’Ufficio Misteri, deve avere un qualche valore o potere particolare. E ho la vaga impressione che allo scoccare della mezzanotte lo scopriremo: mancano solo pochi minuti. A proposito, che ora è in realtà?”
 
“Non lo so. Circa le dieci e trenta, credo.”
 
Sherlock si strinse nelle spalle. “Bene, suppongo che dovremo aspettare. E ho un paio di idee su come potremmo ammazzare il tempo…”
 
Non aveva ancora terminato di parlare quando si sentì uno scoppio, e una creatura piccola e fragile apparve nella stanza a meno di un metro da loro: un’elfa domestica vecchia, ma stranamente piuttosto pulita e curata.
 
Dopo un attimo di sconcerto iniziale, Sherlock la riconobbe, ed esclamò: “Nelly! Che ci fai qui?”
 
Solo allora John si riebbe dallo shock e ricordò: era l’elfa domestica dei Morstan. “Come hai fatto a trovarci?” chiese con orrore crescente, sfoderando la bacchetta.
 
Nelly si strofinò gli occhi con i pugni e tirò su col naso prima di gracchiare: “Il gufo, padron John. Il gufo che avete spedito a padrona Mary mi ha indicato la strada.”
 
“Può farlo?” chiese John a Sherlock, preoccupato.
 
Anche Sherlock era corrucciato. “Evidentemente sì. Ma se ci ha trovati lei… Nelly, hai detto a qualcuno di averci rintracciato?” Sherlock si accovacciò di fronte all’esserino, che tremava spaventato e scosse la testa ripetutamente.
 
“Bene. Sei qui per Mary?”
 
L’elfa annuì.
 
“Mary sa che ci hai trovati, allora?”
 
Non lo sapeva.
 
“John, dovrai darle degli ordini” disse Sherlock in tono pratico. “Sei il marito della sua padrona, quindi ti obbedirà.”
 
“Vuoi evitare che riveli a qualcuno di essere stata qui?” chiese John per conferma.
 
Sherlock annuì. “Ora, John, ripeti precisamente ciò che ti dico: Nelly, io, tuo padrone, ti ordino di non rivelare mai di aver rintracciato me e Sherlock e di aver parlato o interagito con noi, e di non indicare la nostra posizione a nessuno con parole, scritte, segni, gesti o qualsiasi altra forma di comunicazione. Se ti è già stato fatto giurare di rivelare qualsiasi informazione riguardante me o Sherlock, rompi il giuramento e segui solo questo comando che io ora ti do.
 
John ripeté diligentemente, poi si chinò anche lui di fronte all’elfa. “Mary sta bene?”
 
Gli occhi verdi e sporgenti dell’elfa si riempirono di lacrime, mandandolo nel panico. “Nelly, Mary sta bene? Perché sei qui?”
 
Lei si pulì il naso con il dorso di una mano mentre con l’altra recuperava due lettere dallo straccetto che portava come grembiulino. “Nelly deve trovare padron John e padron Sherlock” disse, consegnando loro le lettere; “dare i fogli, e poi sparire.”
 
Ferma!”
 
Troppo tardi: appena ebbero preso in mano le buste, lei si Smaterializzò.
John si rigirò la lettera tra le mani, analizzandola: era di carta comune, non di pergamena, e sul retro recava il suo nome scritto in penna a sfera; riconobbe la calligrafia della moglie, benché fosse distorta e frettolosa.
 
Sentì la mano di Sherlock stringergli con forza la spalla e si voltò verso di lui; Sherlock gli posò un rapido bacio sulla bocca prima di allontanarsi e sedersi a gambe incrociate sul letto.
 
Dove avrebbe dovuto esserci il suo stomaco, sentiva solo un macigno. Non voleva aprire la busta. Non voleva scoprire perché l’elfa piangeva, o perché Mary non aveva inviato quelle lettere via gufo, o perché l’orologio con il cammeo stava ticchettando. Era arrabbiato a morte con Mary, e non sarebbe tornato con lei nemmeno se avesse potuto –nemmeno se non ci fossero stati di mezzo i Mangiamorte e la latitanza- ma le voleva ancora bene, come gliene aveva sempre voluto. Lei gli era stata accanto dopo la morte di Sherlock e dopo il suo ritorno, aveva portato in grembo sul figlio e aveva sofferto con lui quando l’aveva perso. Avevano condiviso l’intera esistenza, negli ultimi otto anni.
 
Sherlock aveva stracciato la busta e stava leggendo. Ogni tanto sollevava gli occhi e guardava John intensamente per poi riprendere la lettura.
 
“Merlino, fa che stia bene” pensò John, disperato.
 
Anche lui strappò la busta.
 
 
 
Caro John, se stai leggendo questa lettera significa che sono morta.
 
 
 
L’orologio tascabile scoccò sonoramente la dodicesima ora.
 
John indietreggiò, cercando il letto a tentoni per non cadere a terra, e crollandovi a sedere sopra.
 
Sentì il materasso muoversi, e poco dopo le braccia di Sherlock lo circondarono.
 
Sua moglie era morta. Era morta.
 
Era morta.
 
Era morta credendo che lui la odiasse.
 
 
 
Non ho mai avuto paura della morte… è l’idea di perdere la vita a spaventarmi.
 
 
 
Poteva quasi vederla sorridere mentre scriveva quelle parole.
 
 
 
Perdere la vita significa perdere la possibilità di compiere qualsiasi azione, e io temo che, quando giungerà il momento, non ne avrò ancora compiute abbastanza. Io voglio che la mia esistenza sia degna di essere vissuta. Voglio che sia di qualche utilità per qualcuno, in qualche modo. Nel caso ci fosse qualcosa dopo la morte, voglio poter dire che sceglierei di nuovo di vivere questa vita, per quanto breve.
In un bilancio complessivo, non posso dire di aver vissuto male. A parte un po’ di affetto, la mia famiglia non mi ha mai fatto mancare nulla, e tu non sei stato da meno. Mi dispiace di essere stata una moglie così deludente. Mi è chiaro solo ora, dopo molto tempo, che non avrei mai dovuto stare con te quando i tuoi sentimenti erano così chiari a me, anche se non a te, e voglio rimediare al male che ti ho causato. Se mi hai mai amata, John, se mi hai amata in qualche modo, fa’ che io non abbia vissuto invano e ascoltami.
 
 
 
La lettera proseguiva ancora a lungo, ma John non riuscì a leggere oltre.
 
Mary Elizabeth Morstan, la bionda, esuberante, combattiva Mary Elizabeth Morstan era morta.
 
Morta.
 
“Torna indietro” disse.
 
“Cosa?” chiese Sherlock, guardandolo con perplessità.
 
“Torna indietro nel tempo. Non mi interessa quanti giri dovrai far fare al tuo aggeggio, torna indietro e salvala.”
 
“Non sappiamo nemmeno quando è morta!”
 
“Sì che lo sappiamo: durante la festa. Hai detto tu che si è diretta in mezzo allo scontro, è ovvio che l’hanno colpita lì. Torna indietro e salvala, l’hai fatto con me, puoi farlo anche con lei.”
 
“John… non posso, la sua morte ormai è avvenuta, non posso modificarla.”
“È avvenuta perché tu non l’hai salvata!”
 
“Non…” Sherlock si premette le dita sulle tempie e strizzò gli occhi. “Non… no. Per poterlo fare avrei dovuto avere bisogno di un altro elemento, capisci? Qualcosa che mi dicesse che potevo effettivamente tornare indietro a cambiare gli eventi, come la prima volta, in cui ho avvertito il me stesso nel passato, o quando mi sono mostrato a lui per fargli capire cos’avrebbe dovuto fare. Se Mary è morta significa che non posso fare niente, quell’evento ormai è fisso, non è modificabile. Pensaci! Se ci provassi creerei un eterno paradosso temporale!”
 
“Non me ne frega niente dei paradossi temporali, riporta mia moglie qui!”
 
“Ma John, se lo facessi sarebbe stato proprio scoprire che è morta a spingermi a salvarla, ma se la salvassi lei non morirebbe più, io non potrei sapere che l’ho salvata e non tornerei più indietro a salvarla, e lei morirebbe di nuovo. Questi due elementi non possono coesistere… mi dispiace, ma non posso davvero fare niente.”
 
 “Riportala indietro!” urlò John, in preda al furore più cieco, senza ascoltarlo. “Puoi anche far esplodere il maledettissimo mondo, ma riportala qui!”
 
“Io… io non posso” gemette Sherlock. “John, non posso.”
 
Che cosa succede qui?” Il fratello maggiore di Sherlock si affacciò alla soglia della stanza con aria accigliata. “Si gradirebbe un po’ di quiete, grazie.” I suoi occhi corsero sui due uomini stretti l’uno all’altro, facendogli sollevare le sopracciglia.
 
“Sua moglie è morta, Mycroft. Lasciaci in pace” disse Sherlock in tono secco.
 
“Oh.” Mycroft non mostrò alcuna apparente emozione. “Condoglianze.”
 
“Mia moglie è morta e questo idiota non vuole usare la sua maledettissima macchina del tempo per salvarla!” ululò John con rabbia, scattando in piedi.
 
“Be’, naturale. Ormai l’evento è avvenuto, è diventato un punto fisso nel tempo” convenne Mycroft.
John li fissò entrambi con odio, poi scansò Mycroft e uscì a passi pesanti dalla stanza.
 
 
 
Sherlock attese un po’ di tempo prima di andare da John. Erano circa le due di notte quando osò presentarsi in camera sua, trovandolo seduto sul letto al buio con la testa fra le mani.
 
“Era ora” disse lui senza nemmeno girarsi a guardarlo.
 
Sherlock accese una candela con un cenno della bacchetta e richiuse la porta dietro di sé. Gli si avvicinò con cautela, senza sapere bene come comportarsi.
 
“Com’è potuto succedere?” sussurrò John con rabbia. “Come? Era una Mangiamorte, Sherlock, ti rendi conto? E l’ho odiata quando l’ho scoperto, ma era mia moglie.”
 
“La… la amavi?” chiese Sherlock, schiarendosi la gola.
 
John si voltò verso di lui. “È sempre stata al mio fianco” disse, facendo suonare la risposta come un’accusa; “era sempre pronta a tirarmi su di morale e… non sai quanto mi ha aiutato quando credevo che fossi morto. Le volevo bene, su questo non ci sono dubbi.”
 
“Oh” mormorò Sherlock sommessamente. Era in piedi accanto a lui, ma non osava avvicinarsi di più.
 
“Pretendevi che non la amassi per quello che ti ho detto prima?”
 
“No” si affrettò a rispondere lui. “Anche io le volevo bene, davvero.”
 
“Be’, probabilmente non la amavo sul serio, solo che prima non l’avevo capito. A volte ero un po’ geloso di voi” disse poi con una risatina secca. “Eravate così in sintonia. Ma a questo punto non so di chi dei due fossi geloso.”
 
Geloso? Credevi davvero che avrei potuto…”
 
“Sì, be’, senti chi parla. Anche tu lo eri, di Simon Church.”
 
“Come fai a…”
 
“Sì, giusto, non te lo ricordi… me l’hai tu detto l’altra notte.”
 
“Ricordami di non assumere più quel surrogato di pozione che abbiamo preparato. Mi piacerebbe conservare un po’ di dignità, in futuro” scherzò Sherlock, cercando di strappargli un sorriso.
 
“Mhm, come no…” John appoggiò di nuovo la testa fra le mani e gli fece un cenno: “Puoi sederti, se vuoi. Non sono arrabbiato con te, l’ho capito che non puoi usare la Giratempo.”
 
Sherlock si accomodò rigidamente accanto a lui, senza toccarlo. Sapeva che avrebbe potuto farlo, ora: non era più come una volta, quando doveva impedirsi di prenderlo fra le braccia ogni volta che erano vicini; ma sua moglie era appena morta, e voleva lasciargli il suo spazio, almeno per un po’.
 
“Tanto per chiarire, il fatto che le volessi bene non significa che non abbia sempre voluto stare con te” spiegò John. “Anche se cercavo di dimenticarlo.”
 
“Ci eravamo pure baciati, a scuola” ricordò Sherlock.
 
“Mi ripetevo che era un esperimento da adolescenti e non contava nulla, ma non era vero. Ero molto più saggio, a diciassette anni.”
 
“Mary l’ha sempre saputo. Aveva cercato di farmelo ammettere, allora, ma io avevo tergiversato.
Ha sempre saputo cosa ci passava per la testa, a tutti e due.”
 
“Te l’ha scritto nella lettera?” sospirò John.
 
“Anche, insieme ad altre cose. E a te?”
 
“Non lo so, non sono riuscito a leggerla tutta.”
 
“Sherlock, quell’orologio…”
 
“Credo che non fosse una coincidenza, se il cammeo somigliava a Mary.”
 
“…che potere dovrebbe avere? Indicarti che tra un’ora morirà qualcuno che ami?”
 
“Forse indicava che puoi sempre fingere che la morte non esista e sperare di non esserne mai toccato, proprio come se il tempo non scorresse, ma… alla fine la dodicesima ora scocca per tutti, senza eccezioni.”
 
John non replicò. Sherlock si distese a pancia in su, appoggiando i piedi sul bordo del materasso, e John lo imitò subito dopo, cadendo accanto a lui.
 
 “Dovremmo tornare a Londra” disse Sherlock dopo un po’, passando un braccio attorno alla testa di John e iniziando a giocherellare con i suoi capelli. “Trovare un posto in cui nasconderci. Non so dove, però. Mi era venuta in mente Molly, ma il suo appartamento è troppo piccolo, e poi fa già parte dell’Ordine e non voglio metterla ancora più in pericolo.”
 
“Forse conosco qualcuno che potrebbe ospitarci per un po’. Ti ricordi di Clarisse Weasley?”
 
“No.”
 
“Oh, andiamo, era anche al mio matrimonio! Capelli rossi… capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro… be’, ora fa la battitrice per le Holyhead Arpies e vive in centro a Londra. Sarebbe perfetto.”
 
“Purché sia disposta a nascondere due latitanti.”
 
“Vedrai, ci accoglierà a braccia aperte. Domani mattina le spedirò un gufo.”
Sherlock non replicò. Restarono semplicemente sdraiati lì, con lo sguardo rivolto al soffitto.
 
“Dovresti dormire” disse Sherlock dopo qualche minuto.
 
“Sì, perché infatti ci riuscirei.”
 
“Almeno mettiti in una posizione comoda.”
 
“Da quando sei così premuroso?”
 
Sherlock gli lanciò un’occhiata di traverso. “Dovresti riconoscere che metterti in una posizione comoda è la cosa migliore da fare, se domani mattina non vuoi avere la sciatica.”
 
“Bene.” John si alzò e si ridistese nel verso giusto, posando la testa sul cuscino. Anche Sherlock si girò, e gli scivolò accanto. John si strinse al suo petto e chiuse gli occhi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
A-ehm, salve. Dunque, ehm, ancora una volta non so bene cosa dire riguardo al capitolo, ma dato che sono una gran chiacchierona e mi piace aggiungere qualcosa alla fine del testo, vi consiglio di guardare questo https://www.youtube.com/watch?v=PPC-PeDogoE tenendo le note/commenti/non so bene come definirli; n pratica sono i commenti dell’autrice del video ma all’interno del video, e sono molto divertenti. Ah, è un video su Sherlock e John ovviamente.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. ***


 
“Allora, ricorda” disse John prima di gettare la polvere verde della Metropolvere nel camino di Mycroft. “Vado io, le spiego come stanno le cose, e dopo dieci minuti arrivi tu. La gente pensa ancora che tu sia morto, non voglio che le venga un infarto.”
 
Clarisse Weasley aveva inviato subito una risposta, assicurando John che sarebbe stato il benvenuto in qualsiasi momento e qualsiasi fosse la condizione in cui si trovava. Circa una settimana più tardi –verso fine giugno- John e Sherlock si erano dichiarati pronti a tornare a Londra. La bacchetta nuova di John non era ancora arrivata, ma Mycroft aveva promesso di fargliela avere non appena fosse stata disponibile.
 
“Lo so” sbuffò Sherlock con impazienza. “Dai, muoviti.” Era molto irrequieto, in quei giorni. Moriva dal desiderio di tornare nella capitale, nel cuore della battaglia contro il Signore Oscuro, ma Mycroft non gli aveva permesso di partire finché la sua spalla non fosse stata perfettamente guarita.
 
“Allora a presto, Mycroft” disse John.
 
Il fratello maggiore di Sherlock si congedò da lui con un cenno del capo, e lui lanciò la polvere nel camino, recitò l’indirizzo e partì.
 
Un attimo dopo stava sputacchiando cenere in un altro focolare, disteso bocconi; due mani lo aiutarono ad emergere dal condotto e rialzarsi.
 
“Grazie, Clarisse.”
 
“John!” esclamò Clarisse Weasley, stritolandolo fino a fargli perdere il fiato mentre lui le dava qualche pacca sulla schiena, imbarazzato. Finalmente lei lo lasciò andare e gli afferrò le spalle per scrutarlo in volto. Non si vedevano da mesi, ma lei era sempre uguale: capelli rosso fiamma, naso lungo e dritto e limpidi occhi azzurri. Indossava un cardigan color tortora sopra ad una canottiera delle Holyhead Arpies. “John ti trovo benissimo!” disse lei con un enorme sorriso, un po’ sorpresa. “Che hai fatto? Devi raccontarmi tutto, nella lettera che mi hai inviato hai scritto che i Mangiamorte vi stavano dando la caccia! Ma non hai detto che c’era anche un’altra persona, con te?”
 
“Sì, ecco…” John tossicchiò. “Prima che arrivi, devo…”
 
In quel momento il camino si accese di fiamme verdi e Sherlock Holmes ne emerse nel suo splendore. Clarisse sbiancò e si portò una mano alla bocca.
 
“Sherlock!” sbottò John. “Ti avevo detto di aspettare!”
 
“Mi annoiavo” si giustificò lui con una scrollata di spalle, poi sollevò una mano: “Clarisse.”
 
“No, no!” proruppe lei, indietreggiando. “Tu sei morto! Sei morto anni fa!” I suoi occhi erano spalancati, la sua mano tremava. John sospirò: quella era esattamente la reazione che sperava di evitare.
 
“Uhm, no” borbottò Sherlock, spostando il peso da un piede all’altro.
 
“John, lui è morto. Ok? Lui è morto.” Clarisse afferrò un braccio dell’amico e lo scrollò. “Non può essere qui, è morto.” La poveretta sembrava sull’orlo di una crisi isterica: continuava a stringergli l’avambraccio con forza, come se avesse bisogno di aggrapparsi a qualcosa di concreto per non svenire.
 
“Uhm, no” ripeté John. “Sai che nella mia lettera ti ho detto che io e il mio amico avevamo bisogno di un posto dove nasconderci da Voldemort? Bene. E hai… hai presente Simon Church?”
Lei fece una smorfia. “Quel tuo amico Mangiamorte? Che c’entra con… con lui?”
 
“Sì, be’… è lui.”
 
Lei spalancò ancora di più la bocca. “Aspetta, lui è… John, non ci capisco più niente. Quest’uomo” e così dicendo puntò gli occhi su Sherlock con aria accusatoria, “dovrebbe essere morto anni fa. Come può essere nel mio salotto?”
 
Ugh, troppo complicato da raccontare” disse Sherlock, e lei trasalì nell’udirlo parlare con quella voce profonda che mai avrebbe creduto di sentire ancora. “Ti basti sapere che sono sopravvissuto, ho modificato i ricordi di quelli che lo sapevano per evitare che si scoprisse in giro, e me ne sono andato a… fare quello che dovevo fare.”
 
La ragazza lo fissò per un paio di secondi. E poi si gettò tra le sue braccia con trasporto, stritolando anche lui con commozione. “Lo sapevo che eri troppo intelligente per morire!” esclamò.
 
“John, ripetimi quello che hai detto su Simon Church” disse poi, dopo essersi staccata dall’abbraccio. “Come poteva essere lui se… oh, giusto, è un metamorfomagus, può assumere qualsiasi aspetto! Ok, ho capito: Simon Church era proprio lui. E stava solo fingendo di essere un idiota?”
 
“No, lui è sempre un idiota” replicò John in tono secco; Sherlock gli rivolse un mezzo sorriso. “Stava solo fingendo di essere un Mangiamorte.”
 
“Certo che… cavoli, John, sapevo che eri un bravo attore, ma sembravi preso davvero malissimo dopo la sua morte… cioè, falsa morte, a questo punto.”
 
John tossicchiò un’altra volta. “Non sapevo che era falsa.”
 
“Oh.” Clarisse spostò lo sguardo dall’uno all’altro, improvvisamente molto imbarazzata. “Be’, comunque… qui c’è un sacco di spazio, quindi potete restare quanto vi pare. Ci lasciano in pace molto più di altri perché io sono famosa anche fuori dall’Inghilterra” la ragazza fece una pausa per sorridere con orgoglio “quindi finché non fate rumore e non vi mostrate troppo in giro, va bene. Io ho gli allenamenti dalle undici alle sette, mentre Abs… voglio dire, mio marito Abernathy, lui lavora al Ministero dalle otto di mattina alle otto di sera; ha tre ore di pausa pranzo e a volte torna a casa, ma di solito di ferma a mangiare fuori con i colleghi perché tanto io non ci sono.”
 
“Grazie davvero” disse John, a disagio. “Non è che sia proprio sicuro ospitare due latitanti…”
 
“No, state tranquilli. Non vi accadrà nulla, finché resterete qui. Davvero, John, so che sei preoccupato, ma non ce n’è bisogno, sono contenta di aiutare. E ora venite, vi mostro le vostre stanze.”
 
Quella sera, mentre John chiacchierava in salotto con il vecchio compagno di squadra, Clarisse chiese a Sherlock di aiutarla a sparecchiare la tavola come scusa per parlargli in privato. Chiuse la porta della cucina in modo che gli altri due non sentissero e si sedette sul bancone, invitandolo a prendere posto su una sedia.
 
Quindi, Sherlock. Non sei morto” disse come prima cosa, per chiarire una volta per tutte la questione.
 
“Direi di no.” Sherlock accavallò le gambe e si appoggiò allo schienale della sedia, completamente a proprio agio.
 
“E da quanto sei tornato? Perché te ne sei andato e hai lasciato John in quello stato?” chiese lei, contrita. “John ha sempre saputo che Simon eri tu? È coinvolto anche lui nel tuo gioco con i Mangiamorte, suppongo?” Sparava queste domande a raffica, una dopo l’altra, senza lasciargli nemmeno il tempo di aprire bocca; ricordava troppo bene lo stato pietoso in cui si era ritrovato John dopo la morte del migliore amico, e non era disposta a lasciarlo andare senza prima avergli fatto un terzo grado ed essersi assicurata che non ci avrebbe provato mai più.
 
“È coinvolto da ora.” Sherlock decise di rispondere solo alla domanda meno complicata. “Prima non lo era, sarebbe stato troppo pericoloso visto il giro in cui si trovava sua moglie…”
 
“A questo proposito… dove avete lasciato Mary?”
 
“È morta, a quanto pare.”
 
Clarisse proruppe in uno strillo soffocato. “Cosa? Quando? Perché John non mi ha detto nulla? Siete stati in casa mia per tutto il giorno e non mi avete detto che è morta? Quando pensavate di farlo, esattamente?”
 
“L’abbiamo saputo una settimana fa. E due giorni prima avevamo scoperto che era diventata una Mangiamorte, suppongo che sia per questo che John non te ne ha parlato” disse lui con una scrollata di spalle. “Hai sentito della festa organizzata dai Fawley? È successo lì.”
 
Lei ci rifletté per qualche secondo. “Non mi è mai piaciuta, lo ammetto” sospirò. “Ma credevo che almeno lei cercasse di restare lontana da quelle cose. Per Godric, mi dispiace, davvero. Soprattutto per John. Però devo dire… che non sembra neanche lontanamente distrutto quanto lo era quando eri morto tu.” Fu chiaro solo allora che il suo obiettivo era sempre stato quel particolare argomento.
Sherlock agitò un po’ le braccia a caso, non sapendo bene come replicare. “È cresciuto, nel frattempo.”
 
“Scusa se te lo chiedo…” proseguì lei. “Ma va tutto bene tra voi due? Sembrate più a disagio del solito, e tutti e due continuate a fissarvi, ma non incrociate mai gli sguardi, e trasalite ogni volta che vi sfiorate. Be’”, la ragazza aggrottò la fronte, “non che prima non lo faceste, ma… non lo so, mi sembrate diversi. Allora, ho davvero un sesto senso femminile o mi sono immaginata tutto?”
 
Sherlock la guardò con attenzione prima di rispondere. Sapeva di potersi fidare di lei, ovviamente: era carismatica, estroversa e un po’ troppo schietta, ma non lo avrebbe tradito per tutto l’oro del mondo: era una Weasley e una Grifondoro, e già questi due elementi sarebbero bastati per fare affidamento su di lei. Era piuttosto intelligente, rispetto alla media, ed era tremendamente innamorata del marito marito; non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e non tollerava che le si nascondesse qualcosa, e oltretutto era un’impicciona di prim’ordine: se lui non le avesse rivelato la verità lei l’avrebbe comunque scoperta, questo era chiaro come il sole. E in realtà, non gli importava più di tanto di nascondere la situazione: non capiva con precisione perché John fosse innamorato di lui, ma nulla lo aveva mai reso più felice e soddisfatto… e non vedeva l’ora di godersi la reazione di lei.
 
“Te lo dico perché tanto lo verresti a sapere comunque” premise. “Dopo aver scoperto che Mary era dalla parte dei cattivi e prima di sapere che era morta, John… lui… l’ha tradita.”
 
“Tradita? John?” Clarisse scoppiò a ridere. “Scherzi, vero? John è la persona più leale che…”
 
“L’ha tradita con me.” Sherlock sostenne lo sguardo di lei senza vacillare.
 
Clarisse rimase in silenzio, pensierosa. “Questo spiega molte cose.” disse infine. “E, se posso permettermi di dirlo, avete una pessima tempistica, ma era ora. Quindi adesso state insieme o cosa?”
 
Sherlock sembrava stupito. “Non lo so.”
 
“Come sarebbe a dire?” chiese lei, confusa.
 
“Be’, ha appena scoperto che la moglie è morta, non mi sembra il caso di discutere della nostra relazione” spiegò lui in tono pratico.
 
Clarisse scosse la testa con incredulità. “Fammi capire: voi avete… fatto… le vostre cose… e poi è venuta fuori questa storia di Mary, e… e…?”
 
“Be’, sì.”
 
“Avete sempre avuto dei problemi di comunicazione, voi due” sbuffò lei. “Be’, fate quello che vi pare, non sarò di certo io a giudicarvi. Solo una cosa: lascialo di nuovo e mi premurerò personalmente di calpestare il tuo cadavere. John non merita di essere trattato come un giocattolo, e qualsiasi fossero le tue ragioni la prima volta che l’hai abbandonato, non verranno accettate una seconda.”
 
“Una minaccia da manuale” disse lui, per nulla impressionato. “Non serve che ti preoccupi, non ho alcuna intenzione di allontanarmi da lui.”
 
 
 
Restarono nell’appartamento di Clarisse per più di un mese. Non potendo uscire alla luce del sole, passavano la maggior parte della giornata a dormire; di notte, invece, si univano all’Ordine della Fenice per la solita routine. Sherlock si era rimesso in contatto con Molly Hooper e Greg Lestrade e i nuovi leader dell’Ordine Remus Lupin, Kingsley Shakebolt e il suo vecchio amico Alastor Moody.
 
Dopo qualche settimana, Abernathy decise di unirsi a loro nella lotta contro i Mangiamorte, e divenne così uno dei tanti maghi londinesi con una doppia vita: di giorno impiegato Ministeriale, di notte paladino della giustizia, come lo definiva poeticamente la moglie con la sua solita ironia.
 
Sherlock rimase molto scosso nell’apprendere che Malocchio Moody era morto durante l’operazione “dei sette Potter”. Aveva collaborato più di una volta con il vecchio Auror, e non aveva mai fatto segreto della propria simpatia per lui. Tuttavia, non espresse una singola volta il proprio dispiacere a parole.
 
Pochi giorni dopo i Mangiamorte presero il controllo del Ministero della Magia. Era un duro colpo per l’Ordine della Fenice, che aveva combattuto fino all’ultimo per evitare che Voldemort si impossessasse degli organismi governativi. Proteggere i Babbani e salvare i Mezzosangue sarebbe stato più difficile ora che non potevano contare sull’appoggio di nessuno, e il rischio era aumentato di molto. Inoltre, dopo Silente Moody era stato il membro più autorevole ed esperto del gruppo, e ora erano rimasti anche senza la sua guida. Ma in ogni caso –come ricordarono Lupin e Shakebolt- l’Ordine doveva andare avanti come sempre.
 
Una sera Abernathy non tornò a casa.
 
Avrebbe dovuto rincasare per le otto, ma alle nove meno un quarto, quando squillò il campanello, non si era ancora fatto vedere; Clarisse vagava per la cucina come un’anima in pena, mentre Sherlock e John sedevano preoccupati in salotto. Sentendo il campanello Clarisse corse alla porta, aggrappandosi al citofono e premendo ripetutamente sul pulsante d’apertura.
 
Sherlock e John sospirarono di sollievo sentendo i passi sulle scale, e scattarono in piedi con orrore quando Clarisse si lasciò sfuggire un gemito. La raggiunsero in ingresso, trovandola aggrappata a un uomo dai capelli rossi e dalla calvizie incipiente.
 
Lo sconosciuto si staccò dall’abbraccio e scrutò John e Sherlock da dietro gli occhiali cerchiati di corno, assumendo la tipica espressione concentrata di chi cerca di ricordare qualcosa che gli è sfuggito.
 
“Sherlock Holmes” si presentò Sherlock, tendendogli la mano. “Forse le è venuto in mente che dovrei essere morto. Non sono morto.”
 
“Oh. Bene” borbottò lui, spiazzato. “Arthur Weasley, piacere.”
 
“E questo è il mio…” Sherlock si bloccò e guardò verso John, che aprì la bocca e dopo un attimo di esitazione completò la frase:
 
“…amico. John Watson.”
 
Arthur Weasley annuì, gli strinse rapidamente la mano e si concentrò di nuovo sulla nipote; “Sono venuto il prima possibile” spiegò. “Mi dispiace, Clarisse, hanno preso tuo marito questa mattina.”
 
Clarisse si coprì la bocca con un pugno, sconvolta.
 
“Non so cosa ne abbiano fatto” le disse lo zio, addolorato. “Credo che vogliano interrogarlo, non possono averlo ucciso, non tuo marito.”
 
“È probabile che l’abbiano portato ad Azkaban, allora” si intromise Sherlock.
 
“Sì, in effetti è probabile: ora che i Mangiamorte controllano il Ministero, i Dissennatori sono tornati a guardia della prigione.”
 
Clarisse si stava tormentando le mani, terrorizzata. “Ma lo lasceranno lì a marcire finché non impazzirà, e poi gli succhieranno via l’anima, lo uccideranno, me lo porteranno via per sempre…”
 
“Non se noi lo liberiamo” disse Sherlock, scambiando una rapida occhiata con John.
 
“Voi cosa?”
 
“Io e John andiamo ad Azkaban e lo liberiamo.”
 
“Non sono in vena di prese in giro” disse lei bruscamente.
 
“Non ti stiamo prendendo in giro” replicò Sherlock con calma.
 
“Ha ragione” lo supportò John. “Abernathy è nostro amico, e se c’è qualcosa che possiamo fare per salvarlo lo faremo.”
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
“Sorry that took so long!” –Cit. Mary Elizabeth Morstan…
Ero andata in isolamento da tutto per guardare Broadchurch, ma ora sono di nuovo qui e la prossima volta aggiornerò con puntualità. Tra parentesi, se cercate qualcosa da guardare GUARDATE BROADCHURCH perché è fantastico. E vi assicuro che non è solo il mio debole per David Tennant a parlare… comunque, qui siamo sulla sezione di Sherlock e devo parlare di Sherlock. Sì, dunque… Azkaban! Sono molto esaltata per il prossimo capitolo perché Azkaban non viene mai propriamente descritta, quindi mi sono sbizzarrita. Non sono sicura che i Dissennatori fossero effettivamente tornati a guardia della prigione, ma mi sono permessa un po’ di licenza poetica… perdonatemi. Be’, è tutto. Ci risentiamo sabato!

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. ***


 
Naturalmente, Sherlock aveva subito ideato un piano, che prevedeva l’utilizzo della sua preziosa Giratempo.
 
Sherlock e John avrebbero voluto partire quella sera stessa, ma Clarisse li aveva convinti con preghiere e isteriche minacce a non agire precipitosamente, perché non avrebbe tollerato la perdita di due amici oltre a quella del marito.
 
All’inizio, com’era logico, Clarisse aveva chiesto di prendere parte alla missione; Sherlock e John avevano immediatamente rifiutato: “Non se ne parla” aveva detto il primo. “A John serve la tua bacchetta. Non ti sei accorta che non ce l’ha?”
 
“Allora andrò io al posto suo!” aveva protestato lei. “Voglio essere d’aiuto, è mio marito!”
 
“Sarai d’aiuto se resterai al sicuro” aveva ribattuto John con fermezza.
 
“Io e John lavoriamo meglio in coppia” lo aveva sostenuto Sherlock.
 
“Oh, ne sono sicura” aveva replicato lei, che neanche in quella situazione aveva perduto il pungente senso dell’umorismo. Alla fine aveva ceduto, rifiutandosi però di preparare bevande calde e sfornare biscotti nell’attesa.
 
Circa un’ora prima della partenza prefissata, John bussò alla stanza di Sherlock.
 
“Aperto.”
 
Entrò con nervosismo, come quando era andato da lui a dirgli di volerlo abbandonare.
 
Sherlock si stava abbottonando la camicia, e lui aveva una gran voglia di sfilargliela.
 
Non si era ancora del tutto abituato all’idea che erano una coppia e potevano comportarsi con naturalezza, senza nascondersi o reprimere i propri sentimenti. Nelle ultime settimane non avevano mai trovato un momento di privacy, e questo decisamente non aveva aiutato a stabilizzare la situazione. Lui, però, ci aveva riflettuto. Ci aveva riflettuto parecchio. In tutti quegli anni aveva accumulato moltissime cose da dire a Sherlock, e non sapeva nemmeno da dove iniziare. Non era nemmeno sicuro di voler iniziare: lui, John Hamish Watson, Grifondoro, era un vero codardo quando si trattava di esplicitare i propri pensieri.
 
“Stavo pensando…” esordì, senza nemmeno sapere come continuare.
 
“Vuoi andartene da questa casa non appena torniamo da Azkaban perché temi per la vita dei tuoi amici finché siamo qui.”
 
Aveva imparato anni prima a non lasciarsi sorprendere troppo da lui, ma la sua arguzia continuava ad affascinarlo come la prima volta. “Be’, sì. Anche.”
 
“Concordo. Vorrei provare a tornare a Baker Street. La signora Hudson fa parte dell’Ordine e non ci negherà l’ospitalità, se prendiamo le dovute precauzioni. Possiamo usare un Incanto Fidelius e nominarla Custode Segreto, o qualcosa del genere.”
 
“Sì, sembra una buona idea… in ogni caso non ero venuto a dirti questo.”
 
“Ah no?”
 
“Volevo solo… ringraziarti… per esserti offerto di salvare Abernathy –intendo, è piuttosto… eroico, da parte tua, considerato che è più amico mio che tuo.”
Sherlock sembrò infastidito. Scosse il capo come per scacciare una mosca molesta e sbuffò con insofferenza; “Ti prego, John, non rendermi il tuo eroe. Gli eroi non esistono, e se esistessero non sarei uno di loro.”
 
John roteò gli occhi. “E perché lo fai, allora?” chiese, seccato da quella risposta sgarbata.
 
“Mi annoio” rispose lui, voltandosi e dandogli la schiena.
 
“Oh, bene. Bene, sono contento che tu abbia trovato un passatempo, allora” concluse John. Dopo un attimo di esitazione, uscì dalla stanza. Sapeva che quella non era la verità: a Sherlock importava davvero della gente, ed era questo a renderlo diverso da un sociopatico. Era però convinto che la chiave del successo fosse agire con lucidità e freddezza, e sperare di salvare qualcuno contava pur sempre come emozione. Ergo, meglio fingere di non provare nulla. Meglio fingere di annoiarsi.
 
Quando si rividero, nel salotto di Clarisse, Sherlock aveva un’aria particolarmente abbacchiata e continuava a lanciare occhiatine a John, che dal canto suo si rifiutava di guardarlo.
 
“Oh, no” sbottò Clarisse, spostando lo sguardo dall’uno all’altro. “Non avrete mica litigato.”
 
“No” si affrettò a rispondere John, fulminando Sherlock con un’occhiataccia. “È solo nervosismo.”
 
“Bene, perché sappiate, signori miei, che non ho intenzione di vedervi fallire solo perché non comunicate a sufficienza.”
 
“Non accadrà” replicò John con solennità.
 
“Bene. Buona fortuna, allora” disse Clarisse, sforzandosi di sorridere. “Conto su di voi, quindi non combinate casini.”
 
“Andrà bene” disse Sherlock con il suo solito tono borioso e annoiato. “Saremo di ritorno tra meno di due ore, vedrai.”
 
“Ha ragione” convenne John. “Il suo piano è infallibile.” Per la prima volta osò guardare verso l’amico, che ricambiò lo sguardo con espressione da cucciolo ferito. “Andiamo?”
 
“Andiamo.”
 
Dato che Azkaban si trovava nel bel mezzo del mare del Nord, Sherlock e John avevano deciso di dividere il viaggio in tre tappe per non affaticarsi troppo con la Smaterializzazione. Mentre ne discutevano, John aveva scoperto che l’altro si era recato più di una volta nella prigione dei maghi durante i due anni di assenza in cui aveva indagato sui vecchi Mangiamorte; per questo motivo non solo Sherlock sapeva come arrivarvi, ma anche come entrare.
 
Prima di compiere l’ultimo tratto del tragitto, quello che li avrebbe definitivamente condotti sull’isola, Sherlock costrinse John a fermarsi. “Tieni pronta la bacchetta” ordinò. “Se il mio progetto va a buon fine non dovrebbe essercene bisogno, ma non si sa mai.”
 
“Sherlock…” John sospirò. “Quello che abbiamo detto a Clarisse era vero, il tuo piano è infallibile.” Sherlock non aveva ancora smesso di fingere di avere sempre la situazione sotto controllo, ma da quando stavano insieme gli sembrava di riuscire a leggere meglio cosa provava, e in quel momento era senza dubbio preoccupato a morte. John gli sfiorò uno zigomo con la punta delle dita, e Sherlock si chinò a baciarlo proprio come aveva fatto prima di leggere la lettera di Mary.
 
“Lo so. L’ho ideato io.”
 
Sherlock gli porse la mano e John intrecciò le dita fra le sue. Si Smaterializzarono per l’ultima volta, e pochi secondi dopo riapparvero su un sentiero roccioso; John scivolò su uno spuntone di roccia, perse l’equilibrio e rovinò a terra, strappandosi i pantaloni e sbucciandosi un ginocchio.
 
“John!” esclamò Sherlock, aiutandolo subito a rialzarsi.
 
“Sto bene.”
 
Il vento gelido della notte si infiltrava nelle trame dei loro abiti, ghiacciandoli fino al midollo delle ossa e facendoli rabbrividire. Ma quel gelo siderale, che faceva venire voglia di rannicchiarsi a terra e non rialzarsi più, non era provocato solo dall’assenza di fonti di calore: era effetto della presenza dei Dissennatori, di cui quel luogo era letteralmente infestato.
 
Si trovavano a pochi passi da una scogliera che cadeva a strapiombo sul mare ed era sferzata da onde impetuose che avrebbero scoraggiato qualunque tentativo di fuga; di fronte a loro si ergeva Azkaban: un’imponente fortezza triangolare, delimitata da liscissime pareti di pietra grigia. Non c’erano finestre sull’esterno, e non c’era nemmeno una porta: il sentiero su cui si trovavano terminava direttamente contro il muro.
 
“Da… da che parte si entra?”
 
“Di qua. Seguimi.”
 
Sherlock gli prese di nuovo la mano e corse verso la parete senza lasciargli tempo di reagire. Prima dell’impatto John levò un braccio per proteggersi e strizzò d’istinto gli occhi, ma l’impatto non avvenne. Il trucco in realtà era banale, lo stesso usato per il binario 9¾: bastava lanciarsi contro il muro per attraversarlo. Quando John riaprì gli occhi si accorse di essere all’interno di una galleria scavata nella roccia, vagamente illuminata da fiaccole che ardevano fioche. All’inizio del tunnel il pavimento era liscio e sdrucciolevole, ma dopo pochi metri la pietra levigata lasciava spazio a ghiaia e rocce come all’esterno; goccioline di umidità colavano lungo le pareti, miste a una sostanza biancastra e ripugnante che si raccoglieva in piccole pozze sui lati.
 
“Con un po’ di fortuna avranno messo il tuo amico in una cella del livello esterno. Non dovremmo avere difficoltà a trovarlo, se è dove credo io. Andiamo, per ora la strada è una sola.”
 
Benché non ci fossero Dissennatori negli immediati paraggi, era davvero difficile non lasciarsi invadere dalla disperazione. John si concentrò sulla mano che stringeva quella di Sherlock, rammentando a se stesso di non essere solo e anzi, di essere in compagnia dell’unica persona di cui si fidasse ciecamente. Ma improvvisamente non era più sicuro della validità del loro piano… sperimentare di persona il potere dei Dissennatori era completamente diverso dal parlarne a livello teorico.
 
Quando riemersero dal tunnel, John rimase completamente spaesato: da fuori la prigione gli era sembrata alta, ma non particolarmente estesa; da dentro, invece, dava l’impressione di essere gigantesca. Si trovavano in fondo a un’immensa conca simile a un imbuto di roccia, da partivano diversi sentieri che si snodavano su quattro versanti; su ogni tornante si affacciavano tre o quattro celle e si apriva una galleria da cui proveniva una fioca luce rossastra e pulsante.
 
“Più grande all’interno” spiegò Sherlock anticipando la sua domanda. “Queste celle, come vedi, sono all’aperto. Qui di solito vengono tenuti in criminali comuni, e probabilmente anche il tuo amico, mentre ce ne sono altre all’interno della roccia in cui è davvero sconsigliabile farsi rinchiudere.”
 
“Da che parte andiamo adesso?”
 
“Uno a caso finché non lo troviamo, direi.”
 
Iniziarono ad inerpicarsi su uno dei tanti sentieri scoscesi, che sembrava non finire mai.
 
Abernathy!” bisbigliava John più forte che poteva.
 
Abernathy!”
 
Inizialmente non ottennero risposta. Continuavano a salire e cambiare sentiero, ma incontravano solo celle vuote.
 
Ad un tratto udirono un flebile sussurro: “Sono qui!”
 
John iniziò a correre, rischiando di inciampare ancora una volta sui sassi.
 
“Abernathy!” esclamò, avventandosi contro le sbarre di una delle carceri.
 
“Watson, santo cielo, che ci fai qui?”
 
“Siamo venuti a tirarti fuori.”
 
Dopo solo due giorni ad Azkaban, Abernathy era ancora in condizioni accettabili. La sua barba solitamente molto curata era arruffata, e la sua zazzera bionda era scarmigliata; attorno agli occhi aveva rughe che John era sicuro di non aver mai notato, ma nel complesso sembrava stare bene: il suo sguardo era lucido, e non era ferito.
 
Siamo? Oh, c’è anche Holmes!”
 
John si voltò, e si accorse che Sherlock era arrivato alle sue spalle.
 
“Ma… dove sono i Dissennatori?”
 
“Li sto distraendo” rispose Sherlock prima di allontanarsi di qualche metro per controllare che non ci fosse nessuno in giro.
 
“Ma se è qui!” protestò Abernathy, confuso, rivolgendosi a John.
 
Lui sorrise. “Lunga storia. E ora… Alohomora!” La grata non si aprì. “Alohomora!” esclamò con più veemenza, ottenendo solo un lieve scricchiolio metallico. “Sherlock, Alohomora dovrebbe aprire tutte le porte, no?”
 
Sherlock lo raggiunse; “Questa non è una porta, è un cancello” lo corresse.
 
“È la stessa cosa.”
 
“Ragazzi?” li richiamò il prigioniero. “Potreste litigare dopo avermi tirato fuori di qui?”
 
“È colpa di questo posto” si difese Sherlock. “È malsano anche senza Dissennatori in giro.” Puntò la bacchetta verso le sbarre e mormorò a fior di labbra qualche incantesimo, senza alcun risultato; corrugando la fronte, provò di nuovo con “Alohomora” e stavolta quelle si aprirono. “Strano” commentò, mentre Abernathy si gettava fuori.
 
“Perché con me non ha funzionato?” chiese John.
 
“Non lo so, ma non è il momento di pensarci. Dobbiamo portare il tuo amico al sicuro.”
 
Abernathy saltellava e si stiracchiava vistosamente, entusiasta di potersi di nuovo muovere all’aperto. Sarebbe scivolato giù dal crepaccio se Sherlock non l’avesse prontamente afferrato per un braccio. “Non stiamo mettendo a rischio la nostra vita perché tu ti butti giù da uno scoglio. Ne ho abbastanza di gente morta spiaccicata” ringhiò.
 
Ripercorsero al contrario la strada fino all’uscita, e non appena furono fuori Abernathy ululò di gioia.
 
Non è il momento di esultare” lo rimproverò Sherlock a denti stretti, visibilmente irritato. “John… John?” Aveva notato solo ora che l’amico era pensieroso, e non aveva proferito verso dall’episodio delle sbarre. “John? È il momento di separarci.” Si slacciò il mantello ed estrasse la Giratempo dal colletto della camicia.
 
“Aspetta!” lo bloccò lui. “Credo sia meglio che venga con te.”
 
“No, tu devi assicurarti che lui torni a casa sano e salvo. Io me la caverò. Tornerò indietro alla stessa ora finché ci sarà una versione di me in ogni angolo di questo posto, se sarà necessario, e lo farò da solo. Tu porta il tuo amico da tua moglie e aspettami lì. Vedrai, ti raggiungerò tra meno di dieci minuti.”
 
Prima che John potesse replicare, era scomparso.
 
“Cos’ha intenzione di fare?” domandò Abernathy, avvicinandosi a lui.
 
“Adesso è tornato indietro di un’ora, cioè poco prima che io e lui arrivassimo qui. Attirerà su di sé tutti i Dissennatori che troverà e li condurrà in un’altra zona della prigione; dopo un’ora ripeterà l’operazione, e così via, in modo da tenerli occupati tutti mentre ti recuperiamo. È probabile che in realtà durante l’ultima ora ci fossero quattro o cinque versioni di Sherlock in circolazione.”
 
“Quel tizio è spaventoso, lasciatelo dire.”
 
“Lo so” replicò John con un sorrisino, e gli porse il braccio per la Smaterializzazione.
 
L’incontro tra Clarisse e il marito fu quasi commovente. Quando la donna lo vide comparire lanciò uno strillo e gli si avventò addosso per prenderlo a schiaffi; per tutta risposta, lui scoppiò a ridere e la sollevò da terra, baciandola.
 
John si fece da parte, sentendosi fuori posto in quel quadretto così intimo, ma l’amica abbracciò anche lui con commozione. “Grazie. Grazie, grazie. Dov’è Sherlock? Devo abbracciare anche lui.”
 
“Sarà qui a minuti.”
 
Ma i minuti passavano e Sherlock non compariva. La gioia e il sollievo fecero rapidamente spazio alla preoccupazione; Clarisse e Abernathy sedevano sul divano stretti l’uno all’altra, mentre John si aggirava per il soggiorno come un’anima in pena.
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Hi everyone! Non avete idea dello spavento che mi sono presa ieri quando non ho trovato il computer dove l’avevo lasciato, dato che temevo di averlo lasciato acceso sul prossimo capitolo. Fortunatamente non è successo nulla… comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Secondo JKR Azkaban è “più grande all’interno”, quindi ho voluto descriverla come un luogo labirintico e confusionario, perché secondo me le si addice molto. Spero che il piano di Sherlock sia chiaro. Lo è, vero? Altrimenti ditemelo, e cercherò di spiegarvelo in modo un po’ più dettagliato…
Be’, ci risentiamo la settimana prossima!

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. ***


 
“Basta, io torno indietro” sbottò John.
 
Abernathy e Clarisse ebbero il buon senso di non trattenerlo.
 
“Fai attenzione”, lo pregò lei. John prese nuovamente in prestito la sua bacchetta, infilò il mantello e dopo aver lanciato un’ultima occhiata ai due amici abbracciati sul divano si Materializzò sull’isola di Azkaban.
 
La temperatura sembrava scesa di diversi gradi rispetto a poco prima, ma forse era l’assenza di Sherlock a fargli ghiacciare le membra. Non sapeva nemmeno dove andare senza di lui, si sarebbe sicuramente perso e sarebbe morto lì, oppure i Dissennatori l’avrebbero trovato e gli avrebbero risucchiato l’anima. Gli avevano portato via Sherlock, e gli avrebbero strappato anche tutti i ricordi di lui…
 
Notò due Dissennatori in cima alla fortezza, e si affrettò a prendere la rincorsa ed entrare. La galleria era claustrofobica, ma lui non si concesse il tempo di pensarci: doveva trovare Sherlock il prima possibile, quella era l’unica cosa che contava.
 
Quando giunse alla conca esterna aveva il fiatone. “Sherlock!” urlò, incurante di ogni precauzione. “Sherlock!”
 
Riprese a correre senza nemmeno sapere dove andava, percorrendo gallerie che salivano e scendevano, scale a chiocciola e corridoi ciechi che lo costringevano a tornare sui suoi passi. Si nascondeva ogni volta che scorgeva un guardiano pattugliare la prigione dall’alto.
 
La disperazione si stava rapidamente impossessando di lui. Non avrebbe sopportato perdere Sherlock di nuovo. La prima volta era stata un’agonia, e non avrebbe potuto passarci attraverso una seconda volta, non avrebbe retto un secondo lutto… amava quell’uomo, lo amava come non avrebbe mai creduto di poter amare, non sarebbe sopravvissuto senza di lui e non aveva alcuna intenzione di farlo.
 
Sherlock!”
 
Possibile che continuasse a rendersi conto solo quando era troppo tardi di quale immenso privilegio gli era stato concesso? Lui, John Hamish Watson, uomo banale e ordinario, aveva avuto l’onore di poter amare una persona straordinaria come Sherlock e di essere amato da lui, per qualche ragione che ancora non riusciva a comprendere totalmente. E l’amore non aveva mai intaccato la loro amicizia, l’aveva solo resa più completa: quante persone hanno la stessa opportunità nella vita? Doveva trovarlo. Salvarlo. Dirgli che lo amava. Lui preferiva sempre i fatti alle parole, preferiva dimostrargli il suo amore piuttosto che esplicitarglielo, ma ora sentiva anche il bisogno di spiegargli con chiarezza cosa provava, per eliminare qualsiasi forma di dubbio. Era stanco delle incomprensioni: da ragazzo era stato uno stupido, aveva preteso da lui più di quanto lui potesse dargli e l’aveva perso; e quando era tornato non avevano fatto altro che danzarsi attorno senza mai sfiorarsi, evitando un confronto verbale che avrebbe sicuramente messo in chiaro ogni cosa. Persino la sera in cui si erano baciati non c’era stata una dichiarazione, tralasciando quella che Sherlock il giorno prima mentre delirava.
 
Individuò un grosso assembramento di Dissennatori attorno ad un unico punto, e un flebile barlume di speranza si accese nelle sue viscere. Si trovavano all’aperto, ma non nella cava principale, bensì su un versante secondario su cui si inerpicava un solo sentiero.
 
Sherlock!” ruggì con rinnovato vigore, lanciandosi nella scalata della ripa. Per qualche ragione, i Dissennatori si stavano rapidamente disperdendo sollevandosi in aria, allontanandosi dal punto in cui era… era nulla. Quando John giunse sul pianale, si accorse di essere solo. Sherlock non era lì. Non era lì.
 
In compenso, i Dissennatori si erano accorti della sua presenza e due o tre di loro stavano lentamente planando verso di lui.
 
Si sforzò di non lasciarsi impadronire di nuovo dallo sconforto, o non ne sarebbe uscito vivo.
Sherlock che gli diceva di non poter stare lontano da lui, Sherlock che lo baciava… “Expecto patronum!” Aveva scelto due dei suoi ricordi più felici, ma dalla bacchetta uscì solo qualche sbuffo di fumo azzurrino.
 
John?” gracchiò una voce che inizialmente John non riuscì a localizzare.
 
“Sherlock?” Era lui, era Sherlock, ne era sicuro, avrebbe riconosciuto la sua voce ovunque, ma dove diavolo era? “Sherlock!”
 
Sentì un sibilo che poteva somigliare a un “Sono qui.”
 
Solo allora capì: i Dissennatori erano accerchiati attorno ad una delle celle… e all’interno di quella cella c’era Sherlock.
 
Corse verso di lui e si ritrovò con le spalle alle sbarre, circondato da Dissennatori che non riusciva a scacciare. Attorno a lui, ora, c’era solo oscurità. Riusciva a percepire il metallo freddo sulla sua schiena, ma non vedeva più nulla: né le stelle, né la luna, né la pallida luce delle fiaccole nella galleria da cui era giunto. Non riusciva più a respirare, gli sembrava che una morse gli stesse schiacciando lo sterno. Senza pensarci due volte, aprì il cancello e si gettò dentro, rinchiudendosi in prigione con Sherlock.
 
Il suo migliore amico era a terra, con la schiena appoggiata al muro sudicio e la testa rivolta perso l’alto; respirava a fatica, come se lottasse per far entrare l’aria.
Imprecando sonoramente John si accasciò accanto a lui, gli prese le spalle fra le mani e lo strinse a sé, felice di trovarlo vivo, anche se in quelle condizioni. “Tu, idiota… che cosa ti è successo?”
 
Lo sguardo di Sherlock era vacuo, ma non come quando stava delirando: stavolta era perfettamente cosciente, sembrava solo… vuoto. “Niente” rispose. “Ho tenuto a bada i Dissennatori una, due, tre volte, ma ero solo, e loro sono tanti. All’inizio ce la facevo, ma quelli continuavano a gettarsi su di me, e per uno che sconfiggevo ce n’erano due ad attaccarmi…” persino il suo tono di voce era privo di colore. “Continuavano ad arrivare e si avvicinavano sempre di più, e io ero sempre più debole, e alla fine non sono più riuscito ad evocare un patronus e ho dovuto chiudermi qui dentro perché non mi risucchiassero l’anima.”
 
Merlino.” John posò le mani a terra, incurante della sporcizia e della muffa, e scivolò a sedere accanto a lui. Ora che i Dissennatori erano lontani riusciva di nuovo a respirare, e poco importava che l’aria fosse gelida e malsana. Il muro e il pavimento erano freddi, ma da Sherlock proveniva ancora quel calore umano che nessuno gli avrebbe mai strappato. John si appoggiò alla sua spalla e socchiuse gli occhi.
 
“Perché non ci hai ancora tirati fuori?” mormorò Sherlock.
 
“Non lo deduci?”
 
“Non ci riesco.”
 
“La bacchetta non è mia, ma di Clarisse. Lei me l’ha prestata, ma questo non la rende mia, e quindi non risponde come dovrebbe. Non funziona se provo a formulare incantesimi potenti, come l’Incanto Patronus… l’ho capito dopo che non sono riuscito ad aprire quel cancello. Sei l’unico che può tirarci fuori di qui.”
 
“Non ce la faccio.” La voce di Sherlock si ruppe, e John tolse la testa dalla sua spalla per guardarlo: i suoi occhi erano lucidi di lacrime. “Non riesco a pensare a un singolo momento felice in tutta la mia vita. Me li hanno portati via tutti.”
 
“Merlino” imprecò lui, battendo una mano per terra. “Ti rendi conto che se tu non ce la fai restiamo bloccati qui, vero?”
 
Sherlock si prese la testa fra le mani, scosso da tremiti.
 
“Non riesci a rievocare proprio nessun ricordo felice?”
 
“Ci sto provando!” sbraitò Sherlock. “Continuo a sentire voci, e grida nella mia testa, e… non ci riesco, John! Non ne ho più nessuno!”
 
Lui sospirò, affranto. Gli mise un braccio attorno alle spalle nel tentativo di confortarlo. “Allora sarà il caso di dartene uno nuovo” mormorò.
 
“John, mi dispiace. Mi dispiace. Se non fosse per me, tu ora saresti felice. Non avresti dovuto affrontare tutto questo. Vorrei che ci fosse un modo per tornare indietro e cancellare ogni cosa” farfugliò Sherlock.
 
John prese un profondo respiro. “No, non dire così. Non cancellerei mai questo, mai. Sì, magari non avrei dovuto passare ciò che sto passando ora, ma non avrei nemmeno te, e preferirei provare tutto il dolore e la sofferenza del mondo che perdere te.”
Sherlock sollevò lo sguardo verso di lui, attonito. “Ma... perché?”
 
“...perché ti amo” disse lui in un sussurro, come sempre quando esprimeva i suoi sentimenti.
 
Perché?” ripeté.
 
Lui sorrise ed emise un grugnito: a volte Sherlock poteva essere tremendamente stupido. “È così e basta, non puoi pretendere una spiegazione. Probabilmente perché sei la persona più meravigliosa che abbia mai conosciuto, e perché voglio passare con te ogni singolo istante della mia vita, e già che siamo in tema, vedi di tirarci fuori di qui, perché non ho intenzione di trascorrere i miei ultimi momenti in questo posto, anche se con te.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sherlock si schiarì la gola. “E così, tu… mi… ami?” chiese con titubanza. Accavallò le gambe e unì le dita sotto il mento, e quell’immagine così familiare riscaldò il cuore di John: eccolo lì, Sherlock Holmes seduto sulla sua poltrona nera al 221B di Baker Street, in attesa di una risposta da parte sua.
 
“Sì, certo” rispose semplicemente. “Certo che ti amo. Pensavo fosse… piuttosto ovvio.”
 
Sherlock scosse la testa con incredulità. “Non lo era.”
 
“Non…”
 
“John, penso che sia necessario dirtelo.” Afferrò i braccioli della poltrona come aveva fatto John la notte in cui lui delirava: con timore, ma anche speranza e aspettativa, in preparazione al grande salto.
 
“No, non devi…”
 
“John, io non so se ti amo.”
 
“Bene.” John si passò una mano sul volto, affranto.
 
“Non so se ti amo,” proseguì imperterrito Sherlock, “perché ho capito che l’amore non è solo una questione di chimica, non è fatto solo di pulsazioni accelerate e pupille dilatate e quant’altro, e non so che cosa dovrei provare per te o cosa le persone dovrebbero provare per le altre persone, non so se è normale che io voglia baciarti adesso o in qualsiasi altro momento, ma so che per me tu sei l’uomo più coraggioso e gentile e saggio che abbia mai conosciuto, l’unico con cui mi piaccia stare e a cui io pensi costantemente… e non so che cosa ti abbia spinto a scegliere me quando chiaramente sono una persona orribile, ma l’unica ragione per cui non mi comporto in modo ancora più orribile è che cerco-- che voglio essere migliore per te e cercherò sempre, in tutti i modi, di essere più meritevole di ciò che tu mi dai.”
 
John era senza parole. Lo fissò per quello che parve un tempo interminabile, finché Sherlock gli domandò se avesse detto qualcosa di sbagliato.
 
“No, non l’hai fatto” sospirò lui, sentendo sciogliersi il nodo che aveva in gola. Si sporse verso di lui, pronto a baciarlo, ma con sua sorpresa Sherlock si tirò indietro.
 
“Sherlock?”
 
Lui inclinò la testa, scrutandolo. I suoi occhi sembravano meno affilati del solito, come se si fosse appena tolto un peso dallo stomaco e per la prima volta nella sua vita fosse veramente rilassato. “John…” disse con voce sommessa. “John.”
 
“Cosa?”
 
“Vuoi ballare?”
 
Quella richiesta inaspettata lo fece sogghignare. “Ballare? Adesso?”
 
“Sì, adesso.”
 
“Bene, balliamo.”
 
Si alzarono in piedi, e Sherlock gli tese una mano e gli circondò la vita; intrecciarono le dita come avevano fatto prima di entrare ad Azkaban, e John gli posò l’altra mano sulla spalla.
 
Dopo qualche passo falso, riuscirono a trovare un ritmo. Anni di amicizia avevano insegnato loro a muoversi in perfetta sincronia come in quel momento. Anni di incomprensioni, malintesi e illusioni non li avevano preparati a quella tensione, al tamburellare sordo che sentivano nelle orecchie e al disperato desiderio che quella meravigliosa tortura avesse termine. Si avvicinarono sempre di più, finché John poté posare la testa sul petto di Sherlock e ascoltare il battito accelerato del suo cuore.
 
“Perché?” mormorò.
 
“Perché cosa?”
 
“Perché balliamo?”
 
“L’ultima volta che l’abbiamo fatto era per il tuo matrimonio. Stavolta voglio ballare con te solo perché mi piace.”
 
Lo fece chinare, sorreggendolo con una mano ben salda dietro la schiena per poi riportarlo in posizione eretta. “E qui è dove ti ho detto che avreste dovuto baciarvi”, disse a bassa voce.
 
“Seguirò sicuramente il consiglio. E stavolta non ho intenzione di farmi interrompere” sussurrò John.
 
“Stai tranquillo. A quanto ne so, avevi una moglie sola.”
 
Le labbra di John si incurvarono in un sorriso spontaneo, seguito poco dopo da una risatina, che si trasformò a breve in una fragorosa risata. Anche Sherlock iniziò a ridacchiare, divertito dal proprio umorismo nero.
 
“Era pessima”, riuscì a dire, controllandosi per un attimo prima di ricominciare a sghignazzare.
 
“Orribile” convenne John, senza fiato dal ridere.
 
Quando si baciarono, fu come la prima volta, tanti anni prima, nella Stramberga Strillante.
 
 
 
“Quindi non sarebbe un problema se capitasse un’altra volta.”
“No, sarebbe solo un incrocio di variabili. Sempre nel caso che si possano incrociare.”
Sherlock si chinò in avanti, piegando lievemente il capo, e lasciò che le loro labbra si scontrassero con dolcezza. John si protese verso di lui nel sentire il suo tocco e gli afferrò il volto con entrambe le mani, affondando le dita tra i suoi riccioli per attirarlo a sé, e lui si aggrappò a lui con tutta la forza che riuscì a trovare, e, abbandonata ogni forma di dubbio, chiuse gli occhi.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. ***


 
Ogni mattina, svegliandosi accanto a Sherlock, John realizzava quanto fosse fortunato. A volte durante il sonno Sherlock si spalmava addosso a lui, appoggiando la testa sul suo collo e conficcandogli un ginocchio fra le gambe. Altre volte era lui ad avvolgerglisi intorno, posando la fronte sulla sua schiena e circondandogli il fianco con un braccio.
 
Quel mattino di metà settembre John si sentì solleticare il collo, e sollevate placidamente le palpebre vide la massa di capelli arruffati dell’altro adagiata sul suo petto. Iniziò a massaggiargli la schiena con le nocche, come se stesse accarezzando un gatto, finché anche lui non si destò.
 
“Buongiorno.”
 
“’Giorno.”
 
Non era passato molto tempo da quando aveva condiviso il letto con qualcuno, ma non aveva mai provato tanta gioia al momento del risveglio. Se avevano trascorso la notte fuori per l’Ordine della Fenice, erano soliti restare a letto a sonnecchiare; altrimenti, scendevano a fare colazione con la signora Hudson. A volte uscivano anche di giorno; per Sherlock non era un grosso problema girare per la città, considerate le sue capacità: gli bastava assumere un aspetto completamente diverso e Materializzarsi lontano da Baker Street, e nessuno lo avrebbe mai riconosciuto; John, invece, era costretto a servirsi di un mantello dell’invisibilità.
 
Quel giorno la loro padrona di casa aveva deciso di rinnovare gli interni del 221A. Aveva tirato fuori una montagna di scatoloni stracolmi di soprammobili, che fluttuavano per tutto l’appartamento, e continuava a far ondeggiare le sedie da un lato all’altro della stanza come la versione femminile del Mago Merlino nel film della Disney (quel Merlino era stato rappresentato, stranamente, piuttosto simile all’originale. Probabilmente c’entrava il fatto che in quella compagnia lavoravano diversi maghi).
 
“Le serve una mano?” domandò cortesemente John.
 
“Oh, no, caro: non faccio mica fatica. Vi ho preparato la colazione, è sul tavolo.”
 
“…e dov’è il tavolo?”
 
“Certo! Che sbadata. È in salotto. Attenti ai soprammobili volanti!”
 
John e Sherlock si spostarono nell’altra stanza, dove le chicchere stavano tintinnando pericolosamente a un metro e mezzo di altezza –il che provocò qualche indelicato commento da parte di Sherlock nei confronti della statura dell’amico. I due afferrarono al volo due poltroncine –da quando la signora Hudson possedeva così tanta mobilia di pessimo gusto?- e le fecero scendere a terra per sedervisi.
 
John soffiò sulla propria tazza e la portò alla bocca, ma si ritrasse di scatto sentendo qualcosa di liscio e freddo premergli sulle labbra. Si rovesciò il tè addosso, e insieme ad esso gli cadde in grembo anche una sferetta dorata.
 
“Un Boccino!”
 
Tra le sopracciglia di Sherlock comparve una fessura. “Signora Hudson!” chiamò. “Che ci fa con un Boccino d’oro?”
 
Lei li raggiunse in salotto. “Oh, quello!” squittì. “Ecco dov’era finito! Me l’ha regalato Silente.”
 
“Ma lei insegnava Antiche Rune” obiettò Sherlock.
 
“Lo so.” L’anziana donna si strinse nelle spalle e si picchiettò un dito sulla fronte. “Ma sapete com’era lui… me l’ha lasciato in eredità, pensate un po’… l’unica volta che ho guardato una partita di Quidditch è stata quando hai giocato tu, Sherlock! E lui mi lascia un Boccino. Brav’uomo, non c’è che dire, ma completamente andato.”
 
Sherlock rizzò la testa. “Aspetti. Quando ho giocato io. John, passamelo.”
 
Non appena le sue lunghe dita si chiusero attorno alla pallina, quella vibrò e si aprì a metà, rivelando un pezzetto di pergamena piegato in quattro.
 
“Questa è bella!” esclamò la donna. “Ce l’ho da almeno due mesi, ed era per te! A saperlo…”
 
“Silente non poteva sapere che al momento della consegna noi non saremmo stati qui” realizzò John. “E non poteva lasciare nulla a te, perché dovresti essere morto…”
 
“E non poteva lasciare nulla nemmeno a Simon Church, perché non avrebbe potuto conoscerlo.”
 
“Allora, cosa dice?” lo spronò la signora Hudson.
 
“Vuole… vuole che aiuti Harry Potter?” Persino Sherlock sembrava stupito. Fece scorrere rapidamente gli occhi sulla carta prima di parlare ancora. “Il ragazzo ha bisogno di un cimelio di Corvonero che Silente non ha fatto in tempo a trovare, ma che con tutte le probabilità è nascosto a Hogwarts. Silente sapeva che conosco Hogwarts come le mie tasche, e dato che sono un Corvonero ha pensato che fossi la persona più adatta a proseguire le ricerche.”
 
“Che cimelio sarebbe?” chiese John.
 
“Il diadema di Priscilla Corvonero. Preparati, John. Si torna a Hogwarts.”
 
Sherlock mise a punto un piano per introdursi nella scuola, che era sorvegliata da Dissennatori e seguaci di Voldemort, e quindi praticamente inespugnabile. Lui avrebbe riesumato la sua vecchia divisa da Mangiamorte e sarebbe partito da solo per Hogsmeade in piena mattina. Avrebbe constatato la situazione, e nell’arco di un paio di giorni avrebbe inviato a John le istruzioni.
 
Inutile dire che quei due giorni senza notizie da Sherlock furono un’agonia per John, che continuava a tormentarsi con il pensiero che se qualcosa fosse andato storto lui non lo avrebbe mai saputo, e doveva ricorrere a tutta la propria forza di volontà per non Materializzarsi anch’egli a Hogsmeade. In realtà, Sherlock fu puntualissimo: il suo messaggio arrivò quarantott’ore dopo sotto forma di una lontra argentea, il suo patronus. “Alle 11 di stasera davanti ai Tre Manici di Scopa. Scatterà un Incanto Gnaulante e avrai i Dissennatori addosso in meno di quattro secondi, quindi non fermarti e corri subito verso Mielandia, io arriverò da lì.
 
Materializzarsi a Hogsmeade fu come tornare ad Azkaban: il freddo lo congelò all’istante, e sarebbe probabilmente rimasto lì dov’era come pietrificato se una sirena non avesse iniziato a suonare, riattivandolo. I lampioni sfrigolarono e si spensero, e John scattò per sfuggire ai Dissennatori, lasciandosi quasi scivolare il mantello dell’invisibilità dalle spalle. Dopo pochi passi nel buio più completo si scontrò con qualcuno, e per un attimo temette il peggio.
 
Poi Sherlock sussurrò “Stammi vicino”, e continuò a correre afferrandolo per un braccio.
 
Si congiunsero ad altri due Mangiamorte nel punto in cui John era comparso, e in cui si erano già radunati tre Dissennatori, che furono cacciati per continuare a cercare l’intruso.
 
“Dove sono? Dannazione!” sbottò Sherlock in un perfetto accento Irlandese.
 
Ora che i Dissennatori si erano allontanati, John poté guardarsi attorno. Non riconobbe la cittadina, sebbene vi fosse stato diverse volte. La Hogsmeade che conosceva non era mai stata così tetra e lugubre, e soprattutto così vuota. Le luci dei Tre Manici di Scopa erano accese, ma all’interno non c’era nessuno.
 
“Vi dico che mi hanno informato che Harry Potter vuole venire a Hogwarts, vi dico di rinforzare la sorveglianza, e voi che fate? Ve lo lasciate sfuggire due giorni dopo!” stava gridando Sherlock. “Credete che quel ragazzino sia un idiota, che sarebbero bastati un paio di Dissennatori a fermarlo? È ovvio che Silente gli ha insegnato un paio di trucchetti! Dannazione! Quali altre prove volevate? Ora il ragazzo entrerà a Hogwarts!”
 
“Calma, Scott, la scuola è sorvegliata…”
 
“Ah sì?” ribatté Sherlock con sarcasmo. “Com’era sorvegliata Hogsmeade? Sapete che vi dico? Siete degli idioti e degli incompetenti, tutti quanti. E ora voi continuerete a setacciare questo posto, e io andrò di persona a Hogwarts ad avvertire Piton. Che per mia fortuna dovrebbe essere un po’ più intelligente di voi.”
 
“Basta mandargli un messaggio” replicò uno degli altri, aggiungendo anche un insulto poco raffinato.
 
“E infatti glielo manderò” disse Sherlock con sarcasmo ancora maggiore. “Per dirgli di incontrarci ai cancelli. Credete davvero che sia meglio non dargli la notizia di persona? Allora siete più stupidi di quanto pensassi. Voi avete sbagliato, e adesso si fa come dico io.”
 
Se John avesse posseduto un minore autocontrollo, sarebbe scoppiato a ridere. Invece seguì Sherlock senza fiatare per la via che conduceva ai cancelli di Hogwarts.
 
“Idioti” sbuffò Sherlock non appena furono a distanza di sicurezza. “È bastato mostrare loro il Marchio Nero e mi hanno creduto subito. Con Piton sarà un po’ più difficile, ma posso farcela, potrei ingannare chiunque con la Legilmanzia.”
 
Il professor Piton era esattamente come John lo ricordava: unto, sgradevole, e con un naso decisamente sproporzionato rispetto al resto della faccia.
 
Nonostante la divisa da Mangiamorte di Sherlock, non li lasciò passare, preferendo parlare con loro attraverso le inferriate. “Sì?” chiese in tono piatto. “Se fossi in lei, non oserei lanciare un incantesimo per mettermi fuori gioco. Le si ritorcerebbe contro, signor Holmes.”
 
Sherlock sussultò e John si coprì la bocca con una mano. Sherlock era un Legilmens incredibile, aveva ingannato persino Voldemort… e Piton lo aveva sopraffatto in pochi istanti!
 
“Cosa… Lei come…”
 
“Ora, non mi interessa minimamente come fa ad essere vivo, ma il Signore Oscuro dovrà esserne informato” proseguì spietatamente il preside.
 
“Lo chiami, e io gli comunicherò che tra i Mangiamorte è rimasta ancora una spia.”
Stavolta fu Piton a restare sbigottito.
 
“Non mi serve la Legilmanzia per dedurre che lei conduce il doppio gioco da anni, professore” sputò Sherlock. “Ora ci lasci entrare, agiamo per ordine di Silente.”
 
Un sorrisetto beffardo si disegnò sul volto del Preside. “Ah, c’è anche Watson. Non me n’ero neanche accorto. Bene, Holmes, vi farò passare, ma non aspettatevi alcun aiuto da parte mia una volta che sarete dentro.”
 
Persino nelle notti più tempestose Hogwarts non era stata terrificante come in quel momento. Non c’erano Dissennatori in vista, ma la loro presenza era sempre tangibile. La ghiaia strideva sotto le loro scarpe, ed erbacce stregate si avvolgevano debolmente attorno ai loro piedi, rallentando l’avanzata. Da quando gli alberi del parco erano così scheletrici? John si domandò come dovesse apparire la Foresta Proibita. Sherlock rimosse la pallida maschera da Mangiamorte e la gettò nell’erba nera, poi abbassò il cappuccio del mantello per prendere aria.
 
Quando giunsero al portone, Piton si voltò di scattò e afferrò Sherlock per un braccio. “Non so come tu faccia a saperlo” ringhiò, alterato. “Ma di’ una sola parola e provvederò personalmente a te, ragazzo.”
 
“Non tradirò il suo segreto, finché lei custodirà il mio” lo rassicurò Sherlock in tono pacato.
 
“Spero per voi di non dovervi più rivedere.”
 
Il Preside di Hogwarts si infilò all’interno della scuola e richiuse il portone alle proprie spalle, lasciandoli soli.
 
John osò finalmente sfilare il mantello dell’invisibilità e salutare l’amico in modo appropriato –modo che avrebbe fatto mugolare di contentezza la signora Hudson.
 
“Prima che entriamo, dimmi di Piton. Come può essere una spia? Ha ucciso Silente!”
 
“Silente sapeva di stare per morire, o non mi avrebbe scritto quella lettera, giusto? Credo che il suo omicidio sia stato una messa in scena, e che lui lo avesse premeditato molto tempo prima insieme a Piton.”
 
“Ma il suo segreto…”
 
“Ci pensavo da anni, e la sua abilità nella Legilmanzia mi ha convinto che potessi avere ragione… Io e lui non siamo molto diversi, in fondo, e non è stato difficile rendermene conto: entrambi abbiamo iniziato a fare il doppio gioco per amore di qualcuno. Non so dirti di chi, però.”
 
“Siamo stati fortunati, allora. E io che credevo che fosse un mostro disumano.”
 
Il vecchio Corvonero sorrise. “Come professore però faceva schifo.”
 
John si allungò per dargli un bacio. “Sherlock e John, di nuovo a Hogwarts” disse. “Con la differenza che ora nemmeno Piton può toglierci punti.”
 
Sherlock ghignò, ma ritornò serio in un attimo. “Faremo meglio a muoverci, saremo più al sicuro all’interno.”
 
John annuì. “Da dove vogliamo iniziare?”
 
“Dalla Sala Comune di Corvonero, ovviamente.”
 
Aprirono il portone ed entrarono in Sala Grande. Il soffitto incantato risplendeva di stelle, ed era facile immaginare di essere ancora i due studenti che uscivano di notte a fare scherzi ed esplorare il castello. John non credeva che avrebbe mai più rivisto quel luogo, e desiderava solo fermarsi ad ammirarlo per l’ultima volta, ma Sherlock lo costrinse ad avanzare in mezzo alle tavolate e proseguire.
 
John non a Corvonero, ma ricordava bene il corvo che poneva un indovinello a chiunque volesse accedervi. Questa volta fu: “Non ha voce e grida fa, non ha ali e volo va, non ha denti e morsi dà, non ha bocca e versi fa.”
 
“Il vento” rispose John, guadagnandosi un’occhiata di ammirazione.
 
La Sala era meravigliosa, di gran lunga la più bella che John avesse visto, ma gli riportava alla mente spiacevoli memorie che avrebbe preferito scordare, prima di tutte Sherlock che si contorceva per il dolore. Erano passati dieci anni, e ora sapeva che era stata solo una finzione, ma non riusciva ancora a riderci su.
 
Una nicchia di fronte alla porta ospitava un’alta statua di marmo bianco. “Priscilla Corvonero. Secondo Silente, Voldemort avrebbe rubato il suo diadema.”
 
Si avvicinarono alla statua, sulla cui testa era effettivamente scolpita una tiara molto delicata. “Com’è possibile che ritrovarlo possa aiutare Harry Potter a vincere?” domandò John.
 
“Non lo so, ma non è quello il problema: la coroncina è stata persa secoli fa.”
 
“Oh. Però Silente credeva che fosse ancora nel castello?”
 
“Così pare.”
 
“Peccato non avere la Mappa del Malandrino, allora. Ci sarebbe stata utile” rifletté John.
 
“Già, sarà una ricerca piuttosto impegnativa. Il gioco è iniziato!”
 
“E anche terminato” gracchiò una voce alle loro spalle. “Mai pronunciare il nome del Signore Oscuro invano.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quando John riaprì gli occhi, non riuscì a mettere a fuoco la vista. Scorse una macchia scura che si spandeva sul pavimento freddo sotto la sua testa, e in quel momento si rese conto che la sua tempia destra stava andando a fuoco.
 
Qualcuno si accovacciò accanto a lui.
 
“Lascia stare quello, Anne Grace” disse una voce distante. “Lo tengo d’occhio io. È l’altro che devi interrogare.”
 
“Certo” rispose la persona vicino a lui, e John sentì la testa spaccarsi in due dal dolore.
 
Non era possibile.
 
Quella voce.
 
Anne Grace.
 
Anne Grace Watson, così avrebbe dovuto chiamarsi sua figlia. Anne Grace Reyna, secondo Sherlock.
 
Quella voce…
 
John strizzò gli occhi, e finalmente riuscì a mettere a fuoco lo sguardo. Sollevò la testa quanto bastava per vedere in volto la persona accanto a lui.
 
La donna che un tempo si era chiamata Mary Elizabeth Morstan lo accarezzò passandogli le dita fra i capelli prima di alzarsi in piedi. “Mi dispiace, John.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Buonsalve, gente. Spero che questo capitolo scritto prevalentemente durante le ore di latino vi sia piaciuto, ma soprattutto vi abbia almeno un pochino scioccato.
Ho pensato: chi ci dice che Silente non potesse aver inviato altre persone a cercare gli horcrux, soprattutto se quelle persone erano Sherlock Holmes e John Watson? E quale horcrux migliore del diadema di Corvonero? In fondo, alla fine Harry sapeva decisamente molto poco dei piani del caro vecchio Albus. Suppongo che abbiate capito che Sherlock e John non sono stati beccati perché hanno dimenticato di rimettere il mantello dell’invisibilità, dato che le Sale Comuni non vengono mai pattugliate, ma perché Sherlock ha detto “Voldemort”, che nell’ultimo anno era diventato tabù.
Per quanto riguarda il finale, e per quanto riguarda Anne Grace Reyna… vi dico una sola parola: A.G.R.A.
Ci sentiamo la settimana prossima!
 
 
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. ***


 
Con uno sforzo titanico John riuscì a sollevarsi sui gomiti, ma un incantesimo lo fece ripiombare a terra. Sentì il marmo freddo del pavimento che colpiva il suo zigomo, ed emise un gemito.
 
John!” gracchiò una voce. Sherlock.
 
John si girò sulla schiena, ansimante. Era disorientato e dolorante, ma nulla era paragonabile al sollievo provato nel sentire la voce di Sherlock, per quanto sembrasse sull’orlo della disperazione.
 
Un gigantesco lampadario pendeva dall’alto; il soffitto rappresentava una volta celeste, e le stelle più grandi pulsavano di una debole luce rossastra. Quella, si rese conto John, non era Hogwarts: doveva essere rimasto svenuto per più tempo di quanto aveva creduto. Eppure… era già stato in quel luogo, ne era sicuro.
 
Il sollievo si trasformò rapidamente in orrore quando sua moglie esclamò: “Crucio!” e Sherlock lanciò un urlo viscerale.
 
Sherlock!”
 
Crucio!”
 
Crucio!”
 
Crucio!”
 
“Basta così, Anne Grace. Ora vediamo se il tuo amico ha voglia di raccontarci qualcosa” disse l’altro Mangiamorte.
 
“Fermi!” gridò lui. La voce gli grattò la gola. Una fattura lo scagliò dall’altra parte della stanza, mandandolo a sbattere contro un arazzo appeso al muro che sollevò una nuvola di polvere. In un istante di consapevolezza, mentre ricadeva a terra, John realizzò in luogo si trovava: era la villa dei Fawley, quella dove si era tenuto il ricevimento dopo la morte di Silente.
 
I due Mangiamorte lo guardarono strisciare per qualche metro verso il centro della stanza prima di aprirgli un taglio sulla guancia che schizzò un fiotto di sangue.
 
John! Lasciatelo stare!”
 
Sherlock si trovava in mezzo alla sala, in ginocchio. Indossava solo i pantaloni: la sua camicia strappata giaceva tra lui e John, e fra le pieghe del tessuto John notò la catenella della Giratempo. Aveva ferite superficiali su tutto il torso, come se si fossero divertiti ad usarlo come affilacoltelli. Sia Mary che il suo compagno indossavano le pesanti vesti nere dei Mangiamorte, ma nessuno dei due portava la maschera. John guardò colei che era stata sua moglie, e che ora si faceva chiamare come sua figlia.
 
“Perché?” bisbigliò. “Mary?”
 
“Mary Morstan è morta” replicò lei in tono gelido.
 
Lui disse la prima cosa che gli venne in mente: “Pensavo mi amassi.”
 
Lei sospirò, roteò gli occhi e si voltò verso l’altro Mangiamorte. “Ti dispiace concederci qualche minuto? Vorrei parlare con questi due. Si meritano una spiegazione, dopo tutto.” Notando la sua titubanza, lo rassicurò: “Non mi faranno niente, praticamente non riescono nemmeno a muoversi.”
 
Quello ghignò. “Magari vado a chiamare gli altri” suggerì. “Non vorranno perdersi il divertimento, sono mesi che non facciamo nulla di così interessante.”
 
Lei sorrise con malizia mentre lui usciva, poi si focalizzò di nuovo sui due prigionieri. Il sorriso non lasciò il suo viso, ma i suoi occhi si fecero seri. “Io ti amo, John” disse con una vena di ironia. “Se così non fosse, sareste già sei metri sotto terra, tutti e due. Di te, John, non mi stupisco, ma Sherlock… come hai potuto essere così cieco? Credevi davvero che se avessi voluto nascondere il Marchio Nero sarei stata così imprudente da mostrarvi le bende? Ho fatto in modo che scopriste il mio segreto facendolo sembrare un caso, così se foste riusciti a sopravvivere a quel ricevimento non avreste avuto rimorsi ad abbandonarmi. Poi ho scritto quelle lettere e ho ordinato all’elfa di consegnarvele come se le avessi preparate mesi prima. Volevo davvero che foste felici insieme…”
 
“…ma solo una volta che tu fossi uscita di scena” completò Sherlock in un sussurro, sollevando la testa. I riccioli scuri gli ricadevano sugli occhi, appiccicandosi alla fronte sudata. “Non finché tu avevi la possibilità di restare con John, vero?”
 
“Te l’ho anche scritto nella lettera” disse lei, stringendosi nelle spalle.
 
Ero innamorata di John, e così ho ignorato i tuoi sentimenti e i suoi, e non gli ho mai fatto capire cosa sarebbe stato meglio per lui oltre a me” riportò lui. “Ora, però, sono morta. John non ha più nessuno tranne te. Se non altro, sei stata sincera.”
 
“Ero morta. A che scopo continuare a mentirvi?”
 
John era sconvolto. Non aveva mai scoperto cosa contenesse quella lettera, non aveva nemmeno finito di leggere la propria, ma Sherlock l’aveva letta per intero, l’aveva addirittura imparata a memoria, e sapeva che Mary aveva compreso la verità anni prima di loro, eppure non aveva mai detto nulla. Tuttavia, anche ora non era questa la cosa che lo faceva infuriare di più.
 
AnneGrace” ringhiò.
 
La vecchia Mary Watson sembrava sinceramente contrita e addolorata, quando rispose. “Anne Grace Reyna Avery. Reyna era il nome che aveva proposto Sherlock. Avery è il cognome che ho adottato. Una delle famiglie di sangue puro, ovviamente.”
 
“Mi hai mentito per anni. Sei diventata una Mangiamorte. Hai torturato il mio migliore amico… e ti chiami come mia figlia.”
 
“Mi dispiace, John. Ho cercato di proteggervi il più a lungo possibile, te lo giuro.”
 
“E ora?” ribatté lui con il sarcasmo che gli restava.
 
“Se non faccio ciò che mi dicono, subirò la vostra stessa sorte” si giustificò lei. “La scelta è voi, o me. Mi dispiace, mi dispiace davvero. Ti amo, John, ma non abbastanza da morire per te.”
 
“Tu hai ucciso un uomo per me quando avevi diciassette anni!”
 
“Lo so. Ma uccidere non è difficile quanto morire, non credi?”
 
John restò senza parole. Sherlock aveva chinato nuovamente la testa e respirava lentamente.
 
In quel momento, John vide comparire una figura distesa a terra proprio sopra la camicia di Sherlock. Fu solo per un istante, come un lampo, dopodiché scomparve, tanto che lui quasi credette di averla immaginata.
 
“Allora, ditemi!” proseguì lei in tono materno e canzonatorio. “Le mie lettere hanno funzionato, o siete ancora in fase di negazione?”
 
Sherlock e John si scambiarono un’occhiata, ma nessuno dei due si degnò di risponderle.
 
“Bene, non ringraziatemi, sono solo il motivo per cui state insieme.”
 
“Nulla-di più-sbagliato” ringhiò Sherlock tra i denti.
 
“Be’, fa niente, tra poco non avrà più importanza.” La ragazza sollevò le spalle con disinteresse.
 
“Aspetta! Cosa hai fatto dopo aver finto la tua morte?”
 
“Sono diventata una Mangiamorte… a tempo pieno. Con la scusa che il mio nome era associato a due traditori –voi- l’ho cambiato. Yaxley!”
 
John avrebbe voluto fermarla, farla continuare a parlare, ma non gli veniva in mente nulla da dire. In un batter d’occhio, tre Mangiamorte entrarono nella sala.
 
“Sherlock? Ora noi ti faremo delle domande, e tu risponderai, altrimenti prima torturerò te, e poi riserverò a John il tuo stesso trattamento” disse lei.
 
“No, Mary Watson. Non lo farai.”
 
Crucio!”
 
John si sentì trafiggere da centinaia di spilloni in ogni singola parte del corpo, e udì la propria voce gridare.
 
“No, vi prego! Lasciate stare John, lasciatelo in pace, vi prego!”
 
Crucio!”
 
Sherlock!”
 
“Mary Watson è morta mesi fa, Sherlock, te l’ho detto.”
 
Tartassarono Sherlock di domande: da quanti membri era formato l’Ordine della Fenice, dov’era il quartier generale, quand’erano le riunioni, che cosa stavano organizzando, dove si trovava Harry Potter, cosa stava facendo… e di ognuna di queste domande Sherlock non poteva conoscere la risposta, perché nessuno sapeva di preciso quanti fossero i membri dell’Ordine, non esisteva alcun quartier generale né un giorno prestabilito in cui incontrarsi, l’Ordine non stava tramando assolutamente nulla e nessuno aveva idea di dove si nascondesse Harry Potter… ma chi poteva credergli? John sospettava che Mary avesse capito benissimo che diceva la verità, ma non avesse comunque intenzione di darlo a vedere.
 
Ridussero Sherlock a un fagottino piagnucolante prima di passare a John. Lo colpirono una, due, tre, quattro, cinque volte e ancora e ancora finché non perse il colto e non perse totalmente la capacità di ragionare. La sua mente non era forte come quella di Sherlock, che era ancora abbastanza cosciente da rendersi conto di cosa stavano facendo all’amico.
 
Da qualche parte, nel salotto dei Fawley, Sherlock stava singhiozzando e pregando i Mangiamorte di lasciarlo stare, di uccidere lui se proprio volevano, ma di lasciar stare John.
 
“Basta così” disse Yaxley, e John crollò a terra. Gli sembrava di essere stato a un passo dall’uscire di testa, ma in qualche modo la voce di Sherlock lo aveva tenuto attaccato alla realtà. Anche quando tutto il resto scivolava via, i suoi gemiti e i suoi rantoli rimanevano lì, e gli ricordavano che aveva qualcuno per cui sopravvivere. Respirando a fatica, rotolò su un fianco e si mise in ginocchio.
 
“Sapete che vi dico? Tutto questo casino è inutile” disse uno dei Mangiamorte. “Non ci diranno nulla. Perché non li facciamo fuori e basta?”
 
“Concordo. Watson, se sai qualcosa è il momento di parlare ora.”
 
“Cosa… no, non so niente, non facevo neanche parte…”
 
“Anne Grace, uccidi il traditore.”
 
No!”
 
Ava…”
 
In quel momento una delle finestre si infranse e un oggetto ovale cadde sul pavimento, seguito da miriadi di schegge di vetro.
 
Non poteva che essere il segnale. John sapeva che sarebbe avvenuto qualcosa del genere… lo sapeva esattamente da sessanta minuti.
 
Approfittando della distrazione generale, con uno sforzo sovraumano si lanciò verso i vestiti di Sherlock e agguantò la Giratempo.
 
Un giro.
 
Solo per un attimo, vide se stesso a terra con un’espressione sconvolta.
 
Due giri.
 
La stanza era vuota. Si alzò in piedi a fatica; un ginocchio gli cedette, e per poco non cadde nuovamente a terra. Si avvicinò a una portafinestra, forzò la maniglia e uscì socchiudendola dietro di sé; scavalcò il parapetto di pietra della terrazza e atterrò sull’erba scura.
 
Per recuperare la bacchetta avrebbe dovuto aspettare quasi un’ora, ma quella era la parte più facile: si trattava solo di seguire chi gliel’aveva –o gliel’avrebbe- confiscata e riprendersela alla prima occasione; ma nel frattempo aveva altro da fare. Sin da quando aveva visto se stesso disteso sul pavimento aveva elaborato un piano d’azione. La casa era sicuramente protetta da qualche incantesimo, quindi Materializzarsi direttamente all’interno era fuori discussione; aveva bisogno di un altro mezzo per uscire e poi tornare indietro… come una scopa. Ogni mago che si rispetti possiede delle scope, anche se non le usa mai; doveva solo trovare quelle dei Fawley.
 
Merlino, non poteva credere che sua moglie si fosse ridotta in quel modo… davvero, John? Davvero non ci puoi credere? Perché a me sembra perfettamente plausibile. Ma Mary, la donna che gli era sempre stata accanto… ti ha mentito dall’inizio della vostra relazione, da quando ha finto di avere problemi in Trasfigurazioni per uscire con te. E non ha mai voluto che tu fossi felice, voleva solo averti per sé, anche se sapeva cosa sarebbe stato meglio per te. E poi ha finto la sua morte, ma non per una buona causa come Sherlock, e, a differenza sua, non se n’è affatto pentita.
 
Questo pensiero lo colpì come un’altra Maledizione Cruciatus. I versi della profezia gli risuonarono in testa: i due ingannatori che giocano con la vita si scontreranno in una lotta impari. Uno di loro era Sherlock, che avrebbe dovuto essere morto anni prima… possibile che l’altro fosse proprio Mary?
 
John avrebbe desiderato reclutare quanti più membri dell’Ordine possibile, ma non aveva il tempo di tirare su un’armata. Riuscì a richiamare solo i due vecchi amici di Sherlock, Molly Hooper e Greg Lestrade, e poi fu costretto a ripartire per la villa dei Fawley, o sarebbe arrivato troppo tardi. La magione era a quaranta chilometri a nord di Londra, e a cavallo di scopa distava almeno venti minuti. Parte di lui sapeva che sarebbe arrivato in tempo, ma non aveva alcun desiderio di prendersela comoda e causare un paradosso temporale.
 
Lui era libero, ma Sherlock era ancora lì, alla mercé di quattro Mangiamorte assetati di tortura e sofferenza… e, se la sua supposizione era giusta, la profezia di Reyna Jane Hartnell stava per inserirsi nel corso degli eventi. “I morti vendicheranno i morti, quando due ingannatori che giocano con la vita si scontreranno in una lotta impari, e il mutaforma, padrone del tempo, dal tempo sarà soggiogato se avrà affrontato la sua peggiore paura.”
 
L’orologio con il cammeo aveva ricominciato a ticchettare. Quando arrivarono dai Fawley segnava le 11.50, ma stavolta John non aveva intenzione di assistere allo scoccare delle dodici. Quando furono in vista della terrazza, strinse le dita sul metallo freddo. Vide Yaxley che si avvicinava a Sherlock e iniziava a minacciare il John del passato, e scagliò l’orologio contro la vetrata.



 
 

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Capitolo 19
*** I can see everything. ***


 
I can see every single action in their existence.
 
Everything must come to dust. All this. Everything dies.
 
Why does this hurt?
 
I can see everything. All that is. All that was. All that ever could be.
 
Oh, my head.
 
 
 
 
Un attimo prima sono in piedi, appoggiata al lavello della cucina. Un attimo dopo sento i miei muscoli afflosciarsi e il mio corpo cadere a terra. Vorrei rialzarmi ma non ci riesco, è come se la mia mente fosse separata da tutto il resto.
 
Vedo le briciole sotto il bancone, il pavimento di legno e il ruvido tappetino verde. Mio marito grida il mio nome, e vedo anche le sue scarpe bianche avvicinarsi di corsa.
 
Dovrebbe comprare un paio di scarpe nuove.
 
Quando mi risveglio, sono distesa sul divano. David invade il mio campo visivo con la sua faccia, e noto che stamattina non si è rasato la barba.
 
“Stai bene?”, è la sua prevedibile domanda. Una ruga di preoccupazione fa capolino tra le sue sopracciglia.
 
Sto bene? Non ho ancora controllato.
 
No, decisamente non sto bene. Mi sento come quel coyote dei cartoni animati, Willy, che cade giù dai dirupi solo dopo essersi accorto di non avere più il suolo sotto i piedi: mi rendo conto di stare male solo quando ci presto attenzione.
 
Mi scoppia la testa, non riesco a concentrarmi.
 
La mia visuale periferica è limitata da luci giallastre e abbaglianti, tanto che prendo uno spavento quando mia figlia mi schiaffa un bicchiere d’acqua quasi sul naso, perché non l’avevo vista arrivare.
 
Il suo visetto paffuto vortica davanti a me, entrando e uscendo dalla luce.
 
“Grazie, Clara” dice mio marito, togliendole il bicchiere di mano e aspettando che io mi metta seduta per darmelo. Mi alzo con cautela, aggrappandomi allo schienale del divano.
 
Strizzo gli occhi sperando che la luce giallastra scompaia, ma quella non molla e, nel frattempo, la mia emicrania si acuisce. Cosa mi sta succedendo?
 
“Reyna?”
 
C’è qualcosa… c’è qualcosa che mi sta sfuggendo, è come se ce l’avessi sulla punta della lingua, una cosa che spiegherebbe lo svenimento e la luce che mi impedisce di vedere con chiarezza e che, come realizzo con apprensione, si sta espandendo nella mia retina.
 
“Mamma?”
 
Dovrei vedere Clara, so che dovrei vederla, la sua voce proviene da un punto davanti a me, ma in verità scorgo solo gli occhi castani di mio marito che mi fissano con apprensione. David è un medico, ma è un Babbano: sa che le malattie di noi maghi sono diverse, e presentano sintomi a lui incomprensibili, e questo lo fa impazzire.
 
“Reyna?” ripete con maggiore preoccupazione.
 
“Sto bene. Non so cosa mi sia successo. Grazie per l’acqua, Clara.” Deglutisco un sorso d’acqua e mi sforzo di sorridere.
 
“Perché non vai a giocare un po’ in cameretta?” propone mio marito a nostra figlia.
 
“Poi vieni anche tu?”
 
“Certo. Tu intanto inizia a giocare, ti raggiungo” David le rivolge un sorriso smagliante, e so che sta pregando che lei se ne vada al più presto, perché ha capito che non voglio parlare davanti a lei
 
Appena lei scompare nella sua stanza, il suo sorriso crolla. “Allora, che cos’hai?” mi chiede infatti con sollecitudine. Mi dispiace per lui. È difficile essere medico e non saper diagnosticare il problema di tua moglie perché va oltre le tue competenze. Mi ricordo ancora quando ha scoperto che ero una strega… nemmeno quello lo ha scioccato quanto apprendere che per noi maghi le malattie Babbane sono curabili con un paio di incantesimi, e un solo Guaritore potrebbe prendere il posto del suo intero reparto.
 
“Non lo so, non mi era mai successo. Vedo una strana luce, e…”
 
Mentre racconto l’emicrania colpisce di nuovo, e io divento completamente cieca.
 
Il metamorfomagus.
 
Quando la vista ritorna, mi accorgo di essermi aggrappata alla camicia di mio marito, che mi sta sostenendo con entrambe le braccia.
 
Ora ho capito, finalmente.
 
Sherlock Holmes” sussurro con urgenza.
 
Ora ho capito. Oh, santo cielo, ora ho capito. Sta accadendo. In questo momento.
 
“Cosa?” chiese lui, sconcertato, senza lasciarmi andare.
 
“La profezia. Credo che la profezia si stia compiendo.”
 
Faccio in tempo a dire solo questo prima che la luce giallastra torni ad invadere i miei occhi e io perda completamente il contatto con la realtà.
 
Riesco a vederli, adesso. Il ragazzo con i riccioli scuri è rannicchiato a terra. Ha il petto nudo e la schiena ricoperta da tanti graffi rossastri. Le sue lunghe dita stringono con forza i capelli, tanto che le sue nocche sono bianche dallo sforzo. C’è del sangue attorno a lui. Il suo sangue, suppongo.
 
L’immagine si spezza e si sfalda. Ora quello stesso ragazzo sta sorridendo, e sta dicendo qualcosa che non riesco ad afferrare; capisco solo “vita”, poi anche questa visione si contorce e svanisce, e viene sostituita da quella con il sangue sul pavimento di marmo. Ci sono anche delle schegge di vetro, e una bacchetta magica abbandonata a terra. Lunghe, pallide dita si chiudono su di essa. Una voce limpida esclama “Avada…” e l’immagine cambia di nuovo, rimpiazzata da una sequela di lampi troppo veloci e sempre più luminosi che martellano la mia testa.
 
I morti vendicheranno i morti, quando due ingannatori che giocano con la vita si scontreranno in una lotta impari, e il mutaforma, padrone del tempo, dal tempo sarà soggiogato se avrà affrontato la sua peggiore paura.
 
Sta accadendo ora.
 
E io posso vederlo.
 
Fa male.
 
Posso vedere le loro intere vite, ogni singolo atto delle loro esistenze.
 
William Sherlock Scott Holmes, e John Hamish Watson, e Mary Elizabeth Morstan, che è morta mesi fa, e Anne Grace Reyna Avery, che…
 
“Reyna! Reyna!”
 
“David!”
 
“Santo cielo, Reyna, che ti stava succedendo?”
 
Che cosa mi stava succedendo? David, seduto sul divano accanto a me, mi stringe al suo petto. Ha la camicia stropicciata, come al solito “Non… non lo so. Mi girava la testa. Ero… non me lo ricordo.”
 
“I tuoi occhi si sono illuminati, sembravano due lampadine! Hai avuto una premonizione?”
 
“Non lo so, te l’ho detto, non me lo ricordo… non ho detto nulla?”
 
Lui scuote la testa. “Nulla. Solo… prima, quando ancora sembravi… normale, hai detto che la profezia si stava avverando. Parlavi della tua profezia? Quella sul metamorfo?”
 
Giusto. Certo. “Sì, di quello mi ricordo. Credo che ciò che mi è successo abbia a che fare con quello, ma… nient’altro.”

 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Avevo avuto delle premonizioni, ma non ero mai riuscita a collegarle. Ora, però, mi è tutto chiaro. Quello che doveva succedere è successo. La mia profezia si è compiuta.”
 
 
 
Approfittando dello scompiglio causato dalla finestra che andava in frantumi, Molly scagliò un Sortilegio Scudo per proteggere Sherlock.
 
 
 
“Erano loro, alla fine, Sherlock e la moglie di John! Tu non avevi idea che sarebbe stata lei, vero?”
 
“Assolutamente no. Non ho mai avuto sogni che riguardassero lei. Su Sherlock e John, sì, anche se solo piccoli stralci, nulla di collegato alla profezia; ma nessuno su di lei. E pensare che l’ho anche incontrata… avrei dovuto capirlo, allora, e invece…”

 
 
 
Riavutisi, i quattro Mangiamorte pronunciarono i loro incantesimi, ma John, Molly e Greg li schivarono senza sforzo facendo virare le scope; scagliarono a loro volta delle fatture, che colpirono Mary e uno dei suoi compagni. Atterrarono scompostamente, riuscendo a malapena a difendersi da un secondo attacco mentre annaspavano tra le schegge di vetro per mantenere l’equilibrio e si riportavano in posizione. Uno dei due Mangiamorte ancora in piedi mirò a John, ma fu costretto a difendersi da un sortilegio di Lestrade e ad ingaggiare un duello con lui.
 
 
 
“E poi c’è stato l’abbraccio. L’avevo sognato, quello sì. Anche se all’epoca non avevo idea di chi fossero le due persone che si abbracciavano: l’ho capito solo quando li ho incontrati.”
 
 
 
John arrancò verso Sherlock, ancora rannicchiato sul pavimento, con le mani fra i capelli. Gli risanò tutte le ferite che aveva sul corpo, e lui sembrò quasi non accorgersene.
 
“Sherlock. Sherlock, sono qui. Ti prego, dimmi che mi senti. Sherlock.”
 
 
 
“Non posso credere di aver causato tutto questo dolore…”
 
“Non è stata colpa tua, Reyna, lo sai. Tu l’hai solo previsto.”

 
 
 
Lentamente, Sherlock sollevò il viso, guardando l’amico con occhi annebbiati. “…John?” chiese, titubante.
 
John sospirò di sollievo, gettando indietro la testa. “Sono io, Sherlock, sono io. Oh, per le mutande di Joseph Wronsky, pensavo fossi già impazzito.”
 
Sherlock tossì. “Era da tanto che non nominavi Joseph Wronsky” bisbigliò.
 
“Come stai?”
 
“Sto bene… ora.” Sherlock allungò la mano verso l’altro, che posò a terra la bacchetta e lo aiutò a mettersi seduto, e poi lo strinse fra le braccia. Desiderava restare lì per sempre, e non lasciarlo più andare. Da qualche parte dietro di lui, Molly e Greg stavano ancora combattendo tra i cocci di vetro della finestra, ma per lui esisteva solo Sherlock. Aveva quasi paura di fargli male, ma lui affondò il viso nella sua spalla e si aggrappò con forza alla sua camicia.
 
 
 
“Mai che una profezia finisca con un lieto fine, però, vero? Alla fine, qualcuno deve sempre morire. E io lo sapevo. Forse non è stata colpa mia, ma lo sapevo, e non ho fatto nulla per impedirlo. Pensa a quante cose avrei potuto fare… avrei potuto proteggere Sherlock e John, e invece…”
“Smettila, non è così! Non potevi sapere quando si sarebbe avverata la profezia, né che ci sarebbe stata di mezzo Mary. Non puoi addossarti la colpa.”

 
 
 
 
Quando Sherlock aprì nuovamente gli occhi, il suo cuore perse un battito.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Salve gente. Rallegratevi del ritorno di Reyna Jane Hartnell! Sarete lieti di apprendere che in origine questo capitolo non esisteva, e parte di esso era inserita nell’epilogo. Poi però ho pensato: “nah, Smaug, ti stai raddolcendo, dov’è finita la carognetta che era in te?” e così ho diviso l’epilogo in due. Mi accontento di poco…
La parte iniziale, quella in inglese, non è mia, ma mi è sempre piaciuta tantissimo e ho voluto inserirla. È una citazione di Doctor who, da “The parting of the ways”, che è un episodio che adoro. E niente, siamo quasi alla fine. Ci risentiamo –per l’ultima volta- la settimana prossima!
 

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Capitolo 20
*** Epilogo ***


 
Epilogo
 
 
 
 
 
 
 
Mary si era riavuta, aveva recuperato la bacchetta, e ora la stava puntando contro la schiena di John. Il suo braccio era scosso da tremiti, ma lo sguardo era fermo e risoluto.
 
 
 
 
Avevo avuto, , una sorta di… di presentimento, quando l’avevo incontrata, ma non lo avevo associato alla profezia. Credevo solo che si riferisse a Sherlock e John, e a quell’abbraccio che avevo sognato… Se solo… se solo non fossi stata così cieca, proprio io, che dovrei possedere la Vista…
 

 
 
 
Mary Watson era realmente morta. Quella donna, Anne Grace Reyna, ne aveva acquisito l’aspetto e forse parte della personalità, ma ciò che c’era stato di buono in Mary era scomparso, oppure era stato schiacciato in un angolino della sua anima come qualcosa di vergognoso da tenere ben nascosto.
 
 
 
 
Mary, la donna che aveva sposato John, non c’era più. Anne Grace Reyna era sempre esistita, era stata la parte più meschina e maligna di lei, ed era emersa quando Mary era diventata una Mangiamorte.
 

 
 
 
La bacchetta di John giaceva a pochi centimetri dalla mano destra di Sherlock.
 
Anne Grace Reyna iniziò a pronunciare la Maledizione Senza perdono con voce pacata, come se stesse comperando del pane o un biglietto della metropolitana. Come se quelle due parole, quell’Avada Kedavra, non fossero state destinate a spegnere la vita di una persona che un tempo le era stata cara. Come se si fosse trattato semplicemente di mettere un coppino sopra una candela per estinguerne la fiammella.
 
 
 
 
Avrebbero potuto salvarsi tutti, avrebbero potuto sistemare le cose! Se solo qualcuno li avesse avvertiti, avesse dato loro più tempo per riflettere su ciò che stavano facendo! Se solo io fossi stata quella persona!
 
 
 
 
Sherlock agì d’istinto, ricorrendo alle sue ultime energie. Non aveva mai avuto bisogno di pronunciare gli incantesimi ad alta voce, come tutti i grandi maghi.
 
 
 
 
Oh, Sherlock.
 
 
 
 
Un lampo verde scaturì dalla bacchetta di John.
 
L’orologio con il cammeo scoccò la mezzanotte.
 
Anne Grace crollò a terra come un sacco vuoto.
 
Il Mangiamorte che duellava con Lestrade si distrasse, e lui ne approfittò per colpirlo. Molly stava ancora duellando, ma Greg lanciò una fattura contro il suo Mangiamorte e lo scaraventò contro la parete. L’altro, quello che era stato abbattuto all’inizio, giaceva ancora in fondo alla sala.
 
Poi entrambi corsero da Sherlock e John, e li aiutarono a rialzarsi. Le gambe di Sherlock cedettero due volte, ma alla fine riuscì a reggersi in piedi, pur continuando a traballare.
 
Si divincolò da John, e si avvicinò al corpo della donna che aveva ucciso per proteggerlo.
 
“Sherlock…”
 
Anne Grace sembrava addormentata. C’era del sangue dietro la sua nuca, nel punto in cui aveva sbattuto la testa cadendo. I suoi occhi verdi e trasparenti erano spalancati e vuoti. La sua bocca, dipinta con del rossetto rosa, era ancora semiaperta.
 
“Avevi ragione. Mary Morstan era morta, e io l’ho vendicata” sussurrò Sherlock. Dopodiché, svenne.
 
 
 
 
“E poi cosa è successo?” domanda mio marito. Si sporge sull’orlo della poltrona, avido di scoprire com’è andata a finire; l’ho sempre visto assumere quell’espressione estatica solo quando guarda i suoi film di fantascienza. Gli scocco un’occhiata di rimprovero dall’altro del bracciolo su cui sono seduta, ma lui è troppo preso dal racconto di John Watson per notarmi.
 
“Io, Greg e Molly abbiamo trasportato Sherlock a casa di Mycroft, suo fratello” narra John, voltandosi verso Sherlock e rivolgendogli un sorrisetto, forse condividendo con lui un ricordo di quella notte.
 
“Ci ho impiegato un po’, ma mi sono ripreso” aggiunge lui. La sua mano destra è posata con disinvoltura sulla schiena dell’amico, e il suo atteggiamento rilassato mi scalda il cuore.
 
Sorrido e stringo la spalla di David. “Te l’avevo detto, che erano in gamba.”
 
La porta della cucina si apre, e mia figlia Clara entra di corsa in soggiorno. “Papà, il forno è pronto!” esclama con quella sua deliziosa vocina da bimba di otto anni, e lui scatta in piedi. L’ha messa a guardia del termometro venti minuti fa, per lasciarci il tempo di parlare in pace, e lei ha seguito il suo compito di controllore con dedizione assoluta.
 
“Allora faremo meglio a metterci dentro l’arrosto! Vieni a darmi una mano, lasciamo questi maghi a confabulare. E come premio per aver tenuto d’occhio il termometro…”
 
David ci fa l’occhiolino e richiude la porta scorrevole dietro di sé, e io ridacchio e scuoto la testa. Sherlock –proprio lui- mi sorride con calore.
 
Per qualche istante nessuno parla, ci limitiamo a sorriderci in silenzio con complicità e, almeno da parte mia, una vena di malinconia. Poi sospiro. “E così, è finita” dico.
 
“Quindi è proprio sicuro” cerca di chiarire John. “La profezia si è compiuta, fine.”
 
“Credo proprio di sì. I due ingannatori che giocano con la vita erano, ovviamente, Sherlock e Mary. Lo scontro impari si riferiva al fatto che Sherlock era stato brutalmente torturato fino a poco prima. Per quanto riguarda i morti che vendicheranno i morti… Sherlock ufficialmente è ancora morto, e come ha detto lui stesso ha vendicato la morte di Mary Watson. Solo l’ultimo verso, in effetti, mi lascia ancora perplessa.” Guardo verso Sherlock, attendendo una risposta.

 
 
 
“Caro Sherlock [aveva scritto Mary Elizabeth Morstan, tra tante altre cose],
Voglio raccontarti una storia. Non roteare gli occhi! Sono serissima.
È la storia di due ragazzi che diventarono amici per caso, e non si separarono più. Col senno di poi, è una cosa piuttosto ironica da dire, dato che la loro amicizia iniziò dopo che Mike Stamford li incollò con una fattura. , è stato Mike. Non lo sapevi, vero? E sì che ha continuato a vantarsi per anni di essere stato il vostro Cupido... ma tu, quando vuoi, sai essere davvero cieco.
Uno dei due era un ragazzo brillante, curioso, ed estremamente razionale… ma non era incapace di apprezzare la bellezza, quando la vedeva; semplicemente, era convinto che la bellezza non gli servisse per sopravvivere. Quando rivide l’amico dopo un lungo periodo di separazione, rimase colpito dall’affetto che egli sembrava provare verso di lui, si sentì speciale e importante; era ancora giovane, e questo eccesso di sentimenti lo tradì per la prima, ma non ultima volta.
Quando i due furono costretti a separarsi di nuovo, si convinse che restare lontani sarebbe stata l’alternativa migliore: essere amici aveva quasi condotto l’altro al suicidio, e lui non voleva che accadesse di nuovo, perché non sarebbe stato in grado di sopportarlo. Ma non riuscivi a non pensare a lui, Sherlock, e alla fine hai ceduto, e ti sei creato una nuova identità per potergli restare accanto. Sei diventato di nuovo suo amico nei panni di un’altra persona, e così sei rimasto per quattro anni, diventando ogni giorno più geloso dell’uomo che tu stesso avevi creato. E così hai commesso i tuoi stessi errori una seconda volta, e gli hai rivelato tutto. E poi cos’hai fatto? Hai finto ancora che non fosse cambiato nulla. Credevi che per lui le cose fossero rimaste esattamente com’erano prima, e ti sei rassegnato ad occupare il posto di eterno migliore amico anche quando desideravi di più. Hai sempre anteposto John a chiunque altro, e hai sempre voluto che fosse felice con chiunque si trovasse, non ti è mai importato che non ricambiasse i tuoi sentimenti. Per questo perdere il controllo è sempre stata la tua paura più grande: quando ti si avvicinava, ti abbracciava, ti guardava negli occhi… temevi che i tuoi sentimenti prendessero il sopravvento e ti spingessero a compiere azioni di cui poi ti saresti pentito, perché credevi che in questo modo lo avresti perso.
Idiota. Lui ti ama, Sherlock. John è come te: non è insensibile alla bellezza.
 
 
 
“Quello posso spiegartelo io. La sera in cui io e John abbiamo… la sera in cui ci siamo… chiariti, lui era venuto a dirmi che aveva intenzione di lasciare l’Inghilterra, e io… io l’ho baciato. Quando si è tirato indietro, ho creduto che non avesse… accolto positivamente la mia avance, e l’ho pregato di perdonarmi, perché avevo perso il controllo. È sempre stata questa la mia più grande paura, perdere il controllo e compiere un gesto che avrebbe potuto rovinare la nostra amicizia. Quella notte, però, mi sono lasciato andare… e lui è rimasto con me. Se non l’avessi fatto lui sarebbe partito, e non mi avrebbe salvato la vita. Credo che essere soggiogato dal tempo significhi proprio quello che avevamo ipotizzato sin dall’inizio: restare in vita.”
 
“Se è come dici… tutto è bene quel che finisce bene, allora” dico con calore, poi cambio argomento: “Avete continuato a lavorare per l’Ordine della Fenice anche dopo quella notte?”
 
“Sì, ma non a Londra. Stiamo facendo delle ricerche per capire come si è perso il diadema di Corvonero, perché nessuno ne ha più saputo nulla anche se dovrebbe essere a Hogwarts, e dove potrebbe essere nascosto. Se riuscirò ad escogitare un piano per rientrare a Hogwarts, lo cercheremo di nuovo lì. Per il momento, però, la scuola è off-limits, soprattutto per noi. Piton non ci reggerà più il gioco: non basta essere un bravo Legilmens per scampare totalmente al pericolo di essere scoperto.”
 
“Vedete di fare in modo che Harry Potter vinca questo scontro, perché ho tutte le intenzioni di mandare mia figlia a Hogwarts, quando sarà ora” ordino io, inarcando le sopracciglia.
 
“Se tornerete a Londra, avvertiteci” dice Sherlock. “Speriamo di tornare a Baker Street, una volta che la guerra sarà finita. Potrete venirci a trovare.” Povero Sherlock. Credo che la figlia che John non ha mai avuto manchi più a Sherlock che al padre. Chissà, forse gli farebbe bene trascorrere un po’ di tempo con Clara… anche se non so come crescerebbe la mia bambina, tra Sherlock Holmes e David.
 
“Certo, sarà bello incontrarci di nuovo. Suppongo che non possiate passare molto spesso a farci un saluto qui in Canada, vero?” La mia domanda è puramente retorica. È già un miracolo che siano riusciti a raggiungere l’America una volta, e so che non ci rivedremo più, almeno finché Voldemort avrà il controllo del Regno Unito.
 
Mi affretto a cacciare lo sconforto alzandomi dalla poltrona ed esclamando: “Ma ora, basta parlare di guerre. È Natale, e per oggi voglio festeggiare. Forza, venite in cucina. Questa mattina Clara e David hanno preparato dei crostini, e li ho addirittura resti commestibili.”
 
“Arriviamo subito.” Sherlock mi rivolge un mezzo sorriso, per poi incrociare lo sguardo di John, che stava già per alzarsi in piedi e ora lo scruta con curiosità.
 
Sogghigno, e li lascio soli. Non ho bisogno di origliare per sapere cosa si diranno: l’ho già sognato.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Precisazione: la cosa del “perdere il controllo” non me la sono inventata io: Benedict Cumberbatch ha appunto detto in The Sherlock Chronicles che secondo lui “la più grande paura di Sherlock è di perdere il controllo”; io l’ho interpretata a modo mio… in modo non molto diverso da come l’ha interpretata la BBC, dato che per promuovere quel libro ha abbinato quella frase a un’immagine Sherlock con un’espressione sconvolta mentre John lo abbraccia ¯\_()_/¯
E così, dopo 11 mesi e qualche spicciolo, siamo giunti alla fine. Sono felice di aver scritto il sequel di Quidditch con delitto, perché queste due versioni di Sherlock e John avevano ancora tanto da raccontarmi, e solo ora sento di poter mettere davvero la parola “fine” a quest’avventura.
Vi ringrazio per aver seguito questa storia. Vi ringrazio tantissimissimo. Probabilmente mi sto ripetendo, ma sapere che esistono delle persone che ogni settimana leggono ciò che io ho scritto è fantastico, e non avete idea di quanto mi faccia sentire bene. Sarò davverodavverodavvero felice se vorrete lasciarmi scritto qualcosa, anche solo poche righe, per dirmi se questa storia vi è piaciuta e cosa non vi ha convinto, o anche se vi ha fatto proprio schifo ma qualcosa lo salvereste. Anything.
Ho tutte le intenzioni di continuare a tenermi impegnata, e ho già un po’ di idee che mi frullano per la testa, quindi credo che mi rivedrete sulla sezione dedicata a Sherlock molto presto.
Che dire? Buona continuazione dello hiatus, gente.
Peace out!
-Smaugslayer

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