Hamlet Vittoriano di Dew_Drop (/viewuser.php?uid=127372)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** St Jerome ***
Capitolo 2: *** Il nostro Diavolo ***
Capitolo 3: *** Barrymore offre un te' ***
Capitolo 4: *** Questa sera alle 20.30 ***
Capitolo 5: *** L'ordine delle cose ***
Capitolo 1 *** St Jerome ***
Prologo - St Jerome
HAMLET VITTORIANO
"I could be bounded in a nutshell, and count myself a king of infinite space."
Amleto: atto II, scena II
[Si ringrazi la GiudiciA per i bellissimi banner] Mi
rendo conto che è da parecchio che non pubblico qualcosa, per
cui mi sono messa al lavoro e ho sfornato questa breve storia. Si
tratta di cinque capitoletti in tutto, prologo ed epilogo compresi.
Avrei voluto ampliare un poco, ma ho preferito limitarmi per
comodità. Quest'originale si è guadagnata il primo posto nel Contest "Sangue e
Pazzia", indetto da Yuko Chan. Grazie.
E devo ammetterlo, è
la prima volta che tratto il genere. Nonostante tutto, considerazioni
critiche positive o negative saranno sempre ben accette. Per scrivere
di questa vicenda, ho dovuto fare qualche ricerca circa l'ambientazione
e i costumi; se tra di voi c'è un appassionato e profondo
conoscitore dell'Inghilterra di fine Ottocento, chiedo scusa per
eventuali discrepanze.
Infine, ultima cosa. I cosiddetti "easter eggs"
sono degli elementi per lo più nascosti, dichiaramente
impliciti. Ebbene, questa storia è un giallo, credo. E
forse, dico, forse ho sparso
qualcosa fra le righe. Indizi, fili di Arianna. A voi la scelta se
indagare o meno. Per quanto mi riguarda, alla fine svelerò tutte
le piccole curiosità e coincidenze che mi sono divertita a
nascondere.
Buona lettura <3
* * *
PROLOGO:
ST JEROME
«Padre, ho peccato.»
Nel
confessionale, padre Wilfred si riscosse. Benché annunciate dal
debole scricchiolio dell’inginocchiatoio, quelle parole
l’avevano colto di sorpresa. Fino a pochi istanti prima credeva
che più nessuno avrebbe messo piede in quell’umile chiesa
poco lontana da Londra: il sole aveva già cominciato ad
abbassarsi dietro il piccolo campanile di St Jerome, lasciando
così che le prime ombre del tramonto si allungassero sulle vie
come tante mani di demoni, e, poteva giurarci, i diffidenti abitanti di
quell’angolo di mondo si affrettavano a chiudere i loro negozi e
a rientrare svelti a casa. L’avrebbe fatto anche lui, se solo la
sua intenzione non fosse stata schiaffata sul nascere da quel penitente
dell’ultimo minuto. Strinse un poco il crocifisso che teneva in
grembo e, nella semioscurità del confessionale, girò lo
sguardo.
La voce
era arrivata da destra. A parlare era stato un uomo, di cui poteva
indovinare solo il colore dei capelli, di una tonalità scura
come caffè macinato. La grata di legno che li divideva lasciava
intravedere troppo poco, com’era giusto che fosse. Padre Wilfred
aveva imparato a convivere con il fitto schema delle pareti dei
confessionali e già da anni aveva smesso di cercare
d’indovinare chi s’inginocchiava dall’altra parte. I
penitenti, si diceva spesso, avevano poi tutti lo stesso volto; quello
di una creatura umana che si poneva anima e corpo nelle mani di Dio.
«In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti»,
recitò, in tono stanco ma benevolo. Il tono di un padre
paziente, quarantatre anni sulle spalle, in eterno dialogo con Nostro
Signore. «Confessa i tuoi peccati, figliolo, e il nostro buon Dio
poserà la sua mano clemente su di te.»
«Ho
ucciso un mio fratello», venne dall’altra parte. E poi,
dopo ancora un momento, stavolta con la voce distorta da un brivido:
«Ho ucciso un uomo, padre.»
Il parroco
si sentì formicolare la base della nuca e le sue dita, in cui
era morbidamente adagiato il crocifisso, si strinsero con più
fermezza, obbedendo al fremito che gli aveva passato la coscienza da
parte a parte. L’impressione era quella di un gelo ora tangibile,
affilato come spilli di ferro. Vero, la clemenza era destinata a
chiunque, ma mai, mai aveva creduto che un giorno avrebbe ascoltato una
confessione simile. Fuori, oltre la grata, il penitente aprì di
nuovo bocca.
«Padre. Mi avete sentito?»
Ora
c’era un velo di supplica, in quella voce. Pareva la domanda di
un ragazzino spaurito che, dopo una marachella, si consegna a testa
bassa sotto gli occhi torvi e accigliati del genitore. Il paragone
costò a padre Wilfred la stessa, inquietante sensazione di
un’unghia che percorreva sinuosa la sua spina dorsale, gioendo
del brividi che s’infilavano rapidi nelle ossa. Oh Dio, pensò. Buon Dio.
«Vi
prego», si sentì dall’altra parte, dietro la griglia
di legno, dietro quel contorto gioco di asticelle che nascondeva il suo
volto. Era quasi un pigolio, ora, come se le labbra gli tremassero in
modo incontrollabile. Labbra forse umide, sotto guance umide, sotto
occhi umidi. «Oh, vi prego. Io posso spiegarvi. Il Diavolo si
è servito della mia mano. Vi prego, padre, vi scongiuro.
Salvatemi.»
Gli
assassini non entravano nelle chiese. Non passavano tra le panche, non
s’inginocchiavano con cristiana sofferenza accanto ad un
confessionale occupato. Soprattutto, i veri assassini non si pentivano.
Eppure era ciò che quell’uomo stava facendo, mormorando la
sua peccaminosa mancanza in un luogo tanto sacro e caro a Dio. Wilfred,
immobile nella penombra come una criminale braccato, deglutì
cercando di fare meno rumore possibile e girò di nuovo gli occhi
quando scorse, attraverso i piccoli fori squadrati, che l’uomo si
era mosso.
«Lasciatemi vedere il vostro volto», stava dicendo.
«Lasciatemi vedere gli occhi dell’uomo a cui dovrò
la mia salvezza. Se solo usciste... se solo io potessi vedervi,
potremmo sedere insieme. Potrei mostrarvi perché questa mano
è stata maledetta», e il parroco vide, sollevata contro la
griglia, la mano di cui parlava. Tremava convulsamente contro il legno,
tanto che i brividi riuscivano a scuotere le dita. Dita lunghe,
affusolate. Le dita di un artista. «Oh, vi prego. Uscite, padre.
Uscite e salvatemi. Io voglio essere salvato.»
La mano si
era mossa. Era scivolata oltre la griglia, fuori dal suo campo visivo,
diretta alla piccola maniglia intarsiata del confessionale. Quella sola
constatazione bastò a schizzare adrenalina e panico nelle vene
di padre Wilfred, che sembrò riscuotersi di colpo.
«Non aprite, per Dio! Non aprite!»
«Siate generoso», diceva l’uomo. Ora singhiozzava. La
sua mano non c’era più, già scivolata alla
porticina. «Siate caritatevole. Uscite. Salvatemi.»
«Non...!»
Il sangue gli era salito alle tempie. Pulsava dolosamente. Fece per
precipitarsi contro la porticina, tentò di afferrare e bloccare
la maniglia dall’interno.
Troppo tardi.
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Capitolo 2 *** Il nostro Diavolo ***
SECONDO
CAPITOLO PRIMO:
IL NOSTRO DIAVOLO
(Cinque giorni prima)
Togliendosi il
cappello, Jonathan Barrymore alzò gli occhi sulla facciata della
palazzina. Il suo era uno sguardo particolare, di un insolito e non ben
definito colore tra il verde e il nocciola. Per via dalla sottile
insofferenza che pareva trasmettere, chiunque, almeno di prima battuta,
avrebbe trovato la sua compagnia quasi sgradevole; buffo, se si teneva
in conto che questa prima impressione si rivelava poi vera nella gran
parte dei casi. In pochi avevano il coraggio di trovare simpatico un
uomo come lui, dall’espressione quasi sempre accigliata e dai
modi inspiegabilmente bruschi. Alcuni si spingevano persino a chiedersi
come mai di mestiere facesse l’investigatore quando la sua faccia
somigliava più a quella di un taciturno omicida seriale. Era una
considerazione che passava sotto silenzio, ma che ben si leggeva nelle
pupille di chi stava a guardarlo. Come in quel momento, quando si
accorse che un giovane poliziotto aveva sceso i gradini che salivano
all’ingresso e gli stava venendo incontro, timidamente, quasi con
diffidenza. Osservandolo, notò le sue guance accese, gli occhi
ansiosi e il suo respiro salire nell’aria umida sottoforma di
condensa. Poi notò che era anche pallido e allora capì
che al primo piano della palazzina c’era davvero qualcosa di
interessante da vedere.
Si
avvicinò a sua volta, si scambiarono poche parole. Attorno, in
quella strada di ciottoli solitamente affollata di carrozze e signore a
passeggio, si era radunata una modesta folla di curiosi. Alcuni agenti
erano impegnati a tenere alla larga una piccola pattuglia di
giornalisti, pochi audaci che allungavano il collo per sbirciare verso
la palazzina. Lavoravano per l’Inquisitor, indovinò
Barrymore con una piccola vena di fastidio, gettando loro uno sguardo
mentre saliva i gradini dietro al poliziotto. Era facile riconoscerli,
con quella loro proverbiale impazienza e quei cravattini tagliati col
righello. Anche per questo, per la voglia di sottrarsi alle loro
domande, entrare e lasciarsi alle spalle l’umidità della
strada fu oltremodo piacevole.
L’interno
non aveva nulla di eccezionale. Mentre saliva lo scalone dietro al
giovane agente – Peter, si chiamava, e lo ricordò con la
leggerezza di chi leggiucchia un appunto di poco conto -, si
domandò perché mai un facoltoso uomo americano fosse
approdato nel Vecchio Continente e si fosse sistemato in una palazzina
così modesta. La vittima, gli avevano già detto, era un
newyorkese. Lo domandò al poliziotto, che ora si infilava nel
corridoio del primo piano, e lui si strinse nelle spalle:
«Signore, state parlando di un americano.»
La risposta
aveva un suo perché. Si era alle porte del Ventesimo Secolo e
gli americani, che fossero banchieri o pionieri dell’ingegneria e
della finanza, si presentavano alle porte inglesi portandosi dietro le
loro grandi idee da uomini migliori. Molti non si preoccupavano nemmeno
di comprarsi una proprietà, così capitava che
alloggiassero per qualche periodo in luoghi poco consoni al loro
rispettabile grado di Invasori Col Dollaro. Era un’espressione
che a Barrymore piaceva, tanto che finiva col sorridere ogni volta che
ci pensava. Non fu così quel giorno, quando fece il suo ingresso
nell’appartamento di Eugene T. Sullivan, cinquant’anni,
modesto inventore arrivato solo due mesi prima da Brooklyn. Peter gli
fece strada attraverso il salotto, dove altri agenti alzarono gli occhi
su di loro con una sorta di calcolata insofferenza. Routine, sembravano
dire i loro sguardi, eppure ogni espressione tradiva un sottile filo
d’ansia, lo stesso grado di pallore che l’investigatore
aveva scovato sulla faccia del suo docile accompagnatore.
Peter si
fermò di fianco all’arco che portava in una stanza
adiacente. «L’abbiamo trovato così», disse.
«Non abbiamo alzato un dito.»
E una volta
lì di fronte, Jonathan Barrymore capì perché.
Reggeva ancora il capello in mano, ma se durante il tragitto aveva
continuato a soppesarlo distrattamente, quasi convinto da un tic
abitudinario, ora se ne dimenticò all’istante. Si
fermò sulla soglia.
Sì, interessante. Decisamente interessante.
La stanza si
era rivelata essere un ufficio, più lungo che largo. In linea
con l’ingresso, a forse cinque o sei passi di distanza, si
trovava la scrivania. Sullivan sedeva là dietro, riverso
sull’alto schienale, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la
testa inclinata su una spalla. Gli occhi azzurri sbarrati, la bocca
semiaperta nel ghigno di un diavolo. Un colpo d’arma da fuoco gli
aveva centrato la fronte e l’aveva passato da parte a parte,
aprendo un ventaglio rosso sulla parete dietro di lui. Ma questo
scenario poteva dirsi regolamentare se paragonato al resto. Con un
brivido involontario, Barrymore rifletté che là dentro un
geometra sarebbe stato più azzeccato di un investigatore.
L’intera
stanza, eccezion fatta per il soffitto, era stata incisa con pazienza
chirurgica, sia in senso orizzontale che verticale. Le linee, nemmeno
troppo sottili, percorrevano non solo le lucide assi di legno dei muri
e il parquet, ma anche i mobili e la scrivania. Lo specchio aveva
ricevuto lo stesso trattamento e la sua superficie era percorsa da
fitti graffi che passavano oltre, scendevano e proseguivano poi sul
pavimento, sempre dritti, sempre impeccabili. Laddove le incisioni
incontravano la vittima, divenivano tagli da cui era sgorgato
praticamente tutto il sangue che le vene di Sullivan contenevano. Era
come se l’assassino, dopo avergli sparato quel colpo in testa, si
fosse divertito a tracciare una griglia; come se avesse avuto la
lucidità, la pazienza e il tempo di incidere ogni asse, ogni
angolo, ogni cosa. Barrymore se lo vide, quell’uomo che aveva
appena ucciso un altro uomo, mentre tracciava la prima incisione e pian
piano si piegava, si inginocchiava per segnare anche l’angolo e
poi cominciava a muoversi a carponi, all’indietro, segnando il
pavimento con la stessa linea, senza mai staccare il suo strumento di
lavoro finché non avesse raggiunto e inciso anche la parete
opposta fin dove il suo braccio poteva alzarsi. Così per altre
centinaia di righe, così anche sul corpo di
quell’americano facoltoso sbarcato per presentare
all’Inghilterra le sue invenzioni da Invasore Col Dollaro.
No, non era
divertente. Non c’era poi nulla di divertente nel pensiero che
l’assassino aveva disegnato una griglia senza un motivo
apparente. Tutta quella geometria era morbosa. Tutto, da
quell’angolazione, pareva schiaffargli in faccia il gran sorriso
di un uomo di spettacolo e il suo allegro: “Entrate, entrate! Questa sera ho preparato per voi uno spettacolo U-N-I-C-O!”.
Barrymore si domandò se non fosse impallidito a sua volta come
era stato per tutti gli agenti che ora parlottavano piano in salotto.
Per quanto
sulle prime non avesse avuto modo di farci caso, nell’ufficio non
c’era solo Sullivan in compagnia della firma
dell’assassino. Se ne accorse solo quando l’ispettore, che
stava discutendo con due agenti vicino alla scrivania, notò la
sua presenza e sventagliò la mano per liquidare i due
giovanotti. Si avvicinò alla soglia a passo svelto.
«Ce ne avete impiegato, di tempo, ad arrivare.»
Jonathan
spostò gli occhi su di lui. Non aveva mai provato troppa
simpatia per quell’uomo basso e tarchiato, dalle movenze ben poco
aggraziate, e lo consolava il fatto che il sentimento fosse
corrisposto. A dire il vero, non era mai corso buon sangue fra lui e
Paul McArthur.
«Ispettore McArthur. In effetti mi domandavo perché mai mi aveste fatto chiamare.»
«Solo per farvi
dare un’occhiata.» Con una smorfia, McArthur allungò
il braccio di fronte a sé come un prestigiatore che mostra il
suo numero più audace. «E perché siete il migliore
in casi come questi.»
Barrymore lo
osservò a sopracciglia alzate mentre cominciava a muoversi.
L’ispettore, cogliendo il suo scetticismo e andandogli dietro, si
schiarì la voce:
«Intendevo, nei casi in cui abbiamo a che fare con un pazzo.»
Qualcosa di
quella geometria era cambiato. Ora che si era spostato
dall’ingresso, le linee non parevano più così
perfette. Eppure, più si spostava verso la scrivania, più
la griglia sembrava riprendere qualcosa del suo iniziale fascino. Come
se si stesse avvicinando all’angolatura migliore, a quella
più giusta fra tutte. Al posto d’onore a teatro,
pensò mentre riprendeva a soppesare il cappello.
«Confido che gli americani non pretendano le indagini», disse spostando gli occhi attorno.
«Se
pensano di soffiarci il caso solo perché il poveretto è
uno di loro, allora non conoscono Scotland Yard.»
«Ci
proveranno, fidatevi. Sono americani, quindi convinti che Dio sia
americano a sua volta.» Barrymore si fermò su un fianco
dalla scrivania. Il sangue sgorgato dai tagli sul corpo si era
allargato a terra in un’ampia pozza lucida, riempiendo le
incisioni che in quel punto segnavano il pavimento. Ora che si trovava
lì, vide che la geometria della griglia aveva ritrovato la sua
iniziale eloquenza. Per una breve frazione di secondo si sentì
strizzare le viscere, complice la scomoda sensazione di essere proprio
nel posto d’onore. Lì il palcoscenico era incredibilmente
perfetto, più di quanto lo fosse se lo si osservava
dall’ingresso. Non c’era una singola linea fuori posto. Era
come guardare una superficie bidimensionale.
«Eugene
Thomas Sullivan era semplicemente un ospite della nostra
bandiera», stava intanto replicando l’ispettore, il tono
convinto da vivo patriottismo. «Quelli come lui sono sicuri che
il secolo prossimo sarà americano. Peccato che, se anche fosse
vero, manca ancora una decina d’anni al glorioso Novecento.»
L’investigatore si voltò e dietro di sé
trovò un piccolo armadio, le cui ante riprendevano lo schema
della griglia. Un gioco del genere lo si poteva trovare su un
paravento, oppure su un confessionale. Osservò il legno del
mobile e lo trovò intatto. Nessuna incisione. Era l’unica
cosa là dentro che non fosse stata segnata. Oh, mio caro
aspirante geometra, pensò fra sé e sé. Questa me
la dovrai spiegare.
«Davvero
credete che l’ambasciata americana si interesserà al
caso?» chiese McArthur, con il tono di chi cambia argomento
perché consapevole di aver annoiato l’interlocutore.
Barrymore
tornò a guardarlo e gli rifilò un breve sorriso.
«Sapete cos’altro pensa un buon americano?»
L’altro scosse il capo.
«Che noi
inglesi siamo buoni solo in materia di tè e patriottismo. Quindi
dimostriamo che si sbagliano, mettiamoci al lavoro e scopriamo
perché il nostro diavolo ha la passione per la
geometria.»
2
(Nel presente)
Il ragazzo si
chiamava Cecil Goldwine. Era un cognome singolare, aveva riconosciuto
padre Wilfred, e il giovane si era limitato ad un: “Lo so. Me lo
dicono in molti”, mentre si asciugava gli occhi. Dimostrava forse
trent’anni, magari qualcosa in meno, ma il sacerdote non aveva
avuto intenzione di perdersi in un dettaglio di così poco conto,
tanto che nemmeno glielo aveva domandato. Conoscere vita, morte e
miracoli di quell’uomo che aveva spalancato il confessionale non
gli era nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Una volta
aperto il piccolo uscio, il ragazzo si era semplicemente accasciato
lì di fronte, le mani morbosamente aggrappate alla maniglia e il
capo incassato fra le spalle. Stava davvero singhiozzando e Wilfred, a
quella vista, aveva buttato nell’angolo l’idea che
quell’uomo volesse aggredirlo. Quasi si vergognò al
pensiero che solo pochi istanti prima lo aveva creduto una vera
minaccia. Goldwine non era affatto una minaccia. E come poteva esserlo,
come, se non era nemmeno stato in grado di rimettersi in piedi da solo?
Così il sacerdote si era accostato, l’aveva aiutato a sollevarsi, gli aveva parlato con calma. Perché non andiamo a sederci?, era parso chiedere con lo sguardo, mentre accompagnava il giovane verso la fila di panche. Sediamoci, raccontami. Dimmi come puoi avere ucciso, tu che piangi davanti al confessionale di una chiesa.
Si accomodarono
alla prima panca di fronte all’altare. Il giovane si passò
le mani sul volto per asciugarsi le guance, con una rabbia quasi
sofferente. Gli tremavano le dita e Wilfred credeva che sarebbero
trascorsi dei minuti prima che smettessero. Così fu,
perché smisero di fremere solo dopo i convenevoli e la storia
che Cecil Goldwine voleva raccontare. Il prete lo lasciò fare,
senza intervenire, consapevole che non erano domande quel che cercava,
ma risposte. Perse la cognizione del tempo e il violetto che filtrava
dalle vetrate bastò a dirgli che il sole era ormai tramontato
del tutto quando Goldwine trasse le conclusioni:
«Le cose
sono andate così. Io ho ucciso quell’uomo senza alzare un
dito contro di lui, senza nemmeno averlo mai conosciuto. Questa,
padre... questa è la prova.»
Indossava un
cappotto scuro, forse un poco bistrattato, ma capace lo stesso di una
saggia e polverosa eleganza. Il giovane uomo ne scostò un lembo
e tuffò una mano nella grossa tasca interna. Quando la
allungò verso Wilfred, tra le lunghe dita stringeva un piccolo
fascicolo spiegazzato.
Il sacerdote lo
prese e lo aprì, portandosi sotto agli occhi la prima pagina.
Goldwine gli aveva detto che la sua unica colpa era stata quella di
scrivere una piccola tragedia famigliare, perché era il teatro
la sua professione, e che l’omicidio di cinque giorni prima, reso
noto dalla stampa in gran parte dei suoi dettagli, riprendeva passo per
passo quel che aveva scritto. Ebbene, ora che Wilfred aveva quei fogli
sotto agli occhi, si rese conto che effettivamente le due cose, fatto
fittizio e fatto reale, non si limitavano ad una casuale e trascurabile
somiglianza. Ci aveva sperato, in coscienza, che quel giovane uomo di
palcoscenico fosse semplicemente matto o paranoico, e invece doveva
ricredersi. Aveva letto dell’assassinio di quell’americano,
così come conosceva a grandi linee, come quasi tutti i
londinesi, quel che gli agenti avevano trovato. Scotland Yard aveva
probabilmente cercato di far passare sotto silenzio il particolare
più inquietante, ovvero quelle fitte righe orizzontali e
verticali che disegnavano una griglia sull’intera scena del
crimine, ma la stampa inglese era stata più astuta e nessuno
aveva potuto evitare una fuga di notizie.
E in quel
momento, raccogliendo con gli occhi alcuni tratti della scena in cui
Miles – questo il nome dell’assassino nella tragedia
– uccideva il fratello George Patrick, si accorse di come le due
cose corressero l’una parallela all’altra, come un malato,
inquietante gioco di specchi. Miles sparava in fronte al povero George
mentre questi sedeva alla scrivania, e l’americano era stato
trovato morto nello stesso frangente; Miles agiva per denaro, come un
vampiro partorito da un mondo vicino ad capitalismo, e George era ricco
e prossimo a investire il suo denaro in un affare che il fratello non
appoggiava. Il povero Sullivan, trovato morto cinque giorni prima, di
soldi ne aveva effettivamente a bizzeffe. Coincidenza? E un momento,
Wilfred ricordava persino la foto sul giornale, che ritraeva lo studio
in cui era stato trovato il cadavere. Senza la vittima, certo.
“Di fronte alla scena: quel che hanno trovato gli agenti”,
recitava il commento appena più in basso. Se lo ricordava
ancora, come se immagine e frase costituissero un pacchetto unico. E
quello studio era incredibilmente simile, anzi assolutamente uguale
alla descrizione del luogo in cui il fittizio Miles sparava allo
sfortunato George Patrick.
Mancava la
griglia, questo sì. Ma poco importava alla luce del fatto che,
di fronte a quelle righe, padre Wilfred avvertì
un’incomoda sensazione di nausea stringergli lo stomaco. Per un
attimo si domandò perché un giovane di bell’aspetto
come Cecil Goldwine, all’apparenza così discreto e di
buone maniere nel suo cappotto da umile gentiluomo, avesse deciso di
scrivere di un omicidio; poi si rese conto che il silenzio fra loro era
durato troppo e alzò gli occhi, reggendo ancora il fascicolo fra
le mani.
«Mi avete detto di lavorare per il teatro», fu in grado di dire.
«È così, padre.»
«Mi avete
anche detto che siete solo un aspirante attore, un aspirante poeta e un
aspirante uomo di cultura.»
Questa volta
Goldwine non rispose. Nei suoi occhi grigioverdi vibrava un sottile
filo di perplessità. Aveva capito dove il suo interlocutore
voleva arrivare. Wilfred tradusse il suo silenzio come
un’affermazione e continuò, con lo stesso tono di voce.
L’atteggiamento di chi conta le monetine scoperte nella tasca di
una giacca inutilizzata da tempo. Un due più due facile facile.
«Siete anche un aspirante assassino?»
«Io non
ho ucciso quell’uomo», scattò il giovane con una
punta di impazienza, sottolineando ogni parola. Se qualche minuto prima
era caduto in ginocchio davanti al confessionale, in lacrime come un
ragazzino rimasto orfano da meno di tre secondi, ora la sua espressione
si era fatta di ferro. «Ve l’ho detto, padre: quella
tragedia è pura fantasia. Volevo cimentarmi nel genere
drammatico e così ho fatto. Non ho alzato un solo dito contro
quell’americano. Quando ho letto la notizia sui giornali, ho
seriamente meditato di tagliarmi la mano. Perché
quell’inchiostro l’ho messo io, sulla carta, e il Diavolo
si è servito di questa storia per trasformare la finzione in
sangue vivo.»
Padre Wilfred
lo osservò per qualche attimo da sotto le folte sopracciglia
brizzolate. Riconosceva che le vicende costituivano
un’inquietante coincidenza, ma non voleva nemmeno credere che il
Diavolo c’entrasse qualcosa. L’epoca degli esorcismi era
passata. Era stata una fortuna che Cecil Goldwine avesse raccontato
quella storia a lui, che tutto era fuorché un fanatico
religioso, e non ad un altro confessore.
«Io voglio credervi, Goldwine.»
«Credete
che sia stato il Diavolo? Non può essere altrimenti, padre. Vi
prego, voglio essere salvato.»
Oh, a quanto pare abbiamo sì un fanatico, e non sono io, pensò Wilfred, con una vena di sarcasmo per cui subito chiese perdono a Nostro Signore.
«No,
figliolo. Non credo che il Diavolo abbia qualcosa a che fare con questa
storia. Nemmeno credo che dobbiate rivolgervi a me»,
spiegò con pazienza.
Goldwine lo
guardò. Tempo pochi secondi e aveva capito a cosa il sacerdote
si stesse riferendo. «Non ho nulla da dire agli uomini di
Scotland Yard. Io non ho nemmeno mai conosciuto
quell’americano.»
«Siete
sicuro che nessun altro abbia letto questa vostra... opera?»,
domandò padre Wilfred, facendo per restituirgli il fascicolo.
Chiamare “opera” un gruppetto di cinque fogli mai messi in
scena era forse troppo, ma sapeva quanto gli artisti fossero
suscettibili. «Ho notato che il lavoro non è stato
concluso.»
«Decisi
di interrompere la stesura. Per moralità, direi.» Cecil
prese il fascicolo e abbandonò le mani tra le gambe, prendendosi
una pausa. Non era più sulle difensive e la sua voce aveva
acquisito una nota più disponibile e riflessiva. «A
suggerirmi la storia di fondo è stato un mio amico. Gran parte
dei dettagli, come la descrizione fisica dei protagonisti e il loro
carattere, è invece farina del mio sacco. Per questo sento di
essere complice di un delitto a cui non ho invece preso parte.
Fisicamente Sullivan e George Patrick sono molto simili. E
quell’ufficio... Dio, l’ufficio.»
«Questo
vostro amico...», cominciò Wilfred, posando i gomiti sulle
ginocchia e allungandosi un poco verso di lui. «Questo vostro
amico, Cecil... Come si chiama?»
Quando Goldwine
alzò gli occhi, vide che il sacerdote si era fatto più
vicino. Lo osservava con pazienza e morbida discrezione, con la cautela
che si mostra di fronte ad un diffidente cucciolo di lupo. Si rese
conto a che conclusione sarebbe giunto e il pensiero gli infilò
dita ghiacciate in fondo alla coscienza.
«No», disse, e scoprì di avere paura.
«È mio amico, padre. Non farebbe mai una cosa
simile.»
Wilfred se ne
accorse e gli posò una mano sulla spalla. «Se volete
essere salvato... Se volete salvarlo, allora dovete dirmelo. È
la sola pista che potrebbe consegnare il colpevole alla giustizia,
degli uomini e di Dio.»
Cecil Goldwine
non riuscì a sostenere il suo sguardo. Chinò di nuovo il
capo e, alzando un poco il mento, sbirciò l’altare di
fronte. Così luminoso benché fosse sera, così
imponente benché fosse modesto, così giusto benché
lui stesse per mettersi in bocca un amaro, difficile tradimento.
«Marcel August Redmayne», mormorò. «Si chiama Marcel.»
* * *
Non sono solita soffermarmi alla
fine di ogni capitolo, forse perché son dell'idea che a destare
curiosità debba essere il capitolo in sé, non certo il
parere che un autore mette in coda ad ognuno. Per cui vi lascio alle
vostre "indagini", miei cari :3
Essendo la prima volta che tratto
il genere, come già scritto, mi farebbe però piacere
ricevere dei commenti, positivi o negativi che siano. Alla prossima!
Dew_
|
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Capitolo 3 *** Barrymore offre un te' ***
Capitolo Secondo - Barrymore offre un te'
CAPITOLO
SECONDO:
BARRYMORE
OFFRE UN TE’
Attirare l’attenzione non era certo il proposito di padre Wilfred.
Aveva però da riconoscere che non era troppo usuale vedere un uomo di chiesa
percorrere il portico di fronte alla caserma di Williamsburg Street, motivo per
cui passò senza tanti convenevoli tra gli sguardi di quegli agenti fermi a
chiacchierare tra una colonna e l’altra. Una volta nell’ingresso, il via vai
delle persone che affollavano la saletta gli concesse un poco di tregua. Non
che fosse agorafobico, ma doveva pur esistere una ragione che l’aveva spinto a
chiudersi in preghiera con un confortante e onnipresente amico immaginario. Suo
padre amava definirla “inadeguatezza sociale”. Il minimo dell’impegno,
considerando che di professione era stato un avvocato sfortunato in modo quasi
mistico.
Ora che si trovava fra quattro mura, realizzò davvero quanto fuori
l’umidità fosse ghiacciata. Lì alla luce del vecchio lampadario che illuminava
le ombre frettolose di chi passava, l’aria dava almeno una parvenza di calore.
Gli passò accanto una piccola donna con un fazzoletto premuto sulla bocca e sul
naso, a passi così svelti che a malapena Wilfred si accorse che stava
singhiozzando. Non riuscì a ritrovarla quando si volse per cercarla fra chi
entrava e chi usciva dalla porta a due ante.
«Posso aiutarvi, padre?»
A porgergli la domanda era stato un agente più ragazzo che uomo. Si
era avvicinato in silenzio, incuriosito dalla tonaca, e attendeva la risposta
con altrettanta aspettativa.
«Cerco un investigatore che lavora per questo distretto. Barrymore.
Sono qui per il caso dell’americano». “L’americano”.
Nome e cognome erano facoltativi, considerato che in quei giorni la cronaca
londinese non parlava di altro. Per questo, quando l’agente lo osservò con una
nota di perplessità, Wilfred capì che non era stato quello a stampargli in
faccia quell’espressione. «Ho delle informazioni», aggiunse quindi,
improvvisamente imbarazzato. «Informazioni importanti.»
Il suo giovane interlocutore gli riservò un ultimo sguardo prima di
fargli un cenno e invitarlo a seguirlo. «Da questa parte.»
Ecco un altro motivo per cui Wilfred preferiva i confessionali. Gli
costava una punta di sollievo sapere che altri non potevano osservare le sue
espressioni e che soprattutto lui non poteva vedere quelle altrui. Quello che
invece vide sul volto dell’agente prima che si voltasse fu un filo di sospetto,
la diffidenza tipica e macinata di un Bobby1 qualsiasi che portava
divisa, mantellina e cappello a cilindro. Preferì non commentare, seguirlo in
silenzio attraverso la folla fino a salire un paio di gradini che portavano
agli uffici.
Le caserme erano forse i luoghi più affollati di quel quartiere. Uscire
dalla calca di gente e salire su quel pianerottolo destinato a pochi eletti –
questo almeno nelle sue interpretazioni inevitabilmente sacerdotali – gli valsero
la sensazione di avere il collare bianco un poco più allentato. Si infilarono
in un corridoio sottile, dalle pareti scrostate alle basi, in cui passavano a
malapena due persone affiancate. C’era qualche foglio a terra, ma l’agente
sembrava non farci caso. Si fermò due volte, una per chiedere ad un collega di
passaggio se Barrymore era nell’ufficio, l’altra per bussare e poi scostare
l’uscio della loro meta.
La stanzetta era piuttosto stretta, arredata del minimo
indispensabile, ma giusta per l’uomo che alzò gli occhi da dietro la scrivania.
Nell’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono, Wilfred decise che
Jonathan Barrymore non gli piaceva; poi si ricordò che i preconcetti non erano
moralmente giusti e dedicò una silenziosa penitenza al suo Credo. La realtà era
che anche l’investigatore sembrò avere lo stesso parere sul conto di
quell’inatteso ed inusuale ospite: le sue pupille si mossero guardinghe lungo
la sua figura docile, inquadrando gli elementi che lo etichettavano come prete,
poi ascoltò l’agente. Infine, il verdetto:
«Per l’americano. Va bene, Peter. Lasciaci.»
Peter era piuttosto magro per la sua statura. Per questo non ebbe
problemi a scivolare dietro a Wilfred il necessario per aprire di nuovo la
porta ed uscire senza che il sacerdote avesse bisogno di muovere anche solo un
muscolo.
«Perdonate il silenzio di poco fa», disse a quel punto
l’investigatore, alzandosi solo quando l’uscio fu di nuovo chiuso. Il suo sorriso
aveva un che di professionale, tanto da parere a suo modo sgradevole. «Ho una
certa esperienza, ma ammetto che è la prima volta che un uomo di chiesa chiede
di parlarmi per un omicidio. Avvicinatevi, prego. E sedete, sedete pure qui di
fronte.»
Wilfred lo assecondò, stringendo la mano che Barrymore gli allungò
da dietro il tavolo: «Padre Wilfred, di St. Jerome.»
«Ah, quella chiesa deliziosa», fu il commento disinteressato dell’altro
mentre si riaccomodava e metteva da parte alcuni fogli. «Mia sorella ha
desiderato sposarsi proprio lì.»
Il sacerdote stirò un sorriso reso poco convincente da una punta
d’ansia. Barrymore, vuoi per carattere, vuoi per mestiere, se ne accorse:
«Conoscevate Sullivan?»
«No. Non ho certo conoscenze così influenti: il mio compito è
quello di raccogliere le confessioni dei figli di Nostro Signore. Proprio per
una di queste sono qui.»
«Credevo che esistesse l’obbligo del silenzio, in questi casi.» Il
tono dell’investigatore tradì un velo di sarcasmo.
«Esiste, e per questo non farò il nome di chi mi ha confessato
quanto vi voglio dire.»
«Riguarda il caso?»
«È il caso, investigatore
Barrymore.»
Se prima quell’uomo gli ispirava un malcelato disinteresse, ora si
accorse d’aver ottenuto tutta la sua attenzione. Barrymore lo osservò in
silenzio, gli occhi verde nocciola sicuramente più espressivi. Fu allora che
padre Wilfred prese le redini del discorso e gli raccontò quanto accaduto il giorno
prima, omettendo come preannunciato l’identità di chi gliene aveva parlato e
descrivendogli la versione secondo cui l’omicidio di Sullivan avesse
inspiegabilmente preso vita da un’opera teatrale peraltro mai messa in scena.
«Marcel Redmayne», concluse. «Questo è il ragazzo che pare aver
aiutato il mio anonimo a stendere la tragedia.»
L’investigatore se n’era rimasto tutto il tempo con un gomito sul
tavolo, dedicando il suo interesse sia a Wilfred che alla penna stilografica che
mordicchiava con inconsapevole passione. La sua postura, se pochi minuti prima
si sarebbe detta corretta e quasi signorile, si era ora rilassata in un
portamento un po’ più grezzo. Afflosciata su un fianco, forse. Con tutta
probabilità, se sono le voglie terrene a fare di un uomo l’ombra di se stesso,
Barrymore doveva imputare all’ardore per il mistero il suo cambiamento da rigido
professionista a provinciale a trascurato inetto. La suspense lo incollò al
silenzio per ancora qualche momento, prima che si riscuotesse d’improvviso e si
rimettesse ben comodo contro lo schienale.
«Non avete con voi una copia di questo... di quest’opera?» fu la
prima domanda che gli salì alle labbra.
«No. Il mio anonimo non ha voluto lasciarmela.»
«Ma sapeva che voi sareste venuto a raccontare tutto quanto. Avete
letto sul giornale che ero io ad occuparmi del caso ed avete quindi chiesto di
me.»
Non era una domanda.
«Esatto», confermò padre Wilfred, sentendosi nello scomodo ruolo
dell’imputato.
«E lui ve lo ha permesso?»
«Sì. Mi ha detto che non si sarebbe mai presentato qui di persona.
È convinto di aver ucciso lui quell’uomo, pertanto teme di essere arrestato.»
Barrymore alzò le sopracciglia in un rapido gesto di assenso che
parve a modo suo piuttosto sarcastico. «Già. Giustificabile.»
«Per questo mi ha domandato di chiedervi se esiste la possibilità
di combinare un incontro in altra sede, così che lui possa dirvi quello che sa
e quello che ha scritto. Senza essere trattato da omicida, ovvio.»
«Dove non ci siano agenti».
«Sì.»
«Dove non ci siano, allarghiamo, manette.»
«È così».
«Di modo da essere, diciamo, solo io, voi e lui.»
Stavolta padre Wilfred annuì. L’investigatore lo scrutò con la
fronte corrucciata, in mano la penna tormentata fino a poco prima. Se la
rigirava fra le dita, perplesso, sostenendo lo sguardo del sacerdote e
masticando saliva con un movimento quasi impercettibile. Non era da protocollo
condurre interrogatori privati senza che la cosa fosse resa pubblica al
dipartimento; l’ispettore McArthur di certo non avrebbe gradito. Si trovò a
ripensare a quanto aveva appena sentito, alla coincidenza dei dettagli, al
brivido che gli era passato sotto la pelle quando si era accorto di quanto quel
mistero lo prendesse... e solo dopo un pugno di secondi appoggiò sulla
scrivania la mano aperta, così d’improvviso che la penna schioccò sonoramente
quando colpì il legno grattato. Quindi diede l’annuncio in tono deciso, neanche
avesse appena scelto il nuovo colore della tappezzeria di casa dopo una lunga e
difficoltosa riflessione.
«Vi offrirò un tè. Domani, a casa mia», disse. E così fece.
2
«Ho fatto qualche ricerca», dichiarò ad un tratto Barrymore,
mettendo da parte la tazzina.
Il grande orologio a pendolo segnava le cinque e mezza del
pomeriggio. Sembrava spiarli tutti e tre, complice il quadrante che sbucava da
dietro il paravento come la testa di una civetta. Il salotto aveva una
cert’aria di intimità, tanto che un’ora prima, entrando, Cecil Goldwine l’aveva
definito una “scatola di cioccolatini”. La moglie del padrone di casa, più
giovane del marito di forse una decina
d’anni, aveva invitato lui e padre Wilfred ad accomodarsi prima di filare a
passi svelti verso la cucina, là dove una domestica si era affacciata sbirciando
con curiosità gli ospiti. I convenevoli erano durati relativamente poco e il
dialogo si era ancorato alla questione principale solo quando il tè fu servito
e le donne sparite nell’altro salotto in fondo al corridoio.
L’investigatore aveva dato testimonianza di provare una certa
antipatia per Goldwine mentre lo ascoltava e leggeva qualche riga della
tragedia, e il sacerdote non aveva impiegato troppo a capire che in realtà si
trattava di una particolare forma di commiserazione. Eppure, dietro quella sua
espressione contrita tanto da parere indisposta, era facile cogliere anche
un’ombra di reale interesse. Barrymore sedeva di fronte a loro, in una poltrona
di cuoio verde dall’aspetto vecchio ma rispettabile, e si era limitato ad
annuire qualche volta, ad occhi bassi sui fogli, mentre Cecil gli raccontava la
vicenda. Così padre Wilfred, sentendosi un poco di troppo, aveva cominciato a
guardarsi attorno per studiare il salotto di quella modesta casa su Cornwell
Hill, finché non aveva inquadrato la piccola targa appesa sul muro, giusto
sopra al grammofono.
«La vostra famiglia è molto religiosa?», gli venne da domandare.
Barrymore alzò gli occhi su di lui mentre, chino su un lato della
poltrona, sfilava un paio di fascicoli dalla valigetta nera appoggiata lì
accanto. Colse lo sguardo del sacerdote e ne seguì la traiettoria. «Dite per
quella targa?»
«“Laddove accadono enormi
disastri naturali, con spargimento gratuito di sangue e sofferenza, dio si
rivela inconfondibilmente in tutta la sua solida inesistenza”. Suggestivo.»
«Siamo religiosi al punto giusto», si giustificò l’investigatore
con leggerezza. «Se voi là ci vedete religione, padre, io ci vedo un dato di
fatto. Trovo quella frase scientifica quanto voi la trovate mistica. Non che
questo caso sia un vero e proprio disastro, ma Dio non era certo accanto all’americano
quando qualcuno gli ha sparato in fronte.»
«Io la trovo poetica», se ne uscì Cecil. Reggeva la tazzina di tè
con entrambe le mani e sedeva ritto sulla schiena, neanche avesse timore di
accomodarsi sullo schienale del divano.
Barrymore roteò gli occhi in un gesto d’impazienza e si posò in
grembo i fascicoli che si era adoperato per pescare dalla valigetta. «Interpretazioni.
Credo che, in una stanza così piccola, un investigatore, un uomo di chiesa e
uno pseudo letterato non potrebbero mai andare d’accordo.»
Padre Wilfred scoccò un’occhiata di supporto a Goldwine, che gli
indirizzò di rimando un’espressione colpevole.
«Marcel Redmayne non mi è nuovo», riprese il padrone di
casa, in tono improvvisamente pratico. «Quando ieri vi ho sentito pronunciare il suo nome,
padre, ho subito capito d’averlo già sentito. Redmayne aveva nove anni quando
assistette all’omicidio di suo padre. A compiere il gesto fu lo zio paterno,
ovvero il fratello della vittima. Ragioni economiche.» Allungò loro un
articolo dell’Inquisitor, spiegazzato
ai lati, e il sacerdote, compreso che Cecil non avrebbe mosso un muscolo, si
chinò in avanti il necessario per prenderlo. «Non lavorai io al caso, ovviamente», continuò Barrymore. «Si parla
in fondo di una ventina d’anni fa. Non posso mostrarvi i rapporti del
dipartimento, ma non è reato passarvi il ritaglio di giornale in cui se ne
parla. Ebbene, quell’americano e il padre di Redmayne sono morti nello stesso
frangente: seduti alla scrivania, un colpo d’arma da fuoco in fronte.»
«Può essere una coincidenza», osò padre Wilfred, passando
l’articolo a Goldwine.
«Può esserlo, ma non se si tiene in conto che proprio Marcel Redmayne
ha scelto gran parte dei particolari di quell’opera. A quanto ho capito, ha
scelto la storia, le scenografie, la dinamica dell’acmè della tragedia, ovvero dell’omicidio, e anche i rapporti fra i
due protagonisti: Miles e George Patrick sono fratelli, così come vent’anni fa
è stato un fratello ad uccidere il fratello. Quel diavolo ha lasciato a
Goldwine la stesura e non ha apprezzato che il lavoro sia stato interrotto»,
concluse, prendendo di nuovo la tazzina dal tavolino al centro. «In questa
faccenda, Goldwine è solo un mezzo.»
«Mi aveva detto che sarei stato in grado di trattare il genere.» Un
brivido di inquietudine passò nella voce di Cecil. Teneva gli occhi bassi,
fissi sul ritaglio che aveva in mano. «Mi diceva che sarei stato capace di
rendere l’idea.»
«Per questo vi ha lasciato stendere quell’opera», confermò
Barrymore dopo un sorso di tè. «Perché vedeva in voi del talento, quello che
evidentemente lui non aveva per descrivere con passione quella tragedia. E non
ha preso bene il fatto che voi abbiate deciso di interrompere la stesura dopo
aver scritto dell’omicidio del povero George Patrick, così ha scelto di mettere
tutto in scena. Di nuovo, dopo vent’anni. La sua mente deve essersi fermata a
quel trauma.»
«Ciò non spiega perché abbia ucciso proprio quell’americano. Non
spiega nemmeno perché l’ufficio di quell’uomo sia identico a quello descritto
nell’opera.»
«Evidentemente il nostro diavolo si occupa davvero di una forma di
geometria, Wilfred. Deve aver aiutato Sullivan ad arredare il suo piccolo
appartamento, così ha avuto la libertà di scegliere come disporre i mobili e di
ricreare la sua scenografia, approfittandone per renderla molto simile all’ufficio
in cui suo padre è stato ucciso.»
Goldwine alzò lo
sguardo sull’investigatore, improvvisamente consapevole. «So che Marcel è amico
di una vedova che gestisce un negozio di mobili. Diana Powell, si chiama.»
Con la naturalezza e
agilità proprie del mestiere, l’investigatore sfilò dal taschino una penna e
segnò il nome sull’angolo di uno dei fogli. Padre Wilfred si chiese quale fosse
la magia che facesse della penna in tasca il cliché di ogni buon londinese.
«Deve affidare a lui qualche consegna. Sarebbe logico», rifletté Barrymore in
un secondo momento, osservando quel che aveva appena scritto come se volesse
arpionare con lo sguardo un indizio in più. «In fondo una donna non può permettersi di spostare mobili pesanti
con facilità. Sulla base di quanto ora so, l’unica sfortuna di quell’americano
è stata quella di aver comprato in quel negozio e di condividere qualche
somiglianza con la descrizione fisica del George Patrick della tragedia. Redmayne
deve averlo visto come un segno del destino, la possibilità di mettere in scena
il suo atto preferito dopo che voi, Goldwine, avevate rifiutato di terminare la
stesura. Forse Sullivan ha persino messo gli occhi su un mobile con un motivo a
griglia. È probabile che il momento in cui l’americano ha varcato la soglia del
negozio sia valso al nostro uomo il riaffiorare del trauma.»
«La griglia?», chiese il sacerdote. «Come spiegate le
incisioni che avete trovato nell’ufficio di Sullivan? Nella tragedia non si fa
riferimento ad un particolare così malato.»
«Nemmeno nel caso Redmayne, se per questo.» In silenzio,
l’investigatore batté la penna sul foglio prima di rimetterla a posto e alzare
lo sguardo. «Eppure si può
spiegare. Il figlio di Redmayne assistette all’assassinio del padre da dentro
un piccolo armadio. Vi si nascose per gioco poco prima che entrassero sia il genitore
che lo zio. E le ante di quell’armadio...», e indicò il paravento accanto
all’ingresso, il cui motivo era identico a quello di una fitta recinzione. A
quello dei lati del confessionale, pensò padre Wilfred. «...Quelle ante erano
esattamente così: con un motivo a griglia.»
«Marcel vide quella scena... da dietro una griglia?», domandò Cecil.
«Vide l’omicidio da dietro quelle ante e per questo lo ricorda segnato da righe
che gli impedivano a tratti la vista. Ha inciso ogni cosa perché lui ricordava
la scena a quel modo.»
Barrymore annuì una sola volta, un gesto profondo a mo’ di ironiche
congratulazioni, aprendo le mani neanche si aspettasse che dai palmi volassero
in alto due colombi sbucati dal nulla: «Voilà.
E questo spiega perché nell’ufficio vi era un armadio con ante a griglia
che non presentava nemmeno un’incisione: era l’unica cosa fuori dal suo campo
visivo fatto di linee.»
Goldwine lasciò il
ritaglio sul tavolo. Gli tremavano le mani.
«Un fatto di cronaca di vent’anni fa che si fa opera teatrale prima
di essere rappresentato di nuovo. E non su un palcoscenico, ma per davvero. Con
la stampa come pubblico.» commentò l’investigatore, con l’angolo
della labbra sottili piegato in una sorta di sorriso. «Pare un circolo vizioso, un gioco di specchi.
Una maledizione. Spero vivamente che nessun altro metta nero su bianco questa
vicenda; non sia mai che potrebbe accadere di nuovo.»
«L’Amleto. Shakespeare.»
A parlare era stato Cecil. Padre Wilfred e Barrymore gli
riservarono un’occhiata interrogativa, a metà strada fra perplessità e
richiesta di spiegazione.
«Claudio uccise il re suo fratello per usurpare il trono, sposando
poi la vedova», si affrettò il giovane uomo, con nella voce l’ansia di chi teme
di essere contraddetto. «Lo spettro del defunto sovrano raccontò al figlio
Amleto le circostanze della sua morte, e il giovane, per smascherare lo zio,
mise in scena un’opera in cui si rappresentava l’assassinio. Ma certo»,
aggiunse dopo un momento, parlando più a se stesso che agli altri. «Marcel ha
visto suo zio uccidere suo padre, così come Miles e George Patrick, nella
tragedia che voleva che stendessi, sono fratelli. In Shakespeare, Claudio
uccise il re per ambizione, così come lo zio del mio amico e Miles hanno ucciso
per lo stesso motivo, ma in termini adattati a questo secolo: hanno ucciso non
per un trono, ma per denaro. Abbiamo
a che fare con un Amleto vittoriano.»
Ci fu silenzio per qualche momento. Barrymore, notò padre Wilfred,
lo osservava con una nota di cauta diffidenza. Non sapeva se fosse per quell’
“abbiamo” o per l’inaspettato quanto originale paragone con l’opera di
Shakespeare. Inevitabile, alla mente gli sovvenne il celebre soliloquio che il
principe di Danimarca tiene con il teschio. Essere
o non essere, pensò, e con un fremito si accorse che il caso dell’americano
si era davvero mostrato al contempo realtà di cronaca e finzione teatrale.
«Vi posso concedere l’Amleto», pronunciò poi l’investigatore, quasi
sillabando. Sembrava, più che geloso del suo ruolo, solo intontito. «Dovete però
spiegarmi da quando il caso Sullivan è anche di vostra competenza.»
«Da quando ci avete invitato, Barrymore», intervenne padre Wilfred.
Ora sorrideva appena. «Non avreste mai scoperto questo occasionale legame fra
teatro e cronaca nera se non fosse stato grazie a noi. Pertanto, non avreste
nemmeno mai scovato il nome dell’assassino.»
Barrymore accavallò le gambe e picchiettò le dita sul ginocchio. «Marcel
Redmayne non era battezzato, all’epoca dei fatti: si scoprì che il suo nome non
era segnato in nessuna parrocchia. Sua madre morì quando lui era ancora un
neonato e il padre decise di lasciare a lui la scelta di abbracciare la Chiesa
o meno, quando sarebbe stato abbastanza grande. Eppure dovette dargli pur un
nome, per legge, così lo chiamò Marcel August. È possibile che la famiglia che
lo prese in adozione lo abbia invece fatto battezzare, forse con un altro nome
e cognome. Quindi Marcel potrebbe non essere più... Marcel.»
«Un anno fa, quando lo conobbi, mi si presentò con quel nome»,
disse Goldwine.
«Be’, è possibile che vi abbia mentito, se davvero ora non si
chiama più così. Supponevo. Allo stesso modo, dato che il vostro Marcel ha
rappresentato alla lettera l’assassinio di suo padre, è possibile che decida di
chiudere la storia così come la chiuse suo zio. Il trauma infantile che l’ha
spinto ad uccidere un estraneo potrebbe portarlo a terminare la vicenda con la
stessa dinamica dell’omicidio cui assistette. La tragedia che vi ha chiesto di
scrivere, Goldwine, è priva di finale, quindi deduco che non vi abbia
raccontato come sono andati i fatti.»
«Che fine fece lo zio?», chiese a quel punto padre Wilfred. Poi,
consapevole che la situazione richiedeva delle specifiche: «Lo zio di Redmayne,
intendo. Fu arrestato?»
«No.» Barrymore si piegò in avanti, riprese il ritaglio di
giornale, rimasto per troppo tempo sul tavolino, e lo infilò con una certa
fretta fra i fogli che teneva ancora in grembo. «Sparì dalla circolazione e sette
giorni dopo si rifece vivo in un teatro non troppo lontano da qui, l’Harnold. Salì sul palco prima dello
spettacolo e si sparò in bocca.»
Lo raccontò con tranquillità, un po’ come si tratta un resoconto di
poca importanza. Poi, accorgendosi del silenzio che era calato di fronte,
spostò gli occhi su Wilfred e Cecil. Ora maneggiava i fogli più lentamente,
mentre metteva gli angoli a posto, ordinando la pila di documenti. «Goldwine»,
pronunciò, la voce improvvisamente cauta, dichiaratamente sospettosa. «...Goldwine,
avete più rivisto Redmayne?»
«No.»
«Avete più avuto notizie di lui?»
«Vi ho detto di no.»
«Sono passati sette giorni dall’omicidio di Sullivan. Questa sera si
terrà una rappresentazione, all’Harnold.»
La voce di Barrymore era ferma, ma tradì un brivido. Padre Wilfred
prese un sospiro, alzò gli occhi al soffitto. «Buon Dio», mormorò.
Buon Dio.
* * *
1 A
partire dal 1821, si definivano “Bobby”
gli agenti di polizia. Il nomignolo deriva da Robert Peel, al tempo ministro
degli interni, che fece approvare l’istituzione della polizia metropolitana. La
sede di questo nuovo organo era situata al numero 4 di Whitehall, in un palazzo
che dava su un cortile chiamato, appunto, Scotland Yard.
Non ho un buon rapporto con Nvu, il programma che utilizzo per caricare
i capitoli in formato html, ma questo deve essersi notato, date le
differenze di "formato" fra un capitolo e l'altro. Mi scuso quindi se
la cosa potrebbe creare un certo fastidio per chi segue la storia. In
attesa di capire come organizzare le pagine una volta per tutte (?),
Dew_
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Capitolo 4 *** Questa sera alle 20.30 ***
Capitolo terzo - Questa sera alle 20.30
CAPITOLO
TERZO:
QUESTA
SERA ALLE 20.30
Diana
Powell li fece entrare anche se si stava affaccendando per chiudere. Il
“negozio”, così come lo aveva chiamato Goldwine, era in realtà una saletta polverosa
che in vetrina esponeva solo una variegata fantasia di cianfrusaglie. I mobili
veri e propri si trovavano da tutt’altra parte, in un’ex fabbrica di cotone
distante quattro o cinque isolati.
«Molti cotonifici hanno
chiuso, ora che ci sono le macchine a sostituire parte della manodopera», spiegò la donna con
un sorriso amorevole, osservando Barrymore e Cecil da dietro il bancone. «Mio marito comprò
quella struttura e vi sistemò i mobili. Ogni volta che da me si presenta
qualcuno interessato a vederli, organizzo un appuntamento: in questo modo si
indirizzano le scelte del cliente, posso capire cosa sta cercando e quanto
vuole spendere. Quel ragazzo di cui mi avete chiesto mi aiuta a gestirne alcuni,
e a lui ho affidato proprio il signor Sullivan. Che Dio l’abbia in pace. Non
sempre Marcel ha però il tempo per aiutarmi, per quanto mi farebbe comodo.»
Mentre
parlava, gli occhi di Goldwine erano caduti sulle mensole che davano alla
vetrina e, tra una coppia di lampade da una parte e un portagioie dall’altra,
avevano inquadrato un pannello di legno a cui erano assicurati, in fila
perfetta, alcune lame dall’aspetto poco piacevole. Diede di gomito a Barrymore,
in un gesto appena percettibile. Non era uscito da casa sua dopo il tè con
l’intenzione di arrecargli fastidi, dal momento che, prima di decidere per
quella visita alla Powell, l’investigatore era stata chiaro: voleva che venisse
con lui solo perché sarebbe stato in grado di riconoscere Redmayne nel caso in
cui l’avesse visto, non certo per farsi aiutare nel suo mestiere. Eppure,
quando Barrymore seguì il suo cenno e vide a sua volta quella collezione di
lame, il primo istinto non fu quello di ammonirlo con un’occhiataccia, ma di
voltarsi verso la donna e chiederle perché esponesse dei coltelli.
«Non si tratta di
argenteria, signore: sono coltelli per intagliare i mobili. Strumenti di lavoro.»
Il
tono di Diana Powell era paziente mentre spiegava che vendeva quelle lame solo
a chi certificava di occuparsi di mobilia per professione.
Intagliare. Quel
verbo rimase artigliato nella mente di Barrymore anche quando tornarono fuori.
Lungo la strada acciottolata si affrettavano quei londinesi desiderosi di
raggiungere casa prima dell’acquazzone. L’aria era impregnata di fredda umidità
e, tra la nebbia ora bassa dietro cui il sole era già tramontato, i lampioni di
ferro rilucevano come aloni dipinti da un pittore impressionista.
L’investigatore e Goldwine camminarono per un tratto in silenzio, due ombre fra
le tante, i colletti dei soprabiti tenuti alti per concedere almeno un anello
di calore. Si sarebbe potuto scambiarli per una stramba coppia di amici, uno
più alto e l’altro più basso, uno dal passo sicuro e l’altro dalla camminata spiccia
e confusa, quasi a saltelli. Annunciata da uno zoccolio e da una dondolante
lanterna a gas, una carrozza sbucò fra i banchi di foschia e passò oltre di
loro, infilandosi di nuovo nella nebbia come un vascello fantasma.
«La donna ha detto che non sempre il vostro
amico ha tempo per aiutarla. Redmayne non vi ha mai detto cosa
fa di mestiere o dove abita? Avete una sua fotografia?», domandò ad un tratto
Barrymore, con l’atteggiamento disinteressato di chi sta meditando da interi
minuti se porre o meno una domanda.
«No, non siamo in
stretta confidenza. Mi ha sempre e solo detto che occasionalmente aiuta Diana
Powell.»
«Lei non gli dà un salario per i suoi favori,
quindi quell’uomo deve avere un altro lavoro.» Fra di loro ci fu un attimo di
silenzio. Attorno, anche se in lontananza, si udivano il cigolio di qualche
carrozza di passaggio e lo scalpitio di qualche passo non loro. «Quanto a
quelle lame, deve aver utilizzato qualcosa di simile per il suo lavoro
nell’ufficio dell’americano. Da quel negozio avrebbe potuto sottrarre qualsiasi
lama d’intaglio.»
«E la pistola?»
«Non è difficile trovare un rivenditore d’armi
anche a prezzi stracciati. Fidatevi, Goldwine: ne ho arrestati parecchi, di
quei personaggi.»
Cecil
gliela diede per vinta, benché fosse facile capire che non aveva ancora
realizzato la seconda vita del suo fidato amico Marcel Redmayne. Si sentiva
tremare le ossa al solo pensiero che per tutti quei mesi aveva frequentato un
folle, che per tutto quel tempo aveva avuto accanto un uomo dal passato così
controverso. Che, specifichiamo, gli aveva spudoratamente mentito quando invece
da parte sua c’era stata sincera ammirazione. Scotland Yard non sarebbe mai venuta
a capo di quella storia senza lui e padre Wilfred, ma certo era che avrebbe
volentieri preferito rimanere estraneo ai fatti.
«Non è detto che Redmayne si presenti all’Harnold, stasera», riprese Barrymore. «Ho
però buoni motivi per credere che potrebbe farlo, considerata la follia di cui
si è dimostrato capace una settimana fa. Sono consapevole che potrebbero
esistere altre strade e che gli indizi sono, per così dire, piuttosto
fantasiosi... ma non sarà un male se questa sera, fra il pubblico, ci saranno
anche alcuni agenti in borghese. In fondo, alla faccia della settimana di indagini, abbiamo trovato una sola pista,
ovvero quella su cui voi e padre Wilfred ci avete portato. Tentar non nuoce. Verrete
con me, Goldwine: se davvero il vostro amico ha intenzione di spararsi in bocca
come fece a suo tempo lo zio, sarà fondamentale riconoscerlo prima che metta in
scena il suo personalissimo ultimo atto. Anche il Marcel che conoscevate adora
il teatro, non è vero?»
La domanda fu quasi inaspettata. Cecil continuò
a camminare, ma stavolta osservò l’investigatore per un attimo, direttamente,
gli occhi verdi un poco dubbiosi. «Sì. O almeno è quanto mi raccontò. Anche io
credo che Marcel sarà là, stasera.»
«Padre Wilfred, prima che ci congedassimo
fuori casa mia, ha detto che Redmayne ci sarà perché è anche lui un figlio di Dio,
e Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale. Io dico che ci sarà perché
nella mia ottica è solo il riflesso del suo trauma e perché, nel mio mestiere,
la follia è il più facile ed immediato dei moventi. E voi, Goldwine? Voi perché
ne siete sicuro?»
«Può avermi mentito sulla sua identità»,
rispose Cecil, masticando l’indesiderato sapore dell’ansia, «ma non sul resto.
Ci sarà perché è un artista; e gli artisti, Barrymore, quelli veri, quelli
geniali, chiudono sempre in grandezza.»
2
La curiosità della gente era un altro di quei
motivi per cui padre Wilfred faceva volentieri a meno di rinunciare alla tonaca.
Trovava invadenti gli sguardi di quelli che indugiavano per un momento sul
collare bianco che faceva capolino dal risvolto della giacca, neanche avessero mai
visto un sacerdote vestire un completo e concedersi una serata fuori casa.
L’Harnold
era un edificio modesto se paragonato agli altri teatri di Londra. Era uno
dei più piccoli, l’unica struttura in quel zona della città che aveva un
aspetto dichiaratamente classicistico. Wilfred non era abbastanza appassionato
di arte per sapere che le quattro colonne nel portico d’ingresso erano di gusto
dorico, ma la sensibilità gli permetteva ugualmente di farsi piacere
quell’ambiente così diverso rispetto alle botteghe e ai fabbricati lì attorno.
La sera, le lampade a gas affisse sul cornicione tracciavano una linea di luce
polverosa in una strada altrimenti buia. Era, per usare una terminologia più
alla mano, il punto di ritrovo per chiunque abitasse in quel grappolo di
quartieri di periferia.
Mancava ancora mezz’ora all’inizio dello
spettacolo, eppure il pubblico si prospettava già folto. Entravano coppie
giovani e anziane, signore con gonne pretenziose, che ispiravano una moda forse
un po’ datata ma pur sempre capace di fascino, uomini in gran completi che, in
attesa di poter entrare in sala, chiacchieravano con quella loro parlantina
provinciale rigirandosi in mano accendini di rame. Wilfred si chiese quanti di
loro fossero in realtà poliziotti in borghese. Lanciò uno sguardo al grande
orologio sulla parete e, leggendo i numeri in cifre romane, si domandò dove
fossero Jonathan Barrymore e Cecil Goldwine. Dopo il tè, l’investigatore gli
aveva raccomandato di non presentarsi all’Harnold,
dati i rischi della situazione. Era un consiglio su cui il sacerdote aveva
chiuso un occhio, considerato che, in attesa di scovare fra la folla uno dei
due, se ne stava un poco in disparte nel salone d’ingresso del teatro, giusto
davanti al manifesto che riportava il titolo dello spettacolo di quella sera.
Troppo concentrato a sbirciare i volti di chi
entrava, non si accorse che effettivamente qualcuno di sua conoscenza passò lì
vicino. Lo riconobbe solo di sfuggita, voltandosi in un secondo momento, per
via della sua camminata. Prima che potesse ricordarsi il suo nome, si sentì però
chiamare da una voce a metà strada fra sgomento e stupore:
«Padre Wilfred!»
Tornò a guardare di fronte a sé e scoprì che,
fra i tre, alla fine a farsi vedere era stato lui. A parlare era stato
Goldwine, ritagliato in un completo scuro un po’ inadatto a un personaggio sbadato
come lui: i suoi riccioli color caffè macinato erano un po’ troppo spettinati
per sposarsi bene con quel tentativo di eleganza. Accanto a lui c’era
Barrymore, l’espressione già scocciata benché a prova contraria nessuno gli
avesse fatto alcun torto. Forse.
«Padre, non vi avevo detto di restare a casa,
stasera?», domandò l’investigatore, pizzicando la tesa del cappello che teneva
in mano.
«Un sacerdote non può forse andare a teatro?»
Era una risposta in parte non voluta, ma padre
Wilfred vide che ad apprezzarla fu almeno Cecil, che strinse le labbra in un
sorriso e abbassò il mento per evitare che Barrymore notasse quanto avesse
trovato la cosa divertente.
«Ho già il biglietto», aggiunse Wilfred, e
sollevò la mano in cui lo aveva. «Quanti agenti avete sguinzagliato?»
«Abbastanza. L’ispettore capo McArthur non è
stato troppo felice di sapere che ho voluto scomodare alcuni dei suoi uomini
per portarmeli a teatro. “A perdere tempo”, ha detto.»
«Saranno armati?»
«Certo, considerando che quasi per certo
stasera succederà qualcosa. I controlli sono molto rigidi in qualsiasi teatro,
e la stessa cosa vale per l’Harnold,
per quanto piccolo. Una coppia di agenti perquisisce gran parte degli uomini
che entrano», fece Barrymore. Nella luce calda della sala d’ingresso, il suo
volto esprimeva un’incurante e blanda forma di cordialità. Incredibile ma vero, pensò il sacerdote, non senza una punta di
cristiana ironia. «Solo chi ha un distintivo può permettersi di entrare armato.
È però possibile che il nostro diavolo raggiri i controlli e riesca lo stesso
ad entrare. Secondo le ricerche che stiamo portando avanti, l’unico Marcel Redmayne
che ci risulta è un bambino di cinque anni. Credo quindi che abbia davvero
cambiato nome, una volta adottato. Per questo voi, Goldwine, starete con me. Nel
caso in cui lo vediate, ditemelo. Vi piace William Schwenck Gilbert?»
Cecil sbirciò alle spalle di padre Wilfred. Il
manifesto raffigurava un uomo, in alta divisa militare, che teneva una postura
signorile e quasi militaresca benché fosse circondato da donne e uomini
imploranti. “The Pirates of Penzance”, recitava il titolo; e, più sotto, “I am an
orphan boy”. «Preferisco
Wilde», affermò il giovane dopo un momento.
«Avete
portato con voi anche quel ragazzo?», domandò a quel punto padre Wilfred, rivolto
a Barrymore. «Non ricordo il suo nome. Quello che mi accompagnò nel vostro
ufficio.»
«Peter?
Peter Moore?» Barrymore diede un leggero schiaffo al cappello, come a volerlo
spolverare, poi se lo calcò di nuovo in testa. «Certo che no, padre. Lui è
ancora un cadetto. È un apprendista, deve farne di strada prima di potersi
occupare di situazioni a così alto rischio.»
Il sacerdote lo osservò per un momento,
improvvisamente basito, prima di lanciare un’occhiata al piccolo corridoio che
portava all’ingresso della sala. «L’ho visto», disse. «L’ho visto, Barrymore. È
entrato poco prima che arrivaste voi.»
Scattò un
brivido, nel silenzio. Sulle prime Barrymore non si mosse, solo sostenne il suo
sguardo con un cipiglio strano, in volto, lo sguardo di chi si accorge di aver
fatto un errore imperdonabile, di chi realizza poco alla volta un orrore
involontario e profondo. Quel ragazzo era cadetto da poco tempo, troppo poco
perché lo conoscesse davvero, e poteva portare con sé un’arma senza destare
sospetto. Non si dedicava alla giustizia a tempo pieno; poteva quindi
permettersi di fare lavori saltuari, perché no?, come aiutare una povera donna
con il suo negozio di mobili. L’ispettore McArthur l’aveva pescato da
un’accademia e l’aveva messo alle sue dipendenze, per, come aveva detto,
“abituarlo al mestiere”. Non conosceva quasi nulla del suo passato e del loro
primo incontro ricordava solo una cosa. Solo la frase che, mentre si
stringevano la mano, Peter Moore gli aveva detto con un timido sorriso sfilato
sulle labbra. “I miei genitori adottivi desideravano tanto che vestissi
l’uniforme”, aveva detto. “Lo desideravano davvero tanto, signore.”
«Moore»,
bisbigliò. E il secondo dopo si era già gettato nel corridoio, verso la sala.
Quasi tutti
i posti a sedere erano occupati. Sbucando dall’altro lato del corridoio tanto
di corsa da rischiare di urtare una signora dall’aspetto vezzoso, Cecil temette
di aver perso Barrymore di vista. La saletta non era sterminata e chi non era
già accomodato si attardava lungo i passaggi per fare quattro chiacchiere,
ostruendogli la vista. Padre Wilfred, il fiato un po’ più corto del suo, lo
raggiunse un secondo dopo.
«Lo vedete? Per Dio, trovatelo.»
Il ragazzo dovette alzarsi sulle punte dei piedi e
scrutare i dintorni a mento alto prima di individuare il cappello di chi
cercava. Penultimo settore a destra, verso la metà. A una trentina di metri dal
palco. Non perse tempo ad annunciarlo, perché ripartì di corsa infilandosi non
troppo gentilmente in un gruppetto di uomini in frac. Il sacerdote gli filò
dietro, mormorando qualche scusa di cortesia a testa bassa.
L’investigatore se li vide venire addosso mezzo
minuto dopo. Attorno a sé aveva radunato alcuni dei poliziotti in borghese, e
altri ancora, notando l’improvviso movimento dei colleghi, si chiamavano a
vicenda. Alcuni fra il pubblico, i più vicini a loro, li osservavano con
curiosità, con gli sguardi velati da un filo d’ansia e di mal sopportazione.
Evidentemente si stavano chiedendo perché mai quegli uomini facessero così
tanta confusione.
«Voi», si precipitò Barrymore, vedendoli arrivare. Scostò
senza complimenti uno dei suoi in borghese e si parò di fronte a loro. «Uscite.
Tutti e due.»
«Uscire?» Cecil non riusciva a credere a quel che
aveva appena sentito. Per un attimo pensò che l’animato e allegro mormorio
all’interno del teatro gli avesse confuso le idee. «Marcel è un mio amico.
Forse posso convincerlo a non farlo; forse posso...»
«Non potete proprio nulla. Non è un vostro amico,
nemmeno porta più quel nome. Alcuni agenti lo stanno già cercando fra la folla.
Se è davvero l’agente Moore, sa di quest’operazione. Può aver origliato il mio
incontro con padre Wilfred, può sapere del vostro coinvolgimento e per questa
ragione potrebbe persino volervi morti entrambi.»
«Barrymore...»
«Non adesso, non anche voi, padre.»
«...Barrymore, sul palco!», lo ignorò Wilfred,
gettando l’indice alle sue spalle.
Allora l’investigatore
si voltò, e con lui tutti gli agenti. Come se gli sguardi si fossero seguiti a effetto
domino in una corsa rovinosa e fulminea. Anche alcuni fra il pubblico avevano
alzato gli occhi, con una curiosità quasi divertita. Ignara.
«Signore e signori!», declamò il giovane che si era issato sul
palcoscenico. In piedi al centro, teneva le braccia spalancate e il suo
sorriso, lì sotto le luci della ribalta londinese, riluceva della geniale eloquenza
di un direttore d’orchestra. Alle sue parole, gran parte dei presenti fece
silenzio e lo osservò con aspettativa. Un atteggiamento leggero, forse
deliziato da quella che aveva tutto l’aspetto di un’improvvisazione. «Signore e signori, il mio nome è Peter Moore e
questa sera ho preparato per voi uno spettacolo U-N-I-C-O!»
L’attimo
dopo aveva infilato la mano all’interno della giacca e ne aveva estratto una
pistola. Il volto sempre vittorioso, sempre fiero, come se dal pubblico si
aspettasse rose e applausi.
Quel che
invece seguì fu improvviso e selvaggio panico. Le donne strillarono quasi
all’unisono, correndo verso le uscite; alcune, insieme ai mariti o ai compagni,
si buttarono dietro i posti a sedere, impacciate nelle loro gonne per le grandi
occasioni. D’istinto, padre Wilfred aveva afferrato Goldwine per un braccio
prima che questi potesse correre lungo il passaggio fra i sedili. Barrymore si
mosse e sfilò la pistola, spianandola contro il palco, e lo stesso fecero i
suoi con un ritardo di un secondo.
«Moore!», gridò
sopra tutti, le mani ferme sul calcio dell’arma.
Peter
Moore, vent’anni prima Marcel August Redmayne, sembrò non sentirlo. Si era già
portato la canna della pistola in bocca.
Il colpo
partì dopo un altro battito di ciglia.
* * *
Ho
passato una settimana molto intensa in Veneto causa vacanza a casa di
un'amica. Spero quindi non sorprenda il motivo per questi miei ritardi
nell'aggiornamento. In ogni
caso, prossimamente pubblicherò l'epilogo, con tanto di
elenco riguardo le "coincidenze" tematiche e non che ho sparpagliato a
mo' di indizi e spunti di riflessione.
Ancora
una volta, mi scuso per essere di così poche parole (?). Non
sono troppo abituata a commentare ciò che scrivo, lo ritengo un
po' forzato - così ancora una volta lascio i commenti a voi, se
ne avrete <3.
Dew_
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Capitolo 5 *** L'ordine delle cose ***
Epilogo - L'ordine delle cose
EPILOGO:
L’ORDINE
DELLE COSE
Mio
padre adorava quella scrivania, forse perché la prese con un anticipo di poche
settimane dalla morte della mamma. Il sorriso di lei mi sfiorò le mente mentre
abbassavo il coltello d’intaglio segnando anche quella superficie, lentamente,
con chirurgica freddezza. Ignoravo che i mobili di quella scenografia non
appartenevano all’uomo che ricordavo. Da dove mi trovavo, lì su un lato del tavolo
da lavoro, la linea che saliva sulla parete di fronte a me era in perfetta
parità con quella che incidevo.
Sullivan
sedeva lì dietro, le braccia abbandonate sui fianchi e il capo reclinato su una
spalla. I suoi occhi sgranati esprimevano l’immobilità di una bambola di pezza.
Si era presentato due mesi prima dalla Powell, sfilandosi il cappello mentre
entrava e sfoggiando nel contempo quel grande e pieno sorriso degno di ogni
americano. “Buongiorno”, aveva detto, la pronuncia
masticata quanto bastava per farmi capire che non era di Londra. E io l’avevo guardato, avevo visto
la terribile somiglianza con George Patrick. Cecil non voleva continuare a scrivere,
benché io glielo chiedessi con insistenza. Diceva che era tutto troppo
violento, che sembrava un’accusa a chi il denaro lo ha ma non vuole spartirlo. Non
potevo dirgli che leggere quella storia su carta avrebbe potuto salvare me dal
mio bisogno di espressione. Se solo l’avesse conclusa, non mi sarei mai ridotto
a questa soluzione.
Adoravo
lo zio. Era sempre stato così gentile con me, così presente, benché non fosse
ricco, benché non avesse moglie e figli. Non mi aveva mai detto della profonda
invidia che provava per papà, che aveva tutto quel che lui desiderava: denaro,
famiglia, stabilità. Solo crescendo avevo capito che gli aveva sparato in
fronte perché era un debole e altro non poteva fare. Ricordavo ancora il
momento in cui era entrato con papà, quello in cui avevano preso a discutere. E
poi la pistola gli era comparsa in mano, così, e gli aveva sparato, un colpo
solo, dritto in testa, e un ventaglio rosso era esploso sulla parete dietro a
mio padre e io avevo visto tutto, vedevo dietro la griglia delle ante. Allora mi
ero raggomitolato in un angolo senza fare rumore, le braccia attorno al corpo,
e c’era un singulto, in gola, un nodo di fuoco che mandai giù a forza, con
tanta rabbia da farmi male.
Fu
allora che cominciai a chiedermi cosa si muove dietro alle righe di una trama a
griglia. Ci si guarda attraverso, ad un motivo del genere, ma non sai cosa c’è
là dietro i contorni scuri dei quadrati o dei rombi. Forse il mondo smette di
esistere? Forse, dietro le linee che ti impediscono la vista, la realtà è
grigia, vuota, e continua a scorrere solo negli spazi che riesci a vedere? Mentre
estraeva la pistola, lo zio era così irreale, tante erano le righe che lo
scomponevano. E così era papà, così pure l’ufficio, così tutto quel che era lì
dentro con loro.
Il
coltello lavorò bene anche sull’americano. Fu un poco più difficile mantenere
quella geometria, fare in modo che le linee sulle pareti e sui mobili
combaciassero, ma ce la feci. Impiegai tutto il pomeriggio, non avevo fretta.
Nessun altro occupava la palazzina e c’erano ben poche possibilità che qualcuno
avesse udito il colpo.
La
famiglia che mi aveva adottato desiderava davvero che diventassi un poliziotto.
Mi avevano battezzato, mi avevano costretto a portare il loro cognome, ma quel
che provavo per loro era affetto sincero. Mi avevano portato via da quel
ricordo, per qualche anno avevo persino creduto di aver scordato quella griglia
scura e il delitto che dietro si era consumato. Cecil Goldwine era stato un
incontro non programmato; ci conoscemmo a teatro, perché a lui piaceva così
come piaceva a me. Adorava Shakespeare e Oscar Wilde. Poi scoprii che scriveva,
che sognava la stessa carriera, e allora gli avevo consigliato una tragedia.
L’idea gli piacque, all’inizio.
Tagliai
e incisi fino a sera. Benché mi fossi dovuto spostare per tracciare ogni linea,
sapevo che la griglia era perfetta da una sola angolazione. Avevo lavorato con
solo quell’immagine in testa e ora mi meritavo il posto d’onore. Così mi
spostai su un lato della scrivania, lì davanti all’armadio in cui anni prima mi
ero nascosto, e vidi che le righe parlavano, esprimevano una rigida e
frastornante eloquenza. Quella geometria, se in un primo momento mi disse che
era stato bravo, che lo ero stato davvero, un secondo più tardi mi artigliò la
coscienza con le gelide dita dello sconforto.
Forse
così si era sentito lo zio. Dio, avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo
innocente, quasi per certo con una famiglia, con tanto denaro. Avevo ucciso, ma
questa volta sapevo che forse qualcuno aveva visto qualcosa. Dentro all’armadio,
quel guscio di noce. Mi pulii la mano insanguinata sui pantaloni prima di
voltarmi e portarla sulla maniglia di legno. Poi, dopo un respiro, lo aprii. Là
dentro non c’era nessuno. Non esisteva più quel bambino che si era
raggomitolato sul fondo con, nella gola, un grido strozzato e un conato di
pianto. Fu più forte di me.
Rimasi
a guardare l’interno buio per un altro pugno di secondi, poi richiusi l’anta,
mi voltai, mi lasciai scivolare a terra, la schiena contro l’armadio e le
ginocchia piegate.
«Papà», biascicai. La voce flebile, vulnerabile.
In una mano reggevo il coltello imbrattato di schegge di legno e sangue.
Piangevo.
Nel
momento in cui poggiai la nuca contro l’armadio e chiusi gli occhi, scoprii che
la griglia che mi aveva tormentato non c’era più. Ora, nel buio, riuscivo a vedere
tutto quanto.
2.
Non era inusuale che i
treni fossero in ritardo. Cecil ne aveva presi pochi in vita sua, ma quelle
esperienze gli erano bastate per scendere a patti con il destino. Così si era
arreso e si era sistemato sul suo bagaglio, gomiti sulle ginocchia e pugni
sotto al mento, ignorando i sedili liberi che tappezzavano la banchina.
Per un istante il
silenzio di quegli attimi lo riportò indietro, a due settimane prima, quando
Marcel era uscito di scena come desiderava. No, non Marcel, si corresse. Peter,
Peter Moore. C’era stata una frazione di nulla prima dello sparo e per un
momento aveva creduto che a premere il grilletto fosse stato Barrymore. Non se
ne sarebbe nemmeno sorpreso: l’abito non fa il monaco, e quell’investigatore,
immaginava, doveva razionare la pazienza come polvere d’oro. Non poteva dire di
conoscerlo, ma la breve collaborazione con lui gli aveva fatto capire che
quell’uomo la fermezza la tarava con un metaforico contagocce. Gli sarebbe
quindi parso ragionevole che fosse stato lui a sparare per primo, vuoi per
intenzione vera e propria, vuoi perché l’indice gli si era irrigidito
d’istinto.
Invece no. Barrymore
non aveva mosso un muscolo e la pistola di Moore aveva tuonato per prima. Lì
nell’aria a tratti affannata di quella piccola stazione di periferia, Cecil si
ricordò di come l’esplosione si era infranta sulle pareti, su fino alla cupola,
prima di sbriciolarsi verso il basso in invisibili schegge di vetro. Gli erano
ronzate le orecchie, una volta, violentemente. L’eco l’aveva reso sordo alle
grida che si erano alzate quasi in contemporanea, neanche la sala del teatro
fosse diventata una cerchia di anime infernali.
Inferno e Paradiso.
Essere e non essere. Si mosse un poco, quasi a disagio, frugando nel taschino
della giacca per estrarre un vecchio orologio. Il sole del mezzogiorno era alto
e incise un fastidioso riflesso bianco sul vetro del quadrante. Aveva deciso di
lasciare Londra e tornarsene a Finnsbury per un periodo, là dove abitavano i
suoi genitori. Era un villaggio piacevole, lontano dalle fabbriche, dal viavai
delle carrozze e dagli interessi dei gran signori.
Una mano si posò sulla
sua spalla tanto improvvisamente da farlo sobbalzare. Fu quando si girò e vide un
volto amico che sul suo viso si allungò un sorriso in bilico fra imbarazzo e
sollievo.
«Padre Wilfred.»
«Goldwine. Il vostro bagaglio è tanto comodo da farvi evitare la panchine?»
C’era qualcosa di
ironico, in quella domanda. Cecil vi spese un sospiro divertito mentre si
alzava. Qualche giorno prima lo aveva informato della sua partenza. Sarebbe
stato bello poterlo salutare, aveva detto. Effettivamente il suo confessore la
pensava allo stesso modo.
«Veramente, padre, avevo avvisato anche il signor Barrymore, ma
vedo che non è con voi.»
«Si tratta di una di quelle persone che si capiscono con un colpo
d’occhio. Vi è grato per la collaborazione nel caso Sullivan, ma non lo ammetterà.
L’ha affermato lui stesso quando sono passato a casa sua per commentare
l’articolo in cui si parlava del suicidio di Moore. “Prima d’ora non avevo mai
sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson.
Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”. Ha detto proprio
così.»
Cecil si strinse nelle spalle con un sorriso a labbra strette.
Volgendo uno sguardo in lontananza, lungo i binari, scorse le luci del treno in
arrivo. Due signore e un giovanotto che erano seduti sulle panchine
cominciarono a raccogliere le loro cose.
«Stavo ripensando al teschio», disse, a nessuno in particolare. «È
poi innegabile che ognuno ne ha uno in mano. Come Amleto, credo. E ci parla, ci
parla giorno e notte, coscientemente e non, mentre lui ti guarda e tu cerchi di
capire se dentro le sue orbite vuote ci sia o meno la ragione della tua
esistenza. È questo un gioco di sguardi che dura tutta la vita. Penso che quel
ragazzo sia esistito più come Marcel Redmayne che come Peter Moore. Penso che
le sue domande si siano fermate quando ha visto suo padre morire, e che da allora
ha smesso di chiedere, di pretendere spiegazioni, di conoscersi. Davanti al suo
teschio non è cresciuto, è sempre rimasto un bambino raggomitolato nell’angolo
di un armadio. Così è morto in uno spazio buio e angusto, dietro una beffarda
trama a griglia.»
«Non dovete farvene una colpa, Goldwine. Sono
dell’idea che l’avrebbe fatto anche se voi aveste terminato di scrivere quel
che voleva leggere.»
I freni del treni
fischiarono con prepotenza. Erano piuttosto lontani dai binari, ma il
penetrante odore di ferro, vapore e calore si spinse fino a loro.
«Quella di cui vi occupate è una grande forma di espressione»,
riprese padre Wilfred non appena il rumore calò di tono, «ma non credo avrebbe
salvato Moore dai suoi propositi. Penso si tratti di psicologia. Ci sono cose
che l’arte non può cambiare.»
«Questa è la parte in cui mi dite che dove l’arte non riesce,
interviene Dio?» Goldwine, notando che il sacerdote aveva colto e apprezzato il
velo d’ironia con cui aveva posto la domanda, sventagliò la mano in un gesto
leggero, sorridendo appena. «Non fa nulla, lasciate stare.»
Si chinò per raccogliere il bagaglio e se lo caricò su una spalla.
Dovette impegnarsi un poco, dedusse Wilfred, dal momento che le sue braccia
erano sottili ed eleganti. Si avviarono entrambi verso il treno, che nel
frattempo si era fermato sbottando nervosamente come un vecchio viaggiatore. Da
uno dei vagoni era saltato sulla banchina un controllore, fischietto al collo e
cappellino rigido in testa. Si fece avanti al piccolo trotto per aiutare le due
signore con i bagagli.
«Lo zio di Moore ha ucciso il fratello per denaro», disse a quel
punto Cecil, muovendosi con passo tranquillo. «Moore ha fatto lo stesso, almeno
in chiave simbolica, con Sullivan. Non ha agito per crudeltà, padre; si è
espresso per volontà del trauma.»
«Purtroppo questo ha fatto di lui un ragazzo che ha tolto la vita
ad un innocente.» Padre Wilfred si fermò al suo fianco, davanti alla porta di
uno dei vagoni. «Questa è la lettura che riesce più facile alla giustizia
umana. Ma quella divina, Goldwine... quella divina saprà salvarlo. Il desiderio
per il denaro è destinato è diventare uno spietato modello di vampirismo, in
futuro più che mai; per denaro, fratello toglie a fratello e amico toglie ad
amico. È sempre stato così e ora, alle porte di questo tanto atteso Novecento,
si aggirano già i vampiri del nuovo secolo.»
«Come sempre, padre, le vostre parole sanno di profezia», se ne
uscì il ragazzo, con un sorriso a suo modo divertito. Gli tese la mano, gli
occhi leggermente stretti per via del sole che, riflettendosi sul treno, gli
pizzicava fastidiosamente le pupille. «Arrivederci, dunque. Conto di tornare,
quando me la sentirò. Portate un saluto alla vostra bella St. Jerome.»
Il sacerdote accettò la stretta di buon grado, avvolgendo le dita
forti attorno a quel palmo così giovane e leggero. «Possa Dio seguirvi, Cecil.
Sarete sempre il benvenuto.»
Le labbra di Cecil Goldwine si sollevarono per metà, complice un
involontario istinto d’affetto e gratitudine. Salì sul vagone poco dopo avergli
lasciato la mano e non si voltò quando, già accomodato accanto al finestrino,
sentì le porte richiudersi. Era un treno piuttosto piccolo, niente scomparti,
solo due file di sedili per ogni lato. Lasciò il bagaglio per terra, in un
angolo, prima di togliersi il cappello e poggiarselo in grembo, sistemando la
nuca sul poggiatesta. Seduto a quel modo, il pomo d’Adamo disegnava un profilo
spigoloso e insolito sul suo collo snello. Aveva già recuperato il biglietto,
ma dubitava che il controllore sarebbe passato prima di venti o trenta minuti
di viaggio.
Davanti a lui, accanto a quella che poteva essere sua madre, sedeva
un bambino di forse cinque, sei anni. Se ne rese davvero conto solo quando il
treno si mosse, scivolando sui binari con la dolcezza di un’amante prima di
buttare nell’aria un appassionato soffio di vapore. Era rimasto a guardarlo per
un momento, con l’attenzione estatica di ogni bimbo, come se in lui avesse
riconosciuto qualcuno. Le sue piccole gambe ciondolavano teneramente dal sedile
e le sue labbra erano schiuse in un’espressione di infantile ingenuità.
«Ciao», gli disse.
Goldwine gli sorrise con paziente benevolenza. Si sentiva
improvvisamente stanco. Stanco e sollevato. «Ciao, piccolo.» Quasi sentì la sua
stessa voce come un mormorio.
Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale, aveva detto
padre Wilfred. E Barrymore, caro, brusco Barrymore, aveva annunciato a Cecil
che effettivamente qualcuno che portava il nome del suo amico c’era davvero. Ebbene,
quel bambino che sedeva su quel treno al suo posto era eccome. Ce l’aveva
piazzato Dio, o la scienza, o l’arte.
Il suo nome era Marcel Redmayne.
* * *
Questa
storia è stata, ripeto, un esperimento bello e buono, anzi non
evito di confermare che si è trattata di una sfida vera e
propria. Non sono esperta del genere, ma tutto sommato mi sono
divertita a vedere i fatti e i personaggi svilupparsi da sé;
soprattutto, me la sono spassata disseminando indizi.
Vi lascio quindi una lista di tutte quelle piccole "coincidenze" che ho voluto seminare qua e là.
- St. Jerome [chiesa di padre Wilfred]: nella traduzione italiana è "Gerolamo" o "Girolamo". Si tratta del Santo protettore degli orfani; in effetti, Peter Moore è orfano.
- Jonathan Barrymore: ho scelto questo nome per richiamare John Barrymore.
A lui si deve la storica interpretazione di Hamlet, a Londra, nel 1924.
Dal momento che la storia richiama esplicitamente e in più passi
l'Amleto almeno nel messaggio, ho trovato carino proporre questo
parallelismo.
- Eugene T. Sullivan:
questo collegamento è stato casuale. La coincidenza ha
sbalordito anche me xD Avevo già scelto il suo cognome e quando
mi sono informata circa la tragedia di Shakespeare, ho scoperto che Barry Sullivan, attore, interpretò a sua volta Hamlet, sempre a Londra, ma nel 1852.
- "The Pirates of Penzance"
[opera in scena nel penultimo capitolo]: opera comica in due atti,
realmente esistente. Riguardo questa mia scelta, ci sono due appunti da
fare; per prima cosa, un altro Sullivan, questa volta Arthur Sullivan,
fu uno dei compositori che si occuparono della musica. Per seconda
cosa, il manifesto per come l'ho descritto è esistito davvero,
così come la frase, "I am an orphan boy",
che accompagna il titolo. Il poster è datato 1880. In ogni caso,
la citazione è un altro espediente per far cadere l'attenzione
sul tema degli orfani - e quindi, ancora una volta, sul colpevole del
delitto.
Credo di aver scritto tutto. Dico "credo"
perché ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa - ma se
anche fosse, questi quattro punti riassumono le coincidenze più
importanti, quelle di primo impatto. E sì, ho dovuto fare
qualche ricerca per poter seminare nei capitoli queste informazioni, ma
mi sono divertita anche a fare questo. C'è qualcosa di
più vivo nelle storie che ti convincono alla curiosità di
saperne di più, e scrivere questo racconto mi ha in effetti
insegnato qualcosa.
Ringrazio chi si fermerà <3
Dew_
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