L'errore di Sherrinford Holmes di Anne Elliot (/viewuser.php?uid=718341)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Selrock Hommles ***
Capitolo 2: *** Solo un mezzo ***
Capitolo 3: *** “E’ un vero piacere rivederti dopo così tanto tempo, Sherry!” ***
Capitolo 4: *** Godfrey Norton ***
Capitolo 5: *** Gli amori e i dolori profondi sono uccisi dalla loro stessa intensità. ***
Capitolo 6: *** "Molly" ***
Capitolo 7: *** Inspira ed espira ***
Capitolo 8: *** La leggenda di Frey e Geror ***
Capitolo 9: *** “Torni alla sua normalità, alla sua ordinarietà.” ***
Capitolo 10: *** "Eravamo il peggio di noi" ***
Capitolo 11: *** Aveva immaginato che avrebbe dovuto mettersi in punta di piedi ***
Capitolo 12: *** Non potevo accontentarmi di meno ***
Capitolo 1 *** Selrock Hommles ***
L'errore di Sherrinford
Nota autore: Per prima cosa, salve a
tutte/i! ^^
Sono
tornata (per vostra fortuna o sfortuna) con il seguito di “The third brother”.
Prima di iniziare volevo di nuovo ringraziare chi ha commentato quella storia
perché, come ormai sapete, mi avete regalato delle parole bellissime, dei
pensieri e degli scambi di opinioni interessanti e stimolanti e perché avete
amato Sherry quanto se non più di me. ^^
Ed
ora, come al solito, una mia premessa biblica che siete liberi di ignorare.
Ho
deciso di continuare questa storia, a differenza dei miei racconti precedenti,
perché i tempi ed i cambiamenti dei personaggi, questa volta, sono stati lenti
e più fedeli a quelli della BBC (o almeno credo!). Per quanto io sia legata
alla mia prima ff ed a “Perché non provi Sherlock?”, entrambe hanno un finale
preciso che non vorrei travalicare perché il rischio dell’OOC sarebbe veramente
alto e non voglio rovinare un bel ricordo che quelle storie hanno lasciato in
me e nelle persone che le hanno seguite. La storia di Sherry, al contrario, è
stata meno “violenta” verso l’IC dei personaggi, soprattutto per quanto
riguarda Sherlock e Molly, ed ho ancora un margine per scrivere altro e
completare l’insoluto rimasto dopo la fine. Questo non elimina il fattore “ma
sei sicura? Guarda che sta venendo una schifezza? Ma dai, è irreale?
Vergognati!” che mi urla contro la mia anima critica/paranoica.
Al
termine di questo discorso prolisso e per certi versi illogico, cosa intendo
dire: spero che questa storia non sia una schifezza e che riesca a mantenere lo
stesso interesse/affetto della prima storia. ^^
Ma
ora, basta blaterare e, come al solito, a voi l’ardua sentenza! Mi raccomando,
criticate!
A
presto,
Anne
^^
Ps:
Per chi non avesse letto la storia precedente e non ne abbia voglia, la trama base
è: il terzo fratello nominato da Mycroft durante l’ultima puntata della terza
stagione, in realtà, è una donna di nome Sherrinford (anche se lei preferisce
esser chiamata Sherry) ed è mediana dei due Holmes. Ha passato gli ultimi 16
anni della sua vita in un ospedale psichiatrico, non perché sia realmente pazza
ma perché così facendo si è salvata dalla pena di morte. Del suo passato si sa
che si è innamorata e fidata di un uomo sbagliato e che per colpa di questo
fantomatico uomo è stata accusata di alto tradimento. E’ molto legata ad
entrambi i fratelli, anche se ha un affetto speciale per il “piccolo di casa”
ed è preoccupata dell’incapacità dei due Holmes di rapportarsi sentimentalmente
con gli altri. Alla fine di “The Third Brother” lascia in fretta e furia casa
Holmes, doveva aveva trascorso il natale insieme alla sua famiglia, ai Watson e
a Molly, per un non specificato problema…
L’errore di Sherrinford Holmes
Selrock Hommles
Molly Hooper era seduta da almeno un’ora in un angolo di quella
grande sala.
Era eccezionalmente truccata, eccezionalmente elegante ed
eccezionalmente triste. Le unghie laccate intente a strappare in pezzi
minuscoli un tovagliolo di carta rosso, le labbra, con ormai solo un’ombra del
rossetto che aveva messo, erano inespressive e gli occhi lanciavano sguardi al cellulare poggiato accanto a sé che
tuttavia non reagiva. Non si aspettava grandi cose ma almeno la risposta agli
auguri di buon anno, si.
Il telefono vibrò e lo sguardo della patologa si illuminò.
To Molly Hooper:
Buon anno cara.
Un abbraccio,
Mr & Mrs Holmes
Nonostante la delusione per il mittente differente dallo sperato, la
patologa accennò un sorriso ed iniziò a rispondere al messaggio.
Una donna, chiaramente alticcia, si buttò, più che sedersi, sulla
sedia di fianco alla sua. Molly le lanciò uno sguardo fugace prima di tornare a
dare attenzione al proprio telefono. L’altra si avvicinò maggiormente facendo
stridere le gambe della sedia sul pavimento di marmo. La patologa sospirò
pesantemente.
«Si, Meena*?»
La donna guardò prima l’amica e poi il telefono.
«E’ lui?» Il fiato alcolico non sfuggì alla patologa che inviò il
messaggio e la guardò con disapprovazione.
«Credo sia ora di andare!»
Meena si alzò con aria innervosita.
«No! E’ ancora presto e poi tu hai passato gran parte della serata
seduta qui senza interagire con nessuno.»
Molly mise il telefono nella borsa, e si alzò lentamente.
«Meena, io domani devo lavorare e anche tu.»
La donna sbuffò annoiata ma poi le si avvicinò con fare speranzoso.
«Ma, almeno, ti interessa qualcuno degli uomini che ti ho fatto
conoscere?»
Molly
sbatté le palpebre con fare dubbioso. In realtà le aveva presentato qualsiasi
tipologia di uomo single presente: cinquantenni depravati (“è un uomo stabile,
Molly!”), trentenni depressi (“sai, è un intellettuale…molto
introverso…affascinante, no?!”), avvocati sovraeccitati, con la cravatta e
l’abito a righe anche a capodanno (“Soldi, Molly!...Tanti, tantissimi
soldi!!”).
La patologa scosse amaramente la testa e spostò
la sedia incamminandosi verso l’uscita.
«Forza andiamo, io intanto chiamo un taxi.»
Non appena l’auto si fu accostata di fronte al
suo palazzo Molly scese rapidamente e stava per salutare l’amica quando
quest’ultima la seguì uscendo con decisamente poca eleganza dal taxi. La
patologa corrugò le sopracciglia.
«Che stai facendo? Abiti a tre isolati da qui.»
La donna rise traballando sui tacchi e poi le si
avvicinò con occhi sbarrati ed aria divertita. La voce che avrebbe dovuto
essere un sussurro per le sue orecchie alticce si propagò fino ad arrivare
all’autista.
«Lo sooooo. Pensavo di dormire da te. E’ che non
ho più soldi e non vorrei che quel grassone mi facesse problemi.»
L’uomo si voltò con aria irata in direzione
delle due donne. Molly lo guardò con un sorriso nervoso e imbarazzato e tacitò
l’amica.
«Va bene, va bene.»
La patologa pagò l’autista scusandosi ma tutto ciò che ebbe in cambio
fu un grugnito nervoso e il motore dell’auto che partiva rapidamente.
Molly Hooper alzò gli occhi a guardare il cielo nero. Da lì non si
vedeva neanche una stella.
Un tonfo sordo alle sue spalle la fece voltare di scatto. L’amica era
rovinosamente caduta a terra mentre tentava di salire i gradini che portavano
al portone.
La patologa espirò profondamente prima di correre in suo aiuto. Come
inizio dell’anno era a dir poco pessimo!
«Che stronzo!»
«Meena! Smettila di urlare o sveglierai tutti!»
«E’ capodanno, nessuno dorme a capodanno, tutti sono felici a
capodanno, tutti sono gentili a capodanno. Tutti tranne quel pomposo Selrock
Hommles!»
La patologa alzò gli occhi al cielo. Stava faticosamente aiutando
l’amica a salire le rampe di scale che portavano al suo appartamento e, a
quanto pare, la donna non aveva avuto idea migliore che affrontare la vita
sentimentale della patologa urlandola nelle tromba delle scale.
«Meena, si chiama Sherlock Holmes e ora, per favore, potresti
abbassare il volume della voce.»
La donna sbuffò sonoramente.
«Non mi importa come si chiama, so solo che è uno stronzo. Non ti ha
risposto per capodanno: è un segno rivelatore.»
La patologa si fermò un attimo prima di riprendere a salire le scale.
Un po’ per la fatica del sostenere l’amica un po’ per capire che cosa
intendesse dire.
«Segno rivelatore di cosa?»
Meena spalancò gli occhi come a sottolineare qualcosa di ovvio.
«Di stronzaggine, è evidente!» La patologa sorrise e riprese a salire
le scale. «Ammettilo Molly è così. Prima passi il natale a casa dei suoi
genitori, cioè capisci a casa dei suoi, e poi non ti risponde neanche…»
Molly si era bloccata. La voce dell’amica era diventata un sottofondo
lieve che ronzava nelle sue orecchie disattente.
C’erano delle gocce di sangue! Sugli scalini di fronte a loro c’erano
delle gocce di sangue.
Meena smise di parlare non appena percepì il disinteresse dell’amica
e ne seguì lo sguardo. Si sentì trascinare dalla patologa per i gradini che li
separavano dal pianerottolo.
Le gocce aumentavano sino a raggiungere una figura che dava loro le
spalle. Appoggiata con una spalla alla porta di casa sua, si voltò non appena
percepì lo sguardo delle due donne.
Molly sorrise istintivamente ma ben presto capì che qualcosa non
andava.
«Ciao Molly. Perdona l’invadenza ma non potevo che venire qui.»
Molly vide quell’ammasso di vestiti scuri iniziare ad accasciarsi
lentamente ed istintivamente le corse incontro urlando un preoccupatissimo
“Sherry!”.
Aveva sempre saputo che lavoro facesse Molly ed ormai si era
decisamente abituata all’idea ma un conto era la teoria ed un conto la pratica.
Certo, quella donna che Molly aveva fatto sdraiare sul tavolo di cucina non era
un cadavere ma non ci voleva un genio per capire che se avesse continuato a
sanguinare a quel modo lo sarebbe presto diventata.
«Meena, aiutami!»
La donna si riscosse alla voce perentoria dell’amica. Molly aveva un
tono perentorio, quindi? Non glielo aveva mai sentito usare.
Si avvicinò lentamente al tavolo osservando quella donna che vi era
distesa sopra a pancia in giù. Gli occhi chiari della Holmes si posarono su di
lei ed accennarono un sorriso.
La patologa rientrò nella stanza con tutto il necessario per la
medicazione e notò lo sguardo imbarazzato dell’amica.
«Meena, Sherry.»
«No, grazie»
Molly e Sherrinford si guardarono per poi guardare con aria
interrogativa la donna. Lei si strinse nelle spalle.
«Beh, cosa c’è?! Sono già abbastanza sbronza, se prendo pure uno
cherry stai pur certa che non ti sarò di alcun aiuto!»
Molly scoppio a ridere seguita dalla bella Holmes che tuttavia si
bloccò emettendo un suono basso. La patologa si ricompose immediatamente e
scoprì la ferita che la donna aveva precedentemente bendato.
Un taglio non particolarmente profondo ma netto e preciso le
deturpava parte della schiena. Meena si avvicinò osservando con vivo
raccapricciò la scena ed emettendo un sibilo basso per accompagnare il lento
scoprire della ferita.
La patologa guardò attentamente il tutto ed iniziò a disinfettare con
cura e delicatezza il taglio.
«Non è profonda ma deve comunque essere ricucita. Dobbiamo portarti
in ospedale.»
Sherry voltò la testa, le braccia incrociate sotto di essa.
«No Molly, non posso.» La patologa arcuò le sopracciglia con fare
interrogativo e la donna sospirò. «Diciamo che avendo “contrattato” la mia
uscita da tu sai dove, non sono proprio regolare, ecco.»
Meena guardò Molly con un’espressione sorpresa e confusa. Ma di che
stavano parlando?!
La patologa lanciò un’occhiata alla ferita e poi tornò a guardare la
sua paziente.
«Non ho l’anestetico.»
«Non preoccuparti. Ho un’alta soglia del dolore.»
«Non lavoro su persone vive da anni.»
«Hai sicuramente più esperienza di taglio e cucito tu che un
dottorino qualsiasi di pronto soccorso.»
Molly era ancora incerta.
«Chiamo John!»
Sherry la guardò con aria vagamente spaventata.
«No! Sherlock non deve sapere che sono qui e John non saprebbe tenere
il segreto.»
Meena aggrottò le sopracciglia: che ruolo aveva quello stronzo in
tutta quella storia?
«Pensi veramente che non lo chiamerò non appena avrò finito?»
Sherry la guardò con malizia.
«Quindi stai ammettendo che mi ricucirai, Dottoressa Hooper?»
La patologa la guardò con finto rimproverò e portò la sua attenzione
alla ferita.
«Meena, reggi il filo e tampona dove ti indico.»
La donna ingoiò sonoramente ma, presa un’espressione decisa, si
accostò completamente al tavolo per aiutare l’amica.
Molly stava per iniziare a lavorare quando si bloccò.
«Sei sicura che non vuoi nulla per il dolore? Magari qualcosa di
alcolico?»
La bella Holmes, che era tornata a guardare di fronte a sé, sorrise.
«Magari uno cherry.»
Meena guardò con aria interrogativa prima l’una e poi l’altra di
quelle due donne che ridevano senza che lei sapesse il perché.
Molly chiuse lentamente la porta della sua camera dove la Holmes
dormiva ormai serena. Meena uscì dal bagno, dove era andata per ripulirsi.La
patologa le fece segno di seguirla ed andarono in salotto.
Meena osservò l’amica estrarre il cellulare dalla borsa.
«Che stai facendo?» Molly non le prestò attenzione intenta a cercare
un numero nella rubrica ma l’amica le si avvicinò con aria minacciosa. «Non
dirmi che lo stai chiamando?! Quella donna ti ha chiesto di non farlo, era
terrorizzata solo all’idea che quell’uomo sapesse che fosse qui. Chissà che
cosa le ha fatto!»
La patologa sorrise e la guardò con aria divertita.
«Meena, Sherlock non le ha fatto proprio nulla.»
La donna mise le mani sui fianchi.
«E tu come fai a saperlo?» Molly sbatté le palpebre con fare
dubbioso. «Si, non puoi saperlo. Tu ne sei convinta solo perché stravedi per
quel tizio, nonostante il modo orribile in cui ti tratta. Magari è stato lui a
farle del male!»
La patologa scosse la testa.
«Non essere irrazionale. E’ solo che non vuole che lo venga a sapere
perché sa che lui le rimprovererà di essere venuta qui invece di andare in
ospedale.» L’altra fece per risponderle ma Molly alzò un dito per tacitarla ed
avvicinò l’apparecchio all’orecchio. «E comunque devo avvertirlo. Adesso sta
bene ma potrebbero esserci delle complicazioni.»
Meena strinse le labbra innervosita.
«Beh, se ci dovessero essere delle complicazioni tu sei un medico e lui
no!»
Molly sorrise.
«Si, ma io non sono suo fratello.»
La donna spalancò le labbra per la sorpresa e rimase con la medesima
espressione anche quando una leggermente incerta Molly iniziò a parlare.
Il rumore all’altro capo del telefono era confuso. Un insieme di voci
e suoni facevano da sottofondo alla voce di Sherlock Holmes.
«Si, Molly, auguri anche a te. Ora devo lasciarti, a quanto pare
qualcuno si è preso la briga di venire a svaligiare Baker Street.»
La patologa tentennò un attimo. Lui pensava che lei lo avesse
chiamato per redarguirlo della mancata risposta al suo messaggio?! Egocentrico!
Il pensiero fu subito rimpiazzato da un altro.
«Qualcuno è entrato in casa?»
L’uomo sbuffò sonoramente.
«A quanto pare qualche ora fa, si. Mrs Hudson ha ritenuto bene di
chiamare la polizia invece di informarmi ed ora Lestrade con tutti i suoi
esseri inutili sta ficcando il naso ne….ehi, tu! Mettilo subito giù: è del 600,
con il tuo quoziente intellettivo non saresti in grado neanche di toccarlo,
figurarsi leggerlo!»
Molly percepì la risposta nervosa dell’agente e la voce di Lestrade a
tentare di calmarlo. Poi il consulente investigativo si rivolse nuovamente a
lei.
«Devo andare!»
La patologa si riscosse.
«No Sherlock, aspetta!» Il silenzio dall’altra parte dell’apparecchio
le fece capire che lui, seppur controvoglia, era in attesa di ciò che lei
voleva dirgli. Se c’era una cosa che più o meno conosceva di quell’uomo, erano
i suoi silenzi. «Tua sorella è qui da me. E’ ferita.»
Una leggera incertezza e dei passi rapidi fecero capire alla patologa
che l’uomo si doveva essere allontanato dagli altri per prestarle maggiore
attenzione.
«Da quando? E’ grave?»
Molly sorrise di quella preoccupazione che Sherlock manifestava così
raramente.
«No, non è grave. Ha un taglio di una ventina di centimetri sulla parte
sinistra della schiena ma non è profondo e l’ho ricucito senza problemi.»
Riprese fiato e sentì lui fare la medesima cosa. «Sono rientrata un’ora fa e
l’ho trovata di fronte alla mia porta…»
Sherlock percepì l’insicurezza della donna e prese un tono più
gentile.
«Molly, che altro c’è?»
La patologa si morse il labbro.
«Mi aveva chiesto di non dirtelo.»
Sentì l’uomo ridere sommessamente per poi parlare con voce quasi
carezzevole.
«Non preoccuparti Molly, non potrebbe mai avercela con te per
questo.» La patologa espirò pesantemente. «Sarò lì fra 20 minuti.»
La donna si ricompose e schiarì la voce.
«Va bene».
Chiusero entrambi la conversazione senza salutarsi, non era necessario.
Molly sorrise osservando il proprio telefono ma lo sguardo di
rimprovero che percepì sulla propria nuca la riscosse dai suoi pensieri.
Meena la guardava con nervosismo e biasimo.
«Non posso crederci! Di là c’è una donna ferita, la tua cucina sembra
un mattatoio e tu, tu sei felice perché lui sta venendo qui. Non ho parole,
veramente!»
Le due donne si guardarono per qualche attimo prima di scoppiare a
ridere sommessamente.
Meena si sedette sul divano e Molly le si mise accanto. La prima
lanciò un paio d’occhiate alla seconda prima di parlare.
«E quindi…quella è sua sorella.»
«Già.»
«Più giovane, suppongo.»
Molly si morse un labbro e sorrise in direzione dell’amica.
«No, più grande di 5 anni.»
L’amica strabuzzò gli occhi.
«Che cosa?! Quella donna…» Molly annuì divertita e Meena arcuò un
sopracciglio. «Devo chiederle che crema viso usa!»
Scoppiarono a ridere nuovamente.
«E, come si chiama?»
Molly sorrise.
«Sherry.»
«Come il liquore?!»
«No, Sherry con la esse.»
Meena fece vagare lo sguardo per la stanza con fare sorpreso.
«Mi domando che problema avessero i loro genitori.»
Molly corrugò le sopracciglia.
«Che intendi dire?»
L’altra si strinse nelle spalle.
«Beh, un figlio l’hanno chiamato Sherlock, l’altra Sherry. Non sono
proprio dei nomi normali, ecco.»
La patologa sorrise passando le dita sullo schermo del telefono con
noncuranza.
«Beh, tecnicamente il suo nome completo è Sherrinford.» Meena corrugò
la fronte con aria disturbata. «Ma a lei non piace, le sembra poco femminile.»
La donna annuì con fare deciso.
«Assolutamente! Sherry è decisamente meglio.»
La patologa sorrise e poi le lanciò un ennesimo sguardo divertito.
«Se è per questo, il fratello maggiore si chiama Mycroft.»
La donna spalancò nuovamente gli occhi per poi appoggiarsi
pesantemente sullo schienale del divano.
«Ed io che pensavo che il mio nome fosse assurdo.»
Le due donne si ritrovarono a ridere ancora una volta. I tre fratelli
Holmes non avrebbero mai potuto pensare di poter essere così divertenti!
Quando il campanello suonò con tono alto e deciso, sussultarono
entrambe.
Molly corse al citofono per aprire il portone e poi tolse il
chiavistello e socchiuse la porta del suo appartamento. Sentì i passi di
Sherlock salire le scale rapidamente.
Perché si sentiva in ansia? Perché era così imbarazzata? Non era la
prima volta che veniva a casa sua, dopotutto.
Molly intravide prima i suoi capelli far capolino dalle scale e poi
tutta la sua figura. Lui accennò un sorriso nella sua direzione e lei fece la
medesima cosa. Beh, dopotutto, era un miglioramento rispetto al passato!
Entrò in casa e senza degnare d’attenzione l’amica della patologa,
che seduta a gambe accavallate sul divano lo guardava con astio, scrutò dalle
finestre il marciapiede e la strada sotto di loro.
«Dov’è?»
Molly si irrigidì un attimo per il tono basso dell’uomo.
«E’ in camera mia. Sta dormendo.»
L’uomo si voltò ed andò con passo sicuro verso la camera. Molly lo
stava seguendo con lo sguardo quando Meena la strattonò per un braccio, gli
occhi ridotti a due fessure e la voce pari ad un sussurro.
«Perché sa dov’è camera tua?»
Molly guardò prima lei e poi l’uomo che, senza alcuna esitazione,
apriva la porta della camera per poi richiuderla dietro le proprie spalle.
«Ma l’hai visto questo appartamento?! E’ piccolo, non ci vuole un genio
per…»
L’altra la bloccò guardandola con disapprovazione.
«Non provarci Molly! Sarà anche piccolo ma non così tanto da non
potersi sbagliare. Lui sapeva dove andare!» La patologa si liberò ed andò verso
la camera. La voce dell’amica, ancora un sussurro seppur leggermente più alto,
la raggiunse.
«Lui è già stato qui! E’ già stato qui e non mi hai detto niente!»
La patologa le lanciò uno sguardò per farla tacere e stava per
raggiungere la camera dove erano i due Holmes quando la porta si aprì ed una
traballante Sherry uscì seguita da uno Sherlock a dir poco irritato.
«Molly, perché lo hai chiamato?»
La patologa si sentì in colpa per via del tono supplichevole e triste
della donna e stava per scusarsi quando la voce dell’uomo la interruppe.
«Secondo te perché, Sherry?! Ti sembra una cosa normale tornare a
casa e trovarsi una moribonda alla porta?»
La donna si voltò e lanciò uno sguardo astioso al fratello.
«Ma senti da che pulpito! Io almeno non sono scappata da un
ospedale.»
L’uomo la ignorò e la superò per andare ad aprire la porta di casa.
Lo sguardo irrequieto e nervoso.
Sherry, nonostante l’implicito invito del fratello a sbrigarsi, si
fermò per salutare le due donne.
«Grazie Molly e scusami per il disturbo.»
La donna le sorrise scuotendo la testa.
«Nulla, piuttosto perdonami tu per…»
La patologa lanciò uno sguardo all’uomo e Sherry fece lo stesso, per
poi tornare a guardarla e a sorriderle con benevolenza.
L’uomo sospirò pesantemente.
«Guardate che io sono qui!»
La bella Holmes sbuffò divertita in direzione delle due donne per poi
voltarsi ed incamminarsi traballante oltre la porta.
Una volta arrivata alle scale, Sherry si bloccò e guardò il fratello
con l’aria di chi attende qualcosa. Lui le donò un sorriso falso, non intendeva
aiutarla.
Le altre due donne, ancora sulla porta di casa, guardavano la scena
preoccupate. Molly percepì la voce di Meena sussurrarle “hai visto che stronzo,
si?!”.
Sherry rese il suo volto una maschera seria e decisa ed iniziò a
scendere i gradini con incalcolabile lentezza.
Molly trattenne una risata quando vide l’uomo irrigidire la mascella per poi prendere la
sorella fra le braccia con aria palesemente irata. La donna, tuttavia, invece
di ringraziarlo gli sorrise malignamente.
«Mi sono dimenticata il cappotto!»
Lui stava per risponderle malamente quando la voce di Molly evitò la
lite.
«Ci penso io.»
«Non ci posso credere! Che ci fai qui?»
Mycorft Holmes, completo d’alta sartoria, ombrello fedele e postura
elegante le sorrise sarcasticamente.
«Si, Sherrinford è un piacere anche per me rivederti così presto!»
La donna lanciò un’occhiata al fratello minore che per tutta risposta
la mise a terra guardandola con aria disinteressata.
«Siete veramente incredibili voi due. Normalmente non vi sentireste
neanche per Natale ma se dovete allearvi contro di me fate a gara.»
Il maggiore degli Holmes le si avvicinò con aria cordiale.
«Ci preoccupiamo per te.»
La donna lo guardò con fare divertito.
«Si, certamente…e comunque no, non sta succedendo nulla che possa
interessare i tuoi protetti Mike.»
L’uomo si irrigidì al soprannome ma per tutta risposta aprì la
portiera della macchina nera per farla salire.
La Holmes si voltò verso le due donne che li avevano seguiti. Prese
il cappotto che Molly le porgeva con un sorriso, l’abbracciò, lanciò un finto
sguardo d’odio al fratello minore e salì.
Mycroft si voltò verso il fratello.
«Suppongo tu voglia tornare a Baker Street.»
Il detective incrociò le mani dietro la schiena e sorrise
sarcasticamente.
«Precisamente, divertiti a fare la tata.»
«Quanta simpatia!»
La voce di Sherry riecheggiò nella strada vuota.
Il maggiore degli Holmes strinse le labbra innervosito prima di
riprendere uno dei suoi sorrisi di circostanza.
«Vuoi un passaggio?»
Il detective gli rispose con la medesima espressione.
«No, ti ringrazio. Prenderò un taxi.»
Molly guardò prima l’uno e poi l’altro. Era ovvio che Mycroft volesse
coinvolgerlo in qualche modo in quello che stava succedendo ed era anche
altrettanto ovvio che Sherlock non ne avesse alcuna intenzione.
«Io invece un passaggio lo accetterei volentieri!»
La voce di Meena fece voltare tutti i presenti verso di lei. Molly
alzò un sopracciglio con fare dubbioso.
«Non volevi restare da me?»
La donna scosse le spalle ed arricciò le labbra per il ribrezzo.
«Non in quella casa, con tutto quel» mosse la mano come per
cancellare l’immagine dai suoi occhi «sangue.»
La patologa la guardò scuotendo la testa ma Mycroft si ricompose e le
sorrise con educazione.
«Credo non ci abbiano presentati Miss…?»
La donna sorrise porgendogli la mano.
«Meena!»
Molly trattene una risata per l’espressione quasi sconvolta dell’uomo
al non rispetto dell’etichetta da parte dell’amica.
Sherry si affacciò, sorrise e fece segno alla donna di salire.
Sherlock indietreggiò di qualche passo sino ad essere vicino alla
patologa e mentre lei salutava con un sorriso le due donne e Mycroft, lui
sorrideva con malizia al nervosismo palese del fratello maggiore.
Non appena la berlina fu partita, il detective si riavvicinò al
marciapiede guardando in entrambi i sensi di marcia alla ricerca di un taxi
senza, tuttavia, alcun successo. Prese il cellulare per chiamare la società
competente ma si bloccò quando vide la patologa allontanarsi con un sospiro dal
portone di casa e prendere anche essa il cellulare. La guardò con un sopracciglio
arcuato e fare interrogativo, lei sorrise, telefono all’orecchio.
«Le chiavi…sono a casa.»
Il detective comunicò l’indirizzo al centralinista ed attaccò
l’apparecchio avvicinandosi alla porta. Molly lo guardò con aria interrogativa
e premette il tasto rosso del telefono.
Lo vide guardarsi intorno con aria circospetta mentre estraeva un
astuccio nero dalla tasca del cappotto; poi si avvicinò alla porta e dopo
qualche tentativo fallito girò la maniglia ed il portone si aprì.
Molly guardò alternativamente la porta spalancata e l’uomo che
accennava un sorriso.
«Prego, dopo di te.»
Lei lo redarguì con uno sguardo.
«Avrei chiamato i pompieri.»
«Sono le 5 di mattina del primo dell’anno…»
Molly sorrise scuotendo leggermente la testa ed entrò. Si guardarono
per qualche attimo poi le distolse lo sguardo e lo riportò nuovamente su di
lui.
«Quanto devi aspettare?»
Sherlock alzò il bavero guardandosi in giro.
«Mezz’ora….assurdo!»
Molly accennò una risata.
«Sono le 5 del mattino del primo dell’anno….»
L’uomo arcuò semplicemente un sopracciglio con aria divertita.
«Sali per un caffè?»
Lui la scrutò con espressione leggermente sorpresa e lei non poté
evitare alla proprie guance di colorarsi. Come le era uscito? Era impazzita o
cosa?
Si guardò in giro imbarazzata.
«Cioè, dato che devi aspettare, si, insomma fa freddo, ecco.»
Lui accennò un sorriso mentre l’attenzione della patologa era altrove
e si avvicinò di un passo.
«Suppongo ti serva il mio aiuto per entrare in casa, non credi?!»
Lei sorrise e si incamminò su per le scale mentre Sherlock chiudeva
il portone dietro di sé e la seguiva.
Nota autore:
*Meena viene citata, come amica/confidente, nel “Blog di Molly
Hooper” appositamente creato dalla BBC successivamente alla serie. L’ho trovato
per caso e sinceramente mi sembra un po’ troppo ridicolo per ciò che riguarda
Molly o comunque per come si è evoluto il suo personaggio nelle serie
successive (da quello che ho potuto capire il blog fa riferimento solo alla
prima serie) ma ovviamente mi attengo ai fatti; del resto io ho creato una
sorella per Sherlock. ^^
So che per essere un primo capitolo è poco “appariscente” ma mi
rifarò con il prossimo…purtroppo.
L’aggiornamento temo non sarà costante ma cercherò di fare del mio
meglio.
A presto,
Anne ^^
|
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Capitolo 2 *** Solo un mezzo ***
L'errore di Sherrinford Holmes 2
Nota autore: Salve a tutte/i di nuovo!^^
Cosa
posso dire per ringraziarvi di tutte le parole, i complimenti e le
dimostrazioni di affetto ricevute con le recensioni al primo capitolo?
Per
prima cosa, grazie, grazie ed ancora grazie. Come ormai sapete le
adoro, siano
esse positive o negative, ed adoro le vostre osservazioni, correzioni
ed
intuizioni. Seconda cosa, spero di non deludervi con l’andar
avanti del
racconto!
Questo
capitolo è più corto del precedente ma ho dovuto
tagliarlo in questa maniera
per non dover spezzettare la parte successiva del racconto che, essendo
un po’
più contorta, avrebbe potuto risentirne. Spero mi perdoniate
per questo ma vi
assicuro che farò di tutto per pubblicare il terzo capitolo
il prima possibile.
^^
Un’ultima
precisazione. Come giustamente mi ha fatto notare Evee, tra i
personaggi non
avevo inserito il “nuovo personaggio” di Sherry per
cui ho dovuto sacrificare
qualcuno ed a malincuore è toccato a
Mycorft….perdonatemi! Sappiate che lui
c’è
ed è importante, ovviamente, ma il limite di EFP sono 5
personaggi ed io faccio
storie troppo “popolose”.
Finito
il mio solito sproloquio, a voi il giudizio!
A
presto,
Anne^^
L’errore di
Sherrinford Holmes
Solo
un mezzo
Molly
osservava la sua cucina con una smorfia. Quando Meena aveva
detto che sembrava un mattatoio non aveva poi torto. Sangue sul tavolo,
bende e
filo sparsi in giro, il lavandino pieno di attrezzature sporche e dei
guanti
che avevano usato. Sentì Sherlock avvicinarsi e mettersi al
suo fianco.
«John ne sarebbe disgustato.»
Molly sorrise ed iniziò a riordinare sommariamente per poi
accendere
il bollitore mentre di sottecchi osservava l’uomo camminare a
passi lenti per
il salotto. Lo guardava girovagare lentamente, i guanti tenuti
mollemente fra
le dita delle mani. Sorrise della sua naturalezza nel muoversi dentro
casa sua;
lei non si muoveva con la stessa sinuosità ed
agilità.
«Cosa hanno preso?»
Lui, le mani dietro la schiena ed il cappotto ancora indosso, si
voltò riscosso dalla voce di lei.
«Come?»
La patologa buttò le bende ed i guanti nella spazzatura.
«A Baker Street, che cosa hanno preso?»
L’uomo alzò le spalle con noncuranza ed
inclinò leggermente la testa
per leggere il titolo del libro che la patologa aveva abbandonato sul
divano la
sera precedente.
«Praticamente nulla.»
Lei sorrise lavandosi le mani ed aprendo le ante della credenza per
prendere due tazze. L’uomo, con la coda
dell’occhio, intravide il movimento
delle labbra della donna.
«Cosa?»
Molly gli lanciò uno sguardo prima di spegnere il bollitore.
«Beh, suppongo sia un modo come un altro per dire che hanno
preso
qualcosa che non è affar mio.»
Lui sorrise in risposta al tono giocoso di lei.
«Da quando sei così perspicace?»
La patologa versò l’acqua e mise le zollette nelle
tazze. Le prese
entrambe e lo guardò alzando e riabbassando le spalle. Un
mezzo sorriso
accennato in volto.
«Ho imparato ad esserlo.»
Avrebbe voluto aggiungere “con te” ma si
bloccò.
Il rumore di un auto che si accostava sotto le finestre del suo
salotto attirò la sua attenzione e anche quella
dell’uomo che si voltò ed andò
a guardare.
«E’ il taxi?»
La voce di lei era palesemente piena di delusione nonostante avesse
cercato di trattenersi. Posò le tazze sul tavolo.
«Purtroppo no.»
La donna si rattristò all’utilizzo di
quell’avverbio da parte di
Sherlock ma percepì di averlo inteso malamente quando lo
vide allontanarsi
dalla finestra ed uscire rapidamente dalla porta di casa. Fece qualche
passo
per seguirlo ma lui rientrò con un’espressione
indecifrabile.
«Al piano di sopra. Ora.»
Molly lo guardò con fare preoccupato percependo dei passi
rapidi
provenire dalla tromba delle scale ma non riuscì a muoversi.
Sentì la presa di lui sul suo braccio che la tirava
delicatamente per
il pianerottolo sino alla rampa che portava al piano superiore.
«Conosci qualcuno?»
Molly lo guardò con aria spaventata per il suo fare rapido e
deciso
ma si riscosse concentrandosi sul tono d’urgenza della sua
voce.
«Si, Mrs Dewar.»
Lui guardò con circospezione giù per le scale e
Molly fece la
medesima cosa. Qualcuno, anzi tre o quattro persone, stavano salendo le
scale.
«Vai da lei ed aspetta. Ti vengo a chiamare io.»
La patologa tentennò sussurrando un “no”
ma lui spalancò gli occhi.
«Vai, subito!»
Molly annuì e corse su per le scale bussando nervosamente
alla porta
dell’anziana vicina. Vi furono dei secondi di silenzio, poi
una voce
insonnolita e leggermente timorosa chiese chi fosse.
Molly si avvicinò alla porta per non urlare.
«Mrs Dewar, sono Molly, Molly
Hooper. La prego, mi
apra.»
Un rumore di chiavi che giravano nella toppa e di un chiavistello
aperto precedettero l’apparizione dell’anziana
signora.
Molly entrò rapidamente e richiuse la porta dietro di
sé.
«Molly cara, che succede? Stai male?»
La patologa scosse la testa con vigore.
«No, no Mrs Dewar. Non si preoccupi ma…»
Le voci di vari uomini provenienti dal suo appartamento la fecero
zittire. Si piegò istintivamente verso il pavimento per
cercare di percepire
ciò che dicevano; Mrs Dewar fece la medesima cosa. Rimasero
così per alcuni
minuti sino a quando non si sentirono dei rumori di colluttazione.
Mrs Dewar si precipitò verso il telefono.
«Oh signore mio! Chiamo la polizia!»
Molly era immobile, attanagliata dalla paura. Avrebbe voluto correre
giù ma lui le aveva detto di non muoversi e probabilmente
sarebbe stata solo un
impiccio, al tempo stesso non riusciva a rimanere lì senza
fare nulla.
La voce di Mrs Dewar che parlava con Scotland Yard si
insinuò nei
suoi ragionamenti. Si voltò verso la donna.
«Lestrade! Dica di mandare l’ispettore
Lestrade!»
Era ancora intenta ad osservare la donna in bigodini, vestaglia e
fare preoccupato quando si sentì un colpo di pistola
provenire dal suo
appartamento ed il rumore di passi in fuga.
Senza rendersene conto corse alla porta e poi giù, per le
scale,
urlando il nome del detective. La sua mente era intenta a ricreare gli
scenari
più orribili.
Non appena arrivata sul pianerottolo vide un uomo uscire dal suo
appartamento e guardarla con astio. La patologa si bloccò,
la mano ancora
stretta al corrimano, gli occhi ad osservare quelli quasi neri di
quell’essere.
L’uomo si precipitò giù per le scale e
quasi nel medesimo istante
Sherlock uscì dall’appartamento seguendolo. Non
appena si sentì il portone al
pianterreno sbattere rumorosamente la donna si riscosse dal suo
immobilismo.
Lasciò il corrimano e in pochi passi arrivò sulla
soglia di casa
propria.
Fece un paio di passi incerti all’interno del salotto
guardandosi
intorno. La lampada che era sul tavolo accanto al divano era in pezzi
sul
pavimento con il suddetto tavolino accanto a lei, un ripiano della
libreria era
crollato e i libri che reggeva lo avevano seguito nella caduta, le
sedie erano
ribaltate, un quadro incastrato fra il muro ed il divano.
Si precipitò alla finestra giusto in tempo per vedere quegli
uomini
fuggire a bordo di un auto blu scuro e Sherlock fermare la propria
corsa.
L’uomo si guardò in giro per poi alzare lo sguardo
ad incontrare quello di lei.
Istintivamente Molly si ritrasse, le mani si torturavano a vicenda di
fronte al
petto.
Sapeva che erano venuti per lei, per quello che lei aveva, e sapeva
che lui l’avrebbe capito.
Ebbe la netta sensazione che il cuore le fosse arrivato in gola non
appena sentì i passi dell’uomo salire rapidamente
le scale e lo vide entrare
nel salotto camminando nervosamente senza prestarle attenzione.
«Sherlock.»
La voce di lei era un sussurro a cui lui non reagì.
«Sherlock, che cosa è successo?»
L’uomo si bloccò voltandosi verso di lei, lo
sguardo ancora perso nei
suoi ragionamenti.
«Sherry.»
La donna corrugò leggermente la fronte e gli si
avvicinò.
«Che cosa?»
Gli occhi di lui tornarono ad osservare la realtà come anche
la sua mente.
Molly si strinse leggermente nelle spalle quando lo vide avanzare
verso di lei.
«Sherry, te lo ha dato Sherry. E’ venuto a
riprenderlo vero?»
La patologa indietreggiò di un passo scuotendo la testa e
sorridendo
nervosamente.
«Cosa? Ma di cosa stai…»
L’uomo la fulminò con lo sguardo.
«A Natale, prima che se ne andasse, l’ho vista
darti qualcosa* ma lo
avevo rimosso. Un errore da parte mia. Ora dimmi, lo hai ancora o
glielo hai
ridato?»
Molly sciolse le mani ed andò verso la libreria senza
degnare di uno
sguardo l’uomo che la stava scrutando. Riposizionò
lo scaffale iniziando a
riordinare i libri con mani insicure.
«Non so di cos…»
Lo sentì avvicinarsi, il cuore iniziò a batterle
ancora più forte.
Non ce la stava facendo, non era in grado! Percepì la sua
presenza alle proprie
spalle, pochi centimetri li separavano. La voce dell’ uomo,
bassa e rapida, le
arrivò alle orecchie provocandole un tremito.
«In principio ho pensato che fosse una
coincidenza…l’incursione a
Baker Street e Sherry qui, intendo…ma l’universo
di raro è così pigro**.
Mancava solo e soltanto una cosa a Baker Street, qualcosa che solo io,
John e
Mycroft sapevamo fosse lì. Qualcosa che non avrebbe dovuto
interessare a nessuno.
Quando tu mi hai chiamato e sono venuto qui sapevo di essere seguito,
ne ero
quasi certo, ma quando siamo scesi in strada con Sherry sembravano
essere
spariti.»
Molly sospirò e si voltò per andare a tirare su
le sedie ma lui non
la fece passare. La patologa non riuscì ad alzare lo
sguardo, gli occhi fissi
sulla sciarpa di lui.
«Quegli uomini cercavano il cellulare di Irene Adler. Non
trovandolo
dove l’avevo lasciato ho erroneamente supposto che lo
avessero rubato ma è ovvio
che non è così… mi hanno seguito
perché pensavano lo avessi con me. Né John
né
Mycroft lo hanno preso. Lo ha preso Sherry quando è stata da
me e lo ha dato a
te per custodirlo. Per questo, non appena ha saputo che qualcuno
è entrato da
me, è venuta qui. Per riprenderselo.»
Molly non reagì alla spiegazione dell’uomo. Gli
occhi ancora fissi
sulla sciarpa blu.
«Ti hanno usato nuovamente contro di me, Molly
Hooper.»
Quelle parole la riscossero senza che se ne rendesse conto ed
alzò uno
sguardo carico d’odio sull’uomo. Non gli permetteva
di parlare di Sherry a quel
modo, non gli permetteva di definirla una banale pedina per arrivare a
lui, non
gli permetteva di ritornare a parlarle in quel modo!
«Non mi ha usata contro di te.»
L’uomo la scrutò.
«Lo hai ancora?»
La donna non rispose tentando di rimanere il più impassibile
possibile ma lui capì comunque.
Molly osservò la mano dell’uomo allungarsi
lentamente e stendersi di
fronte a lei in attesa che vi posasse sopra l’oggetto
richiesto.
La patologa continuò ad osservare la mano e si morse il
labbro
inferiore mentre scuoteva la testa in segno di diniego.
«So che lo hai ancora tu.»
Sorrise mentre le lacrime iniziavano ad appannarle la vista.
Riportò
lo sguardo su di lui.
«Lo so…ma non posso dartelo.»
L’uomo serrò la mascella, uno sguardo a dir poco
inquietante.
«Perché?»
Lei, nonostante la fitta che quello sguardo le stava causando, non
distolse lo sguardo.
«Ho dato la mia parola a Sherry.»
Sherlock sogghignò con cattiveria.
«Gliel’avevi data anche prima, quando le hai
promesso che non mi
avresti chiamato.»
La patologa sentì un’altra fitta derivante da
quell’offesa mal
celata.
«E’ diverso. Ero preoccupata per lei.»
L’uomo le si avvicinò maggiormente.
«Ora basta. Non riguarda ne Sherry ne te. Il telefono,
Molly.»
La donna scosse nuovamente la testa e fece per andarsene quando le
mani del detective si strinsero intorno alle sua braccia.
Molly si immobilizzò. Lentamente spostò il volto
per poter guardare
le dita dell’uomo che affondavano impercettibilmente nella
sua pelle; osservò
quelle dita affusolate che riuscivano a circondare senza problemi le
sue
braccia. Con timore alzò gli occhi per incontrare quelli
dell’uomo che erano
carici di un risentimento che mai gli aveva visto. Si sforzò
per trattenere le
lacrime. Non poteva, non voleva credere a quello che stava succedendo.
Lo guardò cercando di vedere oltre quello sguardo
d’odio che ora le
lanciava ma non ci riuscì e fu quello che le fece male.
«Sherlock.»
Il sussurro di Molly Hooper lo riscosse.
La vide lì, stretta nelle spalle, lo sguardo terrorizzato
per quello
che lui le stava facendo; vide le proprie mani strette intorno alla sua
pelle
che era divenuta più bianca nei punti in cui le dita
premevano. Allentò
lentamente la presa fino a renderla un contatto accennato e
rialzò lo sguardo
cercando quello di lei che ormai fissava il pavimento.
Socchiuse le labbra per dire qualcosa ma fu interrotto da un rumore
di passi che correvano su per le scale e dall’irruzione di
Lestrade seguito da
Donovan ed altri due agenti.
L’ispettore guardò, con aria sorpresa e per certi
versi preoccupata,
la scena.
«Sherlock, che diamine stai facendo?!»
Il detective si voltò verso di lui con aria assente mentre
la
patologa rimase immobile, la testa bassa e rassegnata.
Sally Donovan si fece avanti a passi lenti,
la pistola non più di fronte a sé ma comunque a
mezz’aria.
«Lasciala! Subito!»
Il detective tornò a guardare la patologa e
lasciò lentamente la
presa.
Molly non riuscì ad alzare lo sguardo ed
indietreggiò lentamente.
Sherlock rimase ad osservarla per alcuni istanti quando la voce
perentoria di Sally Donovan che gli ordinava di allontanarsi lo
riscosse. Si
voltò ed uscì rapidamente
dall’appartamento seguito dagli sguardi sorpresi dei
poliziotti.
Greg guardò l’uomo uscire per poi tornare ad
osservare la patologa.
Molly si sedette con incalcolabile lentezza sul divano ed
alzò lo
sguardo di fronte a sé.
Non vide Lestrade che la guardava con aria persa, non vide Donovan
che le si avvicinava chiedendole come stava e cosa fosse successo, non
vide il
caos che regnava intorno a lei, non vide le due tazze frantumate sul
pavimento
ed annegate nel nero del caffè. Ciò che vide fu
solo un foro. Un foro che ora
divideva lei e suo padre nella foto alla sua laurea in medicina;
l’ultima foto
che avevano insieme. Vide il foro di quel fantomatico proiettile per
cui lei
era corsa giù per le scale, preoccupata. Preoccupata per
Sherlock, preoccupata
per quella stessa identica persona che, nonostante ciò che
lei pensava di aver
sentito in quegli ultimi giorni, la considerava solo e soltanto un
mezzo per
indebolirlo. Solo un mezzo.
Note
autore:
* Non so quanto la cosa si
fosse notata o io l’abbia resa
comprensibile ma vi giuro che è così, non
è una cosa inventata a posteriori. Se
andate a rileggere/leggere l’ultimo capitolo di
“The third brother” c’è questa
scena.^^
**Mi sono tolta la soddisfazione di fare dire a Sherlock una frase
di Mycroft: un’implicita accettazione
dell’intelligenza del fratello maggiore
da parte del nostro ingrato detective! ^^
Spero che Sherlock ed il suo
comportamento non risultino
eccessivamente OOC, anche se so che in realtà è
completamente OOC, ma ho dovuto
“tirare” sul personaggio per poi averne un
mutamento…speriamo bene e vi prego,
perdonatemi!
A presto,
Anne ^^
|
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Capitolo 3 *** “E’ un vero piacere rivederti dopo così tanto tempo, Sherry!” ***
L'errore di Sherrinford Holmes 3
Nota autore: Ed ancora salve a tutte/i!^^
Innanzitutto
volevo scusarmi con voi per il ritardo. I motivi sono infiniti ma devo
ammettere che esso è soprattutto dovuto alle mie indecisioni
su come raccontare
la storia. Ho preso, spostato e modificato il capitolo e quello
successivo non
so quante volte ma adesso sono più o meno convinta del
risultato, credo.
Altra
cosa altrettanto importante: grazie! Grazie per i commenti, grazie per
le
osservazioni e le analisi che avete fatto sul comportamento di Sherlock
e Molly
e grazie per aver apprezzato il fattore “foto”. Non
credo potrò mai riuscire a
ringraziarvi in maniera adeguata ma per me vuol dire veramente,
veramente,
veramente moltissimo.
Anche
questo capitolo non è lunghissimo ma è molto
più “corposo” e per certi versi
introspettivo (altro motivo per cui lo sto pubblicando così
tardi, è stato
complicato per me renderlo efficace!). Spero vi piaccia.
Ed
ora, come sempre, a voi il giudizio e le critiche!
A
presto,
Anne^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
“E’ un
vero piacere rivederti dopo così tanto tempo,
Sherry!”
Mrs Hudson
era intenta a versarsi il suo thè pomeridiano quando lo
sbattere del portone del 221 di Baker Street la fece sobbalzare.
L’anziana
signora si alzò ed andò, per quanto la sua
età e la sua anca glielo
permettessero, rapidamente
nell’ingresso. Nonostante i suoi
sforzi, tuttavia, tutto quello che vide fu un’ombra salire
rapidamente le scale
per poi udire un perentorio e per certi versi isterico
“Sherlock!”.
John Watson
era fuori di sé dalla rabbia. Era stato chiamato meno di
un’ora prima da un a dir poco imbarazzato Greg Lestrade che
lo informava della
surreale scena a cui aveva assistito chiedendogli se lui ne sapesse
qualcosa.
Il dottore, ancora in veste da camera dopo i bagordi per i
festeggiamenti del
nuovo anno, si era vestito rapidamente aggiornando nel mentre la moglie
che
cercava, senza successo, di calmarlo. John Watson era quindi uscito con
passo
militare da casa, preso l’auto e raggiunto Baker Street in
tempistiche che
suggerivano il completo disinteresse per i limiti di
velocità.
Sherlock Holmes, quindi, aveva visto irrompere il suddetto dottore
nel suo salotto mentre era intento a suonare seduto in poltrona. Al
richiamo tutt’altro
che educato dell’uomo il detective gli rivolse una rapida
occhiata.
«Problemi con il rasoio?»
Il dottor Watson corrugò la fronte.
«Cosa?» L’altro pulì il suo
archetto con accuratezza mentre il
dottore si avvicinava con fare minaccioso accentuato
dall’implicita offesa
dell’uomo. «Sherlock, si può sapere che
diavolo hai fatto questa mattina?»
Il detective gli lanciò uno sguardo indecifrabile per poi
ignorarlo e
ricominciare a suonare.
Nonostante il totale disinteresse dell’uomo, John Watson non
si
scoraggiò. Le mani sui fianchi e la mascella contratta,
osservò il consulente
investigativo alzarsi e dargli le spalle per guardare fuori dalla
finestra.
«Vuoi spiegarmi perché Lestrade mi ha chiamato
dicendomi che ti ha
trovato nell’appartamento di Molly Hooper nel caos
più completo mentre tu
le…smettila Sherlock!»
Il detective smise
improvvisamente di suonare. Il dottore sospirò pesantemente
pensando di aver
avuto successo quando una voce seria e pacata alle sue spalle gli fece
intuire
di non essere stato il motivo del silenzio dell’uomo.
«Lo reputo anche io un discorso interessante,
Sherlock.»
John osservò l’uomo di fronte a sé
voltarsi e seguì lo sguardo algido
del detective sino a voltarsi egli stesso verso la porta
d’ingresso.
Mycroft Holmes, un volto più tirato del solito, rispondeva
allo
sguardo del fratello con la medesima espressione.
Sherlock posò lentamente il violino sul tavolo, mantenendo
lo sguardo
fissò in quello del fratello, per poi riaccomodarsi in
poltrona indicando con
gli occhi quella di fronte a sé. Il maggiore degli Holmes
sbottonò la giacca e
si accomodò, una mano a giocare con non curanza con il
manico dell’ombrello.
Il detective unì i palmi delle mani per poi poggiare il
mento sulla
punta delle dita e sorridere con sarcasmo.
«A cosa devo l’onore della tua presenza,
Mycroft?»
L’uomo irrigidì leggermente la schiena, segno
lampante della sua
irritazione e del suo nervosismo, per poi osservare John Watson sedersi
su di
una sedia e posizionarsi con aria severa e critica in direzione del
detective.
« Sherlock, vorrei sapere che cosa è successo
questa mattina a casa
di Miss Hooper.»
Il detective non distolse lo sguardo posizionato sul fratello.
«Non vedo perché dovrei dirti qualcosa che
già sai. Piuttosto, dimmi
tu qualcosa che non so…»
L’altro reagì con un sorriso a mezza bocca.
«Sai già tutto, fratellino.»
Sherlock sghignazzò.
«Oh no! Ad esempio io non so, o forse sarebbe meglio dire non
dovrei
sapere, di un tentativo di furto negli archivi secretati dello MI6
avvenuto due
giorni fa. Come non dovrei sapere che questo tentativo è
andato fallito e che i
due uomini che l’hanno organizzato non sono più in
grado di fornire alcuna
informazione considerando il fatto che attualmente risiedono sotto tre
metri di
terra. Ed infine, io non dovrei sapere che ciò per cui
questi uomini hanno
tentato di entrare in uno degli archivi maggiormente custoditi del
mondo è il
cellulare di Irene Adler, cellulare che Sherry mi ha rubato la vigilia
di
Natale.»
John Watson portò uno sguardo allibito prima
sull’uno e poi
sull’altro dei due fratelli Holmes.
Il detective scavallò le gambe e posò le mani sui
braccioli della
poltrona. Gli occhi freddi come il ghiaccio in quelli del fratello.
«Come vedi, fratellino» la voce a calcare con astio
sul vezzeggiativo
«ci sono molte cose che non so o che non dovrei sapere ma
suppongo tu sappia
che c’è una cosa ed una soltanto che voglio
sapere. Perché volevano quel
cellulare e soprattutto chi.»
Il maggiore dei fratelli Holmes sorrise nuovamente ma questa volta in
maniera decisamente più dura ed inquietante.
«Sherlock, come ti ho appena detto, sai già tutto
ciò che devi
sapere.»
Il detective0 sorrise sarcasticamente.
«Che devo o che posso?»
Mycroft Holmes tacque per qualche istante per poi spostare lo sguardo
sul manico in legno del suo ombrello ed utilizzarlo come sostegno per
alzarsi.
Il detective ed il dottore fecero la medesima cosa.
«Non sono venuto qui per questo.»
Sherlock Holmes infilò le mani nelle tasche ed a passi lenti
andò
verso la porta per poi tornare ad osservare il fratello.
«Allora non abbiamo altri da dirci.»
Il maggiore degli Holmes strinse i denti innervosito.
«Sherlock, quegli uomini a casa della Dottoressa
Hooper…»
Il detective lo interruppe aprendo la porta con un gesto secco.
«Buona serata, Mycroft.»
L’uomo osservò il fratello minore per qualche
istante poi, richiuse
un bottone della giacca e lanciò uno sguardo al dottore che,
con aria spersa,
lo guardava. Fece un paio di passi fino a trovarsi a pochi centimetri
dal
consulente investigativo.
«A quanto pare la tua pigrizia mentale sta
aumentando.» Il detective
strinse gli occhi con fare minaccioso ed inquisitore ma il fratello
continuò
ignorandolo. «Prima di fare danni peggiori di quelli che hai
già fatto,
fratellino, è meglio che tu ti faccia da parte.»
Sherlock Holmes arricciò il naso per poi prendere
un’espressione fra
il supponente ed il divertito.
«Cos’è? Una minaccia?»
L’uomo scosse amaramente la testa osservando la punta delle
proprie
scarpe lucide per poi espirare profondamente e riportare uno sguardo
rassegnato
sul volto del detective.
«No, Sherlock. E’ solo un consiglio
fraterno.»
Il detective sorrise.
«Non ho mai seguito i tuoi consigli, Mycroft. Fossero essi
fraterni o
meno.»
L’altro alzò un sopracciglio con fare annoiato.
«Ne sono perfettamente conscio, purtroppo.»
Detto ciò, il maggiore degli Holmes si voltò
verso il dottore
chinando la testa in segno di saluto e scese elegantemente le scale.
John Watson aveva assistito alla scena con l’espressione di
chi
ascolta una conversazione in sanscrito antico: senza capirne nulla!
Non appena il portone di Baker Street si era chiuso alle spalle del
cosiddetto “Mr Governo”, John aveva tentato di
esporre un qualsivoglia pensiero
in maniera lucida e chiara ma con decisamente scarso successo dato che
tutto
quello che riuscì a dire fu “Irene
Adler?”. Nonostante questo, anche se fosse
riuscito ad esporre una domanda o un’affermazione sensata, il
detective non lo
avrebbe comunque degnato di una risposta.
Sherlock Holmes, infatti, aveva incominciato a camminare nervosamente
per la stanza, una mano nella tasca dei pantaloni l’altra a
stringere la radice
del naso, per poi sedersi in poltrona, le dita incrociate di fronte a
sé.
«Non ora John, devo riflettere.»
Molly socchiuse gli occhi.
Dalla finestra entrava la luce di un tramonto che stava ormai
finendo, di un rosso che lentamente ma inesorabilmente stava divenendo
viola
per far spazio al blu scuro della sera. Le ombre dei mobili si
allungavano di
qualche millimetro per ogni secondo che passava. In casa regnava il
silenzio
più totale, un assenza di suoni che risultava quasi irreale.
La donna era immobile. Il corpo avvolto nel tepore della trapunta che
la copriva fino al collo, i capelli sciolti e arruffati con decisamente
poca
eleganza sopra il cuscino. Fissava le ombre che si muovevano lente sul
pavimento senza vederle realmente. La mente, che aveva avuto
pietà di lei
durante quelle poche ore di sonno, si era riattivata con una
velocità
impressionante nel vago tentativo di recuperare ciò che la
patologa aveva
provato ad ignorare e dimenticare.
Rivide lei e Meena andar via dalla festa, Sherry di fronte alla sua
porta, il sorriso accennato di Sherlock mentre entrava a casa sua, lo
sguardo
affettuoso di Sherry quando la salutava, il sopracciglio alzato di
Sherlock
quando le apriva il portone di casa, lui che vagava per il suo salotto
con la
debolissima luce dell’aurora che lo circondava.
Molly chiuse gli occhi improvvisamente per cercare di non ricordare
il dopo ma fu un tentativo vano. La sua mente era impietosa ed
inesorabile.
Ricordò i passi di quegli uomini, lo sparo, la voce e lo
sguardo di
Sherlock, le dita di lui che le stringevano le braccia senza farle male
ma con
decisione e gli occhi di lui, quegli occhi e
quell’espressione probabilmente
non l’avrebbero mai più abbandonata.
Spostò la coperta con una mano e fece penzolare le gambe
giù dal
letto. Rimase ferma così per un po’.
Ciò che avvenne dopo l’uscita di Sherlock da casa
sua, lo ricordava a
malapena. Era solo un insieme di rumori e voci fatto delle domande di
Lestrade
e Donovan su cosa fosse successo, degli agenti di polizia che
spostavano,
fotografavano ed analizzavano casa sua, di un calmante che la
poliziotta le
aveva dato e del suo vagare fino alla camera da letto per poi
addormentarsi
definitivamente.
Portò
gli occhi sulla sveglia e la sua attenzione fu attratta da un biglietto
scritto
a mano.
“Ho
chiamato l’ospedale ma non ti possono dare un giorno di
permesso,
a quanto pare c’è molto lavoro a causa del
capodanno.
Però ti hanno spostato al turno di notte.
Cerca di riprenderti, domani ne parliamo.
Un abbraccio,
Greg”
Molly
fece vagare lo sguardo per la camera senza sapere neanche lei
cosa cercasse o volesse. Alla fine, si alzò e con passi
lenti andò verso l’armadio.
Avrebbe fatto una doccia, indossato abiti comodi, mangiato qualcosa ed
alla
fine sarebbe andata a lavoro. Voleva e doveva darsi degli obiettivi e
degli
impegni per far passare del tempo; non era in grado di affrontare tutto
quello
che le era successo. Doveva lasciar sedimentare il tutto per poi
gestirlo con
una mente, se non razionale, quantomeno calma.
Aprì
la porta del bagno e da esso, insieme a lei, uscì anche una
leggera nuvola di vapore. Si era vestita ma il suo stomaco, a digiuno
quasi da
un giorno intero, reclamava del cibo, per cui decise di andare in
cucina per
prendere qualcosa da mangiare prima di finire di asciugarsi i capelli.
Con una mano ancora intenta a frizionare i capelli con un asciugamano
ormai umido, accese il bollitore e tirò fuori dal frigo del
formaggio e qualche
affettato. Thè e club sandwich, certo non una gran cena dopo
un’intera giornata
di digiuno ma era tutto ciò che la sua mente affollata di
pensieri poteva
produrre.
Spense il bollitore e versò l’acqua bollente in
una tazza dove aveva
già posto una bustina di thè. Prese il piattino
con i sandwich, la tazza e si
avviò verso il salotto; avrebbe visto qualche sciocchezza
alla tv per non
pensare. Si voltò indirizzandosi verso il divano ma si
bloccò. Gli occhi fissi,
il corpo rigido, un piede ancora piegato ed immobilizzato in quella
posizione
innaturale.
«Dottoressa Hooper! La prego di scusarmi per
l’invadenza ma le
circostanze mi hanno costretto ad un comportamento così
disdicevole.»
John Watson, seduto sulla sua poltrona, i gomiti appoggiati su
entrambi i braccioli, osservava le fiamme del camino con aria assente.
Avrebbe
dovuto essere a casa già da tempo ma non poteva certo
andarsene senza aver
capito che cosa fosse successo.
Si voltò per guardare il detective immobilizzato nella
medesima
posizione ormai da ore. Osservò lo sguardo vuoto
dell’uomo ed i leggeri
movimenti delle labbra; stava palesemente cercando di ricollegare i
pezzi ma, da
quel che si intuiva, senza alcuna soluzione soddisfacente. Il detective
corrugò
la fronte innervosito e, improvvisamente, colpì con un pugno
un bracciolo nero
della poltrona.
«Dannazione!» i gomiti appoggiati sulle ginocchia e
le mani passate
nervosamente fra i ricci scuri.
Il dottore osservò l’uomo per qualche istante.
«Sherlock.» Il detective alzò lo sguardo
per incontrare quello
dell’amico. «Ti prego, mi vuoi spiegare quello che
sta succedendo?»
Sherlock Holmes espierò profondamente appoggiandosi allo
schienale
della poltrona. Passarono alcuni minuti prima che con espressione
rassegnata ed
innervosita rispondesse al collega.
«Non ne sono certo, John…» gli occhi del
detective erano intenti ad
osservare le proprie dita giocare con una piega della pelle di un
bracciolo.
«Ho solo ipotesi, una più improbabile
dell’altra.»
Il dottore respirò profondamente. Fece vagare lo sguardo per
la
stanza per qualche istante prima di tornare ad osservare
l’uomo di fronte a sé.
«Che cosa è successo a casa di Molly?»
Gli occhi dell’uomo lasciarono le proprie dita per andare ad
osservare il fuoco.
«Sherlock, perché hai…»
«Ho sbagliato!»
Un silenzio interrotto solo dal crepitio del fuoco riempì il
salotto
di Baker Street.
John Watson osservava quell’ uomo come se non capisse
più chi fosse.
In principio aveva creduto di aver immaginato quella frase. Sherlock
Holmes non
faceva ammissioni del genere e, soprattutto, Sherlock Holmes non
sbagliava mai,
o quasi mai. Tuttavia il silenzio che ora li circondava e lo sguardo
quasi
malinconico di quell’uomo che pensava di conoscere, fece
sparire quella
supposizione.
Sherlock Holmes, l’unico consulente investigativo esistente e
l’uomo
più orgoglioso del mondo, aveva ammesso di aver sbagliato e
da quel che il
dottore poteva intuire stava provando…rimorso?
Watson tossì leggermente cercando di riprendersi e di
attirare l’attenzione
dell’altro.
«Che cosa c’entra il cellulare di Irene
Adler?»
Il dottore vide il detective irrigidirsi e credette stesse per
rispondergli quando una voce proveniente dalla porta del salotto li
interruppe.
«A questa domanda credo di poter rispondere io, Dottor
Watson.»
Le erano capitati episodi di sonnambulismo in passato ma, per quanto
quella situazione potesse sembrarle irreale e per certi versi onirica,
non vi
era nulla che le facesse sperare e credere di essere in un sogno.
La patologa, ancora impietrita, guardava con occhi spaventati quei
quattro individui che si trovavano nel suo salotto buio.
L’uomo in piedi vicino alla finestra si chinò
leggermente per
accendere la lampada che lei aveva riparato qualche ora prima. Una luce
fioca e
calda illuminò tutti i presenti. Oltre quello che aveva
acceso il lume, vi
erano altri tre uomini: uno vicino alla porta di casa, uno in direzione
della
cucina ed infine uno seduto sul suo divano. Fu quest’ultimo
ad attirare
l’attenzione di Molly, non tanto perché era
alquanto ovvio che fosse lui a
dettar legge o perché era stato lui a parlare, quanto per la
sua avvenenza.
Gli altri uomini presenti nella stanza non potevano certo esser
definiti brutti ma quell’uomo riusciva ad attirare
l’attenzione su di sé senza
alcuna fatica. Quando poi lo vide alzarsi, accennando un sorriso e
facendole
segno di sedersi sulla poltrona di fronte a lui, Molly non
riuscì ad impedire
alle sue guance di tingersi di un leggero rossore.
A passi lenti ed incerti avanzò fino a sedersi dove le era
stato
indicato, posando la tazza ed il piatto sul tavolino che li separava.
L’uomo
chinò leggermente il capo e si accomodò
nuovamente.
Molly lo studiò per qualche istante. Analizzò la
corporatura
slanciata, le spalle larghe e dritte, i lineamenti marcati ma non
rigidi del
volto, il sorriso affascinante, i capelli di un rosso scuro e gli occhi
di un
verde caldo; tuttavia furono proprio quest’ultimi ad
inquietarla. L’espressione
del viso era gentile ed intrigante e lo stesso gli occhi ma
c’era qualcosa, Molly
vide qualcosa, in quegli occhi che non andava. Non era qualcosa di
definito e
descrivibile, quanto un riflesso di durezza e cattiveria che,
nonostante gli
sforzi dell’uomo, li caratterizzava.
«Chi siete?»
La voce della patologa era pacata e controllata, nonostante
l’angoscia
e la paura che l’attanagliavano. Era da sola, poteva contare
solo su se stessa.
Non poteva mostrarsi debole, questa volta.
L’uomo rimarcò leggermente il suo sorriso e Molly,
nonostante lo
sforzo, tremò.
«Sono un uomo all’antica Miss Hooper e ci tengo a
rispettare
l’etichetta, per quanto questo mondo la reputi ormai obsoleta
ed inutile. A
breve arriverà una conoscenza comune che potrà
toglierci da questa situazione
disagevole e fare le dovute presentazioni.»
I modi gentili ed affettati dell’uomo, in un'altra
circostanza,
l’avrebbero resa cordiale e sorridente ma
quell’uomo ed i suoi comportamenti
non fecero altro che spaventarla maggiormente.
Un leggero scricchiolare al di là della porta
dell’appartamento
attirò l’attenzione di entrambi. L’uomo
si alzò lentamente richiudendosi il
bottone di mezzo della giacca.
«Nikolai, la porta.»
L’interpellato annuì leggermente e girò
il pomello.
Molly seguì con ansia il lento muovere e lo scricchiolio
costante
della porta. Un leggero sorriso deformò le sue labbra quando
vide la conoscenza
comune, che quell’uomo aveva preannunciato, varcare a passi
lenti l’uscio.
Tuttavia, il sorriso svanì repentinamente dal suo volto non
appena notò
l’espressione dura ed austera che caratterizzava il volto
della nuova presenza.
L’uomo aprì maggiormente il suo sorriso e per un
attimo, solo per un
attimo, Molly vide gli occhi di quell’uomo pervasi di vera
felicità.
«E’ un vero piacere rivederti, dopo così
tanto tempo, Sherry.»
La donna incatenò il suo sguardo inespressivo a quello
dell’uomo.
«Temo di non poter dire lo stesso, Godfrey.»
Note autore:
Ero
incerta se dirlo ora o nel prossimo capitolo ma non vorrei
“correre rischi”. Godfrey esiste nei romanzi di
Conan Doyle. Se siete dei
grandi conoscitori di Doyle non vi sarà difficile capire chi
è e di conseguenza
fare un po’ di collegamenti sino a capire come si
svolgerà questa storia…per
cui, scusate se vi ho rovinato la suspense ma tanto prima o poi lo
avreste
scoperto! ^^
Ora, ciò che vi chiedo è: se non lo conoscete,
non andate a
cercarlo, così vi lascerete l’effetto suspense; se
lo conoscete e per caso
volete commentare la storia, non dite precisamente chi è,
per favore, così da
evitare che qualcuno che non lo sa lo possa venire a sapere!
Ovviamente, come sempre, siete liberi di seguire i miei consigli
oppure di ignorarli e anche se doveste lasciare un commento con su
scritto “lui
è…” non sarebbe certo un problema! ^^
Scusate la filippica e spero che il capitolo vi sia piaciuto!
A presto,
Anne ^^
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Capitolo 4 *** Godfrey Norton ***
L'errore di Sherrinford Holmes 4
Nota autore: Dopo tanto tempo, salve a
tutte/i!
Mi
odiate vero? Lo so e ne avete tutte le ragioni. Voglio lasciarvi subito
al
capitolo per cui non vi farò perdere tempo con le mie scuse,
che inserirò a
fine capitolo per cercare di farmi perdonare, però non posso
evitare di ringraziarvi
per tutti i bellissimi commenti e parole (pubblico prima di rispondere
ai
commenti per non perdere altro tempo!). Come sempre, siete riuscite a
placare
le mie preoccupazioni e rendermi orgogliosa del mio lavoro (per quanto
imperfetto!).
Ed
ora, come sempre, a voi il giudizio e, soprattutto, le critiche!
A
presto,
Anne^^
L’errore di
Sherrinford Holmes
Godfrey Norton
Sherrinford Holmes era una donna
affascinante, dolce ed
incredibilmente intelligente ma, soprattutto, era una Holmes.
Era questo che Molly continuava a dimenticare. Forse perché
era così
diversa dai suoi fratelli o perché erano riuscite ad
instaurare un rapporto
così forte in così poco tempo ma sta di fatto che
Molly Hooper, ogni volta,
dimenticava che quella donna, che considerava così simile a
lei, era in realtà
molto diversa. E se ne accorse nuovamente in quel momento. Se ne
accorse
vedendo come lo sguardo dolce e comprensivo che era abituata a vedere
negli
occhi di Sherry, fosse stato sopraffatto da uno vitreo e per certi
versi
inquietante. Uno sguardo che solo e soltanto gli Holmes riuscivano ad
avere.
Uno sguardo che, come notò ben presto la patologa,
spaventava tutti i presenti
facendo loro abbassare la testa non appena gli occhi della donna
incrociavano i
loro. Uno sguardo che solo quell’uomo, riusciva a sostenere.
«Sono lieto che tu ti sia unita a noi, Sherry. Non ho avuto
modo di
essere presentato alla Dottoressa Hooper.»
Molly, che fino a quel momento aveva tenuto lo sguardo fisso sulla
Holmes cercando di ricavarne conforto e sicurezza, guardò
l’uomo e il suo
sorriso rimanendone in un certo qual senso incatenata. La voce di
Sherrinford le
fece sbattere le palpebre.
«Non intendo presentarvi. Che cosa vuoi, Godfrey?»
L’uomo la guardò con biasimo prima di avvicinarsi
fino a rendere la
distanza che li separava un qualcosa di quasi impercettibile.
«Sei scortese con me, tesoro!»
Molly osservò il volto della donna divenire ancor
più duro e gli
occhi allargarsi con fare minaccioso, chiara reazione al nomignolo che,
a
quanto sembrava, non doveva apprezzare.
Lui infilò la mano nella tasca interna della giacca.
Istintivamente
Sherry si avvicinò alla patologa che rispose a quel
comportamento con uno
sguardo di sincero affetto per la donna.
Godfrey sorrise.
«Quando ti fiderai di me, Sherry?»
La patologa osservò la mano dell’uomo riemergere
dal tessuto con in
mano una rosa viola. Corrugò leggermente la fronte
voltandosi verso la Holmes e
rimase scioccata dal leggero tremito che caratterizzò le
mani della donna.
L’uomo allungò il braccio e Sherry fece la
medesima cosa per prendere
il fiore.
Molly lo osservò avvicinarsi ed accennare un sorriso prima
di abbassarsi
verso le labbra di lei. Non capiva.
Se quell’uomo era quello che pensava, perché
Sherry non si opponeva?
Perché non si allontanava? Perché non reagiva?
Poteva una donna come lei, una
donna forte e fiera come Sherrinford Holmes, cedere così
facilmente al fascino
di quell’uomo? Senza alcun preavviso la sua mente, la sua
odiosa mente, le fece
rivedere il volto di Sherlock. Non il volto dell’uomo che
aveva visto qualche
ora prima, no. Il volto di Sherlock quando la ringraziava per averlo
aiutato
nel fingere la sua morte, il volto di Sherlock quando il giorno di
Santo
Stefano giocavano con la piccola Watson, il volto di Sherlock ed il suo
sorriso
quando era arrivato a casa sua. Si, ma lei era solo Molly, lei non era
Sherry.
La Holmes guardava
la rosa con
fare dolce e malinconico.
«Grazie per il fiore, lo apprezzo
veramente…» l’uomo le si
avvicinò
maggiormente ma la donna riportò uno sguardo algido su di
lui «…ma no, non ti
da il diritto di baciarmi *. Allontanati da me, Godfrey.»
Lui irrigidì la mascella, probabilmente più per
la pubblica offesa
ricevuta che per il dispiacere derivato dal rifiuto, e si risedette in
poltrona
con fare rilassato.
«Vedo che la tua scontrosità non è
diminuita col tempo…ma, devo
ammettere, non mi è mai dispiaciuta.»
Facendo roteare lo sguardo malizioso per la stanza
l’attenzione
dell’uomo fu nuovamente richiamata dalla patologa e dalla sua
espressione
turbata.
«Credo che Sherrinford non abbia intenzione di assolvere ai
suoi
doveri, pertanto temo dovremmo arrangiarci per conto nostro Dottoressa
Hooper.»
L’uomo drizzò leggermente la schiena, inchinando
impercettibilmente il capo.
«Il mio nome è Godfrey Norton e sono qui per
chiederle di ridarmi ciò che mi
appartiene, dottoressa.»
La patologa sbatté le palpebre con espressione dubbiosa.
«Come scusi?»
L’irrigidimento e il velo di odio che per una frazione di
secondo trasformarono
lo sguardo del suo interlocutore, la terrorizzarono ma il passo deciso
di
Sherry che le si posizionava accanto la rincuorò.
«Non mi risulta ti appartenga!»
«Beh, in un certo qual modo è così,
invece.»
«Cosa ti fa credere che lo abbia la Dottoressa
Hooper?»
L’uomo le lanciò uno sguardo duro e controllato.
«Non giocare con me, Sherry. Lo sai che non mi
diverte!»
La bella Holmes sorrise con aria cinica.
«Potrebbe averlo Sherlock, non credi?»
Molly sobbalzò. Sherry stava realmente mettendo in pericolo
Sherlock
per quel cellulare?
L’uomo portò lo sguardo sulla patologa analizzando
la sua reazione
prima di tornare ad osservare la Holmes.
«Ne sono cosciente. E’ per questo che
c’è già chi se ne occupa.»
La donna strinse i pugni con fare minaccioso, gli occhi ridotti a due
fessure.
«Non osare toccare mio…»
La risata roca di lui la fece bloccare.
«Oh Sherry, sei rimasta la solita sentimentale. Non temere,
non
succederà nulla a tuo fratello….nulla che lui non
voglia.»
John Watson non si sentiva bene. Anzi, non si sentiva per niente
bene.
La sua vita da quando aveva conosciuto Sherlock Holmes era
sicuramente cambiata ma credeva di essersi abituato a non farsi trovare
impreparato. Aveva visto il suo amico morire e risorgere, si erano
scontrati
con le menti più geniali del secolo ed avevano vissuto
esperienze al limite del
reale o dell’immaginabile. Proprio per questo aveva imparato
a non dare per
scontato nulla che avesse a che fare con il suo migliore amico.
Nonostante ciò,
a questo, non era decisamente preparato.
Una affascinante ed al quanto non morta Irene Adler sorrideva con
malizia in direzione di Sherlock Holmes.
Il detective si alzò con estrema lentezza. Le spalle
diritte, lo sguardo
fisso in quello della donna mentre lei gli si avvicinava.
«E’ un piacere rivederla Mr Holmes.»
John Watson, come ogni volta, si trovò in imbarazzo a dover
assistere
a quel gioco seduttivo volontariamente mal celato. Emise un finto colpo
di
tosse per interrompere quel gioco di sguardi.
La donna si sfilò i guanti con eleganza e sorrise
accomodandosi sulla
poltrona nera di Sherlock. Il detective la seguì con lo
sguardo.
«Come procede la vita familiare, Dottor Watson?»
L’uomo ingoiò nervosamente cercando di mantenere
la calma
nell’apprendere che quella donna sapeva
dell’esistenza di sua moglie e di sua
figlia. Tutto ciò che riuscì a fare fu un tirato
e falso sorriso di
circostanza.
«Credo, beh, che questa storia delle false morti stia
diventando alquanto
ridicola.»
Il detective arcuò un sopracciglio ma prima di poter
controbattere il
dottore alzò una mano con fare deciso.
Sherlock osservò l’uomo che, ad occhi chiusi e
fronte corrugata,
richiamava alla mente qualcosa.
Il dottore aprì gli occhi di scatto osservando prima
l’una e poi
l’altro.
«Sei stato tu!» Il detective lo guardò
con aria dubbiosa ma l’uomo
rise nervosamente scuotendo la testa. «Lo sapevo, lo
sapevo!»
Sherlock sbuffò irritato.
«John, non che mi interessi realmente ma che cosa stai
cercando di
dire?»
Il dottore si alzò di scatto, le mani a chiudersi in pugni
serrati nel vano
tentativo di controllare la rabbia.
«Mycroft me l’aveva detto… “Ci
voleva Sherlock per ingannarmi!”» **
Il detective mise le mani nelle tasche con un sorriso divertito per
l’implicita ammissione di sconfitta che suo fratello aveva
fatto senza
rendersene conto, ma decise di ignorare l’amico quando con la
coda dell’occhio
vide la donna osservare il proprio orologio.
«Qualche impegno improrogabile?»
«A dire il vero, temo proprio di si…e credo che
lei sappia perché
sono qui»
L’uomo sorrise inclinando leggermente il capo.
«Ovviamente si ma temo di doverla deludere. Non posso darle
ciò che
non ho.»
La donna immerse i suoi occhi indagatori in quelli dell’uomo.
«Non mi menta, Mr Holmes.»
Il detective si sedette sulla poltrona lasciata libera da John che,
rigido ed irato, seguiva quello scambio di battute.
«Non è mia abitudine.»
Lei sorrise.
«Oh, quindi mi conferma che è a casa di quella
donna. Come si chiama?
Hooper, Molly Hooper dico bene?»
Sherlock Holmes rimase immobile ed inespressivo. Non un muscolo a
tradire qualche preoccupazione, non un fremito di ciglia a rivelare
l’ansia,
nessuna reazione percepibile in reazione a quella minaccia. Niente,
tranne l’iscurirsi
delle sue iridi. Un passaggio di colore così repentino e
forte da poter spaventare
anche il più fiero degli uomini ma che, in quella stanza
scura illuminata da un
fuoco ormai tenue, era impossibile percepire.
La reazione del dottore, tuttavia, fu ben diversa. John Watson si
voltò verso la donna con occhi preoccupati ed insicuri.
«Molly?»
La donna sciolse le gambe per poi riaccavallarle in maniera speculare.
Un sorriso malizioso in volto.
«Si Dottore, si ricorda? E’ stato lei
l’altra volta a proporla come
intermediario.»
L’uomo infilò le mani nelle tasche mordendosi il
labbro inferiore.
“Molly
Hooper…può prenderlo e
portarlo al Bart’s poi un tuo amico senza tetto
può lasciarlo al caffè qui
sotto e un cameriere lo porta a noi passando dal
retro…” ***
Il dottore tentò
di trovare conforto nello sguardo dell’amico ma la
speranza fu vana. L’uomo continuava ad osservare la donna di
fronte a lui. Lo
vide inspirare con aria annoiata per poi alzarsi in piedi ed incrociare
le mani
dietro la schiena.
«Eccellente. Credo che a questo punto Miss Adler ci
lascerà, John…potresti
farle strada...»
La voce della donna lo bloccò.
«Non è necessario.»
Il detective voltò nuovamente il capo verso Miss Adler, uno
sguardo
vitreo a caratterizzargli il volto.
John Watson corrugò
la fronte.
«Che cosa intende dire?»
La donna si alzò con eleganza sorridendo al dottore.
«Che in questo momento la dottoressa Hooper sta avendo una
conversazione molto simile alla nostra…» gli occhi
della donna si mossero per incontrare
quelli del detective.
Il dottore si voltò verso l’amico per cercare
qualche sorta di
implicita spiegazione ma fu attratto dallo sguardo dell’uomo
che osservava la
mano che la donna teneva lungo il fianco. Vide il pollice laccato di
rosso
premere il tasto centrale di un cellulare e la conferma di un messaggio
inviato
comparire sullo schermo dell’apparecchio.
La donna incrociò le braccia. Il cellulare a picchiettare
sull’avambraccio.
«…ma temo diventerà decisamente meno
piacevole!»
La suoneria
di un telefono riecheggiò nell’appartamento di
Molly
Hooper.
La patologa sbatté le palpebre abbandonando lo stato di
offuscamento
che i suoi occhi avevano avuto sino a quel momento. Osservò
il volto di Norton
illuminato dallo schermo del cellulare ed il suo ghigno in risposta al
messaggio ricevuto.
L’uomo bloccò nuovamente il telefono e la luce
svanì. Molly seguì la
sua mano riposizionare l’oggetto in una tasca della giacca
per poi andare ad
appoggiarsi con eleganza sul bracciolo del suo divano.
Non sapeva perché ma quella tranquillità la
spaventò maggiormente e
lo sguardo che l’uomo le rivolse le raggelò il
sangue.
«Dottoressa Hooper, a differenza delle persone che
l’hanno coinvolta
in questa faccenda, non ho alcuna intenzione di farle correre rischi
inutili
per faccende che non la riguardano. Pertanto, mi dia quel cellulare e
le
assicuro che non la disturberò più.»
Molly si rinchiuse leggermente nelle spalle.
«Godfrey, ti ho…»
L’uomo fulminò con lo sguardo Sherry che aveva
cercato di dissuaderlo
e, per la prima volta, Molly Hooper vide negli occhi della bella Holmes
un
qualcosa di simile alla paura.
«Il tuo adorato fratellino ha già confermato di
non averlo.»
La donna sorrise.
«Credi non sappia men…»
L’uomo si alzò con eleganza avvicinandosi
nuovamente alla donna.
«Mentire? Ovvio che si…è per questo che
se ne sta occupando Irene.»
La Holmes sgranò gli occhi per una frazione di secondo e
l’uomo le si avvicinò
maggiormente sino a sfiorarle un orecchio con le labbra. «Ad
ogni Holmes il
proprio punto debole!»
Sherrinford posò uno sguardo carico d’odio e
rancore sull’uomo.
La patologa osservò l’uomo allontanarsi e tornare
a guardarla nuovamente
con un’espressione affabile.
«Allora, dottoressa?»
Molly rimase immobile. Lo sguardo inchiodato su quell’uomo.
Non poteva darglielo. Non poteva proprio. Ora era ancor più
sicura
dell’importanza di quell’oggetto e della
pericolosità che avrebbe comportato
per Sherlock.
Si ricordava ancora di quando Sherry glielo aveva affidato
«Molly,
puoi tenere questo per
me?»
La patologa aveva sorriso.
«Certamente.»
«Tornerò a prenderlo presto ma,
mi raccomando, Sherlock non deve saperlo!»
Le mani della patologa tremarono
leggermente ed i suoi occhi si abbassarono ad osservare quel cellulare
nero.
«Ma, perché? Che cosa…»
Sherry le si era avvicinata con
un’espressione seria.
«Ti prego, è per il suo bene. Mi
prometti che non ne farai parola con lui e che se mai dovesse
chiedertelo non
glielo darai?»
Dopo qualche istante
d’incertezza, la donna aveva annuito decisa per poi
rispondere all’abbraccio
della Holmes.
Una volta chiusa la porta dietro
di sé tornò a sedersi sul divano.
Fissò quell’oggetto per qualche istante prima
di metterlo in una tasca dei pantaloni e tornare a prendere il libro
che stava
leggendo.
Strinse con
forza i lembi del maglione che stava torturando ormai da
tempo ed ingoiò nervosamente. No, non glielo avrebbe dato.
Alzò lo sguardo verso l’uomo con aria decisa e
dischiuse leggermente
le labbra per pronunciare quel fiero ed al contempo timoroso
“no!” che aveva
scelto quando la mano di Sherrinford Holmes si protese verso di lui. Le
affusolate dita della mano a stringere un cellulare nero.
Molly si alzò improvvisamente, gli occhi sgranati a seguire
il
passaggio di quell’oggetto dalla mano della donna a quella di
un soddisfatto ed
altero Godfrey Norton. Quando lo aveva preso? Come aveva fatto a
trovarlo? Era
certa di averlo nascosto bene, ne andava della sicurezza di Sherlock.
Un allarmato ma sussurrato “no, Sherry!”
sfuggì dalle labbra della
patologa.
L’uomo sorrise bonariamente a quella reazione incontrollata.
«Non deve temere, Dottoressa Hooper. Questa è la
soluzione migliore
per lei, mi creda.»
Molly sentì le sue labbra tremare leggermente e le strinse
in un vano
tentativo di controllo. Chiuse gli occhi per poi riaprirli ed osservare
la
Holmes. Il corpo rigido, la mascella serrata e lo sguardo vitreo,
Sherrinford
non mostrava alcun segno di timore o preoccupazione quanto un certo
senso di
rassegnazione.
Mr Norton lasciò scivolare il telefono in una tasca del
cappotto. Con
un cenno del capo fece segno ai due uomini di precederlo giù
per le scale e
rivolse un sorriso affabile alla patologa. Una volta giunto sulla
porta,
tuttavia, si voltò per incontrare lo sguardo della Holmes.
«Come sempre…è stato un piacere,
tesoro»
La mascella della donna si contrasse nuovamente e i pugni serrati si
strinsero ancor di più.
La risata di
Miss Adler riempì il salotto di Baker Street.
«Ho sempre trovato eccitanti le sue minacce Dottor Watson ma
temo che
non sia a me che deve rivolgerle!»
Il dottore arrossì leggermente al tono sinuoso della donna.
Non riusciva a comprendere come due esseri umani, fatti di carne ed
ossa come lui, potessero parlare della vita di un altro essere umano
come se
nulla fosse, senza preoccupazioni o timori. Certo, Miss Adler non aveva
alcun
motivo per provare anche il minimo rammarico per la sorte di Molly
Hooper ma
Sherlock….Sherlock, era cambiato! Di questo, ormai, ne era
certo. Ma, a quanto
sembrava, non abbastanza da dare priorità alle sue
preoccupazioni per Molly
rispetto al suo interesse per un “nuovo caso”.
Il cellulare di Miss Adler vibrò e la donna rispose con un
inespressivo “si”. Le labbra rosse accennarono solo
un leggero sorriso quando,
qualche istante dopo, chiuse la comunicazione. A passi lenti si
avviò verso la
porta e, dopo aver lanciato uno sguardo al detective che fece di nuovo
imbarazzare
il dottore, scese le scale ed uscì.
Dieci minuti
dopo quel silenzioso saluto, il Dottor Watson era ancora
intento a guardare l’uscio da cui era uscita la chiaramente
viva Miss Adler. Il
suono sordo dato da un ceppo che si spezzava ormai arso dal fuoco lo
riscosse e
lo fece voltare di scatto verso l’amico che era nuovamente
seduto in poltrona.
«Molly! Dobbiamo chiamarla, andare a vedere se sta bene.
Chiamo
Greg!»
Normalmente avrebbe preso il silenzio del detective come una reazione
per lui istintiva di disinteresse e cinismo ma il fatto che continuasse
a non
manifestare alcuna preoccupazione per la sorte dell’amica, lo
fece bloccare e
chiamare il nome dell’uomo con tono astioso e duro.
Il detective, gli occhi socchiusi e le labbra appoggiate alle mani
intrecciate, emise un suono che il dottore interpretò come
una conferma di aver
ottenuto la sua attenzione.
«Sherlock…Molly è una tua amica, non
credi almeno che dovresti, non
so, preoccuparti?»
L’uomo si voltò ad osservare l’amico con
un’espressione indecifrabile
ma invece di rispondere si limitò ad alzarsi per andare a
prendere il cellulare
che aveva suonato sulla scrivania.
Non appena
il rumore dei passi lungo le scale sparì, la patologa si
lasciò
cadere sulla poltrona, le braccia strette in vita. Sherrinford, invece,
si
precipitò alla finestra spiando il marciapiede sotto di essa.
Molly scosse lentamente la testa. Il cuore le batteva decisamente
troppo forte e per quanto cercasse di calmarlo ogni suo tentativo si
era
dimostrato vano. Alzò la testa per cercare la sua
preoccupazione anche negli
occhi della Holmes ma si stupì di non trovarne e soprattutto
di vedere il volto
della donna adornato da un sorriso a dir poco raggiante.
Sherry si allontanò dalla finestra voltandosi verso di lei,
il
sorriso ancora in volto.
«Oh Molly, sei stata bravissima!»
La patologa corrugò leggermente la fronte.
«Cos…? Che cosa?...»
La Holmes prese il cellulare iniziando a digitare rapidamente.
«Si, sei stata fantastica! Sembravi reale,
veramente!»
Molly si alzò lentamente mentre osservava la donna andare a
prenderle
il cappotto e la sciarpa per poi consegnarglieli. Guardò gli
indumenti con
espressione smarrita per poi tornare ad osservare la Holmes che era
ormai
sull’uscio di casa.
Sherry, notando l’assenza della donna dietro di
sé, abbassò il
cellulare e si voltò facendo segno alla patologa di seguirla.
«Ora però dobbiamo sbrigarci, forza!»
Molly tentennò un attimo ma poi, vedendo la donna correre
giù per le
scale, si vestì rapidamente per seguirla.
Una volta in strada Sherry si guardò intorno alla ricerca di
un taxi.
Molly la osservava rintanata nel suo soprabito.
«Dove stiamo andando?»
La Holmes sbatté nervosamente le braccia lungo i fianchi non
vedendo
sopraggiungere ciò che cercava.
«A Baker Street, ovviamente.»
La patologa indietreggiò di qualche passo. Aveva imparato a
soprassedere sulle ovvietà degli Holmes ma in quel momento
non poteva certo
assecondarle.
«Sherry, io non poss…»
La donna agitò energicamente un braccio quando vide un taxi
arrivare
nella loro direzione e non appena fu certa di aver ottenuto
l’attenzione
dell’autista si voltò verso di lei.
«Lo so, hai perfettamente ragione…ma non
preoccuparti, gliela farò
vedere io a quello sciocco per il modo in cui ti ha
trattato.» La patologa
cercò di interromperla ma la donna continuò.
«Se la mamma sapesse come si è
comportato…ah, ma lo saprà! E voglio proprio
vedere se sar...»
Il taxi si fermò di fronte a loro interrompendo il fiume di
ira che
era, in quel momento, Sherrinford Holmes.
«Baker Street, per favore….e più in
fretta che può!»
La Holmes aprì rapidamente la portiera posteriore
dell’auto facendo
segno alla patologa di entrare.
Molly osservò prima l’interno
dell’abitacolo e poi la donna. Scosse
leggermente la testa.
«Non è per quello Sherry…» Il
sopracciglio alzato della donna la fece
sorridere ed abbassare lo sguardo per qualche istante prima di
rialzarlo. «Beh,
diciamo che non è solo per quello. E’ che, ecco,
ho il turno di notte e…»
La bella Holmes le sorrise con aria dolce ed affettuosa prima di
avvicinarsi. Sospirò ed appoggiò le mani sulle
spalle della donna.
«Molly, è più sicuro che tu stia con me
in questo momento.» La
patologa accennò un sorriso preoccupato a cui
l’altra rispose con fare
scherzoso. «Non preoccuparti, non ti farò fare
tardi e…non ti farò vedere
Sherlock, va bene?»
Molly sospirò pesantemente e dopo qualche istante
annuì con
convinzione. Sherry fece per muoversi quando la mano
dell’altra la bloccò
stringendole la manica del cappotto. La bella Holmes vide paura e
preoccupazione negli occhi della donna.
«Il cellulare! Hai dato il cellulare a quell’uomo!
Adesso che cosa
succederà a Sherlock?»
Sherry sorrise infilando una mano nel cappotto per poi estrarne un
cellulare identico a quello consegnato a Mr Norton.
«Ma…?»
Sherrinford sbuffò divertita e dalle sue labbra
uscì una leggera
nuvola di vapore.
«E’ vero, ho un fratello sciocco, ma in fin dei
conti tengo a lui.»
La patologa la guardò con una tale aria spersa da far
comprendere alla donna
quanto quelle parole non fossero sufficienti come spiegazione.
«Il cellulare
che ho dato a Godfrey è una copia.»
La patologa indicò l’apparecchio fra le dita della
donna con aria
perplessa.
«Ma io lo avevo nascosto!»
Sherry allargò il suo sorriso.
«Si, certo, e devo dire che era veramente un ottimo
nascondiglio.»
Molly alzò un sopracciglio con aria sarcastica.
Probabilmente Sherry
non si era resa conto di aver implicitamente detto che il nascondiglio
di cui
lei era così soddisfatta in realtà, era ridicolo
per qualcuno come una Holmes.
Tuttavia decise di evitare di rendere palesi i suoi pensieri sapendo
perfettamente cosa esulasse dalla concezione di
“tatto” degli Holmes. La sua
voce, pertanto, espresse ben altro pensiero.
«Non credi che si accorgerà del fatto che sia un
falso?»
Sherrinford scosse leggermente la testa.
«Lui no ma Miss Adler si, al primo
sguardo…è per questo che dobbiamo
sfruttare il poco tempo che abbiamo!»
Molly annuì e dopo un’ultima incertezza
seguì Sherry nel taxi nero in
direzione di Baker Street.
Note autore:
* E’ una frase
rubata a Pascal Campion un’artista che amo molto.
Fra l’altro il dipinto (Les Parisiennes: Juliette) a mio
avviso è meraviglioso
ed è per certi versi simile alla mia idea di Sherry.
** Lo so che lo sapete ma sono nata precisa ed antipatica per cui:
puntata 2x01
*** Idem ^^
Non
so come spiegare in maniera “soddisfacente” questo
enorme ritardo perché in
realtà è stato un insieme di cause ed effetti. Le
cause sono: in principio una
sorta di “blocco dello scrittore” o per meglio dire
sono stata effettivamente
bloccata da alcuni amici che mi hanno rapita e portata fuori per
qualche giorno
senza chiedermi nulla, costringendomi a scusarmi con voi e con molte
altre
persone che ho informato all’ultimo della mia assenza e che,
come voi, ora mi
odiano; successivamente vi sono state le vacanze di natale ed il
rientro dalle
vacanze. Gli effetti sono, oltre ad una mancanza di tempo, una distanza
eccessiva dal lavoro. Mi spiego meglio: quando immagino una storia non
mi
appunto o segno nulla, mi metto direttamente a scriverla e per quanto
possa
metterci anche settimane, il lavorarci in maniera costante e continua
mi fa
automaticamente ricordare tutti i miei pensieri e le mie idee. Ora,
questa
volta, (per quanto questo capitolo fosse quasi completamente scritto)
mi sono
rimessa a scrivere dopo un mese di assenza ed è stato
traumatico! Ho dovuto
riconvincermi di ciò che ho scritto, ricollegare tutti i
punti e cercare di reimmedesimarmi
nel mondo di Sherlock….la parte più difficile!!
Dopo
questo sproloquio contorto e quasi illogico…scusatemi!!
Spero
che questo capitolo vi sia piaciuto (a me non tanto, proprio per tutto
lo
sproloquio che vi ho fatto), per quanto inconcludente, e prometto che
cercherò
di aggiornare al più presto!
Come
sempre, a presto,
Anne!!
|
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Capitolo 5 *** Gli amori e i dolori profondi sono uccisi dalla loro stessa intensità. ***
L'errore di Sherrinford Holmes 5
Nota autore: Salve a tutte/i!
Come
primissima cosa devo dire grazie a tutte voi che mi avete dato il
bentornata
(scusatemi ancora per il ritardo mostruoso!) e per i messaggi di amore
per
questa storia e sostegno per me e i mie blocchi. Non saprò
mai trovare parole
soddisfacenti per cui vi dirò solo grazie ma sappiate che
intendo un poema di
ringraziamenti.
Passando
invece al capitolo, è stata una vera battaglia fatta di
pezzi spostati e
cancellati e non so neanche se il risultato finale sia chiaro,
sicuramente è
prolisso e contorto, ma come al solito a voi l’ardua sentenza
e non limitate le
critiche e le correzioni, mi raccomando! ^^
Volevo
dirvi qualche altra cosina ma la scriverò alla fine del
capitolo per non farvi
perdere altro tempo.
A
presto,
Anne^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
Gli amori e i dolori
profondi sono uccisi dalla loro stessa
intensità.
Aveva sempre
amato le luci calde e soffuse dei lampioni di Londra.
Quelle luci piene delle sfumature del giallo e dell’arancio
che riuscivano a
modificare ogni angolo e spigolo della città sino a farlo
diventare morbido,
sinuoso e romantico oppure cupo ed inquietante.
Un’ambivalenza che aveva sempre
confuso ed ammaliato i suoi sensi. Lasciando vagare il suo sguardo in
quei
colori riusciva a far vagare anche la sua mente, a farla andare a
ricercare
memorie, impressioni e sensazioni.
Era persa in questa strana sorta di vagabondare quando un leggero
mugolio di dolore proveniente dalla sua destra le fece riprendere
contatto con
la realtà.
Molly si voltò con aria indagatrice. Sherrinford guardava
fuori dal
finestrino ma il riflesso del vetro le permise di vedere la sua
espressione.
Era triste.
Sherry, che fino a quel momento era intenta a guardare altrove,
rimise per un attimo a fuoco ciò che aveva davanti vedendo
anch’essa il
riflesso della patologa che la guardava.
«E’ la ferita?»
La Holmes sorrise e si voltò.
«Anche.»
Molly annuì mestamente tornando a guardare le dita delle sue
mani
leggermente incrociate. Quasi senza rendersene conto, la sua mente
ricollegò
fili tutt’altro che logici costringendola a piegare
lentamente un braccio per prendere
ciò che aveva rapidamente nascosto nella tasca del cappotto.
Sherry osservò le dita della donna far emergere una quasi
immacolata
rosa dal soprabito.
Dopo qualche istante di esitazione la patologa esordì
titubante. Gli
occhi ad osservare il fiore.
«Viola.»
L’altra sorrise della delicatezza di quella ragazza che, per
non
intromettersi nel suo cuore in un modo che avrebbe potuto turbarla,
aveva
semplicemente pronunciato quella parola senza aspettarsi risposte o
spiegazioni.
«Colore non convenzionale, non trovi?»
La patologa sorrise tornando a guardarla.
«Si, ma non mi stupisce.»
Sherry aggrottò un sopracciglio accennando un sorriso. Molly
arrossì
leggermente.
«Beh, tu non sei convenzionale. Mi sembra, come dire,
appropriata.»
La Holmes si aprì in un sorriso complice prima di tornare ad
osservare il fiore.
«Amore a prima vista.»
Molly corrugò leggermente la fronte sussurrando un
leggerissimo
“mmh?”; l’altra scosse la testa tornando
a sorriderle.
«Le rose viola vogliono dire amore a prima vista. O per lo
meno, così
mi disse Godfrey la prima volta.»
La patologa fece rigirare il fiore fra le mani, avanti e indietro.
«Ed è vero?«
La leggera contrazione delle labbra della donna le fecero intuire che
la risposta era affermativa.
«E’ lui, intendo, è lui l’uomo
che, insomma…»
Sherry alzò le spalle con noncuranza, quasi stessero
parlando di
qualcosa che non la riguardasse, qualcosa che non fosse la causa della
maggior
parte delle sue sofferenze.
«Già.»
Molly scrutò per qualche istante il volto di quella donna.
«Stai bene?»
Un sorriso malinconico accompagnò la risposta.
«Non ancora ma prima o poi si, starò
bene.»
Molly tornò ad osservare quel fiore e le sue dita che
giocavano con
esso. Fu allora che la sua mente la riportò alla notte
precedente, a quando le
sue dita avevano ricucito la ferita di Sherry; fu allora che le
ritornarono
alla mente le cicatrici scure che deturpavano quella pelle bianca. Era
stato
quell’uomo a procurargliele, era stato lui a deturpare il
corpo della donna con
cui stava, era stato lui a condannare Sherry ad un esilio di anni, era
stato
lui. E nonostante questo, nonostante tutto questo, Molly aveva visto le
mani di
Sherry tremare quando lui le aveva porto quel fiore, aveva visto i suoi
occhi
rischiare di cedere a quelli di lui e soprattutto, quello che ora
vedeva in
Sherrinford Holmes non era odio o rancore, per quanto sapesse che lo
provasse,
no, quello che vedeva era tristezza. Come era possibile?
La patologa alzò nuovamente lo sguardo e si accorse che la
sua
compagna l’aveva osservata per tutto quel tempo. Un sorriso
dolce conquistò le
labbra e gli occhi di Sherrinford.
«Come si dice? Un penny per i tuoi pensieri?»
Molly incurvò leggermente le labbra in un sorriso divertito
ma passò
ancora qualche istante prima che riuscisse a parlare.
«Perché non lo odi?»
Sherry si morse il labbro inferiore trattenendo un sospiro.
«Perché non voglio. Non voglio concedergli il mio
odio, non voglio
concedergli un mio qualsiasi sentimento, non ne merita neanche
uno…»
Aggrottò la fronte con aria pensierosa.
«Ma nonostante ciò, sei triste.»
«Non è la tristezza che pensi. Non è
tristezza per quello che eravamo
o avevamo. E’ più la consapevolezza di aver
sbagliato, la consapevolezza che se
avessi guardato meglio, se avessi cercato di capire di cosa realmente
avessi
avuto bisogno, tutto questo non sarebbe successo.»
La patologa annuì mestamente prima di richiudersi nei suoi
pensieri. Dopo
aver studiato il volto della donna per qualche momento, Sherrinford le
si
avvicinò posando una mano sulla sua per attirarne
l’attenzione.
«Molly…» La ragazza alzò lo
sguardo per incontrare quello comprensivo
dell’altra. «…non cercare analogie che
non ci sono, ti prego.»
La patologa sospirò pesantemente. Non la stupiva il fatto
che la
capisse così tanto, ormai la conosceva abbastanza, ma si
domandava se avesse
ragione. In fin dei conti il discorso che aveva appena fatto avrebbe
potuto
valere anche per lei; forse anche lei doveva guardare meglio e capire
se avesse
avuto bisogno di qualcuno come Sherlock Holmes.
«Molly io non posso sapere cosa tu vuoi veramente e cosa sia
meglio
per te, questo puoi deciderlo solo tu. Io, però, posso
capire che cosa può
servire a Sherlock. Ci sono già passata, lo so.»
Molly scosse la testa sconsolata.
«Si ma lui non lo sa e nessuna di noi due può
scegliere o decidere
per lui. Per cui se lui vuole, insomma…» Un
respiro pesante che nasceva più dal
suo cuore che dal suo petto la fece fermare. Gli occhi le si velarono
leggermente. «Si, insomma, se Sherlock vuole lei noi non
dobbiamo
intrometterci!»
La Holmes strinse i denti.
«Non è così semplice.»
Molly aggrottò la fronte con aria interrogativa ma Sherry la
ignorò
continuando a parlare.
«Non posso imporre una scelta a lui come non posso imporla a
te per
cui, ovviamente, sei libera di scegliere ciò che reputi la
cosa migliore da
fare…» La patologa le sorrise con affetto.
Apprezzava il tifo che Sherry faceva
per lei. «Però voglio solo dirti una cosa, se mi
permetti …»
La ragazza annuì sorridente.
«Lungi da me cercare di giustificare Sherlock ed il suo
comportamento, anzi, lo farò pentire
amaramente…». La patologa incurvò
leggermente le labbra con aria divertita. «…ma,
quello dell’altra sera o
stamattina…insomma, quello che ha fatto Sherlock credo fosse
un suo modo
sbagliato di reagire ad uno stato
di…preoccupazione.»
La patologa sospirò pesantemente tornando ad osservare il
fiore.
«Ah si?! E per chi delle due?»
Sherry strinse leggermente le labbra al tono sarcastico della donna
ma non disse nulla. Avrebbe voluto spiegare molte cose a quella dolce
ragazza
che tanto aveva fatto e avrebbe sicuramente continuato a fare per
Sherlock. In
fin dei conti, Molly Hooper merita chiarimenti e spiegazioni ma quello
non era
il momento giusto, purtroppo.
Il silenzio riconquistò l’abitacolo per i minuti
successivi.
«Com’è?»
Sherry tornò a guardare la sua compagna di viaggio che
osservava con
aria imbarazzata il fiore.
«Cosa?»
La patologa si rannicchio maggiormente nelle spalle.
«Beh, vivere un amore profondo?»
Sherry tornò a guardare il lento scivolare del traffico.
«Non come puoi immaginare. Gli amori e i dolori profondi sono
uccisi
dalla loro stessa intensità.*»
Molly spostò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
«Già…»
Sherry intuì un eccessivo rammarico nel sussurro della
donna. Un
rammarico così tanto forte da essere eccessivo anche per una
persona empatica
come Molly. Si voltò per cercare di intuire qualcosa di
più dalla sua
espressione e riuscì facilmente a comprenderne il motivo.
«Ma non per tutti è così,
Molly»
Dopo aver continuato ad osservare il fiore per qualche istante, la
patologa lo porse alla donna che, tuttavia, scosse leggermente la testa.
«Tienila tu.»
La Holmes si sorprese del sorriso amaro che la patologa le rivolse in
risposta a quella proposta.
«Perché?...Per ricordarmi che un Holmes
può andare avanti nonostante
tutto e tutti?»
Sherry le sorrise.
«No, Molly. Per ricordarti che gli Holmes possono essere
ingannati,
come chiunque altro.»
Mrs Hudson le accolse con la gentilezza e la cortesia che la
contraddistingueva. Dopo i saluti di rito e numerose esclamazione di
felicità
per il ritorno di Sherry, la Holmes si congedò
incamminandosi verso le scale.
«Cara, tu non sali?»
Molly, che fino a quel momento aveva osservato il volto della Holmes
diventare una maschera di durezza e astio in vista del confronto con il
fratello, si riscosse per poi andare ad osservare l’anziana
signora che le
sorrideva.
«No, io, ecco…se non le crea disturbo rimarrei con
lei.»
Mrs Hudson cinguettò che non sarebbe mai potuta essere un
disturbo e
le fece segno di seguirla in casa per prendere “un qualcosa
che le scaldasse un
po’!”.
Molly sorrise dell’esuberanza di quell’arzilla
signora ma prima di
raggiungerla si affacciò lungo la tromba delle scale
chiamando con un sussurro
il nome della Holmes.
Ci furono dei passi leggeri e il volto della donna ricomparve in cima
alla prima rampa di scale.
«Sherry» La Holmes strinse leggermente gli occhi
per scrutare quella
donna minuta che le parlava con una voce stranamente seria.
«Sherry, che cosa
c’è in quel telefono?»
Il quasi impercettibile movimento degli occhi della donna e
l’aumentare
della stretta sul cornicione fecero capire a Molly quanto quella
domanda fosse,
se non indesiderata, quanto meno non ben accetta.
Gli istanti di silenzio che seguirono questa
sua richiesta le diedero la conferma di quanto Sherrinford Holmes non
volesse
affrontare quella situazione.
«E’ meglio che tu non lo sappia.»
Era certa che non mentisse ma lei, questa volta, non poteva cedere.
«Dopo tutto quello che è successo, me lo
devi.»
L’irrigidimento della mascella della sua interlocutrice, agli
occhi
della patologa, fu una resa senza condizioni.
Sherry scese rapidamente i gradini che le separavano. Dopo qualche
istante passato ad osservare ed analizzare il volto di Molly Hooper,
parlò.
«Si, te lo devo, e sappi che è solo e soltanto per
questo che lo sto
facendo. Per prima cosa, quello che sto per dirti dovrai usarlo solo e
soltanto
se dovessi trovarti in una situazione come quella di poco fa. Solo e
soltanto
per salvarti qualora fossi in pericolo. Siamo intesi?»
Molly indurì lo sguardo ed annuì convinta.
Se in un improbabile futuro qualcuno gli avesse chiesto quale, fra
tutte le situazioni di maggior pericolo passate insieme a Sherlock
Holmes,
ritenesse la più inquietante ed in cui avesse veramente
avuto paura, John
Watson non avrebbe esitato a descrivere quel momento. Esattamente
quello.
Quel momento in cui aveva visto Sherrinford Holmes entrare nel
salotto di Baker Street ed avanzare a passi lenti sino a trovarsi a
pochi
centimetri dal fratello.
Perché definire quella una situazione pericolosa, anzi la
più
pericolosa mai vissuta? Beh, perché John Watson aveva visto
quella donna. Gli
occhi ridotti a due pozze scure che preannunciavano il peggio, i denti
talmente
stretti che il solo vederli faceva provare dolore, le vene del collo
così
marcate da sembrare scolpite da un artista sopra una statua di marmo.
Si,
quella era decisamente la situazione più pericolosa che John
Watson avesse mai
dovuto affrontare e probabilmente anche lo stesso Sherlock Holmes, in
un
improbabile momento di onestà, avrebbe detto la medesima
cosa.
«Sherlock, non ti ammazzo solo perché mamma ne
soffrirebbe troppo!»
La voce della Holmes era un sussurro rauco che sfuggiva dai denti
stretti.
John aveva portato la sua attenzione sul volto dell’amico
che,
nonostante mantenesse un’espressione imperturbabile, aveva un
certo qualcosa
che il dottore avrebbe potuto tranquillamente definire paura.
«Buonasera anche a te, Sherrinford!»
La donna sgranò gli occhi per poi allontanarsi ed iniziare a
camminare avanti e indietro per il salotto. La personificazione umana
di un
leone in gabbia. Il detective, tuttavia, decise di ignorare la cosa
accomodandosi
in poltrona con fare solenne.
«Come posso aiutarti, sorellina?»
John mugolò
come se l’avessero
colpito al cuore quando sentì quel vezzeggiativo ma,
nonostante capisse
l’istinto violento che stava per impadronirsi di Sherry e che
così spesso anche
lui aveva provato, fece istintivamente un passo verso l’amico
quando la donna
si voltò con il chiaro intento di eliminare quei pochi
centimetri che qualche
secondo prima avevano salvato suo fratello. La reazione del dottore,
tuttavia, la
fermò. John deglutì rumorosamente mentre cercava
di distrarre i due contendenti
di quell’irreale duello.
«Dobbiamo» Tossì. «Dobbiamo
andare da Molly….Sherry, poco fa è venuta
qui…»
Prima che potesse finire di parlare due laconici “lo
sa!” e “lo so!”
proruppero dagli Holmes.
Il dottore li guardò alternativamente con fronte corrugata e
occhi
sbarrati. Sherry abbandonò il suo fare minaccioso per uno
più rassegnato e
stava per spiegare al dottore la situazione quando il fratello la
interruppe.
« Molly sta benissimo, è da Mrs Hudson. Ora,
occupiamoci delle cose
importanti: dov’è il cellulare, Sherry?»
La donna strinse i pugni tentando di controllare la rabbia di fronte
a quel fratello apparentemente indifferente alla sorte di Molly Hooper.
«Dovresti piuttosto spiegarmi com’è
possibile che Irene Adler sia
viva?»
Sherlock riversò sul volto della sorella uno sguardo
inespressivo e
freddo al quale la donna rispose nella medesima maniera.
«Perché non è salita?»
I due Holmes si voltarono a guardare John Watson che, con le
sopracciglia
arcuate, era in attesa di una risposta. Dopo qualche istante chiuse gli
occhi
stringendo le labbra.
«Molly…perché Molly non è
salita?»
Sherry sorrise sarcasticamente ricominciando a camminare per la
stanza lentamente.
«Forse avrà avuto paura di poter essere
aggredita.»
Il detective si alzò con un moto di stizza.
«Oh, per l’amor del cielo! Io
non…»
Sherrinford alzò una mano guantata per fermarlo,
lanciandogli uno
sguardo tagliente.
«Non preoccuparti Sherlock, di questo ne riparleremo per
bene…anche
con la mamma.» L’uomo allargò le
braccia, corrugando la fronte. «Ora rispondi
alla mia domanda.»
Il detective infilò lentamente le mani nelle tasche
scrutando la
sorella per qualche istante.
«Non ti riguarda.»
Sherry strinse gli occhi con forza prima di cedere alla rabbia.
«Dannazione Sherlock, smettila! Tu e la tua sciocca
immaturità avete
già procurato enormi problemi…» La
donna fece un passo verso il fratello. Gli
occhi sbarrati, la schiena dritta e i pugni ancora serrati.
«Io non sono
Mycroft, Sherlock. Non accetterò ingerenze o giochetti da
parte tua, sono stata
chiara?»
John Watson trattenne il respiro per qualche secondo. Quella scena
aveva un qualcosa di irreale che non riusciva a comprendere. Aveva
visto
Mycroft redarguire il fratello un numero indefinito di volte ma la
rabbia di
Sherrinford era tutt’altra cosa; e, cosa ancor più
importante, aveva ben altro
effetto su Sherlock Holmes. Se il detective rispondeva con sarcasmo o
indifferenza al fratello maggiore, questo non accadeva con Sherry;
Sherlock aveva
avuto un fremito di ciglia innaturale per l’unico consulente
investigativo al
mondo.
«John,» Il dottore si voltò al richiamo
dell’amico. «potresti
lasciarci?»
L’uomo sfregò il pollice e l’indice
della mano destra prima di
reagire alla richiesta.
«Si, si certo.» A passi rapidi andò
verso le scale. «Credo che andrò
a salutare Mrs Hudson, si. E’ un po’
che…» Sherlock gli lanciò uno sguardo
severo e l’uomo capì al volo. «Beh,
vado, si.»
Sherrinford sfilò i guanti accomodandosi sulla poltrona di
John.
Rivolse il suo sguardo alle fiamme, giocando distrattamente con un
semplice
anello che faceva passare di dito in dito.
Il detective si sedette di fronte a lei con aria indagatrice.
«Allora, da dove vogliamo iniziare?»
La donna si voltò lentamente verso di lui. Il volto
totalmente inespressivo.
«Dimmelo tu, Sherlock…»
«Coventry.»
La dita della donna si fermarono.
John scese le scale lentamente, la mente affollata di pensieri e
domande. Entrò nella cucina di Mrs Hudson con espressione
assente e preoccupata
e ci volle qualche secondo perché realizzasse dove si
trovasse.
Le due donne, intente a chiacchierare con leggerezza, si fermarono
voltandosi verso di lui. Il dottore, dopo l’iniziale
imbarazzo dovuto al suo
essere distratto, guardò la patologa e solo allora
sembrò ricollegarsi alla
realtà ed agli eventi che erano accaduti in quelle poche
ore. Fece un paio di
passi rapidi in direzione della donna rivolgendole uno sguardo
preoccupato.
«Molly! Come stai? Stai bene?»
La donna lanciò uno sguardo in direzione di Mrs Hudson che
li
guardava preoccupati.
«Perché….è successo qualcosa
cara?»
La patologa sorrise con la tazza di thè vicino alle labbra.
«No, Mrs Hudson non si preoccupi. Ho solo avuto un brutto
raffreddore
in questi giorni ma ora sto bene…grazie John, per esserti
preoccupato.»
L’uomo annuì sorridendo imbarazzato, lo sguardo a
vagare per la
cucina fino ad intravedere degli scatoloni in un angolo.
Corrugò la fronte
prima di prendere un’espressione quasi allarmata.
«Mrs Hudson, si sta trasferendo?!»
La donna seguì lo sguardo del dottore fino alle scatole e
sorrise
divertita.
«Ma no, certo che no mio caro. Dove potrei andare?»
L’uomo sospirò
rincuorato. «E poi come farebbe Sherlock?
Quell’uomo non è in grado di badare a
se stesso, figuriamoci ad una casa.»
Il sentir pronunciare quel nome portò automaticamente lo
sguardo del
dottore sul volto della patologa dove il sorriso divertito si era
leggermente
incrinato.
Mrs Hudson, ignara dell’accaduto, continuò a
parlare riattirando
l’attenzione su di sé.
«Ho riordinato un pochino. E’ quasi tutto da
buttare ma credo che
qualcosa la metterò nel sottoscala. Non so mai cosa serva a
quel ragazzo!»
John fece un sorriso tirato, strofinando le mani sui jeans.
«Ci penso io Mrs Hudson. Con la sua anca non dovrebbe fare
certi
sforzi, lo sa bene.»
L’anziana signora arrossì imbarazzata per la
piccola ramanzina del
dottore e si trovò, per caso, ad osservare la triste e
distratta Molly Hooper.
«Cara, sei sicura di sentirti bene?»
La patologa alzò lo sguardo con aria assente; poi sorrise,
annuì e si
alzò.
«Ti aiuto John.»
L’uomo annuì e concordarono che lui si sarebbe
occupato degli
scatoloni da buttare e Molly delle due scatole che Mrs Hudson avrebbe
voluto
conservare.
L’anziana signora le fece strada sino alla porta del 221 c.
Mentre
era intenta a girare con forza la chiave nella toppa ormai dura dato il
poco
utilizzo, le sorrise.
«Non riesco ad affittarlo. Tanto vale che lo usi come
ripostiglio.»
Non appena Mrs Hudson riuscì ad aprire un’aria
fredda e stantia invase
le narici della patologa. Lanciò uno sguardo alle scale buie
prima che Mrs
Hudson accendesse la piccola lampadina che illuminava la rampa.
«In fondo alle scale, sulla destra. Nel salottino. Grazie
cara.»
Molly rispose al sorriso sincero della donna e iniziò a
scendere con
attenzione i gradini scivolosi quando la voce di John che chiedeva
all’anziana
signora “Mrs Hudson, ma che cosa c’è in
queste scatole? L’odore è mefitico!” la
raggiunse.
Molly si fermò voltandosi a guardare la padrona di casa,
incerta sul
restare lì o andare dal dottore.
«Non si preoccupi, vada Mrs Hudson.»
La donna annuì rincuorata.
«Lascio la porta aperta.»
La vide avviarsi verso la cucina con un “secondo lei, chi si
occupa
degli esperimenti del suo amico quando lui non ci gioca
più?!”.
Spinse la porta facendone cigolare i cardini.
Istintivamente guardò intorno a sé quella stanza
vuota e buia che la
circondava. L’unica luce percepibile era quella che entrava
da un lucernaio che
tuttavia, a quell’ora della notte, era quasi inutile. Si
strinse nelle spalle
percependo l’umidità entrarle nelle ossa e
tirò su con il naso ormai freddo.
Fece qualche passo per posare le scatole in un angolo. Quando si
rialzò un urlo le morì in gola vedendo la propria
immagine riflessa nello
specchio abbandonato nell’angolo opposto. La mano
istintivamente portata al
petto le fece percepire il suo battito irregolare e il respiro pesante.
Rialzò lo sguardo per tornare a guardare il proprio riflesso.
Non era mai stata bella; non nel modo in cui le persone usavano
quella parola. Lo sapeva e non ne aveva mai sofferto. Era una ragazza
normale
come tante, nulla di più e nulla di meno; spesso amiche e
colleghe le dicevano
che con un po’ di trucco sarebbe migliorata, che avrebbe
potuto diventare molto
di più. Migliorare e diventare, cambiare insomma. Ma a lei
non piaceva l’idea.
Lei era così, non bella ma carina, con le labbra troppo
piccole ed i vestiti
che non la valorizzavano ma non avrebbe mai potuto essere diversa o
migliore.
Le sarebbe sembrato di non essere più lei, di non essere
più, insomma.
Ci aveva provato, aveva provato a “migliorarsi” e a
“diventare” ma si
era resa conto che in fin dei conti era inutile. Avrebbe potuto essere
migliore
e diversa con attenzione, trucchi e accorgimenti di stile, come le
diceva
Meena, ma in fondo per che cosa. Per sembrare qualcosa di diverso che,
oltre a
non essere comunque abbastanza, la faceva sentire a disagio e inadatta?
No, lei
era così e non sarebbe cambiata perché in un modo
tutto suo, si piaceva.
Chiuse gli occhi inspirando per un’istante e quando li
riaprì vide
una figura riflessa insieme a lei. Quanto odiava la sua mente e le sue
proiezioni. Si, si lei aveva cercato di migliorare e di diventare
qualcun’altra
per lui. Per quell’uomo
che nella realtà,
come anche nella sua mente, la guardava con indosso il suo cappotto
scuro
pronto ad andare via, con le labbra immobili senza l’ombra di
una sensazione da
far trasparire, con gli occhi pieni di vuoto come se, invece di
osservare lei,
stesse osservando il nulla. Lei per lui aveva rischiato, aveva tentato
e
provato di tutto ma adesso sapeva; sapeva quello che lui aveva sempre
saputo. Che
erano diversi, diversi nell’affacciarsi alla vita e al mondo;
diversi nel
percepire e sentire; diversi in ciò che rendeva vicine le
persone, diversi in
tutto.
Sentì la gola stringersi e il principio del pianto
avvicinarsi ai
suoi occhi. Aveva sbagliato ad intromettersi nelle sue scelte. Non
avrebbe
dovuto accettare quel cellulare da Sherry e non avrebbe dovuto opporsi
a
restituirglielo quando lui glielo aveva chiesto. Tenere un oggetto che
apparteneva ad un amore passato. Lo aveva fatto anche lei, tutti prima
o poi lo
fanno ed ora lei, lei che tante volte lo aveva accusato di essere
insensibile,
di essere quello che lei non era, come poteva, ora, essere lei a
frapporsi fra
Sherlock e qualcosa di normale, qualcosa di umano?
«Perdonami.»
Un sussurro sfuggito dalle labbra socchiuse di Molly Hooper.
Un sussurro che avrebbe potuto sfuggire alle sue stesse orecchie.
Un sussurro che fece muovere impercettibilmente le iridi di lui.
«Cosa ci fai qui, Molly?»
La donna strinse i denti, serrando forte gli occhi prima di voltarsi
verso Sherlock Holmes e sorridergli con serenità.
«Informazioni.»
Lui corrugò la fronte. Gli occhi a scrutare quelli di lei
che
tuttavia fuggirono iniziando a vagare nel buio che li circondava.
«Sherry mi
ha detto che in
quel cellulare ci sono informazioni. Non so di che genere o in quale
forma ma
ci sono. Ha detto che per lei…».
Non
sarebbe stata in grado di pronunciarlo quel nome, in quel momento.
«…non è
stato difficile trovare qualcuno dentro lo MI6 che le mettesse nel
cellullare
ripulito. Doveva nasconderle e l’archivio secretato di una
della agenzie
segrete più importanti al mondo era il posto
migliore.»
Mentre lei aveva fatto calare su di lui quel fiume di parole come se
si stesse liberando da un peccato, Sherlock era rimasto immobile ad
osservarla.
A cercare di incontrare per sbaglio il suo sguardo fuggiasco.
Il silenzio di quella stanza normalmente vuota tornò a farsi
sentire
come se non si fosse accorto della loro presenza.
«Sherry ti ha detto di dirmi tutto questo?»
Molly sorrise guardando per terra.
«No…no, lei mi ha detto di non dirlo a nessuno e
di non dirlo
soprattutto a te.»
Non lo vide fare un passo verso di lei ma lo percepì.
Sentì il lento
frusciare dei pantaloni che sfregavano sul cappotto e della scarpa che
si
muoveva sul pavimento polveroso.
«Allora perché me lo stai dicendo?»
Non riuscì a trattenersi dall’alzare lo sguardo
per incontrare quello
di lui.
« E’ giusto che tu lo sappia.»
Lo vide alzare un sopracciglio.
«Perché?»
Di nuovo sentì le lacrime cercare di uscire ma le trattenne
scuotendo
la testa ed abbassando nuovamente lo sguardo. Lo sentì fare
un altro passo e si
rinchiuse istintivamente nelle spalle.
«Ti prego. Non farmelo dire.»
Sapeva che la sua voce era quasi un singhiozzo ma non le era facile
fare ciò che doveva fare, dato che non era quello che voleva
fare.
Sentì dei passi rapidi lungo le scale ed istintivamente
rialzò lo
sguardo trovandosi ad incontrare quello di lui, pieno di quel solito
vuoto.
«Molly va tutto ben…»
John Watson si bloccò sulla porta, la voce incastrata nella
gola, gli
occhi ad osservare quelle due figure nel buio.
La patologa passò le mani sotto gli occhi per eliminare
quelle
lacrime che stavano per scendere e poi sorrise al dottore.
«Si, si. Tutto bene John.»
Il dottor Watson, forse, le avrebbe creduto se lei non fosse uscita a
testa bassa correndo su per le scale. Non appena sparì alla
sua vista, si voltò
verso il collega.
«Ma che è successo?»
Il detective rimase immobile. Gli occhi fissi nel punto dove fino a
qualche istante prima si trovavano quelli di Molly.
«Sherlock, mi vuoi spiegare che cosa è successo?
Perché sei qui?»
L’uomo si riscosse voltandosi verso il dottore.
«Che domande, ero venuto a cercare te. Abbiamo del lavoro da
fare.»
John lo vide infilarsi i guanti e salire le scale con passo deciso.
Lo seguì chiedendo altre spiegazione che, però,
non arrivarono.
Non appena furono in cima alle scale Mrs Hudson uscì dalla
porta del
suo appartamento.
«State uscendo?»
Sherlock la superò avanzando verso il portone
d’ingresso ignorandola.
L’anziana signora lo guardò sconsolata per poi
portare la sua
attenzione sul dottore che era appena arrivato in cima alle scale.
« Oh John, dato che state uscendo potrestee portare la
sciarpa a Molly,
deve essersela dimenticata.»
Lui la guardò con aria perplessa e fece per dire qualcosa
quando la
voce severa del collega lo interruppe.
«Dimenticata…perché, è
uscita?»
La donna sobbalzò al tono duro e perentorio guardando
alternativamente il detective e il dottore.
«Si. Ha detto che faceva tardi a lavoro e…un
momento! La sciarpa!
Sherlock!»
Uscì dal portone di Baker Street guardando in entrambe le
direzioni.
Nulla.
Rubrica. Molly Hooper. Invia chiamata.
Primo squillo.
Metodo più veloce per arrivare al Bart’s: taxi.
Per Molly: metro. A
destra.
Secondo squillo.
Tre linee possibili: Circle, Metropolitan, Hammersmith. Il prossimo
treno fra 3 minuti. Lei ha un vantaggio di 2.
Terzo squillo.
Marciapiede. Macchia di colore. E’ viola, una rosa viola.
“L’utente non è raggiungibile si
preg…”
Note autore:
* E’ un aforismo
di Oscar Wilde che, per l’esattezza, dice: “I
dolori superficiali e gli amori superficiali durano. Gli amori e i
dolori
profondi sono uccisi dalla loro stessa intensità.”
Lo so, lo so: il
finale è becero e rasenta il ridicolo ma da
qualche parte dovevo tagliare il capitolo. Per quanto riguarda il
telefono, la soluzione è sciocca ma ho provato ad inventarmi
di tutto e non rendeva, per non dire che sembrava ridicolo. Altra cosa:
ma si capisce il "gioco" delle specchio? Spero di si, fatemi sapere! ^^
Passando ad altro,
so di essere nuovamente in ritardo e me ne scuso ma sto avendo
molte crisi esistenziali dopo aver rivisto le serie ed essermi resa
conto di
quanto mi sono allontanata dai personaggi; crisi esistenziale che si
traduce in
insoddisfazione per ciò che scrivo che di conseguenza
diventa ritardo nel
pubblicare. Credo sia un capitolo strano, contorto e con stili e toni
troppo
diversi ma spero non risulti troppo sopra le righe.
Voglio
però rassicurarvi sul fatto che la fine
c’è ed è già
scritta quindi, in un modo o nell’altro, ci
arriverò.
Grazie per essere
arrivate fino a qui e a presto,
Anne ^^
|
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Capitolo 6 *** "Molly" ***
L'errore di Sherrinford Holmes 6
Nota
autore: Come
sempre salve a tutte/i!
^^
Si,
sono di nuovo in ritardo e ve lo giuro mi dispiace ma non so come
migliorarmi.
A mia discolpa, però, voglio dire che questo capitolo
è molto corposo e
soprattutto lungo, molto lungo. Spero non risulti un enorme
“spiegone” fatto di
dialoghi contorti, tagli e rimandi eccessivi ma dovevo tirare le fila
del tutto
per non ritrovarmi un enorme groviglio fra le mani (avete presente le
cuffiette
lasciate in borsa mezza giornata? Ecco, quello! ^^). Spero che le
spiegazioni
siano logiche e che non ci siano dei buchi nella trama: se
così dovesse essere
vi prego, ditemelo! Risponderò ad ogni dubbio, incertezza o
offesa, promesso!!
^^
Come
sempre vi devo ringraziare per il sostegno che ogni volta mi date e per
il perdonare
questi miei tempi biblici e altalenanti.
Ed
ora, come sempre, a voi il giudizio e le critiche!
A
presto,
Anne^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
“Molly!”
John non gli cadde addosso quasi per miracolo.
«Che c’è? Che succede?»
Come da sua abitudine l’uomo non rispose ma il dottore
percepì in
questo consueto silenzio un nervosismo del tutto inconsueto. Lo vide
chinarsi
all’improvviso e prendere quel fiore per poi iniziare a
guardare in giro con
fare indagatore prima di avvicinarsi al cofano posteriore di un auto e
passarci
sopra due dita. Sherlock strinse gli occhi per un istante inspirando
pesantemente. Prese il cellulare digitando qualche parola che John non
riuscì a
leggere per poi avviare una chiamata. Il dottore, dopo aver inutilmente
cercato
intorno a sé la figura di Molly, aveva riportato il suo
sguardo preoccupato e
smarrito sull’amico.
Dei passi che si stavano avvicinando rapidamente attirarono la loro
attenzione; una preoccupata ma decisa Sherrinford si stava avvicinando.
«Dov’è Molly? Ma che cosa
sta…»
«Lestrade!» La voce dura di Sherlock la
fermò. «Mi servono i video di
sorveglianza di tutte le telecamere a circuito chiuso di Baker
Street…»
John lo vide fare pochi passi rigidi sino ad arrivare di fronte alla
sorella per poi alzare il fiore. Il volto del detective era una
maschera
inespressiva prima di essere corrugato da una smorfia di nervosismo ed
insofferenza nei confronti dell’ispettore.
«…Tutte, si tutte. Cosa non è chiaro
del termine?!...Case, negozi, banche,
tutte!»
Chiuse con uno scatto nervoso la comunicazione prima di tornare ad
osservare la sorella
«Norton!»
John non riuscì a vedere il volto dell’amico, che
in passato era
rimasto impassibile a rapimenti di bambini e uccisioni macabre, ma
percepì la
voce malamente trattenuta dall’urlare e l’ira che
quasi la rendeva un ringhio.
Sherrinford strinse i denti guardando il fiore prima di riportare la
sua attenzione al fratello cercando di capire se quella che esprimevano
gli
occhi di lui fosse reale preoccupazione.
«Non le succederà nulla.»
L’uomo serrò la mascella alzando la mano destra a
far vedere l’indice
ed il medio.
Il dottore corrugò la fronte prima di avvicinarsi al cofano
dell’auto
e fare ciò che il detective aveva fatto qualche secondo
prima. Sgranò gli occhi
voltandosi verso i due Holmes.
«Sangue…è sangue!»
Sherry non gli prestò attenzione continuando a studiare lo
sguardo
del fratello. Vide ira, rancore, astio ma soprattutto vide
preoccupazione
latente; esattamente ciò che non avrebbe voluto vedere.
«Non te ne occuperai tu, Sherlock. Non ne sei in
grado.»
L’uomo sgranò gli occhi, le pupille si ristrinsero
improvvisamente.
John si mosse per andare a dividere quello scontro ormai imminente
quando una berlina nera che frenava bruscamente di fianco a loro
attirò la sua
attenzione. Il dottore si stupì che il volto di Mycroft
Holmes fosse in grado
di esprime una qualsivoglia tipo di sensazione simile alla
preoccupazione ma fu
esattamente quello che vide quando l’uomo uscì
dall’auto.
Il maggiore degli Holmes fece pochi passi rapidi insinuando il manico
dell’ombrello fra i due fratelli. La tensione latente che
veniva emanata da
quello strano trio fu circondata per qualche secondo da uno strano
silenzio
pieno di automobili, sirene e rumori urbani.
«Non possiamo perdere tempo…»
Mycroft lanciò uno sguardo rapido al dottore in risposta ai
suoi
timori prima di riportarlo sui fratelli.
«Che cosa è successo?»
Sherlock si voltò verso di lui con fare astioso.
«Cosa ci fai qui?»
Sherrinford fece un sospiro stizzito.
«L’avevo chiamato io per organizzare la scorta di
Molly. Cosa ormai
inutile data la tua incapacità di…»
Mycroft dovette premere nuovamente il manico di legno sul torace del
fratello quando lo vide ringhiare più che urlare un irato
“la mia?!”.
Il maggiore degli Holmes inspirò pesantemente.
«Ora basta!»
John si stupì nel vedere i due fratelli minori abbassare lo
sguardo e
fare reciprocamente un passo indietro. Non aveva mai visto un
comportamento simile
da parte del suo amico verso Mycroft ma, da quel che poteva capire, vi
doveva
essere un tacito accordo di accettazione delle gerarchie in momenti
simili.
Mycroft Holmes abbassò l’ombrello puntellandolo
sul selciato e
guardando alternativamente i due fratelli.
«Sherlock.»
Il detective rialzò lo sguardo annuendo leggermente prima di
iniziare
a rispondere a quella domanda non posta.
«Hanno 4 minuti di vantaggio. E’ ferita ma ha
ancora il cellulare con
sé. A giudicare dalle tracce dei pneumatici non è
un auto, suppongo sia il
furgone che mi ha seguito la scorsa notte. Mi state facendo perdere
tempo!»
John aveva ascoltato l’amico con attenzione ma il suo sguardo
era
perso a capire l’espressione di Sherrinford. Aveva le
sopracciglia lievemente aggrottate
e gli occhi erano intenti a seguire i piccoli movimenti sul volto del
fratello;
lo stava studiando. Quando la vide socchiudere le palpebre, serrando le
labbra,
il dottore capì che qualcosa non andava. Ma cosa?
Mycroft tossì leggermente spostando gli occhi per incontrare
quelli
della sorella. La donna scosse la testa ma quando vide il fratello
maggiore
raddrizzare la schiena per poi dare un segno di assenso a Sherlock,
irrigidì la
mascella in un mal celato moto d’ira.
Il dottore vide il detective estrarre il cellulare dalla tasca e
gettarsi in strada per fermare un taxi.
«Vengo con te!»
Sherlock non si voltò a guardarlo. La mano ad abbassarsi per
aprire
lo sportello posteriore dell’auto.
«No, John. Non questa volta.»
L’uomo rimase immobile sul ciglio del marciapiede mentre il
taxi si
allontanava. Le labbra leggermente aperte ed uno sguardo corrucciato ad
esprimere lo stupore per il rifiuto dell’amico.
«Mike dannazione! Non lo hai visto? Rischia di fare
più danni che
altro e…»
John si voltò al tono alto e allarmato di Sherrinford.
«Sherry» Il dottore sbarrò gli occhi per
il nomignolo che strideva sulle
labbra e nella voce di Mr Governo.
La donna si immobilizzò. Il labbro superiore a torturare
quello inferiore
e uno sguardo spaventato a cercare conforto in quello serio ma
tranquillo del
fratello.
«Ora come ora ciò che Sherlock può fare
è più di quello che possiamo
fare noi. Io non mi muovo sul terreno da anni e tu ormi sei fuori dal
giro.
Lascialo fare, nel mentre io attivo i miei.»
Sherry annuì prima di avvicinarsi all’uomo ed
abbracciarlo in un moto
istintivo che lo fece irrigidire ed arrossire leggermente.
«Non è più un bambino,
Sherrinford….non del tutto!»
Il sorriso della donna contagiò anche le labbra del dottore.
L’eco di quel suono stridulo era ormai finito da qualche
secondo
quando decise di reagire.
Sniffò sonoramente aprendo il sacco a pelo e mettendosi a
sedere
senza riuscire a trattenere una smorfia di dolore. Massaggiandosi la
schiena
indolenzita si guardò intorno scrutando
l’oscurità che lo circondava. Non
ricordava di come fosse arrivato lì ne tantomeno di che
posto fosse; era un salone
abbandonato e vuoto come tanti in cui aveva dormito.
Alzò le spalle con aria indifferente prendendo il cellulare
che aveva
suonato risvegliandolo malamente dalla sua sonnolenza chimica.
Bill Wiggins alzò un sopracciglio con fare dubbioso.
Non era il mittente del messaggio a renderlo curioso né
tantomeno il
tono dello scritto, Shezza era solito mandare messaggi stringati con
poche e
fondamentali informazioni e soprattutto poche e fondamentali domande.
No,
quello che incuriosiva Bill era la foto. Lui si ricordava la Dottoressa
Hooper
ed anche le sue capacità di schiaffeggiatrice ma quella
nella foto non era la
stessa donna. Quella donna, in una foto chiaramente rubata durante un
momento
di distrazione e modificata tagliando le persone che la circondavano,
era una
incerta, sorridente ma soprattutto giovane Molly Hooper. Una foto
vecchia di
anni.
Con espressione ancora incerta tornò ad osservare il
messaggio.
“Dottoressa Molly Hooper. 35 anni. Qualsiasi informazione.
Qualsiasi!”
Una ripetizione ed un punto esclamativo. Sorrise.
«Sono segni rivelatori, Bill!» disse scimmiottando
la voce del
detective.
Si alzò lentamente stiracchiandosi braccia e schiena.
Arrotolò il
sacco a pelo infilandolo in uno zaino e chiuse la zip del cappotto fino
al mento.
«Al lavoro!»
John la guardava ormai da un po’. Era in cucina ad aspettare
che il
bollitore fischiasse e la guardava.
Sherrinford Holmes non era una donna che passava inosservata, quello
era ovvio. Era affascinante, con un sorriso coinvolgente e degli occhi
bellissimi ma, nonostante tutto questo, lui non riusciva a trovarla
realmente
attraente e solo in quel momento si rese conto del perché.
Vide il suo volto illuminato dalla luce del camino, il suo corpo
rigido sulla sedia nera di Sherlock, gli occhi sbarrati persi in
chissà quale
luogo o tempo e le mani a giocare distrattamente con il suo anello. Non
riusciva ad esserne attratto perché c’era qualcosa
in quella donna che lo
spaventava enormemente; non avrebbe mai saputo dire che cosa ma sapeva
che
c’era. Era la stessa sensazione che aveva provato nei
confronti di Sherlock i
primi tempi. Quel percepire che nell’animo di
quell’uomo ci fosse un passato
non risolto e malesseri interni che ribollivano incontrastati e che lo
avevano
reso quell’essere austero, rigido ed apparentemente privo di
sentimenti che
era. Ora quella medesima sensazione la provava in presenza di quella
donna ma,
la cosa ancor peggiore, è che percepiva che le sofferenze e
le delusioni di lei
fossero molto più forti di quelle di Sherlock.
Il fischio del bollitore la riscosse dai suoi pensieri portando il
suo sguardo in quello del dottore che, colto sul fatto, sorrise
imbarazzato.
Versò l’acqua nelle due tazze e andò a
passi lenti verso il salotto.
Si sedette sulla sua poltrona e dopo qualche istante portò
il suo
sguardo in quello dolce della donna.
«E’ preoccupata?»
Lei sorrise, la tazza vicino alle labbra.
«Come sempre quando si tratta di Sherlock. Lei no?»
Lui sorrise ed annuì
riposando la propria tazza sul piattino.
«Comunque…non eravamo rimasti
d’accordo di darci del tu, John?»
L’uomo la guardò arrossendo leggermente e
sorridendo divertito.
Il silenzio tornò, interrotto solo dal crepitare del fuoco.
«Tu sai chi ha rapito Molly, vero?»
La donna annuì lentamente non spostando il suo sguardo dalle
fiamme.
Il dottore si sistemò meglio sulla poltrona.
«E’ questo Norton?»
Un nuovo cenno di assenso distratto da parte di Sherry gli fece
capire che la donna era troppo presa dai suoi pensieri per prestargli
attenzione o rispondere alle sue preoccupazioni. Abbassò lo
sguardo rigirandosi
la tazza fra le mani.
«John» L’uomo alzò di scatto
la testa al richiamo di lei trovandosi i
suoi occhi indagatori a scrutarlo.
Sorrise vagamente imbarazzato.
«Che cosa prova Sherlock per la Dottoressa Hooper?»
Lui boccheggiò per qualche istante. Non sapeva se a renderlo
più a
disagio fosse il fatto di dover parlare della vita sentimentale di
Sherlock, se
così la si poteva definire, o la naturalezza con qui lei gli
aveva fatto quella
domanda.
Lo sguardo del dottore vagò per la stanza alla ricerca di
non si sa
bene quale appiglio prima di tornare ad osservare la donna con un
sorriso
agitato.
«Beh, ecco, non saprei.»
Sherry corrugò la fronte con aria dubbiosa.
«Ma…non ne avete mai parlato?»
Il dottore sbarrò gli occhi con aria spaventata scuotendo
vigorosamente la testa.
«No, no mai. Noi non parliamo di, come dire, queste
cose.»
Sherry piegò la testa da un lato.
«Quali cose? Le donne?»
John si grattò la testa ancora più imbarazzato.
«No. Cioè si anche. Nel senso, non parliamo di
sentimenti ecco.»
Dopo uno vago stupore iniziale la bella Holmes sorrise abbassando lo
sguardo sulla tazza.
«Non dovrebbe stupirmi, giusto?»
L’uomo alzò le spalle con fare rassegnato ma
divertito. Dopo qualche
istante di imbarazzo, poggiò la tazza sul tavolino alla sua
destra per poi
sfregare le mani sui pantaloni.
«Beh credo che la consideri una brava patologa.» La
donna alzò un
sopracciglio con aria sarcastica e per tutta risposta l’uomo
sorrise divertito.
«Io sinceramente non lo so. Quando si è trattato
della Donna…»
Tacque vedendo l’aria divertita sul volto di Sherry
abbandonarla per
essere sostituita da una triste e dura.
La vide alzarsi pensierosa posando la tazza sulla mensola del camino
ed iniziando a vagare per la stanza con le mani incrociate dietro la
schiena;
lasciò il mento cadere impercettibilmente a quello Sherlock
donna che vagava
per il salotto.
«Era innamorato di lei, vero?»
John deglutì a fatica stringendo le labbra.
«Credo di si. In un modo forse contorto, anormale e tutto suo
ma si,
credo di si.»
La vide continuare a vagare con aria pensierosa, le dita a sfiorare i
fogli e i giornali abbandonati sulla scrivania. Si voltò
verso il dottore
scrutandone lo sguardo.
«E l’ama ancora?»
L’uomo alzò le spalle aprendo le braccia.
Sherrinford sorrise a quella
dimostrazione di resa da parte di John all’universo di
Sherlock e prese il
violino abbandonato sulla sedia osservando il legno rovinato in alcuni
punti e
le corde tese e ben accordate.
Quando iniziò a suonare, John ebbe una strana ma non
spiacevole sensazione
di déjà-vu.
Sbatté la porta del furgone con un moto incontrollato
d’ira iniziando
a camminare avanti e indietro nervosamente. Gli occhi a cercare intorno
a sé
qualcosa, qualsiasi cosa che potesse anche solo dargli un indizio vago
da poter
seguire.
Bill, le mani nelle tasche e la bocca nascosta nella sciarpa pesante,
lo seguiva con gli occhi senza proferire parola.
Avevano passato le ultime ore a seguire tutte le possibili
segnalazioni della rete di Sherlock. In principio avevano seguito il
segnale del
GPS del cellullare della Dottoressa Hooper per poi trovarlo in un
vicolo di
Barnet, poi con le informazioni date dall’ispettore Lestrade
avevano
sguinzagliato la rete alla ricerca del furgone blu ed erano riusciti a
trovarlo
abbandonato nella campagna londinese.
Bill aveva osservato Shezza analizzare centimetro per centimetro quel
furgone senza trovare alcunché ed ora non sapeva cosa fare.
Se restare lì ad
aspettare o andarsene per la sua strada. Ormai erano fuori Londra e
sapeva che
la rete di Shezza, fatta di senzatetto e drogati come lui, non arrivava
oltre.
Le luci di una volante della polizia si fecero sempre più
vicine sino
a raggiungerli. Greg Lestrade ne uscì di corsa;
l’aria trafelata e preoccupata.
«Allora?»
Il detective lo ignorò continuando a camminare nervosamente.
Greg si
voltò verso Bill che scosse la testa sconsolato.
L’ispettore si passò le mani
nei capelli prima di portarle alla cintura. Non sapeva cosa fare e
soprattutto
cosa dire. In casi come quelli la prassi era tranquillizzare parenti e
amici
del rapito, rassicurandoli sul fatto che prima o poi i sequestratori si
sarebbero fatti vivi ma quello non era un caso “come
quelli” e Sherlock non era
un “parenti e amici”. In realtà non
avrebbe neanche saputo dire cosa fossero
Sherlock e Molly o se ci fosse un Sherlock e Molly.
Sospirò pesantemente osservando la camminata nervosa
dell’uomo.
«Si faranno sentire loro.»
Il detective continuò a camminare lanciando uno sguardo
gelido
all’ispettore sibilando un sarcastico “oh, ma
davvero?!”. Greg strinse le
labbra guardando le proprie scarpe.
«Vuoi che chiami la scientifica?»
Un nuovo sguardo tagliente del detective gli fece capire che se lui
non aveva trovato nulla figuriamoci quelli lì.
Dopo qualche istante la radio dell’auto gracchiò
parole stridule e l’ispettore
si voltò in senso di assenso al collega prima di tornare ad
osservare il
detective.
«Sherlock, io devo rientrare.»
L’uomo continuò a non prestargli attenzione per
poi fermarsi
improvvisamente dandogli le spalle. Estrasse dalla tasca il cellulare
che
vibrava. A chiamare era un numero sconosciuto.
«Sherlock» la voce dell’ispettore lo fece
voltare di tre quarti.
«Vuoi un passaggio?»
Il detective si voltò nuovamente ad osservare lo schermo del
telefono.
«No, prenderò un taxi.»
L’ispettore sgranò gli occhi.
«Da qui?!» disse indicando con le braccia
spalancate l’aperta
campagna in cui si trovavano. Si voltò guardando con aria
sconsolata Bill per
poi fargli segno di salire sul sedile posteriore.
Dopo qualche altro istante di incertezza l’ispettore
salì sull’auto
che partì rapidamente alla volta della capitale.
La campagna
londinese era tornata nel silenzio e nel buio più
completo. Sherlock inspirò pesantemente prima di far
strisciare il dito sullo
schermo del telefono.
Accostò il cellulare all’orecchio cercando di
carpire il più minimo
dettaglio che proveniva dall’altra parte ma tutto quello che
sentì fu un
silenzio interrotto da un respiro leggero.
«Si.»
Dall’altra parte dell’apparecchio
percepì una leggera incertezza ed
un vago riverbero della sua voce.
«Sherlock.»
«Pensi veramente che Molly non corra rischi?»
Sherry si immobilizzò. Il volto ancora posato sul violino e
l’archetto a mezz’aria. Dopo qualche attimo si
voltò ad osservare il dottore e
la sua espressione preoccupata.
Con lo strumento ancora fra le mani tornò a sedersi sulla
poltrona
nera inspirando profondamente.
«Si, non credo corra rischi seri. Godfrey Norton non ama
crearsi
inutili problemi e Molly gli è molto più utile
viva; è una buona merce di
scambio.»
Il dottore ingoiò sonoramente al tono calcolato e freddo di
Sherry.
Santo cielo, stava parlando della vita di Molly come di uno scambio
d’affari!
La donna ignorò la reazione del dottore continuando a
parlare più a
se stessa che a lui.
«Quello che realmente mi preoccupa è
Sherlock.»
Il dottore corrugò la fronte con aria perplessa.
«Sherlock? Perché? Ha già affrontato
situazioni simili, non vedo dove
sia il problema.»
La donna sorrise lanciandogli uno sguardo affettuoso.
«Già. Ha già affrontato situazioni
simili e sappiamo entrambi come è
andata a finire…»
John ci mise un po’ a decifrare lo sguardo ammiccante della
donna e a
ricollegare i punti fino a quando il volto di Charles Augustus Magnusen
si
delineò nella sua mente. Boccheggiò un paio di
volte prima di riuscire a
formula una frase di senso compiuto.
«E’ per questo che mi hai chiesto di Sherlock e
Molly? Pensi che lui
possa…»
La donna alzò impercettibilmente le spalle serrando le
labbra e
scrutandolo.
«Io so chi è Godfrey Norton e so come si muove.
Usa la parte umana
che ognuno ha e la manipola per i propri scopi e vantaggi. Tutti hanno
un punto
debole e lui è in grado di trovarlo. Non è facile
ingannarlo.»
Il dottore annuì con aria assente osservandola.
«Lo ha fatto anche con te?»
Il sorriso triste che occupò il volto di lei fu una risposta
più che
chiara e le dita che accarezzavano il violino una dichiarazione muta
della sua
parte umana, del suo punto debole.
Sapeva cosa si dovesse fare e cosa non si dovesse fare in quelle
situazioni. Lo sapeva, dannazione.
Freddezza ed impassibilità, questo ci voleva. Nulla di nuovo
per lui,
nulla che non fosse abituato ad avere nella vita di tutti i giorni,
nulla che
non avesse già fatto centinaia di volte in situazioni simili.
Ma questa volta non ci era riuscito.
Non era riuscito a mantenere la sua voce controllata ed indifferente.
Non era riuscito a far intervenire il suo autocontrollo a fermare la
sua
reazione istintiva ed umana. Non era riuscito a non rispondere con un
preoccupato e in qualche modo rilassato “Molly!” al
richiamo sussurrato che la
patologa gli aveva fatto pronunciando il suo nome.
Ed è lì che aveva sbagliato. Lì che si
era tradito.
Sherry gli aveva detto che non era in grado di gestire la situazione.
Sapeva che era preoccupato e che sarebbe bastato una piccola
distrazione a
farlo tradire. E così era stato.
La conversazione era stata chiusa non appena la sua voce aveva finito
di pronunciare il nome della patologa e sapeva che Norton era
interessato solo
e soltanto a quello. Voleva sapere quanto lui fosse preoccupato per
Molly
Hooper. E lui, dannazione, si era tradito come un principiante.
Non appena sentì il lento scricchiolio dei cardini della
porta
sospirò pesantemente pronunciando uno stanco e malinconico
“John” ma richiuse
le labbra in un’espressione dura quando vide Sherry far
capolino.
Sherrinford, da parte sua, lo guardò per qualche istante con
aria
imbarazzata.
Sherlock, il fidato Belfast ancora indosso, era seduto sul letto, i
gomiti poggiati sulle ginocchia e il mento appoggiato sulle dita delle
mani
incrociate. La luce dell’alba rendeva ancor più
marcata la stanchezza del suo
volto e la tensione dei muscoli.
«Gli ho detto di andare a casa a riposare un po’ e
che l’avremmo
chiamato se ci fossero state novità.»
Il detective la ignorò deliberatamente, lo sguardo a fissare
un punto
indefinito oltre il vetro opaco della finestra.
La donna entrò nella stanza chiudendo la porta dietro di
sé ed
appoggiandovisi con la schiena; gli occhi ad osservare i ghirigori del
parquet.
Dopo qualche minuto di silenzio un sospiro basso e lento la convinse
a riportare lo sguardo sul fratello che con le palpebre abbassate e la
fronte
corrugata stava nuovamente ripercorrendo gli eventi delle ore passate.
Lo vide
aprire lentamente gli occhi e portarli su di lei con aria assente.
«Mycroft?»
Scosse lentamente la testa.
«Nessuna novità.»
Lui tornò ad osservare nuovamente quel punto indefinito di
fronte a
sé. Sherry si staccò dalla porta indicando la
parte del letto vuota accanto a
lui; una sarcastica alzata di sopracciglio le fece intuire che se
proprio
voleva poteva anche sedersi.
Il letto cigolò sotto il peso della Holmes.
«Sherlock io…»
Una mano alzata bruscamente e uno sguardo torvo dell’uomo la
fecero
tacere.
«Se non è qualcosa che possa essermi utile sei
pregata di
risparmiarmi ogni scusa o critica che sia.»
La donna strinse le labbra innervosita dal suo tono astioso. Si
alzò
di scatto parandosi di fronte a lui e nascondendolo alla luce aranciata
del
primo sole.
«Mi ha contatta Godfrey.»
Il detective alzò uno sguardo duro ed ansioso sul volto
inespressivo
di lei.
«Che cosa?!»
Sherry arcuò un sopracciglio redarguendolo e
l’uomo capì quanto il
suo tono di voce dovesse risultare alterato e preoccupato. La donna
mosse la
testa sconsolata prima di tornare ad appoggiarsi allo stipite della
porta con
le braccia incrociate sul petto. Il repentino ritorno della luce
mattutina sul
suo volto lo costrinse a socchiudere gli occhi per
un istante portandolo a difendersi con una
mano da quell’assalto improvviso.
«Ha detto che si farà risentire fra una settimana
e che se vuoi
rivedere la tua Molly sana e salva
dovrai rimanerne fuori.»
L’uomo si alzò di scatto fulminandola con lo
sguardo ma lei non gli
diede tempo di rispondere parandoglisi davanti.
«Pensavi veramente che non se ne sarebbe accorto?! Dannazione
Sherlock eppure dovresti saperlo! Godfrey non è uno sciocco,
non è un qualcuno
con cui poter giocare al gatto col topo. Ti avevo detto che non eri in
grado di
occupartene ma tu hai voluto fare di testa tua come al solito ed ora
Godfrey…»
«Smettila!»
Il volto irato e il tono graffiato della voce quasi la spaventarono.
Guardò il fratello con aria preoccupata.
«Non chiamarlo così! Lui non è, non
è…»
«Non è cosa?!»
Questa volta toccò a lei urlare. Gli si avvicinò
con aria dura e gli
occhi sbarrati.
«Cosa c’è?! Non va bene che lo chiami
per nome? Dovrei forse ignorare
cosa c’è stato fra noi in passato? Dargli un
vezzeggiativo che lo rinchiuda in
un ricordo romantico come hai fatto tu con la Adler?»
Le ciglia di Sherlock ebbero un fremito ma le sue labbra non si
mossero.
«No Sherlock, non lo farò. Non
modificherò un passato per cancellarlo
o renderlo irreale. Lui era, è e sarà sempre
Godfrey per me.» Dopo un ampio
respiro il tono della donna prese un che di più dolce e
consolatorio. «Non
voglio modificare il mio ricordo di lui, voglio mantenerlo vivo nella
mia mente
così da sapere sempre e comunque perché ora la mia vita è così.
Perché ora la nostra
vita è così.»
L’uomo fece vagare lo sguardo prima di regalarle
l’ombra di un
sorriso che lei accolse con uno sguardo dolce.
Lui si lasciò ricadere sul letto guardandola pensieroso.
«Sherry» Lei sorrise a quel tono di voce che le
ricordava anni
passati e momenti sereni. «Sherry cosa ha a che fare Norton
con questa storia?»
La donna sgranò impercettibilmente gli occhi prima di
serrarli con
violenza. Strinse le braccia intorno a sé per cercare un
conforto o un appiglio
che la tranquillizzasse.
Dopo qualche istante si sedette accanto al fratello con aria seria e
decisa.
«Ti ricordi quando abbiamo saputo che Godfrey era riuscito ad
evadere?»
L’uomo annuì con decisione, la mente a ricomporre
il ricordo.
Il
rumore di un auto che si fermava di fronte casa aveva riscosso
entrambi. Si
erano guardati con aria
interrogativa poi lui si era alzato e, dopo aver dato
un’occhiata fugace fuori
dalla finestra, era uscito dalla porta. Mycroft aveva appena richiuso
il
cancello dietro di sé ed il suo volto non preannunciava
nulla di buono.
«Che
succede?»
Aveva
visto negli occhi del fratello maggiore un’espressione che
ormai non vedeva più
da anni.
«Norton…»
A quel nome il suo corpo aveva reagito irrigidendosi. «Non si
sa bene come ma la
scorsa notte è riuscito ad evadere.»
In
quel momento le domande e le ipotesi più disparate si erano
formate nella sua
mente ma bisognava essere pratici.
«Cosa
pensi di fare?»
«Per
prima cosa voglio portare Sherrinford in un luogo sicuro e lontano da
mamma e
papà.»
Lui
aveva annuito con convinzione precedendolo verso casa.
Quell’uomo avrebbe
potuto fare qualsiasi cosa per vendicarsi di lei e, soprattutto, era in
grado
di farlo.
Aprì
la porta con decisione lanciando uno sguardo rapido a Molly che, con
aria
preoccupata, lo scrutava sperando di avere qualche delucidazione o
chiarimento.
Gli dispiaceva ignorarla ma non aveva alternativa.
Aveva
salito rapidamente le scale per poi arrivare in camera sua e svegliare
la sorella
con decisamente poca dolcezza.
Aveva
visto gli occhi di Sherry vagare per la stanza prima di riuscire a
focalizzare
il suo volto che, a giudicare dallo sguardo allarmato che lei gli aveva
lanciato, non doveva essere dei più rassicuranti.
«Norton…»
La perdita di colore delle guance di Sherry gli avevano fatto
comprendere che
era completamente sveglia e attenta.
«…è evaso questa notte. Mycroft
è di
sotto, vuole portarti in un posto sicuro.»
L’aveva
osservata alzarsi lentamente e sedersi sul bordo del letto. Le mani fra
i
capelli e gli occhi sbarrati.
«No,
non è possibile. Come ci è riuscito? E’
impossibile, impossibile.»
Forse
avrebbe dovuto consolarla o tranquillizzarla ma non si sentiva in grado
di
farlo. Aveva tossito leggermente per attirare la sua attenzione.
«Sherry,
devi andare.»
La
donna, dopo un attimo di smarrimento, si era alzata rivestendosi
rapidamente
per poi precipitarsi fuori dalla porta e giù per le scale.
Si
era istintivamente mosso per seguirla ma le connessioni mentali che
quel nome
aveva attivato nel suo cervello lo avevano fermato per qualche istante.
Il suo
palazzo mentale aveva vacillato di fronte a tutte le immagini, i suoni
e le
sensazioni che riemergevano da ogni angolo. La lontananza di Sherry, il
non
poterla sentire, la speranza di sua madre ad ogni singolo squillo del
telefono,
l’aria assente di suo padre quando guardava fuori dalla
finestra, lo sguardo
malinconico e triste di Mycroft seduto di fronte al camino e
soprattutto il
ricordo di Sherry quando l’avevano trovata. Il suo corpo
tremolante per la
febbre e l’ira rannicchiato in un angolo, la sua pelle resa
una sottile pellicola
a ricoprire le ossa ormai marcate dalla mancanza di cibo, i suoi
capelli un
groviglio sporco e appiccicoso e i suoi occhi. I dolci occhi di Sherry
ridotti
a due macchie scure circondate dalla pelle rossa e scavata del viso.
Aveva
inspirato profondamente imponendosi di ritornare al presente.
Non
appena entrato in salotto la voce sarcastica di Mycroft
l’aveva raggiunto.
«Prova
a chiederlo a Sherlock, sorellina.»
Lui
l’aveva osservato con aria spersa prima di incrociare lo
sguardo indagatore
della sorella.
«Sherlock…devi
dirci qualcosa?»
Non
capiva, di che cosa stavano parlando? Di che cosa lo stavano accusando?
La
voce alta e perentoria di Mycroft aveva bloccato le sue domande.
«Grazie
per il caffè Miss Hooper!»*
Sbattè
le palpebre un paio di volte prima di tornare ad osservare la
sorella seduta di fianco a lui. La sua mente stava ricomponendo pezzi
che lui
avrebbe preferito tenere lontani e separati.
«Quando mi avete chiesto se dovevo dirvi
qualcosa…parlavate di lei?»
Sherry scrutò il volto del fratello per qualche istante
prima di
decidersi a parlare.
«In principio, quando dissi a Mycroft di affidarti la
questione Adler,
non mi ricordavo di lei. Ho osservato il suo volto così
tante volte con la
netta sensazione di averla già vista ma non riuscivo mai a ricordarmi dove o in quale
circostanza
l’avessi incontrata. Fu solo dopo che Mike ti aveva mandato
da lei che
ricevetti una file con le connessioni facciali fra Irene Adler e gli
archivi
secretati di varie organizzazioni. Non l’avevo riconosciuta
perché quando la
incontrai la prima volta era molto giovane e decisamente
diversa…Era con me e
Godfrey in Kossovo. Era una semplice staffetta con un viso decisamente
grazioso
ma nulla di più. O per lo meno questo era ciò che
credevo.» Inspirò prima di
continuare. Il volto di Sherlock era una maschera immobile assetata
delle sue
parole. «Con l’andare degli anni, quando io e
Godfrey eravamo ormai fuori dai
giochi, lei ha iniziato la sua scalata sociale, se così si
può dire. Ha
iniziato a raccogliere foto, informazioni e segreti compromettenti ma
soprattutto continuava a restare in contatto con lui. Ogni settimana
una
persona diversa andava da Godfrey nella mezz’ora di visita
consentita ed ogni
volta quella persona spariva nel nulla, come volatilizzata.»
Non riuscendo più a sostenere lo sguardo del fratello Sherry
si alzò
appoggiandosi alla finestra e dandogli le spalle.
«Quando Mike mi disse del ritrovamento del suo cadavere gli
credetti.
Si era sbagliato una volta, non era possibile accadesse di nuovo. Per
me la
questione Adler era un affare chiuso che non necessitava più
della mia
attenzione ma ho sbagliato.»
Si voltò verso il fratello. Gli occhi velati dalle lacrime
che però
non osavano scendere a bagnare il volto della donna, le mani a
torturarsi fra
loro.
«Ho sbagliato pensando che quella donna per te fosse solo un
gioco
mentale come un altro. Ti ho fatto il torto di crederti inamovibile e
duro, di
non essere in grado di innamorarti e mi dispiace per questo Sherlock,
veramente.»
L’uomo, che fino a quel momento aveva tenuto lo sguardo
basso, alzò
il volto per scrutare quello di lei. Si alzò lentamente
andandole incontro.
«Sherrinford, cosa stai cercando di dirmi?»
Un singhiozzo sfuggì dalle labbra di lei. Tirò su
col naso, gli occhi
bassi per non incontrare quelli del fratello.
«Sherry.»
La donna non riuscì a resistere a quel tono triste ed al
contempo
rincuorante di lui ed alzò gli occhi arrossati.
«Quando ho detto a Mike di toglierti il caso l’ho
fatto non solo per
il volo bond ma anche perché avevo scoperto degli strani
movimenti nei conti
bancari di Irene e…e…»
Dovette tornare a sedersi sul letto per riuscire a parlargli. Dovette
guardare per terra per riuscire a non vederlo. Inspirò
profondamente.
«Godfrey ed Irene si sono sposati poco prima
dell’arresto di lui. Lei
è stato il suo occhio e il suo orecchio sul mondo; ne ha
gestito le finanze e
ha fatto rispettare i suoi ordini. Non siamo stati noi a trovare Irene,
è lui
che ce l’ha buttata fra le braccia. Voleva che sapessimo che
aveva delle informazioni
riguardanti il volo, tuttavia sapeva che io e Mike eravamo troppo
occupati per
gestire quella che sembrava solo una minaccia latente. Sapeva che io
l’avrei
affidata a te: a chi far smascherare una donna come quella se non a chi
più di
tutti rinnega sensazioni e sentimenti. E lì ho sbagliato, li
ti ho fatto il
primo toro. Pensavo che tu non potessi cadere al gioco a cui lei ti
stava
sfidando, un qualsiasi altro uomo si ma tu…tu non avresti
ceduto al suo
fascino, tu non provavi quelle emozioni, quei desideri. Ed ho
continuato a
pensarla così, a pensare che quella fosse solo
un’infatuazione dovuta al suo
gioco sensuale, certo, ma soprattutto celebrale. Quando poi Mike mi ha
detto
che la cosa si era risolta ho pensato che ti sarebbe passata, che non
era stato
che un momento.»
Tirò su con il naso, le dita a togliere le lacrime che
continuavano a
caderle sulle guance.
«Anche quando Mike mi ha detto che avevi voluto tenere il suo
cellulare ero convinta che fosse qualcosa di passeggero ma quando poi,
la
vigilia di Natale, l’ho trovato in quel cassetto ho capito
che non era così.
Erano ormai passati anni e tu tenevi ancora quell’oggetto:
perché? Invece di
pensare che fosse un ricordo sentimentale, come chiunque altra persona
tiene e
nasconde per sé, ho pensato che ci fosse qualcosa sotto, che
nascondessi
qualcosa e per un attimo ho temuto che quella donna fosse ancora viva,
che in
qualche modo gravitasse ancora intorno a te. Quando poi Mike
è venuto a dirci
dell’evasione di Godfrey ho unito i puntini. Quella donna era
ancora viva ed
era stata lei ad aiutare Godfrey, non c’era altra
spiegazione. A Godfrey
serviva che per me e Mike lei fosse morta così da non
inserirla nel gioco delle
supposizioni di chi potesse aiutarlo a fuggire e come ottenere
ciò se non
usando te contro di noi?! L’ha gettata fra le tue braccia
sapendo che, come me,
non avresti saputo resistere a qualcuno di così simile ed
incompreso come noi e
così facendo sarebbe stato certo che tu l’avresti
difesa anche contro di noi,
come io avevo difeso lui contro te e Mike a suo tempo.»
Respirò profondamente. Si sentiva leggera ma sapeva che
quella
percezione di asfissia, oppressione e pesantezza che fino a quel
momento
l’aveva accompagnata non era semplicemente sparita, era
andata a depositarsi
nel cuore e nel corpo di Sherlock.
Alzò lentamente la testa per cercare gli occhi di lui, per
capire
cosa potesse fare per aiutarlo a gestire tutto quello e cercare di
riprendersi
in qualche modo parte di quel fardello ma non li trovò. Gli
occhi di Sherlock
erano immersi in un punto indefinito di fronte a lui, erano vuoti ed
assenti
come se nulla delle parole di lei lo riguardassero.
Lo chiamò con voce quasi tremante, spaventata da
quell’assenza di
reazioni e sensazioni.
Lui sbattè le palpebre spostando il volto per portare il suo
sguardo
in quello di lei.
«Molly.»
La donna corrugò la fronte con aria spaesata.
«Come?»
Sherlock continuò a guardarla con aria assente ma vagamente
innervosita.
«Molly, perché hai dato il telefono a
Molly?»
La Holmes boccheggiò un paio di volte per
l’inaspettata domanda.
«Beh, ecco, mi è sembrata una ragazza affidabile e
ero abbastanza
certa che non fosse entrata in contatto con Irene per cui non credevo
potessero
ricollegarla in qualche modo a…»
L’uomo annuì.
«Ho capito.»
Poi senza degnarla di un saluto o di un qualche segnale di reazione
al suo discorso aprì la porta della stanza per dirigersi a
passo deciso verso
le scale.
Prima che Sherry riuscisse a capire che se ne stava andando la porta
del 221b di Baker Street si era chiusa dietro Sherlock Holmes.
Note
autore:
* E’ un
adattamento di un pezzo dell’ultimo capitolo di
“The third brother”. Spero che
così il tutto sia più chiaro. ^^
Che
dire? Sono ad un passo da Beautiful? Probabile, anzi sicuro! Spero per
lo meno
di aver chiarito un po’ di cose e di poter proseguire con
più tranquillità in
futuro.
Mi
dispiace veramente di farvi aspettare ogni volta così tanto
ma sto faticando
molto a rendere il tutto vagamente realistico e coerente con i
personaggi
originali ma ormai è un’impresa quasi impossibile.
Come
sempre, a presto, e grazie per essere arrivate/i fino a qui!
Anne ^^
|
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Capitolo 7 *** Inspira ed espira ***
L'errore di Sherrinford Holmes 7
Nota autore: Nuovamente salve a tutte/i!
^^
Devo,
questa volta più che mai, ringraziarvi per le recensioni.
Non sono stati
semplici commenti ma vere e proprie analisi, interpretazioni, visioni e
condivisioni di pensieri e sensazioni ed adoro che ci sia questo
scambio fra
noi. Quindi: mille volte grazie!
Ed
ora veniamo al capitolo. Credo che definirlo strano sia riduttivo ma
non ho
potuto trattenermi dal scriverlo. E’ un insieme forse
illogico di “sentimenti”,
di quel non detto che spesso c’è anche nella serie
vera e propria e che ho
voluto descrivere per far percepire meglio il tutto. E’
venuto fuori un po’ da
solo e si è andato rafforzando grazie a stimoli esterni
(canzoni, poesie e
disegni come potrete vedere sin da subito) che mi sono magicamente
capitati fra
le mani proprio quando non li cercavo.
Spero
veramente che vi piaccia e che non vi sembri un riempitivo inutile e
contorto.
Aspetto
con ansia il vostro giudizio e le vostre critiche, mi raccomando le
critiche!!
A
presto,
Anne
^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
Possibile che non abbia mai
ingoiato nessuno quella sciarpa,
la tieni così alta
ma come fai a respirare?
Lo dicono anche a me che mi addormento con la coperta fin sopra i
capelli,
fin sopra ai pensieri
eppure non ti smetto ancora di sognare.
(Lo stato sociale – Seggiovia sull’oceano) *
Nella mia testa
c’è
sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho
portato dei fiori
quante volte
l’ho difesa dai mostri.
Adesso ci abito io
e i mostri sono
entrati con me.
(Michele Mari
– Cento poesie d’amore a Ladyhawke) *
Inspira ed espira.
«No,
no certo. Si, va bene. Ti faccio sapere se dovesse farsi vivo.
Senti, lo so che è assurdo, ma avete provato a cercare
dietro il Big B…mh…si,
no ma infatti. Va bene, a dopo, si.»
Mary osservava il marito vagare per la stanza con passo militare. Era
palesemente nervoso. I muscoli del volto erano contratti, gli occhi
semi
sbarrati e la fronte corrugata, il resto del corpo era rigido e teso.
Quando lo vide chiudere la conversazione e sedersi sul divano con
aria preoccupata e pensierosa, decise di avvicinarsi.
Lui alzò lo sguardo per incontrare il suo e lei gli rispose
con un
sorriso accennato. Gli si sedette affianco poggiandogli una mano sul
ginocchio.
«Novità?»
Dopo un primo momento di esitazione lui respirò
profondamente
lasciandosi andare sullo schienale e intrecciando le dita della mano
con quelle
di lei.
«No, non si sa dove sia finito. Il cellulare è
spento per cui non
riescono a rintracciarlo neanche con il gps.»
Marry annuì lentamente osservando le loro dita incrociate.
Riportò
gli occhi sul volto del marito.
«Pensi stia bene?»
Strinse le labbra inspirando forte dal naso.
«Non lo so…Mi preoccupa che non abbia avuto alcun
tipo di reazione di
fronte alle parole di Sherry. E’ un comportamento anomalo
persino per lui.»
La donna alzò un sopracciglio con aria dubbiosa.
«Ne sei certo?»
Lui la guardò con rassegnazione prima di alzare ed abbassare
le
spalle.
«No! La verità è che non so cosa gli
stia passando per la testa e il
fatto che sia sparito con Molly
che…insomma…» Mary mise anche
l’altra mano a
coprire quella del marito cercando di dargli ancora maggiore conforto
ma
sapendo perfettamente che i timori dell’uomo non erano
infondati.
Passarono alcuni minuti di silenzio poi, improvvisamente, John Watson
si alzò con un moto repentino, allarmando la moglie.
«John! Che c’è?»
L’uomo si diresse a passi rapidi verso la porta
d’ingresso. Afferrò
il cappotto per poi tornare indietro verso di lei, darle un bacio sulla
fronte
e riavviarsi verso l’uscio.
«Forse so dov’è! Ti chiamo
dopo!»
Mary, la bocca semiaperta ed un’espressione sorpresa ancora
in volto,
rimase ad osservare la porta di casa da cui era appena fuggito suo
marito.
Il pianto della bambina la riportò alla realtà.
Strinse le labbra
innervosita avviandosi verso il piano di sopra.
«Grazie infinite, John!»
Inspira ed espira. Non iperventilare, sarebbe solo peggio. Forza.
Dentro l’aria e poi fuori. Bene, di nuovo. Inspira dal naso,
senti l’aria
riempire i polmoni, aspetta qualche secondo e poi fuori dalla bocca.
Perfetto,
ancora. Ok, ed ora, apri gli occhi e togli la mano dal petto tanto
ormai il
battito ed il respiro sono di nuovo regolari.
Rifletti! Dove sei? Che ore sono? Che giorno è? No, troppo
in fretta.
Con calma.
Ricostruisci il tutto. Allora.
Sei uscita da casa di Sherlock quasi correndo, rendendoti conto di
esserti dimenticata la sciarpa non appena il vento ti ha sferzato il
volto. Hai
rallentato leggermente, per una frazione di secondo hai pensato di
rientrare a
prenderla ma poi hai accelerato nuovamente. Hai nascosto il viso nel
bavero del
cappotto ed infilato le mani nelle tasche, tutto per illuderti che
quella
sciarpa non era necessaria, ed hai sentito la morbidezza dei petali
sfiorare i
tuoi polpastrelli. Lentamente l’hai tirato fuori dalla tasca,
osservandolo,
studiandolo e senza rendertene conto ti sei fermata. E’ stato
lì che ti sei
sentita strattonare per il braccio, giusto? E perché non sei
fuggita? Perché
non hai urlato? Ah, già. Come una sciocca avevi pensato
fosse lui. Ma si può
sapere come ti è passata per la testa una cosa del genere?!
Dannazione, dovresti
aver imparato ormai, non credi? Comunque, stai divagando, dicevamo, ti
sei
sentita strattonare, ti sei voltata con aria assente ed hai visto
quell’uomo.
Quell’uomo con quegli occhi scuri. Gli stessi occhi che avevi
visto uscire da
casa tua per poi scappare giù per la rampa di scale. In quel
momento hai
realizzato il tutto, è lì che
l’adrenalina ha iniziato a salire ed hai cercato
di urlare prima che la mano di lui ti tappasse la bocca. L’ha
premuta talmente
forte da farti avere la sensazione di non respirare, però
hai cercato comunque
di fuggire. Sherlock era lì vicino, se fossi riuscita a
fuggire, se fossi
riuscita ad urlare lui sarebbe venuto!...Ne sei sicura?...Ma si certo!
D’accordo
forse dopo quello che hai fatto non…Ti stai deconcentrando
di nuovo, smettila!
Hai tentato di divincolarti e quasi sei riuscita a fargli perdere
l’equilibrio
ma lui ti ha trascinata con sé facendoti sbattere la fronte
su quella macchina.
Ecco il perché di questo mal di testa atroce, ecco il
perché della fasciatura
che lui ti ha indicato e che non ti
eri resa conto di avere! Hai sbattuto la fronte forte, molto forte. E
poi? Poi ti
sei sentita trascinare fin dentro ad un veicolo. Un furgone? Forse. Ti
hanno
lasciata sdraiata sul pavimento gelido e sono rapidamente partiti. E
dopo? Cos’è
successo dopo? Non lo ricordi vero? Sono più che altro
immagini distorte e
confuse. I due uomini che si muovevano con fare concitato, parlavano ma
non
riuscivi a capirli. Stranieri, si ma di dove? Una lingua
dell’est Europa,
si, ma diversa. Non riuscivi a
muoverti. Ora ricordi! La sensazione del sangue denso che scende dalla
fronte
giù sino alla guancia, lento, lentissimo. La tua mano che
cerca di fermarlo e
poi…il buio. Sei svenuta? Si, sei svenuta sicuramente
perché i ricordi
successivi non sono più in quel furgone. Sei sdraiata sul
sedile posteriore di
una macchina di lusso. I sedili sono in pelle chiara e qualcuno urla
che sarà
un inferno riuscire a pulirli, urla ai due uomini che sono degli
incompetenti.
Nuovamente un buco. Ed arriviamo a poco fa. Ti sei svegliata su questo
divano,
un mal di testa atroce e la bocca secca. Ti sei alzata a fatica
mettendoti a
sedere ed hai scrutato in giro. Una stanza grande, arredata con un
barocco
quasi eccessivo, le imposte chiuse a renderla completamente buia al di
fuori
dei pochi metri che la luce del camino riesce ad illuminare e scaldare.
E’ una
stanza fredda, incredibilmente fredda.
Bene, ora che è tutto chiaro, riesci a rispondere alla tua
domanda?
No! Non lo so dove sono, non ne ho la più pallida idea!
Fantastico!
Proviamo con le altre…che ora sono? Che giorno è?
Come faccio a capirlo?! Non riesco a vedere nulla oltre quelle
dannate imposte. Però lui
ha detto
“Buonanotte Dottoressa Hooper” per cui deve essere
sera. Si, ma di quale
giorno? E’ possibile che abbia dormito per giorni? Oh Dio,
non lo so.
E adesso? Adesso che faccio?
Perché sei qui? Senso di colpa? No, altamente improbabile.
Allora
perché?
Indizi? Tracce? Osservare e non semplicemente guar...? Oh, ma per
l’amor del cielo, smettila!
Avanti, su: Mind Palace! Inspira ed espira e…lo sapevo, non
dovevi
sdraiarti! Sapevi di non doverlo fare. Adesso il suo odore ti
distrarrà dal tuo
lavoro. No, non è un buon odore, è un odore come
tanti. Lo reputi buono solo
perché lo conosci e lo colleghi a lei, per cui è
buono. Tutto qui. Fosse stato
quello di John avresti detto familiare, quello di Mary rassicurante,
quello di
Mycroft aspro, quello di Irene seducen…Sherry! No, non ora.
Non è questo il
momento di pensare a Sherry. Avresti dovuto dirle qualcosa? Si, avresti
dovuto.
Ma che cosa? Non le hai detto nulla perché non sapevi cosa
dirle, e non sapevi
cosa dirle perché non sapevi cosa provare.
Cos’era? Delusione, rammarico,
tristezza, dolore: che cos’era quello che provavi? In
principio, dolore, si,
dolore. Non ti saresti aspettato quello vero? Pensavi che Irene ormai
fosse lì,
ferma dietro una porta chiusa. Immobile ed inalterata per sempre. Nulla
l’avrebbe scalfita. Ed invece…e poi? Poi cosa
è stato? Tristezza? Si ma non per
te. No, no, era tristezza per Sherry. Per Sherry che ti raccontava
tutta quella
storia con il dolore negli occhi per quello che tu avresti provato e
non per
quello che lei aveva provato. Perché si, anche lei ci era
passata! Lei l’aveva
scoperta tutta quella storia, lei era venuta a sapere che
quell’uomo, quell’uomo
di cui ancora pronuncia il nome con una nota nascosta di amore nella
voce,
quell’uomo l’aveva abbandonata ben prima che il
loro essere insieme finisse
travolto dalla violenza.
Ora basta! Non è il momento. Mind palace, avanti, costruisci!
Struttura, ricrea la struttura e vai avanti. Cerca.
Godfrey
Norton. **
Data
di
nascita: 21 settembre 1972
Genitori:
Njord Norton (norvegese, 1945-1977) e Shadi [cognome non pervenuto]
(inglese,
-1977)
Luogo
di
nascita: Pristina
Permanenza
in
orfanotrofio: 1977-1987
Permanenza
in
riformatorio: 1987-1989 (denuncia di scomparsa: approfondisci)
Negli
archivi
di:
BIA (dal
1991: approfondisci )
KGB (dal
1991: approfondisci)
INTERPOL (dal
1992: approfondisci)
MI6 (dal
1992: approfondisci)
FBI (dal
1992: approfondisci)
CIA (dal
1992: approfondisci)
Accuse
a suo
carico:
Alto
tradimento
Commercio
illegale di: armi, droga, esseri umani
Terrorismo
Mandante di:
47 omicidi, 68 sequestri, 237 attentati
Correlazioni
rilevanti:
Mostof
Avidue
(accuse a suo carico, condanne: : approfondisci)
Sherrinford
Holmes (accuse a suo carico, condanne: approfondisci)
Non
deconcentrarti, forza. Aggiorna le informazioni e prosegui. Stai
perdendo tempo inutile.
Correlazioni
rilevanti:
Mostof
Avidue
(accuse a suo carico, condanne: : approfondisci)
Sherrinford
Holmes (accuse a suo carico, condanne: approfondisci)
Irene
Adler
(accuse a suo carico, condanne: approfondisci)
Molly
Hooper
(approfondisci)
Si, è
vero, stona. Lei stona in tutto questo ma c’è. Per
colpa tua?
Beh, anche, si ma…no, non approfondire! Lo sai che non
è ben schematizzata
e…Si, si è sempre stata una bella stanza la sua
ma troppo caotica. Non ti sei
mai messo a riordinarla, hai sempre solo accumulato nozioni ed
informazioni, e
non ci entri quasi mai. Tutti quei sorrisi, ad esempio, non hanno un
senso.
Dovresti eliminarne qualcuno, no?! Ok, va bene, no. E suppongo non si
possano
neanche sfoltire gli sguardi, gli arricciamenti di labbra, i movimenti
dei
capelli, i movimenti nervosi delle mani, i toni di voce, le 45, oh mio
Dio, 45
differenti tipologie di risata, vero? Già, lo sospettavo. E
non trovi sia un
po’ egocentrico mantenere tutte quelle differenti
tonalità di “Sherlock” della
sua voce?! …Non pensavi fosse così piena, vero?
Beh, in fin dei conti, sono
anni che accumuli. E’ iniziato tutto con quella foto,
ricordi? Quella con tutti
quegli apprendisti intorno, quella che hai modificato eliminandoli e
mantenendo
lei, ti ricordi? E…aspetta un momento!…cosa ci fa
lui qui?! Lui non dovrebbe
essere qui! Si, si, lei Moriarty lo ha conosciuto ma lui non era stato
messo
qui e neanche la Donna o Norton o Magnussen o…ma che sta
succedendo?! Perché
sono qui? Loro dovrebbero stare con te! Loro dovrebbero stare nella tua
stanza,
non qui! Perché sono qui? No, non puoi trasferirti qui.
L’hai difesa per così
tanti anni, non puoi cedere così. Avanti, devi uscire, devi
portarli via con
te. Non puoi lasciarli qui, non puoi….distruggeranno
tutto…
Era ormai sveglia da qualche minuto, ed aveva finito di perlustrare
la stanza con lo sguardo, quando il rumore di una chiave girata nella
toppa
attirò la sua attenzione.
Godfrey Norton entrò sinuosamente nella stanza preceduto dai
medesimi
uomini che l’avevano scortato la notte precedente. Le rivolse
un sorriso
affabile e si avvicinò a passi lenti fino al camino; mosse
la leva che regolava
la cappa e il fuoco si ravvivò illuminando maggiormente la
stanza.
«Così va meglio, non crede?»
La patologa lo seguì con lo sguardo mentre, slacciato il
bottone
della giacca, l’uomo si sedeva sul divano di fronte al suo
accavallando con
naturalezza le gambe.
«Non si potrebbe accendere la luce?»
Il sorriso falsamente affettuoso dell’uomo le fece capire che
no, non
si poteva. Ma perché no? Le imposte erano chiuse e le tende
pesanti tirate. Ma
allora perché? Forse…
L’uomo aprì il proprio sorriso accennato attirando
l’attenzione della
patologa e fermando il suo ragionamento non espresso.
«Esattamente Dottoressa Hooper. Lei è
un’ospite clandestina e credo
sia meglio, non solo per me ma anche per la sua stessa sicurezza, che
rimanga
tale.»
Molly chiuse le labbra che erano rimaste semiaperte durante il suo
ragionamento.
«Suppongo le faccia male.»
La donna aggrottò le sopracciglia e l’uomo
alzò un dito ad indicare
la sua fronte. Istintivamente le mani di lei andarono a coprire il
punto
indicato percependo la grinzosità della garza. Si
voltò ad osservare il suo
riflesso in uno specchio inclinato che sovrastava il camino.
«Nikolai.»
Un uomo le si avvicinò con fare militaresco posando una
piccola
pillola bianca ed un bicchiere d’acqua sul tavolino di fianco
a lei. Molly si
voltò verso Norton con aria assente.
«Non si preoccupi, è solo un
analgesico.»
Gli occhi di lei andarono ad osservare il bicchiere e la pillola.
Dopo qualche istante di esitazione mise la pillola fra le labbra e
bevve un
sorso d’acqua. L’uomo le sorrise.
«Devo scusarmi con lei Dottoressa. In primis per
l’incompetenza dei
miei sottoposti; avrebbero dovuto sedarla così da non farla
spaventare e
provocarsi quel taglio.» Molly ingoiò nervosamente
l’aria.« Inoltre temo
rimarrà la cicatrice…ho decisamente perso la mano
che avevo un tempo!»
La donna sbarrò leggermente gli occhi al fare quasi
goliardico di
lui.
«Lei era, cioè, è un medico?»
La risata piena, bassa e sensuale dell’uomo le invase le
orecchie.
«No, Dottoressa. Assolutamente no. Ma ciò che ho
affrontato nella
vita mi ha imposto di imparare determinate nozioni. Se si vuol
sopravvivere
dove ho vissuto io bisogna essere in grado di ricucire e ricucirsi
molto più di
semplici graffi.»
La patologa si rannicchiò nelle spalle allo sguardo profondo
dell’uomo ma ebbe un brivido a riconoscere in quegli occhi la
stessa
espressione cupa e dura che tante volte aveva visto in quelli di
Sherry. Quanto
può cambiare un essere umano a seconda di dove le sue scelte
lo portano? Quanto
lo sguardo di lui e quello di lei avrebbero potuto essere diversi in un
mondo
in cui avessero fatto scelte diverse ed affrontato sfide differenti?
Scosse leggermente la testa per poi riportare lo sguardo su di lui.
«Perché sono qui?»
L’uomo le lanciò un sorriso rigido che la
spaventò.
«Il cellulare, Dottoressa Hooper. Quello che Sherry mi ha
dato è un
falso e nonostante adori giocare con lei…» Molly
si ritrovò ad arrossire
imbarazzata al tono che aveva usato per quelle ultime parole.
«…non ho tempo da
perdere.»
«Ma io non ce l’ho!»
Lui si alzò avvicinandosi ad uno dei suoi accompagnatori.
«Ne sono consapevole ma credo possa aiutarmi ad
averlo.»
Molly corrugò la fronte quando vide l’uomo che
rispondeva al nome di Nikolai,
consegnare un oggetto scuro a Norton.
«Che cosa intende dire?»
Le si riavvicinò posando un telefono di fianco al bicchiere
d’acqua.
«Deve semplicemente fare una telefonata.»
Alzò uno sguardo dubbioso sul volto dell’uomo.
«A chi?»
Un ghigno indecifrabile si fece largo sul volto di lui.
«A Sherlock Holmes.»
Le mani della patologa, che fino a quel momento avevano torturato i
lembi del maglione, si bloccarono per poi stringersi intorno alla
stoffa con
innaturale forza.
«Perché?»
L’uomo alzò le sopracciglia per una frazione di
secondo a quel tono
quasi minaccioso ma poi si ritrovò a sorridere.
«Voglio solo che sappia che lei è viva e sta bene,
nulla di più.»
La patologa fece vagare lo sguardo per la stanza prima di riportarlo
su Norton.
«E se non volessi farlo?»
Lo sguardo vitreo dell’uomo la fece rinchiudere nelle spalle.
«La mia non era una richiesta, Dottoressa.»
Aprì lentamente gli occhi stupendosi di trovare il buio
intorno a sé.
Scrutò la stanza con espressione vuota prima di
riposizionarsi supino ad
osservare il soffitto. Nel muoversi le sue dita si scontrarono con un
tessuto morbido
differente da quello della trapunta sotto di lui.
Sospirò mentre le sue dita lunghe finivano di estrarre la
sciarpa di Molly
Hooper dalla tasca del Belfast. L’alzò leggermente
così da poterla osservare
senza sollevare la testa dal cuscino; arcuò un sopracciglio
con fare
sarcastico. Oggettivamente, quella sciarpa era orribile. La maglia era
ormai
rovinata, molti fili erano usciti dai vari intrecci e soprattutto era
troppo
colorata, troppo pesante, troppo lunga. Ogni volta si domandava come
Molly
potesse portarla così alta intorno al volto, gli aveva
sempre dato un senso di
soffocamento.
Le connessioni della sua mente, all’improvviso, iniziarono a
muoversi
facendo riaffiorare un ricordo passato, un ricordo custodito ma
ignorato, un
ricordo che avrebbe potuto tranquillamente definire inutile.
Era il
ricordo di sé stesso, adolescente,
circondato da un buio compatto e da un silenzio ovattato. Era lui
immerso sotto
le coperte pesanti di un novembre troppo freddo. Era lui sereno,
rassicurato e
vuoto di tutti i pensieri che, normalmente, gravitavano senza controllo
nella
sua mente. Era lì quando un mano leggera aveva iniziato a
scoprirlo lasciandolo
indifeso ad un improbabile sole invernale.
«Oh mio Dio, Sherlock! Come fai a
dormire così? Non ti senti soffocare?»
Nonostante i suoi occhi fossero
ancora incapaci di vederla a causa del brusco cambiamento di
luminosità, non
aveva avuto difficoltà a riconoscere il tono cristallino e
divertito di Sherry.
Aveva semplicemente grugnito
innervosito a quel brusco risveglio voltandosi dall’altra
parte. Nonostante
questo, Sherry non si era arresa finendo di scoprirlo e piegandosi fino
ad
appoggiare il proprio mento sulla sua spalla, un dito ad arrotolare un
riccio
di lui..
«Cosa c’è che non va?»
Era rimasto in silenzio, lasciandola
giocare con i suoi capelli.
«Non puoi nasconderti al mondo,
Sherlock.»
Aveva aperto gli occhi di scatto
a quella voce maschile. Mycroft era appoggiato allo stipite della porta
e li
osservava con un’espressione indecifrabile. Avrebbe voluto
rispondere con il
solito tono stizzito ma la voce dolce di Sherry a pochi centimetri dal
suo
orecchio lo aveva interrotto.
«Lo sai che Mike ha ragione.» Lui
aveva respirato pesantemente. «Devi solo imparare a
rapportarti con gli altri,
Sherlock. Sei, anzi siamo, diversi ma non per questo dobbiamo
nasconderci.»
Si era voltato lanciandole uno
sguardo rancoroso.
«Dovrei quindi uniformarmi?
Dovrei cambiare?»
«Sherry non ha detto questo!»
Si era nuovamente voltato verso
il fratello senza comprendere.
«Sei tu che pensi di dover
cambiare perché sei diverso. Diverso è una parola
come tante ma sei tu che hai
deciso di dargli un’accezione negativa. Il problema,
Sherlock, non sono gli altri,
il problema sei tu. Devi scegliere cosa essere e non vergognarti della
scelta
che hai fatto, a prescindere da ciò che gli altri pensino o
dicano di te.»
Si era ritrovato ad osservare il
fratello in maniera diversa, per una volta aveva scoperto in Mycroft
qualcuno
di simile a lui. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non lo fece e rimase
immobile
mentre, con un colpo di reni, il fratello si staccava dalla porta per poi andarsene con le
mani infilate nelle
tasche dei pantaloni
Si voltò verso Sherry che gli
sorrideva con una delle sue espressioni più dolci.
«Non c’è niente di univoco od
oggettivo a questo mondo. Ciò che tu reputi diverso
può non esserlo per qualcun
altro e viceversa. Sii solo ciò che vuoi essere Sherlock,
niente di più e
niente di meno.»
Senza rendersene conto aveva
iniziato ad accarezzare, con il pollice,
il tessuto della sciarpa. Gli occhi, persi nel ricordo fino a qualche
istante
prima, andarono ad osservare la propria mano. Sorrise leggermente. No,
quella
sciarpa non era oggettivamente brutta; quella sciarpa era la coperta di
Molly
Hooper, tutto qui. Era ciò dietro cui Molly si parava, come
lo erano i suoi
vestiti, le sue acconciature particolari ed il suo lavoro. Ma, a
differenza
sua, lei non le usava per nascondersi ma per palesare al mondo chi lei
era. A
prescindere dai giudizi, dai commenti, dalle opinioni e dalle offese
degli
altri.
L’unica cosa che ancora non riusciva a capire era
perché l’avesse
presa e portata con sé. Perché, quando Mrs Hudson
era uscita dalla porta di
casa porgendola a John, lui gliel’avesse praticamente
strappata di mano per poi
correre in strada; perché non l’aveva lasciata a
John quando ormai aveva
scoperto che avevano preso Molly; perché l’aveva
portata con sé e perché anche
in quel momento, nonostante potesse poggiarla lì, sul letto
di lei, continuava
a tenerla in mano senza riuscire a lasciarla?
La ripose nuovamente nella tasca e si mise a sedere con inaspettata
fatica. Poggiò i gomiti sulle ginocchia ed
incrociò le dita di fronte alle
labbra, le sopracciglia vagamente aggrottate e gli occhi semichiusi.
Inspirò profondamente e fece perno con le mani sulle
ginocchia per
alzarsi.
A passi lenti andò verso il salotto. Le luci completamente
spente
rendevano l’appartamento di Molly Hooper un insieme di forme
vaghe o del tutto
nascoste ma lui non aveva bisogno della luce per muoversi. Lo
conosceva, c’era
stato si e no un paio di volta ma lui lo conosceva bene. Ogni mobile,
ogni
ninnolo, ogni tappeto o lampada, tutto. Si stupì del fatto
che la cosa non lo
sorprendesse.
Stava per uscire dalla porta d’ingresso quando qualcosa
attirò la sua
attenzione.
Molly si voltò di scatto verso Norton.
«Perché ha interrotto la chiamata? Aveva detto
che…»
L’uomo riconsegnò il cellulare al suo sottoposto e
chiuse il bottone
della giacca.
«Doveva sapere che è viva e sta bene. Questo
è più che sufficiente.»
Con un coraggio che sorprese anche se stessa, Molly si alzò
fronteggiando l’uomo con aria di sfida.
«Sa solo che sono viva. Che cosa voleva veramente da questa
telefonata?»
L’uomo le sorrise avvicinandosi alla patologa fino ad essere
ad una
distanza tale da imbarazzarla. Lo sguardo affascinante ma cupo quasi le
fece
abbassare lo sguardo ma non cedette. Non sapeva perché ma
quella volta doveva
resistere nonostante percepisse le ginocchia tremare ed il battito del
suo
cuore accelerare.
«Punti deboli, Dottoressa Hooper.»
Molly aprì e richiuse le labbra un paio di volte prima di
tornare a
sedersi sul divano. Una mano sul petto a percepire il suo cuore battere
troppo
forte ed il suo respiro divenire irregolare.
«Non è Sherlock Holmes che mi interessa,
Dottoressa. Lo sappiamo
entrambi. Voi siete solo pedine; siete solo parte della partita che io
e Sherry
stiamo giocando. Se rimarrete nei vostri ruoli non vi
succederà nulla, glielo
posso assicurare.»
Molly alzò leggermente lo sguardo mentre Norton si
incamminava verso
la porta. Uno dei due uomini che lo accompagnavano l’aveva
aperta aspettando
che lui ne oltrepassasse la soglia.
«Altrimenti?»
La voce di lei era stata quasi un sussurro ma l’uomo
l’aveva
percepita senza difficoltà nel silenzio totale di quella
stanza vuota.
Si voltò lanciandole uno sguardo vitreo ed impassibile.
«Non importa quante pedine sia necessario sacrificare.
L’importante è
vincere la partita.»
Il volto della patologa divenne una maschera bianca ed immobile.
L’uomo le rivolse un sorriso affabile inchinando leggermente
la
testa.
«Buonanotte Dottoressa Hooper.»
Avrebbe riconosciuto quella sagoma fra milioni di simili. Non era per
i capelli, per la forma delle spalle, per la lunghezza delle braccia o
per le
dita affusolate oppure era per tutto questo insieme; sta di fatto che
sapeva
che quello di fronte a lui, avvolto nel buio più totale del
salotto di Molly
Hooper, era Sherlock Holmes.
«John.»
Il dottore non rispose. Fece qualche passo per entrare nella stanza.
«Sospettavo fossi qui.»
Il detective non si voltò ma John percepì il
lieve movimento delle
spalle ed un accenno di ilarità nella voce.
«Sono diventato così prevedibile?»
Rimasero in silenzio per qualche istante. Le labbra di John vagamente
piegate all’insù.
«Trovato qualcosa di interessante?»
Il detective non rispose facendo un passo verso un tavolino basso che
sparì alla vista del dottore una volta coperto dal nero
della sua figura.
John capì che quel silenzio era una risposta negativa alla
sua
domanda ed inspirò pesantemente.
«Cosa pensi di fare adesso?»
Passarono alcuni istanti prima che Sherlock si voltasse improvvisamente
avvicinandosi al collega. Gli occhi semichiusi e la fronte corrugata.
«Che giorno è?»
John arcuò le sopracciglia.
«Intendi oggi?»
Il detective alzò gli occhi al cielo prima di rispondere con
tono
irritato.
«Ma che…ma è ovvio, no? Dio santo,
John…»
Il dottore annuì imbarazzato prima di interrompere lo
sproloquio dell’amico.
«Si, scusa. E’ il 3, si è il
3.»
Vide l’uomo sorpassarlo ed incamminarsi con passi rapidi
verso le
scale dopo aver esclamato uno illogico
“Eccellente!”.
John Watson rimase immobile nel salotto, i passi rapidi di Sherlock
che scendevano le scale a fare da sottofondo ai suoi pensieri. Il
tavolino, su
quel tavolino c’era qualcosa, si, su quel tavolino prima che
Sherlock lo
coprisse al suo sguardo c’era qualcosa, qualcosa che ora non
c’era più. Si, ma
cosa? Non riusciva a ricordarlo! Ma se Sherlock lo aveva preso doveva
essere
impo…
«JOHN! ALLORA?»
Il richiamo del collega lo fece sobbalzare e si precipitò
giù per le
scale dopo aver richiuso la porta dell’appartamento.
Non appena arrivato in strada vide il detective che lo aspettava
innervosito. Una mano a tener aperta la portiera posteriore di un taxi.
Salirono nell’auto e il detective diede un indirizzo
all’autista.
Il dottore corrugò le sopracciglia alla via sconosciuta che
l’uomo
aveva indicato.
«Dove stiamo andando?»
Il detective guardava il suo cellulare, le dita a digitare
ininterrottamente.
«Dobbiamo procurarci un invito.»
«Un invito? E per cosa?»
Sherlock gli lanciò una rapida occhiata prima di tornare ad
osservare
lo schermo del telefono.
«Non hai un abito scuro vero?»
Il dottore si voltò uno sguardo interrogativo ma il
detective non gli
prestò la minima attenzione.
«Beh devi procurartelo entro dopodomani.»
John rimase ad osservarlo per qualche istante prima di capire che non
avrebbe ottenuto altre informazioni al riguardo. Improvvisamente il
tavolino
rioccupò i suoi pensieri.
«Cosa hai preso da casa di Molly?»
Le dita del consulente investigativo si bloccarono. Si voltò
ad
osservare il collega con un sopracciglio arcuato.
«Come?»
«Si, hai preso qualcosa dal tavolino. Che
cos’era?»
Sherlock tornò ad osservare lo schermo del telefono, le dita
a
muoversi nuovamente su di esso.
«Per quanto apprezzi il tuo voler imparare ad osservare,
John, credo
che tu ti stia un po’ lasciando trasportare.»
Il dottore aggrottò le sopracciglia con espressione offesa
ed
irritata.
«Ehi, non me lo sono sognato! Ti ho visto prendere qualcosa
e…»
Il detective si voltò con espressione annoiata.
«Ah, si? E che cosa?»
«Non lo so!»
«Allora come fai a dire che ho preso qualcosa?»
John boccheggiò un paio di volte mentre il detective faceva
segno all’autista
di fermarsi.
Scesero dal taxi e Mr Watson fece per incamminarsi dietro un rapido
Sherlock Holmes quando, alzato lo sguardo, si bloccò.
«Sherlock, perché siamo davanti al Foreign
Office?»
Note
autore:
* Forse
non vi interesserà, anzi ne sono quasi sicura, ma voglio
raccontarvi come
questi tre elementi (l’immagine, la canzone e la poesia) sono
arrivati “nelle mie
mani” e come sono andati a ricalcare ciò che
già avevo pensato e scritto per
questo capitolo. Ho trovato l’immagine ( è opera
di “Disegni random”, non so
come si chiami il ragazzo che li fa, ma ha una pagina su facebook) un
po’ per
caso girovagando intorno a varie canzoni e mi ha ricordato, appena
l’ho vista,
Molly e Sherlock; non ho saputo resistere al collegamento anche
perché era
ispirata dal testo della canzone de Lo stato sociale, testo che
già mi aveva
fatto pensare a loro (anche se, ad onor del vero, io preferisco la
cover fatta
da Nicolò Carnesi). La poesia, invece, ha una storia
più particolare. Ho
comprato il libro di Mari aspettandomi poesie umoristiche su varie
sensazioni e
mi sono ritrovata fra le mani la storia dell’amore che
quest’uomo prova per una
donna da ben 30 anni; un amore che in principio non è
sbocciato per paure e
insicurezze e che poi è diventato una
“storia” quando ormai lei era sposata e loro
potevano stare insieme solamente come amanti, per lo meno sino a quando
lei non
lo lascia. Comunque, moltissime poesie mi hanno ispirato (credo che
molte
ispirazioni diventeranno delle storie su Sherlock XD) ma questa, nello
specifico, rispecchiava tutto ciò che io avevo
già scritto su Sherlock e sui
suoi vari pensieri e sentimenti. Sono malata? Sicuramente! Dovrei
imparare a
leggere poesie, ascoltare musica e guardare disegni senza lasciare la
mia mente
vagare incontrastata? Ovviamente si!!
** Naturalmente
è tutto completamente inventato ma (perché se non
ci fosse un ma non sarei io
^^) con un po’ di “giochi” da parte mia.
Il significato del nome Godfrey non
esiste, è solo un nome, ma girovagando per internet (cosa
che prima o poi mi
porterà alla follia) ho scoperto che Freyr, anglicizzato
Frey, è una divinità
di origine scandinava. Dio della pace, della fecondità e
sembrerebbe anche del
matrimonio; simpatica contraddizione rispetto al nostro Godfrey o per
meglio
dire “Dio Frey”! Beh, non voglio dirvi altro, ma
sappiate che non è proprio
irrilevante. Per quanto riguarda la data di nascita, il 21 settembre
è la
giornata mondiale per la pace nel mondo; non ho saputo resistere ad
un’altra
contraddizione. Mentre il nome del padre è il nome del Dio
padre di Freyr. Infine
la BIA sono i servizi segreti serbi.Si, lo so, lo so, ho dei problemi
seri!
Scusatemi!
Vi
avevo avvisato che era un capitolo strano, no?! Spero di non aver
“osato”
troppo con questa tipologia di racconto ma mi ha dato un senso di
libertà
infinita poter far parlare così tanto sia Molly che,
soprattutto, Sherlock. Il
palazzo mentale di Sherlock credo di averlo reso troppo simile a quello
di
Magnussen ma non volevo addentrarmi in una descrizione figurativa del
tutto
anche perché, come si evince anche da “la scheda
Molly”, credo che un uomo come
Sherlock con una memoria come la sua non possa avere effettivamente una
stanza
per ogni persona/cosa che sa ma solo per le persone a cui tiene. Sono
propensa
a pensare che abbia delle informazioni schematiche e per certi versi
fascicolate che va poi a ricercare (come fa ne “The hounds of
Baskerville”) per
tutto e tutti, mentre le sue trasposizioni mentali delle persone
possano
effettivamente abitare stanze e corridoi del suo palazzo (come avviene
invece
in “The last vow”). Ha senso, secondo voi? ^^
Se vi
va, fatemi sapere cosa ne pensate. Sono veramente curiosa e sappiate
che ogni
tipo di critica, osservazione o giudizio sono assolutamente ben accetti
se non
addirittura auspicati.
A
presto,
Anne^^
|
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Capitolo 8 *** La leggenda di Frey e Geror ***
<
L'errore di Sherriford Holmes 8
Nota
autore: Dopo
veramente tanto, tanto
tempo…salve a tutte/i! ^^
Non
farò il mio lunghissimo preambolo ma una cosa voglio e devo
dirvela: questo è
un capitolo sciocco. E’ un capitolo che non è
ne’ bello ne’ utile per la trama
ma che è servito a me per rientrare nel mondo di Sherlock
dopo tutti questi
mesi. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, vi deluderà ma
ho dovuto scriverlo
e devo pubblicarlo per costringermi a finire questa storia.
Scusatemi.
A
presto,
Anne
^^
L’errore di
Sherrinford Holmes
La
leggenda di Frey e Geror
«Mi
sento ridicolo!»
Sherlock lanciò un’occhiata divertita
all’amico intento a sistemarsi
il papillon nel riflesso dello specchio sopra il camino di Baker Street.
«E’ solo un cravattino, John.»
Il dottore spostò la propria attenzione incontrando gli
occhi del
detective nello specchio e lo fulminò con lo sguardo.
«Che c’è?»
L’altro strinse nervosamente le labbra prima di voltarsi con
un’innaturale rigidità.
«Che c’è?! Me lo stai chiedendo
veramente?!»
Il consulente investigativo alzò un sopracciglio con aria
sorpresa
sistemando i polsini della giacca. A quella reazione, interpretabile
solo come
un “non vedo che problema ci sia in quello che stiamo per
fare?!”, John
Watson scoppiò.
«Stiamo entrando illegalmente in un’ambasciata
straniera…»
«Abbiamo gli inviti.»
«…durante un meeting internazionale di
pacificazione…»
«Oh, ma per favore, sono solo inutili ricevimenti dove
pomposi
ignoranti in materia si professano grandi
antimilitaristi…»
«…con una pistola…»
« …per poi vendere armi al mercato nero
e…»
«…quando avremmo potuto lasciare che se ne
occupassero Mycroft e
Sherry…»
«Hai idea di quanto tempo ci voglia per avere il permesso di
entrare
in un’ambasci…»
«…rischiando una crisi diplomatica e la vita di
Molly!»
La voce del dottore era andata crescendo sino ad essere un urlo irato
ed incontrollato. Il detective, le dita ancora sul polsino sinistro e
lo
sguardo imperscrutabile, lo fissò per qualche istante prima
di rispondergli.
«Non è necessario che tu venga, posso...»
La risata nervosa del dottore lo fermò.
«Non provarci nemmeno, Sherlock! Qui il pazzo non sono
io!»
Il detective inspirò dal naso per poi affacciarsi alla
finestra.
«Potresti per lo meno spiegarmi la situazione?»
Sherlock tornò a guardarlo con un’espressione
annoiata.
«Te l’ho spiegata!»
«NO!...» John inspirò profondamente
prima di ricominciare a parlare
con qualche ottava in meno. «…No, tu mi hai
trascinato dentro il Foreign Office
per poi ritrascinarmi fuori dopo solo 5 minuti, mi hai lasciato di
fronte un
negozio d’abbigliamento che, per inciso, nessuno dei due
può permettersi, per
comprarmi un vestito che non metterò mai più in
vita mia mentre tu andavi a
fare non so cosa per poi tornare e dirmi che Molly è dentro
l’ambasciata del
Kossovo. Ora, dato che sto per irrompere in una dannatissima
ambasciata, con
una pistola in tasca, potresti articolare un po’ meglio il
concetto?»
Il detective era tornato a guardar fuori della finestra durante lo
sfogo
del dottore. Non appena il taxi nero si accostò al
marciapiede di Baker Street,
Sherlock prese il fidato Belfast indossandolo agilmente.
«Mostof
Avidue»
Il
dottore arcuò le sopracciglia incrociando le braccia.
«Mmh,
si certo, ora è tutto chiaro!»
Il
detective bloccò le proprie dita intente ad annodarsi la
sciarpa, il volto
stupito al tono sarcastico dell’amico.
«Beh,
dovrebbe esserlo!» I pugni serrati di John lo convinsero a
spigarsi meglio.
«Mostof Avidue. E’ stato accusato di alto
tradimento da parte del governo Serbo
al tempo della guerra del Kossovo ed è stato condannato in
contumacia.
Ovviamente, data la situazione instabile di quegli anni e il processo
di
indipendenza del Kossovo, non ha scontato neanche un giorno di carcere.
Al
contrario, è riuscito ad inserirsi negli organi
amministrativi del nuovo
governo ed attualmente è il segretario del
viceconsole.»
Un
attimo di silenzio rioccupò la stanza ma dopo un profondo
respiro Mr Watson
spalancò le braccia con aria innervosita.
«Quindi?»
Il
detective fece un sorriso ammiccante a cui il dottore rispose
infilandosi il
cappotto con nervosismo e sorridendo sarcastico.
«Te
l’ho già detto, Sherlock, non guardarmi
così! Non guardarmi come se noi due
sapessimo qualcosa perché io non lo so.» *
Sherlock
spalancò le braccia per poi infilarle nelle tasche del
cappotto.
«Avidue
è stato un sottoposto di Norton per anni, uno dei
più fedeli, ed ovviamente
attualmente gode dell’immunità
diplomatica.»
Il
dottore sbatté le palpebre un paio di volte. Il detective
sospirò nuovamente.
«Ora,
se tu fossi appena evaso da una delle prigioni di massima sicurezza
della
nazione, dopo anni di prigionia e senza quasi alcun contatto con
l’esterno, con
i servizi segreti di gran parte del mondo occidentale alle costole e ti
ritrovassi nel mentre a dover gestire un rapimento, in una situazione
del
genere, tu, dove ti nasconderesti?»
Il
dottore annuì mestamente ritrovandosi a guardare le proprie
scarpe poi una
risata gutturale proruppe dalle sue labbra. Sherlock lo
guardò come se quello
strano, in quel momento, fosse lui.
John
inspirò profondamente cercando di calmarsi prima di prendere
in contropiede il
detective che si ritrovò ad indietreggiare di un passo.
«E mi
spieghi come avrei anche solo potuto sospettare tutto
questo?!»
Stava
fissando quel piatto da quasi mezz’ora senza riuscire a
toccare nulla delle
pietanze che conteneva. Il suo fisico ovviamente reclamava del cibo,
l’ultimo
pasto che ricordava di aver consumato era il buffet di capodanno, ma
non ci
riusciva. Era troppo concentrata su altri pensieri per prestare
realmente
attenzione ad un’abitudine animale come il mangiare.
Accennò un leggero sorriso
quando il volto di Sherlock, e la sua aberrazione per il cibo quando
seguiva un
caso, le si delinearono di fronte agli occhi.
«Spesso il suicidio è una soluzione permanente ad
un problema
temporaneo,** Dottoress Hooper…» La patologa si
voltò di scatto alla voce
dell’uomo. «…e la morte per fame, oltre
ad essere particolarmente lunga, è una
delle meno piacevoli.»
Godfrey Norton, con completo nero e sorriso affascinante, chiuse la
porta dietro di sé.
Alla vista dell’uomo Molly raddrizzò la schiena e
posò le mani sulle
ginocchia per convincersi, più che convincerlo, di essere
tranquilla e sicura
di sé.
«Allora spero abbiate in programma qualcosa di più
rapido.»
Norton sorrise scuotendo lentamente la testa e a passi lenti si
avvicinò fino a sedersi sul divano di fronte a quello della
patologa. Gli occhi,
fino a quell’istante impegnati ad osservare e studiare la
donna, guizzarono per
un attimo in direzione del piatto.
Si slacciò il bottone dello smoking nero per poi appoggiarsi
comodamente allo schienale.
«Non intendo ucciderla Dottoressa, non ne ho alcun motivo e
inoltre
sarebbe alquanto controproducente.»
Molly inspirò pesantemente.
«Mi lasci andare allora. Io non le servo, non
conto…»
L’uomo sgranò impercettibilmente gli occhi per poi
protendersi in
avanti ed appoggiare i gomiti sulle ginocchia, le dita incrociate fra
loro.
Molly si sentì in imbarazzo allo sguardo penetrante che
quell’uomo le stava
rivolgendo.
«Oh io non penso. Tutt’altro… credo che
lei conti molto ed è per
questo che non posso lasciarla andare. Vede Dottoressa, lei
è la mia assicurazione
per uscire indenne da tutta questa faccenda.»
La patologa non riuscì a trattenere un sorriso amaro.
«Mi attribuisce una rilevanza che non ho.»
L’uomo si alzò, infilò le mani nelle
tasche, e tacque per qualche
istante osservando distrattamente le fiamme del camino di fronte a
sé.
«Se c’è una cosa che so fare bene
è capire le debolezze delle
persone. Riesco a capire per cosa o per chi farebbero di tutto e riesco
a
capirlo anche prima di loro»
Molly, che fino a quel momento aveva osservato il profilo impassibile
dell’uomo rimarcato dalla luce incerta delle fiamme,
percepì un leggerissimo
movimento dei suoi muscoli. Una tensione trattenuta, segno di un
malessere
passato ma ancora presente.
«E’ stato così anche per Sherry,
vero?»
L’uomo si voltò di scatto e Molly si
sentì raggelare il sangue di
fronte ai suoi occhi. Lo sguardo di Godfrey Norton era lo stesso
sguardo che
aveva visto in Sherry, lo stesso che aveva visto negli occhi di
Sherlock quando
le chiedeva il cellulare di quella donna. Lo sguardo che ha un
vincitore quando
per la prima volta si trova all’angolo braccato dai propri
nemici, lo sguardo
di qualcuno che si sente attaccato nella parte che reputa
più debole.
Il rumore sordo di un ciocco di legno che si spezzava cedendo alla
violenza delle fiamme, riscosse l’uomo.
«Si, è stato così anche con
lei.»
Molly si guardò le mani per qualche istante.
«Ha capito prima di lei di essere la sua debolezza?»
Il volto dell’uomo fu mutato da un sorriso triste che Molly
avrebbe
giurato essere sincero.
«No, purtroppo ho capito di non esserlo.»
«Mentre Sherry continua ad essere la
sua…»
L’uomo spalancò impercettibilmente gli occhi al
sentire parole che
non era mai riuscito a pronunciare neanche a se stesso.
Inspirò profondamente
tornando a fissare le fiamme nel camino.
«Suppongo non conosca la leggenda di Frey e Geror,
Dottoressa…» il
silenzio della patologa gli fece capire che aveva la sua completa
attenzione.
«….secondo la leggenda Frey, dio della bellezza e
protettore dei matrimoni, era
intento ad osservare tutti i mondi quando vide per la prima volta
Geror, la più
bella di tutte le fanciulle ma appartenente alla genia dei giganti. Per
giorni
Frey si chiude in se stesso per la sofferenza di quell’amore
impossibile. Alla
fine fece chiamare Skimir, il suo fedele servitore, perché
andasse a chiedere
la mano di Geror, senza la quale
non avrebbe potuto continuare a vivere. Per aiutare il suo servitore
nell’impresa, Frey rinunciò alla sua spada divina
ed al suo cavallo capace di
cavalcare nelle fiamme. Alla fine Geror acconsentì a
sposarlo ma la scelta di
Frey di rinunciare alle sue armi per lei gli fu fatale
poiché lo fece
soccombere a Surtr, capo dei giganti del fuoco, durante il Ragnarok, il
grande
giudizio finale.***»
Il silenzio che seguì il racconto dell’uomo fu
quasi irreale. Poi
Godfrey Norton tornò a sedersi di fronte alla patologa.
«Debolezze, Dottoressa Hooper. Tutti, anche gli dei, ne hanno
almeno
una…incluso Sherlock Holmes.»
La patologa incrociò gli occhi dell’uomo senza
riuscire a trattenere
quell’unica lacrima che da tempo minacciava di rigarle il
viso.
«Temo che il ruolo che mi vuol far interpretare nel suo
racconto non
mi appartenga.»
L’uomo le sorrise.
«Io invece sono fermamente convinto che lei sia una Geror
perfetta.»
La patologa sorrise di rimando.
« Forse….ma non per Sherlock Holmes.»
Quando il detective aprì lo sportello posteriore del taxi
non poté
trattenersi dall’imprecare. Il dottore, a pochi passi da lui,
allungò
leggermente il collo così da poter superare la spalla
dell’amico e vedere cosa
ci fosse di così disdicevole in quel taxi. Un sorriso
sarcastico incurvò le
labbra di John Watson.
«Invece di essere così maleducato, Sherlock, vedi
di sbrigarti. Siamo
incredibilmente in ritardo!»
Sherrinford Holmes era intenta a sistemare la sua acconciatura
semplice ma elegante che rendeva lo scollo posteriore del suo vestito
ancor più
provocante.
Dopo qualche borbottamento mal celato il detective salì
nell’abitacolo
seguito dal suo fedele compagno. Sherry sorrise al dottore, seduto di
fronte a
lei, prima di posizionargli uno specchietto in mano.
«Ti dispiace John? Ho saputo solo dieci minuti fa
dell’ennesima
follia del mio fratellino e non ho ancora avuto modo di
truccarmi».
Il dottore prese lo specchietto con mani incerte ed
un’espressione
confusa.
«Non è una follia è un piano
perfettamente studiato.»
Sherry sbatté il pennello sul polso per eliminare il fard in
eccesso.
«Che include l’arresto del dottor Watson a quanto
pare!»
John alzò un sopracciglio in direzione dell’amico
con fare ironico.
Il detective lo fulminò con lo sguardo.
«Non vedo perché. E’ un militare,
è perfettamente normale che porti
un’arma.»
«Che gli verrà requisita all’ingresso
rischiando un incidente
diplomatico.»
«Oh ma per favore, quando si è trattato
dell’ambasciata pakistana non
mi sembra tu abbia avuto problemi….»
Sherrynford estrasse due rossetti dalla sua pochette.
«Il generale Barner non sarebbe d’accordo con te.
Le prigioni di
Islamabad non sono fra le più confortevoli…John,
che ne dici, rosso o malva?»
Il dottore, impallidito, boccheggiò per qualche istante
prima di
guardare alternativamente i rossetti.
«Ross, rosso…ma in che senso prigioni di
Isla…»
Il detective scrollò le spalle.
« Ignorala John, le prigioni dell’ex jugoslavia
sono perfettamente
vivibili…»
Il dottore boccheggiò un paio di volte prima che Sherry se
ne accorgesse.
«Oh non preoccuparti John, ci penserò io a farvi
entrare senza alcun
problema.»
Il consulente investigativo la fulminò con lo sguardo.
«Nessuno ti ha interpellato, Sherry.»
Lei sorrise con aria sarcastica.
«A volte è sufficiente un semplice grazie,
fratellino.»
«Ma…»
La donna alzò una mano guantata per interromperlo.
«Comunque non è questo il punto. La vera questione
è come pensate di
rintracciarla e soprattutto riuscire ad uscire senza farvi scoprire e
senza
coinvolgere la Gran Bretagna in un processo internazionale.»
John Watson guardò con espressione speranzosa il detective
sperando
di riuscire ad ottenere una delle innumerevoli informazioni che gli
avrebbero
permesso di uscire vivo da quel piano a dir poco folle.
Il detective guardò fuori dal finestrino con espressione
annoiata.
«Improvviseremo.»
Jimmy e Billy si voltarono di scatto a quelle urla incontrollate
provenienti dal taxi di fianco a loro maggiolino.
«Ehi amico, secondo te che cavolo avrà fatto quel
tizio per beccarsi
tutti questi insulti?»
Billy sbadigliò sonoramente.
«Secondo te ha tradito lei o lui?»
Billy sbuffò per togliersi il pelo da davanti agli occhi.
«Si anche secondo me ha tradito il tizio ma allora lei
perché ce l’ha
con lui?»
Billy si grattò un orecchio.
«Ahhhh, dici che ha tradito lui con lei?!
Indredibile!»
Billy abbaiò per avvertirlo che il semaforo era tornato
verde.
«Eh, hai ragione amico mio. C’è proprio
gente strana in giro!»
Note
autore:
*E’
ispirata alla battuta di John in “the Reichenbach
fall” quando sguardo gli fa
uno sguarda complice, se così si può dire, e il
nostro caro Dottor Watson gli
risponde (inframezzato da Sherlock): “Non puoi
farlo…quello sguardo…ecco lo fai
ancora…si, e tu vuoi dire “noi sappiamo di che si
tratta!” con quella
faccia…no, io no ed è per questo che quello
sguardo mi innervosisce:”
**
Dovrebbe essere di Phil
Donahue ma
non ne sono certa
*** Ci sono varie versioni e
interpretazioni
della storia di Frey e Geror ma, in linea di principio, questa
è la storia del
nostro Godfrey nordico ^_^
Ho deciso di
pubblicare questo capitolo prima
di rispondere a tutti i commenti e i messaggi lasciati in sospeso
(inclusi
quelli di Firsts) perché altrimenti avrei nuovamente
rimandato e non sarei più
riuscita ad uscire da questo circolo vizioso. Ho provato
un’infinità di volte a
riprendere in mano questa storia ma sempre senza successo; mettevo le
mani
sulla tastiera e le lasciavo ferme per minuti prima di innervosirmi e
chiudere
tutto senza aver cavato un ragno dal buco. Sarà stata
l’estate, saranno state
le novità e i doveri che ho dovuto affrontare,
sarà stata l’assenza di nuovi
episodi di Sherlock o il lavoro pressante ma sta di fatto che non ci
sono
riuscita e mi dispiace. Più di tutto mi dispiace di non
avervi più risposto perché,
mannaggia a me, almeno quello avrei potuto farlo ma non mi sentivo
pronta
neanche per quello.
Non so, tutto quello
che so è che mi dispiace e
che ce la sto mettendo tutta per tornare da voi, perché, al
di là di tutto, mi
siete veramente mancate/i tanto.
Come sempre, spero
ci siano le vostre
critiche/offese, questa volta sono pienamente consapevole di
meritarmele!
A presto,
Anne
|
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Capitolo 9 *** “Torni alla sua normalità, alla sua ordinarietà.” ***
L'errore di Sherrinford Holmes 9
Note
autore: Incredibilmente prima
di quanto sperassi: salve a tutte/i! ^^
Credo
che il capitolo precedente (per quanto debole e banale) abbia svolto a
pieno il
suo dovere, facendomi rientrare nel mondo di Sherlock. Devo ammettere
che il
capitolo che state per leggere mi è venuto molto
più naturale da scrivere del
precedente per cui, credo e spero, che vi sembri migliore; ovviamente
non penso
lontanamente di essere tornata “quella di un tempo”
ma almeno mi ci sono
leggermente avvicinata.
Ciò detto,
non posso non dirvi che quello che mi ha stupito di più, in
questi ultimi
giorni, sono state le parole che avete dedicato a me, alla mia storia e
alla
mia/vostra Sherry. L’affetto che avete palesato, mi ha
veramente fatto
stringere il cuore. Inoltre sono veramente contenta e fiera del fatto
che siate
state sincere con me (anche se forse qualcuna di voi è stata
troppo buona e
comprensiva ^^), ed adoro il fatto che sia ancora così.
Per
cui, come sempre, a voi il giudizio e le critiche.
A
presto,
Anne^^
L’errore di
Sherrinford Holmes
“Torni
alla sua normalità, alla sua
ordinarietà.”
Il profilo
di Sherrinford Holmes risultava quasi irreale illuminato
dalle luci incerte e alternate del traffico londinese. John Watson ne
studiò la
forma, le rughe d’espressione appena accennate, i movimenti
impercettibili
derivanti dal vagare dei suoi pensieri, l’espressione ancora
vagamente alterata
dopo la discussione. Non riusciva a capire cosa gli sfuggiva, quale
chiave gli
mancava per decifrarla.
Lo sguardo della donna, fino a quel momento perso nei meandri dei
propri ragionamenti, si mosse fino ad incontrare quello del dottore. Un
sorriso
accennato le incurvò le labbra.
«Sono semplicemente una Holmes, John. Nulla di
più.»
Il dottore sorrise imbarazzato al sussurro di lei. Probabilmente si,
era solo questo il problema; doveva imparare a convincersi che quella
donna
dalla sguardo dolce, le maniere cortesi ed il cuore gentile era anche e
soprattutto una Holmes.
Quando il taxi rallentò per accodarsi alla fila di limousine
piene di
autorità e persone di spicco della società
britannica, John Watson espirò
pesantemente tornando a guardare i due fratelli di fronte a lui.
A pochi metri dall’entrata lo sguardo della donna si fece
serio e
deciso.
«Un quarto d’ora da quando entriamo, non un minuto
di più.»
Il detective, intento ad analizzare le guardie ed il circuito di
telecamere di sicurezza, annuì impercettibilmente.
«Cerchiamo di limitare eventuali perdite e mi raccomando
John, se
devi sparare solo fuoco amico e solo se strettamente necessario, non
voglio che
il tuo nominativo finisca nei loro circuiti.»
Il dottore annuì con aria greve al tono della donna.
Un bussare alla porta fece ridestare Molly da quella specie di stato
di trans in cui l’avevano portata gli occhi di
quell’uomo.
Godfrey Norton raddrizzò la schiena.
« Si, che c’è?»
La patologa ebbe un leggero tremito ed il colore abbandonò
le sue
guance alla vista di Irene Adler che, in abito lungo, faceva il suo
ingresso
nella stanza.
Sapeva quanto quella donna fosse bella ed affascinante, in un certo
qual modo l’aveva avuta anche come paziente, ma vederla la
sconvolse. Il suo
portamento, l’aurea di fascino e seduzione, il sorriso
ammaliante, gli occhi da
incantatrice, tutto in quella donna era fatto per sedurre. Tutto in
quella
donna era l’opposto di ciò che era lei.
A passi lenti e cadenzati la donna si avvicinò.
«Stanno per arrivare.»
L’uomo annuì e, inspirando pesantemente, si
alzò dal divano richiudendosi
la giacca.
Molly guardò prima l’una e poi l’altro
con aria confusa prima che gli
occhi di Miss Adler si incatenassero ai suoi.
«Quindi lei è la Dottoressa
Hooper…» lo sguardo indagatore della
donna che lentamente percorreva tutto il suo corpo la fece sentire
incredibilmente in imbarazzo. «…è
graziosa. Non credi anche tu, Godfrey?»
L’uomo, intento a sistemarsi i polsini, ignorò
deliberatamente il suo
tono sarcastico.
Molly non riuscì a
trattenersi
dall’abbassare il capo. Le dita intente a torturarsi fra loro.
Non riusciva a sostenere lo sguardo di quella donna, non ne era in
grado. Non si trattava di paura, rabbia o gelosia no. Aveva
più o meno imparato,
in quegli ultimi giorni, se non a gestire quanto meno a riconoscere
tutte
quelle emozioni. Il vero problema era cosa quella donna rappresentasse
per
Sherlock, cosa quella donna sapesse di Sherlock, cosa Irene Adler era e
sarebbe
sempre stata per Sherlock e cosa invece lei, rimanendo la semplice e
solita
Molly, non avrebbe mai potuto sapere. Ciò che invidiava a
quella donna era la
conoscenza di quella parte del consulente investigativo che lei non
avrebbe mai
potuto conoscere o anche solo immaginare.
«Sherrinford! Quale onore!»
La donna sorrise con fare accattivante e divertito.
«Signor Ambasciatore…»
L’uomo sgranò gli occhi prima di farsi trasportare
da una sonora
risata.
« Sei sempre la solita Sherry! Allora, cosa ti porta a questa
riunione di vecchi parrucconi?»
La Holmes sbarrò gli occhi con finta aria sbalordita prima
di
poggiare una mano sull’avambraccio dell’uomo con
fare amichevole e complice.
«Lirim, ti prego! Non sei più un caporale di
brigata, devi imparare a
comportanti. Inoltre…» entrambi si voltarono ad
osservare una donna che, con
pelliccia bianca e aria offesa, li guardava con rimprovero. Il tono di
Sherry
divenne un sussurro. «…non credo sia una scelta
saggia chiamare in quel modo
l’élite della nazione che ti ospita.»
L’uomo le rivolse uno sguardo annoiato prima di ricomporsi e
tossire
leggermente.
«Comunque, come mai sei qui?»
Sherry inspirò pesantemente lasciando vagare il suo sguardo
annoiato
fra la folla.
«Beh, sai, i soliti controlli. Mycroft è rimasto
il paranoico di
sempre e…»
L’uomo annuì con decisione,
l’espressione complice di chi comprende
perfettamente la situazione.
«Ma certo mia cara, ma certo. Beh, allora, la mia casa e la
tua casa…solo
ti prego, non crearmi troppi problemi. Un paio di mesi e sono in
pensione, per
cui….»
La donna sorrise divertita.
«Si, si mi ricordo. La casetta alle Maldive. A proposito,
come sta
Greta? Suppongo lei non ci sia sta sera, Marika mi ha detto che
è troppo
impegnata a fare la nonna e…»
Un colpo di tosse secco interruppe quella chiacchierata fra amici di
vecchia data.
L’anziano ambasciatore alzò lo sguardo severo in
direzione dell’uomo
che aveva osato interromperlo e stava per redarguirlo quando la voce di
Sherry
lo interruppe.
«Che sciocca! Lirim, ti presento mio fratello Sherlock
Holmes…» il
detective abbassò lievemente il capo in segno di saluto.
«…e questo è il suo
collega, il Dottor Watson.» John sorrise leggermente, troppo
sconvolto da
quella irreale situazione conviviale per poter riuscire a proferire
parola. Per
l’amor del cielo, lui aveva una pistola nella sua tasca?! Lui
aveva una pistola
nella sua tasca e Sherrinford era lì a fare conversazione!
Il diplomatico, dopo un primo momento di confusione, prese con
decisione la mano prima dell’uno e poi dell’altro.
«E’ un vero piacere. Ho sentito molto parlare di
voi…ma prego,
accomodatevi. Spero potremmo conoscerci meglio più avanti,
ora temo di dover
assolvere ai miei doveri di ospite.»
Sherrynford salutò l’uomo con un sorriso sincero e
si avviò verso
l’ingresso seguita dai due uomini.
Il Dottore si sentì raggelare il sangue alla vista degli
uomini della sicurezza
intenti a controllare gli ospiti di fronte a loro. Si voltò
verso il consulente
investigativo ma ciò che vide fu un volto inespressivo e uno
sguardo
disinteressato; Sherry era intenta a commentare l’elegante
semplicità della
facciata con un’anziana signora di fronte a lei. Si stavano
lentamente avvicinando
e John ebbe la netta sensazione che il ferro della pistola diventasse
più caldo
e pesante come a voler rilevare la sua presenza. I suoi occhi allarmati
vagarono nuovamente fra i due Holmes ma senza ricevere alcuna risposta.
Cosa
doveva fare? Forse avrebbe dovuto fuggire. C’era ancora
qualche metro di
distanza fra lui e quell’uomo.
Quando la guardia gli intimò di alzare le braccia il Dottore
rimase
immobile. L’uomo ripeté la richiesta scandendo le
parole con fare deciso e per
nulla amichevole. John Watson stava per obbedire quando la voce
leggermente
alterata di Sherry attirò l’attenzione dei
presenti su di sé.
«Per lo meno un po’ di gentilezza!»
L’uomo della sicurezza che la stava perquisendo si
immobilizzò per
qualche istante e, dopo un borbottato “mi scusi”,
stava per continuare il suo
lavoro quando la voce alta e perentoria dell’ambasciatore lo
interruppe.
«Cosa diavolo state facendo? Toglietevi dai piedi e
lasciateli
passare!»
Sherrinford sorrise all’uomo e superò a passi
lenti e
controllati la
sicurezza. John rimase
immobile per qualche istante prima di decidersi a seguire i due
fratelli
Holmes.
Non si sentiva bene, in quel momento non si sentiva per niente bene!
Un vociare indefinito e il suono tenue di strumenti che venivano
accordati la riscosse dai suoi pensieri. Non riusciva a capire da dove
provenissero quei suoni. Che cosa stava succedendo?
Un bussare deciso e perentorio la fece sobbalzare. Un uomo del tutto
sconosciuto alla patologa entrò nella stanza andando a passi
decisi verso Norton
per poi sussurrargli qualcosa all’orecchio. Il sorriso di
Godfrey riuscì a far
raggelare il sangue della patologa.
L’uomo si rivolse alla Donna con fare divertito e
compiaciuto, il
tono falsamente aulico.
«L’ ambasciatore ha espresso il desiderio di poter
danzare con la mia
bellissima sposa e io non ho potuto che acconsentire a cotanto
onore.»
Irene gli rivolse un sorriso accattivante e divertito prima di
avvicinarsi con fare sinuoso.
«Sono stata brava….»
L’uomo le rivolse uno sguardo intenso, due dita a sollevarle
il mento.
«Meravigliosa, come sempre.»
La Donna, dopo essersi allontanata dall’uomo ed aver lanciato
uno
sguardo indecifrabile alla patologa, si diresse a passi decisi verso la
porta
per poi chiuderla dietro di sé.
Molly Hooper era sconvolta. Gli occhi sbarrati, le labbra leggermente
schiuse e le dita intente a stringere il maglione erano la
rappresentazione
esteriore del suo malessere interiore. La sua mente era intenta a
ricollegare
tutti i vari passaggi.
Percepì chiaramente il fiato che iniziava a mancarle, i
battiti del
suo cuore divenire irregolari ed una strana rabbia invaderla. Era
ancora
intenta a completare quel puzzle mentale quando alzò gli
occhi sull’uomo rendendosi
conto che lui, fino a quel momento, non aveva fatto altro che fissarla
con
occhi sadicamente divertiti.
Molly aprì e chiuse le labbra per un paio di volte prima di
riuscire
a far uscire qualche parola strozzata.
«Io, io pensavo che…»
L’uomo infilò le mani nelle tasche dei pantaloni
prima di rivolgerle
uno sguardo sconsolato.
«Che Irene provasse qualcosa per lui?» Sorrise
divertito. «Beh, ad
essere sincero, l’ho temuto anch’io e non escludo
che possa essere così;
conosco bene il fascino degli Holmes e so quanto sia facile
resistergli.
Tuttavia ero certo che sarebbe tornata da me.»
Molly scosse leggermente il capo con aria assente e l’uomo
non poté
trattenersi dall’avvicinarsi prendendo un tono di voce quasi
carezzevole.
«Non deve preoccuparsi per il suo caro Sherlock, Dottoressa.
Lui
conosce perfettamente le regole del gioco.»
Molly scosse la testa con determinazione, le braccia strette intorno
alla vita.
«No, no. Lei non lo conosce. Sherlock non è
così, lui non sa come…»
un singhiozzo mal trattenuto le tolse il respiro.
L’uomo fece vagare i suoi occhi sul volto di Molly per
qualche
istante.
«Cosa, Dottoressa? Non sa come difendersi? Non sa come
comportarsi
quando si tratta di…come chiamarle? relazioni
umane?» La patologa lo guardò con
occhi tristi e rassegnati ma quelli di lui divennero vuoti e duri.
«Le assicuro
che invece lo sa e lo sa bene. Al di là di ciò
che lei possa pensare, Sherlock
Holmes conosce bene la natura umana ed è per questo che ha
scelto di
allontanarsi da essa. Lei può credere che sia stato il mondo
a renderlo così ma
io le assicuro che invece è una sua scelta, una scelta
ponderata e voluta.»
Molly scosse nuovamente la testa cercando di trattenere le lacrime.
«No, non capisce. Lui è innamorato di
lei.»
L’uomo le sorrise divertito.
«Lo so.»
La patologa lo guardò con aria confusa. Stando
così le cose, non riusciva
più a capire il suo ruolo, il perché di tutto
quel discorso sulle debolezze, il
perché lei fosse lì.
Dopo una rapida occhiata all’orologio da polso, Norton si
sedette
nuovamente di fronte a lei, le mani congiunte di fronte le labbra e la
fronte
corrugata a cercare le parole più adatte.
«Come le ho già detto, Dottoressa, lei
è la mia assicurazione. Non è
questione di amore o affetto ma di semplici debolezze. Lei, come anche
il Dottor
Watson, la sua famiglia o quella specie di governante siete le
debolezze di
Sherlock Holmes, siete ciò che lo rende ricattabile e
debole, e di conseguenza
siete ciò che rende debole Sherrinford.»
Molly lo guardò con aria spersa e l’uomo non
poté far a meno di
sorridere sarcasticamente.
«Sa perché ho scelto lei, Dottoressa?...Avrei
potuto scegliere il
Dottor Watson, tutti avrebbero scelto Watson! Io invece ho scelto lei e
l’ho
scelta perché so che lei è la debolezza maggiore.
Non perché penso che Sherlock
Holmes sia innamorato di lei, ovviamente no…» Il
sorriso divertito dell’uomo
aprì uno squarcio nel cuore di Molly.
«…ma perché so che è quella
che lui reputa
più debole.»
La mente di Molly la fece tornare a quella mattina, al volto di
Sherlock, alle sue labbra, al suo «Ti
hanno usato nuovamente contro di me,
Molly Hooper.». Strinse gli occhi per
cercare di cancellare quel
ricordo, per cercare di cancellare dalla sua mente il fatto che
Sherlock avesse
ragione, per cercare di cancellare dalla sua mente il suo essere solo
un mezzo
per indebolirlo.
Il respiro profondo di Godfrey Norton la fece tornare alla
realtà
«Dottoressa, lei ha una vita invidiabile; ha un lavoro in cui
eccelle, dei colleghi che la stimano e degli amici fedeli. La sua
quotidianità
è priva di reali preoccupazioni e pericoli e, qualora
volesse, potrebbe facilmente
trovare un uomo che la ami veramente. Mi ascolti, dimentichi Sherlock
Holmes, dimentichi
tutto questo, torni alla sua normalità e viva la sua
vita.» Lo sguardo della
patologa era vuoto e perso ma l’uomo continuò.
«Lei non fa parte di questo
mondo, non le appartiene e non può gestirlo. Mi dia retta,
lasci perdere
Sherlock Holmes e torni alla sua normalità, alla sua
ordinarietà.»
John
prese uno dei bicchieri che il cameriere gli stava offrendo da un
vassoio
argentato e ne buttò giù il contenuto in un sorso
solo.
Inspirò
profondamente stringendo i denti.
«Gin?»
Il
dottore lanciò uno sguardo carico d’odio alla
domanda del detective.
«No,
credo si trattasse di Vodka.»
L’uomo
sollevò impercettibilmente il labbro superiore per
dimostrare il suo disappunto
e scrutò la sala intorno a loro per qualche istante prima di
notare lo sguardo
del collega.
«C’è
qualche problema?»
John
strinse le dita intorno al bicchiere sorridendo sarcasticamente.
«No,
certo che no…»
Il
consulente investigativo si guardò intorno con aria annoiata.
«Non
dirmi che è ancor per quella storia
dell’arma…»
Il
dottore, seppur sottovoce, esplose.
«Non
si tratta di una storia, Sherlock! Dannazione ero a un passo
da…»
La
voce alta e solare di Sherry li interruppe.
«Ehi,
tutto bene qui?»
I due
tacquero di fronte agli occhi infuriati della Holmes che gli intimavano
di
tacere. L’ambasciatore era proprio dietro di lei accompagnato
da una donna in
abito lungo.
John
Watson sbiancò alla vista di Irene Adler che, a braccetto
del diplomatico,
avanzava verso di loro.
Lanciò
uno sguardo in direzione dell’amico ma sul suo volto non vi
era traccia di
alcun tipo di emozione.
«Signor
Holmes, Dottor Watson, vorrei presentarvi Mrs Norton, una delle nostre
perle
più rare.»
La
donna sorrise divertita per il complimento prima di sussurrare un
sinuoso “è un
piacere fare la vostra conoscenza, signori”.
La
voce piatta di Sherlock che con un semplice “Mrs
Norton” rispondeva al saluto
riscosse John da quell’innaturale immobilismo in cui era
piombato, portandolo a
borbottare un saluto non chiaro.
L’anziano
signore sorrise compiaciuto.
«Mr
Holmes, mi hanno detto che siete un eccellente violinista.»
«Temo
vi abbiano mal informato. Sono un semplice appassionato.»
«Suvvia,
quanta modestia. Se siete bravo anche solo la metà della
nostra cara Sherry
avrete di che superare quei quattro strimpellatori là in
fondo.»
La
bella Holmes sorrise sconsolata per l’offesa ai quatto
maestri chiamati a
suonare per l’occasione.
«Ad
ogni modo, Mr Norton mi ha gentilmente concesso di aprire le danze con
la sua
bellissima signora…» Miss Adler gli sorrise
fingendo imbarazzo per il
complimento. «…e volevole chiederle il piacere di
suonare per noi.»
Il
muscoli della mascella del detective si tesero un paio di volte. Lo
sguardo
allarmato del dottore passò dal viso dell’amico a
quello di Sherry: non
potevano certo perdere tempo per una cosa del genere!
«Lirin,»
la voce di Sherry attirò l’attenzione su di
sé. «se vuoi potrei accompagnarvi
io al pian…»
«No!»
Il
tono decisamente troppo alto di Sherlock fece voltare metà
della sala. Sherry
guardò il fratello senza riuscire a capire che cosa gli
passasse per la mente.
Il
detective indossò uno dei suoi sorrisi di circostanza.
«Per
me sarebbe un onore.»
John
aggrottò le sopracciglia a quell’irreale
gentilezza del collega. Non capiva:
perché Sherlock voleva suonare?
«E Sherrinford?»
Godfrey Norton si bloccò. Le dita intente a stringere la
maniglia ed
il sorriso sulle labbra. Si voltò lentamente alzando un
sopracciglio con finta aria
sorpresa.
«Come scusi?»
Molly si alzò, il volto ancora bagnato dalle lacrime ma lo
sguardo
serio e fiero.
«Sherrinford, io pensavo che lei amasse veramente
Sherrinford. Non
posso credere che…»
L’uomo la guardò con un’espressione
vagamente intenerita.
«Ed è così, infatti.»
La patologa sgranò gli occhi sconvolta.
«Ma allora come ha potuto?! Come ha potuto sposare quella
donna
quando in realtà…»
L’uomo le si avvicinò pericolosamente, lo sguardo
vitreo o cupo. La
donna non poté trattenersi da fare un passo indietro.
«Non intendo soccombere. Tutti hanno delle debolezze ma
ciò che
differenzia me da tutti gli altri, Dottoressa, è che non
intendo assecondarle.»
«Se
non le dispiace vorrei farmi accompagnare al pianoforte da
Sherrinford.»
Il
diplomatico rise con voce baritonale.
«Ma
certo! Sarà un vero piacere ed onore potervi sentir
duettare»
L’uomo,
accompagnato da Mrs Norton, si diresse verso il centro della sala per
predisporre il tutto.
Non
appena furono abbastanza lontani John si voltò verso
l’amico.
«Si
può sapere che cosa stai facendo?! Non abbiamo tempo
per…»
Un
uomo in smoking ed espressione oltraggiata li interruppe per consegnare
un
violino al consulente investigativo che iniziò a pizzicarne
le corde per
verificarne l’accordatura.
«Sherry,
segui me.»
La
donna, che fino a quel momento aveva osservato con aria incerta il
fratello,
annuì.
John
Watson, il bicchiere vuoto e il volto sconvolto, rimase immobile ad
osservare i
due fratelli prendere posto sul piccolo palco dell’orchestra.
Non
appena il violino di Sherlock Holmes iniziò a suonare, il
volto del dottore si
illuminò. Quella musica, conosceva quella musica!
Non ci riusciva, non riusciva a calmarsi. Per quanto le strofinasse
fra loro le sue mani rimanevano gelide, percepiva ancora la stretta
allo
stomaco e non sapeva come impedire al suo corpo di tremare.
Serrò gli occhi e strinse forte i palmi sulle orecchie nella
vana
speranza di fermare quel crogiuolo di informazioni e sentimenti che
vagavano
nel suo cranio.
Le parole di quell’uomo, quella
che lui reputa più debole, LUI reputa PIU’ DEBOLE;
le labbra di Sherlock: ti
hanno usato nuovamente contro di me, Molly Hooper, CONTRO DI ME;
gli occhi di Sherry: se avessi cercato di
capire di cosa
realmente avessi avuto bisogno, tutto questo non sarebbe successo.
Si sdraiò
sul divano portando le gambe al ventre per accovacciandosi su se
stessa, le
mani ancora a cercare di proteggere la sua mente da quei suoni
provenienti dal
suo subconscio.
Lo
aveva già capito di non esserne in grado, aveva
già deciso di fare un passo
indietro per rientrare a far parte di quel mondo che girava intorno a
quello di
Sherlock senza mai incontrarlo. Lo aveva deciso quando aveva detto a
Sherlock
che cosa ci fosse in quel dannato cellulare. Tuttavia, nonostante lo
avesse
deciso, nonostante lo avesse scelto, nonostante avesse capito che erano
e
sarebbero rimasti sempre e comunque diversi, le parole di
quell’uomo le avevano
provocato un dolore inaspettato. Le parole di Godfrey Norton le avevano
fatto
capire quanto lei fosse solo e
soltanto un problema per Sherlock, un punto su cui premere per farlo
cadere.
John, Mary, Lestrade e perfino Mrs Hudson erano più forti di
lei; conoscevano,
chi più e chi meno, quel mondo straordinario che gravitava
intorno a Sherlock
ed a cui lei, normale ed ordinaria, non avrebbe neanche dovuto
avvicinarsi.
La
voce di suo padre, calma e serena, esplose nel suo vagare.
«Pretendi
per te il meglio, Molly, non l’impossibile.»
Tolse
le mani dal capo per andare a stringerle intorno al ventre.
«è
graziosa»
Spalancò
gli occhi improvvisamente.
Sherlock…cosa
avrebbe fatto Sherlock non appena saputo che quella donna, quella donna
che lui
amava…
Strinse
maggiormente le braccia intorno alla vita.
Sarebbe
diventato come Sherry. I suoi occhi sarebbero diventati come quelli di
Sherry.
Un
singhiozzo strozzato la costrinse ad alzarsi per poter riprendere aria.
Stava
asciugandosi il viso con i polsini ormai fradici del suo maglione, la
mente
ancora intenta a vagabondare, quando si immobilizzò di colpo.
Ancora
quel suono?
Si
alzò iniziando a vagare per la stanza alla ricerca del luogo
da cui esso proveniva.
I suoi passi lenti facevano scricchiolare le vecchie assi del parquet
nascosto dai
vari tappeti damascati.
Si
avvicinò alla pettiniera in legno scuro accanto al letto,
l’orecchio ancora
proteso per averne conferma. Dopo qualche istante di esitazione si
piegò per
poi, con non poca fatica, spingerla lungo il muro rivelando
così una vecchia
grata per il riscaldamento*.
Quel
suono proveniva da lì, era l’eco di qualcosa di
lontano. Si avvicinò per
cercare di sentire meglio.
Corrugò
la fronte e chiuse gli occhi nella vana speranza che
l’assenza di uno dei cinque
sensi fortificasse gli altri.
Non si
trattava di un suono, era musica. La musica di un pianoforte e di un
violino.
«Molly?»
«Mmh?»
«Tu, conosci la configurazione elettronica del
ferro?»
«Certo,
3d64s2!»
Lui
sorrise.
«Perché?»
chiese lei.
Sherlock
non rispose, iniziando a suonare una melodia bassa e lenta. Il sorriso
ancora
rivolto al volto perplesso ma
felice della patologa**.
Gli
occhi di Molly Hooper si
spalancarono e le labbra, dopo un primo momento di esitazione, si
aprirono ad
un sorriso incontrollato.
Note Autore:
*Era
uno dei
primi sistemi di riscaldamento centralizzato del 900. Il calore delle
stufe
utilizzate nelle cucine veniva portato nelle stanze dei piani superiori
attraverso
reticoli di tubi di ghisa nascosti nei muri; alla fine di ogni tubo
veniva
posta una grata che poteva essere chiusa o aperta a seconda delle
necessità.
** E’ la fine di “The third brother”. Non
so se si capisce ma il principio di tutta questa “cosa del
violin” è che
Sherlock suona la “loro” canzone. Lo so,
è troppo demenziale ma volevo dare un
po’ di speranza alla nostra cara Molly dopo aver ricevuto un
bel po’ di brutte
notizie.
Probabilmente
in molti punti, questo capitolo, vi sarà sembrato forzato ed
irreale e
soprattutto il finale è decisamente troppo, beh troppo
“no!”, per cui non
abbiate alcun timore o dubbio nel dirmelo.
Per quanto mi
riguarda, ho cercato di risollevare le sorti di questa storia ma mi
rendo
perfettamente conto di essere ancora in alto mare.
Spero che, nel
complesso, non vi abbia troppo deluso.
A presto,
Anne ^^
|
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Capitolo 10 *** "Eravamo il peggio di noi" ***
L'errore di Sherrinford Holmes 10
Note Autore:Salve
a tutte/i!
Incredibile a dirsi ma sono tornata.
Devo ammettere, a distanza di veramente tanti, tanti mesi, che
probabilmente ho affrontato questa storia troppo presto, sulla scia
del momento, ma mi sono ripromessa e soprattutto vi ho promesso di
portarla a compimento, per cui eccomi qui con quello che sarà il
penultimo/terzultimo capitolo.
Voglio ringraziarvi più delle altre
volte per aver continuato a seguire questa storia e per i commenti
che lasciate, non mi stancherò mai di ripeterlo: mi aiutate
veramente tanto e mi spronate a fare e soprattutto fare meglio!
Per quanto riguarda questo capitolo
sono arrivata all’amara conclusione che non so muovermi bene su ciò
che riguarda la parte “thriller” (se così si può definire!) e
fra le altre cose temo che in alcuni passaggi risulti eccessivamente
pesante.
Ad ogni modo, è ora di lasciarvi alla
lettura e, come sempre, a voi il giudizio.
A presto,
Anne ^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
“Eravamo il peggio
di noi”
Nessuno l’aveva notato. Dopotutto non era stato un vero errore quanto una leggera insicurezza.
Ciononostante John Watson se n’era accorto. Non poteva definirsi
un grande esperto, tutt’altro, aveva persino difficoltà a
distinguere fra una viola ed un violoncello ma conosceva il modo di
suonare di Sherlock; le note tirate dei suoi nervosismi e quelle
prolungate dei suoi pensieri, le note vuote che accompagnavano i suoi
ragionamenti e quelle necessarie per riordinare la sua mente. Le
conosceva tutte e di una cosa era certo, Sherlock non dimenticava le
sue composizioni né tanto meno aveva insicurezze. Per cui, se
ciò era avvenuto, doveva esserci un motivo più che valido.
Il dottore, dunque, seguì lo sguardo dell’amico fino ad un
arco che dava sulla ampia hall dell’edificio. Un uomo stava
entrando nel salone, stringendo mani e dando amichevoli pacche sulle
spalle. John riportò la sua attenzione sul detective che, con
sguardo vitreo, continuava ad osservarlo. Il Dottore si rese conto ben
presto di essere alla presenza di Godfrey Norton.
Strinse il bicchiere tanto da far divenire le nocche bianche ed
istintivamente impugnò la pistola nella tasca, lo sguardo a
vagare alternativamente fra i due uomini. Come sempre era pronto a
reagire ad ogni minimo accenno del detective. Un sopracciglio alzato,
uno sguardo più intenso o un irrigidimento dei muscoli erano
segnali ormai riconosciuti da John e a cui lui non avrebbe esitato a
rispondere. Tuttavia, quando il Dottore vide gli occhi di Norton
posarsi sul profilo di Sherrinford, fu stupito di trovare in essi
un’ombra di qualcosa di più simile all’amore che
all’odio. Dopo un primo istante di smarrimento osservò
quell’uomo con più attenzione; il portamento fiero, il
volto affascinante e gli occhi penetranti che in quel momento
scrutavano la bella Holmes. Inconsapevolmente la sua mente
collocò quell’uomo nello spazio che normalmente era
riservato agli Holmes, esseri strani e in un certo senso superiori che
aveva imparato a conoscere. Ora capiva perché Sherrinford si
fosse innamorata di quell’uomo e del perché lui,
nonostante tutto, la guardasse in quel modo. Erano simili, in un mondo
fatto da persone normali, per non dire mediocri, loro erano riusciti a
trovarsi.
Il violino di Sherlock stridette vagamente appena l'uomo tirò
con troppa decisione la nota conclusiva; lo sguardo di Norton
tornò ad essere inaccessibile andando a studiare il detective e
la sua espressione algida.
Quando un applauso convinto riempì la sala il consulente
investigativo fu costretto ad interrompere quella sfida di sguardi per
sorridere con falsità alla folla ed accennare un piccolo inchino
nervoso. Il salone presto tornò a riempirsi del vociare e del
vagare delle persone, rendendo impossibile al Dottore la vista
sia di Norton che degli Holmes, sommersi da una piccola folla di
estimatori.
John iniziò a farsi largo fra gli ospiti alla ricerca
dell’amico quando si sentì strattonare leggermente per un
braccio.
«Dov’è Sherlock?!» Il volto di Sherry era
teso, la voce bassa e gli occhi intenti a scrutare la folla intorno a
sé. «Dovete andare! Adesso!»
John boccheggiò un paio di volte non sapendo cosa dirle quando il detective si materializzò accanto a loro.
«Tu vieni con noi.»
La donna guardò il fratello prima con disapprovazione e poi con dolcezza.
«No Sherlock.» L’uomo serrò la mascella, gli
occhi intenti a vagare sul volto della sorella. Lei gli strinse la
manica della giacca con dolcezza. «Sto bene…forza,
sbrigatevi.»
Il Dottore annuì con decisione sapendo di dover essere lui,
quella volta, ad imporsi. Si avviò verso la scalinata principale
per poi voltarsi verso l’amico con aria decisa.
Il detective tentennò per qualche istante prima di annuire ed incamminarsi.
«Ehi fratellino…» l’uomo si bloccò
voltandosi con aria irritata verso la sorella che sorrideva divertita.
«…cerca di ricordarti la configurazione del ferro!*»
Il detective spalancò leggermente gli occhi prima di lanciarle
uno sguardo carico d’astio e tornare a camminare a passi spediti
sino a superare un incerto Dottor Watson.
«Il ferro? Che c’entra il ferro?!»
Non avrebbe saputo quantificare da quanto tempo stesse guardando
quell'identico ed immobile angolo di tappetto. In realtà
non lo guardava in quel momento non più di quanto aveva fatto
negli ultimi minuti; l’unico scopo di quell’angolo rovinato
era fermare i suoi occhi e con essi il suo corpo per cercare di lasciar
vagare la sua mente.
Era perfettamente consapevole del fatto che quello non fosse né
il luogo né il momento per capirsi ma non poteva far altrimenti.
Non poteva impedire alla sua mente quel frenetico e quasi illogico
vagare alla ricerca di ricordi, ricordi di Sherlock. Non dello
Sherlock che aveva immaginato, né tanto meno interpretato, ma
dello Sherlock reale, dell’uomo Sherlock Holmes a prescindere
dallo sguardo di Molly Hooper.
Un’infinità di mani, espressioni, sguardi, labbra,
movimenti, voci e gesti di Sherlock le vagarono in maniera confusa
nella mente ed alla fine dovette ammettere che appartenevano più
a ciò che Sherlock era rispetto a ciò che per lei era.
Quei pochi momenti del suo Sherlock, si perdevano in una mole infinita
di sguardi vuoti, mani lontane, espressioni assenti, labbra immobili,
voci algide e gesti negati.
Fece pochi passi lenti prima di immobilizzarsi per guardare il suo riflesso nello specchio sopra il camino.
I suoi vestiti sgualciti e sporchi davano alla sua figura un’aria
ancora più trasandata e pesante. Il suo volto era stanco e
bianco e la fasciatura che aveva sulla fronte era ormai divenuta un
ammasso di stoffa e sangue rappreso. Le labbra ruvide e secche
sembravano ancora più sottili. Le occhiaie erano dei solchi neri
sotto gli occhi arrossati dal sonno e che in quel momento le
restituirono uno sguardo vuoto.
Non sei fatta per questo, Molly! Cosa credevi, eh?! Che bastasse
falsificare un paio di cartelle e mantenere un suo segreto per renderti
parte del suo mondo, per renderlo quello che tu credi sia? Sai bene che
non basta. Non basta essere la sua inutile assistente di laboratorio,
la sua “di cosa hai bisogno?”, la sua Molly Hooper.
Insomma, non basta essere te.
Inspirò profondamente cercando di rispondere al suo stesso sguardo vuoto con uno più deciso.
Doveva semplicemente dirgli addio. In fondo non doveva dire addio al
suo Sherlock, doveva solo lasciar andare Sherlock Holmes, tutto qui.
Una leggera stretta alla bocca dello stomaco stava per indurla a piegarsi ma si bloccò.
Ora basta, Molly! Tu devi tornare ad essere la Dottoressa Hooper, con i
tuoi maglioni, le tue espressioni e le tue labbra sottili; in fin dei
conti ti ci sei sempre trovata bene, no? Benissimo. E lui
tornerà ad essere il Detective Sherlock Holmes…
consulente investigativo, Molly…ti prego, basta!
La giacca strusciava sottovoce lungo la parete del corridoio, le travi
usurate del pavimento mugolavano sotto il peso del detective. Il
pianoforte che aveva ripreso a suonare era un eco lontano ed ovattato.
Sherlock girò leggermente la testa per guardarlo ed il dottore,
come a rispondere ad una tacita domanda, tirò fuori la pistola.
Arrivati alla fine del corridoio il consulente guardò prima in una direzione e poi nell’altra. Nessuno.
John abbassò l’arma ed alzò un sopracciglio.
«Com’è possibile che non ci sia nessuno a controllare i piani?»
«E’ un’ambasciata John, non una base militare.»
Il Dottore strinse le labbra innervosito.
«Mi aspettavo che ci fosse almeno qualcuno a controllare che Molly…»
Il detective si voltò alzando un sopracciglio con fare critico.
Il dottore strinse i denti.
«Va bene, ho capito!...Quindi qual è il tuo piano?
Bussiamo a tutte le porte chiedendo se hanno visto una donna ferita o
urliamo il suo nome in giro come pazzi?»
Il detective ignorò il tono sarcastico dell’amico e mise
due dita a stringere la radice del naso, la fronte corrugata.
John annuì più volte appoggiandosi al muro ed incrociando le braccia.
«Fai con comodo, non c’è alcuna fretta!»
Il consulente gli lanciò uno sguardo tagliente prima di tornare ai suoi ragionamenti.
Dopo qualche istante aprì improvvisamente gli occhi.
John lo vide avvicinarsi nuovamente all’angolo del corridoio, gli
occhi chiusi, la fronte corrugata e gli altri sensi in allerta.
Molly si voltò di scatto.
«Lo facevamo da piccoli. Il fischio si propaga maggiormente della
voce e se si è attenti si riesce meglio a percepirne la
provenienza e la distanza.»**
Istintivamente si avvicinò alla porta e stava per rispondere a
quell’inusuale richiamo quando, d’improvviso, si
bloccò. C’era qualcosa che non andava. Come avevano fatto
ad arrivare sino a lì? Normalmente di fronte alla sua porta
c’era sempre qualcuno a controllare ma in quel momento regnava un
silenzio quasi irreale. La stavano di nuovo usando contro di lui.
Un altro fischio arrivò alle sue orecchie ma mise le dita di
fronte alle labbra per impedirsi di rispondere. Lentamente si
allontanò dalla porta colta da un'irreale sensazione di poter
essere vista. Nell’indietreggiare urtò un tavolino facendo
cadere una tabacchiera sul pavimento ed un suono metallico
riecheggiò nella stanza. Sgranò gli occhi osservando con
terrore quel piccolo oggetto.
«Hai sentito?»
Il dottore corrugò la fronte allungando leggermente il collo.
«Cosa? Io non ho sentito niente. Proviamo al piano di sopr….Sherlock, dove stai andando?»
Il detective alzò una mano intimandogli di rimanere
dov’era e di tacere mentre a passi lenti percorreva il corridoio.
Si fermò davanti ad una porta uguale alle altre, la fronte quasi
a toccarne il legno. Chiuse gli occhi inspirando silenziosamente, i
sensi intenti a percepire il rumore anche più tenue.
Molly strinse maggiormente le dita sulle labbra, i muscoli del corpo
tesi per impedire anche il più minimo movimento. Il suono del
battito irregolare del suo cuore le riecheggiava nelle orecchie
impedendole di sentire qualsiasi altro rumore.
Dopo qualche istante di irreale silenzio vide il pomello della porta
girare a vuoto e non riuscì a trattenere quel respiro
pesante che le stava lacerando il petto.
Un sospiro identico provenne dalle labbra del detective. Rapidamente prese dalla tasca interna della giacca il passepartout.
Molly riuscì a fare solo pochi passi verso la porta prima che l’uomo la aprisse.
Le pupille di Sherlock Holmes si dilatarono istintivamente per cercare
di adattarsi alla luce tenute della stanza. I suoi occhi vagarono per
essa cercando disperatamente di definire le varie ombre confuse sino a
quando non individuarono la figura incerta di fronte a lui.
Lentamente il contorno della patologa si fece più definito, come
anche il suo viso. La mente del detective ci mise pochi istanti per
catalogare tutto ciò che stonava in Molly Hooper. I capelli
sciolti e arruffati, le labbra secche che pronunciavano parole che in
quel momento non riusciva a percepire, gli occhi stanchi e spersi che
lo fissavano. Provò qualcosa di simile al dolore quando vide
quella Molly ricrearsi all'interno della stanza a lei dedicata
all'interno del suo Mind Palace e quando la sua mente registrò
la fasciatura non poté trattenersi dall'avvicinarsi ed
istintivamente stringerle le braccia come quella mattina.
Era stata una reazione istintiva ed umana, una delle poche che avesse mai avuto.
Le sopracciglia corrugate di lei lo ingannarono convincendolo ad alzare
le mani ed allontanarsi tuttavia, quando sentì i suoi palmi
posarsi delicatamente sul suo petto, si bloccò. Riportò
lo sguardo sul suo volto e la sua mente si focalizzò nuovamente
sulle labbra di lei e su quello che gli stavano dicendo.
«…un uomo qui davanti ma ora non c’è! Sherlock non capisci…»
Le labbra di Molly si bloccarono ed i suoi occhi guardarono oltre la sua spalla. Una voce familiare lo costrinse a voltarsi.
«Che delusione Mr Holmes. »
Godfrey Norton entrò nella stanza preceduto da uno dei suoi
uomini intento a tenere sotto tiro un disarmato e teso
John. Con un cenno della testa Norton ordinò ai tre di
sedersi sul divano per poi accomodarsi di fronte a loro.
Il sottoposto uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Veramente, veramente deludente.» Incatenò lo
sguardo a quello del detective. Un sorriso algido e innaturale rendeva
inquietante il bel viso dell'uomo. «E' un onore conoscerla
di persona Mr Holmes, dopo così tanto rincorrerci»
«Sono certo che lo sia»
L'uomo alzò un sopracciglio con fare perplesso.
«Prego?»
Il consulente accavallò le gambe.
«Conoscermi...sono certo che per lei sia un onore ma temo di non poter dire altrettanto.»
John strinse i denti agitandosi per la consueta ed inopportuna supponenza dell'amico. Norton sorrise divertito.
«Vedo che il suo carattere non è cambiato Mr
Holmes...è sempre lo stesso scontroso ed iroso
adolescente....»
Il detective si irrigidì ma un rumore sordo oltre la porta attirò l'attenzione dei presenti.
Con un cigolio leggero la porta della stanza si aprì rilevando
un uomo accasciato al suolo e una altera e cupa Sherrinford.
Irene Adler la precedeva con le mani alzate in segno di resa.
«Non sei mai stato bravo a scegliere i tuoi sottoposti, Godfrey.»
Lo sguardo cupo che Norton lanciò alla Donna la costrinse ad
abbassare il proprio. L'umiliazione non donava al bel volto della Adler.
«Ma ho ottime capacità strategiche...»
Il rumore di una pistola che veniva armata fece spostare gli occhi di
Molly sulla mano di Norton. La canna puntava nella sua direzione.
Sherry lanciò uno sguardo in direzione della patologa prima di tornare ad incatenare i suoi occhi a quelli di Norton.
«Una situazione di stallo non la definirei un'ottima strategia.»
Un ghigno si palesò sul volto dell'uomo.
«Di che stallo stai parlando, tesoro?»
Norton osservò divertito il consulente investigativo e poi la Donna prima di tornare ad osservare la sua avversaria.
La mano della Holmes tremò impercettibilmente e Molly
capì. Sherry non avrebbe mai potuto sparare ad Irene Adler, non
avrebbe mai potuto fare una cosa del genere a Sherlock.
Norton si alzò e fece un unico passo in direzione della
patologa. Nonostante la reazione di Sherry fosse stata quella di
avvicinare istintivamente la canna al capo della Donna, Molly
percepì chiaramente come quello fosse un gesto assolutamente
inutile. Godfrey Norton non avrebbe avuto alcuna reazione alla morte di
Irene Adler.
«Va bene, accettiamo lo scambio.»
La voce del detective incrinò inaspettatamente quel silenzio teso.
Molly si voltò per osservarlo. Gli occhi vitrei che fissavano
Norton e la mano destra protesa a mostrare un cellulare nero. La
patologa si immobilizzò alla vista dell'oggetto nero mentre una
preoccupata e perentoria Sherrinford pronunciava il nome del fratello.
La voce calda di Norton e qualcosa che spingeva sul suo maglione in corrispondenza dello stomaco fecero trasalire la patologa.
«Non sarà così sciocco, voglio sperare?»
Il detective gli si avvicinò con un algido sorriso.
«Mi sopravvaluta»
«La mia offerta non è più valida. Perché
dovrebbe esserlo? Ora lei non ha più pedine con cui poter
giocare.»
Molly vide gli occhi del consulente investigativo diventare
improvvisamente più scuri, le dita stringere maggiormente il
cellulare.
La mano libera di Godfrey si allungò in direzione del detective
e fu in quel momento che Sherlock spostò il suo sguardo su Molly
che non poté far altro che sussurrare un sommesso “mi
dispiace”. Non riuscì a decifrare quel lampo che per una
frazione di secondo mutò l'espressione di lui ma sapeva che era
solo e soltanto per lei.
Con passi rapidi Sherrinford si avvicinò togliendo con
nervosismo il cellulare dalle mani del fratello e posizionandosi a
pochi centimetri dal volto di Norton.
«Basta così! Vediamo di risolvere questa situazione senza altre ingerenze o complicazioni.»
Il sorriso dell'uomo, per quanto celato dietro uno sguardo sadicamente
divertito, aveva un che di lontano e familiare, come se le sue labbra
non potessero far altro che reagire alla presenza di Sherrinford.
Irene Adler, ormai libera, si precipitò sull'uomo disteso al suolo e ne prese l'arma per poi indirizzarla verso Sherry.
«Il telefono, Miss Holmes.»
Sherrinford lanciò uno sguardo annoiato in direzione della Donna
prima di riportare gli occhi sul volto di Norton. Dopo qualche istante
di silenziosa riflessione il sorriso dell'uomo si allargò ed
annuì elegantemente.
«Ovviamente la Dottoressa Hooper rimarrà a farci compagnia.»
Sherlock inspirò pesantemente ma la Holmes lo ignorò con eleganza continuando a sostenere lo sguardo dell'uomo.
«Ovviamente...»
Passarono alcuni istanti prima che John li oltrepassasse per avvicinarsi al detective per indurlo al movimento.
Molly, impietrita, lanciò uno sguardo prima al dottore e poi al
detective ma se dal primo ricevette un vago conforto dal secondo non
ebbe alcuna risposta. Sherlock Holmes era immobile, gli occhi cupi e
duri rivolti verso Norton.
Ad un ulteriore richiamo dell'amico il detective si mosse avviandosi verso la porta.
Norton con la coda dell'occhio percepì lo sguardo che John lanciò ad Irene Adler e rise divertito.
«Non tema Dottor Watson, sono un uomo di parola...Irene!»
La Donna sgranò impercettibilmente gli occhi e fece per
rispondere quando lo sguardo severo dell'uomo la bloccò.
Ingoiò nervosamente prima di uscire dalla stanza.
Tutto quello che Molly riuscì a vedere fu la pistola nella mano
della Donna che puntava sui due uomini e gli occhi chiari di Sherlock
che le contraccambiavano lo sguardo.
La porta si chiuse.
Si sentiva incredibilmente a disagio. Certo, uno degli elementi che la
rendevano tale era la pistola che aveva puntata contro ma il vero
problema era l'essere lì, con loro. Era assurdo e
incredibilmente sciocco ma era così: si sentiva a disagio
perché era un banalissimo terzo incomodo! Abbassò lo
sguardo per guardare la punta delle sue scarpe...in fin dei conti le
era capitato tante volte ma questa volta era diverso, pistola a parte.
Sherrinford fece pochi passi verso il camino per poi alzare lo sguardo
sullo specchio che troneggiava sopra di esso e studiare il suo stesso
viso con espressione seria e meditabonda. Norton si voltò per
osservarla e fece segno alla patologa di sedersi prima di avvicinarsi
alla donna.
Molly si accomodò abbassando lo sguardo ed osservando le proprie dita intente a giocare con un filo scucito del divano.
«Questa non c'era...» nonostante si fosse ripromessa di non
voltarsi, il viso di Molly si girò leggermente per capire a cosa
si stesse riferendo la donna e ne vide le dita seguire una ruga leggera
sulla fronte «e queste...» agli angoli degli occhi
«e queste...» intorno alle labbra colorate dal rossetto.
«Se solo ti fossi fidata di me.» La voce dell'uomo era stata un sussurro carezzevole.
La donna si voltò di scatto, lo sguardo cupo e ferito.
«L'ho fatto! E tu mi hai tradito.»
L'uomo raddrizzò le spalle.
«Non è così e lo sai bene. Era necessario.»
«No! Non era necessario, sei tu che lo hai voluto rendere tale mettendo a rischio la mia famiglia e...»
Norton si allontanò con un gesto di palese nervosismo prima di
tornare di fronte alla donna. Gli occhi erano scuri e rabbiosi.
«Famiglia? Di quale famiglia stai parlando Sherry?» La
Donna ebbe un istante di esitazione. «Stai per caso parlando di
quella famiglia che ti ha lasciato vagabondare? Stai parlando di quel
Mycroft che ti ha lasciato marcire in quella specie di covo di matti
per 20 anni o di quel tuo dannatissimo Sherlock che non si è mai
neanche preso la briga di venirti a trovare mentre viveva la sua vita?
Di questa famiglia stai parlando?!»
Sherrinford osservò l'uomo; il suo respiro pesante, le labbra disgustate e gli occhi carichi d'odio.
«Si Godfrey, di questa famiglia...di questa famiglia che, nonostante tutto, non mi ha mai mentito o tradito.»
Un sorriso beffardo e algido si impadronì del volto dell'uomo.
«Non farlo Sherry, non farmi credere di essere stata una delle
tue alternative, sappiamo entrambi che non è così. Questo
proprio non lo merito.»
Il respiro della Holmes divenne incerto e il suo sguardo si abbassò in segno di resa.
Norton continuò a fissarla, lo sguardo perso fra la tenerezza e
l'odio, prima di riprendere il controllo di sé. Gli occhi
guizzarono verso la patologa per poi tornare sulla donna.
«Il telefono Sherry...» la Holmes alzò lo sguardo su
di lui scrutandone l'espressione e Godfrey non poté trattenersi
dal risponderle con un sorriso vago. «...non preoccuparti, non
c'è nulla di realmente rilevante. Sono solo affari, lo
sai.»
La donna scosse la testa sconsolata mormorando un sarcastico “si,
lo so” prima di alzare l'arma e puntarla sull'uomo.
Godfrey sgranò gli occhi ma non reagì; al contrario, mise le mani nelle tasche con fare annoiato ed espressione.
«Non dirmi che di punto in bianco ti ritrovi una coscienze, tesoro!»
Lei sorrise amaramente a quelle parole.
«Se solo fossi stato quel Godfrey che avresti potuto essere.»
«Sono semplicemente ciò che sono, Sherry, non ciò che tu credevi io fossi.»
Lo sguardo velato di tristezza e rammarico di lei fece vacillare la sicurezza dell'uomo.
«No, non si tratta di me. Non si tratta di cosa speravo tu fossi
per me ma solo di cosa tu hai scelto di essere. Ed hai scelto il peggio
di ciò che potevi essere. Esattamente come ho fatto io.»
Nonostante la pistola, l'uomo fece un passo verso di lei.
«Credo invece di essere esattamente ciò che dovevo
diventare per sopravvivere. Sai qual è il punto Sherry? E' che
io non me ne vergogno, io non sono come te. Io non cerco di ripulirmi
la coscienza perché so bene cosa ho fatto e so bene il
perché. Per cui non ho alcuna intenzione di colpevolizzarmi per
delle scelte che, quando ho fatto, ho reputato giuste.»
Lei scosse nuovamente la testa. La voce le uscì strozzata.
«Ma non capisci? Erano giuste per te o per me ma non realmente giuste.»
La voce dell'uomo proruppe lasciandosi dietro una leggera eco.
«Preferivi morire?!»
«Si, se voleva dire essere migliore di come sono adesso. Di come siamo adesso!»
Norton si immobilizzò, lo sguardo sconvolto e le labbra
socchiuse. Sherrinford abbassò l'arma in un gesto carico di
stanchezza.
«Guardaci Godfrey, che cosa siamo? Tu lo sai? Perché io
non lo so. Sento di aver sprecato la maggior parte della mia vita
allontanandomi da tutto ciò che di vero e valido avevo intorno a
me. Non so chi sono, non riesco a guardarmi indietro senza inorridire e
non riesco a guardare avanti perché non vedo nulla. Mi sento
persa ed immobile fuori da tutto ciò che c'è di reale.
Non ho un luogo dove tornare e da poter chiamare casa senza rimpianti,
non ho qualcuno con cui poter stare e che sappia cosa o chi io
sia...»
Una tenerezza intrisa di malinconia si impossessò del volto di
Norton quando lui le si avvicinò accarezzandole con un tocco
leggero il volto.
«Ma io sono qui, tesoro. Io so chi sei. Il fatto è che noi
siamo diversi, il nostro mondo è diverso. E' normale che tu ti
senta così ma è soltanto perché gli altri non
possono capire, non possono capirci.»
Molly percepì quelle parole come un urlo che le rimbombava nelle
orecchie e il volto di Sherlock le si ripropose davanti agli occhi.
«Sai qual è stata la cosa peggiore?» La voce di
Sherry fu quasi un sussurro. L'uomo le sorrise comprensivo in attesa
che lei continuasse. «Accorgermi di non provare più
nostalgia di noi.»
La mano di Norton si fermò per poi allontanarsi lentamente dal viso di lei.
«Non ero preparata ad abbandonare quei ricordi ma è
successo...il problema non sono gli altri e non siamo noi, il problema
è il nostro volerci nascondere dietro l'essere diversi. Non
è vero che gli altri non possono capirci, forse non possono
comprenderci a pieno ma possono capire. Il vero problema è come
noi abbiamo reagito alla nostra diversità, cosa abbiamo fatto
sapendo di sbagliare e cosa non potremo mai perdonarci. Ed è
stato quando ho capito questo che ho anche realizzato di non poter
più provare nostalgia per quello che eravamo perché
eravamo qualcosa di sbagliato, qualcosa che non avremmo dovuto essere.
Eravamo il peggio di noi.»
Una lacrima rigò il volto di Molly ma nessuna quello di Sherry.
Norton sembrava un essere inanimato e vuoto.
Il volto di quell'uomo divenne una maschera immobile mentre quelle
parole vagavano per la sua mente andando a riscrivere, modificare ed
alterare tutti suoi ricordi e le sue percezioni. Molly sapeva che cosa
volesse dire cambiare la propria percezione della realtà. Lo
aveva capito parlando con quell'uomo, rivedendosi e rivendendo il suo
mondo e i suoi ricordi, percependo ciò che da sola non avrebbe
mai potuto capire; ed ora capiva perfettamente cosa Godfrey Norton
provasse, cosa la sua mente lo stava portando a fare e quanto alla fine
avrebbe provato dolore. Cambiare percezione, cambiare la propria
realtà per avvicinarla alla realtà era un processo
difficile, contorto e doloroso, soprattutto doloroso.
Sherrinford abbassò lo sguardo per qualche istante per poi
rivolgerlo alla patologa ed incamminarsi verso di lei. Molly avrebbe
voluto stringerla per quanto quella donna, normalmente fiera e solare,
le sembrasse, in quel momento, fragile e vuota.
Un fruscio leggero le fece voltare entrambe verso Norton. L'uomo, con
volto inespressivo, puntava la sua pistola verso la patologa; gli occhi
vuoti rivolti verso Sherrinford.
«Il telefono.»
La donna non reagì né a quella richiesta né alla
minaccia ad essa connessa e rimase immobile a fissarlo prima di alzare
la pistola e puntargliela contro.
«Godfrey, io non cederò. Sono certa di ciò che voglio essere e fare. E tu?»
L'uomo armò la pistola.
«Mai stato così certo.»
Un boato riecheggiò nella stanza seguito da un assordante rimbombo che fece tremare le pareti ed il pavimento.
Tutto iniziò a muoversi e lentamente a sparire attratto in un
enorme ed implacabile buco nero. Sherlock fece vagare i suoi occhi
intorno a sé cercando di afferrare qualcosa, qualsiasi cosa, ma
invano. Tutto era inesorabilmente troppo lontano e continuava a svanire
in quel buio assoluto che continuava ad avanzare inglobando ogni
più piccolo oggetto e ricordo. Ebbe la netta sensazione che
anche l'aria intrisa di quel profumo a lui familiare stesse divenendo
più rarefatta e pesante. Rimase immobile in attesa di venire
anche esso ingoiato da quel nero assoluto che gli si avvicinava sempre
di più ma arrivato a pochi millimetri da lui sparì. Ora,
di fronte agli occhi sbarrati del detective, c'era solo una parete
vuota del suo Mind Palace.
La voce di John, in principio un eco lontano, si fece largo nella sua mente sino a diventare riconoscibile.
«Oh mio dio...»
Il dottore fece qualche passo in direzione della porta dietro la quale
era stato esploso il colpo ma l'arma di Irene Adler che puntava al suo
torace lo fermò.
Sherlock era immobile, gli occhi fissi su quella porta chiusa e il volto pallido e inespressivo.
Quando improvvisamente la porta si aprì, un'insieme di
informazioni secondarie si insinuarono nella sua mente: Sherrinford che
puntava la pistola verso la Donna intimandole di consegnare la propria
a John, un lamento distante che veniva malamente trattenuto, il vociare
concitato di uomini che si avvicinavano, la pelle eccessivamente
pallida della sorella e il viso alterato da un'emozione non
controllabile. Tutto questo, insieme ad altri infiniti dettagli,
occupò velocemente il suo Mind Palace ma l'unica cosa che
riuscì realmente a vedere fu Molly Hooper. I capelli sul viso,
lo sguardo confuso e sperso e il suo corpo che veniva faticosamente
sorretto da Sherrinford.
Non si rese conto di essersi precipitato su di lei, di essersi
sostituito alla sorella nel sorreggerla e dell'aver iniziato a scrutare
il suo corpo ripetendo sconclusionati e concitati “dove! dimmi
dove!”.
Molly gli strinse un avambraccio attirando gli occhi dell'uomo nei suoi e lui capì.
Con la patologa ancora fra le braccia si voltò verso la stanza ormai quasi deserta.
Godfrey Norton era a terra. Il volto deformato da un'espressione di
autentico dolore mentre con una mano cercava inutilmente di
fermare il sangue che continuava ad uscire dalla spalla destra.
La voce di Sherry attirò l'attenzione dei presenti.
«A te la scelta.»
Molly corrugò la fronte alle parole di Sherrinford ma comprese
ben presto che la donna si stava rivolgendo ad Irene Adler. Ora stava a
lei scegliere se essere la compagna di quell'uomo oppure no.
Il vociare del personale e delle guardie dell'ambasciata stava diventando sempre forte; si stavano avvicinando rapidamente.
Lo sguardo della Donna si fece ansioso, gli occhi vagavano alla ricerca
di non si sa quale aiuto mentre gli occhi della Holmes rimanevano
immobili su di lei.
Le voci erano ormai a pochi metri da loro quando, dopo un ultima
occhiata lanciata in direzione del detective, Irene Adler si
voltò per poi sparire dietro l'angolo.
Lo sguardo carico d'odio che Sherrinford rivolse alla Donna, e
ciò che esso significava, non sfuggì alla patologa ma fu
lo sguardo di amore e tristezza che la Holmes rivolse di sfuggita al
fratello che sarebbe rimasto nel cuore di Molly Hopper per sempre.
Un nuovo rantolo di dolore proveniente dalle labbra tese di Godfrey
Norton fece voltare la patologa verso di lui. Il sangue denso e scuro
continuava a fuoriuscire propagandosi lentamente sino ad arrivare
all'angolo di quel tappeto che lei aveva reso fulcro dei suoi pensieri
solo qualche minuto prima. I disegni e le loro sfumature cromatiche
andarono attenuandosi fino a divenire un unico e piatto color
vermiglio. Non riusciva a separarsi dalla vista di quel sangue,
di quel foro che aveva dilaniato la pelle, i muscoli e le ossa
dell'uomo. Non riuscì a distogliere lo sguardo neanche quando si
sentì strascinare via.
«Andiamo»
Percepì la vibrazione di quel sussurro. Lo sentì vibrare
in quel petto che scaldava la sua schiena e lo sentì
riecheggiare dentro di sé.
Stava per ubbidire, abbandonandosi a quel tono basso e calmo, quando il suo istinto la spinse a fermarsi.
«Sta perdendo troppo sangue, rischia di...»
La voce sofferente e bassa di Godfrey Norton pronunciò il nome della Holmes.
La patologa si fermò voltandosi verso la donna, immobile pochi
passi dietro di lei. La vide voltarsi per poter osservare l'uomo.
«Nonostante tutto, non mi pentirò mai di essere stato il tuo Frey...»
Molly sgranò gli occhi...voleva forse dire che....
Un fruscio leggero del vestito di Sherry accompagnò i pochi
passi che la donna aveva fatto per potersi avvicinare a lui. Si
accovacciò per poter avere il volto a livello di quello
dell'uomo e tolse il fazzoletto dal taschino della sua giacca per
premerlo sulla ferita e limitarne l'uscita del sangue.
«Se solo fossi stato quel Godfrey che avresti potuto essere anche io avrei potuto darti il mio nonostante tutto...»
Il volto di quell'uomo divenne una maschera immobile mentre quelle
parole vagavano per la sua mente andando a riscrivere, modificare ed
alterare tutti suoi ricordi e le sue percezioni.
Sherrinford si alzò e si voltò che ancora l'uomo non aveva concluso quella difficile mutazione.
A passi lenti si incamminò verso di loro per poi superarli ed uscire.
Molly continuò ad osservare quell'uomo che lentamente ma
inesorabilmente comprendeva il tutto e come il suo corpo sprofondasse
sotto il peso di un mutamento così repentino.
Il tocco delicato di Sherlock la fece voltare per poi condurla via e lasciarsi alle spalle Godfrey Norton.
Note Autore:
*La configurazione
del ferro è una citazione a “The third brother”. Per chi non
l’avesse letta o l’avesse dimenticata (eventualità più che
comprensibile dato il tempo passato ^^’), nella storia precedente
Sherry prende
in giro Sherlock perché non si ricorda tutta la tavola
degli elementi ed alla fine, quando lui le dice che i sentimenti sono
solo un difetto chimico, lei sarcasticamente gli risponde che non può
saperlo: “non sai la
configurazione elettronica del ferro, come
puoi conoscere quella dei sentimenti?!”
** Sempre un
richiamo a “The tird brother” quando Sherlock “chiama” Sherry
non riuscendo a vederla. E’ giunto il momento di spiegare questa
cosa del violino e del fischio. Il tutto parte dal film “L’uomo
che sapeva troppo” di Hitchcock. la scena che mi ha ispirato è
quella in cui la madre, per far capire al figlio rapito che sono
vicini a lui, inizia a suonare e cantare la ninnananna che gli
sussurrava tutte le sere (la canzone è
“Que sera sera” che
sicuramente conoscete ^^) e il bambino, in risposta, la fischietta;
così facendo il padre lo sente e lo va a salvare. Lo so, io non sono
Hitchcock e un conto è un film un altro un racconto ma me la fate
passare? ^^
Che dire? Spero che
questo capitolo non vi abbia deluso e che sia tornato al livello di
quelli iniziali. Probabilmente la parte finale e un po' troppo
affrettata e la “scomparsa” della donna troppo repentina ma devo
ammettere che già così è stato fisicamente (lo so, è assurdo ma
vi assicuro che è quella la percezione che ho) stancante. Grazie a
chi è arrivato fino a qui e a chi ancora segue questa storia,
nonostante tutto.
A presto,
Anne ^^
|
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Capitolo 11 *** Aveva immaginato che avrebbe dovuto mettersi in punta di piedi ***
L'errore di Sherrinford Holmes 11
Note Autore:
Salve a tutte/i!
Innanzitutto
grazie a chi ha continuato a seguire questa storia e ha chi l'ha
anche commentata. So che sapete (gioco di parole stupido ^^) quanto
conti per me questa storia e il vostro giudizio e quindi ancora e
mille volte grazie.
Ed
ora, eccoci qui all'ultimo/penultimo capitolo di questa storia.
Perché ultimo/penultimo? Perché dopo questo ce ne sarà un altro ma
di tenore diverso. Come chi mi segue da un po' già sa, non amo
andare troppo fuori dal seminato e cerco sempre di rimanere il più
legata possibile ai personaggi originali. Tuttavia, quando si
scrivono storie lunghe come questa, un'evoluzione dei personaggi è
inevitabile per cui alla fine ci si trova a lavorare su personaggi
che hanno molto della visione di chi scrive. E' per questo che
ufficialmente la storia termina con questo capitolo, con i personaggi
ancora più o meno fedeli a quelli della BBC; ma avendo scritto tanto
su di loro e cambiato molto del loro essere non ho potuto resistere
allo scrivere un capitolo decisamente OOC.
Quindi,
dopo questa ennesima e lunghissima premessa, ciò che voglio dire è:
questo è l'ultimo capitolo ufficiale di “The third brother” ma,
per coloro che non hanno problemi con un po' di OOC o che
semplicemente vogliono un altro po' di questa storia, ci sarà un
ultimissimo capitolo (epilogo, Anne, si dice epilogo!) che ovviamente
sconsiglio a chi vuole concludere questa storia con qualcosa di
credibile e ancora vicino al canone.
Detto
questo, come sempre, a voi l'ardua sentenza.
A
presto,
Anne
^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
Aveva
immaginato che avrebbe dovuto mettersi in punta di piedi
Circondò il bicchiere con
entrambe le mani per trarne il maggior calore possibile e soffiò
sulla piccola apertura del coperchio prima di berne un sorso. Inspirò
e si rannicchiò maggiormente nella coperta guardando di fronte a sé
con espressione assente.
Non riusciva a distinguere le voci
ed i suoni; tutto quello che percepiva era un rumore costante e
inspiegabilmente ovattato del tutto. Il roteare delle eliche
dell'elicottero sopra di loro, le sirene delle macchine della polizia
che andavano e venivano, i passi pesanti degli agenti in tenuta
antisommossa, il gracchiare delle radio e le urla delle persone che
cercavano di sovrastare il tutto.
Vide Mary scendere da un auto
scura e, dopo essersi guardata intorno con espressione preoccupata,
iniziare a correre, alzare con un gesto rapido il cordone giallo che
limitava la zona e gettarsi fra le braccia del marito; le loro labbra
si muovevano freneticamente per raccontarsi l'accaduto. Greg, una
mano fu un fianco e una a reggere un auricolare della polizia di
fronte alle labbra, impartiva ordini con fare stanco ma deciso. I tre
Holmes, in disparte rispetto alla folla, confabulavano guardandosi
intorno con aria innervosita; Molly si fermò ad osservare Sherlock.
Gli occhi dell'uomo osservavano le labbra della sorella muoversi
rapidamente, la bocca era una linea inespressiva e serrata, la
rigidità del corpo era eccessiva persino per lui ed era una chiara
manifestazione del suo nervosismo latente. Lo vide pronunciare brevi
frasi, annuire impercettibilmente, spostare la propria attenzione fra
i due fratelli.
Quando improvvisamente spostò lo
sguardo su di lei Molly reagì abbassando il proprio con fare
colpevole.
«Perché?»
Sobbalzò voltandosi di scatto.
Non si era accorta dell'arrivo di Donovan.
«Come?»
La poliziotta indirizzò la
propria attenzione al detective, che per tutta risposta le regalò
una delle sue espressioni più algide. La donna scosse la testa
sconsolata prima di tornare a rivolgersi alla patologa.
«Perché lui?....Insomma,
con tutte le persone che ci sono al mondo...alle persone Sherlock non
piace.»
Molly abbassò lo sguardo
sul bicchiere.
«Lo so»
«E questo non ti da
fastidio, non gli da fastidio?»
La patologa strinse le
labbra prima di sorridere in direzione della sua bevanda.
«Probabilmente si, gli
darebbe fastidio, se alle persone lui non piacesse a causa di ciò
che è.»
Donovan aggrottò le
sopracciglia non capendo che cosa volesse dire.
«Non piace alle persone a
causa di quello che sono...persone normali.» Inspirò profondamente
prima di alzare lo sguardo per tornare a guardarsi intorno.
«Cresciamo nella convinzione inconscia
e segreta di essere migliori degli altri, di essere speciali.
Scoprire che esiste qualcuno che sarà sempre e comunque migliore di
noi e che, fra le altre cose, non si fa scrupolo di farcelo notare,
ci spaventa. E' naturale, è normale!»
Sally aprì le labbra per
controbattere quando la voce di Lestrade la interruppe.
«Allora,
come andiamo qui?»
Molly sorrise all'amico che
con barba incolta e occhi arrossati dalla stanchezza si avvicinava.
«Sto
bene, grazie.» Lui le sorrise. «Invece
lì? come va?»
Lestrade fece un respiro
profondo prima di lanciare uno sguardo fugace all'ambasciata
circondata da uomini e mezzi della polizia.
«Abbiamo
quasi finito o per lo meno lo spero! Tuttavia...quell'uomo, Norton, a
quanto pare è sparito ed anche quella donna.»
Molly accennò un sorriso
quando la voce del commissario si abbassò nel pronunciare l'ultima
parola.
Dopo un vago momento di
imbarazzo lui si riscosse.
«Comunque,
direi che tu ora puoi andare. Ti faccio accompagnare a casa da una
delle volanti.»
La patologa scosse la testa
con fare divertito.
«Non
serve Greg, davvero. Prenderò un taxi.»
L'uomo le rivolse uno
sguardo severo.
«Non
se ne parla! Hai sentito il medico? Non dovresti neanche restare da
sola per via di quella botta in testa. Fatti al...»
«Ci
penso io.»
Si voltarono verso il
consulente investigativo che si era magicamente materializzato di
fianco a loro.
Lestrade aprì e chiuse le
labbra un paio di volte mentre Sherlock lo guardava con aria
annoiata.
«Beh,
ecco, io...»
Il detective si infilò i
guanti con noncuranza.
«Perfetto!
Molly...»
Una vaga espressione di
stupore mista a panico occupò il volto della donna.
«No,
non serve. Io, ecco, grazie ma posso benissimo...»
Il detective inspirò
nervosamente prima di lanciare un'occhiata al commissario. L'uomo
osservò prima l'uno e poi l'altra incerto sul cosa dire e fare prima
che uno sguardo ancor più minaccioso dell'uomo lo spingesse a
parlare.
«Beh,
Molly...in fin dei conti il medico ha detto che è meglio no?!»
Sherlock alzò spazientito
gli occhi al cielo prima di incrociare i polsi dietro la schiena.
«Grazie
Guy, chiarissimo.»
«Greg!»
Il detective lo ignorò.
«Dopo
di te...»
La patologa guardò con
aria incerta prima Lestrade e poi Donovan per poi alzarsi ed
incamminarsi nella direzione che Sherlock le aveva indicato
allungando il braccio in una sorta di gesto galante.
Mentre a passi lenti si
avvicinava al taxi che aspettava sul ciglio della strada, voltò il
capo in direzione di Sherrinford. La donna, intenta in chissà quale
telefonata, le regalò uno sguardo dolce ed un sorriso accennato
prima di tornare a prestare attenzione al suo interlocutore.
Si mosse nuovamente per
avvicinarsi ancor di più alla portiera dell'auto o per meglio dire
per allontanarsi ancor di più da Sherlock che sedeva alla sua destra
immerso nei suoi pensieri.
Lei, per canto suo, aveva
costantemente guardato fuori dal finestrino lo scorrere rapido della
strada. In quell'orario improbabile Londra era addormentata e vuota,
i lampioni illuminavano le strade deserte e le poche vetture che
incontravano erano i furgoni dei giornali o quelli dei vari mercati.
Alzò lo sguardo verso i palazzi
della City che dominavano il cielo con le loro luci sempre accese a
interrompere il buio di un cielo notturno nuvoloso.
Il suono del cellulare di Sherlock
la riscosse dai suoi pensieri facendola istintivamente voltare verso
di lui.
La luce del display illuminò il
volto dell'uomo marcandone i lineamenti.
«Qualcosa
non va?»
Avrebbe voluto mordersi la
lingua non appena finita la frase. Non aveva deciso di chiudere con
Sherlock Holmes? Allora basta!
«No»
La risposta lapidaria
dell'uomo inaspettatamente la ferì. Strinse i denti per poi tornare
a guardare dall'altra parte.
«Era
solo John...»
Quanto odiava le frasi
lapidarie di Sherlock! Odiava quel suo tentativo vago di fare
conversazione. Perché quello era; dare una informazione incompleta
per stimolare la curiosità del suo interlocutore e portarlo a
chiedere chiarimenti. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo ma non
riuscì a trattenere un interrogativo “mmh” che le uscì dalle
labbra.
«...stanno
tornando a casa e mi chiedeva di te...»
Questa volta si morse il
labbro inferiore per impedirsi di rispondere.
Non appena il taxi si fu
accostato al marciapiede, si precipitò fuori mormorando un vago
saluto. A testa bassa si diresse verso i pochi gradini che la
separavano dall'uscio pregando che lui non scendesse dall'auto ma fu
inutile.
Lo sentì parlare con
l'autista, aprire e chiudere la portiera e percepì l'auto partire
dolcemente.
Respirò pesantemente al
rumore dei passi di Sherlock che si avvicinavano fino a superarla.
Aggrottò le sopracciglia
quando lo vide avvicinarsi alla serratura. Ma certo, le chiavi...
Lui aprì la porta e si
fece leggermente da parte per consentirle il passaggio. Percependo
ancora i suoi occhi su di lei, oltrepassò l'uscio per poi iniziare a
salire lentamente i gradini. I passi di lui, che la seguivano da
vicino, inspiegabilmente le rimbombarono nelle orecchie.
Quando varcò la soglia di
casa ebbe un attimo di esitazione.
Tutto era avvolto dal buio
salvo dei vaghi riflessi di luce provenienti dai lampioni e i neon
della strada che illuminavano parti della stanza.
Aveva rimosso come era
stata lasciata la casa. Alcuni ripiani della libreria ancora a terra,
un tavolino sdraiato sul tappetto arricciato in un angolo, la cucina
non ancora completamente pulita.
Le sembrava passata
un'eternità da quando...la sua mente fu invasa dai ricordi.
Sherrinford sul suo tavolo,
il sangue che le colava sulla schiena. Sherlock che si aggirava con
fare disinvolto per il suo salotto, “da quando sei così
perspicace?”. Godfrey Norton seduto sul suo divano che le
sorrideva. Donovan che le chiedeva che cosa fosse successo, se lui le
aveva fatto del male.
Portò istintivamente la
mano alla fronte in corrispondenza della ferita. Un'espressione vaga
di sofferenza le deformò le labbra.
«Cosa
c'è? Fammi...»
Aveva percepito il tono
preoccupato ma si ritrasse quando lui fece per allungare una mano
verso la sua fronte.
«Sto
benissimo!»
Voleva dare alla sua voce
un tono duro ma quello che uscì dalle sue labbra lo fu decisamente
troppo.
Si voltò di scatto quando
vide gli occhi di lui cercare i suoi con aria investigativa.
«Grazie
di tutto, Sherlock. Ora scusami ma ho proprio bisogno di sdraiarmi.»
Senza aspettare risposta
andò a passi decisi verso la camera da letto per poi chiudersi la
porta alle spalle. Tolse le scarpe e si sdraiò sul letto ancora
vestita rannicchiandosi sotto il piumone, le palpebre strette per
cercare di sollecitare l'arrivo del sonno.
Si svegliò di soprassalto.
Il respiro affannato, la
schiena madida di sudore e gli occhi sgranati.
«Non
è così semplice, Molly.»
La patologa si voltò in
direzione della sua poltrona. Il sorriso dolce e malinconico di
Sherrinford riusciva quasi a stagliarsi nel buio.
«Non
si può semplicemente chiudere gli occhi e lasciare tutto il resto
fuori, credimi.»
La patologa si tirò su per
appoggiarsi allo schienale del letto. Il suo corpo era un ammasso di
muscoli doloranti.
«E
allora come si fa?»
La bella Holmes si alzò
per poi sedersi ai piedi del letto.
«Non
si fa.» Lo sguardo perso della patologa convinse l'altra ad
avvicinarsi per stringerle la mano con fare consolatorio. «Mi
dispiace Molly, è tutta colpa mia...» la patologa iniziò a
scuotere la testa «....ha ragione Sherlock.»
Il capo di Molly si bloccò
a quelle parole.
«Cosa?»
L'altra abbassò lo
sguardo.
«Sherlock
è infuriato con me per averti coinvolto in tutta questa storia ed ha
ragione. Non avevo alcun diritto di...»
La patologa le strinse la
mano con affetto e decisione.
«No
Sherrinford. Tu non hai nessuna colpa, sono stata io a...»
«Lo
sai da quanto tempo è che non riesco più a dormire?»
Molly corrugò la fronte
con aria confusa.
«20
anni! E' da più di 20 anni che non riesco a dormire come fanno tutti
gli altri. Ogni volta che chiudo gli occhi i miei errori, le mie
scelte, le mie azioni mi si ripresentano davanti agli occhi.
Costantemente ed interrottamente...»
Molly ingoiò nervosamente
il nulla e Sherrinford le lasciò la mano allontanandosi nuovamente
da lei.
«Anche
Sherlock...»
La Holmes sorrise
malinconica guardando fuori dalla finestra prima di portare i suoi
occhi in quelli di lei.
«Secondo
te perché è arrabbiato con me?»
La voce sarcastica e
vagamente divertita della donna la spiazzò.
La mente di Molly palesò
un “per me?!” che le sue labbra si rifiutarono di pronunciare.
Sherry le sorrise con aria
complice ma la patologa si riscosse da quella specie di stato
meditativo scuotendo vagamente la testa.
«No
Sherrinford...» la donna aprì maggiormente gli occhi con
fare sorpreso. «Non è come credi tu. Il
problema sono io, il mio essere la più debole, l'anello debole.»
La Holmes aggrottò le
sopracciglia con aria dubbiosa. Molly respirò pesantemente parlando
più a se stessa che all'altra.
«Lo
sapevo che aveva ragione lui»
Sherry le si avvicinò con sguardo
indagatore.
«Lui
chi? Di che cosa stai parlando?»
Le dita della patologa
iniziarono a giocare con le pieghe del lenzuolo.
«Mentre
ero lì....beh, insomma si, ho riflettuto su molte cose ed anche
parlando con Mr Norton, io ho capit....»
«Che
cosa?!» Il tono perentorio e astioso della donna la fece
intensivamente ritrarre in sé stessa. «Non
dirmi che hai dato retta alle parole di Godfrey?! Dio mio, Molly,
eppure ti avevo messo in guardia da lui.»
Lo sguardo di Molly vagò
disperatamente per la stanza. Com'era possibile che il tono di
rimprovero degli Holmes la facesse sempre sentire così male?!
Strinse il lenzuolo fra le
dita cercando di trarne chissà quale coraggio.
«Non
mi ha detto niente che io non sapessi già. E' solo che mi ha aiutato
ad ammetterlo.»
«Ah
davvero?!»
Il sarcasmo nella voce
della donna la ferì costringendola ad alzare lo sguardo per
rispondere al suo.
«Si,
davvero! Ho sempre saputo di far parte di un mondo diverso da quello
di Sherlock e lo sai anche tu.» Gli occhi di Sherrinford
ebbero una momentanea insicurezza. «Ma ora ho
veramente capito che non solo siamo due mondi diversi ma che siamo
anche inconciliabili.»
Sherrinford scosse la
testa.
«Ma
Sherlock...»
«Il
problema non è lui, sono io! Io non appartengo al vostro mondo...»
«Ma
quale mondo?!»
«Il
vostro! Quello tuo, di Sherlock, di John, di Mary, perfino di Mrs
Hudson...»
Sherrinford inspirò
profondamente.
«Ascoltami,
Molly. Non si tratta del tuo o del nostro mondo ma dei nostri mondi.
Nessuno di noi è uno scompartimento stagno separato da tutto e
tutti. Ci influenziamo e mutiamo di conseguenza.»
«Sherry,
lo sai che cosa intendo dire...»
Le due donne si guardarono
per qualche momento prima che la Holmes accennasse un'alzata di
sopracciglia in segno di resa.
«Potremmo
dire che se proprio un mondo deve esserci tu ne sei quella più al
margine, ecco.»
«Sono
l'anello debole, Sherry, e non voglio più esserlo.»
«Questa
scelta puoi farla solo tu Molly e non mi permetterei mai di
interferire con essa...» la patologa le strinse le mani con
fare riconoscente «...però, il fatto che tu
possa essere considerata una debolezza di Sherlock vuol dire che...»
Molly abbassò lo sguardo.
«Non
sono una debolezza di
Sherlock, sono una debolezza per
Sherlock...»
«Ma
lui ti...»
«Sherrinford,
tu sei una sorella fantastica ma non puoi decidere per Sherlock...o
per me.»
Sherry non poté
controbattere a quella realtà e tacquero per qualche tempo prima che
Molly rialzasse lo sguardo sulla donna studiandone il viso.
«Poso
farti una domanda?»
L'altra le sorrise
amorevolmente.
«Quando
Norton ha detto....beh, ecco, quando ha detto di non pentirsi di
essere stato il tuo Frey...» Sherry annuì per convincerla a
proseguire. «pensi che lo abbia fatto di
proposito? Intendo il farsi sparare.»
Sherrinford respirò
pesantemente.
«Non
lo so»
La patologa esitò per un
istante prima di avvicinarsi alla donna.
«Come
stai Sherry...veramente?»
La bella Holmes sorrise a
quella donna ai margini di quello che pensava essere il loro mondo e
che cercava comunque di aiutarla.
«Potrà
sembrarti banale da dire ma ho solo bisogno di tempo.»
Molly annuì leggermente.
«Già,
fa miracoli.»
Sherry scosse il capo.
«Non
è il tempo che fa miracoli. E' la nostra mente...con il tempo ogni
emozione, preoccupazione e timore, se non coltivata, si attenua fino
a sparire e diventare un semplice ricordo. Ho solo bisogno di questo,
che diventi solo un ricordo.»
Molly non riuscì a
trattenersi dal guardarla con fare malinconico. Non aveva mai visto
così tante sfaccettature in un unica persona come le aveva viste in
lei; un mosaico di esperienze, idee e emozioni impossibili da poter
gestire per unico essere. Eppure lei era là, eppure lei era una
Holmes. Forse...
La vibrazione del cellulare
nella tasca di Sherry le riportò alla realtà.
Si sorrisero.
«Molly,
io non voglio forzarti però una cosa voglio dirtela....suppongo che
lui ti abbia raccontato di quella leggenda...» La patologa
annuì arrossendo leggermente. «Beh, sai qual
è la vera storia di Frey e Gregor? Lei non ha deciso liberamente di
sposarlo, è lui che l'ha fatta rapire e che l'ha ricattata...Non
dico di essere stata rapita ma ingannata si. Sia da lui che da me
stessa. Per questo ti prego di non dare credito alle sue parole e
cerca di riflettere bene sulle tue.»
Molly strinse le labbra e
le sorrise promettendole implicitamente che l'avrebbe fatto. Sherry
rispose al suo sorriso e si protese in avanti per stringerla in un
abbraccio caloroso alla quale l'altra rispose prontamente.
Poi Sherrinford Holmes aprì
la finestra e con un sorriso leggero se ne andò.
La luce tenue dell’aurora
stava iniziando a mutare i colori e le forme della stanza. Le
sfumature tenui del viola, del giallo e dell’arancio cercavano di
imporsi al buio più nero ridando densità e contorni a tutte quelle
forme che la notte sembrava aver annullato.
Molly si fermò studiando
quell’insieme tenue di colori che lentamente scoprivano Sherlock
addormentato sul divano. I suoi avambracci, lasciati scoperti dalle
maniche malamente arrotolate, rivelavano il vago bluastro della
arterie che la sua pelle diafana non riusciva a celare; il collo
veniva tradito dai raggi solari mostrando i ricordi di cicatrici
ormai passate; i ricci scomposti e caotici erano un insieme di
sfumature di colore come un tripudio di foglie autunnali.
La donna fece solo alcuni
passi verso di lui; i piedi nudi, ancora leggermente umidi dopo la
doccia che si era concessa, posati cautamente sul tappeto.
Un’espressione contornata
dalla tristezza le si dipinse sulle labbra.
Il volto di Sherlock era
stanco e preoccupato. Ad uno spettatore esterno non avrebbe dato
quell’impressione ma lei, lei che conosceva ogni sua piccola
imperfezione, ogni sua piccola ruga, ogni suoi piccolo particolare,
lei lo sapeva. Non avendo mai avuto veramente il coraggio di guardare
Sherlock, Molly aveva imparato ad osservarlo nei riflessi degli
specchi, quando si voltava per andare via, quando studiava i suoi
casi, quando, insomma, era Sherlock; quindi, avendo dovuto
conquistare il suo volto, aveva imparato a non guardarlo
semplicemente ma a ricordarlo.
Per questo, Molly Hooper
sapeva che per quanto il volto di Sherlock Holmes in quel momento
potesse risultare indifeso, sereno, quasi inespressivo, in realtà
celava altro. Le sue labbra perfettamente chiuse erano il segno che
aveva deciso di abbandonarsi al sonno e non che ne fosse stato
rapito; la rigidità delle sue sopracciglia rappresentava il suo
essere rinchiuso nei suoi pensieri; la piccola ruga fra di esse era
la manifestazione della sua preoccupazione latente; le ciglia non
perfettamente serrate, infine, confermavano il fatto che non si fosse
addormentato da molto.
Allungò una mano per
prendere il cappotto dell’uomo, che giaceva su di una sedia,
percependolo più pesante di quanto si aspettasse. Lo strinse a sé
sorridendo per quella moderna armatura che l’uomo considerava
ineliminabile ed essenziale per essere ciò che era.
Fece qualche altro passo
per arrivargli vicino a lui, coprirlo e sedersi sul tavolino di
fronte. Sapeva che lui aveva già percepito la sua presenza. Lasciò
vagare i suoi occhi sul suo volto ancora per qualche istante per poi
abbassare lo sguardo.
«Non era necessario che
restassi.»
Ne percepì il movimento.
Il leggerissimo mugolio derivante dai muscoli doloranti dopo la
nottata praticamente insonne; il fruscio dei vestiti mentre si
metteva seduto; i suoi occhi che la scrutavano.
Lei non alzò i suoi.
«No.»
Molly spostò leggermente
il volto per andare ad osservare un fascio di luce. La polvere vagava
libera nell’aria restituendo strani e tenui riflessi.
Senza guardarlo in volto si
alzò andando in cucina e attaccando il bollitore.
«Vuoi qualcosa? Un caffè?»
Il suo tono di voce risultò
impostato e falso anche a sé stessa.
Il silenzio dell’uomo
seguito poco dopo da uno strofinio di vestiti, segno che aveva
indossato il suo fedele Belfast, le fecero stringere denti, pugni e
palpebre.
Una debolezza. La più
debole.
Inspirò cercando di
ricomporsi e sbattendo le palpebre un paio di volte per concentrarsi
su ciò che fosse reale.
Si voltò ed andò a passi
spediti verso di lui, un sorriso innaturale e tirato sulle labbra.
«Grazie.»
Gli occhi di lui.
Doveva ancora imparare a
non reagire ai suoi occhi, a sostenere quello sguardo, quello sguardo
che la scrutava
e
studiava, quello sguardo che ogni volta l’aveva portata ad aprirsi,
a parlare con lui, a far cadere le sue strutture.
Tuttavia lo aveva deciso,
lo doveva, non poteva, non voleva ma doveva
fare.
Per cui, quella volta, solo e soltanto quella volta, lo sguardo di
Molly Hooper non rispose allo sguardo di Sherlock Holmes rendendosi
quello specchio vuoto che tanto spesso erano stati gli occhi di lui.
«Non devi ringraziarmi
Molly…»
Un vago movimento delle
labbra di lei fu l’unica risposta che ricevette prima che lei
abbassasse gli occhi rendendogli di nuovo impossibile tentare di
comprenderla.
Aprì la porta indugiando
per qualche istante, per poi superare l’uscio e chiuderla dietro di
sé.
Lei strinse le labbra, il
fiato ancora trattenuto per cercare di capire cosa lui stesse facendo
e forse pensando. Non percepiva rumori o fruscii. Sapeva che il
pavimento del suo pianerottolo si lamentava costantemente di chi lo
calpestava, che i bottoni del cappotto di Sherlock avrebbero
ticchetto lungo la grata della rampa di scale troppo stretta, che
l’eco del portone, anche se chiuso con attenzione e delicatezza,
era sempre e comunque percepibile. Sapeva tutte queste cose, di
conseguenza, sapeva anche che Sherlock era lì, dietro la sua porta,
immobile, probabilmente in attesa come lei.
Doveva semplicemente
andarsene. Doveva voltarsi, andare in cucina, spegnere il bollitore e
farsi il caffè. Lui l’avrebbe sentita e sarebbe uscito dalla sua
vita. Tuttavia non ci riusciva, non riusciva a muoversi, non riusciva
a convincersi di quello che stava facendo.
Il suono del Belfast che
strisciava lentamente sul legno della sua porta e la suola delle
scarpe che si opponeva al tessuto del suo zerbino le diedero conferma
che Sherlock era lì e che si era voltato verso la sua porta, in
attesa che lei decidesse cosa fare.
Istintivamente fece quei
pochi passi che la separavano dall'uscio e si fermò.
Ora erano lì, uno di
fronte all’altro, separati solo dalla sua porta di legno bianco.
Lui percepiva il suo
respiro, l’ombra delle sue gambe frapporsi alla luce che passava
dalla fessura sotto la porta, le unghie corte delle dita di lei che
si poggiavano su uno dei pannelli di legno.
Lei sentiva la sua
presenza. Percepiva sempre e comunque Sherlock, in ogni momento, in
ogni contesto, come una sensazione che la circondava più che come
una presenza fisica che le si accostava.
Lo sguardo della donna,
fino a quel momento perso nelle venature del legno, si spostò sulla
maniglia in ottone. Vide la sua mano afferrarla.
Il fischio del bollitore la
fece sussultare inaspettatamente ed eccessivamente.
Corse fino in cucina per
spegnerlo.
L’eco del portone
d’ingresso che si chiudeva la fece voltare di scatto.
Tornò alla porta e l’aprì
improvvisamente.
Non riuscì ad evitare gli
occhi di Sherlock che, ancora immobile sul suo zerbino, la studiarono
rapidamente percependone la preoccupazione, la tristezza, la
delusione e la paura.
La patologa si immobilizzò
non riuscendo a distogliere lo sguardo.
«Vuoi costringermi a dirti
addio, Molly Hooper?»
Lei strinse i denti per
cercare di controllarsi, gli occhi ancora incatenati a quelli di lui,
la voce un sussurro strozzato.
«Mi hanno usato ancora
contro di te…» l’uomo corrugò la fronte e fece per parlare ma
lei non si fermò. «…non voglio essere una debolezza per te.»
«Sei tante cose, Molly Hopper,
fuorché una debolezza»
«Se non fosse per me tu...»
L'uomo fece un passo
avanti. Un lembo del suo Belfast a sfiorare una gamba di lei.
«Se non fosse per te, Molly, io
non sarei qui.»
Fece vagare i suoi occhi
sul volto di lei cercando di capirne i pensieri.
«Sherlock, io sono una
persona normale, appartengo ad un mondo normale ed è giusto che…»
L’uomo le si avvicinò
ancora tanto da bloccare il suo fiume di parole e costringerla ad
alzare nuovamente gli occhi. Quelli di lui erano vitrei e severi.
«Di cosa stai parlando?!»
La donna si guardò intorno alla ricerca di qualche irreale aiuto.
«Non intendo rispondere alle frasi insensate di quell’uomo.»
«Non sono frasi insensate!
Lui ha ragione, lui sa…»
«Lui non sa niente! E mi
rifiuto di pensare che tu possa avergli creduto anche solo per
un’istante!»
«Non voglio vederti
morire.»
L'uomo si immobilizzò, gli
occhi quasi spalancati ad osservarla. Il leggero tremito del corpo,
il respiro pesante, le lacrime trattenute.
Inspirò pesantemente prima
di abbassare lo sguardo, sorridere e rialzarlo su di lei.
«Non sarebbe una novità.»
Molly strinse le labbra
corrugando la fronte.
«Ma
non per causa mia.»
«Non credi che spetti a me
decidere?»
Molly non riuscì a
trattenere un sorriso triste prima di scuotere la testa convinta.
«No.
Spetta a me.»
Rimasero lì, in uno di
quei silenzi unici e calmi delle prime ore del giorno e non si
mossero neanche quando la radiosveglia di Molly proruppe invitando la
città a svegliarsi.
“Buongiorno Londra!
Avanti! Alzate le chiappe
e date il benvenuto a questo freddissimo 6 Gennaio.
Il più freddo da qui a
ben 50 anni, dico bene Frank?”
“Dici
benissimo Paul, infatti le previs...”
Gli occhi di Molly si
spalancarono ed alzò il volto all'improvviso per incontrare quello
divertito e offeso dell'uomo.
«Non
ti facevo così insensibile Molly Hooper...proprio oggi...»
La patologa non
riuscì a trattenere un deciso
“No”
prima che un sorriso sincero si aprisse sul volto dell'uomo.
Lei
rilassò le spalle cercando inutilmente di non rispondere a quel
dannato sorriso. In fin dei conti, ormai l'aveva preso. Non ci
avrebbe fatto niente e gli avrebbe sempre fatto tornare in mente lui.
Sospirò
pesantemente prima di voltarsi, andare ad aprire un'anta della
libreria e tirarne fuori un libro.
Tornò da lui
porgendoglielo con finta aria disinvolta e cercando di non sorridere.
«Volevo
incartarlo ma poi, sai...»
Sherlock
prese il libro dalle mani di lei e lo osservò prima di alzare un
sopracciglio dubbioso.
«Pensavo
che ti servisse una versione più aggiornata sulla storia della
pirateria.»
Lui
voltò il libro per leggerne la presentazione sul retro e le rispose
con aria distratta.
«Questo
è sui corsari. E' differente...»
Molly
lo guardò con aria maliziosa quando lui si bloccò ed assunse
un'aria vagamente imbarazzata per essere stato ingannato così
facilmente rivelando la sua debolezza infantile. Le labbra di Molly
si aprirono finalmente ad un sorriso sincero.
Il
detective infilò il regalo in una tasca del cappotto prima di
alzarne un bavero per andare a cercare qualcosa in una tasca interna.
Con
aria confusa Molly lo osservò estrarne un oggetto avvolto in una
banale carta velina marrone. Scrutò il volto inespressivo dell'uomo
che le porgeva l'oggetto.
«Sherlock,
pensavo che almeno questo ti fosse chiaro. A Natale si scambiano i
regali mentre per il compleanno si ricevono e basta.»
Per
tutta risposta l'uomo alzò un sopracciglio senza, tuttavia,
desistere dal porgerle il pacchetto.
La
patologa guardò alternativamente l'uomo e l'oggetto per poi
allungare una mano e prenderlo.
Lo
scartò con aria disinteressata prima di bloccarsi.
Le
mani le tremarono leggermente e gli occhi furono immediatamente
coperti da un velo di lacrime. Si girò con uno scatto verso il
tavolino accanto alla sua poltrona preferita prima di tornare a
voltarsi verso Sherlock, lo sguardo ancora fisso sulla cornice che
racchiudeva la foto di lei e suo padre.
Il
foro non c'era più.
«Come
hai fatto?»
La
sua voce era solo un sussurro.
Sherlock
fece un passo incerto verso di lei.
«Ti
interessa veramente?» Lei scosse la testa stringendo le labbra e
trattenendo a fatica le lacrime. «Mi dispiace Molly...perdonami.»
Alzò
gli occhi per incontrare quelli di lui. La sua mente si riempì di
tutti quei ricordi di Sherlock che aveva voluto allontanare da sé.
Quello che lei si era ostinata a definire e relegare a il suo
Sherlock si sovrappose e impose
allo Sherlock Holmes
che così freddamente aveva creato in quegli ultimi giorni. Riconobbe
in quel gesto tutti quelli che Sherlock aveva per John, Mary, Sherry
e Mrs Hudson, gli stessi gesti che aveva avuto anche per lei. Sentì
il suo cuore riempirsi man mano che gli sguardi di lui, i suoi
sorrisi e le su parole tornavano a reclamare quel luogo che era stato
loro per così tanto tempo. Era veramente così debole? Le bastava
veramente così poco per cedere e cambiare? Per cancellare tutto ciò
che si era ripromessa di fare e dire?
Lui
la guardò e le sorrise con lo stesso sguardo e le stesse labbra con
cui una volta le aveva augurato fortuna in un ingresso grigio di un
palazzo qualsiasi*. Ma questa volta era diverso. Questa volta
quell'espressione fu accompagnata da un tocco leggero che le
accarezzò una tempia per proseguire sulla sua nuca, sul collo e poi
arrivare a cingerle le spalle e stringerla a sé.
Il
respiro di liberazione che uscì dalle labbra di lei fu il colpo di
grazia che Sherlock Holmes diede a Godfrey Norton.
Non
avrebbe saputo descrivere quella sensazione, non era certa che fosse
reale. In realtà, non era certa se tutto quello fosse reale. Avrebbe
potuto essersi ingannata? Avrebbe potuto essere un sogno. Dopotutto,
ne aveva fatti così tanti.
Inspirò
sentendo l'odore di Sherlock a pochi millimetri da lei, strinse le
dita intorno al tessuto della camicia di lui che gli copriva la
schiena, ascoltò il battito del suo cuore, calmo e regolare; alzò
lo sguardo per vedere come fosse il suo volto da una prospettiva e
una vicinanza che mai avrebbe sperato.
No,
non poteva essere un sogno. Non poteva essere riuscita ad ingannarsi
così bene. Non poteva essere riuscita ad ingannare tutti i suoi
sensi.
Non
tutti, Molly.
Quella
vocina nella sua testa la prese alla sprovvista ed istintivamente si
strinse maggiormente a lui. No, non avrebbe potuto sopportare che
anche quella volta fosse solo e soltanto un sogno.
In
risposta a quella stretta, Sherlock si mosse leggermente spronandola
silenziosamente ad alzare lo sguardo. Corrugò la fronte e studiò
gli occhi di lei per cercare di capire che cosa la turbasse.
Dopo
un primo momento di esitazione lei gli sorrise.
Se
è solo un sogno che problema c'è? Lo hai già fatto miliardi di
volte...
Aveva
immaginato che avrebbe dovuto mettersi in punta di piedi ma non così
tanto e ringraziò il cielo che la sua visione, sorridendole, si
abbassasse su di lei per aiutarla a baciarlo.
Più
che un bacio fu uno sfiorarsi di labbra ma fu quello a darla la
certezza che quello di fronte a lei fosse Sherlock Holmes, che tutto
quello fosse reale e che era quello il momento di iniziare ad
arrossire. Fece per abbassare i talloni così da tornare a percepire
il suolo e la realtà quando lui si abbassò nuovamente su di lei per
rispondere a quel semplice sfiorarsi di labbra con qualcosa di
decisamente più simile a un bacio.
In
principio si lasciò baciare, prima di spostare le sue mani dalla
schiena al petto di lui per poi salire e andare a cingergli il collo.
Percepì l'abbraccio di lui farsi più serrato e adorò il fatto di
non dover più far affidamento sulle sue gambe per sorreggersi. Lui
bastava per entrambi.
Le
sfuggì un mugolò disapprovazione quando le labbra di lui si
allontanarono e si ritrovò a dover utilizzare nuovamente i suoi
piedi.
Aprì
gli occhi con espressione contrariata, le dita ancora strette al
colletto della camicia di lui.
Sherlock
sorrise divertito a pochi centimetri dal suo volto ed alzò un
sopracciglio perplesso.
«Credo
stia cercando te...»
La
patologa ci mise qualche istante prima di registrare le parole di lui
ed ancor più tempo per realizzare che qualcuno stava bussando alla
porta chiamando il suo nome.
Sgranò
gli occhi lasciando la camicia di lui e cercando inutilmente di
sistemarsi i capelli.
«Meena...»
Al di
là della porta l'amica reagì a quel richiamo anche se appena
sussurrato.
«Molly!
Oddio Molly, stai bene? Perché non apri? Sei svenuta! Oh mio Dio sei
svenuta! Riesci a raggiungere la porta? Aspetta, non preoccuparti, ci
penso io! Chiamo i pompieri!»
La
patologa sorrise divertita per il panico illogico dell'amica e dopo
aver lanciato uno sguardo imbarazzato a Sherlock, che si era fatto da
parte per lasciarla passare, andò verso la porta.
«Meena,
se fossi svenuta...» la porta si aprì, rivelando una Meena
allarmata e vestita in maniera sconclusionata. «non potrei
risponderti, non credi?»
La
donna buttò le braccia al collo della patologa.
«Oh
cielo! Quando mi ha detto quello che è successo non potevo crederci!
Perché non mi hai chiamato? Sarei venuta qui ieri sera. Non dovresti
rimanere da sola e...»
Lo
sguardo della donna fu attirato dall'uomo che a pochi metri da loro
le osservava imperscrutabile.
«E
lui che ci fa qui?»
Sherlock
alzò gli occhi al cielo prima di voltarsi ed andare a guardare fuori
dalla finestra senza nessun motivo plausibile.
Molly
guardò con preoccupazione l'una e poi l'altro prima di attirare
l'attenzione dell'amica.
«Mena
ma di chi stai parlando? Chi ti ha detto cosa...?»
Lo
sguardo astioso della ragazza indugiò ancora qualche istante sulle
spalle dell'uomo prima di voltarsi verso l'amica e riprendere la sua
espressione preoccupata.
«Mr
Mycroft ovviamente! Quell'uomo è davvero un angelo. Era così
preoccupato per te! Mi ha chiamato mezz'ora fa e mi ha raccontato
tutto: che ti sono entrati i ladri in casa, che tu li hai scoperti e
per questo loro ti hanno colpito. Mi ha chiesto se potevo venire a
controllare che stessi bene...che gentilezza, che signorilità!
Uomini così ormai non si trovano più.» abbracciò nuovamente
l'amica che rivolse uno sguardo perplesso e stupito a Sherlock al
quale lui rispose muovendo la testa sconsolato e regalandole uno
dei suoi sorrisi a mezza bocca.
Meena
liberò nuovamente l'amica per poi dirigersi in cucina.
«Allora
di cosa hai voglia? Ora che ci penso, puoi mangiare o no? Ho letto su
internet che dopo una botta in testa non si dovrebbe...ma hai usato
il bollitore?! Mai sei impazzita! E se svenivi nel mentre?! Avresti
potuto....»
La
patologa scosse la testa sconsolata mentre l'amica continuava a
elencare rimedi casalinghi e preoccupazioni illogiche. Poi incontrò
lo sguardo di Sherlock che divertito le si avvicinava.
Erano
nuovamente persi in quella specie di mondo parallelo e lui fece per
dire qualcosa quando Meena fece capolino dall'isola della cucina.
«Può
andare Mr Holmes, ora ci sono io.»
L'uomo
le lanciò un'occhiata fugace mentre Molly si voltava redarguendola
con lo sguardo e mimandole con le labbra di tacere.
«Me
ne stavo giusto andando»
La
patologa si voltò nuovamente verso di lui con aria sorpresa e
dispiaciuta.
Non
appena il voltò di Meena sparì dietro l'angolo lui le si avvicinò
maggiormente, la voce bassa e calda.
«L'auto
di Mycroft è qui sotto da mezz'ora.»
Molly
abbassò lo sguardo e sorrise. Due dita a giocare con un bottone
della camicia di lui.
Ecco
perché aveva chiamato Meena, Sherlock lo stava ignorando. Sbuffò
interiormente: lei aveva aspettato anni per avere Sherlock dieci
minuti per sé, lui poteva aspettare mezz'ora.
Espirò
leggermente facendo tornare la sua parte razionale e accompagnando
Sherlock verso la porta.
Una
volta sull'uscio lui si voltò e la guardò con un'espressione che
Molly avrebbe imparato a riconoscere e amare come nessun'altra.
Lei
gli si fece ancora più vicina.
Una
voce perentoria e fredda echeggiò nella stanza.
«Grazie,
Mr Holmes!»
L'irrigidimento
della mascella accompagnato da uno sguardo vitreo carico d'odio di
lui e una nuova e più inquietante occhiataccia di lei, fecero
nuovamente rintanare Meena dietro l'angolo della cucina.
Molly
si voltò per l'ennesima volta verso Sherlock e fece per dire
qualcosa quando sentì le labbra di lui prendere le proprie e le dita
circondarle il volto. La sorpresa sul volto della patologa durò
appena pochi istanti prima di ricambiare, con medesimo trasporto, il
bacio.
Vacillò
un attimo quando la lasciò e fu certa che il suo sorriso, in
risposta a quello che luile rivolse prima di scendere rapidamente le
scale, fosse decisamente ebete.
Rimase
immobile, sorriso ebete incluso, per alcuni secondi prima di sentire
il portone del palazzo cigolare; si voltò quindi di scatto e dopo
aver con decisamente poca eleganza scavalcato la lampada che giaceva
a terra non considerata, si diresse alla finestra giusto in tempo per
vederlo uscire, lanciare uno sguardo nella sua direzione e salire in
macchina.
Con
una lentezza disarmante si sedette sul divano. Un sorriso leggero,
gli occhi persi a fissare un punto indefinito e due dita a sfiorarsi
le labbra.
Non
poteva crederci, non poteva crederci, non poteva crederci, non...ok,
basta! Il concetto era chiaro. Il punto era: e adesso? Cosa sarebbe
successo, cosa avrebbe fatto lei e cosa avrebbe fatto lui?
Forse avrebbero dovuto parlarne, anzi dovevano parlarne, si ma come?
“Che freddo che fa oggi, vero? A proposito, riguardo all'altro
giorno, sai quando ci siamo...” Ok no, decisamente no. E allora?
Cosa doveva fare? Insomma, in una situazione normale lui si sarebbe
fatto vivo e probabilmente sarebbero andati a cena da qualche parte e
poi...Ma quella non era una situazione normale, lui non era una
persona normale e lei, ormai lo aveva capito, non era una persona
normale.
Sorrise
guardando la foto di lei e suo padre che, non si ricordava bene
quando, aveva posato nuovamente sul tavolino accanto alla poltrona.
Quella foto non sarebbe più stata la stessa ai suoi occhi. Quella
foto era la rappresentazione reale e tangibile dell'esistenza del suo
Sherlock.
Note Autore:
*Non
so se si capisce ma mi riferisco alla scena de “La casa
vuota”....spero si capisca ^^
Premetto
che non sono molto convinta del finale ma non sapevo bene come
muovermi, un po' come Molly insomma ^^.
Che
dire? Mi dispiace dover abbandonare questa storia, i suoi personaggi
e la mia/nostra Sherrinford ma prima o poi doveva succedere e, al di
là di tutto, sono contenta (e spero lo siate anche voi) di averla
portata a compimento. Il mio unico e vero rammarico è stato il tempo
e l'aver abbandonato questa storia rendendomela, e temo rendendovela,
in un qualche modo estranea in certi punti (se dovessi scegliere fra
questa e “The third brother” sceglierei sicuramente la prima) ma
ormai è cosa fatta.
Per
tutte/i coloro che si fermeranno qui, vi saluto e vi ringrazio nella
speranza di vederci (se così i può dire) molto presto. Di idee in
mente ne ho tante, bisogna vedere solo se e quando usciranno. ^^
Per
tutti gli altri, ci vediamo nel prossimo capitolo!
Grazie
per essere arrivate/i fino a qui e a presto,
Anne
^^
|
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Capitolo 12 *** Non potevo accontentarmi di meno ***
L'errore di Sherrinford Holmes 12
Note Autore:
Salve a tutte/i!
Ed infine, dopo un
tempo improponibile, ecco l'ultimo capitolo di questa odissea più
che storia. Come detto nelle note alla parte precedente, questo
capitolo è un po' a sé e sopratutto molto fuori dal canone ma non
ho resistito a scriverlo per molti motivi, soprattutto il volere
chiudere un cerchio e in un certo qual modo ritornare alle origini.
Voglio ringraziarvi
di nuovo e per l'ultima volta per l'affetto che avete dimostrato
verso questa storia e per le belle parole e le critiche costruttive
che mi avete regalato. Per quanto mi dispiaccia abbandonarla, sono
contenta di portarla a compimento e di potermi affacciare ad altri
progetti che ho da un po' in cantiere e soprattutto spero che la
nuova serie porti novità e spunti per tutte/i noi.
Quindi, come sempre
ma per l'ultima volta per questa storia, a voi l'ardua sentenza.
A presto,
Anne^^
L’errore
di Sherrinford Holmes
Non
potevo accontentarmi di meno
«Non
ci posso credere! Veramente non lo sai?»
L'uomo
cercò debolmente di liberarsi ma senza successo. Le dita di lei
sulle palpebre gli impedivano di usare quel senso, costringendolo a
catalogare quel ricordo attraverso la sensazione della sua voce
divertita a pochi centimetri dalle proprie labbra ed il corpo
sdraiato con estrema naturalezza sul suo.
Accennò
un sorriso prima di riprendere un'espressione annoiata.
«Non
è così importante.»
Le
mani di Molly si spostarono così da permettere a Sherlock di vedere
la tavola periodica sul soffitto della sua camera di adolescente e il
volto della patologa che sorrideva divertita.
«Non
è così importante?! La configurazione elettronica del ferro?! Ci
lavori con questa roba.»
Lui
scosse la testa sconsolato a quelle parole che gli ricordavano
Sherrinford e le sorrise. Lei rispose al suo sorriso per poi tornare
a sdraiarsi nell'incavo fra il braccio e il torace di lui, lo sguardo
nuovamente fuori dalla finestra.
Le
nuvole si muovevano rapidamente trascinate dal vento invernale.
Non
avrebbe mai immaginato che un giorno si sarebbe trovata lì, fra le
braccia di Sherlock ad aspettare che casa Holmes si svegliasse per
festeggiare il Natale. Sognato si, immaginato mai. Certo, non era
stato facile, anzi tutt'altro; avere una relazione con Sherlock
Holmes era ciò che di più assurdo, complicato, irrazionale e
contorto le fosse mai capitato. Aveva dovuto imparare a considerare
superfluo ed inutile tutto ciò che in passato le era sembrato
fondamentale in una relazione e aveva dovuto insegnare a lui cosa
volesse dire essere una coppia; si erano trovati a discutere delle
cose più assurde, concordare su effimeri dettagli e scontrarsi su
questioni fondamentali. Nonostante tutto, ce l'avevano fatta e senza,
in realtà, cambiare. Erano ancora Sherlock e Molly, solo che quella
congiunzione era cambiata arricchendosi di cene saltate, appuntamenti
non programmati, silenzi offesi, risate immotivate e tanto, tanto
altro.
Sentì
il braccio di lui cingerla maggiormente e la labbra avvicinarsi al
suo orecchio. Erano diventati anche questo, gesti e movimenti che
esprimevano pensieri, domande e sentimenti. Per questo Molly rispose
a quella tacita richiesta di chiarimenti sui suoi pensieri.
«Rideresti
di me.»
Si
voltò per poter osservare l'espressione falsamente riflessiva
dell'uomo.
«E'
una delle 24 reazioni possibili.»
Accennò
un mezzo sorriso prima di tornare ad osservare la luce tenue.
«Ad
un uomo.»
Lo
aveva detto così, un po' sovrappensiero e un po' per gioco ma fu
sorpresa dall'irrigidimento di lui. Certo, si era trattato di un
frammento di secondo, qualcosa di ancor più breve di un istante ma
lo aveva percepito. Aveva sentito i muscoli tendersi per poi
rilassarsi immediatamente e il respiro di Sherlock fare una leggera
variazione.
«Qualcuno
in particolare?»
Inspirò
muovendosi leggermente. Sherlock registrò la ormai familiare
sensazione dei capelli di lei che gli sfioravano la pelle ed attese.
«...Era
un bravo ragazzo, brillante!» si impose di rimanere immobile mentre
i suoi occhi registravano le dita di Molly stirare e piegare una
minuscola porzione del lenzuolo. «Avevamo lo stesso gruppo di amici.
Ci conoscevamo da molto tempo...» le dita di lei lasciarono il
lenzuolo per andare ad insinuarsi nel pugno parzialmente chiuso di
lui per aprirlo ed iniziare a seguirne le linee interne con un tocco
leggero. Un sospiro pensieroso la fece muovere nuovamente. «...non
sono mai stata una romantica. Non ho mai permesso a me stessa di
esserlo. Ma...» i muscoli del volto di Sherlock ebbero un fremito
vago mentre i suoi occhi seguivano la punta delle dita di lei che
sfioravano la pelle sensibile delle sue.. «...una volta che ho
sentito, anche se solo per un momento, quello che ho provato per
te....» si voltò nuovamente per tornare a guardare e scrutare gli
occhi di lui. «...mi hai rovinato. Non volevo accontentarmi di
meno.»*
Vide
gli occhi di lui cambiare colore ma il suo volto rimanere immobile
prima di parlare con apparente inespressività.
«Quindi
adesso dovrei ridere di te?»
Le
sopracciglia che impercettibilmente si alzavano e un angolo delle
labbra che si incurvava la fecero sorridere ed avvicinarsi per
rispondere all'ormai conosciuto bacio di lui.
«Lo
sai che lo farebbe.»
Un
sospiro di rassegnazione e condiscendenza uscì dalle labbra di lui a
pochi millimetri dal suo collo. Si sollevò per poterla guardare
negli occhi e lei, dopo aver fatto vagare lo sguardo sul suo volto,
gli sorrise. Un carezza leggera sulla guancia. Lui inclinò il capo
per assecondarla per poi chinarsi nuovamente e baciarla.
In
teoria era meglio non farlo, non incoraggiarlo, ma lei ricambiò quel
bacio esattamente come tutti gli altri per poi guardarlo abbassarsi
ed andare a sfiorare, come aveva fatto la prima volta e come da
allora avrebbe sempre continuato a fare, le sue braccia lì dove le
aveva strette ormai un anno prima.
Per
quanto gli avesse detto che non importava più, che era passato, che
l'aveva perdonato, lui aveva continuato a farlo ed era diventato uno
di quei piccoli dettagli che erano e sarebbero sempre stati loro.
Si
alzò per baciarla nuovamente. Un bacio più intenso, il corpo ancora
più vicino al suo.
«ALLORA?
GUARDATE CHE SALGO VERAMENTE!»
La
voce perentoria di Sherrinford riecheggiò nuovamente.
Molly
scoppiò a ridere mentre il volto sconsolato di lui si andava a
nascondere fra l'incavo del suo collo ed il cuscino.
«Oh John, il problema è
che quando era piccolo gli altri bambini non lo hanno accettato…»
«Sherry...»
«Un anno di “non gli
piaccio” e “non mi piacciono” e così via….»
«Sherry!»
«Cosa
c'è? E' vero?»
«Il
problema non ero io, erano loro.»
«Concordo
pienamente.»
«Oh
per favore Mike, tu eri peggio di lui.»
«Io?!
E non chiamarmi Mike!»
«Vi
ricordate del povero figlio degli Smith? Va ancora in terapia per
quella storia di Babbo Natale!»
«Sherry,
io gli ho solo detto la verità! Non vedo come quest...»
«Chi
viene con me dagli Hoower?...Non fate quelle facce, non mi interessa
chi ma almeno uno deve venire.»
«Sherry!»
«Sherrinford!»
«Cosa?!
Ma che razza di fratelli siete? Non ho alcuna intenzi...»
«Sherrinford,
noi abbiamo assolto al nostro stupido ed irrazionale dovere l'anno
scorso ed ora è il tuo turno.»
«Traditori!
Mamma ti prego, non voglio! Papà di qualcosa...»
«Beh
tesoro, in fin dei conti potremmo anche lasciar stare i ragazzi. Sono
adulti ormai, queste cose li mettono in imbarazzo.»
«E
al mio imbarazzo chi ci pensa? Lo sai che domenica scorsa Mrs Taylor,
ha detto a Mrs Fowler che Mrs...»
«John!
Smettila di farle mangiare biscotti o non pranzerà!»
Molly
si fermò sulla porta comunicante fra cucina e salotto. Un sorriso
accennato e uno sguardo sereno erano la palese dimostrazione di
quanto quel caos giocoso e familiare la facessero star bene.
I
battibecchi dei tre Holmes, le risate trattenute di John e Mary sugli
aneddoti infantili del consulente investigativo, il pugno di ferro di
Mrs Holmes, la simpatia del marito e lo sgambettare incerto della
piccola Watson la facevano sentire a casa, la facevano sentire bene.
Vide
la bimba vacillare un istante per poi sedersi, o meglio afflosciarsi,
involontariamente vicino alle gambe di Sherlock. Lui, ancora intento
a rispondere alle accuse della sorella, si chinò in avanti per poi
circondarle il torace con le dita affusolate e rialzarla, in un
gesto automatico e familiare. La piccola si aggrappò ad un suo dito,
per aiutarsi a superare l'incredibile ostacolo rappresentato dal
piede di lui, per poi lasciarlo e ricominciare a girovagare per la
stanza.
Un
sospiro, carico di tutto l'amore che potesse derivare da una scena
del genere, riempì il torace della patologa. Avrebbe potuto non
essere lì, avrebbe potuto non avere tutto ciò che adesso poteva
definire suo. Il senso di colpa che le si ripresentava ogni volta che
pensava a Norton e a ciò che lei aveva pensato di Sherlock, le
mutarono lo sguardo.
Abbassò
il volto e tornò in cucina per cercare di ricomporsi quando sentì
le braccia di Sherlock cingerle la vita.
Sapeva
che lui aveva capito e sapeva che non approvava quel suo senso di
colpa.
Appoggiò
la schiena sul suo petto stringendo a sua volta le braccia di lui.
Chiuse gli occhi registrando il battito calmo e regolare del suo
cuore, la stretta dolce ma decisa e le labbra che le sfioravano la
tempia.
«Te
lo assicuro...» lei trattenne il fiato «...non volevo traumatizzare
il figlio degli Smith.»
Molly
scoppiò a ridere prima di voltarsi ed appoggiare la fronte a quella
di Sherlock, il suo Sherlock.
Non
avrebbe più dubitato di lui, come non avrebbe più dubitato di loro
ma soprattutto non avrebbe più dubitato di sé stessa.
The
End
Note Autore:
*La
frase che Molly pronuncia deriva dal film “I guardiani del
destino”. Non so se la traduzione è fedele alla versione italiana
(sicuramente non è letterale) poiché la mia “ispirazione” non
viene dal film ma da un meraviglioso video su youtube. La ragazza che
lo ha fatto ne ha creati molti altri, ugualmente belli, e su cui
ovviamente la mia mente ha già iniziato a lavorare. Chissà, forse
alla fine ne usciranno delle vere storie. Qualora vogliate vederlo,
cosa che vi consiglio con tutto il cuore, il link è questo:
https://www.youtube.com/watch?v=IGtVkOXcEi4
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