Temporal Mist

di Shadowings_Proteam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** RICO E DANA ***
Capitolo 2: *** JASPER ***
Capitolo 3: *** DANA E RICO ***
Capitolo 4: *** DUE UOMINI ***



Capitolo 1
*** RICO E DANA ***


«Mi prometti che ci rivedremo?»

Furono queste le ultime parole di Dana, urlate fuori dal finestrino del treno già in movimento. Rico non seppe rispondere e si limitò ad osservarla mentre il suo vagone spariva in una fitta coltre di vapore. Decise quindi di fare quattro passi nella stazione, colorata di tetre sfumature verdastre degne delle peggiori insegne al neon che la città poteva offrire, in un vano tentativo di liberare la mente.

Un piccolo cucciolo di cane si avvicinò a lui in cerca di cibo. Il suo lungo pelo nero e gli enormi occhi verdi ben si accostavano all’atmosfera cupa della stazione. Lo prese in braccio.

«Non ho niente per te, mi dispiace»

Il cucciolo sapeva bene il significato di quelle parole. Il suo muso divenne visibilmente triste e gli occhi smisero di trasmettere speranza.

Una lontana esplosione fece tremare la cupola della stazione ed alcune insegne al neon rovinarono al suolo tra scintille e fiamme. L’onda d’urto spinse tutti a terra. Rico strinse il cucciolo a sé mentre cadeva sul fianco.

«Il treno!» urlò un edicolante,«Il treno è esploso!»

Rico si alzò immediatamente e potè vedere un incendio a qualche chilometro di distanza. Si mise a correre tra la folla. Non poteva essere successo veramente a quel treno. Non era quello il bersaglio, lui lo sapeva, lo sapeva benissimo. Un errore di comunicazione? Un difetto costruttivo? Non ci voleva pensare in quel momento, Dana era la sua unica preoccupazione. Corse così forte che nemmeno il cagnolino riuscì a stargli dietro. Quando arrivò all’incendio il treno era irriconoscibile, se non per i binari, anch’essi spezzati da un profondo cratere di oltre 100 metri.«Dana! Dana!». Nessuno rispose.«Dana!».

Altre persone raggiunsero i resti. Alcune piangevano, altre tremavano, altre erano visibilmente inorridite. Chi urlava il nome dei propri cari, chi cercava invano tra le lamiere e le fiamme.

Dopo qualche minuto calò il silenzio. Un uomo inginocchiato si alzò in piedi.

«I passeggeri… i passeggeri non ci sono. Il treno è vuoto!»

 

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Capitolo 2
*** JASPER ***


«Uff.. Ma che diavolo è?» Jasper fece finta di lamentarsi del suono sordo che annunciava l’arrivo di una missiva per farsi sentire dai colleghi, ma in realtà era ben felice di prendersi una maledetta pausa di pochi minuti e togliersi quegli enormi occhiali da lavoro che gli premevano la faccia ogni giorno. Era il capo lì, certo, ma la sua filosofia di vita era sempre stata quella di dare per primo il buon esempio.

Appoggiò le lenti vicino al generatore che stava controllando nella sua officina e si diresse verso il sistema di tubi pneumatici che distribuiva lettere in tutto il settore industriale immaginandone già il contenuto.



 

Caro Jasper,

per qualche giorno dovrò stare fuori città,

puoi dare tu da mangiare ad Astro?

Dovrebbe esserci cibo per almeno una settimana,

e in ogni caso io tornerò al massimo tra tre o quattro giorni.

Scusa il disturbo,

Rico.

 

Scusa il disturbo, Rico….”, rilesse mentalmente le ultime due righe come per convincersi che quella fosse la prima volta che riceveva una richiesta del genere, ma in realtà non era così. Da un po’ di tempo - anzi, da quel giorno - il suo amico d’infanzia non era più stato lo stesso. Pienamente comprensibile, ma Jasper non poteva fare a meno di chiedersi cosa diavolo facesse Rico ogni volta che lasciava la città e soprattutto perché aveva adottato quel cane se poi non aveva tempo di occuparsene. E poi perché non poteva portarselo dietro?

«Che cazzo…» Sbuffò e alzò gli occhi, scorgendo per un attimo i suoi due dipendenti che lo fissavano curiosi per poi distogliere subito lo sguardo. Tornò senza dire nulla al suo generatore e si rimise gli occhiali. Sapeva che avrebbe dovuto lavorare più in fretta del solito per poter essere a casa di Rico per l’ora di cena. E sapeva anche che non l’avrebbe trovato.

Si sdraiò imprecando accanto al grande ingranaggio che costituiva il cuore del dispositivo, passandosi una mano tra i capelli che ormai stavano iniziando a colorarsi di bianco. Appena il tempo di agguantare una chiave inglese e una stridula voce lo interruppe ancora una volta:«Professor Jasper Elroy?».

Alla pronuncia di quel titolo, il nervosismo che aveva già accumulato a causa del lavoro e di Rico crebbe esponenzialmente: la preoccupazione penetrò dentro di lui e per un attimo un brivido di paura lo percorse per tutto il corpo. Come avevano fatto a trovarlo? E chi?

Arrivato sull’uscio, davanti ai suoi occhi comparve la figura di un bambino, all’apparenza di una famiglia molto povera e con un viso scarno. Lo osservò senza dire nulla con la faccia più stupita che riusciva ad esprimere e il piccolo ripeté timidamente:«Professore?». Jasper respirò profondamente, deciso a non prendersela con quel povero bambino che probabilmente stava solo portando un messaggio in cambio di un tozzo di pane raffermo:«Professore? Non so di cosa tu stia parlando, piccolo. Questa è un’officina.»

Un tempo Jasper era stato un rinomato scienziato ed aveva contribuito enormemente al progresso e alla crescita industriale della cittadella di Stout, tanto da essere stato invitato nella capitale ad un congresso sulla cosiddetta “rivoluzione elettrica”, al quale però non aveva potuto partecipare. Ormai erano passati anni da allora e non voleva più pensare a ciò che aveva perso a causa di quell’incidente che lo ha costretto a fuggire e cambiare vita, nascondendosi da tutti e tutto. Il bambino però non fece caso alle sue parole e riferì comunque ciò che aveva da dire:«Se a lei compiace, signore, un suo vecchio allievo mi ha mandato qui per darle un appuntamento. Dice che ha fatto una scoperta grandiosa e che -per sua stima- vorrebbe farle vedere per primo. Questa sera un’ora prima del tramonto all’incrocio tra la Route 12 e Wiston Boulevard!».

Jasper rifletté qualche secondo sulle strane parole del giovane e poi rispose:«Un mio vecchio allievo? Ma che cosa significa? Non ho allievi qui, ho solo dipendenti. Ma chi ti ha mandato, si può sapere?»

Il viso del bambino mutò, in un misto tra paura e determinazione:«Non so nient’altro, signore, ho riferito solo quello che mi è stato detto!»

«Beh, allora fai sapere a quel tizio, se lo reincontri, che ha sbagliato persona e che io non ho tempo da perdere,  ho un’officina da mandare avanti qui. Vattene!»

L’espressione del bambino si fece dura, come di rimprovero, e poi il piccolo corriere corse via per le strade del quartiere senza aggiungere altro.

Jasper tornò finalmente al suo generatore, ansioso di sistemarlo per poi andarsene di lì: i suoi dipendenti conoscevano bene il lavoro che facevano, ma nessuno -nessuno- era esperto dei generatori quanto lui. Non vedeva l’ora di potersene andare da lì per scoprire qualcosa sul suo misterioso “inseguitore”. E sulle sue intenzioni.

 

[...]

 

Come immaginava, Rico se l’era già svignata per evitare domande quando lui arrivò a casa sua, ma il vapore usciva copioso dalla cappa sul tetto, segno che Rico doveva essere stato lì fino a pochi minuti prima.  Inserì nella toppa il doppione della chiave e sentì i meccanismi al suo interno muoversi rumorosamente fino a sbloccare la serratura; non fece in tempo ad aprire la porta che un enorme cane nero a pelo lungo lo gettò a terra scondinzolando, osservandolo con due occhi verde smeraldo.

«Hai fame, eh, Astro?» Disse prima di raggiungere la cucina e prendere dallo scaffale un po’ di cibo che il cane divorò senza pensarci due volte.«E così il tuo padrone ti ha lasciato qui da solo ancora una volta…»

Mentre lo accarezzava si mise ad osservare la casa: non molto grande, ma abbastanza spaziosa per una persona e il suo -seppure ben cresciuto- cane. In mezzo al silenzio si poteva sentire solo il ticchettio degli ingranaggi dell’orologio e lo scorrere dell’acqua calda nel sistema di riscaldamento che portava tepore nelle stanze in quel freddo autunno.

Si alzò pronto a salutare Astro quando notò un foglio di carta a terra sulla porta della camera di Rico. Si chinò per raccoglierlo gettando uno sguardo all’interno della stanza, e notò un cassetto ribaltato e il letto completamente sfatto; si rivolse ad Astro come per sgridarlo del casino che aveva combinato, quando lesse una frase scarabocchiata velocemente sul foglio che teneva in mano: “Ormai è troppo tardi”.

 
 

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Capitolo 3
*** DANA E RICO ***


Dana vide Rico fissarla mentre il treno si allontanava dalla stazione. Niente poteva farle più male di quel momento. Quando lui sparì all’orizzonte, rientrò dal finestrino e si sedette al suo posto, riponendo la sua valigetta di pelle sulle gambe.

«Il suo ragazzo?» le chiese gentilmente la signora seduta davanti a lei,«Niente è più doloroso di un addio. Lo so bene. Io ho dovuto fare lo stesso con mio marito, qualche anno fa. La Psytech non è certo quel genere di società che ti permette di combinare allegramente vita e lavoro..».

Dana stava per aprire la sua valigetta quando, sentendo quelle parole, si fermò di colpo.«Suo marito lavora alla Psytech?» chiese con fermezza.«Si. O meglio, ci lavorava, un paio di anni fa. Non so cosa faccia ora. Non so più nemmeno se lavori. Non l’ho più visto.».

«Mi dispiace.» rispose Dana, distogliendo lo sguardo.«Non si preoccupi. Ormai è una storia passata. E poi, sappiamo tutti cosa succede una volta ricevuta quella telefonata. Sappiamo che non dobbiamo fare domande.»

Dana continuò a guardare fuori dal finestrino. Dal riflesso poteva facilmente notare la stravagante pettinatura della donna, una montagna di capelli bianchi sorretti qua e la da delle bacchette color oro, che cadevano dai lati del suo viso fino a coricarsi sulle spalle imbottite di una strana pelliccia rossa a strisce nere. Sembrava molto ricca, e per questo Dana faceva fatica a guardarla direttamente.

«Preghiamo i gentili passeggeri di rimanere seduti ai propri posti. Il treno dovrà sostare per una decina di minuti a causa di un guasto meccanico.»

La signora iniziò ad agitarsi.«Ancora? Impossibile! Inaccettabile!». Si alzò e sgambettò fino al vagone precedente uscendo e sbattendo violentemente la porta scorrevole.

Anche Dana si alzò in piedi e diede una veloce occhiata al suo vagone. Solo un uomo, seduto a tre file di distanza e chiaramente addormentato, era presente in quel momento.

«Ora.» pensò. Si sedette ad aprì la valigetta. Dentro, uno strano marchingegno presentava numeri giallognoli disposti in disordine attorno ad un grande tasto nero esagonale. Sul tasto, un simbolo: “PT”. Appoggiò la mano e lo premette con forza. Il vagone esplose, insieme al resto del treno. Poi, il silenzio.

 

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Capitolo 4
*** DUE UOMINI ***


<< Ma sei scemo? >> La sua voce stridula era comunque piena di severità, quando il bambino dovette rimproverare il suo socio seduto sulla panchina al luogo designato per l'incontro.

<< Perché? >> Rispose l'uomo, più stupito che offeso. Abbandonò la sua posizione comoda inarcando la schiena in avanti per appoggiare i gomiti sulle gambe sentendo tirare il suo completo di seta nera. Si tolse anche i Rayban come se farlo gli avrebbe fatto sentire meglio la risposta.

<< Ma come cazzo sei vestito? Ti sembrano abiti adatti al globe in cui ci troviamo? Ma non vedi che vestiti si usano qui?! Dannazione Jack, tu e i tuoi completi firmati di New York >>

L'uomo accolse la critica senza sapere come rispondere, si limitò ad osservare il proprio abbigliamento come fingendo di non essersene accorto. Slacciò un polsino della camicia e tirò indietro la manica, rivelando un braccialetto color platino che riportava anche una plancia, simile a un piccolo orologio. La scritta d'oro "PT" pareva brillare alla luce della Luna quando l'uomo premette il grande e unico bottone centrale che iniziò a zampillare di una fioca luce blu che andò a cospargere i vestiti dell'uomo come una nebbia.

<< Così va meglio? >> disse l'uomo che ora aveva dei vestiti più consoni: gli occhiali da sole erano scomparsi, così come il completo comprendente giacca, cravatta e pantaloni di seta pregiata nera; al suo posto, una marrone giacca di raso faceva pendant con un paio di pesanti pantaloni altrettanto scuri.

<< Un po' meglio direi, si… >> Lo osservò per qualche secondo, poi tornò al principale argomento della conversazione. << Non é arrivato, vero? >>

Il socio si limitò a scrollare la testa. << Io l'avevo detto! Un vecchio studente, che idea del cazzo.. Proprio un'idea del cazzo! >>

Si prese un'altra pausa. A Jace piacevano le pause, lo aiutavano a riflettere e a contare fino a dieci prima di fare del male a qualcuno.

<< OK, ascolta... Ci penseremo domani. Piuttosto, dove sono io? >>

L'uomo mosse la testa, evidentemente ancora offeso o forse imbarazzato dal grossolano errore, indicando la piccola siepe dietro di lui.

Il bambino si mosse subito in quella direzione e spostando i rami vide il corpo di un uomo, rannicchiato a terra, legato mani e piedi, imbavagliato e con un vistoso bernoccolo in fronte.

<< Ma che cazzo! Che diavolo mi hai fatto?! >>

L'uomo si alzò dalla panchina e mise le mani avanti per placare la situazione << Ehi, ascolta, non é colpa mia, ne hai scelto uno troppo rumoroso! >>

Il bambino non rispose e ringraziò il cielo che quella giornata sarebbe finita presto: non vedeva l'ora di tornare a casa e farsi una bella doccia bollente. Slegò l'uomo e si fece aiutare dal socio per posizionarlo sulla panchina, dopodiché azionò il marchingegno del collega.

La vista iniziò ad annebbiarsi e un fremito gli percorse la schiena. Dopo la solita sensazione di nausea, fastidiosa ma inevitabile, perse conoscenza. Quando aprì gli occhi, era seduto sulla panchina ad osservare il bambino svenuto ai suoi piedi, con un doloroso bernoccolo in fronte.

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