Bianche sponde.

di Durhilwen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Domande, preghiere, speranze. ***
Capitolo 2: *** Avventura? Quale avventura? ***
Capitolo 3: *** Quindi... in che mondo siamo? ***
Capitolo 4: *** "Lo straniero che divenne quasi mio amico". ***
Capitolo 5: *** Sorpresa. ***
Capitolo 6: *** Calò il silenzio. ***



Capitolo 1
*** Domande, preghiere, speranze. ***


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Capitolo primo: domande, preghiere, speranze.

 

Erano passati alcuni giorni dal mio sogno, quando la terribile notizia giunse alle mie orecchie: Mordor sarebbe stata sguinzagliata*, ogni creatura  della Terra Oscura sarebbe andata a combattere.
Si avvicinava una nuova battaglia, questa volta presso il Nero Cancello.
Non avevo scelta, dovevo partecipare.
Mi sentii nuovamente solo, completamente inerme.
Tutta la gioia e la soddisfazione che avevo imparato a conoscere erano svanite, lasciando spazio ad un enorme vuoto nel petto.

Perché la vita si riduce sempre ad una guerra?
Contro i propri simili, contro il diverso, contro sé stessi.
Non si potrebbe trasformare la propria vita in qualcosa che conti davvero?
Ma soprattutto, se altri miei vicini non immaginano neanche lontanamente cosa sia la bellezza, perché questo miracolo (o questo fardello?) è dovuto toccare a me?
Cosa sono io per il mondo? Quale pezzo incarno, nel grande puzzle della Storia?
 
Erano domande che mi rendevano sordo a tutto il resto, e mai avrei potuto immaginare quando o come sarei riuscito a dare un senso alla mia esistenza.
 
Ora so che si può tornare indietro, so che il perdono trasforma le persone, e so che l’amore ne è la chiave.
Ma per quanto mi sforzassi, allora, di trovare una momentanea pace interiore, non riuscivo nel mio intento: una strana eccitazione si era impossessata di me, una fredda e spasmodica voglia di agire.
 
Le spade venivano affilate, i pugnali impregnati di veleno, la forgiatura di elmi e protezioni era l’attività più richiesta dalla situazione;
ovunque giravano squadroni pronti a marciare, frustati dai comandanti.
Il caos delle normali giornate aveva lasciato il posto al ritmico battere dei piedi sui sentieri.
 
Anche io ero tra quelle file, tremando e sperando: odiavo la marcia verso il fronte; la sua continuità rendeva tutto così… impossibile da scampare.
Tra le legioni viaggiava la Morte, accompagnandoci verso la fine.
La cosa peggiore? Insieme alla paura provavo una cieca rabbia, deleteria e feroce.
Era questa che sempre mi aveva spinto a combattere, che mi aveva fatto assaggiare la carne umana.
E ciò, mi piaceva.
 
•••
 
Dopo giorni interminabili, finimmo scaraventati nella battaglia.
Il sangue scorreva, impregnando la nera terra tanto temuta da coloro che chiamavamo “nemici”; le urla mi riempivano la testa e senza accorgermene, iniziai a gridare con i moribondi: ad ogni fendente, il mio cuore scoppiava e le mie braccia sussultavano.
Ero nella mischia, sballottato da una parte all’altra senza sosta.
Un troll mi urtò inconsapevolmente, ed io caddi a terra battendo violentemente la schiena.
Mi doleva la testa, e le mani avevano dimenticato come impugnare la spada.
Uno dei soldati di Gondor mi squadrò con orrore, poi caricò verso di me, brandendo la sua lama come se fosse l’unica salvezza.
E io smisi di gridare, rotolando su un fianco per allontanarmi:
pregai per una morte veloce, che mi avrebbe risparmiato dolore e sofferenza,
pregai per un futuro sereno, una pace duratura,
pregai per chi, come me, era riuscito a conoscere la forza di vivere.
Il soldato avanzava… e le mie preghiere furono ascoltate.
Un voce delicata rimbombò nella mia testa, obliando tutto il resto; la paura svanì all’improvviso, mentre tre parole riempivano il vuoto: “Lo vuoi davvero?
Strinsi i pugni, serrai le palpebre rispondendo di getto, e il mio “Si” echeggiò tra i silenziosi pensieri.
La Dama Bianca mi porse la mano con grazia, e per la prima volta vidi nitidamente la sua figura: alta, avvolta in un abito splendente, longilinea, dai capelli fluenti e dorati, come una cascata d’oro puro; gli occhi ricordavano il cielo, nei pochi momenti durante i quali le nuvole cedevano il posto al firmamento notturno.
Era bella, e sapeva riempirmi di calma.
Tutto il resto svanì, il campo di battaglia cedette il posto ad un’improvvisa luce che mi fece tenere gli occhi chiusi.
 
 •••
 
Li riaprii piano e mi accorsi di stare sdraiato su un prato, con la schiena ancora dolente appoggiata al tronco di un albero dalla chioma rigogliosa.
Una figura non molto alta, che non riuscii a mettere a fuoco in tempo, soffocò un grido mascherandolo con un singulto; in un lampo e un turbinio di stoffe, mi piantò il piede con forza sulla fronte: si dà il caso che portasse una calzatura particolarmente dura, o che probabilmente avesse solo un’esatta idea di dove il suo calcio avrebbe dovuto colpirmi.
Fatto sta che piombai in un improvviso e profondo sonno, quasi un sollievo rispetto all’emicrania che mi aveva seguito fin dalla battaglia.
Da qualche parte nella mia testa svolazzavano incessantemente mille domande che non ricevettero risposta.


 

*Si, mi sono ispirata alla frase de Le Due TorriIsengard è stata sguinzagliata…”; è stato più forte di me!
 
 
 

 
 
Angolo dell'autrice.
 
Era un'anonima sera di Novembre, quando l'idea per questa storia m'investì all'improvviso.
Ho iniziato a scrivere qualche appunto, un capitolo, due, poi ho deciso di pubblicare: che ne pensate?
Spero vi piaccia, perchè tra le righe di questa avventura nascondo delle piccole parti di me;
mi scuso per questo inizio un po' noioso, ma dovevo in qualche modo introdurre meglio il protagonista.
Ringrazio chi leggerà questa storia, e mando tanti bacini a tutti(?), che non fanno mai male.
Al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 2
*** Avventura? Quale avventura? ***


Alla mia carissima Kee, Giulia, omonima, amica, o qualsiasi nomignolo lei preferisca.

 

Capitolo secondo: avventura? Quale avventura?

 

Continuavano a susseguirsi immagini confuse, figure dai bordi sfocati: ero immerso in un’oscurità senza fine, fluttuando qua e là come se stessi nuotando in un fluido inconsistente.
"Dove sono?”
"Sei immerso nei tuoi pensieri” la voce calda ormai familiare rimbombò tra le inesistenti pareti color fumo, tranquillizzandomi.
"Sono morto?” che domanda stupida!
"Stai dormendo, in un certo senso”.
Iniziai pian piano a ricordare la battaglia, le grida, e infine uno spiraglio di luce nel buio.
Sorrisi, pensando che la traduzione di "in un certo senso” non poteva essere altro che "ti hanno colpito alla testa e sei svenuto in maniera molto poco onorevole”.
"Se non sono morto, vuol dire che in questo momento il mio corpo è ancora appoggiato all’albero che ho intravisto…”
"Proprio così” mi rispose la Dama.
"Dove sei? Perché non riesco a vederti?” protestai, colto da un improvviso timore.
"Sono qui accanto a te, e sempre lo sarò. Ma in questo momento non posso mostrarmi, tra poco inizierai la tua avventura”.
"Avventura? Quale avventura? Di cosa stai parlando?” le domande si affollavano nella mia mente, e come frecce saettavano da una parte all’altra del mio cuore: toccavano le corde della gioia, della paura, dell’ansia, dell’eccitazione.
Lei mi rispose con calma, e percepii un lieve sorriso tra le sue parole confortanti: "Stai per iniziare un viaggio impossibile per molti, una prova diversa da ogni altra.
Hai pregato per una duratura pace e per la tua morte veloce, mentre eri in battaglia…”
Annuii con vigore, tormentandomi le mani tremanti.
"Vuoi… uccidermi? Beh, ecco, io non…”
"Lasciami finire” continuò lei, con voce ferma.
Trattenni il respirò con curiosità e attesi il mio verdetto.
"Con intensità hai pregato, hai sperato, hai sognato… ed io ho deciso di aiutarti.
Ho visto in te l’umanità che un tempo caratterizzava la vostra razza, ho visto un lieve bagliore nelle tenebre di Mordor, scaturito dal tuo animo.
Ho deciso di darti una possibilità, una vita normale, o quasi.
Ti risveglierai in una terra sconosciuta, in un mondo che non è il tuo; nessuno Oscuro Sire a controllare le tue decisioni, poiché tu e solo tu potrai continuare la tua esistenza.
Dimostrerai le tue qualità, farai errori, e vivrai assaporando la libertà di un’eterna avventura per l’amore, l’amicizia, la lealtà.
Solo tu scoprirai la fine della storia, nessuno potrà manovrarti.
E’ un arduo impegno, una grande e meravigliosa sfida, quella che ti sto proponendo.
Sicuro di voler proseguire?”
 
Avevo seguito il discorso con attenzione, eppure mi ci volle qualche minuto prima di riuscire a capire il senso di ciò che mi era stato offerto.
Una nuova vita.
La mia tanto agognata libertà.
Cosa mi avrebbe portato?
Riuscii a sentire una crescente eccitazione scuotermi dal lungo torpore nel quale ero rimasto per quasi vent’anni.
Una nuova vita.
Con tutte le sue gioie, i suoi dolori, gli ostacoli, le difficoltà, le soddisfazioni, era questo ciò che mi era stato proposto?
Forse nessuno prima di me aveva mai ricevuto questa grande opportunità; ma io, cosa avrei fatto?
La mia, nuova vita.
Sarei stato capace di lasciare tutto per un destino a me sconosciuto?
 
Chiusi gli occhi (ero ancora tra i miei pensieri, ma pare che in quel momento l’avessi dimenticato), mi beai per un lungo attimo del silenzio altisonante che mi avvolgeva.
Un enorme punto interrogativo volteggiava da una parte all’altra di quel Nulla pieno di Troppo.
Tra i denti tenevo incastrate le mie due possibili risposte e la nebbia fitta della mia testa iniziava a dissolversi.
Mi sarei risvegliato da un momento all’altro: ma dove?
 
La mia risposta scoppiò all’improvviso, e seppi di aver scelto seguendo il criterio più spontaneo: l’istinto.
E quello, non sbaglia mai.
"Si, si, si!” segnai il mio destino urlando due semplici lettere.
La Dama allora parlò: "Bene! Buona fortuna, mio giovane amico! Che sia per te una vita piena e gioiosa! La benedizione degli Eldar è su di te!”
Una luce fortissima inondò quella strana dimensione parallela, sentii ancora una volta il soffice prato sotto di me, ma prima del risveglio la Sua voce aggiunse "…ti troverai bene con lei, ne sono certa”.
"Che cosa?”
"Nulla, non importa, buon viaggio! E… al prossimo incontro*.”
Feci per replicare, quando sentii uno strappo all’altezza dello stomaco, come se qualcosa mi avesse improvvisamente trascinato via da lì.
 
•••
 
Mi ritrovai nell’esatta posizione di prima, con l’unica differenza (direi sostanziale!) che ora ero incatenato al tronco possente dell’albero: un enorme salice piangente, al centro di un cortile circondato da alte palizzate ricoperte da voraci rampicanti.
Provai a muovermi, ma non riuscii a spostarmi di un centimetro.
Una figura si avvicinò con cautela, ma allo stesso tempo con passo sicuro: era una giovane donna, vestita di strani veli; ai piedi portava quei maledetti calzari assassini.
Ma ciò che attirò la mia attenzione fu altro: brandiva la mia spada ricurva con la mano destra, e faceva tintinnare con la sinistra un mazzo di rudimentali marchingegni di bronzo: chiavi, probabilmente.
La sua espressione beffarda non tradiva altro che determinazione; mi accostò la lama alla gola in un solo, fluido movimento, sussurrando: "Chi sei, da dove vieni e cosa vuoi da me. Se non parli, ti stacco la testa di netto.”
 
Che inizio promettente!
 
 
 •••
 

 
 
 
*Ringrazio Gandalf (da La Compagnia dell’Anello) per la citazione, spero non si sia offeso.
 
 

 

Angolo dell'autrice.
 
Okay, siete liberi di odiarmi.
Probabilmente vi aspettavate più azione, meno riflessioni e mi dispiace se il capitolo è risultato pesante.
Però a me piace così (strano ma vero!). Avrei dovuto unirlo al primo? Non saprei.
Ditemi voi che ne pensate, accetto e apprezzo le critiche costruttive!
Ringrazio le persone che hanno letto e recensito il capitolo precedente, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite e chi sta leggendo in silenzio.
Un abbraccio a tutti,
 
 
Durhilwen
 

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Capitolo 3
*** Quindi... in che mondo siamo? ***


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Capitolo terzo: quindi... in che mondo siamo?

 
Rimasi per un attimo ad osservarla con attenzione; aveva lunghi capelli castani, la pelle chiara ma non pallida, gli occhi più gelidi che avessi mai visto: il colore era scuro, e il taglio conferiva allo sguardo un non so che di interessante, di magnetico.
Spostò il peso del corpo da un piede all’altro, con visibile impazienza.
La lunga veste ondeggiò con delicatezza: “Allora? Vuoi rispondermi o no?”
La guardai con espressione seria, poi sorrisi: “Non mi ucciderai comunque”.
Lei rimase per un attimo interdetta, poi arricciò il naso e rispose beffarda: “E cosa te lo fa pensare, straniero?”
“Principalmente perché sei curiosa di sapere chi sono e da dove vengo, pertanto non mi ucciderai fino a quando non risponderò in maniera soddisfacente.
E se decidessi di darti una sincera spiegazione, rimarresti così sorpresa da lasciar perdere i tuoi piani omicidi.”
Inarcò il sopracciglio con irriverenza, fece un passo indietro e sistemò la (mia!) spada nel (mio!) fodero.
Poi poggiò le mani sui fianchi e mi sfidò: “Molto bene, se il tuo racconto ti salverà, non potrò far altro che ascoltarlo con piacere!”
Si sedette sull’erba e continuò: “Io ho tutta la vita davanti, tu invece… incatenato in quel modo, senza cibo né acqua, durerai si e no qualche giorno.”
Devo ammetterlo, lei era palesemente in vantaggio.
Tentai di stiracchiarmi con impazienza, quando riuscii di sfuggita a scorgere un lembo della mia pelle tra le pesanti catene  nere che mi bloccavano le caviglie: era di un colore neutro, chiaro, umano.
 
Sono un essere umano!” urlai sorpreso, “Niente pelle coriacea, niente cicatrici, niente di niente… sono come voi!”
“Ma di che cosa stai parlando?” ruggì lei.
E chi poteva starla a sentire in quel momento?
Il mio orribile aspetto aveva finalmente ceduto il posto a qualcosa di nuovo e meravigliosamente normale.
Quindi era questo a cui si riferiva la Dama Bianca, nominando la razza che eravamo!
Esseri belli, esseri puri, dai tratti umanoidi e piacevoli da guardare.
L’Oscuro Sire si era dato un bel daffare per trasformare quelli come me nelle mostruose creature che spaventavano la Terra di Mezzo…
 
“Sono bello?” chiesi senza riflettere, con un sorriso a trentadue denti.
Lei arrossì di sfuggita, poi scattò di nuovo in piedi e sfoderò la lama nera, appoggiandone la punta tra i miei occhi: “Il tuo grazioso faccino non renderà il trapasso meno doloroso.
Parla adesso, o ti toccherà urlare.”
Per quanto potesse farmi metaforicamente gonfiare il petto d’orgoglio quel suo mezzo complimento, anche qui devo ammettere che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.
E questa non è per niente una metafora.
La guardai negli occhi cercando di apparire convincente: “Non è semplice… potrei dire cose incomprensibili alle tue orecchie, e non intendo rischiare la mia vita per una verità che potrebbe essere erroneamente scambiata per una bugia.”
Sembrò volerci credere, così fece un cenno per spingermi a continuare.
“Sicura di volermi ascoltare?” chiesi, catturando definitivamente la sua attenzione.
Lei sistemò nuovamente la spada nel fodero, si sedette e rispose: “C’è un solo modo per iniziare a raccontare qualcosa di incredibile, ovvero dire il proprio nome.”
“Mi chiamo Ishdreg…”
“Mai sentito. Da dove vieni?”
“Mordor…”
Ci fu un silenzio imbarazzante.
“Scusa, non conosco questo posto. E’ in Egitto? In Persia?” il suo sguardo si fece tagliente “sei per caso una spia Persiana?”
Non seppi cosa dire.
“Di cosa… di cosa stai parlando?” balbettai incerto.
“Non fare il finto tonto! Questa ‘Mordor’ è un nome in codice, non è così? Sei una spia Persiana! Lo sapevo!” si alzò in piedi e per l’ennesima volta mi puntò la (mia, diamine, sempre la mia!) spada alla gola con fare minaccioso.
“E smettila con questa spia Persiana, che vai dicendo?! Non ho mai sentito parlare di alcun Egitto, né di alcuna Persia.
Dimmi, piuttosto, dov’è che mi trovo?”
Per la prima volta la sua bocca si aprì in un’enorme ‘O’ di stupore: “Stai dicendo la verità? Non sai che posto è questo?” le scappò una risata di scherno.
“No, non lo so. Non so dove sono, non so chi sei, non so che cosa faccio qui e… per tutti i troll, non sono una spia! Posa la mia spada!”
Mi fece un mezzo sorriso e rispose con tono pacato, quasi schernendomi gentilmente: “Puoi chiamarmi Namìvya, non ho idea del perché tu non sappia cosa stai facendo qui se non sei una spia, e ti trovi nella capitale dell’eleganza e della bellezza: Atene!”
Vorrei poter dire che in quel momento stessi scherzando, ma quando chiesi: “Quindi… in che mondo siamo?” seppi di aver appena posto la domanda più seria del mondo, quale che fosse.
 
“Non puoi non aver sentito parlare di Atene, delle sue prodezze in battaglia, del suo splendore! Sei davvero così lontano dal tuo paese?
Vieni dal Nord? O da oltre il mare?
Stai mentendo? Quanto mi piacerebbe viaggiare!
Mh, sembri sincero… come sei arrivato qui?”
Tutta l’arroganza di prima era svanita per lasciar spazio ad una ragazza alle prese con la curiosità di scoprire nuovi luoghi.
Continuò a fare domande e ad accettare solo mezze risposte, in quanto la sua sete di sapere non mi permetteva molta libertà di spiegazione.
Più la guardavo e più riuscivo a capirla: tutta l’aggressività, la destrezza con la lama, le parole sibilate, erano solo una debole strategia di difesa.
Quanto poteva essere giovane?
Quanto poteva essere… sola?
“Namìvya…” la chiamai piano, distraendola dalle sue chiacchiere senza un apparente filo logico.
“Si?”
“Sei molto giovane, giusto?” temevo, in parte, la sua risposta.
“Beh, no, ormai ho quindici anni, anche troppi…” un velo di tristezza le oscurò il volto, la dolcezza fanciullesca dei suoi tratti divenne acciaio.
Mi parve di vederla tremare leggermente.
“Troppi per cosa? Namìvya, non voglio farti del male, voglio aiutarti.
Perché sei così sola? Perché sei così triste?”
Mi guardò in un modo strano, come se volesse studiare le mie parole.
Si sarebbe fidata di me?
Fece un respiro profondo e continuò: “Sono la figlia di una prostituta, non ho futuro qui.
Presto verrò venduta a chi apprezzerà il mio corpo più delle mie idee.
Diverrò un oggetto per chi mi comprerà, nulla di più.
Non posso oppormi, non posso combattere, posso solo subire.
Le donne fanno questo.”
Strinse i pugni e si allontanò da me.
 
•••
 
Un oggetto, aveva detto che sarebbe diventata.
Come si può rubare la libertà a qualcuno?
Possibile che il male fosse giunto anche laggiù?
Altre domande che rimasero bloccate tra le mie labbra ancora per molto.
 
Lei tornò il giorno dopo con una ciotola di strana zuppa tra le mani: “Se non ti piace, puoi rimanere a digiuno.”
Ancora una volta quell’indifferenza tagliente fece capolino.
“Che ne diresti di liberarmi? Dopotutto che male potrei farti, disarmato?”
“Non se ne parla! Tu rimarrai incatenato qui fino a quando lo decido io!” rispose lei freddamente.
Non sapevo più che dirle; chi avrebbe potuto far cambiare idea ad una persona così?
Sorseggiai la mia minestra reggendo la scodella con l’unico braccio relativamente libero che avevo a disposizione.
Lei mi fissò a lungo, poi ruppe il silenzio: “Questo giardino è un luogo segreto noto solo a me. Si può raggiungere con una galleria attraversante  il colle, la cui entrata è ben nascosta: ora dimmi, come hai fatto ad entrare?”
Speravo sinceramente che dopo una notte senza vedermi si fosse dimenticata dell’interrogatorio a cui non avevo risposto.
Chiaro come il sole, non fu così.
“Non lo so. Ero nella mia Terra, ho chiuso gli occhi e poi… mi sono ritrovato qua” sintetizzai, tentando di essere convincente.
“Sei stato mandato dagli dei?” sgranò gli occhi e si coprì la bocca spalancata con le mani.
“Io non… non lo so, forse, cioè, come si fa a saperlo?” ma lei aveva già smesso di ascoltarmi.
“Dovrei trattarti come un ospite, o come una prova di fede? Farò un salto al tempio per ringraziare il cielo!
O forse è tutta una bugia… se stessi mentendo? Ma cosa dico, cosa dico!?”
La lasciai blaterare cose a vanvera su una certa Atena per qualche minuto, poi calò di nuovo il silenzio: si teneva le tempie tra le mani.
“Stai be-”
“Shh, sto riflettendo!” sputò lei acidamente.
Passeggiava avanti e indietro senza fermarsi, gesticolava, sussurrava parole strane, contava con le dita ed io iniziavo a spazientirmi: “Vuoi dirmi che cos-”
“CI SONO!” esclamò raggiante: “Ho deciso!”
In quel momento riuscivo solo a pensare: “E’ pazza, non c’è altra spiegazione”.
“Ti libero subito!”
Rimasi a bocca spalancata: avevo capito bene?
“Atena ha voluto premiarmi, o punirmi, ancora non lo so. Ma tu sei un dono (o più probabilmente un fardello) degli dei! Come potrei rifiutarti?”
Scioglieva le catene con gli strani oggettini bronzei del mazzo, tutta soddisfatta.
“Scusa ma… non avresti potuto pensarci prima?” tentai di ironizzare.
Lei tornò seria: “Smettila di lagnarti e ringrazia i miei dei, straniero”.
 
Finalmente libero, alzai le mani in segno di resa e mi massaggiai i polsi, osservando per la prima volta il mio nuovo corpo per intero, tastando il viso con delicatezza, stupore.
Mi accorsi in ritardo di come lei mi stesse fissando pensierosa.
“Che hai da guardare?” domandai interdetto.
“Potrei quasi credere a ciò che mi hai raccontato, sai?”
“Beh, fammi un fischio quando avrai deciso! Come esco da questo posto?”
La sua aspra risata mi fece quasi innervosire: “Spero tu stia scherzando! Fino a ieri non sapevi nemmeno dove fossi finito, adesso pretendi di scorrazzare in giro per Atene senza conoscere il posto, la gente, le nostre abitudini?!”
Scosse la testa e incrociò le braccia: “No, mio caro. Se davvero gli dei ti hanno affidato a me, sappi che non intendo deluderli facendoti uccidere il primo giorno.”
Si fece seria all’improvviso: “Nulla di tutto ciò che faremo o diremo dovrà uscire da qui, chiaro?”
Non capii.
“Inizieremo le lezioni domani mattina, stai pronto”.
 
Detto questo oltrepassò un muro di edera e sparì.
Rimasi con le mani in mano, incerto sul da farsi.
Poi pensai che in fondo la mia avventura era appena iniziata, come potevo già impormi dei limiti?
Sorrisi.
Ero certo che ne avrei viste delle belle.

 



Angolo dell'autrice.
 
Buon pomeriggio! Innanzitutto, mi scuso se i miei aggiornamenti inizieranno a diventare più incostanti: sto attraversando un periodo un po' difficile, e le mie vacanze saranno più intense del trimestre quasi terminato.
Ho deciso di unire due capitoli in uno per farmi perdonare in anticipo *manda tanti bacini*

Spero davvero di riuscire a portare a termine tutti i miei impegni, e di non deludervi con i miei capitoli schifiderrimi(?)
Cooomunque, avete conosciuto Namìvya (ditemi che il nome vi piace, pls, io lo adoro!), e avete scoperto che non ci troviamo esattamente nella Terra di Mezzo... che ne pensate? Aspetto le vostre recensioni, e vi autorizzo(!?) a lanciarmi tutti i pomodori che volete!
Ringrazio chi ha recensito i capitoli precedenti, chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi sta leggendo in silenzio, e chi mi dona costantemente il suo appoggio durante questa bellissima avventura: siete davvero importanti per me!

Baci a tutti, e alla prossima!
Durhilwen

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Capitolo 4
*** "Lo straniero che divenne quasi mio amico". ***


Alla mia carissima "mamma" Dìs, detta anche Leila, Benni, amica.

Capitolo quarto: "Lo straniero che divenne quasi mio amico".

 

La mia testa era piena di nozioni sulla Grecia e riguardo i suoi abitanti: non ne potevo più.
Da quasi un mese, ogni giorno Namìvya veniva da me con passo leggero, portandomi vestiti strani, cibo e acqua, insegnandomi tutto ciò che sapeva sulla sua amata Grecia e sugli usi e i costumi delle persone che la popolavano.
 
Avevo imparato i nomi dei loro dei, la geografia della zona, le città più influenti, le preghiere, le diverse classi sociali, e molto di tutto ciò mi sembrava ingiusto.
“Scusa, ma perché tu vieni considerata meno importante delle altre donne?
Qual è la differenza tra te e loro?
E soprattutto, perché l’uomo è dominatore e non marito della sua stessa moglie?
C’è qualcosa che non funziona, nel vostro modo di pensare.”
Le ponevo questo tipo di domande spesso, ma lei non rispondeva, sviando e cambiando in fretta argomento.
Finché arrivò il giorno in cui, per la prima volta, conobbi quel lato del suo carattere che aveva tentato di nascondermi tempo addietro.
 
Era una mattinata di mezz’estate, la nostra lezione del giorno verteva sulla politica: ma lei era continuamente distratta, perdeva il filo del discorso e dimenticava spesso ciò che doveva dirmi.
Ad un certo punto si bloccò, mi fissò con eloquenza e disse: “Ancora non mi fido di te, sia chiaro. Ma sono certa che se gli dei hanno voluto questo, deve esserci un motivo ben preciso.
Ho intenzione di parlarti di me, voglio rispondere alle tue domande.”
Tutti gli strani nomi che fluttuavano nella mia testa sparirono all’istante, drizzai le orecchie e sedendomi, le feci cenno di proseguire.
Si torceva le dita nervosamente, come se volesse liberarsi di una terribile verità, ma non avesse il coraggio di proferire parola: i suoi occhi saettavano ovunque, sbuffava e si mordeva il labbro inferiore.
Poi continuò: “Promettimi che non te andrai da me, dopo aver sentito la mia storia.”
Ecco la debolezza che aspettavo, il dolce imbarazzo di una ragazza di quindici anni.
Le sorrisi senza dir nulla e lei sembrò convincersi, iniziando a raccontare.
 
Namìvya era “nata per errore” secondo la sua gente: suo padre era un soldato greco di indole violenta, sua madre invece una prostituta egiziana giunta laggiù su una nave di schiavi.
Non conosceva il suo nome, sapeva solo che l’aveva abbandonata subito dopo il parto, offrendole nient’altro che una vita d’inferno.
La balia che aveva deciso di crescerla era una “commerciante”: scambiava tutto ciò che poteva con oro, favori, segreti di stato.
E Namìvya non era altro che  una schiava, nelle sue mani.
Presto sarebbe rientrata nella categoria “merce vendibile”.
 
“E sai che c’è? Che sono d’accordo con te!” era livida di rabbia: “Nulla  di tutto ciò è giusto, noi donne dovremmo essere considerate alla pari di voi uomini!
A Sparta, ho sentito dire, le ragazze possono allenarsi in tutte le discipline: perché noi no?
E soprattutto, perché non posso dire liberamente ciò che penso? Nessuno vuole darmi retta! Il mondo sembra così preso da questa “democrazia” che non si accorge di quanto in realtà non ci sia giustizia!”
Era fuori di sé; gesticolava, andava avanti e indietro senza sosta, batteva i piedi con rabbia crescente.
Poi si bloccò, con la testa tra le mani: “Ti prego” sussurrò “non prendermi per pazza…”
Feci mente locale, cercando di elaborare qualcosa di intelligente da dirle: mi alzai piano e mi avvicinai a lei con circospezione e un mezzo sorriso; le sfiorai la spalla con delicatezza: “Nulla di tutto ciò che diremo o faremo dovrà uscire da qui, me l’hai detto tu.
Perché dovrei allontanarti? Dopotutto sei come me, sei… un po’ diversa.”
Mi squadrò con curiosità: “Tu ancora non hai raccontato nulla della tua vita, o meglio, nulla di preciso e comprensibile.
Parla, dunque, poiché desidero ascoltare la storia dello straniero che divenne quasi mio amico” ridacchiò.
Rimasi sorpreso da queste parole, e lei si accorse della mia strana espressione: arrossì lievemente e si sedette, distogliendo lo sguardo e spianando le pieghe della veste: “Beh, si, insomma, sbrigati che non ho tutto il giorno…”
 
Iniziai il mio racconto: narrai della mia vita a Mordor, del sogno, del viaggio che feci quella notte accompagnato dalla Dama Bianca.
Namìvya era estasiata, ed in qualche modo credeva in ciò che andavo blaterando senza sosta.
Mi riempiva di domande sulla Terra di Mezzo, sui suoi abitanti e su qualsiasi altro dettaglio, compresi quelli insignificanti.
“Potrò mai visitarla? Vorrai portarmici?” chiese infine.
Le presi la mano, titubante, sussurrando le due parole che riuscirono a farla sorridere: “Ma certo!”
Ricordo che le brillarono gli occhi di libertà.
 
Continuai a narrare ancora per molto, ma il tasto dolente prima o poi sarebbe giunto comunque: “Come mai quel giorno eri così sorpreso del tuo aspetto?”
Colpito e affondato.
Cosa avrei potuto dirle?
Che ero un mostro, in realtà?
Che l’odore della sua pelle così liscia mi faceva tremare il palato?
Cos’altro?
Una vocina insidiosa si faceva largo nella mia testa: la verità, nient’altro che la verità, come lei ha fatto con te.
 
Dopotutto, in che altro modo me ne sarei liberato? Mentendo per sempre? No…
 
Usavamo dei fogli chiamati “papiri” e dei carboncini per le nostre lezioni, così ne presi uno e disegnai, poiché non sarei stato in grado di descrivere un bel niente: l’orrore del mio vecchio corpo si riversò su quella sottile sfoglia ingiallita.
Terminato lo schizzo, la guardai: “Promettimi che non te ne andrai da me, dopo aver visto questo…”
Namìvya sorrise incerta, poi annuì.
Feci un respiro profondo e girai il foglio: quel millisecondo di stallo sembrò non finire mai.
Lei si bloccò, poi prese il disegno con calma; mi guardò serenamente, e spalancò le braccia: “Direi che sei davvero cambiato da allora, non trovi anche tu?!”
Piegò il papiro e lo ripose tra le sue vesti, alzando le spalle: “Non mi importa cosa ti è successo, o cosa sei stato prima di divenire uomo.
Adesso ti credo, come tu hai fatto con me.
Se davvero entrambi vogliamo uguaglianza, dobbiamo iniziare dalle basi.
Questa lezione è stata probabilmente la più importante di tutte; domani ti porto in giro, che ne dici?”
 
Ero completamente sconvolto, mi fischiavano le orecchie e improvvisamente mi si era seccata la lingua.
“Ma certo!” farfugliai indistintamente.
Lei sorrise e si diresse verso la palizzata ricoperta dall’edera.
Anche io presto l’avrei oltrepassata, ma cosa mi avrebbe mostrato? Dalle parole di Namìvya sembrava ci fosse qualcosa di meraviglioso al di fuori del giardino nascosto…
 
Dovrei ascoltare più spesso le strane voci che mi danno consigli assurdi, pensai infine, ma ancora non sapevo quanto mi stessi sbagliando.


 




Angolo dell'autrice.
 
Non uccidetemi, abbiate pietà!
Lo so, lo so... vi state chiedendo se prima o poi arriverà un po' di azione, o se dovrà andare avanti così...
non disperate, nel prossimo capitolo saranno altrove(?), ma non vi dico altro.
Dopotutto prima dell'inizio ufficiale della storia ci deve essere qualche frase lasciata a metà per destare la curiosità del lettore... non è vero?
Siete liberi, ancora una volta, di lanciare tutti gli ortaggi che volete! *spalanca le braccia con aria solenne*
Ringrazio le persone che seguono/preferiscono/ricordano/recensiscono/leggono in silenzio la mia storia: mi rendete felici! *abbraccia tutti*
 
Un bacino,
Durhilwen
 
 
Ps.
Non so se riuscirò a pubblicare prima del 25, non credo: in tal caso, auguro ad ognuno di voi e alle vostre famiglie un sereno Natale, un felice inizio 2015... e una quantità industriale di panettoni, pandori, torroni, cioccolatini e chi più ne ha, più ne metta!

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Capitolo 5
*** Sorpresa. ***


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Capitolo quinto: sorpresa.

 

Sentii Namìvya urlare tra le braccia del suo compratore, implorando il mio aiuto. Davanti a me stava lei, ritratto del terrore, dietro di me la guerra avanzava senza sosta.
Percepivo in lontananza una luce gentile, ma non riuscivo a muovermi per raggiungerla.
Ero sdraiato a terra, non respiravo più.
La Morte era giunta anche da me, infine; il mio corpo divenne una magra cena per i corvi: sentivo i lembi della mia carne strapparsi a ritmo incostante.
Urlai, invocai la Dama Bianca, ma nessuno rispose.
Mi trovavo nell’oblio, estirpato con violenza dalla vita che non ero riuscito a vivere.
“Namìvya…” chiamai, ma nessuno rispose.
Poi all’improvviso apparve, luminosa come non mai, nella sua veste di seta: rischiarava ogni cosa intorno a me.
Il mio sollievo venne smorzato alla vista della sua espressione cupa: nere, lugubri lacrime le rigavano il volto; gli occhi erano vuoti, spenti.
“Mi avevi promesso che non te ne saresti andato” disse solamente questo, prima di svanire in una pozza di sangue.
Le sue urla echeggiarono a lungo nella mia testa…
 
“Ishdreg? Dai, svegliati! Ishdreg?! Se non ti alzi entro un attimo rimarrai qui tutto il giorno!”
Spalancai gli occhi e sussultai, afferrando le sue spalle inconsciamente: non mi accorsi di quanta forza avessi messo in quel gesto fino a quando non mi ritrovai gli occhi di Namìvya a pochi centimetri di distanza dai miei.
“Ma cos-“ fece lei, fissandomi.
Giurerei di aver visto un leggero rossore tingere le sue gote.
Si, era decisamente una situazione imbarazzante.
Mi spostai piano, alzandomi, e la aiutai a rimettersi in piedi: “Perdonami, non volevo! E’ stato un riflesso involontario! Colpa di un incubo, stavo dormendo, giuro!” blaterai ininterrottamente.
Dovetti sembrare alquanto patetico, data l’impressione sconcertata di lei.
Fece qualche gesto incomprensibile con le mani e sorrise, rassettandosi la veste scura: “Non preoccuparti, l’avevo intuito! Uhm, stai tranquillo. Ehm, sicuro che qui fuori dormi bene? Devi aver passato una notte tremenda… cosa ti succedeva nell’incubo?”
Per un attimo non seppi cosa dirle, così tossicchiai piano per prendere tempo: “Uhm *coff* mi sembra che fosse *coff, coff* un olifante!”
“Un cosa?” domandò lei.
“Nulla, è una creatura della mia terra” risposi senza convinzione.
Nemmeno lei parve soddisfatta della mia spiegazione: “Sicuro di stare bene?”
“Ma certo, si. Piuttosto, dov’è che andiamo?”
A quanto pare feci la domanda giusta al momento giusto (una volta tanto!), poiché lei sorrise radiosa: “Mi sono presa una pausa di una mattinata intera dalla mia padrona, dato che la nostra meta è un po’ distante da qui.
Ultimamente tende a trattarmi in maniera più gentile del solito senza un apparente motivo, chissà perché… Comunque, non posso dirti la destinazione, è una sorpresa!” rispose tutto d’un fiato, evidentemente felice.
Avrei voluto anche io una buona dose d’ottimismo in quel momento, ma si sa, il buon giorno si vede dal mattino, no?
E decisamente quel dì non era iniziato nel migliore dei modi; ero ancora scosso dall’incubo, non riuscivo a togliermi dalla testa tre martellanti domande: cosa significava? Era un sogno premonitore? Avrei dovuto iniziare a preoccuparmi?
La risposta è senza ombra di dubbio affermativa, ma in un’avvincente storia che si rispetti il protagonista si accorge dei propri errori solo dopo il disastro.
Decisi di considerare il mio incubo solo uno stupido sogno causato dallo stress, accantonando le mie ansie, per il momento.
“Benissimo!” sorrisi convinto “cosa stiamo aspettando?”
 
•••
 
Dopo un’attesa durata un mese, finalmente superai la palizzata ricoperta di edera. Vi era una botola nascosta sotto il fogliame, in un angolo: l’entrata della galleria sotterranea.
“Non ci vorrà molto, e poi ho portato una torcia con me, si accende con una scintilla e illumina gran parte del tunnel” mi assicurò Namìvya.
Percorremmo il corridoio umido in fretta, eppure sembrò non finire mai.
All’improvviso un sottile spiraglio di luce incontrò la fredda terra ai nostri piedi: alzai lo sguardo e vidi nitidamente i lati di una botola socchiusa.
“E’ questa?” chiesi elettrizzato, nonostante intuissi già la risposta.
Lei annuì nella penombra, poi si avvicinò a me e sussurrò con convinzione: “Vado avanti io, seguimi solo quando te lo dico”, poi si issò su una roccia sporgente e spinse con circospezione il coperchio della botola verso l’alto; si arrampicò con agilità e rotolò fuori richiudendo il tunnel.
Uno, due, tre secondi di silenzio…
“Via libera!” sentii la sua voce provenire dall’esterno, così mi lanciai – letteralmente – verso l’uscita.
La luce mi fece istintivamente socchiudere gli occhi per un po’, e quando riuscii ad aprirli rimasi abbastanza sconcertato: ovunque erano stoffe a terra, lische di pesce, merce logora accumulata ai lati di uno stretto vicolo sudicio e inquietante.
“Scusa ma… dov’è lo splendore di cui mi hai parlato?” chiesi scettico.
Lei rise di cuore: “Ma questo è solo un quartiere povero ai margini di Atene! La galleria non poteva mica sbucare nell’agorà, doveva e deve  rimanere segreta!”
Così dicendo, mi prese la mano, conducendomi con sicurezza per strade secondarie, in direzione dell’acropoli.
Ero emozionato, balbettavo cose senza senso in continuazione, le sorridevo esageratamente: ma perché?
 
Doveva essere molto presto, la gente stava iniziando a circolare proprio in quel momento. Tutti i vicoli che percorrevamo si somigliavano tra loro; corti, scuri, costellati di sporcizia.
“Ferma, aspetta” le dissi ad un tratto.
Lei mi guardò con aria interrogativa, ma non ci badai; lasciai la sua mano per dirigermi verso il ciglio della strada, con circospezione: un secchio pieno d’acqua era la mia migliore opportunità di specchiarmi.
Da una parte ero davvero curioso, dall’altra invece… preoccupato.
Il motivo? E chi lo sa!
“Che stai facendo?” mi chiese Namìvya, dubbiosa.
“Aspetta solo un secondo…” e lo vidi. Il mio riflesso!
Un giovane dai capelli castani, gli occhi di un colore mediamente chiaro, un tenue accenno di barba e i tratti del viso spigolosi, ma gradevoli.
Che enorme trasformazione era avvenuta!
Distolsi lo sguardo dall’immagine serenamente, e dopo giusto due parole ricominciammo la corsa verso l’acropoli.
Sentivo a malapena le sue chiacchiere su quanto fosse bello il tempo quel giorno, ero troppo concentrato su ciò a cui avevo appena assistito: grazie, sussurrai mentalmente, e fui certo che la Dama avesse ricevuto il mio messaggio.
 
Dopo circa mezz’ora, Namìvya mi si parò davanti e disse: “Chiudi gli occhi”.
Serrai le palpebre e lei mi accompagnò oltre un muro di pietra sbrecciato: percepii un sole intenso e particolarmente caldo.
“Ecco, ora puoi aprirli” e così feci.
Un’enorme costruzione stava davanti a me, alta, imponente, piena di persone sedute sugli spalti scavati direttamente nella collina.
“Ma questo è il teatro di Dioniso, quello di cui mi hai parlato!” esclamai.
“Quale altro luogo avrei potuto farti visitare nel primo giorno di libertà?” sorrise compiaciuta, incrociando le braccia ironicamente.
Le ero davvero grato, e mai avevo provato qualcosa del genere: io, e solo io potevo volerle bene.
Nessuna forza superiore mi stava obbligando ad essere felice; ancora una volta ringraziai mentalmente  la Dama Bianca, mentre Namìvya mi conduceva all’interno del teatro.
Si fermò all’improvviso, girandosi piano, puntando i suoi occhioni nei miei con titubanza: “Noi schiave… uhm… dobbiamo sederci in alto… ehm… non ti dispiace, vero?” era diventata bordeaux e si mordeva nervosamente il labbro.
L’imbarazzo la rendeva solo più… bella, si.
Umana.
E mi stupii di quanto potesse farmi piacere la sua presenza.
 
•••
 
Quel giorno vedemmo una tragedia che a quanto pare fu un successone: la folla in lacrime batté a lungo le mani, lanciò fiori, continuò a piangere anche fuori dal teatro.
Si, era stata una rappresentazione veramente emozionante, anche se piena di imperfezioni che non feci notare a Namìvya: se ci avessi anche solo provato, chissà cosa sarebbe successo alla mia povera testa…
Lei se ne stava rannicchiata in un angolo, a trattenere le lacrime: com’erano strane e affascinanti le menti greche!
 
“Allora, ti è piaciuto?” chiese lei, sorridendo; “il protagonista era fantastico! Non lo pensi anche tu? E quelle maschere! Oh, che tristezza! Ah, che bellezza! Sono proprio felice. Cosa ne pensi? Eh?”
Scoppiai involontariamente a ridere e dissi ciò che di più sincero e spontaneo avevo da dire: “Sei fantastica, davvero”.
Lei abbassò la testa meccanicamente, arrossendo.
Eravamo all’entrata della galleria, dove lei mi avrebbe lasciato: “Devo scappare, si staranno chiedendo che fine abbia fatto…”
“Namìvya, non volevo essere fuori luogo, è che-“
“Heeey, tranquillo! Ci vediamo appena posso, okay?” fece qualche gesto scoordinato con le mani, poi mi sorrise e tornò indietro.
Rimasi fermo in piedi, appeso a chissà quali pensieri; poi scossi la testa e rientrai nella galleria.

 


Angolo dell'autrice.
 
Ve lo ripeto, siete liberissimi di lanciarmi tutto ciò che volete!
Questo capitolo non è arrivato in ritardo... di più! E tra l'altro fa schifo.
Lo so, lo so, ormai mi odierete: ma giuro che dal prossimo ci sarà più movimento, anche perchè succederà qualcosa di inaspettatao, e terrrribbbbile(?!).
 
Ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, e vi abbraccio.
Durhilwen

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Capitolo 6
*** Calò il silenzio. ***


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Capitolo sesto: calò il silenzio.

 

 

“Sei fantastica, davvero”, questo mi aveva detto.

Senza alcun segno di titubanza in viso: ne era convinto, quindi?

E perché dovrei essere così ai suoi occhi?

Per quindici anni della mia vita le mie orecchie avevano udito solamente insulti, grida, violenti ruggiti di persone feroci nei miei confronti.

E all’improvviso, quella semplice frase era riuscita a farmi vacillare un poco: magari lo sono davvero, fantastica.

Magari un giorno anche io avrò una corona d’alloro sulla testa, una veste lucente e qualcuno al mio fianco.

Magari… magari un giorno l’uomo che sposerò mi amerà davvero, e non vorrà solo farmi del male per il suo, di piacere.

Pensavo a questo, sorridendo nelle tenebre, mentre correvo verso casa.

 

•••

 

“Dove sei stata tutto il giorno?!” scommetto che quella sera anche la Persia riuscì ad udire le urla di Taydra.

Già, questo era il suo nome: sgradevole quasi quanto il suo volto da civetta.

“Mi dispiace, non avrei dovuto tardare, ma pensavo che la giornata libera-…”

“Non m’importa ciò che hai pensato! Ora fila al letto, domani dovrai svegliarti presto: stamattina, mentre eri via, si è presentato un uomo importante, dalla toga mi è parso un senatore.

Volevi tanto la libertà? Eccotela, accontentati.

Andrai via con lui entro la settimana, se gli piacerai. Anzi, andrai via con lui e basta, ho bisogno di soldi io, e qua non servi a nulla.

Per di più stai crescendo troppo in fretta, e quelle anziane non se le prende nessuno. Ah, se tutto fosse andato in maniera diversa…” continuò a borbottare parole indistinte, sistemando qua e là, annuendo di tanto in tanto.

“Hai sentito cosa ti ho detto? Muoviti, a dormire!” sbraitò alla fine.

 

Si, avevo sentito benissimo.

E udii allo stesso modo la pesantezza dei passi che mi stavano conducendo verso la camera da letto.

Libertà.

Nessuno dovrebbe abusare di questa parola.

Sogni.

In un mondo così, che sogno a fare?

Non riuscivo a riflettere in maniera lucida, mi muovevo a scatti e tenevo gli occhi sbarrati dall’incredulità, perché mai avrei immaginato che una giornata tranquilla come quella sarebbe finita in tragedia.

Tragedia, si.

In quel momento avevo chiaro il mio futuro: semplicemente, avrei perso tutto.

Le mie conoscenze, la mia semi-indipendenza, e tutto ciò che prima consideravo solo un incubo, improvvisamente si era trasformato in una cruda realtà.

Scappare? Non avrei potuto. Prima o poi qualcuno mi avrebbe trovata e sarei finita chissà dove, in compagnia di chissà chi.

Fingermi morta? Ma per favore, Namìvya, non siamo a teatro!

Nulla, assolutamente nulla.

Non avrei potuto fare nient’altro di diverso da ciò che feci: mi sdraiai sullo scomodo giaciglio, e piansi fino a sentire gli occhi di pietra, fino a perdere la testa, fino a che non riuscii ad addormentarmi.

Una sola parola rimbalzava da un angolo all’altro della mia mente: Ishdreg.

 

•••

 

E lo sognai, quella notte.

Si avvicinava con calma, sorrideva mesto; decisi di salutarlo con la mano.

Ma il suo volto s’indurì, e la sua espressione divenne  morte: gelida, mi scrutava con violenza, giudicava ogni angolo del mio corpo.

Voleva comprarmi.

Provai a fuggire, non ci riuscii; mi strinse il polso sinistro e la sua presa ferrea lasciò un segno scuro sulla carne.

Caddi a terra, lui iniziò a strapparmi le vesti ferocemente: ebbi paura.

Gridai, gridai con tutto il fiato che avevo in corpo, fino a morire.

 

 Mi svegliai di soprassalto, ansimante e sudata, tra le stesse quattro mura della sera precedente: la luce riempiva la stanza, e le solite grida di Taydra mi fecero capire che era ora di alzarsi.

Panico? No, di più.

Tremavo ancora, cercavo invano di sorridere per farmi forza, recitavo versi di una filastrocca imparata da bambina per allentare la tensione, e riuscii ad allontanare il pensiero abbastanza da lasciarmi respirare.

“Troverai tutto nella camera adiacente alla tua, sbrigati che tra un’ora arriva!”

Le sue parole mi fecero dimenticare ogni dettaglio dell’incubo: strano, non è vero?

Eppure, quella maledetta notte mi sarebbe tornata in mente solo parecchio tempo dopo, in circostanze assai spiacevoli, direi.

 

Svoltai l’angolo ed entrai nel minuscolo stanzino accanto al mio (“camera”, che paroloni!); a destra presi un fiammifero e una candela, per orientarmi in quel buco nero, poi lo vidi, appoggiato con grazia su una pila infinita di vecchi stracci: un abito meraviglioso.

Era molto lungo, aveva una spalla sola e il suo colore assomigliava al blu del mare: lungo le maniche, terribilmente delicate, vi erano ricami dorati.

Lo portai nel mio angolo e dopo un’accurata pulizia, lo indossai: sembravo davvero… diversa.

“Ma quanto ci metti a vestirti? Sbrigati, ragazzina!”

Taydra ormai rappresentava l’unico (ed efficace) modo per distruggere ogni momento di calma della mia vita.

“Arrivo…” mormorai poco convinta.

Appena uscita dalla stanza, trovai la donna ad aspettarmi: era ferma in piedi, e mi guardava.

Non sembrava più arrabbiata, non sembrava più burbera e scortese… sorrideva, forse per la prima volta, e aveva gli occhi lucidi.

“Ricordo di quando per la prima volta ti trovai, eri così piccola… e adesso guardati... Ti chiedo scusa, Namìvya”.

COSA, COSA, COSA, avevo sentito bene?

“In questi quindici anni ti avrei voluto trattare come una figlia e invece ho sbagliato tutto: non ti ho mai assecondata, non ti ho mai ascoltata, non ho mai adempiuto ai giuramenti che mi ero imposta di mantenere.

E’ tardi ormai per farmi perdonare, ma volevo solo augurarti buona fortuna per la tua nuova vita. So cosa proverai, e non sarà facile…” sembrò per un attimo immersa in lontani ricordi.

“Ma sono certa che ce la farai. Perché tu, Namìvya, tu puoi”.

Eravamo entrambe immobili, ci fissavamo senza cedere, sembrava quasi che il tempo si fosse fermato; poi Taydra si avvicinò e mi poggiò le sue mani possenti sulle spalle: “Ascoltami Namìvya, ascoltami bene e non dimenticare ciò che sto per dirti!” era preoccupata? Era… spaventata?

“Giurami che non ne parlerai mai con nessuno, ti prego!” continuò.

“Va bene, lo giuro!”

“Sappi che potrei essere giustiziata per quest-”

“Non dirò una sola parola ad anima viva” la interruppi.

Lei fece un respiro profondo, poi continuò: “Non è giusto. Niente di tutto questo lo è, niente di tutta questa nostra vita mai lo sarà. Donne inferiori all’uomo? Giammai! Ma per carità, chi potrebbe parlarne… siamo un paese democratico, giusto? Eppure… tanto lo sai.

E so bene che abbiamo lo stesso pensiero, Namìvya.

Molte delle persone che incontrerai ti ripeteranno che non sei niente, come ho fatto io – scusami, scusami ancora! – che non vali, che nessun uomo potrà mai prenderti in sposa, perché le prostitute sono solo uno scarto.

Tu non rispondere a nessuno, ma annuisci e china il capo, o sei finita.

Namìvya, guardami negli occhi, e promettimi che fuggirai appena ne avrai l’occasione”.

Non poteva essere reale, non poteva! Taydra… affettuosa? Taydra spaventata? Taydra che improvvisamente vuole bene a qualcuno?
Sembrava un sogno, forse bello, forse pericoloso.

Perché se davvero tutto ciò che sarebbe presto diventata la mia vita, era così potente da aver fatto inginocchiare lei, anni prima…
Non riuscii a terminare il mio pensiero, l’ansia era tornata, e con essa uno scossone da parte di Taydra.

“Me lo prometti, Namìvya? Mi prometti che non ti volterai mai indietro? Non fidarti di nessuno, e scappa!”

Ricacciai indietro le lacrime e risposi, con voce ferma: “Te lo prometto!”

Mi abbracciò.

Forse per la prima ed ultima volta, conobbi la bontà di quella donna che non mi era più possibile odiare.

Tentai di ricambiare la stretta, ma qualcuno bussò.

Taydra si irrigidì, cambiò totalmente espressione: con un gesto eloquente mi disse dove rimanere, poi andò ad accogliere l’ospite.

Calò il silenzio.

•••

 

Era un uomo adulto, tra i trentacinque e i quarant’anni; di bell’aspetto, dal portamento nobile: sicuramente un politico.

I capelli corvini erano in ordine, la precisione con la quale era agghindato lo rendeva un perfezionista e un maniaco del bell’aspetto, gli occhi azzurri sembravano ghiaccio.

Al suo sguardo mi sentii nuda: scrutò ogni angolo della mia pelle, fece qualche giro intorno a me – che immobile, sembravo una statua in marmo – e alla fine, con un cenno della testa, chiamo Taydra in un’altra stanza.

Appena sparirono dalla mia vista, mi accasciai su uno sgabello malmesso: entro la fine della giornata la mia vita sarebbe tornata l’inferno di prima, oppure peggio.

E cosa potevo fare? Nulla.

Solo star lì, piegata in due dal peso che portavo sulle spalle, a guardare il pavimento grigio di un’antica prigione quasi cara, a me.

 

Sentii delle monete tintinnare nell’altra stanza, qualche passo e scattai in piedi, con un tenue - quanto bugiardo - sorriso sulle labbra.

“Domani alle otto, non aspetterò più di cinque minuti” disse l’uomo uscendo di casa.

Io annuii alle sue spalle, divennero scheletri: cosa ne sarebbe stato di me?

L’indomani alle otto il mio destino sarebbe stato scritto, e nessun altro al posto mio avrebbe potuto cambiarlo.

Lo giuro, Taydra, fuggirò.

 

•••

 

La giornata passò lenta e pesante, il silenzio in casa regnava sovrano e né io, né Taydra, né la gente nelle strade sembrava in vena di parlare.

Non avevo mai fatto caso al silenzio, prima di allora: ero calmo, ma violento.

Sapeva rendere chiunque tranquillo, oppure l’esatto contrario: aveva il potere di uccidere.

Perché nelle piazze, alla domanda “Che qualcuno si faccia avanti, se contrario all’esecuzione”… nessuno aveva mai il coraggio di parlare.

E io? Cosa avrei fatto alla mia stessa condanna a morte?

Perché io sarei fuggita, no?

Avrei rischiato? Ma certo, ero sempre stata coraggiosa.

Giusto? Ero coraggiosa, io?

Si, forse si, forse lo ero davvero. E dopotutto Ishdreg mi aveva promesso che non se ne sarebbe m- … “ISHDREG!”

Urlai, scattando in piedi.

Taydra apparve da fuori, dicendo: “Ma cosa diamine strilli? Smettila, non sei un animale!” e brontolando tornò alle sue faccende.

Non le risposi, presi un mantello e corsi senza pensare ad altro “Torno subito!” dissi, tanto per toglierle dalla faccia quell’espressione acida.

 

Non faceva freddo, eppure l’aria serale quel giorno era diversa: più rigida, ferma. O molto più probabilmente era uguale al solito, cambiava solo il mio stato d’animo (vorrei ben dire!).

Non ricordo molto del tragitto da casa alla botola: correvo senza fermarmi, senza respirare, senza riflettere; quasi non guardavo a terra mentre sfidavo il vento.

Entrai con un salto, continuai a correre lungo la galleria senza neanche una torcia: tastavo le pareti con scarsa attenzione, ormai le conoscevo a memoria.

Sbucai dall’altra parte e lo vidi dormire. Mi avvicinai con circospezione, toccai la sua spalla sinistra piano: lui sobbalzò per lo spavento.

E sapete una cosa? Malgrado tutto… mi fece sorridere.

 

♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦

 

Non sapevo cosa dire.

Quando, tempo prima, mi aveva raccontato del suo ruolo nella società, non avevo creduto neanche per un istante che prima o poi sarebbe stata venduta.

E invece eccola lì, lei e il suo “devo andarmene, ma non credo tornerò mai”, le sue lacrime amare.

Ma io, adesso, cosa posso fare? Mi chiedevo incessantemente.

Perché lo giuro, avrei fatto qualsiasi cosa per vedere di nuovo quel suo sorriso timido, per sentire di nuovo i suoi giudizi sulle istituzioni; avrei addirittura ascoltato mille lezioni sulla Grecia, solo per tenerla ancora un po’ con me.

Mi sentii un egoista, un approfittatore: pensavo a me, alla mia nostalgia, e ancora non dicevo nulla che potesse farla star meglio.

Era in piedi di fronte a me, aspettava una risposta, un cenno.

Cosa avrei potuto dire? Cosa avrei potuto fare?

Mi avvicinai a lei, le presi la mano con tutta la convinzione possibile: “Tu non appassirai”.

Come se stessi parlando a un fiore… parole senza senso, dite? Forse è così.

Ma lei era un fiore, e sarebbe stata pronta a sbocciare… se non fosse stata strappata.

Mi guardò incerta: era gelida, i suoi occhi vuoti, senza espressione.

Lasciai perdere le parole e l’abbracciai. Lei sembrò irrigidirsi, all’inizio, poi si sciolse un po’ e ricambiò la stretta.

Rimanemmo così, nel silenzio piatto ed assordante di una comune sera estiva.

 

•••

 

“Non tutto è perduto, se rifletti, piccolo amico” disse una voce.

Era lei, era tornata! La Dama Bianca!

“Cosa posso fare?” chiesi mentalmente, in attesa di un consiglio: e se in quel momento mi avesse ordinato di gettarmi da una rupe, so quasi per certo che… non avrei rifiutato.

“Pensa, Ishdreg, pensa. Cosa fanno le persone quando incombe un pericolo?”

Riflettei per un attimo: “Scappano? Scappano!”

Ci fu un attimo di assoluto silenzio.

“Buona fortuna Ishdreg, sarò con te in ogni momento del tuo viaggio” concluse dolcemente lei, prima di svanire dalla mia mente.

 

“Potremmo fuggire!” - esclamai districandomi dall’abbraccio e fissandola negli occhi – “potremmo andare verso Sparta, o magari ad Olimpia! Ci sono così tanti posti che dobbiamo ancora vedere… l’altra volta mi hai raccontato di questo evento meraviglioso che stanno organizzando, le Olimpiadi, giusto?

Dai, sarebbe fantastico, e soprattutto n-”

“No, Ishdreg” rispose lapidaria.

Per un attimo rimasi stupito: “Perché no? Preferisci restare c-”

“CERTO CHE NO!” sbottò “ma non posso scappare. Non adesso, almeno. Taydra finirebbe nei guai per colpa mia, e non posso proprio permetterlo.

Non sarebbe giusto. E’ un essere umano anche lei, dopotutto.”

Si sistemò i capelli dietro le orecchie; aveva la treccia completamente sfatta, eppure per la prima volta non sembrava solo una statua senza difetti, senza dettagli fuori posto.

Uno sguardo furbo la illuminò all’improvviso.
La sua espressione mutò dallo sconforto alla determinazione: “Ti ho detto che non posso scappare, giusto? Poi mi sono corretta. Non adesso. Domani potrò, eccome se potrò. Oh, sono un genio, un genio!” cominciò a camminare avanti e indietro, gesticolando come sua abitudine e guardando a terra.

Mi sentii stupido a dire: “Scusa, non ho capito che intendi fare…” ma lei non parve badarci troppo.

Si girò verso di me con le mani giunte, gli occhi spalancati ed un sorriso leggermente inquietante: “Voglio la mia libertà!”

 


 

Angolo dell'autrice.
 
Miei cari ragazzi, fate di me ciò che ritenete più giusto *spalanca le braccia con aria melodrammatica, in attesa della lapidazione imminente*
Scherzi a parte, che ritardo! Non ho scuse, solo l'ispirazione che si era andata a fare un giro.
Questo è il capitolo più lungo, per ora: sto finalmente ingranando la giusta marcia, i prossimi spero miglioreranno sempre di più!
Ma soprattutto, voi che ne pensate? Come vi pare si stia evolvendo la storia? Che succederà?
Dico solo... nah, sto zitta.

Ringrazio di cuore tutte le persone che recensiscono, preferiscono, seguono e ricordano la mia storia: vi mando un abbraccio forte!
Spero di sentirvi presto - ispirazione? Ci sei? - e vi auguro una buona serata,
Durhilwen

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