Coming back as we are

di Euridice100
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Castle on a cloud ***
Capitolo 2: *** I - E sarà il sole a chiederci un favore (per dare un’ombra nuova ai nostri visi) ***
Capitolo 3: *** II - Mad world ***
Capitolo 4: *** III - Innuendo ***
Capitolo 5: *** IV - Blurry ***
Capitolo 6: *** V - Love (will come through) ***
Capitolo 7: *** VI - S.O.S. ***
Capitolo 8: *** VII - Give me love ***
Capitolo 9: *** VIII - Broken strings ***
Capitolo 10: *** IX - I'm your man ***
Capitolo 11: *** X - Where does the good go? ***
Capitolo 12: *** XI - Innocence ***
Capitolo 13: *** XII - Paid in full ***
Capitolo 14: *** XIII - Somewhere only we know ***
Capitolo 15: *** XIV - Not strong enough ***
Capitolo 16: *** XV - Photograph ***
Capitolo 17: *** XVI - The devil within ***
Capitolo 18: *** XVII - I dreamed a dream ***
Capitolo 19: *** XVIII - Never gonna love again ***
Capitolo 20: *** XIX - Pugni chiusi ***
Capitolo 21: *** XX - Lonely day ***
Capitolo 22: *** XXI - I appear missing ***
Capitolo 23: *** XXII - Avrei trovato molte più risposte (Se avessi chiesto a te, ma non fa niente) ***
Capitolo 24: *** Epilogo - Rivedersi era come rinascere ancora una volta ***



Capitolo 1
*** Prologo - Castle on a cloud ***


 
 
 
Prologo - Castle on a cloud
 
 
 
There is a castle on a cloud,
I like to go there in my sleep,
aren't any floors for me to sweep
not in my castle on a cloud.
 
 
 
Londra, aprile 1894
 
Le gocce scivolano sul vetro sottile della finestra, lasciando dietro di sé una lunga scia umida che insegue con le dita. Non c’è molto da fare quando piove e tutti sono impegnati: è costretta a distrarsi accontentandosi dei pochi svaghi che la circondano e che mai come in questo momento le sono parsi tanto banali.
A Helena questo tempo non piace, proprio non le piace, anche se vi è abituata: da quando è nata, conosce solo cieli brumosi che paiono riflettere il grigiore di strade raramente baciate dal sole. L’aria carica di umidità le gonfia i capelli, rendendoli una matassa inestricabile, fa appiccicare i vestiti alla pelle e rende le lamentele di Granny per “le sue povere ossa” una sequela infinita; e, per quanto adori quella vecchina che non ha paura di niente e nessuno, sentir ripetere sempre gli stessi borbottii a lungo andare scoccia.
Se Ruby o sua madre scoprissero ciò che pensa avrebbero reazioni opposte, lo sa: una riderebbe a crepapelle e le darebbe manforte, l’altra la incenerirebbe con lo sguardo ricordandole che un conto è la schiettezza, un altro la maleducazione, e lei rasenta decisamente la seconda piuttosto che la prima. Metterebbe il broncio, senza dubbio; ma poi Helena andrebbe ad abbracciarla, e subito vedrebbe ricomparire quel sorriso speciale che dedica a lei e a lei sola, che tanto le illumina il volto e le accende lo sguardo; quel sorriso che però – anche la bambina non può non accorgersene – sembra incompleto.
Non sa spiegarne il perché; riflettendoci, però, ha capito che il sorriso della mamma è simile al suo quando vorrebbe più torta di quella che le viene data. Rari come sono, i dolci sono qualcosa per cui festeggiare e proprio per questo, anche se le viene data sempre la fetta più grande, Helena ne vorrebbe ancora; sapere di non poterlo pretendere la rattrista. Ecco: nel sorriso speciale di sua madre c’è gioia, tanta gioia, ma c’è anche, c’è sempre, un frammento di malinconia che non si capisce a cosa sia dovuta.
Forse la ragione di quella tristezza segreta è qualcosa di serio, ed è una ragione che – per quanto il pensiero possa farla arrabbiare – lei non può capire perché ancora troppo piccola. Ci sono giorni in cui mamma sembra proprio altrove, com’è successo a Natale: Helena ha pensato che la colpa fosse sua, che qualche capriccio l’avesse fatta arrabbiare definitivamente e la donna non le volesse più bene; e il pensiero le era tanto insopportabile che alla fine ha preso coraggio a due mani e gliel’ha chiesto.
Quando ha sentito la domanda, mamma è caduta dalle nuvole.
L’ha guardata come se fosse ammattita e si è morsa le labbra colpevole, attirandola a sé in uno degli abbracci che tanto le piacciono e chiedendole scusa un numero infinito di volte.
- Non pensare mai una cosa del genere, mai, – le ha sussurrato baciandola senza sosta – Tu non potresti mai deludermi. Tu sei il mio sole.
Quando ha udito quelle parole, un calore improvviso si è impadronito del suo cuore.
Mamma è tornata a giocare con lei, a scherzare e aiutare Ruby; ma ancora, nella sua risata c’era l’eco della tristezza segreta di cui non si conosce il colpevole.
 
 
 
“There is a room that's full of toys,
there are my hundred boys and girls,
nobody shouts or talks too loud,
not in my castle on a cloud.”
 
 
 
 
Helena sbadiglia e lancia l’ennesima occhiata sulla strada: ormai sta smettendo di piovere. Se almeno potesse andare da Tink… Le piace aiutarla mentre lavora – le dice sempre che, sveglia com’è, il suo sostegno è importantissimo, e lei non può far a meno di sorridere orgogliosa – e, soprattutto, le piace giocare con gli altri bambini; ma di mattina la donna insegna a leggere e a scrivere ai più grandicelli, come Henry e Grace, e Anna, e quando guarirà anche Elsa. Il fatto che i suoi amici stiano affrontando una nuova avventura senza di lei la indispettisce non poco, e a nulla valgono le rassicurazioni materne: Helena non intende aspettare, vuole andare a scuola ora, vuole imparare subito! Persino Tink dice che è presto, ma lei vuole stare col suo gruppo, vivere le stesse esperienze: ha ben quattro anni, ormai non è certo una bambina!
Si guarda attorno: oggi è mattina di chiusura e non c’è l‘ombra di un cliente, ma mamma, Ruby e Granny si dividono comunque tra il bancone e il retro, cercando di portare avanti le incombenze per i giorni di lavoro. Impegnate come sono, non possono accompagnarla in istituto; e mamma non vuole assolutamente che giochi dove non può tenerla d’occhio o che, addirittura, esca da sola: dice che Whitechapel non è un bel posto in cui crescere – non è un bel posto per nessuno, dice, anche se Helena non ne capisce il perché, abituata com’è a quell’umanità forse sudicia e anonima, ma che lei sente così sua. Quando sente parlare di posti meravigliosi appena al di là del fiume, e poi ancora per il mondo intero – distese infinite di fiori viola, savane popolate da animali selvaggi e scogliere a strapiombo su flutti tempestosi – lei ci crede, perché sua madre non le direbbe mai bugie, ma al tempo stesso non è del tutto convinta. È abituata a certe cose, a scene che a volte lasciano uno strana sensazione di ferro in bocca e gelano le membra; ma sa cos’è giusto e cos’è sbagliato, cosa deve e non deve fare, e poi comunque non è certo stupida, anzi!
L’orfanotrofio dista poche strade dalla locanda, e lei le ha percorse tantissime volte: sicuramente potrà farcela anche da sola. Quando lo verrà a sapere, mamma si arrabbierà, potrebbe giurarci, ma sarà anche orgogliosa della sua bambina ormai grande e in grado di cavarsela da sola per il vasto mondo…
E poi, chissà: magari proprio questa prova le farà capire che è giunta l’ora di mandarla a studiare con gli altri!
Esce di soppiatto dalla sala, attenta a non fare il minimo rumore, e ridacchia vittoriosa quando si ritrova all’aria aperta. Nessuno fa caso a un soldo di cacio che sguiscia rapido tra i passanti e s’incammina a testa alta verso la meta: tra poco sarà coi suoi amici, e solo questo conta.
 
 
 
There is a lady all in white,
holds me and sings a lullaby,
she's nice to see

and she's soft to touch,
she says:

‘Cosette, I love you very much.’  ”
 
 
 
Il dondolio della carrozza è un nenia ipnotica che lo culla e lo rilassa, distogliendolo da ogni preoccupazione. È il potere della pioggia: quando lava il mondo rende ogni pensiero effimero, ogni apprensione tacita, piccola, sempre più piccola, un puntino che presto svanisce sommerso dal ticchettio dell’acqua.
Accade tutto all’improvviso.
I cavalli protestano con alti nitriti quando le redini vengono tirate con violenza. Il contraccolpo è potente e fa precipitare bruscamente nella realtà Robert Gold, gettandolo nel panorama di un abitacolo elegante e di strade lerce.
Che diamine è successo ancora?, non può fare a meno di chiedersi. Sin da quando stamani ha aperto gli occhi, ha avuto come l’impressione che questa sarebbe stata una pessima giornata, e finora gli eventi non hanno fatto altro che rafforzare la convinzione: la servitù di Kensington è sempre stata un caso a sé, ma fino a un’ora fa il disordine regnava sovrano a tal punto da costringerlo a sprecare tempo in una ramanzina che, ripensandoci, avrebbe potuto risparmiare procedendo direttamente con un memorabile licenziamento collettivo. Per colpa dell’accaduto è uscito in ritardo; e ora è meglio che il cocchiere si sbrighi a ripartire, perché non è certo l’ideale far attendere tanto un futuro socio che s’incontra per la prima volta, per quanto lo si possa avere praticamente in pugno…
Ma i secondi passano e la vettura non si muove. Gold sente il conducente parlare a voce alta, ma altre rumori si sovrappongono, coprendone il tono concitato; vede gente accorrere, qualcuno grida, un bambino piange. Ecco perché odia passare per i quartieri bassi: essere al centro dell’attenzione senza poter contare su una via di fuga è sempre pericoloso, ma lo è ancor di più in simili contesti.
Non fa in tempo a mettere piede in terra che il fido Hulme compare al suo fianco.
- Mr Gold, – esordisce – Se posso permettermi, vi consiglio di tornare in carrozza. Nulla di cui preoccuparsi, solo un contrattempo…
- Strano che un banale contrattempo ci faccia star fermi cinque minuti buoni.
Avanza deciso verso il cocchiere, che continua a passarsi nervoso le mani sull’uniforme mentre litiga con Blockehurst. Entrambi hanno lo sguardo fisso davanti a sé.
- Cosa sta succ…
C’è una bambina a poca distanza dagli zoccoli dei cavalli. È raggomitolata su se stessa e piange, singhiozza come se avesse vissuto la paura più grande della sua breve vita – cosa che, probabilmente, è appena accaduta.
- Burke, – riesce a mormorare l’industriale dopo quello che pare un secolo – Cos’hai fatto?
È nello stesso istante che Gold vede passare dinanzi a sé una scheggia. Non potrebbe definirla diversamente: sa che è una persona, una giovane donna per l’esattezza, ma pare un lampo per la foga con cui si è fatta strada tra il capannello raccoltosi e ora corre verso la piccola, fino a raggiungerla e a stringerla a sé urlandone il nome.
Dal modo in cui ricambia lo slancio, la bambina fortunatamente non sembra essersi fatta male, Gold giudica di primo acchito; ma non per questo le sue lacrime scemano. Anche la ragazza piange, ripetendo parole sconnesse in un tono che gli pare familiare.
Una scena che non ha alcuna particolarità, probabilmente madre e figlia che si ricongiungono dopo una brutta avventura; eppure qualcosa gli impedisce di distogliere lo sguardo, portandolo il nuovo invito di Hulme a tornare in carrozza. Resta lì, a fissare le due che si abbracciano, la donna che culla la piccina per tranquillizzarla e quest’ultima che le si aggrappa al collo, mentre un’altra ragazza sopraggiunge gridando.
Madre e figlia hanno i capelli dello stesso colore, nota, la stessa sfumatura di castano ramato.
L’ultima arrivata s’inginocchia accanto a loro, pone domande concitate, le abbraccia con foga.
Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
 
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
 
No, non può essere.
 
Ma è allora che il passato torna a essere presente.
 
 
 
I know a place where no one's lost,
I know a place where no one cries.

Crying at all is not allowed,
not in my castle on a cloud.
“Castle on a cloud” - Les Misérables
 
 
 
 
 
 
 
 
N. d. A. : TA-TA-TADAN! XD
A volte ritornano… E infatti eccomi qui con la seconda parte delle (dis)avventure di Gold e Belle nell’epoca vittoriana!
Allora, primissimi pareri, impressioni, previsioni? Il prologo è piuttosto breve, lo so, ma è un punto di partenza necessario; dal prossimo capitolo se ne capirà molto, molto di più, promesso – e, mi dispiace per voi, torneranno i soliti standard di lunghezza, se non peggio visto che dovrò descrivere ben cinque anni concitati.
(Grafomania is coming back, insomma.)
Ho volutamente utilizzato un linguaggio semplice e con qualche ripetizione perché a una bambina così piccola non si possono certo attribuire locuzioni e pensieri forbiti.
Il titolo della long viene da “The scientist” dei Coldplay; ho inoltre deciso di riunire tutte le storie di quest’AU in una serie, “Your dream is over… Or has it just begun?” – verso della canzone “Silent lucidity” dei Queensrÿche.
Grazie a quant* leggeranno, recensiranno o aggiungeranno a una categoria il nuovo lavoro e a chi ha fatto lo stesso con la oneshot di collegamento “All of the stars” e col missing moment “Kiss me”: il sostegno che mi esprimete qui e sulla pagina Facebook “Euridice’s world” è una vera manna, non smetterà mai di emozionarmi! :*
Ci si rilegge sabato 14 dicembre; baci, Dearies! ♥
Euridice100

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Capitolo 2
*** I - E sarà il sole a chiederci un favore (per dare un’ombra nuova ai nostri visi) ***


 
 
 
I - E sarà il sole a chiederci un favore
(per dare un’ombra nuova ai nostri visi)
 
 
 
“E non importa quanto saremo lontani,
ti vedrò ogni giorno,
e non importa quanto saremo sordi,
ti ascolterò ogni minuto.”
 
 
 
Londra, febbraio 1889
 
Uno strattone.
L’ultima resistenza.
E il buio del vicolo l’aveva avvolta nuovamente.
Spaventata, aveva emesso un verso strozzato e scalciato all’indietro per liberarsi della presa che la tratteneva; ma una mano le aveva coperto la bocca impedendole di urlare.
- Shhh! Zitta, o ci troveranno!
Si sarebbe aspettata un tono maschile, il ringhio beffardo di Greg o di uno dei malviventi; ma la voce che aveva udito apparteneva senza dubbio a una donna; e – Belle se n’era resa conto solo allora – la stretta attorno al suo corpo era sì forte, ma non tanto da impedirle di muoversi: erano le sue membra, paralizzate dal terrore, a bloccare ogni gesto.
Si era voltata appena: i luminosi occhi verdi di una giovane avvolta in una mantella rossa la stavano fissando con un misto di apprensione e sfida.
La ragazza dei fiori, aveva rammentato subito, quella nel cui carro sono inciampata.
- Sei nei guai, vero? – la sconosciuta aveva ghignato con l’aria di chi la sapeva lunga – Poco male, hai incontrato me. Andiamo.
L’aveva presa per mano e aveva fatto per guidarla lungo il vicolo, ma il tentativo era stato vanificato dalla resistenza opposta dall’altra.
- Che fai? – la giovane le aveva rivolto un’occhiata stupefatta – Sbrigati, li abbiamo alle costole!
- E chi mi dice che tu non sia una di loro? – Belle le aveva soffiato contro,  allontanandosi di scatto.
Per quanto l’interlocutrice avesse un volto pulito, non aveva intenzione di farsi ingannare ancora una volta e finire in trappola da sola. L’istinto continuava a rivolgerle un unico, assordante monito: Scappa.
Aveva mosso qualche passo per la stradina, la mora che la sbeffeggiava in falsetto: – Grazie mille, Ruby, per non avermi fatta finire nelle grinfie dei Frey, te ne sarò grata in eterno, davvero!
- Preferisco non rischiare.
Non aveva fatto in tempo a concludere la frase che si era ritrovata contro il muro scrostato.
- Resta immobile!
Guidata da un impulso ignoto, aveva obbedito. La ragazza l’aveva lasciata sola ed era uscita sulla piazzetta di fronte; la piazzetta su cui – aveva capito con orrore – erano appena sbucati i suoi inseguitori.
- Tu! – un uomo aveva apostrofato la sconosciuta – Di qua è passata una della tua età, capelli castani, vestito blu? Sbrigati a rispondere!
Alla risposta affermativa, Belle si era sentita svenire.
- È andata da quella parte.
Si era preparata a scappare di nuovo; ma quella volta, nessuno era andato verso la sua direzione – nessuno, se non nuovamente la giovane.
- Li ho mandati verso Spitalfields, dovremmo aver guadagnato tempo. Ora però devi nasconderti…
Non ci stava più capendo niente. La paura e la sorpresa degli ultimi istanti le sarebbero bastate per una vita intera: era convinta di star per essere catturata, e invece…
- Tu li hai allontanati, – aveva realizzato quasi incredula, ancora acquattata contro la parete, quasi incapace di reggersi in piedi – Mi hai salvata…
- Dovere! La mia giornata era una tale noia! – l’altra si era sistemata la mantella sulle spalle e le aveva porto una mano sorridendo allegra – Comunque, io sono Ruby. Hai un posto in cui stare?
 
 
 
New York, agosto 1889 
 
New York era una città strana. Una metropoli, come il posto da cui era fuggito, ma completamente diversa, completamente nuova – e non solo per l’ovvia constatazione che non vi fosse mai stato prima. L’America era descritta come la Terra Promessa, il Nuovo Mondo in cui ogni cosa era possibile, in cui le opportunità erano talmente tante da risultare impossibile non coglierne almeno una: le stesse cose che gli avevano detto di Londra vent’anni prima, quando la sua casa era composta da una stanza dal camino sempre spento.
Ma le intenzioni erano sempre le stesse: ora come allora, desiderava chiudere i conti col passato.
Ora come allora, si lasciava una scia di cocci e di dolori mai sopiti.
Da quando aveva capito che nulla avrebbe esorcizzato i fantasmi che lui non voleva esorcizzare, Robert Gold aveva deciso di seguire il consiglio che l’uomo d’affari in lui riteneva più saggio: gettarsi a capofitto nel lavoro. La ragione ufficiale – la scusa – del suo trasferimento era espandere i propri commerci; ebbene, se dimenticare era impossibile, almeno avrebbe provato a non pensare.
Non sapeva quanto si sarebbe fermato a New York, ma di certo non poco; ciononostante, aveva scelto di non prendere casa, preferendo una suite in un hotel di lusso che, da sistemazione provvisoria, era diventata rifugio fisso. Avere una casa significa avere delle radici, muoversi con la certezza di avere comunque un approdo sicuro, un luogo cui tornare quando il cielo si fa scuro e nessuna stella accorre a rischiararlo; avere una casa significa avere delle persone – anche poche, pochissime, anche apparentemente distanti – cui ci si affeziona sempre.
E lui non intendeva avere nulla di tutto questo.
Lui non poteva avere nulla di tutto questo, dopo l’ennesimo, fatale errore.
La freddezza macchiata di discrezione di camerieri sempre diversi, lo sfarzo asettico di una stanza che lui mai aveva ingentilito con qualcosa di personale, una solitudine cheta che non intendeva affollare: ecco ciò che lo circondava, che considerava la soluzione ottimale per se stesso.
Erano le sbarre di una prigione, soffocante, ma dorata, splendida; una prigione che era fin troppo per qualcuno come lui.
Alle volte Robert Gold si domandava cosa sarebbe accaduto se non l’avesse cacciata; se avesse creduto a Lei, anziché a Cora, se fossero riusciti a partire per Glasgow e sposarsi.
Molte notti l’aspettava all’altare. La vedeva percorrere la navata, papaveri e rose canine in mano 1 – e lui ogni volta si stupiva di quell’abbinamento inusitato –, il velo che ondeggiava lieve, come carezzato da una brezza, e che lasciava scorgere l’azzurro amatissimo. Ma gli occhi di quella sposa non erano lucidi di commozione, non scintillavano felici, no: lo fissavano tristi e accusatori, come solo due altre volte avevano fatto, urlandogli in silenzio la frase che più corrispondeva a realtà.
È stata colpa tua.
Quella sposa non era mai giunta all’altare, né nei sogni né nella realtà.
E il colpevole era l’uomo che vedeva riflesso nello specchio.
 
 
 
Londra, febbraio - maggio 1889
 
Ruby l’aveva guidata per dedali di vicoli sconosciuti, facendole percorrere bassi dal lastricato scivoloso e costeggiare decine di tuguri prima di raggiungere un locale che spiccava tra gli altri per la facciata di mattoni ancora puliti e il portone visibilmente nuovo. Un’insegna in lucido ottone recava la semplice scritta “Granny’s”.
- La locanda di mia nonna, – aveva spiegato la ragazza, lanciandosi occhiate circospette attorno prima di spingerla all’interno – Abbiamo appena finito di ristrutturarla, la riapriremo a breve. Non è granché quanto a lusso, ma è un posticino tranquillo…
L’interno confermava la presentazione: sebbene regnasse il disordine, il lungo bancone, i tavolinetti, le sedie e le stampe comunicavano un senso di calore e di protezione che subito avevano avvolto Belle, ristorandola per quanto possibile.
- Nonna! Abbiamo visite! – aveva urlato Ruby in direzione di una porta sul retro, prima di rivolgersi alla nuova amica – Hai l’aria della brava ragazza, le piacerai di sicuro. Ma ti avverto, – le aveva fatto l’occhiolino – Non farti ingannare dall’aspetto. Sembra innocua, ma quando si arrabbia farebbe tremare anche un lupo…
- Chi è che farebbe tremare anche un lupo?
A parlare era stata una donna bassa e rotondetta dai ricci bianchi e dagli occhietti chiari la cui vivacità non era attenuata dalle lenti tonde che portava. Fu così che Belle fece la conoscenza di Polly “Granny” Lucas, una donna nei confronti della quale si ritrovò a provare subito una riconoscenza e una stima indicibili: perché, dopo averla squadrata ascoltando le sommarie informazioni di Ruby, dopo aver litigato con la nipote – “Disgraziata, tu mi vuoi ammazzare, come ti viene in mente di portarmi in casa le ricercate!” “Non è una ricercata, nonna, si è solo messa nei guai!” “Ah, splendido!” “Non in quel senso!” –  aveva zittito sul nascere le osservazioni dell’ultima arrivata, che pure condivideva le sue ragioni e i suoi timori e già pensava di provare da Tink, e l’aveva obbligata a fermarsi. A sorpresa, le aveva offerto un rifugio, una casa e di che vivere senza porre più domande del dovuto, aiutandola a ricominciare daccapo.
Prima Ruby e poi Granny l’avevano salvata, e di questo Belle le avrebbe ringraziate ogni singolo giorno della sua vita. Sin dalla prima ora in loro compagnia, aveva avuto la sensazione – poi confermata dal tempo – di non trovarsi dinanzi a persone come tante, ma a donne dalla forza d’animo infinita che aveva permesso loro di attraversare mille tempeste senza uscirne scalfite o distrutte. Per quanto apparentemente diverse, le due condividevano la stessa grinta, la stessa energia e una spontaneità naturale che faceva sentire Belle come a casa.
Ma era successo la sera stessa dell’arrivo a Whitechapel. Al termine di quella giornata frenetica, nell’istante in cui aveva riposato il capo sulla nuova brandina l’immensità di quanto successo le era piombata addosso sopraffacendola. Le era mancato il respiro, ondate di panico nella mente e nuove lacrime che premevano prepotenti sotto la corolla delle ciglia.
Perché ci siamo fatti questo, perché?
Non le aveva lasciato il tempo di spiegare: si era consacrato a una menzogna, votandosi a essa fino a sacrificarle il loro amore. L’aveva ferita più a fondo di quanto credesse possibile: l’aveva colpita nel petto, nella mente, nell’animo con gesti e parole che bruciavano come acidi, che corrodevano fino a lasciare vuoti incolmabili, che devastavano più crudeli della dinamite; perché lasciavano illeso il corpo, ma uccidevano dentro.
Non le aveva detto la verità, era ovvio. La loro storia non era finita, non poteva finire così: tra loro non c’erano state semplici dichiarazioni, frasi pronunciate con la bocca e smentite col cuore, no: lui si era aperto a lei, le aveva confidato ogni segreto, ogni rimpianto e ogni rimorso, si era strappato di dosso le maschere cucitegli a forza dal tempo osando mostrarsi per com’era veramente. Si era mostrato nudo nell’anima, aveva condiviso con lei l’intimità dei pensieri, ben più bruciante e pericolosa di quella fisica; come aveva potuto cambiare idea da un momento all’altro, fingere che loro non fossero mai esistiti, che non si fossero mai amati?
Di notte tornavano i ricordi. Durante il giorno parevano sopiti: non assenti, ma semplicemente silenziosi, come se la luce li esorcizzasse confinandoli in una landa in cui il dolore pulsava meno intenso; ma quando le candele si spegnevano e restava sola con sé, ogni scherzo e ogni lite tornava più crudele di prima.
L’intensità disperata con cui l’aveva amata l’ultima volta, come se percepisse il fantasma dell’addio al loro fianco.
L’ultimo bacio che ancora bruciava sulle labbra, delicato come una piuma ma non per questo meno sincero.
Come dimenticare certi sorrisi, certi attimi, certi sguardi, come?
Belle aspettava il giorno come un’ancora di salvezza. Di giorno aiutava con le pulizie, di giorno c’era Ruby che battibeccava con sua nonna – si sarebbe presto abituata alle loro guerre capaci di scuotere il locale dalle fondamenta – e che col suo entusiasmo da diciottenne le raccontava dei suoi mille pretendenti e di Billy che l’aveva baciata per poi fidanzarsi con “quella tettona senza cervello di Lizzie Potter, non ho parole”; di giorno c’era Granny che le parlava del Sussex da cui venivano, della taverna che gestiva da anni con orgoglio e della nipote così ribelle che però si era messa a vendere fiori e ad arrotolare sigari per mantenerle durante i rifacimenti.
Belle aveva raccontato loro solo parte della verità: un impiego presso un ricco borghese, i debiti paterni, il licenziamento improvviso e creditori ben poco raccomandabili alle calcagna.
Non una parola, ovviamente, sulla meraviglia dolorosa di un amore.
Quando Ruby l’aveva cercata, Tink era accorsa subito: aveva stretto Belle al petto senza dire una parola, capendo ogni cosa senza che ci fosse bisogno di dirla, e si era congedata con un’unica frase: – Aspetta che le acque si calmino e vieni a lavorare da me.
Belle aveva accettato, ripromettendosi però una cosa: non sarebbe rimasta lì per sempre. Aveva intenzione di trascorrere qualche tempo nella struttura per poi trovare un altro impiego e, coi primi soldi, acquistare un biglietto di sola andata. Per l’America, l’India o l’Egitto? L’avrebbe deciso in seguito; una cosa era comunque certa, aveva decretato in quel momento d’improvviso ottimismo: non sarebbe rimasta lì a struggersi d’amor perduto mentre lui se la spassava tra soldi e Contesse. Sarebbe partita alla ricerca dell’avventura tanto bramata, realizzando il suo sogno; e in fondo, perché scegliere se c’era un intero mondo da scoprire? Lei l’avrebbe visto tutto, avrebbe esplorato picchi e vallate, avrebbe dato il proprio nome a laghi e piante, e al diamine Robert Gold! Si sarebbe mangiato le mani al pensiero del tesoro che aveva perso!
Da allora, Belle aveva iniziato ad addormentarsi sperando di risvegliarsi direttamente a emergenza rientrata. Non che le sue ospiti la maltrattassero, anzi; ma aveva già sperimentato come il lavoro le impedisse di crogiolarsi nel dolore. Quando il locale era stato riaperto, aveva dovuto smettere di aiutarle: per ovvi motivi, almeno per il momento per lei era fuori discussione circolare in libertà per la sala, e così Belle si era ritrovata confinata nella camera che condivideva con le due. Trascorreva il tempo seduta sul letto: senza i libri tanto amati ma troppo costosi, l’unico svago era Ruby che approfittava di ogni occasione per svignarsela e farle compagnia; e, sebbene pretendesse almeno di riordinare alla chiusura, quei momenti nulla potevano contro il tedio triste di una prigione che pure le garantiva libertà.
E, col passare dei giorni, una nuova preoccupazione si era aggiunta alle altre.
Si era accorta presto che non tutto andava per il verso giusto; se n’era accorta presto, ma ne aveva attribuito la colpa alle recenti esperienze, al trauma di aver dovuto rivoluzionare la propria vita nell’arco di ore, alla paura di essere trovata... Doveva solo tranquillizzarsi, si ripeteva: solo mantenendo la calma e guardando al futuro con positività tutto si sarebbe sistemato, sotto ogni fronte.
Belle avrebbe dovuto annoverare tra le sue abilità il darsi ottimi consigli che non sapeva seguire. 2
Il tempo pareva avvilupparsi su se stesso, immobile e immutabile, senza che nulla giungesse ad alleviare la prostrazione in cui la gettava quel pensiero che, silente, s’imponeva sempre, schiacciando gli altri, facendole venir voglia di urlare; e più i giorni scivolavano via, più la probabilità in perenne ascesa le rodeva la mente come un tarlo ingordo di legno nuovo.
Non anche questo, ti scongiuro, non questo.
Ma ancora non poteva esserne certa: magari, certamente, la laboriosa quotidianità dell’orfanotrofio avrebbe dissipato l’angoscia…
Mancava ormai poco al trasferimento quando il piccolo Henry era comparso trafelato e aveva bisbigliato semplici, terribili parole: – Continuano a cercarti.
Dalla descrizione non era stato difficile riconoscere l’ennesimo scherano dei Frey; e non fu difficile neanche trovare una soluzione: Belle sarebbe rimasta nascosta.
Doveva solo esser grata alle Lucas che non la cacciavano.
A Tink che l’aveva subito avvisata.
Al destino che non le aveva riservato la sorte di essere catturata da quei mostri.
Doveva solo ringraziare chi le voleva bene e zittire quella parte di sé che smaniava per la libertà più che per l’aria, smettere di comportarsi come una bambina, perché quello non era un gioco e lo sapeva; ma, appena si era ritrovata sola, Belle nulla aveva potuto contro tutto ciò che reprimeva da tante, troppe settimane.
Ma presto, quando gli olezzi della strada avevano iniziato a morderle la gola, quando mandar giù qualsiasi cibo sotto le occhiate perplesse delle ospiti aveva iniziato a costarle una fatica immane e svegliarsi con lo stomaco sottosopra prassi, Belle aveva dovuto dire addio a ogni residua illusione e affrontare la realtà.
Avrebbe sempre ricordato il momento in cui aveva realizzato di essere incinta come il più strano della sua esistenza. Era stato come se il mondo avesse preso a ruotare al contrario e lei, abituata al vecchio corso, avesse vanamente provato a resistere, ottenendo in cambio solo un immenso sconcerto colorato di rassegnazione; ma il corpo era ormai avvezzo alla nuova realtà, e ora che anche la mente l’aveva accettata le due parti di lei tornavano a unità, regalandole una parvenza di equilibrio.
Era ingenua, e forse non aveva visto molto del mondo, ma non era tanto stupida da ignorare le conseguenze del suo stato, le infinite porte che le chiudeva: se fino ad allora la possibilità di ricostruirsi una vita era stata tangibile, ora tutto diventava labile e spaventoso, franava sotto ai piedi come terra travolta dall’acqua.
Era rovinata.
Incinta e non sposata, aveva cercato di prefigurarsi le strade davanti a sé: non ce n’era una che avrebbe percorso. Ruby e Granny, come avrebbero potuto accettare anche quello da parte di una persona tutto sommato estranea che le metteva in costante pericolo? Tink l’avrebbe accolta comunque, ora? E Robert…
Le sarebbe piaciuto avere un figlio con lui, un giorno. Se l’era detto riflettendo sulla vicenda di Ashley, senza sapere di aspettarlo già; e ora quel sogno – anche se non era del tutto convinta di poterlo ancora definire tale – si stava concretizzando nel contesto più assurdo immaginabile. Robert era all’oscuro della sua condizione, e forse – quando ci pensava chiudeva gli occhi, quasi che la coltellata potesse vibrare meno a fondo – se anche l’avesse saputo non gliene sarebbe importato.
Era sola, sola al mondo con suo figlio.
Si era resa conto del pensiero solo dopo averlo formulato; e, nel momento stesso in cui era accaduto, aveva avuto la certezza che non l’avrebbe abbandonata per il resto della vita.
Un figlio.
Avrò un figlio, mio e di Robert.
Nostro.
Con gli occhi sbarrati dal panico e dall’emozione, aveva alzato fino in cima la finestra a ghigliottina: all’improvviso l’aria pareva esser diventata rarefatta, impossibile da respirare.
Un figlio, frutto del loro amore, testimonianza eterna di qualcosa che non poteva essere rinnegato.
Aveva chiuso la finestra, l’aveva riaperta e abbassata nuovamente. Aveva osservato la polvere danzare alla luce del sole, poi si era stesa sul letto, perdendosi a contemplare le macchie di umidità sul soffitto.
Solo molti minuti dopo si era resa conto di star piangendo in silenzio.
Non c’era momento peggiore, situazione peggiore per avere un figlio. Se proprio avesse voluto farlo nascere ed entrambi fossero sopravvissuti, avrebbe comunque fatto meglio lasciarlo a un orfanotrofio, dove magari qualcuno l’avrebbe adottato, offrendogli maggiori opportunità; e se l’avesse affidato a Tink avrebbe anche potuto vederlo crescere, da lontano, certo, ma almeno non sarebbe uscita definitivamente dalla sua vita…
Smetti di sognare, Belle, e cresci.
Il mondo non è una fiaba, l’hai imparato a tue spese.
I ricchi non avrebbero mai preso bambini dai bassifondi, e in istituto suo – loro – figlio sarebbe vissuto in condizioni ben più misere di quelle che in qualche modo avrebbe potuto garantirgli lei; e se l’avesse affidato alle cure dell’amica, conoscere la sua identità, sapere ogni cosa e restare un’estranea l’avrebbe portata alla pazzia.
Certi tagli o sono netti o s’infettano.
L’unica persona con cui avrebbe voluto – dovuto – parlare non c’era; e se ci fosse stata, certi problemi non si sarebbero mai posti, aveva pensato amara.
Forse il suo era puro egoismo, non poteva escluderlo. Una persona più saggia non si sarebbe fatta tanti scrupoli; ma a lei il pensiero di non avere il loro bambino faceva male, persino più male di quanto le avesse fatto Robert.
Già per il semplice fatto di essere loro carne e sangue, quella creatura meritava ogni bene, ogni felicità al mondo; o, se non altro, meritava di stare con la madre: una madre che non sapeva da dove cominciare, che non aveva nessuno cui far riferimento e che era viva solo grazie a sconosciute; che aveva sbagliato, e che certamente avrebbe sbagliato anche con lui, ma che comunque l’avrebbe amato nel modo più profondo possibile, donandogli tutto il cuore in cui già occupava un posto.
Se le sue ospiti l’avessero cacciata e neanche la volontaria avesse potuto aiutarla, avrebbe trovato rifugio in un qualche ospizio per sventurate nella sua condizione. L’idea di lunghe ore in fabbrica per ripagare vitto e alloggio non la spaventava, se le fosse stato permesso di tenere con sé il bambino.
Aveva subito preparato un discorso per Ruby e Granny, parole insignificanti rispetto al colpo che avrebbe loro inferto; ma non c’era stato alcun bisogno di pronunciarle. Erano stati sufficienti un pranzo insieme, i conati provocati dal nuovo sapore del cibo e una fuga risoltasi nel retro, con Ruby che le scostava i capelli dalla fronte e l’anziana che sospirava rassegnata.
- Lo sapevo, – si era limitata a bofonchiare – Lo sospetto da sempre, e su certe cose io non sbaglio mai. Il colpevole…
- Nonna! – l’aveva interrotta una Ruby inaspettatamente sconvolta dalla franchezza della parente.
- … non deve esserne molto felice se la situazione è questa, dico bene?
- Non è per questo, – aveva esalato appena Belle abbandonandosi contro il muro morbido di muschio – È finita per altro. Lui non sa…
- Peggio mi sento. Torniamo dentro, va’.
Aveva alzato il capo di scatto.
Aveva… Aveva davvero capito bene? Non ne era del tutto sicura.
- Volete dire che non devo andarmene?
Rughe di sconcerto avevano attraversato la fronte della donna, che si era voltata verso la nipote: –  Ma si può sapere come diavolo mi hai descritta, sciagurata? – Ruby non aveva fatto in tempo a replicare che già la voce dell’anziana si era addolcita – Belle, nessuno intende mandarti via. Sei parte della famiglia, e se vorrai lo sarà anche tuo figlio. Potrete fermarvi qui quanto vorrete, anche per sempre. E se qualcuno proverà a farvi del male, – aveva continuato decisa – Dovrà prima vedersela con me. Conservo ancora la balestra di mio padre, e non mi farò scrupoli a… 3
Non aveva potuto dire altro: ogni parola era stata bloccata sul nascere dall’abbraccio improvviso e commosso di una Belle che, dopo mesi, aveva reimparato a ridere.
 
 
 
New York, 1889 - 1893
 
Alle volte sentiva Cora. Lettere vane, parole di vuoto e ipocrisia che salvavano agli occhi del mondo un simulacro senza sostanza e che mai accennavano agli eventi di un autunno e di un inverno che avevano posto fine a molte vite; un’apologia di futilità non certo disinteressate.
La Contessa era l’unico mezzo per avere informazioni su Regina, spedita in un’esclusiva scuola preparatoria alla prima avvisaglia di ribellione e fatta tornare al più due volte l’anno.
Col tempo l’aveva perdonata, Regina. Era l’unica in quella storia a meritare briciole di comprensione, ad accedere a una giustificazione che pure non ne cancellava gli sbagli; era stata l’unica a rendersene conto, ad avere il coraggio di provare a porvi rimedio – un rimedio giunto troppo tardi, quando ormai la follia aveva preso possesso delle sue azioni e il filo fragile della speranza si era spezzato per sempre.
Chissà, magari un giorno l’avrebbe rivista. Se fosse successo, si sarebbe scusato per averla odiata tanto: era troppo piccola per capire la tragedia cui aveva preso parte e non meritava simile trattamento da parte di nessuno; tantomeno da parte di sua madre o di colui che le voleva bene, bene come se ne vuole a una figlia, a prescindere dal sangue che scorreva nelle vene. Perché in fondo era stato lui a crescerla, dopo la morte di Henry; e dal suo secondo padre, magari lontano, magari non sempre attento come sarebbe dovuto essere, Regina non meritava un simile tradimento.
Come Lei non meritava di essere tradita dal mondo che tanto amava.
Fra le novità di New York, qualcosa restava invariato: le feste cui era costretto a presenziare. Gli affari gli avevano sempre imposto più relazioni sociali di quante gliene fosse mai importato: ora come allora, si muoveva tra eventi mondani e balli affollati, colazioni di lavoro e parate tanto sontuose e impeccabili quanto ridicole. Robert Gold c’era: c’era sempre, coi suoi completi scuri, il sarcasmo pungente incastonato tra i complimenti e, soprattutto, quell’ombra antica negli occhi castani che lo faceva apparire distante; e alle donne la cosa piaceva, la chiamavano tristezza. 4 Era consapevole dell’effetto che, pure incomprensibilmente, aveva sulle signore della vita mondana tanto britannica quanto statunitense, e non poteva impedirsi di riderne. Si mostrava sempre cortese – quella cortesia fredda, che allontana il prossimo, anziché avvicinarlo – e gelava gli animi e le intenzioni più esplicite, facendo arretrare anche le più ardite con la sua assoluta mancanza di interesse.
Desiderava solo tornare a baciare i sorrisi di una ragazza perduta.
Ma in una sera apparentemente identica a mille altre aveva conosciuto Rebecca Zelenyy. 5
Rebecca aveva un passo felino e ardente, capelli di fiamma e occhi di ghiaccio; e in quello sguardo che prometteva baci e graffi, Gold aveva letto una luce che non era riuscito a interpretare sin da subito. Desiderio di rivalsa? Una scintilla di follia mascherata da bei vestiti? O forse solo le cicatrici di chi si era sempre visto negare anche la compassione? Da figlia di nessuno, maltrattata in un peregrinare incessante di brefotrofi, la donna si era scoperta ultima discendente di una potente casata russa; ma – con lui non ne aveva fatto mistero – l’eredità ricevuta non le aveva portato la felicità.
A cosa servono un titolo e una magione lussuosa, o aver ottenuto un prestigioso impiego per l’Harpeer’s Bazaar quando dentro si è ancora una bambina indesiderata? Quando ciò che serve è solo un po’ d’affetto per sentirsi meno sperduti, meno diversi?
Avevano parlato a lungo la sera in cui si erano incontrati: a Gold piacevano la sua classe innata e l’umorismo sofisticato – forse troppo al di sopra delle capacità del paludoso panorama mondano che, dopo qualche misero convenevole, si ritrovava ancora a prendere le distanze e a preferirle sempre qualcun altro.
Chiacchierare insieme si era rivelato semplice: era una donna interessante, e poi, avere un aggancio ovunque – anche in un giornale simile – sarebbe potuto tornare utile per ogni evenienza.
Si erano incontrati ancora e ancora, sia pure casualmente – troppo casualmente, aveva iniziato a sospettare a un certo punto. Da lì in poi, interpretare certi comportamenti, certe frasi era stato semplice, e porre dei paletti ancora più immediato.
Ma quella sarebbe stata una serata come tante: Rebecca aveva invitato alcuni nomi famosi che voleva assolutamente presentargli e che sarebbero potuti anche rivelarsi investitori. Avrebbero parlato di affari, ecco quanto; nessun pericolo.
Era arrivato dalla donna appena prima che si scatenasse una sorta di diluvio universale che aveva bloccato l’intera città, impedendo agli altri convitati di raggiungerli.
Che colpo di fortuna.
Buttar via il cibo sarebbe stato uno spreco, avevano concluso; tanto valeva cenare in attesa che l’acquazzone finisse e tornare a casa.
Si era ritrovato esattamente nella situazione che non avrebbe voluto si ponesse; ed era persino stato in grado di peggiorarla.
Tra una parola e l’altra, aveva finito col bere più di quanto sarebbe stato saggio, col pensare che Lei non c’era – non ci sarebbe più stata – e col non respingere Rebecca quando si era avvicinata più, sempre più, fino ad annullare ogni distanza imposta dalle regole. A un certo punto aveva pensato che gli occhi della donna somigliavano a quelli di un’altra persona e che forse chiudendo i suoi, di occhi, avrebbe potuto credere di essere ancora con quell’altra persona; o forse quelli erano proprio i Suoi occhi, forse era stato tutto un incubo e Lei era davvero lì, chi poteva dirlo?
Questo gli aveva fatto perdere il controllo. Aveva baciato la Zelenyy, perdendosi a seguire la curva perfetta della sua bocca per ritrovarvi un’altra, inspirando il suo aroma prezioso alla ricerca di note semplici di tè e miele che non potevano appartenere al passato, semplicemente non potevano; aveva finito per farci sesso, solo sesso, perché l’amore l’aveva riservato tutto a un’altra persona.
Una persona che non era Rebecca.
Una persona che non c’era – non c’era più, e che lui aveva tradito, smentendo anche l’estrema promessa fattale, si era reso conto il mattino seguente, realizzando con orrore quanto accaduto.
Nel suo cuore non c’era spazio per la donna pur bellissima accanto a lui; nel suo cuore c’era solo un’altra, Lei e Lei sola. Se quella notte il corpo aveva finto di dimenticare i Suoi fianchi morbidi e dolci, i riflessi quasi opalini della Sua pelle alla luce del camino e la tenera brutalità dei Suoi primi baci inesperti, ora quei frammenti di passato tornavano imperiosi, come per vendicarsi e infliggere una nuova tortura fatta di pentimenti fino ad allora sconosciuti.
Sweetheart, Sweetheart, perdonami, non accadrà più.
La promessa dell’assassino che già stringe le mani al collo della vittima.
È stato il vino, sai che diversamente io mai…
Era tutto inutile. Una scarna giustificazione non l’avrebbe salvato dal giudizio: se la coscienza protestava tanto e obiettava severa alle sue meschine difese, un motivo c’era, e lui non poteva fare altro che accettarlo e imparare, in qualche modo, a convivere con l’ennesima defezione di cui si macchiava.
Avrebbe dovuto spiegare subito a Rebecca la realtà dei fatti e non vederla più; ma la donna pareva essersi legata a lui in un modo che riusciva solo a definire malsano. Pareva ritrovarla in ogni luogo, anche nel più inimmaginabile; e, per quanto cercasse di parlar chiaro e mostrarsi netto e gelido, non riusciva ad allontanarla in alcun modo.
Peggio: ci era finito a letto altre volte, imboccando l’ennesimo di quei sentieri intricati e osceni di cui pareva costellata la sua esistenza.
Sapeva di star sbagliando: glielo ribadiva la luce che iniziava a danzare negli occhi della donna, la stessa luce che in una vita precedente aveva illuminato altri sguardi. Glielo dicevano le sue stesse parole – Tu hai smesso di farmi sentire indesiderata –, che non ottenevano mai risposta, ma che non per questo la fermavano.
Non era neanche lontanamente innamorato – il semplice pensiero era un insulto alla Sua memoria –, né voleva restare invischiato in una relazione che in buona parte avrebbe ricalcato le orme della storia con Cora.
Una relazione tossica, alleanze di veleno, baci spinosi e cuori dimenticati.
Però, in un modo o nell’altro, si ritrovava nel letto della Zelenyy, ripromettendosi di non ripetere l’errore e di smetterla con quello che, da parte sua, non poteva neanche definirsi inganno – perché lui non le aveva mai fatto promesse, ma lei gliene faceva senza parlare, e ciò non le rendeva meno sincere; ma ogni volta restava in silenzio, ritrovandosi a fare i conti con un cappio al collo che diventava sempre più stretto.
Se Lei non fosse morta, gli avrebbe perdonato anche un tradimento? Perché di quello si trattava, anche se i sentimenti non erano coinvolti.
Avrebbe accettato di starle lontano pur di saperla viva; avrebbe accettato ogni cosa, pur di scoprire che era tutto un incubo.
Ma il passato non si può cambiare.
Il passato o si affronta o lo si evita.
E lui cercava sempre di sfuggirgli fin quando non c’era modo di evitare la resa dei conti.
 
 
 
Londra, maggio - luglio 1889
 
Erano stati dei mesi strani, quelli. La vita aveva come abbandonato il binario seguito fino ad allora per intraprendere senza indicazioni un percorso nuovo e misterioso, la cui destinazione era ignota, ma che certo avrebbe – aveva già – cambiato il suo modo di vedere la realtà.
Era normale provare un simile amore per qualcuno che ancora non si conosceva? La forza di quel sentimento finiva sempre per sopraffarla. Il mondo aveva iniziato a ruotare attorno alla creatura che portava in grembo: era per lei, prima ancora che per se stessa, che faceva ogni cosa e ancora accettava la sua strana prigionia. In gioco ora c’era anche suo figlio, e per lui avrebbe smosso il mondo: proteggerlo non era semplice dovere, era volontà.
Si sorprendeva sempre più spesso a carezzarsi il ventre che iniziava a ingrossarsi, a perdersi in una sorta di silenziosa comunicazione col nascituro, provando a interpretare come risposte i timidi calcetti che iniziava a sferrarle.
Lui – o lei, anche se segretamente sperava in un maschietto – come sarebbe stato? A chi sarebbe somigliato, a lei o a…
Il padre. Un tasto da non toccare. Lo pensava, Belle, lo pensava giorno e notte; e non poteva non chiedersi come sarebbero andate le cose se fossero rimasti insieme. Avrebbe gioito alla notizia di diventare nuovamente genitore? Sì, di questo era sicura. Probabilmente ne sarebbe rimasto anche più scioccato di lei, ma poi avrebbe cambiato idea: avrebbe iniziato a viziarla e coccolarla ogni istante, prevedendo e soddisfacendo persino le voglie più bislacche, come faceva Graham.
Quel ragazzo timido era comparso all’improvviso. Quando  la situazione pareva essersi calmata, Belle aveva iniziato a scendere in cucina, e qualche volta si era persino avventurata con Ruby a fare un giro dell’isolato; ma un giorno, la porta si era spalancata ed era comparso un giovane dalla barba castana che aveva subito puntato lo sguardo su di lei.
Era scattata prima ancora di pensare: aveva afferrato la bottiglia più vicina e si era messa a urlare di essere pronta a colpirlo se solo avesse mosso un passo e toccarla.
Le altre erano corse a fermarla prima dell’irreparabile.
- Belle, – le aveva spiegato Ruby – Non ti farà del male! È nostro cugino!
- Che comunque avrebbe dovuto avvisare, invece di piombare qui all’improvviso come un ladro, – aveva prontamente precisato Granny.
Humbert Graham, aveva scoperto alla fine, era davvero parente delle sue ospiti: di fresca assunzione a Scotland Yard, si era da poco trasferito a Londra, e la sua unica intenzione era davvero un’innocente visita al ramo della famiglia in città da più tempo.
L’esordio disastroso – quando ci ripensava Belle aveva voglia di seppellirsi dall’imbarazzo, anche se in fondo, l’avevano consolata, la sua era stata una reazione più che giustificabile – non aveva scoraggiato l’uomo dal ripresentarsi, questa volta dopo aver avvisato: dal giorno in cui Belle non aveva più provato ad ammazzarlo, aveva iniziato a farsi vedere ogni giorno e a fermarsi a chiacchierare – anche se poi era il saluto di una certa ragazza dagli occhi azzurri a farlo arrossire, specie da quando aveva capito che, nonostante la pancia sempre più tonda, non era impegnata. Anche la diretta interessata se n’era accorta ben presto, ritrovandosi a provare uno stupore sincero tinto di malinconia: perché Graham era cortese e onesto, perché parlare con lui era semplice come bere un bicchier d’acqua e presto avevano iniziato a trascorrere ore intere a conversare, perché quando gli aveva confidato di amare le ciliegie e i libri lui si era presentato con un sacco colmo di quei frutti e una raccolta di poesie, perché…
Perché Graham era innamorato di Belle al punto da essere pronto anche a sposarla, anche subito, anche se si conoscevano da pochissimo, le aveva confidato Ruby in un inedito ruolo di mezzana; ma lei, lei non lo era di lui.
Era una stupida, lo sapeva. Se avesse detto di sì, lui l’avrebbe sempre trattata con gentilezza, considerandola una pari e un’amica, prima ancora che una moglie; avrebbe voluto bene al bambino come suo, e non li avrebbe mai abbandonati all’improvviso per paura dell’amore. Il poliziotto era bello e buono, innamorato e sincero, e non la giudicava: dove mai avrebbe trovato qualcun altro simile?
Ma lei non lo amava.
Gli voleva bene, ma non poteva fingere: nella sua mente, nel suo cuore c’era solo un altro, un altro che continuava a farla soffrire e che lei, stupidamente si rimproverava, continuava ad amare. Prendere in giro Graham sarebbe stato un gesto ignobile che lei non aveva alcuna intenzione di compiere.
Non aveva usato intermediari: gliel’aveva detto lei stessa, mordendosi le labbra a sangue e sentendosi quasi male dinanzi alla tristezza che aveva velato gli occhi del giovane bobby. L’uomo aveva accettato la sua risposta, sia pure a malincuore; ma non aveva spezzato i ponti: dopo una settimana trascorsa a leccarsi le ferite, era ricomparso con una consuntissima copia di “Cime Tempestose” in mano.
- Amici? – aveva chiesto quasi trattenendo il fiato in attesa della risposta.
Belle aveva sorriso.
- Amici.
Due giorni dopo, come destato dal pericolo di perderla, l’altro aveva deciso di ricomparire nella sua vita.
 
 
 
New York, dicembre 1893
 
- Che bell’anello, – gli aveva detto Rebecca una sera – Ma… All’anulare sinistro? Come una fede?
Gold aveva scostato la mano.
La donna non poteva immaginare le conseguenze di una domanda tanto innocente, ciò che stava rievocando e il pentimento che, più tangibile di un macigno, premeva sul petto del compagno, annullando anche il gesto tanto istintivo del respirare. L’aveva guardato interrogativa, ma la stretta si era fatta più intensa; la voce generalmente così morbida non aveva mascherato una minaccia implicita quando si era ritrovata a ripetere la domanda, come se avesse capito di aver toccato un tasto dolente e non intendesse scusarsene.
In quell’istante Gold aveva capito che i suoi scrupoli erano vani: Rebecca non sapeva proprio niente dell’amore.
Emotivamente era una ragazzina, la stessa ragazzina povera che spiava le fortune altrui col cuore gonfio di invidia, sognando di riuscire un giorno a farle proprie a qualsiasi costo. Forse Rebecca aveva intuito la ragione della sua improvvisa freddezza e si era messa in testa di prendere il posto della sconosciuta nel suo cuore, di assicurarsi la sua fiaba personale diventando la nuova Lei.
Ma nessun’altra sarebbe mai potuta essere Mrs Gold.
Rebecca conosceva il possesso, conosceva la bramosia, ma – come Cora – l’amore le era del tutto alieno.
E lui, per un istante, si era ritrovato a invidiarla.
- Sì, – aveva risposto infine – Sono stato sposato.
- E cos’è successo?
- È morta.
- Quindi l’anello era suo? – aveva incalzato, incurante delle sue frasi smozzicate.
- Sì. Del mio barlume di luce in un oceano d’oscurità.
Era la prima volta che dava voce al pensiero, eppure si era detto che non c’era modo migliore per definirla.
Ma anche il barlume è scomparso.
E sai perché.
 
 
 
Londra, luglio 1889
 
Era successo all’improvviso. La sera prima avevano chiuso più tardi del solito e avevano deciso di approfittare della mattina libera per riassettare. Era seduta a lucidare dei boccali quando Ruby aveva abbandonato la scopa e squittito felice.
- Hanno lasciato il giornale di ieri! – l’aveva afferrato famelica voltandone già le pagine – Chissà se c’è qualcosa sul rosso… Pare che vada di moda questa Stagione…
Dopo un paio di minuti, il quotidiano già giaceva abbandonato al suo destino.
- Non una parola sui colori. Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.
L’orciolo le era sfuggito di mano, finendo per disegnare un tappeto di cocci ai suoi piedi e di rigagnoli di residui di birra ai suoi piedi. D’istinto si era ritrovata a stringere le mani attorno al ventre, come a proteggersi.
Ruby e Granny l’avevano raggiunta subito.
- Tutto bene?
- Vuoi stenderti? Nonna, cosa facciamo, vado a chiamare aiuto, cosa facciamo?
Le voci le erano giunte sovrapposte e attutite, la mente bloccata all’istante in cui quel nome era stato pronunciato e riportato con violenza nella sua vita, dopo mesi trascorsi a proteggerlo nel cuore.
“Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.”
Se non fosse stata seduta le ginocchia non l’avrebbero sorretta.
- Sto bene, – aveva mentito – Solo un capogiro.
Nessuna le aveva creduto: l’avevano costretta ad andare a riposarsi, e per una volta era stata lieta di obbedire. Desiderava solitudine, una solitudine che non aveva ottenuto perché Ruby era rimasta al suo fianco per ogni necessità; se non altro, la ragazza non aveva iniziato a chiacchierare per non stancarla ulteriormente e lei aveva potuto dedicarsi al giornale che, nonostante l’unanime parere contrario, aveva portato con sé.
Aveva scorso le pagine con il cuore in gola fino ad arrivare a quella incriminata e, quando l’aveva trovata, aveva respirato a fondo prima d’immergersi nella lettura.
Loro figlio si muoveva senza requie, come se avesse intuito il turbamento della madre.
“Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.”
Il senso dell’articolo era molto semplice; nondimeno, Belle aveva dovuto leggerlo tre volte per capirlo, e ancora certe frasi le parevano sfumate, liberamente interpretabili, nonostante quella loro chiarezza che le rendeva ancor più dure, ancora più inaccettabili.
Ma c’è mai stato qualcosa di accettabile tra noi?
In estrema sintesi: Robert Gold stava partendo per l’America. Lì avrebbe portato a termine alcune operazioni commerciali tenute segrete fino all’ultimo. La data della partenza, non riportata, era comunque imminente. Non si conosceva la durata della permanenza oltreoceano.
Nella vita si studiano nozioni ben più complesse, ma a Belle quell’articolo era parso la lezione più difficile da mandare a memoria.
Sarebbe salpato a giorni. A giorni avrebbe messo alla porta i dipendenti di Kensington, chiuso le stanze custodi di un amore e di un figlio e salutato Londra.
Se ne sarebbe andato.
Lo conosceva troppo bene per non capire che quello non era un viaggio di lavoro, ma un fuga.
Un esilio volontario dopo non essere mai andato a cercarla.
O forse ancora una volta non hai capito niente.
Obiettivamente quel trasferimento non variava le cose: un fiume e qualche quartiere li avevano già allontanati tanto da renderli alieni l’una all’altro, intoccabili e distantissimi; ma sapere di averlo nella stessa città, di respirare la stessa aria, essere illuminati dallo stesso sole e bagnati dalla stessa pioggia in un certo senso l’aveva rassicurata durante quei mesi.
Come se fossero ancora vicini, legati nonostante la frattura.
Ma ora… Ora non avrebbe avuto neanche quella consolazione.
Ora sarebbe stato un oceano a frapporsi, una nuova terra così diversa da quella calpestata fino ad allora, nuove persone, un cielo diverso.
Diversi noi?
No, si era risposta. Quel viaggio – qualsiasi motivazione avesse avuto – nulla avrebbe potuto contro la verità che lei ben conosceva: lui avrebbe continuato ad amarla e temerla tanto da preferire allontanarla anziché rischiare di ferirsi. Forse razionalmente non si era ancora reso conto di quanto successo, ma sentimentalmente sì, ed era questa la ragione della scelta; o forse era lei a essere una sognatrice idiota che s’illudeva sempre, ma la situazione comunque non cambiava.
L’articolo era corredato dalla sua foto ufficiale. Aveva seguito con l’indice i tratti del volto, mordendosi le labbra al ricordo delle volte in cui li aveva percorsi con baci.
L’ombra nei suoi occhi pareva più cupa che mai; anche il loro bambino l’avrebbe avuta? Chissà se un giorno, per le strade del mondo, padre e figlio si sarebbero in qualche modo incontrati.
Si sarebbero mai conosciuti?
Sì.
Si sarebbero conosciuti perché lei li avrebbe fatti conoscere, in un modo o nell’altro. Non avrebbe permesso a Robert Gold di andarsene continuando a ignorare la verità, di chiudere anche con quella parte del passato senza affrontarlo: si sarebbe presentata a Kensington, sarebbe rimasta lì anche a costo di essere trascinata via con la forza, si sarebbe attirata i peggiori epiteti, forse l’avrebbe ritenuta solo una donnaccia in cerca di denaro, ma avrebbe parlato con lui.
E stavolta l’avrebbe dovuta ascoltare.
Aveva fatto un sonno breve e agitato popolato da sogni illogici, e si era svegliata ancor prima delle ospiti. Aveva lasciato un brevissimo biglietto – Vado da Tink, torno presto –, si era calata in testa un vecchissimo cappello di Granny ed era uscita da sola per la prima volta dopo mesi.
Nessuno faceva caso a lei, e appena si era allontanata dal territorio dei Frey aveva sospirato sollevata; anche se, quando era salita sull’omnibus, era stata colta da un’inquietante sensazione di essere osservata che non l’aveva abbandonata per il resto del viaggio. La situazione attorno a lei pareva tranquilla, eppure quell’impressione non accennava a svanire.
Quando aveva scorto casa, aveva mandato giù un groppo alla gola e rivolto un’unica preghiera al Cielo.
Fa’ che ci sia ancora.
Uno sconosciuto dal naso camuso stava chiudendo il cancello dell’entrata secondaria.
Aveva allontanato con ferocia dalla mente l’ovvia motivazione di quel gesto.
- Cerco Mr Gold, – aveva dichiarato.
- E Mr Gold cerca te?
Aveva ignorato lo sberleffo e l’aveva guardato dritto negli occhi rispondendo: – Devo mostrargli una cosa.
- Immagino cosa, – aveva sghignazzato ammiccando, prima di sputare per terra evitandola appena – Ma se a Gold gli viene voglia, mica scende tanto in basso da prendersi una come te. Non è certo suo, quindi niente quattrini, bella.
- Non gli chiederei un centesimo nemmeno se stessi morendo di fame, – aveva replicato imponendosi calma – Fatemi vedere Mr Gold, per favore.
- E che vuoi, se non vuoi soldi? Senti, – l’uomo aveva finto comprensione – Te lo ripeto, non c’è trippa per gatti. Dici che faccio entrare la prima che passa? Ci tengo al lavoro, io, non posso permettermi di perderlo.
- Devo parlargli. Lui mi conosce, accompagnatemi e vedrete voi stesso…
- Allora non mi sono spiegato, – l’aveva afferrata per un braccio, strappandole un ringhio di protesta – Non ho pietà solo perché sei incinta, lo capisci, vero? Gold se n’è andato due ore fa, – aveva proseguito, incurante della sua espressione – Puoi seguirlo in America, dargli tutte le prove che magari una sera era sbronzo e ti ha sbattuta per bene, ma se credi che sgancerà un soldo, che si prenderà cura del bastardo di una puttana, allora fattelo proprio dire, tu della vita non hai capito un cazzo.
Il respiro le si era strozzato in gola per l’indignazione.
- No! Non è così, non…
- Oh, Lacey! Dio mio, ti ringrazio! – l’esclamazione sollevata di Ruby l’aveva paralizzata – Ci spiace avervi disturbato, signore, – si era scusata in un tono timido e tremante che non le apparteneva – Quando si è ritrovata vedova e incinta, la mia povera cugina è uscita di senno dal dolore. L’ho portata a passeggiare un po’ per distrarla, ma l‘ho persa di vista e già temevo per le sue sorti… È stata così fortunata a incontrare un uomo gentile come voi… Spero non vi abbia infastidito…
La guardia aveva ascoltato le lusinghe impegnato a studiare lascivo la ragazza; era tornato in sé per borbottare qualcosa quando era già troppo tardi: la mora aveva bisbigliato un altro ringraziamento sbattendo le ciglia e ne aveva approfittato per trascinare via Belle in fretta e furia.
Solo quando si erano allontanate abbastanza da essere fuori dalla portata dell’uomo, Ruby si era fermata di colpo.
- Adesso tu mi dici cosa ti è venuto in mente, idiota di una Belle French, – la voce dell’amica tradiva una rabbia crescente – Hai idea della paura che ho preso stamattina vedendoti andar via? Credevo che ti volessi ammazzare, che… Non lo so, dannazione, non lo so! Ti ho rincorsa per mezza città, non mi sembrava vero averti ritrovata su quel maledettissimo omnibus!
Due ore.
Era arrivata in ritardo di due misere ore.
Ruby aveva continuato a blaterare da sola e se n’era presto resa conto; così come si era resa conto di star trattando l’amica troppo bruscamente.
- Belle? – l’aveva scossa piano – Belle… Che ti ha detto quel porco?
Non era stati tanto gli insulti riferiti a lei a ferirla, quanto il modo in cui era stato definito il loro bambino.
Lei e Robert potevano anche non essersi sposati, ma questo giustificava l’offesa a loro figlio – nulla avrebbe potuto giustificare qualcosa di simile.
Se fosse arrivata prima, avrebbe parlato direttamente con lui, e avrebbero chiarito ogni cosa. Anche se glieli avesse nuovamente porti, avrebbe rifiutato i soldi: non li voleva, non voleva niente di materiale, davvero, non ce n’era bisogno; voleva solo dirgli che sarebbero diventati genitori, pensava solo che anche lui avesse il diritto di saperlo, solo quello.
Ma lui… Lui…
- Se n’è andato… – era stata appena in grado di sussurrare.
Ruby aveva deglutito evitando il suo sguardo.
- Lo so. Lo so.
- Come fai a…?
- Stanotte hai parlato nel sonno. Hai fatto il suo nome… – aveva sospirato – Dobbiamo tornare, Belle. Non ti fa bene restare qui.
Aveva annuito. No, non le faceva bene star lì.
Doveva andar via.
Tornare a Whitechapel.
Si era passata il dorso di una mano sugli occhi.
Doveva accettare il punto fermo che il destino aveva assegnato loro.
Ma a questo, anche tra le lacrime Belle lo sapeva, non si sarebbe mai rassegnata.
Lei non avrebbe mai smesso di combattere per loro.
Mai.
 
 
 
New York, gennaio 1894
 

Trascorrere qualche settimana lontano da New York era stato utile sotto più punti di vista: aveva concluso degli affari rilevanti, ma soprattutto aveva preso una decisione fondamentale.
Una decisione che avrebbe attuato appena avesse rivisto Rebecca.
Avrebbe messo fine al loro rapporto. Sarebbe stato schietto e diretto: le avrebbe detto di non avere più intenzione di continuare a incontrarla perché, semplicemente, non era interessato a nulla che lei potesse offrirgli.
Fosse stata un’altra, persino Cora prima che, forse avrebbe corretto il tiro e usato parole meno brutali; ma, avendo già sperimentato l’esecrabile tendenza della donna a fraintendere le lusinghe, aveva continuato dritto per la sua strada.
Quando aveva messo piede nella suite e aveva percepito quella fragranza esotica e conturbante, aveva capito che qualcosa non andava. Che quel profumo non doveva – non poteva – essere rimasto lì tanto a lungo; ma se ora gli solleticava le narici e le stanze erano a soqquadro, un motivo c’era, e poteva essere solo uno.
La sagoma seduta di fronte al camino acceso aveva dissipato ogni dubbio.
Udendo il suo nome, Rebecca si era voltata dolcemente; ma la smorfia sul viso non comunicava alcunché di tenero o gentile: la luce che scintillava negli occhi chiari era fredda, brutale, cattiva.
Tra le dita stringeva due oggetti sottili come nastri che Gold aveva identificato presto.
- Di chi sono? – la donna aveva domandato perentoria, con una voce stridula e crudele.
- Di mio figlio e di mia moglie. Lasciale stare, non sono tue.
- Come nient’altro… – aveva mormorato sprezzante – Sai, mi sono informata. Tua moglie ti ha lasciato quando eri ancora povero. Quando non potevi certo regalarle un anello così.
- Il mio passato non è affar che ti riguarda.
- È di un’altra, vero? Com’è che l’hai chiamata, “barlume nell’oscurità”? Quella a cui scrivi ancora, vero? – se la situazione fosse stata meno tragica, avrebbe trovato un che d’ilare nella confusione tra Lei e la Mills. Non gli aveva concesso la possibilità di replicare – Io me le sono sempre guadagnata, le cose. Ho sempre lottato per ottenerle, nessuno mi ha mai regalato nulla. E ora arrivano questi, questi, – aveva agitato davanti a sé le ciocche intrecciate – E mi portano via quel che è mio di diritto. Quel che io ho sudato per avere!
- Attenta a rivendicare il possesso sulle tue sedicenti cose, Dearie.
Rebecca era balzata verso il fuoco, le trecce salde tra le dita. Gli aveva lanciato un ultimo sguardo di sfida liberando tra le fiamme la prova fisica che, due volte nella vita, Robert Gold aveva amato qualcosa oltre al denaro e al potere.
Per un istante era sceso il silenzio nel salottino. Quel silenzio che accompagna l’irreparabile, tanto denso da potersi afferrare, stringere, da sentirlo premere sulla pelle fino a far male.
La quiete della tempesta.
L’industriale non aveva urlato. Lo scatto dell’ex amante era stato troppo repentino per essere anticipato o bloccato in qualche modo; non aveva potuto far altro che trasalire osservando le lingue di fuoco avvolgere le reliquie, inghiottirle senza timidezza – come un innamorato presuntuoso, consapevole che i suoi baci più appassionati non verranno respinti.
Aveva detto solo: – Non c’è rimedio a quello che hai fatto.
Rebecca lo guardava ancora con quegli occhi folli. Lo guardava certa della vittoria, convinta che distruggere un ricordo bastasse a cambiare ciò che era stato; a ribaltare, in un certo senso, il corso degli eventi e assicurarsi un posto di spicco nel futuro di chi non lasciava andare il passato.
Ma se solo fosse stato possibile tornare nel passato, lui sarebbe stato il primo a provarci.
Quando l’aveva cacciata – lui furibondo nonostante la facciata, lei più isterica che mai mentre veniva trascinata via dalla sicurezza –, quando aveva sperato vanamente che si fosse salvato almeno l’ultimo ricordo del suo bambino, quando si era ritrovato solo, si era guardato indietro e aveva scoperto che, forse, Rebecca aveva portato a termine la sua missione implicita.
All’ultimo era riuscita a scoperchiare il vaso di Pandora, facendone emergere tutti i mali dell’anima di Gold, sottolineando l’inutilità dei suoi sforzi privi di senso.
Era andato in America con tre precisi obiettivi e ne aveva falliti due su tre: la statistica non era dalla sua. Se già l’aveva capito anni prima, ora ne aveva la conferma definitiva: non L’avrebbe mai dimenticata. Le luci di New York non avevano scacciato il Suo fantasma: L’avrebbe ritrovato lì come a Parigi, come a Bombay, come in qualsiasi altra parte del mondo.
La sua era una fuga senza soluzione, che non l’avrebbe mai condotto a una meta – perché la meta era illusione, perché la meta non esisteva più; tanto valeva tornare là dove tutto era iniziato, là dove forse avrebbe potuto far pace col suo ricordo.
Pochi giorni, il tempo di sistemare gli affari, e avrebbe osato quest’estremo tentativo.
Sarebbe tornato a casa.
 
 
 
Londra, novembre 1889 - aprile 1894
 
La prima volta che aveva stretto loro figlia tra le braccia Belle aveva pensato che, se fosse morta in quel momento, se ne sarebbe andata con l’orgoglio di aver messo al mondo la creatura più bella che fosse mai esistita.
Ma Belle non aveva alcuna intenzione di morire: era allora, come le aveva detto Granny, che iniziava la seconda metà della sua vita.
Quella sera di novembre non era nata solo la loro bambina, ma anche una nuova parte di lei, una parte che prima non riusciva neanche a immaginare. Non era una sensazione facile da spiegare, né era in qualche modo paragonabile alle emozioni provate sino ad allora: sapeva solo che, nell’istante in cui un vagito acuto le aveva riempito le orecchie, in quel pianto di vita aveva riconosciuto anche se stessa. Aveva sentito uno strappo tra chi era stata e chi sarebbe stata, superato una linea di demarcazione sottile e nettissima che cambiava tutto per sempre; la vita per come l’aveva sino ad allora conosciuta apparteneva a un passato che non sarebbe più tornato e verso cui provava al più una malinconia venata di dolcezza: ma ora, ora, stringeva tra le braccia il proprio presente e il proprio futuro, e solo da quello si sarebbe lasciata vincere.
Il suo regalo inatteso, la sorpresa che aveva rapito la sua vita ribaltando ogni residua certezza, sostituendosi prepotentemente a ogni progetto, ogni piano; ma mai sarebbe tornata indietro, mai avrebbe scambiato quel fagottino rosa e castano per una vita di viaggi o sete, di avventure o oro.
Era lei il suo viaggio e la sua seta, la sua avventura e il suo oro, lei che era molto più dell’oro: perché l’oro è prezioso, ma duttile,  si lascia modellare dalle dita abili degli artigiani, si lascia adattare e vincere nonostante la preziosità che l’avvolge; mentre la bambina che stringeva al seno sarebbe stata diversa. Lo aveva intuito sentendola scalciare impetuosa in lei, ne aveva avuto conferma vedendo i suoi larghi occhi passare dall’incertezza del grigio acquoso della nascita alla determinazione perfetta del nocciola di cui si era innamorata un anno prima.
Gli occhi di suo padre.
Ma non sarebbe stata solo come lui. Era fatta anche d’oro, non solo d’oro: lei avrebbe saputo splendere, imporsi sull’oscurità di due esistenze e rischiararla, trasfigurarla, sconfiggerla.
Quella bambina così  piccola e così tenera avrebbe riportato il sole nella vita dei suoi genitori.
Era per questo che aveva scelto quel nome tra i tanti: Helena, dal greco “Helios”, “sole”. 6
Helena non sarebbe stata oro, sarebbe stata sole.
Come aveva anche solo potuto pensare di darla via? Quel giorno doveva essere ammattita, poco ma sicuro. Trascorreva ore e ore a coccolarla, a solleticarle i piedini, baciare le fossette che comparivano sulle guanciotte tonde e sode a ogni sorriso, a meravigliarsi nel ritrovare in lei i tratti propri o dell’amato. Le descriveva il mondo che le circondava, la bellezza nascosta nei luoghi impensabili, gli arcobaleni che scoppiavano dopo le tempeste; per lei inventava storie, colorando l’universo quando il cielo era troppo grigio. Le raccontava il modo in cui i suoi genitori si erano conosciuti, odiati e innamorati, giurandole il bene che le avrebbe voluto il padre se l’avesse conosciuta, perché aveva già dimostrato di saper amare a fondo, anche se non riusciva a trovare la forza di crederci; le parlava dei mille errori che avevano compiuto e della perfezione che avevano creato, lei.
A Belle pareva che Helena seguisse attenta quei discorsi, come se in qualche modo fosse interessata alle sue origini. Era impossibile per una bambina tanto piccola, certo, ma i suoi occhi scuri come sassi di torrente parevano più grandi, più maturi della sua età.
Come capaci di intuire la voragine che segnava l’esperienza di vita di sua madre.
Da quando loro figlia era nata, il ricordo di Robert era mutato: era sempre presente, sempre incastonato nel profondo nel cuore e impossibile da strappare – si potrebbe mai strappare una parte di se stessi? –, ma più dolce, meno crudele. C’era ancora il dolore, c’era ancora la rabbia per non essere stata creduta, e c’era ancora l’amore – quell’amore così ardente e implacabile, così fiero e graffiante – e sempre ci sarebbe stato; però era come se l’affetto per sua figlia avesse inglobato l’altro, non imbrigliato, ma addolcito, proprio come il sole mitiga l’inverno e guida verso la primavera.
Era così che doveva intendere Helena, pensava vedendola crescere tenera e testarda, far fronte a Granny e complottare con Ruby, capeggiare i bambini di Tink e comandare a bacchetta un Graham dalla pazienza infinita: là dove avevano cercato d’imporre l’inverno, loro figlia aveva riportato la primavera.
Mossa da una speranza che resisteva al tempo, passava ancora da Kensington: osservava da lontano i cancelli sbarrati e stringeva più forte la piccina, pensando che anche quella volta era andata male, ma la prossima sarebbe andata meglio, sì.
La prossima volta lui ci sarebbe stato e loro sarebbero entrate. Avrebbero inspirato a pieni polmoni l’odore di cera e agrumi di casastrano come a volte un posto in cui si è stati pochi mesi riesca a diventare rifugio più di quello in cui magari trascorriamo anni – ed Helena avrebbe corso per i lunghi corridoi, urlando eccitata dall’avventura e dal nuovo passatempo. Sarebbero passate da ogni stanza e avrebbero riso per le chincaglierie sparse ovunque, avrebbero urlato di gioia dinanzi agli infiniti libri della biblioteca, e sarebbero scese in cucina a salutare i loro amici mai dimenticati.
Mary Margaret e Archie le avrebbe sommerse di biscotti e abbracci rimproverandole per averli fatti attendere tanto, Emma avrebbe borbottato che ora avrebbe dovuto riordinare tutto daccapo, ma poi avrebbe sorriso a una Helena impegnata a domandare a Killian perché la chiamasse Coccodrillina. Aurora e Kathryn avrebbero loro spazzolato i capelli, e lei avrebbe coccolato anche il piccolo di Ashley e Sean, in attesa che le porte dello studio si riaprissero.
E quando lui fosse arrivato, avrebbe sorriso a loro, solo a loro, e allora sarebbero stati pronti a cominciare una nuova fase della loro vita.
Tutti e tre insieme.
Sì, ne era certa: sarebbero tornati a essere famiglia.
 
 
 
Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti:
in qualche modo sottile, essi diventano un unico sistema.
Ciò che accade a uno continua a influenzare l’altro,
anche se distanti chilometri o anni luce.7
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il titolo del capitolo e i versi iniziali vengono da “Branchie” di Alberto bebo Guidetti de “Lo stato sociale”.
1: le rose canine rappresentano piacere e dolore, il papavero oblio – http://www.daltramontoallalba.it/civilta/rosaselvatica.htm e http://ilgiardinodeltempo.altervista.org/papavero-2/;
2: “Io so darmi ottimi consigli / che seguir non so” – “Alice nel Paese delle Meraviglie”;
3: @Julie_Julia, ogni promessa è debito - ♥;
4: adattamento di “Ai più appare un tipo lontano, e le ragazze adorano quella distanza, che chiamano tristezza.” - “Emmaus”, Alessandro Baricco;
5: Non ho chiamato Zelena direttamente così perché abbiamo già una Helena, nome che ho scelto prima che si sapesse della Strega e che non ho voluto cambiare. Ho preferito ispirarmi all’attrice che la interpreta e all’assonanza Zelena / Zelenyy, che in russo significa “verde”, e proprio da questo sono partita per l’accenno di background;
6: http://www.nostrofiglio.it/nomi/nomi/helena;
7: non so se il post sull’equazione di Dirac che circola in rete sia corretto; io mi sono limitata a copiarne la suggestiva spiegazione. Eventuali scienziat* alla lettura perdonino eventuali errori.
 
 
 
 
 
N. d. A.: Saaalve! ♥
Innanzitutto, ringraziarvi è d’obbligo. Avete accolto questo seguito con un calore e un affetto inimmaginabili: le vostre parole dedicatemi qui e su “Euridice’s World” mi hanno sinceramente emozionata, e non posso che restare a bocca aperta dinanzi a tutta la fiducia che riponete in me. Perciò grazie, grazie davvero a chi ha recensito, letto il primo capitolo e a chi ha subito aggiunto la long alle preferite/ricordate/seguite: m’impegnerò sempre per non deludervi! ♥
Quanto a noi… Tante, troppe, pagine, lo so. Ve l’avevo annunciato: le cose da scrivere erano infinite, e a un certo punto ho anche pensato anche di spezzare il capitolo, anche se poi sono tornata sui miei passi: ho preferito analizzare il flashback tutto in una volta in modo da tornare al “presente” e concentrarmi su quello. In futuro mi conterrò, promesso.
Il vostro parere è più che benvenuto: la paura dell’OOC e simili non muore mai, anche perché ho introdotto personaggi cui non mi sono mai dedicata prima e quindi qualche dubbio in più c’è. I vostri consigli sono preziosi, fatevi sotto e ditemi la vostra su ogni aspetto!
Piccoli appunti: avendo già trattato le sorti post-rottura di Gold in “All of the stars”, per ovvi motivi ho preferito soffermarmi maggiormente su Belle. Comunque, non avrei mai potuto infliggerle tutte quegli orrori accennati nella oneshot di collegamento! Amo il personaggio, ma soprattutto non mi pare opportuno affrontare tanto leggermente temi delicati come la prostituzione e la violenza sessuale.
Rileggendo, mi rendo conto di aver forse fatto piangere Belle un po’ più del dovuto. Personalmente penso che, visto la situazione e gli ormoni, comunque ci sta; ma, se non siete d’accordo, parlate. Quanto a Graham e Belle… Sono il mio guilty pleasure, ecco. ♥ Nella serie non hanno mai interagito, ma questo non mi impedisce di immaginare un incontro durante la prigionia della giovane nel castello di Regina e di trasporlo a modo mio. Li vedo piuttosto affini: non tanto da costruirci su una storia d’amore, ma abbastanza per un’amicizia.
In “Flame and ice” la figura della fioraia non era né casuale né nuova, perché aveva già fatto un’apparizione nel capitolo “La mia vita senza te” – la ragazza mora col mantello rosso che vende la rosa a Gold è proprio Ruby! ;)
Qualcuna, sempre a causa della oneshot, ha avanzato l’ipotesi delle seconde nozze per Gold. Non avrei mai potuto - bis: la Zelenyy è stata solo l’amante di un periodo; non escludo, tuttavia, di farla ricomparire, anche perché l’ho fatta uscire di scena un po’ frettolosamente. Alcune frasi che la donna pronuncia sono tratte dalla stagione 3B.
Ci si rilegge sabato 27 dicembre: vi anticipo che nel prossimo capitolo ritroveremo vecchie e nuove conoscenze e tornerà il vecchio metodo d’intitolazione.
Grazie ancora, e buon Natale, Dearies! :) :***
Euridice100

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Capitolo 3
*** II - Mad world ***


 
 
 
II - Mad world
 
 
 
“All around me
are familiar faces
worn out places, worn out faces,
bright and early

for their daily races,
going nowhere, going nowhere.”
 
 
 
Doveva essere un sogno. Sì, non c’erano dubbi: era ancora notte e si stava dibattendo in uno degli incubi divenuti ormai i suoi amanti più fidati, quei sogni vischiosi i cui strascichi si facevano sentire per il resto della giornata.
Quegli incubi in cui rivedeva i lampi di cielo che aveva per occhi, i Suoi capelli di autunno e il Suo volto, ora concentrato sulla bambina quasi finita sotto gli zoccoli dei cavalli. Nel tempo di un respiro le era corsa accanto e l’urlo lanciato si era trasformato in pianto – un pianto acuto, come mai le aveva sentito erompere dal petto, rotto, straziato.
Che sogno assurdo.
Il più strano che l’abbia mai riguardata, commentò tra sé e sé sperando che tutto si perdesse presto nella bruma sfumata del risveglio.
Ma ogni cosa attorno a lui rimase immobile e salda. La sporcizia della strada, la cappa d’umidità che quasi rendeva solida l’aria, il vociare concitato: nulla svanì; nulla, se non l’iniziale, ferma convinzione di trovarsi in una dimensione onirica tanto spaventosa quanto abituale.
La realtà lo colpì al petto più violenta di un colpo di pistola; vacillò, arretrando alla ricerca di un sostegno che non trovò. I polmoni gli si allargarono dolorosamente in cerca d’aria mentre il mondo esplodeva sotto i suoi occhi senza poterlo fermare.
Lei.
Lei è viva.
Lei è qui.
Poteva essere una sosia, provò a suggerirgli la parte più razionale in lui. Poteva trattarsi di una somiglianza incredibile, tanto sconcertante quanto ingannevole: Lei era morta da anni, e lui doveva farsene una ragione.
Quella giovane donna non era – non poteva essere – Lei.
Ma ci sono delle verità che il cuore intuisce prima della ragione. La mente nega ancora, resiste all’evidenza, anche a costo di contraddirsi; l’anima, invece, trova il modo di accettare anche ciò che non è pronta a capire.
- Mr Gold, – la voce di Hulme gli giunse attutita, come se fosse stata troppo distante per essere colta appieno – Blockehurst è andato a mettere una buona parola. Come vedete, tutto si è risolto. Potete tornare in carrozza…
- No.
Pronunciò le lettere a bassa voce, in un tono sordo che non sapeva di possedere. La testa lo fece subito pentire di quanto detto: che senso aveva fermarsi lì, rischiare di farsi riconoscere e aggredire, attirarsi l’ira della strada per aver quasi ammazzato una piccola popolana? La sua guardia del corpo faceva bene a guardarlo come se fosse improvvisamente ammattito perché, senza ombra di dubbio, lo era.
Ma lui doveva vedere. Doveva capire.
Non si ritrasse quando, a sorpresa, si trovò davanti una furia dagli occhi celesti.
Una furia che, senza esitare un istante, gli tirò lo schiaffo più forte che avesse mai ricevuto.
Una furia che era Belle French.
 
 
 
“And I find it kinda funny,
I find it kinda sad,
the dreams

in which I’m dying
are the best

I’ve ever had.”
 
 
 
Sotto un certo punto di vista, non poteva dare tutti i torti a Regina quando si lamentava dei suoi esiti disastrosi in cucito: evidentemente, ago e filo non erano tra le virtù delle donne di casa Mills.
Ma se per lei era ormai tardi per imparare, lo stesso non poteva dirsi per la ragazza: in vista del suo futuro, avrebbe dovuto dimostrare di essere una perfetta Lady in grado di padroneggiare qualunque arte muliebre; e se al Cheltenham Ladies’ College non erano riusciti a invogliarla, allora sarebbe dovuta intervenire lei a darle il buon esempio.
Ripose il cucito nella cesta e gettò un’occhiata alla pendola: le cinque erano suonate da un pezzo. La carrozza si era forse persa per strada? Sperava solo che la figlia giungesse in tempo per cambiarsi: la cena da lord Albert sarebbe stata una splendida occasione per mostrare al mondo che rosa d’Inghilterra fosse diventata la giovane Mills. E poi, il primogenito stava ultimando gli studi a Eton, e solo il Cielo sapeva se non fosse giunta l’ora d’iniziare a guardarsi attorno…
Imparentarsi con gli Spencer sarebbe stato un colpo da maestro: avrebbe portato la famiglia ancora più in alto, assicurandole ulteriori ricchezze e avvicinandola a corte. Chissà, magari un giorno i suoi nipoti avrebbero ricoperto incarichi di Palazzo, anziché limitarsi a misere tenute sperdute qua e là…
I rumori provenienti dal cortile interno la destarono dai sogni di gloria. Si avvicinò pigramente alla finestra, intuendo la causa del trambusto; ma spalancò gli occhi incredula dinanzi allo spettacolo che le si presentava.
Uno sparutissimo manipolo di dipendenti si era avvicinato alla carrozza, fermatasi nel bel mezzo del patio; e, al centro della piccola calca, era ben visibile la figura dell’erede di una dinastia dalla storia secolare, colei che sarebbe dovuta essere pronta a reggere le redini di una casa e a prendere il suo posto nella società e che invece, a quanto pareva, si stava sollazzando nel salutare e– Cora rabbrividì dall’orrore – nell’abbracciare la servitù.
Al centro della folla c’era sua figlia.
Regina Mills.
Come sempre, è più importante salutare le cameriere che la propria madre…
Si soffermò a studiarla, analizzando gli ulteriori cambiamenti occorsi negli ultimi mesi: a quindici anni, Regina sembrava aver ormai detto addio alle vestigia dell’infanzia trasformandosi in una creatura che, se certo non aveva la grazia angelica tanto ricercata, poteva comunque vantare un certo fascino esotico non meno di moda nella Londra fin de siècle. Gli uomini avrebbero implorato per carezzare la selva di seta nera dei suoi capelli, e Cora era certa che quegli occhi di mistero e magia avrebbero trovato il modo per legare a sé i migliori gentiluomini; sarebbe solo bastato giocare al meglio le carte in proprio possesso.
Per questo l’aveva iscritta a una delle migliori scuole preparatorie – e non per punirla, come qualcuno pure insinuava nelle sue lettere –, per questo aveva investito tanto sul suo avvenire: Regina era un tesoro da far fruttare senza remore, e la Contessa non dubitava che ci sarebbe riuscita… Se solo quell’ingrata avesse dato retta a lei, anziché starsene a bighellonare coi domestici!
Ma Regina ti ascolta solo se costretta, lo sai.
Alle volte Cora Mills si chiedeva dove avesse sbagliato. Quale fosse stato il suo errore, perché mai la sua bambina fosse diventata così – così scontrosa, così lontana, così fredda nei suoi confronti, mentre al resto del mondo si presentava ben diversa – cosa comunque preferibile, stante l’importanza del giudizio altrui. Lungi da lei desiderare un’idiota per figlia: disprezzava quelle pappamolle che non muovevano un passo senza il beneplacito dei genitori, e tollerava ancor meno coloro che le avevano rese tali e che poi trascorrevano ogni ora della loro esistenza a cantarne le lodi senza nemmeno rendersi conto del cattivo gusto del loro agire.
Eppure – doveva riconoscerlo –, alle volte si trovava a invidiare quelle madri e quelle figlie. A essere gelosa della loro complicità, dell’arcana capacità di formare un intero anche solo sfiorandosi, quando lei e Regina un intero non lo erano mai state per davvero, neanche prima che nascesse. Erano sempre state due unità incastrate a forza dal destino, messe insieme sfidando i bordi frastagliati che impedivano loro di coincidere, di combaciare anche solo per un istante; e più passava il tempo più era difficile fingere di non vedere, di sperare che il tempo rimediasse.
Erano, semplicemente, diverse.
Quando una mattina di cinque anni prima Regina era partita, Cora aveva tirato un sospiro di sollievo di cui ancora non si vergognava: era meglio così.
Era meglio vedere la figlia solo in occasione delle feste comandate, saperla lontana e al sicuro, limitarsi a letterine cortesi che partivano e giungevano sempre in ritardo; era meglio ricordare la bambina che Regina era stata, e non la donna che stava diventando.
La piccina cui bastava un “Brava” per essere felice, non l’adolescente che l’accusava – di cosa, poi? Di aver difeso ciò che era suo? – coi suoi larghi occhi bruni.
L’aveva fatta tornare ad aprile non per improvvisa malinconia, ma solo per tenerla al sicuro da quell’epidemia di rosolia che si stava diffondendo tra i collegi; un’epidemia che non ci voleva, perché coincideva col ritorno a Londra di Robert Gold.
Non lo vedeva da... Da quanto? Cinque anni, ormai? L’ultima volta era stata a un’inaugurazione durante la Stagione 1889. La ricordava bene: quella volta indossava un vestito appena giunto da Parigi che aveva suscitato l’ammirazione e l’invidia delle presenti. Numerosi uomini, molti dei quali sposati, si erano soffermati più del dovuto ad ammirarla; numerosi uomini, ma non lui. Lui le aveva a malapena sputato un saluto solo perché diversamente la gente avrebbe mormorato, e poi l’aveva ignorata per l’intera serata.
Varie volte era andata a Kensington – senza mai annunciarlo prima, perché se Robert possedeva quella casa era anche per merito suo, e ciò la rendeva tanto padrona quanto lui –, ma lui non l’aveva mai ricevuta. È fuori per affari, è al White’s, al momento sta lavorando: le patetiche scuse dietro alle quali il codardo si era trincerato erano state infinite. Cora avrebbe preferito un diretto invito a non presentarsi mai più; ma lei stessa gli aveva insegnato quella diplomazia che faceva rima con ipocrisia e, in ogni caso, l’uomo non aveva spina dorsale a sufficienza per prendere decisioni tanto definitive. Poteva fare la voce grossa, come pure era successo quando quell’altra incompetente di Regina aveva giocato a fare l’eroina – maledette le cattive compagnie che l’avevano rovinata; poteva provare a offenderla con la falsa dolcezza, o giocare a ignorarla, ma ciononostante lei era certa che prima o poi gli sarebbe passata. Le fregole vanno e vengono, e non c’è motivo di farsene condizionare più di tanto o di mandare in rovina un rapporto tanto lungo, specie se la causa di tutto era una cosina tanto insignificante come la French; una cosina tanto insignificante che, però, l’aveva messa nel sacco.
Il brutto tiro giocatole le bruciava ancora: quando era ormai sicura di averla nelle grinfie, quando mancava così poco alla vittoria, la puttanella era sparita. Scomparsa, svanita, volatilizzata sotto tre paia di occhi – un dispiegamento di forze che alla Contessa era parso eccessivo, ma che evidentemente non lo era affatto, visto l’epilogo. Quando gliel’avevano riferito aveva pensato a una farsa: uno scricciolo che sfuggiva a due Frey con rinforzi aveva un che di ridicolo, e invece… Aveva dovuto inventare qualche fandonia per Gold; fandonie che poi non erano tanto distanti da quello che sarebbe davvero successo se la ragazza non li avesse fregati tutti.
Come non aveva messo in conto la fuga, così Cora era stata tanto idiota da sottovalutare la reazione dell’uomo. Pensava che dopo un ulteriore periodo di rabbia si sarebbe a suo modo rassegnato: avrebbe compreso i suoi errori, l’assurdità della ossessione e sarebbe tornato da lei con la coda tra le gambe; ci avrebbe scommesso, e già era pronta a un nuovo inizio quando ogni speranza era stata uccisa sul nascere dall’improvviso trasferimento di Gold.
Non aveva neanche avuto l’ardire di informarla, il vigliacco: aveva dovuto scoprirlo come gli altri, sfogliando il giornale una mattina qualsiasi di luglio e strabuzzando gli occhi dinanzi a un titolone roboante. Gli aveva subito inviato un biglietto rimasto senza risposta; o almeno, rimasto senza risposta per parecchie settimane perché un giorno, all’improvviso, sul vassoio d’argento era apparsa una missiva da New York.
Il suo primo impulso era stato di ridurla in coriandoli da bruciare per poi gettare le ceneri al vento; ma poi si era trattenuta, si era imposta calma e aveva aperto la striminzita letterina il cui oggetto era, fondamentalmente,  Regina.
Era iniziata così una strana corrispondenza, formale e distaccata ma non per questo meno carica di reciproche accuse mai velate e ricordi; uno scambio ben poco amichevole che, comunque, certo non la scoraggiava. Sebbene quel nome fosse nell’aria – mai espresso, mai sancito, ma sempre presente –, Cora Mills confidava nelle proprie capacità: la pecorella smarrita sarebbe tornata all’ovile. Certo, sarebbe stato più semplice se l’uomo fosse stato vicino, ma disperare era fuori discussione.
E poi, all’improvviso, era arrivato un biglietto da Kensington.
Gold era tornato a Londra e lei, anche stavolta, l’aveva saputo a cose fatte.
Se l’avessero interrogata sui suoi fini, Cora Mills avrebbe risposto molto semplicemente di voler riprendersi ciò che le spettava. La particolare idea di possesso, di appartenenza che solo il pensiero di Robert risvegliava, aveva solo finto di assopirsi negli ultimi noiosi anni: alle parole dell’uomo era tornata a ruggire, più fiera e combattiva che mai. La Contessa non era una donna stupida, e per nessun motivo al mondo si sarebbe illusa: aveva ormai capito che quella per la French non era stata una comune passioncella, per quanto potesse sembrare impossibile. Ma poi, perché impossibile? In fin dei conti, conosceva bene Gold. Ne conosceva le stranezze e le manie, ne conosceva i segreti e le fragilità forse da prima ancora che la sua camerierina fosse nata; e sapeva che con lui – fingere di – capirlo era la strada vincente.
La strada che, a quanto pareva, la ragazza aveva imboccato e percorso fino in fondo, tanto da insediarsi a tal punto nel suo cuore.
Ma la French era andata, se non comunque morta, e lei avrebbe approfittato del nuovo corso per ristabilire il vecchio. Anche se non si vedevano da tempo, la situazione era tutto fuorché irrecuperabile: sarebbe bastato colpire nei punti giusti.
E, a pensarci bene, un’arma inconsapevole c’era sempre…
Cora si voltò appena verso la giovanissima cameriera che, dopo aver bussato, era entrata nel boudoir.
- Milady, – annunciò chinando il capo ossequiosa – La Contessina è arrivata.
- Da quanto è qui?
L’altra si morse le labbra, come perplessa dalla domanda, prima di rispondere: – Da… Da poco, Milady. Una decina di minuti.
- E dimmi, mia cara, – la Mills si specchiò annoiata alla toeletta cui si era seduta nel frattempo – Dieci minuti ti paiono pochi?
- Vostra figlia non mi conosceva e ha voluto presentarsi, perciò…
Il brusco cambiamento d’espressione che la nobildonna colse nel riflesso, indice di una realizzazione improvvisa e terribile, non la toccò affatto.
- Ma mia figlia non è ancora la padrona di casa. Tu rispondi a me e me soltanto. Anche se, – si fermò per una pausa ben studiata – Sarebbe meglio dire rispondevi.
Gli occhi della ragazzina si riempirono di terrore.
- No! La scongiuro, Milady, non licenziatemi! Il mio fratellino è…
- … È molto malato, e non avete altri al mondo, sì, questa l’ho già sentita. Ma avresti dovuto pensarci prima, riferendo alla Contessina che era attesa, anziché perder tempo dietro ai suoi capricci. Suvvia, non piangere sul latte versato, – alzò gli occhi al cielo dinanzi al suo fiume di inutili scuse. Dio, quant’era lagnosa quella bambina! – Ti scriverò delle referenze. Anche se, lo capirai da te, certo non potrò tacere sulle tue innumerevoli manchevolezze…
La cacciò dalla stanza senza rimorsi.
Aveva impegni più seri, lei, per perder tempo dietro alle lacrime di una domestica incapace.
 
 
 
“Children waiting for
the day they feel good,
happy birthday, happy birthday,
and I feel the way

that every child should,
sit and listen, sit and listen.”
 
 
 
Avrebbe dovuto farci caso. Avrebbe dovuto prestare più attenzione, rendersi conto che quel silenzio era innaturale: almeno in questo Helena era come lei, un’inguaribile chiacchierona che anche nei giochi più solitari dava voce a frotte di amici immaginari. Quando se ne stava tanto tempo zitta significava solo una cosa: ne stava progettando una delle sue e, inevitabilmente, si sarebbe messa nei guai.
E, come volevasi dimostrare, aveva approfittato di – quanto? Due minuti? – per scappare.
Quando Belle era tornata in sala senza ritrovarvi la figlia, il cuore le aveva perso un battito. Un’occhiata alla porta lasciata socchiusa – per non fare rumore. Come fa a pensare a tutto ad appena quattro anni? – aveva confermato ogni dubbio, mentre il ricordo dell’ennesimo battibecco sulla scuola le scioglieva le membra come gelatina.
Sapeva dov’era diretta la piccola ribelle, lo sapeva benissimo; ma, per quanto l’orfanotrofio fosse vicino, non poteva raggiungerlo da sola: era troppo piccola per uscire da sola, figurarsi per andare a zonzo per strade come quelle! Prima ancora di terminare il pensiero, si era catapultata per strada, guardando spasmodicamente attorno a sé alla ricerca di una figuretta dai capelli sempre scompigliati che – la immaginava – si muoveva tronfia e determinata verso la meta.
Ma Helena non c’era; non c’era, e lei non poteva starsene imbambolata là, mentre la bambina finiva chissà dove, si perdeva, veniva rapita, attaccata, o chissà cos’altro!
La paura dei Frey la prese alla gola.
Quando è troppo è troppo.
Risparmiati gli occhi da cucciolo, Helena, stavolta non la passerai liscia.
Lo udì in quel momento.
Uno stridio improvviso, brusco e assordante, che le trasmise la stessa sensazione di unghie che graffiano una lavagna: un fastidio intenso, un dolore alle orecchie che si tramuta subito in brividi viscidi lungo il corpo, il cui ricordo permane e fa digrignare i denti anche a distanza di ore.
C’era una carrozza in mezzo alla strada. Una grande carrozza lucida e scura il cui conducente stava smontando tra una bestemmia e l’altra, mentre una piccola folla si riuniva attorno ai cavalli che nitrivano nervosi.
Non fu il cervello a dare l’ordine: le gambe si mossero da sole, comandate da un istinto antico che rispondeva solo alla natura. La testa, in quel frangente, non c’era; non c’era niente in quel frangente, niente, se non un peso enorme che all’improvviso le scivolò nello stomaco e le premette sul diaframma, impedendole di respirare normalmente.
Helena.
Helena.
Si fece largo tra la calca, incurante di dar spintoni pur di avvicinarsi, pur di ricevere conferma che no, ciò che temeva non era accaduto, c’era sì stato un incidente, ma Helena non ne era rimasta coinvolta, quel pianto – quel pianto che conosceva da quattro anni, che aveva riportato in vita anche lei, quel pianto che era il suo – apparteneva a qualcun altro – non a lei, Dio ti prego, non a lei, qualsiasi cosa, ma non a lei, ti scongiuro!
Quando vide il corpicino sul lastricato, Belle non provò alcuno stupore. Non ne rimase sorpresa: qualcosa in lei si era mosso nel momento stesso in cui aveva scoperto la fuga, per poi rompersi quando aveva scorto l’assembramento e il pianto l’aveva ferita più di mille coltelli.
Qualcosa in lei sapeva sin dall’inizio.
- Helena! – urlò scagliandosi a fianco la bambina, chiamandola e stringendola a sé con una forza di cui non si riteneva capace. La risposta della figlia la restituì il respirò: è viva, pensò in quel momento, è viva, e solo questo le interessava. Ringraziò il Cielo per averla salvata, e contemporaneamente si maledisse per essersi distratta, per aver rischiato di perderla, per essere stata così stupida e per non riuscire a non piangere ora, pur sapendo di star angosciandola ancora di più: a lei spettava il compito di proteggerla e rasserenarla, di dirle di non temere perché ora erano insieme e lei l’avrebbe difesa, eppure non riusciva a fare nulla di tutto questo…
- Tu, – l’apostrofò una voce maschile di cui nulla le importava. Stava blaterando qualcosa, lo sentiva, ma non ne coglieva il senso: tutto ciò che contava nella vita era tra le sue braccia, aggrappato a lei e col visetto rosso striato di lacrime e polvere. La bambina non sembrava essersi fatta male: si era alzata da sola per raggiungerla e il pianto e il tremito erano più che normali, stante la paura presa; ma se avesse battuto la testa? Doveva portarla al dispensario, subito.
- Belle! Helena! – si accorse di Ruby solo quando se la ritrovò accanto – Come state, cos’è successo? Trovo Graham, trovo un dottore, non preoccuparti! – disse tutto d’un fiato, sovrapponendosi all’uomo che andava avanti a parlare.
- …e non vuoi peggiorare le cose, vero? È tutto apposto, la piccoletta sta benone, si vede…
Furono quelle parole a ridestarla. Un moto netto e improvviso, nato spontaneo nell’attimo in cui colse le ultime frasi.
È tutto apposto, la piccoletta sta benone, si vede…
Il volto rozzo dell’interlocutore che la fissava quasi accondiscendente le ricordò subito qualcuno. Riflettere sul chi, sul dove o il come, tuttavia, era fuori discussione: contava solo ciò che le aveva detto, che continuava a dirle senza cogliere la sua espressione.
Belle aveva avuto a che fare con fin troppa gente di quella risma per ignorare a cosa stesse pensando: se anche l’incidente avesse avuto conseguenze serie, con qualche quattrino il suo padrone avesse messo a tacere ogni cosa.
Qualche quattrino e qualche prepotenza, se il malcapitato avesse osato protestare; se avesse osato levare il capo.
Come stava facendo lei.
Ma c’era di mezzo sua figlia. L’unica luce della sua esistenza, la stella più splendente della sua costellazione, il suo sole personale. Se pure non si fosse fatta un graffio, chiunque fosse stato davanti a lei, fosse stata anche la Regina in persona, non avrebbe mai dovuto permettersi di pensare una cosa simile.
Potevano toccare lei, far del male a lei, ma non a Helena.
A Helena mai.
Non sarebbe rimasta ferma e zitta: il responsabile l’avrebbe pagata cara. Quel signorotto che se ne stava lì, a fissare la scena seminascosto da uno dei suoi tirapiedi, che era sceso dalla vettura per dare un’occhiata da vicino ai tuguri di Whitechapel e vantarsi al club di essere sopravvissuto a un’autentica avventura nei bassifondi si sarebbe presto pentito di quanto fatto.
La strada, i passanti attorno, la carrozza… Tutto attorno a lei parve svanire. Nell’arco di pochi attimi affidò la figlia all’amica, si alzò con una determinazione feroce e, prima che qualcuno potesse bloccarla, prima ancora che l’interlocutore potesse dire: – Ehi! – corse, volò verso l’uomo in nero che rimase immobile pur vedendola arrivare, che quasi non si mosse dinanzi al suo palmo aperto, che si limitò a sussultare – un sussulto breve, appena un cenno che trasmise a lei – quando le sue dite lo colpirono.
Fu in quell’istante, mentre i bravi l’afferravano, mentre Ruby ed Helena urlavano e il mondo esplodeva, che Belle lo riconobbe.
Un pugno allo stomaco e una piuma sul volto, il sapore dolceamaro dell’amore.
Lunghe dita che le sfioravano la punta delle ciglia, una voce roca che prometteva di amarla in eterno.
La stessa voce che aveva infranto i sogni.
È un’allucinazione, ebbe appena la forza di dirsi, appena conscia della stretta degli uomini, della violenza con cui la stavano trascinando via.
La delicatezza dei suoi baci, la violenza delle sue parole.
Quella scossa, l’energia scatenata – ancora – dal loro contatto.
Un brivido che aveva un nome e un cognome, i capelli lunghi tra cui tanto spesso aveva passato le dita e gli occhi grandi di loro figlia.
Robert Gold era tornato nella sua vita.
 
 
 
“Went to school
and I was very nervous,
no one knew me, no one knew me,
hello, teacher, tell me
what’s my lesson?
Look right through me,
look right through me.”
 


Esitò appena prima di bussare. Percorse il pomolo coi polpastrelli, studiandone il decoro che mai prima d’allora aveva notato. Doveva essere nuovo, concluse; o forse, era lì già da anni e lei non se n’era resa conto. Era strano come una persona in grado di cogliere ogni particolare non avesse scorto i rifacimenti occorsi in casa propria; o era una reazione naturale per chi, in casa propria, era solo ospite di passaggio?
Sospirò: le sue elucubrazioni le stavano solo facendo perdere ulteriore tempo, e sua madre non ne sarebbe stata certo lieta. Procrastinare il momento in cui avrebbe fronteggiato i suoi occhi di carbone non l’avrebbe comunque salvata.
Colpì appena l’ebano della porta ed entrò in camera.
- Buongiorno, Maman, – le si avvicinò per sfiorarle appena le guance con le labbra. Sua madre aveva sempre quel profumo lieve di limoni che a tanti ricordava il sole mediterraneo, ma che lei invece associava solo al gelo – quel gelo con cui ora la stava accogliendo per l’ennesima volta.
- Bentrovata, Regina cara. Hai fatto un buon viaggio?
- Sì, grazie.
- Molto bene.
Frasi di circostanza. L’ennesima fiera di ipocrite gentilezze, convenevoli che andavano fatti e risposte che andavano date, perché così si fa, perché così è.
Apparire ed essere erano sempre stati due piani sfalsati della sua esistenza, livelli paralleli che scivolavano fianco a fianco incontrandosi all’infinito.
Ovunque si voltasse, Regina Mills incontrava esempi luminosi da seguire: Lillian e Florence in istituto, l’una così pia e virtuosa da lambire l’ipocrisia e l’altra compendio di ogni bellezza idealizzata; la sua elegantissima e sagace Maman a casa, gentildonna inimitabile e irraggiungibile che comunque l’avrebbe sempre perseguitata senza concederle tregua alcuna.
Ma lei non era così.
Quei panni che le facevano indossare a forza non erano i suoi – i suoi, Regina non sapeva dove li avesse dimenticati, o se li avesse mai avuti. Da quando aveva imparato a voltarsi indietro, aveva visto sul suo cammino una lunga scia di bugie e inganni che, se sulle prime l’avevano sconvolta, col tempo avevano rivelato tutta la loro triste realtà.
Non devo pensarci.
In istituto, tra persone che non la conoscevano davvero, forse quella frase dispiegava il suo residuo potenziale, offriva placebo ai suoi rimorsi; e lo stesso poteva valere nel Leicestershire. Ma a Londra…
A Londra non aveva effetto.
A Londra era cominciato e finito tutto, a Londra aveva detto addio all’innocenza pronunciando frasi e compiendo gesti che avevano cambiato molte vite. A Londra il divario tra ciò era successo e ciò che sarebbe potuto succedere raggiungeva intensità altrove inimmaginabili, divenendo un’idea fissa e incancellabile.
Il sorriso mellifluo di Maman non faceva che acuire la sensazione.
In fondo l’aveva sempre intuito, ma solo crescendo Regina era riuscita a riconoscerlo: per tutta la vita non era stata altro che una marionetta nelle mani altrui. Quando le chiacchiere tra compagne toccavano quell’argomento che suscitava mille risolini e sospiri, lei non poteva fare a meno di pensare che sì, lei l’amore l’aveva conosciuto e indirettamente vissuto: ne era stata spettatrice sollecita e attenta, tanto attenta da avergli inflitto i colpi più letali.
Forse nemmeno sua madre lo sapeva di essere innamorata dello zio, ma era stata quella la ragione di tutto: non aveva agito – o meglio, non l’aveva fatta agire – tanto per paura che l’uomo si allontanasse dalla nipote, quanto per vendicarsi per aver preferito un’altra a lei.
Ma Regina dubitava che quello di Cora fosse realmente amore: la sua esperienza solo indiretta avrebbe anche potuto ingannarla, ma per lei amore era come lo zio guardava Belle.
Amore era il modo in cui lei gli sorrideva quando credeva di non essere vista da nessuno.
Amore poteva essere il modo in cui Daniel l’aveva salutata l’ultima volta che si erano visti – e a lei era esploso il cuore, salvo poi ripetersi che era un’illusa e una sciocca e che non significava niente, che se Maman avesse scoperto qualcosa li avrebbe sgozzati entrambi, e...
Fa’ come dico o mi deludi.
L’aveva abituata a obbedire sin da piccola. Forse era l’unica cosa che sapeva fare, l’unico campo in cui sarebbe mai eccelsa. Non porsi domande, calarsi di volta in volta la maschera della figlia perfetta, della signorina modello, della complice: tanti ruoli diversi che la portavano a chiedersi chi fosse realmente. Perché la figlia perfetta non avrebbe mai tradito la madre – come le aveva urlato Cora quando era andata a riprenderla, dopo averla abbandonata per un giorno a Kensington con lo zio che organizzava ricerche e distruggeva casa, Emma Nolan che la guardava disgustata e Daniel che era l’unico a tenerla per mano e a ripeterle che tutto sarebbe si sarebbe sistemato –, la signorina modello non avrebbe mai formulato pensieri così rancorosi, e la complice…
La complice non lo sapeva neanche lei.
- Perché ti sei vestita di marrone? Non va di moda, e poi ti sta malissimo. Non lo indosserai più.
Eppure Regina avrebbe desiderato così poco. La libertà di scegliere il colore di un abito, per esempio; o di non essere sottoposta di continuo al giudizio altrui, di potersi presentare al mondo così com’era, senza schermi e senza finzioni. Ma forse le finzioni le portava nel sangue: Cora gliele aveva trasmesse e, nel corso degli ultimi quindici anni, le aveva lentamente rafforzate, giorno dopo giorno, silenziosamente ma tenacemente, fino a farle diventare parte integrante di lei.
- Lord Spencer ci attende per cena e non possiamo far tardi. Cambiati subito, ti aiuterò io a scegliere qualcosa di decente: ci sarà anche suo figlio James, un giovanotto che vale la pena di conoscere.
- Maman, sono appena arrivata, – protestò debolmente l’adolescente – Non ho voglia di uscire di nuovo. Sono stanca.
- Questo non ti ha certo impedito di perder tempo coi servi. Quante volte ti ho ripetuto di non trattarli come nostri pari? Ormai ho perso il conto.
- Come se noi per prime non venissimo dal basso, – bofonchiò per tutta risposta, avendo cura di farsi sentire.
L’aveva scoperto le prime settimane di scuola: sebbene Cora Mills fosse tra le dame più influenti, le sue oscure origini e la sua rapidissima scalata al potere non erano state dimenticate da tutti; e c’era chi aveva sfruttato le proprie figlie per farne giungere notizia al Cheltenham. Regina aveva dovuto imparare a difendersi, ad affrontare scherni e maldicenze contando solo su se stessa, diventando un po’ più dura e non esitando a farsi giustizia da sé, anzi: alle volte, aveva presto scoperto, la vendetta poteva essere la sua migliore amica, dolce e comprensiva com’era.
Almeno per questo, sua madre sarebbe stata orgogliosa di lei.
- Ma loro non sono riusciti a sollevarsi. Io sì. Un motivo ci sarà, non credi? – chiosò la donna con annoiata noncuranza.
Piccola ribelle, non tirare troppo la corda.
-… Lo zio?
Tuo zio è un bambino spaventato che implora la mamma di non mandarlo via.
Se non ci fossi stata io sarebbe già morto di fame.
E quando ti comporti come una stupida sono tentata dal dargli ragione.
- Me stessa. Se tuo zio ha i soldi e non un titolo è perché in fondo non ha ancora imparato la lezione: il destino è per gli sciocchi. Le cose bisogna prendersele, bisogna farle accadere… Lezione che noi metteremo in pratica stasera stessa – la nobidonna strinse il polso della figlia con più decisione – Avanti, Regina cara: non ti piacerebbe diventare la prossima lady Spencer?
 
 
 
“Their tears are filling up
their glasses,
no expression, no expression.
Hide my head,
I want to drown my sorrow,
no tomorrow, no tomorrow.”
 
 
 
L’aveva riconosciuto.
La sua reazione, il modo in cui il suo sguardo si era posato incredulo su di lui, senza scivolare via, come rivivendo in un istante il loro comune passato avevano parlato per lei.
Quando l’aveva toccato era sobbalzato, ma non per la violenza dello schiaffo: il brivido che gli era corso lungo la schiena aveva come giustificazione la definitiva, estrema presa di coscienza della verità.
Non si trattava di una sosia, di una gemella separata alla nascita o di uno scherzo della mente: Belle French era viva, era reale, ed era davanti a lui, bella e terribile come l’ultima volta che l’aveva vista.
Si premette sul volto una mano guantata: se pure ce ne fosse stato bisogno, quel bruciore sarebbe stato prova definitiva della situazione assurda in cui si era ritrovato.
Non interruppero il contatto visivo: continuarono a ritrovarsi in silenzio, nell’animo un turbinio di emozioni che solo la vita attorno seppe far svanire.
Hulme e Blockehurst avevano agguantato Belle nell’istante stesso in cui aveva alzato mano sul loro datore di lavoro: troppo tardi per impedirle il gesto, ma non per farglielo rimpiangere amaramente. Nonostante la diretta interessata paresse non accorgersene, a Gold bastò un’occhiata per capire che la stretta dei suoi avrebbe attraversato la barriera dei tessuti, lasciando segni sulla pelle della prigioniera.
Segni nel corpo, segni nel cuore.
Possibile che trovasse sempre il modo per farle male?
Pronunciò un’unica frase, un vibrare pericoloso che non ammetteva repliche.
- Lasciatela.
I due si bloccarono, ma non allentarono la presa.
- Mr Gold, questa… Donna – le implicazioni della definizione gli fecero ribollire il sangue nelle vene. Il grande e grosso Blockehurst sbiancò dinanzi alla smorfia dell’industriale – Vi ha colpito.
- Ne sono ben consapevole, dal momento che la guancia colpita è la mia. Ciononostante, vi ho detto di lasciar andare Miss French, e non mi pare l’abbiate fatto.
Mormorii che non attendevano risposta, ordini appena sussurrati che modellavano il mondo a suo piacimento.
Gli piaceva giocare con le cose e le persone, un tempo.
Tutto era ancora come una volta?
Belle seguì abbacinata il brevissimo scambio di battute. Le dita le bruciavano, tanta era stata la forza con cui l’aveva colpito. Cos’era successo? No, non poteva credere a quello che pure sapeva essere realmente successo. Robert era davvero davanti a lei, non era impazzita: era lì, e la guardava con gli occhi spalancati di chi ha appena visto tornare qualcuno dall’Oltretomba.
Come aveva fatto a trovarle, dopo tanto tempo? Era stato un caso, o aveva scoperto la verità e le aveva cercate? Ma quando era tornato? Quando era passata da Kensington per l’ultima volta, due mesi prima? O erano tre? Non ne era certa… Ma, per quanto si fosse sforzata, in quel momento non sarebbe riuscita a ricordarlo.
In quel momento sarebbe solo voluta tornare da Helena, che ora poteva vedere con la coda dell’occhio. Il pianto della bambina era una lama rovente nelle carni: allo spavento per l’incidente si era sommato quello per la scena cui stava assistendo e, sebbene Ruby si stesse impegnando per placarla, i gesti meccanici e gli occhi sgranati della ragazza certo non l’aiutavano nel compito.
Ruby, pensò Belle, nell’assurda speranza che l’altra riuscisse a leggerle dentro, portala a casa e calmala, Raccontale una storia, sai che ci riusciamo solo così, e trova un medico. Tink ti aiuterà, ma ti prego, non farla restare qui…
Come prevedibile, le due non si mossero.
- La stai facendo piangere, – si sorprese a dichiarare incolore. Avrebbe dovuto aggiungere mille altre cose, urlargliele contro, far saltare ogni valvola dell’autocontrollo in suo possesso e fargli assaggiare ciò che aveva vissuto lei negli ultimi anni e negli ultimi secondi; ma si limitò a un commento, un semplice, brevissimo, e forse per questo ancora più incisivo, commento.
Una constatazione ovvia, che ai tempi in cui i confini tra i loro corpi erano stati solo illusione lui avrebbe preso in giro, ma che in quel momento rappresentava tutta la verità di cui sapeva farsi portavoce. Robert Gold poteva far piangere lei, e non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta; ma non poteva – non doveva – far versare una lacrima a Helena
Helena no, Helena mai.
Ed era quello che stava facendo.
Come scottati, i due galoppini mollarono la presa, mentre sul volto di Gold compariva un’espressione indecifrabile.
- Perdonami, – c’era una strana ironia nel fatto che, tra le miriadi di parole che avrebbe potuto rivolgerle, la prima fosse stata proprio la più immediata e la più difficile, quella che non andava pronunciata, ma dimostrata – Né io né gli altri intendevamo farle male. Come sta?
Quasi contemporaneamente alla donna, si voltò verso la piccina. Non riusciva a distinguerne bene i lineamenti, ma i tratti principali urlavano una somiglianza con Belle che solo un legame di sangue poteva giustificare; e lei non aveva parenti stretti a Londra…
Non c’erano dubbi da dissipare, domande da porre o questioni da risolvere: aveva udito lui stesso quella vocina sottile pronunciare lettere che marchiavano a fuoco la situazione.
L’aveva chiamata mamma.
Aveva chiamato la sua Belle mamma.
Hai quasi investito la figlia del tuo grande amore.
Si morse a sangue l’interno della guancia per impedirsi di pensare ad altro che non fosse il presente, il “qui” e l’ “ora”. Al resto avrebbe riflettuto in seguito, una volta tornato a casa e trascorso il resto della giornata in compagnia di bevande cui appellarsi quando, l’indomani, il recente passato gli sarebbe parso in un primo momento incomprensibile; ma adesso aveva altro cui badare.
La consapevolezza improvvisa di essere così vicino alla figlia di Belle gli fece stringere lo stomaco: quella ragazza buffa e irritante, che non perdeva occasione per contraddirlo ma poi era sempre pronta ad ascoltarlo, la sua Sweetheart così tenera e così amata… Mamma.
Non era semplice da accettare, e forse non l’avrebbe accettato mai fino in fondo, ma era la vita: la vita che andava sempre avanti per chi era in grado di affrontarla, che offriva sempre nuove sorprese, che aveva regalato a lei una bambina e a lui…
A lui nulla.
Forse tra lui e Belle era stato lui il vero morto per tutti quegli anni.
- Devo tornare da lei, – fu l’unica risposta che ottenne.
- Vuoi… Vuoi che ti accompagni?
Si chiese perché gliel’avesse proposto. Lui non aveva più alcun diritto, se mai avesse potuto vantarne; ma lasciarla di nuovo, ora che l’aveva ritrovata, scoperta viva e apparentemente in salute, gli pareva intollerabile. Ora che era stato sul punto di distruggere nuovamente il corso della sua vita, doveva almeno far qualcosa per scusarsi per tutto il male che, a quanto pareva, avrebbe sempre continuato a infliggerle.
Con un’occhiata in tralice impose ai suoi di non seguirlo, appuntandosi di ricompensare la loro ritrosia con una notevole decurtazione della paga, e raggiunse Belle dalla ragazza mora e dalla bambina.
Non riuscì a non notare che la donna non l’aveva incoraggiato, ma neanche l’aveva allontanato: si era voltata rapida e aveva proseguito per la strada, incurante di ciò che non fosse la sua creatura.
Si sentiva esausta, Belle: avvertiva una profonda stanchezza, come se quel giorno iniziato da poco si fosse protratto per un tempo infinito; come se fossero trascorsi anni dall’ultima volta che fosse stata realmente bene.
E forse lo erano davvero.
Appena la vide giungere, Helena le buttò le braccine al collo in cerca di protezione; il cuore le batteva forte come un tamburo.
- Sono qui, – Belle le sussurrò all’orecchio – Sono qui, tesoro. Andrà tutto bene, – la bambina annuì con forza, con la fiducia incrollabile che sempre riponeva in lei e che in quel momento la costrinse a sbattere più volte le palpebre per allontanare le lacrime – Te lo prometto.
Robert le stava seguendo al locale: nonostante la confusione, il rumore dei suoi passi le appariva nitido e chiaro, ancora inconfondibile alle orecchie. Si aggrappò di più alla figlia: avrebbe potuto scacciarlo, perché già aveva fatto abbastanza e forse era meglio che si disperdesse anche lui come la folla. Avrebbe voluto, in fondo, scacciarlo. Ma se l’avesse fatto, avrebbe mai trovato la forza di perdonarsi?
No.
In fin dei conti, Belle, anche tu, anche ora, sei un’egoista.
- Che fine avete fatto? – Granny si portò le mani al petto quando i tre entrarono nel locale – Cos’è successo? Sono stati i…?
- No, – l’anticipò lei – La stavano investendo. Sembra star bene, ma ho mandato Ruby a chiamare un medico e Graham…
- Oh, Dei del Cielo! Portiamola su, forza, – l’anziana si fermò di colpo, scorgendo Gold solo allora. Dalla sua espressione era palese che si stesse chiedendo cosa diamine ci facessero insieme colei che era diventata la sua seconda nipote e un elegante gentiluomo in completo sartoriale su misura – E voi chi siete?
-  Lo conosco, garantisco io per lui, – la voce di Belle si ruppe appena, una reazione che però non passò inosservata – L’ho conosciuto cinque anni fa.
La locandiera socchiuse gli occhi e sospirò profondamente, come se tutto le fosse chiaro; ma, prima che l’uomo potesse aprir bocca, le donne salirono una scalinata e lui fu costretto a imitarle. Rimase sulla soglia di una piccola camera da letto mentre l’anziana poneva domande concitate cui pure Belle rispondeva, mentre adagiava la piccola su un giaciglio e le parlava per tranquillizzarla.
I passi svelti di qualcuno che stava sopraggiungendo di corsa attirarono la sua attenzione: senza degnarlo di uno sguardo, la ragazza mora di prima e un poliziotto si precipitarono nella stanza.
- Helena! – urlò questi, affiancandosi a Belle e cingendola con forza – Cos’è successo, come state? Ruby mi ha detto che...
Gold non colse il seguito del discorso: la sua mente era immobile, bloccata all’istante in cui l’uomo aveva afferrato Belle e l’aveva abbracciata con l’intensità di chi si conosce a fondo, di chi non ha più segreti per l’altro e ora, vedendolo in difficoltà, è disposto a proteggerlo a qualunque costo.
All’istante in cui lei aveva pronunciato il suo nome – Graham, aveva detto, e quelle sei lettere erano state sei pugnalate, inferte una dopo l’altra senza pietà, senza concedergli il tempo di un respiro, facendolo quasi boccheggiare per quel colpo sordo che aveva sentito dentro di sé, oltre il cuore, oltre l’anima, oltre tutto. 
All’istante in cui, la donna ancora tra le braccia, si era avventato sul letto e aveva chiamato a sé la bambina, la voce incrinata dalla preoccupazione.
Se non l’avesse creduta morta e fosse stato destinato a non ricoprire più alcun ruolo nella sua vita, Gold avrebbe augurato a Belle solo una cosa: di essere felice. Di viaggiare in lungo e in largo e intraprendere mille avventure, di leggere intere biblioteche, di innamorarsi di qualcuno che le desse una vita serena – la vita serena che lui non le aveva dato mai. Di sposarlo e farci tanti bambini, bambini che sarebbero stati belli più del sole, con quelle iridi di acqua che sapevano conquistare anche i più vili.
E ora che aveva dinanzi quella speranza concretizzata, avvertiva la morsa sleale – feroce, inopportuna – della gelosia.
Era quel giovane dalla barba castana l’uomo di Belle, ora. Era lui il suo sposo, l’uomo al cui fianco aveva deciso di trascorrere l’eternità; era lui, ora, a vegliare i suoi sonni e risvegliarsi accanto a lei, ad ascoltare la musica della sua risata e cogliere i suoi sospiri.
Graham, non Gold.
Il pensiero era tagliente come pietra focaia: lei, che era stata sua, ora di un altro.
Sei stato tu a volerla perdere. Lei sarebbe rimasta.
Per sempre, gli aveva dato la sua parola quando si erano incontrati; ma il loro per sempre non aveva mai assaggiato l’eternità. Si era fermato prima, molto prima; non aveva spiegato le ali, aveva volato appena nel loro cielo, perché lui gliele aveva spezzate con la crudeltà di cui si sapeva capace.
Non poteva muovere accuse verso Belle, né verso il suo compagno – il padre di sua figlia, si corresse.
Lui non ne aveva diritto.
Aveva solo il dovere di assumersi, almeno una volta nella vita, le sue responsabilità. Di muovere un passo e chiedere perdono per aver quasi distrutto il loro piccolo mondo. L’avrebbe colpito se avesse ammesso la sua colpa? L’avrebbe abbattuto con un pugno, manganellato a sangue? Se qualcuno avesse torto un capello a Neal, lui – qualunque padre degno di questo nome – l’avrebbe ucciso senza esitazione.
- Io, – si schiarì la voce attirando l’attenzione dell’uomo, che lasciò andare Belle. Fronteggiò il suo sguardo sconsolato costringendosi a tener alto il proprio – Vorrei scusarmi per quanto accaduto. State certo che non mancherò di punire il mio dipendente per la sua imperdonabile disattenzione. Immagino quale sia il vostro stato d’animo al momento, e le mie parole vi sembreranno forse ipocrite, ma vi assicuro che mi premurerò affinché vostra figlia resti indenne da ogni conseguenza.
Tre paia di occhi lo fissarono perplessi. Anche Belle, che cullava sempre la bimba, a quelle parole rialzò il capo e lo guardò come sorpresa.
- Voglio scusarmi per l’incidente… Per vostra figlia…
- Non è nostra figlia, – farfugliò Graham, voltandosi verso le due – Belle? Belle, cosa…? – lei annuì, continuando a scorrere le dita tra i capelli spettinati della figlia – Mi stai dicendo che è lui?
- Forse è il caso che parliate da soli, – intervenne Ruby, non senza rivolgere un’occhiata al sempre più confuso Gold, che non capiva cosa stesse accadendo.
, pensò Belle. Per quanto non sapesse da dove iniziare, per quanto la testa le pulsasse dolorosamente, l’unica cosa da fare era sfruttare l’occasione. Forse non ci sarebbe stata un’altra opportunità, forse era quello il secondo e ultimo incontro che il destino riservava loro, e lasciarselo sfuggire era fuori discussione; così come era fuori discussione lasciare Helena. Le sue paure non avevano nome: sapeva solo che, finché fosse rimasta accanto a lei, nulla avrebbe potuto farle del male, ferirla, rischiare di portargliela via ancora.
Quasi intuendo i suoi timori, Granny le pose le mani sulle spalle.
- Va’, – le sorrise comprensiva – Resteremo noi con Helena finché non arriverà il medico e non le accadrà nulla. Sei solo qui accanto, se ti cercherà ti chiameremo.
Belle si alzò piano, non prima di aver scoccato l’ennesimo bacio sulla fronte della bambina e averle rivolto altre rassicurazioni nella lingua che solo i genitori conoscono. Ne raccolse il sorriso – il primo dopo l’accaduto – come se fosse il tesoro più prezioso, e uscì dalla stanza facendo cenno di seguirla a Gold.
- Chiudi la porta e siediti, per favore, – gli indicò il tavolo di legno grezzo, avvicinandovisi lei stessa. Lui ubbidì solo alla prima metà della richiesta.
- Perché dovrei sedermi? – era l’ennesima frase priva di senso, una tra le tante che aveva sentito negli ultimi minuti. La sua mente tornava al silenzio che era piombato dopo le scuse e all’inaspettata replica di Graham. Non avrebbe mai previsto simile risposta: la realtà gli era sembrata così chiara e lampante… Che la ragazzina fosse stata concepita nel bordello da cui Belle era evidentemente riuscita a fuggire? In tal caso, sarebbe stato un argomento delicatissimo, che lei certo non avrebbe voluto riportare alla luce; ma allora perché quella reazione da parte di tutti i presenti?
La donna lo supplicò con lo sguardo.
- Siediti, – ripeté, finalmente ascoltata – Non è facile.
Respirò a fondo e socchiuse le palpebre. Il terrore ancora le scorreva nelle vene, ma s’impose di confinarlo nell’angolo più remoto di sé. Le parole che stava per dire avrebbero comunque cambiato il corso degli eventi per sempre; meritavano di essere pronunciate con determinazione, forti della verità di cui erano espressione. Non poteva presentarsi pallida e tremante, biascicarle come se non ne fosse certa, no: doveva esclamarle a voce alta e chiara, dominata dalla sicurezza e dalla fede in sé.
Doveva parlare.
Quando Belle riaprì gli occhi, a Gold parve che un fuoco limpido stesse divampando nelle iridi turchesi che mai aveva dimenticato. Un fuoco che li avrebbe avvolti, divorati, cambiando in eterno i connotati delle loro esistenze.
Un pensiero si fece strada tra i tanti, silente e per questo ancora più pressante.
No, provò a negare, non è così.
Non può essere.
La chiamò, cercando nel suo volto una smentita che non trovò.
Ciò che ottenne fu molto più semplice e terribile.
 
- Helena è nostra figlia.
 
 
 
When people run in circles,
it’s a very, very mad world.

“Mad World”- Gary Jules
 
 
 
 
 
 
N. d. A.: Hello, people!
Avete trascorso un buon Natale? Siete stat* coi vostri cari, mangiato cose buone e scartato tanti bei regali? XD
Il mio dono per voi è questo capitolo, che teoricamente arriva in ritardo rispetto al 25, ma puntuale per il nostro calendario. Spero vi piaccia – o comunque non vi faccia completamente schifo: un commento, anche critico, è sempre graditissimo. ;) Spero come sempre di non aver reso OOC i personaggi, specie Belle, sebbene personalmente trovi verosimile un certo sconvolgimento dopo un simile shock. Tra dubbi, interruzioni e fraintendimenti vari, alla fine ho fatto scoppiare la rivelazione-bomba…Ma gli effetti dell’esplosione si avranno solo tra due settimane.
A Natale Euridice non  più buona. ♥
E, restando in tema di cattive mai redente, LEI È TORNATA.
Quanto mi è mancato muovere Cora, quanto. Certo non è cambiata, e quindi magari aspettatevi qualche complicazione, magari un po’ diverse da quelle viste finora – la maledizione “#RumBellemaiunagioia” colpisce anche nelle fanfiction, eh. E mi è mancato anche scrivere di Regina, che qui ritroviamo quindicenne e con tutte le paturnie dell’età, amplificate da una mamma disponibile e attenta come quella che si ritrova; sarà una Regina più matura, più severa rispetto a quella di un tempo, magari con tocchi da Evil Queen, ma con le insicurezze già lette – e già viste nella serie, aggiungerei. Speriamo bene!
Grazie infinite a chi ha letto, recensito e/o aggiunto a una categoria la storia: il due gennaio quest’umile serie compirà il suo primo compleanno, e se sono arrivata qui il merito è anche vostro e del sostegno che non mi avete mai fatto mancare. Sarò ripetitiva, ma quando dico che non ho parole per esprimervi la mia gratitudine sono sincera: ciascun* di voi è stat* ed è semplicemente fondamentale. ♥
Nei prossimi giorni mi metterò in pari con le recensioni e le risposte in arretrato - mi scuso per il ritardo: questo periodo è sempre pieno di impegni!
Vi saluto, augurandovi un 2015 “magggico” che realizzi tutti i vostri desideri e una dolcissima Befana; come sempre, io vi aspetto sulla pagina Facebook “Euridice’s World”!
Salvo imprevisti, “arrileggerci” al 10 di gennaio! :)
Euridice100

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Capitolo 4
*** III - Innuendo ***


 
 
 
III - Innuendo
 
 
 
“While the sun hangs in the sky and the desert has sand,
while the waves crash in the sea and meet the land,
while there's a wind and the stars and the rainbow,
till the mountains crumble into the plain,
oh yes, we'll keep on tryin',
tread that fine line.”

 
 
 
Helena è nostra figlia.
Si ritrasse di scatto: un movimento subitaneo, improvviso, e proprio per questo ancora più netto, più evidente – ancora più in grado di far rabbrividire Belle.
Solo poche ore prima non avrebbe mai immaginato che gli eventi avrebbero preso simile piega – che si sarebbe trovata a fronteggiare il passato, a confessare il proprio segreto più intimo a colui che avrebbe dovuto condividerlo sin dall’inizio. Averglielo rivelato le causava una strana sensazione: i ceppi che l’avevano tenuta prigioniera per tanto tempo le erano improvvisamente, finalmente stati tolti, restituendole la libertà negata e facendola tornare a respirare.
Si sorprese a constatare una strana realtà: quasi non provava curiosità per la reazione di Robert. Le avrebbe creduto, o il loro incontro si sarebbe risolto in una cascata di recriminazioni destinata ad allontanarli definitivamente? Non s’illudeva: comunque fosse andata, ci sarebbero state conseguenze. Sperava solo che Helena stesse bene e che scordasse in fretta l’accaduto; di se stessa, di ciò che vederlo avrebbe comportato, non era altrettanto preoccupata. Lei, in un modo o nell’altro, gli aveva detto la verità; la mossa successiva spettava a lui.
Non sembrava molto cambiato: forse un po’ appesantito, con nuovi segni sul volto e più gocce d’argento sui capelli, ma gli occhi erano gli stessi, di quel nocciola dai bagliori di sole delle iridi in cui aveva perso e ritrovato il cuore. Quelle iridi che ogni istante trovava attorno a sé, che rivedeva in una bambina tanto amata, e che ora erano fisse su di lei, impietrite, com’era inespressivo il volto del loro possessore.
Ma non negarlo, Belle, non negarlo.
Ora per una sua risposta daresti il mondo.
 
 
 
Helena è nostra figlia.
Parole meravigliose e oscene che gli arrivarono troppo rapide alle orecchie, colpendolo con una frustrata improvvisa. Non poté fare a meno di sobbalzare, udendole; non poté fare a meno di pensare, mentre la frase gli danzava nella mente in un turbinio che non lasciava superstiti.
Helena è nostra figlia.
Boccheggiò a fatica, sentendo la testa vorticare e il suolo mancargli sotto ai piedi; si ritrovò paradossalmente a ringraziare il Cielo per aver dato ascolto a Belle ed essersi seduto. Si aggrappò al bordo del tavolo, percependone i bozzi e le asperità, imponendosi di riprendere fiato e vietandosi di collassare.
Un respiro dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, da bravo
Nulla di questo sta accadendo, tra poco ti risveglierai e sarà tutto finito.
Respira.
Chiuse gli occhi, quasi per sfuggire allo sguardo azzurro che sentiva puntato su di sé, incrollabile, accusatorio.
Non è vero.
Ma la situazione non cambiò.
In fondo lo sapeva: non si sarebbe svegliato. Proprio come era successo prima, per quanto potesse ripeterselo quello non era un sogno: non sapeva come, non sapeva perché, ma si trovava davvero in una bettola di Whitechapel, aggrappato a un tavolo mezzo traballante, faccia a faccia col suo grande amore perduto che gli aveva appena rivelato qualcosa più grande di lui, di lei, di ciò che erano stati, e che non poteva, non poteva assolutamente sostenere.
- Cosa stai dicendo? – chiese, riuscendo a emettere un mormorio più che una frase realmente intellegibile – Cosa stai dicendo, Belle?
Pensava che, se mai ci fosse riuscito, pronunciare quel nome dopo tanti anni avrebbe scatenato un terremoto. Che avrebbe scosso le fondamenta del mondo fino a sovvertire ogni elemento e far rinascere il passato, che forse l’avrebbe riportato al punto di partenza, a rivivere ogni cosa condannato a ripetere i medesimi errori; ma non successe nulla di tutto ciò.
O forse successe tutto.
Il presente, in fondo, era più assurdo, più sconvolgente, più surreale di qualsiasi altra prospettiva.
- Quello che ho detto, – ribadì Belle, leccandosi nervosa le labbra, ma senza esitare – La bambina… Helena ha quattro anni. È nata il 10 novembre 1889. Ed è nostra. Mia e tua.
La udì ripetere l’affermazione, corredarla di date e tempi e tingerla di una dolcezza lieve, così simile e diversa da quella che in passato aveva riservato a lui; la vide tener alto il capo e guardarlo determinata, quasi sfidandolo in attesa – in attesa di una parola, di un cenno, di un gesto qualsiasi che comunicasse qualcosa.
Ma cosa? Gold non sapeva cosa dire. Era perso nel caos che, era certo, lo avrebbe dominato a lungo.
Provò ad appuntarsi i brevi dati, le semplici informazioni che andavano a comporre il quadro della realtà e ad analizzarle una a una, provando vanamente a non farsi vincere dal panico che già l’aveva ghermito.
Una figlia.
Belle sosteneva che avessero avuto una figlia quattro anni prima, quell’uccellino di bambina cui aveva dedicato al più mezza occhiata.
Se fosse stato vero, allora avrebbe quasi investito la sua stessa figlia.
Ma non è vero.
Escludere a priori l’eventualità che fosse una menzogna solo perché era Belle a parlare era una gran sciocchezza, lo redarguì la sua metà più razionale: affermazioni di quella portata non potevano essere provate in alcun modo. I tempi coincidevano, certo, ma erano davvero sufficienti? Cosa gli aveva detto Cora? Belle era stata rapita, stuprata, costretta a vendersi. La bambina poteva essere tanto sua quanto di uno sconosciuto…
- Tu sei finita in un bordello, – affermò a fatica – Ti ci hanno portata i Frey per farti ripagare i debiti di tuo padre.
Tra la preoccupazione e la serietà, un velo di sconcerto si fece strada sul volto della donna.
- Cosa?! No, no, – scosse il capo con forza – Forse l’avrebbero fatto, ma non è successo. Hanno cercato di prendermi, questo sì, ma grazie a Ruby sono riuscita a sfuggire. Lei mi ha nascosta mi ha salvata. Non mi hanno mai trovata.
- Loro ti hanno… Ti hanno violentata, – continuò imperterrito, come se non l’avesse udita. Gli si seccò la gola pronunciando le parole che l’avevano ucciso dentro – Ti hanno violentata, perché tu non volevi prostituirti. E ti sei uccisa.
- Chi… Chi ti ha detto queste cose? – nell’istante stesso in cui lo chiese, seppe di conoscere la risposta. La sua mente non aveva mai scordato lo stemma impresso sulla carrozza nel vicolo.
- Cora Mills, – mormorarono all’unisono senza evitare i reciproci sguardi.
 
 
 
“While we live according to race, colour or creed,
while we rule by blind madness and pure greed,
our lives dictated by tradition, superstition, false religion
through the eons, and on and on.”
 
 
 
La cena dagli Spencer si era rivelata l’ennesimo fiasco. O meglio: agli occhi degli altri tutto era andato per il verso giusto. Una serata con la créme de la créme dell’aristocrazia, conversazioni sugli argomenti più in voga seguiti da pettegolezzi sugli assenti per le dame e intrallazzi politici per gli uomini, comportamenti ineccepibili e sorrisi artefatti. Anche lei aveva interpretato bene la sua parte: aveva accennato una risata quando era stato opportuno, sostenuto opinioni insipide e quanto mai distanti dalle sue reali posizioni e lasciato a metà il dessert a testimonianza del delicato appetito che si confaceva a un’educanda. Anche sua madre si era detta soddisfatta del suo comportamento – sebbene, ovviamente, avrebbe potuto fare di meglio, come ad esempio conversare maggiormente col giovane James; ma, tutto sommato, aveva superato le aspettative.
Regina avrebbe voluto dire che la tracotanza del rampollo degli Spencer era degna di fior di riconoscimenti, quasi quanto la sua maleducazione e totale mancanza di rispetto: per l’intera serata il ragazzo non aveva fatto altro che sbirciarle la scollatura e quando, prima di cena, aveva accompagnato lei e le altre ospiti a visitare la biblioteca, in un istante di distrazione la sua mano si era posata sulla schiena di Regina scendendo un po’ troppo in basso per i suoi gusti… Un gesto ricompensato da una casualissima gomitata che l’aveva reso mugugnante per l’intera serata.
Chissà come avrebbe commentato Cora, se gliel’avesse riferito. Probabilmente l’avrebbe derisa per non essere stata in grado di tenere a bada i bollenti spiriti di un adolescente; ma, tra sé e sé, avrebbe già iniziato a organizzare il secondo incontro.
Per questo, udendo il giudizio materno, Regina si era limitata ad annuire e ringraziare prima di tornare nel suo mondo: a quel punto,  una testimonianza in più o in meno dell’abilità nel recitare scoperta molti, molti anni prima non faceva più testo. Il mondo, come la Contessa ripeteva sovente, era un immenso palcoscenico in cui ognuno rivestiva un ruolo; un ruolo che non poteva essere disconosciuto se non per migliorare, per salire ancora più in alto, raggiungere la vetta e sbeffeggiare i miserabili che non erano stati altrettanto capaci. Il mondo era teatro e lei doveva recitare: anche – e soprattutto – quando non avrebbe voluto.
Forse sua madre aveva ragione: era una sciocca a lamentarsi delle possibilità che la vita le aveva offerto. Avrebbe solo dovuto essere grata a colei che, con mille sforzi e sacrifici, le garantiva vesti da principessa, scuole prestigiose e, presto, un Debutto che sarebbe rimasto negli annali; avrebbe dovuto impegnarsi per non sciupare tanta fortuna e piuttosto accrescerla, dimostrare di esserne degna. Le sue erano tutte ubbie da ragazzina viziata che mai aveva ì dovuto combattere per ottenere qualcosa; se solo una di quelle chances fosse stata offerta a un Cora quindicenne, lei certamente avrebbe saputo farne tesoro…
Regina non conosceva nel dettaglio la gioventù della madre, ma dalle chiacchiere in collegio era stato impossibile non cogliere qualcosa. La Mills non era di nobili natali, né veniva da una famiglia abbiente: si vociferava piuttosto che avesse mosso i primi passi in quartieri miserrimi come Soho, e che addirittura – e qui le voci diventavano sussurri sfuggenti – avesse esercitato il mestiere. Quando Regina aveva scoperto in cosa consistesse questo fantomatico mestiere, si era scagliata contro le autrici dei pettegolezzi con una furia memorabile che le era costata più di un mese di punizione; ma non era questo il punto. Per quanto il pensiero potesse far male, per quanto il livore per l’onta gettata sulla rispettabilità della sua famiglia non accennasse a sfumare, ciò che aveva fatto sua madre nell’adolescenza apparteneva comunque al passato, trascorso ormai da decenni e senza prospettive di ritorno: era il presente il problema di Regina, il presente e il futuro che già poteva indovinare.
Non avrebbe voluto seguire le orme di mille prima di lei in un carosello di feste e balli conditi da tè sempre troppo annacquati, condurre una vita in cui ogni passo doveva essere misurato per non sollevare polveroni di maldicenze; una vita che non era vita, che l’avrebbe soffocata prima di giungere ai vent’anni.
Una vita che pure si trovava a vivere, che pure avrebbe continuato a vivere perché incapace di ribellarsi.
C’erano stati tempi in cui si era concessa di ridere di gusto per una battuta, di studiare qualcosa di diverso dalle buone maniere e di lanciare Ronzinante al galoppo per cui erano entrambi nati, piuttosto che perseverare in quel ridicolo trotto cui lo costringeva per i sentieri del Lady s’ Mile 1 : ogni volta il suo cavallo la guardava implorante, e lei non poteva far altro che carezzargli il muso pensando che anche per lui quell’esistenza a metà doveva essere una tortura.
Fin dalla prima volta che gli era salita in groppa, Regina aveva capito che l’equitazione non sarebbe stato un diletto passeggero, ma una passione imperitura. Cavalcare era la sua unica possibilità di volare: sul suo morello arabo si sentiva svincolata dai tanti “Devi” che costellavano la sua esistenza e, finalmente, anche se solo per pochi istanti, libera. L’attività richiedeva concentrazione, un’attenzione benvenuta che la rendeva felice: assorbiva ogni atomo di lei garantendole quella distanza dal mondo altrimenti così difficile da ottenere. Esistevano solo lei e Ronzinante, diretti verso l’avventura che, almeno con la mente, avrebbe permesso loro di vivere le loro vite e scrivere i loro destini; di essere, in una parola, felici.
Quando non era a casa, era verso il suo compagno di cavalcate che provava nostalgia… Verso il suo compagno di galoppate e verso una persona.
Anche quella volta, i servi non corsero incontro alla Contessina vedendola tornare con la sua accompagnatrice dalla passeggiata quotidiana: tutti, chaperon compresa, sapevano che Regina amava accompagnare il cavallo fino alle scuderie, e non senza qualche discussione erano soliti concederglielo. Immaginavano fosse un modo per poter strappare un altro momento con un amico sempre distante, forse un vizio bislacco che l’età avrebbe cancellato; ma quella non era tutta la verità.
Da quando era tornata a casa, Regina accompagnava l’animale fino all’ultimo nella speranza di incontrare lui.
Non vedeva quegli occhi grigi dall’estate precedente: in occasione del Natale era tornata troppi pochi giorni perché il cavallo fosse trasferito dal Leicestershire, e con lui lo stalliere cui troppo, troppo spesso rivolgeva i suoi pensieri. Sebbene fosse a casa da quasi una settimana – e ogni giorno si fosse aggirata sempre per caso, attorno alle scuderie – non l’aveva mai incontrato, e la cosa la rendeva… Inquieta? Sì, inquieta era la definizione corretta. Porre domande era fuori discussione: sua madre si sarebbe insospettita, quella giovanissima Ava Zimmer che sembrava tanto carina era stata allontanata per motivi non meglio chiariti e gli altri domestici sarebbero corsi a riferire ogni cosa alla loro padrona; e questo, Regina intendeva evitarlo a qualsiasi costo.
Era sciocco illudersi tanto per qualcosa che poteva essere solo segno di sincera amicizia; lei per prima, in fondo, ancora non sapeva se ci fosse altro oltre alla semplice malinconia per un vecchio compagno di giochi … Ma allora, al di là dell’ovvia motivazione degli eventi dell’agosto precedente, era forse normale sospirare tanto per il simulacro di un’epoca perduta? Se l’era chiesto spesso durante la lontananza; e, suo malgrado, la risposta negativa si era rivelata sempre la più sincera.
Accertatasi di essere sola, Regina si tolse i guanti. Quella situazione le faceva rabbia: chi aveva dato a Daniel il permesso di parlare, quel pomeriggio, di rovinare ogni cosa? Aveva mai pensato al guaio che stava combinando? E ora, anche se si fossero visti, cos’avrebbero potuto dirsi? Dubitava di riuscire a sostenerne lo sguardo senza tornare indietro con la mente…
Per sfuggire a quell’ambiente avrebbe dovuto fare una cosa che a ogni altro studente sarebbe parsa eresia: pregare per rientrare presto in collegio.
 
 
 
Through the sorrow,
all through our splendour,
don't take offence at my innuendo.
 
 
 
In fondo, si disse Gold, lo stupore che l’aveva inizialmente vinto era privo di senso: macchinazioni del genere erano nello stile della Contessa. La vera domanda era un’altra: lui, lui come aveva potuto crederle due volta in sì breve tempo? Gli aveva già mentito sull’anello, portandolo a compiere uno dei passi più meschini della sua vita; e, quando Regina aveva fatto emergere la verità, doveva aver deciso di prendersi la rivincita definitiva rubandogli ogni speranza di lieto fine.
A questo punto tutto si ribaltava. La paternità della bambina non era certezza, non lo sarebbe mai stata; ma l’ipotesi che fosse sua diveniva improvvisamente molto più plausibile dell’altra – perché, tra Cora e Belle, in quell’istante non aveva dubbi su colei alla quale credere; e perché conosceva Belle. Non avrebbe mentito su un aspetto tanto delicato, né era persona da consolarsi tra le braccia del primo di passaggio solo per dimenticare: poteva anche avergli offerto la sua virtù, ma questo non ne intaccava la dignità, non sminuiva il rispetto di sé che l’avevano sempre contraddistinta.
E se la situazione era quella, allora
Allora Belle non gli aveva detto la cosa più importante che potesse esserci, e che lui avrebbe continuato a ignorare se non fosse stato per uno di quei sentieri intricati e oscuri che il Fato si diverte a far percorrere alle sue vittime.
Allora aveva omesso di essere incinta quando l’aveva cacciata, aveva preferito andarsene e
Allora in tanti anni non si era presa una, una volta sola, il disturbo di avvisarlo.
- No, – si ritrovò a ruggire prima di poterselo impedire.
Il sorriso della donna fu il più mesto che avesse mai visto.
- È tutto ciò che sai dire? No?
- No! – Dio, quanto era stupido? Possibile che riuscisse sempre a dire o fare la cosa sbagliata al momento sbagliato? – Non intendevo questo, solo che… – Esisteva un modo per dar voce ai pensieri senza finire sovrastato dalle emozioni? Si ritrovò a digrignare i denti, le unghie conficcate nel legno grezzo del tavolo, e ad alzare il capo di netto – Perché non me l’hai detto?
Belle pensò fosse strano che le ultime parole rivoltele da Robert fossero dei ringhi, proprio come quelle che le stava rivolgendo ora. C’era una bizzarra continuità tra passato e presente, come se il tempo avesse ripreso a scorrere esattamente dal momento in cui era stato interrotto.
Aprì bocca per replicare, ma fu preceduta dall’ex amante.
- Ho sbagliato, sono il primo a riconoscerlo, ma come hai potuto nascondermela? – scattò in piedi rovesciando bruscamente la sedia – Se è mia, perché non me l’hai detto? Non dovevi neanche provare a fare una cosa del genere!
Le si avvicinò con furia, costringendola ad arretrare fino alla vicina parete.
- Pensi che non abbia voluto dirtelo? Pensi che non sia venuta a cercarti, che abbia davvero voluto nasconderti nostra figlia? – gli soffiò contro come un gatto, senza esitare un attimo. Non aveva immaginato una ricongiunzione simile, né aveva un canovaccio cui appellarsi per un ipotetico “e se…?”; si limitava a rivolgergli frasi che provenivano da dentro, che nascevano dal profondo del suo essere e che venivano alla luce senza essere ammorbidite da patine di pacatezza che, in quel frangente, sarebbero state ipocrisia – Ero incinta la prima volta che sono scappata contro tutto e tutti per tornare. Mi hanno offesa, ci hanno umiliate, mi hanno dato della bugiarda e detto di non farmi più vedere. Sono tornata, sono tornata sempre, l’ultima volta qualche mese fa, e sai una cosa? Tu non c’eri! Tu non ci sei mai stato, mai! – le parole lo punsero come uno spillo, ma non gli fu concessa tregua – Come osi anche solo pensare di venire qui dopo cinque anni e pretendere di fare la vittima? Pensi sia stato facile, lo pensi davvero?
- Non sarà stato facile, ma questo non cambia la situazione! Se non fosse stato per oggi quando l’avrei scoperto? Quando? Dimmelo! – un’ondata d’ira bollente gli montò nel petto – Mai! Non me l’avresti mai detto, eppure sai cosa significa un figlio per me, lo sai! Sai che sarebbe bastato farmi giungere voce, sarebbe bastato un pettegolezzo e io ti avrei aiutata, me ne sarei occupato io, l’avrei portata a Kensington e…
Belle lo spinse via con una violenza che Gold non ricordava. L’aveva vista furiosa molte volte, ma mai come allora la voce era suonata tanto sorda di rabbia, quasi che l’ultima frase avesse risvegliato qualcosa in lei.
- L’avresti portata a Kensington e…? E? – questa volta fu lui a essere costretto ad arretrare, sotto le sue parole sferzanti – Cos’avresti fatto? L’avresti allontanata da me? L’avresti cresciuta là dove l’amore è una debolezza ed esprimere sentimenti di cattivo gusto? Là dove si ha tanta paura di voler bene a qualcuno da preferire buttarla in mezzo alla strada trattandola come una poco di buono, piuttosto che provare a fidarsi?
L’uomo trattenne il respiro al ricordo di quella mattina di febbraio, del sospetto e della vigliaccheria che l’avevano guidato. Belle stava trattenendo le lacrime, era evidente. Ora come allora – lo intuiva bene – non voleva mostrarsi debole di fronte a lui, lei che era stata così forte, così netta nel prendere posizione e portare avanti le sue scelte fino all’estremo.
Ma un tempo non gli avrebbe rinfacciato in quel modo il male inflittole. Un tempo avrebbe cercato, avrebbe trovato altri modi, altre parole per farglielo capire – come se non l’avesse già capito, ormai, dall’istante in cui Regina si era precipitata nel suo studio confessando il suo peccato. Quelle frasi sembravano rimarcare ancora di più le violenze, i tagli che la distanza aveva finto di guarire e che invece aveva solo infettato. La Belle dinanzi a lui non era la persona gioiosa di un tempo, la ragazza che conosceva ancora in parte la vita e la salutava con ottimismo e luminosa ingenuità; era una donna che aveva affrontato le sue battaglie e le aveva condotte da sola, ricevendo in ricompensa sconfitte e disprezzo quando più avrebbe avuto bisogno di conforto e affetto.
Era una donna ferita.
- Mi dispiace, – fu tutto quel che seppe dire – Non intendevo.
- Non intendevi. Non intendevi, ma l’hai fatto. Hai preferito credere a qualcuno da cui tu stesso mi avevi messa in guardia.
- Non avevo motivo di non crederle, aveva l’anello!
- Avevi un motivo, avevi me come motivo, avresti avuto noi come motivo! – ogni parola era un ruggito, un attacco che non risparmiava più – Avresti almeno potuto ascoltarmi, permettermi di difendermi, non chiudermi in camera, e soprattutto non trattarmi come hai fatto tu! Sarebbe stato più facile perdonarti, – chinò appena il capo, per poi rialzarlo subito e puntargli ancora addosso le iridi lucide – Senza quello sarebbe stato tutto più facile.
Me ne sono pentito.
Me ne sono pentito quello stesso giorno, avrebbe voluto risponderle. Ma avrebbe avuto realmente senso dirglielo? Quale utilità avrebbero avuto scuse tardive, per quanto sentite?
Avrebbe voluto essere cieco e sordo, per non vedere e non sentire il sottinteso che, urlato una volta, pure era base e origine di ogni parola.
Sai una cosa?
Tu non c’eri! Tu non ci sei mai stato, mai!
Belle si stava riferendo a un piano materiale, sì, ma era impossibile non cogliere la completa portata della frase, ignorare la – quanto tacita? – accusa nei suoi confronti. No, non c’era stato fisicamente, e ancora peggio non c’era stato moralmente. Non sapeva nulla di quegli anni, non sapeva più niente di lei: le esperienze vissute, le emozioni provate i dolori e le gioie che le avevano colorato l’anima.
Era una sconosciuta – un’estranea.
Colei che gli era stata più vicina di ogni altra era diventata una figura indistinta, non dissimile da coloro che gli scivolavano accanto quotidianamente e svanivano con la stessa fretta con cui avevano incrociato la sua esistenza.
E – quel che era peggio – era stato lui a renderla tale.
- Non è stata solo colpa mia – perseverò – Cora…
Lo sguardo di Belle pose fine a quell’estrema, misera scusante.
Cora aveva dato il la alla catena di eventi, l’aveva indotto a credere e cadere; ma lui aveva creduto, lui era caduto.
Cora non era innocente, ma lui era colpevole.
La conversazione fu interrotta da una porta che sbatteva al piano inferiore e una voce femminile che domandava: – Si può? Ruby, Belle, dove siete? Ouch! – seguito da un improvviso tonfo.
Belle e Gold si scambiarono un’ultima occhiata in cagnesco e la prima si mosse verso la scalinata.
- Astrid? Siamo qui, ti sei fatta male? – urlò scendendo i primi gradini.
- No, no, tranquilla! Salgo subito!
Pochi secondi dopo, comparve una donna dai tratti gentili.
- S-scusatemi, – balbettò cercando contemporaneamente di sistemarsi le ciocche brune sfuggite dal cappello e di mantenere in equilibrio il borsone, rischiando di farlo rovinare per terra – Cielo, sono maldestra anche in queste situazioni! Tink mi ha detto cos’è successo e sono corsa qui, dov’è la bambina?
- Di qua, – s’intromise Ruby facendo capolino dalla porta
Vedendola, Belle non represse un brivido.
- Come sta? – le domandò perentoria, senza nascondere il panico che le mordeva la gola e che nulla aveva messo in secondo piano – Ti ha detto se ha battuto la testa?
- Dice di no, ma…
- Ma cosa? Cosa le fa male? Cos’ha?
Dinanzi all’improvviso pallore spettrale della donna, al suo panico, Gold ricordò che anche lui, un tempo, aveva simili reazioni all’idea di un eventuale malanno di Neal; e invece, stavolta non provava nulla. Era normale riscoprirsi padre, e rimanere impassibili? Essere furibondo per non aver saputo, piuttosto che preoccupato per la figlia? Forse sì; forse era una reazione difensiva, della mente, la protezione da un’idea che non aveva la forza di realizzare appieno. Come provar angoscia per qualcuno che, nella propria testa, non esiste? Si preoccupava per Belle, per quel che era successo e che sarebbe successo, per eventuali nuove responsabilità, ma non per la ragazzina.
- Belle, calmati, – la ragazza dovette alzare la voce per imporsi – Helena sta bene. È spaventata, ma sta bene, e Astrid te lo confermerà, – l’interpellata annuì vigorosamente, nel vano tentativo di consolare l’altra – Altrimenti te l’avremmo detto, no? Certo non vi avremmo lasciati scannare in questo modo, – occhieggiò rapida verso l’industriale, prima di rivolgersi nuovamente all’amica – Vuole la sua mamma, e sai com’è fatta, meglio darle retta prima che faccia venir giù tutto a suon di urla.
- Sì… – Belle annuì appena, stringendosi nelle spalle come sperduta, e Gold represse a fatica l’improvviso desiderio di stringerla a sé per proteggerla. Oltrepassò rapida la porta, che socchiuse alle proprie spalle senza degnare di uno sguardo l’ospite o domandare scusa per l’improvviso allontanamento.
Ma in certi contesti la facciata fragile delle buon maniere va in frantumi, come uno specchio preso a pugni, lasciando emergere una realtà di emozioni e impulsi più significativi di mille gesti cortesi.
 
 
 
“You can be anything you want to be,
just turn yourself into anything

you think that you could ever be.
Be free with your tempo, be free, be free,
surrender your ego – be free, be free to yourself.”
 
 
 
Leicestershire, agosto 1893
 
Ne era certa: si sarebbe presto pentita di non essere rimasta in camera a controllare che le cameriere non le riempissero il baule di cose che Maman reputava fondamentali e che già si erano rivelate inutili per un rigoroso collegio femminile.
Ma Regina non avrebbe rivisto Ronzinante e Daniel per mesi; e comunque, tra l’ennesimo pomeriggio di litigi e un’ultima cavalcata l’opzione preferibile era certamente la seconda. Per fortuna, la tenuta era l’ideale per simili fini: offriva la possibilità di galoppare lontani dalla villa, di sentire il vento in faccia senza che nessuno rimproverasse gli intrepidi per i capelli scompigliati o per l’atteggiamento ben poco distaccato che non raramente avevano dimostrato.
- Battuto! – aveva esultato la giovane, superando il melo che da sempre era il traguardo delle loro corse.
- E di quanto, due secondi?
- Di Pirro o meno, la mia è pur sempre una vittoria!
- Uh! Ti aspetta un’altra lezione, Miss! – Daniel aveva ghignato dinanzi allo sbuffare nervoso, ma divertito, di Regina.
Gli anni passavano, ma il loro primo, vecchio gioco restava: quando la Contessina pronunciava qualche espressione che Daniel non conosceva, doveva sempre – pena pegno – fermarsi a spiegargliela. Per chi non ha pazienza, simili attività si rivela un incubo, ma Regina non si negava a quelle richieste: dagli indimenticabili efelanti al galateo, passando per le colonie, le piaceva condividere la conoscenza col suo stalliere. Nascondeva il divertimento dietro a una maschera di saccenza che lui tagliava via con una singola battuta, facendole provare ciò che in fondo ella aveva sempre bramato: la struggente, profonda sensazione di essere amata.
Per quanto si vedessero raramente, i due erano custodi dei reciproci segreti: Daniel era l’unico cui la ragazza avesse raccontato tutta la verità sullo zio, la sua domestica e sull’anello, l’unico da cui avesse ricevuto consolazione e non scherno o disprezzo. Nel corso degli anni erano cambiati: mutamenti fisici più evidenti, lineamenti dolci che lasciavano il posto ai tratti più marcati dell’età adulta; e mutamenti interiori, meno palesi ma non per questo meno importanti. Nell’animo, però, erano sempre rimasti i due bambini che, un giorno di pioggia, avevano iniziato a prendersi in giro ripromettendosi d’incontrarsi ancora.
- “Vittoria di Pirro” è un’espressione che si usa quando si vince di pochissimo, quando la vittoria vale talmente poco da non giustificare gli sforzi. Ma per come la vedo io, si tratta pur sempre di vittoria.
- Ho capito, – aveva annuito Daniel – Per esempio, un’altra vittoria di Pirro è stata quando volevi fermarti qui qualche altro giorno e tua madre ti ha fatta partire alle cinque anziché alle quattro di pomeriggio.
- Non ricordarmi certe umiliazioni, per favore, – Regina aveva mugugnato laconica.
L’adolescente aveva sospirato prima di rialzare il mento.
- Non capirò mai perché continui a non ribellarti, dopo tutto quello che è successo.
- Mi ribello ogni giorno, e lo sai, – l’altra aveva puntualizzato piccata – Ogni volta che trovo insensata una pretesa glielo dico… Come questa ridicola passeggiata dai minuti contati che mi concede tra il pranzo e il tè, quando per tutto l’anno sarei teoricamente libera di spassarmela come voglio lontana da casa. Ma qui no, regole sue, assurde come lei. E non ascolta ragioni.
- Forse, se glielo chiedi gentilmente e smetti di rispondere male…
Regina aveva sbuffato.
- E anche oggi il consiglio idiota è arrivato. Grazie tante, ne sentivo la mancanza, – aveva dichiarato calcando il sarcasmo incastonato tra le parole.
L’amico aveva alzato le mani facendole il verso.
- Ne sentivo la mancanza, gné gné gné. Scusa tanto, Miss Acidità.
Persa nelle sue cupe riflessioni, Regina l’aveva ignorato.
- Sai cos’è peggio? – non aveva esitato prima d’iniziare a sfogarsi. Sapeva che Daniel l’avrebbe ascoltata – La certezza che comunque vada, non cambierà mai niente. Anche se fossi sempre stata la figlia obbediente che lei tanto desidera, troverebbe in me qualche altro difetto. A quel punto non sarei abbastanza bella, o abbastanza intelligente, o abbastanza studiosa… Oh, giusto, perdonami, – si era corretta amara – Io non sono abbastanza bella, abbastanza intelligente e abbastanza studiosa. Io non sono abbastanza.
- A furia di ripeterlo, un giorno lo diventerai davvero.
- Se funzionasse sarei già la migliore al mondo, tante volte mi sono detta frasi simili.
- No, non mi sono spiegato, – il servo aveva scosso il capo, un’espressione seria sul volto – Sto dicendo che, a furia di ripetere di non essere bella, intelligente o cos’altro, alla fine diventerai davvero brutta e stupida. E a me le ragazze brutte e stupide non piacciono. A me piaci tu.
Regina quasi aveva incespicato in un sasso per la sorpresa.
- Che… Che hai detto?
- Hai sentito benissimo. Sei sveglia, molto più sveglia delle altre. Sei ambiziosa, e da quel che si dice prendi gran bei voti. Sei coraggiosa, l’hai dimostrato sin da piccola, e divertente, quando vuoi esserlo. E sei bella, – la voce si era persa per un istante prima di riaffermare sicura – Bellissima.
Durante la corsa doveva essere caduto e aver battuto la testa senza che lei se ne accorgesse. O forse peggio, era completamente ubriaco. Quella conversazione non stava avendo luogo, non poteva avere luogo, l’aveva redarguita una vocina spaventosamente somigliante a quella di Cora: già era un’indecenza il fatto che fosse solita accompagnarsi a un giovane uomo; tanto più se il giovane uomo era un dipendente che le stava rivolgendo frasi di quel peso! Se qualcuno l’avesse scorta, sarebbe stata rovinata.
Eppure, in quel momento a Regina poco importava tutto ciò. La sua mente era immobile, bloccata su quel Mi piaci che, più di ogni altro complimento, doveva essere stato un’allucinazione uditiva. Daniel era suo amico da tanto, ma ora non stava più parlando di… Di questo. Di amicizia. Solo una sciocca avrebbe frainteso la portata della frase, il suo riferirsi a una realtà molto più complessa dell’affetto che li legava da sempre.
Una realtà che subito riportò ricordi lontani.
Daniel la guardava come se attendesse una risposta. I suoi occhi non erano mai stati accesi dalla speranza e, a un tempo, dalla convinzione: il giovane non pareva pentito della confessione, né intenzionato a ritrattarla in alcun modo. Qualunque cosa gli avesse detto Regina, però, non sarebbe stata sincera. Sì, come amico Daniel le piaceva, ma come altro? Non ci aveva mai pensato; né ci avrebbe mai pensato se a quell’idiota  non fosse all’improvviso venuta la geniale idea di improvvisare così, su due piedi, dichiarazioni strappalacrime che in altre occasioni una parte di lei avrebbe deriso!
Che qualche suo atteggiamento avesse illuso il giovane? Ma quale? Nelle ultime settimane si era comportata come sempre!
- Ti ringrazio, – aveva esordito, incerta sul prosieguo.
- È solo la verità. Forse non è lo stesso per te, forse ti ho messo in imbarazzo e nel caso me ne scuso, ma le cose stanno così. Mi piaci.
Smettila di ripeterlo, mi fa sentire più in colpa.
- Non è per questo! – si era affrettata – Non me l’aspettavo e non so cosa sia per me, ecco. Inoltre domani parto, perciò…
- Lo so, – Daniel aveva sorriso appena – Neanch’io pensavo di dirtelo. Non avevo intenzione di turbarti, ma poi, – aveva aggrottato la fronte per un momento, alla ricerca delle parole giuste – Non voglio vederti così triste per colpa degli altri, ecco. Dentro hai una forza che potrebbe muovere le montagne, e non lo sai. Devi scoprirla, – le aveva rivolto un ultimo sguardo prima di chiedere semplicemente: – Torniamo?
Regina aveva inclinato il capo in segno d’assenso.
Il silenzio aveva dominato il loro rientro
Solo quando erano giunti alle stalle, la giovane aveva sussurrato: – Ci penserò.
 
 
 
“If there's a God or any kind of justice under the sky,
if there's a point, if there's a reason to live or die,
if there's an answer to the questions we feel bound to ask,
show yourself,

destroy our fears,
release your mask.”
 
 
 
In attesa di Belle, Gold si guardò attorno: il piano sembrava adibito a casa per la famigliola che gestiva la locanda; una casa ben umile, composta appena dal locale in cui avevano appena litigato e dalla stanza che aveva già scoperto fungere da camera da letto. Nonostante gli sforzi per mantenerlo pulito e, a suo modo, accogliente, l’ambiente tradiva un velo di tristezza, quasi che il grigiume delle strade circostanti fosse penetrato dalla finestrella depositandosi su ogni cosa, diventando un tutt’uno con essa. Forse era la sua assuefazione a infissi in esotico palissandro e tappeti della Bessarabia a dargli quell’impressione, non poteva escluderlo a priori; e tuttavia, non poté trattenersi dal pensare che un posto simile non poteva essere il regno della sua – com’era difficile non definirla in tale modo – Belle, che avrebbe meritato arazzi e diamanti.
Davvero viveva lì da quando l’aveva lasciata?
Assieme a un mazzo di fiori di campo mezzi appassiti e a una stampa che aveva conosciuto tempi migliori, erano dei disegni a ingentilire le pareti: immagini semplici e stilizzate appartenenti a una mano cucciola, a volte scarabocchi incomprensibili che per un secondo gli strinsero il cuore.
Anche a Neal piaceva disegnare.
Un Natale di una vita precedente aveva fatto ancor più sacrifici del solito per regalargli della carta e dei colori. Il bambino aveva urlato di gioia dinanzi al pacchettino, e quando ne aveva scoperto il contenuto gli era saltato al collo ringraziandolo. Aveva mantenuto il sorriso per giorni e giorni; e a distanza di anni, quella risata in mezzo al nulla aveva ancora il potere di bruciarlo dentro.
Si perse a cercare un rimando tra le illustrazioni che aveva dinanzi e quelle che serbava nella memoria.
Annuiva mentre un bambino dagli occhi scuri lo implorava di tornare presto.
Non sapevano che non si sarebbero più rivisti.        
Un colpetto di tosse lo fece ripiombare nel presente: a qualche passo da lui, la ragazza bruna lo studiava con gli occhi ridotti a due mezzelune. Ne sostenne lo sguardo, cercando di farla sentire a disagio per  l’esame che l’aveva evidentemente sorpresa a condurre. Dalla camera accanto provenivano rumori soffusi, tra i quali spiccava la voce della dottoressa goffa.
- Però, – fu la moretta a rompere il silenzio, ghignando divertita e per nulla intimidita – La foto ufficiale non rende giustizia. Ed Helena ha proprio i vostri stessi occhi.
Gold aggrottò le sopracciglia.
- Sapete con chi state parlando, Miss…?
- Ruby. Ruby basterà. Certo che so con chi sto parlando, – la ragazza rispose spudorata – Col padre di Helena… O preferite che vi chiami per nome, Mr Gold?
La franchezza della giovane quasi lo urtò. Quanti anni poteva avere, una ventina? Doveva essere coetanea di Emma Nolan, con la quale condivideva l’insolenza che ai suoi tempi, lui mai si sarebbe sognato di mostrare nei confronti di una persona più anziana; ma ci voleva ben altro che una piccola indisponente per metterlo al tappeto…
Non hai forse pensato qualcosa di simile su Belle?
E poi com’è finita?
- La mia fama mi precede.
- Merito di una stanza divisa con Belle per cinque anni. So parecchie cose su di voi…
- Mi state suggerendo di dover temervi? – la provocò, le labbra arricciate in un sorriso carico di sarcasmo.
Un fugace snudare di canini precedette la risposta: – Però, pure sveglio.
I motteggi della ragazza non lo toccavano più di tanto. Se era il suo modo di concepire il divertimento, bene, facesse pure; lui aveva altro cui pensare.
Sotto un certo punto di vista, era normale: se Belle viveva lì da tanti anni, era ovvio che avesse instaurato una sorta di complicità con chi l’aveva accolta. Era discreta, non tradiva i segreti né ne parlava a destra e a manca per vantarsi, ma stringeva amicizia facilmente: in poche settimane si era integrata nella servitù come se ci lavorasse assieme da anni, e come dimenticare il modo in cui aveva legato con l’Andersen e, soprattutto, con Regina? Condividere stanza, casa, abitudini, vita avvicinava, volenti o nolenti; e forse, in un momento di debolezza, Belle non aveva più represso il bisogno di sfogarsi, raccontando tutto alla sua salvatrice.
Non poteva rimproverarglielo, no.
- Volete vedere Helena?
La domanda lo lasciò di stucco. Non immaginava gli venisse avanzata simile proposta così presto – a dire il vero non immaginava gli sarebbe mai stata avanzata simile proposta. Era un fulmine a ciel sereno, l’ennesimo in quella giornata che pareva riservargli una novità al minuto. Aveva sinceramente paura di immaginare cos’altro sarebbe saltato fuori fino a mezzanotte.
L’ora dell’appuntamento doveva ormai essere passata: nel pomeriggio avrebbe inviato personalmente un biglietto di scuse, rifilando qualche causa di forza maggiore rea d’averlo trattenuto. Un malessere, magari. Scoprire che l’amata creduta morta godeva di perfetta salute e gli aveva dato una figlia la cui esistenza ignorava fino a un’ora prima era più che causa di un malessere, vero? Era già tanto che non fosse stramazzato al suolo a quell’ “Helena è nostra figlia”…
Riesci a essere menefreghista anche in una situazione del genere.
A pensare agli affari piuttosto che a lei e a chiunque tu abbia quasi…
Ma l’egoismo era un tratto che l’aveva, e l’avrebbe sempre, contraddistinto.
L’interlocutrice non staccava lo sguardo da lui, in attesa di una risposta. Sul bel volto si era disegnata una smorfia di incredulità e vaga derisione, quasi non riuscisse a realizzare l’incapacità del celebre mago della lana di rispondere a una domanda tanto diretta.
Sarebbe bastato un cenno, in effetti, un banale o no; e d’altro canto, provò a consolarsi, qualunque fosse stata la sua scelta nessuno avrebbe potuto rinfacciargliela. Un rifiuto sarebbe stato comprensibile: cos’aveva da spartire con quel tugurio, col contesto e, soprattutto, con la situazione venutasi a creare? Come poteva voler vedere chi per lui era nessuno? Anzi, sarebbe stato opportuno non vederla, non turbarla – non turbarsi – ancora di più; non aveva diritto di intaccare la fragile quiete che aleggiava sotto quel tetto. Magari sarebbe passato un’altra volta, e nel frattempo ne avrebbe approfittato per far chiarezza.
Se Belle avesse preferito diversamente, in ogni caso avrebbe capito.
Belle capiva sempre.
E proprio questa convinzione è stata la vostra fine.
Chissà cos’avrebbe fatto lei. Gli avrebbe subito fatto vedere la bambina, o l’avrebbe preservata ancora? Cosa le aveva raccontato, sempre se le avesse detto qualcosa? Forse aveva nascosto anche la sua, di identità; e in tal caso, la sua comparsa avrebbe sollevato nugoli di domande dalla risposta impossibile.
- Papà, dov’è la mamma?
- Perché dici che non può tornare?
- Ma non che è colpa mia se non può più tornare? È perché la facevo arrabbiare sempre, vero?
- No, figliolo, non è colpa tua. Non pensare mai certe cose, mai.
Non è colpa di nessuno, ma soprattutto non è colpa tua.
Forse, facendosi vedere avrebbe posto Belle nella stessa identica situazione. Le avrebbe affibbiato anche l’ingrato compito di placare dubbi e sensi di colpa che ancora non sapevano pronunciare il loro nome. Forse – senza dubbio – avrebbe fatto meglio ad andarsene senza voltarsi, ad aiutarle da lontano senza incontrarle più: una scelta codarda, sì, ma la migliore per tutti.
Belle non avrebbe mai accettato i suoi soldi, inutile illudersi; ma magari il bene della figlia l’aveva resa più accondiscendente sotto questo punto di vista…
- Buon Dio, Mr Gold! Non vi ho mica chiesto di regalarmi la villa! – la ragazza partì a passo di carica e lo afferrò per un braccio, rivelando un’insospettabile forza. Avrebbe comunque potuto resisterle, scostarla senza reticenza e rimproverarla aspramente per aver osato tanto; ma non fece nulla di tutto questo: la seguì in silenzio, senza puntare i piedi, lasciando ancora una volta che fossero gli altri a decidere per lui.
Giunto alla porta, le rivolse un’ultima occhiata interrogativa, la cui sola risposta fu un sopracciglio eloquentemente inarcato che non gli fu d’alcun giovamento.
Cos’avrebbe sperato? Di ritrovare lineamenti noti, sorrisi dal passato, cosa? Non lo sapeva neanche lui. La brunetta avrebbe fatto meglio a restare in camera con gli altri, limitarsi a uscire mezzo istante per dargli una rassicurazione che non l’avrebbe coinvolto troppo e poi lasciarlo libero di tornare a casa, sereno e imperturbato come se nulla fosse successo.
Perché Gold di una cosa era certo: dopo la scena cui stava assistendo, sereno e imperturbato non lo sarebbe stato più.
 
 
 
“Oh, yes, we'll keep on trying,
tread that fine line.
Yeah, we'll keep on smiling, yeah,
and whatever will be, will be.”
 
 
 
Ci aveva pensato, Regina, di questo bisognava darle merito. Ci aveva pensato a partire da quel giorno stesso e per mesi e mesi: quelle parole erano state un chiodo fisso, ancora più penetrante perché tenuto al riparo dagli occhi indiscreti del mondo. Alle volte pensava che i mesi le avessero aperto gli occhi, spiegando la verità di tanti piccoli gesti che spesso lei aveva ignorato e che pure dovevano avere un motivo. Daniel l’aveva sempre protetta e aiutata, facendola sorridere nel bisogno; e lei… Ancora non ne aveva avuto l’opportunità, ma se ce ne fosse stato il bisogno l’avrebbe a suo modo aiutato. Forse non era questo amore? Non era sostegno reciproco, come quello silenzioso ma presente, che aveva legato due persone e le aveva condotte alla fine?
Doveva smetterla di crogiolarsi nei dubbi: era tutto inutile. Se Daniel non si era fatto vedere sino ad allora, forse avrebbe avuto altrettanta fortuna – o sfortuna? – anche nelle settimane successive…
Nell’istante in cui l’adolescente decise di prendere commiato da Ronzinante, sulla soglia della stalla apparve Daniel Locke.
Regina sentì un tuffo al cuore.
Non avrebbe voluto che la vedesse così, con le trecce rovinate dall’esercizio e le gote arrossate che la facevano sembrare una bambina. Avrebbe dovuto mostrarsi al meglio, certo non con gli stivali sporchi e il completo da amazzone tutto sgualcito. Dio, cos’avrebbe pensato di lei? Se ne stava, a fissarla con la bocca semiaperta, a fissarla sicuramente disgustato dal brufolo che le era comparso quella mattina…
Il silenzio la faceva impazzire. Avrebbe dovuto sgridarlo per l’atteggiamento che stava tenendo verso una signorina di rango elevato; avrebbe voluto chiedergli come stesse. Avrebbe voluto sfilargli davanti contegnosa, ignorandolo; avrebbe voluto correre ad abbracciarlo come aveva fatto la primissima volta che era tornata dal collegio. E invece, invece se ne stava lì, aggrappata ai finimenti di Ronzinante come se ne andasse della vita, incapace di proferir verbo e sentendo il volto avvampare sempre più. Negli ultimi mesi si era fatto più alto e con le spalle più larghe, e aveva iniziato a portare i capelli in un modo diverso che però gli stava piuttosto bene. Senza quasi rendersene conto, Regina si ritrovò ad ammettere che Daniel era diventato ancora più bello di quanto ricordasse.
Si morse l’interno della guancia, turbata dall’audacia e dall’inopportunità del pensiero.
Basta: non potevano starsene così, a fissarsi come due rimbambiti. Non sarebbe scappata, no di certo: una vera Mills non faceva intimidire da nessuno, figurarsi da un bifolco. Avrebbe rotto il silenzio, comportandosi da Miss beneducata e assennata qual era, e riportato ordine in quella situazione da romanzetto, facendo tornare ogni cosa al suo posto, ogni servitore al suo rango.
Fece per aprir bocca, ma Daniel la batté sul tempo.
- Bentornata, – le sorrise allegro, e quel semplice augurio la fece tremare.
Quanto sai essere idiota, Regina?
- Grazie, – rispose spellandosi a sangue le cuticole.
Maman ti ammazzerà quando vedrà come ti sei ridotta le dita.
- Hai fatto buon viaggio?
- Sì. Sono qui da venerdì, e… – si pentì della precisazione involontaria. Cos’avrebbe pensato, che era lì da giorni ad attenderlo vanamente e che lui invece si era come volatilizzato? No di certo, lei non stava insinuando nulla di simile! E poi, che fine aveva fatto lui nell’ultima settimana? Razza d’idiota di un Locke, possibile che non sapesse del suo ritorno? E se fosse stato sempre nei paraggi e l’avesse ignorata volontariamente? – Va tutto bene. Solite cose.
- Spero più tranquille delle mie. Tua madre mi ha spedito fuori città per dei cavalli… Sono tornato solo stanotte.
Regina si rimproverò per aver anche solo desiderato sospirare di sollievo.
- È stato faticoso?
- Eccome, ma pare proprio che me la sia cavata. L’ha riconosciuto lei stessa.
Daniel doveva aver compiuto chissà quale impresa per meritarsi tale complimento. Glielo disse, ricevendo la sua risata calda e profonda come risposta; la risata che – come negarlo? – tanto le era mancata, e che presto la coinvolse. Malgrado tutto, il ragazzo aveva lo strano potere di farla sentire a suo agio; di restituirle il suo posto al mondo, quando lei per prima aveva difficoltà a trovarlo. Con lui era facile parlare, partire da un argomento e finire al capo opposto senza doversene rammaricare; era impossibile annoiarsi, distrarsi, o pregare perché l’arrotolarsi insensato di convenzioni senza profondità terminasse in fretta.
Se il mondo fosse stato popolato solo da persone come lui, sarebbe stato senza dubbio un posto migliore. Ma allora tutti avrebbero avuto un Daniel personale; e Regina non sapeva se la cosa fosse auspicabile o meno. In fondo, preferiva che Daniel restasse in qualche modo solo suo; un pensiero egoista di cui però proprio non si pentiva. Perché avrebbe dovuto, poi?
La informava sulla salute del suo vecchio e lei ricambiava con le novità dalla scuola; un argomento neutro, su cui indugiava fingendo di aver scordato il resto, ritardando ancora e ancora il momento in cui una parola avrebbe portato a confessioni non più procrastinabili.
Un momento che una parte di Regina avrebbe voluto affrontare subito, senza remore, quasi per togliersi il pensiero una volta per tutte; e che un’altra parte, più timida e riottosa, sperava non giungesse.
- … ma Mr Brown non sapeva che la moglie aveva nascosto il denaro nella stufa, così è tornato a casa, bevuto come una spugna, e ha acceso il fuoco!  2
L’adolescente ghignò ascoltando la conclusione dell’aneddoto sui genitori del valletto di casa Mills.
- Immagino la gioia di Mrs Brown nello scoprirlo.
- Eddie giura che gli urli di sua madre si siano sentiti per tutto il quartiere!
Risero assieme, mentre in lontananza un orologio batteva le ore.
- Devo andare, – sospirò la giovane – Mia madre si starà chiedendo se sono ancora viva.
Locke si fece scuro in volto.
- Capisco, – commentò improvvisamente freddo.
Regina s’irrigidì. Ora anche Daniel iniziava ad accusarla per qualcosa che sfuggiva al suo controllo? Era deluso per non aver fatto cenno alla loro ultima conversazione? Se era per questo, anche il suo disappunto era notevole: non era certo stata la prima a perdersi in particolari la cui conoscenza nulla apportava alla sua esistenza. Anzi, a dirla tutta l’avevano annoiata. E in ogni caso, dovevano essere i cavalieri a introdurre certi discorsi, non le dame.
Non era galante. Non era educato. Non era corretto.
Come se fosse galante, educato e corretto stare qui.
Si fermò d’istinto, un vecchio insegnamento della madre in testa.
Quando il mondo non ti dà qualcosa, tu prendila.
Tra i mille difetti, Cora aveva comunque il merito di tramandarle massime di non scarsa utilità; e ora, era giunto il momento di verificare questa.
Tornò da Daniel, che già aveva iniziato a spazzolare il cavallo.
- Non mi ha chiesto l’unica cosa che avresti dovuto chiedermi.
- Cosa, di grazia?
La domanda retorica la esasperò.
- Come “cosa”? – alzò il tono, incurante di attirare attenzioni sgradite – Non puoi farmi un discorso sdolcinato e poi fingere di essertene scordato! Abbiamo un conto in sospeso!
Irritato dagli strilli della padroncina, Ronzinante nitrì nervoso.
- Se la fai imbizzarrire è la fine! – l’adolescente sibilò, provando a calmare l’animale con buffetti sul collo muscoloso – Il tuo silenzio è stato la risposta, non credi?
- Ci sarebbe stato silenzio se tu mi avessi chiesto qualcosa in merito e io non avessi risposto Tu non hai neanche sfiorato l’argomento!
- Cos’avrei dovuto fare? Non avrei dovuto salutarti, provare a metterti a tuo agio e a strapparti quella solita smorfia depressa dalla faccia?
- Quale solita smorfia depressa? – Dio, Daniel poteva esser diventato più bello, ma restava il solito aspirante cavaliere senza macchia che si prefiggeva il compito di salvarla. Non sopportava quei comportamenti idioti – Io sto benissimo, grazie!
- Si vede come stai bene con qualcuno gestisce ogni singolo giorno della tua vita! – questa volta fu il giovane a urlare, dimentico del rimprovero fattole minuti prima – Sapevo che col fegataccio che ti ritrovi saremmo finiti a litigare, lo sapevo da quel giorno!
Anch’io sapevo che avremmo rovinato tutto.
Non aveva neanche voglia di piangere, tanta era l’indignazione. Umiliarsi era l’ultima delle cose che avrebbe fatto nella vita; decise di pronunciare un’ultima frase e di garantirsi un’uscita trionfale, dalle stalle e – soprattutto – dalla vita del servo.
- La mia vita e il modo in cui io la gestisco non ti competeranno mai, – disse avviandosi verso il portone.
- Perché competeranno sempre a tua madre.
L’affermazione la fulminò sul posto, facendola voltare di scatto. Daniel la guardava con una smorfia dura stampata sul volto solitamente allegro; una smorfia che faceva ancora più male perché accompagnava frasi tristemente vere.
L’odiava, in quel momento odiava Daniel Locke e il modo in cui per tutto quel tempo aveva infestato la sua mente come la malerba.
L’odiava e allo stesso tempo gli voleva il bene più profondo che avesse mai provato.
Perché Daniel non aveva paura di dire ciò che gli passava per la mente, nonostante fosse la figlia della padrona.
Perché non esitava a sbatterle in faccia la realtà, per quanto dura e dolorosa  potesse essere.
Perché nel corso degli anni l’aveva aiutata a prendere coscienza di chi era, di ciò che la circondava, delle menzogne in cui era quasi annegata
Perché le aveva fatto capire che era la verità.
È mia madre a gestire la mia vita.
Ma le cose stanno cambiando.
Tornò come una furia dal giovane.
Quando Daniel si era dichiarato, Regina aveva pensato che fosse ammattito.
 
Ora che l’afferrava per il bavero, che lo voltava e che con forza premeva le labbra contro le sue, fu certa che lui stesse pensando la stessa cosa.
 
 
 
“We'll just keep on trying,
we'll just keep on trying,
till the end of time.”

“Innuendo” - Queen
 
 
 
 
 
 
1: il “Lady’s mile” era una sorta di percorso equestre dedicato alle dame e situato in Hyde Park – http://www.victorianlondon.org/entertainment/hydepark.htm;
2: ho modificato un paio di battute tratte dal famosissimo, tragicissimo, e da me amatissimo film “Titanic” del 1997.
 
 
 
 
 
 
N. d. A. : Salve! ♥
Innanzitutto, spero che il vostro 2015 sia iniziato benissimo, che l’eventuale ritorno alla routine sia stato meno traumatico del previsto e – è proprio il caso di dire “dulcis in fundo” – che la Befana vi abbia portato tanta cioccolata e poco carbone – un pochino però ci sta sempre! Chi più, chi meno, tutt* siamo anche un po’ Villains! xD
Passando alla nota dolente… Ahimè, questo capitolo non mi fa impazzire; o meglio, non lo considero uno dei migliori tra quelli scritti finora. A essere sincera, la parte RumBelle mi piace, non mi lamento – parere personale, eh, non fatevi scrupoli a smontarmi se non siete d’accordo; è l’altra a lasciarmi un po’ perplessa… È la prima volta che faccio interagire in simile modo Regina e Daniel, e temo d’aver combinato un macello con la caratterizzazione della giovane. Mi affido al vostro giudizio!
Rispondo a una domanda che in molt* mi avete posto: la servitù di casa Gold tornerà. Bisognerà aspettare ancora un pochino ma, affezionata come sono a Killian, Emma, Mary Margaret e agli membri della ciurmaglia, non ho alcuna intenzione di escluderli. ;)
Ringrazio di vero cuore quant* leggono la fanfiction, l’aggiungono a una categoria e/o mi fanno conoscere il loro parere qui o sulla pagina Facebook “Euridice’s World”: i vostri consigli e, nel caso, critiche sono sempre benaccetti e possono solo aiutarmi a migliorare!
Salvo imprevisti, a sabato 24 gennaio! Tanti baci! :) :***
Euridice100

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Capitolo 5
*** IV - Blurry ***


 
 
 
IV - Blurry
 
 
 
Everything's so blurry,
and everyone's so fake,
and everybody's empty,
and everything is so messed up.”
 
 
 
Era una scena così semplice che chiunque avrebbe potuto descriverla con un colpo d’occhio; una scena che – si trovò a pensare per la seconda volta in meno di un’ora – non aveva alcuna particolarità.
Eppure doveva esserci un motivo se tanti pittori l’avevano immortalata sulle tele e poeti le avevano dedicato versi; doveva esserci un motivo se, in quel momento, stava avvincendo anche lui. Era una follia spiarle così, come un ladro: se quanto detto da Belle fosse stato vero, allora avrebbe avuto tutto il diritto di irrompere in camera e presentarsi per chi realmente era, anziché restare lì e dover ringraziare quella popolana irriverente per la gentile concessione; e niente, nessuno avrebbe potuto impedirglielo.
Strinse i pugni con foga, fino a farsi male; e il dolore lo riportò alla realtà, fermandolo prima di compiere l’ennesimo gesto di cui pentirsi.
La dottoressa parlottava gesticolando, ma erano per lo più l’anziana e il poliziotto a prestarle attenzione; coloro cui le frasi erano dirette sembravano distanti mille miglia, perse in un mondo solo loro e inaccessibile per chiunque altro.
Belle, le cui guance avevano appena ripreso colore, sedeva sul giaciglio con la figlia sulle ginocchia e il naso affondato tra i suoi capelli scarmigliati. La bambina pareva essersi finalmente calmata: di tanto in tanto ricambiava i sorrisi dei presenti, specie di quel Graham, ma ancora si teneva aggrappata alle gonne materne con la punta delle dita e lanciava lunghe occhiate irrequiete attorno a sé coi suoi grandi occhi vigili.
Fu proprio quel particolare a catturarlo. A stringergli il cuore, a mozzargli il fiato e fargli tremare le ginocchia, facendolo sentire sempre più piccolo, sempre più sperduto, sbalzato e disperso in un mondo cui era estraneo da molto, moltissimo tempo e con cui credeva d’aver chiuso per sempre.
Si morse l’interno della guancia, incapace di staccarsi da quelle iridi che tanto gli ricordavano altre, spentesi per sempre sul morire di un marzo di tanti anni prima; iridi che incontrava nei sogni, ma anche nella realtà, ogni volta che incrociava il proprio riflesso allo specchio.
Quella bambina aveva lo sguardo di Neal; aveva il suo sguardo.
Si sostenne alla bussola, una turbinosa ridda di pensieri ad affollargli la mente, appannandogli la vista e facendolo quasi venir meno.
Se fino ad allora il dubbio aveva resistito, dilaniandolo con le sue zanne gelide, ora era costretto a battere ritirata dinanzi alla verità di occhi che non mentivano.
Helena è nostra figlia.
Helena è nostra figlia.
Ho una figlia.
In quel momento si rese conto che poteva osservarla tanto bene solo perché la bambina lo stava fissando di rimando. Trattenne il fiato senza sapere cosa fare, se salutare o restare immobile e in silenzio: mai la fuga era stata tanto allettante, ma una forza più potente della gravità pareva inchiodarlo lì, ancorandogli i piedi al suolo e uccidendo ogni moto sul nascere.
La piccola lo stava studiando con un misto di curiosità tinta appena di paura – una paura che qualcosa nel profondo di lui avrebbe voluto strappar via, estinguere fino in fondo, perché nonostante il loro pessimo esordio lei non avrebbe mai dovuto temerlo, mai.
All’improvviso la sua voce acuta ruppe il silenzio.
- Mamma, – scosse Belle. Nell’intonazione s’indovinava già traccia di un buffo accento cockney1 – Mamma, chi è quello?
Tutti si voltarono verso la porta, facendogli provare ancora più a fondo i morsi del disagio. Se la dottoressa pareva stupita, la locandiera e la guardia lo fissavano con un’aria carica di rimprovero e, al contempo, di sfida; ma era solo uno lo sguardo il cui giudizio attendeva.
Belle aveva gli occhi gonfi e arrossati, come se nel corso di quei brevi minuti avesse dato libero sfogo al pianto a lungo trattenuto; ma ora, non una lacrima le solcava le gote, non un segno di resa le ammorbidiva i tratti – proprio come quando l’aveva cacciata.
I polmoni gli si allargarono dolorosamente in cerca di aria per esalare una qualche sorta di presentazione; ma la donna lo anticipò fulminea.
- Questo signore, – sussurrò stringendola appena più forte – Questo signore è… – malgrado la forza d’animo, le parole le si stavano incastrando in gola, Gold lo capì; e avrebbe dato tutto pur di poterla aiutare, di correrle incontro e dire – dire qualunque cosa, una bugia, la verità, ma parlare, farle capire che era lì non solo col corpo, ma anche con la mente.
Ma tacque.
E se parlando avesse peggiorato la situazione?
- … Un amico. Un amico che conosciamo da molto, moltissimo tempo.
Entrambi chiusero le palpebre a quell’affermazione.
Non sa niente.
Come tu non sai niente di lei, lei non sa niente di te.
Annuire fu l’unico gesto possibile.
- Sì, – confermò laconico – Sono un vostro vecchio amico, Dearie, – il monito silenzioso della donna lo fece subito pentire dell’inconscio tentativo di accattivarsi la piccola, che corrugò la fronte come dubbiosa.
- Ma io non ti ho mai visto! – fece eco senza vergogna, come capita ai bambini nei momenti meno opportuni.
Se la situazione fosse stata diversa, Gold avrebbe apprezzato: con una sola, semplice frase la ragazzina aveva centrato il cuore della questione, dimostrando una perspicacia sconosciuta ai più.
Già. Non ci siamo mai visti, ripeté amaro tra sé e sé, senza scostare la collera che tornava a ghermirgli l’animo.
- Sono capitato qui per caso, evidentemente nel momento sbagliato, – la bambina era ancora meditabonda, ma non distolse lo sguardo – Forse è meglio che passi un altro giorno, – non trovò altro d’aggiungere. Mentre arretrava, pensò che le gambe dovevano essergli diventate di piombo, tanto gli parvero intorpidite e pesanti da spostare; e che anche quello doveva essere un segno che lui si ostinava a non ascoltare.
- Mamma lo saluta e torna subito, va bene? – udì Belle dire subito prima di ritrovarsela accanto. Chiuse la bussola con più accortezza di quanta sarebbe stata necessaria, riposandovi la fronte per un lungo istante prima di voltarsi verso di lui. Pareva esausta, come se gli ultimi accadimenti le avessero risucchiato ogni energia residua; ma quando l’industriale provò un timido: – Belle… –, fu subito interrotto.
- Ti avrei presentato, se tu l’avessi voluto, – esordì senza indugio, aprendo gli occhi di scatto – Certo che l’avrei fatto, ma non oggi. Non così.
- La colpa è stata mia,– si intromise Ruby, rimasta in disparte fino ad allora – Gliel’ho proposto io. Credevo che non fosse una cattiva idea, che dovesse vederla almeno una volta prima di… Di qualsiasi cosa.
Gold mandò un muto ringraziamento alla sua insperata alleata; l’altra, invece, la guardò incredula prima di mormorare: – Tu sai, Ruby. Tu sai.
- Infatti, – la mora non si nascose dietro facili scuse – Io so. Ed è per questo che l’ho fatto, solo per questo, – pur non riuscendo a seguire le fila del discorso, Gold ne aveva fin troppo chiaro l’oggetto – Scendo e vi lascio discutere in pace…
- No, – l’uomo la bloccò – Per oggi è sufficiente.
S’incamminò verso la scala. Ne aveva già scesa la metà quando Belle lo raggiunse mormorando un semplice: – Ti accompagno.
Arrivarono all’ingresso ciascuno perso nelle proprie riflessioni, conscio della vicinanza dell’altro – di colui che non avevano saputo scordare, di colei che l’aveva spezzato –, ma troppo scossi, troppo increduli, troppo spaventati per trovare in sé la spinta per affrontarla.
- Non abbiamo finito di parlare, – disse lei, rompendo quel silenzio che premeva come un macigno.
- No. Non sono abbastanza lucido, Belle. Tu sei viva, lei esiste, è… È troppo per un solo giorno. Oggi no, – per una volta, la scelta non era dettata solo da interesse personale, dalla volontà di proteggere se stesso o dall’istinto di autoconservazione. Nelle loro condizioni avrebbero ricominciato a litigare, scattando alla minima provocazione e giungendo a un nulla di fatto; non era opportuno trattare una questione tanto delicata con la mente annebbiata. Non era giusto. Non era corretto – È meglio che torni da…
- Da Helena. Si chiama Helena. Helena, – ribadì, come dimentica di averglielo già detto.
- Helena, – il nome gli sfuggì dalle labbra prima di poterlo frenare – Come sta?
- È impaurita, ma sta bene. Dice di non aver battuto il capo, e secondo Astrid non ha nulla di rotto. La terremo d’occhio, ma se la situazione non varia non avremo di che preoccuparci.
- Capisco, – come prevedibile, il suo misero convenevole non trovò alcun riscontro – Lei ti somiglia, sai? – una frase semplice, innocua, ma sentita – È bella, davvero molto bella. E sembra così intelligente per la sua età, così… Così matura.
Belle sdegnò i complimenti con una risata lievemente isterica.
- Tanto matura da scappare di casa per andare a scuola?
- Già le piace studiare? – s’informò, sinceramente incuriosito.
- Le piace contraddirmi. È diverso. Ha un bel caratterino, è testarda senza pari.
Suo malgrado, l’uomo sorrise.
- Mi ricorda qualcuno.
- Già, – Belle concordò, l’azzurro delle iridi improvvisamente appena velato – Ricorda qualcuno anche a me.
Tacquero un altro istante, dopo il quale la donna aprì la porta.
Gold si voltò e la guardò ancora, come per imparare a memoria lei, la sua figura, la piega delle labbra, la linea degli zigomi, il modo in cui i capelli le ricadevano sulla fronte e la mossa con cui lei li scostò; come ancora incredulo di averla tra le file dei vivi, come per non poterla più dimenticare.
- Ci rivedremo? – osò chiedere, lottando contro lo struggente desiderio d’abbracciarla per ottenere suprema conferma di quanto gli pareva ancora pazzia.
Attese una risposta con l’animo trepido di chi aspetta una sentenza.
- Sì.
Neanche un lembo di pelle si sfiorò, ma fu sufficiente.
Alle volte, poche lettere possono costruire un ponte più saldo di mille pietre.
 
 
 
“You could be my someone,
you could be my sea,
you know that I'll protect you
from all of the obscene.

I wonder what you're doing,
imagine where you are,
there's oceans in between us,
but that's not very far.”
 
 
 
Tornò a casa in silenzio. Ignorò le novità di Archie, evitò Mary Margaret e gli altri; si rintanò nello studio, sprofondò nella poltrona dinanzi al camino e solo allora, protetto da un ambiente familiare, riprese a respirare normalmente. Si arrotolò l’ennesima sigaretta e l’accese. Aspirò per quella che parve un’eternità prima di soffiar via il fumo e osservarlo disperdersi intorno a sé.
Un mal di testa era l’ovvia conseguenza di una mattinata simile. Gli parve che il cervello stesse prendendo a pugni la scatola cranica per romperla e schizzar via, andare ad annegarsi nel Tamigi per rimuovere le recentissime scoperte e sfuggirne le ripercussioni; e, per un bislacco istante, si chiese se non fosse il caso di lasciarglielo fare e mandare tutto e tutti al diavolo.
Non agire sulla spinta delle emozioni, mantenere il sangue freddo e valutare sempre i pro e i contro prima di decidere.
Era una dei segreti della vita e dell’imprenditoria, gli era stato insegnato, uno dei segreti che lui aveva dato prova di maneggiare meglio; si trattava solo di farlo proprio ancora una volta, impedendo al resto di prendere il sopravvento.
Purtroppo – Robert Gold aveva già avuto modo di sperimentarlo – quando di mezzo c’era Belle French anche le regole più semplici si rivelavano ardue da seguire; e ora che anche una bambina era coinvolta, i principi saltavano definitivamente.
Belle era viva. Ciò che gli aveva avvelenato i precedenti cinque anni era una bugia, una colossale menzogna architettata ad arte. Ne conosceva fin troppo bene l’autrice e le motivazioni che l’avevano indotta a suddetto passo; ma le ragioni che avevano spinto lui a darle tanto credito per la seconda volta in poche settimane sarebbero rimaste per sempre un enigma.
Sì, le parole della Mills gli erano sembrate tanto accorate, tanto sincere e, a loro modo, quasi partecipi malgrado tutto; ma questa non era, non poteva essere, una scusa.
Non c’era scusa per quanto – non – aveva fatto. Avrebbe comunque dovuto continuare a cercare Belle, anche solo per trovarne il corpo, se davvero avesse voluto almeno una tomba su cui piangere; avrebbe dovuto far proseguire le indagini, anziché ordinare ai suoi di fermarsi dopo sì breve tempo, non rassegnarsi neanche dinanzi all’evidenza, combattere.
Ma per lei non aveva mai combattuto. Era stato il suo errore: non aver mai resistito per lei, non averci mai davvero provato fino in fondo. Prima ancora che diventasse domestica battibeccavano, si contraddicevano, si provocavano per il gusto di farlo, ma lui mai le aveva riservato lo stesso trattamento che un’altra avrebbe conosciuto se avesse osato comportarsi come Belle; quando aveva compreso di esserne innamorato aveva provato ad allontanarla, anche con gesti eclatanti, ma privi di convinzione, tali da lasciar trasparire la sua reale volontà – non era un caso che lei fosse sempre, sempre tornata, anche quando aveva rimesso il debito; e quando era diventata sua aveva perseverato in un gioco di inganni e sotterfugi fino all’ultimo. Non le aveva confidato i suoi piani contro Mendell e la Green, non le aveva mai parlato delle sue angosce; tanto nelle presenze quanto nelle assenze, l’aveva sempre data per scontata.
So che resterai, so che mi lascerai.
L’aveva data per scontata persino nella morte.
Il cuore gli era impazzito quando l’aveva rivista. Una creatura così bella doveva avere in sé qualcosa di inumano, di angelico e sacro; gli anni trascorsi, le esperienze vissute l’avevano segnata senza violarla. La sua era divenuta una bellezza più adulta, più matura e decisa; ma lo splendore e la grazia combattiva che l’aveva soggiogato restavano intatti, intensi e luminosi come un tempo.
Ai suoi occhi era ancora, era sempre la ragazza pasticciona che liberava ladruncoli e gelava sul nascere ogni suo proposito di vendetta.
La ragazza che si era ritrovato ad amare senza volere, la ragazza che avrebbe dovuto sposare, la ragazza che aveva tradito.
Nel suo sguardo cilestrino c’era un’ombra di tristezza in passato assente. Forse la sua era presunzione, ma Robert Gold era certo di conoscerne bene il responsabile; di esserlo lui stesso.
Avevo promesso di proteggerti, di darti il lieto fine che meritavi.
E invece ti ho dato cenere.
Se non gli avesse rivelato il segreto che si era imposto nell’incontro e si fossero confrontati noncuranti del mondo, le avrebbe implorato perdono, come intendeva fare ai tempi in cui la cercava. Non gliel’avrebbe certo concesso, ma lui ci avrebbe provato. Ancora, ancora e ancora. Le avrebbe dimostrato di essere cambiato, stavolta sul serio.
E poi sarebbe andato da Cora e le avrebbe fatto pagare ogni giorno, ogni ora di quella tortura infinita.
No, in fondo non era davvero cambiato – né, sotto quel punto di vista, intendeva farlo.
Forse era stato un bene che l’altra questione fosse emersa subito e avesse preso il sopravvento, facendogli scordare il resto.
Non aveva neanche la forza di ripensare alla parola. Una figlia. Sangue del suo sangue, carne della sua carne. Lui di figli ne aveva uno, uno e uno solo, perduto, ma mai dimenticato: in ogni pensiero, in ogni parole e in ogni azione – anche in quelle che avrebbe deprecato, perché sin da piccolo aveva dimostrato di essere migliore di lui – c’era un po’ di Neal. Ogni anno, in occasione del suo compleanno, si recava in Scozia; e quando non era stato possibile tornarci, l’aveva commemorato da solo, accendendo una candela e restando col suo dolore.
Poi si era aperta l’era dei sospetti su Regina, cui molti episodi apportavano terreno fertile che non avrebbe mai trovato certezza. Cora era sempre stata irremovibile sul punto: “è figlia di suo padre e sua madre”, soleva rispondere, accompagnando le parole a un ghigno interpretabile ogni volta in modo diverso e l’aveva sempre irritato non poco.
Ma aveva perso ogni desiderio di porle domande molto tempo prima.
E ora, da un momento all’altro, si ritrovava con una bambina la cui esistenza non l’aveva mai sfiorato. Tanto tempo prima, quando aveva osato sperare in un domani migliore, aveva sognato di avere un figlio con Belle; ma poi l’ombra della paura, il velo oscuro che sa occultare anche le verità più chiare, l’aveva avvolto nuovamente e distrutto ogni illusione. Finita, annichilita; come finita e annichilita pensava fosse ormai la sua vita.
Helena.
Si pentiva di averne scoperto e pronunciato il nome. Se non fosse successo sarebbe stato più facile dimenticarsene, fingere che un’innocente non rivestisse simile peso in una questione già troppo complessa. Era un concetto semplice, mandato a memoria nella sua infanzia contadina: mai dare un nome a qualcosa, a qualcuno, se non ci si vuole affezionare. I nomi sono importanti e delicati, danno potere: potere a chi li conosce, perché apprendere qualcosa di così intimo e personale è sempre pericoloso; e potere a chi li porta, perché finirà sempre per sfruttare l’influenza che sa di avere sul prossimo, fino ad abusarne.
Ecco perché per una vita intera si era trincerato dietro beffardi Dearie dalla doppia capacità di renderlo distaccato e, ancor più, proteggerlo dalle insidie del cuore; ecco perché la muraglia era crollata con Belle, che in così tempo breve aveva ricusato il nomignolo.
Ed ecco che ora compariva Helena, che mai avrebbe potuto chiamare davvero in altri modi.
Mia figlia.
Un pensiero così semplice e insidioso. Se avesse preso l’abitudine di ripeterlo, avrebbe trovato la strada per insinuarglisi nel petto e torturarlo in eterno: se Belle avesse mentito, non avrebbe mai potuto perdonarla per aver toccato una delle ultime corde sensibili del suo cuore; ma se fosse stata sincera, la bambina sarebbe diventata il nuovo asse del mondo.
Robert Gold non era uno sciocco. Non credeva che un istante fugace potesse far nascere in lui desideri di paternità o spingerlo a voler bene a una piccola sconosciuta con lo stesso amore fiero e possessivo che aveva provato per Neal dalla prima volta che glielo avevano messo tra le braccia. Il pensiero di quanto sarebbe potuto succedere a Helena lo faceva rabbrividire, ma da qui a essere pronto a qualsiasi sacrificio per lei, a lasciar tutto e umiliarsi… No, era troppo. E le esagerazioni portano a conclusioni precoci, come aveva asserito Shakespeare in una tragedia che si era trovato a conoscere molto da vicino. 2
Eppure, non poteva neanche dirsi completamente estraneo a quei sentimenti. Era l’idea di una figlia, più che la figlia, a destabilizzarlo, a causargli quell’altalena di sensazioni opposte; assieme il fatto di averla avuto da lei, di aver trovato rassicurazione circa il suo destino, e…
Sei sentimentale, Cora era solita rimproverarlo, e sarà questa la tua fine.
La Mills aveva quel maledetto sesto senso che la faceva sempre essere nel giusto. Era stato l’amore – per un bambino, per una donna – a farlo crollare già troppe volte nella vita; replicare non era nei piani. Con Neal e Belle era troppo tardi, ma con Helena…
Forse anche con Helena in parte lo era.
Forse, in una certa maniera ancora vaga, ancora indefinita, anche lei si era distinta dalla massa; forse anche lei stava già iniziando a diventare importante, in un processo irreversibile che lo intimoriva.
Poteva fingere e giocare a filosofeggiare, ripromettersi di aver imparato la lezione e detto addio a romanticherie da scolaretto, ma la realtà era semplice: lui non sarebbe mai stato come la sua maestra. Per quanto si fosse sempre sforzato, per quanto si sforzasse ancora, tra Gold e la Contessa c’era una differenza sottile che Belle aveva reso più netta che mai: lui un cuore l’aveva ancora. Annerito dai peccati e rimorsi, reso coriaceo da mille asperità e certo non facile da amare, ma ancora vivo, ancora pulsante, ancora capace di provare sentimenti diversi dal rancore.
Ancora capace di guardare gli occhi ambrati di una bambina e riconoscervi se stesso e il proprio passato, i propri rimorsi e rimpianti, ma soprattutto il proprio futuro.
Un futuro di cui aveva perso anni che nessuno avrebbe restituito, ma che ancora era in divenire; un futuro di cui si sarebbe fatto carico e di cui, se Helena avesse voluto, avrebbe provato a far parte.
Avrebbe ripetuto gli stessi errori – perché ci sono vizi non saltano generazioni, l’aveva già scoperto –, o magari stavolta si sarebbe riscattato. Forse neanche conoscendola sarebbe andato oltre un blando affetto, ma comunque non l’avrebbe lasciata in una casa dal caminetto annerito di fumo e il cui assito scricchiolava di sua iniziativa, quando avrebbe potuto vivere come una principessa, avere ciò che lui aveva promesso alla madre senza riuscire a mantenere.
Lo doveva a Belle.
A ciò che aveva significato – significava – nella sua esistenza.
Era inutile illudersi: un posto per loro figlia c’era già.
 
 
 
“Can you take it all away?
Can you take it all away?
Well, ya shoved it in my face
this pain you gave to me.”
 
 
 
Nella sua carriera il dottor Viktor Whale ne aveva viste tante, e quella non era certo la prima volta che i pazienti gli chiedevano simile favore.
Recarsi in stanze private a offrire discreta assistenza a chi, per un motivo o l’altro, non andava portato alla luce del sole era prassi consueta tra i medici di coloro i quali non potevano permettersi di sporcare il proprio nome con frequentazioni poco consone – leggasi: mai essere associati a cortigiane anche celebri, se non si vuol finire esiliati dal bel mondo.
No, non era la richiesta in sé a stupirlo, quanto colui dal quale promanava. Robert Gold non gli aveva mai chiesto niente del genere – eccezion fatta per una visita a una cameriera in fin di vita alcuni anni prima – e ora, all’improvviso, l’aveva convocato con un’urgenza più consona a un moribondo per dargli un indirizzo di Whitechapel presso cui recarsi immediatamente.
Passare di punto in bianco da un eccesso all’altro suscita sempre qualche domande; e in Whale ne aveva suscitate parecchie. Il magnate della lana non gli pareva tipo da scendere tanto in basso nella scala sociale da saggiare donne di certi quartieri, quando avrebbe potuto scegliere il meglio…
Scacciò il dilemma dalla mente: in fin dei conti, gli unici interrogativi di sua competenza erano legati ad anamnesi e prognosi. I meccanismi che guidavano l’agire umano non lo interessavano, se non per le loro implicazioni scientifiche: il “come” tecnico, fisso e obiettivamente discutibile era sempre preferibile a quello sentimentale, così mutevole, capriccioso e confusionario. E del resto, a lui poco importava della professione medica e del contatto umano che essa implicava: la considerava un’appendice utile solo a procacciargli di che vivere. Era abile nel suo mestiere, questo sì – come assicurarsi altrimenti pazienti di tale rilievo? –, ma avrebbe preferito esser più bravo nella sua autentica vocazione: la ricerca. Sin dall’infanzia trascorsa a Ginevra, città natale della madre, amava osservare il mondo e provare a replicare i fenomeni che lo affascinavano fino a carpirne i segreti; e da lì a immergersi in tomi di Paracelso, Cornelio Agrippa e Alberto Magno alti quasi quanto lui il passo era stato breve.
Il padre, generale inglese, avrebbe voluto che il figlio seguisse le sue orme; ma si era dovuto ben presto arrendere all’evidenza e ripiegare sul secondogenito Gerhard, ben più incline alle arti belliche e a obbedire ai diktat paterni. Viktor aveva concluso brillantemente gli studi in Medicina a Ingolstadt, ma per lungo tempo aveva lasciato il titolo avvizzire sulle pareti, preferendo dedicarsi alla fisiologia patologica che gli faceva trascorrere giorni interi chiuso nel suo laboratorio mentre il genitore scuoteva il capo come dinanzi al fallimento di una missione portata avanti per anni. Viktor faceva e disfaceva, dio in quelle piccole stanze in cui cercava di vincere il mistero di domande rimaste sino ad allora senza risposta; provava e riprovava fino a ottenere conferma o smentita delle sue ipotesi, memore di ogni errore, determinato a non ripeterlo. In quel periodo frenetico, poco gli importava del mondo fuori Ginevra, o della vita in sé; vita che, tuttavia, aveva deciso di coinvolgerlo suo malgrado.
La notte di Natale del suo venticinquesimo compleanno, Viktor avrebbe dovuto ricevere in dono un orologio: un piccolo simbolo che passava di primogenito in primogenito secondo la tradizione del ramo materno della famiglia e che, seppur vedovo, il generale aveva deciso di perpetrare in omaggio all’amata moglie.
Ma non era stato lo scienziato a scartare quel pacchetto.
Era stato Gerhard.
Gerhard che aveva appena ricevuto l’ennesima medaglia, Gerhard che aveva fissato perplesso il dono e che, certo di uno scambio, l’aveva fatto notare, Gerhard che dinanzi alla pergamena data a Viktor – Ti ho procurato un incarico, aveva spiegato il padre, ti unirai al reggimento in qualità di medico di campo. È un onore – si era rivolto verso di lui implorandogli un muto perdono che non aveva causa.
Avevano protestato, ovviamente. Sostenendosi a vicenda come sempre, avevano ricordato all’uomo i risultati già raggiunti e la necessità di perseverare, l’importanza della ricerca…
- Certamente, ma come potrai portar avanti i tuoi progetti senza il mio supporto economico? Ti ho già permesso di usar casa per i tuoi futili esperimenti, non è abbastanza?
Parole abbastanza indicative della sua reale decisione. 3
Viktor se n’era andato quella notte stessa. Aveva salutato Gerhard, alzato le spalle udendone le preghiere perché aspettasse ed era partito per Londra. Lì aveva presto imparato la lezione: senza la famiglia a sostenerlo e proteggerlo dal mondo, se avesse voluto portar avanti i suoi lavori – e, prima ancora, non morire di fame – avrebbe dovuto usare il suo titolo di studi e sporcarsi le mani.
E così era stato; e così, negli ultimi nove anni, era riuscito a ritagliarsi il suo posto al mondo, fino a giungere alle alte sfere… Alte sfere che, evidentemente, ora lo stavano rimandando in basso: Gold l’aveva infatti spedito in una taverna simile a mille altre. Un locale di bassa lega, in cui perdigiorno si davano a bere di buzzo buono; uno di quei posti che difficilmente, molto difficilmente potevano celare al loro interno meraviglie da cui tornare e ritornare.
Lo scozzese ha gusti strambi, non si esentò dal pensare un’ultima volta; ma la questione, in fin dei conti, non lo tangeva. Alzò le spalle, mandò al diamine giudizi e pregiudizi, e spinse la porta.
 
 
 
“Everyone is changing,
there's no-one left that's real
to make up your own ending
and let me know just how you feel,
‘cause I am lost without you.”
 
 
 
Ruby non avrebbe dovuto permettersi. Cinque anni insieme non le davano comunque il diritto di intromettersi in una faccenda tanto delicata cui era pur sempre estranea; e il fatto che, invece, non avesse perso occasione di impicciarsi denotava una mancanza di rispetto che mai si sarebbe aspettata da parte sua.
Erano state queste le esatte parole che Granny aveva sbraitato appena aveva scoperto l’ultima malefatta della nipote; parole forse simili ai primissimi pensieri balenati nella mente di Belle, prima che la ragazza pronunciasse quella frase e tutta la collera sbollisse in un istante.
Io so. Ed è proprio per questo che l’ho fatto.
Assieme a Tink, Ruby era l’unica a conoscere l’identità del padre di Helena; l’unica cui avesse raccontato ciò che aveva segnato la sua vita, cui avesse confidato col cuore in mano paure, speranze e desideri. Quante volte le aveva detto di sognare ancora il giorno in cui lui sarebbe tornato, in cui avrebbero ricominciato a vivere i giorni insieme? Chi aveva sempre accompagnato lei ed Helena a Kensington o sulla tomba di Ariel? Ruby, Ruby sola; ed era ovvio che, quando l’occasione era scesa – precipitata – dal cielo, ella avesse provato ad aiutarle.
Per questo Belle ne aveva preso le difese durante la lite, stupendo tutti; per questo, quando l’amica l’aveva cercata per ringraziarla e chiarire, lei l’aveva zittita annuendo, come a confermare un argomento che conosceva a menadito e su cui non intendeva tornare.
In casa Lucas era così scesa l’ordinaria pace, cui non poco avevano contribuito le risate concilianti di un’Helena tornata in forma con la rapidità di cui solo i più piccoli conoscono il segreto. Lo spavento della mattina era un fantasma svanito alla luce del mezzogiorno: della brutta avventura sarebbero rimasti solo un ricordaccio e qualche livido. Più che la figlia, aveva detto Astrid, era la madre a dover essere tranquillizzata, e Belle concordava appieno: l’episodio le avrebbe regalato un nuovo incubo per il resto dell’esistenza. Sebbene le altre l’avessero dispensata dal lavoro, aveva preferito non restare in camera e scendere ad aiutarle almeno in cucina; ma in segreto, non vedeva l’ora che giungesse sera per ritirarsi sotto le coperte con la bambina, stringerla a sé e addormentarsi ascoltando il suo respiro, rassicurata solo da esso e dal suo profumo – anche se, già lo sapeva, i mille pensieri che già non le davano requie avrebbero approfittato del buio per tornare all’attacco e rendere la sua notte dominio di ricordi e interrogativi.
Robert.
Ogni volta che udiva quel nome sobbalzava guardandosi attorno come una folle, alla spasmodica ricerca di una figura, di una voce, di un cenno, di una qualsiasi cosa che desse prova di lui; e ora che se l’era ritrovato davanti – dopo che aveva quasi ucciso la loro stessa figlia, non riusciva a non precisare – non era in grado di decifrare i propri sentimenti; quasi fossero scritti in un alfabeto troppo contorto, astruso, ancora sconosciuto e custode  di misteri che andavano svelati e al tempo stesso protetti a ogni costo.
Eppure, Belle lo sapeva bene, era così semplice: nei confronti di Robert, lei provava tutto.
Dalla rabbia più cieca all’amore più ostinato, quella gamma di emozioni la lasciava senza fiato: già le provava – erano sue fedeli compagne da anni e anni, ormai –, ma averlo rivisto aveva come riattizzato il fuoco, facendolo divampare più intenso e tornare a bruciare di uno splendore furioso e antico.
Se avesse potuto dar retta solo al cuore, l’avrebbe baciato e schiaffeggiato contemporaneamente. Se fossero stati solo loro due, se lui l’avesse lasciata realmente sola, forse tutto sarebbe stato più facile. Forse si sarebbero comunque rincontrati e lei gli avrebbe urlato tutto il suo livore senza trattenersi, senza preoccuparsi di intimorire una bambina già troppo spaventata; e lui le avrebbe porto delle scuse che, forse, lei avrebbe saputo accettare più facilmente. Non subito, ma forse prima. Forse le avrebbe fatto nuove promesse in cui riporre nuova fiducia. Forse avrebbe ceduto. Forse l’avrebbe baciato confessandogli di amarlo, forse…
Forse, forse, forse.
Le incertezze regine delle sue riflessioni non l’avrebbero portata da nessuna parte: la realtà era ben diversa, ed era l’unico appiglio. La sua realtà aveva quattro anni, i capelli ribelli e un’immensa voglia di giocare, e si era ritrovata a sua insaputa sbalzata in una situazione da romanzo; era Helena la sua realtà, e su di lei avrebbe dovuto concentrare tutti i suoi sforzi.
Le parole di Graham non avevano che ribadito ciò di cui era convinta: il poliziotto era rimasto con lei fino all’ultimo, incurante di poter passare guai coi superiori, e aveva approfittato di un momento in cui le altre avevano allontanato Helena per parlarle.
- Non sapevo fosse Robert Gold, – aveva detto.
Belle non aveva voglia di rivangare il passato, non in quel momento almeno, e soprattutto non con Humbert; ma evitarlo lo avrebbe ferito ancor più che rispondergli.
- Lo sapeva solo Ruby, – aveva risposto – Lavoravo da lui cinque anni fa.
- Ti ha… Si è approfittato di te?
L’insinuazione, per quanto potesse far male, era plausibile.
- No, – aveva reagito subito – All’epoca ti ho raccontato la verità. Stavamo per sposarci, anche se può sembrare assurdo che lui si sia proposto a una domestica. Poi tutto è finito, ma mai, mai mi ha sfiorata contro la mia volontà.
- Ti ha lasciata a pezzi. A pezzi, e incinta. Ti ha fatto una promessa che non ha mantenuto, non ti ha cercata, addirittura non sapeva che Helena esistesse, – il poliziotto cercava di mantenere la calma, ma il tono tradiva l’ira crescente nei confronti dell’altro – Belle, io… Io non so cosa dire. Penso solo che si sia comportato nel peggiore dei modi, un modo che lo rende indegno di esser definito uomo. E penso che, come non hai dimenticato ciò che ti lega a lui, tu non debba nemmeno dimenticare cos’ha fatto. Lo devi a Helena.
- Non l’ho dimenticato. Non ho dimenticato nulla, e non ho intenzione di cascare ai suoi piedi solo perché è tornato. Lo devo a Helena, e ancor prima lo devo a me stessa. Ciò che provo non mi condizionerà.
Spesso, in quei cinque anni, Belle si era sentita stupida. Avrebbe fatto meglio a sforzarsi per considerarlo un capitolo ormai concluso della sua vita, come aveva pensato fuggendo da Kensington: un capitolo che le aveva dipinto l’anima cambiandola per sempre, che le aveva lasciato il regalo più bello, ma per cui era ormai giunta l’ora di andare oltre.
Del resto, la ragione l’aveva sempre messa in guardia: era un amore impossibile, non poteva finir bene; doveva imparare ad accettare i fatti una volta per tutte.
Il problema di Belle era però diverso: lei non riusciva neanche a impegnarsi per smettere di amarlo. Come ci si poteva impegnare per contrastare o favorire i sentimenti? Malgrado tutto, c’erano idee cui la donna restava fedele; quella secondo cui le emozioni non andavano forzate, ad esempio. Il suo cuore aveva fatto propria l’opinione, l’aveva incisa nel profondo di sé con lo stesso inchiostro indelebile con cui aveva tatuato il nome di Robert; e alla fine, ancora una volta si era arresa alla realtà. Lo amava; lo amava ancora, lo amava sempre, e la logica non l’avrebbe aiutata a cambiare quel dato di fatto.
Ma tra questo e il condonargli ogni errore c’era una differenza di non poco conto; e questo, questo era qualcosa che non poteva concedergli senza soffermarsi a riflettere sulle conseguenze. Non era questione di orgoglio, ma di rispetto per se stessa: come avrebbe potuto riaccettarlo fingendo che fossero stati lontani cinque minuti anziché cinque anni, dopo il modo in cui l’aveva trattata, dopo il denaro che le aveva porto quella lontana mattina? No, non era ancora in grado di farcela.
E poi, quale esempio avrebbe dato a Helena? Come si sarebbe giustificata un domani?
Sotto mille punti di vista, per mille ragioni diverse, i saggi moniti di Graham erano superflui.
Gli aveva detto che si sarebbero rivisti. Era vero, o meglio, lo sperava: c’era un motivo se ancora tornava a Kensington. Alla bambina doveva esser data la possibilità di conoscere il padre, e se già prima non aveva dubbi in merito, ora che i due si erano anche visti se n’era convinta ulteriormente. Ma  Helena andava anche protetta…
In tutto questo, di una cosa sola Belle era certa.
Da quella situazione sarebbero usciti solo parlando.
 
 
 
“My whole world surrounds you,
I stumble, then I crawl.”


 
 
Anni di pratica si erano rivelati utili: doveva ringraziare sua nonna se ora riusciva a muoversi svelta tra i tavoli, due vassoi colmi sulle braccia, senza finire faccia a terra o rovesciare un solo boccale.
Come prevedibile, il caso si dimostrava il solito burlone: mezzo quartiere pareva essersi riversato da Granny’s il pomeriggio in cui Belle non l’aiutava a servire; e così si ritrovava sola a fronteggiare una circostanza che, se difficile non era, a fatica si sarebbe potuta definire facile. A dispetto di quanto si sarebbe potuto credere, le risse erano rare nel locale, ma occorreva sempre prestare attenzione per soffocare sul nascere eventuali dissapori che un goccetto di troppo poteva far riemergere. Occhieggiò verso Leroy: per fortuna sembrava tranquillo… Il manovale era un pezzo di pane, ma alle volte il suo carattere burbero lo rendeva particolarmente suscettibile; e, incredibile a vedersi, era la piccola, minuta e all’apparenza tanto dolce Belle la più brava a trattare con gente di quel calibro, a non perdere la calma e sapere sempre ricondurla a ragione.
- Ho una certa esperienza con le bestie, – l’amica aveva risposto una volta con un sorriso triste impossibile da fraintendere.
A Ruby, Robert Gold era parso molte cose: superbo e distaccato, arrogante e sarcastico; a suo modo forse anche affascinante con quell’aura di potere che l’attorniava; inquieto e – se non stesse parlando di lui l’avrebbe affermato senza remore – quasi spaventato quando gli era stato proposto di vedere Helena; ma non pericoloso.
In fondo, però, lei non lo conosceva e non poteva giudicarlo, su questo Granny aveva ragione; e il trattamento che aveva riservato alla sua migliore amica era tutt’altro che lodevole: solo per questo, Ruby gli avrebbe volentieri spezzato le ossa una a una.
Sospirò, prendendo l’ennesima comanda. A Belle avrebbe fatto bene uscire, fare due passi e sfogarsi, parlare di quanto successo, piuttosto che tenersi tutto dentro e farlo marcire: era la prima a sostenerlo quando era lei a star giù, e non era certo persona da predicare bene e razzolare male. Ma quel giorno, proporle di separarsi dalla figlia per più di mezzo minuto sarebbe stata follia; e la giovane poteva capirla. Sua madre se n’era andata quando era bambina, ed era stata la nonna a crescerla; e le mille volte che – da piccola e da grande – Ruby si era messa nei guai, l’anziana aveva reagito proprio come Belle: forse l’aveva rimproverata più duramente, ma era sempre rimasta al suo fianco, sostenendola e dimostrandole tutto l’affetto che provava. E se persino una donna che non amava indulgere in carinerie come Polly Lucas si comportava in tal modo, era facile immaginare il comportamento della French…
Ruby stava tornando in cucina quando lo vide seduto a un tavolo. Lo notò perché, proprio come Gold quella mattina, non c’entrava niente con l’ambiente e le persone circostanti. Gli avventori abituali erano gente semplice, abbruttita dal lavoro, dalla povertà, dall’alcool o semplicemente dalla vita stessa, gente che a cinquant’anni ne dimostrava spesso venti in più; e tra le grinte, le ghigne e i musi, lui non poteva che risaltare.
Pallido e biondo, in un completo di ottima fattura e con una valigetta simile a quella dei medici sulle ginocchia; ma ciò che colpì maggiormente Ruby fu l’atteggiamento mostrato: l’uomo dardeggiava occhiate sospette attorno a sé con aria altera e sprezzante, quasi si ritenesse superiore alla marmaglia che lo circondava e volesse sbrigare in fretta i propri affari per poter tornarsene cheto alla pace dei quartieri alti.
Un atteggiamento che già da solo sarebbe stato sufficiente a indispettirla e a farlo attendere più a lungo, se anche non ci fosse stato un seguito; seguito che, purtroppo, ci fu.
Nell’istante stesso in cui adocchiò la cameriera, il signorino spalancò le palpebre e lasciò scivolare lo sguardo lungo il corpo della ragazza, soffermandosi con fin troppo interesse sulla vita e su quanto lasciato scoperto dall’abito.
Ruby imprecò. Da quando aveva tredici anni, gli sguardi maschili non le davano tregua: aveva ormai perso il conto delle volte in cui uomini fin troppo insistenti l’avevano invitata in vicoli bui per attività assai poco innocenti. Era consapevole della propria bellezza, e non aveva alcuna intenzione di castigarla in abiti monacali per distogliere attenzioni sgradite: le piaceva curarsi, le piaceva divertirsi e scherzare anche coi ragazzi, sebbene per qualcuno ciò fosse sinonimo di frivolezza; non le piaceva essere additata come una sgualdrina solo per questo. Odiava le voci che corteggiatori respinti e coetanee invidiose facevano circolare sul suo conto, e si affrettava a zittirle prima che giungessero all’orecchio di Granny – più per risparmiarle l’ennesimo dispiacere che per altro: ormai era più che capace di difendersi da sola da simili attacchi.
- Sorella, – la richiamò Leroy quando gli passò accanto – Quello ti sta mangiando con gli occhi, e qua tutti se ne sono accorti, – accennò ai colleghi, che annuirono serissimi – Gli diamo una lezione?
Ruby sorrise suo malgrado. Per quanto fosse affezionato alla bottiglia, ancora una volta l’uomo dimostrava più spirito cavalleresco di molti gentiluomini che, di gentile, alla fine avevano solo il faccino.
- Non ce n’è bisogno, – lo tranquillizzò – La vecchia Ruby gli renderà pan per focaccia. Guardalo in faccia e dimmi se è contento di stare qui…
 
 
 
La situazione era alquanto ridicola. La cameriera gli era sfrecciata davanti una dozzina di volte, e sempre, sempre aveva deliberatamente finto di ignorarlo, quando invece era palese che si fosse accorta della sua presenza da tempo: Viktor aveva provato più volte a carpirne l‘attenzione, e il ghigno rivoltogli pochi minuti prima aveva dissipato ogni dubbio.
Che stesse aspettando dei complici per aggredirlo? Non era una possibilità da escludere, viste le canaglie che lo circondavano e che sarebbero state ben felici di derubarlo e strangolarlo per puro diletto… Avrebbe chiesto un onorario indimenticabile a Gold per quella gitarella fuori porta, poco ma sicuro. E non avrebbe più accettato simili incarichi, sì.
La ragazza, non poteva comunque negarlo, era davvero un bel vedere: il corpetto che le fasciava il busto lasciava scoperta una generosa porzione di seno e, alta e sinuosa com’era, sotto la gonna doveva nascondere due gambe da capogiro. Decisamente troppo bella per fare la servetta, decretò il medico: il luccichio malizioso degli occhi verdi la diceva lunga in proposito.
Gold era un intenditore, doveva riconoscerglielo; e il pensiero gli fece montare un altro impeto di rabbia. Perché diamine lui doveva starsene lì, a farsi schernire dalla donnina con cui l’altro se la spassava, quando avrebbe potuto guadagnare soldi facili prescrivendo cure inutili per gli acciacchi immaginari di vecchie nobildonne? E non venissero a propinargli gli ideali romantici cui alcuni colleghi erano tanto legati: la vocazione del medico, la missione del dottore e stupidaggini simili erano baggianate che su di lui non avevano presa!
Si alzò di scatto e andò al bancone, vicino al quale la bruna era di spalle. Non fece in tempo a sfiorarla che si ritrovò – solo in seguito si sarebbe chiesto come, stupendosi per la forza della giovane – spalle al muro, un coltellino spuntato da chissà dove puntato al collo e un ghigno quasi animalesco a distorcerle il sembiante sino ad allora tanto gradevole.
- Avete guardato a sufficienza? – chiese ironica, forte della sicurezza che l’ambiente familiare le conferiva – O non vi basta, signore? – non nutrendo un particolare desiderio di conoscere anzitempo l’umidità di un sepolcro ad Highgate4, Whale preferì tacere – O mi dite cosa volete, o ve ne andate. E vi ricordo che da Granny’s non sono graditi clienti che non consumano.
- Sono un medico, – provò, pregando che il titolo accendesse timore reverenziale nella belva umana.
- Non sono graditi medici che non consumano, allora.
- Cerco… Cerco due donne… Belle French ed Helena.
L’arma appena allontanata tornò a premere. Victor calcolò che in quella posizione un solo movimento brusco sarebbe bastato a recidergli la carotide.
- Cosa volete da loro?
- Cosa può volere un medico da due pazienti? – si pentì della provocazione nell’istante stesso in cui gli abbandonò le labbra. Serrò le palpebre, in attesa di un taglio che non giunse.
Socchiuse un occhio: all’improvviso, una scintilla di dubbio pareva scalfire la convinzione della donna. Ecco ciò su cui far leva, provò Viktor appena prima che lei gli soffiasse contro perentoria: – Chi vi manda?
Uno che spennerò con le mie mani se uscirò vivo da questo covo di delinquenti.
Tutt’attorno gli altri continuavano imperterriti a bere, fumare e giocare a carte, senza accorgersi – o accorgendosi fin troppo bene? – della scena che si stava svolgendo a poca distanza. Non uno si era fatto avanti in difesa dell’uomo, lasciandolo alla mercé della ragazza più bella e più pazza che avesse mai visto. Un pericolo ambulante. Ucciso da una sirena, che l’aveva attirato a sé per inferigli il colpo di grazia. Suo padre diceva sempre che avrebbe fatto una brutta fine…
- Chi vi manda?
Non sarebbe certo morto proteggendo il suo nome.
- Gold. Robert Gold.
A un tratto la sensazione di freddo della lama scomparve. Whale vacillò, le gambe non più in grado di mantenerlo dritto.
La cameriera continuava a studiarlo torva, gli occhi fissi su di lui mentre soppesava quanto appena udito e il da farsi; ma quando si ha un coltello tra le mano, gli equilibri son presto definiti.
- Un passo falso e non sarò più tanto gentile, – minacciò Ruby, indicandogli la strada e restandogli alle calcagna – E comunque… Perché diamine non avete detto subito che vi manda Gold?
 
 
 
“Nobody told me what you thought,
nobody told me what to say,
everyone showed you where to turn,
told you when to runaway.”
 
 
 
Quando aveva riconosciuto la calligrafia del biglietto, in un primo momento Gold aveva pensato a un errore.
L’aveva afferrato per accertarsene, ripetendosi che era follia, che non poteva aver veramente osato tanto, ma ben presto aveva dovuto rassegnarsi alla realtà: la spudoratezza di certe persone non conosceva limite alcuno.
Il destino lo voleva morto, ecco l’unica spiegazione: come spiegare altrimenti l’incontro con Belle French, la scoperta di Helena, e ora l’invito a cena di Cora Mills? Un invito quanto mai sospetto: era a Londra da qualche settimana ormai e tutti ne erano a conoscenza, eppure la Contessa l’aveva pervicacemente ignorato… Salvo rifarsi proprio il giorno dopo essere incappato in Belle. La coincidenza era troppo casuale per essere vera; e per lui, le coincidenze di Cora Mills non esistevano più.
Ma quell’inaspettato cambio di rotta poteva avere un suo perché; un perché scritto a chiare lettere nella postilla che aveva fissato a lungo.
Ci sarà anche Regina.
Certo, aveva letto dell’epidemia che si stava diffondendo nella zona in cui viveva la ragazza; la madre doveva averla ritirata per evitare un contagio. Una scelta saggia, su questo non avrebbe potuto che convenire se in quel momento la sua mente non fosse stata volta altrove.
Quando aveva pensato che al nome di Belle passato e presente si sarebbero fusi aveva senza dubbio goduto del dono della preveggenza: quanto stava accadendo non aveva altra spiegazione.
Attuando la decisione di occuparsi almeno materialmente della bambina, aveva mandato il dottor Whale a Whitechapel. Era già intervenuta quell’Astrid, vero, ma personalmente non riusciva a fidarsi di qualcuno che inciampava nei suoi stessi piedi e vagava spaesata come se avesse ricevuto una micidiale botta in testa. Avrebbe potuto accompagnare il suo messo: desiderava tanto rivedere Belle, proseguire la loro discussione e guardare ancora quegli occhi belli da far male, ma cos’avrebbe potuto fare, cos’avrebbe potuto dire? “Passavo da qui, perciò…”? Non era un’ipotesi da scartare, ma lui non l’avrebbe seguita. L’incredulità, la paura, i sensi di colpa erano i deterrenti più efficaci che esistessero.
Aveva ancora bisogno di tempo, di una riflessione che si traducesse in gesti e parole ben ponderate; aveva bisogno di un piano.
E a tutto ciò ora si aggiungeva il ritorno a casa della piccola Mills. Nonostante l’astio nei confronti della mittente dell’invito, quando aveva letto il post scriptum non aveva avuto dubbi.
Sarebbe andato alla cena.
Avrebbe concentrato le sue attenzioni su Regina: era giunta l’ora di chiederle scusa per il trattamento riservatole. Forse rivederla gli avrebbe fatto bene: gli avrebbe ricordato la bambina che era stata, l’epoca in cui era stato certo di esserne il padre e si era comportato di conseguenza sebbene, almeno ufficialmente, Regina un padre l’avesse già. Forse grazie a lei avrebbe ritrovato la forza necessaria per prendere in mano le redini della situazione, capito cosa tornare a fare, come farlo; non ci si dimentica di essere stati genitori.
Sì, ma con Neal era stato un conto, con Regina un altro, e ora con Helena un altro ancora. Come poteva fare il padre di una bambina che non conosceva, di cui aveva perso i primi fondamentali e irripetibili anni di vita? Se gli fosse passata accanto in circostanze diverse non l’avrebbe nemmeno riconosciuta.
E così eccolo, con la testa tra le nuvole e il corpo nel salottino di una Cora che l’aveva accolto come se nulla fosse cambiato. Come se fossero ancora amici, come se gli anni di separazione e ciò che li aveva preceduti non fossero esistiti. Si complimentava per il suo aspetto, chiacchierava del più e del meno, lo metteva al corrente degli scandali che si era perso e degli ultimi capricci della moda. Era invecchiata bene, Cora: gli anni non l’avevano rovinata, ammantando piuttosto la sua bellezza decisa di una patina di ulteriore fascino. Gold non aveva dubbi sul fatto che la donna sapesse giocare ancora alla perfezione le sue carte, e che alla prima occasione avrebbe provato a sfoderarle contro di lui; ma stavolta le cose sarebbero andate diversamente.
Dopo ciò di cui si era macchiata, Cora non meritava alcuna pietà, alcuna comprensione.
Conosceva il carattere della donna e la sua abitudine a non lesinare vendetta contro coloro che si macchiavano di una qualsiasi offesa nei suoi confronti, e in più di un’occasione l’aveva sostenuta nei suoi subdoli piani.
Gli stessi piani che infine avevano toccato loro.
Che avevano toccato Belle.
Le violenze e il suicidio si erano rivelati falsità solo perché Cora non era riuscita a catturarla. Ma perché tanto astio, tanto rancore nei confronti di una persona che non le aveva torto un capello?
Un tempo Belle sosteneva che la Mills fosse innamorata di lui, ma non riuscisse ad ammetterlo neppure a se stessa.
Lui, che per lunghi anni aveva avuto modo di constatarne l’egoismo e l’arguzia, non ci credeva: ogni passo di Cora era calcolato, e l’amore non avrebbe fatto eccezione; del resto, era stato proprio l’amore a spalancarle le porte dell’alta società. Ma i Mills erano tra le poche famiglie nobili a beneficiare ancora di ingenti patrimoni; anzi, sarebbe stato lui a trarre vantaggiodal titolo che l’eventuale matrimonio gli avrebbe assicurato.
No; Cora non lo amava, checché se ne potesse dire.
Se mai avesse provato un sentimento sincero per lui, avrebbe sì sofferto a causa di Belle, certo non avrebbe benedetto l’unione, ma avrebbe risparmiato loro la sofferenza cui li aveva condannati. Se all’epoca la sua così amata Sweetheart l’avesse lasciato per un altro, l’idea di ammazzare il suo sostituto l’avrebbe certo tentato, e forse si sarebbe comportato meschinamente come al solito, ma non avrebbe osato tanto, se non altro per proteggere la nuova felicità di Belle.
Il fatto che, invece, Cora avesse agito era massima prova della sua crudeltà.
Era un aspetto su cui non poteva soprassedere, su cui nessuno poteva convincerlo a soprassedere. Lei era sana e salva, ma l’inganno che lo aveva indotto a scacciarla restava; restava ciò che l’aveva costretta a rifugiarsi in una bettola e a vivervi da reclusa, e restava l’offesa arrecata a sua figlia, cresciuta come bastarda anziché come erede legittima.
Non sapeva se Belle l’avrebbe perdonato, se sarebbe mai stato un padre per quella bambina e se Regina avrebbe accettato le sue scuse, ma di una cosa era certo, una cosa che sarebbe divenuta realtà malgrado mille meschini convenevoli: Cora avrebbe presto assaggiato la sua vendetta.
Le avrebbe fatto capire che sapeva e che non esistevano più schermi dietro ai quali nascondersi; e no, non temeva ripercussioni, perché stavolta avrebbe pensato a ogni cosa. Avrebbe dato disposizioni perché la locanda fosse sempre tenuta d’occhio, e d’altro canto una parte di lui sperava che, se Belle fosse venuta a conoscenza dei rischi, sarebbe stata indotta a tornare a Kensington, dove senza dubbio sarebbe stata più al sicuro.
Probabilmente non era una mossa molto onesta nei suoi confronti, ne era ben consapevole; ma gli pareva piuttosto ragionevole, in nome della possibilità di riaverla accanto a sé e salva. Non avrebbe certo accettato di ritrasferirsi subito a Kensington, ma se l’avesse fatto tutto sarebbe stato molto più semplice…
- Oh, ecco Regina, – la Contessa esclamò a un tratto – Entra, cara, saluta lo zio.
Dio, com’era bella. Da sempre sapeva che Regina sarebbe divenuta una donna meravigliosa – cosa aspettarsi, in fondo, con una madre simile? –, ma la realtà superava le aspettative. La folta treccia arrotolata sulla nuca era sempre stata così spessa? Pareva una cascata d’ambra nera, degna di una regina oscura e terribile. Gli occhi di bistro – così somiglianti ai loro, non poté fare a meno di notare – erano più grandi di quanto ricordasse, orlati di una frangia di ciglia brune che gettavano un’ombra sugli zigomi. I tratti del viso erano più induriti, più adulti, più cupi.
Anche tu hai sofferto, Regina?
Era inutile chiederselo. Quella storia non aveva lasciato indenne nessuno che possedesse un cuore.
Si alzò e le andò incontro per un saluto che ella precedette gentile.
- Buonasera, zio, – il protocollo richiedeva che fosse il più anziano a parlar per primo, ma era un aspetto su cui si poteva andar oltre. Forse l’unica che avrebbe avuto da ridire sarebbe stata Cora; e forse, quella di Regina era un’invisibile stoccata nei suoi confronti: che il lampo brevissimo negli occhi della fanciulla o il modo in cui si era voltata appena verso la madre fossero così giustificabili?
La conversazione che seguì confermò il suo sospetto: nel tono di Regina non c’era più traccia dell’accondiscendenza che tanto spesso l’avevano macchiato in passato; e lui non poteva che gioirne. Chissà la Mills com’era soddisfatta del cambiamento della sua marionetta…
Si stupiva lui stesso del modo in cui stavano riuscendo a parlare senza intoppo alcuno: visto il modo poco cortese in cui si erano salutati l’ultima volta, aveva previsto silenzi carichi di incomprensioni, e invece, la nipote lo stava sorprendendo. Che fosse il suo modo per chiedergli scusa? In cinque anni il carattere di una persona può mutare radicalmente, e la ragazza ne era la prova.
Quando un valletto annunciò la cena, Gold le porse un braccio che ella accettò continuando a parlargli con trasporto degli studi. Cora li fulminò con lo sguardo: odiava essere estromessa dalle conversazioni con poche, fredde paroline, e lui lo sapeva bene; era proprio questo il suo fine. Metterla all’angolo, vederla camminare a passi quasi rabbiosi dietro coloro la cui attenzione più ambiva ad attirare e annaspare perché ignorata era la prima soddisfazione che intendeva prendersi. Ecco come sarebbero andate le cose, ecco cos’avrebbe ottenuto da lui quella sera, tanto per cominciare. La sua presenza gli impediva di confrontarsi apertamente con Regina; ulteriore nota di demerito che non avrebbe mancato di farle presente quando sarebbe giunta l’ora del giudizio.
Tuttavia, appena la conversazione conobbe una breve stasi, Cora partì all’attacco.
- In tutto ciò, Robert caro, prima che fossimo interrotti, – Regina strinse la posata con foga appena percettibile – Stavamo facendo un discorso interessante. Negli ultimi anni la città è cambiata non poco… Come state trovando la nuova Londra?
Gold non avrebbe mai smesso di stupirsi del modo in cui spesso la gente offriva al proprio rivale l’occasione di farsi abbattere.
Grazie, Cora.
- Un autentico paradiso, Milady. Sapete, –inclinò il capo, la bocca appena curvata da un sorriso beffardo – Ho recentemente rincontrato persone che, secondo le voci, sarebbero dovute esser morte da tempo. Da prima della mia partenza, per l’esattezza.
Quando la Contessa alzò il volto di scatto, trovò di fronte a sé un Gold che alzava il bicchiere in segno di brindisi e sorrideva allusivo.
Non è possibile.
Regina si rese conto dell’atmosfera improvvisamente calata sulla sala. Si voltò verso i commensali senza riuscire a comprendere cosa fosse successo; perché – era evidente – qualcosa era successo. Ripercorse la conversazione condotta senza individuarvi alcunché di strano; e anche la domanda posta da sua madre le pareva tranquilla. Doveva nascondersi qualcosa nella risposta dello zio, qualcosa che aveva turbato la nobildonna nell’istante stesso in cui l’aveva colta. Qualcosa sui defunti, ma chi? Che lei sapesse, nessuno di loro conoscenza era venuto a mancare.
Scorgendo la smorfia rigida sul volto della madre, si chiese se fosse davvero il caso di proporre allo zio ciò che aveva in mente le era balenato in mente qualche giorno prima e che, fino a pochi istanti prima, non le era parsa inopportuno.
- In tutto ciò, Dearie,  – Gold volse nuovamente la propria attenzione alla nipote – Di cosa stavamo parlando, prima che fossimo interrotti?
In tutta sincerità, si disse Regina,personalmente avrebbe gradito un ulteriore istante di riflessione.
 
- Zio… Mi chiedevo se potessi passare qualche giorno da voi a Kensington.
 
 
 
“ - this pain you gave to me.”
“Blurry” - Puddle of Mudd
 
 
 
 
 
1: “cockney” è l’aggettivo che si usa per indicare ciò che riguarda gli abitanti dell’East End e, in particolare, il particolare dialetto di quella zona. Vi lascio due link davvero interessanti: http://it.wikipedia.org/wiki/Cockney e http://www.londraweb.com/cockney_accento_di_londra.htm;
2: “Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si consumano al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente: l'amore che dura fa così. (Frate Lorenzo: atto II, scena VI, “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare);
3: Per il background di Viktor Whale mi sono ispirata in parte a quanto visto nella puntata 2x12, da cui ho tratto alcune frasi, e in parte a “Frankestein” di Mary Shelley: lo scienziato protagonista, infatti, vive a Ginevra, legge in giovane età le opere di Paracelso, Cornelio Agrippa e Alberto Magno e studia nella città tedesca di Ingolstadt;
4: Highgate è uno dei principali cimiteri londinesi. Vi sono sepolti personaggi del calibro di Christina Rossetti, George Eliot, Herbert Spencer… - http://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_di_Highgate;
 
 
 
 
 
N. d. A. : Hello, Dearies! :D
Innanzitutto grazie mille per essere arrivati sin qui nella lettura - e, ovviamente, grazie mille a chi lascerà una recensione e/o aggiungerà la long a una lista! Siete adorabili, lo ribadirò fino all'ultimo. ♥
Anche stavolta mi rimetto al vostro giudizio sul capitolo: segnalate i vari IC, OOC e simili senza timori, perché il vostro aiuto è fondamentale. Non lo scrivo “tanto per”, o per allungare il già eccessivo brodo, ma perché credo che si migliori anche e soprattutto prestando ascolto ai consigli. Perciò fatevi sotto! ;)
I FrankenWolfen sono – erano, vista la loro sparizione – l’amore. Saranno anche rimasti fanon, ma questo non mi impedisce certo di adorarli: se già impazzisco per Ruby e Whale presi singolarmente, immaginate l’effetto che assieme mi procurano. Li trovo deliziosi, pertanto ho deciso di svilupparli un pochino.
Vedremo tra un po’ le conseguenze della richiesta di Regina e la reazione della sua dolce mammina. Non temete – più o meno.
Comunicazione di servizio: per una volta l’appuntamento quindicinale salterà. Aggiornerò la fanfiction sabato 22 febbraio e, a partire da quella data, si tornerà al ritmo consueto. Mi scuso per questa mini-pausa, ma vi prometto che ho in serbo tante belle cose – lascerò qualche spoilerino su “Euridice’s world”, e in anteprima vi dico che il prossimo capitolo sarà quasi interamente RumBelle… Spero di ritrovarvi tutt* qui! ♥ ♥ ♥
A presto, e “Keep calm and RumBelle on”, babies! :* XD :*
Euridice100

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Capitolo 6
*** V - Love (will come through) ***



 
 
 
V - Love (will come through)
 
 
 
“If I told you a secret
you won't tell a soul,
will you hold it and

keep it alive?”
 
 
 
“Abbiamo un discorso da concludere.
Possiamo incontrarci?
R.G.”
 
Dopo sei giorni di silenzio ecco quel biglietto, che Reed le aveva consegnato senza alcuna spiegazione.
Belle aveva fissato a lungo il foglio prima di scarabocchiare la risposta: le lettere erano quasi illeggibili, ma era certa che lui avrebbe capito – non che ci fosse poi molto da capire in un e in un’indicazione, per quanto confusa quanto lei.
Non era convinta di aver preso la scelta giusta. Da una settimana sperava segretamente che Robert si rifacesse vivo in un qualsiasi modo, ma il biglietto ricevuto l’aveva comunque colta di sorpresa e, per un momento, le aveva accelerato il battito. Non negava che una parte di lei, la più romantica, la più sognatrice, quella comunque innamorata, leggeva tra le righe una sorta di richiesta; come se il confronto sulla figlia fosse sì importante, ma pur sempre un pretesto per rivedersi, per stare assieme e parlare di loro, del modo in cui si erano lasciati e dei passi che ora avrebbero potuto compiere.
Quasi una sorta d’appuntamento.
Represse per l’ennesima volta l’impulso romantico, immaginando di colpirlo con la stessa foga con cui stava lottando col mattarello per vincere la resistenza della sfoglia nella cucina dell’orfanotrofio di Tink. Ci era andata con Helena, che subito era corsa a giocare con gli altri bambini, e con Ruby, la quale stava raccontando alla Barrie del dottor Whale e di quanto l’avesse indispettita; una storia che Belle avrebbe potuto ripetere a menadito, tante erano le volte che l’aveva sentita.
Sarebbe potuto venire direttamente lui, anziché inviare bigliettini tramite il suo scagnozzo.
Sarebbe stato più corretto, più determinato.
Più coraggioso.
Almeno, concentrarsi sul lavoro e ascoltare i problemi di Ruby erano diversivi per sfuggire ai propri dilemmi. Era sempre pronta ad aiutare quell’amica che sarebbe stato meglio definire sorella, e darle consigli che poi lei finiva puntualmente per disattendere era un onore, più che un onere. Ma il modo accanito in cui la giovane ripercorreva quanto successo le aveva fatto balenare una teoria che fino ad allora ancora non aveva avuto modo di illustrare.
- … e mi fissava il cu…
- Ruby! – la sgridarono contemporaneamente Belle e Tink, occhieggiando verso i bimbi. Nelle strade di Whitechapel i turpiloqui erano ordinaria amministrazione; cercare di evitarli almeno negli ambienti familiari era il minimo.
- Il cuore, donne di poca fede, come vi dicevo mi fissava il cuore. Il che non si discosta poi molto dalla verità, visto il modo in cui mi guardava anche il corpetto… Mezzo locale stava per imbracciare le armi e…
- … E scendere in guerra in difesa del tuo onore, – l’anticipò Belle – Sì, solo oggi l’hai detto appena dieci o quindici volte, e tutte condividiamo il tuo sdegno. Solo una cosa non mi è chiara: mezz’ora fa quei tizi ti hanno fischiato dietro, e ogni volta che ti incontra il ragazzo del pane rischia di andare a sbattere a furia di sbirciarti. Perché non ti lamenti con tanta foga anche di loro, oltre che di Whale?
- Come perché? – Ruby aggrottò le sopracciglia, come perplessa dalla domanda – L’abito non fa il monaco, vero, ma quello era un dottore! Uno che ha studiato, che dovrebbe avere una certa educazione e una certa classe… Che non dovrebbe comportarsi così!
Belle represse una risata amara. Aveva già avuto modo di far presente all’amica che ricche o povere, colte o ignoranti, le persone non sono tanto facilmente catalogabili: l’imprevedibilità è cifra dell’animo umano, e un’ascendenza è tutto fuorché garanzia di nobiltà.
- Però anche tu l’hai squadrato ben benino fino all’ultimo, – la provocò, facendo l’occhiolino a Tink – Ed era piuttosto carino. Che il tuo fervore sia dovuto anche a questo?
- Ah-ah! – fece eco la volontaria – Questo particolare ti era sfuggito! – le due risero dinanzi al rossore che colorì le guance della Lucas – Cos’è, alla nostra selvaggia amica batte forte forte il cuore al pensiero del dottorino?
- Ma se a malapena so come si chiama! – l’oggetto della burla tornò subito in sé – E poi, come io non conosco lui, lui non conosce me e i miei oscuri segreti. Per esempio, non sa che durante le notti di luna piena io… – s’interruppe in una pausa fin troppo drammatica, un ghigno esagerato stampato sul bel volto – … Mi trasformo in un lupo mannaro affamato di bambine curiose! Auuuuuh! – si voltò di scatto e afferrò Helena, comparsa in punta di piedi alle sue spalle, iniziando a farle il solletico.
- Bugia, tu passi le notti russando! – la piccola si divincolò tra una risata e l’altra.
- Impressione tua, dolcezza, quello in realtà è il mio verso! – ululò ancora a una luna invisibile, prima di lasciar andare la bimba e tornare seria – Scherzi a parte, Whale potrà essere bellino quanto vuole, ma questo non basta a farmi perdere la testa. Io non voglio diventare vecchia qui, voglio andarmene da Londra, viaggiare per il mondo! Una volta un ragazzo mi ha parlato di un posto con tanti templi in cui vivono animaletti di nome lemuri… Dai, facciamolo, – giunse le mani come in preghiera – Prepariamo i bagagli e partiamo all’avventura! Che ne dici, Belle? Dove vorrebbe andare Helena? – non ricevendo risposta, provò a scuoterla – Belle? Belle, tutto bene?
- Cosa? – l’interpellata si riscosse appena.
- Come “cosa”? Ti ho chiesto che Paese vorrebbe visitare Helena! Oggi hai proprio la testa tra le nuvole…
- Hai ragione, – si scusò Belle. Ma la sua distrazione aveva una ragione che meritava di essere condivisa, se non altro per conoscere l’altrui parere – Stamani ho ricevuto un biglietto da lui.
Nella stanza parve piombare di colpo il silenzio, malgrado il brusio allegro dei giovanissimi ospiti. Le altre trattennero il respiro, in attesa che Belle tornasse a parlare.
- Ah, – fece Ruby – E…?
- E niente. Dobbiamo terminare il discorso iniziato da Granny’s – praticamente una lite – e mi ha proposto di vederci per questo. Io ho accettato.
Per quella che parve un’eternità nessuna rispose.
- E vuoi sapere se hai fatto bene, – come sempre, Tink intuiva subito il cuore della questione e non si faceva remore a sottolinearlo. Assentire fu superfluo – Ti ha lasciata perché ti credeva a caccia di denaro… – continuò in tono cupo.
- Lo so, – Belle abbassò le ciglia – Non c’è bisogno di ricordarmelo. Ma questo non è un appuntamento. Dobbiamo parlare di Helena, ecco quanto, e a dirla tutta in questo sono d’accordo con lui. Ma non è un appuntamento – non nel senso che intendete voi, almeno.
- Sai, – Ruby provò a sdrammatizzare – Per citarti, il fatto che tu ribadisca tanto il concetto ha un che di sospetto…
- No, – il tono della donna non diede adito a repliche – Questo non è uno scherzo. Quanto ha fatto resta, e non ci passerò sopra solo perché ora è di nuovo qui. È una questione di dignità, e se anche ne fossi priva la situazione non cambierebbe: adesso non conta solo ciò che io vorrei, ma soprattutto ciò che è meglio per Helena. È giusto che conosca il padre, ma al tempo stesso…
- Temi possa sparire di nuovo, – Tink concluse nuovamente la frase per lei, dando voce ai suoi timori più reconditi. Belle cercava di non pensare nemmeno a una simile eventualità: perché il destino avrebbe dovuto farli rincontrare e separare nuovamente? Più di una volta la vita le aveva mostrato il suo lato più beffardo, ma questo… Questo non poteva accettarlo. Non per lei, ma per la loro bambina – com’era strano definirla tale, ora che anche lui ne era a conoscenza. L’idea che qualcuno potesse infliggerle un dolore l’atterriva come poche altre.
- Non avrei dovuto mostrargliela, – si accusò Ruby, evitando le amiche – Magari se non l’avesse vista non ci avrebbe più pensato. Mi spiace averti messa in questa situazione.
- No! – Belle scosse il capo decisa e le strinse le mani – Non hai nulla di cui scusarti, te l’ho già detto. Ti sei comportata nel modo che ritenevi più corretto, e l’hai fatto perché per tutti questi anni io ti ho parlato di Robert e di quanto sarebbe bello far conoscere lui ed Helena. Cosa che sostengo tuttora, – berciò un’occhiata verso Tink – È un loro diritto, ora che è tornato, ora che… – ora che vuol essere presente nella sua vita, stava per dire; ma si frenò prima di pronunciare parole ottimistiche che sarebbero potute essere smentite – Se li avessi voluti tener separati avrei mentito. Non avrei corretto l’equivoco, gli avrei fatto credere stessi con Graham e saremmo tornati tutti alla solita vita. Ma non l’ho fatto, – ribadì – Non l’ho fatto perché altrimenti non sarei più stata in grado di guardare negli occhi nostra figlia e di rispondere alle sue domande sapendo di mentire. Se proprio dobbiamo trovare una colpevole, sono io.
- Lo ami ancora? – la domanda, così diretta ed esplicita, non la colse di sorpresa. La naturale schiettezza della Barrie non si era assopita nel tempo, anzi: anni trascorsi a prodigarsi per i più deboli l’avevano anzi rafforzata, rendendola il tratto dominante la sua indole. Nei bassifondi aveva capito che eufemismi e maniere affettate non l’avrebbero aiutata nella sua difficile missione: allontanavano, anziché avvicinare, insospettivano piuttosto che infondere fiducia; proprio ciò che la donna intendeva evitare.
La reazione di Belle fu tanto semplice quanto dolorosa.
- Ho Helena cui pensare, – esalò concentrandosi sui grumi della sfoglia.
- Certamente. Però io ti ho posto una domanda diversa, e per una volta vorrei fosse la Belle-donna, non la Belle-mamma, a rispondere. E non mi dire che sono la stessa persona, – l’anticipò – Perché lo so, ma esser diventati genitori non significa aver preso i voti e chiuso col mondo. Perciò, a prescindere da Helena, sii sincera: tu lo ami ancora?
Ruby si leccò le labbra, memore degli infiniti discorsi in merito e consapevole della risposta che l’amica, dopo aver preso un profondo respiro, s’accingeva a pronunciare.
- Vorrei che non mi avesse cacciata, – le parole, si rese conto Belle, le premevano in gola, quasi desiderose di rompere ogni argine e far risaltare la verità – Vorrei avesse creduto a me anziché a lei, che almeno una volta avesse combattuto per noi come io ho fatto mille volte. Vorrei avessimo ottenuto il nostro lieto fine. Avrei voluto che per tutti questi anni fosse sempre stato lui a svegliarmi la mattina, come faceva un tempo – mi toccava il naso e rideva delle mie smorfie, e credimi, per me la sua risata era quanto di più bello potessi udire. Avrei voluto viaggiare con lui, vivere un’avventura, visitare il mondo e i luoghi in cui è cresciuto, in cui è vissuto con suo figlio. Avrei voluto lui accanto quando ho scoperto di Helena, avrei voluto fosse stato lui a rassicurarmi, a prenderla in braccio sin dal primo giorno. Avrei voluto sposarlo. In una sola frase, avrei voluto vivere con lui. Quindi, – disse infine – Sì, lo amo ancora. E proprio per questo, ora, non posso perdonarlo.
 
 
 
“ ’Cause it's burning a hole,
and I can't get to sleep
and I can't live alone
in this life.”
 
 
 
Belle aveva accettato di vederlo. Di rincontrarlo, di fermarsi e chiarire una situazione ancora troppo, troppo sfumata. Non vedeva l’ora che arrivasse il pomeriggio: di mattina aveva provato a lavorare, ma non aveva combinato granché, tanto che a un certo punto aveva chiuso di netto il libro mastro e, per la prima volta dopo tanto tempo, si era seduto all’arcolaio. Concentrarsi sul filo e sulla ruota lo aiutava a non pensare, e non pensare significava non illudersi su quanto sarebbe successo – o non successo – di lì a poche ore.
Era inutile farsi tentare da pronostici: sarebbe stato più saggio considerare l’appuntamento come un incontro d’affari in cui due parti divergenti avrebbero cercato di scindere il nodo sul punto sensibile del loro disaccordo, ignorando bellamente il passato comune. Nessuna complicazione, nessun ieri: solo l’oggi e il possibile domani, i pro e i contro, l’attivo e il passivo in un gioco di concessioni reciproche.
Se cinque anni prima Robert Gold avesse saputo trattare in modo simile Belle French, la sua vita sarebbe stata infinitamente più semplice.
La questione era quanto di più lontano potesse esserci da un affare. C’era di mezzo troppo: troppo passato, troppo presente, troppe sorprese e troppa, troppa paura. I sentimenti erano un campo in perpetuo moto, in cui era facile scivolare e in cui lui si era già trovato a muoversi privo della preparazione necessaria.
Ma la preparazione di una vita basterebbe comunque per un grande amore?
Aveva più paura di Belle che dell’argomento che avrebbero toccato. Perché se la bambina era un dato di fatto, una realtà materiale che si poteva solo riconoscere e curare, il passato di cui ella era prova sarebbe sempre stato un fantasma tra i suoi genitori; e fingere di averlo dimenticato era un’illusione che solo chi non aveva vissuto nulla di simile poteva concedersi.
Ci sarebbero sempre state lei, il cuore vuoto e la tazza sbeccata che gli aveva lasciato andandosene e che lui non sarebbe mai stato capace di dimenticare: il labirinto dei ricordi l’avrebbe inghiottito appena avrebbe rivisto Belle. Si diceva spesso “meglio tardi che mai”, ma lui non ne era del tutto sicuro: per quanto desiderasse rincontrarla, non era forse meglio attendere ancora, procrastinare anche solo di qualche giorno per raccogliere il coraggio necessario?
Sì.
Ma Belle non gliel’avrebbe mai perdonato.
E comunque, ormai era troppo tardi: seguendo la guida della donna, aveva fatto condurre la carrozza per un reticolo di chiassuoli celati dall’arteria principale, fino a giungere sul retro della locanda. Alte mura circondavano una porticina dinanzi alla quale la vettura si fermò per farlo scendere.
È il momento della verità.
Tergiversò ancora un istante prima di avanzare, sentendosi come un condannato a morte: il profilo inquietante della forca si stagliava all’orizzonte.
 
 
 
Nella sua vita, Belle non era mai stata schiava della tirannia della vanità. Era graziosa, glielo dicevano tutti, ma la cosa non la colpiva più di tanto: non c’è alcun merito nell’essere belli, è un dono per cui ringraziare la Natura e nulla più; sono altre le doti da coltivare, le virtù che fanno la differenza al mondo.
E allora, perché si ritrovava alla veneranda età di ventotto anni, con una figlia e mille preoccupazioni, a lambiccarsi il cervello prima dell’incontro con Robert?
Voleva piacergli, inutile negarlo. Tra sé e sé era convinta che non avesse nulla da rimproverarsi in merito, che fosse piuttosto una reazione spontanea, proprio come quando aveva capito di esserne attratta e quasi inconsciamente aveva iniziato a pettinarsi meglio ogni mattina, a sistemarsi l’uniforme con più cura del solito e altri piccoli gesti simili; e, in tutta onestà, Belle teneva ancora a presentarsi al meglio – o almeno a non apparire dimessa e scarmigliata come se avesse corso per mille miglia inseguita da una muta di belve inferocite.
Facile a dirsi; molto meno a farsi quando si ha a disposizione ben poco.
Si sistemò lo chignon cercando di convincersi che il risultato finale non fosse dei peggiori e di contrastare la voce secondo cui con quelle occhiaie avrebbe fatto meglio a chiudersi in casa e non farsi più vedere in giro.
Ragionamenti più degni di una ragazzina alla prima cotta che a una donna adulta, stupida che non sei altra.
Non aveva neanche messo piede sul primo gradino quando vide Ruby avanzare di corsa verso di lei.
- Ferma lì! – la ragazza le puntò contro l’indice – Non sfuggirai al mio giudizio! Avanti, vediamo come ti sei conciata…
La risata di Belle sfumò in un sorriso incerto mentre apriva lo scialle e accennava una piroetta sul posto.
- Allora? – attese il responso mascherando l’inquietudine – Prova superata?
L’amica si massaggiò il mento meditabonda.
- Sai, – sentenziò infine – Penso che in blu staresti meglio. La prossima volta scegli quel colore per l’abito buono.
Ma da cinque anni lei provava a esiliare i ricordi di cui il blu sarebbe stato foriero.
- La prossima volta, – annuì vaga sviando l’attenzione – Sto molto male?
- No, no! – fu prontamente smentita – Certo, il viola ti fa sembrare più pallida, ma non è poi un male, anzi. Le nobili farebbero carte false per una carnagione così chiara, quindi diciamo che somigli a una gentildonna o…
- Era proprio mia intenzione ricordargli la Mills, grazie tante…
- …O a una suora, – Ruby la incenerì con lo sguardo – No, dico: per caso ha ragione Tink e ci siamo perse la tua consacrazione? Perché sotto hai messo una camicetta tanto accollata?
Belle levò un sopracciglio.
- L’ho sempre messa sotto questo vestito. E poi ho freddo.
- E allora hai sempre fatto male, tesoro mio, malissimo! Non tifo per Gold, ma a momenti me lo fai compatire, – voltò di peso la donna e iniziò a sbottonarle il vestito per farle togliere la blusa, ignorando i suoi miseri tentativi di divincolarsi – Non ti vede da secoli e ti ritrova più contegnosa e bigotta di una zitella acida, pover’uomo! Tu non sei così!
In effetti anche a lei stessa la mise era parsa un po’ troppo castigata, ma aveva deciso di non cambiarsi – per indossare cosa, poi? L’abito da lavoro? Voleva apparire carina, ma questo non equivaleva certo a dover uscire mezza nuda, o comunque vestita secondo i ben distanti parametri di Ruby…
- Ma neanche questo è da me, – Belle sbuffò critica – Non mi ci vedo tanto scollata, e comunque questo è incontro con uno scopo ben preciso, non…
- Non un appuntamento, certo. Ma proprio perché è un incontro d’affari, – disegnò virgolette nell’aria, palesando la sua reale opinione in tema – Devi stupire l’avversario, ammutolirlo per batterlo. E qual è il metodo migliore se non usare le armi che hai?
- Se pensi che riuscirò a distrarlo è perché non sai con chi avrò a che fare.
- Sciocchezze, in qualche modo Helena l’avete fatta, – la liquidò senza tanti fronzoli prima di scoppiare a ridere – Ma ti pare? Io devo fare simili battute, quando tra noi due quella con l’esperienza sei…
- Rubyyy! Sciagurata, dove sei finita?
- …Tu. Arrivo, nonnina, arrivo! – urlò l’interpellata affacciandosi sulle scale, prima di rivolgersi nuovamente a Belle – E va bene, quando scendi portati lo scialle. Dio non voglia io sia causa del tuo assideramento o dell’infarto di Granny quando penserà che la mia cattiva influenza ha mietuto una nuova vittima. In ogni caso, – tutto a un tratto l’amica si fece più seria. Le sollevò il mento per guardarla dritta negli occhi mentre le parlava – Non serve, ma ripetertelo non fa male. Fatti valere. Non sei inferiore a nessuno, tantomeno a lui. E qualsiasi cosa accada noi ci siamo. Va bene? – volò via prima ancora di ricevere risposta.
Lo so, Ruby, lo so.
E di questo ve ne saremo sempre grate.
Mentre afferrava la mantella, Belle gettò un’ultima occhiata critica allo specchietto.
In fin dei conti, doveva ammettere, gli adattamenti apportati dall’amica non erano poi tanto male…
 
 
 
“If the world isn't turning,
your heart won't return
anyone,

anything,
anyhow.”
 
 
 
Anna doveva star schiacciando un pisolino, non c’era altra spiegazione del ritardo. Quando si poteva giocare assieme era la prima ad accorrere, saltellando e canticchiando nella stranissima lingua in cui alle volte ancora si metteva a parlare senza rendersene conto e che aveva promesso d’insegnarle presto.
Forse è successo qualcosa a Elsa, pensò Helena sperando di sbagliarsi: la sorella maggiore della sua amichetta era malata, e spesso aveva dei non meglio precisati attacchi che la facevano soffrire molto. A Helena dispiaceva per Elsa: pallida pallida e con quei capelli tanto chiari da sembrar bianchi, sembrava così timida e dolce, anche se in fondo lei non poteva esserne certa dal momento che l’aveva vista solo una volta – quando, ormai un bel po’ di tempo prima, le sorelle Is 1 si erano trasferite con loro zia Ingrid da un paese lontano che la mamma aveva chiamato Norvegia e descritto come freddissimo e coperto tutto l’anno da neve candida.
Helena ricordava di aver visto la neve a Natale, appena qualche mese prima; ma, se in un primo momento i fiocchi bianchi le avevano strappato un’esclamazione di meraviglia e fatta correre in strada con gli altri, l’improvviso ricordo di quanto successo alle amiche l’aveva presto paralizzata. Nessuno le aveva detto niente, ma lei non era stupida e aveva captato qualche discorso qua e là: Elsa era da sempre molto delicata, ma dal giorno in cui una valanga di neve aveva rischiato di uccidere Anna e lei era scappata di notte pur di salvarla, per la maggiore delle Is non c’erano più state speranze.
Helena non intendeva proprio far la stessa fine; per questo quando si era resa conto della situazione si era bloccata spaventata, e a nulla erano valse le rassicurazioni della mamma, di Ruby e di Graham: per quanto le avessero ripetuto che la neve era bella e che sarebbe bastata un po’ d’attenzione per divertirsi, era stata irremovibile.
Alla fine, mamma aveva deciso: le avrebbe dato lei stessa una dimostrazione.
La bambina l’aveva osservata costruire quello che aveva definito pupazzo di neve con l’aiuto di un’esaltatissima Anna; e proprio la quanto mai inedita collaborazione le aveva dato di che pensare. A detta di tutti, Belle era coraggiosa e non aveva paura di niente e nessuno, mentre lei sapeva bene di essere una fifona che non riusciva neanche ad addormentarsi da sola; cos’avrebbe fatto se la mamma avesse iniziato a preferirle un’altra? Qualcuna senza paura come Anna, magari... E se avesse smesso di volerle bene e l’avesse mandata via?
E comunque, la donna continuava a stare sotto la neve, proprio come aveva fatto Elsa! Se si fosse ammalata e fosse morta come la mamma di Grace, lei sarebbe rimasta sola al mondo – sì, avrebbe avuto ancora Granny e gli altri, ma certo non sarebbe stata la stessa cosa, nossignore! La semplice prospettiva le chiudeva la gola e le pungeva gli occhi, come quando le veniva da piangere: non poteva lasciarla al freddo col rischio di perderla, no; e se per impedirlo fosse dovuta uscire in mezzo alla neve… Pace, l’avrebbe fatto!
Per questo aveva fatto appello a tutte le sue forze: aveva abbandonato la postazione e si era unita alle due, supportandole – sia pure con scarsissimo entusiasmo – nella creazione di quel coso orribile che Anna aveva ribattezzato Olaf; e per questo era stata grata alla mamma quando, dopo pochissimi minuti, aveva deciso che era meglio rientrare in casa a scaldarsi.
(A essere sinceri, a Helena era poi sorto il dubbio che la donna avesse notato il suo disagio e pensato bene di intervenire; ma preferiva ripetersi che quella fosse stata solo una sua impressione.)
All’improvviso la piccola sentì dei passi che si avvicinavano: finalmente Anna doveva essere arrivata! Si era davvero annoiata ad aspettarla nel patio per tanto tempo: se fosse successo ancora, avrebbe iniziato a invitare solo Grace, che era tanto cortese e, soprattutto, puntuale.
Però era strano: di solito Anna arrivava di corsa tanto era impaziente di mettersi a giocare, bussava alla porta e subito si precipitava dentro, mentre stavolta stava impiegando più tempo e la sua camminata pareva pesante per una persona smilza come lei…
In barba a ogni divieto, aprì la porta del cortiletto senza chiedere chi fosse; spalancò gli occhi quando scoprì che a fissarla con un misto di paura e fascinazione era l’amico della mamma.
 
 
 
“So take me, don't leave me,
take me, don't leave me.
Baby, love will come through,

it's just waiting for you.”
 
 
 
Rimase paralizzato nel vederla. Non si aspettava di trovarsela davanti, pur essendo in quello che era il suo territorio; pensava fosse in casa, e per un attimo si chiese se fosse saggio lasciarla libera di scorrazzare, sia pure in una corte minuscola, stante l’intraprendenza già dimostrata.
In quei giorni aveva sì meditato sul da farsi, sì deciso di occuparsene e sostenerla almeno economicamente, ma era stata sempre oggetto, mai soggetto di riflessioni; era stata al centro di possibili discussioni, ma non la loro autentica protagonista.
A dirla tutta, aveva pensato più a Belle che alla figlia; e ora eccola davanti, minuta e incuriosita, con quegli occhioni da folletto nemmeno sfiorati da ombre di panico o sospetto.
Cos’avrebbe potuto dirle?
Un semplice “Ciao” non sarebbe stato un cattivo esordio, malgrado la sua banalità; e poi, stante il legame che li univa e la volontà che era venuto a esprimere, era opportuno porre le basi di un rapporto: tanto valeva cominciare dal principio, con un saluto forse comune ma certo efficace, che però la bambina fu lesta a precedere.
- Ciao, signore.
Col suo strambo accento e la totale assenza d’imbarazzo, la vocina lo emozionò più del lecito.
- Ciao, – ripeté lui dopo un istante, cercando di non distogliere lo sguardo da quelle iridi castane testimonianza di promesse non mantenute.
Non fare così, è una bambina, non un plotone d’esecuzione.
Sai da dove iniziare.
Essere padre non è qualcosa che si dimentica.
- Sai che non dovresti parlare con gli sconosciuti, vero?
Gli occhi della bambina parvero farsi ancora più larghi.
- Certo, signore, – l’amico della mamma doveva essere un po’ tonto per guardarla così imbambolato e trattarla come una poppante: che senso aveva ribadire le regole essenziali della sopravvivenza a lei che aveva ben quattro anni? – Ma tu non sei uno sconosciuto. Sei quello dell’altro giorno, il nostro vecchio amico, ha detto la mamma.
- Se ben ricordo, in quell’occasione tu stessa hai affermato di non avermi mai visto.
- Sì, ma poi quel giorno ti ho visto. E se stavi in casa vuol dire che la mamma e le altre ti conoscono, e se sei qui allora ti hanno detto che esiste questo cortile, perché sennò nessuno sa che c’è.
Gold represse a stento un ghigno divertito. Gli argomenti potevano anche essere spiccioli e peccare di ingenuità, ma il modo in cui gli aveva tenuto testa senza remore denotava un caratterino e un’intelligenza da non sottovalutare – perché stupirsene, poi, coi suoi natali?, pensò non senza una punta d’orgoglio.
- Ragionamento ineccepibile, Dearie.
Helena aggrottò la fronte.
- Che significa inceppibile?
- Ineccepibile, – la corresse automaticamente – Significa che… Che… – diamine, com’era riuscito a impelagarsi in un simile discorso? Era Belle la più brava in certe cose, di sicuro non lui – … Che non può essere criticato. Che è corretto, esatto. Insomma, – tagliò corto – Vuol dire che sei stata brava.
La piccola rise allegra. Era un tipo, l’amico di mamma: se le aveva spiegato una nuova parola così difficile non doveva essere del tutto stupido. Anzi, a dirla tutta le ispirava simpatia, nonostante continuasse a guardarla come se avesse dinanzi un fantasma e non una persona come mille altre.
Ora doveva solo trovare il modo per imparare ineccepibile.
- Signore, – esordì pratica – Mia mamma mi racconta una storia per farmi ricordare le parole nuove. Lo puoi fare anche tu? Per favore? – aggiunse in fretta, come temendo che la maleducazione inficiasse le possibilità di essere accontentata.
Non era difficile immaginare Belle intenta a spiegare alla figlia ciò che le circondava, a farla scendere a patti con un mondo che non sempre ha senso aiutandosi proprio con la fantasia che la contraddistingueva. Tanto tempo prima l’aveva fatto anche lui con Neal. Gli sarebbe piaciuto vedere Belle ogni sera alle prese con una nuova fiaba per la loro bimba, scorgerla mentre ne vegliava il sonno e improvvisava ninnenanne per scacciare gli incubi.
Chissà quanti attimi irripetibili delle loro vite aveva perduto. Si possono quantificare primi sorrisi, prime parole, primi passi? Esiste una misura economica, un valore di scambio? Tot corone un dentino, tot sovrane un giorno assieme? 2
Se fosse esistito, l‘avrebbe pagato volentieri.
Non sapeva cosa raccontarle. “Il comportamento di tua madre è stato ineccepibile, il mio no. Amo tutto di lei, venero anche la sua idea come i credenti adorano Dio, ma questo non mi ha impedito di ferirla”?
No, non poteva dirle la verità.
- Ascoltami, – gli venne in mente un trucco per guadagnare tempo – Ti propongo un accordo, – la bambina spalancò le palpebre, facendosi più attenta – Io ti racconterò una storia con la parola “ineccepibile”… Se tu non mi chiamerai più “signore”. Ho un nome, – fece una pausa ponderata prima di proseguire con la solennità consumata di un vecchio attore – E spetta a te indovinarlo. Ti va, Dearie?
Quando Helena sorrideva, sulle sue guance facevano capolino due fossette, proprio come succedeva a Belle. Aveva già scorto la loro somiglianza, ma solo ora che la poteva studiare da vicino se ne rendeva conto appieno: i lineamenti della bambina rispecchiavano quelli materni, come una miniatura perfettamente intagliata. Solo gli occhi erano diversi, gli occhi, l’incarnato appena più scuro di quella della donna e qualcosa che non riusciva a individuare, ma che pure gli ricordava se stesso. Coglieva le affinità con fascinazione, rivivendo sensazioni a lungo sepolte nei recessi della memoria e sentendo il cuore colmarsi di una gioia viva, palpitante; e mentre la piccola batteva le mani impaziente ed esclamava: – E allora tu indovina il mio nome, non sono Dearie! – avrebbe davvero potuto aspettarsi qualcosa di diverso dalla figlia di Belle? –, mentre la luce le carezzava le iridi facendo esplodere le gocce di topazio che le punteggiavano, Robert Gold ebbe la subitanea, folgorante certezza di aver contribuito a creare la perfezione.
- Io però ho due nomi, – precisò Helena, mostrando due dita della manina sinistra.
Il particolare gli era nuovo: Belle non gli aveva accennato nulla in merito. Che avesse frainteso?
- Intendi nome e cognome?
- Nooo! Due nomi! Li vuoi indovinare tutti e due?
- Naturalmente, – in fondo la donna non aveva avuto la possibilità di dirgli granché; forse anche quest’aspetto presto sarebbe risultato più chiaro – Prego, prima le signore.
Helena gonfiò il petto, sicura di avere la vittoria in pugno.
- Barney.
- Fuori strada, mia cara. Anche se, – gongolò – Devo riconoscere che questo nuovo accordo è interessante. Sai mercanteggiare.
- Che vuol dire “mercanteggiare”?
- A questo ci pensiamo dopo, – corse ai ripari prima di complicare ulteriormente la situazione – Una parola per volta, d’accordo, Georgiana?
- No, – un luccichio dispettoso le attraversò lo sguardo – No, Francis, non mi piace.
- E a me non piace Francis, perciò è una fortuna che non sia il mio nome. Victoria?
- Che brutto, Malachy, che brutto!
- Ma come brutto? Victoria è un nome bellissimo, degno di una regina… E comunque, no, mi duole smentirti, ma non mi chiamo Malachy. Sei forse Gemma?
- Orribile.
Gold si portò una mano al petto mimando un verso di estremo, smisurato dolore.
- È il mio nome preferito.
In un certo senso era sincero. Gli piaceva il suono dell’ormai impossibile Gemma Gold. Era dolce. Era musicale. E aveva anche la doppia iniziale portafortuna, il che certo non guastava.
Se ci fosse stato fin dall’inizio, gli sarebbe piaciuto chiamare così la loro primogenita. Poche lettere per un nome immediato, ma prezioso, che racchiudeva la bellezza della primavera e la sublimava. Belle prima ed Helena-Gemma poi sarebbero state rinascita la vita che s’imponeva dopo il lungo inverno, la speranza che gettava radici profonde e presenti anche nei momenti più cupi.
Sarebbero state tutto ciò che non era stato.
Il gioco fu improvvisamente interrotto da una bambina dalle trecce fulve che apparve urlando: – Helenaaa!
L’uomo maledisse quell’arrivo inopportuno, ma dovette sforzarsi di non sorridere alla vista dell’adorabile disappunto sul volto crucciato della figlioletta.
- Helena, – mosse appena le labbra, come per allenarsi a pronunciarlo – Helena Gold.
Belle non avrebbe potuto compiere una scelta migliore. Helena Gold aveva un suono meraviglioso, molto più intenso e coinvolgente di quello che avrebbe avuto Gemma; un suono che forse gli piaceva tanto perché sapeva essere il nome di sua figlia, o che forse avrebbe amato comunque, ma che di sicuro ora mai avrebbe più potuto dimenticare.
- Perdonami, perdonami, per-do-na-mi! – la nuova arrivata sillabò in una parlata dal pesante accento straniero – So che ho fatto tardi, però ero a scuola, poi quando sono tornata ho steso il bucato con la zia e mi è, come si dice, scappato di testa di venire qui… No, aspetta: non me lo sono dimenticata, no no, certo che no, io certe cose non le faccio, però alle volte capita, sai, succede che mi distraggo e… – s’interruppe, notando solo allora l’adulto accanto all’amichetta – Oh. Ciao. Chi sei?
- Un amico di mia mamma, – lo presentò Helena a denti stretti – Se gli indovinavo il nome mi diceva un racconto. Ma ora lui ha scoperto il mio.
- Il patto resta, – la consolò lui – Hai sempre un secondo nome, vero? Indovinerò quello.
- Mamma! – Helena lo ignorò e lanciò un gridolino correndo incontro alla nuova arrivata. Il respiro di Gold si fermò in gola alla vista della figura che si avvicinava mano nella mano con la figlia – Guarda, c’è il nostro amico! Mi ha promesso una storia, sai? Mi ha detto che sono brava, e mi ha promesso una storia in cambio del suo nome!
- Ti aiuto! Pensi che si chiama Hans? – suggerì allegra Anna – Secondo me si chiama Hans. 3 Oh, sai, mia zia mi ha raccontato una fiaba, s’intitola “La Regina delle Nevi”. È triste, però finisce bene, ed è quello l’importante perché, voglio dire, che fiaba è se non finisce bene? E poi c’è la neve, e ti ricordi quanto è bella la neve? A casa…
Gold si appuntò di ringraziare la ragazzina che, con la sua logorrea, stava distraendo Helena risparmiandole l’impietoso spettacolo dei suoi genitori che si fissavano muti.
Belle aveva un’espressione a metà tra la tristezza, la rabbia e l’impotenza, che non era certo sarebbe riuscito a tollerare a lungo senza gettarsi ai suoi piedi implorandole perdono.
Parlami. Ti prego, parlami.
Dì qualcosa, qualsiasi cosa, ma ti scongiuro, parlami.
- Bambine, – non ricordava potesse assumere un tono tanto dolceamaro – Entrate in casa a giocare.
- No, mamma! – la più piccola arricciò le labbra in segno di protesta – C’è il sole, facci stare qui!
- Sì! – Anna la sostenne entusiasta – Mia zia dice che quando c’è il sole bisogna approfittare. Dice che fa diventare alti, anche se io non ne sono proprio sicura. Voglio dire, allora dove fa sempre caldo sono tutti giganti? Ad Arendelle c’era un uomo altissimo che però stava da sempre in Norvegia, come lo spieghi?
- Ragionamento ineccepibile, – citò Helena, voltandosi verso il suo nuovo complice e restando quasi delusa dalla sua disattenzione.
- Che?
- Vuol dire che sei brava.
- Dobbiamo parlare di cose noiose, bambine, è meglio che giochiate dentro, – Belle ripeté più comprensiva – Ormai la bella stagione è alle porte, ci saranno altre giornate di sole con cui rifarsi.
- Ho la carrozza qui fuori. Potremmo… – avanzò Gold.
- No, – la donna gli piantò gli occhi addosso. Quelle ferite azzurre, colme di determinazione, lo fecero tacere e deglutire.
Ancora non si capacitava che fosse viva, quasi una novella Euridice che neanche stavolta Orfeo era riuscito a strappare all’Ade. Stavolta Euridice era tornata sulla Terra, sì, ma da sola, più oscura, più cupa, toccata dall’amarezza dono sgradito dei tradimenti che la vita, non certo l’oblio eterno della morte, fa conoscere; rivederla così vicina gli dava ancora l’impressione di essere in un sogno o, ancora peggio, in un ricordo.
Non era il caso che la bambina fosse testimone di quel che sarebbe potuto accadere: il suo nome sarebbe stato pronunciato presto, e scoprire la realtà così bruscamente sarebbe stato traumatico. Se ancora conosceva Belle, se ancora poteva intuirne i vecchi e nuovi punti deboli, ciò su cui puntare era proprio sotto ai suoi occhi.
- Però hanno ragione, – accennò alle ragazzine – Oggi l’aria è così tiepida che stare al sole è un autentico piacere, specie per chi devono crescere. Possiamo sacrificarci noi, anziché loro.
Capì di aver vinto nell’istante in cui le amichette esultarono e iniziarono a tempestare Belle di preghiere e promesse. La donna provò a far fronte, obiettando con notevole impegno e altrettanto lodevole perseveranza, ma infine, dopo aver rivolto all’industriale un’ultima occhiata, capitolò.
- E va bene, – sospirò – Voi resterete in cortile e noi ce ne andremo. Solo, avvisate Granny e Ruby va bene?
La richiesta lo fece quasi trasecolare. Cosa diamine le passava per la testa? Pensava forse che l’avrebbe portata via con la forza, rapita o cos’altro? Non era una bestia, sebbene avesse compiuto più volte gesti equivoci.
Ma farglielo presente non sarebbe stato saggio, si disse mentre Belle procedeva verso l’uscita e lui si apprestava a seguirla.
- So che non hai intenzione di uccidermi, – spiegò fermandosi all’improvviso, voltandosi per guardarlo in volto – Ma se sparissi le altre si preoccuperebbero. E fidati, tu non vuoi avere a che fare con le Lucas furiose.
Gold non poté far altro che annuire. Potevano passare gli anni, cambiare le idee, i gesti e le persone, ma una cosa sarebbe rimasta sempre immutata: il modo in cui Belle riusciva a interpretare i suoi silenzi. Non si erano visti per un tempo infinito, ma la separazione non aveva minato quella sorprendete capacità di leggergli dentro, di conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse se stesso e di trovare sempre il modo di mandare all’aria ogni ordinato progetto per il futuro.
E per questo lui ne era innamorato.
 
 
 
“And you stand at the crossroads
of highroads and lowroads,
and I've got a feeling,
if it's right,

if it's real what I'm feeling,
there's no make believing
the sound of the wings
of the flight
of a dove.”
 
 
 
Non voleva allontanarsi. Non voleva abbandonare l’ambiente in cui si sentiva sicura e protetta, le mura teatro di mille accadimenti, preferire a loro un abitacolo sinonimo di un passato scivolato dalle sue dita, perduto, svanito per sempre.
Era stata in una sua carrozza per l’ultima volta a dicembre 1888, la sera della festa dalla Mills. La sera in cui le erano state rinfacciate le debolezze, l’ingenuità, la sincerità che l’avrebbero sempre afflitta.
La sera in cui avrebbe dovuto prevedere il finale di una storia non ancora iniziata.
Si corresse: quella sera la loro storia era già iniziata. Era iniziata da tempo, ormai: forse dal loro primo incontro, sicuramente da quando lui l’aveva scorta ai margini della sua personale barriera e non l’aveva allontanata.
Quella sera la tragedia era già in atto.
Ma non importava quanto avesse sofferto, avrebbe rivissuto ogni momento con lui.
La carrozza era molto meno lussuosa di quella di un tempo: un veicolo ordinario, scelto per non dare nell’occhio – anche se nella miseria del quartiere nessuna vettura simile sarebbe passata inosservata; eppure, nonostante l’abitacolo anonimo che avrebbe potuto ricondursi a un cocchio in affitto, quando vi mise piede, quando lui la raggiunse, la prima cosa che la colpì fu il suo profumo. Quell’aroma tutto suo, così caldo e speziato, con una punta di fumo inedita che pure si sposava bene coi ricordi.
Dio, quanto aveva amato – amava – il suo profumo. Un tempo le restava impresso sulla pelle e sulle lenzuola: quando se ne andava dopo aver trascorso la notte insieme, lei si raggomitolava d’istinto là dov’era stato lui e lo inspirava a pieni polmoni, quasi a convincersi che no, non era stato l’ennesimo sogno, era tutto successo veramente.
Pensava che quel profumo l’avrebbe accompagnata in eterno; ma una mattina si era svegliata in una branda sconosciuta, in una casa che non era la sua e aveva dovuto reimparare a viverne senza.
E ora lui le sedeva di fronte, lo sguardo fisso su un punto indefinito fuori dal finestrino. Belle intrecciò le dita in grembo, maledicendosi per aver dato retta a Ruby e aver tolto la camicia. Non c’era modo di sistemarsi lo scialle senza attirare l’attenzione: era condannata a restare così e a sperare di passare inosservata. Ben le stava, le sarebbe valso da monito...
Il silenzio che le premeva sui timpani era assordante.
Non era da lei comportarsi così, tantomeno con lui. Non era da lei accettare una sfida e poi, scesa in campo, non impugnare le armi, mostrarsi tremante e pavida come una lepre braccata: nonostante tutto, lei ancora prendeva la vita per la gola e la costringeva a guardarla negli occhi, combattendo senza tirarsi indietro e provando e riprovando fino all’ultimo; non doveva – non poteva – perder la favella e sembrare più interessata alla vettura che al resto, mentre i minuti passavano e il sole già iniziava a sbiadire. Se lui intendeva trascorrere l’intero incontro in silenzio, bene, facesse pure; ma lei aveva accettato di vederlo con uno scopo ben preciso che, in un modo o l’altro, avrebbe perseguito.
Cos’aveva scritto di suo pugno sul biglietto? “Abbiamo un discorso da concludere”? Benissimo; era ciò che avrebbero fatto, a costo di rinfacciarsi ogni giorno degli ultimi cinque anni, ferirsi più di quanto non avessero già fatto e rimpiangere il silenzio che li aveva inghiottiti per tutto quel tempo.
Lei era pronta.
- Le hai davvero proposto un accordo?
Gold sobbalzò udendola. In fondo non c’era di che sorprendersi: sin da quando aveva inviato il biglietto sapeva che sarebbe stata lei la prima a prendere parola. Lui non ce l’avrebbe mai fatta: quando ci avesse provato, il passato sarebbe tornato a ricordargli ogni demerito e ogni diritto perduto. Era sempre stata lei la più coraggiosa, la metà forte della coppia, quella che si batteva per le proprie opinioni; lei… Lei che era un discorso a parte, battuto e ribattuto mille volte, e mille volte in grado di travolgerlo fortemente, troppo fortemente. E lui, forse, era sempre stato troppo distratto, troppo disattento per proteggersi. 4
- Era un gioco, – si giustificò – Alla fine le avrei dato un suggerimento. L’avrei fatta vincere.
- Robert Gold che infrange uno dei suoi accordi. Incredibile.
- Non l’avrei infranto, solo rinegoziato per farla giungere allo scopo. I mezzi non sono importanti quanto i fini.
Sui due scese nuovamente il silenzio.
E questo è stato uno dei motivi che ci hanno divisi, pensò Belle.
Per te non conta mai il modo, ma il risultato. Qual è il tuo fine?
- Cosa sa di me?
Stavolta fu lei a restar sorpresa. Non immaginava giungesse tanto in fretta al cuore della questione, con una domanda così precisa e mirata. Non stava parlando col Gold innamorato, la mise in guardia una vocina perfida in lei: quello era l’affarista, lo speculatore che si aspettava sempre qualcosa in cambio. E qualcuno come lui non poteva permettersi di perder tempo in discorsi sul nulla…
Eppure, non riuscì a non notare, com’era strano ritrovarsi a parlare così, dover scegliere ogni frase con cura, pesarla e valutarla come mai prima avevano fatto. Erano davvero diventati estranei costretti in uno spazio tanto ristretto?
- Poco, – ammise – Quando era piccolissima le raccontavo sempre di… Di noi, ma col tempo sono diventata più vaga. Ho inventato una sorta di racconto.
Paragonare la loro relazione a una fiaba era una mossa ardita, forse persino folle: ben poche erano state le ore in cui il loro amore era stato sogno divenuto realtà. Ma era una scelta saggia per una creatura così piccola, e degna di una persona sognatrice fino all’evidenza come Belle.
- Sa chi sono?
- No. Non sa chi sei, né che Robert Gold è suo padre.
Le labbra dell’uomo sparirono in una linea invisibile.
- Non le hai detto che è una Gold?
- Non intendo instillarle un orgoglio di classe che non ha ragion d’essere, – replicò severa – E se anche gliel’avessi detto, cosa sarebbe successo? Una bambina sarebbe andata in giro per l’East End vantandosi di esser figlia di un potente industriale. Chi le avrebbe creduto? Nessuno. Anzi, – aggiunse – Se la voce fosse giunta a orecchie indiscrete, qualcuno sarebbe venuto a terminare il lavoro.
Gold si leccò appena le labbra. Si stupiva di come Belle fosse riuscita a sfuggire ai Frey e agli emissari di Cora: se non altro, l’ostessa e sua nipote avevano un merito.
Un merito che lui aveva vanificato con una sola frase appena poche sere prima?
No, di questo era convinto. La Mills non sapeva da dove iniziare la ricerca, e i suoi uomini l’avrebbero comunque subito avvisato in caso di pericolo; e in ogni caso, l’informazione rivelata sarebbe stata facilmente controbilanciata dal vantaggio che avrebbe potuto ricavare. Se per riavere almeno una possibilità con Belle avesse dovuto rievocare il fantasma della Contessa, l’avrebbe fatto.
- Ma se è mia figlia…
- Lo è. Non l’ho detto per vendicarmi o qualcosa di simile, – la precisazione dell’amata lo punse come uno spillo – L’ho detto perché è vero. È nostra figlia, mia e tua. Sai che non c’è stato nessuno prima di te, e non c’è stato nessuno dopo di te. Ci sei sempre stato tu. Solo tu, – deglutì prima di proseguire – Se non ti fidi di me allora non c’è, a dispetto di ogni parola non c’è ancora la base per starne a discutere. Mi dispiace, Robert. Mi dispiace, ma è così.
- No. Hai ragione, mi sono espresso male. Intendevo chiederti perché non le hai detto chi sono.
- Te l’ho spiegato. Se anche ti avessi invocato, non saresti apparso. E in ogni caso, – aggiunse – Sono stata cauta anche per un altro motivo. Troppi dettagli l’avrebbero confusa e avrebbero anche potuto indurla a credere che magari ci fossimo lasciati a causa sua, perché non la desideravi o qualcosa di simile. Helena è sensibile, molto più di quanto sembri… Non deve fare l’equazione “Non c’è per colpa mia, perché sono cattiva e non merito un padre”.
L’uomo concordò tacitamente. Aveva vissuto sulle propria pelle il significato dell’abbandono, conosciuto da vicino le conseguenze di cui era latore: la scelta di Belle era stata una saggia tutela della serenità della bambina, malgrado avesse implicato la sua parziale esclusione.
Ma di questo, lo sai, la colpa è solo tua.
- Quindi sa di avere un padre.
- Certo. Non avrei comunque potuto nasconderglielo: andiamo spesso da Tink Barrie, e lì sono ospitati molti bambini che ricordano i genitori. Se non ti avessi mai menzionato, Helena stessa avrebbe chiesto spiegazioni. Comunque, – sottolineò – È sempre stata circondata da affetto, sin dal primo giorno. Granny e Ruby l’adorano, per non parlare di Humbert. Cioè, di Graham. Ecco, – suo malgrado sorrise – Quanto a lui, si vogliono bene, ma sa che non è un parente. Sa che è solo un nostro amico.
Humbert.
Il pensiero del giovane poliziotto lo faceva impazzire di gelosia: bello e gentile, rimasto vicino a Belle nei momenti bui, figura paterna per Helena…
L’altro che si era occupato di loro, che gli aveva sottratto il posto spettante a lui per natura.
L’altro che aveva saputo essere tutto ciò che lui non era mai stato.
- Anch’io sono vostro amico, secondo Helena.
- In quel momento non avrei certo potuto dirle “Tesoro, ecco, è tornato tuo padre!”. Eravamo impreparate. Peggio: eravamo spaventate.
- Ma nei giorni seguenti? – scattò involontariamente – Non avresti potuto far qualcosa, farle capire la verità?
Non riuscì a guardarlo mentre rispondeva.
- Non sapevo se saresti tornato. Non volevo illuderla annunciandole qualcosa prima di averne la certezza, – esitò prima di proseguire – È questa la verità.
Dinanzi all’ammissione, Gold provò il desiderio di mettersi a gridare. Non avrebbe mai saputo spiegare come avesse fatto a mantenere la calma.
- Per Dio, Belle, “non sapevo se saresti tornato”? Sono stato io a chiederti se vi avrei riviste, e tu a rispondermi di sì! Dici che lascerei mia figlia qui in mezzo al nulla?
L’ultima frase la colpì come una frustrata in pieno volto.
- Cosa stai insinuando? – ruggì senza contenersi – Che non la sto crescendo bene? Che non le do di che mangiare, di che vestirsi, di che giocare? Riesci a immaginare i sacrifici che facciamo?
- Sì che li immagino, li ho vissuti prima io di te con Neal!
Si pentì di averlo nominato nell’istante stesso in cui lo fece.
- E proprio questo dovrebbe ricordarti che non avere specchi francesi e lampadari di cristallo non significa maltrattare il proprio figlio, lasciarlo vagabondare come un piccolo accattone!
- Ci mancherebbe, ci mancherebbe altro! – strinse i pugni fino a farsi male, nella vana speranza che il dolore lo distraesse dagli squarci sul passato che si stavano aprendo – Ma una Gold non deve crescere qui, tra fango, ruffiani e ubriaconi, quando suo padre può finalmente comprarle scarpe nuove ogni giorno e i colori, tutti i colori che vuole! – una stanza spoglia, un camino spento, un mucchietto di pastelli e un bambino che ride. A Neal piaceva disegnare, a Neal piaceva disegnare, a Neal… – Posso comprarle i colori, Belle! Posso comprarle i colori! – ripeté, le lacrime che premevano per vincere – Assumere le migliori istitutrici, farle insegnare il piano dai maestri più celebri! Le posso comprare ogni vestito, ogni gioco, basta che chieda e il mondo sarà suo! Fammene occupare, accetta il mio aiuto e fammi essere suo padre in questo!
Almeno in questo, ti scongiuro, almeno in questo.
Belle lo fissava senza aprir bocca, una mareggiata di pensieri in testa. Lo sapeva da sempre, ma ne aveva avuto conferma estrema nell’istante in cui aveva sentito quel nome: la scoperta della figlia stava riportando Robert a ripercorrere quanto successo più di vent’anni prima, a rivivere quanto accaduto con Neal e confrontare le situazioni.
Ma ancor più delle parole, era lo sguardo – disperato, sconvolto, straziato – dell’uomo a causarle un dolore quasi fisico.
- Non puoi essere suo padre solo in questo, – la voce della donna risuonò roca e triste. Nella semioscurità, Gold sentiva i suoi occhi su di sé – Se vuoi esserlo, siilo sotto ogni aspetto, non solo sotto quello economico. Un bambino ha bisogno di beni materiali, vero, ma anche e soprattutto d’amore. Non puoi essere un genitore a metà, non puoi ragionare come stai facendo tu…
- Come dovrei ragionare, Belle? – un gemito soffocato la fece tacere – Come dovrebbe ragionare un uomo che aveva un figlio cui non poteva dare nulla e che da un giorno all’altro scopre una figlia cui può dar tutto? Cerca almeno di fornirle di che vivere, di non farle mancare nulla! Come dovrei ragionare? Dimmelo tu, visto che hai sempre cercato di cambiarmi a tuo piacimento!
No.
Questo non te lo permetto.
- Io non ho mai cercato di cambiarti! – urlò con tutta se stessa – Ho amato, ho sempre amato tutto, tutto di te, anche le parti più oscure! Ho solo cercato di far riemergere il tuo lato migliore, lo hai detto tu stesso quella notte! Non l’ho dimenticato, non sono riuscita a dimenticare niente, niente! Ci ho provato, sai? Ci ho provato e non ce l’ho fatta. Questi cinque anni… – il cuore le batteva all’impazzata, ma non intendeva fermarsi, non ora che aveva l’occasione di dire tutto – Dov’eri quando passavo le notti a domandarmi il perché senza riuscire a trovare risposta? Quando speravo solo di risvegliarmi dall’incubo, e ogni mattina capivo che era realtà? E quando ho scoperto che Helena ha i tuoi occhi, quando ha avuto il morbillo e temevo morisse, dov’eri? Dov’eri? Dimmi, dov’eri?
La concitazione li aveva fatti avvicinare, le ginocchia che si toccavano e i corpi protesi l’uno verso l’altro. Si fissavano col fiato grosso e gli occhi lucidi di lacrime cariche di sentimenti contrastanti, di desideri e paure che ancora li soggiogavano.
- Dov’eri quando io avevo bisogno di te?
Era questo a ferirlo, più di ogni altra recriminazione. Come la lama di un pugnale che scorreva lungo le carni seviziandole, l’accusa gli scuoteva la mente, facendolo boccheggiare alla ricerca di parole giuste per esprimere neanche lui sapeva cosa; o forse, di parole che non riusciva a trovare perché non esistevano.
Nessuna scusa poteva giustificarlo, aveva ormai compreso.
Le mani di Belle, chiuse a pugno, stringevano un lembo di gonna come se torcendo, lacerando il tessuto potesse stracciare anche il dolore, l’incomprensione, il livore che aveva dovuto subire. Nel vedere le esili dita ripiegate su se stesse, Gold pensò solo che lei non meritasse – non meritasse nulla di quel che la stava costringendo ad affrontare da tanto tempo.
Ma ormai è tardi.
Fu questione di un istante, forse il più coraggioso di un’esistenza intera; dell’istante in cui posò la sua mano su quella di Belle.
Si ritrovò a sfiorarne il dorso con le dita, meno di una carezza, ma non per questo meno intensa; ne percorse i tendini tesi come corde d’arpa, l’intrico azzurrino delle vene, le nocche e la pelle non più morbida come un tempo, ma non per questo meno bella; e mai come in quel momento, mai come allora che poteva finalmente toccarla, capì quanto la vita fosse stata generosa con lui: gli aveva ancora offerto una possibilità, gli aveva ancora riportato la sua Belle, il suo bagliore di luce in un oceano di oscurità; e questo, solo questo contava.
Lei non lo scostò, non si ritrasse come Gold temeva – ma non aveva senso far previsioni, la sua Belle era sempre stata imprevedibile, come imprevedibilmente l’aveva amato così ora imprevedibilmente lo accettava –, no: la sentì rilassarsi impercettibilmente mentre chinava gli occhi sulle loro mani unite e le fissava indecifrabile.
Perché Robert non poteva saperlo, ma una vita intera non sarebbe bastata per descrivere le sensazioni che, fulminee e sconvolgenti, stavano attraversando Belle. La sua stretta era l’unica cosa che le impediva di andare in pezzi; non si perse nel sogno, non chiuse gli occhi: se l’avesse fatto sarebbe stato come le altre volte, solo immaginazione, solo follia di istanti in cui la fatica dello star soli pesava greve sulle spalle.
E invece, questa era realtà.
Era magia.
Schiuse appena il pugno, le dita che si trovarono intrecciate senza che i loro proprietari potessero – o volessero – impedirlo: entrambi le osservarono in silenzio, come affascinati dal modo in cui i vuoti dell’uno fossero colmati appieno dall’altro; come se quello fosse l’unico posto in cui potessero stare, in cui finalmente fossero tornate a stare.
- Non c’ero, – l’ammissione dell’uomo non ruppe l’incanto di quei minuti, di quelle mani ancora così strette, così vicine, ancora così belle assieme – Non c’ero, e non immagini quanto sarei voluto esserci. Non immagini quanto. E quanto vorrei tornare a quel che eravamo.
- Sai cosa faceva più male? – Belle chinò il capo. Ciocche ramate piovvero dall’acconciatura allentata, nascondendole il volto – Essere felice e non potertelo dire. Condividere le piccole cose, le nuove scoperte, parlartene. La quotidianità. Saremmo dovuti essere solo noi, noi tre assieme. Una famiglia.
Gold annuì.
Avrebbe potuto avere una moglie e una figlia, ricominciare daccapo e provare a essere felice.
E invece si era ritrovato con un mucchio di ricordi polverosi e se stesso come unico colpevole.
- È quell’anello? – Belle si morse piano le labbra dinanzi al gioiello, come se non riuscisse a bilanciare le emozioni che la vista le causava.
- Sì, – staccarsi da lei faceva male, ma era necessario per dimostrarle di non star mentendo.  Si sfilò la fede dall’anulare sinistro e gliela porse – È tuo. Ora come allora.
Lo disse conscio delle implicazioni, conscio che lei le stesse comprendendo appieno – la tradirono gli occhi, il modo in cui si posarono su di lui con una scintilla che racchiudeva ogni sfumatura di tristezza e dolcezza.
Lo disse conscio di poterla ferire, ma lo disse perché non avrebbe potuto fare altrimenti.
Il reale significato dell’offerta era uno e uno solo, e se una parte di Belle avrebbe voluto dare un’unica risposta, fu l’altra metà – quella più saggia, più matura, quella che forse avrebbe dovuto esser furiosa per l’omaggio, ma che non ne trovava neppure la forza – a guidarla, facendola sospirare.
- No, – scosse il capo, le palpebre serrate – No, Robert, no. Per favore.
Sapeva non ci sarebbe stata una risposta diversa.
- Scusami, – una richiesta di perdono limitata all’anello, all’ultimo torto che aveva causato.
Eppure, perché faceva tanto male?
- Grazie per aver mandato il medico, – glissò l’altra, stringendosi nelle spalle – Non ce n’era bisogno, era già venuta Astrid, ma grazie, davvero. Tu come stai?
- Dal momento che non chiamo da tempo Whale per ragioni personali, presumo bene.
Quel ben misero tentativo di ironia si perse presto nell’aria.
- Hai capito cosa intendo.
Fu la volta di Gold a distogliere lo sguardo.
Mi sono pentito di averti cacciata. Me ne sono pentito subito, e per cinque anni questo è stato il mio unico pensiero, questo e la convinzione di averti uccisa. Ma tu sei qui, e io ti amo ancora di più, e ti rivoglio con me.
Per questo sono pronto a tutto.
Ti prego, torna a Kensington e ricominciamo daccapo, o andiamocene via per sempre e viaggiamo per il mondo come sognavi, ma fammi tornare nella tua vita. Senza di te non so come fare, sei tu l’ago della bussola, e c’è di mezzo una bambina e io mi riscopro essere codardo. Lo sono, lo sono sempre stato e non ho mai finto di essere altro, e proprio ora che vorrei essere più forte ho più paura. Con te, con lei, con te non so da dove iniziare, ogni passo che faccio si rivela sbagliato, ma tu sei l’unica a darmi equilibrio, non mandarmi via, riproviamoci, un’ultima volta, riproviamoci, ti scongiuro, ti amo.
- Sto, – disse infine – Né più, né meno. Sto.
- Come sono andati questi anni?
- Ho fatto fortuna anche in America. Lì la realtà è completamente diversa, la società molto più dinamica… Mi sono trovato bene, davvero bene.
- Allora perché sei tornato all’improvviso?
Perché ho provato a mettere mille miglia tra me e il mio cuore spezzato, ma anche lì dialogavo con la tua assenza.
- Il Vecchio Continente mi mancava.
E perché ti ho tradita.
Introdurre la Zelenyy sarebbe stato solo controproducente. Non aveva senso parlare di qualcuno che era stata ben poco, un corpo con cui affogare il dolore e regalarsi un istante di vuoto. E, in ogni caso, le possibilità che Belle venisse a sapere della vera natura della relazione erano più che remote, e lui non avrebbe più incontrato Rebecca, né rimesso piede a New York. Cambiò argomento prima che fosse troppo tardi.
- Prima ho chiacchierato un po’ con Helena. Confermo la prima impressione, lei è… È magnifica, Belle, meravigliosa. Semplicemente perfetta. E tu sei eccezionale con lei.
- Se ti sentisse si monterebbe la testa, – Belle scosse il capo, ma la sua risata parlò per lei – Già l’hai conquistata, promettendole una storia.
- Posso rivederla? Stare con lei, farle trascorrere qualche giorno da me…
- Potrai vederla quando vorrai, – la donna tornò subito seria e lo guardò dritto negli occhi – Helena è tanto mia quanto tua: non te la negherò, né la priverò di suo padre. Ma un trasferimento ora, – cercò vanamente la delicatezza per esprimere la sua idea senza che suonasse come un malinteso rifiuto – Credo sia prematuro. Avete legato subito, vero, e con ogni probabilità le sei simpatico, – stavolta fu l’uomo a sorridere – Ma non ti conosce. Per quanto sembri orribile, è questo il suo mondo. Sono queste le strade in cui è cresciuta, le persone che conosce da quando è nata e che le vogliono bene. Portarla via all’improvviso, da sola, sarebbe uno strappo troppo netto. Significherebbe sconvolgerla.
- Non dovrebbe venirci da sola, – si arrischiò – Potresti accompagnarla tu. Fermarti con lei. Tu saresti la benvenuta a Kensington.
Belle si chiese cosa sarebbe successo se avesse accettato. Se fosse tornata nelle stanze ancora così impresse nella memoria, percorso i corridoi teatro di mille eventi lottando perché il passato non s’imponesse sul presente.
Avrebbe ceduto, ecco. Lo avrebbe fatto prima ancora di rendersene conto, nel momento stesso in cui avrebbe rimesso piede in quella che considerava la sua casa: con Robert accanto la tentazione di andare oltre, di fingere che quei cinque anni fossero stati solo un brutto sogno svanito all’alba sarebbe tornata a premere più forte, più netta che mai.
Come ti permetti di chiedermi una cosa simile?
Lo amava ancora: sarebbe stato facile rispondere, facile tornare, ancor più facile ricominciare – essere una famiglia, come aveva detto lei stessa, sarebbero stati una famiglia.
Ma sarebbe stato altrettanto facile dimenticare davvero?
Helena, malgrado tutto lui stesso, loro meritavano sincerità, non briciole di pace che non possedeva.
E come si può offrire ciò che non si possiede?
- Non posso tornare. Non posso.
Sì, aveva messo in conto anche questa risposta. L’anello prima, la proposta poi: stava correndo troppo in un frangente in cui non ci si poteva permettere fretta. Razionalmente ne era consapevole e sapeva sarebbe stato solo controproducente; istintivamente non poteva far altro che proseguire lungo quella strada.
- Per voi ora è più pericoloso restare a Whitechapel, – cercò di farla riflettere – Tornerò a trovarvi, ma per quanto possa essere discreto è facile attirare l’attenzione. Qui vive gente che per una dilazione di due giorni venderebbe i suoi stessi figli, figurarsi tradire una sconosciuta…
- E qui vive anche gente che non mi ha giudicata quando ero incinta e non avevo marito, – lo corresse senza remore – Gente che non mi ha trattata come una paria o una poco di buono, che mi ha sostenuta e si è fidata di me pur non conoscendomi. Anche tu hai iniziato dal basso; se vai oltre la facciata, scoprirai che tra il West e l’East End ci sono meno differenze di quante s’immagini.
Una replica degna di lei.
- Ma casa è più sicura, questo non lo puoi negare. Per quanto tu ti fidi dei tuoi amici, la protezione che vi offrirei io è maggiore: da me nessuno, nessuno oserà torcere un capello a te o a Helena.
Non era stupida, Belle. Sapeva ciò cui si riferiva Robert, il pericolo c’era ed era concreto: per tutti quegli anni, anche nei momenti più tranquilli l’incubo di essere trovate l’aveva perseguitata; e per quanto avesse fatto il possibile per assicurare serenità alla bambina, era ben conscia dei rischi che entrambe correvano. I Frey l’avevano davvero dimenticata? Se Cora le avesse trovate, non l’avrebbero passata liscia.
Col ritorno di Robert le preoccupazioni in merito si erano nuovamente imposte, inutile negarlo. Ma la villa dell’uomo avrebbe davvero offerto loro maggiore protezione rispetto alla locanda? Ciò che li aveva divisi non si era forse svolto nella quiete di stanze ben arredate, tra tende di velluto e porcellane pregiate?
Per non parlare del fatto che – purtroppo, pensò non senza provare ancora gelosia – le probabilità che la Mills visitasse l’ex amante erano decisamente maggiori di quelle che passasse da Granny’s.
Sì, Robert le avrebbe protette dai Frey, ma non dalla Contessa; ed era stata questa, non i malviventi, a distruggerli.
- Se si manifesterà un pericolo, allora ti manderò Helena. Ma io… Io tornerò solo quando sarò pronta.
Se mai sarò pronta.
Ma a lui di quella frase colse solo “quando”: una parola che profumava di futuro, di un tempo magari non imminente, ma che un giorno sarebbe arrivato. È strano come poche lettere bastino a far rivalutare minuti, a farli esaminare da un’altra prospettiva.
Il sole che li aveva accompagnati era quasi svanito, e già i lumi iniziavano a rosseggiare come macchie nell’aria. Si stava facendo tardi; Helena avrebbe presto iniziato a fare domande, se non l’avesse vista tornare.
- È meglio che vada, ora, – fece cenno alla porta dinanzi alla quale la carrozza era rimasta ferma per l’intera durata dell’incontro, senza precisare altro prima di chiedere: – Vorresti mangiare con noi?
L’industriale maledisse la cena di lavoro che aveva in programma da lì a due ore. Non era un ostacolo insormontabile: l’avrebbe potuta spostare se avesse subito mandato una comunicazione, e al diavolo le chiacchiere che sarebbero sorte.
Se avesse voluto farlo.
Si chiedeva solo se fosse davvero il caso – per lui, e per loro. Se non fosse meglio concedere tregua a Belle, anche dopo l’ultimissimo sviluppo. Ma la proposta era partita da lei…
Dinanzi al suo imbarazzo, la donna gli corse in soccorso.
- Se vuoi, rimandiamo a un altro giorno. Martedì?
Forse era meglio anche per lui. Per raccogliere ancora le idee. Per capirne di più.
Ma cosa c’è da capire di più?
- Martedì non mancherò.
- Ti aspettiamo allora. – l’altra gli rivolse un pallido sorriso mentre finalmente trovava una scusa per coprirsi meglio col mantello e iniziava ad armeggiare con lo sportello senza attendere che Reed le aprisse dall’esterno.
Gold non voleva che se ne andasse. Non poteva far altrimenti, e lungi da lui volerla trattenere – con quale scusa poi? Già i discorsi che una parte di lui elaborava per convincerla a tornare a Kensington erano cosa di cui vergognarsi –, ma tanti anni non l’avevano abituato alla sua assenza.
Una vita intera non sarebbe comunque bastata a tale scopo.
- Aspetta, – la fermò appena prima che smontasse – La bambina ha detto di avere un secondo nome.
Belle si bloccò.
Sì, aveva anche un altro nome, Helena. Si chiamava come la persona che per prima aveva creduto nei suoi genitori e nel loro amore tanto avversato, e che pure se n’era andata senza vederlo sbocciare.
- Helena Ariel, – sussurrò senza voltarsi.
Ruby era impazzita nell’udire quell’accostamento inusitato, che quasi le ricordava una rappresentazione di Shakespeare cui aveva assistito, e aveva pensato che un’amante della letteratura come Belle avesse chiamato così la figlia in onore del Bardo.  5
- Ma allora perché non preferire qualche protagonista? Juliet, per esempio… – aveva candidamente chiesto.
Le pagine di un libro le erano tornate in mente, subito seguite da un bacio la notte di Natale e una notizia terribile.
Se Ariel avesse saputo, avrebbe attraversato l’oceano a nuoto per ritrovare Robert e trascinarlo da loro. Juliet le avrebbe ricordato per sempre quel primo bacio e tutto ciò che ne era seguito; sarebbe stato un ulteriore memento che non le avrebbe dato tregua, e che aveva voluto risparmiare a se stessa e alla figlia.
Nei mesi di vicinanza Belle doveva aver fatto proprie alcune sue idee, si disse Gold. I nomi erano potenti, avevano un significato segreto che andava oltre la loro origine e che ai più restava segreto; avrebbe dovuto immaginare che il modo in cui era stata chiamata la bambina non fosse dovuto al caso.
Un tributo alla migliore amica morta in giovane età era un gesto degno della donna, una scelta che poteva capire e condividere; si ripromise solo di indagare sul perché di Helena.
Perché, a quel punto era chiaro, anche quel nome significava qualcosa.
- Hai fatto bene, – riconobbe semplicemente – È stato giusto così.
Ma sarebbe stato più giusto se tu l’avessi saputo sin dall’inizio.
Se anche tu avessi scelto il nome di nostra figlia.
Se fosse stato maschio, se tu avessi voluto, sai come l’avrei chiamato.
- Ci vediamo tra qualche giorno, allora.
- Sì.
Belle chiuse la portiera alle proprie spalle pregandosi di non piangere, ripetendosi di non averne motivo, di non potersi permettere una cosa simile. Di non dover voltarsi, perché rivederlo andarsene sarebbe stato doloroso – ancora più doloroso dopo essere stati così vicini, dopo aver condiviso una stretta che considerava più significativa di una notte di passione.
È solo un arrivederci, non averne paura.
Hai imparato molto tempo fa a stare da sola.
Eppure, perché fa tanto male?
Il cuore ebbe la meglio sulla mente: si voltò.
Robert la osservava, il palmo premuto contro il finestrino come a raggiungerla, a sentirla ancora sulla sua pelle. Si guardarono negli occhi per un attimo eterno cui non seppero sottrarsi, come se il filo che li univa fosse troppo forte per essere spezzato dalle reciproche volontà; un attimo al termine del quale anche Belle posò la sua mano sul vetro.
Si ritrovarono ancora a far combaciare le dita, a immaginare di potersi toccare, raggiungersi e non lasciarsi più; a rincorrersi su di un vetro metafora della realtà, del confine sottilissimo che la vita aveva eretto a forza e che dovevano buttar giù, dovevano trovar la forza di buttar giù per tornare a essere ciò che erano stati.
- Entra in casa, – lo vide muovere le labbra senza allontanarsi dal vetro.
Obbedì.
Ma farlo si rivelò difficile del previsto.
 
 
 
“Oh, look up, take it away,
don't look da-da-da-down.”

 
 
 
- Bloody hell, Nolan, ma mi stai a sentire?
Dovette farsi largo tra la folla per raggiungerla. Emma continuava a procedere a testa alta, fingendo di non udirlo e non degnandolo di mezza occhiata neanche quando se lo ritrovò davanti.
- Ti ha dato di volta il cervello? Dire a tua madre di andare a trovare un’amica, e invece scendere quaggiù? Ti rendi conto di quel che sarebbe potuto accadere?
- , – il sibilo della giovane fu tanto chiaro quanto gelido – A dispetto di quanto pensiate tu e mia madre, non sono una ragazzina idiota e so quel che faccio. C’era un motivo se io e Lily siamo venute qui, un motivo che non ti compete conoscere.
- “Non sono una ragazzina idiota”? – Killian levò scettico un sopracciglio – Perdonami, love, quanto fatto prova l’esatto contrario. Una persona con un briciolo di buon senso non metterebbe piede qui, o si farebbe accompagnare da qualcuno più adulto e più esperto.
- Qualcuno come te, per esempio? – lo sbeffeggiò acida – Non ero da sola, c’era Lily con me.
- Un gran bell’esempio, non c’è che dire. Cos’era venuta a fare da queste parti, mettersi nei guai di nuovo? Girano delle voci su di lei, lo sai.
La bionda si voltò di scatto.
- Anche tu eri nei bassifondi. Non sei certo nelle condizioni di farmi la ramanzina.
Dio, alle volte odiava Emma. La sua tenacia era senz’altro un pregio, ma sfumava rapidamente in una cocciutaggine che la rendeva a dir poco cieca dinanzi alla realtà. Se si poneva un obiettivo lo raggiungeva, ma seguendo la strada che si prefiggeva di percorrere, incurante della reazione del mondo, o – peggio – fingendo che nulla potesse toccarla, illudendosi di possedere una barriera inscalfibile in grado di resistere a qualsiasi intemperia.
Ma avvertiva il bisogno di erigere un muro perché era fragile, perché malgrado la durezza manifestava aveva debolezze che la segnavano; e se lui era tornato, era perché in fondo era innamorato anche di quello schermo, anche di quella fragilità: perché anche loro erano parte di Emma, la formavano e la rendevano così… Così…
Così lei.
Negli ultimi anni aveva viaggiato in lungo e largo e gli oceani l’avevano portato ovunque, ma mai, neanche per un istante, lontano da lei.
Prima di andarsene, Gold aveva procurato dei contatto alle Nolan, ad Archie e a qualcun altro, ma non a lui – quel reciproco sospetto che nutrivano da sempre non si era attenuato neanche con la morte dell’unica persona che avrebbe avuto la forza di avvicinarli – aveva deciso di realizzare il suo sogno: aveva raggiunto il fratello Liam e si era imbarcato su una nave mercantile, la Jolly Roger. Aveva scoperto che il suo amore per la navigazione non era un’illusione: il piede marino di Killian si era manifestato dal primo minuto a bordo, e in breve tempo si era ritrovato a ripensare alla sua vita precedente senza capire come avesse fatto a resistere tanto lontano dagli oceani.
Aveva perso il conto delle volte in cui aveva percorso la rotta dalla Gran Bretagna alle Indie, il conto dei brigantini su cui aveva viaggiato e delle tempeste o delle bonacce affrontate, ma  due cose teneva bene in mente: il bacio che Emma gli aveva dato il giorno prima di dirsi addio – un bacio fugace, ma feroce, affamato, che per Killian era stata la più desiderata delle benedizioni – e la nave da cui tutto era cominciato. Quella Jolly Roger che poteva anche non appartenergli, ma che lui sentiva sua più di ogni altra cosa al mondo; il vascello che l’aveva condotto a quel mare che era il suo amore più grande.
E forse non era stato un caso che la nave del primo viaggio fosse stata anche quella dell’ultimo.
Era tornato a Londra a fine gennaio, pronto per ripartire il mese successivo; ma pochi giorni dopo Archie era riuscito a rintracciarlo e gli aveva dato la grande notizia: Gold era in città e, a quanto pareva, era disposto a riassumere la vecchia guardia della servitù. Se fosse stato solo per quel vecchio idiota non avrebbe mai accettato di ricandidarsi al posto da valletto: quale vantaggio ne avrebbe tratto? Non intendeva più avere a che fare con chi per lui, moralmente ma a tutti gli effetti, era divenuto un assassino. L’ultimo dei Jones aveva il mare, e quando si ha il mare si ha tutto.
Ma Mary Margaret e la figlia erano tornate a lavorare a Kensington; e per rivedere Emma, per spiare ancora i suoi occhi verdazzurri e portare un raggio di sole su quei lineamenti così spesso troppo duri, la strada da percorrere era una e una sola.
Aveva detto addio alla Jolly Roger come si dice addio a una donna cui si è dato il proprio cuore, sapendo che da quel momento in poi il mondo avrebbe perso i colori sprofondando nel grigio del distacco e nulla avrebbe riportato la stessa luce, la stessa armonia; aveva ripescato la livrea, aveva sospirato ed era tornato in quella villa cui pensava di non rimettere più piede.
Gold era il solito cinico bastardo pretenzioso che ricordava, addirittura peggio se possibile; la casa immensa e polverosa come ricordava, i colleghi amichevoli e ben disposti come sempre, ed Emma…
Non sapeva cosa aspettarsi rivedendola. Certo non gli sarebbe saltata al collo piangendo o confessandogli amore, non sarebbe stato da lei, ma vederla ricomparire più fredda e distante che mai, quasi come avesse rimosso gli istanti condivisi non era stato semplice – non era semplice: perché se in un primo momento l’uomo aveva incolpato un naturale imbarazzo, la paura di rivedersi e non piacersi, col passare delle settimane si era reso conto che la situazione non accennava a migliorare. Peggio: che la situazione non era affatto migliorata. Gli anni non avevano fatto maturare la ragazza, che viveva imperterrita sulla sua altalena di avvicinamenti e allontanamenti cui pure lui non sapeva sottrarsi, che combinava pasticci e rifiutava l’aiuto che le veniva offerto; che continuava, senza tanti giri di parole, a essere immatura.
E lui continuava ad amarla in silenzio, a starle accanto in silenzio, ad adorarla in silenzio come faceva ormai da tempo immemore.
(Tecnicamente, gli ricordava tuttavia una vocina, alcune serate del precedente lustro non le aveva proprio trascorse in religiosa solitudine e contemplazione del ricordo dell’amata.
Killian la metteva a tacere sottolineando che sì, poteva anche esser vero, ma dal momento che non ricordava nessuna di quelle compagne nottambule, era come se non fossero mai esistite.
Ognuno si giustifica come può.)
- Oh, Nolan! – biascicò una maledizione tra i denti – È diverso! Io ci sono abituato, e in ogni caso neanch’io ero mai venuto prima in questa zona di Whitechapel, ma tu sei sempre stata protetta, non è la stess… E ora cosa diamine vuoi fare? – s’interruppe mentre la ragazza attraversava la strada e si dirigeva convinta verso quella che pareva una locanda.
- Come se non avessi occhi per vedermi, – bofonchiò tra sé e sé prima di riprendere – Adesso ci sediamo, beviamo una birra e nel frattempo mi spieghi per quale razza di motivo ti sei attribuito il compito di badare alla mia incolumità. Perché, sebbene tu non l’abbia ancora afferrato, io sono perfettamente in grado di vivere senza di te.
È stupida?, Jones si ritrovò a domandarsi. Come poteva chiedergli davvero il perché, non l’aveva forse capito? Quel diavolo di bacio c’era davvero stato, l’aveva sognato, o cosa? Per non parlare della reazione di Mary Margaret quando avrebbe scoperto dov’era finita la figlia.
- Ma ti ascolti quando parli? Ti rendi conto di ciò che mi stai dicendo dopo quel che...
Andò quasi a sbattere contro Emma. All’improvviso si era bloccata, come se le ultime parole avessero colpito nel segno; una reazione tanto improvvisa che Killian si costrinse a riflettere sulla discussione, per paura di averle per sbaglio rivolto qualcosa di particolarmente brusco.
- Emma?
Ma la ragazza pareva non ascoltarlo: guardava sconvolta dinanzi a sé, un’espressione incredula sul volto, come se non potesse capacitarsi di ciò che aveva davanti.
Preoccuparsi fu spontaneo.
- Cosa succede?
- , – mormorò dopo un’eternità, indicando il pub a una decina di metri.
Killian seguì il suo dito puntato e il fiato gli si mozzò in gola.
 
Delle due donne che chiacchieravano sulla porta del locale, una era la sosia della fu Belle French.
 
 
 
“If the world isn't turning,
your heart won't return
anyone,

anything,
anyhow.”
“Love will come through” - Travis
 
 
 
 
 
1: secondo Google Translate, in norvegese “ghiaccio” si dice “is”. Non avendo trovato indicazioni diverse in merito, ho deciso di collocare Arendelle in Norvegia;
2: sovrane e corone erano monete del tempo; vi lascio quest’interessante link: http://georgianagarden.blogspot.it/2010/01/il-denaro-monete-e-banconote.html;
3: ho ripreso e adattato Olaf di “Frozen” e il suo – cito a memoria, perdonate eventuali errori – “Baciala. Baciala. Perché non la bacia? Credi che sappia baciare? Secondo me non sa baciare”. E Hans, PERCHÉ SI’ – ♥ ♥ ♥;
4: rielaborazione della frase di Charles Bukowski “Lei, è stato un evento che mi ha travolto fortemente, troppo fortemente. Ed io, forse, ero troppo distratto o troppo disattento per non innamorarmi.”;
5: Prima ancora di essere la sirenetta Disney, Ariel è un personaggio della commedia shakesperiana “La tempesta” – http://www.shakespeareweb.it/teatro/1611_la_tempesta/la_tempesta.htm.
 
 
 
 
 
Il gioco del nome riprende la fiaba “Tremotino” dei fratelli Grimm; per i nomi attribuiti a Gold mi sono ispirata ai personaggi interpretati da Carlyle in alcuni film – Barney Thomson da “The legend of Barney Thomson”, che dovrebbe uscire quest’anno, Francis Begbie da “Trainspotting” e Malachy McCourt da “Le ceneri di Angela”. Georgiana, Victoria e Gemma, invece, non hanno una motivazione: mi piacciono e basta.
Ringrazio infinitamente Chrystal93 per avermi concesso di riprendere l’idea di Belle che spiega alla figlia il significato delle parole sconosciute attraverso le storie – idea da lei sviluppata nella deliziosa raccolta “Vita da genitori”: correte a leggerla, forza, merita! *_*
 
 
 
 
 
N. d. A. : MIEI RAGGI DI SOLE! ♥ ♥ ♥
Come state? Mi siete mancat* tanto tanto tanto! La sessione invernale mi ha tenuto lontana dal sito, ma per fortuna si è conclusa per il meglio e finalmente posso tornare a torturarvi – mi spiace per voi! :D
Vi sono grata per non aver perso le speranze ed essere rimast* qui a leggere, recensire, seguire la storia o aggiungerla alle altre categorie: siete addirittura aumentat* nell’ultimo periodo, non ho parole! GRAZIE, grazie dal profondo del cuore. Voi sapete far emozionare una ragazza. :’)
Per farmi perdonare, ecco a voi un capitolone corposissimo e intenso, che spero vi piaccia almeno un quarto di quanto a me sia piaciuto scriverlo. Ci tengo particolarmente e sono piuttosto soddisfatta del risultato finale, ma spero di non essere stata accecata da questi fattori: fatemi sapere cosa ne pensate, non vedo l’ora di scoprire la vostra!
Non ero certa di inserire la scenetta tra Belle e Ruby, ma alla fine l’ho fatto: secondo me serviva un paragrafo più disteso prima di entrare nel clou della vicenda. Riecco Tink – ♥ –, che tornerà ancora, e forse anche Anna ricomparirà: ho deciso di introdurla versione baby per farla interagire con Helena e perché sinceramente io la preferisco da piccola. Spero che il modo in cui ho reinventato “Frozen” non sia orrido e che le caratterizzazioni di Killian ed Emma siano corrette: non scrivendone spesso, temo l’OOC – timore che nutro sempre per tutti i personaggi, in realtà. Mi affido a voi!
Grazie ancora per il sostegno manifestato e per essere arrivat* fin qui; ci si rilegge sabato 7 marzo e, nel frattempo, sulla pagina Facebook “Euridice’s World”: tra soli dieci giorni ricomincia OUAT e riprendono i miei commenti, waaaaa! *_*
(Ovviamente il “waaaaa” di contentezza è riferito all’imminente 4B, non alle mie pseudorecensioni deliranti. XD)
A presto, Dearies, e buon fine settimana! :):***
Euridice100

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Capitolo 7
*** VI - S.O.S. ***


A C.,
per le nostre delirantissime conversazioni. ♥
(“Nella 2x16 quella di Rumpel e Cora
era proprio una fuitina! Fidati!” – cit.
Ancora rido!
)
 
 
 
VI - S.O.S.
 
 
 
“Where are those happy days
they seem so hard to find?”
 
 
 
Per una volta nella vita una serata sarebbe dovuta andare bene.
Una sola, dannatissima volta
E tutto si era risolto col finimondo.
Semplicemente col finimondo.
La cena sarebbe stata il suo riscatto, la prima mossa dopo un’impasse durato troppi anni; la prova definitiva che Cora Mills era tornata e l’aveva fatto da signora e padrona, riottenendo al suo fianco chi, malgrado mille difetti, poteva ancora essere recuperato.
E invece, chi si era presentata quella sera, ospite mai invitata e allora più che mai sgradita, sempre pronta a riaffacciarsi sulle soglie della sua esistenza?
Lei.
Quella stramaledetta scaldaletti il cui nome non pronunciato non era stato per questo meno chiaro, meno brusco, meno bruciante.
Bruciante come una sconfitta, come sale su una piaga ancora aperta.
Aceto sulla carne viva.
No, non era stata una sconfitta.
Ma era stato comunque un colpo inatteso, e perciò in grado di vibrare ancora più a fondo. Non era stato detto alcunché di esplicito, ma era evidente fosse lei la causa del ritorno a Londra di Gold. Come l’aveva ricontattato? Cora stessa non ci era riuscita prima di ricevere una lettera da New York. E a quale stratagemma era ricorsa stavolta per attirarlo nuovamente a sé? E lui, lui – idiota di un Gold, ma con quale parte del corpo ragionava? – possibile avesse riattraversato l’oceano solo per questo, dando prova di un servilismo più degno di un cane che di un uomo?
Conoscendolo, possibilissimo.
Quella completa mancanza di amor proprio la nauseava. Tra lui e la French non aveva remore: preferiva di gran lunga la seconda. Caparbia e combattiva, tanto abile e scaltra da saper sfruttare la sua faccia d’angelo fino a quel punto, in un contesto diverso la nobildonna l’avrebbe voluta come alleata più che come rivale.
Ma la situazione era una e una sola e lei l’avrebbe affrontata senza smarrirsi in fantasticherie e “se” che nulla avrebbero apportato a suo vantaggio. La French andava scovata il prima possibile, e stavolta non ci sarebbe stato alcun errore. Non avrebbe coinvolto nemmeno Gold, anzi, a più distanza si fosse mantenuta da lui meglio sarebbe stato per sviare ogni sospetto. Chiaramente distanza sì, ma senza eccessi: non intendeva far sorgere dubbi in senso opposto.
E avrebbe tenuto alla larga Regina, non c’erano dubbi.
Ecco: come se non fosse stato già abbastanza, allo shock che non aveva saputo dissimulare quella sera si era sommato l’ennesimo colpo di testa di quell’ingrata con cui condivideva metà sangue, ma di sicuro neanche un quarto di cervello.
Se fino ad allora non l’avesse sempre controllata tanto sia di persona sia tramite gli insegnanti del Cheltenham, avrebbe pensato a una corrispondenza con Gold, o con uno dei servi con cui tanto amava sollazzarsi, o addirittura con la French stessa: chi altri avrebbe potuto inculcarle simili idee? Ma quando la richiesta l’aveva fatta sobbalzare e tornare in sé, si era voltata verso l’uomo: lo sconcerto sul suo volto non lasciava adito a dubbi e, per quanto Cora gli avesse insegnato a mentire, era chiaro non si trattasse di una sorta di  messinscena. Almeno su quello Robert ne sapeva tanto quanto lei; e cioè nulla.
Al diamine le sue eccessive preoccupazioni materne: avrebbe dovuto far rimanere Regina in collegio! Ma l’avrebbe sentita, era ovvio: la persona in grado di beffare Cora Mills doveva ancora nascere – e con ogni probabilità non sarebbe mai nata.
Ma di sicuro quella persona non era Regina.
 
 
 
“I try to reach for you,
but you have closed your mind.
 
 
 
Era strano anche solo pensarlo, si rendeva conto quando si soffermava sull’idea; ma per la prima volta dopo tanto tempo era felice, e non ricordava sensazione più bella.
Ogni istante con Daniel valeva la pena: malgrado dovessero incontrarsi di nascosto, malgrado gli attimi insieme fossero sempre rubati e fugaci, malgrado alle volte sorgessero impegni che Regina avrebbe voluto poter dimenticare, bastava il sorriso che lui le rivolgeva – quel sorriso diretto e schietto, che non celava fantasmi o minacce – per farla star bene. Non udiva più i rimbrotti materni per i doveri mai ottemperati come avrebbe dovuto, non provava l’inadeguatezza che tanto spesso avvertiva o l’ansia di essere scoperti… Tutto svaniva quando Daniel le stringeva le mani, avvolgendole in una presa forte che sembrava volerla proteggere e custodire, riparandola da ogni ombra.
Quel giorno nelle scuderie si erano staccati e guardati ansanti, la collera che tracimava dai loro occhi.
- Cos’era questo? – aveva domandato lo stalliere in un tono sordo subito smentito dalle dita che aveva portato alle labbra, come incredulo di quanto appena accaduto.
Tutto, avrebbe voluto rispondere lei; ma aveva taciuto. Certe cose sono troppo nette, troppo evidenti per essere pronunciate ad alta voce, perché al contempo troppo segrete.
Come se le parole potessero spezzare l’incanto.
- Lo sai, – aveva detto infine la giovane, appena prima che la sua bocca fosse catturata in un nuovo bacio, partito stavolta da Daniel stesso.
Da allora si erano baciati in altre occasioni, ma per quanto il petto di Regina esplodesse ogni volta, in fin dei conti quell’aspetto non le importava tanto; o almeno, non tanto quanto la semplice presenza del giovane. Erano il sostegno silenzioso ma fermo, gli scherzi che erano tornati a unirli e la gioia per essere finalmente apprezzata senza maschere ciò che colpiva maggiormente la ragazza; un’emozione quasi del tutto inedita per lei, una sorta di calore che s’irradiava dal cuore, riscaldandole il corpo e, soprattutto, l’anima.
Si chiedeva spesso, Regina, se ciò che provava fosse vero amore. Quello al centro dei romanzetti che le sue compagne si passavano sottobanco e che pareva ispirare ogni canzone, ogni poema mai composto. Sarebbe stata pronta a lasciar tutto per lui? Nell’ingenuità dei quindici anni, ella sosteneva che sì, l’avrebbe fatto, e che non era neanche il caso di porsi interrogativi dall’ovvia risposta, stante l’intensità di un sentimento di cui si era resa pienamente conto solo quando l’aveva lasciato emergere.
Come poter anche solo immaginare di carezzare un altro volto, di instaurare con un terzo una complicità anche solo vagamente somigliante alla loro – mai, mai come la loro, perché quella era unica? In fondo, si diceva, non c’era neanche bisogno di crucciarsi: ciò che li univa avrebbe saputo superare ogni ostacolo. Alle volte Regina si sorprendeva a sognare: era ancora presto, ma un giorno sarebbe giunta l’ora di presentarsi al mondo e – tratteneva il respiro alla sola idea – affrontare la contessa Mills. Con ogni probabilità l’intera Belgravia avrebbe tremato fin dalle fondamenta e il dramma sarebbe passato agli annali, però per quanto folle una piccola, piccolissima ma pur sempre presente parte di Regina voleva credere nella madre. Voleva sperare che dopo la rabbia la donna avrebbe ascoltato la coppia, comprendendone le ragioni e dandole la sua benedizione; che avrebbe augurato ai due la più perfetta felicità e che da allora nessuno avrebbe più intaccato la loro quiete: avrebbero goduto del più bel lieto fine che fosse mai stato scritto – il più bello perché vero.
Poi quei cinque minuti di favola terminavano e lei ripiombava nella realtà ben diversa di un palazzo dai mille occhi e di un genitore che con uno sguardo pareva insinuarsi sottopelle e carpire ogni segreto.
E Daniel, Daniel l’amava?
Sì.
La risposta scaturiva spontanea, e non perché il ragazzo glielo ripetesse senza requie o glielo dimostrasse in qualche improbabile modo aulico, ma perché nelle brevi settimane dal loro primo bacio Regina si sentiva diversa: si sentiva coraggiosa. Saggiava sentimenti sconosciuti, una forza che pareva animarla e indurla a reagire a quella che fino ad allora era stata una vita d’asservimento, una fogna bardata a festa. All’improvviso i consigli che Daniel le aveva ripetuto per anni, quei “Ribellati” quasi sempre ignorati erano divenuti una realtà più vicina, tangibile, concreta; sapeva di dover cominciare dalle piccole cose per infrangere la monotonia che si trascinava, e finalmente alla cena con lo zio aveva compiuto il primo passo in tal senso.
Malgrado lo strano momento aveva parlato, e non se ne pentiva: quella era la sua vita, aveva il diritto di condurla  a proprio piacimento, e tra i suoi propositi c’era quello di ricucire i rapporti con Gold – perché una cesura c’era stata, lei ne era stata colpevole, ed era suo compito chiedere scusa. Il modo in cui l’uomo l’aveva salutata dava di che sperare, ma solo parlandogli con chiarezza avrebbe risolto la questione; e a tal fine era necessario trascorrere qualche giorno lontana dalla madre, che mai le avrebbe permesso di portare a termine i suoi piani.
Ciò che l’aveva stupita, però, era stata la reazione di Cora; o meglio, la non reazione: perché dopo la proposta la donna non aveva urlato, non aveva strepitato o altro, no.
Semplicemente non le aveva rivolto parola.
Fino ad allora.
Perché pochi minuti prima la Contessa aveva bussato alla porta della sua camera e, senza attendere il permesso, era entrata e si era avvicinata alla figlia con uno dei suoi sorrisi lenti che sempre nascondevano minacce. Stava studiando una spazzola d’argento con aria casuale quando l’adolescente decise di porre fine a quella manfrina e agire.
- Maman, – la salutò imponendosi fermezza – Posso aiutarvi?
- Oh, Regina cara, – la donna rise garrula – Una madre non può semplicemente recarsi dalla figlia per diletto? Trascorrere qualche minuto assieme, fare una bella chiacchierata da donna a donna?
No, se la madre è la contessa Mills, Regina si morse l’interno delle guance per non replicare, limitandosi ad annuire vaga.
- Come ti stai trovando qui?
La ragazza si trattenne dal corrugare incredula un sopracciglio. Pensava di dover subito fronteggiare un qualche attacco nello stile sprezzante che ben conosceva, di dover pagare cara la mossa osata, e invece Cora s’informava sulle sue condizioni dimostrando un atteggiamento che avrebbe solo potuto definirsi pacifico.
Magari sono davvero semplici domande, è comunque naturale che si preoccupi per te, la rincuorò una vocina cui non seppe dar credito.
- Bene, – solo in parte una menzogna, grazie a Daniel – Qui posso uscire con Ronzinante, e poi Londra è il centro del mondo, l’ideale per incontrare conoscenti, rinnovare il guardaroba e aggiornarmi sulle ultime novità, le mode e i pettegolezzi, – inserì la sviolinata per compiacerla: francamente a lei dei succosi aneddoti sugli amorazzi tra lady Tal dei tali e lord Nessuno importava ben poco, se non la riguardavano da vicino. Aveva già abbastanza problemi cui badare – È sempre bene restare al passo coi tempi.
- Esatto, mia cara. E dimmi, ti manca forse la scuola? Le amiche, le lezioni…
Un’altra domanda che la spiazzò. Da che ne aveva memoria, per Cora i suoi interessi erano sempre stati meno che irrilevanti, ridicoli e sciocchi.
- Insomma. Le lezioni di lingua mi piacciono, lo sapete, quelle di economia domestica molto meno, – non toccò l’altro argomento: in collegio lei aveva compagne, non amiche.
Non vedeva colei che era stata la sua unica amica da cinque anni, oramai.
- Capisco. Sai, una madre tiene a che la figlia si senta sempre a suo agio, si preoccupa del suo benessere e della sua felicità, e proprio per questo non può fare a meno di porsi delle domande. Soprattutto, – continuò con dolcezza velenosa – Se la figlia pare fare il possibile per eluderla.
Ecco.
Come volevasi dimostrare, le mosse di Cora non erano mai disinteressate: anche stavolta aveva atteso l’occasione propizia per colpire là dove faceva più male e introdurre, incurante del parere altrui, il discorso che lei intendeva affrontare.
- Non vi sto evitando, Maman. Semmai siete voi che da…
- No, no, no, Regina cara, – la zittì con un unico cenno – Non mi hai intesa. Non che sia un’autentica novità, sono ormai abituata a dovermi ripetere per gestire le tue mancanze, – Regina ingoiò il fiotto di bile che certi incisi sempre le causavano – Mi stavo riferendo al tuo insensato desiderio di trasferirti in quel di Kensington. Potrei essere messa al corrente della motivazione alla base di tale insana scelta, di grazia?
- Non voglio trasferirmi, ma…
- Allora tutto è risolto, splendido! Se, come affermi, non intendi trasferirti la richiesta sarà stata dovuta alla tua ennesima intemperanza momentanea. Sai, – aggiunse con fare preoccupato – Sei decisamente troppo umorale. Se non migliorerai sarà difficile trovarti un marito adeguato.
- Maman, se mi lasciaste parlare…
- No, – il tono sprezzante della donna bloccò ogni replica – Io ti lascerei parlare se tu avessi qualcosa di sensato da dire. Qualcosa degna di essere pensata da una donna, ormai, e non da una bambinetta demente, perché solo un’infante farebbe simili capricci e tu sai che la mia pazienza verso i mocciosi è men che nulla. Perciò, tu non hai alcun diritto di parlare finché non maturerai.
- Maman, io intendo solo trascorrere qualche giorno dallo zio, – Regina riuscì finalmente a riprendere parola, sforzandosi di apparire pacata e ragionevole sebbene dentro stesse tremando di rabbia – È stato anche lui a crescermi e, non vedendoci da tempo, temo che il nostro rapporto si sia indebolito. Ora che entrambi siamo qui mi piacerebbe sfruttare l’opportunità e incontrarlo più spesso, ecco.
Le labbra della Contessa sparirono in una linea invisibile.
- Vi siete visti l’altra sera, – ribatté lei appena inacidita – Quale posto pensi di ricoprire? Lo chiami zio, ma per lui tu sei un’estranea, la figlia di un’amica e null’altro. Credi che ti voglia bene, che ti ami come una figlia? Perché la risposta è no, Regina. Tu non sei nessuno, e questo vale anche nei suoi confronti. Cosa pretendi?
La sensazione che le avessero di colpo tolto l’aria s’impadronì della giovane, facendola sussultare. C’era stato un tempo in cui era stato lo zio stesso a chiederle di fermarsi da lui, a chiacchierare con lei e alle volte persino a giocare. Una volta una ragazza il cui nome preferiva non ricordare le aveva assicurato che suo zio le voleva bene, anche se non era solito esprimerlo – e a quella ragazza Regina aveva creduto, credeva, perché lei non le aveva mai mentito.
Tra le due, non era stata lei a mentire.
E per questo ora le parole materne facevano così male; perché erano l’ulteriore prova di come Cora Mills si appropriasse della realtà per mallearla a suo piacimento, di come tra le sue dita ogni evidenza potesse essere smontata e ricomposta fino all’estremo.
Anche l’evidenza dell’unica famiglia che aveva conosciuto.
- Pretendo di scegliere cosa fare! Di deciderlo io giorno dopo giorno, senza non dover chinare la testa davanti agli ordini di chi crede di saper ogni cosa e invece non sa come sono davvero, come mi sento o mi piace, cosa vorrei e non vorrei fare nel mio futuro! – stava ansimando, Regina. Aveva il fiato grosso e tremava, un vertigine di emozioni che la sconquassava facendola quasi sentir male; ma non intendeva frenarsi, non intendeva chinare il capo e fingere che tutto andasse bene, perché nulla andava bene, e non lo era mai andato. Aveva ben pochi punti fermi nella vita, e per difenderli sarebbe andata fino in fondo – Nessuno sa nulla di me, Maman, voi non sapete nulla di me, e pianificate la mia esistenza come se fosse la vostra, quando tutto ciò che io pretendo è vivere la mia vita! Ecco! Voglio vivere la mia vita!
Le schegge d’ardesia che erano gli occhi di Cora lampeggiarono furiosi.
Eppure, tra la collera e l’astio, Regina non poté fare a meno di notare il barlume di un’altra emozione: la sorpresa.
Credevi fossi tu l’unica a saper lanciare una sfida, Maman?
- Se non ti tiro uno schiaffo è solo perché ti resterebbe il segno e perderesti l’unica cosa buona su cui puntare, – sibilò feroce, guardandola dritta in volto – Perché il tuo bel faccino è tutto ciò che hai; tu non hai altro. Non hai denaro, non hai intelligenza, non hai senno né abilità; se ti lasciassi in mezzo a una strada, moriresti in un’ora. Non hai nessuno oltre a me in questo mondo, ma soprattutto non sei nessuno senza di me, ricordalo. Non so chi ti abbia messo in testa certe idee, ma non ti permetterò di seguire il suo cattivo esempio e di rovinarti la vita che io ti sto assicurando. Io e io sola, Regina, ricordalo. Glielo impedirò, – la donna fece per uscire dalla stanza – A qualunque costo.
Alle orecchie di Regina il rumore della porta che sbatteva fu quasi piacevole.
Lo vedremo, Maman.
Lo vedremo.
 
 
 
“It used to be so nice,
it used to be so good.”
 
 
 
Quando la guardava correre, Belle non poteva fare a meno di sorridere: la bellezza di Helena la colpiva sempre nel profondo, accendendo in lei qualcosa che non sapeva descrivere. Era amore materno, certo, ma dal semplice definirlo al saperne parlare, darne anche solo una vaga idea, un fantasma semitrasparente agli interlocutori… No, non ci riusciva; né, in realtà, farlo le interessava poi tanto.
Col tempo aveva capito che poteva porsi domande su ciò che la circondava, su se stessa e sul mondo, sulla realtà e persino sulla fantasia, ma non su ciò che provava; tantomeno su ciò che provava verso sua figlia. Aveva imparato presto ad accettare quel tipo d’amore che non andava narrato, ma solo vissuto, ringraziando il destino, Dio, la natura o qualsiasi altra entità per averle concesso di conoscere quel tipo di magia: incomprensibile, arcana, misteriosa ma forte, forte più di ogni altro sentimento avesse provato nella vita.
Voleva proteggerla, Belle. Risparmiarle le brutture del mondo, far sì che Helena conoscesse solo la felicità, la spensieratezza e la risata che quando le compariva sul volto la rendeva ancora più incantevole. Una piccola promessa di bellezza, con un caratterino che avrebbe dato filo da torcere a chiunque avrebbe provato a fermarla.
Belle avrebbe voluto possedere ancora l’ingenuità – la capacità? – di illudersi. Di credere di poter sfidare il mondo e uscirne vittoriosa, di poter divenire l’eroina di cui fantasticava da ragazzina. Ora sognava solo di saper tenere al riparo la figlia, di salvarla da quanto potesse ferirla; ma per quanto s’impegnasse in tal senso, era conscia della parziale vanità del tentativo. Helena era ancora piccina, vero, ma già scalpitava per la libertà, e sarebbe arrivato il giorno in cui le richieste sarebbero divenute pretese e l’autonomia una costante da accettare. C’era stato un periodo, i primi mesi, in cui Belle aveva visto in Helena una versione in miniatura di sé e Robert, quasi una loro copia ridotta; ma ben presto si era resa conto che la bambina non era né lei, né l’amato: Helena era semplicemente Helena. Col suo volto e i suoi lineamenti, coi suoi pregi e i suoi difetti, la sua già pungente arguzia e la sua fantasia, che aveva ereditato, ma soprattutto modulato a suo modo; e proprio come era se stessa, a modo suo avrebbe cercato e trovato la strada da percorrere, scoprendo col tempo ciò che sarebbe diventata senza imposizioni che non avrebbe comunque sofferto.
Lei avrebbe potuto accompagnarla, sostenerla, aiutarla e consigliarla, ma non tarparle le ali; anche nel difenderla avrebbe incontrato dei limiti: perché spesso le peggiori offese vengono da coloro che si ama di più, di cui più ci si fida, da coloro dai quali mai ci si aspetterebbe tradimenti. Aveva una certa esperienza in merito, purtroppo; un’esperienza dalla quale intendeva preservare la figlia, sempre se non fosse già troppo tardi: perché Robert l’aveva, in una sola parola, semplicemente conquistata.
La sera precedente,  quando era tornata dall’incontro che sarebbe dovuto essere chiarificatore e che invece aveva suscitato nuove domande e riacceso vecchi turbamenti, si era ritrovata davanti una Ruby esausta che aveva commentato con un immediato: – Tale madre, tale figlia. È cotta di lui.
Per tutto il tempo in cui erano state distanti, la bambina non aveva fatto altro che parlare a qualsiasi creatura vivente disposta ad ascoltarla – Anna, Ruby, Granny, nessuno era stato al sicuro – di quanto fosse bravo il signore che le aveva promesso una storia, di quanto fosse bello il loro gioco e di quanto si fossero divertiti assieme; e nell’istante in cui l’aveva rivista, le era saltata al collo chiedendole dove fosse lui e descrivendo ogni cosa al povero Graham, che per l’intera cena aveva dovuto sopportare il panegirico del signore gentile il cui nome Helena non aveva voluto conoscere in alcun verso – Mi ha promesso la storia solo se lo indovino, mamma, se lo dici tu non vale!
Affrontando la situazione con razionalità, Belle avrebbe dovuto gioirne: con un simile esordio, il rapporto sarebbe solo potuto migliorare col tempo e con l’approfondirsi. Helena si fidava facilmente del prossimo, vero, ma era chiaro che Robert avrebbe saputo – aveva già saputo – trovare la strada per il suo cuore; ed era certa che l’uomo avrebbe fatto tesoro della chance offertagli dalla figlia.
Li aveva osservati da lontano per qualche istante: nonostante Anna come terzo incomodo, nonostante la sbalordimento per la scena, vederli assieme aveva avuto la capacità strabiliante di renderla, per dei secondi tanto fugaci quanto meravigliosi, felice. Felice come non era da tanto, troppo tempo, come se finalmente si fosse risvegliata da una lunga stasi, o qualche sogno a lungo sopito fosse divenuto realtà sotto i suoi occhi ripagando ogni lacrima, ogni tristezza, ogni giorno e notte in cui lui sarebbe dovuto esserci e non c’era stato.
Quando Robert aveva alzato il capo verso di lei, aveva visto risplendere una nuova favilla in quegli occhi così belli e così troppo spesso induriti dal sospetto, una luce la cui causa non dubitava fosse Helena. Forse in lei aveva visto gli echi di tempi perduti; forse – sicuramente – era rimasto affascinato dalla bambina a tal punto da non potersene più scordare. Le frasi dette durante il colloquio erano state chiare: malgrado il modo in cui si era espresso, Belle sapeva che l’uomo non si stava riferendo solo al denaro.
Belle temeva solo che spezzasse anche il suo cuore.
Padre e figlia avrebbero dovuto rivedersi, poco ma sicuro: come aveva detto anche al diretto interessato, mai in quegli anni aveva pensato di impedire loro di conoscersi, di costruire un legame che aveva fonte nel sangue, ma che solo la vicinanza avrebbe reso solido; ogniqualvolta i due avessero voluto vedersi, lei l’avrebbe accettato e capito. Ma la parte più assennata di lei, quella accorta e sospettosa e che un tempo veniva troppo spesso zittita per seguire l’istinto, memore delle esperienze passate non poteva non temere che in qualche modo il passato si ripetesse.
Ora il suo dovere era proteggere la bambina da chiunque potesse ferirla, e quello avrebbe fatto.
Un tempo si sarebbe presa a schiaffi per sospettare di Gold, anche conoscendo l’affetto che nutriva per Neal, e qualcosa in lei ancora si ribellava al pensiero. Era stata Cora a tessere la tela di imbrogli che, cinque anni prima, li aveva avvolti e condotti alla fine, non Robert: Robert ne era stato vittima tanto quanto lei.
Ma, al tempo stesso, l’uomo non poteva uscirne davvero assolto. Per quanto ancora lo amasse, per quanto il contatto più breve le scatenasse un terremoto nel petto e la consapevolezza che il filo invisibile tra loro non si fosse mai spezzato, ma rinsaldato, Robert non era esente da colpe – non poteva esserlo. Come sarebbe stata la loro vita se avesse avuto il coraggio di crederle? Se Helena avesse avuto entrambi i genitori sin dal primo istante?
Domande che non avrebbero mai trovato risposta anche a causa di Gold.
Ma non sarebbe successo di nuovo. Quella volta sarebbe stata saggia, si sarebbe dimostrata attenta prima che fosse troppo tardi: per colei che era coinvolta avrebbe fatto di tutto.
- Cosa stai combinando qui?
La voce di Granny la riportò coi piedi per terra. Le andò incontro per aiutarla con la cesta del bucato che portava, e sorrise al suo sbrigativo cenno di ringraziamento.
- Per fortuna ci sei tu… Ruby ha fatto perdere le sue tracce anche stavolta. Quella sfaticata di nipotastra se la svigna quando c’è da lavare i panni.
- Ma no, – Belle difese bonariamente l’assente – Avevo la sua stessa età quando ero a servizio, e anch’io proprio non sopportavo certe incombenze.
- Ma non ti sottraevi al tuo dovere. Sapevi che se ti fossi lamentata ti avrebbero mandata via. E forse, – aggiunse senza remore – Sarebbe stato meglio.
Belle s’irrigidì recependo i sottintesi della frase.
- No, – smentì secca, lisciando con eccessiva attenzione le pieghe del lenzuolo che stava stendendo – Non sarebbe stato meglio. Ora non sarei qui. E soprattutto, – guardò verso Helena che saltava la corda poco distante, i capelli scompigliati e il visetto arrossato dalla concentrazione – Non avrei lei.
La persona più importante della mia vita.
- Cosa intendi fare? – l’anziana incrociò le braccia al petto, guardandola di sottecchi.
- In che senso?
- Oh, suvvia! – sbuffò – Non offendere la tua intelligenza fingendo di non capire. Sai benissimo a cosa mi sto riferendo, o meglio, a chi. Se ieri le cose fossero andate male oggi saresti molto più triste, e invece sei pensierosa… Il che è un bene, o un male a seconda dei punti di vista. Le decisioni importanti meritano riflessioni importanti, e questa lo è senz’altro. Perciò, hai già in mente qualcosa?
Belle deglutì. La donna, franca e diretta come sempre, aveva colpito nel segno: come aveva in mente di procedere? La risposta era così immediata, così ovvia, e al contempo fumosa come poche.
L’immagine di Robert ed Helena che ridevano già complici le tornò dinanzi agli occhi.
Granny sospirò, quasi avesse letto nella mente della sua seconda nipote intuendone il dissidio interiore. L’aveva sostenuta nei momenti più duri, toccandone con mano la forza e la costanza, eppure poche volte prima di allora l’aveva vista tanto sperduta; pareva di essere tornate ai tempi in cui era chiaro fosse incinta e la diretta interessata era l’unica a non volersene accorgere. Vederla in quello stato le suscitava tenerezza e rabbia: Belle aveva già sofferto abbastanza per colpa di quello spocchioso che non meritava alcuna pietà. Se avesse osato farle ancora del male, Granny avrebbe davvero fatto ricomparire la balestra del suo avo.
- Lui… Lui vuole provarci, – ammise infine la giovane donna – Dice di volerla conoscere, di voler prendersene cura, – soprassedette sulla proposta di lasciare Whitechapel – E so di potermi fidare delle sue parole.
- In giro non ha una gran bella fama, eh.
- È visto come un mostro senza compassione, lo so, ma ti assicuro che non è così. Per lui la parola data è fondamentale, pretende che gli accordi siano onorati e quando ciò non avviene non perdona né dimentica. Un accordo con lui è per sempre.
E io l’ho sperimentato in prima persona.
Cosa le aveva detto a Canary Wharf? “Se veniste con me sarebbe per sempre, mia cara”, e così era stato. Tutto era nato con un patto – un accordo che subito le aveva stravolto la vita, allontanandola dal padre e inserendola in un nuovo ambiente senza possibilità di ritorno, ma che poi si era davvero rivelato la scelta più definitiva della sua esistenza: aveva rivoluzionato ogni cosa nel modo più assurdo, più netto e più imprevedibile possibile. La Belle che a settembre 1888 era salita in carrozza pensando di avere a che fare con un essere senza cuore non avrebbe mai immaginato che si sarebbe innamorata di quella che a tutti gli effetti le pareva un’autentica bestia, che avrebbe costruito con lei una storia d’amore tanto intensa quanto tormentata, che insieme avrebbero generato la vita.
- E allora cosa temi?
Che ferisca lei.
- Che venga meno alla parola data. Sì, hai ragione, – s’affrettò a spiegare mentre l’altra levava un sopracciglio perplessa – Ho appena detto che non è uno spergiuro, e lo ribadisco. Il problema è un altro: nonostante le apparenze, lui non è forte. Ha paura… Paura di tutto. Anch’io ho paura, forse tutti l’abbiamo, ma almeno noi proviamo a combattere. A puntare i piedi, a cercare un modo per resistere. Lui, invece… Lui no. È stato ingannato dal mondo talmente tante volte da non aver sviluppato un senso di fiducia, da aspettarsi sempre l’ennesimo tradimento, reale o immaginario che sia. E per questo temo possa finire ancora – perché qualcosa è iniziato, non si può negare, è ricominciato nel momento in cui si sono visti. Io potrei reggere un’altra ferita, sopportarla e proseguire per la mia strada. Helena, invece… – Belle chiuse gli occhi – Helena no. È troppo piccola, troppo fragile. Se si affezionasse e lui sparisse? Cosa potrei dirle, come potrei consolarla? Qualsiasi cosa facessi, la segnerebbe comunque a vita. Mi disgusta anche solo pensarlo, perché Robert è già stato padre e credimi, il bene che ha voluto e vuole a suo figlio è qualcosa di immenso, avrebbe maledetto se stesso pur di salvare lui, ma la paura, questa dannatissima paura che vorrei strapparmi dal petto resta. Resta sempre, come un macigno, un peso, e io vorrei solo sbarazzarmene e ricominciare a vivere.
Granny le passò un braccio attorno alla vita e l’attirò a sé.
- Ti ho mai raccontato della mia Anita?
- So che vi ha lasciate quando Ruby era piccola.
- Esattamente. Mia figlia non è mai stata una persona tranquilla, ma sono convinta che se il padre di mia nipote le avesse voluto bene e le fosse rimasto accanto le cose sarebbero andate diversamente. Di lui non voglio parlare: era un autentico poco di buono che se n’è scappato a gambe levate appena ha saputo della pagnotta nel forno, ed è stato la causa dell’allontanamento di Anita, della sua caduta e della sua fine. Quando ho saputo che sarebbe nata Ruby sono corsa da lei, l’ho aiutata e in qualche modo tenuta a bada, ma dopo non c’è stato più verso di farla stare sulla retta via. Per quanto ne abbia sofferto, quando l’ho vista rifiutare il mio sostegno e tornare alle brutte abitudini, non ne sono rimasta sorpresa: sapevo sarebbe successo, e l’ho accettato. Piano, a fatica, ma ho dovuto farlo. Ho portato con me la bambina, per salvare almeno lei, e ho ricominciato daccapo. Eppure… Eppure credo che se quello là fosse stato con Anita, se avesse fatto un tentativo di mettere la testa a posto, tante cose non sarebbero successe. Lui non ci ha neanche voluto provare, e non glielo perdono, perché mi ha fatto perdere una figlia e per poco anche una nipote. Ed è questo ciò che dovrebbe farti meditare, – Granny finalmente rialzò il capo. Dal suo sguardo traspariva una determinazione assoluta toccata appena da una lontana mestizia – Non apprezzo Gold, ma la sua intenzione di provare e quanto hai detto sull’altro figlio non sono da trascurare, davvero. I tuoi timori sono più che giustificati – guai se non li avessi! –, ma qui tu sola lo conosci e puoi capire se è sincero, così come puoi avvertire il pericolo e individuare i limiti da non superare per proteggere tua figlia. Ieri hanno fatto amicizia, giusto?
- Peggio. Credo che Helena abbia ereditato la mia capacità di innamorarmi di un certo magnate della lana…
- Lo sospettavo, – la nonna commentò tra i denti – Farli rivedere non sarebbe malaccio. Se vuole occuparsene deve conoscerla. Fallo venire qui quando preferisci, sai che questa è casa tua e non devi chiedere il permesso. Solo, avvisami prima che arrivi: se me lo trovassi davanti potrei tirargli la padella in testa… Così come se vi facesse ancora star male, del resto.
- Spero che alla fine tu debba usare la padella solo per cucinare. Lo spero davvero, – fece eco Belle accingendosi a ringraziarla; ma fu presto interrotta da Helena, che si precipitò da loro.
- Mamma! – avvertì la bambina – Bussano!
Belle e Granny si scambiarono un’occhiata. L’esistenza del cortile era nota a pochi: a loro e a Graham, a Tink e due o tre amichetti di Helena, e di recente a Gold. Ma Humbert era di turno, a quell’ora le lezioni impegnavano i “Bimbi sperduti” della Barrie e Gold non era atteso…
I colpi alla porta si ripeterono, più forti e bruschi di prima.
Una fosca angoscia s’impossessò di Belle: che le previsioni di Robert si fossero già avverate? Che la Mills e i suoi le avessero stanate in poche ore dopo tanti anni di caccia?
- Andate dentro, – ordinò l’anziana – Ora, – aggiunse anticipando qualsiasi remora. Se fossero davvero stati dei malintenzionati il suo tentativo si sarebbe rivelato vano e sconsiderato, e la giovane certo non avrebbe voluto che l’altra restasse coinvolta in una faida cui era estranea; e sicuramente la filastrocca che la bambina stava recitando a voce alta era stata udita e…
Ma la volontà di proteggere la figlia ebbe la meglio su ogni scrupolo: l’afferrò e in un istante fu in casa con lei.
- Se ti dico di scappare, tu fallo.
La bambina annuì seria. Sapeva da sempre che se la mamma le avesse detto qualcosa di simile lei avrebbe dovuto limitarsi a obbedire senza far storie: a quanto pareva, c’era qualcuno di non meglio specificato che attendeva solo l’occasione per trovarle e far loro del male.
Belle coglieva sprazzi di dialogo, non abbastanza per capirne l’andazzo. Cosa stava succedendo? Sarebbe dovuta scappare subito e rifugiarsi all’orfanotrofio? Al primo rumore sospetto l’avrebbe fatto. E se alla fine il nuovo arrivato si fosse rivelata semplicemente Ruby, le avrebbe strappato il cuore per averle fatto venire un infarto.
All’improvviso udì i passi di Granny che si avvicinavano.
- Tutto sotto controllo, uscite, – non ricevendo risposta, la donna proseguì – Belle French, ma insomma! Ti capisco, ma sono o non sono Polly Lucas? Se fossero stati dei poco di buono avrei ceduto tanto facilmente, secondo te?
L’uscio si scostò appena.
Belle strabuzzò gli occhi dinanzi allo spettacolo che si trovò davanti: il grande e grosso Blockehurst e la sua aria da criminale incallito stonavano non poco coi fiori che aveva in mano.
Lo sguardo della donna vagò alternativamente dall’uomo a Granny in cerca di chiarimenti.
- Sì? – fece infine, pur avendo intuito cosa, o meglio chi, fosse dietro a tutto.
- Per voi, – più che truce, l’espressione dello scherano di Gold pareva sconsolata, quasi si stesse vergognando a morte e non vedesse l’ora di farla finita con quello strambo impiccio – Da parte di voi-sapete-chi.
Le allungò il fascio come se scottasse, costringendola a stendere d’impulso le braccia per non farlo cadere: una cascata di rose scarlatte dai petali spessi come sete d’Oriente spandeva per l’aria un dolce profumo; e, al centro della composizione, risaltavano per colore e dimensione cinque giacinti purpurei.
- Sai cosa significano? – la voce di Granny le giunse distante, ovattata.
Amore e perdono.
Robert le regalava spesso fiori. Dalla prima rosa in poi, erano state molteplici le occasioni in cui le aveva fatto trovare simili omaggi: orchidee per la dedizione, viole per la fedeltà e camelie per la bellezza 1, la scelta era sempre stata consona alla situazione, mai improvvisata; ed era evidente che anche stavolta il gesto fosse tutto meno che casuale.  
Aprì a tentoni il bigliettino.
È stato bello rivederti.
Grazie.
R. G.
- Entro… Entro in casa per rispondere, – si scusò.
Era vero solo in parte: doveva sì abbozzare una frase, ma soprattutto voleva fuggire dagli sguardi penetranti dei presenti.
- Belli! – esclamò Helena, fino a quel momento rimasta nascosta per ordine materno – Sono tuoi?
- Sì, – mormorò cercando inchiostro e calamaio.
- E perché te li hanno dati?
Perché tuo padre teme che le parole si sciupino quando vengono dette in faccia.
E io lo amo anche per questo.
Vergò un’unica frase:
Ha fatto piacere anche a me.
B.
Era una replica ben misera, ma la più sincera che sarebbe riuscita a elaborare tanto in quel momento quanto – lo sapeva – in futuro: mille parole non avrebbero mutato la realtà dei fatti se non complicandola.
Fissò i fiori. Erano davvero splendidi… Meraviglie della natura che la lusingavano, non lo negava; e che forse avrebbe accettato, se li avesse portati lui. Se si fosse esposto, se fosse passato anche solo per pochi minuti, appena il tempo di consegnare il mazzo per poi andarsene senza fermarsi, senza chiacchierare. Fiori o cioccolatini non gli avrebbero fatto guadagnare il perdono, ma presentarsi sarebbe stato preferibile che lasciarli portare dal proprio sgherro. Sarebbe stato un passo in avanti – piccolo, quasi invisibile, ma un altro.
Perché hai tanta paura di me?
Lei l’aveva sempre ascoltato. Anche quando la situazione era sembrata così avversa a loro, anche quando lui aveva ammesso di averle mentito lei gli aveva concesso la possibilità di esporre le sue ragioni, di difendersi e ripercorrere i suoi passi.
Anche stavolta non glielo avrebbe negato.
E anche stavolta lui si ritraeva dalla verità.
Se solo fossi venuto…
Martedì era troppo, troppo distante, e lei voleva rivederlo subito – dopo un giorno, dopo un’ora, sempre. La malinconia le gonfiava il cuore tanto da causarle quasi un dolore fisico.
- Perché te li hanno dati? – ripeté Helena, imbronciata per essere stata ignorata.
- Non li terrò.
- Ah, – la bambina parve quasi delusa – Perché? Sono belli. Li voglio.
All’improvviso a Belle balenò un’idea. Un’idea le cui conseguenze Gold non avrebbe ignorato, sorrise tra sé e sé.
- Non li terrò, però posso dartene un paio.
- Sì! – levò una manina per strappare un fiore, ma fu presto fermata dalla madre.
- Aspetta. Prendi questi, – le consegnò una rosa e uno dei giacinti, che la piccola accolse felice, prima di aggiungere un’altra riga al messaggio – E resta qui. La mamma deve finire di parlare con una persona…
 
 
 
When you're gone,
how can I even try to go on?
When you're gone,
though I try, how can I carry on?”
 
 
 
Ripensando alle dozzine di rose che uno stralunatissimo Blockehurst gli aveva riportato per il secondo giorno di fila, gli veniva da ridere: Belle non le avrebbe accettate neanche se lui gliele avesse consegnate di persona, lo sapeva, ma con la sua partecipazione la scena sarebbe stata davvero impagabile.
A Gold i fiori non piacevano. Li considerava un mero decoro, nulla più: tanto gradevoli alla vista e all’olfatto quanto privi di funzionalità. In realtà avrebbe potuto sostenersi lo stesso su quasi tutto ciò di cui si attorniava: a cosa servivano vasellame d’argento e servizi di Sèvres, se non a sbattere in faccia al prossimo lo status cui era riuscito ad accedere? Eppure, una parte di lui riusciva a giustificare quegli acquisti: avere stoviglie in sovrannumero poteva rivelarsi un vantaggio dal momento che – chissà come mai – in casa Gold le porcellane non godevano di lunga vita; e comunque, oggetti rari e cineserie simili racchiudevano un antefatto, portavano con sé una storia che i boccioli non possedevano. Germogliati spontanei nei campi o fatti nascere in serra, essi erano privi di passato; il loro racconto nasceva nell’istante in cui erano colti e donati: sarebbero stati accettati? Il messaggio di cui erano forieri sarebbe stato recepito? Con quali conseguenze?
Nel suo personalissimo caso, avrebbe risposto di sì almeno alla seconda domanda; perché per due giorni di fila, dei cinque giacinti iniziali solo quattro erano tornati al mittente, e lo stesso poteva dirsi delle rose.
E l’autrice del gesto conosceva perfettamente il significato della sottrazione.
Un tempo era solito donare spesso fiori a Belle perché sapeva quanto li apprezzasse. Cos’altro aspettarsi, in fondo, vista la famiglia cui apparteneva? Non poteva offrirle mazzi sfarzosi per non dare troppo nell’occhio, ma questa limitazione non lo aveva mai fermato.
Belle amava i fiori, la sorprendevano facevano sorridere, e lui impazziva di gioia quando lei era felice.
E allora anche il suo personalissimo astio nei confronti di un presente tanto misero svaniva nel nulla.
Anche se a lui non piacevano, glieli regalava felice.
C’era un modo per tornare a quella magia? Una strada rimasta non battuta, un atto cui non aveva pensato e che si sarebbe rivelato vincente?
Non s’illudeva: con uno schiocco di dita avrebbe potuto avere il mondo ai suoi piedi, ma non lei. Quel post scriptum – Grazie dei fiori, ma li accetterò quando sarai tu a consegnarmeli – gli aveva dato non poco da riflettere.
Invidiava il modo in cui Belle si amava, la forza con cui si opponeva a compromessi e rifiutava di percorrere la strada più facile, per quanto più arzigogolata e faticosa. Nel suo percorso poteva crollare, eppure non smetteva di lottare; tutto il contrario di lui che, appena sfiorato, andava in pezzi.
Aveva citato Cora per indurla a tornare da lui, aveva mentito e ancora giocato su più fronti sapendo di star sbagliando; sapendo che, se lei l’avesse scoperto, la sua furia sarebbe stata terribile.
Terribile e meravigliosa come già l’aveva vista.
Mentiva, mentiva su tutto, ma non sul modo folle e assurdo in cui l’amava. L’aveva fatto una volta e non intendeva ripeterlo.
Mai più.
Eppure proprio per questo non poteva – non riusciva – a tornare da lei. A presentarsi non coi fiori ma col cuore in mano, e dirle la verità, dirle che la rivoleva con lui, che se gli avesse concesso una seconda possibilità lui stavolta non si sarebbe comportato da folle e non se la sarebbe lasciata sfuggire. Nella mente ripeteva incipit di discorsi che mai avrebbe pronunciato, e si doleva della sua incapacità di essere per una manciata di minuti…
Essere cosa?
Romantico?
Diretto?
O più semplicemente sincero?
Un bussare discreto alla porta pose fine alle sue elucubrazioni.
- Mr Gold, la contessina Mills vi attende, – dinanzi allo sguardo sbigottito dell’industriale, Archie si vide costretto a ripetere l’annuncio.
- So di deludere te e gli altri, ma non sono ancora divenuto sordo. La riceverò subito.
Il pensiero corse inevitabilmente al giorno in cui Regina si era presentata da lui, scarmigliata, sconvolta e latrice di una notizia che avrebbe cambiato molte vite.
Perché era tornata a trovarlo?
Meglio lei che la madre, si consolò tuttavia dirigendosi verso il salottino.
Gold si era già chiesto come fosse crescere con un genitore come la Mills, dandosi una risposta ben precisa; eppure, guardando la ragazza che lo attendeva fissare triste un punto davanti a sé come se mille pensieri le annebbiassero la mente e nulla potesse aiutarla, vederla muovere senza requie le mani guantate, si rese definitivamente conto come nessuna delle sue impressioni fosse davvero vicina alla realtà.
- Regina, – si palesò infine – Sei venuta da sola?
- Zio, – vedendolo, la giovane si alzò e gli andò incontro per salutarlo – Sì, sono qui da sola.
- Come sei sfuggita al controllo della tua chaperon? Miss Blue ha l’aria di un cerbero.
- E lo è davvero. Ma la tradizione insegna che anche Cerbero può essere distratto… – il sorriso che gli rivolse non riuscì a tranquillizzarlo appieno.
- In ogni caso, preferirei che al ritorno prendessi una mia carrozza. Londra non è sicura perché una fanciulla possa passeggiare non accompagnata. Ti accompagnerò personalmente a casa.
- Oh, no, no, zio, – a quelle parole la ragazza impallidì visibilmente –  Vi ringrazio, ma preferirei un certo riserbo su questo incontro.
Preferirei che mia madre non lo venga a sapere, tradusse subito Gold.
E così Cora doveva restare all’oscuro di quell’incontro. Non dubitava che la responsabilità fosse da attribuire in buona parte alla stramba richiesta avanzata dall’adolescente durante la cena di qualche giorno prima; una richiesta che aveva lasciato lui stesso a bocca aperta e che – complice la sua coscienza poco pulita – l’aveva indotto per un istante a sospettare che le Mills l’avessero preceduto, già sapessero di Belle e stessero ripetendo il medesimo copione seguito alcuni anni prima.
Non aveva dato alcuna risposta alla proposta della giovane.
- Capisco, – fu l’unico commento  – Ordinerò che ti accompagnino vicino casa, allora.
- Grazie, – più che lo zio, Regina ringraziò il Cielo che non seguissero altre domande.
- Non preoccuparti, so che una donna voglia proteggere i propri segreti. Anche da chi le è più caro…
Inframmezzarono il tè con convenevoli d’infimo rilievo, senza che l’industriale riuscisse a intuire il fine ultimo della visita in solitaria, ripromettendosi di studiarla e scoprirne da sé lo scopo. Regina si mordeva le labbra maledicendosi in silenzio: i minuti scorrevano inesorabili, e lei ancora non aveva realmente aperto bocca. Aveva approfittato della momentanea assenza della madre per quella fuga segreta che non poteva rimandare, e ora che ce l’aveva fatta si riscopriva incapace a parlare, ad avanzare le scuse che finalmente era venuta a porgere. Ogni discorso, ogni bozza di conversazione era stata vana: conduceva un dialogo da manuale, in cui la verità era un’estranea non gradita.
Parla, si ordinò per l’ennesima volta. Fa’ la cosa giusta.
Ma, Regina già lo sapeva, fingere è sempre più semplice che essere sinceri.
Più rapido, più indolore; più sicuro.
- Avevo dieci anni.
Si rese conto di aver parlato solo dopo averlo già fatto, quando orami era troppo tardi per tornare indietro.
Lo zio doveva essersi distratto, perché all’improvviso era sobbalzato e ora la stava guardando sinceramente sorpreso.
- Perdonami?
- Avevo dieci anni, – non era ciò che aveva immaginato, l’esordio che aveva preparato, ma qualcosa in lei le impose di proseguire – Non sapevo cosa stessi facendo. Seguivo i suoi ordini senza riflettere, senza osare neanche commentarli. Lei era mia madre, ciò che mi diceva non poteva essere sbagliato, sapeva cos’era bene per me e io dovevo obbedirle. È questo ciò che le brave bambine fanno, vero? – il modo in cui le si ruppe la voce indusse Gold a chinare il capo turbato – Obbediscono. E io obbedivo, perché volevo solo essere brava. Volevo solo essere amata, anche se in fondo sapevo di star sbagliando. Di star facendo del male a chi non lo meritava.
- Regina, non…
- No, zio. Almeno voi lasciatemi parlare, – percependo il sapore minerale del sangue si rese conto di essersi morsa le labbra fino a ferirsi – Non lo meritavate voi, che mi avete sempre trattata come una figlia, non lo meritava Belle French, che mi difendeva in ogni occasione. Se se n’è andata è stata solo colpa mia, e sono qui per prenderne atto e, soprattutto, per chiedervi perdono, zio. Un perdono che so di non meritare, ma che ciononostante io devo chiedervi per poter parlare con voi senza provar vergogna.
Pronunciò tutto d’un fiato le ultime frasi, senza riuscire a guardare in volto l’interlocutore. Non immaginava nemmeno la reazione che avrebbe potuto avere l’uomo: l’avrebbe cacciata? Avrebbe iniziato a urlare, o l’avrebbe invitata ad andarsene nel tono gelido in cui pure tante volte l’aveva sentito esprimersi nei confronti di chi non riteneva degno di stargli accanto?
Non era neanche curiosa di scoprirlo, in quel momento; l’importante per lei era essere riuscita a dirlo. Essersi tolta il peso che gli ammorbava la coscienza da tanto, troppo tempo.
- Lo so, Regina. Lo so.
Riaprì le palpebre di scatto. Si ritrovò a fissare lo zio sorpresa, confusa, incapace di comprendere quanto appena rivoltole. L’uomo sembrava distratto – come se qualcosa nel soliloquio gli avesse dato di che riflettere –, ma sincero. Accorato.
- Non sei tu ad avere colpe.
- Dite davvero?
- Sì. Tra tutti gli attori di quella vicenda, tu sei quella con meno colpe.
- Ma le ho, – non si trattenne dal precisare – Le ho, e…
- E non lo sto negando. Tu hai sbagliato, e lo sappiamo entrambi, – Gold si alzò dalla poltrona. Fissò il focolare per lunghi minuti prima di tornare a parlare – Ma c’è chi deve scontare peccati più gravi dei tuoi. Tra cui il sottoscritto, – lo disse a bassa voce, accompagnato da un perdono rimase nell’aria, ma non per questo fu meno colpì meno Regina.
Rimasero in silenzio, ciascuno perso nelle proprie riflessioni prima che l'uomo si dirigesse verso la porta.
- Perdonami, vado a far preparare la carrozza, – disse uscendo.
- Grazie.
Entrambi seppero che quel ringraziamento non era riferito alla carrozza.
 
 
 
“So when you're near me,
darling, can't you hear me?
S.O.S.!
The love you gave me,
nothing else can save me,
S.O.S.!”
 
 
 
Far dormire Helena si rivelava ogni sera un’impresa: era una delle occasioni in cui faceva capricci, lagnandosi senza sosta e implorando i leggendari “Altri cinque minuti di gioco, solo altri cinque, ti prego!” che però, non c’era eccezione, finiva per procrastinare all’infinito. Non erano rare le volte in cui, convinta che la figlia avesse infine esaurito le apparentemente interminabili energie e si fosse addormentata, Belle entrava in camera in punta di piedi per controllarne il sonno e la sorprendeva sveglia e in procinto di alzarsi e andare a cercarla. Favole e canzoncine nulla potevano: continuava a recitargliele pur sapendo che avrebbero sortito l’effetto sperato solo fino a un certo punto.
Ma quella sera Helena avrebbe dovuto ascoltarla. Quella sera il racconto della buonanotte non sarebbe stato popolato da orchi e principesse che si sacrificavano per la propria gente, no: quella sera la fiaba sarebbe stata molto più realistica e vicina a loro di quanto potessero immaginare.
Memore della chiacchierata con Granny, Belle aveva deciso: era giunta l’ora di sedersi accanto a Helena e di introdurre per bene il personaggio che aveva fatto capolino nelle loro vite. Robert avrebbe iniziato a frequentarle; era bene che la bambina non restasse all’oscuro dell’identità dell’amico della mamma, o che almeno non lo restasse del tutto.
Non si trattava di un compito facile: rivelazioni del genere erano terribili persino per un adulto, figurarsi l’effetto che avrebbero potuto scatenare su chi ancora contava così poche primavere alle spalle. Cos’avrebbe fatto? Cos’avrebbe detto? Ma temporeggiare non avrebbe certo migliorato la situazione, anzi: l’avrebbe solo peggiorata. I moniti ricevuti erano tutti votati alla semplicità, e Belle li condivideva appieno; anche Mary Margaret non faceva altro che consigliare a lei e al resto della servitù massima sincerità in ogni ambito della vita, e senza dubbio anche stavolta sarebbe stata del medesimo avviso. Chissà come stavano la governante, Archie e gli altri. Li ricordava tutti con affetto: come avevano trascorso gli ultimi anni? Emma era la solita musona o il tempo ne aveva smussato il temperamento? Com’era andata a finire per Ashley, Sean e il loro bambino? Si ripromise di chiederlo a Robert appena l’avrebbe rivisto.
- Helena, metti a posto, – esordì interrompendola mentre disegnava – Dobbiamo andare a letto.
- Ma mammaaa! – prevedibilmente, la piccola protestò – Devo colorare!
- Lo farai domattina, e poi mi aiuterai in cucina se vorrai Ora però dobbiamo parlare, – assunse un tono cospiratorio, ammiccando mentre la guidava verso la camera da letto – Ormai sei grande, so che posso fidarmi di te e svelarti un segreto.
Gli occhi della bambina brillavano di eccitazione mentre seguiva la madre.
- Un segreto? Uno di quelli che non si dicono a nessuno?
- Esatto. Un segreto che solo due persone al mondo conoscono. Tre con te, – la stima non era esatta, dal momento che almeno altre quattro persone erano al corrente della paternità di Gold, ma era meglio cautelarsi per evitare chiacchiere involontarie. Anche sotto questo punto di vista, forse era un errore anche dire la verità alla figlia: i bambini sono ingenui, si sa, non sempre si rendono conto della portata e delle conseguenze delle loro azioni; e più sono piccoli, più si fidano del prossimo – e spesso del prossimo sbagliato.
Metterla a parte di una notizia tanto sconvolgente poteva essere più rischioso che utile, ma qualcosa andava fatta: qualsiasi strada Belle avesse intrapreso sarebbe stata comunque foriera di ripercussioni, e con in gioco la felicità di Helena passi azzardati era fuori discussione. Forse sarebbe stato meglio aspettare Robert e concordare una versione, annunciargliela assieme? Ma una versione già esisteva: la verità. Malgrado i suoi timori, il desiderio dell’uomo di essere presentato per la sua reale identità non poteva essere messo in discussione: le sue osservazioni in proposito erano state cristalline. Non avrebbe permesso ai dubbi di tornare a mordere: Belle aveva preso la propria decisione e l’avrebbe attuata, confidando nella bambina e nella sua capacità di comprendere qualunque situazione le fosse spiegata con sufficiente tatto.
Dopo aver svestito e messo a letto la figlia, si stese al suo fianco e iniziò a narrare.
- C’era una volta, tanti anni fa, una fanciulla. Viveva in una casetta col suo papà e una governante cui voleva tanto bene perché era stata lei a insegnarle a leggere. 2 Infatti, la nostra protagonista amava i libri più di ogni altra cosa al mondo e li custodiva come tesori…
- Ma questa storia è vecchia! – Helena brontolò senza capire perché la madre le stesse ripetendo la fiaba che conosceva da sempre. Le piaceva, sì: era persino una delle sue preferite, sebbene non la chiedesse spesso da quando si era accorta che ad accompagnarla erano i sorrisi più tristi di mamma, quelli che quasi la rendevano un’estranea che nascondeva che lei non capiva qualcosa dietro i suoi occhi chiari. Certo che i grandi alle volte erano proprio strani: perché aveva deciso di raccontargliela, se poi stava male? E comunque, non era ciò che voleva sentire – Già la so! Tu mi hai promesso un segreto e non me lo stai dicendo. Io voglio quello!
Belle represse una risata per non indispettirla ulteriormente. La strinse di più, giocherellando coi suoi capelli e aspirandone il profumo. Era intelligente, la loro bambina, la degna figlia di suo padre; la sua furbetta, che non si lasciava sfuggire nulla e precisava ogni dettaglio fino in fondo.
- Ma bene! – dichiarò fingendo esagerato disappunto – Visto che ne sai tanto, saprai dirmi come continua la storia, giusto?
- Giusto, – l’altra la sfidò, ghignando quando Belle la baciò una guancia – Un giorno a casa della ragazza arriva un re che vuole prendersi tutto, ma lei lo ferma e dice che se lui vuole lei va a casa sua e lo serve. Lui dice che va bene, ma che è per sempre, e vanno via insieme. Il re all’inizio sembra cattivo, però poi la ragazza scopre che non è così, che è solo e triste, e un giorno lui le regala la biblioteca, che è una stanza con taaanti libri, e stanno sempre insieme e piano piano s’innamorano e si sposano. Però un giorno il re se ne deve partire perché deve parlare col re di un altro regno, ma la sua regina non può andare con lui, perciò resta qui. Lei però è convinta che lui poi torna, e anche se gli anni passano lei sa che prima o poi torna, ci crede sempre!
- Bravissima, tesoro. E chi è la fanciulla?
- Tu! Sei tu! – Helena proprio non capiva dove volesse arrivare la mamma con tutte quelle cose. Aveva caldo, e quasi sonno. E lei voleva sempre il segreto che tardava un po’ troppo per i suoi gusti.
- Già. E poi c’è la parte della storia in cui compari tu. Quando il re parte, in realtà non lascia sola la sua amata: lei ha il loro bambino. Anzi, per essere precise… La loro bambina, – le toccò il nasino – Tu. E sai anche questo… Ciò che però non sai è il finale della fiaba, che io stessa ho scoperto solo pochi giorni fa. Il finale che sarà il nostro segreto.
- Il re, alla fine, è riuscito a tornare. Ha ritrovato la sua fanciulla e, soprattutto, la loro piccolina. E papà e figlia hanno anche parlato due volte, senza che la bimba sapesse chi fosse, e si sono anche trovati simpatici. Perciò, se alla bimba fa piacere, magari possono rivedersi qualche volta… – il silenzio improvviso di Helena la inquietò: cosa le stava passando per la mente? Dal respiro capiva che non si era addormentata; perché non rispondeva? Forse aveva davvero sbagliato a concludere la storia da sola: avrebbe dovuto escogitare con Robert una diversa strategia…
Le sovvenne un episodio risalente a qualche mese prima. Jefferson, un sarto del quartiere, era stato costretto a lasciare la città per lavoro e, non potendo portare con sé la figlioletta, l’aveva affidata alle cure di Tink. Helena aveva accettato subito la nuova amica, che i primissimi tempi parlava solo del papà, ma – sebbene per la bambina l’esistenza dei padri non fosse una novità – quei discorsi dovevano averla turbata: aveva iniziato a porre sempre più domande in merito, domande che per Belle erano una stilettata dritta al cuore.
- Dici che poi torna, ma non lo fa, perché?
- Il papà di Grace quando c’è prende il tè con lei, il mio no, perché?
Alla fine Belle aveva risposto.
- Hai ragione, tuo padre non è qui. Non prende il tè con te, non gioca con te, non ti racconta di quando era bambino. Ma ti prometto che un giorno, domani o tra un anno non so, ma un giorno lui ci sarà. Ci sarà, e farà tutto, tutte queste cose con te. Te lo giuro, Helena, credimi. Ma fino ad allora, e anche dopo, noi dobbiamo essere forti. Dobbiamo sostenerci e aiutarci, e salvarci da sole.
L’idea di riprendere la vecchia fiaba, che pure le era sembrata perfetta, all’improvviso le parve una follia. Tutto le parve una follia.
- Tesoro, – la riscosse con dolcezza – Hai capito a chi mi riferisco?
Dal solletico dei capelli contro la guancia capì che aveva annuito.
- A me e al signore del nome?
La vocina le smosse qualcosa nell’anima.
- Sì, Helena. A lui.
Dopo un istante di apparentemente sofferta riflessione, la bambina tornò a parlare.
- Non  mi sembra un re, però. Non ha la corona.
- Non… – la capacità di Helena di spiazzarla la lasciava sempre sbigottita – Non tutti i re la portano. Non sempre, almeno.
- Per questo gli piace il nome Victoria? Dice che è un nome da regina.
- Sì. Immagino l’abbia detto per questo.
Le diede tempo per farla reagire alla notizia senza fretta. Perché sapeva –lo sentiva – che oltre alla domanda ingenua c’era dell’altro – qualcosa di molto più profondo, intenso, segreto – che presto o tardi sarebbe emerso.
All’improvviso la piccina si voltò verso di lei.
- Ma secondo te mi vuole bene? Come il papà di Grace vuole bene a lei.
La strinse così forte da farle quasi male, ma non la lasciò udendone il breve ansito di protesta. In quel momento più che mai, aveva bisogno di un contatto – di sentire la madre vicina, di capire quanto fosse amata – e non solo da lei.
- Ti ama più di quanto un papà abbia mai amato la sua bambina, – le disse, baciandola sugli occhi stanchi – E lo farà sempre. Qualsiasi cosa accada, noi ti vorremo sempre bene. Te lo giuro, Helena. Sempre.
Eppure, mentre glielo diceva, Belle all’improvviso si sentì sola.
E capì presto il perché.
Solo l’abbraccio di un’altra persona avrebbe davvero completato ogni cosa.
 
 
 
“I really tried to make it out,
I wish I understood.”
 
 
 
- Ti dico di sì! L’abbiamo vista coi nostri occhi… Era lei!
Mary Margaret occhieggiò verso la porta chiusa. La situazione era già abbastanza grave di suo, e per quanto si fidasse della discrezione dei colleghi non era il caso che qualcun altro cogliesse la stramba notizia. Se fosse giunta alle orecchie del padrone, la sua furia sarebbe stata a dir poco terribile.
Rialzò il capo verso la figlia: Emma aveva le guance arrossate dalla concitazione e gli occhi sgranati, sconvolti, quasi febbrili. Le tremava il labbro inferiore e, se fosse stata un’estranea, avrebbe giurato fosse sull’orlo di una crisi di nervi. Due giorni prima era tornata sconvolta da tè con la sua cara amica Lily – amica che, sulla base di quanto scoperto, condivideva l’identità con un valletto bruno di nome Killian Jones.
Vedendo la figlia rientrare in simili condizioni, nella mente della governante erano scorse le opzioni più temibili; ma, sorda a qualsiasi preghiera, la ragazza non aveva aperto bocca fino ad allora.
Solo pochi minuti prima, infatti, la bionda aveva preso per mano la madre e trascinata al sicuro della loro cameretta, affermando di doverle comunicare un’importante notizia e che Jones le avrebbe presto raggiunte.
L’interpretazione della mente di Mary Margaret era stata univoca: – Mamma, tra qualche mese diventerai nonna. Sono incinta di Killian.
Stava meditando sui modi più atroci per evirare quel disgraziato quando aveva udito qualcosa di differente, ma – se possibile – altrettanto  sconvolgente.
Non poteva essere. Semplicemente non poteva essere vero, Emma doveva aver preso una brutta botta in testa, perché quanto aveva dichiarato era, in una parola, assurdo.
Belle French era morta cinque anni prima, e il resto era fandonia.
Tuttavia, razionalmente – se ancora poteva usare l’avverbio – qualcosa non quadrava: perché mai Emma avrebbe dovuto mentire? Cos’avrebbe guadagnato da simile sceneggiata? Niente, anzi così facendo aveva confessato la gitarella nei bassifondi col collega. Era controproducente. Insensato. Così poco da Emma.
Ma ciò che ella andava asserendo non aveva senso…
- Tesoro, – la domestica fece appello alla sua infinita pazienza – Tutti volevamo bene a Belle e la vorremmo ancora accanto, e immagino che a voi ragazzi manchi persino di più. Tornate qui non è stato certo facile, e questo potrebbe avervi suggestionati: la ragazza che avete visto sarà stata somigliante a lei, ma sai che Belle non c’è più, è stato Gold stesso a dirmelo…
- Era lei! – Emma calcò l’ultima parola, incurante dello sguardo materno – Anch’io ero certa di avere un’allucinazione, sai che se non vedo non credo, e per questo ci siamo mescolati alla folla per osservarla senza farci notare, ed era lei! Si muoveva come lei, rideva come lei, anche la voce era la sua! Io volevo andare a parlarle quando Killian mi ha fermata, ma neanche lui ha dubbi, era Belle!
Due rapidi colpi bloccarono la replica di Mary: come richiamato, l’uomo comparve alla porta.
- Ecco! – la giovane balzò in piedi – Ora crederai a lui?
- Mary Margaret, – l’uomo esordì senza temporeggiare – So cosa vi ha riferito vostra figlia e comprendo il vostro stupore, ma confermo ogni singola parola e sono pronto a giurare sul mio onore che è tutto vero. Non ci siamo fermati perché ritenevo saggio ascoltare un altro parere prima di procedere – la lievissima esitazione e il breve cenno verso Emma le fecero capire che c’era dell’altro che non sarebbe emerso in presenza della giovane – Pare incredibile anche a me, ma non ci siamo confusi: era Belle French.
Mary sospirò. In tanti anni aveva imparato a conoscere i tanti lati della personalità dell’irlandese, dai più giocosi ai più scaltri passando per la vanagloria che lo affliggeva e senza trascurare la testardaggine nel cercare di convincerla di non voler attentare alla virtù di Emma; e col tempo aveva finito con l’affezionarsi al sorriso discolo con cui si accattivava il mondo intero. Ma mai l’aveva visto così turbato. Pareva avesse visto un fantasma; e in effetti, commentò la donna tra sé e sé, l’espressione era più che calzante.
Perché per quanto lei per prima volesse credere alle parole dei più giovani, di quello si trattava: di un fantasma del passato.
Belle era il ricordo di un tempo meraviglioso quanto breve, l’immagine di mesi che non sarebbero tornati.
Più volte l’aveva sognata: episodi quotidiani, frammenti di routine condivisa giorno dopo giorno.
L’ultima volta che avevano parlato le aveva consigliato di pettinarsi per presentarsi al meglio a Gold.
L’aveva detto solo alla cameriera stessa, ma quanto le piaceva quella coppia: aveva capito che i due non la contavano giusta prima che i due diretti interessati si rendessero conto dei reciproci sentimenti, e quando le voci avevano iniziato a circolare si era ritrovata a sostenerli con convinzione. Un pomeriggio, passando vicino lo studio, aveva sentito il padrone ridere con Belle; e quella risata più unica che rara, che forse le mura di quella casa mai avevano raccolto prima, aveva fatto sorridere anche lei.
Se Belle fosse rimasta, la vita di tutti sarebbe stata diversa.
Mary Margaret amava la speranza. Anche nei momenti più duri della sua vita aveva provato a guardare al futuro con ottimismo, a non lasciarsi abbattere e sperare che il nuovo giorno avrebbe portato nuova luce, nuova felicità, nuova vita.
In quel minuto, udendo le perorazioni di quei ragazzi così diversi da lei, Mary avrebbe solo voluto saper sperare.
 
 
“You seem so far away,
though you are standing near.”
 
 
 
Se aveva deciso di farlo davvero, il merito era di una sola persona – la stessa che, ironia della sorte, aveva contribuito alla fine.
Perché se non fosse stato per Regina sarebbe rimasto lì a inviare giorno dopo giorno infinite rose quando la soluzione si trovava sotto ai suoi occhi, suggerita da Belle stessa nel primo biglietto; sarebbe rimasto fermo e immobile a negarsi la vita e ripetere il passato, perché quello era l’unico tempo in cui era di casa: nel presente lui era un ospite spaventato.
Ed era stato questo il motivo degli innumerevoli sbagli che pareva destinato a ripetere ancora e ancora.
Anche se stavolta si era ripromesso non l’avrebbe fatto, anche se stavolta tutto sarebbe stato diverso.
Regina, così giovane e ingenua, ancora priva di difese dal mondo nella fragilità dei suoi quindici anni, ce l’aveva fatta: aveva raccolto il coraggio di cui era dotata e trovato la forza per confessargli la sua verità. I denti piantati nel labbro inferiore, gli occhi serrati e le mani che artigliavano le vesti, aveva parlato; perché lui non riusciva a fare altrettanto con Belle? Perché affidare il proprio messaggio a composizioni mute, quando solo guardandolo negli occhi lei avrebbe potuto capire la sincerità delle sue intenzioni? Cos’aveva in meno rispetto alla giovane Mills?
La capacità d’illudermi.
Ma lui aveva forse tratto in inganno Regina accordandole il suo perdono? L’aveva ingannata come già sua madre era solita fare? No; era stato onesto con lei – Regina era l’unica con cui fosse stato sempre onesto, tanto nella rabbia quanto nell’affetto.
Allora perché pensava che Belle l’avrebbe illuso, se l’avesse perdonato?
Tra loro due, non era Belle a ferire.
Era lui.
Per questo motivo si era messo in viaggio, per questo motivo i fiori c’erano anche stavolta – ma stavolta li stringeva lui tra le mani, li teneva sulle gambe, aspettando il momento in cui sarebbe stato lui a consegnarli a Belle. Avrebbe ingoiato la paura, l’ansia e la sensazione di rendersi ridicolo – non si era forse già reso tale nei due giorni precedenti? – e ce l’avrebbe fatta.
Per questo motivo attendeva in silenzio Blockehurste, mandato in avanscoperta a far uscire la donna dal locale con una scusa – o meglio, con la verità che lei sola avrebbe dovuto conoscere.
Per questo, ora che lo vedeva tornare solo, si sentiva il cuore diventare di ghiaccio.
- Lei dov’è? – sbottò appena il suo bravo aprì la portiera.
- Mr Gold, non c’è.
- Me ne rendo conto da me, – l’abitudine di nascondere collera assoluta dietro ghigni sarcastici era dura a morire – Voglio sapere dov’è. Perché non c’è.
- La vecchia dice che è uscita.
- E dov’è andata?
- Non c’è stato verso di farglielo dire. Verso senza ricorrere alle maniere forti, s’intende. Torno indietro e…?
Ma Gold era già altrove.
Lei c’era. Lei doveva esserci. Dove poteva essere andata, col rischio di farsi trovare da qualcuno e ammazzare? Se c’era, se sapeva che lui era lì ma continuava a farsi negare, allora il problema era un altro.
Non voleva vederlo.
L’essersi mostrato codardo ancora una volta l’aveva indispettita a tal punto da indurla a smentire gli istanti condivisi in carrozza?
Aveva voglia di scendere. Di irrompere nel locale senza curarsi di essere riconosciuto, di urlare e mettere a ferro e fuoco chiunque si fosse frapposto tra lui e la sua meta e raggiungerla, afferrarla e farsi spiegare il perché.
Non è un gioco, Belle, non siamo due ragazzini che scendono a ricatti.
Non lo siamo mai stati.
Ma sapeva non l’avrebbe fatto. Tra i mille torti che le aveva inflitto non sarebbe giunto ad annoverare anche questo, anche l’imporsi a lei quando lui per primo si era negato per l’intera settimana precedente.
Se Belle avvertiva il sacrosanto bisogno di riflettere, lui non gliel’avrebbe vietato né allora, né mai.
Com’era il loro patto? Avrebbero dovuto cenare assieme martedì? Ebbene, l’avrebbero fatto: lui si sarebbe presentato all’orario prestabilito, lui ci sarebbe stato, e in quell’occasione la scelta di presentarsi o meno sarebbe stata solo di Belle.
Ma una cosa era certa: ora che era rientrati nella sua vita – nella vita di loro figlia – non si sarebbe fatto escludere tanto facilmente.
- Lasciale i fiori, – ordinò – Lasciale i fiori e andiamocene.
 
 
 
- E poi Henry mi ha detto che mi racconta una storia speciale che sta in un libro che è molto più di un libro… Poi io la racconto a te, però! – la bambina concluse, trotterellando accanto alla madre.
- Allora non vedo l’ora di ascoltarla! – rispose lei, affrettando il passo. Quando era uscita aveva promesso a Granny che sarebbe tornare di lì a pochi minuti, e invece era trascorsa almeno mezz’ora; l’anziana non l’avrebbe rimproverata, ma certo si sarebbe preoccupata non vedendola rientrare, e non le piaceva lasciare Ruby in sala da sola. E in più, dalle nubi gonfie d’acqua iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia, stille che divenivano ogni istante più fitte: non sarebbero riuscite a raggiungere casa prima del diluvio.
- Belle!
La donna si voltò. Marco, un falegname d’origine italiana che era solito bazzicare il locale – secondo Ruby a causa di una malcelata cotta per Granny, ipotesi che le era quasi costata una mattarellata sulla zucca – le salutava dall’uscio della sua bottega. Le due ricambiarono il saluto: il vecchino aveva un cuore d’oro al quale era impossibile rimanere insensibili, e si era affezionato alla piccina che a suo dire gli ricordava la nipotina lontana che raramente incontrava.
- Cosa ci fate in giro con questo tempaccio? Non vorrete buscarvi un raffreddore?
- Sono andata a prendere questa birichina da Tink Barrie. Pensavo di fare in tempo prima della pioggia, – spiegò Belle – Ma così non è stato.
- Siete fortunate: sto per uscire col carro per consegnare un mobile. Vi do un passaggio!
- Davvero lo faresti? – quasi non poteva credere alle sue orecchie – Casa è vicina, ma non vorrei che Helena s’ammalasse…
- E c’è da chiedere? Avanti, saltate su, e non ringraziare!
Belle sorrise all’uomo e obbedì.
Non badò alla carrozza scura che passò accanto a lei e alla figlia, né il suo occupante, perso nel pantano dei pensieri, fece loro caso.
 
Se quel giorno Belle French e Robert Gold non s’incontrarono, fu solo questione di pochi minuti.
 
 
 
“When you're gone
how can I even try to go on?
When you're gone,
though I try, how can I carry on?”
“S.O.S.” - ABBA
 
 
 
 
1: Nell’epoca vittoriana si diffuse il “linguaggio segreto dei fiori” e vennero pubblicati numerosi dizionari a tema. Vi rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Linguaggio_dei_fiori e http://www.ginevra2000.it/Fiori/Linguaggio_Fiori.htm, che però non citano i giacinti porpora, con cui si chiedeva perdono – http://www.ilgiardinodegliilluminati.it/significato_dei_fiori/significato_simbologia_del_giacinto.html;
2: il cenno a Laertia, la domestica che insegna a leggere e a scrivere a Belle, è un riferimento alla mia minilong “Books can be our best friends”, che cito anche nel capitolo “Rosenrot” di “Cleaning all that I’ve become”.
(Fine pubblicità occulta. XD)
 
 
 
 
 
N. d. A.: Buonasera, baldo popolo di EFP! ♥ ♥ ♥
Ecco a voi un nuovo aggiornamento per il quale meriterei tanti pomodori – però lanciatemene di quelli ancora buoni, eh, ché almeno ci faccio l’insalata! XD
Seriamente: anche tenendo conto del fatto che è un capitolo di passaggio, utile a tirar le somme e riprender fiato, mi sembra ci sia qualche problema di fondo; temo di aver messo troppa carne al fuoco e, si sa, in questi casi il risultato è sempre un bell’incendio. Purtroppo non tutte le ciambelle escono col buco; proverò a rifarmi in futuro! ;)
Spero che il modo in cui ho completamente rivisitato le vicende della madre di Ruby non sia pessimo, e che la storia inventata da Belle vi piaccia – mi sono mantenuta quanto più fedele possibile alla “realtà della fanfiction”, ma giudicate voi tanto questi aspetti quanto gli altri.
Ringrazio sempre chi legge e/o recensisce la mia storia e chi l’aggiunge a una delle categorie: i vostri consigli possono solo aiutarmi a migliorare, li accetto volentieri! :) :*
Per la recensione della 4x12 vi rimando a Euridice’s world, ma se volete possiamo parlarne anche via messaggi; lunedì avremo la 4x13 e, alla luce di alcuni spoiler, io sono più che su di giri: non vedo l’ora! *_*
Promettendo di rimettermi presto in pari con le recensioni e le risposte arretrate, vi ricordo che l’aggiornamento della long vi aspetta, come (quasi) sempre, tra due settimane; nel frattempo, però, potrei non starmene zitta e ferma come al solito… Stay tuned, bellezze! ;)
Vi saluto, Dearies, e auguro una serena Giornata delle Donne alle lettrici – ricordando il significato più autentico della ricorrenza!
Bacioni! :* :) :*
Euridice100
 

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Capitolo 8
*** VII - Give me love ***


A quelle di WhatsApp/Skype
(Whatsype? SkyApp?),
incurabili compagne di Bobbyte e RumBellite.
Inutile precisare dove vi sto mandando
- con tanto, tanto affetto, eh!
♥ xD ♥
 
 
 
 
VII - Give me love
 
 
 
Give me love
like her,
‘cose lately I’ve been waking up
alone.”
 
 
 
Da piccoli, Viktor e Gerhard Whale avevano una balia. Una donna rotondetta e dalla chioma cespugliosa, priva di segni particolari e in tutto simile a mille altre: sapeva soffocare sul nascere i capricci, attenuare con giochi la noia delle ore trascorse a letto con la febbre ed esorcizzare i timori infantili – senza accorgersi di essere lei stessa a causarli coi suoi racconti di mostri, vampiri e altri orrori simili.
Se le streghe divoratrici di cuori erano l’incubo di Gerhard, il chiodo fisso di Viktor erano i lupi mannari. Le megere, in fini dei conti, erano poco più che vecchiette irritabili: brutte e rugose, strampalate e alle volte inquietanti, ma sostanzialmente inoffensive, proprio come una povera mentecatta che s’aggirava per i villaggi della tenuta. E poi, loro stessi una volta avevano assaggiato una cosa chiamata fois gras, fatta col fegato delle oche: ciò li rendeva forse gli stregoni dei pennuti?
A Viktor sembrava proprio una stupidaggine. I lupi mannari, invece…
Ogni volta che la balia faceva loro cenno, il bambino immaginava derelitti schiavi della luna, gravati da un’orribile maledizione che li costringeva a perdere ogni barlume di controllo, di disciplina, di raziocinio; in una parola, a perdere l’essenza stessa dell’umanità e a trasformarsi in fiere assetate di sangue. Il piccolo scienziato in lui già allora non poteva fare a meno di chiedersi in quale modo le fasi lunari potessero causare il mutamento: cosa lo scatenava? In base a quali criteri coinvolgeva solo alcune persone? Un mannaro era riconoscibile anche in forma umana? Bisognava prestare attenzione ai particolari: nei racconti le creature erano sempre dotate di forza erculea, di denti capaci di lacerare le carni come un coltello taglia il burro e di occhi cangianti capaci di assumere tutte le sfumature dei boschi cui appartenevano.
Era stato proprio questo piccolo e, rispetto al resto, insignificante particolare a colpirlo, a imprimerglisi nella memoria per anni e anni, silente ma presente a tal punto da esser risvegliato dallo scontro casuale con una popolana dal volto discolo.
Da notti sognava quella ragazza, risvegliandosi madido di sudore al ricordo degli occhi verdi e dei lineamenti perfetti che negli incubi assumevano all’improvviso sembianze sempre più animalesche, sempre più feroci, fino a trasformarsi in quelle di una bestia, di un lupo che spalancava le fauci per inghiottirlo.
La sua mente aveva evidentemente compiuto una strampalata associazione: le iridi verdi non erano certo rare, ma la giovane doveva aver ridestato le memorie della sua infanzia popolata da mostri e chimere. Sarebbe stato divertente riferirlo alla diretta interessata: la sua reazione, con ogni probabilità, non sarebbe poi stata tanto diversa da quella del sogno.
Però – scherzare era un conto, ma su questo Viktor era fermo –, per quanto ne fosse rimasto affascinato, avrebbe fatto bene a togliersela dalla mente: la donna aveva già dato prova di una dose non indifferente di follia e, poteva affermarlo senza dubbi, di paranoia tale da farle vincere un biglietto di sola andata per il Bedlam 1. Come spiegare altrimenti il modo in cui l’aveva annunciato alle altre, l’irremovibile decisione di tenerlo d’occhio per l’intera durata della visita e la cura nel fargli scorgere di tanto in tanto il luccichio argenteo della lama, quasi a ricordargli di non compiere passi falsi se aveva cara la vita?
Ma quali passi falsi avrebbe dovuto compiere? E perché diamine avrebbe dovuto far del male a una madre e una bambina, per di più sconosciute?
Scoprire l’identità delle pazienti l’aveva lasciato di stucco: era certo di dover assistere le sventurate in un postribolo sotto mentite spoglie, e invece si era trovato davanti una giovane donna che pelava patate aiutata dalla figlioletta.
La reazione che la prima non aveva nascosto al nome di Gold aveva lasciato adito a ben pochi dubbi: un’idea molto, molto precisa si era fatta strada nella mente di Viktor e più tardi, mentre metteva a parte il mandante della buona salute delle due, aveva prestato attenzione alla ricerca di moti involontari che lo tradissero.
Come prevedibile, non aveva colto nulla: l’industriale era rimasto impassibile al suo responso, aveva allungato la somma richiesta senza batter ciglio – con grande soddisfazione del medico, a essere onesti – e l’aveva fissato come a sfidarlo a chiedergli dell’altro. Viktor non era certo stato così stupido da osare, ma ormai difficilmente qualcuno o qualcosa l’avrebbe distolto dalla sua convinzione.
E bravo lo scozzese!
Con quegli occhioni cerulei e il profilo fine, la donna visitata era carina, sì… Ma mai quanto la sua amica matta.
Avrebbe mentito sostenendo di dedicarle ogni pensiero, ma certo non l’aveva scordata – come scordare una minaccia di morte, del resto? Di tanto in tanto la sua immagine riaffiorava, come se lo attendesse dietro l’angolo per agguantarlo e sussurrargli alle orecchie senza sosta.
A Whale le donne piacevano, e molto. Per quanto gli studi prima e le ricerche e il lavoro dopo occupassero tutto il suo tempo, sin da ragazzino aveva capito di poter poco contro il fascino esercitato su di lui dalle gonnelle femminili: ricordava bene i tempi in cui si nascondeva nei boschi con Theresa, la figlia del cocchiere, e da allora quando ne aveva avuto voglia mai gli era mancata la compagnia femminile. Non era però interessato a metter su famiglia, convinto com’era che per il momento l’impegno stabile di moglie e figli l’avrebbe distratto da occupazioni ben più rilevanti; e del resto anche a Londra sapeva a chi rivolgersi quando desiderava il calore di un abbraccio: la dama di compagnia di un’anziana duchessa che lo interpellava un giorno sì e l’altro pure aveva riccioli d’oro, un’adorabile spruzzata di lentiggini sul nasino all’insù e una completa ignoranza del concetto di inibizione.
(In compenso però conosceva molto altro, e quello era l’importante.)
Insomma, Viktor Whale non aveva alcuna ragione di pensare a Ruby, come l’aveva chiamata la bambina; non una giustificazione logica, non un motivo se non la mera tentazione del proibito.
La ragazza l’aveva intrigato: quelle labbra fresche e rosse, il modo in cui gli aveva tenuto testa e controllato fino all’ultimo per proteggere le amiche, gli sguardi lanciati prima e dopo lo scontro… Tutto in lei sapeva di passione, di carne e sangue, di un desiderio che l’avvinceva e lo trascinava a fondo, sempre più a fondo, fino a fargli smarrire la ragione.
Gli aveva lanciato una sfida che, se fosse stato più saggio, non avrebbe raccolto; ma quando di mezzo c’erano due occhi grandi così, Viktor Whale era tutto fuorché saggio.
Lesse i risultati dell’ultimo esperimento colpendo ritmicamente il foglio col lapis: i conti non tornavano, non tornavano affatto. E certo: aveva sbagliato una rilevazione che in un altro momento avrebbe condotto a occhi chiusi. Ecco le conseguenze del condurre prove con la mente altrove.
A Whitechapel, per l’esattezza, in un taverna in cui serviva la ragazza dai capelli neri e dal sorriso da lupo che anche quella notte l’aveva stregato.
Che faccia avrebbe fatto se l’avesse rivisto? Avrebbe corrugato la fronte e ghignato ancora, lasciando appena scoperti i canini come aveva fatto qualche giorno prima?
Per la conferma un’ipotesi, il metodo scientifico di Galileo richiede la sperimentazione.
Viktor Whale fece ciò che ogni altro scienziato al suo posto avrebbe fatto: scese sul campo a verificare.
 
 
 
The pain splatters
teardrops on my shirt,
I told you I’d let them go.
 
 
 
Tolse un invisibile granello di polvere da tavolo e sistemò la disposizione delle posate come le avevano insegnato un tempo. Nessuno ci avrebbe fatto caso, lo sapeva, e probabilmente i tortini che aveva preparato e solo per poco non bruciato sarebbero rimasti intatti, ma Belle voleva che tutto fosse perfetto; o che almeno provasse a esserlo.
Sarebbe stato il primo incontro ufficiale in famiglia, la prima occasione per Helena e Robert di trascorrere un’ora assieme e conoscersi per ciò che realmente erano: tutto doveva essere perfetto.
La bambina, che fino a pochi minuti prima le trotterellava accanto, ora se ne stava quieta e silenziosa a osservare dalla finestra i tetti anneriti. Belle le aveva fatto indossare il vestitino buono, quello a quadretti verdi e rosa cucito con l’aiuto delle altre durante l’inverno; per quanto fosse sempre bassina, la piccola era cresciuta negli ultimi mesi: quando l’avevano terminato l’abito le calzava a pennello, mentre ora le lasciava scoperte una parte delle gambine.
Notandolo, alla donna si strinse il cuore. Si rammaricò di non poter offrire alla figlia qualcosa di migliore: non desiderava molto, non pretendeva completini all’ultima moda o calzature delicate che con ogni probabilità Helena avrebbe subito calciato via, ma almeno la possibilità di garantirle vestiti che tenessero testa alla sua crescita o scarpe meglio rabberciate di quelle che riusciva a fornirle...
Lamentarsi, tuttavia, non avrebbe fatto comparire stoffe e denaro: i suoi erano pensieri sciocchi, simulacri della ragazzina viziata di una volta. Doveva esser grata per ciò che aveva, per Granny e Ruby che l’avevano sempre inclusa nella famiglia condividendo tutto e offrendole una protezione che gli anni non accennavano a far scemare. Lei ed Helena avevano molto più di quanto avrebbero mai conosciuto molti abitanti del quartiere nella loro intera vita: doveva smetterla di crucciarsi per quisquilie. Il vestitino poteva anche essere due dita più corto, e in spregio all’etichetta lei indossava lo stesso abito del precedente incontro – questa volta portava anche la blusa, con buona pace di una rassegnata Ruby –, ma erano comunque indumenti caldi, puliti e in fin dei conti piuttosto nuovi; se Gold avesse commentato a riguardo, avrebbe dovuto vedersela direttamente con lei.
Aveva invitato le Lucas a cenare con loro: volti noti avrebbero magari aiutato Helena, mettendola a suo agio e dissipando imbarazzi, ma le due avevano rifiutato all’istante. A nulla erano valse le rassicurazioni di Belle: malgrado avesse ripetuto loro che non sarebbero state terze incomode quanto piuttosto preziose alleate, le donne si erano mostrate irremovibili.
- Ma che ti ho detto, benedetta figliola? Se devono conoscersi come padre e figlia, noi cosa c’entriamo? – aveva brontolato Granny scuotendo il capo.
- E poi, se ci fossimo anche noi come potreste parlare dopo aver mandato a dormire Helena? – l’aveva stuzzicata Ruby strappandole un sospiro scherzosamente esasperato – Davvero! Guarda che io di rose me ne intendo, se un uomo te ne manda tante e di quella qualità, o è matto da legare o è cotto!
A Belle la faccenda dei fiori dava di che pensare. Erano soprattutto le vicende dell’ultimo mazzo a farla riflettere, il modo in cui il giorno prima la sua strada era corsa parallela a quella di Robert senza riuscire a trovare un punto di contatto, una giunzione che li avrebbe aiutati. Stando a quanto le aveva raccontato Granny, anche quella mattina si era presentato Blockehurst, annunciando però la presenza di Gold e premendo perché Belle lo raggiungesse in carrozza. Dinanzi alle parole della donna – e soprattutto dinanzi alla sua reticenza nel rivelare la posizione della giovane –, lo scagnozzo era uscito e, tornato con l’omaggio, aveva sottolineato con insistenza l’immenso disappunto del capo per non aver trovato l’interessata in casa.
A Belle dell’immenso disappunto di Robert importava nulla: già da prima che la sua famiglia decadesse era abituata a cavarsela senza la perenne assistenza di domestiche, e ciò che le era mancato davvero i primi tempi a Whitechapel era stata proprio la possibilità di uscire, di sentire il sole o la pioggia baciarle la pelle e mescolarsi tra la folla, perdersi tra la gente, osservarla, capirla.
Robert cos’avrebbe voluto facesse? Che lo aspettasse chiusa in camera, che conducesse la sua vita in funzione di lui e dei loro appuntamenti per poi cadergli ai piedi uggiolante nell’istante in cui avesse visto i fiori? La conosceva abbastanza da sapere di non poter pretendere simili atteggiamenti: lei non era la principessa nascosta nella torre più alta, irraggiungibile per chiunque eccetto che per il suo vero amore, no; era una persona come mille altre, una donna come altre e viveva nella realtà, non in qualche utopia che la voleva angelicata e distaccata dalla brutture del mondo. Aveva sacrificato tanto per lui; non le avrebbe tolto anche la sua indipendenza.
No, a preoccuparla non era questo, quanto piuttosto il modo in cui – lo conosceva troppo bene per illudersi del contrario – Robert aveva sicuramente interpretato quella che a tutti gli effetti era stata una banalissima coincidenza. Aveva letto la sua assenza come un segno del destino, come la prova della vanità di ogni tentativo e del loro avverso fato, o come cos’altro? Era successo infinite volte, per esempio quando l’aveva trovata a chiacchierare con Killian e si era convinto fosse in atto un tradimento; e l’invisibile distacco che qualche giorno prima l’uomo aveva assunto al nome di Graham le aveva fatto sospettare – con suo immenso disappunto, stavolta – che la questione si stesse in qualche modo riproponendo.
Nonostante la pazienza, Belle non tollerava il modo in cui Robert fraintendeva gesti quotidiani, li studiava fino a sminuzzarli e individuarvi significati che andavano sempre contro di lui: non si capacitava di come una persona arrivata tanto in alto in certi ambiti si comportasse ancora come un adolescente insicuro. O meglio: comprendeva il perché di simile reazione – gliel’aveva confessato lui stesso la notte più bella della sua vita –, ma non riusciva a capire perché perseverasse nella convinzione di meritare nulla. Gli aveva offerto tutto l’amore che era in grado di provare, e lui non le aveva creduto: era tornato indietro e riprecipitato nelle brutte abitudini nell’arco di nemmeno un’ora.
E forse lei non era da meno; perché, in un modo o nell’altro, fino ad allora anche lei era sempre tornata indietro quando di mezzo c’era stato lui.
Conosceva l’elettricità e i suoi effetti: le pareva che quella forma di energia le scorresse sottopelle, nelle vene. Per quanto potesse far appello alla sua metà più razionale e ripetersi che non doveva certo affrontare una falange di orchi, che i primi due incontri erano stati ben peggiori e comunque l’ultimo non si era poi concluso male, nulla poteva contro l’ansia, contro l’agitazione che avvertiva strisciarle addosso viscida come minuscoli serpentelli.
Aveva fatto bene a dire a Helena di suo padre? Forse avrebbe dovuto attenderlo e decidere sulla base della cena piuttosto che affrettarsi e prendere decisioni avventate. L’esagerata tranquillità della bambina la preoccupava: se fino ad allora si era comportata piuttosto normalmente, la situazione pareva essere cambiata all’improvviso, come se ella avesse meditato a lungo e solo ora, dinanzi all’ineluttabile, fosse stata investita dagli effetti della rivelazione restandone sconvolta. Se l’invitato fosse stato un semplice amico della madre, senza dubbio sarebbe stata giocherellona e buffa come al solito, alla continua di modi per aiutarla che inevitabilmente avrebbero causato più caos. Si sarebbe comportata come quando Humbert si fermava da loro, al più avrebbe chiesto dove fossero Ruby e Granny, ma certo non avrebbe spiato la strada dalla finestra mordendosi l’interno del pollice com’era solita fare quando era spaventata…
- Helena, – la chiamò con dolcezza. L’interessata non parve udirla – Helena, – Belle le si avvicinò – Tutto bene?
La bambina si voltò appena, un’aria stralunata sul faccino contratto: ma annuì, rivolgendole un sorriso che racchiudeva tutta l’ansia del mondo.
La donna trattenne a stento un sospiro: ancora una volta, era la figlia a provare a rassicurare la madre. Quando Belle attraversava un momento triste, in cui il gorgo della malinconia pareva sul punto di inghiottirla, era Helena la prima ad accorgersene, quasi respirasse le stesse emozioni: le si raggomitolava accanto e le chiedeva cos’avesse, se fosse lei la causa della tristezza; e quella domanda così goffa, così timida, ma così sincera aveva il potere di ridestarla, perché mai avrebbe accettato che loro figlia si facesse carico di colpe non sue, di segreti che non dovevano sfiorarla.
A ben pensarci, la comparsa di Robert aveva costituito il primo autentico colpo per la piccola: fino ad allora era sempre vissuta coccolata dai suoi cari, protetta da un mondo che, sebbene non le venisse descritto come ostile, persino a lei non sempre appariva giusto. I suoi dolori più grandi erano stati inezie: la sconfitta a un gioco, la baruffa con un’amichetta, un capriccio non accontentato; ma, per quanto non lo esternasse, nelle settimane precedenti l’incidente prima e la scoperta del padre poi avevano rivoluzionato il suo piccolo universo pacato.
- Sai, – Belle le confidò complice – Ho paura anch’io.
Helena sbatté le palpebre perplessa. Era sempre la mamma a scacciare i ragni che a lei facevano tanto schifo, a consolarla sostenendo che i brutti sogni non erano reali e a dimostrarle che il buio non era popolato da mostri intenzionati a divorarla – la volta in cui si era accucciata sotto il letto per provarglielo aveva seriamente temuto di non rivederla più. E ora, da dove spuntava fuori l’ennesima novità? Cosa poteva spaventarla? Di sicuro non l’idea di incontrare il signore che era il suo papà, perché secondo la storia lei già lo conosceva…
- Hai paura dei tuoni? – provò, pur sapendo di non essere nel giusto.
- No, anzi. Mi piacciono i temporali.
- Del fuoco?
- A quello è meglio non avvicinarsi troppo, ma no, non mi fa paura.
- Dei topi?
- Non ne vado matta, ma da qui a temerli… Però avevo un’amica che li adorava, sai?
- E allora di cos’hai paura? – tagliò corto la piccola.
- Di perderti, – ammise Belle – Ho paura di perderti. Di svegliarmi una mattina e non averti più con me. Ho paura che ti succeda qualcosa, che tu stia male e io non possa nemmeno starti accanto. Però, – le fece l’occhiolino – Sai cosa faccio quando ho davvero tanta, tanta paura? Lo dico ad alta voce, così: “Io ho paura di perdere Helena! Ho paura di perdere il mio tesoro!” – pronunciò la frase in tono stentoreo, strappandole una risatina di gola – Ad alta voce, ad alta voce, così le paure si spaventano, scappano e non tornano più. Che te ne pare? Ti va di metter paura alla paura?
La bambina si morse il labbro pensierosa, come se stesse raccogliendo il coraggio per esprimersi. Belle preferì non incalzarla, concedendole il tempo per riflettere sui dubbi che – impossibile illudersi – erano connessi all’imminente visita. Spesso le azioni sono più chiare delle parole; e l’atteggiamento di Helena non mentiva.
All’improvviso, dopo quelle che parvero ore, la figlia le piantò addosso il castano ambrato dei suoi occhi e parlò.
- E se non gli piaccio?
Era così triste. Era così crudele che una bambina – la loro bambina – giungesse a credere certe cose, ad angustiarsi con idee che non avrebbero dovuto neanche tangerla, e dubitasse di piacere a colui che a suo modo già le voleva bene. Il timore con cui aveva posto la domanda, come se quasi non volesse chiedere per non rischiare di trovare conferma, la colpì dritta al petto come un proiettile.
Avrebbe voluto afferrarla e scuoterla, ripeterle senza sosta che mai, mai avrebbe dovuto pensare una cosa simile perché lei era perfetta, semplicemente perfetta, e chi mai avesse sostenuto il contrario non sarebbe stato degno di essere definito persona; che suo padre si era innamorato di lei a prima vista, come capita agli uomini che realizzano di essere diventati genitori solo quando stringono tra le braccia il figlio che però già si è inserito in ogni ricordo, come se fosse stato lì tutto il tempo, e che già rende ogni cosa più preziosa.
Helena si torturava le dita in attesa di risposta.
Era la prima volta che Belle la vedeva così vicina a un precipizio.
Ma non l’avrebbe lasciata cadere.
- Tesoro, – si chinò alla sua altezza e le ravviò i capelli dietro le orecchie – L’hai già conosciuto, ricordi? Avete parlato, e vi siete piaciuti tanto che tu stessa…
- Ma se dici che gli sono piaciuta, allora potevo anche non piacergli. E poi abbiamo parlato poco, perché è arrivata Anna. E se oggi faccio qualcosa e non gli piaccio più?
- No, Helena, no, – la donna ribadì con foga – Non puoi non piacergli. Te l’assicuro, amore mio, non ti direi mai una bugia, tantomeno su questo. Comportati come fai sempre, gioca e ridi, ma non essere triste: ai papà piacciono sempre le loro bambine, proprio come alle mamme. Ti prego, sta’ tranquilla, – mentì sapendo di farlo: ai genitori possono non piacere i figli. Possono non amarli tanto quanto dovrebbe essere naturale, possono vederli come delle complicazioni, come degli ospiti indesiderati che portano via ogni energia, ogni risorsa, ogni speranza.
Che portano via la loro stessa vita.
Il semplice pensiero poteva apparire disgustoso, ma il ricordo di Cora e Regina Mills era fin troppo esplicativo in tal senso.
- Forse preferisci non vederlo? – continuò.
Avrebbe accettato la decisione della bambina e l’avrebbe riferita lei stessa a Robert: la reazione era un campanello d’allarme da non sottovalutare. Avevano corso troppo, era evidente; avrebbero dovuto rivedere la strategia e tenerla tranquilla per un po’.
- Non lo so, – tirò su col naso e si passò una manica sugli occhi lucidissimi – Ho paura.
Ma Helena doveva anche affrontare le difficoltà. Imparare a non arrendersi, a non farsi bloccare dal panico scegliendo la soluzione più semplice. La tendenza manifestata aveva una provenienza ben precisa che però non Belle intendeva far prevalere: aveva già sperimentato quali danni potesse arrecare a sé e agli altri…
- Lo so, Helena. Lo so, – l’abbracciò con forza prima guardarla dritta in volto – È normale. È giusto così. Ma quando si ha paura si possono fare due cose: si può lasciar perdere, e va bene, non succede niente di male. Non succede niente, è questo il punto. Oppure… Oppure si può provare a fare qualcosa. Si possono stringere i denti, come fai tu quando ti sbucci le ginocchia e io ti medico, e si può tentare, cercare di comportarsi nel modo più coraggioso possibile e andare avanti. E se si fa la cosa coraggiosa, alla fine il coraggio viene da sé, io la penso così. Quando si ha paura bisogna almeno provare.
Helena ascoltava attenta, ma anche molto, molto critica.
- E allora tu…
Qualsiasi cosa stesse per dire fu interrotta da Ruby, comparsa di corsa sulle scale.
- Ma tesoro, sei splendida! E quel vestito? Bello com’è, dovrebbe comparire sulla copertina di The lady! 2 – fece l’occhiolino alla piccola prima di annunciare all’altra: – È arrivato. Lo porto su, prima che Granny lo intercetti e lo faccia a pezzi…
Belle prese un profondo respiro.
È il momento.
Allungò la mano a Helena.
- Allora, cosa facciamo? – le chiese col cuore in gola.
La bambina sorrise.
 
 
 
And that I find my corner,
maybe tonight I’ll call you,
after my blood turns into alcohol.”
 
 
 
Fu la bruna ad aprire il portoncino. L’accolse con un ghignetto sagace che non provò neppure a dissimulare e che, quando in lontananza le campane batterono sette rintocchi, si tramutò in un’aperta risata.
- Complimenti alla puntualità.
- C’è una marca di orologi che porta il mio nome.
L’assenza di replica gli fece assaggiare l’umiliante sapore di una vittoria non guadagnata, ma concessa al solo scopo di pareggiare i conti in attesa di un nuovo scontro.
Dopo averlo lasciato in cortile per qualche minuto, la cameriera tornò da lui.
- Venite, – ordinò, ed entrò nel locale senza controllare se l’uomo la stesse seguendo – ma in fondo, lei stessa doveva saperlo, cos’altro avrebbe potuto fare se non starle alle calcagna? Non intendeva tirarsi indietro. Aveva dato la sua parola e l’avrebbe mantenuta, se non altro per capire cosa fosse accaduto il giorno precedente e per quale motivo Belle avesse preferito non incontrarlo. Una parte di lui si rifiutava di credere fosse stato per ripicca: la donna che conosceva e amava era troppo matura per simulare simili giochetti, tanto più in un contesto già complicato. Di per sé avrebbe effettivamente meritato di non essere ricevuto, e nel caso avrebbe criticato solo in parte il comportamento; ma sarebbe stato così poco da lei… Nel precedente lustro era cambiata a tal punto? I primi incontri non gli avevano dato quest’impressione. Sembrava così diversa, Belle: più forte, ancora più sicura nel discernere il giusto dallo sbagliato e nel difendere i propri ideali; o forse, anche lei aveva deciso di iniziare a mascherare le fragilità dietro una copertura.
Ma non aveva usato l’acciaio per coprirsi, no; aveva scelto un materiale più fragile, più sottile, che lasciava trasparire ogni emozione nella sua bellezza e crudezza.
Aveva scelto una maschera, ma l’aveva scelta di vetro.
E ora Gold capiva le parole che un tempo lei soleva rivolgergli, quel desiderio ribadito appena pochi giorni prima di farlo tornare alla parte migliore di lui, di farlo guarire dal suo essere malato d’ombra. La volontà di vederla era più forte del bisogno di riposare o mangiare: in ogni gesto, in ogni passo anche nel più quotidiano c’erano lei, le sue scelte e le sue azioni.
Le loro dita vicine, unite, un arcobaleno nella tempesta.
Quel gesto poteva già significare qualcosa. Poteva indicare una primissima, tenue apertura. Era presto, Belle era stata categorica in proposito e, sebbene si fosse riferita all’eventuale ritorno a Kensington, Gold aveva intuito come il discorso avesse una portata più ampia, le cui ragioni non era arduo comprendere e condividere. Ciò che ha un inizio è condannato a conoscere anche una fine, entrambi l’avevano sperimentato sulla propria pelle; un epilogo che stavolta sarebbe stato persino più doloroso.
Perché stavolta non avrebbe coinvolto solo loro.
Scorse col pollice la carta dei pacchi che aveva in mano. Stavolta non si era lasciato cogliere alla sprovvista: aveva portato il dolce preferito da Belle e un dono per Helena. Non aveva mandato un subalterno ad acquistarlo, come soleva fare durante l’infanzia di Regina: si era recato personalmente in bottega, indossando il suo migliore schermo per non lasciar trapelare l’ondata di solitudine che l’aveva assalito varcatane la soglia.
- Ma poi vieni a prendermi?
- Certo, figliolo! Dobbiamo conquistare Londra assieme! Compreremo tutti i giocattoli che vorrai, e andremo in giro su una carrozza dieci volte più bella di quella della regina, mangiando cioccolata fino a star male! Te lo giuro, Neal, te lo giuro.
Si sarebbe fatto scorticare vivo piuttosto che ammettere di non conoscere i gusti della destinataria del dono; perché esiste forse qualcosa di più triste di un padre che ignora le preferenze della sua stessa creatura? Che non sa se predilige l’arancione al rosso, se vorrebbe disporre file di soldatini tutto il giorno o correre sempre dietro a una palla? Di Neal sapeva tutto, e anche di Regina; Helena, invece, era un mistero da svelare.
Una cosa era certa: la piccola non aveva molti balocchi. Forse era il caso di andare sul sicuro e regalarle una bambola: a quale ragazzina non piacevano? La piccola Mills un tempo le adorava: ne aveva a decine e continuava ad accettarle entusiasta.
Ma poi aveva visto un’altra cosa, forse più rischiosa, più incerta, e aveva cambiato idea. Chissà come avrebbe reagito la piccina scoprendo la sorpresa…
La sala lo fece fremere d’ansia: Ruby si aspettava davvero che l’attraversasse, col rischio di attirare l’attenzione degli avventori ed essere riconosciuto? Era pura follia. Probabilmente lì sedeva gente che gli doveva dei soldi, affitti arretrati o interessi di chissà quale prestito; e quale modo migliore per non pagare se non risolvere il problema a monte? Il suo era un volto noto, e il fatto che i massicci Reed e Hulme sorvegliassero la situazione non migliorava le cose.
La Lucas parve notare la sua esitazione, ma per una volta prese la saggia decisione di non deriderlo.
- Così darete nell’occhio, – lo redarguì – Fingete indifferenza e nessuno vi baderà. Sbrigatevi ad andare di sopra, – fece, prima di afferrare un vassoio dal bancone e lasciarlo casualmente cadere per terra pronunciando a voce fin troppo alta – Oh, povera me! Sono proprio una sbadata! 
Gold approfittò della confusione – “Ti aiutiamo noi, bellezza! Tutto per la nostra Ruby!” – per dileguarsi verso il piano superiore, il cuore in gola per mille distinti motivi.
Fu Belle la prima che scorse. Indossava lo stesso abito della settimana precedente – solo più accollato, non poté fare a meno di notare con una punta di rammarico – e portava i capelli in modo diverso: non li aveva costretti in una crocchia severa, ma come raccolti in una coda bassa, lasciata ricadere morbida sulle spalle.
Ciocche simili a raso che gli scivolavano tra le dita, che gli piovevano addosso quando era su di lui e lo baciava piano, lenta, attenta.
Con amore.
Ciò che solo lei sapeva dargli.
Gli sorrise quando lo vide comparire sulla cima delle scale: un sorriso breve e destinato a sfumare presto, ma presente e impossibile da ignorare.
Belle gli aveva sorriso.
Gli aveva sorriso, e non una smorfia carica di furia trattenuta come quelle dello scorso incontro, non un cenno trafitto dalla mestizia che lui avrebbe voluto scacciare pur essendone causa, ma un vero, autentico sorriso. Simile a quelli che gli dedicava nei mesi dolcissimi in cui il Fato, autore beffardo, stava componendo le pagine che li avrebbero indissolubilmente uniti. Quando Belle lo guardava in quel modo la sofferenza che si erano imposti, gli affanni svanivano, quasi il gesto avesse il potere di spezzare le catene e liberarlo da ogni giogo. Erano stati il sorriso di Belle e la sua intraprendenza a colpirlo prima ancora che se ne rendesse razionalmente conto: il cenno imbarazzato allo scherzo che aveva portato a una tazza – la loro tazza – scheggiata, la grinta con cui aveva difeso il suo nome durante il viaggio che la conduceva alla villa. Gold aveva accettato la sua proposta per sfregio, per umiliare quegli occhi risoluti e dimostrar loro che nessuno, nessuno poteva mettersi contro di lui e credere di vincere. Voleva legarla a sé in una sottomissione senza fine, e si era ritrovato lui a essere avvinto a lei da un amore che aveva provato ad andare oltre le barriere.
Un amore che aveva portato a una bambina dal capo chino e dalle mani giunte in grembo, come in religiosa attesa. Pareva… angosciata? Sì, angosciata era la definizione esatta, turbata come mai era apparsa durante la loro precedente conversazione. Si chiese cosa fosse accaduto nel frattempo da inquietarla tanto, e non poté fare a meno di preoccuparsene.
- Buonasera, – le salutò – Come state?
Fu Belle a rispondere, pur posando le mani sulle spalle della figlia – per darsi forza o esortarla a parlare? Non riuscì a capire.
- Bene, grazie. E tu?
- Anch’io – s’impose di sorridere per nascondere l’ansia rivolgendosi alla figlia – Salve, Miss. Tu cosa mi dici? – attese invano una replica prima di ripetere la domanda – Oggi siamo poco chiacchieroni, eh, Dearie? Il gatto ti ha mangiato la lingua? E pensare che avevo una gran voglia di continuare il nostro gioco…
La bambina era persa a studiarsi le scarpe, strusciandole tra loro.
Belle pareva mortificata come in poche altre occasioni prima d’allora.
- Helena, – mormorò sperduta, carezzandole il capo – È il signore dell’altro giorno. Ne abbiamo parlato.
La consapevolezza di quanto accaduto investì in pieno Gold.
Gliel’aveva detto.
Belle aveva rivelato la sua identità alla bambina. L’aveva presentato col suo legittimo ruolo e distinto definitivamente nel pur ridotto panorama di figure maschili che le ruotavano attorno. Non era difficile immaginare la miriade di interrogativi che turbinavano nella testa della bambina, la confusione in cui l’aveva gettata la scoperta, l’agitazione che ora la muoveva.
Doveva essere soddisfatto della chiarezza fatta, o avrebbe voluto esser presente, prendere parola e spiegare anche il proprio punto di vista? Ignorare cos’aveva raccontato la donna era deleterio: come avrebbe risposto se la bambina gli avesse posto delle domande? Fornire versioni differenti era fuori discussione.
Maledizione, Sweetheart, come ne vengo fuori ora?
- Scusaci, – Belle lo disse a voce alta e sicura, ma non riuscì a dissimulare il tremito delle mani. Cosa stava succedendo? Fino a pochissimi istanti prima la bambina sembrava essersi tranquillizzata, e invece anche il suo ultimo discorso si era rivelato un fallimento. Helena non era pronta, non era assolutamente pronta a interagire con l’uomo – Non …
Gold la zittì con un cenno della mano libera.
- Belle, – un bagliore astuto gli attraversò lo sguardo, inducendola a chiedersi cosa stesse tramando – Hai mai sentito nominare Hawkins? È un giocattolaio molto noto… Oh, dovresti proprio vedere il suo negozio: scaffali colmi di bambole e carillon, marionette e burattini ovunque… Il paradiso di ogni bambino, insomma. Venendo, sono passato di lì e ho visto una cosa in vetrina. E sai cosa ho pensato? “Questo potrebbe proprio piacere alla bambina chiacchierona dell’altro giorno!”. Però – si guardò attorno con fare dispiaciuto – Tu vedi qualche bambina chiacchierona qui?
Belle stette al gioco e scosse il capo con vigore.
- Esattamente. E se la bambina chiacchierona non è nei paraggi, cosa me ne faccio io del regalo? Credo proprio lo riporterò indietro. Era davvero bello e sono certo che a qualcuna sarebbe piaciuto, ma cosa possiamo farci? Nulla, ahinoi, nulla. In ogni caso, – continuò con un sospiro teatrale – Sono contento di averti salutata. A presto, – si voltò e fece per andarsene, il dono ancora in bella mostra
Non aveva posato piede sul primo gradino quando una vocina lo raggiunse.
- I gatti non mangiano la lingua delle persone.
Gold si bloccò.
Trattenere il sorriso di trionfo che gli curvava le labbra sarebbe stato vano. Se anche Milah, se persino Cora sostenevano fosse bravo coi bambini doveva esserci un fondamento; e lui aveva inquadrato Helena a prima vista. A mille moine preferiva una sfida, una provocazione che avrebbe raccolto, fatta propria, portata avanti fino a vincere e infine vinto.
Come sua madre.
- Guarda guarda, – fece meditabondo prima di voltarsi – Non sapevo ci fosse un’esperta di felini qui. Sentiamo, cosa mangiano i gatti?
- Ai gatti piace il pesce. E bevono il latte.
- E dimmi, a te piacciono i gatti?
- Sì, specie quelli neri. So dove stanno e vado a portarci il latte con Grace ed Henry, di nascosto a Granny però perché lei non vuole, – accortasi di quanto appena sfuggitole, si morse un labbro pentita – Anche se questo era un segreto e non dovevo dirlo.
Belle alzò le spalle e guardò verso la finestra.
- Io non ho sentito niente… – ridacchiò allegra, e Gold quasi trattenne il fiato udendo la musica che tanto gli era mancata e che all’improvviso gli scaldava il petto. C’era qualcosa in quella risata simile a cristallo, un fuoco chiaro capace di risvegliare in lui una sorta di forza assente quando non erano assieme.
- Neanch’io ho sentito, – confermò, ormai perso a guardare Belle – Allora, vogliamo scartare il regalo?
 
 
 
No,  I just wanna hold you.”
 
 
 
La cena stava procedendo bene. Dopo il gelo iniziale che le aveva fatto temere il peggio, la situazione era evoluta per il meglio: era grata all’abilità dimostrata da Robert, che aveva salvato la serata e – dubitarne era vano – fatto reinnamorare Helena, proprio come la settimana precedente. I due non facevano altro che chiacchierare disinvolti, dimostrando una complicità che difficilmente Belle pensava sorgesse tanto presto; era uno spettacolo vedere un affarista spregiudicato quanto il tanto temuto mago dei tessuti impegnato in un confronto sulle condizioni migliori per giocare a campana e sui disegni che la bambina disseminava per casa – “Arte molto moderna”, aveva commentato l’uomo dinanzi al guazzabuglio di forme e colori, strappandole un irrefrenabile scoppio d’ilarità. Padre e figlia la coinvolgevano nella conversazione, ponevano domande cui rispondeva con piacere, e lei stessa introduceva argomenti: attraverso Helena aveva spiegato cos’avessero fatto e dove fossero state il giorno prima, e non senza soddisfazione aveva visto Robert impallidire per un istante e assottigliare le palpebre, come faceva quando doveva affrontare una realtà che smentiva qualche sua teoria.
Ma se Belle per lo più taceva e restava ad ascoltarli non era per astio, ostilità verso l’ospite o altri sentimenti meschini che in realtà neanche la sfioravano; la verità era molto, molto più semplice: a Belle piaceva – amava – osservare Robert ed Helena insieme.
Lo spettacolo che aveva dinanzi era il più bello cui avesse mai assistito, col suo sapore speciale di sogno divenuto realtà che ancora manteneva una cornice sfumata, come se potesse dissolversi da un  momento all’altro.
Malgrado tutto, il comportamento della piccola non era una novità: in fondo al cuore sapeva che Helena avrebbe affrontato la pur nuova e complessa situazione con coraggio. Non ricordava una sola occasione in cui avesse interagito con un estraneo chiudendosi in sé o ammutolendo, anzi: spesso erano lei stessa, Granny o Ruby a fermarla per evitare che parlasse troppo.
E neanche Robert l’aveva sorpresa: già la prima volta che le aveva accennato di Neal, per quanto all’epoca si mostrasse brusco e autoritario Belle non aveva incontrato ostacoli a immaginarlo alle prese con un bambino; ciò cui stava assistendo confermava appieno la sua prima impressione.
L’uomo aveva intuito subito i punti deboli di Helena, il suo desiderio di essere trattata come un’adulta e mai le si era rivolto col tono quasi canzonatorio in cui alle volte i più grandi indulgono quando trattano coi bimbi: le parlava come se fosse una sua pari, considerandone il parere e le ragioni, ma dicendo la propria anche a costo di contraddirla, senza macchiarsi di sfumature di condiscendenza. Alternavano pareri su come chiamare il pupazzo a forma di gatto che l’uomo le aveva portato al loro gioco dei nomi – dopo essersi beato di false piste, Gold l’aveva indirizzata sulla lettera corretta –, e vederli tanto affiatati, coi loro occhi così simili splendere quando si rivolgevano a lei, era un’ondata di calore capace di sciogliere finalmente quel macigno oscuro conficcato in mezzo al petto.
Ma se lo sguardo di Helena traboccava di vitalità purissima, non più tinta di timore o angoscia, quello di Robert non riusciva a non tradire i mille travagli prolungati che portavano anche il suo nome.
A Belle non erano passata inosservata la carta regalo, né il nastrino che il micio portava al collo: il blu e l’oro erano i loro colori per antonomasia. Non l’avevano mai specificato, forse perché entrambi provavano la ritrosia che spesso rende arduo dire le cose più belle e più vere, o forse perché non esisteva modo di ufficializzare qualcosa di tanto evidente eppure sottile; ma Gold viveva nell’oro ed era vissuto per l’oro, e l’oro era nel suo nome, parte integrante di lui; e il blu…
Blu era il colore dei suoi occhi.
Blu era la divisa che le aveva imposto il primo giorno.
Blu era la pietra dell’anello che aveva fallito la sua missione, dividendoli anziché unirli.
Quella pietra che scintillava al suo anulare sinistro, la fede mai avuta, la promessa mai mantenuta.
La scelta dell’uomo era stata tutto fuorché casuale. Forse avrebbe dovuto arrabbiarsi, restar offesa dal modo in cui aveva strumentalizzato il primo presente alla figlia rendendolo latore di messaggi che sapeva avrebbero colto nel segno. Sicuramente aveva vessato senza pietà il malcapitato garzone perché gli procurasse un dono con quelle caratteristiche, una carta regalo in quei colori…
Eppure Belle non ne era risentita.
Era da parecchio che non riusciva a stabilire con certezza i suoi sentimenti quando lo aveva accanto.
Vedendoli, si chiedeva piuttosto come avesse potuto dubitare della sincerità d’intenti dell’uomo. L’attenzione che dedicava alla bambina, le battute spiritose che le rivolgeva e la luce nelle sue iridi… Non aveva sbagliato dicendo a Helena che suo padre già l’amava: era la verità che implorava affinché fosse creduta, affinché le venisse riposta nuova fiducia, affinché lei decidesse di riprovare. In fondo, non era la stessa cosa che Robert le aveva chiesto proponendole di tornare a Kensington? Offrendole l’anello?
Ogni volta che lui la guardava, poteva leggere la muta preghiera che le rivolgeva e l’amore che mai aveva smesso di provare per lei, neanche quando aveva provato a strapparselo dal petto.
L’amore così differente e simile a quello che da cinque anni le si era insediato nel cuore.
Ma ne avrebbero parlato, ne avrebbero parlato presto. Si sarebbero chiariti sugli eventi di ventiquattr’ore prima e lei gli avrebbe confessato ogni cosa.
Suonarono le venti e trenta. Sebbene non avesse ancora sbadigliato, i segni di stanchezza di Helena si facevano sempre più evidenti. Per la prima volta era sufficiente…
- Si è fatto tardi, – i due si voltarono contemporaneamente verso di lei, i volti adombrati in un identico modo che quasi la turbò – È ora di andare a nanna.
- Nooo! Un altro pochino, un altro pochino per piacere!
- Fossi in te ascolterei tua mamma, – Gold corse in aiuto di Belle – Qualche anno fa ho assistito a una scena spiacevole: un bambino che non voleva mai andare a dormire si è all’improvviso ritrovato invecchiato di mille anni. Dei folletti malvagi gli avevano rubato la gioventù – strinse le labbra e alzò le sopracciglia in una smorfia di massimo disappunto – Una gran brutta faccenda, davvero. Mi spiacerebbe se accadesse anche a te.
Helena lo fissò ansiosa, ma non abbastanza intimidita da non porgli da domanda che le premeva.
- E poi cos’è successo?
- E poi si è messo in viaggio alla ricerca di quanto perduto. Ma questa è una lunga storia, e tu non vuoi diventare vecchissima tutto a un tratto, vero?
Una preoccupatissima Helena fece subito segno di no.
- Però me la racconti la prossima volta.
Il sorriso sul volto dell’uomo si allargò.
- Quando lo vorrai. Fa’ bei sogni, Milady.
La bambina si alzò dalla seggiola ma, come colta da un improvviso dubbio, si fermò e si rivolse all’ospite.
- Senti, io non ho capito una cosa. Ma tu come ti chiami?
- Ma come, Dearie? – la stuzzicò bonariamente – Ti arrendi? Se ben ricordo c’era un accordo tra noi, e io non rompo mai gli accordi.
- Lo so, – la piccola ghignò di tutta risposta – Non mi hai capito. Quando poi scopro il tuo nome, come ti devo chiamare? Con quello o “papà”?
La parola cadde nella stanza come una pietra.
Gold accusò il colpo all’istante, cercando di dissimularlo, dicendosi che in fondo era normale, una domanda legittima che avrebbe dovuto mettere in conto e chiarire sin da subito: ma nulla poteva realmente contro la freccia che gli si era piantata nell’anima, contro il dolore bruciante che andava a erodere i margini di una voragine senza fine facendolo franare su se stesso.
Appena udì la parola, Belle si portò d’impeto una mano alla bocca, conscia del ricordo che, tagliente come una scheggia di vetro, stava lacerando l’uomo. Nulla aveva lasciato presagire simile dubbio in modo da poterlo prevenire, né ora sapeva cosa fare per soccorrere Robert, per gettare le barriere che – quasi poteva vederle – si erano innalzate attorno a lui; ma se l’avesse saputo l’avrebbe fatto, ancora una volta.
Quando lui tornò a parlare, lo fece nel tono imperturbato che l’aveva caratterizzato sino ad allora.
- Penso che a tal punto sarai tu a dover scegliere.
Helena sembrò soppesare l’opportunità prima di annuire con gli occhi socchiusi, come un saggio in miniatura.
- Allora poi decido, – commentò tranquilla, pur soffermandosi a osservare per un istante più del solito l’ospite – Grazie per Baelfire e arrivederci e buonanotte! – afferrò il gatto così ribattezzato di comune accordo – È un nome forte!, aveva esclamato Gold udendolo, facendo ridere entrambe – e andò verso la camera da letto, subito seguita dalla madre.
 
 
 
And it’s been a while,
but I still feel the same.
Maybe I should let you go.”

 
 
 
Chissà come stava andando l’incontro, si chiese Ruby per l’ennesima volta mentre serviva i clienti. L’idea di fare una capatina al piano superiore l’aveva toccata, ma subito l’aveva ricacciata indietro: nella peggiore delle ipotesi i tre stavano mangiando in assoluto silenzio, ignorandosi reciprocamente e provando a sbrigarsi nel minor tempo possibile. Ma Gold era in casa da un’oretta, e in presenza di Helena era improbabile riuscire a mantenere il broncio a lungo…
Se non altro, non poteva lamentarsi: la sala era tranquilla e, dopo aver soddisfatto le comande, l’idea di mettersi sulla porta e prendere una boccata d’aria si fece più tentatrice. Cinque minuti di pausa non avrebbero mandato in perdita nessuno; e comunque, si disse, dalla sua postazione avrebbe controllato la situazione senza difficoltà e subito servito eventuali nuovi arrivi.
Le strade di Whitechapel erano le solite: tristi, sporche e grigie. Solo con loro la pioggia non riusciva nella missione che Ruby da sempre le attribuiva: rendere il mondo più bello. Per molti tutta quell’acqua era fastidiosa e causava malinconia, ma lei non era d’accordo: sin da quando era piccola e viveva ancora in campagna, l’aveva sempre trovata meravigliosa. Le pareva che la pioggia lavasse il mondo, lo purificasse da ogni male rendendolo puro e abitabile almeno finché gli uomini non fossero tornati a lordarlo coi loro peccati.
Ma nei tetri confini dell’East End che tanto le andava stretto non c’era spazio per certe romanticherie.
Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, immaginando di essere ovunque lontano da lì.
- Oggi posso entrare senza rischiare una coltellata?
La domanda inaspettata la fece scattare. Riaprì le palpebre e d’istinto s’appiattì alla parete, i sensi all’erta e pronti a reagire. Impiegò non più d’un istante per riconoscere la voce e ricondurla a un volto: il dottorino, come aveva preso a chiamarlo tra sé e sé, colui che tanto l’aveva fatta innervosire con le sue occhiate becere e i modi supponenti, la osservava a poca distanza, un sorriso affilato sul volto pallido.
- Dipende.
- Da?
- Da quel che siete venuto a fare, – appena aveva capito che l’uomo non costituiva un reale pericolo, Ruby era tornata in sé. E aveva deciso di giocare – Non sapevo stessimo male.
- Ma non tutte le malattie hanno sintomi. E dovere del medico è sincerarsi sempre delle condizioni dei pazienti.
Alzò un sopracciglio rivolgendogli un sorriso furtivo che lo fece deglutire
Un sorriso tale da fargli salire la temperatura corporea di un grado o due.
Non gli era indifferente, stabilì la giovane nascondendo un ghignetto. Era anche vero che ben pochi uomini restavano immuni al suo fascino, ma Whale, malgrado l’esordio, era tra i pochi che riuscivano anche a incontrare il suo favore. Non era malaccio, no; lo avrebbe definito piuttosto un tipo. E, doveva riconoscere, forse Belle aveva ragione con le sue insinuazioni: un pochino – un pochino! – le piaceva, e il modo in cui le teneva testa la divertiva.
Ma se credeva di poter passare da lei solo con un certo scopo si sbagliava di grosso…
- L’unica cura che l’ostessa può fornirvi è un boccale e il consiglio di lasciar perdere. Certi pensieri portano sempre guai.
- Anche se sono pensieri piacevoli?
- State marcando male, dottorino. Molto, molto male.
- Allora prenderò una birra per farmi perdonare.
La ragazza gli fece cenno di entrare.
- Per la gioia delle nostre casse, – fu il suo unico commento.
Malgrado l’intenzione espressa, l’uomo non si mosse. Scosse il capo prima di ribattere con l’aria di chi la sapeva lunga: – Lasciare una donzella sola sarebbe alquanto maleducato.
Non sarai tu a cogliermi di sorpresa, bello mio.
- Più o meno che guardarla con insistenza mentre lavora?
A Whale mancò il respiro. Si morse l’interno della guancia: sapeva che la ragazza era un tipetto tosto, ma diamine, lo stava stupendo non poco. Non ricordava di aver mai avuto a che fare con una donna dalla risposta tanto pronta e tagliente; e la cosa, anziché allontanarlo, lo intrigò ancora di più.
Aprì la bocca per replicare, ma Ruby lo precedette.
- Entriamo, va’. Non sia mai che la nostra conversazione faccia ammalare il dottorino… – esclamò prima di dargli le spalle e tornare nel locale, lasciandolo cool triste gusto della disfatta in bocca.
Ma al momento di mescere la birra, la giovane Lucas si ritrovò a esitare un attimo più del dovuto; un attimo a seguito del quale si ritrovò a riempire un altro boccale.
Per sé.
 
 
 
“And you know I’ll find my corner.”
 
 
 
Quella riunione, si ritrovò a pensare Mary Margaret, aveva il sapore di una cospirazione. Era vero, la colpa era in parte sua: nella sua vita aveva sempre incontrato qualche difficoltà a mantenere i segreti, specie quelli tanto importanti da darle di che pensare. Se una parte di lei voleva credere che la persona vista da Emma fosse davvero Belle, che la ragazza fosse sana e salva e, chissà, magari anche desiderosa di riabbracciarli, l’altra non mancava di sottolineare l’assurdità della teoria.
Era stata proprio la seconda metà a indurla a chieder consiglio a un Archie ancora più turbato di lei e, nel corso delle faccende, a rivelare involontariamente il segreto a Kathryn; e Kathryn l’aveva riferito ad Aurora, che ne aveva messo a parte Sean, che ne aveva parlato a casa con Ashley, la quale a sua volta non aveva perso tempo e – complice la partenza del padrone – quella sera si era presentato a Kensington coi piccoli Alexandra e Thomas per partecipare al consiglio improvvisato di cui gli ultimi a saperne qualcosa erano stati proprio i due che avevano fatto scattare l’allarme.
- È una fortuna che Gold se ne sia andato. Anche se son passati anni, dopo il trattamento che mi ha riservato non ho intenzione di ritrovarmelo davanti. Aleeex! Non si pizzica il fratellino! – esclamò l’ex fantesca proteggendo l’ultimogenito ancora neonato.
- Love, sai che tra me e il Coccodrillo non scorre buon sangue, ma devi ammettere che col pancione non saresti stata di grande utilità, – la rimbeccò Killian dal lato opposto del tavolo.
- E infatti non pretendevo certo di lavorare fino all’ultimo! Speravo solo in un po’ di comprensione. Belle voleva aiutarmi…
Il silenzio calò sulla stanza. L’ordine del giorno si era insinuato nella conversazione prima che potessero frenarlo.
- Non dobbiamo essere troppo duri nei confronti del padrone, – provò a conciliare Hopper – Stava attraversando un periodo terribile. Aveva da poco perso Belle, e tutti sappiamo cosa significasse per lui.
- Se quanto accadeva qui si fosse saputo in giro, saremmo stati tutti travolti dallo scandalo, – l’osservazione di Aurora non riscosse alcun successo tra i presenti.
- Se quanto accadeva qui si fosse saputo altrove, saremmo rimasti al fianco di Mr Gold, – la corresse il maggiordomo, senza perdere la pacatezza che lo contraddistingueva sempre – L’avremmo aiutato, assistito e consigliato nei limiti dell’opportuno, perché il nostro compito è anche questo. Anzi: per come la vedo io, il nostro sostegno vale più di mille argenterie ben lucidate.
- Il prossimo che parla di argenterie lucidate lo sgozzo, giuro, – Emma entrò in cucina trascinando i piedi e si accasciò sulla sedia accanto a Jones. Il sorriso del valletto fu scorto da tutti eccetto che dalla diretta interessata, tutta presa a salutare l’ex collega che non vedeva da un po’.
Mary Margaret decise fosse il momento di introdurre la questione.
- Bene, – esordì – In un modo o nell’altro, tutti sappiamo perché siamo qui. La domanda è una sola: cosa facciamo?
- Come se ci fossero molte possibilità, – commentò la figlia – Fossi stata da sola avrei già risolto il problema: sarei entrata nel pub e avrei chiesto spiegazioni. E questa mi sembra tuttora l’unica cosa da fare. Torniamo là, vi mostriamo Belle e basta così.
- Non è tanto semplice, – il timbro di Kathryn risuonò dolce, ma deciso – È una brutta situazione che si ripresenta proprio ora che siamo tornati a Londra. E se per caso vi foste confusi?
- Non iniziare anche tu con la storia della suggestione, non sono né pazza né bugiarda.
- Non intendevo certo…
- Nolan, calma: nessuno ci sta offendendo. Sai che non sono tipo da lasciar correre le ingiurie nei miei confronti, e ti assicuro che qui non ce ne sono, – Killian fu netto nel sottolinearlo – È lecito che dubitino: a noi stessi è venuto un infarto vedendola. Ma, – si rivolse ai colleghi – Non ci sono stati errori. Non ci siamo confusi, e certo non eravamo né ubriachi né altro: quella che abbiamo visto sulla porta di un locale di Whitechapel era Belle French. Questo è tutto ciò che sappiamo.
- Ma cosa ci faceva Belle in una taverna? Non mi è mai parsa tipo che frequenta certi posti… – domandò qualcuno che l’uomo finse di non udire. Mary chinò il capo: il giorno stesso della rivelazione, approfittando di una momentanea assenza di Emma, l’uomo le aveva parlato dei suoi dubbi circa le attività condotte in quel luogo – e volse la sua attenzione ad Ashley.
- Non capisco. Gold ha detto che Belle è morta. Ci ha fatto sigillare la stanza con tutte le cose ancora dentro, coprire gli specchi, tirare le tende e tutto il resto: la casa era a lutto come se fosse morto uno della famiglia e non un servo, ricordate? Perché avrebbe dovuto mentire su una cosa tanto grave?
- E se neanche lui sapesse che è viva? – avanzò Emma – Magari lui la crede morta.
- E tu vorresti andare a dirgli che hai visto Belle French vagabondare per l’East End?
- Fossi matta, ci tengo alla mia pelle io! Però penso che…
Mary non poté fare a meno di ripensare a poche ore prima. Gold le aveva ordinato di preparare una dessert: di per sé non era una stranezza, ma il tipo di dolce preteso l’aveva colpita tanto da indurla a credere di star udendo male; perché l’uomo voleva la torta al cioccolato di cui era ghiotta Belle.
Una torta che – come tutto ciò che riguardava la ragazza – non doveva essere nominata in sua presenza.
Udendo la richiesta, la mente ancora tutta volta a quanto raccontato dalla figlia, le certezze della governante si erano incrinate, complice anche la seconda parte del comando: il dolce doveva essere consegnato al padrone stesso per le diciotto, ora cui sarebbe partito; ma non era uscito di casa con indosso uno dei suoi completi da viaggio, bensì vestito in modo molto più informale, come se non volesse essere riconosciuto per uomo abbiente.
Forse le sue erano davvero solo suggestioni; fatto stava che però la donna tornava da ore e ore su quei particolari e, a prescindere dall’ultima assurda teoria di Emma, quanto sostenuto da lei e Killian non le pareva tanto avulso quanto all’inizio.
- Voi cosa ne dite, Mary?
La domanda di Archibald la fece riscuotere. Com’era evoluto il dibattito nel frattempo? Non poteva saperlo, ma a costo di ripetere un’opinione altrui decise di essere sincera.
- Io dico che stando qui non risolveremo nulla, – esordì a voce alta e chiara – Se Belle è davvero viva, non comparirà domattina alla porta chiedendo di entrare. Attenderla è inutile; saremo noi a muoverci. Perciò sono d’accordo con mia figlia: andiamo e scopriamo come stanno le cose.
Emma le mandò un bacio esultando e annuì al: – E allora facciamolo quanto prima, – di Killian.
- Domani. Facciamo già domani! – fece eco, ricevendo il plauso generale.
- E allora è deciso, – concluse la Boyle alzandosi – Domani sarà il giorno della verità.
 
 
 

“Give a little time to me,
we’ll burn this out,
we’ll play hide and seek
to turn this around,
all I want is the taste
that your lips allow.”

 
 
 
Ventisei anni, tre settimane e cinque giorni.
Tanto era il tempo trascorso dall’ultima volta in cui qualcuno l’aveva chiamato papà.
Da allora persino il suono della parola gli era diventato inviso: perché indicava un rapporto per lui iniziato e finito troppo in fretta; perché aveva il sapore triste delle possibilità rimaste tali, quelle che non avevano conosciuto l’alba del domani e che per questo mordevano ancora più a fondo, portandosi dietro un carico innaturale da reggere. I genitori non dovrebbero sopravvivere ai figli, si dice; e forse non solo per il dolore, non solo per la sofferenza che dover seppellire la propria creatura comporta, ma perché saranno per sempre condannati a porsi una domanda.
E se?
E se l’avessi portato con me?
E se non l’avessi mandato in quel collegio?
E se quella sera non gli avessi preferito il potere?
E se fosse guarito, se fosse diventato grande?
Come sarebbe adesso?
Si era costretto a odiare la parola papà perché pericolosa quanto l’amore, come diceva Cora: riapriva vuoti chiusi alla bell’e meglio, su cui passava e ripassava mani di stucco per tamponare crepe che trovavano sempre il modo di rompere la facciata e istoriarla. Le sue abituali frequentazioni gli risparmiavano lo spettacolo crudele di piccoli sconosciuti: vedere la gioia quando si stringe un pugno di cenere è la punizione maggiore cui si possa esser condannati.
E lui era stato condannato a mille castighi nella vita, ma nessuno, nessuno duro quanto quello.
Nessuno lo sarebbe stato mai.
 
 
 
Belle riapparve all’improvviso.
Non aveva commentato la serata con Helena: appena entrata in camera, la bimba aveva iniziato a strofinarsi gli occhi e lei aveva preferito non affaticarla ulteriormente; l’aveva pertanto messa a letto, aspettando che si addormentasse prima di tornare da Robert.
Se già prima intendeva parlargli prima di congedarlo, dopo ciò che la figlia aveva detto l’idea di farlo andare subito le pareva inconcepibile; anche se l’unica cosa davvero inconcepibile, si rese conto, era ciò che l’uomo doveva star provando.
L’osservò per un momento prima di palesarsi: era in piedi vicino la finestra e pareva contemplare lo spettrale paesaggio di Whitechapel, reso ancora più cupo dalla pioggia che aveva iniziato a battere sui tetti. Studiandone la piega delle labbra e l’ombra negli occhi, la donna si ripeté che era ancora, era sempre così: al mondo si mostrava Gold l’industriale, il finanziere beffardo votato alla ragione e mai al sentimento, e in privato emergeva Robert l’uomo, colui che sin dall’infanzia aveva conosciuto così tante perdite da essersi ormai convinto di non meritare vicinanza, affetto, comprensione.
Amore.
Un tempo lui aveva osato mostrarsi a lei.
E gli anni non avevano toccato quel lato della sua personalità.
- Robert, – attirò sottovoce la sua attenzione raggiungendolo.
L’uomo che si voltò portava sulle spalle tutto il peso del mondo.
- Si è addormentata? – caricare Belle anche di quello era eccessivo, si disse: non poteva permettersi di alienarsi dalla realtà e concentrarsi sulla quotidianità del proprio dolore.
La donna annuì. Aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito, come incerta di quanto stesse per dire.
- Ti chiedo scusa per quanto successo.
Gold soffocò un’inopportuna risata. Era tipico di Belle giustificarsi anche quando non aveva colpa alcuna, anche quando sarebbe dovuto essere lui a implorare perdono.
- È solo una bambina, non può sapere di suo… Di suo fratello, – non aveva mai pensato a Helena come alla sorellina di Neal. La realizzazione fece ancora più male – La domanda è stata più che plausibile dopo ciò che le hai raccontato, e lo stesso vale per la prima reazione.
- Avresti preferito esserci mentre le dicevo la verità?
Gold soppesò le possibilità prima di risolversi per la verità.
- Sì. Sarei voluto esserci, ma sono convinto tu abbia fatto la scelta migliore per lei e le abbia presentato la versione più adatta.
Belle sospirò, guardando anche lei fuori dalla finestra.
- È stato difficile, – ammise – E ho temuto di aver sbagliato. Con lei ho sempre paura di sbagliare, di dire o fare qualcosa che la ferisca.
La sua piccola, tenera Belle. Così decisa e così fragile a un tempo; ed eppure così forte perché orgogliosa delle sue insicurezze.
Era una madre meravigliosa, anche se non se ne rendeva conto; la madre migliore che avesse visto. Non che fosse difficile superare Milah o Cora nel campo, ma era sicuro – se lo sentiva – che nessuna al mondo avrebbe eguagliato la sua Belle.
Sua, perché malgrado non lo fosse più lui non sarebbe mai riuscito a riferirsi in lei in altro modo – perché era una parte di lui, Belle, perché sin dai tempi in cui l’amava senza osare farlo pensava a lei non come a un’estranea, a una persona sì vicina ma comunque distinta: pensava a lei come alla metà del suo animo.
La metà che gli aveva reinsegnato a ridere e a piangere, a permettersi di provare emozioni e a non negarsi più la vita, la metà che gli aveva donato il sole portandolo via con sé quando se n’era andata.
Ma ora che aveva di nuovo la sua metà più bella, il suo sole, non l’avrebbe più lasciato volare via.
- Coi figli è sempre così. Sempre.
La donna sospirò prima di voltarsi verso di lui. Ogni intenzione di affrontare gli argomenti previsti era svanita, sostituita da una realtà molto più pressante, più urgente.
Gli strinse una mano con dolcezza.
- Come stai?
Avrei dovuto credere a te, non a lei.
Non rispose alla domanda. Delle mille cose che avrebbe voluto dirle, riuscì a pronunciare solo una.
- Insieme saremmo stati felici. Insieme avremmo potuto avere tutto.
Scusami.
Belle chinò il mento prima di tornare a guardarlo.
- A me sarebbe bastato essere scelta da te.
Saremmo stati re e regina.
- Non ti ho dimenticata. Mai.
Per un istante a udirsi fu solo lo scroscio della pioggia.
- Neanch’io.
Non lo scostò quando le appoggiò la fronte sulla spalla nel primo gesto di stanchezza che parve concedersi. Tese le braccia e gli circondò le spalle, attirandolo a sé, inspirando il suo profumo, ricordando, rivivendo, perdendosi.
Senza di lei avevi veramente voglia di svegliarti ogni mattina?
Non sarebbe dovuta finire così, non ora, non dopo la cena e le ripercussioni che avrebbe avuto su Helena, sulle loro vite, sul loro futuro.
Non sarebbe dovuta finire così, si ripeteva Belle, quando ancora c’erano mille sbagli da perdonare e mille questioni da affrontare.
Eppure l’unica cosa che riuscirono a fare fu abbracciarsi, stringersi più forte di quanto ricordassero aver fatto persino ai tempi in cui le notti erano sinonimo di loro.
Se avessero potuto fondersi, entrare l’uno nelle carni dell’altro, l’avrebbero fatto.
L’unica cosa che riuscirono a fare fu accostare i volti.
Perché si amavano, ma una cesura c’era stata e da lì sarebbero dovuti ripartire, dal punto in cui la violenza del mondo aveva bruciato il paradiso che stavano costruendo.
L’unica cosa che riuscirono a fare fu permettere alle labbra d’incontrarsi, di sfiorarsi lievi e tornare a essere ciò che erano state.
Non avrebbero saputo dire chi per primo si fosse avvicinato alla bocca dell’altro; e in fondo, era poi così rilevante? No; o almeno, non lo era quanto ciò che stava accadendo.
Fu un bacio leggero e dolce, come quello che le fanciulle regalano alle bestie per spezzare l’oscurità che le avvince, o i principi alle belle addormentate; e forse fu un bacio dallo stesso immenso potere, capace di spezzare sortilegi e maledizioni e di risvegliare entrambi dal sonno in cui erano vissuti per anni – capace di riportarli in un tempo, in un luogo in cui le possibilità erano realtà, bastava tendere la mano per coglierle e farle proprie, farle loro.
Un tempo e un luogo che non sarebbero tornati, ma nei quali si bearono per un attimo eterno, provando l’infinito.
Si allontanarono piano, gli occhi chiusi come a illudersi di trattenere ancora una scintilla di magia; e quando li riaprirono non si ritrassero: restarono uno tra le braccia dell’altro, i volti tanto vicini da potersi sfiorare.
Lo vide passarsi la lingua sulle labbra, come a voler cogliere il suo sapore, cercare un’altra prova per convincersi di non essersi illuso.
Lei non lo imitò.
Sapeva che se l’avesse fatto sarebbe tornata a baciarlo ancora e ancora.
Le parole non sarebbero servite: rimasero in silenzio, ad ascoltare i loro respiri finché le gambe non s’intorpidirono.
La sua voce risuonò più fioca di un sussurro mentre le percorreva i tratti con un dito.
- Stasera partirò, – non ottenne risposta – Vuoi venire via con me?
Sì.
- No. Non ancora.
Le sue ciglia, pizzo sulla pelle candida.
L’avrebbe baciata per l’eternità.
Annuì.
 
Ma continuò a carezzarle il volto a lungo.
 
 
 

My my,
my my,
my my,
give me love.
“Give me love” - Ed Sheeran

 
 
 
1: il Bethlem Royal Hospital – comunemente chiamato “Bedlam” – è il più antico ospedale psichiatrico della città – http://www.londranews.com/2014/10/londra-nel-passato-bedlam/;
2:  “The Lady” è una rivista femminile tuttora pubblicata che tratta argomenti quali la casa, la cura dei figli e la moda – http://en.wikipedia.org/wiki/The_Lady_(magazine). Altre notizie interessanti sui giornali d’epoca qui: http://virtualvictorian.blogspot.it/2009/11/womens-magazines-in-victorian-england.html
 
La citata Theresa figlia del cocchiere dei Whale è un richiamo a Teresa Fattorini, la “Silvia” di Giacomo Leopardi. ♥
Non so se nella Londra vittoriana abbia effettivamente lavorato un giocattolaio di nome Hawkins; prendetelo per una licenza.
 
 
 
N. d. A.: Bentrovat* o benvenut* con una nuova puntata de “Le inutili note della prolissa Euridice”!
Ecco a voi, con qualche ora d'anticipo, il nuovo aggiornamento: allora, quali sono le vostre impressioni? E che mi dite della sorpresa? XD La cena – nelle mie intenzioni una sorta di hamburger date riveduto, corretto e non interrotto – non era una novità, ma non avevate previsto l’evoluzione finale, vero? So di aver recentemente detto a qualcuna di voi che se avessi fatto baciare i protagonisti non mi sarei fermata lì, ma ho cambiato idea: ho preferito anticipare il bacio, che nei piani iniziali sarebbe dovuto giungere tra un po’, ritardandone l’ – eventuale, eh! Mai dire mai XD – evoluzione.
Il fatto è che la serie mi ha sconfitta, ragazz* mie*. Tutto quell’angst ha fatto capitolare anche l’irriducibile Euridice, che più invecchia più diventa cuor di panna e che ha pertanto deciso di dare una piccola svolta fluff alla situazione e ai successivi capitoli – non direttamente nel prossimo, non vi mento, ma in futuro sì. Maledetti autori. :)
In ogni caso, commentate liberamente: il vostro aiuto mi è fondamentale e non finirò mai di ringraziare quant* mi sostengono recensendo, leggendo e/o aggiungendo la long alle varie categorie. Ne approfitto per dire grazie anche a chi ha fatto lo stesso con la mini-raccolta “Once upon a song – About music, fairy tales and love (RumBelle edition!)”: siete delle meraviglie! ♥ ♥ ♥
Vi saluto e vi ringrazio ancora una volta, dandovi appuntamento qui a sabato 4 aprile, su “Euridice’s world” sempre e augurandovi uno splendido inizio di primavera! :)
Un grandissimo abbraccio, Dearies, e “I will…” – ehm! Forse è non è il caso! XD – “I’ll never stop fighting for RumBelle”! :* :) :*
La vostra sempre più idiota
Euridice100

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Capitolo 9
*** VIII - Broken strings ***


A M.! Questo capitolo parla anche di amicizia,
perciò non può che essere tuo.
Per l’università e The Lady,
i RumBelle e i RamLeela
(“noi portiamo sfiga alle coppie, mi sa”),
Serpeverde e Dante Gabriel Rossetti,
Dylan Dog e Downton “Dan dan” Abbey,
per gli Hobbit che in primavera fanno gli zozzoni
e perché tu sei semplicemente tu. ♥♥♥
 
 
 
VII - Broken strings
 
 
 
It’s the last chance
to feel again.
 
 
 
Di poche cose Cora Mills era sicura: il sole sorge a oriente e tramonta a occidente, amava il rosso tanto quanto detestava l’azzurro e Regina non aveva segreti per lei.
Per quanto fossero diverse, sin da quando la figlia era in fasce riusciva a prevederne le mosse ben prima che lei le compisse: non si trattava del consueto intuito, bensì di qualcosa che pure gli somigliava, ma che era più profondo e le permetteva di essere sempre un passo avanti alla figlia e di aiutarla a capire dove stesse sbagliando e cosa fare per percorrere sempre la strada migliore – quella che Cora aveva tracciato per lei. I cambiamenti occorsi a Regina negli ultimi tempi non avevano scalfito la capacità: senza dubbio, con la rinnovata vicinanza tutto sarebbe tornato come un tempo.
O meglio, tutto era già tornato come un tempo: perché, per quanto s’impegnasse, Regina non sarebbe mai stata brava quanto lei a seminare le tracce e occultare la verità. Ci sono sempre indizi, se si sa dove cercare; e questa era un’abilità che la contessa Mills padroneggiava al pari, se non meglio, di tante altre.
Non si trattava di grandi azioni, di decisioni eclatanti o proclami rivoluzionari: a essere più evidente è sempre la minima e apparentemente insignificante variazione al corso naturale degli eventi, quella che i tentativi di dissimulare finiscono solo per accentuare.
L’aria distratta di Regina durante i pasti, ad esempio; o la cura con cui si preparava quando usciva per una passeggiata a cavallo, e le volte in cui, illudendosi di non essere osservata, occhieggiava rapida verso le stalle in cui sprecava pomeriggi interi.
- È per Ronzinante, – si giustificava – Approfitto della vacanza forzata per stare con lui.
Perché Regina Mills considerava sua madre tanto stupida da non capire che il morello arabo si era recentemente tramutato in un aitante giovanotto dagli occhi grigi.
Quel dannato Locke. Perché non l’aveva sbattuto fuori cinque anni prima? Avrebbe dovuto immaginare che un servo così indisponente già in tenera età col passare del tempo avrebbe causato sempre più guai; e se l’era ripetuto anche in passato, scorgendolo in qualche occasione scambiare un saluto di troppo con la figlia. Tuttavia, non aveva mai realmente pensato che costituisse un serio pericolo; né, d’altro canto, lo pensava fino in fondo anche allora: era vero, simili frequentazioni avrebbero potuto gettare Regina nel vortice dello scandalo e mandarne in pezzi la reputazione, specie in così giovane età; ma la ragazza sarebbe davvero stata così stupida da accettare di pagare un simile scotto? No, no di certo, se avesse ereditato un briciolo del suo sale in zucca; e Cora voleva pensare che la figlia somigliasse sì molto al padre, ma che non fosse anche altrettanto idiota. Stava semplicemente vivendo la fase romantica che le giovinette venute su tra gli agi e le mollezze erano solite attraversare: sognava il principe azzurro e credeva di averlo trovato nel primo che le aveva sorriso.
Avrebbe lasciato correre una chiacchierata o una capatina alle scuderie fintantoché la vicenda fosse rimasta confinata al sicuro tra le mura di Belgravia; in caso contrario, o se si fosse manifestato dell’altro, non avrebbe avuto remore sul da farsi. Magari, certamente, sulle prime Regina avrebbe protestato – questa sua inedita propensione alla ribellione iniziava ad annoiarla –, ma un domani l’avrebbe ringraziata per averle impedito di gettare alle ortiche la sua intera esistenza. Le passioni tra membri di diverse classi sociali, tra dame e popolani, tra capitalisti e domestiche andavano bene finché restavano custodite tra le pagine di un romanzetto; i problemi sorgevano quando a qualcuno veniva in mente di trasporle nella realtà.
Era inutile ricordarlo: le prime ricerche avevano condotto a un nulla di fatto. Per l’occasione avrebbe voluto impiegare Greg Mendel, perché nulla rende più dell’orgoglio di un uomo ferito; ma, stando alle voci, l’uomo era da tempo emigrato in Australia e si era portato dietro anche quell’intrigante di Tamara Green.
I soliti servi: sempre tra i piedi se inopportuni, si dileguavano al momento del bisogno.
In ogni caso, la questione tutto fuorché chiusa: se la frecciata non fosse stata una misera provocazione e la French era davvero a piede libero per l’Impero, andava fermata al più presto. A questo punto non si trattava più delle mire su un uomo, ma di una questione molto più seria e sottile: nessuno poteva fare un torto alla contessa Mills – figurarsi perpetrare una simile offesa! – e restare impunito.
In tutta onestà, dubitava che quello di Gold fosse stato un bluff: a che pro? Quale ne sarebbe stata l’utilità? Se avesse voluto allontanarla o indispettirla ulteriormente, sarebbe ricorso a meccanismi ben più congegnali. Per esempio avrebbe potuto… O…
No, Cora non sapeva cos’avrebbe potuto escogitare l’ex amante, né d’altro canto la questione stuzzicava la sua curiosità: lui aveva scelto di riportare in auge l’antica diatriba, lui ne avrebbe sopportato le conseguenze. Se davvero Belle French fosse stata viva e intenzionata a tornare all’attacco, la scelta del suo compare di venirlo a spifferare proprio a lei non si sarebbe certo potuta definire saggia. Anzi, ne segnalava un certo sprezzo che per un istante le fece pensare che forse Gold non fosse poi tanto intenzionato a proteggerla come in passato…
Comunque fosse, certo non poteva pretendere che chinasse il capo dinanzi a quella che a tutti gli effetti lei interpretava come una dichiarazione di guerra.
E sai che non sono certo io a temere di scender in campo.
I suoi vecchi contatti potevano anche aver fallito, ma lei avrebbe vinto: avrebbe condotto personalmente le battaglie senza perseverare nei vecchi sbagli, ricorrendo a tutte le armi a sua disposizione e sfruttando anche quelle che cinque anni prima le erano sfilate sotto gli occhi senza che si risolvesse a ricorrervi.
La French aveva lavorato per Gold: possibile che avesse perso i contatti con tutti i colleghi? E che, per quanto benvoluta, non avesse acceso alcuna invidia o antipatia? La situazione creatasi in quella casa non era certo l’ideale per mantenere la pace e l’ordine tra il personale… E se davvero tutti l’amavano – aspetto che mai sarebbe riuscita a comprendere – avrebbe comunque potuto sfruttare l’astio che Gold si era attirato durante il suo impero di tirannia. E lei ricordava molto bene i subalterni più invisi all’ex amante…
Brevi indagini sull’ultimo periodo confermarono senza difficoltà i suoi sospetti: la persona cui rivolgersi era lì, a pochi passi da lei.
La persona più corruttibile.
 
 
 

I can’t even convince myself
when I’m speaking
it’s the voice of someone else.
 

 
 
Il momento della verità.
Mary Margaret gettò una lunga occhiata all’edificio che si ergeva innanzi a loro: almeno all’esterno non aveva affatto un’aria raccomandabile – ma cosa in Whitechapel l’aveva? Con David aveva vissuto verso il porto, in una zona certo non tranquilla, come avevano sperimentato sulla loro stessa pelle nel peggiore dei modi; ma i docks rimastile impressi nella memoria non erano così… Così… Così.
O forse era lei a non ricordare, ad aver rimosso ciò che le incuteva timore ed essersi abituata all’eleganza e al silenzio dei quartieri ricchi. Le vie percorse per arrivare lì le erano parse una discesa agli Inferi, e non avrebbe certo negato di voler tornare quanto prima a casa. Suo marito aveva perso la vita in un posto simile: cosa ci erano andati a fare Emma e Killian? Tutte le raccomandazioni rivolte alla figlia si erano perse come foglie al vento. E perché l’irlandese, che tanto blaterava a destra e a manca il suo affetto per la ragazza, le aveva permesso di metter piede in un postaccio simile? Conosceva la figlia a sufficienza da sapere che un divieto non le avrebbe certo impedito di agire, ciononostante non poteva non restarne indignata. E a lei, lei, come era venuto in mente di dar retta a quei due sconsiderati? Cercare Belle era cosa buona e giusta, ma non potevano spingersi tanto da mettere in pericolo Emma.
Sempre se di Belle si tratta.
Accanto a lei, Ashley si strinse nella mantella che la riparava dal vento.
- Come ci è finita quaggiù? – la sua voce, fioca come il pigolio di un uccellino, risuonò di mille paure che lei per prima un tempo aveva temuto di dover affrontare – Credete che… Che… – balbettò, come se l’eventualità apparisse troppo orribile persino per essere espressa – Che sia caduta?
Un brivido percorse la comitiva, raggelandola.
No, pensò Killian, è impossibile, una come Belle non potrebbe mai, è troppo…
Sì, la Belle di un tempo era stata troppo retta per scendere a compromessi, e mai si sarebbe concessa per denaro o altro: il rispetto che nutriva per se stessa gliel’avrebbe sempre impedito.
Ma il tempo cambia le persone, le modella a proprio piacimento lasciando lo scheletro di ciò che sono state, succhiandone tutta la forza, tutta la grinta che un tempo le ha contraddistinte.
Era un uomo, e aveva viaggiato in lungo e largo per il mondo giungendo a contatto anche con realtà che avrebbe preferito continuare a ignorare; e se il Coccodrillo avesse rovinato Belle a tal punto da precluderle ogni altra via? Se l’avesse ingannata tanto da costringerla a prostituirsi per sopravvivere? Se i suoi sospetti avessero trovato riscontro, non avrebbe avuto alcuna pietà: lui sarebbe finito a Newgate 1, ma quel bastardo l’avrebbe pagata cara.
Emma chinò il capo, succhiando l’aria tra i denti. L’insinuazione dell’amica la ferì, la ferì nel profondo pur avendo già messo in conto quell’eventualità: malgrado tutti continuassero a considerarla la piccola di casa, da proteggere e tutelare, non era né stupida né ingenua e aveva capito subito per quale motivo Killian non l’avesse fatta entrare nel pub pur rischiando di perdere definitivamente di vista Belle. Aveva provato una profonda rabbia per il trattamento, ma l’emozione era stata presto surclassata dalla possibilità fino a quel momento nebulosa, e ora improvvisamente così realistica e angosciante.
Con la French le cose non erano sempre andate bene: più volte c’erano state incomprensioni ed Emma stessa era stata la prima a remarle contro quando si erano diffusi i primi pettegolezzi. L’aveva offesa, accusata di fraternizzare col nemico in spregio alla memoria di Ariel Andersen, e come dimenticare quando erano venute alle mani? Eppure Belle, per quanto risentita, era tornata a parlarle appena lei le aveva offerto un’occasione.
Belle si era dimostrata migliore di lei in ben più di un’occasione; era arrivato il suo turno di dimostrarle di essere maturata.
L’avrebbe aiutata. Qualsiasi cosa fosse successo, lei e chi avesse voluto accompagnarla avrebbero messo da parte le divergenze e unito le forze per risolvere la situazione, e Gold non avrebbe potuto far niente per fermarli. Che ci provasse, la bestia: forse gli altri, forse anche sua madre lo temevano, ma lei no.
Lei era pronta ad affrontarlo.
Lui, e qualsiasi cosa li aspettasse al di là della strada.
Senza controllare se i compagni la seguissero, si fece largo tra la folla.
- C’è solo un modo per scoprirlo, – mormorò più a se stessa che agli altri – Entriamo.
 
 
 

Oh, it tears me up,
I tried to hold on,
but it hurts too much,
I tried to forgive,
but it’s not enough
to make it all okay.

 
 
 
L’incontro le aveva lasciato un senso di meraviglia e d’irrisolto che non accennava a svanire.
Dopo aver accompagnato Robert alla porta, averlo visto montare in carrozza e allontanarsi sotto la pioggia battente, Belle era rientrata in casa e, malgrado fosse presto, era tornata di sopra e si era stesa accanto a Helena. Per fortuna la bambina continuava a dormire alla grossa; solo, percependo il calore del corpo materno accanto a sé si era voltata e le si era stretta con forza, abbracciandola e affondando il volto nel petto.
La donna le aveva carezzato la schiena e posato un bacio leggero in testa: le ultime ore erano state tanto dure che solo un buon sonno ristoratore l’avrebbe aiutata a metabolizzare le emozioni vissute. Si era consolata al pensiero che l’indomani almeno la piccola sarebbe stata meglio; quanto a lei… Vedendo le sue occhiaie, Ruby se ne sarebbe fatta una ragione.
Non aveva intenzione di nascondere alcunché all’amica, tantomeno il bacio che lei e Robert si erano scambiati. Non lo rinnegava, no: se era successo, se per un istante nulla era stato in grado di fermarli c’era un motivo; un motivo che non era difficile individuare, che per cinque anni le aveva fatto compagnia tra un pensiero e l’altro e oggi come ieri le causava un groviglio di sentimenti che combattevano per imporsi.
Riaverlo così vicino, il peso della sua testa sulla spalla che dava un senso diverso a tutto, sentire solo il pulsare incontrollato del sangue nelle vene e le sue labbra posarsi lievi su di lei era stato sogno; e, come da tutti i sogni, anche da quello si era svegliata.
L’avrebbe baciato ancora, con più passione, più impeto, con tutto l’ardore che aveva se fosse stata pronta; e Belle era confusa, arrabbiata, innamorata, ma non pronta. Le veniva da sorridere amara rammentando di essere stata lei stessa a rincuorare Helena poche ore prima: al momento della verità aveva preferito allontanarsi da Robert, fuggire dalla sua bocca e dalla sua proposta nascondendosi fra parole che nulla potevano davvero, i sensi ancora ottusi dall’emozione.
Un bacio, un semplice bacio non aveva fatto male, anzi; il male era venuto dopo.  Perché dopo erano arrivati i pensieri e i dubbi, i “se” e i “forse” che l’avevano tenuta sveglia per l’intera notte. Era stato un bacio così dolce, un bacio in cui aveva riconosciuto se stessa, lui, ciò che un tempo erano stati e il modo in cui i loro istanti sapevano intrappolare la bellezza del mondo; ma in cui aveva riconosciuto anche il male che si erano fatti e la paura – il terrore – che se ne infliggessero ancora, che lo infliggessero alla loro bambina.
Ma se non ci avesse provato per paura di ciò che sarebbe potuto – non – accadere, ci sarebbero state differenze tra il suo agire e quello del Gold di un tempo? Cosa l’avrebbe distinta da lui e dalla sfiducia che alimentava i suoi occhi da lupo?
A un certo punto della notte si era posata la mano sul petto, imponendosi di placare il cuore che le batteva selvaggio. Baciandolo, aveva avvertito una fitta al ventre – e non era stata paura, non era stato terrore, non era stato rimpianto, ma desiderio.
Quando gli aveva risposto di non poterlo ancora seguire, Robert l’aveva guardata con l’espressione impotente di un capitano che vede il proprio vascello affondare: non deluso, non arrabbiato né ferito, quanto piuttosto rassegnato. Mesto – come se sin dal principio avesse saputo che anche quella volta sarebbe andata così, come se in fondo non volesse aspettarsi nulla di diverso e anzi, il semplice averla vista, aver condiviso lo stesso ossigeno e averla potuta toccare ancora fosse stato il dono più grande. Non era la prima volta che la guardava in quel modo, come se non sapesse cosa fare o cosa dire, e volesse solo restare con lei; e quella volta aveva fatto bene, ma aveva fatto anche male, molto male. Perché le aveva rammentato il suo fallimento, il suo non essere stata capace di esorcizzare i demoni, di riempire la sua solitudine.
E l’illusione di esserci riuscita.
Le notti che trascorrevano stretti in un abbraccio antico quanto il mondo, quando lei credeva di essere riuscita a curarlo con tutta la forza che possedeva.
Era stata così giovane Belle, così giovane e ingenua: non sapeva ancora che l’unica medicina si trova all’interno di se stessi. Che lei poteva aiutarlo, non salvarlo; sostenerlo, combattere con lui, non per lui.
Se avesse accettato di andare con lui sarebbe stata la fine. Forse per Robert era più semplice ricominciare dal giorno in cui si erano separati, provare a dimenticare il passato chiedendole scusa nei modi cui era solito ricorrere in casi simili.
Belle, ma lo credi davvero?
I pensieri finivano sempre per sbattere contro di lui.
La violenza delle sue incertezze, il suo viziarla con attenzioni che mascheravano paure segrete.
Ma i timori alla fine avevano trovato la strada per attanagliarli e vincerli.
La ferita non sarebbe diventata cicatrice con un bacio.
Era convinta di ricordare ogni particolare, ogni lineamento e ogni ruga, il dubbio o la sorpresa che gli increspavano la fronte e il tono sardonico con cui motteggiava tanto spesso il prossimo; ma non ricordava di aver dimenticato altro, molto altro.
I movimenti delle sue mani, ad esempio, i gesti fluidi con cui agitava incessante le dita per rimarcare concetti ed eventi – le stesse dita che, se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire viaggiare per il suo corpo.
Il modo in cui arricciava le labbra quando qualcosa non incontrava la sua approvazione, in cui aggrottava le sopracciglia permettendosi di mostrare le sue emozioni a lei e lei sola.
Il modo in cui sorrideva.
Le piacevano i suoi sorrisi.
Anche quelli tristi, quelli che avrebbe voluto cancellare e che ora parevano dominarlo persino più che in passato.
Ecco: aveva dimenticato i suoi sorrisi. Quelli che le occupavano la mente erano solo pallide imitazioni, somiglianti all’originale quanto il sole somiglia a una candela: non contenevano alcuna delle mille sensazioni che sapevano trasmetterle, rapirla e avvincerla ogni volta.
Quando Helena aveva protestato, aveva serrato la mascella e in quel gesto c’era lui. Non se n’era mai accorta, e la realizzazione improvvisa le aveva mozzato il fiato persino più la vista di quegli occhi gemelli puntati su di lei. Era naturale che la bambina somigliasse al padre, non c’era ragione di stupirsene – quando era neonata, lei stessa aveva trascorso ore a cogliere somiglianze e differenze; il problema era che non si era mai resa conto fino a quel punto di quanto Helena fosse anche lui. Di come fossero tessere di un puzzle finalmente tornato a unità, di quanto fosse stata ingiusta la separazione che il destino aveva riservato loro.
Sarebbero potuti essere famiglia.
Belle sospirò. Le fantasticherie non le erano di alcun aiuto; avrebbe fatto meglio a cacciare in un angolo la tristezza e andar di sopra dalla figlia. Era solita svegliarla dopo le otto, quando di solito c’era un primo momento di calma al pianterreno; proprio come non voleva mai andare a letto, allo stesso modo poi la piccina strepitava per non abbandonare il caldo abbraccio della coperta, rotolandosi sulla branda al grido – o meglio, in tal contesto al fioco sussurro – di un “Nooo! Ancora un poco, un pochino!” diametralmente opposto a quello serale.
La donna dubitava che la scena si sarebbe ripetuta quella mattina: vista la cena impegnativa, aveva deciso di esaudire le suppliche quotidiane prima ancora che venissero perorate e di far riposare la figlioletta un po’ di più. Le altre volte in cui era salita da lei più tardi del solito l’aveva sorpresa a gironzolare, silenziosa come un topolino in una dispensa, a piedi scalzi e con indosso ben poco, rischiando di buscarsi un raffreddore; e una mattina l’aveva sorpresa nel bel mezzo di un comico tentativo di vestirsi da sola che l’aveva portata a indossare gli abiti al rovescio.
Ma quel giorno le cose andarono diversamente: nello scostare la porta della camera, Belle si trovò davanti l’immagine di Helena che, seduta sul letto, giocherellava cheta col suo nuovo pupazzo.
- Buongiorno! – la salutò allegra – Già sveglie oggi?
- Sì! – esclamò la bimba – Però non voglio alzarmi. Fa freddo!
- Fa freddo solo perché non sei sotto la coperta e hai le braccia tutte nude, birbante! Ma ora che ti vesti andrà meglio, vedrai.
Mentre osservava la madre raccogliere l’occorrente, Helena si strinse le gambe nella camicina da notte e appoggiò il mento alle ginocchia, il regalo del signore che era il suo papà poco distante da lei.
Alla fine le sue preoccupazioni erano state inutili: Grace aveva ragione quando parlava del suo papà, di quanto le volesse bene e di quanto le mancasse, e ora capiva come mai l’amica fosse tanto felice quando l’uomo andava a trovarla. Malgrado il discorso di mamma, lei all’inizio non era stata brava e coraggiosa come promesso: ritrovandoselo davanti e sapendo chi fosse davvero, aveva avuto paura e per un momento aveva pensato di dire che non voleva proprio vederlo. Era sicura che, se gliel’avesse confidato, la mamma l’avrebbe capita e non l’avrebbe sgridata, pure se se lo meritava. Però il signore non era rimasto male per la sua cattiveria, anzi: le aveva pure regalato Baelfire senza far più cenno al saluto che non gli aveva dato.
Anche il papà di Grace aveva regalato alla figlia un pupazzo, un coniglio che qualche volta Helena aveva invidiato all’amichetta; però ora lei aveva il suo peluche, mille volte più bello di quello là – che a dire il vero aveva le orecchie flosce ed era diventato tutto grigiastro perché la proprietaria se lo trascinava dietro dappertutto. Anche se non era nero, il suo gatto aveva il pelo morbido morbido di un colore che pareva giallino però era più bello, aveva gli occhietti lucidi e verdissimi e portava pure un campanellino al collo. No, non c’era proprio paragone!
E poi, aveva riflettuto, se anche fosse stato brutto sarebbe stato pur sempre un giocattolo; e – anche se la mamma le spiegava che era fortunata perché attorno a loro tanti bambini non avevano di che mangiare e vestirsi, figurarsi di che divertirsi, anche se a lei dispiaceva per i poveretti – a Helena non sembrava poi di possedere molti balocchi, e certo non ne avrebbe rifiutato di nuovi.
Chissà se suo papà gliene avrebbe portato un altro quando si fossero rivisti.
- Mamma, – ne richiamò l’attenzione – Quando viene di nuovo il signore che è mio papà?
Belle si bloccò.
Conoscendo la figlia, avrebbe dovuto aspettarsi presto un interrogativo simile. Si era ammonita durante le elucubrazioni notturne e aveva provato a rinvenire una risposta che risultasse al contempo sincera e rassicurante; ma trovarsi sul punto di darla era tutto un altro paio di maniche.
- Tornerò la settimana prossima, – l’aveva salutata Robert, posandole le labbra all’interno del polso – E ci rivedremo.
Era un semplice dato di fatto, un’affermazione che avrebbe presto trovato conferma; non c’era nulla da temere.
Nulla.
Non doveva pensare alla volta in cui era partito e il suo ritorno aveva portato la fine.
- È fuori città per lavoro, ma sarà di nuovo qui tra pochi giorni. Pochissimi giorni, – s’impose di far suonare la voce quanto più sicura e allegra possibile, ma qualcosa non funzionò: l’ombra che attraversò il volto della figlia ne fu prova.
- Ah, – commentò guardinga la piccola, storcendo appena la bocca – Sta facendo un viaggio, proprio come nella storia, quando dovevo nascere io. Ma non è che poi torna di nuovo dopo tanto tempo?
Era stata lei a trasmetterle quella paura, al tempo in cui erano state una? Gliel’aveva passata col sangue o infusa con gli atteggiamenti, coi gesti pavidi che aveva provato a nasconderle e che pure ella aveva dovuto intuire? Il potere di leggere il prossimo, di interpretare e capire raramente è sinonimo di felicità. Belle se n’era resa conto in svariate occasioni, ma solo in quel momento, dinanzi alla figlia che scopriva temere le novità perché in perenne divenire e quindi sempre incerte, sempre pericolose, ne ebbe conferma.
- No, – asserì seria – Tornerà molto prima, la prossima settimana. Vuol dire che tra sette giorni verrà a trovarci di nuovo, se tu lo vorrai, se… Se ieri è piaciuto.
- Non si è arrabbiato perché non gli parlavo e mi ha dato Bae. Mi fa ridere ed è bravo. Mi diverte… Anche se parla strano, – Helena terminò il resoconto con una risatina cui fece eco una Belle immensamente grata per la rapidità con cui i demoni avevano allentato la loro presa.
- Guarda che potrebbe dire lo stesso anche di te, – rimarcò con un occhiolino spazzolandole i capelli – Comunque, parla strano perché vive a Londra da tanto, ma non è nato qui. Viene da un posto lontano lontano che si chiama Scozia.
- Lontano quanto la Norvegia?
- No, lontano, ma un po’ più vicino della Norvegia. Non c’è bisogno di attraversare il mare per raggiungerlo.
- E com’è questo posto?
Esitò appena prima di rispondere.
- Bello. Ci sono molti castelli, laghi e montagne, ed è tutto molto verde…
Helena si voltò e la fissò di sottecchi per un istante prima di chiedere: – Ma te ci sei mai stata?
Tale padre, tale figlia.
Non ti si può nascondere niente, eh?
Belle fu costretta a scuotere il capo.
- Tu. Purtroppo no. Anche se mi sarebbe piaciuto.
“- Ti piacerebbe sposarti in Scozia?
- Dove, a Gretna? Ho più di ventun anni, sta’ tranquillo!
- Intendevo più a nord. A Glasgow, per la precisione. Vorrei mostrarti dove sono nato, dov’è iniziato tutto… Vorrei farti conoscere Neal.”
Sì, le sarebbe piaciuto lasciarsi tutto alle spalle una mattina di febbraio, condividere la carrozza con un solo altro passeggero e partire verso un futuro che sembrava colmo di luminose promesse. Chissà cosa sarebbe successo se fossero riusciti a sfidare fino in fondo chiunque intendesse dividerli… Non aveva elementi per sostenerlo con certezza, ma Belle sapeva che, se fossero partiti, il loro sarebbe stato un viaggio di sola andata. Non sarebbero più tornati indietro, specialmente lui: quando gli affari avessero imposto la sua presenza altrove sarebbe partito col corpo, ma col cuore sarebbe rimasto lì dov’era la figlia che avrebbe visto crescere passo dopo passo e il figlio cui aveva dovuto dire addio troppo presto.
Lì dove sarebbe stata lei, dove l’avrebbe amato e costruito giorno dopo giorno la loro storia; perché lui e il suo lato migliore sarebbero sempre stati qualcosa che valeva la pena trovare.
Ma quelle erano cose che Helena non doveva sapere.
- Magari poi ci vai, – la piccina sfuggì alla presa e uscì allegra dalla stanza, subito raggiunta dalla madre che si concesse mezzo sorriso.
Amore mio, non immagini cosa mi stai davvero augurando.
- Chissà. Magari un giorno succederà davvero. Ma se sarà, – si chinò per darle un bacio – Ci andremo insieme. O staremo insieme, o niente. E tanto per cominciare, se a pomeriggio non piove… – si bloccò in una pausa ben studiata, finalizzata apposta per tenerla giocosamente sulle spine – …andremo da Tink! Che ne pensi, ti va?
- Sììì! – la bimba le saltò al collo prima di scendere le scale, e Belle la portò in cucina da Granny per riprendere a lavorare.
- È appena entrato un gruppetto, te ne occupi tu? – le chiese Ruby, appena rientrata dalla sala con un pesante vassoio.
Belle annuì e aggirò il bancone, dirigendosi verso gli ultimi arrivati.
Arrivata a pochi passi da loro, si bloccò.
Arretrò d’impeto, fissando incredula quei quattro volti su cui era scolpito tutto lo stupore del mondo.
Mormorò solo un flebile: – Voi… – prima di portarsi le mani alla bocca, lacrime d’emozione che già premevano per essere libere.
Quando Mary Margaret si gettò ad abbracciarla non ci fu più bisogno di trattenerle.
 
 
 

Oh, the truth hurts,
a lie is worse,
I can’t like it anymore.

 
 
 
Degli istanti immediatamente seguenti, in futuro Belle non avrebbe ricordato poi molto. All’improvviso tutto diventò confuso, come un insieme di stelle che non riusciva a far convergere in costellazioni 2: c’era Mary Margaret che la stringeva al petto singhiozzando, c’era Ashley che rideva e piangeva a un tempo, Killian la sollevava da terra esultando ed Emma – la fredda, scontrosa, burbera Emma – le regalava il suo sorriso più bello, quello che solo pochi avevano l’onore e l’onere di conoscere.
All’improvviso, come apparsi dal nulla, erano tornati i suoi migliori amici, le persone con cui aveva condiviso casa, lavoro, segreti, liti e feste; coloro che erano subito andati oltre le naturali e reciproche diffidenze, le avevano voluto bene e fatta sentire parte del gruppo sin dal primo momento assieme e che ora, ora, erano di nuovo attorno a lei, in un carosello di volti e carezze che la facevano sentire amata.
Protetta.
Al sicuro.
La sua personale, indimenticata rete contro le cadute.
- L’avevamo detto, l’avevamo detto che eri davvero tu! – udì Emma gongolare mentre tutti, Belle compresa, prendevano posto al tavolino.
- Sono io, – confermò commossa – Io, proprio io. È passato così tanto tempo…
- Ti credevamo morta, morta! Per tutti questi anni abbiamo pensato che non ci fossi più, e invece… – la voce di Mary s’incrinò mentre le stringeva le mani con più forza – Perdonaci. Non sapevamo nulla.
- Va tutto bene, Mary, davvero, non avete di che scusarvi, – la giovane provò a consolarla, ottenendo come unico risultato lacrime ancora più copiose – Lo so. Non eravate gli unici a pensarlo, anche… – stava per dire Robert, ma almeno per il momento decise di tacere e di concentrarsi sul presente – Non fa nulla, credetemi. Piuttosto, ditemi, come state? Come siete capitati qui, come mi avete trovata?
- No, love. Come stai tu, ecco cos’è importante, – Killian contrasse la mascella, gli occhi chiari che tradivano una profonda inquietudine – Cosa fai qui e come ci sei finita? Questo è davvero un pub, o… – le si avvicinò, quasi come se volesse farsi udire solo da lei – A noi puoi dirlo, sai che non ti giudicheremo. Ti aiuteremo a venirne fuori, bloody hell!
Intuendo l’equivoco, la ragazza scosse il capo.
- È una taverna come mille altre, anzi, più tranquilla di quanto possa sembrare, – memore dei loro trascorsi, occhieggiò rapida verso le Nolan – Non è come pensate, vi assicuro che non è questo il caso. L’altra dipendente è la nipote della proprietaria e credetemi, potrà anche esserci confusione, ma il decoro è garantito, – la compagnia si rilassò di colpo. La Boyle non trattenne un sospiro di sollievo – Lavorate ancora tutti assieme?
- Io non lavoro più, – esordì la stessa Ashley – E puoi immaginare il perché… Io e Sean ci siamo sposati, alla fine. Abbiamo avuto una bambina, Alexandra, e sei mesi fa un maschietto, Thomas. Adesso sono col papà.
- Ed entrambi sono persino più biondi della loro mamma! – scherzò Emma, facendo ridere tutti.
Belle si emozionò per l’ex collega: era contenta che avesse ottenuto il lieto fine tanto agognato. Ashley e Sean si amavano molto e la loro relazione, sebbene clandestina, durava da tempo quando Belle aveva iniziato a lavorare per Gold: un matrimonio e due figlioletti parevano la conclusione ideale. Alexandra sarebbe dovuta essere solo pochi mesi maggiore di Helena, praticamente coetanea: sarebbe stato bello farle incontrare. Chissà, magari anche loro sarebbero diventate amiche.
- Un giorno mi piacerebbe conoscerli. E rivedere Sean, ovviamente. Si occupa sempre di cavalli?
- Sì, e a volte anche di carrozze, – la bionda si guardò bene dal precisare per chi continuasse a lavorare il marito. Non voleva essere lei a riaprire le ferite dell’amica, malgrado sapesse che presto o tardi una frase di troppo, un gesto apparentemente innocuo sarebbe stato sufficiente a riportare alla luce quel nome maledetto.
Nel precedente lustro le Nolan avevano servito i conti di Grantham sia nella loro tenuta nello Yorkshire sia nella capitale 3, mentre Killian aveva momentaneamente dismesso i panni del valletto per realizzare il suo grande sogno di viaggiare per mare. Nel descrivere nei minimi dettagli la vita marinara corredandola di aneddoti ancora incrostati di salsedine, una luce nostalgica gli illuminò lo sguardo; e Belle pensò che il Killian Jones che conosceva era narciso e allegro, sarcastico e romantico, astuto e a suo modo bonario, ma mai, mai era stato così felice. Come se le avventure sull’oceano gli avessero acceso un fuoco in grado di animarlo nel profondo. Non scherzava, l’uomo, quando minacciava di mollare tutto e tutti e imbarcarsi: forse solo col rollio di una nave la sua indole raminga poteva assaggiare la serenità che la terraferma gli negava. Ma allora, perché era tornato?
Il motivo, constatò Belle, era uno e uno solo, chiaro come i capelli della ragazza cui il valletto che era stato marinaio dedicava ancora ogni sguardo.
Fu così la volta delle vicende degli assenti Archie, Aurora e Kathryn, e dei pettegolezzi: questione che Mary liquidò con uno scandalizzato: – Ma ho una certa età, ormai, e sono una donna sposata!; cui Emma grugnì vaga – non avrebbe potuto fare altrimenti in presenza della madre, si disse Belle sperando tuttavia che il tempo non intaccasse la complicità tra lei ed Helena –, e cui Jones commentò con un: – Le indiane mi avrebbero rubato il cuore… Se non l’avessi già donato a un’altra! – che senza dubbio gli sarebbe presto costato un fervorino micidiale.
Non erano cambiati. Sì, magari i corpi portavano nuovi segni, i capelli di Killian erano più corti e Mary ingrassata, ma erano inezie rispetto alla realtà più autentica, quella che non si può vedere, ma solo sentire; e dentro, loro erano sempre gli stessi. Era il gruppo la cui amicizia, nonostante la lontananza, aveva ancora il fulgore di un diamante; il gruppo cui pure mancava un elemento.
Come sarebbe stata la sua vita, se le fosse stata data la possibilità di viverla?
- Alle volte sono andata a far visita ad Ariel, – osservò, pentendosi di aver immalinconito l’atmosfera.
- Anche noi, da quando siamo tornate. Ashley si occupa della sua tomba, ma con due bambini piccoli non è sempre facile… – l’interpellata annuì a conferma di quanto appena detto da Emma.
- No, non era un rimprovero! – Belle si corresse subito – Era solo una riflessione su quanto sarebbe bello averla ancora con noi…
Sul tavolo cadde un silenzio greve. Un silenzio pesante come una spessa coltre, carico di quei ricordi che ci si limita a portar dentro senza mai esporli al mondo; e non perché ci si senta deboli, perché si tema di mostrare al prossimo le proprie fragilità, ma perché certi fardelli, certi frammenti sono troppo privati per esibirli al mondo. Perché tutti hanno vissuto esperienze simili, ma non tutti sono in grado di accettarle; e per non sporcare quelle memorie, per proteggerle dal mondo, si decide di nasconderle, di custodirle nell’angolo più recondito di sé.
- Belle… Tu come stai? – fu Mary a chiederglielo, guardandola con dolcezza materna.
La donna si strinse nelle spalle. Qualunque cosa avesse risposto non sarebbe stata del tutto onesta, ma non per il motivo sospettato dagli interlocutori: erano rimasti fermi a cinque anni prima, e nel frattempo tutto si era rivoluzionato. Come metterli a parte della verità senza sconvolgerli? Che faccia avrebbero fatto scoprendo di Helena?
Se non altro, a questa domanda avrò presto risposta.
Non ha senso omettere ciò che comunque si verrà a sapere.
- Bene, – affermò pacata – Certo, il modo in cui sono finita qui è stato, come dire… rocambolesco. Ormai non h senso negare la natura del mio rapporto con Gold, – sussultarono udendo il cognome, quasi non si capacitassero di averlo davvero udito lasciare le sue labbra. Belle, che pure aveva previsto la reazione, sorrise – È solo un nome, non muoio pronunciandolo. Non sto invocando qualche malvagio signore oscuro o demone.
- Temevano non volessi nemmeno sentirne parlare dopo tutto ciò che ha combinato.
-  Lo sospettavo, – socchiuse appena gli occhi, per poi riprendere subito a parlare – Ma ho retto a cose ben peggiori che sentire il suo nome.
Omise ben poco: raccontò di Cora, dell’anello e del furto di Regina, scoprendo che già conoscevano alcuni aspetti della vicenda; parlò della fuga, dell’inseguimento e del salvataggio da parte di Ruby, del lavoro nella locanda e dei suoi nuovi amici; descrisse la nuova vita che pian piano aveva costruito, fino a giungere alla novità senza dubbio più importante.
Prese un profondo respiro prima di annunciarla; ma non fece in tempo ad aprire bocca che fu preceduta da una vocetta ben nota che la chiamava.
- Maaa’! Dice Granny se ti sei persa!  
- Dille che arrivo tra un minuto! – urlò di tutta risposta prima di voltarsi ed essere raggiunta da un piccolo ciclone dai capelli già scompigliati che le si arrampicò in grembo – E poi c’è lei, – Belle si lasciò gettare le braccia al collo mentre la presentava allo sbigottito gruppo – Helena Ariel. Mia figlia.
Non ci furono subito commenti, né d’altronde li aspettava. Aveva appena dato un’informazione scioccante, che richiedeva tempo per essere assimilata: il silenzio era la reazione più naturale. Mary, Emma e Killian si scambiarono un’occhiata basita; Ashley, al contrario, parve incassare meglio il colpo: si riprese per prima ed esclamò: – Ma che bel nome! Quanti anni hai, angioletto?
- Quattro! Così! – senza mostrar timidezza, la piccola indicò il numero con le dita di una mano – E tu?
- Qualcuno in più, purtroppo… Tanti che le dita di due mani non bastano a mostrarli!
- Non avevi detto di esserti sposata! – Mary sorrise meravigliata a Belle – Chi è il fortunato?
- Infatti non mi sono sposata. Sono sempre la vostra vecchia miss French, nubile ora come allora. Un’arzilla zitella, ormai.
Neanche stavolta si udirono osservazioni. Il gruppo distolse lo sguardo per un istante, come se non sapesse come comportarsi; e Belle quasi poté vedere le supposizioni che tutti stavano escogitando, le possibilità e i pensieri che si susseguivano. La stavano compatendo? Criticavano il suo stato e la sua rovina, gli errori che l’integerrima collega dei loro ricordi aveva evidentemente compiuto e che l’avevano fatta unire alle file delle donne perdute?
Non vi fu il tempo per riflettere: ad Ashley, che non aveva mai smesso di chiacchierare con la bimba, si era aggiunta subito una dolcissima Mary Margaret; e se Emma si manteneva ancora distante da Helena, il sorriso che le aveva rivolto era stato inequivocabile.
Solo Killian, pur tra una battuta e l’altra, continuava a fissare la bambina con attenzione, studiandone i lineamenti come se qualcosa non gli tornasse. Quando ne incontrò gli occhi sobbalzò, un unico pensiero in mente.
- Belle, – avanzò cauto, senza sapere se pregare di star sbagliando o meno – Chi è il padre di Helena?
- Ah, – fece la piccola con un’aria di tale candore che interromperla fu impossibile – Anche tu conosci il mio papà? Io l’ho visto ieri, mi ha portato Bae e una torta buonissimissima! Parla strano perché la mamma ha detto che è nato da una parte tutta verde che si chiama Scozia, però è gentile, e la mamma ha detto che torna tra una settinana, cioè sette giorni, e...
…E menomale che era un segreto.
- Va bene, Helena, credo proprio che Killian abbia capito, – Belle corse ai ripari e la rimise per terra – Ora mi fai un favore? Vai a dire a Granny che tra un secondo sono da lei?
- Però poi posso tornare?
- Certo. Ora va’, però.
E alla fine, si disse la donna, la verità si era imposta nel modo più immediato e indiscutibile: era emersa direttamente dalla bocca della persona più innocente coinvolta nella vicenda.
Allontanarla era la scelta più sensata, dal momento che Dio solo sapeva cosa sarebbe emerso dal prosieguo della conversazione.
Nulla di buono, insinuò una vocina maligna alludendo alle espressioni sgomente e sconvolte di chi le sedeva a fianco.
No. Sono miei amici, la zittì con foga. Se l’era ripetuto fino ad allora, e presto ne avrebbe avuto la dimostrazione: avrebbero capito. Avrebbero accettato. O almeno, si sarebbero sforzati di farlo: non si era mai vergognata di avere avuto una figlia senza essere sposata, e non avrebbe certo iniziato a causa loro.
Helena non peggiorava le cose, le migliorava.
- Non c’è molto da aggiungere, in realtà, – sospirò guardandoli uno a uno – Helena ha detto tutto.
Non ricevette risposta per lunghi, lunghissimi minuti.
Fu Mary Margaret, infine, a rompere il silenzio.
- Belle… Mi porteresti la cosa più forte che avete qui?
 
 
 
“It’s like chasing the very last train
when it’s too late.”
 
 
 
- E quindi Belle sta bene e ha avuto una bambina, – Kathryn rise sollevata – Dobbiamo assolutamente organizzarci per andare a trovarla.
- Certo, love, – Killian le fece l’occhiolino, ma rimase serio – Io sono ancora sconvolto dal modo in cui il Coccodrillo si è comportato con Belle. E per la questione della ragazzina... Dite che quando il gran bastardo tornerà stapperà una bottiglia con noi?
- Effettivamente come dovremmo comportarci? Fargli capire che sappiamo o far finta di nulla?
- Direi la seconda, conoscendolo. A meno che tu non voglia farti cacciare per essere andata a zonzo durante la sua assenza, – Emma rispose alla collega.
- Voi fate come volete, – il valletto si stiracchiò e spense la sigaretta – Conoscendo me stesso, dubito che resisterò alla tentazione. Andrò a congratularmi e poi gli tirerò un cazzotto da parte di Belle. E gli faro presente che può essersi addolorato a volontà quando la credeva morta, ma un uomo che non lotta per ciò che vuole merita ciò che ottiene.
La conversazione fu interrotta dal precipitoso arrivo di Aurora. Trafelata e pallida in volto, la giovane pareva aver fronteggiato una legione di fantasmi, ma quando indicò Killian e aprì bocca la sua voce risuonò dura e chiara.
- Lady Mills è di sopra. E vuole vedere te.
 
 
 
Alla richiesta di un ospite non si può che dar corso, anche se non si ha la benché minima idea di cosa desideri; tanto più se l’ospite è un soggetto di simile peso.
Nei suoi anni a Kensington Killian non aveva mai direttamente interagito con la Mills: sapeva chi fosse, ne conosceva le follie e la crudeltà, confermate quello stesso giorno da Belle, ma per fortuna non aveva mai avuto a che fare con lei né nel bene né nel male. La convocazione improvvisa, giunta proprio allora, non lasciava presagire nulla di buono; e, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovarne una ragione.
Malgrado le occhiate dei colleghi, Emma in primis, era uscito dalle cucine a testa alta ed era salito al piano superiore, dove lo attendevano uno sconcertato Archie – liquidato subito con non più di mezza parola – e un’algidissima Contessa.
Nel momento in cui rimase solo con lei, l’uomo ebbe la stranissima sensazione di essere appena stato coinvolto in una battaglia cui avrebbe preferito rimanere estraneo.
- Oh, Jones, – la donna lo salutò melliflua, insospettendolo ancora di più – Non ci vediamo da molto tempo. Come stai?
Perché, ci siamo mai visti prima?
- Molto bene, Milady. Vi ringrazio.
- E come va il lavoro? – incalzò, incurante del tono distaccato e formale dell’interlocutore – Il nostro Robert è uno strazio come al solito? Si sa che con l’età gli uomini diventano irritabili… Su, a me puoi confidarlo, – continuò gaia – Tra i dipendenti le voci circolano, e so di essere spesso e volentieri descritta in modo impietoso, ma ti assicuro che la realtà è ben diversa. So essere molto, molto riconoscente verso chi mi sta simpatico, e lo sarò verso di te, se mi aiuterai con un piccolo dubbio che mi affligge da qualche giorno a questa parte. Un tempo, certo lo ricorderai, – il tono era talmente gaio e spontaneo che fu quasi impossibile non unirsi al suo sorriso malizioso – Questa era la mia seconda casa, e tuttora ne ho nostalgia. Ho nostalgia anche di voi dipendenti, e credimi, non abbiamo parlato spesso, ma tra i tanti tu eri certamente quello che più mi pareva fidato.
- Vi ringrazio, – Killian chinò il capo più per abitudine che in segno di autentico rispetto. Aveva deciso di apparire impeccabile, perfetto: nessuno avrebbe potuto muovere delle rimostranze nei suoi confronti, neanche Cora, qualunque ne fossero i fini – Il lavoro procede bene. Mr Gold è esigente, ma è giusto che lo sia, – far sviolinate al Coccodrillo anche in sua assenza, ci avresti mai creduto se te l’avessero detto? – Non ho di che lamentarmi.
- Anche se sei lontano dalla Jolly Roger?
Trasalì come se si fosse scottato. Si pentì subito della reazione e di aver rivelato uno dei suoi punti deboli a una probabile nemica; ma come trattenersi udendo il nome che aveva deciso di rimuovere dalla sua esistenza?
- Come…?
- Come faccio a saperlo, caro? – se possibile, sulle labbra della donna il vezzeggiativo suonava persino più untuoso di quando era Gold a pronunciarlo – Le voci girano anche tra i padroni. Non riesco a immaginarti con una divisa indosso, ma mai fermarsi alla prima impressione, dico bene? E penso potremo avere anche una seconda, una terza e perché no, una centesima impressione, se tornassi a bordo della tua adorata nave…
Jones non riusciva a seguire il discorso.
- Mi sono licenziato dalla compagnia navale,si limitò a ricordare, dissimulando qualsiasi emozione.
- Una scelta che, a essere onesta, trovo irragionevole. Sarei indiscrete se te ne chiedessi le ragioni?
Non ti lascerò coinvolgere Emma nel tuo gioco, strega.
- Mr Gold era tornato a Londra.
Cora annuì comprensiva.
- Robert è fortunato ad avere dipendenti tanto solerti, pronti a rinunciare al comando di una nave per tornare ad assisterlo…
L’uomo sbattè le palpebre.
- A bordo ero un semplice marinaio. Comandavo ben poco.
- Dici bene, comandavi. Perché, conoscendo l’armatore, sarebbe davvero semplice farti riassumere e attribuirti un ruolo ben più rilevante… il valletto deglutì imponendosi calma. La possibilità di tornare sul mare gli aveva già accelerato il battito cardiaco – Chiaramente, per citare un nostro comune amico, ogni cosa ha un prezzo, ma non temere: come ti ho anticipato, basterà che tu faccia chiarezza su una piccola questione. Una cosa da niente,  si leccò le labra, come un lupo che pregusta la prima lepre di primavera Dov’è Belle French?
In fondo, si sarebbe in seguito rimproverato Killian Jones, avrebbe dovuto saperlo. La coincidenza era troppo sospetta per non risaltare, e quanto raccontatogli da Belle avrebbe dovuto far scattare in lui un campanello d’allarme molto più imperante.
- Belle French, Milady?
- Esattamente, caro. Bassina, mora, occhi celesti… Serviva qui alcuni anni or sono. Ricordarla non dovrebbe essere un’attività estenuante.
- Belle French, Milady, non c’è.
Non si ha idea di quanto sia facile cadere nell’oscurità fino al momento in cui non si gioca sull’orlo del precipizio.
- Questo lo vedo da me, Jones, sta’ calma, Cora, le emozioni sono una debolezza e mostrarle ora sarebbe la fine – Infatti ti ho chiesto dove è. Non se è qui.
La possibilità che si dipanava davanti ai suoi occhi era così labile e al contempo così concreta.
Sarebbe bastato allungare una mano per afferrarla…
- Intendo dire che Belle French è morta.
Non l’avrebbe fatto per il Coccodrillo, figurarsi. Lui non meritava la sua pietà – non meritava la pietà di nessuno, non ne era degno. Ed era triste ammetterlo, ma non l’avrebbe fatto neanche per Belle: perché per quanto fossero amici, per quanto avesse gioito nello scoprirla viva e in salute e per quanto potesse essere tenera la sua bambina, se fosse esistita una rigida bipartizione tra buoni e cattivi probabilmente Killian non sarebbe rientrato tra gli eroi senza macchia e senza paura, pronti a sacrificare se stessi in nome di ciò che era buono e giusto.
Nella realtà Killian Jones ingrossava le fila già affollata di quanti nella vita perseguono come prima cosa il proprio benessere, e solo in un secondo momento ed eventualmente quello altrui.
Chiamarli egoisti o più semplicemente realisti è questione di mera onestà intellettuale.
Killian rimproverava Gold per essere stato codardo e non aver lottato per la persona che pure amava; ebbene, non ne avrebbe imitato gli errori.
- Morta?
- Sì, Milady. Dopo il licenziamento Belle French ha dovuto affrontare delle tristi esperienze. Il dolore e la miseria, purtroppo, l’hanno indotta a un gesto estremo.
Se Killian l’aveva fatto, se aveva ripetuto la menzogna, era stato per Emma.
Per la gioia che le aveva illuminato il volto quando aveva visto confermata ogni sua supposizione.
Per la tenacia con cui era andata avanti fino all’ultimo.
Per il modo in cui, sulla via del ritorno, l’aveva baciato di soppiatto.
Se avesse detto la verità alla Contessa, cosa sarebbe successo? Avrebbero scoperto presto il delatore. I segreti, se oscuri, emergono sempre; e un segreto simile sarebbe venuto alla luce ancor prima, nell’istante in cui Gold non avrebbe trovato Belle ed Helena a Whitechapel, nell’istante in cui lui sarebbe salpato di nuovo.
Nell’istante in cui Emma l’avrebbe guardato negli occhi e il suo potere, come amava definirlo, le avrebbe parlato.
Cora imprecò tra sé e sé. Il dannato ragazzo non collaborava: le stava ripetendo la panzana che lei stessa aveva inventato per umiliare Gold.
- Mi dispiace. Povera piccina, l’avrei rivista volentieri… – un sospiro addolorato prima di riprendere il discorso – Ma non crucciamoci con questi brutti pensieri! Piuttosto, non so se lo sai, la Jolly Roger attraccherà dopodomani, – un fugace balenare di canini tra le labbra – Sarebbe gentile salutare l’equipaggio. Le sue ultime avventure potrebbero farti tornar voglia di viverne di nuove.
- Se durante il mio pomeriggio libero potrò, passerò da loro. Ma sono convinto della scelta fatta.
Aveva sbagliato tutto, la Contessa si rese conto con rabbia. O i suoi informatori avevano confuso persona e Killian Jones non era poi tanto inamorato di quel maledettissimo mercantile – ma stante la sua prima reazione dubitava – o aveva sottovalutato i legami che il suo obiettivo aveva instaurato ed era evidentemente riuscito a mantenere nella casa. Le capacità della French di irretire il prossimo fino a soggiogarlo erano strabilianti. Avrebbe davvero potuto fare strada.
Si alzò dal divano e si diresse verso l’uscita.
Ma la partita è ancora aperta.
- Sai che se Belle French è morta tu non metterai più piede sulla Jolly Roger, vero? – gli fece presente appena prima di lasciare la casa.
Killian si fermò.
- Lo so, Milady. Lo so.
Aveva detto addio al suo grande amore per colei che sapeva essere il suo lieto fine.
Eppure non si pentiva della scelta.
 
 
 

 “Oh, what are we doing?
We are turning into dust
playing house in the ruins of us.

 
 
 
- Ci sei quasi riuscito, – riconobbe la giovane, concedendogli finalmente tregua – Forse tra un anno o due riuscirai a leggere un paragrafo in appena un’ora.
- Sempre più acida, eh?
- Perspicace… Ne sono lieta. Alle volte non sono del tutto sicura tu non sia un po’ imbecille, – smentì le parole con una linguaccia e un’allegra risata che le costò una punizione quanto mai gradita: un bacio.
Se a Daniel Regina piaceva tanto era anche per questo: per il modo in cui rispondeva alle sue provocazioni, o era lei stessa ad accenderle con stoccate taglienti che non risparmiavano niente e nessuno. Era senza dubbio l’influenza della madre, spauracchio della servitù intera; ma ciò che rendeva la Contessa un cerbero, in Regina si mitigava e fondeva con una sorta di sensibilità innata, creando un insieme unico e speciale.
L’insieme che l’aveva colpito già quando l’aveva conosciuta, quando era ancora un uccellino spiumato che gli anni avevano lentamente, quasi inconsapevolmente trasformato in un punto fermo per lui. Già anni prima aveva dato prova di un caratterino grintoso che il tempo non aveva fatto altro che rimarcare; riavendola accanto si era reso conto che, al di là delle blandizie e del rigore che la buona educazione le imponeva, Regina aveva un’ostinazione che sarebbe stato troppo facile giustificare con l’età, che sarebbe rimasta e che, insieme alla forza di cui ancora non aveva piena coscienza, già la rendeva donna.
Daniel sapeva fin troppo bene che se avesse avuto un po’ di buon senso non avrebbe osato tanto: la nobile figlia della padrona, una magnifica Rosa d’Inghilterra destinata a un futuro dorato… e lui. Un ragazzotto senz’arte né parte, a malapena capace di leggere e scrivere, più abituato a trattare con le bestie che con gli umani e che aveva già raggiunto la massima posizione cui avrebbe potuto ambire nella vita.
Già la semplice idea era ridicola, assurda e peggio: pericolosa. Se si fosse scoperto sarebbe finito in guai inimmaginabili di cui il licenziamento in tronco e la piazza pulita attorno a lui sarebbero state solo minima parte.
Eppure Daniel non demordeva. Non sapeva se il suo agire fosse da ricondurre all’immaturità – era uomo da troppo poco tempo per aver perso l’intraprendenza dei ragazzi – o a una forma di coraggio e di masochismo estremo; però accanto a lui Regina rifioriva, e questo era tutto ciò che contava.
Nelle settimane trascorse dal bacio che lei gli aveva scoccato – quando tutto sembrava perduto, quando lo stalliere era arrivato a maledirsi per averle confessato i suoi sentimenti – l’aveva lentamente vista dismettere i panni della ragazzetta impaurita e dimostrare una maggiore energia nell’interagire col prossimo: gli aveva raccontato di come nelle liti con lady Mills avesse finalmente iniziato a rispondere non più col solo scopo di indispettire, e del pomeriggio in cui era andata da Mr Gold a dispetto dell’opinione materna; gesti che, Daniel aveva la presunzione di credere, prima di lui Regina avrebbe compiuto a fatica.
E la felicità della fanciulla che per lui era il mondo valeva bene i pericoli che correva; valeva bene gli incontri rubati, le ore che restavano sempre a metà e i saluti improvvisi e sempre troppo affrettati. Valeva bene star seduti su una biada a leggere il trattato che Miss Mordane le aveva assegnato e allietare a suo modo un’attività tanto noiosa.
Daniel sapeva che in realtà i libri non erano il passatempo prediletto dalla Contessina: la giovane amava troppo la vita attiva per trascorrere di sua sponte ore e ore a sfogliar pagine, ed era troppo realista per concedersi il lusso di perdersi in mondi impossibili. Però sapeva anche che le piaceva studiare, sebbene vivesse il collegio più come una sfida con se stessa che come un’autentica opportunità. Era così convinta di non essere abbastanza da considerare i risultati scolastici come l’unica occasione per smentire l’idea che altri – non era difficile immaginare chi – le avevano inculcato.
Daniel sperava solo che, maturando ancora, Regina  riuscisse a far qualcosa semplicemente per sé.
Perché voleva, non perché doveva farla.
- Sei bella, – il ragazzo le sussurrò all’improvviso.
- Come scusa?
- Hai sentito benissimo. Sei bella.
- E perché me lo dici così?
- Perché non dirtelo così?
- Adulatore, – l’altra sbuffò facendo svolazzare una ciocca scura – Ma ti maltratterò più spesso, se questo è il risultato.
- Non ti sto adulando, – l’uomo si mostrò esageratamente rassegnato e l’attirò a sé – Sono sincero. E tu devi fissartelo bene nella testolina tutta matta che ti ritrovi.
Le arruffò i capelli mentre lei cercava invano di svincolarsi ghignando divertita; ma ben presto tornò seria.
- Dici davvero, Daniel?
- Certo che lo dice davvero, mia cara.
Una frase bastò a far gelare il sangue nelle vene dei due ragazzi.
No, no, no.
Non è possibile.
Si voltarono appena: una ancor più gelida del solito Cora Mills avanzava verso di loro.
- Per convincere un’illusa, Regina cara, ci vuole così poco.
 
 
 

But we’re running
through the fire
when there’s nothing left to say.

 
 
 
Helena significava “sole”.
Quando l’aveva scoperto, Robert Gold non aveva trattenuto un sorriso: Belle non avrebbe potuto scegliere nome più congeniale al frutto del loro amore.
Si era più volte ripromesso di cercarne il significato, ma tra gli affari, la preparazione alla partenza, il pensiero della cena e Belle – Belle che era in fondo a ogni suo gesto, l’ago della bussola senza il quale era stato perduto – l’intenzione gli era sfuggita di mente. Brutto da dirsi, ma tristemente vero.
Se n’era ricordato dagli ospiti: era passato a salutare la padrona di casa, che stava intrattenendo alcune dame nel salottino, e le aveva colte nel bel mezzo di chiacchiere su una baronessa francese di nome Hélène. Non ci aveva pensato più di tanto: si era fermato con loro il tempo necessario per introdurre l’argomento del significato dei nomi, e presto aveva ottenuto la risposta che cercava.
Nessuna aveva prestato attenzione all’interesse con cui Gold aveva condotto la conversazione a proprio vantaggio; nessuna, eccetto la moglie del suo ospite. Ma del resto, cos’altro aspettarsi da Ella Feinberg 4, una delle donne più affascinanti e intuitive avesse mai incontrato?
La conosceva da un decennio abbondante, oramai, da quando aveva sposato Lars Feinberg – o meglio la fortuna che l’uomo aveva fatto fortuna con mezzi non sempre del tutto leciti. La famiglia di Ella era nobile, ma decaduta, e trovandosi sulle soglie del tracollo all’ultima discendente si erano presentate due possibilità: salutare per sempre la vita di pellicce, parure di diamanti e cani di razza cui era abituata o farsi mettere l’anello al dito da qualche buon partito.
Ella, da donna saggia qual era, aveva scelto la seconda opzione.
- Vi siete trovato un’amichetta, Mr Gold? – la donna l’aveva presto canzonato col sarcasmo amaro che la contraddistingueva e che, a suo modo, gliela rendeva gradita.
- Simili illazioni non si confanno a una signora, Dearie, dovreste saperlo.
La nobile gli aveva rivolto un sorrisetto.
- Povera Hélène, chiunque sia.
L’industriale l’aveva ignorata. Se anche avesse dovuto mettersi contro tutti, per sua figlia ne sarebbe valsa la pena. Ingannare una, due, mille altre volte il prossimo per batterlo si poteva fare, certo; deludere Helena no, mai.
Così come un tempo non avrebbe mai voluto deludere Neal.
Era strano: gli mancava il coraggio per permettere al mondo di avvicinarsi a lui, ma quando si trattava dei suoi figli la situazione si ribaltava. Voleva essere diverso. Essere un altro. Essere migliore – il miglior padre che si potesse avere, l’opposto di quello che il Fato aveva assegnato a lui. Perché, per il solo fatto di esser tali, i suoi figli meritavano il meglio.
A Neal non aveva potuto darlo, ma Helena l’avrebbe avuto. Avrebbe offerto tutta la bellezza del mondo a lei e a sua madre. Per loro due avrebbe fatto a pezzi il mondo intero, se se ne fosse presentata la necessità. Le avrebbe riavute con sé: le avrebbe portate via dalla stanza dal camino mezzo otturato in cui viveva tutto ciò cui non sarebbe mai riuscito a sfuggire, la sua colpa, e le avrebbe incoronate regine della sua villa, della sua vita troppo grande e vuota.
Non avrebbero più chinato il capo davanti a nessuno: sono gli altri, sono i sudditi a doversi inchinare dinanzi ai sovrani.
Sarebbe stato lui a inginocchiarsi al loro cospetto, a deporre se stesso e i suoi errori ai loro piedi.
Durante quei giorni trattava e pensava a Belle ed Helena, pensava a Belle ed Helena e trattava; e durante la cena stava facendo lo stesso. Ogni altra attività gli era preclusa: appariva attento e gelidamente cortese come di consueto – Cora aveva pur sempre il merito di essere stata un’ottima insegnante –, ma la sua mente era altrove. Loro lo pensavano? Che idea si era fatta Helena del suo papà? Giocava col pupazzo, le era piaciuto veramente o l’aveva detto solo per non deluderlo? E Belle…
Belle ripensava al bacio, lo sapeva. Poteva quasi vederla, come se l’avesse sotto gli occhi in ogni istante: si dava da fare e si presentava allegra, laboriosa e gentile come al solito, ma c’erano momenti in cui, attorcigliandosi una ciocca attorno a un dito, si bloccava e tornava con la mente alla loro sera, a ciò che era successo e alla risposta che gli aveva dato.
Non era presunzione la sua, ma realtà. Per quanto fossero cambiati, alcune cose restavano immutate nel tempo; e Belle non era persona da dar poco peso ai gesti che compiva.
- Mr Gold ne sarà lieto, nevvero?
Sentendosi citare, tornò alla realtà. Maledizione, l’implacabile mago dei tessuti sorpreso in un momento di distrazione sarebbe passato agli annali, poco ma sicuro.
E destato sospetti.
(Non che di questo importasse più da tanto, a essere sincero. Li aveva in pugno, e non avrebbe esitato a stringere.)
- Mr Gold? Qualche fanciulla dal nome solare vi distrae più del lecito? – Ella non gli concesse tregua – Stavano rivangando le vostre avventure a New York. Pare siate stato avvistato in più di un’occasione in compagnia di mia cugina, Rebecca Zelenyy.
Una statua di marmo sarebbe stata più vitale di Robert Gold.
- La ricordo, – la voce parve risalire dall’Oltretomba, un mormorio cupo che non riuscì a mascherare in alcun modo – Una donna molto… Particolare. Mentirei affermando di conoscerla bene: l’avrò incontrata non più di due o tre volte. Non sapevo fosse vostra cugina, lady Feinberg.
E se l’avessi saputo sarebbe stata una ragione in più per non finirci a letto.
- Mia cugina da parte di madre, sì. Io stessa ero all’oscuro della sua esistenza fino a pochi anni fa. Non starò a ripetervi il mistero che avvolge le sue origini... Sono certo lo conosciate a menadito, – incassò l’insinuazione senza dar prova di coglierla – Sarà qui tra pochissimi giorni. Ha vissuto un brutto periodo, e così ha deciso di cambiare ambiente per un po’. Ho accettato di accoglierla: sono certa che la campagna le farà bene. Sarete contento di poterla salutare, presumo…
Robert Gold bevve un lungo sorso di vino prima di rispondere.
- Certamente. Molto, molto contento.
 
Entro l’indomani avrebbe concluso l’affare.
E sarebbe scappato.
 
 
 

You can’t play on broken strings,
you can’t feel anything
that your heart doesn’t want to feel,
I can’t tell you something that ain’t real.
“Broken strings” - James Morrison ft. Nelly Furtado
 

 
 
1 Newgate è la più antica prigione di Londra – http://en.wikipedia.org/wiki/Newgate_Prison;
2My thoughts are stars I cannot fathom into constellations“Colpa delle stelle” di John “il sadico” Green;
3 I conti di Grantham sono i protagonisti della serie britannica “Downton Abbey”. Se non la conoscete, ve la consiglio: è curatissima, ha un cast stellare ed è molto, molto coinvolgente! ;)
4 Ella è Cruella, naturalmente. Chiamarla così però suonava strano… XD Feinberg è il cognome con cui Rumpel le si rivolge nella 4x12.
 
 
 
N.d.A.: Salve salvino, arcobaleni! ♥
Ecco a voi un nuovo capitolo ricco di eventi: cosa ne pensate? Critiche, osservazioni, consigli? Lo so, non ci sono direttamente i RumBelle e questo è male, ma vi assicuro che nelle prossime settimane sconteremo l’assenza… E con gli interessi. ;) Leggerete – se vorrete, ovviamente!
Sapete che temo sempre l’OOC per tutti, perciò vi prego di segnalarlo, ma nello specifico stavolta lo temo più che mai per Killian. Più o meno sapete che questo personaggio non mi dispiace, ma non apprezzo le “santificazioni retroattive” che pure ho visto: nella serie Hook milita tra i cosiddetti “eroi” ed è migliorato per amore, ma era pur sempre un pirata e secondo me non ce ne si può dimenticare. :) In questa storia cerco di unire il “prima” e il “dopo”, i due aspetti della sua personalità, e proprio per questo nella seconda parte del capitolo ho voluto renderlo combattuto, tentato dalla proposta di Cora e al contempo esitante a causa di Emma –a tal proposito, ho ripreso alcune riflessioni dalla 4x15. Insomma, inutile girarci attorno: temo di essermi contraddetta e di aver combinato un macello, perciò vi prego di darmi il vostro parere anche critico – non mi offendo, anzi, mi aiuterebbe! :)
Non potevo non inserire Cruella, sebbene la sua sia fondamentalmente una comparsata – o almeno credo. Nel migliore stile dello show, ho inventato un’assurda parentela tra lei e la Zelenyy… Spero me la concediate senza bersagliarmi di ortaggi marci! XD
Come s’intuisce, guai all’orizzonte per gli StableQueen: come reagiranno Cora e la coppietta? E soprattutto, qual è ora lo stato dei RumBelle? Per questa e per molte altre belle cose, appuntamento a sabato 18 aprile!
Grazie di vero cuore a chi legge questa fanfiction, a chi la recensisce e/o l’aggiunge alle varie categorie e a chi mi segue sulla pagina Facebook “Euridice’s world”: come farei senza di voi, adorabili creaturine? ♥_♥ E a tutt*, auguri per una Pasqua serena e cioccolatosa e una Pasquetta in allegria! :) :*
Baci baci! ♥
Euridice100

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Capitolo 10
*** IX - I'm your man ***



IX - I’m your man

“If you want a lover 
I'll do anything you ask me to.”



Robert Gold non ricordava di aver mai visto la casa tanto festosa. Malgrado fosse tornato in anticipo e senza preavviso, i dipendenti l’avevano accolto con una serenità tale da non essere scalfita neanche dai suoi dileggi più pungenti, e per un momento l’uomo si era ritrovato a percorrere gli ultimi passi compiuti alla ricerca del gesto causa di quel repentino cambio di rotta.
Come ricordava, non ne trovò alcuno. Come mai all’improvviso non lo temevano più? Gli era sovvenuta l’idea che sapessero di Belle. Ma come avevano fatto? Non voleva che i servi bazzicassero i quartieri bassi, e se li avesse scoperti li avrebbe licenziati in tronco. Il sospetto che avessero sempre mantenuto i contatti con la donna e che la stessa avesse taciuto in proposito lo aveva sfiorato, prima di essere brutalmente respinto: dei subalterni poteva anche non fidarsi, di Belle doveva
Forse la sua era paranoia, e la ragione del buonumore nulla aveva a che fare con lui: magari qualcuno aveva ricevuto una buona notizia e l’aveva condivisa con gli altri, semplice; tuttavia, non riusciva a nascondere l’irritazione procuratagli dal sentirsi all’oscuro di qualcosa in un luogo che per lui non avrebbe dovuto avere segreti. Dopo la notizia ricevuta, aveva accumulato abbastanza frustrazione da voler rendere a calci qualsiasi cosa gli fosse capitata a tiro; e invece, si ritrovava a fronteggiare incapaci che parevano beffarlo coi loro sorrisi.
Ma l’incapace che più di tutti lo insospettiva era sempre e solo lui.
Da quando lo conosceva, in più di un’occasione Gold aveva carezzato la fantasia di alzarsi e andare a spaccare la faccia di Killian Jones, ma quel giorno l’idea era molto, molto più tentatrice del solito: all’industriale non piaceva, non piaceva affatto il modo in cui il valletto lo guardava, come se si stesse trattenendo a fatica dallo sputargli in un occhio. Gli comunicava piuttosto l’idea che il valletto sapesse ogni cosa, se non anzi più cose di lui; e soprattutto, che si beasse delle complicazioni in cui la sua vita amava indulgere.
Ma Robert Gold non poteva permettersi di farsi dominare dall’astio.
Non ora.
Aveva il dovere – fisico, morale, psicologico – di tranquillizzarsi e mettere da parte l’agitazione, l’unica nemica che avrebbe potuto tradirlo.
Rebecca Zelenyy stava raggiungendo la cugina in Gran Bretagna. Buon per lei: si sarebbe goduta la piovosa primavera inglese, avrebbe ammirato i paesaggi del Kent e magari avrebbe anche recuperato un barlume di equilibrio mentale – sull’ultimo punto si riservava il diritto di nutrire forti perplessità, ma la speranza è quasi sempre l’ultima a morire. L’ex amante non stava recandosi a Londra: al più avrebbe fatto una capatina nella capitale, una veloce visita che non li avrebbe certo fatti incontrare. Affrontando la realtà, quante possibilità avevano di rivedersi?
Poche, pochissime.
Esattamente quante ce n’erano che fosse imparentata con Ella Feinberg. 
Non avrebbe corso rischi: si sarebbe barricato in casa dando precisi ordini di non far entrare eventuali dame dai riccioli rossi e dallo sguardo apparentemente tanto cordiale quanto in realtà famelico.
Analizzando la situazione con obiettività, tra Rebecca e Cora avrebbe dovuto temere maggiormente la seconda: la Zelenyy era isterica e ossessiva, aveva già dato prova di poter compiere follie, ma poteva comunque essere blandita. Una rassicurazione, un’attenzione o una carezza erano sufficienti a placarla – il fatto che lui non volesse dedicarle alcunché del genere era un’altra questione, ovviamente.
Cora, invece, era un altro paio di maniche.
Pur nella sua imprevedibilità, si poteva creare un filo conduttore nell’agire della manipolabile Rebecca, un ordito tale da renderla a suo modo più gestibile; Cora, invece, non giocava ad altri giochi se non al suo, e prima di compiere la più insignificante mossa studiava l’avversario, le sue debolezze e i suoi punti di forza. La Mills agiva solo dopo aver individuato la strategia che le avrebbe garantito la vittoria; e il fatto che non si facesse viva da un po’ – da troppo, per i suoi standard – non faceva che insospettirlo.
Ecco: Cora era pericolosa perché taceva. Perché si muoveva senza farsi notare – strisciava come una serpe, e come una serpe faceva avvertire la sua presenza solo quando era ormai tardi per sfuggirle, quando ormai già affondava i denti nelle carni della vittima.
Quando già inoculava il suo fatale, mortifero veleno.
Non era tanto da Rebecca quanto da Cora che avrebbe fatto bene a guardarsi; ma evitare anche la prima sarebbe stata comunque una saggia mossa.
Magari, aveva pensato Gold, avrebbe potuto organizzarsi e tornare in Scozia, trascorrere lì qualche settimana.
Magari con due persone ben precise…
Si concesse il diritto all’illusione per un istante, a seguito del quale la realtà tornò ad aggredirlo con tutta la sua brutalità.
C’era stato un – imprevisto, improvviso, meraviglioso – sviluppo, ma le probabilità che Belle accettasse tanto presto un simile viaggio erano infinitesimali; o, più semplicemente, non esistevano. Non valeva la pena proporglielo, perché la risposta sarebbe stata negativa; e tuttavia, lui era tanto masochista da provare il desiderio di chiederglielo, di assaporare ancora il gusto tenue della speranza e di costruire castelli per aria.
Castelli popolati da fantasmi.
Non che gliene facesse una colpa, ovvio: Belle era più che legittimata ad agire in tal senso, e se fosse stato nei suoi panni si sarebbe comportato nello stesso identico modo, se non peggio. Nonostante l’incomparabilità delle situazioni, se Milah fosse tornata millantando pentimenti e desideri di maternità lui le avrebbe sbattuto la porta in faccia raccomandandole caldamente di non ripresentarsi mai più; Belle, invece, si era dimostrata di gran lunga superiore.
Belle e il miele rosso dei suoi capelli, Belle con cui era facile dimenticare tutto il resto, Belle e il suo modo di guardarlo, di chi ascolta e capisce anche ciò che non si dice.
Belle che l’aveva baciato.

Ma far paragoni tra loro due era un’attività vana: si possono comparare ottobre e aprile, simili tra loro solo perché opposti? Eppure, in quella differenza tanto intrinseca lui aveva scoperto un fascino sottile sin dalla prima ora, sin dalla sbeccatura di una tazza ancora conservata come una reliquia; il suo candore, il suo garbo l’avevano ammaliato e trascinato via, costringendolo in un viaggio alla ricerca di se stesso attraverso un altro – attraverso lei. Trovava un’ironica contraddizione, un divertissement quanto mai ambiguo nell’essersi per qualche settimana di magia sentito completo, uno e non più mezzo, e nell’aver trovato il frammento mancante non in sé – lui che per anni e anni aveva cercato di bastarsi da solo –, ma in un’altra persona; nella persona più improbabile che avesse mai potuto immaginare, in una giovane dal fare fiducioso e gli occhi sempre ridenti.
Aveva provveduto lui, poi, a render sospettosi i suoi sorrisi, a far piangere quegli occhi.
Avrebbe dovuto pentirsi di averla baciata. Sotto molteplici punti di vista era stato irrispettoso: Belle non l’aveva detto, ma in un certo momento il suo sguardo si era adombrato, come se stesse rammentando il male che lui le aveva procurato ammonendosi perché non glielo permettesse più.
Le aveva rubato quel bacio, quelle carezze furtive? Non ce ne sarebbero più – mai più – state delle altre?
Per quanto l’eventualità gli apparisse orrorifica, avrebbe dovuto considerarla: fingere non esistesse e credere che in un modo o nell’altro tutto si sarebbe risolto per il meglio sarebbe stato assai poco saggio. Gold si ripeteva di dover lasciare alla donna la libertà di riflettere e capire cosa fosse meglio; e, per quanto premesse sempre per il trasferimento a Kensington, per quanto il desiderio di proteggere lei e la bambina non fosse del tutto disinteressato, ciò che anche solo lontanamente fosse somigliato a una coartazione sotto altri punti di vista avrebbe costituito il punto più basso mai raggiunto, e che lui non intendeva raggiungere.
Se l’amava come sosteneva – ed è vero, te lo giuro, Sweetheart, nella vita sono stato sincero solo con te e Neal – avrebbe accettato qualunque decisione avesse preso, per quanto dolorosa fosse stata.
Il bacio era stato un errore.
Un errore di cui non riusciva a pentirsi.
Gli attimi in cui si erano guardati e avevano capito cosa sarebbe successo, in cui le loro labbra erano rimaste sospese, come indecise, prima di unirsi avevano scatenato il meraviglioso, terribile potere di farlo tornare alla vita dopo il limbo.
In quei momenti l’unico pensiero che era stato in grado di formulare era stato composto da cinque lettere.
Belle.
Mentre la baciava aveva avvertito ancora più aggressivi i morsi del desiderio che, feroce più della fame, per anni l’aveva consumato.
Belle.
Prenderle la nuca tra le mani, attirarla a sé e percorrere ancora – ancora, ancora e ancora – quella bocca così appassionata e dolce.
Belle.
Sentire i contorni morbidi del suo corpo premuti contro di sé, sentire il palmo delle sue mani sul corpo bruciare come un marchio.
Belle.
Ora che l’avrebbe rivista, l’immagine sarebbe tornata a premergli la mente, a scavargliela; e se avesse provato a fingere indifferenza, sarebbe bastato uno sguardo per aprire una breccia nel muro e farne rovinare i mattoni.
Il potere di Belle, il suo riuscire ad andare oltre, a trovare l’uomo dietro al mostro.
La sua piccola, grande magia.
Da che era Mr Gold, conosceva un unico modo per difendersi: allontanarsi.
Ma stavolta lui non ne aveva alcuna intenzione, e non solo a causa della donna.
Helena avrebbe risentito di un ulteriore cambio di rotta: una bambina così piccola aveva bisogno di punti fermi e serenità, tanto più in una situazione già complessa. L’industriale non voleva che la figlia interpretasse l’atteggiamento come un rifiuto nei suoi confronti – un rifiuto, tra l’altro, quanto mai distante dalla realtà.
In un certo senso, forse avrebbe dovuto ringraziare Ella: la notizia datagli lo aveva indotto a far ritorno a Londra prima del previsto. Altro che una settimana: dopo appena cinque giorni era di nuovo nella capitale, e ora – finalmente – sulla strada che da Kensington lo conduceva a Whitechapel.
Dal suo lieto fine.

 

“If you want to strike me down in anger
here I stand. ”




- Secondo te perché non si è fatto più vivo?
Un’inquieta Ruby si attorcigliava una ciocca di capelli tra le dita mentre ravvivava il focolare della cucina; a qualche metro di distanza, Granny fingeva di essere assorta nella preparazione dei pasti e di non udire i sussurri preoccupati della nipote.
- Dici che è successo qualcosa? Che ho detto o fatto qualcosa di sbagliato? – domandò sottovoce a Belle, intenta a sgusciare piselli al suo fianco.
Per quanto scanzonata e sicura di sé si sforzasse di apparire, in un modo o l’altro l’indole insicura della ragazza trovava la strada per emergere e rischiare di soggiogarla. Fortunatamente non accadeva spesso, perché la più giovane delle Lucas possedeva una gran forza d’animo di indubbia provenienza; ma quando capitava erano guai: il posto della combattiva ventenne che non perdeva occasione di scherzare e irretire il prossimo era occupato da un fantasma pallido e dall’espressione assorta alle prese col bilancio della propria esistenza.
Un bilancio, a suo dire, in perenne passivo. 
E quando la bellissima, fiera Ruby attraversava simile fase a causa di un uomo – non di un uomo, di Viktor Whale!, aveva finalmente ammesso –, significava che le cose si stavano mettendo molto, molto male.
- Sono trascorsi cinque giorni, magari ha molti pazienti o è impegnato in qualche convegno. Ti ha accennato qualcosa in proposito? – Belle provò a consolarla invano.
- Abbiamo parlato di talmente tante cose che è impossibile ricordarle tutte, ma no, di questo non mi pare abbia detto niente. No, no, – ribadì dopo aver riflettuto – Mi ha raccontato poco del suo lavoro.
- Allora potrebbe essere come dico io, – l’amica rimarcò gentile – È presto per giungere a conclusioni tanto tragiche!
Ruby sospirò poco convinta.
- Belle, – esordì – Non voglio illudermi. Gli piaccio, questo è certo, ma evidentemente non abbastanza. Forse ho fantasticato troppo, e lui invece voleva solo una facile, ma le cose sono diverse. Stavolta più delle altre.
- Ripeto, secondo me non puoi ancora…
- Lui è medico, suo padre e suo fratello pezzi grossi dell’esercito e sua madre una nobile tedesca. Hanno possedimenti in tutta la Svizzera, e io a malapena so dove si trovi. Come potrebbe essere davvero interessato a me? – pur lungi dalle lacrime, il tono di voce di Ruby sarebbe suonato più consono in gola a un moribondo – Guardami: in pratica sono la schiava di mia nonna, – il matterello sbatté con più violenza sul tavolo vicino, ma nessuno parve accorgersene – Ho mille sogni nel cassetto e neanche un penny per realizzarli, le mie prospettive d’indipendenza sono nulle e sono riuscita a imparare a leggere e a scrivere a dodici anni. Sono bella, sì, me lo dicono in tanti, ma perché lo fanno? Lo sappiamo, è inutile stare girarci attorno. Da me gli uomini vogliono solo una cosa, non sono interessati ad andare oltre. Tanto più uno come di un ceto così alto…
L’ultima frase colpì Belle dritta allo stomaco.
- Non puoi dire una cosa del genere a me, – mormorò – Siamo noi a creare le differenze e a dar loro peso.
La giovane alzò il capo di scatto, mortificata.
- No, no! Non mi sono spiegata, io non mi riferivo a…
- Lo so, – l’altra riprese con un sorriso più amaro di quanto avrebbe voluto. Non era intenzione di Ruby offenderla, né la cameriera stava prendendo come esempio quanto successo tra lei e Gold, Belle lo sapeva: si era solo fatta prendere dalla concitazione e aveva parlato senza riflettere. Eppure, viste anche le recenti evoluzioni, alla French quelle parole avevano fatto molto, molto male – Ma se sei tu la prima a credere in qualcosa di simile, a blaterare di non meritare Whale per un motivo o l’altro, allora lui finirà per pensarla come te. Spesso gli altri si allontanano solo perché siamo noi a indurli a farlo. Anche se noi non vorremmo se ne andassero mai, – una conclusione, si ritrovò a notare, fin troppo attinente a lei e a Robert.
Ruby annuì come se condividesse il messaggio, ma la sua espressione rimase triste.
- Io ammiro la tua determinazione. Vorrei saper creder in me stessa come fai tu e avere meno paura, non rassegnarmi. Ma quando mi guardo allo specchio, vedo una persona terrorizzata da tutto ciò che potrebbe o non potrebbe accadere. Voglio viaggiare, vedere il mondo, e so che devo fare qualcosa o resterò in trappola, e l’idea mi terrorizza. Magari non uscirò più da Londra, vivrò e morirò qui in solitudine. Magari saranno i lupi a trovare il mio cadavere…
- I maiali, semmai. Lupi a Whitechapel non se ne sono mai visti, – chiosò Granny a denti stretti.
- Nonna! Non dovresti origliare i nostri discorsi, sono cose private!
- E tu dovresti crescere una volta per tutte! – fu l’aspra replica dell’anziana – Ma ti rendi conto di quello che hai detto finora? Non hai un minimo di sensibilità, come pensi si sia sentita lei mentre dicevi certe cose? Smettila di fare la smorfiosa e lavora, ti atteggi tanto da donna adulta ed Helena è più matura di te!
- E certo, per te chiunque è più maturo di me, anche i maiali che hai nominato! – Ruby si alzò di scatto, subito seguita da un’imbarazzatissima Belle. Per quanto vivesse con le Lucas da anni, non si era mai abituata alle loro feroci e frequenti liti – Tu vuoi che mi comporti come te e che alla fine mi trasformi in te, quando io nemmeno voglio questo lavoro!
- Però ti conviene vivere qui, eh! E finché lo farai sarai costretta ad ascoltarmi!
- Non hai…
- Su, dai, – Belle cercò di mediare, strattonando l’amica prima che potesse controbattere qualcosa di cui pentirsi o licenziarsi come pure era successo due anni prima – Abbiamo fatto aspettare troppo i clienti, se non ci muoviamo passeranno alla concorrenza!
Malgrado i piedi puntati di Ruby, la trascinò via costringendola quasi a procedere a balzelli per star dietro al suo passo.
- La strozzerei, giuro, la strozzerei! – commentò la più giovane appena giunte in sala – Odio quando mi tratta come una ragazzina idiota! 
- Non devi prendertela, lo sai. So che è difficile star dietro a tua nonna, ma se ti rimprovera lo fa per il tuo bene, si preoccupa per te e vuole che tu sia pronta quando questo posto sarà tuo. E su un punto le do ragione…
- Belle, te lo giuro, io non intendevo assolutamente riferirmi a te quando…
- Non è questo il punto, – scosse il capo e sorridere – Di solito sei così tenace, ma devi imparare a esserlo anche quando si presentano le difficoltà. Che sia un uomo che non torna o altro, non devi arrenderti e lagnarti, ma ricominciare daccapo, riflettere e capire dove hai sbagliato per non farlo più. Se non ti piace l’andazzo della tua vita, chi ti impedisce di cambiarlo? Nessuno, –continuò – Devi solo capire da dove iniziare. E allora, concentrati su di te e sulle tue priorità, decidi chi vuoi essere e fa’ il possibile per divenirlo. Affronta la realtà e risolvi i problemi, sai che noi – tua nonna, io, Helena – ci siamo, ma lagnarti non migliorerà nulla, anzi. E quanto a Whale, come fai a sapere che non gli piaci? Sei una delle ragazze più in gamba che io abbia mai conosciuto, e anche lui se n’è reso conto, altrimenti non sarebbe tornato senza motivo. E se non si farà più vivo, tanto peggio per lui: si sarà lasciato sfuggire l’occasione della sua vita. Cosa mi hai detto quando dovevo incontrare Robert e temevo un confronto con Cora o un qualche giudizio?
- Che non sei inferiore a nessuno.
- E lo stesso vale per te e il dottorino. Cosa credi che valga un titolo rispetto a ciò che si ha dentro? Se lui fosse tanto stupido da rifiutarti perché non ti crogioli nell’ozio e dai un senso alla tua vita, allora non è proprio un soggetto a cui puntare, fidati. E in tal caso, – concluse caparbia – Non vale la pena soffrire. Lui non vale la pena.



La sala era quasi deserta: poco distanti dal bancone sedevano Leroy e Marco, mentre in un angolo della sala, quasi nascosti in un cono d’ombra, tre uomini parlottavano tra loro quieti.
- Buon pomeriggio, ragazzi! – Belle raggiunse i due amici – Cosa vi porto?
- Hai un bel chiedere, sorella! Negli ultimi cinque anni mi hai mai visto prendere qualcosa di diverso dal solito?
- Cafone. Non essere irrispettoso verso la ragazza, lei è sempre tanto gentile con te! – l’italiano richiamò il compare prima di rivolgersi a Ruby – Perché quel muso lungo, piccina? Qualcosa non va?
- Solite questioni con mia nonna, – glissò lei con un’alzata di spalle – Nulla di nuovo sotto il sole.
- Cos’è successo a Polly? Sta bene?
Le cameriere si rivolsero un’occhiata molto eloquente. Anche se solo una delle due aveva l’ardire di esprimerli, i sospetti che entrambe nutrivano sul reale motivo delle frequenti visite del falegname trovavano conferma giorno dopo giorno; e le minacce che l’anziana non lesinava quando punzecchiature in tal senso potevano tutto fuorché fermarle o farle esitare.
- Benone, come vuoi che stia? – sbuffò come al solito Leroy – Le Lucas non le smuovi nemmeno coi pallettoni, tanto la vecchia quanto la giovane. Ma che vi ha trattenute, sorelle? La barba mi si è allungata tanto vi aspettiamo!
- Eh… Consigli di vita e di cuore!
- Non seguire mai i consigli di Belle, – bofonchiò l’uomo incrociando le braccia al petto – Tra me e Astrid mica è andata bene, – continuò incurante delle smorfie fintamente indignate della donna.
- Non potevamo immaginare si sarebbe messa in mezzo la sua madrina: quella Mrs Blue è davvero odiosa… E dire che io di gente odiosa ne ho incontrata parecchia. In ogni caso, – Belle si stiracchiò pigramente e andò a prendere le comande del trio all’altro tavolo –Se posso aiutare, io lo faccio volentieri. In amore sarò pure sfortunata, ma…
Non fece in tempo a concludere: mise un piede in fallo e si ritrovò quasi per terra. Solo qualcuno che l’afferrò rapido le impedì di sbattere sull’assito.
Fece per alzare il viso, grata al suo salvatore, quando una voce roca le raggiunse le orecchie facendole perdere un battito.
- Sfortunata in amore, eh, Dearie?

 

“If you want a boxer 
I will step into the ring for you.”




Si raddrizzò subito, ma non si ritrasse. Si sorprese aggrappata alle sue braccia, vicina quasi quanto lo era stata la settimana precedente, a guardarlo stupita e ancora non del tutto conscia della dinamica degli eventi, ma consapevole della sicurezza e, al contempo, della delicatezza con cui lui la teneva stretta.
- Come stai? – le mormorò prima di lasciarla andare. La domanda le causò un brivido lungo la schiena – Hai sbattuto qualcosa?
- No, no, – Belle deglutì tranquillizzandolo. Com’era stata tanto stupida da non riconoscere Hulme e Blockhurst? Ancora seduti al tavolo, la squadravano come al solito; ma in quel momento, a lei importava ben poco.
 – Mi hai afferrata prima che finissi per terra. Ti…
Gold scosse il capo, come ad anticipare e sdegnare i ringraziamenti.
- L’importante è che tu stia bene. Però, – inclinò appena il capo, stirando le labbra in un sorriso sghembo, uno di quelli con cui in passato alludeva a determinate situazioni e che a lei facevano ancora tremare le gambe – È bello sapere che certe cose non cambiano mai. La tua goffaggine, per esempio.
- E la tua onnipresenza quando cado. Sembra quasi mi porti sfortuna.
La scrutò sorpreso, come se non avesse previsto la rapidità con cui era tornata in sé e replicato; ma iniziò ben presto a ridacchiare – una risata breve e bassa, ma genuina, sincera, sentita; una risata che entrambi non udivano da anni e il cui suono li fece sobbalzare.
La risata che Belle amava sentire, che solo lei aveva l’onore e l’onere di far erompere dalla sua gola.
La risata più autentica, quella che gli toccava il viso e ingentiliva lo sguardo.

- Cosa ci fai qui? – una domanda stupida, perché era ovvio che Robert non fosse capitato per caso da Granny’s, ma che pure gli porse per frenare l’unica frase che avrebbe voluto pronunciare.
Grazie per essere tornato.
L’uomo alzò un sopracciglio. Qualcosa nei suoi occhi, che improvvisamente le parvero due capocchie di spillo, le fece capire che avesse intuito il suo reale pensiero.
- Perché avevo promesso sarei venuto a trovarvi. E non ho l’abitudine di rompere i miei accordi.
- Lo so, – Belle sottolineò il concetto guardandolo dritto in volto – Ma avevi detto saresti stato via per una settimana. Se avessi saputo,non avrei mandato Helena da Tink Barrie e avrei preso un pomeriggio libero. Sei fortunato, non c’è molta clientela e posso fermarmi, ma altrimenti… – non sapeva neanche cosa stesse dicendo. Pareva quasi non gradisse la sua visita: inanellava una parola dietro l’altra sapendo di star pronunciando idiozie e di dover calmarsi, di dover smettere di comportarsi come una ragazzina alla prima cotta, ma ogni ammonimento razionale aveva la peggio contro il tamburellare incessante del cuore contro le costole. Tutti i pensieri, tutti i rimproveri che si era rivolta dopo il bacio parevano non essere mai esistiti. Non si aspettava di vederlo tanto presto: se ne avesse avuto preavviso si sarebbe preparata, avrebbe intrecciato meglio i capelli,tolto di mezzo il grezzo abito marrone in cui era intabarrata… – A dirla tutta, – ammise infine – Mi cogli impreparata.
Ma al diavolo il vestito: era felice. Felice che avesse mantenuto la sua promessa, che fosse di nuovo da loro e che stesse sorridendo alle sue frasi, come se intuisse le emozioni che la confondevano e, soprattutto, le condividesse.
Dio, possibile che avesse ripreso a mancarle ogni volta sempre di più?
Sì.
- Vieni via con me?
Lo stesso invito della scorsa volta.
La donna aprì la bocca per rispondere, ma subito la richiuse, incerta di aver capito fino in fondo la proposta di Robert. 
- Ora?
- Sì. Facciamo un giro in carrozza, ti riporto quando vuoi. Restiamo nei paraggi, oppure andiamo da qualche parte, basta che tu lo dica. Andremo dove vorrai, – il tono quasi implorante in cui parlò il tanto temuto magnate della lana la intenerì.
Era tentata, quanto era tentata. Quanto avrebbe voluto dire di sì, gettarsi addosso il mantello e fuggire con lui, fingere per un’ora di non essere altri che due innamorati tra i tanti.
Perché quello erano: due innamorati. Potevano nutrire dubbi e paure, non esser certi del futuro che li aspettava e temere di ripetere gli errori, ma la realtà immediata, quella che il mondo avrebbe letto vedendoli passare, era una e una sola.
Potevano farlo. Potevano essere chiunque tra la folla, giocare a essere tornati all’inizio, quando il mondo era ancora da esplorare.
Quando erano privi di un passato comune, con un presente ancora da vivere e un futuro tutto da scrivere. Due innamorati che avevano il diritto di essere incoscienti – un’ora, un’ora sola, il regalo che si erano negati per troppo tempo.
Occhieggiò verso Ruby, che rispondeva con foga alle domande di Leroy quasi a convincerlo non fosse il caso d’intervenire. Quando incontrò il suo sguardo, la Lucas le rivolse un impercettibile occhiolino.
Cosa ci fai ancora qui? pareva rimproverarla. Muoviti e va’ con lui!
E allora Belle decise.
Le mani corsero a slacciare il grembiule.
- Andiamo?
E a lui quella parola parve brillare più del sole.
 


“If you want a driver 
climb inside,
or if you want to take me for a ride 
you know you can,
I'm your man. ”




- Dove vuoi andare? – le domandò aiutandola a montare in carrozza.
- Dove tutto è iniziato.
- A Kensington? – dopo quanto sostenuto durante l’ultimo incontro, quel repentino cambio d’opinione non poté che stupire Gold.
Dinanzi alla sua espressione, a Belle fece quasi male contraddirlo.
- No. Vorrei tornare a Canary Wharf.
Come aveva fatto a non pensarci? Era lì che si erano conosciuti, che per la prima volta i suoi occhi si erano posati su di lei, così critici nei confronti di una ribelle i cui intenti aveva equivocato. Le aveva detto di non essere in cerca di amore intendendo il sesso, non il sentimento; perché il sentimento, pensava all’epoca, gli era precluso per sempre. L’amore non era un’invenzione: nell’atto di definirlo una debolezza, Cora stessa ne riconosceva implicitamente l’esistenza; ma esisteva per gli altri, non per gente come lui.
La gente come lui non otteneva un lieto fine – sempre che l’amore potesse essere considerato un lieto fine. 
E invece, quella ragazza dagli occhi di gioiello aveva finito per sovvertire i capisaldi del suo universo, capovolgendone i punti fermi e scatenando nuovi interrogativi; eppure, con lei, nei dubbi aveva ritrovato una parte di se stesso che credeva sopita per sempre.
Anche quando le mentiva, quando sbagliava, quando lo negava, con lei aveva ritrovato se stesso. 
- Come sta Helena? – s’informò dopo aver indicato la destinazione al cocchiere.
- Bene, grazie. Le sei mancato, sai? In questi giorni abbiamo fatto lunghe chiacchierate tra donne e il responso è positivo: le sei piaciuto, e molto, aggiungerei. Malgrado il tuo accento, – lo prese in giro immaginandone già la reazione.
- Perché? Cos’ha che non va il mio accento? – ghignò calcando a forza l’inflessione come l’altra aveva previsto.
- Esattamente questo, – ammiccò gioviale – Credo voglia sapere tutto della Scozia, appena vi rivedrete sarà lei stessa a dirtelo, – buono a sapersi, si disse Gold. Se ci fosse stato, il suo viaggetto avrebbe trovato un’inaspettata sostenitrice… – Dopo andiamo a prenderla da Tink? La porto spesso da lei, le piace. Anche se a casa vuole rendersi utile come può, preferisco stia con altri bambini piuttosto che sempre tra gli adulti. Ha parecchi amici.
- È una personcina socievole, in effetti.
- Fidati, ancora è nulla, – Belle rise, ma presto tornò seria – Avevo intenzione di chiederti un parere.
- Dimmi pure.
- Sai bene che Helena vuole imparare a leggere e a scrivere e, anche se secondo me è ancora presto, ho pensato che magari potrei iniziare coi rudimenti. Giusto qualche letterina sotto forma di gioco, nulla di che, come se fosse un passatempo diverso dal solito. Tu cosa ne pensi?
Belle aveva pronunciato tante frasi, ma lui aveva colto tre parole. Non era tanto la richiesta di un’opinione in sé, quanto il presupposto, a turbarlo. A scioccarlo, a farlo deglutire più volte a vuoto prima di riuscire a raccapezzarsi nella vertigine d’emozione che lo stava colpendo. Belle gli chiedeva un consiglio su loro figlia, considerava il suo parere importante quanto il proprio e lo voleva conoscere prima di decidere. In breve, non lo reputava un estraneo.
Infatti non potrebbe definirti un estraneo…
Sì, ma il fatto che avesse che avesse atteso prima di agire, che alla prima occasione gli stesse parlando di qualcosa tanto importante, stante i trascorsi non era né scontato né lo poteva lasciare indifferente.
- Credo sia bene iniziare già ora, se lo desidera, – disse una volta tornato in sé – Ti assicuro che a quell’età i bambini sono molto più ricettivi di quanto si creda, e non va bene lasciare sfiorire simili capacità. Tanto più se si comincia con un gioco… Gioco che l’appassionerà presto, se ha ereditato il tuo amore per i libri.
Belle si batté un dito sulle labbra, come meditabonda, prima di commentare complice: – Più che i libri, credo che saranno i colori la sua più grande passione.
- E allora lasciala essere una piccola artista, – conoscendo le idee della donna, Gold non dubitava che la sentenza sarebbe stata accolta con favore – O una piccola esploratrice, o magari una piccola scienziata. Quel che vorrà essere.
Non trascorse un istante prima che Belle lo correggesse.
- Lasciamola essere.
- Scusami?
- Lasciamola essere la nostra piccola artista, o la nostra piccola esploratrice, o la nostra piccola scienziata. Lasciamola essere la nostra quel-che-vorrà-essere.
Era una gioia così dolce, così pulita. Una gioia che avrebbe quasi voluto stringere tra le dita e incastonare nel cuore, per esserne rischiarato nei momenti bui, per ricordarsi di essere come tanti, se non peggio, ma di amare la creatura più meravigliosa che potesse esistere, l’unica che era stata in grado di accettarlo – di accettare lui, i suoi sbagli e i suoi peccati, l’uomo che continuava a essere malgrado tutto.
Forse non significava niente. Forse era semplice correttezza che non avrebbe avuto seguito.
Ma in quel momento era arduo crucciarsi.
In quel momento c’era lei, e i demoni tacevano.

 

“The moon's too bright, 
the chain's too tight, 
the beast won't go to sleep.
I've been running through these promises to you 
that I made and I could not keep.”




Canary Wharf era sempre la stessa: sporca, grigia, deprimente. Triste come poche altre cose avesse visto – e lui di cose tristi ne aveva viste tante.
L’ultima volta che vi aveva messo piede era stato proprio quando era andato a riscuotere il credito da Maurice French; e, malgrado fosse passato molto tempo, il quartiere non era migliorato. Perché Belle lo amasse restava un mistero; ma Belle aveva un talento speciale nell’amare ciò che il mondo avrebbe voluto dimenticare.
Malgrado le sue rimostranze, la ragazza aveva presto preteso di scendere dalla carrozza.
- Questo posto è tutto fuorché magico, – l’aveva avvertita. 
- Ogni posto è magico, se siamo assieme.
Belle l’aveva detto d’impeto, accorgendosene solo quando la frase le aveva già lasciato le labbra e rinnegarla era ormai impossibile.
Ma,se anche avesse potuto, l’avrebbe fatto?
No, non credeva.
Se aveva pronunciato quell’affermazione – sciocca, ridicola, infantile – c’era un motivo, lo stesso che l’aveva indotta a partire con lui verso una meta indefinita – o forse fin troppo meditata se erano finiti proprio lì.
Cos’era venuta a fare in quel quartiere? Non significava più niente per lei. La sua vita era altrove, ormai – tra i fasti del West End e la lugubre Whitechapel, Canary Wharf era un ricordo lontano nel tempo e nella memoria.
Nulla più.
Eppure si era orientata con sicurezza tra i dedali di vicoli, come se non li avesse mai lasciati un piovoso pomeriggio di settembre, ed era arrivata lì, dinanzi a un fabbricato così diverso da quello che aveva un posto tra i suoi ricordi.
“Il tugurio a Canary Wharf è bruciato”, le aveva detto suo padre la penultima volta che si erano incontrati. Non c’era da stupirsi di quel caseggiato sconosciuto, ma ugualmente misero.
No, quello non era un posto magico.  Ma di sicuro non lo era neanche Whitechapel, non lo era Kensington e men che meno Belgravia.
Forse nessun posto in sé è magico; forse a renderlo tale sono le persone che lo popolano, che lo distinguono e lo animano facendolo essere vivo e inconfondibile; che proiettano sui muri e per le strade il mondo che hanno dentro e riempiono ogni angolo d’incanto.
Che lo riempiono di ricordi.
Perché forse la magia non è un’entità astratta, ma la scintilla insita in ogni persona; la meraviglia dell’anima e della vita, quel potere che si custodisce e che lotta sempre per imporsi, per quanto la realtà possa cercare di soffocarlo.
Quel potere che lui aveva dimenticato di possedere.
In lui c’era un’oscurità che cercava di far tacere quando erano assieme, ma c’era anche tanta, tanta luce. E lei si era innamorata di entrambe.
Insieme avrebbero potuto rischiarare ogni tenebra, anche quella dell’East End in cui si erano conosciuti; insieme avrebbero reso qualsiasi posto magico.
- L’hanno tirata su dopo poco? – la domanda la riportò alla realtà. Robert era al suo fianco, dov’era sempre stato durante il cammino. 
- Credo di sì. Qui ci si accontenta di poco, e anche quattro assi marce possono fare la differenza.
L’uomo annuì. C’era stato un tempo in cui lui per primo aveva conosciuto il significato delle parole di Belle.
- Sai, – continuò la donna – Mi fa uno strano effetto pensare che la casa in cui ci siamo conosciuti non esiste più. Si dice che la vita è fragile e si è portati a credere che invece gli oggetti siano eterni, che restino a presenziare a ogni evento… Eppure alle volte è il contrario.
- Direi che alle volte è bene sia il contrario.
- Questo è certo, – ripagò il tentativo di ironia con quello che solo generosamente si sarebbe potuto definire sorriso – Dicevo solo che è strano. Anzi, forse la vera stranezza è un’altra, – chinò per un momento il mento prima di affermarlo – Mi è difficile pensare a un tempo in cui non ti conoscevo. Ho trascorso ventitrè anni ignorandoti, e ora mi paiono tutti anni d’attesa. Come se in un modo o nell’altro fossimo comunque destinati a incontrarci. Forse le circostanze concrete sono state meri accidenti: variandole, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Non riuscì a confessarle di provare la stessa fatale sensazione.
Non riuscì ad ammettere che gli si era insinuata in ogni memoria, che era sempre, sempre stata presente nelle lunghe notti in cui era rimasto solo con la tortura dei ricordi.
Anche negli attimi in cui non ancora non era irrotta nella sua esistenza, lei c’era.
- Non possiamo dirlo. Magari altrove, in un’altra epoca, in un altro mondo siamo stati un mago e la sua prigioniera.
- Perché mai mi avresti fatta prigioniera?
- Non ne ho idea.
- Tua figlia non accetta simili risposte, – lo mise in guardia con fare fintamente minaccioso – Diciamo che… Il mio regno era stato invaso dagli orchi e solo tu potevi salvarlo. In cambio di qualcosa, però.
- In cambio di te? Posso cambiare identità, ma i miei gusti restano sempre ottimi.
- In teoria nella nostra realtà mi sono offerta io di seguirti. Tu eri alquanto scettico, se ben ricordo.
Ricordi bene, amore mio.
- Però sarebbe bello assistere a un nostro nuovo primo incontro. O addirittura avere direttamente una seconda possibilità di incontrarci per la prima volta.
- Per sentirti ripetere che non sei in cerca d’amore e poi vederti capitolare ai miei piedi nell’arco di pochi mesi?
- E io che pensavo di essere il più cinico…Touché, – la canzonò, grato di come stesse procedendo quello strano appuntamento. L’ultima volta che l’atmosfera era stata così leggera risaliva a troppo tempo prima – Cos’hai pensato quando ci siamo conosciuti?
- Ti ho odiato. Non sarebbe potuto essere altrimenti! – l’aggiunta non mitigò la franchezza del discorso – Mettiti nei miei panni: non davo credito a chi ti descriveva come una bestia, ma poi ti sei presentato con quei brutti ceffi e con intenti tutt’altro che pacifici… E i sottintesi delle frasi che mi hai rivolto non hanno certo sostenuto la tua causa, anzi!
- Me ne scuso ancora, – era tardi per ribadirlo. Non aveva senso neanche chiederlo - certe intenzioni vanno dimostrate, non dette -, ma questo non era un buon motivo per tacere – Fraintendere le tue intenzioni è stato meschino.
Belle si strinse nelle spalle. Non era stato l’unico caso in cui l’aveva considerata una poco di buono, e certo non il più doloroso.
Il più doloroso sarebbe giunto in seguito.
Perché dopo certe esperienze, dopo aver condiviso rivelazioni e momenti irripetibili, vedersi crollare il mondo addosso senza poterlo fermare, ritrovarsi sotto le macerie e non potersi liberare fa più male di quanto si possa dire. In quei momenti Belle aveva avuto l’anima, non la mente infranta; e ricordare, sapere, non trovare una risposta l’aveva devastata ancora di più.
- Non sono mai più tornata a Canary Wharf. Eppure mi mancava.
- Per i ricordi?
- Sì. Questa casa significava tanto per me. Prima di nasconderci qui io e mio padre avevamo già cambiato parecchie zone, ma non mi ero ancora resa conto davvero di quanto fosse grave la situazione. Certo, non avevamo più quasi nulla e io ero costretta a lavorare, ma in un modo o l’altro credevo che le cose si sarebbero sistemate. Ma trasferirci qui, vedere mio padre sempre più spesso ubriaco… Mi ha fatto aprire gli occhi. Accettare la realtà, – Belle sospirò prima di proseguire – Col senno di poi, capisco che mi è servito. Ho imparato ad arrangiarmi, a essere più forte. È stata una lezione che mi è tornata utile, visto quanto mi ha riservato il futuro… – si bloccò all’istante, conscia della gravità delle sue parole e delle conseguenze che avrebbero avuto. Desiderava sparire, volatilizzarsi e prendersi a sberle al contempo: come poteva essere stata così stupida da far ancora presenti a Gold le azioni che pure sapeva lo perseguitavano? – Perdonami, non avrei dovuto dirlo.
O forse sì.
Non si trattava di rinfacciare, di ribadire meschinamente gli errori del passato: quegli sbagli erano una realtà innegabile, e solo affrontandoli sarebbero potuti andare oltre. Fingere non fossero mai esistiti non li avrebbe esorcizzati: la loro presenza sarebbe sempre aleggiata su loro, uccidendo sul nascere la possibilità di qualunque cosa.
- Io penso solo che dovremmo parlarne, prima o poi, – asserì infine la donna, afferrandogli una mano.
Aveva la pelle fredda, e mille ombre negli occhi.
Lui rispose alla stretta solo dopo alcuni secondi.
Le nuvole cupe che si stagliavano sopra le loro teste parevano rispecchiare il suo animo. No, non intendeva parlarne, tornare indietro al momento in cui la codardia l’aveva accecato e cacciarla era stato più facile che combattere; non ne aveva il coraggio. Sapeva di aver sbagliato e si era ripromesso di non farlo più, ma accanto a lei non voleva – non poteva – guardarsi indietro.
Il peso dei suoi errori era sempre con lui.
- Non scusarti per aver detto la verità. Ma sai che cambierei ogni cosa, se potessi.
- I primi tempi mi ponevo solo una domanda. Perché. Tornavo indietro col pensiero e ripercorrevo ogni passo, mi chiedevo come mai fossimo stati tanto ciechi da non accorgerci dei problemi, – Gold s’irrigidì – C’erano, Robert, c’erano tanti problemi, e noi non li abbiamo visti. Anche anticipare le nozze… Me l’hai proposto quando temevi che ti stessi tradendo. Perché avevi paura di perdermi, non perché volessi davvero sposarmi prima.
L’uomo scosse il capo più volte. Le cose non erano andate così, questo era pronto a giurarlo.
- Io ti avrei davvero sposata. Non ho voluto mai, nemmeno per un istante, che tu fossi la mia concubina. Volevo portarti con me dinanzi al mondo, volevo fossi mia moglie. Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia…
- …  E di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, – Belle sorrise mesta – So che le tue intenzioni erano sincere, e anch’io avrei voluto tu fossi mio marito, e non è questo il punto. Il campanello d’allarme è stato la seconda proposta, il momento e il modo in cui è giunta. Avrebbe dovuto indurci a riflettere e a capire che, malgrado quanto succedeva, la nostra relazione non era tanto salda da permetterci di compiere un simile passo.
- Ma io non potevo non sposarti! – strinse i pugni ribadendolo – Era anche mio dovere, una questione d’onore cui ogni uomo degno di questo nome avrebbe risposto! Le voci circolano, sarebbe scoppiato uno scandalo ed era mio compito proteggerti!
- Lo scandalo avrebbe coinvolto solo me, e io mi sarei difesa senza bisogno di cavalier serventi, –la donna puntualizzò senza mezzi termini – E quel matrimonio che tanto avremmo voluto celebrare non si è comunque tenuto, e lo scandalo che tanto volevi evitare c’è comunque stato, per quanto il mondo non se ne sia accorto. Non te lo sto rinfacciando, credimi, Robert: credo solo che dobbiamo risolvere la questione una volta per tutte. La situazione è questa perché non abbiamo retto alla prima autentica difficoltà. È bastato un sussurro per farci cadere. Per portarci alla fine.
Non poteva sopportare di sentirla parlare in simile modo. A ferirlo non era il tono, non erano le accuse, quanto il fatto che Belle fosse sincera. Che gli stesse presentando la verità, la stessa da cui lui era fuggito per anni e anni, che gli aveva chiesto mille udienze e che lui mai aveva voluto ricevere.
Cosa devo fare per ottenere la tua assoluzione, Sweetheart?
Tu eri l’unica che avrebbe potuto salvarmi.
- Cora aveva l’anello, – fu la sua debole, abusata, errata difesa.
- E perché la possibilità che se lo fosse procurato illecitamente non ti ha sfiorato?
Non giunse risposta. 
- Perché hai avuto paura, – riprese lei – Perché hai temuto che io stessi giocando con te, che ti stessi ingannando per qualche sporco fine. Perché, nonostante le belle parole, alla resa dei conti non hai avuto il coraggio di lasciarmi avvicinare a te, – la stretta delle dita si fece più intensa – Ci si può amare, amare perdutamente, ma questo non basta. Ci vuole la fiducia, e tra di noi non ce n’era abbastanza. Ecco qual è la mia paura. Ecco cosa mi frena.
Era normale, era sensato. Come sarebbe potuto essere altrimenti? Dopo ciò che era successo, una simile reazione era più che prevedibile.
Ecco cosa mi frena.”
Aveva parlato al presente, Belle, come se tuttora avesse paura di ritrovarsi sola da un momento all’altro.
Ma d’ora in poi ci sarò. Ti proteggerò, proteggerò te ed Helena. Anche se non saremo più noi, io per te ci sarò sempre.
Fino al mio ultimo respiro.

- Quindi, – provò timido – Se tornassi indietro risponderesti di no alla proposta?
Non era davvero certo di volerlo scoprire. Non avrebbe mai capito la ragione di questo suo masochismo; sarebbe voluto scappare piuttosto che ascoltarla, anche a costo di rendersi ridicolo.
- Robert, – Belle sospirò, come una maestra costretta a ripetere la lezione a un alunno sempre distratto – Non hai capito il concetto alla base. Non smetterò mai di lottare per te. E per questo, – concluse – Risponderei sempre sì.

 

“And I'd claw at your heart,
and I'd tear at your sheet, 
I'd say please, please.”




Non devo avere paura, si ripeté per l’ennesima volta.
Non ho nulla in meno di lei, e non stavamo facendo nulla di male.
Saprò difenderci.
Ce la posso fare.

Ma lo diceva perché era la verità, o piuttosto per convincere se stessa?
Il modo in cui Cora procedeva accanto a Regina non trasmetteva alcuna emozione: non camminava a passi rabbiosi, non mulinava le braccia, né digrignava i denti o stringeva i pugni come avrebbe fatto lei.
Ma del resto, la contessa Mills non avrebbe mai lasciato trapelare un’emozione. Sarebbe apparsa impeccabile fino all’ultimo: padrona di sé, misurata, controllata, l’epitome delle buone maniere e della pacatezza femminile.
Tanto pericolosa perché inoffensiva.
L’adolescente fece per allontanarsi, ma la madre le afferrò il polso con un unico, fluido gesto.
- No, Regina cara, – la strinse con forza, la voce dolce come il miele e altrettanto nauseante. Impercettibile a orecchie poco avvezze, la nota di rabbia pure c’era, implacabile e netta; e Regina tremò al pensiero di quelle che ne sarebbero state le conseguenze – È l’ora di una chiacchierata.
- Mi sento stanca, Maman, preferirei riposare. Potremmo…
- Suvvia! – chiocciò querula e viscida – Un minuto o due in compagnia della tua amica più sincera non ti affaticherà ulteriormente!
La spinse nel salottino dinanzi a sé e chiuse a chiave la porta con un solo scatto, incurante della volontà della figlia.
È il momento della verità.
Combatti.

- Maman, – la ragazza respirò a fondo prima di cominciare – Posso spiegare tutto.
- Certo, cara, potrai spiegare tutto. Ma spiegare cosa, esattamente? – la donna fremette appena – Il perché tu abbia scelto un libro anziché un altro?
O forse perché mi consideri tanto idiota da credere che non abbia capito cos’hai in mente, piccola ingrata?
Sebbene non espressa, la portata del pensiero colpì Regina come una stoccata in pieno petto.
Avrebbe provato a essere diplomatica, a spiegare le proprie ragioni con la calma e la pacatezza: per quanto fosse un’impresa impossibile, avrebbe dovuto tentarla e, soprattutto, riuscirvi.
In gioco c’era la felicità sua e di Daniel.
- Maman, avrei voluto parlarvene quanto prima. Anzi: avrei dovuto farlo. Immagino la vostra delusione nello scoprirlo in questo modo, e ve ne chiedo scusa. Ma tutto è successo all’improvviso, e…
Gli occhi della gentildonna si ridussero a due fessure.
- Cosa è successo?
Ecco.
Avanti, dillo.

- Ci siamo innamorati. Io e Daniel ci amiamo.
A Cora venne da ridere. Una risata isterica, quasi folle, spaventosa, ma liberatoria – perché,se su ogni altro fronte era la guerra, almeno in casa finalmente ogni tassello tornava al suo posto.
Infine era venuta alla luce la verità che da settimane sentiva smuovere l’aria, come un uragano pronto ad abbattersi, ma che anche stavolta era riuscita a fermare.
L’uragano più ridicolo si fosse mai visto levato prima.
Nella vita lei ne aveva affrontate tante, troppe, e quella era un’inezia. Se Regina era stata così fragile da averlo dimenticato, sarebbe stata lei a ricordarglielo: perché l’amore è una debolezza, ma quando ne parla una fanciulla è solo una fantasia.
Non era nulla di irreparabile; e, se anche lo fosse stato, lei l’avrebbe comunque risolto.
- Perché lo ami?
Quando Regina aveva immaginato il momento in cui sarebbe emersa la verità – in modo più tranquillo, aveva invano pregato fino ad allora –, aveva messo in conto una domanda simile; e aveva deciso di giocare d’anticipo preparando una risposta, senza però sapere di pronunciare presto.
- Lo amo perché mi fa sentire bene, – esordì – Perché insieme possiamo parlare di tutto… – finse di non notare il sopracciglio levato dell’altra all’affermazione – …e lui mi ascolta, mi capisce e mi consiglia. C’è quando ho bisogno, e mi fa sentire importante e speciale. Come se fossi il centro del mondo per lui. E questo non è amore, Maman?
No, questa è idiozia.
Cora s’impose di contare fino a tre prima di reagire: se non l’avesse fatto, non avrebbe risposto di sé. Ma cosa diamine aveva in testa la ragazzina? Nonostante tutto, si era illusa che le somigliasse abbastanza da essere intelligente; l’ultimo soliloquio smentiva l’estrema speranza.
Aveva tirato su sua figlia nel migliore dei modi possibili, e ora si ritrovava tradita per sentimenti senza futuro.
- Le tue parole provano la tua ingenuità, –asserì con calma – Lui non può offrirti nulla.
- Forse nulla di materiale, ma può offrirmi amore. E per me è questo l’importante.
No, non era nemmeno idiozia: era peggio. Regina era così accecata da non riuscire a capire in quale guaio si fosse cacciata e a quali conseguenze portasse il suo comportamento.
Quindici anni di insegnamenti sprecati.
Se l’amore portava a tanta stupidità, Cora era più che contenta di averlo escluso dalla sua esistenza.
Avrebbe dovuto ricorrere all’astuzia, piuttosto che ralle maniere forti: l’avrebbe rabbonita, ragionando con lei sul da farsi. Ma una cosa era certa: Regina avrebbe avuto il sentimento se l’avesse voluto, sì, certo; ma solo dopo aver ottenuto il potere. 
Perché altrimenti l’amore non avrebbe avuto alcun significato.
- Regina, – respirò a fondo prima di pronunciare il nome – A rispetto del tuo retaggio paterno, sei tutto fuorché stupida. Perciò smettila di comportarti come tale, e ragiona: ti sembra di essere innamorata, ma non è così. Non può essere così, e sono certa tu stessa ne capisca il perché. Non metto in dubbio sia una bel giovane, magari anche simpatico e affascinante, ma ciò non cambia i fatti. È uno stalliere, Regina. Un servo. Che coppia potrebbero mai formare uno stalliere e una futura Contessa?
- Io e Daniel non siamo entrambi nobili, è vero, ma questo non ci rende diversi, – replicò la figlia – Proviamo le stesse emozioni, siamo fatti di ossa e carne e, a dispetto delle dicerie, il sangue che scorre nelle nostre vene è rosso. Non blu e rosso; per entrambi rosso, rosso! Io mi sono innamorata di un mio simile, di una persona come me, e… – l’incapacità della ragazza di mantenere la calma irritò ulteriormente la madre – Tu non sai, Maman. Se sapessi, saresti felice per me.
- Non riesci a comprendere la gravità di quanto fatto. Non si tratta tanto dell’onore della famiglia, quanto dell’immagine che dai di te: cosa sarebbe successo se fosse stato un altro a scoprirvi? Ti saresti rovinata la reputazione e la vita. La buona società ti avrebbe chiuso ogni porta senza possibilità di riscatto, – continuava a intimorire la figlia, Cora, a inquietarla paventando immagini di miseria; solo in questo modo, credeva, sarebbe riuscita a distoglierla dalle sue intenzioni – Saresti diventata una reietta; diventerai una reietta, di questo passo. Pensaci bene: saresti pronta a lasciare le comodità cui sei abituata, i bei vestiti che tanto ami e le feste? A dirmi addio e partire per sempre per la campagna? Vorresti davvero, Regina, diventare la sposa di uno stalliere a quindici anni?
A dire il vero, Regina non aveva considerato l’eventualità di un matrimonio imminente: credeva di avere ancora qualche anno da dedicare a se stessa prima di metter su famiglia. Eppure, scoprì, in quel momento l’idea non la intimoriva affatto: forse era solo la sua età a parlare, ma se per avere il suo grande amore fosse dovuta scappare e salutare per sempre la sua vecchia vita, l’avrebbe fatto.
- Sì, Maman. Se dovessi, sarei pronta a sposarlo.
Ogni proposito di autocontrollo di Cora si dissolse.
- No.
- No? Cosa potete fare per impedirmelo? – la ragazza si pentì di averla provocata nell’istante stesso in cui lo fece.
- Non ti permetterò di gettare la tua vita, – la donna proseguì – Non ti permetterò di cancellare tutto il mio lavoro, tutti i miei sforzi. Io ho sacrificato la mia esistenza per noi, tu non hai fatto niente. Hai goduto fino a oggi e ora pretendi di ribellarti, di giocare a sdegnare ciò che non avresti mai dovuto avere, – la voce si fece bassa, un vibrare sordo che non ammetteva replica alcuna – Non te lo permetterò, Regina. Noi Mills saliamo, non scendiamo lungo la scala sociale. Non vedrai mai più Daniel Locke: uscirà di questa casa entro un’ora e tu stessa sarai al mio fianco mentre lo caccerò. Non rimetterà più piede qui, – sentenziò guardando la giovane dritta in volto – E se solo provassi a contattarlo in qualsiasi modo, ti giuro che sarà l’ultima cosa che farai come mia figlia. E tu lo sai, – il sorriso lento in cui stirò le labbra non nascondeva minacce implicite – Io mantengo le promesse. Sempre.

 

“If you want a father for your child, 
or only want to walk with me a while 
across the sand, 
I'm your man.”




Quando la mamma era venuta a riprenderla, sorrideva. Però, aveva notato Helena, era un sorriso strano: non era pieno di allegria come al solito, ma neanche triste come quelli che per fortuna di recente erano diventati un po’ più rari; era, semplicemente, strano. Diverso.
La mamma aveva la testa tra le nuvole, la bambina l’aveva capito subito dai gesti lenti e impacciati propri di chi pensa ad altro con cui aveva salutato Tink prima di tornare in strada, dove ad attenderle – mamma gliel’aveva giurato, attendeva davvero loro! – c’era una carrozza.
- Indovina chi c’è dentro, – la donna aveva giocato mentre qualcuno dall’interno apriva la portiera.
Helena non ne aveva la più pallida idea, ma non era stato necessario ammettere la propria ignoranza: appena aveva levato il capo, aveva visto il volto sorridente del signore che era il suo papà.
- Salve, Milady!
Alla piccola era venuto da ridere senza un motivo. Da ridere, e anche da sospirare di sollievo, perché il ritorno del signore significava solo una cosa: la mamma le aveva detto la verità. Non che fosse solita mentirle, anzi, ma Helena aveva davvero temuto che il viaggio fosse solo una scusa e che suo padre non si sarebbe più fatto vedere; e col passare dei giorni il pensiero si era fatto più silenzioso, ma non era mai svanito del tutto.
Ma ora il ritorno di papà la tranquillizzava e, cosa da non trascurare, apriva la strada a mille possibilità: era ancora presto per la cena, ma si sarebbe fermato da loro anche quella sera? Avrebbe voluto giocare un po’ con Bae? –a lui l’avrebbe prestato, forse, rifletté. E magari anche stavolta le avrebbe dato un pupazzo…
- Mi hai portato un regalo?
- Helena! – sibilò Belle, ma Gold rise – Non essere maleducata. Sai che certe cose non chiedono.
- No, Dearie, non ti ho portato un regalo… Ma forse ho comunque una sorpresa per te, – le fece l’occhiolino prima di chiederle: – Come hai festeggiato il May Day? 1
- Fatto niente, – confessò lei immusonita – Pioveva.
- E allora dobbiamo recuperare, – l’uomo annuì più volte, come a rimarcare l’intenzione – Non possiamo fare grandi cose, ma dobbiamo almeno incoronare la Regina di maggio. Non trovi, Belle? 
- Sono d’accordo, anzi… Io avrei anche un nome da suggerirti.
- Un nome che significa “sole”?
- Il mio nome significa “sole”, il mio nome! Me l’ha detto la mamma! – esultò Helena battendo le mani. Che papà stesse parlando proprio di lei?
- E allora, – suo padre chinò il capo in segno di deferenza – La regina è tra noi.



- Belle, sono arrivati ancora tanti di quei fiori che… Oh, – Humbert s’interruppe appena vide chi accompagnava la donna e la guardò con un’espressione mortificata – Buon pomeriggio.
All’augurio non seguì replica alcuna.
Ci rincontriamo, Dearie.
L’idea che il giovane fosse di casa dalle Lucas non piaceva affatto a Gold. Malgrado le parole di Belle, non riusciva a non considerarlo un rivale sotto molteplici punti di vista: un nemico che aveva approfittato dell’assenza per rubare ciò che era suo, per insediarsi nel cuore delle due sole persone di cui si curasse, e che ancora non arretrava e faceva sfoggio della propria posizione. Era un pensiero sciocco che Belle gli avrebbe rimproverato non poco, ma lui non riusciva a debellarlo: come un’edera velenosa si era insinuato in lui, intrecciandosi silente ai pensieri, e ora, risvegliato dalla vista del diretto interessato, urlava.
I due uomini sostenevano i reciproci sguardi, ma Belle conosceva entrambi da troppo tempo per non individuare la falsa sicurezza che vi albergava. Graham non cercava simile confronto con chi continuava a reputare responsabile della sofferenza dell’amica – Lo prenderei a male parole, aveva detto una volta –, né voleva metterla in imbarazzo; ma in ogni caso, trovarsi faccia a faccia con colui che gli era stato preferito non poteva che essere una ferita per il suo orgoglio.
E lei non voleva che il tenero, paziente Humbert stesse ancora male a causa sua.
E Gold, dal canto suo, non migliorava affatto le cose: se entro un istante non si fosse mostrato meno duro nei confronti dell’altro, Belle lo avrebbe preso a calci. Continuava a fissare spietato il poliziotto; e alla donna non era passato inosservato che, quasi istintivamente, l’industriale aveva mosso un passo verso lei, come a voler rimarcare una sorta di appartenenza che la faceva arrabbiare non poco.
- Graham! – quando Helena vide il vecchio amico, gli corse incontro felice.
- Principessa! – nonostante la situazione, l’uomo fu costretto a sorridere e chinarsi per prenderla in braccio – Come stai? È da un po’ che non ci si vede!
- Bene! Devo mostrarti Bae e dirti taaante cose! Sai chi è questo? – indicò un Robert Gold improvvisamente molto più pallido – La mamma dice che è mio papà, però shhh! È un segreto! È stato lui a darmi Bae, e dice che sono la Regina di maggio!
- Naturalmente! Solo una bambina bella come te potrebbe essere la Regina!
Il modo in cui la piccola si strinse a Graham e gli scoccò un bacio sulla guancia furono un pugnale che trapassò il cuore di Gold da parte a parte.
Era sempre stato geloso nei confronti di Belle: da quando se n’era innamorato, panche quando era certo non ci sarebbe mai stato nulla tra loro in lui scattava qualcosa lo induceva a mal sopportare qualsiasi altro essere umano di sesso maschile le si avvicinasse più del dovuto. Il contesto era mutato, ma – come aveva sostenuto poche ore prima – qualcosa era rimasto invariato; quel sentimento irrazionale ad esempio.
Ma non poteva immaginare avrebbe provato quell’identica, pungente sensazione nei confronti di loro figlia.
Chi era quell’estraneo, come si permetteva di sfiorarla? Non ne aveva diritto, lui non aveva alcun diritto. Doveva stare lontano tanto da Belle quanto da Helena; doveva stare lontano dalla sua famiglia.
- Fai la corona con noi? – chiese Helena, del tutto ignara della faida in corso.
- Non posso, Helena, tra poco vado a lavoro, – l’interpellato si negò diplomaticamente – Solite cose… Salvo fanciulle e rincorro cattivi. Una gran noia, ma qualcuno deve pur farla!
- Ma almeno scegli i fiori con me? Dai, dai, ti prego! Ma’, – si rivolse a Belle – Graham mi può aiutare a scegliere i fiori?
 
La donna guardò invano Robert in cerca di un sostegno.
- Va bene, – concesse infine maledicendo la sorte che la poneva sempre in simili situazioni.
Nell’istante in cui la bambina e il poliziotto rientrarono in casa, Gold sentenziò gelido: – Quindi lui sa.
Più che come una domanda, a Belle quella suonò come un’affermazione incontestabile.
- L’ha capito il giorno in cui ci siamo ritrovati. C’eri anche tu quando me l’ha chiesto.
- Ma se fosse stato uno sconosciuto, ora la bambina gli avrebbe spiattellato tutto.
Altra osservazione corretta.
Il problema, Robert Gold, è il presupposto.

- Helena sa che ci si può fidare di Graham, Granny e Ruby. Si è fatta prendere dall’entusiasmo, ma non posso fargliene una colpa, – difese la figlia senza esitazioni – Le ripeto ogni mattina di mantenere il segreto, e lei lo fa: nessuno dei suoi amichetti ha scoperto nulla. C’è stata solo un’eccezione, l’altro giorno con Mary Margaret…
L’industriale voltò il capo di scatto.
- L’altro giorno con Mary Margaret?– ripeté a denti stretti.
- Sì, lei e gli altri… Aspetta, – Belle s’interruppe all’istante, intuendo con orrore la verità – Tu... Tu sai, vero?
L’espressione di Gold fu una risposta più che eloquente.
E così i suoi sospetti iniziali, quelli cui aveva deciso di non dar credito, si rivelavano ancora una volta esatti. Quella massa di piccoli pettegoli si era nuovamente impicciata in affari che non le concernevano, e il risultato era stato uno e uno solo: erano arrivati al cuore dei suoi segreti.
Non gli interessavano il come e il perché: li avrebbe puniti in ogni caso. Come minimo avrebbero fatto la fame per i prossimi mesi. E se anche un certo valletto fosse al corrente di tutto, si sarebbe ritrovato direttamente in mezzo alla strada. Che s’imbarcasse di nuovo e naufragasse… Magari ai pesci sarebbe piaciuta la sua solita smorfia tracotante.
Anche se forse, a ben vedere Gold avrebbe potuto capovolgere a proprio vantaggio la situazione venutasi a creare…
Non osare, ululò una parte di lui. Hai promesso di…
Osò.
- Se ti hanno trovata, – finse di dedurre – Vuol dire che questo posto è pericoloso. Che potrebbe trovarti anche Cora.
- Loro mi hanno trovata solo perché mi hanno vista sulla porta della locanda.
- E quindi un giorno potrebbe vederti anche Cora.
-  Robert, –Belle lo redarguì – Vivo qui da tantissimo e né lei, né i Frey mi hanno mai trovata. Facciamo sempre attenzione, ma dopo aver trascorso chiusa in una stanza i primi mesi ho capito che non era vita. Non sono capace di stare ferma e zitta, lo sai, e non ho intenzione di iniziare ora per delle ragioni che non si pongono, – a sorpresa, quella si stava rivelando anche l’occasione per riprendere il discorso che avrebbero dovuto affrontare dopo la cena – Te l’ho già detto: se sospettassi qualcosa, te lo direi. Non metterei mai in pericolo Helena. Non devi preoccuparti di noi.
Per te è semplice dirlo.
Tu non sei vissuta con la certezza di aver portato alla morte l’unica persona di cui ti importasse davvero.
Di avere le mani lorde anche del suo sangue.

- Stavolta non posso perdonare i tuoi ex colleghi. Non è questione di ordini violati, – l’anticipò all’istante – È molto, molto più grave. Se io non ancora sapessi di te ed Helena, loro me l’avrebbero riferito? 
- Sì,– sgranò gli occhi, stupita dall’ovvietà della domanda – Certo che l’avrebbero fatto.
Oh, Sweetheart.
Sempre così ingenua, sempre così pronta a vedere il buono nel prossimo.
Imparerai mai?

- Io invece non credo che l’avrebbero fatto. E se mi nascondono questo, – ribadì – Chissà quante altre cose mi nascondono. Si meritano una lezione.
- Loro sanno che sai, è per questo che non te l’hanno detto, – in un altro momento avrebbe sorriso udendo il fervore con cui Belle difese i dipendenti – Sanno che non vuoi vengano nei bassifondi, e non sono tanto masochisti da cercare una tua punizione. Io per prima, quando lavoravo da te, coprivo ed ero coperta dagli altri per un motivo o l’altro. E alle volte era palese che te ne fossi accorto, ma non dicevi niente. Non mi punivi, non mi decurtavi la paga…
- Sarebbe stato alquanto difficile, non ti pagavo.
- … Al più ti limitavi a una frecciata – continuò imperterrita – E stavolta tratterai Mary e gli altri come trattavi me. Fa’ capire loro che hai saputo tutto, ma non far loro niente. E non meditare vendetta o cose simili – lo verrei a sapere in un minuto.
Non avrebbe saputo spiegare perché, ma Gold sentiva che almeno quella volta avrebbe obbedito a Belle.
- Posso punirli almeno per essere usciti durante la mia assenza?
- No, – Belle si interrogò seriamente su chi fosse più infantile tra Helena e Robert. Almeno una bambina di quattro anni e mezzo era giustificabile… – Non li punirai per questo. E se scopro che l’hai comunque fatto, desidererai essere rimasto a New York.
- Trovo difficile desiderare essere ancora a New York se tu sei qui.
- Potrei sempre inseguirti, ma con intenti ben poco pacifici.
Ghignarono l’un l’altro, ma la smorfia non cancellò la tensione che resisteva e che nulla aveva a che vedere con le avventure dei domestici.
In fondo, si disse Belle, se davvero avessero voluto risolvere i nodi del loro rapporto avrebbero dovuto affrontare anche quello, per quanto fosse doloroso.
- Quanto a prima, -esordì timida – Helena non può capire – Gold chinò il mento – Graham è l’unico uomo che conosce da sempre. È naturale che gli sia affezionata tanto, e non posso – né voglio – eliminarlo dalla sua vita. Per lei è importante. 
Non c’era bisogno giustificasse la bambina. Razionalmente l’uomo lo capiva da sé: Helena non era in grado di comprendere la situazione, non l’aveva fatto con cattiveria. Stava già compiendo tanti sforzi per accettarlo, e non aveva colpa alcuna – e però, vederla stringere un uomo che non era lui gli aveva fatto più male di quanto pensasse.
Belle aveva detto che, all’epoca, sposarsi subito sarebbe stato un errore, ma lui non riusciva a essere d’accordo: se avesse saputo di dover diventare padre, l’avrebbe fatto ancor prima. Il giorno stesso in cui l’avesse scoperto.
E non l’avrebbe fatto tanto per frenare pettegolezzi come aveva detto: ci sarebbero comunque stati, e lui li avrebbe zittiti.
Avrebbe sposato Belle per amore.
Perché non credeva in Dio e negli uomini, ma credeva in lei, e allo stesso modo avrebbe creduto in quel bambino.
Perché Belle era arrivata inaspettata ed Helena inattesa, ma entrambe erano riuscite a diventare l’asse del suo mondo in poche settimane.
Le sue insperate, improvvise speranze di riscatto.
Di lieto fine.
- Lo so. È solo che… – Robert Gold amava giocare con le parole, ma all’improvviso si riscoprì incapace di seguire le fila del proprio discorso – Se ti perdessi di nuovo… Se perdessi lei… Non lo reggerei. In questi anni ci sei sempre stata tu. Solo tu. In ogni… In ogni senso.
Non sapeva perché l’avesse detto. Era stato sincero fino all’ultimo, quando aveva pronunciato quella che non era né menzogna né verità.
Non era falsità: anche nella morte, aveva amato Belle.
Non era realtà: quando la credeva morta, il suo corpo aveva cercato un’altra che non era Belle.
Un’altra che pareva essere pronta a balzare di nuovo nella sua esistenza.
Non era stato sincero, perché Belle non era stata l’unica, non in ogni senso almeno.
C’era un modo per rimediare.
Non ne ebbe la forza.
Rimase lì, immobile, incapace di guardarla e pregando perché la terra lo inghiottisse, facendolo sprofondare nel più oscuro degli Inferi.
Non volevi mentirle, e comunque non lo scoprirà mai, provò a consolarsi. Come potrebbe? Rebecca cercherebbe me, non lei. Non sa chi sia. L’ha scambiata per Cora.
La più magra delle consolazioni per la maggiore delle bugie.
Belle non rispose. Ciò che Robert aveva detto le aveva mozzato il respiro e fatto vorticare attorno il mondo per un istante. infinite volte durante l’ultimo lustro si era chiesta con chi fosse l’uomo, se ci fosse un’altra persona nella sua vita, se almeno lui fosse riuscito ad andare oltre. Se per lui Belle French fosse diventato un nome tra i tanti, un fantasma non più foriero del dolore di un tradimento presunto.
Se ci fosse riuscito, sarebbe stata felice per lui; ma in fondo al cuore Belle aveva sempre avuto sentore che le cose stessero molto, molto diversamente.
Erano il modo, la ragione per cui si erano uniti e lasciati a suggerirglielo: non era presunzione, ma se ci fosse stata un’altra nella vita di Robert Gold, non sarebbe stata tanto importante quanto lei.
Ma quanto le stava dicendo ora cambiava tutto.
Quanto stava dicendo ora parlava di una fedeltà che non conosceva confini e non temeva la morte.
- Non ci perderai, – lo disse a lui, lo giurò a se stessa – Non ci perderemo più, Robert. Helena ti ha accettato, già ti vuole bene, e non era una cosa scontata. Insieme recupererete tutto il tempo perduto. 
- E noi?
Quando Belle rialzò il capo, i suoi occhi erano lucidi.
- Noi troveremo il modo di far funzionare le cose. Impareremo daccapo. Riproveremo, falliremo ancora, impareremo dai nuovi errori. Ci impegneremo. Saremo sinceri. Ci fideremo. Riusciremo.
Non la meritava. Glielo disse, la voce rotta da singhiozzi che faticava a trattenere.
- Credi che l’amore si meriti? Un regalo si merita, un complimento. Non l’amore.L’amore nasce quando vuole, dove vuole, e provare a spiegarne il perché è inutile. Noi ci siamo innamorati, e ora siamo qui. In tre quando dovremmo essere ancora in due, mezzi rotti e pieni di sensi di colpa, ma innamorati. E questo è tutto ciò che conta. Il nostro punto di partenza, – l’abbracciò più forte che poté – Riusciremo a essere felici Robert. Ce la faremo.
Avremo il nostro lieto fine.
Quando Helena tornò con un cesto di rose e girasoli, i suoi genitori si tenevano per mano.

 

“But a man never got a woman back 
not by begging on his knees. ”




- Ancora una lettera?
Udì appena la domanda, assorta com’era nella stesura delle ennesime righe destinate a non ricevere risposta.
- Non è il metodo adatto, sai? Il cuore di uomini come lui non si conquista facilmente, ma quando accade è per sempre. E, Darling, per quanto mi spiaccia dirtelo non sei stata tu a soggiogarlo.
Lo so.
Dirlo ad alta voce sarebbe stata una nuova umiliazione. Forse sua cugina aveva ragione, forse le sue lettere sarebbero servite a poco – e, Stagione o meno, Ella non l’avrebbe accompagnata a Londra, sul punto era stata chiara –, ma Rebecca non si sarebbe data per vinta.
Il metodo adatto, aveva detto lady Feinberg; ma qual era il metodo adatto per ottenere lui? 
Perché un’altra l’aveva trovato e lei no?
Nel corso della vita Rebecca aveva conosciuto più volte il gusto amaro del disprezzo: era stata abbandonata, umiliata, ferita innumerevoli volte. Sarebbe dovuta essersene abituata; sarebbe dovuta restare impassibile dinanzi all’ennesimo rifiuto.
Ma mai, mai qualcuno le aveva fatto tanto male quanto Robert Gold.

Per questo Rebecca Zelenyy scriveva.

 

“If you want a lover 
I'll do anything you ask me to, 
and if you want another kind of love 
I'll wear a mask for you.”

“I’m your man” - Leonard Cohen



1: In Gran Bretagna il 1° Maggio si celebra il May Day, una sorta di festa di primavera – come “Calendimaggio”, che si tiene in alcune zone d’Italia. Si 
Parecchio informazioni interessanti sulle origini celtiche della festa e sulle tradizioni che la caratterizzano su https://elt.oup.com/student/happyfriends/genitori/vita/mayday?cc=it&selLanguage=it e su http://gea-draconia.net/2012/04/25/may-day-parte-1/

Alcune battute della lite tra Ruby e Granny sono tratte dalla puntata 1x15.



N.d.A. :Bentrovat*! ♥
Ecco a voi il nuovo capitolo dalla storia decisamente travagliata! L’incontro RumBelle sarebbe dovuto essere diverso: sarebbe sempre stato un appuntamento a lieto fine, ma dallo svolgimento ben differente. Però, al momento di andare a battere il capitolo al computer – perché sono vecchio stampo, io, prima scrivo a mano! xD –… OPS! 
(Non linciatemi, PLIIIS.)
Insomma, non mi convinceva e ho deciso di rielaborare tutto. Ma ieri sera, quando ho provato a pubblicarlo, l’editor EFP è impazzito e ha cancellato interi paragrafi, eliminato spazi e chissà cos’altro. Quanto a quest’ultimo aspetto, ho cercato di rimediare come possibile: mi scuso per eventuali errori e prometto che riguarderò tutto per bene nei prossimi giorni!
Mi rimetto a voi quanto al risultato finale: consigli e critiche sono sempre benaccetti, stavolta persino più del solito a causa dell’antefatto e della grande paura di aver reso OOC qualche personaggio, come ad esempio Ruby: ho pensato di far riferimento al personaggio come visto nella seconda stagione, che resta sì una peperina, ma al tempo stesso nasconde immense insicurezze e poca fiducia in sé. Idem per Graham, Leroy, Cora, Regina, Belle, ma soprattutto Gold – perché “you are quite possibly the biggest pain in the ass I’ve ever had the displeasure of writing about” è la mia nuova citazione preferita.♥
Ci siamo capit*: se non sono IC, segnalatemelo senza farvi scrupoli!
Ringrazio chi ha letto e/o recensito il precedente capitolo e/o ha aggiunto la storia a una categoria; se vi va, passate a trovarmi su Facebook: la mia pagina s’intitola “Euridice’s world” e tratta fondamentalmente recensioni OUAT, qualcosa Disney, qualcosa Game of Thrones, libri, altre serie e cose che ora non ricordo e fangirleggiamenti vari ed eventuali! :)
Ci si rilegge tra due sabati, come al solito; e, con un po’ d’anticipo, buon 25 aprile! ♥
A presto, e bacioni, mie* Sweethearts! *_*
Euridice100

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Capitolo 11
*** X - Where does the good go? ***


 
 
 
X - Where does the good go?
 
 
 
“Where do you go
with your broken heart in tow?
What do you do

with the left over you?”
 
 
 
Gli piaceva la loro piccola routine. S’incontravano due, tre volte la settimana, condividevano momenti che avevano il sapore fresco del sorso d’acqua dopo il deserto – benedicevano l’anima riarsa, inebriavano anima e cuore.
Ritagliavano ore per vedersi: una volta tutti insieme a pranzo, un’altra nel bel mezzo del pomeriggio, e qualche sera loro due da soli; frammenti di tempo che volavano, ma che lasciavano sensazioni infinite. Non si accordavano quasi mai in anticipo: al momento di salutarsi non c’era bisogno di alcun “Allora arrivederci a…”, perché sapevano che l’appuntamento era sempre rinnovato. Al giorno seguente, alla settimana successiva; una volta persino a quella sera stessa.
- Mi mancavi, – aveva ammesso lui, e lei aveva sorriso prima di afferrarlo per la giacca e attirarlo a sé.
Vedendoli, Ruby aveva riso – una risata allegra e sincera, non frenata dalla presenza di lui.
- Bado io a Helena, – aveva detto – Buona serata, – e non c’era ironia nella sua voce, solo il sincero desiderio di vedere la sua amica finalmente felice.
Mille ringraziamenti, aveva pensato Gold, sarebbero stati pochi.
Avrebbe voluto portare Belle in campagna, o almeno in un posto migliore, lontano dai panni stesi ad asciugare e dalle urla degli ambulanti che giorno e notte s’aggiravano per Whitechapel; erano rimasti protetti dalle alte mura del patio delle Lucas, seduti sul gradino e con la schiena poggiata alla porta, a parlare, parlare e parlare ancora, quasi senza sapere di cosa. A ricordare – e c’era sempre una frase sospesa tra loro, un Ti amo che non avevano l’ardire di pronunciare, ma che sentivano premere in fondo alla gola, quasi esplodere e imporsi loro malgrado, come quel bacio che si erano scambiati la sera della cena e che, lo sentivano, non sarebbe rimasto isolato ancora a lungo.
A un certo punto si erano resi conto del silenzio che improvvisamente li aveva avvolti, ma non ne avevano avuto paura: in quella quiete non c’era rancore, non c’era disagio, ma completezza; non c’era il vuoto, ma la piena complicità di loro. Erano rimasti vicini, il capo di Belle posato sulla spalla di Gold, a guardare il cielo di maggio tra la cui foschia facevano capolino sparutissime stelle. Non avrebbero saputo indicare il momento in cui le loro mani si erano incontrate: le avevano scoperte allacciate, le nocche quasi bianche tanta era l’impeto con cui si tenevano; le avevano fissate e si erano guardati, ma non le avevano separate.
Avevano iniziato a carezzarsi i palmi e i dorsi, a risalire oltre i polsi e stringersi, stringersi come se la tempesta avesse potuto colpirli e solo il loro abbraccio salvarli; avevano iniziato a toccarsi attraverso i vestiti, a percorrersi e ritrovarsi – riconoscersi – guidati da un desiderio antico che rinasceva con la stessa intensità di un tempo. Con le dita lui le aveva tracciato i lineamenti più volte, quasi volesse impararla a memoria; le aveva forzato la bocca e carezzato a lungo l’interno del labbro inferiore, desiderando baciarlo, morderlo, farlo proprio, venerarlo.
Lei lo aveva lasciato fare. Gli aveva piantato addosso occhi ardenti di tutta la passione, tutta la dolcezza che vi aveva scorte un tempo, e si era stretta un po’ di più a lui.
- Sweetheart…
Provava ancora un brivido quando la chiamava così.
- Shhh.
Avrebbe voluto baciarla, sì, quella sera ancora più delle altre; rannicchiarsi tra le sue braccia e farsene cullare, dimenticare ogni miseria, ogni affanno, la lettera che aveva ricevuto e di cui non poteva parlarle.
Allontanarsi aveva richiesto uno sforzo di volontà tale da lasciarlo disorientato e privo di energie; ma avrebbe fatto come giurato a se stesso: non l’avrebbe più toccata – non l’avrebbe baciata fino a quando non sarebbe stata pronta e, per quanto una parte di lui volesse illudersi, in fondo sapeva che le cose erano ben diverse. C’erano ancora degli istanti in cui, tra un aneddoto divertente, un libro letto grazie a biblioteche itineranti e il racconto di una culla ricavata da un cassetto, quelle iridi brillanti da far male si estraniavano, e la loro proprietaria quasi veniva trascinata via, riportata al tempo in cui lui l’aveva costretta ad affrontare il mondo da sola.
Un mese e mezzo non bastava a cancellare cinque anni di abbandono; forse una vita intera non sarebbe bastata.
Ma fino ad allora l’avrebbe aspettata. L’avrebbe rispettata più di quanto avesse fatto in passato, anche se avesse dovuto attenderla in eterno.
Se si trovava a considerare l’eventualità, la colpa era sua e solo sua.
E ripensare ai sorrisi complici che tanto tempo prima gli dedicava mentre la spogliava, alle sue gambe bianche, ai gemiti e alla droga che era il suo profumo, ripensare che aveva voluto perderli lo faceva sentire peggio.
Non l’avrebbe lasciata ancora col cuore rotto e la reputazione a pezzi – non stavolta, non più. Se qualcosa fosse successo, se fosse ricominciato ciò che esisteva tra loro – ma si era mai interrotto? – sarebbe stato per sempre.
Un per sempre, rifletteva, ci sarebbe stato comunque qualunque piega avessero preso gli eventi. Era strano come, pur conoscendola da una manciata di settimane, lei fosse già divenuta tanto importante.
La sua Helena, che lo aveva accolto a una velocità impressionante, facendolo divenire un tassello imprescindibile della sua giovane vita.
La sua Helena, che gli sorrideva quasi sempre e quando non lo faceva finiva per chiedergli scusa con un’aria talmente contrita che, se fosse stato realmente arrabbiato, l’avrebbe perdonata all’istante.
La sua Helena e quella bellissima e irrefrenabile voglia di giocare cui lui non sempre riusciva a star dietro, cui proprio non era abituato. Neal era stato un bambino tranquillo e saggio, fin troppo maturo per la sua età: forse per il contesto, forse per la terribile e preveggente sensazione di essere di troppo al mondo, cercava di occupare meno spazio possibile, di passare inosservato. Per non far arrabbiare la mamma, si giustificava, anche quando Milah se n’era andata ormai da mesi.
Neal era stato silenzioso; un po’ come Regina, per motivi tanto diversi e al contempo così vicini.
Helena, invece, era cresciuta in un ambiente rumoroso e affollato, dominato da figure forti e risolute come le due Lucas, e aveva sempre avuto accanto Belle, la cui educazione non sfociava in affettazione; il risultato non poteva che essere una bambina sempre in movimento, che schizzava da una parte all’altra e non aveva remore a esprimersi.
La bambina più felice che avesse visto da molti anni a quella parte.
Lei e Belle erano sempre assieme: ridevano, giocavano e scherzavano in continuazione, e soprattutto avevano lo strabiliante e meraviglioso potere di includerlo. Di dargli l’impressione di esserci sempre stato, di non essere rientrato nelle loro vite solo poco prima. Neanche durante la prima cena Gold si era sentito un estraneo cui era richiesto di restare in un angolo: se un terzo li avesse osservati, avrebbe visto una famiglia.
Due genitori e la loro figlioletta che, sebbene si rivolgesse al padre con un generico Tu, l’aveva eletto a compagno di giochi prediletto ed era in grado di trascorrere ore ad ascoltarlo, gli occhi sgranati in un’espressione di rapita fascinazione infantile. La sera in cui aveva preteso fosse lui a narrargli la storia della buonanotte, l’uomo aveva provato una vertigine d’euforia, la gola che gli si chiudeva sotto il peso di un’emozione strana e familiare a un tempo. Aveva guardato Belle certo che fosse il caso di un suo intervento, perché la bambina doveva essersi confusa, non poteva volere davvero condividere un simile momento con una persona semisconosciuta; ma la donna aveva sorriso – un sorriso rassicurante, scevro di ipocrisie, e a lui si era scaldato il cuore al pensiero che per la prima volta la loro bambina volesse qualcosa da lui anziché da un terzo, da un estraneo.
Non raccontava favole da trent’anni, eccetto qualche lontano episodio con Regina, e forse aveva anche dimenticato cosa fare e come farlo; ma poi si era all’improvviso ritrovato su quella seggiola, immerso lui stesso nelle avventure della fanciulla e del toro nero di Norroway 1, con Belle che li osservava dalla soglia e rideva quando lui faceva le voci e le facce.
- Sei un bravo papà, – gli aveva sussurrato quando la piccola si era addormentata; e lui era stato felice di averla resa, per una volta, orgogliosa di lui.
Quella stessa sera aveva riconsiderato la proposta avanzata a Belle durante il primo incontro in carrozza. L’idea di trascorrere giornate intere con Helena, di vederla scorrazzare per la villa e riportarvi il sole come già sua madre aveva fatto era tanto bella da essere quasi dolorosa: lui e la sua bambina finalmente insieme, un’immagine che fino a pochi mesi prima gli sarebbe parsa autentica pazzia. Quanti momenti avrebbero condiviso, quanta felicità? Lui si sentiva pronto a ricominciare, ad avere accanto la sua creatura e darle tutto ciò che per colpa e volontà le aveva negato.
E lo stesso valeva per Belle, certo: da allora in avanti entrambe sarebbero state trattate come spettava loro, come regine. Già inviava a Whitechapel pacchi di vesti e giochi che, puntualmente, si vedeva restituire alla prima occasione.
- Stiamo bene così, – la donna si opponeva fiera alle sue argomentazioni – Non ci serve nulla.
Ma vederle arrangiarsi con ben poco e indossare gli stessi abiti consunti mentre lui viveva nel lusso erano particolari difficili da ignorare. Alla fine, aveva capito, il modo migliore era consegnare tutto a Helena: anche in questo caso Belle faceva la voce grossa, ma non erano molte le argomentazioni capaci di reggere al modo in cui la piccola serrava a sé i balocchi nuovi.
Se le avesse avute a Kensington, quella sarebbe stata quotidianità.
Ma doveva esser cauto. Si stava avventurando per sentieri accidentati, già di per sé forieri di pericoli: Cora era pur sempre in agguato, e se a questo si sommava la lettera ricevuta dalla Zelenyy tutto diveniva ancora più rischioso. Si era chiesto se, allo stato dei fatti, fosse sicuro ospitare una piccina indifesa in una dimora su cui convergevano le mire di due – al bando gli eufemismi – streghe; e, sebbene la risposta immediata fosse negativa, era pur vero che la situazione non sarebbe comunque migliorata di lì in breve.
Rebecca sarebbe tornata in America dopo qualche settimana, gli aveva detto Ella: sì, ma dopo quante? Nessuno, nemmeno una folle come la sua ex amante avrebbe affrontato un viaggio tanto lungo per un soggiorno di pochi giorni, e il pensiero di non poter avere con sé la figlia a tempo indeterminato era inaccettabile; anche perché già Cora lo portava a contemplare tale eventualità – lei, pensava amaramente l’uomo, non sarebbe certo sparita dalla vista nel giro di qualche settimana.
In simili frangenti non agire avrebbe equivalso a perdere un’occasione, anzi, l’occasione; e forse fu il Gold finanziere a parlare, o forse solo il Gold padre innamorato, ma quando prese una decisione seppe subito che non sarebbe tornato sui suoi passi.
Se Belle avesse accettato, avrebbe portato Helena a casa.
 
 
 

And how do you know
when to let go?
Where does the good go?

Where does the good go?”



 
 
Regina aveva trascorso ore d’inferno. Sarebbe potuto essere altrimenti? Era stata chiusa in camera e ogni via di fuga le era stata preclusa: la porta era stabilmente piantonata dai servitori più incorruttibili e Miss Mordane, la sua ex istitutrice, era passata a farle un discorsetto sui suoi doveri di figlia. Odiava quella vecchia bisbetica quasi quanto odiava Cora, se non di più: ai rimproveri bigotti della donna preferiva la dura franchezza di chi le aveva strappato via ciò che di più caro aveva al mondo.
Ciò che in un modo o nell’altro avrebbe riottenuto.
Non sapeva cosa fare, ma non si sarebbe lasciata portar via così l’uomo che amava: rimanere inerte significava accettare le ragioni materne, e piuttosto che farlo Regina avrebbe preferito ogni altra cosa.
Ma come fuggire da una stanza che conteneva il mondo e non la libertà? Quando le avevano portato un pasto, la ragazza aveva provato a fuggire, per poi essere subito ricondotta in camera col monito di non provarci più – perché, a quanto pareva, la cara, dolce Maman aveva dato ai suoi scagnozzi licenza di menare le mani in caso di ulteriori intemperanze. Non che la minaccia intimidisse Regina, ma lei stessa doveva riconoscere che le probabilità di tener testa a ex galeotti grandi e grossi non erano esattamente a suo favore; e l’idea di calarsi dalla finestra con le lenzuola era sì allettante, ma l’avrebbe portata a sfracellarsi al suolo, e al momento dare la soddisfazione del suicidio alla Contessa esulava dai suoi piani.
Dopo due giorni di tentativi Regina si era ritrovata costretta a guardare in faccia la dura realtà: non c’erano vie di fuga. Qualsiasi strategia escogitasse, qualsiasi strada provasse a percorrere, Cora l’aveva già prevista e bloccata impedendole di agire; e lei, che recentemente si era vantata di averla ingannata, nel momento più delicato si riscopriva esserne succube.
Di lì all’eternità.
Come sarebbe stata la sua vita? Sua madre non avrebbe dimenticato né perdonato simile onta: da quel momento in poi il controllo esercitato su di lei sarebbe stato ancora più stringente. Sarebbe diventato soffocante, totale, mortale. Quella stanza sarebbe stata il suo mondo: nella migliore delle ipotesi sarebbe uscita solo per essere consegnata al primo scalatore sociale disponibile a farsi carico di merce avariata come lei in cambio del nome dei Mills
Non sarebbe più tornata al Cheltenham, né in qualsiasi altro collegio. La sua istruzione terminava lì: più di quanto molte sue coetanee avessero ricevuto, ma ancora poco rispetto alle ambizioni che sua madre pareva divertirsi a soffocare.
E poi c’era il pensiero di Daniel.
Si sarebbero più rivisti? Per quanto una parte di lei non si convincesse a declinare la loro storia al passato, Regina non voleva illudersi. Se il giovane avesse deciso di andarsene, di cercare altrove un lavoro e un posto in cui vivere senza timori, avrebbe compiuto una scelta saggia. Era bene così, era giusto così: almeno uno dei due sarebbe stato libero di vivere la sua vita. Regina non avrebbe mai preteso simile rinuncia in suo nome.
Solo, restava la malinconia degli amori perduti, quel pugno di carne nel petto che accelerava la corsa al ritorno di certi istanti ormai da custodire come una fugace parentesi di gioia nella tempesta.
E la terribile sensazione che Daniel non si sarebbe mai comportato così.
Non l’avrebbe mai lasciata senza voltarsi indietro, senza provare a combattere o a contattarla: non l’aveva fatto a dieci anni, non l’avrebbe fatto ora.
Se sembrava sparito, doveva essergli successo qualcosa. Non c’era altra spiegazione; e il timore tormentava la fanciulla giorno e notte.
A onor del vero, andava riconosciuto: l’avvenire cupo che ella aveva paventato si era risolto in ben poco. Al quarto giorno di confino, Cora le aveva permesso di uscire dai suoi appartamenti concedendole persino il privilegio della sua presenza.
- Sono certa avrai ormai imparato a comportarti come si confà, – l’aveva riaccolta la Contessa.
Regina non aveva risposto.
Perché mi odi tanto, quando io ti voglio così bene malgrado tutto?
Aveva ricominciato ad accompagnare la madre in ogni dove: avevano preso assieme tè insipidi da dame tutte uguali tra loro, erano andate a un paio di riunioni di comitati di beneficenza cui la Lady riteneva bene farsi vedere di tanto in tanto, due volte erano persino state in visita da uno zio che aveva nascosto a malapena la sua insofferenza. Regina non dubitava che, se fosse già stata presentata in società, Cora stessa le avrebbe fatto da chaperon a ogni soirée, obbligandola a  svolazzare da una festa all’altra come falene attratte dalla luce.
Quando incontravano qualche coetanea ritenuta ammodo, l’adolescente sentiva gli occhi della madre addosso, quasi a ricordarle come sarebbe dovuta essere, quale esempio avesse in mente lei per inibirla, rimodellarla, farla rientrare nei canoni.
Come ci sono riuscita io, ci riuscirai anche tu, la nobildonna l’ammoniva in silenzio.
Regina ce l’avrebbe mai fatta, dopo aver assaggiato la libertà?
Ma all’improvviso qualcosa si era mosso.
Una mattina, mentre l’aiutava a vestirsi, una cameriera bionda chiamata Mal aveva casualmente lasciato scivolare dalla tasca dell’uniforme un bigliettino che la piccola Mills si era ritrovata a fissare un istante più del dovuto.
- Ti sbrighi a prenderlo? – la domestica era esplosa in un sibilo acuto, causando nella Contessina un sussulto di sconcerto e stizza a un tempo. Come osava una ragazza solo pochi anni più grande, una dipendente per giunta, rivolgersi a lei così? Con un solo cenno avrebbe potuto sbatterla fuori, farla finire a chiedere l’elemosina in mezzo a una strada!
Stava per replicare acida quando Mal aveva riafferrato il foglietto e gliel’aveva lanciato contro, accompagnando il gesto con un’unica, fondamentale parola.
- Lui.
A Regina si era fermato il cuore. Incurante di non essere sola, dimentica del fatto che la serva sarebbe potuta essere una spia materna, aveva stretto al petto il messaggio prima di aprirlo e leggerlo avidamente.
Erano un semplice indirizzo e un’iniziale inconfondibile; l’autore della nota, però, all’ultimo – come se avesse meditato a lungo sull’opportunità di farlo – aveva aggiunto un cuore mezzo sbilenco, un disegnino così tenero e ridicolo che Regina si era sorpresa a sorridere tra sé e sé.
Aveva rialzato il capo verso l’inserviente.
- È suo?
L’altra aveva arricciato le labbra in una smorfia sarcastica prima di replicare.
- Che intelligente! Certo che sì – me l’ha consegnato di persona stamani, mentre accompagnavo la governante al mercato. Lei non ci ha visti, o certo ora non sarei qui a raccontartelo. Allora, – aveva concluso pratica – Che farai?
Regina non aveva risposto subito. Tutto l’entusiasmo che nell’immediato si era impadronito di lei era svanito nel nulla, prosciugato alla vista dei freddi occhi chiari dell’interlocutrice.
Cosa sapeva di Mal Bauer? 2 Nulla, se non che era stata assunta dopo il licenziamento di Ava Zimmer. I fatti avevano dimostrato che a Belgravia la fiducia era un lusso da non potersi concedere: chi le assicurava che quello non fosse l’ennesimo trucco per coglierla sul fatto e separarla, questa volta definitivamente – al solo pensiero il respiro le si strozzava in gola – da Daniel? Era la sua calligrafia, ma se fosse stato costretto a scrivere il biglietto? Non poteva così egoista da esporlo a tanto: se gli uomini della madre non intendevano lesinare schiaffi a lei, cos’avrebbero fatto a lui se fosse capitato, o se fosse stato già nelle loro grinfie?
Aveva inghiottito un fiotto di bile amarissima stracciando il foglio.
- Non m’importa, – sentenziò senza tradire alcun inflessione nella voce – Oramai ho capito i miei errori e non li ripeterò.
Mal l’aveva guardata di sottecchi, un’espressione di palese sospetto sul volto.
- Se pensi che io sia un’emissaria di tua madre, ti sbagli di grosso.
Esattamente ciò che la Contessa avrebbe ordinato di dire.
Regina si era stretta nelle spalle.
- Ciò non cambia le cose. E ti consiglio di smettere di essere tanto indisponente, se non vuoi perdere il posto.
L’altra aveva nascosto a stento uno sbadiglio, indifferente alla minaccia rivoltale. L’atteggiamento aveva allarmato ancora di più l’adolescente.
- Personalmente non posso darti torto. Daniel non è tutto questo granché, malgrado tu sia convinta del contrario.
Regina l’aveva fatta andar via adattandosi appieno alla maschera che si era imposta; ma a quel punto, nulla aveva trattenuto il sorrisino sprezzante in cui le labbra, come dotate di autonoma volontà, le si erano curvate.
Un indirizzo nell’East End, un’iniziale e un cuore.
Appena tre righe, e quasi poteva vedere le dita forti di Daniel vergarle.
Poteva essere una congiura, certo, l’ennesima pugnalata alle spalle che Cora le infliggeva in spregio dell’amore materno che pure sosteneva di nutrire nei suoi confronti.
Poteva essere un altro beffardo scherno che l’avrebbe gettata in ulteriore disgrazia, sì.
Poteva.
Ma finché non l’avesse visto coi suoi occhi, non ne avrebbe avuto certezza.
In fondo cos’altro avrebbe potuto sottrarle sua madre? Ormai si era presa tutto; di lei non era rimasto niente, perché non era mai stata niente se non la sua bambolina. Cora l’aveva manovrata sin dall’infanzia, ricattandola, premiandola col suo affetto e il suo orgoglio; ed era stato proprio il suo naturale, straziante bisogno di essere amata a renderla docile e complice tra le mani materne.
Senza Cora, Regina era niente; ma proprio per questo, proprio perché presto ogni cosa sarebbe finita – era già finita –, prima della resa finale Regina doveva concedere a se stessa l’estremo tentativo.
Era stata paziente, lei che spesso era stata tanto impulsiva. Aveva atteso che le acque si chetassero ancora: non aveva più risposto, non aveva più cercato la lite; si era limitata a obbedire. Si era dimostrata pentita e dispiaciuta, accondiscendente ed educata; la succube che Cora aveva sempre sognato. Quando aveva scoperto la madre guardarla più spesso in volto, Regina si era sforzata per interpretare ancor meglio il suo ruolo.
L’aveva ingannata una volta. Non riusciva a illudersi vi sarebbe riuscita di nuovo, ma se avesse fallito, l’avrebbe fatto come suggeriva il suo stesso nome: da regina.
E un pomeriggio, complice la Stagione ormai avviata che coinvolgeva Cora in mille e più eventi, il momento era arrivato.
Aveva finto un’atroce mal di testa e si era chiusa in camera dando l’ordine di non essere disturbata per alcun motivo. Aveva indossato gli abiti più umili fosse riuscita a trovare ed era sgattaiolata fuori dall’uscita di servizio.
Un indirizzo nell’East End, un’iniziale e un cuore.
Non aveva mai messo piede nella zona, e tutto ciò che sapeva a riguardo erano le voci che lo descrivevano come orribile e disagiata, l’impero della decadenza e dell’immoralità. Se l’avessero vista aggirarsi in postacci simili, la sua reputazione sarebbe stata definitivamente rovinata; per non menzionare il fatto che si stesse recando in visita da un uomo.
Una gentildonna non si reca mai da sola in casa di un gentiluomo, chiunque si fosse occupato della sua educazione l’aveva messa in guardia; e il particolare che Daniel Locke non fosse un gentiluomo non aiutava certo la sua causa.
Ma tra quello, o tornare indietro e seguire la strada già tracciata, Regina non aveva dubbi.
Era riuscita, con suo stesso stupore, a superare senza difficoltà i quartieri ricchi quando era passata davanti a Mal Bauer.
Paralizzata, la bocca arida per la tensione e mille maledizioni in testa, Regina aveva comunque cercato di tirar dritto e passare inosservata; ma era stato vano: la cameriera, seduta su un gradino, l’aveva ormai scorta e le aveva rivolto un lungo fischio.
- Allora non sei poi tanto fifona, – aveva sogghignato quando la nobile si era voltata.
- Cosa vuoi? – Regina si era d’impulso difesa – E chi ti ha dato il permesso di uscire?
- La stessa persona che l’ha dato a te.
- Lo dirò a mia madre.
Mal aveva finito di arrotolare una sigaretta e l’aveva accesa con calma. La Mills era arrossita vedendola aspirare con gusto: una donna che fumava rientrava di diritto tra le scene più scandalose cui avesse assistito. L’altra se n’era subito accorta.
- Svieni per questo e pretendi di andare nei bassifondi. L’importante è crederci, – l’aveva canzonata come al solito – In ogni caso, avvertimi quando dirai tutto alla vecchia Cora. Sono curiosa di sapere come giustificherai la tua, di uscita.
Regina si strinse nel mantello, risentita, ma costretta ad accogliere l’obiezione.
- Che ci facevi qui?
- Quello che non stai facendo tu. I fatti miei.
Una cosa era certa, si era detta la Contessina: poche persone la irritavano più di Mal Bauer.
E di poche persone, in quel momento, aveva altrettanto bisogno.
- Io non ho visto te, se tu non hai visto me, – aveva deciso di patteggiare.
La bionda si era puntellata sui palmi per rialzarsi.
- Mi pare ragionevole, – aveva soffiato verso l’alto un’altra boccata di fumo prima di continuare – Allora, si va a Spitalfields?
Regina, sgomenta, spalancò la bocca.
- Hai letto il biglietto?
- Una domestica deve essere discreta, difendere il buon nome della famiglia che serve e proteggerla da possibili minacce, – aveva recitato con un’aria talmente accorata da far strabuzzare gli occhi all’altra – E se il biglietto fosse provenuto da un malintenzionato deciso a mettere a repentaglio la virtù di vossignoria? – aveva inclinato il capo come a soppesarla, prima di sospirare rassegnata – Con te l’ironia si spreca. Ti accompagno, va’, ché è meglio.
 
 
 
“Look me in the eye
and tell me you don't find me attractive,
look me in the heart

and tell me you won't go.”
 
 
 
Vorrei sapere perché non mi rispondi. Basterebbero un paio di frasi e ti lascerei in pace, te lo prometto; voglio solo capire perché la nostra storia è terminata, cosa io non posso darti e lei sì. Insieme avremmo potuto conquistare il mondo, me l’hai detto tu stesso una sera.
In quanti giorni mi ha dimenticata? Sempre che ci sia mai stata.”
Lei ha anche solo metà della mia ascendenza? Metà della mia intelligenza, della mia bellezza? Non credo. Non per superbia o invidia, ma perché è la verità.
Insieme eravamo bellissimi. Perfetti.
Sono state le tue menzogne, le tue falsità a farmi impazzire di rabbia. Come sopportare simili trame alle mie spalle? Perché dirmi che era morta, per poi scambiarti letterine con lei? Al mio posto ti saresti forse comportato diversamente?
Non meritavo di essere presa in giro; non meritavo di essere presa in giro da te.
Le lettere della Zelenyy avevano un gran pregio.
Bruciavano in fretta.
 
 
 
“Look me in the heart
and unbreak broken,
it won't happen.” 


 
Quando Robert le aveva proposto di mandare Helena a Kensington, Belle aveva reagito in modo strano.
Se gliel’avessero predetto poco più di un mese e mezzo prima, con ogni probabilità la sua risposta sarebbe stata un No inappellabile, esattamente com’era successo in occasione dell’incontro in carrozza. Eppure, malgrado gli infiniti dubbi, stavolta non poteva negare di essere in parte contenta per il desiderio espresso dall’uomo, per la sua volontà di stare con la figlia.
La normalità in cui erano vissute per cinque anni era stata completamente stravolta, ribaltata dall’arrivo di colui che, ancora una volta, con poche frasi e poche parole si era impossessato dei loro cuori.
Alla vecchia, placida realtà se n’era sostituita una nuova, ma altrettanto bella.
No: molto più bella.
Perché da una parte c’erano ancora, c’erano sempre Granny e Tink che scuotevano la testa rassegnate quando sentivano nominare l’industriale, e Ruby che invece sosteneva la coppia e non perdeva occasione per agire da paraninfo di bassa lega, e Graham per il quale tutto era più difficile, ma che pure restava accanto a Belle, silenzioso e gentile com’era nella sua indole, e che non si negava ai giochi della bambina che per cinque anni per lui era stata come una figlia. C’era il lavoro, che le impediva di distrarsi più del dovuto e le imponeva di sorridere e scherzare anche quando non avrebbe voluto – ma sarebbe stato possibile mantenere il broncio a lungo con gente come Leroy?
E dall’altra parte c’era la sua nuova, vecchia realtà: la realtà di Mary Margaret, di Archie e degli altri che andavano a trovarle tanto spesso, di Ashley e dei suoi piccoli – Alexandra mi sta antipatica, era però stato l’irremovibile giudizio di Helena –, di Emma che insegnava alla ragazzina a giocare d’azzardo incurante della sua incapacità di contare e di un Killian forse più cupo del solito, ma che pure suggeriva a Helena come barare e le raccontava miti indiani e superstizioni marinare.
La realtà in cui c’era lui.
E allora, come poteva non essere quella la realtà più bella?
Lui e il modo in cui si era avvicinato a loro figlia, il suo saper restare ai margini se necessario e primeggiare quando la situazione lo richiedeva, lui e la partecipazione con cui ascoltava le avventure della figlia, intessendo magie con la voce e facendo ridere entrambe – perché Belle stessa si riscopriva a ridere più spesso, da quando c’era lui.
Lui, che per una volta le aveva prestato ascolto e aveva lasciato intendere ai suoi di sapere tutto delle loro gitarelle, senza però punirli per questo.
Lui e i biglietti che aveva preso a mandarle quando non potevano incontrarsi, quando l’anima pesante contava di nuovo i giorni che li separavano.
Perché tutti se ne stupivano? Era innamorata, e non era una novità.
Robert non le scriveva cose sdolcinate, ed era giusto così. Sarebbe stato facile parlare di luna e stelle, dispensare baci con un tratto di calamaio dopo l’altro; sarebbe stato facile, ma non sarebbe stato da lui, e soprattutto avrebbe smentito ciò che, pur senza parole, le aveva promesso: l’intenzione di aspettarla.
Quando l’aveva ringraziato per questo, lui aveva distolto lo sguardo per un istante, come se fosse sul punto di aggiungere dell’altro e qualcosa all’ultimo l’avesse frenato. Per una volta, però, Belle non se n’era angosciata: ci sarebbe voluto tempo per esprimere ciò che cinque anni aveva insediato nei loro cuori, tempo e pazienza.
“Se ti perdessi di nuovo… Se perdessi lei… Non lo reggerei.
In questi anni ci sei sempre stata tu. Solo tu. In ogni… In ogni senso.”
Anche lui aveva sofferto, pur tardando ad ammetterlo.
La donna non aveva ancora parlato con Helena della proposta. Aveva chiesto consiglio a tutti i più intimi amici, ottenendo di volta in volta un parere diverso; alla fine aveva deciso che forse la cosa più giusta da fare sarebbe stata lasciar scegliere alla bambina: era piccola e ovviamente immatura per una simile decisione, vero, ma ne era anche la diretta interessata e a Belle pareva opportuno per lo meno consultarla e considerarne la volontà. Era giusto che la bimba stesse col padre, anche stante l’intensità del legame sbocciato, e razionalmente ogni punto andava a favore di tale opzione; e tuttavia…
L’aveva presa sulle ginocchia e le aveva parlato piano, con calma e tranquillità affinché capisse che non esistevano costrizioni in un senso o nell’altro e che qualunque scelta avesse compiuto nessuno l’avrebbe giudicata, rimproverata o addirittura amata meno. Questo era un punto su cui non transigeva: loro figlia non avrebbe subito alcuna coartazione, e nell’eventualità remotissima – inesistente, lo sapeva lei stessa – in cui Gold non fosse stato d’accordo, gliene avrebbe dette quattro.
Era un passo delicato, uno dei più ardui che avessero compiuto fino ad allora: non potevano sbagliare.
Ma Helena l’aveva stupita ancora una volta. Non solo l’aveva ascoltata attentissima e quieta, ma non aveva esitato nel dare l’assenso al trasferimento. Forse era naturale: la bambina aveva ereditato la sua indole avventurosa, e per chi raramente era uscito dal quartiere natio quella doveva presentarsi come un’avventura in piena regola. Non c’era di che stupirsi: a quattro anni molto probabilmente Belle stessa avrebbe risposto in tal modo.
Ma il problema sorgeva proprio dalla scarsa ponderazione della piccola: Helena già immaginava un soggiorno magico, ma quale sarebbe stata la sua reazione in un ambiente estraneo, distante dalle persone con cui era sempre vissuta? Sarebbe stata serena? Non sarebbe stato il caso di iniziare con un semplice pomeriggio, anziché con tre interi giorni?
- Sicura di voler trascorrere due notti lì, tesoro? Io non ci sarò.
- Perché non ci sarai?
Perché ancora non posso, ancora non posso.
Belle aveva raffazzonato giustificazioni pregando perché Helena le accettasse, ma aveva avuto l’impressione che la bambina stesse solo fingendo di crederle per accontentarla.
Forse il suo era egoismo: se fosse stata una madre degna di questo nome, si rimproverava, avrebbe messo da parte i suoi problemi con Robert, l’immotivata paura che il ritorno a Kensington le scatenava e avrebbe accompagnato la figlia. Sarebbe stato sufficiente spiegare all’uomo la situazione, i ricordi di cui le stanze erano latrici e le emozioni che le suscitavano e lui l’avrebbe ascoltata. Non sarebbe successo niente, nemmeno ciò che era accaduto quella sera in cortile quando, soli coi loro respiri che s’inseguivano e mille emozioni che li sovrastavano, per un momento aveva desiderato lui la baciasse.
O forse l’avrebbe baciato lei, se fosse stata pronta a non pensare a lui come a una macchia sul cuore.
Dentro di sé giurava di amarlo e lo malediceva, lo voleva baciare e comunque respingere.
O forse, invece, era solo egoista: e se una parte di lei si fosse sentita tradita dalla rapidità con cui la bambina aveva accettato il trasferimento? Magari avrebbe preferito che Helena le si gettasse al collo implorando di non essere mandata via, e che lei fosse costretta a consolarla e accontentarla, negandola a quel padre che era apparso dal nulla solo ora.
Belle si sarebbe presa a schiaffi per il pensiero: se davvero si fosse ritrovata a fronteggiare una simile situazione, avrebbe subito spiegato alla piccola di non dover temere nulla. Ma questa era la Belle più razionale, quella la più spontanea, nei meandri della cui anima forse si annidava quell’idea tanto deprecabile.
Nella vita aveva seguito sempre l’istinto, e spesso aveva sbagliato; ma, con la figlia tanto coinvolta, l’errore era fuori discussione. Aveva ragionato e ragionato, e la conclusione era sempre stata la stessa: era importante che la bambina vivesse anche col padre e, per quanto la cosa non le paresse tanto accettabile, imparasse a stare lontana da lei.
Dal modo in cui la piccola aveva festeggiato mentre lei avvertiva Gold di passare a prenderla la mattina di chiusura, Belle non aveva potuto fare a meno di pensare che, almeno quanto al secondo punto, Helena era più matura di lei.
 
 
 

“Where do you go
when you're in love
and the world knows ?
How do you live so happily

while I am sad and broken down?”

 
 
 
Quando Daniel l’aveva vista sulla porta della sua stanzetta, l’aveva baciata con un impeto che Regina aveva solo potuto ricambiare.
La vita della Contessina aveva così preso una strana piega: per quanto fosse da sempre abituata a mostrarsi remissiva agli occhi della madre, la frequenza con cui aveva iniziato a raccontarle frottole era a dir poco sorprendente; per non parlare della fantasia delle scuse e dell’abilità a mentire che stava palesando.
Ma, per quanto fosse triste pensarlo, la ragazza non se ne sentiva minimamente in colpa: era l’unica possibilità per vivere la sua vita, e non vi avrebbe rinunciato.
Il tempo con Daniel era ancora più esiguo, ancora più rubato: dovevano ritagliarlo tra i pomeriggi eleganti di Regina e i turni in fabbrica di lui e la cosa era molto più complessa di quanto potesse sembrare. Eppure, anche se il posto in cui viveva il ragazzo era una spelonca putrescente, anche se il quartiere e la sua bruta depravazione che gli abitanti portavano quasi dipinta sul volto la disgustavano, i baci che si scambiavano avevano il sapore della gioia benedetta. Regina non avrebbe scambiato per nulla al mondo quel paio d’ore la settimana, le confidenze e i battibecchi, il cibo che alle volte condividevano tra uno scherzo e l’altro, con le dita unte e senza paura di sporcarsi; perché nessuna cosa era davvero importante quando stavano assieme.
E poi, in quel quadro di colori e forme assurde che era divenuta la sua vita, c’era Mal.
Regina aveva avuto una sola vera amica prima di allora, e non era finita bene; e forse era per scaramanzia se non osava definire la ragazza in tal modo. Semplicemente, non la definiva in alcun modo: Mal era Mal, e per sua natura sfuggiva a incasellamenti e costrizioni. Mal era beffarda e spregiudicata, e non si curava di scandalizzare il prossimo con opinioni caustiche e comportamenti non sempre decorosi, anzi: quando capiva le reazioni che il suo atteggiamento scatenava, si divertiva a enfatizzarlo per amor di provocazione. La sua personalità forte la rendeva immune alle critiche: Mal era fuoco, era un drago che nessuno sarebbe riuscito a domare. Come resistesse nella ferrea disciplina di casa Mills, era un mistero.
- So comportarmi bene con chi di dovere, – le aveva detto una volta – Non sentirai mai mezzo rimprovero rivolto a me.
- Quando sei sola con me, però, non sei certo gentile.
- Perché essere gentile con te? Tu non sei nessuno in quella casa.
Un sussurro serafico, labbra rosa pallido che si curvavano appena ed esprimevano realtà brutali e incisive.
Ma Mal era fatta così.
Tra le ragazze non c’erano quei gesti affettuosi che secondo i romanzetti consacravano una vera amicizia: immaginare qualcosa di simile su di lei era eresia, perché semplicemente non era il tipo di persona da indulgere in smancerie e parolette dolci.
In fin dei conti, pensava Regina, la Bauer condivideva il suo segreto più importante e, malgrado la sua capacità di trasudare livore in vari dosaggi, non l’avrebbe tradita.
Perché neanche Regina avrebbe tradito Mal.
Quando aveva capito che la serva non si sarebbe trattenuta con lei e Daniel, la nobile ne era rimasta sbigottita.
- Hai quindici anni, tesoro, saprai certo badare al tuo fidanzatino. Nel mio tempo libero ho i miei affari di cui occuparmi, – l’aveva gelata con una semplice levata di sopracciglia.
Era stato Daniel a dirimere i dubbi circa il modo in cui Mal trascorreva quelle ore: stando alle voci, la giovane frequentava un certo Stefan, parecchio più grande di lei e, soprattutto, dalla fama fosca.
- Non so se appartenga a una banda o sia un cane sciolto, ma è qualcuno con cui è meglio non avere a che fare. Mi spiace che lui e Mal, invece…
Anche a Regina dispiaceva per la sua compagna d’avventure, ma non sapeva come aiutarla, anche perché ogni sua offerta era ignorata. Quel giorno, però, il ritardo dell’amica la preoccupava oltremodo.
- Quell’idiota doveva essere qui dieci minuti fa, – ringhiò, facendo avanti e indietro sul pavimento grigiastro e disegnandovi linee ossessive – Mia madre rientra tra massimo un’ora, e se non arriviamo in tempo la mia vita è finita.
Daniel la raggiunse e le strinse le mani.
- Sta’ calma, – la rassicurò – Vedrai che Mal sarà qui tra poco, e se tarda ancora ti accompagno io a casa.
- No, no. Non voglio tu passi altri guai. Se ti vedessero…
- Staremo attenti e non mi vedranno. E appena tornerà Mal, gliene dirò quattro io. Si comporta da stupida, e quando è… – un rumore interruppe il giovane che, come la sua innamorata, tese l’orecchio.
- Eccola, la disgraziata.
- Shhh! – Locke la zittì all’istante. Quelli erano sì passi, ma non certo l’incedere di una ragazza. Parevano piuttosto…
Regina guardò Daniel, che cercava una via di fuga. Poteva essere nulla, sicuramente era nulla, ma…
Quando la porta si aprì con un calcio, ogni paura divenne realtà.
In futuro, Regina avrebbe ricordato quelle scene come un sogno confuso: gli uomini di sua madre che entravano nella stanza, che scioglievano a forza il loro abbraccio e li allontanavano, incuranti delle urla, incuranti di far loro del male.
Uno degli scherani che stringeva Mal, di solito così alta e fiera e ora all’improvviso così piccola e fragile, con un occhio già gonfio e il labbro sanguinante.
E, entrata per ultima come una primadonna, come una regina, lei.
- Che posticino meraviglioso, – fu il suo unico commento – Il nido d’amore ideale per una coppia  così ben assortita.
La gentildonna si avvicinò alla figlia. Un cenno fu sufficiente perché lo sgherro che la teneva ferma s’allontanasse; ma alla presa dell’uomo si sostituì quella materna.
Forse meno forte, all’apparenza meno pericolosa, ma altrettanto ferrea.
Altrettanto brutale.
- Voi, – ringhiò Regina – Voi mi avete fatta seguire!
Il sorriso di Cora non fece nulla per smentire l’accusa.
- No, mia cara. Sei stata tu a lasciarti scoprire.
L’improvviso urlo di Daniel fece voltare l’adolescente, ma non poté far molto con sua madre che la teneva per il braccio.
- Lasciatelo andare! – gridò comunque – Lui non ha colpe! Sono stata io a cercarlo!
- Se anche così fosse stato, – le labbra della maggiore delle Mills parevano squarci su una tela, squarci su ogni sogno – Lui ha comunque accettato d’incontrarti. È ugualmente colpevole.
La ragazza sentì gli occhi pungerle.
- Ma perché mi odiate tanto?
- No, Regina cara, – Cora le sorrise triste – Io non ti odio. Io voglio solo il meglio per te. È questo ciò che tu non capisci.
Ma allora, perché la guardava come se valesse meno dello sporco che si raschia via dagli stivali di equitazione? Perché le stava infliggendo anche questo?
Non avrebbe pianto. Non era lei a dover piangere, non mentre Daniel veniva ammazzato di botte e Mal guardava il vuoto davanti a sé, come se le avessero rubato anche la forza per parlare.
Ma non quella di muoversi.
L’urlo soffocato, stavolta, non veniva dal giovane Locke, no: era uno dei malfattori a ululare dal dolore, colpito da una gomitata in pieno stomaco dalla bionda.
Persino Cora, stupita dalla novità, si voltò, indebolendo per un istante la presa sulla figlia.
Un istante sufficiente perché Regina si liberasse.
- Scappa!
L’ordine della Bauer le ferì le orecchie, tale era la disperazione contenutavi. No, non poteva andarsene, non poteva lasciar lì il suo amato e la sua migliore amica, non poteva essere codarda, lei che…
- Regina, vattene!
Stavolta fu Daniel a gridarglielo, a implorarla col suo sguardo ferito, ma ancora combattivo.
E fu allora che Regina, forse per la prima volta nella sua vita, senza quasi rendersene conto obbedì.
 
 
 

“It's love
that leaves
and breaks the seal
of always thinking
you would be 
real, happy and healthy,

strong and calm.”



 
 
Il giorno era arrivato, e ancora non gli pareva vero: era convinto che da un momento all’altro avrebbe riaperto gli occhi e si sarebbe ritrovato nel suo letto, anziché sulla carrozza con cui stava andando a prendere sua figlia.
Quando aveva comprato la villa era certo che nessun bambino vi avrebbe messo piede: Emma Nolan dormiva con la madre all’ultimo piano, e Regina in una delle camere degli ospiti. Si ritrovava così senza nursery e senza il tempo materiale di costruirne una; aveva pertanto deciso di riaprire la vecchia stanza della Contessina, che aveva fatto riadattare e che, soprattutto, aveva riempito con qualsiasi cosa – a suo inesperto parere – potesse servire o piacere a una quattrenne senza badare ai consigli di chicchessia. Il risultato, aveva decretato a lavori ultimati quella stessa mattina, non era poi tanto caotico quanto aveva temuto a un certo punto.
Tutto era pronto: per tre giorni ci sarebbe stati solo lui e sua figlia. Aveva sospeso le visite, risolto o rimandato eventuali problemi con il lavoro e comandato alla servitù di non far entrare nessuno.
Sarebbero dovuti essere tre giorni perfetti.
- Ciao!
Nell’istante stesso in cui mise piede nella locanda deserta, la bambina gli corse incontro con un sorriso da guancia a guancia e lo guardò implorante per essere presa in braccio.
- Salve, mia cara.
- Helena! Io mi chiamo Helena! Perché non ti ricordi il mio nome?
- Scordarmi il tuo nome? – esplose in una pantomima di offese prima di accontentarla. Forse salire le scale con una bimba aggrappata al collo non gli avrebbe fatto tanto bene, ma non se ne curò: il mal di schiena passa, la vergogna per non aver preso in braccio la propria creatura no – Tu mi ferisci. Come potrei mai scordare il nome di una principessa? È più probabile che dimentichi il mio!
- E se te lo dimentichi te lo ricordo io.
- Da quando hai indovinato il mio nome sei la mia padrona, lo sai. Ti ho già insegnato che i nomi nascondono un grande potere… Saliamo dalla mamma?
- Eccomi, – dalle scale, l’interpellata palesò la sua presenza.
Gold alzò il capo: Belle aveva le braccia strette al petto ed era pallida come una bambola. I suoi occhi, non poté fare a meno di notare, erano stanchi e gonfi come dopo una notte insonne. Se ne preoccupò, e si chiese cosa fosse successo; ma quando lo fece, capì di avere già la risposta.
- Salve, – malgrado tutto, quando la raggiunsero la donna li salutò cercando di mascherare la sua inquietudine – Allora, pronto per la bestiolina che hai deciso di caricarti? – provò a scherzare.
- Nooo! – si ribellò la bestiolina in questione – Io sono brava!
- Non preoccuparti, – Gold fece loro l’occhiolino alla donna – La piccola chiacchierona non sarà mai pericolosa quanto la Bean Nighe 3 che fui sul punto di affrontare una volta da piccolo…
- E cos’è?
- È come una banshee. Sai di cosa sto parlando? Te lo racconterò dopo, quando andremo.
- E allora andiamo adesso, così me lo racconti! – esclamò la bimba saltellando sul posto.
L’uomo riportò lo sguardo sull’amata. Persino le ultime vestigia di colore erano svanite dal suo volto.
- No, stiamo un po’ tutti...
- No, – l’inattesa risposta di Belle lo zittì, lasciandolo interdetto – Partendo ora, arriverete prima e pranzerete insieme. Salutiamoci per bene, però.
- Sì, – Helena si avvicinò alla madre, che si inginocchiò alla sua altezza.
- Allora, tesoro! – tra le sue parole era incastonata un’allegria fin troppo esagerata – Sai, solo i grandi partono senza la mamma, perciò tu oramai sei proprio una signorina! Preparati, perché sai che sono curiosissima e che al ritorno dovrai raccontarmi tutto! E mi raccomando, – aggiunse – Obbedisci a papà, a Mary Margaret e agli altri. Comportati bene, come se ci fossimo io o Granny, va bene? E non ripetere le parolacce che hai sentito da Leroy!
- Nemmeno…
- Nemmeno, – l’anticipò senza mezzi termini, qualunque fosse l’imprecazione incriminata. Gold trattenne a fatica una risata – Fa’ la brava, come sempre. Sai tutto quel che c’è da sapere, da fare e non fare, perché sei una bambina grande e intelligente, e brava e bella. E sai che, anche se non ci sono, io ti penso sempre e ti voglio bene. Sempre – qualcosa in quel discorso diede all’industriale l’impressione che non fosse rivolto tanto alla bambina, quanto a Belle stessa – Sei una bambina forte e coraggiosa. Così forte e coraggiosa… – le parole le morirono in gola, mentre i polmoni si allargavano dolorosamente in cerca d’aria.
Non piangere, ti prego, non farlo. Devo essere forte per lei.
La stava spaventando: Belle stessa se ne rendeva conto dal modo in cui Helena aveva spalancato gli occhi, come se avesse percepito le sue emozioni represse, e all’improvviso la fissava confusa. Alla fine del suo discorso si era portata un pollice alla bocca e ora lo mordicchiava pensierosa.
- Ti lascio Bae?
- Cosa? – Belle parve decisamente confusa.
- Ti lascio Bae, se vuoi. Così ti fa compagnia quando non ci sono, e non sei sola.
Gli angoli della bocca le si piegarono come se volesse sorridere.
- Ma senza di te sarà lui a sentirsi solo.
- Ma no, lui è grande. Come me, no? – si voltò verso il padre – Glielo posso lasciare, no? Per favore!
- Tutto ciò che vuoi, Helena.
- Allora va bene, – la donna accettò infine – Lo terrò io. Grazie, amore, – la baciò e si lasciò baciare più e più volte, prima di rialzarsi. Ogni traccia del disagio mostrato prima pareva svanita – Va’ a salutare Granny e Ruby, ora, va bene? E non correre per le scale!
Appena la figlia sparì dalla vista, Belle iniziò a frugare nella valigina di cartone che aveva preparato.
Gold le si avvicinò piano. Conosceva fin troppo bene le ragioni del suo comportamento, della voce rotta e dei gesti erratici. Nella sua solita cecità, aveva analizzato la situazione solo dal proprio punto di vista, non anche da quello della donna: si era accontentato di una risposta affermativa senza indagare, senza interpretare fino in fondo le sue parole o leggervi le paure che pure lei, quasi inconsciamente, aveva cercato di far presenti.
Le paure che ora erano esplose.
- Belle.
Lei non diede segno di averlo udito.
- Belle, – le si avvicinò ancora, fino quasi a toccarla.
- Secondo te cosa devo fare? Lasciarle il pupazzo? Sai, negli ultimi tempi si addormenta solo con quello accanto e potrebbe mancarle, ma…
- Belle.
- …se lo ritrova dopo ciò che ho detto resterà delusa, e non ne ho alcuna intenzione, capisci, io non voglio ferirle, non posso ferirla, no…
- Belle.
L’afferrò, costringendola a fermarsi. Lei alzò il capo confusa, incapace di capire cosa stesse accadendo.
- Guardami. Belle, guarda me, lascia stare il resto. Guarda me, – ordinò perentorio – Guarda me.
Lei obbedì. Sgranò gli occhi, come investita da una realizzazione improvvisa.
Tremò.
- Ti prego, calmati. Se Helena ti vedesse in queste condizioni, ne sarebbe terrorizzata.
La donna si coprì la bocca con le nocche di un mano, ma si lasciò sfuggire un primo singulto.
Non riusciva a essere forte. Per una volta, semplicemente non voleva essere forte. Aveva smentito mille fantasmi, se n’era messa in guardia fino all’ultimo ribadendone la stupidità: non stava mandando la figlia in guerra, ma dal suo legittimo padre, che l’avrebbe trattata come una piccola dea. L’affidava a persone in cui riponeva massima fiducia – Robert, Mary, gli altri –, non a sconosciuti.
Il suo comportamento non era razionale. Non era logico, non era sano. Non andava neanche bene agitare Helena, come pure aveva fatto. Che razza di isterica si sarebbe comportata così? Doveva calmarsi, e subito anche.
Eppure, per quanto si sforzasse, i singhiozzi parevano impossibili da frenare.
- Scusami, – s’impose di mormorare –Non so cosa mi sia preso, io… Sembra quasi che non mi fidi quando invece…
- Va tutto bene, Sweetheart, va tutto bene, non…
- … Io non ti farei mai un torto simile.
In fondo Gold lo sapeva: sia pure a fin di bene, col suo assenso e per pochi giorni, stava portando via a Belle colei che le aveva impedito di spezzarsi quando lui l’aveva lasciata. Madre e figlia erano sempre state insieme, questa era la prima separazione: aveva messo in conto eventuali criticità, ma trovarsi ad affrontarle era completamente diverso. Belle era come rotta al pensiero di Helena, e lui non sapeva come aiutarla: ogni tocco era maldestro, un pugno su una ferita a malapena rimarginata.
- Non devi scusarti, la tua è una reazione naturale. È giusto che sia preoccupata, è normale, ma hai la mia parola che non le accadrà nulla. Tra due giorni torneremo qui e tutto sarà andato per il meglio. La proteggerò dal mondo intero, se sarà necessario, e nessuno le torcerà un capello. Se qualcuno ci proverà, io lo ucciderò. Te lo giuro – te lo giuro su Neal. E non verrà meno a un giuramento fatto in suo nome.
- Ti sto dando me stessa – Belle lo guardò dritto negli occhi – Più di quanto mai abbia fatto.
Lo so, Belle. E non tradirò la vostra fiducia, non stavolta.
- Se tu preferisci venire con noi… – non lo propose con un secondo fine: in quel momento in lui dominava solo il reale, onesto desiderio che Belle stesse bene. Se per questo avesse voluto recarsi con loro a Kensington, sarebbe stata benvenuta. Doveva – voleva – proteggerla da un mondo che col suo contributo l’aveva distrutta.
- Grazie, – si passò il dorso di una mano sulle guance – Magari… Magari la prossima volta vengo. Non te lo prometto. Ma non oggi.
Gold annuì. Andava bene così: l’importante era che Belle fosse più tranquilla. Ciò che contava era sentirla tra le sue braccia, ancora tesa, sì, ma già un po’ più tranquilla rispetto a prima.
- A Helena, – riprese la donna all’improvviso – Piacciono le cose luminose. A Helena piace la luce.
Una dichiarazione che andava al di là del suo significato letterale.
Helena è come te. E di questo sono felice.
- Andrà tutto bene, – le baciò la fronte – Andrà tutto bene.
 
 
 

“Where does the good go?
Where does the good go?”

 
 
 
- Pronta per partire?
La bimba batté le mani entusiasta, anche se qualcosa nel suo sorriso sembrò assente. Gold pregò di essere ancora influenzato dall’incontro con Belle e di star travisando.
- Sì! Tra quando arriviamo?
- Quanto, – la corresse con naturalezza – Tra un po’. Ci aspetta un viaggetto niente male, ma potremmo distrarci parlando della Bean Nighe
Calò un silenzio che fece cadere anche l’estrema illusione dell’industriale.
- Va tutto bene, Helena?
- Ma secondo te alla mamma manco già?
Rispondere col secco che corrispondeva a verità l’avrebbe crucciata o, peggio ancora, portata alle lacrime, e Gold non aveva alcuna intenzione di iniziare la convivenza in modo tanto lugubre. Si risolse per una frase diplomatica nella speranza di avere la meglio sulla prontezza della figlia.
- A ogni mamma manca la sua bambina quando non l’ha con sé.
- E quindi?
Missione fallita.
- E quindi sì. Le manchi, – fu costretto ad ammettere.
Helena tacque. All’improvviso il discorso che mamma le aveva fatto quando papà aveva cenato con loro per la prima volta sembrava molto più reale. Fino ad allora non ci aveva pensato, ma ora il ricordo la colpiva in tutta la sua brutalità.
- Una volta mamma ha detto che ha paura di perdermi, – deglutì – Di non esserci. Ora non c’è… Vuol dire che sta avendo paura? – le vennero i brividi al solo pensiero.
La voce sommessa, così somigliante al miagolio di un gattino appena nato, gli fece mordere a sangue l’interno della guancia. Sua figlia non doveva neanche pensare simili cose.
- Helena – la guardò negli occhi – Non è una cosa che accadrà. Tu e tua madre ci sarete sempre l’una per l’altra. Nessuno vi separerà, nessuno.
- E tu?
Sarebbe voluto restare impassibile a quella domanda. Lasciarsela scivolare addosso, ignorarne la portata. Avrebbe voluto facesse meno male essere per la prima volta considerato un altro rispetto a Belle e a Helena, rispetto a quella famiglia che amava più di quanto avesse mai amato se stesso. Cora ce l’avrebbe fatta, avrebbe conservato impeccabile la padronanza di sé; lui no.
Controindicazioni del possedere un cuore.
- Neanch’io vi separerò. Mai.
- No, non mi hai capito. Tu ci sarai con noi?
Gold deglutì. Non credeva avrebbe udito questa domanda. Il cuore gli batté più veloce mentre ripeteva alla figlia la promessa che aveva fatto a se stesso, che avrebbe voluto poter ripetere a Belle ogni giorno della sua vita.
- Se voi mi vorrete, io ci sarò sempre.
La bambina annuì, come più tranquilla.
- Io ti voglio. E anche la mamma.
Non ti illudere, non permetterti di emozionarti in questo modo stupido. È una bambina, potrebbe aver travisato. Potrebbe star trasferendo sulla madre un suo desiderio.
Star mentendo.
- Come fai a saperlo?
- Come come! – Helena si chiese come mai a volte suo padre, che pure sembrava tanto intelligente, non capisse le cose più ovvie – La mamma vuole che stai con noi. L’ha detto anche a Tink quando credeva che non l’ascoltavo.
Ma a quel punto trattenere un sorriso sarebbe stato vano.
- E cos’altro ha detto di me?
- Non lo so. Grace mi ha chiamata a giocare e io sono andata, – ammise dispiaciuta. La prossima volta sarebbe stata più attenta ai discorsi della mamma. Avrebbe riferito ogni cosa. Ma ora, c’era un’altra domanda che le premeva – Senti… Hai detto che alle mamme mancano le bambine quando non ce l’hanno. E ai papà pure mancano?
- Certo. Tu mi manchi tantissimo quando non siamo assieme.
- E quando eri lontano e non ci conoscevamo?
Gold non seppe cosa rispondere. Come dirle che non aveva mai sospettato esistesse? Che per cinque anni aveva creduto sua madre perduta, morta, uccisa anche a causa della sua crudeltà? L’idea di un figlio non l’aveva mai sfiorato; se avesse saputo che Belle era incinta all’epoca in cui l’aveva scacciata, non si sarebbe comportato così. Forse – sicuramente – per quelle brevi ore avrebbe comunque creduto a Cora; ma non l’avrebbe allontanata.
- Da quando ho saputo che  c’eri mi sei sempre mancata. E tua madre… Tua madre mi è mancata altrettanto. Perché siete le due persone più importanti della mia vita.
Dinanzi al sorriso grato della bambina, Gold ebbe pochi dubbi sul fatto che avesse capito appieno la portata del discorso.
La sua bellissima furbetta.
- Ora però mi racconti di quella cosa?
 
 
 
- Eccoci arrivati! La vedi questa casa? – l’attirò a sé e le indicò l’immobile al di là del finestrino – Questa casa alta alta, col cancello nero? Ecco, è casa nostra – usare il plurale gli causò un profondissimo moto d’orgoglio.
Una scetticissima Helena corrugò la fronte prima di commentare: – È grande.
- Sì, – ribadì suo padre con convinzione – È grande e bellissima, vedrai. Ed è tutta nostra.
- Sì, ma è troppo grande! Come fa a essere tutta nostra?
- Tecnicamente non ci viviamo solo noi. Ci sono anche i domestici, che già conosci. Mi riferisco a Mary Margaret e a sua figlia, ad Archibald...
- Che sono i domestici?
Gold non aveva messo in conto di ritrovarsi, un giorno nella vita, a spiegare le classi sociali a una quattrenne la cui madre non avrebbe neanche voluto aver sentore di un simile discorso.
- I domestici, – provò – Sono le persone che mi aiutano. Cucinano, puliscono casa, mi servono…
- Anche mia mamma ti serviva, quando è venuta qui. Allora anche lei era una domestici, – dedusse esaltata, prima di soffermarsi a pensare – Ma tu sei grande, – obiettò candida – Perché hai bisogno di gente che ti aiuti?
- Neanche gli adulti possono fare tutto da soli.
Arrampicarsi sugli specchi.
Corso pratico gentilmente offerto da Robert Gold.

Il fatto che una persona grande e ricca – un re! – come suo papà non potesse far tutto da sola non la convinceva affatto. Mamma, Ruby e Granny erano grandi, anche se non ricche, e non avevano domestici che le aiutassero. Perché papà non riusciva a fare lo stesso? Forse per i re era diverso?
Aprì la bocca per dirlo, quando il portello della vettura fu bruscamente aperto da un affannatissimo Archie.
Gold lo gelò con lo sguardo.
- Non sapevo che l’ordine di non essere disturbato fosse tanto oscuro.
- Perdonatemi, Miss Helena… Mr Gold… – il maggiordomo riprese fiato – C’è un problema. Un problema grave.
Se Gold non bestemmiò, fu solo per la bambina presente.
- Non m’importa. Ho dato disposizioni precise a riguardo, e pretendo di essere ascoltato.
Helena guardò il padre, che continuava a fissare l’insubordinato in un modo che le era sconosciuto e che quasi le metteva paura.
- Signore, – Hopper non si perse d’animo – Ce la siamo ritrovati davanti senza preavviso.
All’industriale non sfuggì l’uso del femminile.
- Lei sarebbe?
- La…
- Resta qui, – gli impose senza permettergli di completare la risposta e si rivolse alla figlia: – Helena, – la piccola rialzò il capo – Torno a breve. Stai tranquilla, non c’è niente di cui preoccuparsi.
- Non lo faccio, – mormorò lei mentendo.
L’uomo se ne accorse. L’invitata indesiderata si sarebbe pentita della sua visita; e se ne sarebbero pentiti anche i servi disattenti.
Quando giunse all’ingresso, si bloccò.
 
Sulla porta di casa c’era Regina Mills.
 
 
 

“What do you say
it's up for grab
 now that you're on your way down?
Where does the good go?

Where does the good go?”
“Where does the good go?”- Tegan and Sara

 
 
 
1 “Il toro nero di Norroway” è un’antica fiaba scozzese. In breve: una fanciulla parte per un’avventura cui presto si unisce un toro nero che in realtà è un cavaliere sotto mentite spoglie. Trovate la storia completa su http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/jacobs/toro_norroway.htm;
2: ed ecco un’altra Queen of Darkness! Per il cognome di Mal mi sono ispirata all’attrice che la interpreta, Kristin Bauer (von Straten), e ho inventato una storia con Stefan prendendo spunto dal film con Angelina Jolie.
3: la Bean Nighe è la versione scozzese dalla più nota banshee irlandese, lo spirito femminile i cui lamenti disperati preannunciano la morte e, in generale, portano sfortuna - http://hilamoon.blogspot.it/2014/03/creature-della-mitologia-scozzese.html e
http://en.wikipedia.org/wiki/Bean_nighe.
 
 
 
N. d. A. : Raggi di sole! ♥ 
È iniziato maggio, che porterà il caldo, la sessione d’esami e il finale di OUAT. “Annamo bene…” – cit. Spero almeno che il nuovo capitolo vi sia piaciuto, o comunque non vi abbia fatto completamente schifo: esprimete il vostro parere, anche critico, perché sapete che è sempre benvenuto e può essermi d’aiuto – oltre che rendermi felice, naturalmente! XD
Siamo (finalmente) arrivati a un punto cruciale: il prosieguo sarà fondamentale per la storia. Stay tuned... ;)
Il timore per l’OOC riguarda come al solito tutti i personaggi, ma stavolta la (s)fortunata vincitrice del premio “Come diamine l’ho caratterizzata?” è… Belle! Un applauso per lei, signore e signori! Scherzi a parte, temo di averla resa un po’ troppo piagnucolona o comunque fragile. Come le ho fatto precisare, i suoi dubbi non nascono dalla sfiducia, ma da una sorta di – naturale, credo – ansia da separazione: è sempre stata con la figlia e all’improvviso deve separarsene per interi giorni; anche stante gli abbandoni improvvisi di cui ha purtroppo esperienza, credo sia spontanea una reazione non proprio pacatissima e razionale… Spero però di non aver esagerato!
Mi sono ispirata un po’ alla 4x06, da cui ho tratto e riadattato una o due battute. ;)
Ringrazio chiunque legga la storia, la recensisca e/o l’aggiunga a una categoria: il vostro supporto è la mia forza, gioie! ♥ ♥ ♥
Ci si rilegge qui tra due sabati e, nel frattempo, sulla pagina Facebook “Euridice’s world”! :)
Bacioni, Dearies! :* ♥ :*
Euridice100

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Capitolo 12
*** XI - Innocence ***


 
 
 
XI - Innocence
 
 
 
Sulla porta di casa c’era Regina Mills.
Gold gelò, la testa che vorticava come la ruota del suo arcolaio e mille teorie ad annebbiargliela. Cosa ci faceva la Contessina a Kensington proprio quel determinato giorno?
L’eventualità si trattasse di una coincidenza non lo sfiorò nemmeno per un istante; memore dei trascorsi, pensò solo a una cosa: alla vendetta di Cora Mills.
Come aveva fatto a scoprire che quella mattina sarebbe tornato a casa con la bambina? Anche se l’avesse fatto seguire, non avrebbe saputo del trasferimento; o comunque, non l’avrebbe scoperto in tempo per comunicarlo a Regina e inviarla alla villa.
Solo Belle e le sue amiche ne erano al corrente; Belle, le sue amiche e… I domestici.
Il delatore era all’interno.
I volti gli si affastellarono nella mente, gli anelli di una catena che non risparmiò niente e nessuno. Chi diamine era? L’avrebbe scovato e gli avrebbe fatto pentire di essere nato, questo era certo.
Ma in situazioni d’emergenza il dubbio non è un lusso che ci si può concedere; accantonò le riflessioni per un secondo momento, ben deciso a tornar subito dalla bambina lasciata con un maggiordomo probabilmente infido e a scacciare Regina che, avvolta in un mantello troppo pesante per metà giugno, lo guardava con gli occhi lucidi di lacrime che già avevano la meglio.
- Zio… – lo accolse andandogli incontro.
Lui non ricambiò lo slancio.
- Regina. A cosa devo quest’inattesa visita?
La domanda, pronunciata col gelo mascherato da quiete tipico di sua madre, fece indietreggiare la giovane. Perché l’uomo reagiva così? Che la gentildonna l’avesse già messo a parte di quanto accaduto e convinto a non sostenerla? Ciononostante, lo zio era l’ultima possibilità che le rimaneva; perseverare non era un’opzione, ma l’unica strategia disponibile.
- Ci sono stati dei diverbi in casa. Io e Maman abbiamo avuto un brutto confronto e io ho preferito andarmene. Potrei… Potrei restare da te qualche giorno?
La risposta non si fece attendere.
- No.
Regina impallidì vistosamente. D’istinto si sostenne a una colonna del porticato: all’improvviso le ginocchia non la reggevano.
- No…? Cosa intendete, zio?
Il tono pacato dell’industriale non subì variazione alcuna.
- No è una negazione che si usa per indicare il rifiuto. Non puoi restare.
Cora doveva essere orgogliosa della rampolla, si disse Gold; perché non solo aveva ereditato da lei le doti istrioniche di cui già aveva dato prova a dieci anni, ma l’aveva se possibile persino superata: il panico che Regina stava atteggiando era commovente tanto pareva vero.
Perché vero non lo è.
La tentazione di dare alla ragazza un messaggio per Cora gli si insinuò nel petto, tentatrice e ardua da mandar via, ma al tempo stesso più pericolosa che mai.
L’immagine di una bambina dalla treccia rosso cupo e dagli occhi simili ai suoi tornò a fargli visita.
Aveva già osato troppo provocando Cora durante la prima cena; non poteva rischiare ancora, non ora.
- Alla tua età dissapori coi genitori sono ordinaria amministrazione. Tua madre si starà senz’altro preoccupando; ti farò subito riaccompagnare a casa. E per il futuro, Dearie, ti consiglio di non compiere più gesti impulsivi come questa tentata fuga. Di riflettere, – sottolineò morbido il termine, certo che l’interlocutrice ne avrebbe afferrato appieno la portata – Sul da farsi, su ciò che è giusto e sbagliato al fine di prendere la decisione più saggia. Quella che, in fondo, entrambi sappiamo non essere questa.
Il fatto che proprio lui si dedicasse a simili arringhe aveva un’intrinseca ironia che non gli sfuggì, ma che non lo distrasse: Regina andava allontanata all’istante. Un’eventuale convivenza tra lei ed Helena era fuori discussione: avrebbe condotto in un’unica direzione, esattamente quella da evitare a ogni costo.
E tra Helena che era sua figlia e Regina cui pure era vicino come a un figlia, tra Belle e il rischio d’essere beffato ancor una volta da Cora, ora lui sapeva chi scegliere.
- Non posso tornare a casa. Non posso, – ripeté l’adolescente, martoriandosi le unghie e incapace di guardare l’altro negli occhi – Vi prego…
- Quante volte devo dirti di no prima che tu capisca? Se tua madre ha minacciato di non riaccoglierti, verrò con te e le parlerò di persona.
Non avrebbe mai voluto comunicare la notizia della sua rovina anche allo zio che l’aveva tanto spesso protetta dalla madre, causargli un altro dolore, ma cos’altro avrebbe potuto fare? Era costretta a rivelare il suo segreto.
- Sono innamorata dello stalliere, – confessò nervosa – Quando Maman è venuta a saperlo l’ha licenziato, ma noi abbiamo continuato a incontrarci in segreto. Oggi siamo stati scoperti e l’hanno picchiato, l’hanno picchiato a sangue, ma è riuscito a farmi fuggire e… – le parole le morirono in gola – Ed eccomi. Sono venuta qui perché non sapevo dove altro andare, dove rifugiarmi. E ora non posso tornare a casa, credetemi, zio, non posso.
Tra i meriti di Regina andava menzionata una certa prontezza di riflessi: aveva messo su un bel mucchio di fandonie in pochi istanti. Certo, se pur di vendicarsi Cora fosse stata disposta a mettere a repentaglio la reputazione e il futuro dell’erede unigenita, la situazione era persino più grave del previsto; ma colei che l’amareggiava maggiormente era Regina stessa. Come poteva prestarsi ancora a simili giochetti? Con quale pudore gli aveva implorato perdono tanto accorata per poi voltare nuovamente le spalle a lui, che era stato un secondo padre per lei?
Regina era marcia, marcia fino al midollo, proprio come sua madre.
Lo zio non le credeva. La sua espressione, le sue risposte… Non prestava fede a una sola parola. Del resto, come aspettarsi il contrario? Era stata lei a rovinargli la vita, inducendolo a scacciare Belle; e malgrado l’avesse perdonata, come pretendeva che le desse asilo? Anche durante la cena, quando gli aveva proposto di trascorrere qualche giorno assieme aveva prontamente sviato l’attenzione.
Ma stavolta tutto era diverso. Poteva immaginare i pensieri dell’uomo, giustificarli, ma stavolta lui avrebbe dovuto crederle. Era sincera, e lui era la sua unica possibilità di libertà e salvezza. Sua madre aveva ragione quando sosteneva che sola non sarebbe sopravvissuta più di un’ora nel vasto mondo: l’aveva appena intravisto con Daniel e Mal, e già aveva avuto prova della sua cruda brutalità.
- Zio, – lo pregò a bassa voce – Zio, ricordi il ragazzino con cui sono venuta qui quella mattina, cinque anni fa? – rievocare l’occasione era controproducente, ma andava fatto – Daniel Locke. Si chiama Daniel Locke, ed è lui. E so che è sbagliato, che probabilmente ho distrutto la mia vita, ma quando se n’è dovuto andare mi si è spezzato il cuore. Se non l’avessi rivisto sarei morta. So che basta poco per distruggere una reputazione, ma ti assicuro che non è il caso, lui… Lui mi ha sempre rispettata.
Le si imporporarono le guance accennando alla questione. Gold voltò il capo: non era un ambito su cui intendeva indagare. Anzi: non voleva sapere nulla in merito. Non sarebbe mai diventato una sorta di confidente delle avventure di una ragazzina che avrebbe potuto portare il suo stesso cognome.
- Lui mi vuole bene, tanto quanto gliene voglio io, e questo mia madre non lo accetta. Dice che la mia è debolezza, ma io con Daniel mi sento più forte. Felice, più sicura di me, determinata. Mi sento me stessa, mi sento come dovrei sentirmi sempre. Libera, – deglutì, ma non s’interruppe: aveva ancora altro da dire – Se ritornassi ora a casa non potrei più rivederlo, capite? Per te Daniel è libertà. Senza la libertà, io morirei. Perciò, per favore, – si asciugò le lacrime col dorso di una mano – So di non meritarlo, so che dopo ciò che vi ho fatto non lo merito, ma vi prego, fatemi restare. Se mi avete voluto bene come a una figlia, fatemi restare.
Fu una scintilla, la traccia di una freccia che sprofondò più di quanto immaginato.
Non avrebbe dovuto dirlo. Non avrebbe dovuto ricordare quella questione – cosa ne sapeva? Di Neal, di Helena, dei dubbi che da quindici anni l’avvincevano? Comunque fosse, il risultato non variava: era stata tanto abile da colpirlo in uno dei suoi punti più deboli e condurlo in un vicolo cieco. Che Cora fosse la mandante o che la storia del mascalzone fosse vera, Regina aveva sprofondato la lancia nella sua ferita più profonda e ora lo fissava così, con quegli occhi troppo somiglianti che tanto spesso aveva evitato, a implorare una nuova comprensione che lui non poteva concederle.
Perché le suppliche di Regina scatenarono anche altro. Un’idea che avrebbe potuto risolvere più di un problema – molti problemi.
La pietà si può vincere, aveva imparato a farlo; ma certe occasioni andavano sfruttate fino all’esaurimento.
Non fu la ragione, il ricordo di un recente passato o la memoria degli errori a guidare Robert Gold in quel momento, no: fu il desiderio di rimettere in ordine i tasselli di un’esistenza, di aiutare il fato in un processo già iniziato.
Fu il desiderio di avere accanto la sua famiglia.
Sarebbe stato semplice. Di lì a due o tre ore avrebbe inviato un messo a Belle – uno dei suoi, non certo un domestico – ad avvisarla. Lei non avrebbe mai abbandonato Helena così vicina alle Mills: si sarebbe precipitata a Kensington per proteggerla.
Proteggerla da un pericolo che, a quel punto, sarebbe già stato neutralizzato: perché nel frattempo lui avrebbe provveduto ad affrontare Cora e a rispedire Regina a Belgravia prima ancora che potesse udire l’eco di una vocina dall’accento cockney.
Lui avrebbe provveduto a risolvere la situazione, e riavrebbe avuto accanto Helena e Belle.
E con Belle in casa tutto – qualsiasi eventualità – sarebbe stato più semplice.
- Ti propongo un accordo, – l’altra rialzò il capo – Ti permetterò di restare qui finché non vedrò tua madre, – si guardò bene dal precisare che la cosa sarebbe avvenuta molto, molto presto – In cambio ti chiedo riserbo. Oggi riceverò un potenziale investitore: si tratta un incontro cui non intendo rinunciare per nulla al mondo, tantomeno per una ragazzetta incosciente. Riferisci a Emma Nolan di prepararti la vecchia camera di tua madre, – concluse – Resterai lì fino a nuovo ordine.
Regina annuì incredula, ma non sindacò. Se lo zio temeva potesse disturbare i suoi affari, si sarebbe presto ricreduto.
- Vi ring…
- Va’.
La ragazza obbedì. Vedendola sparire in casa, Gold si raccomandò attenzione: almeno una di quelle bestie non sarebbe rimasto sconvolto dall’apparizione della Contessina. Avrebbe scovato il giuda, fosse dovuto ricorrere alle più barbare torture.
E a quel punto, nessuno l’avrebbe fermato.
Attese minuti eterni prima di tornare verso la carrozza.
Helena ascoltava distratta Archibald, che le raccontava la storia di un grillo saggio. Quando vide il padre, la piccola si riebbe, ma l’ombra di inquietudine nei suoi occhi non sparì.
Ma pagheranno anche per questo.
- Principessa, – l’uomo fece appello a tutto il suo autocontrollo per sorridere e si esibì in un mezzo inchino, incurante della presenza del subalterno – La casa è pronta ad accogliervi. Seguitemi.
 
 
 

“Slowing down, I look around
and I am so amazed,
I think about the little things

that make life great.”



 
 
La casa di papà era davvero immensa. Non aveva mai messo piede in un posto tanto grande: persino il giardino che aveva intravisto appena pareva immenso e tutto verde – forse era un pezzo della Scozia di cui gli aveva parlato mamma?
Nel momento in cui aveva varcato il portone, le labbra le si erano dischiuse in una: – Oh! – di meraviglia. La sua primissima impressione aveva trovato conferma: tutta casa sua poteva essere contenuta lì tante, tantissime volte! Tutto era così bello che avrebbe potuto trascorrere l’intera giornata a ammirarlo: tra tappeti dall’aria morbida e tende color porpora, marmi intarsiati e specchi dalle cornici dorate, la bambina non sapeva su cosa soffermarsi prima.
Però tra lo stupore e la fascinazione, non riusciva a non provare anche un altro sentimento che non sapeva definire.
Era intimidita, Helena, dal lusso e dalla magnificenza che la circondavano: si guardava attorno incantata e disorientata a un tempo, alla vana ricerca di qualcosa che fosse parte del suo paesaggio, qualcosa che le conferisse sicurezza. Abituata ai bugigattoli dai muri scrostati dell’East End che lei associava a casa, tra sculture e carta da parati si sentiva così piccola e inadeguata; così sperduta.
Ma papà era entrato a testa alta in casa, e camminava come qualcuno d’importante, così fiero, così sicuro di sé, così diverso dal solito; e lei aveva fatto lo stesso, nell’inconscia speranza che imitandolo anche lei si sarebbe sentita a suo agio.
Ma così non era stato.
Avrebbe voluto stringere la mano alla mamma, essere confortata dal calore del suo corpo; ma mamma non c’era, erano lontane per la prima volta nella vita, e lei le aveva promesso di fare la brava ed essere coraggiosa. Era il momento di dimostrarlo, e non si sarebbe tirata indietro. In fondo c’era papà con lei, vero? Se gli avesse dato la mano avrebbe mostrato la paura e rotto la promessa fatta? Ma lui le aveva appena promesso che ci sarebbe stato sempre, e poi i papà proteggono le loro bambine, le aveva giurato Grace…
Gli afferrò la mano prima ancora di ordinare al braccio di compiere il gesto.
La mano di papà era diversa da quella della mamma: non era così piccola, né altrettanto calda e molto meno morbida. Ma a Helena piaceva. La rassicurava, attenuava la stretta allo stomaco che non sapeva spiegarsi e la faceva sentire un po’ meno persa. Come se, finalmente, in un oceano di novità avesse trovato un punto fermo in quell’uomo che non aveva esitato un istante prima di serrarle forte le dita.
Mary Margaret non riuscì a non sorridere dinanzi a quella scena. Vedere quei due assieme le faceva tornare in mente il tempo in cui lei, David ed Emma erano stati felici – erano stati insieme. Anche la loro principessa si affidava sempre al suo papà. Il suo principe, lo chiamava, innamorata di lui come tutte le bambine di quell’età. David era sempre stato un uomo gentile, ma con la paternità si era addirittura rabbonito ulteriormente. Se Belle fosse rimasta, se Helena fosse nata tra quelle mura, sarebbe stato lo stesso per Gold: la prima era il suo catalizzatore di luce, e la seconda…
La risposta era davanti agli occhi: il magnate restava rigido e impassibile, ma sembrava concentrato con tutta la dolcezza di cui era capace nel contatto con la sua bimba.
Sarebbe stato tutto diverso, se…
- Bentornato, Mr Gold. E benvenuta, Miss Helena, – li salutò cordialmente la governante.
La bambina sbatté le palpebre confusa, sentendosi chiamare in modo tanto sussiegoso e da una persona con cui era abituata a giocare in tranquillità,.
- Io sono Helena, Mary! Solo Helena. E la mamma ti saluta, e saluta anche tutti, e ha detto che devo obbedirvi e fare la brava e non dire parolacce. E dov’è Emma?
La governante occhieggiò verso il datore di lavoro alla ricerca di un suggerimento che non pervenne. L’arrivo di Regina aveva lasciato tutti di stucco, ma Robert Gold non ne sembrava particolarmente scosso. Cosa stava succedendo?
- Emma giungerà a breve, ma anche lei vi porge il suo benvenuto. Tutti noi speriamo dal profondo del cuore che vi troverete…
- Va bene, va bene, va bene, – l’industriale la zittì con una mossa che sapeva di consuetudine – Helena, devi cambiarti e vedere la tua camera. Vieni… Venite anche voi, Mrs Nolan, – nella falange di domestici, la governante gli parve la meno sospetta. Aveva comunque necessariamente bisogno di un aiuto pratico con la bambina e, ritenendo inutile assumere una bambinaia per due giorni, aveva già adocchiato Mary Margaret; e, malgrado tutto, il suo giudizio non era cambiato: la gratitudine non è di questo mondo, ma Gold dubitava che la donna avesse scordato chi aveva salvato lei e la figlia dalla più cupa miseria.
Helena seguì docile i due adulti, le dita ancora allacciate a quelle paterne e mille dubbi sul trattamento di Mary e le ultime affermazioni. Perché doveva cambiarsi? La mamma le aveva fatto mettere il vestitino estivo bello solo poche ore prima, non voleva toglierlo di già. E poi, che voleva dire “la sua camera”? Una stanza tutta per lei? Papà doveva essersi confuso, perché le stanze non erano certo di un’unica persona, ma di tutti: tutti ci vivevano, tutti ci passavano, tutti ci dormivano; al più si poteva restare da soli per qualche minuto – ma neanche troppi, poi, ché a lei la solitudine non piaceva. Dire “la sua camera” non aveva senso.
Però forse nello strano mondo in cui era finita, in cui in case enormi si viveva in pochi, lei era trattata come una regina e tutti ubbidivano a lui come a un re – cosa che in effetti era, secondo la storia –, le cose andavano diversamente.
Non era del tutto sicura che le piacesse davvero.
L’esitazione, tuttavia, svanì nell’istante in cui mise piede nella sua camera: anch’essa grande, grandissima e, soprattutto, piena di giocattoli. I balocchi si spandevano a profusione: ovunque si voltasse, i suoi occhi incontravano bambole dal viso in porcellana e dalle vesti in seta, trottole di legno, girandole colorate e palle, case di bambola e lavagnette, cerchi e tanti, tantissimi pupazzi a forma di animali: un piccolo zoo raccolto tra quattro mura.
Che suo papà le avesse comprato tutti i giochi di Londra?
- Ti piacciono? – il tono dell’uomo era strano, come se non vedesse l’ora di conoscere la risposta e al tempo stesso la temesse.
- Di chi sono? – mamma le ricordava sempre che replicare a domanda con domanda era maleducazione, ma fu impossibile trattenersi.
- Tuoi. Tutti tuoi.
Helena trattenne il fiato. Studiò il padre: non le dava l’impressione di aver mentito, ma era semplicemente impossibile. Come poteva essere vero? E perché lui la stava ingannando in questo modo?
- Veramente? – sicuramente c’era un trucco: se avesse chiuso gli occhi i giochi sarebbero spariti. Provò; quando spalancò le palpebre tutto era al suo posto.
- Certo, – ribadì lui avvicinandosi – Qui ogni cosa, dalla prima all’ultima, è tua, e non devi aver timore di prenderla e usarla. Di farne ciò che vuoi. Piuttosto, – indicò quanto li circondava, la fronte corrugata come se si stesse impegnando a cercare un difetto – Ti piace? Preferiresti qualcos’altro? Basta che tu lo chieda e te lo darò. Non vergognarti a chiedere.
Ma come desiderare dell’altro? Quella stanza era il sogno di ogni bambino; figurarsi di una piccina che fino ad allora aveva visto ben poche meraviglie.
- Non ho mai avuto così tante cose, – confessò con un filo di voce. Le possibilità che quei balocchi le donavano erano inebrianti.
Ed è solo l’inizio, rispose tra sé e sé Gold. Darò a te e a tua madre il mondo.
- Avrai ogni cosa, – promise, più a se stesso che alla figlia – Ogni cosa che vorrai. Ora ti lascio con Mary, ti aiuterà a indossare un bel vestito. Tornerò tra cinque minuti, – redarguì la governante prima di andarsene.
Sarò appena oltre la porta.
Ti proteggerò da chiunque, Helena.
Da chiunque.
Appena papà ebbe chiuso la porta, la bimba si rivolse alla domestica: – Ma ci devo dormire solo io lì?
Indicò col ditino l’immenso letto di legno sormontato da colonnine scolpite che, non meno del resto, le dava di che riflettere.
- Sì, tesoro, – la donna confermò, abbandonando ogni segno di deferenza e confondendo ancora di più la bambina.
- Ah.
Ecco: quella era una questione che non le piaceva affatto. L’idea di ritrovarsi di notte senza la mamma in una stanza sconosciuta iniziava ad agitarla e, quel che era peggio, a causa della promessa non poteva dirlo. Doveva affrontare la situazione comportandosi come le eroine delle sue fiabe preferite che,per salvare la loro gente, si sacrificavano, sceglievano la cosa giusta anche se più difficile. Avrebbe dovuto comportarsi allo stesso modo e combattere da sola contro i mostri che, era certa, erano in agguato sotto quel letto; avrebbe dovuto dimostrare di essere grande come sosteneva di essere dormendo da sola e non lagnandosi per ogni minima cosa – come, per esempio, per il nuovo vestito che le era stato imposto. La donna aveva blaterato qualcosa sul taglio, sulle pieghe perfette e sul modo in cui le cadeva addosso, e guardandosi allo specchio Helena si era trovata proprio carina, delicata come la statua di una damina che Granny conservava gelosamente. E poi, sembrava così diversa dal solito: chissà se papà o gli altri l’avrebbero riconosciuta vedendola!
Ma l’entusiasmo era stato soppiantato ben presto da preoccupazioni ben più urgenti: perché per quanto bello, il vestito le andava stretto e soprattutto le prudeva da morire. Di che diamine era fatto, dannazione?
Niente parolacce, la minacciò una vocina stranamente somigliante a quella di Belle.
Sopportava il fastidio già da alcuni minuto quando si decise a dirlo all’amica di mamma; ma in quel momento la domestica se ne andò e ricomparve papà, che vedendola sorrise.
- Come sei bella! Dovresti vivere tu a Buckingham Palace, anziché quelle ragazzette sciapite.
Col vestitino bianco sembrava un angioletto, una fatina dallo sguardo vispo che nulla avrebbe potuto costringere. Aveva scelto lui il colore dell’abito; aveva scelto lui il bianco, sebbene sapesse che quella Stagione il colore più in voga era il blu in tutti i suoi toni.
Ma non avrebbe sopportato di vedere accanto a lui una figuretta in blu – non in blu, né in giallo.
Non ancora.
A quei complimenti, il fastidio di Helena si dileguò.
Suo papà sapeva che esisteva e le diceva che era bella, e in quel momento esistere ed essere bella le parve la cosa migliore del mondo.
 
 
 

“I wouldn't change a thing
about it.”

 
 
 
- Secondo te Gold sopravvive alla giornata di oggi?
- Per me avrà un infarto entro stasera.
- Gioco al rialzo: gliene è già venuto uno e finge di star bene per torturarci un altro po’.
- Prova tu a brutalizzare il prossimo con un infarto in atto, love.
- E tu che ne sai, hai esperienza in materia?
- Emma Nolan e Killian Jones! – ululò Mary Margaret entrando in cucina – Vi pare il momento di comportarvi come due idioti? Certe cose non si dicono neanche per scherzo!
- Ma’, oggi la tensione è alle stelle e sembriamo tutti schegge impazzite, se per un istante…
- Avete ragione, Mary, – Killian lanciò un’occhiata ammonitrice a Emma – Siamo due immaturi che riconoscono di essere tali. Se non altro, lodate la nostra onestà… Piuttosto, diteci, – aggiunse prima che una delle due potesse controbattere – Com’è la situazione sopra?
La donna sospirò.
- Spero che tutto si risolva per il meglio, ma… Non so. Proprio non so come andrà a finire. Il padrone sembra un leone in gabbia, sospetta delatori a destra e manca e non lascia la bambina sola per più di un minuto. Se potesse, ci metterebbe tutti alla porta seduta stante. Se non altro, la povera piccina non se n’è accorta. Dovreste proprio vederla: si muove con tanta attenzione per non far ticchettare le scarpe sul pavimento, non capisce perché dobbiamo trattarla con tante cerimonie e non era più nella pelle dalla felicità alla vista dei regali! – Mary sorrise intenerita, ma tornò subito seria – Mi spiace sia capitata qui proprio ora. Temo che la giovane Mills ormai abbia sentore di qualcosa.
- Cosa ve lo fa pensare?
- È abituata a gironzolare per casa in libertà, e ora si ritrova confinata in un angolo, lontana da tutto e da tutti. Si starà ponendo qualche domanda, – la donna chinò il capo affranta – Vorrei poter dar fiducia alla ragazzina, e quasi mi spiace doverlo dire, ma credo che stavolta Gold abbia ragione. Non quanto al delatore, no di certo – lanciò un’occhiata a Jones – Ma quanto alla natura della visita di Regina. Ai suoi fini.
I tre tacquero assorti. Malgrado le apparenze distese, da quando Killian aveva riferito ai colleghi la proposta di Cora, l’opportunità offertagli in cambio di una semplice informazione, l’atmosfera in casa non era più la stessa. Tutti si erano complimentati con lui per la decisione presa, l’avevano accolto come un eroe – avrebbero fatto lo stesso se avessero conosciuto la reale motivazione del suo agire? – e gli avevano consigliato di mettere in guardia Gold, tanto più dal momento che questi era al corrente delle visite a Whitechapel.
Il valletto aveva promesso di farlo, consapevole che non sarebbe accaduto.
Lui stesso riconosceva che sarebbe stato saggio accennare qualcosa almeno a Belle; ma un pensiero l’aveva sempre frenato. In fin dei conti, lui cosa c’entrava in quella storia? Niente: vi era stato trascinato di peso, e qualunque resistenza era stata vana; ma ora avrebbe fatto leva sulla propria volontà e se ne sarebbe tirato fuori. Non intendeva restar coinvolto in una rete di tradimenti e vendette incrociate: aveva riavuto il suo lavoro, riaveva Emma, la sua vita doveva essere serena.
Belle avrebbe capito? Gold avrebbe accettato?
No.
Lui non voleva bruciarsi in un assurdo autodafé; voleva solo vivere tranquillo. Senza ulteriori guai.
Ma la coscienza, la coscienza può accettare simili ragionamenti?
Emma glielo rinfacciava sempre; Emma glielo rinfacciava ora.
Emma che era tornata a negargli i suoi baci.
- Avresti dovuto parlare subito,– gli abbaiò contro – Se l’avessi fatto non ci troveremmo in queste condizioni. Rimproveri me di non essere ragionevole, ma tu cosa sei?
Ecco: la sua coscienza era come Emma: scortese, scostante, e immediata nel costringerlo a fronteggiare la realtà. Da settimane entrambe lo esortavano – gli imponevano – di agire, perché la verità sarebbe comunque emersa in un modo o l’altro; proprio come era stato.
- Non…
- C’è di mezzo una bambina, una bambina! Come fai a dormire la notte? Andrò io a dire tutto a Gold, sai che non ho paura di farlo!
- Emma, basta, – sebbene cercasse di placare la figlia, era chiaro che Mary parteggiasse per lei per motivi che andavano ben al di là del legame di sangue – Non è più il tempo delle recriminazioni. Adesso la situazione è seria e dobbiamo affrontarla noi. Qualunque cosa abbia in mente Gold, siamo noi a dover impedire che le due s’incontrino… Sempre che non sia già successo. Non capisco perché non abbia ancora mandato a chiamare Belle.
- Perché gli uomini di questa casa non hanno un briciolo di…!
- Emma!
Quando la Nolan si metteva in testa un’idea, era irremovibile, Killian lo sapeva bene: se aveva deciso di parlare, l’avrebbe fatto. E una parte di lui ne condivideva la scelta. Ma era Mary Margaret la depositaria della ragione immediata: che il Coccodrillo agisse o meno, sarebbero stati loro a interfacciarsi con la realtà. A dover evitare che Regina, ancora una volta spia della madre, rovinasse la vita di terze persone.
L’unica cosa da fare, al momento, era tenere d’occhio la piccola Mills.
 
 
 

“This innocence is brilliant,
I hope that it will stay,
this moment is perfect,
please don't go away.
I need you now.”



 
 
- Nel pomeriggio dovrò uscire.
- Ah. Ma non puoi stare con me?
- Non posso, ho un affare urgente da sbrigare. Ma non mi tratterrò via a lungo, e quando tornerò avrò un regalo per te.
Helena aveva aggrottato le sopracciglia e l’aveva guardato dura, gli occhi scuri penetranti come succhielli.
- Ma io non voglio un regalo. Voglio che stai con me.
La frase l’aveva colpito con la stessa violenza di una bastonata. Conteneva un’accusa, un’incriminazione tutt’altro che tacita che gli aveva fatto male dritto al petto. Helena gli aveva detto in faccia tutto ciò che s’intuiva dalle lettere di Neal, ciò di cui forse anche lui l’avrebbe accusato se gliene fosse stata concessa l’opportunità. La bambina era abituata a dire quel che le passava per la testa senza farsi affliggere da ipocrite timidezze, e non aveva sprecato occasione: appena se n’era presentata una, aveva espresso il suo volere senza badare alle conseguenze.
Non esci per andare al White’s, non esci neanche per lavoro, ma per risolvere una questione che non può andare avanti.
Avere nella stessa casa Helena e Regina equivaleva a sfidare la sorte e Cora, offrir loro la testa di Belle su un vassoio d’argento. Doveva afferrare la ragazza, trascinarla in carrozza e non far caso alle panzane propinategli.
Perdono non sempre è sinonimo di assoluzione: nella sua personale scala di valori, i figli e Belle occupavano il primo posto. Regina, malgrado tutto, veniva dopo.
Ma poi la bambina gli aveva rivolto quella frase, ed lui si era bloccato. Perché era vero che non l’avrebbe abbandonata tra estranei – aveva fin troppa confidenza coi domestici, ne era persino amica –, ma lui evidentemente non poteva contare su di loro, e comunque lasciar sola la piccola in un ambiente così diverso da quello cui era avvezza non sarebbe certo stato un incentivo al suo ritorno.
Belle l’avrebbe preso a male parole quando l’avesse saputo; ma lo stesso sarebbe accaduto se avesse scoperto di Regina.
Ma Helena lo guardava con quegli occhi imploranti, che parevano inchiodarlo ai suoi peccati.
In fondo aveva solo quattro anni. Era così piccola, e per quanto sostenesse orgogliosa di non essere stanca, dopo una mattina così intensa avrebbe avvertito l’esigenza di riposare. Probabilmente di lì a poco sarebbe crollata, e lui avrebbe potuto approfittare del suo sonno per recarsi a Belgravia. Lo preoccupava solo l’idea di dover lasciar sola la figlia in simili frangenti, anche solo per pochi minuti; null’altro.
Nessuno avrebbe saputo niente. Helena non avrebbe saputo niente, Belle avrebbe saputo ciò che lui le avrebbe riferito e Regina e Cora ancor meno.
Al risveglio, la bambina avrebbe avuto il suo papà tutto per sé.
Com’era giusto fosse; come sarebbe stato per sempre.
Quella stanza avrebbero dovuto prepararla in due, e molti anni prima. Avrebbero dovuto scegliere ogni cosa assieme, litigare perché lui sarebbe andato alla ricerca di ciò che era raro e prezioso, mentre lei si sarebbe votata alla semplicità come al solito. Lui gliel’avrebbe data vinta – perché in un modo o nell’altro gliela dava sempre vinta –, ma un giorno ci sarebbe ricascato – perché in un modo o nell’altro ci ricascava sempre – e di nascosto avrebbe comprato qualcosa di opulento e fondamentalmente inutile;e quando lei l’avesse scoperto – perché lei lo scopriva, lo scopriva sempre –, avrebbe fatto la voce grossa, ma poi avrebbe riso, perché quella, in fondo, non sarebbe stata una reale bugia.
Magari i suoi sogni si erano realizzati, in un altro mondo. Magari altrove erano riusciti a ottenere la felicità agognata sin dal primo istante.
Ma lui avrebbe voluto quel sogno, quella felicità in questo mondo.
Avremmo potuto averli qui, se ti avessi permesso di amarmi.
Aveva annuito a Helena.
- Va bene. Resterò con te, – le aveva detto, ed essere ripagato dal suo sorriso era stata la ricompensa più bella.
Forse neanche quella era una reale bugia: sua figlia gli avrebbe creduto, per lei sarebbe stata quella la verità.
E anche se iniziare simile convivenza mentendo non era certo idilliaco, anche se durante la lontananza avrebbe avuto la mente sempre volta a lei – perché i bambini sono fragili, l’hai imparato a tue spese, e nessuno è degno di fiducia –, non agire avrebbe significato sconfitta certa.
E con Belle ed Helena in gioco, perdere non era un’eventualità accettabile.
Per questo aveva ordinato di portare qualcosa in camera di Regina e di ricordarle dell’ospite importante, per questo aveva condotto Helena con sé nello studio: sua figlia sarebbe stata al sicuro solo con lui, perché piuttosto che tradire anche lei si sarebbe fatto uccidere.
Lei e la Mills non si sarebbero incontrate, non si sarebbero neanche sfiorate.
I due universi non avrebbero collimato.
L’avrebbe impedito lui.
Era bella, Helena, bella da farlo commuovere. Non poteva fare a meno di guardarla, incredulo del piccolo miracolo della sua esistenza: davvero aveva contribuito a creare un essere tanto splendido?  Non era abituata ai vestitini eleganti e si muoveva impacciata e goffa, ma – piccola cocciuta, sei tale e quale a tua madre – non se ne lamentava. Lo indossava da poco, ma già stava imparando.
Come faceva una creatura tanto piccola a contenere un pezzo così grosso del suo cuore? Ad averlo già avvinto, reso suo schiavo e conquistato ogni angolo della sua anima?
Si era posto le stesse domande su Belle, e all’epoca era riuscito a darsi una risposta: si ama ciò di cui si ha bisogno, dicono, e lui amava la sua Sweetheart per il modo in cui era in grado di rispettare i suoi silenzi e riempirli.
Per il modo in cui, incurante dell’oscurità che l’avvolgeva come una cappa, aveva trovato la strada per addentrarsi nel suo cuore – fino a restarvi intrappolata.
Non avrei mai dovuto farti soffrire, amore mio.
Helena era così simile a Belle nel loro essere sempre attive. Lo faceva divertire con le sue domande su ogni oggetto, col modo in cui fissava incuriosita i ninnoli, le vetrinette e le maschere esotiche che a sua madre non piacevano; lo faceva ridere lo sguardo accigliato che riservava alla scrivania ingombra di incartamenti.
- Li metto in ordine! – aveva esclamato, ed era balzata all’attacco; e in quel momento a lui era davvero sembrata Belle, la sua versione in miniatura e con gli occhi un altro colore, ma con la stessa disarmante capacità di invadere i suoi spazi senza per questo risultare sgradevole.
Era stato inutile spiegarle che le pulizie erano compito della servitù: Helena era un vulcano d’energia, un uragano impossibile da fermare. Saltava da una parte all’altra e lui la seguiva, partecipe e protettivo, condividendo l’entusiasmo di ogni scoperta e l’euforia di scherzi sempre nuovi. Gold non si era illuso neanche per un istante di poter restare seduto a lavorare mentre lei giocava: erano le prime ore che trascorreva solo con sua figlia, doveva – voleva – dedicarsi a lei e lei sola.
- Cos’è? – a un certo punto la bambina chiese incuriosita, puntando un dito al lato opposto della stanza.
- Questo, – spiegò lui avvicinandosi – È un arcolaio. Si usa per filare la lana. Ecco, guarda: questi sono il rocchetto e le alette. Sono il cuore dell’arcolaio; il resto serve solo per far funzionare questi due elementi. Il filo va fissato sul rocchetto, ma prima bisogna imparare a pedalare in modo lento e continuo…1 – cercò di essere quanto più chiaro possibile, soffocando per un istante il ricordo di un discorso simile fatto a un bambino dalla zazzera scura.
Helena lo ascoltava rapita, un luccichio incantato negli occhi bruni. Poneva domande interessata, come se non avesse mai visto un simile arnese il cui funzionamento le pareva pura magia; e lui era felice di spiegarglielo perché, per quanto fosse un’inezia forse destinata a essere scordata, era pur sempre qualcosa che faceva per sua figlia. Esattamente come quando era stato lui a raccontarle la fiaba della buonanotte: Helena pretendeva lui, e l’avrebbe ottenuto. Prima ancora e molto più dei doni del padre, pretendeva il suo tempo, la sua attenzione, la sua presenza; rivoleva ciò che non aveva avuto.
Una piccola egoista che lui voleva accontentare.
In fondo, non era lui a desiderare che il passato fosse il suo presente, il suo futuro?
- Capito! – la bimba annuì – È come il fuso di Rosaspina.
- Di chi, prego?
- Il fuso di Rosapina, la principessa che si punge un dito e dorme cent’anni, – ripeté stupita – Non lo sai?
- Temo di non conoscere le disavventure di questa signorina.
- Che strano. A me la mamma le racconta sempre… Se vuoi glielo chiedo e la prossima volta le racconta pure a te. Però, – si morse un labbro meditabonda – Nella storia il fuso è incantato. Fa dormire la principessa finché arriva il suo vero amore e la bacia. Anche questo fuso è così?– chiese, non senza palesare una punta d’apprensione.
- No, no, – la tranquillizzò con un sorriso – Questo è solo il vecchio arcolaio che usavo quando lavoravo come filatore.
- E ora non lavori più?
- Diciamo che ora mi occupo più di fabbriche e numeri.
- E allora a che ti serve un arcolaio?
- Alle volte mi aiuta a dimenticare.
- Dimenticare cosa?
Gold si ritrasse d’impulso e guardò confuso sua figlia. No, non poteva aver detto ciò che lui credeva di avere udito; non era possibile. Aveva già avuto quella conversazione, ma con un’altra persona – con Belle.
- Cos’hai detto?
- Cosa vuoi dimenticare.
No, non aveva frainteso: Helena gli aveva posto la medesima domanda che tanti anni prima gli aveva rivolto la sua Sweetheart. Come poteva saperne qualcosa? Era una semplice caso della vita – una fatalità dal potere quasi inquietante, tale da farlo rabbrividire?
Una volta Belle gli aveva parlato di predestinazione. Dinanzi alla loro bambina, Robert Gold iniziava a pensare che avesse ragione.
Alla sua amata non aveva detto subito chi volesse dimenticare. Aveva risposto con uno scherzo – ed era stata la prima, non certo l’ultima volta che evitava le sue domande scomode, eppure comprensive.
S’interrogò sull’opportunità di parlare a Helena di Neal. La bambina era piccola, ma era certo che in un modo o l’altro avrebbe capito. Gli avrebbe raccontato della sua dolcezza e del coraggio che non capiva da chi avesse ereditato, del modo in cui aveva attraversato la sua vita come una meteora – la più luminosa che avesse conosciuto fino ad allora. La bambina aveva il diritto di conoscere suo fratello.
Suo fratello.
Non aveva mai pensato a Neal in questi termini. Se fosse sopravvissuto, sarebbe ormai stato un uomo adulto. Magari avrebbe preso moglie, magari anche lui sarebbe diventato padre. Ma Gold non aveva dubbi: per la sua sorellina, Neal ci sarebbe sempre stato. Sempre.
No, forse non era ancora il caso di parlargliene. Era troppo presto, e farlo avrebbe distrutto la fanciullesca spensieratezza che la contraddistingueva. Non intendeva rattristarla per alcun motivo al mondo, ma sapeva che sarebbe successo se avesse iniziato a parlarle. Il dolore che irradiava dalle sue azioni quando era Neal a muoverle era immenso.
L’innocenza, la dolcezza ancora intoccata dalla vita di Helena andava preservata.
- Le cose brutte, – dichiarò laconico.
- Ma non è che poi dimentichi anche me?
- Mai, – non ci fu esitazione quando lo disse – Di te e di tua madre non potrei mai scordarmi, – anche se una volta è accaduto, non aggiunse. Tacque per un istante, il peso di mille cose non dette ad assordarlo e opprimerlo; ma rialzò il capo e riprendere a parlare – In ogni caso, in quest’arcolaio non c’è nessuna magia, né io sono uno stregone, purtroppo. Altrimenti filerei la paglia in oro e per vivere non dovrei fare le cose noiose che faccio. Mi piacerebbe essere un mago. O un cavaliere… Un cavaliere con la magia, ecco. A te no?
- Molto! – Helena saltellò sul posto, elettrizzata – Se ce l’hai sei potente, sai? Puoi fare tutto! Per esempio, se l’avevo io facevo stare la mamma sempre felice, davo una casa bella come questa per Granny e Ruby e un fidanzato per Ruby, e facevo tornare il papà di Grace come sei tornato tu. E poi potrei mangiare tutti i dolci che voglio senza star male, tutti io! – si fermò e lo guardò – Anzi no. Con te li divido. Li mangiamo assieme.
Gold ghignò.
- Però, sei una tipetta intraprendente! Non sai che la magia ha sempre un prezzo? Se tutti questi progetti facessero arrabbiare mamma?
- Ma sono cose belle! E poi, noi le faremmo lo stesso. Le faremmo di nascosto, quando non ci può vedere.
- E se ci scoprisse?
- Le chiediamo scusa e io faccio gli occhi dolci. Glieli facciamo tutti e due, così non resiste! Una volta, quando tu ancora non c’eri, l’ho sentita dire che quando glieli faccio non mi sa dire di no perché si ricorda di mio pa… – Helena si bloccò, un lampo di panico negli occhi – Di te. Sì, di… Di te. E da allora glieli faccio apposta quando voglio qualcosa, anche se non sempre mi riesce.
Perché si era interrotta? Stava per dire quella parola, eppure proprio non era riuscita a pronunciarla. Quando Helena ci aveva provato c’era stato un istante di vuoto nella sua mente, come se tutto si fosse bloccato e per ricominciare a parlare fosse necessario spiccare un salto; un salto corrispondente proprio al modo in cui pure le sarebbe piaciuto rivolgersi al signore gentile che la riempiva di regali come se ogni giorno fosse Natale e sembrava non avere di meglio da fare che stare lì ad ascoltarla.
Ma non ci era riuscita. Tutto ciò che poteva fare era guardarlo e sperare che non se la prendesse troppo: magari ora che vivevano assieme lui pretendeva di essere chiamato così, perciò si sarebbe arrabbiato e l’avrebbe mandata via. A casa anche mamma si sarebbe arrabbiata, perché non le aveva obbedito ed si era comportata da monella. Non voleva che nessuno dei due si arrabbiasse, non voleva combinare un guaio, davvero. Alle volte, però, per quanto s’impegnasse era proprio cattiva, e quando se ne pentiva ormai il danno era fatto…
Gold ci aveva sperato, per un momento. Senza rendersene conto, si era proteso verso di lei, desiderando solo che una parola, che quella parola sfuggisse dalle labbra della figlia. Che lo riconoscesse – che lo definisse nel modo più bello in cui si era sentito definire in una vita apparentemente coronata di trionfi.
Sì, sarebbe stato bello sentirsi chiamare papà dalla bambina avuta col suo vero, unico grande amore. Ma ci voleva tempo. Tempo e pazienza. Quello non era un processo da affrettare: la situazione di Belle era diversa da quella della figlia. Imporsi a quest’ultima sarebbe stato deleterio per tutti.
Stringi i denti e va’ avanti.
Come hai sempre fatto.
- Saremmo grandi complici, noi due, – sollevò appena l’angolo destro della bocca nel fantasma di un sorriso sghembo – Saresti una maghetta eccezionale. E, come le fiabe insegnano, ogni strega che si rispetti ha il suo arcolaio, e per combinazione qui ce n’è uno. Ti va di provare a usarlo? – le propose gentile. Se anche fosse stato tanto meschino da provare risentimento, lo sguardo grato di sua figlia l’avrebbe spazzato via in un secondo – È più facile di quanto sembri, fidati. Anch’io ho imparato da piccolo.
- Ma io non sono piccola. E imparo anche prima di te, –sbuffò lei saltandogli sulle ginocchia, improvvisamente molto più serena. Non c’era che dire: suo padre era una continua sorpresa.
Gold aveva cercato di insegnare a filare anche a Belle, una sera. Le aveva spiegato il procedimento e lei l’aveva seguito e poi imitato attenta, con la stessa smorfia concentrata che ora dominava il faccino di Helena; ma – neanche lui avrebbe saputo spiegarsi come – a un certo punto il filo finiva per attorcigliarsi, e non c’era verso di sistemarlo.
Al terzo tentativo Gold si era reso conto di non essere un insegnante paziente e aveva scosso il capo.
- Sweetheart, sei una pessima allieva, – aveva sentenziato, scostando quei capelli ramati fini come seta da ricamo e indugiando sul collo candido come neve.
- Se il maestro continua a distrarmi…
Quanti errori si compiono per un po’di felicità provvisoria? Aveva creduto che anche lei fosse interessata solo al denaro, solo al potere, e l’aveva mandata via. Aveva cancellato dalla sua vita l’unico possibilità di conoscere la serenità in nome di un benessere che lo avvolgeva d’oro, e svuotava di sentimenti. Non aveva nessuno con cui condividere ciò che aveva, ciò che tanto gli piaceva; e forse non esagerava sostenendo che una parte, la parte più vera di lui, avrebbe dato via tutto pur di riavere lei; pur di poter consacrarsi ancora anima e corpo a lei.
Gli mancavano l’amore che avevano conosciuto assieme, la passione e le difficoltà, e insieme la leggerezza. Gli mancava la felicità. Dopo di lei non l’aveva più ritrovata.
- Sono brava? – domandò Helena.
Gold tornò in sé. Non avevano combinato nulla, ma non era il caso di specificarlo.
- Certo. Sei la più brava allieva che abbia mai avuto.
La bambina rise. Nella sua espressione splendeva una fiammella d’orgoglio infantile per non aver deluso le aspettative.
- Ora però non voglio più filare. Un po’ mi annoia, sai? Posso continuare a guardare le cose?
- Certo, – la fece scendere – C’è qualcosa in particolare che vorresti vedere?
La bambina non rispose, ancora una volta intenta a studiare quanto riposto sui vari mobili.
- Anche la tazza mezza rotta ti aiuta a dimenticare?
Un colpo al cuore, una stoccata che lo raggiunse in pieno petto.
Un proiettile avrebbe fatto meno male.
Raggiunse all’istante la bambina: non potevano esserci equivoci. C’era una sola tazza mezza rotta nello studio.
Una tazza sbeccata, per l’esattezza.
Aprì piano l’anta della vetrinetta in cui l’aveva conservata al ritorno da New York, e la prese con delicatezza per mostrargliela.
- Tu… Tu sai cos’è questa?
Helena guardò la porcellana con più attenzione. Era una comune tazzina scheggiata, bianca e con un decoro azzurro. Non era brutta, anzi, era molto più fine di quanto usavano a casa; però non aveva alcuna particolarità evidente, eccetto il segno che la incrinava.
- No, – alzò le spalle – Mai vista prima.
- Lo so, – Gold deglutì – Ma tua mamma te ne ha mai parlato?
La bambina scosse il capo.
Era strano che Belle non le avesse raccontato nulla in proposito. La donna teneva all’oggettino tanto quanto lui… Doveva esserci un motivo se l’aveva taciuto alla figlia. Forse aveva preferito mantenere il riserbo, conservare il ricordo come un segreto intimo cui rifarsi nei momenti di malinconia. O forse aveva deciso di attendere che la figlia fosse più matura, maggiormente in grado di capire il valore delle piccola cose. Sarebbe stato un ragionamento degno di Belle, in effetti.
- Ma quindi a che ti serve?
- Questa, – mormorò – Mi aiuta a ricordare.
Quel giorno di cinque anni prima aveva rotto ogni cosa sul suo cammino eccetto la tazza.
L’aveva conservata come una promessa: non avrebbe più amato.
Poi era divenuta un ricordo: aveva amato.
Aveva amato lei.
- So che tua mamma ti ha raccontato di quando lavorava per me. Il suo primo giorno, mentre le stavo spiegando i suoi compiti, le ho fatto un brutto scherzo. Lei si è spaventata e le è scivolata di mano questa tazza. Vedi? – gliela porse, pregando che fosse più accorta di Belle – Cadendo si è sbeccata. Tua mamma ha avuto paura che io la rimproverassi, o che la mandassi via urlando, e ha iniziato a chiedermi scusa. “Mi dispiace, mi dispiace tanto, ma si è sbeccata. Si vede appena”, mi ripeteva tremando; e io le ho risposto di non preoccuparsi, perché era solo una tazza, – la bambina continuava a passarci sopra le dita, intrigata – La cosa strana è che, se fosse stata un’altra domestica a gettare a terra qualcosa, io mi sarei arrabbiato davvero. Con lei non è successo. Forse non me ne rendevo conto, ma già non volevo avesse paura di me. In segreto, volevo si sentisse a suo agio. Sicura. Protetta.
Helena gli riconsegnò l’oggetto, ma rimase pensierosa. Gold temette di averla turbata, ma ciò che si sentì chiedere dissipò ogni dubbio.
- Vuoi bene alla mamma?
Era una risposta intima, inadatta a una bambina, ma si sentiva obbligato a rispondere.
- Non le voglio bene. L’amo.
- Che significa?
-  È qualcosa che va oltre, molto oltre il voler bene. Qualcosa che si prova verso pochissime persone. Per esempio, – le carezzò una guancia – Io amo solo lei e te.
- E perché ci ami?
- Amo te perché sei la mia bambina. Sangue del mio sangue, la figlia migliore che il destino potesse riservarmi. Il mio tesoro unico e specialissimo. E amo Belle perché io non ci sarei se non ci fosse stata lei.
La bambina lo guardò come se fosse ammattito.
- No. Io non ci sarei se lei non ci fosse, non tu. È mia mamma.
L’uomo le scostò una ciocca dalla fronte.
- Intendevo in un altro senso, – rimase serio – Tua mamma mi ha conosciuto nel mio momento peggiore ed è riuscita ad amarmi. Come ha fatto, per me resterà sempre un mistero; ma è stata sincera, sempre sincera e io non sempre le ho creduto. Lei mi è rimasta accanto finché gliel’ho consentito e mi ha dato forza – mi ha reso migliore. Mi ha dato il paradiso, e per uno come me il paradiso è un sogno.
- Ma tu sei buono, – obiettò la piccola – Perché stai dicendo questo?
Erano cose che sua figlia non avrebbe mai dovuto scoprire, né allora né una volta cresciuta. Non voleva sapesse che uomo poteva essere suo padre, le oscurità che albergavano nei meandri della sua anima e che gli sussurravano all’orecchio quando Belle era distante; per la sua bambina sarebbe voluto essere il padre perfetto, proprio come per Belle sarebbe voluto essere l’uomo perfetto.
E non lo sarebbe mai stato.
Quando avrebbe deluso nuovamente entrambe – lo stava già facendo –, cos’avrebbe capito Helena? Anche in quello sarebbe stata tanto somigliante alla madre? Belle aveva cercato di far tacere ogni demone, di asciugare ogni lacrima; ma non sapeva che c’erano paure che non avrebbe potuto dissipare, bivi impossibili da prevedere.
Proprio questo l’aveva distrutta.
- Helena, – s’inginocchiò alla sua altezza – Tu mi vedi buono, ma non sempre lo sono. Però – qualsiasi cosa accada, voglio che tu ricordi una cosa. Che la ricordi a te stessa e… E a tua madre, se puoi. Per favore, ricordate che vi amo e che mai, per nulla al mondo vorrei deludervi. Farvi del male.
In quel momento papà sembrava così triste. Con le spalle curve e il capo chino, pareva sperduto. A Helena dispiaceva tanto vederlo così, e non capiva come potessero convivere in un solo corpo l’uomo tanto orgoglioso con cui era entrata nella villa e questo signore fragile. Era colpa del discorso appena fatto, poco ma sicuro; un discorso che Helena non aveva capito fino in fondo, ma sul quale capiva non era il caso di porre domande. Non al momento, almeno.
Gold la sentì all’improvviso. Una mano piccola sulla sua spalla, che si posava delicata ed esitante come gli uccellini desiderosi di nutrirsi da un bambino e timorosi di avvicinarglisi, e la carezzava piano, quasi a consolarlo.
Helena lo fissava mesta.
- Non ci fai del male. Anche noi ti vogliamo bene, –  disse prima di abbracciarlo forte.
Gold ricambiò la stretta.
Non meritava una donna come Belle.
Non meritava una figlia come Helena.
Perché fai di tutto per perderle di nuovo?
 
 
 

“And I'll hold on to it,
don't you let it pass you by.”

 

 
 
Stava succedendo qualcosa, ne era certa.
Il problema era capire cosa.
Casa Gold era tutto fuorché serena quel giorno. Da una parte poteva intuirne la ragione: il suo arrivo rocambolesco, la confessione allo zio… Aveva praticamente ammesso di essere compromessa. Forse l’uomo provava un tale disgusto nei suoi confronti da non tollerarne neppure la vista: come spiegare altrimenti l’atteggiamento dimostrato? L’aveva fatta accompagnare nella vecchia camera ufficiale di sua madre e abbandonata lì in attesa di nessuno sapeva cosa. Kathryn le aveva portato il pranzo per poi fuggire via ricordandole di far silenzio; e da allora non c’erano state altre novità.
Non un segno, non un’indicazione, nessun nuovo ordine: niente.
E,momento dopo momento, la storia dell’ospite importante diventava sempre più debole.
Lo zio non aveva precisato quanto tempo l’avrebbe ospitata, aveva notato, e Regina sapeva bene che questo significava solo una cosa: l’avrebbe rispedita a casa quanto prima, anche contro la sua volontà. Aveva pensato di precederlo andando a perorare la propria causa nel suo studio, ma le volte in cui aveva provato a lasciare la stanza era subito stata raggiunta da servitori ben più solerti del solito.
- Mr Gold sta discutendo di affari con un ospite. Vi riceverà appena possibile.
Ogni rimostranza o minaccia era stata vana: con delicatezza, ma decisione le Nolan e Jones l’avevano ricondotta in camera.
E così Regina era costretta a restar sola con la peggiore compagnia si possa avere: se stessi.
Gli avvenimenti di Kensington, in fondo, non erano importanti quanto ciò che stava accadendo altrove. Pensava e ripensava alla mattinata. Sarebbe voluta essere forte, essere grata al destino che l’aveva fatta fuggire e non curarsi della sorte dei compagni; ma – sua madre aveva ancora una volta ragione – si riscopriva debole.
Debole e innamorata.
Aveva assistito alla violenza dei colpi sferrati a Daniel: non poteva illudersi. L’avrebbero ucciso, o abbandonato morente sul ciglio della strada. Nell’East End sarebbe passato inosservato, forse. O l’avrebbero gettato nel fiume… Ogni ipotesi era plausibile; ogni ipotesi era dolorosa.
Il suo Daniel così no. Mai.
E Mal che l’aveva aiutata sin dal primo giorno, Mal, la sua irruenza e il suo coraggio che l’avevano salvata? Quale destino l’attendeva? Le strade che l’adolescente si prospettava erano tutte orribili; ma sapeva ciò di cui erano capaci gli uomini di sua madre.
E tutto questo per aver aiutato me.
E io sono scappata senza aiutarli.
Come una codarda.
Perché voler bene significa preoccuparsi? Regina non voleva soffrire, non voleva sentire il peso dell’angoscia opprimerle il petto, soffocarle il respiro e ricordarle la sua nuova colpa.
Forse avrebbe dovuto dar retta a Cora: l’amore è una debolezza, ed è più semplice seguire la strada già tracciata. Meno pericoloso, meno gravoso: non pone scelte, non pone rischi. Avrebbe avuto tutto, e l’aveva gettato via per un capriccio infantile.
Regina trattenne una risata amara. Possibile che stesse sostenendo qualcosa di simile? La sua vita e le sue idee cambiavano direzione come una bandieruola al sopraggiungere della tempesta. Pensava che lei e Daniel sarebbero riusciti a contrastare Maman, ed ecco com’erano finiti; sperava che lo zio l’avrebbe compresa e accolta, e si ritrovava nuovamente prigioniera in una stanza lussuosa. Aveva giurato a se stessa che la madre non l’avrebbe piegata, e invece…
E invece, si disse sentendo le lacrime scivolarle lungo le guance, invece mi hai già spezzata.
 
 

 
“I found a place so safe,
not a single tear,
the first time in my life

and now it's so clear.”
 

 
 
Helena l’aveva detto che non voleva dormire. L’aveva detto e ridetto a papà e a Mary Margaret, ma non l’avevano ascoltata: prima uno e poi l’altra avevano ripetuto che era bene si riposasse un po’, che tutti i bambini lo facevano e che al risveglio si sarebbe sentita piena di energia e avrebbe potuto giocare senza sosta.
Aveva fatto presente che già si sentiva benissimo, grazie tante, e che poco le importava degli altri: lei era lei, e di pomeriggio non dormiva, punto. Si dorme quando c’è buio, non nel bel mezzo del giorno, quando si possono fare tante cose ben più interessanti; per esempio, esplorare il Castello, come aveva ribattezzato la villa. Tra salotti e salottini, sale da ricevimenti e da ballo, soggiorni, verande e stanze che non avevano alcuna funzione, non poteva lasciarsi sfuggire la possibilità di un’avventura!
E poi – questo però non l’aveva specificato – da sola in quella stanza non voleva starci, non voleva starci assolutissimamente.
Appena la governante aveva chiuso la porta, Helena era schizzata fuori dalle coperte – troppo pesanti, troppo calde, come pretendevano s’addormentasse? – e aveva cercato di distrarsi con qualcosa. Con tutti quei giochi aveva l’imbarazzo della scelta, ed era passata da uno all’altro senza riuscire a decidere; ma l’unica cosa che avrebbe davvero voluto, si era resa conto, era il suo Bae.
Ma il gatto era con la mamma, e la mamma era lontana, lontanissima da lei…
Chissà cosa stava facendo la mamma in quel momento. Chissà se la pensava, se davvero le mancava… In fondo sperava di sì, sebbene questo significava una mamma triste e lei non voleva che nessuno fosse scontento a causa sua.
Se anche la mamma fosse stata nella casa grande grande, entrambe sarebbero state molto più felici. Anche papà lo sarebbe stato: qualcuno poteva considerarla ancora piccola, e forse non aveva compreso a fondo il suo discorso, ma non era certo cieca né sorda e si era resa conto del modo in cui papà parlava della mamma. Anche a lui mancava Belle, e molto. Forse persino più che a lei: perché in fondo Helena stava sempre con la mamma, mentre lui la vedeva solo quando andava a trovarle…
Davvero: non riusciva a capire perché la donna non avesse voluto unirsi a loro. La giustificazione che le aveva dato non la convinceva affatto.
Ma domandarselo non avrebbe cambiato le cose, anzi: l’avrebbe fatta sentire peggio. La mamma diceva sempre che quando si è triste bisogna cercare di non pensarci e occupare la mente con la cosa che si ama fare: per esempio, Belle leggeva, Granny cucinava, Ruby copiava i modelli di vestiti e lei disegnava. Disegnare era la cosa che le piaceva di più, e papà lo sapeva da sempre; però proprio ora pareva essersene scordato – forse aveva filato troppo? – perché, per quanto la bimba cercasse, in camera non trovava l’ombra di un pastello o di un foglio.
Forse avrebbe dovuto rassegnarsi e tornare a letto, o giocare con ciò che aveva... Ma le eroine si sarebbero forse arrese così? Certo che no! Provavano e riprovavano e alla fine trovavano sempre ciò che cercavano; e lei si sarebbe comportata allo stesso modo.
Il primo passo era non farsi sentire: in punta di piedi aprì la porta e si avventurò per casa. Il palazzo era così strano, con tutti quei corridoi lunghissimi e i mobili pieni di cose dall’aria parecchio delicata che a papà dovevano piacere davvero tanto. Vi regnava un silenzio di cui mai aveva goduto nell’affollatissima Whitechapel, una quiete che – a dirla tutta – la inquietava non poco: nelle storie, i guai peggiori succedono sempre quando tutto sembra tranquillo. Ma l’avventura, si sa, vale bene un piccolo rischio, e non si vedeva nessuno in giro…
Provò ad aprire alcune camere senza riuscirvi: erano tutte chiuse a chiave. Questo però non significava che lo sarebbe stata anche l’ultima, che si stagliava dinanzi a lei: se lo sentiva, lì avrebbe trovato i colori che cercava; o comunque, se così non fosse stato, avrebbe continuato a esplorare.
Come per magia, la maniglia si abbassò sotto il suo tocco e la porta si schiuse. Esultando tra sé e sé, fece capolino nella stanza, ma subito si bloccò.
Una ragazza la fissava col suo stesso, identico sconcerto.
 
 
 
La concitata giornata avrebbe avuto delle ripercussioni, lo immaginava; questa era solo la prima.
Come spiegare altrimenti la presenza di una bambina dallo zio? Una bambina che sbucava dal nulla, che irrompeva in camera – senza bussare o almeno scusarsi, tra l’altro, dando prova di un’esecrabile mancanza di decenza – e che, completamente noncurante, avanzava verso di lei sbigottita.
Non che la sua espressione dovesse essere molto diversa, del resto.
Posò la spazzola d’argento sbalzato sul mobile della toeletta e scosse il capo, certa che l’allucinazione sarebbe scomparsa; ma la bambina era ancora lì, e persino ancora più stupefatta.
A Regina ricordava qualcuno, ma non riusciva a individuare chi.
Era al cospetto di una vera principessa, non c’era altra spiegazione. Così raffinata, con quel modo di tenere alto il mento che suggeriva fosse abituata a vedere il prossimo piegarsi ai suoi desideri… La principessa della fate, ecco chi doveva essere.
Forse era stata rapita da qualche malvagio stregone che la voleva in sposa e la teneva prigioniera nel suo castello. Questo rendeva suo papà il mago cattivo in questione, ma suo papà non era un mago ed era buono, perciò decise di ignorare l’osservazione e di concentrarsi sulla fanciulla dalla chioma più bella che avesse visto: folta, nera e lucida come inchiostro appena versato..
- È fuori moda bussare prima di entrare?
La principessa aveva la voce dura, ma gli occhi tristi. Forse anche a lei mancava casa, anche a lei mancava sua mamma.
- Sei la principessa delle fate?
Ci mancava solo questa, commentò Regina a denti stretti. A quanto pareva, aveva a che fare con una novella Alice nel Paese delle Meraviglie. Non ricordava di essere stata tanto trasognata da piccola; certo non sarebbe mai andata in giro a chiedere cose simili alla gente: se ci avesse provato, sua madre le avrebbe tirato tante di quelle sberle da farle girare la faccia.
- Le fate non esistono e io sono reale, – sbuffò. Sfogare le proprie frustrazioni sulla piccola era crudele, ma non aveva voglia di perder tempo in sciocchezze – Reale, e alquanto indignata dalla tua maleducazione.
Helena ci rimase malissimo. Non sapeva se fosse rimasta ferita più dall’offesa, dalla parola che non conosceva o dalla negazione dell’esistenza delle fate; ma di sicuro, la sua interlocutrice non ne era la principessa.
Era, molto semplicemente, una ragazza scortese e molto, molto cattiva.
- La mamma e gli altri dicono che sono buona! Tu, invece, sei cattiva, e se dico a papà che mi hai trattata male lui, che è un re e vuole essere stregone, ti punisce!
- Splendido, – Regina riprese a pettinarsi – Ti ringrazio per l’avvertimento, ora il mio unico scopo sarà sfuggire alle grinfie dello stregone padre di una mocciosa.
- Non sono una mocciosa!
Più i minuti passavano, più Regina si convinceva di aver già visto la ragazzina da qualche parte; o almeno, di conoscerne i genitori. Perché quel visetto le era familiare: i lineamenti, il taglio degli occhi, le smorfie che faceva…
Di quale domestico poteva essere figlia? Di Killian Jones? Non sapeva si fosse sposato; e soprattutto, la bambina non gli somigliava affatto.
Chiunque fossero i genitori, avevano fatto un pessimo lavoro con la prole: possibile che a tre, quattro anni la piccoletta non sapesse muoversi decentemente in un vestitino d’organza? Un vestitino dall’aria un po’ troppo costosa per essere accessibile a un domestico, a dire il vero…
- E cosa saresti, allora? – la liquidò annoiata. Le paturnie di quella cosina minuscola iniziavano a stancarla.
- Helena! E mio papà ha fatto bene a rinchiuderti in casa sua, perché tu sei una persona cattiva e mi dici cose brutte!
La spazzola le cadde di mano con un tonfo. Una bestia di nome sospetto le arpionò il collo, provocandole una sorta d’afasia. Si voltò: improvvisamente vedeva la bambina meno a fuoco.
- Cos-cos’hai detto? – balbettò infine.
Più la fissava, più coglieva somiglianze che non esistevano. La bambina era certamente figlia di un inserviente e credeva che il padre fosse il padrone della villa; la sua era solo suggestione. Non doveva farsi affliggere dalla fantasia sovreccitata di una piccola sconosciuta.
All’improvviso la ragazza non sembrava più tanto antipatica. Forse suo papà le aveva mentito: aveva davvero qualche potere e la minaccia aveva sortito l’effetto sperato, perché a Helena la giovane appariva all’improvviso spaventata. Anzi, peggio: terrorizzata. Come se avesse un fantasma davanti a sé.
- Guarda che non è vero, – provò a consolarla, pentendosi di quanto fatto – Mio papà ha detto che vuole essere uno stregone, però non lo è. Non ti fa male, gli dico io di non fartelo… Anzi, non gli dico proprio che mi hai detto cose brutte, va bene?
- No, – Regina emise un verso strozzato quando fu di nuovo in grado di prendere un respiro intero – Cos’hai detto prima? Dove vive tuo padre?
- Qui, – Helena ribadì senza capire – Questa è casa sua. E tutti gli ubbidiscono perché sono i servi, cioè quelli che lo aiutano, anche se non so bene perché…
Il volto tondo, la linea delle labbra.
Non gli occhi, gli occhi erano diversi.
(Conosceva anche quegli occhi.)
Ma il colore dei capelli, il sorriso.
C’era una persona che corrispondeva a quella descrizione, una persona con quelle caratteristiche.
No, non si stava suggestionando
- Come si chiama tua madre?
La bambina quasi sospirò di sollievo. Dal modo in cui si era posta, sembrava che la ragazza stesse per chiederle chissà cosa, e invece la risposta era tanto semplice…
- Belle. Mia madre si chiama Belle French.
- Helena!
Le due si voltarono verso la porta: Gold si stagliava sulla soglia, furente e angosciato a un tempo.
La bambina sorrise allegra andando verso il padre.
- Però, – lo rimproverò – Tu non mi avevi detto che in casa c'era la principessa delle fate!
 
 
 

“It's so strong
and now I let myself
be sincere.”

 
 
 
Aveva fatto allontanare Helena. Mary Margaret l’avrebbe controllata, mentre lui risolveva la questione che non avrebbe mai voluto fronteggiare. Per quale dannatissimo motivo l’universo si accaniva contro di lui in tal modo? Una cosa, aveva chiesto una sola cosa, e aveva ottenuto l’esatto contrario.
Era andato a riprendere Regina per riportarla a Belgravia e chiudere la questione, e l’aveva ritrovata fianco a fianco con Helena.
Regina sapeva tutto. Nella sua ingenuità, la bambina le aveva spiattellato ogni cosa. Se non fosse intervenuto, probabilmente le avrebbe detto anche dove rintracciare Belle.
Per quanto fosse duro da ammettere, era la fine. Mettere alla porta Regina ora sarebbe equivalso a una confessione: la ragazza sarebbe tornata a casa vittoriosa, riferendo alla madre ciò per cui era stata inviata da lui. E, al tempo stesso, non poteva ospitarla ancora: già la sua scelta aveva portato a conseguenze nefaste – possibile che ogni suo passo fosse un errore? – che sarebbero peggiorate nel momento in cui Helena e Regina si sarebbero rincontrate. Perché ormai il danno era stato fatto: in un modo o l’altro, le due si sarebbero riviste.
Quella mattina avrebbe dovuto cacciare la Mills all’istante, non meditare piani artificiosi che ancora una volta gli si erano ritorti contro. Possibile che non ne avesse visto le falle? Ce n’erano, diamine, erano immense e lui le aveva bellamente ignorate!
Avrebbe dovuto mettere in guardia Belle dal primo momento, avvisarla dei pericoli, anziché fare di testa propria e ritrovarsi ora a fronteggiare il peggior guaio che avrebbe mai potuto combinare quel giorno.
Regina non parlava. Studiava il pavimento dinanzi a sé, le mani intrecciate in grembo e un’espressione inquieta sul volto. Era pallida, sconvolta. Era – andava ribadito – un’ottima attrice.
Lui non avrebbe parlato per primo. Si sarebbe limitato a fissarla a braccia conserte, in attesa della sua mossa. Per quanto furba, l’adolescente era pur sempre una marionetta dai fili tirati da un burattinaio invisibile; un burattinaio ora assente. Per quanto Cora avesse potuto istruirla, si sarebbe trovata a fronteggiare la situazione da sola: al minimo passo falso – perché ce ne sarebbe stato uno – lui l’avrebbe sovrastata.
La sua attesa fu ripagata: all’improvviso la giovane rialzò il mento.
- Zio, – mormorò appena – Non chiederò.
- Saggio da parte tua, – fu l’unica replica.
- Ma devo sapere.
- Hai appena sostenuto il contrario.
- Ma ho bisogno di un’informazione!
Strana strategia, Cora.
- Io ho bisogno di tutto il denaro del mondo, ma non sempre si ottiene ciò che si vuole.
Regina non demorse.
- Lei dov’è?
Lo sguardo dello zio la trapassò come una lama.
- Perché dirtelo? Perché tu possa comunicarlo alla tua sordida compare? – l’adolescente lo guardò confusa – L’affetto che nutro per te ha dei limiti. C’è chi viene prima di te, e di sicuro prima di tua madre. Riferiscile questo.
La Mills capì all’istante ciò che l’altro intendeva. Ma Gold aveva frainteso, frainteso tutto: non era un’emissaria di Cora, per una volta nella vita la Contessa non aveva a che fare con quella storia. Lo ribadì, ribadì gli eventi più recenti, ripercorse la vicenda di Daniel e Mal, pregò di essere creduta.
Non lo fu.
- Credete davvero che io abbia accettato ancora di collaborare con mia madre? Dopo avervi chiesto scusa, dopo ciò che lei mi ha fatto?
La replica non si fece attendere.
- Mia cara, io credo solo tu sia la sua degna erede.
- Non mi manda lei. Vi assicuro che non è così.
- Io ti assicuro invece di non credere nelle coincidenze. E oggi ce ne sono state persino troppe.
Regina scosse il capo amareggiata. Sapeva che lo zio era nel giusto: al suo posto anche lei si sarebbe comportata allo stesso modo, anche lei avrebbe a ogni costo difeso la sua famiglia da coloro le quali gliel’avevano negata per tanto tempo.
- Qualsiasi cosa dica, voi la considererete una menzogna.
- , – dopo un lungo istante di silenzio, Gold sibilò sprezzante – Tu mi hai costretto a questo; tu e tua madre mi avete costretto a questo. Non ti sbatto fuori di casa come voi mi avete indotto a fare con lei solo perché so che andresti riportare a Cora tutto, e questo io te lo impedirò a ogni costo. Tu resterai qui, e se solo proverai ancora ad avvicinarti a mia figlia, Dearie, non esiterò a prendere provvedimenti. Ti ho voluto bene, sì, – ammantò il cuore di durezza, soffocò l’affetto che pure nutriva per lei e continuò, col preciso intento di colpirla – Ti ho voluto bene come a una figlia. Ma lei è mia figlia.
Regina sussultò. Arrabbiata e ferita come una bestia in gabbia, posò gli occhi su di lui alla ricerca di una risposta; chinò nuovamente il capo, sconfitta.
Lo so, zio. L’ho sempre saputo.
L’uomo stava per uscire dalla stanza quando una nuova domanda lo fermò.
- Ditemi solo questo. Quando… Quando Belle se n’è andata, voi sapevate di Helena?
Gold la guardò. La coltre spessa del silenzio che premeva su loro era una cappa soffocante.
- Se Helena non ha avuto suo padre, – rimarcò infine – Le colpevoli siete voi.
 
 

 
“It's the state of bliss
you think you're dreaming.”
 

 
 
Aveva iniziato a piovere appena Mary Margaret l’aveva messa a letto, uno dei temporali più forti che ricordasse. Il cielo gemeva minaccioso da un po’, ma solo allora grossi goccioloni avevano iniziato a cadere rumorosamente contro il vetro della finestra, dapprima sporadici e poi fitti, sempre più fitti.
Aveva guardato la donna implorante, nella speranza che intuisse il suo disagio, ma purtroppo le cose non erano andate come sperato: la governante era sì stata premurosa come sempre, ma aveva spento la luce, chiuso la porta e lasciata sola fin troppo presto. Le aveva dato il bacio della buonanotte, ma non aveva cantato la sua ninnananna, non le aveva raccontato alcuna storia né, ancora peggio, controllato i mostri sotto il letto. A casa non ce n’erano, ma qui? Il castello era pieno di misteri, l’aveva sperimentato sulla propria pelle: se in una stanza aveva trovato la ragazza bella e strana che poi aveva cenato con lei e papà in assoluto silenzio – una cena così diversa da quelle cui la bimba era abituata, e che in tutta onestà l’aveva rattristata non poco –, chissà cosa poteva nascondersi altrove… Magari proprio qualche folletto cattivo che di giorno se ne stava zitto e buono e che di notte, con la complicità delle tenebre, s’apprestava a saltare al collo d’innocenti bambine per strozzarle.
Magari da qualche parte era in agguato Jenny Dentiverdi.2
Mentre  la pioggia scrosciava con violenza, le tornarono in mente i versi di una filastrocca che Henry dell’orfanotrofio le aveva cantato una volta.
Jenny la fata, Jenny la strega,
prima t’afferra e dopo ti annega.
Sei carne morta, giù nel profondo,
Jenny mangia tutti i bambini del mondo.” 3
La mamma le avrebbe detto che i mostri non esistono, l’avrebbe abbracciata e consolata; ma la mamma non c’era, e quella notte le mancava più che mai. E non c’era neanche Bae: come aveva potuto lasciarlo a casa, come?
All’improvviso le sovvenne che la camera della ragazza – Regina, l’aveva chiamata papà, un nome che le era piaciuto tanto – era molto più vicina alla fila di camere chiuse a chiave: se Jenny fosse stata lì, l’avrebbe trovata subito!
L’idea di lasciare il letto l’atterriva non poco: se si fosse nascosta per bene sotto le coperte, nessuno l’avrebbe trovata e sarebbe sopravvissuta indenne alla notte. Provò a farlo, ma il pensiero di Regina tornò a farle visita.
Come avrebbe spiegato alla mamma che aveva lasciato morire sola un’innocente? Le eroine non si comportavano certo così! Malgrado la sua, di paura, non poteva lasciarla sola e farla finire annegata quando lei se ne stava ben al sicuro nella sua camera piena di giochi: doveva fare qualcosa, e in fretta!
S’impose di calciar via le coperte e di scendere dal letto. Salutò per sempre i suoi nuovi e ancora mai usati giochi, certa che non li avrebbe più visti, e rivolse un ultimo pensiero a mamma e a papà, a Granny e a Ruby e a tutti gli altri che avrebbero pianto la sua prematura ed eroica scomparsa; e con un sospiro, uscì dalla stanza.
Procedette acquattata contro la parete, provando a non fare il minimo rumore, un unico pensiero in testa.
Se non mi volto non mi prende, se non mi volto non mi prende.
I mostri esistono solo se li fai esistere tu, la mamma era solita rincuorarla.
Se non mi volto non mi prende, se non mi volto non mi prende.
Il fragore di un nuovo tuono le fermò il cuore.
Percorse gli ultimi metri correndo, incurante di essere udita; aprì trafelata la porta della stanza di Regina, ficcandosi dentro e sbattendola alle proprie spalle.
Vi si poggiò contro, respirando affannosamente e tenendo gli occhi, quasi incredula di essere sfuggita a Jenny. Quando sollevò le palpebre, ringraziò il Cielo per trovarsi davanti una Regina che la fissava con un sopracciglio levato.
- Bussare è tanto difficile? Se mi stessi cambiando cosa faresti?
- A casa vedo sempre la mamma e Ruby.
Appena aveva nominato la mamma, la ragazza era sbiancata di nuovo. Helena s’interrogò ancora una volta sul perché: pareva la temesse, come se fosse lei la strega da cui fuggire.
- Conosci mia mamma? – provò, desiderosa di rassicurarla.
- La conoscevo.
- Ah, – non la risposta che si sarebbe aspettata, ma meglio di niente – E dove l’hai conosciuta? Qui nel castello?
Castello. Ci voleva fantasia per definire così la pur ampia villa, pensò l’adolescente. E non c’erano dubbi su chi avesse trasmesso tutta quell’inventiva alla figlia.
Ricordava i moniti dello zio: più fosse stata distante dalla bambina, meglio sarebbe stato per tutti. Neanche lui dimostrava compassione, quando si trattava di punire chi gli faceva un torto. Il soprannome di “bestia” con cui era conosciuto era più che guadagnato, e lei non voleva averne diretta esperienza. Da allora in avanti, preferiva ricordare l’uomo per com’era stato, per il parente dolce che da piccola l’aveva coccolata e viziata molto più di quanto avesse fatto sua madre.
Ma i rimpianti erano vani, la nostalgia altrettanto. Era giusto così: anche lei avrebbe preferito la propria creatura al mondo.
La sua infanzia era ormai lontana, spazzata via dal peso della vita e dalle colpe.
Ci sono peccati che nessun battesimo monda, e io li ho commessi tutti nei confronti di te e tua madre, bambina.
Mi cercheresti ancora, se lo sapessi?
Gold non avrebbe mai creduto. Avrebbe pensato fosse stata lei ad attirare Helena in camera per estorcerle altre informazioni. Non capiva – non riusciva a capire – che Regina non era in grado di guardare in volto la bambina senza sentirsi mancare il fiato, senza desiderare di poter tornare indietro nel tempo e sistemare tutto.
Se Helena non ha avuto suo padre, le colpevoli siete voi.
Aveva impedito a una famiglia di nascere? All’epoca era stata troppo piccola per immaginare che la relazione tra sue zio e la domestica fosse evoluta fino a quel punto.
Stare con la bambina era angosciante e oltre tutto pericoloso: avrebbe vanificato gli sforzi di Daniel e Mal. Doveva allontanarla il più velocemente possibile, e per farlo non c’era strategia migliore che mostrarsi arrogante e scontroso.
- Che sei venuta a fare qui? – ignorò la domanda su Belle e si diresse verso il letto – Sono stanca e voglio dormire, perciò parla in fretta e vattene.
Il volto della bambina si adombrò.
- Perché mi tratti di nuovo male? Io sono venuta per dirti di Jenny Dentiverdi, perché se ti prende mi dispiace, e tu sei sempre cattiva.
- Jenny Dentiverdi, – l’adolescente sbadigliò – Non esiste. E comunque, come farebbe a vivere lontana dall’acqua?
Effettivamente Helena non aveva considerato il punto.
- Dici davvero?
- Tu ne hai mai visto una? No, e lo stesso vale per me e per chiunque altro. Se qualcosa non si vede non esiste.
Sul punto la bambina non poteva dirsi d’accordo: la mamma le parlava spesso di meraviglie del mondo – le piramidi, l’oceano, la stessa Scozia – che nessuna delle due aveva visto, ma che certo esistevano. Sua madre non era una bugiarda. E comunque, nessuno di sua conoscenza aveva mai visto la regina Vittoria, che però certo esisteva. E lo stesso valeva per banshee, fate e certamente anche Jenny Dentiverdi.
- Non mi hai risposto però. Hai conosciuto qui mia mamma?
Piccola testarda.
- Sì.
- E…?
- E cosa?
- E poi?
- E poi non ti interessa. Ti ho già detto che sono stanca e non ho voglia di star dietro a una mocciosa. Va’ in camera tua.
Helena vacillò appena arretrando.
- Ma, – la supplicò con lo sguardo – Sta piovendo. L’acqua c’è – forse c’è anche Jenny.
- Dubito che quest’acquazzone sia tale da far comparire creature mitologiche.
Quasi a smentire le parole di Regina, il cielo fu punteggiato dal bagliore di un fulmine subito seguito dal rombo di un nuovo tuono.
La bambina sobbalzò. Si strinse le mani alle spalle e deglutì. No, non avrebbe ammesso di voler stare assieme a qualcuno, ma questo non significava certo provasse meno paura. Dei mostri, del temporale e di quella casa sconosciuta. Tutti i propositi di valore si erano sciolti come neve al sole: voleva la mamma, voleva dormire con lei, e aveva sperato che Regina si mostrasse comprensiva e la ospitasse. La ragazza era antipatica, ma sembrava soprattutto sola – come lei, del resto – e aveva riposto fiducia nella sua capacità di comprenderla.
Ma così non era stato.
Tirò su col naso.
- Va bene, – biascicò appena – Allora io… Torno indietro… Va bene?
Regina non proferì verbo. Che tornasse pure in camera sua: meglio per entrambe.
E però…
Era naturale che la bambina avesse paura durante un temporale simile: possibile che nessuno se ne fosse accorto, che l’avessero lasciato sola in un posto nuovo? Poteva fingersi coraggiosa e ribelle, ma aveva solo quattro anni ed era spaventata.
Cosa t’importa? fece una vocina in lei. Ti complicherebbe la vita e basta. Non è nessuno per te. Non sentirti in colpa per lasciarla andare.
L’assurdo auto-abbraccio in cui continuava a stringersi, tuttavia, la inteneriva. Più dei tuoni, più degli spauracchi, Helena doveva temere la solitudine.
Con ogni probabilità il suo gesto sarebbe stato frainteso. L’indomani se ne sarebbe pentita amaramente, avrebbe maledetto quel dannato e inedito sfoggio di generosità. Però in quella piccina Regina rivedeva se stessa qualche anno prima: sperduta e impaurita, desiderosa solo di una mano amica.
Lei aveva trovato quel sostegno; l’aveva trovato e tradito.
Ma se il voltafaccia era ormai irreparabile, poteva almeno far qualcosa per quella bambina.
Lo doveva a Belle.
- Aspetta.
La bambina, giunta ormai alla porta, si voltò.
- Che c’è?
- Vieni, – la più grande batté una mano sul materasso – Stanotte dormi qui.
- Ma…
- Niente “ma”: o vieni o vai. Subito. Non mi piace perdere tempo.
Malgrado il tono tagliente e la minaccia, dalla smorfia che le sfiorò appena la bocca Helena capì che Regina non l’avrebbe scacciata.
Una piccola macchia castana tornò indietro e si accoccolò nel letto.
L’altra le diede le spalle.
- Chiudi gli occhi e dormi.
- Sarò buonissimissima, lo giuro! Mamma dice che non scalcio mai! – nel farlo, tirò involontariamente una ginocchiata a Regina, che gemette.
Sarebbe stata una lunga notte.
 
 

 
“Feel calm.”

 
 
 
Si era dimostrata una madre fin troppo clemente, fin troppo moderna: quella farsa durava da un giorno, ed era giunta l’ora di darle una conclusione definitiva.
Aveva permesso alla figlia di svernare a casa di Gold – dove altro sarebbe potuta recarsi? – e di sbollire lì la rabbia, ma le voci nascono in fretta e nella sua posizione e situazione Regina non poteva assolutamente permettersi dicerie di quella portata. Una ragazzina in casa di un uomo tanto più grande di lei e senza legami di sangue ufficiali era una miccia che chiunque, in qualunque istante, avrebbe potuto accendere.
Cora era più che disposta a dimenticare la questione dello stalliere, se la figlia si fosse mostrata ragionevole e fosse tornata a Belgravia. Si corresse: sua figlia si sarebbe dovuta mostrare ragionevole e sarebbe dovuta tornare a Belgravia quel giorno, se avesse voluto essere ancora membro della famiglia Mills.
Era per questo che era comparsa a Kensington a quell’orario indecente della mattina, era per questo che aveva sorriso alle espressioni sconvolte e segretamente confirmatorie dei domestici e che ora sedeva in salottino in attesa dei due soggetti in combutta contro di lei.
Gold ormai era un caso perso, ma Regina no.
E Cora sarebbe uscita da quella casa con lei.
 
 
 
Nel momento in cui Killian Jones udì il nome dell’ospite, ebbe una reazione pacatissima: si alzò, indossò la giacca sistemandone con cura il bavero, e si diresse verso l’uscita di servizio.
Tutto il contrario di Emma Nolan, che si strappò di dosso il grembiule e scappò dalla finestra della stanza che stava pulendo.
Quando s’incontrarono al cancello, non servirono parole per specificare dove entrambi fossero diretti.
 
 
 
“I need you now
(It makes me wanna cry)”
 
 
 
La cercava. La cercava anche mentre si ripeteva che non aveva senso, che sapeva dove fosse e soprattutto con chi fosse: le sue erano preoccupazioni oziose, prive di qualsiasi senso. Robert non le avrebbe fatto accadere nulla di male, Kensington era molto più sicura di Whitechapel e con ogni probabilità Helena vi stava trascorrendo delle ore meravigliose. Se chiudeva gli occhi riusciva quasi a vederla far capolino in ogni stanza, pretendere di aiutare i domestici combinando più confusione che altro come al solito e ridere col suo papà. Erano vicini, padre e figlia, erano vicini e anche lui era felice, se lo sentiva. Aveva promesso di proteggerla, e non sarebbe venuto meno alla sua parola. Lui non lo faceva, mai.
Perciò smettila.
La sua piccolina sarebbe stata forte anche senza di lei. Per crescere bisogna affrontare le sfide che la vita presente, e non aveva dubbi che la sua piccolina avrebbe vinto. Sarebbe stata forte anche senza di lei. Il suo un atteggiamento esagerato e, fosse stata un’amica a comportarsi in quel modo, Belle per prima l’avrebbe consolata con le stesse parole che soleva ripetersi dalla mattina come un mantra, come una formula un preghiera per proteggere Helena.
Sta bene, andrà tutto bene.
Era ciò che le dicevano Ruby e Graham quando leggevano negli occhi gonfi nulla riusciva a mascherare; era ciò che le aveva imposto Granny quando una conversazione iniziata come mille altre aveva preso una piega che non avrebbe saputo spiegarsi.
Provava a fare qualcosa – a distrarre la paura, il dolore:si era ripromessa di non crogiolarsi nel dolore, ma risultava impossibile non pensarla anche solo per un attimo.
- Va’ a riposare, qui ci pensiamo noi.
Ma Belle sapeva che non sarebbe riuscita a dormire senza di lei, perché da che viveva lì neanche una notte aveva dormito sola su quella branda; perché Helena c’era stata, c’era stata sempre: silenziosa e invisibile, ma presente. Quasi a farle compagnia, a non abbandonarla anche quando il cielo sopra di lei era sembrato chiudersi per sempre.
Durante la notte c’era stato un forte temporale. Helena odiava i tuoni. Aveva forse pianto? Si era sentita sola, messa in un angolo? Se così fosse stato, la donna non se lo sarebbe mai perdonata. Lei non l’avrebbe mai, mai lasciata; e per quanto potessero essere distanti, la percepiva sempre vicina, sempre con sé, come gli amputati che sentono sempre l’arto mancante.
Ma se un giorno era trascorso senza notizie da Kensington, significava che tutto andava  per il meglio.
Tutto doveva andare per il meglio.
Entrando in sala, vide Graham e Tink. Si avvicinò loro all’istante.
- Belle! – la salutò il poliziotto – Come stai?
- Ragazzi! Bene,grazie, – la donna rispose. Non intendeva far preoccupare nessuno con le sue angosce insensate: lei stava bene. Anche se aveva fatto solo incubi, anche se si era svegliata con le lacrime agli occhi, lei stava bene.
Tink scosse il capo.
- Sarebbe stato meglio un approccio più graduale, – ribadì la volontaria – Per lei, e per te.
L’altra sospirò. Sì, forse la bionda aveva ragione, ma sapere la figlia in quella casa anche solo per un pomeriggio sarebbe comunque stata una spada che le trafiggeva il cuore. Dovevano imparare a stare anche lontane, per il bene di entrambe.
- Domani a quest’ora sarete di nuovo insieme, – la consolò l’uomo – Manca poco.
Belle annuì e fece per rispondere, ma udì la porta del pub sbattere con violenza e voltò il capo.
Fu come se le fosse stata di colpo tolta l’aria.
Alla vista di Killian Jones ed Emma Nolan tutto ciò che di tiepido e vitale era in lei si tramutò in pietra.
 
Uscì dalla locanda senza guardarsi indietro, incurante dei suoi ex colleghi e di Graham che la inseguivano.
Uscì dalla locanda con un’unica meta, un unico scopo che avrebbe perseguito fino allo stremo.
Proteggere sua figlia.
 
 
 

“And I'll hold on to it,
don't you let it pass you by.”
“Innocence” - Avril Lavigne

 
 
 
1: Ho consultato questo link: http://www.gondrano.it/fare/lab/filatura/filatura.htm;
2: “Jenny Dentiverdi” è una creatura del folklore britannico. Descritta come una donna dal colorito verdastro, dai lunghi capelli scarmigliati e dagli artigli affilati – ‘nsomma, un’Oscura xD –  e vestita di stracci, vive vicino a pozzi, stagni e corsi d’acqua e attira i bambini per annegarli. Maggiori informazioni su: http://it.wikipedia.org/wiki/Jenny_Dentiverdi;
3: La nenia viene dalla storia “Jenny Dentiverdi” del Maxi Dylan Dog n.9; ecco la versione completa: http://www.angelfire.com/art2/dylandog/ballmax09Denti.htm.
 
 
 
N. d. A. : Salve, bellezze! ♥
Come procede questa prima settimana post season finale? Siete tutt* viv*? Sulla pagina Facebook “Euridice’s world” ho detto la mia, che qui riassumo con una sola parola: MERAVIGLIA. Personalmente ho amato il doppio episodio e gli scenari che apre, e non vedo l’ora che la serie riprenda. Alcune scene, poi, mi hanno sciolto il cuore – neanche vi chiedo di indovinare quali, conoscete i miei gusti.XD *-*
Passando a noi, mi scuso per l’immonda lunghezza del capitolo e prometto che dal prossimo sarò meno prolissa. Io ci sono parecchio affezionata, ma voglio conoscere la vostra opinione, sicuramente più obiettiva e lucida della mia. Vi piace, fa schifo, è una noia o…? Attendo il vostro giudizio: come sapete, critiche e pareri sono benvenuti, mi possono solo aiutare e pertanto li accetto volentieri. L’importante è esprimersi! :)
E quindi, se da una parte Gold fa casini come al solito – ♥ –, Regina scopre la verità e Cora va a riprendersi la figlia, dall’altra Killian ed Emma –le cui caratterizzazioni mi perplimono non poco – corrono da Belle, la cui reazione leggerete, se vorrete, nel prosieguo. Le strade delle rivali s’incroceranno? Come si comporterà Gold e quali saranno le conseguenze per i RumBelle? I prossimi due capitoli saranno molto, molto importanti e intensi in proposito e potrebbero capovolgere parecchi equilibri… In che senso? #nospoiler, almeno per ora! :D
L’aggiornamento, tuttavia, non arriverà tra due settimane come di consueto, ma sabato 20 giugno!
Spero di ritrovarvi qui! ♥ ♥ ♥
Grazie di cuore a quant* recensiscono, aggiungono la storia alle preferite/ricordate/seguite e/o la leggono! Spero davvero di ritrovarvi tra un mese!
A presto, buona sessione d’esami o buona maturità, e “Keep calm and RumBelle on”, Dearies! :* XD :*
Euridice100

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Capitolo 13
*** XII - Paid in full ***


 
 
 
XII - Paid in full
 
 
 

“I was nowhere near ready
when all it ended.”

 
 
 
Nulla l’aveva fermata, nulla l’aveva placata: non le spiegazioni di Killian, né le promesse di Emma, tantomeno le rassicurazioni di Graham.
Loro non potevano sapere – non erano loro a essere stati traditi.
Non erano loro ad avere la propria figlia così vicina a chi non conosceva pietà.
Bussò senza sosta finché Aurora non le aprì.
- Belle! Cosa…
Non rispose, non salutò: la spinse via e corse, corse verso la sala in cui sapeva si stava consumando la tragedia.
Non c’era spazio per la gentilezza, non ora. Non c’era spazio per la dolcezza.
Quando spalancò la porta del salottino, c’era spazio solo per la rabbia.
 
 
 
- Voglio andare di sopra! – Helena si lagnò per l’ennesima volta.
- Lo so, tesoro, ma c’è stato un imprevisto e tuo padre lo sta risolvendo per tornare da te. Pazienta un altro pochino, – Mary Margaret ripeté alla bambina che, sconsolata, poggiò la testa sul tavolo – Nel frattempo perché non mi aiuti a controllare questa teiera? Lustriamola insieme: da scuro l’argento diventa lucido lucido, è divertente!
L’espediente parve stupido alla donna stessa, che sospirò. Come se Regina non fosse stata sufficiente, ora anche la Contessa aveva deciso di far visita al padrone. Appena appresa la notizia, la governante aveva afferrato Helena e condotta in cucina ignorandone le lamentele, nella speranza che le Mills se ne andassero in fretta; ma il tempo passava senza novità alcuna.
E quei disgraziati di Emma e Jones parevano scomparsi…
- Mary, non immaginerete mai chi è arrivata! – Aurora irruppe trafelata nella stanza – Belle! Bussava come una pazza, e quando ho aperto…
La cameriera si accorse troppo tardi dei moniti silenziosi di Mrs Nolan.
Appena udì il nome della madre, Helena scattò in piedi
- Piccola, ferma!
Le due poterono nulla per fermarla: al grido di: – C’è la mamma! – la bambina sguisciò rapida e corse per le scale.
 
 
 
Si scrutarono in silenzio, gli occhi che sprizzavano scintille.
Quando incontrò quelle iridi azzurre, Cora Mills sentì il cuore – lo stesso cuore che si vantava di non possedere – saltarle in petto.
Non impiegò più di un istante a riconoscerne la proprietaria: anche se non l’avesse scorto, il volto era nitido nella memoria, come tatuato dietro le palpebre. Rivedendolo, pensò solo che ogni depistaggio era stato vano: il suo sesto senso si era ancora una volta rivelato nel giusto.
Quando Cora Mills rivide Belle French, sorrise; perché la sua più degna, più fiera rivale era tornata, e lei, la leonessa, era di nuovo pronta a sfoderare gli artigli.
Pronta ora più che mai.
Quando Regina Mills rivide Belle French, il mondo perse definizione. Per un momento non fu più certa di star muovendosi nella realtà o nel sogno, perché il presente, l’apparenza tangibile e reale del salottino di suo zio e della tazza che aveva tra le dita stavano assumendo a poco a poco tratti sempre più sfumati, tali da confondersi coi barlumi di un passato spinto a forza tra le memorie più lontane.
Ma ora il passato era lì, ogni sua menzogna e ogni verità più dure e brillanti che mai.
Quando Robert Gold rivide Belle French, non pensò.
L’impatto del suo sguardo fu una percossa.
La battaglia era ricominciata, e stavolta non avrebbe lasciato superstiti.
L’ultima arrivata non fece in tempo ad aprire bocca: la Contessa subito balzò all’attacco.
- Dei del Cielo, – mugolò portandosi una mano al petto – Sei una visione, o…?
- Sì, – Belle non attese invito per avanzare verso i presenti con incedere saldo – Sì, Cora. Sono proprio io. E sono viva.
A nessuno sfuggì come si fosse rivolta alla nobildonna.
- Se fossi stata meno forte, sarei già svenuta dal turbamento. Devo ringraziare la mia indole, – il tono complice nauseò Belle – Oh, mia cara, vieni, siediti e aggiornami! Se ne sono dette talmente tante sul tuo conto, muoio dalla curiosità!
- Vi ringrazio, ma vado di fretta. Devo discutere una questione col padrone di casa, – occhieggiò rapida verso Gold, che non riuscì a sostenerne lo sguardo. Vigliacco – Ma, a quanto vedo, è impegnato.
Sweetheart, non è come pensi, non immaginavo venisse qui.
Sarei dovuto andare io da lei.
Non è come sembra.
- Sciocchezze, finora le nostre sono state chiacchiere fatue! – Cora la liquidò con un affettato svolazzo delle dita guantate – Sono certa perdonerai l’atteggiamento del nostro comune ospite, ma senza dubbio è altrettanto sconvolto dal rivederti irrompere all’improvviso in casa sua dopo tutti questi anni! – rise a strappi, una concessione che lasciava intendere più di quanto esprimesse, prima di inclinare il capo e soppesarla – Piuttosto, ti trovo bene. Forse solo appena, come dire… Ingrassata.
Se la situazione non fosse stata tanto critica, Belle sarebbe scoppiata a ridere. Cambiavano il luogo e il tempo, il contesto e la posizione, ma le bassezze di Cora restavano una costante.
- Io invece ti trovo sempre uguale. Pronta a puntare il dito contro il prossimo per distogliere l’attenzione da sé.
La Contessa finse di non cogliere la provocazione e sorrise dolcemente. Lo sguardo le scivolò sull’abito da lavoro che Belle non aveva fatto in tempo a cambiare.
- Che vestito interess…
Una voce acuta squarciò l’atmosfera pesante.
- Mamma!
Una parte di Belle – la più razionale, quella che molto avrebbe dovuto apprendere dai precedenti con Cora – la redarguì. Se avesse risposto avrebbe coinvolto Helena. Avrebbe esposto a ritorsioni un’innocente la cui esistenza poteva – doveva – ancora essere celata.
Ma non voltarsi fu impossibile. Quel richiamo veniva dal sangue, dal profondo dell’anima: resistergli sarebbe stata una battaglia vana, che Belle mai avrebbe voluto condurre.
Appena udì la loro bambina cercarla, si voltò d’istinto verso la porta, subito imitata dagli altri.
- Helena, – mormorò alla vista della piccola, che entrava nel salottino ignara di chi vi fosse presente, e si fiondava tra le sue braccia senza che Graham, rimasto fuori dalla stanza, riuscisse a trattenerla – Tesoro mio.
Erano state distanti appena un giorno, ma a lei era parsa un’eternità; stringere la bimba, inspirarne il profumo unico e specialissimo, scostarle i capelli dalla fronte erano più importanti di ogni altra cosa. Le sfiorò il capo con le labbra senza vergognarsi di un gesto così intimo. Possibile che ventiquattr’ore l’avessero cambiata tanto? Le pareva così simile e al contempo diversa dal solito, con quell’abitino rosso che le vestiva alla perfezione e le scarpette finalmente nuove; ma le trecce erano le sue, adorabilmente scarmigliate come sempre, come il sorriso, il sorriso che l’aveva riportata alla vita.
Per un momento non esistette altro: non Gold e le sue bugie, non Regina e i suoi tradimenti, non Cora che le fissava tradendo appena un lieve sconcerto.
Da dove sbucava fuori la mocciosa, chi diamine era? La Contessa assottigliò le palpebre per mettere meglio a fuoco la ragazzina: il modo in cui si era rivolta alla French e la reazione di quest’ultima ne palesavano il legame senza possibilità di equivoci. E così la nanerottola aveva conosciuto le gioie e i dolori della maternità, ma bene! Non che gliene importasse molto, in realtà. La vera domanda era un’altra: cosa ci faceva la figlia di Belle da Gold? Che fosse…?
- Mi sei mancata tanto, amore mio, sei bellissima!
- Anche tu mi sei mancata! – la bambina rise – Però mi sono divertita, sai? Abbiamo fatto tante cose: abbiamo filato, e parlato della banshee, e stanotte ho dormito con Regina!
Belle, Gold e Cora si voltarono all’unisono verso l’interpellata.
- Regina? – il sibilo di Cora fendette l’aria.
Colei alla quale era indirizzato, tuttavia, rimase impassibile.
Lo sguardo che l’industriale rivolse all’adolescente non fu certo tenero, ma si trattenne: non era il momento di commentare. La sola cosa da fare era allontanare la bambina, farla sparire dalla vista di Cora impedendole di capire altro.
Sempre che non sia già troppo tardi.
- Non mi ero accorto ci fosse anche Mr Graham, – intervenne pacato – Helena, perché non lo accompagni a mangiare una fetta di torta?
- No! – la piccola si ribellò – Se la vuole ci va con Emma. Io voglio stare qua con te e la mamma, ora che c’è. Dai, ma’! – le afferrò una mano e fece invano per trascinarla.
Belle aveva capito all’istante le intenzioni di Gold. Malgrado tutto, non poteva che condividerle: era già abbastanza grave che la maggiore delle Mills avesse visto la bambina, non potevano permettere restassero vicine. Cora non era sprovveduta: ne avrebbe presto attribuito la paternità all’ex amante.
Helena doveva andarsene. Doveva proteggersi.
- Helena, – mormorò – Va’ con Graham.
La bambina aggrottò la fronte.
- No! Voglio stare qui!
Belle respirò a fondo. I capricci di loro figlia erano dotati di un tempismo alquanto inopportuno.
- Helena, per favore. Va’ con Graham, con Emma, con chi vuoi, ma va’. O non andiamo più da Tink.
- Non m’importa, io voglio stare qui!
- Helena, ti ho detto di andare!
Belle non perdeva facilmente la pazienza con la bimba. Cercava di farla ragionare, di spiegarle perché potesse o non potesse fare qualcosa aiutandola a capire; ma indugiare in parentesi pedagogiche dinanzi a colei che aveva cercato di farla rinchiudere in un bordello e fatta credere morta esulava da ogni capacità umana.
Helena le rivolse un’occhiata carica di quel rancore puro che solo a una certa età si riesce a nutrire.
La donna ignorò il dolore. Lo faceva a fin di bene. Non doveva cedere.
- Suvvia, Belle! – Cora scosse il capo con fare chioccio – Non essere così brusca! Tua figlia non ha fatto nulla di male e tu l’hai ripresa con tanta violenza! – riecheggiò le lontane parole pronunciate dalla giovane durante il loro primo incontro, prima di rivolgersi a Helena – Avvicinati, piccina, non avere timore!
- Non parlarle, – Belle sibilò all’istante – Non rivolgere una parola a mia figlia!
- Helena. Ascolta tua madre.
Gold aveva usato il suo tono più gelido, in grado di fare gelare il sangue nelle vene del subalterno più indisciplinato, ma l’ordine cadde nel vuoto: la bambina sorrise grata alla signora che aveva interceduto per lei prima di trotterellare, subito seguita dalla madre, verso il divano su cui sedeva il padre.
Le conferme arrivano all’improvviso. Questa sovvenne nell’istante esatto in cui quei tre furono uno accanto all’altro. Bastò un’unica occhiata a impietrire Cora: la bambina cui aveva dedicato mezzo sguardo ne meritava molti, molti di più.
Quella bambina aveva gli occhi di un’altra persona presente nella stanza.
Della persona che le sedeva accanto e che non era la madre.
Non erano solo il taglio e il colore: era l’espressione attenta, lo sguardo penetrante che contraddistinguevano lui e che, con ogni evidenza, aveva trasmesso alla figlia.
Alla figlia avuta con la sua camerierina.
Alla bastarda avuta con la sua camerierina.
- Che bella bambina, – a Helena i complimenti della signora parvero lievi come il fruscio del vento. Un vento freddo, si accorse però ella stessa – Quanti anni hai? No, aspetta: lasciami indovinare… Ne hai quattro, vero?
Prima che altri potessero frenarla, Helena annuì stupefatta: – Sì! E tu come lo sai?
- Lady Mills, – solo uno sciocco avrebbe ignorato il ringhio di Gold. Ma in quel momento Cora stessa si sarebbe definita una sciocca.
- Perché alle volte, piccina, ho un sesto senso. Come se fossi una maga.
- Oh! Anche lui, – indicò l’uomo – Anche lui, che è mio papà, vuole essere un mago.
Un’identica maledizione incendiò le menti di Gold e Belle. La donna si morse l’interno della guancia con tanta forza da sentire un gusto aspro di ferro in bocca. Regina, fino ad allora distante, trattenne il fiato.
Cora annuì, più a se stessa che all’interlocutrice. Chissà cos’avrebbero fatto quei due, ora. Avrebbero mentito? Avrebbero negato l’evidenza, sostenuto che si trattava di fantasticherie infantili? Sarebbero stati stupidi a farlo; ma già in più di un’occasione avevano dato prova di stoltezza.
Nessuno avrebbe potuto negare la realtà dei fatti – la realtà della bamboccia che dondolava i piedi dal divano troppo alto per lei, con uno stupidissimo ghigno stampato sul muso.
Cosa ridi, idiota? avrebbe voluto dirle. Non capisci cosa sei? Una bastarda, un’inutile bastarda.
Una nullità.
- Che dolcezza, – dichiarò infine non senza un sorriso che dimostrasse quanto fosse soddisfatta – Sono sorpresa, Robert caro. Non sapevo fossi divenuto papà.
- Non sentitevi esclusa, – la replica non tardò ad arrivare – Sapete bene che, da persona discreta quale sono, non amo far sapere molto di me.
Cora lo ignorò.
- Belle, mia cara, questi devono essere stati anni davvero molto intensi per te. Da morta e sepolta ti ritrovo viva… E mamma.
- Pensavo avessi imparato, – Belle si ritrovò a replicare con una pacatezza che non conosceva – A non fidarsi di nessuno. Tantomeno di se stessi.
- Saggio consiglio. Io ascolto solo i miei informatori, ma oggi, – la nobildonna si voltò verso Gold – Abbiamo imparato che neanche di loro ci si può fidare fino in fondo. Sembrano così onesti e diligenti, ma non va bene pendere troppo dalle labbra del prossimo. Neanche se è un prossimo cui siamo affezionati e che non vediamo da tanto tempo…
- Esattamente, – l’industriale convenne con l’espressione neutra che era solito riservarle – Tuttavia, io non ripongo fiducia nel mondo intero, ma in poche, pochissime persone. E si dà il caso che non tutte le presenti rientrino nel novero.
- Una precisazione quanto mai opportuna. Non tutti le presenti, infatti, potrebbero trovare interessante la reale ragione della mia venuta.
- Non sta a voi giudicare, milady, e in ogni caso le persone appena arrivate hanno maggior titolo di voi per frequentare la mia dimora. Se volete parlare, – concluse Gold – Lo farete in loro presenza. Diversamente, prenderete vostra figlia e la riporterete a casa senza ulteriori dilazioni.
Helena guardò il padre. Sembrava così diverso dal solito, quasi un estraneo, con quella mezza smorfia indecifrabile che tutto era fuorché sorriso. Se l’avesse conosciuto ora, l’avrebbe temuto. Che un incantesimo l’avesse trasformato, proprio com’era successo alla mamma? Non c’era altra spiegazione: del resto, non era mai stata tanto dura nei suoi confronti. Forse la responsabile era la sconosciuta che, in apparenza gentile, pure non riusciva a inquadrare bene…
- A tal proposito, – la Contessa continuò con annoiata noncuranza – È Regina l’esatta ragione della mia visita. Stroncheremmo ogni incomprensione se mia figlia tornasse a casa – si rivolse alla giovane con sussiego – Mia cara, tuo zio è stato così buono ad accoglierti. Non pensi di aver disturbato abbastanza la sua famigliola?
Regina rimase ancora in silenzio. Aveva ascoltato le sottili insinuazioni della madre e le offese rivolte a Belle; aveva tremato quando la verità era emersa, ma aveva taciuto. Ora che era arrivato il suo turno, avrebbe posto la domanda che le premeva in fondo la gola.
- Lui dov’è?
 Come se avesse previsto la mossa, Cora eruppe in un teatrale sospiro.
- Il tuo problema, adorata figliola, – sancì dopo aver sorseggiato il tè – È scavare nel passato, anziché guardare al futuro. Torna a casa, – la invitò con fare saggio – Lì ne discuteremo con discrezione.
- Rispondete alla domanda. Lui dov’è?
Calmati, Cora.
Non era il caso di attirare l’attenzione su una situazione già abbastanza compromettente.
Già solo per aver citato la feccia, quell’irriconoscente di ragazzina avrebbe ricevuto più di uno schiaffo.
Ma non ora.
Calmati.
- Sei chiaramente sconvolta, – disse a denti stretti – Siamo da un ospite, e ti ho insegnato a comportarti in un certo modo in società. Perché tu non sei una figlia di nessuno, tu non sei una bastarda qualsiasi.
Belle scattò.
- Non osare rivolgerti in questo modo a mia figlia, – fiele purissimo le si riversò in gola – Non ne hai diritto!
Cora le rivolse un’occhiata carica di compassione.
- Cara, – le ricordò impietosita – Sono la contessa Mills. Io ho diritto. Tu no.
Helena guardò le due donne senza capire. Perché la mamma aveva di nuovo reagito così? Perché papà si era artigliato una gamba e aveva serrato i pugni alla parola “bastarda”? A quanto pareva era rivolta a lei, e non doveva essere molto carina se faceva arrabbiare tanto le persone, ma Helena non ne era rimasta offesa. In fondo, non l’aveva mai sentita prima; si ripromise di scoprirne il significato.
- Maman, – s’intromise Regina facendo appello a tutto il proprio autocontrollo – Ne abbiamo già discusso, e sapete che non m’importa della boria del vostro nome. O meglio, – sottolineò caustica – Di quella di mio padre, dal momento che non ricordo nobili ascendenze dal vostro ramo. Perciò, rispondete: dov’è il mio fidanzato?
Per una frazione di secondo un guizzo d’allarme balenò sul volto della Contessa, per poi sparire con la stessa velocità con cui era apparso
Quasi dimentica della rabbia, Belle si voltò verso Gold in cerca di spiegazioni. L’uomo aveva impercettibilmente contratto la mascella.
- Che sciocchezza, – la Contessa arcuò un sopracciglio – Non c’è né un fidanzamento, né altro. Non c’è nulla tra uno stalliere e una nobile.
- Ma tra il vostro stalliere e vostra figlia c’è amore.
La gentildonna sbuffò.
- Lontana da me potrai crederti più forte, ma questa scenata prova l’esatto contrario. Credimi – francamente inizi a tediarmi. Se tornerai a casa ora fingerò che nulla sia accaduto. È l’ultima possibilità di comportarti da persona matura che ti offro.
Regina non chinò il capo.
- Ditemi dov’è.
Non mi lasci altra scelta, bambina.
- Vuoi davvero saperlo, Regina? Non lo so. Non so dove sia, né potrebbe importarmene. Per quanto mi riguarda, sarebbe meglio fosse morto. E tu, – sibilò a Gold, senza dar alla figlia modo di controbattere – Come puoi ospitarla? Come puoi permetterle si rovini con le sue stesse mani?
- Se Regina lo vorrà, si fermerà qui, – la decisione dell’uomo arrivò all’istante, calma come se fosse un commento sul clima.
Cora scosse il capo sinceramente incredula.
- Ti reputavo più saggio, ma mi stai smentendo in ogni modo. Parteggi per una ragazzetta viziata, ora?
- Io non parteggio per nessuno. Agisco solo per il mio interesse.
- E stavolta quale interesse potresti avere?
- Come ho avuto modo di affermare, sono una persona discreta. Non rivelo i miei segreti agli estranei.
Cora sentì lo stomaco contrarsi in un violento spasmo d’ira.
- Un tempo non eravamo estranei. Un tempo eravamo amici, – lo guardò dritto negli occhi – In nome di quei tempi, non interferire nei miei affari.
- Non sono stato io a presentarmi fuori dall’orario di visita e a portar scompiglio in quella che era iniziata come un’ordinaria giornata. Anzi – per il futuro vi pregherei di non interferire più nei miei affari. Non siete competente a farlo, – nemmeno se esplicitati i reali termini della dichiarazione e la minaccia sarebbero potuti essere più palesi.
La sua interlocutrice non perse tempo.
- Benissimo, – replicò stizzita – Se non sono competente a farlo, se non sono competente a interessarmi di mia figlia, allora me ne andrò. Ma tu, – abbaiò a Regina – Tu oggi hai fatto la tua scelta; dovrai affrontarne le conseguenze. Hai preferito un terzo a tua madre, hai preferito il tuo stalliere, loro a me. Ora tutto ti parrà anche idilliaco, ma presto rimpiangerai la tua immaturità. Rimpiangerai questa mattina, e la mia offerta.
Senza ulteriore commiato, la Contessa si diresse verso la porta Dopo pochi secondi si udì l’uscio sbattere con violenza. La casa ricadde nel silenzio.
Era ufficiale: Helena non aveva capito nulla. Aprì bocca per chiedere spiegazioni, ma fu preceduta da un’esangue Regina.
- Zio…
- Zitta, – le intimò l’uomo – Sta’ zitta, – si avvicinò alla porta: Graham, a disagio come poche altre volte nella vita, fingeva di essere ammaliato dai barbagli del legno di una cornice, – Tu, – l’apostrofò di malagrazia – Controlla la Contessina e mia figlia. Ho una questione da risolvere.
Il poliziotto non poté far altro che annuire.
 
 
 

“You gave me the chance
time and again
in vain.”


 
 
Gold sospirò.
Affrontare Cora era stata la parte facile.
Ora arrivava quella difficile.
- Belle…
- No.
Due lettere che furono acqua sporca sulla pelle.
- Permettimi di spiegare. Non…
- No, – la donna rialzò il capo, puntandogli addosso gli occhi scuriti dalla furia. Non c’era eco di remissività nel suo tono – Cosa intendi dirmi? Che non sapevi, non intendevi, altrimenti non avresti portato qui la bambina? Ma questo già lo so – me l’ha detto chi mi ha avvisato. Chi ha avuto il coraggio, – il modo in cui sottolineò il termine lo fece rabbrividire – Di venire a dirmi la verità.
- Avevo la situazione sotto controllo, – replicò comunque – Ho dato asilo a Regina in cambio del suo silenzio. Se non avesse accettato…
Belle scosse la testa. Robert non capiva – non riusciva a capire – quale fosse il reale problema. Continuava a perorare la sua causa senza chiedersi quale fattore avesse scatenato in lei simile reazione. Era cieco – come già era stato in passato, quando molte volte lei aveva chiesto sincerità ottenendo in cambio una catena di sotterfugi e segreti.
Una catena che era tornata ad avvolgerla, a stringere e soffocare come se l’esperienza non fosse stata maestra.
- …L’avresti messa alla porta? – l’anticipò – Avresti davvero gettato in mezzo a una strada chi per te un tempo – correggimi se sbaglio – era una figlia? E poi cos’avresti fatto? Saresti tornato a giocare con nostra figlia come se nulla fosse successo?
Il cuore gli si riempì di furia tanto velocemente che lo sentì bruciare.
- L’avrei fatto, per Helena. Per Helena farei di peggio, e lo sai.
- E credi sarebbe stato un comportamento lodevole? Credi che ti avrei elogiato quando l’avessi saputo, che mi sarei complimentata per la tua mancanza di pietà?
La provocazione fece montare nell’uomo un’ondata di rabbia.
- Non capisco le tue pretese. Ho messo al sicuro la bambina prima di procedere a qualsiasi mossa. E sì – credo che tu saresti dovuta essere soddisfatta se Regina avesse avuto intenzioni diverse e io l’avessi cacciata. Se qualcuno avesse voluto far del male a Neal, io l’avrei ucciso con le mie stesse mani. Anche tu dovresti provar lo stesso desiderio, se sei davvero genitore.
Trattenersi a quel punto sarebbe stato vano. Belle si avvicinò a grandi passi all’ex amante e lo afferrò per la giacca. Gold avrebbe giurato stesse per sferrargli un pugno.
- Ripetilo e sarà l’ultima frase che mi rivolgerai, – lo attaccò – Se Cora o Regina avessero torto un solo capello a Helena non sarebbero uscite vive da questa stanza, ma tu non devi giudicarmi, non osare giudicarmi! Non osare giustificarti, non osare dirmi quello che devo o non devo desiderare, e soprattutto, non osare giudicare me come madre! – urlò. Quando riprese a parlare, il suo timbro era amaro – Tu non sai niente. Tu non puoi sapere niente. Tu non puoi sapere com’è stato essere sola, io e solo io nei momenti peggiori. Tu non ci sei stato fino a due mesi fa. Tu sei comparso quando il periodo più difficile era ormai finito, hai conquistato la bambina a suon di storielle e giochi e credi che tutto vada bene, che riempendoci di  regali tutto possa sistemarsi. No, Robert Gold, – gli sputò contro le parole in un crescendo di odio che non sapeva fermare – Non si è sistemato niente. Tu non c’eri e questo, questo non si sistemerà mai.
 
 
 

“Now my feelings for you,
every tear, every smile,

paid in full.”
 

 
 
- Perché stanno urlando? – Helena chiese a voce tanto bassa che Regina l’udì appena.
Quando l’uomo di nome Graham le aveva accompagnare fuori dal salottino, la bimba non aveva sentito ragioni: era voluta rimanere vicina la stanza. Vicina, troppo vicina: le sue azioni avevano come rumore di fondo il litigio in corso.
- È colpa mia, vero? Perché prima ho fatto arrabbiare la mamma?
Per Helena doveva essere una situazione inedita: le sue domande inquiete ne erano prova.
- No, – la ragazza ripeté – Ti ho già detto che stanno litigando per colpa mia e di mia madre.
- Perché non vuoi andare con lei?
Regina annuì
- E perché non vuoi?
- Perché lei vuole controllare la mia vita.
- Cioè?
- Vuole dirmi quello che devo fare.
- E non vuole che ti sposi con il tuo fidanzato.
- Tra le tante cose.
- Ma poi quando ti sposi me lo dici?
Regina sbuffò per la petulanza della piccola.
- Se fai la brava e stai zitta, forse.
Helena parve soddisfatta. Il suo silenzio, tuttavia, non durò a lungo.
- Ma la tua mamma e la mia si conoscono?
“Se Helena non ha avuto suo padre, le colpevoli siete voi.”
- Diciamo di sì.
- E sono ami… – ogni replica fu interrotta da un urlo.
- Non osare giudicare me come madre!
La bambina s’irrigidì. Regina avrebbe desiderato le fosse risparmiato udire i genitori vomitarsi anni di rimpianti in un secondo.
- Io non voglio che litigano per me, – Helena sembrava sull’orlo delle lacrime – Io non volevo essere cattiva! Davvero!
Col visetto arrossato e gli occhioni lucidi, sembrava avere persino meno anni. Regina pensò a quanto fosse ingiusto che anche una creatura così piccola dovesse soffrire per eventi tanto lontani nel tempo.
- Non litigano per te. E comunque, anche se lo facessero, non per questo ti vorrebbero meno bene.
La cosa non rincuorò affatto Helena.
- Ma io ho paura!
La Mills sospirò.
- Vieni, – tentò. La bambina obbedì – Ti svelo un segreto che nessun altro conosce, – proseguì, malgrado la disattenzione della piccola – Quando tua madre lavorava qui, un giorno quasi per caso l’ho accompagnata in soffitta. Era disordinata e polverosa, però piena di cose con cui si poteva immaginare un’avventura e con cui abbiamo giocato. Mi è rimasto un bel ricordo di quella stanza, e in seguito ci sono tornata da sola quando ero triste. Mi distraeva, non mi faceva pensare alle cose brutte.  Era un posto che sentivo solo mio, che solo a me sembrava di conoscere. Che sapeva farmi dimenticare ogni cosa.
Era vero. Malgrado il reale motivo per cui aveva seguito Belle in soffitta, Regina conservava un ricordo dolce della stanza. Ci era tornata in segreto due  o tre volte durante quella triste settimana dallo zio cinque anni prima: lontana da tutto e tutti, aveva goduto di momenti di pace in cui il sorriso di Belle e le minacce di sua madre erano svaniti.
- Dovresti fare lo stesso. Trovare un posto solo per te, un angolo in cui niente e nessuno può toccarti e in cui rifugiarti quando le cose non vanno bene. Un posto tuo e solo tuo, che sia in grado di migliorarti l’umore e rendere più bello il mondo.
- E come faccio a trovarlo? – la bambina chiese. Malgrado fosse ancora triste, la sua espressione si era fatta più attenta.
Già, si chiese Regina, come si trova il posto in cui si sta bene?
Tanti anni in più, eppure non sapeva rispondere.
- Questa, – la giovane sorrise triste – È la domanda più difficile di tutte.
 
 
 
“Wrecked the chain,
 but no longer
I can take the pain.”


 
Belle sapeva di avergli fatto male. Ribadire a Gold la sua assenza significava ferirlo, ma non se ne pentiva. Forse in un altro momento gli avrebbe chiesto scusa; ma allora non ne sarebbe stata capace.
Il volto dell’uomo era una maschera. Teneva gli occhi bassi. Quando li rialzò, erano lucidi.
- Conosco Helena da due mesi, ma questo non significa che l’ami meno. Non la metterei mai in pericolo, mai. Lo sai.
- Ma perché non me l’hai detto? Perché non mi hai fatto sapere subito quale fosse la situazione? Sarei venuta ad aiutarti, a sostenerti, mi sarei fermata se ce ne fosse stato bisogno! Perché mi hai tenuta all’oscuro?
- Ma io l’avrei fatto, – ribatté l’industriale – Intendevo farlo ieri pomeriggio stesso. Poi però Regina ha scoperto tutto, ed era mio dovere controllare la situazione, – la debolezza dell’argomento fu palese a lui stesso.
- Avresti potuto mandare qualcuno, avresti potuto mandarlo subito se avessi voluto, ma tu non hai voluto! – una tempesta esplose in Belle – Non pretendevo molto, sai? Solo che l’informazione partisse da te, che non fossi costretta a scoprirlo attraverso terzi!
Terzi che conosceranno presto la fame.
- Erano affari che concernevano noi e noi soltanto. E chi è venuto a darti informazioni parziali…
- …Verrà licenziato? – i lineamenti della donna s’indurirono – Ottima idea, quella di meditare vendetta contro chi si è mostrato fedele a tua figlia e ha dimostrato di averla a cuore. Se li caccerai, dimostrerai solo una cosa: di temerli perché più coraggiosi di te.
Gold rise amaramente.
- Non ti smentisci mai, Dearie.
Belle si gonfiò, fremente d’ira.
- Non mi chiamare così. Non sono una Dearie a caso, sono la madre di tua figlia!
- E anche per questo almeno una volta potresti sostenere me e non gli altri.
- Io ti sosterrei sempre, se tu dimostrassi di fidarti di me come io mi fido di te!
- Però oggi non ti stai comportando come se ti fidassi, vero?
Le parole caddero come un velo ghiacciato tra loro, un velo che in un istante li separò forse più di cinque anni.
Si accorse di quanto detto quando ormai era troppo tardi.
Fu una stilettata. Belle quasi si stupì di non sentire il sangue bagnarle le vesti. Arretrò, alla ricerca di un sostegno che non incontrò, i polmoni che si allargavano dolorosamente in cerca d’aria.
- Belle…
La sua espressione mandò in pezzi ogni volontà.
- No. Non puoi aver davvero detto una cosa simile. Non puoi.
Che ne sai tu di quanto dolore ho accumulato da quella mattina?
- Stavo gestendo tutto alla perfezione, – riprovò l’uomo – Ci stavo riuscendo da solo. Regina non avrebbe parlato: io per primo sospettavo di lei, ma alla luce dei recenti eventi non credo sarà lei a tradirci.
- Non c’è più nulla da tradire. Non c’è più nulla.
No.
No, non è vero, non è vero…
- Cosa intendi?
- Cora sa. Questo posto non è sicuro per Helena. Non lo è quanto casa.
- Vuoi riportarla a Whitechapel? – non seguì alcuna risposta – Qui ho i miei uomini. C’è anche Regina, ma posso proteggere la bambina meglio che altrove. Posso rafforzare la sicurezza, posso far seguire Regina in ogni suo passo, mandarla via al minimo dubbio. Anche adesso, se preferisci.
- Ho promesso a Helena questi tre giorni, e ho promesso a te di non negartela. Sai che non vengo meno alla parola data.
Gold innalzò un muto ringraziamento al Cielo.
- Ma non la lascerò sola. Non potrei essere serena, non dopo quello che è successo, – Belle inspirò a fondo prima di proseguire – Resterò con lei. Ce ne andremo domattina come stabilito, ma oggi e stanotte staremo qui. Entrambe, o nessuna.
Gold annuì. Poteva solo ringraziarla per concedergli ancora loro figlia, nonostante quanto appena fatto.
Non certo dirle che quella decisione era più, molto più di quanto avesse sperato fino ad allora.
Né che una parte di lui avesse brigato a tal punto.
- Grazie.
Belle chinò il capo. Quando lo rialzò, il celeste dei suoi occhi era appena velato.
- Non mi ringraziare. Non lo faccio per te, ma per Helena. È troppo piccola per soffrire a causa nostra. Ma non chiedermi altro. Questo, – concluse – è il massimo che ti concedo.
 
 
 
“Needed to be strong,
yet I was always
too weak.”
 
 
 
Le faceva uno strano effetto rimettere piede in quella casa dopo tanti anni. Non se n’era resa conto prima: quando vi era rientrata, la furia era tale da annullare ogni altra emozione. Solo dopo aver ripreso Helena, essere passata a prendere una vecchia chiave arrugginita da Mary Margaret ed essersi diretta ai piani superiori era riuscita a prendere un profondo respiro e a guardarsi attorno; e solo allora aveva realizzato.
Mai e poi mai aveva immaginato un simile ritorno a Kensington. Fino a quella stessa mattina pensava a un rientro molto più sereno: si sarebbe trasferita una volta appianati i conflitti con Gold, quando entrambi sarebbero stati pronti a ricominciare consapevoli che l’onestà è il valore importante tra due persone. Come aveva detto all’uomo stesso, forse sarebbe stata questione di poche altre settimane, ma lei non intendeva accelerare il corso degli eventi: aveva già sperimentato che in amore le decisioni affrettate sono le più pericolose, e non intendeva reiterare gli errori.
Il corso degli eventi, però, aveva accelerato da sé.
Nel precedente lustro la casa era rimasta immutata. Colpa della lunga assenza del proprietario, certo: l’opulenza di cui Robert Gold amava farsi fregio era ancora il suo tratto distintivo. Era la casa di una persona ricca, sfacciatamente ricca, che non si faceva scrupoli nell’ostentarlo con enfasi in sprezzo al rischio di passare per parvenu. Ogni angolo traboccava di testimonianze del benessere cui l’uomo era riuscito ad accedere.
Testimonianze che facevano dannare i domestici quando dovevano spolverarle.
Era la casa di una persona sola, terribilmente sola. Di una persona che preferiva trincerarsi in un mondo di apparenze e finzioni piuttosto che avere la forza – l’umiltà, la parte più livida di Belle non mancava di precisare – di aprirsi al mondo e chiedere aiuto.
Una persona che aveva paura di vincere la sua paura.
Chissà come si era sentita perduta la loro bambina passando dall’umile stanza nell’East End allo sfarzo del mondo di suo padre. Aveva avuto paura? Si era aggirata per le sale alla ricerca di riferimenti, di segnali che le restituissero il senso di stabilità perduto?
Però Helena non dava quest’impressione. Appena si erano riviste la bimba l’aveva abbracciata forte, sì, ma ciò non indicava nulla: per quanto breve si fosse rivelata, era stata pur sempre la loro prima separazione. Malgrado le molteplici mancanze, Robert era un ottimo padre: sicuramente era stato più che in grado di far sentire la figlia a suo agio pur in un ambiente sconosciuto.
Era stata lei, paradossalmente, a riaccoglierla non con baci e carezze, ma con urla e comandi che alla bambina erano parsi insensati.
Ma l’hai fatto a fin di bene. Per proteggerla.
Anche se alla fine si è rivelato inutile.
Quando l’aveva portata con sé, Helena non aveva protestato. Aveva rivolto un ultimo sguardo a Regina, e da allora non aveva proferito parola.
Belle sapeva bene cosa significasse l’improvviso mutismo.
- Allora! – esordì fin troppo allegra – Cos’avete combinato tu e papà ieri?
La piccola bofonchiò appena qualcosa di inintelligibile. La donna sospirò.
- So che sei arrabbiata con me, – procrastinare era inutile – E ti chiedo scusa se sono stata brusca. Però ho avuto paura per te.
Finalmente la bimba alzò il mento.
- Perché?
- Helena, – Belle si fermò. Si chiese se facesse bene a dirglielo. Doveva pur metterla in guardia… – La signora che hai conosciuto… Non è una persona molto buona, ecco. Non ci ha fatto cose belle.
- Cioè?
- Sai che delle persone cattive ci davano la caccia, soprattutto prima che nascessi. Lei era una di loro. Se… Se mai dovessi rincontrarla, – Belle serrò le palpebre. Una simile eventualità non si sarebbe ripetuta – Mi prometti di far attenzione? Di dirlo subito a me o a papà?
Helena aveva sempre immaginato gli antagonisti della sua storia come delle persone grandi e grosse che picchiavano tutti, non certo come una signora cortese. La sconosciuta le era parsa strana, ma non cattiva; e poi, era la mamma di Regina. Che voleva dire? Anche Regina era cattiva? Però nemmeno lei ci andava d’accordo…
La mamma la guardava implorante, in attesa di una risposta.
-  È importante, Helena. Per favore, promettimi di stare attenta.
- Mh-mh.
Belle decise di accontentarsi. Sapeva non avrebbe ottenuto altro, per il momento.
Cocciuta tale e quale a tuo padre.
- Comunque sia, – cercò di allietarla– Fino a domani mi fermerò qui anch’io. Che ne pensi?
La piccola si strinse nelle spalle. Tra tante cose almeno una buona, per quanto stramba: allora Regina aveva avuto ragione nel sostenere che il litigio non fosse a lei imputabile!
Però in tutta la storia c’era qualcosa che continuava a non quadrare; forse era una di quelle “cose da grandi”, come le definiva Granny facendola arrabbiare. Anche il giorno prima aveva avuto la stessa impressione col discorso di papà sulla tazza rotta: avrebbe voluto saperne di più, ma quando aveva visto l’espressione dell’uomo ogni parola le era morta in gola. Sembrava che a papà facesse male qualcosa, ma non come quando ci si sbuccia le ginocchia o si ha mal di pancia: un male più profondo, un male che veniva da dentro e non si poteva scacciare. Proprio come quando la mamma era triste e non le diceva mai il perché.
Il giorno prima Helena avrebbe voluto che suo padre le dicesse dell’altro, magari cosa fare, come aiutarlo. Non era successo. Avrebbe dovuto far qualcosa; e non aveva saputo cosa, se non abbracciarlo.
E in tutto ciò, sorgeva un altro interrogativo: dove la stava conducendo mamma? Nella soffitta del racconto di Regina, che tanto l’aveva incuriosita? L’aveva trascinata per una scala che il giorno prima non aveva notato e che portava a corridoi per nulla belli su cui si aprivano tante porte. Era un posto cupo, e a Helena la cosa non piaceva.
- Dove andiamo?
- Nella mia stanza quando vivevo qui. Quando ancora tu non c’eri.
Sarebbe stata ancora una volta la sua stanza. Se fosse rimasta lì, Belle non avrebbe accettato nulla da Gold: era troppo, troppo arrabbiata e delusa. Tornava in quella casa esattamente come vi era uscita: da dipendente, una tra le tante, senza alcun segno distintivo.
Le prevedibili proteste dell’uomo sarebbero state inutili: in fondo, non era stato lui stesso a darle prova di quanto poco considerasse la sua opinione? Se non la riteneva degna di fiducia, non poteva ritenerla degna neanche di differenziazioni rispetto al resto della servitù. Che si dimostrasse, per una volta, coerente.
Arrivate a destinazione, la donna non perse tempo in riflessioni: infilò la chiave nella toppa e la girò. Quando finalmente la porta si spalancò, una zaffata di umido investì le due, facendo arricciare il naso alla più piccola.
- Ecco, – Belle fece strada – La mia vecchia camera.
Helena spalancò gli occhi: se, secondo la storia, la mamma era stata una domestica e i domestici vivevano in corridoi bui, certo le loro stanze non dovevano essere belle quanto quelle ai piani inferiori; però la bambina non si aspettava nemmeno che fossero tanto brutta.
- Non mi piace, – sentenziò all’istante – È piccola, e puzza.
Belle fu costretta a convenire
- È chiusa da anni, le cose andranno meglio appena aprirò la finestra, – provò a farlo, ma la piccola imposta non si mosse di un millimetro. Riprovò con maggior forza, senza alcun risultato – …Se aprirò la finestra. Tuo papà l’ha fatta chiudere per bene.
Dopo svariati altri tentativi, a cedere non fu la finestrella, ma Belle.
Robert Gold, se non ti ammazzo oggi non ti ammazzo più.
Io
Lo sguardo le scivolò sul comodino accanto al letto. Un portacandele sporco di cera riposava sul legno, accanto a un libro dall’aria antica.
Pur senza leggerne il titolo, lo riconobbe all’istante.
“- Romeo e Giulietta, – aveva sussurrato, gli occhi lucidi dall’emozione.
- Ricordi?
Il suo sorriso aveva scacciato il freddo di quella corsa convulsa.
- “Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.” ”
- Allora andiamo, – Helena la riportò al presente – Puzza.
I loro primi istanti, la loro prima lite.
- Sì. Solo… Solo un momento.
Natale 1888, il loro primo bacio.
Percorse con un dito l’incisione sulla coperta impolverata.
La prima sera in cui lui era andato a trovarla in quella stanza, i segreti che le aveva rivelato.
Aprì il volume a una pagina a caso.
 
“Mercuzio: Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido e vola la di là di ogni limite.
Romeo: Io sono ferito troppo profondamente dalla sua freccia per volare con le sue penne leggere: e così legato, non posso sorvolare l’altezza del triste dolore: sotto il grave peso dell’amore, io precipito.” 1
 
Stava rileggendo quello stesso libro quando aveva smesso di sognare.
All’improvviso fu troppo.
Troppo passato, troppo presente, troppi ricordi, troppa se stessa, troppo lui, troppo amore, troppo dolore – troppo.
Era di nuovo lì, nella stanza in cui aveva lasciato il cuore.
Respirare era diventato difficile: far entrare l’aria, spingerla di nuovo fuori erano operazioni faticose, che la lasciavano spossata. Ondeggiò incerta sulle gambe prima di lasciarsi cadere come senza forze sulla branda.
Aveva creduto in lui, ora come allora. Ora come allora aveva guardato al futuro con ottimismo, cercato il modo per superare le difficoltà uno al fianco dell’altra, alla luce del sole.
Era questo ciò che le doleva di più, questo.
Il ritrovarsi ancora una volta sola, costretta ad affrontare battaglie che lei mai avrebbe voluto intraprendere, di cui mai sarebbe voluta essere origine e fine.
Anche gli altri le avevano mentito, le avevano occultato la verità per lunghe settimane; ma il loro tradimento non la feriva quanto quello di Gold. Solo lui aveva il potere terribile di mandarla in pezzi.
Solo chi ama può ferire davvero.
Udì i singhiozzi sgorgarle dal fondo della gola, violenti, irrefrenabili, crudeli. S’impose di non piangere, per Helena, si disse, non la spaventare, ma gli occhi non riuscirono a restare asciutti.
Voleva odiarlo perché era preso tutto di lei: tutta la sua giovinezza, tutta la sua comprensione, tutto il suo amore. L’aveva consumata, e abbandonata come si butta via un oggetto rotto, di cui sbarazzarsi perché oramai inutilizzabile.
Ma già un tempo aveva atteso a lungo il giorno in cui avrebbe smesso di amarlo.
Quel giorno non era mai arrivato.
Helena fissava preoccupata la madre. Non aveva mai visto Belle piangere tanto, e non capiva cosa fosse successo, il perché di quell’atmosfera di colpo triste. Sapeva solo che vedere la mamma star male era lo spettacolo più brutto cui avesse mai assistito; e che le faceva tanta, tantissima paura.
- Ma’, – le si avvicinò, dimentica del risentimento – Che hai? – ripeté più volte senza ottenere risposta.
Doveva essere colpa sua, si disse la bambina, colpa del modo in cui l’aveva fatta infuriare: se ora la mamma fosse morta sarebbe stata solo colpa sua!
Non sapeva cosa dire, come scusarsi per qualcosa tanto grave. Fece l’unica cosa che le sapeva fare: l’abbracciò.
- Va tutto bene, tesoro, va tutto bene, – Belle si strinse alla bambina e la baciò per tranquillizzarla. Lo sguardo che lei le rivolse, però, le fece capire di aver fallito – Sto bene. Sono solo triste. Ma non è colpa tua, davvero. Non è colpa tua. Solo… Abbracciami, per favore. Abbracciami e basta.
La voce della mamma sembrava una preghiera.
- Sei l’unica cosa che ho, – le diceva un tempo non tanto distante.
E lei voleva far contenta la mamma, renderla felice, meritarsi il suo amore.
Stavolta Helena obbedì.
 
 
 
“Did you change?
I did too.”
 
 
 
Regina sapeva che le azioni portano sempre a conseguenze: non seguire sua madre, rifiutare il ramoscello d’ulivo offertole le sarebbe costato caro. Se Daniel fosse stato nelle grinfie della nobildonna, l’avrebbe seguita senza esitare: Daniel veniva prima di tutto. Ma Cora era stata chiara in proposito, una chiarezza che quasi l’aveva stupita; e, malgrado tutto, Regina aveva capito – aveva sentito – che Maman era sincera.
A pensarci bene, la Contessa avrebbe potuto sfruttare proprio lo stalliere: avrebbe potuto mentire alla figlia facendole credere di avere il giovane prigioniero per indurla a tornare a Belgravia. Sarebbe stata una mossa spregiudicata e malvagia, ma degna della migliore Cora. Il fatto che non vi si fosse appellata dimostrava quanto sottovalutasse i sentimenti della figlia per Daniel: lo considerava un ostacolo da eliminare in quanto tale, al più un capriccio, ma non capiva – come avrebbe potuto, del resto? – la profondità del loro legame.
Ma Cora non capiva neanche quanto la figlia l’amasse.
Regina non lo sosteneva perché costretta, ma perché sincera: da che era venuta al mondo, la Contessa era stata il suo punto di riferimento, il modello più o meno imposto cui aspirare.
Inaccessibile, effimero, e anche per questo ancora più inseguito.
Sua madre era bella e intelligente, elegante e astuta; sua madre era la donna che, anche inconsciamente, sarebbe voluta essere. Ma sua madre era anche cinica e superba, tanto ambiziosa ed egoista da anteporre se stessa al mondo intero, e crudele – cattiva, di quella malvagità gratuita che non ha ragione d’essere e non lascia via di scampo.
Una parte di Regina odiava quelle caratteristiche; un’altra, in segreto, le amava. Perché erano comunque parte di sua madre, della persona che più era importante nella sua vita, la persona senza la quale non sarebbe mai divenuta ciò che era.
Sua madre le ripeteva una lezione che avrebbe voluto essere in grado di ricordare. L’amore è una debolezza e, malgrado tutto, alla luce degli ultimi sviluppi la ragazza si era ritrovata a pensare che c’era un fondo di verità in quell’affermazione. Se Regina non avesse amato Daniel non avrebbe avuto quel perenne nodo alla gola causato dall’incertezza; se non avesse voluto bene allo zio e a Belle, non si sarebbe sentita in colpa a contatto con loro figlia; se non fosse stata tanto legata a Cora, non avrebbe acconsentito a quella stretta ferrea che la donna aveva sul suo cuore.
Ogni affetto, una debolezza.
Ogni debolezza, una sofferenza.
Forse quella materna era natura, o forse uno scudo, un’armatura dietro cui trincerarsi per non restare feriti, Regina non lo sapeva; ma Regina sapeva di ammirare quelle armi. Di amare quelle corazze che permettevano di non apparire deboli, di non mostrarsi al prossimo tremanti e spaventati come lei non voleva più comparire.
Come lei si sentiva ora, scendendo le scale che la conducevano al passato.
L’intera servitù stava parlando fittamente con Belle; tutti però schizzarono in piedi quando l’adolescente entrò in cucina.
- Regina! – appena la vide, Helena le corse incontro, le manine appiccicose di glassa – Vuoi un biscotto? È buonissimissimo, prendilo! – le porse quello mezzo mangiucchiato che aveva tra le dita. Se fino al giorno prima un bambino si fosse comportato così, l’avrebbe guardato disgustata; stavolta, però, s’impose di rifiutare senza mortificarla.
- Ciao. Ti ringrazio, ma non ho appetito.
- Contessina, – Archie parlò con la sua solita cordialità – Possiamo esservi utili in qualcosa?
- Sollevandomi dalla vostra presenza. Desidero parlare con Belle, e da sola, – precisò all’istante, senza ingentilire il tono. Era affezionata ai dipendenti dello zio, ma non intendeva avere testimoni impiccioni come solo i domestici sapevano rivelarsi. Almeno su questo, sua madre era nel giusto: lo provava il fatto che avessero chiamato Belle ovunque fosse.
I presenti si guardarono tra loro, indecisi se fosse il caso di ubbidire o meno prima di voltarsi verso l’unica competente a decidere, l’unica rimasta seduta.
Dopo un lungo momento di silenzio, Belle si alzò.
Regina avrebbe voluto sospirare di sollievo. Rivedendo la donna, aveva sentito in petto un groviglio di emozioni impossibili da sbrogliare: allo stupore e alla sorpresa si erano presto sommate l’angoscia di chi è testimone inerte di un cataclisma e un’arcana, segretissima gioia. La Mills l’aveva giustificata col ritorno della sua prima amica, ma che nel contesto non aveva ragione alcuna di esistere.
- Helena, – l’ex domestica si rivolse alla figlia – Resta qui e smettila di mangiare biscotti. Mary, per favore, li fai sparire?
- Ma mammaaa!
- Niente “ma mammaaa”, non voglio tu stia male. E ricorda che sei controllata, perciò non cercare di fregarmi a modo tuo: far sparire i biscotti mangiandoli non vale! – fu l’ultimo avvertimento prima di uscire dal locale.
Regina sorrise dinanzi al breve scambio: Belle aveva sì vietato altri dolcetti alla figlia, ma l’aveva fatto con gentilezza, persino scherzando. Se a quattro, cinque anni lei si fosse avvicinata a una caramella, avrebbe rimediato un manrovescio micidiale. Suo padre, morto di lì a poco, le portava di nascosto qualche leccornia – come quando aveva avuto la varicella e le era rimasto accanto escogitando di tutto per distrarla. Anche lo zio era andato a trovarla ogni giorno. Le aveva portato doni come se fosse stato un perenne Natale assicurandole che presto sarebbe stata bene, ma Regina lo ricordava preoccupatissimo. Era stato lui a far venire ben più di un medico e a litigare anche con Maman, che in tutti quei giorni era passata forse una volta o due.
- La tua è una scenata. Resisti, o resterai sfregiata e le tue già scarse possibilità di accasarti svaniranno, – le aveva sussurrato tirandole uno schiaffo sulle mani.
Forse la Regina dell’epoca avrebbe preferito una mamma come Belle, una mamma che le insegnasse a non temere la debolezza. Sarebbe stato un vantaggio o una perdita?
La Regina attuale non sapeva rispondere.
Allontanatasi di qualche metro dalla porta chiusa, Belle si voltò. Aveva le braccia rigide lungo i fianchi, e gli occhi stanchi, ma vigili, severi.
Il momento del confronto era infine arrivato.
- Ciao, Belle, – esordì la più giovane – Ne è passato, di tempo.
- Cosa devi dirmi?
Il tono diretto della domanda la fece trasalire e perdere le fila del discorso che aveva abbozzato
- Io... Io… – si ritrovò a balbettare senza sapere come continuare. Come aveva potuto pensare di andare e parlare con Belle? Non ne era in grado. Era una stupida, e lo stava dimostrando – Io… Mi puoi aiutare?
No. No, maledizione, no.
Possibile che, tra le infinite scuse che avrebbe voluto porgerle, le mille verità che avrebbe dovuto confessarle, fosse andata a scegliere proprio quella? Era scesa per chiedere perdono, non sostegno!
Belle spalancò gli occhi. Nonostante l’atteggiamento risoluto che si era ripromessa di dimostrare, era sinceramente sbigottita: aveva udito bene? La piccola Mills aveva davvero, come prima cosa dopo cinque anni, invocato il suo soccorso?
La sfumatura di rabbia nella sua replica fu ben udibile.
- Esattamente per quale ragione al mondo io dovrei volere aiutare te?
Belle aveva una grinta che Regina non ricordava. Nella sua memoria era impressa una figuretta sveglia e sempre pronta al gioco, ma mite, gentile. Nemmeno durante le liti con la Contessa la sua voce era risuonata tanto distante e netta, una daga di ghiaccio in un giorno d’estate. Una parte dell’adolescente avrebbe voluto quasi ghignare perché – come l’aveva chiamata Cora una volta? –  se il topo di biblioteca stava mostrando i denti significava che la riteneva sua degna avversaria; ma l’altra parte sapeva che, con ogni probabilità, negli ultimi anni Belle aveva dovuto mostrare i denti per sopravvivere. Se la ragazza si era ritrovata sola, incinta e non sposata – rovinata – era stato a causa del suo tradimento; era naturale che non volesse ascoltarla, figurarsi aiutarla.
Nemmeno aiutarla a chiederle scusa.
- Hai ragione. Non sono nella posizione per chiederti nulla, nemmeno di chiederti di ascoltarmi per una volta.
- Io ti ho ascoltata molto più di una volta. Ti ho teso la mano quando eri una cosina ignorata da tutti, ti ho protetta e mi sono fidata di te anche quando tuo zio mi aveva messa in guardia, e tu non…
- Avevo dieci anni!
- Lo so, e non so per chi tu mi abbia scambiata, ma non sono così meschina da portar rancore a una bambina! – in quella casa Belle si riscopriva incapace di spiegarsi, poco ma sicuro. Prima Robert, ora Regina… Possibile che non riuscissero ad afferrare il suo punto di vista? Che entrambi fraintendessero a tal punto, che non intuissero le motivazioni della sua rabbia? Forse stava sbagliando tutto per l’ennesima volta, ma le sue ragioni non parevano poi tanto peregrine. Respirò a fondo prima di riprendere – Vorrei solo capire perché. Cosa ti ha indotto a farlo, perché non ne hai parlato, perché non hai chiesto aiuto. Io mi fidavo di te, ti volevo bene. Non mentivo quando dicevo di essere tua amica.
- Ero suggestionabile, – Regina disse la verità. Non c’era ragione di mentire, di fingersi superiore; era l’occasione che aspettava da un intero lustro, e non l’avrebbe sprecata – Mia madre mi ha spinta a odiarti. Non era esplicita, ma mi faceva intendere che ci avresti portato via lo zio, e dopo di lui ogni altra cosa. Che tu volessi prendere il nostro posto, che le tue mosse, anche e soprattutto quelle nei miei confronti, avessero questo fine.  Mi diceva che era una prova per capire se le volessi bene. Era un ricatto, – si corresse – Ma questo non potevo saperlo. E tu sai com’ero fatta, – sorrise amara – Non desideravo altro che compiacerla, che ricevere un po’ d’affetto. Non mi importava altro. Tu c’eri – tu sai. Per renderla orgogliosa di me ero pronta a tutto. Sono stata pronta a tutto.
Regina aveva una cicatrice sul labbro superiore che rendeva il suo sorriso più sfuggente, più pericoloso. In passato non l’aveva – non che Belle ricordasse, almeno. Si chiese come se la fosse procurata.
Ma i segni davvero indelebili erano nell’anima.
Belle poteva immaginare come fosse cambiata la sua vita. Nelle settimane precedenti, Robert aveva accennato malvolentieri qualche dettaglio – aveva parlato di un collegio, di educande e di sporadici ritorni. Cos’era diventata, in quegli anni? Cosa ne era stato della bambina riflessiva e insicura così diversa dalla sua Helena? Era tornata per entrare in società? Aveva quindici anni, era ancora presto. Col debutto nulla sarebbe cambiato: sarebbe rimasta una prigioniera triste, in abito da sera, bustino e troppi segreti alle spalle.
- Ti ho conosciuta nei momenti peggiori, e ho cominciato a volerti bene allora. Ho provato a essere una sorella per te, – non disse una madre: da quando lo era diventata, conosceva il reale peso della parola. E Regina aveva già dei genitori, cui lei mai aveva inteso sostituirsi – Ti ho abbracciata quando avevi paura, consolata quando eri triste, portata in soffitta per farti giocare. Se tra me e tuo zio le cose fossero andate diversamente non ti avremmo esclusa. E sono certa che tu sappia questo da sempre. Mi hanno raccontato del tuo ritorno la mattina stessa in cui sono stata cacciata: non l’avresti fatto se non ti fossi pentita del tuo gesto.
- Io me ne sono pentita, Belle. Davvero. E sono qui non solo per chiederti un perdono che pure so di non meritare, ma soprattutto per assicurarti che non sono un pericolo. Non sono un’emissaria di mia madre, come pensa lo zio – hai visto tu stessa quali siano i nostri rapporti. Crescendo, ho capito molte cose.
- E allora cerca di capire anche la mia prima reazione, come mi sono sentita vedendo te e tua madre così vicine a mia figlia. Ho avuto paura, e non intendo negarlo; ma per me non è facile  fingere che nulla sia successo. Non intendo negare neanche questo.
- Io non farei mai del male a una bambina, – Regina mormorò ferita – Io non sono come mia madre.
Anche se alle volte vorrei esserlo.
Belle sospirò.
- Ci sono cose che non possono essere controllate. È una questione d’istinto, la definirei così. Mi sono tornati in mente i brutti ricordi e difendere Helena è stata l’unica mossa possibile. Non avrei potuto far altro, e se si ripresentasse la necessità lo rifarei. È la mia bambina. Il minimo che possa fare è proteggerla da chiunque.
Regina annuì. Era giusto così. Non poteva neanche immaginare le emozioni di Belle, ma condivideva la sua opinione. Cora aveva già dimostrato la sua pericolosità; ogni reazione diversa sarebbe stata inopportuna e poco da Belle.
- Non farò del male a Helena. Te lo giuro. E impedirò che mia madre glielo faccia, anche se dovesse essere l’ultima cosa che farò.
- Spero non ci sia bisogno di ricorrere a misure tanto drastiche, – Belle non si trattenne dall’aggiungere.
La più giovane si strinse le spalle. Non poteva esserne altrettanto sicura.
- Torno dalla bambina, – la donna sospirò senza che ci fosse alcun seguito. Si voltò e fece per andarsene.
Era quasi arrivata alla porta della cucina quando l’adolescente la richiamò.
- Belle, – mormorò – Ti volevo bene anch’io.
La donna si fermò.
- Lo so, – rispose dopo qualche istante – E per questo ha fatto ancora più male.
 
 
 
 “So again,
 only blamed
myself
for this state
we are in.”
 
 
 
Era paradossale come le sue trame per indurre Belle al trasferimento fosse andate a buon fine.
Nel peggiore dei modi.
Riaverla con sé non si stava rivelando la meraviglia vagheggiata fino ad allora: Gold aveva pensato che con lei ed Helena il mondo sarebbe stato un dipinto compiuto, ma la realtà si stava rivelando ben diversa. Del resto, stante le circostanze del rientro, come aspettarsi altro? Era ovvio che Belle fosse furibonda con lui e con Regina Mills; forse persino più con lui, che aveva giurato di proteggere la figlia, e invece l’aveva pur involontariamente guidata tra le fauci di un lupo tanto ingioiellato e serafico quanto famelico.
Il modo in cui Cora si era rivolta alla donna e alla bambina, in cui l’aveva accattivata per indurla a confessare e quel bastarda che bruciava come fuoco erano solo il preludio; le due persone che avrebbero dovuto sapere di Helena per ultime si erano ritrovate ad avere ben più di un faccia a faccia con lei.
E con Belle.
Era naturale la rabbia della donna, era naturale la sua reazione; era innaturale avere lei e la figlia in casa e saperle così distanti. A essere onesti, Helena non si mostrava distante: quel tesoro di bimba pareva fortunatamente ignorare la situazione dei genitori e cercava senza sosta tanto lui quanto la madre, danzando per le stanze e mostrandosi chiacchierona come al solito – anche troppo, si diceva l’uomo ripensando agli eventi del salottino.
Gold invidiava quell’innocenza, quella voglia di vivere che s’imponeva anche dinanzi al crollo di una possibile neonata famiglia.
E in più in casa c’era anche Regina. L’adolescente l’aveva cercato per ringraziarlo; lui si era sempre negato. Non intendeva riceverne scuse o qualcosa di simile: l’aveva sostenuta nella sua personale battaglia contro Cora solo perché resosi conto di quanto fosse oramai esacerbato il conflitto tra le due. Quella della ragazza non era finzione, era palese, e questo la rendeva inoffensiva; ciononostante, l’idea di un contatto con Belle ed Helena non poteva che scuoterlo e indurlo, anche solo inconsciamente, a fare di tutto per proteggerle da chi in passato aveva collaborato a portargliele via.
Avrebbe voluto mostrarsi deciso nei confronti Regina tanto quanto Belle lo era stata nei suoi.
Questo è il massimo che ti concedo.
Belle non gli avrebbe portato via Helena anzitempo, né gli avrebbe impedito di incontrarla ancora, ma quanto al resto…
Ma perché continui a credere in qualcosa, se la vita ti ha insegnato altro?
Aveva fatto di tutto per perderla: il perdono era al di là di ogni possibile concessione.
Lo capiva dal silenzio di Belle quando s’incontravano per caso, dal modo in cui si scivolavano accanto senza voltarsi. Un tempo, quando litigavano era lui a rifuggire il suo sguardo: lei non glielo negava mai. Gli piantava addosso, gli piantava dentro senza tregua i suoi occhi, consapevole delle conseguenze che avevano sulla sua anima, della loro capacità di indurlo a riflettere, a fermarsi, di renderlo umano. Ora i ruoli parevano invertiti; ora era lui a bramare quell’incontro d’iridi, perché finché Belle l’avesse guardato, giudicato, anche accusato, anche fattogli del male con quei gioielli che aveva sul volto, ci sarebbe stata speranza.
Avrebbe voluto fermarla. Parlarle ancora, urlarle che non era vero – sapeva che lei si fidava di lui, e anzi troppe volte era stato il contrario, lui l’aveva allontanata spaventato, e…
Ma Belle non gli concedeva neanche la grazia di uno sguardo.
E lui, senza i suoi occhi, era perduto.
Non avevano condiviso un momento: ciascuno aveva condotto la propria vita, ciascuno si era fatto carico di fantasmi da declinare ancora una volta al passato. Sarebbero dovuti essere giorni di festa; si erano rivelati l’ennesimo rovescio della vita.
Eppure, lui non riusciva a pentirsi fino in fondo di quanto – non – fatto prima della lite. Restava fermo sulle proprie posizioni, accusandosi solo di non aver ancora licenziato i domestici colpevoli: se non si fossero precipitati a riferire all’ex collega la loro versione dei fatti, lui avrebbe affrontato Cora senza difficoltà. Belle non sarebbe irrotta nel salottino, Helena non l’avrebbe cercata e trovata, la Mills sarebbe tornata a Belgravia con un nulla di fatto e avrebbe ripreso a sguazzare nella pozza d’incertezza che era il suo regno dalla cena durante la quale lui le aveva stupidamente insinuato il dubbio – perché se Cora avesse già scoperto qualcosa, certo non avrebbe aspettato tanto per muoversi.
Da solo, Gold avrebbe risolto tutto.
La colpa era solo di quei due stupidi, incapaci, irriconoscenti di Killian Jones ed Emma Nolan. Odiava esserne succube – risparmiarli, restare impotente pur nella posizione raggiunta. Aveva piena facoltà di non rivederli più, ma se l’avesse esercitata avrebbe persino peggiorato le cose con Belle. Per lei era costretto a essere affiancato da un valletto infigardo e da una ragazzetta discola che per lo meno aveva il coraggio di guardarlo dritto in volto e sfidarlo nell’unico modo che aveva a disposizione. La Nolan meritava maggiore rispetto di quello sbruffone di Jones, che fingeva ignoranza quando era motore di ogni complotto.
E Belle fraternizzava con loro, li sosteneva in tutto e per tutto.
Non aveva accettato la camera che le avrebbe fatto preparare all’istante – una stanza da regina, la più ampia e confortevole, la più distante dalla sua –, ma non c’era stato verso di convincerla Avrebbe dormito all’ultimo piano come gli altri, ospite delle Nolan, e no, non era il caso di far sistemare una qualunque camera per una sola notte – il modo in cui l’aveva ribadito era stata una stretta al cuore.
Non c’è più nulla da tradire. Non c’è più nulla, aveva detto.
No, Sweetheart.
C’è ancora un mondo intero.
E ancora io sono riuscito a rovinarlo.
 
 
 

“It's hard for me
to love myself
right now.”
 

 
 
Anche Helena quella notte era andata da Regina.
In realtà, la mamma l’aveva messa a letto nella sua stanza e fino all’ultimo, tra una coccola e l’altra, le aveva proposto di dormire con lei e le altre.
La bambina aveva sempre risposto di no e chiesto che fosse lei a dormire con lei e Regina e, perché no, magari anche papà.
La mamma l’aveva guardata un po’ triste e un po’ arrabbiata, come quando lei s’impuntava su qualcosa che non poteva ottenere; solo che quella volta c’era stata molta più tristezza nei suoi occhi. Helena aveva sentito un groppo alla gola: d’istinto l’aveva baciata per l’ennesima volta sussurrandole che le voleva bene.
Per quanto si fingesse serena, aveva sempre davanti agli occhi l’immagine della mamma che singhiozzava e la implorava di abbracciarla. Le dispiaceva lasciarla sola proprio quella notte, ma lei non voleva stare in una stanza piccola come quella visitata, figurarsi passarci la notte: nel breve tempo che vi aveva trascorso, si era quasi sentita soffocare dalla polvere. Mary avrebbe accolto anche lei, ma se gliel’avesse chiesto pure Regina avrebbe accolto sia lei che Belle, e su un lettone tanto grande avrebbero dormito molto più comode.
- Sapevo saresti venuta, – aveva commentato la ragazza vedendola far capolino in camera e balzare sul materasso. Non aveva più detto nulla: di lì a poco anche lei si era accoccolata sotto le coperte e le aveva voltato le spalle, come per dormire; solo che, anziché prendere sonno, anche Regina aveva presto iniziato a essere scossa da singulti silenziosi.
Lì per lì Helena non aveva voluto crederci: perché nell’arco di poche ore un’altra persona a lei cara era tanto triste da mettersi a piangere? Cosa stava succedendo?
- Che hai? – le aveva chiesto – Male?
La ragazza aveva scosso il capo, ma aveva continuato a piangere piano, senza far rumore; ma non ci vuole il rumore per piangere. Ed Helena aveva il cuore tenero, diceva sempre Tink, non sopportava neanche di vedere un randagio soffrire la fame: come poteva stare accanto a una persona in simili condizioni e non intervenire? Ma non sapeva cosa fare, e Regina non rispondeva alle sue domande…
Avrebbe voluto cantarle la ninnananna che la mamma le dedicava sempre, ma non ne conosceva le parole; aveva potuto solo intonarne la melodia, carezzando la schiena dell’amica finché non si era calmata.
Helena era rimasta così, a fissare a lungo il soffitto chiedendosi dove fosse finita l’allegria che fino al pomeriggio precedente aveva dominato la sua vita e a meditare sullo strano mondo che ruotava attorno a quella casa.
La mamma le raccontava sempre che al di là del fiume e per il mondo c’erano tantissimi bei posti, ed era vero: le cose belle di cui le parlava esistevano, ma forse non erano poi tanto belle quanto sembravano. Forse era stata la casa stessa, con le sue stanze chiuse e piene di mostri, a risucchiare la gioia... Non voleva che le cose andassero così, non ora che c’era anche la mamma. Dovevano stare assieme, lei, la mamma e papà, e ridere, e giocare, e raccontarsi le cose come facevano quando mangiavano assieme e papà guardava la mamma come anche lei voleva essere guardata 2 e gli occhi della mamma brillavano dalla gioia.
Dovevano essere loro e, e la ragazza strana che le rispondeva male, ma non l’aveva cacciata mai, neanche la prima sera; e dovevano essere felici.
E no, non poteva aspettare l’indomani: lei doveva dirlo a qualcuno subito.
L’unica persona di cui potesse davvero fidarsi e che in quel momento potesse raggiungere era solo una.
Papà.
 
 
 

“I will take
what you have for me now
if it's not too late.”
 

 
 
Viktor all’inizio non ci aveva creduto. Aveva letto il foglio una, due, tre volte, e poi ancora e ancora, finché le lettere non si erano fuse formando il calderone infernale in cui era annegato.
Essere medici significa essere abituati alla morte: dal primo anno di studi maneggiava cadaveri, assisteva e compieva dissezioni, vedeva scivolare la vita da grandi e piccini dando la notizia a parenti straziati.
Essere medici significa essere abituati al dolore: alla sofferenza fisica e mentale, alle litanie e alle maledizioni, al sangue e al rantolo dei morituri.
Viktor Whale ne era abituato; il tempo gli aveva insegnato a essere impassibile.
Ma quale scuola di medicina insegna a restare impassibili quando la morte ghermisce chi ti è più caro di te stesso?
Gerhard era morto.
Ucciso da un colpo di fucile partito accidentalmente durante un’esercitazione: il colpo l’aveva raggiunto in pieno petto, fracassandogli la gabbia toracica e perforandogli il polmone sinistro. Intervenire era stato vano: suo fratello era spirato di lì a poco.
Whale odiava l’ignoranza, il non comprendere la realtà e restarne succubi, meri spettatori; eppure in quell’occasione avrebbe preferito non sapere. Avrebbe preferito credere che Gerhard fosse spirato all’istante, senza accorgersi di nulla; che avesse sussultato e fosse sprofondato nell’oblio eterno, che gli fosse risparmiato l’agonia propria di questo tipo di morte.
Conosceva fin troppo bene i dettagli tecnici per illudersi.
Quando aveva ricevuto il dispaccio, quando ne aveva tradotto in significato le frasi, il dottore era partito all’istante.
Non l’avevano aspettato per il funerale. Era entrato in casa, ma non aveva trovato alcun feretro ad attenderlo; e per un istante Viktor aveva pensato fosse solo un incubo, o uno scherzo di pessimo gusto, ma pur sempre uno scherzo; che suo fratello fosse sano e salvo, e che quando gli avesse scritto per raccontargli quell’assurda vicenda lui gli avrebbe con una lettera in cui i più scherzosi scongiuri s’affiancavano all’immanente certezza della sua salute.
Ma la casa era drappeggiata di nero, e i campanelli attutiti, e tutto, tutto urlava di una morte troppo prematura, troppo accidentale, troppo ingiusta.
Come se esistessero morti giuste e ingiuste.
La mente di Viktor sapeva che la morte non è definibile: la morte è. È un fatto della vita, o meglio, della natura. Tutto ciò che nasce è destinato a morire; non esisterebbe la vita, se non esistesse la morte. L’endiadi della realtà.
Ma la mente di Viktor doveva tacere, tacere, azzittita da Viktor stesso.
Perché Gerhard, così giovane e promettente, così brillante e giusto, col suo sorriso buono e l’animo gentile mai coperto da mostrine e medaglie, non meritava di morire.
Suo padre l’aveva ricevuto dopo un giorno, Si era chiuso nel suo studio, gli occhi puntati alla finestra come se da un momento all’altro aspettasse il ritorno del secondogenito prediletto, del figlio di cui pure Viktor non era mai stato geloso.
- Padre, – l’aveva salutato senza proseguire. Era strano, per lui, non sapere cosa dire in caso di decesso.
- L’abbiamo sepolto l’altro ieri, – la risposta non era quella che si sarebbe aspettato. Ma cos’aspettarsi da un padre che ha appena perso il figlio?
- Sarei voluto esserci.
- Ho preferito non ci fossi. Mi sono illuso fossi morto tu. Tutto è tuo. Tua madre non avrebbe voluto che ti diseredassi. Ma io – io non ho più figli.
Non era riuscito a rispondere, Viktor. Non era riuscito ad arrabbiarsi. Aveva annuito ed era uscito dalla stanza, chiudendo la porta con attenzione, senza far rumore, come gli era stato insegnato in quella stessa casa tanti anni prima. Si era recato nella cappelletta – lui, che non entrava in chiesa da metà della sua vita –, ma non era riuscito a formulare nemmeno una delle preghiere che riposavano negli angoli più reconditi della memoria. Era solo un diversivo per ritardare la visita sulla tomba di Gerhard, per non vedere epitaffi e date e rendere reale ogni cosa.
Viktor non aveva colpe, razionalmente lo sapeva bene. Non avrebbe potuto prevenire l’incidente nemmeno se si fosse trovato sul luogo, nemmeno se tanti anni prima fosse divenuto medico di campo. Gerhard era esperto di armi, era attento e sollecito; quella era stata un’autentica fatalità.
Ciononostante, non riusciva a non accusarsi per non essere stato in grado di proteggere il suo fratellino.
Lo ricordava, il minuscolo fagottino rosa che già da neonato rideva alle sue smorfie, il bambinetto che gli stropicciava le pagine dei libri e con cui pure non riusciva ad arrabbiarsi davvero, il compagno di mille avventure con cui sostenersi a vicenda.
Mille scene e mille scherzi, mille confidenze e mille aiuti che non sarebbero più tornati.
Era ripartito quella sera stessa. Non era ospite gradito, e il suo soggiorno avrebbe condannato tanto lui quanto il padre a ulteriori pene. Non poteva far nulla contro la morte, solo arrendersi e accettarla, per quanto arduo. Se ci fosse stato un metodo – uno studio, una tecnica ancora sperimentale, una mera possibilità – per invertire il processo e riportare Gerhard alla luce del sole, lui avrebbe agito.
A qualunque costo.
In nome del fratello.
In Inghilterra si erano tutti mostrati molto cordiali nei suoi confronti. Gli erano giunti biglietti di condoglianze da parte di illustri colleghi e pazienti, i domestici portavano la fascia nera al braccio, e tutti, tutti rispettavano ossequiosi il suo dolore.
Il problema era che non voleva questo.
Chiuso in una stanza con una bottiglia in mano e il peso dei fantasmi sulle spalle, Viktor voleva qualcuno con cui sfogarsi, cui raccontare quanto successo senza alzare il volto e trovare lo sguardo allucinato di chi considerava ogni emozione un’autentica volgarità.
L’idea che fino a poco tempo prima era stata sua.
Miss Carter, la dama di compagnia sua intima amica, nulla poteva: i suoi baci accendevano il corpo, non il cuore.
Desiderava un amico vero, e se ne riscopriva privo.
L’unico che avesse mai avuto giaceva sotto metri di terra brulla a molte miglia da lui.
In realtà c’era qualcuno. Una persona che non avrebbe saputo definire dal momento che solo due volte nella vita l’aveva incontrata. Sarebbe stato maleducato ripresentarsi da lei dopo oltre un mese e comunicarle una novella tanto triste, ma – pur conoscendola sommariamente, pur non avendo mai pensato davvero al di là dei suoi sorrisi salaci e corpetti provocanti – Viktor aveva l’impressione che lei avrebbe compreso. Che il suo eventuale Mi dispiace non sarebbe stato come gli altri.
O forse la sua era solo un’estrema idealizzazione, il triste bisogno di affetto che mi aveva desiderato in simile modo.
Non aveva realmente deciso di andare da lei fino a quella sera, quando aveva dato al cocchiere un indirizzo nel cuore più corrotto della città.
Quando entrò nel locale, non un avventore gli badò. Si sedette e attese. Lei non era da nessuna parte: pareva sparita, tornata al mondo di bosco e sogno cui apparteneva. Non c’era neanche la sua collega dagli occhi chiari, l’amica di Gold.
All’improvviso, quando aveva quasi perso le speranze, la porta della cucina si aprì e comparve lei. La vide dirigersi verso un tavolo, tirare una pacca sulla spalla di un uomo barbuto e ghignare a qualche battuta. La vide sistemarsi una ciocca bruna dietro un orecchio, annuire attenta e spostarsi verso il bancone.
La vide sorridere.
Fu allora che, quasi senza inviare il comando ai muscoli, si avvicinò.
- Ciao, – Ruby riconobbe la voce prima ancora di rendersene conto. Si voltò: il dottorino era dinanzi a lei, avvolto in un pastrano nero sgualcito che aveva conosciuto tempi migliori.
Il suo primo pensiero fu di rabbia: dopo essersi dannata a causa dell’uomo, la ragazza aveva deciso di lasciar perdere. Per citare Belle, se non la reputava abbastanza per lui, sarebbe stato lui a perdere un tesoro, non il contrario; non era l’unico uomo al mondo, e lei non avrebbe sofferto più per un simile pallone gonfiato.
- Bentornato, – disse infine. Infuse freddezza nel saluto,  ma quegli occhi gonfi la lasciarono interdetta – È… È successo qualcosa?
- È morto mio fratello.
Ruby non trasalì. Ruby non increspò il volto in una smorfia di dolore fin troppo artefatta, non si portò una mano al petto, non eruppe in litanie solo apparenti.
Ruby fece una cosa che non si sarebbe mai aspettato.
Ruby lo abbracciò.
 
 
 

“Yet
I've grown to love you
even more.”



 
La porta dello studio non era chiusa, e solo scostandola Helena si rese conto che durante il tragitto non un mostro l’aveva inseguita: forse, si disse, la mamma aveva ragione: stava facendo la cosa giusta, parlare anziché tenersi tutto dentro, e il coraggio era venuto da sé.
Per fortuna papà non era ancora andato a dormire: era lì, seduto in poltrona, in contemplazione del camino spento.
- Dearie, adduci tutte le giustificazioni che vuoi, ma sei entrato senza bussare e conosci già le conseguenze.
- Ma chi è Dearie?
Gold si alzò di scatto udendo la domanda tenera della sua bambina che se stava lì, in camicia da notte e scalza, a fissarlo perplessa. Maledisse la propria iracondia, pregando di non averla spaventata.
- Helena! – si diresse subito verso di lei – È tardi, perché sei ancora sveglia? Ti riaccompagno in camera, – fece per prenderla in braccio, ma lei si ritrasse – Se cammini senza scarpe ti buscherai un raffreddore. Vieni, su.
- No, – lo fissava talmente preoccupata che Gold s’inquietò.
- Cos’è successo? – le chiese più accondiscendente – Hai fatto un brutto sogno?
- No. Voglio che mi dici una cosa.
- Ti ascolto.
- Però dimmi la verità.
- Ti ho già spiegato che è pericoloso promettere senza sapere a cosa si andrà incontro, – provò a sdrammatizzare. L’espressione della bambina lo fece però tornare immediatamente serio – Ma con te farò un’eccezione. Sarò sincero.
Helena si morse le labbra come timorosa prima di chiederlo.
- Perché oggi state tutti male?
Se n’era accorta. Aveva sperato fino all’ultimo che la condanna le fosse stata risparmiata, ma ora l’estrema illusione cadeva: Helena aveva quell’intuito fenomenale nel percepire le emozioni altrui che era proprio di Belle, ma che era anche appartenuto a Neal. Se fosse sgradita eredità materna o paterna,  però, era questione che passava in secondo piano rispetto allo stato dei fatti: la loro bambina stava soffrendo, e stava soffrendo a causa loro.
- Helena, – esordì – Almeno siediti con me. Non voglio tu prenda freddo. Prometto di raccontarti ogni cosa, in cambio. Te lo prometto.
La bambina lo seguì docile, i grandi occhi castani puntati su di lui in attesa in risposta.
Sarebbe potuto sfuggire a molti sguardi, ma non a quello.
- La nostra non è tristezza.
Le iridi della figlia si fecero più larghe, più cupe. Più dure.
- Non è vero. Tu non sei come ieri. Ieri mi raccontavi le cose e mi facevi filare, e ridevi, ridevi quando eravamo qui dentro, anche dopo la tazza. Oggi non l’hai fatto, oggi non hai riso mai. E anche Regina piange, e la mamma stamattina ha pianto tantissimo nella vecchia stanza e mi ha chiesto di abbracciarla. E avete urlato, stamattina, e quando io urlo con Anna poi sono triste! – Helena stessa era sull’orlo delle lacrime: le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati, le labbra le tremavano convulse – Perché mi dici bugie? Hai promesso!
La sua Belle che piangeva nella stanza in cui tanto spesso erano stati felici.
- No, no, no! Non era mia intenzione, – Gold si portò una mano al cuore – Non ti sto dicendo una bugia. Quel che intendo è che a volte le cose sono più complicate di quanto sembrino, e quella che somiglia a tristezza, ecco… Non è solo tristezza. È anche altro.
- So che sei grande, – disse per riconquistarne la fiducia – Ma quando sarai ancora più grande, quando avrai vissuto tante altre avventure e conosciuto tante altre persone, capirai che tornare in certi posti non sempre è facile. Tua mamma ha pianto perché ha ricordato i tempi in cui questa era la casa in cui viveva con i suoi amici e con me.
Non era del tutto vero, lo sapeva. La ragione per cui Belle stava male era, per l’ennesima volta, lui stesso. Il giorno prima aveva cercato di spiegare alla figlia di non essere perfetto come lei lo iniziava a idealizzare, e dalle sue risposte aveva capito di star parlando con una Belle ancora più ingenua, ancora priva delle lenti per leggere la loro realtà. Ripetere un simile discorso ora, dopo ciò che era successo, dopo ciò che aveva detto alla donna quella mattina, esulava dalle sue capacità.
Non ne aveva la forza; non ne aveva il coraggio.
- Ma se viveva con te e i suoi amici, era felice. Uno è felice, se pensa alle cose felici. E invece mamma piangeva.
- Anche questo è vero, – l’uomo convenne – Ma i ricordi funzionano in modo strano: anche quando sono belli, possono farci male. Possono renderci tristi. Si chiama nostalgia. E tua mamma conserva tanti ricordi di questa casa, alcuni belli e altri meno belli… E non è facile gestirli quando tornano tutti insieme.
Helena parve soffermarsi su quando appena dettole. Era un problema che non si era mai posta prima: ricordava episodi con mamma e le altre, e all’orfanotrofio con gli amichetti, la neve a Natale e l’incidente, la volta che papà le aveva proposto il gioco dei nomi e ciò che era successo da allora. L’unico ricordo davvero brutto era l’incidente.
- Come si smette di ricordare? – chiese.
- Non ti dirò una bugia. Non si smette di ricordare, e va bene così. I ricordi ci rendono ciò che siamo, persone e non cose. Senza, saremmo vuoti. Per esempio, io sono ciò che sono anche grazie a te e a tua madre. E non vorrei mai dimenticarvi.
Una volta ci ho provato.
Il cielo ha dimostrato quanto fosse vano.
Gold aveva la sensazione che, se pure un giorno un’amnesia l’avesse colto, in qualche modo avrebbe avuto memoria di Belle. Avrebbe sempre saputo che qualcosa non andava, che doveva esserci un motivo se conservava una tazza mezza rotta e portava un anello femminile, se il celeste era il suo colore preferito e ogni volta che passava vicino a una biblioteca gli si accelerava il battito. Magari il nome Isabelle French non avrebbe avuto significato per lui, ma comunque avrebbe sentito che era successo qualcosa tale da aver segnato un prima e un dopo definitivo.
Ma da quando aveva fallito non aveva più voluto dimenticare Belle.
Come mai avrebbe voluto dimenticare Neal.
Come mai avrebbe voluto dimenticare Helena.
- Anche se avete urlato? – gli chiese rannicchiandosi contro di lui.
- Anche se abbiamo urlato. Una lite non cancella l’amore che nutro per voi. Tanto più se, per l’ennesima volta, la colpa è stata mia.
Per lunghi minuti dominò un silenzio tanto profondo che Gold pensò la figlia si fosse addormentata.
Poi una voce insonnolita lo raggiunse.
- Papà… Ma poi passa?
Gli si fermò il cuore. Forse aveva solo sognato, immaginato la parola che tanto desiderava udire. Non poteva essere accaduto così, all’improvviso, senza una motivazione…
No: una motivazione c’era. Sua figlia si fidava di lui. Dopo mesi di lenti avvicinamenti, di studi e analisi che ancora non sapevano pronunciare il loro nome, Helena lo riteneva degno di lei, finalmente degno del suo amore.
L’aveva chiamato papà. Lo aveva collocato nella sua vita – una figura non più passeggera, non più isolata, ma presente, inserita in un contesto da cui non sarebbe più potuto sfuggire neanche se – folle! – l’avesse voluto.
Per anni aveva temuto quella parola e i ricordi di cui era latrice; per anni era stato certo non l’avrebbe più udita, ma ora dentro impazziva di gioia. Gli accadimenti recenti furono inghiottiti da una voragine; una voragine non cupa, non buia e spaventosa, ma gentile, luminosa.
Luminosa come Helena.
Com’era strano che una singola parola avesse un potere tanto terribile e stupefacente.
Com’era strano che riuscisse a farlo sentire un uomo migliore.
- Sì, – disse, e pregò di non star mentendole – Poi passa.
Ma Helena non udì la risposta: si era addormentata, il respiro lieve, il capo abbandonato sul petto paterno. La tristezza, tuttavia, non aveva abbandonato il faccino ancora teso.
L’uomo valutò di riportarla in camera. Ma il suo sonno era ancora leggero, non voleva correre il rischio di svegliarla… Avrebbe atteso qualche minuto, solo pochi altri minuti. L’avrebbe tenuta stretta e vegliato sul suo sonno e sulla sua vita, perché lei e sua madre, e suo fratello che tanto l’avrebbe adorata, erano le cose più belle che avesse mai conosciuto, e se con loro due era troppo tardi per tutto lo stesso non valeva con Helena, no, con lei non avrebbe ripetuto gli stessi sbagli, per lei ci sarebbe stato sempre, e sarebbe stato onesto, sì, sarebbe stato il padre che la figlia di Belle meritava, non era in grado di essere l’uomo giusto per Belle, ma per Helena, per Helena sarebbe stato il padre perfetto, glielo doveva, sì, non c’era stato per troppo tempo, aveva perso tutto di lei, glielo doveva…
 
Si svegliò dopo quella che sarebbe potuta essere un’ora o una notte.
 
Helena non c’era.
 
 
 

One day
we may have
whole new me's and you's,
but first I need
to learn to love me
too.”
“Paid in full” - Sonata Arctica

 
 
 
1: “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, atto I, scena IV;
2: riadattamento della celebre: “La guardava come tutte le ragazze vorrebbero essere guardate” dal film “Il grande Gatsby”. Per quanto m’impegni, non riesco a superare le prime pagine del libro di Fitzgerald, perciò non so se la frase sia dell’autore stesso; perdonate l’eventuale orrore. X’D
 
 
 
N.d.A. : Benvenute o bentrovate, bellezze!
Procedura civile mi ha fatta latitare dalla vita e da Effeppì, ma torno vincitrice! *_*
Dopo una pausa così lunga un capitolone era dovuto… Ma temo di aver esagerato! Non prometto di contenermi in futuro perché oramai mi conoscete, e comunque sarebbe inutile: il prossimo aggiornamento, lo dico subito, probabilmente sarà altrettanto lungo. Siamo a un punto cruciale della storia, per fortuna ho parecchio da scrivere e il dono della sintesi mi è sconosciuto; le conseguenze sono pagine e pagine di (dis)avventure per i protagonisti. Vi avverto inoltre che i due capitoli nascono come unico aggiornamento poi suddiviso per ovvi motivi, per cui molti temi qui introdotti verranno approfonditi e conclusi tra due sabati.
I nostri si sono, come si suol dire, scannati: una lite senza esclusione di colpi che li ha allontanati non poco. Una brutta situazione, ora aggravatasi… Dove sarà finita Helena? Le sarà successo qualcosa?
Come promesso, Viktor è ricomparso e ha portato con sé il primo morto della fanfiction. Sarà anche l’ultimo, o prima o poi qualcun(‘)altr* gli farà compagnia? #Nospoilers, muahahahahah! In ogni caso, c’è un passo in avanti per i FrankenWolf, mia “INtrattatissima” OTP del telefilm.
Spero di non essere andata OOC in alcun punto e con alcun personaggio – i miei timori per Regina e per Belle sono immani –, ma come sempre sono pronta al confronto: segnalandomi le criticità mi aiuterete, dunque fatelo senza remore! :)
Un immenso ringraziamento va a quant* anche durante l’interruzione hanno recensito la storia, l’hanno aggiunta alle varie categorie e l’hanno letta: non immaginate quanto siate importanti! Le vostre parole e il vostro sostegno sono una manna che mi rincuora e mi dà una carica strepitosa: se la storia è arrivata sin qui è anche per merito vostro, perciò GRAZIE DI CUORE!
Salvo imprevisti, ci si rilegge qui sabato 4 luglio e sulla pagina Facebook “Euridice’s World” un po’ più spesso coi miei deliri! ♥ ;) ♥
Bacioni, Dearies, e buon inizio estate/buona sessione/buon prosieguo di maturità! :) :***
Euridice100

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Capitolo 14
*** XIII - Somewhere only we know ***


La 4B ti sarebbe piaciuta.
Avresti rivolto parecchi improperi a Zelena
e mi avresti fatta ridere molto.
Cia’. ♥
 
 
 
XIII - Somewhere only we know
 
 
 
I walked across an empty land,
I knew the pathway

like the back of my hand.”
 
 
 
Doveva stare calmo.
Non era successo nulla di irreparabile: le bambine non spariscono così, da un momento all’altro tra le mura domestiche. Helena era arrivata allo studio da sola e di notte: era evidente conoscesse la strada. Probabilmente si era risvegliata, l’aveva trovato assopito e aveva deciso di fare il percorso inverso per tornare a letto e riposare comodamente.
Non c’è nulla da temere.      
Non c’è nulla da temere.
Sarebbe andato in camera di sua figlia e l’avrebbe trovata al sicuro sotto le coperte o a giocare coi suoi nuovi balocchi.
Quando spinse la porta ed entrò in una stanza deserta, un brivido gli percorse la schiena.
Provò a calmarsi. L’ansia non avrebbe giovato, anzi: avrebbe complicato ulteriormente la situazione. Helena era in casa; il fatto che non fosse nella sua cameretta non indicava alcunché di grave: la bambina stessa aveva affermato di aver trascorso la notte precedente con Regina. Le sue fosche previsioni si sarebbero sciolte come neve al sole nel momento in cui l‘avrebbe scorta con la giovane.
Non c’è nulla da temere.      
Non c’è nulla da temere.
L’uomo bussò con violenza dalla Mills. Se non avesse aperto, avrebbe mandato al diavolo ogni regola del decoro e della buona creanza e sarebbe entrato senza farsi annunciare; sarebbe entrato e avrebbe constatato la presenza di sua figlia. Regina non avrebbe avuto motivo di protestare; né tanto meno ne avrebbe avuto diritto, stante l’accoglienza offertale.
Anzi: Gold aveva ignorato ogni principio nell’istante in cui si era scagliato contro la bussola chiamando ad alta voce la ragazza, incurante dell’eventualità di svegliare anche la bambina.
Ci sarebbe forse stata maggior conferma della sua presenza?
Udendo il rumore, Regina sobbalzò nel letto. Biascicò versi indistinti contro la maleducazione dei domestici  e le ore notturne sempre troppo veloci, prima di accorgersene: la voce che la chiamava era quella dello zio.
- Ma che…? – a Regina, passata in un solo momento dal sonno profondo alla veglia, la cosa apparve priva di senso. A malapena si rendeva conto di dove fosse, figurarsi riflettere sulla situazione; tuttavia, s’allarmò. Cosa ci faceva lo zio da lei a quell’ora?
- Esci subito!
L’ordine dissipò i dubbi. Ancora mezza addormentata, s’infilò alla rinfusa la vestaglia e si avvicinò alla porta pur senza aprirla.
- Zio, cos’è successo?
- Esci!
- È piena notte, stavo dormendo, non posso uscire… Così! È disdicevole!
Gold perse la pazienza.
- Cosa vuoi che m’importi! – ululò – Devi uscire, e ti consiglio di darmi ascolto, perché tu non vuoi vedermi arrabbiato, fidati.
Regina rimase turbata. Doveva essere successo qualcosa di davvero grave per scatenare una simile reazione nell’industriale. Ma cosa?
- Cosa c’è? – si presentò infine inquieta.
- Dov’è Helena?
La domanda le fece aggrottare le sopracciglia.
- Qui, – replicò col tono ancora impastato dal sonno – Dorme alla grossa, – seguita dall’uomo, tornò verso il letto e cercò il corpicino che da due notti a quella parte le faceva compagnia.
Non trovò nulla.
La strana percezione – o meglio, l’assenza di percezione – fu sufficiente a risvegliarla del tutto.
- Non c’è, – constatò quasi a se stessa, senza capire – Ma stanotte c’era. È venuta da me…
Gold non parlò. Dovette sostenersi mentre la realtà lo assaliva con la violenza di uno schiaffo in pieno volto.
No.
- Dov’è? – la voce parve risalire dal più profondo degli Inferi – Dov’è? Dove l’hai portata?
Regina spalancò le palpebre. La domanda, le sue implicazioni, la colpirono in pieno.
- Cosa intendete?
- Dov’è? – ribadì Gold – È con tua madre? L’hai consegnata a lei?
- No! Come potete dire una cosa simile? Non collaborerei mai con lei per qualcosa del genere, io…
- Ti rendi conto di quello che hai fatto? Perché, Regina, perché?
- Ma io non ho fatto niente! – la ragazza ribadì con foga – Perché avrei dovuto consegnare vostra figlia a Maman? È pericolosa, lo so quanto e più di voi! Helena è da sua madre, – aggiunse subito, colta da un’illuminazione che non smussò i lineamenti duri dell’uomo – È da sua madre, sicuramente è con lei.
Belle. Come l’avrebbe detto a Belle? Come le avrebbe detto di aver perso loro figlia, di non averle prestato attenzione neanche mentre erano sotto lo stesso tetto? Come avrebbero fatto fronte a conseguenze tanto gravi?
Ciò che sosteneva Regina era plausibile, certo. Helena avrebbe potuto risvegliarsi, sentirsi sola e decidere di rivolgersi dalla madre; ma sapeva dove fosse? E soprattutto,  sapeva raggiungere la stanza delle Nolan? Si era recata da lui di notte e da sola, ma le loro camere si trovavano sullo stesso piano e non erano molto distanti…
Doveva sbrigarsi. Se Helena non fosse stata neanche da Belle, avrebbe significato solo una cosa.
Era stata portata via.
E la colpevole era davanti ai suoi occhi, tutta intenta a fingersi mite come un agnello e con le mani già lorde del sangue di un’innocente.
Non pensare.
Non pensare, non pensare, non pensare.
Qualsiasi cosa fosse successa a Helena, avrebbe fatto subire lo stesso a Regina.
Su questo non aveva dubbi: Cora avrebbe imparato a sue spese cosa significava mettersi contro di lui. Ogni dubbio sulla paternità di Regina, ogni incertezza, tutto l’affetto che aveva nutrito nei suoi confronti svanì in un istante; l’istante in cui rivolse alla giovane un semplice comando.
- Vestiti, – l’ombra rancorosa nei suoi occhi esplose, colpendola come un pugno – Ti attendo fuori. E ti consiglio di pregare, Dearie. Perché se non troverò mia figlia, io ti ucciderò.
 
 
 
“I felt the earth
beneath my feet.”
 
 
 
Di notte i pensieri si svegliano e insidiano la mente con molta più veemenza di quanto accada durante il giorno; e Belle lo stava vivendo sulla sua pelle.
In quelle che le parevano ore interminabili, si districava tra il sonno e la veglia, ma ricordava ogni rintocco di campana di una chiesa in sottofondo e l’abbaiare intermittente di un cane in lontananza.
Il vuoto riempiva il suo tempo; il vuoto, e rimuginazioni che a nulla conducevano.
Lei e le altre erano andate a letto tardi. Erano rimaste a lungo in cucina con Killian, ad analizzare ancora la questione, discuterne, cercare di capire. Non c’era nulla da comprendere, in realtà: i fatti non mutavano. Erano gli stessi che le avevano raccontato alla locanda: la tentata corruzione a opera di Cora, la resistenza del valletto e al contempo il suo silenzio – solo ora ne capiva l’atteggiamento mostrato negli ultimi tempi –, il modo in cui tutto era precipitato all’improvviso.
- No, non è precipitato “all’improvviso”, – Belle aveva replicato – Io te l’avrei detto. Te l’avrei detto subito.
Era arrabbiata, Belle: arrabbiata e delusa da Gold, ma anche da chi considerava fedeli amici. Anni a contatto con Mary Margaret avrebbero dovuto insegnare a tutti l’importanza della sincerità; ma a quanto pareva, ad aver appreso la lezione era stata lei e lei sola. Le stesse Nolan avrebbero potuto rivelarle qualcosa, anche solo fare un accenno; e invece avevano taciuto come gli altri.
Se durante la lite con Gold aveva preso le difese dei domestici era stato solo perché alla fine, di sua sponte o indotto da Emma, Killian aveva parlato: tardi, ma comunque l’aveva fatto, comunque aveva cercato di rimediare.
Gold, invece…
Ecco: la differenza, oltre che nei sentimenti, stava lì. Killian avrebbe potuto tacere, Robert avrebbe dovuto parlare.
Ed entrambi si erano comportati in modo diametralmente opposto.
Più di una volta, durante la lunga notte, aveva pensato di andare da Helena. Chissà se almeno lei stava riposando… Ci si sente così soli quando non si riesce a dormire, e Belle non voleva che la bambina soffrisse anche per questo motivo. Sarebbe dovuta andare a controllare, sì.
Quando si risolse a farlo, dei colpi alla porta la sorpresero. Nel letto accanto, Mary schizzò automaticamente in piedi ed Emma interruppe il suo ritmico russare.
- Che diamine, – mugugnò la bionda, pur imitando la madre – È già ora di alzarsi?
- Belle, sono io, Regina. Per favore, apri, – dall’altro lato della porta arrivò smorzata la voce della Contessina – Per favore, è importante.
- … così importante da venire a bussare adesso?  E certo, tanto la signorina si sveglia alle nove, siamo noi a sgobbare dall’alba, – commentò Emma a denti stretti, subito fu zittita da un’occhiata della madre, che si rivolse sottovoce all’ospite.
- Belle, te la senti? O apro e dico che stai riposando?
- No, – l’altra la interruppe monocorde.
Regina ed Helena dormivano insieme. L’avevano fatto la notte precedente, e con ogni probabilità anche quella notte.
Regina implorava la sua presenza a quell’ora.
Se la ragazza era lì, allora…
Helena.
È successo qualcosa a Helena.
Quasi inciampò nei suoi stessi passi correndo verso la porta. Le mani le tremavano mentre, incurante di essere in camicia da notte, faceva scorrere il chiavistello e scattare la serratura.
Quando si ritrovò davanti Regina e Robert, il mondo sprofondò dentro di lei.
Non pose domande.
La loro presenza era la massima conferma.
Gold notò all’istante il pallore di Belle. Notò il modo in cui si morse le labbra e le si spalancarono gli occhi. Belle aveva capito, e lui aveva capito la sua risposta. Ma non per questo non chiese.
- Helena… Helena è con te?
Era strano, la donna fece assurdamente caso, come nella voce dell’uomo timore e rabbia si mescolassero in un modo che non era in grado d’occultare; ed era strano come lui, che sempre aveva provato a proteggerla dal mondo, a proteggerla anche da se stesso, ora fosse tanto diretto nel porle la domanda.
Aprì la bocca per parlare, ma non emise alcun suono.
Saresti dovuta andare prima a controllarla.
Gold chiuse gli occhi.
Respirare. Respirare era l’imperativo cui obbedire.  Respirare e star calmo.
Helena non era né in camera né dalla madre, ma poteva essere altrove. Magari aveva avuto fame ed era scesa in cucina, oppure…
A quattro anni, di notte e da sola?
Sii onesto almeno con te stesso.
No. No, no.
Aveva già perso un figlio.
Per favore, non di nuovo, non anche lei.
E ora come allora la colpa era sua.
Sua e di…
- Dov’è? – l’uomo si avventò contro Regina, costringendola ad arretrare fino al muro – Dove l’hai portata? Dimmelo, o ti ammazzo!
Regina giurò. Regina ripeté di non sapere – di aver visto Helena per l’ultima volta la sera precedente quando era venuta in camera sua, di essersi addormentata al suo fianco e svegliata solo dallo zio. Ripeté di non avere contatti con la madre, coi suoi sgherri, con chi per lei.
La sua supplica riecheggiò nel vuoto.
Regina, Gold ne era certo, mentiva.
- Non capisci cos’hai fatto? – urlò a un certo punto – Potrebbe essere tua sorella, idiota!
Belle era immobile. Le urla la sfioravano appena. Cosa significava? Non trovavano Helena, Robert aveva iniziato a spiegarle. Era con lui, era andata a trovarlo nello studio, e poi? Vedeva la bocca dell’uomo muoversi, ma non coglieva alcun suono, come se fosse stata sott’acqua, come se stesse annegando.
Forse stava accadendo davvero. Forse stava davvero perdendo i sensi, il petto gonfio di qualcosa che non sapeva neanche definire, e forse avrebbe fatto bene a lasciarsi andare, ad abbandonarsi e cedere alla corrente senza più provare a resistere…
No.
Helena era sparita. Finché non l’avessero ritrovata, lei non poteva arrendersi. Lei non doveva – era fuori discussione, era assurdo, anche il semplice pensiero era insignificante.
L’unica cosa che doveva fare era riabbracciarla.
Riemerse dall’acqua cui si stava abbandonando. Riprese fiato, e si ritrovò in una tempesta di parole, di gesti, di emozioni.
Di dolore.
Un dolore cui doveva resistere.
- Basta.
Gold continuava imperterrito a rinfacciare colpe e infamie a un’esangue Regina.
- Basta! – gridò con quanto fiato avesse in gola.
I due si voltarono e la guardarono confusi, quasi non si capacitassero del suo scatto.
- Belle…
- Niente Belle. Niente ma, niente se. Niente di niente. Nostra figlia, – disse in tono uniforme – Non si trova, e non ho intenzione di perdere tempo in litigi quando ogni minuto potrebbe essere prezioso. Se preferisci resta pure qui a litigare, ma io – io vado a cercarla.
 
 
 

“Sat by the river
and it made me complete.”

 
 
 
Il posto che Regina le aveva descritto esisteva davvero, ed Helena l’aveva trovato; da sola e di notte per giunta!
Era proprio una bimba grande, oramai: nessuno avrebbe più potuto smentirla.
Certo, non tutto era filato liscio: prima di riuscirci aveva vagabondato invano per un po’. Per fortuna, forse a causa della concitazione generale del giorno precedente qualcuno aveva dimenticato accese delle lampade, quindi almeno il problema del buio non si era posto; ma Helena proprio non ricordava come raggiungere le scale posteriori che conducevano all’ultimo piano, e in un tremendo momento aveva temuto di essersi persa: il Castello era un labirinto, ed evidentemente lei aveva imboccato qualche corridoio sbagliato in cui sarebbe rimasta imprigionata in eterno. Aveva avuto paura, tanta paura, ma malgrado le lacrime che già pungevano gli occhi non si era arresa: memore della avventure di Alice, aveva proseguito per la sua strada ed era riuscita a raggiungere il suo Paese delle Meraviglie.
Appena entrata in soffitta, Helena aveva ridacchiato elettrizzata. Sin da quando Regina gliene aveva parlato, la bambina era stata avvinta dal desiderio di visitarla, incuriosita dai mille tesori dalla descrizione che la giovane ne aveva fatto. Un posto tutto per sé, in cui ritirarsi per dimenticare quando si soffre, aveva detto la Mills; ed era proprio vero, perché lì le stranezze e i dispiaceri del giorno precedente sembravano, se non spariti, almeno un po’ più distanti. Forse con lei la magia non funzionava del tutto perché il mondo segreto di Regina non tollerava essere diviso con qualcun altro – conoscendone la proprietaria, era un’eventualità del tutto plausibile; ma la cosa, in fin dei conti, non preoccupava Helena.
Andava bene così.
Quando si era risvegliata e aveva scoperto papà addormentato, la bambina aveva pensato che quella era la sua occasione: se l’intera casa tranne lei riposava, avrebbe potuto vivere un’avventura in santa pace, e in più il suo umore sarebbe migliorato. Ora l’avrebbe sperimentato sulla sua pelle, lontana da tutto e tutti: lontana dalla mamma all’improvviso tanto triste, lontana dai discorsi sempre più strani di papà, e lontana da Regina che non le confidava cos’avesse – perché qualcosa l’aveva: in quella casa qualcosa l’avevano tutti, per quanto fingessero di essere normali e star bene. Anche Killian, che prima le raccontava dell’India e dei pirati e che ora sembrava sempre tanto preoccupato, nascondeva qualcosa…
Sarebbero venuti a cercarla? Forse la mamma si sarebbe preoccupata. Sarebbe divenuta ancora più triste per colpa sua, avrebbe pianto di nuovo; e questo Helena non poteva proprio accettarlo.
Ma Helena non poteva tollerare neanche la situazione venutasi a creare, l’atmosfera pesante che gravava sul Castello e la strana sensazione di esserne, se non causa, comunque complice.
Che tutto fosse iniziato con la visita della signora strana che la mamma considerava pericolosa? Forse aveva gettato qualche incantesimo…
Poco male: qualsiasi maledizione sarebbe durata ancora poco.
Helena ne era sicura: se l’avessero ritrovata, i suoi genitori sarebbero stati di nuovo felici, Regina – finalmente! – di buon umore e tutti, tutti sereni. Sarebbero tornati a ridere assieme, e anche Regina si sarebbe unita a loro e avrebbe ricordato come si sorride; perché Regina sollevava appena gli angoli della bocca, ma Helena era certa che sapesse come si sorride, che dovesse solo ricordarlo, e lei l’avrebbe aiutata.
Avrebbe aiutato mamma a dimenticare le cose brutte e le persone che sembrano gentili e poi non lo sono, e papà a non sbagliare più, qualsiasi cosa avesse fatto un tempo. Gli avrebbe fatto capire che  lei e la mamma gli volevano bene, ma bene per davvero, e non sarebbero scomparse da un giorno all’altro come le paure che scompaiono all’alba con l’arrivo del sole.
Se il suo nome davvero significava “sole”, lei avrebbe brillato sempre per  chi amava.
Avrebbe aiutato tutti. Sarebbe divenuta l’eroina che sognava di essere.
E sarebbe iniziata una nuova giornata.
 
 
 
“Oh, simple thing,
where have you gone?
I'm getting old

and I need someone to rely on.”
 
 
 
Helena non se n’era andata.
Helena era lì, da qualche parte.
Era piccola e si era mossa di notte, vero, e lei temeva il buio, ma si trovava in un posto nuovo e pochi conoscevano bene quanto Belle l’intraprendenza della bambina: era come lei, sognava di vivere un’avventura, e non se ne sarebbe mai e poi mai lasciata sfuggire una. Per un motivo o l’altro durante i primi due giorni a Kensington era sempre stata controllata a vista; doveva aver sfruttato la prima occasione disponibile per esplorare indisturbata.
Era da una parte o dall’altra, ma c’era.
Su questo Belle non transigeva.
Se lo sentiva: glielo diceva il cuore, e lei gli aveva prestato ascolto sbagliando tante, tantissime volte, ma non questa. Regina non li aveva traditi: Helena non era stata rapita, portata via con l’inganno o simili, non era con chi si temeva fosse.
La loro bambina non era distante quartieri, non era sola e in lacrime, non stava soffrendo.
Helena c’era.
Helena stava bene.
Doveva allontanare i pensieri che le si insinuavano nella mente, acqua che erodeva le rocce della ragione. Era impossibile che Regina fosse riuscita, nell’arco delle poche ore in cui era comunque rimasta sotto sorveglianza, a consegnare la piccola ai galoppini della madre e rientrare come se nulla fosse successo. Gli uomini di Robert, che sempre vigilavano sulla casa, erano stati chiari: non c’era stato alcun movimento sospetto.
Anche se il tempo passava senza essere latore di novità, Belle non doveva permettere all’animo di perdersi nel mare della disillusione. Anche se non giungevano notizie, anche se ogni sforzo singolare o collettivo pareva vano, anche se la morsa allo stomaco diveniva sempre più stretta e l’ansia premeva in gola, non l’avrebbe fatta vincere.
Anche se si sentiva intontita, prigioniera di un incubo da cui non poteva scappare, non poteva lasciarsi sconfiggere così.
Non importava il panico che iniziava a macchiarle il sangue, i pensieri, le azioni; non importava quanto fosse spaventata; andava avanti allontanando i pensieri, ignorando, provando a ignorare, la trappola che si chiudeva sul suo cielo.
Helena non era stata portata via, Helena non era sgattaiolata via perdendosi: Helena c’era.
Questo poteva sforzarsi a comprenderlo anche Gold. Razionalmente la risposta pareva univoca; ma ecco, pareva, non era. C’erano tante, troppe possibilità che sarebbe stato sciocco non considerare in simile frangente.
I suoi bravi lo servivano lealmente e senza porre domande, svolgendo ogni lavoro sporco fosse loro richiesto e convincendo con le buone e le cattive a ripulire la memoria da eventuali ricordi sconvenienti. Tra Gold e quel gruppo c’era un rapporto di rispetto reciproco che non aveva bisogno di essere espresso; in un certo senso, si fidava di loro più che di ogni altro subalterno.
E se mi fossi sbagliato?
La teoria del delatore tornava a imporsi con forza. Se non era stata Regina – ma è stata lei, sono state lei e sua madre –, poteva essere stato Jones, forse anche la giovane Nolan, o chi per loro. L’istinto induce a fidarsi di chi si conosce, e la bambina voleva bene ai domestici: per loro non sarebbe risultato difficile convincerla a seguirli con una scusa, magari proprio quella di riaccompagnarla in camera, e condurla invece altrove…
Oppure poteva essere nel giusto Belle. Poteva non esistere alcun traditore.
Se la teoria fosse stata indice della deprecabile inclinazione della sua Sweetheart di confidare nelle persone sbagliate, o invece la verità, questo Gold non poteva saperlo.
Quel che sapeva era che sua figlia non si trovava, che nessuno l’aveva vista e che in nessun locale c’era traccia della sua presenza.
Quel che sapeva era che se non si fosse addormentato su quella maledetta poltrona, se fosse rimasto vigile e solerte come avrebbe dovuto, se fosse stato lui a proteggere il sonno della sua bambina e non il contrario, allora non si sarebbero trovati in quella situazione.
Allora Belle non avrebbe iniziato ormai a peregrinare di stanza in stanza con una luce sempre più spaventata negli occhi tanto chiari, a ripetere quasi a se stessa più che al prossimo, “Helena è qui, ti dico che è qui”.
Allora lui non avrebbe dato ordine di controllare sotto ogni finestra, non avrebbe comandato di tenervi lontana Belle per risparmiarle la vista del corpicino straziato che lui sapeva avrebbero ritrovato.
Aveva imparato a proprie spese quanto fosse fragile la vita dei bambini, quanto poco bastasse a spegnerla. Poteva cercare, dirsi che era stata rapita, mettere in fiamme l’Impero intero per riaverla, ma non poteva ignorare la voce incessante e beffarda che gli rammentava quanto la sua vita somigliasse a un cerchio e non a una retta, che gli ripeteva la sua condanna a ripetere i medesimi errori e quanto fosse vicino a rivivere la stessa drammatica esperienza di un tempo.
Anche Helena era vissuta appena il tempo di conoscere il mondo, prima che il mondo la portasse via da lui? 1 Ci sarebbe stata una seconda piccola tomba, un secondo nuovo antico dolore, un’anima straziata una seconda volta?
Risparmialo a Belle.
Invocava un Dio in cui non credeva da ventisei anni.
Non farle vivere questo. Non costringerla a sopportare questo, ti prego. Ha già sofferto abbastanza, non condannarla anche a questo.
Per favore, non a questo.
Era così piccina, Helena. Così piccina e dolce, così somigliante a sua madre, e con un’intera vita dinanzi a sé. Non poteva essere finita così. Non poteva, non doveva. Non era giusto, non aveva senso. Sarebbe potuto mor – sparire, si correggeva, sparire, ma sapeva fossero oramai sinonimi – lui al suo posto. Lui era vecchio, aveva avuto tanto dalla vita, la sua ora poteva giungere…
Aveva già proposto un simile scambio.
Nessuno aveva risposto.
Le ricerche nelle stanze della servitù non avevano dato esito. Come quelle nella scuderia, nel casotto del giardiniere e in ogni, ogni altro locale perlustrato.
- Cercate ancora, – aveva sibilato – Cercate meglio. Non vi state impegnando abbastanza. Ha quattro anni, come può mettere nel sacco un gruppo di adulti?
Può, se aiutata.
Può, se c’è chi l’ha attirata, forte di una fiducia ancora una volta mal riposta.
Regina affiancava Belle e gli altri nelle ricerche, ma era inutile. Era inutile esibisse quell’espressione preoccupata e affranta: i fatti erano più chiari di mille dichiarazioni, i fatti parlavano da sé. I fatti dicevano che, nel momento in cui lui le aveva concesso il beneficio del dubbio, lei aveva risposto con un tradimento persino più grave di quello già perpetrato.
Potrebbe essere tua sorella, le aveva urlato contro. Non se ne pentiva. Che sapesse, per quanto se ne curava al momento. Che si pentisse – sempre che sua madre non le avesse già strappato il cuore, non l’avesse già resa simile a lei nell’arte meravigliosa di fingere di provare qualcosa per qualcuno.
Se all’esito dell’ennesimo controllo non ci fossero state novità, avrebbe agito. Sarebbe ricorso tanto alle vie lecite quanto a quelle illecite: Belgravia avrebbe assaggiato la sua furia.
In quel preciso istante Belle gli passò davanti urtando nelle cose. Dovette chiamarla più volte perché si fermasse.
Gold deglutì notando quanto cereo fosse il suo incarnato, e di come profonde occhiaie decorassero malamente il volto tirato. Non riuscì a non andarle incontro.
Lei non si ritrasse.
- Novità? – gli chiese.
Avrebbe preferito non udire il tono implorante.
Avrebbe preferito poter tacere.
- Non ancora, – dovette ammettere, chinando il capo dinanzi all’espressione della donna – Ma sto…
- La troveremo. Sì, la troveremo. È qui. Dove altro potrebbe essere? – fugace com’era apparso, il timore si dileguò dal volto di Belle. Scosse il capo con stizza, come per scacciare i dubbi – Le piace giocare, e stavolta sta giocando troppo, e male, ma sta giocando. Sta giocando qui.
Gold non ebbe il cuore di smentirla. In segreto, invidiava la barriera così diversa e così simile alla sua che Belle si era costruita. O forse non era nemmeno una barriera: era semplicemente Belle, con la sua forza e la sua capacità di nascondere i tremori dietro una forza d’animo mostruosa.
Belle con la fede che riponeva sempre nel prossimo, anche in quello sbagliato, e con il suo legame con Helena: perché le sensazioni di una madre dovevano pur significare qualcosa, non poteva essere un caso, non poteva essere illusione.
O almeno, voleva credere non lo fossero.
- Da quanto non riposi? – sviò l’attenzione.
L’unica strategia dei codardi.
- Non ho dormito molto in queste ultime notti, – Belle sospirò – Poco male, mi rifarò dopo. Appena troveremo Helena andrò a letto e dormirò per almeno…
S’interruppe di colpo. Un momento era inquieta, ma in sé; quello seguente sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca.
Tutto a un tratto, il pavimento di vetro che Belle aveva costruito si era frantumato sotto i suoi piedi e lei era caduta. Il sangue le pulsava alla testa, ma le membra erano insensibili.
- Non hai risposto, – le tremarono le labbra – Non hai risposto. Robert, perché non hai risposto? Perché?
Non posso risponderti, su questo non posso mentirti.
Perdonami per le bugie, perdonami per la verità.
- Va’ a riposare, Belle, o ti sentirai male.
- Non posso. Non posso riposare senza sapere dov’è Helena, come sta. Devo sapere.
- Così non sarai d’alcun aiuto. Anzi, peggiorerai la situazione.
- Ma non posso. Capisci, non ci riesco. Devo sapere che sta bene prima di fare qualsiasi cosa, di andare da qualsiasi parte. Non ci riuscirei – non potrei. Tu... – esitò, terrorizzata dalla sola domanda – Tu come hai fatto? Come ci sei riuscito?
Gold chinò il capo.
Non pormi domande la cui risposta conosceremo entrambi.
- Va’ in camera mia. Lì nessuno ti disturberà. Un’ora e tornerai a cercare Helena, va bene? – Belle scosse il capo con decisione – Mezz’ora, allora. Mezz’ora. Non ti lascerò riposare un minuto in più, – promise, per quanto potesse valere una promessa in quel momento.
La donna sospirò sconfitta. Gold fece per guidarla verso la stanza, quando sentì la mano di Belle cercare la sua. L’afferrò d’istinto, rimproverandosi ma non pentendosi.
- Non posso stare in camera tua. È troppo… No. Camera tua o camera mia, no.
- Una stanza per gli ospiti allora. Scegli tu quale.
- No, – Belle lo guardò dritto in volto. Aveva gli occhi lucidi, ma non piangeva – Anche se abbiamo litigato, per favore resta con me. Oggi non lasciarmi.
Gold deglutì, il cuore stretto in una morsa di ferro.
- Oh, Sweetheart, – quasi non si rese conto di aver usato il vezzeggiativo – Io non potrei mai lasciarti. Mai.
La pelle di Belle era gelida mentre si recavano in quella che sarebbe dovuta essere la loro camera, mentre serrava la porta, mentre lei si stendeva sul letto.
Lui non lasciò mai quella mano.
Si sedette al suo fianco sul materasso. Era così bella, nonostante il volto terreo, le occhiaie evidenti e i capelli scarmigliati, che fu impossibile non carezzarle il volto.
- Perdonami, – disse, resosi conto del gesto – Io non intendevo…
- Abbracciami, – la richiesta arrivò inattesa e meravigliosa – Abbracciami.
Inatteso, meraviglioso e impossibile.
Ma come avrebbe potuto non obbedirle?
- Io so che lei c’è. So che sta bene. È triste, ma sta bene. È così.
L’uomo non rispose. Per lui non c’erano speranze, solo consapevolezze, e questo faceva più male.
La consapevolezza di aver sbagliato.
La consapevolezza di aver giocato a dadi col destino il suo lieto fine.
La consapevolezza di aver perso.
E ci sono perdite che non possono essere compensate.
La strinse a sé con cautela.
- Non ci sono mai riuscito, – confessò rispondendo alla domanda di poco tempo prima – Non si dimentica. Mai.
Belle tacque.
Non dormirono: rimasero con gli occhi chiusi, ad ascoltare i loro respiri
 
 
 
“Is this the place we used to love?
Is this the place

that I've been dreaming of?”
 
 
 
In soffitta iniziava a far caldo, quel caldo appiccicoso che toglieva il respiro e lei non sopportava. Avrebbe dato metà dei suoi nuovi giochi per un sorso d’acqua.
E anche per avere qualcuno con cui dividere i tesori della stanza.
Tristezza o meno, decretò Helena, la prossima volta ci sarebbe salita con qualcuno. Magari proprio con Regina: era stata lei a parlargliene, perciò aveva tutto il diritto di tornarci. Poi ci avrebbe portato la mamma, e di sicuro papà, che come minimo sarebbe impazzito alla vista di tutte quelle cose belle e strane. Chissà a cos’avrebbero giocato tutti insieme. A mosca cieca o nascondino? O piuttosto si sarebbero travestiti coi vecchi mantelli che aveva trovato in una piccola cassapanca?
Erano abiti assai strani, a dire il vero. Non somigliavano ai completi di papà, né ai bei vestiti che lui le regalava, quanto invece a ciò che portavano Henry e gli altri bambini di Whitechapel: avevano colori spenti, toppe e cuciture a vista e sembravano decisamente vecchi e usati. Chissà a chi appartenevano… Quando avrebbe rivisto i suoi genitori, l’avrebbe chiesto; nel frattempo, nulla le vietava di giocarci da sola.
Un rumore improvviso la fece spaventare. Che l’avessero già trovata? Se non fossero stati mamma o papà, aveva deciso, non si sarebbe fatta prendere. Doveva nascondersi… Sì, ma dove?
La risposta era sotto i suoi occhi: il baule dei vestiti era grande abbastanza da contenerla. Lo scavalcò subito e si rannicchiò per entrarci.
Nell’istante stesso in cui richiuse il coperchio sopra di sé, qualcuno entrò.
- Ragazzina? – fece una voce femminile che Helena ricondusse a Emma – Ragazzina, sei qui?
Aveva fatto bene a nascondersi! Per quanto la Nolan le stesse simpatica, al momento Helena non aveva alcuna voglia di giocarci assieme. Ma se c’era lei, allora sicuramente c’era anche…
- Love, vieni fuori, su! – fece eco Killian – Questo gioco è durato troppo, e tuo padre vuole la mia testa. Senza testa come potrò raccontarti ancora le storie dei pirati? – la domanda non trovò risposta – Dobbiamo controllare ogni angolo. Se non la bambina non è qui, allora forse il Coccodrillo
Coccodrillo?, si chiese la bimba. Quale coccodrillo? Si nascondeva anche un coccodrillo nel Castello?
- Non dirlo, – ringhiò la domestica – Non dirlo nemmeno per scherzo. Se Regina avesse davvero fatto qualcosa di simile, non so cosa le farei. Un conto è tradire Gold, un altro un’innocente. Già ciò che ha fatto a Belle…
Helena poggiò meglio l’orecchio al baule. Non riusciva a sentire la replica dell’uomo: stava parlando, ma non si capiva bene. E cos’aveva fatto Regina alla mamma?
Per qualche minuto regnò il silenzio, rotto solo dal rumore di passi e di oggetti spostati; poi si udì la domestica dichiarare seccamente: – No. Dobbiamo trovarla, – il tono rispecchiava la risolutezza della giovane.
Ma se all’improvviso poteva distinguere tanto nettamente le parole, si rese conto Helena, allora la bionda era molto, molto vicina a lei: tanto vicina da poter aprire il baule da un momento all’altro!
No, non doveva finire così, non doveva essere Emma o chi per lei a trovarla! Ma cosa poteva fare per fuggire?
Niente: era in trappola, e quel che era peggio si era ficcata lei stessa in quella brutta situazione!
Strinse i denti, preparandosi a vedere i volti degli amici di mamma; trattenne a stento un profondo sospiro di sollievo quando udì la ragazza esclamare: – Qui non c’è nessuno. Cerchiamola altrove.
 
 
 
“Oh, simple thing,
where have you gone?
I'm getting tired

and I need something to rely on.”
 
 
 
Dove sei finita, stupida ragazzina?
Regina non si dava pace. Da quando le era stata tanto bruscamente comunicata la notizia, il pensiero di Helena non l’aveva mai abbandonata: com’era possibile fosse sparita così, sfuggendo al controllo di tanti adulti, lei per prima?
Ricordava benissimo di essersi addormentata al suo fianco: la piccola l’aveva consolata quando le immagini di sua madre, di Daniel, di Mal e di Belle si erano imposte in spregio a ogni sforzo per allontanarle ed erano tornate a farle male come se le stessero strappando la pelle; ricordava anche che la bambina aveva mugolato una canzoncina carezzandole la schiena nel tentativo goffo e adorabile di rincuorarla. Aveva avuto successo? Regina non si era soffermata a riflettere sul punto, ma la risposta era affermativa – e non tanto per la questione pratica del sonno senza sogni in cui era finita col precipitare. I gesti ingenui e premurosi di Helena erano stati in grado di trasmetterle più vicinanza di quanto avessero potuto fare mille e mille battaglie combattute in suo nome.
Così piccola, e già così potente.
“Potrebbe essere tua sorella.”
Non era stata in grado di reagire.
Parole come spade che cozzavano, che dilaniavano carne e certezze.
Era una metafora, ovviamente. Lo zio si riferiva alla differenza d’età, all’attaccamento viscerale che Helena aveva incomprensibilmente sviluppato nei suoi confronti e che la induceva a seguirla ovunque, persino in camera da letto. Parlava della situazione venutasi a creare nelle ventiquattr’ore precedenti.
Non di un vero legame di sangue.
Regina era figlia del conte Henry Mills, non di un imprenditore scozzese.
Era Regina Mills, non Gold.
Maman non faceva altro che ricordarle i suoi illustri avi, la storia del sangue che le scorreva nelle vene, il lustro della famiglia e la necessità di tenerne alto il nome.
La casata Mills, non Gold.
Suo padre era Henry Mills, che le portava i dolci di nascosto, che sedeva al suo capezzale e con cui aveva piantato nel Leicestershire l’albero di melo divenuto poi il traguardo delle corse con Daniel e Ronzinante.
Papà Henry.
Lo zio le voleva bene, certo. La considerava – l’aveva considerata – come una figlia, e l’aveva anche dimostrato; ma non era sua figlia. Malgrado lui e Maman fossero stati amanti, non poteva essere.
E perché mai?
Erano amanti cinque anni fa, sarebbero potuti esserlo anche quindici.
Tua madre non si farebbe frenare dalla presenza di un marito.
Semplicemente, come non poteva rinvenire prove in un senso, Regina non poteva – né voleva – rinvenirle nell’altro; per questo preferiva credere che lo zio avesse parlato sull’onda delle emozioni piuttosto che considerare seriamente l’altra opzione.
Anche solo riflettervi, soffermarvisi un istante più del dovuto, avrebbe rotto ogni residuo argine della sua vita, portandola a urlare.
Chi sono io?
Era anche possibile che lo zio avesse premeditato la frase. Che gliel’avesse rivolta per smuoverle la coscienza e farla pentire dei gesti eventualmente compiuti: concorrere al rapimento della propria sorella – sorellastra, la corresse una voce malignamente somigliante a quella di Cora – è comunque più grave che perpetrare la stessa malefatta ai danni di un’estranea.
Ma se Gold avesse agito in tal senso, avrebbe tralasciato un aspetto: l’educazione impartita dalla Contessa.
Era una sola la decisione di cui Regina si pentiva, una decisione che pure coinvolgeva i medesimi personaggi.
Per non parlare delle pecche insite nel ragionamento: se Regina avesse avuto dei contatti con la madre tali da permetterle di consegnare la bambina, avrebbe potuto comunicare ancora con lei e riferire i dubbi instillati, cosa che certo non avrebbe addolcito Cora.
E se Regina avesse portato via la ragazzina, se ne sarebbe andata lei stessa. A che pro restare e offrirsi come ostaggio alla mercé della rabbia dell’uomo? Per sviare i sospetti? Sarebbe stata una scelta alquanto masochista.
No, le parole dello zio erano state pronunciate d’impeto, e lei era una stupida a lasciarsene turbare tanto. Avrebbe fatto meglio a concentrare gli sforzi nella ricerca di Helena dimostrando così anche all’uomo la propria onestà. Belle le credeva: non gliel’aveva detto esplicitamente, ma la sua reazione, il fatto che mai l’avesse esclusa dalle ricerche e il giuramento del giorno precedente valevano più di ogni altra cosa.
Dovevano solo sbrigarsi a trovare la bambina. L’adolescente non credeva che lo zio le avrebbe davvero fatto del male, ma ci sarebbero comunque state delle conseguenze: conseguenze per Helena, troppo piccola per star sola tanto tempo, e per sé.
La notte precedente avrebbe dovuto prestarle maggiore attenzione, anziché concentrarsi sui propri fantasmi. Anche la bambina aveva avuto una giornata difficile: la lite tra i genitori l’aveva destabilizzata non poco, spingendola ad attribuirsi colpe che non aveva; un atteggiamento che Regina conosceva bene, avendolo più volte assunto durante l’infanzia. Se non altro, almeno aveva provato a distrarre la piccola, che non si era ritrovata costretta a rintanarsi in soffitta come lei…
La soffitta.
Un pensiero fu sufficiente a destare un campanello d’allarme.
La soffitta.
Di sicuro era già stata ispezionata: l’intera casa era stata messa a soqquadro senza esito, e certo quel locale non era sfuggito allo zelo collettivo.
Ma se invece…?
L’intuizione che s’imponeva a dispetto della logica era un’eredità trasmessale da Cora e di cui aveva imparato a far tesoro. Quando si destava, il suo sesto senso si rivelava nel giusto; e se ora, memore della conversazione con Helena, le urlava di correre in soffitta, di controllare ancora, di controllare meglio il posto segreto che solo loro due conoscevano, lei doveva obbedire.
E così avrebbe fatto.
 
 
 
Per fortuna Emma e Killian se n’erano andati: nel baule si soffocava e a un tratto la tentazione di lasciar perdere tutto e uscire era divenuta fortissima. Appena i due si erano allontanati, Helena era balzata fuori dal cassone con l’intenzione di non rimettervi piede mai più.
La soffitta iniziava ad annoiarla, e provava sempre più nostalgia per i piani inferiori e i suoi vivaci abitanti. Chissà cosa stavano facendo mamma e papà: si erano accorti della sua assenza, o i servi non sarebbero venuti a cercata. Si stavano preoccupando, o continuavano a urlarsi contro?
Malgrado la risoluzione presa, in realtà Helena desiderava tornare dai suoi genitori. Le mancava stare con loro, le mancava stare al sicuro.
La soffitta faceva sì parte del Castello che da due giorni a quella parte stava imparando a conoscere, ma era troppo, troppo distante dai luoghi in cui era stata con mamma e papà. Voleva stare con loro, sentirsi protetta e amata come quando era con sua madre o come la notte precedente tra le braccia di suo padre. Voleva tornare da loro; voleva tornare a casa.
Si pentiva della scelta presa ma, piccola testarda, era al contempo troppo orgogliosa per ritrattare; e questo, unito alla sete, al caldo e alla fame, la confondeva e irritava non poco.
Altri passi. No, stavolta non si sarebbe nascosta, nossignore! Al più avrebbe atteso e solo all’ultimo valutato…
- Helena? – quando la porta si aprì, la prima cosa che vide furono gli occhi scuri di Regina.
- Regina! – dimentica di tutto, in un attimo le fu addosso e le abbracciò le gambe con tanta forza da farla quasi incespicare – Mi sei mancata tanto, Regina, questo posto è mica bello come dicevi tu! Ci sono tante cose, ma fa caldo, e non c’è nessuno!
L’adolescente non ricambiò la stretta col medesimo trasporto.
- Cosa diamine ti è venuto in mente? – a costo di apparire crudele, non si trattenne dallo sbraitare – Sparire così, all’improvviso! Ti rendi conto di ciò che hai fatto? Sei stupida, o cosa?
La bimba la fissò con un’espressione di tale smarrimento e rammarico che la nobile si maledisse per la propria intemperanza. Quasi inconsciamente, le carezzò il capo.
- Perché sei venuta quassù senza dirlo?
La vergogna montò imperiosa in Helena: allora davvero in casa tutti si stavano preoccupando per lei? Tutti la stavano cercando? Mamma e papà non le avrebbe più voluto bene! Come si poteva voler bene a una bambina stupida e cattiva come lei?
- Io volevo solo stare nel posto nascosto che dicevi tu! – singhiozzò, incapace di frenarsi – Dove nessuno ti fa male, dove non ci sono cose brutte e diventi felice! Come mi hai detto tu, io volevo stare dove mi hai detto tu!
Splendido.
Lo zio sarà contentissimo di questo, davvero estasiato.
- Io ti ho detto di cercare un posto per te, non di nasconderti senza dirlo a nessuno, – la nobile dovette respirare a fondo per non urlare – Devi imparare a non lasciarti influenz… Condiz… Insomma, imparare a non essere triste quando non hai colpe. Perché non ne hai, e devi smetterla di credere il contrario. Ieri i tuoi litigavano per altri motivi, non per te, e tu, io, nessuno può controllare tutto ciò che lo circonda, – Regina si chiese chi le avesse insegnato tutte le belle teorie che stava esponendo. Era così brava a annunciarle, e così incapace di applicarle alla propria vita. Come pretendeva ci riuscisse una bimbetta? Tuttavia non demorse. In fondo, esiste davvero un’età in cui si è troppo piccoli per capire? – Il posto segreto di cui ti parlavo non deve essere per forza una stanza. O almeno, se vuoi che lo sia, devi avvisare qualcuno quando decidi di andarci.
- Ma mamma e papà sono molto arrabbiati con me? – la bambina esalò ansiosa, aggrappandosi con una manina alla veste della ragazza – Hanno detto che non mi vogliono più?
“Potrebbe essere tua sorella.”
- Helena, – qualunque fosse la verità, Regina sospirò – Tu sei fortunata. Hai avuto tuo padre, non mia madre.
 
 
 
“And if you have a minute
why don't we go?”


 
 
Quando aveva rivisto la figlia, Belle era scoppiata in un pianto che trattenere sarebbe stato vano. Tutte le lacrime fino ad allora ingoiate, tutta la cieca determinazione che l’aveva mossa durante le ricerche era svanita nell’istante stesso in cui aveva visto comparire Helena sulla porta.
- Dov’eri? – le era corsa incontro e l’aveva stretta fino a farle male, incurante del mondo intero – Non farlo più. Non farlo mai più.
- Helena ha qualcosa da dirvi, – aveva affermato Regina, fino a quel momento passata inosservata.
La piccola teneva gli occhi bassi, e li aveva mantenuti anche mentre mormorava timida: – Non volevo che vi spaventavate. Non dovevate piangere. Scusatemi.
- Ci hai fatti preoccupare molto, signorina. Non va bene, – Gold aveva cercato di mostrarsi severo, ma il tentativo era fallito miseramente quando aveva riabbracciato la figlia, quando lei l’aveva chiamato “papà”.
Di lì a poco, Helena aveva raccontato ogni cosa: la tristezza per gli eventi del giorno precedente, il desiderio di essere felice e l’idea che aveva avuto. Aveva citato anche il baule in cui si era nascosta. Appena udito di quella mantella e quegli abiti, Belle si era voltata di scatto verso Gold, che era impallidito all’istante.
Come se Neal avesse protetto la sua sorellina.
Belle avrebbe voluto ringraziare Regina, ma dopo aver consegnato la bambina la giovane si era dileguata nella sua stanza. Aveva pensato di raggiungerla lì e parlarle, ma Helena l’aveva tirata per la veste.
- Sono stanca, mamma, – l’aveva implorata, e Belle non aveva potuto far altro che restare con la figlia e riposarsi con lei.
- Non è stato bello, tesoro, – l’ammonì ancora, stendendosi al suo fianco – Abbiamo temuto ti avessero portata via, che fossi in pericolo e non potessimo aiutarti. È stato brutto.
- Anche papà aveva paura? – chiese la piccola.
- Certo. Papà non vuole perderti. Era terrorizzato dal solo pensiero… Ti ama tanto quanto ti amo io, lo sai.
- E tu?
- E io cosa?
- Tu ami papà? – aveva posto la stessa domanda al padre, ma era successo prima della lite…
Belle deglutì, ma fu sincera.
- Sì. Lo amo. Quando ho capito com’è veramente me ne sono innamorata, e continuo ad amarlo, – anche se a volte fa così male, non aggiunse.
Ma il filo logoro e scolorito tra noi resiste.
Sentì Helena rilassarsi, come rincuorata.
- Tesoro, senti, – si morse le labbra. Non sapeva se stesse facendo bene ad annunciarlo, indecisa com’era – Se eventualmente ci fermassimo qui qualche giorno in più… Ti piacerebbe?
La bambina annuì.
- Sì, basta che andiamo a prendere Bae. Mi piace stare con te e papà.
Malgrado tutto Belle non poté fare a meno di sorridere.
La bambina si addormentò quasi all’istante, e la donna avrebbe voluto fare lo stesso; ma, malgrado gli sforzi, la mente le tornava ai momenti che aveva trascorso abbracciata a un Robert così timido ed esitante, ma sincero.
Quanto avrebbe voluto lo fosse sempre.
Quanto avrebbe voluto lasciasse emergere sempre l’uomo, scacciando l’abitudine delle bestia assetata di potere, complotti e bugie.
Tu sei qualcuno per cui vale la pena combattere, gli diceva spesso un tempo.
E lo sei sempre, lo sei ancora, aggiunse.
Ma devi combattere con me.
L’amore non è un monologo, da una parte sola non basta. Siamo in due in questa battaglia, e se ancora voglio lottare.

Vuoi ancora lottare?

Sì.
Fu il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi.
Fu il suo primo pensiero al risveglio.
Il sole oramai tramontava. Helena ancora riposava; si voltò piano supina per non svegliarla.
Possibile che il tempo passasse, e lui fosse sempre al centro dei suoi pensieri? Possibile che fosse sempre troppo presto o troppo tardi per loro, che arrivassero fuori tempo per tutto?
Fissava il soffitto come se potesse fornirle la risposta che già aveva.
Erano arrivati a odiarsi ben più di una volta, ed erano sempre tornati ad amarsi.
Forse era meglio così: forse era meglio urlarsi le cose, avere rimorsi e non rimpianti. Era più pericoloso restare indifferenti, non parlare.
Proprio questo li aveva distrutti.
Più di una volta.
Ma se tornava indietro, non era per debolezza, paura, bisogno.
Tornava perché ogni volta succedeva qualcosa che la faceva capire quanto profondo, quanto vero fosse il loro amore.
Tornava perché qualcosa in lei non aveva paura di affrontare il suo amore dopo aver sofferto tanto in suo nome.
Tornava perché l’amava, e lui meritava una possibilità.
Una possibilità che sarebbe stata definitiva.
Svegliò Helena, giocò un po’ con lei. Scesero in cucina, cenarono con gli altri. L’atmosfera era più distesa, almeno in apparenza.
- Devo andare a parlare con una persona, e non sa quanto impiegherò, – a un certo punto disse alla bambina – Nel frattempo farai la brava? Obbedirai a Mary e agli altri, anche se saranno loro a metterti a letto?
La piccola promise solennemente. Non voleva più rattristare nessuno, ora che era stata perdonata.
Belle la baciò e uscì dalla cucina. C’era un solo posto in cui avrebbe trovato di sicuro Robert: lo studio. Fu lì che senza ulteriori indugi, mettendo a tacere ciò che non era coraggio, si diresse.
Bussò piano alla porta. Quando udì l’invito, si rese conto di aver trattenuto il fiato senza accorgersene.
Scorgendola, Gold restò sorpreso. Non si aspettava di rivedere Belle: era certo che avrebbe mandato un messo per chiedere una carrozza e tornare nell’East End, allontanando per sempre l’ombra dei momenti condivisi appena poco prima.
Ma raramente le sue previsioni su Belle si rivelavano corrette.
- Belle, – si alzò – È successo qualcosa? Posso aiutarti?
- No, no, – lo tranquillizzò – Helena sta giocando con gli altri, ma a breve la riporteremo a letto. Sai, malgrado abbia dormito è ancora stanchissima.
- Ha vissuto una giornata intensa. Solo il riposo potrà ristorarla; lasciala a letto quanto desidera.
- Già, – la donna annuì più volte – Sono d’accordo.
Il silenzio premeva contro le loro orecchie, una coltre che soffocava anziché proteggere.
Chiacchiere fatue, risposte cortesi, utili solo a riempire i vuoti di un silenzio incolmabile.
Erano condannati a comportarsi così in eterno?
La prospettiva l’angosciava. No, peggio: la faceva infuriare. Mai, nemmeno quando a malapena si conoscevano erano ricorsi a convenevoli e cerimonie: erano sempre stati espliciti nel comunicarsi simpatie e antipatie, diretti, forse anche fin troppo franchi, ma mai ipocriti. E Belle non intendeva divenirlo adesso, iniziare adesso a vivere la mezza vita dei vigliacchi.
Robert avrebbe saputo la verità. L’avrebbe conosciuta ora, lì e subito.
- Grazie per oggi, – esordì – Per tutto ciò che hai fatto per Helena e… Per me.
 Gold sdegnò i ringraziamenti con un cenno.
- Non avrei potuto fare altrimenti. Helena era in casa mia, sotto la mia responsabilità e, cosa ben più importante, è nostra figlia. Sono suo padre ed era mio compito far attenzione. Se le fosse accaduto qualcosa, – la voce gli si abbassò di un tono, come se il pensiero stesso gli impedisse di respirare – Non me lo sarei mai perdonato.
Belle lo sapeva.
Versava ancora lacrime per un figlio la cui morte si era imputato.
- Ti ha chiamato papà, – non riuscì a non sorridere – So che sembra banale dirlo, ma, sai, sono così contenta per te. Significa così tanto!
- Significa tutto. Significa tutto, per me.
Come sarebbero potuti essere quegli anni se non ci fossero state la menzogna, le liti, la paura? Magari la prima parola di Helena sarebbe potuta essere proprio “papà”.
La prima parola della loro nuova vita.
Belle non aggiunse altro. Non ve n’era bisogno.
Avanti, però, ora parla. Sei qui per un motivo preciso.
È forse una delle conversazioni più importanti che avrete.
Prese un profondo respiro.
- Robert, – disse – Io…
La sua attenzione fu catturata da un dettaglio ben protetto in una vetrinetta. Improvvisamente dimentica del resto, si avvicinò al mobile con un’espressione di meraviglia dipinta sul volto. Gold la seguì, intuendo all’istante cos’avesse scorto.
Le mani di Belle aprirono rapide l’anta. Quasi non credeva ai propri occhi: non le pareva vero che, tra vasellame d’argento e cristalli pregiati, il posto d’onore fosse riservato a un oggettino così banale, così umile eppure così speciale nell’unicità che lo segnava. Lo strinse tra dita tremanti mentre sussurrava emozionata: – Tu… Ce l’hai ancora… La mia tazza sbeccata.
Gold si ritrovò suo malgrado a sorridere dinanzi allo stupore della donna. Com’era ingenua, la sua Sweetheart. Credeva davvero avesse gettato il primo dono che gli avesse inconsciamente fatto? Il frammento mancante non era mai stato trovato, ma non era andato perduto.
Era finito nel suo cuore.
Era lei il frammento mancante, era sempre stata lei.
- Ci sono molte, moltissime cose in questa stanza, – confessò guardandola negli occhi, senza temere che gli frugasse dentro e comprendesse la verità – Ma, tra tutte, questa è l’unica cui tengo davvero.
Belle percorreva i bordi frastagliati della porcellana, la stringeva a sé e la rimirava quasi incredula. La loro tazza. Il segreto che non aveva rivelato a nessuno. Ricordava così bene l’origine della reliquia: il tetro umorismo del suo nuovo, superbo padrone, la paura che fosse già esausto della sua indisciplina, la certezza che stesse per licenziarla… E invece, infine, la sua sorprendente reazione.
Ma era stata solo la prima di una lunga serie di sorprese, quella.
E anche se le avevano lasciato una scheggia di vetro nel cuore, lei le avrebbe rivissute tutte, una a una.
- L’ho portata con me a New York. Non sopportavo di starle lontano. Era l’unica prova della tua esistenza, quando… – non riuscì a concludere la frase, ma Belle capì all’istante a cosa si riferisse.
Quanti mesi siamo stati vicini, quante possibilità di tornare abbiamo sprecato?
- Grazie, – gli risparmiò – Davvero, Robert. Grazie.
- È solo una tazza, – la complicità che unì i loro sguardi riscaldò l’animo di entrambi – Prendersene cura non è complicato. Sei stata tu ad avere il compito più difficile… E io non ci sono stato.
Ma ora ci sei.
Forse non era quello il posto adatto. Forse ne esisteva un altro in cui sarebbero potuti andare, un posto che fino all’ultimo era stato teatro di mille eventi per loro.
Il posto in cui lei non aveva nemmeno avuto la forza di rientrare senza di lui.
- Mi accompagni in una stanza? – gli propose.
Gold sorrise appena.
- Ovunque.
 
 
 
“Talk about it
somewhere only we know?”
 
 
 
Da quando era tornato a Londra, Robert Gold non aveva rimesso piede in biblioteca.
Aveva ordinato che la stanza fosse ripulita e ordinata, che fosse mantenuta in tale stato, ma lui mai, neanche per errore, vi era entrato.
Come avrebbe potuto, se quello era uno dei posti che più di ogni altro sapevano di lei?
Aveva regalato la biblioteca a una camerierina impudente che aveva fatto emergere in lui un barlume di umanità per la prima volta dopo decenni. In un giorno Belle si era macchiata di più infrazioni di quante ne avessero commesse altri in anni di servizio, e lui non solo non l’aveva cacciata: l’aveva addirittura premiata. Nei giorni immediatamente seguenti si era interrogato su quella mossa insensata, e forse una spiegazione l’aveva trovata subito.
Il difficile era stato – era – accettarla.
In biblioteca l’aveva scorta più volte. Prima di sfuggita, senza perdere occasione di ironizzare con arroganza; poi trattenendosi ogni volta un istante più della precedente, imbattendosi sempre in un nuovo particolare che iniziava ad amare senza osare dirlo.
Il colore che il coinvolgimento donava alle sue guance, la scintilla che le accendeva le iridi di nontiscordardimé, le smorfie di partecipazione alle vicende dei suoi personaggi preferiti.
Guardarla gli faceva venir voglia di sorridere senza motivo.
Eppure non si sentiva stupido.
In biblioteca era stata sua per l’ultima volta.
Avevano litigato, litigato furiosamente per la sua irrazionale gelosia; e il modo in cui lei aveva rivendicato la sua indipendenza, in cui gli aveva tenuto testa senza permettergli d’intimidirla aveva agitato in lui qualcosa di segreto e profondo. Sentirla sciogliersi al calore del suo tocco, del suo stesso desiderio, gliel’aveva fatta volere con una furia arcana e potentissima che non aveva mai saputo dimenticare.
La biblioteca era un posto pericoloso. Faceva male. Rendeva ancora più profondi i morsi della codardia che aveva vinto quando era stato ricambiato dall’unica persona che avesse davvero amato, quando aveva avuto un futuro e vi aveva rinunciato per paura di essere felice.
L’aveva cacciata per non soffrire, ma non aveva forse condannato entrambi all’infelicità?
Lo sguardo di Belle scivolava lungo le pareti foderate di libri, accarezzava le fila di volumi, si soffermava appena, rideva. Possibile non esistesse un modo per fermare davvero il tempo? Per conservare gli attimi e donare felicità eterna alle persone? Se avesse potuto, Gold avrebbe vissuto in eterno quel momento in quella sala impregnata dall’odore di carta e tempo, con Belle dagli occhi screziati di una gioia così intensa che lui avrebbe voluto poter preservare dal buio di un mondo che mai più, mai più avrebbe dovuto offuscare la luce della sua stella.
Belle si era innamorata della biblioteca dalla prima volta che vi era entrata. Quel posto era – per utilizzare parole fin troppo ricorrenti quel giorno – il suo rifugio: il suo nascondiglio, forse non troppo imprevedibile per chiunque la conoscesse, forse non segreto, ma suo. Si sentiva così a suo agio tra scaffali colmi di volumi preziosi, di capolavori in grado di racchiudere mille epoche e mille vite, che mai avrebbe voluto abbandonarli. Lì era protetta, lì era al sicuro: lì era tra amici che mai le avrebbero voltato le spalle, silenziosi compagni che l’attendevano quieti e le offrivano il conforto della parola scritta, la consolazione della frase giusta al momento giusto.
Quando era arrivata a Kensington ignorava l’esistenza di un simile locale; ma una volta mostratole, era impazzita di gioia. Robert conosceva la sua passione per la lettura: alle volte l’aveva minacciata per la sua distrazione, ma ciononostante non gliel’aveva mai vietata.
Modera il tuo entusiasmo, per te è solo una stanza in più da pulire, l’aveva redarguita quel giorno così lontano; ma era stato chiaro come il sole che quella non era l’ennesima incombenza, ma un dono.
Solo il primo dei tanti di cui gli sarebbe sempre stata grata.
- È proprio come la ricordavo, – passò le dita sui dorsi irrigiditi dei tomi rimasti chiusi troppo a lungo – Anzi, sai, persino più bella. Perché finalmente è di nuovo vera, è di nuovo reale. Non sto sognando. Sono di nuovo qui.
- Di nuovo qui, e di nuovo ovunque. Sai cosa dice un mio conoscente? 2 – Belle scosse il capo – Possiamo essere seduti in biblioteca ed essere allo stesso tempo in ogni angolo della terra.
- Già, – Belle concordò – Anche in un cantuccio, con un libro tra le mani non ci sono confini. Si è liberi di volare ovunque con la fantasia. Anche se, – lo guardò negli occhi – Alle volte ciò che si desidera non è perdersi, ma ritrovarsi. Stare in un posto assieme a una persona. Perché quando c’è lei, il mondo potrebbe anche sparire e non farebbe alcuna differenza. Quella persona ci renderebbe comunque completi. Integri.
La voce di Belle, così piena di calore, annullò ogni pensiero. Aveva il sapore di benedizione.
A Gold non sfuggirono passi mossi verso di lui. Il cuore gli balzò contro la prigione del petto, lo disorientò. Era così disabituato a provare emozioni simili che quasi le temeva…
No.
Quella sera, per una volta nella vita, non avrebbe temuto l’onestà.
- Tu hai ragione, – esordì – Sono un codardo. Non ti ho avvertita perché ero certo di farcela da solo. Era la prima volta che mi affidavi la bambina e volevo dimostrarti di saper risolvere ogni problema, per quanto grande potesse essere. Non volevo l’aiuto di nessuno, perché volevo renderti orgogliosa di me. Un codardo, e al tempo stesso un superbo, – sorrise amaro – Un’ottima combinazione, non c’è che dire.
- Ma io so come sei fatto, – la replica di Belle non tardò ad arrivare – So da sempre ciò cui vado incontro, e sono sempre stata pronta ad affrontarlo. Non mi arrendo solo perché è difficile. Non mi sono mai arresa, e mai lo farò. Ho imparato ad amarti non a dispetto di ciò che sei, ma anche grazie a ciò che sei. E tu sei più di quanto immagini.
Gli occhi della giovane scintillavano emozionati. Gold pensò solo che se avesse potuto baciata un’ultima volta in quell’istante, sarebbe morto felice.
- Ti ho detto quella cosa… Non intendevo, Belle, non intendevo davvero. Le mie sono misere scuse che non cancellano l’offesa, ma vorrei tu sapessi comunque quanto sono pentito. So che ti fidi di me, anche troppo, l’hai dimostrato infinite volte anche quando non lo meritavo… L’ultima ieri, decidendo di restare.
- Io mi fido di te, ma vorrei solo tu fossi sincero. È l’unica cosa che ti chiedo, da anni oramai. Non mentirmi, anche a costo di farmi male, non trattarmi come se fossi una cosa fragile, come se potessi spezzarmi. Non sono una bambina da proteggere. Sono più forte di quanto sembro, e lo sai.
- Ma questa è stata comunque l’ultima mia menzogna, – l’uomo articolò le parole con uno filo di voce – Perché ora devi andare.
Belle sussultò. Non si aspettava simile affermazione.
- P-perché? – balbettò, incapace di capire, incapace di ripercorrere la strada seguita per giungere a tal punto.
- Perché malgrado ciò che speri, io sono ancora quel che ero. Sono ancora un bugiardo, sono ancora un uomo che non sa essere sincero, non sa fidarsi di chi gli sta intorno, anche se potrebbe, anche se dovrebbe. Nascondermi, mentire mi riesce facile, e non so più se per abitudine o inclinazione; so solo che ormai sono stampelle senza le quali non potrei camminare. Oh, Belle, – diceva mille frasi, e avrebbe voluto dirne solo una, la più semplice e difficile del mondo – Mi dispiace, mi dispiace tanto. Non ti chiedo di perdonarmi, perché non ne sono degno. Tu hai sempre fatto del tuo meglio per rimettere apposto i pezzi, e io non ho mai saputo tenerli insieme. Io ho sempre distrutto – ho distrutto te, questo non me lo perdonerò mai. E so che accadrebbe ancora, perché finisce così, perché ogni tentativo tra noi è finito così, ed è finito a causa mia. Perché sono un codardo. E i codardi non meritano le eroine.
Non avrebbe voluto allontanarsi, non avrebbe voluto lasciarla lì in quel momento, pallida e bellissima alla luce fioca che quasi creava un’aura attorno a lei. Non avrebbe voluto, ma aveva dovuto. Aveva dovuto voltarsi, aveva dovuto chinare il capo e muoversi verso la porta.
Se fosse rimasto un altro istante con lei, non ce l’avrebbe fatta.
Belle era impietrita. Non era così che doveva andare, non così. Avrebbero dovuto parlare, avrebbe dovuto dirgli ciò che provava, esprimere quel groviglio di sentimenti che le si agitavano nel petto e che lei voleva sbrogliare col suo aiuto. Avrebbe dovuto dirgli che sì, non erano mai riusciti a tenersi stretti, ma questo non significava niente: non per forza erano destinati a una nuova catastrofe. Avrebbero imparato a essere sinceri assieme, sarebbero tornati a conoscersi, ce l’avrebbero fatta perché si sarebbero impegnati.
O forse no: non si sarebbero sforzati, perché l’amore non tollera costrizioni e il loro era sorto naturale. Quando si erano accorti di essere innamorati era già troppo tardi; ma se anche fosse stato possibile intervenire, loro non l’avrebbero fatto: perché per loro i problemi sorgevano dopo, ma amarsi era immediato, come respirare.
Un gesto spontaneo, la cui assenza uccideva.
Perché, se lo sai, scappi?
Si erano uccisi a sufficienza negli ultimi cinque anni.
Non voglio più essere vittima, non voglio più essere carnefice.
Voglio solo amarti.
Pochi passi lo separavano dalla porta che già si accingeva ad aprire. Lo raggiunse all’istante, mossa dalla determinazione che solo certi sentimenti sanno dare, e lo afferrò per un polso.
Lui si voltò interrogativo.
Ma quando lei lo bacia, quando lui risponde al bacio, tutto ciò che conoscono è incanto.
E se l’esplosione delle loro anime non è magia, allora la magia non esiste.
- Non capisci? – Belle mormorò a un soffio dalla sua bocca, prima di posare ancora le labbra sulle sue – È questa la ragione per cui devo restare.
 
 
 
“ 'Cause this could be
the end of everything.”
 
 
 
Non sapevano dove stessero andando, se si sarebbero separati o sarebbero rimasti assieme. Non volevano chiederselo: le domande avrebbero rotto l’incanto e già troppe, troppe volte era successo.
Si limitavano a tenersi per mano mentre camminavano, e questo era tutto ciò che contava. Il buio dei corridoi era appena smorzato dalle lampade, ma la loro strada era sicura: erano l’uno a fianco all’altra.
Era incredibile, era meraviglioso, pensava Belle: per quante cose nella vita avessero cercato di dividerli, in un modo o nell’altro loro si erano ritrovati, si erano ritrovati sempre. La strada percorsa finora era stata accidentata e tortuosa, a volte unica e a volte parallela e distante un oceano; ma era stata la loro strada, la strada del loro amore.
Quell’amore che era come la tazzina: scheggiata, mezza rotta, ma resistente fino allo stremo, malgrado ciò che aveva subito.
E lei, lei quell’amore vuole tornare a viverlo.
Quando passarono dinanzi alla camera di Gold, Belle si fermò. Lui si bloccò con lei. Immaginava il perché di simile gesto, ma ancora non se ne capacitava, ancora non riusciva a realizzare quei baci in biblioteca. Erano stati così diversi da quello scambiato la sera della cena: avevano avuto un trasporto, un’intensità che non credeva avrebbe più sperimentato.
Così diversi e altrettanto belli.
Era stato sincero nel rivolgere l’ennesimo saluto a Belle, nel lasciarla andare; era stato sincero nel suo stupore, quando se l’era ritrovata di fronte, quando aveva sentito quella bocca dolce e morbida sulla sua. Era stato sincero nel ricambiare il bacio, e Dio, quanti altri gliene avrebbe dati se avesse potuto, quanto l’avrebbe amata, di tutta la furia e il dolore e l’amore, l’amore infinito che sentiva in sé. Era così difficile controllare il desiderio che provava per lei…
Ma non voleva costringerla, non voleva forzarla. Non era mai stato bravo con le parole quando contavano davvero, ma non c’era bisogno di specificarlo: entrambi sapevano che quella notte più che mai ogni costrizione era vietata.
Ma quella non era costrizione, non era vincolo. Quando le loro iridi s’incontrarono, il semplice silenzio spiegò ogni cosa. Si ritrovarono con le mani sul pomello, a girarlo, a entrare insieme nella stanza e chiudere fuori il mondo per una notte.
La strinse su quel letto che, senza lei, non sentiva davvero suo. Fu un abbraccio timido, quasi esitante, ma a Belle parve il più bello che lui le avesse mai donato.
- Non ti toccherò, se non vorrai. Solo, – le sussurrò, le labbra che le sfioravano appena una guancia. Serrò le palpebre quando s’interruppe, e quando le riaprì era un dolore antico a dominare il suo sguardo – Non mi lasciare. Ti prego, Sweetheart, non farmi questo – non farmi credere che sei qui, e invece è solo un sogno.
Fu Belle a chiudere gli occhi, ora, perché le lacrime già iniziavano a premere e non sarebbe riuscita a trattenerle a lungo; perché lei non l’avrebbe mai lasciato, se avesse potuto scegliere; perché le loro notti sarebbero state tutte come questa, così bella da essere rapidissima e infinita a un tempo.
Si limitò ad annuire, senza sapere se si stesse riferendo alla proposta o alla promessa, se al futuro imminente o a quello lontano; ma in quel momento il futuro non esisteva. Domani, poi significavano niente: esistevano solo l’ora e il qui, i loro corpi vicini e i respiri che si accostano.
C’è l’adesso, e questo è l’importante.
Belle si rimise a sedere piano, sciogliendo a malincuore l’abbraccio. Lui l’osservò triste, come se già intravedesse i frammenti di una promessa infranta, ma non osò obiettare. Non disse niente, perché sapeva di non poter dire niente, anche se – anche se avrebbe voluto dire, avrebbe voluto compiere un gesto, anche se avrebbe voluto lei.
Belle slacciò gli stivaletti e li calciò via. All’improvviso aveva la testa vuota e leggera, come se fosse stata ubriaca. Era una sensazione strana, assurda, che le ricordava la loro prima notte insieme: non c’era timidezza, non c’era più la paura di non piacergli, ma ancora una volta erano sul punto di compiere un passo definitivo, che avrebbe segnato una svolta nel loro rapporto e nelle loro vite. Era tanto, tanto importante; ma a dominare Belle non era ansia, quanto speranza.
Speranza in loro, speranza in un nuovo inizio.
Le mani corsero al corpetto.
- Mi aiuti?
Non rispose, Gold. Non commentò, non chiese. La raggiunse e obbedì: tirò nastri, slacciò bottoni e ganci, scostò il tessuto, liberandola più piano di quanto avrebbe desiderato.
I suoi nei, macchie di notte sulla neve della sua schiena.
Sono davvero sotto le sue dita?
Percorse coi polpastrelli, seguì con la lingua le perle della sua spina dorsale, le ali lievi delle scapole. Quando le baciò, avevano il sapore di benedizione.
Lasciò scivolare le mani verso i seni, ne carezzò il profilo e la sentì fremere sotto le mani. Sorrise contro la sua spalla, desiderando baciarli, seguire la forma della bocca di Belle, la sua gola bianca, morire e rinascere tra le sue gambe.
La penombra vellutata già ammorbidiva i contorni dei loro corpi, già li confondeva. L’uomo le disfece la treccia con la cura di chi tesse l’oro: lentamente, con premura, sapendo di avere tra le dita un materiale prezioso degno di massima attenzione. I lunghi capelli ramati le ricaddero disordinati sulle spalle; Gold non poté resistere all’impulso di affondare il volto tra le ciocche respirandole, lambendo la carne morbida del collo e delle spalle e posandovi una scia di baci, di morsi, di marchi.
Sarebbero rimasti dei segni, ma lei non l’avrebbe fermato.
Non permetterà a niente e nessuno di fermarli, stanotte.
Stanotte è solo loro.
La notte in cui sconteranno tutti gli abbracci che hanno sprecato.
Il suo nome pronunciato da lui era un rivolo di miele. D’istinto strinse le cosce che lui carezzava attraverso il tessuto. La semplice pressione di quelle falangi raggiungeva il midollo delle ossa, le accendeva il sangue.
Gold osservò il suo profilo, sperando si voltasse, restituisse lo sguardo; ma lei continuò a guardar davanti a sé, il respiro appena accelerato e un batticuore feroce a dominarla.
Lo fece senza preavviso. Un attimo Belle era lì, a farsi baciare la nuca; quello seguente si era alzata, era in piedi davanti a lui. La corolla dell’abito e della biancheria s’allargarono ai suoi piedi, senza proteggerla più; ma lei non voleva, non voleva più proteggersi dal suo sguardo, evitarlo, sfuggirgli. Voleva che il suo sguardo si fermasse su lei e su ogni particolare, su ogni dettaglio e ogni segno sulla pelle; voleva che lui la stringesse come stava facendo, che le baciasse i seni bianchi come gigli e lasciasse scorrere le dita lungo la linea delle clavicole, danzare tra l’incavo dei seni, attirarla a sé facendola cadere sul letto che li accolse e li vide stretti, a toccarsi, sospirare, a ritrovarsi e perdersi assieme.
Le mani attorno ai fianchi, sul collo, tra i capelli.
Labbra contro labbra, sulla fronte, sul petto.
Il tempo oramai è senza tempo – è il tempo dell’amore.
Quando Belle gli salì sopra, le ciocche che gli solleticarono il volto gli diedero le vertigini.
Come hai fatto a stare tanto tempo senz’aria, tanto tempo senz’acqua?
- Belle.
Lei lo guardò.
Al chiaroscuro della stanza, nei suoi occhi lesse un’unica frase.
La stessa che pronunciò.
 
- Ti amo.
 
 
 
“So why don't we go
somewhere only we know?
Somewhere only we know.”

“Somewhere only we know” – Keane/Lily Allen
 
 
 
1: riadattamento di “I was told (…) you’d grow just enough to know the world, before taking it away from you” – Game of Thrones, 5x04.
2: la frase sentita nella 2x04 è in realtà attribuita a John Lubbock, un’importante personalità di fine Ottocento – https://en.wikipedia.org/wiki/John_Lubbock,_1st_Baron_Avebury. Vista la tempistica, ho inventato questa “conoscenza”.
 
Riferimenti sparsi alle puntate 2x01, 2x04, 3x07 e 4x22 di OUAT!
 
La canzone è dei Keane, ma Lily Allen ne ha fatto una versione che io amo tanto quanto l’originale. Liberissim* di ascoltare quale preferite: io le posto entrambe sulla mia pagina Facebook! :)
 
 
 
N. d. A. : #4luglio, #4luglio!
Qualche cattivona – ♥ – mi ha estorto spoiler, ma per la maggior parte di voi gli ultimi eventi sono una sorpresa… O almeno spero! X’D
Allora, dolcezze, cosa mi dite? Piaciuto il capitolo? Devo ammettere di non essere entusiasta della prima metà: avevo in mente altro, ma al momento di renderlo il risultato è stato completamente diverso; la seconda parte, invece, biblioteca in primis, non mi dispiace del tutto… Non è la prima scena a rating più alto in cui mi cimento, ma non ne scrivo spesso, perciò non posso che migliorare: attendo il vostro verdetto tanto sul momento quanto sul capitolo e sulle temutissime caratterizzazioni in generale, e se opportuno criticatemi anche severamente! Mi aiuterete! :)
A Helena non avrei mai fatto del male: sono sì crudele, ma non tanto! Per la questione “potrebbe essere tua sorella” vale il solito discorso: non dirò mai, se non forse alla fine e sempre indirettamente, la verità su Regina. Stavolta Gold, furioso, ha dato voce ai dubbi per colpevolizzare la ragazza; si renderà conto di quanto fatto, ma è una questione delicata su cui il confronto, tanto più in quell’epoca, non è facile… Vedremo a cosa porterà tutto questo.
Per ovvi motivi stavolta ho preferito concentrarmi sui RumBelle, su Helena e su Regina, ma tra due settimane torneranno altri personaggi fondamentali ai fini della trama. ;)
Una menzione speciale a V., che ha letto in anteprima l’ultima parte, mi sopporta, condivide con me mille fangirleggiamenti e confida pazientemente nella LaceyXBegbie promessale ormai eoni fa – ehm! XD ♥ Grazie di cuore a chi ha recensito i precedenti capitoli, aggiunto la long alle liste delle preferite/ricordate/seguite e a chiunque la legga: come farei senza di voi, Oncers del mio cuore? Siete speciali, ricordatelo sempre! :) :***
“Arrileggerci” su EFP sabato 18 luglio, e più frequentemente sulla pagina Facebook “Euridice’s World”! :D
Bacioni, e a tutt* voi buon prosieguo di sessione/di maturità/di estate! ♥ :) ♥
Euridice100

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Capitolo 15
*** XIV - Not strong enough ***


 
 
 
XIV - Not strong enough
 
 
 
“I’m not strong enough to stay away,
can’t run from you.
 
 
 
Dopo Belle, Gold non aveva permesso a nessuna di riposare al suo fianco.
Il motivo gli pareva ovvio: dormire con qualcuno è qualcosa di molto, molto più intimo del sesso.
I corpi possono toccarsi e mischiarsi, mani, bocche e lingue possono cercarsi, mangiarsi, fondersi; ma anche se due divengono uno, non accederanno mai all’intimità che si raggiunge dormendo insieme. Condividere spazi e calore, essere l’uno custode del respiro dell’altro, la consapevolezza che ogni movimento avrà ripercussioni sull’equilibrio fragile di due esseri tanto vicini nell’incoscienza – nell’innocenza – notturna è qualcosa di molto, molto più sacro del sesso; è qualcosa che già profuma d’amore.
Credeva non avrebbe più avuto nessuna al suo fianco – che non avrebbe più avutol’unica che avrebbe voluto con sé. Che non l’avrebbe più sentita muoversi, agitarsi, rubargli le coperte; che non l’avrebbe più sentita accoccolarsi al suo petto, col volto affondato nell’incavo del collo, finalmente quieta, finalmente al sicuro.
Ma quella notte era successo.
Quella notte, dopo aver fatto l’amore, lui e Belle avevano dormito assieme, e per un istante – in quel momento magico che precede il sonno, in cui il fisico già riposa, ma un barlume di veglia ancora domina la mente – Gold aveva pensato che forse avevano trovato il loro modo di essere felici.
Che stavano avendo una seconda possibilità, e che ora era loro compito non sprecarla.
Custodirla, proteggerla, accrescerla.
Viverla.
Ma quando riaprì gli occhi, Robert Gold si ritrovò solo.
Ancora assopito, allungò il braccio certo di incontrare la sua Sweetheart; incontrò uno spazio vuoto e freddo. Bastò la percezione a farlo balzare dal mondo dei sogni alla realtà: si sedette di scatto e la cercò attorno, certo di scorgerla nella stanza; ma di lei non v’era traccia.
Si lasciò ricadere sul materasso, un pugno di ghiaccio che gli strozzava il cuore.
In fondo lo sapevi.
Che lui e Belle fossero felici, era un’ipotesi che trascendeva ogni realtà.
La loro gioia, forse così intensa, bruciava sempre in un momento: splendeva di fulgore arcano, ma si spegneva prima ancora di rischiarare le tenebre. La felicità era un’estranea nel loro rapporto: un’ospite tanto desiderata quanto sdegnosa, che rifiutava gli inviti e preferiva case altrui, regalando loro al più un sorriso fugace per poi allontanarsi in fretta. E quell’ultima realtà che aveva la stessa vivida immediatezza di un sogno– il sogno di Belle meravigliosa e fiera su di lui, dei suoi occhi che il piacere rendeva indaco scuro come orchidee e delle sue labbra ebbre di baci, il sogno di Belle che dormiva accanto a lui – erano dei memento che non sapeva ignorare.
Non poté tuttavia trattenere un leggero ghigno alla vista del segno che gli aveva lasciato sul petto. Non c’era stata solo dolcezza, quella notte. C’erano stati anche morsi e graffi, e segni che sarebbero andati via coi giorni.
La sua Belle.
Era così diversa da come la ricordava. Meno esitante, menoimpacciata, meno timida.
Ancora più determinata e più bella, se possibile.
Più vera.
Il pensiero gli corse ancora una volta a una sera in biblioteca. Una prima nuova volta come l’ultima –come a riprendere dallo stesso punto, come a ribellarsi a un destino che li aveva interrotti incuranti della loro volontà.
Il profumo di Belle, quell’aroma di tè e miele di cui poche ore prima si era inebriato fino a perdere coscienza di sé, aleggiava al suo fianco. Belle c’era stata – c’era, – e quella notte era successa: avevano davvero fatto l’amore, e davvero erano rimasti l’uno accanto all’altra per l’intera notte.
Ma dov’era andata, ora?
Si vestì ignorando i pensieri dal sapore acre di passato che iniziavano a morderlo. Stava parlando di Belle. Belle non era certo una persona da…
Doveva essere da qualche parte. L’avrebbe trovata, l’avrebbe presa per mano e avrebbero parlato di… Di cosa? Neanche lui ne aveva idea. Ciò che era successo quella notte non parlava forse più chiaro di mille discorsi?
Già una volta sono impazzito a causa tua, Sweetheart.
Perché…
Si fermò all’istante.
La risposta era così semplice e immediata, che si stupì persino di essersi posto il dilemma.
Sapeva perfettamente dov’era Belle.
 
 
 
“I just run back
to you.”
 
 
 
Quando aveva trovato Helena profondamente addormentata nel suo lettino, Belle aveva sospirato di sollievo.
Dopo una giornata come la precedente, la donna non aveva saputo frenare i timori di una nuova sparizione e, per quanto la ragione gliene ribadisse l’improbabilità, aveva deciso di verificare di persona.
E così eccola, seduta sul materasso ad ammirare la bambina come aveva fatto ben più di una volta negli ultimi quattro anni. Se le fosse successo qualcosa, Belle avrebbe… No, non sapeva come avrebbe reagito, né voleva saperlo. La terrorizzava cos’avrebbe fatto in suo nome, ma Helena significava troppo per lei: l’aveva davvero riportata alla vita dopo mesi di dolore segreto, era diventata il centro del suo universo, la causa e il fine di ogni suo sforzo. Helena era stata il suo ultimo regalo, quello che avrebbe custodito e protetto dal mondo in eterno; Helena era loro, loro e loro soltanto, e già anche solo per questo meritava ogni bellezza del mondo.
Il suo ultimo regalo.
Belle non era pentita di quanto successo. Non avrebbe disconosciuto il bacio dato a Robert, averlo seguito e aver trascorso la notte con lui: era successo perché entrambi lo desideravano, perché era un processo iniziato molto, molto tempo prima e che loro avevano solo potuto assecondare. Quando le aveva mormorato “Non mi lasciare”, qualcosa nel petto le era tremato e ogni residua barriera, ogni incertezza, ogni se e forse era crollato, lasciandola sola con i suoi sentimenti.
E allora non era stato difficile scegliere. Non era stato difficile spogliarsi oltre i vestiti, mostrare l’anima e non solo il corpo a chi aveva contribuito a renderla ciò che era, a chi l’aveva amata, odiata, amata con la stessa intensità che lei aveva saggiato sulla propria pelle e che rendeva la vita degna di essere vissuta.
Non era stato difficile amarlo.
E non lo era neanche ora, no. Non lo era mai.
Cosa sarebbe successo tra loro? La notte precedente si erano confessati il loro amore nel modo più chiaro e più vero, e al tempo stesso più foriero di conseguenze. Non sarebbe stato possibile tornare alla vecchia vita dimenticando quelle ore. Non andava bene, non era giusto; sarebbe stata una mossa vana capace di mascherare la realtà appena il tempo di uno sguardo.
Perché alla prima occasione in cui si fossero ritrovati accanto, alla prima occasione in cui le loro mani si fossero sfiorate, entrambi avrebbero provato ancora quell’emozione capace di farli tremare.
Perché quando pensava a Gold, Belle sapeva poche cose: sapeva che era qualcuno per cui valesse la pena combattere.Sapeva di volerne custodire il sorriso fragile.Sapeva che, quando poggiava la testa al suo petto e lui le baciava i capelli, si sentiva finalmente a casa.
Sapeva che a lui, a lui solo voleva dare tutto l’amore che aveva dentro.
Ed era ciò che, malgrado il mondo e Robert stesso contro, avrebbe fatto.
Quando sentì qualcuno bussare, la donna non ebbe dubbi: sapeva chi fosse.
- Posso entrare?
- Certo, – sottovoce, fece segno a Gold di avvicinarsi al letto – Non ci sono sedie, vieni pure qui.
- Ci ritroviamo sempre in camere senza sedie, – notò lui, una nota di malizia a colorargli il timbro.
Belle soffocò una risata altrettanto impertinente per non disturbare la figlia. Come dimenticare la notte in cui la stessa assenza li aveva costretti a una vicinanza tanto stretta?
La prima volta che avevano fatto l’amore.
- Ora come allora.
- Esatto, – l’uomo sorrise, ma tornò subito serio – Tu… – avanzò incerto – Va tutto bene?
Belle annuì convinta.
- Sì. Sai, – ammise senza remore – A dire il vero, non me l’aspettavo. Furiosa com’ero, ventiquattr’ore fa avrei ritenuto improbabile un similesviluppo. Però sono felice della scelta fatta, davvero. Incredula, e felice.
Lo vide riprendere il fiato che aveva inconsciamente trattenuto. Si mosse verso lui, le mani strette alle sue al punto che le ossa parevano fondersi, ma lui ricambiò la presa solo dopo un momento.
- Perché sei scappata?
Sbatté le palpebre perplessa, senza capire a cosa si riferisse l’uomo.
- Scappata?
- Mi sono svegliato e tu non c’eri. Ho temuto di aver sognato. O peggio, che ti fossi pentita e avessi deciso di andartene senza dirlo, – l’altradeglutì, consapevole della persona cui si stavano volgendo i pensieri dell’amato – È già successo. So come avviene, so che…
Belle gli prese il volto tra le mani e lo baciò, interrompendolo.
- Guardami. Robert, guarda me, lascia stare il resto, – gli ordinò con un sussurro, esattamente come aveva fatto lui pochi giorni prima – Guarda me. Io non sono Milah. Io non sparirò.Io non prenderò le mie cose, ionon fuggirò da un giorno all’altro. Io non ti lascerò solo, non ti abbandonerò all’improvviso, non me ne andrò senza darti una spiegazione. Io non ti lascerò mai in questo modo. Guardami, – ripeté – Mi sono alzata per controllare Helena e non ti ho avvisato perché stavi dormendo, altrimenti saremmo venuti qui insieme. Era questa la mia intenzione. Mi sono attardata perché ho iniziato a riflettere e non mi sono accorta del tempo che passava, ma no, non ti lascio. E stanotte te ne ho dato prova. Per quanto sia difficile, strappati dalla mente queste paure e abbi fiducia. In te e in me. In noie in ciò che abbiamo.
La donna si voltò verso la bambina, che riposava serenamente. Gold la imitò, ma l’ombra nei suoi occhi non svanì.
- Tre giorni fa sostenevi di non essere pronta a tornare.
- Ed era vero. Non lo dicevo per capriccio od orgoglio, ma perché ne ero convinta. Tre giorni fa non potevo tornare a Kensington. Se l’avessi fatto, ecco, quella sarebbe stata una costrizione; o meglio, una parte di me l’avrebbe vissuta come tale, e io so che tu non vuoi impormi nulla, nemmeno involontariamente. Per questo sono stata sincera e ho rifiutato l’invito. Non volevo ingannarti. Però, – gli carezzò una guancia – In pochi giorni possono cambiare tante cose. Si può fare chiarezza dentro, anche se fuori regna il caos. Sai, penso che il fattore scatenante sia stato l’arrivo di Emma e Killian. La situazione stava evolvendo, ma se gli eventi non fossero precipitati ci sarebbe voluto ancora del tempo. Un motivo per essere loro grato, non trovi? – quando l’onda d’argento della sua risata lo raggiunse, Gold distolse per un istante lo sguardo.
Un’indiretta coercizione, in realtà, c’era stata. Se Belle si era risolta adandare a Kensington, se aveva costretto in un angolo i tentennamenti, era stato anche a causa delle sue macchinazioni. Se le avesse comunicato immediatamente la presenza di Regina anziché decidere di attendere e poi restare inerte, probabilmente i due giorni precedenti sarebbero stati ben diversi.
Per non parlare della menzogna diquel giorno a Whitechapel…
Perché ti tratto così, se sei l’unica cui mi donerei completamente?
Se avesse parlato, avrebbe dato prova di fiducia a Belle, ma al tempo stesso forse la loro situazione sarebbe rimasta in stallo...
Qualunque fosse la loro situazione. Perché questo era un aspetto su cui non soprassedere.
Quasi leggendo il suo ultimo pensiero, la giovane gli sollevò il mento.
- Neanch’io so come faremo, come ci organizzeremo. Ma, sai, agli aspetti pratici penseremo dopo. Le questioni in sospeso sono ancora tante, e stavolta voglio risolverle tutte prima di… – s’interruppe per un istante che non passò inosservato a Gold – Prima di qualsiasi cosa. Ma finalmente ho capito la verità, la verità più importante, e questo conta, – lo guardò dritto negli occhi – Ho capito che abbiamo bisogno di te. Finorace l’abbiamo fatta da sole, ma ora tu ci sei, ed Helena ha bisogno di suo padre. Siamo una famiglia, e abbiamo bisogno di te. Io ho bisogno di te. Io ti amo.
Ogni frase, ogni ammissione gli accendeva il cuore. Chi mai al mondo gli aveva rivolto parole tanto belle? Parole che urlavano amore ben oltre la semplice dichiarazione, parole che erano amore.
Lei, lei è la sola che mi può davvero salvare.
Esitò appena prima di chiederglielo.
- Belle, – mormorò – Belle, ma noi ora… Cosa siamo?
Gli rivolse quel sorriso sincero che era suo e suo soltanto e che lo riscaldava più del sole.
- Siamo ciò che siamo stati. Siamo di nuovo noi.
 
 
 
“Say my name,
but it’s not the same.”
 
 
 
Helena ce la stava mettendo tutta, ma proprio non capiva cosa fosse successo durante la notte. Perché, era evidente, qualcosa era accaduto.
Ne aveva avuto sentore nel momento stesso in cui i suoi genitori l’avevano svegliata – ed era stato strano vederli entrambi attorno al suo letto, sentirli salutarla e chiacchierare distesi quando solo poco prima erano parsi distanti più della luna. Mamma era – quasi – sempre allegra, ma quella mattina la sua gioia pareva diversa dal solito: come se non fosse una sua esclusiva, come se la spartisse con qualcuno senza per questo dimezzarla, anzi,moltiplicandola grazie a quella condivisione.
La mamma doveva essere raggiante perché l’aveva ritrovata, aveva concluso la bambina – sebbene non mancasse di precisare che lei non si era affatto persa, ma solo nascosta e partita per un’avventura; e papà si sentiva altrettanto sollevato, perché era felice quanto la mamma. Quando dopo erano scese, le aveva salutate con un inchino e regalato loro una rosa ciascuna. Helena aveva preso la sua contentissima, perché prima d’allora nessuno eccetto la mamma o Graham le aveva regalato un fiore, ma la reazione di Belle era stata ben diversa e per un certo verso sconcertante: era arrossita e aveva fatto una graziosa riverenza prima di mormorare come tra sé e sé una frase come: – Ora come allora,– cui papà aveva annuito.
I due si erano guardati in un modo stranissimo, ed Helena era stata sicura che, se non ci fosse stata lei, si sarebbero detti una di quelle cose serie che i grandi dicono quando non ci sono bambini in giro. In un’altra occasione Helena se la sarebbe presa molto, ma stavolta proprio non ci era riuscita: mamma e papà erano meravigliosi assieme, così belli da far splendere il sole attorno a loro. E poi le avevano confermato la notizia preannunciatale già la sera precedente: forse lei e la mamma si sarebbero fermate un po’ più spesso al Castello. L’idea la elettrizzava: avrebbe avuto molte più occasioni di esplorare la casa! Sarebbe stato divertentissimo!
La felicità collettiva era contagiosa: non poteva non toccare anche Helena e ricondurre a più miti consigli persino i più bellicosi propositi di guerra – ma non il temperamento di mamma,a quanto pareva.
Quando papà le aveva invitate a sedersi per fare colazione, Belle aveva inclinato il capo come stranita e detto che certo non si sarebbe fatta servire dai suoi stessi colleghi. L’uomo aveva corrugato la fronte e fatto presente che la situazione era cambiata – quale situazione? – e che non avrebbe certo potuto indossare un’uniforme e mettersi a spolverare per casa; a quel punto, sua madre aveva prontamente replicato che non c’erano ragioni per non farlo, anzi: era esattamente ciò che avrebbe fatto.
La mamma era la persona cui più voleva bene, ma alle volte Helena non riusciva a capirla: perché alzarsi e caricarsi di vassoi pesanti come a lavoro, quando poteva starsene seduta e rilassata almeno una volta nella vita?
Quando aveva espresso la sua opinione, sulla sala era piombato un silenzio che le aveva fatto temere il peggio. Ecco: ancora una volta aveva combinato un pasticcio, rovinando tutto. Aveva rotto l’atmosfera e ora tutti si sarebbero rattristati, forse avrebbero persino ricominciato a litigare. Come potevano dirle che non era colpa sua, se non ne combinava una giusta?
Ma, poi, tutto a un tratto,papà era scoppiato a ridere come mai l’aveva sentito fare prima e aveva applaudito orgoglioso. Mamma aveva guardato entrambi malissimo e borbottato qualcosa come:– Non vi lascerò mai più soli assieme. Siete pericolosi, – che, a dispetto delle apparenze, l’aveva tranquillizzata più di mille baci.
(Alla fine non c’erano comunque state ragioni: mamma era scesa e aveva aiutato gli altri, malgrado avesse appena giurato di non lasciare lei e papà da soli.
Certo che sapeva essere davvero strana.)
Sì, la situazione al Castello era diversa, decisamente migliore rispetto ai giorni precedenti; migliore per tutti, tranne che per Regina.
La ragazza doveva essere cocciuta quanto e più di Helena e dei suoi genitori perché molta, moltissima decisione, aveva declinato ogni invito di Belle a unirsi a loro ed era rimasta chiusa in camera. Attendendole,Gold aveva finto serenità, ma la bambina stessa si era accorta della sua tensione e del modo in cui aveva appena sospirato quando in sala era rientrata solo la stessa persona che vi era uscita.
Helena non capiva cos’avesse Regina, perché fosse tanto scontrosa e infelice. Era arrabbiata col mondo intero, era presuntuosa e alle volte persino cattiva; e al contempo era capace di gesti di insospettabile tenerezza. Neanche quella notte avevano dormito assieme, e rendendosene conto la bimba se n’era un po’ dispiaciuta: malgrado si conoscessero da poco, si era come abituata ad averla accanto, al calore del suo corpo morbido e al caratteraccio che la contraddistingueva.
Ma Regina se ne stava chiusa in camera e non voleva ricevere nessuno. Forse neanche te, la umiliò una vocetta malvagia all’orecchio. Avendo già avuto a che fare con la giovane, l’eventualità parve alla bambina tutt’altro che remota…
Però Helena non sarebbe stata figlia di sua madre, se non ci avesse almeno provato.
Per questo, alla prima occasione non ebbe dubbi sul da farsi: doveva andare dalla ragazza.
 
 
 
“You look in my eyes,
I’m stripped of my pride.”
 
 
 
Quando udì il lieve cigolio della porta, Regina non si domandò chi fosse il o la screanzata: da qualche giorno a quella parte,aveva a che fare una certa personcina irritante che reiterava il viziaccio incurante dei rimproveri. Per questo nemmeno alzò il capo: continuò impassibile a sfogliare il libro preso in biblioteca, ben decisa a non dedicare alcuna attenzione alla piccola nella speranza che se ne andasse in fretta.
- Ciao! – Helena la salutò allegra – Perché non sei scesa a mangiare?
Cosa credeva di fare Belle inviando la figlia? S’illudeva forse che lei,Regina Mills, si sarebbe fatta blandire dalle preghiere di una quattrenne? Se credeva di riuscirci, la French non la conosceva affatto. Era rimasta legata a un ricordo antico, un ricordo quanto mai distante dalla realtà.
- Non ho fame.
- Ma c’erano cose buone, ed erano tante. Potevi mangiare anche tu.
La ragazza sbuffò.
- Mettiamola così: non mi metterò all’ingrasso per accontentarti. D’accordo?
Helena alzò le spalle poco convinta. A lei Regina non sembrava affatto grassa. E comunque, anche se non avesse voluto mangiare sarebbe potuta scendere e stare con loro, no? Papà abbassava la voce quando parlavano di lei, ma non l’avrebbe certo cacciata, anzi: la mamma era andata a chiamarla!
Regina represse l’istinto di alzare gli occhi al cielo udendo le argomentazioni della ragazzina. Sì, era vero: era stata invitata al tavolo dei padroni, la castellana stessa – perché non chiamarla col suo nome? – aveva bussato alla porta ribadendo concetti che oramai avevano preso a nausearla e in cui lei non voleva riporre alcuna fiducia.
Belle sosteneva di aver reagito d’istinto ma di non nutrire rancore nei suoi confronti, di non reputarla la reale artefice delle sue disgrazie, o comunque di considerare le sue colpe inferiori rispetto a quelle altrui; e Regina sapeva, sentiva che almeno in questo la donna era sincera.
Forse le avrebbe rivolto l’invito anche se il giorno prima non fosse stata tanto coinvolta nelle ricerche di Helena e se non fosse stata lei a trovarla. Forse era solo una coincidenza – una delle tante di cui sembrava intessuto il loro cammino, simile a quella che una volta le aveva portate a sfiorarsi e a mancarsi per una manciata di minuti cancellando definitivamente un avvenire e scrivendone uno nuovo.
Certo. Forse lo era. Ma Cora Mills aveva educato la sua erede a considerare esistenti solo le coincidenze che si creano: non doveva essere un caso se Belle le aveva rivolto parole tanto accorate il giorno seguente al ritrovamento della figlia. Regina aveva chiesto il suo perdono, ma non poteva esserselo guadagnato tanto facilmente, non poteva – era semplicemente impossibile. Era palese che Belle volesse sdebitarsi per quanto successo, ma lei non intendeva divenire la salvatrice, l’eroina del momento coccolata e vezzeggiata per meriti presunti e ragioni improbabili: aveva cercato Helena solo perché…
Per provare la tua innocenza?
Per paura di Gold?
Per…?
No. Non c’era un perché. Semplicemente, quando la bambina sembrava svanita, un brivido le era corso lungo la schiena e mille possibilità le avevano affollato la mente, e…
Stai mentendo ancora.
L’hai fatto perché in realtà, per quanto tu possa fingere, tutto ciò che vuoi è un riscatto.
Vuoi essere accettata, non perdonata. Cerchi negli altri ciò che non sai darti tu, vorresti essere inclusa in questa famigliola, ma sai una cosa? Non ti accetteranno mai.
Non ti accetteranno mai perché sei cattiva dentro.
Una volta hai avuto una scelta e hai sbagliato. Hai scelto la tua condanna, e dovrai scontarla in eterno.
Anche ieri hai agito solo per egoismo, per essere ricompensata con un briciolo d’affetto che non avrai.
Non lo meriti, Regina, tu non meriti niente.
Tu non meriti amore.
Non era un discorso da fare a una bambina così piccola. Per quanto sveglia, non sarebbe stata in grado di comprendere concetti tanto nebulosi e carichi di dolore.
Regina le augurava di non essere mai in grado di comprenderli – perché certe cose, aveva imparato, si capiscono solo se le si vive; e qualcosa in lei, qualcosa d’indefinito a metà tra le costole e quel grosso buco nero che sentiva nel petto e si ostinava a chiamare cuore, voleva che Helena non le conoscesse mai.
“Potrebbe essere tua sorella.”
Non lo era, non lo era, ma se lo fosse stata?
Si era imposta di non pensare alla questione, ma il pensiero non l’abbandonava. Per quanto andasse indietro con la mente, non c’era un momento nella sua vita in cui non ci fosse stato anche indirettamente lo zio: le loro storie erano così intrecciate che sarebbero potute essere la stessa.
Ma se l’uomo sospettava qualcosa allora perché, dopo la morte di colui che eradoveva essere – suo padre, non l’aveva aiutata concretamente, perché l’aveva lasciata sola a fronteggiare Cora?
Perché avrebbe dovuto?
Cora è tua madre, e tu sei un sospetto, non una certezza.
Non sei come Helena.
Helena era sua. Helena era Gold anche se non ne portava il nome.
Helena non sarebbe stata come lei. Sarebbe stata una bambina privilegiata e adorata, riempita di amore dalla madre e di doni dal padre.
Eppure, quando la guardava, a farsi la guerra dentro Regina non erano rancore e invidia, no.
Dentro Regina si facevano la guerra rimorso e tenerezza. 1
L’adolescente abbandonò il libro e si alzò dal letto. Come incoraggiata, Helena mosse qualche passo verso la Contessina, che però s’avvicinò alla finestra e iniziò a fissare un punto indefinito oltre il vetro.
- Sarebbe cambiato qualcosa, se ci fossi stata? – chiese.
A Helena quella parve una domanda assai bizzarra, ma non se ne stupì più di tanto. Negli ultimi mesi la sua intera vita era diventata strana, tra la comparsa di papà, i regali e le cene, il trasferimento e ora la nuova… Amica?
Sì, amica, decise all’istante. Malgrado il pessimo carattere, Regina le piaceva e, nella sua breve vita aveva imparato a fidarsi di certe sensazioni; era certa che anche la giovane la ritenesse tale: si fingeva insensibile, ma era chiaro che le si fosse affezionata. Altrimenti, per quale motivo preoccuparsi tanto il giorno prima?
- Sì, – rispose senza esitare – Se c’eri sarebbe stato meglio. Più divertente.
- Splendido, – il commento non si fece attendere – Un modo per dire che sono il giullare di corte.
- Che?
- Lascia stare.
- Io dico davvero! – esclamò convintissima la piccola – Se si dicono le bugie cresce il naso e il mio non è cresciuto, quindi dico la verità! Voglio che stai con me!
Un desiderio che Regina non riusciva a capire. Per quale motivo la ragazzina era tanto attratta da lei, cosa l’aveva conquistata a tal punto? Tornando indietro, non le avrebbe mai permesso di dormire nel suo letto.
Forse lontana da Belle aveva visto in lei la madre o una figura simile, e le si era aggrappata in cerca di sicurezza.
Il pensiero di essere una sostituta di Belle la faceva ridere.
- Ma perché? – si voltò infine, le braccia incrociate al seno – Perché mi stai sempre appresso? Ti ho detto mille volte che voglio stare sola!
- Nessuno vuole davvero stare solo, dice la mamma! E se tu sei triste sono triste anch’io, perché ti voglio bene!
Ecco il problema. Forse anche lei, in un qualche modo ancora incerto, ancora informe, iniziava ad affezionarsi alla bambina? Era questo il vero motivo per cui il giorno precedente si era preoccupata tanto?
Regina odiava il suo sapere amare. Senza, sarebbe stato tutto più semplice.
- Helena, – la voce risuonò di colpo più angosciata – Tu ti fidi di me?
La bambina annuì.
Come temevo.
Un altro membro di quella sgangherata combriccola s’ostinava a riporre fede in lei.
Fino ad allora erano finiti tutti col cuore in pezzi.
- Ti hanno mai detto che somigli tanto a tua madre?
- Me lo dicono tutti! – gli occhi della piccola scintillarono di felicità.
Sciocca.
Non c’è felicità nell’essere buoni.
Solo nuovo dolore.
- Non compiere i suoi stessi errori, – si scoprì ad ammonirla – Una volta, tua madre si fidò della persona sbagliata. Non ci fu lieto fine per nessuna delle due.
Helena si accigliò. Che stava dicendo Regina? Sua mamma era la migliore al mondo, era intelligentissima e bravissima, non sbagliava mai!
- Non è vero. È finita bene: mamma ha me e papà. Forse è stato il cattivo a non avere il lieto fine, ma fatti suoi, era cattivo. Non lo meritava.
E se ti dicessi che la cattiva della storia sono proprio io?
Già, proprio la tua nuova amichetta.
Quando Regina rise, Helena si rese conto per la prima volta che non sempre una risata è sinonimo di allegria. Perché nella smorfia che le storse il volto, nelle parole che la ragazza pronunciò, c’era tutto eccetto gioia.
- Il problema è che cattivi non si nasce. Si diventa. E io lo sono diventata scegliendo. Capisci cosa sto dicendo? Capisci la morale della storia?
La bambina scosse il capo, confusa dall’improvvisa piega del discorso.
- È semplice. Non fidarti di nessuno. Neanche di me. Se…
Regina si voltò di nuovo verso il vetro e s’interruppe di colpo.
Sbatté le palpebre una, due, tre volte, incredula.
No.
È impossibile.
Sotto casa di Gold c’era Daniel Locke.
 
 

 
“And with your presence
my heart knows no shame,
I’m not to blame
‘cause you bring my heart
to its knees.”

 
 
 
Non rispondi, “Dearie”? Fingi di non ricevere le mie lettere? Le leggi e le bruci per vendetta, come io ho fatto coi tuoi ricordini, o neppure le apri perché non hai il coraggio di affrontare la realtà?
In fondo non me ne stupirei. Sei un codardo, e lo sei sempre stato.”
Pensavo di essere stato sufficientemente esplicito, ma i fatti mi smentiscono. Te lo ripeterò per l’ultima volta: non voglio più avere a che fare con te. Non scrivermi più. Se mi contatterai ancora, non sarò più magnanimo. Il tempo della pazienza e delle richieste cortesi è scaduto.”
Era immerso in quella che si augurava fosse la risposta all’ultima missiva della Zelenyy quando Belle entrò nello studio.
- Ciao!
- Ciao a te, – la salutò, nascondendo subito il foglio sotto un pesante registro – Dimmi pure.
- Sono venuta a curiosare un po’. E…
- E?
- …E a disturbarti molto.
- Tu non sei un disturbo. Spesso e volentieri sei petulante, alle volte sei saccente e il nostro è stato il peggior accordo mai concluso, – ghignò mentre s’alzava per raggiungerla – Ma sei non un disturbo.
- Come osi! – Belle si finse indignata e arretrò di un passo vedendolo avvicinarsi – Il tempo ti ha donato ulteriore fascino, ma non diplomazia, a quanto noto.
- La natura non può dar tutto. A me ha dato ciò che conta.
Le avvolse le braccia al collo e la baciò, vincendo fin troppo in fretta la resistenza delle sue labbra serrate. Dio, quanto gli era mancato baciarla. Tanto quanto scorrere la dita tra i suoi capelli, sentire la carezza delle sue ciglia sul viso e le sue carezze di seta. I suoi baci, pensò mentre le accarezzava la bocca con la punta della lingua, sembravano bruciare la carne, scavare nella pelle fino a purificare.
La magia s’interruppe di colpo quando Belle lo morse.
- Ahi! – si lamentò scostandosi d’impulso e portandosi una mano alla bocca.
La donna sollevò un sopracciglio.
- Considerala una giusta vendetta.
- Per?
- Molte cose. Ma stai tranquillo – stilerò un elenco per essere certa di non dimenticarne alcuna.
- Che creaturina rancorosa, – la sbeffeggiò riprendendola tra le braccia. Lei non si ritrasse – Così vendicativa e crudele. Mi piace.
- Conseguenze della tua vicinanza – sottolineò con una smorfia, salvo addolcirsi presto – Poi però, – disse guardandolo negli occhi – Stilerò anche l’elenco delle cose che amo di te. E quello sarà molto, molto più lungo.
No, c’era qualcosa che a Gold era mancato più dei baci, più della morbidezza o del profumo di Belle, più di ogni altra cosa: averla accanto. Discutere e scherzare, chiacchierare e ridere senza mai sentirsi uno sciocco. Con lei tutto era più semplice, immediato; spontaneo come bere un bicchiere d’acqua dopo aver attraversato il deserto e sentire finalmente l’arsura lasciare il posto al sollievo.
Con lei era tutto migliore.
- Sai, ho riflettuto sugli aspetti pratici, – nell’istante in cui la donna lo dichiarò, Gold tornò subito serio – Per un po’ io ed Helena potremmo dividerci tra Kensington e Whitechapel. Alternare una settimana qui e una lì, ecco, per qualche tempo, –proseguì pacata, ma ferma – Non posso togliere a Helena quello che finora è stato il suo mondo. Si trova bene qui, ma sono ancora i primi giorni, e presto inizierà a mancarle chi l’ha cresciuta e resterà sempre un punto di riferimento per lei. E, quanto a noi due, dobbiamo essere cauti se non vogliamo sbagliare ancora.
Gold annuì. Belle era nel giusto, e aveva ogni diritto di tornare a Whitechapel, di sperimentare quella strana forma di vita che forse davvero non avrebbe negato nulla a nessuno. Non poteva che condividere il ragionamento.
Ma non l’avrebbe fatto a cuor leggero.
Una parte di lui sperava che Belle decidesse di trasferirsi definitivamente da lui, di concedergli la chance definitiva restandogli accanto, seguendolo passo passo. Non sarebbe andata così: l’avrebbe sì avuta vicina, ma ci sarebbero stati anche dei momenti, delle settimane in cui avrebbe dovuto affrontare se stesso da solo.
Era giusto così, in effetti: Belle dimostrava di reputarlo per quel che era, un adulto maturo in grado di comprendere i propri errori e non ripeterli, non un infante che…
Ma Belle ti giudica sempre con più indulgenza di quella che meriteresti.
Non sa che le hai mentito su qualcosa che lei avrebbe accettato.
Non sa che appena pochi minuti fa avevi quel segreto tra le mani.
Lei ha fiducia in te, te lo dimostra anche ora.
Tu…
Tu i tuoi errori li ripeti sempre.
- Va bene così, – disse infine – Non ho intenzione di costringerti a qualcosa che non vuoi, tanto più in un caso come il nostro. Se credi che la scelta non destabilizzerà Helena, anzi, andrà a suo beneficio, l’accetto. Certo, – non si trattenne dall’ammettere – Avrei preferito restaste qui, evi vorrei in un quartiere più sicuro piuttosto che nell’East End,  ma la gradualità potrebbe aiutarci.
Belle gli sorrise prima di sfiorargli le labbra. Sapeva che avrebbe capito, ma conosceva anche – pensava di conoscere anche – le oscure previsioni che, se non al momento, presto avrebbero iniziato a infestare l’anima dell’amato quando sarebbe tornato sul punto.
- Ci vedremo anche nelle settimane in cui non saremo assieme, se lo vorrai. E comunque, – precisò – Tu sarai sempre al centro dei miei pensieri. Ti ho detto che non ti lascio, e non ho certo cambiato idea rispetto a stanotte o a stamattina.
- Lo so. Ma… Niente, – all’improvviso, malgrado la chiara intenzione di aggiungere qualcosa, Gold tacque – Niente.
Belle non demorse.
- Abbiamo promesso di confidarci. Di non nasconderci nulla. Prova a parlare, – lo incoraggiò in tono conciliante – Io proverò a capire.
L’industriale sospirò e rimase in silenzio per lunghi istanti.
- Penso sempre agli ultimi anni, – quando all’improvviso iniziò, alla donna parve una benedizione – Gli anni in cui non ci sono stato e sarei dovuto esserci, e mi chiedo come tu abbia fatto a perdonarmi. A concedermi un’altra possibilità, l’ennesima. Mi pare impossibile star vivendo questo. Tutte le volte, – abbassò la voce – Tutte le volte che sono stato felice è finita troppo presto. Non voglio accada anche stavolta, ma so che potrebbe succedere, e so anche che non potrei sopportarlo. Davvero, Belle – guardami dentro, se non mi credi. Senza di te non sento niente. Senza di te sono niente.
- Ma stavolta il tuo passato non condiziona il tuo futuro, – gli posò le mani sulle spalle e lo guardò dritto in volto – Io ed Helena ci siamo, e ci saremo finché lo vorrai.
- Io vi voglio sempre con me, sempre.
- Lo so, – Belle annuì comprensiva – Ma non me ne sono andata perché non ti amassi, perché fossi stanca della situazione o qualcosa di simile. Me ne sono andata perché tu hai voluto me ne andassi. La mia non è un’accusa, credimi,ma una considerazione: io non ti avrei lasciato, mai, e mai lo farò se tu non mi costringerai a farlo. Se lo vorrai, sarò con te fino alla fine.
- Crederei a te sola, ora.
- Intendo in senso più lato. Quanto successo stanotte, quanto ci siamo detti e ci stiamo dicendo non risolve i problemi che abbiamo. No, Robert, non neghiamolo, – lo precedette – Noi abbiamo dei problemi. Di relazione, di comunicazione, chiamali come preferisci, ma li abbiamo. Forse è normale, forse tutti li hanno e li ignorano per non disturbare il loro piccolo idillio, ma io non sono d’accordo. L’unica finzione che mi piace è quella dei libri, ma la vita non è un romanzo, l’abbiamo imparato a nostre spese. La vita è la realtà, e con te io non voglio la finzione –voglio la realtà. Per quanto possa essere più complicata, più brutale, più dolorosa, io voglio costruire la vita, la realtà con te.
Dio, cos’aveva fatto per meritare una persona così speciale al suo fianco? La sola l’avesse mai amato tanto a fondo, malgrado i suoi infiniti problemi. Quasi gli pungevano gli occhi dalla commozione. Quanto male gli avrebbe fatto saperla lontana, anche solo pochi quartieri?
- Ti amo, – le disse tracciando la curva del suo sorriso leggero – Sei perfetta.
- Non dirlo. La perfezione non è di questo mondo, e io ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò ancora. È naturale.
Se glielo dicessi ora, cosa…
Ma non ha senso, la preoccuperesti inutilmente.
Ma ha il diritto di sapere!
- Dov’è Helena? – si sentì chiedere infine.
Vigliacco.
- Ha detto di voler andare da Regina,– Regina. Altro tasto dolente che l’uomo non sapeva, né voleva affrontare – Appena le ho chiesto di aiutarmi, si è dileguata. Ma andrò a riprenderla a breve e mi sentirà – tre giorni con te hanno mandato in fumo quattro anni di sforzi. Complimenti, Mr Gold, – lo canzonò.
- Ha tutto il diritto di essere servita e riverita.
- No che non lo ha, nessuno lo ha. Non è mai troppo presto per imparare a cavarsela da soli. Non voglio diventi una piccola viziata che non muove un dito e pretende di essere sempre al centro dell’universo.
- Invece dovreste poter non muovere neanche un dito. Dovreste essere sempre al centro dell’universo. Siete mia figlia e mia… – cercò invano un termine per descrivere la sua posizione. Come l’avrebbero chiamata, la compagna della Bestia? Avrebbe ucciso se avessero osato definirla il suo giocattolo o la sua puttana: Belle non era nulla di tutto questo. Belle era sua. Cos’erano, allora,fidanzati? Non più, purtroppo. Amici? Ma lo erano mai davvero stati? Amanti? Non voleva averla per concubina. Non l’aveva voluto allora, non lo voleva ora. Avrebbe preferito regolarizzare quanto prima la situazione.
- Non esiste modi di definirci, lo so, – Belle intuì il suo disagio e gli venne incontro – Ma, ti dirò, non ne sento la mancanza. La realtà è un calderone di scoperte, una figura con facce impossibili da inquadrare. Noi siamo una di quelle facce.
Piccola, sognatrice Belle.
La realtà può anche essere come dici tu, ma non la società.
- La nostra situazione porterebbe a uno scandalo, se scoperta.
- Anche sposare una spiantata come me avrebbe questa conseguenza. Cos’è, il grande Mr Gold teme uno scandalo, ora?
- Temo per te e per Helena. Non voglio tenervi all’ombra come successo finora, per quanto la situazione, soprattutto quella della bambina, sia difficile…
Belle chinò il capo. Quando lo rialzò, sembrava che una pennellata avesse cancellato ogni espressione.
- La situazione di Helena non è difficile. L’amiamo.
- Ma proprio per questo devo, voglio tutelare tanto te quanto lei, – constatò Gold – Senza menzionare Cora, che certo non si lascerà mettere all’angolo tanto facilmente. Voglio tu lo sappia, Sweetheart, voglio solo tu sappia questo: basterà un cenno, e io sarò ai tuoi piedi con un anello oggi stesso.
- No, – malgrado l’improvviso pallore, la voce di Belle non tremò – Niente anelli.
Lo sguardo di entrambi scivolò sulla mano sinistra dell’uomo. Al quarto dito splendeva sempre una banda d’oro con una pietra celeste.
- Belle, no. Io non intendevo…
- So che non intendevi – solo generosamente il sorriso di Belle avrebbe potuto definirsi tale – Ma l’anello che mi hai donato non ha funzionato. Subito dopo è finito tutto. Non credere che io non voglia sposarti: i tre sì che ti ho detto quel giorno valgano ancora. Valgono sempre. Anch’io ti sposerei oggi stesso, e razionalmente so che sarebbe il modo migliore per cautelarci per avere meno preoccupazioni, ma il punto è sempre uno: sarebbe davvero la soluzione migliore, coi nostri problemi? Se ti sposo, Robert, deve essere per sempre. Non per un mese.
Ha ragione, sai?
Il giorno in cui scoprirà tutto si stancherà di essere sempre stata messa al secondo posto.
Di illusioni gliene hai regalate fin troppe.; questa sarebbe la peggiore.
Ma poteva sempre parlare. Poteva sempre spiegarle di New York, i motivi per cui non aveva parlato prima e il suo pentimento. Belle voleva risolvere i problemi prima di procedere a qualsiasi passo; non era forse esso stesso un – il – problema?
- Belle, – disse – C’è una cosa che...
La porta dello studio si aprì appena, lasciando scivolare nella stanza Helena. Gold non seppe se maledire o benedire il suo arrivo.
- Amore! – Belle accolse la figlia – Com’è andata con Regina?
La bambina fece una smorfia di fastidio.
- Ha visto uno dalla finestra e ha iniziato a piangere e a ridere ed è corsa via. E mi ha lasciata così! Anche se sono sua amica! – snocciolò indignata.
I due adulti si guardarono preoccupati e perplessi.
- Ha detto qualcosa su questa persona?
- Ha detto solo un nome, – s’imbronciò ulteriormente il faccino, come se il solo pensiero dell’usurpatore la facesse arrabbiare – Ha detto Daniel.
 
 
 
“And it’s killin’ me
when you’re away,
I wouldn’t leave,
I wouldn’t stay.”
 
 
 
Mentre volava per le scale, mentre superava un’Emma Nolan più che perplessa nel vederla spalancare l’uscio di servizio e precipitarsi in giardino, Regina non aveva pensieri.
Ogni capacità di raziocinio era stata annullata da Daniel Locke: lui c’era, lui era vivo, e questo, solo questo contava.
Solo questo.
- Daniel! – urlò correndo verso il cancello – Daniel!
Il giovane doveva essersi accorto di essere stato notato, perché non se n’era andato: era lì, di fronte a lei, con le sue mani forti, il suo sorriso buono e… I suoi lividi. Regina trasalì alla vista: gli occhi grigi del giovane erano così gonfi da essere due fessure, aveva il labbro inferiore malamente tagliato e una guancia era ammaccata come un frutto maturo.
- Cosa… Cosa ti hanno fatto? – la futilità della domanda era evidente, ma la ragazza non riuscì a trattenersi.
- Questo? Oh, nulla di che! – l’ex stalliere provò a minimizzare – E chi ci ammazza a noi Locke? Abbiamo la pellaccia dura, non ci facciamo metter fuori gioco da così poco. Diciamo però che la tua fuga ha creato scompiglio… E che Mal ha imparato dalle sue compagnie più cose di quante immaginavamo. Anche lei è scappata, – la informò – È da Stefan. Aveva offerto protezione anche a me, ma sai come la penso su di lui… È parecchio arrabbiato con gli uomini di tua madre per come gli hanno conciato la ragazza, sai? Secondo me fa una retata.
Regina era felice che l’amica fosse salva, ma in quel momento nella sua testa c’era posto solo per un’altra persona; c’era posto solo per Daniel che, picchiato a sangue, ferito, comunque non si era spezzato e aveva sfidato la sorte pur di tornare da lei. Malediceva il cancello che li separava, i miseri spazi attraverso cui sfiorarsi le mani; desiderò spalancare il portone e farlo entrare, nasconderlo, proteggerlo dal mondo intero. Desiderò stringerlo a sé, abbracciarlo e perdersi, farsi sopraffare dal cieco bisogno di lui che nulla, nulla avrebbe mai potuto attutire.
Desiderò lui; e al contempo odiò sua madre, che li aveva condotti sino a quel punto.
Come preoccupato dal suo silenzio, il giovane le strinse più forte le mani.
- Guarda che sto bene, Regina, dico sul serio. Non devi preoccuparti: sono ammaccato, ma già sta passando. Starò bene, e saremo di nuovo insieme.
Si era innamorata di Daniel anche per questo. Per il modo in cui riusciva a essere ottimista, in cui cercava di mostrarle gli aspetti positivi di ogni situazione arrivando persino a inventarli per farla sentire meglio. Per il modo in cui, tra le sue braccia, le insicurezze mordevano meno.
Ma ora le sue braccia erano troppo lontane – c’era il ferro a dividerle, intrecci e ghirigori arzigogolati quanto le loro vite. Nulla sarebbe stato come prima.
Neanche loro.
Quando rialzò il capo, i suoi occhi scuri sprigionavano dardi d’ira capaci d’uccidere.
- Come mi hai trovata?
- Ti conosco abbastanza da conoscere i tuoi rifugi, – ammiccò; o meglio, provò a farlo, prima che il dolore lo facesse desistere – Resterai qui?
- Qui non puoi venire.
Daniel s’irrigidì. Non era la replica che attendeva.
- Non mi aspetto d’entrare in casa. So di non essere benvenuto tra i ricconi, dal momento che non distinguo la forchetta da pesce da quella…
- Asino che non sei altro, non è certo per questo!
- E allora per cos’è? – il servo attese risposta a lungo. Un dubbio molto più doloroso delle percosse s’insinuò nella sua mente – Regina, tu… Per caso hai… Hai cambiato idea su noi?
L’altra lo guardò sconvolta.
- No! – ringhiò all’istante – Ma mia madre sa che sono qui, è già venuta e tornerà ancora. E certo avrà previsto una tua visita, e avrà ordinato di tenere d’occhio la zona e catturarti. Questo è un quartiere sempre controllato, come Belgravia, e se ti vedessero sarebbe la fine; se non succederà oggi, potrebbe succedere domani, o dopodomani o non so quando, ma potrebbe succedere, e questo mi basta. Non posso più farti questo – non posso più metterti in pericolo a causa mia. Mai più.
Il giovane fece passare le braccia attraverso le inferriate e le prese il volto tra le mani, incurante dei tentativi di Regina di divincolarsi.
- No, – la sua voce fendette il silenzio – Come io ho ascoltato te, ora tu ascolti me. Se pensi che mi farò fermare da tua madre o da chi per lei, non hai capito nulla. Non m’importa di lei, non m’importa del mondo. M’importa solo di te, Regina, e sono pronto a dimostrarlo a qualsiasi costo.
- Ma non ne valgo la pena,– la nobile mormorò appena.
Daniel accostò il volto alle sbarre e la baciò.
- Quando capirai che tu vali la pena?
Rimasero così, fronte contro fronte per quelli che sarebbero potuti essere minuti od ore intere, a rincorrersi le dita e sussurrarsi il reciproco amore.
- Non mi lasciare, Daniel.
- Mai.
- Giuramelo.
- Te lo giuro, Regina. Te lo giuro.
All’improvviso un rumore di passi indusse la Contessina a voltarsi. Ogni briciolo di quiete defluì assieme al sangue che aveva in viso quando vide Belle French avvicinarsi; d’istinto fece scudo all’amato col suo corpo. Sentì la donna chiamarla, ma non le prestò alcuna attenzione, tutta tesa a trovare un modo per proteggere Daniel da neanche lei sapeva bene cosa.
- Vattene, – gli sibilò continuando a tenere sott’occhio l’altra.
- Ma…
- Vattene.
Il ragazzo le lanciò un ultimo sguardo, ma non poté far altro che obbedire. Vedendolo andare via, Belle s’affrettò, ma fu vano.
- Perché gli hai detto di scappare? – chiese senza nascondere lo stupore. Il modo in cui la ragazza la guardava, tesa e pronta a schizzare via come una gatta di vicolo, la ferì – Avresti potuto farlo entrare. Mi sembrava ferito, avremmo potuto chiamare il medico e…
- Non è saggio far entrare in casa un perfetto sconosciuto.
- Non mi sembrava fosse un perfetto sconosciuto, – osservò Belle con naturalezza, facendo arrossire l’interlocutrice – È carino, sai? E Daniel è un bel nome. Quanti anni ha?
Regina non rispose. Mille ansie l’affliggevano: stante i trascorsi, era improbabile che Belle andasse a riferire qualcosa a Cora, ma lo zio? Per non parlare della vergogna di essere stata scoperta in atteggiamenti compromettenti… Come aveva potuto comportarsi tanto stupidamente?
- Dirai qualcosa allo zio?
- No, – la tranquillizzò. Non era il caso di precisare che Gold già sapeva – Ma ti assicuro che, anche se alla luce degli ultimi accadimenti potrebbe non sembrare, comunque non ti allontanerebbe per questo motivo, – attese paziente una risposta che non giunse – Sai, – riprese complice, nel tentativo di conquistarne la fiducia – Anch’io alla tua età avevo un pretendente. Si chiamava Gaston. Era piuttosto bello, ma tanto superbo ed egoista da risultare insopportabile… Credeva che l’intero mondo ruotasse attorno a lui e non voleva nemmeno che leggessi! Insomma, – concluse – Non certo un bel tipo.
- Daniel è gentile. È orgoglioso dei miei voti., dice sempre che… – l’adolescente s’interruppe. Non intendeva parlare oltre, finire col confidarsi e pentirsene. Per quanto gli scopi di Belle non apparissero – né probabilmente fossero – minacciosi, aveva il dovere di proteggere il suo amato. Fissò la sua prima e unica amica in cagnesco.
Belle sospirò. La sua prima impressione trovava conferma istante dopo istante, ma doveva far capire a Regina come stessero le cose. Era quello il motivo per cui era scesa personalmente: era l’ennesima occasione per parlarle, stavolta senza una porta a separarle, e non l’avrebbe persa.
- Posso farti una domanda? – Potrei forse impedirtelo?, l’altra fu sul punto di rispondere – Perché hai mandato via Daniel quando mi hai vista arrivare?
La ragazza si morse il labbro. Non si aspettava un quesito simile. Perché aveva mandato via Daniel? Non sapeva dare una risposta univoca.
- Perché… Perché ho avuto paura, – disse infine. Capì all’istante dove l’avesse condotta Belle: alzò lo sguardo e nei suoi occhi celesti trovò solo conferma.
- Allora puoi ben capire il perché della mia reazione l’altro giorno. È naturale: più vogliamo bene a qualcuno, più siamo pronti a tutto pur di proteggerlo. È una cosa bellissima, per la quale non ci si deve scusare; però vorrei tu capissi che, come io non credo tu costituisca più un pericolo per noi, noi non costituiamo un pericolo per te e Daniel. Se non iniziamo a fidarci l’una dell’altra, non potremo convivere. Non sarà facile, – Belle non lo negò – Ed entrambe sbaglieremo, ci fraintenderemo e forse falliremo, però dobbiamo almeno provare. Se non per me, fallo per Helena: le dispiacerebbe vedere sua mamma e la sua nuova amica perennemente imbronciate. Vuoi fare un tentativo per lei?
Pur non espressa, la risposta di Regina fu palese.
- Perché vuoi fidarti di me, ora? Potrei tradirti di nuovo.
- Se non lo facessi, il passato forse cambierebbe? E comunque no – non penso che mi tradiresti di nuovo.
- Come fai a esserne certa? Lei è mia madre. È la mia sola famiglia, quella di Belgravia la mia sola vera casa…
- Lo so, – Belle annuì – Ma so anche che non sempre casa è il luogo migliore cui tornare, – le sorrise tristemente prima di chiederle: – Torniamo in casa?
Le porse una mano che Regina accettò.

 

Like a moth
I'm drawn into your flame.”

 

Dopo la visita da Gold, Cora era tornata a casa con l’emicrania più violenta che l’avesse mai afflitta. La ragione non era poi tanto peregrina: aveva lasciato Belgravia con l’intento di tornarvi vittoriosa, ed era stata sconfitta.
Due volte
No, s’impose di smentire, non è ancora detto. Tante volte nella vita la situazione le era parsa disperata, ma lei era riuscita a ribaltarla a proprio vantaggio e a imporsi su un destino che la voleva ultima tra gli ultimi. Doveva evitare a ogni costo il pericoloso pensiero della resa: aveva subito duri colpi, vero, ma erano due battaglie, non la guerra; la strategia per la vittoria esisteva, ne era certa, e sarebbe stata sua.
Devo solo trovarla.
Il fatto che Belle avesse dato una figlia a Gold l’aveva sconvolta più di quanto avrebbe creduto; di una cosa però era conferma: della furbizia della French. Aveva pensato a tutto, la ragazzina: a suon di moine e falsa compassione aveva trovato la strada per il cuore dell’uomo, gli aveva scaldato il letto nelle notti d’inverno, e il risultato era una bamboccia con cui legarlo a sé in eterno. Perché Robert si fosse lasciato irretire così, esulava dalle sue capacità di comprendonio: aveva i soldi, il potere, tutto, e si perdeva dietro le gonnelle di una serva che – solo ora la Mills si pentiva del suo disinteresse cinque anni prima – sarebbe davvero dovuta finire in qualche dannato bordello e creparvi con la sua bastarda.
Bastarda che però era una realtà di fatto. Era troppo tardi per intervenire in un qualche modo, e malgrado una parte della Contessa potesse illudersi del contrario, se Gold l’aveva accettata significava che era davvero sua. In materia lui aveva sempre avuto una sorta d’intuito che…
Non era questo il punto. Il punto era la bambina. Helena, l’avevano chiamata i presenti. Il padre la conosceva da sempre, o solo da poco ne aveva scoperto l’esistenza? A questo punto non poteva escludere che Belle l’avesse seguito in America.
In tutta onestà, Cora non odiava la piccoletta: non le importava abbastanza da sprecare un simile sentimento per una mocciosa. Era insignificante come la madre cui, espressione a parte, somigliava, ma aveva il privilegio di un grande nome che, seppure non ufficiale, l’avrebbe aiutata non poco nella vita. Furba e curiosa, era entrata nel salottino correndo come una scalmanata e vi aveva dato spettacolo. Se da piccola sua figlia le avesse disobbedito così , le avrebbe tirato un ceffone da farle ronzare le orecchie per giorni; ma era evidente che la French seguiva qualche diversa scuola di pensiero e aveva viziato la mocciosa con attenzioni che ora ella era abituata a pretendere. Magari trascorreva con lei addirittura ore e ore…
Ecco, una cosa simile non sarebbe mai riuscita a capirla. Suvvia, chi passava tempo coi propri figli? I bambini non si dovevano vedere, né sentire. Servivano per assicurare un futuro al nome, ma andavano tenuti lontani finché non si rendevano necessari una volta adulti.
O almeno quando avrebbero dovuto essere adulti.
Non come Regina…
Altro problema. Cora pensava che qualche giorno di riflessione l’avrebbe fatta tornare in sé, ma era stata smentita anche sul punto: la ragazza pareva cieca dei rischi che correva e perseverava nel suo folle progetto di autodistruzione sociale. Quanto altro tempo sarebbe potuta ricorrere a scuse per coprirla? La verità sulla sua nuova dimora sarebbe emersa e la sua reputazione distrutta.
Possibile che avesse fallito a tal punto con lei? Le aveva dato tutto ciò che una fanciulla di buona famiglia desiderava, e ne era stata tradita. Sin da piccola sua figlia era stata così sorda ai consigli, così  resistente ai suoi tentativi di raddrizzarla, che la donna più di una volta si era chiesta a chi davvero somigliasse. Non a lei, questo era certo: Cora era come l’acqua, che passava inosservata e intanto scavava costante cunicoli e galleria ed erodeva persino i massi più antichi, animata da una forza di volontà capace di piegare ogni ostacolo sul cammino. Regina, invece era fuoco: tutto ciò che incontrava, non aveva pietà, non lasciava scampo
Eppure, è l’acqua a spegnere il fuoco, non il contrario.
E alle volte, il fuoco finisce per consumarsi da sé.
Ma la contessa Mills non avrebbe mai permesso alla sua chiave per l’ascesa di perdersi.
Malgrado quanto detto durante l’ultimo incontro, doveva tornare da Regina e farle capire chi avesse torto e chi ragione. Forse stavolta non ci sarebbe riuscita, ma sarebbe arrivato il giorno in cui la figlia l’avrebbe ascoltata; e, in ogni caso, sarebbe stata un’occasione per rammentare a Robert una o due cosette che l’uomo pareva intenzionato a ignorare.
Di per sé Cora non avrebbe più voluto avere realmente a che fare col suo ex amante, ma questo non significava certo che avrebbe permesso a lui e alla sua troietta di vivere sereni con la loro bastardina.
Anzi, quanto a quest’ultima, era l’ora che scoprisse il suo posto al mondo; e almeno il modo di far questo, c’era.
Scialba come sua madre o meno, tuttavia in una cosa la mocciosa era stata fortunata.
Se non altro, si disse Cora, non ha il naso di suo padre.

 

There's nothing I can do,
my heart is chained to you.”

 

Belle ringraziò con un cenno il lacchè che si offriva ad aiutarla a smontare dalla carrozza. Non era per superbia se non accettava la mano che le veniva offerta: semplicemente, sapeva che se fosse stata ancora una cameriera quella gentilezza non ci sarebbe stata. Non sarebbe mai riuscita ad accettare ossequi derivanti dal suo repentino cambio di status: come poteva un aspetto tanto incidentale influire in simile modo sulla considerazione del prossimo? Non accusava il dipendente: senza dubbio Robert – la donna sospirò – l’aveva minacciato di pesanti ritorsioni se non si fosse mostrato cerimonioso, ma tante attenzioni la imbarazzavano, più che lusingarla. Per Helena aveva accettato di essere seguita a distanza dalla scorta e di prendere una carrozza: aveva optato per la meno vistosa, pur sapendo che la vettura si sarebbe comunque distinta nella miseria di Whitechapel suscitando domande; domande che si sarebbero moltiplicate se avessero visto smontare dalla vettura la cameriera di Granny’s.
Strinse più forte la manina della bimba. Lungi da lei diventare paranoica come l’amato o smettere di riporre fiducia nel prossimo, ma i rischi paventati da Robert esistevano. Forse l’uomo aveva ragione: avrebbero dovuto blindare la loro posizione per mettersi al sicuro…
Ma Belle non era d’accordo. Gli inganni di Cora erano stati la molla che li aveva portati a una separazione le cui radici erano però molto, molto più profonde: quella sfiducia che nessun atto ufficiale avrebbe potuto colmare. La fede nasce da dentro, nasce dal cuore; e in sua assenza, ogni progetto è vano.
Ma non era il momento di vagheggiare: lei e la figlia dovevano entrare nella locanda alla svelta. Quando scostò la porta, fu investita dal cicaleccio e dal tipico odore del pub: fumo, cibo e birra; non fece in tempo a guardarsi attorno che subito fu raggiunta da una voce ben familiare.
- Belle! – Ruby si asciugò le mani sul grembiule e le corse incontro. Le due si abbracciarono felici: non si vedevano da pochissimi giorni, ma dopo aver vissuto assieme per cinque anni quella separazione era parsa loro molto più lunga.
La bruna si chinò poi a baciare Helena, che smaniava per la sua attenzione.
- Fammi indovinare, –le disse fingendo di riflettere – Questo vestito viene dritto dritto da Parigi! Dalle migliori sarte francesi, oserei dire!
- Non lo so. Quando torniamo lo chiedo a papà e poi vengo a dirtelo!
La Lucas si voltò verso l’amica, un sopracciglio maliziosamente inarcato.
- Quando torniamo, eh? – Belle ghignò di tutta risposta e non evitò lo sguardo indagatore, pur sentendo le gote imporporarsi. Ruby rise e pizzicò l’amica –Granny è da Marco per degli sgabelli, e guarda caso è voluta andarci per forza lei… Però ora troviamo un modo e mi racconti tutto, – le disse sottovoce – Tra l’altro, aspetto Tink. Speriamo sia con uno dei suoi bambini per Helena.
In quel momento l’uscio si spalancò e, come evocate, fecero il loro ingresso la volontaria e la piccola Grace Hatter.
- Diamine di un’afa, oggi, – borbottò la donna avvicinatasi alla cameriera e notando solo allora l’altra – Chi si rivede! – malgrado le brusche parole, la Barrie strinse a sé Belle e le sorrise con calore – Sono contenta di rivederti. Come stai?
- Benone! – ammiccò Ruby, approfittando della distrazione delle bambine già intente a giocare – Chiunque al suo posto lo starebbe!
La bionda le guardò di sottecchi.
- Cioè?
- Lasciala perdere, la conosci, – l’ex domestica scosse il capo fingendosi esageratamente rassegnata – Comunque, effettivamente di novità ce ne sono, e non poche.
Le tre si sedettero e subito Belle iniziò a esporre i convulsi accadimenti degli ultimi giorni senza tralasciare nulla: l’acceso confronto con Gold, la presenza di Regina, l’angoscia per la sparizione di Helena e ciò cui aveva contribuito il suo ritrovamento; le riflessioni della mattina e la decisione di concedere l’ultima, definitiva chance a Robert, con ciò che ne seguiva. Ruby ascoltava attenta, non lesinando le sue solite battutine maliziose, ma alla fine del racconto, era emozionatissima.
- Oddio, Belle… Sono così felice per voi! Non ti nascondo che sarà triste non avere te ed Helena in casa dopo tanto tempo, ma dovete andare. Dovete essere la famiglia che sareste dovuti essere sempre; meritate di stare finalmente assieme.
- Ma saremo qui ogni settimana, e quando non ci fermeremo qui verremo comunque a trovarvi!– sottolineò la donna stringendo le mani all’amica – Tu e tua nonna siete la nostra famiglia non meno di Robert: ci avete accolte e aiutate quando eravamo sole al mondo, e sarei un’ingrata se scordassi certe cose. Come potrei andarmene e dimenticarvi? No, no, – scosse la testa – Non accadrà.
- Che c’entra, io parlo in generale! Mi mancheranno le piccole cose, gli scherzi, il lavoro insieme. Mi mancherà doverti salvare ogni volta che inciampi, o fare i versi degli animali per Helena, o la tua mania per il tè. Però va bene così, – Ruby le fece l’occhiolino – Il giorno in cui anch’io sarò una ricca signora torneremo a vederci ogni giorno anziché una settimana sì e una no, e non riempiremo mai più mezzo boccale: saremo troppo impegnate a fare spese folli nei negozi che riforniscono Buckingham Palace!
Belle si unì alla risata della bruna: la sua spensieratezza, che tanto l’aveva aiutata nei momenti bui, le sarebbe mancata non poco. Ma le promesse che le aveva fatto erano sincere: non avrebbe scordato la sua vecchia vita per alcuna ragione al mondo. Anche Ruby e Granny, anche quel locale confusionario e quelle strade sporche e malfamate erano la sua vita, erano esperienze ed episodi che avevano forgiato la sua personalità non meno della serena infanzia e adolescenza, della caduta e dei primi mesi a Kensington; e non intendeva barattar ciò che era in cambio di abiti in seta e preziosi gioielli.
Solo Tink non aveva condiviso la risata delle due: era rimasta nel suo angolo, taciturna e seria come poche volte prima d’allora.
- Sei taciturna, oggi. Non mi dici la tua?
- Te la direi, se ne avessi bisogno. Tu hai già preso la tua decisione.
Belle s’irrigidì appena.
- Ciò non significa che io non voglia comunque conoscere il tuo parere.
- Il mio parere? – finalmente Tink alzò gli occhi dal boccale di birra – Io penso che in questo mondo ci siano parole più pericolose di qualsiasi magia, e “ti amo” è una di queste. Ma “ti amo” non significa “non ti lascerò mai”, e dovresti essere molto, molto più cauta che in passato, ora che c’è Helena.
- Ci ho pensato,  – Belle fissò l’amica con altrettanta determinazione – Ed è anche per lei se ho deciso di compiere questo passo. Suo padre c’è, l’ama – ci ama – e si sta impegnando per essere un uomo migliore. Si sta impegnando con tutto se stesso e so che ci riuscirà. Le cose non andranno di nuovo male. Non accadrà.
- Non fraintendermi, – la volontaria le rivolse un’occhiata grave – Siamo amiche da anni, e sai come la penso, ora come allora. Sarei felicissima se tutto andassero per il meglio: lo sarei stata cinque anni fa, e a maggior ragione lo sarei ora. Anzi, – aggiunse in fretta – Te lo auguro dal profondo del cuore. Ma proprio perché è già successo, proprio perché sai che le cose potrebbero finire bene tanto quanto male, vorrei tu fossi attenta a ogni segnale, a ogni avvisaglia. I primi tempi tutto sembra magico, ma è proprio questo il momento in cui si creano le voragini che possono inghiottire. Non permettergli di farsi amare senza amare, non subire nulla, anche a costo di litigare ogni giorno. Se lo farai, un giorno ti ritroverai a dover andare via amandolo ancora.
Non accadrà.
(Lo ripeti a lei o a te stessa?)
- Quello che Tink vuole dire, – intervenne Ruby conciliante – È che alle volte l’amore non basta. Non basta se non c’è rispetto reciproco, se non c’è sincerità.
- Non cadere sotto il suo incantesimo, Belle, – ribadì Tink – Lui è bravo, maledettamente bravo con le mezze verità... Ma sono mezze verità, appunto. E tu devi pretendere l’intera verità.
Lo so.
Ma lui è diverso, ora – lui non mi mentirebbe più, non nasconderebbe più i suoi problemi.
(Lo ripeti a lei o a te stessa?)
- Stamani stessa abbiamo parlato, – quando riaprì bocca, la voce di Belle suonò bassa, ma non tremante – Mentre succedeva avevo quasi le lacrime agli occhi dall’emozione. Sembra una cosa da nulla, lo so, ma per com’è fatto lui è una conquista immensa. È segno che tutto è diverso, ora, che stavolta non solo pretenderò la verità, la otterrò. Tutto è cambiato, tutto eccetto una cosa – guardò negli occhi le amiche mentre lo diceva –Mai gli ho permesso di mancarmi di rispetto, e certo non glielo permetterò ora. Io resterò me stessa, qualsiasi cosa accada. A qualunque costo.

 

“And I can't get free,
look what this love did to me.”

 

- Robert, non è gentile mostrarsi così corrucciati in presenza di un’ospite, su. Per quanti dissapori possiamo aver avuto, abbiamo pur sempre un passato.
Gold digrignò appena la mascella. Se ben ricordava, Cora aveva dichiarato di non voler più avere a che fare con la figlia; e invece, appena due giorni dopo quell’affermazione, eccola a torturarlo coi suoi sorrisetti affettati e le sue maniere fintamente cortesi. Non comprendeva il perché di una simile farsa: avrebbe preferito avere a che fare con la vera Cora, la donna decisa e franca che non si lasciava intimidire da niente e nessuno e non faceva mistero sulle sue mire.
La donna che per un lungo periodo aveva creduto di amare, che forse aveva amato.
Per lo meno, la visita coincideva con l’assenza di Belle ed Helena, tornate dalle Lucas: riaverle tutte nella stessa stanza era un’esperienza che la sua sanità mentale gli implorava di non ripetere.
- Credevo intendeste andarvene subito, dal momento che Regina non vuole vedervi, – le ricordò senza curarsi di nascondere il fastidio.
- Mia figlia potrebbe sempre cambiare idea, sapendomi qui. Ah,– scosse il capo rassegnata – La sua è davvero un’età terribile, e non tanto per chi la vive quanto per chi deve subirla. Ti sta causando molti fastidi?
- Meno di quanto me ne dia la madre.
- Mi spiace che questa brutta situazione sia capitata proprio ora. Immagino avresti voluto trascorrere un po’ di tempo con la tua camerierina e la sua trovatella… A proposito, – aggiunse con noncuranza studiata a tavolino – Ho portato un regalino per Helena. È una bimba così adorabile… Ti somiglia, sai?
La vista di Gold si illividì.
- Gentile da parte vostra, Milady. Mia figlia ha avuto il buon senso di prendere da sua madre.
Gli occhi di Cora, neri come la più malvagia delle maledizioni, furono attraversati da un guizzo.
Robert, ricordami di ringraziarti per la tua ingenuità.
- La qual cosa, – osservò fin troppo dispiaciuta – Purtroppo ne rende più incerta la paternità…
Ti sta provocando.
Non cadere nella sua trappola, non aspetta altro, si redarguì l’industriale.
Ma mantenere la calma dinanzi a simili insinuazioni era troppo.
La guardò con odio, ogni fibra del suo essere che scalpitava per assalirla. Non gli importava che fosse una donna, non gli importava che fosse stata la sua amante per un ventennio: se avesse potuto, in quel momento Robert Gold avrebbe ucciso; e l’avrebbe fatto col sorriso sulle labbra, l’avrebbe fatto senza pentirsene in seguito: perché il suo sarebbe stato forse un assassinio commesso in innocenza, commesso col solo fine di riequilibrare una congiuntura che da troppi, troppi anni pendeva ingiustamente a suo svantaggio.
- Se pensi di instillarmi il dubbio in merito, ti avverto immediatamente: non ci riuscirai,– si stupì della sua pacatezza, malgrado la furia che lo incendiava – Helena è mia. Ne ho la certezza, e tu non potrai far nulla per convincermi del contrario. Perciò, se è questa la ragione della tua visita, puoi tornare da dove sei venuta. Credo di essere stato chiaro.
Cora sostenne il suo sguardo con indifferenza appena tinta di una compassione che non nutriva.
 - Non capirò mai come fai a credere a una come la French, – ammise in uno dei rari attimi di sincerità che si concedeva – Una che dal primo momento ha brigato per accalappiarti senza neanche farne mistero.
- Oh, Dearie, – un sorriso sottile danzò sulle labbra dell’uomo – Se lei mi piace tanto un motivo c’è. Lei non è te.
Cora si vietò di lasciarsi sfiorare dalla provocazione.
- Questo non lo metto in dubbio, – concordò – Un confronto con una persona del genere mi offenderebbe non poco.
- Ci sarebbe confronto se fossi indeciso, e mi preme assicurarti che non lo sono. Come ti ho detto quando hai inventato la notizia della sua morte, non riuscirai a riportarmi da te, per quanto possa provarci. Rassegnati.
A quel ricordo la Mills, notò Gold, ebbe persino l’audacia di mostrarsi oltraggiata.
- Non ho inventato niente. Ti ho riferito quanto si diceva in giro.
- E tu sei alacremente venuta a riferirmi tutto. Quanta premura, – l’uomo alzò gli occhi al cielo, rimarcando il sarcasmo dell’ultima frase.
- Io tengo agli amici. Cosa che non tutti possono affermare, visti i trascorsi... Sai, – fece improvvisamente meditabonda, senza dargli il tempo di ribattere – Io non credo di esagerare coi miei giudizi sulla situazione. Però ho comunque provato a considerarla sotto un altro punto di vista, e il quadro che ne esce non è per te… Gratificante, ecco.
Gold la osservò inquisitorio, insospettito dal repentino cambiamento.
- Temo di non seguirti.
- Oh, Robert, non offendere la tua intelligenza. Perché dubito tu non ci abbia mai pensato… Ipotizziamo, – Cora gli rivolse un sorriso degno di un dipinto di Leonardo – Che io abbia preso un abbaglio. Cosa che non è, ma ipotizziamo per un attimo che la tua servetta non sia una scalatrice sociale pronta a tutto, ma l’angelo che tu ti prefiguri, la dolce fanciulla sempre pronta ad aiutare il prossimo. Ipotizziamo che, per qualche strano e perverso motivo, si sia davvero affezionata a te, abbia davvero voluto aiutarti e sostenerti nella buona e cattiva sorte… Se questi presupposti fossero veri, se davvero Belle avesse avuto tua figlia e tu l’avessi licenziata, non ti saresti comportato da gentiluomo nei suoi confronti.
Gold strinse le labbra in una linea sottile. Sosteneva lo sguardo scaltro dell’ex amante con indifferenza, ma la sua voce tradì una lievissima ansia di cui la donna si beò.
- Ho commesso molti errori nei confronti di Belle, e credere a te anziché a lei è stato il più grave. Non intendo sottrarmi alle mie colpe.
- Naturalmente, – la Contessa lo guardò come se stesse proferendo un’ovvietà – Ma questo non rende meno grave la posizione di quelle due infelici. Non sarà solo Belle a risentirne, lo sai. Tra pochi anni un’innocente dovrà scontare le colpe paterne. Potresti anche legittimarla, ma i suoi natali non sarebbero dimenticati: tuttora si mormora sulla mia ascesa… –ricordò rammaricata – Non parteciperà mai ai balli cruciali delle Stagioni, non verrà mai presentata a Corte. Sarà sempre una paria, a causa tua.
- Le darò tutto ciò che desidera, la migliore educazione, le migliori feste. Non le mancherà nulla. E soprattutto, sarà amata.
- Certo, la sua nascita è senza dubbio un errore cui cercherai di rimediare per tutta la vita,– concesse, con gli occhi luccicanti di un gatto che lascia scappare il topo catturato per il solo gusto di vederlo correre un’ultima volta – Ma anche se le dessi il mondo le mancherà essere accettata. Sarà questo, questo a farle più male. Tuttavia, mio caro,– scosse appena il capo – Non è il suo il caso più grave. Il mondo è in perenne divenire e la creaturina ancora piccina: quando giungerà il suo tempo, magari, la società sarà meno intollerante… Ma la situazione di sua madre, oramai, è compromessa per sempre.
- È mia intenzione sposarla a breve, – incurante di rivelarlo, Gold controbatté all’istante – Non permetterei mai che…
- Non permetteresti mai? – per la prima volta da quando aveva intrapreso la conversazione, nell’animo di Cora iniziò a farsi strada, tra il piacere e la soddisfazione, un barlume di rabbia. Robert realizzava ciò che stava dicendo o replicava per il solo gusto di farlo? – L’hai permesso, Robert, l’hai permesso per cinque anni, quando non avresti dovuto attendere neanche cinque giorni. È per questo che, in conclusione al mio ragionamento, sono costretta a chiedermi se tu tieni a Belle French tanto quanto affermi.
Gold le lanciò uno sguardo che era un pugnale.
- Io amo Belle French.
- Robert, Robert, – lo guardò sconsolata – Ti conosco troppo bene per far finta che la tua maschera sia realtà. Tu credi di essere innamorato perché ne hai bisogno, ma non l’ami, – si alzò e gli si avvicinò, ammirando soddisfatta il pallore che si era impadronito del volto dell’uomo – Tu l’hai scelta perché ti era vicina. Perché non ti avrebbe mai tradito, perché era gentile e comprensiva. Perché forse era vergine, e l’idea di una ragazza inesperta e innamorata che si affidava totalmente a te, l’idea di avere potere ti intrigava, ti faceva sentire forte accanto a una bambina. Ma non l’ami – non l’hai mai amata. Se l’avessi fatto, non l’avresti trascinata nella tua discesa personale nell’abisso.
Gold non voleva ascoltarla, non voleva; ma ogni parola della Contessa era una lama che sapeva colpire là dove faceva più male, che sapeva insinuarsi, seviziarlo, trafiggerlo, ed eppure lasciarlo vivo.
Se vita poteva definirsi l’agonia.
Non c’era forse un fondo di verità in quelle frasi? Se era sicuro, se era certo del suo amore per Belle, non era forse men vero che se avesse davvero avuto a cuore il suo bene mai l’avrebbe toccata, mai avrebbe corso il rischio di comprometterla e farle ingrossare le fila delle donne perdute?  C’era stato un tempo in cui l’aveva evitata per proteggerla, quasi temesse di infettarla respirandole troppo vicino: forse allora l’aveva davvero amata, e non quando l’aveva abbandonata incinta e non sposata, condannandola a una vita d’asservimento.
Questo, almeno questo era un fatto incontrovertibile.
- Oh, Robert, – Cora sussurrava il suo nome con deliberata lentezza, come il più lascivo dei peccati. Lo disgustava, eppure non sapeva sottrarsene – Non è mia intenzione turbarti, credimi. Ma, per quante incomprensioni ci siano state tra noi, è comunque mio dovere cercare di aprirti gli occhi e impedirti di soffrire ancora… E far soffrire. Immagino sia difficile staccarsi da un affetto che si è idealizzato tanto, ma mentire, anche a te stesso, ti riesce facile. L’innocenza, l’onestà non ti si addicono, mentre per Belle – se davvero è chi tu dici che sia – sono essenziali, e lo stesso dicasi per la sua bambina. Potresti offrir loro questo? O le feriresti ancora, ancora e ancora?
Conosci la risposta.
La conosci perché già stai ferendo l’unico tuo amore, la madre di tua figlia, già la stai uccidendo.
La stai uccidendo con le bugie, con la codardia, con la tua incapacità di reagire a Cora.
La stai uccidendo restando immobile qui, a lasciarti anche solo sfiorare da colei che avrebbe voluto, che vuole, vederla morta.
La stai uccidendo.
Solo che lei non se n’è ancora resa conto.
Forse era Cora ad avere ragione. Forse l’aveva sempre avuta, almeno sul punto, e lui era stato sordo per tutti quegli anni. Com’era che lo chiamavano? Il mago dei tessuti, la Bestia? E Belle, Belle non era forse bella e pura come le principesse delle fiabe? Le storie non insegnano forse che la principessa s’innamora del cavaliere che la salva, non del mago cattivo che la rapisce, che la tiene prigioniera, che la viola?
- Loro non sguazzano nel fango. Noi sì, – la frase era una carezza, intima e insinuante –  Dicono sia l’ombra a far risaltare la luce, ma vale anche il contrario. Anzi – dove vi è più luce, l’ombra è più scura.
Ma la tenebra non può scacciare altra tenebra.
Solo la luce può.
Poteva quasi sentire all’orecchio la voce di Belle.
Combatti, amore mio.
Resisti.
Non credere a lei, credi in noi.
Aveva commesso dei peccati, era vero. Aveva rovinato Belle, le aveva imposto una figlia e le aveva distrutto la vita; ma al tempo stesso, nel suo modo contorto, sbagliato, sincero, l’amava. L’amava con ogni fibra della carne, del sangue e dell’anima; se ancora aveva un’anima, apparteneva a Belle. Era a lei che doveva fedeltà; e non solo la fedeltà del corpo che in una terra lontana le aveva negato, ma anche,soprattutto, la fedeltà dell’anima che resisteva, che mai era venuta meno.
Che non sarebbe venuta meno adesso.
- Vattene, – non seppe mai dove avesse trovato la forza – Vattene. Le tue parole dimostrano la tua pochezza. Se capissi cos’è l’amore, non le pronunceresti.
Non era il comando che Cora si sarebbe attesa, era chiaro.
Ma la Contessa non si lasciò intimidire.
- Oh, no, Robert, – mormorò con un sorriso sbieco – Proprio perché so cos’è l’amore, io le pronuncio.

 

I'm so confused,
so hard to choose.”

 

- E poi Grace mi ha detto che gira un cane vicino all’orfanotrofio, un cane tutto grigio e con gli occhi azzurri come i tuoi, ma’! Ha detto che Tink le ha detto che è un cane che si chiama… Hu… us…
- Husky? – Belle le suggerì gentile.
- Sì, esatto, ma’! Dici che papà mi prende uno?
 
- Non so, Helena. Un cane non è un giocattolo, devi prendertene cura sempre e per un po’ noi saremo anche a Whitechapel.
La bambina sbuffò.
- Secondo me papà me lo prende. Soprattutto se gli dico che ha gli occhi come i tuoi!
Belle rise. Per fortuna almeno la figlia la distraeva dai pensieri cupi. Sapeva che Tink e Ruby erano in buona fede e volevano solo aiutarla: al loro posto sarebbe stata dello stesso avviso, avrebbe dato i medesimi consigli; però al contempo – sebbene lei e le amiche si fossero salutate in massima amicizia – la conversazione l’aveva rattristata.
Era conscia dei pericoli da cui l’avevano messa in guardia le due, ma non intendeva farsene fermare. Perdere per paura la possibilità di essere felici non era forse ciò che aveva fatto Gold? Imitarlo non era nei suoi piani, anzi: lei gli avrebbe dimostrato che, malgrado tutto, esisteva la strada per loro, e l’avrebbero percorsa assieme, fianco a fianco, aiutandosi nelle difficoltà e gioendo delle meraviglie che la vita, ne era certa, avrebbe ancora riservato loro. Si erano lasciati portar via fin troppo tempo: non sarebbe più, mai più accaduto.
- Andiamo da papà, dai, – disse dirigendosi verso lo studio; ma passando accanto al salottino, colse una frase che la fece fermare di colpo.
- Proprio perché so cos’è l’amore, io le pronuncio.”
Non fu difficile ricondurre la voce femminile alla sua proprietaria.
Belle dovette ingoiare la rabbia al pensiero della Mills in casa. Cos’era tornata a fare? La scusa era senza dubbio Regina, ma come illudersi sui suoi veri fini? Non pensò a nulla in quel momento: sotto lo sguardo esterrefatto della figlia, si voltò ed entrò nella stanza proprio come aveva fatto due giorni prima.
Al loro ingresso, un tremolio impercettibile increspò l’aria.
- Buon pomeriggio, – mormorò senza chinare il capo.
- Buon pomeriggio a te, Belle cara, – Cora rispose con un sorriso sereno. Perché non avrebbe dovuto rivolgerle uno?  Forse non era arrivata fin dove avrebbe voluto, ma era ugualmente soddisfatta di aver angustiato Gold; la presenza della French e della bambina avrebbero assicurato piena soddisfazione alla seconda metà del suo piano –Credo proprio sia l’ora di farti gli auguri: il nostro comune amico mi ha messa al corrente della vostra intenzione di adempiere agli obblighi sociali, ora che sei tornata dal mondo dei morti. A quando l’annuncio sul Times?
- In verità, – sebbene sorpresa, Belle non esitò a controbattere – Aspettavamo di dirtelo assieme. Sappiamo bene quanto tieni alla felicità del mio futuro fidanzato…
Cora non diede segno di aver colto la frecciata.
- Che dolcezza, – commentò amabile – Ho anche portato un presente per Helena. Sei una bambina meravigliosa, lo sai? – si complimentò rivolgendosi alla piccina.
L’interpellata non rispose. Cosa fare? Scappare subito via dalla stanza e nascondersi in attesa che la mamma di Regina se ne andasse? Mamma le aveva raccomandato attenzione e ordinato di riferire l’eventuale incontro a lei o a papà… Ma ora erano entrambi presenti e lei non sapeva come comportarsi.
- I tuoi doni non sono graditi, – un gelido Gold digrignò la mascella.
- Sciocchezze, – lo liquidò con un cenno delle dita – Sono certa che tua figlia l’apprezzerà. I suoi gusti sono certamente migliori dei tuoi… Non che ci voglia molto a superarli, negli ultimi anni.
Non essendoci alcuna reazione, la dama sospirò e iniziò a scartare il pacchetto.
- Sono madre anch’io. Credete davvero farei del male a una bambina?
Dopo pochi istanti, la confezione lasciò emergere un cagnetto di peluche.
Gli occhi di Helena si allargarono mentre il gioco passava dalle mani della donna a quelle molto più attente di Gold e di Belle e infine alle sue. Lo strinse al petto: se la signora le aveva fatto un dono, avrebbe dovuto considerarla ancora cattiva? Le persone cattive non erano generose…
- Grazie, – disse infine. Nel dubbio lei sarebbe stata educata come le era stato insegnato. La signora nel frattempo si era alzata e se ne stava andando; ciononostante, Helena si fece coraggio e decise di porre la domanda che le premeva, nella speranza che la risposta fosse quella sperata.
- Che cane è?
Cora rallentò appena.
Bambina cara, serve impegno per ereditare il peggio di tua madre e il peggio di tuo padre.
- Intendi la razza? Oh, no, tesoro, – smentì inclinando il capo dispiaciuta – Questo è un cane molto più adatto a te. Un bastardino.
La Contessa richiuse la porta alle sue spalle e avanzò verso l’ingresso, certa che nessuno l’avrebbe raggiunta.
Incontrò solo una persona, la persona che era concausa della visita: sua figlia, che stava scendendo le scale, si bloccò appena la vide.
Le due si guardarono per un momento, un ciclone di parole, di emozioni, di domande senza risposta a travolgerle.
Un ciclone che Cora ignorò.
- Fa’ ciò che devi, – fu la sua sola richiesta.
Dopo un istante, un’unica parola lasciò le labbra di Regina.
- No.

 

And I know it's wrong,
and I know it's right,
even if I try to win the fight,
my heart would overrule
my mind.”

 

 

Se Belle non era scattata addosso a Cora, era stato solo a causa di Robert.
Come intuendo le sue mosse, l’uomo l’aveva trattenuta contro la sua volontà, mormorandole senza sosta parole che lei non era riuscita a comprendere.
Ma come poteva calmarsi, come poteva lasciar correre l’ennesima offesa a loro figlia?
La bambina aveva guardato dubbiosa la porta da cui era uscita la donna e i genitori i cui gesti non capiva. Sapeva solo che quello non era un husky e che la signora le aveva rivolto di nuovo quella parola strana che faceva arrabbiare tutti.
- Che significa “bastardo”? – aveva chiesto curiosa.
- Non significa niente, – Belle aveva ringhiato – Niente.
Significa che è solo colpa mia, era stato l’unico pensiero di Gold, che le aveva mandate dagli altri di lì a poco e si era chiuso nello studio.
Belle si era resa conto di aver obbedito solo dopo averlo fatto, ma lì per lì non se n’era pentita.
Gli aveva dato tempo. Aveva aiutato gli ex colleghi cercando di distrarsi, di non lasciarsi torturare dal pensiero di ciò che Cora aveva detto a Robert prima del suo arrivo, al discorso di cui lei aveva udito solo la conclusione; l’aveva atteso ore intere nella sua camera, nella speranza lui salisse.
Ogni sforzo era vano.
Non era questione di gelosia, quanto di ansia: dalla reazione di Gold era chiaro che le parole della Contessa l’avessero colpito in un angolo segreto, in una ferita non rimarginata che ora aveva ripreso a sanguinare copiosa.
Con Robert Gold, però, non si sapeva mai quale ferita si fosse andati a toccare, tante ne aveva.
E il problema era sempre lo stesso: lui non chiedeva aiuto. Non diceva mai di cos’aveva bisogno, non esprimeva mai le sue paure, i suoi dubbi.
Era rotto, e non lo diceva.
Ma le cose stavolta andranno diversamente.
Belle non pretendeva Robert cambiasse per lei, non pretendeva che da un giorno all’altro diventasse espansivo: se se ne era innamorata, era stato anche per il suo essere introverso, per la sua timidezza e fragilità; ma almeno voleva essere messa a parte di una questione che riguardava anche lei e che aveva turbato l’uomo a tal punto da farlo isolare da tutto e tutti, famiglia in primis.
Non chiese permesso prima d’entrare nello studio, non si lasciò fermare dal suo sguardo: andò verso di lui arrabbiata e addolorata a un tempo, ben decisa a risolvere la questione subito.
- Belle, – l’uomo si alzò – Non…
- No, ora mi ascolti, – esordì – Non so cosa sia successo con Cora, ma ti ho dato tempo per riflettere, per metabolizzare, per… Non so, ma ti ho dato tempo perché è giusto così. Ti ho dato tempo nella speranza…
- No, non capisci come sono andate le cose…
- …Che tu venissi spontaneamente a spiegarmi, perché è così che ci comporta in una coppia, perché in una coppia non ci si nasconde, non ci si vergogna, e invece, invece, nulla. Ti ho aspettato, ma tu non sei venuto da me.
- Come potevo farlo se…
- Potevi, comportandoti come hai promesso di fare, smettendo di aver paura di me, decidendo…
- Non potevo comportarmi così! – le urlò afferrandole i polsi, facendola trasalire – Sai cosa mi ha detto Cora? No, non lo sai! Mi ha detto quello che una parte di me pensa da sempre: che ti ho usata e rovinata, che se ti avessi mai amata ti avrei mandata via prima di qualsiasi cosa. Lo so, – l’anticipò – Cora l’ha detto per provocarmi, e sono stupido a darle ascolto. Perché io so che non è vero, Belle, so che non è vero perché ti amo; ma so anche che è vero, perché ti amo ma non ho avuto pietà. Mi sono sentito come quando credevo fossi morta: tutte le mie colpe, tutti i miei errori mi sono caduti addosso all’improvviso e io non ho potuto dir niente, fare niente se non restare immobile. Ciò che ti ho riservato, la fama cui ho condannato Helena… Tutto, –la voce si perse in un sussurro, mentre lasciava scivolare il capo sulla spalla della donna – Sono io la causa di tutto. E se io non riesco, se io non posso perdonarmi, come puoi tu? Come possiamo, Belle, come possiamo?
Sentì l’amata stringerlo a sé: ricambiò con furia, come un naufrago che nella tempesta si aggrappa all’asse di legno che è la sua unica salvezza. Sentì le sue dita carezzargli i capelli e poi percorrergli la linea della mascella; la sentì sfiorargli una guancia con le labbra.
Non sono abbastanza forte.
Belle parlò all’improvviso.
- C’è solo una cosa che non potrò mai perdonare.
Gold rialzò il capo. Negli occhi che in tanti descrivevano come spietati regnava tutta la paura del mondo.

- Non potrò mai perdonare il modo in cui tu giudichi te stesso.

 

And I'm not strong enough
to stay away”
“Not strong enough” – Apocalyptica ft. Brent Smith

 

1: adattamento di “Dentro di me si fanno la guerra rancore e tenerezza”, da “Skagboys” di Irvine Welsh.

 

N.d.A. : Salve salvino, bellezze! ♥
Come procede? Spero che anche per voi la sessione sia finita e che possiate godervi l’estate, il dolce far niente e il mare! *_* Euridice porterà sotto l’ombrellone i libri per la tesi e quelli per l’ultimo esame, quindi direi che non l’attende un’estate di splendido ozio… Divertitevi anche per me! XD
Passando a noi, allora, che ve pare? Sapete che i vostri commenti sono la mia forza, perciò fatevi sotto e date il vostro parere anche critico senza temere di offendermi o simili, perché – ve lo ripeto da un anno e mezzo – potete solo aiutarmi! Se notate incongruenze, OOC – io temo sempre per tutti, e negli ultimi tempi più per Belle e Regina che per Gold – o errori, parlate!
In molt* si preoccupavano per le sorti di Daniel e Mal, ed ecco svelato l’arcano: non farò più trascorrere tanti capitoli prima della loro prossima ricomparsa. Cora è tornata all’attacco, e si rivela la bi*ch di un tempo, senza cuore, incapace di avere pietà persino di una bambina e sempre pronta a mandare in crisi Gold... Ah, benedetta Belle!
Ora, le brutte notizie: per gli impegni citati nelle prime righe temo che non mi sarà possibile garantire aggiornamenti puntuali ogni due settimane. I capitoli sono lunghi e non sempre facili da scrivere, e non intendo procedere alla carlona per sbrigarmi: tengo molto alla storia e a voi lettori, non sarebbe giusto nei confronti di voi che mi avete sempre seguita e aiutata! Per questo, almeno per un po’, pubblicherò ogni tre settimane – quindi ci si rilegge qui sabato 8 agosto!
Nel frattempo mi trovate sulla pagina Facebook “Euridice’s World”, su cui porto avanti il progetto dei "segreti" delle long, i particolari che per un motivo o l'altro non ho sviluppato, le possibilità prese in considerazione e scartate, i "what if", headcanon interni e simili.
Mi scuso se non ho ancora risposto alle recensioni – provvederò quanto prima! Grazie mille a chi recensisce o legge in silenzio e a chi inserisce la storia in una categoria: il fatto che impieghiate il vostro tempo a tal fine mi lusinga sempre tanto! *_*
Ci si rilegge presto, Dearies adorat*, e ricordate sempre che RumBelle rocks! :D
Bacioni! ♥ ♥ ♥
Euridice100

 

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Capitolo 16
*** XV - Photograph ***


Per voi, adorate,
che da un anno a questa parte
NON ESISTETE! – cit.
Vi voglio bene. ♥ ♥ ♥
 
 
 
XV - Photograph
 
 
 
“Loving can hurt,
loving can hurt sometimes,
but it's the only thing
that I know.
 
 
 
Robert Gold non si definiva innamorato di Belle French. Una simile dichiarazione sarebbe stata troppo vaga e superficiale, totalmente inadatta a esprimere la portata dei suoi sentimenti; e soprattutto, sarebbe stata ripetitiva, e Robert Gold odiava ripetersi.
Molto più semplicemente, il mago dei tessuti considerava Belle French quanto di migliore gli fosse capitato in mezzo secolo di vita; e riteneva ciò che avevano costruito, che stavano costruendo, puro incanto.
Se dieci anni prima gli avessero predetto una persona che avrebbe segnato un “prima” e un “dopo”, non avrebbe creduto: la donna che sarebbe diventata centro di ogni sua azione, il filo logoro e tanto resistente che li avrebbe uniti e ciò che ne sarebbe scaturito gli sarebbero parse utopie, gloria benedetta cui non era destinato ad accedere. Rassegnatosi ormai a non conoscere più l’affetto, forse avrebbe umiliato l’incauto indovino, dettogli che la sua vita era già perfetta: non necessitava miglioria alcuna – o almeno, non migliorie possibili.
Forse lo pensava veramente, un tempo.
Forse.
Ma poi era successa Belle.
E allora come rimpiangere il passato, il vuoto bardato di magnificenza che gli era stato proprio, se aveva Belle ed Helena con sé?
Alle volte gli pareva incredibile. Si ripeteva che prima o poi avrebbe aperto gli occhi e capito che no, non tutto era stato un sogno, ma che lo era diventato; che la seconda parte della loro storia, quella in corso, era solo nebbia e fumo perché lui aveva – o comunque avrebbe – rovinato tutto.
Si sarebbe preso a sberle per simili pensieri: avrebbe davvero preferito essere forte come Belle, capace di puntare i piedi e resistere senza farsi trascinare dagli eventi. La sua Sweetheart sosteneva che ciascuno fosse artefice del proprio destino, che l’avvenire si costruisse con le scelte e che lui dovesse solo impegnarsi per restare lungo la retta via che, malgrado decenni di confusione e paura, il suo cuore non aveva mai scordato.
Avrebbe voluto fosse vero.
Avrebbe voluto annuire convinto, sforzarsi e riuscire.
Ma, in un modo o l’altro, lui non riusciva.
Più di una volta era stato sul punto di parlarle di New York.
Si era sempre interrotto prima dell’irreparabile.
In un’occasione Belle l’aveva guardato confusa, come intuendo che c’era qualcosa di non detto; l’aveva fatto presente, ma in un modo o nell’altro lui l’aveva rassicurata. L’aveva fatto abbracciandola, perché se l’avesse dovuta guardare negli occhi ogni cosa sarebbe stata perduta.
Gold s’interrogava sul perché perseverasse in un atteggiamento che finiva per nuocere alla luce della sua vita. Perché, quando si trattava di lei, riusciva a fare sempre la cosa sbagliata? Non sapeva forse che procrastinando avrebbe solo peggiorato la situazione?
Lo sapeva, Gold lo sapeva.
Ma – se una parte di lui era convinto che Belle l’avrebbe capito e aiutato –, un’altra ne temeva la reazione come e più della morte. Temeva non avrebbe più voluto vederlo; o comunque, anche senza giungere a previsioni tanto catastrofiche, la menzogna che c’era stata – che continuava a esserci – l’avrebbe ferita.
E lui non voleva lei soffrisse ancora a causa sua.
In fondo, la Zelenyy non si sarebbe fermata in Inghilterra per sempre, e con la sua partenza tutto sarebbe finito.
Gold mentiva a Belle per questo, per proteggerla, per risparmiarle ulteriori ansie…
Bugiardo.
Non confessi perché temi se ne vada. Come faresti senza di lei? Senza Helena, ora che la conosci?
Sei un debole, lo sarai sempre, ma ora almeno hai Belle. Hai un disperato bisogno di Belle, dopo aver affrontato la realtà da solo.
Per questo conduci la tua doppia vita, la bestia che sei e l’uomo che vorresti essere; per questo preghi che tutto vada bene un’altra volta.
Solo un’altra, un’ultima volta…
Al contrario di lui e delle sue promesse di sincerità, Belle
aveva tenuto fede alla parola data: una settimana con lui, una dalle Lucas, e così ancora. Le due settimane fino ad allora trascorse assieme erano state perfezione.
Potrei abituarmi a essere felice, si era sorpreso a pensare una volta. Era stato strano: preferiva non ammetterlo neanche a se stesso. Le cose belle, si sa, prima o poi finiscono; ma quando Belle sorrideva, a Gold il mondo sembrava davvero un posto migliore. Era così buffa e bella, con le mille espressioni che inconsciamente faceva; si scopriva intento a osservarla, a catturarne ogni respiro, ogni contrazione del volto. Quanti particolari aveva scordato, illudendosi di ricordare? La Belle che aveva popolato i suoi sogni per tanto, troppo tempo era stata un pallido spettro, somigliante all’originale quanto una candela al sole. Non rischiarava l’ombra – non rischiarava la vita quanto questa Belle eterea e graziosa e al contempo così decisa e saggia, all’apparenza tanto fragile e in realtà resistente quanto un diamante. Era difficile scheggiarla, ma purtroppo non impossibile.
Lui l’aveva fatto, e lo faceva ancora.
La sua Sweetheart era serena, ma alcuni giorni nei suoi occhi compariva un’ombra. Lei non se ne vergognava, non la nascondeva; non adduceva altra giustificazione se non la verità.
- Alle volte temo di star sognando, – mormorava mordendosi un labbro.
Quando succedeva di sera era peggio. Come se col buio il passato, le paure inferocissero la loro morsa, dilaniassero carne e anima con lo scopo specifico di far male.
Uccidere, non ferire.
Far crollare, non angustiare.
Gold non le diceva che vederla così lo addolorava come poco altro. Faceva ciò che lei aveva fatto le mille volte in cui l’aveva trovato in pezzi e cercato di sistemarlo: abbandonava qualsiasi altra cosa – perché non c’era incartamento, non c’era corrispondenza importante quanto lei –, la prendeva tra le braccia e la cullava.
Era stato lui a colpirla.
Sarebbe stato lui a curarla.
La sentiva rilassarsi contro di lui, chiudere i pensieri in un cantuccio e concentrarsi solo sul contatto, sulla sua bocca e sulle sue mani che le percorrevano lievi la schiena. Si rannicchiava contro di lui, e si asciugava una lacrima solitaria prima di tornare a sorridere.
- Non c’era bisogno di tante scenate per un bacio. Bastava chiedere, – provava a sdrammatizzare pur di sentire l’eco della sua risata
Siamo il balsamo dei nostri tagli.
Alle volte Belle lo prendeva per mano e gli rivolgeva una sola parola.
- Seguimi.
Il solo ordine, il solo comando cui obbediva, lei la sola che potesse portarlo alla pace.
Il suo viso da statua greca, la sua pelle lattea, i suoi fianchi morbidi.
I suoi seni dolci, le sue labbra calde.
Suo sarebbe stato il nome che avrebbe sussurrato in eterno.
La sua preghiera, la più profana, la più bella.
Lei, l’unica dea che avrebbe venerato, l’unico altare al cui cospetto si sarebbe inchinato.
L’unica in cui credere e giurare.
Lei era l’unica risposta che cercava.
Le settimane senza Belle ed Helena, poteva davvero chiamarle vita? Erano giorni lenti, che si susseguivano senza scopo e senza meta. Salutava i rintocchi dell’orologio con gioia, perché ogni ora era un’ora più vicino a loro; si concentrava sul lavoro per essere più libero la settimana successiva, ma nella sua mente c’erano solo loro.
Era andato a trovarle a Whitechapel. La prima volta era rimasto sbigottito nel vedere Belle lavorare come aveva fatto fino a qualche tempo prima, come se nulla fosse successo: perché lei, che meritava gli specchi del Savoy 1 e piatti profilati d’oro, lei che era del suo rango, lei che un giorno sarebbe stata sua moglie, non poteva mescere birra d’infima qualità per ubriaconi lerci e rozzi, e non esisteva che sua figlia ruzzasse tra i vichi coi figli dei poveracci.
- Helena gioca con i suoi amici. E quanto a me, se sono qui devo lavorare, – Belle aveva sottolineato quando lui aveva espresso le sue rimostranze – Anzi, no, – si era corretta – Voglio lavorare. Sai che se non mi dessi da fare non sarei io.
- E sono d’accordo, ma questo quartiere non è sicuro. Potrebbe accadere di tutto… Non preferiresti vivere altrove? Potresti scegliere una villetta a Mayfair e…
- …E trascorrere l’intera giornata a districarmi tra abiti da mattina, da tè e da sera? No, – aveva riso gentile, ma determinata – Grazie, ma va bene così.
Helena gliela dovevano strappare di dosso ogni volta. Dopo la prima settimana, il ritorno a Whitechapel era stato tragico: al momento dei saluti la bambina aveva iniziato a piangere – uno gnaulio flebile, che aveva tentato di mascherare, ma che ben presto si era tramutato in singhiozzi disperati.
- Non voglio andare! – aveva strillato, e niente – né le rassicurazioni di Belle, né le promesse di Mary Margaret né, suo malgrado, i giuramenti di Jones – l’aveva placata.
Alla fine era intervenuto lui. Le aveva offerto una mano e l’aveva invitata: – Vieni con me?
La bambina l‘aveva seguito nello studio, ma una volta entrati lì aveva ripreso a strepitare.
- Puoi guardarmi, per piacere? – le aveva chiesto infine; e lei aveva obbedito malvolentieri – Perché non vuoi andare con la mamma?
Aveva atteso la risposta senza dar segni di impazienza.
- Se vado mi dimentichi.
Gold aveva trasalito.
- Chi ti ha detto una cosa simile?
- Nessuno, – la piccola aveva scrollato le spalle – Però io ho paura. Se riparti come quando sono nata e passa tanto tempo prima che torni e poi non mi ricordi più?
Ogni parola era un colpo micidiale. Helena gli toccava nel cuore con un’intimità a chiunque altro sconosciuta; risvegliava in lui sentimenti non provati da così tanto tempo da essere nuovi. Non sopportava di vederla in quello stato, sentirla esprimere timori che mai avrebbe provato se avesse avuto un padre degno di questo nome.
- Helena, – aveva esordito nell’unico modo che conosceva – Sai cosa si fa quando tra due persone ognuno ha qualcosa che l’altro vuole? Un accordo, quello che noi facciamo spesso. Tu non vuoi che io ti dimentichi, e io non ho alcuna intenzione di farlo. In un certo senso, le nostre volontà s’incontrano: ce n’è abbastanza per un accordo… Non credi?
La bambina era parsa soppesare quando dettole.
- E che dobbiamo fare?
- Promettere di pensarci. Se ci pensiamo non saremo mai davvero distanti. Sono solo sette giorni, dopo i quali saremo di nuovo insieme… E in ogni caso, nel frattempo saremo vicini col pensiero.
Dopo lunghi minuti Helena aveva annuito appena.
- Va bene, – aveva accettato – Ma perché tu sei papà e dicono che non rompi mai gli accordi.
Non le disse che ne aveva rotti due, i più importanti.
Quelli con tuo fratello e con tua madre.
Ma non avrebbe rotto anche quello con Helena.
Quello con te no, mai.
- Già, – aveva risposto a bassa voce – Io non rompo mai gli accordi.
 
 
 
“When it gets hard,
you know it can get hard sometimes
,
it's the only thing
that makes us feel alive.”
 
 
 
- Helena? Che stai facendo?
Quando era andata a riprenderla da Tink, a Belle la figlia era parsa strana: meno gioviale del solito, più cupa e sfuggente. Le aveva chiesto cosa fosse accaduto, ma non ricevendo risposta si era rivolta alla Barrie; la quale, a sua volta, non aveva notato alcunché di strano, nemmeno una scaramuccia tra bambini.
Il diniego dell’amica aveva confermato a Belle la motivazione di quella tristezza.
Lo sapeva perché lei per prima provava una malinconia dall’identica causa: a entrambe Gold mancava più di ogni altra cosa. Era già la seconda volta che facevano la spola da Kensington a Whitechapel e, malgrado i disagi, fino a quel momento Belle era stata piuttosto convinta della scelta. Solo lentamente lei e l’amato avrebbero potuto trovare un equilibrio: affrettare le cose non sarebbe stato di alcun giovamento.
Però al momento dei saluti lo sguardo triste di Robert la faceva sempre morire un po’. Ogni volta le certezze vacillavano: finiva per interrogarsi sulle proprie azioni e, per quanto si ripetesse di dover perseverare, che già stava ottenendo dei risultati e che di quel passo presto avrebbero conosciuto una nuova stabilità a Kensington, le domande diventavano pressanti.
In poche ore Robert iniziava a mancarle tanto da farla sentire quasi male fisicamente. Se di notte aveva freddo, era solo il suo abbraccio a riscaldarla un po’ di più; era solo la sua ironia a farla sorridere un po’ di più, era solo il modo in cui pronunciava il suo nome piano, come se quasi l’assaporasse, a farle battere il cuore un po’ di più ed erano gli angoli e i segreti del suo volto ciò che le sue dita volevano carezzare un po’ di più.
Lo portava nel cuore, protetto dal resto del mondo; ma lui era quel un po’ di più che cambiava ogni cosa, e che non poteva fare a meno di mancarle come ossigeno.
Helena giocava imperterrita coi balocchi portati con sé. Dopo il primissimo giorno aveva a suo modo accettato il distacco: nominava spesso gli abitanti del Castello, ma senza eccessivo rammarico, come se avesse capito che li avrebbe presto rivisti. Sembrava essere la solita, vivacissima Helena. L’improvvisa involuzione, per quanto giustificabile, preoccupava non poco Belle, che si accoccolò accanto alla bambina e l’abbracciò.
Dinanzi al suo ostinato silenzio, la donna decise di intervenire.
- Ti manca papà? – avanzò con dolcezza.
Finalmente la piccola alzò lo sguardo.
- Sì, – ammise – Molto.             
- Anche a me. Ma tra pochi giorni…
- Già lo so, – l’anticipò tra i denti – Ma perché non torniamo ora? Stiamo bene con lui. Stiamoci sempre.
La logica della bambina le provocò un groppo alla gola. Quanto avrebbe voluto ascoltare la vocina che le mormorava le stesse parole, che le ricordava quanto avesse resistito il loro amore e come fosse riuscito a riemergere dagli abissi cupi in cui la gelosia aveva tentato di annegarlo. Cosa la frenava, in fondo? Sarebbe stato la decisione migliore per tutti. Avrebbe fatto bene a trasferirsi all’istante e per sempre da Robert: la gioia dell’uomo sarebbe stata immensa, e loro figlia avrebbe ritrovato il sorriso. Avrebbero regolarizzato il loro rapporto, come lui tanto desiderava, e iniziato a vivere come una famiglia anche ufficialmente. Perché erano già famiglia: forse dal passato non convenzionale, forse più complessa e ferita di altre, ma non per questo meno autentica o forte. Perché chi è passato attraverso il fuoco può diventare cenere o sopravvivere; e se lo farò, riemergerà ferito, ma mutato, fortificato per sempre.
E loro erano sopravvissuti.
Era così semplice a dirsi.
E così difficile a farsi…
- Tesoro, – cercò le parole per spiegare a una quattrenne concetti tanto evanescenti – Anch’io sto bene con papà, lo sai. Vi amo, e da quando vi ho per me non ci sarebbe gioia più grande che stare sempre insieme. Però, – deviò su un altro aspetto della questione – Ruby e Granny sono state le sole ad aiutarci quando papà era in America e tu non eri ancora nata. Ci hanno protette dai cattivi e hanno diviso con noi tutto. Non possiamo andarcene e non tornare mai più, dimenticarle.
- Ma noi non le dimentichiamo! – la bambina si ribellò. Tratteneva a stento le lacrime – Ci portiamo anche loro con noi, e Graham e Tink, e Grace ed Henry, e Anna ed Elsa, tutti! Il Castello è grande!
- Non è così semplice. Per tutte le persone che hai nominato, questo posto è casa: ci vivono, ci lavorano, hanno tutte le persone care. Non possono lasciarlo come se nulla fosse, o soffrirebbero. Tu come ti sentiresti se dovessi lasciare casa all’improvviso?
Un esile pigolio fu in grado di raggelarla.
- Io non so più qual è casa.
Helena spiò la madre, come per controllare non stesse piangendo. Alle sue parole, la donna aveva avuto una strana reazione: era rimasta immobile e rigida, come pietrificata, ma le aveva stretto più forte la mano con un gesto in cui non c’era stato amore, quanto più che altro… Altro. Una sorta di sofferenza, rifletté la bambina; come se le avessero appena tirato un pugno cogliendola di sorpresa e al tempo stesso impedendole di lamentarsi. Era stata lei a colpirla, seppur involontariamente, con le parole anziché con le mani?
Non era sua intenzione far soffrire ancora mamma; però era lei stessa a consigliarle sempre di essere sincera, di non tenersi dentro le paure e di esprimere i sentimenti senza timore del prossimo. Aveva sbagliato a obbedirle? A dire che era proprio così che si sentiva – confusa, impaurita, sperduta? Un giorno era al Castello, circondata da cose preziose, servita e riverita da Killian e dagli altri e con mille vestiti tra cui scegliere; quello seguente era nella locanda dove c’erano le persone che conosceva da sempre e niente che le ricordasse lo sfarzo, il lusso che erano il regno di suo padre. Perché c’era chi aveva tutto e chi solo ciò che portava addosso?
E soprattutto, lei a quale gruppo apparteneva?
Quale posto poteva definire casa, qual era il posto in cui sentirsi davvero al sicuro e fare quel che le pareva? Qual era camera sua?
Non lo sapeva più.
Regina le aveva consigliato di ritagliare un angolo tutto per sé; ma come fare, ora che aveva troppi spazi in cui rifugiarsi, e “troppo” significava “nessuno”?
E poi, perché ora mamma non le rispondeva?
Belle aveva pensato di star agendo bene. Si era detta che forse all’inizio sarebbe stato strano, ma che presto si sarebbero abituate e che la scelta avrebbe facilitato il trasferimento definitivo. Di volta in volta avrebbe allungato i tempi di permanenza a Kensington, e avrebbe aiutato la figlia a sentirsi a suo agio tra porcellane di Meissen e umile terracotta, a dominare due mondi per quanto opposti; perché loro figlia aveva tutta la forza necessaria, le serviva solo la guida per lasciarla emergere. Non sarebbe stato semplice, Belle lo sapeva, ma i primi risultati l’avevano illusa di star riuscendo.
E invece, aveva fallito. Aveva fallito, e la prova era quella frase, l’incertezza che dominava il faccino contratto di Helena e il suo disorientamento.
Come aveva potuto essere tanto cieca da non accorgersene? C’erano stati dei campanelli d’allarme, certo, e lei non li aveva considerati: che razza di madre era? Helena era tanto espansiva nella gioia quanto taciturna nell’angoscia; come aveva potuto lasciarsi ingannare dalla tranquillità della bambina tanto da credere non stesse soffrendo?
Ora poteva solo trovare il modo di rimettere assieme i cocci.
- Helena, – le prese il volto tra le mani e allontanò ogni traccia di paura dalla propria voce – So che quanto sto per dire forse ti sembrerà difficile – e non perché tu non sia grande, ma perché è difficile per chiunque, me compresa –, ma voglio tu ricordi una cosa. Casa non deve essere per forza un luogo: può essere anche una persona, o anche più di una, a dire il vero. Prendi noi e papà: ci amiamo, ed questo l’importante. L’amore è tutto ciò che conta davvero, e noi l’abbiamo. Fisicamente non siamo vicini tutti i giorni, ma nel cuore sì, sempre. Io penso ogni momento a te e a papà, e lui pensa di continuo a noi. Possiamo cambiare mille case, dal Castello, – a quella parola, la bambina piegò gli angoli della bocca come se volesse sorridere e Belle, incoraggiata, proseguì – All’ultima delle capanne, ma ovunque saremo insieme col cuore quella sarà per noi casa. Perché noi siamo una famiglia: non conta dove siamo, ma ciò che ci unisce, e noi siamo legati dalla cosa più importante. Siamo legati dall’amore.
La bambina annuì appena, incerta.
- E Regina?  – il nome le esplose sulle labbra in un impeto d’ansia che fece sorridere Belle. Non riusciva a farne a meno, quando pensava al modo in cui la figlia si era affezionata a quell’adolescente solitaria che a fatica stava recuperando sprazzi di sorrisi.
- Anche Regina, – rispose senza esitare, mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua mente – Se lo vorrà sarà sempre parte della nostra casa, della nostra famiglia. E sarà con noi ovunque andremo.
 
 
 
“Loving can heal,
loving can mend your soul
.”
 
 
 
Quando Gold aveva detto ai suoi bravacci di tenere d’occhio la locanda, avrebbe dovuto prevedere il sensibile mutamento di mansioni cui sarebbero andati incontro.
Sì, perché dopo anni di onorata carriera più o meno malavitosa, Hulme e Blockhurst erano divenuti, oltre che guardie, messi dei biglietti che Belle gli faceva pervenire quotidianamente – e la cosa, doveva ammettere, valeva anche al contrario.
Tuttavia, il contenuto dell’ultimo messaggio era il più bello letto fino ad allora.
“Oggi manchi persino più del solito.
Se non hai impegni, potresti farci una “sorpresa” e venire a trovarci?
Fa’ venire anche Regina.
Ti amo.
B.”
Robert Gold aveva deciso ben prima di arrivare all’ultima riga.
Aveva spostato un appuntamento e fissato un altro che si sarebbe rivelato con ogni probabilità molto più interessante e certamente più piacevole: perché, in un modo o l’altro, avrebbe trascorso un giorno con le persone che più amava al mondo.
Aveva avanzato, sia pure con parecchia reticenza, l’invito a Regina; ma l’adolescente aveva dimostrato un po’ di senno e rifiutato, e lui non aveva certo insistito.
Gold proprio non sapeva come trattarla. Volente o nolente, aveva imparato a tollerare la sua vicinanza a Helena e a Belle, per quanto gli apparisse assurdo che le due donne riuscissero a respirare la stessa aria senza litigare; e, malgrado non intendesse accantonare ogni circospezione, giorno dopo giorno i timori su eventuali delazioni andavano obiettivamente scemando. Regina giocava con Helena, leggiucchiava qualcosa o stava con Belle; e di tanto in tanto lui aveva dovuto fingere di non scorgerla con l’assurdo fidanzatino che si era scelta.
Almeno sul punto Cora aveva ragione: la giovane Mills si sarebbe rovinata la reputazione.
Ma in ogni caso, Regina era figlia di sua madre: per ripetere le parole di Belle, poteva essere anche un fiore che nasceva dai rovi – dinanzi a quell’improbabile slancio poetico Gold si era seriamente interrogato sulla salute mentale dell’amata –, ma non era una damigella ingenua e facile a cadere in deliquio dinanzi a un baldo giovane che l’affascinava con chiacchiere e muscoli e l’allontanava da tutto e tutti…
Che discorsi stupidi. Simile gelosia perteneva a un genitore protettivo più che a un estraneo senza voce in capitolo come lui.
Almeno ufficialmente.
Farla ragionare avrebbe implicato un contatto che lui non era intenzionato ad avere dopo quella frase. Aveva parlato solo per rabbia, per smuoverle l’animo e indurla a confessare? O perché nella foga i suoi più antichi sospetti avevano trovato lo spiraglio per riemergere?
Non lo sapeva. Sapeva però un’altra cosa: Regina non aveva scordato la rivelazione. Gliela ripeteva in silenzio ogni giorno: ogni volta che erano costretti a condividere un pasto, ogni volta che per caso i loro sguardi si incrociavano, ogni – rara – volta in cui lei gli rivolgeva direttamente parola, era cortese e formale, ma sempre desiderosa di urlare una domanda che non poteva, non doveva essere posta.
Non ha senso chiedere.
Non ci sarà mai certezza.
Anche se era lui il primo ad aver ripreso a studiare di nascosto le increspature del viso di Regina, a cercare somiglianze e differenze trovandovi ogni volta una risposta differente.
Anche se la risata di Helena era simile a quella che poche volte aveva udito da una bambina dai capelli neri e dai mille segreti.
Ma quella non era certo giornata da perdere in simili crucci.
Gold montò in carrozza con un borsone da viaggio e a breve si ritrovò a bussare al portone sul vicolo, che si aprì quasi all’istante. Appena l’uomo mise piede nel patio, Belle gli allacciò le braccia al collo e lo baciò con una passione che lo lasciò interdetto, ma che certo non sindacò.
- Che accoglienza, Dearie, – la canzonò, ancora a un soffio dalle sue labbra – Dobbiamo star lontani più spesso, se sono questi i risultati.
- E tu mi fai venir voglia di cacciarti, quando ti rivolgi a me in questo modo. Cos’è, ci chiami tutte così?
Tutte, tranne te.
Tu non sei solo Dearie da cinque anni.
Ma non era la risposta che poteva darle.
- Forse, – la sbeffeggiò, riparandosi malamente dal colpo scherzoso che lei gli tirò e approfittandone per rubarle un altro bacio – Dov’è l’altra donna della mia vita?
- Dentro. Vado a chiamarla subito, – fece per voltarsi, ma Gold la trattenne.
- In realtà avrei in mente un programma diverso, – spiegò – Mi sono preso la libertà di portarvi un paio di indumenti. Ho pensato sarebbe bello se vi cambiaste e andassimo a vivere un’avventura.
La replica di Belle non si fece attendere.
- Quale avventura?
Dinanzi alla scintilla di curiosità che le accese lo sguardo, l’industriale rise: la sua Sweetheart era una donna adulta, ma conservava quella voglia di vivere, quella sete di novità che di rado si riscontra in chi ha più di qualche primavera alle spalle. Nulla le aveva strappato il desiderio di esplorare che la contraddistingueva da che lui la conosceva. Come non amarla, con quell’espressione così intrigata?
- È una sorpresa, – disse per bearsi del broncetto che le adombrò appena i tratti.
- Voglio sapere!
- Se non fosse una sorpresa sarebbe forse un’avventura?
- Ma almeno un indizio!
- Helena è molto più matura di te, te l’hanno mai detto?
- Certo, – rispose pronta – Helena è molto più matura di me… Ma io sono molto più matura di te. Perciò, Mr Gold, – ghignò – A voi le conclusioni.
 
 
 
Per quanto impacciata nei movimenti dal nuovo vestitino color glicine, Helena non esitò a correre incontro al padre appena lo vide, e l’uomo non fu da meno: la prese subito in braccio complimentandosi per il fascino e facendola ridere.
Gold rivolse un cenno a Ruby, che aveva accompagnato la piccola e ancora non se ne andava. Lo studiava come se volesse chiedergli qualcosa e al tempo stesso – inaudito per la giovane Lucas! – ne fosse intimidita. Eppure, quando aprì bocca il suo tono risuonò audace e padrone di sé come al solito.
- Belle non è fuggita, scende tra un minuto. Ultimi ritocchi, sapete. Helena, – si raccomandò poi – Non c’è bisogno di ripetertelo, ma conto su di te. Fatti comprare tutta Londra se…
- Se la desiderasse, gliela comprerei volentieri. E mi assicurerei che non la dividesse con voi, Miss Lucas.
- Uhm! – Ruby bofonchiò annoiata – Non sapete che nell’East End è maleducazione interrompere l’interlocutore? Parola mia, Helena, la tua impazienza ha un unico responsabile, ed è al tuo fianco. Dì a tuo padre di mettere una buona parola col suo amico. Gli conviene pur sempre avermi come alleata…
Gold inarcò un sopracciglio.
- Cosa intendete? – non aveva capito alcunché.
- Ruby è innamorata di quello biondo che viene a trovarla – gli venne in soccorso la bambina, senza tuttavia aiutarlo. Lei stessa se ne accorse – Quello biondo, bianco bianco! Non so come si chiama, è stato qui pure l’altro giorno! E tu lo conosci!
- Helena, tesoro, permetti che lo confermi: l’impazienza dal papà, l’intelligenza dalla mamma. Non si può pretendere troppo, – Ruby ribadì con fare chioccio, prima di rivolgersi all’uomo – Il vostro amico dottorino vi ricorda nessuno?
Gold impiegò più di un istante per ricollegare la professione al volto. La cameriera aveva adocchiato… Viktor Whale? Che follia era mai quella? Non conosceva bene il medico, ma qualcosa gli suggeriva che non era tipo d’uomo da perdere tempo dietro a una sguattera che certo non gli avrebbe portato doti da investire in ricerche. Avrebbero formato una coppia assurda.
E comunque migliore di te e Belle, gli ricordò una vocina beffarda.
Eppure, guarda dove siete arrivati…
Non vi fu tempo per commentare: Belle comparve sulla soglia. Una cascata color avorio le avvolgeva la figura, messa in risalto dalla fusciacca ametista ricamata in vita. Due perle le scintillavano ai lobi.
- Che meraviglia! – Ruby si avvicinò timorosa all’amica, come se temesse di sporcarle l’abito – Posso? – titubò facendo segno di voler toccare la stoffa. Con un sorriso, Belle fece un passo verso di lei.
Non passò più di un istante prima che la più giovane si voltasse incredula verso Gold e ululasse: – È vera seta!
- Certo, – confermò lui – Solo il meglio per noi.
- Parola mia, Belle, – le mani ai fianchi, la cameriera dichiarò con fare sornione – Se ti torce un capello, dimmelo che lo faccio fuori. Ma prima – strizzò l’occhio – Devo scoprire da chi fa cucire i vestiti.
 
 
 
“And it's the only thing that I know.”
 
 
 
Erano in viaggio da oltre mezz’ora, ma il tempo volava senza che se ne accorgessero: Robert aveva un modo d’incantare Helena, di conquistarla e avvincerla a suon di aneddoti che Belle quasi si ritrovava a invidiare.
Com’erano belli padre e figlia assieme, quanto la emozionavano con le loro identiche iridi nocciola di rara espressività. Quando si era resa conto del dettaglio, Belle aveva quasi creduto di non riuscire a guardare la figlia: con quegli occhi immagine di suo padre, i primi tempi era ogni volta una fitta al cuore. Ma poi quella paura era svanita, lasciando posto solo a un’emozione che gli anni avevano solo accresciuto. Sarebbe mai stata in grado di descrivere l’intensità dei suoi sentimenti per Helena e Robert? “Amore” sembrava una parola così vuota, così piccola. Ma forse non esisteva parola tanto grande da esprimere ciò che provava: il mondo intero non era abbastanza grande, né forse lo erano il cielo o le stelle.
E con quanta rapidità quei due avevano imparato a conoscersi e amarsi. Belle aveva temuto che la bimba non lo accettasse, che fra i due s’innalzasse una barriera causata non certo dalla mancanza d’affetto, ma proprio dal troppo amore già una volta sfociato in diffidenza; ma giorno dopo giorno aveva visto svanire i suoi timori, disperdersi come refoli di nebbia al primo raggio di sole.
Come Helena riusciva a intuire i suoi stati d’animo, così pareva comprendere il padre, le sue emozioni e i suoi gesti; anticiparlo, quasi come se tra i due vi fosse una sorta di silente comunicazione, come se condividessero un qualche segreto che permetteva loro d’intendersi senza parole. Belle, però, non ne era gelosa. Se inconsciamente lo era stata all’inizio, ora il pensiero le pareva assurdo: lei non era esclusa, non era esclusa neanche per un istante da quella combriccola. Bastava il sorriso di Helena, bastava lo sguardo di Robert e ritrovava ogni conferma: erano una famiglia. E nella loro famiglia nessuno sarebbe mai stato abbandonato o dimenticato. 2
All’improvviso la carrozza frenò. Le passeggere guardarono oltre il finestrino: di fronte s’innalzava un edificio di mattoni scuri che ai loro occhi pareva simile a mille altri; ai loro occhi, ma non a quelli di Gold, che sorrise tra sé e sé senza farsi notare.
Aiutò le due a smontare dalla carrozza e si diressero insieme verso la porta. Arrivati lì, quasi per caso Belle alzò gli occhi alla placca d’ottone che recava incisa una scritta.
Quando capì, si portò una mano alla bocca e si voltò verso Gold, una smorfia di genuino stupore sul volto.
L’uomo intercettò il suo sguardo e ammiccò.
- Signore, – disse con un sorriso storto e impertinente, ma pieno di calore – Heller&Sons Fotografi e Artisti è pronto a ricevervi.
 
 
 
“We keep this love in a photograph,
we made these memories for ourselves,
where our eyes are never closing, 
our hearts were never broken 
and time's forever frozen still.”
 
 
 
- Benvenuti, benvenuti! – li accolse un ometto bruno e stempiato – Isaac Heller, al vostro servizio. Siete puntualissimi, proprio come d’accordo.
- Non sono noto per rompere i miei accordi.
Belle sospirò appena. Robert era migliorato sotto molteplici punti di vista, ma al prossimo si presentava ancora come l’imprenditore superbo e arrogante che non tollerava prevaricazione alcuna.
- Certo che no, certo che no, – l’uomo scosse il capo prima di rialzarlo – Per questo prima adempiamo ai nostri obblighi meglio è.
La donna represse una smorfia. Forse il suo amato aveva trovato pane per i suoi denti… Ma non poté soffermarsi sul confronto: ogni istante un’eccitatissima Helena richiamava la sua attenzione per indicarle un oggetto sconosciuto che l’affascinava e mormorarle domande interessate, quasi irradiando un’aura visibile di curiosità attorno a sé.
Belle non poteva biasimare la figlia: da ragazzina anch’ella aveva visitato uno studio fotografico con identico entusiasmo, ma non ricordava nulla di simile. Quell’atelier era piccolo, ma ordinato; questo era molto più ampio, ma vi regnava il caos.
Tre pareti erano attrezzate con sfondi per qualsiasi esigenza: paesaggi trompe-l'œil, colonnine classiche portatili, finti salottini alla moda e false biblioteche; ovunque si scorgevano accessori d’ogni tipo che andavano da busti a orologi a pendolo, passando per un cavallino a dondolo che Helena guardava con occhi pieni di desiderio. 3
- L’ordine non è la nostra virtù, Milady, – Isaac si rivolse a Belle, fraintendendo le sue occhiate incuriosite – Ma in qualità di scrittore, io sono un artista molto più dei miei colleghi. E in quanto tale, le questioni materiali poco mi tangono.
- Non potrei certo farvi la paternale. Dicono che il disordine sia sinonimo di mente creativa, e in tutta sincerità, io apprezzo la fantasia. Oramai è merce rara nel mondo.
 - Ottima risposta, – commentò l’uomo.
Però, Gold si era scelto una donna interessante, oltre che ornamentale. Isaac Heller interagiva con l’imprenditore da svariati anni: il loro era un mero rapporto d’affari, ma il fotografo non poteva negare che lo scozzese gli fosse, malgrado il caratteraccio, simpatico. Come tutti, conosceva la leggenda dell’uomo venuto dal Nord e riuscito a fondare un impero sulla lana; e il fatto che l’avesse costruito da solo, che contando su ben poco oltre che le proprie forze l’ultimo dei derelitti fosse divenuto il primo tra i borghesi non poteva non avvincere un – purtroppo ancora aspirante – romanziere costretto dall’ascendenza a un mestiere che non amava. Quella storia di riscatto e rivincita sociale sarebbe potuta essere l’avvincente trama di un capolavoro: l’avrebbe complicata rimarcandovi le atmosfere dickenseniane e aggiungendovi un lieto fine con tanto di famigliola felice…
Lieto fine che, saggiamente, Gold non aveva atteso gli fosse scritto.
Per essere un bravo scrittore – anche se “bravo”, Heller l’aveva imparato a sue spese, non fa rima con “successo” – bisogna avere occhio per i particolari. E lui, modestamente, lo aveva.
La giovane dal sorriso candido non realizzava il potere che deteneva: dal modo in cui Gold la guardava, era chiaro che a un suo cenno il più temuto degli industriali avrebbe rinunciato a tutto per lei. La sconosciuta e la figlia forse non portavano la corona, forse non erano unte da tutti i crismi dell’ufficialità, ma erano le regine di Gold non meno di quanto lo potessero essere una moglie o una discendente legittima.
Le labbra di Isaac s’incresparono in un sogghigno, ma l’uomo tornò presto serio.
- Allora, – disse pratico – Quali pose desiderate?
- Una di gruppo, – si fece avanti Gold – E due singole.
Subito il fotografo li fece disporre nel falso salotto, l’uomo in piedi al centro, la bambina in piedi davanti a lui e Belle seduta alla loro destra.
- Ma’, – Helena chiese dubbiosa – Che devo fare?
- Guarda in alto verso l’obiettivo, e tieni gli occhi ben aperti, – la donna spiegò mentre l’artista prendeva posto dietro il cavalletto – Ora questo signore ci scatterà una fotografia. Sai cosa significa? No? Significa che resteremo per sempre impresse sulla lastra così come siamo adesso. Anche quando sarai più grande potrai guardare l’immagine di questo giorno e ricordarlo, riviverlo nonostante gli anni che passano. Insomma, – concluse – Si fissa un momento in eterno. Non trovi sia bellissimo?
A Helena la cosa sembrava inquietante, altro che bella. Cosa intendeva mamma? Quello strano marchingegno avrebbe intrappolato al suo interno lei e i suoi genitori, li avrebbe imprigionati per sempre? Mamma aveva detto che da grande avrebbe potuto rivedere il momento… Allora sarebbe cresciuta dentro la macchina?
La prospettiva non le piaceva affatto. Fissò turbata l’apparecchio come se fosse stato la finestra per un altro mondo, senza neanche accorgersi di essere rimasta immobile proprio come le ordinava lo sconosciuto e trattenendo a stento un urletto quando uno scoppio e il bagliore del flash l’accecarono.
Eppure… Eppure, malgrado lo scatto, la situazione sembrava immutata: si trovava sempre nello studio e nessuno era stato catapultato altrove. Che avesse interpretato male le parole della madre? O forse alla fine papà era davvero divenuto un mago e i suoi poteri avevano contrastato quelle del temibile aggeggio salvandoli tutti?
Seppure indecisa, Helena preferì questa seconda opzione; per questo si mostrò un po’ più tranquilla quando posò da sola e quando vide la madre fare lo stesso senza che nulla di terribile accadesse. Sì, doveva essere così: papà le stava proteggendo. Ripeteva sempre che da allora in avanti sarebbe sempre stato al loro fianco, le avrebbe amate e protette in ogni momento; ebbene, lo stava dimostrando.
Mamma rideva quando lo sentiva pronunciare cose simili, e gli ricordava che fino ad allora se l’erano cavata benissimo da sole e che non avevano bisogno di un cavalier servente pronto a scattare ai loro comandi e a difenderle da draghi invisibili; Helena però non era d’accordo. Era vero, prima la loro non era stata una brutta vita, ma con papà era meglio: con lui il mondo era un posto diverso, ricco di segreti e misteri la cui esistenza non aveva mai sospettato. E poi, aveva rispettato la sua parte di accordo: l’aveva pensata mentre erano distanti, era tornato da lei, e ogni volta restava persino un po’ più della precedente. Le aveva confidato in gran segreto che un giorno non ci sarebbe più stato bisogno di separarsi, e lei aveva fatto i salti di gioia.
Ora che erano finalmente assieme, Helena avrebbe voluto addormentarsi sempre con la voce della mamma all’orecchio e le carezze di papà sul volto.
- Direi che è tutto, – Isaac si passò le mani sui pantaloni e annuì a se stesso – Vi farò sapere quanto prima.
Gold non rispose subito. Appariva assorto, come se stesse riflettendo su qualcosa da cui non riusciva a distogliere la mente. Belle gli sfiorò appena un braccio per riscuoterlo, e l’uomo si riebbe. La guardò ancora prima di parlare.
- Mi serve un altro scatto, – dichiarò all’improvviso.
- Certo, – l’artista non fece una piega. Con quello che Gold lo pagava anche per mantenere il segreto sull’appuntamento – sulla sua famigliola illegittima – avrebbe potuto fotografarlo altre dieci volte – Una posa da solo?
- Solo con mia moglie, – precisò lui, guardandolo dritto in volto e facendolo rabbrividire, quasi avesse letto il pensiero.
A Belle quelle parole fecero venire un colpo.
Il cuore le si gonfiò, le riempì il petto, tanto grande da starle scomodo. S’impose di non trasalire, di fingere impassibilità per non tradire Gold, ma nulla poté fermare l’emozione che la sovrastava.
Non c’era di che stupirsi, in fondo: quelle parole non erano che la conferma di quanto Robert le ripeteva giorno dopo giorno. Le confessava incessante il suo amore e, sebbene non avessero più toccato l’argomento nozze, le sue intenzioni erano palesi; ma il fatto che ora le avesse ribadite dinanzi a un terzo andava ben oltre la necessità di mantenere le apparenze.
Gold la conosceva: a lei il giudizio altrui non faceva paura. E lei conosceva Gold: nessuna sua parola era davvero casuale. Avrebbe potuto limitarsi a chiedere una foto “solo con lei”, senza ulteriori specificazioni; il fatto che le avesse aggiunte di sua sponte indicava – non una prevaricazione, non un’imposizione – ma una precisa volontà.
La volontà di considerarla davvero sua moglie.
Belle non proferì parola sedendosi davanti all’industriale. La mente piena degli accadimenti degli ultimi istanti, non si voltò, non cercò il suo sguardo.
Tutto accadde in fretta, più veloce di un battito di ciglia
Appena un istante prima che Heller scattasse la foto, Belle strinse le mani di Robert.
Per sempre così come siamo adesso.
Il suo tocco bruciava come avesse il sole tra le dita.
 
 
 
“I swear it will get easier,
remember that
with every piece of ya,
and it's the only thing
to take with us
when we die.”
 
 
 
Belle era stata gentile a coinvolgerla. Regina non aveva dubbi: era stata lei a invitarla a prender parte a quella giornata, non certo lo zio. Per quanto il sospetto iniziale si fosse placato, la tensione tra i due restava palpabile: la palesavano i gesti irrimediabilmente freddi che si scambiavano, la capacità dell’uomo di ignorarla pur guardandola in volto, quei silenzi che avevano come causa e scopo non esacerbare ancora un conflitto non sempre così latente.
La ragazza non lo biasimava: comprendeva quella ritrosia e, in un certo senso, la condivideva.
Ma l’atteggiamento stesso non era forse un’ammissione di colpe?
Quando si chiedeva cos’avesse forgiato l’espressione del suo sguardo, erano gli occhi di ossidiana di Cora quelli che Regina ora voleva incontrare allo specchio.
Non i suoi – non i loro, sempre che di loro si potesse parlare.
Per quanto scaturente da diversi contesti, in parte si trattava dello stesso disagio che provava verso Belle. Anche con l’ex domestica la situazione era in divenire: sebbene la donna si mostrasse gentile e disponibile nei suoi confronti – amichevole, non poteva non pensare Regina con una stretta al cuore –, l’adolescente tendeva a non indulgere in simili premure, facendo ben attenzione a non abbattere del tutto la staccionata eretta attorno a sé.
Il tempo rimarginava anche gli squarci nel cuore, dicevano, e in effetti Belle le aveva accordato il suo perdono; ma lei, lei sarebbe mai riuscita a perdonare se stessa? Aveva accettato la mano che la donna le aveva porto, ma se si fossero avvicinate ancora sarebbe tornato il pericolo di deluderla, e con esso la memoria mai sopita del tradimento.
Memoria e pericolo che già sua madre sollecitava a ogni visita. Nelle settimane precedenti la contessa Mills era andata a sincerarsi delle condizioni della figlia per ben tre volte – più di quanto immaginabile – e in tutti i casi lo zio non aveva negato la vista, nell’assurda speranza che le due riparassero lo strappo e si dileguassero dalla sua vista. Aveva addirittura presidiato gli incontri che, prevedibilmente, erano divenuti teatro di battute infuocate, labbra che si arricciavano appena nel criticare pervicacemente una persona mai nominata ma sempre presente e ghigni serafici e taglienti in difesa di quella stessa identica persona.
Ogni volta Cora raccomandava alla figlia di ritrovare la retta via; e ogni volta Regina avrebbe voluto rispondere che lei sarebbe sì tornata a casa, a condizione però che la madre accettasse il suo modo – immaturo, non esclusivo, forse inadeguato – di volerle bene restando se stessa.
Ma Maman non l’avrebbe ascoltata.
- Perché non mi lasciate stare? – le aveva chiesto una volta, imponendosi di vestire di durezza la propria voce.
Cora aveva sorriso triste.
- Sono tua madre. Come potrei lasciarti stare?
In quel momento, nonostante la rabbia, nonostante la frattura che mille regali non avrebbero potuto riparare – quei regali che non mancavano mai, che parlavano della donna che Cora si aspettava Regina divenisse e mai di quella che stava divenendo –, la ragazza aveva solo desiderato di tornar bambina e poter piangere senza vergogna.
Una cosa, però, doveva riconoscere: era eccezionale come Cora perseverasse nelle battaglie senza rendersi ridicola. Tanto che stesse fronteggiando la figlia, quanto che duellando con la rivale, manteneva un’aria altera e regale che la ragazza in cuor suo invidiava: al suo posto, con ogni probabilità Regina avrebbe preso a pugni l’avversaria e risolto in fretta e furia la faccenda.
Ma con Daniel simile eventualità non si poneva: per Daniel, esisteva lei e lei sola.
Malgrado l’avvertimento, il giovane era tornato a trovarla: non spesso quanto avrebbe desiderato, ma più di quanto sperato. Ancora una volta i loro erano incontri fugaci, separati da un maledetto cancello le cui chiavi Regina non riusciva a sottrarre, ma non per questo erano meno belli: il modo in cui si confidavano, in cui si stringevano le mani e sfioravano le labbra erano vita per Regina.
Una volta era andata a trovarla anche Mal. L’amica le aveva rivolto il solito sorriso sornione che la contraddistingueva e aveva fischiato alla vista della nuova dimora di Regina.
- Ma brava la mia allieva! – aveva commentato – Ribellarsi a mammina paga! Dov’è la mia ricompensa per averti salvata?
Entrambe avevano sogghignato con non facevano da tempo e avevano trascorso minuti di spensieratezza che non condividevano da settimane intere. Salutandola, Regina aveva raccomandato all’amica di star attenta a sé e a Daniel: il pericolo di ritorsioni c’era, ed era alto: gli incubi in cui Cora si vendicava non le davano tregua.
Ma quel giorno non c’era spazio per le preoccupazioni: Daniel aveva promesso sarebbe tornato a trovarla. Anche per questo la nobile aveva rifiutato la proposta di Gold, benedicendo il Cielo alla scoperta che lui sarebbe stato fuori casa per delle ore. Non che lo zio si curasse molto della sua routine – senza Ronzinante e quella bestiolina petulante di Helena, si era ritrovata suo malgrado a trascorrere intere giornate in biblioteca –, ma certo era preferibile non la sorprendesse ad amoreggiare con un ragazzo…
Tanto più in un giorno in cui era finalmente riuscita a farsi prestare le chiavi del cancello di servizio.
Per una volta nella vita Regina si trovò a benedire il modo in cui Mary Margaret era così… Mary Margaret: distrarla si era rivelato più facile del previsto. Si stupiva che la donna non si fosse ancora resa conto dell’assenza e si chiese che razza di governante lavorasse per lo zio. Certamente se l’uomo si fosse accorto di simile disattenzione avrebbe licenziato la Nolan… Ma le chiavi sarebbero magicamente ricomparse ben prima che il padrone tornasse. Misteri del Castello, per citare Helena.
Ecco: avrebbe trascorso una giornata con Helena più che volentieri. Dubitava che il suo ospite gliel’avrebbe permesso, ma forse anche in questo lei avrebbe agito senza chiedere: non avrebbe mai torto un capello a quella bambina che, sorellastra o meno, l’aiutava a sorridere della bellezza del mondo. Era petulante come Belle, infantile, ingenua e irritante, ma – perché negarlo ancora? – Regina non poteva fare a meno di volerle bene e di sentirsi addolorata quando Helena la salutava in lacrime prima di tornare in quell’East End in cui sua madre continuava assurdamente a tornare.
Addolorata e lusingata, perché ben poche volte nella vita aveva sperimentato un amore tanto disinteressato come quello che solo un bambino può donare.
Ogni riflessione passò in secondo piano con l’arrivo di Daniel.
- Salve! – il giovane la salutò col suo solito sorriso – Oggi siamo parecchio felici, a quanto pare.
Regina non rispose. Si limitò a far dondolare davanti al volto la massiccia chiave d’ottone, ridacchiando dinanzi all’espressione dell’ex stalliere.
- Apre il cancello?
- No, Buckingham Palace, – non si trattenne – Cos’altro dovrebbe aprire, secondo te?
Daniel alzò le mani ridendo.
- Domandare è lecito.
- … E rispondere è cortesia, – terminò lei aprendo l’inferriata – Ora che ci siamo aggiornati sulle ultime novità della saggezza popolare, vorresti entrare? – il ragazzo obbedì con attenta circospezione. La bruna se ne accorse – L’unica cosiddetta Bestia di questa casa è assente. Non che ti considererebbe, vedendoti con me, ma comunque…
- Le cose vanno come al solito anche con lui? – Daniel era al corrente dei dubbi che dilaniavano la sua innamorata.
La Contessina alzò le spalle.
- Va bene così. È normale che il nostro rapporto non sia dei migliori, – disse in tono uniforme – Gli ho portato mia madre in casa proprio quando aveva la possibilità di stare con sua figlia… E in ogni caso, non mi tratta certo male. Non mi fa mancare nulla, pur non avendo obblighi nei miei riguardi.
- Ma non ti fa sentire amata.
- Quello, – commentò – È una cosa in cui ben pochi riescono.
Udendo l’amarezza nella voce della fanciulla, Daniel si pentì d’averla rattristata. Le si avvicinò e l’abbracciò.
- Rubare le chiavi per far entrare un uomo… Cos’hai in questa testolina, Regina Mills? – le sussurrò carezzandole i capelli – Sei tutta matta, e ti amo anche per questo.
Regina rise stringendosi un po’ di più al giovane. Quanto le era mancato poterlo fare, quanto. Ora che era così vicina a lui, si sentiva finalmente bene, serena. Potente – come se nessun nemico potesse davvero essere pericoloso dinanzi alla forza che loro due possedevano. Uniti erano invincibili.
Si sedettero su un gradino a chiacchierare, a parlare delle loro nuove vite e a coccolarsi. Potersi finalmente tenere per mano e stare tanto vicini , baciarsi senza l’ostacolo delle sbarre non pareva vero a nessuno dei due; ma quando Daniel le scostava i capelli, la guardava come se fosse la cosa più bella al mondo e la baciava, entrambi abbandonavano ogni timore.
Erano insieme, e solo questo importava.
 
 
 
- Ma questa chiave? Tua madre sta impazzendo, dice che il Coccodrillo la sbranerà e che stavolta nessuno potrà salvarla. Tu l’hai trovata, Nolan?
- No, la sto cercando anch’io, – Emma aprì gli scuri delle imposte per illuminare meglio la stanza. Fece per voltarsi, ma qualcosa catturò la sua attenzione. Quando capì, suo malgrado sorrise – Ma so benissimo chi ce l’ha.
- Chi? – Killian le si avvicinò incuriosito e guardò in giardino – Oh-oh! Intraprendente, la nostra Contessina! Questo da dove sbuca fuori?
La bionda scosse il capo.
- Non ne ho idea. Ma non è certo un Lord o qualcosa del genere. Quando la vecchia Cora lo saprà, le verrà un colpo.
- Meglio non lo sappia, allora. Questo giovanotto che rischia tutto per la sua Lady mi sta simpatico…
Emma lo guardò male.
- Non scherzare. Con la suocera che si ritrova, rischia veramente la testa…
- E con la mia, ogni giorno rischio entrambe le mani, Milady, – disse prima di allungarsi per baciarla.
Emma, suo malgrado, sorrise.
 
 
 
Come ogni volta, il tempo trascorse in fretta: il cielo estivo già iniziava a imbrunirsi. Lo zio sarebbe tornato da presto, e la chiave doveva riapparire in tempo.
Daniel stesso lo intuì; ma prima di andarsene c’era una cosa che voleva fare.
- Devo dirti una cosa, – esordì – Tra una settimana o due incontrerò una mia vecchia conoscenza. Non preoccuparti – aggiunse subito – È solo un uomo del mio villaggio, un amico di famiglia. È stato in America per parecchi anni e ora tornerà qui per qualche tempo. Partirà ancora e… – si morse le labbra prima di dirlo – Se mi chiederà di seguirlo, lo farò.
Regina non disse nulla. Guardò Locke senza capire subito, un brivido lungo la schiena. Daniel voleva andarsene? Voleva lasciarla lì da sola? E allora, perché i baci, lee moine, le paroline dolci che si erano susseguite per l’intera serata? Perché aveva atteso gli ultimi minuti per comunicarle una notizia su cui avrebbero dovuto discutere?
Non deve certo discuterne con te. La vita è sua, le ricordò qualcosa all’orecchio.
- Capisco, – rispose gelida – In America ci sono molte opportunità.
- È per questo che penso di seguirlo. Per darti un’opportunità migliore, per tornare più ricco e darti la vita che meriti.
- Io non voglio alcun lusso, lo sai, – ringhiò – Voglio solo stare con te.
- E come possiamo stare insieme, se non abbiamo nulla? D’amore non si campa.
Lo so.
Ma neanche di prigionia.
- In America ci sono opportunità anche per le donne, dicono, – il ragazzo la guardò incerto – Potrei lavorare anch’io.
Daniel scosse il capo.
- No. È tutto incerto, il viaggio è lungo e non sempre va a buon fine. E lì la nobiltà è ben poca cosa – lì nessuno regala nulla a nessuno.
Il sottinteso la ferì nel profondo.
- Sai a cosa mi ha portata una vita di regali? – alzò la voce, incurante di poter essere scoperta – A dover sempre soddisfare le aspettative altrui, a dire solo ciò che gli altri vogliono sentirsi dire. E io sono stanca, sono stanca di questo, perché è questo ad averci condotti qui!
- Ma…
- E sono io a dover scegliere cosa fare della mia vita, perciò se non vuoi che ti segua benissimo, non ti seguirò perché comunque non è mia intenzione, ma non mi potrai certo impedire di emigrare e di cercare libertà per conto mio!
Daniel le si avvicinò e le prese le mani.
- Se mi accompagni, mi rendi l’uomo più felice al mondo, lo sai. Io vorrei tu partissi con me, credimi, amore mio, – le confessò – Ma se lo fai, non potrai tornare indietro. Tua madre vuole ancora riaccoglierti, se scappiamo…
- Ma io non voglio tornare da mia madre! Io non voglio più essere prigioniera di nessuno, e tu lo sai!
Il giovane si passò una mano sul viso.
- Tu vuoi scappare. E io non voglio farti rovinare.
 - Io intendo solo costruire assieme il futuro che tu vuoi darmi. Parteciparvi, non aspettarlo senza far niente. Il resto è tutta opera tua.
Daniel sospirò. Aveva parlato delle sue intenzioni per una questione di sincerità, ma avrebbe dovuto immaginare che sarebbero arrivati a quel punto. Conosceva Regina troppo bene per illudersi di riuscire a farla tornare sui suoi passi… L’occasione di andar via da Londra e da sua madre era troppo ghiotta perché potesse lasciarsela sfuggire; e in effetti, lui la capiva. Ma sarebbe anche potuta essere il loro peggior errore…
- Promettimi che ci pensi su bene – disse infine diplomatico – Non c’è fretta. Non prendere decisioni di cui pentirti.
- Non mi pentirei mai di iniziare una nuova vita lontano da tutto e tutti. È l’unica cosa che voglio, – rispose lei.
Il giovane sorrise. Non avrebbe voluto farla arrabbiare, peggiorarle ulteriormente l’umore. Regina aveva già tanti problemi; almeno lui aveva il compito di rallegrarla. Non potevano salutarsi senza aver fatto la pace.
- Vieni qua, – la invitò per abbracciarla. Regina obbedì – Che ti ho detto prima? Che sei tutta matta?  Mi sa che avevo sbagliato. Tu sei peggio.
- Ma mi ami anche per questo.
- Già.
 
 
 
“Holding me close until our eyes meet,
you won't ever be alone.”
 
 
 
Quando entrò in camera, Gold trovò Belle ad attenderlo in piedi alla finestra.
- Sono contento abbiate deciso di fermarvi stanotte. Alla fine la giornata è terminata con una sorpresa anche per me, – scherzò.
Belle sorrise, ma l‘espressione del suo volto rimase distante, sovrappensiero; un particolare che non gli sfuggì.
- Va tutto bene? – le chiese cauto.
La risposta giunse solo dopo qualche secondo.
- Sì, – a quel mormorio l’uomo riprese a respirare – Sai, non riesco a fare a meno di pensare a… A prima. A ciò che hai detto da Heller. All’ultima foto.
- La nostra prima foto ufficiale.
- Hai detto che sono tua moglie.
Gold la guardò.
- Sì. Ti considero mia moglie nel cuore.
Le parole le corsero sulla pelle, colpendola nel profondo. Proprio come poche ore prima, il cuore accelerò la sua corsa, così forte che pareva voler uscire dal petto.
Belle cercò le parole adatte senza riuscirvi; affidò al silenzio la propria emozione, mentre l’amato le si avvicinava. Un momento erano uno di fronte all’altra, occhi di cielo contro terra; quello dopo la donna era contro il suo petto, le mani aggrappate alla camicia.
Gold chinò il capo per poggiare la fronte sulla testa dell’amata.
- Ti ho infastidito chiamandoti mia moglie?
La donna rimase immobile.
- Mai, e credimi, mai nella vita, – le tremava la voce. Era disperazione? Era… Speranza? – Sono stata chiamata in modo tanto bello. Grazie.
Gold posò le labbra su quelle di Belle prima ancora di formulare il desiderio di baciarla.
- Sono io a doverti ringraziare, – le disse poi, fronte contro fronte – Per avermelo permesso, ma soprattutto per esserci. Per restarmi accanto anche se non sono all’altezza di ciò che meriti, anche se a causa mia non posso di baciarti ogni giorno.
- Non devi provarmi nulla, Robert, – gli occhi di Belle scintillavano felici mentre gli stringeva le mani – Io ti amo.
- No, Sweetheart, fammi parlare, – non glielo dirai, ma deve sapere. Almeno questo, deve saperlo – Perdonami perché ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò ancora, ma ti amo, e questo non cambierà mai, qualsiasi cosa accada. Non vorrei mai deluderti. Te lo giuro, – sussurrò la promessa carezzandole il volto – Non ho cambiato idea: se ci sposassimo sarebbe tutto più semplice, per noi e soprattutto per Helena. Ma se siamo arrivati a questo punto – se tu non puoi ancora essere chiamata Mrs Gold, se agli occhi del mondo ancora non sei la sola che considero mia pari – il colpevole è uno solo. Per questo capisco le tue paure e accetto la tua volontà. Non ci saranno forzature da parte mia: finché lo vorrai, saremo sposati nel cuore. E questo, questo mi rende l’uomo più felice del mondo.
Belle non piangeva, Belle non tremava. Le lacrime avrebbero solo macchiato la purezza di un istante che avrebbe custodito in eterno, incontaminato e autentico.
Belle rideva. Era felice – felice come poche altre. Belle voleva dirgli che quella dichiarazione corrispondeva ai suoi sentimenti, a ciò che l’aveva spinta a lottare anche quando era stato vano, anche quando un oceano li separava e nulla sembrava più poterli unire. Troppe miglia, troppi ostacoli, troppe paure li avevano separati, ma lei non aveva mai temuto che il loro amore non potesse resistere, e sapeva perché.
Il loro era vero amore.
- Non lasciamoci andare mai più, – esalò percorrendogli la linea della mascella con baci leggeri – Non permettiamoci di dimenticare dove siamo arrivati dopo tutti questi anni, chi siamo stasera. La sera in cui ci consegniamo il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro perché noi – perché noi ci amiamo.
Indietreggiarono sino al letto, su cui caddero assieme. Malgrado il desiderio, la spogliò piano, con perizia, non perdendo occasione di appropriarsi di quella bocca che sapeva di peccato e perdono e beandosi di ogni lembo di pelle che scopriva fino ad averla nuda sotto di sé.
Il sorriso che lei gli rivolse allungandosi verso i bottoni della camicia sarebbe dovuto essere illegale. Le sue mani fini erano un sussurro sulla pelle, così lievi e morbide, ma l’uomo fu più svelto: intercettò il movimento e le bloccò i polsi, portandoglieli sopra la testa e non allentando la presa dinanzi alla sua timida resistenza.
- Non ancora, – le sussurrò appena, sorridendole contro l’orecchio quando colse il suo brivido – Sii paziente, mia Sweetheart, – le ricordò pur sapendo che, in fondo, non l’avrebbe fatta attendere tanto per il suo piacere.
Le sfiorò la gola, la fossetta tra le clavicole; scese senza fretta lungo il profilo puntuto dei piccoli seni, rivestendola di baci erranti, rialzando il capo per non perdere per un istante quello sguardo acquamarina che sentiva sempre su di sé, con cui lei lo carezzava a distanza – quello sguardo che possedeva il suo spirito, luminoso come se contenesse tutte le stelle del firmamento; baciò ogni centimetro del ventre, seguendo una linea immaginaria che solo lui conosceva e su cui avrebbe trascorso il resto della sua esistenza, sentendola fremere mentre scendeva tra le gambe.
Dio, quanto l’amava in momenti simili. Quanto amava il modo in cui le si accelerava il respiro, quei suoi piccoli versi, quei gemiti rochi che le erompevano dalla gola. Erano musica per le sue orecchie, una melodia che unita al sapore di Belle sulla lingua erano sufficienti a farlo impazzire.
Gli artigliava i capelli tra i pugni chiusi, ma non c’era fastidio, non c’era dolore quando lei lo benediceva con quell’agonia che sapeva di vita, la cui bellezza lo lasciava ogni volta senza fiato.
Belle pronunciava il suo nome come fosse stato panna nella bocca: le lettere si scioglievano sulla lingua, scivolavano dalle labbra in un sussurro continuo che gliela faceva desiderare ancora di più. Sentirla arcuarsi gli provocò un moto d’orgoglio che fu sole liquido nelle vene.
Restò così, col viso poggiato sul ventre e le mani sul seno, a sentirla riprendere fiato e continuare ad accarezzarla senza sosta.
- Sei bella, – mormorò – Sei bellissima.
La udì ridere mentre si puntellava sui gomiti per sollevarsi.
 - Vieni qui, – gli disse facendogli segno di raggiungerla.
Gold obbedì.
 
 
 
And if you hurt me,
that's okay, baby,
there'll be worse things.
 
 
 
Non riusciva a prender sonno quella notte. Nonostante Belle gli fosse accanto, immersa nel sonno cui i giusti accedono, lui restava immobile a fissare il soffitto.
Sarebbe potuto restarle accanto, vegliandone il riposo fino al mattino; avrebbe voluto guardare la vita tornare in lei, ammirare le ombre che le lunghe ciglia formavano attorno agli occhi e tracciare la curva del suo primo sorriso con le dita, prima di baciarla ancora una volta.
Però, se si fosse alzato avrebbe potuto portarsi avanti col lavoro e concedersi maggiore libertà – maggior tempo con la sua famiglia – l’indomani, prima dell’appuntamento delle undici. Così facendo, se Belle ed Helena fossero volute tornare a Whitechapel – inutile dire che le sue speranze erano sempre nel senso opposto – avrebbe potuto accompagnarle lui stesso…
Si sciolse con attenzione dall’abbraccio della sua Sweetheart: non intendeva svegliarla. Che continuasse a sognare, che le sue notti fossero piene di allegria, di danze e canti e sogni colorati: d’ora in avanti ci sarebbe stato lui. Lui l’avrebbe protetta, e la sua vita sarebbe divenuta la fiaba che sarebbe sempre dovuta essere.
Anzi, più bella di una fiaba; perché vera.
Come se si fosse accorta della separazione, la donna borbottò qualcosa nel sonno, ma una carezza lieve bastò a placarla.
- Amore mio, – non si trattenne dal sussurrare, dedicandole un ultimo sguardo e sfiorandole appena una mano con le labbra.
Il bacio che si dà a una regina.
L’avrebbe sposata. Prima non una menzogna aveva abbandonato la sua bocca tanto spesso spergiura: ogni frase, ogni giuramento era stato sincero. Belle era sua moglie, lo era più di quanto lo era stata Milah, lo era più di quanto sarebbe mai potuta esserlo Cora: Belle era metà della sua anima, il pezzo mancante che rendeva tutto completo. Come le aveva detto la loro prima notte insieme, lei aveva trovato il buono in lui, giungendo anche a crearlo; aveva saputo esserci sempre, in un angolo, senza prepotenza, fino a fargli desiderare di tornare alla parte migliore di sé; e questo non era mai accaduto prima
Belle lo aveva portato a casa, e per quanto continuasse a compiere scelte sbagliate, lui non avrebbe mai potuto dimenticare la distanza tra ciò che era stato e chi era diventato grazie a quella donna così piccola e così potente.
Helena, amore mio, dici spesso che io sono un mago.
La vera maga, però, è tua madre.
È lei a possedere la magia più potente di tutte.
Gold soppesò la pila di corrispondenza da sbrigare col timore di scorgere un’altra missiva di quella pazza scatenata con cui si pentiva di essersi ubriacato.
Una lettera proveniente dalla tenuta dei Feinberg, con quella ceralacca che pareva quasi un grumo di sangue, gli fece digrignare i denti.
Era stato chiaro: non voleva più avere a che fare con Rebecca, non voleva più sentirsi rinfacciare momenti e voti che non avevano mai avuto luogo. Checché affermasse la giornalista, tra loro non c’erano mai state promesse: era stato solo semplice, comune sesso.
Sesso liberatorio, privo di responsabilità e conseguenze; sesso buono solo a regalarsi un istante di oblio per nascondere il dolore in un orgasmo.
Per illudersi di nascondere il dolore in un orgasmo.
Perdersi nel corpo di Rebecca era stato semplice, per un po’. Non si era mai illuso di sfuggire veramente alla tristezza: i ricordi di quando toccava un’anima e non solo un corpo tornavano ogni volta, e ogni volta più feroci delle precedenti.
C’era anche questo tra i motivi che l’avevano indotto a lasciarla.
Non si era comportato bene con l’ex amante, lo ammetteva. L’aveva usata per i propri fini, quando invece avrebbe dovuto mettere in chiaro le cose sin dalla prima maledetta notte; ma era stato questo il suo sbaglio, non altri. Non l’aveva mai, mai illusa.
Stavolta, notò all’improvviso, il mittente della lettera non era la Zelenyy, bensì direttamente Hans Feinberg.
Meditò perplesso sul dato, mentre la mano correva quasi da sé al tagliacarte.
Il marito di Ella era sempre stato piuttosto barocco nella prosa: anche nelle lettere commerciali si dilettava in orpelli e vezzi formalistici che poco aggiungevano alla sostanza dei fatti. Tutto il contrario della sua prosa molto più minimalista e immediata. Cosa diamine voleva con tutti quei salamelecchi? Dio, aveva riempito una pagina senza arrivare al cuore della questione: si riferiva all’accordo siglato nella sua tenuta a fine aprile, bene, ma quindi? Non era rimaste questioni aperte, che lui ricordasse.
Gold represse uno sbadiglio e lasciò scivolare lo sguardo qualche riga più in basso, dove una parola apparentemente avulsa dal contesto colpì la sua attenzione.
“Ballo”
Tornò indietro alla ricerca di spiegazioni.
Rilesse il capoverso due, tre, quattro volte nella speranza di non star capendo, di essere stato colto da Morfeo e aver frainteso tutto.
Ma così non era.
L’occasione sì propizia dell’incontro di queste illustri volontà è senz’altro mirabile e necessita pertanto di essere degnamente celebrata. È bene che l’Impero sappia che tale risultato schiuderà le porte a un’ulteriore era di benessere e progresso; è opportuno pertanto che si festeggi con un ballo degno di restare negli annali e che mia moglie Ella sarà lieta d‘organizzare.”
Ella Feinberg stava organizzando una festa che l’avrebbe visto tra gli ospiti d’onore.
Una festa cui avrebbe dovuto presenziare
E cui lui non sarebbe mai potuto andare.
 
Perché con Ella ci sarebbe stata anche Rebecca.
 
 
 
“Wait for me
to come home.

“Photograph” - Ed Sheeran
 
 
 
1: il Savoy è uno dei più antichi e imponenti hotel di Londra – https://it.wikipedia.org/wiki/Hotel_Savoy;
2: Citazione del cartoon Disney “Lilo&Stitch”. Se non l’avete ancora visto, recuperatelo appena ne avete occasione: merita!
3: La descrizione dello studio fotografico è molto liberamente ispirata a quella che si legge a pag. 868 de “Il petalo cremisi e il bianco” di Michel Faber. È il mio libro preferito e quindi sono di parte, ma ve lo consiglio caldamente perché, tra i mille pregi, ha quello di saper catturare il lettore come ben pochi altri romanzi. Tra l’altro, nel 2011 ne è stata tratta una splendida miniserie BBC con Romola Garai, Gillian Anderson, Mark Gatiss…
 
 
 
N.d.A. : Dearies!
Adorat*, cosa mi raccontate? State boccheggiando dal caldo come la scrivente? Consoliamoci: “Non può fare 40 gradi per sempre”, semicit. Un giorno arriverà l’autunno e saremo tutt* molto più felici – o almeno, io lo sarò.
Quanto al “capitolo dell’aMMMore”, com’è stato ribattezzato… Il colpevole è Ed Sheeran! Inizialmente non avevo previsto niente del genere: avrei dovuto scrivere direttamente i prossimi eventi. Però poi ho scoperto questa canzone così struggente che non inserirla sarebbe stata follia… Perciò beccatevi l’aggiornamento parecchio fluff, col finale “arghcheca*zosuccede?!” e un po’ porno – #sorrynotsorry, questa storia sta andando così. Spero di non dover alzare il rating! XD
Scherzi a parte, ditemi la vostra: caratterizzazioni astruse, trama delirante, orrori vari, mia incapacità nel descrivere determinati momenti, qualunque critica vi venga in mente voi fatela senza timori. Non vi mangerò, anzi: vi ringrazierò per avermi aiutata a migliorare! Qualche righina, anche una una, fa sempre piacere: non abbandonatemi! :) :*
Grazie di cuore a quant* recensiscono la long, la leggono in silenzio e/o l’aggiungono a una categoria; una menzione speciale alla preziosissima V., che valuta in anteprima certe scene convincendomi a non eliminarle. ♥
Ci si rilegge sabato 29 agosto; pensate che allora mancheranno soli 28 giorni a OUAT e rivedremo i RumBelle – sì, sono una povera sciocca che s’illude. Non svegliatemi, please. ♥
Ricordo infine la mia pagina Facebook “Euridice’s World” per anticipazioni, fangirlaggio, varie ed eventuali. :)
Bacioni, miei arcobaleni, e buon San Lorenzo e Ferragosto in anticipo!
Love u so! :D
Euridice100

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Capitolo 17
*** XVI - The devil within ***


 
 
 
XVI - The devil within
 
 
 
“I will keep quiet,
you won’t ever know I’m here.
You won’t suspect a thing,
you won’t see me in the mirror.”
 
 
 
Ella Feinberg amava organizzare feste.
Forse la sua era la reazione naturale a un’infanzia e a un’adolescenza trascorse segregata in casa con pochi passatempi e troppi sogni: sua madre, convinta che la figlia fosse nata per combinare guai, non la lasciava libera un istante. Era stato più che normale per la diciottenne Ella, appena messe le mani sulla prima rendita, scatenarsi in carosello di divertimenti e spese folli che, se non avevano portato la famiglia al tracollo, di certo vi avevano contribuito non poco.
Le mille incombenze e gli onnipresenti imprevisti dell’ultimo minuto non la inquietavano, anzi: a suo dire, aggiungevano quel pizzico di brio necessario per stupire e far parlare di sé. Ospitare è un’arte, ma lo è anche improvvisare; e lei eccelleva tanto in una quanto nell’altra.
No, decisamente: lottare per accaparrarsi chef francesi contesi e spocchiosi, imporsi per far portare da Veitch 1 fiori fuori stagione e zittire decoratori costretti a modificare radicalmente interi addobbi all’ultim’ora non era difficile; avere a che fare con una cugina folle lo era.
Rebecca Zelenyy non sarebbe rientrata nell’iconografia classica da manicomio: zero attacchi isterici, nessun gatto lanciato su inermi passanti e men che meno balbettii incoerenti; ma questo non la rendeva certo meno folle.
La sua ossessione – come altro definirla? – per Robert Gold lo provava.
Per non impazzire lei stessa, Ella aveva deciso di perdere il conto di quante lettere fossero partite per Londra nelle ultime settimane, ma il numero iniziava a darle molto, molto fastidio. E non era un bene far arrabbiare Ella Feinberg, non era affatto un bene; tuttavia Rebecca, oltre che pazza, doveva essere anche sorda, perché continuava a ignorare ogni avvertimento.
L’unica cosa che tratteneva la nobile dal mettere la cugina alla porta era la sua già imminente partenza. Era solo per questo che aveva acconsentito, nonostante i propositi iniziali, a che la giornalista l’accompagnasse a Londra: di lì a pochi giorni avrebbe salpato da Southampton e sarebbe dunque passata comunque dalla capitale; tanto valeva trascorrere insieme quel breve periodo e tenerla d’occhio di persona. L’avrebbe coinvolta nei preparativi per la festa cui, grazie a Dio, non avrebbe fatto in tempo a prender parte e l’avrebbe tenuta lontana da un determinato indirizzo di Kensington.
Ella compativa Rebecca, il modo in cui si umiliava: se avesse avuto un briciolo d’amor proprio non si sarebbe comportata come una bambinetta gelosa nei confronti di uno che, come i racconti avevano confermato, l’aveva portata a letto solo per dimenticare un’altra.
(Cora?, non faceva a meno di chiedersi la Feinberg.
O piuttosto quella fantomatica Hélène?
La trama del sordido romanzo d’amore s’infittiva.)
Tuttavia, dopo anni e anni, nelle ultime settimane Ella si era riscoperta più volte a invidiare la tenacia della cugina.
Come sarebbe stata la sua vita se tanto tempo prima avesse permesso all’amore di dire il suo nome? 2
La sua metà più razionale non se ne pentiva. Per quanto fosse stata legata a quella giovane dalla pelle d’ebano, cosa ne sarebbe stato di lei se avesse perseverato in una follia di baci così dolcemente distruttivi? Avrebbe perso la rendita ormai sempre più scarsa, sarebbe finita per strada. Sarebbe divenuta una reietta. No: aveva fatto bene, benissimo ad allontanarsi da lei e ad accettare la proposta di Hans. Lui le passa qualsiasi somma, le regalava pellicce e diamanti a ogni occasione e l’Inferno sarebbe ghiacciato il giorno in cui Ella Feinberg non fosse stata in grado di gestire un uomo simile.
Hans non chiedeva quasi niente; lei avrebbe chiesto più di quanto Ella sarebbe stata in grado di dare – più di quanto le sarebbe convenuto dare. Era un sentimento onesto, ma era troppo: troppo confuso, troppo complicato, troppo azzardato per sopravvivere. Andava lasciato morire, come lei aveva provato a fare malgrado due occhi liquidi e scuri.
Non sarebbe mai tornata indietro, no; ma alle volte, quando il gin finiva troppo presto, qualcosa in Ella si trovava a pensare che era incastrata in una vita di feste e soldi, e che avrebbe potuto avere tutto, ma nulla sarebbe davvero bastato senza amore.
Il suo nome non era mai stata in grado d’impararlo. Era triste, ma era così. Eppure, quando timorosa le aveva chiesto di poter rivolgersi a lei in un altro modo, più comune, più familiare, Ursula aveva accettato con un sorriso.
Alla festa cui si erano conosciute Ursula era stata invitata, sì, ma solo per cantare. Aveva una voce bellissima, Ursula, una voce che sapeva di sale e terre lontane, di mille paesaggi sconosciuti e di storie antiche quanto la terra e il mare. L’ereditiera quasi avrebbe voluto stringere quella voce tra le dita, custodirla e non lasciarla andare più. Riscaldava il cuore e il sangue, anche quello freddo e cinico di Ella – era l’unica cosa che le desse un po’ di equilibrio, un po’ di pace interiore. Forse era anche per questo che nelle sue soirée prestava tanta attenzione alla musica: quel dettaglio la faceva sentire più vicina a colonie che non avrebbe mai visitato e a due occhi scuri che non avrebbe rivisto.
Più vicina all’unica che aveva amato.
Aveva spedito Rebecca a controllare l’andazzo dei lavori al piano superiore nella speranza di togliersela di torno il tempo di una sacrosanta sigaretta; ma nell’istante stesso in cui aveva aspirato la prima boccata, la raggiunse una voce che non udiva da qualche tempo.
- Mia cara, ancora alle prese col tuo deprecabile vizio?
La Feinberg si voltò appena: dinanzi a lei vi era l’affabile sorriso con cui la contessa Mills si presentava al mondo.
- Darling, – fece da contraltare la bionda, senza addolcire l’usuale sarcasmo – Concedete a una povera ragazza di godersi una delle poche gioie della vita.
- Una delle poche? – Cora rise garrula, avvicinandosi alla dama e soppesando con sguardo critico le decorazioni della sala – Non si direbbe, a giudicare dall’allestimento. Siete fortunata: avete splendide proprietà, abiti sontuosi, un uomo che vi ama…
- In effetti a Mr Feinberg va riconosciuto un particolare merito, – concordò la dama guardando dritta in volto l’ultima arrivata – Si fa gli affari propri. Cosa che, ahinoi, non di tutte si può dire…
- Esattamente, – Cora non diede segno di aver colto la frecciata – Specialmente quando si tratta di uomini.
Ella considerava Cora Mills come aveva sempre considerato il mondo intero eccetto una persona – indifferente. La Contessa era la classica dama dell’alta società: avvezza a corsetti più mentali che fisici, nascondeva un’indole frivola e pettegola dietro una facciata amabile. La Feinberg non si curava che la sua interlocutrice dettasse legge in società: lei trascorreva quasi l’intero anno in campagna, lontana dal cicaleccio della capitale, e in ogni caso i suoi eventi difficilmente sarebbero falliti, chiacchierati e attesi com’erano. Parimenti, poco le importava dell’eventuale passato della donna: ogni persona nasconde un segreto e la Mills, con la sua aria pudica e volitiva a un tempo, non sfuggiva certo a questa regola universale.
Una sola cosa irritava Ella: quella visita totalmente inattesa e inopportuna che, senza alcun dubbio, avrebbe fomentato sciami di altre invitate impazienti e curiose.
- Cugina, ordino di portare giù le… Oh! – Rebecca si bloccò sulle scale scorgendo l’ospite – Buongiorno, – salutò procedendo con più lentezza ed eleganza.
Cora la squadrò, cercando di ricondurre la giovane donna dai capelli fulvi a un volto noto.
- Buongiorno, – ricambiò, voltandosi verso un’improvvisamente pensierosa padrona di casa.
Quella sì che era una situazione interessante. Fino alla comparsa della Zelenyy, Ella non si era accorta di avere accanto la dama che le chiacchiere avevano a lungo considerato amante di Robert Gold… Robert Gold che, guarda caso, oltreoceano era stato compagno d’avventure della cuginetta.
Se avesse avuto un po’ di pudore, Ella Feinberg sarebbe morta d’imbarazzo; ma imbarazzo, Ella Feinberg non sapeva nemmeno come si scrivesse. Quella provocazione era per lei un invito a nozze.
- Lady Mills, vi presento mia cugina, Rebecca Zelenyy. Conoscerete certamente la sua vicenda…
- L’erede ritrovata, – Cora annuì – Lieta di conoscervi.
Rebecca sorrise felice.
- Anche voi siete nota in America: la regina del beau monde britannico! Sono lusingata di conoscervi! – le strinse la mano con foga, lasciando la Contessa lievemente interdetta. Cora era al corrente della misera infanzia della donna prima della rivelazione delle sue reali origini; pensava però avesse oramai appreso le regole basilari della buona educazione… Ma in America, si sapeva, il galateo lasciava a desiderare, e la sua interlocutrice addirittura lavorava come giornalista: era prevedibile che non fosse propriamente epitome di raffinatezza.
Questo non le impedì comunque di esibire il più sfolgorante dei sorrisi mentre domandava:  – Qual buon vento vi porta qui?
Il volto della più giovane s’incupì appena.
- Ho vissuto un anno difficile, – ammise, una sfumatura di risentimento nella voce, come se ammetterlo le costasse fatica – Pertanto ho deciso di prendere qualche settimana per me.
- Capisco, – Cora non distolse lo sguardo, ma le labbra appena arricciate tradirono il convincimento che dietro l’affermazione ci fosse qualche fattaccio tale da rovinare una reputazione.
La cosa irritò non poco la Feinberg. Non provava affetto per Rebecca, ma l’atteggiamento dell’ospite, le allusioni che esso lasciava appena trapelare colpirono lei per prima, quasi fosse complice di un efferato delitto.
Ma la cugina americana era folle, non sprovveduta. Col suo lavoro, era abituata a interagire con titolate e borghesi viziate: Cora era solo una tra le tante, né più né meno; perfettamente gestibile.
La risposta che le diede ne fu prova.
- Lady Mills, non abbiatemene: è risaputo che in America si vive più intensamente di qui, – un ghigno soddisfatto curvò le labbra di Ella – Anche se la fortuna non mi sorride. Perché, ho saputo, anche la causa della mia vacanza è tornata qui da New York.
- Che faccenda disdicevole, – l’interlocutrice concordò, seppure disinteressata – Ma noi donne non dovremmo mai permettere a nessuno di toglierci il sorriso. Godetevi la vacanza e ignorate chiunque altro.
- È difficile a farsi, quando lui è a capo della più importante industria tessile del vostro Paese…
E questo, Ella trasalì, avresti potuto risparmiartelo, cugina cara.
Cora rimase immobile per un lungo, lunghissimo istante. Quando riaprì bocca, sul suo viso era dipinto un misto di sconcerto e malcelata delizia.
- Mi state dicendo che il lui in questione è... Robert Gold? – chinò il viso per non far notare la soddisfazione – Quel Robert Gold?
 - Non è bene parlarne così, – Ella tentò di correre ai ripari – Potrebbero sentirci.
L’espressione della Mills era impossibile da decifrare: solo gli occhi saettarono dalla Feinberg alla Zelenyy, soffermandosi su quest’ultima.
- La nostra amica ha ragione, – concordò infine – Non si affrontano di argomenti tanto delicati dinanzi a tutti. Mia cara, – prese sottobraccio Rebecca e le sorrise – Credo che tu e io abbiamo molte cose di cui discutere. Vi andrebbe di venire a farmi visita oggi pomeriggio stesso.
Rebecca annuì entusiasta.
- Ne sarei onorata, – fu la fatale risposta.
Ella Feinberg imprecò tra i denti.
Se fosse stato fortunato, alla fine della storia di Robert Gold sarebbero rimasti solo pezzi.
 
 
 

“But I crept into your heart,
you can’t make me disappear
till I make you.”

 
 
 
La quantità di corrispondenza bruciata negli ultimi mesi stava raggiungendo proporzioni macroscopiche.
La lettera di Hans prima aveva solo incrementato quella mole.
Gold a quella festa non sarebbe andato. In realtà della Mills, di certo anche lei invitata, si curava relativamente: la Contessa preferiva agire nell’ombra, tessere le sue trame nel segreto di stanze private e utilizzarle con saggia discrezione. La conosceva: non si sarebbe mai esposta in pubblico, col rischio di suscitare chiacchiere. Le sue mosse sarebbero state allusioni, provocazioni tanto sottili quanto sarcastiche che lui e Belle avrebbero comunque contenuto in qualche modo.
Gli veniva da sorridere pensando alla naturalezza con cui era la sua Sweetheart a balzargli in mente: se avesse partecipato alla festa, l’avrebbe fatto con lei, o non l’avrebbe fatto. Non esistevano altre opzioni, non esistevano esitazioni: con l’educazione da principessa ricevuta, Belle avrebbe saputo muoversi nell’alta società, portandovi anzi un po’ di brio con la sua vitalità; e senza dubbio avrebbe gestito Cora, come più di una volta aveva dimostrato di saper fare persino meglio di lui.
Gold non intendeva sfidare la sorte e far fronteggiare le due donne il più del dovuto, ma se il problema fosse stata la Mills allora forse non avrebbe nascosto l’invito ufficiale, quel cartoncino vergato a chiare lettere che equivaleva a un suicidio.
Avrebbe inventato un impedimento e non sarebbe andato, questa era stata la prima decisione. Sarebbero inevitabilmente sorte delle domande sul perché Robert Gold stesse partecipando a così pochi eventi della Stagione, ma che pensassero tutto e il contrario di tutto: lui aveva una famiglia, e in quel momento era suo dovere proteggerla da Rebecca Zelenyy.
Lei e Belle non avrebbero dovuto incontrarsi: non voleva neanche immaginarne le conseguenze.
Avrebbe dovuto essere onesto, sì, dire sin dall’inizio all’amata che alcune notti la solitudine che pesava come un macigno l’aveva spinto tra le braccia di un’altra – un’altra che non gli era mai entrata nel cuore, perché in quello c’era spazio per una e una donna sola, lei.
O avrebbe anche potuto dirglielo dopo; l’importante sarebbe stato dirglielo.
Belle forse avrebbe sofferto, ma avrebbe capito. Forse la confessione non avrebbe nemmeno rallentato il loro riavvicinamento; sicuramente non avrebbe posto lui in quelle condizioni.
Ogni volta che Gold aveva tentato di parlare, trovare le parole si era rivelato come scavare in un deserto alla ricerca dell’acqua. Da quando aveva ricevuto la lettera e l’invito, quel peso che si portava dentro era divenuto ancora più soffocante, più opprimente; se da sempre addormentarsi gli era difficile, ora era diventato quasi impossibile. Domande senza risposta gli provocavano un dolore pulsante alla testa: restava con gli occhi aperti a fissare il soffitto, Belle acciambellata al suo fianco come un gattino. Tante, infinite volte la osservava nel sonno, le lunghe ciglia che formavano ombre attorno agli occhi, le ciocche ramate che lui tanto amava attorcigliare intorno alle dita; e pensava a quanto fosse ingiusto che tutto l’amore che lei poteva dare, così tanto amore fosse sprecato per una persona così falsa, così sbagliata come lui.
Non era colpa di Belle se non stava accorgendosi di nulla. Forse dall’esterno qualcuno l’avrebbe giudicata, l’avrebbe chiamata stupida e derisa; ma non era così. Belle vedeva il suo passo tormentato dei vincitori sconfitti, Belle domandava; ma Belle si fidava di lui, dei suoi baci e delle sue rassicurazioni.
Belle si fidava delle bugie che lui le diceva.
No: non era Belle la stolta, ma lui. Lui e il suo universo che era una facciata di cartapesta, lui e il mare d’ inganni in cui naufragava la sua vita.
Lui, che non capiva lei non sarebbe rimasta per sempre.
Ogni tanto provava a convincersi che la paura che oramai pulsava al ritmo del suo cuore fosse infondata: quanto altro tempo Rebecca si sarebbe fermata dalla cugina? A inizio maggio Ella aveva parlato di una manciata di settimane, ed erano trascorsi due mesi e mezzo…
Ma come essere ottimista senza sentirsi stupido, se aveva imparato che le cose peggiori accadono nei momenti più belli?
Sicuramente la Feinberg ora era a Londra in vista della festa; probabilmente si era portata dietro anche la Zelenyy… Sempre che la donna non fosse già partita.
Si dice che quando si ha il controllo di qualcosa non serve averne paura; ma Rebecca era una scheggia impazzita, e se per proteggere la sua famiglia avesse dovuto continuare a mentire, non c’erano dubbi: lui l’avrebbe fatto senza esitazioni.
Per quanto gli dispiacesse mentire ancora a Belle.
Avrebbe voluto le cose fossero semplici. Ma avere una coscienza significava anche questo.
L’unica possibilità era chiedere a Ella stessa: se Rebecca ci fosse stata, avrebbe taciuto ogni cosa a Belle.
Se fosse già partita, le avrebbe raccontato della festa. Non vi sarebbe comunque stata certezza assoluta della partenza della giornalista, e proprio per non rischiare avrebbe calcato la mano sulla presenza di Cora alla festa e sui rischi che ne derivavano per cercare di convincere Belle a non andare.
Quella settimana era dalle Lucas: Gold avrebbe approfittato della sua assenza per informarsi sulle sorti della Zelenyy. Anzi, vi avrebbe provveduto quel giorno stesso: prima avesse risolto la questione, meglio sarebbe stato per tutti.
Una cosa, però, era certa.
Sarebbe andato dai Feinberg come minimo scortato.
 
 
 
“Won’t see me
closing in.”
 
 
 
Ella aveva sospirato di sollievo quando, quella mattina, Rebecca era salita sul treno per Southampton. C’erano stati abbracci cordiali, un rincorrersi di ringraziamenti cosparsi di risa e promesse di rivedersi presto che di sicuro non sarebbero state mantenute: tante settimane a stretto contatto con la cugina erano una condanna eccessiva persino per lei.
L’utilità della Zelenyy era emersa nei ultimi giorni: da quando le era stata presentata Cora Mills, la giornalista si era recata sovente dalla sua nuova amica trascorrendovi pomeriggi interi e graziando Ella dalla sua soffocante presenza. Chissà cos’avevano combinato assieme quelle due: Cora e Rebecca non erano donne pietose, avrebbero ben volentieri strappato il cuore alla loro vittima guardandola poi agonizzare con un sorriso di scherno.
Ma non aveva letto del ritrovamento del cadavere squartato di Robert Gold, per cui le loro confabulazioni dovevano essersi limitate a un piano meramente teorico; e, in ogni caso, non era più affar suo: Rebecca sarebbe salpata di lì a breve, il 12 agosto si sarebbe tenuta la festa, la Stagione si sarebbe conclusa e lei sarebbe tornata dai suoi cani, con buona pace di gentiluomini poco gentili, dame infide e soprattutto cugine isteriche.
Stava ragionando sul menu quando le venne annunciato Robert Gold.
Lupus in fabula!
- Guarda un po’ chi ricompare, – fece la bionda con un sorrisino sprezzante – Non mi pare vi siate degnato di rispondere al mio invito. Decisamente scortese da parte vostra, Darling.
- Vi chiedo scusa, Milady, – nelle parole dell’industriale non vi era eco di umiltà – La mia mancanza è in effetti stata imperdonabile. Tuttavia, c’è una ragione alla base del mio comportamento, una ragione di cui intendo discutere ora.
L’ereditiera non tardò a intuire chi fosse la ragione cui si riferiva l’uomo. Memore delle recenti esperienze, per un fugace istante quasi lo compatì.
- Sarebbe a dire? Vi pregherei di parlare perché, sono certa lo sappiate, nelle ultime settimane sono stata impegnata coi preparativi e, – il già poco rassicurante sorriso si accentuò – Con un problema di cui anche voi siete responsabile.
- Lei è qui? – Gold fu brusco nell’arrivare al dunque, ma Ella non si sarebbe aspettata altro da lui; se lo apprezzava, in fondo era anche per questo.
- Perché mai vi preoccupate della mia dolce cuginetta? In passato, mi pare di aver capito, avete trovato la sua compagnia piuttosto piacevole, – decise di canzonarlo.
Gold poteva fingere che la sua impeccabile compostezza non si facesse compromettere tanto facilmente, ma le labbra tirate e il lampo che, fulmineo, gli incendiò lo sguardo parlavano da sé.
- Cosa sapete?
- Oh, giusto qualcosina che se foste donna vi rovinerebbe. Ringraziate la buona stella che vi ha fatto nascere uomo.
- Non ho voglia di scherzare, Lady Feinberg. Lei è qui?
Ella ricambiò l’ostilità con uno sguardo languido e sprezzante.
- Potete star tranquillo, – rispose infine scrollando le spalle – Non è qui, e non lo sarà più.
- Cosa intendete?
- Non l’ho data in pasto ai cani, sebbene abbia avuto più volte la tentazione di porre fine alle mie sofferenze, – ribatté pungente – A minuti salperà. Sta tornando a casa, – valutò per un momento la possibilità di accennare all’incontro tra la giornalista e la Contessa; ma anziché farlo – tutto era oramai risolto, giusto? –, scambiò un lungo sguardo significativo con Gold – La prossima volta, vi pregherei di considerare che il mondo è piccolo. Qualcuno conosce sempre qualcun altro.
- Non ci sarà una prossima volta, – né con lei, né con altre, l’industriale si redarguì tra sé e sé. Non poteva aver certezza, ma Cora e l’esperienza negli affari gli avevano insegnato a riconoscere un inganno: e qui non ve n’era alcuno. Con ogni probabilità era salvo. Non riusciva a pensare ad altro – Vi sono grato per l’informazione, Milady, – disse, già dando segno di andarsene.
- E la festa? – gli ricordò l’ereditiera.
Vedremo.
- Se parteciperò, lo farò accompagnato, – fu l’unica risposta.
Hélène, Ella riuscì solo a pensare, non vedo l’ora di conoscerti.
 
 
 
“My love is
your disease,
I won’t let it set you free
till I break you.”
 
 
 
- Papà!
La voce di Helena lo fece sobbalzare. Alzò all’istante lo sguardo dai documenti: la bambina era appena entrata nello studio con la madre.
- Ditemi pure.
Belle ridacchiò prima di annunciare: – Siamo qui per chiederti asilo.
L’uomo aggrottò la fronte senza capire.
- Dobbiamo nasconderci da Killian! Stiamo giocando a nascondino e ora lui deve trovare noi, ma non ci deve trovare! – la bimba snocciolò rapida, le guance arrossate dalla concitazione – Voglio vincere io!
Splendido. La casa andava a rotoli, non era del tutto al sicuro da quella spada di Damocle che forse ancora gli pendeva sul collo, e la servitù perdeva tempo dietro a una quattrenne cui avrebbe dovuto rivolgersi con deferenza, piuttosto che con confidenza. Ancora una volta, Gold si chiese perché i suoi dipendenti non fossero docili ed efficienti come quelli altrui, e – soprattutto – cosa lo trattenesse dal metterli alla porta uno dopo l’altro.
Uno dopo l’altro a partire da Jones, ovviamente.
Se non altro, seppur nella sua innocenza Helena pareva ben determinata a dare una lezione a quel valletto da strapazzo…
- E sia, – decretò dopo aver finto di soppesare le opzioni – Se il vostro avversario dovesse spingersi a cercarvi fin qui, se la vedrà con me. È mio dovere sostenerti e aiutarti a vincere contro Jones. Anzi, – sogghignò, consapevole delle occhiate torve di Belle – Dobbiamo sempre allearci contro di lui.
Helena, fino ad allora entusiasta, si rabbuiò appena.
- Perché? Alla fine è un gioco. Se perdo ora e vinco dopo, vinco lo stesso. Anzi, – sembrò valutare l’alternativa prima di riprendere parola – Secondo te devo farlo vincere una volta? Killian è sempre bravo nei miei confronti, ed è bello, bello come un principe. Dici che da grande mi sposa?
Il destino si divertiva con Robert Gold: non c’era altra spiegazione razionale agli eventi che segnavano la sua esistenza.
Quella scoperta – e la risatina vanamente camuffata da Belle con colpo di tosse – ne erano la prova suprema.
Perché diamine, tra tutti gli esseri presenti sulla faccia della terra, sua figlia si era presa una cotta proprio per Killian Jones?
- Tu che dici? – lo incalzò la bambina.
Dico di no, si morse la lingua per non rispondere e rendersi ancora più ridicolo per quell’insensata gelosia.
- Ha gli occhi blu e mi racconta sempre dell’India, e dell’Irlanda! Dice che è tutta verde, che è bella…
- La Scozia lo è di più, – soffiò, quasi punto nell’orgoglio.
Helena alzò le spalle.
- Non lo so. Mai stata.
- Ma ti piacerebbe andarci?
- Sì. Credo di sì, – si voltò verso Belle, che continuava a gustarsi la scena ridendo sotto i baffi – Lei ci voleva andare. Una volta mi ha detto così.
L’interpellata tornò seria all’istante. Nessuno degli adulti commentò: entrambi sapevano fin troppo bene a cosa alludesse quel desiderio irrealizzato – quella strada mai percorsa.
Né la prima, né l’ultima ferita.
Gold riportò lo sguardo su Belle. Magari avrebbe potuto staccare dal lavoro, almeno per un po’. Tornare in patria, questa volta non da solo – mai più solo –, prendere una di quelle case piccine che a lei piacevano tanto e ricominciare daccapo, lontani dal caos e dai problemi che si moltiplicavano giorno dopo giorno.
Magari avrebbe potuto far una prova, proprio in occasione della festa. Ci aveva già riflettuto quando aveva scoperto di Rebecca in Inghilterra, e ora la tentazione tornava a farsi sentire…
- Ci andremo, – promise, consapevole di non star parlando alla figlia – Andremo in Scozia, e non solo lì. Andremo ovunque tu vorrai. Ogni giorno sarà un’avventura – e la vivremo insieme.
Lo ripeterò ogni giorno finché non mi crederai – finché non ci crederò.
Belle gli sorrise. I suoi occhi riflettevano la purezza del suo animo, la fiducia in un avvenire meraviglioso. Se Helena non fosse stata presente, Gold l’avrebbe baciata. Com’era possibile che nella sua vita fosse entrata lei?
La mente gli tornò al giorno in cui Belle aveva deciso di aprire le tende dello studio. – Non ce n’è bisogno - mi abituerò, – aveva risposto quando Belle si era offerta di risistemare il velluto.
Mi abituerò alla luce.
Mi innamorerò della luce.
Pensava che la luce lo avrebbe ferito, ma aveva il sole accanto da mesi e stava lenendo le sue piaghe. “Luce”, “amore” erano state parole come altre finché non aveva conosciuto lei; allora avevano assunto tutto un altro significato, tanto bello quanto doloroso.
Ma non vorrei mai farti male.
- A Killian però piace Emma.
L’osservazione di Helena lo riportò alla realtà.
- Presumo sia normale. Quei due hanno più o meno la stessa età…
- Ma tu sei più vecchio della  mamma.
- Helena, – ringhiò Belle.
- Che c’è? – la bambina alzò un sopracciglio – È così!
- Non sta dicendo nulla di sbagliato, – Gold la sostenne – È vero, io sono più vecchio di tua madre. Ma questo, a suo dire, non ha importanza. È più importante ciò che ci lega rispetto agli anni che ci separano. Ora, ai miei tempi quando si giocava a nascondino c’era un “tana libera tutti”… Non vogliamo battere Killian?
Helena annuì entusiasta e si precipitò alla porta. Belle fece per seguirla, ma l’uomo la trattenne.
-  Aspetta, – le disse – Va’ avanti, Helena, io devo parlare con la mamma.
La bambina neanche sentì la frase, già corsa via verso la vittoria. Gold chiuse la bussola e tornò alla scrivania.
Ora o mai più.
- Insomma, oggi Helena non si è risparmiata nei tuoi confronti. Irriverente e testarda… Mi domando proprio da chi abbia preso, – scherzò Belle avvicinandoglisi.
- Certo non da me. Io sono ragionevole, cortese e molto ben educato.
- E modesto.
- No. Sono solo sincero, – si parò dal pugno giocoso che Belle provò a tirargli – Allora, è vero quel che ha detto Helena? Una nuova tresca è nell’aria?
- Non pensare nemmeno a separarli o qualcosa di simile.
- Separarli? Io? – un fin troppo turbato Gold si portò una mano al petto – Dearie, dovresti sapere che sono un gran sostenitore del Vero Amore. Non pensavo di distruggere la felicità della coppietta, ma di promuovere la Nolan come minimo capocameriera.
- Perché mai? – la donna spalancò gli occhi sorpresa.
- Ha tolto di mezzo Jones. Un uomo in meno di cui preoccuparmi.
Un’esasperata Belle si portò le mani ai capelli e rise.
- Non ce la posso fare. Tu mi hai davvero fatta restare per chiedermi di Emma e Killian? – vedendo il ghigno di Gold sparire, ebbe subito la risposta – È successo qualcosa? – avanzò incerta.
In realtà, conosceva anche questa risposta. Da quando era tornata da Whitechapel, l’amato era più tetro e nervoso. Il modo di fare le aveva riempito l’animo di oscuri ricordi e presentimenti che non aveva saputo, né voluto mettere a tacere. Gli aveva domandato più volte spiegazioni, ma in ogni caso la replica era giunta invariata: erano gli affari, erano Regina e Cora, era una qualunque cosa di cui lei non doveva preoccuparsi.
Ma come non preoccuparsi?
Belle si fidava di Gold: sapeva che non l’avrebbe più ferita, o almeno non più deliberatamente, ma l’eventualità che continuasse a tacitare pensieri ed emozioni l’agitava come poco altro. Ci aveva anche litigato una – un’altra – volta.
Una volta aveva letto che non c’è peggior angoscia che amare con la paura. Aveva sperimentato la verità dell’assunto con Helena, e ora tornava a farlo con Gold.
Ma lui non mi mentirà più. Lo ha giurato.
(Ma in fondo al cuore sai chi è.)
Non è vero. Smettila. Smettila!
- Sì e no, – Gold scavò in un cassetto fino a ripescarvi una bustina di carta dall’aria pregiata – Ho ricevuto un invito a un ballo, – Belle lo esortò a continuare – È organizzato da Ella Feinberg, un’ereditiera moglie di un mio socio, in onore di un accordo siglato qualche mese fa. Dovrei andarci, ma dovrei andarci accompagnato.
- Se ci andrò, sarà o con te o con nessuna. E qui sorge il problema… Perché sicuramente ci sarà anche Cora.
Gli occhi di Belle si spalancarono, colmi di consapevolezza
- E tu temi quel che potrebbe fare, – concluse per lui.
- Sì, – finse una sincerità che non gli apparteneva, come sapeva lei stesse fingendo la sua pacatezza – La sua presenza mi preoccupa.
- È questa la causa del tuo comportamento degli ultimi tempi?
Gold annuì ancora.
Belle lo guardò dritto in volto.
- Perché non me lo hai detto prima? – l’uomo tacque per un lunghissimo momento – Sai, mi piacerebbe tu rispondessi. È un po’ difficile dialogare se resti in silenzio.
- Non credevo di andare, – l’industriale chinò il mento. Sapeva non sarebbe riuscito a guardarla negli occhi – Mi sono detto che se non te ne avessi parlato, tu non l’avresti scoperto e tutto si sarebbe risolto. Però non sarei stato sincero con te, non avrei mantenuto la promessa. Dobbiamo parlare di tutto, vero? Non devo più mentirti. Io ti avrei mentito se non ti avessi raccontato questo… Quest’imprevisto.
- Ho sbagliato, lo so, e ti chiedo scusa. Ma io non voglio nulla ti causi dolore, e la presenza di Cora... Lei non farebbe scenate, stanne pur certa; ma al momento opportuno si lascerebbe sfuggire un commento, un pettegolezzo sulla nostra situazione. E lo sai – noi siamo noi, ma il mondo è diverso. Non criticherebbero il mio comportamento, ma il tuo. Diventeresti il bersaglio della società, chiacchierata e descritta nei peggiori modi. E io questo non potrei mai accettarlo, perché l’unico colpevole sono io.
L’eloquio era la sua qualità migliore, e Gold l’aveva affinato tanto a lungo. Lo rendeva un temibile nemico, in grado di mettere con le spalle al muro qualunque avversario; ma mai prima di allora ne aveva sperimentato gli effetti su se stesso.
Era possibile incantarsi da sé? Convincersi di star dicendo il vero, di non essere – ancora una volta, sempre un’altra volta – spergiuro?
Non sapeva fino a che punto vi fosse onestà o menzogna nelle sue parole.
Voleva proteggere Belle da Cora? Sì.
Voleva impedire al mondo di violare la sua famiglia? Sì.
Ma voleva anche proteggere se stesso dalle conseguenze dei propri errori.
- Io voglio solo tu sia sincero, – gli parve di udire una lieve accusa nel tono di Belle.
- E mi sto impegnando, Sweetheart, ci sto provando, ma non sempre è semplice. Ho paura di perdervi, e lo sai. Siete la mia costante nel caos, e senza te, senza Helena, io sono ciò che ero; e io voglio essere migliore per voi. Morirei pur di riuscirci.
Belle scosse il capo.
- Non voglio arrivare a tanto. Voglio solo una cosa, e lo sai già: smettila di trattarmi come se potessi andare in pezzi. Non sono un qualche fiore di serra, fragile e delicato: sono in grado di sopportare più di quanto si possa pensare. E soprattutto, sono in grado di sopportare la verità, di qualunque verità si tratti. Non voglio più restare all’oscuro di nulla. So che per te non è facile, ma non sei solo: per questo, quando non lo è, vorrei me lo dicessi. Posso avere questo? Solo questo? – gli chiese stringendogli le mani.
- Tu puoi avere qualunque cosa tu voglia. Proverò a dirtelo, – Gold le strinse le mani, imponendosi di non sospirare di sollievo. Era ancora presto per cantare vittoria – Dico che non andremo alla festa?
Belle rispose subito.
- No. Dì che ci andremo.
Gold s’irrigidì appena, la donna poté percepirlo. Gli carezzò la schiena per rilassarlo.
- Ci sposeremo, – spiegò – Non sappiamo quando o come, ma sappiamo che accadrà. Possiamo sfruttare quest’occasione per farci vedere in pubblico per la prima volta…
- È vero, ma potrebbe essere un azzardo. Sarà un azzardo, appena Cora scoprirà che siamo lì. Non voglio ti considerino la mia mantenuta, o peggio. Non voglio macchiarti così.
- Ma a me, alla diretta interessata, non importerebbe. E se non importa a me, come può importare a te?
- Importa a me, – l’uomo ringhiò a denti stretti – Perché le accuse sarebbero rivolte a te, ma se io non avessi…
- Se tu non avessi cosa? Sono stata io a baciarti, sono stata io a invitarti in camera. E non mi pento di nulla, – gli ricordò – Se c’è qualcuno cui non va bene, se c’è qualcuno che per questi motivi non mi vuole accanto, venga e me lo dica in faccia, lo affronterò. Ma non mi nasconderò per paura, non mi chiuderò in casa per evitare i mormorii. Non temo Cora, né chi per lei. Sono pronta a quasi tutto.
Nonostante l’ansia, Gold ghignò.
- Quanto amo sentirtelo dire.
- Ho detto quasi! – Belle si finse scandalizzata, ma tornò seria. Non era il momento di scherzare – Seriamente, Robert: so che la bolla in cui viviamo è spesso e volentieri soggetta a terremoti e catastrofi, ma nascondersi non è la scelta migliore. Anzi, per come la vedo io non è affatto una scelta. Non tutti capiranno, è vero, ma questo non significa niente: nessuno tranne Cora conosce me, e tu… Voglio dire, tu sei Robert Gold! Li hai in pugno, non puoi temerli. E soprattutto, noi saremo assieme, – i suoi grandi occhi chiari, pieni di partecipazione, cercavano di rassicurarlo – Ci amiamo e ci sosterremo a vicenda, oggi, quella sera e sempre. Non avere paura, amore mio.
- Ma io non ho paura di loro. Ho paura di lei, – c’era più verità di quanto avrebbe voluto ammettere in quelle parole. Odiava dar voce alle sue paure. Ogni volta divenivano reali e lo divoravano. Odiava star fallendo, odiava non riuscire a convincerla. Perché non mi ascolti? avrebbe voluto gridare. Perché non capisci quello che potrebbe succedere? Le ombre che ci minacciano stringono il cerchio. Se fosse la fine, io non l’accetterei. Non ce la farei.
Belle sospirò. Amava quando Gold si toglieva le maschere e le faceva vedere quello che già sapeva. Quanto fosse fragile, quanto il mondo lo inquietasse.
Aveva compiuto tanti errori, ma appartenevano al passato. Non doveva – non dovevano – lasciarsi condizionare così da ciò che era stato.
Gli accarezzò con la punta delle dita quel suo volto così pieno di segreti.
- Lo so, – gli disse – Ma so anche chi sei tu. E tu sei molto più di quello che l’apparenza mostra.
Lo baciò, e lui rispose al suo bacio.
Ma il battito del cuore di Belle, quel suono che tanto amava, in quel momento gli parve un tamburo di guerra.
Perdonami, Sweetheart.
 
 
 
“I will be here
when you think you’re all alone,
sleeping through the cracks,
I’m the poison of your bones.”
 
 
 
Cora le aveva detto che l’avrebbe trovata lì. Da quando Rebecca le aveva parlato di quelle maledette lettere e la Contessa le aveva spiegato ogni cosa, nella mente della Zelenyy si era accesa una scintilla che lei non avrebbe mai lasciato morire.
Aveva carezzato a lungo quell’idea, cullata in grembo come un figlio neonato senza lasciarla ammirare neanche alla sua nuova amica, che pure l’aveva guidata e aiutata con comprensione quasi materna. Era stato facile ingannare Ella, farle credere di star partendo quando ad attenderla non era stato un treno, ma la carrozza di lady Mills. La gentildonna che tanto l’aveva presa in simpatia l’avrebbe ospitata fino alla festa, cui entrambe avrebbero partecipato.
- Troverò il modo di farti entrare, – le aveva promesso – È la tua occasione, e non la sprecherai.
La sua occasione, finalmente, e solo il Cielo sapeva quanto l’avesse attesa. Gold non se l’aspettava, vero? Quanto si sarebbe divertita dinanzi alla sua espressione, quanto. Di sicuro non immaginava che proprio in quel momento lei fosse a pochi metri da lui, appena fuori dalla grande villa che divideva con la sua puttana.
Certo, quella sua mossa era rischiosa. Rebecca lo sapeva bene: se l’industriale l’avesse vista, tutto sarebbe stato vano. Anche per questo non aveva messo Cora a parte della visita a Kensington: di sicuro la Contessa avrebbe cercato di dissuaderla, e presto o tardi lei avrebbe ceduto perché non voleva deluderla.
La gentildonna credeva in lei come pochi avevano fatto prima d’allora. Aveva accolto lei, un’estranea, come una figlia; le aveva offerto una camera degna di una principessa e in pochi giorni pareva essersi… Affezionata? Sì, affezionata a lei. Le instillava fiducia, le ripeteva di non limitarsi ad anelare ciò che voleva, ma di considerarlo già suo, di non lasciarsi abbattere dal fallimento e trasformarne la rabbia in nuova forza. Cora era una maestra per lei; una madre, avrebbe osato dire, anche se lei una madre non l’aveva avuta mai.
Qualche anno prima, dopo aver scoperto la verità, aveva avuto modo di conoscere alcuni lontani parenti. Ricordava ancora come si era preparata per l’occasione, con quanto impegno si fosse esercitata nel galateo e avesse mandato a memoria frasi in russo; quanta speranza avesse deposto in quell’incontro con le sue origini.
Era stata una delusione.
Chi era quella baronessa dall’aria altezzosa, perché quei ragazzini – i suoi cugini, aveva pensato con una stretta dolorosa in petto – parlavano fitti tra loro e ridevano di lei?
(Perché non c’era – non c’era mai – un sorriso destinato a lei?)
Rebecca aveva pensato che il sangue sarebbe stato abbastanza e aveva scoperto che, da solo, il sangue è nulla. Aveva pensato che fosse possibile tornare indietro nel tempo, riavere il posto suo di diritto; ma non si riconosceva in quel gruppo più di quanto non si riconoscesse nei ragazzini della sua infanzia nei sobborghi di New York: per lei loro erano nessuno, e per loro – anche per loro – lei era nessuno.
Anche questa volta, Rebecca, non ci sarà amore per te.
E Gold, che pure l’aveva fatta sentire meno sperduta, non si era rivelato diverso dagli altri.
E poi – all’improvviso, quando già si preparava a tornare a casa col callo dello scrittore e un nulla di fatto – era comparsa Cora. Lei le aveva raccontato tutto: l’antica amicizia con Gold, l’irruzione di una donnaccia che tanto furbescamente si era insediata nel cuore dell’uomo, cambiandolo e allontanandolo dal resto del mondo… I moniti della Contessa erano stati vani tanto cinque anni prima quanto al ritorno dell’industriale; ma ora che aveva conosciuto Rebecca, i cui interessi erano così allineati, contava su di lei perché la verità su quella scalatrice sociale, su quella dannata Belle finalmente emergesse.
E lei non l’avrebbe delusa.
Cora aveva una figlia, aveva scoperto Rebecca. Era sua la stanza che occupava: la ragazza era giovane, molto giovane, ma a causa di contrasti con la madre si era allontanata non poco dalla famiglia.
- Regina è insipiente, e contraddirmi è la sua passione, – aveva sospirato la Mills – Ma il mondo non è una fiaba, e alle volte bisogna saper rinunciare anche a ciò che si ama. Spero lo capisca presto.
A Rebecca sarebbe piaciuto incontrare Regina e farle un bel discorsetto. La immaginava tronfia e
piena di sé come chi ha avuto tutto dalla vita, sempre pronta a pretendere e mai ad accettare la realtà. Regina non capiva la fortuna che aveva: non aveva conosciuto una vita di soluzioni di ripiego, di sogni abortiti e ricordi dolorosi. Era sempre stata amata, accettata, non aveva mai provato il dolore di essere respinta – il dolore peggiore, quello che fa male fino al midollo e da cui nessuno guarisce mai davvero.
Ma gente come Regina cosa ne sa?
- Salve! Cercate qualcuno?
Il saluto lasciò basita la Zelenyy, immersa nelle sue elucubrazioni. A rivolgerglielo era stata una giovane donna:  l’aria densa e umida le incorniciava il volto di soffici ricci rosso cupo, ciocche sfuggite dal nastro e scivolate sulla fronte come una cortina. Sul volto dall’espressione mite risaltavano due iridi cerulee.
Rebecca quasi non batté le palpebre, nel timore che la visione si dileguasse; la mente le corse subito alla descrizione da giorni e giorni al centro dei suoi pensieri.
“- È bassa, molto bassa, e minuta. Ha gli occhi azzurri, vero, ma nessun altro segno distintivo. È un tipetto ordinario, nulla di notevole; insignificante. A forza di sbattere le ciglia è riuscita a conquistare il nostro amico, ma non temere, Rebecca cara: tu hai dalla tua l’intelligenza e me, e sta’ pure certa che saremo noi a vincere.”
Cora credeva in lei. Non poteva fallire.
La sconosciuta corrispondeva alla presentazione. Nell’istante in cui l’americana se ne rese conto, un’ondata di rabbia le sommerse il cuore: odiava, odiava di un furore ostinato quella smorfiosa il cui fantasma era riuscito a superare un oceano e a portarle via ciò che più desiderava.
Solo una cosa non tornava: Gold avrebbe permesso alla sua mantenuta di vagabondare da sola e a piedi, per di più vestita in modo tanto semplice? La donna, infatti, indossava un comune abito color ocra, nulla di particolarmente ricco o nobile; solo il colore la distingueva da una semplice domestica. Conoscendo l’uomo, Rebecca nutriva forti dubbi.
La sospettata continuava a guardarla.
- Miss… Vi sentite bene?
La Zelenyy sorrise.
- Sì, va tutto bene, – la ringraziò educatamente – Perdonatemi, ma ero assorta. Questa casa è… Dei del Cielo, è di un lusso principesco! Appartiene a quel Mr Gold, vero?
L’altra si limitò ad annuire.
- Allora non mi stupisco sia tanto lussuosa: quell’uomo è più ricco di Creso! – Rebecca commentò allegra, prima di ricominciare in tono complice – Sapete, sono un po’ invidiosa di Mrs Gold. Chissà quanti bei regali le farà il marito!
L’interlocutrice le sorrise.
- Ma abiti e gioielli non servono, se non c’è l’amore.
- Naturalmente. Però certo male non fanno!
Belle rise. Lì per lì, gli occhi da gatta avida della sconosciuta e quel qualcosa nel suo modo di fare che quasi ricordava una serpe tentatrice l’avevano messa in guardia; ma basarsi sulla prima impressione e trinciare giudizi era quanto di più sbagliato potesse esserci, e lei ormai doveva averlo imparato.
- Comunque io sono miss Staples-Lewis. Charlotte Staples-Lewis 3 , – mentì Rebecca.
- Belle French.
È lei.
- Belle, – ripeté la donna. Il suo sorriso si fece più largo, affilato – Mi piace. Dovrei odiarlo, è lo stesso della donna che mi ha portato via l’uomo che amavo, ma… Mi piace. È così delicato.
Conquista la sua fiducia, si ricordò la giornalista. Potrebbe condurti alla meta...
- Mi dispiace, – Belle mormorò a disagio, cercando di non evitare quelle mezzelune fredde come il ghiaccio cui il loro colore somigliava.
- Perché mai vi scusate? Voi certo non avete colpe! – Rebecca scosse il capo con convinzione – Piuttosto, Kensington è proprio un quartiere elegante. Voi vivete qui?
- Ci lavoro, – si limitò a rispondere Belle. Non poteva certo raccontare tutto alla prima persona incontrata per caso; tanto più a una persona che le trasmetteva la strana impressione che sapesse di lei molto più di quanto Belle immaginasse.
Ma non aveva senso. Non aveva conosciuto nessuna Charlotte prima di allora…
- Ecco perché mi sembrate così informata sui segreti del quartiere! Come avete detto prima? “Abiti e gioielli non servono, se non c’è l’amore”? C’è forse maretta tra Mr Gold e sua moglie?
Lo sguardo allucinato della French le provò di star interpretando perfettamente la parte.
- Oh, Cielo! – Rebecca mormorò triste – Mi sono fatta scoprire ancora, vero?
Belle la guardò incuriosita.
- Siete una giornalista?
- Alle prime armi, purtroppo, – confidò l’altra – Il giornalismo mi ha sempre affascinata, e da quando sono rimasta sola ho deciso di farlo diventare la mia vita. Al giorno d’oggi una ragazza deve pur lavorare, vero? – ammiccò in tono complice – Purtroppo però non sono molto abile. Mi faccio riconoscere sempre… Voi stessa ve ne siete resa conto. Ma non preoccupatevi, – la tranquillizzò all’istante – Se anche aveste detto qualcosa di compromettente sui vostri datori di lavoro, certo non vi avrei citata nell’articolo! Avrei parlato di una generica conoscente della famiglia, né più né meno.
Perfetto. Si stava mostrando amichevole e cortese, l’insieme perfetto per accattivarsi il prossimo nella maggior parte dei casi. La Zelenyy era ansiosa di chiedere altro, ma era anche abbastanza furba da non insistere troppo. Stava procedendo bene.
Che strano personaggio, rifletté Belle. Fondamentalmente inoffensivo, però così curioso nella sua goffaggine. Come giornalista, certo, era pessima… Era stata fortunata a trovare una cronista tanto incapace: qualcuna con maggiore esperienza avrebbe potuto farla parlare un po’ troppo e rovinare tutto. Si mise in guardia per il futuro.
- Nessuno nasce esperto, – decise di incoraggiarla – Sono certa che col tempo diventerete bravissima. Ma quanto al vostro articolo, mi spiace deludervi – c’è ben poco da scrivere sui Gold, perché non esiste alcuna Mrs Gold.
Siamo sposati nel cuore.
Un’osservazione così semplice, cui era abituata, eppure ogni volta capace di aprirle una voragine abissale.
Ancora a causa tua.
Certo, non esiste alcuna Mrs Gold, ripeté tra sé e sé Rebecca. Forse non esisteva ufficialmente, ma i fatti erano ben diversi. La ragazza, aveva notato, aveva pronunciato la frase con un tono cui non era estraneo il rammarico. Le sue mosse avevano parlato per lei.
- Capisco, – la donna sospirò – Dovrò dire al mio direttore che Gold non è un’interessante fonte di pettegolezzi. Spero se ne faccia una ragione… In ogni caso, vi ringrazio, Miss French.
- Non ho fatto nulla per cui…
- Oh, no, – la contraddisse la rossa – Mi siete stata più utile di quanto immaginiate.
Rebecca le rivolse un ultimo breve sorriso di cortesia e si allontanò in fretta.
Robert Gold, non ti pentirai di non aver scelto me, ma di aver scelto lei.
Belle rimase a osservare la giornalista allontanarsi, la mente affollata da pensieri tanto diversi tra loro. Forse avrebbe dovuto parlare a Robert dell’incontro, del fatto che la stampa fosse attorno a loro come un avvoltoio appollaiato su un albero…
Ma quando entrò in casa, quando Helena le saltò al collo e la trascinò a giocare, quando Robert le sorrise, il pensiero di Charlotte Staples-Lewis finì nel dimenticatoio.
 
 
 
I’m gonna make you suffer.
This hell you put me in,
I’m underneath your skin,
the devil within.”
 
 
 
Rebecca Zelenyy era la cosina più miserabile su cui avesse mai posato lo sguardo.
Nell’istante in cui l’aveva sentita parlare di Robert Gold e della loro storia, Cora Mills aveva avuto una strana reazione: la parte di lei che ancora avvertiva una punta di gelosia era stata soffocata presto, molto più presto di quanto avrebbe immaginato, dalla commiserazione per quella donna il cui unico desiderio pareva compiacere il prossimo.
L’atteggiamento professionale e rigoroso di Rebecca, quasi la dovesse intervistare, era svanito nell’istante in cui aveva capito che Cora era un’alleata. Aveva presto iniziato a pendere dalle sue labbra: la guardava incantata, come incredula di essere entrata nelle sue grazie; taceva quando era lei a parlare, quasi in attesa del permesso per tornare a respirare.
Alla Contessa erano bastate mezza occhiata e un’ora o due di chiacchiere per capire che quella scioccherella illusa non aveva mai davvero avuto speranze con Robert Gold… Uomo i cui gusti erano in caduta libera. Prima la storia tragica e assurdamente romantica con la servetta, poi questa giornalista-nobile perduta bella sì, ma immensamente problematica… Almeno la French aveva avuto la prontezza di farsi mettere incinta e incastrarlo; e in ogni caso era un’antagonista contro cui valeva la pena combattere, che non si rassegnava né cedeva subito.
Non era stato difficile plagiare Rebecca. Cora aveva riconosciuto subito le lettere di cui andava blaterando, ma l’aveva convinta appartenessero a Belle French. Le aveva parlato fino alla nausea dell’intrigante che le aveva portato via il suo migliore amico,  padrino di sua figlia e sostegno in momenti tragici – solo una stupida avrebbe ammesso la natura del loro rapporto – e voilà, les jeux sont faits. L’aveva convinta che sì, forse non avrebbero più riavuto il loro amico e amante, ma ciò non precludeva loro il nettare di una vendetta ancora più dolce perché a lungo attesa.
Una cosa era certa: Gold aveva creato il caos. Si era messo nei guai con le sue stesse mani; e questo, inutile a dirsi, era fonte di immensa gioia per Cora.
Certo, se Robert avesse raccontato a Belle della Zelenyy, le due sarebbero state punto daccapo. Ma in tutta onestà, Cora dubitava che l’industriale avesse dato prova di simile maturità: lo conosceva fin troppo bene per ignorarne la tendenza a rifuggire i problemi, e dipendente com’era dalla camerierina e dalla sua bastarda era improbabile che avesse anche solo pensato di correre il rischio di perderle.
E pur di non perdere i soldi Belle stessa avrebbe potuto ignorare il tradimento e le menzogne; ma a quel punto la macchina del fango sarebbe già partita, e non ci sarebbe stato modo di fermarla.
Insomma: qualunque fossero state le mosse di Gold e della French, i due sarebbero stati sconfitti.
Non sarebbe mai stata grata a sufficienza al Fato che le aveva fatto incontrare la Zelenyy: obbediente e grata, era semplice ferirla, quanto era semplice farle piacere. Poche parole e avrebbe fatto di tutto. Rebecca sarebbe stata la figlia perfetta… Non come quell’ingrata, che pretendeva tutto fosse suo di diritto quando di legittimo non aveva neanche il diritto di vivere.
Ma la gente è fatta così: più la si tratta bene, più si dimostra incontentabile.
Perché Regina non sapeva essere come lei? Neanche da piccola Cora era mai stata così stupida. Aveva dato tutto alla figlia, e lei l’aveva tradita: quando andava a trovarla a Kensington,  non c’era traccia di affetto per lei, solo l’indispensabile per non apparire maleducata. Quel suo atteggiamento le faceva desiderare di scorticarla a cinghiate per insegnarle il rispetto.
Dal punto di vista di Regina, aveva capito Cora,  la situazione appariva chiara: madre e figlia avevano chiarito le rispettive posizioni, il cordone era reciso.
Dal punto di vista di Regina, sì; ma l’Inferno sarebbe ghiacciato prima che lady Mills avesse permesso alla figlia di fare quel che aveva in mente di fare. Grazie agli informatori messi alle calcagna dello stalliere, era al corrente di ogni mossa di quei novelli Romeo e Giulietta; e quando aveva saputo del loro progetto di fuga, Cora Mills aveva preso fuoco come un barile di pece. La sua unica erede non avrebbe lasciato Londra senza il suo beneplacito: non si era sforzata tanto per vedere la sua stirpe confusa tra la folla di una metropoli lontana. Con cosa intendevano sopravvivere quei due, poi? Avevano dalla loro solo la gioventù, ma con quella non si mangia.
Cora rimirò l’abito di broccato scuro decorato da sottili fili d’argento. Quella sera ci sarebbe stato il ballo e tutto si sarebbe risolto: Regina avrebbe ricevuto una lezione memorabile; e soprattutto Gold, Gold l’avrebbe pagata per gli ultimi cinque anni.
Avevano giocato una lunga partita a scacchi, avevano studiato la collocazione di ogni singolo pezzo, ma a uno dei due il finale sarebbe inesorabilmente sfuggito.
E Cora sapeva a chi.
Perché tutti giocavano, ma nessuno giocava bene quanto lei.
 
 
 
Now I’m the heavy burden
that you can’t bear.”
 
 
 
Da quando Mal le aveva consegnato il bigliettino, Regina era nervosa.
Non aveva mentito dicendo di essere pronta a rivoluzionare la sua esistenza e seguire Daniel in America; solo, non immaginava che tutto accadesse davvero tanto in fretta.
Quella sera il ragazzo avrebbe visto il suo conoscente emigrato in America. Dall’incontro sarebbero dipese le loro sorti: se fosse andato bene, sarebbero partiti presto; altrimenti…
Altrimenti gli incontri smozzicati e la paura sarebbero stati ancora la routine.
L’incontro doveva andare bene. Doveva assolutamente andare bene.
Anche se questo avrebbe significato dire addio per sempre a sua madre, alla vita come l’aveva conosciuta finora, agli agi e alla serenità.
All’infanzia.
A Helena.
Ma ci sarebbe stato Daniel e tutto sarebbe andato bene; il passato non le sarebbe mancato.
Il passato tranne Helena.
Di sera le sarebbe mancato pettinarle i capelli tanto a lungo da renderli come seta, durante i pasti le sarebbe mancato ritrovarsi il piatto pieno di tutto ciò che Helena odiava e svuotato di ciò che amava e sempre, sempre le sarebbe mancato averla attorno, intenta a trafficare, a toccare e spostare tutto senza permesso.
Come stava facendo in quel momento.
- Rompi qualcosa e ti rompo la testa, – l’avvertì Regina.
Nell’istante stesso in cui lo disse, si sentì un fragore.
L’adolescente si voltò: Helena aveva appena fatto cadere il cofanetto in cui aveva nascosto anche l’ultimo messaggio dell’innamorato.
- Uh! – la bimba si portò le manine alla bocca – Non volevo! Scusa! – si gettò per terra, raccogliendo a manciate quanto sparso sul pavimento.
- Lascia stare, – la giovane mugugnò irritata – Faccio io.
- No, no, ti aiuto! – afferrò il biglietto, ma non lo allungò all’altra – Che cos’è questo? Non è una collana.
- Complimenti per lo spirito d’osservazione, – Regina non si trattenne prima di alzare gli occhi e capire con orrore di cosa si trattasse – Dammelo. Dammelo subito.
Incurante dell’ordine, Helena aprì il foglietto e l’osservò incuriosita.
- Sai che papà mi sta insegnando a leggere? Ecco, questa è una “D”, – indicò la lettera – E quest’altra una “A”! Poi questa non la conosco, però se mi aiuti… – la bambina non fece in tempo a concludere: Regina le strappò la carta di mano, lasciandola sbigottita – Ma…
- Ti ho detto di restituirmelo. Avresti dovuto ubbidire, – abbaiò, le unghie che lasciavano profondi solchi sui palmi.
Aveva già vissuto una scena più o meno simile: una bambina che scorgeva un luccichio inopportuno, una confessione alla madre, la catena di eventi che ne era scaturita.
Non avrebbe permesso alla storia di ripetersi; non con lei, almeno.
Helena fissava frastornata Regina. Mai, nemmeno i primi tempi la ragazza le si era rivolta con tanta rabbia: era scattata all’improvviso, e ora la scrutava come se fosse stata un’estranea, come se fosse stata una minaccia.
Quasi ne era spaventata.
- Io volevo mostrarti che so leggere, – confessò sperduta, sentendosi gli occhi pungere.
- Mi sono per caso mostrata interessata alle tue doti? Non mi importa quel che sai o non sai fare, se ti dico che devi star ferma, tu devi stare ferma!
- Ma…
- Niente “ma”, ti ho detto che non mi interessa! Tu non devi…
- Allora? – una voce maschile chiese all’improvviso.
Nonostante non avesse urlato, le due trasalirono come raggiunte da una frustata. Si voltarono verso la porta: Gold stava entrando in camera e le studiava entrambe.
- Avete finito? Me ne compiaccio, – le apostrofò gelido – Cosa succede?
- Niente, – fece Regina – Le ho detto di non toccare le mie cose e ha disobbedito.
- Non lo sto chiedendo a te, – fu la secca replica dell’industriale. La ragazza chinò il capo, e l’uomo si rivolse alla figlia – Perché stai piangendo?
- Non sto piangendo, – ribatté in fretta la bambina nonostante i lacrimoni che le solcavano le gote.
Gold si trattenne dall’imprecare. La sera del ballo prometteva bene, se quello era l’esordio.
- Cosa ti ha fatto Regina?
È colpevole di ogni male del mondo, la convenuta si vietò di rispondere tagliente.
- Niente, – mentì mordendosi l’interno del pollice.
- Se menti per proteggerla, non ti comporti bene, – il fatto che proprio lui stesse pronunciando simile frase aveva un che d’ironico che Gold preferì ignorare – Devi dirmi cosa ti ha fatto, cosa ti ha detto. Altrimenti non posso far nulla. Tu vuoi che io non faccia nulla?
La bambina annuì.
In questo non ha preso da me.
Gold non seppe dirsi se fosse un bene o un male. Sospirò e prese in braccio la piccola, che subito nascose la testa nell’incavo della sua spalla.
- Andiamo a vedere se la mamma è pronta, – le disse. Fece per uscire, ma prima si voltò verso Regina – Prova a farla piangere ancora e vedrai, – la minacciò – E ricorda sempre una cosa, Dearie: qui dentro l’unica a non dovere sei tu.
Chiuse la porta, lasciando dietro di sé una ragazza dagli occhi bruni lucidi quanto quelli di Helena.
 
 
 
Belle si guardò un’altra volta allo specchio, cercandosi senza riconoscersi. Chi era la giovane donna in quello splendente abito da sera intessuto d’oro? Come aveva fatto nell’arco di pochi mesi a passare dal non avere alcun ornamento a diamanti che le ornavano il pallido collo?
Con questo Tink sfamerebbe l’orfanotrofio per i prossimi dieci anni, commentò tra sé e sé sfiorando le gemme. Erano bellissime, non poteva che ammetterlo; e da sempre le piacevano i bei vestiti, perciò una parte di lei aveva esultato quando Robert si era presentato a casa con un manipolo di sarte e stilisti.
Per un motivo o l’altro, non era mai stata tanto elegante in vita sua. Ma…
Non è che tu non sappia come comportarti, si redarguì. E non ha alcun senso scappare. Sei intelligente e bella, sai cosa fare, e soprattutto sei stata tu a convincere Robert ad andare…
Fa’ la cosa coraggiosa e il coraggio verrà da sé.
Qualcuno bussò lievemente. Quando andò ad aprire, Belle si ritrovò davanti Robert in cravatta bianca e frac nero e con in braccio un’affranta Helena.
- Cos’è successo? – domandò preoccupata.
- Lite tra ragazze, – replicò laconico Gold.
- Capisco, – Belle si rivolse a Helena – Cos’hai fatto a Regina?
- Non è colpa di Helena, – intervenne l’uomo – Sarà stata sicuramente colpa di Regina. La mela non cade mai lontana dall’albero.
- E allora tua figlia non è una santa, stanne pur certo, – lo rimbeccò prima di chiedere alla piccola: – Le hai rotto qualcosa?
La bambina scosse il capo.
- Non stavo ferma quando mi diceva di stare ferma e mi ha urlato contro.
- Ecco! – strepitò Gold – Senti? Le ha urlato contro!
- E lei non la stava a sentire, quindi direi che sono pari, – alle volte, suo malgrado Belle pensava fosse meglio non avere sempre Robert attorno. Era un padre eccezionale, partecipe e attento, ma il suo essere iperprotettivo sapeva raggiungere picchi inauditi. Era il tipico genitore che avrebbe ucciso per un letterale graffio al proprio pargolo, senza rendersi conto delle conseguenze nefaste del comportamento – Helena, sai che a breve io e papà dobbiamo uscire. Promettici di far la brava, di obbedire a Mary Margaret e di chiedere scusa a Regina.
- Helena, non chiedere assolutamente scusa a Regina, – il contrordine di Gold giunse repentino – Deve essere lei a venire da te in ginocchio, se vuole continuare a vivere qui.
La bambina guardò sperduta i due.
- Ma io non voglio che Regina se ne va… – bisbigliò incerta.
- E allora chiedile scusa e impegnatevi ad andare d’accordo. Finora siete state così brave, – Belle le ricordò – Dovete continuare così. E, lo sai, non devi toccare ciò che non è tuo senza permesso! – le porse una mano che la bambina afferrò all’istante – Andiamo dagli altri, su, o faremo tardi.
Quando la donna tornò, trovò l’amato intento a guardare fuori dalla finestra, come un lupo intrappolato che brama la fuga.
- La crisi pare rientrata, – gli disse allegra.
- È stato un simpatico diversivo. Le mie serate non sono quasi mai interrotte da interludi tanto drammatici, –  ribatté in tono ironico, ma privo di allegria.
Belle trattenne un sospiro dinanzi all’ennesima prova del singolare misto di speranza e pessimismo che dominava l’industriale negli ultimi tempi.
- Andiamo?
Finalmente Gold si voltò. La prese per mano, e la fece volteggiare per un istante  su se stessa, prima di sfiorarle la fronte con le labbra.
- Sei bellissima, – le carezzò piano i capelli per non rovinarle l’acconciatura – Non andiamo alla festa. Prendiamo la carrozza e partiamo, due giorni solo per noi. Che ne dici?
- Non abbiamo niente con noi e tu hai dato conferma all’invito, – gli fece presente Belle.
- Inventeremo qualcosa. Non vale la pena perdere tempo a un ballo. Quando torneremo ne organizzeremo uno molto più fastoso, se vorrai. Un ballo in tuo onore.
La donna sorrise e lo baciò.
- Non dobbiamo scappare, Robert. Non siamo noi a dover temere loro.
Gold non rispose. Quanto avrebbe voluto fosse vero. Quanto avrebbe voluto strapparsi via la scheggia di paura che gli punzecchiava il cuore…
All’improvviso, la sensazione della mano di Belle sulla sua. Quell’energia, come uno sfrigolio di elettricità che il loro contatto produceva era ciò che lo teneva vivo.
Le strinse il polso tanto forte che la pelle le diventò bianca.
Non lasciarmi, amore mio.
Ti prego, non lasciarmi.
- Ti amo, Belle. Ti amo, e voglio vivere con te in un mondo senza nebbia.
Belle si accoccolò al suo fianco.
- Lo so. E sarà così.
L’aria tiepida carezzava la pelle.
Il cielo risplendeva d’oro.
 
Nulla poteva andare male.
 
 
 
You’ll never know
what hit you.”
“The devil within” - Digital Daggers
 
 
 
1: i Veitch di Chelsea erano la più importante famiglia di floricoltori dell’Ottocento inglese – https://en.wikipedia.org/wiki/Veitch_Nurseries;
2 : “L’amore che non osa pronunciare il suo nome” – Oscar Wilde docet;
3 : Charlotte Staples-Lewis (♥) è il personaggio interpretato da Rebecca Mader in “Lost”.
 
 
 
N.d.A. : Dearies!
Innanzitutto mi scuso per il ritardo. Questo capitolo ha avuto una genesi complicata: tra la sessione incombente, vari amici da salutare, un gattino psicopatico cui badare e un viaggio quasi last minute, mi sono ahimè ridotta all’ultimo: non procrastinerò più, prometto!
Spero che il risultato complessivo non vi faccia rabbrividire: stavolta nutro molti timori per il suddetto motivo e perché ho introdotto personaggi per me nuovi e dalla psicologia certo non immediata. Ho scelto di aggiungere – anche se indirettamente – la Queen of Darkness mancante e di collegarla a (Cru)Ella: io shippavo lei e Ursula tanto quanto gli Authella (Author+Cruella), ma ho paura di aver reso la bionda troppo sdolcinata. Non potevo renderla psicopatica come l’abbiamo vista nella puntata a lei dedicata perché avrei contraddetto il modo in cui l’avevo presentata qualche capitolo fa, quando ancora non era stata trasmessa “Simpathy for the De Vil”; ho perciò percorso una strada “intermedia”, che spero non risulti eccessivamente melensa.
Ho anche accennato all’amicizia tra Gold e Cruella perché nella serie quei due insieme erano una bomba! XD
Altra nota dolente, Rebecca/Zelena: mi strapiace, non è una novità, ma è veramente complessissima e posso dire solo che mi sono impegnata al meglio per renderla degnamente così com’è, tra follia e anche molta fragilità.
Due piccole note per chiarire eventuali dubbi:
- in questa fanfiction, Zelena e Cora non sono assolutamente parenti;
- nel secondo capitolo, Zelena sa che qualcuna scrive a Gold, ma non ne conosce l’identità. Perciò è plausibile che Cora le abbia mentito indicandole come mittente l’innocente Belle – che, poverina, non immagina nulla di quanto stia accadendo. Siate buon* con lei e non giudicatela troppo duramente, per favore. ♥
Ci si rilegge tra un mese, ahinoi. Ci si rilegge il 26 settembre, il giorno pre-première, con un capitolo che… Beh, ora non vi anticipo nulla, però tenetevi forte! Nel frattempo ci si sente su “Euridice’s World”, la mia pagina Facebook: una visitina è sempre gradita, e più in là lascerò qualche spoiler! :D
Un immenso grazie a chi segue questa storia, la commenta e la pubblicizza e mi fa giungere il suo sostegno in ogni modo: come farei senza di voi? Prometto che risponderò presto a recensione/messaggi/quanto ancora in sospeso! ♥
Un bacione immenso, biscottini del mio cuore! :) :***
Euridice100

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Capitolo 18
*** XVII - I dreamed a dream ***


 
 
 
XVII - I dreamed a dream
 
 
 

“There was a time
when men were kind.”

 
 
 
La villa era affollatissima. I Feinberg parevano aver invitato ogni esponente dell’alta società britannica: ovunque ci si voltasse s’intravedevano volti che campeggiavano sulle pagine dei giornali di politica, di finanza o di pettegolezzi. Essere al centro di quel vivaio del fior fiore della società era un’esperienza strana: il senso d’irrealtà quasi dava le vertigini a Belle. Chissà cos’avrebbero pensato tutti quei personaggi fino ad allora bidimensionali se fossero stati al corrente del suo passato e del suo presente: l’avrebbero etichettata come donna perduta? L’avrebbero scansata disgustati, temendo quasi di esserne insozzati? Solo ora capiva i moniti di Robert…
A essere franca, non le importava molto. Aveva la coscienza pulita: tutto ciò che aveva fatto, l’aveva fatto per amore. Amore per quell’uomo tanto tenebroso quanto custode di una tenerezza insospettabile, venerazione per quella bambina che meritava una famiglia unita, rispetto per se stessa. Chi poteva ergersi a suo giudice? Aveva imparato da tempo, oramai, che ovunque possono nascondersi oscuri segreti: chi le assicurava che sotto quei completi azzimati, tra fili di perle, corpetti strizzati e virtù ostentate non vi fossero segrete disonestà e storie ben più oscure, più cupe e dolorose della sua?
Come lei non avrebbe giudicato loro, così loro non avrebbero dovuto giudicare lei.
Sarebbe andata avanti a testa alta, senza farsi intimorire da niente e nessuno, continuando a essere la Belle che era sempre stata e mettendo da parte il senso di inadeguatezza. Aveva tutte le armi per vincere la sfida, e soprattutto aveva al suo fianco Robert; quell’uomo così timido ed esitante, ma che anche in quel momento dimostrava l’amore che provava dal profondo del cuore: come intuendo l’incertezza dell’amata, infatti, l’industriale la strinse più forte a sé e la carezzò attraverso i guanti, come a infonderle sicurezza.
- Va tutto bene? – le chiese sollecito.
Belle gli sorrise.
- Se siamo assieme va tutto bene.
Se fossero stati soli, Gold avrebbe solo voluto cercarle le labbra e assaggiare il sole dei suoi baci. Ma c’era troppa gente, troppe regole da rispettare e una nemica che sarebbe stata deliziata da uno scandalo. Si limitò a sussurrarle all’orecchio: – Ti amo.
Dio, quanto era bella, vestita finalmente come la principessa che era, che meritava di essere. Era a disagio, lo sguardo le si smarriva nell’immensità del luogo, ma pure il suo carattere volitivo non veniva meno. Nel sorriso morbido che gli rivolse c’era più forza di quanta lui avesse avuto in un’intera vita; e Gold pensò che avrebbero potuto risucchiare tutta la luce del mondo, ma Belle sarebbe comunque bastata a illuminarlo.
Sweetheart, non togliermi mai il tuo sorriso.
- Ti presento ai padroni di casa, – fece, guidandola per l’atrio. Lì, nell’ampio spazio del vestibolo da cui partiva un ampio scalone in marmo, una donna bionda vestita di bianco e di nero studiava la situazione con aria critica; al suo fianco, un uomo dall’aspetto ordinario accoglieva bonario gli ospiti.
- Robert, vecchio mio! – Hans Feinberg salutò Gold con una stretta di mano e una pacca fin troppo vigorosa sulle spalle – Temevo di non vederti, conoscendo il tuo caratteraccio!
- Se pur conoscendo il leone ci si infila nella sua tana, si è o stupidi o coraggiosi, caro Hans.
- Darling, è inutile sforzarti: non riuscirai mai a battere il nostro amico nel suo campo, – la donna ghignò al marito, un mezzo sorriso sul volto affilato e gli occhi puntati su Belle.
E così eccola: la tanto cantata Hélène era al suo cospetto. Ella non vedeva l’ora di conoscerla, e finalmente aveva dinanzi a sé colei che aveva rapito il cuore del gelido scozzese, rubando il posto che Rebecca pretendeva fosse suo. Era bellina, in effetti, giovane e raffinata: la combinazione di delicatezza in miniatura ed eleganza evidentemente innata le assicuravano certo successo con gli uomini. Tuttavia, non era neanche nulla di superlativo, eccezion fatta per un notevole paio di occhi azzurri come onde che le adornavano il volto.
- Piuttosto, Robert, – proseguì l’ereditiera, osservando con curiosità diffidente l’accompagnatrice – Non lasciarci nel dubbio: chi è quest’adorabile creatura che ha la sventura di accompagnarti?
- Ho l’onore di presentarvi Isabelle French. Miss French, i nostri ospiti, Hans ed Ella Feinberg. Vi avverto che potreste trovare la padrona di casa tanto adorabile quanto caustica.
… Isabelle French?
Non era il nome che Ella si aspettava di udire. Hélène era già finita nel dimenticatoio? In momenti simili ringraziava il Cielo per non provare la minima attrazione per gli uomini, tanto più per i casanova alla Robert Gold.
- Allora saprò cavarmela, Mr Gold, – la più giovane fece soavemente eco – Ho fatto sufficiente pratica con voi.
Ella sogghignò. Però, sotto l’aspetto angelico la ragazzetta nascondeva artigli abbastanza affilati da sapere tener testa al suo compare. La rivalutò all’istante.
- Colpito e affondato, vecchio mio, colpito e affondato! – ridacchiò Hans – Attento alla dolce fanciulla che accompagnate, Robert: spero sappiate gestirla!
- Gestirla? – Gold ripeté, levando un sopracciglio – Oh, no, Dearie. Vi assicuro che Miss French non ha alcun bisogno di essere gestita: è più che in grado di governarsi da sé. Al contrario di molti uomini, non ho cercato una schiava, ma una mia pari; e chi mi accompagna questo lo sa bene.
Ella non si curò del marito brutalmente zittito: possibile avesse udito… Quel che aveva udito? Le parole del conoscente non erano fraintendibili: quella che lei aveva reputato la compagna di una sera pareva essere più, molto più; pareva essere in grado di mettere per sempre all’angolo Rebecca, Cora, Hélène e chi per loro.
Da come Gold la guardava, era chiaro che questa Isabelle French non fosse la panacea per una misera esigenza dei lombi: solo un cieco non avrebbe notato il modo in cui l’uomo la conduceva, sostenendola senza quasi toccarla, le minuscole eppure tanto significative attenzioni che le riservava. Con ogni probabilità, a una semplice parola della bella sconosciuta Gold sarebbe saltato su come un cane al fischio del padrone. Ella cercò di capire chi fossero i French, ma non le sovvenne alcuna parentela illustre: se fossero stati degli spiantati avrebbero messo a segno un bel colpo, unendosi a degli scapoli più ricchi dell’Impero…
Ma, in fondo, non era affar che la riguardava.
- Questa sera ci sarà anche la scelta delle dame, Miss French – la informò Ella prima di congedarli – Perciò i nostri amici dovranno stare all’erta. Molti bei giovanotti sono impazienti di ricevere un invito…
 
 
 
- Che donna… Particolare, – commentò Belle poco dopo, mentre si allontanavano dalla coppia.
- Particolare? – Gold sbuffò divertito, guardandosi attorno con aria distratta – Sempre indulgente col prossimo, Sweetheart, sempre indulgente.
- La conosci da molto?
- Da un po’ di anni. Non ci incontriamo spesso, ma mi trovo bene con lei. Pur essendo di alti natali, non ha peli sulla lingua.
- Me ne sono accorta, – tutto d’un tratto l’ex domestica si mostrò tesa come una gatta di vicolo.
Gold ghignò.
- Se non vi conoscessi direi che siete gelosa, Miss French.
- Io? Ma per piacere! – fu la sincera risposta di Belle. Il suo tono non era dovuto a emozioni che sapeva di non dovere provare: Robert l’amava – le era rimasto fedele persino quando la credeva morta, aveva giurato – ed Ella non era il suo tipo. Tra i due poteva esistere una simpatia, magari un’amicizia, certo un’affinità, ma non un’attrazione.
No, il suo tono era dovuto a qualcosa di molto più immediato e letale: tra gli invitati aveva scorto il volto di Cora Mills.
E – cosa che l’aveva maggiormente inquietata – la Contessa non solo aveva ricambiato lo sguardo: le aveva rivolto un sorriso forte e sicuro che non lasciava presagire nulla di buono.
- C’è la Mills, – il suo fu poco più di un sussurro, ma subito ebbe la certezza che tra la musica e il caos Gold l’avesse comunque udito.
L’uomo deglutì,  gli occhi che lampeggiavano verso la folla.
Te l’avevo detto.
Non era una sorpresa, ma dover affrontare la situazione era ben più difficile che limitarsi a ipotizzarla. La nobile avrebbe sfruttato ogni occasione per avvicinarsi a loro, ma se avesse anche solo mosso un dito contro la rivale…
Se non altro, cercò di consolarsi, Ella era stata sincera: Rebecca non stava prendendo parte al ricevimento.
Con tutta la calma che l’agitazione interna gli permetteva d’ostentare, si volse all’amata.
- Se ce ne andassimo risolveremmo ogni problema, – più che i suoi timori, in quel momento a parlare fu la preoccupazione per Belle. Senza la Zelenyy la situazione era gestibile, ma se avessero potuto evitare anche Cora sarebbe ulteriormente migliorata.
Ancora una volta, però, la donna scosse il capo.
- Ti ripeto che non siamo noi a dover fuggire.
- Non è codardia, ti ho detto. Alle volte compiere un passo indietro è il solo modo per avanzare.
- Se si vuole avanzare. Questa non è una guerra, Robert: non dobbiamo sconfiggere nessuno. Dobbiamo solo procedere per il nostro cammino, mostrarci per chi siamo e ignorare chi ci invidia. L’indifferenza è la migliore strategia.
- L’indifferenza la indispettirà ulteriormente.
- Nella mia esperienza, l’indifferenza porta come nome di battesimo Cora. E tornando a noi… – ghignò sorniona – Stasera l’unico a dover temere sarai tu. Hai sentito lady Feinberg: noi dame potremo scegliere i cavalieri. Un’occasione che ho intenzione di sfruttare appieno, Mr Gold, – lo provocò, pregustandone la reazione.
- Fate pure, Miss French, – controbatté subito lui, imponendosi di ritrovare lo spirito e allontanare i pensieri – In effetti il ballo potrebbe rivelarsi noioso. La mia vendetta contro qualche incauto giovanotto lo ravviverebbe non poco.
- Cercate di non trasformare quest’occasione in un bagno di sangue, almeno nelle vostre fantasie.
- Mia cara, sarei capace comunque di uscirne lindo e pulito. Ma in ogni caso, – fece con l’aria di chi la sa lunga – Se ben ricordo la regola prevede che la dama conceda il primo ballo al suo accompagnatore. Perciò, Miss French, – il suo inchino fu un capolavoro di eleganza ed esagerazione – Mi concedete l’onore?
 
 
 

“There was a time
when love was blind.”

 
 
 
Belle era stanchissima: i piedi doloranti e il corsetto cui non era avvezza non le davano tregua e, quel che era peggio, erano solo a metà serata.
Il ballo, a onor del vero, non era male. Soprattutto all’inizio, le era piaciuto molto volteggiare al braccio dell’amato, pur sapendo di avere addosso occhi sempre più curiosi: ben tre balli suggerivano un certo coinvolgimento, e non vi erano dubbi sulle domande che in molti si stavano ponendo. Robert l’aveva allertata: Cora o no, ci sarebbero comunque chiacchiere; ma Belle non se ne curava. Finché Robert ci fosse stato, finché avesse avuto al suo fianco l’uomo che amava con tutta se stessa, il mondo non avrebbe potuto tangerla. Con lui – lui e il modo in cui le sorrideva complice, lui e il modo in cui la sosteneva, concentrato solo sulle loro mani unite – la festa era bella.
Ma in fondo al cuore Belle lo sapeva: montagne di pizzi e ventagli di piume non erano il suo mondo. Potevano essere il diversivo di una sera, non una consuetudine: a sorrisi effimeri avrebbe sempre preferito il rifugio di un libro nel crepitio della pioggia, le franchezza di Granny e Ruby e i giochi con Helena. Quella parata di cortesia formale non faceva per lei: era un mondo in cui da sola si sarebbe sentita inadeguata, un modo falso, così distante da quello che stava costruendo con Robert.
Il loro mondo era il vero, ed era il solo di cui le importasse. 1
Avrebbe voluto ballare con lui tutta la sera. Aveva detto di voler invitare altri uomini solo per stuzzicarlo, perché mai avrebbe desiderato cavalieri che non fossero lui. Ma le regole la pensavano diversamente: avrebbe dovuto ballare almeno col padrone di casa. E poi, non poteva rifiutare qualunque proposta le venisse avanzata: glielo imponevano la buona educazione e il galateo.
Le danze con Hans Feinberg e James Spencer non erano state nulla di esaltante: il primo si era dimostrato chiacchierone e innocuo come previsto, e il giovane Spencer era un ragazzino arrogante e fin troppo importuno che Belle aveva sì messo al suo posto in fretta, ma che avrebbe volentieri evitato per il resto dell’esistenza.
Ma in ogni caso, questo tale William Scarlet sarebbe stato l’ultimo cui avrebbe concesso un ballo. Aveva accettato per un motivo molto semplice: premiare il coraggioso che, pur conscio di far infuriare la Bestia, si era piantato davanti a lei con una determinazione a dir poco encomiabile.
Belle aveva già notato il giovane che, malgrado la compagnia di una bella mora vestita di bianco, la fissava oramai da un po’. Il ragazzo aveva approfittato della prima occasione: si era avvicinato a testa alta e, con una dose non indifferente di faccia tosta, aveva pronunciato le fatidiche parole: – Oso sperare mi concediate questo ballo, Miss.
Una simile spavalderia meritava senz’altro una risposta affermativa.
- Un ballo di pochi minuti vale la salvezza delle vostre giovani gambe? – aveva ringhiato Gold lasciandola andare, e subito era giunta l’incauta replica.
- Sono proprio le giovani gambe a piacere alle giovani donne.
La – prevedibile – freddezza dimostrata dall’amato non aveva fatto cambiare idea a Belle: la gelosia di Robert non l’aveva mai fermata, anche perché non aveva ragione d’esistere. Per non parlare dell’idea di incutere timore solo perché si è legati a qualcuno: le pareva un’assurdità a dir poco inconcepibile. Con quell’uomo lei avrebbe solo e soltanto ballato, e aveva tutta l’intenzione di godersi il momento.
- Vi state divertendo? – Belle domandò per rompere il ghiaccio.
- Oh, sì! – fece lui entusiasta – Non andavo a un ballo da secoli e, bloody hell, non… – resosi conto dell’imprecazione in un simile contesto, si bloccò – Ciò che intendevo dire, Miss, è che questo ballo è davvero…
- Dannatamente divertente, – rise Belle concludendo la frase per lui. Dopo tanta affettazione era bello avere a che fare con qualcuno così schietto. Il giudizio sul compagno migliorò ulteriormente.
Il ragazzo le dedicò un largo sorriso.
- Già. Scusate la mia maleducazione, ma voi… Mi mettete a mio agio. Non sembrate come le altre dame, anche se indossate un bell’abito.
- Anche la vostra accompagnatrice è ben vestita, – replicò appena piccata – Ci state forse paragonando a questa massa di boriosi interessati solo al denaro e ai titoli?
- Tre persone intelligenti in un unico salone, musica per le mie orecchie! – William ammiccò, deliziosamente insolente – Dobbiamo bere alla nostra! Comunque, bello il vestito di Liz, vero? Gliel’ho procurato io, come l’invito alla festa. Di questi tempi è un po’ giù… Amore non corrisposto, a quanto pare, – aggiunse distogliendo appena lo sguardo – Se trovassi il tipo che la fa soffrire tanto lo prenderei a pugni. Voglio dire, come si può non voler bene alla mia Lizzie? È dolcissima. Siamo cresciuti assieme: è davvero la migliore amica si possa desiderare.
Dal modo in cui l’oggetto del dialogo li osservava, Belle pensò che per quella creatura dall’incarnato di bambola e dagli occhi tristi Scarlet dovesse essere molto più di un amico.
- Tanta brutalità è inutile. Potreste fermarvi a riflettere, capire se magari si tratta di una comune conoscenza…
- Le avrò chiesto cento volte il nome del fortunato che le ha rubato il cuore, e ogni volta mi ha risposto che non me lo svelerà mai. Eppure dovrebbe fidarsi di me, sono bravo a dar consigli: senza di me, adesso una nostra coppia di amici non sarebbe in luna di miele. Non potrò costringere nessuno a innamorarsi, ma posso pur sempre aiutarla in qualche modo. In fondo, – William si fece pensieroso – Liz ha tutto ciò che, nonostante quel che si dice, piace a un uomo: ha stile, è sicura di sé, passionale, spontanea, avventurosa e sempre pronta alla sfida.  E ha quel pizzico di audacia che male non fa, – concluse con una smorfietta.
- Sapete, – Belle stette al gioco – Non sono certa se questa sia la descrizione della vostra amica o della vostra donna ideale. O di entrambe, – decise di spezzare una lancia a favore della sconosciuta.
Il giovane bruno sospirò divertito.
- Non lo negherò. Mi avete scoperto: è questa la donna dei miei sogni. Forse mi troverete esigente, ma resto fermo sulla mia idea. Anche se, – l’immagine di William si accigliò e per un attimo abbandonò il caratteristico ghigno – La cosa più importante sono i fuochi d’artificio.
- Fuochi d’artificio? – la French ripeté, certa di essersi suo malgrado distratta.
- Sì. La donna ideale dovrebbe farmi esplodere il cuore, riscaldarmi l’animo e colorare il mio mondo, come un fuoco d’artificio Senza, tutto sarebbe vano.
- Dalle vostre parole, – Belle non poté trattenersi – Deduco conosciate bene ciò di cui parlate.
- Bisognerebbe farsi strappare il cuore per non conoscere l’amore. E credetemi – se fosse possibile lo farei.
Tacquero per lunghi istanti, ciascuno perso nei propri pensieri. Nel silenzio che seguì, Belle poté quasi sentire l’eco delle reminiscenze cui il compagno si stava abbandonando. Perché se ne stupiva tanto? Concentrata com’era sulla sua storia con Robert, quasi dimenticava che al mondo c’erano persone dalle vite tanto travagliate quanto le loro. Chi era veramente William Scarlet? Il ragazzo che in pochi minuti già l’aveva fatta sorridere con la sua allegra sfacciataggine, o una figura molto più complessa, coi suoi segreti e i suoi rimpianti?
Forse era lei troppo riflessiva. Forse sarebbe dovuta essere più superficiale e limitarsi a ballare come si era ripromessa di fare: non avrebbe più visto William Scarlet, non avrebbe dovuto farsi toccare tanto dai problemi altrui.
Ma forse anche quell’uomo, nonostante l’apparenza briosa, era qualcun altro, oltre a chi pareva essere.
E a quanto pareva, anche stavolta il merito o la colpa era di quell’amore che ci si ostina a descrivere come farfalle allo stomaco, e che invece sa essere terribile, potente.
Tanto forte da far paura.
- In un periodo della mia vita sono quasi giunta a pensarla come voi, – la donna si ritrovò a confessare.
Scarlet la fissò incuriosito.
- Cos’è successo poi? Se non sono indiscreto, – aggiunse rapido a mo’ di scusa.
Belle scosse il capo per rassicurarlo.
- Ho capito che l’amore, quando è vero, va oltre un cuore strappato, – disse con semplicità – Non si lascia dimenticare.
Il sorriso tirato di William fu mesto.
- Vorrei potervi credere.
La musica s’interruppe, segnando la fine del ballo.
- E io vi auguro possiate credermi in fretta.
 
 
 
“I dreamed a dream in times gone by,
when hope was high
and life worth living.”

 
 
 
Camminava lenta, con calma dignitosa, nonostante gli infiniti occhi puntati addosso. L’assenza di chaperon era già stata notata: avrebbe generato indiscrezioni infinite, ma se quello fosse stato il prezzo per giungere al suo scopo, l’avrebbe pagato volentieri.
Non c’è successo senza sacrificio, in fin dei conti.
Lui era alla festa. Erano nella stessa stanza, respiravano la stessa aria, i loro piedi pestavano lo stesso marmo: nulla avrebbe più potuto fermarla. Quel muro che aveva sempre incontrato, quel muro che poteva essere il destino, il vero amore, o la propensione dell’universo verso chi merita la felicità, stava per essere abbattuto
Robert pagherà per averci tradite.
Sicuramente con lui ci sarebbe stata anche lei. Si conficcò le unghie nei palmi al semplice pensiero: lei era una serva, una sciocca, miserabile serva! Era l’ultima tra gli ultimi, senza alcun titolo per stare al loro cospetto: se le fosse stato rivolto anche un solo sguardo, avrebbe dovuto ringraziare di tanta attenzione.
Ma presto quell’irritante aria trasognata le sarebbe stata strappata dal volto per sempre.
In fondo, si disse alzando il mento, cosa poteva il passo pavido di una domestica scialba contro l’incedere maestoso di un’elegante principessa in seta verde?
Lei era Rebecca Zelenyy.
E Rebecca Zelenyy, presto tutti avrebbero scoperto, aveva imparato a vincere.
Sempre.
 
 
 

“There was a time
when love was
blind.”
 

 
 
Quando la French l’aveva scorta, Cora le aveva rivolto il più dolce dei sorrisi.
Goditi la festa finché puoi, bambina.
A breve avrai una sorpresa.
Comunque fossero andate le cose, la prima apparizione in pubblico di Belle sarebbe passata agli annali. Rebecca non si sarebbe risparmiata vedendola al braccio dell’ex amante: se tutti si interrogavano sull’identità dell’accompagnatrice di Gold, entro pochi giorni avrebbero ricevuto risposta. A partire da quella stessa sera i giornalisti avrebbero scavato nel passato della sconosciuta, portandone alla luce ogni peccato, ogni segreto e ogni vergogna; la patina sottile che la French stava cercando di costruirsi sarebbe andata in frantumi.
Al momento la serva danzava raggiante con un brunetto che Gold fissava truce. Per un istante, Cora ebbe quasi compassione di lui e dello stato in cui l’assurda infatuazione l’aveva prostrato.
- Lasciato all’angolo, mio povero Robert? – gli offrì un calice di champagne che lui rifiutò.
- All’angolo, lady Mills? – l’industriale rispose con la voce più piatta ed evasiva che riuscì a fare – Non sono dello stesso avviso: la mia dama sta danzando con un altro gentiluomo, com’è opportuno che sia. È maleducazione concedere balli a un solo cavaliere, dovreste saperlo. Piuttosto, – incalzò senza darle il tempo di replicare – Mi pare che siate voi a essere stata lasciata sola.
- Anche lord Spencer è impegnato in un ballo con un’altra ospite. La giovane lady Lannister, tuttavia, non lo sta contemplando come una torta alla panna, – fece cenno a Belle e al suo accompagnatore, in quel momento uniti in un sorriso complice.
Gold si rammaricò di essere divenuto troppo beneducato per mandare la Contessa al diavolo. La vista di Belle e di quel bellimbusto faceva male: non era la prima volta che vedeva l’amata tanto vicina a un altro, ma assistere ancora a simile spettacolo, oltretutto dinanzi a una Cora che sol per questo pareva scoppiare di gioia, era una questione ben diversa.
Com’è possibile non tollerare più chi prima era tanto caro?
Detestava la Contessa con ogni fibra del suo essere dalla sera di un ballo tanto simile e tanto diverso da questo. Già allora non aveva fatto altro che mettere in dubbio la reputazione di Belle; e ancora, non paga di tutte le sofferenze che aveva loro inflitto – che le aveva inflitto, che gli aveva fatto infliggere –, perseverava in scopi che non avrebbe più raggiunto. Nello sguardo della donna lampeggiava la comprensione; ma la sua voce lo pungeva come uno spillo.
- La Lannister è come voi, Milady. Solo, decisamente più giovane agli occhi di un uomo, – rispose con un aplomb di cui qualcuno gli avrebbe reso merito in un’altra vita.
- Forse, – Cora lasciò vagare lo sguardo altrove, mentre si sporgeva a mormorargli all’orecchio – E forse c’è chi dimentica che in questo mondo alzarsi in volo è facile quanto cadere.
- Robert?
Il richiamo di Belle gli parve musica, dopo i sussurri insidiosi di Cora. Si voltò all’istante e gelò con uno sguardo il giovanotto, che prese la quanto mai azzeccata decisione di accomiatarsi in fretta.
Per vendicarsi, Belle avrebbe voluto rivolgere un’occhiata altrettanto assassina all’amato, ma sarebbe morta anziché dare una simile soddisfazione alla Contessa.
- Lady Mills, – la salutò invece freddamente.
- Mia cara, – rispose serafica – La vostra mise è splendida. Non c’è da stupirsi, in fondo: il nostro Robert è sempre stato generoso con le sue favorite…
- Ma con la sua promessa sposa lo è di più.
Cora annuì.
Cosa che non sarai mai.
- Non ne dubito, – nella voce le s’infiltrò un’ombra di compiacimento – Attendo sempre con ansia l’ann…
Non ebbe il tempo di concludere: all’improvviso, una donna vestita di verde, con dei topazi sul seno scoperto dalla scollatura abbondante, si materializzò al loro fianco e si unì al trio.
- Vogliate perdonare l’intromissione, – esordì con un cinguettio grondante miele – Posso avere il piacere di danzare con voi, Mr Gold? – senza attendere risposta, afferrò l’imprenditore per una manica e lo trascinò via con sé – Non temete, – rassicurò le altre due, rivolgendo loro uno sguardo radioso, avvelenato di gioia – Ve lo riporterò sano e salvo in men che non si dica!
Fu in quel momento che una stupefatta Belle riconobbe la ghirlanda di rame liquido di quei capelli.
L’aveva ammirata per la prima volta due settimane prima.
Lo stesso giorno in cui aveva parlato con Miss Staples-Lewis.
Si voltò interdetta verso Robert, portato via a forza dalla giornalista senza quasi opporre resistenza.
Gli occhi scuri dell’uomo, quegli occhi che sapevano essere tanto feroci, spietati, scaltri con chi gli si opponeva, ora erano sbarrati.
Terrorizzati.
Perché anche Gold aveva conosciuto quella donna.
E ricordava bene chi fosse.
 
 
 
“But the tigers come at night
with their voices soft as thunder.”
 
 
 
Belle era perplessa. Un istante stava partecipando all’ennesimo scambio di punzecchiature con Cora, Robert al suo fianco; quello seguente una stramba giornalista compariva dal nulla e letteralmente prelevava l’uomo. Cosa ci faceva in simile contesto Charlotte Staples-Lewis? Era ancora a caccia di notizie succose sulla – in teoria – inesistente famiglia Gold?
Il volto dell’industriale la diceva lunga circa l’effettiva volontà di seguire la rossa; ma più che il malcontento, a dominarlo era il panico.
Alla giovane la reazione parve eccessiva: Robert era abituato a trattare con la stampa, e avrebbe tenuto in pugno senza difficoltà una cronista poco abile come Charlotte. Conoscendolo, ne avrebbe schivato le domande,  l’avrebbe zittita con un paio di battute, e con ogni probabilità anche messa in imbarazzo per aver osato una mossa tanto sconsiderata.
Non era certo il caso di mostrarsi così preoccupato…
- Mia cara, pare proprio che a entrambe sia stata preferita l’ultima arrivata, – Cora la prese a braccetto. Un gesto d’intimità che in un’altra occasione Belle avrebbe scansato; ma che in quel momento subì senza protestare, la mente catalizzata da due ballerini, dalle figure di danza che sapientemente eseguivano, dall’armonia dei loro corpi che si muovevano all’unisono con tanta grazia da far passare in secondo piano l’evidenza che non fosse il cavaliere a condurre il ballo.
Un ballo, una parte di Belle si rese conto, in cui c’era più intimità di quella che sarebbe potuta – dovuta – esserci tra estranei.
Ma non si conoscono.
Come potrebbero?
Qualcosa la indusse a porre la domanda che il suo orgoglio avrebbe voluto non rivolgere alla rivale.
- Chi è quella donna?
- Miss Rebecca Zelenyy. Non conosci la sua storia?
Rebecca.
Ma si chiama Charlotte…
No.
Rebecca.
Belle scosse il capo lentamente.
- È l’ultima erede di una nobile casata russa. È stata rapita da neonata e portata in America, dove ha trascorso la sua intera esistenza… Tutti la reputavano morta fino a qualche anno fa, quando per una serie di fortunate circostanze è emersa la verità sulle sue origini. Tuttavia, malgrado la sua ascendenza sia oramai certezza, Rebecca preferisce continuare a lavorare come giornalista. Sostiene al giorno d’oggi le donne non possano più permettersi di farsi mantenere e di far dipendere la propria felicità da un uomo, – Cora sospirò rassegnata, per poi soppesare la più giovane – Belle cara, ero certa Robert te ne avesse accennato almeno una volta.
- No, – fu la semplice e sollevata risposta – Robert sa che i pettegolezzi non mi interessano.
Era tutto risolto. Rebecca era una giornalista, e Charlotte il suo pseudonimo. Anche l’impaccio doveva essere stato un mezzo per indurre una presunta dipendente a fidarsi e parlare; ma dinanzi al fallimento, la donna doveva aver deciso di risalire alla fonte primaria e rivolgere le domande direttamente a Gold in occasione della soirée. Rebecca si era dimostrata scaltra: forse Robert ne conosceva la fama, e per questo avrebbe preferito evitarla. In quel momento i due stavano chiacchierando, o meglio: era lei a far sfoggio di parlantina. C’era un che di strano nel modo in cui la donna fissava l’industriale: lo guardava come se gli stesse succhiando via l’aria, la vita; come se ogni istante meditasse di sferrare il colpo fatale.
Oramai, si rimproverò Belle, si era suggestionata: vedeva del marcio là dove non c’era. Ma non aveva di che preoccuparsi. Perché mai avrebbe dovuto farlo?
Mio Dio, Cora riuscì solo a pensare. La situazione era grave come aveva supposto: la camerierina era all’oscuro delle avventure galanti di Gold. Da perfetto codardo quale era sempre stato, lo scozzese si era ben guardato dal confessare la verità a colei che tanto sosteneva di amare.
Se lei fosse stata Belle French, una volta scoperta la verità il suo primo istinto le avrebbe suggerito l’evirazione del miserabile pezzente. Se non altro, lei e Gold non avevano mai avuto segreti sotto quel determinato aspetto: già prima della morte di Henry Mills, erano stati fedeli l’un l’altra…
Ma non era il momento di perdersi in chiacchiere: l’occasione le era stata servita sul proverbiale piatto d’argento, e lei avrebbe dovuto fare solo una cosa: sfruttarla.
- Che strano, – la Contessa esordì cogitabonda – Eppure avrei giurato che Robert fosse onesto con te. Che non ti nascondesse una parte tanto importante del suo recente passato.
Belle fissò stordita l’interlocutrice.
- Cosa intendi? – chiese, imponendosi invano di non allarmarsi.
Cora la guardò, addolorata e solidale.
- A New York Robert e Rebecca sono stati amanti.
In seguito, ripensando a quella frase, più che il significato o le conseguenze Belle avrebbe ricordato il modo in cui le parole la raggiunsero: non con violenza, con forza o brutalità, ma con delicatezza. La sfiorarono appena, le carezzarono l’udito giungendo a incunearsi nel profondo di lei senza che per questo ne cogliesse il senso. Come un discorso fatto a chi è sott’acqua, così a Belle parve che la coltre spessa del silenzio in cui era all’improvviso precipitata fosse appena rotta da una musica lontana, che la tangeva e non si fermava.
- Mia cara… Ho forse parlato più del dovuto?
Tutto sembrava sparito. Non sentiva niente; niente. Una parte di lei sapeva che Cora le aveva appena detto qualcosa di brutto,  di davvero brutto; ma non sapeva cosa.
Se non ci avesse pensato, sarebbe stata bene.
- Cosa… Cosa state dicendo?
- Ciò che ho detto. Robert Gold e Rebecca Zelenyy si sono incontrati in America e sono divenuti molto, molto intimi. Si sono frequentati fino all’inizio di quest’anno, quando lui ha improvvisamente deciso di far ritorno in Europa. Formano una coppia ben assortita, non trovi? – incurante della giovane che non si muoveva, silenziosa e immobile come porcellana, il tono di Cora assunse un che di intimo, come se fossero state sole e nessuno avesse potuto ascoltarle – Ho avuto modo di conoscere Rebecca: così bella e intelligente, è la donna perfetta per lui.
No.
Era la Mills a parlare. La Mills. Colei che aveva indotto la propria creatura a mentire, tradire, rubare, colei che perseverava nei suoi sporchi piani da oramai mezzo decennio. Come poteva riporre fiducia in una persona simile?
Come poteva credere a lei e non a Robert, il suo Robert che l’amava tanto, che baciava la terra su cui lei e la loro bambina camminavano, che la mattina la svegliava toccandole il naso, che le aveva promesso – le aveva giurato, le aveva giurato! – di non aver avuto altra donna dopo lei?
Gliel’aveva promesso.
Gliel’aveva giurato.
Non le aveva mentito.
Lui non le mentiva più.
- Non è vero, – lottò per ingoiare la rabbia, fingendo una sicurezza che non possedeva come Cora fingeva i suoi sorrisi. Il mondo attorno si dissolveva, ma lei non si muoveva – Stai inventando tutto. Robert e Rebecca non si conoscono. Appena finiranno di ballare, glielo chiederemo. Ci sono solo io. Da cinque anni ci sono solo io. Lui me l’ha giurato. Me l’ha giurato, – concluse, con voce ferma, ma già più sottile.
Cora trovò quasi divertente quel candore. Possibile che l’esperienza non avesse insegnato nulla alla servetta?
- Belle cara, perché mai dovrei mentirti?
- Per mille ragioni! – il respiro le si strozzò per l’indignazione – Non fai altro da anni, da quando Robert ha fatto la sua scelta! Da allora mi perseguiti senza sosta, hai cercato di farmi rapire, non hai perso occasione di umiliare nostra figlia e…
- E mentirei se ti dicessi che ne sono pentita, – la replica non si fece attendere – Sebbene non sia più legata a Robert, una parte di me continua a vederti come un’avversaria da eliminare a ogni costo. So che non esistono basi per alcun rapporto tra noi due, ma ti prego di credermi se ti dico che no, in questo momento non sto mentendo. Non ne avrei alcun interesse: come ti ho detto, non mi interessa riavere il tuo promesso. Anzi, – Cora scrollò le spalle – A maggior ragione, dopo le menzogne che ti ha evidentemente raccontato, te lo cedo volentieri. Nessuna donna con un minimo d’amor proprio dovrebbe condividere la vita con un essere tanto abietto. Ero convinta che almeno stavolta fosse stato onesto nei tuoi confronti, si fosse fidato di te, ma la tua reazione mi smentisce. In fondo, – concluse, con la grazia della pantera che infligge il colpo letale – Cosa aspettarsi da una simile bestia?
Lo disse con tanta innocenza che, se Belle non avesse saputo, le avrebbe creduto.
No.
Sì.
A chi credere?
Tremò, ma non a causa del freddo. Era qualcosa nella voce della Contessa, quell’assurda e improvvisa onestà che la permeava a farla rabbrividire, a farla stringere nell’improvvisa prigione di un vestito da regina. Le parole dai piedi di piombi era cadute l’una dopo l’altra, l’avevano colpita, ferita: troppi dati da incanalare, troppe varianti da considerare, troppe…
Sai a chi credere.
Il velo che obnubilava la mente di Belle si squarciò. Ecco il perché dei sorrisi che non riuscivano a fissarsi; ecco il perché dell’ostinatezza mentre le chiedeva di non recarsi alla festa, delle scuse continue, delle paure e dei baci affamati.
Ecco il segreto che i suoi occhi stanchi temevano di rivelare.
Belle aveva creduto di dover imputare quella reticenza alla sua tragica incapacità di comunicare, ma ora, solo ora scopriva la verità.
Solo ora scopriva di non essere il personaggio principale della storia, né un capitolo; ora scopriva di essere una nota a piè di pagina, un dettaglio, un particolare trascurabile al di là dei proclami.
Qualcosa da aggiungere e da scordare.
Qualcosa, non qualcuno.
Qualcosa indegna di fiducia.
E lo scopriva da Cora.
La voce di Belle non esternò emozioni, quando tornò a parlare. Fu come se stesse esternando di cose di poco conto, che non valeva la pena ricordare. Non seppe mai rievocare la risposta a Cora; non seppe mai se l’avesse maledetta, offesa, o forse ringraziata.
Il mondo illusorio in cui era vissuta si sgretolava istante dopo istante.
E quando Robert Gold tornò da lei, la confessione in volto, seppe pronunciare solo una frase.
 
 
 
“As they tear your hope apart
and they turn your dream

to shame.”
 
 
 
Gold stava avendo un incubo.
Ella gli aveva assicurato che Rebecca fosse partita: in quel momento doveva essere sull’Atlantico, o già a casa, ma non in quel salone. Non poteva essersi presentata al suo cospetto e averlo trascinato, le gambe rese pesanti come piombo dall’angoscia, in una danza che lui non intendeva condividere.
Il suo peggiore timore diveniva realtà: con Belle e Rebecca così vicine, il peso delle sue bugie era improvvisamente più grave, più angosciante, mortale.
- Tu non sei qui, – ringhiò, a costo di apparire folle – Tu sei un’allucinazione.
Un risolino divertito lo fece quasi annaspare in cerca d’aria.
- Dearie, – fu l’unica, beffarda risposta – Sono tanto reale quanto te.
- Cosa vuoi?
Il tono sordo non intimidì la giornalista.
- Sono venuta a trovarti, caro. Dalle tue missive, parevi sempre così di malumore… Se tra amici è dovere preoccuparsi l’un per l’altro, figurarsi cos’è tra amanti.
- Cosa che non siamo più da mesi
La donna scosse il capo, come si fa dinanzi a un bambino capriccioso.
- Robert, Robert. Oh, andiamo: capisco che alla lunga il lusso possa stancare, ma preferisci davvero una servetta a me? Quella, – fece un cenno disgustato col capo – È una nullità. Così anonima, non è neppure molto sveglia. Avresti dovuto vederla quando le ho parlato…
Un soffio d’aria gelida si alzò dal marmo, gli s’insinuò fin dentro i piedi e da lì si diffuse per tutte le ossa. Cosa stava dicendo quella folle? Era impossibile: se la Zelenyy avesse incontrato Belle, non le avrebbe risparmiato dettagli; e Belle, a sua volta, l’avrebbe affrontato alla prima occasione. Non avrebbe mai taciuto una scoperta tanto rilevante; a meno che…
A meno che Rebecca non avesse tratto in inganno Belle. E allora, ogni mossa si faceva ancora più rischiosa.
Anche per Helena.
- Non avvicinarti a lei, – le ingiunse – Non osare. Se ci proverai ancora, io…
- Tu cosa? Avanti, sentiamo, – lo incalzò con foga,  consapevole di aver messo a segno un colpo ben assestato – Quali piani ti stanno frullando in mente, ora? Con me i tuoi propositi li puoi condividere, lo sai. Non sarò certo io a trattenerti
La sua voce, il suo sorriso… Tutto di lei gli dava la nausea. Com’era possibile avessero un passato comune? Cos’aveva avuto in mente quelle notti di appena un anno prima?
- Tu non sei innamorata di me, ma dell’idea di essere accettata.
Quel sorriso come il filo di un rasoio permase, ma l’uomo avvertì la frustrata di due gelidi occhi sprezzanti.
- Dettagli, – fece fingendo noncuranza, il tono di voce già più alto che attirava sguardi incuriositi,
- Tendi sempre a dimenticare che la vita è fatta di dettagli. Immagino perché tu sia qui, ma pensavo di essere stato chiaro, – il tempo delle cautele era ormai terminato: non era mai saggio provocare Rebecca, tanto più in simili frangenti, ma la donna aveva già straziato a sufficienza il suo autocontrollo. Ogni tentativo era fallito: era giunta l’ora di farle fronteggiare la dura realtà – Ciò che c’è stato tra noi è finito mesi e mesi fa, ed è stato niente per me, niente. Se ti sei illusa, mi dispiace, ma non è affar mio. Non ci sono mai state promesse da parte mia, e ne avevo ben donde.
La stretta al braccio si fece appena più intensa. Un avvertimento.
- Sei stato tu a indurmi a certe azioni.
- No. È stata la tua invidia.
- Tu mi hai messa da parte, quando io, io ho lottato per ottenere ciò che desideravo.
- Non quanto lei, evidentemente.
- Io ho lottato più di tutti! – fece, ormai isterica.
- Potrebbe esser vero, ma ciò non toglie che in questo campo sono io ad avere l’ultima parola. E, per quanto possa crucciartene, io ho scelto lei, non te.
Proprio quando era certo che sarebbe esplosa, proprio quando si preparava a sentirla strillare, la donna reagì nel modo più inaspettato: all’improvviso, senza alcuna ragione logica, Rebecca sorrise, lasciando Gold interdetto.
- Puoi anche averla scelta, – riconobbe in tono calmo, quasi estatico  – Ma chi ti assicura sia ancora lo stesso da parte sua?
Il mondo sprofondò in Gold a quelle parole. Come mosso da un atroce presentimento, si voltò appena: Cora stava bisbigliando qualcosa all’orecchio di un’impietrita Belle. Appena si accorse dell’uomo, la più grande puntò gli occhi su di lui, in un silenzioso e distante duello di sguardi in cui fu lui ad avere la peggio.
In presenza di Rebecca, era solo una l’informazione che la lingua affilata della Contessa poteva star rivelando a Belle…
- Sì, mio caro, – la Zelenyy riprese eccitata – A Londra ho fatto ben due incontri interessanti. Uno con la tua amichetta… E l’altro con la prima che hai tradito. E sai, non credo proprio che Belle, – le labbra taglienti come lame di un minaccioso pugnale si richiusero attorno a quelle cinque lettere – Sarà felice di scoprire di noi. Perché tu, da vigliacco quale sei, non le hai detto nulla di me.
Malgrado la musica non fosse finita, l’industriale si fermò. Il suo ballo era finito. Tutti i presenti e le coppie si voltarono a guardare con malcelata curiosità: Robert Gold non era insolito a tali colpi di testa. Le cronache avevano registrato una festa di un lontano dicembre, durante la quale la stessa padrona di casa, la gentildonna che si vociferava fosse sua amante, era stata improvvisamente abbandonata a ballo appena concluso…
Ma in quel momento Robert Gold non badò a niente e nessuno. Diede le spalle alla giornalista, e subito si mosse verso un’altra persona.
Il respiro gli si strozzò in gola quando ne vide gli occhi cerulei ardere d’accusa.
 
 
 

“There was a time.
Then it all went wrong.”

 

 
 
La seguì. La seguì perché non poté far altro, perché il corpo, la mente non poterono sottrarsi al comando; perché fu come se lei stringesse la sua vita tra le mani, e lui ricordava e riviveva il giorno in cui gliel’aveva consegnata, il giorno in cui aveva capito d’amarla come mai avrebbe più fatto, di volerla accanto a sé anche a costo di doverla adorare in silenzio, nascosto da tutto e da tutti – nascosto da lei.
Quante volte l’aveva persa da allora, quante.
Questa sarebbe stata solo l’ennesima.
Quella definitiva.
Ma come puoi pentirtene, tu che ti sei creato il tuo inferno personale?
Belle non sapeva dove lo stesse conducendo. Quel giardino sembrava immenso, immenso e affollato tanto quanto la villa; cercava uno spazio dove parlare lontani da orecchie indiscrete, e nulla faceva a caso loro.
Non esiste un posto per noi, pensò amara.
Aveva pensato di essere intelligente, matura. Aveva pensato tante cose, negli ultimi mesi; ed era sempre stata solo uno strumento nelle mani altrui, una bambolina da manovrare a suo piacimento. Si era accontentata di frasi sussurrate, accettando che baci suffragassero illusioni; ma quei baci, quelle parole erano stati tutti crudelmente consapevoli.
Sapeva che la loro storia era difficile, lo sapeva da sempre; ma aveva sperato, aveva creduto davvero che le cose fossero cambiate, migliorate, che lei gli sarebbe bastata.
Lei che ci sarebbe sempre stata, lei che non l’avrebbe mai lasciato.
Lei, che aveva mantenuto la sua promessa, perché alla fine era lui a star costringendola a questo.
Il dolore pulsava forte e spietato quando infine si fermò. Che la sentissero: non le importava più nulla. Non avrebbe addotto pretesti, non si sarebbe scusata.
La nausea le sconquassò lo stomaco quando si fermò di colpo e disse: – Qui.
Fu appena una parola, ma attraversò Gold con una forza tale da farlo sussultare. Solo ora che si era voltata, che gli permetteva di vederla in volto, ne scorgeva le dita che artigliavano la veste, le spalle tremanti, i denti piantati nel labbro inferiore, il volto pallido e cereo. Sembrava una bambina, Belle, ora. Una bambina sperduta, che s’imponeva di trattenere le lacrime perché sapeva non sarebbe più riuscita a fermarle.
Una bambina arrabbiata, il cui silenzio lo colpiva dritto allo stomaco come un calcio.
- Belle… – mormorò, muovendo d’istinto un passo verso di lei – Cosa stai facendo?
Altrettanto d’impulso, lei arretrò.
La prima volta le mancò la voce
La seconda fu solo il suo corpo a tremare.
- Sto finalmente affrontando la realtà.
Per tutto questo tempo ho abbracciato un fantasma.
Gold chiuse gli occhi, annuendo a se stesso più che a lei. Non doveva avere paura. Non doveva. Stava parlando di Belle, della sua Belle. Colei che amava con tutto ciò che restava del suo cuore, colei che l’aveva sempre capito, aiutato, sostenuto. Che sempre, sempre si era fermata ad ascoltarlo, che anche stavolta gli avrebbe dato la possibilità di chiarire, vero? La sua Sweetheart gli avrebbe permesso di parlare, vero?
Le avrebbe spiegato tutto. Le avrebbe spiegato tutto, e tutto si sarebbe risolto.
Non avere paura, si ripeteva, arrancando tra pensieri sempre più confusi.
Belle mi perdona, vero?
Belle mi capisce, vero?
- No, ti prego. Calmati, Belle, calmati, – la esortò, notando il modo in cui il petto le si alzava e abbassava convulso – Respira. Respira. Fammi spiegare…
- No, – lo guardava dritto negli occhi, ma lo vedeva sempre meno a fuoco. Si rese conto solo allora di star sostenendosi a una colonna. Neanche quando lui l’aveva cacciata di casa si era sentita così male. Cosa le stava succedendo? – Ora tocca a me parlare. Ricordi quando siamo stati a Canary Wharf? Ricordi quello che mi hai detto al ritorno? – Gold annuì – Ero sicura di aver visto un cambiamento in te, un miglioramento; e non tanto per ciò che mi avevi detto, ma per il fatto stesso che tu me l’avessi detto. Che ti fossi fidato di me, che avessi iniziato ad aprirti, a parlare, come dovrebbe essere con chi si ama. Ero felice, Robert. Ero felice, – s’impose di non tremare, ma subito capì di star fallendo. Non combatté più – Ma, mentre ballavi, Cora mi ha avvicinata. Mi ha avvicinata e mi ha rivelato una cosa, una cosa che in sé non ha alcun valore, ma che tu avresti dovuto dirmi, che io ho ignorato per tutto questo tempo, e che sono venuta a sapere da Cora. Da Cora, – ripeté. All’improvviso, al dolore atroce che sembra essersi acquietato, si era affiancato un altro sentimento: la rabbia. Una furia profonda, immane, incapace di vedere e sentire altro al di fuori di sé. La furia della delusione per l’essere stata messa da parte ancora una volta, per l’essere stata tradita non nel corpo, ma nell’anima da colui che aveva giurato di non ferirla mai più. Era quella rabbia, le ribadì una parte di lei, che ora avrebbe dovuto cavalcare, la compagna cui affidarsi per ciò che s’accingeva a fare.
Belle, in quel momento, obbedì.
- È stato allora che ho finalmente capito, – continuò, mentre Gold abbassava il capo come per nascondere quegli occhi che avevano molto, troppo da non dire – Tutti i segnali, gli atteggiamenti che credevo di aver visto e su cui sono andata oltre ripetendomi di star fraintendendo, tutto… Era tutto giusto. Non sei stato sincero con me. Tu non sei cambiato in questi cinque anni, Robert: non rinunceresti mai ai tuoi segreti, alle tue macchinazioni per me. Non l’hai fatto in passato, non lo stai facendo ora, e non lo farai mai.
Belle aveva la voce di vetro e lo sguardo d’acciaio. Era determinata, ora che aveva scoperto la verità. Ma quale verità? Quella che Cora le aveva raccontato, Gold riuscì appena a riflettere, non era che una parte, la parte peggiore. Non poteva, non potevano arrendersi così. Un amore come quello era sopravvissuto a tanto, aveva superato disastri. Come poteva finire tanto banalmente?
Non l’avrebbe fatto finire.
Mai.
- No, Belle, no! – agitò invano le mani in aria due o tre volte e fece piccoli passi, col risultato di apparire isterico, fuori controllo come già era malgrado le intenzioni – Cosa ti ha detto Cora? Come puoi credere a lei, dopo tutto quello che ci ha fatto? Lascia perdere, non stare a sentire ciò che…
- No! Tu mi hai detto di non avermi mai tradita. Sai, se anche fosse successo, io l’avrei capito: mi credevi morta, era giusto ti rifacessi una vita. Lo volevo, lo speravo per te. Ti amavo: desideravo tu riuscissi ancora a sorridere, – quel verbo, quel determinato verbo al passato lo fece quasi accasciare come un pupazzo rotto, scivolare inerme lungo la parete. Ma lei continuò senza mostrare pietà, tanto bella quanto terribile – Ma tu mi hai detto di non avermi tradita. E invece, sai cosa mi ha detto Cora, Robert? Lo sai? – Belle si sentiva affogare mentre s’accingeva a ripetere le parole che l’avevano uccisa dentro, ma non s’arrestò – Che Rebecca Zelenyy non è una giornalista tra le tante. Non è un’estranea, non è una vecchia conoscenza qualunque, no. È lei. È la donna con cui sei stato durante questo tempo. È stata la tua amante… L’amante di cui tu non mi hai mai fatto parola.
- Non capisci, Belle, tu non capisci…
- Come potrei capire? – s’impose di non ridere istericamente – Io non ti conosco. Io conosco solo la realtà che tu fabbrichi a tuo piacimento. La realtà in cui tutto è perfetto, sì, ma lo è solo perché coperto da un velo. Appena lo scosto scopro sempre la verità, la lezione che avrei già dovuto imparare e che ancora mi ostino a ignorare – Belle chiuse gli occhi per non vedere la ferita che gli stava infliggendo – Il tuo unico, vero amore, Robert, non sono io, ma il potere. Il potere che ti diverti a esercitare sul mondo, sugli altri a cominciare da me. Il potere che io, – le si ruppe la voce – Ti ho permesso di esercitare su di me.
Era tutto finito. Gold glielo leggeva dritto nell’anima con un’esattezza, la stessa esattezza che lei tante volte aveva dimostrato nei suoi confronti e che lui tanto spesso aveva invidiato. Ma ora che riscopriva simile abilità, se ne pentiva. Perché mai, mai avrebbe voluto svilupparla per capire di essere giunto alle ultime battute
Al finale tragico quanto gli interludi.
Belle, io ti amo, pensò. Tutto questo l’ho fatto per te.
- Belle, no, questo non è vero, – provò a spiegare mettendo da parte ogni protervia. Ma spiegare cosa? Credeva di averle dato la felicità, e non si era reso conto di star distruggendola giorno per giorno – Non ti ho mai manipolata. Ho avuto una relazione con Rebecca, questo sì, e hai ragione quando dici che ho sbagliato, che avrei dovuto... Non so, essere sincero, dirtelo, almeno accennarti qualcosa! Ma se non l’ho fatto non è stato per cattiva volontà, ma perché lei non è mai stata niente per me, niente. Stavo con lei e sognavo te, volevo te, piangevo per te. Solo e sempre te, da cinque anni, – la supplicava con lo sguardo, con le parole, supplicava l’unico giudice al cui cospetto si rimetteva anche quando sapeva non avrebbe mostrato pietà – cui si rimetteva anche ora.
- Non ti ho mentito quella volta: non c’è stata nessun’altra nel mio cuore dopo di te. Per questo non ho detto niente: perché non aveva senso, perché ti avrebbe solo turbata ancora di più, quando meritavi solo serenità. Ci eravamo ritrovati: stavamo ricominciando a frequentarci, a riscoprici innamorati, Helena era così felice e questo dettaglio, questa mia maledetta debolezza avrebbe rovinato tutto. Non c’era nulla di sbagliato nel tacerlo. Non significa che io… Che noi.. – si perse tra le parole, si perse tra le bugie, tra la verità. Lei l’avrebbe lasciato. Tutto stava per finire – Noi abbiamo tutto, Belle! Capisci? Tutto! Perché credi che io…
Era così dolorosamente sincero che doveva recitare per forza. Si era confuso già tante, così tante volte tra i suoi modi d’istrione e l’onestà, tra segreti taciuti e lealtà ostentate. Tra le sue mille maschere aveva perso se stesso. Chi era Robert Gold?
Belle non sapeva più darsi una risposta.
Belle sapeva solo di amarlo, di non riuscire a smettere d’amarlo neanche ora che le piantava quei suoi occhi bugiardi in volto e la pregava di credergli.
Preghiere dal sapore di veleno, il più dolce, il più letale.
Non smetteva d’amare il suo veleno, e per questo sarebbe dovuta andar via.
Per non impazzirne.
Per non morirne.
- Tu non capisci, – la sola idea della sua decisione la fece sprofondare in un abisso insondabile, la travolse completamente – Non è l’essere stata tradita a farmi male, non lo definisco neanche tradimento! L’avrei accettato, non avrei sofferto, non starei così se tu me l’avessi detto! Ma tu mi hai mentito, – chinò il capo, mentre l’angoscia, la tristezza, la solitudine che tornavano a essere sue fedeli amiche le gonfiavano il petto – Non hai detto una cosa, una cosa che in sé può anche non significare molto, ma che avrebbe dimostrato la fiducia che tanto dici di nutrire nei miei confronti! – gli gridò contro senza pietà, senza temere di mostrargli le sua lacrime arrabbiate prima di riprendere con un filo di voce – Io volevo te, solo te. Io volevo solo essere scelta da te. Io ho… Provato a essere tutto per te, Robert, tutto! Ti ho dato tutto ciò che potevo darti, tutto ciò che hai voluto prendere. Ho accettato ogni sfaccettatura del tuo animo, ho perso me stessa per cercare di aiutare te! Ma ora non lo farò più. Tu hai bisogno di qualcosa che non posso darti, e io non so più cosa. Non so più nulla.
Gold si sentì morire. Momento dopo momento, si rendeva conto di aver perso – non l’hai persa, non è stato un incidente – distrutto la storia con l’unica persona che l’aveva ascoltato, compreso, fatto rialzare. Con colei che l’aveva amato più di tutto il resto, che l’aveva dimostrato in ogni modo possibile, che non aveva esitato a sfidare il mondo pur di stare con lui. E che l’aveva distrutta lui, ostinandosi a costruire un castello, sì, ma di sabbia: un castello tanto bello quanto fragile.
Un’onda, un passante distratto l’avevano portato via.
E aveva portato via loro.
- Per favore, mi farò perdonare! Belle, io… Io sistemerò tutto! – il terrore gli acuiva la voce – Sono già cambiato in passato, posso rifarlo!
Lei scosse il capo.
- Non sei mai cambiato.
- Per favore… – senza neanche rendersene conto, Gold allungò una mano verso il suo volto per carezzarla.
- Non toccarmi! – Belle urlò, scostandolo con violenza. L’uomo digrignò i denti quando lei si strofinò dove era stata appena sfiorata, quasi a voler eliminare ogni traccia del contatto. Com’era possibile che nell’arco di minuti tutto fosse mutato a tal punto? Un’ora prima ridevano felici, innamorati, e ora… – È troppo tardi, Robert. È troppo tardi, – la donna si premé una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi, una battaglia tanto vana quanto le altre che aveva combattuto. Era stanca, così stanca… Non era bastato fare attenzione, cercare di capire, provare a spiegarsi. Non era bastato nulla – In passato ho visto l’uomo dietro la bestia. Ora… Ora vedo solo la bestia.
Il dolore gli esplose in mente senza preavviso. Coprì tutto con un manto nero senza vie di fuga, un manto sotto cui Gold soffocava con la consapevolezza che non sarebbe tornato a respirare, che all’alba nulla si sarebbe diradato, che la notte sarebbe durata in eterno.
Non trattenne più le lacrime. Gli uomini non piangono, dicevano. Forse lui non era mai stato abbastanza uomo. Di sicuro lui non era più niente senza lei.
- Quando siamo andati dal fotografo… Ci siamo promessi di non dimenticare ciò che siamo. Di non lasciarci andare mai più. Mai più, Belle, mai più, sei stata tu a dirlo… Hai detto che non smetterai mai di lottare per me… Per favore… – singhiozzò convulsamente, dondolandosi su se stesso, incurante di ogni cosa. Si gettò ai suoi piedi – Per favore, l’hai promesso… Non lasciarmi… Tu ed Helena, non lasciatemi…
- Non posso mantenere la promessa. Non più, – nel pianto, una voce quasi estranea a lei stessa le abbandonò le labbra – È finita, Robert. È finita per sempre. Ho deciso di andarmene. Prendo Helena e le mie cose, e me ne vado per sempre.
- Belle, no! No, no, no, no, per favore, no! Non sei padrona di te, ora, prova a riflettere!
- Sono più padrona di me adesso di quanto lo sia stata negli ultimi mesi, – dichiarò, già voltandosi.
- Belle… Helena… Ti supplico, Belle, ti supplico! È mia figlia, sai che non posso stare senza di lei, sai che non posso stare senza di te! Non voglio perderti, Belle, non voglio…
Lei si fermò per un istante.
- Ormai mi hai già persa, – sussurrò a testa bassa prima di riprendere il suo cammino.
- Belle, per favore, Belle! – ululò come un animale ferito – Ho paura! Senza di te io ho paura! Belle!
Stava piangendo. Robert stava piangendo, e lei si voltava dall’altra parte per non guardarlo – per non fargli vedere le lacrime aggrappate al battito delle ciglia.
Quel cielo che poche ore prima risplendeva d’oro, ora era cenere.
- Belle! Per favore!
Come avrebbero fatto i piedi a spingerla fino a casa, se tutto ciò che desiderava era tornare indietro, accasciarsi al suo fianco e piangere sul suo petto, maledirlo, baciarlo, uccidere?
Se mi volto indietro sarò perduta. 2
Belle stava uscendo dalla sua vita all’improvviso, come vi era irrotta. Lo stava lasciando lì, sotto quell’albero maledetto, a contemplare la sua mancanza, incapace di muoversi e seguirla, afferrarla, costringerla a guardarlo negli occhi e a restare. Se ne andava, e forse gli augurava ogni bene, o forse ogni dolore, ma sapendo che senza di lei ad aspettarlo c’era solo il nulla.
Non poteva trattenerla. Non ne aveva titolo.
Rimase lì, tremante, la schiena contro un tronco. Era quello il suo posto
Ora che ti ho persa, so di aver perso tutto.
 
 
 

“And still I dream he'll come to me,
that we'll live the years

together.”

 
 
 
Un rintocco, un altro, un altro e un altro ancora…
Quasi mezzanotte.
Regina sbirciò ancora una volta verso il cancello. Non abbandonava la sua posizione da ore intere, nella speranza di scorgere Daniel; ma i lampioni spandevano la loro luce fioca su una strada fin troppo deserta.
Non si sarebbe mossa finché non fosse giunto l’amato, a costo di attendere fino al mattino. Quel ritardo doveva avere una ragione: Daniel non l’avrebbe mai lasciata a dibattersi nel dubbio per tante ore senza motivo. Cosa poteva essere successo? Che il colloquio stesse andando per le lunghe? Non che Regina fosse esperta di affari, ma intuiva che una trattativa tanto lunga difficilmente poteva concludersi per il meglio…
Ma qualsiasi fosse l’esito, lei e Daniel l’avrebbero affrontato assieme. Quando fosse giunto, lo stalliere le avrebbe raccontato ogni cosa e avrebbero valutato il da farsi.
Per fortuna, dopo tanto gioco almeno Helena dormiva tranquilla. Malgrado il trattamento riservatole, la bambina era tornata presto: era sgattaiolata nella camera della ragazza e, come dimentica della lite, le aveva proposto di giocare. Non che Regina avesse molta voglia di chiocciare attorno a una mocciosa, ma quel giorno era già andata in escandescenze e scatenato abbastanza l’ira dello… – dello zio – ; aveva pertanto deciso di mettere da parte per qualche momento il suo carattere fumatino e accontentare la figlia di Belle.
E poi, come avrebbe potuto negare qualcosa a Helena, quando le buttava in faccia quegli occhioni imploranti?
Ma questo Regina non l’avrebbe ammesso ad alta voce.
Si voltò di nuovo verso la finestra, le dita che stiravano senza sosta le pieghe del vestito. Se Mal avesse notato quella piccola mania, l’avrebbe come minimo derisa. – Cosa fai? – le avrebbe detto – Diventi maniaca del controllo perché non riesci a sfuggire a tua madre?
Ma lei era riuscita a sfuggire alla Contessa. Lei e Daniel ce l’avevano fatta: a momenti lui sarebbe giunto, foriero di buone notizie, e presto avrebbero cominciato una nuova vita insieme…
Era strano: proprio nell’istante in cui aveva pensato a Mal Bauer, le era parso di intravederla al cancello. Che bizzarro scherzo della mente: avrebbe al più potuto immaginare il giovane, non la ragazza!
Regina scosse il capo, preparandosi a dover sopportare i primi inconvenienti della lunga veglia.
Però…
Se non Mal, la sua sosia stava passeggiando senza sosta sotto casa dello zio. Se la razionalità non la ingannava, le probabilità che quella fosse proprio l’ex dipendente di Maman erano decisamente più elevate. Ma cosa ci faceva lì? Perché era venuta a trovarla a quell’ora, quando sapeva che attendeva Daniel…
Restare a guardarla, Regina decise, non avrebbe fornito risposte: l’unica cosa da fare era scendere, nella speranza di non essere scoperta, chiarire la faccenda e tornare ad attendere.  Non c’era altro modo, ma una cosa era certa: se l’amica fosse passata per chiacchierare, l’avrebbe rispedita nell’East End a calci. Con Helena poteva anche fingere pazienza, ma con Mal…
Si mosse in silenzio verso la porta;  ma nell’istante stesso in cui pose la mano sul pomello una vocina assonnata la bloccò.
- Re’ina?
L’adolescente sospirò. Perché quella dannata bambina sceglieva sempre il momento meno opportuno per fare qualsiasi cosa?
- Dormi.
Incurante, la piccola proseguì: – Dove vai?
- Scendo in cucina. Non ho cenato, e ora ho fame.
La Contessina scostò cauta la bussola. Controllò circospetta il corridoio prima di muoversi; ma prima che scivolasse fuori, ancora una volta un richiamo la fermò.
- Regina?
L’interpellata s’impose una calma che non possedeva.
- Dimmi.
- Ma poi torni?
Che domanda assurda.
Perché mai non dovrei tornare?
- Certo, Helena. Torno.
 
 
 
- Cosa ci fai qui? – Regina salutò Mal con ben poca grazia – Aspetto Daniel. Scendendo ora ho rischiato di essere scoperta, e sai che…
Uno sguardo la fece interrompere all’istante. Colse la tristezza negli occhi di Mal, i gesti crudi, quasi febbrili con cui la ragazza si stringeva sotto  il giaccone maschile, quasi sentisse un freddo che non apparteneva a quella mite notte d’agosto.
Era successo qualcosa, era palese; e anche qualcosa di grave. Ben poco prostrava tanto Mal; o meglio, quasi niente. Solo quando era stata catturata dagli uomini di Cora le era parsa tanto sperduta e fragile.
- Mal, – fece Regina, all’improvviso incerta – Cos’hai?
L’unica risposta fu il silenzio.
- C’entra Stefan?
Mal doveva aver litigato col suo amico. Daniel gliel’aveva detto, e lei stessa l’aveva ribadito alla Bauer: non era un uomo con cui si dovesse avere a che fare. Era pericoloso, crudele, violento. Tutto, fuorché raccomandabile.
Ancora una volta, la bionda tacque.
- Ti ha… Ti ha fatto del male?
Mal scosse il capo.
- E allora?
La domanda cadde nel vuoto, mentre la pazienza diveniva definitivamente un’estranea per Regina Mills.
- Senti, mi sono stancata di questa farsa. Sai com’è la situazione, perciò o mi dici cos’è successo, o te ne torni domani. Stanotte è tragica, ho anche la figlia di mio zio che...
- Daniel.
Regina si bloccò.
- Cos’hai detto?
Mal ripeté il nome.
- Cosa c’entra Daniel? Verrà qui appena finirà l’incontro.
- Regina... – la voce stessa della giovane risuonò come il pigolio di un uccellino – Devi venire con me.
- Ti ho detto che non posso, – Regina non stava capendo nulla – Devo aspettare Daniel, oramai sarà qui a breve.
- No, Regina, no, – quell’implorazione quasi la colpì materialmente – Oggi Daniel non viene. Devi andare tu da lui.
- No, ti dico che verrà, lui…
- Regina, non verrà! – l’amica scattò, posando le mani sulle spalle della mora e scuotendola – Per favore, stammi a sentire una volta nella tua vita! Non può venire!
L’adolescente si ritrasse come colpita, il vuoto nella mente.
All’improvviso, aveva la gola secca.
- Che significa “non verrà”? – riuscì appena a bisbigliare, dopo un tempo infinito.
Mal la guardò stancamente.
 
- Seguimi.
 
 
 
“Now life has killed
The dream I dreamed.”

“I dreamed a dream” – Les Misérables
 
 
 
1: “Quando ricevo una sua lettera so che il nostro mondo è vero, ed è il solo di cui m'importi”, dal film “Bright star” basato sugli ultimi anni di vita del poeta inglese John Keats e sulla sua storia con l’amata Fanny. È stupendo, vedetelo appena ne avete occasione!
2: citazione di Daenerys Targaryen di “A song of ice and fire/Game of thrones”. Anche la citata lady Lannister, ovviamente, viene dall’opera di George Martin. ;)
 
 
Per i riferimenti al ballo, scelta delle dame in primis, vi rimando a quest’interessante articolo:  http://georgianagarden.blogspot.it/2009/10/regole-di-base-sul-comportamento-ai.html
 
 
 
N.d.A.: Due parole prime di essere brutalmente assassinata da voi. ♥ ♥ ♥
Carissim*!
Dopo un mese avreste preferito un ritorno più allegro, lo so; e invece, vi beccate la versione euridiciana della rottura della 4x11. #Maiunagioia, lo so, ma il break-up era nell’aria: le bugie non sono mai la scelta giusta e la verità emerge sempre, nel modo più imprevedibile e con conseguenze nefaste per tutti. Gold si è trovato a fronteggiare il passato recente da cui credeva di essere oramai sfuggito, e Belle… Beh, ogni certezza di Belle è andata in frantumi come lo schermo del mio cellulare. Ogni promessa, ogni speranza si è rivelata fumo e cenere: per l’ennesima volta, sia pure per motivi diversi, l’uomo che ama non ha dimostrato alcuna fiducia in lei. L’ha ferita in un modo forse meno plateale, ma non per questo meno doloroso: il lieto fine che Belle credeva di avere finalmente raggiunto è svanito come neve al sole.
Questa è la più grave crisi che la coppia affronterà, per citare una vecchia intervista fatta agli autori: bisognerà vedere se e come si risolverà, quali ne saranno gli sviluppi e gli strascichi. Perché una cosa simile cambia tutto per sempre…
Quanto a Will(iam), non credo che tornerà. In questo mi scosterò dal telefilm: ho inserito il personaggio perché lo adoro, ma non voglio coinvolgerlo per poi trascurarlo. La sua è stata una comparsa, diciamo pure un omaggio volto anche a smorzare – appena appena! – i toni del capitolo. Se non avete seguito “Once upon a time in Wonderland” la figura di Liz e il discorso di Will potrebbero apparirvi oscuri: senza spoilerare niente, vi dico che la serie è carina, non eccezionale ma merita davvero uno sguardo – non fosse altro per Will Scarlet che è er mejo der mejo, non l’ameba vista in OUAT – e che Liz merita solo gioia. My baby. ♥
Silenzio stampa su Regina: sabato 24 ottobre scoprirete tutto. Nel frattempo, sbizzarritevi pure con le teorie: come evolverà la situazione, secondo voi? Mi raccomando, fatemi conoscere il vostro parere sul punto e sul capitolo tutto: IC, OOC, critiche e commenti vari ed eventuali, sapete che potete – dovete! – parlare senza farvi scrupoli! Sono qui per migliorare, e questo può avvenire solo attraverso confronti e consigli! :)
A breve tornerà OUAT e io, malgrado sia spesso e volentieri una criticona, non vedo l’ora: nei prossimi giorni arriverà la mia recensione delirante su “Euridice’s World”, la pagina Facebook che aspetta una vostra visitina e magari un bel “mi piace”! :D
Ora la smetto: potreste anche scuoiarmi stile Bolton, ma poi non scoprireste mai come va a finire la storia! :P
Bacioni, Dearies adorat*, e a presto, spero! ♥ :* ♥
Euridice100

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Capitolo 19
*** XVIII - Never gonna love again ***


 
 
 
XVIII - Never gonna love again
 
 
 

“Baby, can you hear
my heart cry tonight? 
I can' t keep running away.”

 

 
 
Robert Gold era abituato agli addii. Sapeva già come ci si sente: sapeva che, per qualche strano meccanismo dell’anima, a far più male non è l’assenza, il non poter stringere a sé la persona amata e non potersi specchiare nel suo sguardo, no; a far più male, paradossalmente, è lo sconvolgimento della vita.
È aprire gli occhi una mattina e non trovare accanto chi era centro dell’universo; è il cercare attorno senza capire, senza trovare una spiegazione; è l’onda della realtà che sommerge, che fa realizzare ogni cosa e stringe, soffoca, ma non uccide.
L’onda da cui purtroppo si emerge.
Belle era ovunque. Il poco tempo trascorso insieme anche stavolta era stato sufficiente a lasciare il segno della sua presenza: c’era Belle nelle stanze, c’era il suo profumo sul cuscino, in dispensa c’erano le ciliegie che lei amava tanto quanto lui odiava, c’erano i suoi vestiti e i suoi libri.
C’era tutto, c’era tutto – e non c’era più lei.
Non c’era più Helena: Belle l’aveva portata con sé. Gold l’aveva immaginato sin da subito, ma quella maledetta sera, quando era riuscito a tornare a casa, la prima cosa che aveva fatto prima ancora di cercare la donna era stato fiondarsi nella stanza della bambina.
Se ci fosse stata Helena, ci sarebbe stata anche Belle.
Aveva fissato a lungo il lettino vuoto, la confusione che raccontava una partenza improvvisa, imprevista, mai voluta. Forse era stato allora che aveva davvero realizzato gli eventi, più con quella visione che durante il tempo interminabile trascorso immobile sotto l’albero di un giardino sconosciuto, incurante di tutto, incapace d’alzarsi, di reggersi in piedi, di seguirla, di fermarla.
A casa aveva realizzato che la sua famiglia era finita.
Da allora, ogni giorno dimenticava e ricordava.
I servi non lo videro mai piangere. Lui le lacrime le aveva versate tutte, e comunque nessuno avrebbe avuto mai il diritto di vedere le sue lacrime – nessuno tranne lei. L’aveva pregata, supplicata, si era prostrato ai suoi piedi, si era umiliato, e non se ne pentiva: lo avrebbe rifatto ancora e ancora, lo avrebbe rifatto ogni singolo giorno che gli restava da vivere se questo gli avesse restituito Belle; o almeno, la possibilità di tornare indietro nel tempo al giorno della prima bugia.
Ma un’altra cosa cui Robert Gold era abituato erano i pentimenti tardivi.
Era facile pentirsi, impossibile riparare. Avrebbe dovuto imparare la lezione tempo addietro, ma nella scuola della vita lui era stato spesso e volentieri un alunno distratto. Poteva disperarsi, scrivere infinite lettere che finivano accartocciate perché le parole non erano abbastanza: la carta era piatta, la carta non riusciva a contenere ciò che provava per lei, le parole – nessuna parola – rendeva.
Gliel’aveva consigliato Belle, una volta.
- Se non riesci a dirmi le cose, prova almeno a scriverle.
Ora si riscopriva incapace di comporre quella che sarebbe dovuta essere la lettera più importante della sua esistenza.
È facile esprimere i propri sentimenti quando si è certi di essere ricambiati. È semplice dire “Ti amo”, quando si sa che la risposta sarà un sorriso e un bacio. Ma quando la situazione cambia, magari all’improvviso, magari proprio per mano di chi ama, allora ogni sequela di “perdonami”, “so di aver sbagliato” “ti prego” sarà fine a se stessa.
Parole senza senso, che si rincorrono senza trovarsi e senza trovare il destinatario.
Il destinatario è divenuto sordo, ma è stato il mittente a renderlo tale.
Sa che le sue parole non toccheranno Belle.
Se l’avesse davanti, però, s’inginocchierebbe lo stesso a chiederle perdono.
Eppure sarebbe stato semplice. Anziché inviare i suoi a controllarla da lontano, sarebbe potuto andare lui da lei. Avrebbe potuto montare in carrozza e precipitarsi a Whitechapel, entrare nella locanda e imporre la propria presenza, rivendicare il proprio diritto.
Era così semplice. L’aveva fatto decine e decine di volte.
Non l’avrebbe più fatto.
Non si sarebbe più imposto. Se la donna non avesse voluto più vederlo, così sarebbe stato. Le avrebbe chiesto di incontrare Helena, ma quanto a Belle…
Non sapeva se avesse più paura di non vederla più, o di rivederla.
Le ho già chiesto tutto. Non posso pretendere di più.
Era già stato rifiutato da così tante persone per accettare anche il suo, di rifiuto.
Era una scelta disperata, vigliacca. Ma una scelta che lo copriva come una coperta, che lo proteggeva dal rischiare; una scelta sotto cui si nascondeva.
Cercava di non pensarci più di tanto, Robert Gold. Era andata così, considerando la strada che aveva scelto di percorrere non sarebbe potuta andare diversamente, e in ogni caso la colpa era da imputare a lui e a lui solo. Forse era stata una storia scritta dall’inizio, dal giorno in cui era andato a riscuotere un credito ed era tornato con una dipendente in più. Era arrivato a maledire il primo incontro con Maurice French, desiderava non avergli mai prestato quella somma e soprattutto non aver accettato la proposta insolente che aveva portato lei nella sua vita.
Lavorava fino a tardi per arrivare a letto sfinito, con la testa che girava per la stanchezza. Era l’unico modo che conosceva per esorcizzare la danza spietata dei sogni in cui c’era lei, lei e lei soltanto; ma il letto era troppo grande per una persona sola, e lui se ne accorgeva ogni volta che lei se ne andava. Si stendeva e fissava il soffitto, immaginando qualcuno respirare accanto a lui; immaginando di potersi addormentare ascoltando ancora il battito del suo cuore
Gli mancava una parte di sé, quella parte che lo manteneva umano.
Avrebbe conquistato il mondo con una mano, se lei gli avesse tenuto l’altra.
Ora era difficile anche conquistare il giorno, l’immagine dell’addio sempre negli occhi, così vicina e irraggiungibile.
Era arrivato un pacchetto da Heller&Sons - Fotografi e Artisti. Appena l’aveva visto, Gold era scoppiato in una risata isterica. Se all’epoca avesse saputo che la fine era tanto vicina, non avrebbe perso tempo a realizzare reliquie effimere, testimonianze di una presenza per il tempo dell’assenza; se avesse saputo l’avrebbe portata via con sé, lontano dal mondo che complottava contro di loro, e avrebbe fatto l’amore con lei ancora una volta. Le avrebbe detto che l’amava, l’amava davvero nonostante gli sbagli, le bugie e le paure, e glielo avrebbe detto ancora, ancora e ancora, fino a perdere la voce.
Se avesse saputo, non ci sarebbe stato il quadro di famiglia da cui due persone avevano strappato la loro immagine prima ancora che diventassero abitudine.
- Sei così bella che dovrebbero farti un dipinto, – le aveva ripetuto spesso.
Cosa se ne faceva di uno scatto, ora che non poteva più specchiarsi in quei pezzetti di cielo?
Ed Helena, Dio, Helena. Almeno Helena Belle doveva concedergliela: non poteva togliergli la figlia. La rivedeva far capolino nello studio che lei aveva eletto a suo parco giochi; in ogni istante gli pareva di scorgere il lembo di una vestina colorata apparire e scomparire nelle stanze vuote piene di preziosi pezzi d’antiquariato, di udire l’eco della sua risata. Tendeva l’orecchio per cogliere lo scalpiccio dei piedini, ma incontrava solo il silenzio triste di un luogo che non era più un luogo.
Senza la bambina era tutto così silenzioso. Era tanto piccola, ma la sua presenza ingombrante: da quando se n’era andata, la casa sembrava essere stata privata di colpo di tutta l’energia; lui sembrava essere stato privato di colpo di tutta la vitalità.  La sua assenza lo mangiava da dentro: trascorreva minuti interi a contemplare quei giocattoli abbandonati nella fretta di scappare.
Avevano dimenticato anche Bae.
Helena non c’era più, ma la presenza delle sue cose era un’ombra gigante da cui non era in grado di sottrarsi, proprio come non era di grado di amare senza distruggere.
Forse aveva un’interferenza nel cuore che glielo impediva; e forse era vero, lui non aveva diritto di amare ed essere amato da nessuno. Meritava di restare solo.
Suo padre l’aveva abbandonato perché era un intralcio, e lui stesso aveva lasciato Neal vivere e morire solo, preferendo gli affari al proprio bambino.
Milah era scappata perché era un fallito, con Cora era tutto finito perché neanche l’amore aveva sedato la perpetua ricerca del potere della donna.
Le persone lo avevano ferito, erano state sempre e solo false nei suoi confronti; non si curava di loro. Ma amava Belle, e con lei prima, con lei ed Helena poi aveva sperato di riscattare gli errori, finendo per ripeterli uno a uno.
La cosa che Gold più odiava al mondo era far soffrire Belle, ma era già successo una volta, e stava succedendo ancora.
Chissà se era più tranquilla, ora che l’aveva lasciato. Se stava reimparando a sorridere, se scherzava con Ruby, con Graham, con gli avventori del locale. Lo sperava per lei, ma era un’illusione: anche a distanza, Gold sentiva il suo cuore rotto, impossibile da sistemare. Era lontana, ma lui ne vedeva ogni espressione, ogni lacrima, ogni tentativo di mostrarsi felice come se l’avesse avuta dinanzi.
Non era questo – mio Dio, non era questo ciò che avrei voluto per noi.
Credimi, Belle, devi credermi.
Ti prego…
Avrebbe dato tutto per sentire ancora il tocco della sua Sweetheart fermargli il cuore, per poter nascondere il volto nel torrente dei suoi capelli, per far addormentare sua figlia con una fiaba.
Per lasciarsi amare e dar loro ancora potere su di lui.
Ma perché sperare? Non sarebbe più successo.
Era stato così bravo a farsi lasciare anche da loro.
Tanto valeva dimenticare.
In quei giorni, quando non lavorava, Robert Gold sedeva spesso all’arcolaio.
Ma neanche questo non lo aiutava a dimenticare.
 
 
 

 “This time 
I can't keep running away, 
'cause I'm never gonna love again.”

 

 
 
Belle era arrivata da Granny’s ben oltre mezzanotte. Il locale era chiuso, ma sapeva che dentro le due proprietarie stavano ancora lavorando e non aveva esitato a bussare.
Quando Ruby aveva aperto, aveva fissato sbigottita la donna vestita d’oro con una bimba al collo e una borsa che pareva scoppiare; l’aveva fissata talmente confusa che Viktor Whale, evidentemente in visita dalla sua bella, era intervenuto pensando a qualche cliente inopportuno.
Belle si era sentita persino più male all’idea di star rovinando anche l’appuntamento dell’amica.
- Cos’è successo? – la giovane aveva infine sussurrato – Perché
Ma i fatti erano più eloquenti di mille discorsi.
- Venite, – si era riscossa e aveva fatto un cenno che il medico aveva come compreso all’istante – Saliamo dalla nonna.
Non era stato difficile confidarsi con le Lucas. Dopo aver fatto riaddormentare una sempre più spaesata Helena, le parole erano fluite da sé, come se fino ad allora avessero premuto in fondo alla gola in attesa del momento per erompere. Belle non si era trattenuta: aveva raccontato ogni dettaglio della festa, i brividi causati dal sorriso di Cora, la comparsa di Rebecca, il ballo, la rivelazione, l’incredulità, la conferma, la lite.
La decisione.
Si era ritrovata a piangere molto prima della fine del racconto, abbracciata a Granny che la carezzava senza sosta mentre Ruby teneva il capo chino. Si era ripromessa di non farlo, ma pareva che solo lasciando libere le lacrime la tensione che aveva in corpo potesse allentare la sua morsa.
- Scusate l’irruzione, – era riuscita a singhiozzare infine – Sono una stupida. Non sapevo dove andare, e allora ho pensato che per una notte…
Le ospiti erano scattate all’unisono.
- Resterete qui. Anche per sempre, se sarà il caso, – l’avevano zittita.
Belle si era messa a letto solo per accontentare le due: appena avevano preso sonno, si era alzata di soppiatto ed era tornata nell’altra stanzetta. Non voleva svegliare né loro né la figlia, non voleva avere compagnia; voleva solo solitudine, e libertà di piangere. Fare qualsiasi altra cosa era fuori discussione: non ne aveva la forza.
Si sentiva male, Belle, male come solo una volta si era già sentita nella vita.
Una volta che aveva avuto lo stesso responsabile.
Non era il tradimento in sé ad avvilirla tanto, era stata chiara sul punto: al tempo in cui l’uomo la credeva morta, avrebbe avuto ogni diritto di frequentare un’altra, anche di impegnarsi. Se lui gliene avesse parlato, lei avrebbe capito.
Il problema sorgeva proprio dall’ennesimo silenzio, dall’averla resa vittima inconsapevole destinata ad aprire gli occhi solo per assistere impotente alla distruzione.
La prima volta poteva essere un errore, ma lo stesso errore non poteva essere ripetuto una seconda volta; e lui l’aveva fatto.
Robert le aveva mentito
Robert non aveva alcuna fiducia in lei.
Quella notte aveva pianto tanto da provare dolore fisico: le pareva di avere i polmoni in fiamme, squarciati da continui sussulti che lottava per soffocare. Quella sofferenza era però nulla rispetto a ciò che sentiva dentro: non le pareva possibile che la stessa persona che l’aveva fatta sentire così speciale, che da mesi le donava il sogno di una famiglia, all’improvviso l’avesse fatta sentire così stupida, così cieca, così manipolabile e inutile.
Così poco amata.
Lui aveva ancora il suo sapore sulle labbra mentre cercava di difendersi dalla verità.
Perché riusciva a portarla sempre al punto di partenza?
Aveva avuto bisogno di quattro mesi per confessare. Quattro mesi, di cui gli ultimi minuti trascorsi balbettando. Lui, il maestro delle parole, muto dal terrore, capace solo di ripetere che si sarebbe fatto perdonare,  che avrebbe sistemato tutto, che tutto sarebbe tornato come un tempo.
Come un tempo?, avrebbe voluto urlargli. Come quale tempo? In quale tempo non mi hai mentito?
Forse era davvero anche colpa sua: sapeva da sempre con chi aveva a che fare. Se Robert Gold era noto come la Bestia, un fondo di verità doveva pur esserci; e forse aveva ragione Cora, si era solo illusa del contrario.
Conosceva le fragilità di Robert, sapeva quanto avesse paura di deluderla; ma aveva pensato anche che le paure prima o poi se ne sarebbero andate, mentre lei sarebbe rimasta.
Ma forse non l’aveva mai conosciuto davvero bene. Forse lui non gliel’aveva mai davvero permesso.
Belle aveva creduto di poterlo guarire, si era impegnata, aveva creduto di avercela fatta; e invece era lei ad essersi ammalata. Si era ripromessa non sarebbe più andata in pezzi, ma era stato tutto vano.
Lei era crollata, era stata abbattuta, ed era successo tutto troppo in fretta per rendersene conto. All’improvviso tutto era stato troppo: troppa onestà, troppo artificio, troppi cuori mascherati e troppe parole vere e crudeli.
Aveva deciso sull’onda della concitazione; solo all’alba aveva realizzato appieno quanto accaduto.
E non se n’era pentita.
Perché Robert sapeva che anche lei aveva i suoi demoni, e che lui avrebbe potuto esorcizzarli; e invece l’aveva trattata come una cosa, come se fosse stata una sconosciuta, con quel suo odioso, patetico atteggiarsi a padrone del mondo.  Allungava la mano e schierava le persone come pedine su una scacchiera per poi disinteressarsene; lo aveva fatto non una, ma infinite volte, ma le cose sarebbero cambiate.
Per sempre.
Come dal nulla, la sua mente aveva rievocato un ricordo che non aveva più ragione di esistere.
Il brivido che aveva provato la prima volta che lui le aveva detto: – Sei bella – e lei gli aveva creduto.
Glielo ripeteva sempre, – Sei bella – mentre le allacciava collane e bracciali, mentre la sommergeva di vestiti costosi che non aveva avuto modo d’indossare. Ma con la storia del – Sei bella – si era dimenticato che lei non era una bambolina, ma una persona, con delle emozioni e dei sentimenti.
Lei tutto questo non l’avrebbe dimenticato più.
Avrebbe imparato una lezione, aveva giurato a se stessa: non si sarebbe più ammalata di emozioni ingenue.
Non sarebbe cascata ancora nella sua trappola, si disse mentre il nodo di disperazione si scioglieva ora in furiose lacrime di rabbia; avrebbe fatto ciò che cinque anni prima non era stata in grado di fare.
A costo di annullarsi, se lo sarebbe strappato dal cuore.
Non lo amerò mai più.
Ci sarebbe voluto tempo, ma sarebbe andata avanti. Robert Gold sarebbe stato un nome, sempre diverso dagli altri, ma un nome; non il nome.
Lo doveva a sua figlia, alla figlia che lei aveva amato dal principio, che lei aveva cresciuto ed educato, che lui evidentemente aveva considerato solo un passatempo, dal momento che i giorni passavano e mai, nemmeno una volta per sbaglio, si era fatto vivo almeno per Helena, almeno per chiedere: – come sta la bambina, è viva, sta bene?
Questo la diceva lunga su Robert Gold.
Era tutto finito.
Un capitolo chiuso.
A Helena, però, doveva una spiegazione. La piccola non aveva capito niente: quella notte, strappata dal caldo abbraccio delle coperte, aveva mormorato qualcosa su Regina e osservato stranita la madre preparare la valigia.
- Che fai? – aveva infine osato domandare.
Belle non aveva risposto. Cosa dirle? Non lo sapeva neppure lei. Non lo sapeva neppure mentre, la mattina seguente, si accingeva a parlarle, stringendola a sé come se fosse tornata a essere l’unica cosa che avesse.
E in fondo, non è la verità?
Non voleva che Helena crescesse credendo che il rancore fosse normale come l’avvicendarsi delle stagioni. Non voleva metterla contro il padre, malgrado lei ora lo odiasse, ma qualsiasi spiegazione avrebbe trasudato rancore.
- Siamo tornate prima perché papà e io abbiamo litigato, – aveva confessato solo dopo molte esitazioni.
Faceva bene a dirglielo?
I suoi begli occhi castani l’avevano fissata incerti.
I suoi occhi.
- Come facciamo io e Anna? – la bimba si era rannicchiata un po’ di più tra le sue braccia.
- Sì. Come tu e Anna.
Sua figlia aveva annuito. Si era lasciata coccolare in silenzio, pensierosa; solo quando la madre aveva iniziato a prepararla, aveva riportato lo sguardo su di lei.
- Però poi anche voi fate pace? – aveva chiesto mordendosi l’interno del pollice.
- La capacità di capire troppo non rende felici, e purtroppo Helena ce l’ha. L’aveva anche Neal, – l’aveva messa in guardia lui, una volta.
Era vero, era tutto così tristemente vero.
Quanto avrebbe preferito un’Helena meno attenta, più spensierata…
- Voglio tornare da papà.
- Lo so. Lo vorrei anch’io, – si era sentita rispondere.
Almeno non le hai mentito.
A Belle lavorare era sempre piaciuto, ma in quei giorni le era divenuto necessario.
Tenersi occupata. Parlare con la gente.
Mai restare sola, mai dedicarsi ad attività che potrebbero distrarti.
I pensieri tornano.
I pensieri non devono tornare.
Rideva e scherzava, Belle. Rideva e scherzava persino con Mary e Ashley, con Killian ed Emma venuti a chiedere spiegazioni che lei non aveva negato.
Concludeva ogni discorso con un sorriso e un – Ma va tutto bene.
(Va tutto bene, tranne il mio cuore.)
Era stato lui a rendere i suoi sorrisi così evasivi?
Ma Robert non c’era.
Non c’era neanche per loro figlia…
Ci pensava anche allora, mentre fingeva di chiacchierare tranquilla con Ruby e Tink. Le amiche le erano rimaste accanto nel frangente; e malgrado la Barrie non fosse mai stata convinta del riavvicinamento tra Belle e Gold, una volta saputo della rottura aveva messo da parte l’abituale franchezza e risparmiato un – Te l’avevo detto – che avrebbe solo peggiorato la situazione.
Eppure è vero. Me l’aveva detto.
- Alle volte penso di aver sbagliato anch’io, almeno sotto un certo punto di vista, – esordì dal nulla, la voce grave e gli occhi fissi al terreno. Le altre chinarono lo sguardo all’unisono. Fino a quel momento la situazione era stata abbastanza tranquilla, la donna pareva serena. Appunto: pareva. Entrambe sapevano che la realtà non sarebbe potuta essere più distante – Gli ho giurato che sarei rimasta al suo fianco, che non avrei mai dimenticato chi eravamo, e invece…
- Lui ti ha costretta ad andartene. Lui, – le rammentò Tink – Tu tieni fede alle promesse, l’avresti fatto anche stavolta. Lui, invece, mai.
Già. Le promesse di Robert.
Tante ne aveva fatte, tante ne aveva tradite.
… Ora erano uguali?
- Perché stiamo sempre dietro a chi ci fa male? – sospirò Ruby – Vorrei che tutto fosse un po’ più semplice. Mi spiace vederti di nuovo così … – fece, riferendosi a Belle che alzò le spalle.
- Non ne ho idea, – ammise – Dicono che l’amore non ascolta il buon senso, ma forse ci sono degli amori persino peggiori. Degli amori non solo sordi, ma anche ciechi. E io ci sono cascata in pieno di nuovo.
- Non potevi…
- Potevo. Dovevo, per mia figlia, – la risposta non si fece attendere – Ma evidentemente, non sono ancora in grado di capire la gente. Tanti libri, tante esperienze, e ancora non ne sono in grado.
- No, – la voce di Tink risuonò forte e dura – Non sei responsabile di quel che è successo. Ti sei impegnata con tutte le forze per costruire la famiglia che sareste dovuti essere da sempre, non hai nulla da rimproverarti. Non puoi recriminarti nulla, se non che l’hai amato, e neanche quella è una colpa, – la volontaria incrociò la braccia al petto prima di continuare – Sarò brusca, forse cattiva, ma una cosa mi è chiara: è Gold a nascondere una bestia, e non nel senso per cui è noto. Lui accumula errori e si piange addosso lamentandosi di avere il destino contro, senza capire che è lui stesso a costruire il suo destino, e che se si sta rivelando tanto misero e triste forse sarebbe l’ora di porsi qualche domanda. Ma è lui a doverlo fare, – rimarcò – Non tu.
Belle bevve un sorso di tè. Forse Tink era nel giusto. O forse aveva ragione quella vocina che aveva iniziato a rammentarle la promessa tradita.
Ma non avrei potuto fare altro, in quel momento.
Non avrei saputo fare altro.
Guardò nella tazza, ma non trovò risposte.
 Il tè risolve tutto, lei stessa aveva detto qualche volta. Che gran bugia…
- Credevo di avergli dato tutto ciò che potevo dargli.
- E così è stato, ma alle volte non basta. Ci sono persone cui nulla basta, e lui è una di quelle. Tu no. Tu sei forte e intelligente, e andandotene hai preso la decisione migliore. Forse la più dolorosa della tua vita, ma anche la più saggia: stare con lui poteva essere una favola, ma le favole sono vere a metà, e ora che lui ti ha fatta ripiombare nella realtà, devi capire chi sei, cosa vuoi veramente. Andare oltre ciò che è stato, per quanto sia possibile. Smettere pian piano di pensarci.
- Se fosse semplice. Tutto mi fa pensare a lui.
Se Belle avesse provato a seguire il cuore, l’avrebbe condotta a Kensington lui. Forse quel William Scarlet, aveva ragione: se le avessero strappato il cuore tutto sarebbe stato molto meglio.
Perché nell’arco di pochi giorni, Belle aveva capito: avrebbero fatto prima a cavarle il cuore dal petto, che a  scacciare il pensiero di Robert dalla sua testa. Quando chiudeva gli occhi, c’era sempre lui.
- Forse non passerà mai, – Ruby avanzò cauta, dopo aver assistito in silenzio al dialogo tra le amiche.
- Grazie per l’aiuto, eh, – ringhiò Tink – Io cerco di infonderle un po’ d’ottimismo, e tu…
- No, – la Lucas scosse il capo con decisione – Siamo obiettive: lei ama Gold in un modo che di sicuro non si scorda da un giorno all’altro, e che forse non si scorda mai. Sostenere il contrario sarebbe mentire. Però questo non significa che tu, – si voltò verso Belle – Non possa andare oltre. Tornare a vivere come hai fatto durante questi cinque anni, e magari anche meglio nonostante tutto.  Io ti conosco: ce l’hai fatta l’altra volta, e sono convinta – sono sicura – che ce la farai ancora. All’epoca hai combattuto come una leonessa, e stai ancora combattendo, perché non hai solo Helena, ma tante, tantissime altre ragioni per cui farlo. Magari ora non te ne accorgi, ma ci sono, e il giorno in cui te ne renderai conto tornerai a vivere.
Ruby le sorrise. C’era così tanto affetto, così tanta speranza in quel discorso, che una parte di Belle volle credere. Forse aveva commesso lo sbaglio più grande credendo alle sue stesse parole, ma fidandosi dell’amica l’avrebbe ripetuto.
Ruby era stata tra le poche in grado di comprenderla dal primo istante, di starle vicina senza esserle opprimente: quando, quella volta a Kensington, aveva avuto conferma del padre della bambina non ancora nata, non le aveva posto domande, non aveva preteso di sapere tutto. Aveva atteso. che Belle fosse pronta a confidarsi, proprio come ora attendeva ogni volta fosse lei a voler affrontare la questione.
Gold faccia ciò che vuole, si disse Belle in un istante di improvviso, rapido e insperato ottimismo. Io sto bene qui, con Helena e Ruby.
Il resto non conta.
Un urlo femminile riscosse le ragazze.
- Ruby? Belle? RUBYYY! Dove siete finite, razza di pelandrone?
- Torniamo a lavorare, o Granny recupera sul serio la balestra, – Belle si stiracchiò prima di alzarsi – Solo, per favore – mentì per non restare in cucina coi suoi pensieri –  Fatemi servire in sala. Se oggi vedo cibo, vomito.
Tink le lanciò una lunga occhiata inquisitoria.
- Non è che…
- No, no, – intuendo, l’anticipò con fermezza – So a cosa stai pensando, ma no – non sono incinta. Te lo assicuro. Sono solo esausta.
Una volta ne avevano parlato, lei e Robert. Era stato lui a introdurre l’argomento, ad accennare a quanto sarebbe stato bello allargare la famiglia, popolare un po’ la villa.
Belle ricordava di aver riso di quell’espressione.
- “Popolare un po’ la villa”? – l’aveva punzecchiato – Vorresti davvero una dozzina di piccoli Gold saltellanti qua e là?
- Il suicidio non è nei miei piani, – aveva ironizzato contro la sua spalla, per poi tornare presto serio – Ma non sto scherzando. Helena impazzirebbe per un fratellino o una sorellina, e io… Io sarei felice di diventare di nuovo padre. Felicissimo.
Era calato un lungo silenzio. Sì, anche a Belle sarebbe piaciuto un altro figlio, vivere in attesa della creatura su cui avrebbe riversato tutto il suo amore, dare a Robert la possibilità di esserci sin dall’inizio stavolta. Aveva sorriso tra sé e sé mentre i ricordi dolci della loro bambina, dall’emozione nel sentirla muoversi in sé allo stringerla per la prima volta, dai primi balbettii alle manifestazioni d’indipendenza la colpivano con la forza di un uragano, indimenticati e indimenticabili.
Sì, sarebbe stato bello essere chiamata mamma da un’altra personcina, ma non era il momento. Bisognava prima sposarsi e chiarire la situazione di Helena, e Cielo, non erano più ragazzini e forse lei era una gran egoista, ma ora che aveva ritrovato Robert le sarebbe piaciuto dedicarsi a lui e concentrarsi sulla bambina ancora un po’ prima di ricominciare daccapo!
- Adesso abbiamo Helena cui pensare, – aveva dichiarato infine – È piccola, e vi conoscete da poco: per ora lasciamola godersi il suo papà.
- Non sia mai che diventi gelosa, – lui l’aveva presa in giro.
- Ci sarà tempo. Magari tra qualche anno rimpiangerai la tua proposta, tanto sarai stufo di marmocchi urlanti…
Ci sarà tempo, aveva detto.
Ora tempo non ce ne sarebbe più stato. Quel futuro si era sciolto come neve al sole.
Sogni rimasti a metà, possibilità mai divenute realtà e speranze congelate da parole tanto dolci quanto crudeli.
Faceva più male il pensiero di quanto accaduto o di ciò che non sarebbe accaduto mai?
No, si disse. Non rimpiangeva l’aver procrastinato. Non avrebbe più inflitto a nessuno la sorte di Helena: non avrebbe cresciuto un altro figlio senza padre, non avrebbe più permesso a Robert di comparire all’improvviso e restare appena il tempo per farsi amare per poi sparire e sfregiare il cuore di un altro innocente. Era meglio così. Era meglio essere sola con Helena, come erano sempre state.
Siamo più forti da sole.
- Capito, – Tink continuò a guardarla dritto in volto, ma alla fine demorse – Meglio che vada anch’io. Ho il caos in orfanotrofio…
- Nuovi bambini?
- Non è una bambina. Non più, almeno, – la bionda sospirò – È arrivata proprio l’altra sera. Ci hanno portato un ragazzo accoltellato che non ce l’ha fatta, e poco dopo è comparsa lei. L’unica cosa che ha fatto è stata stendersi accanto a lui e mormorare il suo nome.
- Che brutta storia, – commentò Ruby, sinceramente dispiaciuta.
- Già. Tra l’altro, non è del posto: dai vestiti che indossa, direi che viene dal West End. Dovreste vederla: si finge dura, ma è una ragazzina spaesata, e si capisce subito. L’abbiamo dovuta allontanare a forza da Daniel, come ripete ancora… Solo Henry è in qualche modo riuscito a estorcerle il nome. Pare si chiami Regina.
A Belle si mozzò il fiato.
No. Non poteva essere. Doveva aver sentito male…
- Come… – le parole le morirono in gola – Come hai detto che si chiama la ragazza?
L’amica la fissò senza capire.
- Regina. Ha detto di chiamarsi Regina.
 
 
 

“Every time the rain falls,
think of me.”

 
 
 
Cinque giorni.
Era successo tutto il 12 di agosto, ma quella era stata la notte più fredda della sua vita.
Ed erano trascorsi cinque giorni da allora.
Mal non aveva aperto bocca durante il tragitto. In fondo, a cosa sarebbe servita una consolazione? Avrebbe riaperto gli occhi di Daniel?
No.
Nulla avrebbe riaperto gli occhi dell’unica persona che teneva Regina legata alla vita.
Sempre che di vita potesse ancora parlare. Lei aveva smesso di respirare nell’attimo in cui l’aveva visto su quella branda, immobile e insanguinato. Non aveva mai visto così tanto sangue in vita sua. Non immaginava che nel corpo ce ne fosse tanto – che pensiero strano da fare, quando l’unica sua preoccupazione sarebbe dovuta essere scagliarsi al suo fianco, abbracciarlo, stringerlo in quegli ultimi momenti.
Erano stati gli ultimi, o l’ultimo era già stato? Non l’avrebbe mai saputo. Non ricordava se il ragazzo stesse ancora respirando quando gli si era avvicinata. Le lacrime le offuscavano la vista, i suoi stessi singhiozzi le riempivano le orecchie; ricordava solo che Daniel era freddo, tanto freddo, e questo era assurdo, perché Daniel era sempre caldo, tanto caldo, le sue mani erano sempre bollenti e riscaldavano quelle di Regina i pomeriggi di dicembre, quando lei tornava a casa dal collegio e scappava nelle stalle pur di stare qualche ora con lui.
Già allora era sempre stato o troppo presto o troppo tardi insieme.
Ma ora Daniel era freddo e lei calda, quindi dovevano fare il contrario, no? Perché ora era Daniel ad avere freddo, tanto freddo, e lei non voleva, non voleva sentisse freddo e si ammalasse, giusto?
Daniel doveva stare bene. Daniel doveva essere protetto, e…
Daniel è morto.
Il pensiero le attraversò la mente, dritto e preciso.
No.

Sai è che così.
L’avevano dovuta allontanare a forza. Non sapeva dove avessero portato il corpo, dove l’avessero sepolto. Non sapeva cos’avesse fatto lei stessa negli ultimi giorni, non sapeva dove fosse, chi fossero quei bambini che di tanto in tanto le si avvicinavano o quella donna bionda e tenace che veniva a parlarle e la costringeva a mangiare.
Non sapeva nulla, se non che li odiava tutti.
Tutti.
Perché loro erano vivi e Daniel no, Daniel era morto, quando era tra i pochi al mondo a meritare la vita.
E odiava anche Daniel, perché le aveva giurato ci sarebbe sempre stato, e invece l’aveva lasciata sola. Dov’era andato? Perché non l’aveva portata con lui? Come poteva pretendere lei tenesse fede alla parola data quando lui aveva violato la sua, di promessa?
Come poteva combattere, cercare di imporsi anziché lasciarsi trascinare dalla corrente, se lui non lottava con lei?
Regina allontanava da sé tutto e tutti. Voleva restare sola, scappare di lì e morire, attendere la fine rievocando i giorni trascorsi insieme, così pieni della vita che non avrebbero mai avuto.
I ricordi felici facevano più male di quelli tristi, ma non avrebbe permesso al dolore di aprirle buchi nella memoria.
I pugnali che aveva nel cuore, se li sarebbe portati dentro sempre.
All’improvviso qualcuno violò il suo isolamento.  
- Regina?
Ignorò il richiamo. Le parve di aver già udito la voce in passato, in una vita o un mondo precedenti, ma era impossibile. Lì – ovunque fosse, ancora a Londra o chissà dove – non conosceva nessuno, ed era meglio così.
- Regina.
Quando si voltò appena, trovò Belle French intenta a guardarla con quei suoi grandi occhi chiari addolorati.
- Ho appena saputo. Mi dispiace… – la sentì dire.
Come poteva dispiacerle? Belle non conosceva Daniel. Sapeva chi fosse, ma mai era stata illuminata dal suo sorriso buono, mai ne aveva ascoltato gli aneddoti. Per lei Daniel Locke non era che un nome, il compagno di ribellione della ragazzina sciocca che implorava pietà dopo averle distrutto la vita. Anzi, era probabile che Belle gioisse di quel lutto, che dietro la facciata di cordoglio stesse sogghignando perché finalmente anche Regina scopriva il significato del dolore, perché ora anche la figlia della rivale era rotta come lei cinque anni prima.
Belle mentiva.
- Stai zitta, – Regina gracchiò con la voce di chi non è più abituato a parlare – Tu, mia madre, tua figlia, suo padre… Dovete solo stare zitti. Tutti. Voi non sapete niente, niente, e non avete diritto di parlare.
Belle chinò il capo. Una simile reazione era più che prevedibile, e soprattutto, comprensibile: perdere uno dei pochi sostegni era forse la cosa più grave potesse accadere a Regina in quel momento. Poteva intuirne la sofferenza, per quanto mascherata dalla sfumatura d’asprezza della voce: solo il tempo avrebbe potuto curarla, e pure la ferita non si sarebbe mai rimarginata del tutto.
Ma al tempo stesso, l’adolescente non poteva restare lì a crogiolarsi nel lutto. Mancava da Kensington da giorni e giorni: possibile che non la stessero cercando? Possibile che i domestici venuti a trovare lei, che suo zio – il pensiero fu una scheggia – non si fossero accorti della fuga?
- È vero, – fece, intuendo già che sarebbe stato vano. Solo vivere un’esperienza simile le avrebbe dato titolo di parlare; e nemmeno, perché nessun dolore è identico. Ogni dolore è speciale e unico a modo suo; e forse anche per questo fa sempre così male – Non so come tu ti senta, nessuno lo sa, ma una cosa è certa: star qui non ti fa bene. È terribile, ma tu non…
- Esatto. È terribile, ma tu non puoi dirmi cosa fare. Nessuno può dirlo.
- Io…
- Tu hai sofferto, sì. Ma tu non hai sofferto quanto sto soffrendo io, – la voce di Regina tradiva una rabbia crescente – Tu hai avuto la possibilità di sperare, di dirti che malgrado tutto magari un giorno le cose si sarebbero sistemate, come poi è successo. Siete felici, ora, voi tre assieme. Una bella famiglia, – non fece caso al lieve sussulto della donna – Io, invece, non ho nulla. I tuoi desideri si sono realizzati, i miei sono morti sul nascere. A me è stata tolta anche la speranza. Anche ciò che tu hai sempre avuto.
Belle percepì il dolore dietro ogni parola. Era tutto così vero: la sofferenza di Regina non era la sua. Anche lei aveva amato e perduto un genitore e un’amica, ma questo, almeno questo, le era stato risparmiato. Per quanto fosse stata, stesse ancora male per lui, Robert c’era; e il solo pensiero di perderlo in modo tanto definitivo le provocava anche allora una fitta al petto: travolgente, soffocante, impossibile da combattere, scostare, sopportare.
Lo sguardo di Regina era scuro come il crespino. Dov’erano i suoi begli occhi? Non erano più irraggiati dall’invincibilità dei giovani, non erano più pieni di emozioni, di vita.
Era stata la vita stessa a distruggerla.
Non esiste rimedio alla morte, ma non esiste rimedio neanche alla vita.
E lei non poteva aiutare Regina. Nessuno, se non Regina stessa, avrebbe potuto farlo.
- C’è… C’è qualcosa che posso fare? – chiese comunque, non intenzionata ad arrendersi.
La risposta non tardò a giungere.
- Puoi darmi una vita diversa?
Belle scosse il capo triste.
- E allora non puoi fare nulla.
 
 
 
On a lonely highway.
 
 
 
Cora si sentiva soddisfatta. No, anzi: non soddisfatta, a suo agio. Come se finalmente il mondo fosse tornato in equilibrio e ogni disordine, ogni contrasto appianato per sempre.
Come previsto, Robert si era dimostrato pusillanime e non aveva narrato alla camerierina i trascorsi americani. L’espressione dell’uomo alla vista della Zelenyy era stata impagabile: se mai aveva davvero avuto potere su una persona, Cora ne era certa, era stato in quel momento. A un suo cenno Rebecca avrebbe potuto ritirarsi e lasciar scorrere intatta l’esistenza di Gold; ma anche nella remotissima ipotesi in cui una parte di lei fosse stata mossa da pietà, Cora se lo sarebbe impedita a ogni costo. Non era in fondo suo caritatevole dovere aiutare una sventurata già segnata dalla vita quale Belle French a capire con che razza di bestia avesse a che fare?
Aveva gioito non poco al trauma della miserabile; tuttavia, doveva ammettere, ne aveva sottovalutato la franchezza – o la stupidità. Non avrebbe mai scommesso che la più giovane avrebbe preso l’amante per trascinarlo a discutere proprio lì, davanti agli occhi curiosi dell’intera Londra bene. Quanto accaduto dai Feinberg era sulla bocca di tutti, e i primi articoli erano già stati pubblicati: chiunque avanzava tesi e ipotesi, mentre gli eventi venivano gonfiati di ora in ora.
“- Robert Gold è stato schiaffeggiato dalla bella sconosciuta!
- Ma quale sconosciuta: la ragazza è lady Ally, la figlia del barone FitzWalter! 1
- No, è la nipote del governatore di Australia!”
Cora rideva, rideva sotto i baffi e si mostrava altrettanto scandalizzata – deliziata – chiacchierando con le altre dame e fingendo d’ignorare ogni retroscena.
Ma, per quanto interessante, la questione non era più di sua competenza. La sua era una vendetta indiretta, distruggere senza sporcarsi le mani: d’ora in avanti sarebbe stata Rebecca la protagonista, e certo la sua furia e i suoi contatti lavorativi difficilmente avrebbero dato tregua a Gold. Cora si sarebbe limitata a offrirle supporto economico – già le aveva affittato una villetta in cui alloggiare – e morale da lontano.
Mentre l’interregno di Belle French volgeva a termine, le priorità della Contessa erano altre: riportare a Belgravia l’irriconoscente creatura che rispondeva al nome di Regina Mills. Quando una tremante Mary Margaret aveva ammesso la sparizione della ragazza e la vanità delle ricerche della servitù – nessun commento da Gold, ovviamente –, dopo lo stupore e l’ira iniziali la nobildonna non si era persa d’animo: non dubitava che lo stalliere avesse parlato all’adolescente dell’incontro, dandole magari un indirizzo di riferimento, e che ella vi si fosse recata nel tentativo di trovare il suo amato.
Amato che aveva causato infiniti problemi, e che ne avrebbe causati altri persino da morto.
Cora si vantava di essere una persona chiara: aveva ordinato ai suoi di dare una nuova lezione a Locke, stante l’inutilità della prima. Ora, cosa ci fosse di equivoco nel comando lei proprio non riusciva a capirlo: con dare una nuova lezione intendeva batterlo per bene, spezzargli qualche osso, fargli capire per una volta per tutte che la Contessina era troppo per lui. Magari picchiarlo tanto da fargli perdere i sensi, buttarlo sul primo vascello in partenza e farlo risvegliare a miglia da Londra, ecco, questo sarebbe stato perfetto.
E invece, invece, quegli incapaci senza cervello lo avevano ammazzato. Così facendo, avevano risolto definitivamente il problema – cosa di cui Cora non poteva che essere grata –, ma senza dubbio avevano anche aizzato l’odio di Regina… Odio che ella avrebbe ovviamente riversato sulla madre.
Cora era conscia che senza prove quella storia sarebbe rimasta una tigre di carta, né lei intendeva confessare il misfatto; ma sapeva anche che la figlia non era stupida e non avrebbe avuto bisogno di indizi per scoprire la mandante.
Chi la sopporta, adesso?
Ma questo non faceva certo demordere la Mills: Regina andava ritrovata. Sua figlia, colei che aveva cresciuto perché un giorno dominasse il mondo, non poteva sparire così; e non poteva, come le indagini avevano poi confermato, sguazzare nel sudiciume, trascinarsi nei bassifondi da cui lei era riuscita a sfuggire.
Regina si nascondeva nell’orfanotrofio gestito a Whitechapel da quella Rose Barrie che qualche anno prima aveva scandalizzato il mondo rinunciando ai beni paterni e iniziando a giocare alla buona samaritana.
Ma i ragazzini cenciosi che vivevano di elemosina, furtarelli o peggio – lo sapeva bene, lei, era stata una di loro – non erano il mondo adatto per Regina
Era scesa a qualsiasi compromesso per dare alla figlia le possibilità che lei non aveva avuto: non le avrebbe permesso di rovinare tutto.
L’avrebbe riportata a casa.
 
 
 
How can we 
turn around the heartache?”
 
 
 
Ritrovarsi sua madre davanti era l’ultima cosa che Regina avrebbe desiderato in quel momento.
E invece fu proprio quel che accadde.
Quando la vide, la ragazza provò solo il desiderio di mettersi a urlare, di cacciare via tanto Cora quanto Belle che non rispettavano i suoi spazi, non accettavano il suo dolore, che erano tornate per riportarla là dove lei non avrebbe più messo piede.
Ma Regina non gridò, non si mise a strillare o a piangere.
Fece qualcosa di peggio: rimase in silenzio.
Avrei dovuto immaginarlo, si disse Cora. Quell’irriverente servetta, non paga di aver già scompigliato abbastanza la quiete della sua vita, si era piazzata in prima fila per ficcare il naso anche in questo. Probabilmente sapeva da sempre dove fosse Regina, era al corrente dell’assurda liaison con Locke – magari l’aveva anche incoraggiata – e aveva corrotto i domestici di Gold affinché non aprisse bocca con lei.
Sarebbe stata proprio una mossa da Belle French, patrona dei diseredati; ma, qualunque ne fossero stati gli intenti, stavolta avrebbe dovuto demordere.
Qui non era un uomo qualunque a essere oggetto di contesa, ma Regina Mills.
Sua figlia.
E la puttanella avrebbe fatto meglio a tacere.
Quando vide Cora, Belle deglutì. Le parve che ogni goccia di sangue fosse defluito dal suo corpo, lasciandola priva di vita; il freddo prese possesso di lei, costringendola a un silenzio, a un’immobilità che avrebbe saputo giustificare solo in un modo.
Paura.
Eppure avrebbe dovuto essere grata alla Contessa: le aveva fatto aprire gli occhi, l’aveva costretta a fronteggiare le falsità in cui viveva; l’aveva aiutata.
Ma l’aveva fatto per i propri fini. Belle non era una sciocca: non c’era stato alcun intento amichevole nelle mosse della rivale – perché, nonostante tutto, si trattava ancora, si trattava sempre di quello –, ma solo la volontà di ferire. Di farla sentire una stupida incapace di interpretare i segni; di ricordarle che il tempo passava e Robert aveva scelto lei, ma che mai l’uomo si sarebbe liberato del fantasma della sua maestra.
Di colei che l’aveva istruito, manipolato, trattato come un mostro
Di colei che l’aveva reso tale.
Che gli aveva rovinato la vita.
No, non era paura quella di Belle.
Era l’istante che precedeva la rabbia.
- Regina cara, – Cora esordì morbida, muovendo alcuni passi verso la figlia e fingendo di non notare un’altra presenza – Ti cerco da giorni, e scopro solo ora la tragedia. Non ho parole per dirti quanto mi dispiaccia: sai che per me lo stalliere…
- Daniel, – Regina ruggì senza preavviso – Si chiamava Daniel!
La donna spalancò appena gli occhi, come sorpresa dallo scatto della figlia, ma non perse la calma.
- Daniel, – lo nominò accondiscendente – Era per me una valido aiuto. Un lavoratore instancabile e un giovane ammodo. Mi mancherà. Stante le nostre recenti incomprensioni non mi crederai, ma è così.
L’adolescente alzò il capo. Il volto della madre la fissava inespressivo: nei suoi occhi quasi non c’era spazio per la partecipazione al dolore della figlia.
- Ti presenti qui ora che Daniel se n’è andato, e per cosa? Per rigirare il coltello nella piaga?
- No, Regina cara, l’ho fatto per te. Nessuna madre può vivere serena sapendo infelice la propria creatura... Sono orgogliosa che anche in questo frangente tu abbia pensato ai più deboli, ma hai fatto abbastanza: è giunta l’ora di tornare a casa – decretò, annuendo alle sue stesse parole – È per questo che sono qui: voglio offrirti la possibilità di tornare a Belgravia, di ricominciare a vivere come meriti e come hai fatto finora.
- Non voglio che tu mi offra niente, – la più giovane sibilò sprezzante.
- Ma lo farò lo stesso, perché voglio solo il meglio per te.
- Hai uno strano modo di dimostrarmelo.
… Che sappia?
Cora ignorò il sospetto e sorrise triste
- Lo dice ogni figlia. E ogni figlia capisce che avrebbe fatto meglio a seguire i consigli della madre quando è ormai troppo tardi.
Belle assisteva alla scena in imbarazzato silenzio. Non aveva diritto di partecipare alla discussione, ma doveva riconoscere che Cora aveva ragione. Era stranissimo, assurdo pensarlo, ma era così: l’aveva già detto a Regina, restare lì non le avrebbe fatto bene. Neanche dalla permanenza con la Contessa la giovane avrebbe tratto beneficio – i rapporti tra le due non erano idilliaci –, per lei l’ideale sarebbe stato tornare dallo zio, ma forse sarebbe stato già un primo passo…
- Regina, forse è meglio se…
- Oh! – Cora si voltò verso l’altra donna. Lo stupore che finse nel vederla non mascherò il tono sprezzante – Belle! Non avrei mai immaginato ci fossi anche tu qui. Avrei voluto passare per sincerarmi delle tue condizioni, ma, sai, ignoravo la tua nuova residenza e Robert,  – mentì – Non ha voluto rivelarmela.
Belle sussultò appena. Avrebbe voluto mostrarsi insensibile, non essere toccata dal riferimento; ma la sola idea che Gold avesse parlato con Cora e ignorato lei le fece male. Non riusciva a far finta di niente; e forse non ci riusciva perché in fondo non lo voleva.
- Forse non considera neanche voi abbastanza degna di fiducia.
- Che faccenda disdicevole, – un sorriso cattivo accompagnò il commento mentre si rivolgeva alla figlia – Vedi, Regina cara: la nostra Belle conferma i miei moniti. Tuo zio le ha mentito, le ha omesso dettagli alquanto scabrosi e rilevanti, e ora la nostra povera amica si ritrova di nuovo sola e derelitta. Il che prova la mia teoria, – Cora sospirò teatralmente – L’amore è una debolezza per donne forti come noi.
Non te lo permetto.
Ho amato e sofferto ancora, ma questo non te lo permetto.
La voce di Belle trasudava furia malgrado l’apparente calma.
- Non consento a nessuno di parlare per me. Soprattutto se a parlare è una persona nota per covare rancore nei miei confronti.
- Ti correggo, mia cara. Serbare rancore è passatempo per menti oziose, e ti assicuro che la mia non lo è. Sarebbe ridicolo aggrapparsi al passato per conservare ancora qualcosa di colui che ci ha lasciate, non trovi? 2
- C’è chi si rende ridicola senza rendersene conto.
- Vero, – riconobbe Cora, un ghigno da sfinge a curvarle la bocca – E c’è chi si rende ridicola facendosi spezzare il cuore ogni volta. Perché è questo, Regina – si avvicinò alla figlia fino a carezzarla, le scostò le ciocche ribelli dalla fronte. Ma non c’era dolcezza in quel gesto, quanto controllo, desiderio di una figlia perfetta – È questo ciò che lascia l’amore: un corredo di sogni e cuori spezzati. Te l’ho detto, bambina mia – non c’è alcun vantaggio. Non ne vale la pena.
Fu in quel momento che Belle ne ebbe la conferma. Come aveva potuto credere che Regina sarebbe stata meglio con la madre? Cora aveva un blocco di ghiaccio là dove avrebbe dovuto avere il cuore: perché il male che aveva perpetrato verso lei e Robert, anche le insinuazioni su Helena erano nulla rispetto a ciò che stava facendo alla sua stessa figlia; perché una madre mai avrebbe sfruttato il dolore di una ragazzina per indottrinarla, per inculcarle i suoi distorti principi.
Per renderla la sua creatura.
Fece per intervenire, ma Cora la precedette.
- Ti ho portato un regalo, – la nobile depose un pacco tra le mani di Regina. Vedendo che la figlia non accennava a destarsi, fu lei stessa a scartarlo, rivelando uno scialle di un celeste chiarissimo – Meriti solo gioia, bambina mia, e da oggi l’avrai. Torna da me. Ricominciamo daccapo. Ricordi quando eri piccola? Tutto andava bene. Eravamo così felici.
Le parole di Cora erano un ronzio in sottofondo. Regina lasciò scorrere le mani sul tessuto. Ne aveva notato solo un particolare: il colore. Il suo colore preferito. Non credeva che Maman, così poco attenta a lei, lo sapesse: non conosceva i suoi gusti, ignorava i suoi passatempi preferiti, non si fermava mai a parlarle.
E ora all’improvviso si diceva desiderosa di riprendere da lì dove si erano fermate.
Dall’inizio.
Le porgeva un dono, la prova che forse non era sempre stata distratta, che forse quel legame non si era interrotto il primo di febbraio di quindici anni prima; le porgeva un’offerta di pace così semplice d’accettare.
Bastava stringere lo scialle, ringraziarla.
Bastava così poco…
Un rumore secco.
Un futuro che finisce in un vicolo cieco.
Due lembi di tessuto caddero sul pavimento.
 
 
 
“Oh, I,
I'm alone tonight,
babe.”
 
 
 
Chi cerca trova, aveva imparato in una carriera da cronista.
Ma alle volte, le ricerche sono molto più difficili di quanto si possa immaginare.
Impossibili.
Sin da prima di imparare a leggere e a scrivere, August Booth – nato Collodi  – amava raccontare storie. Il padre Marco, falegname italiano, era stato contentissimo delle velleità letterarie del figlio: con innumerevoli sacrifici aveva acquistato abecedari e quaderni, inchiostro e calamai e con ancor più lodevole pazienza aveva fatto fronte all’iniziale reticenza per le lezioni del pargolo. Dopo tutta una serie di brutte avventure e pessime compagnie, il ragazzino aveva ricompensato gli sforzi paterni: si era convinto – rassegnato – a dover studiare per poter diventare scrittore e, per aiutare il bilancio familiare, aveva iniziato a lavorare come strillone.
Era stato allora che August aveva scoperto la sua vera, naturale attitudine: il giornalismo. Vendeva le copie, ma ne conservava una sempre per sé: leggeva ogni articolo, studiava ogni trafiletto, lo divorava, lo faceva proprio; notizie urlate, dicerie sussurrate, opinioni e proclami, per il giovane August non c’era differenza: ammirava quelle pagine che gli spiegavano ciò che lo circondava e al tempo stesso lo facevano volare lontano, capire che esisteva un altro mondo oltre le strade lerce di Whitechapel – un altro mondo che lui voleva, doveva scoprire.
Sognando di essere anche lui tra gli eletti in grado di svelare la realtà, si era ritrovato a riportare fatti di cronaca senza quasi rendersene conto; e, dopo innumerevoli delusioni, un giorno aveva intravisto la luce in fondo al tunnel: un suo articoletto era stato pubblicato, poi un altro, e poi un altro ancora, e alla fine era stato assunto. Il padre l’aveva festeggiato come se fosse asceso al trono, senza notare la delusione di August: il giovane aveva sperato in grandi testate, e invece si ritrovava in un giornaletto di quartiere!
Però – questo glielo si doveva riconoscere – nel suo lavoro August era bravo. A furia di leggere gli altri, aveva imparato a esagerare, a ingrandire le notizie per spacciarle. Nessuno vuole la verità nuda e cruda; alle volte, imbellettare è il modo più diretto per conquistare.
Per questo non si era arreso: aveva continuato a sostenere colloqui e a proporsi, quasi sfacciato, e alla fine aveva avuto la meglio: era stato assunto nella redazione di Liverpool di un quotidiano decisamente più importante.
E così, sebbene rattristato dall’idea di salutare il padre, si era trasferito a Nord, dove aveva incontrato la moglie Kate e dov’era nata la piccola Jane.
Però – ormai avrebbe dovuto saperlo – per August la vita non poteva mai essere tranquilla: uno scandalo locale da lui svelato aveva indotto il direttore a proporgli una promozione condizionandola però a un’ultima prova. L’aveva spedito a Londra con un compito impossibile.
- Se troverai la compare di Gold, tornerai a casa caporedattore.
Ora: trovare una donna di cui aveva solo il nome, una vaga descrizione e un’ancora più vaga localizzazione – come se l’East End fosse stato piccolo! – esulava dalle umane capacità.
Se non altro, si era consolato l’uomo, ne avrebbe approfittato per far visita a Marco. Non lo aveva messo a parte del guaio per non crucciarlo, ma il padre lo conosceva fin troppo bene per non indovinarne le inquietudini; senza forzarlo, gli aveva consigliato di recarsi nella locanda gestita da una sua cara amica e di bere una birra mettendo da parte i problemi per un paio d’ore.
August lo aveva accontentato, nella speranza che le riflessioni smettessero di farsi più fosche minuto dopo minuto.
- Salve! Cosa vi porto? – una cameriera mora lo fece ridestare dalla ridda di pensieri. Un gran bell’esemplare di cameriera mora, non si esimette dal commentare tra sé e sé: aveva sì un anello al dito e una bimba a casa, ma ciò non lo aveva affatto accecato, anzi! Se anche il resto del personale fosse stato di così bella presenza, l’osteria avrebbe fatto affari d’oro.
- Una pinta, – sfoderò il suo migliore sorriso. Mentre la ragazza segnava la comanda, August si disse che valeva la pena tentare. In fondo, Liverpool era lontana… – Sarà di sicuro una faticaccia per una ragazza così giovane e bella come voi servire tutto il giorno questi brutti ceffi… – indicò vago la varia umanità che affollava il locale, lasciando scivolare molto casualmente le dita sulla mano che la serva aveva posato sul tavolo.
Ruby si ritrasse soffocando un sussulto stizzito.
- …Come voi? – la ragazza si impose di non alzare gli occhi al cielo. Possibile che la storia si ripetesse con quasi ogni avventore sconosciuto? Cosa in lei suscitava tale parvenza di dubbia reputazione? Se simili reazioni non le facevano piacere prima, ora che era sempre più legata a Viktor la esasperavano e basta.
Viktor, si concesse di pensare per un istante. Malgrado l’esordio, lui non la trattava come gli altri. Non la considerava un oggetto o un frutto da mordere: la rispettava. Non la forzava: i baci che si erano scambiati erano tutti stati dettati dal sentimento indefinibile e sincero che nutrivano, non da altro.
Ruby non si illudeva: dopo quanto successo nuovamente a Belle, i timori erano tornati. Appartenevano a due mondi diversi: come poteva Viktor, un medico colto, signore e padrone di ville e terreni, voler bene a lei?
Eppure, nonostante le paure, una parte di Ruby – una parte incoraggiata, nonostante tutto, proprio da Belle – voleva sperare. Non si sarebbe illusa, non avrebbe costruito castelli in aria col rischio poi di vederli cadere: sarebbe vissuta giorno dopo giorno, accettando ciò che la sorte avrebbe riservato a quella storia così stramba, rispettandosi e pretendendo di essere rispettata,
Il resto erano solo chiacchiere… E quello, in effetti, non era il momento di perdersi in chiacchiere: doveva fare buon viso a cattivo gioco, non spaccare un boccale in testa al cliente e sottolineare la sua reale professione nella speranza di raffreddare ogni bollente spirito.
- Ci sono abituata, – spiegò disinvolta, quasi a smorzare la brutalità della battuta precedente. Lavoro qui da sempre, e meglio questo che altro.
- Non lo dubito, ma sgobbare per tante ore vi rovinerà la salute. Sedetevi un minuto e beviamo un…
Un frastuono improvviso coprì l’offerta di August: a pochi passi da lui un’altra cameriera aveva rovesciato un vassoio e ora cercava di rimediare al disastro combinato. In un batter d’occhio la bella mora, incurante di lui, le fu accanto.
- Belle, – August la udì dire preoccupata, aiutandola a raccogliere gli orcioli caduti – Belle, tutto bene?
Il giornalista tese le orecchie. Come si chiamava la pasticciona? Era colpa dell’ossessione per il nuovo incarico, o aveva davvero udito il nome “Belle”?
La ragazza, ancora sul pavimento, mormorò qualcosa, forse delle scuse.
- Che vai predicando, sorella? – le rispose un uomo dall’aspetto arcigno, anche lui accorso ad aiutarla – Non sei tu a doverti scusare. Solita French.
Un tremolio impercettibile increspò l’aria
No.
Non poteva esser vero. Neanche un intervento divino avrebbe garantito tanto: l’oggetto della sua caccia, quella Belle French che aveva l’obbligo di trovare e non sapeva dove cercare… Di fronte a lui, in carne e ossa.
Il nome poteva essere un caso.
Forse anche l’aspetto fisico: le brunette dagli occhi chiari non erano poi una gran rarità, come lui ben sapeva.
Ma il cognome?
Se un indizio è coincidenza e due sospetto, tre sono certezza.
Booth non sapeva cosa ci facesse in una mescita di terz’ordine la misteriosa accompagnatrice di Robert Gold, ma l’istinto gli suggeriva che si trattava di lei. Si trattava di lei, e…
- Maaa’! – una bimbetta dell’età di Jane irruppe in sala. Senza esitare, si diresse verso Belle French – Mamma, che hai fatto? Sei caduta?
- Già, tesoro, – Belle French rispose tirando su col naso. Un finto sorriso le increspò il volto, alleggerendo appena l’ombra grave che le velava le iridi – La mamma è un disastro…
La piccola sospirò con la foga di un predicatore rassegnato.
- Papà lo dice sempre. Torniamo a Kensington? Ti ho detto che ho lasciato lì Bae!
August deglutì appena.
Il giorno più felice della sua vita non era quello in cui era stato assunto a Liverpool.
Il giorno più felice della sua vita era questo.
Diede un’occhiata al locale. Un paio di ubriaconi – frequentatori abituali, poco prima la bella mora li aveva chiamati per nome – sedevano a tre tavoli da lui.
Sapeva perfettamente cosa fare.
- Miss, – appena Belle French si rimise in piedi fece cenno alla sua cameriera– Correggo l’ordine: tre pinte, per me… E per i miei amici, – fece cenno ai due, che lo guardarono stupefatti mentre si avvicinava loro.
- E te chi cazzo sei? – uno gli chiese truce quando il giornalista gli sedette accanto.
- Io, – August rispose compiaciuto – Sono quello che vi pagherà da bere se risponderete a una domanda.
 
 
 

“Baby, wait a lifetime
before  you love somebody new.”

 
 
 
Quella mattina Rebecca Zelenyy si svegliò di ottimo umore. Tutto era accaduto troppo velocemente perché riuscisse a leggere le bozze, ma i suoi contatti glielo avevano assicurato: quel giorno sarebbe andato in stampa un articolo da non perdere.
E la dignità di Belle French sarebbe andata in pezzi.
Un largo sorriso le ornava il volto mentre prendeva il giornale; un largo sorriso che svanì nell’istante stesso in cui gli occhi le si posarono sul sommario.
Provò a leggere i paragrafi, ma le righe si confusero tra loro come onde di un mare tempestoso, un’unica parola a sovrastarle.
Perché, a quanto pareva, Cora aveva omesso un dettaglio.
Un dettaglio fondamentale.
Cora le aveva mentito.
 
 
 
Ella Feinberg poteva dirsi soddisfatta: se i balli dimostravano potere, il suo ricevimento l’aveva confermata una delle signore incontrastate delle soirée.
La festa del dodici agosto si era rivelata uno degli eventi più riusciti della Stagione… Malgrado Rebecca, Robert e la sua bella.
La gentildonna era rimasta sbigottita quando aveva avvistato la cugina: com’era possibile fosse lì, se lei stessa l’aveva accompagnata in stazione? E come aveva fatto a entrare senza invito? Se ci era riuscita, dovevano esserci delle falle nell’organizzazione, falle i cui responsabili andavano immediatamente individuati; e così Ella, impegnata nell’inveire contro la sicurezza, si era persa il dramma in atto.
Aveva scoperto il fattaccio il giorno seguente, chiacchierando con altre dame tra cui la Mills; e l’ereditiera aveva intuito all’istante che Cora non fosse estranea a quella sordida vicenda: il fatto che avesse taciuto non mutava certo il suo convincimento.
I cronisti – aizzati sicuramente dall’ora irreperibile Rebecca – si stavano divertendo non poco nell’avanzare ipotesi sugli eventi; ma dai protagonisti della vicenda non perveniva alcuna dichiarazione. Se Isabelle French era in qualche modo riuscita a preservare la propria identità, era strano che Gold non si fosse già erto a difesa del proprio nome…
Ella fece per dare una scorsa al giornale, ma l’irruenza di un titolo la colpì.
No.
Intrigata, proseguì la lettura trovando conferma riga dopo riga.
E così, non riuscì a non pensare una volta giunta alla fine, Robert Gold e Isabelle French nascondevano un piccolo segreto.
 
 
 
Graham correva più veloce che poteva. Era di turno, e per quanto si fidasse dei colleghi se la sua assenza fosse stata notata sarebbe finito in guai seri; ma quando aveva visto quella prima pagina, aveva deciso.
Non poteva restare lì inerte. Non poteva lasciarle sole ad affrontare la tempesta tanto improvvisa quanto violenta che si stava abbattendo su di loro.
Per colpa di quel disgraziato, ancora una volta Belle ed Helena erano sotto attacco.
Dovevano proteggerle prima che fosse troppo tardi.
Ma quando si trovò davanti la ressa di giornalisti e Granny, Ruby e Tink Barrie che cercavano invano di scacciarli, gli mancò la voce.
Fu solo in grado di formulare un pensiero.
È troppo tardi.
 
 
 
Emma Nolan non era mai stata molto diplomatica: la quiete muliebre che alle volte sua madre ancora le augurava le era estranea. Perciò, quando Killian le aveva allungato il giornale quasi senza commentare quella notizia, lasciandole solo paventare le conseguenze, la bionda aveva deciso: qualcuno era rimasto chiuso in casa fin troppo tempo.
Era giunta l’ora di costringerlo a reagire.
Si presentò nello studio quasi senza bussare.
- Dearie, – malgrado le circostanze, il sarcasmo del proprietario non si fece attendere – Spero che sul giornale che porti sia annunciata l’apocalisse per stasera. Così nessuno dovrà più lamentarsi del lavoro, e tu meno di tutti – tu sei già licenziata.
- L’apocalisse è già in atto , – lanciò la pagina incriminata sulla scrivania, costringendone l’occupante a ritrarsi e attirandosi un’occhiata minacciosa.
- Presumo tu sappia che… – la voce gli morì in gola quando vide la fotografia di un luogo ben noto.
Il titolo fu un proiettile in petto, l’occhiello una conferma superflua.
 
- Ecco cosa so, – Emma lo guardò dura – E ora, se volete, licenziatemi pure..
 
 
 
“Come and turn the lights down
so I can feel your hand in mine,
‘cause I'm never gonna love again.”
“Never gonna love again” – Lykke Li
 
 
 
1: I baroni FitzWalter esistono, non li ho inventati io – https://it.wikipedia.org/wiki/Barone_FitzWalter. Per il nome della “figlia” del nobile mi sono ispirata ad Ally Craig, il personaggio interpretato dalla de Ravin in “Remember me” – ormai a ogni aggiornamento Euridice ve spaccia un film; e quanto alla nazionalità del governatore random, beh… Scelta obbligata, direi! XD
2: da ”Black Friars – L’ordine della penna” della divina Virginia de Winter/Savannah ♥;
3: Il cognome Collodi è un riferimento all’autore di “Pinocchio”, mentre i nomi attribuiti alla moglie e alla figlia di Booth sono casuali. Chiedo scusa ai/alle fan di August, ma mi serviva un personaggio un po’ “faccia da schiaffi” e il burattino mi è parso perfetto!
 
 
 
N. d. A.: Boom, baby! :)
Torno con un capitolo di passaggio che non mi fa impazzire, malgrado sia – che rarità per Euridice100! XD – dominato dall’angst e dal risentimento: da una parte c’è Gold dal cuore spezzato che si crogiola nel dolore anziché darsi una mossa, dall’altra Belle che, amareggiata dall’ennesima prova di sfiducia dell’uomo pur sempre amato, agisce e ragiona sull’onda della rabbia e della delusione… È ovvio che, malgrado la vicinanza di chi le vuole bene, il suo umore non sia dei migliori. Preciso che la protagonista ha davvero solo usato una scusa, non è incinta, eh! Anzi, quel paragrafo è volto a dissipare eventuali dubbi, non a suscitarli. Se le facessi avere un figlio a ogni rottura sarei impietosamente ripetitiva. X’D
La French non è la sola a vivere un momentaccio: la storia di Regina e Daniel si è conclusa nel peggiore dei modi. Mi scuso con chi shippa StableQueen, ma ho deciso di seguire il telefilm: anche stavolta lo stalliere è stato ucciso, sia pure indirettamente, da Cora. Almeno qui la Contessina decide di interrompere bruscamente i rapporti con la madre: una scelta drastica, ma necessaria, le cui conseguenze spiegherò meglio nei prossimi capitoli, ma… Sarà davvero la fine per le Mills? E a cosa porterà questo nuovo capitolo della storia di Regina? #nospoiler, ovviamente! :P
Come sempre, segnalatemi eventuali errori di ogni tipo, caratterizzazione in primis – ed Emma compresa: sapete che alle volte ho problemi a gestirla. XD
Ringrazio di cuore chi segue la storia leggendola, aggiungendola a una categoria e/o recensendola: i vostri commenti e il vostro sostegno non sono mai scontati, e ogni volta cerco di farne tesoro per non deludere le aspettative. Mi spiace pubblicare meno frequentemente, ma sono in piena redazione tesi: da mane a sera mi devo dedicare a quella e riesco a sbrigare solo la metà delle “incombenze fanfictionarie” rispetto a un tempo. Mi scuso anche per i ritardi nel rispondervi e/o recensire: mi metterò in pari quanto prima!
La prossima volta aggiornamento infrasettimanale: “arrileggerci” qui martedì 24 novembre e più spesso sulla mia pagina Facebook “Euridice’s World”!
Tanti baci, Dearies! ♥ :) ♥
Euridice100

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Capitolo 20
*** XIX - Pugni chiusi ***


 
 
 
XIX - Pugni chiusi
 
 
 

“Pugni chiusi,
non ho più speranze
in me c'è la notte

più nera.”





Gold non sapeva come fosse successo.
Non sapeva se fosse stata Emma Nolan a svegliarlo dalla stasi, o la foto sgranata della locanda che custodiva i suoi tesori più preziosi, o l’articolo stesso – quelle parole insipienti, quelle frasi cariche di sottintesi insidiosi su cui era facile costruire castelli di bugie.
Non era vero. Era tutto vero, ma al contempo non era niente, niente vero. Come osavano giudicare Belle? Li avrebbe uccisi tutti dal primo all’ultimo appena li avesse scovati. Li avrebbe fatti annegare nel loro stesso sangue, perché nessuno doveva anche solo immaginare cose simili su lei, che lui aveva sporcato con la sua cupidigia, lei che l’aveva sempre ascoltato, lei che gli aveva sorriso, lei che…
Lei che era innocente. Era pura.
Ma era nell’occhio del ciclone.
Recarsi in una Whitechapel sotto assedio avrebbe confermato ogni sospetto, ma c’era ben poco da fare: nascondersi non era un’opzione, e non lo era più neanche continuare a sfuggire. Qualunque reazione Belle avesse avuto alla sua vista, Gold l’avrebbe compresa: il colpevole era uno e uno solo, lo stesso uomo che si specchiava nel finestrino della carrozza che lo conduceva nell’East End.
Quando arrivò al locale e gli si parò davanti la ressa dei giornalisti che si era prefigurato, Gold ringraziò il Cielo per aver indossato vesti dimesse e preso la vettura meno appariscente, nonché per essersi fatto scortare dai suoi fedelissimi. Provarono a dirigersi verso il retro, ma anch’esso era assediato da cronisti; tornarono indietro, ma oramai era troppo tardi: l’avevano già avvistato.
- Mr Gold, come commentate?
- È vero che avete anche un altro figlio con la French?
- Temete ripercussione sulla vostra attività?
- Mr Gold, qual è la verità?
Qual era la verità? Li odiava. Li odiava tutti, a partire da colei che sicuramente li aveva aizzati. Andò avanti senza fermarsi, cercando di mostrarsi imperturbabile.
Ne andava del suo orgoglio.
Ma lei era più importante del suo orgoglio. Era più importante di qualsiasi cosa
All’improvviso la porta principale si aprì il necessario per far scivolare la figura – mai gradita quanto in quel momento – di Humbert Graham. Anche il poliziotto si ritrovò al centro della calca, anche a lui vennero rivolte domande che parve non sentire; non risparmiò spinte e gomitate mentre avanzava verso Gold a passo veloce, come inseguito dal demonio.
Quando gli fu di fronte, non servirono parole.
I suoi alle calcagna, Robert Gold lo seguì.
 
 
 
Nella locanda c’era esattamente chi Gold si aspettava ci fosse. Le Lucas erano al bancone, impegnate a lucidarne il piano come se ne andasse delle loro vite; come prevedibile, non risposero al saluto dell’imprenditore. Solo, a quel: – Buongiorno –, le labbra di Ruby scomparvero in una linea retta e la giovane strofinò il legno con persino maggior vigore, quasi a scaricare sulla superficie la rabbia per non esplodere in una rispostaccia.
Un uomo barbuto dall’espressione corrucciata – Gold ricordava vagamente gli fosse stato presentato come Leroy – grugnì alla sua presenza e bofonchiò qualcosa di inintelligibile; una maledizione, o forse una qualche bestemmia, a giudicare dal modo in cui Polly Lucas lo incenerì con lo sguardo.
Ma Gold non se ne curò. Chi lo interessava non era in sala.
- Dove sono? – fu la sua secca domanda, pronunciata senza alcuna concessione alla gentilezza.
Non era necessario specificare chi stesse cercando.
Nessuno rispose.
- Dove sono? – insisté granitico.
Quasi inaspettatamente, fu il timido Graham a parlare.
- Non è affar che vi compete. Dopo ciò che è successo, loro non sono più affare che vi compete.
L’industriale gli lanciò uno sguardo bieco.
- Belle stava per diventare mia moglie.
- Appunto. Stava.
- Ed Helena è mia figlia, – lo guardò dritto negli occhi – E, Mr Graham, capirete anche voi che questo non ha scadenza.
Il bobby non restò impressionato dalla risposta.
- Helena l’abbiamo cresciuta noi. È molto più nostra che vostra. Fino a qualche mese fa non sapeva neanche chi foste, e forse, – concluse tagliente – Forse era meglio così.
Gold arretrò appena. Pochi minuti, poche frasi – e già era stato colpito nel punto più debole.
Non era così. Non c’era sempre stato, ma questo non significava niente. Helena era sua. Sua figlia. Chi dava a Graham il diritto di dire certe cose? Aveva giocato a fare il padre per anni, ma ora tutto era cambiato. Ora lui c’era. Ora doveva essere lui a occuparsi di Helena, a starle accanto, ad aiutarla a crescere. Lui, Robert Gold, non Humbert Graham o un altro ancora. Non era comparso prima solo perché ignorava di avere una figlia, ma ora non esisteva che restasse in un angolo mentre uno sconosciuto prendeva il suo posto.
Non esisteva.
- Non permettetevi mai più. Voi siete estraneo a questa storia – voi non sapete niente. Le mie colpe non hanno a che vedere con questa situazione.
Gli occhi della guardia scintillarono rabbiosi
- È vero, sono estraneo a questa storia. Non so tante, tantissime cose. Ma so quello che ho visto in cinque anni, e so quello che mi ha raccontato Belle. E ora so anche che non è stato difficile per voi trovare una sostituta.
Gold serrò i pugni per non scagliarsi contro il giovane.
- Questo prova che non sapete niente. Nessuna potrebbe mai sostituire Belle. Nessuna. Dio mi è testimone.
Una Polly Lucas fino ad allora silenziosa alzò il capo.
- Dio non spenderebbe una parola per voi.
Era questo, allora? Era questo ciò che gli si prospettava in eterno? Giudici che non avevano alcun diritto di discernere il giusto dallo sbagliato nelle sue azioni, che si dichiaravano equi ma consideravano solo gli errori e mai le ragioni? A cosa pretendevano di condannarlo? A perdere un altro figlio, non nella morte, ma nella colpa?
Era solo una la persona la cui scelta avrebbe accettato, una e una sola, e non sedeva in quella stanza.
- Granny.
La voce femminile non veniva da alcuna delle presenti.
Appena la udì, Gold si bloccò. Fu come se un’onda lo stesse investendo in pieno.
Belle percorse qualche gradino per poi fermarsi a metà scala. Pronunciò un unico comando senza guardare in volto nessuno, ma non vi furono dubbi su colui al quale fosse diretto.
- Sali.
Gold cercò gli occhi che tanto amava, cercò una risposta, cercò qualsiasi cosa potesse indurla a parlare di nuovo.
Non trovò nulla.
Tutto ciò che riuscì a fare fu muoversi come un automa, obbedire per raggiungerla.
Ma quando le fu vicino Belle si mosse, lasciandolo indietro.
 
 
 
Occhi spenti
nel buio del mondo
per chi è di pietra

come me.
 
 
 
No, guardarlo andava oltre le sue capacità.
Belle conosceva il potere di quegli occhi ambrati in cui amava – aveva amato, aveva amato, aveva amato – perdersi: erano occhi bugiardi, occhi che irretivano e modellavano sinuosamente la realtà a proprio piacimento. Erano gli occhi di uno stregone folle, che dava sì quanto prometteva, ma in cambio pretendeva sempre qualcosa, qualcosa in più di quanto pattuito.
Erano occhi che mai più lei avrebbe dovuto fissare – perché se l’avesse fatto avrebbe visto ancora gli occhi di un uomo.
E allora tutto sarebbe stato perduto.
Tenne il mento alto, ma puntato oltre di lui. Lo sentì spostare il peso da un piede all’altro; lo immaginò guardarsi attorno, incerto, esitante, agitato.
Ma non era stato incerto nel mentirle; non aveva esitato nel prometterle quanto sapeva non avrebbe mantenuto; non si era mostrato agitato le volte in cui aveva usato baci e carezze per manipolarla.
E ora era giunto il suo turno.
Belle sapeva perché fosse venuto: anche lei aveva letto l’articolo, anche lei aveva visto la folla assiepata. Non aveva provato niente, se non un’immane stanchezza. Era preoccupata solo per il coinvolgimento di Helena. Di se stessa non si curava: lei aveva indossato un’armatura, quella mattina.
Qualcosa le aveva detto che Robert non sarebbe rimasto fermo anche in simile frangente; per tutto il tempo si era sentita come un soldato al fronte: ansioso, conscio che in ogni momento sarebbe potuto scattare l’allarme, desideroso solo che tutto finisse.
Ma quando dalla finestra aveva scorto lui, aveva agito. Aveva detto a Graham di farlo salire, e nel frattempo aveva impugnato armi che fino alla settimana precedente aveva pensato non servissero più, che in fondo non fossero mai servite. Non era così, aveva scoperto.
Qualsiasi cosa lui le avesse detto, lei sarebbe andata avanti senza mostrarsi incerta.
Mai più.
- Cosa sei venuto a fare qui? – ruppe il silenzio, una smorfia dura sul volto dai tratti delicati.
Gold esitò appena prima di rispondere. Rimase trafitto dalla sua indifferenza, dal modo in cui lo sguardo di Belle scivolava su di lui senza fermarsi, come mai era successo prima. Era immobile, rigida, le braccia conserte al petto. C’era così tanto controllo nella posa che gli sembrò la lama affilata di uno scalpello, che tagliava via il suo coraggio con la precisione di un artigiano.
- Ho letto il giornale, – mormorò, la bocca arida per la tensione. Starle vicino senza poterla sfiorare gli causava dolore fisico – Quello che hanno scritto… Ho già dato ordine di emanare un comunicato. Chiarirò tutto e la farò pagare ai responsabili. Parlerò coi miei avvocati, e procederò anche economicamente contro la società.
Dal volto di Belle non trapelò alcuna emozione.
Sta’ calma, s‘impose. Sta’ calma, o sarà tutto inutile.
- Economicamente, – non si trattenne però dal ripetere – Come sempre, insomma, – annuì più volte, pregando che il suo tremito non si notasse – Ora che me l’hai detto, presumo sia tutto. Puoi anche andare. Ho molto da fare.
La ragazza riportò appena gli occhi su Gold: era pallido, un’espressione di incredulità sul volto. Il nocciola delle iridi che incontrò le annodò il respiro intorno al cuore.
Come previsto.
Era chiaro che nelle intenzioni dell’uomo il discorso fosse appena cominciato; ma doveva essere altrettanto chiaro che Belle non intendeva proseguirlo. Cosa se ne sarebbe fatta di una nuova sequela di bugie? Le avrebbe ancora chiesto scusa?
Una settimana prima gliel’aveva detto infinite volte. La parola aveva perso significato, tanto l’aveva ripetuta. Credeva che tutto si sarebbe risolto così, che l’avrebbe perdonato e sarebbe tornata a essere lei la sua marionetta e lui il suo burattinaio? Non sarebbe successo più.
Le sue scuse non erano altro che bugie.
Gold era incredulo. Fissava l’amata senza quasi riuscire a pensare, senza capacitarsi di quanto appena successo. Dov’era finita la sua Belle? Dov’era la donna che non l’aveva mai scacciato, neanche le infinite volte in cui aveva sbagliato? Le sue parole era suonate sommesse e neutre, come volutamente spogliate da ogni emozione. La conosceva fin troppo bene per ignorare che le lacrime erano lì, impietrite da qualche parte dietro le palpebre, ma Belle non stava permettendo loro di velare i suoi occhi. Se lo stava vietando con una determinazione, con una furia spaventose.
Piangeva a secco, senza lacrime.
- Belle… Ti prego… – esalò con un filo di voce – Mi conosci: avevo paura e non volevo rattristarti, per questo ho mentito. Ma una bugia ha portato all’altra e alla fine mi sono perso, e ora tutto è persino peggiorato, – poche volte prima d’allora Gold era stato tanto sincero. Se avesse avuto la possibilità di esprimere un solo desiderio, sarebbe stato quello di far cessare tutto, fare a pezzi il loro mondo per ricostruirlo daccapo, stavolta come piaceva a lei. Avrebbe cambiato tutto per lei, se lei gliel’avesse concesso – Ti prego. Torna da me oggi stesso, torniamo a vivere insieme, a essere ciò che eravamo.
Belle rialzò il capo di scatto. L’occhiata che gli lanciò avrebbe abbattuto un toro alla carica. Gold distolse lo sguardo, incapace di sostenere l’accusa conficcata in quelle pupille
- Sette giorni, – un fiotto di veleno le risalì dalla gola – Sette lunghi, interminabili, dannatissimi giorni, trascorsi uno dopo l’altro senza novità. Senza che tu ti preoccupassi, senza che tu ti chiedessi dove fossimo finite, se stessimo bene, se tua figlia stesse bene. A Helena ho dovuto raccontare bugie. A Helena, – ripeté –E ora tu torni, dici che va bene perché tanto la farai pagare a tutti, non poni mezza, mezza domanda sulla bambina e mi ordini di seguirti…
- No, non intendevo…
- Tu non puoi darmi ordini, ora come allora! – eruppe in un ruggito sordo, animale – Tu non devi permetterti di dirmi cosa fare o cosa non fare, soprattutto dopo il modo in cui mi hai umiliata!
Gold fece come un passo verso di lei, e lei arretrò all’istante. Non gli avrebbe permesso di capovolgere i suoi sentimenti avvicinandosi.
- Sapevo foste qui. Volevo lasciarti il tempo di riflettere per poi incontrarti quando saresti stata pronta. Se fossi venuto prima tu non mi avresti accolto, e poi non volevo che Helena…
Nuove bugie.
- Non nasconderti dietro tua figlia! – non gli diede il tempo di finire – Tu non volevi proteggere noi, ma te stesso, tu avevi paura d’incontrarci! Sapevi che se fossi venuto io ti avrei fatto entrare, sono stata io a dire a Graham di farti entrare! Avrei dovuto star a sentire gli altri e lasciarti in balia dei giornalisti!
Ogni recriminazione che gli urlava, Belle moriva un po’. Possibile che anche allora Robert trovasse tanto difficile essere onesto nei suoi confronti, rispettarla sotto questo punto di vista? Pensava davvero che avrebbe accettato le sue giustificazioni senza discutere?
Era così arrabbiata che voleva scacciarlo, e al contempo desiderava afferrarlo e chiedergli: – Perché?
Non poteva essersi comportato così solo per paura. Non poteva.
Se fosse stato vero, allora ogni sforzo da lei compiuto era stato vano.
Gold deglutì. La distanza tra loro era molto più grande di quei pochi passi. Come poteva dirglielo? Non era stata sua intenzione ingannarla, ma le parole erano naufragate da qualche parte senza tornare più e il momento per la confessione era sfumato. Come poteva dirle che per cinque anni prima e per una settimana poi si era ritrovato a pregare un Dio in cui non credeva perché gliela restituisse, perché non era facile non pensare al vuoto che lo divorava, perché doveva darsi – lei doveva dargli – la speranza?
Non voleva che Belle velasse i suoi occhi con quelle ciglia scure, voleva poterli guardare e capire quanto fosse gelido il loro azzurro. Aveva bisogno di lei, più bisogno di quanto avesse mai avuto di una persona.
- Come hai fatto, – provò ad avanzare lento, pronto a fermarsi a ogni suo cenno – Come hai fatto a dimenticarci così in fretta?
Belle si morse il labbro a quella domanda. Nuove lacrime di rabbia le inumidivano gli occhi, ma non le avrebbe lasciate vincere.
- Non sono stata io a dimenticare. Sei stato tu a dimenticare noi e ogni promessa, e non la scorsa settimana. Lo hai fatto a Canary Wharf, quando senza che io ti chiedessi nulla tu mi hai giurato di non aver avuto altra donna dopo di me.
Gold si mosse ancora verso la giovane, avvicinandosi fino a raggiungerla. Stavolta lei non si scostò.
- Ma nel mio cuore non ne ho avute altre, Belle, capisci? – con cautela, le prese il volto tra le mani, costringendola a guardarlo – Da cinque anni nel mio cuore ci sei sempre stata solo tu. Solo tu.
Perché non riesci a ricordarlo?
Come può essere bastata una sera per cancellare tutto ciò che è stato?
Vorrei essere in grado di farti stare meglio, ma sono stato io a ridurti così.
E continuo ad amarti, anche se non dovrei, anche se tu non vuoi sentirtelo dire.
Belle non tratteneva più le lacrime. Le scendevano leggere lungo le guance, parevano quasi sfiorarla piano. Carezzarla. Consolarla.
Gold avrebbe voluto asciugargliele, ma se lo impedì. Aveva già invaso i suoi spazi. Avrebbe solo voluto che lei rispondesse, anche tirandogli uno schiaffo. Quel silenzio impossibile lo inquietava molto più di un litigio.
- Non dirmelo. Non dirmelo, dopo esserti comportato così, – a Belle mancò la voce. Anche se la verità del pianto aveva vinto, anche se qualcosa le impediva di sfuggire alla sua presa e ora che la sfiorava si sentiva bene come non succedeva da sette giorni, non gliel’avrebbe detto. Non gliel’avrebbe detto mai più – Perché così mi allontani definitivamente. Pensavo fossi sincero – ti credevo. Ma tu non mi hai detto la verità, – le parole s’incastravano in gola, rendevano difficile respirare – Vedi come sto? Avevo giurato di non farti avvicinare e di non piangere, e ora eccomi. A piangere con le tue mani su di me. Riesci a vedere la confusione, il dolore che provo, la rabbia? Questa non sono la persona che voglio essere, ma ora lo sono. Lo sono per colpa tua.
L’uomo abbassò lo sguardo.
- Non avrei mai voluto farti anche questo.
- Ma l’hai fatto. L’hai fatto.
- Sì. L’ho fatto.
Rimasero in silenzio, assordati dal rumore delle cose che non stavano dicendo. 1 Cercavano parole che non esistevano più – o che forse esistevano ancora, ma erano tanto potenti da far paura, da sovvertire un mondo intero; parole che il dubbio, la rabbia, l’orgoglio avevano reso proibito anche pensare, e che pure sopravvivevano, silenti nell’anima.
- Dov’è Helena?
- Devo ancora svegliarla. Vado a…?
- Chiamala dopo. Prima vorrei mostrarti una… Una cosa che ti ho portato, – Gold esitò appena estraendo un oggettino da una tasca del cappotto – Pensavo che magari avendola… Ma non credo più sia una buona idea.
Un nodo di stupore le chiuse la gola alla vista.
- La mia tazza.
- Sì, – sulle labbra gli si disegnò un sorriso così disperato che Belle distolse lo sguardo – È ovvio che tu preferisca non averla, ma mentre uscivo di casa ho pensato che valesse la pena fare un tentativo, – uno strano riso forzato gli abbandonò le labbra – Non cambia le cose, lo so, ma dovevo provare.
Lo stai spiegando a me o a te stesso?
Belle allungò una mano per prendere l’oggettino, stando ben attenta a non sfiorare l’uomo. Quando strinse la porcellana, i pensieri le si disgregarono mentre un torrente d’emozioni la ghermiva.
Per un attimo la sua sicurezza vacillò. Com’era possibile fossero finiti così, a litigare riuscendo a malapena a guardarsi in volto quando fino a neanche dieci giorni prima erano uno l’universo dell’altra? Com’era possibile che lei non gli avesse permesso di parlare, di spiegare le sue ragioni, per quanto contorte fossero?
Lo conosceva, non era un uomo semplice. E se avesse davvero sbagliato lei? L’aveva abbandonato in un giardino sconosciuto, era fuggita come una codarda anziché fronteggiarlo. Forse quella volta era stata lei a scegliere la strada più semplice. Forse non avrebbe dovuto smettere di combattere, come aveva giurato di fare.
Forse.
Ma adesso si poneva una questione ben più urgente dei “se” e dei “ma”; una questione da risolvere a qualunque costo.
-  Ricordi quando ci siamo rivisti da soli per la prima volta? In carrozza?
- Certo.
- Ti dissi che se ci fosse stato un pericolo avrei mandato Helena da te. Ora quel pericolo c’è: Londra intera sa chi siamo e dove viviamo. Lo sa Cora, lo sapranno i Frey. Potrebbero ricominciare a darmi la caccia e io non posso tollerare che succeda qualcosa alla bambina per colpa nostra. Helena deve venire con te. A Kensington, – cercò di ignorare la fitta che l’ammissione le costava – Sarà più protetta.
Se metteva da parte il risentimento, Belle era costretta a riconoscere che pur nella vigliaccheria Robert non avrebbe permesso a nessuno di torcere un capello alla figlia; e la sicurezza della piccola era l’unica cosa che le premeva al momento. Il resto poteva aspettare, lei poteva rischiare; ma Helena no.
L’industriale annuì, grato a Belle per aver introdotto uno dei motivi che l’avevano spinto nell’East End.
- La porterò con me, – accettò senza esitare – Me ne occuperò io. No, – si corresse all’istante – Ce ne occuperemo noi. Tu e io, insieme. Anche tu verrai con me.
La risposta della donna non si fece attendere.
- No. Io resterò qui, con gli altri.
Gold strabuzzò gli occhi a quelle parole.
- Belle, aspetta. Ragiona: la situazione è rischiosa. Potreste avere chiunque alle calcagna, l’hai appena detto, – le rammentò – Non esiste che sapendo questo io me ne vada a cuor leggero, non esiste che io ti lasci qui come se nulla fosse. Devo proteggervi.
Le dita della donna si serrano appena di più attorno alla tazzina che ancora aveva.
- È vero, devi proteggere nostra figlia. Non me.
Gold si morse a sangue l’interno della guancia, imponendosi calma. Una scenata sarebbe stata controproducente e, soprattutto, non intendeva averne una.
- Belle, cosa stai dicendo? Cosa faremmo se ti succedesse qualcosa? Non puoi lasciare soli me ed Helena, noi non possiamo perderti! Perciò adesso, per una volta nella vita, ti comporterai da persona responsabile e mi ascolterai: prenderete le vostre cose, scenderete giù e mi seguirete, entrambe.
La giovane digrignò i denti.
- Non darmi ordini, ti ho detto. Sei migliore di questo.
In quell’istante ogni appello per mantenere la calma cadde nel vuoto.
- Credi sia davvero così? – Gold non si trattenne più – Non ti obbligo a seguirmi, ma questo non vuol dire niente. “Sei migliore di questo” non significa niente, perché non è vero. Non è vero, l’hai detto tu stessa una settimana fa. Hai sempre avuto la presunzione di salvarmi, di trovare il buono in me, ti sei presa il diritto di giudicarmi senza che io te lo permettessi, senza che io ti concedessi niente, – si fermò appena per riprendere fiato, prima di ricominciare a scagliarle addosso una cascata di rancore – Tu hai sempre voluto salvarmi da me stesso, ma cosa ti ha fatto credere che io debba essere salvato da me stesso, che io lo voglia, che tu possa?
Fu come se all’improvviso l’aria venisse risucchiata dalla stanza.
L’accusa schiaffeggiò Belle. Non riuscì a reggere l’impatto del suo sguardo, di quelle ingiurie che la laceravano fino alla carne viva. Era così, allora. Era stata nel giusto dicendosi che era tutta una bugia: lui gliel’aveva appena confermato. Aveva sprecato cinque, cinque infiniti anni della sua vita a inseguire un fantasma. A idealizzare un uomo che non era mai esistito, che diceva d’amarla e poi le mostrava sempre e solo il suo lato peggiore – il suo unico lato.
Ma andava bene.
Andava bene così.
Ormai era troppo tardi.
Cos’ho detto?
Gold si portò una mano alla bocca, come per rimangiare le parole pronunciate. Non poteva averle davvero rivolto quelle offese, quegli attacchi cui lui non pensava, non pensava veramente. Dire che Belle era stata una presuntuosa, che si era arrogata diritti che non le competevano era una bugia, seconda solo a quella che le aveva sbraitato contro cacciandola. Non si era intromessa, era stato lui a permetterle di avvicinarsi, sin dal giorno in cui aveva diviso con lei un tè e il segreto di Neal, no, da prima ancora, da quando avevano inseguito un ladro assieme e lei l’aveva abbracciato…
Belle aveva il capo chino, ma lui sentiva comunque addosso il suo sguardo, aperto e ostile. Quei suoi occhi grandi…
- Belle…
- No, – lo anticipò – Va bene così. Davvero. La gente arrabbiata dice la verità. Ecco la verità, – annuì a se stessa più che all’interlocutore. – Tu pretendi qualcuno che ami abbastanza per entrambi, perché tu non sai amare. Qualcuno che assista in silenzio alle tue malefatte, che non commenti e finga che tutto vada sempre per il meglio. Ma adesso basta. Adesso sarò io l’egoista, – serrò la mascella fino quasi a sentir male – Quella volta in carrozza ti dissi che sarei tornata una volta pronta, e l’ho fatto. Ora, invece, ti dico un’altra cosa – un’altra cosa cui terrò fede – i suoi occhi, mezzelune di ghiaccio, sprizzavano fuoco – Non tornerò da te. Non tornerò mai più.
Strinse più forte la tazza.
Non fermarti.
Non fermarti, o i ricordi ti riportano via.
Come la marea.
La lasciò andare.
L’impatto della tazzina al suolo produsse poco più un lieve tintinnio, com’era accaduto tanti anni prima; ma stavolta, non fu solo una sbeccatura a segnarla.
Stavolta la porcellana si frantumò in mille, minuscoli pezzi.
Come il mio cuore.
Per quelli che parvero secoli fissarono immobili i cocci, incapaci di proferir parola, le orecchie coperte dal battito convulso del cuore.
Fu Belle la prima a riaversi, a riscuotersi. Si ritrovò con la mano destra raggomitolata in un pugno così stretto che l’arto stava intorpidendosi e gli occhi che bruciavano di nuovo.
Quella tazzina aveva resistito a tanto, come il loro amore; ma il loro amore era morto: crepe invisibili ne avevano sbriciolato le fondamenta, e loro se n’erano accorti troppo tardi.
Era giusto che la tazzina lo seguisse, che facesse la stessa fine.
Solo giusto.
Provò invano a non far vedere l’espressione di dolore che il suo stesso gesto le aveva inflitto. Dopotutto, non era ciò che lui aveva voluto, che lui aveva causato? Lei aveva agito d’impulso, ma in fondo era stato prevedibile.
Ma allora, perché si sentiva come se l’avessero squarciata?
Gold continuava a tacere. Osservava impietrito i resti umili per lui preziosi più di un tesoro. Aveva dato la tazza a Belle perché toccandola ritrovasse gli echi di un passato vicino, non perché vi scaricasse la sua furia. All’improvviso c’era stata una tale forza in lei, una tale violenza che quasi l’aveva intimorito.
Come aveva potuto? Come aveva potuto credere alle parole pronunciate dalla rabbia? Lui aveva bisogno di lei, ed era cambiato grazie a lei, in quegli anni era migliorato, o almeno ci aveva provato. Perché avevano mandato tutto a rotoli?
Non c’era rimedio a quella tazza distrutta.
Non c’era rimedio a ciò che la sua rottura significava.
- Sweetheart… Cosa…
- Mamma?
Gold e Belle si voltarono all’unisono.
Sulla porta Helena li fissava con gli occhi sbarrati.
 
 
 
Gold tremò. Non vedeva la figlia da troppo tempo perché restasse insensibile all’incontro.
La prima volta che Helena doveva tornare a Whitechapel da Kensington, lui l’aveva convinta con un accordo. Si erano promessi di pensarsi sempre, di essere vicini nella mente e di non dimenticarsi; e lui aveva promesso a se stesso di non venir meno a quel patto, di non comportarsi con lei come con Belle e prima ancora con Neal.
Ma una settimana era trascorsa, e per quanto l’avesse pensata, la paura gli aveva impedito di correre da lei, di esserci, di dimostrarle che tutto aveva un inizio e una fine, tutto ma non l’amore di un padre.
Aveva rotto anche quell’accordo.
La bambina aveva le guance rosse e le palpebre gonfie: doveva essere stata bruscamente svegliata dai genitori. Gold si chiese se avessero urlato, pregando non fosse accaduto: aveva già abbastanza ricordi di liti dinanzi a un bambino, e non intendeva aggiungerne altri alla triste collezione.
Quando Helena si voltò verso di lui, Gold dovette sforzarsi per reggere lo sguardo. Si meravigliò di quanto le fossero cresciuti i capelli da quando l’aveva conosciuta; si meravigliò per non essersene accorto prima. Forse avrebbero dovuto tagliarglieli un pochino… Se ne sarebbe occupato lui stesso una volta tornati a casa, come faceva con Neal…
Ma Belle non avrebbe più permesso nulla di simile. Se gli avesse ancora affidato la figlia, sarebbe stato solo per proteggerla, solo finché gli animi si fossero placati.
Nient’altro.
- Buongiorno, – l’uomo salutò la bambina a bassa voce.
La piccola sorrise, un sorriso strano, a metà tra tristezza e rabbia. Come se fosse stata arrabbiata con suo padre, ferita da lui che l’amava tanto…
- Perché non sei venuto prima?
Respirare divenne di colpo difficile.
- Sono stato via per lavoro.
Belle voltò il capo di scatto.
- Ah. Ma avete fatto pace? – il silenzio che seguì fu eloquente – No?
- Helena, – Belle intervenne all’istante. Aveva la voce ferma, solo appena più lieve – Sai cosa facciamo? Ci prepariamo e poi tu vai con papà. Ti fermi al Castello per un po’ e stai di nuovo con Bae. E con Regina – papà deve passare da Tink e prendere Regina.
- E tu non vieni?
La donna s’irrigidì.
- Devo sistemare un po’ di cose qui.
- Ma poi vieni?
La risposta fu quella che Gold s’aspettava. Ma non per questo fece meno male.
- Poi vengo a riprenderti.
 
 
 

Pugni chiusi,
perduto per sempre!

 
 
 
Rebecca Zelenyy spinse via un’inerme domestica e si precipitò nel boudoir come un’Erinni degli Inferi.
Udendo la porta, una stupita Cora si voltò verso le due.
- Milady, perdonatemi, non sono riuscita a trattenerla, io… – belò la cameriera, temendo anche solo di guardare in viso la padrona – È sfuggita prima di poterla fer…
- Va bene così, Alice, – fece la donna, insolitamente dolce – Mi occuperò io di Miss Zelenyy. Torna alle tue incombenze.
La ragazza non se lo fece ripetere due volte: con un rapidissimo inchino si accomiatò e fuggì via da quella che si preannunciava essere uno spettacolo di messinscena, avendo cura di chiudere bene la bussola dietro di sé.
- Rebecca cara, – la Contessa salutò serena la complice, intuendone le ragioni della furia – A cosa devo questa visita fuori dal solito orario?
- A cosa devi? Lo chiedi davvero? – ululò Rebecca, mordendosi un labbro per trattenere l’isteria che le gorgogliava dentro – A questo! – lanciò il giornale in grembo a Cora – A che gioco stai giocando? Mi fidavo di te!
La Mills fece appello a tutto il senso di civiltà potesse racimolare prima di rispondere.
- Innanzitutto calmati, – le ingiunse, sia pure in tono lieve – Cielo, mia cara! A giudicare dal tuo stato si direbbe sei accorsa fin qui in gran fretta, – si avvicinò all’altra e le scostò invano una ciocca dalla fronte. I ricci si attorcigliavano come serpenti attorno al viso in fiamme della giornalista – Cosa penserebbero gli uomini se ti vedessero così? Non va bene, non va assolutamente bene: solo le donne di dubbia reputazione corrono per strada… e noi non siamo certo una di quelle, vero? – ammiccò con aria sorniona al tavolino. Un’altra copia dell’articolo riposava tra pettinini preziosi e bottiglie di profumo.
- Non m’importa di cosa pensano gli uomini, non sono loro il metro della mia realizzazione!
La più grande s’impose di non ghignare.
- Non si direbbe, a giudicare dalle tue azioni.
- Faccio quel che faccio per vendicarmi di chi era mio, non certo per riaverlo, e pensavo di aver trovato un’alleata, ma mi sbagliavo! Tu… Tu mi hai tradita!
La Mills levò un sopracciglio in segno di disappunto.
- Tradita? – ingoiò l’impeto di assestare a quella sciocca due ceffoni così potenti da farle sanguinare la bocca – Tu mi offendi. Quando ti avrei tradito, mia cara? Non sono io a meritare queste accuse, lo sai, ma la nostra comune conoscenza. Io sono sempre stata dalla tua parte e mai, in nessun luogo e in nessun tempo, potresti trovare una confidente leale come me.
- Una confidente che mi ha mentito per metà del tempo? – la replica giunse repentina – Che non mi ha messo al corrente dell’esistenza della mocciosa? E soprattutto, soprattutto, – soffiò, punta nell’orgoglio – Una confidente che non ha mai, neanche per caso, accennato alla sua storia con Gold?
Ecco: il convitato di pietra era apparso anche stavolta. Cora aveva previsto la visita dell’americana nell’istante stesso in cui aveva letto quella mezza riga: era ovvio che la Zelenyy avrebbe preteso spiegazioni, e si era preparata a fronteggiarla come già stava facendo; solo, la Contessa sperava di chiudere in fretta la questione e dedicarsi ad altro. Possibile che dovesse continuare a seguire passo passo quell’incompetente?
- Oh, mia cara! – sospirò come rattristata – Questo tale A. B. deve essere un portento del giornalismo, se è riuscito a far cadere in trappola una professionista come te! Davvero, Rebecca, dovresti saperlo: la stampa è un avvoltoio che fiuta il lezzo di carogna anche dove non c’è. Senza offesa! – proseguì querula, senza darle il tempo d’incassare la frecciata – Sono al corrente delle chiacchiere circolate per un periodo, ma non te ne ho parlato per un motivo: perché sono solo chiacchiere. Né più né, meno. Posso assicurarti tra me e Robert non c’è mai stato nulla oltre a una sincera amicizia. Nulla, – Cora ribadì ferrea, guardando dritta negli occhi la più giovane. Aveva da tempo imparato che ogni cosa è vera se la si afferma con la giusta sicurezza – Puoi credermi o meno, – aggiunse rapida, conscia della propria autorità e decisa a trarne quanto più vantaggio possibile – Ma questo è quanto. E il fatto che tu preferisca credere ai pettegoli piuttosto che a me mi ferisce, mi ferisce oltremodo.
Cora non distolse lo sguardo al termine del discorso. Continuò a guardarla dritta negli occhi, con una sicurezza e una fiducia in sé encomiabili; con la sicurezza, si redarguì Rebecca, di chi è assolutamente sincero o completamente spergiuro. Non esisteva una terza via.
Avrebbe voluto credere, avrebbe voluto credere davvero in colei – sola al mondo! – pur nell’arco di poche settimane l’aveva sostenuta, consigliata e protetta; avrebbe davvero voluto liquidare quella frase come misera indiscrezione, ma una parte di lei non ci riusciva. Una parte di lei tornava sulle parole, le esaminava e riesaminava, immaginava scenari e alternative; non soprassedeva – non poteva soprassedere – su quella possibilità.
Perché Cora sapeva troppe cose di Robert, cose che solo chi gli fosse stata vicino più di una sorella avrebbe potuto sapere; ne prevedeva reazioni e mosse con una precisione, con un’esattezza inquietante.
Come se fosse lei l’unica a capirlo, l’unica a conoscerlo veramente.
La facondia di Cora, la sua espressione stoica e dolente nel perorare la propria causa… Tutto condannava, tutto scagionava.
Ma i dubbi, le aveva insegnato Cora stessa, erano per gli stolti.
- Forse non mi hai detto una bugia, – concesse – Ma non mi hai detto nemmeno la verità. Sapevi della bambina, vero?
- Ne so tanto quanto te, – l’altra non batté ciglio – Come potrebbe essere altrimenti? Dal ritorno di Gold ho avuto modo d’incontrarlo poche volte, e lui si è sempre guardato bene dal confessarmi di avere una figlia. Lo capisco, in fondo: neanch’io rivelerei al mondo di avere un bastardo.
- Ma se eravate tanto amici…
Cora ne approfittò lesta.
- Appunto: eravamo. Grazie alla French non lo siamo più. E scommetto ci sia il suo zampino nel silenzio di Robert: quella donnaccia desiderava far fortuna, non certo finire in prima pagina. Ma tu, – l’adulò – L’hai accontentata anche sotto questo punto di vista.
Rebecca la studiava assorta. La gentildonna non si mosse: le azioni dovevano essere tanto persuasive quanto le parole; solo, per un istante ebbe pietà della Zelenyy.
Tutto passa, tutte le ferite si chiudono; o quasi, Cora aveva sperimentato in prima persona. Gli sfregi che Robert Gold lasciava non cicatrizzavano in fretta: era trascorso un lustro, e ancora in lei –negarlo era vano – c’era qualcosa che bruciava al pensiero di essere stata dimenticata per una camerierina.
Non era bello essere messa da parte, lo era ancor di meno esserlo per qualcuno palesemente indegno; e ciò che faceva ancora più male a Rebecca, sapeva Cora, era vedere Robert sfilare al braccio di quella sgualdrinella, sapere che ora era lei la sua regina, la madre di sua figlia, la donna che era riuscita a insediarsi nel suo cuore là dove entrambe avevano fallito.
Rebecca sarebbe voluta essere lei quella donna, perché aveva conosciuto Gold, perché aveva scoperto sulla propria pelle quanto fosse meraviglioso essere il centro del suo mondo, essere la donna nel cui nome lui avrebbe piegato l‘universo intero, esserne guardate, adorate, venerate.
Gold era intossicante, e loro erano state tanto stupide da lasciarsi morire tra le spire.
- Cosa facciamo ora? – all’improvviso Rebecca ruppe il silenzio.
- Fa’ pubblicare altri articoli, – la Mills si raccomandò – Anche se alla nostra amica non importerà. Ho avuto modo di conoscerla e non si farà fermare da uno scandalo. La sua determinazione è notevole, le va riconosciuto: si atteggerà a innocente perseguitata e commuoverà il suo amante. Per un po’ neanche lui si curerà dello scandalo… Ma poi aprirà gli occhi. L’opinione pubblica deve instillargli il dubbio. Siamo più attenti alle critiche degli sconosciuti che a quelle degli amici.
- Non mi hai inteso. Cosa facciamo con la sguattera? E soprattutto, con la bastarda?
- Cosa dovremmo fare? Ormai è un po’ troppo tardi per rimediare, – Cora ripensò al giorno in cui aveva creduto l’affaire French risolto per sempre. Se solo i Frey e quell’altro idiota fossero stati più accorti adesso lei non se ne sarebbe stata lì, a perder tempo ascoltando i deliri di una folle, quando invece avrebbe dovuto cercare il modo per riavere Regina.
- Non possiamo mandar loro contro qualche galoppino? Far loro del male, rapirle… Non so, qualcosa del genere.
La bruna soffocò un sussulto. L’omicidio, diretto o meno, stava diventando fin troppo frequente nei suoi pensieri.
Non poteva negare di aver nuovamente pensato di far uccidere Belle sin dalla cena in cui Gold aveva fatto quel cenno, ma stavolta l’idea non le si era mai fermata in mente. Aveva avuto altre questioni ben più importanti; e soprattutto, se la sua rivale fosse stata trovata morta proprio dopo la rivelazione i sospetti sarebbero inevitabilmente ricaduti su di lei… Tanto più dopo ciò che era successo a Locke.
La moralità non è qualcosa da considerare nei processi decisionali, ma la Zelenyy non ragionava mentre avanzava simili proposte. Meglio restarne fuori.
- Oh, cara, – sorrise quieta, cominciando a pettinarsi – La morte è così permanente: si consuma in un attimo e lascia insoddisfatti. Non ne vale la pena. Far soffrire è meglio: più studiato, più lento. Più divertente.
- Appunto per questo, – l’altra rimarcò ostinata – Prendiamo la bambina. Vendichiamoci su di lei.
- Non sono un’assassina, – Cora ribatté gelida. Il sorriso radioso che le aveva dedicato fino ad allora si trasformò in uno sguardo nemico – Te lo ripeto: se vuoi rovinare la French hai tutto il mio sostegno. Se vuoi renderla una reietta, farle provar vergogna anche solo a uscir di casa, distruggerla, sono dalla tua parte. Ma una cosa posso assicurarti: non riavrai Gold ammazzando sua figlia. Se ci proverai, sarà lui a distruggere te.
Si studiarono in silenzio per quelli che parvero secoli, ma che forse furono solo un paio di battiti di cuore. Ciascuna avrebbe pagato oro per sapere cosa stesse passando per la testa dell’altra.
- E tua figlia? – Rebecca domandò tutto a un tratto – Lei cosa ne pensa?
Rughe di sconcerto attraversarono il volto di Cora, sorpresa dal repentino cambio d’argomento.
- Non sono solita mettere mia figlia a parte di simili complotti, – rispose con voce appena più torbida.
- Non ne è degna?
La Contessa continuò a passarsi la spazzola tra i capelli, quasi senza curarsi dell’ospite.
- Mia figlia non è molte cose. Ma ne è molte altre.
La rossa sbuffò e incrociò le braccia al petto.
- Se ne è andata ignorando tutti i tuoi insegnamenti, non curandosi di chi le ha dato tutto e l’ha cresciuta come una principessa. Come può essere degna?
Cora si fermò di scatto. Depose la spazzola e alzò il capo. Vide riflessi nello specchio gli occhi voraci di Rebecca, la smorfia sulla sua bocca decisa; ne resse lo sguardo in un incandescente scambio di minacce silenti.
- Gradirei non giudicassi mia figlia, – la pacatezza della Contessa era mera apparenza – Non la conosci e non sai nulla di lei. Non sai che, a un’età in cui tu ti lagnavi per il tuo avverso destino, lei ha fatto di tutto per restituirmi una cosa preziosa che temevo di aver perso per la mia stupidità.
Rebecca avvampò all’istante, colpita a tradimento.
- Io non mi sono mai lagnata per il mio avverso destino, come lo chiami tu, – scagliò fuori, incapace di reprimersi – Anzi, – proseguì – Lo ringrazio: grazie a esso ho imparato a guadagnare le cose. A guadagnarmi il ruolo che ricopro oggi.
La gentildonna si fermò. Si voltò verso l’altra, un sorriso stampato sul volto.
- Mia cara, – inclinò il capo, fintamente dispiaciuta – Puoi guadagnare tutto, ma non i ruoli cui ambisci.
 
 

 
La mia salvezza
sei tu,
sei l'acqua limpida
per me.”

 
 
 
Helena non capiva cosa fosse accaduto. Si sforzava a riflettere, a ragionare, ma inevitabilmente le sfuggiva qualcosa, qualcosa che proprio non sapeva indovinare.
Forse non era poi davvero così importante capirlo. Era molto più importante il modo in cui la sua vita era cambiata di nuovo, e di nuovo all’improvviso,
Erano mamma e papà che non sorridevano più, che non avevano più voglia di raccontarsi le loro giornate; che non volevano neppure trovarsi entrambi nella stessa stanza. L’ultima volta che erano stati tutti e tre assieme era stata la mattina in cui era tornata al Castello: da allora, quando papà andava a prenderla, mamma si assicurava di non essere in casa; e quando Helena voleva tornare a Whitechapel era sempre Ruby, o Granny, o chi per loro a presentarsi.
Mai Belle.
Perché all’improvviso non potevano stare tutti e tre assieme come un tempo? La mamma la faceva stare di più con papà, ma – Helena non se ne spiegava il perché – la cosa non rendeva felice nessuno, la bambina per prima.
- Tu non mi vuoi più! – un giorno aveva accusato la madre senza voler sentire ragioni – Perché non mi vuoi più con te, che ti ho fatto?
Belle aveva pianto un’ora intera ed Helena aveva imparato a non porre domande, anche se di domande ne aveva a decine.
Come il perché di quella tazza rotta sul pavimento di Granny.
Quella mattina lei era sveglia da molto, molto più tempo di quanto immaginassero i suoi genitori. Aveva origliato tutta la discussione, dalla prima all’ultima parola, senza capirla ma intuendo nel cuore la gravità della situazione. Aveva udito il suo nome pronunciato come mai prima d’allora – frastagliato e tagliente come una lama, il suo nome come un’arma –, aveva sentito papà dire che non sarebbe mai cambiato e la mamma rispondere che non sarebbe più tornata da lui; aveva sentito il rumore di qualcosa che si rompeva e quando era uscita aveva visto il modo in cui i due non si guardavano, e la tazzina che tanto piaceva a papà in mille pezzi, ma aveva fatto finta di niente perché non era neanche riuscita a formulare una frase sensata in proposito.
Così come non era riuscita a spiegarsi il perché di quelle persone fuori casa che l’aspettavano gridavano, di quei lampi col sole e di quegli scoppi, di papà che l’aveva letteralmente nascosta e tenuta stretta per placare il suo tremore anche quando erano ormai al sicuro in carrozza.
Helena sapeva solo che tutto era cambiato la sera in cui i suoi genitori erano usciti vestiti bellissimi, la stessa sera in cui Regina non aveva mantenuto la sua promessa di tornare. La bambina aveva pensato che la causa di entrambe le cose fosse stata lei stessa, la cattiveria mostrata poche ore prima; e anche se se l’avesse chiesto tutti l’avrebbero smentita, lei non avrebbe creduto. Perché la colpa doveva essere di qualcuno: non era possibile che il mondo crollasse da un momento all’altro senza che ci fosse un motivo.
I grandi conoscevano questo motivo e non glielo dicevano, vero?
Papà lo conosceva, perché quando giocava con lei ora era sempre, sempre triste.
Mamma lo conosceva, e infatti almeno lei aveva provato a raccontarglielo. Solo che la versione iniziale era cambiata: era venuto fuori che i suoi non avevano solo litigato, ma che non potevano più darsi quel che desideravano – cosa significasse quella frase era un mistero –, che non avrebbero più vissuto assieme, ma che lei li avrebbe sempre visti entrambi e che loro le avrebbero sempre voluto bene.
- Purtroppo alle volte capita, – le aveva spiegato mamma – Anche se non lo vorremmo, capita.
Ma Helena non capiva. Fino a quella maledetta sera mamma e papà erano così felici, scherzavano, si baciavano di nascosto, erano loro a metterla a letto o a svegliarla. Qualche volta avevano dormito anche tutti e tre assieme. Com’era possibile che avessero smesso di andare d’accordo? E possibile che proprio non riuscissero a parlare?
Quando era lei a litigare con Anna, mamma glielo ripeteva all’infinito: non era bello prendersela per ogni cosa, doveva essere gentile con le persone e cercare di tornarci amica il prima possibile, “anche a costo di fare il primo passo”.
E allora perché lei non riusciva a fare pace con papà, “anche a costo di fare il primo passo”?
Era arrabbiata, Helena. Arrabbiata con mamma che non si comportava come avrebbe dovuto, arrabbiata con papà perché era sparito all’improvviso, e anche se poi le aveva detto che era stato per lavoro e l’aveva riportata al Castello, anche se aveva ricominciato a trattarla come una principessa, comunque se n’era andato, e ora la guardava sempre con quell’espressione triste, come se lei fosse la persona che non c’era e che aveva detto non sarebbe più tornata.
Una volta, a Kensington, Helena aveva fatto tantissimi capricci nella speranza che mamma venisse a sgridarla come papà non faceva: il suo ritorno sarebbe valso bene uno, due, cento rimproveri.
Ma Belle non si era fatta vedere e alla fine, non sapendo più cosa fare, papà l’aveva accontentata in tutto e per tutto. Helena era ritrovata con mille cose quando le sarebbe bastata solo una.
Perché la mamma non veniva?
Non capiva che erano a metà senza di lei?
Era arrabbiata con il bambino dell’orfanotrofio che le aveva detto che se mamma non voleva stare più con papà, allora lui doveva averle fatto qualcosa di brutto, doveva averla picchiata; e allora lei dato un pugno a quel bambino perché non era vero, non era vero niente: papà aveva urlato di non essere buono, ma era una bugia, non aveva mai fatto del male alla mamma e mai l’avrebbe fatto, papà voleva bene alla mamma, no, l’amava, e…
Mamma si era rattristata ancora di più quando aveva scoperto il suo comportamento. Lì per lì non aveva spiccicato parola: si era limitata a rivolgerle un lungo sguardo stravolto, come se anche la sua ultima speranza fosse andata in frantumi.
Quando l’aveva sgridata nella sua voce non c’era stato rimprovero, quanto una profonda stanchezza; ma a Helena ciò che aveva fatto più male, più dei colpi ricevuti nella rissa, più male di ogni punizione, forse più male della situazione tutta, era stato quello sguardo.
Da allora aveva deciso: basta capricci, niente più lagne e piagnistei. Mamma e papà avevano già abbastanza guai senza che si aggiungesse lei: sarebbe stata buona, buonissima, silenziosa e gentile. Avrebbe parlato solo se interrogata; sarebbe diventata invisibile.
E così a Whitechapel aveva iniziato a trascorrere sempre più tempo in camera da letto o nell’altra stanza, a seconda di quale fosse occupata – perché se non avesse incontrato nessuno di certo non avrebbe creato problemi –; e a Kensington il luogo in cui la si scovava più spesso era un angolino della soffitta, stretta alla mantella trovata la prima volta che ci era stata.
Anche in soffitta Helena era sola.
L’unica persona che avrebbe voluto portarci era tanto triste quanto mamma e papà.


 
Il sole tiepido
sei tu,
amore.
 
 
 
Le ruote di una carrozza che rimbombavano sul selciato la precipitarono di soprassalto in un buio pesto.
Regina si guardò attorno senza capire: cos’era quel silenzio? Dov’era lo stanzone affollato di letti in cui dormiva con gli altri giovani ospiti?
Dovette attendere un minuto per ricordare dove fosse.
Lo zio l’aveva riaccolta in casa. A essere onesti, dire riaccolta non era esatto: sarebbe stato meglio precisare che Gold si era presentato come una furia da Tink, aveva indirizzato alla volontaria un lapidario: – Mi manda lei – che ella aveva accettato senza ribattere e, senza sentire ragioni, aveva costretto l’adolescente a seguirlo in carrozza.
- Ho già una lunga lista di problemi, – le aveva sibilato, quasi trascinandola a forza verso la vettura – Non ci aggiungerò il tuo nome.
Regina ricadde supina sul materasso. Era così morbido, così diverso dalla branda ruvida e bitorzoluta che le faceva venire il mal di schiena. Possibile non si fosse mai resa conto delle comodità che la circondavano?
Quando aveva sentito lo zio nominare quell’indefinita lei, Regina aveva tremato. La mente le era corsa alla persona che meno voleva fronteggiare al mondo, quella madre il cui sguardo calcolatore la seguiva in qualunque cosa facesse.
Aveva posto fine al loro rapporto senza capirne appieno le conseguenze; sapeva solo che né in quel momento né in seguito se n’era pentita. Mentre strappava il simbolo di un ricatto, Regina si era sentita risplendere – effimera e pallida come un raggio di sole in un mattino grigio, ma risplendere, per la prima volta anche dinanzi agli occhi di chi avrebbe dovuto amarla incondizionatamente, e invece le aveva inflitto ferite che il tempo non avrebbe guarito.
- Come puoi approfittare di questo momento per cercare di riavermi? – aveva ululato – Daniel era parte della mia famiglia, lo amavo, – la voce le era morta in gola – Volevo proteggerlo...
 - Ma tu non sei brava a proteggere chi ami. Accettalo, – Cora aveva risposto con un sorriso agrodolce.
Forse era stata quella frase a colpirla più di tutto il resto. Era stata quella frase a indurla a scacciare Cora, a urlarle che sarebbe anche potuta morire, ma a lei non sarebbe più importato nulla, perché da quel giorno lei era orfana.
Perché quella frase riaccendeva pentimenti, gettava sale su una ferita che neanche gli ultimi mesi avevano saputo cauterizzare.
Ancora una volta, come con Belle cinque anni prima, lei non poteva proteggere chi amava.
In carrozza c’era stata anche Helena. La bambina sembrava terrorizzata, ma appena l’aveva vista le era saltata al collo esultante e le aveva posto mille domande a cui lei aveva dato risposte vaghe. Non avrebbe proprio voluto aprir bocca, ma se avesse di nuovo maltrattato la piccola dinanzi allo zio sarebbe come minimo finita calpestata dai cavalli.
Una sola cosa aveva consolato Regina: Helena escludeva Cora. Gold non avrebbe mai fatto avvicinare la sua nemica alla bambina. Lei doveva essere qualcun’altra; doveva essere Belle.
Cos’aveva detto sua madre su di lei? Lo zio l’aveva tradita durante il soggiorno in America e la ragazza l’aveva scoperto, o qualcosa del genere.  Non ci pensava da quando la Contessa gliel’aveva rivelato, col chiaro scopo di umiliare la rivale: sebbene la French fosse tornata all’orfanotrofio più volte, Regina non aveva voluto sapere nulla.
Non le interessava cosa fosse successo a Kensington non le interessava il motivo per cui nella villa ci fosse solo la bambina, e neanche sempre: alle volte, senza che potesse individuare una costanza, la ritrovava anche da Tink.
Malgrado il brusco esordio, bisognava ammettere che Gold non teneva Regina prigioniera; anzi, a dire il vero, la ignorava ancor più che in precedenza. Se ne stava rintanato nello studio, giocava con la figlia quando presente, lavorava, usciva. Non una parola su Daniel, non una parola su Belle; un tacito accordo che Regina aveva l’intenzione di rispettare.
Lo zio non aveva protestato neanche quando gli aveva chiesto di tornare dalla Barrie. Le aveva messo a disposizione una vettura all’ora stabilita, e non era sceso a salutarla; né aveva commentato quando era tornata, e quando era partita e tornata ancora, in un andirivieni quasi simile a quello di Helena.
Ma lei a Kensington – così simile al posto in cui aveva baciato Daniel, così memore del passato – non sapeva più stare.
Non sapeva più vivere tra bicchieri molati, serate di bridge e moniti su come e quando indossare i gioielli, ora che aveva rotto per sempre con chi l’aveva guidata, costretta in quel mondo.
Whitechapel era così diversa da Belgravia: appartenevano davvero alla stessa città, allo stesso mondo? Possibile che poche miglia separassero Inferno e Paradiso? Eppure lei si era sentita più a casa una manciata di giorni nel ventre della metropoli, ricettacolo di crimini e vizi, che quindici anni tra sete, quiete e gioielli.
Forse perché a Whitechapel c’erano Belle e Tink.
Belle, che le diceva di lasciar esplodere il dolore, di farlo urlare.
(Ma Belle non sapeva cosa sarebbe successo se lei l’avesse fatto, non lo sapeva neanche Regina stessa, e non voleva saperlo.)
E Tink, che l’aveva salvata quando l’aveva scoperta sul tetto, a fissare il vuoto come la finestra per un altro mondo.
Da quel giorno, la volontaria era stata chiara: ciondolare disoccupati mentre c’era tanto da fare era fuori discussione; se Regina fosse voluta restare, sarebbe stata la benvenuta, ma avrebbe dovuto darsi da fare.
Non sapendo dove altro andare, la ragazza aveva accettato. Avrebbe mentito affermando di amare i mocciosetti strillanti, o quella struttura fatiscente e decrepita, o gli afrori che salivano dai mucchi di spazzatura nei viottoli; ma forse seguire Tink, così risoluta e infervorata nella sua volontà di difendere gli ultimi, le avrebbe fatto bene. In fondo, pensare al dolore altrui è il miglior rimedio per dimenticare il proprio.
O almeno così dicono.
Regina non aveva mai dovuto spasimare per essere parte in un gruppo: nonostante – o a causa del – suo carattere, in collegio si era riscoperta popolare suo malgrado. Era strano come la cosa si ripetesse in un contesto tanto diverso: forse per la sua provenienza altolocata, forse perché era la più grande, i bambini l’attorniavano come se distribuisse sempre dolci. Le prime volte li aveva allontanati stizziti: con chi pensavano di avere a che fare, con la novità del momento? Se non avessero capito in fretta che era meglio lasciarla in pace, gliel’avrebbe fatto capire lei con la forza.
Anche allora era stata Tink a riprenderla. Chi credeva di essere per rifiutare tanto scontrosa la mela che Henry aveva inguattato nella manica pur di donargliela, o per mortificare così la piccola Grace? Erano bambini soli, abbandonati, non piccoli viziati abituati a vincerle tutte; molti nemmeno conoscevano le scarpe prima di arrivare in istituto, e se non ci fossero arrivati avrebbero iniziato a vendersi o a darsi alla violenza.
- Se credi di essere la principessa delle fiabe, ti sbagli. La vita non è una storiella a lieto fine, togli la corona e cresci, – Tink aveva concluso quasi brutale.
Ma Regina non si era mai sentita la principessa delle fiabe. Alle volte, si sentiva piuttosto la regina cattiva che in qualche versione alternativa toglieva a tutti il lieto fine per vendetta. Potevano davvero biasimare questo suo desiderio?
Aveva sognato un futuro con Daniel, e ora si ritrovava costretta a fare sogni nuovi. Ma lei non sapeva come fare. Era una bambina col cuore mutilato, con un grumo nero e informe sotto le costole. Non era l’unica al mondo a vivere qualcosa di simile, lo sapeva: erano cose che capitavano. Ma perché capitavano proprio a lei?
La domanda non l’abbandonava mai, neanche nel sonno, appesantendolo e popolandolo di incubi. Da tempo non conosceva più il conforto di un’intera notte di riposo; e aveva imparato che, quando i pensieri non le davano tregua, l’unica soluzione era la lettura.
Almeno, dallo zio il desiderio trovava facile soddisfazione: bastava scendere in biblioteca, puntare il dito a caso ed estrarre il volume che la sorte aveva scelto per lei. Economia, legge, arte: senza volerlo, nelle ultime settimane si stava ricompensando di una parte della conoscenza che non le era stata concessa. Però l’unico a interessarla davvero era un trattato di medicina, finito chissà come lì e forse inadatto a una fanciulla, ma stranamente il solo in grado di catturare la sua attenzione.
Senza soffermarsi ancora, Regina indossò la vestaglia e decise di scendere a prenderlo; ma aveva appena percorso un corridoio quando si trovò di fronte lo zio.
Regina sbiancò. Non seppe spiegarsi il perché della reazione, quasi fosse stata sorpresa a compiere un delitto efferato: a domanda avrebbe potuto dire la semplice verità e andarsene senza problemi, si disse.
Ma forse un motivo c’era: era la prima vera volta che si ritrovava con l’uomo da quella frase urlata durante le ricerche di Helena. Sì, da allora e anche in tempi recentissimi avevano condiviso pasti e cene, erano stati da soli mentre Belle e la figlia erano nell’East End, ma in fondo in quelle occasioni c’erano stati camerieri pronti a entrare, o appunto le French o chi per loro a impedire un confronto. Se ne avevano avuto l’opportunità, lei e lo zio l’avevano scientemente fatta sfumare.
Ora, invece, le cose erano ben diverse: ora erano a pochi passi di distanza, volto a volto; fingere nulla sarebbe stato ipocrita.
Ma tu vuoi davvero un confronto?
Non lo sapeva, ma una cosa era certa: non doveva mostrarsi intimorita. Lei era Regina Mills, non una ragazzetta qualsiasi: se pure il sangue che le scorreva nelle vene non si fosse rivelato blu, lei aveva costruito – stava costruendo – la sua nobiltà col dolore, con le esperienze che la segnavano sin da quando aveva dieci anni. Avrebbe saputo reggere anche a questo. Ne era certa.
Alzò il mento altera per parlare, ma Gold la precedette.
- Come stai?
La domanda la fece trasalire. Non se l’aspettava.
- Bene, – si sentì articolare – Sto bene.
No, una voce dura in lei la smentì. Io non sto bene, ma non lo verrò a dire a te. Tu sei come mia madre.
- Di notte dovresti riposare, – una constatazione ovvia, distante, estranea.  
- Se riuscissi a dormire lo farei.
- Lo so.
Senza volerlo, Regina si chiese quante volte fosse stato lui a trovarsi nella sua situazione. La prima volta che Belle se n’era andata, anche lo zio aveva vagabondato per quella casa che sembrava una cattedrale? Aveva cercato il suo sorriso, il suo calore, la sua voce durante la notte, ritrovandosi in un ambiente impregnato dall’odore di tabacco, freddo e solitudine?
Era successo cinque anni prima e stava succedendo ancora.
Forse solo allora capiva la vera portata di quel che aveva fatto.
Gold guardò Regina. Per un istante non vide la ragazza cupa che era diventata, non vide l’autrice del tradimento più grave; per un istante rivide solo una bambina dai lunghi capelli neri e dagli occhi troppo simili a quelli di un altro bambino. Quando era piccola, anche prima della morte di Henry, Regina aveva adorato suo zio. Lui l’aveva cullata ogni volta che Cora gliel’aveva permesso, l’aveva sommersa di regali, ci aveva giocato.
Come avevano fatto il poco spazio tra loro ad allargarsi in un baratro?
Mentre preparava la borsa per Helena, Belle gli aveva detto di passare da Tink e prendere Regina. Il suo fidanzato era morto, gli aveva detto, e lei era a pezzi.
Come hai fatto a non accorgerti della sua fuga?, era stata la domanda che Belle gli aveva rivolto senza parole.
L’ennesima domanda cui lui non aveva saputo rispondere.
Una parte di Gold aveva confidato nel fatto che quella tra Regina e lo stalliere fosse un’amicizia, una complicità rafforzata magari per far dispetto a Cora; ma lo sguardo che incontrava smentiva ogni illusione. Forse Belle non aveva esagerato le volte in cui gli aveva raccontato di una ragazzina e del suo primo amore.
- Mi spiace per quello che è successo al… Al tuo amico, – mormorò, riuscendo appena a districarsi tra i pensieri contorti che da sempre erano sinonimo di Regina.
- Grazie, – fu la sola risposta.
Per lunghi istanti tra i due regnò un silenzio sconsolato.
Era anche colpa dello zio, in fondo. Lui e Belle l’avevano ingannata con l’esempio, facendole credere che un amore fuori da canoni avrebbe potuto vincere.
Nessuna delle storie era finita bene, ma la sua era finita peggio; perché, come aveva già detto a  Belle, il mondo si divideva tra chi nonostante tutto aveva ancora la speranza, e chi invece si era visto sottrarre anche quella.
E Regina, per l’ennesima volta, era tra i secondi.
Se l’uomo le rivolgeva quelle parole per gongolare, lei non era proprio in vena.
- Vi odio, – si ritrovò a sussurrare, incurante di ogni cosa – Vi odio tutti.
Gold annuì. Aveva reagito allo stesso quando aveva creduto Belle morta. Non si aspettava nulla di diverso da Regina.
La nota sorda nella frase parlava di un pianto non versato. Era forte, Regina. Incrollabile nei suoi quindici anni, e allo stesso tempo così insicura.
Quanti colpi poteva sopportare una persona simile prima di spezzarsi?
- Da quanto tempo non vedi tua madre?
Una domanda inopportuna, ma che andava posta.
- Anche se non la vedessi da vent’anni, sarebbe comunque da troppo poco tempo, – l’adolescente ringhiò all’istante. Qualunque fossero stati i piano dello zio, lei non li avrebbe rispettati; e se non avesse potuto più rifugiarsi neanche da Tink, avrebbe preferito la strada a Belgravia – Se intendete farmi tornare da lei, ditemelo chiaramente: non voglio svegliarmi una mattina e trovarla ai piedi del letto.
Quando si fa il passaggio da ragazza a donna? Colei che Gold aveva dinanzi, che pronunciava parole tanto aspre e decise non era una ragazzina. Aveva perso ogni vestigia di fanciullezza, ogni sorriso, ogni voglia di giocare. Colei che aveva dinanzi era una donna: una donna giovane, ma già segnata e dalla determinazione feroce; una donna cui nulla smussava i lineamenti duri che il suo volto aveva assunto. Era sempre stata testarda, ma ora c’era acciaio nella sua voce, acciaio che prima non c’era stato.
Regina aveva preso la sua decisione e non sarebbe tornata indietro. Se gli avesse detto di essere pronta a morire, non ci sarebbe stato bisogno di giuramenti: le avrebbe creduto.
- Per quanto possa valere una mia promessa, – esordì – Puoi star certa che non accadrà. Non ho alcuna intenzione di rivedere tua madre.
Suo malgrado, l’altra fece tanto d’occhi. Un dubbio tagliente come una scheggia di vetro si fece largo in lei.
- È stata ancora colpa sua?
Non ci fu bisogno di precisare a cosa – o meglio, a chi – si riferisse.
Gold chinò il capo per un istante.
- No, – il tono calmo dell’uomo la colpì più di urlo – Anche stavolta è stata colpa mia.
Quella di Regina era una domanda, ma le domande complicate avevano sempre risposte semplici. Cora e Rebecca avevano ferito Belle, ma la colpa di quanto successo non era loro. L’idea che qualcuno o qualcosa potesse farle ancora del male lo mandava su tutte le furie, ma era solo una la persona con cui doveva arrabbiarsi.
Ancora una volta lui.
Se fossi stato sincero sin dall’inizio…
Ripeterlo era vano, oramai.
- Cosa pensi di fare, ora? – cambiò argomento per illudersi di sfuggire al dolore tra le costole che accompagnava il suo pensiero. In fondo, a Regina non serviva un altro che le ripetesse quanto fosse cattiva sua madre.
La ragazza alzò le spalle.
- Non lo so. Ma una cosa è certa: non tornerò al Cheltenham. Eccetto il francese, non imparavo nulla di utile.
- E cosa vorresti fare?
Una domanda impossibile. Non voleva fare nulla, se non dimenticare; non sapeva far nulla, se non ricordare. I suoi bei voti in collegio non avevano valore: nella realtà in cui aveva scelto di vivere non le sarebbe servito saper danzare alla perfezione o distinguere tra tanti tipi di forchette. Né i giorni trascorsi con Tink avevano portato alla luce qualche abilità: avevano solo confermato il suo carattere viziato, caustico e vendicativo. Però…
Però dalla volontaria arrivavano anche persone malate. Non spesso per l’atavico timore nei confronti dei dottori, quasi sempre troppo tardi, ma arrivavano. Ne aveva viste alcune e, guidata dalla curiosità e dalla noia, si era spinta verso quella sezione dell’edificio, dove a lavorare era una giovane dottoressa di nome Astrid e due infermiere. Lì per lì Astrid l’aveva scambiata per una nuova aiutante; ma una volta chiarito l’equivoco e appurata la sua identità, non l’aveva scacciata. Anzi: l’aveva coinvolta. Si era messa a spiegarle ora una cosa ora l’altra, a insegnarle il nome di uno strumento e i sintomi di una malattia, incuriosendola e inducendola a tornare l’indomani, e l’indomani ancora. Ben presto Regina aveva iniziato a sentirsi a suo agio più lì che tra i bambini, immersa in un sapere teorico i cui risvolti pratici però non la disgustavano; e quando era arrivato un uomo da medicare e le infermiere non si trovavano era stata una completamente incredula Regina a dover passare bende e garze alla dottoressa, ricevendone persino il plauso finale.
- Sei stata bravissima, davvero, – Astrid si era complimentata orgogliosa – Hai mai pensato di… Perché no… Studiare in questo campo, un giorno?
A essere onesta, prima d’allora il pensiero non aveva mai sfiorato Regina; ma da quando aveva udito quelle parole la situazione erano nettamente cambiata. Era un’idea folle e improbabile, era la prima a riconoscerlo, però…
Scoprire il vecchio trattato in casa dello zio l’aveva fatta sorridere come non succedeva da tempo.
- Una volontaria ha detto che sono brava ad assisterla, quando si tratta di curare qualcuno, – avanzò, ricacciando dietro l’incertezza nella voce.
- E…?
- E quindi non so. Ho letto di una scuola di medicina, la London School of Medicine for Women 2 – era strano formulare il pensiero ad alta voce, ed era strano che il primo a sentirlo fosse lo zio – Ho pensato che intanto potrei informarmi. E magari, quando avrò l’età, iscrivermi.
Lo zio corrugò la fronte. Non era bravo a nascondere la sorpresa dietro una facciata d’indifferenza, come faceva con l’amarezza.
- Ho sentito parlare di quella scuola, e non è uno scherzo. Richiede impegno. Impegno, – si fermò e guardò l’interlocutrice in volto – E vocazione. Conduce a una strada che non tutti possono percorrere. So che secondo alcuni immergersi nel dolore altrui aiuta a dimenticare il proprio, ma non è vero. Non è assolutamente vero. Perciò, se tu volessi studiare Medicina per…
- Non lo faccio per dimenticare, – la replica arrivò dura e arrabbiata, senza incertezze – Io non voglio dimenticare. Quel che è stato, quel che ho avuto e perduto…  Intendo ricordarlo, mentre cerco qualcosa d’impossibile come la mia felicità. Intendo ricordarlo per sempre.
Sì, prima era stato nel giusto. La Regina che aveva dinanzi non era la ragazza che conosceva fino a un mese prima. Se Cora era pericolosa perché non aveva cuore, Regina lo era di più: perché un cuore lei lo aveva, e spezzato.
Regina, che non era sua.
Regina, col cuore spezzato e gli occhi sempre più simili a quelli di Cora.
Di chiunque fosse figlia, non avrebbe mai voluto soffrisse in quel modo, non avrebbe mai voluto sentirla parlare con un pessimismo che non prevedeva riscatto.
Le frasi rivoltale dalla volontaria erano state sincere, o solo un mezzo perché tornasse a sentirsi speciale? Non lo poteva sapere, ma la scelta che la Contessina paventava era rivoluzionaria.
Belle la sosterebbe…
Qualcosa in Gold avrebbe preferito che Regina proseguisse il suo vecchio cammino: forse meno emozionante, meno moderno, ma molto più sicuro. Non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se avesse tentato e fallito…
Ma finché la ragazza fosse vissuta nel passato, non avrebbe avuto futuro. Questa sua scelta, invece, denotava la volontà di andare avanti, di provare a concedersi una possibilità e rivendicare la propria autonomia; di dimostrare come lei fosse l’unica autrice del suo destino.
Forse non se ne rendeva conto, ma Regina stava lottando; e lottare non è questione di essere più forti, ma più intelligenti.
- Per quanto possa sembrarti incredibile, – le afferrò una mano in un gesto che non aveva previsto fino a quel momento – Se pensi che questa sia la tua strada, io sono con te. Io – la strinse più forte – Credo in te.
Sussultò ritrovandosi al collo una Regina in lacrime; sussultò, e rimase interdetto, incerto sul da farsi. Come avrebbe dovuto comportarsi con una ragazzina dal cuore spezzato?
Lui non era suo padre.
O forse sì.
In quel momento non gli importò: non gli importò del passato e del presente, della verità inconfessate e delle bugie ostentate, degli sbagli e dei tentativi di porvi rimedio. Regina forse non era una Gold e non lo sarebbe mai stata; ma non era la carne, né il sangue a rendere padri e figli. 3 Si era ritrovata da lui perché costretta; ma non era stata costretta a confidarsi con lui, ad aprirsi in quello che entrambi sapevano essere forse il momento più intimo che avrebbero mai condiviso.
Gold lo capì nell’istante in cui la ragazza affondò la testa nella sua spalla singhiozzando. Le carezzò esitante la schiena, ascoltandola piangere e non trovando il modo per confortarla. Non ne era in grado: lui era abituato a spezzare il cuore delle persone, non a ricomporlo; ma continuò ad abbracciarla e ad ascoltarla piangere, lasciandola sfogarsi anche quando arrivò Helena.
- Papà? – la bambina attirò la sua attenzione. Si avvicinò correndo ai due, un sorriso stampato in volto; un sorriso che si perse nel vuoto quando capì che Regina stava piangendo.
- Che hai? – le fece, tirandola per la vestaglia. La più grande la scostò, facendola arretrare spaventata.
Anziché arrabbiarsi, Gold sospirò.
- Che ha? – ripeté la piccola stavolta rivolgendosi al padre.
- Le manca una persona.
- Come a noi manca la mamma?
Gold serrò le palpebre.
Non ti urlerò più contro, non ti mentirò più, sarò l’uomo che meriti, Belle, lo prometto.
(Ma aveva promesso mille volte)
Ma tu torna da me.
(E mille volte aveva tradito.)
Gold annuì ed Helena sospirò.
- A tutti. A tutti noi ci manca qualcuno.
Quattro anni d’arcana saggezza.
Come Neal.
Quasi di scatto, anche la bambina abbracciò Regina, afferrandola per le gambe.
 
Rimasero così per lunghi istanti, in attesa di un sole che non accennava a sorgere.
 
 
 

Mani giunte,
tu sei qui con me
e abbraccio la vita

con te.
“Pugni chiusi” - I Ribelli

 
 
 
1: “Sono assordato dal rumore di tutte le parole che non stiamo pronunciando”, da “Alone on the water” di MadLory. È una delle più note fanfiction sul telefilm “Sherlock”: l’originale si trova su AO3 e fanfiction.net, la traduzione su EFP. Ve la straconsiglio, ma sappiate che è la quintessenza dell’angst;
2 La London School of Medicine for Women, fondata nel 1877, è stata la prima facoltà inglese di Medicina riservata alle donne, fino ad allora “ufficialmente” escluse dallo studio della disciplina – altre interessanti info in https://en.wikipedia.org/wiki/London_School_of_Medicine_for_Women e in https://historicengland.org.uk/research/inclusive-heritage/womens-history/women-and-healthcare/former-london-school-of-medicine-for-women/;
3: “Non è né la carne, né il sangue ma il cuore, che ci rende padri e figli”, di Johann Schiller.
 
 
 
N. d. A.: Hello, Dearies! ♥
Come state, cosa mi raccontate di bello? Emozionat* per questo primo aggiornamento infrasettimanale e con un giorno d'anticipo? Seh, come no. XD
Scherzi a parte, spero che il capitolo vi sia piaciuto, o che almeno non vi si dispiaciuto del tutto. Io ci ho messo del mio meglio e ci tengo molto, ma questo non deve intimidirvi: come sempre, fatemi cosa ne pensate e se necessario non lesinate critiche – le mie incertezze per l’OOC collettivo, ma specie per Gold, Rebecca “qui-più-terza-stagione-che-quinta” e Regina sul finale, si rinnovano di volta in volta.
Vi prego di non trucidarmi per la lite tra i RumBelle, anche se immagino questo sia un vano appello. XD Io avevo previsto di far fuori la tazza ben prima della divina 5x06, ma gli autori… Mi hanno preceduta! Avendo però mantenuto il silenzio stampa, anche questo tazzinicidio dovrebbe giungere inaspettato. Malgrado le apparenze giuro di non essere sadica: non perdete le speranze! :)
(Però aggiungo che per la tazzina la cosa è decisamente definitiva: in questa storia, ahinoi, non c’è ombra di magia o di SuperAttak.)
Regina si divide tra lo zio e Tink. Sta lentamente cercando di ricostruirsi la vita e ricominciare a far progetti, ma la cosa non è certo facile; spero solo di non averla snaturata col percorso che sto iniziando a delineare per lei. Anche Cora alterna la sua mai sopita grinta a timidissimi, impliciti ripensamenti. I complotti in libertà della Zelenyy, invece, sono un caso a parte… Tanto più ora che i rapporti con la Mills hanno subito un peggioramento.
Grazie di cuore a quant* leggono e/o recensiscono la long e/o l’aggiungono alle categorie: ormai ci avviciniamo alla fine, ma voi continuate a seguirmi, consigliarmi, supportarmi e sopportarmi sia qui che sulla pagina Facebook Euridice’s World – passate, please! ;) – come se fossimo ancora all’inizio, e questo mi emoziona davvero tanto. Love u so! ♥_♥
Il prossimo capitolo sarà quasi un dono di Babbo Natale: arriverà il 23 dicembre!
Bacioni, stelline! :) :***
Euridice100

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Capitolo 21
*** XX - Lonely day ***


 
 
 
XX - Lonely day
 
 
 
“Such a lonely day,
and it’s mine,
the most loneliest day
of my life.”
 
 
 
Contessina fuggita con fuorilegge?
SCANDALO NEL CUORE DI BELGRAVIA!
Non si hanno sue notizie da settimane!
 
Sovente si è indotti a credere che le belle ville di Belgravia siano popolate da famiglie integerrime, epitome di virtù e morale. Ma la quiete di stanze gentilizie può nascondere molti segreti…”
 

 
L’avrebbe ammazzata. Cora Mills l’avrebbe come minimo ammazzata e squartata, e poi ne avrebbe arso il cadavere e gettato le ceneri nel Tamigi, o l’avrebbe buttato nelle fogne. Non aveva ancora deciso, ma una cosa era certa: quello sarebbe stato l’ultimo giorno di vita di Rebecca Zelenyy.
Come aveva osato, la folle? Come aveva osato ritorcersi contro di lei, che l’aveva presa a benvolere, che l’aveva sostenuta nel suo assurdo piano di vendetta e le aveva dato di che vivere in quel di Londra? Dio, conosceva Rebecca e tutto si sarebbe aspettata da lei, tutto, ma non questo!
Quando quella mattina la Contessa si era svegliata, subito il suo proverbiale sesto senso l’aveva allertata: una sensazione strana, diversa da quelle provate fino ad allora ma altrettanto, se non addirittura più forte. Qualcosa l’aveva indotta ad alzarsi e prepararsi prima di scendere per la colazione, a vestirsi come se fosse dovuta uscire da un momento all’altro; lo stesso qualcosa che poi le aveva fatto aprire il giornale proprio a quella pagina e le aveva fatto leggere quel maledettissimo articolo che portava una firma inconfondibile.
R. Z., che tu possa bruciare all’inferno.
I riferimenti erano troppo palesi per passare in sordina. Quante Contessine quindicenni e brune,, studentesse al Cheltenham, orfane di padre e con una madre che aveva lavato via col successo la macchia delle sue origini vivevano a Belgravia? Chiunque vi avrebbe identificato le Mills, con tutto ciò che ne conseguiva.
Erano rovinate; peggio, Regina era rovinata, e per una ragione neanche corrispondente a verità. Sua figlia era da Rose Barrie, non era fuggita a Parigi con un bandito irlandese che l’aveva, per citare l’articolo, “irrimediabilmente compromessa”. Erano parole forti, che avrebbero riverberato la loro eco in eterno: se anche la ragazza fosse tornata subito a casa, ormai il danno era fatto e il mondo non l’avrebbe scordato. Non avrebbe mai debuttato, non sarebbe mai stata presentata a Corte; la sua nuova fama l’avrebbe seguita anche nel più sperduto villaggio di bifolchi.
Le speranze di un matrimonio altolocato, di un’ulteriore ascesa… Tutto era perduto, e non per colpa di un’adolescente viziata, ma di una pazza, una pazza che non aveva ancora capito con chi aveva a che fare.
Qualcosa in quella storia agitava i recessi più remoti di Cora. Regina aveva tradito tutti i suoi progetti, tutti i suoi sforzi, ma lei non l’avrebbe abbandonata, anzi: sarebbe stata proprio quella l’occasione in cui avrebbe mostrato la realtà alla figliola prodiga, attraverso cui l’avrebbe spinta di nuovo in casa, volente o nolente.
Cora avrebbe vendicato sua figlia, a qualunque costo. Avrebbe eliminato l’unica vera responsabile della rovina e si sarebbe liberata per sempre della sensazione di avere un cane rabbioso alle spalle; un cagnaccio che le succhiava energia, successo, vita, che si era voltato a mordere la mano della padrona e che meritava di essere abbattuto.
Rebecca Zelenyy l’avrebbe pagata, e cara.
 
 
 
Quando qualcuno bussò impetuoso, Rebecca Zelenyy sorrise. Conosceva perfettamente l’identità dell’ospite e si preparò ad accoglierla, complimentandosi con se stessa per aver mandato via la cameriera con una scusa. Meno testimoni ci fossero stati alla lite, meglio sarebbe stato per tutti.
- Carissima! – gli occhi le si spalancarono, fingendo piacere nel vederla – Cosa fai sulla porta? Entra, entra pure, sei sempre la benvenuta qui!
- Vorrei ben vedere, dal momento che sono io a pagare l’affitto, – Cora si precipitò dentro. Era livida di rabbia, ma s’impose una calma sovrannaturale: non avrebbe perso la pazienza in presenza della nemica – E dal momento che sono qui per cacciarti. Ora. Subito, – malgrado l’ordine, la sua voce risuonò carezzevole e misurata, poco più di un sussurro – Esci e vattene in America, o dove vuoi, non mi interessa. Non voglio più vederti in vita mia, – ripeté. Se avesse obbedito, la Zelenyy non avrebbe più messo piede in alcun posto – non da viva, almeno.
Rebecca trasalì, una perfetta pantomima di sconcerto.
La maestra sarebbe stata orgogliosa dell’allieva.
- Ma… Ma… Ma Cora! Cos’è successo? A giudicare dal tuo stato, si direbbe sei accorsa fin qui in gran fretta! – storse le labbra in un sorrisino sprezzante, riecheggiando le parole che le erano state rivolte pochi giorni prima – E solo le donnacce corrono per strada… Vero?
Cora si morse a sangue l’interno di una guancia. Poteva tollerare tutto, ma non che ci si facesse beffe di lei: lei era Cora Mills, la regina della vita mondana, colei al cui passaggio tante fronti altere s’inchinavano a far ala; una dei pochi al mondo ad avercela davvero fatta.
Una mentecatta non avrebbe mandato all’aria il suo impegno.
- Senti, ragazzina, – agguantò Rebecca per un braccio, incurante o forse desiderosa di farle male – Non so per quale motivo tu abbia deciso di prendertela con me. Anzi, – si corresse – Lo so: sei pazza. Ma se credi di poter infangare la casata Mills con le parole gettate a caso su un giornaletto, di poter spogliare me dei miei poteri, se credi anche solo lontanamente di avere la meglio, allora non tu hai capito niente dalla vita. Niente, – incalzò gelida – Se vuoi vivere, torna in America e non farti più vedere da me.
Cora aveva un talento naturale nell’interpretare l’offesa. Un tempo neanche tanto lontano, Rebecca ne sarebbe rimasta intimidita: avrebbe arretrato, chinato il capo come un timido topolino al cospetto di un gatto affamato; avrebbe chiesto scusa.
Ma ora aveva imparato a non chiedere scusa per desiderare, scusa per esistere.
Una smorfia di condiscendenza le sfiorò il volto.
- Sai, ho iniziato a trovare New York un po’ troppo chiassosa per i miei gusti. Qui, invece, – con la mano libera sfiorò quasi rapita il tavolo in mogano, le suppellettili pregiate che vi riposavano – Mi trovo bene. Anche se devo fronteggiare qualche fastidio, come gente che non vuole guardare in faccia la realtà…
- Oh, no, cara, – Cora le strinse il polso come se volesse stritolarglielo – Tra noi l’unica che non vuole aprire gli occhi sei tu. Io ti ho sostenuta nei tuoi propositi di vendetta perché erano i miei, ci siamo prese assieme la rivincita, ma tu mi hai ripagata tradendo me attraverso mia figlia – attraverso una ragazzina che neanche conosci.
- Non ho bisogno di conoscerla per capire che razza di persona è, – la giornalista sbuffò, liberandosi dalla presa – Una piccola ingrata, stupida e viziata... La sua fuga lo prova. Non è degna di te.
Cora alzò appena un angolo della bocca in un sorriso sarcastico.
- E invece tu lo sei, vero? – domandò, rapida e letale come solo certe cose richiedono – Tu sei degna di me, degna di successo, degna dell’uomo che tanto brami… Tu sei degna, il resto del mondo no. Una visione alquanto egocentrica, se permetti.
Rebecca si voltò di scatto, un pesante soprammobile in mano. Lottò per restare impassibile, consapevole dello sguardo beffardo della Contessa su di lei; ma ogni sforzo fu vano, e la sua corazza s’infranse lasciando trapelare il magma che le ribolliva dentro.
Un gusto di ferro le pervase la bocca. Lei non era egocentrica. Lei non pretendeva nulla in più di quanto meritasse. Lei aveva solo detto la verità, magari esagerando, ma col fine ultimo di dimostrare a Cora la sua fedeltà, di farle capire chi fosse la sua vera erede morale.
Se aveva peccato, aveva peccato d’ingenuità; ma non meritava sentirsi rivolgere simili accuse, no!
- Non ripeterlo più, – le soffiò contro come un gatto in trappola – Io ho solo fatto il mio lavoro, portare a galla la verità. I segreti, per quanto occultati, trovano sempre il modo di rivelarsi, e…
- Giusto, – Cora non le diede il tempo per proseguire – Se ci fosse un segreto. Ma qui non ne esiste alcuno, come ti ho ripetuto fin troppe volte. Ciò che hai scritto su mia figlia è un’invenzione, lo sai tu per prima.
- Io non so niente! – l’americana esclamò con voce stridula – Tu mi hai detto che si è allontanata da te, e io ho provveduto a informarmi. Circolano delle voci anche su di lei, e le voci hanno sempre, sempre un fondo di verità!
Ottimo. Ora la Zelenyy voleva ergersi a fustigatrice dei costumi, a umile esecutrice della volontà di Madama Verità? Poteva risparmiarsi simili proclami, o riservarli alla stampa scandalistica che tanto amava. Non un pettegolezzo circolava su Regina: al Cheltenham la credevano malata, e per la servitù la ragazza era ripartita per la scuola. Anche i suoi bauli erano spariti: attraverso i più fidi, Cora li aveva tutti inviati da Rose Barrie.
- Questa, allora, – la gentildonna agitò una mano schernendosi – È l’eccezione che conferma la regola. I piccoli inganni rendono tutto delizioso, certo, ma ciò che tu hai scritto non è un piccolo inganno.
- Se pensi che io ti debba qualcosa, che dovrei sdilinquirmi dalla gratitudine dopo le menzogne che mi hai raccontato, tu…
- Aspetta, lasciami indovinare, cara, – l’altra la precedette – Io non avrei capito niente di te, vero? Mi spiace smentirti, ma io ho capito tutto di te – gli occhi scurissimi lampeggiarono verso Rebecca – Ho capito che sei una persona invidiosa, che cerca di ritagliarsi uno spazio al mondo e accusa gli altri piuttosto che se stessa per i suoi fallimenti. Ti animi solo quando ricevi elogi e cerchi in ogni modo di conquistare l’approvazione, l’amore altrui senza capire che sono cose diverse e che l’amore, in fondo, non è che una parola – non si beve e non si mangia, – ribadì il suo atto di fede, il labbro che s’increspava in un sogghigno dinanzi a quelle due fessure di occhi azzurro gelo.
Cora non provava compassione per Rebecca vedendola in quelle condizioni. Perché se la contessa Mills non si lasciava impietosire da niente e nessuno, a maggior ragione non si sarebbe fatta toccare da chi aveva distrutto il futuro di sua figlia, della sua preziosa erede.
Non è finita, Regina, non è finita.
Appena si fosse sbarazzata della Zelenyy, avrebbe riportato la ragazza a casa. Questa volta non avrebbe cercato il dialogo: avrebbe messo da parte l’orgoglio e sarebbe ricorsa a qualsiasi mezzo, qualsiasi. L’avrebbe fatta rapire, se si fosse rivelato necessario.
Chiaramente all’inizio la sciocca si sarebbe dimostrata riottosa come un puledro che assaggia le briglie per la prima volta, ma lei avrebbe saputo domarla. Le avrebbe ricostruito la reputazione, smentendo coi fatti le parole; e non importava quanto tempo ci sarebbe voluto, lei ce l’avrebbe fatta.
Lei e la sua unica vera figlia ce l’avrebbero fatta.
Li distruggerò tutti, Regina.
Te lo prometto.
- Ebbene, mi duole ripetertelo, ma le forme d’amore cui tu ambisci sono oltre la tua portata, – sentenziò, deliziata dalle invettive che rintuzzava – Vuoi Gold, esserne la favorita, vederlo uggiolare ai tuoi piedi perché questo è ciò che lui farebbe e questo ciò che tu più desideri: sentirti potente su di una persona come gli altri sono stati potenti su di te. Bada, – la rassicurò in tono complice – Non c’è nulla di male: anch’io ho lottato per questo. Tu ti sei impegnata, hai fatto il possibile, ma ora devi guardare in faccia la realtà e capire che Gold non tornerà da te. Per Robert, tu sei colei che ha fatto sbandierare gli intrighi privati della sua donna: come potrebbe anche solo tollerare la tua presenza, ora?
- Ma credimi, – Cora continuò imperterrita – Se la tua sete si limitasse a questo, sarebbe poca cosa. I problemi sono sorti il giorno in cui hai conosciuto me, in cui ti ho messa al corrente del rapporto con Regina. A partire da quel momento si è fatto strada in te un altro desiderio, altrettanto profondo e altrettanto ridicolo. Io senza figlia, tu senza madre: una corrispondenza perfetta, a parer tuo. E allora, perché non ottenere anche il mio, di amore? Perché non provare anche a ricoprire questo ruolo, oltre che quello di amante di Gold?
- E anche qui, cara, mi duole smentirti. Come ho avuto modo di dirti nel nostro ultimo confronto, puoi guadagnare tutto, ma non i ruoli cui ambisci, e soprattutto non questo ruolo. Perché io – concluse guardandola negli occhi – Ho già una figlia.
Rebecca strinse spasmodicamente il soprammobile che aveva in mano.
Non era vero, le cose non stavano così. Lei non aveva bisogno di guadagnare alcun ruolo, perché aveva già ottenuto quello che desiderava. Lei era figlia di Cora Mills più di quanto Regina lo sarebbe mai stata; lei meritava di essere riconosciuta come tale. Cora la stava mettendo alla prova, e lei ci stava cascando in pieno come una stupida.
La testa le ronzava, un brusio sempre più insistente che la dominava
Le parole non riuscivano a essere esaustive, con tutto ciò che aveva in mente.
No, quella non era una prova. Aveva imparato a conoscere Cora, a leggerne le espressioni e interpretarne l’umore: la donna era seria, più di quanto lo fosse mai stata fino ad allora. Il suo tono era calmo, ma era rabbiosa, rabbiosa come la furia di un temporale. Non c’era compassione, né partecipazione nelle sue parole, solo un’arida constatazione.
Ancora una volta, hai fallito.
Bastò il pensiero a far deflagrare l’angoscia, la rabbia, la follia.
Rebecca si scagliò contro l’altra che, colta di sorpresa, tentò invano di schivarla.
Un unico colpo ben assestato, e Cora cadde senza un lamento, senza che un suono le abbandonasse le labbra.
- Quando si bluffa bisogna far paura, – la Zelenyy infierì rabbiosa – Far sentire che si ha qualcosa da perdere. Me l’hai insegnato tu. Ma io non ho niente da perdere – niente!
Si fermò appena, il fiato corto, le membra spossate come se avesse percorso miglia e miglia. Solo allora si rese conto di quanto aveva fatto.
Tremò dinanzi al corpo immobile della Contessa, ai suoi occhi aperti, ai capelli scuri sparsi a corona attorno alla testa insanguinata.
- No, – si sentì ripetere angosciata – No no no no, no
Ma oramai era troppo tardi.
La domestica sarebbe rientrata a breve, e dinanzi alla scena avrebbe capito ogni cosa. Non poteva restare lì, non poteva farsi sorprendere lì e farsi precludersi l’idea che già stava prendendo forma, ogni piano, progetto per il futuro da un banale incidente.
Aveva così tanto da fare… Così tanto…
Cora indossava una parure con un fermaglio di rubini. Rebecca la conosceva: l’aveva ammirata in più di un’occasione, e la nobildonna le aveva persino giurato che gliel’avrebbe donata volentieri – se solo non facesse a pugni col tu incarnato, cara, le aveva confidato con falso dispiacere.
Ora non ci sarebbe stato più bisogno di promesse, né di stupidi consigli. Come i serpenti cambiano pelle e rinascono, lei avrebbe cambiato vita; e i bei gioielli si sarebbero rivelati decisamente utili ai fini della sua vendetta. Sarebbe bastato trovare qualche banco dei pegni compiacente…
Strappò i monili dalla Mills, si calcò un cappello in testa e si diresse in fretta verso la porta.
C’era un’altra persona di cui occuparsi, ora.
Una persona cui avrebbe fatto molto, molto più male.
Si sarebbe portata il suo cuore nella tomba o all’Inferno.
 
 
 
Nella sua fuga, Rebecca Zelenyy non fece caso alla cameriera di ritorno dal mercato.
La serva, perplessa, pensò di essersi sbagliata: per quale ragione la sua padrona avrebbe dovuto correre come un’ossessa per le vie di Londra?
Ma quando la donna entrò in casa e si ritrovò davanti il cadavere di Cora Mills, si premette una mano sulla bocca per l’orrore e urlò.
Mentre la polizia era sul luogo, la notizia già si diffondeva, volando veloce da una casa signorile all’altra fino a raggiungere Kensington.
E ancora una volta, fu Mary Margaret a fungere da lugubre araldo, non per i suoi colleghi ma per Robert Gold stesso.
 
 
 
“Such a lonely day
should be banned.”
 
 
 
I granelli di polvere danzavano a centinaia nella lama di luce che tagliava lo spazio tra due casse. Helena provò a prenderli per una, due, tre volte prima di stancarsi e recitare una filastrocca. Non valeva affaticarsi inutilmente, se tanto non li avrebbe mai afferrati. Negli ultimi tempi quasi tutto l’annoiava in fretta; e se non l’annoiava, la faceva arrabbiare.
Anche quella mattina aveva chiesto alla mamma di andare a Kensington, e anche quella mattina mamma aveva risposto che di lì a qualche giorno ci sarebbe andata. Ma mamma aveva finto di non capire il reale significato della frase: perché Helena voleva sì andare da papà, ma andarci con Belle.
Così era iniziata l’ennesima giornata sotto il segno di quei sentimenti che la bambina non riusciva a capire – che la facevano sentire stanca anche se non era neanche mezzogiorno e nervosa, sempre nervosa.  Non faceva più i capricci, tranne rare eccezioni era sempre silenziosa e tranquilla, ma questo non significava stesse bene. Almeno questo la mamma l’aveva capito: la mattina la stringeva a sé e, tanto vicine da sembrare due rametti intrecciati, la esortava a confidarsi, le ribadiva che lei e papà l’amavano, che non era colpa sua e che col suo coraggio avrebbe superato questo momento, diventando persino più forte.
Ma Helena non si sentiva coraggiosa: aveva paura, e per lei questo escludeva il coraggio. Non voleva doversi scusare per questo, non se ne sentiva colpevole; però la mamma era una persona forte e lei non voleva essere da meno. Avrebbe fatto meglio, aveva infine deciso, a stare in silenzio, a non dire la verità e non rischiare di deluderla.
Almeno con papà non si ponevano simili problemi: lui non pronunciava mai frasi del genere, che per Helena avevano ormai il sapore di una bugia.
Papà non parlava molto, e per entrambi era meglio così.
All’improvviso, qualcuno bussò.
Helena sollevò la testa di scatto. Aveva sentito bene? Tese l’orecchio: dopo pochi istanti, i colpi si ripeterono con maggior vigore.
La bambina guardò la porta del cortile, incerta sul da farsi. Tutti le proibivano di aprirla da sola: i pericoli erano infiniti, le dicevano, e negli ultimi tempi i moniti erano divenuti persino più frequenti – da quando avevano iniziato a mandarla sola da papà, non mancò di riflettere amara.
- Non tutte le persone sono buone, amore mio, – mamma la metteva sempre in guardia – C’è chi ci ha fatto del male, e ce ne farebbe ancora. Stai attenta.
Mamma avrebbe voluto che avvisasse lei, Ruby o chiunque altro perché fossero loro ad accogliere l’ospite.
Helena fece per obbedire e tornare nel locale, ma qualcosa la trattenne.
La mamma e gli altri l’amavano e volevano solo proteggerla. Ma non era stata proprio una situazione simile a permetterle di chiacchierare con papà per la prima volta dopo l’incidente? Anche allora avrebbe dovuto chiamare subito Belle, ma non facendolo aveva potuto parlare in santa pace con papà fino all’arrivo di Anna.
Magari sarebbe successo di nuovo: magari a bussare era proprio papà, e aprendo lei avrebbe rivisto il suo sorriso speciale, quello che dedicava solo a lei e a mamma e che la scaldava dentro, facendola sentire protetta come quando si accoccolava sotto le coperte con Regina. Magari anche stavolta papà sarebbe andato via con mamma; ma stavolta sarebbero tornati insieme e felici, e le avrebbero detto di aver fatto pace grazie a lei. Grazie a lei sarebbero tornati tutti e tre a Kensington e avrebbero ricominciato a vivere come avevano fatto durante quella bellissima estate… E tutto per merito suo!
Il solo pensiero le faceva girare la testa dall’emozione.
In punta di piedi, si diresse verso la porta che comunicava col locale per chiuderla. Per fortuna, in sala regnava la confusione: Ruby non poté accorgersi di nulla, impegnata com’era a servire gli avventori da sola.
La bimba corse verso l’uscio pregando perché papà non se ne fosse andato e, trattenendo il respiro, spalancò la porticina.
A ricambiare la sua occhiata speranzosa però non fu papà, ma una donna.
Una donna che Helena non aveva mai visto prima.
 
 
 
- Ciao! – dopo qualche istante di silenzio, la sconosciuta la salutò gioviale.
La piccola arretrò d’istinto, intimidita. La donna aveva capelli rossi che spuntavano da un cappellino scuro, un vestito dello stesso colore e una mantella verde bellissima, identica a quella che aveva visto una volta su un giornale di Ruby e che le era piaciuta un sacco. La signora la fissava in un modo strano: pareva la stesse studiando coi suoi vigili occhi azzurri. Anche la mamma li aveva dello stesso colore, ma più belli: avevano un’espressione diversa, più gentile di quelli della sconosciuta, che invece quasi la inquietavano facendole desiderare di correre in casa.
Ma ormai non poteva più farlo: non era educato lasciar sola un’ospite, vero? E poi, se si era presentata sul retro della locanda, protetto da alte mura e ignorato dai più, doveva per forza essere una conoscente della mamma o delle altre. Non aveva senso temerla.
- Ciao, – replicò, assumendo un atteggiamento più sicuro.
Un sorriso involontario, irrazionale si disegnò sul volto di Rebecca mentre un brivido d’eccitazione le correva lungo la schiena. E quindi eccola, la prole miserabile di Gold: una bamboccia di pochi anni, coi capelli aggrovigliati sulla testa e la vestina rossa, che canterellava stupide filastrocche sdegnando i tanti giochi che la circondavano e per i quali lei alla sua età avrebbe fatto di tutto.
Così piccola e già così viziata…
Ma la musica sarebbe presto cambiata, per lei e per tutti.
La donna rimase colpita dall’aria strafottente con cui la bambina rispose al saluto. Era uno scriccioletto, ma così diversa dalle creaturine timide e pavide che scorgeva al seguito delle signore americane. C’era qualcosa di potente in lei, come la calma che precede la tempesta, e che già aveva distrutto tutto ciò per cui lei aveva duramente lavorato.
Quel vestitino era l’unica nota di colore vista da quando aveva messo piede a Whitechapel: tutto era così grigio, sporco e confuso. Com’era possibile che Gold facesse vivere tra vapori di cucina, urla e bestemmie chi reputava – era difficile crederci – sua moglie e sua erede? Era un’ulteriore prova della follia dell’industriale: se l’uomo che lei conosceva si fosse davvero curato di qualcuno, non gli avrebbe mai permesso di sprecare l’esistenza in una casa tanto nera e fatiscente.
- Cosa stavi cantando? – la sconosciuta domandò, un largo sorriso sempre stampato sul viso.
- Una filastrocca. Una filastrocca sugli animali, – Helena increspò le labbra e soffiò verso l’alto, facendo volare le ciocche ribelli dalla fronte.
- Ah, sì? – malgrado i gesti, la bambina si mostrava reticente. Era normale, si rassicurò Rebecca: era pur sempre la prima volta che la incontrava. Doveva trovare il modo per conquistarne la fiducia in fretta, se voleva riuscire nell’intento – E quale? – aggiunse interessata – Ce ne sono tante sugli animali. Ma le mie preferite sono altre, quelle sulle stagioni. Tu ne conosci qualcuna?
Helena si ritrovò costretta a scuotere il capo. No: conosceva filastrocche sugli animali, sul Natale, una addirittura sui numeri fino a cinque, ma nessuna sulle stagioni. Esitò appena nell’ammettere la sua ignoranza, quasi temesse un rimprovero. 
- Allora te le insegnerò io! – la sconosciuta rise, ma non c’era presa in giro nel suo tono. Tutto a un tratto Helena si sentì molto più al sicuro, malgrado non avesse mai parlato con l’interlocutrice dallo sguardo strano – Ne conosco tantissime sulle stagioni, sui giorni della settimana e sulle feste! Basterà che tu le chieda e io le reciterò, Helena!
Rebecca represse una smorfia dinanzi all’occhiata della bambina. L’ascendenza materna le aveva assicurato la dabbenaggine. Com’era il proverbio? La curiosità uccise il gatto? La veridicità del detto sarebbe stata dimostrata presto.
- Come fai a sapere come mi chiamo?
- Ops! – la Zelenyy si portò una mano alla bocca – Questo sarebbe dovuto rimanere un segreto fino all’ultimo… Ma io con certe cose proprio non ci so fare! – chinò il capo dispiaciuta prima di riprendere – In realtà io ti conosco. Ti conosco da molto, moltissimo tempo… Da quando eri piccola piccola!
- Davvero?
Dio, perché tutto questo stupido entusiasmo, ora?
- Certo! Belle non ti ha mai raccontato di me?
- No, – la bambina si strinse nelle spalle – Non so chi sei.
La giornalista finse esagerato rammarico.
- Questo non me lo sarei mai aspettata, – sospirò – Non incontro tua madre da anni, ma pensavo che ti avesse parlato di me… Fa niente, – dopo un brevissimo silenzio, continuò allegra – Possiamo rimediare. Io mi chiamo Rebecca, ma tu puoi chiamarmi zia Rebecca, a patto che non lo dica a nessuno. È un segreto da grandi!
La piccola s’impettì fiera, conquistata dall’essere considerata degna di una cosa da adulti. E così quella era tutto fuorché una sconosciuta! Chissà come mai la mamma non l’aveva mai nominata… Sperava andasse d’accordo almeno con la donna: sembrava così simpatica, pur nella sua particolarità!
- Va bene! – promise con una risata furba, impertinente – Va bene, zia!
Le saltò al collo, abbracciandola e lasciandola interdetta. Si rese subito conto dell’eccessiva intimità del gesto e della reazione dell’altra, ma non si scusò: Rebecca non era una vera sconosciuta, giusto? Tuttavia, come per farsi perdonare, le dedicò un sorriso birichino e le propose: – Giochiamo assieme?
Un esserino subdolo, ecco cos’era la mocciosa. Cosa credeva di guadagnare stringendo al petto una completa estranea? E possibile che si fosse lasciata ammansire da sole due moine? Cora descriveva la French come la più furba tra i furbi, ma a lei pareva più che altro un’idiota; e il giudizio valeva anche per la figlia.
Chiunque avesse ragione, la bastarda somigliava alla madre. Piccola, arruffata e dinamica, possedeva già la stessa deliziosa malia che faceva perdere il senno agli sprovveduti. Per quanto Gold potesse infiocchettarla, era figlia del popolo: lo testimoniavano le guance rosee, la risata franca, la scalmanata voglia di giocare con cui provava a coinvolgerla.
Era come la madre, ma con i grandi occhi imploranti di quel cane del padre. Aveva gli occhi di Gold, ma non la stessa espressione: lo sguardo della bambina raccontava ancora di pochi anni d’esistenza e di troppa, troppa fiducia nel mondo.
Con un passerottino del genere, bastava davvero poco.
Rebecca era stata abbastanza alle sue condizioni. Era il momento di procedere.
-  Cosa mi racconti del tuo papà? – domandò, incuriosita dal brusco cambio d’espressione della bimba.
Helena chinò il mento. Non sapeva se essere sincera: mamma non le aveva dato consigli in merito, ma l’ultima volta che aveva spiegato la situazione a qualcuno, aveva finito per farci a botte. Le sarebbe dispiaciuto litigare di già con la signora.
Alla fine, tuttavia, scelse di confidarsi.
- Non viviamo più insieme come prima, – bofonchiò imbronciata.
- Ah, sì? E come mai?
Helena spiò l’interlocutrice nel timore che iniziasse a sbeffeggiarla come il bambino dell’orfanotrofio. Ma la donna continuava a fissarla tranquilla, anzi, quasi addolorata dalla notizia, e lei trattenne un sospiro di sollievo.
- Mamma dice che non siamo più felici insieme, ma non è vero. Io sono felice, al Castello, e lo è anche lei quando sta con papà. E da sola è triste, proprio come me.
Udendo quelle stupidaggini, la Zelenyy si vietò di sollevare un sopracciglio e sbraitare oscenità. La pedine che il destino le aveva riservato era una marmocchia già rovinata da assurde romanticherie. Non avrebbe resistito a lungo, sola nelle strade di New York…
- Voi due mancate molto anche a Robert.
Helena alzò la testa di scatto, stupore compiaciuto sul volto tondo.
 - Conosci il mio papà?
- Certo! Io, lui e tua mamma siamo amici da quando eri piccolissima, ti ho detto! E so anche dove abita: in una bellissima villa a Kensington!
- Già! – la bambina fece eco entusiasta – Ma non è una villa… È un Castello!
- Giusto!  – le diede corda nella smania di sbrigarsi – Ma sai perché sono qui? – Helena scosse il capo – È stato tuo papà a mandarmi in missione. Una missione segretissima, dedicata solo a te.
- A me?
- Esatto – Rebecca annuì solenne – Come ho detto, a Robert manchi così tanto che la notte non riesce nemmeno a dormire… Dovresti vederlo, poverino: ieri cascava dal sonno e si è addormentato mentre lavorava! Te lo immagini? – la donna ridacchiò, ma Helena non la imitò. Le dispiaceva pensare a papà tanto triste anche a causa sua.
Conscia dello scarso successo, la donna cambiò tattica e andò al punto.
- Per questo, – riprese seria – Mi ha mandata qui. Ha detto che se vuoi rivederlo, ti basterà seguirmi. Ti accompagnerò io da lui, – la giornalista sorrise ammiccante, complice.
La piccola sgranò gli occhi sorpresa.
- Ma perché stavolta non è venuto lui?
Rebecca non capì.
- Come, prego?
- Nella carrozza che viene qui c’è sempre papà!
La donna annuì più volte.
- Hai ragione. Mi sono dimenticata di dirti che papà si scusa se oggi non è venuto di persona, ma ha avuto un problema con dei documenti. Perché, sai, voi due non starete a Kensington, ma… – la bambina stava col fiato sospeso – Partirete! Farete un bel viaggetto, voi due da soli! E ha inviato me proprio per non farti attendere, – raffazzonò la scusa, ammantandola di tutta la sicurezza che aveva in corpo. Sarebbe dovuta essere più che sufficiente per una ragazzina tonta… Decise di non sprecare ulteriore tempo – Allora, Helena, che facciamo? Andiamo da papà?
La domanda era inutile: certo che Helena voleva andare da papà, figurarsi viaggiare con lui! Batté le mani elettrizzata.
- Lo dico alla mamma e torno!
No, scimmietta, tu non dirai niente a nessuno.
- Oh, no, Helena! – la giornalista la bloccò – Non ce n’è bisogno. Belle sa tutto: Robert l’ha avvisata ieri e l’ha pregata di non svelarti niente. Questa doveva essere una sorpresa per te, ma – la lusingò – Intelligente come sei, hai subito scoperto tutto. Tu e papà partirete oggi stesso, trascorrete tanti giorni insieme in… In Scozia, e soprattutto, cosa più importante… La mamma vi raggiungerà presto!
La bimba fissò la donna, a metà tra l’allibito e l’accigliato. Possibile? Possibile che le cose stessero davvero così, che mamma li avrebbe raggiunti? Appena pochi giorni prima Helena aveva udito Belle affermare di non voler più avere a che fare con Gold, nemmeno da lontano. Di sicuro aveva esagerato, perché era mamma stessa a ripetere che comunque per la loro bambina lei e papà ci sarebbero sempre stati, qualunque cosa fosse successa; e forse si era già resa conto della cosa bruttissima che aveva detto e se ne era pentita…
L’idea del viaggio la esaltava: non aveva mai lasciato Londra! Il posto più distante in cui aveva messo piede era un luogo in cui ogni tanto andava con mamma perché, anche se non si vedeva, c’era un’amica che portava il suo stesso strano nome, Ariel; la Scozia le appariva un posto remotissimo, lontano come la Luna. Però moriva dalla voglia di visitarla, soprattutto a causa dei racconti di papà: era lì che lui era nato e vissuto per tanti anni, e una volta le aveva detto che a fine marzo l’avrebbe sicuramente portata per farle conoscere un bambino molto importante. Non era ancora marzo, ma papà aveva deciso di tener fede alla parola data; e questo la rendeva felicissima.
Però una cosa non cambiava: doveva salutare mamma prima di andar via. Belle li avrebbe raggiunti presto, ma alla piccola sarebbe mancata fossero state distanti anche solo tre giorni. Lo disse alla nuova amica, che annuì appena.
- Ti capisco, – disse con tenerezza mista a una tristezza che Helena non capì – Al tuo posto anch’io vorrei salutare mia madre… Però faremmo tardi per l’appuntamento con papà, e non vedendoci lui potrebbe pensare che non vuoi incontrarlo più. Gli daresti un gran dispiacere, sai?
Helena si ritrasse come colpita.
Lei non voleva dare un dispiacere a papà. Voleva che fosse felice, che ridesse, che la coccolasse. Causargli ulteriore dolore era un pensiero insopportabile.
Ma l’idea di non salutare mamma la rattristava altrettanto…
Come potevano chiederle di compiere una scelta simile?
- Helena, – la ridestò Rebecca – Dovremmo andare.
La zia aveva una voce dolce, allettante. La bambina lanciò uno sguardo furtivo alla porta.
- La mamma viene davvero tra pochi giorni?
- Tra pochissimi giorni. Te lo prometto.
Forse era l’occasione per dimostrare a Belle il suo coraggio. Le bimbe grandi non frignano perché lontane dai genitori: li aspettano pazienti e festeggiano il loro arrivo. Cos’avrebbe dovuto temere, poi? Sarebbe stata con papà, e lui non avrebbe mai permesso le succedesse qualcosa.
Non doveva aver paura; non poteva permetterselo.
Guardò un’ultima volta la locanda prima di tendere una mano alla donna.
- Andiamo? – fece.
Rebecca sorrise.
 
 
 
“It’s a day
that I can’t stand.”


 
Menomale che c’è Killian.
Sebbene tutti i dipendenti di Kensington andassero a trovarla, il valletto era la presenza più costante: chiunque si recava a Whitechapel, fosse stato Mary Margaret, Emma, Archie o un altro, portava con sé l’irlandese dal sorriso furbo e dagli occhi vivaci.
Quando aveva scoperto il patto propostogli da Cora e il suo silenzio, Belle l’avrebbe ucciso. Per il periodo seguente, malgrado gli sforzi i rapporti tra i due erano stati timidi, quasi esitanti; come se quella macchia, quel tradimento tanto possibile quanto sfumato continuasse a riverberare la sua ombra cupa su un’amicizia che aveva saputo splendere luminosa.
Poi pian piano le cose erano migliorate, anche grazie a Helena che proprio non riusciva a stare senza gli scherzi del suo prediletto; e, paradossalmente, da quando Belle aveva lasciato Kensington, i rapporti col domestico erano tornati quelli di un tempo.
In realtà la donna non sapeva se fosse corretto dire “paradossalmente”: stante l’antipatia che legava servo e padrone, era probabile che il primo gioisse per la caduta del secondo; ma lei preferiva aver fede in Jones e sperare che il recuperato rapporto dipendesse da cause aliene a inspiegabili inimicizie decennali. Sebbene le cose fossero andate nel peggiore dei modi, Belle non poteva negare la portata dei sentimenti che ancora albergavano nel suo cuore – che sempre avrebbero albergato nel suo cuore – e mai avrebbe parteggiato per chi esultava per le disgrazie di Robert.
Questo era poco, ma sicuro.
Killian andava a trovarla spesso, portando con sé il calore e la complicità che contraddistinguevano l’altra famiglia di Belle; tra loro non esistevano riserve, e di questo non poteva che essergli grata. Mentre gli altri tentennavano nel nominare il datore di lavoro, quasi temendo di ritrovarsi a dover asciugare infinite lacrime d’amor perduto, il valletto non perdeva tempo: quando ne era il caso, citava il Coccodrillo per soprannome o per nome e cognome.
Sembrava nulla, ma per Belle era importante: era importante non essere compianta, e soprattutto era importante non considerare quel nome un tabù. Voleva pronunciarlo provando sì una fitta sotto le costole – la fitta che oramai aveva imparato ad associare a lui –, ma senza crollare. In fondo, era o no una persona matura? Ne aveva passate tante nella vita, non poteva lasciarsi abbattere da una relazione finita male.
Anche se non lo vedeva da quella maledetta mattina
Belle si era resa conto di quanto fatto nell’istante in cui Robert aveva lasciato la locanda con Helena. Lo sguardo le era scivolato sui cocci che brillavano allegri alla luce del sole, e per un istante non aveva capito: cos’aveva combinato? Nella sua sbadataggine aveva distrutto l’ennesima stoviglia?
Quando aveva realizzato, era stato come se le avessero strappato di colpo la pelle.
La tazzina era stata il simbolo della loro relazione: una relazione scheggiata, una relazione che faceva male.
Che aveva fatto male fino all’ultimo.
L’aveva distrutta perché rappresentava un amore ormai morto; ma lui aveva custodito quel simulacro per anni, come e più di una reliquia, perché – gliel’aveva ripetuto così tante volte – unica prova della sua esistenza quando null’altro illuminava le sue notti.
Romperla significava rompere la speranza.
Ma non c’è più speranza per noi, capisci?
Vero, non sarebbero mai più tornati insieme – un’altra scossa al cuore –, ma questo le dava forse il diritto di distruggere il simbolo di un passato incancellabile?
Le parole che lui le aveva rivolto l’avevano ferita tanto…
Io ho lottato per te. Non può essere vero.
Ti ho dato me stessa mentre mi ringraziavi per averti fatto tornare alla parte migliore di te.
Ma se quelle accuse fossero sincere o solo frutto della rabbia, ormai non aveva più importanza. Non doveva averne più.
Negli ultimi tempi Belle aveva trascurato fin troppo Helena. Dopo il polverone sollevato dai cronisti, per paura di ripercussioni l’aveva costretta a un solitario andirivieni dal West End, finendo per destabilizzarla molto più che in passato. Il comportamento della bambina lo testimoniava: non era mai stata così chiusa, ombrosa e taciturna. Belle quasi la preferiva nei primissimi tempi dopo la separazione, quando si aggirava rabbiosa e la guardava con un’espressione severa, ostile, come se fosse stata un’impostora: il silenzio che la piccola aveva assunto come arma, e che alle volte niente e nessuno riusciva a scalfire, la terrorizzava. Un’altra persona che entrambe ben conoscevano non parlava mai dei suoi problemi, restandone soffocato.
Anche quella mattina Helena si era nascosta dietro il suo scudo: aveva sospirato di voler tornare dal padre con Belle e non era rimasta in cucina con la madre e Killian, preferendo starsene nel patio con le mille carabattole che portava sempre con sé. Simili atteggiamenti non erano nella sua indole.
Ma dopo settimane di fuoco, almeno sul fronte giornalisti la situazione stava migliorando. In assenza di novità l’attenzione mediatica era pian piano scemata, e Belle poteva finalmente iniziare ad accantonare qualche timore. Se cinque anni prima avrebbe voluto erigere una statua alle Lucas, a Graham e agli altri per l’accoglienza riservatale, ora una città d’oro sarebbe stata ancora poco per dimostrare la sua gratitudine: anche loro erano stati trascinati, sia pure indirettamente, sui rotocalchi subendone tutte le conseguenze, eppure non una critica, non un commento malevolo aveva abbandonato le loro labbra; e anzi, quando si era scoperto che l’autore del primo articolo era il figlio di Marco, il falegname in persona si era presentato in lacrime alla locanda, implorando perdono per il fango gettato addosso a Belle.
(La diretta interessata aveva affermato che l’uomo non doveva pagare le colpe altrui; una Granny non dello stesso avviso aveva tuttavia bandito l’italiano dalla locanda, con gran rammarico di Belle e Ruby.
La fine della sua storia con Gold, aveva riflettuto la French, pareva avere un effetto a catena su altre relazioni, vere o immaginarie che fossero. Ma per fortuna, almeno le cose tra Ruby e il suo dottorino andavano piuttosto bene.)
Con ogni probabilità l’artigiano era davvero stato all’oscuro delle trame del figlio, ma per questi non c’erano scusanti. L’articolo aveva descritto Belle come un’arrampicatrice sociale disposta a tutto pur di raggiungere i piani alti della società; l’essere rimasta incinta fuori dal matrimonio era stato strumentalizzato a dismisura e utilizzato per definirla, con accurate perifrasi che però non occultavano il concetto, una donnaccia.
Perché naturalmente la colpa è solo della donna…
Perché August non l’aveva intervistata, perché non le aveva permesso di dire la sua? Sarebbe bastata una sola domanda e lei avrebbe fornito la sua versione. Sì, immaginava che il desiderio di accaparrarsi l’esclusiva inducesse a sacrificare l’obiettività, ma se questo avesse portato a distruggere la reputazione di una persona sarebbe stato il caso di fermarsi a riflettere; o almeno, lei si sarebbe fermata a riflettere.
Ma ormai dovresti aver imparato che al mondo gli scrupoli te li fai solo tu.
- Love, sei dei nostri?
Belle si riscosse. Aveva completamente perso il filo del discorso di Killian: le stava raccontando di Emma, e poi? Maledizione, doveva smetterla di estraniarsi: per quanto desiderasse chiudersi in un cantuccio coi libri, fedeli compagni che da sempre zittivano i brutti pensieri, con tante adempienze e un amico in visita non poteva perdersi in un mondo di magia per sfuggire al caos della realtà.
- Perdonami, – ammise – Pensavo ad altro, – poi, prima ancora di potersi frenare, chiese – Lui… Lui come sta?
Se ne pentì in quello stesso istante. Era forse ammattita? Perché informarsi quando lui sembrava di nuovo non provare alcun interesse?
Robert si era forse presentato una seconda volta, aveva forse posto domande, aveva provato a lottare per convincerla a tornare?
No, anzi; e per questo lei avrebbe fatto bene a non curarsene e proseguire per la propria strada.
Dillo al cuore.
Per quanto si sforzasse, non riusciva ad andare oltre: non sapeva se fosse a causa della figlia, o se anche in sua assenza una parte di lei l’avrebbe sempre amato. Forse, semplicemente, per lei era impossibile andare oltre il suo primo e unico grande amore, anche se aveva tradito la sua fiducia troppe volte, anche se le aveva spezzato il cuore troppe volte.
Killian si conficcò le unghie nel palmo di una mano.
Ogni tentativo di Belle di nascondere il suo stato era vano: silenziosa e mesta, il volto pallido dall’espressione malinconica, gli zigomi affilati come lame… Anche un cieco avrebbe visto che stava soffrendo e che – cosa peggiore – era innamorata di chi le causava quel dolore.
Belle era l’ultima persona al mondo a meritarlo, eppure si ritrovava sempre nelle condizioni peggiori. Le voleva bene, Killian, malgrado fosse stato tentato dalle proposte della Mills: anche quando era tornata a Kensington non si era data le arie da gran signora che pure le sarebbero spettate. Avrebbe potuto non muovere un dito, e invece aveva spazzato e riassettato, dividendo le incombenze un po’ con tutti. Ma soprattutto, quando c’era stata, aveva saputo aiutarlo nel momento del bisogno anche con Emma.
No, decisamente: Belle non meritava ulteriore sofferenza, non meritava di guardarlo con quegli occhi imploranti.
Ma imploranti cosa?
La verità?
La bugia?
Per un istante Killian Jones si chiese se non fosse il caso di mentire. L’avrebbe fatto a fin di bene: se avesse detto che Gold era andato avanti, che trattava la figlia come una regina ma ne aveva scordato la madre, forse anche Belle avrebbe saputo fare lo stesso. Un giorno avrebbe ricominciato a regalare sorrisi autentici e le ombre attorno agli occhi sarebbero schiarite fino a sparire. Magari avrebbe persino iniziato a guardarsi attorno, a cercare qualcuno che non le sfregiasse l’anima con una frequenza impressionante. Forse, come aveva scherzato in passato, Killian avrebbe davvero dovuto presentarle Liam alla prima occasione disponibile…
Forse.
O forse no.
- Love, – esordì a bassa voce – Per quanto sia un gran bastardo, Gold ti ama veramente.
Belle si morse il labbro inferiore. Immaginava la risposta, ma non era sicura di volerla ricevere. Ma la verità non poteva che essere quella: ricordava così bene il modo in cui Robert aveva fissato la tazzina in frantumi. Risaliva a poco più di un mese prima...
Le parole di Killian erano sale su ferite sanguinanti. In una frase c’erano troppi sottintesi, troppa verità. Forse sarebbe stato meglio il silenzio; ma anche quello, rifletté, sarebbe stato eloquente.
- E ora è uscito dalla mia vita. Io, – ricacciò in gola le lacrime che iniziavano a premere – Io spero solo che riesca a trovare qualsiasi cosa stia cercando. Quel che io non riesco a dargli.
- Tu gli hai dato tutto. Hai fatto l’impossibile, ma Gold è… Irrecuperabile. Non esiste altro modo per definirlo. Ha avuto la seconda opportunità che non a tutti è concessa e l’ha sprecata così. Ha voluto sprecarla così. Per un essere simile non può esserci perdono, né comprensione.
- Sai qual è la cosa peggiore? Quando guardo Helena non riesco a non vedere anche lui. Succede da sempre, per cinque anni alla nostra immagine è sempre mancato un pezzo, ma ora le cose stanno diversamente, – Belle si fermò, alla ricerca delle parole per esprimere il concetto – In passato non sapevo come potessimo essere noi tre assieme, non esisteva un ricordo cui rifarmi. Per questo, penso, per quanto intensa quella sensazione era più lieve, come una percezione. Ma ora che ho vissuto la realtà… Killian, – confessò con dolorosa lucidità – Ora io temo di non riuscire più a guardare negli occhi mia figlia senza rivedere la vita che ho scelto di non vivere.
L’uomo spalancò gli occhi, non certo d’aver capito.
- Sei pentita di essertene andata?
- No, – la risposta non tardò a giungere – Se fossi rimasta, la situazione sarebbe divenuta ingestibile. Non voglio che Helena veda i suoi genitori come estranei che vivono sotto lo stesso tetto e che sfruttano ogni pretesto per litigare, ma è proprio ciò che sarebbe successo se non me ne fossi andata. Io non so stare nella stessa stanza con Gold e ignorarlo. Forse un giorno ci riuscirò, ma ora… Ora non posso farcela, – mentì sapendo di farlo. Lei e Robert non sarebbero mai, in nessun luogo, in nessun tempo stati indifferenti l’un per l’altra: erano arrivati a odiarsi, pur di non restarsi indifferenti. Anche se avessero vissuto un’altra vita, un semplice sguardo avrebbe fatto ripartire quel carosello di odio e amore che li legava.
- Potrei anche impegnarmi e provarci. Ci ho pensato, sai? “Per la bambina”, “è importante veda i genitori assieme” e cose simili. Magari, mi sono detta, magari per nostra figlia potremmo mettere da parte i rancori e comportarci da persone mature. Ma sarebbe ipocrisia, prima o poi Helena lo capirebbe. E lei non merita una bugia... Il vero problema, – sospirò – È che un figlio non basta a fare da colla tra due persone. Se non c’è la fiducia, se non c’è l’onestà, un figlio non risolve nulla. Sono le persone a doversi impegnare, a dover mettersi in discussione per fare funzionare un amore, e se non lo fanno… – Belle fece un cenno con una mano – Eccoci qua.
- A me dispiace vederti così. Fa arrabbiare me e gli altri. Emma è furiosa: non capisce come tu possa ancora essere così legata al Coccodrillo dopo tutto quel che ha combinato. Dice che se capitasse a lei qualcosa di simile, nessuno mi salverebbe da un calcio in cu...
- Dì a Emma che non è così. Che se le capitasse, fino alla botta non si accorgerebbe del calcio che arriva a lei. I segnali ti circondano, li noti, ma non li vuoi vedere. Solo dopo capisci, e ancora sei così confusa, tramortita, sconvolta da rifiutare. E quanto al legame… Lasciarsi e dimenticare sono cose diverse, e non so se io ce la farò mai. Certi sentimenti si provano solo una volta nella vita, e quando succede sai che saranno per sempre. A volte s’impongono, anche a costo di aspettare anni per trovare il momento giusto, ma altre… – alzò le spalle come rassegnata – Per noi non è mai il momento giusto.
- No, – Jones ribatté all’istante – Sicuramente te l’avranno ripetuto sino allo sfinimento e ti sembreranno solo parole, ma Love, ci conosciamo da secoli, perciò fidati del parere del buon vecchio Killian: pian piano migliorerà. Adesso sembra impossibile, ma un giorno ti guarderai indietro e capirai che la tua forza nasce anche da questo; ma se tu smetti di combattere, vuol dire che è davvero la fine, – il valletto rimarcò la sicurezza nel tono della voce – Il Coccodrillo non può avere questo potere su di te, non lo accetto. Non accetto che tu, tu che mi hai sempre ripetuto di non mandare al diavolo Emma, ti arrenda. No, è diverso: dimmi quello che vuoi, ma io non te lo permetto. Noi non te lo permettiamo.
Belle ringraziò l’amico e sorrise, più per premiarne gli sforzi che per sincera convinzione. Forse quel che aveva detto era vero: forse il tempo avrebbe attenuato i contrasti. Belle avrebbe voluto crederci. Ma il caos non si dimentica così facilmente…
Come intuendo i suoi pensieri, l’uomo cambiò discorso.
- Cosa combina la bimba?
- Sta vivendo malissimo tutto questo. Alle volte quasi non la riconosco, tanto è diventata irascibile e cupa: non è la stessa Helena solare che qualche mese ti ha rivelato l’identità di suo padre.
- È normale, Belle, – l’altro tornò a rincuorarla – Ha realizzato, ma è troppo piccola per capire. Solo standole vicini la situazione rientrerà. Ci vuole pazienza – te lo assicura uno che nell’arco di una notte si è ritrovato solo al mondo con un fratello di pochi anni più grande, – il domestico s’incupì per un istante, come sempre quando menzionava la sua infanzia – Ora però basta parlare, mettiamoci all’opera: andiamo a trovare la mia più grande ammiratrice? Onestamente, tua figlia è un’intenditrice… Per fortuna non ha ereditato il tuo pessimo gusto in fatto di uomini…
- Infatti ne ha maturato uno peggiore, – ghignò prima di tornar seria – Con Granny a parlare coi fornitori, non dovrei lasciare la cucina… Ma per un minuto non succederà nulla. Vai ad avvisare Ruby, per favore?
Il valletto obbedì. A causa dello scandalo, gli affari avevano subito un’impennata: parecchia gente, anche e soprattutto dei quartieri alti, si recava a Whitechapel nella speranza di avvistare le protagoniste dello scandalo di fine Stagione. Proprio per evitare l’esposizione Belle non si occupava più della sala, oramai regno delle due Lucas; e quel giorno, complice l’assenza della più anziana, vi regnava non poco caos.
Il bel volto di Ruby fece capolino in cucina.
- Via libera! – fece in tono esageratamente cospiratorio nell’ennesimo tentativo di strappare a Belle un sorriso senza allegria.
Insieme agli amici, si diresse verso il patio, bloccandosi però dinanzi all’uscio. Per evitare nuovi tentativi di fuga e controllarla, le donne lasciavano la porta del patio aperta quando Helena vi giocava. Era strano non trovarla spalancata.
- Ruby, – la domanda risuonò di colpo più angosciata – Perché la porta è chiusa?
La mora inarcò le sopracciglia stupita.
- Deve essere stato un colpo di vento mentre servivo, – osservò – Fino a pochi minuti fa era aperta. Helena è anche entrata per un momento.
Belle uscì nel cortiletto, scoprendolo deserto.
Cosa ben più grave, la porticina che dava sul vicolo era spalancata.
- Allora, Milady! – Killian uscì, fingendosi offeso – Oggi non avete nemmeno voluto ricevere il vostro pirata pref…
L’uomo s’interruppe appena raggiunse un’attonita Belle.
- Dove… Bloody hell, dov’è?
La mente della donna corse ad aprile, al giorno in cui Helena era scappata e aveva rischiato di essere investita dalla carrozza del padre. Anche quella mattina avevano litigato…
Non di nuovo.
Ti prego, non di nuovo.
Senza perder tempo, si precipitò oltre l’uscio, svoltò l’angolo e scrutò la strada alla disperata ricerca di una bambina dal vestitino rosso.
Non la scorse.
- Non è dentro, ne sono sicura! – Ruby si leccò le labbra nervosa.
- Dobbiamo trovarla, e in fretta, – sentì Killian rispondere.
All’improvviso, come dal nulla, la folla lasciò emergere la figura alta e snella di una donna dai ricci color fuoco.
Una donna che camminava mano nella mano con una bambina avvolta in una mantella verde che lasciava intravedere un lembo dell’abitino.
Un abitino rosso.
Belle si lasciò alle spalle due atterriti Ruby e Killian, corse, volò per avvicinarsi alle due.
- Helena? – gridò – Helena?
La bambina rallentò – non stava impazzendo, non stava impazzendo, la bambina aveva rallentato, vero? Aveva rallentato!
- Helena? – urlò ancora, urlò più forte per sovrastare il brusio della folla, il cicaleccio, il terrore che le impediva di capire, di farle vedere che sì, si trattava di sua figlia, e ora lei sarebbe andata a riprenderla, avrebbe urlato contro quella donna e la storia sarebbe finita lì per sempre, con Helena di nuovo con lei, con Helena al sicuro.
Fu accontentata.
La bambina si voltò – se lentamente o meno, Belle non fu in grado di percepirlo –, mostrando due occhi castani che lei conosceva da molti, molti anni.
Vide le labbra della bambina aprirsi, lasciar scivolare un sussurro – Mamma, lesse Belle, sua figlia la stava chiamando e lei era lì, immobile, senza far niente –, la vide piantare i piedi e strattonare il braccio di chi l’accompagnava, come per attirarne l’attenzione.
L’altra si voltò per capire le ragioni dell’improvvisa resistenza.
Fu allora che Belle ne ebbe la conferma.
Rebecca Zelenyy.
Fu un istante.
Rebecca afferrò la bambina, la prese in braccio e iniziò a correre.
 
 
 
Such a lonely day
shouldn’t exist.
It’s a day that
I’ll never miss.”
 
 
 
Quando Robert Gold tornò a casa, non volle vedere niente e nessuno: tutto ciò che fece fu entrare nello studio e chiudere la bussola alle spalle.
Allora, quando fu solo, poggiò il capo alla porta e chiuse gli occhi per lunghissimi istanti.
Nessuno avrebbe mai visto la parodia disfatta di Robert Gold.
Un ceppo si spaccò nel focolare fra una pioggia di faville crepitanti. Fu il rumore a riscuoterlo, a indurlo a trascinarsi verso la poltrona su cui si lasciò cadere, le spalle curve, le mani nervosamente intrecciate.
Quando l’avevano avvisato, le parole gli erano cadute addosso, ma non aveva ceduto di un passo. Non aveva mai ceduto, non durante il tragitto, non entrando nella villetta, non dinanzi alla scena.
Mai.
Aveva annuito, mormorato: – È lei –, e strinto le labbra in un’unica linea sottile mentre ascoltava il resoconto di una cameriera balbettante che ripeteva della fuga della sua nuova datrice di lavoro dai capelli fulvi.
Cora era morta. Uccisa da Rebecca Zelenyy, l’alleata che l’aveva seguita pendendo dalle sue labbra come l’allieva segue la maestra, e che poi si era resa autrice del tradimento più efferato.
Gold poteva immaginarla, Cora, tutta intenta a guidare e indottrinare Rebecca: era sempre stata brava in questo. Cora attraeva tutto ciò che entrava nel suo campo gravitazionale: pretendeva attenzioni, chiedeva, non dava. Era totalizzante, egoista, prepotente; tiranna.
Eppure c’era stato un tempo in cui lui si era sentito parte di lei, come se fosse stato preso da una sua costola. Stare con lei era l’unica cosa che gli era importata, allora.
Quanti anni erano passati? Sembrava trascorsa una vita intera.
O forse era trascorsa una vita intera.
Gold avrebbe dovuto brindare a quell’epilogo: la Mills si era rivelata la sua peggior nemica. Aveva sfruttato ogni occasione per far del male a Belle e a Helena, gli aveva aizzato contro Regina quando era ancora una bambina e se solo un mese prima avesse taciuto, la sua famiglia sarebbe ancora stata unita. Era legittimo odiarla, giusto gioire della sua morte. Che sprofondasse negli Inferi da cui era fuggita; dal canto suo, avrebbe preferito consegnarsi a Lucifero in persona piuttosto che avere di nuovo a che fare con lei.
Una preoccupazione in meno, avrebbe pensato Gold, se avesse studiato bene le lezioni di Cora.
Ma nella scuola della Contessa lui era stato troppo attento alla maestra, e troppo poco ai suoi insegnamenti.
Voleva dimenticare l’ultima immagine che gli restava di Cora: immobile, pallida come una bambola, con le labbra contratte in una smorfia di sorpresa, delusione e dolore così inconsolabile che Gold era riuscito a stento a guardarla.
Preferiva ricordarla da viva: con le sue cascate di fili di perle, la dialettica ambigua e la strabiliante capacità di piegare il sentimento alle leggi della ragione. Si era educata all’adulazione, aveva annullato ogni accento, si era costretta a studiare tomi e tomi di galateo e a raffinare i gusti fin troppo dozzinali; ma con lui la vera Cora riemergeva, in tutta la sua volubilità, il carattere fumantino, le liti pesantissime e il non bastarsi mai.
A un tratto l’uomo inciampò in un ricordo lontano, chiuso nei cassettoni del tempo e rimasto intatto per decenni. La memoria ha la capacità crudele di tirare a sorte i frammenti da far riemergere; una persona abituata a vivere nel passato lo sapeva, lo sapeva bene. Eppure, saggiarlo sulla propria pelle era ancora una volta, era sempre una scheggia al petto.
Era stato un settembre insolitamente caldo, quello di sedici anni prima. Cora era incinta di Regina e, esonerata dalla Stagione, aveva trascorso l’intera estate nella tenuta nel Leicestershire col marito. Ma il Conte era stato richiamato nella Capitale per affari urgenti, e la sua sposa aveva pensato bene di chiamare il suo migliore amico perché le facesse compagnia.
Lì per lì Gold aveva esitato: non che temesse il ritorno improvviso di Henry, no di certo. Henry era inoffensivo, buono, anche se non stupido: aveva intuito perfettamente la natura del rapporto tra la moglie e l’industriale, eppure taceva. Sapeva di essere stato scelto solo per il cognome che portava, di non essere l’uomo giusto per Cora, alla quale erano molto più adatti Xavier o Robert Gold; sapeva di essere nulla in loro confronto, e tuttavia ancora era avvinto, ancora era affascinato da colei che l’aveva consolato il giorno della morte del padre.
Non ne era innamorato, ma ne accettava ogni tradimento.
Il motivo per cui Robert Gold non era accorso era stato un altro. Il modo in cui Cora gli aveva annunciato di essere incinta, per esempio: di sfuggita, come se stesse commentando l’ennesimo intrallazzo di una conoscente o una qualsiasi inezia del genere. Cora aveva proseguito nelle sue descrizioni dei progetti per il Leicestershire mentre a lui si era fermato il cuore; perché lui sapeva, entrambi sapevano, che quel bambino sarebbe potuto essere tanto di Henry quanto suo, e se davvero lo fosse stato lui non avrebbe avuto la capacità di rimanere in un angolo, di vedere suo figlio crescere e assistervi in silenzio, da lontano.
Eppure avrebbe dovuto farlo.
- Di chi è il bambino?
- Mio.
- Hai capito cosa intendo. Se è mio, io…
- Se è tuo? Ho appena detto che è mio. E comunque, non importa di chi sia, ma di chi si crederà che sia. E se pure fosse, – Cora aveva tagliato corto – non crederanno mai che è tuo.
Quanto l’aveva odiata, in quel momento, quanto.
Ma alla fine, Robert aveva accettato – accettava sempre, lui, quando Cora proponeva – ed era partito per la campagna. Avevano trascorso insieme dieci giorni, dieci giorni di cui lui ricordava solo un pomeriggio, quel pomeriggio.
L’aria tiepida e assolata carezzava la loro pelle, nel giardino interno della villa, lì dove le si era avvicinato e l’aveva baciata.
Lei non voleva essere sfiorata in pubblico, la vita andava vissuta al riparo da occhi indiscreti, diceva spesso.
Ma lui l’aveva sentita sorridere contro la sua bocca mentre la baciava, e nel suo sguardo c’era stato tutto il mondo.
Con nessuno era andato tanto vicino a capirsi come con lei. Erano troppo simili per essere separati, lui e Cora. La sua Cora.
Le aveva detto addio per non consegnarle la parte migliore di se stesso, quella che in qualche modo ancora le si opponeva. Era sfuggito a un destino cui sembrava condannato e avrebbe ripetuto la scelta mille e mille volte: quella decisione gli aveva fatto conoscere il vero amore, gli aveva donato Belle.
Perché se c’era qualcosa di davvero autentico nella sua vita, oltre all’amore per i figli, quello era Belle. Cora gli era stata accanto il giorno più brutto della sua vita e lui l’aveva amata anche per questo, ma se ci fosse stata Belle tutto sarebbe stato diverso. Neal non si sarebbe salvato, ma lui avrebbe avuto una ragione per combattere e non solo resistere, per vivere e non sopravvivere come aveva fatto per tanti anni.
Quando aveva capito d’amarla, tra il terrore e l’incredulità, aveva provato la sensazione delle bolle di sapone che scoppiano addosso: Belle era freschezza, era libertà. Non più maschere o artifici: con lei aveva conosciuto la libertà di essere se stesso, di mostrare senza timori i difetti e le imperfezioni, le debolezze e le paure. Lei non l’avrebbe deriso: gli avrebbe afferrato le mani e lo avrebbe guardato, una promessa negli occhi.
Resterò finché lo vorrai.
Dio. Si dice non si possa amare un altro se prima non si ama se stessi, ma Gold non si era mai amato, e aveva sempre amato Belle. Lei aveva reso perfetti anche gli errori; la sua assenza lo faceva sentire, più che deluso o ferito, svuotato. Forse era così: lui era vuoto, senza consistenza, senza direzione. Viveva spinto dal vento, sballottolato ora in una direzione ora nell’altra. Belle gli aveva dato energia, gli aveva gettato il filo cui aggrapparsi per vincere; ma cinque anni prima il filo tra loro era diventato troppo forte, e lui l’aveva spezzato per paura di restarne avvinto, quando avvinto già lo era.
Per cinque anni aveva rimpianto quella scelta.
E ora, ora che si erano ritrovati, ora che c’era un altro laccio, a unirli – un laccio ancora più forte, indistruttibile, eterno – ancora una volta le bugie l’avevano costretta ad andarsene, portando via con sé la parte migliore di chi l’amava senza saper dimostrarlo.
Ogni mattina Gold si svegliava e pensava che magari sarebbe stata quella la volta buona: magari quel giorno Belle avrebbe capito, avrebbe ricordato quanto lo amava e sarebbe tornata da lui. Ma lei non tornava, non tornava neanche quel giorno, e lui si addormentava da solo e col cuore di nuovo spezzato. E quando il sole sorgeva di nuovo pensava che quel giorno forse sarebbe tornata… 1
La speranza è una trappola.
Dovrei sapere anche questo.
Regina, gli sovvenne all’improvviso. Regina non sapeva cosa fosse successo a Cora. Era rimasta sola al mondo proprio quando era intenzionata a prendere in mano le redini della propria esistenza e seguire un nuovo percorso per diventar grande. Gold aveva persino organizzato un incontro con Viktor Whale perché si chiarisse le idee…
Forse non si è mai troppo piccoli per avere il coraggio di accettare che nulla è facile, ma Regina era ancora troppo giovane per conoscere il reale significato della parola solitudine. Per quanto ribadisse di non voler rincontrare la madre, anche lei avrebbe avvertito la pressione soffocante attorno al cuore che si prova quando si perde qualcosa troppo presto, come accade sempre con tutto ciò che davvero si ama.
Se ne sarebbe occupato lui. Forse Cora aveva modificato le disposizioni in proposito, ma se non l’avesse fatto lui non si sarebbe tirato indietro: sarebbe stato il tutore della ragazza. E se un altro avesse ricoperto quel ruolo, comunque lui ci sarebbe stato, come lo zio che quasi sempre si era dimostrato. Anche se presto tante miglia li avrebbero separati di nuovo.
Forse.
Fino ad allora, il nuovo progetto di Gold era parso definitivo: Belle ed Helena non erano state davvero in pericolo. Se le invettive di Rebecca, per quanto meschine e intollerabili, si fossero limitate ad articoli scandalistici, Blockehurst, Reed e Hume avrebbero protetto madre e figlia per sempre senza incontrare particolari difficoltà. Sarebbero state al sicuro; al sicuro, e felici.
E invece la Zelenyy aveva dimostrato la sua follia. L’aveva liberata di ogni legaccio, facendola esplodere; ed essa non aveva lasciato scampo, colpendo la prima che aveva incontrato sulla sua strada.
Ora tutto è cambiato.
Ora non poteva lasciare Belle ed Helena sole. Se le cose si fossero risolte, l’avrebbe fatto; ma ora…
All’improvviso, la porta della stanza si spalancò, interrompendo bruscamente ogni riflessione.
- Gold, devi venire subito.
L’industriale si voltò sconcertato udendo la voce di Killian Jones
Il giovane non perse tempo: entrò nello studio seguito da Emma e si piantò davanti a lui, rosso in volto, col respiro corto e veloce come se avesse corso a perdifiato per raggiungerlo.
In un istante, nella mente di Gold i pensieri si rincorsero come i fili di un arazzo.
 
- Helena, – un nome mormorato da un servo bastò a far tremare uno degli uomini più temuti dell’Impero – La Zelenyy ha rapito Helena.
 
 
 
“Such a lonely day,
and it’s mine,
the most loneliest day
of my life.”
“Lonely day” – System of a down
 
 
 
1 Adattamento di “Every day, I wake up thinking "Maybe she changed her mind, remembered how much she loved me, I bet she'll come home today". But she doesn't come. I go to sleep alone. My heart's broken all over again. And then the sun comes up, and I think "Maybe today's the day.” – da “Heart of the matter”, 1x11, Once upon a time in Wonderland.
 
 
 
N. d. A.: Salve! ♥
Siamo tutt* viv*? O lo hiatus ha iniziato a mietere vittime? Più che la pausa, io direi la puntata 5x11, che mi ha lasciata altalenante come l’andamento di qualcuno. Vi giuro, dopo averla vista non sapevo se urlare di gioia o mettermi le mani nei capelli. Voi cos’avete fatto? XD
Quanto al capitolo, so che state facendo la ola dal secondo paragrafo. Però io faccio orecchie da mercante e dico che personalmente uccidere Cora è stato dolore. Sì, la Contessa era bastarda dentro, ma malgrado questo – forse proprio per questo – l’adoravo; scrivere dal suo punto di vista mi mancherà non poco. La Zelenyy non mi dà altrettanta soddisfazione…
Tralasciando l’evidente disagio, spero che le mie scelte non vi siano dispiaciute del tutto. Magari avete storto il naso leggendo i passi GoldenHeart, ma consideravo doverosa qualche riflessione di Gold sulla morte di colei che, nel bene o nel male, gli è stata accanto in momenti terribili quali la morte di Neal. In fondo, anche nel telefilm Rumpel dice a Regina che – cito a memoria, perdonate eventuali errori – sua madre avrebbe sempre ricoperto un ruolo importante nel suo cuore.
E probabilmente ora vorrete uccidermi per il rapimento di Helena. Soprattutto per il rapimento di Helena. Ma in merito vige la politica #nospoiler! :D
So che Killian è OOC; tuttavia, come sapete, in questa fanfiction lui e Belle sono legati da una profonda amicizia, per cui… In ogni caso, il vostro parere sul punto e sul capitolo in generale è sempre gradito: non temete, le critiche possono solo aiutarmi! :)
Ringrazio di vero cuore le dolcissime persone che recensiscono la long, l’aggiungono a una delle liste, la leggono in silenzio e ne sostengono e consigliano la petulante, isterica e ripetitiva a(u)trOce. Vi adoro! ♥
Vi saluto e auguro a voi e ai vostri cari un magico Natale e un sereno 2016 che vi doni tutto ciò che più desiderate!
(E che porti a noi fangirl anche qualche gioia! XD)
Ci si rilegge su EFP sabato 23 gennaio 2016 e più frequentemente sulla pagina Facebook Euridice’s World – un “mi piace” è sempre gradito! ;)
Ancora grazie, buone feste e a presto, Dearies! :* :) :*
Euridice100

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Capitolo 22
*** XXI - I appear missing ***


 
 
 
 
XXI - I appear missing
 
 
 

“Calling all comas,
prisoner on the loose.”




Uno spasmo incontrollabile s’impossessò del suo cuore, mentre il confine tra realtà e immaginazione si faceva liquido.
Belle avrebbe voluto fosse un incubo, un sogno orrorifico che lasciava tremanti e spaventati, ma che lasciava: un rumore, un nonnulla, e sarebbe precipitata di nuovo nella realtà familiare e confortante di una branda calda. Avrebbe scostato i capelli di Helena addormentata al suo fianco, ne avrebbe ascoltato il respiro placido e si sarebbe tranquillizzata: tutto era passato, non era mai esistito.
Ma non era un incubo.
Era il presente.
Lì, a pochi passi da lei, davanti ai suoi stessi occhi, Rebecca Zelenyy stava portando via Helena.
Si sentì le membra come di gelatina: scenari sempre più drammatici si fecero largo in lei senza che riuscisse a controllare la fuga dei pensieri. Per un istante lo sbigottimento, l’incredulità, la paura la attanagliarono, ma non si fermò a riflettere, non osò immaginare altro.
Ogni minuto era prezioso: era una possibilità di raggiungerle in meno.
Quando sentì gli amici chiamarla, le loro voci erano già lontane. Non era stata lei a dare l’ordine al corpo: erano state le sue stesse gambe a scattare, a muoversi verso le due per avvicinarsi, bloccarle, per riprendersi sua figlia.
Avrebbe salvato Helena a qualunque costo.
Tutto, ma non Helena.
Quando la figurina esile, avvolta in quella mantella verde così grande per lei, si era voltata, era stato come se una mano fosse penetrata nel petto di Belle e le avesse stretto il cuore. Come aveva potuto essere così disattenta? Ogni passo era una maledizione rivolta a se stessa. Avrebbe dovuto sapere che il momento in cui si abbassa la guardia è sempre, sempre quello in cui si verificano i drammi peggiori. Lei era l’unica responsabile dell’intera situazione, l’unica verso cui Rebecca avrebbe dovuto avanzare le proprie pretese; perché se la prendeva con una bambina? Come poteva fare questo – qualunque cosa intendesse fare – a un’innocente?
Belle poteva quasi immaginare Helena aprire la porta in barba alle mille raccomandazioni, accogliere la Zelenyy e ridere delle sue battute, leggera e sventata come una farfalla. Cosa l’aveva convinta a ignorare i moniti e seguire una sconosciuta? Nel cortile c’erano tutti i giocattoli: anche Bae era stato abbandonato nella fretta di volar via.
Ma volare via dove? Anche ora che il loro rapporto non era più idilliaco, quando Robert veniva a prenderla la bimba non se ne andava mai senza salutarla…
Belle continuava a urlare il nome che significava tutto. Otteneva risposta? La folla accalcata assorbiva la vocina di Helena, la soffocava. Non volle pensare a un’altra possibilità, a una mano guantata premuta con forza contro un visetto sempre più terreo.
Non poteva pensarci.
Non poteva.
La sola idea rendeva impossibile respirare.
Di colpo, qualcosa o qualcuno la trattenne. La donna si dimenò, incurante di sferrare gomitate e calci a ciò che la rallentava: chiunque oggi si fosse messo sul suo cammino, avrebbe conosciuto una Belle molto, molto diversa dal solito.
- Lasciami. Lasciami, – ruggì, facendo per voltarsi.
Ruby la fissò, rughe d’angoscia sulla fronte solitamente distesa.
- Vengo con te, – la mora la prese per mano prima di ricominciare ad avanzare tra gli ignari passanti.
- Cosa stai dicendo? – non poteva perdere altro tempo litigando in mezzo alla strada, se non voleva perdere di vista la giornalista – Non so dove la stia portando, cosa voglia farle, io… – farfugliò ancora, senza rendersi conto dell’insensatezza del discorso.
La Lucas annuì, pur sapendo che il suo gesto non sarebbe stato notato.
- Per questo ti aiuto. Vivo qui da una vita, conosco la zona come le mie tasche, ed è colpa mia se siamo in questa situazione. Devo fare qualcosa.
Belle tacque. Ma anche se avesse voluto, come avrebbe potuto replicare? Tutto sarebbe risuonato vano, privo di significato. Avrebbe barattato tutte le parole del mondo per riavere Helena, tutte le ricchezze, tutti gli ori e gli agi, tutto.
Anche se stessa.
Se la Zelenyy avesse preteso un ostaggio, qualcuno su cui vendicarsi, si sarebbe offerta al posto della figlia. Avrebbe preso il suo posto, e l’avrebbe fatto con gioia, sapendo la bambina sana e salva. Niente e nessuno era importante quanto lei.
Niente e nessuno…
- Killian sta andando ad avvisare Gold.
Robert.
Non gli aveva dedicato un pensiero da che si era gettata nell’inseguimento. L’uomo sarebbe impazzito alla notizia: amava, amava perdutamente la figlia, e se ce ne fosse stato bisogno avrebbe ridotto il mondo a macerie per lei. Sarebbe stato implacabile, feroce, crudele; una bestia. L’avrebbe voluto accanto, Belle, anche se la sua presenza nulla avrebbe apportato al suo animo: solo una persona avrebbe potuto curarla, la stessa che doveva salvare.
Non sapeva cos’avrebbe fatto se l’avesse persa. Aveva formulato pensieri simili il giorno in cui aveva cercato di scappare, e quando sembrava essere sparita a Kensington; ma per quanto dolorosi, quei ricordi non erano che un pallido fantasma in confronto al panico che l’avvinceva Belle ora. Ora la situazione era completamente diversa: Helena non era sola, non era – pur all’oscuro di tutti – nella sicura soffitta paterna, ma camminava con chi odiava i suoi genitori, con chi avrebbe osato tutto per distruggere le loro vite e non avrebbe esitato a scagliarsi contro una bimba di pochi anni.
Contro la sua Helena, la sua bambina bellissima che amava unire i gambi dei fiori che le portava il padre e farne corone, che quando vedeva la madre triste l’abbracciava fino a farle tornare il sorriso, che era avventurosa, intrepida ed eppure così fragile…
Non ricordava come fosse la vita prima di lei, ma una cosa era certa: non sarebbe tornata a viverla.
La Zelenyy stava andando a destra, Belle lo vide chiaramente. Lo urlò a Ruby e avanzò più rapida, maledicendo il carro che stava passando e che le impediva la vista, fino a svoltare anch’ella.
Ma quello che le si presentò davanti fu un vicolo chiuso da un alto muro.
Nello stesso istante la raggiunse la Lucas.
- Dove… Dove sono? – domandò sconvolta con un appena filo di voce.
Belle non rispose. Tornò indietro, corse in una direzione, poi nell’altra, girò su se stessa come una folle, sorda alle parole dell’amica.
Non era possibile. Lei aveva visto la Zelenyy svoltare a destra, ne era certa. L’aveva vista. Come avevano fatto a dileguarsi tanto in fretta?
La risposta venne da sé.
Il carro.
- Belle, dobbiamo andare!
Obbedì, ma era solo il corpo a muoversi. L’anima restava lì, immobile, a fissare il chiassuolo che sarebbe potuto essere la sua salvezza e invece si era rivelato un’altra speranza delusa.
L’aveva persa.
Aveva perso sua figlia.
 
 
 

Description:
a spitting image of me.

 
 
 
La Zelenyy si abbandonò a una sequela di imprecazioni mentre correva. Proprio quando si stava allontanando dalla locanda, ormai certa d’avercela fatta, la French aveva pensato bene di andare a dare un’occhiata alla sua bastarda. Se solo avesse atteso un altro minuto…
Ma bando ai se e dei forse: ormai la situazione era quella, ed era suo dovere fronteggiarla mantenendo i nervi saldi e la mente lucida. La rivale viveva nell’East End e quindi doveva sapersi muovere bene; ma lei aveva un asso nella manica e aveva tutta l’intenzione di giocarselo al meglio.
Anzi, si corresse: due assi nella manica.
- Perché stiamo scappando? – la bambina che si dimenava contro il suo petto chiese per l’ennesima volta, sempre più stupefatta – C’è la mamma!
Era stata proprio Helena a confermare i sospetti della cameriera, voltandosi al richiamo che Rebecca aveva udito e ignorato. Quando la bambina si era mossa, la giornalista l’avrebbe volentieri colpita con la pistola che portava con sé; tuttora l’avrebbe uccisa con immensa soddisfazione. Resisteva alla tentazione per una sola ragione: quella piccoletta era la chiave che le avrebbe spalancato le porte del successo.
- Non chiedere. Se tu non fai domande, nessuno le farà a te.
Helena schioccò le labbra delusa.
- Ma io voglio sapere!
Dio, ancora quella sfacciatissima insistenza. Se non avesse imparato in fretta, nelle case di correzione in cui sarebbe finita le avrebbero fatto pulire il pavimento con la lingua. Già solo questo sarebbe stato un’ottima punizione per la tracotanza dei suoi genitori, Rebecca si ricordò non senza una punta di piacere.
- Dobbiamo andare da tuo padre.
- Ma se mamma ci segue significa che vuole…
- Non mi interessa cosa vuole tua madre, lo capisci? – la giornalista abbaiò incapace oramai di trattenersi – Ti sto portando da Gold, il resto non ti riguarda!
Helena la fissò mordicchiandosi un pollice. A un tratto sembrava molto spaventata: quella non era la zia con cui aveva chiacchierato fino ad allora. Dov’erano finite le parole smozzicate e dolci come una ninnananna? Rispondere a una semplice domanda non le avrebbe rallentate, e lo stesso valeva per il farsi accompagnare dalla mamma…
- Ma io…
- Ancora? – il fastidio di Rebecca era quasi disgusto – Devi stare zitta!
Le labbra della bambina si aprirono due o tre volte come per protestare, ma poi obbedì. Se Rebecca avesse avuto il tempo e la lucidità per farlo, avrebbe innalzato un ringraziamento al Cielo per averla zittita. La disturbavano quei suoi occhioni devoti e lucenti, i perché continui e molesti; dubitava che a Gold piacesse davvero una bamboccia tanto irritante. Come mai non le avevano insegnato a sorridere ed essere gioviale come un animaletto ammaestrato?
Si voltò appena per controllare la situazione. La French certo non svettava tra la folla, e questo era un male: se si fosse rivelata abbastanza veloce, sarebbe potuta comparirle dinanzi senza preavviso.
Simile ipotesi non era nemmeno contemplabile.
Come se il pensiero l’avesse richiamata, pur nella confusione riecheggiò il grido di Belle.
- Helena!
Una parte della giornalista si era illusa di averla seminata. Quale istinto spingeva la serva a correre come una forsennata pur di starle alle calcagna? Non avrebbe potuto perdere i sensi come la gran dama che giocava a essere e far svolgere il lavoro sporco dal suo amato? Finché Gold si fosse sbrigato, lei avrebbe nascosto Helena al sicuro…
L’ispirazione le era venuta mentre si sbarazzava dei gioielli di Cora presso un banco dei pegni a Limehouse. Nel degradato quartiere gli edifici abbandonati non erano pochi, e lei ne aveva scovato uno in particolare: una catapecchia corrosa dalle intemperie che si affacciava direttamente sui docks e dall’ingresso protetto solo da poche assi di legno marce e già mezze divelte. Era probabile che la struttura offrisse da tempo riparo a orde di vagabondi; avrebbe ospitato anche loro per qualche ora, il tempo necessario perché si facesse l’orario di partenza delle chiatte. Avrebbero barattato un passaggio: avrebbero impiegato più tempo per raggiungere Southampton, e sarebbero stati necessari più cambi, ma salvo imprevisti il loro viaggio sarebbe proceduto tranquillo e senza controlli.
E da Southampton, l’America.
Quando qualche giorno prima la parte del piano inerente a Helena aveva iniziato a prendere forma, Rebecca aveva acquistato sotto falso nome un solo biglietto del transatlantico; ma con la morte di Cora gli eventi erano precipitati, e si era ritrovata con molto meno tempo per escogitare in fretta un metodo per imbarcare anche la ragazzina. Non con sé in prima classe, s’intendeva: l’avrebbe nascosta da qualche parte nella stiva fingendo un gioco e promettendo di tornare a riprenderla presto, per poi non rimettere più piede laggiù. Che se la cavasse da sola, la mocciosa; se non fosse morta di stenti, l’equipaggio l’avrebbe comunque scovata in breve tempo e, all’approdo, l’avrebbe lasciata sul molo o affidata alle amorevoli cure di qualche istituto.
Controllò dietro di sé un’altra volta. La French era in qualche modo riuscita ad avvicinarsi e aveva a fianco una ragazza bruna e alta dall’aria altrettanto inquieta. La giornalista fece per svoltare a destra, ma si trovò davanti a una stradina chiusa; lasciò perdere il tentativo e, sperando che il carro di passaggio impedisse alle inseguitrici di osservare la scena, proseguì per la via principale, ignorando il fiato corto e il dolore alla milza che l’avevano colta da minuti: la semplice vista della rivale le aveva fornito nuova energia.
Era sorpresa dalla portata della furia che la sommergeva ogni volta che incontrava lo sguardo di Belle. Gold pareva davvero innamorato di quella nullità, di quella donnina comune che aveva iniziato come sguattera. Evidentemente la French nascondeva qualcosa: come altrimenti aveva fatto una simile provincialotta a conquistare un uomo della risma di Robert? No, doveva per forza esserci sotto qualcosa che Rebecca ancora ignorava, ma che – in tutta onestà – neanche le interessava scoprire.
Il periodo trascorso insieme l’aveva dimostrato: né con Cora, né con Belle, ma con lei e lei sola Gold avrebbe raggiunto il suo pieno potenziale. Era stata una sciocca a reagire in quel modo a New York, il giorno in cui aveva scoperto le ciocche di capelli; ma se lei aveva riconosciuto il proprio errore, allora anche Gold avrebbe fatto lo stesso. Ancora resisteva, ma il giorno in cui l’avesse spezzato l’avrebbe capito: lei era la sola per lui.
Ma quel giorno lei non ci sarebbe più stata per lui.
Nessuno ci sarebbe più stato per lui.
E quel giorno era oggi.
 
 
 
Except for the heart-shaped hole
where the hope runs out.
 
 
 
Il frenetico avvertimento di Killian Jones aveva colpito Robert Gold dritto al petto.
- Che cosa stai dicendo? – l’industriale aveva domandato in un sussurro adirato. Per un momento si era illuso fosse un errore, una bugia di Belle per le sue malefatte; una vendetta meschina, assurda, estranea alla donna che conosceva, ma pur sempre una bugia.
Qualunque cosa avessero deciso di fare a lui, Helena era al sicuro.
Ma lo sguardo del valletto non aveva vacillato. In pochi istanti l’uomo lo aveva messo al corrente di quanto successo; e allora nulla era più stato come prima.
Quanto tempo era trascorso? Un’ora o una vita? Non lo sapeva: i minuti si rincorrevano, scorrevano veloci, sempre più veloci, per poi fermarsi di colpo. Un istante ricordava i gesti, i passi che aveva mosso; quello seguente non più. Si guardava attorno spaesato, senza capire cosa fosse successo, quando gli eventi avessero preso quella piega e cosa, quale fattore li avesse scatenati.
Tu.
L’unico fattore sei tu.
Non ricordava gli imperativi che aveva sbraitato, i comandi che ben pochi avrebbero avuto l’ardire di contrariare. Ricordava solo un momento: quello in cui, per la prima volta dopo tanto tempo, aveva caricato la sua pistola. A ogni proiettile che inseriva, l’aria attorno a lui si faceva più ovattata: non più un fruscio, non più un sussurro anche lontano.
E in quel vuoto, in quel silenzio dove tutto rimbombava, era arrivata lei.
La sua compagna più antica.
La paura.
Robert Gold non le era estraneo. Conosceva da sempre il paralizzante terrore che viene dall’essere spettatore impotente degli eventi, dal veder scivolare via quanto di più caro si ha al mondo senza poter far nulla per trattenerlo. Lo aveva provato per la prima volta quando, ancora bambino, si era reso conto che il sole era sorto e tramontato decine di volte ma suo padre non era ancora tornato; ne aveva sentito i morsi ancora e ancora, tutte le volte che Belle aveva scoperto le sue malefatte.
Ma quello che provava ora era paragonabile solo a quel marzo lontano in cui aveva stretto suo figlio e l’aveva sentito immobile e freddo tra le braccia.
L’idea di Helena nelle grinfie di Rebecca era inconcepibile. Nella donna il seme della follia era divenuto un albero, e quel giorno stesso l’aveva dimostrato scagliandosi contro Cora, che pure l’aveva sostenuta. Con simili premesse, cos’avrebbe potuto fare alla figlia della sua nemica?
La risposta era tanto semplice, e tanto orribile.
No.
Gold amava Helena dalla prima volta che lei lo aveva salutato. No, non era vero: l’amava da prima, forse l’amava da che si era innamorato di sua madre. Quando lei ancora non esisteva, o quando già viveva e lui non lo sapeva, la semplice idea di una figlia sua e di Belle suscitava in lui un’emozione indescrivibile.
Helena era la prova vivente, tangibile dei suoi errori, ed era il fuoco che gli scaldava l’anima. Se fosse morta, tutto sarebbe tornato come prima, ma nulla avrebbe più avuto senso.
Nulla.
Non condannatemi a sopravvivere anche a lei.
A causa sua la bambina era già stata coinvolta in questioni troppo pesanti, troppo poco adatte ai suoi pochi anni. Ma non poteva, non doveva essere coinvolta anche in questo.
Da che conosceva la figlia, Gold era ossessionato dall’idea che potesse succederle qualcosa. Doveva badare a lei, proteggerla prima che sapesse camminare sulle sue gambe, doveva mettere ordine al mondo, alla vita, a ogni cosa per lei: non meritava il caos, come non l’avrebbe meritato Neal.
Ma lui causava, non ordinava il caos.
Mentre il tempo scorreva senza esiti, quella paura più infettiva di qualsiasi malattia si annidava sempre più nei dedali tortuosi della sua mente. 2
Aveva sguinzagliato per le strade di Londra guardie e servi con l’ordine di entrare ovunque, di penetrare nei bassifondi, di girare per bettole, ostelli, persino bordelli alla ricerca della bambina, senza tralasciare alcun luogo, alcun particolare. Lui stesso non era rimasto inerte: si era messo subito a capo di un gruppo e aveva oltrepassato la soglia della villa con un solo pensiero in mente: raggiungere la bambina e Belle.
Jones gli aveva detto che la donna era uscita di senno alla vista di Helena portata via dalla Zelenyy. Non aveva aperto bocca: era rimasta immobile, come tramortita per un solo istante, dopo il quale aveva iniziato a correre verso le due.  Non c’era stato verso di fermarla o di trattenerla; la giovane Lucas l’aveva raggiunta per poi sparire con lei.
Una volta Gold aveva augurato a Belle di non conoscere mai il dolore che solo la perdita di un figlio causa. Forse non avrebbe fatto meglio a tacere: forse, parlando aveva aizzato il fato.
Belle non avrebbe voluto sentire niente di simile. Sosteneva che il destino non fosse scritto, che fossero gli uomini a costruirlo giorno dopo giorno con le proprie scelte e le proprie azioni. Anche Cora diceva qualcosa di simile, ma l’uomo non ci aveva mai creduto: perché allora certe persone – lui – sembravano condannate a ripetere cento volte gli stessi sbagli, pur avendone subito le conseguenze in prima persona? Perché restavano fedeli al demone che, secondo quell’opinione, erano state loro stesse a scegliere?
Chiunque avesse ragione, una cosa era certa: Neal prima, Belle ed Helena poi erano quanto di migliore gli fosse capitato in un’esistenza pessima; e ora le loro vite erano in pericolo. Se la Zelenyy avesse messo le mani su Belle… La paura di perdere anche loro, di perderle di nuovo gli bruciava le vene.
Ma non c’era tempo per le supposizioni, non era il momento di chiedersi se il rapimento della bambina e la contemporanea visita di Jones a Whitechapel fossero stati una coincidenza; qualunque cosa fosse emersa, i responsabili avrebbero fatto meglio a recitare le loro ultime preghiere.
E l’autrice del piano sarebbe stata la prima a pagarne le conseguenze.
Gold non si illudeva: non tutti sarebbero vissuti abbastanza da arrivare a sera.
Si trattava solo di capire chi.
In un attimo di dolorosa lucidità, ne fu certo.
O sarebbe tornato con sua figlia, o sarebbe morto nel tentativo.
 
 

 
Prison of sleep,
deepened now.

 

 
 
Per Helena gli ultimi eventi erano strani come la luna. Dopo averla brutalmente zittita e aver corso lungo mille vie diverse, la zia l’aveva condotta in un quartiere identico a Whitechapel in tutto e per tutto, eccetto che per il fiume qui ovunque visibile.
La bambina ne era rimasta stupita: come mai papà l’avrebbe incontrata in un luogo simile? A lui l’East End non piaceva molto, gliel’aveva sentito ripetere più volte: diceva che non era un posto adatto a gente come lei e la mamma, che avrebbero meritato ben altro.
- Persino Buckingham Palace sarebbe poco per voi, – una volta aveva detto serissimo, facendo ridere entrambe.
Forse da lì si raggiungeva prima la Scozia? Quanto tempo avrebbero impiegato, e quando sarebbe giunto papà? Rebecca era arrivata lì in gran fretta, ma poi si era fermata per riprendere fiato e l’aveva rimessa a terra; solo dopo qualche minuto avevano ricominciato a camminare, questa volta più lentamente. Forse avevano recuperato il ritardo ed erano di nuovo in tempo per l’appuntamento…
Chissà cosa voleva mamma. L’immagine di Belle che correva verso di loro era rimasta impressa in Helena, come tatuata sulle palpebre: ogni volta che chiudeva gli occhi, la riviveva. Aveva urlato il suo nome tante volte, e la piccola aveva anche cercato di rispondere; ma la zia aveva tossito forte, e tra quello e la confusione mamma non doveva essere riuscita a sentirla.
La piccola era rimasta malissimo per il comportamento di Rebecca; e tuttora il pensiero la perseguitava. Da allora non aveva più rivolto parola alla donna: in parte perché non intendeva indispettirla ulteriormente – e se si fosse infuriata a tal punto da non condurla da papà? –, in parte perché era Helena per prima a essersi offesa. Non era abituata a simili reazioni: quando si arrabbiavano, mamma e papà non esplodevano in quel modo – almeno, non nei suoi confronti. Cercavano di spiegarle, di farla ragionare affinché capisse il suo sbaglio; se ci fossero stati, le avrebbero risposto di non poter fermarsi perché…
...
In tutta onestà, alla bimba proprio non veniva in mente una ragione valida per non fermarsi. Se mamma correva tanto doveva esserci un motivo; oppure desiderava solo salutarla, e anche in tal caso comunque Helena avrebbe volentieri dato e ricevuto un suo bacio.
Ma alla fine Belle non si era più vista, ed Helena e la zia erano finite in quel luogo che alla piccola non piaceva. I pochi volti che incontrava l’angosciavano, l’aria puzzava e le navi facevano tanto rumore. Forse era dove impiccavano i pirati, come insegnavano i racconti di Killian… 3 No, in realtà non somigliava per niente a Whitechapel, dove in fondo vivevano tante persone che conosceva, che le volevano bene e che le stavano vicine se usciva. Quando Helena si era d’istinto avvicinata alla zia in cerca di protezione, lei si era scostata di netto, facendola quasi inciampare.
Forse aveva ragione Ruby quando la prendeva in giro dicendole che a forza di stare nel West End si stava abituando alla bella vita. Già: a casa di papà c’erano infinite comodità che da Granny’s nemmeno esistevano e le sorprese non finivano mai; ma c’era forse qualcosa di male nel preferire le cose belle a quelle brutte?
Tutto a un tratto, Rebecca si fermò. Helena alzò il mento: dinanzi a lei s’innalzava una costruzione di mattoni scrostati, dalla facciata per metà ricoperta da muschio e scurita dall’umidità. L’entrata non era protetta da una porta, ma tavole di legno marcio che mezza spinta aveva subito fatto cedere.
- Aspetteremo tuo padre qui dentro, – annunciò la Zelenyy.
Anche un cieco avrebbe notato la delusione bruciante dipinta sul volto tondo della piccola. Non era possibile: papà era ricco e potente come un re, anzi, era un re per citare la storia di Belle; non avrebbe mai permesso che sua figlia – una principessa! – lo aspettasse in un postaccio simile, in cui lei non aveva alcuna intenzione di mettere piede.
- Qui? – mise da parte ogni reticenza e domandò – Papà ti ha detto davvero che dobbiamo aspettarlo qui dentro?
- Sì.
- Ma qui è brutto. Puzza, ed è buio. Mamma dice che posti così sono pericolosi, e papà non vuole che…
La Zelenyy la spinse nel locale facendola cadere e la superò senza degnarla di uno sguardo.
- Hai due possibilità, – la donna digrignò i denti. Ora che la farsa era conclusa, rivolgere anche una singola parola gentile alla trovatella di Gold era insopportabile – O attendi tuo padre qui con me, o esci e te ne vai da sola a zonzo per Limehouse. Ma, a giudicare dal modo in cui mi stavi appresso, deduco che l’idea non ti tenti molto, vero?
Helena si rialzò piano, due lucciconi di dolore e rabbia che già le solcavano le guance. Si massaggiò le ginocchia che aveva battute. Non aveva capito l’intero discorso, ma il senso le era più che chiaro: doveva obbedire a Rebecca e restare lì in attesa di papà. Lui era una persona su cui contare: se aveva detto che sarebbe venuto a prenderla l’avrebbe fatto, cascasse il mondo. Doveva solo pazientare un pochino e non pretendere tutto e subito, come mamma le rimproverava. Appena fosse arrivato, gli avrebbe riferito dello strano cambiamento di Rebecca e lui avrebbe sgridato non poco la donna, facendole passare un bruttissimo quarto d’ora.
E se anche questa è una prova?
La mamma amava leggere, anche libroni immensi la cui mole non le faceva battere ciglio; diceva che era il suo modo per viaggiare con la fantasia e visitare gli infiniti posti in cui non aveva mai messo piede. Una volta le aveva raccontato che c’erano Paesi anche dell’Impero in cui i giovani, per dimostrare di essere divenuti adulti, si sottoponevano a difficili e pericolose prove fisiche e di coraggio. Solo chi le avesse superate avrebbe avuto diritto di partecipare e dire la sua nelle riunioni dei grandi.
Forse quella era la sua prova: non era più una poppante, ma una signorinetta fatta e finita, perciò doveva iniziare a comportarsi come tale. Lamentarsi perché sola e impaurita era fuori discussione: cos’avrebbero detto mamma e papà se non avesse superato la prova? Se non intendeva deluderli, avrebbe dovuto starsene buona e zitta per un po’, un pochino soltanto, ed entro sera tutto sarebbe finito. La carrozza coi suoi genitori riappacificati sarebbe davvero arrivata, Rebecca si sarebbe scusata per il caratteraccio, e magari lei avrebbe avuto una festa e dei doni per la maturità mostrata.
Anche se voleva piangere, provò a consolarsi sedendosi in un angolo, doveva resistere un pochino.
Soltanto un pochino…
 
 
 

“Where are you hiding,
my love?”
 

 
 
Ruby e Belle aveva perso il conto delle vie percorse, delle strade controllate, delle luoghi in cui avevano fatto irruzione in quelle ore.
Ore di tachicardia e respiri pesanti.
Avevano perso il conto di quante volte la speranza fosse passata loro accanto per poi superarle, impietosa come lei sola sa essere.
Londra era immensa: erano infiniti i posti in cui la Zelenyy avrebbe potuto nascondersi, e vagando senza metodo non sarebbero riuscite a scovarla. Ma questa non era una ragione per fermarsi; non esistevano ragioni per fermarsi, se Helena non era al sicuro.
Bastava incontrare lo sguardo di Belle per capire che avrebbe cercato la figlia fino all’ultimo minuto della sua vita. L’avrebbe cercata e l’avrebbe trovata, e Ruby sarebbe stata con lei.
- Tu hai parlato con la Zelenyy, prova a ragionare come lei, – la Lucas ripeteva all’amica – Cosa faresti al suo posto?
Ma Belle non rispondeva, e Ruby la capiva. Cos’avrebbe fatto lei se avesse rapito una bambina di neanche cinque anni che presto si sarebbe ritrovata lontana da casa e sola, per giunta di notte? Lei non l’avrebbe rapita, punto.
Ma ora era come se l’avesse fatto. Non erano state le sue mani a strapparla dalla quiete domestica, ma se l’avesse controllata più spesso, se avesse prestato più attenzione, se non si fosse lasciata distrarre dai clienti e dal pensiero di Viktor, allora…
Era colpa sua, nessuno sarebbe riuscito a convincerla del contrario. Se Gold avesse voluto farla a pezzi, avrebbe fatto bene: sarebbe stata lei stessa a consegnarglisi. Non avrebbe mai espiato la sua colpa.
Avrebbero dovuto studiare un piano, attendere gli altri e suddividere le zone da perlustrare, concentrarsi ciascuno su un obiettivo; ma ciò avrebbe richiesto tempo, calma, ponderazione, e nell’istante in cui Belle aveva visto Helena allontanarsi – Ruby poteva solo immaginarlo – i suoi pensieri si erano disgregati.
Chiedevano ai passanti. Era l’unica cosa potessero fare, oltre a maledirsi per essersi lasciate sfuggire così la piccolina. Ma nessuno pareva aver visto due persone corrispondenti alla descrizione; nessuno, tranne un vecchio avvinazzato che sproloquiava di una donna in fuga con in braccio una bambina vestita di verde.
Ruby l’aveva ascoltato incerta, per poi volgersi verso l’amica: nell’istante in cui i loro occhi si erano incontrati, la più giovane aveva come letto i pensieri dell’altra. Le iridi cerulee della French erano inquiete, ma non vi era traccia del terrore che le aveva oscurate fino ad allora: in quel momento Belle era pura determinazione.
Sì, quella dell’uomo poteva essere una panzana, un’allucinazione dovuta al troppo gin; o forse la stessa Rebecca lo aveva corrotto perché mentisse. Gold non avrebbe perso tempo: avrebbe stretto le mani alla gola dell’uomo, l’avrebbe ucciso seduta stante se solo avesse letto la menzogna nei suoi occhi.
Ma loro non era Gold, loro non erano nessuno; nessuno, se non due persone intenzionate a salvare una bambina.
E se il vecchio avesse detto il vero e loro non gli avessero dato ascolto, se Helena e Rebecca fossero davvero andate verso Limehouse e loro le avessero cercate da tutt’altra parte perdendole per sempre, non se lo sarebbero mai perdonato.
Sarebbero andate a Limehouse, e da lì in capo al mondo; sarebbero andate ovunque, ma avrebbero trovato Helena.
 
 
 
Cast off like a stone.
 
 
La Zelenyy guardò assorta la bambina, tutta intenta a studiare una finestrella troppo in alto per lei.
Avrebbe fatto bene a tenerla d’occhio: al momento sembrava impotente e indifesa come un pulcino senza chioccia, ma stante l’ascendenza paterna forse proprio in quel momento stava meditando la fuga. Non che gliene importasse molto, ma se la piccoletta avesse avuto ereditato dalla madre la fortuna sarebbe stata ritrovata subito, mandando in fumo ogni cosa. Helena doveva restare lì, controllata e impossibilitata a muovere anche solo un passo; anzi, era un peccato non ci fosse una gabbia: rinchiuderla sarebbe stata l’opzione migliore…
Nell’arco di poco il tempo era peggiorato: il sole mattutino era un ricordo lontano, sostituito da grandi nubi che avevano invaso il cielo fuligginoso. Rebecca sperò solo non iniziasse a piovere: l’acqua sarebbe penetrata dalle crepe delle mura e del soffitto, e lei non aveva alcuna intenzione di bagnarsi da capo a piedi. Che quelle ore silenziose trascorressero in fretta: presto si sarebbe imbarcata verso la sua nuova vita.
E si sarebbe lasciata alle spalle Londra e tutti i suoi dannatissimi abitanti.
 
 
 

Pieces were stolen from me
(but dare I say,

given away.)

 
 
 
Ancora niente.
Vagavano da ore, ma la situazione non era cambiata: la Zelenyy pareva essersi volatilizzata.
Non era possibile, per Dio, non era possibile che un soggetto simile svanisse nel nulla: Rebecca era appariscente, era difficile passasse inosservata; ed era ancora più difficile che nessuno avesse notato Helena.
Ne sei sicuro?
Una riflessione smentì subito il suo pensiero: i bambini non erano presi in considerazione. Si mescolavano nel viavai, scivolavano via, si nascondevano con estrema facilità. Non era complicato rapirne uno, fargli del male e lasciarlo al suo destino, gettarlo via come una cartaccia…
Ma Helena si sarebbe salvata. Lui l’avrebbe salvata. Era già sfuggito troppe volte alle responsabilità dando spazio alla debolezza; stavolta le cose sarebbero andate diversamente.
Stavolta era pronto a sacrificarsi perché le cose andassero diversamente.
Lo doveva a Helena, perché almeno lei vivesse una vita lunga, felice, colorata come i pastelli che tanto amava.
Lo doveva a Neal, che quella vita l’aveva solo assaggiata mentre suo padre era troppo impegnato a inseguire un folle desiderio.
Lo doveva a Cora, ai suoi occhi scuri come ferro che per primi avevano scorto il potenziale in lui, e a Regina, perché avere una, anche solo una risposta placa la mente.
Lo doveva a se stesso, per dimostrarsi che per mille cose era pronto a rinunciare, ma per altre avrebbe lottato.
E lo doveva a Belle.
Perché la sola cosa peggiore della mia sconfitta sarebbe sapere di aver causato la tua, amore.
Non avrebbe mai dovuto impegolarsi con Rebecca. Tutto era iniziato per gioco, perché la notte insieme a qualcuno era meno vuota, e si era trascinato da sé, con la calma placida di ciò che non conosce promesse; ma si era concluso, si stava concludendo nel peggiore dei modi.
E non avrebbe mai dovuto, voluto coinvolgere Belle. Rebecca le aveva già spezzato il cuore ricomparendo, ma oggi aveva oltrepassato un limite che nessuno, nessuno mai avrebbe dovuto valicare. Aveva precisato a Hulme, Reed, Blockehurst e agli altri, Jones e Graham in primis, che quando avessero trovato la Zelenyy avrebbero dovuto mettere al sicuro Belle ed Helena e farsi da parte: all’americana avrebbe pensato lui. Avrebbero dovuto lasciarli soli per la resa dei conti: un faccia a faccia avrebbe definitivamente risolto la questione, in un senso o nell’altro.
L’avrebbe uccisa, questo veniva da sé; e se fosse stata Rebecca a colpirlo per prima, avrebbe fatto in modo di condurre anche lei nella tomba.
Helena, prometto che ti vendicherò.
E io non rompo mai gli accordi.
- Mr Gold, – Hulme lo destò dalle elucubrazioni – C’è un uomo che dice di aver visto il nostro obiettivo. Ve l’abbiamo portato – indicò Blockehurst, che trascinava un ometto vecchio e lercio.
- Cazzo volete da me, io non ho visto niente, – costui mugugnò, giunto al cospetto di Gold.
- Non sono queste le parole riferitemi dai miei aiutanti, – rispose gelido l’industriale. Si era inoltrato di persona nei reticoli di viuzze sempre più povere celate dalle arterie principali, aveva messo piede in ogni dove, ma una parte di lui sperava ancora che la Zelenyy avesse almeno il buon senso di non trascinare una bambina in posti del genere, a contatto con la feccia della società. Evidentemente si era sbagliato; un ulteriore peccato che l’ex amante avrebbe espiato col sangue – Anzi, pare proprio voi abbiate visto una donna in fuga con una bambina. Lo confermate?
- E te chi cazzo sei a volerlo sapere?
- Qualcuno molto importante.
- Sai che me ne fotte a me.
- Cambierai idea molto presto.
L’uomo grugnì prima di sputare per terra, mancando di poco le scarpe di Gold.
- Le ho viste, e allora? Le cercate tutti, oggi. Voi, le due troiette di prima…
Gold s’irrigidì. Quelle parole non potevano che riferirsi a…
Scattò prima ancora di rendersene conto, addossando al muro che, colto di sorpresa, guaì di dolore.
- Che…
- Hai due possibilità, – Gold ringhiò estraendo la pistola – Mi dici dove e quando hai visto la bambina e dove hai indirizzato le due donne, – fissò dritto in volto il miserabile, senza provare pietà alcuna nei suoi confronti – O io ti ammazzo, – quasi a riprova delle sue intenzioni, fece scorrere il mirino dell’arma sul collo dell’uomo, graffiandolo a sangue.
- Tu sei pazz…
- Sprechi tempo prezioso, Dearie. Dovresti aver capito che le mie non sono solo minacce, – gli ricordò di rimando, continuando a premere contro la gola
- Limehouse, – il nome arrivò così rapido e soffocato che l’altro pensò di non aver capito.
- Ripeti.
- Quelle che scappavano… Hanno preso per Limehouse, una o due ore fa, non ricordo. E le due tro… Le due signorine, – si corresse all’istante, sentendo l’arma premere di più – Ci ho detto di andare lì, alle due signorine.
Gold annuì appena.
- Ti ringrazio, Dearie, – disse con un cenno senza espressione, prima di tirargli il calcio della pistola sulla tempia.
L’ubriacone stramazzò a terra svenuto.
Questo è per il modo in cui hai chiamato Belle.
Si voltò verso i suoi.
Non ci fu bisogno di dare indicazioni.
 
 
 
Watching the water give in
as I go down

the drain.
 
 
 
Se si sforzava, Regina poteva quasi crederci: nulla era vero. Non la morte di Daniel, non l’articolo, non l’ultima notizia.
Nulla.
Il destino non poteva accanirsi tanto su un’unica persona. Non era possibile – non era giusto. Lei non poteva reggere tanto sulle sue spalle: aveva quindici anni, quindici anni, e giocava a fare la dura quando dura in fondo non lo era neanche un po’. Avrebbe voluto esserlo, avrebbe dovuto ormai sapere che per sopravvivere bisogna lasciarsi tutto indietro, ogni sentimento, ogni legame, come Maman le ripeteva sempre, ma…
Maman.
Le notizie erano arrivate quasi contemporaneamente. Regina era giunta all’ultima riga dell’articolo e aveva appallottolato il foglio furiosa, desiderando bruciarlo: quelle chiacchiere venivano da un mondo il cui giudizio non la toccava più, ma ciò non diminuiva la sua rabbia. Con ogni probabilità la London School ammetteva solo candidate che fossero specchio della rispettabilità: la ragazza avrebbe volentieri evitato speculazioni sul proprio conto, tanto più se palesemente false. Altro che fuga d’amore: il suo fidanzato era appena morto, e gli unici irlandesi di sua conoscenza erano il valletto dello zio e la governante del Cheltenham! Come avrebbe smentito l’articolo? Doveva chiedere consiglio a Gold per replicare…
In quell’istante l’aveva raggiunta Tink.
Il modo cerimonioso e circospetto con cui la Barrie le si era approcciata aveva insospettito non poco l’adolescente: un simile atteggiamento da parte della donna era inedito. Anzi: la donna era nota proprio per la i modi franchi e spigliati…
Regina non era abituata alle buone notizie. Di recente aveva appreso che la vita colpisce sempre nel momento meno prevedibile: durante un incontro con l’innamorato, o una sera d’agosto, o una mattina apparentemente simile a mille altre. Le crisi sono improvvise e durano un istante; le conseguenze molto di più.
Quando Tink l’aveva costretta a sedersi, la giovane aveva capito che non avrebbe sentito nulla di buono. La volontaria gliel’aveva annunciato in tono sommesso, un mormorio appena; e Regina aveva ascoltato il racconto confusa e stordita, come se fosse stata lei a ricevere una botta in testa
Per lunghi istanti era rimasta ancorata allo scetticismo: sua madre, la contessa Mills, colei che dettava legge nell’alta società non poteva essere…
Non era nemmeno riuscita a formulare il pensiero. Prima ancora che intollerabile, era assurdo: Cora era indistruttibile. Era sopravvissuta a un’infanzia e a un’adolescenza misere, aveva sfruttato ogni occasione per ottenere il potere, aveva vinto e ancora ne aveva passate tante, tantissime, riuscendo comunque ad accrescere il proprio prestigio; non poteva essere…
Morta.
Non poteva essere morta così.
Era stata onesta, Tink: le aveva riferito che le prime voci andavano in un’unica direzione, e che con ogni probabilità la colpevole era una donna, forse nobile o comunque benestante, dai capelli rosso fuoco.
- Non ha senso, – Regina si era sentita bisbigliare – Non conosciamo nessuno coi capelli di quel colore. E mia madre non aveva nemici.
Era un’immensa bugia. La Contessa si era inimicata lo zio e Belle, per non citare gli innumerevoli servitori licenziati alla minima mancanza e le dame escluse da ogni salotto buono a un suo cenno. Possibile che uno di loro avesse deciso di vendicarsi tanto ferocemente?
Regina aveva escluso all’istante Gold e la sua amata. Per quanto livore entrambi nutrissero nei confronti della Mills, dubitava che…
Ecco il tuo errore, Regina cara, fece una vocina simile a quella di Cora, con la stessa inconfondibile nota di rimprovero. Chi ti ha insegnato a riporre tanta fiducia nel prossimo? Certo non io.
Maman aveva sempre quel tono quando si rivolgeva a lei.
Ma cos’avrei dovuto fare, Maman, per renderti orgogliosa di me?
Cosa?
Si erano viste oltre un mese prima. Era stato il loro ultimo incontro, e la loro ultima lite.
- Non m’importa se morirete! – Regina le aveva urlato contro senza sapere che il presagio sarebbe divenuto realtà prima di quanto avrebbe anche solo potuto immaginare.
Per settimane intere Regina era stata convinta che, non provando nostalgia per la madre né desiderando rincontrarla, eventuali notizie sul suo conto le sarebbero scivolate addosso. Avrebbe pianto e gioito per lei tanto quanto per un estraneo; e cioè nulla.
Ancora una volta, erano bastate poche frasi per far cadere molto più di una certezza.
Maman non era una certezza,
Era la colonna portante.
Maman non era una persona buona. Regina non ricordava un bacio affettuoso, un complimento disinteressato, una ninnananna dopo un incubo. Regina non ricordava una mamma, ma una madre: una padrona che aveva sempre disposto per lei, ordito la sua vita passo dopo passo mai accompagnando, sempre imponendo. Conscia della propria autorità, aveva manovrato il sangue del suo sangue inducendolo a compiere atti che ancora lo perseguitavano, progettando ogni mossa e soffocando ogni ribellione; non aveva mostrato pietà nemmeno nei momenti più difficili, quando un abbraccio avrebbe significato il mondo.
Dopo tutto ciò era successo, Regina odiava avere bisogno di sua madre. Odiava anche solo pensare le sarebbe mancata; ma la realtà era un’altra.
Anche se non si fossero mai più rivolte parola, se la donna fosse stata ancora viva lei avrebbe avuto ancora il suo modello: odioso e intollerabile, ma presente, seppure a distanza. Cora era la ragione per la quale Regina stava diventando, era diventata chi era: se a crescerla fosse stata una donna gentile e amorevole, pronta ad ascoltarla e sostenerla, lei forse sarebbe stata migliore, forse peggiore, ma sicuramente sarebbe stata un’altra persona.
E tu sei contenta di essere ciò che sei?
Regina quasi sentiva lo sguardo di Cora perforarle la schiena mentre quella voce le poneva la domanda
Non lo sapeva. Qualsiasi persona fosse stata la figlia, Cora sarebbe comunque stata insoddisfatta di lei: regina del suo regno, la Contessa non intendeva dividerlo con nessuno, tantomeno con l’imperfetta erede. Forse in ogni mondo, in ogni epoca il loro rapporto sarebbe stato tanto conflittuale e contraddittorio; e in ogni mondo e in ogni epoca si sarebbe rivelato necessario.
Chissà cos’aveva pensato Maman morendo. Aveva rivolto un pensiero a lei? Aveva dedicato un’ultima parola a Regina, se la figlia fosse stata presente le avrebbe confessato di aver sbagliato, che tornando indietro avrebbe cambiato ogni cosa, che lei le sarebbe bastata? E, se sì, Regina avrebbe considerato quelle parole sincere o solo l’ultimo delirio confuso di un’anima disperata alla ricerca di un perdono tardivo?
Avremmo potuto avere tutto, Maman.
Negarlo era inutile: ogni volta che l’avesse pensata, le sarebbe mancata. Pur con la sua freddezza e il suo rancore, con le sue manie di controllo e perfezione.
Ma questo è il prezzo che paga chi ha avuto tutto e non l’ha mai capito.
Le lacrime avevano sorpreso Regina mentre si accingeva a lasciare l’istituto, cercando di sfuggire a una Tink che mai l’avrebbe lasciata uscire da sola in quello stato. Aveva provato un brivido sotto la pelle, e poi nulla più: gli occhi le si erano inondati di acqua che era stato difficile trattenere. Si dice che per arrivare all’alba bisogna passare attraverso la notte, ma la sua notte non si concludeva, non voleva concludersi.
Andò dall’unica persona che le fosse rimasta.
Ma arrivata a Kensington, trovò la casa semideserta e l’ennesima, terribile notizia a farla sussultare.
 
 
 
I go missing,
no longer exist.

 
 
 
Helena aveva fame. Non mangiava niente dalla mattina, e l’ora di pranzo era passata da un bel pezzo: in lontananza un campanile aveva battuto vari rintocchi, ma lei non era riuscita a tenere il conto. Era difficile prestare attenzione con lo stomaco che brontolava di continuo, il freddo che la intirizziva sin nelle ossa e l’inquietudine suscitata dall’androne deserto. Il vento che entrava dalla porta rotta sibilava e sputacchiava; le assi del pavimento scricchiolavano di loro iniziativa, e a breve il cielo avrebbe iniziato a imbrunirsi. Come le storie mettevano in guardia, le ombre erano la dimora dei mostri; e se persino il Castello ospitava una banshee, chissà quali creature si nascondevano in un postaccio simile. Quasi poteva vederle, acquattate negli angoli e in trepidante attesa di saltarle alla gola…
Se ci fossero stati papà o mamma, non avrebbe provato così tanta paura; ma confessare i propri timori alla zia, tanto più nel contesto di una prova di coraggio, sarebbe stato da stupidi. Però magari avrebbe potuto chiederle qualcosa da mangiare…
Rebecca ascoltò insofferente la richiesta. C’era poco da fare: aveva rapito una bamboccia fastidiosa come una zanzara, e dieci volte più irritante. Per chi l’aveva scambiata, per una cuoca al suo servizio? Ma doveva tenerla buona ancora per un po’: era già tanto che una piccola viziata come lei non si fosse messa a frignare perché stufa di stare senza far niente in uno stanzone impestato dai miasmi della melma viscida e puzzolente del fiume.
Intenzionata com’era a ricominciare daccapo, l’americana aveva ben poco in borsa; scavò fino a ritrovarvi una mela mezza ammaccata, comprata mentre si dirigeva a Whitechapel, e la lanciò verso la bambina, che ovviamente mancò la presa.
La donna alzò gli occhi al cielo. Era più forte di lei: non aveva alcuna pazienza nei confronti di quella creatura. Fosse stata sua figlia, forse si sarebbe comportata diversamente. No: si sarebbe comportata diversamente, senza “forse”. Dopo tante delusioni, una parte di lei era giunta alla conclusione che solo il frutto del suo grembo avrebbe saputo regalarle l’amore puro e disinteressato cui tanto ambiva. In fondo le sarebbe davvero piaciuto avere un figlio, magari una bambina: l’avrebbe cresciuta rigorosamente di persona perché nessuno, nessuno l’avrebbe mai amata tanto quanto lei. Sarebbe stata al fianco di sua figlia giorno dopo giorno, sarebbe stata sua maestra, consigliera e complice; e, una volta divenuta adulta, sarebbe stata la sua migliore e più fedele amica.
Helena morse la mela con uno schiocco sonoro. Rebecca continuò a studiarla, turbata come se la realtà si fosse avvicinata troppo all’immaginazione.
- Le mele verdi non sono dolci. A me e a Regina piacciono quelle rosse.
L’osservazione ruppe il silenzio e fece ripiombare la giornalista nel presente.
Lei non è tua figlia, si disse con una specie di sordo risentimento.
Non avrebbe mai potuto amare la bastarda che Gold gli aveva nascosto, l’erede di colei che aveva preso il suo posto.
Mai.
- Sei impossibile, – si rialzò di malavoglia. L’ora sarebbe giunta a breve; avrebbero fatto meglio ad andare verso il molo – Sbrigati, dobbiamo prendere una nave.
Helena masticò pensierosa.
- Perché? – chiese, la bocca ancora piena.
- Come perché, – la donna rispose sbrigativa, dirigendosi già verso l’uscita – Vuoi andare in Scozia, sì o no?
La bambina rimase immobile. Tutt’a un tratto le sovvenne un ricordo.
“Papà parla strano perché vive a Londra da tanto, ma non è nato qui. Viene da un posto lontano lontano che si chiama Scozia.
- Lontano quanto la Norvegia?
- No, lontano, ma un po’ più vicino della Norvegia. Non c’è bisogno di attraversare il mare per raggiungerlo.”
Era stato subito dopo la prima cena con papà: aveva detto alla mamma che non sempre riusciva a capirlo, e lei le aveva spiegato il perché. La Scozia era bella, anche se mamma non c’era mai stata, c’erano castelli e laghi e montagne, ed era lontana, però per arrivarci non si doveva prendere la nave.
Ma la zia aveva appena detto che…
- Ti sbrighi? – la zia la pungolò ancora.
- Per andare in Scozia non serve la nave, – Helena esitò come se l’idea stesse prendendo forma nella sua testa mentre la esponeva – Me l’ha detto mamma, – alzò il capo lentamente, fino a incontrare gli occhi dell’altra. Nella luce scarsa, le pupille sembravano fessure feline. All’improvviso le mancò la voce – Dov’è papà? – riuscì a guaire infine. Il viaggio, la prova… In un istante dimenticò tutto – Perché non viene?
Il silenzio violento in cui precipitarono valse più di mille risposte.
La bambina non capì più nulla. Cos’aveva fatto? La mamma le aveva detto infinite volte di non aprire la porta e di non seguire gli sconosciuti, e lei le aveva disobbedito! Scoppiò a piangere senza rendersene conto, terrorizzata dalle conseguenze delle proprie azioni. Lanciò la mela contro la sua rapitrice e tentò di fuggire oltre la porta, ma la donna la riprese in braccio, bloccando ogni movimento.
- Portami dalla mamma! – Helena ululò, dimenandosi, scalciando, tirando pugni che non raggiungevano la destinataria – Ti ho detto portami dalla mamma!
Ottimo. Quando tutto stava per concludersi per il meglio, ecco che la scimmietta s’impuntava e iniziava a far capricci. Perfetto, davvero. La Zelenyy la trattenne, conscia di farle male e senza curarsene.
- Ferma, – soggiunse. Il polso della bambina accelerò sotto le sue dita, il battito terrorizzato di un uccellino in gabbia – Sta’ ferma, ti ho detto, e presto saremo da tuo padre. 
La rassicurazione fu vana: Helena continuò a piangere e strepitare in tono sempre più acuto. Era improbabile che in una zona simile attirasse l’attenzione di qualche passante, ma era meglio prevenire. Rebecca l’avrebbe dovuta calmare, anche ricorrendo alla forza se ce ne fosse stato bisogno: perché no? Quando fosse andata a contrattare un passaggio su una chiatta, nessuno avrebbe distinto tra una bambina addormentata o svenuta…
- Voglio andare a casa, portami a casa!
- E ci andremo, stupida, se – ahi! – ululò la donna, ritraendo la mano che Helena le aveva morso – Razza di mocciosa, io ti…
- Non toccare mia figlia!
La Zelenyy sobbalzò udendo quella voce femminile. Alzò il capo, ma già conosceva l’identità dell’ultima arrivata.
Belle French l’aveva trovata.
 
 
 

“Shock me awake,
tear me apart.”

 

 
                                                    
Era stato un urlo.
Un solo, singolo urlo.
Rapidissimo, eppure tale da fermare il tempo.
Belle si era fermata appena l’aveva udito. Non aveva più sentito altro: non gli occhi che bruciavano, gonfi di lacrime e stanchezza, non il dolore alle gambe, non lo sfinimento che le faceva pulsare la testa e desiderare di addormentarsi e non svegliarsi più.
In un istante era come rinata.
Non era stata un’allucinazione: anche a Ruby si era mozzato il fiato. Senza bisogno di parlare, come se fossero state un unico corpo si erano mosse verso il caseggiato da cui era provenuto il grido.
- Entro da sola, tu va’ a cercare aiuto, – Belle aveva ordinato perentoria all’amica appena prima di raggiungere l’edificio.
- Aspetta, – la ragazza l’aveva afferrata per una manica – Prendi questo, – le aveva allungato il coltello da cui non si separava mai.
Alla vista di Helena assalita dalla Zelenyy, Belle era stata assalita da un moto di rabbia così violento da farle ruggire il cuore. Come osava quella belva anche solo avvicinarsi a sua figlia? Se le avesse torto un capello l’avrebbe uccisa, uccisa e data in pasto ai ratti di fogna.
Un’Helena singhiozzante fissava il volto materno come se non fosse stato reale, ma solo un’ombra o un riflesso.
Ma ora ci sono io, amore.
Ci sono, e nessuno ti farà più male.
Nessuno.
- Lascia andare la bambina.
Malgrado lo stupore, la Zelenyy reagì lesta. Non obbedì: conscia che la rivale non avrebbe mai corso il rischio di ferire la figlia, si preparò a usare Helena come scudo. Furtiva come una gatta, si mosse rapida verso Belle: come previsto quest’ultima, spaventata, lasciò cadere di scatto la lama.
- Ci ritroviamo ancora in circostanze avverse, mia cara, – un mezzo sorriso crudele deturpò il volto pallido dell’americana – Ma almeno stavolta avremo il tempo di scambiare qualche chiacchiera in pace.
La Zelenyy era subdola, manipolatrice, pazza e pericolosa, si mise in guardia Belle; e soprattutto, aveva ancora Helena. Finché la bambina non fosse stata salva, sarebbe stata inflessibile.
- Chiacchiereremo dopo che mi avrai ridato mia figlia.
Il sorriso di Rebecca si fece tagliente come il filo di un rasoio.
- Hai fatto a mettere da parte il tuo giocattolo, – accennò al coltello – Avresti potuto farti molto, molto male. E poi, – non si preoccupò di nascondere il ghigno – Sappiamo entrambe che non avresti avuto il coraggio di usarlo.
- Non mi sfidare.
- Oh, ma io non ti sto sfidando. Sto solo descrivendo la realtà.
Helena non seguiva lo scambio incandescente di minacce. Sapeva solo una cosa: la mamma era lì e questo, qualsiasi cosa implicasse, la confortava non poco. Anche se la stretta della zia le serrava il petto tanto da far male e le lacrime continuavano a scorrere, non le importava: se c’era la mamma, tutto sarebbe andato bene.
Il visetto rigato di pianto di Helena era tutto ciò che Belle vedeva. Avrebbe dovuto prestare attenzione alla rivale, non distrarsi per prevenirne mosse a sorpresa; ma dinanzi alla figlia così spaventata, terrorizzata, la mente le correva tanto velocemente da darle la nausea e prospettava gli scenari peggiori. Cos’era successo mentre lei era lontana? La Zelenyy aveva fatto qualcosa a Helena, l’aveva picchiata, le aveva urlato contro?
Temeva ciò che era stato più di quel che sarebbe potuto essere.
- Ti prego, – mormorò, pur senza chinare il mento – Non farle del male.
- Io? – la più grande levò un sopracciglio fingendo sconcerto – Mi consideri ingiustamente crudele, – riprese, assurdamente ferita – Perché scambi le mie parole per delle minacce? Non farei un graffio alla nostra Helena. La piccolina si fa amare, è un gioiello di bambina. Già le voglio bene… – tubò – Come se fosse mia.
- Ma non è tua. Non è tua, – Belle ripeté. Il sangue le rombava nelle orecchie così forte da stordirla – Prendi me al suo posto. Prendi me e lascia andare lei.
La Zelenyy sbuffò a tanta spirito di sacrificio. Non aveva mai visto qualcosa di simile prima. Quegli occhioni azzurri avrebbero dovuto rendere la French infantile, eppure appariva solo più affascinante come donna. A prima vista sembrava esile e fragile, poco più di una ragazzina; ma uno sguardo attento come il suo sapeva riconoscere anche in simili circostante la forza dell’ambizione in ogni gesto, in ogni espressione, dal mento sollevato alle mani rese ruvide dal lavoro che teneva serrate. Cora aveva avuto ragione: Belle non era stupida, ma scaltra, immensamente scaltra, e avrebbe cercato di farla desistere a suon di occhiate e appelli contriti. Non aveva ancora capito di avere dinanzi una persona che, proprio come lei, reputava il fine più importante dei mezzi; ma presto sarebbe stata costretta ad accettarlo.
- Conosci la mia storia? – le braccia si chiusero ancora di più attorno a Helena – Senza dilungarmi, sappi che tutto ciò che ho l’ho costruito io, di persona, con le mie sole forze. Ho lottato con le unghie e con i denti per conquistare ciò che desideravo; e proprio per questo non tollero che mi venga portato via. Mi perdonerai se ho l’ardire di presumere che, in parte, per te valga lo stesso. Ciò che ci distingue è il metodo che usiamo – io non ho bisogno di aprire le gambe al mio capo per arrivare dove voglio.
- Cosa che non faccio neanch’io.
La giornalista sollevò sarcastica un sopracciglio.
- Quindi questa bella bambina è frutto di un miracolo? – spalancò la bocca in una farsa perfetta – Ma Belle, perché non me l’hai detto subito? Ho camminato fianco a fianco con un miracolo, sono onorata! – la smorfia si dissolse in una risata amara – Non offendere la mia intelligenza, ragazzina: il destino può accompagnarci o sfidarci, ma le cose succedono perché noi lo vogliamo. Ma non hai nulla di cui scusarti, davvero: hai solo seguito la via a te più consona. Ognuno sfrutta i mezzi che ha, e non tutti hanno il cervello dalla loro.
Era strano: le frasi della Zelenyy, che in altri contesti tanto l’avrebbero offesa, in quel momento avevano nessuna presa su Belle. Che la umiliasse per ore e ore, anche in eterno, se questo distoglieva la sua attenzione dalla bambina. Era a lei che Belle rivolgeva ogni sguardo, quasi a tranquillizzarla senza parole nell’attesa che Ruby arrivasse con qualche rinforzo.
Fa’ presto, ti prego, fa’ presto.
Non sapeva quanto a lungo avrebbe resistito. Si malediceva per aver perso il coltello, ma usarlo avrebbe significato colpire Helena; e chi le assicurava che la Zelenyy non fosse armata? In tal caso, non vi erano dubbi sull’identità di colei che la donna avrebbe colpito…
Non posso mettere in pericolo Helena…
- Infatti tu sei arrivata a sfruttare mia figlia.
- Intanto io ho almeno quella, – Rebecca lasciò scivolare lo sguardo sui capelli scarmigliati dell’altra, sul vestito stinto – Sai, non si direbbe che un mese fa ti pavoneggiavi tutta tronfia a una festa. Anche se, chiaramente, non saresti mai riuscita a ingannare me… Avresti proprio dovuto vederti: tutto era sofisticato ed elegante, e tu invece così provinciale, così fuori posto. Non eri a tuo agio, e credo che in realtà se ne siano accorti in parecchi. È stata una crudeltà da parte di Robert costringerti ad accompagnarlo: c’è chi per nascita appartiene a una metà del mondo e chi all’altra.
E anche stavolta il convitato di pietra non aveva perso tempo prima di apparire, la parte più sarcastica di Belle non si trattenne dal commentare. Era Robert l’assurdo motivo per cui era successo tutto; se Rebecca l’aveva lasciato intuire tra le righe, lei l’avrebbe detto apertamente, senza remora alcuna.
- Robert è nato più povero di me. Dovresti saperlo, tu che ti vanti di conoscerlo tanto bene.
- Ma Robert è stato in grado di capire quale metà conta e ne è entrato a far parte. Tu, invece… – rivolse a Helena uno sguardo che rivelò tutta la sua crudeltà, tutto il suo astio – Tu e la tua bastarda potreste anche portare il suo cognome, ma non il suo lustro.
Nonostante tutto, Belle tremò. Sapeva non avrebbe dovuto lasciarsi sfiorare dalla protervia della Zelenyy, ma tutto poteva tollerare, tutto eccetto quella parola rivolta a loro figlia. Era più che un banale punto d’onore: in ogni luogo, in ogni contesto l’insulto manifestava il terribile potere che aveva su di lei. La feriva fino all’osso, arrivava ad accartocciarle l’anima, uccidendola lentamente, ogni volta più della precedente.
Helena non era una bastarda. I suoi genitori non erano sposati, suo padre era incapace di rinunciare alle maschere di cinismo e potere e sua madre forse era una stupida facilmente manipolabile, ma Helena era frutto d’amore, e solo questo importava.
Solo questo.
- Non osare chiamarla così.
- Così come? Bastarda? – Rebecca ripeté con malcelato entusiasmo – Ma certo: preferisci che la piccolina se ne vada con il ricordo di un mondo perfetto in cui è nata desiderata! Oh, Helena, – si rivolse alla bimba con ostentata partecipazione, gli occhi sfavillanti di follia – Dal tuo papà mammina ha imparato a mentire: perché tu non sei la pupilla dei loro occhi, tu non sei la loro figlioletta adorata, tu sei nulla – tu sei feccia, tu sei una lurida, miserabile bastarda!
Belle vide rosso. Non ragionò più; si scagliò contro Rebecca incurante delle conseguenze, dimentica delle possibili ritorsioni, la mente tutta volta a un obiettivo: vendicare l’offesa alla figlia.
La giornalista la evitò scartando di lato, ma la giovane non demorse: tornò subito all’attacco, riuscendo stavolta a colpire la rivale che, dal canto suo, provò a tirare un calcio.
In quel momento uno sparo interruppe la colluttazione.
Le tre sussultarono e si voltarono spaventate.
Sulla soglia, attorniata dai suoi scagnozzi, si stagliava la ferma figura di Gold.
 
 
Feelings
raw and exposed.
 
 
 
Quando aveva scorto la giovane Lucas correre per Limehouse in cerca di aiuto, Gold non aveva creduto ai propri occhi. Aveva fatto frenare la carrozza di colpo e ne era balzato fuori, conscio che la presenza della locandiera significasse solo una cosa.
Loro sono qui.
La stessa Ruby l’aveva guardato stupefatta, ma aveva avuto il buon senso di non sprecare tempo: aveva immediatamente spiegato la situazione e condotto il gruppo nella spelonca putrescente da cui, già prima di mettere piede, aveva sentito provenire due voci ben note.
Quando lui e gli altri fecero irruzione, per un lungo, lunghissimo istante il tempo parve bloccarsi.
Tra lui e l’amata ci fu poco nulla, appena un incrocio di sguardi; un incrocio di sguardi che però riassunse attimi e parole. Non era il momento di parlare, quello, di litigare o riappacificarsi: ogni mossa doveva avere una sola causa, un solo fine. Di parole dovevano uscirne poche; poche, e soprattutto convincenti.
Rebecca fremette alla vista di Gold e degli altri, ma non si curò dei revolver puntati contro. Non avrebbe fatto in tempo a impugnare la sua arma, ma se i nuovi arrivati avessero sparato avrebbero probabilmente colpito anche le French; e Gold mai avrebbe pronunciato simile ordine.
- Oh! – esclamò, gli occhi ridenti e un improvviso sorriso sulla bocca sensuale – A quanto pare mi ritrovo al centro di una riunione di famiglia! Spero di non disturbarvi se resto: mi piacciono tanto queste occasioni. Anche se, – aggiunse con fare chioccio – In questo caso, direi che la stanza è fin troppo affollata…
Gold avanzò verso di loro.
- Esattamente, – commentò imperturbabile – C’è qualcuno che non ha diritto a star qui, figurarsi ad avere in braccio mia figlia.
Il volto della giornalista si fece più rincagnato.
- Figlia, – sbuffò appena – Come se ne avessi la certezza, conoscendo la madre. Al più potrà essere la tua erede, mai tua figlia.
L’uomo serrò le labbra, ma fu l’unica reazione visibile.
- Che cosa stupida da dire, quando si è accerchiati dai miei uomini. Che cosa stupida.
Come se avessero decifrato l’impercettibile mutare d’espressione, le guardie dell’industriale, Killian e Graham si mossero assieme: raggiunsero le donne e senza tanti complimenti spinsero la Zelenyy contro la parete. La immobilizzarono e le tolsero Helena, che deposero al sicuro tra le braccia di Ruby.
- Mr. Gold, procedo? – chiese Hulme, come dimentico delle indicazioni dategli. L’interpellato scosse il capo – Allora la perqui…
- Porta via Miss French e mia figlia.
Un sussurro appena, un ordine pronunciato con una calma che la ghiacciò dentro.
- Devo risolvere una questione con Miss Zelenyy. Da solo.
Belle strabuzzò gli occhi. Robert si sentiva bene? Cosa intendeva fare, solo con una donna tanto pericolosa? Non aveva nemmeno permesso la perquisissero. Possibile non capisse che…
Quando realizzò, le parve di cadere in uno spazio immenso a velocità vertiginosa.
Perché Robert capiva. Capiva benissimo, e non gli importava.
In un attimo i suoi intenti le furono chiari.
Ma lei non poteva lasciarlo lì, si disse mentre qualcuno già la guidava verso l’uscita. Non poteva, malgrado le liti, le bugie, i tradimenti, l’odio mostrato e mai provato.
Sei anni prima aveva pronunciato quattro parole, “Resterò con voi per sempre”, che l’avevano legata a lui indissolubilmente, come se avesse mangiato un frutto dalla sua mano; ma quella frase era stata solo l’inizio: ciò che ne era seguito aveva rafforzato il legame, confermato la promessa di eternità. Pian piano aveva scoperto il vero Robert Gold, e se n’era innamorata per com’era: contraddittorio, timido, spergiuro, romantico, difficile da amare, ma che l’amava dal profondo del cuore.
Io non sono una stupida facilmente manipolabile, io non ripeto mille volte lo stesso errore.
Io sono innamorata.
Robert la faceva allontanare perché non vedesse; perché non assistesse all’epilogo, perché le fossero risparmiata quella che sarebbe potuta essere la fine. Perché Robert sapeva che, se lei fosse custode del suo ultimo respiro, esso l’avrebbe accompagnata in ogni suo giorno impedendole di andare avanti.
Quando aveva dato l’ordine, lo sguardo dell’uomo era stato inespressivo, inchiodato alla parete, come se la cosa non lo riguardasse.
Ma se la fine è prossima, io non ho la forza di lasciarti andare.
Non posso perderti.
Non posso.
Se… Se fosse successo, fosse stata presente o meno, Belle avrebbe detto addio a molto più che un uomo. Avrebbe detto addio al padre di sua figlia, al suo migliore amico, alla sua anima gemella, al suo unico amore, alla ragione di così tante lacrime e sorrisi.
Al suo tutto.
A se stessa.
La giovane tremò come una canna al vento. Lei sarebbe rimasta. Ci sarebbe stata fino alla fine, gli aveva giurato, e avrebbe mantenuto la parola data. Qualsiasi cosa fosse successo, lei ne sarebbe stata partecipe e protagonista: avrebbe lottato con lui, vinto con lui, o sarebbe morta con lui.
Sposati nel cuore, Robert stesso li aveva definiti una sera felice che sembrava appartenere a un’epoca lontana. Non avevano pronunciato i voti dinanzi a nessuno, ma questo non li rendeva meno onesti, meno sinceri.
Nella buona e nella cattiva sorte.
Si divincolò dalla presa di Killian e si voltò verso Robert.
- Io resto, – disse semplicemente.
Gold rimase immobile nel silenzio irreale sceso sul caseggiato. Due parole erano bastate ad annullare ogni pensiero.
Belle non poteva rimanere. Comunque quella storia si fosse conclusa, non sarebbe finita bene. Non voleva lei presenziasse anche a questo, che conoscesse in volto la bestia che lui celava e la vedesse soccombere. Preferiva che rivivesse solo i momenti belli, i pochi che le aveva regalato: momenti il cui ricordo era penetrante, tornava e gli faceva male ogni giorno, ogni giorno senza che il tempo alleviasse.
Gli bastava stringerla a sé con lo sguardo da lontano quell’ultima volta, senza rivolgerle parola. Perché – per quanto desiderasse ancora il brivido nel petto che lo coglieva quando era stava con lei, la sensazione del suo corpo contro il proprio e il modo in cui lei sola lo mandava in confusione e poi con un sorriso faceva sparire ogni incertezza – non voleva trascinarla con sé nell’abisso, come già era stato troppe volte. Belle doveva rifugiarsi a Kensington, dove sarebbe stata al sicuro; doveva proteggere se stessa ed Helena, farle da madre e da padre come aveva fatto così bene per tanti anni e vivere senza più preoccupazioni, senza più angosce. Pian piano sarebbe andata oltre, e crescendo anche sua figlia lo avrebbe dimenticato: la soluzione migliore per tutti.
Quella di Belle era una pretesa egoista: rischiava di lasciar sola la bambina. Ma Gold sapeva che, se anche si fosse prostrato ai suoi piedi, se anche l’avesse scongiurata, la sua Sweetheart non avrebbe ceduto.
Gli sarebbe rimasta a fianco nel bene e nel male, malgrado tutto, per tutto.
- Andatevene, – ordinò agli altri spostando lo sguardo altrove, puntandolo sulla figlia.
Anche Belle guardò la bambina, silenziosa e ancora tremante, ma ormai salva. Se avesse potuto, avrebbe stretto la sua felicità con le mani, le braccia – con tutto ciò che aveva. Ma non poteva farlo. Doveva restare con Robert.
Una fitta lancinante l’attraversò quando Helena sparì alla sua vista. Fu come se le stessero portando via un pezzo di sé; e in fondo era così.
Forse è l’ultima volta che ti vedo, amore mio.
Si avvicinò a Gold.
Era tutto ciò che poteva fare.
 
 
 

When I’m out of
control.

 
 
 
Rebecca avrebbe dovuto metterlo in conto: nella prima parte del piano tutto era filato fin troppo liscio per essere vero. Avrebbe dovuto insospettirsi: non trovare ostacoli non vuol dire che non ce ne siano, ma che essi si presenteranno in seguito, e con gli interessi.
- Lasciala andare in giro tracotante, la French, – Cora le aveva consigliato prima del ballo da Ella – Dopo l’orgoglio viene la rovina.
Che questo valesse anche per lei? Si era fatta mettere all’angolo da Gold e dai suoi scimmioni, che le avevano sottratto la preda in un battito di ciglia. Senza la bamboccia, ogni proposito iniziale era smentito...
Smentito, ma non scomparso.
Ora cambiava solo l’obiettivo: prima avesse risolto con Gold e la French, prima avrebbe rimesso le mani sulla bambina.
Il buio aleggiava sempre più su di loro, come una minaccia. L’avrebbe aiutata, occultando i suoi movimenti, o tradita, impedendole di controllare la coppietta?
L’avrebbe scoperto presto, si disse imponendosi di tenere sempre il braccio destro lungo il fianco, pronto a scattare.
Il silenzio elettrico di rancore che dominava l’ambiente fu rotto da un sibilo sprezzante.
- Dopo la riunione di famiglia, un’altra scenetta degna di un romanzo d’appendice. Ammirevole, – un ghigno le indurì la bocca – Dicono che l’uomo che tratta male la propria donna se ne guadagna l’eterna e perversa riconoscenza. A quanto vedo, Belle, nel tuo caso è l’esatta realtà.
Gold reagì all’istante.
- Parlale ancora e ti ammazzo.
- Non accadrà comunque? – due occhi di gelido smalto azzurro si appuntarono sull’uomo – O forse il grande e potente Robert Gold mostrerà misericordia verso l’aguzzina di sua figlia, le darà un buffetto sulla guancia e le intimerà di non peccare più?
- Allontana i tuoi timori, Dearie, – il nomignolo gli esplose sulle labbra – Non ci sarà alcuna misericordia – non ti darò una morte indolore.
Rebecca scoppiò in una risatina.
- E allora fa’ pure, – alzò le spalle – Io non ho paura. Mostra alla tua puttana chi sei davvero e torturami… – ancora un riso smorzato – Sempre se hai il coraggio di essere onesto con lei.
L’attacco e l’epiteto rivolto all’amata furono troppo per Gold.
- Come desideri, – ringhiò deliziato.
Belle era impietrita. Gli occhi pieni di luce nera di Robert appartenevano a chi era stato, non a colui col quale aveva vissuto fino al mese prima. Capiva le ragioni dell’uomo, anche lei aveva pensato di uccidere Rebecca vedendola maltrattare Helena; ma quali sarebbero state le conseguenze se Gold avesse davvero sparato alla Zelenyy? Non se ne rendeva conto, accecato com’era dalla pur condivisibile sete di vendetta.
All’improvviso, Belle fu pervasa dalla paura: non per se stessa, ma per Robert, per ciò che per lui avrebbe significato premere il grilletto.
- No, – sussurrò a mezza voce, un brivido che le percorreva la spina dorsale.
Gold la udì.
- Puoi andartene, se vuoi, – ribatté senza distogliere l’attenzione dall’americana – Non sarà gradevole.
- Non farlo, – gli si avvicinò ancora – Non spararle. Helena è di nuovo con noi, è sana e salva, Abbiamo ottenuto ciò che volevamo. Facciamola arrestare: ci penserà la giustizia a farle scontare le sue colpe!
Gold e la Zelenyy si voltarono all’unisono verso di lei, un’identica espressione spiazzata sui volti.
Il magnate temette di non aver capito; o meglio, sperò di non aver capito. Belle aveva forse ricevuto un colpo in testa? Se lo conosceva, non poteva davvero star sostenendo quel che sosteneva.
Non poteva, e non doveva.
- Non esiste. Devo essere io a fargliela pagare.
- Deve mostrarti quant’è potente. Gli piace tanto… – Rebecca s’intromise, il volto sempre beffardo – Ormai dovresti saperlo piuttosto bene, cara.
Belle la ignorò.
- Lei vuole questo, capisci? Vuole che tu la uccida perché ti conosce e sa che saresti perseguitato dal tuo gesto. Vuole renderti come lei, distruggerti. Ma tu sei migliore, – proseguì, incoraggiata dallo sguardo imperscrutabile dell’amato – Non starla a sentire. Non permetterle di vincere.
La Zelenyy seguì interessata la preghiera. Chi l’avrebbe mai immaginato? A implorare la clemenza di Gold era proprio la rivale minacciata fino a pochi minuti prima, colei la cui figlia era stata tanto in pericolo. L’americana tornò a chiedersi se la French fosse immensamente stupida o estremamente intelligente; ma a quel punto, non le importava più di tanto.
- Non sprecare fiato per me, – scagliò fuori le parole amare che le risalivano in gola – Non ne vale la pena: se ha deciso di uccidermi lo farà, con o senza il tuo consenso, – guardò in cagnesco l’ex amante – Avanti, spara. O minacci e poi sei troppo debole per agire?
Fino a quel momento Gold aveva ascoltato la supplica di Belle. L’aveva ascoltata esterrefatto, sbalordito, ma l’aveva ascoltata; e forse avrebbe continuato a farlo, se Rebecca non avesse aperto bocca.
Avvampò. Lui non era debole, non era un pusillanime che blaterava, blaterava, e poi restava inerte. Lui non aveva paura di premere il grilletto, di colpire la strega che gli aveva portato via la vita che stava iniziando a costruire con chi più amava al mondo. Non aveva paura nemmeno di morire, quel giorno.
E soprattutto lui, lui, Robert Gold, la Bestia, il padrone di un impero non poteva tollerare gli si parlasse così.
Alzò le mani come in segno di rassegnazione per poi battersi il pugno libero contro una coscia.
- Vedi? – sbraitò rivolgendosi a Belle, le labbra ridotte a una linea invisibile – Vedi come mi provoca? Deve morire, Belle, deve morire! Ha ucciso Cora, – la bruna sgranò gli occhi all’informazione – Ha portato via nostra figlia, vuole fare del male a te. Come pretendi che io la risparmi? Deve morire!
- Ho ucciso solo Cora, e mi pento della mia generosità, – la Zelenyy perse l’ennesima occasione per tacere – Avrei fatto meglio a porre fine anche alle pene della tua bella addormentata… È sempre così illusa?
Belle non si fece intimidire dall’ira che montava in Gold. Non si trattava di risparmiare Rebecca, anzi: la sua metà più istintiva avrebbe volentieri incoraggiato l’uomo; ma, al tempo stesso non poteva permettergli di compiere una mossa simile.
Doveva risparmiare lui.
Robert non aveva la coscienza pulita: solo da che lei lo conosceva, aveva ridotto sul lastrico decine di persone, le aveva minacciate, fatte picchiare o picchiate lui stesso. Ma minacciare di uccidere non significa uccidere, e lei sapeva che questo, Robert, non lo aveva mai fatto – non direttamente, almeno. Era un livello completamente diverso, un piano che Belle non voleva lui conoscesse a causa sua. Non biasimava il comportamento dell’uomo; ma doveva ricondurlo a ragione, impedire che la bestia in lui, in lei, sorgesse e lo dominasse.
Se fosse successo, avrebbero perso troppo.
- Non abbassiamoci al suo livello. È questo ciò che vuole. Non cedere. Non devi starla a sentire.
- È la voce della tua coscienza, lei? Non sai che la coscienza è solo un istinto animale, non c’è bisogno di seguirlo? 4
- Non starla a sentire. Tu sai cos’è giusto fare. Lo sai.
- Appunto. Tu sai che con le buone maniere non si ottiene nulla.
Le due voci si sovrapponevano, si confondevano. Chi ascoltare? Gold non lo sapeva più. Stringeva salda l’arma, quasi la sentiva fremere in attesa di vibrare il colpo; e qualcosa in lui non aspettava altro, gioiva alla sola idea di vedere la vita della Zelenyy sgorgare via dalle ferite che lui le avrebbe inflitto.
Le provocazioni della donna, i suoi occhi voraci, l’aria infetta d’umidità gli davano alla testa.
E poi c’era Belle. Belle che non se n’era andata, che aveva deciso di rimanere per l’ennesima volta e che lo scongiurava di non farlo, di non uccidere chi pure l’avrebbe uccisa senza rimorsi.
Belle e il suo assurdo, micidiale talento nell’accomunarsi coi disadattati.
Temeva le conseguenze del suo gesto? Temeva per sé? Ma non sapeva, la piccola Belle, che lui mai avrebbe torto un capello a lei o a loro figlia, che stava facendo tutto quello per loro, solo per loro? Perché non vedeva, perché non capiva?
 Era su un filo, e il vento lo spingeva giù nell’abisso.
All’improvviso scese un silenzio indecifrabile.
Il silenzio dell’attesa, l’attesa che inarcava il tempo. La masnada di demoni rinserrò la presa, non si scostò, affondò le unghie e i denti nelle sue carni.
Gold non abbassò l’arma.
- Dimmi cosa vuoi. Dimmi per quale motivo mi odi ancora tanto.
Belle dovette lottare per soffocare un sospiro di sollievo.
Rebecca deglutì. Non si aspettava simile evoluzione; non se l’aspettava e, forse, una parte di lei non la desiderava. Perché vedere Gold piegarsi alle parole della French, obbedirle come un cagnolino fedele confermava solo una cosa: lui l’avrebbe sempre, sempre dimenticata in un niente quando ci fosse stata di mezzo lei. Quel che era successo in America si stava ripetendo in Europa: ancora una volta, Rebecca non era abbastanza perché Robert le prestasse attenzione, perché ascoltasse le sue parole.
Perché la preferisse.
Gold aveva una luce negli occhi che Rebecca odiava, perché non era lei quella luce. Avrebbe dovuto gioire per essere stata risparmiata; ma in quel momento la vita cui pure era tanto legata le parve la maggiore sconfitta.
Quei due sarebbero morti insieme, allora. Pretendevano un’uscita di scena melodrammatica, degna di Romeo e Giulietta? Ai condannati a morte non si nega l’ultimo desiderio.
- Continuiamo a lasciarci irretire da due frasette dolci, eh, cagnolino? – osservò levando un sopracciglio. Nessuno avrebbe mai indovinato la malinconia che aveva tinto i suoi pensieri appena pochi istanti prima – Quanto alle mie ragioni… Chi perde le persone amate dovrebbe imparare a rispettare i vivi. Ma tu non l’hai fatto.
- Il mio comportamento non giustifica le tue azioni. Vuoi rovinare la mia vita? – la mascella già contratta di Gold si irrigidì ancora – Hai già dimostrato di esserne capace. Ma non toccare mia figlia.
L’occhiata che Rebecca gli rivolse gli fece rizzare i peli sulle braccia.
- Al contrario: proprio perché l'ami tanto, è lei che devo colpire. Devo farti capire a quali conseguenze conduce la tua scelta. Se avessi scoperto di avere una figlia e fossimo stati ancora insieme, forse mi sarei persino sforzata per accettarla, forse. Ma tu mi hai messa all’angolo, mi hai sempre messa all’angolo per la tua serva, ed è giusto che entrambi soffriate per questo! – puntò l’indice sinistro contro Belle, che scattò all’istante.
- Ci hai già fatto soffrire abbastanza!
- Io? Io avrei fatto soffrire voi? – si artigliò il petto con la stessa mano, come turbata da un’orribile menzogna – E come, esattamente, legandolo ancora di più al tuo ricordo? Stupida, accetta la realtà: sono io la sola per lui, non tu. Io sarei stata devota a lui e al suo potere, con me accanto sarebbe stato inarrestabile. Insieme saremmo stati perfetti… – i suoi occhi si fecero opachi per un istante mentre si perdeva nel recente passato – Poi tu, tu e il tuo ricordo me l’avete portato via!
Belle scosse il capo più volte. Non era stata lei a portarle via Gold, ma questi aveva deciso da solo il da farsi, come ogni essere umano libero. Nessuno ha potere sui sentimenti. Ma la giornalista pareva non accettarlo…
-  Quello che hai fatto non te lo ridarà.
- Ridarmelo? – l’americana rise di rimando – E chi lo rivuole, Belle, chi lo rivuole. Prima che si unisse a noi, ti ho spiegato che mi piace ottenere ciò che voglio, non farmelo regalare. Potrebbe tornare da me in ginocchio, potrebbe portarmi in dono il mondo, e io non lo perdonerei comunque. No – non voglio lui, voglio il suo dolore. E allora dove colpirlo, se non al cuore? – parlava a Belle, ma guardava l’uomo – Ancora conservava i capelli del suo figlioletto adorato. Figurarsi come reagirebbe, se un giorno dovesse abbandonare la sua Helena…
Gold si morse a sangue l’interno di una guancia, il metallo della pistola sempre più tentatore.
- Non succederà. Non succederà mai, – esalò, appena più pallido.
- Ma non vedendovi la vostra piccolina penserà proprio a questo. Sarà divertente confermarglielo mentre la imbarco per qualche posto lontano, e sarà ancora più divertente immaginarla crescere con questa convinzione. Non ti perdonerà mai, sai, Robert? Mai, mai, mai, – cantilenò, quasi dolce malgrado l’odio che trasudava dalle sue minacce – Abbandonare un figlio è un gesto così cattivo, così sconsiderato da non ammettere pietà. Chi l’ha vissuto sulla propria pelle lo sa, – provò un perverso piacere nel vedere l’espressione di Gold mutare in quella di un animale sul punto di essere catturato: tutto in lui – il volto cereo, la bocca contratta, gli occhi sgranati – le faceva capire di aver toccato le giuste corde.
Belle sentì le ginocchia cederle. Cosa stava blaterando, quella folle? Cosa avrebbe voluto fare a Helena? Le sanguinava il cuore al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere se non l’avessero trovata. Le sue certezze vacillarono, sentendola parlare al presente: Rebecca non si era ancora arresa, avrebbe perseguito fino all’ultimo respiro il suo piano malato. Si chiese se avesse fatto bene a convincere Robert a risparmiarla…
Accanto a lei, l’industriale era immobile. Belle intuiva bene a cosa, o meglio a chi stesse pensando.
- Stai vaneggiando, – nel rispondere, la donna s’impose una forza che non possedeva – Ormai hai perso: Helena è al sicuro, ti consegneremo alla polizia e tutto finirà. Rassegnati.
- Quanta fedeltà… Ma ripetere certe frasi non le rende veritiere. E la vostra, temo, – concluse con assurda grazia – Ormai è una causa persa.
In un unico, fluido movimento con la mano destra estrasse la pistola da una piega dell’abito e la puntò alla testa di Belle.
Il dito di Gold corse al grilletto.
Rebecca lo vide.
 
Uno sparo risuonò nell’aria.
 
 
 
 
 “It’s only falling in love,
because you hit
the ground
.”
“I appear missing” - Queens of the stone age
 
 
 
1 Limehouse è un quartiere dell’East End londinese. Sede di cantieri navali, all’epoca era un postaccio pieno di fumerie d’oppio – https://books.google.it/books?id=B2uSFdUEp-wC&pg=PA161&lpg=PA161&dq=limehouse+epoca+vittoriana&source=bl&ots=yMAcDUu6W6&sig=wbY-LPe3EBIA1LBjsUeqYHZztFI&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjRusOdlZPKAhVDfA8KHdDKBIMQ6AEIHDAA#v=onepage&q=limehouse%20epoca%20vittoriana&f=false;
2 Adattamento di “La paura è la più infettiva delle malattie. Basta uno sguardo perché ti si annidi dentro. E poi valla a levà cogli antibiotici”, da “Dimentica il mio nome” di ZeroCalcare ♥ ♥ ♥;
3 Nel Settecento le pubbliche impiccagioni dei pirati erano all’ordine del giorno, tanto che alla fine del secolo le autorità costruirono sul Tamigi le “prigioni galleggianti” entrate poi nel mito. Trovate altre interessanti informazioni su http://www.mightyena.altervista.org/pirateahiahi.htm.
4 Io sono straconvinta che questa citazione sia da attribuire al Marchese de Sade, ho questo ricordo nitidissimo, ma Google mi smentisce. Per caso conoscete l’autore della frase? In ogni caso, non è mia.
 
 
 
Una parte del confronto Belle-Zelenyy-Gold è ispirata alla puntata 2x11 di OUAT, “The outsider”.
 
 
 
N. d. A.: Hello, Dearies! ♥
Come va? Spero che il 2016 sia iniziato nel migliore dei modi e che da voi il clima sia più mite: io vi scrivo in compagnia di Elsa&co!
Passando a noi… Questo capitolo è stato un PARTO. Durante le Feste ho avuto poco tempo da dedicare alla scrittura e, una volta ripresa la solita routine, ho avuto – e ho – la testa da tutt’altra parte; se a questo si aggiunge che sono negata per le scene di azione, il risultato è intuibile. Da parte mia, posso solo chiedervi scusa e giurare di essermi impegnata per rendere decentemente un capitolo che, come avrete intuito, non mi soddisfa e non mi soddisferebbe neanche dopo cento modifiche. Non lo scrivo perché desidero rassicurazioni o simili: come io riconosco che l’aggiornamento non è al livello degli altri, voi potete dirmi che fa obiettivamente schifo e bersagliarmi di pomodori marci. Perciò esprimetevi e criticate senza riserva. :)
Se comunque, arrivat* sin qui, provate ancora curiosità vi anticipo solo questo: ho in serbo grandi cose per il prossimo – e ultimo – capitolo, che pubblicherò martedì 23 febbraio.
(Poi comunque ci sarà l’epilogo, quindi fino a marzo EFP sarà ammorbato dai miei vaneggiamenti.)
Ringrazio infinitamente chi recensisce, legge e/o aggiunge la long alle varie liste; un ringraziamento speciale va a S., che ha realizzato due meravigliose fanart ispirate al capitolo XV “Photograph”: le potete vedere sulla mia pagina Facebook Euridice’s World. Mi raccomando, inondate di “mi piace” le illustrazioni, meritano tantissimo – per non parlare del fatto che mi hanno emozionata non poco! *-*
Quanto alla ragione per cui ho la testa altrove, a metà febbraio dovrei laurearmi – per chi è superstizioso come me, il condizionale è d’obbligo fino a cose fatte. Non conosco ancora la data esatta, ma se dal dieci in poi mi dedicaste un pensierino al dì ve ne sarei immensamente grata – se non l’aveste capito sono terrorizzata: in corpo ho più ansia che sangue! XD
Comunque sia, vi saluto: bacioni, miei raggi di sole! A presto, spero! ♥ ♥ ♥
Euridice100

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Capitolo 23
*** XXII - Avrei trovato molte più risposte (Se avessi chiesto a te, ma non fa niente) ***


 
 
 
XXII - Avrei trovato molte più risposte
(Se avessi chiesto a te, ma non fa niente)
 
 
 
“Nothing's gonna hurt you, baby,
as long as you're with me

you'll be just fine.
Nothing's gonna hurt you, baby,
nothing's gonna take you from my side.”

“Nothing’s gonna hurt you, baby” - Cigarettes After Sex
 
 
 
Uno sparo risuonò nell’aria.
Un altro lo seguì all’istante.
 
Sull’edificio calò un silenzio spesso come il sipario di un teatro. Un silenzio pesante, denso, che si chiuse sui presenti paralizzandoli.
Era passato un istante o una vita? Non se ne rendeva conto. Aveva chiuso gli occhi quando aveva udito il primo colpo, quando il suo stesso proiettile era partito.
Non voleva vedere. Non poteva vedere. No.
Finché non avesse saputo, tutto sarebbe andato bene.
Ma doveva sapere.
Perché, se nulla fosse andato bene, avrebbe sparato ancora e ancora, ma avrebbe risparmiato l’ultimo colpo.
L’avrebbe risparmiato per sé.
Quando riaprì gli occhi, quando vide Rebecca riversa sul pavimento lordo e Belle caduta ginocchioni, Gold perse la padronanza di sé.
Al rumore degli spari, i suoi tre uomini più fidati erano irrotti. Stavano obbedendo a un ordine già ricevuto, ma lui non se ne accorse. Non gli importava nulla, se non correre dal centro del suo mondo, inginocchiarglisi accanto e sussultare vedendolo immobile, il respiro lieve, la pelle cerea e sudata e i grandi occhi celesti sbarrati.
Ma vivo.
E in quell’istante solo questo contò.
- Belle, – la chiamò più volte senza ricevere risposta, mentre controllava che sull’abito non vi fossero chiazze scure che l’avrebbero portata via da lui. Non era – non sembrava – ferita. No. Ma allora perché non reagiva, perché non apriva bocca? Gold non fu in grado di controllare la fuga di pensieri. Esitò a sfiorarla di nuovo, quasi temendo di spezzarla.
Al contatto la giovane si voltò verso di lui. Un immenso terrore le dilatava le pupille. Batteva i denti in modo incontrollato.
- È tutto finito, – l’uomo provò a tranquillizzarla – È tutto finito.
Lei annuì appena, gli occhi brillanti di lacrime che non versava.
- Ora torniamo a casa, – Gold lo disse automaticamente, come una macchina, per liberarsi del macigno che gli opprimeva il petto – Torneremo a casa, e dimenticheremo tutto questo. Oggi non esiste.
Ma presto anche lui tacque.
Si guardarono, cercando l’uno nel viso dell’altro il coraggio di riprendersi, di essere di nuovo presenti a sé.
Le frasi di Robert annullavano ogni pensiero in Belle, ma non erano veritiere.
Non dimenticheremo mai oggi.
La donna si rialzò a fatica. Tremava. L’industriale la coprì con la propria giacca prima di guidarla fuori dalla catapecchia, dove li attendeva la carrozza su cui montarono in fretta.
Durante il tragitto non ci furono parole, non si scambiarono altri sguardi.
Ma la mano di Belle stringeva forte quella di Gold mentre scappavano dal porto.
 
 
 
“I stare at my reflection in the mirror,
why am I doing this to myself?
Losing my mind on a tiny error,
I nearly left the real me on the shelf.

(No.)”
“Who you are” - Ed Sheeran
 
 
 
Quando arrivarono a Kensington, il crepuscolo aveva ormai ceduto il passo alla notte. La nebbia fitta si arrotolava attorno ai lampioni smorzandone la luce, ammorbidendo i contorni di ogni cosa. L’aria era fredda; ma, quando mise piede nella villa ben riscaldata, Belle si rese conto che non era la temperatura pur rigida a farla rabbrividire.
Era la paura.
Helena non aveva sentito ragioni: aveva atteso i suoi genitori e, appena li aveva scorti, si era buttata loro al collo, baciandoli e abbracciandoli come se ne andasse della propria vita. Mary Margaret aveva saggiamente mandato a chiamare il dottor Whale, il quale sosteneva che la piccola stesse bene, comprensibile spavento a parte; ma, alla vista degli occhi ancora sbarrati della figlia, Belle si era detta che no – Helena non stava bene. Anche a distanza di anni Helena avrebbe ricordato quel giorno, lo sbaglio compiuto e le conseguenze cui stava per condurla; e per la prima volta sua mamma non avrebbe potuto curare le ferite: i baci tanto efficaci per le ginocchia sbucciate non avrebbero lenito il bruciore di un cuore ferito, e le ninnenanne avrebbero solo allontanato, mai davvero scacciato quelle ore da incubo.
Ma tutte le difficoltà, tutti gli errori e i rimorsi si erano nell’istante meraviglioso in cui Belle aveva riabbracciato Helena. L’aveva stretta forte a sé, premendo la faccia nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli, respirandola forte finché la mente non era stata piena che di lei, della sua bambina, del suo sole personale che nulla avrebbe eclissato e che sarebbe tornato a splendere più luminoso di prima.
Non sarebbe stato facile dimenticare, no, ma i suoi genitori le sarebbero stati accanto, entrambi; e se non avessero potuto curarla l’avrebbero aiutata, quel giorno e sempre nella vita fino all’ultimo respiro.
Gold aveva preteso che anche Belle si facesse visitare, sordo alle sue rassicurazioni: stava bene, il proiettile non l’aveva neppure sfiorata, non aveva senso preoccuparsi.
Non era vero.
Il proiettile l’aveva sfiorata, e lei era stata certa di morire. Ma – paradossalmente – in quel momento non c’era stata traccia della paura che pure le aveva avvelenato il sangue nelle ore precedenti.
In quel momento Belle aveva provato serenità.
Non sapeva se fosse normale, se la sua reazione fosse follia o andasse attribuita alla sorpresa o ad altro: tutto era accaduto troppo in fretta per rendersene conto, e gli eventi erano ancora troppo recenti per essere razionalizzati. La Zelenyy aveva fatto comparire dal nulla una pistola e gliel’aveva puntata contro; e lo scintillio dell’arma, anziché terrorizzare Belle, aveva scatenato un unico, pacato pensiero: se il prezzo perché Helena e Robert vivessero era lei, era pronta a pagare.
Com’era successo tanti anni prima, era pronta a tutto purché i suoi cari fossero salvi.
Non era trascorso più di un secondo tra l’apparizione del revolver e i due spari, ma alla donna era parsa un’eternità. Le gambe le si erano fatte di piombo, spostarle un’impresa impossibile; all’improvviso lontana da sé, estraniatasi, per lei il tempo aveva scorso lentamente, sempre più lentamente, accompagnando con dolcezza il proiettile argentato che la raggiungeva.
Aveva accettato la morte.
Le sarebbe mancato specchiarsi negli occhi di Helena, i suoi baci, gli scherzi e le risate. La prima volta che l’aveva tenuta in braccio… E Dio, quanto le sarebbe mancato Robert, il suo sorriso fiero e insieme incerto, le venature d’argento tra i capelli, il suo amore disperato e il buco nero che un uomo tanto freddo e severo celava dentro di sé.
La sua famiglia.
No, non aveva paura.
O forse non poteva permettersela
Il proiettile le aveva sfiorato la guancia. L’aveva sentito fendere l’aria a pochi millimetri dal volto, conficcarsi nella parete mentre Rebecca cadeva. Non avrebbe mai scordato l’improvviso calore al volto, il fischio all’orecchio e il buio improvvisamente calato su di lei.
Aveva creduto di essere stata colpita, di star esalando gli ultimi respiri. Era strano morire, aveva riflettuto: il sangue non le bagnava le vesti, non provava dolore, affanno, sofferenza – niente. L’unica sensazione era data dal pavimento duro e freddo sotto le ginocchia, lo stesso pavimento su cui Rebecca spirava in un’ultima convulsione.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla rivale morente. Come mai era l’altra, e non lei, a morire?
All’improvviso, una voce che ben conosceva l’aveva chiamata, due mani tremanti l’avevano toccata. Un tocco lieve, appena accennato, spaventato – ma non per questo meno intenso.
Le sue mani. La zattera nella tempesta.
Non ricordava come e quando avesse capito di essere viva, non ricordava cosa fosse successo negli istanti immediatamente seguenti. Sapeva solo che a un tratto l’aria le aveva di nuovo riempito i polmoni – assaltandoli, ferendoli, benedicendoli – e che voltandosi aveva incontrato un paio di occhi castani, i suoi occhi castani fissi su di lei.
Da lì si era ritrovata direttamente in carrozza, i loro palmi uniti. Non avrebbe saputo dire chi per primo si fosse avvicinato, forse Belle stessa, ma una cosa era certa: lei non aveva avuto la forza di respingere le dita gentili che s’intrecciavano alle sue. Dopo essere rimasta con lui quel pomeriggio, non l’avrebbe più avuta.
In casa erano stati accolti con calore, ma anche soggezione – quasi temessero il loro rientro, ciò che sarebbe potuto succedere da quel momento. Anche Regina era apparsa per pochi, pochissimi minuti: un tempo neppure sufficiente perché la frastornata Belle se ne capacitasse e le desse le condoglianze. Neanche Ruby si era trattenuta a lungo: aveva accettato il passaggio per Whitechapel offertole da Whale e declinato mesta ogni invito a restare.
- Non devi colpevolizzarti, – la French aveva compreso le ragioni del suo stato d’animo – Conosco mia figlia, e so che non era tua intenzione perderla di vista. Anzi, devo ringraziarti: senza il tuo contributo, forse ora non saremmo qui.
- Ma se fossi stata più attenta, ora non starebbe così, – l’amica aveva accennato alla bambina: troppo spaventata per fare i capricci, Helena aveva spilluzzicato qualcosa con la madre per poi andare docile difilato a letto. Si era addormentata subito, ma il suo sonno era leggero e irrequieto, tanto che le due donne parlavano sottovoce per non svegliarla
La Lucas era uscita dalla camera chiudendo la porta dietro di sé, e Belle aveva sospirato e sistemato le coperte della bimba.
Solo ora riusciva a pensare agli eventi della giornata, a quanto lei ed Helena avessero rischiato. Di se stessa, lo ribadiva, si curava poco; ma della figlia… Per quanto provasse ad allontanare il pensiero dalla mente, la terribile immagine di Helena lontana da chi tanto l’amava, sperduta, spaventata, abbandonata, la perseguitava; l’idea che la bambina sarebbe potuta crescere nella convinzione di essere stata gettata via come una cartaccia le causava uno spasmo nel petto, smuoveva in lei qualcosa di antico e potente, viscerale. La Zelenyy si era dimostrata pronta a tutto pur di portare a termine il folle piano, e con ogni probabilità avrebbe avuto la meglio se non fosse intervenuto Robert.
A ripensarci, c’era un che di ironico: proprio Helena era sempre stata il motore di ogni nuovo riavvicinamento tra i suoi genitori. La fuga di aprile aveva permesso loro di rincontrarsi, la sua sparizione a giugno aveva dato loro il coraggio di ritrovarsi, e ora…
E ora?
Gold pareva scomparso. Sinceratosi delle condizioni della figlia e dell’ – ex? – amata, si era ritirato nelle sue stanze, dando ordine di mandare da lui Hulme, Reed e Blockehurst appena rientrati.
In carrozza non c’era stato altro contatto oltre alle mani unite, ma ciò che li aveva legati era stato più forte di qualunque abbraccio.
Per l’ennesima volta la verità aveva superato le barriere che lei, che lui – che loro si erano imposti. Belle stessa aveva definito Robert codardo in più di un’occasione, ma l’uomo non aveva esitato un secondo ad andare a salvare la loro bambina prima e lei poi. Col potere che irradiava senza neanche sforzarsi e il suo tono calmo, pur di difenderle era stato pronto a un faccia a faccia i cui esiti avrebbero potuto rivelarsi fatali.
Quel giorno Robert Gold si era dimostrato una persona migliore di lei.
Se Helena fosse stata con lui, non sarebbe stata rapita.
Questo non poteva giurarlo. La lucidissima follia di Rebecca non si sarebbe fatta fermare dall’alta cancellata della villa di Kensington: la giornalista avrebbe comunque cercato il modo d’intrufolarsi e attirare Helena nella trappola. Il punto non era questo, ma un altro: il coraggio che Robert aveva tirato fuori nel momento in cui aveva avuto una ragione per cui combattere.
Noi.
L’intensità della considerazione le mozzò il fiato. Le tornarono in mente tutte le preghiere e le dichiarazioni che l’uomo le aveva rivolto anche dopo essere stato crudelmente lasciato in un giardino durante una festa.
Ma nel mio cuore non ne ho avute altre, Belle, capisci? Da cinque anni nel mio cuore ci sei sempre stata solo tu. Solo tu. Perché non riesci a ricordarlo?
(Lo so. L’ho sempre saputo.
Ma non meritavo le tue bugie.)
Il flusso di pensieri venne interrotto da un bussare discreto cui seguì la voce di Mary Margaret.
- Posso? – la governante sussurrò, entrando solo al cenno di Belle – Come state? – l’altra alzò le spalle – Il fatto che si stia riposando è positivo, credimi.
- Spero non abbia gli incubi. Io ho paura persino ad addormentarmi, sai? Se chiudo gli occhi, rivivo oggi.
La più adulta annuì partecipe.
- Poverine, – fece una carezza sul capo di Belle – Per fortuna tutto si è concluso per il meglio, ma tremo al solo pensiero di ciò è successo. Ho intravisto Gold: è ancora sconvolto… So che è di ben poca consolazione, ma vi siamo tutti vicini.
Belle prese un profondo respiro prima di porre la domanda.
- Ora lui dov’è?
Mary alzò le spalle.
- Dov’era. Non si è mosso dalle sue stanze, neanche dopo aver ricevuto Hulme e gli altri. Abbiamo chiesto loro cosa stesse succedendo, se ci fossero disposizioni, ma li conosci – non lo tradirebbero mai. Hanno solo ordinato di non disturbare il padrone perché impegnato. A far cosa, però, non si sa.
Belle deglutì. Era ancora l’omicidio a impegnare Gold? Cosa sarebbe successo ora? I peggiori scenari le volarono nella mente in un istante.
La governante si accorse dell’improvviso pallore: le prese una mano e gliela strinse con affetto.
- Non devi spaventarti: è quel Robert Gold, potrebbe massacrare Londra intera e uscirne con la reputazione intatta. Figurati se avrà dei problemi per quel che ha fatto oggi, considerando anche perché l’ha fatto.
Sì, la giovane avrebbe voluto concordare. Ma non erano solo le conseguenze legali ad angosciarla, ma anche le altre, il modo in cui Robert avrebbe affrontato se stesso ora. Cosa avrebbe potuto fare lei per aiutarlo? Non ne aveva idea, non aveva più idea: già in passato aveva fatto tutto il possibile senza esito alcuno. Restargli accanto e amarlo non era stato sufficiente.
Però non poteva neanche abbandonarlo. Non così, non senza una parola, non tornando ciascuno alla propria esistenza come se quel giorno fosse stato uno tra i tanti.
Belle non lo faceva per qualche malata forma di abnegazione, esagerato spirito di sacrificio o simili. Belle voleva solo capire – capire per scegliere il meglio per sé e prima ancora per loro figlia, per non negarle il padre che tanto l’amava e non negarsi l’unico al mondo che amasse.
Per capire se potessero dare all’amore un’altra possibilità.
Sarebbe voluta andare da lui, parlargli. Si sarebbe anche solo accontentata di guardarlo in silenzio, pur di rendersi conto delle sue condizioni. Ma non poteva lasciare Helena sola, non quella notte; e la piccola aveva la precedenza.
- Va’.
L’invito giunse improvviso e netto. L’ex cameriera si voltò verso la Nolan, che le sorrideva gentile. Aveva intuito ogni suo pensiero.
- Va’ da lui, se è ciò che desideri.
- Ma la bambina…
- Resterò io con lei, e se ti cercherà ti manderò a chiamare subito. Ma se vuoi stargli accanto, qualunque sia la vostra situazione, fallo. È meglio avere rimorsi che rimpianti, dicono. E qui, – concluse indicando la porta – C’è chi ce ne ha già troppi, di rimpianti.
 
 
 

“You are the snowstorm, I’m purified,
the darkest fairytale in the dead of night,
and let the band play out
as I’m making my way home again,
glorious we transcend

to a psychadelic silhouette.”
“Salvation” - Gabrielle Aplin
 

 
 
Doveva fare in fretta. Gli eventi erano precipitati e tutti i progetti mutati.
Tutti, eccetto uno.
Il solo che porterai a termine.
Non era così che doveva andare. Avrebbe dovuto parlarne con Belle, spiegarlo a Helena. Non comportarsi così, non prendere accordi nel mezzo della notte per fuggire all’alba. Stava sbagliando, ma la consapevolezza non lo fermava.
Hulme e gli altri avevano sistemato ogni cosa: nessuno avrebbe mai ricondotto quel cadavere a Robert Gold. Non era il timore di una pena a imporgli la partenza, ma il timore di un amore.
Rivivere le scene era la tortura più dolorosa cui la mente potesse sottoporlo. A nulla valeva concentrarsi sugli istanti in cui aveva sentito il cuore di Belle battere ancora, su quell’ – È salva. Salva. Salva – che aveva dominato i pensieri: era successo tutto per colpa sua. Come poteva restare lì, fingere che le cose si fossero risolte nel migliore dei modi e magari tornare alla solita routine, permettere a Helena di stare ancora con lui se era proprio suo padre a metterla in pericolo?
Non poteva. Semplicemente non poteva.
Con la morte di Rebecca, la vita pareva essere tornata in ordine, non lo era. Si aspettava di provare gioia, si aspettava che la vendetta cancellasse almeno parte del trauma; e invece non si sentiva alleggerito, ma solo scosso, persino più vuoto di quanto volesse ammettere.
Non aveva mai ucciso nessuno. Minacciato di farlo sì, innumerevoli volte; ma fatto no, mai. Non se ne pentiva: non era certo il senso di colpa a smuovergli la coscienza. La Zelenyy non poteva fuggire impunita dopo quanto fatto alle tre donne più importanti della sua vita. Il sangue avrebbe riscattato ogni malefatta...
Un’altra credenza venuta meno. Il sangue non elimina ciò che è stato.
Qualcuno bussò, ma Gold la ignorò.
Non si voltò nemmeno quando udì il cigolio della porta e i passi leggeri verso di lui.
- Robert?
Malgrado i propositi, l’emozione lo sovrastò. Non poteva non succedere, quando lei gli si rivolgeva.
- Belle.
Il nome gli sfuggì dalle labbra in un sospiro, mentre si voltava verso la donna. Era pallida e si stringeva le braccia al petto; sul volto portava ancora i segni di un’immensa preoccupazione. All’uomo parve così bella e fragile che dovette combattere contro l’istinto di prenderla tra le braccia.
- Come stai? – le domandò, pentendosi subito della stupidità della domanda.
L’altra alzò le spalle.
- Bene. Almeno fisicamente, stiamo bene.
Gold annuì. Non poteva far altro. Cos’avrebbe dovuto aggiungere? Avrebbe dovuto consolarla ripetendo che col tempo tutto sarebbe andato meglio? Non era bravo a rassicurare le persone, a far loro promesse, quel giorno più che mai.
L’uomo schivava il suo sguardo, Belle se ne rese conto subito. Si morse a sangue l’interno della guancia. Da quanto non parlavano da soli, da un mese e mezzo? Il loro ultimo incontro si era concluso con una tazzina rotta e mille recriminazioni. Chiunque, vedendoli, avrebbe decretato la loro storia definitivamente conclusa; lei stessa l’aveva definita spesso tale. Avrebbe dovuto rassegnarsi e accettarlo: lei e Robert si erano amati, tanto, tanto, tantissimo, ma non abbastanza. Si amavano ancora, ma non abbastanza. Forse esistono coppie per cui l’abbastanza non esiste, e loro appartenevano alla categoria.
O forse no: forse loro si amavano abbastanza, ma questo non aveva impedito a Robert di ferirla nel profondo, conscio di farlo. Quanto avrebbe voluto saper andare oltre, chiudere gli occhi e riaprirli pronta a ricominciare daccapo; ma ogni volta che lo incontrava, non riusciva a non pensare anche al modo in cui le aveva nascosto la verità.
Entrare in camera era stato un errore, un errore cui si sarebbe pentita in eterno? Troppe volte aveva spezzato il cuore, troppe volte aveva tradito la sua fiducia. E lei, povera sciocca, non riusciva a staccarsi da quell’uomo che aveva dato il peggio di sé… Il peggio di sé fino a quella sera.
- Io… Volevo solo ringraziarti. Di tutto.
Gold non si mosse.
- Mi sono solo comportato come ti saresti comportata tu. Omicidio a parte.
Cos’avrebbe fatto lei, se fosse stata al posto di Robert? Chiederselo era inutile: per quanto terribile, la risposta era chiara nella mente.
- Rebecca ha cercato di rapire Helena e di uccidermi. Nutro ben poca compassione per lei.
- Fino a poche ore fa non eri dello stesso avviso.
- Sbagliavo. Mi sono sbagliata su di lei.
È una bene che almeno uno tra noi ammetta i suoi errori, la parte più sarcastica in Gold avrebbe voluto ribattere. Ma rimase solo un pensiero tra i tanti, troppi che popolavano la sua mente quella sera.
- Tu come stai?
Una domanda semplice, mille risposte diverse. Non ce n’era una che avrebbe potuto darle a cuor leggero. Quel giorno aveva perso Cora, ucciso Rebecca e sconvolto Belle ed Helena: la vita di quattro persone era cessata o mutata per sempre a causa sua.
E lui stava.
Bene. Male. Indifferente.
Ora non sapeva definirlo.
Dinanzi al suo silenzio, la donna riprese la parola.
- Ce la faremo. Ce la dobbiamo fare. Se non per noi stessi, allora per Helena.
Quanto avrebbe voluto poterle credere.
- C’è chi ce la fa, e chi no.
 L’uomo la guardò con un viso aperto, il più aperto lei gli avesse mai visto, spaventato, esposto, smarrito. Come la sua anima.
- Non è vero, – l’impulso di abbracciarlo era così difficile da vincere – Tu sei convinto di non farcela. Ma tu eri anche convinto di non poter amare, quando da cinque anni dimostri il contrario ogni giorno.
L’uomo trasalì.
- Allora tu sai…
- Io ho sempre saputo che tu mi ami. Ancora. E lo stesso vale per me, ancora, – si maledisse per non essere riuscita a pronunciare la frase di cui lui aveva bisogno – Quanto al resto, però… Quanto al resto io non lo so. Non so nulla.
Gold non era alto, ma in quel momento sembrò persino più piccolo della giovane. Le rivolse il più triste dei cenni.
- Ho dovuto farlo, Belle, io… – le parole si confusero, refoli nel mare di nebbia della mente – Ti ho vista morire. Ti ho vista morire, – ripeté con un filo di voce – Io non posso perderti. Tu mi mantieni umano.
La donna si coprì le labbra con le nocche della mano destra.
Diglielo. Diglielo.
Avanti, vigliacca, diglielo!
Non lo fece. Gli prese una mano, gli occhi fissi sulle dita tremanti. Lui pensò che tra le mille cose che aveva stretto, lei era la migliore.
- Posso… Posso abbracciarti? – la voce di Gold era sottile.
Belle deglutì. Annuì.
Non la stringeva da un mese e mezzo, Gold. Era poco rispetto a ciò che aveva affrontato un tempo, ma un’eternità per lui. Se chinava lo sguardo, se si fissava le mani, vedeva ancora la pistola con cui aveva portato via la vita alla Zelenyy. Ne sentiva il peso, ne ripercorreva il grilletto liscio sotto i polpastrelli, percepiva l’odore acre della polvere da sparo. Quelle immagini l’avrebbero perseguitato per il resto della vita, e neanche avere Belle, la sua Belle, di nuovo tra le braccia riusciva a esorcizzarle.
Non guardare oltre Belle.
Concentrati.
Concentrati sulle piccole cose.
Belle minuta e morbida sotto il suo corpo.
Belle, la pelle liscia e calda del suo collo.
Belle, il suo profumo dolce di tè e miele.
Belle.
Belle.
Affondò il naso nei suoi capelli, ne serrò tra le labbra una ciocca, si aggrappò a lei con tutte le forze.
La zattera del naufrago, il sostegno nella tempesta,.
Se chiudeva gli occhi rivedeva la smorfia che aveva distorto il volto della Zelenyy, ciò che l’aveva preceduta e seguita.
- Sono qui. Ci sono, – ripeté Belle, stringendolo più forte.
Mi tengo a te, amore mio.
Mi tengo a te nella tempesta.
Si staccò appena, lo spazio necessario per carezzarle il volto col proprio, per passarle il pollice sulle labbra, quasi a sentire il timido sorriso che gli dava – sentirlo, ricordarlo. Scorse lungo la schiena con la punta delle dita, perdendosi in quei magnifici occhi azzurri, l’esatto colore di un cielo di maggio senza nuvole, prima di fare ciò che non avrebbe dovuto fare.
Chinarsi a baciarla.
Era così sbagliato, Belle si redarguì all’istante. Con mille cose ancora da discutere, non avrebbe dovuto lasciarglielo fare. Lo amava anche se non riusciva a dirglielo, ma non l’aveva raggiunto per concederglisi quasi fosse il premio del vincitore,: in un simile frangente non poteva permettergli, non poteva permettersi certe libertà, ne era convinta.
Nulla era risolto, tutto ancora in bilico. Non…
Ma ora, ora, tutto ciò che le importava era il modo in cui la lingua di Robert scivolava sulla sua bocca schiudendola, il modo in cui i denti affondavano nel labbro e le mani si aggrappavano al suo corpo.
La mente era svuotata da ogni pensiero per la prima volta da settimane.
E ricambiò il bacio.
Le labbra di Belle bruciavano, come una scottatura. Gold avrebbe voluto baciarla per sempre, per sempre avrebbe voluto sentire le sue dita leggere sul collo, i baci che posava su quella stessa scia, le braccia che si chiudevano attorno a lui. Avrebbe dovuto maledirsi, ripetersi di aver compiuto la scelta più errata possibile – lui sapeva, entrambi sapevano che non sarebbe finita bene –, ma non ci riusciva. Non sapeva pentirsi.
Un ultimo bacio, si promise, solo un ultimo; ma l’ultimo diventò il penultimo, poi il terzultimo, poi perse il conto. Un bacio, un altro, e un altro e un altro ancora, finché le ginocchia non tremarono, finché i respiri non si seguirono rapidi e affannati e nulla ebbe più importanza; nulla, se non il modo in cui Belle gli succhiava la lingua, gli mordeva le labbra tenera e feroce assieme, lo afferrava alla nuca e lo carezzava.
Quando alla fine si separarono ansimanti, fu lui a prenderle il volto tra le mani e a guardarla negli occhi.
Non vi fu bisogno di parole.
Continuarono a baciarsi sul letto su cui caddero insieme, come due ragazzini che sentono crescere in loro la voglia di stare assieme, di essere uno e non più due nei gesti più antichi del mondo. Si toccarono attraverso i vestiti, si morsero, leccarono, si lasciarono dei segni che i giorni avrebbero cancellato dalla pelle, ma non dalla mente.
Segni che erano un inizio, o una fine, Belle non sapeva.
Non voleva sapere.
Sarebbe stato bello restare per sempre lì, in questa stanza in cui non serviva coraggio, non esistevano timori. Esistevano solo loro, e questo bastava.
Fronte contro fronte, viso contro viso, labbra contro labbra.
Le dita intrecciate.
No, ora Belle lo sapeva. Non voleva – non poteva – lasciarlo. Era già successo troppe volte. Non l’avrebbe più permesso.
Sapeva che, se avesse parlato, Robert si sarebbe scusato. Per quello che era stato, per quello che stava succedendo, per mille altri motivi che solo lui conosceva. Ma non ha senso scusarsi. Belle l’aveva imparato sulla propria pelle: non si chiede scusa – lo si dimostra. E non si chiede scusa per qualcosa che entrambi volevano, per un desiderio che pure secondo alcuni non avrebbe dovuto provare e per cui lei per prima non intendeva scusarsi.
Non si era mai scusata per la prima volta che l’aveva accolto in lei, goffa, spaventata e innamorata; non si era mai scusata per la sera in biblioteca in cui lui l’aveva spinta contro un tavolo e le aveva ripetuto coi gesti e le parole quanto fosse sua. Perché era così – era sua. Apparteneva a Robert quanto Robert apparteneva a lei; si appartenevano, e questo le piaceva, le era sempre piaciuto.
E voleva viverlo, ancora, ancora e ancora.
Ogni bottone della camicia era un bacio, ogni bacio un laccio dell’abito, finché non si ritrovò vestita dei suoi soli capelli. Le dita scivolarono tra le gambe, come le bocche. Robert la osservava a lungo, lentamente, attentamente, come un pittore studia il paesaggio che riprodurrà – come a volerla imparare a memoria. Con la punta delle dita seguì ogni dettaglio del suo corpo, ogni segno, ogni particolare; si riempì di lei i sensi e la memoria mentre assaporava la sua pelle, mentre tenero e incessante la carezzava dal ventre al seno, che baciava senza requie.
L’uomo premeva con forza le labbra contro le sue, cercando di divorarne il sapore un’ultima volta – la volta definitiva.
Lo stai provocando tu.
Il pensiero gli attraversò la mente rapido come una stella cadente.
Ogni prezioso istante che passava era un istante in meno.
Tutto questo, lo stai provocando tu.
- Ti amo, – le giurò – Ti amo.
Non glielo disse per placare la mente, per giustificare le azioni e l’indomani; lo disse perché aveva in gola quella frase, perché non poteva fermarla. Perché quella frase era come lei – un barlume di luce in un oceano d’oscurità.
Belle sentì un groppo alla gola. Perché, non riuscì a fare a meno di chiedersi, perché glielo ripeteva ora, così, all’improvviso, e soprattutto perché lei non riusciva a dirglielo?
Quanto avrebbe voluto farlo, quanto. Era l’unica verità, qualunque cosa blaterasse la ragione, e il fatto che ora stesse lì, sotto di lui, a ricambiare i suoi tocchi e i suoi baci, a non desiderare altro che lui – lui, la sua passione, il suo respiro su di lei, lui, sentirlo perdersi e ritrovarsi in lei, lui, timido, diffidente, vulnerabile com’era sempre stato, lui, lui, lui – lo provava.
Io ti amo.
Amo tutto di te.
Anche le parti più oscure.
F u l’unico istante in cui Belle chiuse gli occhi, per non cogliere la tristezza nel suo sguardo mentre lei non parlava.
- Stringimi, – gli chiese invece – Più forte.
Lui obbedì.
Il suo tocco gli fermava il cuore.
La prese senza pensare alle conseguenze, senza pensare più che non poteva, che non doveva. Che la mattina le avrebbe ancora sfregiato il cuore, che si sarebbe vista solo sfruttata, che l’avrebbe odiato. Non pensò più a niente, se non al desiderio disperato con cui il suo corpo lo accolse, al modo in cui lo stringeva tra le gambe e gli scostava i capelli ogni volta che gli ricadevano sul volto. Lo guardava in volto, come se anche lei avesse voluto memorizzarlo, come se avesse capito. Non si chiese se fosse la realtà o una sua impressione: guardarla era anche suo bisogno. Stavolta doveva guardarla, dal primo all’ultimo istante, doveva essere presente a se stesso e l’unico posto in cui perdersi dovevano essere le sue braccia, la sua pelle, la sua carne morbida e diafana che lo incatenava e inghiottiva.
Belle era delicata, e lui avrebbe preferito non lo fosse. Voleva che lasciasse l’impronta delle mani, delle labbra, dei denti sulla pelle, per fargli ricordare quella notte, per non fargli credere di aver sognato quando si sarebbe ritrovato solo, lontano da tutto e tutti – lontano da lei.
- Non ti odio, – Belle gli mormorò all’orecchio – Non ti ho mai odiato.
Dalla prima volta che lo aveva visto non l’aveva sopportato, lo aveva detestato, ma non gli era mai, mai, mai stato indifferente. Quanto tempo avevano perso per la testardaggine, per il loro stupido orgoglio… Ma non avrebbe mai voluto tornare indietro e ricominciare daccapo, correggere i mille errori.
Erano tutti preziosi: tutti li aveva condotti qui.
Gold nascose il volto nell’incavo del suo collo. Il tempo doveva fermarsi, non era giusto scorresse, non era giusto – doveva fermarsi, doveva fermarsi ora, mentre il suo nome le esplodeva sulle labbra tra i gemiti e le carezze più intime, mentre le sue spinte perdevano ogni ritmo, mentre –
L’orgasmo esplose nello stesso istante, un impeto che li lasciò senza respiro. Si morsero la bocca a sangue per non urlare, soffocando l’urlo in un bacio; restarono avvinghiati a riprendere fiato, il capo di lui sul seno di lei, le labbra di Belle socchiuse, i capelli sparsi come un’aureola attorno alla testa.
Non sapevano quanto tempo fosse passato. Il tempo aveva perso ogni importanza, ormai. Quando alla fine Gold si allontanò, ricadendo al suo fianco, Belle sentì un vuoto che non aveva nulla a che fare col sesso. Doveva essere palese sul suo volto: l’uomo si riavvicinò e le posò un bacio delicato, leggero, a fior di labbra. Lei gli mise una mano sul petto, ascoltando il battito veloce del suo cuore.
Ancora una volta, nessuno parlò. Non c’era bisogno di parole.
Gold rimase immobile a guardarla finché non sentì il suo respiro diventare pesante, finché non fu sicuro che stesse dormendo.
- Non lasciarmi, – all’improvviso Belle mormorò nel sonno.
- Mai più, – le carezzò una guancia con un dito dicendolo.
Ma il suo sussurro fu appena udibile.
 
 
 

“You cry out in your sleep,
all my failings exposed,
and there’s a taste in my mouth
as desperation takes hold.
Just something so good
just can’t function no more.”
“Love will tear us apart” - Joy Division
 

 
 
Dicono che il bacio più difficile non sia il primo, ma l’ultimo.
Come si saluta un pezzo di cuore? Come si fa a voltare le spalle e proseguire per la propria strada,  quando a pochi passi c’è chi si ama più della propria vita, chi è ignaro – o forse solo non ancora del tutto consapevole – che si risveglierà in un letto vuoto? Una lettera non basta a neutralizzare la confusione in testa, a colmare l’assenza dopo che le mani si sono cercate con tanta urgenza.
Non avevano fatto l’amore per fermare il tempo e ritardare l’addio, Gold se lo ripeteva fino allo spasimo. Era successo perché si amavano. Serviva altra giustificazione?
Era stato un momento di verità, l’ultimo che la vita regalava loro. A Gold non piaceva dire che ne avevano approfittato – che strano, dopo vent’anni trascorsi a coltivare la finanza con la stessa dedizione che avrebbe dovuto riservare ai rapporti umani, improvvisamente la parola profitto lo disgustava. Belle non era profitto. Belle non era definibile.
Belle era – punto. Gli aveva spezzato la vita in due. Robert Gold prima di Belle, Robert Gold dopo di Belle.
Non le aveva mai raccontato del tempo in cui si stendeva sullo stesso letto su cui si erano amati, fissava il soffitto e la immaginava respirare accanto a sé. Non le aveva mai detto del modo in cui i polmoni gli si erano allargati dolorosamente in cerca d’aria, del modo in cui il mondo era esploso davanti ai suoi occhi quando mesi prima aveva capito che lei era viva, era reale.
Non le aveva mai detto un sacco di cose, e questa era la causa della loro situazione; e altre cose le aveva dette, ma non dimostrate, e anche questo li aveva condotti sin lì.
Lasciò il foglio e si diresse verso la porta.
La tentazione di voltarsi era sempre più pungente.
Un ultimo sguardo, un’ultima volta, un’ultima volta…
Non lo fece. Se si fosse fermato, se si fosse voltato, non sarebbe più stato in grado di proseguire.
Strinse forte il metallo della maniglia, forte, più forte, fino a provare dolore.
Cosa sto facendo?
Poggiò la fronte alla bussola. Il freddo del legno non rischiarò i pensieri, come tanto avrebbe voluto.
Ma non posso non farlo.
Le lacrime non versate gli offuscavano la vista, un velo perlaceo calato davanti agli occhi.
Perché non so amarti senza sporcarti.
Aprì l’uscio.
Non svegliarti.
(Svegliati, amore mio, non lasciarmi andare via.
Svegliati!)
Uscì nel corridoio e richiuse piano la porta dietro di sé.
Grazie.
 
 
 

“You've got my eyes, 
we can see what you'll be,

you can't disguise,
and either way, I will pray,

you will be wise,
pretty soon you will see the tears in my eyes.”

“My eyes” - Travis
 

 
 
Quando Gold entrò nello studio, si sorprese nel non trovarlo deserto.
La sua poltrona era occupata da una ragazza assopita dalla lunga treccia scura.
Non dedicava un pensiero a Regina da ore, solo adesso se ne rendeva conto: l’aveva completamente ignorata, persino una volta rientrato in casa. Ma anche per lei era stato un giorno terribile…
Forse, si disse, era destino che la trovasse lì. A prescindere dai propri fini, intendeva cercarla e parlarle: perdere un genitore è sempre un incubo e perderlo quando, malgrado i contrasti, lo si ama tanto forse è peggio.
Non lo stupiva il fatto che la ragazza si fosse rifugiata da lui: Kensington, in fondo, era l’unico porto sicuro che le rimanesse. A quanto pareva, purtroppo ormai entrambi lo sapevano più che bene.
- Regina, – la scosse piano per svegliarla – Regina, sono io.
La giovane mormorò qualcosa prima di aprire le palpebre. Sulle guance aveva i solchi di lacrime secche.
- Zio, – borbottò infine, passandosi una mano sul volto. Pareva disorientata, come se non capisse cosa ci facesse acciambellata su una poltrona di casa Gold in piena notte; e Gold sperò che quella beata ignoranza durasse, durasse ancora, e proteggesse una bambina cresciuta in fretta dal volto terribile che la realtà aveva mostrato.
Ma l’oblio durò un battito di ciglia.
- Scusatemi per essermi addormentata qui. E scusatemi se mi presento così… Disordinata, – fece cenno alle ciocche sfuggite al nastro e all’abito che indossava, assai lontano dai fasti di un recente passato.
- Non devi scusarti di nulla.
Entrambi tacquero per lunghi minuti.
- Come… Come stanno Helena e Belle?
- Bene, – l’adulto fu grato che l’interlocutrice avesse parlato per prima – Sono molto spaventate, ma stanno bene.
- Forse dovrei salire in camera. Se Helena mi cercasse senza trovarmi, potrebbe angosciarsi di più.
L’adolescente si alzò, e Gold la lasciò fare. Si conficcò le unghie nel palmo di una mano. Non avrebbe dovuto chiudersi in un silenzio definitivo, stante i motivi che lo spingevano a cercare la ragazza. Non poteva lasciarla andare via così, come se non si curasse di nulla – lui, lui che forse era suo padre. C’erano troppe questioni irrisolte tra loro, ma se lei fosse uscita dalla stanza – ora, col suo sguardo improvvisamente inespressivo, il volto contratto e gli occhi arrossati di chi ha pianto ogni lacrima –, lui avrebbe ottenuto l’agognata solitudine, ma non se lo sarebbe mai perdonato.
- Mi dispiace per tua madre.
Regina si fermò di colpo. Tentò invano d’impedire alla frase di pungerle il cuore.
Com’è la vita senza Maman?
La stava già vivendo da mesi, ma ora tutto era diventato definitivo.
- Chi l’ha uccisa?
Gold osservò la figura ferma della ragazza, il modo in cui si manteneva dritta nonostante il peso che le gravava addosso. Le spalle di Regina forse non erano larghe o robuste, ma erano forti abbastanza per reggere la verità.
- La stessa donna che ha portato via Helena.
L’adolescente fremette, la mente ora del tutto lucida. Sua madre non aveva un’anima candida: le ingiustizie di cui si era macchiata, anche nei confronti della sua stessa figlia, erano innumerevoli. Forse qualcuno, per qualche perversa ragione che guida la mente umana, avrebbe anche potuto considerare la sua morte una giusta vendetta. Regina non accettava il ragionamento, ma poteva capirlo.
Ma l‘idea che la stessa persona – la stessa bestia che aveva infierito su Cora avesse fatto del male a un’innocente, a Helena, alla sua Helena era al di là di ogni possibile giustificazione.
- Voglio vendetta, – furono le sue uniche parole; e lei per prima non seppe a quale atrocità si riferissero.
- L’abbiamo già avuta.
Regina si voltò verso lo zio. Il modo in cui egli ricambiò incrollabile lo sguardo rispose a ogni silenziosa domanda.
- Allora avete fatto ciò che era giusto.
Questione di punti di vista.
- Come… Cosa devo fare io, adesso?
- Non dovrai preoccuparti di nulla, – l’industriale la rassicurò con prontezza – I miei avvocati ti contatteranno e risolveranno qualsiasi problema. Quasi sicuramente sarò io il tuo tutore, e sarà mia premura accettare. È mia intenzione lasciarti libera: quando sarai maggiorenne potrai emigrare in America, andare a Parigi o da qualsiasi altra parte. Oppure potrai restare qui e iscriverti alla Scuola di Medicina, se è ciò che desideri. Ma in tal caso, – aggiunse rapido – Permettimi di pagare le rette. Permettimi questo.
La ragazza non nascose lo stupore.
- Perché?
Gold non rispose.
Perché le voleva bene, anche troppo, in un modo che era impossibile definire.
Perché era sorella di Neal e di Helena, o forse no, ma questo non cambiava nulla: lui e quella ragazza dagli occhi grandi erano legati da sempre, forse da prima ancora che entrambi esistessero, e lo sarebbero sempre stati. Come zio o nipote o come padre e figlia, come maestro e allieva o forse al contrario, non importava: ciò che contava era il filo tra loro, il filo logoro, consumato, ma resistente che raccoglieva le loro esistenze.
- Ti affido Belle ed Helena, – dichiarò all’improvviso, senza procrastinare ulteriormente – Sto partendo.
Regina aggrottò la fronte, un nodo di stupore che le chiudeva la gola.
- Cosa?
- Hai sentito bene. Sto partendo, e non so se e quando tornerò.
- Ma… Belle ed Helena? – nominò sgomenta – Non verranno con voi?
Gold chinò il mento. Ammettere la verità fa sempre male, e lui lo sapeva fin troppo bene.
- Sarà meglio per loro non incontrarmi più.
- Cosa state dicendo? – Regina scattò, tutto d’un tratto dimentica di ogni residuo di buone maniere. Lo zio era ubriaco o cosa? Stava ascoltando le sue stesse parole, o le pronunciava senza curarsene? – Belle e vostra figlia vi amano. Nell’ultimo mese e mezzo io le ho viste e so come e quanto siano state male per voi, quanto voi siate mancato loro. Come potete anche solo pensare non vogliano vedervi?
L’imprenditore riportò lo sguardo su di lei.
- Proprio perché soffrono a causa mia, per loro sarebbe meglio non vedermi più.
La nobile scosse il capo incredula e furiosa: solo un estraneo o un folle avrebbe accettato impassibile simili confessioni, e lei non era né una, né l’altra. Da anni era coinvolta in quel turbine di avvenimenti non come mera spettatrice, ma come personaggio principale, alle volte come antagonista. Se lo zio intendeva comportarsi come il tragico protagonista di un melodramma di terz’ordine, prego, facesse pure; ma se si fosse aspettato la sua comprensione o peggio, la sua commiserazione, ebbene, non avrebbe ottenuto ciò cui anelava.
- Non ha senso. Credetemi, Belle lo accetterà ancor meno, e vostra figlia non lo accetterà proprio. Glielo avete detto? Come hanno reagito?
Il silenzio dell’imprenditore valse più di mille parole.
- Perché dovete partire? Per… – abbassò inconsciamente la voce – Per la vendetta?
 Mentire sarebbe stata la soluzione più semplice; ma in quel momento Gold non ne fu capace.
- Quella è una questione risolta. No – devo farlo perché è giusto così. Perché con me accanto Belle non sarebbe libera di decidere se vuole davvero restare con me.
L’altra digrignò i denti. Non aveva mai udito l’uomo pronunciare certe frasi. Avrebbe dovuto provar imbarazzo dinanzi a simili ammissioni, sdrammatizzarle o cosa? Non ne aveva idea. Capiva solo che nel suo delirio lo zio si arrogava l’assurdo diritto di non amare nessuno, credeva di meritare la solitudine, riteneva la sua presenza dannosa per chi avesse di sua volontà deciso di restargli accanto, e…
Non è un delirio.
Queste cose, lo sai, le pensi anche tu.
Ma lei non aveva più nessuno che la smentisse, che le ricordasse di essere importante nonostante tutto.
Lui, invece, aveva il mondo e se lo faceva scivolare dalle dita.
- Sottovalutate Belle, – diede voce al pensiero che da settimane non l’abbandonava.
- No. Lei è migliore di me, e per questo le mie scelte le si ritorcono sempre contro. Per questo te la sto affidando – sto affidando a te mia moglie, e mia figlia, – disse senza esitare, mentre la guardava dritta in volto – Perché tu sei migliore di me e sai come funziona il mondo. Tu puoi farcela.
Sto affidando a te mia moglie e mia figlia.
Perché tu sei migliore di me e sai come funziona il mondo. Tu puoi farcela.
Regina sapeva che una signora non doveva mai indossare i diamanti di mattina, né estromettere qualcuno dalla conversazione o mangiare in pubblico. Ma questo non significava saper prendersi cura di due persone, sapere come funziona il mondo, potercela fare.
- Non potete pagarmi le rette in cambio di un compito simile, – strinse i pugni ribellandosi – Ho quindici anni, non so niente del mondo. Non posso farcela.
Il suo tono era adirato e implorante assieme, Gold non mancò di notare. Quel compito poteva apparire – era – gravoso, era il primo a riconoscerlo; ma c’era un motivo se incaricava lei.
- Non le pagherò per questo motivo, credimi, – una sua promessa ora sarebbe valsa ben poco, ma tra sé e sé promise – E tu sai cosa è davvero importante da quando hai dieci anni. Te lo ripeto – io credo in te.
Il cuore gli si capovolse in petto dinanzi agli occhi lucidi, all’improvviso sgombri di qualsiasi accusa, di Regina. Aveva trascorso anni interi considerandola la causa dell’estrema rovina; eppure ogni volta, se solo si soffermava, i sentimenti affioravano.
Anche Regina, chiunque fosse, era migliore di lui. Negarlo era vano. Dicono che prima di raggiungere il Paradiso bisogna passare dall’Inferno; e Gold sapeva, era sicuro che lei ce l’avrebbe fatta, che quel cielo lei l’avrebbe conquistato. Non era come lui: aveva sbagliato, ma si stava impegnando per un riscatto e lo stava facendo senza scorciatoie, senza scegliere sempre e solo la strada facile. Come Belle, avrebbe colmato i buchi nel cuore, ne era sicuro: insieme le due donne avrebbero saputo aiutarsi e sostenersi.
Aveva affidato Belle a Regina, ma era vero anche il contrario: anche Belle aveva il tacito, ma non per questo meno importante compito di stare a fianco alla giovane, di aiutare lei tanto quanto avrebbe aiutato Helena.
E, mentre si dirigeva verso la porta, Gold ebbe la certezza che nessuna delle due sarebbe venuta meno all’incarico.
- Zio, – il richiamo lo trattenne – Sapete se mia madre ha lasciato qualcosa per me? Mi riferisco a una lettera, a un biglietto… A qualcosa di simile.
Gold scrollò le spalle.
- Tua madre non immaginava di stare per morire, – fu l’unica replica onesta.
- Va… Va bene – Regina gli dedicò una smorfia che lui ben conosceva, il sorriso di chi desidera qualcosa e sa che non la otterrà.
Forse, se Cora avesse previsto ciò che sarebbe successo, avrebbe cercato di ricucire i rapporti con la figlia, di chiederle scusa per gli errori e le recriminazioni ingiuste.
Forse.
O forse anche in tal caso avrebbe perseverato fino all’ultimo nella propria idea.
Stabilirlo era impossibile, e comunque vano.
- Partirete ora?
- A breve. Prima devo salutare una persona.
La nuova Contessa annuì.
- Fate buon viaggio, zio.
L’uomo la guardò per un’ultima volta prima di annuire.
- Grazie.
 
 
 
Hey there, Delilah,
don’t you worry about the distance,
I’m right here if you get lonely,
give this song another listen,
close your eyes,
listen to my voice, it’s my disguise,
I’m by your side.”
“Hey there, Delilah” - Plain White T’s
 
 
 
Gold mandò via Mary Margaret senza far rumore. Helena stava dormendo: era un bene. Il sonno l’avrebbe ristorata, cancellando le ombre che durante il giorno avevano imperversato sulla sua vita; o almeno, sperò, le avrebbe allontanate.
La osservò dormire: i capelli finalmente pettinati lasciavano scoperto un visetto pallido e agitato anche nel sonno. Quella notte non era sgusciata nel letto di Regina come suo solito, e la cosa non era certo da imputare alla vigilanza della governante. Ci sarebbe voluta ben più di una manciata di ore per dimenticare quella maledetta storia…
Sfiorò il volto della bimba e lei, gli occhi ancora chiusi, si voltò e si allungò verso di lui, come per trattenerlo.
No: non come. Per trattenerlo.
Ancora una volta gli tremò l’anima per la gioia, o per il dolore. Il confine tra certe emozioni è sempre tremendamente sottile.
La bambina aprì gli occhi e rivolse al padre con un sorriso strano, insieme assonnato e triste.
Quando sarebbe tornato il suo sorriso birichino, di chi è colto con le mani nella marmellata?
E lui, lui, almeno allora ci sarebbe stato?
- …pà?
L’uomo le sfiorò la guancia con un bacio.
- Helena, – si sedette sul letto – Scusa se ti ho disturbata. Torna a dormire.
La piccola scosse il capo.
- È ancora buio, puoi dormire quanto vuoi, – disse più volte, pur conscio che se sua figlia avesse deciso di svegliarsi l’avrebbe fatto, incurante di tutto.
Alla fine si arrese.
- Ieri non abbiamo parlato. Come stai? – domandò, incerto di star facendo bene.
La bimba si stiracchiò. Aveva dei lividi sui polsi, là dove la Zelenyy l’aveva stretta. Veleno riempì la bocca di Gold alla vista di ciò che quella strega aveva inflitto a sua figlia: ammazzarla non era stata l’unica possibilità stante la situazione.
Era stato dovere.
E lui l’avrebbe rifatto dieci, cento, mille volte se ci fosse stato bisogno.
- Ho sonno. Però resta! – aggiunse precipitosa. Lo sbirciò, temendo le conseguenze della sua ammissione; e lui sentì un fiotto di colpa dal cuore. Solo Helena sapeva fargli provare tutto quell’odio per se stesso.
Tacque.
Helena, Helena, amore mio, non fare lo stesso errore di tua madre.
Se vi amo, non posso restare.
- La mamma?
- Sta riposando. Anche per lei questa è stata una brutta giornata. Helena, – si risolse di chiederle – Perché l’hai fatto?  Perché ci hai disobbedito e hai seguito quella… Quella donna?
Helena distolse lo sguardo. Non voleva ricevere un rimprovero, anche se sapeva di essersi comportata male. Era lei la prima a dirsi che non avrebbe dovuto dar retta a una sconosciuta, ma Rebecca le era parsa così gentile, così buona; e poi, come scordare la sorpresa che le aveva promesso?
- Perché la zia mi doveva portare da te, – Gold si fece più attento – E mi ha detto che dovevamo andare in Scozia.
- L’hai seguita perché ha detto che ti avrebbe portato da me?
- Sì, e che la mamma veniva con noi! Pensavo che stavamo di nuovo assieme, come adesso!
Sua figlia aveva rischiato la vita per il desiderio di riavere una famiglia unita. Aveva dato fiducia a una pazza, era stata rapita, e tutto per colpa loro; e ora che ai suoi occhi cuccioli la situazione pareva essere risolta, lui stava per dirle che sarebbe presto…
Solo il pensiero era difficile. Come spiegare la sua decisione? Non ne aveva idea, ma doveva farlo. Helena non meritava che suo padre sparisse dalla sua vita senza preavviso, lasciandole solo domande e paure. Non meritava le fosse inflitto ciò che lui per primo conosceva bene…
- Helena, – mormorò infine – Devo dirti una cosa.
La piccola inclinò il capo fiduciosa, e Gold dovette lottare contro le lacrime che gli pungevano gli occhi. Non poteva lasciarle vincere. Se l’avesse fatto, Helena si sarebbe spaventata e lui doveva risparmiarle almeno questo, oggi e sempre.
La carezzò con tenerezza, come per alleviare il peso di quanto stava per dirle. 
- Sono qui per salutarti. Tra poco partirò.
La bambina non parve risentita. Annuì prima di chiedergli: – E dove vai?
Una parte di Gold ebbe l’ardire di pensare che forse tutto si sarebbe risolto meno drammaticamente del previsto.
- In Scozia.
- Ah, – un’ombra attraversò lo sguardo di Helena, come se all’improvviso il viaggio a lungo sognato non la interessasse più; ma il tono di voce le si ammorbidì subito – Cosa mi porti? Tu mi porti sempre qualcosa quando vai da qualche parte.
Gold rimase immobile.
La sua furbetta, con le sue richieste nette, inesorabili. Belle la rimproverava quando si comportava in questo modo, lui sorrideva. Gli piaceva che sua figlia non gli somigliasse – che non fosse pavida, timorosa persino di respirare.
All’improvviso gli sorrideva, attendendo speranzosa la risposta. Come avrebbe fatto lui a non spezzare quel sorriso luminoso come sole liquido che prima tanto aveva agognato?
- Helena, – misurò le parole con grande lentezza – Potrei non tornare presto da questo viaggio.
Il sorriso della bambina era svanito alla stessa velocità con cui era apparso. Il suo posto era stato preso da uno sguardo corrucciato, inchiodato al volto paterno in attesa di spiegazioni.
- Tu torni tra una settinana. Noi ci vediamo sempre dopo una settinana.
- Forse stavolta passerà più di una settimana.
- Due settinane?
 Non ebbe il cuore di mentirle.
- Un po’ più.
Helena gli piantò in viso due occhi colmi di rimprovero che egli non riuscì a sostenere. In quello stesso istante fu sorpreso da una piccola furia che gli balzò addosso e iniziò a prenderlo a pugni sul petto con tutta la frustrazione che provava. Lui la strinse a sé.
- Tu mi avevi promesso! – la udì ululare – Mi avevi promesso che non te ne andavi! Perché te ne vai? Perché sono stata cattiva e non mi vuoi più bene? Ma non lo faccio più, te lo prometto, papà, te lo prometto, però resta! Resta!
Gli occhi di Helena si riempirono di lacrime. L’uomo chinò il capo per appoggiarle la fronte sopra la testa. Conosceva lo sguardo che la figlia gli dedicava: era quello che per anni lui per primo aveva avuto ogni giorno, che alle volte ancora incontrava nello specchio.
Lo sguardo di chi ha vissuto sulla propria pelle l’abbandono.
Era uno dei motivi per cui certi giorni ascoltava ancora incredulo le dichiarazioni di Belle. Lui era stato gettato via tante volte: com’era possibile che qualcuno amasse chi tutti gettavano via? Chi non era stato desiderato nemmeno dal proprio stesso padre?
Conosceva quello sguardo, e sapeva quanta forza fosse necessaria per spingere in là il vuoto che dominava il cuore a certi pensieri, per soffocare il senso doloroso di colpa e rabbia che era il loro compagno prediletto.
Ma lui amava Helena.
Non la stava abbandonando,
E lei non avrebbe mai, mai dovuto conoscere simili pensieri.
- Helena, Helena, no! – prese tra le mani il visetto della figlia, lo sollevò perché ella lo guardasse dritto in volto – Non è vero, non devi mai pensare una cosa simile! Io ti voglio bene, te ne voglio da sempre e te ne vorrò sempre. Nulla potrà mai cambiare questo, nulla: qualsiasi cosa succeda, sarai sempre la mia bambina e ti amerò sempre. Ricordi cosa ti ho detto la prima volta che sei venuta qui? – le rammentò, pur intuendo la vanità del tentativo – Tu sei il mio tesoro unico e specialissimo, non potrei non amarti. Ricordi? Ricordi, amore mio?
La bambina continuava a singhiozzare convulsamente.
- E allora? Allora perché mi lasci?
- Helena, – gli mancò la voce chiamandola – Sarò sincero con te. Ti parlerò come un’adulta perché so che mi capisci, perciò per favore, sta’ attenta. Amore mio, – le baciò la fronte prima d’iniziare – Sempre la prima volta che sei stata qui, ti ho detto che tu mi consideri buono, ma che non lo sono. Tu non sai quante cose io abbia sbagliato negli anni… Tante, tantissime. E, cosa peggiore, – aggiunse – non ho mai imparato dai miei errori.
- Oggi tu hai scoperto che alcuni mostri non vivono solo nelle fiabe e d’ora in avanti sarai più attenta, più furba; io, invece, quando sbaglio non imparo: faccio sempre le stesse pessime scelte e me ne pento quando ormai il danno è fatto. Finora le persone hanno avuto pazienza e mi hanno perdonato, anche se i miei errori le facevano star male; ma la pazienza, Helena mia, non è infinita.
La piccola interlocutrice lo fissò scettica.
- Non è vero, – tirò su col naso – La mamma dice che con me ci vuole infinita pazienza. Se ce l’ha per me ce l’ha anche per te!
- La mamma ha tanta pazienza, è vero. Solo che… – l’uomo sospirò. La piccola aveva indovinato all’istante i protagonisti della vicenda – Helena, chi ci ama ci perdona, è giusto. Ma se tradiamo tante volte chi ci ama, se gli mostriamo sempre e solo la parte peggiore di noi, allora tutto cambia. Per quanto possa essere profondo un sentimento, il legame s’indebolisce e si spezza. Ed è giusto così: non succede per cattiveria o per egoismo, ma perché arriva il momento in cui o si sceglie se stessi, o si impazzisce. Si può provare a ricostruire il legame, certo, – concesse – Ma più esso era forte, più è difficile rimettere assieme i pezzi. Ci vuole tempo. Tanto, alle volte tantissimo tempo. Mi capisci?
Helena si passò il dorso di una mano sugli occhi.
- No, – ribadì – Io capisco solo che tu vai via!
Gold la cullò contro di sé. Era naturale che la bambina non lo capisse. Per quanto fosse intelligente, era troppo piccola, e queste erano cose che ciascuno deve imparare da solo.
Gli occhi scuri di Helena erano identici a quelli di Neal. Quando gli aveva comunicato di dover emigrare nella capitale, il suo primogenito non aveva pianto o strepitato, ma i suoi occhi si erano tinti della medesima tristezza. Si somigliavano tanto, quei due: erano forti, loro, e questa cosa rendeva il loro papà allegro e triste nello stesso tempo. 1
- Helena, tua mamma è arrabbiata con me perché io le ho fatto del male. Le ho raccontato tante bugie, non l’ho trattata bene come avrei dovuto, e non immagini quanto me ne penta ogni giorno. So che vorrebbe perdonarmi, ma so anche che non è pronta a farlo. Non ancora, anche se non lo ammetterebbe. Andandomene per un po’, lei potrà riflettere meglio, e magari… Magari farcela.
- E se non ci riesce?
L’industriale le rassettò i capelli dietro le orecchie.
- Che lei riesca o meno, ti faccio una promessa: le cose tra noi due non cambieranno. Resteremo sempre in contatto, sempre, e ci rivedremo. Non ti sto abbandonando, Helena – io ti amerò sempre e comunque. Su questo non avere dubbi. Non averli mai.
Era sincero. Non avrebbe accettato compromessi. Non avrebbe permesso a nessuno – nessuno, neanche a se stesso o a Belle – di portargli via la bambina. Era la sua unica certezza.
Helena riposò il capo contro il petto paterno. Una parte di lei non riusciva a capire ciò che le era appena stato spiegato: anche lei litigava con gli amici, ma non aveva mai avuto bisogno di andare in posti lontanissimi per dimenticare i torti fatti o subiti. Perché papà aveva questa necessità, cosa cambiava? E mamma non poteva riflettere alla svelta? Chissà quanto tempo avrebbe impiegato per fare la sua scelta, sempre se avesse scelto.
Ma… Ma se lei e papà l’avessero, come dire… Aiutata?
- Fammi venire con te. Così alla mamma manco, ci ripensa e ti perdona subito!
Gold sorrise all’ingenuità della sua piccolina, ai piani folli che sempre architettava. La strinse più forte a sé.
- Non funziona così. A tua mamma mancheresti e ci raggiungerebbe, certo, ma la sua non sarebbe una scelta serena, e questo non va bene. Le persone sono libere: non possiamo obbligarle a fare o non fare qualcosa, a provare o a non provare certi sentimenti. E io e tua mamma questo lo sappiamo più di tutti.
In passato Gold si era ripetuto spesso che sarebbe stato meglio non innamorarsi di Belle. Anche quando ormai era troppo tardi, l’aveva amata in silenzio, senza aspettarsi nulla in cambio, senza neanche credere di poter essere ricambiato. Era stato convinto che lei lo avrebbe lasciato affogare  nel suo passato, perdersi nei rimpianti e nei rimorsi di un’anima cupa; ma la sua Sweetheart aveva guardato oltre il mostro e aveva rifiutato di lasciarlo andare. Lui non aveva imparato, ma lei gli aveva insegnato così tanto sulla fiducia e sull’amore…
Un altro forse sarebbe stato capace d’ignorare sin dall’inizio quelle emozioni; sarebbe stato più accorto e furbo – migliore. Ma lui non aveva mai voluto essere più accorto, più furbo, migliore. Lui aveva sempre e solo voluto lei.
Perché senza di te sarei perso, perché senza di te non avrei Helena.
E per questo ti amo, per questo devo lasciarti libera.
No, malgrado tutto non riusciva a pentirsi di essersi innamorato di Belle.
- E poi, – provò a consolare la bimba – Ora tu hai dei compiti importantissimi. Tu sei…Sei la mia assistente. Significa che devi essere attentissima a quel che succede nel Castello e riferirmelo appena ci rivediamo. Per questo, mi raccomando, devi restare qui e non andartene. Non devi uscire da sola o con chi non conosci. Capito? – a quanto pareva, ripeterglielo alla nausea non era stato sufficiente – E poi, il compito più importante… Proteggi la mamma, – affidò Belle a Helena senza esitazioni, certo che ancora una volta la bambina non sarebbe venuta meno al compito che aveva sin da quando era nata – Si sforza tanto di essere forte, ma anche le persone forti hanno i loro punti deboli. Con te accanto lei starà meglio. Me lo prometti?
Helena annuì seria.
- Solo se tu prometti che torni. E che mi porti davvero in Scozia, a conoscere la persona importante. Abbiamo un accordo?
- Abbiamo un… Abbiamo un accordo, – quasi gli costò fatica pronunciare una frase per  lui tanto usuale. Sentì la bimba rilassarsi per la prima volta da quando era iniziata la conversazione; ma il suo cuore no, non poteva chetarsi al pensiero dei suoi bambini.
Anche oggi hai protetto tua sorella dal fango del mondo?
Prima ancora che se ne rendesse conto, le parole gli scivolarono dalle labbra.
- Tuo fratello meritava di conoscere un tesoro come te.
Helena batté le palpebre stranita.
- Che?!
Gold si chiese se facesse bene. Già in passato era stato sul punto di raccontarle di suo fratello maggiore, che se fosse stato vivo l’avrebbe amata da impazzire; e sempre si era trattenuto, temendo che la triste fine del suo ragazzo potesse intristire la piccola. Sarebbe potuto succedere anche stavolta; ma non se ne sarebbe andato senza dirglielo.
- Tu avev… Tu hai un fratello.
L’altra si portò le manine alla bocca.
- Un fratello?! Come Anna ha Elsa?
- Sì, – confermò, ricordando vagamente un aneddoto su due ragazzine straniere – Si chiama Neal ed è più grande di te.  È lui la persona importante che vorrei presentarti.
- Sì! Voglio conoscerlo anch’io! – il tono era allegro, ma il sorriso si spense presto. Quando riaprì bocca, c’era una scintilla di strano timore incastonata tra le parole – Perché la mamma non è con lui?
Parlare di Neal a Helena era un conto. Poteva raccontarle di quel bambino bello come il sole e altrettanto luminoso e della sua insaziabile curiosità, dirle che aveva chiuso gli occhi troppo presto e che da allora lui non faceva un respiro senza il dolore per la sua morte; poteva spiegarle ogni cosa, ma non Milah.
Perché lui per primo non capiva il comportamento della prima moglie, come avesse potuto chiudere la porta di casa lasciandosi alle spalle un bambino della stessa età di Helena.
Non è quello che stai facendo anche tu stanotte?, gli ghignò all’orecchio una voce malefica.
No, la scacciò via risoluto.
Io ci sarò sempre per mia figlia. Sempre.
Cos’hai detto prima? Che non impari dagli errori? Questa ne è la dimostrazione.
No. Non sto abbandonando mia figlia. E Belle non mi impedirebbe mai d’incontrarla.
- Tua mamma non è… Tua mamma non è la mamma di Neal. Sai che io sono più vecchio della mamma, e prima di conoscerla io… Per un po’ di tempo io ho voluto bene a un’altra persona. La mamma di Neal, appunto.
- Ah! E allora lui sta con la sua mamma! Voglio conoscere pure lei!
Gold non rispose subito.
- Vedremo, – le lisciò le coperte con cura, perché non prendesse altro freddo, perché fosse protetta, perché le attenzioni la distraessero dalla sua espressione – Ora però devi riposare, o domattina sarai troppo stanca persino per giocare. Ci siamo intesi?
La bambina ridacchiò, ma obbedì e serrò le palpebre, salvo riaprirle l’istante seguente.
- Anche se devi partire resti con me? – lo pregò. Malgrado il tentativo giocoso, nel suo tono c’era una tale preghiera, una tale urgenza che al padre mancò la voce –  Solo fino a quando dormo!
- Sì, amore mio, – Gold le baciò la fronte – Anche se devo partire, resto con te. Sempre.
 
 
 
“Please forget me, you were right, dear,
I am cold and self-involved,
and though I'll miss you, recent lover,
I am weak and therefore fold.

I get distracted by my music,
think of nothing else but art,
I'll write my loneliness in poems,
if I can just think how to start.”

“Small hands” - Keaton Henson
 
 
 
Bell si risvegliò con un mal di testa fortissimo. Non che se ne stupisse: malgrado il riposo, le conseguenze di una simile giornata non potevano non farsi sentire. Sperò che almeno Helena stesse meglio di lei; decise di andare a controllare. Si sentiva in colpa per averla lasciata sola, magari costringendo Mary Margaret a una notte di veglia, mentre lei…
Già. Mentre lei cosa? A mente lucida non sapeva definire la notte appena trascorsa. Non era stato solo sesso – con Robert non era mai stato solo sesso –, ma le ammissioni prima così spontanee ora erano tornate a essere ardue, impossibili da pensare tanto quel “Ti amo” era stato impossibile da pronunciare.
Eppure era l’unica verità, l’unica certezza nonostante tutto. Era così da quando lui aveva iniziato a rivelarle la sua anima: ogni volta che accadeva, lei si innamorava ancora un po’. Era una cosa normale, o succedeva perché in fondo avevano trascorso così poco tempo insieme?
Avevano deciso di non lasciarsi soli, non quella notte almeno, di pensare ai demoni l’indomani; ma ora che l’indomani era diventato oggi, cosa sarebbe successo? Cosa intendeva fare Robert? Chiederle l’ennesima possibilità?
O lei gliel’aveva già concessa restando con lui?
Non poteva più lasciarlo, dopo essersi detta pronta – ed era vero – a morire al suo fianco. Ma al tempo stesso, era davvero pronta a riprovarci?
Domande, domande senza risposta. Robert stesso ne era una.
Belle tastò il materasso alla ricerca del calore del suo corpo accanto al proprio; si voltò di scatto incontrando solo i margini freddi e asciutti di un foglio.
Si sollevò sui gomiti: sì, quella era inequivocabilmente una lettera. L’identità del mittente era indubbia; lo stesso non poteva dirsi sul perché le avesse scritto.
Ma in fondo, non era stata lei a consigliargli di scrivere, quando avesse avuto difficoltà a esprimere a voce i pensieri? I suoi interrogativi erano vani, o almeno molto meno importanti di qualsiasi cosa Robert le avesse indirizzato.
Con dita rapide spiegò il foglio e iniziò a leggere.
Ma quando capì il contenuto, era già troppo tardi.
 
Belle,
Questa è la lettera più difficile della mia vita. Non importa quante volte ci abbia pensato, l’abbia iniziata anche negli scorsi giorni: scriverti queste righe mi è quasi impossibile, ma devo farlo perché se non posso darti altro, ti darò almeno una spiegazione.
Gli addii li odio, forse perché ne ho dovuti dare tanti nella vita, e non riuscirei a pronunciare queste parole guardandoti in faccia. Ecco perché una lettera: perché tutto il coraggio del mondo non basterebbe ad affrontare questo.
Sono un debole, Belle. Ancora una volta mi comporto da codardo e scappo da una cosa bella come voi. Posso immaginare la tua espressione mentre leggi queste righe: sconsolata, affranta, delusa. O forse rassegnata, perché ti ho delusa talmente tante volte che oramai non te ne sorprendi più. Ti deludo da sei anni, eppure non immagini quanto vorrei renderti orgogliosa di me.
Ho iniziato a pensare di allontanarmi da Londra già prima che ci lasciassimo, ma non te ne ho mai parlato perché l’idea era vaga, ancora confusa. Avrei voluto ritirarmi in Scozia con te ed Helena, dedicarmi molto meno al lavoro e molto più a voi. Sono stramaledettamente ricco proprio perché finora ho trascurato tutto ciò che conta davvero; ma tu meriti un uomo che non ti ignori per settimane intere perché ha un affare in corso, e nostra figlia non deve ricevere solo briciole d’attenzione. Ironia della sorte, il mio progetto si è concretizzato proprio dopo la nostra separazione; e ho decido di portarlo a termine perché qui a Londra non mi resta niente. Sono niente senza di voi.
Non me ne vado per quanto successo oggi. Rebecca ha ucciso Cora, che comunque resterà sempre una parte fondamentale del mio passato, ha cercato di portarci via Helena e di negarle tutta la felicità che merita, e ha cercato di fare del male a te: non mi pento di averle sparato, lo farei di nuovo. Era la mia sola scelta, o lei ti avrebbe ucciso. Io ti ho persa una volta e ho capito di non poterti perdere di nuovo, perché non sono abbastanza forte per vivere in un mondo in cui non ci sei tu. La sola idea mi è insopportabile. Se fosse successo io ne sarei stato responsabile, come responsabile mi sono sentito per tutto il tempo in cui ti ho creduta morta. Ma tu sei viva, sei viva e respiri qui accanto a me; e nulla mi renderebbe più felice che restare al tuo fianco per sempre.
Ma non posso, perché stare con me è difficile e pericoloso, e gli errori che ho commesso sono talmente tanti e talmente gravi che devo porvi rimedio. Devo espiarli, e per farlo devo essere da solo. Restando, vi farei solo del male, come è già successo fin troppe volte.
No, amore mio, – com’è difficile non chiamarti così, non rivolgermi a te nell’unico modo che la mia mente considera possibile – non temere: non ho intenzione di commettere sciocchezze. Ancora una volta è il caso di ringraziare il folle attaccamento alla vita che già mi ha impedito di suicidarmi quando più l’avrei desiderato, quando ho perso Neal e te. Aver dato ascolto all’istinto di sopravvivenza mi ha permesso di incontrare te prima e la nostra Helena poi; e credimi, non vorrei perdere un vostro istante più di quanti abbia già perso.
E allora, ti chiederai, perché parto?
Perché se restassi qui, non riuscirei a essere l’uomo che vorrei essere per voi. Io voglio amarti come non ti ho mai amata e come meriti, Belle, con onestà e coraggio, e voglio essere il padre perfetto per nostra figlia; ma io non sono mai cambiato, sono sempre l’uomo che prende le decisioni sbagliate e, sebbene tu mi smentisca sempre, in fondo sai che persino oggi ne hai avuto prova. Tu cerchi di salvarmi, e io te ne sono grato più di quanto le parole possano esprimere, ma i miei demoni sono sempre in agguato e hanno sempre una scusante: ogni volta che sbagliavo, che mentivo mi dicevo che era per voi, per proteggervi. Malgrado le mie migliori intenzioni, però, vi ho fatte soffrire in un modo ingiustificabile, e non posso più permettermelo.
Per questo c’è chi definirebbe un errore stanotte; ma io sono stato un errore per te, mai il contrario. Pur sapendo che non avrei dovuto, ti ho amata senza remore, con l’anima e col corpo; ma ancora una volta mi sono rivelato un egoista, ho pensato solo al mio bisogno di stringerti e non al tuo di pensare. Non mi hai allontanato, e te ne sono grato, ma questo significa davvero che tu voglia ricominciare con me? Se restassi qui – in questa casa, in questa città, in questo pezzo di mondo –, tu avresti davvero la possibilità di riflettere sul da farsi? O qualsiasi cosa riporterebbe me a te e te a me? Averti accanto mi farebbe l’uomo più felice dell’universo, ma non posso accettare che tu stia con me perché “costretta” e non per tua reale volontà. Tu sei libera – lo sei sempre stata, sempre lo sarai; e se per assicurarti questo io devo compiere un passo indietro, sono pronto a farlo.
Ogni miglio tra noi mi spezzerà il cuore ancora un po’, ma tutto ciò che mi importa, Belle, è la vostra felicità, tua e di Helena. Nient’altro. Voglio solo il meglio per voi.
Immagino la tua rabbia, la tua confusione, ma per favore, leggi oltre. So di non essere nella posizione di pretendere, ma te lo chiedo lo stesso.
Ti prego, parla di me a nostra figlia. Non lo merito, forse sarebbe meglio farla tornare alla vita prima di conoscermi; ma so che non è possibile, e in tutta franchezza – ecco, vedi il mio egoismo? – non lo voglio. Amo Helena e non accetto di perderla. Le ho promesso tante volte che, vicino o lontano, per lei ci sarei sempre stato, e ho intenzione di tener fede almeno a questo. Per questo ti supplico: non permettere che un giorno, guardando la nostra fotografia, la bambina arrivi a vedervi un estraneo. Non permetterlo, Belle, non fare in modo che accada: ripetile che suo padre non l’ha abbandonata, che l’ama e l’amerà sempre e che se le fosse stato accanto sin dal primo respiro non avrebbe potuto amarla di più. Di lei ricordo ogni minuto da che la conosco; questi cinque mesi mi hanno fatto sentire di nuovo uomo.
È questa l’unica cosa che ti chiedo, Belle, e non ho il diritto di farlo. La nostra piccolina non dovrebbe avere un papà a intermittenza; se tu decidessi di lasciare che in Helena il mio ricordo sfumi sempre più, una parte di me ti darebbe totale e incondizionato appoggio. Tanti anni fa anch’io avrei voluto che Neal dimenticasse Milah.
Ma tu non sei come me. Tu sei migliore di me.
Tu sei buona, e questa è la tua forza. In tanti ti avranno detto che devi essere più dura, più cattiva, forse anche crudele per sopravvivere in questo mondo. Alle volte te l’ho consigliato anch’io, ti ho chiamata ingenua, e nel prenderti in giro c’era un fondo di verità, un avvertimento.
Ma tu non stare a sentire gli altri. Non stare a sentire me.
Tu sei perfetta così come sei. Tu sei la persona più forte, più coraggiosa, più tenace e saggia che io abbia mai avuto l’onore di incontrare, e se sei così è anche merito della tua dolcezza. Non perdere mai la tua spontaneità, la fiducia che riponi nel mondo, la luce che porti nel cuore, Belle mia. Non permettere a niente e a nessuno, a nessuno, neanche a me o a nostra figlia di spegnerla. Tu devi splendere, tu sei nata per questo; e io ti ringrazio per aver illuminato anche la mia vita.
Lo sai, ma te lo ripeto: il giorno in cui sei precipitata nella mia vita l’hai cambiata per sempre. “Non sono in cerca di amore”, ti ho offesa subito: in cinquant’anni non ho ancora capito che le cose si trovano quando non le si cerca.
Sei irrotta nella mia vita, ma sin dalla prima volta che mi hai scoperto triste hai saputo sostenermi senza prepotenze. Credevo che tu non potessi capirmi, ma tu sei l’unica che può capirmi; e anche per questo mi pento dei silenzi in cui mi sono chiuso e delle cattiverie che ti ho fatto. Ogni volta che ti ho avuta accanto ho conosciuto la vera gioia, ma sono stato così stupido da non rendermene conto.
Per questo ti sono grato, e per questo voglio tu sia felice, anche senza di me. Magari imparerai ad amare qualcun altro, anche se ora ti pare impossibile. Sapevo che alla fine sarebbe successo, e se la mia previsione dovesse rivelarsi esatta, sarei stato io a spingerti in questa direzione. Me ne pentirei; ma non mi pentirei della tua felicità.
Siete in pochissimi a sapere del mio trasferimento: i miei avvocati, e ora tu. Mi sono occupato dei domestici, ho trovato loro – a tutti loro – dei nuovi impieghi. Non l’ho ancora annunciato: sarai tu, la padrona della villa, a farlo per me. Trovi ogni informazione nei fogli che allego. Perdonami se ti assegno l’ennesimo compito gravoso.
Sto portando via con me ben poco: le uniche cose di vero valore sono il tuo – perdonami se lo considero ancora tale – anello e la nostra fotografia, quella in cui siamo tutti e tre insieme. Isaac Heller conserva le lastre e te ne farà un’altra, se la vorrai. Io non potevo non portare con me il ricordo di uno dei giorni più felici della mia vita.
Quanti ne avremmo potuti avere, quanti. Ma a volte dobbiamo prendere batoste per capire ciò di cui abbiamo davvero bisogno, e spesso le batoste arrivano quando è troppo tardi.
Scriverò a Helena, e attraverso quelle lettere farò sapere dove mi trovo. Non ti chiedo di raggiungermi, non ti chiedo di promettermi che un giorno verrai; però sappi che, qualunque sarà la tua decisione, io ti aspetterò.
Ti amo,
R.
 
 
 
 
 
1: Adattamento di “Si somigliavano tanto, quelle due: erano forti, loro, e questa cosa gli dava nello stesso tempo allegria e tristezza”, da “Colla” di Irvine Welsh – leggete il divin Irvine, leggetelo, L E G G E T E L O.
 
Citazioni sparse dalla 5x10 e da altri episodi di OUAT!
 
Il titolo del capitolo viene da “Ti ho voluto bene veramente” di Marco Mengoni.
 
 
 
N. d. A.: ¡Hola! ♥
Che si dice? Avete trascorso un buon Carnevale? Quest’anno io mi sono vestita da ansia, ma alla fine i miei sforzi sono stati premiati e l’11 mi sono laureata. Non per questo sono diventata una persona seria – fangirl si nasce, fangirl si muore! XD
Passando a noi… Questo è l’ultimo capitolo della storia, ma non temete: ci attende l’epilogo, che pubblicherò mercoledì 23 marzo – cercherò di rispettare la data, ma tutto dipende dagli impegni in studio. Per andare sul sicuro, rizzate le antenne a partire dal 22!
Spero che quest’aggiornamento vi sia piaciuto malgrado il finale. Lo so, avreste preferito una riappacificazione rose e fiori, ma secondo me non poteva non succedere qualcosa di simile: anche nel telefilm Rumpel ha sempre dato all’amata lo spazio per riflettere, anche quando tutto sembrava risolto – vedi 5x10! Ho cercato di descrivere la confusione di Belle senza renderla bipolare come nella serie, ma temo di aver miseramente fallito. Aspetto il vostro parere, anche critico: non temete, esprimetevi senza riserve! :)
Stavolta sono venuta meno alla tradizione “una-sola-canzone-per-capitolo”: ho trovato i testi dei vari brani tutti più o meno perfetti, perciò alla fine non ho scelto! :D
Un immenso grazie a chi legge, recensisce e/o aggiunge la fanfiction a una delle categorie, e agli splendori che delirano con me, mi sostengono e mi minacciano amorevolmente sulla pagina Facebook Euridice’s World – un “mi piace” è sempre gradito! Un ringraziamento speciale va a V. che ha realizzato un carinissimo e tenerissimo lavoro di grafica a tema Neal-Gold-Helena – lo trovate in pagina, forza, dategli un’occhiata! *_* – e una menzione all’ “altra” V., che anche stavolta mi ha impedito di sostituire le parti a rating – relativamente – più alto con “e si dedicarono allo spic&span, però io mi vergogno a scriverlo”. Dearie, ormai te lo prometto da anni, ma prima o poi la BegbieXLacey arriverà. Giuro! ♥
Ci si rilegge tra un mese – per allora OUAT sarà ricominciato, e malgrado “chi di speranza vive, disperato muore”, io spero in bene. Non cambierò mai! XD
Bacioni, giUoie! :) :***
Euridice100
 

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Capitolo 24
*** Epilogo - Rivedersi era come rinascere ancora una volta ***


A voi.
Grazie.
2/01/2014 - 22/03/2016
 
 
 
Epilogo - Rivedersi era come rinascere ancora una volta
 
 
 

Come quando io ti ho visto per la prima volta,
tra milioni di occhi la vita si nascose,
come fissare il sole in una notte,
far sparire tutti gli altri in un secondo

come niente.

 
 
 
Scozia, 24 dicembre 1894
 
Gli alberi spogli si stagliano contro un cielo di ardesia. Ancora non nevica, ma le nuvole non lasciano presagire nulla di buono: a breve nuovi fiocchi candidi sostituiranno la fanghiglia sporca ai bordi del sentiero.
Sul nastro serpeggiante della strada, una donna cammina in fretta. Al villaggio le hanno indicato con precisione il percorso, e il suo senso dell’orientamento non è dei peggiori, ma presto calerà il buio e lei non intende farsene sorprendere in un luogo sconosciuto.
Non può mettere in pericolo il carico prezioso che porta con sé.
Belle sistema le pesanti coperte attorno alla bambina che ha in braccio. Helena è stata così brava, così ubbidiente durante l’intero viaggio: mai un capriccio da quando hanno lasciato Londra, mai una protesta di qualsivoglia genere. Ha seguito la madre lesta e attenta, incuriosita da un viaggio tanto lungo e impaziente di giungere alla meta; è rimasta incantata dalle infinite distese di campi che hanno preso il posto dei palazzoni, dall’aria pura che ha reso l’atmosfera umida e fuligginosa della metropoli inquinata un ricordo, e ha strabuzzato gli occhi udendo il fragore tonante dei treni, stupefatta e intimorita da quei mostri sferraglianti. Anche stamattina ha percorso il non breve tragitto previsto senza lamentarsi; è naturale che, malgrado l’ora, sia esausta.
- Ti porto io per un po’, Belle ha anticipato la muta richiesta della figlia.
- Solo per un poco, però, sono grande! ha subito replicato lei, piccola orgogliosa.
La donna ha sorriso e annuito, pur sapendo che non avrebbe svegliato la bimba se si fosse addormentata… Cosa che, prevedibilmente, è presto stata.
Però ora, dinanzi ai primi sputi di ghiaccio che le fanno lacrimare gli occhi, Belle si chiede se abbia preso la scelta giusta.
No: non è pentita di aver acquistato due biglietti di sola andata, non è pentita di averli usati, non è pentita di aver finalmente deciso, dopo mesi di riflessione e ripensamenti, cosa fare della loro vita.
C’è ancora spazio per noi.
Saremo – siamo ancora – famiglia.
Ma intraprendere un simile viaggio in inverno e con una bambina di appena cinque anni è un altro discorso. Nonostante tutto, finora non hanno incontrato particolari disagi; nell’ultimo tratto, invece, anche la furia degli elementi sembra cospirare contro di loro. Sarebbe stato più saggio lasciare Helena a Londra e tornare a riprenderla con la bella stagione; ma questo viaggio, questo, devono compierlo assieme.
Perché alla fine di tutto saranno di nuovo in tre.
E allora, anche se ogni passo è una scarica tanto si gela, anche se respirare è doloroso, oggi bisogna andare avanti.
Bisogna andare da lui.
Già una volta Belle ha affrontato un’avventura più o meno simile, per lo stesso motivo e nello stesso periodo dell’anno. In quell’occasione non percorreva viottoli sperduti nella brughiera, ma i vicoli di un East End ancora sconvolto da efferati delitti; in quell’occasione andava incontro a un destino labile e incerto, in cui la sua era una speranza retta solo da sparute prove; in quell’occasione non era altro che una ragazzina ancora immatura, convinta di essere più grande della sua età, intoccabile dal male perché ancora intoccata. Non aveva ancora dovuto prendere le decisioni più difficili della sua vita, non aveva ancora dovuto far urlare e non solo parlare l’amor proprio, non aveva ancora dovuto scegliere tra due strade, due possibilità, due destini. Cosa sarebbe successo se, a uno di quegli innumerevoli bivi, avesse scelto un percorso anziché un altro?
No, Belle non ne prova curiosità, in fondo. Porta la sua vita tra le braccia, e sta per raggiungere l’altra metà della sua anima.
Non è stato semplice senza Robert. Quella mattina di settembre non ha neanche finito di leggere la lettera ché già è uscita di stanza con indosso la prima cosa che le è capitata tra le mani, nel tentativo di fermarlo. Non poteva andarsene così, non poteva lasciare righe che spiegavano niente e pretendere lei le accettasse. Perché, poi? Perché la sottovalutava a tal punto? Avevano così tanto da raccontarsi, da urlarsi contro e da sussurrarsi, ed Helena forse sarebbe rimasta segnata a vita dalle conseguenze del giorno precedente, e lei non era in grado, no, non era in grado di reggere tutto questo da sola, e lui…
L’ha odiato quando ha capito che era troppo tardi. L’ha odiato tanto da ripromettersi un sacco di cose cui, nel momento stesso in cui ha giurato, ha saputo non avrebbe tenuto fede.
Ma non c’è stato il tempo di crogiolarsi nel dolore: Helena ha avuto bisogno di sua madre, ed è stata lei la priorità assoluta. La piccola ha a lungo sognato i momenti vissuti solo poco tempo prima, ma che continuano a ripetersi e ripetersi, e forse si ripeteranno sempre finché vivrà. Tante notti si è svegliata urlando, e solo la vicinanza di Belle, di Regina o di Ruby e Granny le ha lentamente restituito la capacità di sorridere al mondo; quella, e sentire rileggere le parole che il padre le ha dedicato ogni giorno.
Robert ha indirizzato innumerevoli lettere alla figlia: la bambina ha iniziato a compitare proprio su quelle, e ora è in grado di leggerle da sola, lentamente ma con successo. In quei fogli Robert descrive il luogo in cui vive, la sua nuova casa, la sua nuova vita. Per il 10 novembre l’ha sommersa di regali, e soprattutto le ha annunciato che a fine gennaio verrà a Londra e perciò, se lo vorrà, potranno stare assieme.
In ogni lettera c’è sempre una frase.
Di’ alla mamma che, qualunque cosa io faccia, la porto sempre nel cuore. Ricordale che l’amo, e che vi aspetto ogni giorno.
Gold sa che le parole raggiungono la loro reale destinataria: Helena le legge con l’aiuto della madre, e le risposte sono scritte sempre con la calligrafia di Belle.
E la donna ha ogni volta aggiunto una postilla.
Mamma sa che tu l’ami. E tu devi sapere che anche lei ti ama – com'è stato semplice scriverlo, il problema è stato dirglielo – Vorrebbe solo riuscire ad abbracciarti e non farti andare via.
Belle si è impegnata tanto per riuscirci; ma il carattere di Gold è rivestito da così tanti strati di difese che capirlo davvero è quasi impossibile: è ancora un gatto randagio, ancora bisognoso di tempo per avvicinarsi, per fidarsi. Ogni volta che hanno avuto la presunzione di avercela fatta, sono stati smentiti. Se Belle guarda indietro, tutto sembra avere a che fare con lui: quanti anni di sforzi, di vittorie e di fallimenti, di emozioni e di dolori…
Ma forse è giusto così. Un amore non può lasciare illesi, o non sarebbe amore; un sentimento simile cambia le anime che investe: le travolge appieno, le trascina via palesandosi quando ormai è troppo tardi – quando ormai ha lasciato il segno. Se Belle avesse provato a soffocare quelle emozioni confuse, contraddittorie, ed eppure così belle, probabilmente la sua vita sarebbe continuata molto più serena e tranquilla, ma anche molto più vuota, e lei ne avrebbe avuto consapevolezza. Forse avrebbe rimpianto in eterno di non avere scoperto il vero Robert, la sua cocciutaggine e la sua fragilità, l’ombra elusiva nel suo sguardo e il suo sorriso rotto, il suo essere equilibrista delle parole e amante sincero a un tempo.
Il suo modo impacciato di abbracciarla.
I suoi silenzi, i suoi perché.
La notte insieme a lui non faceva paura.
E senza lui non ci sarebbe stata Helena. La loro arruffata, distratta, luminosa Helena.
A volte le scelte giuste sono sbagliate, e quelle sbagliate le uniche che contano davvero.
E stavolta Belle non ha dubbi.
- Sto tornando, Robert, – mormora scorgendo la casa in collina – Sto tornando da te.
 
 
 
Il cottage sulla collina è identico a come Robert lo ha descritto: piccolino, dalle pareti spesse e dalle finestre un po’ storte che lui stesso ha sistemato. Sembra la dimora delle fate: Helena impazzirà di gioia appena se ne renderà conto. Non è poi molto distante dal paese, ma è immerso nella campagna ora brulla. Tra qualche mese sembrerà un posto magico.
Degli arbusti si sviluppano lungo le mura. Sono gelati, ma con le giuste cure in primavera torneranno a fiorire.
Belle sa come fare. È brava in queste cose.
Non perde ulteriore tempo: inizia a bussare con forza alla porta, pregando che Robert sia in casa, che non sia uscito per qualche motivo, che non le lasci al gelo di questo dicembre scozzese.
Che torni da loro, come loro sono tornate da lui.
Hanno avuto il tempo per riconciliarsi con se stessi, per ricucire i lembi di una vita e tornare uno e non più due. Non per dimenticare: spazzare via il cammino che li ha condotti sin qui è impossibile. Le esperienze accumulate li hanno resi chi sono, come sono l’uno nei confronti dell’altra; senza, sarebbero sconosciuti legati da nulla, che hanno lottato per nulla.
Iniziare daccapo sarebbe semplice; scegliere di continuare da dove si sono interrotti molto meno.
Ma ne vale la pena.
Belle ha deciso di tenere i ricordi, tutti, nessuno escluso. Anche il dolore.
Hanno nuove cicatrici ora, tanto lei quanto lui.
Ma lei amerà – lei ama – anche le loro nuove cicatrici.
Dopo minuti infiniti, l’uscio si schiude. È un uomo ad aprire, un uomo più magro e dalla barba più lunga di quanto Belle ricordi, ma è lui: è l’uomo contorto cui sei anni fa come oggi ha consegnato se stessa, il suo passato, il suo presente e il suo futuro, la gioia e il dolore, le lacrime e i sorrisi, l’amore e l’odio, le grida e i sussurri, ogni parola e ogni silenzio, ogni verità e ogni bugia.
Cui ha consegnato la sua vita.
Il suo cuore.
Belle lo guarda dritto in volto.
Cui sta ancora consegnando il suo cuore.
L’uomo la fissa in silenzio, un’espressione incredula negli occhi castani così simili a quelli della loro bambina. Tace, perché di parole ne ha dovute usare troppe prima di capire che le più importanti lui non sa usarle affatto. I mille discorsi che ha preparato osando sognare questo momento gli si accavallano in testa, un caos senza rumore prima della realizzazione suprema.
Lei è qui.
Lei è tornata.
La sua Belle così amata, così tante volte perduta e ritrovata, l’ha davvero fatto.
È tornata da lui.
Solo questo conta.
Nell’aria immobile regna la quiete assoluta. I primi fiocchi di neve cominciano a turbinare nel cielo
Belle sorride.
- Buon Natale, Mr Gold.
È tornata a casa.
 
 
 
Dopo un lungo inverno accettammo l’amore, 
che meritiamo di pensare

o pensiamo di meritare, 
per questo a volte ci facciamo così male
 ”
 
 
 
Cinque anni dopo
 
Una ragazza arranca per la salita, biascicando ingiurie tra i denti.
Lo zio doveva scegliere proprio una casa in collina? Si vede che non è mai stato costretto a percorrerla con una valigia…
Neanche il tempo di concludere il pensiero e il suddetto bagaglio si apre, sparpagliando per terra il variegato contenuto.
A quel punto nulla trattiene Regina Mills dal rivolgere una lunga serie di epiteti assai poco eleganti al Creato intero.
- Sei la solita, – una voce dall’accento oramai molto più scozzese che cockney interrompe la litania oscena – Papà ti ammazza se ti sente dire certe parole davanti a noi.
Regina si volta: incurante della sua presenza, una ragazzina continua tranquilla a sedere su un ramo del melo, le gambe a penzoloni.
- E tua madre ammazza te se ti scopre ancora sugli alberi come una scimmia. Romperti un braccio non ti è bastato?
Helena spicca un salto che fa trattenere il fiato all’altra.
Razza di incosciente.
- Nahhh! – fa la più piccola, sana e salva sul prato – Merida mi ha insegnato il trucco. Ora non cado più.
- Merida sarebbe?
- Una mia amica. Sa un sacco di cose, te la devo presentare! E poi, – aggiunge rapida – Da quando sono guarita disegno persino meglio, sai? Non mi fa più male, – quasi a provare l’affermazione, agita la mano davanti a Regina prima di chinarsi e aiutarla finalmente a raccogliere le vesti e i libri.
- Sei stata fortunata, – la più grande le ricorda cupa, anche se l’espressione risoluta le si raddolcisce d’istinto. Nella sua pratica per la Scuola di Medicina e da Tink ha visto casi di incidenti apparentemente banali rivelatisi poi mortali: Helena avrebbe potuto farsi molto più male cadendo dall’albero l’anno precedente, o la frattura avrebbe potuto non rinsaldarsi, o...
La sola idea che sarebbe potuto succedere anche a Helena fa irrigidire Regina. Niente di male dovrà più accadere alla creaturina chiassosa e scapestrata che da cinque anni le è cara quanto una sorella. Perché è così – Helena è sua sorella, e non per qualcosa di casuale come il sangue, ma per scelta. Lei è stata la sola capace di farla sorridere quando si sentiva una banderuola, spinta da un vento vorticoso che la trascinava ovunque tranne dove lei sarebbe voluta essere. Aveva quindici anni e si sentiva caricata di un peso estraneo alla sua età; ma Helena, ha scoperto presto, non è un peso.
Helena è una delle poche persone cui riesce a voler bene in un modo che è impossibile definire. E per questo Regina ha giurato di proteggerla dal mondo intero.
- Ma tu non sei brava a proteggere chi ami. Accettalo, – le ha detto Cora l’ultima volta che si sono incontrate.
Al pensiero, la bocca della ragazza si storce appena.
Non è vero, mamma.
Ha fatto pace col suo ricordo – o forse, col suo ricordo non ha mai litigato. Solo i primi tempi, vedendo Belle ed Helena insieme, spiando quel legame sconosciuto tra loro, si è chiesta perché a lei invece fosse stato negato, perché lei e la contessa Mills fossero sempre state così distanti, rette parallele destinate a incontrarsi mai.
Ma alla fine lo ha capito: comunque sia stata sua madre, lei non è costretta a seguirne le orme.
Non sono stati i discorsi di Belle o la sua vicinanza a farglielo accettare; è stato il tempo. Le settimane prima, i mesi e gli anni poi sono trascorsi lenendo le ferite, un balsamo dolce che non le ha fatto dimenticare, ma capire. Nel suo perverso modo, Cora desiderava il meglio per sua figlia; ma Cora non ha mai accettato che ciò che lei reputava il meglio per sé non lo era anche per la sua erede, che Regina era sua, ma non le apparteneva.
A Regina dispiace che sua madre se ne sia andata senza capirlo.
Però una cosa che la donna le ha detto si è rivelata vera: il solo ostacolo tra Regina e il suo lieto fine, era Regina stessa. Perché da quando l’ultima Mills ha iniziato a fare le cose per sé e non per gli altri, ha scoperto che anche per lei – sì, anche per lei che per tanto tempo si è sentita perseguitata dal Fato – può arrivare la felicità.
Una felicità che non è fatta necessariamente di abiti firmati, feste e scuole esclusive, ma di pazienti spesso intimiditi dai suoi modi bruschi, di nuove scoperte che la mettono in discussione e di impegni che la riempiono di soddisfazioni; una felicità fatta anche di una mascella orlata di barba scura, due occhi color bosco e del sorriso forte di chi sa distinguere il giusto dallo sbagliato.
L’esordio con Robin non è stato dei più pacati – “Con te nulla è mai pacato”, la prenderebbe in giro lui se la sentisse – anche a causa dell’indole di Regina. C’è voluto tempo prima che si fidasse di lui, che gli permettesse di avvicinarsi: quel ragazzo qualche anno più grande che già aveva conosciuto l’amore, la paternità e il dolore le piaceva, ma pensare a lui era come tradire Daniel. A lungo l’ha evitato e respinto per questo, sorda ai consigli di chi la circondava: non è facile aprire di nuovo il proprio cuore a una persona se si teme che una catastrofe la porti via all’improvviso. Ma infine, il giorno in cui è tornata a sorridere è arrivato; e il merito, prima ancora che dell’uomo che ama, è di se stessa.
Regina ha imparato che ciò che distingue è il fuoco, la passione con cui persegue gli obiettivi che intende raggiungere. Annullare la sua energia significherebbe annullare se stessa: non scaccia più i propri demoni, li doma. Non permette loro di avere la meglio; è lei, ora, a dominarli e piegarli ai proprio scopi.
Ma, come Robin non ha dimenticato Marian, Regina non ha dimenticato Daniel – non succederà mai.
Daniel non è stato solo il suo primo amore: è stato il suo primo e per tanto tempo unico sostegno, colui che le stringeva la mano mentre correva per le strade del West End per porre rimedio allo sbaglio più grande. Non lo dimenticherà mai; può amare anche Robin, ma ciò non significa che ami di meno Daniel.
Può amare entrambi – in modo diverso, ma entrambi.
- Guarda chi sta arrivando!
La voce allegra di Helena riporta la Contessa alla realtà.
L’amore non si divide, si moltiplica, dicono.
Regina è ancora all’inizio, ma la vita glielo sta già insegnando.
E lei seguirà attenta questa lezione.
 
 
 

Il mestiere dell’amore al tramonto nei tuoi occhi,
il coraggio in una frase che fa paura,
il rancore nelle storie maturate nel silenzio,
il sorriso che sconvolge mesi di tormenti,
la bellezza che stringo, io geloso del tuo cuore 
che proteggerò dal male.”

 
 
 
- Henaaa! – il bambino cerca di sfuggire alla madre che prova a pettinarlo – Dov’è Hena?
- Helena è qui fuori, sta aspettando Regina. Ricordi Regina, eh, Jamie?
Il piccolo guarda incerto la donna prima di scuotere il capo.
- Non fa niente se non la ricordi, tesoro, – Belle lo consola – L’ultima volta che è venuta qui eri ancora piccolo piccolo. Però ti piacerà – e non preoccuparti, le piacerai anche tu.
Un ampio sorriso rallegra il visetto del bimbo. A Belle batte più forte il cuore. Quando Jamie ride gli si illuminano gli occhi, proprio come accade al suo papà. Hanno la stessa personalità padre e figlio, sono l’esatto opposto di Belle ed Helena: tanto esuberanti, dinamiche e vitali le une quanto laconici, pazienti e riflessivi gli altri, con quella timidezza che chi non conosce scambia facilmente per alterigia. Jamie è stato desiderato, cercato, atteso, ed è arrivato due anni dopo il trasferimento in Scozia: un bambino piccolo e delicato, con due enormi occhi castani e un attaccamento tanto viscerale quanto ricambiato a quella sorellina che pure all’inizio è stata immensamente gelosa di lui; un bambino che, come Helena, porta anche il nome di chi non c’è più, ma ha lasciato un segno indelebile nell’esistenza di chi lo ha conosciuto.
James Neal Gold.
Inizialmente suo padre non voleva chiamarlo così. Sosteneva che quel nome avrebbe rievocato una vita spezzata e incompiuta, che avrebbe addossato a un bambino non ancora nato il fardello di realizzare la vita che Neal non aveva potuto vivere.
- Quando sarà abbastanza grande da capirlo, penserà di non essere chi dovrebbe e se ne farà una colpa, – l’ha messa in guardia più volte.
Belle accettava la spiegazione, ma qualcosa le suggeriva sempre che la questione era lungi dal risolversi.
Il secondo nome del figlio lo prova.
- Vojo ‘ndare da Hena! – Jamie ripete con forza, con l’ostinazione ereditata da entrambi i genitori.
- E allora va’ da Helena, – s’intromette Gold, fino ad allora assorto in un incartamento e ora avvicinatosi. Fa appena in tempo a pronunciare la frase che già il bambino caracolla fuori come una scheggia.
- Lo controlliamo da qui, – l’uomo posa una mano su una spalla di Belle – E lì ci saranno Helena e Regina.
I due vanno alla finestra: a riprova di quanto detto, il piccolo ha già percorso il viottolo e raggiunto le ragazze. Come intimorito dalla sconosciuta pur gentile che torreggia sopra di lui, si stringe alle gambe della sorella, fingendo di non essere allettato dagli inviti che Regina gli rivolge.
Alle volte, la timidezza connaturata in Jamie e nei suoi gesti preoccupa Belle. Se da una parte il suo carattere lo rende più guardingo di Helena – il che, stante certe esperienze del passato, è un bene –, dall’altra rischia di impedirgli di godere appieno della spensieratezza dell’infanzia.
- Speriamo che crescendo diventi più estroverso, – Belle conclude ad alta voce – Se ha la tua testa, è spacciato.
- Non sapevo trovaste la mia testa tanto labirintica, Mrs Gold, – fa Robert, fingendosi risentito.
- Conoscendovi, Mr Gold, labirintica è poco.
Si sono sposati tre mesi dopo l’arrivo in Scozia. Questa volta non hanno stilato piani e progetti, quasi non ne hanno parlato: già due volte ci hanno provato, e già due volte tutto è finito nel peggiore dei modi.
C’è stata una domanda da parte di Gold, una domanda semplice che pure una parte di lui avrebbe voluto porre in modo migliore, in un’occasione migliore; e c’è stata la risposta di Belle, la risposta che non sarebbe cambiata qualunque fossero state le circostanze.
La risposta che finalmente ha suggellato il loro amore davanti al mondo.
Ma al di là delle firme e dell’ufficialità, ciò che conta da sempre è la realtà che li unisce, il fiore riuscito a germinare là dove la vita ha lasciato sale e cenere. Ma forse è proprio quel terreno distrutto, una volta curato, a lasciar sbocciare le gemme migliori.
Non è facile vivere insieme, l’hanno scoperto presto. Messi a contatto, due temperamenti tanto diversi e ugualmente volitivi fanno scintille: le discussioni non sono sconosciute in casa Gold. Ma, quando Robert e Belle litigano, guardano in basso e pensano che si sono dati due bambini cui non interessa chi ha torto o ragione, ma solo che i loro genitori ci siano 1; e dinanzi a questa verità, ogni altra cosa scompare.
E poi, fare la pace è così bello.
Prima della festa che ha cambiato tante cose, Gold ha promesso a Belle ed Helena che sarebbero andati in Scozia e non solo, ovunque avessero voluto; che ogni giorno sarebbe stata un’avventura. Ha mantenuto la promessa, forse non letteralmente, ma nel senso più vero: perché ogni giorno della vita in famiglia è un’avventura, una nuova scoperta, un viaggio più impegnativo di quelli degli esploratori che sfidano picchi invalicabili. Perché ci vuole coraggio a lasciare entrare qualcuno nella propria vita, a camminarci fianco a fianco, a non arrendersi alla prima difficoltà e lottare per rendere bella la vita di chi si ama. È impegnativo starsi appresso, tenere in equilibrio tutti i pezzi; ma ne vale la pena.
Conservano ancora i cocci della tazzina. Belle non è mai riuscita a gettarli: anche quando pensava fosse finita, li ha riposti in un sacchetto, lontani dagli occhi ma non dai pensieri. Li ha portati con sé in Scozia, pur sapendo che solo un miracolo avrebbe ricomposto la loro tazza sbeccata.
- Mi dispiace averla rotta, – una sera ha confessato a Robert – Significava tanto, e ora è davvero inutilizzabile.
L’uomo l’ha guardata stranito.
- Inutilizzabile? No, – ha risposto fermo – La useremo per ricordare gli errori che abbiamo compiuto.
No, Robert e Belle non sono perfetti, e forse non lo saranno mai.
Ma stanno imparando.
La bellezza sta nel viaggio.
Sono molte le lettere che partono da casa. Quando Belle si è trasferita, si è scoperta una grafomane senza ritegno: vivere lontana da tutti non significa certo dimenticare chi, in tanti modi e in tanti momenti diversi, le è stato accanto, sostiene con convinzione.
L’amicizia con Ruby supera miglia e miglia per raggiungere la tenuta svizzera in cui la più giovane vive col dottorino divenuto suo marito e coi due gemellini avuti da pochi mesi.
Ho realizzato il mio sogno”, la Lucas scherza sempre nelle lettere che restano sgrammaticate ora come allora. “Ho impalmato un uomo ricco che mi compra tutti i vestiti che voglio!
Ma Belle conosce il reale significato di quelle parole, sa che delle mise all’ultima moda a Ruby importa ben poco. A quella giovane dall’animo gentile, quasi timido, mascherato ancora spesso da abiti provocanti, importa solo di Granny che non ha voluto seguirla tanto lontano da casa, che la pensa come il primo giorno, ma che non è stata in grado di abbandonare la metropoli in cui vive da decenni. Non avrebbe mai potuto lasciare la taverna cui ha dato tutta se stessa: la conduce ancora, aiutata da cameriere “mai brave quanto le mie nipoti”, come non manca di precisare, e da Marco, che oramai ci lavora a tempo pieno.
Due cuori e una locanda”, una volta Belle ha scritto a Ruby. “Prima o poi quei due ci faranno una sorpresa e si sposeranno in gran segreto”.
La replica non si è fatta attendere.
Proprio come qualcun’altra.”
Frau Whale è ancora piccata per non essere stata avvertita delle nozze – “e soprattutto per non essere stata coinvolta nell’organizzazione. Cos’è un matrimonio senza festa?”; una reazione non tanto diversa da quella di Tink e Graham, sempre impegnati a rendere il mondo un posto migliore, di Mary Margaret tornata nel natio Galles, di Kathryn, Aurora e Archie che lavorano per altre famiglie, e di Killian, il quale quando è convolato a giuste nozze con Emma prima di trasferirsi nelle colonie lo ha annunciato al mondo intero.
Belle ride rispondendo a Gold, e anche se è in casa lui si sente baciato da un raggio di sole.
Quando l’ha scorta sulla porta, con la loro bambina in braccio, ha pensato di essere morto. Quante volte nella vita ha sognato un momento simile, per poi risvegliarsi solo, in un letto troppo grande e troppo vuoto; non reggeva un’altra speranza delusa, non più.
Ma quando ha capito di essere vivo e sveglio, di aver davvero dinanzi agli occhi lei, bellissima e saggia con quegli occhi limpidi che lo leggono dritto nell’anima, ogni altra cosa ha perso importanza.
Da quella notte, con Belle a fianco, riesce ad addormentarsi; con lei, che è il centro del suo mondo. Ogni mattina si risveglia aggrappato a lei, come se nel sonno tema gli sia strappata via: un timore che mai l’abbandona.
Guarda sua moglie e i loro figli, e alle volte l’intensità dell’amore che prova nei loro confronti ancora lo terrorizza. Come fa Belle a restargli accanto, pur avendo sofferto tanto a causa sua? È un buon padre per i suoi amatissimi Helena e Jaime, stanno crescendo sereni accanto a lui o sarebbero più felici con un uomo più giovane, più solare, più forte? Riuscirà a vederli adulti? E Neal, oh, se ci fosse il suo Neal…
Ci vuole così poco per far risorgere i suoi fantasmi.
- Se solo ti amassi quanto ami noi… – commenta Belle quando lui dà voce ai timori.
Forse non riuscirà mai ad amare se stesso. Se ripensa alla sua vita, Gold non può ignorare gli innumerevoli sbagli con cui ha distrutto, o rischiato di distruggere tutto ciò che di buono ha. Ha perso tanto, ha guadagnato altrettanto; non merita chi lo circonda e non ha lottato per loro quanto avrebbero meritato, si redarguisce sempre. Il Destino gli ha concesso una famiglia bellissima, ma il Destino, si sa, è beffardo: in un nulla potrebbe togliergli tutto, farlo sprofondare di nuovo nel limbo in cui l’unico scopo delle giornate era aspettare il momento di andare a letto, anche se la notte da attraversare era troppo vuota.
Da suo padre in poi, ha dovuto imparare a convivere col rischio di svegliarsi e ritrovarsi solo; ma l’esperienza non gli ha fornito armi per prevenire il futuro, per impedire che l’ennesimo pezzo di cuore si perda per strada.
Però – ed è questa la differenza –, da cinque anni Gold ha deciso di provare ad ascoltare Belle.
È vero, forse non può fare nulla per riparare; ma, gli suggerisce lei, può fare qualcosa per prevenire. Può essere spaventato; ma la paura non deve indurlo a tirarsi indietro, a rinunciare al presente per il futuro.  Non deve giustificare menzogne e complotti, perché Belle è forte abbastanza da conoscere la verità, conoscerla e accettarla; non deve fargli inseguire l’affermazione, il denaro, il potere a tutti i costi, perché basta guardare accanto a sé, vedere sua moglie e i loro figli per capire che la magia mondo esiste, ed è tutta nelle sue – nelle loro – mani.
Ha tutto ciò che ha sempre sognato. Non se lo lascerà sfuggire più.
- Dobbiamo chiamarli, – Belle interrompe le sue riflessioni – O il pranzo si raffredderà.
- A pomeriggio andrai a scuola?
Gold vorrebbe che sua moglie conducesse vita da regina: non c’è bisogno che lavori, con tutti i soldi che hanno. Ma è di Belle che sta parlando: in tutta onestà, lui proprio non riesce a immaginarla inoperosa, servita e riverita. Il giorno in cui è tornata entusiasta dal villaggio al grido di: – Sono la nuova maestra! –, non è rimasto minimamente sorpreso.
- No, ieri ho avvertito gli alunni. Quando siamo tutti insieme bisogna festeggiare.
Ora Belle sa dei dubbi su Regina. Lo ha ascoltato mentre li esprimeva, senza commentare, senza arrabbiarsi.
- Avrei preferito me lo dicessi tempo fa, certo, – ha ammesso – Però capisco la situazione, tanto più ripensando a quando era viva Cora... Non sapremo mai la verità, ma una cosa è certa, – ha decretato infine – Tu vuoi bene a Regina, e Regina ne vuole a te. Lei è parte della nostra famiglia. Questo basta.
Se non avesse già sposato Belle, Gold l’avrebbe fatto in quel momento. La sua Sweetheart non ha dimenticato il passato, ciò che sarebbe potuto succedere se Ruby Lucas non l’avesse salvata – lui non vuole neppure pensare alla possibilità, quando lo fa il mondo diventa buio –, ma sa che, le volte in cui tornano a Londra, suo marito passa da Highgate 2 a deporre un fiore sulla tomba di Cora Mills. Gliel’ha scritto prima di andarsene – malgrado tutto, Cora non può essere un’estranea per lui. La pensa, non con affetto o nostalgia, ma con rimpianto: se la Contessa avesse accettato il legame tra Robert e Belle, ora forse Regina avrebbe ancora sua madre…
Ma Regina è cresciuta bene anche se sola. È orgoglioso di lei tanto quanto lo è di Helena e di Jaime.
- Andiamo a recuperarli, allora, – Gold annuisce – Anche se difficilmente Helena ci darà retta, ora che ha di nuovo la sua compagna di confabulazioni preferita.
- Ho domato bestie ben peggiori di una ragazzina discola, – Belle ghigna.
- Per esempio?
- Per esempio suo padre.
Fa per sfuggirgli, ma lui è più svelto: l‘agguanta per un braccio e l’attira a sé.
- Ti amo, – le sussurra, sfiorandole una guancia.
Belle sorride mentre lo bacia.
- Ti amo anch’io.
 
Il sole bagna i capelli di sua moglie, miniandoli d’oro e rame.
Quando li chiama, tre paia di identici occhi castani si voltano a guardarlo.
Belle gli stringe la mano.
 
Mr Gold ha tutto.
 
 
 
Quando posi la tua testa su di me, 
il dolore tace.
“Incanto” - Tiziano Ferro
 
 
 
FINE
 
 
 
1 Questa è la didascalia di una foto della pagina Facebook “Humans of New York”. Si tratta di un post vecchiotto che non trovo più; se lo rintraccio lo condivido su “Euridice’s World”!
2 Highgate è uno dei più noti cimiteri monumentali del Regno Unito e del mondo intero. Sono sepolti lì Karl Marx, Christina Rossetti, George Eliot e moltissimi altri personaggi storici – https://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_di_Highgate.
 
Il titolo del capitolo viene da “Farewell” di Francesco Guccini.
 
 
 
Come sempre, commenti e critiche di ogni sorta sono benvenuti! :)
(Visto che ho dato il lieto fine, MALPENSANTI? Poi sarei sempre io la cattiva, eh!)
 
 
 
N. d. A.: (Premetto che sarò sentimentale, perciò leggete le note a vostro rischio e pericolo.)
Oddio, mi viene da piangere! Siamo alla fine di questo viaggio iniziato più di due anni fa e se mi volto quasi non riconosco la ragazza che una sera d’estate ebbe un’idea – che dimenticò quasi subito XD – e che provò a metterla per iscritto a fine dicembre 2013, senza avere un titolo, un piano, un progetto… Nulla!
Negli ultimi due anni sono successe molte cose che mi hanno cambiata – in meglio o in peggio? Sembrerà un’esagerazione, ma in alcuni brutti momenti tra le poche costanti rimastemi c’è stata questa storia. Per questo mi ci sono affezionata tanto e ci ho messo tutta me stessa, tutto il mio cuore e il mio impegno: sarà anche sprecato per una fanfiction, ma così è stato e non me ne pento.
La saga di “Your dream is over… Or has it just begun?” è parte della mia vita e mi ha dato tanto sotto ogni punto di vista, portandomi anche a conoscere persone che, seppur lontane fisicamente, sono vicine nel cuore. VOI che avete sostenuto e mantenuto viva questa storia mi avete ricordato che sono in grado di portare a termine progetti anche con scadenze piuttosto ferree, che se mi impegno riesco e che devo credere in me stessa; le mie risposte alle recensioni, i grazie che tanto spesso vi ripeto non sono formalismi, ma quanto di più onesto possa dirvi. Grazie per aver seguito con tanto calore la fanfiction, per esservi appassionat*, per avermi bersagliata di domande cui raramente ho risposto, per aver espresso il vostro parere anche quando discorde dal mio, per avermi fatta tornare in carreggiata quando ho rischiato di snaturare qualcosa, per avermi fatta ridere, commuovere e mai arrendere.
GRAZIE per aver reso questa storia possibile, vi dico solo questo. :***
Le vostre +184 recensioni – cui risponderò presto, promesso –, le 34 persone che hanno aggiunto la storia alle preferite, le 10 che la vogliono ricordare, le 53 che l’hanno seguita e i lettori/le lettrici tutt* mi emozionano in un modo che non so descrivere.
Una menzione speciale va a B., che mi sopporta anche se sono notoriamente insopportabile, che innumerevoli volte mi ha impedito di uccidere i protagonisti in improvvisi incendi e che ha dispensato autentiche perle di saggezza del tipo “È un ragionamento cretino, quindi Gold lo farebbe”, “Io tifo per Hulme” e “Nella seconda parte hai citato poche volte le alzatine”; all’ormai leggendaria V., che dovete ringraziare per ogni scena anche solo vagamente hot e che spera pazientemente nel giorno in cui una sbronza colossale mi indurrà a scrivere una NC17 – BegbieXLacey, ça va sans dire – come si deve; alle adorabili fanciulle che ormai da tempo non sono semplici colleghe di fangirlaggio, ma autentiche confidenti e amiche che mi intasano WhatsApp, Facebook e Skype rincuorandomi sempre con la loro allegria e il loro sostegno; e a S. e V. che mi hanno onorata con le splendide fanart ispirate a “Coming back as we are”. ♥ ♥ ♥
Circa eventuali nuovi lavori, sarò onesta: da un mese a questa parte trascorro più tempo a lavoro che altrove, perciò non ho il tempo materiale per nuovi progetti impegnativi. Tuttavia non voglio abbandonare un mondo per me tanto importante: come lettrice ci sarò sempre e chissà, magari anche come autrice. Mai dire mai nella vita… :)
E in ogni caso, la mia pagina Facebook “Euridice’s World” resta aperta e attiva: se non l’avete ancora fatto, cliccate “mi piace” e seguitemi nella mia folle vita da fangirl che si finge praticante seria e ammodo. Troverete le recensioni delle puntate di #OUAT, i miei deliri, il #quandomivaèilgiornofeels, le mie passioni… Mi spiacerebbe perdervi di vista, perciò non eclissatevi!
Giunta a questo punto, non posso far altro che salutarvi: a presto, spero, e grazie ancora di tutto, Dearies! E ricordate: Rumbelle on sempre e comunque! ♥ ♥ ♥
Euridice100
 

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