Nei nostri sogni

di Amor31
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Nei nostri sogni






Capitolo I

L’orologio digitale appeso alla parete alle sue spalle indicava che la mezzanotte era passata da venti minuti.
In piedi dietro al bancone del pub, Erza Scarlet stava aiutando la collega Mirajane Strauss a riassettare le pinte che i clienti avevano svuotato con pochi sorsi durante quella lunga ed estenuante giornata di inizio dicembre. C’era ancora qualcuno a parlottare ai tavolini del locale, ma presto anche i ritardatari se ne sarebbero dovuti andare: mancava poco all’ora della chiusura.
-Sai cosa ti dico?-, stava chiedendo Mirajane, chiudendo dietro le apposite vetrine gli alcolici utilizzati per preparare i cocktail. -Sono felice di essere riuscita ad aprire un pub tutto mio. È una soddisfazione essere autonomi-.
Erza annuì con un cenno della testa. In realtà non stava seguendo affatto il discorso dell’amica.
-Ho solo paura della concorrenza di Laxus… E se ce la facesse pagare per aver iniziato un’attività indipendente?-.
-Se ne dovrà fare una ragione-, replicò Erza, facendo il giro del bancone e capovolgendo sui tavoli liberi le sedie, così da pulire il pavimento. -Abbiamo lavorato come sue subordinate per tre anni, giusto il tempo di fare un po’ d’esperienza. E mi sembra che il nostro apprendistato stia dando i suoi frutti, no?-.
Mirajane fu costretta a darle ragione: sì, avevano aperto quel pub da poco più di un mese, ma i clienti non erano mai mancati, anzi. Perfino qualche abitudinario dell’Extreme, il locale di Laxus Dreyar, aveva deciso di passare dalle loro parti per una visita.
-Pensi che se la sia presa?-, domandò titubante Mirajane.
-Lo conosco abbastanza da crederlo, già-.
Erza sentì la collega sospirare.
-Ehi, ma perché tutta questa preoccupazione? Mi sei sembrata felice quando ti ho proposto di abbandonare l’Extreme-.
-Lo sono ancora-, disse con calore la ragazza, -ma c’è qualcosa che mi turba…-.
Le lancette dell’orologio ricordarono loro che tra mezz’ora sarebbe terminata la giornata. Erza sbuffò.
-Mira, puoi chiudere tu, stasera? Sono un po' stanca-.
-Lo vedo bene, hai delle occhiaie spaventose!-, esclamò la collega, riferendosi ai due segni scuri che le marcavano gli occhi.
-E con questo cosa vorresti dire?-.
-Oh, Erza, non prendertela per così poco! Piuttosto, torna a casa e riposa. Dio solo sa quanto poco dormi-.
-Dormo abbastanza, te lo garantisco-, replicò la ragazza, voltandosi e nascondendo uno sbadiglio. Come al solito, Mirajane aveva ragione.
-Fatti un favore: non appena sarai rientrata, chiuditi nella doccia, preferibilmente sotto l'acqua bollente. Vedrai, favorirà il sonno. Non farai in tempo ad asciugarti che cadrai addormentata sul letto-, le sorrise l'amica, rassettando gli ultimi bicchieri dietro al bancone.
-Mi ricordi tanto mia madre-, sbuffò Erza, avvicinandosi all'uscita. -Non c'è alcun bisogno di parlarmi come ad una bambina-.
-Ora vai. Che aspetti?-.
-Ti prometto che domani sera recupererò il lavoro di oggi-.
-Non crucciarti e lascia fare a me. D'altronde non sei abituata a turni così lunghi e ti stanchi facilmente...-, la prese in giro Mirajane, continuando a sorriderle. 
-Sì, come no... Te lo ripeto: se non ti avessi convinta a rilevare questo bar, staresti ancora lavorando per Laxus. O forse non ti dispiaceva poi così tanto?-, replicò Erza, facendo avvampare le guance dell'amica.
-Ci vediamo domani-, la congedò l’altra, spintonandola letteralmente fuori e chiudendo con una doppia mandata la porta di vetro. Dal canto suo, Erza non ebbe il tempo di aggiungere nulla: la collega aveva già esposto il cartello CHIUSO ed era tornata alle proprie incombenze, provando inutilmente a scacciare dai propri pensieri l'immagine di Laxus, magicamente evocato poco prima.
"Avranno preso a frequentarsi fuori dal lavoro", pensò Erza, dissimulando una risata. "Lo dicevo che non me la contavano giusta...".
S'incamminò lungo il desolato marciapiede, stringendosi nell'impermeabile che Mirajane le aveva regalato per Natale l’anno prima. Un soffio di vento gelido la fece rabbrividire e la convinse definitivamente a farsi una bella doccia non appena fosse rientrata nel proprio appartamento.
Il condominio in cui risiedeva non distava molto dal bar. Normalmente impiegava un quarto d'ora per raggiungere casa, ma quella sera, complici la stanchezza ed il freddo, non aveva alcuna intenzione di proseguire quella scarpinata.
-Taxi!-, chiamò a voce alta, avvistando una vettura gialla sbucare dall'angolo opposto della strada. L'automobile si fermò ed Erza salì, accomodandosi sul sedile posteriore.
-Buonasera, signorina-, la salutò l'uomo alla guida, guardandola dallo specchietto retrovisore.
-Buonasera. Potrebbe portarmi al 14G di Green Lane, per favore?-.
Senza proferir parola, l'autista fece retromarcia e la condusse a casa in meno di cinque minuti. L'ora tarda favoriva il deflusso del traffico, tanto che nella sua corsa il taxi non incrociò altre vetture.
-Sono quindici Jewels-, la informò l'uomo, arrestando l'automobile al margine del marciapiede, esattamente di fronte all'ingresso del condominio.
-A lei-, disse Erza, estraendo dal portafoglio la cifra richiesta e facendo scivolare le monete sul palmo aperto del tassista.
-Buona serata-, le augurò l'uomo, ripartendo a gran velocità e scomparendo nella notte una manciata di secondi dopo.
La ragazza lo vide allontanarsi e risistemò in un taschino della tracolla il proprio borsellino, rabbrividendo di nuovo prima di recuperare le chiavi di casa ed entrare nella palazzina. Una volta dentro, si affrettò verso l’ascensore che l’avrebbe portata al quarto piano, ma dovette constatare di dover prendere obbligatoriamente le scale: un grosso cartello era stato affisso accanto all’ascensore ed una scritta sbilenca informava i condomini che fosse GUASTO.
Sospirando e passandosi una mano tra i capelli, Erza si fece forza e salì le rampe, ripetendosi a mo’ di mantra che il premio per quell’ultima fatica di fine giornata sarebbe stato un gran bel sonno ristoratore, esattamente ciò che ci voleva dopo aver fatto le ore piccole per sette giorni consecutivi.
Certo, una parte della colpa era stata anche sua: in tre occasioni aveva aiutato Mira fino a tardi proprio come era successo quella sera, ma le restanti quattro nottate le aveva passate chattando con Millianna, una delle sue più care amiche che per lavoro era stata costretta a lasciare Magnolia e a trasferirsi in una città a ottocento chilometri di distanza. Insomma, conciliare i loro impegni non era semplice e l’unico modo per mantenersi in contatto era darsi appuntamento la sera, in chat.
Salì a fatica l’ultima ventina di gradini e si fermò sul pianerottolo per qualche secondo, giusto il tempo di riprendere fiato; inserì di nuovo le chiavi nella toppa ed entrò nell’appartamento.
Era un bilocale modesto a cui si accedeva tramite un piccolo corridoio; sulla destra Erza aveva allestito un salottino formato da un divanetto a due posti e un tavolino basso di fronte a cui aveva sistemato il televisore. La stanza era separata dalla successiva tramite un arco in muratura che portava alla cucina, completa di tavolo e due sedie che raramente venivano occupate da altro che non fosse un cumulo di abiti da stirare – Erza aveva preso l’abitudine di stirare lì, visto che quella era la stanza più spaziosa dell’appartamento. Accanto alla cucina era situato il bagno, comunicante direttamente con la camera da letto, vero regno della ragazza. Era lì che si rifugiava per leggere – spesso si era anche chiesta che senso avesse, allora, mantenere il salotto a disposizione – e chattare con Millianna.
Si richiuse la porta alle spalle e poggiò la borsa sul divano, recuperando il telecomando del televisore che si era incastrato tra seduta e schienale; fece rapidamente zapping tra i canali e sbadigliando si rese conto di quanto fosse stato effettivamente inutile comprare uno schermo, visto che i programmi televisivi lasciavano alquanto a desiderare.
Spense la TV e andò dritta in camera. La prima cosa che notò fu il monitor oscurato del computer: si avvicinò alla piccola scrivania su cui l’aveva collocato e mosse il mouse per verificare che desse ancora segni di vita. Mentre il PC si riavviava pigramente e le ventole riprendevano a girare, Erza entrò in bagno e regolò l’acqua della doccia, aspettando impazientemente che diventasse calda; tornò di nuovo in camera da letto e controllò la chat.
C’erano cinque messaggi non letti e provenienti rispettivamente da Millianna – “Dove sei finita? Non dovevamo sentirci per le nove?” – dal suo amico Simon – “Ciao, Erza. Stavo pensando… Hai impegni per sabato pomeriggio? Io sono libero dal lavoro e ho visto che al cinema è uscito quel film di cui parli da mesi. Potremmo andarci insieme, che ne dici? Sempre se ti va… Non so, dimmi tu” – da Lluvia Lockser, una ragazza con cui aveva lavorato prima di lasciare l’Extreme – “Ho seguito il tuo consiglio, ma Gray non ne vuole proprio sapere di me” – da Gray Fullbuster, suo ex compagno di scuola – “Hai detto a Lluvia di provarci con me? ANCORA?!” – e da Lucy Heartphilia, che aveva conosciuto frequentando la palestra locale – “Tu non ci crederai. È troppo bello per essere vero. Natsu mi ha chiesto di stare insieme a lui. Capisci? INSIEME!”.
Avrebbe dovuto rispondere a un bel po’ di domande – quella che la preoccupava di più riguardava Simon: negli ultimi tempi aveva cominciato a comportarsi diversamente nei suoi confronti. Ogni volta che si vedevano si mostrava impacciato e lievemente a disagio, cosa che prima non era mai accaduta – ma si disse che la priorità, per il momento, era la doccia.
Rientrò in bagno, raccolse i capelli sulla testa per evitare di bagnarli – se avesse acceso il phon a quell’ora della notte, i condomini del piano di sotto le avrebbero inveito contro come minimo fino al mattino seguente – e una volta fatti cadere a terra i vestiti tirò la tendina della doccia, lasciando che l’acqua lavasse via le fatiche della giornata. Il vapore la avvolse e la fece avvampare, costringendola a tossire; venti minuti più tardi uscì dal bagno tenendo addosso solo l’asciugamano che la circondava come una sottospecie di tubino.
Sedette sul letto e si asciugò pian piano, mentre sentiva il sonno premerle sulle palpebre. Mira aveva ragione: niente favoriva il riposo quanto una doccia calda. Erza si ripromise che avrebbe ascoltato più spesso i saggi consigli dell’amica.
Non appena si fu rivestita – aveva recuperato una camicia da notte di lana dall’armadio e l’aveva indossata alla svelta – provò a rispondere ai messaggi ricevuti, ma alla fine si disse che avrebbero potuto aspettare. Probabilmente Millianna si sarebbe legata al dito la mancata replica, ma Erza era sicura che avrebbe capito la situazione, una volta che gliel’avesse spiegata.
Non le rimase che trascinarsi per la seconda volta a letto e rifugiarsi sotto i numerosi strati di coperte, cercando di riscaldarsi. Impostò la sveglia sul cellulare e poi chiuse gli occhi con la speranza di addormentarsi subito.
Non si rese conto di quanto tempo le fu necessario per cadere nel mondo dei sogni.

 

***

 

Era al Magnolia Park. Poteva essere una giornata invernale o l’inizio della primavera; non avrebbe saputo dirlo. I rami degli alberi erano spogli e per terra c’erano scie di foglie secche che scricchiolavano al suo passaggio.
Erza si accorse di tenere tra le mani un guinzaglio. A quanto pare stava portando un labrador – che dedusse fosse il suo – a passeggio. E pensare che a lei i cani neanche piacevano troppo!
-Buono-, disse all’animale, tirando il guinzaglio per evitare che scappasse. -Andiamo a fare un giro, su-.
Si incamminò lungo il sentiero tracciato dalle foglie, calciandole via di tanto in tanto. Non era mai stata un’amante dell’autunno e dell’inverno, anzi; vedere gli alberi secchi e nudi la rattristava molto. Quando le chiome verdi cominciavano ad imbrunirsi e accartocciarsi, pensava inevitabilmente alla solitudine, alla vecchiaia, alla morte. Salvo poi riscuotersi da quelle riflessioni tetre e tornare a concentrarsi su qualcosa di positivo.
Il labrador aveva iniziato a strattonare il guinzaglio, costringendola a sveltire il passo. Stavano attraversando tutto il parco, stranamente deserto. E sì che si ghiacciava, lì fuori, ma anche nei periodi più freddi dell’anno c’era sempre gente ad affollare i prati. Quel giorno, poi, tirava un forte vento e si stupì nel non vedere gruppi di bambini far volare gli aquiloni; era un passatempo che aveva amato anche lei, da piccola.
-Si può sapere dove mi stai portando?-, chiese all’animale con non poca stizza. -Siamo qui per una camminata, non per una maratona!-.
Ma a quanto pare il cane non voleva saperne di starsene tranquillo: tirò con più forza il guinzaglio e riuscì a divincolarsi dalla presa di Erza, a cui non rimase altro che guardare il labrador schizzare via attratto da chissà che cosa.
-Torna qui!-, gridò lei, seguendolo con il fiatone. -Devo riportarti a casa!-.
Ma perché si preoccupava tanto? Quel cane era solo un’illusione, no? Non era suo. Non era di nessuno, per quanto ne sapeva. Eppure si sentiva in dovere di riprenderlo. Sì, doveva recuperarlo.
-Buck!-, lo chiamò ancora, stavolta usando il primo nome che le venne in mente. Chissà dove lo aveva sentito, tra l’altro. -Buck! Buck, dove ti sei cacciato?-.
Si guardò intorno, aguzzando la vista per penetrare la lieve foschia che si era improvvisamente levata: dell’animale non c’era traccia. Vagò per qualche altro minuto senza avere la più pallida idea di dove stesse andando e di colpo lo sentì abbaiare.
-Buck!-, chiamò per l’ennesima volta, correndo nella direzione da cui sembrava provenire l’ululato.
E finalmente lo vide.
-Stupido-, disse tra sé e sé, avvicinandosi all’animale, immobile a qualche metro di distanza. Si inginocchiò accanto al cane e recuperò il guinzaglio, concedendogli una carezza sulla testa. -Non scappare più, d’accordo? Ti avrei potuto perdere, sai? E poi cosa avrei fatto? E se qualcuno ti avesse portato via?-.
Buck continuava a rimanere fermo. Fissava un punto di fronte a sé con grande interesse e Erza si chiese di nuovo cosa fosse stato ad attirarlo da quella parte.
-Hai visto un altro cane con cui giocare? Oppure hai provato a seguire uno scoiattolo, ma te lo sei lasciato scappare?-.
Il labrador abbaiò e si allontanò di nuovo nella foschia, ma stavolta Erza non si lasciò cogliere impreparata: tenne ben saldo il guinzaglio ed evitò che scappasse.
-Ma qual è il problema?-.
-Buck! Su, bello, vieni qui!-.
Una voce maschile ruppe la quiete del parco. Erza si rimise in piedi e si guardò intorno per vedere chi avesse parlato.
-Buck, te ne sei andato? È quasi ora di cena e se ci sbrighiamo a tornare a casa, ti prometto che avrai una razione extra di crocchette. Quelle al pollo che ti piacciono tanto, magari-.
La voce adesso era più vicina. Il cane abbaiò ancora e Erza pregò con tutte le sue forze che facesse silenzio.
-Eccoti, allora!-.
Dalla nebbia sbucò un giovane stretto in un trench nero che gli arrivava a metà coscia ed esaltava la sua magrezza. Aveva folti capelli blu che gli ricadevano compostamente sulla fronte, nascondendo appena un curioso tatuaggio rosso che spiccava sulla guancia destra, ed uno sguardo decisamente amichevole.
Il nuovo venuto si avvicinò e si abbassò all’altezza del labrador, grattandogli con fare amorevole il muso e le orecchie; poi rivolse la propria attenzione a Erza.
-Grazie per averlo preso-, le disse con un sorriso, guardandola dal basso. -Buck è molto espansivo e quando è al parco non vede l’ora di correre e giocare qui intorno. Pensavo che lo avrei perso per colpa di questa foschia, ma grazie al Cielo è intervenuta lei. Non so cosa avrei fatto, se non lo avessi ritrovato-.
Il ragazzo si rialzò e la fissò, aspettando che dicesse qualcosa. Peccato che Erza fosse a corto di parole.
-Mi scusi, ma temo che ci sia un errore-, provò a spiegare lei. -Questo cane è mio. Sono arrivata al parco quindici minuti fa e lo portavo con me-.
-È impossibile-, replicò lui. -Si sta sbagliando-.
-Crede che non saprei riconoscere il mio cane?-. Allo stesso tempo Erza si chiese perché avesse cominciato a pensare che Buck fosse davvero suo.
-Mi sta dando del bugiardo?-.
-Penso solo che si stia confondendo. I labrador sono cani molto comuni, se non sbaglio-.
-Allora mi dica: come si chiama il suo cane?-.
-Buck-.
-Ma guarda un po’ quanto è piccolo il mondo!-, sbottò il ragazzo, rivolgendo gli occhi al cielo e allargando alle braccia. -Stessa razza di cane e stesso nome. Non crede che le coincidenze siano un po’ troppe?-.
-Senta, è un caso. So solo che questo cane era con me quando sono entrata-.
-Anch’io sono certo della stessa cosa-, ribatté lui. -Come risolviamo la faccenda?-.
Quel sogno era paradossale. Erza avrebbe voluto svegliarsi il prima possibile, pur di non continuare quell’assurda conversazione.
-Il mio cane è scappato. All’improvviso è corso via ed io l’ho seguito-.
-Certo che sì! Stava tornando dal legittimo padrone!-.
-Ma anche il suo cane ha fatto la stessa cosa, no?-.
Quell’obiezione era innegabile.
-Quindi?-, domandò il ragazzo.
-Significa che il suo labrador è ancora in circolazione. Se Buck fosse veramente suo, non avrebbe avuto motivo di abbaiare quando l’ha vista arrivare, no?-.
Anche quello era un punto a sostegno di Erza.
-Oppure la soluzione è un’altra-.
-Sarebbe?-, chiese lei, curiosa e nervosa allo stesso tempo.
-Quello che sto per dirle potrebbe sembrarle impossibile, ma visto che questa è tutta un’illusione… Ha pensato che potrebbe esserci un solo cane?-.
“Bene”, si disse Erza, “siamo alla frutta. Talmente alla frutta che anche le persone che immagino sanno di trovarsi in un sogno”.
-Vuole dire che Buck sarebbe sia mio sia suo?-.
-Esattamente-, asserì il ragazzo, facendo un breve cenno con la testa.
-È assurdo-.
-Lo so-.
-Perché dovrebbe accadere una cosa del genere?-.
-Non lo chieda a me. I sogni spesso non hanno alcun senso-.
I due si fissarono ancora, mentre Buck guardava ora l’uno ora l’altra.
-Va bene, siamo ad un punto morto. Tanto vale fare le presentazioni, no?-, fece notare Erza.
-Oh, giusto-, concordò il ragazzo. -Mi chiamo Jellal Fernandes-.
-Piacere di conoscerla-, replicò lei, afferrando la mano che le veniva tesa. -Io sono Erza Scarlet-.
-È un nome adatto-, disse lui, indicando i capelli che le contornavano l’ovale del viso.
-E il suo invece è… particolare-.
-In che senso?-.
-Si offende se le dico che mi fa pensare alla parola gelatina?-.
Il ragazzo sospirò: -Ci sono abituato, ormai. È così che mi chiamavano alle Elementari-.
-Oddio, mi scusi, allora!-, tentò di rimediare Erza.
-Si figuri. C’è di peggio-.
Per qualche minuto cadde un silenzio insopportabile. Entrambi pensarono che Buck avrebbe anche potuto abbaiare, giusto per allentare la tensione.
-E viene spesso qui al parco?-, domandò Jellal dopo alcuni secondi di riflessione.
-Non molto, a dire la verità-.
-È un peccato. È un luogo meraviglioso, tanto d’estate quanto d’inverno. Io e Buck siamo frequentatori abituali-.
-Capisco-.
-Ecco perché sono ancora convinto che il cane sia mio e non suo-.
-Non ricominciamo con questa storia!-, sbottò Erza, lisciandosi l’impermeabile color sabbia che indossava. -Anzi, sa cosa le dico? Che, se vuole, può anche tenerlo lei-.
-Perché mai? Si è battuta duramente per avere Buck-.
-Non so perché l’ho fatto. In realtà non vado pazza per i cani-, ammise.
-E si lamenta dell’assurdità dei sogni quando lei per prima non ha le idee molto chiare?-, la prese in giro Jellal.
-Senta, cosa devo dirle? Io volevo solo riprendermi dopo un’intensa giornata di lavoro. Non è colpa mia se sono finita in questo parco e ci siamo incontrati-.
-Se è per questo, vale lo stesso per me-.
-Bene-.
-Bene-.
I due si esaminarono per qualche secondo. C’era qualcosa di davvero strano, in quel sogno.
-Se non viene al parco, cosa fa nel tempo libero?-, domandò Jellal.
-Vado in palestra-.
-Quale?-.
-La Makarov Gym, sulla High Street-.
-Passo spesso da quelle parti, ma non mi è mai capitato di incontrarla-.
-E anche se mi avesse incrociata?-.
-Forse avremmo potuto conoscerci in circostanze diverse e più piacevoli rispetto a questa, non crede?-.
Ora Jellal le sorrideva. Non solo era alle prese con un sogno assurdo, ma aveva anche a che fare con uno sconosciuto dall’aria alquanto insolita.
-Può darsi-, rispose Erza, sollevando un sopracciglio con fare sospettoso.
-Senta, dovremmo ricominciare da capo-, propose lui, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli dalla fronte. -Mi sembrava che avessimo iniziato bene, prima che partisse la discussione. Anche se non abbiamo più idea di chi sia il vero padrone di Buck, lei è stata molto gentile nel recuperarlo. Che ne dice di fare una passeggiata? Sempre che non abbia fretta, ovviamente-.
Erza soppesò l’offerta: sotto un certo punto di vista diffidava ancora di quel tipo, ma d’altra parte c’era qualcosa in lui che le ispirava fiducia. Forse erano i suoi occhi a rassicurarla: sembravano dolci, quasi accoglienti.
-Dove vuole andare?-, gli chiese.
-Magari in riva al laghetto? È un posto che a Buck piace molto e io mi diverto a vederlo correre da una parte all’altra-.
-Vada per il laghetto, allora-, si arrese Erza. -Ma sbrighiamoci. Tra poco sarà buio-, fece notare, puntando gli occhi verso l’alto e osservando il cielo incupirsi.
-Le prometto che non la tratterrò per molto-, la rassicurò Jellal. -Non è mia abitudine infastidire una ragazza affascinante come lei-.
-Siamo passati dalle accuse alla cortesia?-, obiettò lei.
-Dimentichi ciò che è successo prima-, la pregò lo sconosciuto per tutta risposta. -E perdoni il tono che ho usato. Non volevo che ci fossero equivoci tra di noi-.
-D’accordo-, annuì Erza. -Farò finta che non sia accaduto nulla-.
Che sogno bizzarro! Alla fine era stato lui a porgere le scuse, quando invece era stata lei a dare inizio alla polemica.
-Vogliamo andare?-, le domandò.
-Sì. E tenga questo-.
Gli tese il guinzaglio e Jellal lo fissò: -È sicura di volermi affidare Buck?-.
-Perché no? Non ha la faccia di un ladro di cani, in fondo-.
L’uomo sorrise e prese il guinzaglio: -Va bene, va bene. Mi prenderò cura io di questo bestione-.
Si abbassò una seconda volta e accarezzò la testa dell’animale, che uggiolò in segno d’approvazione.
-OK, direi che possiamo andare. Erza, rimanga al mio fianco: se questa foschia dovesse intensificarsi, rischieremmo di perderci di vista-.
La ragazza non proferì parola. Si limitò a seguire Jellal nella nebbia, mentre il cane li conduceva attraverso il parco. Pensò che nella vita aveva fatto pochi sogni strani come quello.
-Lei piace molto a Buck-, aggiunse qualche minuto più tardi l’uomo.
-Come, scusi?-.
-Deve avergli fatto una buona impressione, altrimenti non si sarebbe lasciato avvicinare. Di solito tiene lontano chiunque provi ad accostarsi-.
-Oh-.
-A pensarci bene, è anche uno dei motivi per cui non incrocio mai nessuno, qui al parco. Non trova che sia curioso?-.
Erza si disse che quella era solo l’ultima delle cose che trovava insolite, ma non espresse la propria opinione in merito.
-Però oggi sono stato fortunato-.
-Sul serio?-, domandò la donna con poco interesse.
-Ho incontrato lei-.
Erza si fermò. Jellal mosse qualche altro passo, prima di voltarsi per vedere cosa le fosse preso.
-Va tutto bene?-, le chiese, stavolta con tono preoccupato.
-S-sì-, balbettò di rimando. Sentiva una morsa stringerle lo stomaco ed un peso opprimerle il torace. Per alcuni secondi ebbe l’impressione di non riuscire a respirare.
-Erza? Erza?-.
Di colpo non sentì più nulla. Le parole che Jellal stava pronunciando divennero mute e l’unica cosa che vide furono le sue labbra continuare a muoversi.

Driiin!

Il fastidioso trillo della sveglia la riportò prepotentemente alla realtà. Jellal, Buck e il parco divennero un’unica, sfocata macchia di colore e Erza aprì gli occhi, accorgendosi di essere ancora al caldo del proprio letto. Sbirciò l’orario sul cellulare e sbuffando si coprì il viso con le coperte: stava per iniziare una nuova giornata, ma avrebbe fatto di tutto per sapere quale fosse l’epilogo di quello strano sogno. 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

I muscoli le bruciavano.
Erza stava praticando esercizi di stretching in preparazione alla corsa che si apprestava ad intraprendere. Sedette sul tappetino che aveva sistemato a terra e divaricò le gambe, mantenendole tese e piegando il busto in avanti per permettere alla schiena di allungarsi; mantenne quella posizione per trenta secondi e poi cambiò, stavolta toccandosi la punta dei piedi con le dita. Completata quella serie di esercizi, si rialzò, mise da parte il tappeto e si avvicinò ad un tapis roulant, selezionando velocità e pendenza: avrebbe tonificato per bene le sue longilinee gambe bianche.
-Perché non hai risposto al messaggio che ti ho mandato?-.
La voce di Lucy Heartphilia la fece voltare e si accorse che la ragazza aveva occupato la cyclette alla sua destra; si stava riferendo alle parole che la sera prima aveva affidato alla chat.
-Ciao-, la salutò. -Scusami, ma ho fatto tardi con il lavoro. Quando sono tornata a casa ero stremata e ho avuto giusto il tempo di leggere, prima di cadere addormentata-.
-OK, d’accordo… E che ne pensi?-.
-Di cosa?-.
-Di me e Natsu-.
-Vuoi la mia benedizione?-.
-Non è questo quello che intendevo-.
Erza sospirò: -Mi permetti di essere sincera?-.
-Devi esserlo-, disse con risolutezza Lucy.
L’amica si prese un paio di minuti prima di rispondere: -Vedi… Credo che siate una bella coppia. Insomma, i tipici opposti che si attraggono e cose simili. Ma alla lunga…-.
-Cosa?-.
-Ho paura che la vostra possa trasformarsi in una relazione breve, ma intensa. E da quanto ho capito tu non punti di certo a questo, no?-.
-Stai dicendo che Natsu si stancherà di me?-.
-No, Lucy. Al contrario, credo che sia più probabile che sia tu a decidere di interrompere la vostra storia-.
-Ma non farei mai una cosa del genere! Sono innamorata di lui da anni, lo sai!-.
-Penso solo che siate davvero troppo diversi, ecco tutto. Poi, per carità, vi auguro ogni bene, ci mancherebbe. Se siete felici, sarò contenta per voi-.
-Hai qualche altro consiglio?-.
Erza fece spallucce: -Niente di particolare-.
Lucy aumentò la resistenza della cyclette e improvvisò una corsa leggera: -Mi sembri stanca. Sicura di esserti riposata a dovere?-.
-Uhm? Sì, certo-.
-Allora hai la testa tra le nuvole per qualche motivo di cui non vuoi parlare?-.
-Sono solo sovrappensiero-, disse Erza.
Aveva staccato da lavoro alle tre di quel pomeriggio ed aveva avuto giusto il tempo di tornare a casa per prendere il borsone con cui andare in palestra; nonostante tutto, non aveva smesso per un istante di riflettere sullo strano sogno che aveva movimentato la sua nottata.
-Non ti va di confidarti un po’?-, le domandò ancora Lucy, che adesso stava pedalando a perdifiato. -Insomma, sono tua amica, no? E sarebbe bello se parlassimo apertamente di qualsiasi cosa-.
-Tranquilla-, la rassicurò lei, mentre fermava il tapis roulant e si avvicinava con sicurezza agli attrezzi per l’esercizio degli addominali. -È solo una sciocchezza-.
-Dall’espressione che hai, non la definirei esattamente così-, obiettò l’altra. -Comunque… Devi tornare a lavoro?-.
-Ho il turno dalle sei all’una, come al solito-, confermò Erza. -E probabilmente sarò costretta a trattenermi anche una mezz’ora in più, visto che ieri sera sono uscita prima-.
-Tu e Mira dovreste assumere qualcuno che vi dia una mano-, suggerì Lucy. -Non potrete andare avanti così per sempre-.
-Abbiamo appena aperto l’attività e non possiamo ancora permetterci l’aiuto di nessuno. A meno che lì fuori non ci sia qualcuno disposto a lavorare gratis-, aggiunse Erza, indicando l’esterno della palestra con un cenno della testa.
-Se volete, posso contribuire alla vostra causa. Il mio attuale impiego non mi impedisce di collaborare altrove. E non avrete bisogno di pagarmi, perché vi aiuterò come farebbe una qualsiasi amica-.
-Lucy, non devi-, la bloccò la ragazza. -Non hai alcun obbligo a…-.
-Lo faccio con piacere-, replicò l’altra. -Se avessi avuto dei problemi, non mi sarei neanche proposta, no?-.
Erza le sorrise: -Devi parlarne con Mira. È lei che gestisce la parte economica-.
-D’accordo. Sono sicura che non ci penserà due volte prima di accettare la mia offerta-, rise a sua volta Lucy. -Ti dispiace se vengo direttamente con te, più tardi? Così avrò subito una risposta da parte sua-.
-Come vuoi. Ma se dovessi davvero iniziare a lavorare con noi al pub, non lamentarti dei ritmi disumani di Mira, mi raccomando!-.
Scherzarono ancora su quell’argomento e Erza fu così presa dalla chiacchierata da dimenticare momentaneamente il sogno avuto.
Quella notte, in un modo o nell’altro, si sarebbe dovuta ricredere.

 

***

 

-Lucy è stata davvero molto gentile, non trovi?-.
Mirajane stava miscelando rum e cognac per servire uno dei suoi cocktail migliori e Erza le era accanto per aggiungere gradualmente succo di limone e gin.
-Sì-, concordò lei. -Non mi aspettavo che si proponesse per lavorare con noi-.
-Ha ragione, ad ogni modo: non possiamo fare tutto da sole. Ti serve qualcuno che ti dia una mano-.
-Mi serve? Perché, tu invece sei bionica?-.
-No, ma reggo meglio di te. È un dato di fatto-.
-Mira, devo solo abituarmi agli attuali orari. Cerca di capirmi…-.
-Ti capisco, infatti. Ed è per questo che ho accettato l’aiuto di Lucy. Certo, se avesse voluto uno stipendio probabilmente non le avrei detto di sì, ma grazie al Cielo è nostra amica. Ogni tanto la fortuna è dalla nostra parte-, rise la ragazza, shakerando e versando il liquido dorato in un bicchiere di vetro massiccio.
-Quindi inizierà a lavorare da domani?-.
-Già. Mi ha dato piena disponibilità. Vuoi spartire il turno con lei?-.
-Cosa? No!-.
-Erza, ti si legge in faccia quanto tu sia stanca. Puoi truccarti quanto ti pare, ma il fondotinta non nasconde le occhiaie; e io non voglio che la mia migliore amica si senta male a causa del lavoro-.
-Mira…-.
-Siamo indipendenti, adesso. Siamo le proprietarie di questo locale e possiamo decidere liberamente cosa fare o non fare. Quindi prenditi pure una settimana di riposo, se è questo quello di cui hai bisogno. Te l’ho detto, io ce la faccio benissimo. E con Lucy di supporto l’attività del pub non rallenterà-.
-Così mi fai sentire in colpa…-, sussurrò Erza, riponendo cognac e gin dietro una vetrina.
-Niente affatto. Devi renderti conto dei tuoi limiti. Pensa a quando eravamo alle dipendenze di Laxus: io lavoravo ininterrottamente dalle sette del mattino alle undici della sera, con due sole pause a pranzo e cena; tu invece avevi dei turni più leggeri, di cinque o sei ore al massimo. A darti il cambio erano Cana o Lluvia e non accumulavi lo stesso stress di adesso. Perciò pensa un po’ a te stessa: riguardati e riprenditi dalla fatica. L’ultima cosa che devi fare è sentirti in colpa, credimi-.
Erza abbassò lo sguardo sul bancone: sebbene non fosse troppo convinta delle parole dell’amica, era indubbio che avesse bisogno di staccare la spina.
-Ma come te la caverai se io dovessi fermarmi? Saresti da sola fino alle sei del pomeriggio, quando finalmente arriverebbe Lucy. E chi ti ha detto che lei invece sarà capace di resistere a sei ore filate di servizio?-.
-Ce la farà-, la rassicurò Mirajane. -È una ragazza resistente, anche se a prima vista non lo si direbbe-.
-Un Blu Margarita, per favore-, ordinò un uomo di mezza età, avvicinandosi al bancone e interrompendo la conversazione.
-Subito, signore-, gli sorrise Mira, voltandosi e recuperando da una mensola della tequila e del succo di lime. -Erza, passami del sale e prendi del Curaçao dal retro-.
L’amica non se lo fece ripetere due volte: tre minuti più tardi il cliente stava già assaporando l’amarissimo drink.

 

***

 

-Te lo chiedo di nuovo: sei sicura di non aver bisogno di me?-.
-Stai tranquilla e va’ a casa-.
-Per quanto…?-.
-Prenditi tutto il tempo necessario. Quando ritornerai al lavoro, sarai una persona nuova-.
Mirajane abbracciò Erza e le aprì la porta del locale per permetterle di uscire. Anche quella sera avevano fatto tardi – Scarlet si era imposta di recuperare la mezz’ora persa il giorno prima – e finalmente era giunto il momento di ritirarsi.
-Spiega a Lucy la situazione-, la pregò ancora Erza, mettendo un piede fuori dal locale. -Altrimenti penserà che ho voluto approfittare della sua gentilezza-.
-Mi occuperò io di tutto-, le sorrise la ragazza. -Ci vediamo presto-.
Si congedarono definitivamente e si separarono, prendendo ciascuna la direzione opposta: Erza si incamminò in direzione di Green Lane, Mirajane prese Victoria Street. Entrambe preferirono non prendere il taxi, come se camminare nel freddo della notte potesse allontanare tutti i pensieri e le preoccupazioni che le attanagliavano.
Un quarto d’ora dopo Erza era davanti al proprio condominio. Aprendo la porta d’ingresso si chiese se l’ascensore fosse stato fatto aggiustare, ma a quanto pareva ci sarebbe voluto qualche giorno in più: il cartello che ne proibiva l’utilizzo era ancora appeso al suo posto e la ragazza utilizzò di nuovo le scale.
Una volta entrata nell’appartamento, si liberò dell’impermeabile e lo gettò malamente sul divano insieme alla borsa. Ebbe giusto il tempo di spogliarsi ed indossare la camicia da notte, prima di addormentarsi così profondamente da iniziare a confondere i sogni con la realtà.

 

***

 

Stava parlando animatamente con Mirajane, cercando di farla ragionare. Domani sarebbe andata a lavoro, poche storie. L’amica avrebbe anche potuto buttarla fuori dal locale per imporle di riposare, ma a lei non sarebbe importato: sarebbe rientrata dalla porta sul retro e le avrebbe dimostrato di potercela fare. Non sarebbe stata la stanchezza a fermarla.
Poi, tutto d’un tratto, la scena sfumò. Non si trovava più nel pub, ma di fronte al cancello d’entrata del Magnolia Park. Si guardò intorno con discrezione e constatò che non ci fosse nessuno nei paraggi; pensò che avrebbe fatto bene ad andarsene, ma c’era qualcosa che la spingeva ad inoltrarsi nel parco. E così fece.
Nulla era cambiato rispetto al sogno della notte precedente. L’unica differenza era che non aveva nessun cane con sé. Non che le dispiacesse, in fin dei conti, ma sapere di essere apparentemente sola e con la foschia invernale pronta ad assalirla non la rassicurava affatto.
Camminò per minuti che le parvero interminabili, facendosi strada tra corridoi di alberi spogli e foglie crepitanti. Si rese conto che avanzare le faceva aumentare i battiti del cuore: era una sensazione strana e non aveva idea di cosa la stesse provocando. Era difficile stabilire se il ritmo cardiaco stesse dando in escandescenze per l’ansia – quel parco aveva iniziato ad inquietarla – o per il desiderio di sapere chi o cosa avrebbe visto continuando ad andare avanti.
Quando raggiunse la fine di quel lunghissimo corridoio alberato, uno specchio d’acqua grigia le riempì lo sguardo. Aveva raggiunto il laghetto artificiale costruito al centro del Magnolia Park ed immediatamente ricordò cosa era accaduto la notte precedente: era quello il posto in cui lei e lo sconosciuto di nome Jellal Fernandes – si chiamava così, vero? Temeva di non ricordarlo più – stavano andando prima che il suono della sveglia la riscuotesse dal sogno.
“Ci sarà anche lui?”, si ritrovò a pensare Erza, sfregandosi le mani per impedire che congelassero. Perché dimenticava sempre i guanti?
Scrutò le piccole onde che increspavano la superficie del lago e le venne naturale pensare che in inverno quella fonte d’acqua fosse molto simile ad una gigantesca pozzanghera. Dopotutto, non valeva la pena di rimanere lì: se fosse stata nei panni di quello strano uomo, avrebbe evitato quel posto almeno fino a primavera, quando il sole avrebbe scintillato nel cielo e il lago sarebbe tornato ad essere di un azzurro brillante.
Erza si strinse nell’impermeabile e cercò di contrastare un brivido che le aveva percorso la schiena per colpa del vento freddo che spazzava i dintorni del laghetto. Diede le spalle all’acqua e si avviò nella direzione opposta, costeggiando comunque la bassa recinzione che separava il prato dalle rive fangose del lago. Pensò se non fosse il caso di uscire di lì: il silenzio regnava sovrano come nel precedente sogno e ormai aveva perso la speranza di incontrare quell’insolito tipo dal tatuaggio rosso.
“Di tanti posti che potevo immaginare, sono tornata qui”, si disse Erza, scuotendo la testa. “Mi sarebbe piaciuto sapere come sarebbe finito quel sogno, ma a questo punto…”.
Una folata più forte di vento la costrinse a chiudere gli occhi e ad abbassare il capo, scuotendola da capo a piedi. Un vortice di foglie la investì in pieno e scacciò con fatica tutte quelle che le si erano impigliate tra i capelli. Quando schiuse le palpebre lo vide.
C’era una panchina in ferro battuto a una ventina di metri da lei. Era rivolta proprio verso il lago e su di essa, rilassato, ma pensieroso allo stesso tempo, era seduto il giovane che stava cercando – cercando? No, affatto. Perché avrebbe dovuto interessarsi di uno sconosciuto con cui aveva anche avuto una discussione?
Lo ammirò da lontano ed il cuore, che si era calmato per tutto il tempo in cui aveva contemplato il lago, riprese a battere con maggior vigore. Per un attimo ebbe l’impressione che il muscolo la stesse guidando in quella direzione al pari di una bussola, ma come poteva essere? Non aveva senso, no?
Mentre quelle domande si accalcavano nella sua testa, il ragazzo si voltò nella sua direzione. Le parve che avesse sorriso.
-Ehi!-, la chiamò, agitando in alto un braccio.
Erza non si mosse: stava aspettando che fosse lui a compiere il primo passo, ma a quanto pare Jellal non aveva alcuna intenzione di alzarsi. Così si arrese e gli si avvicinò, preparando mentalmente ciò che avrebbe voluto chiedergli.
-Ciao-, lo salutò con un’informalità che stupì lei per prima. Era normale salutare in quel modo qualcuno di cui non si conosce altro che il nome?
-Non mi aspettavo di rincontrarla così presto, anche se ieri mi è dispiaciuto vederla scomparire come se nulla fosse-, disse lui con tono rammaricato. Però si ostinava a darle del “lei”, come Erza si accorse subito.
-Le avevo detto di avere fretta-, provò a giustificarsi.
-Ma non mi aspettavo che fosse così tanta-, rise Jellal. -Ho avuto paura che se la fosse davvero presa per la faccenda di Buck-.
-No. La questione è chiusa-.
-Sono contento di sentirglielo dire-.
-A proposito… Lui dov’è?-, domandò la ragazza, guardandosi intorno alla ricerca del labrador.
-È stato con me fino ad un momento fa. È sparito di nuovo-.
-Non è preoccupato?-.
-Tornerà. Torna sempre-.
Erza lo osservò per una manciata di secondi – quel trench nero gli stava davvero bene, doveva ammetterlo – e rimase impalata finché lui non la riscosse da quei pensieri.
-Perché non si siede?-, la invitò Jellal, battendo delicatamente la mano sul posto vuoto al suo fianco. -C’è abbastanza spazio per tutti e due-.
Nonostante diffidasse ancora di quell’uomo, Erza si accomodò sulla panchina, rigirandosi le dita, a disagio.
-Forse dovrebbe andare a cercare Buck-, gli disse.
-No-.
-Ma è il suo cane!-.
-Ho elaborato un’altra teoria, in merito-, cominciò a spiegare Jellal.
-Per favore, non discutiamo di nuovo se…-.
-Mi ascolti-, la pregò, poggiandole una mano sulle sue. Un altro brivido investì Erza, ma stavolta la causa non fu il vento. -Ho pensato che Buck non sia di nessuno-.
-Sta dicendo che è un randagio?-. Ma quanto erano calde le mani di quel ragazzo? Eppure neanche lui indossava i guanti.
-Più o meno-.
-Cosa vuol dire?-.
-Deve essere un cane fantasma-.
Erza lo guardò prima sollevando un sopracciglio, poi ridendo apertamente.
-Ma cosa dice!-, esclamò, sentendo lacrime di ilarità bagnarle le ciglia. -Un fantasma!-.
-Perché no? Dopotutto, compare e scompare a suo piacimento. E sembra che l’unica cosa che gli interessi sia…-.
Jellal si bloccò. Stava per dire qualcosa, ma all’ultimo secondo pensò che fosse meglio tacere.
-Che gli interessi…? Vada avanti-, lo incoraggiò Erza, temendo di averlo fatto vergognare con la risata di poco prima.
-Nulla. Era solo un mio vagheggiamento, mi scusi-.
Rimasero in silenzio per parecchi minuti. Il sibilo del vento era l’unico suono che riempiva l’aria attorno a loro.
-È stato lui a portarmi qui-, le disse in un soffio il ragazzo. -Ero da tutt’altra parte, ma di colpo si è materializzato accanto a me e mi ha accompagnato in riva al lago. Ho visto questa panchina e ho pensato di sedermi un po’ mentre lui giocava, ma Buck è sparito subito dopo. E l’istante successivo… È arrivata lei. Un po’ come è successo ieri-.
Jellal ritirò la mano e Erza sentì le proprie tornare a gelare: -Mi stava… aspettando?-, domandò, incerta.
-Be’… Diciamo che sarei stato molto contento di rivederla-, le sorrise. -E sono rimasto qui in attesa per parecchio, ad essere sincero. Stavo quasi per andarmene, ma la mia pazienza è stata ripagata-.
Le rivolse lo stesso sguardo che l’aveva trafitta – era davvero quella la sensazione che aveva provato? – nel sogno precedente e Erza si preoccupò di non arrossire. Jellal aveva degli occhi in grado di intimidirla, in un certo senso.
-Perché proprio il lago?-, gli chiese.
-Forse perché era questa la meta che avevamo fissato-.
Sì, era la stessa cosa che aveva pensato anche lei. Ma era tutto troppo strano, per quanto quella fosse un’illusione creata dalla mente.
-Faremo bene a cambiare posto, allora-, disse Erza, sorridendo a sua volta.
-Come mai?-.
-Non è molto allettante fissare questa grossa pozzanghera grigia-.
-Uhm, ha ragione. Ma sa cosa penso?-.
La ragazza scosse la testa.
-Che in qualche modo questo sia un luogo magico. E non rida di nuovo, per favore-.
-Non lo farò-, lo rassicurò. Per un attimo fu tentata di toccargli le mani come lui aveva fatto poco prima nei suoi confronti, ma desistette. -Cosa le fa credere che sia davvero così?-.
-Il fatto che ci siamo incontrati di nuovo quando non ci si imbatte mai in nessuno, da queste parti; il fatto che avevamo deciso di venirci insieme, ma non ne abbiamo avuto la possibilità. Ed infine, il fatto che lei sia comparsa così all’improvviso, proprio quando pensavo che non l’avrei rivista mai più-.
Erza non mosse un muscolo. Il cuore aveva ripreso a bruciarle e provò l’impulso di alzarsi e allontanarsi da lì il prima possibile. Tuttavia non fece nulla di ciò.
Fu Jellal a scattare in piedi e i suoi movimenti furono così improvvisi da coglierla di sorpresa.
-Cosa succede?-, gli domandò.
-Vuole fare una passeggiata? Almeno ci riscalderemo un po’, camminando-.
Le tese la mano e Erza, soppesata l’offerta, la strinse.
-Oggi non la lascerò scappare-, le disse lui con un sorriso, prendendola a braccetto. -Mi piacerebbe sapere qualcosa in più sul suo conto-.
-Solo se anche lei mi parlerà della sua vita-, precisò la ragazza.
-Benissimo. Non c’è nulla che non possa dire-.
-Allora cominci-, lo esortò Erza.
-Mi ha detto che frequenta la palestra, giusto?-.
-Già-, annuì. Si ricordava quel particolare? E pensare che lei aveva già dimenticato di averglielo riferito!
-A me piace correre all’aria aperta. Credo che sia molto più sano che non starsene al chiuso-.
-Anche a me piace, ma con questo freddo…-.
-L’ho notato. Le sue mani sono gelide-.
Si fermò e la guardò negli occhi, mentre Erza sentiva un fuoco estraneo infiammargli il viso – eppure avrebbe giurato di essere pallida, visto che il vento non aveva smesso di soffiare, impetuoso – poi intrecciò le proprie dita a quelle della ragazza.
-Va meglio?-.
-P-penso di s-sì-, lei batté i denti. Per la seconda volta non era stato il gelo a ridurla in quello stato.
-Potremmo correre insieme, un giorno-, le disse Jellal. -Magari quando tornerà la primavera-.
-Meglio-, concordò Erza.
-Fino ad allora, temo che saremo costretti a vederci qui, nella foschia di dicembre. Ma solo se lei lo vorrà-.
Quel sogno riusciva a spiazzarla. Era come se avesse incontrato un amico – poteva definirlo così? C’erano momenti in cui le sembrava che riuscisse a capirla molto più di quanto non avrebbe fatto una persona come Mirajane – con cui avrebbe potuto parlare davvero di ogni cosa. Eppure rimaneva un estraneo, un’illusione. E quel pensiero di colpo le fece male.
Si rese conto che il calore che le mani di Jellal sprigionavano non era completamente reale. Era solo una sensazione e questo perché, nella vita di tutti i giorni, aveva avuto esperienza di cosa era freddo e cosa caldo. Così come da piccola – quando ancora viveva con i propri genitori – aveva tenuto per qualche tempo in casa il cane di Wally, un suo compagno di classe delle Elementari che era andato in vacanza e gli aveva affidato il proprio animale durante l’estate.
-Ci incontreremo solo nei sogni, allora?-, chiese lei.
-Finché lo vorrai, sarò qui per te-.
Era passato a darle del “tu” come se nulla fosse. Erza ne fu felice, salvo accorgersi l’istante successivo che probabilmente quel cambiamento era avvenuto perché lei aveva desiderato che accadesse.
-Guidami, allora-, sussurrò la ragazza. -Mostrami luoghi che non ho ancora visto-.
Jellal le sorrise e la prese di nuovo sottobraccio: -Non vedevo l’ora di sentirtelo dire-.
Si incamminarono verso il lato est del parco, attraversando un viale di alberi sempreverdi; a Erza sembrò che quello fosse veramente un posto diverso.
Poi una luce accecante le fece serrare le palpebre e non percepì più il braccio del ragazzo intorno al suo.
Quando aprì gli occhi, si accorse che un debole raggio di sole trapelava dalle tapparelle della finestra della propria camera.
Era tornata nel suo appartamento.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

Quel sogno iniziò a diventare ricorrente.
Ogni sera Erza si metteva a letto con la speranza di rivedere il ragazzo che tutto d’un tratto l’aveva fatta sentire diversa – e ancora non aveva deciso se la cosa fosse positiva o negativa – e chiudeva gli occhi immaginando il suo viso. Puntualmente, non c’era una notte in cui non incontrasse Jellal: sempre al parco, sempre alla stessa panchina, sempre in riva al lago. Buck sembrava essere sparito definitivamente, ma presto entrambi smisero di preoccuparsi per le sue sorti: prima o poi sarebbe rispuntato.
La terza volta che si incrociarono Jellal stava leggendo un libro dalla copertina riccamente decorata. Quando Erza si mostrò interessata, il giovane glielo consigliò vivamente e così la ragazza scoprì quanto a lui piacesse leggere. Dai romanzi ai giornali, dal cartaceo al telematico: Jellal era un grande appassionato.
Oltre a parlare dei rispettivi passatempi, i due si raccontarono cose della vita di tutti i giorni: venne fuori che lui era un imprenditore e ciò rallegrò particolarmente Erza, soprattutto quando gli confidò di gestire un pub insieme alla sua migliore amica. Descrissero ciascuno la propria giornata tipo – Jellal doveva essere parecchio indaffarato, se la sua attività lo obbligava a spostarsi non solo di città in città, ma addirittura di Paese in Paese – ed entrambi arrivarono alla conclusione che nessuno dei due avesse una vita molto semplice, anzi.
Per dieci giorni Erza e Jellal si videro – che parola grossa! – senza problemi. Avevano la sensazione che quel sogno – quell’illusione – fosse l’unico rifugio in cui potessero vivere tranquilli, lontani dal caos della quotidianità. Conoscersi sempre meglio non fece altro che avvicinarli e di colpo Erza si accorse che, se avesse potuto, avrebbe voluto che quelle ore di sonno non finissero mai.
Ogni volta che si svegliava e si rendeva conto di non avere nessuno al proprio fianco, percepiva un vuoto all’altezza del cuore. Le erano necessari parecchi minuti prima di convincersi che Jellal non era reale, ma solo il frutto della sua mente.
Si sogna ciò che non si ha o ciò che si vorrebbe avere”: era una frase che aveva letto da qualche parte. O forse gliel’aveva detta sua madre quando, da piccola, le capitava addirittura di parlare nel sonno.
Si disse che, se ne avesse discusso con Mirajane, probabilmente prima l’avrebbe presa un po’ in giro – sempre che non decidesse di darle della pazza – poi le avrebbe consigliato di frequentare qualcuno. Dopotutto, era anche colpa sua se nessuno le si avvicinava: lei per prima impediva che qualsiasi ragazzo le si accostasse. Eppure per Jellal aveva fatto un’eccezione.
Ma sapere di essersi innamorata – sì, ora poteva dirlo, anche se a bassa voce – di una persona che non esisteva non faceva altro che peggiorare la situazione.
Sto rincorrendo un fantasma”. Quello era il principale pensiero con cui si tormentava non appena il sogno terminava. E ripetendosi mentalmente quella frase, sentiva le lacrime premerle alla base degli occhi, pronte a scivolare via.
Ormai era una settimana che non metteva piede al pub. Aveva chiamato Mirajane in più di un’occasione per sapere come stessero procedendo le cose e l’amica l’aveva rassicurata, dicendole che Lucy era una degna sostituta. Ciò la fece sentire leggermente meglio, ma non le impedì di avere l’impressione di essere completamente inutile, oltre che sola.
Così un pomeriggio si fece coraggio e decise di rispondere ad alcuni tra i messaggi lasciati in sospeso. Per prima cosa contattò Millianna – aveva improvvisamente smesso di chattare con lei, visto che la sera aveva avuto fretta di prendere sonno per incontrare di nuovo Jellal. Sicuramente l’amica doveva aver perso le speranze di risentirla – e si scusò per non essersi fatta viva prima. Le raccontò brevemente le vicissitudini dell’ultimo periodo, ma evitò accuratamente di fare riferimenti al sogno ricorrente che riempiva le sue notti; infine le chiese se per lei andasse bene chattare un po’ il pomeriggio della domenica successiva, così da avere più tempo a disposizione per una bella chiacchierata.
Inviato quel messaggio, ignorò bellamente quelli di Gray e Lluvia – se avevano dei problemi, era bene che li risolvessero da soli. Erano grandi abbastanza per capire come ci si dovesse comportare – e rilesse quello di Simon.

 

Ciao, Erza. Stavo pensando… Hai impegni per sabato pomeriggio? Io sono libero dal lavoro e ho visto che al cinema è uscito quel film di cui parli da mesi. Potremmo andarci insieme, che ne dici? Sempre se ti va… Non so, dimmi tu.

Visualizzato alle 1.12 del 3  dicembre

 

La ragazza si chiese cosa avesse pensato l’amico nel momento in cui si era accorto che il messaggio era stato visualizzato, ma non aveva ricevuto risposta. Probabilmente doveva esserci rimasto malissimo e Erza si sentì in colpa. Il fatto che fossero passati dieci giorni non faceva altro che rendere più complicato replicare, ma alla fine si costrinse a contattare il ragazzo.

 

Ciao, Simon. Scusa se non ti ho risposto prima, ma l’ultima settimana è stata abbastanza densa e ho fatto sempre tardi con il lavoro – quella sì che era una bugia. Si augurò che Simon non avesse saputo della sua pausa dal pub. – Anche se sono in ritardo, mi chiedevo se volessi ancora venire al cinema con me. Magari proprio questo sabato, se non sei impegnato. Altrimenti rimandiamo l’appuntamento alla prossima occasione, che ne dici?

 

Rilesse quel messaggio un paio di volte prima di convincersi a premere il tasto Invio. Quando spedì quelle poche frasi, pensò due cose: da un lato sperò che il ragazzo non ce l’avesse con lei e che quindi accettasse l’invito che gli aveva rigirato; dall’altro pregò che rifiutasse la sua proposta. Temeva che Simon potesse comportarsi in modo strano e l’ultima cosa che desiderava era sentirsi o mettere lui a disagio.
Stava per chiudere la chat quando il giovane comparve online. Pochi secondi più tardi Erza ottenne la risposta:

 

Mi dispiace che tu abbia avuto dei contrattempi. Ma non fa niente, recupereremo subito: sabato sono libero, per fortuna. Passo a prenderti alle sei del pomeriggio per lo spettacolo delle sette? Così alla fine del film ci facciamo una pizza, che ne pensi?

 

Be’, cosa avrebbe potuto rispondergli?

 

Alle sei va benissimo. E vada per la pizza.

 

Allora ci vediamo sabato. Un bacio.

 

Ora avevano un appuntamento. Perfetto.
“Siamo amici da sempre”, continuò a dirsi Erza, disconnettendosi e spegnendo il computer. “Siamo sempre andati al cinema insieme. Perché stavolta dovrebbe essere diverso?”.
Si costrinse a calmarsi, ma il solo ripensare all’ultimo messaggio che lui le aveva inviato – “Ci vediamo sabato. Un bacio” – le faceva drizzare i capelli dietro la nuca.
“Quello è solo un modo di dire”, scosse la testa, quasi per liberarsi di quel ricordo indesiderato. “Se ripescassi le conversazioni di anni fa, troverei le stesse identiche parole”.
Fu in quel momento che un nuovo dubbio si insinuò in lei: e se Simon fosse stato attratto da lei? E se avesse provato quella cotta per anni?
Erza rabbrividì e corse ad infilarsi nella doccia, pregando che l’acqua calda le schiarisse le idee.

 

***

 

-È stato un bel film, no?-.
-Sì-.
-Te lo aspettavi così?-.
-Un tantino diverso, a dire il vero-.
-Cos’è, non ti è piaciuto il finale?-.
-No, non è questo…-.
-E allora?-.
-Non l’hai trovato un po’… Scontato?-.
-Il fatto che lui sia morto per difenderla?-.
-Esatto-.
-Sarebbe stato molto più banale se avessero avuto il lieto fine, non credi?-.
-Sì, ma sarebbe risultato più credibile-.
-Non ti facevo una fan del “E vissero per sempre felici e contenti”-.
-Non lo sono. Ma in questo caso avrebbe avuto più senso e sarebbe stato in linea con la trama generale-.
-OK, d’accordo. È inutile provare a farti cambiare opinione, quando sei convinta di qualcosa-.
Erza e Simon camminavano fianco a fianco lungo l’affollato marciapiede nel centro di Magnolia. Era il 13 dicembre e davanti alle vetrine dei negozi si radunavano clienti alla ricerca del regalo perfetto per il Natale incombente, così da rendere difficile il passaggio per chi, come loro, aveva solo intenzione di raggiungere il prima possibile la pizzeria più vicina.
-Non avremmo fatto meglio a prendere l’auto?-, domandò Erza.
-Non siamo così lontani da averne bisogno. Ma stai pur sicura che ti riporterò a casa in macchina-, le sorrise lui.
Come da programma, Simon era passato a prenderla con puntualità alle sei; avevano fatto un giro prima di entrare al cinema e poi avevano assistito allo spettacolo a cui Erza teneva tanto. Ora erano le nove passate e il gorgoglio dei loro stomaci vuoti cominciava a farsi sentire.
-Mi hai detto di aver avuto una settimana pesante-, continuò a parlare il ragazzo dopo qualche secondo di silenzio. -Problemi con Mira?-.
-No, assolutamente! È solo che… Essendo in due, il lavoro ci stressa un po’-.
-Prenditi una pausa, no? Dopotutto, è quasi Natale e alla fine della prossima settimana tutti i locali e i negozi chiuderanno. Approfittane per riposarti-.
Oh, sì, aveva perfettamente ragione. Peccato che la sua pausa si fosse protratta già per dieci giorni e che quindi avesse deciso di tornare al pub per rimboccarsi le maniche.
-Uhm… Le ferie mi annoiano-, borbottò Erza. -A parte qualche uscita extra con gli amici, non so come investire il tempo libero che mi rimane-.
-Sono disponibile a farti compagnia, se dovessi sentirti sola-, rise Simon.
-Eh già, immagino…-.
Ed ecco che partivano le frasi ambigue. Erza tremò.
-Hai freddo?-, le chiese l’amico.
-No, è stato solo…-.
Il ragazzo le circondò le spalle con il braccio destro e le accarezzò la schiena per scaldarla. Nonostante fosse un gesto incredibilmente tenero e cortese, riuscì comunque a farla sobbalzare.
-Dovresti uscire con una giacca più pesante-, le consigliò Simon, senza smettere di coccolarla. -Questo impermeabile è troppo leggero-.
-Me lo ha regalato Mira per…-.
-Non importa. Va bene per gli inizi dell’autunno, non per l’inverno in avvicinamento-.
Le parlava con un tono molto simile a quello che un genitore usa nei confronti dei figli. Erza fu felice che l’amico si stesse dimostrando tanto premuroso, ma d’altra parte era un atteggiamento che la indispettiva. Sembrava quasi che quel consiglio insinuasse che non sapesse prendersi cura di se stessa.
-Vedrò cosa posso fare-, disse a denti stretti, incrociando le braccia sul petto. Ebbe paura di aver messo su il broncio e per tutta risposta Simon le sorrise.
-Dai, la pizzeria è dietro quell’angolo-, le indicò. -Ci basterà svoltare a destra e… Attenta!-.
La mano del ragazzo le arpionò un fianco, ma non impedì la colluttazione.
Il braccio e la spalla destra di Erza urtarono contro un uomo che camminava nella loro direzione a testa bassa e con passo veloce. Il colpo fu abbastanza forte da indolenzirla.
-Ehi!-, lo chiamò indietro Simon, agitando un pugno in aria. -Stia più attento a dove mette i piedi!-.
-Tranquillo, sto bene…-.
-Meno male che ti ho scansata, altrimenti ti sarebbe venuto direttamente addosso!-. Stavolta il ragazzo la prese per mano: -Voglio che tu stia bene, d’accordo?-.
Erza annuì ed entrambi ripresero a camminare. Ma qualcosa di strano era comunque saltato ai suoi occhi, tanto da costringerla a voltarsi per rintracciare colui che l’aveva urtata.
Trench nero.
Capelli blu.
Spalancò le palpebre e cercò di individuare tra la folla la sagoma di quell’individuo, scomparso in un battito di ciglia.
-Sicura di stare bene?-, le domandò Simon, vedendola disorientata.
-S-sì, non preoccuparti-.
-Vieni-, proseguì lui, -la pizzeria è questa-.
Erza si lasciò condurre all’interno del locale e fu immediatamente accolta dal tepore e da un invitante profumo che comunque non riuscì a scacciarle dalla testa l’immagine dello sconosciuto appena incrociato. Fu sempre Simon a riscuoterla dai suoi pensieri, accompagnandola ad un tavolo posto accanto alla grande finestra che si apriva sulla sala principale della pizzeria.
-Buona sera, signori-, li accolse un cameriere.
-Buona sera. Ho prenotato questo tavolo tre giorni fa a nome Carter…-.
-Ah, sì. Risulta dalla lista. Bene, cosa posso portarvi?-.
-Erza, cosa prendi?-, le chiese l’amico.
La ragazza non rispose. Stava guardando intensamente fuori dalla finestra ed era di nuovo persa tra le sue riflessioni.
-Erza?-.
-Sì?-, scattò lei in un secondo momento.
-L’ordine-.
-Ah… Ecco… Una margherita. Una semplice margherita-, disse con fare sbrigativo.
-Per lei, signore?-.
-Stessa pizza-.
-Da bere? Posso proporvi del vino?-.
-Per me basta dell’acqua-, aggiunse Erza. -Non accompagno mai il vino alla pizza-.
-Ci porti una bottiglia di acqua minerale, allora-, precisò Simon. -Basta così-.
Il cameriere si volatilizzò nelle cucine e i due ragazzi rimasero soli – a meno che non si contassero gli altri clienti: era sabato sera ed il locale aveva fatto il pienone.
-Avresti preferito cenare in un ristorante?-, le domandò Simon.
-No, no. Adoro le pizzerie-.
-Eppure mi sembri un po’ distratta. C’è qualcosa che ti impensierisce?-.
A dirla tutta c’era più di una cosa che la agitava, ma Erza scosse la testa: -Niente di particolare-.
-La spalla ti fa ancora male?-.
-Giusto un po’. Entro la fine della serata passerà tutto-, si costrinse a sorridere per provare ad essere convincente.
-Ci mancava solo quel contrattempo-, sbuffò l’amico. -Stava andando tutto troppo bene per essere vero, eh?-.
“Ecco un’altra frase ambigua”, pensò lei. “O forse sono solo io a cercare un significato nascosto oltre ciò che dice?”.
-Ma dai, non è successo nulla di irrimediabile-, aggiunse Erza per rassicurarlo. -Ora ci godremo la pizza e poi torneremo a casa. Devi lavorare, domani?-.
-Solo la mattina. Ho il pomeriggio libero. Tu?-.
-Mattina disimpegnata, pomeriggio occupato. Mira ha deciso di cambiare l’orario di apertura del pub, almeno per la domenica-.
-Come mai?-.
-Perché il sabato la chiusura è fissata intorno alle tre di notte. E non è particolarmente comodo tornare a lavoro alle otto della mattina seguente-.
-Capisco. Be’, ha fatto un’ottima scelta-.
-Già-, convenne Erza. -Almeno nel fine settimana posso dormire un po’ di più-.
Stavolta le fu spontaneo sorridere e Simon credette di avere di nuovo davanti la sua amica. Non poteva sapere che la luce che le aveva improvvisamente illuminato gli occhi era stata provocata dal pensiero di poter stare insieme a Jellal per qualche ora in più rispetto alle normali nottate.
-E dimmi… Tutto bene a casa?-.
-Sono sola-, affermò lei, facendo spallucce. -Di fatto, uso l’appartamento solo per avere un tetto sulla testa. Anche se non c’è nessuno ad aspettarmi, tornarci mi dà l’impressione che quella sia davvero casa-.
Il cameriere tornò al loro tavolo portando la bottiglia richiesta e versando l’acqua nei bicchieri.
-Ancora cinque minuti e le due pizze saranno pronte-, li informò, dileguandosi di nuovo.
-Non hai pensato di condividere il bilocale con Mira? O con qualche altra amica?-, le domandò Simon. -Magari ti sentiresti più…-.
-Da quando Millianna è partita, non ho chiesto a nessuno di vivere con me. Non ci sono più spese da dividere né problemi di vita quotidiana. E questo un po’ mi manca. Ma è anche giusto che ciascuna di noi abbia la propria vita, no? Lei è a ottocento chilometri da qui, io ho messo su un’attività con Mira… Non siamo più bambine. Quando si cresce si fanno delle scelte; l’importante è non pentirsene-.
Erza sentì un groppo stringerle la gola e fu costretta a bere dell’acqua, mentre Simon continuava a guardarla.
-Non fissarmi così-, lo pregò lei. -Mi metti a disagio-.
-Vorrei farti sentire meglio. È per questo che sono felice che tu abbia accettato il mio invito-.
Le sorrise e allungò il braccio verso di lei, finendo per poggiarle una mano sulla sua. Anche stavolta la ragazza sussultò.
-Fa freddo, qui dentro-, mentì spudoratamente Erza, sottraendo la mano da quella dell’amico e sfregandosi energicamente le braccia. -Avevi ragione: mi converrà comprare una giacca più adatta alla stagione-.
Incrociò lo sguardo di Simon e notò che i suoi occhi si erano improvvisamente spenti: un velo di malinconia li appannava.
-Sì-, concordò lui senza alcun entusiasmo. -Sento freddo anch’io-.
Non proferirono parola per i tre minuti successivi. Erza si sentì di nuovo in colpa – aveva sicuramente ferito i sentimenti del suo migliore amico. Ma cosa poteva farci? Lei… Forse lo stava immaginando, ma il ragazzo sembrava davvero essere diventato improvvisamente triste. E di colpo le tornò alla mente il dubbio di qualche giorno prima, quando si era chiesta sei lui provasse qualcosa di più profondo della semplice amicizia nei suoi confronti – ed evitò in tutti i modi di dire qualcosa che potesse peggiorare la situazione. Come erano arrivati a quel punto? Stava andando tutto a meraviglia, no? Poi…
-Le vostre pizze, signori-, annunciò il cameriere, poggiando due piatti di fronte ai ragazzi. -Buon appetito-.
Eccezion fatta per quell’interruzione, il resto della cena non fu molto loquace. Erza e Simon masticarono fetta dopo fetta le succulente margherite che erano state servite loro e interruppero il silenzio solo quando chiesero il conto.
Trenta Jewels fu la somma richiesta dalla cassa e Simon impedì che Erza pagasse per sé.
-Lascia fare a me-, le disse, facendole riporre il portafoglio in borsa. -Ti ho invitata io, no?-.
Avrebbero potuto iniziare una discussione, su quell’ultimo punto, ma nessuno dei due aveva voglia di polemizzare, soprattutto dopo il gelo caduto sul loro tavolo. Dunque uscirono dal locale e si incamminarono di nuovo sul marciapiede, dirigendosi all’auto parcheggiata accanto al cinema.
Salirono in macchina nel più completo silenzio e venti minuti più tardi Simon si arrestò di fronte al condominio in Green Lane. Spense il motore e rimase a fissare un punto davanti a sé, oltre il parabrezza.
-Grazie per la serata-, gli disse Erza. Suonava abbastanza ironico, in realtà, ma la ragazza non seppe trovare parole migliori. -Potremmo vedere qualche altro film interessante, quando avrai del tempo libero-.
-Davvero?-.
-Sì. Tra due settimane uscirà…-.
-Erza, non mentirmi. Ti prego-.
Simon si voltò a guardarla. Il tono della sua voce era indescrivibile: piatto, ma profondo. Probabilmente stava reprimendo ciò che sentiva davvero.
-Io non sto…-.
-Guarda in faccia la realtà-, le disse lui. -Non hai detto una parola per tutta la cena e adesso vieni a dirmi che non vedi l’ora di uscire di nuovo insieme? Pensi che io sia stupido?-.
Erza trasalì. Stava per iniziare la resa dei conti; tutti i nodi sarebbero venuti al pettine lì, in quell’auto. Quella discussione non poteva essere più rimandata.
-Sto parlando seriamente-, affermò la ragazza. -Ci conosciamo da una vita e non ti ho mai trattato come uno stupido. Di certo non comincerò adesso-.
-Allora dimmi: quanto è stato difficile, per te, decidere di uscire con me, stasera?-.
-Ma cosa stai…?-.
-Credi che non me ne sia accorto?-, alzò la voce. -Sono mesi che mi stai evitando. Mesi. Non ti riconosco più-.
-Simon…-.
-Cos’è cambiato tra di noi? Perché non vuoi più avere niente a che fare con me?-.
-Non ho mai detto una cosa del genere-.
-Ma è quello che hai fatto e che continui a fare-, proseguì lui.
-Non ti ho evitato. È come ti ho detto prima: siamo cresciuti. Tutti quanti. Ognuno ha le proprie esigenze e non sempre è facile mettersi d’accordo. Pensi che io sia diversa? Be’, potrei dire la stessa cosa di te. Ma questo non cambia la nostra amicizia-.
-Amicizia…-, mormorò il ragazzo. -Sono anni che non provo niente del genere verso di te-.
Erza ammutolì. Il cuore le si fermò.
-C-come?-.
-Già-, rise amaramente Simon. -L’amicizia è sfumata in qualcosa di più grande. All’inizio non riuscivo a capire per quale motivo fosse diventato improvvisamente difficile parlare con te; guardarti da lontano, vederti sorridere… Erano tutte cose che mi facevano sentire bene. Al contrario, quando tu non c’eri, spariva anche una parte di me. E allora ho capito che qualcosa, nel mio animo, era cambiato per sempre. Non sarei potuto tornare indietro neanche volendolo. Ma non mi importava: l’unica cosa che contava era sapere che nel tuo cuore ci fosse un po’ di spazio per me. Il tempo è passato, siamo andati avanti con le nostre vite… Ed ora eccoci qui, a parlare di un argomento che forse avremmo dovuto affrontare anni fa. Quindi te lo chiedo adesso: c’è qualche possibilità che i tuoi sentimenti nei miei confronti cambino e diventino più profondi?-.
Erza non sapeva più pronunciare una singola sillaba. Quella rivelazione, seppur immaginata spesso nell’ultimo periodo, l’aveva colta comunque impreparata.
-I-io… Non posso prometterti niente-, sussurrò.
Il viso del ragazzo si rabbuiò: -C’è qualcun altro?-.
“Sì”, avrebbe voluto dirgli. Ma sarebbe stato d’obbligo aggiungere “Solo che non esiste”.
-No-, si risolse a dire, anche se il cuore le diceva tutt’altro.
-Allora perché non mi dai una possibilità? Tutto quello che voglio è renderti felice-.
-Simon, ti prego, non insistere-, supplicò lei con voce tremante. Avrebbe voluto piangere, tanto era il dispiacere che stava provando per l’amico.
-Lasciami almeno fare una cosa che desidero da troppo tempo-.
Sganciò la cintura dalla sicura e si sporse verso di lei, prendendole le mani e tendendo le labbra per baciarla. -Solo uno…-, fiatò debolmente, sperando con tutto se stesso che Erza gli concedesse quell’unica libertà.
Ma la ragazza non volle.
Si liberò a sua volta della cintura e aprì lo sportello dell’auto, catapultandosi fuori.
-Mi dispiace-, gli disse, le lacrime che ormai lei impedivano perfino di mettere bene a fuoco il volto di Simon. -Non posso-.
Richiuse il portellone con un tonfo e salì i tre scalini d’ingresso del condominio, ripescando in fretta le chiavi di casa. Aveva paura che l’amico potesse seguirla, ma il ragazzo non fece nulla di ciò: rimase semplicemente seduto in macchina e attraverso il finestrino la vide sparire all’interno del palazzo, senza aggiungere una parola. Batté con forza le mani sul volante e si diede dello stupido, provando ad evitare di piangere a sua volta.
Quando rimise in moto, un quarto d’ora dopo, si disse che non avrebbe mai più cercato Erza Scarlet.

 

***

 

Era salita di corsa lungo le quattro rampe di scale che portavano al suo appartamento.
Entrò come una furia in casa, si strappò di dosso l’impermeabile e si rifugiò nella propria stanza, affondando il viso nel cuscino e bagnandolo di lacrime.
-Cosa ho fatto?-, si chiese, singhiozzando.
Avrebbe dovuto chiedergli scusa. Avrebbe dovuto spiegarsi meglio, non fuggire come una preda di fronte al cacciatore.
-Sono una vigliacca-, continuò a dire, mentre le lacrime le inumidivano anche le labbra. -Ho rinunciato al mio migliore amico-.
Chiuse gli occhi, ma il viso di Simon fece capolino nell’oscurità, provocando un’altra ondata di pianto che la fece tremare da capo a piedi. Allora decise di stendersi, di provare a non pensare a nulla; era ancora troppo scossa per elaborare una soluzione a quel problema.
Stava per infilarsi sotto le coperte quando il computer, lasciato in stand-by poco prima che Simon venisse a prenderla, si riattivò. Erza si asciugò le lacrime e si avvicinò alla scrivania, sedette e ne approfittò per controllare eventuali messaggi.
Non aveva ricevuto posta. Ma in chat c’era una comunicazione da parte di Millianna, che le annunciava che sarebbe tornata a Magnolia per le vacanze di Natale.
La ragazza ringraziò il Cielo per quell’intervento provvidenziale: parlare con l’amica l’avrebbe aiutata ad uscire dalla spiacevole situazione creatasi con Simon. Erano tutti e tre vecchi compagni di scuola e si conoscevano abbastanza da capirsi l’un l’altro.
“Eppure questo non è bastato a farmi rendere conto di quanto lui tenesse a me”, pensò Erza. “Non avevo considerato il fatto che le cose tra noi potessero prendere questa piega”.
Rispose brevemente al messaggio di Millianna – “Vengo a prenderti alla stazione. Dimmi l’ora per cui pensi di arrivare e mi farò trovare lì” – e spense il computer. L’unica cosa di cui aveva davvero bisogno in quel momento era liberare la testa di tutti quei pensieri.
E sperò che dall’altra parte, nel mondo dei sogni, ci fosse qualcuno a consolarla.

 

***

 

Stava piangendo così tanto da non ricordare neanche quando avesse iniziato a farlo.
Stavolta si era immediatamente ritrovata in riva al lago. Seduta per terra, sulle foglie bagnate dalla brina invernale, Erza aveva portato le ginocchia al petto e le aveva circondate con le braccia, nascondendovi il viso. Si stava vergognando di se stessa, in realtà, perché non avrebbe voluto che qualcuno – che Jellal – la vedesse in quello stato. Ma la tristezza era troppo grande per farle badare a quegli aspetti.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando si era materializzata lì; sapeva soltanto di aver chiuso gli occhi e di essersi abbandonata al fumo che annebbia la mente subito prima di addormentarsi. Forse, portando un altro po’ di pazienza, Jellal sarebbe arrivato. O forse quella notte non sarebbe venuto a farle visita.
-Perché piangi?-.
La voce che aveva ormai imparato a conoscere le fece alzare la testa e Erza lo guardò dal basso con occhi gonfi e arrossati.
-Ho perso il mio migliore amico-, sussurrò.
-Se è tuo amico, tornerà. Gli amici perdonano sempre, anche a costo di impiegarci anni-.
-Ma lui era innamorato di me, obiettò Erza. -Ed io non sono stata capace di accorgermene in tempo-.
Jellal si inginocchiò al suo fianco e le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio: -Pensi che sia colpa tua?-.
-Lo è-.
-No-, le disse. -Non hai responsabilità-.
-Ma avrei potuto comportarmi diversamente!-, urlò la ragazza, coprendosi il volto con le mani. -Non ti sei mai sentito in colpa per qualcosa che hai fatto?-.
Jellal non rispose subito. Si prese qualche secondo per formulare nel modo migliore la frase successiva: -È vero, ho commesso azioni di cui non vado fiero. Ma con il tempo, seppur a fatica, ho capito che era inutile continuare a tormentarsi. Quel che è fatto è fatto; pensare a come sarebbero potute andare le cose ti fa stare solo peggio. Bisogna imparare a vivere, ma nessuno ha mai detto che è semplice farlo-.
Si rimise in piedi e le tese la mano: -Alzati-, la incoraggiò. -Fidati di me-.
Erza raccolse l’invito e l’attimo seguente, colta di sorpresa, si ritrovò a premere una guancia contro la spalla sinistra dell’uomo.
-Va tutto bene-, sussurrò lui, accarezzandole i capelli per farla calmare. -Ti prego, non piangere più. Soffrirò anch’io, se queste lacrime continueranno a bagnarti il viso-.
La ragazza si strinse di più a lui, poggiandogli entrambe le mani sul petto e ascoltando il battito ovattato del cuore. Per un secondo fu convinta che Jellal fosse più reale che mai. Altrimenti come avrebbe potuto percepire il suo ritmo cardiaco?
-Sai-, gli disse dopo qualche minuto, -stasera mi è sembrato di incontrarti-.
-Che vuoi dire?-.
-Stavo camminando per strada e un passante mi ha urtata. Andava così di fretta che non si è neanche voltato per scusarsi, ma… Lo so, sto per dire una scemenza… Ti assomigliava. Buffo, non credi?-.
-Già-, mormorò lui di rimando. -Buffo-.
-Avrei voluto che fossi davvero tu-, mormorò Erza. -Così finalmente non avrei più dovuto aspettare la notte per starti vicina-.
Jellal le sollevò il mento con la punta dell’indice e fissò i propri occhi in quelli della ragazza: -Non hai bisogno di desiderare il buio. Ogni volta che chiuderai gli occhi, mi troverai al tuo fianco-.
Una cappa di calore calò sul viso freddo di Erza. Le labbra le bruciarono a contatto con quelle di Jellal e quel bacio, durato per tutta la notte, la accompagnò fino al risveglio.
La mattina seguente, quando dischiuse le palpebre, sentì di avere ancora il sapore dell’uomo sulla bocca.
Niente era mai stato reale come in quel momento.

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