Nei nostri sogni di Amor31 (/viewuser.php?uid=173773)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Nei nostri sogni
Capitolo
I
L’orologio
digitale appeso alla parete
alle sue spalle indicava che la mezzanotte era passata da venti minuti.
In piedi dietro al bancone del pub,
Erza Scarlet stava aiutando la collega Mirajane Strauss a riassettare
le pinte
che i clienti avevano svuotato con pochi sorsi durante quella lunga ed
estenuante giornata di inizio dicembre. C’era ancora qualcuno
a parlottare ai
tavolini del locale, ma presto anche i ritardatari se ne sarebbero
dovuti
andare: mancava poco all’ora della chiusura.
-Sai cosa ti dico?-, stava chiedendo
Mirajane, chiudendo dietro le apposite vetrine gli alcolici utilizzati
per
preparare i cocktail. -Sono felice di essere riuscita ad aprire un pub
tutto
mio. È una soddisfazione essere autonomi-.
Erza annuì con un cenno della testa.
In realtà non stava seguendo affatto il discorso
dell’amica.
-Ho solo paura della concorrenza di
Laxus… E se ce la facesse pagare per aver iniziato
un’attività indipendente?-.
-Se ne dovrà fare una ragione-,
replicò Erza, facendo il giro del bancone e capovolgendo sui
tavoli liberi le sedie,
così da pulire il pavimento. -Abbiamo lavorato come sue
subordinate per tre
anni, giusto il tempo di fare un po’ d’esperienza.
E mi sembra che il nostro
apprendistato stia dando i suoi frutti, no?-.
Mirajane fu costretta a darle ragione:
sì, avevano aperto quel pub da poco più di un
mese, ma i clienti non erano mai
mancati, anzi. Perfino qualche abitudinario dell’Extreme, il locale di Laxus Dreyar, aveva
deciso di passare dalle
loro parti per una visita.
-Pensi che se la sia presa?-, domandò
titubante Mirajane.
-Lo conosco abbastanza da crederlo,
già-.
Erza sentì la collega sospirare.
-Ehi, ma perché tutta questa
preoccupazione? Mi sei sembrata felice quando ti ho proposto di
abbandonare l’Extreme-.
-Lo sono ancora-, disse con calore la
ragazza, -ma c’è qualcosa che mi
turba…-.
Le lancette dell’orologio ricordarono
loro che tra mezz’ora sarebbe terminata la giornata. Erza
sbuffò.
-Mira, puoi chiudere tu, stasera? Sono
un po' stanca-.
-Lo vedo bene, hai delle occhiaie
spaventose!-, esclamò la collega, riferendosi ai due segni
scuri che le
marcavano gli occhi.
-E con questo cosa vorresti dire?-.
-Oh, Erza, non prendertela per così
poco! Piuttosto, torna a casa e riposa. Dio solo sa quanto poco dormi-.
-Dormo abbastanza, te lo garantisco-,
replicò la ragazza, voltandosi e nascondendo uno sbadiglio.
Come al solito,
Mirajane aveva ragione.
-Fatti un favore: non appena sarai
rientrata, chiuditi nella doccia, preferibilmente sotto l'acqua
bollente.
Vedrai, favorirà il sonno. Non farai in tempo ad asciugarti
che cadrai
addormentata sul letto-, le sorrise l'amica, rassettando gli ultimi
bicchieri
dietro al bancone.
-Mi ricordi tanto mia madre-, sbuffò
Erza, avvicinandosi all'uscita. -Non c'è alcun bisogno di
parlarmi come ad una
bambina-.
-Ora vai. Che aspetti?-.
-Ti prometto che domani sera
recupererò il lavoro di oggi-.
-Non crucciarti e lascia fare a me.
D'altronde non sei abituata a turni così lunghi e ti stanchi
facilmente...-, la
prese in giro Mirajane, continuando a sorriderle.
-Sì, come no... Te lo ripeto: se non
ti avessi convinta a rilevare questo bar, staresti ancora lavorando per
Laxus.
O forse non ti dispiaceva poi così tanto?-,
replicò Erza, facendo avvampare le
guance dell'amica.
-Ci vediamo domani-, la congedò
l’altra, spintonandola letteralmente fuori e chiudendo con
una doppia mandata
la porta di vetro. Dal canto suo, Erza non ebbe il tempo di aggiungere
nulla: la
collega aveva già esposto il cartello CHIUSO ed era tornata
alle proprie
incombenze, provando inutilmente a scacciare dai propri pensieri
l'immagine di
Laxus, magicamente evocato poco prima.
"Avranno preso a frequentarsi
fuori dal lavoro", pensò Erza, dissimulando una risata. "Lo
dicevo
che non me la contavano giusta...".
S'incamminò lungo il desolato
marciapiede, stringendosi nell'impermeabile che Mirajane le aveva
regalato per
Natale l’anno prima. Un soffio di vento gelido la fece
rabbrividire e la
convinse definitivamente a farsi una bella doccia non appena fosse
rientrata
nel proprio appartamento.
Il condominio in cui risiedeva non
distava molto dal bar. Normalmente impiegava un quarto d'ora per
raggiungere
casa, ma quella sera, complici la stanchezza ed il freddo, non aveva
alcuna
intenzione di proseguire quella scarpinata.
-Taxi!-, chiamò a voce alta,
avvistando una vettura gialla sbucare dall'angolo opposto della strada.
L'automobile si fermò ed Erza salì, accomodandosi
sul sedile posteriore.
-Buonasera, signorina-, la salutò
l'uomo alla guida, guardandola dallo specchietto retrovisore.
-Buonasera. Potrebbe portarmi al 14G
di Green Lane, per favore?-.
Senza proferir parola, l'autista fece
retromarcia e la condusse a casa in meno di cinque minuti. L'ora tarda
favoriva
il deflusso del traffico, tanto che nella sua corsa il taxi non
incrociò altre
vetture.
-Sono quindici Jewels-, la informò
l'uomo, arrestando l'automobile al margine del marciapiede, esattamente
di
fronte all'ingresso del condominio.
-A lei-, disse Erza, estraendo dal
portafoglio la cifra richiesta e facendo scivolare le monete sul palmo
aperto
del tassista.
-Buona serata-, le augurò l'uomo,
ripartendo a gran velocità e scomparendo nella notte una
manciata di secondi
dopo.
La ragazza lo vide allontanarsi e
risistemò in un taschino della tracolla il proprio
borsellino, rabbrividendo di
nuovo prima di recuperare le chiavi di casa ed entrare nella palazzina.
Una
volta dentro, si affrettò verso l’ascensore che
l’avrebbe portata al quarto
piano, ma dovette constatare di dover prendere obbligatoriamente le
scale: un
grosso cartello era stato affisso accanto all’ascensore ed
una scritta sbilenca
informava i condomini che fosse GUASTO.
Sospirando e passandosi una mano tra i
capelli, Erza si fece forza e salì le rampe, ripetendosi a
mo’ di mantra che il
premio per quell’ultima fatica di fine giornata sarebbe stato
un gran bel sonno
ristoratore, esattamente ciò che ci voleva dopo aver fatto
le ore piccole per
sette giorni consecutivi.
Certo, una parte della colpa era stata
anche sua: in tre occasioni aveva aiutato Mira fino a tardi proprio
come era
successo quella sera, ma le restanti quattro nottate le aveva passate
chattando
con Millianna, una delle sue più care amiche che per lavoro
era stata costretta
a lasciare Magnolia e a trasferirsi in una città a ottocento
chilometri di
distanza. Insomma, conciliare i loro impegni non era semplice e
l’unico modo
per mantenersi in contatto era darsi appuntamento la sera, in chat.
Salì a fatica l’ultima ventina di
gradini e si fermò sul pianerottolo per qualche secondo,
giusto il tempo di
riprendere fiato; inserì di nuovo le chiavi nella toppa ed
entrò
nell’appartamento.
Era un bilocale modesto a cui si
accedeva tramite un piccolo corridoio; sulla destra Erza aveva
allestito un
salottino formato da un divanetto a due posti e un tavolino basso di
fronte a
cui aveva sistemato il televisore. La stanza era separata dalla
successiva
tramite un arco in muratura che portava alla cucina, completa di tavolo
e due
sedie che raramente venivano occupate da altro che non fosse un cumulo
di abiti
da stirare – Erza aveva preso l’abitudine di
stirare lì, visto che quella era
la stanza più spaziosa dell’appartamento. Accanto
alla cucina era situato il
bagno, comunicante direttamente con la camera da letto, vero regno
della
ragazza. Era lì che si rifugiava per leggere –
spesso si era anche chiesta che
senso avesse, allora, mantenere il salotto a disposizione – e
chattare con
Millianna.
Si richiuse la porta alle spalle e
poggiò la borsa sul divano, recuperando il telecomando del
televisore che si
era incastrato tra seduta e schienale; fece rapidamente zapping tra i
canali e
sbadigliando si rese conto di quanto fosse stato effettivamente inutile
comprare uno schermo, visto che i programmi televisivi lasciavano
alquanto a desiderare.
Spense la TV e andò dritta in camera.
La prima cosa che notò fu il monitor oscurato del computer:
si avvicinò alla
piccola scrivania su cui l’aveva collocato e mosse il mouse
per verificare che
desse ancora segni di vita. Mentre il PC si riavviava pigramente e le
ventole
riprendevano a girare, Erza entrò in bagno e
regolò l’acqua della doccia, aspettando
impazientemente che diventasse calda; tornò di nuovo in
camera da letto e
controllò la chat.
C’erano cinque messaggi non letti e provenienti
rispettivamente da Millianna – “Dove
sei
finita? Non dovevamo sentirci per le nove?”
– dal suo amico Simon – “Ciao,
Erza. Stavo pensando… Hai impegni per
sabato pomeriggio? Io sono libero dal lavoro e ho visto che al cinema
è uscito
quel film di cui parli da mesi. Potremmo andarci insieme, che ne dici?
Sempre
se ti va… Non so, dimmi tu” –
da Lluvia Lockser, una ragazza con cui aveva
lavorato prima di lasciare l’Extreme
– “Ho seguito il tuo consiglio, ma Gray non ne vuole
proprio sapere di me”
– da Gray Fullbuster, suo ex compagno di scuola –
“Hai detto a Lluvia di provarci con
me? ANCORA?!” – e da Lucy
Heartphilia, che aveva conosciuto frequentando la palestra locale
– “Tu non ci crederai.
È troppo bello per
essere vero. Natsu mi ha chiesto di stare insieme a lui. Capisci?
INSIEME!”.
Avrebbe dovuto rispondere a un bel po’
di domande – quella che la preoccupava di più
riguardava Simon: negli ultimi
tempi aveva cominciato a comportarsi diversamente nei suoi confronti.
Ogni
volta che si vedevano si mostrava impacciato e lievemente a disagio,
cosa che
prima non era mai accaduta – ma si disse che la
priorità, per il momento, era
la doccia.
Rientrò in bagno, raccolse i capelli
sulla testa per evitare di bagnarli – se avesse acceso il
phon a quell’ora
della notte, i condomini del piano di sotto le avrebbero inveito contro
come
minimo fino al mattino seguente – e una volta fatti cadere a
terra i vestiti
tirò la tendina della doccia, lasciando che
l’acqua lavasse via le fatiche
della giornata. Il vapore la avvolse e la fece avvampare,
costringendola a
tossire; venti minuti più tardi uscì dal bagno
tenendo addosso solo l’asciugamano
che la circondava come una sottospecie di tubino.
Sedette sul letto e si asciugò pian
piano, mentre sentiva il sonno premerle sulle palpebre. Mira aveva
ragione:
niente favoriva il riposo quanto una doccia calda. Erza si ripromise
che
avrebbe ascoltato più spesso i saggi consigli
dell’amica.
Non appena si fu rivestita – aveva
recuperato una camicia da notte di lana dall’armadio e
l’aveva indossata alla
svelta – provò a rispondere ai messaggi ricevuti,
ma alla fine si disse che
avrebbero potuto aspettare. Probabilmente Millianna si sarebbe legata
al dito
la mancata replica, ma Erza era sicura che avrebbe capito la
situazione, una
volta che gliel’avesse spiegata.
Non le rimase che trascinarsi per la
seconda volta a letto e rifugiarsi sotto i numerosi strati di coperte,
cercando
di riscaldarsi. Impostò la sveglia sul cellulare e poi
chiuse gli occhi con la
speranza di addormentarsi subito.
Non si rese conto di quanto tempo le
fu necessario per cadere nel mondo dei sogni.
***
Era
al Magnolia Park. Poteva essere
una giornata invernale o l’inizio della primavera; non
avrebbe saputo dirlo. I
rami degli alberi erano spogli e per terra c’erano scie di
foglie secche che
scricchiolavano al suo passaggio.
Erza si accorse di tenere tra le mani un guinzaglio. A quanto pare
stava portando un labrador – che dedusse fosse il
suo – a passeggio. E pensare che a lei i cani neanche
piacevano troppo!
-Buono-, disse all’animale, tirando il
guinzaglio per evitare che scappasse. -Andiamo a fare un giro, su-.
Si incamminò lungo il sentiero
tracciato dalle foglie, calciandole via di tanto in tanto. Non era mai
stata
un’amante dell’autunno e dell’inverno,
anzi; vedere gli alberi secchi e nudi la
rattristava molto. Quando le chiome verdi cominciavano ad imbrunirsi e
accartocciarsi, pensava inevitabilmente alla solitudine, alla
vecchiaia, alla
morte. Salvo poi riscuotersi da quelle riflessioni tetre e tornare a
concentrarsi su qualcosa di positivo.
Il labrador aveva iniziato a
strattonare il guinzaglio, costringendola a sveltire il passo. Stavano
attraversando tutto il parco, stranamente deserto. E sì che
si ghiacciava, lì
fuori, ma anche nei periodi più freddi dell’anno
c’era sempre gente ad
affollare i prati. Quel giorno, poi, tirava un forte vento e si
stupì nel non
vedere gruppi di bambini far volare gli aquiloni; era un passatempo che
aveva
amato anche lei, da piccola.
-Si può sapere dove mi stai
portando?-, chiese all’animale con non poca stizza. -Siamo
qui per una
camminata, non per una maratona!-.
Ma a quanto pare il cane non voleva
saperne di starsene tranquillo: tirò con più
forza il guinzaglio e riuscì a
divincolarsi dalla presa di Erza, a cui non rimase altro che guardare
il
labrador schizzare via attratto da chissà che cosa.
-Torna qui!-, gridò lei, seguendolo
con il fiatone. -Devo riportarti a casa!-.
Ma perché si preoccupava tanto? Quel
cane era solo un’illusione, no? Non era suo. Non era di
nessuno, per quanto ne
sapeva. Eppure si sentiva in dovere di riprenderlo. Sì,
doveva recuperarlo.
-Buck!-, lo chiamò ancora, stavolta
usando il primo nome che le venne in mente. Chissà dove lo
aveva sentito, tra
l’altro. -Buck! Buck, dove ti sei cacciato?-.
Si guardò intorno, aguzzando la vista
per penetrare la lieve foschia che si era improvvisamente levata:
dell’animale
non c’era traccia. Vagò per qualche altro minuto
senza avere la più pallida
idea di dove stesse andando e di colpo lo sentì abbaiare.
-Buck!-, chiamò per l’ennesima volta,
correndo nella direzione da cui sembrava provenire l’ululato.
E finalmente lo vide.
-Stupido-, disse tra sé e sé,
avvicinandosi all’animale, immobile a qualche metro di
distanza. Si inginocchiò
accanto al cane e recuperò il guinzaglio, concedendogli una
carezza sulla
testa. -Non scappare più, d’accordo? Ti avrei
potuto perdere, sai? E poi cosa
avrei fatto? E se qualcuno ti avesse portato via?-.
Buck continuava a rimanere fermo.
Fissava un punto di fronte a sé con grande interesse e Erza
si chiese di nuovo
cosa fosse stato ad attirarlo da quella parte.
-Hai visto un altro cane con cui
giocare? Oppure hai provato a seguire uno scoiattolo, ma te lo sei
lasciato
scappare?-.
Il labrador abbaiò e si allontanò di
nuovo nella foschia, ma stavolta Erza non si lasciò cogliere
impreparata: tenne
ben saldo il guinzaglio ed evitò che scappasse.
-Ma qual è il problema?-.
-Buck! Su, bello, vieni qui!-.
Una voce maschile ruppe la quiete del
parco. Erza si rimise in piedi e si guardò intorno per
vedere chi avesse
parlato.
-Buck, te ne sei andato? È quasi ora
di cena e se ci sbrighiamo a tornare a casa, ti prometto che avrai una
razione
extra di crocchette. Quelle al pollo che ti piacciono tanto, magari-.
La voce adesso era più vicina. Il cane
abbaiò ancora e Erza pregò con tutte le sue forze
che facesse silenzio.
-Eccoti, allora!-.
Dalla nebbia sbucò un giovane stretto
in un trench nero che gli arrivava a metà coscia ed esaltava
la sua magrezza.
Aveva folti capelli blu che gli ricadevano compostamente sulla fronte,
nascondendo appena un curioso tatuaggio rosso che spiccava sulla
guancia
destra, ed uno sguardo decisamente amichevole.
Il nuovo venuto si avvicinò e si
abbassò all’altezza del labrador, grattandogli con
fare amorevole il muso e le
orecchie; poi rivolse la propria attenzione a Erza.
-Grazie per averlo preso-, le disse
con un sorriso, guardandola dal basso. -Buck è molto
espansivo e quando è al
parco non vede l’ora di correre e giocare qui intorno.
Pensavo che lo avrei
perso per colpa di questa foschia, ma grazie al Cielo è
intervenuta lei. Non so
cosa avrei fatto, se non lo avessi ritrovato-.
Il ragazzo si rialzò e la fissò,
aspettando che dicesse qualcosa. Peccato che Erza fosse a corto di
parole.
-Mi scusi, ma temo che ci sia un
errore-, provò a spiegare lei. -Questo cane è
mio. Sono arrivata al parco
quindici minuti fa e lo portavo con me-.
-È impossibile-, replicò lui. -Si sta
sbagliando-.
-Crede che non saprei riconoscere il
mio cane?-. Allo stesso tempo Erza si chiese perché avesse
cominciato a pensare
che Buck fosse davvero suo.
-Mi sta dando del bugiardo?-.
-Penso solo che si stia confondendo. I
labrador sono cani molto comuni, se non sbaglio-.
-Allora mi dica: come si chiama il suo
cane?-.
-Buck-.
-Ma guarda un po’ quanto è piccolo il
mondo!-, sbottò il ragazzo, rivolgendo gli occhi al cielo e
allargando alle
braccia. -Stessa razza di cane e stesso nome. Non crede che le
coincidenze
siano un po’ troppe?-.
-Senta, è un caso. So solo che questo
cane era con me quando sono entrata-.
-Anch’io sono certo della stessa
cosa-, ribatté lui. -Come risolviamo la faccenda?-.
Quel sogno era paradossale. Erza
avrebbe voluto svegliarsi il prima possibile, pur di non continuare
quell’assurda conversazione.
-Il mio cane è scappato.
All’improvviso è corso via ed io l’ho
seguito-.
-Certo che sì! Stava tornando dal
legittimo padrone!-.
-Ma anche il suo cane ha fatto la
stessa cosa, no?-.
Quell’obiezione era innegabile.
-Quindi?-, domandò il ragazzo.
-Significa che il suo labrador è
ancora in circolazione. Se Buck fosse veramente suo, non avrebbe avuto
motivo
di abbaiare quando l’ha vista arrivare, no?-.
Anche quello era un punto a sostegno
di Erza.
-Oppure la soluzione è un’altra-.
-Sarebbe?-, chiese lei, curiosa e
nervosa allo stesso tempo.
-Quello che sto per dirle potrebbe
sembrarle impossibile, ma visto che questa è tutta
un’illusione… Ha pensato che
potrebbe esserci un solo cane?-.
“Bene”, si disse Erza, “siamo alla
frutta. Talmente alla frutta che anche le persone che immagino sanno di
trovarsi in un sogno”.
-Vuole dire che Buck sarebbe sia mio
sia suo?-.
-Esattamente-, asserì il ragazzo,
facendo un breve cenno con la testa.
-È assurdo-.
-Lo so-.
-Perché dovrebbe accadere una cosa del
genere?-.
-Non lo chieda a me. I sogni spesso
non hanno alcun senso-.
I due si fissarono ancora, mentre Buck
guardava ora l’uno ora l’altra.
-Va bene, siamo ad un punto morto.
Tanto vale fare le presentazioni, no?-, fece notare Erza.
-Oh, giusto-, concordò il ragazzo. -Mi
chiamo Jellal Fernandes-.
-Piacere di conoscerla-, replicò lei,
afferrando la mano che le veniva tesa. -Io sono Erza Scarlet-.
-È un nome adatto-, disse lui,
indicando i capelli che le contornavano l’ovale del viso.
-E il suo invece è… particolare-.
-In che senso?-.
-Si offende se le dico che mi fa
pensare alla parola gelatina?-.
Il ragazzo sospirò: -Ci sono abituato,
ormai. È così che mi chiamavano alle Elementari-.
-Oddio, mi scusi, allora!-, tentò di
rimediare Erza.
-Si figuri. C’è di peggio-.
Per qualche minuto cadde un silenzio
insopportabile. Entrambi pensarono che Buck avrebbe anche potuto
abbaiare,
giusto per allentare la tensione.
-E viene spesso qui al parco?-,
domandò Jellal dopo alcuni secondi di riflessione.
-Non molto, a dire la verità-.
-È un peccato. È un luogo
meraviglioso, tanto d’estate quanto d’inverno. Io e
Buck siamo frequentatori
abituali-.
-Capisco-.
-Ecco perché sono ancora convinto che
il cane sia mio e non suo-.
-Non ricominciamo con questa storia!-,
sbottò Erza, lisciandosi l’impermeabile color
sabbia che indossava. -Anzi, sa
cosa le dico? Che, se vuole, può anche tenerlo lei-.
-Perché mai? Si è battuta duramente
per avere Buck-.
-Non so perché l’ho fatto. In realtà
non vado pazza per i cani-, ammise.
-E si lamenta dell’assurdità dei sogni
quando lei per prima non ha le idee molto chiare?-, la prese in giro
Jellal.
-Senta, cosa devo dirle? Io volevo
solo riprendermi dopo un’intensa giornata di lavoro. Non
è colpa mia se sono
finita in questo parco e ci siamo incontrati-.
-Se è per questo, vale lo stesso per
me-.
-Bene-.
-Bene-.
I due si esaminarono per qualche
secondo. C’era qualcosa di davvero strano, in quel sogno.
-Se non viene al parco, cosa fa nel
tempo libero?-, domandò Jellal.
-Vado in palestra-.
-Quale?-.
-La Makarov Gym, sulla High Street-.
-Passo spesso da quelle parti, ma non
mi è mai capitato di incontrarla-.
-E anche se mi avesse incrociata?-.
-Forse avremmo potuto conoscerci in
circostanze diverse e più piacevoli rispetto a questa, non
crede?-.
Ora Jellal le sorrideva. Non solo era
alle prese con un sogno assurdo, ma aveva anche a che fare con uno
sconosciuto
dall’aria alquanto insolita.
-Può darsi-, rispose Erza, sollevando
un sopracciglio con fare sospettoso.
-Senta, dovremmo ricominciare da
capo-, propose lui, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli
dalla
fronte. -Mi sembrava che avessimo iniziato bene, prima che partisse la
discussione. Anche se non abbiamo più idea di chi sia il
vero padrone di Buck,
lei è stata molto gentile nel recuperarlo. Che ne dice di
fare una passeggiata?
Sempre che non abbia fretta, ovviamente-.
Erza soppesò l’offerta: sotto un certo
punto di vista diffidava ancora di quel tipo, ma d’altra
parte c’era qualcosa in
lui che le ispirava fiducia. Forse erano i suoi occhi a rassicurarla:
sembravano dolci, quasi accoglienti.
-Dove vuole andare?-, gli chiese.
-Magari in riva al laghetto? È un
posto che a Buck piace molto e io mi diverto a vederlo correre da una
parte all’altra-.
-Vada per il laghetto, allora-, si
arrese Erza. -Ma sbrighiamoci. Tra poco sarà buio-, fece
notare, puntando gli
occhi verso l’alto e osservando il cielo incupirsi.
-Le prometto che non la tratterrò per
molto-, la rassicurò Jellal. -Non è mia abitudine
infastidire una ragazza
affascinante come lei-.
-Siamo passati dalle accuse alla
cortesia?-, obiettò lei.
-Dimentichi ciò che è successo prima-,
la pregò lo sconosciuto per tutta risposta. -E perdoni il
tono che ho usato.
Non volevo che ci fossero equivoci tra di noi-.
-D’accordo-, annuì Erza. -Farò finta
che non sia accaduto nulla-.
Che sogno bizzarro! Alla fine era
stato lui a porgere le scuse, quando invece era stata lei a dare inizio
alla
polemica.
-Vogliamo andare?-, le domandò.
-Sì. E tenga questo-.
Gli tese il guinzaglio e Jellal lo
fissò: -È sicura di volermi affidare Buck?-.
-Perché no? Non ha la faccia di un
ladro di cani, in fondo-.
L’uomo sorrise e prese il guinzaglio:
-Va bene, va bene. Mi prenderò cura io di questo bestione-.
Si abbassò una seconda volta e
accarezzò la testa dell’animale, che
uggiolò in segno d’approvazione.
-OK, direi che possiamo andare. Erza,
rimanga al mio fianco: se questa foschia dovesse intensificarsi,
rischieremmo
di perderci di vista-.
La ragazza non proferì parola. Si
limitò a seguire Jellal nella nebbia, mentre il cane li
conduceva attraverso il
parco. Pensò che nella vita aveva fatto pochi sogni strani
come quello.
-Lei piace molto a Buck-, aggiunse
qualche minuto più tardi l’uomo.
-Come, scusi?-.
-Deve avergli fatto una buona
impressione, altrimenti non si sarebbe lasciato avvicinare. Di solito
tiene
lontano chiunque provi ad accostarsi-.
-Oh-.
-A pensarci bene, è anche uno dei
motivi per cui non incrocio mai nessuno, qui al parco. Non trova che
sia
curioso?-.
Erza si disse che quella era solo
l’ultima delle cose che trovava insolite, ma non espresse la
propria opinione
in merito.
-Però oggi sono stato fortunato-.
-Sul serio?-, domandò la donna con
poco interesse.
-Ho incontrato lei-.
Erza si fermò. Jellal mosse qualche
altro passo, prima di voltarsi per vedere cosa le fosse preso.
-Va tutto bene?-, le chiese, stavolta
con tono preoccupato.
-S-sì-, balbettò di rimando. Sentiva
una morsa stringerle lo stomaco ed un peso opprimerle il torace. Per
alcuni
secondi ebbe l’impressione di non riuscire a respirare.
-Erza? Erza?-.
Di colpo non sentì più nulla. Le
parole che Jellal stava pronunciando divennero mute e l’unica
cosa che vide
furono le sue labbra continuare a muoversi.
Driiin!
Il fastidioso trillo della
sveglia la
riportò prepotentemente alla realtà. Jellal, Buck
e il parco divennero
un’unica, sfocata macchia di colore e Erza aprì
gli occhi, accorgendosi di
essere ancora al caldo del proprio letto. Sbirciò
l’orario sul cellulare e
sbuffando si coprì il viso con le coperte: stava per
iniziare una nuova
giornata, ma avrebbe fatto di tutto per sapere quale fosse
l’epilogo di quello
strano sogno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo
II
I
muscoli le bruciavano.
Erza stava praticando esercizi di
stretching in preparazione alla corsa che si apprestava ad
intraprendere.
Sedette sul tappetino che aveva sistemato a terra e divaricò
le gambe,
mantenendole tese e piegando il busto in avanti per permettere alla
schiena di
allungarsi; mantenne quella posizione per trenta secondi e poi
cambiò, stavolta
toccandosi la punta dei piedi con le dita. Completata quella serie di
esercizi,
si rialzò, mise da parte il tappeto e si avvicinò
ad un tapis roulant, selezionando
velocità e pendenza: avrebbe tonificato per bene le sue
longilinee gambe
bianche.
-Perché non hai risposto al messaggio
che ti ho mandato?-.
La voce di Lucy Heartphilia la fece
voltare e si accorse che la ragazza aveva occupato la cyclette alla sua
destra;
si stava riferendo alle parole che la sera prima aveva affidato alla
chat.
-Ciao-, la salutò. -Scusami, ma ho
fatto tardi con il lavoro. Quando sono tornata a casa ero stremata e ho
avuto
giusto il tempo di leggere, prima di cadere addormentata-.
-OK, d’accordo… E che ne pensi?-.
-Di cosa?-.
-Di me e Natsu-.
-Vuoi la mia benedizione?-.
-Non è questo quello che intendevo-.
Erza sospirò: -Mi permetti di essere
sincera?-.
-Devi esserlo-, disse con risolutezza
Lucy.
L’amica si prese un paio di minuti
prima di rispondere: -Vedi… Credo che siate una bella
coppia. Insomma, i tipici
opposti che si attraggono e cose simili. Ma alla lunga…-.
-Cosa?-.
-Ho paura che la vostra possa
trasformarsi in una relazione breve, ma intensa. E da quanto ho capito
tu non
punti di certo a questo, no?-.
-Stai dicendo che Natsu si stancherà
di me?-.
-No, Lucy. Al contrario, credo che sia
più probabile che sia tu a decidere di interrompere la
vostra storia-.
-Ma non farei mai una cosa del genere!
Sono innamorata di lui da anni, lo sai!-.
-Penso solo che siate davvero troppo
diversi, ecco tutto. Poi, per carità, vi auguro ogni bene,
ci mancherebbe. Se
siete felici, sarò contenta per voi-.
-Hai qualche altro consiglio?-.
Erza fece spallucce: -Niente di
particolare-.
Lucy aumentò la resistenza della cyclette e
improvvisò una corsa leggera: -Mi sembri stanca. Sicura di
esserti
riposata a dovere?-.
-Uhm? Sì, certo-.
-Allora hai la testa tra le nuvole per
qualche motivo di cui non vuoi parlare?-.
-Sono solo sovrappensiero-, disse
Erza.
Aveva staccato da lavoro alle tre di
quel pomeriggio ed aveva avuto giusto il tempo di tornare a casa per
prendere
il borsone con cui andare in palestra; nonostante tutto, non aveva
smesso per
un istante di riflettere sullo strano sogno che aveva movimentato la
sua
nottata.
-Non ti va di confidarti un po’?-, le
domandò ancora Lucy, che adesso stava pedalando a
perdifiato. -Insomma, sono tua
amica, no? E sarebbe bello se parlassimo apertamente di qualsiasi cosa-.
-Tranquilla-, la rassicurò lei, mentre
fermava il tapis roulant e si avvicinava con sicurezza agli attrezzi
per
l’esercizio degli addominali. -È solo una
sciocchezza-.
-Dall’espressione che hai, non la
definirei esattamente così-, obiettò
l’altra. -Comunque… Devi tornare a
lavoro?-.
-Ho il turno dalle sei all’una, come
al solito-, confermò Erza. -E probabilmente sarò
costretta a trattenermi anche
una mezz’ora in più, visto che ieri sera sono
uscita prima-.
-Tu e Mira dovreste assumere qualcuno
che vi dia una mano-, suggerì Lucy. -Non potrete andare
avanti così per
sempre-.
-Abbiamo appena aperto l’attività e
non possiamo ancora permetterci l’aiuto di nessuno. A meno
che lì fuori non ci
sia qualcuno disposto a lavorare gratis-, aggiunse Erza, indicando
l’esterno
della palestra con un cenno della testa.
-Se volete, posso contribuire alla
vostra causa. Il mio attuale impiego non mi impedisce di collaborare
altrove. E
non avrete bisogno di pagarmi, perché vi aiuterò
come farebbe una qualsiasi
amica-.
-Lucy, non devi-, la bloccò la
ragazza. -Non hai alcun obbligo a…-.
-Lo faccio con piacere-, replicò
l’altra. -Se avessi avuto dei problemi, non mi sarei neanche
proposta, no?-.
Erza le sorrise: -Devi parlarne con
Mira. È lei che gestisce la parte economica-.
-D’accordo. Sono sicura che non ci
penserà due volte prima di accettare la mia offerta-, rise a
sua volta Lucy.
-Ti dispiace se vengo direttamente con te, più tardi?
Così avrò subito una
risposta da parte sua-.
-Come vuoi. Ma se dovessi davvero
iniziare a lavorare con noi al pub, non lamentarti dei ritmi disumani
di Mira,
mi raccomando!-.
Scherzarono ancora su quell’argomento
e Erza fu così presa dalla chiacchierata da dimenticare
momentaneamente il
sogno avuto.
Quella notte, in un modo o nell’altro,
si sarebbe dovuta ricredere.
***
-Lucy
è stata davvero molto gentile,
non trovi?-.
Mirajane stava miscelando rum e cognac
per servire uno dei suoi cocktail migliori e Erza le era accanto per
aggiungere
gradualmente succo di limone e gin.
-Sì-, concordò lei. -Non mi aspettavo
che si proponesse per lavorare con noi-.
-Ha ragione, ad ogni modo: non
possiamo fare tutto da sole. Ti serve qualcuno che ti dia una mano-.
-Mi
serve? Perché, tu invece sei bionica?-.
-No, ma reggo meglio di te. È un dato
di fatto-.
-Mira, devo solo abituarmi agli
attuali orari. Cerca di capirmi…-.
-Ti capisco, infatti. Ed è per questo
che ho accettato l’aiuto di Lucy. Certo, se avesse voluto uno
stipendio
probabilmente non le avrei detto di sì, ma grazie al Cielo
è nostra amica. Ogni
tanto la fortuna è dalla nostra parte-, rise la ragazza,
shakerando e versando
il liquido dorato in un bicchiere di vetro massiccio.
-Quindi inizierà a lavorare da
domani?-.
-Già. Mi ha dato piena disponibilità.
Vuoi spartire il turno con lei?-.
-Cosa? No!-.
-Erza, ti si legge in faccia quanto tu
sia stanca. Puoi truccarti quanto ti pare, ma il fondotinta non
nasconde le
occhiaie; e io non voglio che la mia migliore amica si senta male a
causa del
lavoro-.
-Mira…-.
-Siamo indipendenti, adesso. Siamo le
proprietarie di questo locale e possiamo decidere liberamente cosa fare
o non
fare. Quindi prenditi pure una settimana di riposo, se è
questo quello di cui
hai bisogno. Te l’ho detto, io ce la faccio benissimo. E con
Lucy di supporto
l’attività del pub non rallenterà-.
-Così mi fai sentire in colpa…-,
sussurrò Erza, riponendo cognac e gin dietro una vetrina.
-Niente affatto. Devi renderti conto
dei tuoi limiti. Pensa a quando eravamo alle dipendenze di Laxus: io
lavoravo
ininterrottamente dalle sette del mattino alle undici della sera, con
due sole
pause a pranzo e cena; tu invece avevi dei turni più
leggeri, di cinque o sei
ore al massimo. A darti il cambio erano Cana o Lluvia e non accumulavi
lo
stesso stress di adesso. Perciò pensa un po’ a te
stessa: riguardati e
riprenditi dalla fatica. L’ultima cosa che devi fare
è sentirti in colpa,
credimi-.
Erza abbassò lo sguardo sul bancone:
sebbene non fosse troppo convinta delle parole dell’amica,
era indubbio che
avesse bisogno di staccare la spina.
-Ma come te la caverai se io dovessi
fermarmi? Saresti da sola fino alle sei del pomeriggio, quando
finalmente
arriverebbe Lucy. E chi ti ha detto che lei invece sarà
capace di resistere a
sei ore filate di servizio?-.
-Ce la farà-, la rassicurò Mirajane.
-È una ragazza resistente, anche se a prima vista non lo si
direbbe-.
-Un Blu Margarita, per favore-, ordinò
un uomo di mezza età, avvicinandosi al bancone e
interrompendo la
conversazione.
-Subito, signore-, gli sorrise Mira,
voltandosi e recuperando da una mensola della tequila e del succo di
lime.
-Erza, passami del sale e prendi del Curaçao dal retro-.
L’amica non se lo fece ripetere due
volte: tre minuti più tardi il cliente stava già
assaporando l’amarissimo
drink.
***
-Te
lo chiedo di nuovo: sei sicura di
non aver bisogno di me?-.
-Stai tranquilla e va’ a casa-.
-Per quanto…?-.
-Prenditi tutto il tempo necessario.
Quando ritornerai al lavoro, sarai una persona nuova-.
Mirajane abbracciò Erza e le aprì la
porta del locale per permetterle di uscire. Anche quella sera avevano
fatto
tardi – Scarlet si era imposta di recuperare la
mezz’ora persa il giorno prima
– e finalmente era giunto il momento di ritirarsi.
-Spiega a Lucy la situazione-, la
pregò ancora Erza, mettendo un piede fuori dal locale.
-Altrimenti penserà che
ho voluto approfittare della sua gentilezza-.
-Mi occuperò io di tutto-, le sorrise
la ragazza. -Ci vediamo presto-.
Si congedarono definitivamente e si
separarono, prendendo ciascuna la direzione opposta: Erza si
incamminò in
direzione di Green Lane, Mirajane prese Victoria Street. Entrambe
preferirono
non prendere il taxi, come se camminare nel freddo della notte potesse
allontanare tutti i pensieri e le preoccupazioni che le attanagliavano.
Un quarto d’ora dopo Erza era davanti al proprio condominio.
Aprendo la porta d’ingresso si chiese se
l’ascensore
fosse stato fatto aggiustare, ma a quanto pareva ci sarebbe voluto
qualche giorno
in più: il cartello che ne proibiva l’utilizzo era
ancora appeso al suo posto e
la ragazza utilizzò di nuovo le scale.
Una volta entrata nell’appartamento,
si liberò dell’impermeabile e lo gettò
malamente sul divano insieme alla borsa.
Ebbe giusto il tempo di spogliarsi ed indossare la camicia da notte,
prima di
addormentarsi così profondamente da iniziare a confondere i
sogni con la
realtà.
***
Stava
parlando animatamente con
Mirajane, cercando di farla ragionare. Domani sarebbe andata a lavoro,
poche
storie. L’amica avrebbe anche potuto buttarla fuori dal
locale per imporle di
riposare, ma a lei non sarebbe importato: sarebbe rientrata dalla porta
sul
retro e le avrebbe dimostrato di potercela fare. Non sarebbe stata la
stanchezza a fermarla.
Poi, tutto d’un tratto, la scena
sfumò. Non si trovava più nel pub, ma di fronte
al cancello d’entrata del
Magnolia Park. Si guardò intorno con discrezione e
constatò che non ci fosse nessuno
nei paraggi; pensò che avrebbe fatto bene ad andarsene, ma
c’era qualcosa che
la spingeva ad inoltrarsi nel parco. E così fece.
Nulla era cambiato rispetto al sogno
della notte precedente. L’unica differenza era che non aveva
nessun cane con
sé. Non che le dispiacesse, in fin dei conti, ma sapere di
essere
apparentemente sola e con la foschia invernale pronta ad assalirla non
la
rassicurava affatto.
Camminò per minuti che le parvero
interminabili, facendosi strada tra corridoi di alberi spogli e foglie
crepitanti. Si rese conto che avanzare le faceva aumentare i battiti
del cuore:
era una sensazione strana e non aveva idea di cosa la stesse
provocando. Era
difficile stabilire se il ritmo cardiaco stesse dando in escandescenze
per
l’ansia – quel parco aveva iniziato ad inquietarla
– o per il desiderio di
sapere chi o cosa avrebbe visto continuando ad andare avanti.
Quando raggiunse la fine di quel
lunghissimo corridoio alberato, uno specchio d’acqua grigia
le riempì lo
sguardo. Aveva raggiunto il laghetto artificiale costruito al centro
del
Magnolia Park ed immediatamente ricordò cosa era accaduto la
notte precedente:
era quello il posto in cui lei e lo sconosciuto di nome Jellal
Fernandes – si
chiamava così, vero? Temeva di non ricordarlo più
– stavano andando prima che
il suono della sveglia la riscuotesse dal sogno.
“Ci sarà anche lui?”, si
ritrovò a
pensare Erza, sfregandosi le mani per impedire che congelassero.
Perché
dimenticava sempre i guanti?
Scrutò le piccole onde che
increspavano la superficie del lago e le venne naturale pensare che in
inverno
quella fonte d’acqua fosse molto simile ad una gigantesca
pozzanghera.
Dopotutto, non valeva la pena di rimanere lì: se fosse stata
nei panni di
quello strano uomo, avrebbe evitato quel posto almeno fino a primavera,
quando
il sole avrebbe scintillato nel cielo e il lago sarebbe tornato ad
essere di un
azzurro brillante.
Erza si strinse nell’impermeabile e
cercò di contrastare un brivido che le aveva percorso la
schiena per colpa del
vento freddo che spazzava i dintorni del laghetto. Diede le spalle
all’acqua e
si avviò nella direzione opposta, costeggiando comunque la
bassa recinzione che
separava il prato dalle rive fangose del lago. Pensò se non
fosse il caso di
uscire di lì: il silenzio regnava sovrano come nel
precedente sogno e ormai
aveva perso la speranza di incontrare quell’insolito tipo dal
tatuaggio rosso.
“Di tanti posti che potevo immaginare,
sono tornata qui”, si disse Erza, scuotendo la testa.
“Mi sarebbe piaciuto
sapere come sarebbe finito quel sogno, ma a questo
punto…”.
Una folata più forte di vento la
costrinse a chiudere gli occhi e ad abbassare il capo, scuotendola da
capo a
piedi. Un vortice di foglie la investì in pieno e
scacciò con fatica tutte
quelle che le si erano impigliate tra i capelli. Quando schiuse le
palpebre lo
vide.
C’era una panchina in ferro battuto a
una ventina di metri da lei. Era rivolta proprio verso il lago e su di
essa,
rilassato, ma pensieroso allo stesso tempo, era seduto il giovane che
stava
cercando – cercando? No, affatto. Perché avrebbe
dovuto interessarsi di uno
sconosciuto con cui aveva anche avuto una discussione?
Lo ammirò da lontano ed il cuore, che
si era calmato per tutto il tempo in cui aveva contemplato il lago,
riprese a
battere con maggior vigore. Per un attimo ebbe l’impressione
che il muscolo la
stesse guidando in quella direzione al pari di una bussola, ma come
poteva
essere? Non aveva senso, no?
Mentre quelle domande si accalcavano
nella sua testa, il ragazzo si voltò nella sua direzione. Le
parve che avesse
sorriso.
-Ehi!-, la chiamò, agitando in alto un
braccio.
Erza non si mosse: stava aspettando
che fosse lui a compiere il primo passo, ma a quanto pare Jellal non
aveva
alcuna intenzione di alzarsi. Così si arrese e gli si
avvicinò, preparando
mentalmente ciò che avrebbe voluto chiedergli.
-Ciao-, lo salutò con un’informalità
che stupì lei per prima. Era normale salutare in quel modo
qualcuno di cui non si
conosce altro che il nome?
-Non mi aspettavo di rincontrarla così
presto, anche se ieri mi è dispiaciuto vederla scomparire
come se nulla fosse-,
disse lui con tono rammaricato. Però si ostinava a darle del
“lei”, come Erza
si accorse subito.
-Le avevo detto di avere fretta-,
provò a giustificarsi.
-Ma non mi aspettavo che fosse così
tanta-, rise Jellal. -Ho avuto
paura che se la fosse davvero presa per la faccenda di Buck-.
-No. La questione è chiusa-.
-Sono contento di sentirglielo dire-.
-A proposito… Lui dov’è?-,
domandò la
ragazza, guardandosi intorno alla ricerca del labrador.
-È stato con me fino ad un momento fa.
È sparito di nuovo-.
-Non è preoccupato?-.
-Tornerà. Torna sempre-.
Erza lo osservò per una manciata di
secondi – quel trench nero gli stava davvero bene, doveva
ammetterlo – e rimase
impalata finché lui non la riscosse da quei pensieri.
-Perché non si siede?-, la invitò
Jellal, battendo delicatamente la mano sul posto vuoto al suo fianco.
-C’è
abbastanza spazio per tutti e due-.
Nonostante diffidasse ancora di
quell’uomo, Erza si accomodò sulla panchina,
rigirandosi le dita, a disagio.
-Forse dovrebbe andare a cercare
Buck-, gli disse.
-No-.
-Ma è il suo cane!-.
-Ho elaborato un’altra teoria, in
merito-, cominciò a spiegare Jellal.
-Per favore, non discutiamo di nuovo
se…-.
-Mi ascolti-, la pregò, poggiandole
una mano sulle sue. Un altro brivido investì Erza, ma
stavolta la causa non fu
il vento. -Ho pensato che Buck non sia di nessuno-.
-Sta dicendo che è un randagio?-. Ma
quanto erano calde le mani di quel ragazzo? Eppure neanche lui
indossava i
guanti.
-Più o meno-.
-Cosa vuol dire?-.
-Deve essere un cane fantasma-.
Erza lo guardò prima sollevando un
sopracciglio, poi ridendo apertamente.
-Ma cosa dice!-, esclamò, sentendo
lacrime di ilarità bagnarle le ciglia. -Un fantasma!-.
-Perché no? Dopotutto, compare e
scompare a suo piacimento. E sembra che l’unica cosa che gli
interessi sia…-.
Jellal si bloccò. Stava per dire
qualcosa, ma all’ultimo secondo pensò che fosse
meglio tacere.
-Che gli interessi…? Vada avanti-, lo
incoraggiò Erza, temendo di averlo fatto vergognare con la
risata di poco
prima.
-Nulla. Era solo un mio
vagheggiamento, mi scusi-.
Rimasero in silenzio per parecchi
minuti. Il sibilo del vento era l’unico suono che riempiva
l’aria attorno a
loro.
-È stato lui a portarmi qui-, le disse
in un soffio il ragazzo. -Ero da tutt’altra parte, ma di
colpo si è
materializzato accanto a me e mi ha accompagnato in riva al lago. Ho
visto
questa panchina e ho pensato di sedermi un po’ mentre lui
giocava, ma Buck è
sparito subito dopo. E l’istante successivo…
È arrivata lei. Un po’ come è
successo ieri-.
Jellal ritirò la mano e Erza sentì le
proprie tornare a gelare: -Mi stava… aspettando?-,
domandò, incerta.
-Be’… Diciamo che sarei stato molto
contento di rivederla-, le sorrise. -E sono rimasto qui in attesa per
parecchio, ad essere sincero. Stavo quasi per andarmene, ma la mia
pazienza è
stata ripagata-.
Le rivolse lo stesso sguardo che
l’aveva trafitta – era davvero quella la sensazione
che aveva provato? – nel
sogno precedente e Erza si preoccupò di non arrossire.
Jellal aveva degli occhi
in grado di intimidirla, in un certo senso.
-Perché proprio il lago?-, gli chiese.
-Forse perché era questa la meta che
avevamo fissato-.
Sì, era la stessa cosa che aveva
pensato anche lei. Ma era tutto troppo strano, per quanto quella fosse
un’illusione creata dalla mente.
-Faremo bene a cambiare posto,
allora-, disse Erza, sorridendo a sua volta.
-Come mai?-.
-Non è molto allettante fissare questa
grossa pozzanghera grigia-.
-Uhm, ha ragione. Ma sa cosa penso?-.
La ragazza scosse la testa.
-Che in qualche modo questo sia un
luogo magico. E non rida di nuovo, per favore-.
-Non lo farò-, lo rassicurò. Per un
attimo fu tentata di toccargli le mani come lui aveva fatto poco prima
nei suoi
confronti, ma desistette. -Cosa le fa credere che sia davvero
così?-.
-Il fatto che ci siamo incontrati di
nuovo quando non ci si imbatte mai in nessuno, da queste parti; il
fatto che
avevamo deciso di venirci insieme, ma non ne abbiamo avuto la
possibilità. Ed
infine, il fatto che lei sia comparsa così
all’improvviso, proprio quando
pensavo che non l’avrei rivista mai più-.
Erza non mosse un muscolo. Il cuore
aveva ripreso a bruciarle e provò l’impulso di
alzarsi e allontanarsi da lì il
prima possibile. Tuttavia non fece nulla di ciò.
Fu Jellal a scattare in piedi e i suoi
movimenti furono così improvvisi da coglierla di sorpresa.
-Cosa succede?-, gli domandò.
-Vuole fare una passeggiata? Almeno ci
riscalderemo un po’, camminando-.
Le tese la mano e Erza, soppesata
l’offerta, la strinse.
-Oggi non la lascerò scappare-, le
disse lui con un sorriso, prendendola a braccetto. -Mi piacerebbe
sapere
qualcosa in più sul suo conto-.
-Solo se anche lei mi parlerà della
sua vita-, precisò la ragazza.
-Benissimo. Non c’è nulla che non
possa dire-.
-Allora cominci-, lo esortò Erza.
-Mi ha detto che frequenta la
palestra, giusto?-.
-Già-, annuì. Si ricordava quel
particolare? E pensare che lei aveva già dimenticato di
averglielo riferito!
-A me piace correre all’aria aperta.
Credo che sia molto più sano che non starsene al chiuso-.
-Anche a me piace, ma con questo
freddo…-.
-L’ho notato. Le sue mani sono
gelide-.
Si fermò e la guardò negli occhi,
mentre Erza sentiva un fuoco estraneo infiammargli il viso –
eppure avrebbe
giurato di essere pallida, visto che il vento non aveva smesso di
soffiare,
impetuoso – poi intrecciò le proprie dita a quelle
della ragazza.
-Va meglio?-.
-P-penso di s-sì-, lei batté i denti.
Per la seconda volta non era stato il gelo a ridurla in quello stato.
-Potremmo correre insieme, un giorno-,
le disse Jellal. -Magari quando tornerà la primavera-.
-Meglio-, concordò Erza.
-Fino ad allora, temo che saremo
costretti a vederci qui, nella foschia di dicembre. Ma solo se lei lo
vorrà-.
Quel sogno riusciva a spiazzarla. Era
come se avesse incontrato un amico – poteva definirlo
così? C’erano momenti in
cui le sembrava che riuscisse a capirla molto più di quanto
non avrebbe fatto
una persona come Mirajane – con cui avrebbe potuto parlare davvero di ogni cosa. Eppure rimaneva un
estraneo, un’illusione. E
quel pensiero di colpo le fece male.
Si rese conto che il calore che le
mani di Jellal sprigionavano non era completamente reale. Era solo una
sensazione e questo perché, nella vita di tutti i giorni,
aveva avuto
esperienza di cosa era freddo e cosa caldo. Così come da
piccola – quando
ancora viveva con i propri genitori – aveva tenuto per
qualche tempo in casa il
cane di Wally, un suo compagno di classe delle Elementari che era
andato in vacanza
e gli aveva affidato il proprio animale durante l’estate.
-Ci incontreremo solo nei sogni,
allora?-, chiese lei.
-Finché lo vorrai, sarò qui per te-.
Era passato a darle del “tu” come se
nulla fosse. Erza ne fu felice, salvo accorgersi l’istante
successivo che
probabilmente quel cambiamento era avvenuto perché lei aveva
desiderato che accadesse.
-Guidami, allora-, sussurrò la
ragazza. -Mostrami luoghi che non ho ancora visto-.
Jellal le sorrise e la prese di nuovo
sottobraccio: -Non vedevo l’ora di sentirtelo dire-.
Si incamminarono verso il lato est del
parco, attraversando un viale di alberi sempreverdi; a Erza
sembrò che quello
fosse veramente un posto diverso.
Poi una luce accecante le fece serrare
le palpebre e non percepì più il braccio del
ragazzo intorno al suo.
Quando aprì gli occhi, si accorse che
un debole raggio di sole trapelava dalle tapparelle della finestra
della
propria camera.
Era tornata nel suo appartamento.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Capitolo
III
Quel
sogno iniziò a diventare
ricorrente.
Ogni sera Erza si metteva a letto con
la speranza di rivedere il ragazzo che tutto d’un tratto
l’aveva fatta sentire
diversa – e ancora non aveva deciso se la cosa fosse positiva
o negativa – e
chiudeva gli occhi immaginando il suo viso. Puntualmente, non
c’era una notte
in cui non incontrasse Jellal: sempre al parco, sempre alla stessa
panchina,
sempre in riva al lago. Buck sembrava essere sparito definitivamente,
ma presto
entrambi smisero di preoccuparsi per le sue sorti: prima o poi sarebbe
rispuntato.
La terza volta che si incrociarono
Jellal stava leggendo un libro dalla copertina riccamente decorata.
Quando Erza
si mostrò interessata, il giovane glielo
consigliò vivamente e così la ragazza
scoprì quanto a lui piacesse leggere. Dai romanzi ai
giornali, dal cartaceo al
telematico: Jellal era un grande appassionato.
Oltre a parlare dei rispettivi
passatempi, i due si raccontarono cose della vita di tutti i giorni:
venne
fuori che lui era un imprenditore e ciò rallegrò
particolarmente Erza,
soprattutto quando gli confidò di gestire un pub insieme
alla sua migliore amica.
Descrissero ciascuno la propria giornata tipo – Jellal doveva
essere parecchio
indaffarato, se la sua attività lo obbligava a spostarsi non
solo di città in
città, ma addirittura di Paese in Paese – ed
entrambi arrivarono alla
conclusione che nessuno dei due avesse una vita molto semplice, anzi.
Per dieci giorni Erza e Jellal si
videro – che parola grossa! – senza problemi.
Avevano la sensazione che quel
sogno – quell’illusione – fosse
l’unico rifugio in cui potessero vivere
tranquilli, lontani dal caos della quotidianità. Conoscersi
sempre meglio non
fece altro che avvicinarli e di colpo Erza si accorse che, se avesse
potuto,
avrebbe voluto che quelle ore di sonno non finissero mai.
Ogni volta che si svegliava e si
rendeva conto di non avere nessuno al proprio fianco, percepiva un
vuoto
all’altezza del cuore. Le erano necessari parecchi minuti
prima di convincersi
che Jellal non era reale, ma solo il frutto della sua mente.
“Si
sogna ciò che non si ha o
ciò che si
vorrebbe avere”: era una frase che aveva letto da
qualche parte. O forse
gliel’aveva detta sua madre quando, da piccola, le capitava
addirittura di
parlare nel sonno.
Si disse che, se ne avesse discusso
con Mirajane, probabilmente prima l’avrebbe presa un
po’ in giro – sempre che
non decidesse di darle della pazza – poi le avrebbe
consigliato di frequentare
qualcuno. Dopotutto, era anche colpa sua se nessuno le si avvicinava:
lei per
prima impediva che qualsiasi ragazzo le si accostasse. Eppure per
Jellal aveva
fatto un’eccezione.
Ma sapere di essersi innamorata – sì,
ora poteva dirlo, anche se a bassa voce – di una persona che
non esisteva non
faceva altro che peggiorare la situazione.
“Sto
rincorrendo un fantasma”. Quello era il principale
pensiero con cui si
tormentava non appena il sogno terminava. E ripetendosi mentalmente
quella
frase, sentiva le lacrime premerle alla base degli occhi, pronte a
scivolare
via.
Ormai era una settimana che non
metteva piede al pub. Aveva chiamato Mirajane in più di
un’occasione per sapere
come stessero procedendo le cose e l’amica l’aveva
rassicurata, dicendole che
Lucy era una degna sostituta. Ciò la fece sentire
leggermente meglio, ma non le
impedì di avere l’impressione di essere
completamente inutile, oltre che sola.
Così un pomeriggio si fece coraggio e
decise di rispondere ad alcuni tra i messaggi lasciati in sospeso. Per
prima
cosa contattò Millianna – aveva improvvisamente
smesso di chattare con lei,
visto che la sera aveva avuto fretta di prendere sonno per incontrare
di nuovo
Jellal. Sicuramente l’amica doveva aver perso le speranze di
risentirla – e si
scusò per non essersi fatta viva prima. Le
raccontò brevemente le vicissitudini
dell’ultimo periodo, ma evitò accuratamente di
fare riferimenti al sogno
ricorrente che riempiva le sue notti; infine le chiese se per lei
andasse bene
chattare un po’ il pomeriggio della domenica successiva,
così da avere più
tempo a disposizione per una bella chiacchierata.
Inviato quel messaggio, ignorò
bellamente quelli di Gray e Lluvia – se avevano dei problemi,
era bene che li
risolvessero da soli. Erano grandi abbastanza per capire come ci si
dovesse
comportare – e rilesse quello di Simon.
Ciao,
Erza. Stavo pensando… Hai impegni per sabato pomeriggio? Io
sono libero dal
lavoro e ho visto che al cinema è uscito quel film di cui
parli da mesi.
Potremmo andarci insieme, che ne dici? Sempre se ti va… Non
so, dimmi tu.
Visualizzato
alle 1.12 del 3 dicembre
La
ragazza si chiese cosa avesse
pensato l’amico nel momento in cui si era accorto che il
messaggio era stato
visualizzato, ma non aveva ricevuto risposta. Probabilmente doveva
esserci
rimasto malissimo e Erza si sentì in colpa. Il fatto che
fossero passati dieci
giorni non faceva altro che rendere più complicato
replicare, ma alla fine si
costrinse a contattare il ragazzo.
Ciao,
Simon. Scusa se non ti ho risposto prima, ma l’ultima
settimana è stata
abbastanza densa e ho fatto sempre tardi con il lavoro
– quella sì che era una bugia. Si
augurò che Simon non avesse saputo della sua pausa dal pub.
– Anche se sono in ritardo, mi
chiedevo se
volessi ancora venire al cinema con me. Magari proprio questo sabato,
se non
sei impegnato. Altrimenti rimandiamo l’appuntamento alla
prossima occasione,
che ne dici?
Rilesse
quel messaggio un paio di
volte prima di convincersi a premere il tasto Invio. Quando
spedì quelle poche
frasi, pensò due cose: da un lato sperò che il
ragazzo non ce l’avesse con lei
e che quindi accettasse l’invito che gli aveva rigirato;
dall’altro pregò che
rifiutasse la sua proposta. Temeva che Simon potesse comportarsi in
modo strano
e l’ultima cosa che desiderava era sentirsi o mettere lui a
disagio.
Stava per chiudere la chat quando il
giovane comparve online. Pochi secondi più tardi Erza
ottenne la risposta:
Mi
dispiace che tu abbia avuto dei contrattempi. Ma non fa niente,
recupereremo
subito: sabato sono libero, per fortuna. Passo a prenderti alle sei del
pomeriggio per lo spettacolo delle sette? Così alla fine del
film ci facciamo
una pizza, che ne pensi?
Be’,
cosa avrebbe potuto rispondergli?
Alle
sei va benissimo. E vada per la pizza.
Allora
ci vediamo sabato. Un bacio.
Ora
avevano un appuntamento. Perfetto.
“Siamo amici da sempre”, continuò a
dirsi Erza, disconnettendosi e spegnendo il computer. “Siamo
sempre andati al
cinema insieme. Perché stavolta dovrebbe essere
diverso?”.
Si costrinse a calmarsi, ma il solo
ripensare all’ultimo messaggio che lui le aveva inviato
– “Ci vediamo sabato. Un
bacio” – le faceva drizzare i capelli
dietro la nuca.
“Quello è solo un modo di dire”,
scosse la testa, quasi per liberarsi di quel ricordo indesiderato.
“Se
ripescassi le conversazioni di anni fa, troverei le stesse identiche
parole”.
Fu in quel momento che un nuovo dubbio
si insinuò in lei: e se Simon fosse stato attratto
da lei? E se avesse provato quella cotta per
anni?
Erza rabbrividì e corse ad infilarsi
nella doccia, pregando che l’acqua calda le schiarisse le
idee.
***
-È
stato un bel film, no?-.
-Sì-.
-Te lo aspettavi così?-.
-Un tantino diverso, a dire il vero-.
-Cos’è, non ti è piaciuto il finale?-.
-No, non è questo…-.
-E allora?-.
-Non l’hai trovato un po’… Scontato?-.
-Il fatto che lui sia morto per
difenderla?-.
-Esatto-.
-Sarebbe stato molto più banale se
avessero avuto il lieto fine, non credi?-.
-Sì, ma sarebbe risultato più
credibile-.
-Non ti facevo una fan del “E vissero
per sempre felici e contenti”-.
-Non lo sono. Ma in questo caso
avrebbe avuto più senso e sarebbe stato in linea con la
trama generale-.
-OK, d’accordo. È inutile provare a
farti cambiare opinione, quando sei convinta di qualcosa-.
Erza e Simon camminavano fianco a
fianco lungo l’affollato marciapiede nel centro di Magnolia.
Era il 13 dicembre
e davanti alle vetrine dei negozi si radunavano clienti alla ricerca
del regalo
perfetto per il Natale incombente, così da rendere difficile
il passaggio per
chi, come loro, aveva solo intenzione di raggiungere il prima possibile
la
pizzeria più vicina.
-Non avremmo fatto meglio a prendere
l’auto?-, domandò Erza.
-Non siamo così lontani da averne
bisogno. Ma stai pur sicura che ti riporterò a casa in
macchina-, le sorrise
lui.
Come da programma, Simon era passato a
prenderla con puntualità alle sei; avevano fatto un giro
prima di entrare al
cinema e poi avevano assistito allo spettacolo a cui Erza teneva tanto.
Ora
erano le nove passate e il gorgoglio dei loro stomaci vuoti cominciava
a farsi
sentire.
-Mi hai detto di aver avuto una
settimana pesante-, continuò a parlare il ragazzo dopo
qualche secondo di
silenzio. -Problemi con Mira?-.
-No, assolutamente! È solo che…
Essendo in due, il lavoro ci stressa un po’-.
-Prenditi una pausa, no? Dopotutto, è
quasi Natale e alla fine della prossima settimana tutti i locali e i
negozi
chiuderanno. Approfittane per riposarti-.
Oh, sì, aveva perfettamente ragione.
Peccato che la sua pausa si fosse protratta già per dieci
giorni e che quindi
avesse deciso di tornare al pub per rimboccarsi le maniche.
-Uhm… Le ferie mi annoiano-, borbottò
Erza. -A parte qualche uscita extra con gli amici, non so come
investire il
tempo libero che mi rimane-.
-Sono disponibile a farti compagnia,
se dovessi sentirti sola-, rise Simon.
-Eh già, immagino…-.
Ed ecco che partivano le frasi
ambigue. Erza tremò.
-Hai freddo?-, le chiese l’amico.
-No, è stato solo…-.
Il ragazzo le circondò le spalle con
il braccio destro e le accarezzò la schiena per scaldarla.
Nonostante fosse un
gesto incredibilmente tenero e cortese, riuscì comunque a
farla sobbalzare.
-Dovresti uscire con una giacca più
pesante-, le consigliò Simon, senza smettere di coccolarla.
-Questo
impermeabile è troppo leggero-.
-Me lo ha regalato Mira per…-.
-Non importa. Va bene per gli inizi
dell’autunno, non per l’inverno in avvicinamento-.
Le parlava con un tono molto simile a
quello che un genitore usa nei confronti dei figli. Erza fu felice che
l’amico
si stesse dimostrando tanto premuroso, ma d’altra parte era
un atteggiamento
che la indispettiva. Sembrava quasi che quel consiglio insinuasse che
non
sapesse prendersi cura di se stessa.
-Vedrò cosa posso fare-, disse a denti
stretti, incrociando le braccia sul petto. Ebbe paura di aver messo su
il
broncio e per tutta risposta Simon le sorrise.
-Dai, la pizzeria è dietro
quell’angolo-, le indicò. -Ci basterà
svoltare a destra e… Attenta!-.
La mano del ragazzo le arpionò un
fianco, ma non impedì la colluttazione.
Il braccio e la spalla destra di Erza
urtarono contro un uomo che camminava nella loro direzione a testa
bassa e con
passo veloce. Il colpo fu abbastanza forte da indolenzirla.
-Ehi!-, lo chiamò indietro Simon,
agitando un pugno in aria. -Stia più attento a dove mette i
piedi!-.
-Tranquillo, sto bene…-.
-Meno male che ti ho scansata,
altrimenti ti sarebbe venuto direttamente addosso!-. Stavolta il
ragazzo la
prese per mano: -Voglio che tu stia bene, d’accordo?-.
Erza annuì ed entrambi ripresero a
camminare. Ma qualcosa di strano era comunque saltato ai suoi occhi,
tanto da
costringerla a voltarsi per rintracciare colui che l’aveva
urtata.
Trench
nero.
Capelli
blu.
Spalancò le palpebre e cercò di
individuare tra la folla la sagoma di quell’individuo,
scomparso in un battito
di ciglia.
-Sicura di stare bene?-, le domandò
Simon, vedendola disorientata.
-S-sì, non preoccuparti-.
-Vieni-, proseguì lui, -la pizzeria è
questa-.
Erza si lasciò condurre all’interno
del locale e fu immediatamente accolta dal tepore e da un invitante
profumo che
comunque non riuscì a scacciarle dalla testa
l’immagine dello sconosciuto
appena incrociato. Fu sempre Simon a riscuoterla dai suoi pensieri,
accompagnandola ad un tavolo posto accanto alla grande finestra che si
apriva
sulla sala principale della pizzeria.
-Buona sera, signori-, li accolse un
cameriere.
-Buona sera. Ho prenotato questo
tavolo tre giorni fa a nome Carter…-.
-Ah, sì. Risulta dalla lista. Bene,
cosa posso portarvi?-.
-Erza, cosa prendi?-, le chiese
l’amico.
La ragazza non rispose. Stava
guardando intensamente fuori dalla finestra ed era di nuovo persa tra
le sue
riflessioni.
-Erza?-.
-Sì?-, scattò lei in un secondo
momento.
-L’ordine-.
-Ah… Ecco… Una margherita. Una semplice
margherita-, disse con fare sbrigativo.
-Per lei, signore?-.
-Stessa pizza-.
-Da bere? Posso proporvi del vino?-.
-Per me basta dell’acqua-, aggiunse
Erza. -Non accompagno mai il vino alla pizza-.
-Ci porti una bottiglia di acqua
minerale, allora-, precisò Simon. -Basta così-.
Il cameriere si volatilizzò nelle
cucine e i due ragazzi rimasero soli – a meno che non si
contassero gli altri
clienti: era sabato sera ed il locale aveva fatto il pienone.
-Avresti preferito cenare in un
ristorante?-, le domandò Simon.
-No, no. Adoro le pizzerie-.
-Eppure mi sembri un po’ distratta.
C’è qualcosa che ti impensierisce?-.
A dirla tutta c’era più di una cosa
che la agitava, ma Erza scosse la testa: -Niente di particolare-.
-La spalla ti fa ancora male?-.
-Giusto un po’. Entro la fine della
serata passerà tutto-, si costrinse a sorridere per provare
ad essere
convincente.
-Ci mancava solo quel contrattempo-,
sbuffò l’amico. -Stava andando tutto troppo bene
per essere vero, eh?-.
“Ecco un’altra frase ambigua”,
pensò
lei. “O forse sono solo io a cercare un significato nascosto
oltre ciò che
dice?”.
-Ma dai, non è successo nulla di
irrimediabile-, aggiunse Erza per rassicurarlo. -Ora ci godremo la
pizza e poi
torneremo a casa. Devi lavorare, domani?-.
-Solo la mattina. Ho il pomeriggio
libero. Tu?-.
-Mattina disimpegnata, pomeriggio
occupato. Mira ha deciso di cambiare l’orario di apertura del
pub, almeno per
la domenica-.
-Come mai?-.
-Perché il sabato la chiusura è
fissata intorno alle tre di notte. E non è particolarmente
comodo tornare a
lavoro alle otto della mattina seguente-.
-Capisco. Be’, ha fatto un’ottima
scelta-.
-Già-, convenne Erza. -Almeno nel fine
settimana posso dormire un po’ di più-.
Stavolta le fu spontaneo sorridere e
Simon credette di avere di nuovo davanti la sua amica. Non poteva
sapere che la
luce che le aveva improvvisamente illuminato gli occhi era stata
provocata dal
pensiero di poter stare insieme a Jellal per qualche ora in
più rispetto alle
normali nottate.
-E dimmi… Tutto bene a casa?-.
-Sono sola-, affermò lei, facendo
spallucce. -Di fatto, uso l’appartamento solo per avere un
tetto sulla testa.
Anche se non c’è nessuno ad aspettarmi, tornarci
mi dà l’impressione che quella
sia davvero casa-.
Il cameriere tornò al loro tavolo
portando la bottiglia richiesta e versando l’acqua nei
bicchieri.
-Ancora cinque minuti e le due pizze
saranno pronte-, li informò, dileguandosi di nuovo.
-Non hai pensato di condividere il
bilocale con Mira? O con qualche altra amica?-, le domandò
Simon. -Magari ti
sentiresti più…-.
-Da quando Millianna è partita, non ho
chiesto a nessuno di vivere con me. Non ci sono più spese da
dividere né
problemi di vita quotidiana. E questo un po’ mi manca. Ma
è anche giusto che
ciascuna di noi abbia la propria vita, no? Lei è a ottocento
chilometri da qui,
io ho messo su un’attività con Mira…
Non siamo più bambine. Quando si cresce si
fanno delle scelte; l’importante è non pentirsene-.
Erza sentì un groppo stringerle la
gola e fu costretta a bere dell’acqua, mentre Simon
continuava a guardarla.
-Non fissarmi così-, lo pregò lei. -Mi
metti a disagio-.
-Vorrei farti sentire meglio. È per
questo che sono felice che tu abbia accettato il mio invito-.
Le sorrise e allungò il braccio verso
di lei, finendo per poggiarle una mano sulla sua. Anche stavolta la
ragazza
sussultò.
-Fa freddo, qui dentro-, mentì
spudoratamente Erza, sottraendo la mano da quella dell’amico
e sfregandosi
energicamente le braccia. -Avevi ragione: mi converrà
comprare una giacca più
adatta alla stagione-.
Incrociò lo sguardo di Simon e notò
che i suoi occhi si erano improvvisamente spenti: un velo di malinconia
li
appannava.
-Sì-, concordò lui senza alcun
entusiasmo. -Sento freddo anch’io-.
Non proferirono parola per i tre
minuti successivi. Erza si sentì di nuovo in colpa
– aveva sicuramente ferito i
sentimenti del suo migliore amico. Ma cosa poteva farci?
Lei… Forse lo stava
immaginando, ma il ragazzo sembrava davvero essere diventato
improvvisamente
triste. E di colpo le tornò alla mente il dubbio di qualche
giorno prima,
quando si era chiesta sei lui provasse qualcosa di più
profondo della semplice
amicizia nei suoi confronti – ed evitò in tutti i
modi di dire qualcosa che
potesse peggiorare la situazione. Come erano arrivati a quel punto?
Stava
andando tutto a meraviglia, no? Poi…
-Le vostre pizze, signori-, annunciò
il cameriere, poggiando due piatti di fronte ai ragazzi. -Buon
appetito-.
Eccezion fatta per quell’interruzione,
il resto della cena non fu molto loquace. Erza e Simon masticarono
fetta dopo
fetta le succulente margherite che erano state servite loro e
interruppero il
silenzio solo quando chiesero il conto.
Trenta Jewels fu la somma richiesta
dalla cassa e Simon impedì che Erza pagasse per
sé.
-Lascia fare a me-, le disse,
facendole riporre il portafoglio in borsa. -Ti ho invitata io, no?-.
Avrebbero potuto iniziare una
discussione, su quell’ultimo punto, ma nessuno dei due aveva
voglia di
polemizzare, soprattutto dopo il gelo caduto sul loro tavolo. Dunque
uscirono
dal locale e si incamminarono di nuovo sul marciapiede, dirigendosi
all’auto
parcheggiata accanto al cinema.
Salirono in macchina nel più completo
silenzio e venti minuti più tardi Simon si
arrestò di fronte al condominio in
Green Lane. Spense il motore e rimase a fissare un punto davanti a
sé, oltre il
parabrezza.
-Grazie per la serata-, gli disse
Erza. Suonava abbastanza ironico, in realtà, ma la ragazza
non seppe trovare
parole migliori. -Potremmo vedere qualche altro film interessante,
quando avrai
del tempo libero-.
-Davvero?-.
-Sì. Tra due settimane uscirà…-.
-Erza, non mentirmi. Ti prego-.
Simon si voltò a guardarla. Il tono
della sua voce era indescrivibile: piatto, ma profondo. Probabilmente
stava
reprimendo ciò che sentiva davvero.
-Io non sto…-.
-Guarda in faccia la realtà-, le disse
lui. -Non hai detto una parola per tutta la cena e adesso vieni a dirmi
che non
vedi l’ora di uscire di nuovo insieme? Pensi che io sia
stupido?-.
Erza trasalì. Stava per iniziare la
resa dei conti; tutti i nodi sarebbero venuti al pettine lì,
in quell’auto.
Quella discussione non poteva essere più rimandata.
-Sto parlando seriamente-, affermò la
ragazza. -Ci conosciamo da una vita e non ti ho mai trattato come uno
stupido.
Di certo non comincerò adesso-.
-Allora dimmi: quanto è stato
difficile, per te, decidere di uscire con me, stasera?-.
-Ma cosa stai…?-.
-Credi che non me ne sia accorto?-,
alzò la voce. -Sono mesi che mi stai evitando. Mesi. Non ti
riconosco più-.
-Simon…-.
-Cos’è cambiato tra di noi? Perché non
vuoi più avere niente a che fare con me?-.
-Non ho mai detto una cosa del
genere-.
-Ma è quello che hai fatto e che
continui a fare-, proseguì lui.
-Non ti ho evitato. È come ti ho detto
prima: siamo cresciuti. Tutti quanti. Ognuno ha le proprie esigenze e
non
sempre è facile mettersi d’accordo. Pensi che io
sia diversa? Be’, potrei dire
la stessa cosa di te. Ma questo non cambia la nostra amicizia-.
-Amicizia…-, mormorò il ragazzo. -Sono
anni che non provo niente del genere verso di te-.
Erza ammutolì. Il cuore le si fermò.
-C-come?-.
-Già-, rise amaramente Simon.
-L’amicizia è sfumata in qualcosa di
più grande. All’inizio non riuscivo a
capire per quale motivo fosse diventato improvvisamente difficile
parlare con
te; guardarti da lontano, vederti sorridere… Erano tutte
cose che mi facevano
sentire bene. Al contrario, quando tu non c’eri, spariva
anche una parte di me.
E allora ho capito che qualcosa, nel mio animo, era cambiato per
sempre. Non
sarei potuto tornare indietro neanche volendolo. Ma non mi importava:
l’unica
cosa che contava era sapere che nel tuo cuore ci fosse un po’
di spazio per me.
Il tempo è passato, siamo andati avanti con le nostre
vite… Ed ora eccoci qui,
a parlare di un argomento che forse avremmo dovuto affrontare anni fa.
Quindi
te lo chiedo adesso: c’è qualche
possibilità che i tuoi sentimenti nei miei
confronti cambino e diventino più profondi?-.
Erza non sapeva più pronunciare una
singola sillaba. Quella rivelazione, seppur immaginata spesso
nell’ultimo
periodo, l’aveva colta comunque impreparata.
-I-io… Non posso prometterti niente-,
sussurrò.
Il viso del ragazzo si rabbuiò: -C’è
qualcun altro?-.
“Sì”, avrebbe voluto dirgli. Ma
sarebbe stato d’obbligo aggiungere “Solo
che non esiste”.
-No-, si risolse a dire, anche se il
cuore le diceva tutt’altro.
-Allora perché non mi dai una
possibilità? Tutto quello che voglio è renderti
felice-.
-Simon, ti prego, non insistere-,
supplicò lei con voce tremante. Avrebbe voluto piangere,
tanto era il
dispiacere che stava provando per l’amico.
-Lasciami almeno fare una cosa che
desidero da troppo tempo-.
Sganciò la cintura dalla sicura e si
sporse verso di lei, prendendole le mani e tendendo le labbra per
baciarla.
-Solo uno…-, fiatò debolmente, sperando con tutto
se stesso che Erza gli
concedesse quell’unica libertà.
Ma la ragazza non volle.
Si liberò a sua volta della cintura e
aprì lo sportello dell’auto, catapultandosi fuori.
-Mi dispiace-, gli disse, le lacrime
che ormai lei impedivano perfino di mettere bene a fuoco il volto di
Simon.
-Non posso-.
Richiuse il portellone con un tonfo e
salì i tre scalini d’ingresso del condominio,
ripescando in fretta le chiavi di
casa. Aveva paura che l’amico potesse seguirla, ma il ragazzo
non fece nulla di
ciò: rimase semplicemente seduto in macchina e attraverso il
finestrino la vide
sparire all’interno del palazzo, senza aggiungere una parola.
Batté con forza
le mani sul volante e si diede dello stupido, provando ad evitare di
piangere a
sua volta.
Quando rimise in moto, un quarto d’ora
dopo, si disse che non avrebbe mai più cercato Erza Scarlet.
***
Era
salita di corsa lungo le quattro
rampe di scale che portavano al suo appartamento.
Entrò come una furia in casa, si
strappò di dosso l’impermeabile e si
rifugiò nella propria stanza, affondando
il viso nel cuscino e bagnandolo di lacrime.
-Cosa ho fatto?-, si chiese,
singhiozzando.
Avrebbe dovuto chiedergli scusa.
Avrebbe dovuto spiegarsi meglio, non fuggire come una preda di fronte
al
cacciatore.
-Sono una vigliacca-, continuò a dire,
mentre le lacrime le inumidivano anche le labbra. -Ho rinunciato al mio
migliore amico-.
Chiuse gli occhi, ma il viso di Simon
fece capolino nell’oscurità, provocando
un’altra ondata di pianto che la fece
tremare da capo a piedi. Allora decise di stendersi, di provare a non
pensare a
nulla; era ancora troppo scossa per elaborare una soluzione a quel
problema.
Stava per infilarsi sotto le coperte
quando il computer, lasciato in stand-by poco prima che Simon venisse a
prenderla, si riattivò. Erza si asciugò le
lacrime e si avvicinò alla
scrivania, sedette e ne approfittò per controllare eventuali
messaggi.
Non aveva ricevuto posta. Ma in chat
c’era una comunicazione da parte di Millianna, che le
annunciava che sarebbe
tornata a Magnolia per le vacanze di Natale.
La ragazza ringraziò il Cielo per
quell’intervento provvidenziale: parlare con
l’amica l’avrebbe aiutata ad
uscire dalla spiacevole situazione creatasi con Simon. Erano tutti e
tre vecchi
compagni di scuola e si conoscevano abbastanza da capirsi
l’un l’altro.
“Eppure questo non è bastato a farmi
rendere conto di quanto lui tenesse a me”, pensò
Erza. “Non avevo considerato
il fatto che le cose tra noi potessero prendere questa piega”.
Rispose brevemente al messaggio di
Millianna – “Vengo a
prenderti alla
stazione. Dimmi l’ora per cui pensi di arrivare e mi
farò trovare lì” –
e
spense il computer. L’unica cosa di cui aveva davvero bisogno
in quel momento
era liberare la testa di tutti quei pensieri.
E sperò che dall’altra parte, nel
mondo dei sogni, ci fosse qualcuno a consolarla.
***
Stava piangendo
così tanto da non
ricordare neanche quando avesse iniziato a farlo.
Stavolta si era
immediatamente
ritrovata in riva al lago. Seduta per terra, sulle foglie bagnate dalla
brina
invernale, Erza aveva portato le ginocchia al petto e le aveva
circondate con
le braccia, nascondendovi il viso. Si stava vergognando di se stessa,
in
realtà, perché non avrebbe voluto che qualcuno
– che Jellal – la vedesse in
quello stato. Ma la tristezza era troppo grande per farle badare a
quegli aspetti.
Non aveva idea di
quanto tempo fosse
passato da quando si era materializzata lì; sapeva soltanto
di aver chiuso gli
occhi e di essersi abbandonata al fumo che annebbia la mente subito
prima di
addormentarsi. Forse, portando un altro po’ di pazienza,
Jellal sarebbe
arrivato. O forse quella notte non sarebbe venuto a farle visita.
-Perché
piangi?-.
La voce che aveva
ormai imparato a
conoscere le fece alzare la testa e Erza lo guardò dal basso
con occhi gonfi e
arrossati.
-Ho perso il mio
migliore amico-, sussurrò.
-Se è
tuo amico, tornerà. Gli amici
perdonano sempre, anche a costo di impiegarci anni-.
-Ma lui era
innamorato di me, obiettò
Erza. -Ed io non sono stata capace di accorgermene in tempo-.
Jellal si
inginocchiò al suo fianco e
le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio:
-Pensi che sia colpa tua?-.
-Lo è-.
-No-, le disse.
-Non hai
responsabilità-.
-Ma avrei potuto
comportarmi
diversamente!-, urlò la ragazza, coprendosi il volto con le
mani. -Non ti sei
mai sentito in colpa per qualcosa che hai fatto?-.
Jellal non rispose
subito. Si prese
qualche secondo per formulare nel modo migliore la frase successiva:
-È vero,
ho commesso azioni di cui non vado fiero. Ma con il tempo, seppur a
fatica, ho
capito che era inutile continuare a tormentarsi. Quel che è
fatto è fatto;
pensare a come sarebbero potute andare le cose ti fa stare solo peggio.
Bisogna
imparare a vivere, ma nessuno ha mai detto che è semplice
farlo-.
Si rimise in piedi
e le tese la mano:
-Alzati-, la incoraggiò. -Fidati di me-.
Erza raccolse
l’invito e l’attimo
seguente, colta di sorpresa, si ritrovò a premere una
guancia contro la spalla
sinistra dell’uomo.
-Va tutto bene-,
sussurrò lui,
accarezzandole i capelli per farla calmare. -Ti prego, non piangere
più.
Soffrirò anch’io, se queste lacrime continueranno
a bagnarti il viso-.
La ragazza si
strinse di più a lui,
poggiandogli entrambe le mani sul petto e ascoltando il battito
ovattato del
cuore. Per un secondo fu convinta che Jellal fosse più reale
che mai.
Altrimenti come avrebbe potuto percepire il suo ritmo cardiaco?
-Sai-, gli disse
dopo qualche minuto,
-stasera mi è sembrato di incontrarti-.
-Che vuoi dire?-.
-Stavo camminando
per strada e un
passante mi ha urtata. Andava così di fretta che non si
è neanche voltato per
scusarsi, ma… Lo so, sto per dire una scemenza… Ti assomigliava. Buffo, non credi?-.
-Già-,
mormorò lui di rimando.
-Buffo-.
-Avrei voluto che
fossi davvero tu-,
mormorò Erza. -Così finalmente non avrei
più dovuto aspettare la notte per
starti vicina-.
Jellal le
sollevò il mento con la
punta dell’indice e fissò i propri occhi in quelli
della ragazza: -Non hai
bisogno di desiderare il buio. Ogni volta che chiuderai gli occhi, mi
troverai
al tuo fianco-.
Una cappa di calore
calò sul viso
freddo di Erza. Le labbra le bruciarono a contatto con quelle di Jellal
e quel
bacio, durato per tutta la notte, la accompagnò fino al
risveglio.
La mattina
seguente, quando dischiuse
le palpebre, sentì di avere ancora il sapore
dell’uomo sulla bocca.
Niente era mai
stato reale come in
quel momento.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2927448
|