Il tocco del fuoco di Flora (/viewuser.php?uid=2627)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Nota dell’autrice: Questo
racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La
ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la
caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative
fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il
Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad
Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di
Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero
probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La
ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con
Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione
appare nelle fonti solo successivamente.
Il
tocco
del fuoco
Capitolo
1.
L’estate
era finalmente arrivata a Mieza, in un glorioso tripudio di colori e
odori.
L’aria,
ancora fresca per il tardo inizio di stagione, era andata saturandosi
di una
vibrante energia segreta, trasformando il cielo in una colata
d’argento liquido
sopra la scura macchia dei boschi. Nascosti tra i fili
d’erba, i narcisi
selvatici aprivano i pallidi petali bianchi e spandevano un profumo
leggero,
mentre nei prati il grano cresceva alto, le spighe un’onda
dorata increspata
dal vento.
Aristotele
camminava lungo il corridoio in penombra, respirando le fragranze
speziate del
mirto e degli olivi nei primi aliti d’estate. Sembrava
assorto in una sua
nascosta voluttà, concentrato sul sapore di quegli aromi
così familiari eppure
capaci d’inebriarlo come li sentisse per la prima volta.
Raggiunse
una finestra inondata dal caldo sole pomeridiano e lasciò
che il piacevole
tepore gli riscaldasse il corpo intorpidito dalle fredde mura della
biblioteca.
Poi, si stiracchiò pigramente.
Non
avrebbe mancato di rispetto a se stesso definendosi vecchio, ma aveva
notato
come, negli ultimi tempi, le sue ossa ci mettessero
un’eternità a rinvigorirsi
dopo un periodo di riposo. Le stanze della vecchia palazzina di caccia
che
ospitava gli studenti della sua scuola erano perennemente gelide.
Guardò
in basso, verso il giardino invaso dai cespugli, e non si
stupì di trovarlo
deserto.
Aveva
concesso ai suoi studenti un pomeriggio di libertà; li aveva
incaricati di
cercare le piante e gli arbusti illustrati loro quella stessa mattina a
lezione, ma sapeva bene dove avrebbe potuto trovare gran parte di quei
ragazzi,
se solo li avesse cercati.
Un
sorriso obliquo gli incurvò le labbra. Dovevano essere in
giro per i boschi a
dare la caccia a qualche volpe, o più probabilmente al
laghetto delle ninfee a
fare il bagno e a rinfrescarsi dell’improvvisa calura estiva.
Tutti,
eccetto un paio.
Scrutò
il prato sottostante, ed ecco infatti poco più in
là, sotto l’ombra di un
vecchio faggio, le due figure sedute e intente a leggere un libro che
uno dei
ragazzi teneva aperto sulle ginocchia.
Alessandro,
principe ereditario di Macedonia, teneva la testa dorata leggermente
reclinata
sul lato e gesticolava infervorato in una qualche discussione, mentre
il
ragazzo seduto accanto a lui lo ascoltava assorto, annuendo appena.
Aristotele
conosceva il libro, avendolo egli stesso donato al principe il giorno
in cui si
erano incontrati a Pella. Non avrebbe tuttavia mai pensato che potesse
esercitare un fascino così potente su un ragazzo tanto
giovane sebbene, in
verità, non fosse la prima volta che Alessandro aveva saputo
coglierlo di
sorpresa.
Aveva
portato da Atene una pregevole edizione dello scritto di Senofonte, la
storia
di Ciro, Grande Re di Persia che più di duecento anni prima
aveva sottomesso le
popolazioni di medi e persiani quand’erano ancora poco
più che barbare tribù in
lotta tra loro. Era avanzato inarrestabile attraverso quelle terre e
aveva dato i natali
all’immenso impero che si
estendeva a est dell’Ellesponto, fino ai confini del mondo.
I
greci conoscevano bene quell’impero.
Gli
Dei sapevano quante e quali offese erano state arrecate ai figli
dell’Ellade da
quei barbari empii e potenti, il nome di Serse maledetto dai figli dei
figli, e
solo gli Dei
potevano
sapere quando sarebbe venuto il giorno della giusta vendetta.
Ma
adesso, rifletté Aristotele, la Grecia aveva altro a cui
pensare.
Scrutò
la figuretta del principe, così intento nella sua
discussione che sembrava
crepitare di una vitalità nascosta, e si stupì
ancora una volta di notare
quanto assomigliasse a suo padre.
Non
nell’aspetto fisico – o comunque non
così tanto da balzare all’occhio – ma
nei
piccoli particolari a prima vista insignificanti, come la forza
improvvisa con
cui serrava la mascella, la scintilla che gli si accendeva negli occhi
grigi
quando si accalorava in un’argomentazione e, più
di tutto, l’energia
incontenibile che sembrava emanare ogni fibra del suo corpo.
Aveva
incontrato Filippo solo alcuni mesi prima, ma non c’era
nessuno in Grecia che
non sapesse chi era.
Aristotele
strinse gli occhi mentre un reticolo di rughe appariva ai lati del suo
viso.
I
vecchi, molli demagoghi ateniesi avevano definito Filippo un barbaro,
il Re di
una sperduta provincia che, al momento della sua ascesa al trono dopo
l’ennesima, sanguinosa lotta di successione, sembrava ancora
immersa nell’età arcaica.
L’avevano schernito nel suo desiderio e nei suoi tentativi di
darsi una
parvenza di quella grecità
di cui
tanto andavano fieri e che lui, invece, non aveva potuto avere per
diritto di
nascita.
L’avevano
chiamato barbaro, buffone, vergogna dell’Ellade.
Ma
adesso quel barbaro, quel buffone, li teneva tutti nel suo pugno di
ferro.
I
suoi rozzi soldati e i suoi generali – il suo esercito di
uomini che parlavano
l’orribile dialetto dorico che non poteva neanche essere
definito greco – erano
avanzati inarrestabili e avevano stritolato la Grecia
nell’inerte flaccidità in
cui era ormai versata in una via senza ritorno.
A
nulla erano serviti tutti i discorsi e gli intrighi di quegli inetti
politicanti che affollavano Atene e il pollaio che era ormai diventata
l’agorà.
A niente erano servite le farneticanti invettive di quel pavone di
Demostene –
che un rozzo macedone non aveva il diritto,
non poteva ergersi a supremo
comandante e guida della sacra Ellade. Filippo li aveva lasciati
parlare.
E
poi aveva agito, fulmineo come un rapace.
Aristotele
sorrise, mentre un’espressione crudele gli si dipingeva in
viso.
La
sua storia d’amore con Atene era finita da un pezzo; da
quando, dopo la morte
di Platone, gli era stata preferita quella vecchia gallina grassa di
Speusippo
alla guida dell’Accademia, alla quale tanti anni della sua
vita aveva dedicato.
Era
stato un affronto intollerabile ma aveva imparato a conviverci. Non si
era
stupito quando il Re era venuto a cercarlo.
Aristotele
ricordava bene Filippo.
Era
ben conosciuto per l’incontinenza dei suoi costumi, il suo
amore esagerato per
il vino (ma quale macedone non eccedeva nei piaceri di Dioniso?), la
facilità
dei suoi accessi d’ira e il libertinaggio a cui spesso e
volentieri si lasciava
andare; tuttavia, rifletté Aristotele, l’uomo non
era privo di una sua
attrattiva.
Aveva
tentato di ripulirsi del puzzo di barbarismo, aveva convocato a Pella
artisti,
letterati, tutte le figure più in vista di Grecia e aveva
fatto istruire i
figli dei suoi nobili e dei suoi generali dai più stimati
maestri ateniesi. Il
palazzo reale di Archelao, a Pella, non aveva nulla da invidiare alle
più belle
architetture di cui la Grecia stessa era così orgogliosa.
Aveva
persino tentato di imparare a parlare il greco con il dolce accento
ionico
dell’Attica e invero – Aristotele doveva
riconoscerglielo – i risultati erano
stati notevoli.
Era
come se Filippo volesse dimostrare a tutti i costi di essere un degno
sposo per
l’amante che aveva voluto prendere con la violenza.
L’amante
l’aveva ripudiato, rifiutato, si era fatta beffe di lui.
Filippo
l’amava ancora ma non aveva più nulla da
dimostrare e lo sapeva. La sposa era
ormai sua, per diritto di forza.
Il
Re era stato richiamato a nord, da una violenta rivolta di alcune
tribù della
Tracia, e aveva dovuto accantonare i suoi feroci dissidi con Atene, ma
presto
sarebbe ritornato.
Aristotele
era conscio che la battaglia decisiva per la supremazia era ormai
prossima e
sapeva bene su quale lato si sarebbe fatto trovare, quando fosse venuto
il
momento.
Osservò
di nuovo il principe: la sua testa e quella del ragazzo accanto a lui
erano
reclinate l’una verso l’altra e si toccavano,
mentre procedevano nella lettura.
La luce pomeridiana faceva risplendere i loro capelli di riflessi
bronzei.
Erano immobili come due statue auree abbandonate nell’erba.
Aristotele
era figlio del medico che aveva avuto in cura Aminta, padre di Filippo,
e Filippo
stesso fin dalla tenera età. Conosceva bene la Macedonia,
tuttavia sapeva che
non era stato quello il solo motivo per cui il Re era venuto a cercarlo
fino a
Mitilene, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi studi e alle sue
ricerche
naturalistiche.
Filippo
voleva che suo figlio venisse educato come un elleno. Voleva che fosse
un
discendente perfetto per quella Grecia che non poteva, non voleva
accettarlo, e
che probabilmente non l’avrebbe mai fatto – per
quanti sforzi o doni egli le
avesse portato, o per quanto sangue avesse versato.
Alessandro
sarebbe stato diverso, avrebbe avuto tutto quello che lui non aveva
potuto
avere.
Di
nuovo il sorriso crudele gli accese gli occhi.
Non
si era venduto per poco, era ben consapevole del suo valore.
Stagira,
la sua città natale, piccola perla della Calcide, era stata
distrutta dallo
stesso Filippo proprio alcuni anni prima, molti dei suoi abitanti
venduti come
schiavi.
Stagira
era stata il suo prezzo. Filippo l’avrebbe ricostruita, non
avrebbe accettato
nulla di meno e il Re non aveva battuto ciglio.
Naturalmente
non si era trattato solo di Stagira.
Gli
occhi gli balenarono; la tentazione di avere una parte così
grande in tutto
questo, e in ciò che sarebbe venuto, era stata allettante
come un tempo
solevano esserlo le sfide logiche nelle quali si imbarcava con i suoi
colleghi
dell’Accademia.
Gli
era stato chiesto di educare un ragazzo.
Avrebbe
formato un re.
Un
sovrano che un giorno avrebbe governato tutta la Grecia riunita
– un re elleno,
per una nuova Ellade.
A
poco sarebbero valsi gli sforzi dei pusillanimi politicanti ateniesi;
la Grecia
era ormai caduta nella morsa di Filippo, non occorreva sforzarsi troppo
per
vederlo, e un giorno Alessandro l’avrebbe reclamata, anche se
adesso era poco
più di un bambino.
Aristotele
si definiva un uomo pragmatico.
Atene
l’aveva umiliato, gli aveva preferito un altro, e lui vi
sarebbe tornato,
avrebbe mostrato loro che era stato capace di condurre con
sé qualcuno in grado
di guidare la loro amata ormai allo sbando. Sapeva bene di essere
all’altezza
del compito.
Sarebbe
stata una dolce vendetta. Oh,sì.
Filippo
non aveva badato a spese. Aveva convenuto, sotto suo consiglio, che
sarebbe
stato meglio educare Alessandro lontano dal clima teso di Pella, dagli
intrighi
e i maneggi di una corte che, sebbene fosse reticente ad ammetterlo,
rimaneva
ancora rozza e incolta come le terre montuose a nord della capitale.
Filippo
aveva fatto rimettere a nuovo una grande palazzina campestre in una
valle
incantevole a circa mezza giornata di cavallo da Pella.
L’aveva fatta dipingere
dai più dotati affrescatori, vi aveva fatto arrivare servi,
mobilia e
suppellettili e ne aveva rifornito la biblioteca.
E
così Aristotele si era trasferito a Mieza con il giovane
principe e i figli dei
nobili più in vista di Macedonia, ragazzi che un giorno
sarebbero stati i
compagni d’arme e il seguito di Alessandro.
Il
luogo, considerato sacro alle ninfe, si era rivelato una fonte
inestimabile per
i suoi studi, Aristotele ne era estasiato. I boschi e la campagna
circostante
pullulavano di vita, ed egli stava cercando di catalogare e raccogliere
campioni del più alto numero possibile di specie animali e
vegetali. Il suo
soggiorno a Mieza avrebbe portato benefici inquantificabili ai suoi
studi
botanici e zoologici.
Proprio
il giorno prima, passeggiando nei giardini di Mida, (e quale nome
più
appropriato per il paradiso nel quale si trovava?) aveva scorto una
specie di
roditore che ancora non conosceva.
Avrebbe
mandato qualcuno dei suoi ragazzi a catturarne uno per lui, stava
diventando
troppo vecchio per rischiare di rompersi qualche osso strisciando tra i
cespugli come soleva fare un tempo.
Il
pensiero lo fece sorridere ma sentì una stretta al petto.
Il
tempo era passato, eppure la vita continuava a essere bella e piena di
allettanti misteri per lui. Una sola esistenza non gli sarebbe mai
bastata, ma
gli Dei hanno strani modi per prendersi gioco degli uomini.
Abbassò
di nuovo gli occhi. Alessandro sembrava ancora perso nel suo Senofonte.
A
poco sarebbe valso dirgli che molto probabilmente il grande Ciro aveva
avuto
poco o nulla a che fare con l’illuminato monarca descritto
nel libro; Senofonte
aveva tracciato il ritratto del re ideale e gli aveva dato il nome di
Ciro.
Alessandro
non gli avrebbe creduto ma a che scopo dirglielo? Il ragazzo sapeva
essere
testardo nelle sue argomentazioni.
Aveva
scelto il libro per il suo fine didattico, questo sarebbe dovuto
bastare;
tuttavia si era stupito della passione che Alessandro aveva messo nel
leggerlo
e delle domande, invero sagaci e affatto scontate, che gli aveva posto
e che
continuava a porgli.
Sembrava
non essere mai pago di discutere del singolare modo in cui Ciro aveva
scelto di
governare l’immenso impero che aveva creato, e spesso le
discussioni avevano
degenerato, suo malgrado.
Aristotele
sapeva della passione di Alessandro per Omero e, del resto, la sua
epica eroica
e imbevuta di hubris era popolare
tra
i ragazzi di quell’età.
Più
degno di nota era stato il suo innamoramento di Ciro.
Era
indubbiamente positivo che un futuro monarca si interessasse del modo
di gestire
un regno, ma c’erano volte in cui Aristotele si trovava a
corto di parole.
Alessandro
sembrava più interessato a conoscere l’esatto
numero dei soldati che Ciro aveva
avuto nella sua armata, o la rete stradale che collegava le varie
capitali
dell’impero – e che, a detta sua, doveva essere immensa – che non
l’intima meccanica dell’arte di governare.
A
volte il ragazzo sapeva essere impossibile.
Era
stato, in verità, bene educato. Il suo primo tutore era
stato un certo Leonida,
un parente della madre, ferreo sostenitore dei durissimi metodi
educativi di
derivazione spartana.
Fin
dalla più tenera età era stato addestrato alla
privazione e al controllo delle
sue più elementari necessità. Aristotele aveva
sentito alcune storie a riguardo
che avrebbe giudicato ridicole, se non avesse potuto vedere il ragazzo
con i
suoi occhi.
Leonida
l’aveva educato a fare a meno di tutto, l’aveva
affamato, si diceva, sfiancato
con l’esercizio fisico e addirittura privato delle coperte di
lana e del
mantello nei duri inverni di Pella.
Il
risultato era che il ragazzo sapeva sopportare qualunque privazione
come e forse
meglio di un soldato adulto, ma era più cocciuto di un mulo.
Sapeva
parlare il greco e anche piuttosto bene, ma lo faceva solo quando
voleva lui,
nei suoi tempi e nei suoi modi e non una volta sola gli aveva rivolto
alcuni
insulti nel macedone volgare dei soldati (senza dubbio
l’aveva udito nelle
baracche degli uomini, quando ancora viveva nella tana di Pella,
lasciato a se
stesso come un cucciolo selvatico), guardandolo con aria di sfida.
Questo,
forse più di tutto, gli urtava i nervi. Sembrava che il
principe lo mettesse
costantemente alla prova, se non fosse stato ridicolo pensarlo di un
ragazzino
di appena quindici anni.
Ma
era così.
Non
poteva negare che fosse intelligente. Teneva il passo delle sue lezioni
con una
speditezza che gli altri ragazzi potevano solo sognare, commentava
Omero con
una proprietà di linguaggio impensabile, mentre gli altri
arrancavano ancora
sulle facili edizioni didascaliche. Era certo di essere riuscito a
solleticare
la sua ardente curiosità, sebbene il ragazzo fosse reticente
ad ammetterlo.
Doveva
avere odiato il vecchio Leonida.
Un
giorno gli aveva posto un quesito tramite un sillogismo astratto.
L’avrebbe
potuto risolvere solo attraverso la logica, ma il ragazzo
l’aveva guardato
disgustato e gli aveva offerto invece un’inaspettata e,
bisognava ammetterlo,
alquanto sagace soluzione pratica.
Scosse
la testa; Alessandro aveva sangue di razza ma era difficile da gestire.
Tuttavia, i loro rapporti stavano migliorando.
Lasciò
scivolare lo sguardo sul viso accanto a quello del principe, e si
ritrovò a
fissare i lineamenti seri e composti dell’altro giovane.
Ricordava
il giorno in cui aveva condotto una lezione sull’amicizia:
come l’amicizia
fosse, per un uomo, il bene più grande, la ricchezza
inestimabile del trovare
fuori di sé un altro sé, una stessa anima
condivisa in due corpi.
Si
era trovato spesso in disaccordo con Platone in passato, ma su questo
non aveva
mai nutrito alcuna obiezione.
Aveva
parlato ai ragazzi di come l’amicizia sia virtù in
se stessa, cui fine ultimo è
proteggere e amare la virtù nell’altro –
di come per ogni uomo esista un unico
e solo amico perfetto, e quanto grande sia il dono degli Dei se
decidono di
rendere possibile il riconoscimento.
I
perfetti amici condividono tutto: la gioia e la felicità, ma
anche le
privazioni. Condividono le proprie visioni e i propri obiettivi. I
sogni
dell’uno sono i sogni dell’altro.
Achille
e Patroclo, fino alla morte.
Gli
altri ragazzi avevano ridacchiato alla menzione; in fin dei conti erano
ben
noti i pettegolezzi da taverna sul presunto rapporto che aveva unito i
due
eroi. Erano tutti molto giovani e Aristotele sapeva che le schermaglie
amorose
e i moti di un corpo che stava cambiando, erano inevitabili a
quell’età.
Chiudeva un occhio perché ciò non offendeva la
sua morale, né era in contrasto
con quella macedone, tuttavia aveva volutamente lasciato fuori la
fugace sfera
di Eros, che abbaglia e rende ciechi, qualcosa che, a suo parere,
toglieva
invece di aggiungere.
L’amicizia
di cui parlava lui era una comunione di anime.
Alessandro
non aveva riso, i suoi occhi avevano scintillato mentre lo ascoltava
parlare.
Forse,
una delle sue lezioni era riuscita a fare breccia nel cuore del giovane.
I
due ragazzi erano stati inseparabili ben prima del loro arrivo a Mieza.
Dovevano essersi conosciuti precedentemente ma, fin dai primi giorni
alla
scuola, era stato palese quanto fossero legati.
Efestione,
così si chiamava l’altro, era figlio di uno dei
generali più vicini a Filippo,
uno dei suoi eteri, i compagni del più alto rango di
cavalleria. Aveva persino
intravisto l’uomo, un giorno in cui era venuto a far visita
ai due figli che si
trovavano a Mieza – una figura imponente, in un certo qual
modo diversa dal
comune, rude soldato macedone, e che incuteva innegabilmente un certo
rispetto.
Amintore
– Aristotele ricordava ancora il nome – sembrava
avere modi stranamente
gentili, persino raffinati se comparato ai rozzi e chiassosi uomini
della sua
terra, e non si stupiva che Filippo lo tenesse in così alta
considerazione. Persino
il suo greco era notevole, come di chi avesse frequentato Atene con
assiduità.
Quello
del ragazzo, invece, era perfetto. Efestione era sicuramente cresciuto
ad
Atene, forse il figlio di una qualche concubina locale.
Aristotele
non aveva approfondito questo aspetto e il ragazzo sembrava molto
reticente a
parlare dei suoi trascorsi, ma non c’era alcun dubbio:
l’accento pulito, il
dolce suono della pronuncia attica, una delizia per le sue orecchie,
erano
inconfondibili e troppo perfetti perché potessero essere
stati meramente
appresi.
Aristotele
si era stupito di trovare in lui un allievo così attento e
brillante. La
maggior parte dei ragazzi che si trovavano lì vi erano stati
spinti dai padri,
che certo speravano di ricavare un vantaggio futuro dal fatto che i
figli fossero
stati i compagni di scuola del principe e suoi amici fin dalla tenera
età.
L’avere un posto a Mieza doveva essere stato qualcosa di
molto ambito da più
d’uno di quegli ambiziosi genitori.
Purtroppo,
ciò non era stato un vantaggio per Aristotele, che si
trovava spesso a parlare
a una classe disinteressata e distratta, e questo si era rivelato
frustrante
oltre ogni dire.
Efestione,
al contrario, era una fonte di continua soddisfazione per lui.
Il
ragazzo era l’unico che riusciva a tenere il passo di
Alessandro nello studio,
aveva una mente vivace e curiosa, e spesso le sue fulminee intuizioni
erano disarmanti
persino per lui.
Dimostrava
una logica ferrea, unita a una sensibilità profonda,
rarissima in un ragazzo
così giovane.
Aveva
diciassette anni ma spesso, guardando il suo viso serio e concentrato,
Aristotele pensava che fosse difficile dargli
un’età.
Non
aveva la sfrontatezza irrequieta e il gusto per la sfida che
caratterizzavano
il giovane principe; era invece tranquillo, spesso riservato, sebbene
si
potesse intuire un flusso continuo di emozioni scorrergli
profondamente, sottopelle.
Un
movimento in basso riscosse Aristotele dalle sue riflessioni. I due
ragazzi si
erano alzati; Efestione teneva il libro sotto braccio e camminava
accanto ad
Alessandro, che procedeva spedito – entrambi diretti verso il
bosco subito al
di là del giardino.
Alla
fine dovevano aver deciso di unirsi agli altri, pensò
Aristotele non senza un
moto di divertimento. La giornata si era fatta afosa e il richiamo
allettante
del lago doveva essere stato irresistibile anche per loro.
Li
seguì con gli occhi finché non scomparvero nella
boscaglia, tra le ombre e i
cespugli di rosa canina, poi alzò il volto verso il cielo
terso, il sole di una
luminosità abbacinante.
Sorrise
mentre si schermava gli occhi con una mano. Gli Dei erano stati
generosi,
sarebbe stata un’estate perfetta e ogni cosa a Mieza ne stava
già mostrando i
segni.
Aristotele
voltò le spalle e scomparve nella fresca penombra del
corridoio.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Capitolo
2.
“Ed egli governò su tutte queste nazioni,
sebbene non parlassero né la sua stessa lingua né
lingue uguali tra loro,
eppure, nonostante questo, fu in grado di ricoprire una regione
così vasta con
il timore stesso che ispirava, e di catturare gli uomini nel profondo,
così che
nessuno avrebbe mai osato resistergli; e fu in grado di risvegliare in
tutti
loro un così urgente bisogno di compiacerlo e amarlo, che
essi per sempre
desiderarono essere
guidati dal suo
volere.”
La
voce di Alessandro si diffondeva limpida nell’aria
pomeridiana, intrecciandosi
ai suoni e al frusciare sommesso del bosco mentre la giornata scivolava
via
indolente verso il crepuscolo.
Si
erano allontanati dal giardino del Nymphaion
in cerca di un po’di refrigerio, e avevano scovato un luogo
fresco e ombroso
tra i cespugli, al riparo sotto le fronde di una quercia circondata da
morbide
felci.
Ovunque,
attorno a loro, le piante di mirto e timo in piena fioritura spandevano
il loro
profumo e il frinire delle cicale nel caldo opprimente sembrava
sovrastare ogni
altro suono. Non lontano da lì, un ruscello scorreva fresco
e rumoroso,
incunenandosi tra le rocce piatte e scivolando verso la valle.
Efestione
sedeva a occhi chiusi con la schiena appoggiata al grosso tronco mentre
Alessandro, accoccolato contro il suo petto, leggeva a voce alta dal
rotolo
aperto sulle ginocchia. Il passaggio che stava leggendo era uno dei
suoi
preferiti; Efestione poteva indovinarlo dal semplice andamento della
sua voce,
che era salita di tono ed era piena di trasporto. Un sorriso gli
incurvò le
labbra.
“E
ascolta cosa dice qui, parlando di Ciro: un
re dovrebbe esercitare come un incantesimo sui suoi sudditi. Non
è la cosa
più bella che tu abbia mai sentito?”
Efestione
si stiracchiò, cercando di trovare una posizione
più comoda contro l’albero,
poi si sgranchì le gambe intorpidite.
Alessandro
lo guardò contrariato. “Mi stai
ascoltando?”
“Certo
che ti ascolto. Questa corteccia, però, mi si è
infilata nella schiena e…”
Alessandro
lo colpì su una spalla, brontolando qualcosa a bassa voce,
poi si stiracchiò a
sua volta, adagiandosi meglio contro il suo petto.
Rimasero
in un silenzio confortevole per un po’, ad ascoltare il
rumore costante delle
cicale, immersi nell’aroma umido del bosco.
“Non
mi stancherei mai di rileggere questo libro,” riprese
Alessandro, “Senofonte conosceva
ciò di cui parlava, ma a volte faccio fatica a credere che
questi luoghi
esistano davvero e che siano appena al di là del
mare.”
Efestione
mise un braccio dietro la testa e annuì. “Ad Atene
sentivo spesso gli schiavi
persiani parlare della loro terra. Ero un bambino e credevo si
trattasse solo
di leggende. Rimanevo ad ascoltarli a bocca aperta, soprattutto quando
raccontavano delle meraviglie e dei tesori delle loro città:
Susa, Persepoli,
Ecbatana…”
Alessandro
si voltò verso di lui, il volto arrossato dal calore e
dall’emozione.
“Ti
ho mai detto di quegli esiliati persiani che si trovavano a Pella,
ospiti di
mio padre? Dovevo avere sette anni, ma li ricordo benissimo. Uno di
loro, un
vecchio di nome
Artabazo, si era
ribellato al suo Grande Re ed era stato cacciato. Mio padre gli aveva
dato
asilo e si trovava a palazzo con alcuni uomini del suo seguito. Erano
nobili e
Artabazo era uno di quei principi, di quei satrapi
a capo di una delle province del loro impero. Credo fosse la Frigia,
ora che ci
penso.”
Efestione
annuì, raddrizzandosi a sedere e facendogli cenno di
continuare.
“E
ora ascolta bene: anche se Lanice mi stava sempre addosso, riuscivo
comunque a
sgattaiolare via, e andavo a parlare con Artabazo e i suoi uomini.
Erano sempre
gentili con me, penso che anche mio padre avrebbe approvato. Credo che
lui immaginasse che
andavo lì. Dopotutto è
compito di un principe mettere i propri ospiti a loro agio
no?” Si interruppe
un istante, l’espressione concentrata. Efestione non
poté fare a meno di
sorridere divertito.
Alessandro
aggrottò le sopracciglia. “Non
c’è nulla da ridere. Ricordo che erano vestiti
in modo strano. I persiani portano i calzoni, hai mai sentito di una
cosa più
ridicola?, e avevano barbe e capelli tutti arricciati e profumati. Ma
erano le
loro storie che mi interessavano.” Lanciò
un’occhiata a Efestione per
assicurarsi che lo stesse ascoltando, poi riprese: “Mi facevo
raccontare di
Susa e di Ecbatana, con il suo palazzo d’estate costruito
proprio sulle
montagne. Un palazzo che ha sette mura, tutte ricoperte di gemme
d’oro e
d’argento. Dicono che sembri nascere dalle montagne stesse. E
poi Babilonia e
Persepoli, con tutte le ricchezze del mondo.”
“Persepoli
è la città dove risiede il Grande Re,”
lo interruppe Efestione, “ho sentito
dire che ogni anno i satrapi si recano lì a porgere tributi
al sovrano.
Attraverso la strada sacra di Pasargade arrivano all’enorme
porta con i due
tori alati che ne sono a guardia – ne hai sentito parlare,
vero? – e vengono
ricevuti dal Grande Re in persona.”
Alessandro
annuiva irrequieto ed Efestione gli rivolse un’occhiata di
sbieco, cercando di reprimere
un sorriso. Il suo compagno aveva un modo tutto suo di diventare
impaziente, se
interessato a qualcosa. Molto
impaziente.
“…
e assieme al Re si trovano anche diecimila guerrieri immortali che sono
da
sempre a guardia del sovrano e dell’impero. Sono certo che
non sia solo una
leggenda. Riesci a immaginarlo, Alessandro? La fila interminabile di
uomini e
cavalli, di carri e di guerrieri a perdita d’occhio lungo la
strada polverosa.
E poi la sala delle cento colonne, dove dicono che risiedano gli
Immortali.”
Alessandro
lo ascoltava attento, il volto illuminato e gli occhi persi in una
visione che
sembrava possederlo.
“Aristotele dice che il loro impero si allunga fino all’India,
fino ai confini del mondo.
Oltre quel punto si estende l’immenso oceano accerchiante che
racchiude la
terra. Megale Thalassa, la fine del mondo, philè.”
Si
interruppe, scuotendo la testa lentamente, come attraversato
da un dubbio. “A volte mi sembra solo una visione,
così lontana da essere quasi
inconcepibile. Altre volte, invece, nei miei sogni mi sembra di poter
allungare
la mano e toccare quel mare. Riesco a vederlo, ne sento il profumo. Lo
sogno
spesso, di continuo…”
Alessandro
parlava veloce, a voce alta, come sempre quando era acceso da uno dei
suoi
sogni a occhi aperti; Efestione lo ascoltava in silenzio, lasciandosi
trasportare dall’immaginazione che sapeva trasmettergli come
un qualcosa di
fisico, un segreto che apparteneva a entrambi, e a loro soltanto.
“Vuoi
sapere un’altra cosa da non credere? Artabazo mi disse che i
sudditi del Grande
Re si inchinano davanti a lui prima di potergli anche solo rivolgere la
parola.
Ma non è un inchino normale, si sdraiano a terra e non solo
i sudditi, ma anche
i nobili, i satrapi e persino gli altri re. Non riesco a immaginarmi
qualcosa
del genere fatto a Pella,” ridacchiò,
“voglio dire, riesci a vedertelo tu,
quell’orso coriaceo di Parmenione sdraiarsi ai piedi di mio
padre come una
donnetta?”
Efestione
scoppiò a ridere. “Attento a quello che dici,
Alessandro. Parmenione non ci
metterebbe un attimo a passarti sulla punta della sua sarissa se ti
sentisse
parlare così. Per non parlare di Filota poi, che
dà in escandescenze al solo
sentir nominare suo padre!”
Alessandro
represse una risatina nervosa. “Oh, andiamo, il vecchio Parmenione stravede per
me, ma tu vedi di
tenere la bocca chiusa. E comunque ho sentito dire che in India ci sono
re che
cavalcano animali enormi, molto più grandi dei cavalli. Sono
grigi e sembra che
non abbiano peli…”
“Si,
so di cosa parli”, lo interruppe Efestione ritornando serio,
“c’era un mercante
ad Atene, con cui mi fermavo a parlare quando mia madre mi spediva
all’agorà
per qualche commissione. Mi piaceva stare ad ascoltarlo. Arrivava
sempre al
Pireo con un carico di spezie: incenso, canapa o tessuti preziosi, a
volte
persino la seta.”
“E
questo tuo mercante da dove veniva?”
“Era
originario della Caria ma aveva viaggiato per tutta l’Asia ed
era molto bravo a
intagliare il legno e le pietre. Una volta mi fece una statuetta di uno
strano
animale. Aveva orecchie enormi e un naso lunghissimo. Mi disse che si
trova in
India e che l’animale vero è gigantesco ma che si
può cavalcare come un
cavallo. I re, laggiù, se ne servono per farsi la
guerra.”
Alessandro
lo stava fissando con occhi attenti. Efestione cacciò via
un’ape che si era
posata sulla sua spalla ma il lui parve non accorgersene.
“Vorrei
vederla questa tua statuetta.”
“L’ho
conservata come il mio tesoro più prezioso; mia madre rideva
sempre come una
bambina ogni volta che mi vedeva giocarci; diceva che era orribile e
che solo a
me poteva piacere una cosa del genere. Purtroppo non l’ho
più con me. La
perdetti quando…” Si interruppe e la voce gli
tremò per un istante. “Beh, tu
sai quando.”
Alessandro
annuì e si voltò verso di lui sorridendogli con
tenerezza; poi, scostò un
ciuffo di capelli scuri che gli era spiovuto sulla fronte e gli rivolse
un
sorriso luminoso.
”Sai
che mio padre ha intenzione di rivolgersi a est, quando avrà
risolto le sue
faccende con Atene?”
Efestione
fece un cenno col capo. Alessandro glielo aveva accennato ma era la
prima volta
che ne parlava apertamente.
“Me
l’ha detto mia madre, sai che mi scrive di continuo. Lei
crede che io e Filippo
non ci parliamo più e suppongo che ciò le faccia
piacere, ma mio padre non ha
mai fatto mistero della cosa e sa che mi interesso di tutto
ciò che riguarda le
sue campagne. Credo che avrebbe già attraversato
l’Ellesponto se Demostene non
avesse messo su quella sua campagna denigratoria. Ti ho raccontato di
quando
quel coniglio è venuto a Pella, vero? Se ne è
tornato ad Atene con la coda fra
le gambe, te lo posso assicurare. A ogni modo, al momento mio padre
è troppo
occupato ad assicurarsi il favore degli ateniesi, o meglio a tenerli a
bada, ma
le città greche della Ionia, della Frigia e della Caria
hanno chiesto più volte
il suo intervento. È troppo tempo che sono sottoposte al
giogo dei persiani, è
una vergogna per tutti gli elleni!”
“Questo
lo sanno tutti.”
“Non
tutti. Il caro Demostene sembra aver perso la memoria al riguardo.
Efeso,
Mileto, Alicarnasso, persino Pergamo. Certo, partire ora sarebbe una
pazzia,
non prima di essersi assicurato le retrovie, e la situazione con Atene
è ancora
tutta da risolvere, ma mio padre guarda a est, non
c’è dubbio, e non credo che
si fermerà alle città della costa, non se lo
conosco almeno un po’…”
Alessandro
si strinse nelle spalle in un gesto nervoso. Efestione sapeva come
fossero
controversi i suoi sentimenti verso il padre, come l’avessero
sempre lacerato,
così diviso tra un affetto che era cresciuto in lui suo
malgrado e un disprezzo
instillatogli fin dalla culla dalla madre – e certo non
migliorato dalla condotta
spregiudicata del Re, che Alessandro non aveva mai fatto mistero di
disapprovare.
Gli
pose una mano sulla spalla, stringendolo appena e Alessandro gli
rivolse un
sorriso grato, appoggiando a sua volta la mano sulla sua.
“Qualunque
sia la sua decisione,” continuò con voce
più leggera, “spero proprio che mi
resti ancora qualcosa da conquistare quando verrà il mio
turno!” e rise,
improvvisamente sollevato.
“Sembri
molto ansioso di andare in guerra, Alessandro.”
“Non
è la guerra a cui sto pensando, o comunque non
l’ho mai concepita come un fine.
Ma voglio andare lontano, Efestione. Qui a Mieza è bello,
molto più che bello,
e forse sono anche felice, più felice di come sia mai stato.
Ma mi sento in
gabbia, mi sento sempre così irrequieto e tu sai bene che i
miei sonni sono
spesso popolati di incubi.”
Efestione
annuì e fece per rispondere, ma Alessandro scosse la testa e
riprese a parlare,
una nota impaziente nella voce. “Il vecchio maestro ha molte
delle risposte
alle mie domande ma ce ne sono alcune che devo, che voglio
trovare da solo. Voglio vedere i confini del mondo di cui
tutti parlano, voglio entrare in quelle città che ora posso
solo sognare e ammirarne
i tesori e poi… voglio toccare Thalassa,
Efestione, mi ci voglio immergere, dove la terra finisce per gettarsi
nel
mare.”
I
suoi occhi vagarono lontani, fissando uno stormo di uccelli grigi che
si
stagliavano contro il cielo come creature di un altro mondo e seguendo
scie che
solo lui riusciva a vedere. Efestione sentì la consueta lama
di paura
trafiggergli il petto; una sensazione che spesso non riusciva ad
articolare, il
timore annichilente di non essere in grado di poterlo seguire, di
essere
lasciato indietro come una creatura inutile, dimenticata al freddo,
nella notte.
In
quei momenti Alessandro sembrava lontano, così lontano da
pensare che se avesse
allungato il braccio per toccarlo avrebbe afferrato l’aria, o
una lama di fuoco
lacerante che sarebbe scomparsa subito dopo averlo incenerito.
Ciononostante
lo toccò, sfiorandogli le spalle esili e facendolo voltare
verso di sé.
“Mi
porterai in guerra con te e ovunque tu vada, Alekos, non è
vero?”
Alessandro
rimase immobile per un istante sbattendo le palpebre, poi una linea si
formò
improvvisa tra le sopracciglia, trasfigurandogli il viso.
“Portarti
con me? Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere? Credi
davvero che
potrei andare da qualche parte senza di te? Per gli Dei, Efestione,
dovresti
saperlo che non potrei mai farlo, mai!”
Efestione
rimase spiazzato dallo scoppio di rabbia improvvisa. Non si era
aspettato
quell’aggressione e restarono a fronteggiarsi senza sapere
cosa dire per
qualcosa che sembrò un’eternità. Poi,
l’espressione feroce di Alessandro sembrò
addolcirsi e un sorriso gli apparve sulle labbra fino a quel momento
compresse
in una linea sottile. Appoggiò il viso sulla sua spalla e
gli cinse il collo
con le braccia, affondando il volto nell’incavo della sua
gola. “Scusami.
Scusami, philè. Mi
addolora sentirti
parlare così, perché è come se tu
dubitassi di me. Io non potrei mai partire
senza di te, né per l’Asia né per
nessun altro posto, questo dovresti saperlo
ormai.”
Efestione
rimase immobile per un istante, ancora colpito dall’ira
violenta dell’amico e
dal brusco cambiamento di umore, poi gli accarezzò i capelli
con una mano,
appoggiando il palmo sulla sua testa dorata.
“Perdonami… ma a volte è come se
accanto a te vedessi una fiamma che brucia accecante e che ti nasconde
alla mia
vista. È in quei momenti che ho paura di non riuscire a
seguirti, di non
esserne in grado. È difficile da spiegare, Alessandro. Non
è di te che dubito
ma di me stesso e non ne sono fiero. Mi dispiace per quello che ho
detto.
Dimenticalo.”
La
voce gli giunse ovattata dalla stoffa della sua tunica: “Non
dubitare, allora.
Tu mi seguirai e io seguirò te, ovunque tu vada. Abbiamo
fatto un giuramento,
non ti ricordi, Patroclo? E non è un voto che un mortale
possa infrangere, né
gli Dei oseranno farlo; solo la morte. I veri amici sono tutto
l’uno per
l’altro, condividono ogni cosa, soprattutto i loro sogni. O
hai dimenticato?”
Efestione
corrugò la fronte. Non gli piaceva come spesso Alessandro
indugiasse sul
pensiero della morte, ma sorrise mentre il ragazzo alzava il volto per
guardarlo. “I veri amici condividono tutto, sì
– lo so bene – e non lo
dimenticherò più, te lo prometto.”
Alessandro
annuì con convinzione. Rimasero vicini, in silenzio per
qualche istante, poi
Alessandro si staccò da lui per raccogliere il rotolo di
pergamena che era
scivolato sull’erba. Lo riaprì con cura e glielo
porse.
“E
ora, Patroclo,” esordì con un tono che non
ammetteva repliche, “che ne diresti
di continuare tu la lettura?”
Efestione
gli rivolse un sorriso divertito. “Che cosa
c’è, il grande Achille ha
dimenticato come si legge in greco?”
Alessandro
lo colpì sulla fronte e gli strappò la pergamena
dalle mani. “Molto divertente,
ma per mia fortuna so leggere benissimo, anche meglio di te. Lo sai,
però, che
mi piace ascoltare il tuo accento. Nessuno parla come te ed
è così bello da
sentire…”
Efestione
sorrise con dolcezza e gli prese il rotolo dalle mani, poi si accorse
che
Alessandro lo stava fissando con una strana espressione interrogativa,
una
domanda inespressa negli occhi grigi. Conosceva bene quella sua
espressione,
come ogni altra, ogni suo moto e ogni sua sfumatura.
“Avanti,
dillo! Cosa c’è? Che ti passa per la
testa?”
Alessandro
sembrava riluttante a parlare; fece un respiro profondo e
appoggiò il mento sui
palmi delle mani. “Mi chiedevo… sì
insomma, a volte mi chiedo se ti manca
quella vita, la tua vita laggiù intendo.”
Efestione
emise un sospiro e appoggiò il rotolo sull’erba.
“Non
direi. Sai bene che non sono mai stato felice ad Atene. La mia vita
è iniziata
qui, in Macedonia, il giorno in cui sono arrivato.”
Alessandro
lo scrutò con occhi attenti, l’espressione
indecifrabile. “So che non è stato
facile per te all’inizio. È tutto diverso qui. Ma
ora hai tuo padre, no?, lui
ti ama molto. E c’è Liside
e…” sembrava ansioso, come turbato da qualcosa.
Efestione
scosse la testa. “Sai bene che non si tratta solo di questo.
Ho trovato molto
di più. E comunque,” aggiunse con un sorriso
divertito, “se proprio lo vuoi sapere,
Liside mi odia.”
Alessandro
proruppe in una risata argentina. “Questa la dovevo ancora
sentire! Liside ti
odia? Quel tuo moccioso di un fratellino non fa un passo senza di te, e
tu dici
che ti odia? Per Zeus, Efestione, a volte mi chiedo dove hai gli
occhi!”
Non
riusciva a smettere di ridere. Efestione gli scoccò
un’occhiata minacciosa e lo
spinse via con un’imprecazione, facendolo rotolare in mezzo
alle felci.
“Sua
altezza oggi è davvero in vena di scherzi. E comunque vorrei
ricordarti che il
moccioso di cui parli ha la tua età, né un anno
in più, né un anno in meno, o
l’hai dimenticato, principino?”
Alessandro,
che si stava rimettendo in ginocchio ripulendosi dall’erba,
gli spedì un’occhiata torva,
ed Efestione riuscì a soffocare una
risata appena in tempo. Assunse un’aria vaga, cercando di non
scoppiare di
nuovo a ridere. Sapeva come Alessandro fosse terribilmente suscettibile
con chi
gli ricordava che era il più piccolo, tra gli allievi di
Mieza.
Era
orgoglioso fino all’impossibile.
“Comunque
ti assicuro che ti sbagli su Liside,” riprese Efestione.
“Non mi stupirei
affatto di sapere che avrebbe voluto finissi sulla cima di qualche
lancia ben
appuntita quando tuo padre ha assediato Olinto. Dovevi vederlo i primi
tempi,
quando mi portarono a casa. Mi evitava come fossi stato un serpente
velenoso o
un insetto particolarmente disgustoso.”
Alessandro
si rabbuiò. “Oh, che sciocchezze! Non voglio
nemmeno sentirti dire cose del
genere. Il solo pensiero che ti sia trovato in mezzo a
quell’assedio mi dà
ancora gli incubi. Non posso nemmeno immaginare che cosa
deve… essere stato.”
La voce si abbassò di un tono. “A volte mi chiedo
come tu possa non odiare mio
padre per… per tutto quello che è
successo.”
Efestione
scosse la testa con aria seria. “Non lo odio affatto. Tuo
padre non l’ha certo
fatto come qualcosa di personale e noi non ci conoscevamo neanche.
Filippo è un
re, ha preso le sue decisioni in accordo con la sua politica, e il
destino di
un uomo è sempre legato al suo Signore, nel bene e nel male.
È così che vanno
le cose, dovresti saperlo meglio di me.”
Alessandro
sbatté le palpebre con veemenza. “Hai ragione, ma
ti ammiro per come ti sei
sempre comportato con lui. E comunque, quando penso a
quell’assedio e a tua
madre, che non ho mai conosciuto, vorrei…”
Efestione
gli poggiò una mano sulla testa rimanendo in silenzio. Non
c’era bisogno di
parole tra loro, capiva benissimo i suoi sentimenti ma parlarne era
inutile e
non voleva in nessun modo che fosse turbato a causa sua.
“È
una cosa che appartiene al passato, non c’è motivo
perché tu debba essere
ancora così arrabbiato. È finita, c’era
una ragione per tutto. Gli Dei avevano
un loro disegno che alla fine si è rivelato.
Non…”
“Come
puoi parlare così, Efestione?” gridò
Alessandro, una sfumatura rabbiosa nella
voce, “come puoi rimanere indifferente dopo quello che ti
è successo? Non
riesco a capirti!”
Efestione
scosse la testa, lentamente. “Adesso ascoltami. Non
angosciarti per questo e
non pensare che io sia indifferente, perché non
potrò mai esserlo. Ma non è mai
stato saggio cercare di riportare indietro le ombre. È
quello che ci è stato
insegnato e non c’è nulla che si possa fare per
cambiarlo.”
Alessandro
abbassò gli occhi, mortificato. Efestione
appoggiò la fronte alla sua, in silenzio.
Era
vero; non ce l’aveva con Filippo per quello che era successo,
e il Re era
sempre stato gentile con lui – ma spesso, anche solo
chiudendo gli occhi, udiva
ancora il pianto terribile e disperato delle donne e dei bambini e le
grida
degli uomini, lo strepito dei soldati e il rumore assordante delle
lance mentre
berciavano di distruggere tutto, di bruciare ogni cosa, nel dialetto
macedone
che allora l’aveva riempito di terrore.
Poteva
ancora sentire il calore spaventoso e soffocante del fuoco che sembrava
essere
ovunque mentre il bosco e la città bruciavano senza
più speranza – il sapore
metallico del terrore spinto giù nella gola, a tagliargli il
respiro nella
corsa disperata per una salvezza che non era venuta.
Più
di tutto ricordava il volto di sua madre, della sua bellissima madre,
distorto
in un ghigno di terrore e disperazione, in una maschera di sangue e
sporcizia.
Non aveva mai saputo che cosa ne fosse stato di lei, e sapeva che
Amintore non
si dava pace per questo, ma in cuor suo sperava che fosse morta quella
notte e
le fosse stata risparmiata l’orribile esistenza che
l’avrebbe attesa se fosse
sopravvissuta.
Fu
riscosso dalla consapevolezza del calore del corpo di Alessandro contro
il suo,
e la soffocante nube grigia che gli aveva avvolto la mente parve
dissiparsi in
un istante.
Gli
sorrise.
“Alla
fine sono arrivato qui. Una volta mi dicesti che gli Dei vedono cose
che ai
nostri occhi sono precluse, ma che dobbiamo saperli ascoltare. Ti
risposi che
non ero d’accordo. Ero molto arrabbiato allora, ma qualunque
sia stato il
prezzo ne sono stato ampiamente ripagato, per cui, forse, non avevi poi
così
torto.”
Alessandro
gli sorrise radioso, un sorriso intossicante nella sua gloria, e tutto
sembrò
tornare alla normalità, come una nuvola capricciosa che
finalmente si allontani
per lasciar filtrare il sole.
Efestione
si stupì ancora una volta della luminosità che
sembrava irradiare da ogni sua
fibra, e del potere che ciò aveva sempre avuto su di lui.
Bastava davvero uno
di quei sorrisi per dargli la forza di guardare avanti e per cancellare
ogni
dubbio, ogni tormento? Non era ancora riuscito ad abituarsi a questo,
tanto
meno a spiegarselo, ma aveva finito per accettarlo come un dono del dio.
O
forse una maledizione – pensò per un attimo
brevissimo.
Sporse
il braccio per raccogliere la pergamena che giaceva a terra dimenticata
ma Alessandro
fece una smorfia. “Basta con la lettura, fa troppo caldo! La
prossima volta ce
ne andiamo anche noi al lago, e per favore uccidimi se ti parlo ancora
di
libri.”
Si
guardarono per un istante poi scoppiarono a ridere, un suono che si
diffuse
come una nota nell’aria ferma del tardo pomeriggio.
Alessandro
si adagiò contro il suo corpo e chiuse gli occhi; Efestione
incrociò le braccia
dietro la nuca, sistemandosi contro il tronco nodoso della quercia, e
alzò lo
sguardo verso il cielo.
Nubi
rossastre attraversavano il cielo luminoso e il carro solare aveva
quasi
terminato il suo viaggio verso ovest. Apollo sarebbe presto tornato
alla sua
casa.
Squarci
vermigli si stagliavano sopra l’orizzonte, colorando
l’azzurro di sfumature
sanguigne. Da un momento all’altro Aristotele avrebbe dato
ordine di preparare
la cena e si sarebbe arrabbiato se non si fossero fatti trovare
puntuali alla
tavola del refettorio insieme agli altri.
In
quel momento, tuttavia, Efestione non se ne dava pena, troppo intento
ad
assaporare quell’istante così perfetto
perché potesse essere interrotto da
qualcosa di così insignificante.
L’armonia
di tutto lo colpì come una lama affilata: il ripetersi dei
suoni del bosco,
costanti e mai uguali, il rumore incessante del fiume – che
non riusciva a
vedere ma di cui avvertiva la frescura – l’odore
metallico dell’acqua, il
fruscio delle fronde e delle foglie che mormoravano sommesse, forse
scosse dal
passaggio di qualche spirito. Tutto gli apparve di colpo misterioso e
chiaro,
come non avrebbe mai creduto possibile, e il cuore accelerò
il battito nel petto,
simile al frullo di ali prigioniere.
Poi
l’istante passò, e si stupì di non
riuscire a ricordare quella sensazione
inspiegabile di pienezza e di riverenza, di timore e venerazione. Se
davvero un
dio era passato e l’aveva sfiorato, adesso era scomparso e ne
rimaneva solo una
piccola traccia sul fondo di sé, come sempre accade ai
mortali che sono
benedetti anche per un breve attimo dal tocco divino.
Ricordò le parole di sua
madre in un giorno lontano, il dolce mormorio della sua voce nella
penombra di
una camera da letto: “…
la verità degli
Dei, piccolo mio. Persino un tocco leggero è troppo intenso
perché gli uomini
possano portarne il ricordo o viverne la pienezza e rimanere illesi.
Altrimenti
è morte, o pazzia…”
Abbassò
gli occhi, turbato da questo pensiero, e osservò Alessandro:
il suo respiro si
era fatto più profondo e il petto si alzava e abbassava nel
sonno. Aveva la
pelle chiara e arrossata dal sole e dal calore, le ciglia proiettavano
ombre
scure sulle guance lisce.
Il
suo sonno era lieve, come quello dei felini. Non aveva mai avuto il
sereno
abbandono e la morbidezza del riposo dei mortali, ma sembrava sempre
vigile,
anche e soprattutto nei momenti in cui avrebbe potuto apparire
vulnerabile.
Ma
non c’era nulla di vulnerabile in lui, Efestione lo sapeva
bene. Era solo in
attesa, come una belva accucciata e pronta a spiccare il balzo al
più flebile
respiro.
Gli
scostò una ciocca di capelli dal viso e gli toccò
una guancia. La sua pelle era
fresca e ardente allo stesso tempo. Il suo calore corporeo era sempre
stato
innaturalmente alto, come avesse un fuoco acceso nel profondo del suo
essere.
Questo lo turbava e lo infastidiva. A volte si chiedeva se Alessandro
non
stesse in qualche modo consumando se stesso e se un giorno quel fuoco
l’avrebbe
distrutto, lasciando di lui solo le ceneri.
La
schiena gli faceva male contro il vecchio legno ma non voleva muoversi,
non
voleva svegliarlo, così rimase immobile, con la mano posata
sui capelli biondi
del ragazzo e gli occhi chiusi, mentre lo zefiro serale gli accarezzava
la
fronte.
Dopo
qualche istante sentì le dita lievi del sonno che lo
toccavano e si lasciò
scivolare in un oblio bianco e silenzioso.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. ***
Capitolo
3.
Il
sole aveva completato il suo percorso verso occidente ed era poco
più che una
striscia sottile, infiammata e sospesa sopra l’orizzonte.
Ombre
scure si allungavano tra le pietre del Nymphaion
e un vento leggero sferzava l’aria torrida, sibilando tra le
fronde e
sollevando piccoli nugoli di polvere dal terreno secco.
Tolomeo,
figlio di Lago, sedeva in silenzio su una delle pietre del cortile, con
le
spalle alla massiccia fontana di marmo che riluceva al centro dello
spazio
circolare.
Teneva
la sua daga con il manico d’osso tra le mani e vi passava
sopra una pietra
appuntita, producendo un rumore acuto, un’eco stonata nel
silenzio ovattato
della sera.
Un
frusciare tra i cespugli riscosse la sua attenzione: alzò il
viso e scrutò tra
le ombre ma non vide nessuno così, con un sospiro,
tornò a concentrarsi sulla lama.
Alessandro
era di nuovo in ritardo.
Non
che la cosa lo preoccupasse – non era più un
bambino e sapeva badare a se
stesso – ma gli altri ragazzi avevano già cenato
ed erano andati a dormire, o
si erano attardati nei dintorni, mentre Alessandro e il suo amico erano
in giro
da tutto il pomeriggio e nessuno li aveva più visti.
Aristotele
gli aveva detto che, se non fossero tornati entro notte, sarebbe dovuto
andare
a cercarli e la cosa era ben lungi dall’entusiasmarlo.
Quello
che il filosofo sembrava non capire era che Alessandro faceva solo
ciò che
voleva.
Appoggiò
la daga su una pietra e sbadigliò, allungando le gambe.
Si
stava annoiando. Avrebbe di gran lunga preferito essere con un paio dei
ragazzi
più grandi in giro per le strade di Beroia, o in una
taverna, e magari passare
la notte lì in compagnia di qualche ragazza locale.
Non
era la prima volta che lo faceva; Leonnato e Filota se la sarebbero
spassata
quella notte, mentre a lui toccava fare il cane da guardia.
Si
passò una mano tra i corti capelli fulvi e si
stiracchiò in tutta la sua
lunghezza.
Sapeva
di avere un volto magro e il naso pronunciato, ma era alto e imponente
e aveva
cominciato a farsi crescere la barba, che teneva corta e crespa. Aveva
notato
che sembrava piacere alle donne e – in verità
– gli aveva facilitato la strada
a non pochi e gradevoli letti, negli ultimi tempi.
Sorrise.
Le
giornate a Mieza non passavano mai, ma aveva trovato altri modi per
trascorrere
il tempo. Senza dubbio gli mancava la sua vita a Pella, dove era
cresciuto, gli
mancava la giovane etera con cui intratteneva una relazione da anni e
tra le
cui braccia aveva trascorso gran parte delle sue notti di ragazzo. Non
aveva
certo accolto con entusiasmo la decisione del Re e di suo padre di
mandarlo a
Mieza a studiare con Alessandro e gli altri suoi compagni.
A
ventisei anni aveva già combattuto come soldato al fianco di
Filippo in più di
un’occasione; era consapevole di non essere un guerriero,
tanto meno un
generale, ma aveva saputo farsi onore.
Ultimamente
aveva passato più tempo con l’esercito che non
alla scuola di Aristotele, e
sperava che il Re lo richiamasse presto per una delle sue campagne,
così da
interrompere la monotonia di quelle giornate sempre uguali. Tuttavia,
voleva
bene ad Alessandro, e alla fine aveva accettato di buon grado di
seguire il
ragazzo a Mieza.
Era
conscio che il padre l’avesse vista come un’ottima
occasione per rinsaldare i
suoi rapporti con la casa reale, e un’ancor più
ottima possibilità, per lui, di
entrare nella cerchia del giovane principe, ma Tolomeo era sinceramente
affezionato ad Alessandro – un affetto che sapeva reciproco.
Le
terre di famiglia si trovavano in Eordia, a ovest di Pella, e Tolomeo
ricordava
di aver visto spesso il piccolo Alessandro, caracollante sulle gambe
instabili
quando era ancora un infante, le volte in cui suo padre
l’aveva portato a
palazzo per una visita.
A
quattordici anni era entrato nella schiera degli scudieri reali al
servizio di
Filippo, e allora aveva avuto modo di incontrare il principe ogni
giorno.
Poteva
dire di averlo visto crescere.
Se
lo ricordava bambino mentre correva nei cortili del palazzo –
oppure attorno al
lago, veloce come il vento, tutto preso a rincorrere qualche lepre in
uno dei
suoi giochi solitari. E ancora, mentre imparava ad andare a cavallo,
ridendo
come un matto la prima volta che l’avevano issato sul suo
pony, e gridando che
non voleva scendere più.
Alessandro
gli si era attaccato come a un fratello maggiore e Tolomeo non aveva
potuto
fare a meno di ricambiare l’affetto spontaneo concessogli da
quel bambino che
sembrava appartenere a un mondo a sé. Non era cresciuto con
i suoi coetanei e
per questo gli era sempre sembrato solo, quasi fuori posto in un luogo
tanto
più grande di lui.
Il
ricordo più vivido che ne aveva era del piccolo seduto sulla
sponda del lago a
lanciare pietre nell’acqua, immerso nella luce arancione del
tramonto, i
capelli chiari che gli ricadevano ai lati del volto in onde dorate e
l’espressione concentrata e lontana.
In
seguito l’aveva osservato spesso mentre il suo precettore,
Leonida, lo allenava
alla corsa o alla lotta nelle fredde mattine invernali, con addosso un
rozzo
chitone di lana macchiato di sangue e nient’altro. In quei
momenti sembrava uno
straccione, il figlio di un fattore che giocava a fare il soldato, ma
non c’era
nulla nei suoi movimenti, mentre lanciava il giavellotto o si allungava
agile
in un salto, che facesse pensare che quello era un gioco per lui.
Alessandro
aveva già assaggiato la guerra.
E
gli era piaciuta.
Tolomeo
era con lui la prima volta che Filippo aveva convocato il figlio e i
suoi
compagni all’accampamento dei soldati, durante una delle
schermaglie con le
tribù trace del nord che l’avevano tenuto occupato
nell’ultimo anno. Inizialmente
aveva temuto che Filippo fosse impazzito. Alessandro era poco meno che
quattordicenne a quel tempo, ma si era dovuto ricredere.
Ricordava
ancora il suo viso incrostato di sangue e terra, gli occhi vividi e
trionfanti quando
l’aveva rivisto alla fine della battaglia. In quel momento
gli era sembrato una
creatura divina e demoniaca allo stesso tempo – una bestia
che assapora il
gusto della morte e lo trova di suo gradimento.
Faceva
fatica a sovrapporre quell’immagine a quella del ragazzo di
Mieza, innamorato
dei suoi libri e dei suoi studi, irrequieto e vivace, spesso infantile.
Pensava,
a volte, che a Mieza Alessandro avesse riguadagnato la fanciullezza che
non aveva
avuto, e in lui rivedeva squarci di quel bambino solitario seduto
vicino al
lago, in un tempo che sembrava lontanissimo.
Le
sue labbra si incurvarono in un sorriso tenero,
un’espressione che cozzava con i
suoi lineamenti così severi.
Una
cosa era certa: Alessandro non era più solo. A Mieza aveva
trovato amici dei
quali sembrava non poter più fare a meno, compagni di cui
era divenuto il capo
indiscusso, e che lo seguivano e lo imitavano in qualunque cosa
facesse. Lo
adoravano, e molti di quei ragazzi erano di qualche anno più
grandi di lui.
Il
sorriso si allargò e lui si affrettò a
riguadagnare la consueta espressione
greve. Odiava il modo in cui appariva la sua faccia quando rideva
così, pensava
che lo facesse sembrare un completo idiota. Il pensiero, tuttavia,
indugiò
ancora su Alessandro – tenero, fraterno. Mai, da quando lo
conosceva, l’aveva
visto sorridere come in quell’ultimo anno.
Fece
per riprendere in mano il coltello ma poi lo lasciò
ricadere. Si allungò pigramente
all’indietro e alzò il volto verso il cielo, nel
quale cominciavano ad apparire
le prime stelle.
Poteva
vedere l’Orsa risplendere in alto mentre Callisto riluceva
più splendida che
mai nella notte tersa e profumata di fiori.
Tolomeo
chiuse gli occhi, lasciando che la brezza serale lo accarezzasse e
rinfrescasse
la sua pelle riarsa.
Tra
poco sarebbe andato a cercare Alessandro, ma voleva aspettare un
momento, un
istante ancora – immerso in quella pace privata che sembrava
insinuarsi suadente
dentro di lui, come la carezza segreta di Artemide.
Alessandro
si svegliò di soprassalto, scosso da un brivido che gli
risaliva lungo la
schiena.
Si
guardò intorno, ancora intorpidito dal sonno e dolorante per
la posizione, e
per un attimo stentò a raccapezzarsi di dove fosse.
Il
bosco era umido, immerso nelle ombre. Un vento fresco spirava tra gli
alberi e
in alto, tra le fronde, erano sbucate le stelle.
Sbatté
gli occhi con forza, massaggiandosi le braccia infreddolite e cercando
il
calore del corpo di Efestione. La temperatura era scesa e la pelle gli
si era
accapponata in un fremito improvviso.
Ancora
una volta in ritardo; non che la cosa lo preoccupasse, ma forse era
meglio
incamminarsi verso la scuola prima che Aristotele mandasse
un’intera muta di
segugi a cercarli. Allungò una mano verso Efestione ma la
lasciò ricadere un
istante dopo.
Il
ragazzo era addormentato, il volto inclinato di lato e i capelli scuri
che gli
coprivano la fronte sopra le ciglia ancora più scure. Il suo
sonno appariva
sereno e profondo, quasi segreto, come il suo non avrebbe mai potuto
essere.
E
poi c’erano sempre gli incubi.
Ma
non voleva pensarci e tornò a fissare Efestione con occhi
attenti. Si stupì
ancora una volta di come apparisse diverso nel riposo, il viso spianato
e privo
dell’espressione concentrata che sembrava caratterizzarlo.
Era come perso in
qualche mondo remoto – e del resto, non è forse
così che tutti gli uomini appaiono,
quando vengono presi nell’abbraccio segreto di Hypnos?
Anche
quel pensiero gli diede un brivido. Forse il sonno era davvero una cosa
buona –
così dicevano tutti – ma lui non poteva
dimenticare che Hypnos non è solo colui
che porta il conforto del riposo ai mortali.
Hypnos
è il gemello di Thanatos.
La
morte.
La
brezza soffiò più forte ed Efestione si mosse nel
sonno. I suoi capelli erano
color del bronzo e i bei lineamenti decisi già rivelavano i
segni dell’uomo che
stava diventando. Era alto e forte e inizialmente, quando
l’aveva conosciuto,
Alessandro ne era stato invidioso.
Lui,
così piccolo di statura, si era sempre fatto un cruccio di
questo. Il vecchio
Lisimaco gli aveva detto che era stato a causa della fame che aveva
patito da
bambino, negli anni in cui Leonida l’aveva educato
– che la grandezza di un
uomo non sta nel suo aspetto, ma nelle sue azioni. Così
dicendo, l’anziano
soldato gli aveva indicato l’Iliade posata sul tavolo.
Il
pensiero di Achille l’aveva consolato ma non gli aveva fatto
dimenticare.
Efestione,
tuttavia, non sembrava averci mai dato importanza, tanto che lui stesso
aveva
finito per non pensarci più.
Con
lui non aveva mai avuto nulla da dimostrare.
Era
stato molto solo, strano come non se ne fosse reso conto prima
d’ora. Quando il
pensiero tornava agli anni della sua fanciullezza, la sensazione
più forte era
quella di essere stato uno spettatore indesiderato
all’interno di una recita
che non era mai riuscito a capire. Non aveva mai compreso gli umori
mutevoli e
la rabbia sorda di una madre che pure amava moltissimo, così
come non aveva
capito quell’estraneo che era diventato suo padre.
C’era stata solo un’enorme
sensazione di disagio, il non sapere mai cosa fosse richiesto da lui e
la vaga
consapevolezza che, qualunque cosa avesse fatto, avrebbe finito per
scontentare
qualcuno.
Alla
fine, molto presto in verità, aveva imparato ad agire per se
stesso.
Adesso
capiva meglio. Comprendeva la madre con una chiarezza che non avrebbe
mai
creduto possibile – la sua solitudine, il suo orgoglio
ferito, la sua paura. Capiva
persino quello che doveva aver visto in lui – la speranza di
una rivincita per
la sua fierezza offesa – per poi scoprire che il serpente
dalla liscia pelle di
seta che aveva allevato era sgusciato via dal suo cestino, lasciandogli
addosso
un’amara sensazione di tradimento.
Riusciva
addirittura a comprendere suo padre adesso –
l’amore brutale, taciuto, di
quell’uomo così ruvido, ma sapeva che era tardi
per rimediare.
Troppo
era stato fatto, troppe parole erano rimaste inespresse.
Si
era gettato nei suoi studi e nei suoi esercizi con una foga disperata e
aveva
dato fuoco alle sue visioni, nitide e brucianti nel sonno
così come nella
veglia. Erano immagini che non avrebbe mai pensato di poter condividere
con
qualcuno, era la voce del suo daimon,
segreta e limpida, custodita come la cosa più sacra.
Quando
aveva fiutato l’odore della battaglia gli era stato chiaro
per che cosa era
fatto. Aveva sentito il tocco del fuoco e ne portava addosso il
marchio,
impresso nella carne.
Da
bambino, fin da quando riusciva a ricordare, i suoi compagni erano
stati i duri
soldati di suo padre. Ogni occasione era buona per recarsi a sbirciare
nelle
baracche degli uomini, in quel luogo dove tutto sembrava più
grande e reale.
I
suoni, gli odori sgradevoli, le risate sguaiate e le imprecazioni nel
macedone
più triviale, le zuffe scherzose che si trasformavano in
risse violente; tutto
era amplificato e presente, ed era proprio la brutalità di
quegli istanti che
strappava il velo di irrealtà che lo soffocava come una
spessa coltre di fumo.
Gli
dava la sensazione di esistere.
Poi
era arrivato Leonida dall’Epiro e lui l’aveva
odiato, perché aveva sentito che
per quell’uomo non era altro che un ennesimo animale da
addomesticare e da
piegare. L’aveva odiato perché intuiva che non
c’era amore in questo, ma solo
controllo e umiliazione.
Gli
aveva tenuto testa con una foga che anche il duro epirota aveva dovuto
riconoscere. Leonida l’aveva vessato e lui aveva dimostrato
di poter sopportare
di più, ancora di più, fino a che aveva vinto.
Adesso
considerava ciò che gli era stato insegnato come un dono
degli Dei. Aveva
forgiato la sua volontà, rendendola libera da ogni bisogno,
ma allora aveva
vissuto in una nube scura di rabbia e risentimento.
C’era
stata la lunga fila di insegnanti e precettori: matematica e retorica,
musica e
poesia, grammatica e scrittura e poi c’era stato Lisimaco, il
vecchio Lisimaco,
che l’aveva ascoltato, amato come un padre e che lui aveva
ricambiato con
l’affetto del figlio che l’anziano soldato non
aveva potuto avere.
Lisimaco,
che lo chiamava Achille, e che per lui era semplicemente Fenice,
come il precettore dell’eroe dell’Iliade che
avevano letto
insieme nelle lunghe notti invernali. Per la prima volta aveva
assaporato quell’incantesimo
irripetibile che lo inebriava, togliendogli il sonno e dando ali alla
sua
immaginazione.
Aveva
pianto per quegli eroi lontani, come mai in tutta la sua vita.
Aveva
pianto per Achille.
E
aveva pianto per Patroclo, soprattutto per Patroclo, quando si era reso
conto
che nulla poteva fermare il fato che avrebbe inghiottito quegli eroi e
donato
loro immortalità e gloria imperitura – sebbene
degli uomini non sarebbero
rimaste che ceneri sparse al vento.
Infine
era venuto Aristotele e aveva acceso la sua curiosità
– erano arrivati gli
amici chiassosi e insostituibili che adesso lo circondavano. Ma nulla
di tutto
questo era mai stato indispensabile.
Nulla
– fin quando Patroclo non era giunto.
Adesso
sentiva che c’era qualcosa, un’unica cosa, che mai
avrebbe potuto perdere.
Non
aveva saputo cosa significasse condividere anche un minuscolo frammento
di sé,
fin quando Efestione non era entrato nella sua vita.
Efestione,
che aveva perso tutto. Efestione – che non parlava mai ma che
era così
eloquente in ogni suo gesto, e infine Efestione – che
l’aveva accolto con una
fiducia e una forza che non aveva trovato in nessun altro.
Tutto
era cambiato.
Poteva
essere forte, forse più forte di tutti i suoi compagni, ma
questo bisogno, questa improvvisa
debolezza
l’avevano colto alla sprovvista, lo infastidivano e lo
riscaldavano, lasciandolo
con una sensazione inspiegabile di paura. Si chiedeva come fosse stato
possibile ma era una battaglia, l’unica battaglia, che non
aveva voglia di
combattere, perché sapeva che l’avrebbe persa.
Guardò
il ragazzo che dormiva, le palpebre chiuse sugli occhi scuri, e
sentì di nuovo
quella straniante sensazione di calore e gelo assalirlo.
Amava
Efestione come non aveva mai amato nessuno, e c’erano momenti
in cui non sapeva
proprio cosa fare di questo languore sconosciuto che sembrava mozzargli
il
respiro in gola e togliergli l’aria stessa di cui aveva
bisogno per respirare.
Si
mosse irrequieto, incapace di stare fermo un istante di più
e provò l’impulso di
toccarlo, di perforare il velo, assicurarsi che fosse reale. Tese la
mano, sfiorando
con i polpastrelli le labbra del ragazzo. Erano calde e soffici.
Efestione
aprì gli occhi, incurvando le labbra in un sorriso
assonnato, e lui ritirò la
mano.
“Credevo
che non volessi svegliarti più. Non ho mai conosciuto
nessuno che dorma tanto quanto
te.”
Efestione
allungò le braccia, attirandolo a sé, e scosse la
testa. “E tu perché non mi
hai svegliato, invece di brontolare?” Poi spalancò
gli occhi, guardandosi
attorno. “Alessandro, ma ti rendi conto di che ore sono?
Perché non mi hai
chiamato prima?” Si mise in piedi con uno scatto agile,
scuotendosi l’erba dal
chitone e spedendogli un’occhiataccia. Lo prese per un
braccio e lo tirò su di
peso senza che lui riuscisse a smettere di ridere.
“Vuoi
smetterla di sghignazzare? A quest’ora avremo tutti i cani di
Aristotele alle
calcagna e non ci tengo a farmi sgranocchiare i talloni, se proprio lo
vuoi
sapere.”
“Oh,
non credo proprio che si daranno tutta questa pena. A
quest’ora Aristotele sarà
già nel suo studio a scrivere una lettera o a catalogare le
sue pianticelle.
Non si accorgerà nemmeno che siamo tornati.”
Efestione
scosse la testa. “Sì, ma domani la sua ramanzina
sul rispetto delle regole non
ce la toglie nessuno, dovresti saperlo bene ormai.”
Alessandro
scrollò le spalle, a dimostrare che non gliene importava
assolutamente nulla,
ed
Efestione si lasciò scappare un sibilo divertito.
“Sei sempre il solito. Mi
chiedo per che cosa mi ostino a parlare. Però, ramanzina a
parte, io sono affamato.
A quest’ora avranno già servito la cena e noi ce
ne andiamo a letto a pancia
vuota, tanto per cambiare.”
“Non
preoccuparti, dovrebbe esserci quell’egiziano, Menmet, in
cucina stasera. Gli
chiederemo di darci qualcosa da mangiare, sono sicuro che non
farà storie.
Anch’io sto morendo di fame, andiamo.”
Si
incamminarono veloci verso il Nymphaion,
lasciandosi la radura e il bosco alle spalle. Quando giunsero nel
giardino
videro Tolomeo, seduto su un pietra, sollevare gli occhi e salutarli
con un
gesto della mano. Il ragazzo si alzò e si fece loro incontro.
“Credevo
che avrei dovuto venire a cercarvi con l’esercito,”
li apostrofò con un
grugnito.
“Hai
ragione,” rispose pronto Alessandro, “ma Efestione,
qui, si addormenta sempre e
– ah!” La
gomitata l’aveva raggiunto
prima che potesse finire la frase.
Tolomeo
roteò gli occhi, sforzandosi di rimanere serio.
“Hai poco da scherzare visto
che alla fine sono dovuto rimanere io ad aspettarti. E si dà
il caso che io non
sia la tua balia. Ti assicuro che avevo ben altri programmi per
stasera.”
“Non
lo metto in dubbio ma sei sempre in tempo per unirti al gruppetto dei
tuoi
amici e finire la serata tra le cosce di una delle tue conquiste, se ti
sbrighi,” ribatté Alessandro, facendo arrossire
Tolomeo fino alle orecchie.
“Fai
pure lo spiritoso, domani te la vedrai tu con Aristotele. E comunque
sarà bene
che tu sappia che oggi quel tuo cavallo spiritato ha fatto diventare
matto lo
stalliere, mentre tu te ne andavi a spasso. Non ha voluto mangiare e
quando
hanno cercato di mettergli i finimenti ha quasi piantato gli zoccoli
nella
pancia di quel povero Demetrio, la cui unica colpa è quella
di doversi occupare
della tua bestiaccia!”
Efestione
fece un fischio e Alessandro lo guardò risentito.
“Fa così perché non mi ha
visto in tutto il giorno. È colpa mia, andrò io a
dar da mangiare a Bucefalo.
Quel cavallo sta diventando più capriccioso di un
bambino.” Sorrise con
tenerezza ed Efestione sorrise a sua volta, abbassando gli occhi verso
di lui.
“Bene,” gli disse, “allora mentre vai a
occuparti del cavallo io provo a recuperare
qualcosa in cucina.”
“Perfetto,
ci vediamo tra poco. Tolomeo, ti auguro – vediamo –
una buona caccia?” e così
dicendo corse via verso le stalle, un attimo prima che la grossa mano
di
Tolomeo lo raggiungesse in mezzo alle scapole.
I
due ragazzi rimasero a guardarlo in silenzio mentre Alessandro spariva
dietro
l’angolo.
Tolomeo
spostò il peso da un piede all’altro, sulle spine.
Non sapeva mai che dire a
Efestione e questo lo metteva a disagio. Non lo conosceva da molto e si
era
sempre trovato a corto di parole davanti a quel giovane alto e
silenzioso che
così poco assomigliava ai ragazzi che lo circondavano, e a
cui lui era
abituato.
Sapeva
che veniva da Atene e forse era questo il motivo per cui lo sentiva
così
estraneo. Tutto in lui sembrava diverso: il modo di parlare,
l’atteggiamento riservato
se comparato all’irruenza dei compagni, e al contempo la
capacità di essere
pungente anche con poche parole. Questo, talvolta, lo faceva apparire
superbo, ma
Tolomeo non ne era convinto. In realtà, pensava, poteva
trattarsi solo di
disagio, la difficoltà di adattarsi a un mondo che doveva
sembrargli molto diverso
da quello che aveva conosciuto.
Non
aveva parenti lì, eccetto un fratello che era
però macedone fin nel midollo, e
aveva per forza di cose dovuto arrangiarsi da solo, in bilico tra due
realtà
distinte; una creatura indecifrabile che aveva finito per rimanere
molto
isolata, all’inizio.
Non
doveva essere stato facile per lui, tuttavia le cose stavano cambiando.
Aveva
notato che Efestione sembrava più aperto ultimamente, e
Alessandro – beh,
Alessandro lo adorava. Quest’ultimo gli aveva accennato
qualcosa sul passato
del ragazzo ma non aveva indugiato nei particolari e lui non aveva
approfondito. Conosceva il padre, Amintore, e lo stimava: un nobile
macedone i
cui avi erano stati ateniesi. Ma gli sfuggiva come Efestione avesse
potuto
finire in Attica e poi ritornare in Macedonia.
Tuttavia,
si sarebbe abituato.
Voltò
il viso e vide che Efestione lo stava osservando, un sorriso incerto
dipinto
negli occhi aperti e franchi. Suo malgrado si ritrovò a
rispondere a quel
sorriso.
“Pensavi
di doverci aspettare tutta la notte, vero?”
Tolomeo
scoppiò in una risata potente. ”E tu come lo sai?
Meglio così, visto poi quello
che vi avrei fatto quando vi avessi trovato.”
Efestione
alzò un sopracciglio. “Lo credo bene dati i progetti,
diciamo così, di cui parlava Alessandro prima. Se ti
può consolare, hai tutta
la mia comprensione.”
Rimasero
in silenzio per un istante, poi scoppiarono a ridere, la loro voce che
echeggiava sonora nell’immota tranquillità del
cortile.
Tolomeo
si stupì di trovarsi così a proprio agio con lui
e per la prima volta pensò,
mentre guardava quegli occhi scuri e disarmanti, che il ragazzo non era
così
insopportabile.
Pensava
che, forse, avrebbe potuto persino abituarcisi.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. ***
Capitolo
4.
Cassandro
non riusciva a dormire.
Si
girava e rigirava nudo nel suo letto, incapace di chiudere occhio,
così
accaldato da avere la sensazione di soffocare.
La
stanza era immersa nell’oscurità e non un filo
d’aria sembrava attraversarla.
Gettò di lato le coperte e si alzò con un
grugnito, raggiungendo la finestra da
cui poteva scorgere uno stralcio del bosco scuro e silenzioso al di
là del
prato. Si passò una mano tra i capelli sudati.
Quanto
odiava quel caldo.
E
quanto detestava quel posto, così isolato che gli pareva di
trovarsi in mezzo
al nulla.
Si
voltò e osservò il letto vuoto e disordinato
accanto al suo. Filota, il suo
compagno di stanza, aveva pensato bene di uscire quella notte,
probabilmente
per andare a fottersi qualche puttana di Beroia in compagnia dei suoi
amichetti.
Chissà
cosa ne avrebbe pensato suo padre, il grande generale Parmenione, se
avesse
saputo che suo figlio se la faceva con quella feccia.
Le
labbra gli si allungarono in un sorriso crudele; magari ne sarebbe
stato
persino contento.
A
ogni modo, Filota poteva rimanersene in giro fino
all’indomani per quanto lo
riguardava. Forse era la volta buona che sarebbe riuscito a dormire, se
il
caldo non l’ammazzava prima; quell’idiota russava
come un toro in calore.
La
stanza era piccola e puzzava di cavallo. Ancora una volta si maledisse
per aver
dato retta a suo padre ed essersi fatto convincere a venire in quel
posto
disgustoso.
E
pensare che lui stesso aveva insistito. Doveva essere impazzito.
A
quest’ora avrebbe potuto essere nella sua casa di Pella a
farsi preparare un bagno
da qualche servo, o nella fresca residenza di famiglia, sulle colline
attorno
al fiume Asso, a festeggiare e bere vino dopo una giornata di caccia.
Antipatro,
suo padre, era l’uomo più importante di Macedonia
dopo lo stesso Re. Generale e
diplomatico, godeva della massima fiducia da parte di Filippo, che gli
aveva
persino lasciato la reggenza dello Stato le volte in cui la guerra
l’aveva
costretto ad assentarsi.
Quando
si era reso necessario far accompagnare Alessandro a Mieza, suo padre
– com’era
ovvio – aveva proposto il suo nome al Re. Che lui andasse a
Mieza era scontato:
tutti i figli dei nobili e dei generali più altolocati di
Macedonia avrebbero
scortato il principe alla scuola di Aristotele, e lui non sarebbe stato
da
meno. Aveva persino insistito, e a voler ben vedere c’era
dell’ironia tragica
in tutto questo.
Non
si era mai pentito tanto amaramente di qualcosa in vita sua.
Imprecò
a bassa voce. Il caldo era insopportabile; se fosse rimasto ancora un
momento
in quella stanzetta angusta, il suo letto avrebbe finito per diventare
la sua
tomba.
Si
infilò un chitone di lino leggero e uscì
all’aperto. La brezza notturna gli
diede immediato sollievo e lo fece sospirare di piacere.
Si
avviò a passo veloce verso il retro della lunga e bassa
costruzione del
dormitorio, raggiungendo una grossa cisterna di pietra per
l’acqua piovana. Sedette
sul bordo della vasca e tuffò la testa nell’acqua,
poi la scrollò e si allungò
all’indietro, lasciando che le gocce gli scendessero
giù dai riccioli castani
lungo il collo e le spalle.
La
notte era umida e pesante attorno a lui, il frinire dei grilli e il
fruscio
delle piante non gli erano mai sembrati tanto desolanti.
Non
riusciva ad ammettere di sentirsi così male, di sentirsi
così solo.
All’inizio
non ci aveva fatto caso, non aveva notato come gli altri compagni
formassero
ogni giorno di più un gruppo compatto e affiatato, mentre
lui veniva lasciato
fuori come un animale fastidioso. Non ci aveva fatto caso
perché la cosa non
gli era mai importata, ma alla fine non aveva potuto ignorarlo.
No,
non aveva più potuto ignorarlo.
Sbatté
le palpebre con forza. Credeva di sapere di chi fosse la colpa.
Alessandro.
Sembravano
tutti sbavargli addosso e pendere dalle labbra di quel ragazzino
arrogante e
indisponente. Che cosa ci trovavano in lui?
Possibile
che nessuno si accorgesse che era solo un moccioso vanesio che cercava
di atteggiarsi
da adulto?
Qualcuno
avrebbe dovuto insegnargli a stare al suo posto. Era sicuro che se non
fosse
stato il figlio del Re, non avrebbe ricevuto la metà delle
attenzioni che
sembravano circondarlo.
Fece
una smorfia e sputò nell’erba.
L’antipatia
che provava per Alessandro era stata reciproca e immediata, non
riusciva
nemmeno a ricordare com’era iniziata, se c’era
stato un inizio.
Antipatro
l’aveva portato a palazzo molte volte e, nonostante lui fosse
di qualche anno
più grande del principe, quest’ultimo
l’aveva sempre guardato dall’alto in
basso, con un’aria di superiorità che Cassandro
gli avrebbe volentieri
cancellato dalla faccia a suon di pugni.
Non
erano mai andati d’accordo, anche quando lui e quel grosso
cinghiale di Tolomeo
erano stati gli unici ragazzi a frequentare regolarmente il palazzo
reale.
La
rivalità era stata immediata, Cassandro credeva da ambo le
parti – riuscendogli
difficile riconoscere che Alessandro non l’aveva preso in
considerazione
neanche per un momento.
Non
c’erano state liti aperte e questo rendeva il tutto ancora
più insopportabile.
Gli
costava ammettere che era venuto a Mieza armato delle più
buone intenzioni.
Forse, in cuor suo, aveva desiderato fare amicizia con lui, anche solo
per
compiacere suo padre che sembrava avere molto a cuore il suo futuro
alla corte
del principe.
Forse,
semplicemente, non voleva più sentirsi solo.
Al
contrario, le cose erano addirittura peggiorate. La sua antipatia si
era
trasformata in odio – e in aperto disprezzo, da parte di
Alessandro. Lo sciame
di leccapiedi che gli ronzava attorno non aveva tardato ad assumere lo
stesso atteggiamento,
non c’era da stupirsi di questo. Solo Filota sembrava
condividere la sua
opinione ma era troppo occupato a cercare di farsi amico questo o
quello, perché
potesse esserne sicuro.
A
ogni modo, Filota era l’unico a essergli in qualche modo
sopportabile.
C’era,
invero, qualcun altro che odiava tanto quanto Alessandro, sebbene
all’inizio
gli fosse sembrato impossibile: quell’intrigante bastardo
ateniese, che
Alessandro si portava appresso come un cane fedele e che sembrava
adorare con
tutto il cuore. Un ateniese che cercava di fare il macedone, con quella
sua
parlata indisponente e quel modo di fare che sembrava intendere quanto
si
ritenesse superiore a tutti loro.
Avrebbe
scambiato volentieri due paroline lui con Efestione, se solo non avesse
avuto
la fortuna di essere l’amichetto del cuore di Alessandro.
Si
ricordava bene le risatine, le parole dietro le spalle, i dispetti.
Oh,
Alessandro no – e nemmeno Efestione. I due signorini
erano troppo superiori a queste cose, ma c’era stata una
mattina in cui si era
svegliato in un letto pieno di rane viscide e rivoltanti, ed era sicuro
che lui non ne fosse stato
all’oscuro; non
poteva non sapere che i suoi detestabili amici si divertivano a
tormentarlo in
quel modo.
Efestione
non gli aveva mai rivolto la parola sgarbatamente, né preso
in giro, ma era
sicuro che lo disprezzasse e la sua freddezza da greco borioso gli
riusciva
ancora più intollerabile.
Un
nodo rovente gli si formò nelle viscere, minacciando di
soffocarlo.
Li
odiava.
In
cuor suo, nei desideri che nemmeno si nominano, sapeva il
perché – sebbene
nelle lunghe, interminabili ore di veglia questo fosse solo un pensiero
informe
che si rifletteva appena sullo specchio scuro della sua coscienza. Li
odiava
perché insieme erano avvolti in un bozzolo dorato che
sembrava catturare i
raggi del sole; li odiava perché insieme sembrava che niente
potesse scalfirli.
Li
odiava perché insieme erano invulnerabili.
Chiuse
gli occhi, vedendo il mondo vacillare – e pensò
alla sua casa. Non a suo padre –
poco più che un estraneo severo e dalla cinghiata facile
– e neppure a sua
madre, una presenza di contorno, fragile e immateriale fin dai primi
anni di
vita.
Non
pensò neanche ai suoi numerosi fratelli e sorelle,
così chiassosi e invadenti
che erano stati più un fastidio che una gioia per lui.
Tutti,
eccetto uno.
Nicanore,
il più piccolo di casa, che lo amava teneramente.
Nicanore,
che a sette anni già voleva cavalcare come un uomo e gli
aveva chiesto di
insegnargli a farlo, insieme al modo di lanciare il giavellotto per
cacciare il
cinghiale.
Ecco.
Per Nicanore avrebbe dato la vita.
Era
stato a casa pochissimo dalla sua partenza per Mieza e, ogni volta che
tornava,
il fratello sembrava diverso, sempre più grande –
come avesse deciso di
crescere senza aspettarlo.
Quanto
odiava essere lì, in mezzo a quegli idioti repellenti,
mentre l’unico essere
che amava – e che lo amava ricambiandolo –
rischiava di diventare un estraneo
lontano da lui. Gli avrebbe insegnato lui ad andare a cavallo, e
sarebbe stato
lui ad accompagnarlo a cacciare il suo primo cinghiale, dandogli il
diritto di
sedere alla tavola degli uomini.
E
ancora, ci sarebbe stato lui con Nicanore, quando avesse ucciso il suo
primo
uomo, guadagnando così la cintura per portare la spada come
un vero guerriero.
Il
pensiero gli diede una fitta di dolore.
Alessandro
si era conquistato la sua cintura a quattordici anni, lui solo
l’anno scorso, a
diciotto. Perché il pensiero doveva sempre tornare a quel
maledetto ragazzino?
Ma
non poté evitarlo, nemmeno questa volta, e il ricordo lo
riassalì con forza,
portando con sé la consueta scia di sensazioni: rabbia,
vergogna, eccitazione,
dolore.
Era
accaduto un anno prima e il periodo era pressappoco lo stesso.
Ricordava la
calura insopportabile, la sensazione di soffocare.
Il
Re era impegnato in Tracia, in una campagna-lampo contro una bellicosa
tribù
ribelle. Aveva richiamato il figlio a nord, insieme a molti dei suoi
compagni
più grandi, perché assaggiassero la vita in un
campo militare e potessero
mettersi alla prova in una vera battaglia.
Oh,
certo, era poco più che una scaramuccia con un gruppo di
barbari vestiti di
pelli e tatuati di blu, e tutti loro erano stati educati alle armi e al
combattimento fin da quando erano bambini, ma Cassandro era stato
ugualmente
eccitato e spaventato quando i soldati della scorta erano venuti a
prenderli
per accompagnarli all’accampamento.
Le
loro corazze di bronzo e le lunghe sarisse appuntite brillavano nel
sole estivo
mentre attraversavano il corso dello Strimone, dirigendosi a est, verso
le montagne
che sovrastano la costa egea, nel territorio dei bistoni –
dove Filippo li
stava aspettando.
Ricordava
il sole a picco e il cielo di un blu abbacinante, il peana dei soldati
e il
frastuono degli zoccoli dei cavalli che accompagnavano la loro marcia,
risuonando tra le rocce nude e scandendo il passo. Ogni particolare era
impresso indelebile, marchiato a fuoco nella memoria.
C’erano
stati tutti: Tolomeo, Filota, Nearco, Cratero, Perdicca e ovviamente
Efestione
e… Alessandro.
Marciava
a capo della fila su quel suo demonio di cavallo, i capelli una colata
d’oro e
sembrava che fosse sempre stato lì, che ci fosse nato,
invece di essere uno
stupido quattordicenne che ancora puzzava di latte.
Filota
gli aveva detto che aveva passato l’infanzia con i soldati.
Chi si credeva di
essere?
Poi,
era arrivata la battaglia.
Solo
una cosa si ricordava, della battaglia – vivida,
incancellabile come le striate
di sangue sul corpo e tra i capelli, in bocca, ovunque –
quando tutto il resto
era ormai solo un frastuono indistinto di grida umane e nitriti di
cavallo,
clangore di spade e bagliori di lame.
Alessandro,
che irrompeva nella cittadella come una scia di fuoco, senza tirarsi
indietro,
incosciente tra i primi della linea, mentre lui arrancava a fatica
nelle
retrovie, ansimante, coperto di fango e sangue secco, la bocca piena di
un
rivoltante sapore metallico.
Efestione
era stato sempre accanto a lui, alto ed eretto sul suo cavallo, non gli
aveva
lasciato il fianco scoperto per un attimo.
Poi,
tutto era finito.
Li
rivedeva ancora, fianco a fianco come i Dioscuri davanti
all’altare, quando erano
stati offerti sacrifici a Eracle per la vittoria e il fumo
dell’olocausto saliva
in alto, denso e rovente verso il cielo azzurro.
Era
stata una sua impressione o c’era davvero quella sfumatura
rossa tra le nuvole?
Il
viso di Alessandro era incrostato di sangue. Sangue nei capelli, sangue
sulle
spalle, sul torso, sangue dappertutto, come un animale scannato, eppure
sembrava coperto d’oro – lucido, splendente. Gli
aveva visto tranciare la testa
di un uomo con un colpo di spada, l’espressione serena e
concentrata, mentre
lui, in battaglia, combatteva con una smorfia contratta sul viso.
Oh,
il re e Parmenione – persino suo padre Antipatro! –
l’avevano sgridato per la
sua incoscienza, ma si vedeva che erano orgogliosi. Parmenione
– che era quanto
di più simile a un dio per lui – l’aveva
guardato con ammirazione e affetto,
mettendogli una mano sulla testa, come un padre. Persino i
più anziani soldati
macedoni, uomini duri come la pietra, uomini che non si impressionavano
di
nulla ormai, erano rimasti colpiti e si complimentavano con lui,
chiamandolo Kyrie. Il giovane
Signore. Tra questi
anche i soldati di Antipatro, di suo
padre!
In
quel momento gli aveva augurato la morte. Aveva sperato che fosse
finito
squartato da una lancia nella battaglia appena finita.
Emerse
dalla sua visione con un brivido, mentre i contorni oleosi del fuoco e
le sagome
di quel giorno lontano sfumavano lentamente, come il fumo del
sacrificio,
lasciando il posto alla notte che adesso lo avvolgeva come una coltre
viscida.
Si
alzò adagio dal bordo della cisterna e si
sgranchì le gambe. Avrebbe fatto due
passi, forse si sarebbe sentito un po’ meglio.
Girò l’angolo e udì uno scoppio
di risate improvvise. Ormai gli occhi si erano abituati
all’oscurità e scorse
due figure in piedi, vicine, nello spazio chiuso del giardino.
Da
non credere: quell’idiota di Tolomeo che se la rideva beato
con l’ateniese, come
se fossero i più grandi amici. Sentì lo stomaco
torcerglisi per il disgusto.
Vide
Efestione salutare Tolomeo con un cenno della mano e avviarsi nella sua
direzione. Quando fu abbastanza vicino, Cassandro uscì
dall’ombra e si piantò davanti
a lui.
L’altro
alzò un sopracciglio e fece per passargli a fianco, ma
Cassandro lo fermò,
prendendolo per un braccio. “Stavamo cominciando a
preoccuparci, sai? Siete
tornati dalla passeggiatina al chiaro di luna?”
Efestione
socchiuse gli occhi e liberò il braccio con uno strattone.
“Buonasera
anche a te, Cassandro.”
Quest’ultimo
serrò le labbra, poi sorrise. “Non stai adempiendo
molto bene ai tuoi doveri di
cane da guardia, ragazzo di Atene. Se continui così il tuo
padroncino potrebbe
finire per essere sculacciato. Pensa un po’ che
tragedia!”
Efestione
si accomodò meglio nella sua posizione, portando le mani
alla cintura. “Sai, a
volte mi chiedo, Cassandro… quando parli ti rendi conto di
quello che dici o blateri
a vanvera perché ti piace sentire il raglio della tua
voce?”
Cassando
strinse i pugni. Si fronteggiarono per qualche istante occhi negli
occhi, senza
dire una parola. Lui era alto ma Efestione lo superava di una buona
spanna. Il
suo viso non tradiva alcuna emozione, si limitava a guardarlo
tranquillo
dall’alto della sua statura. Cassandro avrebbe voluto
cancellargli quell’odiosa
espressione dalla faccia, prenderlo a schiaffi fin quando non gli
avesse
mostrato un po’ di rispetto.
“Bene,
è stata una bella conversazione, Cassandro, e ti
ringrazio,” disse Efestione,
rompendo il silenzio, “adesso però, se non ti
dispiace, avrei altro da fare.”
Cassandro
lo prese per il collo della tunica, tirandolo verso di sé
finché il viso non fu
quasi a contatto con il suo. “Ascoltami bene, figlio di una
troia ateniese,”
ringhiò, “credi di poter venire qui e sbattermi in
faccia quella tua aria
arrogante senza pagare conseguenze per questo? Lo credi
veramente?”
Efestione
mise una mano sulla sua e strinse, finché le nocche non gli
diventarono
bianche. Cassandro socchiuse gli occhi. Efestione aveva una stretta
forte.
“Non
mi interessa discutere con te, Cassandro. Né di questo,
né di altro. Se sei a
caccia di un diversivo per passare una serata noiosa lo stai cercando
con la
persona sbagliata.” Poi lo spinse via con un gesto deciso e
Cassandro vacillò,
facendo un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
“Oh
no. No. Invece dovrai ascoltarmi.
È ora
che qualcuno ti insegni qual è il tuo posto qui.
È giunto il momento di fare un
bel discorsetto da uomo a uomo, sempre che tu non decida di andare a
chiamare
il tuo padroncino perché ti venga a difendere!”
Efestione
fece un passo avanti allungando un braccio per afferrarlo, quando una
voce
irruppe improvvisa nell’aria ferma:
“Chi
è che dovrebbe andare a chiamare?”
Si
voltarono entrambi e Alessandro era lì in piedi, a gambe
divaricate, con uno
sguardo furioso tra le sopracciglia corrugate.
Cassandro
si liberò dalla stretta e si eresse in tutta la sua statura,
ma evitò di
guardarlo negli occhi. “Oh, nessuno in particolare. Io ed
Efestione stavamo
solo avendo un piccolo scambio di opinioni, niente di più.
“
Efestione
lo guardò con disgusto mentre Alessandro si faceva avanti,
mettendosi tra di
loro. Poi, fulmineo come un felino, afferrò Cassandro per i
capelli e lo sbatté
con forza contro il muro, abbassandogli la testa così che
potesse guardarlo
dritto nelle iridi grigie.
Quello
che Cassandro vide non gli piacque. Le forze sembrarono abbandonarlo in
un
istante.
“Bene,
Cassandro. Allora accetterai anche questo piccolo scambio
di opinioni con me, dico bene?” Lo
lasciò, rapido così come
l’aveva ghermito e per poco Cassandro non finì
lungo e disteso per terra.
“È
sempre interessante discutere con te. Adesso, però, se vuoi
scusarci…”
Si
allontanarono lasciandolo lì da solo, appoggiato contro il
muro gelido , un
tremito involontario che gli saliva dalle viscere.
Cercò
di scacciarlo ma non ci riuscì.
Li
osservò camminare, senza che nessuno dei due si voltasse
neanche per un attimo
a guardarlo, anche solo per maledirlo o inveire contro di lui, e una
volta in
più augurò loro la morte.
“Devi
essere sempre così impulsivo, Efestione? Ti ho visto. Se non
fossi arrivato avresti
finito per farci a pugni, e dopo come avresti spiegato ad Aristotele le
sue
ossa rotte?”
Efestione
lo guardò di sbieco, facendo una smorfia. “Detto
da te suona come un
complimento, visto il modo in cui gli hai sbattuto la testa contro il
muro. E
comunque non vedo cosa ci sarebbe stato di male. Cassandro sta cercando
di provocarmi
in tutti i modi, e da un bel pezzo. Gli avrei dato solo quello che
voleva.”
Camminavano
fianco a fianco lungo il muro del dormitorio, diretti verso
l’edificio principale.
“Questo
è fuori dubbio e forse, con qualche dente rotto, la
pianterebbe di andarsene in
giro come un gallo altezzoso. Ma non ne vale la pena, non voglio che tu
ti
metta a fare a botte con quell’idiota.”
Efestione
sospirò rassegnato ma Alessandro non parve farci caso.
“Credimi, philè,”
continuò, “il peggior nemico di
Cassando è lui stesso. Lascialo pure avvelenarsi nella sua
miseria, è
innocuo."
Efestione
scosse la testa, prendendolo per una spalla. “Non penso che
sia così innocuo
come credi e tu non sei mai stato bravo a giudicare le persone.
È questo che mi
preoccupa. Non mi piace. Non mi piace il modo in cui ti guarda: con
disprezzo,
con odio e allo stesso tempo con un’invidia insana. No, non
ho mai pensato
neanche per un attimo che fosse innocuo.”
Alessandro
sorrise. Si strinse nelle spalle in un gesto sbrigativo.
“Stai esagerando. Che
Cassandro sia invidioso è lampante, ma gli
passerà. E se non dovesse passargli
non vedo proprio perché dargli importanza. Sbrighiamoci
adesso, se vogliamo
trovare qualcosa da mangiare.” Si avviò veloce
verso l’ingresso dell’imponente
costruzione di pietra, poi si voltò verso Efestione, che era
rimasto immobile. “Ti
vuoi muovere, sì o no?”
Efestione
scosse la testa e lo seguì all’interno del
corridoio rischiarato fiocamente
dalle lampade di bronzo traforato appese alle pareti. I loro passi
risuonavano
come colpi nello spazio silenzioso, l’odore acre e familiare
dell’olio che
bruciava sembrava spandersi dappertutto.
Raggiunsero
la cucina e la trovarono deserta. Il vasto locale era stipato di vasi,
paioli
di rame, stufe e bracieri, e un profumo variegato di spezie ed erbe
aleggiava
nell’aria.
“Menmet
dev’essere già andato a letto, meglio
così. Prendiamo qualcosa da mangiare e
filiamo. Sto morendo di fame.”
Efestione
annuì. Si diressero verso uno scaffale ricolmo di piccoli
vasi coperti da teli
di lino; riempirono una brocca con
del vino e misero dell’uva passa, fichi e una focaccia di
farina d’orzo su un
vassoio, poi si avviarono veloci verso l’uscita, in direzione
del dormitorio. Arrivati
nella stanza che condividevano, Alessandro accese la piccola lampada a
olio che
teneva sul ripiano accanto alla finestra. Efestione sedette sul suo
letto,
appoggiando il vassoio e la brocca accanto a sé.
Il
locale era piccolo e afoso, esposto ai raggi del sole durante il
giorno. I
letti si trovavano proprio sotto la finestra, mentre in un angolo
c’erano le
due cassapanche con i loro vestiti e un tavolino di legno con i dittici
di cera
e gli stilo per la scrittura.
Di
lì a poco, un tenue chiarore illuminò le pareti
della stanzetta.
Alessandro
appoggiò la lampada vicino al letto, sedendosi accanto a
Efestione. Lui gli
sorrise e gli porse un pezzo di focaccia, assieme a una manciata
d’uva.
Mangiarono
in silenzio, condividendo lo stesso piatto come facevano sempre, poi
Efestione
prese uno dei kylix che si
trovavano
sulla mensola e versò un po’ di vino nella coppa,
portandosela alle labbra.
Alessandro
lo osservava concentrato e silenzioso. Assaporare il vino era un gesto
che
avevano condiviso molte volte, quasi un rituale segreto tra loro.
Il
vino era vita, il vino era l’anima del dio. Rappresentava la
chiarezza della
visione, la passione dei desideri che danno fuoco all’anima
di un uomo.
Il
vino significava essere uomini.
Quando
Efestione ebbe finito di bere gli porse la coppa; Alessandro gliela
prese dalle
mani e la fece ruotare, accostando le labbra al punto esatto in cui lui
aveva
bevuto.
Si
ritrovò a fissare la sua bocca appoggiata all’orlo
del recipiente, sentendosi
improvvisamente a corto di parole. Alessandro aveva una
sensualità selvatica,
spontanea e al contempo inconsapevole, e questo riusciva a confonderlo
del
tutto.
Incapace
di trattenersi, allungò una mano e fece scorrere tra le dita
una ciocca dorata
dei suoi capelli.
Alessandro
sbatté gli occhi una volta, poi appoggiò la coppa
accanto a sé e lo fissò in
silenzio. Teneva ancora dell’uva in una mano e Alessandro
gliela sollevò,
portandosela alla bocca e cominciando a mangiare i pochi chicchi che
erano
rimasti. Quando ebbe finito staccò le labbra per un istante,
guardandolo con
un’espressione indecifrabile. Poi si mise le sue dita in
bocca e cominciò a
succhiarle forte, una a una.
Efestione
sussultò e si sentì girare la testa, incapace di
staccare gli occhi da
Alessandro, intento a leccargli la mano con una lentezza dolorosa ed
esasperante. Senza neanche rendersi conto di quello che faceva lo
spinse sul
letto, adagiandosi sopra di lui con tutto il suo peso e facendo cadere
la
coppa, che finì a terra con uno schianto.
Nella
foga del gesto sentì il chitone di Alessandro strapparsi su
una spalla, e
rimasero a fissarsi senza staccare gli occhi l’uno
dall’altro.
Efestione
teneva le mani saldamente ancorate ai suoi polsi ma lui non si mosse.
Si
limitava a guardarlo con uno sguardo fiducioso.
Ecco
– rifletté Efestione – questo era
ciò che lo confondeva di più. Alessandro,
sempre così fulmineo, rapido ed elusivo come un gatto
selvatico, era con lui –
e lui solo – docile e arrendevole. Sapeva che non avrebbe mai
potuto tenerlo
così se non avesse voluto, e la cosa lo inorgogliva e lo
turbava al tempo
stesso. Niente avrebbe potuto essere più immenso di questa
fiducia, più
prezioso di questa resa, questo abbandono segreto che nessuno vedeva,
nessuno
poteva conoscere.
Le
parole gli uscirono a fatica, rauche, come richiamate dal profondo di
sé. Non
era certo di avere parlato fin quando non sentì la sua
stessa voce arrivargli
alle orecchie.
“Perché
mi permetti di farti questo?”
Alessandro
incurvò le labbra in un sorriso sottile.
“Perché mi piace vedere questo sguardo
nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io.” Poi lo
artigliò per le
braccia, rapido come la zampata di un leone, e con le labbra che quasi
toccavano le sue, bisbigliò: “Non voglio che
guardi nessun altro al mondo così.
Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire
secondo
nella tua vita.”
Efestione
si liberò dalla stretta e gli sorrise, attirandolo a
sé. “Sai che è
impossibile. Non c’è nulla a questo mondo che mi
sia più caro di te. Nulla.”
Alessandro
gli si aggrappò con forza disperata, la pelle rovente, come
se stesse
bruciando. “Philè.
Mio philè…”
era la sola cosa capace di
ripetere, ancora e ancora, mentre Efestione lo baciava sulla bocca,
sulle
spalle, sui muscoli delle braccia e del petto, senza sosta.
Trovò
con le labbra una piccola cicatrice, non l’unica, sul braccio
di Alessandro e
la leccò, la mente annebbiata dal desiderio, mentre i loro
chitoni scivolavano
via, andandosi a unire ai frammenti della coppa sul pavimento.
Quando
lo prese, con un’unica spinta possente, sentì un
ansito sfuggire dalle sue
labbra, il suo respiro spezzato e veloce – Alessandro, che
non emetteva mai un
lamento, nemmeno quando veniva ferito – e rimase immobile
sopra di lui.
“Non…
fermarti.” Fu solo un bisbiglio contro il suo orecchio mentre
Alessandro gli
afferrava i capelli e gli scavava con le dita la pelle della schiena.
Ne
avrebbe portato i graffi addosso per giorni, ma in quel momento non
importava,
non gli sarebbe importato nemmeno se l’avesse fatto a pezzi
con le sue stesse
mani.
Alessandro
aveva tenuto per tutto il tempo gli occhi chiusi ma in
quell’istante li riaprì,
due pozzi grigi sovrastati da sopracciglia arcuate come ali, ed
Efestione
affogò ancora una volta in quelle profondità
ardenti, in quella fiducia totale
e nel fuoco che la avviluppava come una follia invocata dagli Dei.
Nella
miriade di pensieri sconnessi che gli affollavano la mente, uno
più di tutti
sembrò tornare in superficie, sfocato e imperioso come una
voce sentita in
sogno. Una volta lui e Alessandro avevano trovato un libro tra le carte
di
Aristotele, un’opera scritta dal suo vecchio maestro, un
filosofo ateniese
chiamato Platone.
L’avevano
letto di nascosto, incantati e anche un po’ colpevoli,
perché Platone parlava
dell’amore in quel libro, parlava degli amanti e del loro
desiderio, della loro
brama di fondersi l’uno con l’altro in una stessa
colata incandescente, per non
essere mai staccati, mai rimossi – notte e giorno. In
particolare ricordava un
unico, singolo passaggio – di come il Dio Efesto, trovatosi
dinanzi agli
amanti, avesse loro chiesto che cosa desiderassero di più,
se non forse quella
fusione, quella comunione senza ritorno. Ed entrambi avevano risposto:
“… ecco, proprio questa è la
mia febbre, da sempre. Confondermi, liquefarmi col mio amore, farmi uno
da quei
due che siamo."
Ed
era tutto racchiuso lì, pensò confusamente
Efestione mentre affondava nel suo
amato –
era tutto custodito lì, in quel
suo desiderio convulso di diventare un tutt’uno con lui,
conficcarglisi nella
carne come un marchio rovente, l’identico marchio che
Alessandro gli aveva
impresso addosso con il suo stesso fuoco.
Alla
fine giacquero a lungo, in silenzio, l’uno accanto
all’altro, mentre il sudore
si asciugava sulla pelle e i loro respiri tornavano lievi.
Quando
Efestione voltò la testa, vide che Alessandro era
addormentato, i lineamenti
distesi e rilassati come gli accadeva sempre dopo l’amore.
Era, questa, una
delle poche cose in grado di farlo cadere in un sonno profondo e senza
sogni.
Gli
scostò una ciocca di capelli che gli copriva il viso, nel
gesto familiare, e
rimase seduto immobile a fissare il lembo di cielo scuro che si
intravedeva
dalla finestra, simile a un drappo adornato di pietre lucenti.
La
notte era umida e profumata, e nella stanza l’odore acre del
sesso si mischiava
a quello degli oleandri che crescevano nei prati. Sulle labbra poteva
sentire
il sapore del sudore di Alessandro che era salato e leggero come acqua
di mare.
Si
rese conto con stupore che una strana vertigine si stava facendo strada
dentro
di lui. Osservò di nuovo il viso di Alessandro, immerso nel
riposo, e sentì
ancora quella morsa di inquietudine annodargli le viscere in un
groviglio
doloroso.
A
volte si chiedeva se non fosse troppo quello che l’amico gli
stava dando, se
tutta quella fiducia, tutto quell’amore, un giorno Alessandro
non li avrebbe
pagati a un prezzo troppo alto.
Chiuse
gli occhi per scacciare il pensiero.
Lui
non l’avrebbe mai tradito, non avrebbe mai permesso che quei
doni inestimabili
andassero perduti, né che Alessandro dovesse pagare per
questo. Mai. Non finché
avesse avuto vita.
E
allora perché doveva sentirsi così in ansia
quando tutto ciò che voleva, tutto
ciò che aveva mai voluto, giaceva sereno e al sicuro accanto
a lui?
Rimase
sveglio a lungo, incapace di placare i pensieri che correvano veloci,
come
prede inermi spaventate da un latrare lontano, per poi cadere in uno
stato di
nervoso dormiveglia. Non si rese conto di essersi addormentato fin
quando non
sentì i singhiozzi di Alessandro riportarlo bruscamente alla
realtà. Si voltò verso
di lui col cuore in gola. Alessandro era ancora addormentato ma
piangeva nel
sonno, si lamentava come se lo stessero straziando, mentre con le mani
annaspava
nell’aria, la ghermiva nel vano tentativo di afferrare
qualcosa.
Lo
scosse più volte, chiamandolo per nome, finché
non aprì gli occhi di scatto, fissandoli
nei suoi. Occhi vuoti: perduti, posseduti. Poi lo riconobbe, e tutta la
vita
sembrò rifluire in lui, assieme al rossore sulle guance
ceree e al calore nel
corpo. Gli sorrise titubante, ancora sperduto.
Efestione
lo prese tra le braccia, in silenzio, facendogli appoggiare la testa
sulla sua
spalla. Alessandro oppose resistenza, poi si abbandonò
all’abbraccio. Gli circondò
la vita, a cercare un calore che sembrava essere scomparso da lui.
“Ho
fatto un incubo, philè.”
“Lo
so, ma è finito. È passata. Lo sai,
vero?”
Alessandro
si scostò e alzò gli occhi, ancora offuscati da
un’eco di quel vuoto folle e
senza ritorno. “No, non lo so.” Scosse la testa
nello sforzo di ricordare, poi
strinse le mani a pugno in una presa dolorosa sulle sue braccia, come
cercasse
di mantenere il contatto con la realtà aggrappandosi a
qualcosa.
“Sogno
sempre la stessa cosa, ogni notte. Ogni volta che chiudo gli occhi.
Sogno di
essere in uno spazio vuoto e sconosciuto, ma non ho paura fin quando
non
comincio a sentire le fiamme che salgono attorno a me, come una parete
di lava,
e iniziano a consumarmi, a liquefarmi come fossi un cadavere
dimenticato su una
pira funebre. Grido, ma nessuno mi sente. Le fiamme sono attorno a me,
ma
nascono in me, nascono dentro di me e mi mangiano, mi scavano, mi
consumano finché non rimane più nulla.”
Prese
a scuotere la testa da una parte all’altra, le pupille
dilatate, facendosi
sbattere i capelli sulle guance. Efestione gli prese il volto tra le
mani,
costringendolo a fermarsi.
“Adesso
ascolta: era un sogno, Alessandro. Niente di questo è reale,
lo capisci? Solo
un sogno, portato da Hermes per ricordarci che siamo mortali.”
Alessandro
si morse il labbro, talmente forte da farselo sanguinare, poi
fissò di nuovo
Efestione, mentre un rivolo di sangue gli scorreva sul mento, una
piccola
striatura rossa, viva come un rubino.
Efestione
allungò una mano per asciugarla, ma Alessandro lo
bloccò con uno scatto. “Vuoi
sapere qual è la cosa peggiore, la più orribile
di quel sogno?” si interruppe
un istante, ma quando si accorse che Efestione stava per parlare
riprese con
foga: “Non sono le fiamme, e nemmeno il calore che mi scava
le ossa. Oh, no. È il
fatto che, mentre brucio, mentre mi consumo, io… sono solo.
Non c’è nessuno lì,
nessuno mi sente, anche se grido. Anche se urlo fino a farmi scoppiare
i
polmoni.” Alzò la voce tutto d’un
tratto, afferrandosi a lui con energia
incontrollata. “Io chiamo il tuo nome, Efestione, lo grido
con tutta la voce
che ho in corpo ma tu non ci sei, o forse non mi senti. Ti chiamo ma tu
non arrivi,
non ci sei. Non ci sei!” La sua voce era un grido, le mani
serrate a pugno; le
unghie scavavano mezzelune vermiglie nella carne tenera dei palmi.
Efestione
gliele prese fra le sue e lentamente, con dolcezza, gli fece rilasciare
la
stretta.
“Tu
non sei solo. E io sono qui. Se dovessi chiamarmi non avresti bisogno
di urlare,
perché io sarei a non più di due passi da te. Ti
basterebbe alzare gli occhi,
come stai facendo ora, per vedermi. Non puoi non saperlo.”
Alessandro
abbassò le spalle con un sospiro, come se tutta la tensione
l’avesse abbandonato
di colpo. Si appoggiò a lui e lasciò che
l’abbracciasse, lo cullasse in una
stretta calda, rassicurante. “Forse sì. Ci sei,
questo è vero, posso vederti.
Ma che farei se un giorno dovessi svegliarmi e tu non rispondessi
più al mio
richiamo? Che farei se dovessi svegliarmi e tu non fossi più
qui?”
“Ci
sarò.”
Alessandro
rimase in silenzio mentre Efestione lo accarezzava, sussurrava e lo
cullava
come un bambino, e la tensione sembrava scivolare via come un mantello
pesante
tolto alla fine della giornata.
“Parakaleo
se emoi pareinai eis aei, Hephaistion.
Non andartene mai.” Fu
solo un sussurro e dopo pochi
istanti era nuovamente addormentato, il respiro leggero e regolare.
Efestione
lo tenne contro di sé a lungo, mentre la luna completava la
sua salita e le
stelle si facevano ancora più brillanti nel cielo nero.
Non
ci sarebbero più stati sogni fino a domani, ma lui non
avrebbe potuto dormire,
ormai. Chiuse gli occhi, sentendo la notte respirare gravida attorno a
lui, come
una creatura viva.
Doveva
diventare forte.
Doveva
diventare molto più forte per proteggerlo dal suo stesso
fuoco. Non importava
quali segni questo avrebbe lasciato su di sé, fintanto che
ciò servisse a
preservarlo, a evitare che il fuoco lo toccasse.
Il
marchio era stato inciso indelebile nelle sue carni, era il suo destino
e la
sua stessa maledizione. Ma non aveva paura. L’aveva scelto
consapevolmente e
avrebbe tenuto fede a quel voto, avesse dovuto bruciare vivo per questo.
Pensò
a Orfeo, a come era sceso tra le ombre per ricondurre indietro la sua
Euridice;
pensò a come spesso Alessandro gli dicesse che la
realtà gli appariva sfocata,
immateriale, come dietro a un velo, o nascosta da un’ombra.
Se
era così, allora voleva avere il coraggio di Orfeo.
L’avrebbe trovato ovunque
fosse e l’avrebbe riportato indietro, verso il sole. Non si
sarebbe voltato,
non avrebbe indugiato neanche se tutte le teste ringhianti di Cerbero e
le
fiamme più atroci avessero lacerato il suo corpo mortale.
Nulla avrebbe potuto
impedirgli di guidarlo fino alla fine del sentiero e tenerlo per mano,
nella
luce del giorno.
Appoggiò
il palmo sulla guancia di Alessandro, che era tornata tiepida e
soffice, e lui
sospirò nel sonno.
Sì
– pensò Efestione in un attimo di improvvisa,
quasi divina chiarezza: doveva
diventare forte per poterlo condurre con sé, illeso,
attraverso il fuoco.
Fine
Note:
1)
Nel 324 a.c., nella città di Ecbatana in Asia, dopo una
lunghissima campagna che porterà Alessandro e il suo
esercito a conquistare la
gran parte del mondo conosciuto e a essere alla testa di un impero che
si
estendeva dai confini della Grecia fino all’India, Efestione si
ammalerà e morirà
improvvisamente in pochi giorni – poco più che
trentenne.
Tutte
le fonti storiche sono concordi nel dire che Alessandro fu
letteralmente devastato dal dolore.
Giacque
sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin
quando non ne fu tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase
rinchiuso
nella sua stanza per più di una settimana, senza bere
né mangiare, incapace di
fare nient’altro che piangere e dormire.
Quando
tornò in sé, fu per dare il via ad una bizzarra
– all’epoca
fu creduto pazzo – forma di compianto. Aveva già
dato ordine di impiccare il
medico che, invece di rimanere con Efestione, se n’era andato
a vedere i giochi;
si tagliò i capelli (come Achille aveva fatto per Patroclo)
e fece fare lo
stesso con le criniere di tutti i cavalli; fece spegnere tutti i fuochi
(un
privilegio riservato solo alla la morte del Re e che fu infatti
interpretato
come cattivo auspicio) e ricoprire le sette mura di Ecbatana con
vernice nera.
Il
tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al
suolo, ed egli stesso si imbarcò in una guerra lampo contro
i Cossiani, per
offrire i morti in sacrificio all’ombra
dell’ amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò
che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad
perpetuum e che tutti gli accordi
commerciali fossero firmati in suo nome.
L’azione
più folle, e anche la più disperata, fu
l’invio di un’ambasciata
diretta all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto
libico, dove Alessandro
stesso, anni prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon,
affinché
anche a Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo
era molto più di un semplice
“riconoscimento” per il morto.
Secondo
i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano
ammesse nell’Elysium, mentre ai comuni mortali era riservata
un’esistenza
“inferiore”, nell’Ade.
In
quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon
essere riunita all’anima mortale di Efestione, figlio di
Amintore, se non
riconoscendo anche a lui uno status superiore?
A
ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu
comunque permesso che venisse adorato come eroe divino, permettendogli
così,
l’accesso all’Elysium.
Il
funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che
Alessandro fece costruire fu ricordata come il monumento funebre
più colossale
dell’antichità, nel quale spese una somma
esorbitante per l’epoca.
Il
suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno,
divenne sempre più autodistruttivo; beveva
spropositatamente, e continuò a farlo
anche quando si ammalò, nove mesi dopo la morte di
Efestione, mentre si trovava
ancora a Babilonia.
Rifiutò
ostinatamente di essere visto da alcun medico e la
malattia lo consumò in dieci giorni, nonostante anni e anni
di campagne al
limite dell’immaginabile avessero dimostrato la tempra di cui
era fatto.
Quando
morì aveva trentatré anni.
2)
Alessandro si lasciò alle spalle un impero immenso e nessun
erede. Rossane, la sua prima moglie, era incinta, ma il bambino non era
ancora
nato quando il re morì.
Se
Efestione fosse sopravvissuto ad Alessandro è logico pensare
che sarebbe andata a lui la reggenza e la tutela del piccolo Alessandro
IV, fin
quando non fosse stato abbastanza grande per regnare.
Efestione
era Chiliarca – secondo in comando – di Alessandro,
e
pochi mesi prima della sua morte, a Susa, quando si erano tenuti i
matrimoni di
massa tra i generali macedoni e le donne persiane, Alessandro aveva
preso in
moglie Statira (la figlia del defunto re di Persia, Dario), e aveva
dato la
sorella Dripeti in sposa a Efestione.
In
questo modo, aveva detto, essi sarebbero potuti diventare
parenti (gesto ancora più significativo, se si pensa che
Efestione non aveva
più alcun consanguineo nell’esercito macedone) e i
loro figli avrebbero
condiviso lo stesso sangue e sarebbero stati ugualmente eredi
dell’impero,
rendendo quindi ufficiale l’eventuale successione di
Efestione alla reggenza, se
questo fosse stato necessario.
Purtroppo
non andò così, e alla morte di Alessandro si
scatenò una
lotta per la successione tra i generali che erano rimasti –
Tolomeo, Cratero, Perdicca,
Seleuco, Antigono, per menzionarne alcuni – lotta che si
protrasse per più di
vent’anni, frammentando l’immenso impero in regni
più piccoli e indebolendolo,
fino a renderlo facile preda della conquista romana che sarebbe
avvenuta nei
secoli successivi.
Statira
e Dripeti furono richiamate a Babilonia da Rossane prima
che potessero sapere che il Re era morto, e furono avvelenate dalla
stessa Regina
(ciò fa supporre che Statira potesse essere stata incinta,
al momento dell’assassinio).
In
seguito Rossane rimase sotto la protezione di Perdicca (che
prese la reggenza) e, alla morte di quest’ultimo, rimase in
Macedonia col piccolo
Alessandro IV, assieme a Olimpia, la madre di Alessandro, che era
riuscita a
prendere il potere con un atto di forza.
Sia
Olimpia che Rossane e, ovviamente, il figlio di Alessandro
ancora tredicenne, furono trucidati da Cassandro, che divenne
così, alla fine,
re di Macedonia.
3)
Una parola su Cassandro: l’odio reciproco tra lui e
Alessandro
è ben documentato; sebbene fosse stato tra i compagni che
avevano studiato a
Mieza con lui (nonché figlio di uno degli uomini
più fedeli a Filippo e, dopo,
ad Alessandro stesso), fu l’unico che Alessandro non
portò con sé in Asia.
Lo
rivide solo poco prima della sua morte, quando Cassandro si
recò a Babilonia per portare un’ambasciata di suo
padre Antipatro.
L’odio
riesplose feroce come non mai: Cassandro fu sorpreso da
Alessandro a ridere di un vecchio persiano che si prosternava, e il Re
gli
sbatté la testa contro il muro, alla presenza di tutti.
Anche
dopo molti anni dalla sua morte, e dopo che Cassandro aveva
massacrato tutta la sua famiglia estinguendo così il suo
sangue per sempre, si
dice che non riuscisse a non tremare davanti a una statua di Alessandro.
Il
personaggio di Nicanore non è inventato.
Cassandro
ebbe davvero un fratello che combatté per lui quando
(anni dopo la morte di Alessandro), Olimpia prese il potere in
Macedonia e si mise
quindi sulla sua strada.
Senza
dubbio Nicanore doveva averlo amato perché si fece trucidare
da Olimpia per la causa del fratello.
Cassandro
ordinò la lapidazione di Olimpia non appena le ebbe
messo le mani sopra, morte verso la quale la Regina andò
incontro con stoico
coraggio.
4)
Tolomeo fu indubbiamente uno dei “Diadochi”(i
successori) più
potenti; a lui andò la satrapia dell’Egitto, di
cui divenne faraone dopo la
morte del principe Alessandro IV, e sotto di lui (e la sua stirpe, i
“tolemaici”
appunto), la nazione prosperò, e Alessandria divenne il
centro più importante
di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa biblioteca per la
quale
ancora oggi la città è famosa.
La
linea di Tolomeo si estinse con l’ultima regina, Cleopatra,
quando l’Egitto divenne provincia romana, nel 30 a.c.
5)
Una piccola nota, infine, su altri due personaggi menzionati
nel racconto: Parmenione, generale in capo dell’esercito
macedone ai tempi di
Filippo e, per un certo periodo, anche in quello di Alessandro,
è riconosciuto
come uno dei geni militari del suo tempo.
La
sua fedeltà a Filippo è ben documentata,
così come i suoi
interventi chiave e decisivi nella sottomissione delle numerose
città greche
(nonché della Tracia e dell’Illyria), che fecero
della Macedonia la potenza del
tempo.
Filota,
suo figlio, fu uno dei compagni di Alessandro che lo
seguirono in Asia, nonché capo della cavalleria del suo
esercito, fin quando,
nel 330 a.c. fu trovato colpevole di una cospirazione contro la vita di
Alessandro, sebbene non sia mai stato provato se ne fosse stato
coinvolto in
prima persona o se, avendolo saputo da terzi, avesse omesso di dire
quello che
sapeva.
Filota
fu condannato a morte dall’assemblea macedone e
giustiziato, e sebbene la colpevolezza (o il coinvolgimento) del padre
Parmenione non sia mai stata provata, se ne rese necessaria
l’eliminazione.
Parmenione,
infatti, era rimasto indietro con una parte del suo
esercito e controllava le linee di rifornimento a ovest, dalle quali
dipendeva
l’esistenza stessa dell’esercito di Alessandro.
Colpevole
o no, Parmenione avrebbe voluto la sua faida, e aveva
dalla sua parte uomini che gli erano fedelissimi.
La
notte stessa in cui Filota fu giustiziato, tre dromedari
partirono diretti a ovest, con l’ordine di morte per il
vecchio generale.
Questo
episodio rimane senza dubbio uno dei più oscuri nella vita
di Alessandro (assieme all’uccisione di Clito), e lui stesso
ne portò il
rimorso per anni, senza farne mistero; non deve essere difficile
pensare che un
tempo Alessandro doveva avere molto amato Parmenione, forse la figura
più
simile a un padre che egli avesse mai avuto.
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