Il tocco del fuoco

di Flora
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Nota dell’autrice: Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.



Il tocco del fuoco





Capitolo 1.








L’estate era finalmente arrivata a Mieza, in un glorioso tripudio di colori e odori.
L’aria, ancora fresca per il tardo inizio di stagione, era andata saturandosi di una vibrante energia segreta, trasformando il cielo in una colata d’argento liquido sopra la scura macchia dei boschi. Nascosti tra i fili d’erba, i narcisi selvatici aprivano i pallidi petali bianchi e spandevano un profumo leggero, mentre nei prati il grano cresceva alto, le spighe un’onda dorata increspata dal vento.
Aristotele camminava lungo il corridoio in penombra, respirando le fragranze speziate del mirto e degli olivi nei primi aliti d’estate. Sembrava assorto in una sua nascosta voluttà, concentrato sul sapore di quegli aromi così familiari eppure capaci d’inebriarlo come li sentisse per la prima volta.
Raggiunse una finestra inondata dal caldo sole pomeridiano e lasciò che il piacevole tepore gli riscaldasse il corpo intorpidito dalle fredde mura della biblioteca. Poi, si stiracchiò pigramente.
Non avrebbe mancato di rispetto a se stesso definendosi vecchio, ma aveva notato come, negli ultimi tempi, le sue ossa ci mettessero un’eternità a rinvigorirsi dopo un periodo di riposo. Le stanze della vecchia palazzina di caccia che ospitava gli studenti della sua scuola erano perennemente gelide.
Guardò in basso, verso il giardino invaso dai cespugli, e non si stupì di trovarlo deserto.
Aveva concesso ai suoi studenti un pomeriggio di libertà; li aveva incaricati di cercare le piante e gli arbusti illustrati loro quella stessa mattina a lezione, ma sapeva bene dove avrebbe potuto trovare gran parte di quei ragazzi, se solo li avesse cercati.
Un sorriso obliquo gli incurvò le labbra. Dovevano essere in giro per i boschi a dare la caccia a qualche volpe, o più probabilmente al laghetto delle ninfee a fare il bagno e a rinfrescarsi dell’improvvisa calura estiva.
Tutti, eccetto un paio.
Scrutò il prato sottostante, ed ecco infatti poco più in là, sotto l’ombra di un vecchio faggio, le due figure sedute e intente a leggere un libro che uno dei ragazzi teneva aperto sulle ginocchia.
Alessandro, principe ereditario di Macedonia, teneva la testa dorata leggermente reclinata sul lato e gesticolava infervorato in una qualche discussione, mentre il ragazzo seduto accanto a lui lo ascoltava assorto, annuendo appena.
Aristotele conosceva il libro, avendolo egli stesso donato al principe il giorno in cui si erano incontrati a Pella. Non avrebbe tuttavia mai pensato che potesse esercitare un fascino così potente su un ragazzo tanto giovane sebbene, in verità, non fosse la prima volta che Alessandro aveva saputo coglierlo di sorpresa.
Aveva portato da Atene una pregevole edizione dello scritto di Senofonte, la storia di Ciro, Grande Re di Persia che più di duecento anni prima aveva sottomesso le popolazioni di medi e persiani quand’erano ancora poco più che barbare tribù in lotta tra loro. Era avanzato inarrestabile attraverso quelle terre e aveva dato i natali all’immenso impero che si estendeva a est dell’Ellesponto, fino ai confini del mondo.
I greci conoscevano bene quell’impero.
Gli Dei sapevano quante e quali offese erano state arrecate ai figli dell’Ellade da quei barbari empii e potenti, il nome di Serse maledetto dai figli dei figli, e solo gli Dei
potevano sapere quando sarebbe venuto il giorno della giusta vendetta.
Ma adesso, rifletté Aristotele, la Grecia aveva altro a cui pensare.
Scrutò la figuretta del principe, così intento nella sua discussione che sembrava crepitare di una vitalità nascosta, e si stupì ancora una volta di notare quanto assomigliasse a suo padre.
Non nell’aspetto fisico – o comunque non così tanto da balzare all’occhio – ma nei piccoli particolari a prima vista insignificanti, come la forza improvvisa con cui serrava la mascella, la scintilla che gli si accendeva negli occhi grigi quando si accalorava in un’argomentazione e, più di tutto, l’energia incontenibile che sembrava emanare ogni fibra del suo corpo.
Aveva incontrato Filippo solo alcuni mesi prima, ma non c’era nessuno in Grecia che non sapesse chi era.
Aristotele strinse gli occhi mentre un reticolo di rughe appariva ai lati del suo viso.
I vecchi, molli demagoghi ateniesi avevano definito Filippo un barbaro, il Re di una sperduta provincia che, al momento della sua ascesa al trono dopo l’ennesima, sanguinosa lotta di successione, sembrava ancora immersa nell’età arcaica. L’avevano schernito nel suo desiderio e nei suoi tentativi di darsi una parvenza di quella grecità di cui tanto andavano fieri e che lui, invece, non aveva potuto avere per diritto di nascita.
L’avevano chiamato barbaro, buffone, vergogna dell’Ellade.
Ma adesso quel barbaro, quel buffone, li teneva tutti nel suo pugno di ferro.
I suoi rozzi soldati e i suoi generali – il suo esercito di uomini che parlavano l’orribile dialetto dorico che non poteva neanche essere definito greco – erano avanzati inarrestabili e avevano stritolato la Grecia nell’inerte flaccidità in cui era ormai versata in una via senza ritorno.
A nulla erano serviti tutti i discorsi e gli intrighi di quegli inetti politicanti che affollavano Atene e il pollaio che era ormai diventata l’agorà. A niente erano servite le farneticanti invettive di quel pavone di Demostene – che un rozzo macedone non aveva il diritto, non poteva ergersi a supremo comandante e guida della sacra Ellade. Filippo li aveva lasciati parlare.
E poi aveva agito, fulmineo come un rapace.
Aristotele sorrise, mentre un’espressione crudele gli si dipingeva in viso.
La sua storia d’amore con Atene era finita da un pezzo; da quando, dopo la morte di Platone, gli era stata preferita quella vecchia gallina grassa di Speusippo alla guida dell’Accademia, alla quale tanti anni della sua vita aveva dedicato.
Era stato un affronto intollerabile ma aveva imparato a conviverci. Non si era stupito quando il Re era venuto a cercarlo.
Aristotele ricordava bene Filippo.
Era ben conosciuto per l’incontinenza dei suoi costumi, il suo amore esagerato per il vino (ma quale macedone non eccedeva nei piaceri di Dioniso?), la facilità dei suoi accessi d’ira e il libertinaggio a cui spesso e volentieri si lasciava andare; tuttavia, rifletté Aristotele, l’uomo non era privo di una sua attrattiva.
Aveva tentato di ripulirsi del puzzo di barbarismo, aveva convocato a Pella artisti, letterati, tutte le figure più in vista di Grecia e aveva fatto istruire i figli dei suoi nobili e dei suoi generali dai più stimati maestri ateniesi. Il palazzo reale di Archelao, a Pella, non aveva nulla da invidiare alle più belle architetture di cui la Grecia stessa era così orgogliosa.
Aveva persino tentato di imparare a parlare il greco con il dolce accento ionico dell’Attica e invero – Aristotele doveva riconoscerglielo – i risultati erano stati notevoli.
Era come se Filippo volesse dimostrare a tutti i costi di essere un degno sposo per l’amante che aveva voluto prendere con la violenza.
L’amante l’aveva ripudiato, rifiutato, si era fatta beffe di lui.
Filippo l’amava ancora ma non aveva più nulla da dimostrare e lo sapeva. La sposa era ormai sua, per diritto di forza.
Il Re era stato richiamato a nord, da una violenta rivolta di alcune tribù della Tracia, e aveva dovuto accantonare i suoi feroci dissidi con Atene, ma presto sarebbe ritornato.
Aristotele era conscio che la battaglia decisiva per la supremazia era ormai prossima e sapeva bene su quale lato si sarebbe fatto trovare, quando fosse venuto il momento.
Osservò di nuovo il principe: la sua testa e quella del ragazzo accanto a lui erano reclinate l’una verso l’altra e si toccavano, mentre procedevano nella lettura. La luce pomeridiana faceva risplendere i loro capelli di riflessi bronzei. Erano immobili come due statue auree abbandonate nell’erba.
Aristotele era figlio del medico che aveva avuto in cura Aminta, padre di Filippo, e Filippo stesso fin dalla tenera età. Conosceva bene la Macedonia, tuttavia sapeva che non era stato quello il solo motivo per cui il Re era venuto a cercarlo fino a Mitilene, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi studi e alle sue ricerche naturalistiche.
Filippo voleva che suo figlio venisse educato come un elleno. Voleva che fosse un discendente perfetto per quella Grecia che non poteva, non voleva accettarlo, e che probabilmente non l’avrebbe mai fatto – per quanti sforzi o doni egli le avesse portato, o per quanto sangue avesse versato.
Alessandro sarebbe stato diverso, avrebbe avuto tutto quello che lui non aveva potuto avere.
Di nuovo il sorriso crudele gli accese gli occhi.
Non si era venduto per poco, era ben consapevole del suo valore.
Stagira, la sua città natale, piccola perla della Calcide, era stata distrutta dallo stesso Filippo proprio alcuni anni prima, molti dei suoi abitanti venduti come schiavi.
Stagira era stata il suo prezzo. Filippo l’avrebbe ricostruita, non avrebbe accettato nulla di meno e il Re non aveva battuto ciglio.
Naturalmente non si era trattato solo di Stagira.
Gli occhi gli balenarono; la tentazione di avere una parte così grande in tutto questo, e in ciò che sarebbe venuto, era stata allettante come un tempo solevano esserlo le sfide logiche nelle quali si imbarcava con i suoi colleghi dell’Accademia.
Gli era stato chiesto di educare un ragazzo.
Avrebbe formato un re.
Un sovrano che un giorno avrebbe governato tutta la Grecia riunita – un re elleno, per una nuova Ellade.
A poco sarebbero valsi gli sforzi dei pusillanimi politicanti ateniesi; la Grecia era ormai caduta nella morsa di Filippo, non occorreva sforzarsi troppo per vederlo, e un giorno Alessandro l’avrebbe reclamata, anche se adesso era poco più di un bambino.
Aristotele si definiva un uomo pragmatico.
Atene l’aveva umiliato, gli aveva preferito un altro, e lui vi sarebbe tornato, avrebbe mostrato loro che era stato capace di condurre con sé qualcuno in grado di guidare la loro amata ormai allo sbando. Sapeva bene di essere all’altezza del compito.
Sarebbe stata una dolce vendetta. Oh,sì.
Filippo non aveva badato a spese. Aveva convenuto, sotto suo consiglio, che sarebbe stato meglio educare Alessandro lontano dal clima teso di Pella, dagli intrighi e i maneggi di una corte che, sebbene fosse reticente ad ammetterlo, rimaneva ancora rozza e incolta come le terre montuose a nord della capitale.
Filippo aveva fatto rimettere a nuovo una grande palazzina campestre in una valle incantevole a circa mezza giornata di cavallo da Pella. L’aveva fatta dipingere dai più dotati affrescatori, vi aveva fatto arrivare servi, mobilia e suppellettili e ne aveva rifornito la biblioteca.
E così Aristotele si era trasferito a Mieza con il giovane principe e i figli dei nobili più in vista di Macedonia, ragazzi che un giorno sarebbero stati i compagni d’arme e il seguito di Alessandro.
Il luogo, considerato sacro alle ninfe, si era rivelato una fonte inestimabile per i suoi studi, Aristotele ne era estasiato. I boschi e la campagna circostante pullulavano di vita, ed egli stava cercando di catalogare e raccogliere campioni del più alto numero possibile di specie animali e vegetali. Il suo soggiorno a Mieza avrebbe portato benefici inquantificabili ai suoi studi botanici e zoologici.
Proprio il giorno prima, passeggiando nei giardini di Mida, (e quale nome più appropriato per il paradiso nel quale si trovava?) aveva scorto una specie di roditore che ancora non conosceva.
Avrebbe mandato qualcuno dei suoi ragazzi a catturarne uno per lui, stava diventando troppo vecchio per rischiare di rompersi qualche osso strisciando tra i cespugli come soleva fare un tempo.
Il pensiero lo fece sorridere ma sentì una stretta al petto.
Il tempo era passato, eppure la vita continuava a essere bella e piena di allettanti misteri per lui. Una sola esistenza non gli sarebbe mai bastata, ma gli Dei hanno strani modi per prendersi gioco degli uomini.
Abbassò di nuovo gli occhi. Alessandro sembrava ancora perso nel suo Senofonte.
A poco sarebbe valso dirgli che molto probabilmente il grande Ciro aveva avuto poco o nulla a che fare con l’illuminato monarca descritto nel libro; Senofonte aveva tracciato il ritratto del re ideale e gli aveva dato il nome di Ciro.
Alessandro non gli avrebbe creduto ma a che scopo dirglielo? Il ragazzo sapeva essere testardo nelle sue argomentazioni.
Aveva scelto il libro per il suo fine didattico, questo sarebbe dovuto bastare; tuttavia si era stupito della passione che Alessandro aveva messo nel leggerlo e delle domande, invero sagaci e affatto scontate, che gli aveva posto e che continuava a porgli.
Sembrava non essere mai pago di discutere del singolare modo in cui Ciro aveva scelto di governare l’immenso impero che aveva creato, e spesso le discussioni avevano degenerato, suo malgrado.
Aristotele sapeva della passione di Alessandro per Omero e, del resto, la sua epica eroica e imbevuta di hubris era popolare tra i ragazzi di quell’età.
Più degno di nota era stato il suo innamoramento di Ciro.
Era indubbiamente positivo che un futuro monarca si interessasse del modo di gestire un regno, ma c’erano volte in cui Aristotele si trovava a corto di parole.
Alessandro sembrava più interessato a conoscere l’esatto numero dei soldati che Ciro aveva avuto nella sua armata, o la rete stradale che collegava le varie capitali dell’impero – e che, a detta sua, doveva essere immensa – che non l’intima meccanica dell’arte di governare.
A volte il ragazzo sapeva essere impossibile.
Era stato, in verità, bene educato. Il suo primo tutore era stato un certo Leonida, un parente della madre, ferreo sostenitore dei durissimi metodi educativi di derivazione spartana.
Fin dalla più tenera età era stato addestrato alla privazione e al controllo delle sue più elementari necessità. Aristotele aveva sentito alcune storie a riguardo che avrebbe giudicato ridicole, se non avesse potuto vedere il ragazzo con i suoi occhi.
Leonida l’aveva educato a fare a meno di tutto, l’aveva affamato, si diceva, sfiancato con l’esercizio fisico e addirittura privato delle coperte di lana e del mantello nei duri inverni di Pella.
Il risultato era che il ragazzo sapeva sopportare qualunque privazione come e forse meglio di un soldato adulto, ma era più cocciuto di un mulo.
Sapeva parlare il greco e anche piuttosto bene, ma lo faceva solo quando voleva lui, nei suoi tempi e nei suoi modi e non una volta sola gli aveva rivolto alcuni insulti nel macedone volgare dei soldati (senza dubbio l’aveva udito nelle baracche degli uomini, quando ancora viveva nella tana di Pella, lasciato a se stesso come un cucciolo selvatico), guardandolo con aria di sfida.
Questo, forse più di tutto, gli urtava i nervi. Sembrava che il principe lo mettesse costantemente alla prova, se non fosse stato ridicolo pensarlo di un ragazzino di appena quindici anni.
Ma era così.
Non poteva negare che fosse intelligente. Teneva il passo delle sue lezioni con una speditezza che gli altri ragazzi potevano solo sognare, commentava Omero con una proprietà di linguaggio impensabile, mentre gli altri arrancavano ancora sulle facili edizioni didascaliche. Era certo di essere riuscito a solleticare la sua ardente curiosità, sebbene il ragazzo fosse reticente ad ammetterlo.
Doveva avere odiato il vecchio Leonida.
Un giorno gli aveva posto un quesito tramite un sillogismo astratto. L’avrebbe potuto risolvere solo attraverso la logica, ma il ragazzo l’aveva guardato disgustato e gli aveva offerto invece un’inaspettata e, bisognava ammetterlo, alquanto sagace soluzione pratica.
Scosse la testa; Alessandro aveva sangue di razza ma era difficile da gestire. Tuttavia, i loro rapporti stavano migliorando.
Lasciò scivolare lo sguardo sul viso accanto a quello del principe, e si ritrovò a fissare i lineamenti seri e composti dell’altro giovane.
Ricordava il giorno in cui aveva condotto una lezione sull’amicizia: come l’amicizia fosse, per un uomo, il bene più grande, la ricchezza inestimabile del trovare fuori di sé un altro sé, una stessa anima condivisa in due corpi.
Si era trovato spesso in disaccordo con Platone in passato, ma su questo non aveva mai nutrito alcuna obiezione.
Aveva parlato ai ragazzi di come l’amicizia sia virtù in se stessa, cui fine ultimo è proteggere e amare la virtù nell’altro – di come per ogni uomo esista un unico e solo amico perfetto, e quanto grande sia il dono degli Dei se decidono di rendere possibile il riconoscimento.
I perfetti amici condividono tutto: la gioia e la felicità, ma anche le privazioni. Condividono le proprie visioni e i propri obiettivi. I sogni dell’uno sono i sogni dell’altro.
Achille e Patroclo, fino alla morte.
Gli altri ragazzi avevano ridacchiato alla menzione; in fin dei conti erano ben noti i pettegolezzi da taverna sul presunto rapporto che aveva unito i due eroi. Erano tutti molto giovani e Aristotele sapeva che le schermaglie amorose e i moti di un corpo che stava cambiando, erano inevitabili a quell’età. Chiudeva un occhio perché ciò non offendeva la sua morale, né era in contrasto con quella macedone, tuttavia aveva volutamente lasciato fuori la fugace sfera di Eros, che abbaglia e rende ciechi, qualcosa che, a suo parere, toglieva invece di aggiungere.
L’amicizia di cui parlava lui era una comunione di anime.
Alessandro non aveva riso, i suoi occhi avevano scintillato mentre lo ascoltava parlare.
Forse, una delle sue lezioni era riuscita a fare breccia nel cuore del giovane.
I due ragazzi erano stati inseparabili ben prima del loro arrivo a Mieza. Dovevano essersi conosciuti precedentemente ma, fin dai primi giorni alla scuola, era stato palese quanto fossero legati.
Efestione, così si chiamava l’altro, era figlio di uno dei generali più vicini a Filippo, uno dei suoi eteri, i compagni del più alto rango di cavalleria. Aveva persino intravisto l’uomo, un giorno in cui era venuto a far visita ai due figli che si trovavano a Mieza – una figura imponente, in un certo qual modo diversa dal comune, rude soldato macedone, e che incuteva innegabilmente un certo rispetto.
Amintore – Aristotele ricordava ancora il nome – sembrava avere modi stranamente gentili, persino raffinati se comparato ai rozzi e chiassosi uomini della sua terra, e non si stupiva che Filippo lo tenesse in così alta considerazione. Persino il suo greco era notevole, come di chi avesse frequentato Atene con assiduità.
Quello del ragazzo, invece, era perfetto. Efestione era sicuramente cresciuto ad Atene, forse il figlio di una qualche concubina locale.
Aristotele non aveva approfondito questo aspetto e il ragazzo sembrava molto reticente a parlare dei suoi trascorsi, ma non c’era alcun dubbio: l’accento pulito, il dolce suono della pronuncia attica, una delizia per le sue orecchie, erano inconfondibili e troppo perfetti perché potessero essere stati meramente appresi.
Aristotele si era stupito di trovare in lui un allievo così attento e brillante. La maggior parte dei ragazzi che si trovavano lì vi erano stati spinti dai padri, che certo speravano di ricavare un vantaggio futuro dal fatto che i figli fossero stati i compagni di scuola del principe e suoi amici fin dalla tenera età. L’avere un posto a Mieza doveva essere stato qualcosa di molto ambito da più d’uno di quegli ambiziosi genitori.
Purtroppo, ciò non era stato un vantaggio per Aristotele, che si trovava spesso a parlare a una classe disinteressata e distratta, e questo si era rivelato frustrante oltre ogni dire.
Efestione, al contrario, era una fonte di continua soddisfazione per lui.
Il ragazzo era l’unico che riusciva a tenere il passo di Alessandro nello studio, aveva una mente vivace e curiosa, e spesso le sue fulminee intuizioni erano disarmanti persino per lui.
Dimostrava una logica ferrea, unita a una sensibilità profonda, rarissima in un ragazzo così giovane.
Aveva diciassette anni ma spesso, guardando il suo viso serio e concentrato, Aristotele pensava che fosse difficile dargli un’età.
Non aveva la sfrontatezza irrequieta e il gusto per la sfida che caratterizzavano il giovane principe; era invece tranquillo, spesso riservato, sebbene si potesse intuire un flusso continuo di emozioni scorrergli profondamente, sottopelle.
Un movimento in basso riscosse Aristotele dalle sue riflessioni. I due ragazzi si erano alzati; Efestione teneva il libro sotto braccio e camminava accanto ad Alessandro, che procedeva spedito – entrambi diretti verso il bosco subito al di là del giardino.
Alla fine dovevano aver deciso di unirsi agli altri, pensò Aristotele non senza un moto di divertimento. La giornata si era fatta afosa e il richiamo allettante del lago doveva essere stato irresistibile anche per loro.
Li seguì con gli occhi finché non scomparvero nella boscaglia, tra le ombre e i cespugli di rosa canina, poi alzò il volto verso il cielo terso, il sole di una luminosità abbacinante.
Sorrise mentre si schermava gli occhi con una mano. Gli Dei erano stati generosi, sarebbe stata un’estate perfetta e ogni cosa a Mieza ne stava già mostrando i segni.
Aristotele voltò le spalle e scomparve nella fresca penombra del corridoio.







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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.








Ed egli governò su tutte queste nazioni, sebbene non parlassero né la sua stessa lingua né lingue uguali tra loro, eppure, nonostante questo, fu in grado di ricoprire una regione così vasta con il timore stesso che ispirava, e di catturare gli uomini nel profondo, così che nessuno avrebbe mai osato resistergli; e fu in grado di risvegliare in tutti loro un così urgente bisogno di compiacerlo e amarlo, che essi per sempre desiderarono essere guidati dal suo volere.”
La voce di Alessandro si diffondeva limpida nell’aria pomeridiana, intrecciandosi ai suoni e al frusciare sommesso del bosco mentre la giornata scivolava via indolente verso il crepuscolo.
Si erano allontanati dal giardino del Nymphaion in cerca di un po’di refrigerio, e avevano scovato un luogo fresco e ombroso tra i cespugli, al riparo sotto le fronde di una quercia circondata da morbide felci.
Ovunque, attorno a loro, le piante di mirto e timo in piena fioritura spandevano il loro profumo e il frinire delle cicale nel caldo opprimente sembrava sovrastare ogni altro suono. Non lontano da lì, un ruscello scorreva fresco e rumoroso, incunenandosi tra le rocce piatte e scivolando verso la valle.
Efestione sedeva a occhi chiusi con la schiena appoggiata al grosso tronco mentre Alessandro, accoccolato contro il suo petto, leggeva a voce alta dal rotolo aperto sulle ginocchia. Il passaggio che stava leggendo era uno dei suoi preferiti; Efestione poteva indovinarlo dal semplice andamento della sua voce, che era salita di tono ed era piena di trasporto. Un sorriso gli incurvò le labbra.
“E ascolta cosa dice qui, parlando di Ciro: un re dovrebbe esercitare come un incantesimo sui suoi sudditi. Non è la cosa più bella che tu abbia mai sentito?”
Efestione si stiracchiò, cercando di trovare una posizione più comoda contro l’albero, poi si sgranchì le gambe intorpidite.
Alessandro lo guardò contrariato. “Mi stai ascoltando?”
“Certo che ti ascolto. Questa corteccia, però, mi si è infilata nella schiena e…”
Alessandro lo colpì su una spalla, brontolando qualcosa a bassa voce, poi si stiracchiò a sua volta, adagiandosi meglio contro il suo petto.
Rimasero in un silenzio confortevole per un po’, ad ascoltare il rumore costante delle cicale, immersi nell’aroma umido del bosco.
“Non mi stancherei mai di rileggere questo libro,” riprese Alessandro, “Senofonte conosceva ciò di cui parlava, ma a volte faccio fatica a credere che questi luoghi esistano davvero e che siano appena al di là del mare.”
Efestione mise un braccio dietro la testa e annuì. “Ad Atene sentivo spesso gli schiavi persiani parlare della loro terra. Ero un bambino e credevo si trattasse solo di leggende. Rimanevo ad ascoltarli a bocca aperta, soprattutto quando raccontavano delle meraviglie e dei tesori delle loro città: Susa, Persepoli, Ecbatana…”
Alessandro si voltò verso di lui, il volto arrossato dal calore e dall’emozione.
“Ti ho mai detto di quegli esiliati persiani che si trovavano a Pella, ospiti di mio padre? Dovevo avere sette anni, ma li ricordo benissimo. Uno di loro, un vecchio di nome Artabazo, si era ribellato al suo Grande Re ed era stato cacciato. Mio padre gli aveva dato asilo e si trovava a palazzo con alcuni uomini del suo seguito. Erano nobili e Artabazo era uno di quei principi, di quei satrapi a capo di una delle province del loro impero. Credo fosse la Frigia, ora che ci penso.”
Efestione annuì, raddrizzandosi a sedere e facendogli cenno di continuare.
“E ora ascolta bene: anche se Lanice mi stava sempre addosso, riuscivo comunque a sgattaiolare via, e andavo a parlare con Artabazo e i suoi uomini. Erano sempre gentili con me, penso che anche mio padre avrebbe approvato. Credo che lui immaginasse che andavo lì. Dopotutto è compito di un principe mettere i propri ospiti a loro agio no?” Si interruppe un istante, l’espressione concentrata. Efestione non poté fare a meno di sorridere divertito.
Alessandro aggrottò le sopracciglia. “Non c’è nulla da ridere. Ricordo che erano vestiti in modo strano. I persiani portano i calzoni, hai mai sentito di una cosa più ridicola?, e avevano barbe e capelli tutti arricciati e profumati. Ma erano le loro storie che mi interessavano.” Lanciò un’occhiata a Efestione per assicurarsi che lo stesse ascoltando, poi riprese: “Mi facevo raccontare di Susa e di Ecbatana, con il suo palazzo d’estate costruito proprio sulle montagne. Un palazzo che ha sette mura, tutte ricoperte di gemme d’oro e d’argento. Dicono che sembri nascere dalle montagne stesse. E poi Babilonia e Persepoli, con tutte le ricchezze del mondo.”
“Persepoli è la città dove risiede il Grande Re,” lo interruppe Efestione, “ho sentito dire che ogni anno i satrapi si recano lì a porgere tributi al sovrano. Attraverso la strada sacra di Pasargade arrivano all’enorme porta con i due tori alati che ne sono a guardia – ne hai sentito parlare, vero? – e vengono ricevuti dal Grande Re in persona.”
Alessandro annuiva irrequieto ed Efestione gli rivolse un’occhiata di sbieco, cercando di reprimere un sorriso. Il suo compagno aveva un modo tutto suo di diventare impaziente, se interessato a qualcosa. Molto impaziente.
“… e assieme al Re si trovano anche diecimila guerrieri immortali che sono da sempre a guardia del sovrano e dell’impero. Sono certo che non sia solo una leggenda. Riesci a immaginarlo, Alessandro? La fila interminabile di uomini e cavalli, di carri e di guerrieri a perdita d’occhio lungo la strada polverosa. E poi la sala delle cento colonne, dove dicono che risiedano gli Immortali.”
Alessandro lo ascoltava attento, il volto illuminato e gli occhi persi in una visione che sembrava possederlo.
“Aristotele dice che il loro impero si allunga fino all’India, fino ai confini del mondo. Oltre quel punto si estende l’immenso oceano accerchiante che racchiude la terra. Megale Thalassa, la fine del mondo, philè.” Si interruppe, scuotendo la testa lentamente, come attraversato da un dubbio. “A volte mi sembra solo una visione, così lontana da essere quasi inconcepibile. Altre volte, invece, nei miei sogni mi sembra di poter allungare la mano e toccare quel mare. Riesco a vederlo, ne sento il profumo. Lo sogno spesso, di continuo…”
Alessandro parlava veloce, a voce alta, come sempre quando era acceso da uno dei suoi sogni a occhi aperti; Efestione lo ascoltava in silenzio, lasciandosi trasportare dall’immaginazione che sapeva trasmettergli come un qualcosa di fisico, un segreto che apparteneva a entrambi, e a loro soltanto.
“Vuoi sapere un’altra cosa da non credere? Artabazo mi disse che i sudditi del Grande Re si inchinano davanti a lui prima di potergli anche solo rivolgere la parola. Ma non è un inchino normale, si sdraiano a terra e non solo i sudditi, ma anche i nobili, i satrapi e persino gli altri re. Non riesco a immaginarmi qualcosa del genere fatto a Pella,” ridacchiò, “voglio dire, riesci a vedertelo tu, quell’orso coriaceo di Parmenione sdraiarsi ai piedi di mio padre come una donnetta?”
Efestione scoppiò a ridere. “Attento a quello che dici, Alessandro. Parmenione non ci metterebbe un attimo a passarti sulla punta della sua sarissa se ti sentisse parlare così. Per non parlare di Filota poi, che dà in escandescenze al solo sentir nominare suo padre!”
Alessandro represse una risatina nervosa. “Oh, andiamo, il vecchio Parmenione stravede per me, ma tu vedi di tenere la bocca chiusa. E comunque ho sentito dire che in India ci sono re che cavalcano animali enormi, molto più grandi dei cavalli. Sono grigi e sembra che non abbiano peli…”
“Si, so di cosa parli”, lo interruppe Efestione ritornando serio, “c’era un mercante ad Atene, con cui mi fermavo a parlare quando mia madre mi spediva all’agorà per qualche commissione. Mi piaceva stare ad ascoltarlo. Arrivava sempre al Pireo con un carico di spezie: incenso, canapa o tessuti preziosi, a volte persino la seta.”
“E questo tuo mercante da dove veniva?”
“Era originario della Caria ma aveva viaggiato per tutta l’Asia ed era molto bravo a intagliare il legno e le pietre. Una volta mi fece una statuetta di uno strano animale. Aveva orecchie enormi e un naso lunghissimo. Mi disse che si trova in India e che l’animale vero è gigantesco ma che si può cavalcare come un cavallo. I re, laggiù, se ne servono per farsi la guerra.”
Alessandro lo stava fissando con occhi attenti. Efestione cacciò via un’ape che si era posata sulla sua spalla ma il lui parve non accorgersene.
“Vorrei vederla questa tua statuetta.”
“L’ho conservata come il mio tesoro più prezioso; mia madre rideva sempre come una bambina ogni volta che mi vedeva giocarci; diceva che era orribile e che solo a me poteva piacere una cosa del genere. Purtroppo non l’ho più con me. La perdetti quando…” Si interruppe e la voce gli tremò per un istante. “Beh, tu sai quando.”
Alessandro annuì e si voltò verso di lui sorridendogli con tenerezza; poi, scostò un ciuffo di capelli scuri che gli era spiovuto sulla fronte e gli rivolse un sorriso luminoso.
”Sai che mio padre ha intenzione di rivolgersi a est, quando avrà risolto le sue faccende con Atene?”
Efestione fece un cenno col capo. Alessandro glielo aveva accennato ma era la prima volta che ne parlava apertamente.
“Me l’ha detto mia madre, sai che mi scrive di continuo. Lei crede che io e Filippo non ci parliamo più e suppongo che ciò le faccia piacere, ma mio padre non ha mai fatto mistero della cosa e sa che mi interesso di tutto ciò che riguarda le sue campagne. Credo che avrebbe già attraversato l’Ellesponto se Demostene non avesse messo su quella sua campagna denigratoria. Ti ho raccontato di quando quel coniglio è venuto a Pella, vero? Se ne è tornato ad Atene con la coda fra le gambe, te lo posso assicurare. A ogni modo, al momento mio padre è troppo occupato ad assicurarsi il favore degli ateniesi, o meglio a tenerli a bada, ma le città greche della Ionia, della Frigia e della Caria hanno chiesto più volte il suo intervento. È troppo tempo che sono sottoposte al giogo dei persiani, è una vergogna per tutti gli elleni!”
“Questo lo sanno tutti.”
“Non tutti. Il caro Demostene sembra aver perso la memoria al riguardo. Efeso, Mileto, Alicarnasso, persino Pergamo. Certo, partire ora sarebbe una pazzia, non prima di essersi assicurato le retrovie, e la situazione con Atene è ancora tutta da risolvere, ma mio padre guarda a est, non c’è dubbio, e non credo che si fermerà alle città della costa, non se lo conosco almeno un po’…”
Alessandro si strinse nelle spalle in un gesto nervoso. Efestione sapeva come fossero controversi i suoi sentimenti verso il padre, come l’avessero sempre lacerato, così diviso tra un affetto che era cresciuto in lui suo malgrado e un disprezzo instillatogli fin dalla culla dalla madre – e certo non migliorato dalla condotta spregiudicata del Re, che Alessandro non aveva mai fatto mistero di disapprovare.
Gli pose una mano sulla spalla, stringendolo appena e Alessandro gli rivolse un sorriso grato, appoggiando a sua volta la mano sulla sua.
“Qualunque sia la sua decisione,” continuò con voce più leggera, “spero proprio che mi resti ancora qualcosa da conquistare quando verrà il mio turno!” e rise, improvvisamente sollevato.
“Sembri molto ansioso di andare in guerra, Alessandro.”
“Non è la guerra a cui sto pensando, o comunque non l’ho mai concepita come un fine. Ma voglio andare lontano, Efestione. Qui a Mieza è bello, molto più che bello, e forse sono anche felice, più felice di come sia mai stato. Ma mi sento in gabbia, mi sento sempre così irrequieto e tu sai bene che i miei sonni sono spesso popolati di incubi.”
Efestione annuì e fece per rispondere, ma Alessandro scosse la testa e riprese a parlare, una nota impaziente nella voce. “Il vecchio maestro ha molte delle risposte alle mie domande ma ce ne sono alcune che devo, che voglio trovare da solo. Voglio vedere i confini del mondo di cui tutti parlano, voglio entrare in quelle città che ora posso solo sognare e ammirarne i tesori e poi… voglio toccare Thalassa, Efestione, mi ci voglio immergere, dove la terra finisce per gettarsi nel mare.”
I suoi occhi vagarono lontani, fissando uno stormo di uccelli grigi che si stagliavano contro il cielo come creature di un altro mondo e seguendo scie che solo lui riusciva a vedere. Efestione sentì la consueta lama di paura trafiggergli il petto; una sensazione che spesso non riusciva ad articolare, il timore annichilente di non essere in grado di poterlo seguire, di essere lasciato indietro come una creatura inutile, dimenticata al freddo, nella notte.
In quei momenti Alessandro sembrava lontano, così lontano da pensare che se avesse allungato il braccio per toccarlo avrebbe afferrato l’aria, o una lama di fuoco lacerante che sarebbe scomparsa subito dopo averlo incenerito.
Ciononostante lo toccò, sfiorandogli le spalle esili e facendolo voltare verso di sé.
“Mi porterai in guerra con te e ovunque tu vada, Alekos, non è vero?”
Alessandro rimase immobile per un istante sbattendo le palpebre, poi una linea si formò improvvisa tra le sopracciglia, trasfigurandogli il viso.
“Portarti con me? Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere? Credi davvero che potrei andare da qualche parte senza di te? Per gli Dei, Efestione, dovresti saperlo che non potrei mai farlo, mai!
Efestione rimase spiazzato dallo scoppio di rabbia improvvisa. Non si era aspettato quell’aggressione e restarono a fronteggiarsi senza sapere cosa dire per qualcosa che sembrò un’eternità. Poi, l’espressione feroce di Alessandro sembrò addolcirsi e un sorriso gli apparve sulle labbra fino a quel momento compresse in una linea sottile. Appoggiò il viso sulla sua spalla e gli cinse il collo con le braccia, affondando il volto nell’incavo della sua gola. “Scusami. Scusami, philè. Mi addolora sentirti parlare così, perché è come se tu dubitassi di me. Io non potrei mai partire senza di te, né per l’Asia né per nessun altro posto, questo dovresti saperlo ormai.”
Efestione rimase immobile per un istante, ancora colpito dall’ira violenta dell’amico e dal brusco cambiamento di umore, poi gli accarezzò i capelli con una mano, appoggiando il palmo sulla sua testa dorata. “Perdonami… ma a volte è come se accanto a te vedessi una fiamma che brucia accecante e che ti nasconde alla mia vista. È in quei momenti che ho paura di non riuscire a seguirti, di non esserne in grado. È difficile da spiegare, Alessandro. Non è di te che dubito ma di me stesso e non ne sono fiero. Mi dispiace per quello che ho detto. Dimenticalo.”
La voce gli giunse ovattata dalla stoffa della sua tunica: “Non dubitare, allora. Tu mi seguirai e io seguirò te, ovunque tu vada. Abbiamo fatto un giuramento, non ti ricordi, Patroclo? E non è un voto che un mortale possa infrangere, né gli Dei oseranno farlo; solo la morte. I veri amici sono tutto l’uno per l’altro, condividono ogni cosa, soprattutto i loro sogni. O hai dimenticato?”
Efestione corrugò la fronte. Non gli piaceva come spesso Alessandro indugiasse sul pensiero della morte, ma sorrise mentre il ragazzo alzava il volto per guardarlo. “I veri amici condividono tutto, sì – lo so bene – e non lo dimenticherò più, te lo prometto.”
Alessandro annuì con convinzione. Rimasero vicini, in silenzio per qualche istante, poi Alessandro si staccò da lui per raccogliere il rotolo di pergamena che era scivolato sull’erba. Lo riaprì con cura e glielo porse.
“E ora, Patroclo,” esordì con un tono che non ammetteva repliche, “che ne diresti di continuare tu la lettura?”
Efestione gli rivolse un sorriso divertito. “Che cosa c’è, il grande Achille ha dimenticato come si legge in greco?”
Alessandro lo colpì sulla fronte e gli strappò la pergamena dalle mani. “Molto divertente, ma per mia fortuna so leggere benissimo, anche meglio di te. Lo sai, però, che mi piace ascoltare il tuo accento. Nessuno parla come te ed è così bello da sentire…”
Efestione sorrise con dolcezza e gli prese il rotolo dalle mani, poi si accorse che Alessandro lo stava fissando con una strana espressione interrogativa, una domanda inespressa negli occhi grigi. Conosceva bene quella sua espressione, come ogni altra, ogni suo moto e ogni sua sfumatura.
“Avanti, dillo! Cosa c’è? Che ti passa per la testa?”
Alessandro sembrava riluttante a parlare; fece un respiro profondo e appoggiò il mento sui palmi delle mani. “Mi chiedevo… sì insomma, a volte mi chiedo se ti manca quella vita, la tua vita laggiù intendo.”
Efestione emise un sospiro e appoggiò il rotolo sull’erba.
“Non direi. Sai bene che non sono mai stato felice ad Atene. La mia vita è iniziata qui, in Macedonia, il giorno in cui sono arrivato.”
Alessandro lo scrutò con occhi attenti, l’espressione indecifrabile. “So che non è stato facile per te all’inizio. È tutto diverso qui. Ma ora hai tuo padre, no?, lui ti ama molto. E c’è Liside e…” sembrava ansioso, come turbato da qualcosa.
Efestione scosse la testa. “Sai bene che non si tratta solo di questo. Ho trovato molto di più. E comunque,” aggiunse con un sorriso divertito, “se proprio lo vuoi sapere, Liside mi odia.”
Alessandro proruppe in una risata argentina. “Questa la dovevo ancora sentire! Liside ti odia? Quel tuo moccioso di un fratellino non fa un passo senza di te, e tu dici che ti odia? Per Zeus, Efestione, a volte mi chiedo dove hai gli occhi!”
Non riusciva a smettere di ridere. Efestione gli scoccò un’occhiata minacciosa e lo spinse via con un’imprecazione, facendolo rotolare in mezzo alle felci.
“Sua altezza oggi è davvero in vena di scherzi. E comunque vorrei ricordarti che il moccioso di cui parli ha la tua età, né un anno in più, né un anno in meno, o l’hai dimenticato, principino?”
Alessandro, che si stava rimettendo in ginocchio ripulendosi dall’erba, gli spedì un’occhiata torva, ed Efestione riuscì a soffocare una risata appena in tempo. Assunse un’aria vaga, cercando di non scoppiare di nuovo a ridere. Sapeva come Alessandro fosse terribilmente suscettibile con chi gli ricordava che era il più piccolo, tra gli allievi di Mieza.
Era orgoglioso fino all’impossibile.
“Comunque ti assicuro che ti sbagli su Liside,” riprese Efestione. “Non mi stupirei affatto di sapere che avrebbe voluto finissi sulla cima di qualche lancia ben appuntita quando tuo padre ha assediato Olinto. Dovevi vederlo i primi tempi, quando mi portarono a casa. Mi evitava come fossi stato un serpente velenoso o un insetto particolarmente disgustoso.”
Alessandro si rabbuiò. “Oh, che sciocchezze! Non voglio nemmeno sentirti dire cose del genere. Il solo pensiero che ti sia trovato in mezzo a quell’assedio mi dà ancora gli incubi. Non posso nemmeno immaginare che cosa deve… essere stato.” La voce si abbassò di un tono. “A volte mi chiedo come tu possa non odiare mio padre per… per tutto quello che è successo.”
Efestione scosse la testa con aria seria. “Non lo odio affatto. Tuo padre non l’ha certo fatto come qualcosa di personale e noi non ci conoscevamo neanche. Filippo è un re, ha preso le sue decisioni in accordo con la sua politica, e il destino di un uomo è sempre legato al suo Signore, nel bene e nel male. È così che vanno le cose, dovresti saperlo meglio di me.”
Alessandro sbatté le palpebre con veemenza. “Hai ragione, ma ti ammiro per come ti sei sempre comportato con lui. E comunque, quando penso a quell’assedio e a tua madre, che non ho mai conosciuto, vorrei…”
Efestione gli poggiò una mano sulla testa rimanendo in silenzio. Non c’era bisogno di parole tra loro, capiva benissimo i suoi sentimenti ma parlarne era inutile e non voleva in nessun modo che fosse turbato a causa sua.
“È una cosa che appartiene al passato, non c’è motivo perché tu debba essere ancora così arrabbiato. È finita, c’era una ragione per tutto. Gli Dei avevano un loro disegno che alla fine si è rivelato. Non…”
“Come puoi parlare così, Efestione?” gridò Alessandro, una sfumatura rabbiosa nella voce, “come puoi rimanere indifferente dopo quello che ti è successo? Non riesco a capirti!”
Efestione scosse la testa, lentamente. “Adesso ascoltami. Non angosciarti per questo e non pensare che io sia indifferente, perché non potrò mai esserlo. Ma non è mai stato saggio cercare di riportare indietro le ombre. È quello che ci è stato insegnato e non c’è nulla che si possa fare per cambiarlo.”
Alessandro abbassò gli occhi, mortificato. Efestione appoggiò la fronte alla sua, in silenzio.
Era vero; non ce l’aveva con Filippo per quello che era successo, e il Re era sempre stato gentile con lui – ma spesso, anche solo chiudendo gli occhi, udiva ancora il pianto terribile e disperato delle donne e dei bambini e le grida degli uomini, lo strepito dei soldati e il rumore assordante delle lance mentre berciavano di distruggere tutto, di bruciare ogni cosa, nel dialetto macedone che allora l’aveva riempito di terrore.
Poteva ancora sentire il calore spaventoso e soffocante del fuoco che sembrava essere ovunque mentre il bosco e la città bruciavano senza più speranza – il sapore metallico del terrore spinto giù nella gola, a tagliargli il respiro nella corsa disperata per una salvezza che non era venuta.
Più di tutto ricordava il volto di sua madre, della sua bellissima madre, distorto in un ghigno di terrore e disperazione, in una maschera di sangue e sporcizia. Non aveva mai saputo che cosa ne fosse stato di lei, e sapeva che Amintore non si dava pace per questo, ma in cuor suo sperava che fosse morta quella notte e le fosse stata risparmiata l’orribile esistenza che l’avrebbe attesa se fosse sopravvissuta.
Fu riscosso dalla consapevolezza del calore del corpo di Alessandro contro il suo, e la soffocante nube grigia che gli aveva avvolto la mente parve dissiparsi in un istante.
Gli sorrise.
“Alla fine sono arrivato qui. Una volta mi dicesti che gli Dei vedono cose che ai nostri occhi sono precluse, ma che dobbiamo saperli ascoltare. Ti risposi che non ero d’accordo. Ero molto arrabbiato allora, ma qualunque sia stato il prezzo ne sono stato ampiamente ripagato, per cui, forse, non avevi poi così torto.”
Alessandro gli sorrise radioso, un sorriso intossicante nella sua gloria, e tutto sembrò tornare alla normalità, come una nuvola capricciosa che finalmente si allontani per lasciar filtrare il sole.
Efestione si stupì ancora una volta della luminosità che sembrava irradiare da ogni sua fibra, e del potere che ciò aveva sempre avuto su di lui. Bastava davvero uno di quei sorrisi per dargli la forza di guardare avanti e per cancellare ogni dubbio, ogni tormento? Non era ancora riuscito ad abituarsi a questo, tanto meno a spiegarselo, ma aveva finito per accettarlo come un dono del dio.
O forse una maledizione – pensò per un attimo brevissimo.
Sporse il braccio per raccogliere la pergamena che giaceva a terra dimenticata ma Alessandro fece una smorfia. “Basta con la lettura, fa troppo caldo! La prossima volta ce ne andiamo anche noi al lago, e per favore uccidimi se ti parlo ancora di libri.”
Si guardarono per un istante poi scoppiarono a ridere, un suono che si diffuse come una nota nell’aria ferma del tardo pomeriggio.
Alessandro si adagiò contro il suo corpo e chiuse gli occhi; Efestione incrociò le braccia dietro la nuca, sistemandosi contro il tronco nodoso della quercia, e alzò lo sguardo verso il cielo.
Nubi rossastre attraversavano il cielo luminoso e il carro solare aveva quasi terminato il suo viaggio verso ovest. Apollo sarebbe presto tornato alla sua casa.
Squarci vermigli si stagliavano sopra l’orizzonte, colorando l’azzurro di sfumature sanguigne. Da un momento all’altro Aristotele avrebbe dato ordine di preparare la cena e si sarebbe arrabbiato se non si fossero fatti trovare puntuali alla tavola del refettorio insieme agli altri.
In quel momento, tuttavia, Efestione non se ne dava pena, troppo intento ad assaporare quell’istante così perfetto perché potesse essere interrotto da qualcosa di così insignificante.
L’armonia di tutto lo colpì come una lama affilata: il ripetersi dei suoni del bosco, costanti e mai uguali, il rumore incessante del fiume – che non riusciva a vedere ma di cui avvertiva la frescura – l’odore metallico dell’acqua, il fruscio delle fronde e delle foglie che mormoravano sommesse, forse scosse dal passaggio di qualche spirito. Tutto gli apparve di colpo misterioso e chiaro, come non avrebbe mai creduto possibile, e il cuore accelerò il battito nel petto, simile al frullo di ali prigioniere.
Poi l’istante passò, e si stupì di non riuscire a ricordare quella sensazione inspiegabile di pienezza e di riverenza, di timore e venerazione. Se davvero un dio era passato e l’aveva sfiorato, adesso era scomparso e ne rimaneva solo una piccola traccia sul fondo di sé, come sempre accade ai mortali che sono benedetti anche per un breve attimo dal tocco divino. Ricordò le parole di sua madre in un giorno lontano, il dolce mormorio della sua voce nella penombra di una camera da letto: “… la verità degli Dei, piccolo mio. Persino un tocco leggero è troppo intenso perché gli uomini possano portarne il ricordo o viverne la pienezza e rimanere illesi. Altrimenti è morte, o pazzia…”
Abbassò gli occhi, turbato da questo pensiero, e osservò Alessandro: il suo respiro si era fatto più profondo e il petto si alzava e abbassava nel sonno. Aveva la pelle chiara e arrossata dal sole e dal calore, le ciglia proiettavano ombre scure sulle guance lisce.
Il suo sonno era lieve, come quello dei felini. Non aveva mai avuto il sereno abbandono e la morbidezza del riposo dei mortali, ma sembrava sempre vigile, anche e soprattutto nei momenti in cui avrebbe potuto apparire vulnerabile.
Ma non c’era nulla di vulnerabile in lui, Efestione lo sapeva bene. Era solo in attesa, come una belva accucciata e pronta a spiccare il balzo al più flebile respiro.
Gli scostò una ciocca di capelli dal viso e gli toccò una guancia. La sua pelle era fresca e ardente allo stesso tempo. Il suo calore corporeo era sempre stato innaturalmente alto, come avesse un fuoco acceso nel profondo del suo essere. Questo lo turbava e lo infastidiva. A volte si chiedeva se Alessandro non stesse in qualche modo consumando se stesso e se un giorno quel fuoco l’avrebbe distrutto, lasciando di lui solo le ceneri.
La schiena gli faceva male contro il vecchio legno ma non voleva muoversi, non voleva svegliarlo, così rimase immobile, con la mano posata sui capelli biondi del ragazzo e gli occhi chiusi, mentre lo zefiro serale gli accarezzava la fronte.
Dopo qualche istante sentì le dita lievi del sonno che lo toccavano e si lasciò scivolare in un oblio bianco e silenzioso.








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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.








Il sole aveva completato il suo percorso verso occidente ed era poco più che una striscia sottile, infiammata e sospesa sopra l’orizzonte.
Ombre scure si allungavano tra le pietre del Nymphaion e un vento leggero sferzava l’aria torrida, sibilando tra le fronde e sollevando piccoli nugoli di polvere dal terreno secco.
Tolomeo, figlio di Lago, sedeva in silenzio su una delle pietre del cortile, con le spalle alla massiccia fontana di marmo che riluceva al centro dello spazio circolare.
Teneva la sua daga con il manico d’osso tra le mani e vi passava sopra una pietra appuntita, producendo un rumore acuto, un’eco stonata nel silenzio ovattato della sera.
Un frusciare tra i cespugli riscosse la sua attenzione: alzò il viso e scrutò tra le ombre ma non vide nessuno così, con un sospiro, tornò a concentrarsi sulla lama.
Alessandro era di nuovo in ritardo.
Non che la cosa lo preoccupasse – non era più un bambino e sapeva badare a se stesso – ma gli altri ragazzi avevano già cenato ed erano andati a dormire, o si erano attardati nei dintorni, mentre Alessandro e il suo amico erano in giro da tutto il pomeriggio e nessuno li aveva più visti.
Aristotele gli aveva detto che, se non fossero tornati entro notte, sarebbe dovuto andare a cercarli e la cosa era ben lungi dall’entusiasmarlo.
Quello che il filosofo sembrava non capire era che Alessandro faceva solo ciò che voleva.
Appoggiò la daga su una pietra e sbadigliò, allungando le gambe.
Si stava annoiando. Avrebbe di gran lunga preferito essere con un paio dei ragazzi più grandi in giro per le strade di Beroia, o in una taverna, e magari passare la notte lì in compagnia di qualche ragazza locale.
Non era la prima volta che lo faceva; Leonnato e Filota se la sarebbero spassata quella notte, mentre a lui toccava fare il cane da guardia.
Si passò una mano tra i corti capelli fulvi e si stiracchiò in tutta la sua lunghezza.
Sapeva di avere un volto magro e il naso pronunciato, ma era alto e imponente e aveva cominciato a farsi crescere la barba, che teneva corta e crespa. Aveva notato che sembrava piacere alle donne e – in verità – gli aveva facilitato la strada a non pochi e gradevoli letti, negli ultimi tempi.
Sorrise.
Le giornate a Mieza non passavano mai, ma aveva trovato altri modi per trascorrere il tempo. Senza dubbio gli mancava la sua vita a Pella, dove era cresciuto, gli mancava la giovane etera con cui intratteneva una relazione da anni e tra le cui braccia aveva trascorso gran parte delle sue notti di ragazzo. Non aveva certo accolto con entusiasmo la decisione del Re e di suo padre di mandarlo a Mieza a studiare con Alessandro e gli altri suoi compagni.
A ventisei anni aveva già combattuto come soldato al fianco di Filippo in più di un’occasione; era consapevole di non essere un guerriero, tanto meno un generale, ma aveva saputo farsi onore.
Ultimamente aveva passato più tempo con l’esercito che non alla scuola di Aristotele, e sperava che il Re lo richiamasse presto per una delle sue campagne, così da interrompere la monotonia di quelle giornate sempre uguali. Tuttavia, voleva bene ad Alessandro, e alla fine aveva accettato di buon grado di seguire il ragazzo a Mieza.
Era conscio che il padre l’avesse vista come un’ottima occasione per rinsaldare i suoi rapporti con la casa reale, e un’ancor più ottima possibilità, per lui, di entrare nella cerchia del giovane principe, ma Tolomeo era sinceramente affezionato ad Alessandro – un affetto che sapeva reciproco.
Le terre di famiglia si trovavano in Eordia, a ovest di Pella, e Tolomeo ricordava di aver visto spesso il piccolo Alessandro, caracollante sulle gambe instabili quando era ancora un infante, le volte in cui suo padre l’aveva portato a palazzo per una visita.
A quattordici anni era entrato nella schiera degli scudieri reali al servizio di Filippo, e allora aveva avuto modo di incontrare il principe ogni giorno.
Poteva dire di averlo visto crescere.
Se lo ricordava bambino mentre correva nei cortili del palazzo – oppure attorno al lago, veloce come il vento, tutto preso a rincorrere qualche lepre in uno dei suoi giochi solitari. E ancora, mentre imparava ad andare a cavallo, ridendo come un matto la prima volta che l’avevano issato sul suo pony, e gridando che non voleva scendere più.
Alessandro gli si era attaccato come a un fratello maggiore e Tolomeo non aveva potuto fare a meno di ricambiare l’affetto spontaneo concessogli da quel bambino che sembrava appartenere a un mondo a sé. Non era cresciuto con i suoi coetanei e per questo gli era sempre sembrato solo, quasi fuori posto in un luogo tanto più grande di lui.
Il ricordo più vivido che ne aveva era del piccolo seduto sulla sponda del lago a lanciare pietre nell’acqua, immerso nella luce arancione del tramonto, i capelli chiari che gli ricadevano ai lati del volto in onde dorate e l’espressione concentrata e lontana.
In seguito l’aveva osservato spesso mentre il suo precettore, Leonida, lo allenava alla corsa o alla lotta nelle fredde mattine invernali, con addosso un rozzo chitone di lana macchiato di sangue e nient’altro. In quei momenti sembrava uno straccione, il figlio di un fattore che giocava a fare il soldato, ma non c’era nulla nei suoi movimenti, mentre lanciava il giavellotto o si allungava agile in un salto, che facesse pensare che quello era un gioco per lui.
Alessandro aveva già assaggiato la guerra.
E gli era piaciuta.
Tolomeo era con lui la prima volta che Filippo aveva convocato il figlio e i suoi compagni all’accampamento dei soldati, durante una delle schermaglie con le tribù trace del nord che l’avevano tenuto occupato nell’ultimo anno. Inizialmente aveva temuto che Filippo fosse impazzito. Alessandro era poco meno che quattordicenne a quel tempo, ma si era dovuto ricredere.
Ricordava ancora il suo viso incrostato di sangue e terra, gli occhi vividi e trionfanti quando l’aveva rivisto alla fine della battaglia. In quel momento gli era sembrato una creatura divina e demoniaca allo stesso tempo – una bestia che assapora il gusto della morte e lo trova di suo gradimento.
Faceva fatica a sovrapporre quell’immagine a quella del ragazzo di Mieza, innamorato dei suoi libri e dei suoi studi, irrequieto e vivace, spesso infantile.
Pensava, a volte, che a Mieza Alessandro avesse riguadagnato la fanciullezza che non aveva avuto, e in lui rivedeva squarci di quel bambino solitario seduto vicino al lago, in un tempo che sembrava lontanissimo.
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso tenero, un’espressione che cozzava con i suoi lineamenti così severi.
Una cosa era certa: Alessandro non era più solo. A Mieza aveva trovato amici dei quali sembrava non poter più fare a meno, compagni di cui era divenuto il capo indiscusso, e che lo seguivano e lo imitavano in qualunque cosa facesse. Lo adoravano, e molti di quei ragazzi erano di qualche anno più grandi di lui.
Il sorriso si allargò e lui si affrettò a riguadagnare la consueta espressione greve. Odiava il modo in cui appariva la sua faccia quando rideva così, pensava che lo facesse sembrare un completo idiota. Il pensiero, tuttavia, indugiò ancora su Alessandro – tenero, fraterno. Mai, da quando lo conosceva, l’aveva visto sorridere come in quell’ultimo anno.
Fece per riprendere in mano il coltello ma poi lo lasciò ricadere. Si allungò pigramente all’indietro e alzò il volto verso il cielo, nel quale cominciavano ad apparire le prime stelle.
Poteva vedere l’Orsa risplendere in alto mentre Callisto riluceva più splendida che mai nella notte tersa e profumata di fiori.
Tolomeo chiuse gli occhi, lasciando che la brezza serale lo accarezzasse e rinfrescasse la sua pelle riarsa.
Tra poco sarebbe andato a cercare Alessandro, ma voleva aspettare un momento, un istante ancora – immerso in quella pace privata che sembrava insinuarsi suadente dentro di lui, come la carezza segreta di Artemide.








Alessandro si svegliò di soprassalto, scosso da un brivido che gli risaliva lungo la schiena.
Si guardò intorno, ancora intorpidito dal sonno e dolorante per la posizione, e per un attimo stentò a raccapezzarsi di dove fosse.
Il bosco era umido, immerso nelle ombre. Un vento fresco spirava tra gli alberi e in alto, tra le fronde, erano sbucate le stelle.
Sbatté gli occhi con forza, massaggiandosi le braccia infreddolite e cercando il calore del corpo di Efestione. La temperatura era scesa e la pelle gli si era accapponata in un fremito improvviso.
Ancora una volta in ritardo; non che la cosa lo preoccupasse, ma forse era meglio incamminarsi verso la scuola prima che Aristotele mandasse un’intera muta di segugi a cercarli. Allungò una mano verso Efestione ma la lasciò ricadere un istante dopo.
Il ragazzo era addormentato, il volto inclinato di lato e i capelli scuri che gli coprivano la fronte sopra le ciglia ancora più scure. Il suo sonno appariva sereno e profondo, quasi segreto, come il suo non avrebbe mai potuto essere.
E poi c’erano sempre gli incubi.
Ma non voleva pensarci e tornò a fissare Efestione con occhi attenti. Si stupì ancora una volta di come apparisse diverso nel riposo, il viso spianato e privo dell’espressione concentrata che sembrava caratterizzarlo. Era come perso in qualche mondo remoto – e del resto, non è forse così che tutti gli uomini appaiono, quando vengono presi nell’abbraccio segreto di Hypnos?
Anche quel pensiero gli diede un brivido. Forse il sonno era davvero una cosa buona – così dicevano tutti – ma lui non poteva dimenticare che Hypnos non è solo colui che porta il conforto del riposo ai mortali.
Hypnos è il gemello di Thanatos.
La morte.
La brezza soffiò più forte ed Efestione si mosse nel sonno. I suoi capelli erano color del bronzo e i bei lineamenti decisi già rivelavano i segni dell’uomo che stava diventando. Era alto e forte e inizialmente, quando l’aveva conosciuto, Alessandro ne era stato invidioso.
Lui, così piccolo di statura, si era sempre fatto un cruccio di questo. Il vecchio Lisimaco gli aveva detto che era stato a causa della fame che aveva patito da bambino, negli anni in cui Leonida l’aveva educato – che la grandezza di un uomo non sta nel suo aspetto, ma nelle sue azioni. Così dicendo, l’anziano soldato gli aveva indicato l’Iliade posata sul tavolo.
Il pensiero di Achille l’aveva consolato ma non gli aveva fatto dimenticare.
Efestione, tuttavia, non sembrava averci mai dato importanza, tanto che lui stesso aveva finito per non pensarci più.
Con lui non aveva mai avuto nulla da dimostrare.
Era stato molto solo, strano come non se ne fosse reso conto prima d’ora. Quando il pensiero tornava agli anni della sua fanciullezza, la sensazione più forte era quella di essere stato uno spettatore indesiderato all’interno di una recita che non era mai riuscito a capire. Non aveva mai compreso gli umori mutevoli e la rabbia sorda di una madre che pure amava moltissimo, così come non aveva capito quell’estraneo che era diventato suo padre. C’era stata solo un’enorme sensazione di disagio, il non sapere mai cosa fosse richiesto da lui e la vaga consapevolezza che, qualunque cosa avesse fatto, avrebbe finito per scontentare qualcuno.
Alla fine, molto presto in verità, aveva imparato ad agire per se stesso.
Adesso capiva meglio. Comprendeva la madre con una chiarezza che non avrebbe mai creduto possibile – la sua solitudine, il suo orgoglio ferito, la sua paura. Capiva persino quello che doveva aver visto in lui – la speranza di una rivincita per la sua fierezza offesa – per poi scoprire che il serpente dalla liscia pelle di seta che aveva allevato era sgusciato via dal suo cestino, lasciandogli addosso un’amara sensazione di tradimento.
Riusciva addirittura a comprendere suo padre adesso – l’amore brutale, taciuto, di quell’uomo così ruvido, ma sapeva che era tardi per rimediare.
Troppo era stato fatto, troppe parole erano rimaste inespresse.
Si era gettato nei suoi studi e nei suoi esercizi con una foga disperata e aveva dato fuoco alle sue visioni, nitide e brucianti nel sonno così come nella veglia. Erano immagini che non avrebbe mai pensato di poter condividere con qualcuno, era la voce del suo daimon, segreta e limpida, custodita come la cosa più sacra.
Quando aveva fiutato l’odore della battaglia gli era stato chiaro per che cosa era fatto. Aveva sentito il tocco del fuoco e ne portava addosso il marchio, impresso nella carne.
Da bambino, fin da quando riusciva a ricordare, i suoi compagni erano stati i duri soldati di suo padre. Ogni occasione era buona per recarsi a sbirciare nelle baracche degli uomini, in quel luogo dove tutto sembrava più grande e reale.
I suoni, gli odori sgradevoli, le risate sguaiate e le imprecazioni nel macedone più triviale, le zuffe scherzose che si trasformavano in risse violente; tutto era amplificato e presente, ed era proprio la brutalità di quegli istanti che strappava il velo di irrealtà che lo soffocava come una spessa coltre di fumo.
Gli dava la sensazione di esistere.
Poi era arrivato Leonida dall’Epiro e lui l’aveva odiato, perché aveva sentito che per quell’uomo non era altro che un ennesimo animale da addomesticare e da piegare. L’aveva odiato perché intuiva che non c’era amore in questo, ma solo controllo e umiliazione.
Gli aveva tenuto testa con una foga che anche il duro epirota aveva dovuto riconoscere. Leonida l’aveva vessato e lui aveva dimostrato di poter sopportare di più, ancora di più, fino a che aveva vinto.
Adesso considerava ciò che gli era stato insegnato come un dono degli Dei. Aveva forgiato la sua volontà, rendendola libera da ogni bisogno, ma allora aveva vissuto in una nube scura di rabbia e risentimento.
C’era stata la lunga fila di insegnanti e precettori: matematica e retorica, musica e poesia, grammatica e scrittura e poi c’era stato Lisimaco, il vecchio Lisimaco, che l’aveva ascoltato, amato come un padre e che lui aveva ricambiato con l’affetto del figlio che l’anziano soldato non aveva potuto avere.
Lisimaco, che lo chiamava Achille, e che per lui era semplicemente Fenice, come il precettore dell’eroe dell’Iliade che avevano letto insieme nelle lunghe notti invernali. Per la prima volta aveva assaporato quell’incantesimo irripetibile che lo inebriava, togliendogli il sonno e dando ali alla sua immaginazione.
Aveva pianto per quegli eroi lontani, come mai in tutta la sua vita.
Aveva pianto per Achille.
E aveva pianto per Patroclo, soprattutto per Patroclo, quando si era reso conto che nulla poteva fermare il fato che avrebbe inghiottito quegli eroi e donato loro immortalità e gloria imperitura – sebbene degli uomini non sarebbero rimaste che ceneri sparse al vento.
Infine era venuto Aristotele e aveva acceso la sua curiosità – erano arrivati gli amici chiassosi e insostituibili che adesso lo circondavano. Ma nulla di tutto questo era mai stato indispensabile.
Nulla – fin quando Patroclo non era giunto.
Adesso sentiva che c’era qualcosa, un’unica cosa, che mai avrebbe potuto perdere.
Non aveva saputo cosa significasse condividere anche un minuscolo frammento di sé, fin quando Efestione non era entrato nella sua vita.
Efestione, che aveva perso tutto. Efestione – che non parlava mai ma che era così eloquente in ogni suo gesto, e infine Efestione – che l’aveva accolto con una fiducia e una forza che non aveva trovato in nessun altro.
Tutto era cambiato.
Poteva essere forte, forse più forte di tutti i suoi compagni, ma questo bisogno, questa improvvisa debolezza l’avevano colto alla sprovvista, lo infastidivano e lo riscaldavano, lasciandolo con una sensazione inspiegabile di paura. Si chiedeva come fosse stato possibile ma era una battaglia, l’unica battaglia, che non aveva voglia di combattere, perché sapeva che l’avrebbe persa.
Guardò il ragazzo che dormiva, le palpebre chiuse sugli occhi scuri, e sentì di nuovo quella straniante sensazione di calore e gelo assalirlo.
Amava Efestione come non aveva mai amato nessuno, e c’erano momenti in cui non sapeva proprio cosa fare di questo languore sconosciuto che sembrava mozzargli il respiro in gola e togliergli l’aria stessa di cui aveva bisogno per respirare.
Si mosse irrequieto, incapace di stare fermo un istante di più e provò l’impulso di toccarlo, di perforare il velo, assicurarsi che fosse reale. Tese la mano, sfiorando con i polpastrelli le labbra del ragazzo. Erano calde e soffici.
Efestione aprì gli occhi, incurvando le labbra in un sorriso assonnato, e lui ritirò la mano.
“Credevo che non volessi svegliarti più. Non ho mai conosciuto nessuno che dorma tanto quanto te.”
Efestione allungò le braccia, attirandolo a sé, e scosse la testa. “E tu perché non mi hai svegliato, invece di brontolare?” Poi spalancò gli occhi, guardandosi attorno. “Alessandro, ma ti rendi conto di che ore sono? Perché non mi hai chiamato prima?” Si mise in piedi con uno scatto agile, scuotendosi l’erba dal chitone e spedendogli un’occhiataccia. Lo prese per un braccio e lo tirò su di peso senza che lui riuscisse a smettere di ridere.
“Vuoi smetterla di sghignazzare? A quest’ora avremo tutti i cani di Aristotele alle calcagna e non ci tengo a farmi sgranocchiare i talloni, se proprio lo vuoi sapere.”
“Oh, non credo proprio che si daranno tutta questa pena. A quest’ora Aristotele sarà già nel suo studio a scrivere una lettera o a catalogare le sue pianticelle. Non si accorgerà nemmeno che siamo tornati.”
Efestione scosse la testa. “Sì, ma domani la sua ramanzina sul rispetto delle regole non ce la toglie nessuno, dovresti saperlo bene ormai.”
Alessandro scrollò le spalle, a dimostrare che non gliene importava assolutamente nulla,
ed Efestione si lasciò scappare un sibilo divertito. “Sei sempre il solito. Mi chiedo per che cosa mi ostino a parlare. Però, ramanzina a parte, io sono affamato. A quest’ora avranno già servito la cena e noi ce ne andiamo a letto a pancia vuota, tanto per cambiare.”
“Non preoccuparti, dovrebbe esserci quell’egiziano, Menmet, in cucina stasera. Gli chiederemo di darci qualcosa da mangiare, sono sicuro che non farà storie. Anch’io sto morendo di fame, andiamo.”
Si incamminarono veloci verso il Nymphaion, lasciandosi la radura e il bosco alle spalle. Quando giunsero nel giardino videro Tolomeo, seduto su un pietra, sollevare gli occhi e salutarli con un gesto della mano. Il ragazzo si alzò e si fece loro incontro.
“Credevo che avrei dovuto venire a cercarvi con l’esercito,” li apostrofò con un grugnito.
“Hai ragione,” rispose pronto Alessandro, “ma Efestione, qui, si addormenta sempre e – ah!” La gomitata l’aveva raggiunto prima che potesse finire la frase.
Tolomeo roteò gli occhi, sforzandosi di rimanere serio. “Hai poco da scherzare visto che alla fine sono dovuto rimanere io ad aspettarti. E si dà il caso che io non sia la tua balia. Ti assicuro che avevo ben altri programmi per stasera.”
“Non lo metto in dubbio ma sei sempre in tempo per unirti al gruppetto dei tuoi amici e finire la serata tra le cosce di una delle tue conquiste, se ti sbrighi,” ribatté Alessandro, facendo arrossire Tolomeo fino alle orecchie.
“Fai pure lo spiritoso, domani te la vedrai tu con Aristotele. E comunque sarà bene che tu sappia che oggi quel tuo cavallo spiritato ha fatto diventare matto lo stalliere, mentre tu te ne andavi a spasso. Non ha voluto mangiare e quando hanno cercato di mettergli i finimenti ha quasi piantato gli zoccoli nella pancia di quel povero Demetrio, la cui unica colpa è quella di doversi occupare della tua bestiaccia!”
Efestione fece un fischio e Alessandro lo guardò risentito. “Fa così perché non mi ha visto in tutto il giorno. È colpa mia, andrò io a dar da mangiare a Bucefalo. Quel cavallo sta diventando più capriccioso di un bambino.” Sorrise con tenerezza ed Efestione sorrise a sua volta, abbassando gli occhi verso di lui. “Bene,” gli disse, “allora mentre vai a occuparti del cavallo io provo a recuperare qualcosa in cucina.”
“Perfetto, ci vediamo tra poco. Tolomeo, ti auguro – vediamo – una buona caccia?” e così dicendo corse via verso le stalle, un attimo prima che la grossa mano di Tolomeo lo raggiungesse in mezzo alle scapole.
I due ragazzi rimasero a guardarlo in silenzio mentre Alessandro spariva dietro l’angolo.
Tolomeo spostò il peso da un piede all’altro, sulle spine. Non sapeva mai che dire a Efestione e questo lo metteva a disagio. Non lo conosceva da molto e si era sempre trovato a corto di parole davanti a quel giovane alto e silenzioso che così poco assomigliava ai ragazzi che lo circondavano, e a cui lui era abituato.
Sapeva che veniva da Atene e forse era questo il motivo per cui lo sentiva così estraneo. Tutto in lui sembrava diverso: il modo di parlare, l’atteggiamento riservato se comparato all’irruenza dei compagni, e al contempo la capacità di essere pungente anche con poche parole. Questo, talvolta, lo faceva apparire superbo, ma Tolomeo non ne era convinto. In realtà, pensava, poteva trattarsi solo di disagio, la difficoltà di adattarsi a un mondo che doveva sembrargli molto diverso da quello che aveva conosciuto.
Non aveva parenti lì, eccetto un fratello che era però macedone fin nel midollo, e aveva per forza di cose dovuto arrangiarsi da solo, in bilico tra due realtà distinte; una creatura indecifrabile che aveva finito per rimanere molto isolata, all’inizio.
Non doveva essere stato facile per lui, tuttavia le cose stavano cambiando. Aveva notato che Efestione sembrava più aperto ultimamente, e Alessandro – beh, Alessandro lo adorava. Quest’ultimo gli aveva accennato qualcosa sul passato del ragazzo ma non aveva indugiato nei particolari e lui non aveva approfondito. Conosceva il padre, Amintore, e lo stimava: un nobile macedone i cui avi erano stati ateniesi. Ma gli sfuggiva come Efestione avesse potuto finire in Attica e poi ritornare in Macedonia.
Tuttavia, si sarebbe abituato.
Voltò il viso e vide che Efestione lo stava osservando, un sorriso incerto dipinto negli occhi aperti e franchi. Suo malgrado si ritrovò a rispondere a quel sorriso.
“Pensavi di doverci aspettare tutta la notte, vero?”
Tolomeo scoppiò in una risata potente. ”E tu come lo sai? Meglio così, visto poi quello che vi avrei fatto quando vi avessi trovato.”
Efestione alzò un sopracciglio. “Lo credo bene dati i progetti, diciamo così, di cui parlava Alessandro prima. Se ti può consolare, hai tutta la mia comprensione.”
Rimasero in silenzio per un istante, poi scoppiarono a ridere, la loro voce che echeggiava sonora nell’immota tranquillità del cortile.
Tolomeo si stupì di trovarsi così a proprio agio con lui e per la prima volta pensò, mentre guardava quegli occhi scuri e disarmanti, che il ragazzo non era così insopportabile.
Pensava che, forse, avrebbe potuto persino abituarcisi.






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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Capitolo 4.








Cassandro non riusciva a dormire.
Si girava e rigirava nudo nel suo letto, incapace di chiudere occhio, così accaldato da avere la sensazione di soffocare.
La stanza era immersa nell’oscurità e non un filo d’aria sembrava attraversarla. Gettò di lato le coperte e si alzò con un grugnito, raggiungendo la finestra da cui poteva scorgere uno stralcio del bosco scuro e silenzioso al di là del prato. Si passò una mano tra i capelli sudati.
Quanto odiava quel caldo.
E quanto detestava quel posto, così isolato che gli pareva di trovarsi in mezzo al nulla.
Si voltò e osservò il letto vuoto e disordinato accanto al suo. Filota, il suo compagno di stanza, aveva pensato bene di uscire quella notte, probabilmente per andare a fottersi qualche puttana di Beroia in compagnia dei suoi amichetti.
Chissà cosa ne avrebbe pensato suo padre, il grande generale Parmenione, se avesse saputo che suo figlio se la faceva con quella feccia.
Le labbra gli si allungarono in un sorriso crudele; magari ne sarebbe stato persino contento.
A ogni modo, Filota poteva rimanersene in giro fino all’indomani per quanto lo riguardava. Forse era la volta buona che sarebbe riuscito a dormire, se il caldo non l’ammazzava prima; quell’idiota russava come un toro in calore.
La stanza era piccola e puzzava di cavallo. Ancora una volta si maledisse per aver dato retta a suo padre ed essersi fatto convincere a venire in quel posto disgustoso.
E pensare che lui stesso aveva insistito. Doveva essere impazzito.
A quest’ora avrebbe potuto essere nella sua casa di Pella a farsi preparare un bagno da qualche servo, o nella fresca residenza di famiglia, sulle colline attorno al fiume Asso, a festeggiare e bere vino dopo una giornata di caccia.
Antipatro, suo padre, era l’uomo più importante di Macedonia dopo lo stesso Re. Generale e diplomatico, godeva della massima fiducia da parte di Filippo, che gli aveva persino lasciato la reggenza dello Stato le volte in cui la guerra l’aveva costretto ad assentarsi.
Quando si era reso necessario far accompagnare Alessandro a Mieza, suo padre – com’era ovvio – aveva proposto il suo nome al Re. Che lui andasse a Mieza era scontato: tutti i figli dei nobili e dei generali più altolocati di Macedonia avrebbero scortato il principe alla scuola di Aristotele, e lui non sarebbe stato da meno. Aveva persino insistito, e a voler ben vedere c’era dell’ironia tragica in tutto questo.
Non si era mai pentito tanto amaramente di qualcosa in vita sua.
Imprecò a bassa voce. Il caldo era insopportabile; se fosse rimasto ancora un momento in quella stanzetta angusta, il suo letto avrebbe finito per diventare la sua tomba.
Si infilò un chitone di lino leggero e uscì all’aperto. La brezza notturna gli diede immediato sollievo e lo fece sospirare di piacere.
Si avviò a passo veloce verso il retro della lunga e bassa costruzione del dormitorio, raggiungendo una grossa cisterna di pietra per l’acqua piovana. Sedette sul bordo della vasca e tuffò la testa nell’acqua, poi la scrollò e si allungò all’indietro, lasciando che le gocce gli scendessero giù dai riccioli castani lungo il collo e le spalle.
La notte era umida e pesante attorno a lui, il frinire dei grilli e il fruscio delle piante non gli erano mai sembrati tanto desolanti.
Non riusciva ad ammettere di sentirsi così male, di sentirsi così solo.
All’inizio non ci aveva fatto caso, non aveva notato come gli altri compagni formassero ogni giorno di più un gruppo compatto e affiatato, mentre lui veniva lasciato fuori come un animale fastidioso. Non ci aveva fatto caso perché la cosa non gli era mai importata, ma alla fine non aveva potuto ignorarlo.
No, non aveva più potuto ignorarlo.
Sbatté le palpebre con forza. Credeva di sapere di chi fosse la colpa.
Alessandro.
Sembravano tutti sbavargli addosso e pendere dalle labbra di quel ragazzino arrogante e indisponente. Che cosa ci trovavano in lui?
Possibile che nessuno si accorgesse che era solo un moccioso vanesio che cercava di atteggiarsi da adulto?
Qualcuno avrebbe dovuto insegnargli a stare al suo posto. Era sicuro che se non fosse stato il figlio del Re, non avrebbe ricevuto la metà delle attenzioni che sembravano circondarlo.
Fece una smorfia e sputò nell’erba.
L’antipatia che provava per Alessandro era stata reciproca e immediata, non riusciva nemmeno a ricordare com’era iniziata, se c’era stato un inizio.
Antipatro l’aveva portato a palazzo molte volte e, nonostante lui fosse di qualche anno più grande del principe, quest’ultimo l’aveva sempre guardato dall’alto in basso, con un’aria di superiorità che Cassandro gli avrebbe volentieri cancellato dalla faccia a suon di pugni.
Non erano mai andati d’accordo, anche quando lui e quel grosso cinghiale di Tolomeo erano stati gli unici ragazzi a frequentare regolarmente il palazzo reale.
La rivalità era stata immediata, Cassandro credeva da ambo le parti – riuscendogli difficile riconoscere che Alessandro non l’aveva preso in considerazione neanche per un momento.
Non c’erano state liti aperte e questo rendeva il tutto ancora più insopportabile.
Gli costava ammettere che era venuto a Mieza armato delle più buone intenzioni. Forse, in cuor suo, aveva desiderato fare amicizia con lui, anche solo per compiacere suo padre che sembrava avere molto a cuore il suo futuro alla corte del principe.
Forse, semplicemente, non voleva più sentirsi solo.
Al contrario, le cose erano addirittura peggiorate. La sua antipatia si era trasformata in odio – e in aperto disprezzo, da parte di Alessandro. Lo sciame di leccapiedi che gli ronzava attorno non aveva tardato ad assumere lo stesso atteggiamento, non c’era da stupirsi di questo. Solo Filota sembrava condividere la sua opinione ma era troppo occupato a cercare di farsi amico questo o quello, perché potesse esserne sicuro.
A ogni modo, Filota era l’unico a essergli in qualche modo sopportabile.
C’era, invero, qualcun altro che odiava tanto quanto Alessandro, sebbene all’inizio gli fosse sembrato impossibile: quell’intrigante bastardo ateniese, che Alessandro si portava appresso come un cane fedele e che sembrava adorare con tutto il cuore. Un ateniese che cercava di fare il macedone, con quella sua parlata indisponente e quel modo di fare che sembrava intendere quanto si ritenesse superiore a tutti loro.
Avrebbe scambiato volentieri due paroline lui con Efestione, se solo non avesse avuto la fortuna di essere l’amichetto del cuore di Alessandro.
Si ricordava bene le risatine, le parole dietro le spalle, i dispetti.
Oh, Alessandro no – e nemmeno Efestione. I due signorini erano troppo superiori a queste cose, ma c’era stata una mattina in cui si era svegliato in un letto pieno di rane viscide e rivoltanti, ed era sicuro che lui non ne fosse stato all’oscuro; non poteva non sapere che i suoi detestabili amici si divertivano a tormentarlo in quel modo.
Efestione non gli aveva mai rivolto la parola sgarbatamente, né preso in giro, ma era sicuro che lo disprezzasse e la sua freddezza da greco borioso gli riusciva ancora più intollerabile.
Un nodo rovente gli si formò nelle viscere, minacciando di soffocarlo.
Li odiava.
In cuor suo, nei desideri che nemmeno si nominano, sapeva il perché – sebbene nelle lunghe, interminabili ore di veglia questo fosse solo un pensiero informe che si rifletteva appena sullo specchio scuro della sua coscienza. Li odiava perché insieme erano avvolti in un bozzolo dorato che sembrava catturare i raggi del sole; li odiava perché insieme sembrava che niente potesse scalfirli.
Li odiava perché insieme erano invulnerabili.
Chiuse gli occhi, vedendo il mondo vacillare – e pensò alla sua casa. Non a suo padre – poco più che un estraneo severo e dalla cinghiata facile – e neppure a sua madre, una presenza di contorno, fragile e immateriale fin dai primi anni di vita.
Non pensò neanche ai suoi numerosi fratelli e sorelle, così chiassosi e invadenti che erano stati più un fastidio che una gioia per lui.
Tutti, eccetto uno.
Nicanore, il più piccolo di casa, che lo amava teneramente.
Nicanore, che a sette anni già voleva cavalcare come un uomo e gli aveva chiesto di insegnargli a farlo, insieme al modo di lanciare il giavellotto per cacciare il cinghiale.
Ecco. Per Nicanore avrebbe dato la vita.
Era stato a casa pochissimo dalla sua partenza per Mieza e, ogni volta che tornava, il fratello sembrava diverso, sempre più grande – come avesse deciso di crescere senza aspettarlo.
Quanto odiava essere lì, in mezzo a quegli idioti repellenti, mentre l’unico essere che amava – e che lo amava ricambiandolo – rischiava di diventare un estraneo lontano da lui. Gli avrebbe insegnato lui ad andare a cavallo, e sarebbe stato lui ad accompagnarlo a cacciare il suo primo cinghiale, dandogli il diritto di sedere alla tavola degli uomini.
E ancora, ci sarebbe stato lui con Nicanore, quando avesse ucciso il suo primo uomo, guadagnando così la cintura per portare la spada come un vero guerriero.
Il pensiero gli diede una fitta di dolore.
Alessandro si era conquistato la sua cintura a quattordici anni, lui solo l’anno scorso, a diciotto. Perché il pensiero doveva sempre tornare a quel maledetto ragazzino?
Ma non poté evitarlo, nemmeno questa volta, e il ricordo lo riassalì con forza, portando con sé la consueta scia di sensazioni: rabbia, vergogna, eccitazione, dolore.
Era accaduto un anno prima e il periodo era pressappoco lo stesso. Ricordava la calura insopportabile, la sensazione di soffocare.
Il Re era impegnato in Tracia, in una campagna-lampo contro una bellicosa tribù ribelle. Aveva richiamato il figlio a nord, insieme a molti dei suoi compagni più grandi, perché assaggiassero la vita in un campo militare e potessero mettersi alla prova in una vera battaglia.
Oh, certo, era poco più che una scaramuccia con un gruppo di barbari vestiti di pelli e tatuati di blu, e tutti loro erano stati educati alle armi e al combattimento fin da quando erano bambini, ma Cassandro era stato ugualmente eccitato e spaventato quando i soldati della scorta erano venuti a prenderli per accompagnarli all’accampamento.
Le loro corazze di bronzo e le lunghe sarisse appuntite brillavano nel sole estivo mentre attraversavano il corso dello Strimone, dirigendosi a est, verso le montagne che sovrastano la costa egea, nel territorio dei bistoni – dove Filippo li stava aspettando.
Ricordava il sole a picco e il cielo di un blu abbacinante, il peana dei soldati e il frastuono degli zoccoli dei cavalli che accompagnavano la loro marcia, risuonando tra le rocce nude e scandendo il passo. Ogni particolare era impresso indelebile, marchiato a fuoco nella memoria.
C’erano stati tutti: Tolomeo, Filota, Nearco, Cratero, Perdicca e ovviamente Efestione e… Alessandro.
Marciava a capo della fila su quel suo demonio di cavallo, i capelli una colata d’oro e sembrava che fosse sempre stato lì, che ci fosse nato, invece di essere uno stupido quattordicenne che ancora puzzava di latte.
Filota gli aveva detto che aveva passato l’infanzia con i soldati. Chi si credeva di essere?
Poi, era arrivata la battaglia.
Solo una cosa si ricordava, della battaglia – vivida, incancellabile come le striate di sangue sul corpo e tra i capelli, in bocca, ovunque – quando tutto il resto era ormai solo un frastuono indistinto di grida umane e nitriti di cavallo, clangore di spade e bagliori di lame.
Alessandro, che irrompeva nella cittadella come una scia di fuoco, senza tirarsi indietro, incosciente tra i primi della linea, mentre lui arrancava a fatica nelle retrovie, ansimante, coperto di fango e sangue secco, la bocca piena di un rivoltante sapore metallico.
Efestione era stato sempre accanto a lui, alto ed eretto sul suo cavallo, non gli aveva lasciato il fianco scoperto per un attimo.
Poi, tutto era finito.
Li rivedeva ancora, fianco a fianco come i Dioscuri davanti all’altare, quando erano stati offerti sacrifici a Eracle per la vittoria e il fumo dell’olocausto saliva in alto, denso e rovente verso il cielo azzurro.
Era stata una sua impressione o c’era davvero quella sfumatura rossa tra le nuvole?
Il viso di Alessandro era incrostato di sangue. Sangue nei capelli, sangue sulle spalle, sul torso, sangue dappertutto, come un animale scannato, eppure sembrava coperto d’oro – lucido, splendente. Gli aveva visto tranciare la testa di un uomo con un colpo di spada, l’espressione serena e concentrata, mentre lui, in battaglia, combatteva con una smorfia contratta sul viso.
Oh, il re e Parmenione – persino suo padre Antipatro! – l’avevano sgridato per la sua incoscienza, ma si vedeva che erano orgogliosi. Parmenione – che era quanto di più simile a un dio per lui – l’aveva guardato con ammirazione e affetto, mettendogli una mano sulla testa, come un padre. Persino i più anziani soldati macedoni, uomini duri come la pietra, uomini che non si impressionavano di nulla ormai, erano rimasti colpiti e si complimentavano con lui, chiamandolo Kyrie. Il giovane Signore. Tra questi anche i soldati di Antipatro, di suo padre!
In quel momento gli aveva augurato la morte. Aveva sperato che fosse finito squartato da una lancia nella battaglia appena finita.
Emerse dalla sua visione con un brivido, mentre i contorni oleosi del fuoco e le sagome di quel giorno lontano sfumavano lentamente, come il fumo del sacrificio, lasciando il posto alla notte che adesso lo avvolgeva come una coltre viscida.
Si alzò adagio dal bordo della cisterna e si sgranchì le gambe. Avrebbe fatto due passi, forse si sarebbe sentito un po’ meglio. Girò l’angolo e udì uno scoppio di risate improvvise. Ormai gli occhi si erano abituati all’oscurità e scorse due figure in piedi, vicine, nello spazio chiuso del giardino.
Da non credere: quell’idiota di Tolomeo che se la rideva beato con l’ateniese, come se fossero i più grandi amici. Sentì lo stomaco torcerglisi per il disgusto.
Vide Efestione salutare Tolomeo con un cenno della mano e avviarsi nella sua direzione. Quando fu abbastanza vicino, Cassandro uscì dall’ombra e si piantò davanti a lui.
L’altro alzò un sopracciglio e fece per passargli a fianco, ma Cassandro lo fermò, prendendolo per un braccio. “Stavamo cominciando a preoccuparci, sai? Siete tornati dalla passeggiatina al chiaro di luna?”
Efestione socchiuse gli occhi e liberò il braccio con uno strattone.
“Buonasera anche a te, Cassandro.”
Quest’ultimo serrò le labbra, poi sorrise. “Non stai adempiendo molto bene ai tuoi doveri di cane da guardia, ragazzo di Atene. Se continui così il tuo padroncino potrebbe finire per essere sculacciato. Pensa un po’ che tragedia!”
Efestione si accomodò meglio nella sua posizione, portando le mani alla cintura. “Sai, a volte mi chiedo, Cassandro… quando parli ti rendi conto di quello che dici o blateri a vanvera perché ti piace sentire il raglio della tua voce?”
Cassando strinse i pugni. Si fronteggiarono per qualche istante occhi negli occhi, senza dire una parola. Lui era alto ma Efestione lo superava di una buona spanna. Il suo viso non tradiva alcuna emozione, si limitava a guardarlo tranquillo dall’alto della sua statura. Cassandro avrebbe voluto cancellargli quell’odiosa espressione dalla faccia, prenderlo a schiaffi fin quando non gli avesse mostrato un po’ di rispetto.
“Bene, è stata una bella conversazione, Cassandro, e ti ringrazio,” disse Efestione, rompendo il silenzio, “adesso però, se non ti dispiace, avrei altro da fare.”
Cassandro lo prese per il collo della tunica, tirandolo verso di sé finché il viso non fu quasi a contatto con il suo. “Ascoltami bene, figlio di una troia ateniese,” ringhiò, “credi di poter venire qui e sbattermi in faccia quella tua aria arrogante senza pagare conseguenze per questo? Lo credi veramente?”
Efestione mise una mano sulla sua e strinse, finché le nocche non gli diventarono bianche. Cassandro socchiuse gli occhi. Efestione aveva una stretta forte.
“Non mi interessa discutere con te, Cassandro. Né di questo, né di altro. Se sei a caccia di un diversivo per passare una serata noiosa lo stai cercando con la persona sbagliata.” Poi lo spinse via con un gesto deciso e Cassandro vacillò, facendo un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
“Oh no. No. Invece dovrai ascoltarmi. È ora che qualcuno ti insegni qual è il tuo posto qui. È giunto il momento di fare un bel discorsetto da uomo a uomo, sempre che tu non decida di andare a chiamare il tuo padroncino perché ti venga a difendere!”
Efestione fece un passo avanti allungando un braccio per afferrarlo, quando una voce irruppe improvvisa nell’aria ferma:
“Chi è che dovrebbe andare a chiamare?”
Si voltarono entrambi e Alessandro era lì in piedi, a gambe divaricate, con uno sguardo furioso tra le sopracciglia corrugate.
Cassandro si liberò dalla stretta e si eresse in tutta la sua statura, ma evitò di guardarlo negli occhi. “Oh, nessuno in particolare. Io ed Efestione stavamo solo avendo un piccolo scambio di opinioni, niente di più. “
Efestione lo guardò con disgusto mentre Alessandro si faceva avanti, mettendosi tra di loro. Poi, fulmineo come un felino, afferrò Cassandro per i capelli e lo sbatté con forza contro il muro, abbassandogli la testa così che potesse guardarlo dritto nelle iridi grigie.
Quello che Cassandro vide non gli piacque. Le forze sembrarono abbandonarlo in un istante.
“Bene, Cassandro. Allora accetterai anche questo piccolo scambio di opinioni con me, dico bene?” Lo lasciò, rapido così come l’aveva ghermito e per poco Cassandro non finì lungo e disteso per terra.
“È sempre interessante discutere con te. Adesso, però, se vuoi scusarci…”
Si allontanarono lasciandolo lì da solo, appoggiato contro il muro gelido , un tremito involontario che gli saliva dalle viscere.
Cercò di scacciarlo ma non ci riuscì.
Li osservò camminare, senza che nessuno dei due si voltasse neanche per un attimo a guardarlo, anche solo per maledirlo o inveire contro di lui, e una volta in più augurò loro la morte.








“Devi essere sempre così impulsivo, Efestione? Ti ho visto. Se non fossi arrivato avresti finito per farci a pugni, e dopo come avresti spiegato ad Aristotele le sue ossa rotte?”
Efestione lo guardò di sbieco, facendo una smorfia. “Detto da te suona come un complimento, visto il modo in cui gli hai sbattuto la testa contro il muro. E comunque non vedo cosa ci sarebbe stato di male. Cassandro sta cercando di provocarmi in tutti i modi, e da un bel pezzo. Gli avrei dato solo quello che voleva.”
Camminavano fianco a fianco lungo il muro del dormitorio, diretti verso l’edificio principale.
“Questo è fuori dubbio e forse, con qualche dente rotto, la pianterebbe di andarsene in giro come un gallo altezzoso. Ma non ne vale la pena, non voglio che tu ti metta a fare a botte con quell’idiota.”
Efestione sospirò rassegnato ma Alessandro non parve farci caso. “Credimi, philè,” continuò, “il peggior nemico di Cassando è lui stesso. Lascialo pure avvelenarsi nella sua miseria, è innocuo."
Efestione scosse la testa, prendendolo per una spalla. “Non penso che sia così innocuo come credi e tu non sei mai stato bravo a giudicare le persone. È questo che mi preoccupa. Non mi piace. Non mi piace il modo in cui ti guarda: con disprezzo, con odio e allo stesso tempo con un’invidia insana. No, non ho mai pensato neanche per un attimo che fosse innocuo.”
Alessandro sorrise. Si strinse nelle spalle in un gesto sbrigativo. “Stai esagerando. Che Cassandro sia invidioso è lampante, ma gli passerà. E se non dovesse passargli non vedo proprio perché dargli importanza. Sbrighiamoci adesso, se vogliamo trovare qualcosa da mangiare.” Si avviò veloce verso l’ingresso dell’imponente costruzione di pietra, poi si voltò verso Efestione, che era rimasto immobile. “Ti vuoi muovere, sì o no?”
Efestione scosse la testa e lo seguì all’interno del corridoio rischiarato fiocamente dalle lampade di bronzo traforato appese alle pareti. I loro passi risuonavano come colpi nello spazio silenzioso, l’odore acre e familiare dell’olio che bruciava sembrava spandersi dappertutto.
Raggiunsero la cucina e la trovarono deserta. Il vasto locale era stipato di vasi, paioli di rame, stufe e bracieri, e un profumo variegato di spezie ed erbe aleggiava nell’aria.
“Menmet dev’essere già andato a letto, meglio così. Prendiamo qualcosa da mangiare e filiamo. Sto morendo di fame.”
Efestione annuì. Si diressero verso uno scaffale ricolmo di piccoli vasi coperti da teli di lino; riempirono una brocca con del vino e misero dell’uva passa, fichi e una focaccia di farina d’orzo su un vassoio, poi si avviarono veloci verso l’uscita, in direzione del dormitorio. Arrivati nella stanza che condividevano, Alessandro accese la piccola lampada a olio che teneva sul ripiano accanto alla finestra. Efestione sedette sul suo letto, appoggiando il vassoio e la brocca accanto a sé.
Il locale era piccolo e afoso, esposto ai raggi del sole durante il giorno. I letti si trovavano proprio sotto la finestra, mentre in un angolo c’erano le due cassapanche con i loro vestiti e un tavolino di legno con i dittici di cera e gli stilo per la scrittura.
Di lì a poco, un tenue chiarore illuminò le pareti della stanzetta.
Alessandro appoggiò la lampada vicino al letto, sedendosi accanto a Efestione. Lui gli sorrise e gli porse un pezzo di focaccia, assieme a una manciata d’uva.
Mangiarono in silenzio, condividendo lo stesso piatto come facevano sempre, poi Efestione prese uno dei kylix che si trovavano sulla mensola e versò un po’ di vino nella coppa, portandosela alle labbra.
Alessandro lo osservava concentrato e silenzioso. Assaporare il vino era un gesto che avevano condiviso molte volte, quasi un rituale segreto tra loro.
Il vino era vita, il vino era l’anima del dio. Rappresentava la chiarezza della visione, la passione dei desideri che danno fuoco all’anima di un uomo.
Il vino significava essere uomini.
Quando Efestione ebbe finito di bere gli porse la coppa; Alessandro gliela prese dalle mani e la fece ruotare, accostando le labbra al punto esatto in cui lui aveva bevuto.
Si ritrovò a fissare la sua bocca appoggiata all’orlo del recipiente, sentendosi improvvisamente a corto di parole. Alessandro aveva una sensualità selvatica, spontanea e al contempo inconsapevole, e questo riusciva a confonderlo del tutto.
Incapace di trattenersi, allungò una mano e fece scorrere tra le dita una ciocca dorata dei suoi capelli.
Alessandro sbatté gli occhi una volta, poi appoggiò la coppa accanto a sé e lo fissò in silenzio. Teneva ancora dell’uva in una mano e Alessandro gliela sollevò, portandosela alla bocca e cominciando a mangiare i pochi chicchi che erano rimasti. Quando ebbe finito staccò le labbra per un istante, guardandolo con un’espressione indecifrabile. Poi si mise le sue dita in bocca e cominciò a succhiarle forte, una a una.
Efestione sussultò e si sentì girare la testa, incapace di staccare gli occhi da Alessandro, intento a leccargli la mano con una lentezza dolorosa ed esasperante. Senza neanche rendersi conto di quello che faceva lo spinse sul letto, adagiandosi sopra di lui con tutto il suo peso e facendo cadere la coppa, che finì a terra con uno schianto.
Nella foga del gesto sentì il chitone di Alessandro strapparsi su una spalla, e rimasero a fissarsi senza staccare gli occhi l’uno dall’altro.
Efestione teneva le mani saldamente ancorate ai suoi polsi ma lui non si mosse. Si limitava a guardarlo con uno sguardo fiducioso.
Ecco – rifletté Efestione – questo era ciò che lo confondeva di più. Alessandro, sempre così fulmineo, rapido ed elusivo come un gatto selvatico, era con lui – e lui solo – docile e arrendevole. Sapeva che non avrebbe mai potuto tenerlo così se non avesse voluto, e la cosa lo inorgogliva e lo turbava al tempo stesso. Niente avrebbe potuto essere più immenso di questa fiducia, più prezioso di questa resa, questo abbandono segreto che nessuno vedeva, nessuno poteva conoscere.
Le parole gli uscirono a fatica, rauche, come richiamate dal profondo di sé. Non era certo di avere parlato fin quando non sentì la sua stessa voce arrivargli alle orecchie.
“Perché mi permetti di farti questo?”
Alessandro incurvò le labbra in un sorriso sottile. “Perché mi piace vedere questo sguardo nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io.” Poi lo artigliò per le braccia, rapido come la zampata di un leone, e con le labbra che quasi toccavano le sue, bisbigliò: “Non voglio che guardi nessun altro al mondo così. Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire secondo nella tua vita.”
Efestione si liberò dalla stretta e gli sorrise, attirandolo a sé. “Sai che è impossibile. Non c’è nulla a questo mondo che mi sia più caro di te. Nulla.”
Alessandro gli si aggrappò con forza disperata, la pelle rovente, come se stesse bruciando. “Philè. Mio philè…” era la sola cosa capace di ripetere, ancora e ancora, mentre Efestione lo baciava sulla bocca, sulle spalle, sui muscoli delle braccia e del petto, senza sosta.
Trovò con le labbra una piccola cicatrice, non l’unica, sul braccio di Alessandro e la leccò, la mente annebbiata dal desiderio, mentre i loro chitoni scivolavano via, andandosi a unire ai frammenti della coppa sul pavimento.
Quando lo prese, con un’unica spinta possente, sentì un ansito sfuggire dalle sue labbra, il suo respiro spezzato e veloce – Alessandro, che non emetteva mai un lamento, nemmeno quando veniva ferito – e rimase immobile sopra di lui.
“Non… fermarti.” Fu solo un bisbiglio contro il suo orecchio mentre Alessandro gli afferrava i capelli e gli scavava con le dita la pelle della schiena. Ne avrebbe portato i graffi addosso per giorni, ma in quel momento non importava, non gli sarebbe importato nemmeno se l’avesse fatto a pezzi con le sue stesse mani.
Alessandro aveva tenuto per tutto il tempo gli occhi chiusi ma in quell’istante li riaprì, due pozzi grigi sovrastati da sopracciglia arcuate come ali, ed Efestione affogò ancora una volta in quelle profondità ardenti, in quella fiducia totale e nel fuoco che la avviluppava come una follia invocata dagli Dei.
Nella miriade di pensieri sconnessi che gli affollavano la mente, uno più di tutti sembrò tornare in superficie, sfocato e imperioso come una voce sentita in sogno. Una volta lui e Alessandro avevano trovato un libro tra le carte di Aristotele, un’opera scritta dal suo vecchio maestro, un filosofo ateniese chiamato Platone.
L’avevano letto di nascosto, incantati e anche un po’ colpevoli, perché Platone parlava dell’amore in quel libro, parlava degli amanti e del loro desiderio, della loro brama di fondersi l’uno con l’altro in una stessa colata incandescente, per non essere mai staccati, mai rimossi – notte e giorno. In particolare ricordava un unico, singolo passaggio – di come il Dio Efesto, trovatosi dinanzi agli amanti, avesse loro chiesto che cosa desiderassero di più, se non forse quella fusione, quella comunione senza ritorno. Ed entrambi avevano risposto: “… ecco, proprio questa è la mia febbre, da sempre. Confondermi, liquefarmi col mio amore, farmi uno da quei due che siamo."
Ed era tutto racchiuso lì, pensò confusamente Efestione mentre affondava nel suo amato – era tutto custodito lì, in quel suo desiderio convulso di diventare un tutt’uno con lui, conficcarglisi nella carne come un marchio rovente, l’identico marchio che Alessandro gli aveva impresso addosso con il suo stesso fuoco.
Alla fine giacquero a lungo, in silenzio, l’uno accanto all’altro, mentre il sudore si asciugava sulla pelle e i loro respiri tornavano lievi.
Quando Efestione voltò la testa, vide che Alessandro era addormentato, i lineamenti distesi e rilassati come gli accadeva sempre dopo l’amore. Era, questa, una delle poche cose in grado di farlo cadere in un sonno profondo e senza sogni.
Gli scostò una ciocca di capelli che gli copriva il viso, nel gesto familiare, e rimase seduto immobile a fissare il lembo di cielo scuro che si intravedeva dalla finestra, simile a un drappo adornato di pietre lucenti.
La notte era umida e profumata, e nella stanza l’odore acre del sesso si mischiava a quello degli oleandri che crescevano nei prati. Sulle labbra poteva sentire il sapore del sudore di Alessandro che era salato e leggero come acqua di mare.
Si rese conto con stupore che una strana vertigine si stava facendo strada dentro di lui. Osservò di nuovo il viso di Alessandro, immerso nel riposo, e sentì ancora quella morsa di inquietudine annodargli le viscere in un groviglio doloroso.
A volte si chiedeva se non fosse troppo quello che l’amico gli stava dando, se tutta quella fiducia, tutto quell’amore, un giorno Alessandro non li avrebbe pagati a un prezzo troppo alto.
Chiuse gli occhi per scacciare il pensiero.
Lui non l’avrebbe mai tradito, non avrebbe mai permesso che quei doni inestimabili andassero perduti, né che Alessandro dovesse pagare per questo. Mai. Non finché avesse avuto vita.
E allora perché doveva sentirsi così in ansia quando tutto ciò che voleva, tutto ciò che aveva mai voluto, giaceva sereno e al sicuro accanto a lui?
Rimase sveglio a lungo, incapace di placare i pensieri che correvano veloci, come prede inermi spaventate da un latrare lontano, per poi cadere in uno stato di nervoso dormiveglia. Non si rese conto di essersi addormentato fin quando non sentì i singhiozzi di Alessandro riportarlo bruscamente alla realtà. Si voltò verso di lui col cuore in gola. Alessandro era ancora addormentato ma piangeva nel sonno, si lamentava come se lo stessero straziando, mentre con le mani annaspava nell’aria, la ghermiva nel vano tentativo di afferrare qualcosa.
Lo scosse più volte, chiamandolo per nome, finché non aprì gli occhi di scatto, fissandoli nei suoi. Occhi vuoti: perduti, posseduti. Poi lo riconobbe, e tutta la vita sembrò rifluire in lui, assieme al rossore sulle guance ceree e al calore nel corpo. Gli sorrise titubante, ancora sperduto.
Efestione lo prese tra le braccia, in silenzio, facendogli appoggiare la testa sulla sua spalla. Alessandro oppose resistenza, poi si abbandonò all’abbraccio. Gli circondò la vita, a cercare un calore che sembrava essere scomparso da lui.
“Ho fatto un incubo, philè.”
“Lo so, ma è finito. È passata. Lo sai, vero?”
Alessandro si scostò e alzò gli occhi, ancora offuscati da un’eco di quel vuoto folle e senza ritorno. “No, non lo so.” Scosse la testa nello sforzo di ricordare, poi strinse le mani a pugno in una presa dolorosa sulle sue braccia, come cercasse di mantenere il contatto con la realtà aggrappandosi a qualcosa.
“Sogno sempre la stessa cosa, ogni notte. Ogni volta che chiudo gli occhi. Sogno di essere in uno spazio vuoto e sconosciuto, ma non ho paura fin quando non comincio a sentire le fiamme che salgono attorno a me, come una parete di lava, e iniziano a consumarmi, a liquefarmi come fossi un cadavere dimenticato su una pira funebre. Grido, ma nessuno mi sente. Le fiamme sono attorno a me, ma nascono in me, nascono dentro di me e mi mangiano, mi scavano, mi consumano finché non rimane più nulla.”
Prese a scuotere la testa da una parte all’altra, le pupille dilatate, facendosi sbattere i capelli sulle guance. Efestione gli prese il volto tra le mani, costringendolo a fermarsi.
“Adesso ascolta: era un sogno, Alessandro. Niente di questo è reale, lo capisci? Solo un sogno, portato da Hermes per ricordarci che siamo mortali.”
Alessandro si morse il labbro, talmente forte da farselo sanguinare, poi fissò di nuovo Efestione, mentre un rivolo di sangue gli scorreva sul mento, una piccola striatura rossa, viva come un rubino.
Efestione allungò una mano per asciugarla, ma Alessandro lo bloccò con uno scatto. “Vuoi sapere qual è la cosa peggiore, la più orribile di quel sogno?” si interruppe un istante, ma quando si accorse che Efestione stava per parlare riprese con foga: “Non sono le fiamme, e nemmeno il calore che mi scava le ossa. Oh, no. È il fatto che, mentre brucio, mentre mi consumo, io… sono solo. Non c’è nessuno lì, nessuno mi sente, anche se grido. Anche se urlo fino a farmi scoppiare i polmoni.” Alzò la voce tutto d’un tratto, afferrandosi a lui con energia incontrollata. “Io chiamo il tuo nome, Efestione, lo grido con tutta la voce che ho in corpo ma tu non ci sei, o forse non mi senti. Ti chiamo ma tu non arrivi, non ci sei. Non ci sei!” La sua voce era un grido, le mani serrate a pugno; le unghie scavavano mezzelune vermiglie nella carne tenera dei palmi.
Efestione gliele prese fra le sue e lentamente, con dolcezza, gli fece rilasciare la stretta.
“Tu non sei solo. E io sono qui. Se dovessi chiamarmi non avresti bisogno di urlare, perché io sarei a non più di due passi da te. Ti basterebbe alzare gli occhi, come stai facendo ora, per vedermi. Non puoi non saperlo.”
Alessandro abbassò le spalle con un sospiro, come se tutta la tensione l’avesse abbandonato di colpo. Si appoggiò a lui e lasciò che l’abbracciasse, lo cullasse in una stretta calda, rassicurante. “Forse sì. Ci sei, questo è vero, posso vederti. Ma che farei se un giorno dovessi svegliarmi e tu non rispondessi più al mio richiamo? Che farei se dovessi svegliarmi e tu non fossi più qui?”
“Ci sarò.”
Alessandro rimase in silenzio mentre Efestione lo accarezzava, sussurrava e lo cullava come un bambino, e la tensione sembrava scivolare via come un mantello pesante tolto alla fine della giornata.
Parakaleo se emoi pareinai eis aei, Hephaistion. Non andartene mai.Fu solo un sussurro e dopo pochi istanti era nuovamente addormentato, il respiro leggero e regolare.
Efestione lo tenne contro di sé a lungo, mentre la luna completava la sua salita e le stelle si facevano ancora più brillanti nel cielo nero.
Non ci sarebbero più stati sogni fino a domani, ma lui non avrebbe potuto dormire, ormai. Chiuse gli occhi, sentendo la notte respirare gravida attorno a lui, come una creatura viva.
Doveva diventare forte.
Doveva diventare molto più forte per proteggerlo dal suo stesso fuoco. Non importava quali segni questo avrebbe lasciato su di sé, fintanto che ciò servisse a preservarlo, a evitare che il fuoco lo toccasse.
Il marchio era stato inciso indelebile nelle sue carni, era il suo destino e la sua stessa maledizione. Ma non aveva paura. L’aveva scelto consapevolmente e avrebbe tenuto fede a quel voto, avesse dovuto bruciare vivo per questo.
Pensò a Orfeo, a come era sceso tra le ombre per ricondurre indietro la sua Euridice; pensò a come spesso Alessandro gli dicesse che la realtà gli appariva sfocata, immateriale, come dietro a un velo, o nascosta da un’ombra.
Se era così, allora voleva avere il coraggio di Orfeo. L’avrebbe trovato ovunque fosse e l’avrebbe riportato indietro, verso il sole. Non si sarebbe voltato, non avrebbe indugiato neanche se tutte le teste ringhianti di Cerbero e le fiamme più atroci avessero lacerato il suo corpo mortale. Nulla avrebbe potuto impedirgli di guidarlo fino alla fine del sentiero e tenerlo per mano, nella luce del giorno.
Appoggiò il palmo sulla guancia di Alessandro, che era tornata tiepida e soffice, e lui sospirò nel sonno.
Sì – pensò Efestione in un attimo di improvvisa, quasi divina chiarezza: doveva diventare forte per poterlo condurre con sé, illeso, attraverso il fuoco.





Fine





Note:

1) Nel 324 a.c., nella città di Ecbatana in Asia, dopo una lunghissima campagna che porterà Alessandro e il suo esercito a conquistare la gran parte del mondo conosciuto e a essere alla testa di un impero che si estendeva dai confini della Grecia fino all’India, Efestione si ammalerà e morirà improvvisamente in pochi giorni – poco più che trentenne.
Tutte le fonti storiche sono concordi nel dire che Alessandro fu letteralmente devastato dal dolore.
Giacque sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin quando non ne fu tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase rinchiuso nella sua stanza per più di una settimana, senza bere né mangiare, incapace di fare nient’altro che piangere e dormire.
Quando tornò in sé, fu per dare il via ad una bizzarra – all’epoca fu creduto pazzo – forma di compianto. Aveva già dato ordine di impiccare il medico che, invece di rimanere con Efestione, se n’era andato a vedere i giochi; si tagliò i capelli (come Achille aveva fatto per Patroclo) e fece fare lo stesso con le criniere di tutti i cavalli; fece spegnere tutti i fuochi (un privilegio riservato solo alla la morte del Re e che fu infatti interpretato come cattivo auspicio) e ricoprire le sette mura di Ecbatana con vernice nera.
Il tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al suolo, ed egli stesso si imbarcò in una guerra lampo contro i Cossiani, per offrire i morti in sacrificio all’ombra dell’ amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad perpetuum e che tutti gli accordi commerciali fossero firmati in suo nome.
L’azione più folle, e anche la più disperata, fu l’invio di un’ambasciata diretta all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto libico, dove Alessandro stesso, anni prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon, affinché anche a Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo era molto più di un semplice “riconoscimento” per il morto.
Secondo i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano ammesse nell’Elysium, mentre ai comuni mortali era riservata un’esistenza “inferiore”, nell’Ade.
In quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon essere riunita all’anima mortale di Efestione, figlio di Amintore, se non riconoscendo anche a lui uno status superiore?
A ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu comunque permesso che venisse adorato come eroe divino, permettendogli così, l’accesso all’Elysium.
Il funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che Alessandro fece costruire fu ricordata come il monumento funebre più colossale dell’antichità, nel quale spese una somma esorbitante per l’epoca.
Il suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno, divenne sempre più autodistruttivo; beveva spropositatamente, e continuò a farlo anche quando si ammalò, nove mesi dopo la morte di Efestione, mentre si trovava ancora a Babilonia.
Rifiutò ostinatamente di essere visto da alcun medico e la malattia lo consumò in dieci giorni, nonostante anni e anni di campagne al limite dell’immaginabile avessero dimostrato la tempra di cui era fatto.
Quando morì aveva trentatré anni.


2) Alessandro si lasciò alle spalle un impero immenso e nessun erede. Rossane, la sua prima moglie, era incinta, ma il bambino non era ancora nato quando il re morì.
Se Efestione fosse sopravvissuto ad Alessandro è logico pensare che sarebbe andata a lui la reggenza e la tutela del piccolo Alessandro IV, fin quando non fosse stato abbastanza grande per regnare.
Efestione era Chiliarca – secondo in comando – di Alessandro, e pochi mesi prima della sua morte, a Susa, quando si erano tenuti i matrimoni di massa tra i generali macedoni e le donne persiane, Alessandro aveva preso in moglie Statira (la figlia del defunto re di Persia, Dario), e aveva dato la sorella Dripeti in sposa a Efestione.
In questo modo, aveva detto, essi sarebbero potuti diventare parenti (gesto ancora più significativo, se si pensa che Efestione non aveva più alcun consanguineo nell’esercito macedone) e i loro figli avrebbero condiviso lo stesso sangue e sarebbero stati ugualmente eredi dell’impero, rendendo quindi ufficiale l’eventuale successione di Efestione alla reggenza, se questo fosse stato necessario.
Purtroppo non andò così, e alla morte di Alessandro si scatenò una lotta per la successione tra i generali che erano rimasti – Tolomeo, Cratero, Perdicca, Seleuco, Antigono, per menzionarne alcuni – lotta che si protrasse per più di vent’anni, frammentando l’immenso impero in regni più piccoli e indebolendolo, fino a renderlo facile preda della conquista romana che sarebbe avvenuta nei secoli successivi.
Statira e Dripeti furono richiamate a Babilonia da Rossane prima che potessero sapere che il Re era morto, e furono avvelenate dalla stessa Regina (ciò fa supporre che Statira potesse essere stata incinta, al momento dell’assassinio).
In seguito Rossane rimase sotto la protezione di Perdicca (che prese la reggenza) e, alla morte di quest’ultimo, rimase in Macedonia col piccolo Alessandro IV, assieme a Olimpia, la madre di Alessandro, che era riuscita a prendere il potere con un atto di forza.
Sia Olimpia che Rossane e, ovviamente, il figlio di Alessandro ancora tredicenne, furono trucidati da Cassandro, che divenne così, alla fine, re di Macedonia.


3) Una parola su Cassandro: l’odio reciproco tra lui e Alessandro è ben documentato; sebbene fosse stato tra i compagni che avevano studiato a Mieza con lui (nonché figlio di uno degli uomini più fedeli a Filippo e, dopo, ad Alessandro stesso), fu l’unico che Alessandro non portò con sé in Asia.
Lo rivide solo poco prima della sua morte, quando Cassandro si recò a Babilonia per portare un’ambasciata di suo padre Antipatro.
L’odio riesplose feroce come non mai: Cassandro fu sorpreso da Alessandro a ridere di un vecchio persiano che si prosternava, e il Re gli sbatté la testa contro il muro, alla presenza di tutti.
Anche dopo molti anni dalla sua morte, e dopo che Cassandro aveva massacrato tutta la sua famiglia estinguendo così il suo sangue per sempre, si dice che non riuscisse a non tremare davanti a una statua di Alessandro.
Il personaggio di Nicanore non è inventato.
Cassandro ebbe davvero un fratello che combatté per lui quando (anni dopo la morte di Alessandro), Olimpia prese il potere in Macedonia e si mise quindi sulla sua strada.
Senza dubbio Nicanore doveva averlo amato perché si fece trucidare da Olimpia per la causa del fratello.
Cassandro ordinò la lapidazione di Olimpia non appena le ebbe messo le mani sopra, morte verso la quale la Regina andò incontro con stoico coraggio.


4) Tolomeo fu indubbiamente uno dei “Diadochi”(i successori) più potenti; a lui andò la satrapia dell’Egitto, di cui divenne faraone dopo la morte del principe Alessandro IV, e sotto di lui (e la sua stirpe, i “tolemaici” appunto), la nazione prosperò, e Alessandria divenne il centro più importante di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa biblioteca per la quale ancora oggi la città è famosa.
La linea di Tolomeo si estinse con l’ultima regina, Cleopatra, quando l’Egitto divenne provincia romana, nel 30 a.c.


5) Una piccola nota, infine, su altri due personaggi menzionati nel racconto: Parmenione, generale in capo dell’esercito macedone ai tempi di Filippo e, per un certo periodo, anche in quello di Alessandro, è riconosciuto come uno dei geni militari del suo tempo.
La sua fedeltà a Filippo è ben documentata, così come i suoi interventi chiave e decisivi nella sottomissione delle numerose città greche (nonché della Tracia e dell’Illyria), che fecero della Macedonia la potenza del tempo.
Filota, suo figlio, fu uno dei compagni di Alessandro che lo seguirono in Asia, nonché capo della cavalleria del suo esercito, fin quando, nel 330 a.c. fu trovato colpevole di una cospirazione contro la vita di Alessandro, sebbene non sia mai stato provato se ne fosse stato coinvolto in prima persona o se, avendolo saputo da terzi, avesse omesso di dire quello che sapeva.
Filota fu condannato a morte dall’assemblea macedone e giustiziato, e sebbene la colpevolezza (o il coinvolgimento) del padre Parmenione non sia mai stata provata, se ne rese necessaria l’eliminazione.
Parmenione, infatti, era rimasto indietro con una parte del suo esercito e controllava le linee di rifornimento a ovest, dalle quali dipendeva l’esistenza stessa dell’esercito di Alessandro.
Colpevole o no, Parmenione avrebbe voluto la sua faida, e aveva dalla sua parte uomini che gli erano fedelissimi.
La notte stessa in cui Filota fu giustiziato, tre dromedari partirono diretti a ovest, con l’ordine di morte per il vecchio generale.
Questo episodio rimane senza dubbio uno dei più oscuri nella vita di Alessandro (assieme all’uccisione di Clito), e lui stesso ne portò il rimorso per anni, senza farne mistero; non deve essere difficile pensare che un tempo Alessandro doveva avere molto amato Parmenione, forse la figura più simile a un padre che egli avesse mai avuto.


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