Il viaggio

di Flora
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arkhè ***
Capitolo 2: *** Pyr ***
Capitolo 3: *** Hydor ***
Capitolo 4: *** Ouranòs ***
Capitolo 5: *** Ghé ***



Capitolo 1
*** Arkhè ***


[I primi tre capitoli di questo racconto sono stati scritti a quattro mani con Ronin]

Nota dell’autrice: Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.

Il presente racconto si situa piuttosto in avanti nella cronologia alessandrina. Sulla via del ritorno dall’India, Alessandro si trova ad attaccare la cittadella di una tribù ribelle: i malli. Lì, a seguito di un gesto incosciente, riceverà la ferita più grave di tutta la sua vita: una freccia gli trapassa il polmone. Efestione non è con lui, avendolo preceduto con parte dell’esercito, ed essendosi accampato più a sud rispetto al luogo dell’incidente. Questo racconto esplora le lunghe ore in cui Alessandro lottò per la sua vita, e la silenziosa attesa di Efestione, quando tutto pareva perduto.
Per l’occasione sono stati ripristinati i nomi greci:

Alessandro: Aleksandros
Efestione: Hephaistion
Tolomeo: Ptolemaios
Cratero: Krateros
Liside: Lysios
Nearco: Nearkhos
Peucesta: Peukestes
Perdicca: Perdikkas
Leonnato: Leonnatos
Filippo: Philippos
Clito: Kleitos




Il viaggio





Arkhè.




Dolore – aria che gli scivola via dai polmoni.
Quando distingue una figura sbiadita avvicinarglisi, la rabbia gli ferma il respiro in gola ancora per qualche momento, gli solleva il braccio e glielo fa riabbassare con forza – la luce scintilla per l’ultima volta sulla lama che cala, mentre quella figura di uomo si rapprende in se stessa e scompare.
D’improvviso sente la terra polverosa e calda sotto le ginocchia – poi l’impressione di cadere indietro, e non potrebbe dire per quanto tempo. Gli sembra di vedere spacchi di cielo attraverso le fronde dell’albero – poi rovescia la testa di lato – e lì, ombre grigie sono immobili attorno a lui, cominciano a muoversi impazzite mentre sfumano e scompaiono. Solo le loro voci restano.
Grida e clangore nel buio – ondate di urla che fluttuano e si infrangono contro la sua testa e di nuovo si allontanano – di tanto in tanto resta solo il ribollire di un ansito faticoso, tagliato a metà dalle lame di un pauroso silenzio.
Al di sopra delle onde del mare buio una voce urla il suo nome – e per un istante lui confonde suoni e voci e si volta a cercare un volto che non trova. In un alone improvviso di luce vede solo Peukestes chino su di lui, sente delle mani sollevarlo, finché attraverso i rami una freccia improvvisa di sole lo trapassa di nuovo e lo affonda in una penombra confusa di ombre rosse e calde che gli si confondono davanti.
Sente la propria voce, ma non sa cosa sta dicendo.
Poi le ombre scompaiono ancora, spazzate via da una nuova luce bruciante – in un lampo rivede lo scintillio feroce del sole sulle distese di gelo bianco e bruciante del Paropamiso, rivede le onde di oro rovente delle sabbie intorno al punto verde di Siwa – e per un istante i templi dell’oracolo non gli sembrano altro che granelli fra granelli, che rotolano nel vento e si disperdono nell’aria e affondano nella terra mentre qualche dio ride. Prova a sollevare un braccio per coprirsi il viso, ma non riesce a muoversi; stringe forte gli occhi, alza la testa e li riapre, per un attimo vede la mano di Peukestes stretta intorno al suo polso, e le sue dita striate di rosso. Così non può prendere fiato.
La testa gli ricade di nuovo indietro. Sente ancora il suono incerto del suo respiro, mescolato ai mormorii confusi di Peukestes che urla su di lui e a quei fili rossi di sangue che si intrecciano sullo sfondo delle palpebre chiuse e si allargano in una macchia liquida e calda – per un momento è convinto si tratti di onde arrivate dall’oceano estremo per annegarlo e soffocargli il fiato in petto, finché da quella superficie scura riaffiora il viso di suo padre – la cicatrice pallida attraverso la palpebra destra serrata sull’orbita vuota, e l’altro occhio, incredulo e triste, spalancato su di lui, e la pupilla muta che gli rimanda la sua immagine – si rivede chino sul corpo tiepido, rivede le larghe macchie rosse che intridono la terra bianca della strada verso il teatro, riascolta il suo urlo, riascolta il silenzio rombante di sua madre, e d’improvviso gli occhi di lei si spalancano brillando, e tutto il resto (le onde e il volto pallido di Philippos e la terra che ha bevuto il sangue) affonda come un sasso nell’abisso di pece delle sue pupille e scompare nel balenio improvviso di una lacrima sottile e sola che rotola via veloce. Lui può solo guardare i suoi occhi, grandi e muti mentre cercano di bisbigliare parole segrete che solo una parte lontana di lui riesce a capire, verdi e freddi come le scaglie luccicanti di due serpenti che strisciano senza rumore e si arrotolano e spalancano bocche sibilanti e divorano le proprie code.
Poi, un guizzo invisibile – e urla quando sente un dente affilato affondargli d’improvviso nel petto e mordere ancora. Spalanca di nuovo gli occhi e vede il viso allucinato di Peukestes che cerca di sorridere – e un altro morso, e un altro viso. Ora Aristoteles gli spalma qualcosa sul braccio ferito, e un ragazzo posa la mano sulla sua spalla e lo guarda, e sente la sua voce dolce e fresca che gli parla – “alogistos eis, sei un incosciente, perché ti butti sempre senza pensare?” – gli sta dicendo – “devo sempre starti dietro” – e lui vorrebbe rispondergli – “io penso, Hephaistion” – ma il tempo è già cambiato con il respiro che ribolle di nuovo nel sangue e brucia come il vino rosso nelle fiamme che hanno consumato Persepolis. Si ferma a guardare – si ferma a guardare il fuoco che sale e sfida il cielo freddo di una notte urlante, ed Hephaistion gli è di nuovo vicino, lo prende per un braccio e lo scuote appena – “apoleipe, vieni via, lascia perdere, Alekos, lascia stare, vieni via” – ma lui non si muove, continua a fissare il fuoco come se finalmente lo riconoscesse. E le fiamme sono sempre più alte, e ora sono diventate silenziose, perché non hanno più bisogno di parole né di crepitii; si aggrappa ad Hephaistion e stringe e non sa decidersi a fare un passo indietro. E qualcuno lo chiama, da oltre il muro silenzioso delle fiamme – è una voce tremante, che striscia incerta fino a lui – Kyrie.
Kyrie.
Vede Philotas, con gli spuntoni scheggiati e anneriti di sangue delle frecce macedoni piantati in petto, che lo saluta con un cenno del capo prima di ricominciare a far rotolare nella mano i dadi e gettarli, lentamente, sul terriccio melmoso di una cella, dove Kallisthenes è seduto con un foglio di papiro spiegato sulle ginocchia, impegnato a guardarlo con gli occhi concentrati e introvabili, affondati nelle orbite nere di un viso scheletrico.
Kyrie.
Parmenion lo chiama sorridendo sdentato e gli tende le braccia, e scopre il taglio profondo nel petto. E mentre lui resta fermo, raggelato, a guardare i lembi slabbrati di pelle, arriva alle sue spalle la voce stentata di Kleitos che biascica qualcosa su Philippos. Si preme le mani sulle orecchie per non ascoltare e si volta attorno per cercare Hephaistion, ma quando sente il suo braccio chiuderglisi sulle spalle, lo chiamano ancora.
Kyrie.
Qualcuno gli solleva la testa, e quando socchiude gli occhi vede su di sé le maschere contorte e violacee di persone che non crede di riconoscere. Qualcuno si china appena e ricomincia a parlare: “Kyrie, akoue kyrie, tamein dei kai, Signore, ascolta Signore, bisogna tagliare.” Sente la sua stessa voce graffiargli la gola mentre sputa fuori le parole – “fa’ quello che devi, sbrigati” – e in bocca il sapore del sangue che scivola via dalle sue labbra con un respiro e gli percorre la guancia.
Poi, il morso più profondo e velenoso di tutti.
Sente il proprio urlo in un lampo di luce scura – rovescia la testa indietro a torna a vedere il buio di un cielo notturno, mentre le fiamme gli covano in petto e stridono e lo attraversano per allungarsi a divorare le stelle, finché non rimane altro che un infinito velo nero e gelido.




Ovunque guardi, si estende pianura deserta e spaccata dal sole nell’aria polverosa.
Sotto i suoi piedi la terra scricchiola e granelli di polvere rossa si sollevano e ondeggiano pigri, urlano ammutoliti mentre fluttuano senza un senso e danzano folli (follli, folli, dove vorrebbero andare?) e ricadono lenti e sconfitti – sconfitta lenta, senza sangue – sconfitta silenziosa, senza bagliori d’armatura.
Pochi di quei granelli non ricadono. Si arrampicano nell’aria, verso l’alto e, quando scompaiono, dei punti luminosi brillano nel cielo lontano oltre il velo d’aria bollente.
E la terra scricchiola ancora mentre le mura di una città crollano alle sue spalle. Ma lui non si volta, e guarda i bagliori appuntiti oltre la polvere – lui li vuole, vuole bagliori d’armatura mentre la terra ondeggia e gli chiede – “da dove vieni?” Appoggia lo scudo ai suoi piedi, si toglie l’elmo e ascolta le parole antiche che arrivano correndo sul vento da ogni parte – “chi sei?”
E lui si volta attorno e urla – “quello che ti ha calpestato oltre il confine.”
Pianta la spada a terra – e la terra ruggisce e ondeggia, si spacca (taglio, ferita, ferita profonda, ferita veloce) – fragore di roccia che si infrange, schiocchi di lastre che si staccano – vento che sibila e ripete le sue parole in ogni dove, voragine che si spalanca.
Quando l’eco del grido si spegne, sente il sangue risalirgli la gola e uscirgli di bocca – gli manca il respiro d’improvviso mentre la terra ride appena. Cade in ginocchio, cerca di nuovo l’aria mentre la polvere gli si attacca al palato, le mani si tagliano sulle rocce lucide del bordo aspro della voragine e gli occhi si fissano su quel fondo lontano, oscurato da un’ombra scintillante di bagliori del colore del fuoco. E mentre guarda fisso, quasi dimentica di respirare. Sente una goccia di sangue scivolargli dalle labbra, la vede cadere sempre più veloce finché non riesce più a distinguerla; e dopo qualche tempo, sul letto d’ombra si alza un groviglio di fiamme che crepitano e cominciano ad alzarsi.
Tende un braccio sul vuoto – sente il calore del fuoco arrivare fino al palmo pallido della sua mano, sente che potrebbe cadere – ma qualcuno gli afferra una spalla, e lo tira indietro. “Vieni via, vieni con me. Sono qui.” La voce di Hephaistion è ancora fresca attraverso la polvere dell’aria, disperde il crepitio rabbioso del fuoco e lo scricchiolio della terra.
Si sente d’improvviso stanco – sente la testa pesante sul collo, non riesce a sollevare il petto per prendere fiato, combatte per non chiudere gli occhi. Si volta a fatica per guardare Hephaistion – ma non lo trova.
Stringe gli occhi e li riapre – ma non c’è nessuno. Affonda le mani nella polvere e si tira in piedi.
Dietro di lui, la pianura è oscurata d’improvviso da un ordinato esercito di ombre schierate.
Guarda con gli occhi che bruciano i loro contorni confusi e i loro visi informi, e domanda a bassa voce: “Dove sei?” Le ombre ondeggiano appena e sibilano qualcosa di incomprensibile. “Dove sei?” – si passa una mano sul viso e la allontana macchiata di sangue – “dove sei?” – polvere bollente, macerie di una città crollata – “dove sei?” – ombre gelide, il suono irritante di un cavallo che si avvicina da qualche parte – “dove sei?” – il vuoto dietro di lui, ombra e fuoco. “Dove sei?” – grida di nuovo, e grida, e grida, finché non lo sente rispondere.
“Qui. Sono qui.”
Allora crolla a terra senza sapere come.
Poi, più niente.





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Capitolo 2
*** Pyr ***


Pyr.




Sole. Luce abbacinante. Sudore e polvere.
E acqua.
Il fragore della corrente che sembra ingoiare tutto, le voci degli uomini e i nitriti dei cavalli che gli si conficcano nelle tempie, come aghi dolorosi.
Si passa una mano sulla fronte premendosi le dita tra le sopracciglia.
Suoni, odori familiari come la sua stessa pelle, la cacofonia sconnessa dell’accampamento – sempre la solita, sempre uguale a se stessa.
Da qualche parte il pianto isterico di un bambino e la voce di una donna, lo scoppio fragoroso di una risata e, lontana, la musica bianca e soffocata di un aulos.
Dolore dietro le palpebre. Calore. Sole indiano, senza pietà.
“Hephaistion, ti senti bene?”
Sussulta, come fosse stato improvvisamente richiamato indietro da un sogno. I contorni delle cose ritornano vividi, quasi insopportabili sotto la luce accecante.
Socchiude gli occhi e scuote la testa. L’odore selvaggio dell’acqua lo riassale con la violenza di uno schiaffo.
“Sto bene. Non preoccuparti, Nearkhos. Ho solo avuto un capogiro.”
L’altro sospira, mettendogli una mano sulla spalla.
“Amico mio, lasciami dire che hai una pessima cera oggi. Forse ti sei preso una qualche febbre. Il povero Demostratos, l’altro giorno, si lamentava nel letto con le budella disciolte. Ne ha avuto per più di tre giorni, non la riusciva proprio a tenere. Questo maledetto clima indiano sta facendo diventare isterico anche me.”
Hephaistion si sforza di sorridere; il dolore alle tempie è un martellare continuo, una pulsazione ritmica e attutita dietro gli occhi. E l’acqua. Il sentore dell’acqua che lo fa impazzire.
“Non è niente. Solo un po’ di stanchezza. Ho appena finito il giro di ispezione e passato in rassegna le mie truppe; voglio che l’accampamento sia attivo e pronto alla partenza per quando Aleksandros tornerà, e questo vale anche per le tue navi. Ci metteremo in marcia non appena l’esercito sarà qui e la tua flotta dev’essere pronta a riprendere la navigazione il prima possibile.”
Nearkhos annuisce. Hephaistion è sempre stato impeccabile e molto esigente nello svolgere i suoi compiti, è riuscito a organizzare l’immenso campo base in poche ore, ed è grato che sia lui a sovrintendere e coordinare i lavori di riparazione delle navi. È un uomo intransigente, lo conosce bene, ma nessuno riesce a eguagliare la sua efficienza.
Lui invece è diverso – cretese fino al midollo – e l’acqua è il suo elemento. A terra si sente mancare l’aria come un gabbiano insabbiato. Ma ha dovuto adeguarsi.
Essere al seguito di Aleksandros significa abituarsi a molte cose.
Si volta verso il fiume a osservare la lunga fila di immense galee splendenti nel sole, le lunghe trireme dalle chiglie lucide e dalle polene scolpite, i piccoli e leggeri polischermi dipinti di rosso e l’intricata foresta di remi inerti sotto il sole.
La corrente dell’Acesines è un rombo cupo, un suono basso e continuo come il respiro rabbioso di un gigante.
Quelle correnti l’hanno colto di sorpresa, lui che conosce mari e fiumi come il suo stesso sangue – hanno afferrato le sue navi in un abbraccio letale, subdolo come quelle acque straniere e lontane.
I genieri di Hephaistion sono al lavoro da due giorni ormai, ininterrottamente, e presto le imbarcazioni saranno pronte per riprendere la via del fiume, verso l’oceano. Aleksandros ne sarebbe rimasto molto soddisfatto, una volta tornato dalla sua caccia.
Si volta verso Hephaistion, che sembra di nuovo remoto e sofferente, la mano sulla fronte contratta e segnata da un solco profondo.
“Credo che dovresti andare nella tua tenda a riposare, Hephaistion. Ti ripeto che hai un aspetto terribile. I lavori stanno procedendo alla perfezione, rimarrò io qui ad assicurarmi che gli uomini seguano le tue istruzioni e non battano la fiacca.”
Hephaistion scuote la testa e socchiude gli occhi scuri, incapace di sopportare l’alone di luce che sembra avvolgere tutto in un involucro soffocante, poi richiama con un gesto uno dei suoi attendenti.
“Devo andare a controllare i carri degli approvvigionamenti e lo stato delle scorte di grano, voglio farmi un’idea precisa delle nostre riserve prima di rimetterci in marcia verso l’Indo. Sarà un lungo cammino fuori dalle rotte di rifornimento e non voglio avere sorprese.”
Nearkhos alza le spalle. Hephaistion ha un dono per queste cose, l’ha sempre avuto fin dai tempi di Mieza, quando studiavano assieme con il vecchio Aristoteles. Riuscirebbe a far quadrare un cerchio. Aleksandros vagheggiava di terre lontane e di città leggendarie; Hephaistion, adesso, gliele costruisce.
“Come vuoi tu. Passerò dalla tua tenda più tardi. Cerca di riposare almeno un po’.”
Hephaistion lo congeda con un sorriso veloce – più simile a una smorfia – e una pacca sulla spalla. Poi, si avvia nell’altra direzione.
L’accampamento gli scorre accanto, un’informe massa sfocata di sagome e profili, ombre iridescenti appena visibili dietro le palpebre socchiuse. Il respiro è una lama affilata nel petto, un fendente sanguigno che sembra lacerarlo a ogni passo.
Si ferma, cercando un appiglio – squarci intermittenti di rosso gli lampeggiano davanti agli occhi e su tutto una luce fulgida, cattiva.
“Mio Signore Hephaistion, che cos’hai, non ti senti bene?”
La voce preoccupata del giovane scudiero risuona distante, un’eco appena percepibile dietro la superficie appannata della coscienza.
“È tutto a posto, Aleksias. Suppongo solo di non essere fatto per questo stupido sole indiano.”
Il ragazzo annuisce con energia – nervoso, sollecito. La vita pare crepitare in lui, sembra giovane, così giovane che guardarlo fa quasi male. Si chiede se anche lui sia stato così, un tempo – quanto tempo? Anni? A volte sembrano solo migliaia e migliaia di vite.
Le voci e i suoni gli arrivano attutiti, come strisciassero sull’aria simili a serpenti.
Gli schiamazzi dei soldati che giocano ai dadi o incitano i galli in un combattimento, le risate dei bambini e le grida delle loro madri, il suono dei flauti e il canto degli aedi, e poi il cicaleccio continuo dei mercanti e degli interpreti, le cantilene dei giocolieri, il viavai degli schiavi. Un flusso costante di rumori e parole biascicate, di musica soffusa e frastuono assordante, così familiare da essere parte di lui, ma che adesso gli è estraneo come il grido strozzato di un nemico in agonia.
Dappertutto il blaterare incomprensibile degli sciti e dei battriani, dei traci e di quei pochi indiani che hanno deciso di seguirli in cerca di fortuna. Ha imparato molti di quegli idiomi, eppure adesso gli arrivano simili a un borbottio indistinto, poco più che singhiozzi sconnessi, primordiali.
Infine, ecco il colpo decisivo, come lo aspettasse. Uno scoppio di luce abbagliante davanti agli occhi, una ragnatela feroce di sangue che lo acceca, e il respiro ricacciato giù in gola come una massa aggrovigliata di fili incandescenti.
(Alekos)
Cade in ginocchio, incapace di respirare. Annaspa per ritrovare l’aria che sembra essere scomparsa improvvisa dai suoi polmoni, si aggrappa alla terra raschiando il suolo polveroso e strappando fili d’erba avvizzita.
(Alekos)
Il ragazzo è chino su di lui, grida qualcosa ma non riesce a sentirlo, la sua faccia è solo un ovale sospeso, un’ombra informe e priva di significato.
Poi passa – violenta com’è arrivata – e lui è risucchiato indietro con forza da artigli di fuoco. Il mondo riacquista i suoi contorni, le voci tornano a essere distinte, riconoscibili.
(Alekos)
Si rimette in piedi a fatica, stentando a riprendere il controllo di un corpo che sente improvvisamente estraneo e si sforza di sorridere al ragazzo, impietrito dalla paura.
“Mio Signore, che cos’è successo? Improvvisamente tu…”
Hephaistion si guarda attorno e nessuno, a parte loro, sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto – sì, ma che cosa è accaduto? Che cosa? Appoggia una mano sulla spalla del giovane e la stringe appena.
“Accompagnami alla mia tenda. Non preoccuparti, starò bene, ma adesso andiamo. Ho bisogno di avere dell’acqua.”
Si avviano lentamente. Si sente barcollare ma cerca di rimanere in piedi. Un sapore metallico gli invade la bocca – il sapore del sangue.
(Alekos)
L’interno della tenda è fresco e in penombra. Per un attimo rimane quasi accecato dall’oscurità dopo l’abbacinate sole pomeridiano e si lascia cadere pesantemente su una sedia.
Il ragazzo gli porta una bacinella e lui vi immerge le mani avvertendo una scossa dolorosa. Se le porta al volto che brucia come erba secca, e il contatto lo riconduce alla realtà. L’acqua è fredda, si conficca come uno stiletto acuminato nella pelle.
“Va’ a chiamare il generale Ptolemaios.”
Il giovane sbatte le palpebre confuso, incapace di parlare. Hephaistion gli sorride dandogli una pacca sulle spalle.
“Sto bene, non preoccuparti. È passata. Adesso però va’ a chiamare Ptolemaios.”
Aleksias rimane ancora un istante a fissarlo in silenzio, poi sgattaiola via veloce, richiudendo il lembo della tenda dietro di sé.
Hephaistion si passa la mano sugli occhi. Non riesce nemmeno a pensare, sente solo quel rivoltante sapore di sangue e il sibilo serrato del suo respiro.
(Alekos – oh, Alekos, stai bene?)
Il tavolo è ingombro di mappe, carte, dispacci, schemi e disegni che capisce solo lui. In un angolo giace dimenticato un foglio di papiro dove stava annotando i turni di guardia per le sentinelle della ronda notturna.
Lo afferra e la mano gli trema. Ha sempre avuto una stretta salda come ferro, ma ora il braccio vibra come percorso da una febbre.
La tenda si apre lasciando filtrare un’ondata di bianco e Ptolemaios si fa avanti nello spazio immobile, una figura scura stagliata contro la fulgida luminosità dell’esterno. Sembra annientato dal caldo e dal sole, ha il volto polveroso e segnato dalle rughe. Gli appare improvvisamente troppo alto e troppo magro, l’ombra malata di un estraneo.
“Non hai una bella cera, Ptolemaios. Che cosa c’è, Thais ti tiene sveglio la notte?” Tenta una risata che però non è niente più che un gracchiare sordo.
“Senti chi parla, e tu invece? Sembri un morto che discorre, Hephaistion. Il ragazzo mi ha detto…”
“Lascia perdere che cosa ti ha detto il ragazzo, sto benone. È solo che non sopporto questo posto. Un colpo di sole. Non morirò certo per questo.”
“Ah, no di sicuro, non con quella tua pellaccia dura. Nondimeno, faresti meglio a riposare un po’. Non ti sei fermato un attimo da quando siamo arrivati qui. Già me lo sento, Aleksandros. Dovesse vederti ridotto così, caverebbe gli occhi a tutti noi.”
Hephaistion agita la mano nell’aria in un gesto spazientito.
“Si vede che non lo conosci. Un amante dell’efficienza come lui ci caverebbe gli occhi se battessimo la fiacca, vorrai dire. E comunque sì, mi riposerò un paio d’ore. Puoi occuparti tu dei carri provviste e controllare gli stalli dei cavalli? I tessali sono efficienti, ma le baracche degli animali sono un disastro. Hanno usato foglie di palma e bambù, non è un riparo sufficiente. Li ho messi a lavoro, ma vanno controllati. Non voglio che i cavalli rimangano sotto questo sole, li ucciderebbe.”
Ptolemaios annuisce. “L’avrei fatto comunque. Tu finisci di dare un’occhiata ai turni della ronda appena ti sei ripreso, sai che io impazzisco su quella roba. Ah,” una pausa, “è appena arrivato Krateros con i maledetti elefanti.”
L’ha detto quasi per caso, è riuscito persino a sembrare indifferente. E bravo Ptolemaios, questo deve riconoscerglielo.
Hephaistion si porta una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie.
“Bene. Ci penserò più tardi. Gli elefanti vanno sistemati quanto più possibile lontano dai cavalli. Li spaventano.”
“Suppongo che se ne stia occupando lui in questo momento.”
“Tanto meglio.”
“Vuoi parlarci?”
Hephaistion si allunga all’indietro sulla sedia, distendendo le gambe e chiudendo gli occhi. “Dei del cielo, no. È già abbastanza che debba trovarmi con lui nello stesso posto e sotto lo stesso cielo. Preferirei rimandare, se non ti dispiace.”
“Non era dell’umore migliore, Hephaistion.”
“Lo immagino. Non gli va a genio di doversi trovare ai miei ordini in questo accampamento. Non ha mandato giù che Aleksandros abbia lasciato a me il comando di questa spedizione, se così possiamo chiamarla.”
Ptolemaios si appoggia al tavolo ingombro, facendo cadere alcune carte che raggiungono il pavimento fluttuando pigre.
“Hai detto bene, una specie di spedizione. Né io né te abbiamo trovato l’ombra di un solo maledetto mallo. Dovevamo catturare i fuggiaschi, se non sbaglio. Tu eri cinque giorni di marcia avanti a lui, e io tre giorni indietro. Una trappola perfetta. Ma non se ne è visto nessuno. Scomparsi. La domanda è: dove sono?”
Hephaistion si passa una mano tra i capelli in un gesto nervoso. Si sono allungati, dovrà tagliarli prima o poi.
“E c’è un’altra cosa, Hephaistion,” continua Ptolemaios, “Krateros si aspettava di trovare Aleksandros all’accampamento. La sua marcia è stata rallentata dagli elefanti e dalle salmerie. Pensava che Aleksandros avrebbe sistemato la faccenda con i malli nel tempo impiegato per arrivare qui, e invece di lui nemmeno l’ombra. Ora, Krateros potrà anche non piacerti, ma non ha tutti i torti. A quest’ora Aleksandros avrebbe già dovuto essere all’accampamento, e da un pezzo.”
Lo fissa in silenzio, ma l’espressione di Hephaistion è indecifrabile, i lineamenti lignei e contratti di maschera.
“L’hai detto anche tu, Ptolemaios. Non abbiamo trovato malli. A questo punto è logico pensare che si siano rifugiati tutti nelle loro roccaforti, nella regione tra l’Acesines e l’Hydraote, dove Aleksandros aveva tutta l’intenzione di stanarli. L’avranno tenuto occupato più del dovuto, dovresti sapere che non è da lui lasciare le cose a metà. Probabilmente sarà già sulla via del ritorno. Ce lo vedremo piombare qui da un momento all’altro.”
Ptolemaios continua a fissarlo in silenzio. Hephaistion sente di non riuscire a sopportare quello sguardo inquisitore un attimo di più.
Si alza, tentando di non dare a vedere quanto gli costi, e si avvicina a un basso tavolino in legno intarsiato – un dono di Aleksandros – poi afferra una coppa, versandosi del vino.
“Se lo dici tu. Hai certamente ragione, sarà stato impegnato più del previsto. Sì, sarà certamente così.”
Hephaistion porta la coppa alle labbra. La mano gli trema; con uno sforzo di volontà riesce a mantenere una presa ferma e ingoia il caldo liquido speziato tutto d’un sorso. Il vino sembra bruciargli nella gola, scavare un solco rovente fino alle viscere.
Ptolemaios lo sta ancora fissando.
“Hephaistion.” Una lunga pausa. “Lui sta bene, vero? Pensi che stia bene, non è così?”
Hephaistion sbatte con forza la coppa sul tavolo, mandandola in frantumi. Il vino si sparge come una macchia di sangue sul ripiano, densa e viscosa. Gli sembra di sentirne di nuovo il sapore in bocca, nella gola – corrodergli la piaga scavata dal vino. Per un attimo trattiene il respiro mentre un grido gli si blocca nel petto, come un nodo di fuoco lancinante.
(Alekos)
Ptolemaios è rimasto a guardarlo a bocca aperta. Deve dirgli qualcosa.
“Sta bene. Cosa credi che direbbe se ti vedesse così, come una donnetta in preda al panico? Avanti, Ptolemaios, non è la prima volta che siamo lontani da lui durante qualche campagna, cosa ti fa pensare che possa essere diverso? Si starà divertendo a dare la caccia ai malli in lungo e in largo, tornerà indietro non appena avrà ritenuto conclusa la faccenda. Adesso facciamola finita. Ci stiamo comportando come due mogli isteriche, se non te ne sei accorto.”
Ptolemaios emette una risata nervosa, simile a un lamento.
“Non posso darti torto. Bene, finiamola qui. Vado a dare un’occhiata agli elefanti e a parlare con Krateros. Verremo qui tutti e due più tardi, così possiamo finire di esaminare quelle mappe. Tu intanto riposati. Hai davvero un aspetto terribile, se ancora non te l’ho detto.”
Hephaistion impreca tra i denti. “Neanche tu sei esattamente un fiore, Ptolemaios. Se fossi Thais ti terrei a debita distanza dalla mia tenda.” Si sforza di ridere. “A ogni modo farò come dici, e porta i miei omaggi di benvenuto a Krateros.”
Ptolemaios gli indirizza un insulto incomprensibile ed esce dalla tenda, nel caldo sole
diurno.
Hephaistion rimane per un attimo a fissare il lembo di stoffa che si ripiega su se stesso, sigillando fuori i rumori insensati del campo e quella luce malata che sembra piantarglisi nella carne come un chiodo vivo. Si accorge con disgusto che ha la mano appoggiata sulla viscida chiazza di vino e la tira via con un’imprecazione, facendo precipitare i cocci della coppa sul pavimento.
Si sfila il corsalino di tela e si lascia cadere sul letto, portando una mano alla fronte. La pelle scotta, è ruvida ed essiccata. L’aria pare improvvisamente non essergli più sufficiente, scivolargli via dalla gola come da una ferita aperta.
(Alekos)
Occhi pesanti, coltri di lana in una notte d’inverno – e il petto che si alza e si abbassa mentre l’aria esce a fiotti in un sibilo ininterrotto.
La realtà scivola via su di un piano inclinato verso il nulla, una discesa vertiginosa, uno stordimento che lo attira in una voragine di roccia spaccata e dolorante, in una terra di nessuno di città in rovina, Dei sconosciuti e carne corrotta.
Fa un disperato tentativo di tirarsene fuori mentre il terrore gli scava la gola come una lama appuntita, annaspa per ritrovare la strada, risalire verso la luce, ma ecco che la sente per la prima volta, ecco che sente la sua voce, chiara e distinta come un comando gridato in battaglia.
Dove sei?
Si volta, e percepisce le fiamme lontane arrivare fino a lui, raggrinzirgli la pelle delle braccia, ustionargli il volto come fossero lì, tutte attorno, in una fornace di calore.
Dove sei?
Lo sta chiamando, la voce emerge come un’onda dal passato, la voce del ragazzo che adesso non è più, quando nelle notti di Mieza invocava il suo nome dopo aver sognato il fuoco. Lo sogna ancora? Sono passati così tanti anni. Tanti, tanti anni.
Dove sei?
Eppure lo sta chiamando, può sentire lo schianto acuminato del terrore nella sua voce, e allora si dibatte per uscire da quel vuoto incandescente, per raggiungerlo, per trovarlo.
Aleksandros
Lo chiama con tutto il fiato che ha in gola, ma la voce non esce sebbene possa sentire i polmoni dilatarsi ed emettere un fiotto d’aria violenta.
Aleksandros
Lo chiama ancora, e avverte l’aria riarsa muoversi attorno a sé, scavargli un passaggio mentre si sposta nel morbido bozzolo di calore, cercando di farsi strada tra le rocce aguzze e le lingue di fuoco.
Aleksandros
Lo percepisce ancora prima di vederlo – il suo semplice esistere. Ne è cosciente come lo è sempre stato, la consapevolezza della sua presenza, il pulsare vibrante della sua vita, adesso attutito e veloce, ma vivo, caldo come il corpo dell’uccellino che una volta – in un’ altra esistenza? – aveva tenuto tra le mani, per deporlo di nuovo nel nido da cui era caduto.
Dove sei?
Un urlo, ruvido e disperato come un graffio.
Qui. Sono qui.




Si sveglia con un grido soffocato. La tenda è buia, l’oscurità densa e vischiosa. Lo squarcio di cielo che riesce a vedere è nero e striato d’argento.
Si passa la mano tra i capelli appiccicosi, gemendo piano. La pelle gli brucia ancora, mentre il sudore va asciugandosi lentamente sulle spalle nude.
Aleksandros
Lo mormora a voce alta, il sussurro si rompe in un singhiozzo.
Aleksandros
Allunga la mano verso l’oscurità invocando una risposta, ma attorno a lui c’è solo tenebra fredda e muta.






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Capitolo 3
*** Hydor ***


Hydor.




Lo hanno morso ancora – ancora, e ancora. Alla fine non è più riuscito a distinguere la tregua dal dolore e ha smesso di sperare in un soffio d’aria tranquilla.
Nell’ultimo, incalcolabile istante di calma ha rivisto un ragazzo fermo sul margine di un dirupo – il crepitio di una pietra che rotola e rimbalza lungo la parete di roccia e salta in un vuoto senza suono.
Poi la terra si è spalancata ancora e per l’ultima volta sotto i suoi piedi, e lui non ha più avuto il tempo di guardarsi attorno per cercarlo. Si è lasciato precipitare senza un grido. E ha pianto quando ha capito che, per la prima volta, non ha più forza per combattere.
Ma forse è così che doveva andare, da ogni tempo. Forse tutto era stato preparato.
Nel buio caldo, la grande mano divertita di un dio senza volto stringe il suo cuore.



– – –



Leonnatos è chino su di lui, con la mano sospesa sopra il suo petto. Non osa toccarlo. Riesce a guardare per qualche momento le labbra pallide, poi stringe gli occhi con forza. Sa che, quando li riaprirà, lui sarà lì a fissarlo con un sopracciglio sollevato, e gli chiederà cosa vuole.
Ma riapre gli occhi e non è cambiato niente.
I mormorii di Perdikkas e Peukestes lo infastidiscono. Si rialza lentamente, e si allontana di un passo senza voltarsi. “Come sta, iatré?”
Gli altri sussurri cadono mozzi e senza senso nella penombra della tenda, e il medico sospira senza alzare la testa. Seduto in un angolo, continua a macinare qualcosa in un pestello, le spalle curve e i capelli che gli ricadono sul viso. Si vede solo la piega infastidita delle labbra strette. “Non riesci a vederlo da te, come sta?”
Il rumore sordo del mortaio.
Perdikkas apre la bocca per dire qualcosa, ma senza rendersene conto la richiude lentamente mentre osserva con occhi stupiti l’immobilità di Aleksandros.
Adynaton esti. Non è possibile.” Una delle candela guizza per l’ultima volta e si spegne – un lampo rosso e oro balena più forte e scompare. Per qualche momento è certo di essere rimasto senza luce e, mentre fruga nella penombra, vede a fatica i guizzi incerti di altre fiamme.
Adynaton,” ripete senza accorgersene.
Peukestes lo guarda infastidito con la coda dell’occhio, e scuote la testa con una smorfia. Non pensare a cosa è impossibile, ora. Si passa una mano sulla faccia. “Iatré, non era questo che volevamo sapere. Sai cosa intendiamo.”
“Sì.” Philippos bagna il mortaio in una ciotola su un tavolo vicino e riprende il suo lavoro. Gli altri aspettano, ma non dice altro.
Poi, l’eco della ciotola che viene sbattuta a terra e continua a oscillare. Leonnatos la guarda a denti stretti, con il braccio ancora sospeso e la mano contratta, finché non la schiaccia sotto un piede. “Allora, iatré, ci prendi in giro?”
Philippos si ferma, guarda le schegge di coccio rosso confuse sul pavimento. “Non l’avresti fatto se lui fosse stato sveglio.”
Peukestes posa una mano sulla spalla di Leonnatos e lo tira indietro. “Se lui fosse stato sveglio noi non saremmo qui.”
“Bene.” Il medico lascia il pestello sul tavolo e con un sospiro si china a raccogliere i pezzi della ciotola. “Avete intenzione di distruggere tutto, allora?, perché lui non è sveglio?” Rigira i frammenti impolverati fra le mani e in silenzio prova a farli combaciare ancora. Ma ne manca uno, e capisce all’improvviso che non potrà ritrovarlo. Gli tremano le labbra finché non le stringe in una smorfia.
Perdikkas si riscuote con un brivido. Gli bruciano gli occhi. “Ma lui si sveglierà. Dicci solo fra quanto.”
“Ah, sì. Tra quanto. Quanta sicurezza.” Si alza con le mani premute sulle reni, e resta fermo a guardare Aleksandros. “Quanta sicurezza. Siete sicuri che andrà proprio come volete.” Scioglie il nodo di un panno che tiene legato alla cintura, ne stringe lentamente un’estremità e la immerge nel pestello. “Non giocate a fare come lui. Non ne siete capaci.” Si avvicina al letto. “Perdereste, lo sapete.”
Leonnatos vorrebbe dire qualcosa, ma mentre lo osserva passare il panno sul viso di Aleksandros pensa d’improvviso di aver già fatto troppo rumore. Si morde un labbro e si ritira di qualche passo, fermandosi nell’ombra dietro alle spalle di Peukestes.
Philippos non lo vede; preme il panno sulla fronte liscia e immobile, e non sa come parlare. “Non ho la vostra sicurezza. Tantomeno so quando si sveglierà.”
(Sono stanco. Tu sei stanco, mio Re?)
Lo guarda – viso pallido, orbite scure, labbra socchiuse – e il soffio d’aria che va e viene dal foro nel fianco, sottile e lento. “È come morto, ma respira ancora.”
(Sei stanco, mio Re, o solo lontano?)
“Credi che possa sentirci?”
Philippos non capisce chi abbia parlato. Si volta verso di loro, ma non trova che tre statue di sale coperte di vestiti militari, fisse e concentrate.
“Non lo so.”
“La verità è che non sai niente.” Leonnatos cerca qualcosa da aggiungere ma non riesce. Scuote la testa confuso. “Eis korakas, iatré. Va’ in malora, medico maledetto,” sputa fuori, poi si volta e se ne va silenzioso.
“Ha ragione.” Philippos prende una mano di Aleksandros e la solleva appena. “Non so niente.” La lascia andare; la osserva ricadere.
“Solo lui può saperlo.”



– – –



Niente di più. Niente di meno.
Il suo maestro gli parlava della morte – ma non sapeva.
I filosofi parlano della morte – ma non sanno.
Sogni e inganni – campi infiniti, vite da scegliere e destini presi in sorte per disegni sconosciuti, occasioni perse o guadagnate. Sogni e inganni costruiti con pazienza e attenzione, senza sapere e senza cattiveria. Quante belle parole.
La realtà è buio silenzioso e caldo.
(Ma c’è ancora una realtà, qui?)
Niente di più. Niente di meno.
Ha l’impressione di soffocare. Ma non è possibile. Adynaton, come ha detto qualcuno – o l’ha solo sognato?
Poi, in un solo momento
(ma c’è ancora il tempo, qui?)
viene la paura.
Non è la paura di uno scontro che abbaglia come il sole meridiano e subito viene offuscato dalle nuvole bollenti di polvere e dalle urla. Non è la paura lucida e pungente che scarnifica i contorni delle realtà e illumina i graffi sanguinanti nascosti in ogni limite. Non è così. Se lo fosse, lui non ne avrebbe timore.
È la paura dell’eternità inconcepibile – dell’eternità buia e calda e umida, soffocante e viscosa come un panno nero imbevuto di veleno.
Si attacca alla pelle, serra le palpebre, chiude la bocca. È la paura di occhi che non hanno luce per vedere, di una lingua che non ha voce per urlare, di pensieri informi che non troveranno più le parole per esprimersi.
La paura di qualcuno che non potrà più chiamare
(sì, ma chi?)
e che non troverà più nessuno a rispondergli.
Allora vuol dire questo, essere un’ombra?
Cerca di gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma non la sua voce.
È questa, la notte che cala sugli occhi?



– – –



Philippos rialza di scatto la testa. Con una smorfia infastidita riappoggia la schiena indolenzita al bordo del tavolo e si passa una mano sulla fronte stanca. Si guarda attorno confuso, socchiudendo gli occhi che bruciano.
Sono rimaste accese poche lampade – punti rossi. Le altre si sono spente, una a una, senza fare rumore – l’aria densa della notte è scivolata sotto i margini della tenda, e ha preso l’odore delle erbe mediche e dell’olio bruciato. Peukestes è ancora lì, vicino a lui – dorme con le braccia distese sul tavolo, la testa appoggiata su un gomito piegato.
Lo scuote appena, e quando lo vede scrollare la testa e rialzarla subito, pensa per un istante se non potrebbe accadere lo stesso con Aleksandros; forse potrebbe scuoterlo per una spalla e chiamarlo indietro – basterebbe? Guarda la mano pallida abbandonata sul lino e si morde un labbro.
“Come sta?” La voce di Peukestes è roca di sonno, ma suona improvvisamente sveglia. Gli occhi lucidi vagano sulla figura immobile senza capire.
“Come prima.”
“Allora perché mi hai svegliato?”
“Perché sta come prima. Puoi andartene a dormire altrove invece di spezzarti la schiena sul tavolo.”
Peukestes alza le spalle e non risponde. Sì. Cosa stiamo facendo qui? Si guarda attorno per cercare qualcosa da bere ma l’unica brocca che riesce a vedere è su uno sgabello lontano, e non ha la forza di alzarsi. Cosa ci sto a fare qui? Si osserva le dita nodose distese sul piano del tavolo, e senza alzare lo sguardo domanda: “Tu stai facendo il possibile, vero iatré?” Sente il fruscio del vestito di Philippos avvicinarsi e fermarsi d’improvviso.
“Voi state impazzendo tutti. Quell’altro mi accusa di non sapere niente, e sta bene. Tu dubiti che io stia trascurando qualcosa di proposito, e questo no. Siete allo sbando.”
“Io non dubito niente, iatré.” A un tratto gli sembra che le sue dita non siano più altro che delle informi macchie chiare contro lo sfondo scuro del legno chiazzato dal vino. “E lo sbando, quello vero, deve ancora venire. E vedrai che non tarderà. Lo riconosceremo tutti, quando arriverà. Ah, sì, eccome se lo riconosceremo.”
“Non mi riguarda, soldato.” Philippos si sciacqua le mani in una bacinella e volta le spalle a Peukestes. “Io devo occuparmi di lui, e basta. Per il resto dovete vedervela voi.” Si avvicina al letto lentamente – sente un sibilo continuo nelle orecchie; scuote la testa per scacciarlo, ma quello peggiora.
“Ah, iatré, è il favorito degli Dei. Lo devono salvare, e lo salveranno.”
“Ah sì?” Il medico si china su Aleksandros e scioglie con attenzione i nodi delle garze strette attorno al petto.
“Guardalo.” Allenta le bende – una a una. “Guardalo ora.”
Peukestes lancia un’occhiata veloce alla figura bianca, alla linea slabbrata e rossa e viola su quel petto – odiosa e oscena come il dito di un dio indifferente che prema sotto la pelle e gli scavi dentro curioso, cercando qualcosa. Non riesce a guardare ancora – non ce la fa – sul tavolo, le sue mani incolori sono così estranee che lo tranquillizzano.
“Non riesci a guardarlo?” Nella voce di Philippos non c’è scherno – non c’è irrisione – non c’è quasi niente. Solo l’eco di una certezza che si ripresenta ogni volta con la pretesa di essere ascoltata.
Gli Dei lo devono salvare. Proprio tu, Peukestes?, tu hai tolto la freccia dal polmone del divino figlio di Zeus, e mi vieni a parlare di Dei?” Passa un dito sul taglio e storce la bocca. “Se lui muore, muore l’unico dio che io conosca, l’unico che tutti noi abbiamo conosciuto. Non gli resta che salvarsi da solo.”
(Sempre tutto da solo, mio Re?)
Sente il rumore di qualcosa che si rovescia, poi la luce ondeggia in brevi lampi rossi accesi da un impercettibile soffio d’aria quando Peukestes esce dalla tenda.



– – –



Da solo è come se stesse camminando.
Potrebbe far impazzire chiunque – il semplice non riuscire a sapere, non riuscire a capire.
Soffi d’aria che gli vengono incontro, lo sfiorano e muoiono contro la sua pelle – sulla sua pelle – nella sua pelle – buio nel buio – ombra nell’ombra – le risacche senza tempo di vecchi sogni mai sognati, di pensieri inespressi e lasciati andare, di parole appena sussurrate.
Poi, tutto torna a lui – violentemente – nell’istante lunghissimo di un battito di ciglia.
Forse gli uomini non sono altro – immagini e fantasie sullo sfondo delle palpebre socchiuse di Kronos, condannati a dissolversi quando il vecchio per un momento spalancherà gli occhi sull’abisso buio e luccicante dell’eternità e darà inizio al suo pasto.
Il vento caldo e nero gli porta rumori attutiti.
Bisbigli lontani.
La cantilena inquietante di una filastrocca sconosciuta, scandita da una voce tesa e sottile che lo osserva nel buio.
Le risate di bambini che si nascondono la bocca con le mani.
Poi, il mormorio rassicurante delle onde.
Per un momento gli sembra di vedere il luccichio della spuma che avanza leggera sulle creste d’acqua, avvicinandosi alla riva inesistente – sempre più vicino. Ma forse non è altro che il riflesso del suo desiderio irrealizzato che torna a lui e lo schiaffeggia e lo deride per l’eternità – l’ultimo sogno irraggiungibile nel buio e nel caldo – megale thalassa, thalassa, il grande mare.
Ha corso e sanguinato per una vita, e ora nel suo pugno non ha che il suono amaro dell’unica meta che gli è sfuggita. Ma anche questo diventerà sempre più debole e si dissolverà – e poco dopo, chissà, svanirà anche lui.
Non ha paura.
Solo, sperava che non sarebbe rimasto solo – lo credeva – lo sapeva.
Lui gliel’aveva promesso.
Gliel’aveva promesso.
Fino alla fine. La fine di tutto. Insieme.
Ora la fine gli respira addosso, e lui non c’è.
Cerca di ascoltare meglio, di sentire se le onde portano anche l’eco della sua voce.
Ma le risate dei bambini diventano all’improvviso troppo forti – e il suono del mare aumenta come se fosse reale, e il vento lo stesse gonfiando di più e di più.
Poi, qualcosa di liscio e freddo gli sfiora una mano e una voce infantile gli parla all’orecchio: “Era questo che volevi.” E altre due voci riprendono – “la fine” – “il limite”.
Poco più lontano, lungo la riva invisibile, altre cominciano a parlare in una lingua sconosciuta. “Sei arrivato dove volevi.”
– “Thalassa.”
– “È questo che senti. Il vero Oceano.”
– “Gli altri sono solo pallidi riflessi, cosa credevi?”
– “È questo che senti. Il vero limite. Quello che cercavi, quello che volevi.
– “Oltre non c’è altro. Sei arrivato al vero limite. Dove solo noi siamo.”
Silenzio. Resta solo la bambina che canta lontano – ha ripreso la filastrocca di prima.
Gli fa male la testa. Cerca di premersi le mani sulle tempie e di sentire l’eco della voce che lo chiama, da oltre il mare nero – perché lui sa che lo sta chiamando.
Deve essere così.
Lo sta chiamando.



– – –



“Come va?” Perdikkas spiana con un piede la polvere ammucchiata a terra e si mette a sedere.
Peukestes strappa un filo d’erba ingiallita e lo fa scorrere fra le dita. “Male.”
“Gli uomini sono preoccupati.” Si guarda intorno con gli occhi socchiusi. Gli bruciano dal sonno, ma non riesce a dormire. “Si stanno agitando.”
Sotto di loro – attorno a loro – brillano i punti dei fuochi accesi nell’accampamento, sotto il cielo che schiarisce lentamente.
Peukestes si caccia lo stelo fra i denti e lo morde con la fronte contratta.
“E nell’accampamento a sud?”
“Li ho fatti avvisare subito, lo sai.”
“E non ti hanno mandato nessuna risposta?”
Perdikkas si piega in avanti e punta i gomiti sulle ginocchia.
“Quale risposta avrebbero dovuto mandare?” Si stringe nelle spalle.
“Dovremmo avvisarli di nuovo?”
Si volta verso l’ombra che vede al suo fianco e la osserva – si riconosce nella schiena incurvata, nella testa bassa, nel luccichio degli occhi arrossati che cercano di guardare lontano e battono e ribattono contro l’orizzonte che sbiadisce.
“Per dirgli cosa?”
Un cane abbaia da qualche parte vicino a loro; si sente il tintinnio di una catena, poi il verso lungo e cupo di un animale sconosciuto.
“Quanto tempo è passato, ormai?”
“Questa è l’alba del quarto giorno.” A oriente, banchi di nebbia umida e vischiosa si accendono di una strana luminescenza bianca.
“Credevo fosse di più.”
“Perché?, ti sembra poco?” Con una smorfia, Perdikkas si sfila il pugnale dalla cintura e traccia dei segni nella polvere, contando di nuovo in silenzio.
“No.” Peukestes sputa via il filo d’erba e ne strappa un altro. Comincia a piegarlo e a spezzarlo. “No. È solo che…”
“Sì, lo so.” L’altro alza di nuovo le spalle. “Sembra molto di più, non è così?”
Peukestes annuisce in silenzio. Poi volta la testa dall’altra parte, e continua a voce bassa: “Cosa faremo se non andrà bene?”
Silenzio. In lontananza una sentinella chiama, e un’altra risponde. Di nuovo silenzio. Poi: “Non pensarci nemmeno. Gli Dei non devono sentirti.”
“Philippos dice che gli Dei non se ne preoccupano. Che si sono voltati dall’altra parte. Può salvarsi solo lui.”
“Sì.” Perdikkas osserva i riflessi opachi correre sulla lama del pugnale mentre la muove. “Solo lui può salvarsi. D’altronde, credi che potremmo aiutarlo in qualche modo ora?”
“Noi? Non credo.”
“Noi no. Noi non possiamo.” Con un movimento improvviso del polso conficca la punta del pugnale nella terra e resta a guardare la lama oscillare in silenzio. “È solo lui che può salvare tutti noi.”
“E nell’altro accampamento?”
“Che vuoi dire?” Si mette in piedi e si appoggia a un palo scheggiato alle sue spalle.
Peukestes si stringe nelle spalle. “Lo sai. Ptolemaios, Nearkhos. Ormai ci sarà anche Krateros.”
“Sì.” Incrocia le braccia sul petto con un sorriso strano. Non li ha elencati tutti. “E poi?”
“Poi c’è anche lui.” Peukestes continua a strappare piccoli pezzi del filo d’erba mentre si alza in piedi. “Come staranno?”
“Peggio di noi.”
“A volte credo che potrei impazzire. Tutto quello per cui ho sputato sangue se ne potrebbe andare in un soffio.” Apre la mano e osserva i frammenti d’erba cadere oscillando nell’aria stantia, finché non riesce più a distinguerli nella penombra. “Non so pensare come potrebbe essere stare peggio.”
“Allora prova a pensare a come starà lui esattamente ora.”
Peukestes incrocia le braccia sul petto e si dondola sui talloni. “Credi che saprebbe aiutarlo?”
“Ah, non lo so.” Perdikkas agita una mano infastidito. “Non so cosa pensare, non ho nemmeno voglia di pensare. Forse. Lo sai come sono, loro. Da quando eravamo ragazzi. Sono sempre stati…” si ferma cercando qualcosa nella penombra. A est, la nebbia che galleggia sull’orizzonte si fa sempre più chiara. “Sono sempre stati… loro. Non so come spiegartelo, ma tanto lo sai anche tu. A volte ho avuto l’impressione che noi saremmo potuti esserci o non esserci, e per quei due non avrebbe fatto alcuna differenza.”
“Sì. A volte erano insopportabili.” Un sospiro più forte – vorrebbe fare una risata, ma riesce a sputare fuori poco più di un rantolo.
“Ti ricordi quella volta?, quando noi eravamo seduti lì intorno al pozzo e loro…” e adesso succede una cosa strana – risente il sole e l’aria fresca di primavera sul viso, l’odore della resina degli alberi e dell’erba bagnata, rivede la linea d’ombra del tetto del portico e i visi di tutti, riascolta la voce di Aristoteles e il sussurro di Hephaistion e la risata squillante di Aleksandros – è tutto lì, nei suoi occhi, nella sua pelle, nella sua mente – ma non riesce a trovare una sola parola. Una sola parola che sappia tirar su un lampo di immagine da quel pozzo di ricordi e rovesciarlo nell’aria afosa che odora di piante sconosciute. Poi, un solo pensiero gli attraversa la mente con un sibilo e gli si conficca nel cuore – ma eravamo veramente noi?
E dopo tutte le veglie, le ferite, gli assedi, le battaglie, ha paura come non ne ha mai avuta.
Poi, un po’ alla volta, riprende a sentire la voce di Perdikkas che ha ricominciato a parlare.
“Se Philippos ha ragione, siamo tutti nelle mani di Aleksandros, non è così?”
“Sì. Ma non è una novità.”
La nebbia a est si infiamma d’oro, ma loro non si muovono.



– – –



Ed è tutto?
Rumori e odori che sanno di mare e che pizzicano sulla punta della dita.
Questo, e nient’altro?
Tutto qui?
Cascate di vite che naufragano in una distesa fragorosa.
Corse, tensioni, risate, lacrime, sangue, sudore, vittorie, ferite – e alla fine, questo.
Eccolo – Thalassa – è qui, davanti a te – intorno a te – non sei contento, ora? – non sei felice, ora?
No. (Tutto qui?)
La perfezione è sempre poco più in là – un tuffo oltre gli scogli – un passo oltre la linea dell’acqua – una vela che guadagna il nuovo orizzonte.
La perfezione è qualcosa che manca – qualcuno che non c’è.
(Qualcuno che non c’è.)
Forse un giorno i pescatori vedranno il mare agitato in tempesta, stringeranno fra le dita bagnate le sponde di legno delle loro barche e, per calmare le onde, chiederanno dove sei, e da soli risponderanno che tu sei ancora vivo, e ancora regni.
E le onde si calmeranno – sì, le onde si calmeranno. Si ricorderanno di te, che le volevi solcare – di te, che le hai guardate senza saperlo – di te, che sull’ultimo orlo del tempo hai scelto di tornare a casa.
(Casa)
E tu per ora guardi il buio e ricordi il fantasma di un nome sconosciuto e non riesci a ritrovarlo mentre le voci dei bambini ti cantano nelle orecchie per tenerlo lontano.
Urli dentro di te per fare spazio – e poi – ecco – casa.
Credi di averla cercata per una vita, correndo e inciampando e rialzandoti su tutte le terre – avanti e avanti e avanti.
Ma solo ora, per un attimo, ricordi quello che hai sempre saputo.
Casa – il profumo tiepido di chi ti dorme accanto la notte prima della battaglia – una ciocca di capelli neri fra le dita – una parola mormorata all’orecchio – un sorriso regalato nel momento in cui nessun altro avrebbe osato, né voluto.
E occhi scuri. Così scuri.
La voce che ti sta chiamando e che non riesci a sentire – i bambini urlano troppo.
Ma ti sta chiamando – lo sai.
Lo sai.
E allora non resta che una cosa da fare.
L’ultima.
(L’ultima)
È la sola cosa che non puoi perdere. Per il resto, non ci può essere altro.
L’oceano resta lì a guardarti, freddo e nero e infinito come il tempo – i bambini urlano la loro cantilena – e tu lotti per te e per lui – per l’ultima cosa che ti resta, e l’unica che forse hai mai avuto.
L’unica che forse hai mai avuto.



– – –



Philippos si rimette a sedere.
Guarda le bende sporche attorcigliate a terra come vecchi serpenti – si guarda le mani che da qualche tempo hanno cominciato a tremare quando è molto stanco – guarda il suo Re – e chiude gli occhi.
Gli sembra di pensare qualcosa, o forse di sognarla – gli sembra che trascorra un solo istante, e di sentire una voce. Non sa se lo stanno chiamando – forse Perdikkas, o Peukestes, Leonnatos, o chi altro? Gli fa male la testa e non vuole svegliarsi. Gli piacerebbe restare così. Poi un soffio d’aria fredda gli fa correre un brivido lungo la schiena e, quando si risveglia, c’è lui che lo sta guardando.
È solo lo scintillio degli occhi lucidi sotto le palpebre socchiuse, nello strano intreccio di ombre e luci ondeggianti.
In un attimo, la sensazione di trovarsi di fronte a uno sconosciuto lo attraversa e resta sospesa nell’aria, poi si allontana strisciando.
Philippos raddrizza la schiena raggelato – “basileu” – e non dice altro. Osserva quei bagliori e ne ha paura – non ricorda di averli mai visti – di averli mai visti così. Ha visto quegli occhi illuminati da ghiaccio e fiamme, ma mai così. Nella sua mente vortica una domanda soffocata dalla paura – chi sei, tu? – che gli riecheggia fra cervello e cuore. Poi vede l’ombra di una mano che cerca di sollevarsi e che ricade stanca, la testa che ruota verso di lui, la luce che investe il viso e le labbra socchiuse – e lo riconosce.
Basileu” – si alza con le mani contratte e gli si avvicina con un sorriso stirato che non riesce a trattenere – “basileu” – immerge una coppa in una ciotola e con un lembo del vestito asciuga le gocce che scivolano sui bordi – “basileu” – solleva la testa di Aleksandros (la pelle bollente fra i capelli sudati), e gli avvicina il calice alle labbra bianche.
“Cerca di bere, basileu, è importante.”
E Aleksandros prende un sorso, forse due – poi volta il viso con una smorfia.
Philippos insiste ancora, finché un nuovo sguardo non lo fa allontanare. Si morde un labbro guardando distrattamente le ciotole piene di erbe tritate e le garze ancora pulite, poi gli appoggia una mano sulla fronte: “Devi riposare, Re.”
Gli occhi di Aleksandros lo osservano lontani.
“Tutto questo è un buon segno.” L’aria gli scivola via fra i denti stretti mentre ripensa alle sue parole, sproporzionate e contratte fra la voglia di correre fuori e avvertire gli altri, e una paura strana che non lo lascia muovere. “Buon segno, sì. Ma devi ancora riposare.”
Il viso pallido e immobile che ha di fronte lo gela all’improvviso con un pensiero. Parla piano, spaventato dall’idea di essere sentito e da quella di non avere una risposta: “Capisci quello che ti sto dicendo, vero, basileu?”
Una freccia d’ombra attraversa quegli occhi stanchi, e Philippos non riesce a trattenere un sorriso. “Sì, mi capisci, Re.” Si china a sfiorare le bende sul petto che si alza lentamente nel respiro. “Forse in fin dei conti Peukestes aveva ragione, e gli Dei ci sono vicini. Ora cerca di riposare.” Si passa una mano sugli occhi e si volta per uscire velocemente.
Iatré. Philippe.
La voce roca e sconosciuta lo raggiunge alla schiena – colpo di lancia che lo inchioda di fronte allo spacco della tenda rossa e lo fa voltare. “Dimmi, Re.”
Il viso di Aleksandros è scivolato di nuovo nella pozza di oscurità, e non riesce a vederlo – da lì arrivano solo il luccichio degli occhi e la voce sconosciuta.
“Gli Dei. Sono dei bambini.” E cantano il destino degli uomini in filastrocche orribili. Solleva appena una mano e osserva Philippos voltargli le spalle incerto, e scomparire in silenzio.
Chiude gli occhi pensando.



– – –



Non sa quanto tempo sia passato.
Ha pensato – pensato – cercato di ricordare.
Nel buio degli occhi chiusi che gli ricorda l’infinito nulla di un mare nero, ha saputo e capito che non c’è più niente – niente di certo – niente di raggiungibile – se non una cosa.
E tutte le strade di un mondo sognato e di un mondo smentito convergono in un solo punto.
Il solo punto a cui ora vuole tornare.
È l’unica cosa di cui è certo quando riapre gli occhi e li socchiude di nuovo, improvvisamente, alla luce delle lampade. I frammenti dei suoi pensieri e brandelli di suoni e immagini lasciati alle spalle lo hanno portato di nuovo lontano, e le voci oltre la parete oscillante della tenda lo richiamano indietro.
Sente Philippos parlare velocemente a bassa voce, e lo immagina con le braccia tese e le mani contratte sulle spalle di qualcuno.
“No. Non mi interessa.”
“Voglio vederlo.” Peukestes?
“Sì. Potresti anche vederlo, se non fossi sicuro che con te entrerebbe anche questo qua.”
Un sospiro nervoso, poi la voce di Perdikkas che non riesce a restare bassa. “Iatré, è importante. Fammi passare.”
“Ti ho già spiegato. Non puoi farlo preoccupare, ora.”
“È il Re.” La voce sale e diventa quasi stridula nello sforzo di non urlare. “Lui deve…”
“Deve riposare. Sta ancora male, stupido. Tu non entri.”
Silenzio. Peukestes mormora qualcosa, Perdikkas risponde con la voce tesa: “Non prendo ordini da te, medico. E…”
Aleksandros solleva la testa verso il fondo della tenda – “pauesthe! Smettetela…” poi si lascia andare di nuovo, domandandosi se l’abbiano sentito. Neppure lui riesce a riconoscere la propria voce, ma non è una cosa che gli interessi. Sente qualcosa di liquido risalirgli la gola, e mentre tossisce per allontanarlo gli arriva il suono dei passi che si avvicinano, improvvisamente timorosi.
Li osserva entrare uno alla volta, con la testa bassa e gli occhi che in silenzio lo scrutano dal basso, spalancati nelle orbite arrossate.
Perdikkas si avvicina a passi grandi e si ferma all’improvviso, con un sorriso largo e tremante bloccato sul volto. Peukestes resta a guardarlo da lontano, mentre gli occhi gli si fanno lucidi.
Philippos entra per ultimo, con le spalle curve e il livore della preoccupazione sul viso appuntito dalla stanchezza.
“Re. Aleksandre.” Il sorriso di Perdikkas trema ancora e si infrange in una smorfia di sollievo, dimentica di tutto. “Siamo così felici, Aleksandros. Così felici. Non puoi sapere.” Si rigira qualcosa fra le mani.
Aleksandros accenna un sorriso sollevando un angolo della bocca e sente le punture insignificanti degli spacchi che quel movimento gli apre sulle labbra ancora secche. Solleva un dito indicando la custodia stretta fra le dita pallide di Perdikkas.
“Quella. La cosa importante.”
“Che…” Perdikkas lo guarda confuso per un istante, poi abbassa gli occhi imbarazzato sull’astuccio di cuoio e ne fa scivolare fuori l’estremità di una pergamena. Rimane a osservarla quasi sorpreso, e cerca inutilmente un aiuto negli occhi di Philippos – ma Philippos gli volta le spalle e si avvicina al Re, cerca di aiutarlo a sostenere la testa. Perdikkas fa scorrere la pergamena fuori dalla custodia con un sospiro.
“Sì, era questa la cosa importante. Ma forse aveva ragione il medico. La cosa importante sei tu.”
Aleksandros allontana Philippos con un gesto della mano e un altro sorriso amaro. “Leggi.”
Perdikkas srotola incerto un lembo del foglio: “Al generale Hephai…” comincia e si ferma. La voce gli trema e sente di non poterla controllare (non l’ha mai dovuto fare prima – non ha mai tremato così neppure negli urli più alti delle battaglie). Sente che leggere tutto è tanto inutile quanto importante. Si passa una mano sulla fronte contratta.
“Basta che tu firmi, Aleksandre. Firma, e fa’ sapere che sei ancora vivo. Alcuni non ci credono. E nell’accampamento a sud, loro… loro non sanno.”
Vede la maschera dura e bianca del viso di Aleksandros – ciocche di capelli bagnate di sudore intrecciate sulla fronte, labbra bianche, occhi lontani sotto le sopracciglia che tremano contratte – capisce cosa sta pensando e non parla oltre. Non ne ha il coraggio.
Non ci sono parole.
“No. Non firmo.” Con il respiro spezzato Aleksandros cerca di alzarsi su un gomito.
Philippos gli è di nuovo accanto, una mano sulla spalla e i denti stretti per ingoiare il nervosismo. L’unico modo per provare a farlo ragionare.
“Sta’ giù, Re. Non puoi muoverti così.”
Ma Aleksandros lo ignora. Non ha voglia di aspettare – non può aspettare. Perché aver sofferto tanta fatica, tanto dolore, se ora deve aspettare ancora? C’è forse qualcosa di utile o buono, al di fuori di lui? Qualcosa per cui valga la pena anche solo sforzarsi di vivere?
(No – no, non c’è altro – nient’altro oltre la cantilena spaventosa degli Dei annoiati, e il rumore delle onde che erodono il tempo).
“Voglio che sia inviata un’altra lettera. Una nuova.”
Osserva i visi confusi e sbiaditi degli altri, punta gli occhi a terra cercando ancora le parole che gli servono e che continuano a sfuggirgli – vuole solo poter tornare presto ai suoi pensieri. “Deve dire che io sarò all’altro accampamento. Presto.” Annuisce lentamente soffiando fuori l’aria con un sibilo. “Presto.”
Si lascia ricadere disteso socchiudendo gli occhi. L’ultima cosa che vede è la bocca incredula di Philippos che si volta verso gli altri cercando un appiglio, e poco dopo arriva il suono secco delle sue parole: “È impossibile. Fuori discussione.”
Iatré. Decido io cosa è in discussione.” Si accorge di non riuscire a parlare a lungo. Ha bisogno di aria. Ma ormai non è importante. C’è solo una cosa importante. “Io sarò lì. Presto. Tre giorni da ora.”
Philippos si batte le mani sulle gambe. “Come?” Sente che potrebbe urlare. “Non puoi cavalcare. Non ti lascio cavalcare, Re.”
“Non cavalco.” Si passa la lingua secca sugli spacchi della labbra. “Scendiamo sul fiume.”
Nessuna risposta, per così tanto tempo. Spera che se ne siano andati senza rumore, che lo abbiano lasciato finalmente solo con quello che vuole pensare; ma d’un tratto sente fremere la voce tesa di Peukestes – “sarà tutto pronto, Re” – e i passi suoi e di Perdikkas che si allontanano.
Quando socchiude gli occhi, lì con lui è rimasto solo Philippos – le spalle curve e un bicchiere vuoto che gli pende dalle dita.
Philippe. Efcharistò, Philippe. Grazie.
Philippos solleva le braccia e le lascia ricadere senza forza.
“Forse sto diventando vecchio, Re. E forse tu sei pazzo.”
“Sì. Ma tu vuoi che io guarisca.” Si ferma per raccogliere le ultime parole e gli ultimi respiri. “Per questo devo andare. Non c’è altro modo.” Philippos non ha capito, ma ora non importa.
Ora non c’è altro d’importante.
Solo arrivare presto a casa.












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Capitolo 4
*** Ouranòs ***


Ouranòs.




Gli uomini si sono radunati davanti alla sua tenda.
Non saprebbe dire quanti sono, da lontano gli appaiono come un indistinto groviglio di corpi, sagome appuntite stagliate contro i profili scuri dell’accampamento.
Per un attimo teme che siano solo ombre e si chiede se non stia ancora sognando, se tutto ciò non sia nient’altro che l’orribile conclusione di un incubo durato troppo a lungo.
La voce di Ptolemaios lo riscuote dal suo stordimento, riportandolo bruscamente alla realtà.
“Ci saranno almeno una trentina di soldati, Hephaistion. Forse di più. Era prevedibile. Ora che hai intenzione di fare?”
Hephaistion alza il viso e gli uomini sono ancora lì – li hanno visti avvicinarsi e adesso vengono loro incontro sparsi in piccoli gruppi, sguardi accesi e fiduciosi sulle facce stanche.
Hephaistion socchiude gli occhi, sforzandosi di delineare i volti, di richiamare i nomi alla memoria. Conosce quegli uomini. In un altro momento, di loro potrebbe elencare ogni singola ferita, ogni battaglia, persino il nome del loro cavallo. Uomini onesti, soldati fedeli e instancabili. Sono l’esercito che ha condotto tutti loro oltre montagne e pianure, fuoco e ghiaccio – attraverso terre ostili e cieli stranieri.
Uomini leali. I suoi uomini.
Eppure in questo momento non riesce a discernere un singolo nome, un qualche particolare che possa far affiorare un ricordo, una faccia, una parola amica scambiata davanti al fuoco di un bivacco o gridata nello schianto fragoroso della battaglia.
Vuoto. Tutto è vuoto umido e soffocante.
Sente che dovrebbe fare uno sforzo per ricordare, basterebbe un nome, uno soltanto. Pensa di dover loro almeno questo – i suoi uomini si aspettano qualcosa da lui, è tenuto a rammentarsi di loro. Ma crepe dolorose di memoria continuano ad aprirsi nella mente offuscata, lasciando solo tracce di rosso dietro le palpebre chiuse.
Intanto Ptolemaios si è fermato e i soldati paiono ignorarlo. Sono tutti concentrati su di lui, stanno tutti guardando lui – ma poi perché, nel nome degli Dei?
È pronto ad affrontare tutto ma non questo. Non queste facce interrogative, questi sguardi perduti che sembrano chiedere – esigere – risposte che non riesce a dare neppure a se stesso. Risposte a cui non vuole pensare.
Non ancora.
Fa un passo avanti, nonostante la sensazione che la terra stia per squarciarsi e inghiottirlo vivo, e apre la bocca per parlare – senza sapere che cosa dirà – ma i polmoni sembrano dilatarsi a vuoto, risucchiando aria in un rantolo.
Un uomo dai capelli biondi e gli occhi di un azzurro profondo si stacca dal gruppo e si avvicina a lui, esitante. Gli poggia una mano sulla spalla.
Un nome. Finalmente riesce a richiamare un nome e tutto sembra tornare alla memoria in un flusso impetuoso, la consapevolezza riassalirlo feroce come una lama di luce, con il suo carico di suoni, odori, voci, colori troppo vividi perché possa sopportarli.
Per un attimo prova la tentazione di tornare indietro e rituffarsi in quell’oblio ovattato di non-realtà. È meno dolorosa, è meno esigente e sembra avvolgerlo in una coltre tiepida e protettiva – anche se tutto puzza di morte.
Ma sa di non poterlo fare e si aggrappa di nuovo a quel nome, nitido e sonoro e familiare come il calore di un respiro in una mattina d’inverno.
Lysios.
Suo fratello.
Ha gli occhi cerchiati e il viso stanco, persino un accenno di barba sulla pelle liscia delle guance, ma è lui, non c’è dubbio, lo riconoscerebbe a occhi chiusi, suo fratello.
Annaspa per trovare le parole, aggrappandosi al calore della sua mano sulla spalla, e la gola riarsa sembra rivoltarsi contro di lui in una serie di conati di vomito.
È Ptolemaios che viene finalmente in suo aiuto. Caro, vecchio Ptolemaios, perennemente maldestro eppure così tempestivo allo stesso momento.
“Che cosa sta succedendo qui, Lysios? Sbaglio o questi fannulloni sono uomini del tuo squadrone?”
Lysios si volta verso di lui e, per un attimo, Ptolemaios ha la sconvolgente impressione di sentire il suo collo scricchiolare mentre ruota sul perno delle spalle.
Poi la sensazione passa, e resta solo Lysios con i suoi occhi stanchi e la pelle tirata sugli zigomi pallidi.
“No, non ti sbagli.”
Ptolemaios fa un gesto spazientito con la mano, mentre i soldati si raggruppano l’uno accanto all’altro, sempre in silenzio, sempre con la stessa espressione di stolido smarrimento sulle facce smagrite.
Hephaistion si passa una mano sulla fronte. Sente quegli sguardi su di lui, posarsi irrequieti sul suo volto, frugargli tra le pieghe della pelle, in cerca di risposte.
Ptolemaios è in torto: non ci sono solo gli uomini di Lysios; soldati del quarto Ilai di cavalleria, certo, ma anche uomini dei reparti di fanteria, ipaspisti sfregiati dalle cicatrici e cavalleggeri tessali dai ruvidi capelli rossi; opliti greci con le spade che penzolano dai fianchi e traci dipinti di blu; agriani dalle iridi cerulee e spalle robuste come orsi, e perfino qualche giovane scudiero troppo intimidito per fare qualcosa di più che puntare testardamente gli occhi verso il terreno.
Il dolore alla testa sembra tornare con la violenza di una piena. Sente la stretta di Lysios intensificarsi sulla sua spalla, farsi quasi dolorosa.
“Sei tu il loro comandante, Lysios.” La voce di Ptolemaios risuona stanca nell’aria notturna, “questa è la tua Ilai, ragazzo, e non sei il loro tetrarca per nulla, non certo per farli bivaccare davanti a questa tenda come un branco di scansafatiche. Dunque vorresti spiegarci che cosa…”
Hephaistion scuote la testa, impercettibilmente, e la frase di Ptolemaios resta troncata a metà, sospesa in mezzo a tutti loro.
“Immagino che siano qui per fare delle domande, non è così?”
Lysios si volta verso di lui, annuendo.
“È così, Hephaistion. Gli uomini erano nervosi e preoccupati. Non avevo altra scelta, mi dispiace. Vogliono parlare con te, è l’unico modo per… per farli calmare.”
Per un attimo Hephaistion sembra vacillare, come colpito da un schiaffo. Ptolemaios prova l’istinto di agguantarlo per un lembo del mantello, ma dopo un istante Hepahistion è di nuovo eretto, lo sguardo dritto davanti a sé, e Ptolemaios torna a chiedersi se non abbia immaginato anche questo.
Osserva il suo volto, le occhiaie profonde, la pelle segnata dalla stanchezza e si rende improvvisamente conto di quanto sia vicino al limite, di quanto poco gli manchi per crollare, una volta per tutte.
Come ha potuto non rendersene conto prima?
“Abbiamo già detto agli uomini tutto ciò che sapevamo,” scandisce a voce alta, lo sguardo ancora fisso su Hephaistion. “Non c’è nulla che né io né tuo fratello possiamo aggiungere in merito.”
I soldati, raccolti in cerchio attorno a loro, sembrano dare segni di nervosismo a quelle parole – piedi che si spostano nella polvere, armi che oscillano e tintinnano nel buio – ma il silenzio rimane palpabile. Assoluto.
“… Perdikkas ha inviato una lettera in cui ci informava che il Re è stato colpito da una freccia durante l’assedio al fortilizio dei malli, quattro giorni fa. Versa in condizioni gravi, ma è vivo, sebbene al momento del dispaccio non avesse ancora ripreso conoscenza…“ Ptolemaios sposta gli occhi sulla colonna dei soldati ma i loro sguardi sono ancora puntati su Hephaistion, che continua a tacere.
“… Al momento non possono dirci quando potrà raggiungerci, né abbiamo avuto nuove sulle sue condizioni, ma se ci fossero stati peggioramenti sta’ certo che l’avremmo saputo…” fa una pausa, trattenendo il respiro, poi aggiunge sottovoce: “… e non sono io a doverti ricordare che mantenere la disciplina tra i propri uomini è di vitale importanza, in un momento come questo.”
“Le voci che si sentono in giro per l’accampamento sono diverse, Ptolemaios, se solo tu ti prendessi la briga di ascoltarle,” lo interrompe Lysios in un bisbiglio. “Gli uomini credono che Perdikkas non abbia detto la verità. O che noi teniamo nascosto qualcosa…”
“Che sciocchezza!” Ptolemaios alza il tono tutto d’un tratto e il brusio che aveva cominciato a diffondersi tra le file dei soldati cessa di colpo. “Non c’è nulla che non sia stato letto o detto in pubblico. Il Re è ferito ma starà bene, e raggiungerà l’accampamento non appena gli sarà possibile. Al momento non sappiamo di più, e non c’è altro da aggiungere.”
Un vecchio si avvicina silenzioso, mettendosi davanti al cerchio dei soldati.
Hephaistion alza gli occhi e incrocia lo sguardo liquido e stanco dell’uomo. Sa bene chi è, un anziano arciere di sangue cretese che conosce da sempre, sin da quando era poco più che una recluta nei reparti di cavalleria al comando di Philippos.
Si chiama Koinus, si ricorda bene di quando gli insegnava a tendere l’arco – così tanti anni prima – le volte in cui i soldati venivano a prelevare lui e gli altri ragazzi a Mieza, per condurli al campo d’addestramento dove venivano educati alle armi. Ricorda la solida cittadella fortificata a non più di mezza giornata a cavallo da Beroia, a sud del fiume Haliakmon e vicino ad Aigai, dove era di stanza un contingente permanente incaricato di presiedere i confini attorno alla vecchia capitale. Venivano portati lì ogni mese, sotto il comando di Kleitos e Parmenion, affinché imparassero finalmente cosa voleva dire essere uomini.
Cosa voleva dire essere macedoni.
Koinus l’aveva visto ancora imberbe – un giovane soldato inesperto e dalle braccia troppo magre per scoccare una freccia o impugnare saldamente una spada – mentre adesso è il suo comandante, la sua unica guida in questo accampamento dimenticato dagli Dei e lontano miglia e miglia dalla sua terra.
È il suo comandante e deve qualcosa a Koinus, deve qualcosa a tutti coloro che, come lui, li hanno seguiti fin qui, destinati probabilmente a morire sotto cieli sconosciuti e stelle indifferenti. Alza il volto, fissando gli occhi in quelli azzurri del soldato.
“Parla, Koinus.”
La sua voce risuona chiara e sicura come sempre, lui stesso ne rimane sorpreso. Tutti gli sguardi sono di nuovo su di lui, anche quelli di Lysios e Ptolemaios, che hanno smesso di discutere.
“Parla, non avere paura.”
Il soldato raddrizza le spalle, si guarda attorno, poi torna a puntare le iridi azzurre nelle sue.
“Tutti abbiamo sentito quello che ha detto Ptolemaios. Il Re è ferito. Il Re tornerà. Ma tu…” Fa una pausa, fissando il volto del suo comandante, “tu, che cosa pensi veramente, Hephaistion? È tutto quello che vogliamo sapere. Tutto quello che ci serve di sapere in questo momento.”
Il silenzio è perfetto. Uomini per loro natura chiassosi e selvaggi sono annichiliti da una paura muta.
Hephaistion vorrebbe gridare che non sa nulla, vorrebbe voltare le spalle e nascondersi nel buio della sua tenda, fino a dimenticarsi di esistere. Ma questo non gli è permesso. L’angoscia per l’ignoto e gli sguardi svuotati, lo stupore muto e il terrore strisciante sono concessi ai soldati, non ai generali.
Non a lui, quantomeno.
Distende la schiena e solleva la testa, ritrovando la postura sicura che i soldati hanno imparato a riconoscere – e a seguire – in battaglia.
“Il Re sta bene,” scandisce, e anche la voce risuona ferma, taglia l’aria notturna come una lama affilata. “Abbiate fiducia in lui. È forte, lo è sempre stato, e lo sarà anche stavolta. Tornerà presto da tutti noi.”
Un brusio leggero sembra spandersi tra i soldati, correre di bocca in bocca come l’onda placida di una risacca. Le sue parole hanno l’effetto di un incantesimo, una formula arcana e segreta con il potere di distendere i volti e guarire i cuori feriti dal dubbio e dalla paura. Occhiate eloquenti corrono da un uomo all’altro, e bisbigli e sussurri, persino lo scoppio improvviso di una risata.
Koinus annuisce, poi si volta verso i compagni e si riunisce a loro, mescolandosi alla folla. Come guidati da un segnale silenzioso, gli uomini cominciano ad allontanarsi alla spicciolata, a disperdersi tra le ombre. Nel mormorio indistinto delle loro voci, a Hephaistion è parso di udire anche il salmodiare sommesso di una preghiera.
Si volta verso Ptolemaios e non si stupisce di leggergli l’incredulità negli occhi, oltre a un sollievo troppo grande per essere espresso a parole. Non dice nulla, si limita ad annuire, poi gli volta le spalle ed entra nella tenda, seguito dall’amico e da suo fratello.
I pochi attendenti e i segretari presenti all’interno si discostano per farli passare, poi, a un cenno di Ptolemaios, escono in silenzio, lasciandoli soli.
Hephaistion si lascia cadere sulla sedia davanti al suo tavolo e alza la testa al soffitto; la tenda è in penombra, rischiarata solo dal fuoco di un paio di bracieri lasciati accessi. La candela sulla scrivania illumina la pergamena che giace aperta, spiegazzata dalla foga delle troppe riletture. Chiude gli occhi, non sopportandone la vista; quel maledetto dispaccio dice tutto e niente: è vivo, ma non ancora cosciente. Troppo poco per la sua sanità.
Troppo poco per continuare a respirare.
Lysios e Ptolemaios sono rimasti in piedi, muti e a disagio; può sentirli a occhi chiusi mentre lo osservano, le borchie di bronzo che tintinnano nei movimenti impercettibili, le troppe domande che avvelenano anche loro, e a cui non può dare risposta.
Viene riscosso da una voce concitata fuori dalla tenda, un latrare rabbioso che riconoscerebbe anche nello schianto della battaglia. Apre gli occhi in tempo per vedere Krateros irrompere all’interno, seguito da Nearkhos e da un altro paio dei loro uomini più fidati.
“L’accampamento è allo sbando, rischiamo una rivolta!” abbaia Krateros, senza dar tempo a nessuno di rivolgergli un saluto, ”e voi tre cosa fate? Vi rintanate qui come volpi spaventate?”
Ptolemaios gli rivolge uno sguardo che è come una sferzata. “Grazie per essercelo venuto a dire, Krateros. Ci era sfuggito questo particolare.”
Krateros ringhia qualcosa a bassa voce, poi fissa Hephaistion, che è rimasto in silenzio. Si avvicina al tavolo e prende in mano il dispaccio, facendoci correre sopra lo sguardo.
“Maledetto Perdikkas,” inveisce, stringendo la lettera nel pugno, “cosa aspetta a mandare altre notizie? Lo farei a pezzi, se ce l’avessi davanti.”
“Forse non ci sono nuove da inviare, ci hai pensato?” risponde Lysios, “le sue condizioni sono gravi ma stabili, l’hai letto anche tu. Avremo un nuovo dispaccio non appena…”
“Te lo dico io cosa avremo!” urla Krateros, facendolo sobbalzare, “Aleksandros è morto, e quegli idioti non sanno come dircelo. Ecco qual è la verità!” Sbatte la lettera sul tavolo, nel silenzio generale; l’unico rumore, i suoi respiri pesanti e lo scoppiettio del fuoco nei tripodi.
“Dobbiamo mandare un altro dispaccio,” continua, la voce più bassa, “ad Antipatros. Se Aleksandros è morto, la reggenza deve averne notizia quanto prima.”
“È tutto quello a cui sai pensare adesso?” Hephaistion alza la testa, la voce arrochita dopo il lungo silenzio. Ma il tono è fermo. Ha sopportato lo strazio di una lenta agonia negli ultimi quattro giorni, non intende sopportare anche lui. “Il tuo squisito senso pratico ti fa onore, Krateros.”
Krateros inghiotte un respiro, poi scoppia in una risata nervosa, che è come un colpo alle orecchie stanche di Hephaistion.
“Tu non hai motivi per preoccuparti, vero?” lo incalza, guardando in basso verso di lui, “fossi in te comincerei a farlo, invece di ritirarti qua a guaire come un cane senza il padrone. Come farai quando lui non sarà più qua a proteggerti?” Un altro scoppio di risa cattive. “Non hai paura di rimanere senza il tuo potere, philaleksadros?”
Hephaistion si alza di scatto, rovesciando la sedia. Si sente salire in gola tutta l’esasperazione covata per giorni, lasciata a sobbollire nell’attesa e nell’impotenza. Ora vuole solo sputarla fuori in un grumo di veleno mortale, e questo maledetto gliene sta dando l’opportunità. Oh, sì.
Per un attimo potrebbe persino amarlo.
“Se Aleksandros muore, sei tu quello a perdere tutto,” sibila, facendo un passo verso di lui. “Sei tu l’amico del Re, non io, come mi hai ben ricordato.” Gli si pianta davanti, le vene che si gonfiano nelle mani strette a pugno. “Pensaci bene, Krateros. Pensa bene a quel che dici, prima di riaprire quella latrina che hai per bocca.”
Krateros si lascia di nuovo andare a una risata pesante, scheggiata di rabbia. Anche lui fa un passo avanti, il petto che ora quasi sfiora il suo. “Finalmente una reazione dall’altero Hephaistion, il prode Hephaistion, sempre così controllato e sicuro di ogni cosa. Fai vedere chi sei veramente una volta per tutte, figlio d’una troia ateniese!”
Ptolemaios si slancia verso di loro, intercettando lo sguardo omicida negli occhi di Hephaistion, ma è troppo tardi. Hephaistion l’ha già afferrato per il collo della tunica e sbattuto contro il tavolo, un boato rabbioso che gli sale dal petto.
“Stavolta ti ammazzo davvero,” ringhia, e sa di essere pronto a farlo, “un’altra parola e ti cavo gli occhi con le mie mani.”
È solo un attimo: in un urlo di rabbia, Krateros lo afferra per le braccia e lo spinge via, avventandosi contro di lui con le mani ad artiglio. Lo colpisce alla mandibola, torcendogliela con uno schiocco sinistro; Hephaistion grugnisce qualcosa, il sangue che gli ribolle in bocca, ma in un istante è di nuovo su di lui, agile e pronto, a sferrargli pugni nel ventre con tutta la forza che ha in corpo.
Krateros sbatte contro il tavolo e finisce a terra, rovinando come un cinghiale abbattuto – ed Hephaistion è subito su di lui, le mani strette al collo, mentre l’altro si dibatte furioso, gli occhi iniettati di sangue, la voce un rantolo rabbioso.
È vagamente consapevole delle urla di Ptolemaios e delle invocazioni di Lysios, le orecchie sono piene solo del rombo del sangue e del gorgoglio di Krateros sotto le sue dita.
Si sente afferrare da sotto le braccia e spingere indietro con violenza, la voce di Lysios che grida qualcosa – “Phai!” e per un attimo ha l’istinto di voltarsi e prendere a pugni anche lui.
Ptolemaios si è inginocchiato accanto a Krateros, e lo sta aiutando a rialzarsi. Quest’ultimo tossisce e sputa sangue mentre si rimette in piedi, sorreggendosi al compagno.
Hephaistion continua a dibattersi per liberarsi, grida e impreca – la nube opprimente di rabbia che non accenna a sciogliersi: è ansioso di gettarsi in quella tempesta fino a rendersi incosciente – fino a dimenticare tutto.
“Basta così!” L’urlo acuto di Ptolemaios lo riscuote da quella furia cieca con la violenza di uno schiaffo. “Vi sembra questa la circostanza di mettervi a fare a pugni come due ragazzine isteriche? Cosa direbbe Aleksandros se vi vedesse ora?”
Hephaistion sussulta a quel nome – l’unica parola in grado di riportarlo in sé, come un richiamo dei vivi nel regno dei morti – e sente le energie scivolargli via, le gambe farsi molli. È grato a suo fratello per sorreggerlo, l’unica cosa che gli impedisce di finire a terra in un cumulo pietoso, ma un attimo dopo ritrova la forza e raddrizza la schiena, avvertendo la stretta di Lysios farsi più leggera.
“Puoi lasciarmi,” dice, voltando appena la testa. Poi, rivolto a Ptolemaios: “Sono calmo ora.”
Ptolemaios tiene a sua volta una mano stretta attorno al polso di Krateros, che è rimasto immobile ad ansimare, i segni sul collo che stanno già diventando violacei. Anche lui, però, sembra aver ritrovato il controllo, nonostante l’odio che gli appanna gli occhi.
Quello, però, c’è sempre stato.
Hephaistion si stacca dal fratello e si passa una mano tra i capelli, tentando di ritrovare un contegno. “Mi dispiace,” ammette, scoccando un’occhiata a Krateros, “ho perso la testa. Non avrei dovuto.”
“È il nervosismo. Ma dobbiamo rimanere uniti in questo momento.” La voce di Ptolemaios è placida e monocorde, come parlasse a un bambino. “Soprattutto in questo momento.”
Nessuno ritiene prudente aggiungere altro. Ptolemaios e Krateros si scambiano uno sguardo, poi quest’ultimo si avvia borbottando verso l’uscita, la mano poggiata sul collo, seguito a breve distanza da Nearkhos e dai suoi uomini.
Anche Ptolemaios gli va dietro, non prima di aver rivolto un ultimo sguardo a Hephaistion. “Vedi di riposare un po’. Ci riaggiorneremo domattina all’alba.” Poi, senza aggiungere altro, esce anche lui.
Hephaistion sospira – un suono strozzato, più simile a un lamento. Si tocca la mandibola dolorante e inghiotte una sorsata di sangue. I denti sono ancora tutti lì, ma quel bastardo gli ha quasi disarticolato la bocca. Sputa a terra una boccata di saliva rossa e poi si siede su uno dei divani, prendendosi la testa tra le mani. Le tempie pulsano così tanto da stordirlo.
Si sente addosso gli occhi di Lysios, che dopo un attimo va a sedersi sul divano davanti al suo, uno sbuffo stanco mentre si lascia cadere sui cuscini.
“Non è da te,” esordisce dopo un po’, il tono guardingo, “perdere così la calma, voglio dire.”
Hephaistion sospira di nuovo. Alza la testa, lo sguardo che brucia. Sta per dirgli di andarsene e lasciarlo in pace una buona volta, ma poi ci ripensa. Suo fratello lo sta guardando con quegli occhi che ormai conosce bene, occhi davanti ai quali ogni stilla di severità cade miseramente.
E, assieme a quella, crolla ogni difesa, col fragore di una montagna che si polverizza.
“È davvero così che mi vedono tutti?” domanda d’impulso, senza pensare, “come un approfittatore? È questo che ho ottenuto, dopo una vita d’impegno?” Ricaccia indietro un singhiozzo. “Davvero pensate che io stia sfruttando Aleksandros per il mio interesse?”
La sua voce è quasi un grido. Lui stesso stenta a riconoscersi. Le parole gli bruciano nella gola; forse, semplicemente, era da troppo tempo che continuava a inghiottirle.
Lysios scuote il capo, lentamente. Si alza a prendere una pezzuola da uno dei bacili, la intinge nell’acqua e poi gliela porge.
“Nessuno ti vede così, a parte Krateros, s’intende,” dice, toccandogli la spalla. Torna a sedersi, mentre Hephaistion si passa la pezza bagnata sulla bocca, imbrattandola di sangue.
“Sei sempre il solito, Phai, non cambierai mai,” continua Lysios, allungandosi all’indietro sui cuscini, “sempre a prenderti la responsabilità di ogni cosa. Ti sentiresti responsabile anche di un foruncolo sul culo di Erakles.” Fa un pausa, fissandolo negli occhi. “La verità è che Aleksandros è rimasto in piedi solo grazie a te. Gli hai dedicato la tua vita. Per questo sei l’unico a cui i soldati danno ascolto.” Una smorfia dolorosa a queste parole. “Per questo sei l’unico che ha il diritto di dirci qualcosa.”
Hephaistion sente un gemito sfuggirgli dalle labbra, il muggito di una bestia ferita. L’angoscia, il terrore, la preoccupazione insopportabile – tutto questo lo riassale con la violenza di un fiume che rompe gli argini. Deve appoggiare i gomiti alle ginocchia per non cadere. Vorrebbe solo raggomitolarsi in un angolo e morire, ma sa che non può farlo. Che non deve farlo.
“Pensi che sia vivo?” dice finalmente, pronunciando le parole che ha tenuto seppellite per giorni come un segreto sacrilego.
“Lysios sospira. “E tu?”
“Sì.”
“Allora è vivo.”
La voce di suo fratello è piena di sollievo. Di convinzione. Vorrebbe poter condividere la stessa sicurezza, ma la verità è che adesso ha solo se stesso a cui potersi affidare. La luce abbagliante che ha guidato la sua esistenza è lontana, affievolita. Un bagliore nel buio. Spera solo che non si sia ancora spenta del tutto.
Appoggia la schiena al divano e si porta una mano agli occhi. La bocca pulsa e fa male, le labbra si stanno già gonfiando. Le sfiora appena, sentendole calde.
“Te lo ricordi quell’antico affresco in una delle sale del palazzo, a Pella?” domanda, dopo un po’.
Lysios sembra colto di sorpresa. “Quello che raffigurava Prometheos?”
Hephaistion annuisce. “Era terribile. Prometheos incatenato alla roccia, le viscere sparse sugli scogli.” Preme le dita sulle labbra, strappandosi un gemito. “E l’aquila che le beccava vorace, in quel suo pasto osceno.”
“Era tremendo, sì. Ma perché ci pensi adesso?”
“Prometheos fu punito per la sua ambizione,” risponde Hephaistion, ricordando l’orrore che aveva provato di fronte a quel dipinto. Aleksandros, invece, ne era affascinato. “A volte mi chiedo se non ci siamo spinti troppo il là,” sospira, “se lui non sia andato troppo oltre. Se tutta questa hubris non abbia attirato l’ira degli Dei, e ora ne stia pagando il prezzo.” Guarda il fratello, che è rimasto in silenzio. “Forse, avrei dovuto fermarlo quando ero ancora in tempo.”
“Sai che non era ciò che voleva.”
Hephaistion annuisce. “Lo so.” Ma sa anche quanto possa essere alto il prezzo di una tale sfida. Quanto può essere costato a lui.
Si passa una mano sul volto; per un attimo l’anello che indossa all’anulare brilla nella penombra. Lysios pare notarlo e gli rivolge un sorriso.
“Lo porti ancora?”
Hephaistion si irrigidisce mentre volta la mano a guardare il rubino incastonato nell’oro: un sole rosso in rilievo sfolgora sulla pietra, incandescente come la luce che c’era il giorno in cui l’ha trovato.
Lo ricorda bene.
“Già. È sempre al mio dito, come una maledizione.”
“Non avevi detto di avere fatto un voto?”
Hephaistion non risponde. Chiude gli occhi e ritorna a un giorno lontano nella memoria – così lontano che a volte ha temuto fosse solo un sogno, portato dagli Dei per ingannarlo e fargli credere in false e crudeli speranze.
Era solo un bambino, ed era stato scelto assieme ad altri ragazzi ateniesi per portare le corone di alloro ai vincitori dei giochi, nello stadio di Delphi.
Era la prima volta che si allontanava dalla città e sua madre l’aveva accompagnato. Ricorda bene l’eccitazione, la gioia nell’avvistare la città sacra ad Apollo, mentre il carro si apprestava alle mura e il tempio del Dio aveva sfolgorato del bianco dei marmi, nella luce abbacinante del mattino.
Aveva pensato a quel tempio – la casa del sole – la cella sacra che custodiva l’omphalos, l’ombelico del mondo intero – e si era sentito commuovere, mentre il carro entrava in città e attraversava le strade piene di gente festante e di mercanti chiassosi, di bestie e viaggiatori arrivati da ogni parte a celebrare Apollo.
La sera era rimasto seduto su uno dei colli antistanti il tempio, a osservare il sole che si allungava all’orizzonte in una striatura sanguigna, mentre i colonnati si coloravano di rosa e lo stadio veniva preparato per i giochi. Per un attimo, aveva udito una voce possente dentro di sé, un richiamo dolce e imperioso a cui non aveva potuto sottrarsi. Si era sentito benedetto dalla mano del Dio, e aveva pianto, ringraziandolo per tanta, immeritata benevolenza.
Il giorno dopo, sua madre aveva trovato un anello su uno dei banchi del mercato, un piccolo monile d’oro con l’effige del sole, e glielo aveva comprato, dando probabilmente fondo a quel che restava dei suoi pochi averi. L’aveva fatto perché aveva visto il modo in cui lui aveva guardato quel gioiello – era un segno di Apollo, un richiamo segreto rivolto a lui – e lui soltanto.
L’aveva custodito come la cosa più cara: appeso al collo, quando ancora gli andava largo – e poi al dito, una volta uomo. E quando era arrivato in Macedonia, e aveva visto l’effige solare sugli scudi e sulle insegne di Philippos, aveva capito.
Era da sempre stato destinato ad Aleksandros. Il Dio gli aveva indicato la strada e lui aveva saputo seguirla, senza timore di abbracciare il suo fato.
Aveva giurato che avrebbe consacrato la sua vita ad Apollo, se gli avesse dato la forza di proteggere il suo astro – se avesse protetto Aleksandros. Ma presto si era reso conto che quel giuramento era al di là delle sue forze di mortale.
Aleksandros ha in sé sangue divino, e chi è lui, invece? Un semplice uomo, incapace persino di aiutarlo a esaudire il suo desiderio. Il suo sogno più grande. Ricorda ancora gli occhi di Aleksandros, quando – davanti all’ultimo limite – ha dovuto voltare le spalle, tornare indietro, sospinto dalla codardia dei soldati, dalla stanchezza dei corpi e la viltà delle anime.
Non ha potuto far niente se non seguirlo di nuovo – come sempre – ma non se l’è mai perdonato.
Quando sognava il fuoco, e si svegliava gridando, lui che faceva se non abbracciarlo e cullarlo, per farlo calmare? Quando le lance e le spade si conficcavano nelle carni del divino figlio di Zeus, cosa mai poteva fare lui, figlio di mortali, per alleviare il suo dolore?
E ora Aleksandros è lontano – forse morto davvero – e ancora è impotente, ancora può solo attendere e sperare che Aleksandros si salvi da solo – come ogni volta.
“È diventato stretto, non riesco più a toglierlo,” risponde finalmente, lasciando ricadere la mano. “E dovrei farlo. Quel voto è stato sciolto molto tempo fa.”
Lysios sospira, poi scuote la testa, lentamente. “Non essere sciocco. Tu l’hai salvato dalla sua pazzia.”
Ed Hephaistion vorrebbe piangere a quelle parole – vorrebbe scagliare via quell’anello che gli brucia al dito – vorrebbe baciarlo e implorare Apollo di avere pietà di lui, dei suoi dubbi di uomo fatto di carne e sangue, della sua viltà.
Vorrebbe chiedergli solo di riportarlo a casa.
Ma tace. Sfiora di nuovo il rubino, piccola pietra fredda del colore del sangue, e ricaccia indietro ogni parola.
“È stato lui a salvare me,” dice, rialzando la testa. “Io l’ho soltanto seguito.”
“E ne sei pentito?”
Una lunga pausa, mentre entrambi si fissano negli occhi. “Mai.”
Con un sospiro, Lysios si alza dal divano e si stiracchia, gemendo piano. “Credo che ora me ne andrò a dormire,” annuncia, avvicinandosi a lui e toccandogli una spalla. “E faresti bene a farlo anche tu. Ptolemaios ha ragione.”
Hephaistion annuisce, mentre stringe la mano del fratello e poi lo guarda avviarsi verso l’ingresso e uscire fuori, nella notte scura.
Si riadagia sui cuscini, la testa che pulsa, la bocca dolorante. Porta una mano alla fronte e la sente calda, essiccata. Non un filo d’aria filtra nella tenda, e il lucernario sul soffitto mostra solo uno spicchio di cielo brillante di stelle.
Da qualche parte, fuori, qualcuno sta suonando il flauto. È un suono sommesso, ovattato, che si insinua all’interno, raggiungendolo in flebili volute malinconiche.
La musica cresce, e poi cala – gli ricorda il moto delle maree, quando le osservava dalla cala del Falero e si domandava che cosa davvero facesse respirare il mare. Lo turbava e lo commuoveva al tempo stesso.
Volevi vedere il mare, pensa, la gola chiusa da un groppo di lacrime che non è mai sceso – volevi toccare il limite. E io volevo darti tutto, ma l’unica cosa importante non ho potuto impedire che ti fosse strappata. Avrei dato la vita per farti arrivare al mare, Alekos. Ora la darei soltanto per vederti tornare.
Sente le palpebre farsi pesanti, la notte che invecchia poco a poco, lenita dal fluire della musica e cullata dal sonno.
Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
Hephaistion si lascia andare alla deriva nel suono di una cantilena che arriva da lontano – dai confini reconditi di un sogno mai sognato. E nel rumore calmo delle onde.
Si risveglia con la luce che gratta dietro le palpebre, il corpo indolenzito, le labbra un bozzo di carne gonfia e infiammata. Fa per toccarsele ma viene riscosso dal vociare rumoroso degli uomini all’esterno che gridano e invocano, urla sguaiate che gli si conficcano nelle tempie doloranti.
Si solleva dal divano un attimo prima che Ptolemaios irrompa nella tenda, seguito da Lysios e da Krateros. In mano ha un astuccio di cuoio e lo guarda con la faccia arrossata, gli occhi così sgranati che paiono volergli uscire dalle orbite.
“Che succede?” quasi grida Hephaistion; il torpore del sonno scivola via in un istante.
“È arrivato un nuovo dispaccio,” risponde Ptolemaios, mangiandosi le parole, “è stato consegnato adesso.”
Glielo porge. Hephaistion glielo sfila dalle mani e per un attimo sente tremare le sue. Sa perché Ptolemaios non l’ha ancora aperto, quel dispaccio. È convinto, come tutti, che debba essere lui a leggerne per primo il contenuto.
Qualunque esso sia.
Con gesti lenti, come maneggiasse un groviglio di serpenti, scioglie il laccio che tiene chiuso l’astuccio – poi lo apre, facendosi scivolare la pergamena nel palmo. La spiega, e poi legge.
La rilegge. E poi la legge ancora.
Le gambe gli cedono, ed è costretto a sedersi – la pergamena gli sfugge dalle mani, finendo a terra in uno svolazzo.
“Che gli Dei ti maledicano!” E questo è Krateros. “Ci vuoi dire che c’è scritto, sì o no?”
Hephaistion soffoca un singhiozzo; si porta una mano alla fronte e per un attimo vorrebbe che tutti loro sparissero – che lo lasciassero solo per non dover rialzare il viso e mostrare al mondo quanto sia inerme – quanto sia fragile e vulnerabile in questo momento.
Ma Krateros ha ragione. Non è qualcosa che possa tenere solo per sé, sebbene lo desideri. Sebbene voglia solo piangere, fino a sfinirsi.
Si china a raccogliere la pergamena. Poi, si rimette in piedi e dà l’annuncio, ritrovando la sua voce di sempre.
“Aleksandros è vivo.” La gioia trabocca da lui, al di là del pudore e di ogni contegno. La lascia fluire libera, in un unico fiotto dissanguante. “E sarà qua tra tre giorni.”
Tutto il resto non conta.











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Capitolo 5
*** Ghé ***


Ghé.




Non c’è stato bisogno di far presidiare il fiume: l’intero esercito si è radunato a fissare l’acqua, come se la corrente impetuosa fosse una fune di sicurezza tesa verso di loro e in grado di riportarli a riva. E forse è proprio così, riflette Hephaistion mentre continua a cavalcare avanti e indietro lungo l’argine, osservando gli uomini schierati ordinatamente sotto il sole.
Ha impartito il comando perché era la cosa giusta da fare, ma nessun soldato si è sottratto al suo dovere, non certo quel giorno.
E quando le navi sono state finalmente avvistate, al largo della confluenza, tutti hanno saputo – e hanno creduto.
Non è stato necessario annunciare l’adunata: le truppe si sono allineate spontaneamente lungo le banchine, le donne e i bambini che accorrono da ogni angolo dell’accampamento, urlando e schiamazzando.
Stava controllando lo stato delle provviste insieme a Ptolemaios quando è giunta la notizia, e insieme si sono fatti strada tra i ranghi fino al pontile, dove Krateros stava già aspettando, scalpitante e nervoso come un vecchio stallone.
Anche Hephaistion sente la tensione corrergli dolorosa lungo la spina dorsale – i soldati l’hanno anticipata, scossi da un fremito che li fa vibrare come la scarica di una tempesta estiva.
Stanno tutti fissando le navi che si avvicinano assieme al loro carico: il Re, restituito alla sua gente dal fiume che li ha tenuti separati, o solo un cadavere muto e freddo da consegnare agli imbalsamatori. Nessuno ne ha parlato a voce alta, ma la domanda la può leggere inespressa nei loro occhi e nello spasmo delle bocche e delle mani.
Hephaistion sa che è vivo – ne è certo come che il sole continuerà a sorgere e la luna a tramontare, portando la marea. Ci sono verità incontrovertibili nel mondo naturale, come avrebbe detto Aristoteles – ogni altra cosa non è pensabile e Aleksandros è sempre stato una forza della natura. Eppure, non può fare a meno di piantarsi le unghie nei palmi come un ragazzino ansioso incapace di mantenere la calma.
Le imbarcazioni sono abbastanza prossime da scorgere le tre file di rematori vogare in direzione della sponda, e udire gli ordini del trierarca sul ponte, che prepara gli uomini per l’attracco.
Abbastanza vicine da poter vedere il Re.
Il suo corpo giace su una lettiga posta sopra un rialzo della trireme principale, i paracieli scostati. Anche da quella distanza il riflesso dorato dei capelli è sufficiente per togliere ogni dubbio. Ed è immobile, le mani pallide incrociate sul petto.
Quella inerzia, così innaturale per lui, gli fa drizzare i peli sulle braccia, e anche Ptolemaios rabbrividisce al suo fianco, trattenendo il respiro. Solo che ora c’è un nuovo rumore che sale dalla terra e scivola sull’acqua fino a morire tra le onde – un mormorio di tale strazio e dolore che neanche il lamento di tutte le ombre d’Averno potrebbe essere più insopportabile. C’è il terrore della perdita nel gemito dei soldati – nei singhiozzi e nel brusio frantumato delle voci – e l’angoscia di anime perdute che mai più rivedranno la luce.
Per un attimo, Hephaistion deve combattere la tentazione di accovacciarsi a terra e premersi le mani sulle orecchie; con la coda dell’occhio riesce a scorgere Ptolemaios che fissa la nave a sguardo sbarrato mentre Krateros sembra congelato sul posto.
In Persia è costumanza piangere i defunti stracciandosi le vesti, ma questo è molto più di una tradizione o una mera abitudine: è un raglio strappato al cuore da un dolore troppo grande per essere immaginato. È reale, ed è ciò che significa restare senza di lui.
Un istante dopo, nell’attimo che segue il silenzio, Aleksandros solleva la mano in saluto, piantandola nel cielo.
Dentro il fragore di gioia assordante che esplode come il ribollire di schiuma attorno a lui, Hephaistion lancia un’occhiata alla nave e all’uomo sopra la lettiga.
Oh, sì, sa bene di cosa si è trattato: un’entrata ad effetto, certo – ma ancor di più è stata una lezione.
L’hanno rinnegato sulle rive dell’Hyphasis, rifiutandosi di proseguire al di là del confine estremo, fin nell’ignoto più assoluto; gli hanno preferito la sicurezza del ritorno, perfino fatto intendere che avrebbero potuto fare a meno di lui. E adesso lo sanno – hanno avuto un assaggio di quello che significherebbe perderlo davvero. Sa anche che sarebbero disposti a perdonarlo se venissero a sapere che l’ha fatto apposta, come un amante devoto è disposto a soprassedere i capricci di un cuore ferito.
Bastardo, pensa Hephaistion, reprimendo un singhiozzo che ha il gusto del pianto, meraviglioso, pazzo, adorato bastardo – e finalmente il sorriso lo vince, la risata che erompe chiara come il sole mentre getta la testa indietro, ferendosi gli occhi contro la luce.
Quando riabbassa lo sguardo e lo punta sulla nave in attracco, deve imporsi di non slanciarsi sul ponte e saltare addosso ad Aleksandros, per scrollarlo fino a inculcargli in testa un po’ di buonsenso. Ptolemaios per sua fortuna lo afferra prima, serrandolo in un abbraccio soffocante, e persino Krateros gli assesta una pacca sulla schiena che per un soffio non gli fa sputare i denti.
“Non ho mai dubitato!” esclama quest’ultimo, un ghigno osceno disegnato sulla barba scura, “neanche per un momento. Stupido ragazzo che non è altro, ma gli Dei lo adorano. Non ho mai dubitato, io.”
Hephaistion ride di nuovo, e si volta a osservare la nave che viene agganciata alla banchina con le corde lanciate dai servienti, afferrate da terra e assicurate ai piloni di legno. Mentre la passerella viene abbassata e la lettiga del Re sollevata nel ruggito delle truppe che si raccolgono intorno, Hephaistion si impone di distogliere lo sguardo per riportarlo sulle file di ufficiali rimasti impietriti dietro di lui.
“Formate i ranghi!” abbaia, “e tenete questo branco di idioti lontano dal pontile prima che lo facciano collassare in acqua!”
Ptolemaios barcolla mentre la folla lo spintona in una nuova ondata di entusiasmo. Hephaistion lo aiuta a rimettersi in piedi e gli avvicina le labbra all’orecchio, per sovrastare il frastuono selvaggio di urla e schiamazzi.
“Rientriamo alla tenda prima di finire schiacciati. Non c’è modo di parlargli se restiamo qua.” Per un attimo sorride alla sorpresa che riesce a leggergli in faccia, in una smorfia di comicità involontaria: forse si era aspettato di vederlo slanciarsi su Aleksandros per ricoprirlo di baci appassionati, magari incitato dalla folla festante. Ma non ce n’è bisogno: ha già incontrato i suoi occhi mentre si avvicinava sull’acqua, e per ora è sufficiente. Che i soldati si prendano pure questo momento – lui avrà il suo molto presto.
Faticano a riguadagnare la strada per la tenda, spintonando le truppe e tirandosi dietro i cavalli tenuti per i finimenti.
Fermo di fronte all’entrata, persino da quella distanza Hephaistion riesce a scorgere la lettiga del Re venire issata sulle spalle dei portantini e poi trasportata a riva, gli uomini che le fluttuano attorno come stormi di uccelli, le mani levate in adorazione.
Aleksandros rivolge un sorriso a tutti, seduto dritto sulla lettiga, le labbra che si muovono senza che lui riesca a sentire i nomi con cui certamente saluta ciascuno di loro. I portantini sono costretti a fermarsi ogni poco, per permettere ad Aleksandros di stringere le mani e accettare le benedizioni mentre gli uomini gridano il suo nome in un ritmo serrato, come l’incitazione che precede una battaglia.
A metà della strada, Hephaistion lo vede alzare una braccio e arrestare i portatori. Osserva la concitazione dei servi che scattano immediatamente al suo ordine e, poco dopo, la folla si apre in due ali per far passare uno scudiero con un cavallo condotto alla cavezza.
Hephaistion trattiene il respiro: la bestia è un castrone addestrato e tranquillo che serve più a far scena che altro, ma nonostante questo deve di nuovo reprimere l’urgenza di raggiungere Aleksandros e scrollarlo per un tale sfoggio di vanità. Solo l’orgoglio lo trattiene – il proprio, e quello del Re. Sa bene per quale motivo lo stia facendo: vuole dimostrare ai suoi uomini di essere in grado di arrivare alla tenda come un soldato e non come un infermo, ma questo non rende il gesto meno sconsiderato – non se pensa al dolore che deve provare e che gli legge in faccia quando finalmente monta in groppa, tendendo le labbra in una smorfia che gli si conficca nel cuore.
Gli uomini – almeno loro – sembrano gradire la prodezza, e le incitazioni si fanno più chiassose quando Aleksandros sprona il cavallo e prende ad avanzare, il viso puntato in avanti come fosse a una parata, e non invece in procinto di stramazzare a terra morto e stecchito da un momento all’altro.
Qualcuno ha anche trovato dei fiori e ora hanno preso a lanciarli verso di lui, pavimentando la sua marcia con un tappeto di colori sgargianti e profumi stordenti.
Solo cinquanta passi – Hephaistion li ha contati nella testa, ma gli sembrano comunque un’eternità, specie quando Aleksandros scivola a lato dell'animale, perdendo l’equilibrio. Lo scudiero lo sostiene prontamente e lo aiuta a rimettersi eretto senza che le truppe festanti si siano rese conto di nulla, continuando a premere da tutti i lati e a sospingerlo avanti.
Infine, il cavallo giunge alla tenda, e Aleksandros è davanti a lui, pallido per la sofferenza, le labbra che tremano – ma gli occhi sono accesi da quella luce che conosce bene, e che ora brilla più fulgida che mai.
“Hephaistion,” lo sente sussurrare prima di scivolare di nuovo, solo che ora è lui a sostenerlo e a prenderlo tra le braccia mentre smonta da cavallo – i soldati che esplodono in un boato selvaggio di gioia e approvazione.
“Tutta questa scena e neanche ti reggi in piedi,” lo rimprovera Hephaistion e intanto lo stringe a sé, aspirando il suo odore e lasciandosi avvolgere dal calore ardente della sua pelle. Le lacrime premono per uscire e fa giusto in tempo a ricacciarle indietro con uno sforzo di cui non si sarebbe creduto capace.
Alza la testa per rivolgere un cenno a Ptolemaios, che lo precede nella tenda assieme a Krateros – poi finalmente entra anche lui, il braccio attorno alla vita di Aleksandros, richiudendo il lembo di stoffa dietro le spalle e lasciando libero l’esercito di gridare al cielo la sua esultanza.
Una volta dentro, lontano dagli occhi adoranti, Aleksandros sembra lasciar trapelare i segni della sua debolezza; Hephaistion li percepisce nel modo in cui si appoggia contro di lui e gli stringe la stoffa del chitone, tirandogliela sulle spalle. Lo sostiene con facilità e lo aiuta a raggiungere uno dei divani, facendocelo adagiare sopra.
Aleksandros gli sorride, ancora accesso dalla gloria mentre affonda tra i cuscini, il volto cereo e zuppo di sudore.
“L’hai sentito?” chiede, scoprendo i denti in un ghigno soddisfatto. “Questo sì che è un benvenuto. Dovrei morire più spesso, fa meraviglie per la reputazione.”
“Stai sanguinando,” è tutto quel che riesce a rispondere Hephaistion in un tono strozzato. Con gli occhi, rivolge un muto segnale a Ptolemaios – che annuisce e lascia la tenda senza dire parola.
“Non è nulla.” Aleksandros si tira su un poco, raddrizzando il busto. “E ho sete. Portatemi del vino.”
“L’acqua andrà benissimo.” Hephaistion si china ad aggiustargli i cuscini dietro la schiena e allunga un braccio ad afferrare la caraffa sul tavolo vicino.
“Penso che l’occasione si presti a qualcosa di un po’ più forte, a dire il vero, e Krateros tiene sempre della buona brodaglia da parte, se non ricordo male.”
A Hephaistion non sfugge la tensione nelle sue labbra mentre lo dice, ma sa anche che preferirebbe morire che ammettere la sofferenza; così tace, e rimane zitto persino quando Krateros si avvicina con un ghigno, portando una coppa ricolma di liquido color rubino.
Aleksandros ne ingoia metà in un unico sorso mentre Ptolemaios fa di nuovo il suo ingresso nella tenda con Philippos al seguito.
Il medico trattiene il respiro quando Aleksandros lo saluta alzando il calice e rivolgendogli un sorriso sfacciato. “Certamente non vorrai rimproverarmi una piccola celebrazione con i miei amici, non è vero?”
“Io non ti rimprovero niente,” risponde asciutto Philippos, “anche se mi chiedo perché continui a dare ascolto al mio giudizio.”
Aleksandros si lascia andare a una risata, che si trasforma ben presto in un accesso di tosse. “Ah, iatré,” riesce a dire tra le lacrime, “se davvero vuoi riprendermi, faresti meglio a metterti in fila. Immagino di dovermi attendere un reale rimbrotto, se queste facce mi dicono il vero. Molto bene, soldati,” e si rivolge a tutti loro come se stesse ascoltando delle perorazioni, “sono tutto vostro. Mi rimetto alla vostra clemenza.”
Il tono è leggero, ma ci vuole ben altro per ingannare Hephaistion; l’affilatezza della lama è ben nascosta sotto la superficie placida della sua voce, assieme a una nota di risentimento. Bene, pensa – si merita tutto ciò che sta per arrivargli, ma ciò non significa che debba piacergli.
Anche Ptolemaios, che lo conosce da quando era un bambino, sembra aver colto quella sfumatura irritata perché si limita ad annuire e a incrociare le braccia al petto.
“Di sicuro ci hai elargito il peggior spavento della nostra vita,” pronuncia a bassa voce.
Krateros, invece, non sarebbe in grado di vedere un cinghiale in una stanza neanche se ce l’avesse davanti; aspetta impaziente che il medico finisca di tendere alla ferita e rimpiazzi le bende e, dopo averlo osservato lasciare la tenda, esclama: “Si può sapere a che gioco pensavi di giocare?” I peli scuri della barba sembrano fremergli sotto le labbra. “Potrai anche credere di essere figlio di un dio, se tuo padre non era abbastanza uomo da renderti fiero di lui, ma questo non ti rende immortale!”
Hephaistion trasalisce appena al commento, e si volta a osservare il Re. Krateros è andato a colpire una nota dolente, e non c’è traccia di scherzo nel suo tono.
Gli occhi di Aleksandros si sono fatti scuri, ma pare che l’abbia presa bene, o meglio: sembra più un uomo che si stia sottoponendo a una seduta di frustate, in attesa del colpo successivo e ben determinato a non lasciarsi sfuggire un lamento.
Non che non se lo meriti, pensa mentre raggiunge il divano vicino e si siede in silenzio. Il suo turno arriverà più tardi, per ora vuole solo assistere. Si scopre a tremare appena, la testa inspiegabilmente leggera, come dopo una ubriacatura.
“So bene di non essere immortale,” risponde Aleksandros in tono cauto, “ho abbastanza cicatrici per provarlo. Ma sono anche un Re, ed era necessario.”
“Lo definirei più irresponsabile a essere sincero,” si intromette Ptolemaios prima che Krateros possa peggiorare la situazione. “Esporti a un tale pericolo… sei stato fortunato a uscirne vivo.”
“Lo so.” Le nocche di Aleksandos sono bianche là dove tiene le dita serrate attorno alla coppa, ma la voce resta salda e misurata. Una bella dimostrazione di volontà – questo, Hephaistion glielo deve proprio concedere.
“Ah, quindi lo sai,” sbuffa Krateros. “Dovresti essere accecato dalla pazzia per non rendertene conto. Ti fermi a pensare, qualche volta? Irresponsabile ragazzo.” Alza le mani in un moto di disgusto. “Saltare da solo in quel fortino dopo che le rampe erano collassate… Sei diventato idiota o cosa?”
Aleksandros sembra prendersi del tempo per rispondere, inspirando a fondo e socchiudendo gli occhi.
“Sono solito guidare le mie truppe con l’esempio,” scandisce lentamente. “Dalla prima linea. Ed è quello che ci ha condotto fin qua. Gli uomini non seguirebbero un codardo pronto a nascondersi in fondo ai ranghi. È di macedoni che stiamo parlando, e non dovrei essere io a ricordartelo.”
“Lo erano, prima che tu lasciassi entrare persiani, indiani e altri maledetti barbari nel tuo esercito,” scatta Krateros, ormai oltre ogni ragione e prudenza.
Ptolemaios fa un passo avanti e lo tocca sulla spalla.
“E questo cosa ha a che fare con la faccenda?” Stavolta, la nota minacciosa nella voce di Aleksandros è più accentuata, ma sembra rimetterla subito a briglia, riprendendo a parlare in tono incolore. La sua ira è tradita solo dal vago tremito nelle mani. “Non mi sono mai tirato indietro davanti al pericolo, e non l’ho fatto stavolta. Non manderei mai i miei uomini a fronteggiare qualcosa che non sono in grado di affrontare io stesso.”
“Non hai bisogno di dimostrarlo,” interloquisce Ptolemaios, scoccando un’occhiata d’avvertimento a Krateros. “Gli uomini sanno che non temi nulla. Ma devi pensare al futuro. Abbiamo bisogno di te. E non ci possiamo permettere di perderti. Coraggioso o no, non avresti mai dovuto agire in modo tanto sconsiderato.”
“Perdikkas mi ha già detto le stesse cose,” ribatte Aleksandros irritato. Ha terminato il vino ma tiene ancora in mano la coppa come se volesse giocarci. In realtà, osserva Hephaistion – che ha rialzato la testa dopo essersela tenuta tra le mani per tutto il tempo – sembra piuttosto che la voglia stringere fino a frantumarla.
Krateros si lascia andare a una risata sonora. “Ci scommetto che te le ha dette. E scommetto anche che non hai ascoltato una sola parola.”
“Sto ascoltando te.”
“Ah, davvero? Che la tua testa di mulo sia maledetta, ragazzo. Ti sei quasi fatto uccidere senza una ragione. Non sei un soldato qualunque, e non dovresti comportarti come se lo fossi.” Ora sta urlando. “Sei un Re, e non ci servi a nulla se muori. Ce la fai a ficcarti la verità in quella testaccia dura?”
Hephaistion li sente entrambi trattenere il respiro. In Persia, un uomo che parlasse in questo modo al Grande Re sarebbe messo a morte col fuoco, e verrebbe ritenuto un atto di misericordia. In Egitto, finirebbe sepolto vivo e urlante, lasciato alle bocche affamate degli scarafaggi. In Macedonia, il sovrano potrebbe riuscire a infilzarlo con la lancia – dipenderebbe dalla sua mira e da quanto ubriaca è l’Assemblea dei Pari.
Invece quello che Aleksandros sembra fare ora, è fissare un punto vuoto nella stanza, gli occhi d’argento aperti sul volto pallido come la morte. A ogni modo pare sufficiente a ridurre Krateros all’immediato silenzio.
“Che cosa vuoi che ti dica?” La sua voce suona dura e piatta come una moneta. E senza più una stilla di fiato. “Che mi dispiace? Va bene allora. Mi dispiace se mi sono fatto quasi uccidere per dar la caccia a un nemico che ci avrebbe tenuti inchiodati quaggiù e fatti a pezzi, per poi lasciarci affogare nel fiume.” Sepolto nel tono gelido c’è un rantolo basso, sibilante. “Mi dispiace se ho guidato il mio esercito a una vittoria che ha reso sicura la nostra posizione e rimosso ogni minaccia prima di metterci in navigazione. Mi dispiace di essermi ricordato che sono un uomo. Ora sei soddisfatto?”
Sull’ultima parola la voce si rompe in un ansito, e Ptolemaios gli rivolge uno sguardo esasperato.
“Non è che non avresti dovuto combattere, Alekos,” dice, “è solo che vorremmo che avessi più cura di…”
“Non lo capisce!” si intromette di nuovo Krateros, incapace di frenare la lingua, “non lo intende che questa non è l’Iliade e che abbiamo bisogno di un Re e non di…”
“Lasciatelo in pace!” Hephaistion rialza la testa con uno scatto. Si sente bruciare gli occhi mentre fissa gli altri due. E la rabbia vibra in ogni parola. “Per l’amor degli Dei, lasciatelo in pace una buona volta!”
Nella tenda cala il silenzio – interrotto solo dal respiro pesante di Aleksandros, che gli arriva alle orecchie come una stilettata. Per un attimo tutti gli sguardi sono su di lui, ed Hephaistion li accoglie a testa alta, raddrizzando le spalle.
Krateros si lascia sfuggire un grugnito di frustrazione. Si volta nella sua direzione e scuote la testa, guardandolo come se gli fosse cresciuta la coda.
“Gli idioti vanno sempre a coppia, vero?” raglia. “La faccenda è seria, non è uno scherzo innocente, tantomeno…”
“Lo sa. E lo sappiamo tutti,” sbotta Hephaistion, i denti serrati. Stenta a riconoscere la propria voce, tanto è vibrante di rabbia. “L’avete ripetuto fino alla nausea. Perché ora non vi tappate la bocca?” Li guarda entrambi, socchiudendo gli occhi. “O devo chiudervela io?”
Ptolemaios si affretta a interromperlo prima che possa dar seguito alle minacce. “Bene. Direi che non hai torto. È stata una stupidaggine e siamo tutti concordi nell’ammetterlo. Dunque possiamo considerare chiusa la faccenda, dico bene?” Gli rivolge un’occhiata di avvertimento – non che sia sufficiente a intimorirlo, non in questo momento.
Krateros, invece, sembra averla colta e pare calmarsi, anche se controvoglia.
Hephaistion non dice nulla, si limita a lanciare sguardi affilati come pugnali all’indirizzo di tutti prima di riprendersi la testa tra le mani, cominciando a massaggiarla.
“Mi ritengo diffidato,” sente dire Aleksandros, il fruscio dei cuscini quando si riadagia sul divano. “E prometto di non rifarlo. Non che mi sia piaciuto molto questa volta.”
“Spero proprio di no.” Questa gli è uscita così, dura e secca, ma Hephaistion non ha alcuna intenzione di rimangiarsela – ah, no. E che sia dannata la Reale Ira e tutto il resto.
Li ascolta parlare di organizzazione e di procedure per un po’: la necessità di acquartierare le truppe che hanno scortato Aleksandros, in attesa di essere raggiunti da Perdikkas con il grosso dell’esercito nei giorni successivi, dopo aver assicurato Multan e i territori circostanti con un’ultima sortita. Li sente discutere di un amministratore corrotto in qualche città a ovest, e di quanto abbia alzato le tasse nella sua provincia, azzoppando il commercio – ma è solo rumore di fondo. A ogni modo la riunione dura poco, ed è bene che sia così. Aleksandros è esausto, e non bisogna essere ciechi per vederlo: il volto è ancora più pallido, gli occhi arrossati.
“Grazie,” lo sente dire, “per aver tenuto tutto in piedi. Siete stati impeccabili.” Si prende una pausa per respirare, ed emette di nuovo quel rantolo affaticato. “Adesso, però, ho bisogno di riposare. Al resto penseremo più tardi.”
“Ce ne occupiamo noi,” risponde Ptolemaios, preparandosi a uscire. “Non devi darti pena.” Rivolge un’occhiata a Krateros che lo raggiunge sulla soglia. Ma lo sguardo di Aleksandros ora è soltanto per lui.
“Hephaistion,” dice, il tono che non ammette repliche – ma non gli sfugge la nota dolce al di sotto. “Tu invece rimani qua.”
Hephaistion si rimette in piedi e lo raggiunge all’altro capo della stanza. Afferra uno sgabello e si siede accanto a lui, poi prende una pezzuola e la tuffa nel bacile, passandogliela piano sulla fronte, fino alle sopracciglia.
“Ah, questo è piacevole.” Aleksandros gli sorride dal basso. “Non vuoi rinfacciarmi anche tu la mia stupidità? Devi aver aspettato giorni per farlo.”
Hephaistion scuote lentamente la testa. Neanche un’ora fa aveva pronta la ramanzina fino all’ultima parola, ma ora gli sembrano frasi vuote e senza importanza.
“No,” risponde semplicemente.
Aleksandros lo osserva quieto per qualche istante, poi distoglie lo sguardo, puntandolo sulla coppa che ancora stringe in mano. “Lo puoi fare, se vuoi. Me lo merito.”
“Se lo sai, allora non ne hai bisogno,” risponde Hephaistion a bassa voce. Si stupisce di ritrovarla tanto ferma. “Inoltre, ti tratterrebbe dal ripeterlo di nuovo?”
“Non lo rifarò.” Ha ribattuto subito, il dolore che sembra appannare di poco la certezza del tono.
Hephaistion sospira piano. “Fino a quando non lo riterrai di nuovo necessario.”
Lascia andare la pezza e riempie la coppa con acqua fresca; Aleksandros la sorseggia lentamente, poi alza gli occhi a incontrare di nuovo il suo sguardo.
“Mi sei mancato.”
È un sussurro a cui Hephaistion risponde chinandosi, e poggiandogli un bacio sulla fronte accaldata. “Sono qua.”
Le fasciature sono di un bianco abbagliante – catturano lo sguardo, così fuori luogo sulla pelle chiara di Aleksandros. Gli occhi continuano a scivolargli lì sopra, fin quando non si sorprende a fissarle. Ciò che nascondono si è quasi preso la vita di entrambi.
Aleksandros nota la sua occhiata e pare comprendere, ma di questo ormai non dovrebbe più stupirsi.
“Vuoi vederla?” domanda gentile. Hephaistion solleva la testa, poi torna a fissare il bendaggio. Annuisce, una volta. Segue con gli occhi Aleksandros, che poggia le dita sulla stoffa per poi farle ricadere un attimo dopo.
“Dovrai farlo tu,” dice, “Io non…” ma le sue mani sono già lì.
E tremano; ordina a se stesso di essere lieve, si impone una presa salda e pulita, ma le dita continuano a frustrarlo. Se comunque gli ha fatto male mentre trafficava con i lembi di stoffa, Aleksandros se l’è tenuto per sé, come sempre.
Poi, d’improvviso, la fasciatura si sfila via e la ferita è allo scoperto.
È un’oscenità sul suo corpo giovane e forte, un sacrilegio che grida la peggiore vendetta.
Non profonda, perché Philippos l’ha ricucita come e dove ha potuto; il fulcro, tuttavia, è un buco di carne cruda, un orrendo occhio rosso spalancato sul fianco. I contorni sono gonfi e lividi; la freccia l’hanno dovuta sradicare, tagliarla via pezzo per pezzo – così ha detto Philippos. Altri sono morti per ferite come questa.
“Ah…” Hephaistion si lascia andare a un guaito di dolore. Con infinita delicatezza poggia un dito sul bordo di quell’oltraggio e sospira. Abbassa la testa e sfiora la carne mortificata con le labbra, muovendole appena e assorbendone il calore innaturale. Lo sente bruciare in gola e negli occhi, assieme al riflusso di lacrime che non è ancora riuscito a versare. Poi, rialza la testa e ricopre la ferita con le bende, fin quando il tremore nelle dita non cessa e il pianto è di nuovo rimesso al suo posto, dietro il confine degli occhi.
“Alekos,” cerca di sorridergli, ma il tentativo si infrange in una smorfia. “Guarda le cose che fai a te stesso.”
“Io,” risponde Aleksandros implacabile, “sono un completo idiota.”
“Sì, lo sei.” Gli è uscita con una tale sicurezza, come gli avesse detto che il cielo è blu, che Aleksandros non può fare a meno di scoppiare in una risata. Cauto, però, perché il buonumore deve costargli un bel po’ con quel fianco martoriato. Ma c’è poco da fare, ed è sempre stato così tra di loro: non hanno mai avuto bisogno di trattenere i colpi.
“Sono stato aiutato nel farmela, questa ferita. Non posso prendermi tutto il merito.”
Hephaistion sente il riflusso scuro e feroce della collera risalirgli la gola e incendiargli la faccia. E qualcosa, di questa brutalità, deve avere colto di sorpresa Aleksandros, che infatti ora lo fissa come fosse stordito – o spaventato.
Ma negli occhi legge anche la comprensione – non quella del compagno, o dell’amico di una vita. È l’anima dell’amante quella con cui gli sta parlando, ma è una voce che non ha mai avuto bisogno di parole.
“L’uomo che ha fatto questo…” Persino il tono gli esce nero; si sente addosso uno sguardo terribile, ma Aleksandros lo sostiene senza battere ciglio.
“Morto,” risponde. “Ogni creatura che respirava.”
Questo per un attimo lo coglie di sorpresa. Non è qualcosa a cui l’esercito si abbandona facilmente – nulla che le truppe di Aleksandros abbiano mai fatto. Persino a Tyrus e a Gaza era stata riservata una maggior misericordia. Ma non erano andate tanto vicine a uccidere il loro Re, no.
“Non è stato dato nessun ordine. I soldati… sono impazziti. E non si sono fermati.” Nella vibrazione della voce è evidente che Aleksandros non l’avrebbe voluto. “Tu che cosa avresti fatto?” gli chiede a bassa voce.
Hephaistion si concede una pausa prima di rispondere. Certe cose non si pronunciano senza cautela. “Li avrei uccisi.”
“Tutti quanti?”
“Tutti. E quello, in particolare, l’avrei ammazzato lentamente.”
Aleksandros sembra lasciarsi avvolgere dalle sue parole e poi farsele filtrare dentro, fino ad affondare nella pelle e dietro gli occhi. Non può non sapere che i suoi uomini farebbero questo per lui – che l’hanno già fatto. Forse, è solo un sacrificio che deve essere compiuto, il prezzo per restargli accanto.
Con la mano debole e fradicia di sudore, Aleksandros afferra una delle sue e la stringe. Può sentire l’energia nella presa – una forza inviolabile che come sempre è pronto a condividere.
“Gli Dei abbiano pietà per i miei nemici.”
“Abbiano pietà per i tuoi amici, vorrai dire.” Hephaistion gli stinge le dita a sua volta. Stavolta, il sorriso che sente distendersi sulle labbra gli sembra più naturale, o così spera che appaia. Sa solo che gli è mancato, e che è inutile cercare le parole per esprimerlo; non è mai stato bravo con quelle – è Aleksandros, tra i due, quello dei grandi discorsi. Così resta in silenzio e lascia che siano carne e respiro a parlare per lui, le loro mani intrecciate, e il fiato che per un attimo viene a mancare.
“È stato molto difficile?” domanda Aleksandros dopo la lunga pausa. “Sono venuto non appena ho potuto. Quello che voglio dire però…” sembra lottare con le frasi, cosa strana per lui. “Le dicerie. Hai creduto che…”
“No,” risponde lui pronto. “E sei stato uno sciocco a correre qua così presto.” Gli solleva la mano per portarsela alle labbra, così da soffocare l’affilatura nel tono. “Io sapevo. Ma…”
“Mi dispiace.”
“Oh, Alekos,” lo interrompe e la voce gli esce strozzata, per quanti sforzi abbia fatto nel tenerla a bada. “Temevo di sbagliarmi.”
“Mi dispiace.”
Hephaistion gli rivolge un cipiglio che manda lampi. “La vuoi finire di ripeterlo?”
Aleksandros ricambia con un tuono. “E tu vuoi chiudere la bocca e baciarmi una buona volta?”
Hephaistion sorride e lo accontenta subito, restando a lungo sulle sue labbra, fin quando Aleksandros è costretto a staccarsi per riprendere fiato.
“L’ho sentito, sai?”
“Certo che l’hai sentito,” ansima Aleksandros, rosso in viso. “Hai la mano proprio lì sopra.”
Hephaistion gli rivolge un ghigno divertito e si china a baciarlo di nuovo. “Non quello, stupido. La ferita.” Sospira sulle sue labbra, mentre gli prende la testa tra le mani, carezzandogli le tempie con i pollici. “Ho sentito la freccia quando ti ha colpito. O quando sei caduto, non lo so. Ma era anche dentro di me.”
Per un istante Aleksandros tace, si limita a fissarlo prima di allungare una mano per sfiorarlo sui capelli. Poi, finalmente: “Philè.”
“Non farlo mai più.”
“Ti ha fatto male?” Sembra non voler desistere. Vuole sapere – e la sua espressione è strana; pare nascondere un mistero a cui non vuole davvero pensare – o forse desidera soltanto dimenticare.
Hephaistion inclina la testa, pensoso. “Non esattamente. Era più la consapevolezza di qualcosa che non andava.” Scuote la testa, irritato. Non è propriamente così, ma ha sempre avuto difficoltà a mettere in parola il legame che condivide con Aleksandros da tutta la vita. Quando erano ragazzi, e aveva cominciato a percepire le sue emozioni e i moti del suo cuore, aveva creduto di essere pazzo.
A ogni modo la sua espressione dev’essere abbastanza eloquente per lui, che annuisce con sicurezza.
“Anch’io ero certo che fossi con me,” dice a occhi socchiusi. Ha ancora quello sguardo strano, come se fosse stato colpito dalla violenza di una profezia. O forse è solo un segreto che non può rivelare – che non può, o non vuole.
“Mi hai salvato la vita,” dice semplicemente, e sembra non voler aggiungere altro. Gli solleva la mano che indossa l’anello con l’effige solare e se la porta alle labbra, baciando il rubino. Muove la testa per premerselo contro la bocca, soffocando un sospiro.
Se Hephaistion avesse avuto ancora dei dubbi sul significato delle sue parole, quel gesto è sufficiente a cacciare via ogni perplessità e ad aprire di nuovo le coltri buie che per un attimo gli hanno avvolto il cuore. Qualunque cosa Aleksandros abbia trovato, nel viaggio oscuro e terribile che per giorni li ha separati, ha deciso di tenerlo per sé, e gli va bene, è pronto ad accettarlo. Può portare il peso di un segreto, ora che il Sole è tornato a risplendere sulla sua vita – ed è un fardello piccolo e immenso, come l’anello che sente di nuovo bruciare al dito.
“Sai che non potrei mai lasciarti andare,” risponde in tono pratico. “Mai, finché avrò vita.”
“Patroklos?” Ora va meglio. Il sorriso che gli rivolge è di nuovo il suo – caldo e luminoso.
“Patroklos.” Hephaistion si prende un istante per riaccomodare il cuore nel petto, una volta ancora. È così stupido a volte, il suo cuore: sembra gonfiarsi e contrarsi nei momenti meno opportuni, così che il torace gli diventa di colpo stretto e la gola gli duole. Ma passa dopo un attimo – passa sempre, resta solo il calore.
Guarda di nuovo il volto pallido e sudato di Aleksandros e lo racchiude ancora a coppa tra le mani, sospirando. “Dormi ora. Hai bisogno di riposo.”
Fa per alzarsi ma Aleksandros lo trattiene; l’energia nella sua presa è sorprendente. Fino a un attimo prima sembrava che non sarebbe riuscito neanche a sollevare un dito, mentre ora lo stringe come se non volesse mai lasciarlo andare.
“Resta qua.” È poco più di un sussurro, ma non c’è bisogno che alzi la voce; Hephaistion lo sentirebbe sempre e comunque.
Si riaccomoda sullo sgabello e gli prende di nuovo le mani nelle sue, ricambiando la stretta.
“Sempre,” risponde. “Sempre, Alekos.”
Se i sacrifici sono qualcosa che deve essere fatto – pensa, perdendosi di nuovo nei suoi occhi opachi e insondabili – le promesse sono ciò che rende dolce il consacrarsi a questo dio di fuoco e calore, che illumina i suoi giorni.
Chiude gli occhi e si china a baciarlo, una volta di più.






Fine



Note:

1) Come specificato nell’introduzione, questo racconto trae ispirazione da un evento realmente accaduto nella vita di Alessandro. Nel 326 a.c. l’esercito di Alessandro raggiunge il fiume Hyphasis – odierno Beas – nel nord dell’India. Al tempo era considerato il punto più estremo mai raggiunto da un conquistatore occidentale, e le truppe, fiaccate dalla lunga campagna e dalle estenuanti battaglie contro le popolazioni indigene, si rifiutano di proseguire oltre, nonostante il desiderio ardente di Alessandro di passare il confine e raggiungere quello che al tempo si credeva il ‘grande mare accerchiante’ che racchiudeva il mondo.
La frattura tra il Re e l’esercito sarà violenta, e questo porterà Alessandro a rinchiudersi nella sua tenda per giorni, incapace di accettare l’ammutinamento dei suoi uomini. La querelle si conclude con la risoluzione di tornare indietro, verso la Persia, sebbene sia una scelta molto sofferta per Alessandro, e che non mancherà di rimarcare al suo esercito.
Sulla via del ritorno, durante la navigazione lungo gli affluenti dell’Indo, l’esercito si imbatte nella bellicosa tribù dei malli, e il Re decide di soffocare la rivolta violenta degli indigeni, così da assicurarsi il territorio. Come specificato nel racconto, Alessandro spedisce una parte dell’esercito, al comando di Efestione, verso sud, mentre la restante parte, agli ordini di Cratero, rimane indietro, al fine di intercettare i fuggitivi dell’attacco frontale che Alessando intende sferrare alla cittadella dei malli, nella località conosciuta con il nome di Multan.
L’assedio si rivela lungo e faticoso, e Arriano narra di come le truppe fossero restie a gettarsi nella carica, com’era invece loro costume abituale, rendendo la presa della cittadella sempre più laboriosa.
Questo è alla base del gesto sconsiderato di Alessandro: quando le scale vengono approntate sulle mura, e il Re si rende conto che i soldati non sono pronti come sempre a gettarsi a capofitto sull’obbiettivo, decide di dare l’esempio, e si arrampica da solo in cima a una delle scale, saltando dentro le mura brulicanti di malli. Sempre Arriano racconta di come l’esercito pare riscuotersi di fronte a quell’atto di coraggio estremo e, preoccupati per le sorti del loro Re, si affastellano sulle scale per seguirlo immediatamente. Il peso fa crollare le rampe, con i soldati al seguito, e Alessandro si trova isolato sull’altro lato, ricevendo la freccia nel polmone, che per poco non lo uccide. È tratto in salvo da Perdicca, e dal resto dei soldati, che in breve tempo l’hanno raggiunto, ma giacerà in coma per giorni, tra la vita e la morte. L’aneddoto della lettera e della discesa del Re lungo il fiume, dopo pochi giorni, risponde a verità, come lo è il suo fingersi per qualche istante morto, per poi alzare il braccio, acclamato dai soldati.

2) Cratero è uno dei generali più prominenti nel gruppo di collaboratori di Alessandro, e la sua acrimonia nei confronti di Efestione – peraltro reciproca – è ben documentata. Cratero era un uomo fidato e un valido soldato, ma era un macedone vecchio stampo, molto scettico nei confronti della fusione attuata da Alessandro tra persiani e macedoni, e che invece Efestione aveva appoggiato fin dall’inizio. Questo, oltre alle differenze caratteriali, ha portato i due a scontrarsi più volte, tanto che le fonti riportano di un alterco particolarmente acceso, che il Re in persona è dovuto intervenire a sedare, ricorrendo alle minacce. Dopo questo episodio non ci sono più menzioni di litigi tra i due uomini, ma in una situazione come quella descritta dal racconto, ho ipotizzato che, con Alessandro lontano, potesse essersi manifestata una recrudescenza dell’astio esistente tra loro, come infatti ho descritto.
Un dettaglio interessante è il modo in cui Alessandro era solito appellare entrambi: se Efestione era philalexandros (l’amico di Alessandro), Cratero era chiamato philobasileus (l’amico del Re), a sottolineare la differenza profonda nel tipo di rapporto. Alla luce di questo va colto il rimarco che Efestione rivolge a Cratero nel capitolo quattro.




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