Little secrets di Cruel Heart (/viewuser.php?uid=271119)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue || The Sound of Silence ***
Capitolo 2: *** 1. My World ***
Capitolo 3: *** 2. Sick Of Everyone ***
Capitolo 4: *** 3. People Help The People ***
Capitolo 5: *** 4. Mobile ***
Capitolo 6: *** 5. I knew you were trouble ***
Capitolo 7: *** 6. Evan Way ***
Capitolo 8: *** 7. Sk8er Boi ***
Capitolo 9: *** 8. Carpe Diem || Naked ***
Capitolo 10: *** 9. All About You ***
Capitolo 11: *** 10. All of the Stars ***
Capitolo 12: *** 11. Things I'll Never Say ***
Capitolo 13: *** 12. Maybe goodnight will be our okay/always || Goodnight Moon ***
Capitolo 14: *** 13. American Idiot ***
Capitolo 15: *** 14. Royals ***
Capitolo 16: *** 15. With Me ***
Capitolo 17: *** 16. I Love the Both of You ***
Capitolo 18: *** 17. Stubborn ***
Capitolo 19: *** 18. Iris || Socrates ***
Capitolo 20: *** 19. Skumfuk ***
Capitolo 21: *** 20. Beside You ***
Capitolo 1 *** Prologue || The Sound of Silence ***
Salve a tutti.
Non so se qualcuno si
ricordi ancora di me, ma
sono tornata.
Non aggiorno da tre
mesi e me ne dispiaccio
molto.
Potrei dirvi che il
mio abissale ritardo fosse
dovuto ai troppi impegni o alla mia mancanza di tempo, ma non
è così.
La verità
è che semplicemente non avevo più
voglia di scrivere e tutto il mio entusiasmo dei primi mesi era andato
via via
spegnendosi.
Vi chiedo ancora scusa.
Adesso passiamo alla
storia.
Ogni personaggio
avrà un "piccolo" segreto
che dovrà mantenere per un certo periodo e che poi
sarà costretto a rivelare.
In ogni capitolo,
verso la fine, metterò una o
più strofe di una canzone che
“riassumeranno” le sensazioni descritte nel
capitolo.
Aggiornerò
due volte al mese, sempre di
Domenica sera.
So quanto il
Lunedì possa essere traumatico,
per cui proverò ad alleggerirlo un po’ con la mia
storia.
Bene, ringrazio tutti
coloro che continueranno
a leggere.
Cruel
Heart.
***
Simon and Garfunkel - The Sound of
Silence
***
Grey Towers Castle, Pennsylvania, 20 Ottobre 1990
Un fulmine si
diramò altissimo nel cielo, seguito quasi simultaneamente da
un potente tuono che interruppe, seppur per brevi istanti, il pianto
disperato del bambino.
Agitava sempre di più i suoi
capelli, nel tentativo di divincolarsi, mentre calde lacrime salate
infiammavano ancora di più il suo volto.
«Papà...
Basta, basta!»
«Zitto!
Avrei già dovuto
ucciderti quando quella puttana di tua madre ti ha partorito!»
Il piccolo continuava
a piangere da ore, esattamente da quando il padre era rincasato.
Adesso il duca, dopo
la sua solita passeggiata pomeridiana, si dilettava in quello che per
lui era il suo modo di scaricare tutta la rabbia che gli attanagliava
il cuore: picchiare quella disgrazia che gli era capitata.
Il figlio si
difendeva come meglio poteva.
Cercava di mettere le
mani in avanti, a protezione del viso − la zona dove veniva più colpito −,
ma non serviva a niente, anzi.
Questo atteggiamento
non faceva altro che irritare di più il
duca, in collera con se stesso e con il mondo intero.
E così, oltre agli
schiaffi, incominciarono ad arrivare anche calci allo stomaco.
Il bambino
boccheggiava, tossiva e si contorceva per il dolore.
Nel frattempo,
soltanto il temporale interrompeva la quiete che avvolgeva il castello
dall'esterno.
L'atmosfera era quasi
surreale: il piccolo gridava forte, e le urla del padre erano ancora più forti
delle sue, ma nessuno poteva anche soltanto immaginare ciò che
accadeva in quella stanza da sette anni, ormai.
Il
suono del silenzio era opprimente.
Soltanto grazie ad
esso, il padre poteva sfogare la sua ira su quella piccola creatura
senza colpa.
Soltanto grazie ad
esso, la pelle del bambino si faceva sempre più violacea,
segno tangibile dei lividi che aumentavano.
E, soltanto grazie ad
esso, le sue possibilità di essere salvato venivano
soffocate.
Ma poi, il silenzio
fu squarciato.
Il campanello della
porta del castello suonò, e sia il duca che
il bambino si ritrovavano a trattenere il fiato.
Chi mai potrebbe
essere?, si
domandò l'uomo.
A quell'ora della
sera tutti erano rintanati nelle loro case, e le visite al castello dei
Taubenfeld erano molto più che
rare.
Il duca trafisse
ancora con uno sguardo il bambino sul letto.
Il suo petto era
scosso da singhiozzi, e tutto il corpo gli tremava, sia per il freddo,
che per la paura.
In un attimo, la
mente del piccolo, ideò un
piano, un'ancora di salvezza.
Se proprio doveva
subire tutta la rabbia del padre, tanto valeva patirla per provare a
farsi salvare dallo sconosciuto alla porta.
Si tirò su con
le braccia e, con uno scatto che solo i bambini sapevano avere,
saltò dal letto e cercò di correre, per quel che
gli riusciva, verso la porta, gridando sempre più forte:«Aiuto!
Aiuto!»
Sentiva crescere
sempre di più il fuoco nella sua piccola gamba sinistra, ma
non gli importava. Se questo era il prezzo per la libertà,
lo avrebbe pagato volentieri.
Si alzò
sulle punte, afferrò la maniglia − posizionata
troppo in alto per lui − e, con tutta la forza che aveva, tirò verso
il basso, proprio mentre i passi infuriati del duca lo inseguivano per
il corridoio.
La porta
cigolò e si aprì, rivelando una figura che il
piccolo mai si sarebbe aspettato di vedere.
Un bambino.
Era alto più o meno come lui, ma
aveva dei vestiti più logori
e un'aria stanca.
Quelli che una volta
erano occhi vispi e pieni di curiosità, adesso erano
semplicemente vuoti e privi di speranza.
«Come
ti...» chiami,
fece per dire, ma la voce del padre lo interruppe.
«Aspetta!»
tuonò, afferrandolo per una spalla e tirandolo più indietro.
Poi, si rivolse al piccolo sconosciuto. «Chi sei?»
gli chiese.
«Un piccolo
orfano, duca Taubenfeld.» rispose.
L'uomo socchiuse gli
occhi, sospettoso. «Come fai a sapere chi sono? Non credo di
averti mai visto in giro nei quartieri altolocati della
zona.» lo schernì, con un sorriso di disprezzo.
Il piccolo,
incredibilmente per l'età che aveva, gli restituì
il sorriso. «Oh, ma lei è molto
conosciuto, anche nei quartieri non altolocati come il suo. Lo è sia per
i suoi meriti...» Si girò lentamente
verso il figlioletto del duca, facendogli un cenno appena percettibile.
«... Che per i suoi demeriti.» Appena finì di
pronunciare queste parole, gli occhi del bambino saettarono di nuovo
verso l'alto, verso quelli del duca.
Dal canto suo, l'uomo
era completamente stordito, come se uno dei tanti schiaffi che aveva
rifilato al figlio, lo avesse ricevuto lui.
«Quanti
anni hai?» gli domandò, sempre più diffidente.
«Sette,
signore.»
Come poteva un
bambino di appena sette anni mettere in difficoltà un uomo
che aveva sulle spalle quarant'anni in più?
«E cosa
vuoi da me?»
«Un tetto
sotto cui poter dormire e un po' di cibo. In cambio, mi renderò utile
in casa e non sarò di peso a nessuno. Ospitalità,
duca. Non chiedo altro.»
È
un'intelligenza sopraffina, pensò
l'uomo.
Anzi, era molto di più. Era un'intelligenza
che raramente si trovava nella persona che avevi di fronte.
Figuriamoci, poi, se questa intelligenza apparteneva ad un bambino di
sette anni.
Improvvisamente,
un'idea invase completamente la mente del duca.
Era un'idea geniale,
di quelle che avevi solo una volta nella vita, e che te la cambiava
radicalmente.
«Bene,
accetto la tua richiesta. Ma sappi che verrai trattato esattamente come
un membro della servitù, e non dovrai aspettarti privilegi
solo per la tua giovane età.»
«Certo.
Grazie, signor Taubenfeld.» disse il bambino, senza mai
spostare gli occhi da quelli dell'uomo. Era incredibile vedere quanta
sicurezza emanavano.
Fece entrare il
bambino nella sua casa.
«Io sono
Evan.» si presentò il bambino.
«Kevin.»
rispose l'altro.
«Su, su,
non perdiamo tempo. Sali di sopra ed entra nella prima stanza a
sinistra. Mio figlio ti porterà subito dei vestiti
nuovi.»
L'ospite
obbedì, ma c'era qualcuno che non era d'accordo.
«Ma
papà... Non possiamo tenerlo qui... »
provò a obiettare con voce esile il figlioletto. Aveva
già avuto prove piuttosto sufficienti della rabbia del padre
e non voleva suscitargliene di nuova.
Il padre sorrise, ma
non di un sorriso allegro o gioioso. No, non era niente di tutto
questo. Il suo era un sorriso inquietante, di quelli che spopolano
negli incubi di ogni bambino. «Sì invece,
possiamo. Ora va' e prepara ciò che ti
ho chiesto. Mi raccomando, consideralo il nostro piccolo
segreto.»
***
And, in the naked light I saw,
ten thousand people, maybe more.
People talking without speaking,
people hearing without listening,
people writing songs that voices never share.
No one dare, disturb the sound of silence.
"Fools", said I, "you do not know,
silence like a cancer grows.
Hear my words that I might teach you,
take my arms that I might reach you."
But my words, like silent raindrops, fell.
And echoed the will of silence.
E, nella luce
nuda, vidi diecimila persone, forse più..
Gente che
comunicava senza parlare,
gente che
sentiva senza ascoltare,
gente che
scriveva canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato.
Nessuno osava
disturbare il suono del silenzio.
"Stupidi", dissi
io, "non sapete che il silenzio si espande come un cancro.
Ascoltate le mie
parole così che io
possa insegnarvi,
prendete le mie
braccia così che io
possa raggiungervi."
Ma le mie parole
caddero, come gocce di pioggia silenti.
Ed echeggiarono
nel prorompere del silenzio.
~
Simon and Garfunkel - The Sound of Silence
P.S. Ho visto il video
di HK. Mi è sembrato la quint’essenza del trash,
ma dalla canzone non ci si poteva aspettare niente di diverso. Aspetto
con ansia GYWYL.
A voi cosa ve ne
è parso?
|
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Capitolo 2 *** 1. My World ***
Salve
gente, come state?
Io non
benissimo, anzi…
Ho un mal
di stomaco terribile, la febbre e, come se non bastasse, domani
si ritorna a scuola e ho il compito di matematica.
Evviva!
*Fa cadere coriandoli
ovunque*
Comunque,
eccomi qui ad aggiornare di nuovo con il primo capitolo.
Spero che
vi piaccia. Alla prossima con il secondo.
Bye.
~
Cruel Heart.
***
Avril Lavigne -
My
World
***
Napanee,Ontario,
Canada, 4 Febbraio 2001
Avril's pov
«Ciao
Avril!»
Mi girai, per sentire a chi
appartenesse quella voce. «Oh…
Ciao Scott.»
La naturale propensione di Scott -
l'autista dell'autobus che mi riaccompagnava a casa ogni pomeriggio -
di sorridere e di salutare chiunque incontrasse, mi faceva sentire a
disagio.
«Ehi, salutami tua
madre.» ammiccò, aggiustandosi il buffo cappellino
dei Lakers, la sua squadra di basket preferita.
«Lo
farò.» risposi, con le guance in fiamme. Se prima
ero a disagio, adesso stavo chiedendo direttamente alla terra di
aprirsi sotto di me e di inghiottirmi. Non era il massimo quando un
ultracinquantenne pelato e panciuto chiedeva di salutare tua madre ammiccando.
Scesi dall'autobus in tutta fretta
e per poco non rischiai di inciampare negli scalini che dividevano il
mezzo dall'asfalto.
Cercai di dimenticare
l'imbarazzante scambio di battute a cui avevo partecipato e rivolsi il
cervello immediatamente da un'altra parte. Feci un rapido rewind di
tutto ciò che mi era successo nella mattinata.
La giornata a scuola non era stata
particolarmente esaltante: sempre gli stessi corridoi, sempre le stesse
facce, sempre le stesse raccomandazioni per la fine del semestre...
Nonostante il secondo semestre
fosse iniziato da appena quattro giorni, i professori non perdevano
occasione di ricordarci che dovevamo studiare sempre e comunque, se non
volevamo diventare "superciucci".
Una cosa era certa: per quanto gli
insegnanti si sgolassero, cercando di impedire la nostra trasformazione
in complete capre ignoranti, non tutti ce l'avrebbero fatta a superare
gli esami finali a Luglio, quest'anno.
In
particolare, sperai che qualcuno
non
li superasse. Mi riferivo a Travis Michigan.
Per
mia
sfortuna, frequentavamo lo stesso corso di educazione alimentare e oggi
aveva
dato spettacolo, mostrando il peggio di sé in corridoio.
Infatti,
la suddetta capra, mi aveva rubato il mio fantastico panino al pomodoro
e al
prosciutto crudo e agitandolo, aveva gridato:«Lavigne, mi
deludi, questo non fa
bene alla tua alimentazione!»
Il
tutto
fu accompagnato da un ghigno che mi fece scattare.
Due
pugni sul naso dopo, ero riuscita a riavere il mio pranzo e avevo
fissato
Michigan con uno sguardo assassino. Nonostante tutto, non si toglieva
quel
ghigno irritante dalla sua faccia appena tumefatta.
Lo
superai a passo di carica e andai in mensa per consumare il mio pranzo.
Mi
ero
appena seduta al primo tavolo libero che avevo trovato, quando vidi
l'orrore di
tutti gli orrori esistenti a questo mondo: una fetta di formaggio
sbucava dalle
due fette di pane.
Bastardo.
Michigan sapeva della mia avversione.
Dire
che
il formaggio non mi piaceva era un eufemismo.
Io
odiavo
quel colore così giallo, quell'odore intenso, per non
parlare poi del sapore…
Era
la
cosa più brutta che potesse esistere.
Ritornai
con la mente al presente. Fissavo il marciapiede sotto di me, mentre mi
dirigevo verso casa.
Piccoli
fili d'erba fuoriuscivano dalle mattonelle fissate male, che sembravano
essere
lì da secoli.
Se
la
situazione era relativamente
tranquilla a scuola, non potevo dire lo stesso di quella a casa.
Mia
madre era stanca della nostra situazione, ed ero abbastanza sicura che
fosse
arrivata ormai al limite.
Il
problema era che abitavo da sola con lei, in un piccolo appartamento
nella
periferia di Napanee, in Canada.
In
culo
al mondo, per dirla in breve.
In
più,
mia madre non lavorava da mesi e, per adesso, vivevamo con i soldi che
aveva
racimolato con il suo precedente lavoro da insegnante.
Guardai
verso il cielo. Mentre continuavo a camminare, osservavo tutte le
nuvole,
cercando di dare loro una forma nella mia mente.
Tutte
quelle persone - poche, a dir la verità - che erano a
conoscenza della nostra
situazione, ci chiedevano come mai mio padre non rientrasse
dall'Afghanistan
per stare con la sua famiglia.
Beh,
quella del soldato in missione di guerra, era la versione inventata da
mia
madre, Judy.
La
realtà,
invece, era ben diversa.
La
leva
militare, per mio padre, non era mai esistita, così come non
era mai esistito
nemmeno lui, in fondo...
Già.
Non
c'era mai stato nessun padre per me, nessuna figura maschile a cui
poter
aggrapparmi nei momenti più difficili. Non sapevo neanche
quale fosse il suo
nome.
Eravamo
state sempre e solo io e mia madre. Lui, invece, l'aveva abbandonata
quando era
incinta di me, forse per le troppe responsabilità.
Riabbassai
lo sguardo verso la punta delle scarpe, e mi sistemai una ciocca di
capelli
dietro l'orecchio sinistro.
Forse
era meglio non pensarci, per ora.
Cinque
minuti dopo, ero arrivata a casa.
Immediatamente,
notai una busta che spuntava fuori dalla cassette delle lettere.
Così, presi il
mazzo di chiavi dalla cerniera dello zaino, aprii la piccola teca in
metallo ed
estrassi la lettera.
La
carta
era completamente liscia e bianca, eccezion fatta per il nostro
indirizzo
scritto sul retro.
“Probabilmente sarà un'altra bolletta.”,
pensai amareggiata.
Come
avevo già detto, non navigavamo nell'oro, e in
più non avevamo nessuno che
potesse aiutarci nelle spese.
Feci
un
paio di passi in avanti, cercando di trovare il modo più
gentile per darle
quell'altra brutta notizia. Scelsi un'altra piccola chiave dal mazzo,
la
inserii nella toppa e feci scattare la serratura della porta
d'ingresso.
Un
dolce
profumino di patate arrosto invase completamente le mie narici.
«Mamma!
Sono tornata!»
Tolsi
le
chiavi dalla toppa, sempre più preoccupata. Sbattei la
porta,
richiudendola, e
percorsi il corridoio,
per andare in cucina.
Posai
la
busta sul tavolo, delicatamente - per non far degenerare ulteriormente
la
situazione - e salutai mia madre con un bacio veloce sulla guancia.
Stava
infornando le ultime patate.
«Scott
mi ha detto di salutarti.» Decisi di iniziare con
quell'argomento, per metterla
più a suo agio.
«Cosa?
Oh, sì, Scott. È un brav'uomo. Ha persino tentato
di spedirmi alcuni centinaia
di dollari per lettera, il mese scorso, ma ovviamente ho dovuto
portarglieli
indietro.»
Mi
diressi verso il frigo, prendendo la bottiglia d'acqua e dissetandomi.
Stavo
cercando deliberatamente di ignorare le parole "Scott",
"spedirmi" e "dollari". Non era bello venire a sapere che
il fastidioso autista non solo ammiccava a tua madre, ma le faceva
persino
l'elemosina.
«Ah,
a
proposito di lettera, ne ho trovata una, appena sono
entrata.» dissi, indicando
con un cenno la busta sul tavolo da pranzo.
Mia
madre si spazzolò il grembiule e aprì la lettera
con un coltello.
Iniziò
a
far scorrere gli occhi sulle prime righe.
Aveva
uno sguardo accigliato, e capii che, come me, stava pensando ad una
sola cosa: bollette.
Poi,
però,
qualcosa cambiò.
Ad
ogni
riga che leggeva, si strofinava sempre più velocemente le
mani sul grembiule, e
il suo sguardo, da accigliato, si fece sorpreso, poi disperato, e poi
di nuovo
calmo, come se non fosse successo alcunché.
«Avril...
Dobbiamo parlare.»
Bene,
quando qualcuno pronunciava quelle due parole, c'era solo una cosa da
fare: un
brevissimo resoconto della propria noiosissima vita, per vedere dove si
stanavano gli errori più madornali e capire il motivo di
quella frase.
Allora,
bisognava partire dall'inizio.
Il
mio
nome era Avril Ramona Lavigne. Avevo 17 anni e un colore di capelli -
portati
sempre lisci - indefinito, che andava dal biondo scuro al castano
chiaro.
Ero
bassina, con forme femminili non ancora pervenute.
La
bellezza e la grazia che tutte le fidanzate dei vari Travis Michigan
possedevano, per quanto mi riguardava, erano fuggite da qualche parte e
non
erano mai più tornate. Ma, soprattutto, ero l'unica
responsabile della
separazione dei miei genitori. E solo con la mia nascita.
Credevo
che questo fosse il
mio mondo, ma non sapevo ancora come questo stesse per
cambiare totalmente.
Guardai
mia madre negli occhi. «Dobbiamo partire. Domattina
stessa.», disse.
Il
tonfo
del mio zaino, sul pavimento, parlò per me.
Cosa?
***
Judy's pov
Io
non…
non riuscivo a crederci.
Un
attimo fa stavo preparando il pranzo per me e per mia figlia, e
adesso… era
tutto diverso.
La
guardai negli occhi, mentre sentivo il suo zaino cadere a terra.
“Ma
se
questo vuol dire proteggerla”, pensai, “allora
andrei anche in capo al mondo.”.
Era
il
mio segreto e io dovevo custodirlo.
Per
lei.
***
Please tell me what
is takin' place,
'cause I can't seem
to find a trace.
Guess it must have
got erased somehow.
Probabilly 'cause I
always forget,
everytime someone
tells me their name,
It's always gotta
be the same.
(In my world).
Never wore
cover-up.
Always beat the
boys up.
Grew up in a five
thousand population town.
Made my money by
cutting grass.
Got fired by fried
chicken ass.
All in a small
town, Napanee.
[…]
I'm off again, in
my world.
Per favore, ditemi cosa sta accadendo,
perché sembra che non riesca a capire
nulla.
Credo sia stato cancellato in qualche modo.
Probabilmente, perché dimentico sempre
ogni volta che qualcuno mi dice il suo nome.
Sarà sempre lo stesso.
(Nel mio mondo).
Non mi sono mai truccata tanto.
Ho sempre battuto i ragazzi.
Sono cresciuta in una cittadina di 5000 persone.
Ho fatto i soldi tagliando l'erba.
Sono stata licenziata da un culo di pollo fritto.
Il tutto in una piccola cittadina, Napanee.
[…]
Sono di nuovo spenta, nel mio mondo.
~ Avril Lavigne
- My World.
|
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Capitolo 3 *** 2. Sick Of Everyone ***
(Ri)salve
gente!
Per fortuna
la febbre/mal di stomaco/malessere per maledetto compito di
matematica è sparito, per cui, eccomi qui con il secondo
capitolo.
Si tratta di
una conversazione tra Avril e la madre, Judy.
Inoltre, ci
saranno delle parti scritte in carattere diverso: quelle
saranno delle frasi tratte dalla lettera che è stata mandata
a casa di Avril e
di Judy.
Il mistero
s’infittisce. *risata malefica* .
Spero che vi
piaccia e spero di non ricevere un campo di pomodori in
faccia.
Al
terzo capitolo.
~
Cruel Heart.
***
Sum 41 - Sick Of Everyone
***
Napanee,
Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001
Avril's
pov
«Dobbiamo
partire. Domattina
stessa.», disse mia
madre.
Il
tonfo
del mio zaino, sul pavimento, parlò per me.
Cosa?
«C-come…
dobbiamo partire?»
Allisciò
la lettera e la ripose nella sua busta. Deglutì
rumorosamente. «Sì, tesoro.»
Poi, si girò e la ripose nel tiretto della credenza,
chiudendolo lentamente a
chiave. Sembrava quasi che volesse tenere la lettera lontana da me.
Il
mio cervello
era bombardato da milioni di domande. Dove dovevamo andare? In che
modo, se non
avevamo neanche abbastanza soldi per permetterci un tavolo nuovo? Come
avremmo
fatto con la casa e con la nostra vita qui? Ma soprattutto, cosa
centrava tutto
questo con quella busta?
Mentre cercavo delle risposte, mi
venivano in mente solo domande.
Non
riuscivo ad aggrapparmi a nulla, neanche ad una singola teoria o
spiegazione
che avesse il minimo senso.
«Così…
all’improvviso? Perché?»
Si
voltò
verso di me e rilassò le spalle. Un sorriso tranquillo si
dipinse sul suo viso,
ma io, che la conoscevo meglio di chiunque altro, sapevo che
c’era qualcosa che
mi sfuggiva, in tutta quell’espressione serena. I suoi occhi
non lo erano. «Beh,
non è una decisione improvvisa, a dir la
verità.»
“Come mai ho
l’impressione che tu
invece non me la stia raccontando la verità,
mamma?” volevo chiederle, ma preferii
farla continuare.
«Vedi…
tu
lo sai che la nostra situazione non è delle migliori. Per
cui, tempo fa, avevo
fatto domanda per insegnare in privatamente in…
America.» Mi disse, trattenendo
il fiato, e facendo scomparire quel suo strano sorriso.
«Dove,
esattamente?» Incominciavo a innervosirmi. Non stava entrando
nei dettagli,
quando io, invece, ne avevo disperatamente bisogno.
«Avevo
pensato alla… Pennsylvania.»
Buttò
fuori il fiato e rilassò le spalle.
Ebbi
bisogno di due secondi di tempo. «Pennsylvania?»
chiesi, sperando che
scherzasse. Annuì, in attesa di un mio responso.
«Oh,
ma
dai!» esclamai, alzando gli occhi al cielo.
«Perché lì? Non potevamo andare,
che so, a Las Vegas? Hollywood? Neanche a Santa Monica?»
chiesi acida.
Mi
pentii quasi subito della mia reazione e feci un bel respiro. Mi
costava molto
trattenermi dall’andare da mia madre e scuoterle le spalle,
per chiederle cosa
diavolo le stesse succedendo, ma cercai di mantenere un tono fermo.
«Mamma, è
un altro mondo lì, completamente diverso dal nostro. E poi,
hai pensato ai
soldi per l’aereo? Hai intenzione di fare una bella camminata
di 600
km a piedi o di andarci
con il jet privato che non abbiamo?» “E
per fortuna non ho il ciclo.”, pensai.
«B-beh…»
L’imbarazzo. Era l’imbarazzo fatto persona.
«È stato organizzato tutto. Ci
verranno a prendere vicino casa ed è con quello
che andremo.»
Sgranai
gli occhi e dovetti sedermi su una delle sedie nella cucina, preda di
un’improvvisa carenza di zuccheri. Un migliaio di sensazioni
mi turbinavo
dentro, mille domande mi frullavano in testa, accompagnate anche dalla
speranza
ma anche dal terrore di poter cambiare vita così
improvvisamente. «Addirittura.
Un jet privato. Ma che cavolo…» sussurrai.
«Se non altro, ti pagheranno bene.»
Sembrava
delusa dalla mia totale visione negativa, e la capivo, ma tutta questa situazione era terrificante.
«Comunque,
fammi capire… Un po’ di tempo fa avevi fatto
domanda per lavorare in una scuola
privata in America, senza dirmi niente e tenendo questa notizia
importantissima
solo per te. Poi, oggi, ti è arriva questa fantomatica
lettera di risposta in
cui c’è scritto che la tua domanda è
stata accettata e che ci dobbiamo recare
sul posto domani mattina, accompagnate, tra l’altro, da un
jet privato che
verrà a prenderci neanche fossimo i Reali d'Inghilterra,
giusto?»
La
guardai ancora, dritta negli occhi, sperando che mi contraddicesse,
sperando che,
al posto di quel sorriso costruito ad arte, ci fosse un vero sorriso,
di quelli
che solo una mamma sa fare per tranquillizzarti, e che mi
dicesse:“Non ti
preoccupare amore, era solo uno stupido scherzo.”
Lei,
invece, non disse niente. Si limitò a fissarmi per un minuto
e a rimanere
impassibile, mentre aspettava che il silenzio venisse spezzato di nuovo.
Emisi
un
sospiro sconsolato. «Mi sembra di essere in una bolla appena
scoppiata.»
commentai, sapendo di essere vicina al punto di rottura.
Mia
madre,
invece, ci era già arrivata. Dai suoi occhi scesero due
singole lacrime, che si
asciugò prontamente. Non voleva sfogarsi davanti a me. Non
voleva aprirsi. Ancora.
«Oh, beh, e io che pensavo che
questa bolla sarebbe scoppiata di
felicità nel sapere che tua madre ha trovato un nuovo
lavoro!»
Per
un
attimo mi addolcii alla vista delle sue lacrime, ma poi la mia
espressione
s’indurii al suo sarcasmo. «Ed è questo
il motivo per cui mi hai parlato subito
dei tuoi progetti, vero?»
«Scusami,
Miss “Anticipazioni
Esclusive”…» gridò, mimando
con le dita le virgolette. «…Se
non c’era posto in un solo schifoso istituto in tutto
l’Ontario!»
«Certo,
mamma. Adesso la colpa è dell’Ontario. E tra un
po’, a cosa attribuirai la
responsabilità? Agli 007 americani? Al buco
nell’Ozono? Al nome di mio padre
che non mi hai mai voluto dire?» le
risposi, fuori di me.
Al
solo
nominare di mio padre, sgranò gli occhi e
boccheggiò, come se avesse ricevuto
un colpo basso al ventre.
«Quando
avrai intenzione di fidarti di tua figlia, fammi un fischio.»
risposi gelida.
Mi
alzai
di scatto dalla sedia e mi precipitai fuori di casa, scansando lo zaino
sul
pavimento.
Probabilmente
avrebbe sussultato allo sbattere eccessivo della porta, ma, in questo
momento,
non era il primo dei miei problemi.
Questa
situazione era a dir poco assurda, e lei non era l’unica a
cui era concesso di
sfogarsi.
***
Judy's pov
“Comunicale la
notizia, in modo diretto.” recitava quella maledetta lettera.
Seguii cosa c’era
scritto.
«Dobbiamo partire. Domattina
stessa.»
Non
sapevo
neanche dove riuscii a trovare la forza di volontà per
pronunciare quelle
quattro parole, ma lo feci.
Poi,
vidi la scena come se fosse stata al rallentatore. Lo zaino di Avril
cadde sul
pavimento, emettendo un tonfo che riusciva a compensare tutto il
terrore che
potevo leggerle negli occhi.
«C-come…
dobbiamo partire?»
Allisciai
la lettera, rimettendola al suo posto. «Sì,
tesoro.»
Non
ce
la facevo a guardarla negli occhi, così mi girai e infilai
la busta nel primo
spazio libero che trovai nella credenza, chiudendo poi tutto a chiave.
Dovevo
farla sparire al più presto, ma il mio cervello stava
già annaspando, in cerca
di cosa dire a mia figlia.
«Così…
all’improvviso? Perché?»
“Quanto vorrei spiegartelo, amore mio.”,
pensai, solo per un secondo.
Ma
no,
non potevo dirle la verità.
Non
poteva portare un peso così grande sulle spalle: toccava a
me farlo.
Mi
voltai verso di me e, cercando di assumere una postura rilassata, le
sorrisi,
sperando che non si accorgesse del fatto che stavo palesemente
recitando.
L’unica cosa che volevo fare era scoppiare a piangere e
abbracciarla forte.
«Beh,
non è una decisione improvvisa, a dir la verità.
Vedi… tu lo sai che la nostra
situazione non è delle migliori. Per cui, tempo fa, avevo
fatto domanda per
insegnare in privatamente in… America.»
“Menti,
Judith.
È quello che
sai fare meglio, no?”
Odiavo
il mio nome completo scritto con la sua calligrafia. Odiavo quella
lettera.
Odiavo lui.
«Dove,
esattamente?» mi chiese Avril.
«Avevo
pensato alla… Pennsylvania.» Non mi ero accorta di
star trattenendo il fiato
fin quando avevo sentito il peso sul mio cuore alleggerirsi giusto per
un
secondo.
«Pennsylvania?»
domandò, con gli occhi sgranati.
Annuii,
in attesa della sua reazione.
«Oh,
ma
dai!» sbottò, alzando gli occhi al cielo.
«Perché lì? Non potevamo andare, che
so, a Las Vegas? Hollywood? Neanche a Santa Monica?»
Mi
resi
conto che il suo sarcasmo mi feriva.
Mi
trapassava da parte a parte come una lama incandescente e mi mozzava il
respiro.
Lei
sembrò
accorgersene e cercò di assumere un tono fermo.
«Mamma, è un altro mondo lì,
completamente diverso dal nostro. E poi, hai pensato ai soldi per
l’aereo? Hai
intenzione di fare una bella camminata di 600 km
a piedi o di andarci
con il jet privato che non abbiamo?»
«B-beh…è
stato organizzato tutto. Ci verranno a prendere vicino casa ed è con quello
che andremo.»
Adesso,
non sapevo veramente cosa aspettarmi da lei.
Sgranò
ancora gli occhi e si sedette sulla sedia più vicina a lei,
come se qualcuno
l’avesse spintonata e l’avesse fatta cadere.
Per
un
attimo, fui tentata di inginocchiarmi davanti a lei e consolarla, come
facevo
quando da piccola si sbucciava un ginocchio cadendo dallo skateboard.
Ma
serrai i pugni e rimasi dov’ero.
“Controllo,
Judith. Hai solo bisogno di controllo per parlarle.”
Già,
controllo. Lui eccelleva nel controllare le persone.
«Addirittura.
Un jet privato. Ma che cavolo… Se non altro, ti pagheranno
bene. Comunque,
fammi capire… Un po’ di tempo fa avevi fatto
domanda per lavorare in una scuola
privata in America, senza dirmi niente e tenendo questa notizia
importantissima
solo per te. Poi, oggi, ti è arriva questa fantomatica
lettera di risposta in
cui c’è scritto che la tua domanda è
stata accettata e che ci dobbiamo recare
sul posto domani mattina, accompagnate, tra l’altro, da un
jet privato che
verrà a prenderci neanche fossimo i Reali d'Inghilterra,
giusto?»
Mi
guardò ancora, dritta negli occhi. Ma forse guardare
non era il termine giusto. Lei mi stava
leggendo dentro.
Come
se
tutto ciò stesse accadendo ad un’altra persona,
non dissi niente. Me ne stetti
in silenzio, sperando che finisse presto.
Era
un
po’ come stare in un brutto sogno: l’unica cosa che
volevo fare era svegliarmi,
ma, ovviamente, non succedeva. Ero già sveglia, purtroppo.
«Mi
sembra
di essere in una bolla appena scoppiata.» aggiunse,
sconsolata.
Non
ce
la feci più e lasciai cadere due lacrime che scorsero sulle
mie guance, ma le
asciugai velocemente con una mano.
Non
potevo permettermi di fallire, non adesso che ero così
vicina al mio nuovo e
odiato scopo.
Lasciai
che tutta la rabbia che provavo e tutta la frustrazione per questa
situazione
del cazzo inondassero mia figlia. «Oh, beh, e io che pensavo
che questa bolla
sarebbe scoppiata di
felicità nel
sapere che tua madre ha trovato un nuovo lavoro!»
La
sua
espressione s’indurì. Era triste vedere come ci
ferivamo a vicenda, quando
invece l’unica cosa di cui avevamo bisogno era stare
l’una con l’altra. «Ed è
questo il motivo per cui mi hai parlato subito dei tuoi progetti,
vero?»
«Scusami,
Miss “Anticipazioni Esclusive”, se non
c’era posto in un solo schifoso istituto
in tutto l’Ontario!» gridai.
«Certo,
mamma. Adesso la colpa è dell’Ontario. E tra un
po’, a cosa attribuirai la
responsabilità? Agli 007 americani? Al buco
nell’Ozono? Al nome di mio padre
che non mi hai mai voluto dire?»
Credevo
che un pugno dritto allo stomaco avrebbe fatto meno male. Come poteva
anche
solo nominare quell’essere in mia presenza?
Era
vero, non avevo mai parlato di suo padre davanti a lei, anche quando
era
cresciuta, ma volevo soltanto proteggerla.
E,
adesso, avevo fallito anche in questo.
«Quando
avrai intenzione di fidarti di tua figlia, fammi un fischio.»
mi rispose,
sbattendo la porta di casa e andandosene chissà dove.
Fiducia.
Era
qui
che avevo sbagliato?
Avevo
lasciato che il silenzio riempisse le nostre conversazioni,
semplicemente per
paura?
Non
avevo mai aperto veramente il mio cuore a mia figlia?
Non
mi
ero fidata abbastanza di lei?
***
Avril's pov
Cinque
minuti dopo la mia uscita di scena, raggiunsi la fermata degli autobus,
e lessi la destinazione.
Oregon. La prima fottuta grande
città in
questo fottuto grande paese. Proprio quello che mi serviva.
Mostrai
il mio biglietto al conducente, saltai sulla prima coppia di sedili
liberi che
trovai e mi distesi completamente, infischiandomene di quello che
pensavano gli
altri.
Stanca.
Ero stanca di tutti
e di tutto.
Sciolsi
la matassa in cui si trasformavano ogni giorno le mie cuffie e me le
infilai
nelle orecchie, selezionando la prima canzone che avevo visualizzato
sullo
schermo dell’Mp3.
Il
pullman incominciò a muoversi e iniziò a cullarmi
con le sue vibrazioni
leggere, ma avevo troppa adrenalina in corpo perché potessi
addormentarmi.
Appoggiai
la testa sul vetro, guardando il paesaggio sfilare dai miei occhi, e
assaporai
il mio “sfogo”, la mia via di scampo –
anche se solo per quella sera – sulla
punta della lingua.
Oregon uguale alcool.
Alcool uguale libertà.
Perfetto.
***
While looking for the
answers
only
questions come to mind,
‘cause
I've been lost in circles
which
seems now for quite some time.
And
I don't know how I came here
or
even how I got this far.
All
I can tell you is my fate
is
written in the black stars.
Well, what
am I supposed to do?
[…]
Oh, take me away.
I'm
sick of everyone, today.
I'm
not ok, but I'm fine this way,
I
need no change.
So,
take me away.
Mentre
cerco risposte,
mi
vengono in mente solo domande,
perché
mi sento confuso,
così
sembra da un po' di tempo.
E
non so come sono
arrivato qui,
così lontano.
Tutto quello
che posso dire è che
il
mio destino è scritto nelle stelle più
nere.
Beh, cosa
dovrei fare ?
[…]
Oh,
portami via.
Sono
stanco di tutti, oggi.
Non
sto bene, ma mi piace così,
non
voglio cambiare.
Quindi,
portami via.
~ Sum 41 – Sick
Of Everyone
|
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Capitolo 4 *** 3. People Help The People ***
Salve a tutti!
Mi dispiace per non
aver aggiornato prima, ma non ho potuto farlo per due
motivi importanti.
1.
LA SCUOLA. Mi sta
uccidendo. Sembra che i professori si
siano svegliati solo adesso e abbiano tutti fretta di interrogarci o di
fare
compiti in classe. Ho fatto sei compiti in una settimana e, come poche
volte
nella mia vita, sono seria.
2.
IL CAPITOLO
È STATO UN PARTO. Anche qui, non scherzo.
Proprio non voleva essere scritto. Ma la fine… *-* Ok, ok,
non dico niente. *si
tappa la bocca*.
Ultima cosa: spero che
le foto vi piacciano, da ora in poi le metterò
accanto ad ogni “Pov”.
Have a good day.
<3
~ Cruel
Heart.
***
Birdy - People Help The People [Originally
performed by
Cherry Ghost]
***
Napanee,
Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001
Avril's pov
Non
credevo di essermi mai sentita così.
No,
non
intendevo la classica sensazione che provi quando hai la bocca
impastata
dall’alcool o quando cerchi di pronunciare delle parole senza
senso.
Così,
mi
ci ero sentita tante volte, e quella non poteva essere di certo
l’ultima.
Invece,
mi riferivo ad un’altra e strana sensazione.
Quella di essere felice, mentre
avevi la perfetta consapevolezza che una tristezza infinita ti
avvolgeva fin
dentro.
Ecco,
era un po’ così che mi sentivo, mentre
attraversavo l’ennesima soglia
dell’ennesimo bar, in cerca degli ennesimi cinque dollari da
poter buttare via
per un ennesimo drink.
«Ehi,
ho
già detto ennesimo?» biascicai, sorridendo ad un
barista biondino che stava
asciugando un bicchiere. O forse due baristi biondini, non ne ero molto
certa.
«Se
ti
riferisci alla frase “Ehi, chi sarà questo
ennesimo figo che mi ritrovo davanti?”,
allora sì.» mi rispose, guardandomi con un
sorrisino ebete. Un suo collega –
anche la parola “armadio” andava bene, talmente era
alto e grosso –, che lo
stava aiutando, alzò gli occhi al cielo.
Misi
a
fuoco la sua figura. No, adesso ero certa che si trattasse di un solo
barista.
Aveva
i
capelli biondi e due occhi color ghiaccio, mentre, scendendo un
po’ con lo
sguardo, potevo vedere il suo fisico asciutto sotto la maglietta nera
aderente.
«Mmh,
mi
piaci, Evan D.» Mi
sedetti sullo
sgabello di fronte alla sua postazione, incuriosita dal nome sulla sua
divisa
da barman. «O preferisci che ti chiami “ebete
supermontato”?» Il ragazzo
accanto a lui emise un grugnito divertito, ma il biondino lo
fulminò con lo
sguardo e lui se ne andò, mormorandogli un
«Scusa» davvero molto poco
convincente e alzando le spalle, ancora sorridente.
«Allora…
cosa vuoi che ti porti?» disse, sbuffando e voltandosi verso
gli analcolici.
«Long
Island.» gli risposi, con finta noncuranza. Il Long Island
era un cocktail
alcolico a base di vodka, gin, tequila, rum bianco e triple sec.
[N.d.A. Il
triple sec è un liquore aromatizzato all’arancia.]
Una bomba, insomma.
Nonostante la mia ubriachezza, mi ricordavo ancora che quel drink era
vietato
ai minori di 21 anni. Sperai che non mi chiedesse documenti o rogne del
genere.
«Ehi,
non sarai troppo piccola per questo tipo di cose?» “Come non detto…”
«E
tu
non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?»
replicai, un po’ più
lucida.
«Mmh.»
disse, rivolgendomi un’occhiata di sufficienza e prendendo le
bottiglie.
Decisi
che la tattica migliore era quella di cambiare argomento, nel caso
avesse avuto
ancora qualcosa da ridire.
«Dimmi,
per cosa sta quella D? David Letterman?» [N.d.A. Famoso
conduttore americano.]
L’”armadio”
ripassò dalle nostre parti e grugnì di nuovo,
mentre veniva ancora fulminato.
Mi sembrava un déjà
vu.
«Aspetta,
com’era? Ah, già… Tu
non sarai troppo grande per non farti i
cazzi tuoi?» mi rispose, imitando la mia voce. In
altri momenti avrei anche
potuto ridere, ma non sapevo se fosse l’alcool o
l’irritazione nel sentire la
sua voce a trattenermi.
«E
anche
per non essere simpatica, aggiungerei, ma non voglio offendere
un’esponente
dell’altro sesso.» Poi, come se nulla fosse, mi
porse il mio drink e riprese a
pulire bicchieri.
«Mai
pensato che potresti appena averlo fatto?» dissi, sbattendo
il mio bicchiere
sul bancone e avvicinandomi ai suoi occhi di ghiaccio.
Posò
lo
strofinaccio vicino al mio bicchiere, avvicinò le sue mani
alle mie sul bancone
e mi fissò, di rimando, con intensità.
«Mai pensato che potrebbe non fregarmene
un cazzo?»
«Deficiente.»
ribattei, riprendendomi il drink e andandolo a sorseggiare ad un tavolo
libero.
«Stronza.»
sussurrò, riprendendo a pulire.
«Ti
ho
sentito!» gli urlai, mentre mi sedevo distante da lui.
Stando
attenta a non versare il liquido per il mio scarso equilibrio, mi
sistemai
meglio, per trovare una posizione comoda su quello sgabello alto.
O
forse,
il problema era proprio che fosse troppo
alto.
Non
che
ci volesse molto, comunque.
Non
nascondevo di essere una tappetta di centocinquantotto centimetri,
accettati da
me con grande dignità e menefreghismo.
Certo,
fino all’anno scorso.
Infatti,
durante tutti i miei primi quindici anni di vita, non avevo fatto altro
che
lamentarmi di quanto Madre Natura fosse stata un po’ bastarda
con la
sottoscritta.
“Alle
galline vanno tette e culo, alle intelligenti cervello e
lungimiranza.”
recitava la maglietta che indossavo quella sera.
Altro che solidarietà
femminile…
Ma,
comunque, venivo prontamente consolata.
“Tutte
le ragazze più graziose sono basse, amore.”
“Già,
facile a dirsi, quando tua madre è più alta di te
di venti centimetri.” le
rispondevo stizzita ogni volta.
Risi
amaramente e abbassai lo sguardo, fissando il Long Island e girandolo
con una
cannuccia.
Forse
non era proprio il momento di pensare a mia madre.
Né
a
lei, né al comportamento che avevo assunto oggi pomeriggio
nei suoi confronti.
Mi
resi
conto che stavo piangendo solo quando vidi delle goccioline
d’acqua spuntare
dalla superficie liscia e patinata del tavolo.
Le
lasciai cadere. Era una bella sensazione sentire due rivoli di lacrime
freschi
sul viso accaldato.
Un’ora
di pensieri sulla mia infanzia dopo, sospirai ed ebbi la raffinata
eleganza di
dire:«Che serata di merda.»
«Che
c’è,
signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come
me?»
***
Evan's pov
“Dio,
che mal di testa…” pensai, mentre il
chiacchiericcio di sottofondo del Sabato
sera mi riempiva le orecchie.
Guardai
la sala e scoprii che il locale era pieno, come al solito.
Mi
soffermai con lo sguardo su ogni uomo o donna che stava seduto ai
tavolini.
Potevo distinguere a vista d’occhio per quale motivo erano
venuti qui. S’imparava
a riconoscerli, col tempo.
C’erano
le persone sole, che non avevano
nessun
altro con cui passare il tempo se non un bicchiere di vodka.
C’erano
le persone tristi, che piangevano
in
silenzio, perché la loro vita non meritava neanche un
po’ di rumore.
C’erano
le persone deboli, che
consideravano
questo bar come la loro casa, perché non potevano o non
volevano tornarci.
E
poi, c’erano
le persone sorridenti. Quelle erano
le più pericolose, perché riuscivo a vedere la
menzogna e l’illusione trasudare
dai loro occhi. Non potevi mai essere felice se sceglievi di ubriacarti.
Tutte
volevano
dimenticare qualcosa.
Tutte
sembravano dei tramonti che morivano lentamente sulla cresta del mare.
Poi,
però, mi ricordai che anch’io avevo qualcosa da
dimenticare.
Così,
preso dalla frustrazione, iniziai a strofinare un bicchiere di vetro
sempre più
velocemente.
Al
solo
pensiero di quello che mi aspettava domani, avrei voluto lanciarlo
sulla parete
e vederlo rompersi in mille pezzi.
Kevin
mi
aveva avvisato che a casa ci sarebbero stati ospiti e che mio padre
aveva già
fatto preparare le stanze migliori.
“Vedrai,
tu e Evan andrete d’accordo con le nuove arrivate.”
gli aveva detto.
Avevo
analizzato questa frase svariate volte e avevo scoperto che contenevano
tre
fattori importanti che mi mandavano letteralmente in bestia.
Punto primo: Perché bisognava
andare per
forza d’accordo con le persone che s’incontravano
per la prima volta?
Per
perbenismo?
Per
buona educazione?
E
dov’erano il perbenismo e la buona educazione quando la gente
si mandava a
fanculo, alle Hawaii?
Io
adoravo
quando mi mancavano di rispetto, perché così
potevo essere maleducato e cafone
quanto volevo.
Punto secondo: Se anche avessi provato ad
andarci d’accordo, sarebbe andata a finire male.
L’imminente
urgenza di mio padre di far trovare la villa pulita e ordinata, peggio
di una pubblicità
di prodotti per casalinghe, mi induceva a pensare che questi
“ospiti” si
sarebbero fermati per molto tempo.
Come
diceva quel vecchio detto?
L’ospite è
come il pesce; dopo
tre giorni, puzza.
E
cosa
si faceva col pesce che puzzava? Lo si buttava.
Per
cui,
avevo già in mente un paio di modi per far spaventare e far
fuggire queste
povere malcapitate.
Punto terzo: Già, malcapitate. Mio
padre
aveva usato il femminile. Quindi, se anche non fossero fuggite di loro
volontà,
le avrei defenestrate ben volentieri io.
Avere
la
casa invasa da lucidalabbra e da riviste di gossip era inammissibile e
assolutamente inaccettabile.
I
miei
pensieri furono bruscamente bloccati dalla vista della ragazza bionda
di prima.
Un
secondo prima rideva, un secondo dopo eccola lì che lasciava
cadere le sue
lacrime.
Bipolare?
Forse.
O
forse
aveva grossi problemi alle spalle.
Era
sicuramente una ragazza sola e debole, e anche la tristezza, che
lasciava
scivolare sulle sue guance, sottoforma di lacrime, era chiaramente
visibile.
Però…
prima, quando avevamo scambiato civilmente
le nostre opinioni, non aveva dato tanti segni di malessere.
Rientrava
in tutte le quattro categorie che avevo stilato nel corso degli anni.
Per
non
parlare, poi, del fatto che fosse terribilmente acida e arrogante.
“È
proprio il tipo di persona con cui mi dovrei distrarre.”
decisi.
Mi
avvicinai piano, stando attento a non spaventarla, e arrivai giusto in
tempo
per sentire la sua bocca pronunciare la frase “Che serata di
merda.”
«Che
c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un
barman gentile come me?» le
chiesi.
Alzò
lo
sguardo, quasi impaurita, e mi guardò con dei grandissimi
occhi azzurri. Non me
ne ero accorto prima.
Tentò
di
asciugarsi le lacrime con una mano, ma fece cadere la cannuccia sul
pavimento.
Cercai
di soffocare una risata, mentre gliene porgevo un’altra da un
tavolo vicino.
Tutta
la
sua sicurezza di poco prima era sparita. Sembrava… buffa.
«Ecco,
tieni. »
«Grazie.»
mi rispose imbronciata, iniziando a bere piano il drink e distogliendo
lo sguardo
dal mio.
Aspettai
un secondo, poi dieci, poi venti, fino a quando, scrollando le spalle,
le
dissi: «Va bene, visto che non m’inviti tu a
sedermi, lo farò io.»
Impostando
la voce per renderla simile alla sua, dissi:«Ehi, vuoi
sederti?»
Poi,
risposi alla mia stessa domanda con il mio tono di voce:«Ma
certo, affascinante
sconosciuta che non ho mai visto prima.»
E
così,
con una disinvoltura – e la modestia – degna di un
grande attore di Hollywood,
mi sedetti sullo sgabello accanto al suo.
La
osservai attentamente, in cerca di una qualche crepa nella maschera di
indifferenza che si era creata. Niente. Possibile che quella ragazza
non
ridesse mai?
Arricciò
leggermente le labbra e, come se fosse disgustata, si
allontanò leggermente da
me.
Alzai
un
sopracciglio, stranito. «Cosa c’è,
adesso? Perché mi guardi così?»
Mi
fulminò con lo sguardo, ma almeno era tornata a guardarmi.
Era già qualcosa. «È
soltanto una curiosità. Sei venuto a parlare con me e a fare
questa bella
scenetta perché non ci sono altre tipe da
rimorchiare?»
Mmh,
vediamo… cosa potevo dedurre da questa domanda?
Sicuramente,
aveva una bassa autostima, se pensava di essere la seconda scelta in
fatto di
ragazze.
Increspai
le sopracciglia e incrociai le mani sul tavolino. «Il fatto
che io ti abbia
rivolto la parola non implica assolutamente il fatto che ti voglia
rimorchiare.
A meno che io non sia un gancio e tu una macchina. Ma, tralasciando
questa
improbabile trasformazione in Transformer, sono convinto che la
solitudine sia
venuta a bussare troppe volte alla tua porta. E nessuno merita mai di
stare da
solo, in qualsiasi circostanza. Per cui…» dissi,
allargando le braccia. «Eccomi
qua.»
«Dio,
se
mi avessero detto che avrei trovato un barman rompicoglioni, allora
sarei
andata da un’altre parte.» mi rispose, alzando le
sopracciglia e continuando a
bere.
«Desolato
di aver tradito le tue aspettative. Comunque, ti va se ci presentiamo,
come
farebbero due persone normali? »
«Tu
non
sei una persona normale.»
«Solo
perché sono venuto a parlare con una ragazza che beve il suo
drink tutta sola?»
Le porsi la mano destra, ma lei continuava a squadrarmi con diffidenza.
«Andiamo,
non mordo mica.»
Roteò
gli occhi, ma alla fine me la strinse.
«Il
mio
nome, come puoi notare dalla mia splendida targhetta, è
Evan. Il tuo?»
Un
lampo
di divertimento passò per i suoi occhi.
«Ramona.» mi rispose.
Sollevai
un sopracciglio, ancora. Non rientrava di certo nei nomi che mi ero
immaginato.
«Ramona?»
«Ramona.»
confermò e scoppiò a ridere per dieci minuti
buoni.
«Puoi
smetterla di ridere soltanto per un secondo, dannazione?»
«S-sì…
scusa.» disse, asciugandosi le lacrime che le erano uscite.
«Bene.
Ora che hai ripreso il quasi
controllo di te stessa, potresti parlarmi seriamente?»
«Perché
dovrei farlo? Era una bellissima serata, fino a quando sei arrivato tu,
e io
voglio continuare a divertirmi.»
«Tu
lo
chiami divertimento, questo? Sveglia, non sei al Luna Park. E poi,
dovresti
farlo perché voglio darti una mano con il tuo
problema.» ribattei.
Il
sorriso che stava cercando di bloccare se ne andò al solo
sentire della mia
voce. «Problemi? Io non ho problemi.»
sussurrò.
Risi
di
gusto. «Cosa? Oh, andiamo. Pensavo che la tua maglietta
avesse ragione riguardo
alla tua intelligenza e lungimiranza.» Feci un cenno
alla sua
T-shirt e mi strinsi nelle spalle. «Qui tutti hanno problemi,
Ramona, e sono
problemi che un Long Island non può risolvere. Ma, forse,
una semplice
chiacchierata potrebbe farlo.»
«Beh,
non capisco perché dovrei discuterne proprio con
te.»
«Le persone si aiutano
di solito,
non te l’ha mai detto nessuno?»
Mi
guardò un attimo, sorpresa. L’avevo presa in
contropiede. «Ma… potresti essere
un maniaco sessuale… o un assassino psicopatico.»
Le
sorrisi. «Beh, c’è sempre quella
possibilità. Ma non approfitterei mai di una
ragazza ubriaca. Che razza di barman gentile sarei?» La
guardai, serio. «Coraggio,
sfogati.»
«Beh,
vede, signor David Letterman…» mi rispose, mentre
io m’infastidivo sempre di
più. «L’alcool è una delle
poche cose che rendono felici le persone. Soldi?
Innamoramenti? Amicizie? Solo stronzate… l’alcool
è l’unica cosa che resta.» Fu
interrotta da un singhiozzo, ma poi riprese. «Ho bisogno
dell’alcool nelle
vene….perché… i pensieri si fanno meno
fitti… e… mi sento meglio. Capisci cosa
intendo?» mi chiese, dopo aver fatto una grande sorsata.
«Sì.
L’alcool, per quanto strano possa
sembrarti, ti schiarisce le idee, e così sei più
lucida da ubriaca, invece che
da sobria. Tutto qui.»
Annuì leggermente.
Mi
raccontò tutto: la vita che conducevano qui, il nuovo lavoro
della madre e la
loro litigata.
E
pensare, però, che la Pennsylvania non era così
male, dopotutto.
Dopo
che
ebbe finito il suo racconto, incrociai le mani sul tavolino e la
guardai,
dritto negli occhi. «La cosa migliore che tu possa fare in
questo momento, è
lasciare quel fottuto drink e andartene.»
Sembrò
non notare il mio tono da rimprovero, anzi, se ne fregò
altamente di quello che
avevo appena detto e bevve quel poco di liquido che restava nel
bicchiere.
«E
perché dovrei farlo?» mi chiese, ridendo.
Incrociai
le braccia e strinsi i pugni, forte. Non me la potevo prendere con una
ragazza
sbronza. «Devi fare pace con tua madre, ecco
perché.»
Scoppiò
in una risata sguaiata. «Ah, sì? E come ci arrivo
a casa, se non sono neanche
capace di reggermi in piedi?»
Come
se
volesse darmi la prova che stesse dicendo la verità, prese
uno slancio
esagerato e saltò dallo sgabello. Spinto dalla
consapevolezza del suo precario
equilibrio, della forza di gravità e del pavimento, scesi
dal mio e la afferrai
per le spalle, giusto un attimo prima che si potesse fare male.
Sentii
le sue mani piccole aggrapparsi alle mie braccia e una fulminea
sensazione di
piacere mi avvolse, giusto il tempo di vederla allontanarsi da me e
sussurrare,
con gli occhi bassi per la vergogna, un «Grazie.»
Capii
immediatamente cosa c’era bisogno di fare.
Mi
allontanai di qualche metro, a passo di carica. Non sapevo per quale
motivo, ma
sentivo solamente rabbia dentro di me. Poi, improvvisamente, mi bloccai
e mi
morsi il labbro. Forse dopo avrei dovuto pentirmene, ma non ci pensai
molto
quando le chiesi:«Se ti dico di aspettare qui, al tavolino,
mentre vado a
parlare con il mio capo, lo faresti?»
Venne
verso di me, barcollando un po’, e scosse la testa.
Emisi
uno sbuffo, infastidito, e roteai gli occhi. «Ovviamente
no.» sussurrai a me
stesso.
«Che
cosa stai facendo?» mi chiese.
«Cerco
di darti una mano.» le risposi.
Lei
mi
seguì e io mi avvicinai all’ufficio del signor
Barrington, il proprietario, e
le sussurrai:«Mi raccomando, stai dietro di me.»
Annuì
in
silenzio. Poi, bussai allo stipite: la porta era aperta.
«Scusi signore, posso
parlarle?»
Alzò
lo
sguardo dalle scartoffie che stava firmando. «Oh, Evan. Ma
certo, dimmi pure.»
Era
quasi inquietante il modo in cui quell’uomo dai capelli
castani poteva metterti
in soggezione; noi lo chiamavamo il “Generale
D’Armata”.
Mi
sistemai ancora un po’ verso sinistra, per coprigli, almeno
in parte, la
visuale di Ramona.
«Vorrei
avere il suo permesso per allontanarmi dal locale, giusto per una
mezz’ora.
Sempre se per lei non è un problema.»
«Con
lei?» mi chiese, facendo un cenno proprio allo spazio che
stavo cercando di
coprire.
Annuii
soltanto. Sapevo come la pensava il mio capo su queste cose e strinsi
forte i
pugni, nella speranza che ci lasciasse andare in fretta.
«E
questa chi è, Taubenfeld? La tua nuova ragazza?»
replicò invece lui.
La
sentii trattenere il fiato, ma non disse niente.
Ecco
perché volevo che, prima, rimanesse accanto al tavolo. Il
signor Barrington era
particolarmente incline a non farsi mai i cazzi propri. Sospirai.
«No, signore,
non è la mia ragazza.»
«Beh,
è
davvero un peccato. Un gran bel peccato.» Si accese una
sigaretta e, aspirando,
continuò a squadrarla.
Diventai
irrequieto. Non mi piaceva quando usava quello sguardo sulle ragazze.
Mi
schiarii la voce. «Non mi ha risposto, signore.» Lo
guardai ancora più
intensamente, dritto in quei suoi occhi color marrone chiaro.
«Posso andare?»
Non
distoglieva lo sguardo da Ramona e tutto ciò cominciava a
darmi sui nervi.
Poteva fare di tutto, era vero. Poteva chiamare mio padre e dirgli che
mi aveva
buttato fuori a calci, o peggio, dirgli che avevo boicottato la visita
delle
“ospiti” per aiutare una ragazza che avevo
conosciuto da appena un’ora e mezza.
Riflettei su quell’ultima frase e scoprii che no, il pensiero
del boicottaggio
non mi dispiaceva affatto.
Si
strinse nelle spalle. «Va bene, fa’ come vuoi,
l’importante è che torni qui
vivo.» Poi, strinse gli occhi. «Non voglio avere
rogne.»
“Con
mio
padre.” stavo per aggiungere io, ma non lo feci. Mi era
andata bene e non
volevo fargli cambiare idea.
Lo
ringraziai con un cenno del capo e, dopo essermi infilato giubbotto e
sciarpa,
trascinai Ramona per un braccio fuori dal locale.
«Ehi,
piano, piano, mi stai facendo male.» mi disse.
«Sarò anche sbronza, ma la mia
percezione del dolore funziona ancora bene.»
Allentai
un po’ la presa, ma non la lasciai andare del tutto.
Raggiungemmo
la mia moto e le lanciai il casco, dopo aver allacciato il mio.
«Tieni,
prendilo. Salta su e andiamo.»
«Perché
dovrei ascoltarti?» mi chiese brusca.
«Perché
lo dico io. Forza.» la incitai, mentre mettevo in moto.
Roteò
gli occhi e allargò le braccia. Sembrava infastidita.
«Sai che c’è? Io non
voglio venire con te.» Se non fosse stato per il fatto che
stesse gridando, il
doppio senso sarebbe stato divertente. Prima ti comporti come un
coglione, poi
mi vieni a parlare e fai tutto il carino e adesso vuoi che io
obbedisca.
Potresti essere davvero un assassino psicopatico. Sei
lunatico!»
Sgranai
gli occhi, furioso. «Ah, sarei io quello lunatico?»
«Sì!»
Dio
santo, quella ragazza era incredibile. «Beh... allora tu sei
un’ingrata. Lo
sai, il mio capo potrebbe denunciarmi per assenza sul posto di lavoro,
e tu che
fai? Ti lamenti perché non vuoi tornare a casa e non vuoi
fare pace con tua
madre.» Scossi la testa, ridendo istericamente.
«Assurdo.»
«Assurdo?
E perché sarebbe assurdo, sentiamo! Tu non mi conosci, non
sai niente di me e
io non ti devo nessuna spiegazione.»
«Già,
è
vero. Io non ti conosco e non voglio entrare nella tua vita. Ma sai
perché ho
lasciato il bar e perché sto rischiando che quello stronzo
mi denunci, eh?»
Sentivo
una miscela di rabbia e delusione montarmi dentro. Non sapevo neppure
che
sentimento fosse davvero; sapevo solo che ce n’era tanto e
che avrei voluto
tirarle uno schiaffo dritto in faccia per la chance che stava buttando
all’aria.
«Perché
non voglio che sprechi la possibilità di riconciliarti con
tua madre!»
Feci
un
profondo respiro, rendendomi conto di quanto la stessi spaventando.
«Almeno tu,
ne hai una.» sussurrai.
Non
sapevo nemmeno io se mi stessi riferendo alla madre o alla
possibilità. In
tutti e due i casi, a me non erano state concesse.
«Ma
hai
ragione, sono stato un coglione. Va’ pure dentro ad
ubriacarti, vedrai che tua
madre sarà fiera di te.» finii, freddo.
Chi
ero
io per immischiarmi nella sua vita? Nessuno.
E,
pertanto, come Nessuno dovevo essere trattato.
Avvicinai
le mani per slacciare il casco, ma sentii la sue piccole dita toccarmi
sulla
spalla sinistra.
Stavolta
non si ritrasse e assaporai quella sensazione per un attimo.
«Aspetta.»
mi disse, bloccandomi. «Vengo con te.»
Poi
montò sulla moto e partimmo per il buio.
Ricordavo
poco del viaggio: la via dove abitava, le sue braccia strette alla mia
vita e
il suo naso che si strofinava sulla mia maglietta, prima che mi
dicesse: «Comunque,
sei uno stronzo. Però hai un buon profumo.»
Alla
fine costeggiai accanto ad una villetta. Aveva i classici tetti
spioventi rossi
per la neve ed un giardino non molto curato all’esterno.
La
finestra al piano terra era rotta, ma nel complesso
l’abitazione non sembrava
malridotta.
Non
era
grande come la mia, certo.
Nessuna
casa lo era.
La
chiamai, girandomi un po’ verso di lei:
«Ramona.»
Nessuna
risposta.
«Ramona!»
dissi, più forte.
Niente.
Sentivo soltanto i grilli frinire per coprire il silenzio circostante.
A
quel
punto, scesi dalla moto con un balzo e, mentre mi toglievo il casco, mi
girai,
per gridarle contro.
Mi
stava
facendo perdere tempo e Barrington mi aveva concesso solo
mezz’ora.
Ma
poi,
mi accorsi che era accaduto il peggio.
Si era addormentata.
Per
due
minuti non feci altro che imprecare.
Me
ne
stavo lì, sul ciglio della strada, immobile, e vomitavo
parolacce su parolacce.
Lei
emise un gemito, appena percettibile, ma fu abbastanza per farmi
scuotere e
riprendere.
Le
tolsi
il casco e sistemai tutti i capelli biondi che le ricadevano sul viso.
Poi, la
presi in braccio e la sentii inspirare sul mio collo, mentre mi
avvicinavo alla
porta della casa.
«Ramona.»
sussurrai. «Svegliati.»
Sussultò,
ma solo per un attimo. «Non ora, mamma… altri
cinque minuti e poi vado scuola.»
farfugliò.
Risi.
La
situazione diventava ogni secondo più tragica.
«No, non sono tua madre.»
Aprì
un
poco gli occhi e sembrò mettermi a fuoco. «Chi
sei, Evan?»
Annuii.
«Bingo.
Devo portarti dentro casa. Che faccio, suono?»
Scosse
la testa, confusa. «No, c’è…
c’è mia madre, sta dormendo… non la
voglio
svegliare.»
«Non
hai
le chiavi?» Scosse ancora quella piccola testolina bacata che
si ritrovava. «Sei
incredibile. In senso negativo, ovviamente.»
Mi
squadrò, offesa. «E tu sei poco pratico. Ho
già pensato ad un’idea.»
«Che
sarebbe?»
Invece
di rispondermi, si morse il labbro e abbassò lo sguardo.
Alzai
la
voce e ripetei:«Che sarebbe?»
Mi
fissò,
con aria di sfida, e mi rispose:«Passare attraverso la
finestra, salire le
scale e portarmi in camera mia senza che mia madre si accorga di
niente.»
Incrociò le braccia. «Ecco, te l’ho
detto.»
Per
poco
non la lasciai cadere sull’asfalto dalla sorpresa.
«COSA?!» gridai. «Non ho
ancora il potere di trasformarmi in fantasma e di attraversare i muri,
in caso
non l’avessi notato.»
«Peccato,
forse te ne saresti un po’ più zitto. Non quella
del primo piano, cretino.
Quella del piano terra. È rotta, vedi?»
«Sì,
vedo, ma… come faccio a saltarci con te in
braccio?»
Si
strinse nelle spalle, come se non fossero fatti suoi. «Hai i
muscoli, no? Beh,
usali.»
Era
stupefacente come riuscisse a farmi imprecare più volta in
soli cinque minuti.
Non
so
neanch’io come feci, ma presi lo slancio adatto e riuscimmo
ad entrare.
Mi
graffai soltanto un po’ sulla mano destra, ma non aveva
importanza.
«Dovreste
farla riparare. In questo modo potrebbe intrufolarsi chiunque e voi non
ve ne
accorgereste neppure.» sussurrai.
«Tante
grazie, Capitan Ovvio.»
Sospirai,
mentre iniziavo a salire le scale. «Dimmi, sei
così acida con tutte?»
Mi
fece
la linguaccia. «Solo con chi mi sta antipatico.»
Scossi
la testa, sorridendo. Avevo fatto tutto questo per lei e guarda un
po’ come
venivo ripagato…
«Ecco,
adesso svolta a destra e ci sei.»
Mi
ritrovai di fronte ad una porta mezza socchiusa. La aprii senza troppe
cerimonie e, facendo attenzione, appoggiai con delicatezza Ramona sul
letto.
«Beh,
credo di meritarmi appena un...»
Si
alzò
sulle ginocchia e mi baciò sulla guancia. Poi, mi
sussurrò:«G-grazie.»
Notai
che stava tremando e le diedi la mia sciarpa. «Non posso
darti il mio
giubbotto, quello mi serve, ma credo che questa andrà bene
lo stesso.»
Se
la
mise intorno al collo e inspirò l’aria per un
attimo.
«Allora...
ciao.» dissi, sorridendole.
Le
voltai le spalle e feci per uscire dalla camera, ma la sua voce
arrivò flebile alle
mie orecchie. «Ci rivedremo?»
Pensai
a
tutto quello che mi aspettava domani: alle valigie che dovevo ancora
preparare,
al viaggio, al rivedere mio padre e Kevin.
«Credo
di no.» le sussurrai. Poi, tornai indietro, le posai un bacio
sui capelli
biondi e feci al contrario il percorso di prima.
Uscii
all’aria fresca, sfregandomi le mani, e saltai in sella alla
mia moto.
“’Notte.” pensai.
Mi
rinfilai il casco e ripartii, mentre sentivo, per la seconda volta in
quella
sera, i grilli che popolavano la notte.
***
God
knows what is
hiding, in that world of little consequence.
Behind
the tears, inside the lies,
a
thousand
slowly dying sunsets.
God
knows what is hiding in those weak and
drunken hearts.
I
guess the loneliness came knocking.
No
one needs to be alone. Oh, save me.
People
help the people,
and
if your homesick, give me your hand,
and I'll hold it.
People
help the people,
and
nothing will drag you down.
Dio sa cosa quel mondo di poca
importanza nasconde.
Dietro le lacrime, dentro le bugie,
un migliaio di tramonti lenti che
muoiono.
Dio sa cosa quei cuori deboli e
ubriachi nascondono.
Immagino che la solitudine venga a
bussare.
Nessuno merita di stare da solo.
Salvami.
Le persone si aiutano,
e se hai nostalgia di casa, dammi
la tua mano, e io la
stringerò.
Le persone si aiutano,
e niente ti trascinerà
verso il basso.
~ Birdy – People
Help The People
|
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Capitolo 5 *** 4. Mobile ***
Buonsalve
a tutti!
Dite
un po’, da uno a dieci, quanto siete
contenti che la scuola sia finita?
Io centordici. (?)
Allora,
in questo capitolo saranno
introdotti ben tre nuovi personaggi.
Alcuni
dovrebbero non conoscersi e invece
parlano tra loro… chissà.
Il
mistero s’infittisce ancora di più. *risata
malefica*
Volevo
dirvi solo una piccola cosuccia,
prima di scomparire: nella storia ci saranno multipli riferimenti al
libro “Colpa
delle Stelle”, di John Green. [Come potete apprendere dalla
bio, è il mio libro
preferito, lol.]
Ovviamente,
nessuno è obbligato a leggerlo,
ma se volete capire meglio la fan fiction, vi consiglio di farlo.
Anche
perché, il libro merita molto.
Bene,
ho finito.
Have
a good day. <3
~
Cruel Heart.
***
Avril Lavigne - Mobile
***
Napanee,
Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001
Avril's pov
Aprire
gli occhi richiedeva
un’energia sovrumana.
Mi
costava talmente tanto
che, nel momento in cui li aprivo, già li richiudevo per
abbandonarmi ad un
sonno ad intermittenza, per un tempo che mi sembrava durare giorni,
settimane.
La
testa era stranamente
leggera, come se fosse stata un palloncino libero di volare in aria.
Mi
girai su un fianco, con
le mani sotto la guancia, e percepii qualcosa di morbido lambirmi la
pelle.
Riuscivo
a sentire una voce femminile
e dei rumori forti, insieme con un potente odore di lillà.
Dei
ricordi cominciarono ad
affiorare: grida, rabbia, un vuoto nel cuore.
Con
gli occhi chiusi,
sentivo intorno a me svariate imprecazioni e udii anche un rumore di
qualcosa
che sbatteva contro la porta della mia stanza.
Di
nuovo rapita da delle
immagini, rividi un bancone argentato, dei capelli biondi e degli occhi
color
ghiaccio che mi fissavano.
Aprii
gli occhi di scatto, ma,
prima di richiuderli, cercai di mettere a fuoco.
L’immagine
era confusa; non
riuscivo a scorgere niente, solo macchie bianche e indistinte.
Poi,
tornò ancora
quell’odore di lillà e riuscii a percepire davanti
a me una figura china.
Abbassai
le palpebre,
convinta di aver sentito qualcuno sussurrare il mio nome.
Mi
sforzai di tenere gli
occhi aperti.
Non
riuscivo ancora a
scorgere i contorni del viso davanti a me, perché avevo la
testa rivolta verso
il cuscino.
Continuavo
a vedere delle
immagini sfocate: qualcosa di verde, forse degli occhi.
Poi,
una voce mi sussurrò
delle parole che non capivo. Non riuscivo a parlare.
Quel
profumo… Era l’odore
della pelle di qualcuno, che stava molto vicino al mio viso.
Nonostante
fosse
persistente, quella fragranza mi dava un senso di sicurezza e di
conforto.
Cercai
di focalizzare
l’attenzione, ma non avevo ancora una visuale nitida.
«Avril,
svegliati.» sussurrava la voce. «Apri gli occhi,
amore.»
E
così feci.
Aprii gli
occhi e vidi accanto a me il viso di mia madre.
Improvvisamente,
come se il
mondo fosse stato risucchiato, tutto intorno a me diventò
silenzioso.
La
testa, adesso, pesava
tonnellate. Era pesante come pietra, anzi, come mille pietre messe
assieme.
Una
fitta cominciò a
martellare.
No,
non di nuovo…
Spalancai
gli occhi.
Cercavo
di aggrapparmi a qualcosa,
ma non riuscivo più a distinguere i suoni.
Non
riuscivo più a
distinguere le sfumature dei colori.
Tutto
intorno a me era
bianco, di un bianco accecante.
Percepivo
solo la fitta
nella mia testa. Più forte,
più forte.
Sempre più forte.
Fatela
smettere, vi prego…
Allungai la
mano verso quella che doveva essere mia
madre.
«Ma-Mamma…
pillole…» riuscii ad articolare.
Non sentivo
neanche la mia voce. Forse era così che
dovevano sentirsi le persone mute.
Il dolore non
accennava a diminuire. Era incessante,
continuo, come se volesse ricordarmi che lui poteva essere dentro di me
ogni
volta che lo avesse desiderato.
Dopo qualche
secondo, sentii delle piccole capsule solide
e un liquido freddo scendermi in gola.
Soltanto
allora, il dolore cominciò ad essere meno persistente
e meno accecante.
Tutto si fece
buio, di uno scuro rassicurante, e mi
riaddormentai.
Il sonno si
fece ancora più discontinuo. Pezzi di ricordi
si susseguivano frenetici, troppo fugaci per cercare di metterli a
fuoco.
Riuscii,
miracolosamente, a risvegliarmi.
La prima cosa
che vidi furono gli occhi verdi di mia
madre riempirsi di lacrime.
«Ehi.»
sussurrò, accarezzandomi dolcemente i capelli.
«Ehi.»
le risposi, con la bocca impastata. «Dove sono?»
«Nella
tua camera.»
Distolsi gli
occhi dai suoi.
Mi guardava
con un amore tale che era impossibile
sostenere il suo sguardo.
«Che
è successo?»
«Beh…
ti ricordi che dobbiamo partire, no? Io stavo
preparando le valigie. Ero entrata in camera tua per prendere qualche
vestito
pesante e ho capito che ti stavi per svegliare. Così, mi
sono avvicinata al
letto e poi, dopo qualche minuto… ho visto… ho
visto i tuoi occhi spalancarsi.
Le pupille sono diventate così grandi, che
l’azzurro delle tue iridi non si
riconosceva più.» Singhiozzò.
«Hai avuto… hai avuto un attacco.»
Chinai la
testa. Mi sentivo come se stessi fluttuando in
aria.
«Wow,
siamo a quota due, questo mese. Fantastico.»
borbottai.
«Sì,
tesoro. Sono stata così
in ansia… Mi ha preso alla sprovvista e… non
sapevo se ti
saresti risvegliata o no.»
«Beh…
immagino che abbia fatto un sonnellino più lungo
del solito.»
Sulla fronte,
le si formò la classica ruga che aveva
quando sorrideva. «Credo di sì.» mi
rispose, continuando a piangere.
Sollevai
pianissimo il busto, cercando di mettermi a sedere.
Volevo evitare giramenti di testa, anche se una sensazione di malessere
si
stava diffondendo nello stomaco.
«Ce
la fai ad alzarti?» mi chiese, asciugandosi le
lacrime e sorreggendomi prontamente con le sue braccia.
«Sì,
sì, non preoccuparti, faccio da sola. E, mamma…
basta piangere.»
Annuì
appena, singhiozzando leggermente. «Va bene.»
Scostò le braccia e mi baciò sulla testa, uscendo
molto lentamente dalla
stanza.
Quel gesto mi
rimase fulmineamente impresso nella mente: avevo
già provato la sensazione di sentire
delle labbra appoggiate sui miei capelli.
Anziché
alzarmi completamente, rimasi distesa supina.
Il cotone
morbido del cuscino avvolse la mia schiena come
una seconda pelle.
Un tessuto
appena rugoso mi toccò il braccio e mi voltai,
per capire di cosa si trattasse.
Fu allora che
la vidi: una sciarpa di lana blu scura.
La presi tra
le mani ed inalai lentamente l’odore
pregnante.
Sorrisi.
Sapeva di notte, di fresco, del suo collo…
Sapeva di lui.
Ricomposi i
pezzi del puzzle e ricordai tutto.
O
almeno…
quasi tutto.
Come si
chiamava il ragazzo? Ivan? Eran?
Ero sicura
che me l’avesse detto, ma non riuscii ad
evocare il suo nome.
Ancora una
volta, totalmente indifferente agli stimoli
esterni, mi cinsi le ginocchia con un braccio e me le portai al petto,
mentre
fissavo il muro color crema di fronte a me.
Gli attacchi
erano iniziati cinque anni fa, tre settimane
dopo il mio dodicesimo compleanno.
Non potevo
raccontare cosa successe quel giorno, perché non
lo ricordavo.
Sapevo solo
che, da quel giorno, una parte del mio
cervello non ricevette più l’ossigeno per brevi
secondi, e io non ricordavo più
cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo.
Nero. Buio. Vuoto.
Questo
fenomeno si ripeté sempre da allora, e ovviamente,
continuava a non esserci una data precisa in cui io potessi dire:
“Ecco,
succederà oggi.”
Gli attacchi
andavano e venivano, a loro piacimento.
Sembrava volessero dirmi: “Decidiamo noi quando arrivare e tu
non puoi farci
niente. Non puoi controllarci, piccola lampadina guasta.”
«Avril,
vestiti. Il jet atterrerà tra poco vicino casa e
dobbiamo essere pronte.»
Risvegliata
dalla voce di mia madre, sciolsi il groviglio
delle mie braccia e mi alzai lentamente.
Scelsi una
maglietta a caso e dei pantaloni altrettanto
anonimi. Non ne guardai neanche il colore. Mi ricordai soltanto di
prendere il
cellulare e le mie cuffie.
Non avevo
bisogno di nient’altro.
Poi, mi
avviai verso la porta d’ingresso.
Medici,
chirurgi, psichiatri non erano riusciti a dirci
niente. Neanche una singola spiegazione a cui aggrapparci. Mi avevano
prescritto solo delle pillole, che dovevo assumere subito, ogni
qualvolta
l’attacco si ripresentava.
In tutto
questo, non c’era nessuna causa apparente, né
tantomeno nessun effetto collaterale. Nessuna infezione, nessuna
malattia,
nessuna patologia. Niente.
E
così, la mia vita andava avanti, tra pasticche,
lacrime, e tenebre momentanee.
Speravo solo
di non arrivare mai a quel punto.
Il punto in
cui i miei demoni mi avrebbero detto: “Sei
sempre stata una lampadina guasta, difettosa. Inutile.
E tu sai benissimo cosa facciamo con gli oggetti
danneggiati, l’hai sempre saputo. Non servi più. La piccola lampadina
è da buttare.”
***
Dieci minuti
dopo che mia madre ed io eravamo uscite all’esterno
con le valigie in mano ed imbacuccate dalla testa ai piedi,
arrivò il jet.
Notai che
assomigliava di più ad un mostro marino con
l’elica.
Era molto
più grosso e alto rispetto agli aeri normali.
Mi chiedevo come diavolo facesse a volare.
Non solo
trascinai la valigia, ma anche la mia paurosa
genitrice, che era ancora più
timorosa di me ad entrare.
Alla guida ci
accolse un signore anziano di nome Peter:
aveva pochi capelli bianchi ai lati e dei baffi ben curati.
Un
perfetto Alfred
Pennyworth, insomma… solo un po’ più
grasso. [N.d.A. Maggiordomo di Batman]
Ci disse che
aveva ottenuto l’autorizzazione dalla
provincia dell’Ontario per atterrare vicino casa nostra e in
uno spazio
superiore ai 200 mq e che, a meno che non ci fosse stata una bomba a
bordo,
potevamo rilassarci e goderci il viaggio in tutta
tranquillità.
Macabro senso
dell’umorismo, aggiunsi
mentalmente alla descrizione dell’uomo.
Poi, ci
aiutò a disporre le valigie in una cappelliera
apposita e sparì nella sala di comando.
Mi sistemai
in uno dei dodici sedili accanto al
finestrino con le cuffie nelle orecchie.
Sin da
piccola, mi era sempre piaciuto osservare i
paesaggi e vederli susseguirsi sotto il mio sguardo.
Mia madre,
invece, prese posto su uno dei sedili più
vicini alla sala di comando e vidi che chiacchierava con il pilota
attraverso
la tendina, nervosa.
Durante quei
pochi viaggi che avevamo fatto, non
ricordavo che fosse stata così ansiosa.
Scrollai le
spalle. Non me ne importava molto.
Appoggiai la
testa al finestrino e riflettei un po’ su
cosa significasse questa partenza per me.
Napanee era
la città dove ero nata [N.d.A. So che nella
realtà non è così, ma per evitare
complicanze, ho deciso di cambiare questa
piccola cosa], dove mia madre mi aveva cresciuta come un maschiaccio,
dove ero
andata a scuola, dove avevo scoperto la mia profonda avversione per il
formaggio, dove avevo preso a pugni un mucchio di ragazzi e dove ero
stata
licenziata perché avevo lasciato cadere accidentalmente
un fottuto culo di pollo fritto nel
caffè della mia professoressa di chimica.
Sarebbe
cambiato, tutto questo?
No.
Sarebbe
cambiato il clima, sarebbe cambiata la città, sarebbero
cambiate le persone, ma, di certo, non sarei cambiata io.
Tutto sarebbe
diventato mutevole
all’esterno, ma, dentro di me, sarei rimasta per
sempre me stessa.
Mi sarei
sempre vestita come un maschiaccio, avrei sempre
arricciato il naso davanti ad un pezzo di formaggio, avrei sempre preso
a pugni
i ragazzi fuori e dentro la scuola e avrei sempre fatto cadere cose
disgustose
nelle bevande delle persone che mi stavano antipatiche…
sempre accidentalmente,
naturalmente.
Lasciai che
il viaggio trascorresse, tra pensieri, polli
fritti e brani in riproduzione casuale.
***
Judy's pov
«Come
stai, Peter?» chiesi,
rivolgendomi alla tendina rossa che ci separava.
«Oh,
bene, signora Lavigne. Sono
ancora in servizio, come può vedere. Lei?»
«Peter…
dopo oltre
diciott’anni che ci conosciamo, mi dai ancora del
lei?»
«Mi
perd… perdonami, Judy.» Sentii
la sua risata cordiale.
Lo ricambiai.
«Grazie.» Mi
girai verso Avril, completamente addormentata sul suo sedile con le
cuffie
nelle orecchie. «Comunque, non potrebbe andare peggio,
Peter.», gli dissi.
Non potrebbe
andare peggio.
***
Avril's pov
E
così, alle ore 16:52, dopo seicentocinquantadue km e a
malapena un’ora e un
quarto di viaggio, lasciammo una città di cinquemila
abitanti per toccare il
suolo di una che ne aveva quarantacinquemila in più.
Sotto
una coltre di nuvole grigie e minacciose, si nascondeva la
città di Harrisburg.
Eravamo
in Pennsylvania, uno dei cinquanta Stati degli Stati Uniti
d’America.
Peter
atterrò su un terrazzo e, con educazione, aiutò a
scendere sia me che mia
madre.
Ci
guidò
attraverso un’uscita laterale e poi, spalancò un
cancello nero in ferro
battuto.
Un
enorme viale si
stagliava di fronte a noi.
Vasi,
piante
rampicanti, alberi, fiori di ogni genere erano ovunque. Ero accecata da
tutte
queste tonalità di verde.
Fu
un attimo e accanto
al cancello vidi una colonna in marmo bianco, con sopra inciso “Villa Taubenfeld”.
Perplessa,
vidi Peter
farci un cenno, col sorriso sulle labbra, per invitarci a seguirlo.
Mia
madre mi
strinse al suo braccio e, iniziando a camminare, le bisbigliai:
«Ma questa… è
una villa?»
«Vedo
che sei
particolarmente perspicace, oggi, amore.» mi rispose.
«Non
è divertente.»
La strattonai appena. «Mi avevi detto che avresti insegnato
in una scuola
privata!»
«Ssh,
abbassa la
voce.» ordinò. «Sì,
è vero, ti avevo detto così. Ma la sostanza non
cambia:
insegnerò in questa casa, privatamente…»
disse, sottolineando l’ultima parola.
«…A te e ai ragazzi che ci abitano.»
«COSA?!»
gridai,
facendo spaventare il povero Peter. Tornai a bisbigliare.
«Questo vuol dire che
non andrò in una normale scuola pubblica e che la mia
insegnante sarai tu?»
Annuì.
Due volte.
E neanche mi guardò in faccia.
Mi
staccai dalla
sua presa e iniziai a camminare spedita verso quello che doveva essere
l’ingresso,
superando lei e Peter, che mi guardò stranito.
Potevo
passare sopra
il fatto che mia madre non mi avesse detto tutto questo subito.
Potevo
passare
sopra il fatto che, per fare seicentocinquantadue km, avessi preso un
jet privato
e non un aereo, come i comuni mortali.
Ma
non potevo
passare sopra il fatto di avere mia madre come insegnante.
C’era
sempre stato
un tacito accordo tra noi due, per quanto riguardava la mia educazione
scolastica: io cercavo – con scarsi risultati – di
andare decentemente a scuola
e lei cercava – con altrettanti scarsi risultati –
di non impicciarsi nei fatti
miei.
E
adesso questo patto
era sparito.
Alzai
gli occhi e,
accanto alla porta d’ingresso, vidi un ragazzo che mi
sorrideva con aria
gentile.
Era
molto alto, e
aveva una mascella squadrata incorniciata da dei capelli castano
chiaro, quasi
rossicci.
Per
ultimo,
osservai gli occhi. Erano di un verde brillante.
«Piacere,
io sono
Kevin.», si presentò, quando gli passai accanto.
«Benvenuta nel Commonwealth
of Pennsylvania.»
«Sì,
sì, piacere e
grazie per il comitato di benvenuto.» gli risposi,
sorpassandolo velocemente.
Ero
infuriata con
tutti e non avevo bisogno di chiacchiere.
Entrai
senza
troppe cerimonie e rimasi allibita: quella casa era mastodontica
e avevo visto solo un pezzo dell’ingresso e le scale.
Queste
ultime
erano a chiocciola, con la ringhiera in ferro battuto e un tappeto che
copriva
gli scalini.
Delle
tende color
rosso vermiglio lasciavano filtrare una luce soffusa, mentre, a terra,
un caldo
parquet appariva lucidissimo.
Tutto
questo era
niente, comparato al fantastico lampadario di cristallo che era
posizionato al
centro del soffitto.
Mentre
rimanevo
totalmente a bocca aperta, mia madre mi raggiunse, con
l’affanno.
«Non
provare mai
più ad…» iniziò a dire, ma
fu interrotta dalla vista di un uomo.
Aveva
dei capelli
molto ordinati e ingrigiti dall’età, ma portava
dei baffi e un pizzo molto
curato, che gli davano un’aria ancora giovane.
Gli
occhi,
azzurri, erano magnetici.
Ci
sorrise in modo
educato. Tutto in lui esprimeva raffinatezza.
«Prego,
accomodiamoci
pure di là.»
Cavolo,
persino la voce era affascinante.
Così,
nella sua
giacca nera, ci invitò a sedere su un divano in pelle
marrone ed incrociò le
gambe, elegantemente. Il ragazzo che avevo liquidato prima si sedette
accanto a
lui.
«Ben
trovate nella
nostra umile dimora.» disse, sorridendo affabilmente.
“Umile”,
pensai. “Mica tanto.”
«Io
sono il duca Mark
James Tiberius Taubenfeld, duca della contea di Dauphin e padrone di
questa
villa, dove alloggerete personalmente sotto la mia custodia.»
Poi,
indicò il
ragazzo. «Questo è Kevin. Ha lavorato qui sin da
bambino, ma ormai è uno di
famiglia.»
«Grazie,
duca.»
gli rispose.
«Beh…
tuttavia, all’appello,
manca una persona…»
Il
duca fu
interrotto da dei passi provenienti dall’esterno e da una
voce incazzata al
telefono.
«No,
Matt, non lo
so, quando. Ti ho già detto che ho da fare. No, cazzo, ti
richiamo io!»
La
comunicazione s’interruppe.
Così come il mio respiro. Mi si mozzò in gola.
«Scusami,
papà,
non ho potuto fare prima.»
Io
conoscevo già questa voce.
«Oh,
non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le
nostre nuove ospiti.»,
disse, facendo un
cenno verso di noi.
«Signore,
ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio
unico erede.»
Mi
girai.
Oh,
no, cazzo. Non poteva essere lui…
«Evan
Taubenfeld.»
***
Went back home again.
This
sucks, gotta pack up and leave again,
say
goodbye to all my friends.
Can't say when I'll be there
again.
Its
time now, I turn around.
Turn
my back on everything.
Turn
my back on everything.
[…]
Everything's changing, when I turn around,
I'm
out of my control,
I'm
a mobile.
Everything's
changing, out of what I know
Everywhere
I go,
I'm
a mobile.
Everywhere
I go,
I'm
a mobile.
Sono
tornata di nuovo a casa.
Che
schifo, devo fare i bagagli e ripartire
ancora,
dire
addio a tutti i miei amici.
Non
so dire quando tornerò.
Adesso
è ora di voltarsi.
Volto
le spalle a tutto.
Volto
le spalle a tutto.
[…]
Tutto
sta cambiando, quando
mi volto,
sono
senza controllo,
sono
mutevole.
Tutto
sta cambiando, fuori
da ciò che conosco
Ovunque
vada, sono mutevole.
Ovunque
vada, sono mutevole.
|
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Capitolo 6 *** 5. I knew you were trouble ***
Buonsalve
a tutti!
Capitolo
molto frizzante e più movimentato
rispetto ai precedenti.
Se
potete, ascoltate la canzone che vi
linko sotto: renderà meglio la lettura.
Ultima
cosa: nel capitolo ci saranno
riferimenti ad una hit dance recente, quindi non del 2001: concedetemi
questa piccola
“licenza poetica”.
Have
a good day. <3
~
Cruel Heart.
***
The
Animal In Me - I Knew You Were Trouble [Originally performed by Taylor
Swift]
***
Napanee,
Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001
Evan's pov
Erano
le ore 01:58 e mi
apprestavo ad incominciare la giornata seccante che volevo evitare a
tutti i
costi da due settimane.
“Estremamente
mattiniero,
forse troppo.” starete pensando.
Ricordatevi
che, però, tutti
i grandi maghi avevano un trucco per i loro spettacoli. Persino Houdini
ce li
aveva.
E
qui, il trucco, era che
erano le 01:58 di pomeriggio.
Adesso
il vostro giudizio è radicalmente cambiato, vero?
Ma
non vi preoccupate, anche
questi altri tre pelandroni ancora addormentati con cui condividevo il
bunker –
chiamavamo così il mio
appartamento,
gentilmente ceduto da mio padre – avevano lavorato
– si faceva per dire
– ieri sera.
Già,
ieri la band – orfana
del suo eccellente primo chitarrista, cioè io – si
era esibita nel locale più
frequentato della città, il “The
Crazy
Drunkards”.
Che
letteralmente significava
“Gli ubriaconi impazziti”.
E
indovinate un po’ cosa
aveva fatto Matt, il nostro batterista, dopo l’esibizione?
Esatto,
aveva fatto a botte
con un ubriacone.
Un
nome che era tutto un programma.
In
sua difesa, aveva soltanto
detto che era stato un bene che avesse lasciato nel bunker la sua
padella, dato
che era stato – parole sue –
“quel
vecchio rincoglionito inacidito ad iniziare.”
Già,
Matt aveva questa fissa
della padella da quando aveva quattordici anni.
Ogni
volta che lui era
arrabbiato/frustrato/nervoso/triste/malinconico o che sapevo io,
prendeva la
prima padella che trovava ed iniziava a battersi dei piccoli colpi
sulla testa.
Non
prendetelo per pazzo:
tutti abbiamo un antistress.
E
così, ancora mezzo
addormentato per via del poco sonno che avevo in corpo, mi ritrovai ad
attraversare in punta di piedi –
peggio di un equilibrista al circo – la montagna di vestiti sporchi e di
cartoni di pizza vuoti sparsi sul pavimento.
Non
dovevo fare
assolutamente rumore. Gli altri mi avrebbero ucciso se…
Beep
beep.
Oh
no, ti prego, non dirmi che sta per partire…
“I
GOT THIS FEELING ON THE SUMMER DAY, WHEN YOU WERE GONE.
I
CRASHED MY
CAR INTO THE BRIDGE. I WATCHED, I LET IT
BURN.”
Un
grugnito si levò
nell’aria. Probabilmente era Jesse, il secondo chitarrista.
«Dio,
Evan, spegni
quel tuo coso infernale.» Il coso a
cui si stava riferendo Charlie, il nostro bassista, era una sveglia
abbandonata
chissà dove nel bunker.
«Non
è mia. È di Matt.»
Parlavi del
diavolo…
Sapevo
che era la sua perché lui rubava costantemente le mie idee:
qualche settimana
fa avevo scoperto questo pezzo e avevo deciso di cambiare la suoneria
dell’orologio, ma avevo come la sensazione che lui mi avesse
subito copiato.
Il
brano era “I love it” delle Icona Pop. Non mi
piacevano molto i brani dance, ma
se volevi qualcosa per svegliarti, non c’era niente di
meglio.
Ma
poi, a lungo andare, mi si erano - Come
dirlo in maniera non troppo volgare?... Oh, ecco –
scartavetrati gli
zebedei e avevo deciso di cambiare la musica proprio ieri.
Ultimo
fattore: noi avevamo solo due sveglie, e se non era la mia…
Bene,
adesso chiamatemi pure Mr. Logica Infallibile.
“I THREW YOUR SHIT INTO A BAG AND
PUSHED IT DOWN
STAIRS.
I CRASHED MY CAR INTO THE BRIDGE.”
Charlie
si sistemò il cuscino sopra la testa. «Non
me ne frega un cazzo, adesso tu trovi
quella sveglia e la spegni!»
Due
pensieri mi
colpirono simultaneamente:
Eh,
facile a dirsi, quando sei l’unico in piedi…
Oh,
no, ecco che arriva il ritornello…
“I DON’T CARE, I LOVE
IT!
I
DON’T C-“
Un
forte rumore di
metallo interruppe bruscamente la canzone. Ci girammo tutti per vedere
Matt che
si stava avventando sull’orologio con la sua padella peggio
di Godzilla sui
grattaceli di New York City.
«NON.
VOGLIO. PIÙ.
SENTIRE. QUESTA. MERDA.»
Inutile
dire che, sia
della sveglia, che della padella, rimasero solo le ceneri. O forse
neanche
quelle.
Dopo
qualche
secondo di black-out, completamente attonito alla vista di quello che
aveva
fatto, mi ripresi.
«Oh,
ma insomma,
amico, quella era la nostra ultima padella! E adesso come le friggiamo
le
patatine, eh?»
Matt
abbassò la testa,
vergognandosi per quello che aveva fatto. Continuai imperterrito.
«Ed
era anche la tua
sveglia! Dovresti tenere di più alle tue cose, che
diamine.»
«No,
la mia l’ho spadellata la
settimana scorsa. Quella
era la tua.»
«Ah.»
commentai, non
riuscendo a dire altro per lo sguardo fulminante che Charlie mi
lanciò.
Beh,
dovevo
semplicemente modificare il mio soprannome: da Mr.
Logica Infallibile a Mr. Logica Infallibile Nel Fallire.
«E
tu? Che ci fai già
in piedi a quest’ora?»
Vi
ricordo che erano
sempre le 2 del pomeriggio, ma, quando si trattava di sonno, Matt non
badava proprio
ad orario. Certe volte mi chiedevo se non
dormisse con il fuso orario dell’Australia…
Feci
una smorfia di
disappunto, controllando l’orologio sul polso sinistro.
«Tra un’ora devo fare
il check-in e casini vari. Meglio che mi sbrighi, se voglio essere
puntuale.»
In realtà, volevo ritardare il più possibile, ma
il pensiero che mio padre mi
tagliasse i fondi per la band mi aveva convinto ad essere mattiniero.
Il
mio amico mi guardò
con un’aria di scherno. «Puntuale tu? E quando
mai?» Disse il ragazzo col fuso
orario d’oltreoceano…
«Beh…»
gli risposi,
prendendo la valigia e accostandola alla porta.
«…c’è sempre una prima volta
per tutto, no?»
Si
avvicinò alla porta
e me la aprì. «Un vero gentiluomo.»
commentai, alzando un sopracciglio.
«Già,
e cerca di fare
lo stesso con le tue madamigelle, disperatamente in attesa del ritorno
del
principe azzurro con la sua moto.»
Due
secondi dopo aver
pronunciato questa frase, si ritrovò con la schiena
attaccata al battiscopa del
muro. «Stronzo.» mi disse, ridendo per la spinta
che gli avevo dato.
Lo
aiutai a
risollevarsi e mi salutò con due pacche sulle spalle, prima
che lo sentissi
sbattere la porta e gridare dall’interno:«Ragazzi,
ma abbiamo un’altra padella,
vero?»
Scossi
la testa e, con
un sorriso nostalgico, oltrepassai e richiusi il portone dietro di me.
Sapevo
già che quel posto mi sarebbe mancato da morire.
Poi,
inaspettatamente,
mentre mi avvicinavo alla mia Harley [N.d.A. Il nome completo
è
Harley-Davidson: è una famosa casa motociclistica
americana], mi ritornò in
mente qualcuno. Esatto, proprio quel
qualcuno: aveva usato lo stesso insulto di Matt, ma in
quell’occasione, mi
era sembrato… non so… dolce.
Sono
strano forte, eh? Oh,
fate attenzione: la domanda è chiaramente
retorica, smettetela di sghignazzare.
Legai
la valigia alla
sella della moto e ci montai sopra.
Durante
il viaggio
pensai alla band, alla villa, a Kevin, a mio padre, alle
galline… - No, non avevamo una
fattoria. Semplicemente,
avevo già deciso il soprannome delle nostre ospiti speciali.
– e mi
rassegnai al mio destino. Infatti, sapevo che, da adesso in poi, mi
avrebbero
aspettato solo smalti per unghie e pettegolezzi su chi facesse le corna
a chi.
Quello
che ancora non
sapevo era che avrei sentito ancora l’insulto. La parola
“stronzo”, infatti,
sarebbe stata pronunciata, o, per meglio dire, inflazionata,
da quel
qualcuno.
***
Mezz’ora
dopo, in perfetto
orario, mi ritrovai seduto sulla scomode poltroncine in plastica
dell’aeroporto
di Kingston, pronto per il check-in.
Tramite la
telefonata con
Kevin, avevo scoperto che mio padre mi aveva caldamente
consigliato – il
che consisteva praticamente nel minacciarmi – di
prendere il jet di
famiglia, così avrei potuto portare direttamente la mia
Harley con me.
Su di questo,
però, ero stato
irremovibile. Non volevo sembrare un fottuto
Reale d’Inghilterra e far scomodare Peter solo per
me.
Ma non volevo
lasciare la mia
bellissima moto in balìa del vento canadese, e
così, sempre attraverso Kevin,
avevo proposto altrettanto caldamente
al mio papino – il che consisteva
praticamente nel contro-minacciarlo – che, se il
jet poteva compiere un
viaggio di 650
km
solo per una persona, allora avrebbe potuto farlo anche per una signora motocicletta. Sarebbe venuto
Austin, un autista appena assunto, al posto di Peter. Principalmente,
per due
ragioni: primo, questo nuovo tizio mi stava decisamente antipatico
– No, non ci avevo mai parlato:
già alla prima
occhiata non lo avevo potuto soffrire, figuriamoci se avesse aperto la
bocca.
La discussione sarebbe sicuramente sfociata in tragedia. Per lui,
ovviamente.
– e secondo, come avevo
già detto,
non volevo disturbare il buon caro vecchio Peter.
***
Una volta
sull’aereo,
appoggiai il viso sul finestrino, ma non riuscii ad addormentarmi: ero
troppo
nervoso.
Un’ora
e mezza dopo, il volo
terminò e misi piede sull’asfalto,
Nel
frattempo, mentre
m’incamminavo verso casa, orfano della mia Harley –
lasciata qualche kilometro
prima dell’aeroporto di Kingston –, ma in compagnia
della mia valigia, mi
chiamò Matt.
Parlammo del
più e del meno:
di come fosse andato il volo, della voglia che aveva di comprare un
intero set
di padelle nuove e della data delle prove della band.
“Amico,
non sei più presente come una volta. Devi
riconoscerlo.” mi disse al
telefono.
Al toccare di
quel tasto,
m’infervorai. Ero a qualche passo dalla villa. «Matt,
adesso ho da fare. E poi, la cosa che hai appena detto non è
assolutamente
vera, e lo sai.»
“Ah
sì? E dimmi, allora, come si spiega la tua assenza di
ieri al “The Crazy Drunkards”,
eh?”
Sbuffai,
mentre
reggevo il telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre con
l’altra spalancai il
cancello d’entrata. «Io lavoro, a differenza tua!
Sai, mi sa che, per te,
questo è un concetto alquanto sconosciuto.»
“E
va bene, e allora dimmi una data. Dimmi quando potrai
per una prova con la band e non ti romperò
più.”
«No,
Matt, non lo
so, quando. Ti ho già detto che ho da fare.»
“Sì,
certo, il Presidente ha l’agenda troppo piena. Ti
richiamo tra qualche minuto, va’.”
«No,
cazzo, ti
richiamo io!»
Percorsi
velocemente gli ultimi metri del viale e premetti nervosamente il tasto
rosso,
interrompendo la comunicazione. Matt era un vero rompicoglioni quando
ci si
metteva.
Entrai
nel salone
e incrociai per primo lo sguardo arrabbiato di mio padre, insieme a
quello
allegro di Kevin. Mi scusai prontamente. «Scusami,
papà, non ho potuto fare
prima.»
«Oh,
non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le
nostre nuove ospiti.» E solo allora, mi accorsi
delle due figure
femminili nella stanza: una era una donna, un po’
più alta della ragazza che mi
stava ancora dando le spalle.
«Signore,
ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio
unico erede.»
E
poi, come se
fossimo stati in una stupida commedia romantica, la ragazza si
girò verso di
me, e il respirò mi si mozzò in gola.
Non
ascoltai
neanche mio padre asserire il mio nome, neanche dovessero spuntare le
trombe e
un tappeto rosso da un momento all’altro.
Era
lei… Ramona.
Entrambi
sgranammo
gli occhi, ma lei si riprese più velocemente e mi venne
incontro.
Mi
risvegliai
improvvisamente anch’io.
«Cosa
ci fai qui?!» esclamammo insieme.
«No,
tu cosa
ci fai qui!» ripetemmo.
«Io
ci abito!»
concludemmo ancora in coro.
Mio
padre
intervenne. «Ehm… figliolo, per quanto mi
piacerebbe continuare ad ascoltare le
vostre voci all’unisono, noi stavamo finendo le
presentazioni.» Poi, facendo un
cenno verso quella che presumevo essere sua madre, disse:«Lei
è la signora
Judith Lavigne, è esatto?» Al suo freddo cenno
d’assenso, mio padre spostò
l’attenzione sulla ragazza di fronte a me. «E il
tuo nome, invece, è…?»
«Avril
Ramona
Lavigne.» annunciò. Mi parve di percepire una
leggera punta di fierezza nella
sua voce, ma non ero sicuro.
Papà
sfoderò il
suo miglior sorriso. «Preferisci essere chiamata Avril Ramona
oppure…?»
«Solo
Avril,
grazie.»
Interruppi
la
scenetta assurda che si era venuta a creare. «Bene,
papà, io porto Solo Avril a
fare un giro per la casa. Non ti dispiace, vero?»
Non
aspettai
neanche la sua risposta e, stringendola fermamente per il braccio
sinistro,
accompagnai la ragazza al piano di sopra, verso quella che, a quanto
ero
riuscito a capire, era diventata la sua nuova stanza.
Sulla
soglia della
camera, lei incominciò a gridare:«Ehi, lasciami,
mi fai male!»
Continuò.
«Certo
che, con te, le vecchie abitudini sono dure a morire!» disse,
riferendosi al
fatto che l’avevo trascinata per il braccio anche ieri sera.
«Beh,
almeno io
non cambio dalla sera alla mattina.» le risposi, alzando un
sopracciglio ed
incrociando le braccia.
Roteò
gli occhi e
si spazientì ancora di più. «Senti,
cos’è che vuoi? Il mio nome vero e
ufficiale è Avril e ieri ho usato il mio secondo nome per
prenderti per il
culo. C’è altro?
«Oh,
aspetta,
fammi pensare… Sì!» Allargai le
braccia. «Per quale cavolo di motivo abiti qui,
nella villa di mia proprietà?» Ok, tecnicamente la
villa era ancora di mio
padre, ma questa frase mi dava un certo senso di importanza, non
trovate?
E
non roteate anche voi gli occhi al cielo!
«Perché,
mister “erede del mio culo”»
disse,
mimando in aria le virgolette, «mia madre ha accettato il
lavoro da insegnante
privato che tuo padre le ha offerto.» E poi, entrò
nella stanza, osservandola
dall’interno e lasciandomi come un deficiente sulla soglia.
Insegnante
privato? Non capivo. Avevo fatto quella
stupida richiesta a mio padre un mucchio di tempo fa e non avrei mai
pensato
che avrebbe potuta prenderla sul serio.
«Questo vuol dire che
tua madre insegnerà a me, Kevin e te…
qui?!» le chiesi, quasi strozzandomi per
l’assurdità della cosa.
«Bingo!» mi rispose, citando la
mia
parola della sera precedente. «Oh, quasi
dimenticavo…» disse, aprendo la
cerniera della valigia che le era stata sistemata vicino al letto color
panna. «Riprenditi
pure l’avanzo della pelle di pecora.» E poi, con un
gesto fulmineo,
appallottolò la mia preziosa
sciarpa
blu, quella che le avevo dato a Napanee, e me la tirò dritta
sul viso. «E adesso…
FUORI!»
Ci
mancò tanto
così che spiaccicasse la porta sul mio naso, data la
violenza che ci mise nello
sbattermela in faccia.
Avril's pov
Trenta
minuti dopo
aver cacciato Evan, sentii un leggero bussare alla porta.
«Chi
è?»
chiesi, timorosa che potesse essere ancora lui.
«Avril,
sono Kevin.» Posai i vestiti che stavo
sistemando nell’armadio e andai ad aprire.
Il
viso felice e
gli occhi sorridenti di Kevin comparvero davanti a me. «Oh,
ciao.»
«Ciao.»
gli risposi, facendogli un sorriso. Di
fronte all’allegria di quel ragazzo veniva naturale.
«Beh…
volevo solo dirti
che tua madre sta per iniziare la lezione e… sai, dovremmo
scendere in
biblioteca per… andarci.»
S’imbarazzò
ancora
di più e gli sorrisi calorosamente. A
differenza di qualcuno, quel ragazzo era davvero a posto.
«Certo, fammi
strada.» gli dissi, dopo aver chiuso la porta della mia nuova
camera.
«Con
piacere.»
mi rispose, offrendomi il braccio come un
vero cavaliere. Lo allacciai immediatamente al suo e notai un
particolare di
lui che prima mi era sfuggito.
Quel
ragazzo, a
prima vista, era tutto: dolce, gentile, simpatico ed educato.
Sarebbe
stato
davvero perfetto se non fosse per il fatto che… zoppicava.
Manteneva
la
maggior parte del peso sulla gamba destra, mentre quella sinistra era
claudicante.
Lui
mi sorrise
ancora e io lo ricambiai, non facendogli notare che avevo scoperto
questo
dettaglio.
Mi
condusse al
piano di sotto, in libreria, dove era stata posizionata una lavagna e
tre
banchi.
Ci
sistemammo nel
seguente ordine: Kevin a sinistra, io a destra e il cafone
al centro.
Mia
madre mi sorrise
incoraggiante, mentre io, per la vergogna di ritrovarmi lei come
insegnante,
riuscivo a pensare ad una sola frase:”Dio,
ti prego, fai aprire una voragine proprio sotto i miei piedi, per
favore.”
La
nostra nuova insegnante ruppe il
silenzio. «Allora, Kevin.»
gli disse, facendogli un cenno con gli occhi che le brillavano.
«Dimmi, c’è qualche
argomento di cui vuoi parlare liberamente?»
«Oh,
no, di solito
lascio l’onore ad Evan di rompere il ghiaccio.»
rispose,
indicandolo con una mano.
Ecco,
pensai, primo difetto di Kevin: era
grande amico del cafone.
«Va
bene, Evan. Di
cosa vuoi parlare?»
«Beh,
non so»,
disse
«Potremmo
parlare… mmh… dei reati
commessi dagli adolescenti, per esempio.»
Guardò mia madre con un sorriso angelico.
Strinsi
gli occhi. Non mi fidavo per niente di lui. Affatto.
Mia
madre fu visibilmente presa in contropiede. «Oh.
Cosa, nello specifico?»
Lo
guardai ancora con più intensità. Se voleva fare
il bastardo, quella era la sua
occasione.
«I
tipici reati che i ragazzi commettono il venerdì sera.»
spiegò. [N.d.A. In America le scuole rimangono chiuse
sia il sabato, che la domenica, per cui il loro giorno di uscite,
cioè il
venerdì, equivale al nostro sabato.] «Come
non fornire la propria vera identità o ubriacarsi al di
sotto dell'età legale.»
Mia
madre - confusa - cercò di capire il nesso logico tra le due
frasi appena
pronunciate, ma non ne trovò: così,
soppesò nella sua mente se fosse in una
posizione abbastanza forte da poter contraddire il cafone
già il primo giorno. Però, decise evidentemente
che fosse
meglio lasciar correre e proseguire. Dopotutto,
lui era pur sempre il grande ereditiero della cafonaggine.
Già,
perché lo stronzo doveva ancora finire il suo bel
discorsetto.
«E
tu cosa ne pensi, Avril?»
disse, guardandomi.
Touché,
pensai.
Un
colpo da maestro, una mossa finale in grande stile, una stilettata
bastarda
degna dei più grandi bastardi, niente da dire.
Oh,
ma se voleva giocare, beh... non mi
tiravo di certo indietro.
Distolsi
lo sguardo dal suo. «Sono
più che
d'accordo.»
risposi, in finto tono
accondiscendente.
La
tensione nell'aria era talmente tanta che si poteva tagliare con un
coltello.
Mia
madre se ne accorse, e approfittò di quel mio piccolo
momento di pausa per
intervenire e calmare le acque.
«E
infatti, io proporrei di allargare i nostri
orizzonti e di analizzare più approfonditamente la questione
della sicurezza
nazionale nei…»
Scusa,
mamma,
pensai, prima di interromperla, ma questa
è guerra. Una guerra che devo assolutamente vincere.
«Ma
possiamo anche parlare di alcuni reati minori.»
E finalmente, dannazione, tornai a guardare quegli occhi
di ghiaccio. «Come,
per esempio…»
continuai, imitando il suo tono di poco prima. «…
il sequestro di persona e effrazione in una
proprietà privata, magari solo per essere entrati di notte
in una casa da… che
so… una finestra?»
Detto
ciò, aggiunsi la mia personale ciliegina sulla torta: gli
restituii il falso
sorriso angelico.
Si
alzò fluidamente dalla sedia e torreggiò davanti
a me: mi accorsi che era più
alto di una spanna.
I
suoi occhi, fissi nei miei, erano completamente traboccanti di ira.
Se
gli sguardi potessero uccidere, pensai, io sarei stata già
morta stecchita.
Lo
fissai a mia volta, con determinazione, e un brivido mi percorse la
schiena.
No,
non era paura, nel caso in cui ve lo steste chiedendo. Era eccitazione.
Come
potevo avere voglia di picchiarlo e
di baciarlo in una sola volta?
Poi,
si decise a parlare. «Ehi,
stronzetta. Se non fosse stato per me, tu saresti ancora su quel
merdoso
sgabello.»
sibilò sottovoce, pronunciando
le sue ultime parole.
E
quelle lo sarebbero state davvero, pensai.
Non
ci vidi più e scattai in avanti: fu un movimento unico, che
bastò, però, ad
inondare il mio corpo di adrenalina.
Lo
buttai a terra e mi misi a cavalcioni su di lui, bloccandogli le
braccia e
pronta a tempestare il suo bel faccino da stronzo di pugni.
E
lo avrei fatto davvero, se mia madre non avesse urlato e se Kevin non
mi avesse
trascinato con la forza lontana da lui.
«Evan,
Avril, basta! Ma che diavolo vi è preso?!»
gridò mamma. «Adesso
andate tutti quanti in camera vostra e non fatevi vedere in giro prima
dell'orario di cena, è chiaro?»
Non
le risposi neanche e, con uno strattone, mi liberai dalle forti braccia
di
Kevin e mi diressi verso quella che, con fatica, ricordavo essere la
mia
camera.
Avevo
bisogno di aria.
Reazione troppo esagerata? Forse.
M’importava qualcosa? Assolutamente
no.
Non
mi resi conto neanche di quanto tempo era passato. Sentii soltanto dei
passi
veloci salire le scale.
Alzai
lo sguardo e me lo vidi davanti: eccolo ancora, lo stronzo
in tutta la sua… beh… stronzaggine.
«Che
cazzo ci fai
qui? Non ti è bastato prima?» gli urlai contro.
I
suoi occhi
sembravano tranquilli. «Avril, ascoltami, volevo solo dirti
che…»
«Stai
zitto!» Mi
avvicinai velocemente a lui e gli puntai il dito indice al petto.
«Non voglio
sentire una sola parola provenire da te.» Poi, mi allontanai,
perché il
contatto con il suo corpo mi aveva provocato un’inspiegabile
e piccolissima scossa
elettrica. Probabilmente, la percepii anche lui. «Sapevo che saresti stato un guaio
dal momento in cui ti ho
visto al bancone. Io ti odio, hai capito? Molto di più del
formaggio! Io… io ti
panino al formaggio, ecco.»
Qualcosa
nel suo
sguardo cambiò: la serenità di poco prima
scomparve. Al suo posto c’era solo
rabbia. «”Ti panino al formaggio?” Ma
quanti anni hai, cinque?»
Poi,
passò alla
derisione e un ghigno di scherno gli si formò sul volto.
«Dio, quanto sei
infantile. Adesso capisco perché tua madre ti fa ancora da
insegnante!»
Alle
sue parole,
non capii più niente. Volevo solo togliergli quel ghigno
strafottente e spaccargli
la faccia.
E
questa volta, a
giudicare dal rivolo di sangue e dal gemito di dolore che emise,
c’ero riuscita
benissimo.
«Non
ti azzardare
più a nominare mia madre con quella fogna,
stronzo!»
C’era
mancato poco
che gli sputassi sul viso e lo avrei fatto, se non avessi sentito la
voce di
mia madre annunciare che fosse pronta la cena.
Così,
lo lasciai a
terra dolorante: solo per quel momento, misi da parte i miei piani
omicidi e
scesi al piano di sotto.
***
‘Cause I knew you were trouble, when
you walked in.
So, shame on me now.
Flew
me to places I'd never been,
so
you put me down, oh.
I
knew you were trouble, when you walked in.
So,
shame on me now.
Flew
me to places I'd never been,
now
I'm lying on the cold hard ground.
Oh,
oh, trouble, trouble, trouble.
Oh,
oh, trouble, trouble, trouble.
No
apologies.
He'll
never see you cry.
Pretend
he doesn't know
that
he's the reason why.
You're
drowning, you're drowning, you're drowning.
Perché
sapevo che eri un guaio, quando sei arrivato.
Quindi,
peggio per me ora.
Mi
hai portata in posti dove non ero mai stata,
così
mi hai umiliata, oh.
Sapevo
che eri un guaio, quando sei arrivato.
Quindi,
peggio per me ora.
Mi
hai portata in posti dove non ero mai stata,
ora sono
a terra, su un pavimento duro e freddo.
Oh,
oh, guaio, guaio, guaio.
Oh,
oh, guaio, guaio, guaio.
Niente
scuse.
Lui
non ti vedrà mai piangere.
Finge
di non sapere
di
esserne il motivo
Stai
affondando, stai affondando, stai
affondando.
~ The Animal In
Me – I Knew You Were Trouble
P.S.
C'è qualche fan di Doctor Who, qui? Ho trovato questo video
del Decimo Dottore e Rose con sottofondo "When
You're Gone" della nostra Av. Volevo solo condiverlo con voi
perché è qualcosa che ti prende le emozioni e te
le fa a pezzi.
Link video ->The
Doctor and Rose - When You're Gone - YouTube
|
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Capitolo 7 *** 6. Evan Way ***
Buonsalve
a tutti!
Per
problemi ho anticipato l’aggiornamento
ad oggi (il prossimo avverrà Domenica prossima, as always.) e causa vacanza di una
settimana in Norvegia, non ho
potuto rispondere alle recensioni. Ma, adesso che sono tornata,
provvederò
immediatamente.
Anyway,
in questo capitolo ci sarà la prima
canzone del patato! (Cioè, del nostro caro Evanuccio.)
In
più, scopriremo qualcosa del passato
dell’Evan della storia e di Kevin.
Spero,
come sempre, che la storia vi
piaccia.
Ci
vediamo al prossimo capitolo <3
~ Cruel Heart.
***
Evan
Taubenfeld - Evan Way
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 5 Febbraio 2001
Avril's pov
Scesi
velocemente l’ampia scalinata in parquet, facendo comunque
attenzione a dove mettessi i piedi: non volevo correre il rischio di
inciampare in quello che aveva tutta l’aria di essere un
costosissimo tappeto in velluto rosso.
Mossi
le dita della mia mano destra e le sentii scricchiolare leggermente.
Avevo provato soltanto una piccola fitta di dolore quando avevo colpito
il naso di Evan, ma non m’importava.
Sicuramente,
le sue parole avevano avuto un effetto più devastante del
mio pugno.
Sentii
uno strepitio di piatti alla fine del corridoio e, grazie a quei
rumori, riuscii ad orientarmi e ad arrivare alla sala da pranzo.
Un
forte odore di cucina aveva invaso la stanza.
I
primi occhi che incrociai furono quelli sorridenti di Kevin, che mi
salutò con un cenno appena percettibile da un lato del
tavolo.
Poi,
scorsi la figura distaccata del duca, a capotavola. Allungai lo sguardo
al capotavola opposto, ma non c’era nessuno. Non mi ero
ancora soffermata a pensare a quale fosse lo stato civile del padrone
di casa e non avevo visto fedi al suo anulare, ma, finora, non avevo
visto nessuna figura femminile, oltre mia madre. Chissà
se era mai stato sposato…
Come
se lei fosse stata richiamata dai miei pensieri, voltò la
testa di scatto verso di me.
I
suoi occhi verdi erano ansiosi e percorrevano preoccupati tutto il mio
corpo, come se sapesse che fosse successo qualcosa di cui non era a
conoscenza.
Spostai
il peso da una gamba all’altra e mi sedetti accanto a lei.
Dannato
istinto materno.
Distolsi
lo sguardo da quello di mia madre e mi misi a guardare attentamente
l’ambiente circostante. Un marmo grigio con parecchie
venature nerastre ricopriva le pareti e il soffitto, da cui scendevano
due grandi lampadari dorati.
Ma
non quanto quel coso mastodontico all’ingresso,
riflettei.
Poi,
passai ad ispezionare il tavolo in legno.
Sembrava
appena essere uscito da una favola, quando il re e la regina cenavano
nel loro castello seduti alla loro lunghissima tavolata.
Non
che la fantasia fosse poi così distante dalla
realtà.
Una
voce maschile e decisa interruppe le mie osservazioni.
«Allora,
Avril…» mi
disse il duca, fissandomi con sincera curiosità. «Ti
stai ambientando bene, qui alla villa?»
Come
un pesce che va a fare shopping. «Abbastanza,
duca.»
Una
lieve risata scosse le sue spalle. «Oh,
ti prego, chiamami pure Mark. Dopotutto, tu e tua madre potete essere
considerate parte della famiglia.» Notai che una leggera
scintilla aveva scalfito la tranquillità dei suoi occhi
azzurri, ma scomparve dopo un secondo. «E dimmi, cosa ne
pensi di Kevin e Evan? Immagino
che avrai già un rapporto stretto con loro.»
Ma
certo,
pensai. Ho
appena preso a pugni il tuo adorato figlioletto. Più stretto
di così si muore!
Abbassai
per la prima volta gli occhi dai suoi, fissando la tovaglia di pizzo.
Cosa potevo rispondere?
Per
mia fortuna, o sfortuna, visto che la cosa poteva essere considerata
sotto entrambi i punti di vista, non mi fu concesso
l’imbarazzo di dare una risposta dallo stesso Evan, che era
appena sceso, in compagnia anche del sangue secco sotto il suo naso.
Guarda,
guarda. Ho fatto proprio un bel lavoro,
mi ritrovai a pensare, in un impeto irrazionale di orgoglio.
Si
sedette accanto a Kevin, esattamente
di fronte a me. Iniziò a fissarmi con uno sguardo
intenso, ma non disse nulla.
Una
voce femminile alta, squillante e dal forte accento italiano ruppe il
silenzio.
«Salve
a tutti!» disse una donna sulla sessantina, con folti capelli
marroni che le cadevano sulle spalle insolitamente larghe per una donna.
«Io
sono Maria.» Indicò nella propria direzione con un
cucchiaio di legno che portava nella mano destra «Ma le nuove
arrivate possono tranquillamente chiamarmi Mary!»
Strizzò l’occhio a me e a mia madre, che stavamo
osservando la scena completamente ammutolite. «Nel caso ve lo
stesse chiedendo, sono la cuoca ufficiale della baracca.»
Mosse ancora il cucchiaio, descrivendo un’ampia arcata.
Beh,
non si può di certo dire che abbia il senso della misura, se
questa per lei è una “baracca”, notai,
con una certa simpatia.
Quella
donna voleva senz’altro portare un po’ di allegria
in una serata che, altrimenti, sarebbe incominciata con
rigidità. E io gliene ero grata.
«Allora,
questa sera serviremo le seguenti portate.» Si
schiarì la voce, prendendo un piccolo taccuino dalla tasca
del grembiule, e s’inforcò gli occhiali che aveva
legato ad una catenella appesa al collo. «Come antipasti,
avremo asparagi avvolti in un prosciutto crudo squisito; come primo
piatto, servirò delle pappardelle con un sughetto di
pomodoro freschissimo; come secondo piatto, cucinerò una
costata di maiale alla griglia e per chiudere in
bellezza…» Si fermò, creando suspense
per il momento clou del menù. «Come dolce, ci
sarà un tiramisù con salsa al cioccolato, proprio
come piace tanto al nostro Kevin!»
Gli
si avvicinò per dargli un pizzicotto, ma si fermò
a due millimetri dalla sua guancia. Stava
fissando Evan con uno sguardo preoccupato.
«Uagliò,
ma che diavolo hai fatto a quel naso?»
Non
capii bene la prima parola che disse, ma riuscii ad afferrare tutto il
resto.
Improvvisamente,
tutta l’attenzione che Mary era riuscita a catalizzare su di
sé, si spostò su di lui.
Per
fortuna nessuno pensò che fosse il caso di fissare me.
Il
terrore che Evan potesse spiattellare tutto mi paralizzò.
Lui,
oltre che a restare stronzo, era comunque il figliol
prodigo, e incominciavo a temere che tutto quello che gli
avessi detto o fatto si potesse ritorcere contro di me.
Non
avere paura, Avril. Tu sei sempre stata una profonda pacifista con lui.
Già,
la mia coscienza sceglieva sempre i momenti più sbagliati
per fare sarcasmo.
Tenne
gli occhi fissi nei miei, prima di abbassare lo sguardo e di sussurrare:«Niente
Mary. Sono solo andato a sbattere contro lo stipite della porta della
mia camera. Tutto qui.»
Ripresi
a respirare, guardandolo sorpresa. Aveva più
l’aria di un cane bastonato che di uno che si voleva
vendicare.
Dopotutto
forse non è così stronzo come avevi pensato. Ancora
la mia dannatissima coscienza.
Mary
rise di gusto. «Menomale. Dalla tua faccia sembrava che
avessi fatto a pugni con qualcuno.»
Ricacciai
indietro un brivido.
La
voce autorevole del duca riprese il controllo della situazione. «Grazie
per la tua presentazione, Mary. Sono convinto che tutti qui aspettiamo
con ansia le tue magnifiche portate.»
«Certo,
duca. Vado subito, duca.» replicò lei, impacciata
per la prima volta dall’inizio
della serata. Sparì subito nelle cucine e, qualche minuto
dopo, piatti fumanti furono posizionati davanti a noi.
«Buon
appetito a tutti.» augurò Kevin, guardandomi
sorridente.
Non
lo ricambiai, però. Ero troppo presa ad osservare come
ricadevano dei ciuffi di capelli biondi sulla fronte di Evan,
combattendo l’impossibile e allo stesso tempo fortissimo
impulso di alzarmi e di toccargli il viso per metterli al loro posto.
All’inizio
pensai che fosse solo per ricambiare la sua gratitudine. Lui era stato
gentile con me e io volevo esserlo con lui. Tutto
qui, mi dissi mentalmente, citando le sue parole.
Ma
mi sbagliavo. Non potevo ancora immaginare come quello sarebbe stato
l’inizio di tutto.
***
Un’ora
dopo avevamo finito quella cena faraonica. Tutti i piatti, dal primo
all’ultimo, erano stati una vera bomba.
E
anch’io, per certi aspetti, mi sentivo così. Pronta
a scoppiare, nel caso avessi visto ancora cibo nel raggio di due
millimetri.
Kevin
si pulì il labbro col tovagliolo accanto a lui e si
schiarì la voce. «Bene,
grazie dell’ottima cena, duc- Mark.», si corresse
velocemente. Almeno non ero l’unica ad avere problemi su come
chiamare il duca. «Credo che Avril voglia tornare nella sua
camera.» Poi, rivolgendomi un sorriso gentile, mi
chiese:«Vuoi che ti ci accompagni?»
Evan
lo guardò con quella che mi parve essere aria seccata, ma
non fiatò.
Stavo
per accettare la sua offerta, quando, ancora una volta, la voce del
duca Taubenfeld ci interruppe. «Un attimo, Kevin. Volevo
comunicare una notizia importante a tutti e tre.»
Lo
guardammo, aspettando che continuasse. «Io e la signora
Lavigne ci siamo confrontati sul vostro incontro questo pomeriggio in
biblioteca, e anche sul piccolo…»
Sembrò scegliere la parola con cura. «…incidente tra
Evan e Avril. Abbiamo stabilito entrambi di non voler vedere che eventi
del genere accadano ancora, per cui… ci è
sembrato più saggio che tu e mio figlio, insieme con Avril,
frequentaste il “Sanford-Brown” college.
È uno dei più prestigiosi college di tutta la
Pennsylvania, se non addirittura il migliore. Inoltre, il preside
è un mio carissimo amico e gli ho già telefonato
per avviare le vostre iscrizioni. Abbiamo pensato che questa situazione
fosse troppo nuova e prematura per voi due, ragazzi, e così
abbiamo deciso di comune accordo che tutti e tre frequentaste gli
stessi corsi, in modo da non sentirvi ulteriormente spaesati. Per
quanto riguarda te, Evan, mi spiace dirti che il tuo desiderio di avere
un tutore privato non potrà più essere
realizzato. Andrai in una normale scuola e spero, ovviamente, che non
te la prenderai per questo.»
Evan
indurì la mascella, guardando fisso davanti a sé,
ma non disse niente.
Quanto
a me, la testa mi girava vorticosamente. La mia vita sembrava stesse
cambiando di giorno in giorno, e questo era decisamente troppo per me.
«Ma…
Ma lei non può fare questo…»
Il
duca girò la testa nella mia direzione e mi parve di vedere
ancora una vola una scintilla di rabbia repressa nei suoi occhi. «Perché
no, Avril? Tua madre è d’accordo con me e, se non
mi sbaglio, già in Canada frequentavi una scuola pubblica. E
poi, se il problema è il mancato stipendio di tua madre, non
preoccuparti: è colpa mia se si è verificato
questo repentino cambio di programma e non c’è
dubbio che lei riceverà il compenso promessole.»
Il
problema non sono i soldi,
avrei voluto gridare. Il
problema è che non posso continuare a veder cambiare la mia
vita senza che io non faccia niente!
Ma
non fiatai. Mi limitai a digrignare i denti e a stringere i pugni, come
facevo quando volevo ricacciare indietro le lacrime.
«Ora,
Kevin.» Aggiunse il duca. «Puoi accompagnare Avril
nella sua stanza.»
«Conosco
la strada, grazie.» scandii lentamente, prima di alzarmi
dalla sedia e di uscire da quella stanza.
Credevo
che stare un po’ da sola mi avrebbe fatto bene.
Entrai
nella mia camera e, dopo essermi chiusa la porta alle spalle, andai
alla finestra.
Non
avevo ancora potuto vedere la vista da lì e mi accorsi, con
grande stupore, che si affacciava sull’immenso giardino della
villa.
Osservai
con talmente tanta cura tutte le piante, tutti i fiori e tutti gli
alberi che popolavano quel giardino… che non mi accorsi
neanche del lieve bussare alla porta,
All’inizio,
pensai fosse Kevin. Così, quando capii in realtà
di chi si trattasse, mi bloccai.
«Avril?
Avril, posso entrare?» Era Evan.
Il
panico mi travolse. Cosa dovevo fare?
Che
prima avesse finto davanti a tutti e volesse vendicarsi affrontandomi
direttamente?
Che
mi fossi, ancora una volta, sbagliata su di lui?
Presi
un respiro profondo ed andai ad aprire.
Gli
indicai l’interno della stanza con un cenno del capo. «Entra.»
Chiusi
la porta e mi sedetti a gambe incrociate accanto a lui sul mio letto.
«Ascolta.
Prima che tu ti trasformi ancora in Rocky Balboa [N.d.A. Famoso
personaggio interpretato da Sylvester Stallone. È un
pugile.], volevo solo…»
Non
sapevo quello che stava per dirmi. Pensavo che si sarebbe arrabbiato,
che mi avrebbe dato ancora dell’infantile e
dell’ipocrita. E, invece, disse
solo…«… chiederti scusa.»
Lì
per lì non seppi cosa dire, ma fu lui che
proseguì. «Sono stato un completo arrogante. Ma
anche la parola “stronzo” va benissimo.»
Aggiunse, con una smorfia.
«Non
avevo il diritto di comportarmi così, né di dire
tutte quelle cose spregevoli su di te e su tua madre
e…»
Decisi
che avevo sentito abbastanza. «Evan, basta.»
Mi
guardò smarrito, come se fosse stato troppo preso dal suo
discorso di scuse per ricordarsi che c’ero io, lì
con lui.
«Sono
io che devo chiederti scusa. Anche io non avevo il diritto di darti un
pugno sul naso, sai? Anzi…» dissi, prendendo un
fazzolettino dalla tasca del giubbotto e accostandolo sulla sua piccola
ferita. «Ti fa molto male?»
Appoggiò
la sua mano sulla mia e fui percorsa da un brivido sulla schiena. Emise
un gemito di dolore, ma, nonostante questo, rispose di no.
Ritrassi
la mano, spaventata dalle mie stesse reazioni.
«Allora…»
Cercai di intraprendere un discorso. Peccato che interloquire con i
ragazzi della mia stessa età non fosse mai stato il mio
forte. «Devi ancora dirmi qual è il tuo secondo
nome e cosa ci facevi ieri sera a Napanee quando abiti in un altro
Stato.»
Sgranò
leggermente gli occhi. «Non pensavo ti ricordassi del nome. E
comunque, non posso dirtelo. Non ancora, almeno. È una
specie di regola che è venuta a crearsi nel corso degli
anni: dico il mio secondo nome soltanto alle persone di cui so che mi
posso fidare ciecamente. E anche mio padre rispetta questa…
direttiva, per così dire. Non dice mai il mio secondo nome
in presenza di estranei.»
Cioè
quello che sono io,
mi dissi mentalmente, provando una lieve fitta di tristezza.
«Per
quanto riguarda cosa ci facessi a Napanee, beh, è piuttosto
semplice: lì ci lavoravo. Di solito, mio padre finanzia la
band e ci trova date, piccoli locali dove esibirci, cose
così. L’ultimo posto in cui ha insistito
affinché suonassimo è stato proprio Napanee, e ho
pensato di unire l’utile al dilettevole, trovando lavoro in
quel bar.» concluse, con una scrollata di spalle.
«Come
si chiama? La band, intendo.» gli domandai, con
curiosità.
«Ci
chiamiamo i “Nameless”.» Senza-nome.
Lo
fissai perplessa. «Nel senso che non avete un nome
o…?»
Rise,
per la prima volta in quella serata. «No, è
proprio il nostro nome. Matt, il nostro batterista, era stanco di
doversi scervellare per trovare un nome adatto, che ci rappresentasse,
e alla fine ha rinunciato. Il giorno dopo l’annunciatore, non
vedendo nessun nome scritto sul foglio, decise di gridare
“Nameless”, ed è così che
decidemmo di chiamarci, da quella volta.»
«Beh,
senz’altro è originale.» riflettei.
«Già.»
Restai
per un secondo in silenzio, incerta. Poi, decisi di buttarmi.
«Posso farti un’altra domanda?»
«Certo,
spara.» Il sorriso gentile non andò via dal suo
volto.
«Perché
tuo padre ha detto che “il tuo desiderio di avere un tutore
privato non potrà più essere
realizzato”? Cos’è, non volevi andare in
una scuola pubblica?»
A
quel punto, si fece serio. «No, è più
di questo. Non si tratta di un mio semplice… capriccio. In
realtà, riguarda Kevin. Ho già capito che sai del
suo piccolo difetto e me ne sono accorto dal modo in cui lo guardi.
È lo stesso modo in cui si guarda una sfumatura di colore
troppo forte in un quadro perfetto. E lo capisco perché
è la stessa cosa che provai anch’io la prima volta
dopo…» Deglutì, improvvisamente a corto
di parole. «Dopo l’incidente.»
Abbassò
lo sguardo e riprese a parlare.
«Vedi,
durante le vacanze estive, quando ero piccolo, io, mio padre e Kevin
andavamo alla nostra piccola villetta nel Maryland. Io e lui andavamo
sempre in esplorazione, cercando di scoprire dei tesori nascosti da
terribili pirati. Sorrise al ricordo. Un giorno, per caso,
m’imbattei in un piccolo vicoletto in salita. Si chiamava
“Evan
Way”. [N.d.A. Letteralmente significa
“Via Evan”] Capisci che l’euforia
s’impossessò di me per quella fortuita
coincidenza, ero solo un bambino. E così, dopo averglielo
detto, decidemmo di andare a prendere le nostre biciclette e di
arrivare in cima. Io partii per primo e lo lasciai indietro.
Lui… lui era sempre stato un po’ più
debole di me e… la bicicletta si ribaltò,
finendogli addosso.»
Emise
un verso strozzato, di disperazione.
«Lo
portammo subito all’ospedale e i medici ci dissero che aveva
un’infezione all’osso femorale: se voleva
sopravvivere, avrebbero dovuto amputargli la gamba. Poi, per il suo
ottavo compleanno, gli regalammo una protesi, in modo tale che potesse
almeno camminare. Volevo avere un insegnante privato perché
così, almeno, avremmo fatto a meno di tutte le prese per il
culo dei nostri eventuali compagni.»
Appoggiai
ancora una volta la mano sulla sua e questa volta gliela strinsi forte.
«Mi dispiace tanto, Evan.»
Mi
guardò con la tristezza negli occhi. «Non capisco
perché ti devi dispiacere per una cosa di cui non hai
assolutamente colpa. Naturalmente, è stato mio padre a
raccontarmi tutta la storia, perché non me la ricordavo. Ma,
da allora, non posso fare a meno di dirmi che, magari, se non mi fossi
intestardito così tanto con quella stupida strada e se non
lo avessi lasciato indietro, lui sarebbe ancora un quadro
perfetto.»
Gli
parlai piano, con dolcezza. «Evan. Non devi né
vergognarti, né darti la colpa per quello che è
successo. Magari adesso Kevin non sarebbe più il ragazzo
sorridente che è e tu non saresti più il ragazzo
meraviglioso che sto imparando a conoscere. Sono le esperienze
più profonde che cambiano le persone. Il
dolore ci rivela.»
Si
raddrizzò, riprendo a sorridere leggermente. «E
quest’ultima frase l’hai presa da un
libro?»
«Sì.»
Arrossii, sentendomi stupida. «È il mio libro
preferito.»
«L’ho
capito dal cambiamento del tuo tono di voce. Bello.»
commentò. «E
così, domani è il primo giorno di scuola nella
capitale?» disse con il sorriso sulle labbra,
cercando di cambiare argomento e di sdrammatizzare.
Per
un attimo, fui presa in contropiede. «Harrisburg, la capitale
della Pennsylvania? Ma non era Philadelphia?»
Rise,
e notai come il suo sorriso contagiava i suoi altrettanto splendidi
occhi azzurri. «No, la capitale è sempre stata
Harrisburg. La geografia non è proprio il tuo forte,
eh?» mi chiese.
Distolsi
lo sguardo, leggermente imbarazzata. «No, in effetti
no.»
Dopo
pochi secondi di silenzio, mi domandò:«Qual
è la tua materia preferita?»
Ancora
una volta, rimasi confusa, per il repentino cambio di domanda, ma, dopo
essermi ripresa, risposi senza alcuna esitazione.«Matematica.»
Non
ebbi il tempo di chiedere quale fosse la sua, che arricciò
subito il naso.
«Che
c’è?» gli domandai, disorientata per la
terza volta di fila dal suo atteggiamento.
Mi
rispose con quella che doveva essere una citazione. «Finché
le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non
sono certe, e finché sono certe non si riferiscono alla
realtà.»
Lo
guardai interrogativa con curiosità, aspettando che
continuasse.
«Albert
Einstein.» spiegò infine.
«Beh…
secondo me tu e il buon caro e vecchio Albert vi sbagliate. La
matematica è la disciplina più solida che esista.
Voglio dire, avrai sempre la certezza che due più due fa
quattro, e non magari cinque.»
«Ed
è proprio questo il problema.» disse, sorridendo.
«Nella realtà, sei fermamente convinta che due
gocce d’acqua unendosi ad altre due gocce d’acqua
diano sempre come risultato quattro gocce e non magari una
più grande?»
Aprii
la bocca ma la richiusi di scatto. Non avevo niente con cui replicare.
Mi aveva ancora completamente e inequivocabilmente spiazzato.
Evan
4, Avril 0,
pensai.
«A
proposito di realtà… sei…
sai… sei… fidanzato?» dissi, pentendomi
nell’istante stesso in cui pronunciai quelle parole.
Il
suo sguardo, dapprima perso nel vuoto, si posò su di me.
«Cosa?»
Deglutii,
cercando di prendere un po’ del coraggio necessario.
«Insomma… mi stavo chiedendo se adesso…
tu stessi con…»
«Una
ragazza?» finì per me, in tono interrogativo. Annuii. «Beh…
sì, qualche ragazza c’è
stata… ma mai niente di serio.»
«Oh.
Capisco.» gli risposi, cercando di non dare troppo a vedere
il rossore che si estendeva sulle mie guance.
Ma
perché mi andavo sempre ad impelagare in certi discorsi?
La
mia coscienza mi rispose quasi istantaneamente. Perché
lui ti p-
Ssh,
zitta!
«E
tu? Hai mai…» Fece per chiedermi, ma non finii mai
la domanda, perché Kevin aprì la porta.
«Cavolo,
scusate, non volevo interrompervi. È solo che la signora
Lavigne mi ha mandato a dirvi che domani mattina dovremo svegliarci
alle sette in punto, per cui secondo lei sarebbe meglio se andassimo a
letto adesso.» ci disse, con una scrollata di spalle.
«Sì,
certo.» Evan si spazzolò i jeans e si
alzò dal letto. «È meglio che
vada.»
«Io
ti aspetto in corridoio. Buonanotte Avril.» ribadì
Kevin, prima di scomparire.
«Buonanotte,
Kevin.» gli gridai di rimando. Poi, tornai a guardare Evan.
«Allora…
‘Notte.»
«‘Notte.»
gli risposi, quasi delusa che non ci fosse stato nessun
“bacio della buonanotte”.
Non
essere stupida!,
pensai.
Lo
vidi avvicinarsi alla porta e socchiuderla alle sue spalle, prima di
aggiungere:«Ah, Avril?»
«Sì?»
gli risposi, tenendo gli occhi nei suoi.
«Ieri
sera ci hai azzeccato.»
Lo
guardai senza capire.
«David.
È David il mio secondo nome.» finì e
sparì anche lui nel corridoio, chiudendo la porta.
Mi
buttai completamente sul letto, stremata da quella giornata.
Poi,
con un sorriso idiota che aleggiava sul mio viso, mi addormentai.
***
What
if she got in the car?
And they never even crashed.
Would it change who we all are?
Would I have this photograph?
Now I wonder everyday, how a telephone pole missed him.
I'm so glad he stayed awake.
'Cause I don't think I'd be living.
Don't be ashamed,
You made a mistake.
We'll all be okay.
And things go wrong, sometimes we fall.
The world turns and we move along, and that's what makes us who we are.
So just be strong, 'Cause life's not long.
Before you know it we'll all be gone,
and this will be the last today, ever.
[…]
I know you don't wanna change
I just hope that you'll do it
What we learned on Evan Way.
And maybe the best thing to happen now.
Che sarebbe successo se lei fosse salita sulla
macchina
e non ci fosse stato nessun incidente?
Questa cosa avrebbe cambiato quello
che siamo oggi?
Avrei ancora questa fotografia?
Ogni giorno rifletto, come ha fatto a schivare un palo della luce.
Sono contento che sia stato attento
perché
non credo che sarei ancora vivo.
Non vergognarti,
hai fatto un errore.
Staremo tutti bene.
Le cose non vanno come dovrebbero andare,
delle
volte cadiamo.
Il mondo gira e noi giriamo con lui,
ed
è questo che ci fa diventare ciò che siamo.
Quindi sii forte, perché la vita non è lunga.
Prima che tu lo sappia ce ne saremo già andati tutti
e questo sarà l'ultimo giorno, di sempre.
[…]
Io
so che non vuoi cambiare
spero solo che tu lo faccia
quello che abbiamo imparato dall'Evan Way*
forse è la cosa migliore che sia successa fino ad ora.
~ Evan
Taubenfeld – Evan Way
*L’Evan
Way è una via realmente esistita. Si trovava accanto alla
casa dove viveva Evan nel Maryland.
|
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Capitolo 8 *** 7. Sk8er Boi ***
Buondì!
Dalla
prossima volta cercherò di aggiornare
ogni Domenica al mese.
Spero
di riuscirci e spero, come sempre,
che la storia vi piaccia.
Mi
ritiro per vedere Once Upon A Time.
Ci
vediamo al prossimo capitolo <3
~ Cruel Heart.
***
Avril
Lavigne - Sk8er Boi
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 6 Febbraio 2001
Avril's pov
L’oscurità
regnava sovrana.
Persino
la luna era di un inquietante
bianco pallido, come se volesse nascondersi in tutto quel buio.
Mi
guardai attorno e, a giudicare dai
rami degli alberi che s’intrecciavano tra loro, dovevo
trovarmi in un bosco.
Le
mie gambe si mossero prima che il mio
cervello lo volesse veramente.
Andavo
in cerca di un qualsiasi elemento
che potessi riconoscere in quell’oblio sconosciuto.
Poi,
col respiro ansante, mi ritrovai ai
piedi di un sentiero in salita.
Ero
certa di non averlo mai vista prima,
ma aveva comunque un’aria… familiare.
Riuscii
a scorgere due bambini: uno, con
i capelli talmente chiari da sembrare argentei, era già in
cima; l’altro,
all’inizio del vicoletto, aveva i capelli rossicci.
Mi
avvicinai a lui. Aveva un’aria incerta,
impaurita, e passava il suo sguardo dubbioso dai suoi piedi ai capelli
color
cenere del bambino in cima al sentiero.
Ero
pronta a chiedergli cosa stesse
facendo lì e se avesse bisogno di aiuto, ma le parole mi
morirono in gola.
Lo
scenario cambiò improvvisamente: i
bambini e la strada svanirono e vidi un uomo col volto completamente
inghiottito dalle ombre.
Aveva
una postura rigida, quasi educata.
«Guardalo.» mi disse, in tono tranquillo.
Ma
io non riuscivo a staccare gli occhi
dalla sua faccia: era come guardare in fondo ad un pozzo senza fondo.
«Maledizione,
guardalo.» gridò, con le
spalle percorse da un fremito di pura rabbia. «Tu…
tu, lurida puttana, tu gli
hai fatto questo!» aggiunse, indicando con il dito indice il
mucchio di terra
dove prima c’era il vicolo.
Completamente
sconvolta dalla paura,
incominciai a correre.
Ripercorsi
il bosco a perdifiato,
evitando gli alberi e cercando di non cadere nel terreno.
Poi,
però, inciampai in qualcosa: non mi
curai di cosa fosse, perché sapevo e sentivo, dentro di me,
che era arrivata la
fine.
Non
avevo mai pensato alla mia morte,
ma, di certo, non l’avrei immaginata così.
Vidi
l’uomo sorridere in modo
inquietante: si passò la lingua sulle labbra, come se avesse
pregustato quel
momento da tutta una vita.
«Tu
gli hai fatto questo.» ripeté,
sussurrando. «Ma non sai neanche chi lui sia.»
Scossi
la testa, terrorizzata dalla
vista di quel volto fatto di oscurità.
Si
chinò su di me e riuscii a sentire il
suo fiato caldo sul viso. Poi, urlò ancora. «E
come potresti saperlo, dato che
non sai neanche chi tu sia veramente?»
Mi
svegliai con un grido e mi ritrovai a fissare le ombre della mia stanza.
Era
avvolta da una fitta oscurità, esattamente come
nell’incubo.
Guardai
le lancette fosforescenti dell’orologio e scoprii che erano
le 06:20 del
mattino.
Ancora
con un vago senso di panico, cercai di mettermi seduta, scalciando via
le
coperte.
Di
continuare a dormire non se ne parlava e, in più, dovevo
scendere a fare
colazione per le sette in punto: meglio prepararsi prima.
Entrai
nel grande bagno in camera e mi feci una doccia calda, sciogliendo la
tensione
nelle spalle.
L’avevo
sempre trovato un buon toccasana, quando il nervosismo minacciava di
sopraffarti.
Poi,
ancora avvolta nel soffice accappatoio bianco, scelsi i miei vestiti
per quel
primo e nuovo giorno di scuola: le mie Vans blu, dei jeans scoloriti e
una felpa di color grigio
scuro.
Ebbi
anche il tempo di prendere l’unico zaino che mi ero portata
da Napanee, quello
verde militare, con dentro un astuccio viola e un quaderno.
Controllai
ancora l’orologio, scoprendo che erano le 06:50.
Con
un sospiro, uscii dalla mia camera e mi avviai, zaino in spalla, verso
la sala da
pranzo.
Scesi
velocemente le scale, aspettando di trovare la stanza vuota.
Invece,
seduto su una sedia, completamente da solo, c’era Kevin.
Uno
zaino color ruggine era stato fatto cadere scompostamente accanto alla
sua
sedia.
Si
intona al colore dei suoi capelli,
pensai, mentre rigirava un cucchiaino nella sua tazza,
con le spalle lievemente ricurve e uno sguardo perso nel vuoto.
«Buongiorno.»
lo salutai.
Si
girò verso di me, posando un attimo il cucchiaino.
«Buongiorno a te.»
Nonostante
il suo sorriso, non potei fare a meno di notare delle leggere ombre
sotto il
contorno dei suoi occhi verdi.
«Nottataccia?»
chiesi, scivolando sul posto accanto al suo e appoggiando lo zaino alla
spalliera.
Fece
una smorfia di disappunto. «Poche ore di sonno, in
realtà.»
Ripensai
al mio incubo, al modo in cui l’uomo mi aveva aggredito e al
modo in cui avevo
gridato. Beato te.
Poi,
nell’ordine, entrambi sentimmo: dei passi veloci provenire
dalle scale, un
singolo rumore secco, che immaginai essere un piede che veniva sbattuto
sulla
ringhiera in ferro e un’imprecazione, che doveva essere
qualcosa del tipo
“Vaffanculo, che male!”
Infine,
vedemmo Evan entrare nella sala da pranzo.
La
sua smorfia di dolore si trasformò in
un’espressione di sorpresa, quando vide
le nostre facce divertite.
«No,
è che… il piede… sono
inciampato…» balbettò, facendo cadere
senza
preoccupazione il suo zaino nero sul pavimento.
Kevin
liquidò il tutto con un gesto della mano e lo
invitò a sedersi di fronte a noi.
Lo
osservai: indossava dei jeans scuri e una maglietta bianca con un
teschio che
faceva l’occhiolino con la scritta nera in stampatello
“ROCKERS DO IT BETTER”.
Lo
guardai e sollevai il sopracciglio destro, a metà tra il
curioso e il
divertito.
Lui
si limitò a scrollare le spalle, prima di esclamare ad alta
voce:«Allora,
ciurma, cosa si combina quest’oggi?»
«Parla
in termini pirateschi solo quando è nervoso.»
bisbigliò Kevin al mio orecchio,
sorridendo.
Risi
anch’io, cercando di camuffare la risata con un colpo di
tosse, ma non ero
molto sicura del risultato.
Infatti,
com’era prevedibile, Evan se ne accorse. Puntò un
dito contro di noi, con aria
accusatoria. «Voi due, state facendo comunella contro di me.
È così che sarà,
d’ora in avanti? Verrò emarginato? Di questo
passo, mi toccherà essere amico di
Austin.»
«Austin
è un nuovo autista che abbiamo assunto da poco.»
m’informò Kevin. «E comunque,
tu e Austin non vi sopportate a vicenda.» osservò.
«Di
Mary, allora.»
«Mary
ti rimpinzerà di cibo fino a che non scoppierai.»
«Ma
almeno potrò assicurarmi di mangiare bene.»
concluse con un tono alla “Ho vinto
io!”. Finì di imburrare una
fetta biscottata e la addentò.
Kevin
roteò gli occhi al cielo, ma non aggiunse altro: in effetti,
non potevo
biasimarlo, anche se parlare con questo Evan bambinesco
era divertente e… mi piaceva.
«Cofa
fi pvofpetta per la giovnata?» domandò, a bocca
piena.
Kevin,
sorridente e leggermente disgustato, fece per rispondere, ma fu
interrotto da
una voce maschile.
«Si
prospetta di non parlare mentre si mangia. Non ti ho mica educato come
un
villano, figliolo.»
Non
mi girai neanche, sapevo già a chi appartenesse quella voce.
Invece,
sollevai lo sguardo e guardai Evan, che abbassò la testa e
mormorò:«Scusa,
papà.»
Il
duca si sedette a capotavola e sorrise, come se fosse rincuorato per la
sua
risposta. «A parte questo, ho chiesto a Peter di
accompagnarvi e di farvi
venire a prendere con la limousine, naturalmente.»
Quasi
rischiai di strozzarmi, per il caffè che mi andò
di traverso. «La… limousine?»
chiesi.
Il
duca annuì, guardando nella mia direzione. «Ovviamente.
Sarai sorpresa di
vedere quante ce ne saranno nel parcheggio del Sanford-Brown.»
Distolsi
lo sguardo, reprimendo un’improvvisa ondata di rabbia.
Sembrava
come se il duca fosse… soddisfatto
dalla sua superiorità.
In
breve tempo, sia io che Kevin e Evan finimmo la colazione, e stavamo
quasi per
varcare la soglia della villa, quando mia madre scese le scale e mi
chiamò.
Mi
raggiunse accanto alla porta. «Buona scuola,
amore.»
Abbassò
il braccio destro, avvicinandomelo pericolosamente.
«No,
mamma, per favore, non farlo…» le intimai,
sottovoce.
Sbam!
Troppo tardi. Mi aveva augurato:«Imbocca al lupo!»
Ma,
la cosa peggiore, era che mi aveva
appena dato una pacca sul sedere.
Non
avevo mai sopportato quel gesto, ma adesso che sentivo le risatine dei
ragazzi
dietro di me, lo odiai ancora di più.
Insomma…
era così imbarazzante!
«Mamma…
ti prego…»
«Va
bene, va bene, ho capito. E voi due, smettetela di ridere.»
Poi,
con un leggero sorriso sulle labbra, ci diede le spalle e se ne
andò nella sala
da pranzo.
Mi
voltai, vedendo che Evan non aveva ancora smesso di sghignazzare. Gli
diedi una
gomitata nelle costole e, con un laconico
“Andiamo”, percorremmo il viale.
***
Il
viaggio non fu così sgradevole come avevo pensato ma, a
differenza di quanto
aveva predetto il duca, non erano solo le limousine che infestavano il
parcheggio, ma anche Porche, Ferrari,
Mercedes…
Robbetta,
insomma.
Entrammo
nell’atrio, ma prima che potessi guardare
l’edificio, Evan imprecò.
«Cazzo,
siamo già in ritardo! Col mio skate avremmo fatto
sicuramente prima.»
Lo
guardai. «Tu
hai uno skate?»
Annuì,
ma rivolse
lo sguardo altrove. Kevin bisbigliò al mio orecchio:«Sul
suo microfono ha scritto “Sk8er
Boi”. Sai, proprio con l’otto e
con la i.»
Sollevai
le sopracciglia, ma non commentai ulteriormente.
Evan
sospirò. «E così, eccoci qui, come tre
guerrieri dell’Apocalisse che si
preparano ad affrontare il loro destino.»
Kevin
lo guardò stranito.
«Guerrieri
dell’Apocalisse? Ma che razza di
metafora è?»
«Innanzitutto,
mio caro Kevin, questa è una similitudine, poiché
viene espressa in maniera
esplicita, grazie anche all’utilizzo delle congiunzioni
“come” o “simile a”;
mentre, invece, la metafora viene espressa in maniera implicita e non
ci sono
congiunzioni.»
Abbandonò il suo tono da maestrino e fece
spallucce.
«E comunque, l’ho voluta buttare sul
tragico, perché io sono un vero poeta, e un vero poeta non
si deve contraddire
mai.» concluse, sorridendo.
«Bene,
ora che questo bellissimo scambio di battute è giunto al
termine…»
dissi, andando al sodo. «…potrei
chiedere dove
diavolo dobbiamo andare?»
Evan
non si girò
neanche a guardarmi. «Beh,
volendo, possiamo
anche andare a f-»
«Quello
che Avril intende…»
lo interruppe Kevin. «…è
che non sappiamo neanche quale sia la classe dove
dovremmo entrare per primi.»
«Possiamo
entrare in tutte le classi e domandare:”Salve, è
qui che avete ottenuto lo
straordinario privilegio di avere il signor Evan David Taubenfeld come
vostro
alunno?”»
«Oppure…»
fece Kevin, con un tono leggermente spazientito. «…possiamo
andare in segreteria e chiedere il nostro fascicolo con
all’interno l’orario.»
Con
il dito
indice, indicò una stanza con scritto sopra
“SEGRETERIA”.
«Sì.»
Alzò ancora una volta le spalle. «È
un’idea come
un’altra.»
«Peccato
che non è così che funzioni.»
dissi. Si girarono entrambi a
guardarmi, con aria interrogativa. «Per
avere i
nostri fascicoli dovremmo possedere prima un’autorizzazione
scritta da un
professore, e solo dopo andare in segreteria. Ma, visto che non
sappiamo in
quale classe andare…»
Kevin
si grattò il
mento, con fare pensieroso. «Sai,
Evan, mi sa
che la tua idea iniziale non era affatto male.»
Lui
liquidò con un
gesto della mano le nostre preoccupazioni. «Ah,
sciocchezze. Datemi cinque minuti e avrete tra le mani questi dannati
fascicoli.»
Poi,
con passo di
carica, si avvicinò alla porta della segreteria,
bussò ed entrò, senza neanche
aspettare una risposta.
Esattamente
cinque minuti dopo, venne ancora verso di noi, con le mani dietro la
schiena.
«Allora?»
gli chiese Kevin. «Li
hai avuti?»
Scrollò
le spalle. «Beh, sai, i complimenti uniti al mio fascino
incontestabile da
playboy sono letali. Eccoli qui.»
rispose e ci consegnò i
nostri rispettivi fascicoli.
Lo
aprii e guardai
con impazienza la prima ora di lezione. «Evvai,
matematica!» esclamai contenta.
Evan
fece una smorfia. «Sì, che bello, andiamo tutti a
fare i calcoli.»
disse, poco entusiasta.
Memorizzai
il percorso per arrivare all’aula e lo trascinai per la
manica. «Oh, andiamo,
non fare il guastafeste. Venite.»
Percorsi
quasi
correndo il corridoio, per poi spalancare una porta che era esattamente
come
tutte le altre.
In
quel momento,
mi bloccai, mentre Evan e Kevin andarono a sbattere contro la mia
schiena.
La
scena sarebbe
stata senz’altro divertente, se non fosse stato per
l’orrore che mi
attanagliava le gambe.
All’incirca
una
trentina di teste si voltarono verso di noi.
Soffocai
un gemito
di disperazione, quando la mia mente confermò che, in
quell’aula, erano seduti
solo e soltanto maschi.
Ma
vi rendete
conto?! Ero l’unica ragazza lì dentro!
«Oh,
voi dovete essere i nuovi arrivati. Prego, accomodatevi pure nei tre
banchi lì
infondo.»
ci comunicò quello che doveva essere il professor
Billigan, che stava in piedi accanto ad una lavagna elettronica.
Certo,
perché le comuni lavagne in
ardesia nera costavano troppo poco,
pensai.
Mi
sedetti al banco, e vidi che su ognuno di essi vi era posato un
computer
portatile.
Evidentemente
era con quello che si studiava, lì.
Mi
sentii estremamente stupida per il quaderno che avevo con me nello
zaino.
Il
professore si schiarì la voce, e capii che ce
l’aveva con me. Evidentemente,
come già avevo pensato, lì ero una
novità assoluta.
«Mi
dica, signorina…»
diede un’occhiata al registro, prima di
pronunciare il mio cognome. «…Avril
Lavigne.
Qual è il suo argomento scolastico preferito?»
Confusa,
corrugai
la fronte. Chi diavolo pronunciava le
parole “argomento scolastico”?
«Tutto
ciò che insegna lei, professor Billigan.»
Ed era vero. In altre occasioni, non avrei di certo risposto a quel
modo: fare
la parte della saputella non mi era mai piaciuto.
«Ah,
davvero?»
disse sorpreso, aggiustandosi gli occhialini. Quindi,
se io chiedessi alla classe quale sia la definizione di
“retta tangente”,
svolta all’inizio dello scorso trimestre, loro mi
risponderebbero dicendo?»
Un
silenzio
tombale si diffuse nell’aula.
Il
professore
annuì, come se se lo aspettasse. «Niente,
esattamente. Ma, se lo chiedessi a
lei…?»
«Le
risponderei che la tangente è una
retta che tocca una curva in un
solo punto. Se la curva viene toccata in due punti, la retta
sarà secante. Se
invece non lo sarà affatto, allora la retta sarà
esterna.»
Mi
girai verso
Evan, sinceramente impressionato dalle mie capacità
matematiche.
Il
professor Billigan sorrise ed aggiunse:«Ragazzi, mi sa che,
quest’anno,
qualcuno partirà avvantaggiato.»
Poi,
una voce
gutturale e piena di sarcasmo intervenne dal nulla, girandosi verso di
me. «Ma
certo, lei è una ragazza. E tutti sanno che le
ragazze sono facilitate perché hanno… quella cosa
lì.»
«Signorino
Axel, la pregherei di non comportarsi sgarbatamente.»
Ero
rimasta
talmente sbigottita, che non mi veniva in mente nessun modo per
replicargli a
tono.
Ma
Evan mi
precedette. «Esatto,
e quella cosa si chiama
cervello, Alex.»
Pensai che
avesse sbagliato il suo nome in buona fede, ma una vocina nella mia
testa mi
suggerì che forse l’avesse fatto di proposito.
L’altro
grugnì. «Il
mio nome è Axel.»
«Signori.» Era ancora Billigan. «Vi pregherei di mettere da parte i vostri alterchi e
di
prestare attenzione per una nuova sessione di lezioni.»
Detto
questo, si
girò e incominciò a scrivere sulla lavagna
elettronica.
***
He was a boy, she
was a
girl.
Can
I make it anymore
obvious?
[…]
He
wanted her, she'd
never tell,
secretly
she wanted him as well.
[…]
He
was a skater boy, she
said “See ya later, boy”.
He
wasn't good enough
for her.
Now
he's a super star, slammin'
on his guitar.
Does
your pretty face see
what he's worth?
Sorry girl, but
you missed out.
Well, tough luck, that
boy’s mine now.
We
are more than
just good friends,
this
is how the
story ends.
Too
bad that
you couldn't see,
see
the man that
boy could be.
There
is more that
meets the eye,
I
see the soul that
is inside.
He's just a boy and I'm just a girl.
Can
I make it
anymore obvious?
We
are in love.
Haven't
you heard how we rock each other’s
world?
Lui
era un ragazzo, lei era una ragazza.
Posso
fare la cosa più ovvia?
[…]
Lui
voleva lei, lei non l'avrebbe mai detto,
ma
in segreto anche lei voleva lui.
[…]
Lui
era uno Skater Boy, lei disse “Poi ci vediamo”.
Non
era abbastanza buono per lei.
Ora
lui é una superstar,
suonacchia
con la sua chitarra.
Il
tuo bel viso riesce a vedere il suo valore?
Mi
spiace, ragazza, ma hai perso l'occasione.
Il
ragazzo ora è mio.
Siamo
più che buoni amici,
è
cosi che finisce la storia.
È troppo
brutto perché tu potessi vedere,
vedere
l'uomo che quel ragazzo poteva essere.
C'é
di più nell'incontro di uno sguardo,
io
vedo l'anima che c'é dietro.
Lui
é solo un ragazzo e io sono solo una ragazza.
Posso
fare la cosa più ovvia?
Siamo
innamorati.
Non
hai sentito come rockeggiamo il nostro mondo?
~ Avril Lavigne – Sk8er Boi
|
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Capitolo 9 *** 8. Carpe Diem || Naked ***
Buondì
a tutti!
Vi
anticipo che questo è il capitolo che
più preferisco fino ad ora e, state tranquilli, capirete il
perché.
Avevo
pensato anche di scriverlo dal punto
di vista di Avril, ma non ci sarà… almeno fino a
Domenica prossima, lol.
Aspetterete
solo una settimana, dai.
Ci
vediamo al prossimo capitolo <3
~ Cruel Heart.
***
Avril
Lavigne - Naked
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Febbraio 2001
Evan's
pov
«Direi
che può bastare per oggi, con Les Misérables.
Passiamo invece alla Divina
Commedia, vi va?»
Un
coro di
disapprovazione si fece strada tra gli studenti, ma il professor Wilson
riuscì,
con mio profondo stupore, a domarlo.
La
nostra nuova
“avventura scolastica”, se così poteva
essere definita, era iniziata da oltre
una settimana, e stavo già resistendo al fortissimo impulso
di alzarmi dalla
sedia e scappare a casa.
Avevo
cercato di comprendere
quale fosse la mia preoccupazione e, alla fine, partendo da due
“non-problemi”,
ero arrivato a centrare l’unico e solo
“problema” di questa scuola.
Non
fate quelle facce stranite, adesso mi spiego meglio:
- Il primo
“non-problema” erano i corsi: come al solito,
dovevo frequentare quelli che mi piacevano di più
– come quello a cui state
assistendo voi, letteratura straniera, tenuto dal professor Wilson, o
inglese e storia, tenuti sempre dal professor Wilson –
e quelli che mi piacevano di meno – come
matematica o chimica, col professor Billigan al centro della scena,
insieme alle sue orecchie a forma parabolica. – Ma
questo, come già detto prima, era un
“non-problema”. E, in caso ve lo steste chiedendo,
sì, avevamo solo due professori per tutti i corsi: il
professor Wilson per le materie umanistiche e, indovinate
un po’ chi? Esatto!, il professor Billigan per
quelle scientifiche. Questo stranissimo sistema di divisione rendeva la
vita molto più facile a tutti, perché (a) la
scuola non doveva rubare fondi allo Stato per elargire quelli che
sospettavo essere stipendi ultramilionari a migliaia di professori e
(b) potevo anche fare a meno di scervellarmi per capire quale
professore odiare di più: puntavo tutto su Mr. Parabola.
- Il secondo
“non-problema” erano i compagni di classe: se
pensavo che tutti i ragazzi, dal primo all’ultimo, ci
avrebbero evitato… beh, mi sbagliavo. Infatti, ci evitavano
tutti dal primo all’ultimo, con la straordinariamente
seccante eccezione di… rullo di
tamburi… Axel “per
i non-amici Alex” Foffuck. Tralasciando la sua
presunta origine polacca - sulla quale dovevo
indagare - e il fatto che il suo cognome anagrammato desse
origine a “fuck off” - cosa
per niente trascurabile - il suo quadro
generale mi era piuttosto chiaro: con la sua bassezza, i
capelli neri ed ispidi e gli occhi scuri – forse
marrone cacca, non saprei –, il qui presente
Foffuck era il classico esempio del ragazzo-so-tutto-io
solamente perché papino-c’ha-i-soldi.
Ma Foffuck si sbagliava, perché non sapeva proprio un cazzo,
ma neanche mezzo: basti pensare alle penosissime battute che raccontava
sul piccolissimo incidente avvenuto
l’8 Marzo 1908, a New York,
quando solamente 129 operaie
morirono a causa di un incendio in una fabbrica mentre lavoravano,
perché, per non farle protestare per ottenere i loro
diritti, il proprietario aveva accidentalmente
dimenticato di lasciare aperte le uscite della fabbrica. E tutto questo
succedeva durante le lezioni di matematica, come se, per me, risolvere
un’equazione non fosse già abbastanza difficile e
si dovesse mettere anche lui in mezzo con la sua ignoranza!
Scusate
il
non-piccolo sfogo, ma tant’è…
Ora,
vi starete
chiedendo dove abbia lasciato a marcire il vero problema di questa mia
settimana di scuola. Ve lo mostro subito.
Il
problema, miei
cari, erano i due professori, e non perché erano due stronzi-pezzi-di-merda-stretti-di-voto.
Oddio, forse quello anche,
ma la questione principale era che non
sapevano farsi valere.
Mi
spiego subito:
essendoci qui una
percentuale pari al 99,9 % non di batteri,
ma di studenti-figli-di-papà,
Wilson
e Billigan si adeguavano alla loro condizione di perfettini. Niente
“FOFFUCK, NOTA SUL REGISTRO E DRITTO
DAL
PRESIDE!”, ma solo “Signorino
Axel,
la pregherei cordialmente di interrompere le sue burle e di
ripristinare la sua
attenzione verso la lezione.”
Adesso
capite
quanto la cosa si è rivelata frustrante?
L’unico
motivo per
cui non avevo ancora denunciato tutti, lì dentro, era Avril.
Alla
compagnia di
Kevin ci ero abituato da dieci anni, certo, ma stavo imparando a
conoscere
meglio quella ragazza con i capelli lisci e che indossava felpe molto
discutibili.
Oggi
ne portava
una con la stampa di un unicorno che vomitava un liquido di color
arcobaleno. Letteralmente.
Allungai
il collo verso sinistra, per vedere cosa stava scarabocchiando sul
banco.
Mentre
Wilson parlava di Dante e della figura mistica di Beatrice, lei
continuava a
disegnare una stella a cinque punte, con all’interno scritto
“Black Star”.
Le
piacciono le stelle,
mi appuntai mentalmente.
Non
prestava molta attenzione alla lezione del povero professore,
nonostante
venisse continuamente bersagliata dalle più svariate
domande, perché, in una
classe di soli maschi, rappresentava una novità del tutto
sconvolgente.
E
come dar loro torto…
«Dunque,
vediamo… chi mi sa dire a quale canto di quale regno
appartiene la citazione “Amor,
ch'a nullo amato amar
perdona?”»
Roteai
gli occhi:
il target del professor Wilson era alquanto basso.
Quinto
canto
dell’Inferno, verso 103, pronunciato da Francesca da Rimini.
Più
semplice di così…
Ma,
a quanto pareva, i miei compagni di classe non la pensavano come me e
il
silenzio generale ne era una prova evidente.
Avrei
potuto vedere una balla di fieno
rotolare e non mi sarei affatto sorpreso.
«Nessuno?
Neanche lei, signorina Avril?»
Avril
alzò di scatto la testa e sgranò gli occhi, come
se la stessero accusando di
aver mangiato dei piccoli e teneri cuccioli di panda.
Cercai
di schiarirmi silenziosamente la voce, in modo da avere la sua
attenzione.
Mi
guardò per un breve secondo, in cerca di aiuto, e, con la
mano sinistra, mimai
un cinque sul banco, seguito subito dopo da delle corna, per indicare
l’Inferno.
Distolse
velocemente lo sguardo, prima di essere beccata, e lo rivolse a Wilson.
«Ehm…
il quinto canto dell’Inferno, signore.»
rispose.
«Molto bene. Sapreste
dirmi il significato di queste parole?»
chiese ancora,
lasciando vagare il suo sguardo per tutta l’aula.
Non
so cosa
successe di preciso in quell’istante, ma sentii le parole
venir fuori dalla mia
bocca, come se avessero una volontà propria. «Vuol
dire: “L'amore, che a
nessuno risparmia, se amato, di riamare.” Francesca da Rimini
sta giustificando
a Dante il suo amore per Paolo Malatesta, nonostante fosse sposata con
il
fratello di costui, Gianciotto. Il loro è un sentimento
messo a dura prova
dalla morte di entrambi, causata proprio da Gianciotto, ma riesce a
superare
persino il più grande ostacolo di tutti, quello a cui non
c’è rimedio. Non
molto diverso da “Romeo e Giulietta” di
Shakespeare, in effetti. Il verso parla
del loro legame forte, del loro obbligo di proteggersi e di potersi
amare l’un
l’altro anche nell’aldilà e…»
Mi ritrovai a girare la testa verso
sinistra e a fissare gli occhi azzurri di Avril. «…e
di come l’amore nasca soprattutto quando non ce lo
aspettiamo, come una stella
che non pensavamo di scorgere nel cielo.»
Distolsi
gli occhi
da lei e vidi Wilson che mi fissava con curiosità. «Ottima
similitudine e anche ottima analisi, signorino Evan. Ma la
prossima volta è pregato di alzare la mano prima di
rispondere, se non le
dispiace.»
Axel
sghignazzò, senza darsi troppe preoccupazioni di essere
sentito, e lo fulminai
con lo sguardo.
Certo,
lui faceva battutine su una tragedia avvenuta 93 anni fa e non veniva
neanche
ripreso, mentre io che rispondevo correttamente ad una domanda ero
“pregato di
alzare la mano”. Patetico.
Per
fortuna, il suono della campanella m’impedii di essere
scurrile davanti a
tutti.
Anche
questa giornata era finita.
Appena
fummo in corridoio, Kevin mi diede una forte pacca sulla spalla.
«Wow, amico.
Sei stato grande!»
Vedere
la sua
genuina allegria mi risollevò il morale. «Contento
che ti sia piaciuta.»
«Sì,
insomma, la tua risposta è stata eccezionale.»
intervenne Avril. «E,
a proposito, grazie.»
Le
sorrisi, felice
di scorgere della gratitudine in quei occhi a cui prima mi ero rivolto.
«Di
nulla.»
Stavamo
per
oltrepassare l’uscita del Sanford-Brown, quando una voce
squillante ci giunse
alle orecchie. «Ehi,
voi tre. Fermi lì.»
Ci
girammo tutti
nello stesso istante e vedemmo una ragazza di carnagione scura con dei
capelli
neri a caschetto farsi avanti, con una cartelletta in mano. Era
tallonata da un
ragazzo riccioluto e in carne. «Voi
siete…»
Fece scorrere un dito su svariati nomi scritti su un elenco. «…Avril
Lavigne, Evan Taubenfeld e Kevin
Beadfluent, giusto?»
Annuii
per loro.
«Bene.
Io sono Camille
Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D.»
«Asini
Morenti In Disgrazia?» chiese Kevin.
«Ma
no, sciocchino! Ma come ti viene in mente?» Con
mia grande sorpresa, era stato il ragazzo riccio a parlare.
Camille
fece un
piccolo sorriso. «No,
noi siamo l’Associazione
Matricole In Difficoltà. [N.d.A. I nuovi arrivati nei
college americani, come
si spiegherà più avanti, sono le Matricole.]
Questo ragazzo accanto a me è Will
Grayson, la nostra “bussola ambulante”. Se non
sapete raggiungere un posto in
questo college, chiedete a Will e lui saprà sicuramente
indicarvi la direzione
giusta.»
Will
rise in modo
stridulo.
«Ok,
ma cosa vuol dire Associazione Matricole In Difficoltà?»
dissi, rivolgendomi a Camille.
«Beh,
ci occupiamo dei nuovi iscritti che sono appena arrivati qui, del loro
orientamento, della loro integrazione sociale nel college…
cose così.»
«Esattamente.»
riprese Will. «E
ricordate: la prima regola
delle Matricole è fare amicizia solo con le altre Matricole,
perché tutti gli
altri vi eviteranno peggio della peste.»
«E
questo è anche il motivo per cui dovete seguirmi.»
aggiunse
Camille, iniziando a camminare e dandoci le spalle. «Introdurremo
le Matricole, cioè anche voi, attraverso il gioco del
“Baciato e Baciatore.”»
«Il
cosa?» chiese Avril, parlando per la prima volta davanti a
lei.
Camille
alzò un
sopracciglio, come se stesse soppesando se fosse realmente sorpresa o
no. «Davvero non lo conosci?»
«Ehm…
no.»
Mi
guardò per un secondo, come se volesse un suggerimento, ma
scrollai le spalle:
non sapevo davvero di cosa stessero parlando.
La
ragazza sbuffò leggermente e alzò il passo,
portandoci in una piccola saletta
dove c’erano altri quindici o sedici ragazzi. Tutti avevano
un’aria molto
sorpresa e confusa.
Altre
matricole,
supposi.
Ci
mettemmo accanto a loro, mentre Camille, davanti a noi, batteva
rumorosamente
le mani. «Per favore, ragazzi, un attimo di silenzio.»
La piccola folla si acquietò. «Grazie.
Innanzitutto,
vi do il benvenuto al
college “Sanford-Brown”. Questo è
l’istituto più valido di tutta la
Pennsylvania, ma, purtroppo, la compagnia non è
granché.»
Fece
una piccola
smorfia, e un piccolo moto di riso si levò tra i ragazzi. «Io
sono Camille Miller e sono la presidentessa
dell’A.M.I.D., l’Associazione Matricole In
Difficoltà. Vi aiuterò, in queste
prime settimane, ad orientarvi nella vostra nuova scuola, a riconoscere
le
aule, ad evitare alcuni dei cibi tossici che danno in mensa e
soprattutto a
relazionarvi tra di voi. Ogni anno, proprio per questo motivo,
organizziamo appositamente
il gioco del “Baciato e Baciatore”.»
Kevin
alzò la mano
e lei gli diede la parola. «Cos’è,
una specie di
“Gioco della Bottiglia”?»
«Oddio,
no, sciocchino, qui non c’è propria nessuna
bottiglia. Anche se, devo
ammetterlo, un bicchierino con te lo farei molto volentieri.»
gli rispose Will,
ammiccando.
Kevin
arrossì
improvvisamente, ma fu Camille a salvarlo dalla situazione. «D’accordo
Will, adesso puoi anche andare in corridoio
e aspettare i Baciati lì.»
Poi,
appena lui si
allontanò, aggiunse:«Scusatelo,
certe volte non
riesce a trattenere i suoi… impulsi.»
Alcuni
ragazzi
risero ancora e mi ritrovai ad ammettere che Camille ci sapeva fare.
«Allora,
adesso vi spiego in cosa consiste il gioco: vi dovrete dividere in due
gruppi e
decidere cosa essere, se i Baciati – e
vi
sposterete a destra – o i Baciatori – in
quel caso, vi metterete a sinistra –. Ogni Baciato
dovrà pescare una carta
su cui ci sarà scritta la classe di un qualsiasi corso. Per
fare un esempio, se
pescherete la carta con scritto “classe del corso di
spagnolo”, dovrete andare nella
classe del corso di spagnolo. Una volta presa la carta, la rimetterete
nel
mazzo e io mischierò, rivolgendomi ai Baciatori. Ogni
Baciatore, se vorrà
guadagnarsi il bacio, dovrà rispondere correttamente ad una
domanda che gli
verrà posta, e soltanto dopo potrà pescare una
carta dallo stesso mazzo usato
prima dai Baciati e recarsi nella classe scritta. Sia i Baciatori che i
Baciati
verranno accompagnati da Will, con la differenza che
quest’ultimi verranno
bendati. Soltanto domani, se vorrà, il Baciatore
potrà svelare la sua identità
al proprio Baciato e, magari, chissà, fargli o farle anche
un regalino. Per
quanto riguarda i baci, non ci sono limiti: sulla guancia, sulla bocca,
sulla
fronte, sui capelli, vanno tutti bene. Ricordate però che
non voglio avere dei
bambini sulla coscienza, quindi non fatevi trasportare troppo.
È tutto chiaro?»
Il
meccanismo del gioco mi risultava semplice. L’unico problema
era scegliere chi
essere, se Baciato o Baciatore.
Però,
non volevo ricevere baci in parti alquanto spiacevoli,
quindi scelsi di essere un Baciatore.
Evidentemente,
sia Kevin che Avril non la pensarono come me, perché
scelsero di andare nella
parte opposta, cioè i Baciati.
Insieme
ad altri cinque ragazzi e due ragazze, mi spostai sul lato sinistro
della
stanza, allontanandomi da loro due.
E
così, questo stupido gioco per agevolare il nostro
inserimento sociale
incominciò: ogni Baciato pescò una carta dal
mazzo che reggeva Camille, e dopo
aver visto la classe scritta su ogni carta, la ripose nelle mani della
ragazza
e si allontanò nel corridoio.
«E
adesso, passiamo alle vostre domande, cari Baciatori.»
annunciò Camille.
Prima
che
arrivasse il mio turno, fece delle domande sugli argomenti
più disparati: dalla
cucina, allo sport e alla letteratura.
Sugli
otto ragazzi
che eravamo all’inizio, soltanto due ragazzi riuscirono a
rispondere
correttamente, a pescare una carta, e a vedere la classe in cui
dovevano
raggiungere il proprio Baciato.
Poi,
toccò al sottoscritto. Camille
prese un fogliettino e lesse. «Uh, questa è difficile,
davvero molto difficile.
Parliamo
di politica, Evan. Ti chiedo: chi fu il primo ministro canadese
nel
1936?»
Primo ministro canadese nel 1936…
Ripensai
al mio libro di storia buttato sulla scrivania, e visualizzai
mentalmente il capitolo
sul Canada. Ricordai che, nel 1936, a
Toronto, fu costruita la prima fabbrica post prima
guerra mondiale che lavorava l’acciaio, e fu inaugurata
da…
«William
Leon Mackenzie King.»
risposi, con sicurezza.
Mi
ricordavo di lui perché avevo pensato che avesse abbastanza
nomi per due
persone, un po’ come mio padre.
E
poi, che diavolo di nome era Leon?
«Io… wow. Dico solo wow. Ok,
puoi pescare la tua carta, te la sei proprio meritata.»
disse Camille, sgranando gli occhi.
Presi
la prima carta che le mie dita trovarono e lessi “classe del
corso di
trigonometria”.
Wow,
allora forse dovevo incominciare a
pensare sul serio ad un ripensamento sul mio odio verso le materie
scientifiche.
Alla
fine, io e gli altri due ragazzi ci alzammo e raggiungemmo Will. Gli
riferimmo
le classi che avevamo pescato e lui ci accompagnò uno alla
volta.
Una
volta arrivato davanti alla classe del corso di trigonometria, aprii la
porta.
Le
tapparelle alle finestre erano completamente abbassate e nella stanza
c’era
soltanto una tenue luce proveniente dall’esterno.
Scorsi
una figura esile, sicuramente una ragazza, seduta su un banco.
Mi
girai ed accostai la porta, per non far sprofondare l’aula
nella completa
oscurità.
Poi,
mi diressi piano verso la ragazza, per non farla scappare terrorizzata
e… quasi
scappai terrorizzato io.
Cristo, era lei!
Era
Avril!
I
capelli color castano chiaro le ricadevano sulle spalle improvvisamente
irrigidite dalla mia presenza, mentre la benda le copriva gli occhi
azzurri.
Vi
riassumerò la mia situazione in cinque parole: Non. Sapevo.
Che. Cazzo. Fare.
Per
fortuna, il latino venne in
mio aiuto.
“Dum
loquimur fugerit invida
aetas: carpe diem,
quam
minimum credula postero.”
“Mentre
parliamo, il tempo sarà già fuggito,
come se ci odiasse: cogli l’attimo, confidando il meno
possibile nel domani”
scriveva Orazio, nelle Odi.
Non
c’era citazione più azzeccata di questa.
E
poi, l’avrei saputo solo io, giusto?
Ero
ancora combattuto quando mi misi davanti a lei e le posai una mano
sulla
guancia sinistra, racchiudendole il viso con un mano.
Irrigidì
completamente il suo corpo di fronte a quel contatto.
Avvicinai
leggermente la bocca alla sua e, all’inizio, fu solo un
piccolo sfioramento di
labbra.
Poi,
la baciai.
Completamente
stordito, vulnerabile e senza alcuna protezione davanti a lei,
assaporai il suo
sapore dolce e la morbidezza delle sue labbra.
Mi
accorsi, con un guizzo di lucidità, che stava tremando.
Le
mie braccia la avvolsero, tenendola stretta e sorreggendola.
I
palmi delle mie mani scesero sulla sua schiena.
La
sentii respirare contro di me, un gemito fra un bacio e
l’altro.
Sentii
le sue dita piccole e sottili avvolgermi il collo, tendermi di
più verso di
lei.
Avvertii
quella leggera pressione sulla nuca e fra i capelli, mentre lei me li
tirava
dolcemente, come se volesse trattenermi a rimanere lì
dov’ero.
Le
labbra di Avril si dischiusero ancora sotto le mie, e io mi abbandonai
contro
di lei, incapace di fermarmi.
Poi
però, una folata di vento mi riportò alla
realtà e mi costrinse a fare la cosa
più difficile in quel momento: staccarmi bruscamente da lei.
Lei
viveva con noi, e non potevamo… io… non potevo
farle questo.
Era
semplicemente… sbagliato.
Non
riuscendo a fare alcunché, con il respiro ansante le
sussurrai:«No.»
Obbligai
le braccia a rimanere sui miei fianchi.
Mi
allontanai da lei, aprendo la porta e, con il suo sapore ancora sulle
labbra,
guadagnai in fretta l’uscita.
***
But then you came around me.
The walls just
disappeared.
Nothing to surround
me,
And keep me
from my fears.
I'm unprotected,
See
how I've opened up.
Oh, you've made
me trust.
Cause I've
never felt like this before.
I'm naked,
around you.
Does it show?
You see right
through me,
and I can't
hide.
[…]
I'm trying to
remember
why I was
afraid
to be myself
and let the
covers fall away.
Guess I never
had someone like you.
To help me, to
help me fit,
in
my skin.
Ma
poi sei venuto da me.
I
muri sono scomparsi.
Niente
che mi circondi,
e
che mi protegga dalle mie paure.
Sono
senza alcuna protezione,
guarda
come mi sono aperta.
Oh,
tu mi hai fatto aver fiducia.
Perché
mai prima mi ero
sentita così.
Sono
nuda, intorno a te.
Si
vede?
Tu
vedi dentro di me,
e
non posso nascondermi.
[…]
Sto
cercando di ricordare
perché
avevo paura
di
essere me stessa e lasciare
cadere
via le coperture.
Penso
di non aver mai avuto nessuno come te.
Ad
aiutarmi, ad aiutarmi a star bene,
nella
mia pelle.
~ Avril Lavigne – Naked
|
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Capitolo 10 *** 9. All About You ***
Buonasera
a tutti!
Ecco
il capitolo dal punto di vista di
Avril, con il nostro Evanuccio alla fine.
Il
tutto sarà accompagnato dalla seconda
canzone di Birdy "All About You".
Ci
vediamo al prossimo capitolo <3
~ Cruel Heart.
***
Birdy - All About You
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Febbraio 2001
Avril's pov
Dio
mio, che
giornata.
Non
solo
affrontare i ghigni da decerebrato di Axel Foffuck era ancora
più seccante, ma
ci si doveva mettere anche il professor Wilson con la Divina Commedia,
Beatrice, Dante e i suoi maledettissimi regni
dell’aldilà.
Ma
dico io, dichiara i tuoi sentimenti per lei e smettila
di romperci le scatole, benedetto uomo!
Per
fortuna,
stavamo per tornare tutti a casa.
Non
dovevo far
altro che attraversare corridoio, sorpassare il cancello e…
«Ehi,
voi tre. Fermi lì.»
Sospirai.
Era sempre una pessima cosa quando gli altri
contraddicevano le mie intenzioni.
Io,
Kevin ed Evan
ci girammo nella direzione in cui proveniva la voce e scorgemmo una
ragazza – probabilmente di un anno
più grande di noi
– venire
avanti verso di noi, affiancata
da un ragazzo grosso e con i capelli ricci.
«Voi
siete…»
Parlò con una voce molto sicura, quasi fosse abituata
a interrompere le persone mentre
queste percorrevano disperatamente la via di fuga! «…Avril
Lavigne, Evan Taubenfeld e Kevin Beadfluent, giusto?»
Cosa
c’è, ho vinto un milione di dollari?
Evan
fece un cenno
di assenso alla sua domanda.
«Bene.
Io sono Camille
Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D.»
Io
sono Camille Miller e sarò la vostra
carceriera per tutti gli anni che vi restano da vivere.
Ah,
quanto adoravo prendere per il culo
le persone.
«Asini
Morenti In Disgrazia?» chiese Kevin. Quanto
mi piaceva quel ragazzo…
«Ma
no, sciocchino! Ma come ti viene in mente?»
Guardai
il ragazzo riccioluto che aveva appena parlato. Sciocchino?
Che fosse…
«No,
noi siamo l’Associazione Matricole In Difficoltà.
Questo ragazzo accanto a me è
Will Grayson, la nostra “bussola ambulante”. Se non
sapete raggiungere un posto
in questo college, chiedete a Will e lui saprà sicuramente
indicarvi la
direzione giusta.»
La
risata stridula di Will mi portava a pensare ancora
una volta che lui fosse…
«Ok,
ma cosa vuol dire Associazione Matricole In Difficoltà?»
le domandò Evan.
«Beh,
ci occupiamo dei nuovi iscritti che sono appena arrivati qui, del loro
orientamento, della loro integrazione sociale nel college…
cose così.»
Will
intervenne. «Esattamente.
E ricordate: la prima regola delle
Matricole è fare amicizia solo con le altre Matricole,
perché tutti gli altri
vi eviteranno peggio della peste.»
Ma
guarda, e io che pensavo di invitare
Axel Foffuck a cena!
Camille
iniziò a
camminare e ci parlò, dandoci le spalle.
«E
questo è anche il motivo per cui dovete seguirmi.
Introdurremo
le Matricole, cioè anche voi, attraverso
il gioco del “Baciato e Baciatore.”»
«Il
cosa?» chiesi.
Camille
alzò un irritante
sopracciglio. «Davvero
non lo conosci?»
Macché,
sto solo parlando a vanvera e ti
sto mentendo per costringerti ad usare la macchina della
verità con me.
«Ehm… no.»
Guardai
rapidamente Evan ma, a quanto pareva, neanche lui sapeva qualcosa,
perché
scrollò le spalle.
Camille
sbuffò leggermente e alzò il passo, portandoci in
una piccola saletta dove c’erano
altri ragazzi che bisbigliavano.
Batté
rumorosamente le mani. «Per favore, ragazzi, un attimo di
silenzio. Grazie. Innanzitutto,
vi do il benvenuto al college “Sanford-Brown”.
Questo è l’istituto più valido
di tutta la Pennsylvania, ma, purtroppo, la compagnia non è
granché.»
E
dimmi, cara, te ne sei accorta solo ora?
«Io
sono Camille Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D.,
l’Associazione
Matricole In Difficoltà. Vi aiuterò, in queste
prime settimane, ad orientarvi
nella vostra nuova scuola, a riconoscere le aule, ad evitare alcuni dei
cibi
tossici che danno in mensa e soprattutto a relazionarvi tra di voi.
Ogni anno,
proprio per questo motivo, organizziamo appositamente il gioco del
“Baciato e
Baciatore”.»
Kevin
alzò la mano
e lei gli diede la parola. «Cos’è,
una specie di
“Gioco della Bottiglia”?»
«Oddio,
no, sciocchino, qui non c’è propria nessuna
bottiglia. Anche se, devo
ammetterlo, un bicchierino con te lo farei molto volentieri.»
Will
aveva
veramente… ammiccato?
Bene,
la mia ipotesi era stata appena confermata. Will
Grayson era inequivocabilmente gay.
Il
povero Kevin
arrossì e la-carceriera-Camille riprese il suo discorso. «D’accordo
Will, adesso puoi anche andare in corridoio
e aspettare i Baciati lì.»
Poi,
appena lui si
allontanò, aggiunse:«Scusatelo,
certe volte non
riesce a trattenere i suoi… impulsi.
Allora,
adesso vi spiego in cosa consiste il
gioco: vi dovrete dividere in due gruppi e decidere cosa essere, se i
Baciati –
e vi sposterete a destra –
o i
Baciatori – in quel caso, vi
metterete a
sinistra –. Ogni Baciato dovrà pescare
una carta su cui ci sarà scritta la classe
di un qualsiasi corso. Per fare un esempio, se pescherete la carta con
scritto
“classe del corso di spagnolo”, dovrete andare
nella classe del corso di
spagnolo. Una volta presa la carta, la rimetterete nel mazzo e io
mischierò,
rivolgendomi ai Baciatori. Ogni Baciatore, se vorrà
guadagnarsi il bacio, dovrà
rispondere correttamente ad una domanda che gli verrà posta,
e soltanto dopo
potrà pescare una carta dallo stesso mazzo usato prima dai
Baciati e recarsi
nella classe scritta. Sia i Baciatori che i Baciati verranno
accompagnati da
Will, con la differenza che quest’ultimi verranno bendati.
Soltanto domani, se
vorrà, il Baciatore potrà svelare la sua
identità al proprio Baciato e, magari,
chissà, fargli o farle anche un regalino. Per quanto
riguarda i baci, non ci
sono limiti: sulla guancia, sulla bocca, sulla fronte, sui capelli,
vanno tutti
bene. Ricordate però che non voglio avere dei bambini sulla
coscienza, quindi
non fatevi trasportare troppo. È tutto chiaro?»
Avevo
stampate nella mente solo quattro parole: Che. Gioco. Di. Merda.
Eravamo
per caso tornati ad avere nove
anni, quando i bambini ti davano un bacio sulla guancia e ti chiedevano
“Vuoi
metterti con me?”?!
Non
che qualcuno l’avesse mai chiesto a me, certo.
E
il problema era proprio questo: io… io non avevo mai baciato
nessuno.
Persino
un innocuo bacio sulla guancia mi avrebbe fatto vergognare, lo sapevo.
Quindi,
cosa avrei dovuto scegliere, Baciatore o Baciato?
Rischiare
di fare figure di merda colossali nel tentativo di appoggiare le mie
labbra
sull’epidermide di qualcun altro o subire passivamente
l’azione di un’altra
persona?
Sospirai,
e mi mossi verso destra – insieme a
Kevin, notai – ed andai nei Baciati.
E
vada per il ruolo passivo…
Fummo
noi a dare l’inizio a tutto: pescammo una carta dal mazzo che
reggeva la-carceriera-Camille e,
dopo aver visto
la classe scritta su ogni carta, la riponemmo nelle sue mani, per poi
allontanarci nel corridoio.
Lì
ci aspettava Will, tutto pimpante per il ruolo a
sua detta fondamentale che
la-carceriera-Camille gli aveva attribuito.
Quando
fu il mio turno di essere accompagnata da lui, gli dissi quale fosse la
classe,
quella del corso di trigonometria, e ci avviammo.
«Allora,
cosa ne pensi di noi, dei tuoi nuovi compagni di studi?»
Vi
odio e spero che crepiate presto.
«Beh, siete… simpatici. Tu soprattutto.»
gli risposi con un sorriso.
«Ah
no, ragazza mia, non provare a flirtare con me. So che dovrebbe essere
un
segreto, ma… in realtà, a me piacciono i ragazzi.
Sono gay.»
Mi
trattenni miracolosamente dal roteare gli occhi. «Non
l’avrei mai detto, Will.»
Ridacchiò.
«Sì, lo so, lo nascondo molto bene. Oh, eccoci
qui, trigonometria.»
Fissai
la porta plastificata di color bianco e la aprii.
Cigolò
leggermente ma, a parte questo, non notai nessun altro segno di usura.
Le
tapparelle alle finestre erano completamente abbassate e nella stanza
c’era
soltanto una tenue luce proveniente dall’esterno.
Più
che un’atmosfera “romantica”, questa
mi sembrava “lugubre”.
Sarebbe
stata perfetta per un
appuntamento con un vampiro, in effetti.
«Bene,
adesso ti devo bendare.»
mi disse
Will, con un pezzo di stoffa in mano.
«Oh
andiamo, è proprio necessario? Voglio dire, sicuramente non
lo conoscerò
nemmeno, il mio Baciatore, per cui
mi
sembra un po’ inutile usare…»
«Ah-ah,
ferma lì. Le regole dicono “benda”, e
quindi Will dice “benda”. È inutile
discutere con me, tesorino.»
Gli
scoccai un’occhiata feroce, ma mi arresi un secondo dopo.
Su
una cosa aveva proprio ragione: con lui discutere serviva come una
pelliccia
per un pinguino.
Mi
sedetti su un banco in prima fila e mi lasciare fasciare gli occhi.
Dopo
qualche minuto, con l’oscurità che era scesa su di
me, Will esclamò trionfante:«Ottimo,
tesorino, ho fatto. Ti auguro una
buona giornata.»
«Anche
a te»
sussurrai, sentendo la
sua voce allontanarsi sempre di più.
Annusai
l’aria intorno a me.
Sapeva
di chiuso e di… polvere.
Forse
hanno tagliato gli stipendi ai
bidelli per comprare i computer.
Per
ingannare il tempo, iniziai a pronunciare velocemente
l’alfabeto.
Ero
arrivata alla trentaduesima W, quando sentii un rumore di fronte a me.
Sembravano…
passi.
Irrigidii
le spalle per l’improvvisa consapevolezza della presenza di
qualcun altro nella
stanza.
Poi,
sentii una sensazione di calore sulla guancia sinistra.
Era…
Era una mano!
Sulla
mia guancia!
Che
schifo, toglimela, toglimela,
toglimela!
Stavo
per gridare a squarciagola, quando avvertii le labbra dello sconosciuto
avvicinarsi alle mie.
Mille
brividi si propagarono per la mia schiena.
Possibile
che fossi… eccitata?
Accantonai
momentaneamente quel pensiero, perché sentii le sue labbra
pressare sulle mie.
Mi
stava baciando!
E,
in risposta a quanto mi ero chiesta
prima… sì, ero eccitata da pazzi.
All'inizio
sembrò quasi che non avesse voluto farlo: la sua bocca era
rigida contro la
mia.
Come
se volesse sorreggermi, mi avvolse con tutte e due le braccia e mi
attirò a sé.
Le
sue labbra si ammorbidirono e riuscii a sentire il battito rapido del
suo cuore.
Le
sue mani scesero sulla mia schiena, facendomi sospirare con un piccolo
gemito
di piacere.
Mossi
anche le mie mani e le infilai nei suoi capelli, arricciandoli intorno
alle
dita: erano corti e soffici.
Lo
tirai ancora di più verso di me, chiedendogli tacitamente di
rimanere lì
dov'era.
Poi
però, lo sconosciuto si staccò improvvisamente da
me e sussurrò:«No.»
Ancora
completamente stordita dal bacio, non capii subito cosa intendesse dire.
All'inizio
pensai che gli avessi fatto male, che magari avessi fatto qualche gesto
troppo
brusco; invece, ci arrivai perfettamente quando sentii il cigolio della
porta e
i suoi passi allontanarsi velocemente da me.
Con
il cuore che mi martellava nel petto, mi tolsi la benda.
Quello
era…
era stato il mio primo bacio.
Ed
ero sul punto di vomitare.
Era
normale che mi sentissi così…
rifiutata?
Ripensai
a quella voce, a quel sussurro, quel "No" appena accennato, e un
pensiero mi colpì fulmineamente, facendomi sgranare gli
occhi.
Possibile
che fosse lui?
Possibile
che fosse Evan?
Mi
alzai dal banco
e corsi quasi a perdifiato verso l'uscita.
***
Evan's pov
Ero
appoggiato al
muro esterno della scuola e mi trattenni dal mettermi le mani nei
capelli.
Insomma,
ma che
diavolo mi era venuto in mente?
Baciarla
era stata l'idea più inutile, stupida e
magnificamente stupenda che avessi mai avuto.
Ero
una
contraddizione vivente, lo sapevo.
Se
mi passavo la
lingua sul labbro inferiore, riuscivo ancora asentire il suo sapore:
sapeva di
dolce.
Sapeva
di lei.
E
io... io non
sapevo più cosa pensare.
Qualche
minuto
dopo, come se i miei occhi fossero inesorabilmente attratti da lei, la
vidi che
superava il cancello d'uscita.
Aveva
i capelli
scompigliati dal vento e gli occhi persi nel vuoto.
Appena
si accorse
di me, mi sorrise debolmente e mi raggiunse.
Mi
ritrovai a
pensare che fossi davanti ad un bivio: porevo confessarle candidamente
che, per
uno strano scherzo del destino, ero stato io il suo Baciatore e che la
cosa non
si sarebbe ripetuta mai più, oppure potevo mentire con
naturalezza, dicendole
che ero stato il Baciatore di qualcun'altra.
«Allora… com'è
andata?» sussurrò.
«Ascolta
Avril, ti
devo parlare. Io…»
«Ehi,
ragazzi!» Sussultai di
stupore, appena vidi Kevin venire verso di noi. «Non
immaginereste mai quello che mi
è successo! Ho avuto un bacio! Sulla guancia!»
Mi
prese per le
spalle e mi scosse. «Capisci, amico? Qualcuno mi ha baciato
sulla guancia! Ah,
mi sento proprio…»
Poi
mi lasciò e
spostò lo sguardo da me ad Avril, confuso.
«Scusate, ho… ho interrotto
qualcosa?»
Stavo
per
rispondere, ma lei mi anticipò. «No, io... stavo
raccontando ad Evan del bacio
che ho ricevuto.»
Sgranai
gli occhi
e mi girai attonito verso di lei.
Aveva
davvero capito che fossi stato io?
«Si
è trattato
solo di un bacio sulla guancia, certo, ma è
stato… bello, suppongo.»
Kevin
annuì, poco
interessato, e per tutto il viaggio di ritorno non fece che ripetere le
sensazioni che aveva provato per il suo bacio e cosa significava questo
per
lui.
Ero
contento per
lui, davvero, ma non riuscivo a non pormi una domanda: perché
Avril aveva mentito?
La
considerava una
cosa di poco conto, tanto da ridurla ad un semplice bacio sulla
guancia, o
forse pensava che fossero fatti suoi e non voleva che noi ne fossimo a
conoscenza?
In
ogni caso,
volevo sapere quale fosse la risposta.
Così,
quando
arrivammo a casa e lei salì in camera sua, la seguii.
Bussai
leggermente
e aprii la porta.
«Ehm…Ciao.»
Alzò
gli occhi da
un libro dalla copertina azzurra che stava leggendo. «Oh,
ciao.»
Mi
infilai le mani
in tasca, a disagio, e mi sedetti accanto a lei sul letto.
«Senti, mettiamola
così: io so che hai mentito prima, riguardo al bacio a
scuola. Quello che mi
stavo chiedendo è…perché.»
Lei
sgranò gli
occhi e ribatté prontamente:«Come hai fatto a
scoprirlo?»
Bene,
almeno
l'aveva ammesso. «Dal nero dei tuoi occhi.» le
risposi. Il che, in parte, era vero.
Mi guardò senza capire. «Vedi, quando
hai detto quella frase, le pupille ti si sono allargate solo per un
secondo e
poi hai abbassato subito lo sguardo.» Scrollai le spalle e
proseguii. «Sono un
buon osservatore e quindi ho capito che la tua era una
bugia.»
Come
se io stessi dicendo tutta la verità…
Chiuse
il libro
che aveva in mano e mi fissò a lungo, sorridendo amaramente.
«Wow…mi rallegra
il fatto che io sia così facile da leggere.»
No,
avrei voluto dirle, per me sei molto
difficile da leggere e sto
solo iniziando a scoprire tutto di
te.
«Comunque
hai
ragione, ho mentito. Non si è trattato di un bacio sulla
guancia, anzi, è stato
molto… davvero molto di più.»
Sorrisi
leggermente,
perché era esattamente quello che pensavo io.
«Stare tra le sue braccia
è stata la cosa più perfetta
di questo mondo. Mi sono sentita viva e consapevole di me stessa come
mai prima
d'ora. Solo che, poi…»
«Poi?»
la invitai
ad andare avanti, con voce improvvisamente roca.
«Beh,
poi… poi è
successo che il bel tipo ha deciso di andarsene senza neanche una
spiegazione,
e io mi sono sentita così immatura.
Ecco perché non ho detto niente.»
Immatura?
Ma
se era stato il bacio più bello della mia vita!
Sospirò.
«A questo
punto, spero almeno di ricevere il regalo.»
Pensai
a lei, a
lei con il naso all'insù e a lei durante le lezioni.
Ebbi
un'idea.
Un'idea talmente pazza che poteva funzionare.
«Sì. Ne sono
sicuro.»
***
Why
does she make sure to be so immature about these things.
I
don’t want you to change around it.
And sometimes this love will end,
and
all will be forgotten.
Then,
someday, we will laugh about it.
And you say that it's alright,
and I know that it’s a lie,
from the black in your eyes.
You don’t have to do this on your own,
like there’s no one that cares about you.
You don’t have to act like you're alone,
like the walls are closing in around you.
You don’t have to pretend no one
knows,
like there’s no one that understands
you
[…]
And
you should know that someone cares about you.
I know all about you.
Perché
lei è sicura di essere così immatura su queste
cose.
Non
voglio che tu cambi
su questo.
E questo amore finirà,
e
tutto sarà dimenticato.
Poi,
un giorno, ci
rideremo su.
E tu dici che è tutto a posto,
e io so che è una bugia,
dal nero dei tuoi occhi.
Non
devi far questo a te
stesso,
come se non ci fosse nessuno che si preoccupa per te.
Non devi comportarti come se fossi solo,
come se le pareti ti stessero
circondando.
Non devi fingere che nessuno ne sia a conoscenza,
come se non ci fosse nessuno che può capirti.
[…]
E
dovresti sapere che
qualcuno si preoccupa per te.
Io
so
tutto di te.
~ Birdy –All About You
|
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Capitolo 11 *** 10. All of the Stars ***
Buongiorno
a tutti!
Scusate
se non ho aggiornato ieri, ma proprio
non ce l’ho fatta.
Bene,
prima canzona di Ed Sheeran – il testo
e la traduzione la troverete all’interno del capitolo, e non
alla fine – e
primo POV Kevin!
Contenti?
Ci
vediamo Domenica prossima <3
~
Cruel Heart.
***
Ed
Sheeran - All Of The Stars
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 28 Febbraio 2001
Kevin's pov
«Ehi,
Kevin, che ci fai ancora con quel cappello?»
Riconobbi
la voce allegra di Avril giungermi alle spalle, mentre ammiravo un
fiore bianco
della magnolia del Duca Taubenfeld in tutta la sua bellezza.
Toccai
istintivamente il copricapo e sorrisi.
Era
cominciato tutto il giorno dopo quello stupido gioco: ogni Baciatore
doveva
regalare qualcosa al suo Baciato e, se avesse voluto, avrebbe potuto
anche
rivelare la sua identità.
Per
quanto mi riguardava, si era trattato soltanto di un bacio sulla
guancia,
accompagnato poi da dei passi che si allontanavano e da una risatina stridula.
E
così, tutto eccitato al pensiero di un regalo, mi ero
diretto quasi di corsa
verso il mio armadietto, trascinando la protesi per la foga.
Una
volta aperto il piccolo sportello, mi ero ritrovato davanti ad un
cappello
beige con dei lustrini dorati sulla falda.
Ricordavo
ancora la scrittura svolazzante del biglietto che accompagnava il
regalo:”Spero
che apprezzerai xoxoxo.”
«Non
so perché lo porto ancora. Immagino che mi faccia
sentire… apprezzato.»
Lei
sorrise
apertamente per la mia risposta. Il nostro rapporto era cresciuto molto
in
confronto ai primi giorni, proprio quando Evan…
«Ehm,
Kevin, mi chiedevo… non è che, così,
per puro caso, tu abbia visto Evan?»
Sospirai.
Parli del diavolo e spuntano le corna.
In quei tredici giorni, Evan era stato sempre distante e occupato
– oserei dire
quasi nevrotico – verso
qualunque
cosa respirasse.
Aveva
sempre da fare e ogni occasione era buona per chiudersi in camera sua.
«Probabilmente
starà in camera sua.»
le dissi.
«Come
sempre.»
replicò.
Appunto.
***
Avril's pov
Salii
velocemente le scale. Dopo aver parlato con Kevin, il mio dubbio
iniziale aveva
trovato un'unica certezza: Evan mi stava evitando.
Non
sapevo ancora perché, ma dal giorno del gioco era diventato
scontroso con tutti,
persino con Kevin.
Mi
ritrovai subito di fronte alla sua camera. Era ora di ricevere qualche
risposta.
Stavo
oer bussare, ma la mia mano rimase a mezz'aria. Aveva aperto la porta
prima di
me, e adesso la sua bocca era così vicina...
«Ciao.»
Arrossii,
rendendomi conto che
stavo facendo la figura dell'idiota. «Oh...
ciao.»
Sorrise.
«Dai,
entra. Non vorrai stare tutto il giorno lì
impalata.»
Sentii
le orecchie
farsi bollenti. «Sai, ho pensato che io visto la tua camera,
ma tu non sei mai
entrata nella mia.»
In effetti,
non ci avevo mai
pensato. Era vero, non ero mai entrata in camera sua. Le pareti erano
di colore
giallo pallido, coperte ovunque sa vasti scaffali pieni di libri.
Passai le
dita sulle copertine
dei CD, mentre ne leggevo i nomi degli artisti: Michael Jackson,
Metallica, Sex
Pistols, Nirvana, Tina Turner...
No, un
attimo... Tina Turner?
Mi girai
verso di lui, incredula.
«Come puoi avere
nella stessa collezione i Metallica...
e Tina Turner?»
Scrollò
le spalle.
«Cosa ti posso dire? Ogni volta che sento "Simply The Best"
mi
scateno.»
Annuii,
sovrappensiero.
«Qual è il tuo libro preferito?»
Si
dondolò sui
talloni. «Non ho un
libro preferito. I libri mi piacciono tutti, perché mi piace
il
semplice atto di leggere, mi piace la magia di trasformare dei segni su
una
pagina in parole da assaporare nella mia mente.»
«Okay,
allora... che mi dici di un libro importante, con un gusto
particolarmente
stuzzicante?»
Gli occhi di
Evan
s'illuminarono completamente, di una luce un po' più calda
rispetto ai suoi
curiosi occhi azzurri. «Questa,
Avril, è
davvero un'ottima domanda. Nonché un'apprezzabile rima.»
Fece
strisciare, letteralmente,
le suole delle sue scarpe sul parquet, fino ad arrivare accanto ad uno
scomparto della sua immensa libreria. Poi, senza neanche vedere i
titoli, prese
in mano un libro dalla copertina blu scura. Si avvicinò a
me, con passo
trionfante, e me lo porse.
Allora
è così che devono apparire gli uomini quando
fanno le proposte di
matrimonio e ti porgono un anello impacchettato di tutto punto: come se
tu
dovessi proteggerlo, perché quell'oggetto è
immensamente...
«Importante» mi lesse nel
pensiero. «Quel
libro è molto importante per me.»
Feci cadere lo sguardo sul
libro e ne scorsi
il titolo: "Biografia di Socrate".
«Socrate
è stato
un filosofo greco, se non addirittura il più grande.
Vediamo... ti sei mai
chiesta perché sei nata?»
Beh,
con una malattia inspiegabile, una madre sull'orlo
della crisi e un padre mai conusciuto, questa domanda ricorreva spesso
nella
mia mente.
«Sì.»
«E
ti sei mai data
una risposta?»
«Ehm...
no.»
ammisi.
«Beh,
Socrate lo
fa, ti da una risposta. "Conosci te stesso", dice. Per lui, tutte le
risposte che vorremmo avere, tutte le soluzioni a quesiti all'apparenza
irrisolvibili, sono dentro di noi.
Dobbiamo
soltanto tirarle fuori.»
Feci
un cenno d'assenso. Sembrava così
facile,
all'apparenza...
«E
adesso, fammi vedere il tuo libro preferito.»
Alzai
la testa e lo guardai di sbieco. «Che
c'è, per me la regola di amo-tutti-i-libri
non vale?»
Roteò
gli occhi. «Ma
se l'altro giorno mi
hai detto quella citazione! Com'era? Ah, già, "il dolore ci
rivela".
Mi hai detto anche che deriva dal tuo libro preferito. E poi, dieci
giorni fa o
giù di lì, avevi in mano un libro dalla copertina
azzurra e sembrava che
volessi far sprofondare il naso in quelle pagine: mi pareva chiaro che
fosse quello,
il tuo preferito. Non sono così tonto come sembro... solo un
po' di più.»
Sorrise, scrollando le spalle. «Dai, su, vallo a
prendere.»
Mi
precipitai fuori dalla sua porta ed entrai in camera, presi il libro in
mano e
mi diressi ancora verso la sua stanza.
Stavo
per entrare, quando mi bloccò fuori. «Alt,
alt. Girati.»
Mi
fece voltare di schiena e mi mise una benda sugli occhi. Oh,
no, non un'altra volta!
«Evan,
ma che
diavolo stai facendo?!» gli chiesi, con la voce che mi si
alzò almeno di
un'ottava.
«Ssh,
stai
tranquilla. Voglio solo portarti in un posto della villa che non hai
mai visto.
Tanto ormai tu sei pratica di bendaggio, no?»
«E
tu come lo sai che sono stata bendata?»
Lo
sentii temporeggiare. «Beh,
l'ha
spiegato Camille nelle regole, ti ricordi?»
«Ah,
già.»
E
così, guidandomi e sussurrandomi dove dovevo mettere i
piedi, salimmo svariate
rampe di scale, per poi fermarci qualche minuto dopo.
«Okay,
adesso sposta il viso all'insù e...»
Appena
fui slegata, la prima cosa che vidi furono migliaia di puntini bianchi
che
risplendevano nel cielo scuro: le stelle.
Mi
girai verso di lui, incredula. «Mi
hai portato a vedere le stelle!»
Annuì.
«Questo
è il terrazzo
della villa. Avevo pensato che, magari, ti avrebbe fatto piacere.»
Spinta
dalla sua dolcezza, presi la rincorsa e lo abbracciai.
Lui
mi strinse a sé, ma solo allora mi accorsi di quello che
portava: aveva un
cestino da picnic, due coperte e la chitarra in spalla.
«Uh,
che bello, la tua chitarra!»
Gliela
sfilai e mi sistemai sulla coperta di plaid che, nel frattempo, lui
aveva steso
sul pavimento.
Iniziai
a pizzicare le corde, suonando il giro di Do.
«Sei
brava, sai? Hai imparato da sola?»
mi chiese.
Gli
porsi lo strumento e scossi la testa. «No,
a Napanee avevamo una scuola di musica, e mia madre un anno fu
assunta lì. Mi ha insegnato lei qualche nota.»
Annuì,
abbassando lo sguardo. Era come se si fosse... intristito,
in qualche modo.
«E
tu? Ti ha insegnato qualcuno a suonare?»
«No,
tutto quello che so l'ho imparato da qualche
vecchio libro di mio padre. Vedi, io non ho mai... avuto una madre, in
realtà.
Proprio come tu non hai mai conosciuto tuo padre, beh, per me
è stato lo stesso
con mia madre. Mio padre e Kevin sono stati la mia famiglia, per tutti
questi
anni.»
Alzò lo sguardo al cielo,
sorridendo improvvisamente. «Non
che Kevin
abbia le tette, comunque.»
Risi
per la sua battuta. «Sai,
ho
sempre pensato che il più semplice ed immediato dei gesti,
come ridere,
richiede una certa dose di prudenza. Voglio dire, ridere è
una cosa seria, non
posso mica farlo con chiunque. Ma... con te mi riesce bene. Grazie.»
Mi
sorrise, riconoscente. «Dai,
suona
qualcosa.»
Obbedì
al mio suggerimento e incominciò a far scorrere le dita
sulle corde. «Si chiama "All of the Stars".» m'informò.
It's just another night
And I'm staring at the moon
I saw a shooting star
And thought of you.
E'
solo un'altra notte
E
sto fissando la luna
Ho
visto una stella cadente
E
ho pensato a te
La
sua voce era
incredibile: era calda, dolce e decisa allo stesso tempo.
I sang a
lullaby
By the waterside and knew
If you were here,
I'd sing to you
You're on the other side
As the skyline splits in two
I'm miles away from seeing you
I can see the stars
From America
I wonder, do you see them, too?
So open your eyes and see
The way our horizons meet
And all of the lights will lead
Into the night with me
And I know these scars will bleed
As both of our hearts bleed
All of these stars will guide us home
I can hear your heart
On the radio beat
They're playing 'Chasing Cars'
And I thought of us
Back to the time,
You were lying next to me
I looked across and fell in love
So I took your hand
Back through Londons streets I knew
Everything led back to you
So can you see the stars?
Over Amsterdam
You're the song my heart is
Beating to
So open your
eyes and see
The way our horizons meet
And all of the lights will lead
Into the night with me
And I know these scars will bleed
But both of our hearts bleed
All of these stars will guide us home
And, oh, I know
And oh, I know, oh
I can see the stars
From America.
Ho
cantato una ninna nanna
In riva al fiume e sapevo che
Se tu fossi stata qui,
L'avrei cantata a te
Tu sei dall'altra parte
Mentre l'orizzonte si divide in due
Io sono lontano dal vederti
Riesco a vedere le stelle
dall'America
Mi chiedo, non le vedi anche tu?
Quindi,
apri gli occhi e guarda
Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano
E tutte le luci ci guideranno
Nella notte con me
E so che queste cicatrici sanguineranno
Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno
Tutte queste stelle ci guideranno a casa
Riesco
a sentire il tuo cuore
Battere in radio
Stanno suonando 'Chasing Cars'
E ho pensato a noi
Indietro nel tempo,
Stavi riposando accanto a me
Ho guardato e mi sono innamorato
Così ti ho preso la mano
Ho fatto ritorni nelle strade londinesi che conoscevo
Tutto ciò ha portato di nuovo a te
Così puoi vedere le stelle?
Oltre Amsterdam
Tu sei la canzone che il mio cuore sta suonando
Quindi,
apri gli occhi e guarda
Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano
E tutte le luci ci guideranno
Nella notte con me
E so che queste cicatrici sanguineranno
Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno
Tutte queste stelle ci guideranno a casa
E,
oh, lo so
E, oh
,
lo so, oh
Riesco a vedere le stelle
dall'America.
«Wow,
Evan.»
riuscii
a balbettare. «Sei
stato bravissimo.
Vederti suonare con le stelle sopra di noi è stato...
magnifico, davvero.»
Sorrise
appena, come se non si riconoscesse nelle mie parole, e
appoggiò la chitarra
accanto a lui. «Allora...»
disse, prendendo il cesto da picnic «...la
casa offre due fantastici sandwich. Ne vuole
approfittare, Madame?»
«Sarebbe
certamente un delitto rifiutare questa sua
gentile proposta, Monsieur.»
Mi
porse il mio panino e diede un morso al suo. «Dentro
c'è prosciutto, due fette di pomodoro, qualche
foglia di insalata e una fetta di formaggio.»
Sgranai
gli occhi. Aveva proprio detto...
«Ma
no, dai, sto solo scherzando. Il tuo odio verso il
formaggio mi è costato una quasi-frattura
al setto nasale, non me lo potrei mai scordare. Quella è
solo maionese.»
Sospirai
di sollievo. Menomale.
«Allora.»
mi
disse, continuando a mangiare. «Qual
è il
titolo del libro che hai scelto come tuo prediletto?»
Sorrisi
per la sua scelta di linguaggio. «Colpa
delle Stelle.»
risposi.
«Uhm...
e perché le stelle dovrebbero avere la colpa di
qualcosa?»
mi chiese.
«No,
veramente nel libro è esattamente il contrario.
L'autore vuole sottolineare che, la maggior parte delle volte, la colpa
delle cattive
azioni deve ricadere soltanto su noi stessi, e non su altri fattori -
cioè le
"stelle" -.»
«Ho
capito.»
Con
un gesto veloce, mi tolse il libro dalle mani. «Non
ti dispiace se ci do un'occhiata, vero? Tanto sarà la
trilionesima
volta che lo leggi.»
Arrossii.
«Okay.
Ma poi me lo ridai,
va bene?»
Annuì,
portandosi la mano sul cuore. «Parola
di scout.»
«Bene.»
Appena
finii il mio panino, mi distesi sulla coperta accanto a lui, e
sospirai. «Le
stelle creano sempre un’atmosfera… romantica,
credo.»
Evan
ridacchiò. «Beh,
la costellazione della Vergine e della Fenice
potrebbero non essere d’accordo con te.»
Lo
guardai senza capire minimamente di cosa stesse parlando.
«Che vuoi dire?»
Mi
fissò, sorridente. «Vedi, ho sempre trovato
affascinati i miti indiani che
spiegavano l’origine delle costellazioni. Da piccolo ne
andavo matto. In
particolare, mi ricordo della storia infelice di Amita e Kedar, due
giovani
ragazzi indiani che…»
Lo
interruppi. «Ma che c’entra questo con la Fenice e
la Vergine?»
Mi
lanciò
un’occhiata d’ammonimento, sempre però
con il sorriso sulle labbra. «Aspetta,
fammi finire. Dicevo… Amita e Kedar erano
due giovani indiani come tanti altri, seppur di classi sociali diverse:
lei era
la più piccola tra le sei figlie del dispotico Imperatore
Manuraj, mentre lui,
poveretto, orfano di padre e di madre, aveva solo uno zio indovino
– cieco, tra l’altro
– e viveva con le sue
pecore nei boschi. Immagina il profumino!»
Risi
per la sua
battuta.
«Era
un giorno come tanti, quando Kedar, pascolando con il gregge nel bosco,
s’imbatté in Amita. La giovane era spaventata
dalla presenza possente di Kedar,
ma lui riuscì a tranquillizzarla e a farsi dire come fosse
capitata lì, per
quei sentieri pericolosi. La ragazza gli disse che, insieme alle sue
cinque
sorelle, erano andate ad abbeverarsi ad un ruscello non molto distante
dall’inizio del sentiero, ma poi loro si erano allontanate, e
lei era rimasta a
vagare da sola. Si era sempre sentita esattamente in quel modo, sola, con la sua famiglia. Troppo
grande perché si comportasse ancora
con la spensieratezza dei bambini, ma troppo piccola perché
capisse appieno il
mondo degli adulti. Così, con il pastore che
comprendeva la sua solitudine
e che, per questo, la incitava, Amita gli raccontò della sua
vita e della sua
gioventù. Altrettanto fece Kedar, ignorando il continuo
belare delle pecore
alle sue spalle.
In
breve, i due
ragazzi s’innamorarono, e non di un amore qualsiasi: era un
amore completo,
totalizzante, e dava loro la linfa vitale per affrontare le
difficoltà della
loro realtà. Ad ogni loro secondo, ad ogni loro respiro,
sognavano sempre le
loro labbra toccarsi. Erano sempre nei
pensieri dell’altro: Amita non era niente senza
Kedar e Kedar non era
niente senza Amita. Ma, come ti ho già detto prima, questa
storia non ha un
lieto fine. Infatti, il padre della ragazza, l’Imperatore
Manuraj, scoprì la loro storia e
separò i due
innamorati, lanciando su di loro una terribile maledizione: il loro
sarebbe
stato il più sventurato tra tutti gli amori,
poiché, pur di preservare
l’integrità della figlia, Manuraj
trasformò
Amita in una costellazione, in modo che fosse irraggiungibile per
Kedar. La
chiamò Vergine e la
sistemò
nell’emisfero boreale. Nel frattempo Kedar, disperato per la
perdita
dell’amata, chiese aiuto a suo zio, l’indovino
cieco di cui ti avevo parlato
all’inizio. Il vecchio gli disse che non c’era
alcun rimedio per la maledizione
scagliata su di loro, ma poteva sempre esser d’aiuto: vedendo
la determinazione
di suo nipote, gli disse che l’unico modo per arrivare in
cielo era quello di
ridurre il suo corpo in polvere, in modo che il vento lo trasportasse
su, fino
alla volta celeste. Kedar acconsentì immediatamente e, senza
neanche pensarci
due volte, si buttò dalla rupe più profonda del
Paese e morì. Lo stesso zio,
con i suoi occhi infermi e per amore del giovane, ridusse il corpo di
Kedar in
cenere. In questo modo, la costellazione venne collocata
nell’emisfero australe
e le venne dato il nome della Fenice,
cioè dell’animale che risorge dalle sue ceneri,
esattamente come aveva fatto il
giovane pastore. E così, Amita, nell’emisfero
nord, e Kedar, in quello sud,
sono costretti tutt’ora a rincorrersi, senza ricongiungersi
mai. Erano sempre, però,
l’uno nei pensieri
dell’altra.»
|
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Capitolo 12 *** 11. Things I'll Never Say ***
Buonasera
a tutti!
Questo
capitolo sarà un miscuglio di
felicità e tristezza :3
Per
questo, ho scelto la meravigliosa canzone
“Things I’ll Never Say” della nostra Av.
Ultima
cosa e poi tolgo il disturbo, lol.
State
leggendo “Colpa delle Stelle”?
Ripeto
che ci saranno molteplici
riferimenti al libro – come quelli dello scorso capitolo
– e se volete capire
bene, vi consiglio di darci uno sguardo.
Detto
ciò, ci vediamo Domenica prossima <3
~ Cruel Heart.
***
Avril
Lavigne - Things I'll Never Say
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 10 Marzo 2001
Evan's pov
«Ma
sei impazzito o ti sei dato qualche padellata di troppo, Matt? Ti
ripeto che
non lo farò.»
Stavo
accarezzando le corde della chitarra per calmarmi… ma non era un’impresa facile.
«E
poi, bell’amico che sei, non mi hai neanche chiesto come sto o come va la situazione a casa e a scuola!»
dissi, nella speranza vana di cambiare discorso.
«Hai
ragione.» si scusò. «Va tutto bene?»
«Benissimo»
risposi, a metà tra l’offeso e lo speranzoso.
«La
tua famiglia?»
«Tutto
a posto, grazie per l’interessamento.»
«E
a scuola?»
«Mmh,
più o meno: c’è un tipo che
è veramente stronzo.»
«Capito.
Va beh, io vado, allora.»
Non
ci credo, ero riuscito a filarmela!
«Va bene, ci sentiamo presto.»
Perfetto,
adesso non dovevo far altro che riattaccare e…
«Ecomunqueperchénonvuoi?»
gridò velocissimo, sfondandomi un timpano. Era inutile: nessun cambio di discorso funzionava con Matt.
«Ascolta,
tu te ne sei andato da oltre un mese, giusto?»
continuò.
«Sì.»
sbuffai.
«Ok,
ti faccio un veloce elenco della situazione, in modo che puoi renderti
conto
della gravità della cosa: da più di un mese, io sono in crisi spadellistica
perché non riesco a trovare una fottuta padella decente nel
raggio di cinque
chilometri, Jesse passa tutto il
giorno a grugnire come un maiale – e
ti
assicuro che anche la sua puzza non è molto diversa
– e Charlie,
beh… continua ad essere Charlie!»
«Finiscila,
testa di cazzo.»
gridarono insieme i due.
Sentii
Matt
coprire il ricevitore con una mano e trasferirsi in un’altra
stanza, lontano da
loro. «Seriamente,
Evan, i Nameless stanno andando a
puttane. Almeno, non letteralmente, visto che
non abbiamo un centesimo.
Insomma, devi fare qualcosa.»
«E
che cosa dovrei dare?!»
lo
interruppi, brusco. Matt mi stava dipingendo come un menefreghista a
cui non
importava niente del suo gruppo, quando invece non era assolutamente
così.
Cedevo ad ogni ricatto di mio padre, pur di suonare da qualche parte
con loro.
«Non
lo so, componi qualche nuovo pezzo, balla
la Macarena, datti al bricolage… qualsiasi cosa.
Jesse e Charlie stanno da
cani, davvero, e…» A questo punto, alzò
la voce, probabilmente per rendere
partecipi anche gli altri due della nostra conversazione. «…E
NON IMPORTA QUANTO IO LI MANDI A FANCULO,
LORO RIMARRANNO SEMPRE DEI GRANDI COGLIONI E…»
Come
ultima cosa,
sentii delle forti grida e delle imprecazioni, poi il vuoto.
Sospirai.
E così, un altro telefono se
n’era andato ai
pesci.
Insieme
alla dannata padella di Matt.
Fantastico.
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 28 Marzo 2001
Avril's pov
«E
così, il 1° Settembre del 1939, dopo venticinque
anni dalla Grande Guerra, che
scoppiò il 23 Luglio del 1914 dopo l’assassinio
dell’arciduca Francesco
Ferdinando II, inizia la Seconda Guerra Mondiale, che
porterà all’incirca ad 1
miliardo e 900 milioni di morti. Davvero raccapricciante.»
disse Kevin, sgranando gli occhi. Dopo qualche
minuto, sfogliando le pagine del nostro libro, si rivolse a me.
«Hai capito?»
Sbuffai.
Quanto odiavo la storia.
«Gesù,
Kevin, non mi entrano in testa le date. E poi, non capisco:
perché
intraprendere una seconda guerra spargi-budella
a 25 anni di distanza dalla prima? Che c’è, erano
duri di comprendonio e non
avevano ancora imparato la lezione?»
Si
grattò un
orecchio, imbarazzato. «Beh…
beh, ecco… in
realtà, non ne ho la minima idea. Qui ci vorrebbe…»
Chinò la testa e non finì la frase, rivolgendo lo
sguardo ad altre pagine del libro.
Riuscii
benissimo a leggere tra le righe: Evan.
Ci serviva come il pane una sua spiegazione, perché lui era
un genio in
storia/geografia/inglese/letteratura straniera/filosofia/qualsiasi
altra materia in cui io ero un cesso.
«Senti,
facciamo così: impariamo le date e le principali notizie,
senza chiederci
perché. Ok?»
mi propose, con un lieve
sorriso d’incoraggiamento.
Annuii,
sconsolata. Purtroppo, io e Kevin dovevamo accontentarci di quello: il
piccolo
“genio della lampada” era costantemente occupato.
Stava
sempre nella sua camera a studiare e, se non stava sui libri, allora
suonava la
sua chitarra, maledicendo chiunque avesse intorno.
In
tutti questi giorni, se non per bisogni primari, non aveva messo fuori
il naso
dalla sua stanza. Neanche per sbaglio.
Ricordavo
ancora quando, qualche settimana fa, io e Kevin, disperati dalle
ennesime
farneticazioni di James Joyce, ci eravamo rivolti a lui per tentare di
capirci
qualcosa in più. Determinati come non mai, ci eravamo
accostati alla sua porta,
dalla quale proveniva un debole suono di chitarra.
«Allora.»
mi aveva detto Kevin, con l’Ulysses
in mano.[N.d.A. È l’opera più famosa di
Joyce.] «Io entro
dentro e cerco di fargli dire qualcosa, mentre tu stai dietro di me e
prendi
appunti, nel caso riacquisti la capacità di parlare.»
Io
avevo annuito, seria. Ci giocavamo la sufficienza con Wilson.
Kevin
aveva bussato, ma senza ricevere risposta. Così, costretto
dalla situazione,
aveva spalancato la porta senza troppe cerimonie ed avevamo visto Evan
seduto
sul letto e la chitarra in grembo, con una penna ed un foglio accanto.
Era
completamente rilassato, come se nulla fosse, e non aveva dato il
minimo segno
di essersi accorto di noi.
«Ehm…
Ciao, Evan. Volevamo sapere delle cose riguardo all’Ulysses
di Joyce. Hai presente?»
«Mmh.»
aveva mugugnato lui.
«Beh,
ci chiedevamo… perché l’autore associa
ad ogni capitolo un colore, una scienza
ed una parte del corpo? Che bisogno c’è?»
Avevamo
aspettato per minuti che ci giungesse qualche risposta, ma niente. Zero
assoluto.
Kevin,
innervosito dal suo atteggiamento, aveva tentato il tutto per tutto.
«Ah,
volevo informarti che spesso, ultimamente, mi sono vestito da donna. E
che mi
eccito guardando la tua chitarra, è così sexy.»
Ancora
silenzio.
Aveva
roteato gli occhi e mormorato a bassa voce. «Non arriveremo
da nessuna parte,
in questo modo. Ti dovrebbero nominare traditore dell’anno.»
Improvvisamente,
Evan aveva sgranato gli occhi. «Kevin!»
aveva urlato a pieni polmoni.
«Cosa?»
Kevin era sembrato allarmato. «Guarda che non mi
eccito mica a guardare la tua chitarra. Stavo solo cercando di attirare
la tua
attenzione. Anche se devo ammettere che è una gran bella
chitarra.»
«Ma
no!»
aveva replicato lui. «Traditore
dell’anno… Cheater of… Cheater
of the
Year! [N.d.A. Canzone realmente composta da Evan.]
Dio,
sei un genio!»
E
così dicendo, si era alzato dal letto, gli aveva appioppato
un bacio sulla
fronte e ci aveva sbattuti fuori.
E
indovinate un po’ che fine aveva fatto
la sufficienza con Wilson?
Esatto.
Sparita,
volatilizzata, scomparsa,
dissolta. Kaputt.
Mi
ero chiesta più volte il motivo di
quell’isolamento continuo e non ero riuscita
a darmi una spiegazione.
Almeno
fino ad oggi.
Infatti,
qualche
minuto dopo aver ripassato storia, il duca Taubenfeld ci
chiamò dal piano di
sotto.
«Ragazzi,
scendete. Presto, dobbiamo accompagnare Evan all’aeroporto.»
M’immobilizzai,
sbalordita.
All’aeroporto?
***
Le
ore successive
erano trascorse in modo molto confuso: vi erano susseguiti bagagli,
corse,
grida, traffico sull’autostrada e, infine,
l’Harrisburg International Airport.
Non
avevo capito
molto di quello che era successo.
Riuscivo
soltanto a
fissare il vuoto e a sentire un’insopportabile sensazione
alla bocca dello
stomaco.
Non
era fame,
chiaro: se avessi visto cibo sulle scomode sedie della sala
d’aspetto dell’aeroporto,
cioè dove mi trovavo ora, probabilmente ci avrei vomitato
sopra.
Quello
che provavo
era più totalizzante, come se comprendesse tutto il mio
corpo e non volesse più
lasciarlo andare.
Gli
altri erano
andati ad informarsi del volo prima che Evan s’imbarcasse, ma
io non mi ero
mossa da lì.
Mi
sentivo
improvvisamente distante e svuotata: come potevano loro anche solo pensare di camminare?
«Dove
vai?»
gli chiesi, con un filo di voce.
Non
mi guardò. «Il
volo è per New York. Poi partirò con i Nameless per una piccola tournée
che abbiamo deciso di fare: Nevada, Oregon, Utah…
più stati riusciamo a
toccare, più soldi facciamo.»
«Tutti
stati dell’Ovest.» notai. E
noi siamo ad
Est.
Lui
annuì. «Quanto…
quanto tempo?»
Si
girò verso di
me e quasi mi chiese scusa con gli
occhi. «Due
mesi.»
La
sensazione
soffocante di prima mi gravò addosso con più
forza.
Forse
capendo il mio stato d’animo, mi trascinò vicino
alle enormi vetrate dell’aeroporto,
accanto al corridoio che doveva percorrere per partire.
«Ma…
Evan, non capisco. Che senso ha andare in tournée per
guadagnare soldi, quando
tu li puoi avere semplicemente chiedendo a tuo padre?»
«Non
si tratta solo di me, Avril. Ci sono altri tre ragazzi che smaniano di
respirare
musica ma non ne hanno la possibilità.
Voglio
essere io l’unico disegnatore della mia vita,
l’unico scrittore della storia in
cui vivo… non mio padre.
E
poi, a lui non importa di me, per quanto finga il contrario.»
Ma
a me sì!,
avrei voluto gridare.
A me importa di te, e anche mentre balbetto, anche mentre cerco di
trovare le
parole nella mia testa, vorrei che tu ti fermassi. Anche mentre cerco
di
rimanere calma, anche mentre cerco di essere perfetta per te, vorrei
urlarti di
rimanere qui. Accanto a me.
Ma
la cosa più dolorosa era che lo capivo, capivo il suo
ragionamento e le sue
scelte.
La
vita era sua, il resto era solo una stupida cornice. Per
quanto, poi, nella stupida cornice ci fossi anch’io.
Si
chinò, rimanendo in equilibrio su un ginocchio.
Un
pensiero stupido e folle mi passò per la mente: gli avrei
anche chiesto di sposarmi, pur di
farlo rimanere.
«Non
voglio che tu pianga.»
Mi
parlò con
un tono dolcissimo, come quello che usa un padre per consolare la sua
bambina. «Altrimenti
poi le tue lacrime offuscheranno la vista del più bel fusto
d’America, e questo
non è assolutamente accettabile.»
Incredibile
come riuscisse a farmi
ridere anche in quel momento.
«E
voglio anche che tu veda bene un’altra cosa.
Indicò
con un dito il soffitto sopra di noi. «Voglio che tu veda il
cielo, ogni sera. Voglio
che tu riconosca la costellazione della Vergine e della Fenice e che
ricordi il
mito di Amita e Kedar. E poi, proprio come il tuo libro preferito, che
leggerò
in ogni momento libero a mia disposizione, voglio che tu guardi le stelle, perché saranno le
stesse che
guarderò io.»
Poi,
si alzò da terra. «Vuoi abbracciarmi, adesso?»
Annuii,
incapace di parlare. «E allora fallo forte. Se qualcuno mi
chiedesse “Qual è il
posto migliore in cui sei stato?”, risponderei
“Facile, quell’abbraccio.”
Perché
vuoi tornare tra quelle braccia, più volte che si
può, e non riuscirai mai a
rivivere le stesse emozioni che quello sfiorarsi ti ha regalato.»
Feci
come mi aveva detto e, con ormai le lacrime che scendevano dai miei
occhi, gli
diedi l’abbraccio più stritola-ossa
di cui ero capace.
«Avril…
Forse… troppo forte…»
disse, senza
fiato.
«Oh,
scusa.»
Mi staccai
immediatamente, con un debole sorriso nascosto tra le lacrime.
Mi
sorrise, per poi tornare subito serio. «Salutami
tu gli altri,
okay?»
Deglutii
e annuii.
Se avessi anche solo provato a parlare, avrei avuto una vera crisi di
pianto.
Poi,
esattamente
come la sera in cui ci conoscemmo, posò un bacio leggero sui
miei capelli.
Cercai
di imprimermi
il tocco morbido delle sue labbra, il suo profumo di sole e di aria
fresca e la
forza con cui il suo braccio mi cingeva le spalle, come se volesse
sostenermi.
Alzai
lo sguardo e
camminò lontano da me, fino a scomparire dalla mia vista.
Cos’era
quella
morsa asfissiante da cui volevo liberarmi?
Era
terrore?
Forse
sì.
E
terrore di cosa?
Terrore
che lui
potesse sostituirmi, che potesse conoscere qualcuno migliore di me,
qualcuno
che lo avrebbe portato via… da me?
Odiavo
con ogni
fibra del mio essere l’idea di… di doverlo
dividere con qualcun’altra.
Ma,
questo, non
potevo dirglielo.
Non
potevo dirgli
che non avevo la minima idea di come farcela senza di lui per due mesi.
Non
potevo dirgli
che quell’abbraccio stritola-ossa
mi
aveva anche spezzato il cuore.
Sarebbero
rimaste cose
che non avrei mai detto.
Ciao,
Evan.
Benvenuta,
tristezza.
Benvenuto,
cuore infranto.
***
I'm tugging out my hair,
I'm pulling at my
clothes.
I'm trying to keep
my cool.
[…]
I'm staring at my
feet,
My checks are
turning red.
I'm searching for
the words inside my head.
‘Cause
I'm feeling nervous,
trying to be so
perfect.
‘Cause
I know
you're worth it.
[…]
Am I squeezing you
to tight?
If I could say what
I want to see,
I want to see you
go down... on
one knee
Marry me today.
Guess I'm wishing
my life away,
with these things
I'll never say
Mi
sto tirando i capelli,
mi
sto tirando i vestiti.
Sto
cercando di mantenere la
calma.
[…]
Fisso
i miei piedi,
le
mie guance diventano
rosse.
Sto
cercando le parole
dentro la mia testa.
Perché
mi sento nervosa,
cercando
di essere perfetta.
Perché
so che ne vali la
pena.
[…]
Ti
sto stringendo troppo?
Se
io potessi dire ciò che
vorrei vedere,
vorrei
vederti andare giù…
su un ginocchio.
Sposami
oggi.
Penso
di stare ignorando la
mia vita,
con
queste cose che non dirò
mai.
~ Avril Lavigne –
Things I’ll Never Say
|
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Capitolo 13 *** 12. Maybe goodnight will be our okay/always || Goodnight Moon ***
Bonsoir
a todos! (?)
Questo
capitolo sarà molto tenero e,
soprattutto per chi ha finito di leggere “Colpa delle
Stelle”, preparatevi per
i feels!
Se,
nel caso, non
l’avete ancora finito di leggere, allora vi
consiglio di fermarvi a questa introduzione, completare di
corsa la lettura del libro e
ritornare qui.
Ci
saranno spoiler e citazioni. Parecchi e
malefici spoiler e parecchie e malefiche citazioni.
Io
vi ho avvertito u.u
Il
capitolo si apre e si conclude con uno
scambio di messaggi tra il nostro Evanuccio – frasi
in blu – e la nana – frasi
in rosa –.
La
canzone di oggi è di un gruppo che ho
conosciuto da poco, i Go Radio, e si chiama “Goodnight
Moon”.
Guardate
il video della canzone, se potete.
È
molto dolce e divertente.
Ci
vediamo Domenica prossima <3
~
Cruel Heart.
***
Go
Radio - Goodnight Moon
***
Salt Lake
City, Utah / Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America,
01 Aprile
2001
*Evan è online*
Ore 03:58. Drin,
drin, drin! Sveglia,
dormigliona!
*Avril è online*
Ore
06:58. Evan… cosa c’è…?
Ore
03:58. Niente, ti volevo solo dare il buongiorno.
Ore
06:59. Oh… ehm, grazie. Ma… che ore sono?
Ore
03:59. Da me sono le 04:00. Quindi, suppongo che da te debbano essere
le 07:00.
Ore
07:00. …
Ore
04:00. Che c’è?
Ore
07:00. Perché mi mandi un messaggio a quest’ora?
Ore
04:01. Te l’ho detto, volevo darti il buongiorno, in modo che
tu possa
affrontare solare e raggiante
un’altra magnifica giornata di
scuola.
Ore
04:02. Avril?
Ore
04:04. Avril, ci sei?
Ore
04:08. Avril, cosa è successo? Mi stai facendo
preoccupare…
Ore
04:17. AVRIL RAMONA LAVIGNE O COME CAVOLO TI VUOI CHIAMARE, SE NON
RISPONDI
ENTRO UN SECONDO, CHIAMO IL 911 E TI FACCIO ARRESTARE!
Ore
07:18. SICURO, VERRÒ ARRESTATA PER OMICIDIO VOLONTARIO!
Ore
04:19. …?
Ore
07:22. EVAN! È DOMENICA, SANTO CIELO! DO – ME
– NI – CA!
Ore
04:23. …
Ore
04:24. Beh… e tu non usare il maiuscolo con me!
Ore
07:24. Va bene, devo cercare… di mantenere… la
calma. Ricapitolando, È
DOMENICA MATTINA, LA SCUOLA È CHIUSA, TUTTI DORMONO
BEATAMENTE, TU MI SVEGLI
ALLE 07:00 E TI GIUSTIFICHI DICENDO CHE NON DEVO USARE IL MAIUSCOLO?
Ore
04:26. Se la vuoi mettere in questo
modo…
Ore
07:27. EVAN!
Ore
04:29. Ok, ok, ti chiedo scusa. Mi ero completamente dimenticato che
fosse
Domenica, che la scuola fosse chiusa, che tutti dormissero beatamente e
bla bla bla.
Volevo
solo darti il buongiorno e parlare con qualcuno. Qui dormono tutti.
Ore
07:31. E ci credo, sono le 4 e mezza! Dove siete adesso?
Ore
04:33. Ora siamo nello Utah, a Salt Lake City. Verso le 10 prenderemo
un
pullman che ci porterà in Nevada e suoneremo un
po’ in giro. A voi come stanno
andando questi giorni senza il vostro cavaliere senza macchia e senza
paura, Mademoiselle?
Ore
07:35. Non credo di aver inteso bene, Monsieur.
Il cavaliere senza macchia e senza paura sareste voi?
Ore
04:37. Mais oui, Mademoiselle. Ovviamente.
Ore
07:41. Mmh, piuttosto bene, a dire la verità. Monsieur
Orecchie-Paraboliche-Billigan in questa settimana sta
spiegando le funzioni. Nessuno dei nostri esimi
colleghi ha capito un accidente.
Ore
04:43. Neanche tu?
Ore
07:45. Ahahah, per favore. Non abbassiamoci a tanto.
Ore
04:48. Ero sicuro al 90% che il tuo piccolo cervellino matematico ce
l’avrebbe
fatta.
Ore
07:50. Vaffanculo.
Ore
04:50. Per cosa?
Ore
07:51. Per l’altro 10%. E anche per aver definito il mio enorme encefalo un “piccolo
cervellino.”
Ore
04:51. Mi scuso umilmente con voi, Mademoiselle.
Ore
07:52. Uhm, devo ancora decidere della vostra sorte, Monsieur.
Sono indecisa tra decapitazione o pena capitale.
Ore
04:52. Avril, la pena capitale in Francia è illegale da un
bel po’ di anni.
Ore
07:52. Dettagli. Avrai tanto da recuperare, con Billigan.
Ore
04:53. Nah, Kevin mi invia giornalmente qualche appunto. Mi sto tenendo
al
passo.
Ore
07:53. Allora non avrai problemi a dirmi cos’è un
coseno.
Ore
04:53. …
Ore
04:53. Non è una cosa che si mangia, giusto?
Ore
07:54. Ahahahahah, direi di no.
Ore
04:59. Ora devo dirti una cosa molto importante, Avril.
Ore
07:59. Ok… cosa c’è?
Ore
05:02. Tu mi piaci. Tu mi piaci dal primo giorno che ti ho vista, da
quando
dovevo accompagnarti con la moto da tua madre e tu, testarda come al
solito,
non volevi.
Mi
sei sempre piaciuta, persino quando mi hai tirato un pugno al naso, o
quando ti
estranei in quel mondo fatto di numeri e immaginazione in cui stai
tutto il
tempo.
Mi
piaci quando alzi improvvisamente gli occhi e ti rendi conto solo in
quel
momento che qualcuno ti sta parlando e, più di tutto, mi
piace da matti quella
risata imbarazzata che fai subito dopo.
Tu
mi piaci, ecco cosa c’è.
Ore
08:07. Evan, io… Io non so cosa dire…
Ore
05:10. Non ti preoccupare, dì semplicemente “Evan
David Taubenfeld, tu sì che
sei il re dei pesci d’Aprile!”.
Ore
05:13. Avril?
Ore
05:17. Avril, perché non rispondi?
Ore
05:25. AVRIL, DANNAZIONE, VUOI RISPONDERE A QUESTO DANNATO COSO?!
Ore
08:28. Il messaggio di prima… era un pesce
d’Aprile?
Ore
05:29. Mais oui, Mademoiselle.
Ore 08:32. Wow… ci sono proprio
cascata…
Ore 05:33. Allora?
Sono perdonato?
Ore
08:34. Per cosa?
Ore
05:34. Per averti svegliato.
Ore
08:35. Oh… Sì, sei perdonato. Ora scusa, devo
andare. Bello scherzo,
comunque.
*Avril
è offline*
Ore
05:37. Già, è proprio un
bello scherzo,
quando qualcuno crede di amarti…
*Evan
è offline*
***
San
Francisco, California, Stati Uniti d’America, 30 Aprile 2001
Evan's pov
Ieri
sera il pub era davvero stracolmo, nonostante avessimo finito di
suonare quasi
alle tre del mattino.
Non
ne avevo mai visto uno così pieno, ma, a quanto pareva, i Nameless
stavano avendo
un discreto successo.
O
forse tutti i ragazzi che erano venuti
a sentirci avevano un problema all’udito, oltre ad essere
alcolisti.
Chi
poteva dirlo.
Con
il proprietario del locale, un uomo pelato e sulla sessantina, ci
eravamo
accordati per un prezzo di 700 dollari ma, visto tutti i quattrini che
aveva
guadagnato quella sera, ci disse – cito
le sue parole – di “avere un improvviso e
del tutto inaspettato attacco di
generosità”, e così ce ne diede 1000.
Non
male per una band che a Napanee intascava appena 50 bigliettoni.
Inutile
dire che, appena saputa la notizia, Matt aveva dato di matto e aveva
voluto – anche qui, cito
testualmente –
“festeggiare sobriamente”.
E
indovinate quanti litri di vodka
comprendeva il suo “festeggiare sobriamente”?
Adesso
erano le cinque del mattino, e noi eravamo ancora impegnati in questa festa totalmente misurata e senza eccessi.
Una
sveglia trillò nella mia mente.
Erano
le cinque del mattino.
Dovevo
chiamarla.
***
Harrisburg,
Pennsylvania,
Stati Uniti d’America, 30 Aprile 2001
Avril's pov
Erano
le otto dell’ennesimo Lunedì
traumatico
e, come ogni Lunedì traumatico
che si
rispetti, stavo camminando per i corridoi del
“Sanford–Brown” insieme a Kevin.
Dovevo
ammettere che la sua compagnia mi aveva aiutato molto,
nell’ultimo mese.
Avevamo
riso, avevamo scherzato sulle orecchie di Billigan, avevamo roteato gli
occhi
vedendo i comportamenti sempre più da deficiente
di Axel Foffuck.
Mi
era stato vicino e per me rappresentava il fratello
che non avevo mai avuto.
Ma,
se da una parte avevo guadagnato un’amicizia solida,
dall’altra avevo
irrimediabilmente perso qualcosa.
E
lo capivo da come mi si spezzava il cuore e da come il groppo che avevo
in gola
m’impediva di parlare, ogni volta che ripensavo a quello
stupidissimo pesce
d’Aprile che mi aveva fatto.
Non
ero arrabbiata con lui. Non era colpa sua se non mi ricambiava.
Ero
semplicemente… delusa.
Delusa
che quelli fossero gli stessi sentimenti che provavo per lui e delusa
per
avergli creduto così facilmente.
La
prossima volta non sarebbe successo.
Improvvisamente,
una vibrazione nella tasca del mio giubbotto mi fece sobbalzare. Lessi
il nome
sullo schermo.
Parlavi
del diavolo…
«Ciao,
Evan.»
… E spuntavano le
corna. «A
cosa devo l’onore?»
«Ehi,
Avril! Non sai che piacere è sentirti!»
Involontariamente,
il mio cuore fece un balzo. «Già,
sapessi per
me…» brontolai, roteando gli occhi.
«ANDIAMO…
IGH…. EVAN, SOLO UN… IGH… CICCHETTO!»
sentii gridare al
telefono.
«Sta’
zitto, Matt! Scusalo, è leggerissimamente
ubriaco. Dicevi?»
«Niente,
niente.»
cambiai subito discorso. «Come
vanno lì le cose?»
«Alla
grande, direi!»
Sembrava davvero euforico.
«Stanotte abbiamo guadagnato ben 1000 bigliettoni.
Matt ha detto che si comprerà una padella tempestata di
diamanti, con tutti
questi soldi.»
Non
risi per la
sua battuta. Non ci riuscii. «Wow,
ehm… sono…
contenta per voi.»
«Sì,
sembri contenta nella stessa misura in cui lo sono io prima di
affrontare due
ore consecutive di matematica. È successo qualcosa?»
«No,
tranquillo, non è successo niente.»
Ed era proprio questo
il problema. Da quando ci eravamo scambiati quei messaggi, non mi aveva
più
parlato, se non per chiedere qualche informazione su ciò che
spiegava Billigan.
Non
avevo mica scritto “Google” sulla fronte.
Stette
qualche secondo in silenzio. «Ah, ho capito
cos’è che non va!»
esclamò trionfante.
Sgranai
gli occhi. «Davvero?»
Le mani cominciarono a tremarmi leggermente
e il respiro mi si fece più ansante. Quante
possibilità c’erano che avesse
effettivamente capito?
«Sì,
il problema è che stai per affrontare un altro
Lunedì con Wilson alla prima
ora. Ho indovinato?»
Sbarrai gli occhi. Possibilità
zero.
«Già.
È Wilson il problema.»
mugugnai.
Sembrò
piuttosto soddisfatto di se stesso, tanto che ridacchiò.
«Non ti preoccupare,
Avril. Se può risollevarti il morale, ti informo che ho
ufficialmente
incominciato a leggere “Colpa delle Stelle”.»
Mi
rallegrai un
po’ alla notizia. «A
che punto sei?»
«Più
o meno alla metà.»
«E?
Ti ha preso?»
«Sospendo
il giudizio finché non l’avrò finito.
Senti, ma alla fine Augustus e Hazel
Grace ci vanno ad Amsterdam?»
«Ah,
no, niente spoiler.»
dissi.
«Se
salta fuori che non prendono quel dannato aereo, strappo gli occhi
all’autore.»
«Quindi…
ti ha preso.»
costatai.
Rise.
«Sospendo il giudizio! Non vedo l’ora di discutere
con te del bellissimo finale
che questo libro avrà sicuramente.»
“Certo,
bellissimo…” pensai
tra me e
me. «Discuteremo
solo quando lo avrai finito.
Prima, di sicuro no.»
«Allora
è meglio se metto giù e ricomincio a leggere.»
«Infatti.»
dissi, e chiusi la telefonata, senza aggiungere altre parole.
***
Portland,
Oregon / Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 07
Maggio
2001
*Evan è online*
Ore 22:02. AVRIL
RAMONA LAVIGNE!
*Avril
è online*
Ore
01:03. Evan… ma non riesci proprio a messaggiare ad un
orario
accettabile?
Ore
22:03. Beh… Per me
è un orario
accettabile…
Ore
01:04. Ma non lo è per me!
Comunque, non voglio incominciare un’altra discussione. Cosa
c’è?
Ore
22:05. HO BISOGNO DI RISPOSTE!
Ore
01:06. Non mi hai scambiato mica per una sfera di cristallo, vero?
Ore
22:07. TI PREGO, DIMMI CHE SULLA TUA COPIA HANNO SBAGLIATO A SCRIVERE
IL
VENTUNESIMO CAPITOLO!
Ore
01:09. Oh, ma ti riferisci al libro…
Ore
22:11. AVRIL, DIMMI CHE NON SONO ARRIVATO ALLA FINE DI QUESTO LIBRO!
Ore
01:12. E invece sì. Benvenuto nel dolce supplizio di chi
legge “Colpa
delle Stelle”.
Ore
22:15. Non citarlo! Ti proibisco nel modo più assoluto di
farlo! Tutto questo
non mi sembra affatto dolce!
Ore
01:16. Infatti accanto c’è la parola
“supplizio”.
Ore
22:18. Questo è il peggior ossimoro che abbia mai letto.
Ore
01:18. Non fare il maestrino con me, io stavo cercando di dormire.
Ore
01:21. Evan?
Ore
01:25. Evan, rispondi.
Ore
01:37. EVAN, NON È DIVERTENTE! TUTTO BENE?
Ore
22:39. A meraviglia. Sono andato a comprare i fazzoletti ad un
supermarket
vicino. Puoi immaginare perché li ho finiti.
Ore
01:41. Già. Io consumai ben tre pacchetti, appena finii il
libro.
Ore
22:43. Dio. Oh mio Dio. SANTISSIMODIO,
NON CREDO DI POTERCELA FARE. È così…
così fottutamente doloroso.
Ore
01:44. Lo so. John Green, l’autore, ti prende il cuore
direttamente con
le mani e te lo strizza finché non hai versato tutte le tue
lacrime.
Ore
22:46. Proprio così. E io che speravo in un
“vissero tutti felici e contenti”. Ma
il lieto fine non fa parte delle grandi
storie d’amore, vero?
Ore
01:52. No. Credo di no.
Ore
22:53. Pensavo che ti fossi addormentata.
Ore
01:54. No, ci sono ancora. Per
tua sfortuna.
Ore
22:55. Lo sai, vorrei che tu fossi qui.
Ore
01:55. Ma io ci sono.
Ore
22:56. No, qui proprio nel senso di qui, accanto
a me. Stranamente, Matt e gli altri mi hanno dato il letto
più grande, e tu
ci saresti stata proprio comoda. Così, mi avresti consolato
e avremmo pianto
insieme per quell’IGNOBILE fine di quell’IGNOBILE
libro.
Ore
02:00. Anch’io vorrei stare lì, ma non posso, e
non c’entra la scuola.
Quando avevo più o meno sette anni, mia madre ed io avevamo
abbastanza soldi da
permetterci una vacanza. Mi chiese quale fosse il posto in America che
più desiderassi
vedere. Poi, però, facemmo un patto: decidemmo che quella
sarebbe stata una
vacanza con i fiocchi e che non avremmo più speso soldi per
grandi spostamenti.
Ore
23:01. No… Non dirmi che…
Ore
02:01. Sì, sono colpevole.
Ore
23:01. Non è possibile… ANCHE TU SEI ANDATA A
DISNEY WORLD?!
Ore
02:02. Te l’ho detto, sono colpevole.
Ore
23:02. È incredibile come i parchi a tema abbiano
così tanta influenza sui
bambini.
Ore
02:04. Già. Quanti altri giorni starai via?
Ore
23:04. All’incirca… una ventina.
Ore
02:04. Sicuro? Non è…
che so… un
pesce di Maggio?
Ore
23:05. Al 100%. Ti ho mai detto una bugia?
Ore
02:06. …
Ore
23:06. Ok, ok, forse una. O due. Probabilmente anche tre, non tengo mai
bene il
conto di niente.
Ore
02:07. Prometti che non mi mentirai più, anche per la cosa
più banale?
Ore
23:09. Prometto solennemente. Parola di scout.
Ore
02:11. Va bene. Ora vado a dormire.
Ore
23:11. Buonanotte.
Ore
02:13. Buonanotte.
Ore
23:16. Buonanotte.
Ore
02:18. Buonanotte.
Ore
23:21. Buonanotte. Forse
buonanotte sarà il nostro okay/sempre.
Ore
02:24. Buonanotte.
Ore
23:25. Non posso credere che tu l’abbia detto!
Ore
02:28. Già. Neanche io.
*Avril
è offline*
Ore
23:31. Forse c’è la
possibilità che io ti
abbia mentito ancora, Avril. Non sono mai stato uno scout, in effetti.
Io li
odiavo, gli scout. Mi rivedrai molto prima di quanto credi…
Menomale
che avevo le dita incrociate
mentre digitavo.
*Evan
è offline*
***
And don't go to bed yet, love.
I think it's too early,
and
we just need a little time to ourselves.
If
my wall clock tells me that it's 4 in
the morning,
I'll give it hell.
‘Cause
I've been trying way too long
to
try and be the perfect song.
When
our hearts are heavy burdens,
we
shouldn't have to bear alone.
[…]
And sing for me softly, love,
your song for tomorrow, and
tell
my name’s the one that's hidden in
there
somewhere.
And
dream for me anything,
but
dream it in color about.
When all the suns still rising and we don't
care.
[…]
So goodnight you.
And goodnight, moon.
When
you're all that I think about,
all
that I dream about,
how'd
I ever breathe
without a
goodnight kiss.
From “Goodnight You”.
The
kind of hope they all talk about,
the
kind of feeling we sing about,
sit
in our bedroom and read aloud.
Like
a passage from
“Goodnight Moon”.
From
“Goodnight Moon”.
E
non andare ancora a dormire, amore.
Penso che sia troppo presto,
e abbiamo solo bisogno di
un po' di tempo per noi stessi.
Se
il mio orologio a muro
mi dice che sono le quattro
del mattino,
lo manderò al diavolo.
Perché
ho cercato per troppo tempo
di provare a essere la canzone perfetta.
Quando i nostri cuori sono pesanti,
non dovremmo sopportarlo da soli.
[…]
E
canta per me dolcemente, amore,
la tua canzone per domani, e dimmi
che il mio nome è l’unico nascosto lì
da qualche parte.
E
sogna per me ogni cosa,
ma sognalo a colori,
quando tutto il sole continua a sorgere e a noi non importa.
[…]
Allora
buonanotte a te.
E
buonanotte, luna.
Quando
sei tutto quello a cui penso,
tutto
quello che sogno,
come
potrei respirare
anche
senza
un
bacio della buonanotte,
per
“Buonanotte a te”.
Il
tipo di speranza di cui tutti parlano,
il
tipo di sensazione che cantiamo,
seduti
nel nostro letto e leggendo a voce alta.
Come
un passaggio per "Buonanotte
Luna".
Per
"Buonanotte Luna".
~ Go Radio – Goodnight Moon
|
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Capitolo 14 *** 13. American Idiot ***
Salve.
Scusatemi
tanto se ieri non ho aggiornato, ma l’intera
serata è stata dedicata a “Colpa delle
Stelle”.
Ieri
sera in un cinema della mia città hanno
proiettato il film in anteprima, e così sono subito corsa a
vederlo.
Non
mi ha emozionato come il libro – ergo,
non mi si sono aperte le fontane –,
ma è stato comunque un bellissimo film, nonostante le
traduzioni sbagliate o il
posizionamento delle scene, che non era proprio fedele al libro di John
Green.
Ora
passiamo al capitolo.
La
canzone di oggi sarà quella strafiga di “American
Idiot” di quei strafighi dei Green Day.
Non
voglio anticiparvi niente, vi lascio alla
lettura.
Ci
vediamo Domenica prossima <3
~
Cruel Heart.
***
Green Day - American
Idiot
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 08 Maggio 2001
Avril's pov
«Allora,
ricapitoliamo.» ripetei ad alta voce.
«L’espressione
“Guerra Fredda” sta ad indicare non una battaglia
tra due gelati avvenuta in un
freezer, bensì la… com’è che
diceva… ah, sì, la contrapposizione…
ehm… politica
e militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E questa battaglia a
colpi di
ghiacciolo si concluse con la caduta del Muro di Berlino
nel… nel…»
Non guardare
sul libro, Avril.
«Si
è conclusa nel… ’69?»
Non devi
guardare.
«’79?»
NON.
GUARDARE.
«No,
sono sicura che è l’88.»
Alla fine,
lottando contro la mia coscienza, sbirciai la
data sul libro.
«Fanculo,
lo dicevo io che era l’89!» esclamai,
richiudendolo frustrata.
Le date non
facevano per me.
La storia non
faceva per me.
Lo studiare
da sola come un’asociale non faceva per me.
Ma, come al
solito, non avevo alternative.
Anche Kevin,
con mio grande dispiacere, si era preso l’Evanite.
«L’Evanite,
cari ragazzi, è una malattia che colpisce
tutti gli uomini in età adolescenziale, e i sintomi che
potete veder affiorare
nel soggetto colpito sono indifferenza verso il mondo esterno, il
restare
rinchiusi ogni ora nella propria stanza e il totale menefreghismo verso
i
poveri plebei che non sanno un fico secco di materie interessantissime,
quali la storia.» dissi, imitando alla
perfezione il tono del professor Wilson.
Tutto chiaro,
no?
Insomma, per
farla breve, anche Kevin non mi parlava più,
e i miei voti con Wilson stavano precipitando alla velocità
di una bomba
atomica appena sganciata, giusto per rimanere in tema.
Stavo
incominciando a credere che ci fosse qualcosa di
sbagliato in me.
Non era
possibile che una settimana prima mi parlavano e
una settimana dopo sembravano essere a corto di voce.
Però,
nonostante tutto, ero riuscita a farmi due nuovi
amici:
-
Philip, un
simpatico e tenero brufolo che mi era spuntato
sulla tempia destra;
-
Jack, il
loquace muro accanto al mio letto a cui esponevo
i miei problemi esistenziali durante la notte.
La mia
situazione era sempre più disperata.
Sospirai,
osservando l’assoluta immobilità di Jack, e
riaprii il libro di storia.
«L’espressione
“Guerra Fredda” sta ad indicare la
contrapposizione politica e militare tra Stati Uniti e Unione
Sovietica. Questa
battaglia si concluse con la caduta del Muro di Berlino nel…
nel…»
«Nell’89.»
«Esatto,
nell’89, grazie Kevin, avvenuta più precisamente
il 9 Novembre…»
Mi fermai un
attimo e sgranai gli occhi, rendendomi conto
di chi avesse parlato.
Alzai lo
sguardo e lo vidi appoggiato allo stipite della
porta.
«Kevin!
Ma cosa… cosa ci fai qui?»
Scrollò
le spalle. «Niente, ti ascoltavo.»
«Quindi…
Sei uscito dal letargo, dalla pausa meditativa,
dal silenzio stampa o quel che era?»
Annuì,
facendo un sorriso tirato.
«Allora
puoi aiutarmi a…»
«No,
mi dispiace, non posso darti una mano in storia,
oggi.»
Abbassai la
testa, sconfitta e disperata, mentre tutte le
mie speranze di una misera sufficienza andavano distrutte.
«Dovrai
sospendere giusto per un attimo, sai? Ora
dobbiamo proprio andare, altrimenti faremo tardi.»
Lo guardai
accigliata. «Andare dove?»
«Alla
stazione.»
***
Kevin's pov
Avril
guardava fuori dal finestrino, confusa, mentre con
una mano accarezzava gli interni in pelle.
«È
tua, questa macchina?»
Sorrisi, non
staccando gli occhi dall’asfalto. «No,
questa è l’utilitaria che la famiglia Taubenfeld
usa per i piccoli spostamenti.
Peter mi ha dato il permesso di prenderla.»
«Sei
uno di famiglia per loro, ormai.»
«Già.»
concordai.
«Kevin…
mi stavo chiedendo da un po’… dove fosse la tua
famiglia.» mi chiese, con voce dolce.
«Perché non torni da loro?»
«È
un tasto delicato, questo.» Strinsi talmente tanto il
volante che mi si sbiancarono le nocche. «Il fatto
è che… non mi ricordo niente
di loro. Qualche volta… mi sembra di vedere una donna dai
capelli biondi… con
degli occhi verdi, ma poi tutto si riduce ad una macchia di colore
indistinta.
Non so neppure se ci sia veramente qualcuno ad aspettarmi,
lì fuori.»
Stranamente,
invece di guardarmi con compassione, come
facevano tutti coloro a cui raccontavo questa storia, da circa dieci
anni a
questa parte, lei mi guardò con comprensione.
Per qualche
ragione, lei
mi capiva.
Improvvisamente,
sentii una piccola vibrazione ripetuta
nella tasca dei jeans.
Presi una
cuffia degli auricolari, la infilai
nell’orecchio sinistro e accettai la chiamata.
“Ciao,
Kevin.
Lei c’è?”
Mi schiarii
la voce, sperando che lo prendesse come un
segno affermativo.
“Puoi
essere
più chiaro?”
Alzai gli
occhi al cielo e canticchiai un “Mmh mmh”.
“Bene.
Dovrei
essere lì tra una decina di minuti. Ricorda che lei non deve
assolutamente
sospettare di niente.”
Ripetei
ancora quel suono, sentendomi infinitamente
stupido.
Girai la
testa e scoprii Avril guardarmi in modo
preoccupato.
«Kevin…
Tutto ok?»
Annuì,
fingendo di avere una convinzione in realtà
inesistente. «Sì, tutto a posto.» Le
indicai la cuffia. «Sto solo… cantando una
canzone. Nonostante sia altamente ripetitiva,
seccante ed egocentrica.»
le risposi, sperando che lui
capisse il mio riferimento.
“Kevin,
lasciatelo dire. Sei uno stronzo, amico.” Menomale,
almeno ci era
arrivato…
Avril
continuò a guardarmi, sempre più preoccupata.
«E
allora perché l’ascolti?»
Scrollai le
spalle, cercando di sembrare il più
indifferente possibile. «Perché mi va.»
Annuì,
guardando l’asfalto sfrecciare sotto i suoi occhi.
«Aspetta, ora che ci penso, non mi hai ancora detto
perché stiamo andando alla
stazione.»
Oh, merda.
«Perché
stiamo andando alla stazione, eh?» chiesi, cercando di
prendere tempo.
“Dille
che stai
andando a prendere un amico!”
«Sto
andando a prendere un amico.» ripetei.
«Chi?
Lo conosco?»
«Sì,
è Evan.» risposi, senza pensarci. Oh,
cazzo.
Sgranò
gli occhi, incredula. «Evan?»
“Cosa
stracazzo
dici, Kevin?!”
Deglutii,
desiderando che una voragine si aprisse sotto
di me e mi inghiottisse. «Voglio dire… Ethan. Devo
andare a prendere Ethan alla
stazione.» Sentii un sospiro di sollievo nel mio orecchio
sinistro.
«E
chi è?»
«Oh…
è… è un mio vecchio amico
d’infanzia. Fa una
visitina alla città e… ho pensato che potessi
conoscerlo.»
«Ok.
Sei sicuro di stare bene?»
Annuii
ancora. «A meraviglia.»
“Sei
stato
grande, Kevin, mi hai salvato. Ti devo un favore.”
«Non
uno.» mugugnai, fingendo un colpo di tosse.
“Sì,
hai
ragione, solo mezzo. Cinque minuti e sono lì. E ricorda,
binario 9.”
[N. d. A. Il
¾ non c’è, mi dispiace.]
E poi
riattaccò, ridendo.
Sospirai. Aiutali,
gli amici…
***
Avril's pov
Qualche
minuto dopo, Kevin mi fece scendere dalla
macchina. «Tu incomincia ad andare e aspetta il prossimo
treno al binario 9.»
«Ma
come riconoscerò Ethan?»
«Beh.
Smilzo, biondino, occhi azzurri… lo riconoscerai
sicuramente. Nel frattempo, io vado a… comprare le
sigarette… e poi torno.»
«Tu
fumi?»
«No.
Sono per… Ethan. Sì, sai, lui fuma come una
ciminiera.»
Annuii ed
entrai nel grande edificio, andando in cerca
del binario numero 9.
Appena lo
trovai, mi sedetti su una panchina vicina e
pensai al comportamento di Kevin.
Per tutto il
tragitto, era stato strano. Molto strano.
Lo schermo
segnava che il prossimo treno sarebbe arrivato
tra un minuto.
Mi guardai
intorno e, non vedendo nessuno, mi misi a
parlare ad alta voce, per ingannare il tempo.
«Ho
come la sensazione che Kevin mi abbia raccontato una
montagna di balle.
Però,
dall’altro lato, mi ha sempre detto la verità.
Mi ha sempre
aiutato. Beh, tranne oggi, per storia, ma
aveva un impegno, comunque.
No, non
può avermi raccontato bugie.
Lui non
è come…»
«Lui
non è come me?» mi chiese una voce, una voce che
conoscevo fin troppo bene.
Alzai lo
sguardo, incredula, e lo vidi.
Evan.
Se ne stava
lì, con un sorriso stanco e gli occhi tristi,
a qualche metro di distanza da me, mentre le altre persone scese dal
treno si
disperdevano intorno a noi.
Era come se
tutto intorno a noi… si fosse fermato.
C’eravamo
solo noi, con le nostre frasi non dette e con
la nostra vicinanza ritrovata.
Dimenticai la
rabbia per la sua improvvisa partenza, la
delusione per lo scherzo, la tristezza per la lontananza e
l’incredulità di
vederlo lì, di fronte a me.
Dimenticai
tutto e corsi verso di lui, circondai la sua
vita con le mie ginocchia e lo abbracciai.
Lui
restituì l’abbraccio e mi accarezzò i
capelli,
tenendomi sollevata. «Ehi.»
Fu tutto
quello che mi disse.
Ma a me
bastò per sapere che lui, in quel momento, era
davvero lì con me. Era reale.
Poi, la
rabbia, la delusione, la tristezza,
l’incredulità, tutto quello che avevo cercato di
reprimere tornò, e mi staccai
da lui.
Lo fissai,
seria. «Ma, Evan… Tu ieri mi hai detto che
tornavi tra una ventina di giorni… e Kevin…
quell’Ethan eri tu.»
Sorrise.
«Va bene, lo ammetto. Io e Kevin ci siamo messi
d’accordo. Non volevamo che sospettassi nulla per il mio
ritorno, e così,
all’ultimo momento, si è inventato la scusa di
“Ethan”. Volevamo solo farti una
sorpresa. Ah, a proposito…» Si chinò
verso la mia guancia destra e mi baciò. «Buona
festa della donna.»
«Oh…
grazie. È vero, oggi è l’8 Maggio, me
ne ero completamente
dimenticata.»
«Beh,
io no. E ho anche in mente il modo perfetto per
festeggiare.»
***
Scoprii,
soltanto dopo, che il suo modo perfetto per
festeggiare era portarmi in un centro commerciale per…
«Tatuaggi!
Questo è il negozio migliore, se ti vuoi tatuare.»
esclamò, sorridendo.
«Ma
io non voglio farmi un tatuaggio.» replicai.
«Oh,
andiamo, tutti gli adolescenti vogliono scrivere
sulla loro pelle ed evadere dalle regole! Coraggio.»
Mi costrinse
ad entrare nel piccolo negozio ed un omone
completamente tatuato dalla testa ai piedi comparve davanti a noi.
«Ciao,
Frank.» lo salutò, con una pacca sulla spalla.
«Siamo
venuti qui perché vogliamo farci un tatuaggio. Niente di
così appariscente,
però.» lo ammonì, indicando il suo
dragone rosso fuoco sull’avambraccio
sinistro.
L’omone
ridacchiò. «Va bene, ragazzi. Prego, accomodati
pure, Evan.»
Lo trattenni
per un braccio, prima che potesse seguire
Frank. «Vogliamo? Vuoi
dire che lo
faremo in due?»
«Ma
certo!»
«E
cosa ti tatuerai, un cuore colpito da una freccia con
la scritta “I love Mom”?»
Sorrise.
«Effettivamente, mi era passato per la testa, ma
no, non voglio essere uno stupido idiota americano.
Per ora non
voglio dirti niente, ma quando entrambi avremo finito, ci
confronteremo. Dobbiamo
condividere anche i piccoli dolori
della vita, no?»
«Parli
come un uomo sposato.» scherzai.
Mi fece
l’occhiolino e scostò la piccola tendina che
separava la stanza centrale dalla “sala
d’attesa”.
Non sentii
assolutamente nessun lamento, nessun grido di
dolore, niente.
Una decina di
minuti dopo, quando uscì, sembrava che
avesse fatto una passeggiata e avesse preso un caffè,
talmente era tranquillo.
«Adesso
tocca a te.» mi disse.
Feci una
smorfia di dolore, immaginando già quello che
sarebbe successo di lì a poco. «Grazie per
avermelo ricordato.»
Mi feci
coraggio e mi sedetti sulla sedia reclinabile al
centro della stanza.
«Allora…»
mi chiese Frank, mentre puliva un ago
affilatissimo. «Dove lo vuoi, il tatuaggio?»
Il mio
livello salivare era a zero, avevo davvero paura.
«Polso…
polso sinistro.»
«Va
bene. Che disegno vuoi sopra?»
Glielo
spiegai e, quando si mise all’opera, arrivarono,
come previsto, i dolori.
In fondo, ma
proprio molto
in fondo, Frank era stato davvero bravo. Così,
soddisfatta per il mio primo
tatuaggio, scostai la tendina e raggiunsi Evan all’esterno.
«Quanto
ti devo?» disse, prendendo il portafogli.
«Niente.
Ti pare che faccio pagare due fidanzatini
come voi?»
«Ehm…»
Avevo improvvisamente perso l’uso della parola.
«Veramente
noi… noi non siamo… fidanzati.» se ne
uscì,
completamente rosso in viso.
Dal canto
suo, Frank ci puntò un dito contro. «Non me la
contate giusta, voi due. Comunque, adesso devo andare, devo rimettere a
posto
il negozio.»
«Va
bene.» gli disse Evan, ancora imbarazzato. «Noi
andiamo. Ci vediamo, Frank.»
Appena fummo
usciti, fuori di sé dalla curiosità, mi
chiese cosa mi fossi tatuata.
E
così, gliela mostrai.
Avevo scelto
una stella nera stilizzata e sotto c’era la
scritta “Questa non è una stella, David.”
Era un chiaro
riferimento a “Colpa delle Stelle”, anche
se, più precisamente, si riferiva alla pipa di Magritte,
secondo cui la pipa da
lui rappresentata non era di fatto una pipa, ma il disegno di una pipa.
Appena Evan
vide la scritta, scoppiò a ridere per dieci
minuti.
Se ne stava
seduto su una panchina lì vicino e continuava
a tenersi la pancia per le risate.
Ovviamente,
il fatto di non sapere per cosa stesse
ridendo mi diede non poco fastidio.
«Evan,
si può sapere cosa c’è di tanto
divertente?»
In tutta
risposta, continuò a ridere ancora, e mi mostrò
il suo avambraccio destro.
Sopra di
esso, c’era il tatuaggio di un pezzettino di
formaggio con sotto la frase “Questo non è
formaggio, Ramona.” e poi, ancora
più piccola, la scritta “Okay, forse lo
è.”
Finalmente,
risi insieme a lui, per l’ironia della
situazione.
***
Appena
finimmo di asciugarci le lacrime per le troppe
risate, ci prendemmo un po’ di zucchero filato e andammo in
giro per il centro
commerciale.
«Allora…»
incominciai a chiedere. «Come stanno gli altri?
Matt?»
Storse il
naso. «Gli altri stanno bene, grazie, e Matt
stamattina ha comprato una nuova padella. E le ha dato anche un nuovo
nome.»
«Davvero?»
Annuì.
«Sì, stamattina non la piantava di blaterare di
quanto fosse bella Susy, di quanto fosse figa Susy e bla
bla bla. All’inizio abbiamo tutti pensato che
parlasse di una
ragazza.» Sospirò. «Soltanto dopo
abbiamo scoperto che, in realtà, si trattava
della padella nuova. Quel ragazzo mi fa venir voglia di prendere a
testate un
muro, certe volte.»
«Va
bene, ma non farlo su Jack.» mi premurai.
Si
accigliò. «Jack?»
«Il
muro… la testata… oh, lascia perdere.»
Stette
qualche minuto in silenzio e poi si fermò
improvvisamente davanti ad un negozio di vestiti.
Mise le mani
in tasca, guardò dritto davanti alla vetrina
e un sorriso leggero gli illuminò il viso.
«È
un sorriso quello?» gli chiesi, curiosa.
Si ricompose
immediatamente e scosse la testa,
indifferente.
«Ah,
no, questa non me la dai a bere. Hai sorriso, dimmi
perché.»
Senza che
riprendessimo a camminare, guardò dritto
davanti a sé ed
evitò il mio sguardo indagatore. «No.»
«No
che non hai sorriso?»
«No…
che
non voglio dirti il perché.»
Quel
sorrisetto da schiaffi tornò subito sul suo volto.
Sbuffai più sonoramente
del dovuto, in modo che lui potesse
sentirmi, ma non pronunciò una sola
sillaba.
Incrociai le
braccia e battei ritmicamente il piede sulla
moquette del corridoio del centro commerciale: mi chiesi se tutti i
pannelli di
vetro gli facessero quell'effetto bambinesco.
Eravamo
ancora fermi da qualche minuto fuori da quel
dannato negozio di vestiti ed Evan continuava a fissare la vetrina come
un ebete.
Il pensiero
che desiderassi essere per un attimo uno di
quei manichini per essere guardata in quel modo da lui mi fece
sbottare. «Oh,
andiamo, mi fai sentire una poppante così. Voglio
sapere perché stai continuando a sorridere nonostante tu
dica che non stai
sorridendo. Sto per scoppiare di curiosità puramente
infantile, Evan!»
«Ho
una paresi facciale.» disse, senza smettere di
guardare il vetro.
«Lo
sai, sei veramente uno str-»
«Okay,
okay. Sono arrivato alla conclusione che tu mi
conosci abbastanza bene e che non troverai questo racconto molto
strambo.»
«Evan,
tu potresti arrivare secondo ad una gara di
stramberia perché saresti troppo strambo per
vincerla.»
Si
grattò un orecchio, imbarazzato. «Già, ma ti
prometto che questo sarà meno strambo. Almeno… non più del
solito.»
«Okay,
racconta.»
«Va
bene. Devi sapere che, quando avevo undici anni,
pensavo…»
«Pensavi
di poterti perdere in un supermercato e di poter
sopravvivere tranquillamente rubando le caramelle gommose dal reparto
dolciumi?»
«Esattamente… no, aspetta…
cosa?!»
Mi
guardò come se fossi pazza.
«Che
c'è?»
replicai, assumendo l'aria più innocente
che riuscissi a fare.
«Ora
capisco chi sarebbe arrivato al primo posto alla
gara di stramberia.»
Roteai gli
occhi. «Beh, per tua informazione, una volta
mi sono persa per davvero e ho potuto verificare questa mia teoria per
ben
cinque ore.»
«Non
voglio immaginare lo stato di quella povera donna di
tua madre.»
Arrossii.
«Già, in effetti
su questo è meglio
glissare.»
Annuì
rapidamente, concentrato. «Dicevo… quando avevo
undici anni, pensavo che tutte le persone fossero perfette. Credo che
questa
mia teoria fosse nata dai cartoni animati che trasmettevano il
pomeriggio, non
so.
Naturalmente,
non potevo pensare lo stesso degli
estranei, delle persone che per me erano senza volto, e così mi limitai a
far aderire quella convinzione alla gente che per me non era ignota.
Kevin, mio
padre, Alfred, Mr. Leo…»
«Chi?»
lo interruppi.
«Mr.
Leo, il mio graziosissimo tigrotto di peluche.
Perdonami il nome molto poco fantasioso ma, andiamo, avevo solo undici
anni.
Insomma, tutti erano perfetti, nella mia visuale da bambino undicenne.
Poi,
quando incominciai a crescere, capii che tutti, adulti, bambini o
animali da
peluche che fossero, non erano assolutamente perfetti, anzi. Tutti
quanti
avevano un'imperfezione, un piccolo neo, una minuscola crepa che
impediva loro
di raggiungere la più totale
perfezione.»
«Come
l'hamartia di Hazel Grace.» riflettei.
«Esatto.»
Notai che gli brillavano gli occhi, quando
capiva di essere capito. «Ogni singolo elemento su questa
Terra aveva, ha e
continuerà ad avere una sua hamartia personale, fino alla
fine dei giorni.»
«Qual
era quella di Mr. Leo?»
«Oh,
quella di Mr. Leo era avere un proprietario come me.
Non hai idea di come lo deformavo, travolgendolo
nel mio abbraccio stritolatore.»
Si sbagliava,
perché anch'io avevo ricevuto quell'abbraccio.
Indicò
la vetrina con il pollice e continuò a parlare,
senza smettere di guardarmi. «E adesso stavo ridendo,
perché ho pensato che
anche i manichini hanno un hamartia tutta loro.»
«Uhm,
vediamo… Sono
bellissimi e non si devono preoccupare ogni mattina
di rifarsi il trucco.» osservai. «Non capisco
proprio quale sarebbe la loro
hamartia.»
Rise.
«Loro sono bellissimi e non si devono preoccupare
ogni mattina di rifarsi il trucco, certo, e questo semplicemente
perché… non hanno
vita.» Si voltò a guardarli.
«Non hanno avuto il
privilegio di possedere quel soffio vitale così prezioso e
assurdamente fragile.»
Riflettei, in
cerca di una domanda da porgli. «E che
succede se, per assurdo, una qualsiasi creatura non possedesse nessun
hamartia?»
«Beh,
nessun hamartia equivale a Dio. O ad un'altra
qualsiasi entità perfetta in cui si voglia
credere.»
Annuii,
d'accordo con lui. «Oppure equivale ad una principessa
delle favole. Anche loro sono bellissime e non si devono preoccupare
ogni
mattina di rifarsi il trucco.»
Pensai che la
battuta gli facesse ridere, ma non fu così.
«No, ti
sbagli. Anche loro hanno un hamartia.»
«Che
sarebbe?»
Mi
guardò negli occhi, serio, e sospirò.
«Essere
intrappolate in racconti a cui non crede più
nessuno.»
Mi ritrovai
ad annuire, per la seconda volta in pochi
minuti. Questo sì che era un
vero record.
E poi,
inaspettatamente, mi chiesi quale fosse la sua, di
hamartia.
Un brivido
alla schiena mi travolse per qualche secondo e
sapevo esattamente quale fosse il motivo.
Lui mi aveva
definito come "una persona che lo
conosceva abbastanza bene" ma, nonostante questo, non sapevo quale
fosse
la sua hamartia.
E forse, era
perché la sua piccola crepa doveva ancora arrivare.
***
Don't wanna be an American idiot.
Don't
want a nation under the new mania.
And
can you hear the sound of hysteria?
The
subliminal mind fuck America.
[…]
Television dreams of tomorrow,
We're
not the ones who're meant to follow.
For
that's enough to
argue.
Well, maybe I'm the
faggot America.
I'm
not a part of a redneck agenda.
[…]
Welcome to a new kind of tension.
All
across the alienation.
Everything
isn't meant to be okay.
Non
voglio essere un idiota americano.
Non
voglio una nazione così succube dei nuovi
media.
E
lo senti il rumore dell’isteria?
Il
suono subliminale che fotte i cervelli dell’America.
[…]
Sogni
televisivi del futuro,
noi
non dobbiamo per forza dargli retta
e
convincerli a starci dietro.
Beh,
forse io faccio parte dell’America gay.
Non
sono nella lista dei bigotti conservatori.
[…]
Benvenuti
in un nuovo tipo di pressione
mentale,
che
attraversa una nazione ormai diversa.
Non
tutto deve andare bene per forza.
~ Green Day – American Idiot
|
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Capitolo 15 *** 14. Royals ***
Buonsalve
a tutti.
Come
vi sentite al pensiero che, tra un po’,
si ricomincia con la scuola?
Io…
non tanto bene.
Alla fine, ho scritto davvero una one-shot sulla MattxSusy, o meglio, sulla Matsy. [Tutti i diritti vanno a Solluxy per il nome lol]
Potete trovarla qui --> http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2806665&i=1
Comunque, passiamo al capitolo.
All'inizio ci sarà una chat tra Kevin e un personaggio misterioso, che ho soprannominato "X". [Molto originale, sì]
Poi, la
canzone di oggi sarà all’interno e vi consiglio
di ascoltarla mentre, nel frattempo, leggete il testo. Sarebbe
fenomenale.
Ancora
una volta, so che la canzone è del
2013 e non del 2001, ma ho voluto inserirla lo stesso.
E
non preoccupatevi, nel capitolo ci sarà
una cover decisamente più bella della canzone originale,
almeno a mio parere.
Bene,
ci vediamo Domenica prossima <3
~
Cruel Heart.
***
Closer To Closure -
Royals (Lorde Cover)
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Maggio 2001
[Laboratorio
d’informatica
del Sanford-Brown]
A: Computer
04 (K)
Ciao :)
- X
A: Computer
23 (X)
Ehm…
ciao.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Un
po’ di entusiasmo in più
sarebbe gradito :)
- X
A: Computer
23 (X)
Senti, sto
cercando di
ascoltare la lezione. Se vengo beccato a chattare sulla connessione
interna del
collage, sono fregato.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Non ti facevo
così secchione, Beadfluent.
E smettila di guardare
verso il mio computer ;)
- X
A: Computer
23 (X)
Voglio solo
capire chi sei.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Chi sei, come
stai, cosa fai… le solite domande
da chat porno. Piuttosto,
come stai? ;)
- X
A: Computer
23 (X)
Non credevo
che in questa
scuola ci fossero anche pervertite.
Sono un po’ confuso…
- Kev
A: Computer
04 (K)
Anch’io!
Voglio dire, le hai
viste le orecchie del signor Billigan? È chiaro che poi uno
è confuso, non ne
avevo mai viste di così grosse.
- X
A: Computer
23 (X)
Chissà
se prendono anche i
canali satellitari…
-
Kev
A:
Computer 04 (K)
Ahahahahahahah.
- X
A: Computer
23 (X)
Oddio. Oh, mio Dio!
-
Kev
A:
Computer 04 (K)
Cosa
c’è, hai visto un alieno
che si scaccola?
- X
A: Computer
23 (X)
Magari!
È Billigan, che si sta
scaccolando. E ha un’enorme caccola che gli sta penzolando
dal naso.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Bleah, che
schifo!
- X
A: Computer
23 (X)
È
il tipo più brutto che abbia
mai visto.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Sì,
è vero.
- X
A: Computer
23 (X)
Penso che
dovremmo dire alla
polizia che abbiamo un alieno che si scaccola per professore.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Ma questa
è una magnifica idea!
- X
A: Computer
23 (X)
Perché?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Perché,
poi, i poliziotti
arresterebbero noi per aver fatto morire tutti quegli esperimenti
segretissimi
dell’Area 51. L’alito di Billigan è
davvero letale.
- X
A: Computer
23 (X)
…
E cosa ci trovi di
magnifico?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Beh…
gli stessi poliziotti ci
metterebbero in prigione. Pensa a noi
due, insieme, nella stessa cella…
- X
A: Computer
23 (X)
Che
c’è, stai flirtando?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Forse…
- X
A: Computer
23 (X)
Lo stai
facendo male, sappilo.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Oh, andiamo,
faccio davvero
così schifo?
- X
A: Computer
23 (X)
Sì.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Ma come?!
Questo è il momento
in cui tu mi dici:”Ma no, non fai schifo, devi solo fare
pratica.”
- X
A: Computer
23 (X)
Questo non
c’è scritto sul
copione.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Sei proprio
cattivo, uffa…
- X
A: Computer
23 (X)
Ho solo detto
la verità, cerco
di farlo sempre. O almeno, quasi sempre…
- Kev
A: Computer
04 (K)
Quindi, se ti
chiedessi se ti
è piaciuto il mio cappello, tu mi risponderesti…?
- X
*Connessione
terminata*
***
Avril's pov
«Ehm,
Avril… mi sembri un po’ nervosa.»
Evan mi aveva
invitato ad andare con lui in un locale,
quel lunedì sera.
Aveva
insistito affinché io lo vedessi “in
azione” con i
Nameless, e così mi aveva proposto di passare la serata a
vederlo provare in un
locale semivuoto.
Ed era
proprio questo il problema: sapevo che Matt e gli
altri erano tornati tre giorni fa dalla loro tournée e il
fatto di conoscerli
mi metteva un po’ in… agitazione.
Battei
ritmicamente le dita sul sedile della macchina. «Io?!
Nervosa?! No.»
Lo sentii
deglutire rumorosamente. «Okay… per me,
insomma… per me non è un problema, se
hai… le
tue cose.»
Lo fulminai
con un’occhiataccia. «Si chiama ciclo. CICLO.
C-I-C-L-O. Non capisco perché voi ragazzi pensate sempre che
ce l’abbiamo, ogni
volta che siamo nervose.»
«Ma
allora sei nervosa! Comunque… non ho un…
insomma… assorbente, qui
in macchina…»
«Oh
mio Dio, Evan, non ho il ciclo! Non ce l’ho, okay? Okay.
Ho solo paura di… inciampare, cadere, scivolare, e anche di
averlo
improvvisamente, il ciclo, se proprio lo vuoi sapere.»
Alzò
un sopracciglio. «Ma di che cavolo stai parlando?»
Incrociai le
braccia e sbuffai. «Ho paura di fare una
qualsiasi figura di merda e di non piacere ai tuoi amici. Ora te
l’ho detto,
sei contento?»
A quelle
parole, accostò immediatamente al marciapiede
sulla destra, si slacciò la cintura e mi prese il viso tra
le mani. «Ehi,
ascoltami un attimo.»
Mi guardava
negli occhi con un’intensità da far male.
«Tu
non potresti mai sfigurare davanti ai miei amici. È
impossibile, perché… sei
magnifica, intelligente, divertente, e questo non è un pesce
d’Aprile. E poi,
se anche avessi improvvisamente il… ehm,
ciclo… potrei chiedere a Matt se Susy, la sua
padella, abbia un… assorbente.
Okay?»
Abbassai gli
occhi, ridendo, e poi li rialzai verso di
lui. «Okay.»
Annuì
con convinzione e ritornò con le mani sui fianchi,
togliendole dal mio viso. «Bene. Adesso puoi scendere, il
locale è quello lì.»
***
Una volta
presentata agli amici di Evan, scoprii di
essermi fatta mille problemi inesistenti. Come
al solito.
Erano molto
gentili con me e si vedeva che condividevano
gran parte del loro tempo tra di loro.
In
particolare, notai che Matt era particolarmente
euforico dal vedermi lì, e che, ogni volta che intervenivo
nella conversazione,
dava delle gomitate ad Evan e mi lanciava delle occhiate… strane.
«Cari
signori e signore…»
disse, facendo un cenno nella mia direzione. «Proporrei di
bere qualcosa, prima
di iniziare a suonare.»
«Non
so se è il caso, Matt…»
s’intromise Evan.
«Oh,
andiamo! Lo so che sei preoccupato per la salute di
Avril, amico, ma credo che lei
apprezzerebbe, no?» E anche qui, mi
rifilò un’occhiata alquanto
bizzarra.
«Beh,
si potrebbe anche fare…» tentai di replicare,
sentendomi tirata in causa.
«Perfetto.»
mi rispose, sorridendomi. «Allora, chi vuole
un bicchierino?»
Inutile dire
che, dopo quel singolo bicchierino, ce ne
furono molti altri.
Insomma, nel
giro di dieci minuti, eravamo tutti quanti
ubriachi.
«E
adesso voi… voi… vorreste suonare?»
biascicai. Chissà
perché non la smettevo di vedere
doppio…
«Certo!»
mi rispose Evan, che non se la stava cavando
tanto meglio. «Adesso… finisco di bere
questo… e poi… suoniamo!»
Matt fece in
tempo a rubare il bicchiere dalle mani di
Evan e a scolarlo al posto suo. «CHE COSA SUONIAMO,
RAGAZZI?» urlò alla band.
«VOGLIO
UN PO’ DI SBALLO, MATT!» gridò in
risposta Jesse,
il secondo chitarrista, come se quello non fosse già
abbastanza. «SUONIAMO ROYALS!»
«Io
adoro quella canzone!» dissi ad Evan. «Posso
cantare
con voi?»
Evan scosse
la testa, appoggiandosi allo sgabello per non
perdere l’equilibro. «No… non
puoi…»
«MA
CERTO CHE PUÒ, EVAN!» intervenne Matt.
«ANDIAMO
RAGAZZI, FACCIAMO URLARE LE CHITARRE!»
Tutti si
sistemarono ai propri posti e qualcuno – non
feci in tempo a vedere chi – mi mise un microfono in mano.
La batteria
di Matt iniziò con un ritmo martellante e
Charlie, con il suo basso, iniziò a cantare.
I've never seen a diamond
in the flesh.
I
cut my teeth on wedding rings in the movies.
And
I'm not proud of my address,
In
the torn-up town, no post code envy.
Non
ho mai visto un diamante
nella carne.
Mi
sono fatta le ossa sulle fedi nuziali nei
film.
E
non sono orgogliosa del mio indirizzo nella
città lacerata,
nessuna
invidia per il codice postale.
Jesse continuò.
But every song's like gold teeth, Grey Goose,
trippin' in the bathroom,
Blood
stains, ball gowns, trashin' the hotel
room.
We
don't care, we're driving Cadillacs in our
dreams.
Ma
ogni canzone è come
denti
d’oro, Grey Goose, un giro nel bagno,
macchie
di sangue, vestiti da ballo, spazzatura
in una stanza d’albergo.
Non
ci importa, guidiamo le Cadillac nei nostri
sogni.
Gli
subentrò Matt.
But everybody's like Crystal, Maybach, diamonds
on your time piece.
Jet
planes, islands, tigers on a gold leash.
We
don't care, we aren't caught up in your love
affair.
Ma
tutti sono come
Cristal,
Maybach, diamanti sul tuo orologio.
Aerei,
isole, tigri col guinzaglio d’oro.
Non
ci importa, non siamo nelle tue questioni
amorose.
Poi,
io ed Evan cantammo insieme il
ritornello.
And
we'll never be royals
(royals).
It don't run in our blood.
That
kind of lux just ain't for us,
We
crave a different kind of buzz.
Let
me be your ruler (ruler),
You
can call me queen Bee.
And,
baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll
rule.
Let
me live that fantasy.
E
non saremo mai nobili.
Non
scorre nel nostro sangue.
Quel
tipo di lusso non è per noi,
ci
piace un altro tipo di squillo.
Fammi
essere il tuo sovrano,
puoi
chiamarmi ape regina.
E,
tesoro, governerò, governerò,
governerò.
Fammi
vivere quella fantasia.
Ancora,
ripresero a cantare
Charlie, Jesse e Matt.
My
friends and I, we've
cracked the code.
We
count our dollars on the train to the party.
And
everyone who knows us knows that we're fine
with this,
We
didn't come for money.
Io
e i miei amici abbiamo
decodificato il codice.
Contiamo
i dollari sul treno per la festa.
E
tutti quelli che ci conoscono sanno che ci va
bene,
non
siamo venuti per i soldi.
But every song's like gold teeth, Grey Goose,
trippin' in the bathroom,
Blood
stains, ball gowns, trashin' the hotel
room.
We
don't care, we're driving Cadillacs in our dreams.
Ma
ogni canzone è come
denti
d’oro, Grey Goose, un giro nel bagno,
macchie
di sangue, vestiti da ballo, spazzatura
in una stanza d’albergo.
Non
ci importa, guidiamo le Cadillac nei nostri
sogni.
But everybody's like Crystal, Maybach, diamonds
on your time piece.
Jet
planes, islands, tigers on a gold leash.
We
don't care, we aren't caught up in your love
affair.
Ma
tutti sono come
Cristal,
Maybach, diamanti sul tuo orologio.
Aerei,
isole, tigri col guinzaglio d’oro.
Non
ci importa, non siamo nelle tue questioni
amorose.
And we'll never be royals (royals).
It
don't run in our blood.
That
kind of lux just ain't for us,
We
crave a different kind of buzz.
Let
me be your ruler (ruler),
You
can call me queen Bee.
And,
baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll
rule.
Let
me live that fantasy.
E
non saremo mai nobili.
Non
scorre nel nostro sangue.
Quel
tipo di lusso non è per noi,
ci
piace un altro tipo di squillo.
Fammi
essere il tuo sovrano,
puoi
chiamarmi ape regina.
E,
tesoro, governerò, governerò,
governerò.
Fammi
vivere quella fantasia.
Evan
mi lasciò cantare interamente il bridge.
Oooh, ooooh, ohhh.
We're
bigger than we ever dreamed,
And
I'm in love with being queen.
Oooh
ooooh ohhh.
Life
is game without a care.
We
aren't caught up in your love affair.
Siamo
meglio
di quanto abbiamo mai sognato
e
adoro essere una regina.
La
vita è un gioco senza importanza.
Non
siamo nelle tue questioni amorose.
Alla
fine, decidemmo di
spartirci l’ultima strofa. Lui cantò la prima
parte, mentre io la seconda.
And we'll never be royals (royals).
It
don't run in our blood.
That
kind of lux just ain't for us,
We
crave a different kind of buzz.
E
non saremo mai nobili.
Non
scorre nel nostro sangue.
Quel
tipo di lusso non è per noi,
ci
piace un altro tipo di squillo.
Mi
avvicinai al suo orecchio,
mettendo da parte il microfono per un attimo.
Let me be your ruler
(ruler),
You
can call me queen Bee.
And,
baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll
rule.
Let
me live that fantasy.
Fammi
essere il tuo sovrano,
puoi
chiamarmi ape regina.
E,
tesoro, governerò, governerò,
governerò.
Fammi
vivere quella fantasia.
E
poi, successe una cosa che mai mi sarei
aspettata da lui.
Mi
baciò.
***
Il
bacio era stato fantastico.
Con
una mano mi aveva afferrato delicatamente
la nuca, guidandomi verso la sua bocca, mentre con l’altra
mano mi aveva accarezzato
la guancia.
Le
sue labbra sapevano di dolce e di alcool,
ma non mi fermai.
Il
suo tocco e le sue labbra erano esitanti,
e io sapevo il perché: si preoccupava che avrei potuto
respingerlo.
Ma
non lo avevo fatto in quel momento, e non
lo avrei fatto mai.
Così,
avevo alzato le braccia e le avevo
portate intorno al suo collo, per attirarlo ancora di più a
me.
Avevamo
continuato a baciarci e poi, una
volta separati, scoprii che la serata, purtroppo, non era ancora finita.
Infatti,
qualche ora dopo, con la testa in
fiamme, venni brutalmente strappata dal mondo dei sogni.
Il
mio incubo peggiore si stava avverando.
Spalancai
gli occhi, terrorizzata, e urlai.
Urlai
contro quel dolore che minacciava di
sopraffarmi.
No,
non l’avrebbe fatto.
Non
stavolta.
Nonostante
il buio che mi avvolgeva, riuscii
a toccare la scatola delle pillole che avevo sotto il cuscino e a
prenderne
una.
Nel
frattempo, sentii dei passi farsi sempre
più veloci.
Qualcuno
spalancò la porta.
«Avril…
che succede?»
Era
la sua voce.
Era
lui.
«Va’
via, Evan.»
«Ma
cosa…»
«VATTENE!»
gli urlai.
Poi
ingoiai la pillola e non sentii più
niente.
|
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Capitolo 16 *** 15. With Me ***
Salve
salvino (?)
Non
mi piace molto com’è venuto questo
capitolo, ma ho voluto aggiornare oggi perché
sarò molto impegnata nei prossimi
giorni, e credo che non sarei riuscita proprio a mettermi al computer.
Comunque,
la canzone sarà “With Me”, dei
miei amori Sum 41.
Le
loro canzoni all’interno della storia,
per il momento, dovrebbero essere sette. Sempre che non cambi idea
^^”
Spero
vi piaccia :3
Ringrazio
molto chi apprezza questa storia
silenziosamente e chi la legge e la recensisce.
Buon
nuovo anno scolastico a tutti. In
bocca al lupo <3
~
Cruel Heart.
***
Sum
41 - With Me
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 16 Maggio 2001
Avril's pov
La
luce del sole filtrò dalla finestra in camera mia e mi
svegliai.
Aprii
piano gli occhi e mi stiracchiai per bene, ma non fu un buon risveglio.
In
un attimo, ricordai tutto quello che era successo la sera prima:
l’agitazione
per l’incontro con Matt e gli altri, la frenesia subito dopo
aver bevuto, il bacio… e
il buio.
Avevo avuto un attacco. Di
nuovo.
Scostai
le coperte e mi alzai: qualcosa di giallo era attaccato alla porta.
Mi
avvicinai e vidi un post-it, riconoscendo subito la scrittura
disordinata con
cui era scritto il messaggio.
“Ho visto che stavi dormendo e non ho voluto
svegliarti. Tutto bene? - E”
Lo
strappai bruscamente e lo accartocciai.
Tutta
la rabbia, che avevo cercato di trattenere inutilmente, venne fuori: rabbia verso questa stupida malattia, che
era sempre lì, pronta a sopraffarmi in ogni momento, e rabbia verso Dio, perché
aveva scelto proprio me per sopportarla.
Strinsi
il biglietto appallottolato nella mano destra. Ero arrabbiata, delusa e
ferita,
soprattutto perché avevo permesso a lui di vedermi in quello
stato.
Le
lacrime minacciavano di uscire, ma le ricacciai immediatamente indietro.
Provavo
vergogna, una cocente e dolorosa vergogna.
Vergogna
perché mi aveva vista nel
peggiore dei momenti.
Vergogna
perché mi aveva vista quando
ero debole e inerte.
Quando
ero vittima della mia malattia
senza nome.
Guardai
il tatuaggio sul polso sinistro e fissai, per dieci, lunghissimi
secondi, il
suo secondo nome, David.
Strinsi
le nocche fino a farle sbiancare.
Non
succederà mai più una cosa del
genere,
promisi a me stessa.
Mai
più.
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 01 Giugno 2001
La
campanella suonò, dichiarando conclusa un’altra
noiosissima giornata di
lezione.
Qualche
minuto dopo, voltai piano la testa e mi guardai le spalle con
circospetto,
sperando che lui non ci fosse.
«Avril.»
Saltai
dalla sedia per lo spavento e fulminai Kevin con lo sguardo.
«Kevin! Mi hai
fatto perdere quindici anni di vita!»
«Wow,
ti facevo un po’ più grande di una
poppante…»
Roteai
gli occhi, ma non ebbi il tempo di replicare. «Se lo stai cercando, mi dispiace, ma non
c’è.»
disse.
«È stato uno dei primi ad andarsene e
adesso starà sicuramente in sella alla sua moto sulla via di
casa.»
Emisi
un impercettibile sospiro di sollievo e rilassai le spalle.
«Va bene. Noi andiamo con Alfred?»
chiesi, alzandomi.
Annuì. «Certo.»
E
così, accompagnata
dall’andatura leggermente zoppicante di Kevin, percorsi il
corridoio del
Sanford-Brown e raggiunsi la limousine guidata da Alfred.
Strabuzzai
gli
occhi: era completamente nera, tirata a lucido e, beh…
enorme.
Decisamente poco vistosa.
Io
e Kevin ci sedemmo
sui sedili posteriori, mentre venimmo accolti dalla baritonale voce di
Alfred,
che canticchiava “James
Bond”.
Appena
si accorse
del nostro imbarazzo, s’interruppe subito. «Oh,
scusatemi tanto, ragazzi. È che, da bambino, fantasticavo di
essere una spia in
missione che sparava con la pistola ad acqua e pensavo che bastasse
solo
canticchiare questa canzoncina per entrare nell’FBI.»
ridacchiò,
ricordando quello che, evidentemente, era rimasto solo un sogno
infantile. «Piuttosto,
com’è andata la vostra giornata?»
Io
e Kevin rispondemmo in coro.
«Magnifica.»
disse lui, facendo un sorriso da 1060 watt.
«Noiosa.»
risposi io, roteando gli occhi.
Alfred
rise
ancora. «Beh,
mettetevi d’accordo.»
«Direi
magnificamente noiosa, Alfred.» terminò Kevin,
sempre con il sorriso.
Mi
girai verso di
lui. «Perché
magnifica?»
Fece
un cenno con il capo. «Perché… sono
riuscito a seguire tutto il discorso di
Wilson.»
Alzai
un
sopracciglio. «Tu
ti addormenti, alle lezioni di
Wilson.»
Arrossì.
«E…
perché… uhm… Mary ha fatto le polpette
al sugo. Io
adoro le polpette al sugo. E anche tu adori le polpette al sugo. Chi
non adora
le polpette al sugo?»
Ridussi
gli occhi
ad una fessura. «Tu
non me la racconti giusta,
Kevin Beadfluent.»
Scrollò
le spalle
e diresse lo sguardo all’esterno della macchina.
Anch’io
guardai il
finestrino e riconobbi la moto di Evan parcheggiata accanto al cancello
di
villa Taubenfeld.
Sentii
improvvisamente lo stomaco in subbuglio.
Kevin
scese dalla
limousine e mi tenne la portiera aperta, in modo da poter far scendere
anche a
me. «Dio, ho una fame!»
Aprì
il cancello con la chiave e percorremmo il viale. «Allora ti
è andata proprio
bene, visto che Mary ha preparato le polpette al sugo.»
dissi, dandogli una pacca sulla spalla.
Lui,
però, ebbe
una reazione del tutto inaspettata: con una smorfia, si
scostò.
Lo
guardai,
totalmente confusa.
Abbassò
lo sguardo.
«Scusami,
tu non c’entri niente. È che… ho la
schiena
completamente coperta di ferite. E, beh… mi fa male anche se
qualcuno mi
sfiora.»
sussurrò.
Abbassai
subito la
mano, sentendomi terribilmente in colpa. «Oddio,
mi dispiace tanto Kevin, non lo sapevo. In che senso… ferite? Cosa sono, graffi?»
Scosse
la testa. «No,
sono delle lesioni più profonde, non semplici
graffi.»
«E
come te le sei procurate?»
«Non
lo so, non ne ho la più pallida idea. Ce le ho sempre avute,
da quel che
ricordo.»
Ci
fu qualche
breve istante di silenzio, in cui pensai a cosa potesse essergli
capitato.
Poi,
parlò di
nuovo. «E
tu?»
«Cosa?»
gli chiesi, mentre aprivamo la porta e andavamo verso la sala da pranzo.
«Hai fame?»
“Più
di quanto
immagini.” stavo per rispondergli.
Ma
non pronunciai
una sola sillaba, perché una morsa mi strinse
pericolosamente lo stomaco.
Alzai
gli occhi e
vidi Evan, seduto al tavolo, con lo sguardo dritto verso di me.
«No.
Credo che salirò in camera.»
E
scomparsi dalla
sua vista.
***
Evan's pov
Inspirai
ed
espirai profondamente.
Poi,
mi presi la
testa tra le mani ed emisi un gemito di frustrazione.
In
tutta risposta,
sentii Kevin spingere indietro la sedia, facendola raschiare sul
parquet.
«Ehm…
Che succede, amico?»
Alzai
lo sguardo
verso di lui. «Ti manca solo la carota e poi saresti un perfetto
Bugs Bunny.»
Alzò
le spalle. «Allora?
Mi
vuoi dire che succede?»
Sospirai.
«È
evidente, non c’è altra spiegazione: ce
l’ha con
me.»
«Chi
ce l’ha con te?»
Roteai
gli occhi.
Kevin era il mio migliore amico, va bene, ma era un po’ duro
di comprendonio. «Mia nonna.» gli risposi sarcasticamente.
«Non
sapevo avessi una nonna…»
«Oh
mio Dio, Kevin, non è di mia nonna che sto parlando! Si
tratta di Avril!»
«E che ne so io! Se tu mi dici “Mia
nonna”,
io credo veramente che tu intenda tua nonna, scusa.»
Ignorai
la sua ultima risposta. «Il fatto è che sento che
mi sta evitando. E lo sta
facendo con tutte le sue forze.»
Appoggiai le mie mani sulle sue. «Ti
prego Kevin, aiutami, non so cosa fare!»
«Non
toccare le mie mani, maniaco!»
mi disse, facendo una finta faccia schifata. «E
poi, non capisco: perché non ci vai a parlare e risolvi
tutta la faccenda?»
Sgranai
gli occhi.
Era
un’idea così semplice… che poteva
funzionare!
Un
secondo dopo,
però, la sorpresa venne rimpiazzata da un’enorme
sensazione di stupidità.
Perché
non ci avevo pensato prima, dannazione?!
«Grazie
Kevin, sei un vero amico!»
«Figurati,
“Centro d’Ascolto” è il mio
secondo nome. Beh no, in effetti sarebbe il secondo
e il terzo…»
Ma
non lo stavo
già più ascoltando.
Non
mi
complimentai per la sua battuta e salii in fretta le scale.
Poi,
cercando di
calmarmi, bussai alla porta della camera di Avril.
***
Avril's pov
Sentii
qualcuno
bussare alla porta.
Increspai
le
sopracciglia ma, sicura che fosse Kevin, andai ad aprire.
E,
invece, mi
ritrovai davanti… Evan.
Rimasi
completamente paralizzata, non sapendo se sbattergli la porta in faccia
o se
lasciarlo entrare.
Così,
approfittando della mia indecisione, decise lui per tutti e due e si
catapultò
nella mia camera, muovendosi irrequieto.
«Non
va bene. Non va bene per niente.»
Lo
guardai, confusa. «Di cosa…»
«No,
non interrompermi, sto cercando di mettere insieme un discorso decente.
In
questo modo, la cosa non può più andare avanti.»
Si passò una
mano tra i capelli. «Io
non posso più andare
avanti, Avril. Sono quindici fottutissimi giorni che mi eviti. Andiamo
a scuola
e tu mi eviti. Cerco di attirare la tua attenzione e tu mi eviti. Persino se mi parassi davanti a te e ti
mettessi un dito nell’occhio, tu mi eviteresti! E
non dire che non è vero!
Non ti sento più vicina come prima, mentre invece vorrei che
tu fossi sempre con
me.
È
da quella sera al locale che sei distante e mi sto scervellando da
allora,
perché non riesco a capire se il problema sia stato il bacio
o quello che è
successo dopo!
Prego
che tu non ti sia pentita del bacio, perché… insomma… è stata la
cosa più bella di tutta la mia vita. Poi, dopo
quell’episodio, io e tua madre abbiamo parlato. Non del
bacio, è chiaro, ma di
quello che ti è successo quella notte: mi ha spiegato la tua
malattia e mi ha
detto anche della sua assurdità, perché, voglio
dire, non c’è alcuna causa che
la determini. E se, magari, tu provi… non so…
vergogna… o imbarazzo… ti posso
assicurare che non ce n’è alcun bisogno,
perché, andiamo, io
m’imbarazzo a dire la parola “assorbente”!»
Fece una breve risata isterica, ma tornò subito serio. «La
affronteremo. Affronteremo questa malattia insieme. Io
sarò il tuo Augustus e tu sarai la mia
Hazel Grace. Sempre se lo vuoi. Quello
che voglio dire è che… insomma…
io… io sto
impazzendo… senza di te.»
Avevo
sentito abbastanza.
Mi
avvicinai a lui, allacciando le mani al suo collo.
«Sta’
zitto.»
gli sussurrai.
E
poi, mi alzai sulle punte, e lo baciai.
***
I
don't want this moment to ever
end,
where everything's nothing,
without you.
I'd
wait here forever just to,
to
see you smile.
'Cause
it's true,
I
am nothing without you.
[…]
I want you to know,
with
everything, I won't let this go.
These
words are my heart and soul.
I'll hold onto this moment, you know,
'cause
I'll bleed my heart out to show.
And
I won't let go.
[…]
All the streets,
where
I walked alone,
with
nowhere to go,
have
come to an end.
[…]
I don't want this moment to ever end,
where
everything's nothing, without you.
.
Vorrei
che questo momento
non finisse mai,
dove
tutto è niente, senza di te.
Aspetterò
qui per sempre,
solo
per vedere il tuo sorriso.
Perché
è vero, io non sono niente senza di te.
[…]
Voglio
che tu sappia che,
con
tutto quello che è successo,
non
permetterò che questa cosa vada in fumo.
Queste
parole sono il mio cuore e la mia anima.
Terrò
stretto questo momento, lo sai,
mentre
il mio cuore sanguina per mostrartelo.
E
non permetterò che questa cosa vada in
fumo.
[…]
Per
le strade, dove cammino
da solo,
senza
alcun posto dove andare,
sono
arrivato alla fine.
[…]
Vorrei
che questo momento
non finisse mai,
dove
tutto è niente, senza di te.
~ Sum 41 – With Me
|
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Capitolo 17 *** 16. I Love the Both of You ***
Salve.
Mi
dispiace di non aver aggiornato per
molto tempo questa storia.
Così,
ho pensato di interromperla, per
mancanza di tempo.
Non
ve la prendete.
…
Scherzetto!
È
ovvio che non la interrompo e, anche se
il tempo è mio nemico, cercherò lo stesso di
aggiornare il più velocemente
possibile.
Scusatemi
davvero per il ritardo, ma voi
non potete capire cosa sono stati questi primi 15 giorni di scuola:
compiti,
compiti, compiti e compiti.
Uhm,
vediamo, ho già detto compiti?
Se
finisco ogni sera alle nove, è un
miracolo.
Cercherò
di rispondere al più presto alle
recensioni e scusatemi anche per com’è venuto
questo capitolo, ma, davvero, è
stato molto difficile scriverlo nelle mie condizioni ^^”
Al
prossimo aggiornamento <3
~
Cruel Heart.
***
Evan Taubenfeld - I Love The Both Of
You
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 30 Maggio 2001
Avril's pov
Riuscivo
a sentire gli strilli del
piccolo.
Era
nato solo da qualche settimana, ma
la sua voce già pretendeva di essere sentita.
Sorrisi
tra me e me. Sarebbe stato un
ottimo urlatore.
Poi,
però, il mio sorriso svanì.
Avvicinai
il mio orecchio alla porta che
separava il reparto della neonatologia dalla sala d’attesa,
ed ascoltai.
Erano
grida. Grida di un uomo.
Scossi
i capelli via dagli occhi e mi
concentrai sulla voce maschile.
«Non
mi capacito di come possa essere
successo…»
Cercai
di visualizzare la scena.
Un
uomo, probabilmente sulla quarantina, stava camminando
nervoso su e giù per il corridoio della sala
d’attesa.
Riuscivo
a sentire i suoi passi irrequieti strisciare sul
linoleum.
Forse
era solo, o forse c’era qualcuno con lui.
«Calmati,
ti prego.»
Una
donna. C’era anche una donna.
«No
che non mi calmo. Dobbiamo
assolutamente trovare una soluzione.»
Sentii
la donna emettere un gemito di dolore, come se
l’uomo le avesse dato un pugno nello stomaco.
«Come…
Come puoi parlare così di tuo
figlio?»
La
rabbia dell’uomo esplose incontrollata e la voce gli
salì di un’ottava.
«Quello
non è mio figlio! QUELLO È UN ABOMINIO! NON
È UN BAMBINO, È SEMPLICEMENTE UNA
COSA, UN ESPERIMENTO RIUSCITO MALE!»
Poi
deglutì, come se stesse cercando di calmarsi, invano.
«È fragile, è
debole. È malato. Dobbiamo rimediare,
Avril.»
Il
discorso dell’uomo era stato molto concitato, certo,
ma c’era qualcosa che non mi quadrava.
Come
faceva a sapere il mio nome?
E
poi, la sentii.
Sentii
una voce gutturale, di un ragazzo, che mi chiamava
dolcemente.
«Avril. Avril, svegliati.»
E
mi risvegliai
dal sogno.
Sgranai
gli occhi
e alzai di scatto il busto, con il respiro ansante.
Di
fronte a me,
vidi un’espressione accigliata diffondersi sul viso di Evan.
«Che succede?» mi chiese.
«No… niente. Solo
un
brutto sogno.»
Cercai di sorridergli, ma credo che il mio
cervello optò per l’opzione “Smorfia non
del tutto convincente”.
Alzò
un
sopracciglio e fece un sorriso sghembo. Notai che a lui, invece, i
sorrisi
uscivano benissimo. «Che
mi nascondi qualcosa?
Tipo, un sogno erotico su di me, o robe del genere?»
«Ma no, scemo.»
Scostai
le coperte e mi alzai in piedi, di
fronte a lui.
Fece
scivolare le braccia intorno al mio
corpo, e mi strinse a sé, sollevandomi sulle punte dei piedi.
Lo
baciai lentamente e nascosi il viso tra
l’incavo della sua spalla, respirando il suo odore di pulito.
«Mmh…
baciarti potrebbe
diventare il mio hobby preferito.»
sussurrai.
«Beh,
il mio lo è già.»
Risi
di gusto e circondai il suo collo con le
braccia. «Allora? Cosa
hai fatto da quando ti sei svegliato?»
«Uhm,
vediamo.»
mi rispose, poggiando l’indice sul mento. «Ho
fatto una bella doccia calda e rilassante, poi sono sceso
giù, ho apparecchiato
il tavolo, ho preparato la tua colazione, mentre tu dormivi ho
già fatto lo
zaino che tu avresti dovuto fare ieri e, cosa più importante
di tutte… mi sono
svegliato con il sorriso sulle labbra, il che è magnifico,
se penso che il
motivo della mia felicità sei tu.»
Lo
baciai ancora e lo
strinsi forte a me. Si poteva avere un
buongiorno migliore?
«Wow.»
commentai ironica. «Certo
che si hanno dei
vantaggi ad avere un fidanzato, se ti prepara la colazione.»
Si
staccò da me, con
un’espressione sbalordita sul viso, e si toccò il
petto con una mano. «Avril
Ramona Lavigne, posso affermare, in tutta onestà, che questo
non me lo sarei
mai aspettato da te.»
mi disse, scherzando. «Se
me l’avessi detto prima, a quest’ora sarei
già in
una famosissima università parigina dove studiano solo come
servire le
colazioni!»
«Mi
dispiace, signor
Taubenfeld, ma le toccherà passare un’altra
giornata con me in un anonimo
college americano.»
«Non
chiedo di meglio.»
Sorrise, contagiando anche i suoi occhi azzurri, e andò
verso la porta. «E
così, adesso sarei il tuo ragazzo, eh? Immagino sia
un grande cambiamento, comunque: da protagonista di un sogno porno di
una
ragazza a suo fidanzato. Lo ammetto: sono colpito.»
Mi
tolsi una pantofola e provai a tirargliela
dietro, senza successo.
Lo
sentii ridacchiare e vidi che aveva già
iniziato a scendere i primi scalini, quando si fermò
improvvisamente e tornò
indietro di corsa.
Evan
si sporse verso di me, finché a dividere
i nostri volti non ci furono solo che pochi millimetri. Scorgevo le
piccole
sfumature azzurre dei suoi occhi, mentre non riuscivo a staccare lo
sguardo
dalle sue labbra leggermente socchiuse: riuscivo a sentire il calore
del suo
respiro.
Poi,
si avvicinò ancora di più a me, per
sussurrare al mio orecchio. «Cerca
di metterti
qualcosa di carino, Lavigne. Questa sera si va in un posto speciale.»
***
[Laboratorio
d’informatica del Sanford-Brown]
A: Computer
04 (K)
Ciao.
- X
A: Computer
23 (X)
Ciao, X. Stai
ancora pensando
alla nostra chiacchierata di due settimane fa?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Certo.
- X
A: Computer
23 (X)
Uhm…
posso provare
ad indovinare chi sei?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Va
bene, Kevin.
- X
A: Computer
23 (X)
Sai,
mi dà un po’
fastidio il fatto che tu sappia chi sia io, mentre io non so niente di
te.
- Kev
A: Computer
04 (K)
È
la vita. C’è chi
può e chi non può. E io può
sempre.
[N.d.A. Non vi preoccupate, l’errore è fatto di
proposito]
- X
A: Computer
23 (X)
Dunque,
incominciamo con le venti domande…
- Kev
A: Computer
04 (K)
Te
ne concedo al
massimo dieci, Beadfluent.
- X
A: Computer
23 (X)
Uh,
qualcuno qui
vuole mantenere segreta la sua identità, eh? Comunque,
iniziamo. Prima domanda:
sei davvero di questo college?
- Kev
A: Computer
04 (K)
No,
cioè, fammi
capire: io e te abbiamo già chattato due volte nella rete
privata della scuola,
in più sai che ti ho regalato il cappello… E TU
MI CHIEDI SE SONO DI QUESTO
COLLEGE?!
- X
A: Computer
23 (X)
Non
scrivere in
stampatello, sembri in preda ad un attacco isterico. Ho semplicemente
voluto
controllare, non si sa mai con Internet. Saresti sempre potuto essere
un
hacker… o peggio, un pazzo squilibrato…
- Kev
A: Computer
04 (K)
Lo
diventerò molto
presto, se continuo a leggere queste tue supposizioni. Andiamo avanti,
che è
meglio.
- X
A: Computer
23 (X)
Va
bene, seconda
domanda: sei nel consiglio studentesco?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Stranamente…
no.
- X
A: Computer
23 (X)
Riformulo
la
domanda: sei mai stato cacciato dal consiglio studentesco?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Stranamente…
sì.
- X
A: Computer
23 (X)
Fantastico.
Hai
mai più ripensato alla caccola super-mega-caccolosa di
Billigan?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Purtroppo
sì, me
la vedo davanti agli occhi tutte le notti. È una
cosa… brrr.
- X
A: Computer
23 (X)
Bleah.
Come mai
hai scelto proprio me?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Non
lo so, non
credo ci sia un perché. Forse possono influire i soldi, chi
lo sa… Non è che
sei milionario?
- X
A: Computer
23 (X)
Ehm…
No.
- Kev
A: Computer
04 (K)
Peccato,
vorrà
dire che tenterò con qualcun altro.
- X
A: Computer
23 (X)
Divertente.
Molto divertente. E non sono
neanche sarcastico, pensa un po’. Se
ti trovassi davanti ad un ragazzo con una…
instabilità fisica, chiamiamola così…
cosa faresti?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Beh,
lo tratterei
esattamente come faccio con tutti. Il che vuol dire che, per
svegliarlo, la
mattina, gli verserei una bella secchiata ghiacciata nelle mutande.
Perché
questa domanda?
- X
A: Computer
23 (X)
Niente,
niente.
Prossima: credi nell’amore a prima vista?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Sì
e no. Voglio
dire, non è affatto come scegliere un vestito e
dire:”Mi piace, lo prendo”.
Innamorarsi di qualcuno vuol dire stare assieme a quella persona minuto
dopo
minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Non sei innamorato solo
perché non
hai alternative, perché non puoi stare con qualcun altro.
Sai già che ti
appartiene e ci stai bene insieme perché, nonostante tutto,
continuerai sempre
a scegliere lui. O lei.
- X
A: Computer
23 (X)
Noi
due… noi due
ci siamo già incontrati?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Sì.
- X
A: Computer
23 (X)
E
come posso
averti incontrato senza sapere neanche chi sei?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Forse
non stavi
prestando attenzione nel modo giusto.
- X
A: Computer
23 (X)
Va
bene. Come
ultima cosa, vorrei chiederti… sei un ragazzo, vero?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Questa
è l’unica
domanda a cui non posso rispondere, Beadfluent. Mi dispiace, ma devo
andare.
Sono in ritardo.
- X
A: Computer
23 (X)
Aspetta.
In
ritardo? In ritardo per cosa?
- Kev
A: Computer
04 (K)
Per
rientrare nella realtà.
- X
*Connessione
terminata*
***
Avril's pov
Mi
rosicchiai le unghie, nel tentativo
disperato di calmarmi.
Sì,
lo so, non era un buon rimedio. Ma che ci volete fare, quando ero
nervosa, le
mie unghie erano la prima cosa che trovavo su cui sfogare la mia
agitazione.
Wilson
continuava a blaterare di qualcosa che
aveva a che fare col “poema cavalleresco”, ma non
gli prestai ascolto.
Ero
troppo impegnata ad alimentare le mie insicurezze e a farmi brutti film
mentali
su cosa sarebbe successo quella sera con Evan.
Fino
a quel momento, ero riuscita a fare solo
tre ipotesi:
-
La prima: Evan che mi lasciava.
Sì,
so che non aveva molto senso, visto che
mi aveva detto di vestirmi elegante. Ma magari voleva solo addolcirmi
la
pillola…
-
La seconda: Evan che mi raccontava qualcosa
del suo passato.
Magari
mi avrebbe detto qualcosa di scabroso,
tipo che era un agente del KGB o un membro del FBI sotto copertura e
che il suo
fidanzamento con me era tutta una montatura.
-
La terza: Evan che mi diceva che andava tutto
bene.
Mi
avrebbe confessato quanto mi amasse,
quanto io fossi speciale per lui, quanto fossi importante nella sua
vita… e poi mi avrebbe scaricato.
Emisi
un sospiro di disperazione e mi misi le
mani tra i capelli.
Ora
come ora, l’unica opzione possibile mi
sembrava sbattere la testa contro il muro fino a quando non mi fossi
calmata.
Poi,
per fortuna, la campanella decretò la
fine di quella giornata di lezione e, in men che non si dica, mi
ritrovai nel
corridoio, insieme a Kevin.
Mi
guardai attorno, per cercarlo, ma di lui
non c’era traccia.
«Evan?»
chiesi a Kevin.
Dal
canto suo, lui continuava a fissare
dritto di fronte a sé, senza dare segno di avermi sentito.
Sembrava… assente.
Gli
passai una mano davanti
agli occhi, per attirare la sua attenzione. «Kevin? Ci sei?»
«Eh?» Sembrò mettermi a fuoco
solo in quel momento. «Che
c’è?»
«Ti
ho chiesto se sapessi
dove fosse Evan.»
«Evan? Dovrebbe essere a
casa, adesso. È
uscito prima e ha saltato
l’ultima ora. Non te ne sei accorta?»
Increspai
le sopracciglia, pensierosa. «No…
non credo.»
Feci
un rapido riassunto della situazione, e
capii che ero stata talmente presa dalle mie ansie che non mi ero
nemmeno
accorta della sua assenza.
Fantastico.
La
giornata non poteva andare peggio di così.
Invece,
scoprii, con mio
grande disappunto, che, effettivamente, la giornata poteva anche andare
peggio.
Tre
ore dopo, infatti, mi
resi conto che Evan non era affatto tornato a casa, come mi aveva
suggerito
Kevin, e che non aveva lasciato niente di scritto per me.
Ergo,
non sapevo né l’ora,
né tantomeno il luogo dell’appuntamento.
E
questo era niente, in
confronto alla Scelta che dovevo prendere.
La
Scelta con la S
maiuscola.
COSA
DIAVOLO DOVEVO
METTERMI?
Mi
aveva detto di vestirmi
elegante, certo, ma c’era una bella differenza tra sentirlo
dire dal tuo
ragazzo e indossare un bel vestito, sentendoti completamente inadatta.
Dopo
una doccia rilassante, alla
fine, optai per un vestitino nero, di quelli leggeri e sopra il
ginocchio, che
ti fanno venir voglia di sprofondare appena metti piede fuori casa.
E
fu proprio in quel momento
che Peter bussò alla porta della mia stanza e mi
comunicò che doveva portarmi, “su
ordine del signorino Evan”, in un
posto speciale.
***
Peter
mi fece salire con
gentilezza sulla limousine che aveva parcheggiato fuori dalla villa.
I
sedili in pelle nera erano
comodissimi e, in qualche modo, conciliavano il sonno, ma io non avevo
alcuna
intenzione di dormire.
Anzi,
per l’agitazione,
sembrava quasi che mi stessi sedendo su degli spilli acuminati.
Mossi
nervosamente le dita,
nella speranza che Peter facesse retromarcia indietro e che mi
riportasse a
casa, dove sarei stata la classica fifona di sempre insieme al mio
pigiama con
gli orsacchiotti.
Peter,
leggendo
probabilmente quello che doveva trasparire dai miei occhi,
cercò di
rassicurarmi. «Non si preoccupi, signorina Avril. Sa,
è capitato che il
signorino Evan non sia sempre stato gentile con tutti, ma io riesco a
notare i
piccoli cambiamenti legati alla sua vicinanza. Lei lo sta cambiando in
meglio,
e di questo ne deve essere fiera.»
Arrossii
fino alle punte dei
capelli e tentai, con un penoso balbettio, di ringraziarlo.
Dopo
qualche minuto, Peter
accostò accanto ad un marciapiede.
Alzai
lo sguardo, come
attirata dalla sua presenza, e lo vidi.
Tutte
le ansie che avevo
avuto fino a quel momento, si sciolsero come neve al sole di fronte
alla sua
vista.
Era
incredibilmente bello:
indossava uno smoking nero, che gli metteva in risalto il fisico
snello, mentre
i capelli biondi erano scompigliati dalla leggera brezza che soffiava
quella
sera.
Ma
la cosa che mi colpì, più
di tutto, fu il sorriso: gli illuminava il viso in una maniera
sconvolgente.
Scesi
dalla macchina con le
ginocchia che mi tremavano, e non di
certo per il freddo o per la paura!
Venne
verso di me, non
togliendomi mai gli occhi di dosso, e mi diede il suo braccio, che
presi molto
più che volentieri. «Se ti dicessi che sei
incredibilmente sexy con quel
vestito, Ramona, cosa succederebbe?»
«Ti
risponderei che sei un
maniaco, David. Oltre che un pazzo.»
Mi
guardò con quegli occhi
fiammeggianti. «Oh, ma io lo
sono. Sono
completamente, totalmente e
irrimediabilmente pazzo di te. E, a questo proposito…»
disse, conducendomi all’entrata di un cancello. «Ho
preparato questa piccola sorpresina.»
Camminammo
insieme in un
piccolo viale circondato da piante e fiori di ogni genere: piccole luci
decoravano e percorrevano centinaia e centinai di rami.
L’atmosfera
era magica.
Infine,
arrivammo ad un
tavolo apparecchiato per due: sopra una tovaglia bianca, che doveva
essere probabilmente
seta, vi era posizionato un unico grande vassoio d’argento
circolare coperto da
una calotta coordinata.
Mi
girai per guardarlo, con
la bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato
questo?»
«Sì.
Perché, non ti piace?»
Dio,
mi veniva una voglia incredibile di baciarlo, quando faceva la parte
dell’insicuro.
«Stai
scherzando, vero?»
Corsi verso il tavolo, dimenticando per un attimo di non indossare i
miei
comodi e vecchi jeans. «Evan,
questo è… questo è…
semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»
«Oh,
beh, allora devi ancora
vedere il meglio.»
Mi
aiutò a sedermi, proprio come un vero
gentiluomo, e tolse il coperchio argentato dal vassoio.
Mi
aspettavo di vedere salmone, caviale, o
roba ancora di più da riccastri, quando invece
c’era solo…
«Pizza?
Hai ordinato una
pizza?!»
dissi, a metà tra lo sbalordito e il divertito.
«E non una
comune pizza! È
una
pizza gigante con würstel e patatine sopra. Ho pensato che
informale sarebbe
stato meglio.»
Mi
alzai dalla sedia e allacciai le mie
braccia al suo collo. «Grazie
per questa serata.
Ti…»
Amo,
stavo per dirgli.
Ma
non lo feci.
C’era
qualcosa che mi bloccava.
Eppure
sarebbe stato così semplice!
Quell’unica
parola era lì, a portata di mano.
Ma,
non so per quale motivo, quelle tre
lettere non volevano uscire dalla mia bocca.
Così
deglutii, piena di vergogna, e staccai a
fatica lo sguardo da lui, tornando lentamente al mio posto. «Ti
sei preparato molto bene.» conclusi.
Per
fortuna, non
notò il mio improvviso malessere. «Certo.
Dai,
coraggio, attacca la pizza, Tigre.»
Diciamo
che, più che altro, la pizza la mangiò lui.
Io
non avevo molta fame, e sentivo ancora quel maledetto peso sullo
stomaco per la
frase non detta di prima.
«E
adesso, se non ti dispiace, vorrei concludere la serata in bellezza.»
disse poi.
Si
abbassò sotto
il tavolo e prese la sua chitarra classica, che prima non avevo notato.
«Sai,
ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che
occuparsi
di un’altra persona dia solo fastidi inutili.»
Sorrise. «Ma,
grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato
positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito
che
niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi
farti
abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore
appena
senti che quella persona ti dà il buongiorno. La
verità è che non si sta meglio
da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si
prenda cura di noi. Per
cui… ho scritto questa canzone.»
E
allora incominciò a suonare, completamente
estraniato dal mondo.
So, we got an issue.
Put
away the tissues.
I'm
telling you now that things will be alright.
The
woman that you're swearing,
and
other
times you caring.
And
how will I ever know what's on your mind?
Well,
hear me out,
I'm
not complaining.
Got
a theory that explains it.
I
guess you're schizophrenic,
but
I swear I don't regret it.
Yeah,
I love the things you do,
I
promise that is true.
Here
is my confession,
Yeah,
I heart your imperfections.
And
I think it's time you knew,
I
love the both,
I
love the both of you.
We
got an issue.
No,
I don't need a warning,
at
least you’re never boring.
I'm
watching you laugh yourself until you cry.
Well,
I don't let it face me,
‘cause
we're all a little crazy.
But
who wants to have the sugar with no spice?
Well,
hear me out,
I'm
not complaining.
I
don't ever want you changing.
I
guess you're schizophrenic,
but
I swear I don't regret it.
Yeah,
I love the things you do,
I
promise that is true.
Here
is my confession,
Yeah,
I heart your imperfections.
And
I think it's time you knew,
I
love the both,
I
love the both of you.
And
like a box of chocolates
And
the coin after it flips
Like
a card out of the deck
How
can you ever be sure what you're gonna
get?
I
guess you're schizophrenic,
but
I swear I don't regret it.
Yeah,
I love the things you do,
I
promise that is true.
Here
is my confession,
Yeah,
I heart your imperfections.
And
I think it's time you knew,
I
love the both,
I
love the both.
I
think it's time you knew,
I
love the both,
I love the both of you.
I
don't ever want you changing, girl.
Quindi,
abbiamo un problema.
Metti
via i fazzoletti.
Ora
ti sto dicendo che le cose andranno bene.
La
donna su cui stai giurando,
e
di cui altre volte ti prendi cura.
Riuscirò
mai a capire cosa c'è nella tua
mente?
Ascoltami
bene,
non
mi sto lamentando.
Ho
una teoria che spiega tutto questo.
Credo
che tu sia schizofrenica,
ma
giuro che non mi dispiace.
Amo
quello che fai,
giuro
che è vero.
Questa
è una confessione,
amo
le tue imperfezioni.
Credo
sia ora che tu sappia,
che
amo tutto.
Amo
tutto di te.
Abbiamo
un problema.
Non
ho bisogno di un allarme,
almeno
non sei mai noiosa.
Ti
sto guardando ridere finché non piangi.
Non
mi lascio fronteggiare,
tutti
siamo un po’ pazzi.
Ma
chi vuole avere lo zucchero senza sapore?
Ascoltami
bene,
non
mi sto lamentando.
Non
vorrei mai che tu cambiassi.
Credo
che tu sia schizofrenica,
ma
giuro che non mi dispiace.
Amo
quello che fai,
giuro
che è vero.
Questa
è una confessione,
amo
le tue imperfezioni.
Credo
sia ora che tu sappia,
che
amo tutto.
Amo
tutto di te.
E,
come una scatola di cioccolato,
e
la moneta dopo averla lanciata,
come
la carta fuori dal mazzo,
come
puoi sempre essere sicura di cosa
otterrai?
Credo
che tu sia schizofrenica,
ma
giuro che non mi dispiace.
Amo
quello che fai,
giuro
che è vero.
Questa
è una confessione,
amo
le tue imperfezioni.
Credo
sia ora che tu sappia,
che
amo tutto.
Amo
tutto di te.
Non
vorrei mai che tu cambiassi, ragazza.
E
poi, come se fosse stata parte della canzone, disse una
frase.
Una
singola frase.
«Ti
amo, Avril
Ramona Lavigne.»
Deglutii
a fatica, scacciando quel groppo pesante che mi
si era formato in gola.
«Evan,
io… non… non posso. Vorrei tanto dirti quelle due
parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due
settimane sono
state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo
perché c’eri tu. E forse
mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo
presto per me, ma, io…
io… non ci riesco.»
La
vergogna era troppa.
Non
riuscivo a dirgli a mia volta che l’amavo.
Così
lasciai che lui guardasse me, fino a quando non annuì, con
le labbra contratte,
e tornò a guardare la sua chitarra.
|
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Capitolo 18 *** 17. Stubborn ***
Salve
salvino.
Scusatemi,
ancora una volta, per il
ritardo.
Credo
che gli aggiornamenti andranno un po’
così, almeno fino a Natale. [Sempre se ci arrivo in possesso
delle mie facoltà
mentali…]
Anyway,
ho deciso di descrivere anche
l’incontro tra Evan e Avril nella prima parte; inoltre, la
canzone sarà la mia
preferita di Evan, ovvero “Stubborn”. *fangirla*
E
fate attenzione alle frasi scritte in
grigio: quelle saranno le parole sacre ed intoccabili, udite udite,
della sua
coscienza. U.U
Infine,
prima di lasciarvi al capitolo,
volevo ringraziare tutte le persone che seguono questa ff
quotidianamente
[Veramente, grazie di cuore] e volevo anche dire grazie a tutte le
persone che
continuano a leggere Little
Black Star,
l’altra mia fanfiction su Avril.
Il
primo capitolo ha appena superato quota
1500 visite! *me superfelice*
E
comunque no, tutti questi ringraziamenti
non sono dovuti ad un imminente fine della storia, non vi preoccupate
lol.
Al
prossimo aggiornamento [Si spera presto]
<3
~
Cruel Heart.
***
Evan
Taubenfeld - Stubborn
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 7 Giugno 2001
Evan's pov
Mi
rigirai, ancora una
volta, nel mio letto.
Ancora
una volta, in quella
dannatissima settimana, non riuscivo a dormire.
C’erano
sempre quegli occhi…
quel viso… che mi facevano stare male.
Così,
feci un profondo respiro e mi immersi, per
l’ennesima sera, nel mio incubo.
Ricordavo
di aver pensato
questo, prima che succedesse tutto: ci
sono sessanta secondi in un minuto, milleottocento in
mezz’ora e tremilaseicento
in un’ora.
E,
proprio in uno di questi secondi, Avril potrebbe
decidere di fare marcia indietro e di tornare a casa e…
Sospirai.
Da lì, erano
iniziati quegli stupidi discorsi con la mia coscienza.
Calmati,
Evan. Stai divagando.
Va
bene. Non è la fine del
mondo, in fondo.
Lo
sarebbe se, magari, lei ti rifiutasse, o non volesse
venire, o ti piantasse con una qualsiasi scusa, oppure…
Dio
mio, basta!
La
mia coscienza sceglieva
sempre i momenti meno opportuni per torturarmi.
Mi
ero messo una mano tra i
capelli e avevo incominciato a camminare avanti indietro sul
marciapiede.
Sei
nervoso.
Chi,
io? Nervoso? Ma
figuriamoci…
Avevo
sbloccato rapidamente
il cellulare e avevo visto, sullo schermo, se fossero arrivate nuove
chiamate:
non c’era nessun messaggio di Avril.
Ok,
coscienza, hai ragione.
Forse,
un po’ nervoso, lo
ero.
Poi,
all’improvviso, avevo sollevato
lo sguardo e avevo scorto l’ombra di una limousine nera
avvicinarsi sempre di
più.
Mi
spazzolai i pantaloni
neri eleganti, in completo con lo smoking, e feci un rapido rewind
della mia
situazione:
-
Vestito? A posto;
-
Capelli? Si spera non arruffati come al
solito.
Presumibilmente, a posto;
-
Sorriso? Oh, no, quello mi mancava.
Immediatamente,
anche
immaginando semplicemente di trascorrere la mia serata da solo con
Avril, i 13
muscoli del mio viso si erano mossi e avevano creato un sorriso sincero.
Va
bene, va bene,
sapevo
che, di solito, i muscoli facciali che si contraevano per sorridere
erano 12,
ma speravo di riservare per l’occasione un sorriso
più… smagliante.
Evan,
stai divagando. Di nuovo.
Maledizione
coscienza, hai ragione. Di nuovo.
Nel
frattempo, Peter aveva
accostato, con la limousine, accanto al marciapiede dove mi trovavo,
era sceso
dal posto di guida e, dopo avermi fatto un occhiolino veloce, aveva
aperto lo
sportello del passeggero, aiutando Avril a scendere.
Istintivamente,
trattenni il
fiato: era bellissima.
Non
indossava nient’altro
che un semplice tubino nero corto, sopra il ginocchio, ma il mio occhio
non
poté fare a meno di notare la porzione di pelle delle gambe
lasciata scoperta.
Distogli
lo sguardo, bello mio. Credimi,
è meglio così.
Giusto.
Sai, ripensandoci, “coscienza” è troppo
lungo. Ti
darebbe fastidio, se da adesso iniziassi a chiamarti
“Cos”? Oppure preferisci
“Enza”?
Lasciamo
perdere…
Avevo
accantonato per un
momento la conversazione con Cos e
ricordavo
di essermi concentrato solo su Avril. Mi ero incamminato verso di lei e
le avevo
proposto di aggrapparsi al mio braccio.
«Se
ti dicessi che sei
incredibilmente sexy con quel vestito, Ramona, cosa succederebbe?»
le avevo chiesto.
Ma
la vuoi smettere di fare il maniaco sessuale, una
volta per tutte?
«Ti
risponderei che sei un
maniaco, David. Oltre che un pazzo.»
Vedi?
«Oh,
ma io lo sono. Sono
completamente, totalmente e irrimediabilmente pazzo di te.»
le avevo risposto, guidandola verso l’entrata della villa.
«E, a questo proposito, ho preparato questa piccola
sorpresina.»
Cosa
avevo organizzato per
la serata? Semplice.
Avevo
semplicemente “preso
in prestito” il giardino di una delle innumerevoli
proprietà di mio padre e,
soprattutto grazie all’aiuto di Peter, avevo pensato di
passare questa serata
insieme a lei a modo mio.
Solo
ora mi rendevo conto che, forse, per lei, questo non
era stato abbastanza.
Avevamo
percorso il piccolo
viale e ci eravamo fermati accanto al tavolo apparecchiato per due.
Mi
aveva guardato con la
bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato questo?»
«Sì.»
Il dubbio improvviso, che avessi fatto qualcosa di sbagliato, mi
attanagliò lo
stomaco. «Perché,
non ti piace?»
«Stai
scherzando, vero?»
Avril osservava rapita ogni dettaglio, che fossero le luci, i fiori o
anche le
semplici posate in argento. Sembrava… felice.
Almeno per il momento.
«Evan,
questo è… questo è…
semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»
Avevo
scrollato le spalle. «Oh,
beh, allora devi ancora vedere il meglio.»
L’avevo
aiutata a sedersi e, prima di
accomodarmi al mio posto, avevo tolto il coperchio argentato dal
vassoio sul
tavolo, svelando una gustosa e fumante…
«Pizza?
Hai ordinato una
pizza?!»
mi aveva chiesto, sorridendo.
«E non una comune pizza! È una
pizza gigante con würstel e patatine
sopra. Ho pensato che informale sarebbe stato meglio.»
Poi,
la vidi alzarsi dalla sedia e venire
verso di me.
Con
un sorrisino, mi circondò il collo con le
sue braccia.
«Grazie
per questa serata. Ti…»
In
quel momento, mi si era mozzato il respiro.
Per
un istante, solo per un piccolo istante, avevo pensato che lei potesse
dire
quello che speravo.
«…
Sei preparato molto bene.»
aveva detto invece, staccandosi da me.
«Certo.»
Mi
ero leccato le labbra, sentendo improvvisamente la gola secca.
«Dai, coraggio,
attacca la pizza, Tigre.»
Mangiammo
ognuno la sua metà, in silenzio.
Alla
fine, però, mi era parso di sentire uno strano senso di
agitazione, in lei.
Come
se stesse pensando a qualcosa di
ossessivo.
Come
se, proprio quel qualcosa, non
volesse dirmelo.
E
adesso
capivo il perché.
Così,
una volta finita la nostra porzione di pizza, avevo deciso di spezzare
la
tensione, schiarendomi la voce. «E adesso, se non ti
dispiace, vorrei
concludere la serata in bellezza.»
Mi
ero abbassato
fluidamente sotto il tavolo e avevo tirato fuori la mia chitarra dalla
custodia.
Poi,
avevo sistemato
il lato destro della cassa sulle gambe e avevo incominciato il mio
discorso.
«Sai,
ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che
occuparsi
di un’altra persona dia solo fastidi inutili.
Ma,
grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato
positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito
che
niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi
farti
abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore
appena
senti che quella persona ti dà il buongiorno. La
verità è che non si sta meglio
da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si
prenda cura di noi. Per
cui… ho scritto questa canzone.»
E,
detto ciò, avevo iniziato a
suonare per lei.
Solo
per lei.
Non
ricordavo esattamente quando avevo
pensato di creare questa nuova canzone, che avevo chiamato “I
Love the Both of
You”.
L’ispirazione,
secondo gli
antichi greci, significava dare ascolto ad un’irrazionale ed
incomprensibile
esplosione di creatività.
Ed
era
ciò che era capitato a me.
Quella
parte totalmente illogica di me stesso era sgorgata fuori e,
beh… io non avevo
fatto altro che raccogliere i miei pensieri e imprigionarli su un
foglio di
carta.
Ogni
fatto, ogni avvenimento, ogni strada, nella mia testa, aveva una
melodia.
Dovevo
solo
farla venire fuori con le parole più adatte.
C’era
una cosa, però, di cui mi vergognavo un po’,
quando ho iniziato a prendere sul
serio quello che, per me, all’inizio, era solo un hobby e
nient’altro.
La
gente non m’ispirava.
Le
persone, infatti, così noiose e così
fastidiosamente prevedibili, non potevano
costituire una fonte d’ispirazione, per me.
Lo
erano
i gesti: quelli sì che mi colpivano.
E
non parlavo
metaforicamente, anzi: quando dicevo “colpire”,
intendevo proprio letteralmente.
Credevo
che, proprio quel
pugno,
assestatomi dritto lì, esattamente al centro del naso, mi avesse fatto capire quanto lei fosse importante
per me.
Quanto
noi fossimo
importanti l’uno per l’altra.
Stronzate.
Solo stronzate.
Ed
era proprio
per inseguirle, queste stronzate, che, dopo aver pizzicato le ultime
corde
della mia chitarra, le avevo confessato quello che sentivo.
«Ti
amo, Avril Ramona Lavigne.»
Ero
stato testardo,
troppo testardo.
Poi,
avevo tenuto lo sguardo sulle corde e tutto quello
che feci fu… aspettare.
Avevo
aspettato, aspettato, aspettato.
Volevo
solo una sua risposta.
Quando,
però, mi ero reso conto che avevo aspettato
molto, forse troppo, avevo alzato lo sguardo.
E
lei si era decisa a parlare.
«Evan, io… non… non posso. Vorrei tanto
dirti quelle due
parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due
settimane sono
state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo
perché c’eri tu. E forse
mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo
presto per me, ma, io…
io… non ci riesco.»
In
quel momento, mi ero chiesto che cosa fare.
Ed
era strano, perché, nei libri per il collage, non
c’era un manuale d’istruzioni
che potevo consultare, in casi come questi.
Ero
solo.
Così,
avevo annuito, con le labbra contratte, ed ero tornato a guardare la
sua
chitarra.
Lei,
almeno, non mi aveva mai
abbandonato.
Ritornai
con la mente al presente, stanco dell’incubo che si
presentava puntualmente
ogni sera da una settimana, ormai.
Ma
non riuscivo a dimenticarmi dell’espressione di Avril.
Non
riuscivo a scordarmi della sua
voce mentre mi rifiutava.
Mi
sfuggì un gemito di disperazione.
Era
questo il rumore di un cuore
spezzato?
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 14 Giugno 2001
Avril's pov
Guardavo
Wilson gesticolare: tentava di enfatizzare la
sua spiegazione su “Cime tempestose”, il romanzo di
Emily Brontë, ma niente,
non c’era verso.
Non
avevo memorizzato un’acca dall’inizio della lezione.
Ero
riuscita solo a captare qualche frase, come “scritto
a metà del 1800”
oppure “ambientato nello
Yorkshire”.
Poi,
però, prestai attenzione appena Wilson analizzò
il
tema del romanzo.
«Il
sentimento che, sicuramente, predomina in questa lettura, è
l’amore. E non un
tipo di passione qualsiasi, ma la forma più difficile da
comprendere: vedete… si
tratta di un amore così
forte, che va
al di là delle regole e delle convenzioni dell'amore stesso.
Si intreccia con
la vendetta, ma ne esce sempre puro. Nonostante i protagonisti siano
pieni di
difetti e nessuno dei due possa essere di certo essere eletto come
“Mr. buono
dell’anno”, il loro sentimento è vero.
Supera i confini del tempo e della
morte. Perché, alla fine, è il loro amore che li
rende buoni, anche se non
avranno mai l'occasione di viverlo.»
Il
loro sentimento è
vero.
Supera
i confini del
tempo e della morte.
Anche
se non avranno mai l’occasione di viverlo.
Una
fitta al petto mi fece mancare il respiro.
Sentivo
il dolore nelle mie vene come il sangue: vivo,
pulsante e costante.
Non
mi lasciava mai.
Continuavo
a sentire ancora quel dannato groppo in gola:
era come se fossi ancora lì, con lui, quella sera.
Era
inutile girarci intorno, tanto valeva accettare la
realtà: il nostro rapporto si era completamente interrotto.
Da
più di due settimane, ormai.
Anche
solo guardarlo di sfuggita mentre entrava in classe
significava… sofferenza.
Non
sapevo neanche io cosa fossimo.
Era
troppo desiderare che fossimo ancora amici?
O,
magari, anche scambiarsi un semplice “buongiorno”?
Forse
sì.
Forse,
era troppo
per me.
Era
troppo, per chi
aveva la colpa di tutto questo.
Ma
volevo provare lo stesso: non volevo farmi sfuggire il
suggerimento che, indirettamente, Wilson mi aveva dato.
Così,
proprio mentre la campanella suonava e tutti gli
studenti si riversavano fuori dalle aule, chiusi lo zaino e cercai di
seguire
con lo sguardo i suoi capelli biondi tra le altra migliaia di teste
presenti
nel corridoio.
Impresa
non facile,
per una che è alta 1,56 cm.
Dopo
qualche secondo, riuscii ad individuarlo.
Stava
appoggiato con la schiena sul muro. Sembrava triste,
con gli occhi rivolti verso il basso.
Mi
fermai, senza fiato: vederselo davanti così, con lo
sguardo perso, faceva male.
Poi,
però, notai qualcosa che mi era sfuggito: al suo
fianco, c’era Camille Miller, la ragazza che ci aveva
reclutato per quello
stupido gioco del “Baciato e Baciatore”.
Lei
si stava attorcigliando attorno al dito una ciocca di
capelli neri, mentre gli parlava di chissà cosa.
Lui
mi sembrava perplesso,
dato che increspava più volte le sopracciglia, ma, nel
complesso, era
tranquillo.
Non
sembrava… infastidito
dalla sua presenza.
Certo,
la sua
fidanzata la evita, mentre le smorfiose le accoglie a braccia aperte!
O,
forse, dovrei dire semplice
conoscente?
Strinsi
forte i pugni e sentii le unghie penetrare nel
palmo della mia mano.
«Evan!
Evan, aspetta!»
Non
sapevo se avessi fatto bene o no, a seguirlo di corsa
e a gridare quella frase.
Lui
la sentì di sicuro, perché lo vidi fermarsi di
scatto
e immobilizzarsi.
Poi,
vidi Camille parlargli con un’espressione a metà
tra
l’imbarazzato e l’insicuro.
«Ehm… forse è meglio se vado, Evan.
Cerca di
risolvere i tuoi problemi, d’accordo»
Oh,
benissimo.
E così le aveva detto anche di quello che era successo.
Incominciai
ad incamerare più aria nei polmoni, nel
tentativo disperato di calmarmi.
«Sì.
Forse è meglio se vai. Ci vediamo domani.»
Indicai
in direzione di Camille con uno sguardo furente. «Le
hai raccontato tutto. Ogni cosa. Cos’è, ti sei
fatto anche l’amichetta del
cuore, adesso?»
Mi
fulminò con un’occhiataccia. «Il
mondo non gira
tutto intorno a te.»
Resistetti
all’impulso di indietreggiare ed incrociai le
braccia al petto, cercando protezione in me stessa. «Me ne
sono accorta, visto
che ci hai messo così poco per dimenticarmi.»
Avevo
voglia di
prendermi a schiaffi da sola.
Non
avrei dovuto
dire questa cosa.
Non
avrei dovuto fargli
male. Un’altra volta.
Ma
era troppo tardi. Mi guardò, torvo e furibondo.
«Ma cosa
vuoi che faccia, eh?»
Non
l’avevo mai visto così arrabbiato, così
fuori
controllo.
Non era l’Evan che conoscevo.
«Vuoi
che torni tutto come prima dopo l’altra sera? Beh,
ti do una notizia fresca di stampa: non
si può. Sì, magari con il passare dei
giorni, la situazione potrebbe tornare
ad avere una “parvenza” di
normalità… ma non sarà più
la stessa cosa.»
Lo
fissai, e lui, a sua volta, mi lasciò guardare i suoi occhi
azzurri di cui mi
aveva privato per due settimane.
Permisi
alla mia mente di rielaborare le sue parole.
Facevano
male.
Facevano
veramente male.
Ma,
nonostante questo, ingoiai il groppo che avevo in gola e le lasciai
adagiare
sul fondo della mia coscienza.
Perché
sapevo che me le meritavo.
Perché
sapevo quanto avesse ragione.
«Mi
hai ferito, e questo non potrà mai essere cancellato.
La ferita non guarisce in profondità. Non
qui. Non adesso.»
Mi
guardò ancora negli occhi, e ne approfittai per imprimermi
ogni dettaglio del
suo viso nella mente: i capelli biondo cenere, che risplendevano sotto
i
riflessi delle luci al neon; le folte ciglia scure, che impreziosivano
i suoi
occhi color ghiaccio; il naso dritto e aquilino, che arricciava ogni
qual volta
era perplesso; e, per finire, le labbra: quella bocca che avevo baciato
così
tante volte, adesso, l’avevo lasciata per ultima, come se si
trattasse di un
semplice ricordo.
Sapevo
che ne avrei avuto bisogno.
«Non
con me.»
sussurrò.
E
poi, si girò di spalle e, con le mani in tasca,
incominciò a incamminarsi verso
l’uscita.
Sentivo
le lacrime bruciarmi gli occhi.
Mi
appoggiai con una mano al muro in cartongesso del corridoio e cercai di
ricompormi.
Non
piangere, non farlo,
dicevo a me stessa.
Ma
diventò un’impresa non cedere, quando anche le
labbra incominciarono a tremare,
travolte da piccoli ma costanti singhiozzi.
Sapevo
che questo fosse il minimo, dopo quello che gli avevo fatto.
Non
potevo dimenticarlo.
Non
potevo dimenticare quando lui mi
aveva confessato il suo amore e io l’avevo ricambiato con una
semplice occhiata
di dispiacere.
Eppure,
tra i miei pensieri, in queste due settimane, era riapparso
costantemente il
suo viso.
E
anche in quel momento, mentre tentavo di respirare a fondo, per evitare
di
scoppiare a piangere davanti a tutti, ripensavo a quello sguardo che mi
scrutava, fino a pochi secondi fa.
Riuscivo
a vederlo con tanta chiarezza che mi sentivo stringere il petto da un
dolore
straziante.
Ero
rimasta travolta da come Evan, solo qualche giorno fa, mi avesse fatta
sentire
desiderata e sì, anche amata, con i suoi baci, con i suoi
sorrisi, con le sue
attenzioni.
Niente
a che vedere con ciò che ero in quel momento: una ragazza
vuota, inutile, degna
solo di essere disprezzata e lasciata lì, a crollare,
persino davanti a se
stessa.
***
Things
used to be great, now we can’t relate.
And everyday is a struggle.
Something’s not right, you just want to fight.
Well, go find someone else,
‘cause you’re not my type anymore.
I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.
Nothing I do ever pleases you,
I wonder how you’d like that.
What should I say, you’ve made it this way.
And I’m supposed to fix this.
[…]
It’s over now, we’re
finally through.
It’s all because of you.
Don’t know why I tried, you never cared.
I don’t think that’s fair.
[…]
I don’t wanna play your
games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.
Just try life without me.
Le
cose erano fatte per andare bene,
adesso non abbiamo a che fare l'uno con l'altra.
Ed ogni giorno è una lotta.
C'è qualcosa che non và,
tu vuoi soltanto litigare.
Beh, vai a cercare qualcun altro,
perché tu non sei più il mio tipo.
Non voglio fare i tuoi giochi.
Non m’importa, se ti perdo oggi,
perché tu non sei mai soddisfatta di niente.
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.
Niente di quello che faccio ti soddisfa,
e penso a come farebbe a piacerti.
Che cos’altro dovrei dire, l'hai messa in questo modo.
Ed ho intenzione di aggiustare tutto.
[…]
È
finita adesso, l’abbiamo superato.
È stato tutto per colpa tua.
Non so perché ci ho provato,
non te ne è mai importato niente.
Non credo sia giusto.
[…]
Non
voglio fare i tuoi giochi
Non m’importa, se ti perdo oggi
Perché tu non sei mai soddisfatta di niente
quindi prova a vivere la tua vita senza di me
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.
~ Evan
Taubenfeld – Stubborn
|
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Capitolo 19 *** 18. Iris || Socrates ***
Salvesalvesalve
(?) a tutti.
Ancora
una volta, sono qui, in ginocchio, a chiedervi perdono
per il ritardo con cui sto aggiornando.
Capitemi,
plis. (?)
Quindi,
passando al capitolo… vi comunico che dovrete armarvi di
estintori – per spegnere svariati situazioni
“accaldate” – e di cuffie,
perché
la canzone del capitolo è una versione punk di
“Iris”, la famosissima canzone
dei Goo Goo Dolls [Interpretata anche dalla nostra Avril.
Sorvoliamo sul
suo stato durante il duetto con i Goo Goo Dolls nel 2014, per
bontà divina.]
Concedetemi
una piccola variazione sul compleanno di Matt, che è
il 14 Novembre, mentre nella mia storia è il 23 Giugno lol.
Al
prossimo aggiornamento [Si spera presto] <3
~
Cruel Heart.
***
Until
the End – Iris (Goo Goo Dolls Cover)
***
Harrisburg,
Pennsylvania,
Stati Uniti d’America, 16 Giugno 2001
Matt's pov
Si
stava rivelando davvero una giornata splendida,
questo 16 Giugno.
Avevo
la mia Susy con me, il clima era caldo, il cielo azzurro e gli
uccellini
cinguettavano gioiosi…
Oh,
andiamo, ma chi volevo prendere in giro?
Il
tempo era una merda, il cielo faceva presagire
non so quale catastrofe naturale e gli unici
“uccellini” che vedevo erano i
mini-polli fritti del locale tra la 90esima e Baker Street, verso cui
stavo
camminando.
In
più, avevo anche lasciato Susy a casa. Sigh.
Avevo
pensato che stessi abusando troppo del suo
utilizzo, e così le avevo lasciato i suoi spazi.
Ah,
valle a capire le donne!
Ma,
nonostante ciò, questa rimaneva comunque una
giornata splendida.
Volete
sapere perché?
Bene,
vi accontento subito.
Entrai
nel locale – sì, esatto,
quello dei mini-polli – e mi sedetti ad un piccolo
tavolino circolare di colore bordeaux.
Non
c’erano molti clienti, se non quelli abituali
che si facevano un panino durante la pausa-pranzo.
Controllai
l’orologio che avevo al polso e vidi
l’ora: ah, bene, avevo solo 30
minuti di
ritardo.
Ma,
a quanto pareva, il mio migliore amico era
più in ritardo di me.
Mi
sfregai le mani più volte, per farmi un po’ di
calore.
Cazzo,
faceva veramente freddo!
Nel
frattempo che lo aspettavo, mi persi a
guardare il culo di una cameriera bionda che stava al bancone: aveva
intercettato le mie occhiate più di una volta e mi aveva
sorriso, ammiccante,
mentre io ricambiavo facendole l’occhiolino.
Poi,
sentii la porta del locale aprirsi ed alzai
gli occhi dalle curve della cameriera: eccolo
lì.
Portava
le mani nelle tasche di un lungo cappotto
di velluto nero, che faceva risultare ancora di più il suo
pallore, e dei
pantaloni dello stesso colore.
Nah,
niente a che vedere col mio giubbotto in pelle sintetica e i jeans
strappati.
Lo
salutai. «Ciao, fratello.»
Mi
rispose solo con un cenno. Molto loquace,
direi.
«Ti
va bene un caffè?»
gli chiesi e lui
annuì in risposta.
Mi
alzai dalla sedia ed andai verso il bancone,
dove, sorridente, dissi alla cameriera:
«Due
caffè, dolcezza.»
Lei
ridacchiò ed io ritornai molto
lentamente al mio tavolo. La
biondina ha proprio un bel culo,
notai.
«Allora…»
incominciai una
volta seduto, tentennando un po’ e guardandomi attorno. «Come
va la vita?»
«Vai
al succo, Matt.»
mi rispose. «Lo
sai già come va la mia vita. Piuttosto, perché mi
hai voluto vedere?»
Sospirai.
Era sempre stato più bravo di me
nelle domande dirette.
«Manca
solo una settimana al
mio compleanno e un mio amico ha organizzato una piccola festa per me
in un
locale non molto lontano da qui.»
Ecco
spiegato tutto lo “splendore” di quella giornata.
«Ti
andrebbe di unirti a noi,
visto che sei il mio migliore amico?»
gli chiesi, un po’ velenosamente.
Strinse
gli occhi. «Noi
chi?»
Merda.
«Beh,
noi. Jesse, Charlie, tutti i nostri amici.»
Feci una piccola pausa. «Avril…»
aggiunsi
alla lista.
Il
suo tono era glaciale. «Assolutamente
no.»
Sgranai
gli occhi. «No,
cosa?»
«No,
non vengo se c’è anche
lei.»
Alzai
gli occhi al cielo, esasperato. «Oh,
andiamo, Evan. Hai proprio bisogno di svagarti e
non puoi evitarla per sempre. Ma cosa sei, un bambino di due anni?»
«Disse
quello che si prendeva a padellate in
testa.»
Scacciai le sue parole con una mano, come se non fossero importanti. «E
comunque, io sto benissimo.» replicò.
Ma
certo. Se per
“benissimo” intendeva magrissimo, pallido in un
modo esagerato e con due
occhiaie da far invidia ad un morto vivente… allora
sì, aveva proprio ragione.
Annuii
sarcastico, e lanciai un’occhiata d’apprezzamento
alla
biondina che si stava avvicinando al nostro tavolo.
«Ecco
i due caffè.»
disse, sorridendo specialmente nella
mia direzione, e andandosene.
Già,
davvero un gran
bel culo.
Misi
le mani a coppa sulla plastica del bicchiere, riscaldandomi,
e ne bevvi un sorso.
«Io
verrò, Matt. Ma tu non farlo.»
mi pregò.
Capii
immediatamente a cosa si riferisse. «No,
non posso non invitarla. È anche mia amica.»
Annuì,
livido e con le labbra contratte e si alzò improvvisamente
dal tavolo. «E
allora sai che ti dico? Bevitelo
da solo questa merda di caffè.» mi
sfidò, con gli occhi fiammeggianti.
Ma
io non gli risposi, non volevo cedere alla sua provocazione. Se
voleva fare il bambino capriccioso, che facesse pure.
Così,
vidi
Evan uscire dal locale,
sbattendo la porta, e allontanarsi per strada.
Scrollai
le spalle, non badandoci.
Meglio,
avrei avuto due caffè per me.
L’avevo
detto io che questa era una giornata splendida.
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 23 Giugno 2001
Avril's pov
Andai
a bussare alla porta di Kevin, agitata. «Ehi,
sei pronto?»
«Eh?
Oh, sì… ehm… ora arrivo.»
mi rispose.
Sospirai,
cercando di ricompormi. Matt ci aveva invitato a quella che era solo la
sua
“innocua festa di compleanno”, come
l’aveva definita lui, e io non stavo più
nella pelle.
Non
stavo più nella pelle di trovare
una scusa per non andarci,
sia chiaro.
Finalmente,
dopo un paio di minuti, Kevin venne
fuori dalla sua stanza: indossava una giacca nera sbottonata e dei
jeans
aderenti.
«Wow,
stai benissimo.»
commentai.
«Grazie…
anche tu.»
bofonchiò.
Annuii,
osservando il vestito di chiffon verde acqua prestatomi da
mia madre.
Ero
incerta su come dovessi prendere il complimento.
In
questi giorni era stato un po’… strano
e, anche mentre eravamo nella limousine con Peter alla
guida, non fu da meno.
Alzava
e abbassava la gamba destra nervosamente, si mordicchiava
le unghie e l’interno della guancia, e non c’era
secondo in cui non vedesse
quel dannato orologio sul cruscotto della macchina.
Ed
andava avanti così da una settimana, più o meno
dal giorno in
cui Matt ci aveva avvisato della sua festa.
Avrei
tanto voluto sapere cosa non andasse in lui, ma non ero mai
stata brava a parlare con gli altri.
L’unica
persona con
cui avevo provato seriamente a farlo mi aveva piantato in asso,
figuriamoci.
Cercai
di scacciare via quel pensiero dalla mente e di rilassarmi.
Anche
se non era
facile farlo, visto che la persona che mi era vicina era ancora
più nervosa di
me.
Sentimmo
delle urla di divertimento ancora prima di imboccare la
via del locale: dall’esterno sembrava carino e ben curato.
Il
problema era all’interno: c’erano bottiglie vuote
dappertutto e
corpi di persone non esattamente identificate che si strusciavano gli
uni sugli
altri ovunque.
La
musica, poi, era decisamente assordante: un brano dance veniva
pompato nelle casse e, dopo solo due minuti, mi venne già il
mal di testa.
Nella
confusione generale, intravidi Jesse e
Charlie, ma non c’era traccia… di
lui.
«Sarà
una lunga serata…»
borbottai, mentre
vidi Kevin andarsi a prendere un drink e dirigersi
verso i bagni.
«Dove
spero che tu ti ubriacherai.»
mi disse una voce
maschile alle mie spalle, facendomi sussultare.
Mi
girai, con gli occhi sgranati. «Matt,
mi hai fatto spaventare! E io che speravo che diventassi più
grande anche a
livello celebrale…» cercai di
scherzare.
Notai
che portava un buffo cappellino di cartone a punta sulla
testa. Niente da fare, avevo il sospetto che Matt sarebbe rimasto
sempre lo
stesso.
«No,
non sono quel genere di persona. Tu,
piuttosto, lasciatelo dire…»
aggiunse, facendomi un sorriso e brindando in segno
d’apprezzamento.
Pensai
volesse farmi un complimento, ed invece disse soltanto… «Stai
una merda.»
Incrociai
le braccia, irrigidendomi. «Grazie,
tu sì che sai sempre come tirarmi su di morale.»
«Per
te, questo ed altro. A proposito di merde,
vado a vedere anche come se la sta cavando lo zombie. Sai, credo
proprio abbia
bisogno di… compagnia.»
finì con un sospiro,
allontanandosi.
Non
ci misi molto a capire a chi si stesse riferendo e seguii con
lo sguardo la direzione in cui stava andando.
Rincorsi
il festeggiato, stando attenta a non farmi vedere, e mi
nascosi dietro una colonna da cui non potevo essere vista.
Da
lì, riuscii a vedere finalmente Evan: ancora
una volta, era bellissimo.
Mi
accorsi che indossava lo stesso abito del nostro tragico
appuntamento, ma sembrava più provato…
più stanco.
La
gioia di vederlo a pochi metri da me si sbriciolò, quando
vidi
accanto a lui quello strano ragazzo, Will Grayson e, soprattutto, Camille Miller.
Appoggiai
le mani sulla colonna e cercai di contenere il dolore.
Stranamente,
il contatto con il fresco del muro riuscì a calmarmi,
e capii di essere anche in una buona posizione per sentire i loro
discorsi.
«Non
ci presenti?»
stava chiedendo Matt, guardando Will
e Camille.
«Certo.
Lui è Will Grayson e lei è Camille
Miller. Sono due miei compagni di scuola. Ragazzi, lui è
Matt, un mio carissimo
amico.»
finì Evan.
I
tre si scambiarono amichevoli strette di mano e Matt si
soffermò
in particolar modo sulla stronza. «È…
la tua nuova fidanzata?»
Vidi
Camille arrossire e lo sguardo di Evan si ridusse ad una
fessura. «No,
è una mia amica. Mi sta aiutando
a… capire di più una certa persona.»
Non
mi accorsi di aver trattenuto il respiro per quella risposta
solo fino a quando non lo buttai tutto fuori. Beh,
meglio di niente, almeno.
Poi,
però, riflettei sulle sue parole: si
stava per caso riferendo a me?
«Bene,
ragazzi…»
disse Will, che stava parlando per la
prima volta. «Io
credo che andrò un attimo in
bagno… sì.»
Dopo
che il ragazzo finì di parlare, il gruppetto si sciolse e
ognuno si sparpagliò in direzioni diverse del locale.
Così,
dato che era finita la scena, appoggiai la schiena alla
colonna.
Stavo
cercando di mettere ordine tra i miei pensieri, quando
all’improvviso…
«Buh!»
gridò una voce da dietro.
«MATT!»
urlai in risposta, mentre sentivo i battiti
del mio cuore impazzito. «MA
NON PUOI FARMI
PRENDERE UN COLPO TUTTE LE VOLTE, CHE CAZZO.»
Alzò
un sopracciglio e mi rivolse un sorrisetto
impertinente. «Wow… non ti avevo mai sentito
così… volgare.»
«E
so dire anche di peggio, credimi.»
gli risposi, con
un’occhiata di fuoco.
Cambiò
completamente argomento, diventando improvvisamente serio. «Perché
semplicemente non gli parli, invece di
spiarlo?»
Abbassai
lo sguardo. Colpita
e affondata. «Non
so a chi ti riferisci.»
«Oh,
Gesù. Non la fare tanto lunga, dai.»
E
va bene. Voleva giocarla sporca? Ecco che lo accontentavo. «Beh,
non posso farlo perché lui non mi vuole vedere,
figuriamoci parlare.»
«E
ti sei chiesta il perché, no?»
Sempre
più colpita e
affondata.
«Sì. Ed il motivo è che sono
una testa di cazzo, principalmente.»
«Bene.
Prova ad ammettere i tuoi errori e vedrai
che, secondo me, ti darà una possibilità.»
Annuii,
registrando nella mente le sue parole. «Sai,
non ti facevo così saggio.»
La
sua replica, però, fu tagliente. «Ed
io non ti facevo così stupida. Non
farlo
soffrire di nuovo.»
Poi,
se ne andò, e mi lasciò a pensare da sola.
Pensai,
pensai, pensai.
E,
alla fine, lo ringraziai mentalmente.
Ringraziai
Matt,
perché adesso sapevo cosa fare.
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 23 Giugno 2001
Evan's pov
La
festa era finita da un pezzo, ed io mi ero trovato da solo in
mezzo ad una marea di sconosciuti.
Che
bello.
Ora
stavo tornando a casa in moto e stavo tentando di rimuovere
alcuni pezzi della serata dalla mia mente.
Il
contatto
claustrofobico con altri corpi.
L’espressione
amareggiata di Matt nel vedermi in quello stato.
Il
viso di Avril.
Staccai
solo per qualche secondo le mani dal manubrio e mi sfregai
gli occhi.
Non
ci pensare, Evan.
Vai più veloce, più veloce.
E
così feci. Superai il limite di velocità
parecchie volte, prima
di arrivare nel retro di casa.
La
limousine di Peter non c’era: bene,
ero arrivato prima di loro.
Mi
tolsi il casco e smontai dalla moto, prendendo dalla tasca del
cappotto le chiavi di casa.
Rabbrividii
per il contatto con il metallo ghiacciato e percorsi
il vialetto.
Poi,
finalmente, aprii la porta d’ingresso, la richiusi alle mie
spalle e partii rapidamente verso la mia stanza.
Salii
i gradini due a due e, una volta entrato nella mia camera,
sospirai.
Avrei
tanto voluto poter cancellare dai miei ricordi il
suo volto, il suo abito… il suo sguardo…
«Evan.»
Mi
bloccai all’istante.
No.
Non
poteva essere.
Non
poteva…
Alzai
lentamente lo sguardo davanti a me e la vidi lì, seduta sul
mio letto, con ancora quel vestito che le stava meravigliosamente
indosso.
Scrutava
ogni dettaglio del mio viso con i suoi occhi azzurri e, a
quel punto, non potei fare a meno di risponderle.
«C-ciao.»
Deglutì,
intimorita, e si mordicchiò il labbro inferiore. «Posso…
posso parlarti?»
Ero
ancora un po’ intontito per via della sua presenza, ma
annuii,
colto alla sprovvista.
«Io…
ti volevo chiedere scusa per l’altra sera.»
Mi
irrigidii ancora di più al suono delle sue parole. «Davvero,
ascolta, non ne voglio parlare…»
«No,
ascolta tu!»
disse, alzandosi in piedi. «Ci
sono tre motivi per cui mi sono decisa a parlarti
oggi: il primo è che volevo scusarmi per quello che
è successo l’altra sera
perché… ho commesso un errore. Un errore che ha
portato ad entrambi solo
dolore, un dolore crudele e violento. Il fatto è
che… ero talmente occupata a
pensare a quello che provavo per te che, alla fine, quando è
arrivato il
momento di dirtelo, non sono riuscita a tirarlo fuori. E questo non me
lo
perdonerò mai, visto che, ormai, non mi sono state concesse
altre possibilità
di rimediare.» disse, con una punta di veleno
alla fine.
Non
riuscivo a capirla. «Cosa?»
Mi
fissò, prendendo un bel respiro. «Camille.»
mi rispose, a denti stretti, come se pronunciare il suo nome le
costasse chissà
quanta fatica.
«Camille?»
chiesi stupito.
«Sì,
Camille. Sai, la ragazza che ti ronza sempre
attorno e che ti sta “aiutando a
capire
di più una certa persona” che non
perdonerai mai!»
«Ma
che diavolo stai dicendo?!»
gridai. Poi, però,
la vidi avvampare di vergogna… e alla fine capii. «Tu
stavi spiando la nostra conversazione!» la
accusai.
Cercò
di difendersi come meglio poteva. «Sì,
beh, non vedevo altro modo.»
«E
tu pensi che quella frase fosse riferita a te!»
continuai, sempre
più alterato.
«Perché,
non è così?»
mi chiese.
«Ma
no che non è così, razza di idiota! Era per
Kevin.»
«Kevin?»
domandò sbalordita.
«Sì,
Kevin!»
Presi un respiro profondo e mi calmai. «Non
so se lo hai notato, ma è stato molto strano,
durante quest’ultima settimana. E lo stesso è
stato per Will. Per questo, Camille
pensa che questa potrebbe anche non essere una coincidenza e sta
incominciando
a credere che Will possa star “influenzando” Kevin,
in qualche modo.» Poi,
mi mossi un po’ verso di lei e mi arrotolai una sua ciocca di
capelli sul dito.
«E
comunque, io ti ho già perdonato.» le
dissi, ricordandomi le sue parole di qualche secondo fa.
«Davvero?»
mormorò.
Le
feci un mezzo sorriso. «Sì.
L’ho
capito più o meno una settimana fa, quando ho parlato con
Matt. Ero
arrabbiatissimo con lui, perché voleva invitare alla festa
anche te, a tutti i
costi. Ma la vuoi la verità? Beh, la verità
è che ero incazzato nero con me
stesso, perché sapevo che questa farsa
dell’evitare qualsiasi contatto con te
doveva finire, prima o poi, e sapevo che la stavo tirando troppo alla
lunga.
Per cui… adesso voglio il secondo e il terzo.»
Mi
guardò disorientata. «Il
secondo
e il terzo cosa?»
«Il
secondo e il terzo motivo per cui hai deciso
di venirmi a parlare.»
le risposi.
«Oh,
già. Il secondo motivo è che… sei
davvero
uno schianto con quello smoking e mi sembrava l’occasione
giusta per
comunicartelo.»
Risi.
«E
il terzo?»
Mise
le mani sul mio petto e mi sentii pervadere da un calore
fortissimo. «Il
terzo è… Socrate.»
Ero
confuso. «Socrate?»
«Già,
Socrate. Ti ricordi, no, tutta la faccenda
del “conosci te stesso” e del sapere il motivo per
cui siamo nati.»
Le
sorrisi, non capendo comunque dove volesse arrivare, ma felice
che si ricordasse della nostra chiacchierata. «E
quindi, ci hai pensato? Sai darmi una risposta?»
Avvicinò
il suo viso al mio. «Sì,
ci ho pensato e sì, ho una risposta.»
I
suoi occhi azzurri scivolarono sulle mie labbra e il suo respiro
si fece più affannoso, insieme al mio.
«La
risposta è che…»
sussurrò.
Si
passò la lingua sul labbro inferiore e i nostri sguardi
s’incrociarono di nuovo: ero ipersensibile nei confronti del
suo corpo così
vicino.
Riuscivo
a sentire ogni cosa: le mie mani su i suoi fianchi, le
sue sul mio petto, il suo viso a pochi centimetri dal mio.
«Io…»
Appoggiò
la fronte sulla mia e mi toccò il naso con il suo.
«Sono
nata…»
Respiravo
il suo odore così buono.
«Per
dirti…»
Sentivo
il suo respiro sulla pelle.
«Ti amo.»
Poi,
finalmente, le mie labbra trovarono le sue.
Mi
gustai completamente il sapore delle sue labbra. Mi staccai
solo di un po’.
«Dillo
ancora.»
sussurrai, estasiato.
«Ti
amo.»
Assaporai
ancora ogni secondo della dolcezza del contatto con la
sua lingua.
«Ancora.»
«Ti
amo, ti amo, ti amo.»
La
poggiai delicatamente sul letto ed incominciai a spogliarla,
lentamente.
Quella
notte ci
dedicammo solo a noi stessi, scoprendo lati di noi di cui non eravamo
nemmeno a
conoscenza e unendoci, davvero, in un solo corpo.
Alla
fine, posò la testa nell’incavo della mia spalla
nuda.
«”Ti
panino al formaggio.”»
La
guardai, completamente sbalordito. Ma, per lei, “panino al
formaggio” non significava…? «Non in
quel senso.»
mi rassicurò subito. «Nel
senso che ti amo.»
Ridacchiai.
«Oh,
beh, allora… “ti panino al formaggio”
anch’io.» le risposi.
«Sai,
potrei anche tollerare l’esistenza del formaggio,
d’ora
in poi.»
«Perché
vuoi stare con me?»
le chiesi.
«Sì.
Perché voglio stare con te.»
E si addormentò dolcemente
tra le mie braccia.
Anch’io,
Ramona.
Anch’io
lo avrei tanto voluto.
Ma,
purtroppo, non ci sarà dato il
tempo per realizzare questo nostro sogno.
***
And I'd give up forever to touch you,
'cause
I know that you feel me somehow.
You're
the closest to heaven that I'll ever be.
And
I don't want to go home right now.
And
all I can taste is this moment.
And
all I can breathe is your life,
'cause
sooner or later it's over.
I
just don't want to miss you tonight.
And
I don't want the world to see me,
'cause
I don't think that they'd understand.
When
everything's made to be broken,
I
just want you to know who I am.
And
you can't fight the tears that ain't coming,
or
the moment of truth in your lies.
When
everything feels like the movies,
yeah,
you bleed just to know you're alive.
And
I don't want the world to see me,
'cause
I don't think that they'd understand.
When
everything's made to be broken,
I
just want you to know who I am.
[…]
I
just want you to know who I am.
E
ho rinunciato per sempre a toccarti,
perché
so che tu mi senti in qualche modo.
Sei
più vicina al paradiso di quel che io sia
mai stato.
E
non voglio andare a casa ora.
E
tutto quello che posso assaporare è questo
momento.
E
tutto ciò che posso respirare è la tua vita,
perché
presto o tardi è finita.
Non
voglio perderti questa notte.
E
io non voglio che il mondo mi veda,
perché
non penso che la gente capirebbe.
Quando
tutto è stato fatto per essere distrutto,
io
voglio solo che tu sappia chi sono.
E
tu non puoi combattere le lacrime che non
stanno per arrivare,
o
il momento della verità nelle tue bugie.
Quando
tutto sembra come nei film,
sì,
tu sanguini solo per capire che ancora sei
viva.
E
io non voglio che il mondo mi veda,
perché
non penso che la gente capirebbe.
Quando
tutto è stato fatto per essere distrutto,
io
voglio solo che tu sappia chi sono.
[…]
Io
voglio solo che tu sappia chi sono.
~
Until the End – Iris
P.S.
Quanta suspense. (?)
P.P.S.
Ma voi sapete qualcosa del video di GYWYL? Io neanche.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** 19. Skumfuk ***
Salve
salvino.
Pronti
per un nuovo capitolo leggero e pieno di allegria?
Ehm…
in realtà, no.
Questo
capitolo, a dir la verità, sarà tutto
fuorché allegro: ci
sarà rabbia, disperazione, litigi ed altre scene abbastanza
“spinte”.
Non
uccidetemi, plis.
Ultima
cosa e poi me ne vado, aspettando che mi lanciate un’intera
cassetta di pomodori addosso: ho intenzione di scrivere due one-shots
[Al più
presto, si spera]
La
prima sarebbe una song-fic su “Adia”, dato che
Avril ha fatto
una cover del meraviglioso brano di Sarah McLachlan, e la seconda
sarebbe una
vera e propria one-shot incentrata su Kevin e su cosa sia successo
quella sera
al locale durante la festa di Matt con Will. [Eheheh]
Che
ne pensate?
Bene,
ora vi lascio [Aspetto sempre i vostri pomodori, eh] e me
ne vo (?)
Al
prossimo aggiornamento ~
~
Cruel Heart.
***
Sum
41 - Skumfuk
***
Harrisburg,
Pennsylvania,
Stati Uniti d’America, 24 Giugno 2001
Evan's pov
Sentii
Avril appoggiare la testa sull’incavo
della mia spalla e la baciai dolcemente tra i capelli: non volevo
svegliarla,
ma non riuscivo proprio a concepire l’idea che le mie labbra
si separassero da
lei.
Che
io mi allontanassi da lei.
Ma
questo non sarebbe mai successo, perché,
adesso, soltanto immaginare una cosa del genere, mi avrebbe provocato
un dolore
indicibile, mille volte superiore alla sensazione che avevo provato
pochi
giorni fa, quando lei aveva nascosto il suo amore per me.
Ero
lì, a notte fonda, a fissare la ragazza che
amavo, mentre dormiva accoccolata al mio petto.
Non
ero uno stalker o un vampiro psicopatico, no.
Al
massimo solo uno con una faccia da pesce lesso e con un sorriso da
ebete.
Oppure,
un semplice ragazzo innamorato.
Sarei
potuto stare lì a guardarla dormire per
tutta la notte, senza che io facessi nient’altro
fuorché osservarla.
E
avrei potuto farlo davvero, se non fosse stato
per un rumore.
Proveniva
dal piano di sotto e sembrava come se
qualcosa… fosse andato in frantumi.
Mi
vennero in mente svariate cose: una finestra
rotta, un bicchiere caduto in cucina, ma l’unica cosa che mi
convinceva sia per
la distanza, sia per il tipo di suono, era il vaso nello studio di
papà che
andava in mille pezzi al secondo piano.
Cercai
di focalizzare tutta la mia attenzione su
quel rumore, ma niente, le mie orecchie captavano solo il silenzio.
Così,
staccai piano il braccio dalla spalla
destra di Avril e, facendolo scivolare molto lentamente sotto la sua
schiena,
mi alzai dal letto.
Ma,
nonostante questo, sentii il suo respiro
tranquillo interrompersi. «Evan,
non… non
lasciarmi.»
mormorò, ancora con gli occhi chiusi.
Mi
cercò con la mano e io gliela presi subito tra le mie.
Le
baciai le nocche, una per una, senza fretta, e le sussurrai che
tutto andava bene e che tra poco sarei tornato da lei.
Sebbene
fosse ancora assonnata, mi ascoltò e si
girò su un fianco, portando le mani sotto la testa, a
mo’ di cuscino.
Appena
sentii che il suo respiro era ridiventato
regolare, presi la mazza da baseball che tenevo sempre accanto alla
scrivania.
Poi,
uscii di soppiatto dalla stanza e, cercando di
fare il meno rumore possibile, mi diressi verso lo studio di mio padre:
non
sapevo cosa aspettarmi, e l’ultima cosa che volevo era essere
disarmato di
fronte a dei ladri.
Scesi
le scale, un gradino alla volta, stando
attento a dove mettessi i piedi, e iniziai a percorrere il lungo
corridoio.
Già
appena incominciai a muovere i primi passi,
riuscii nettamente a distinguere due voci piuttosto alterate: una era
quella
bassa e baritonale di mio padre, autoritaria come al solito, e
l’altra era una
femminile, già conosciuta.
Non
ci misi molto a riconoscere il tono della
madre di Avril, la signora Judith, ma mi sfuggiva il motivo per cui
stessero
litigando, e a quest’ora, poi.
Così,
posai la mazza da baseball accanto al muro,
senza far rumore, e sbirciai dalla porta, da cui riuscivo a vedere una
parte
piccolissima della scena.
La
prima cosa che notai furono i cocci di
ceramica sparpagliati per quella piccola porzione di pavimento che
riuscivo a
scorgere: ci avevo visto giusto, si trattava del vaso di mio padre.
Poi,
iniziarono le urla:
«Non
puoi fare sempre così, Judy!»
Sgranai gli occhi:
da come mio padre le si era rivolto, sembrava come se… la conoscesse da molto tempo.
«Io
faccio quello che mi pare! LEI È LA MIA
BAMBINA!»
urlò la donna. Sentii scorrere un gelido brivido sulla
schiena al pensiero che
l’argomento della discussione era Avril.
A
quel punto, riuscii a distinguere solo la sagoma di mio padre
che andava incontro a quella di Judy: lui, decisamente più
alto, la sovrastava
completamente e la fissava con uno sguardo gelido e furioso allo stesso
tempo.
«Lo
sai che non è così, Judy. È anche la mia bambina.»
Appoggiai
la mano al muro, barcollando.
Che
cosa… cosa voleva
dire?
«Non
ti azzardare a dire una cosa del genere,
Mark. Credi che non sappia cosa hai fatto appena me ne sono andata, eh?»
sibilò Judy, furente.
«Non
sei mai stato un padre per lei e pretendi
di esserlo adesso?»
«Lo
so, ho sbagliato, ma adesso… adesso voglio
porre rimedio ai miei errori. Sono
entrambi figli miei e questo, purtroppo
per te, non cambierà mai.»
Un
dolore incontenibile mi fece vacillare.
Le
ginocchia mi tremavano, ma la morsa non si fermò, non
arrestò
la sua corsa.
Così,
non riuscendomi a reggere neanche sui miei piedi, travolsi
tutto quello che mi trovai davanti e, con le lacrime agli occhi, mi
misi a
correre.
***
Duke Mark's
pov
Avevamo
avuto un’accesa discussione io e Judy,
quella sera.
Non
riusciva ancora a capire come potessi
decidermi a voler conoscere mia figlia, di punto in bianco.
Ebbene
sì: dopo anni di silenzio, dopo anni di
oscurità, avevo deciso di redimermi.
Feci
un mezzo sorriso crudele: certo, agognavo la redenzione, ma
l’avrei ottenuta
soltanto alle mie regole.
Judy
se n’era andata furibonda, dopo l’ultima
frase che ci eravamo scambiati.
Sospirai,
infastidito. Come al solito, mia moglie
voleva sempre avere l’uscita di scena e, beh… io
l’avevo semplicemente
accontentata.
All’improvviso,
mi bloccai: avevo sentito un
rumore, come un qualcosa che andava a sbattere.
Strinsi
gli occhi e parlai, in modo chiaro e sicuro.
«Coraggio, so che sei lì.»
Aspettai
qualche secondo e non ebbi alcuna risposta.
«Avanti,
non essere timido, su.»
Questa
volta, invece, riuscii a captare un leggero fruscio di
passi.
Bene,
si stava
avvicinando ancora di più.
«Vieni
avanti… Kevin.»
gli ordinai, con
voce imperiosa.
Davanti
a me, comparve una figura con la testa china, le spalle
incassate e con quell’andatura dannatamente strascicante che
avevo sempre
odiato con tutto me stesso.
Eccolo
lì. Ah, quant’era
facile piegare le persone con così poca
personalità.
«Sai
tutta la verità adesso. Vero?»
gli chiesi.
La
sua risposta non arrivò e io gli ribadii il concetto. «VERO?»
gridai.
Annuì
guardando verso di me, velocissimo, come se le mie parole lo
avessero ferito irrimediabilmente.
«Ottimo.
E dimmi, come ti senti, adesso?»
Abbassò
lo sguardo, pieno di vergogna. «Io… io
non so come…»
Fece
una pausa e ne approfittai, avvicinandomi a lui. «Prima
regola della persuasione, Kevin. Non
devi mai staccare lo sguardo dal tuo
interlocutore. Mai.»
gli
dissi, afferrandogli il mento, e costringendolo a guardare nei miei
occhi.
Mi
allontanai, dandogli le spalle. «Ma so,
comunque, che tu faresti di tutto per farmi felice, no?»
Questa
volta, non aspettai la sua risposta e continuai
direttamente. «Ho
bisogno che tu faccia una cosa
per me, Kevin.»
Mi
girai verso di lui e, inaspettatamente, lo vidi stringere gli
occhi, sospettoso.
Finalmente,
adesso lo
riconoscevo!
«Che
genere di cosa?»
Gli
spiegai brevemente quello che volevo che facesse, ma la sua
ostinazione fu ancora più grande della mia
capacità persuasiva.
«No,
assolutamente no!»
mi rispose, quasi
gridando. «Non
potrei mai fare una cosa del
genere. Non a loro, poi! Sono i miei amici!»
Sollevai
un sopracciglio, meravigliato da tanta audacia. «Oh,
davvero? E, dimmi…» continuai,
prendendo
dalla tasca interna della giacca la busta da lettera. «Con
queste, potresti cambiare idea, magari?»
Lasciai
che aprisse il plico, lasciai che vedesse quelle foto,
lasciai che ogni singolo fotogramma gli si piantasse e gli scoppiasse
nella
mente.
«Tu…
tu… queste foto… Will… COME HAI
POTUTO?!»
Risi,
prendendomi gioco della sua ingenuità. «Andiamo, credevi davvero che quei due
ragazzi al di fuori dei bagni di quello stupido
locale dove siete andati
a sbaciucchiarvi tu e quell’altro fossero davvero solo due
tipi sbronzi che stavano
facendo qualche foto all’ambiente?»
Vidi
i suoi occhi traboccare di rabbia, ma non gli diedi il tempo
di farla fuoriuscire.
«Ti
propongo un patto, Kevin: tu accetti di fare
quello che ti ho chiesto e tu e quel finocchio
del tuo fidanzato potete continuare a vivere la vostra…
ridicola… “storia
d’amore.”»
[N.d.A. Scusate per il termine volgare e se ho urtato la
sensibilità di
qualcuno, ma mi sembrava più adatto al contesto.]
«NON
OSARE CHIAMARE WILL IN QUEL MODO!»
«Oppure…»
dissi, interrompendolo nuovamente. «Se
tu non dovessi accettare, beh… mi troverei
costretto a fare una telefonatina al preside, e ad indurlo a far
allontanare il
tuo amichetto per… diciamo… tutti gli anni a
venire?»
«VUOI
FAR ESPELLERE WILL?!»
Sporsi
il labbro inferiore. «Se
la
vuoi mettere in questo modo, sì.»
«Brutto
bastardo…»
sibilò.
«Alt,
alt, niente insulti. Allora, che fai? Accetti
di mantenere questo piccolo segreto solo tra noi due?»
Non potei fare a
meno di sorridere. Faceva uno strano
effetto pronunciare di nuovo le stesse parole dopo quasi undici anni.
Mi
fissò, lanciandomi occhiate di odio puro.
Ma
a me non importava, volevo solo arrivare al mio obiettivo,
qualunque fosse il mezzo.
Dopo
qualche minuto, lo vidi annuire leggermente, a testa bassa.
I
miei occhi si accesero di felicità. «Bene,
bravo.»
Così,
pensai di finirla lì, di lasciarlo andare, ma mi venne in
mente un’altra idea.
«Ah,
un’ultima cosa.»
aggiunsi, muovendomi
verso di lui. «Dimmi…»
gli chiesi,
grattandomi leggermente il mento. Riuscivo a vedere la paura nei suoi
occhi,
riuscivo a vedere il terrore nel fronteggiarmi, nello stare occhi negli
occhi.
Un’altra volta.
«Sai
dove posso trovare Evan?»
***
Evan's pov
Non
sapevo neanche io come, ma ero riuscito a raggiungere
la biblioteca.
Fin
da piccolo, era sempre stato il mio rifugio: l’unico
luogo in cui mi sentivo al sicuro in quella casa enorme.
Ma,
adesso, non era più così.
Cercavo
il conforto in un altro luogo, tra le braccia di un’altra
persona… l’unica persona
che non potevo avere.
Mi
avvicinai alla scrivania di fronte alla finestra
e rovesciai tutti i libri su di essa, buttandoli a terra.
Volevo
spaccare qualcosa. Dovevo spaccare
qualcosa.
Mi
presi la testa fra le mani e iniziai a tempestare
il muro di pugni.
Forte,
forte, sempre più forte: non mi fermai neanche
quando il sangue cominciò a scorrere tra le mie dita.
Urlavo
di dolore, di rabbia, di frustrazione,
ma quello che il mio fisico
provava non era niente in confronto a quello che mi sentivo dentro.
Poi,
mi fermai, con le mani sporche di sangue e
con il respiro ansante.
Lui
era lì.
Mi
stava fissando con uno sguardo compiaciuto,
come se gli facesse piacere vedere la mia sofferenza esposta davanti ai
suoi
occhi.
«CHE
COSA VUOI?»
gridai.
Si
accigliò, ma non smise di avere quel sorrisino falso
spalmato
sulla faccia. «Voglio
che tu stia bene, Evan. E
che mi stia a sentire.»
Distolse
lo sguardo dal mio e si avvicinò alla scrivania, dandomi
le spalle.
«Ascolta,
so che le rivelazioni di questa notte possono
averti fatto male, ma…»
«Fatto
male?! Fatto male, papà? MI HANNO DISTRUTTO! SONO
TOTALMENTE DEVASTATO!»
Espirò
brevemente. «Lo
so, e
mi dispiace.» Sembrava quasi che gli costasse molto
pronunciare quelle parole.
«E
allora perché non me l’hai detto prima?»
«Perché
non volevo che tu soffrissi. Vedevo come la
guardavi, vedevo come ti struggevi per lei, e nonostante questo, ho
cercato in
tutti i modi possibili per interrompere il vostro rapporto malsano
senza
provocarvi altro dolore.»
Spalancai
gli occhi, avvicinandomi a lui. «Rapporto
malsano?»
Fece
un mezzo sorriso. «Beh,
come credi che si possa definire una relazione di questo tipo? Hai
bisogno di
staccare, di non pensare più a lei. E, a questo
proposito…» disse, frugando nella
sua tasca e tirando fuori un biglietto. «Mi
sono permesso di darti una mano e di anticipare le cose.»
Presi
il biglietto e lo lanciò sul tavolo, infilando poi le mani
nelle tasche dei suoi pantaloni eleganti.
Afferrai
il piccolo foglio rettangolare e capii subito di cosa si
trattava.
Era
un biglietto aereo. Di sola andata.
«Cosa…?
Come…?» riuscii a balbettare, fissandolo confuso.
«Io
so solo che devi starle lontano, Evan. E, questo,
adesso, lo sai anche tu. Devi
troncare.» mi disse, scandendo
lentamente le parole.
Inspirai
bruscamente. «E
se
mi rifiutassi?»
Inclinò
la testa da un lato e si strinse nelle spalle. «Allora…
vorrà dire che Judy e Avril saranno
buttate fuori da questa casa e se ritorneranno in Canada.»
Strinsi
gli occhi. «Loro
hanno una casa, lì.» Evitai di dirgli che ci ero
già stato.
«No,
ti sbagli. Non l’hanno mai avuta, in realtà.
Quella
casa è sempre stata intestata a me e l’avevo
ceduta a Judy solo
temporaneamente.» Puntò il suo sguardo nel mio. «Se
non accetti, Evan, credo che la loro nuova casa sarà un
grazioso monolocale
sotto un qualche ponte.»
Non
ci vidi più dalla rabbia e tentai di addossarlo al muro. «RAZZA
DI FECCIA
UMANA!» gli urlai.
Provai
a colpirlo con un gancio destro, poi con uno sinistro, ma
riuscii entrambe le volte a bloccarmi.
Con
il respiro ansante per lo sforzo, cercai di ribellarmi e di
sfuggire alla sua morsa, ma era inutile.
Alla
fine, dopo qualche minuto, mi lasciò andare e io, di
conseguenza, mi arresi: ero completamente impotente e non riuscivo ad
oppormi.
Mi
aveva fregato.
Ci
aveva fregati tutti.
«La
scelta è tua, Evan.»
Mi guardò serio.
«O
la sua felicità…»
disse, poggiando un
dito sui biglietti.
«O
la sua disperazione.»
concluse.
E
spostò il dito sul mio petto.
***
Take
the pictures off the wall.
Erase the thoughts, forget them all.
The choice is yours to save yourself,
or in the hands of someone else.
Broken thoughts and alibis
conscious disappears in time.
My voice is all that I can show,
That all that I have is a soul.
[…]
What
can I say?
Guess it’s obvious you would end up this way.
When you live amongst the dead,
the best of luck,
as the one and only resident skumfuk.
A victim or just a tragedy?
I hear you talk,
but I don't hear you speak.
You don't make sense.
Your mind is incomplete,
I can't believe all
the things that you say.
You just can't get enough.
We'll all be waiting here just for the day,
guess your time is up.
[…]
All that I need
is time for me to breathe.
Dreams, little dreams,
that only I believe.
Now that I see,
beyond the light.
I know I'll be…
I'll be alright.
Togli
le foto dal muro.
Cancella
i pensieri, dimenticali tutti.
La
scelta di salvarti è tua,
o
nelle mani di qualcun altro.
Pensieri
distrutti e alibi
scompaiono consapevolmente col tempo.
La mia voce è tutto ciò che
posso
mostrare.
E tutto ciò che ho è un'anima.
[…]
Beh,
cosa posso dire?
Suppongo sia ovvio
che tu abbia voluto terminare in questo modo.
Quando vivi ad un passo dalla morte,
il meglio dalla fortuna
come l'unica e sola feccia.
Una vittima o solo una tragedia?
Ti sento parlare, ma non ascolto cosa dici.
Dici cose senza senso.
La tua mente è incompleta,
non posso credere alle cose che dici.
Non puoi semplicemente averne
abbastanza.
Aspetteremo qui il giorno,
immagino che il tuo tempo sia scaduto.
[…]
Tutto
ciò di cui ho bisogno è tempo per respirare.
Sogni, piccoli sogni, gli unici in cui credo.
Ora ciò che vedo, oltre la luce.
Starò...
Starò bene.
~
Sum 41 – Skumfuk
|
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Capitolo 21 *** 20. Beside You ***
Salve
youtubers e benvenuti ad una nuova recensione!
Ah…
Ma
io… non sono Yotobi…
Quindi…
Salve
little black stars e benvenuti ad un nuovo capitolo!
Ecco,
così va meglio.
Finalmente
sono riuscita ad aggiornare, deo
gratias.
Vi
consiglio caldamente di leggere queste
righe con il link del brano qui sotto in sottofondo.
Io
mi sto drogando di questa canzone ed è
bellissima <3
Qualche
giorno fa mi sono accorta che le
immagini che avevo scelto da mettere sotto ogni p.o.v. sono state
cancellate
dal server, ahimè, e quindi ho deciso di caricare altre foto
dei nostri
personaggi sclerati preferiti (?)
[Compreso
il duca che adesso odierete molto
di più]
Anche
le immagini nei precedenti capitoli
saranno ripristinate a breve.
Spero
che questo aggiornamento sia di
vostro gradimento… e spero anche di non essere uccisa alla
fine della vostra
lettura, sigh.
A
presto :)
~
Cruel Heart.
***
Marianas Trench -
Beside You
(Live)
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 25 Giugno 2001
Avril's pov
Mi
accorsi sin da subito che qualcuno aveva chiuso le tende della mia
finestra.
I
pochi raggi di sole, che riuscivano ad entrare nella mia camera, mi
creavano un
senso di inquietudine non indifferente.
Tuttavia,
questa strana sensazione di timore fu soppiantata da una gioia
incontenibile
che, da una settimana a questa parte, mi riscaldava il cuore: Evan.
Tastai
la porzione di materasso accanto alla mia, ma non trovai le sue braccia
pronte
ad accogliermi.
Disorientata,
feci pressione sui gomiti e, sollevandomi col busto, lo chiamai
più volte.
Aspettai
di sentire la sua risata allegra arrivare da qualche stanza sul piano,
ma
niente: c’era solo il silenzio,
insolito
ed innaturale per quell’ora del mattino.
A
quel punto, mi alzai completamente dal letto, scostando le coperte
calde, e
m’incamminai verso la porta, per scendere al piano inferiore.
Prima
di uscire, però, mi accorsi di due cose alquanto strane.
La
prima:
vicino al suo armadio, non c’era la custodia con la sua
chitarra. La metteva sempre lì, perché diceva che
era l’unico punto della
stanza a non essere soggetto a cambi di temperatura, e quindi, in
questo modo,
le corde della chitarra non potevano rovinarsi.
La
seconda:
proprio ai piedi della sedia della sua scrivania, sul
pavimento, c’era un foglio di carta. Probabilmente, doveva
essergli caduto e si
era dimenticato di raccoglierlo.
Nonostante
questo, comunque, uscii dalla camera e scesi le scale, per andare in
sala da
pranzo: avrei pensato dopo a quello che avevo notato.
Staccai
la mano dal corrimano in legno e la prima cosa che vidi fu il tavolo
pronto per
la colazione: era apparecchiato solo per due persone.
Increspai
le sopracciglia e tamburellai con il dito indice sulla tovaglia
ricamata.
Tutto
questo non mi piaceva affatto: come mai la tavola era approntata solo
per due?
Che fine avevano fatto tutti?
Purtroppo,
il flusso dei miei pensieri fu interrotto da un forte rumore
proveniente dalla
cucina.
Camminai
verso di essa a passo spedito e vidi mia madre che sfornava una
tortiera con un
soufflé al cioccolato dentro.
Lei
percepì la mia presenza e si girò verso di me.
«Oh…
ben alzata.»
Fece un sorriso appena accennato, striminzito, e
abbassò lo sguardo verso il dolce che aveva fatto.
«Dai,
vai a metterti a tavola, che tra un po’ è pronto.»
Aprii
leggermente
la bocca, confusa, ed aspirai un breve soffio d’aria.
Certo,
mi aveva
guardata con quegli occhi tristi, quasi spenti, ma non era per questo
che me ne
stavo lì, immobile, con un’espressione corrucciata.
Una
volta, quando
ero piccola, mi aveva raccontato che, da giovane, la chiamavano la
“Soufflé
Girl”, ovvero la ragazza dei soufflé*: questo
perché diceva sempre che “quando
la vita ti infligge una perdita di
qualcosa a te caro, un buon soufflé è la vendetta
migliore.”
Una
perdita.
Come
se qualcuno
avesse improvvisamente spinto l’interruttore per la messa in
moto del mio
cervello, collegai il motivo del soufflé,
l’assenza di tutti, la chitarra
mancante, quel pezzo di carta e Evan.
E
sgranai gli
occhi.
Adesso,
tutto tornava.
«No….
no.»
rantolai.
Appena
mia madre
si rese conto di quello che mi stava succedendo, corse verso di me e mi
abbracciò stretta, cercando di bloccarmi con le sue braccia.
«No.
No. No. No. No. No. No.»
ansimavo, sempre
più forte. Riuscii a divincolarmi dalla sua presa e corsi
nella camera di Evan.
Aprii
le ante
dell’armadio e iniziai a buttare per terra freneticamente
tutti i miei vestiti
che avevo portato in quella settimana dalla mia stanza alla sua.
Non
erano lì.
I
suoi vestiti non erano lì.
C’era
soltanto la
sua sciarpa, quella sciarpa
di lana blu scura che
mi aveva dato la sera in cui c’eravamo
conosciuti, quasi cinque mesi fa.
La
presi in mano e inspirai il suo odore, mentre si confondeva con il
sapore acre delle lacrime, che incominciavano a scorrere sul mio viso.
Poi,
posai il mio sguardo su quel foglio di carta lasciato lì,
sul
pavimento.
Lo
raccolsi, lentamente, e iniziai a leggere.
Cara
Avril,
sai,
pensavo di essere più bravo con le parole.
Pensavo
di riuscire a trovare la frase più adatta per dirti tutto
quello che meriti di sentire, ma la verità è che
non riesco a fare altro se non
mettermi le mani nei capelli e urlare a squarciagola quanto tutto
questo mi
stia uccidendo.
Quello
che voglio dirti è che… mi
dispiace.
Mi
dispiace così tanto.
Lo
so che queste due parole sono niente, in confronto al dolore che
starai sentendo in questo esatto momento.
Ti
immagino lì, con la mia sciarpa in mano, mentre i tuoi occhi
azzurri
scorrono su queste righe: spererai disperatamente che tutto questo sia
solo un
brutto sogno, pregherai con tutto il tuo cuore che, alla fine di questa
lettera, me ne esca con il mio solito sorriso da due soldi e ti dica
che è
stato solo uno scherzo.
Non
è così.
Mi
dispiace.
Sono
partito questa mattina, all’alba, come fanno i codardi, e
sarà un
biglietto di sola andata.
Ho
preso un paio di vestiti, qualcosa da mangiare, la mia chitarra e
sono andato via.
Non
provare a cercarmi, non nutrire questa speranza inutile: nessuno sa
dove sono, nessuno sa se la strada che sto per prendere è
quella giusta.
Non
lo so nemmeno io.
Non
sprecare i tuoi singhiozzi per un tipo come me, ma odiami e leggi.
Ad
ogni libro che comprerai, accrescerai il tuo odio nei miei
confronti.
Ad
ogni pagina che sfoglierai, mi disprezzerai sempre di più.
E
va bene,
perché con quel “ti panino
al formaggio” di quattro mesi fa, sarà tutto
più facile.
E
va bene,
perché leggere è una forma
di consolazione: inizi davvero a farlo, quando capisci che la tua vita
non è un
granché.**
Anche
quando detestarmi ti sembrerà impossibile, anche quando
penserai
che io sia accanto a te,
allontanami.
Dimenticami.
Esattamente
come sto cercando di fare io.
Quando
asciugherai frettolosamente le tue ultime lacrime, per mentire
sul fatto che tu stia bene, e i tuoi occhi stanchi rifiuteranno di
chiudersi e
di dormire in tua difesa…
Quando
l’unica cosa che vorrai sarà solo restartene
lì, ferma, con le
braccia strette al petto…
Quando
proverai a parlare ma non riuscirai ad emettere alcun suono e le
parole che vorrai urlare saranno al di fuori della tua portata, sebbene
non
siano mai state così forti e violente…
Quando
il tuo cuore si spezzerà a causa mia e quando tutto questo
inferno si farà troppo per te…
Ti
imploro di pensarmi.
E
di andare avanti senza di me.
Evan.
***
*lasciatemi
citare Doctor Who :3
**citazione
presa da un’intervista ad Alessandro
Baricco.
***
When your tears are
spent,
on your last pretense,
and your tired eyes refuse to close
and sleep in your defense…
When it's in your spine,
like you've walked for miles,
and the only thing you want is just
to be still for a while…
If your heart wears thin,
I will hold you up and I will hide you.
When it gets too much,
I'll be right beside you.
I'll be right beside you.
When you're overwhelmed
and you've lost your breath.
and the space between the things you know
is blurry nonetheless...
When you try to speak,
but you make no sound,
and the words you want are out of reach,
but they've never been so loud…
[…]
I'll be right beside you.
I'll be right beside you.
[…]
Trust in me, trust in me.
[…]
I'm just trying
to keep this together,
‘cause I could do worse
and you could do better.
When your tears are spent,
on your last pretense,
and your tired eyes refuse to close
and sleep in your defense…
[…]
When it gets too much,
I'll be right beside you
Nobody will break you.
.
Quando
avrai versato le tue lacrime,
per
la tua ultima messa in scena,
e
i tuoi occhi stanchi
rifiuteranno
di chiudersi
e
di dormire in tua difesa...
Quando
lo sentirai nella tua spina dorsale,
come
se avessi camminato per molte miglia,
e
l'unica cosa che vorrai sarà solo
restartene
ferma per un po'...
Se
il tuo cuore perderà la pazienza,
io
ti sosterrò e ti nasconderò.
Quando
diventerà troppo,
io
sarò proprio accanto a te.
Io
sarò proprio accanto a te.
Quando
sarai sopraffatta
e
avrai perso il fiato
e
lo spazio tra le cose
che conosci
sarà
tuttavia confuso...
Quando
proverai a parlare,
ma
non riuscirai ad emettere suono,
e
le parole che vorrai
saranno
fuori portata,
sebbene
non siano state mai così forti...
[…]
Io
sarò proprio accanto a te.
Io
sarò proprio accanto a te.
[…]
Fidati
di me, fidati di me.
[…]
Sto
solo provando a
mantenere
tutti
i pezzi assieme,
perché
potrei fare di peggio
e
tu potresti fare di meglio.
Quando
avrai versato le tue lacrime,
per
la tua ultima messa in scena,
e
i tuoi occhi stanchi
rifiuteranno
di chiudersi
e
di dormire in tua difesa...
[…]
Quando
diventerà troppo,
io
sarò proprio accanto a te.
Nessuno
ti spezzerà.
~ Marianas Trench – Beside You
P.s.
Per quanto riguarda le due one-shots
di cui vi parlavo nel precedente capitolo, potete leggere la mia
song-fic su “Adia”
qui.
Per
l’altra one-shot sulla Kill…
sulla Wevin…
vabbè, sulla Kevin x Will
[Solluxy, aiutami tu!], dovrete pazientare ancora un po’.
^^”
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