Little secrets

di Cruel Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue || The Sound of Silence ***
Capitolo 2: *** 1. My World ***
Capitolo 3: *** 2. Sick Of Everyone ***
Capitolo 4: *** 3. People Help The People ***
Capitolo 5: *** 4. Mobile ***
Capitolo 6: *** 5. I knew you were trouble ***
Capitolo 7: *** 6. Evan Way ***
Capitolo 8: *** 7. Sk8er Boi ***
Capitolo 9: *** 8. Carpe Diem || Naked ***
Capitolo 10: *** 9. All About You ***
Capitolo 11: *** 10. All of the Stars ***
Capitolo 12: *** 11. Things I'll Never Say ***
Capitolo 13: *** 12. Maybe goodnight will be our okay/always || Goodnight Moon ***
Capitolo 14: *** 13. American Idiot ***
Capitolo 15: *** 14. Royals ***
Capitolo 16: *** 15. With Me ***
Capitolo 17: *** 16. I Love the Both of You ***
Capitolo 18: *** 17. Stubborn ***
Capitolo 19: *** 18. Iris || Socrates ***
Capitolo 20: *** 19. Skumfuk ***
Capitolo 21: *** 20. Beside You ***



Capitolo 1
*** Prologue || The Sound of Silence ***


Salve a tutti.

Non so se qualcuno si ricordi ancora di me, ma sono tornata.

Non aggiorno da tre mesi e me ne dispiaccio molto.

Potrei dirvi che il mio abissale ritardo fosse dovuto ai troppi impegni o alla mia mancanza di tempo, ma non è così.

La verità è che semplicemente non avevo più voglia di scrivere e tutto il mio entusiasmo dei primi mesi era andato via via spegnendosi.

Vi chiedo ancora scusa.

Adesso passiamo alla storia.

Ogni personaggio avrà un "piccolo" segreto che dovrà mantenere per un certo periodo e che poi sarà costretto a rivelare.

In ogni capitolo, verso la fine, metterò una o più strofe di una canzone che “riassumeranno” le sensazioni descritte nel capitolo.

Aggiornerò due volte al mese, sempre di Domenica sera.

So quanto il Lunedì possa essere traumatico, per cui proverò ad alleggerirlo un po’ con la mia storia.

Bene, ringrazio tutti coloro che continueranno a leggere.

 

Cruel Heart.

 

***

 

Simon and Garfunkel - The Sound of Silence

 

 

***

 

 

 

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Grey Towers Castle, Pennsylvania, 20 Ottobre 1990

 

 

Un fulmine si diramò altissimo nel cielo, seguito quasi simultaneamente da un potente tuono che interruppe, seppur per brevi istanti, il pianto disperato del bambino.

Agitava sempre di più i suoi capelli, nel tentativo di divincolarsi, mentre calde lacrime salate infiammavano ancora di più il suo volto.

 

«Papà... Basta, basta!»

 

«Zitto! Avrei già dovuto ucciderti quando quella puttana di tua madre ti ha partorito!»

 

Il piccolo continuava a piangere da ore, esattamente da quando il padre era rincasato.

Adesso il duca, dopo la sua solita passeggiata pomeridiana, si dilettava in quello che per lui era il suo modo di scaricare tutta la rabbia che gli attanagliava il cuore: picchiare quella disgrazia che gli era capitata.

 

Il figlio si difendeva come meglio poteva.

Cercava di mettere le mani in avanti, a protezione del viso − la zona dove veniva più colpito −, ma non serviva a niente, anzi.

Questo atteggiamento non faceva altro che irritare di più il duca, in collera con se stesso e con il mondo intero.

E così, oltre agli schiaffi, incominciarono ad arrivare anche calci allo stomaco.

Il bambino boccheggiava, tossiva e si contorceva per il dolore.

 

Nel frattempo, soltanto il temporale interrompeva la quiete che avvolgeva il castello dall'esterno.

L'atmosfera era quasi surreale: il piccolo gridava forte, e le urla del padre erano ancora più forti delle sue, ma nessuno poteva anche soltanto immaginare ciò che accadeva in quella stanza da sette anni, ormai.

 

Il suono del silenzio era opprimente.

Soltanto grazie ad esso, il padre poteva sfogare la sua ira su quella piccola creatura senza colpa.

Soltanto grazie ad esso, la pelle del bambino si faceva sempre più violacea, segno tangibile dei lividi che aumentavano.

E, soltanto grazie ad esso, le sue possibilità di essere salvato venivano soffocate.

 

Ma poi, il silenzio fu squarciato.

Il campanello della porta del castello suonò, e sia il duca che il bambino si ritrovavano a trattenere il fiato.

Chi mai potrebbe essere?, si domandò l'uomo.

A quell'ora della sera tutti erano rintanati nelle loro case, e le visite al castello dei Taubenfeld erano molto più che rare.

Il duca trafisse ancora con uno sguardo il bambino sul letto.

Il suo petto era scosso da singhiozzi, e tutto il corpo gli tremava, sia per il freddo, che per la paura.

 

In un attimo, la mente del piccolo, ideò un piano, un'ancora di salvezza.

Se proprio doveva subire tutta la rabbia del padre, tanto valeva patirla per provare a farsi salvare dallo sconosciuto alla porta.

Si tirò su con le braccia e, con uno scatto che solo i bambini sapevano avere, saltò dal letto e cercò di correre, per quel che gli riusciva, verso la porta, gridando sempre più forte:«Aiuto! Aiuto!»

 

Sentiva crescere sempre di più il fuoco nella sua piccola gamba sinistra, ma non gli importava. Se questo era il prezzo per la libertà, lo avrebbe pagato volentieri.

Si alzò sulle punte, afferrò la maniglia − posizionata troppo in alto per lui − e, con tutta la forza che aveva, tirò verso il basso, proprio mentre i passi infuriati del duca lo inseguivano per il corridoio.

La porta cigolò e si aprì, rivelando una figura che il piccolo mai si sarebbe aspettato di vedere.

Un bambino.

Era alto più o meno come lui, ma aveva dei vestiti più logori e un'aria stanca.

Quelli che una volta erano occhi vispi e pieni di curiosità, adesso erano semplicemente vuoti e privi di speranza.

«Come ti...» chiami, fece per dire, ma la voce del padre lo interruppe.

 

«Aspetta!» tuonò, afferrandolo per una spalla e tirandolo più indietro. Poi, si rivolse al piccolo sconosciuto. «Chi sei?» gli chiese.

 

«Un piccolo orfano, duca Taubenfeld.» rispose.

 

L'uomo socchiuse gli occhi, sospettoso. «Come fai a sapere chi sono? Non credo di averti mai visto in giro nei quartieri altolocati della zona.» lo schernì, con un sorriso di disprezzo.

 

Il piccolo, incredibilmente per l'età che aveva, gli restituì il sorriso. «Oh, ma lei è molto conosciuto, anche nei quartieri non altolocati come il suo. Lo è sia per i suoi meriti...» Si girò lentamente verso il figlioletto del duca, facendogli un cenno appena percettibile. «... Che per i suoi demeriti.» Appena finì di pronunciare queste parole, gli occhi del bambino saettarono di nuovo verso l'alto, verso quelli del duca.

 

Dal canto suo, l'uomo era completamente stordito, come se uno dei tanti schiaffi che aveva rifilato al figlio, lo avesse ricevuto lui.

 «Quanti anni hai?» gli domandò, sempre più diffidente.

 

«Sette, signore.»

Come poteva un bambino di appena sette anni mettere in difficoltà un uomo che aveva sulle spalle quarant'anni in più?

 

«E cosa vuoi da me?»

 

«Un tetto sotto cui poter dormire e un po' di cibo. In cambio, mi renderò utile in casa e non sarò di peso a nessuno. Ospitalità, duca. Non chiedo altro.»

 

È un'intelligenza sopraffina, pensò l'uomo.

Anzi, era molto di più. Era un'intelligenza che raramente si trovava nella persona che avevi di fronte. Figuriamoci, poi, se questa intelligenza apparteneva ad un bambino di sette anni.

 

Improvvisamente, un'idea invase completamente la mente del duca.

Era un'idea geniale, di quelle che avevi solo una volta nella vita, e che te la cambiava radicalmente.

«Bene, accetto la tua richiesta. Ma sappi che verrai trattato esattamente come un membro della servitù, e non dovrai aspettarti privilegi solo per la tua giovane età.»

 

«Certo. Grazie, signor Taubenfeld.» disse il bambino, senza mai spostare gli occhi da quelli dell'uomo. Era incredibile vedere quanta sicurezza emanavano.

 

Fece entrare il bambino nella sua casa.

 

«Io sono Evan.» si presentò il bambino.

 

«Kevin.» rispose l'altro.

 

«Su, su, non perdiamo tempo. Sali di sopra ed entra nella prima stanza a sinistra. Mio figlio ti porterà subito dei vestiti nuovi.»

 

L'ospite obbedì, ma c'era qualcuno che non era d'accordo.

«Ma papà... Non possiamo tenerlo qui... » provò a obiettare con voce esile il figlioletto. Aveva già avuto prove piuttosto sufficienti della rabbia del padre e non voleva suscitargliene di nuova.

 

Il padre sorrise, ma non di un sorriso allegro o gioioso. No, non era niente di tutto questo. Il suo era un sorriso inquietante, di quelli che spopolano negli incubi di ogni bambino. «Sì invece, possiamo. Ora va' e prepara ciò che ti ho chiesto. Mi raccomando, consideralo il nostro piccolo segreto

 

 

***

 

And, in the naked light I saw,

ten thousand people, maybe more.

People talking without speaking,

people hearing without listening,

people writing songs that voices never share.

No one dare, disturb the sound of silence.

 

"Fools", said I, "you do not know,

silence like a cancer grows.

Hear my words that I might teach you,

take my arms that I might reach you."

But my words, like silent raindrops, fell.

And echoed the will of silence.

 

E, nella luce nuda, vidi diecimila persone, forse più..

Gente che comunicava senza parlare,

gente che sentiva senza ascoltare,

gente che scriveva canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato.

Nessuno osava disturbare il suono del silenzio. 

 

"Stupidi", dissi io, "non sapete che il silenzio si espande come un cancro.

Ascoltate le mie parole così che io possa insegnarvi,

prendete le mie braccia così che io possa raggiungervi."

Ma le mie parole caddero, come gocce di pioggia silenti.

Ed echeggiarono nel prorompere del silenzio.

 

~ Simon and Garfunkel - The Sound of Silence

 

 

P.S. Ho visto il video di HK. Mi è sembrato la quint’essenza del trash, ma dalla canzone non ci si poteva aspettare niente di diverso. Aspetto con ansia GYWYL.

A voi cosa ve ne è parso?


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Capitolo 2
*** 1. My World ***


Salve gente, come state?

Io non benissimo, anzi

Ho un mal di stomaco terribile, la febbre e, come se non bastasse, domani si ritorna a scuola e ho il compito di matematica.

Evviva! *Fa cadere coriandoli ovunque*

Comunque, eccomi qui ad aggiornare di nuovo con il primo capitolo.

Spero che vi piaccia. Alla prossima con il secondo.

Bye.

~ Cruel Heart.

 

***

Avril Lavigne - My World

 

***

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Napanee,Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001

 

Avril's pov

 

«Ciao Avril!»

 

Mi girai, per sentire a chi appartenesse quella voce. «Oh… Ciao Scott.»

La naturale propensione di Scott - l'autista dell'autobus che mi riaccompagnava a casa ogni pomeriggio - di sorridere e di salutare chiunque incontrasse, mi faceva sentire a disagio.

 

«Ehi, salutami tua madre.» ammiccò, aggiustandosi il buffo cappellino dei Lakers, la sua squadra di basket preferita.

 

«Lo farò.» risposi, con le guance in fiamme. Se prima ero a disagio, adesso stavo chiedendo direttamente alla terra di aprirsi sotto di me e di inghiottirmi. Non era il massimo quando un ultracinquantenne pelato e panciuto chiedeva di salutare tua madre ammiccando.

 

Scesi dall'autobus in tutta fretta e per poco non rischiai di inciampare negli scalini che dividevano il mezzo dall'asfalto.

 

Cercai di dimenticare l'imbarazzante scambio di battute a cui avevo partecipato e rivolsi il cervello immediatamente da un'altra parte. Feci un rapido rewind di tutto ciò che mi era successo nella mattinata.

La giornata a scuola non era stata particolarmente esaltante: sempre gli stessi corridoi, sempre le stesse facce, sempre le stesse raccomandazioni per la fine del semestre...

 

Nonostante il secondo semestre fosse iniziato da appena quattro giorni, i professori non perdevano occasione di ricordarci che dovevamo studiare sempre e comunque, se non volevamo diventare "superciucci".

Una cosa era certa: per quanto gli insegnanti si sgolassero, cercando di impedire la nostra trasformazione in complete capre ignoranti, non tutti ce l'avrebbero fatta a superare gli esami finali a Luglio, quest'anno.

 

In particolare, sperai che qualcuno non li superasse. Mi riferivo a Travis Michigan.

Per mia sfortuna, frequentavamo lo stesso corso di educazione alimentare e oggi aveva dato spettacolo, mostrando il peggio di sé in corridoio.

Infatti, la suddetta capra, mi aveva rubato il mio fantastico panino al pomodoro e al prosciutto crudo e agitandolo, aveva gridato:«Lavigne, mi deludi, questo non fa bene alla tua alimentazione!»

Il tutto fu accompagnato da un ghigno che mi fece scattare.

 

Due pugni sul naso dopo, ero riuscita a riavere il mio pranzo e avevo fissato Michigan con uno sguardo assassino. Nonostante tutto, non si toglieva quel ghigno irritante dalla sua faccia appena tumefatta.

Lo superai a passo di carica e andai in mensa per consumare il mio pranzo.

 

Mi ero appena seduta al primo tavolo libero che avevo trovato, quando vidi l'orrore di tutti gli orrori esistenti a questo mondo: una fetta di formaggio sbucava dalle due fette di pane.

 

Bastardo. Michigan sapeva della mia avversione.

Dire che il formaggio non mi piaceva era un eufemismo.  

Io odiavo quel colore così giallo, quell'odore intenso, per non parlare poi del sapore…

Era la cosa più brutta che potesse esistere.

 

Ritornai con la mente al presente. Fissavo il marciapiede sotto di me, mentre mi dirigevo verso casa.

Piccoli fili d'erba fuoriuscivano dalle mattonelle fissate male, che sembravano essere lì da secoli.

Se la situazione era relativamente tranquilla a scuola, non potevo dire lo stesso di quella a casa.

Mia madre era stanca della nostra situazione, ed ero abbastanza sicura che fosse arrivata ormai al limite.

Il problema era che abitavo da sola con lei, in un piccolo appartamento nella periferia di Napanee, in Canada.

In culo al mondo, per dirla in breve.

In più, mia madre non lavorava da mesi e, per adesso, vivevamo con i soldi che aveva racimolato con il suo precedente lavoro da insegnante.

Guardai verso il cielo. Mentre continuavo a camminare, osservavo tutte le nuvole, cercando di dare loro una forma nella mia mente.

Tutte quelle persone - poche, a dir la verità - che erano a conoscenza della nostra situazione, ci chiedevano come mai mio padre non rientrasse dall'Afghanistan per stare con la sua famiglia.

Beh, quella del soldato in missione di guerra, era la versione inventata da mia madre, Judy.

La realtà, invece, era ben diversa.

La leva militare, per mio padre, non era mai esistita, così come non era mai esistito nemmeno lui, in fondo...

Già. Non c'era mai stato nessun padre per me, nessuna figura maschile a cui poter aggrapparmi nei momenti più difficili. Non sapevo neanche quale fosse il suo nome.

 

Eravamo state sempre e solo io e mia madre. Lui, invece, l'aveva abbandonata quando era incinta di me, forse per le troppe responsabilità.

 

Riabbassai lo sguardo verso la punta delle scarpe, e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio sinistro.

Forse era meglio non pensarci, per ora.

 

Cinque minuti dopo, ero arrivata a casa. 

Immediatamente, notai una busta che spuntava fuori dalla cassette delle lettere. Così, presi il mazzo di chiavi dalla cerniera dello zaino, aprii la piccola teca in metallo ed estrassi la lettera.

La carta era completamente liscia e bianca, eccezion fatta per il nostro indirizzo scritto sul retro.

Probabilmente sarà un'altra bolletta.”, pensai amareggiata.

Come avevo già detto, non navigavamo nell'oro, e in più non avevamo nessuno che potesse aiutarci nelle spese.

Feci un paio di passi in avanti, cercando di trovare il modo più gentile per darle quell'altra brutta notizia. Scelsi un'altra piccola chiave dal mazzo, la inserii nella toppa e feci scattare la serratura della porta d'ingresso.

Un dolce profumino di patate arrosto invase completamente le mie narici.

«Mamma! Sono tornata!»

 

Tolsi le chiavi dalla toppa, sempre più preoccupata. Sbattei la porta, richiudendola,  e percorsi il corridoio, per andare in cucina.

 

Posai la busta sul tavolo, delicatamente - per non far degenerare ulteriormente la situazione - e salutai mia madre con un bacio veloce sulla guancia. Stava infornando le ultime patate.

 

«Scott mi ha detto di salutarti.» Decisi di iniziare con quell'argomento, per metterla più a suo agio.

 

«Cosa? Oh, sì, Scott. È un brav'uomo. Ha persino tentato di spedirmi alcuni centinaia di dollari per lettera, il mese scorso, ma ovviamente ho dovuto portarglieli indietro.»

 

Mi diressi verso il frigo, prendendo la bottiglia d'acqua e dissetandomi. Stavo cercando deliberatamente di ignorare le parole "Scott", "spedirmi" e "dollari". Non era bello venire a sapere che il fastidioso autista non solo ammiccava a tua madre, ma le faceva persino l'elemosina.

 

«Ah, a proposito di lettera, ne ho trovata una, appena sono entrata.» dissi, indicando con un cenno la busta sul tavolo da pranzo.

 

Mia madre si spazzolò il grembiule e aprì la lettera con un coltello.

Iniziò a far scorrere gli occhi sulle prime righe.

Aveva uno sguardo accigliato, e capii che, come me, stava pensando ad una sola cosa: bollette.

Poi, però, qualcosa cambiò.

Ad ogni riga che leggeva, si strofinava sempre più velocemente le mani sul grembiule, e il suo sguardo, da accigliato, si fece sorpreso, poi disperato, e poi di nuovo calmo, come se non fosse successo alcunché.

«Avril... Dobbiamo parlare.»

 

Bene, quando qualcuno pronunciava quelle due parole, c'era solo una cosa da fare: un brevissimo resoconto della propria noiosissima vita, per vedere dove si stanavano gli errori più madornali e capire il motivo di quella frase.

 

Allora, bisognava partire dall'inizio.

Il mio nome era Avril Ramona Lavigne. Avevo 17 anni e un colore di capelli - portati sempre lisci - indefinito, che andava dal biondo scuro al castano chiaro.

Ero bassina, con forme femminili non ancora pervenute.

La bellezza e la grazia che tutte le fidanzate dei vari Travis Michigan possedevano, per quanto mi riguardava, erano fuggite da qualche parte e non erano mai più tornate. Ma, soprattutto, ero l'unica responsabile della separazione dei miei genitori. E solo con la mia nascita.

Credevo che questo fosse il mio mondo, ma non sapevo ancora come questo stesse per cambiare totalmente.

 

Guardai mia madre negli occhi. «Dobbiamo partire. Domattina stessa.», disse.

 

Il tonfo del mio zaino, sul pavimento, parlò per me.

 

Cosa?

 

***

 

Judy's pov

 

Io non… non riuscivo a crederci.

Un attimo fa stavo preparando il pranzo per me e per mia figlia, e adesso… era tutto diverso.

La guardai negli occhi, mentre sentivo il suo zaino cadere a terra.

“Ma se questo vuol dire proteggerla”, pensai, “allora andrei anche in capo al mondo.”.

Era il mio segreto e io dovevo custodirlo. Per lei.

 

***

 

Please tell me what is takin' place,

'cause I can't seem to find a trace.

Guess it must have got erased somehow.

Probabilly 'cause I always forget,

everytime someone tells me their name,

It's always gotta be the same.

(In my world).

 

Never wore cover-up.

Always beat the boys up.

Grew up in a five thousand population town.

Made my money by cutting grass.

Got fired by fried chicken ass.

All in a small town, Napanee.

[]

I'm off again, in my world.

 

 

Per favore, ditemi cosa sta accadendo,

perché sembra che non riesca a capire nulla.

Credo sia stato cancellato in qualche modo.

Probabilmente, perché dimentico sempre

ogni volta che qualcuno mi dice il suo nome.

Sarà sempre lo stesso.

(Nel mio mondo).

 

Non mi sono mai truccata tanto.

Ho sempre battuto i ragazzi.

Sono cresciuta in una cittadina di 5000 persone.

Ho fatto i soldi tagliando l'erba.

Sono stata licenziata da un culo di pollo fritto.

Il tutto in una piccola cittadina, Napanee.

[]

Sono di nuovo spenta, nel mio mondo.

 

~ Avril Lavigne - My World.

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Capitolo 3
*** 2. Sick Of Everyone ***


(Ri)salve gente!

Per fortuna la febbre/mal di stomaco/malessere per maledetto compito di matematica è sparito, per cui, eccomi qui con il secondo capitolo.

 

Si tratta di una conversazione tra Avril e la madre, Judy.

Inoltre, ci saranno delle parti scritte in carattere diverso: quelle saranno delle frasi tratte dalla lettera che è stata mandata a casa di Avril e di Judy.

Il mistero s’infittisce. *risata malefica* .

Spero che vi piaccia e spero di non ricevere un campo di pomodori in faccia.

Al terzo capitolo.

 

~ Cruel Heart.

 

***

Sum 41 - Sick Of Everyone

 

***

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Napanee, Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001

 

Avril's pov

 

 

«Dobbiamo partire. Domattina stessa.», disse mia madre.

 

Il tonfo del mio zaino, sul pavimento, parlò per me.

 

Cosa?

«C-come… dobbiamo partire?»

 

Allisciò la lettera e la ripose nella sua busta. Deglutì rumorosamente. «Sì, tesoro.» Poi, si girò e la ripose nel tiretto della credenza, chiudendolo lentamente a chiave. Sembrava quasi che volesse tenere la lettera lontana da me.

 

Il mio cervello era bombardato da milioni di domande. Dove dovevamo andare? In che modo, se non avevamo neanche abbastanza soldi per permetterci un tavolo nuovo? Come avremmo fatto con la casa e con la nostra vita qui? Ma soprattutto, cosa centrava tutto questo con quella busta?

Mentre cercavo delle risposte, mi venivano in mente solo domande.

Non riuscivo ad aggrapparmi a nulla, neanche ad una singola teoria o spiegazione che avesse il minimo senso.

«Così… all’improvviso? Perché?»

 

Si voltò verso di me e rilassò le spalle. Un sorriso tranquillo si dipinse sul suo viso, ma io, che la conoscevo meglio di chiunque altro, sapevo che c’era qualcosa che mi sfuggiva, in tutta quell’espressione serena. I suoi occhi non lo erano. «Beh, non è una decisione improvvisa, a dir la verità.»

 

“Come mai ho l’impressione che tu invece non me la stia raccontando la verità, mamma?” volevo chiederle, ma preferii farla continuare.

 

«Vedi… tu lo sai che la nostra situazione non è delle migliori. Per cui, tempo fa, avevo fatto domanda per insegnare in privatamente in… America.» Mi disse, trattenendo il fiato, e facendo scomparire quel suo strano sorriso.

 

«Dove, esattamente?» Incominciavo a innervosirmi. Non stava entrando nei dettagli, quando io, invece, ne avevo disperatamente bisogno.

 

«Avevo pensato alla… Pennsylvania.» Buttò fuori il fiato e rilassò le spalle.

 

Ebbi bisogno di due secondi di tempo. «Pennsylvania?» chiesi, sperando che scherzasse. Annuì, in attesa di un mio responso.

 

«Oh, ma dai!» esclamai, alzando gli occhi al cielo. «Perché lì? Non potevamo andare, che so, a Las Vegas? Hollywood? Neanche a Santa Monica?» chiesi acida.

Mi pentii quasi subito della mia reazione e feci un bel respiro. Mi costava molto trattenermi dall’andare da mia madre e scuoterle le spalle, per chiederle cosa diavolo le stesse succedendo, ma cercai di mantenere un tono fermo. «Mamma, è un altro mondo lì, completamente diverso dal nostro. E poi, hai pensato ai soldi per l’aereo? Hai intenzione di fare una bella camminata di 600 km a piedi o di andarci con il jet privato che non abbiamo?» “E per fortuna non ho il ciclo.”, pensai.

 

«B-beh…» L’imbarazzo. Era l’imbarazzo fatto persona. «È stato organizzato tutto. Ci verranno a prendere vicino casa ed è con quello che andremo.»

 

Sgranai gli occhi e dovetti sedermi su una delle sedie nella cucina, preda di un’improvvisa carenza di zuccheri. Un migliaio di sensazioni mi turbinavo dentro, mille domande mi frullavano in testa, accompagnate anche dalla speranza ma anche dal terrore di poter cambiare vita così improvvisamente. «Addirittura. Un jet privato. Ma che cavolo…» sussurrai. «Se non altro, ti pagheranno bene.»

Sembrava delusa dalla mia totale visione negativa, e la capivo, ma tutta questa situazione era terrificante.

«Comunque, fammi capire… Un po’ di tempo fa avevi fatto domanda per lavorare in una scuola privata in America, senza dirmi niente e tenendo questa notizia importantissima solo per te. Poi, oggi, ti è arriva questa fantomatica lettera di risposta in cui c’è scritto che la tua domanda è stata accettata e che ci dobbiamo recare sul posto domani mattina, accompagnate, tra l’altro, da un jet privato che verrà a prenderci neanche fossimo i Reali d'Inghilterra, giusto?»

La guardai ancora, dritta negli occhi, sperando che mi contraddicesse, sperando che, al posto di quel sorriso costruito ad arte, ci fosse un vero sorriso, di quelli che solo una mamma sa fare per tranquillizzarti, e che mi dicesse:“Non ti preoccupare amore, era solo uno stupido scherzo.”

 

Lei, invece, non disse niente. Si limitò a fissarmi per un minuto e a rimanere impassibile, mentre aspettava che il silenzio venisse spezzato di nuovo.

 

Emisi un sospiro sconsolato. «Mi sembra di essere in una bolla appena scoppiata.» commentai, sapendo di essere vicina al punto di rottura.

 

Mia madre, invece, ci era già arrivata. Dai suoi occhi scesero due singole lacrime, che si asciugò prontamente. Non voleva sfogarsi davanti a me. Non voleva aprirsi. Ancora. «Oh, beh, e io che pensavo che questa bolla sarebbe scoppiata di felicità nel sapere che tua madre ha trovato un nuovo lavoro!»

 

Per un attimo mi addolcii alla vista delle sue lacrime, ma poi la mia espressione s’indurii al suo sarcasmo. «Ed è questo il motivo per cui mi hai parlato subito dei tuoi progetti, vero?»

 

«Scusami, Miss “Anticipazioni Esclusive”…» gridò, mimando con le dita le virgolette. «…Se non c’era posto in un solo schifoso istituto in tutto l’Ontario!»

 

«Certo, mamma. Adesso la colpa è dell’Ontario. E tra un po’, a cosa attribuirai la responsabilità? Agli 007 americani? Al buco nell’Ozono? Al nome di mio padre che non mi hai mai voluto dire?»  le risposi, fuori di me.

Al solo nominare di mio padre, sgranò gli occhi e boccheggiò, come se avesse ricevuto un colpo basso al ventre. 

«Quando avrai intenzione di fidarti di tua figlia, fammi un fischio.» risposi gelida.

 

Mi alzai di scatto dalla sedia e mi precipitai fuori di casa, scansando lo zaino sul pavimento.

Probabilmente avrebbe sussultato allo sbattere eccessivo della porta, ma, in questo momento, non era il primo dei miei problemi.

Questa situazione era a dir poco assurda, e lei non era l’unica a cui era concesso di sfogarsi.

 

***

Judy's pov

 

Comunicale la notizia, in modo diretto. recitava quella maledetta lettera. Seguii cosa c’era scritto.

 

«Dobbiamo partire. Domattina stessa.»

Non sapevo neanche dove riuscii a trovare la forza di volontà per pronunciare quelle quattro parole, ma lo feci.

 

Poi, vidi la scena come se fosse stata al rallentatore. Lo zaino di Avril cadde sul pavimento, emettendo un tonfo che riusciva a compensare tutto il terrore che potevo leggerle negli occhi.

«C-come… dobbiamo partire?»

 

Allisciai la lettera, rimettendola al suo posto. «Sì, tesoro.»

Non ce la facevo a guardarla negli occhi, così mi girai e infilai la busta nel primo spazio libero che trovai nella credenza, chiudendo poi tutto a chiave.

Dovevo farla sparire al più presto, ma il mio cervello stava già annaspando, in cerca di cosa dire a mia figlia.

 

«Così… all’improvviso? Perché?»

 

Quanto vorrei spiegartelo, amore mio.”, pensai, solo per un secondo.

Ma no, non potevo dirle la verità.

Non poteva portare un peso così grande sulle spalle: toccava a me farlo.

Mi voltai verso di me e, cercando di assumere una postura rilassata, le sorrisi, sperando che non si accorgesse del fatto che stavo palesemente recitando. L’unica cosa che volevo fare era scoppiare a piangere e abbracciarla forte.

«Beh, non è una decisione improvvisa, a dir la verità. Vedi… tu lo sai che la nostra situazione non è delle migliori. Per cui, tempo fa, avevo fatto domanda per insegnare in privatamente in… America.»

Menti, Judith. È quello che sai fare meglio, no?

 

Odiavo il mio nome completo scritto con la sua calligrafia. Odiavo quella lettera. Odiavo lui.

 

«Dove, esattamente?» mi chiese Avril.

 

«Avevo pensato alla… Pennsylvania.» Non mi ero accorta di star trattenendo il fiato fin quando avevo sentito il peso sul mio cuore alleggerirsi giusto per un secondo.

 

«Pennsylvania?» domandò, con gli occhi sgranati.

 

Annuii, in attesa della sua reazione.

 

«Oh, ma dai!» sbottò, alzando gli occhi al cielo. «Perché lì? Non potevamo andare, che so, a Las Vegas? Hollywood? Neanche a Santa Monica?»

 

Mi resi conto che il suo sarcasmo mi feriva.

Mi trapassava da parte a parte come una lama incandescente e mi mozzava il respiro.

Lei sembrò accorgersene e cercò di assumere un tono fermo. «Mamma, è un altro mondo lì, completamente diverso dal nostro. E poi, hai pensato ai soldi per l’aereo? Hai intenzione di fare una bella camminata di 600 km a piedi o di andarci con il jet privato che non abbiamo?»

 

«B-beh…è stato organizzato tutto. Ci verranno a prendere vicino casa ed è con quello che andremo.»

 

Adesso, non sapevo veramente cosa aspettarmi da lei.

Sgranò ancora gli occhi e si sedette sulla sedia più vicina a lei, come se qualcuno l’avesse spintonata e l’avesse fatta cadere.

Per un attimo, fui tentata di inginocchiarmi davanti a lei e consolarla, come facevo quando da piccola si sbucciava un ginocchio cadendo dallo skateboard.

Ma serrai i pugni e rimasi dov’ero.

Controllo, Judith. Hai solo bisogno di controllo per parlarle.

Già, controllo. Lui eccelleva nel controllare le persone.

 

«Addirittura. Un jet privato. Ma che cavolo… Se non altro, ti pagheranno bene. Comunque, fammi capire… Un po’ di tempo fa avevi fatto domanda per lavorare in una scuola privata in America, senza dirmi niente e tenendo questa notizia importantissima solo per te. Poi, oggi, ti è arriva questa fantomatica lettera di risposta in cui c’è scritto che la tua domanda è stata accettata e che ci dobbiamo recare sul posto domani mattina, accompagnate, tra l’altro, da un jet privato che verrà a prenderci neanche fossimo i Reali d'Inghilterra, giusto?»

Mi guardò ancora, dritta negli occhi. Ma forse guardare non era il termine giusto. Lei mi stava leggendo dentro.

Come se tutto ciò stesse accadendo ad un’altra persona, non dissi niente. Me ne stetti in silenzio, sperando che finisse presto.

Era un po’ come stare in un brutto sogno: l’unica cosa che volevo fare era svegliarmi, ma, ovviamente, non succedeva. Ero già sveglia, purtroppo.

 

«Mi sembra di essere in una bolla appena scoppiata.» aggiunse, sconsolata.

 

Non ce la feci più e lasciai cadere due lacrime che scorsero sulle mie guance, ma le asciugai velocemente con una mano.

Non potevo permettermi di fallire, non adesso che ero così vicina al mio nuovo e odiato scopo.

Lasciai che tutta la rabbia che provavo e tutta la frustrazione per questa situazione del cazzo inondassero mia figlia. «Oh, beh, e io che pensavo che questa bolla sarebbe scoppiata di felicità nel sapere che tua madre ha trovato un nuovo lavoro!»

 

La sua espressione s’indurì. Era triste vedere come ci ferivamo a vicenda, quando invece l’unica cosa di cui avevamo bisogno era stare l’una con l’altra. «Ed è questo il motivo per cui mi hai parlato subito dei tuoi progetti, vero?»

 

«Scusami, Miss “Anticipazioni Esclusive”, se non c’era posto in un solo schifoso istituto in tutto l’Ontario!» gridai.

 

«Certo, mamma. Adesso la colpa è dell’Ontario. E tra un po’, a cosa attribuirai la responsabilità? Agli 007 americani? Al buco nell’Ozono? Al nome di mio padre che non mi hai mai voluto dire?» 

 

Credevo che un pugno dritto allo stomaco avrebbe fatto meno male. Come poteva anche solo nominare quell’essere in mia presenza?

Era vero, non avevo mai parlato di suo padre davanti a lei, anche quando era cresciuta, ma volevo soltanto proteggerla.

E, adesso, avevo fallito anche in questo.

 

«Quando avrai intenzione di fidarti di tua figlia, fammi un fischio.» mi rispose, sbattendo la porta di casa e andandosene chissà dove.

 

Fiducia.

Era qui che avevo sbagliato?

Avevo lasciato che il silenzio riempisse le nostre conversazioni, semplicemente per paura?

Non avevo mai aperto veramente il mio cuore a mia figlia?

 

Non mi ero fidata abbastanza di lei?

 

***

Avril's pov

 

 

Cinque minuti dopo la mia uscita di scena, raggiunsi la fermata degli autobus, e lessi la destinazione.

Oregon. La prima fottuta grande città in questo fottuto grande paese. Proprio quello che mi serviva. 

Mostrai il mio biglietto al conducente, saltai sulla prima coppia di sedili liberi che trovai e mi distesi completamente, infischiandomene di quello che pensavano gli altri.

Stanca. Ero stanca di tutti e di tutto.

Sciolsi la matassa in cui si trasformavano ogni giorno le mie cuffie e me le infilai nelle orecchie, selezionando la prima canzone che avevo visualizzato sullo schermo dell’Mp3.

Il pullman incominciò a muoversi e iniziò a cullarmi con le sue vibrazioni leggere, ma avevo troppa adrenalina in corpo perché potessi addormentarmi.

 

Appoggiai la testa sul vetro, guardando il paesaggio sfilare dai miei occhi, e assaporai il mio “sfogo”, la mia via di scampo – anche se solo per quella sera –  sulla punta della lingua.

 

Oregon uguale alcool.

Alcool uguale libertà.

 

Perfetto.

 

***

 

While looking for the answers 
only questions come to mind,
cause I've been lost in circles 
which seems now for quite some time.
And I don't know how I came here 
or even how I got this far.
All I can tell you is my fate 
is written in the black stars.

Well, what am I supposed to do?

[…]

Oh, take me away. 
I'm sick of everyone, today.
I'm not ok, but I'm fine this way,
I need no change.
So, take me away.

 

 

 

Mentre cerco risposte, 
mi vengono in mente solo domande,
perché mi sento confuso, 
così sembra da un po' di tempo.
E non so come sono arrivato qui,

 così lontano.
Tutto quello che posso dire è che 
il mio destino è scritto nelle stelle più nere.
Beh, cosa dovrei fare ?

[…]

Oh, portami via.

Sono stanco di tutti, oggi.
Non sto bene, ma mi piace così, 
non voglio cambiare.
Quindi, portami via.

 

~ Sum 41 – Sick Of Everyone

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Capitolo 4
*** 3. People Help The People ***


Salve a tutti!

Mi dispiace per non aver aggiornato prima, ma non ho potuto farlo per due motivi importanti.

1.      LA SCUOLA. Mi sta uccidendo. Sembra che i professori si siano svegliati solo adesso e abbiano tutti fretta di interrogarci o di fare compiti in classe. Ho fatto sei compiti in una settimana e, come poche volte nella mia vita, sono seria.

2.      IL CAPITOLO È STATO UN PARTO. Anche qui, non scherzo. Proprio non voleva essere scritto. Ma la fine… *-* Ok, ok, non dico niente. *si tappa la bocca*.

 

Ultima cosa: spero che le foto vi piacciano, da ora in poi le metterò accanto ad ogni “Pov”.

Have a good day. <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

 

***

 

Birdy - People Help The People [Originally performed by Cherry Ghost]

 

 

***

Free Image Hosting at www.ImageShack.us

Napanee, Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

Non credevo di essermi mai sentita così.

No, non intendevo la classica sensazione che provi quando hai la bocca impastata dall’alcool o quando cerchi di pronunciare delle parole senza senso.

Così, mi ci ero sentita tante volte, e quella non poteva essere di certo l’ultima.

Invece, mi riferivo ad un’altra e strana sensazione.

Quella di essere felice, mentre avevi la perfetta consapevolezza che una tristezza infinita ti avvolgeva fin dentro.

Ecco, era un po’ così che mi sentivo, mentre attraversavo l’ennesima soglia dell’ennesimo bar, in cerca degli ennesimi cinque dollari da poter buttare via per un ennesimo drink.

«Ehi, ho già detto ennesimo?» biascicai, sorridendo ad un barista biondino che stava asciugando un bicchiere. O forse due baristi biondini, non ne ero molto certa.

 

«Se ti riferisci alla frase “Ehi, chi sarà questo ennesimo figo che mi ritrovo davanti?”, allora sì.» mi rispose, guardandomi con un sorrisino ebete. Un suo collega – anche la parola “armadio” andava bene, talmente era alto e grosso –, che lo stava aiutando, alzò gli occhi al cielo.

 

Misi a fuoco la sua figura. No, adesso ero certa che si trattasse di un solo barista.

Aveva i capelli biondi e due occhi color ghiaccio, mentre, scendendo un po’ con lo sguardo, potevo vedere il suo fisico asciutto sotto la maglietta nera aderente.

 

«Mmh, mi piaci, Evan D.» Mi sedetti sullo sgabello di fronte alla sua postazione, incuriosita dal nome sulla sua divisa da barman. «O preferisci che ti chiami “ebete supermontato”?» Il ragazzo accanto a lui emise un grugnito divertito, ma il biondino lo fulminò con lo sguardo e lui se ne andò, mormorandogli un «Scusa» davvero molto poco convincente e alzando le spalle, ancora sorridente.

 

«Allora… cosa vuoi che ti porti?» disse, sbuffando e voltandosi verso gli analcolici.

 

«Long Island.» gli risposi, con finta noncuranza. Il Long Island era un cocktail alcolico a base di vodka, gin, tequila, rum bianco e triple sec. [N.d.A. Il triple sec è un liquore aromatizzato all’arancia.] Una bomba, insomma. Nonostante la mia ubriachezza, mi ricordavo ancora che quel drink era vietato ai minori di 21 anni. Sperai che non mi chiedesse documenti o rogne del genere.

 

«Ehi, non sarai troppo piccola per questo tipo di cose?» “Come non detto…”

 

«E tu non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?» replicai, un po’ più lucida.

 

«Mmh.» disse, rivolgendomi un’occhiata di sufficienza e prendendo le bottiglie.

 

Decisi che la tattica migliore era quella di cambiare argomento, nel caso avesse avuto ancora qualcosa da ridire.

«Dimmi, per cosa sta quella D? David Letterman?» [N.d.A. Famoso conduttore americano.]

L’”armadio” ripassò dalle nostre parti e grugnì di nuovo, mentre veniva ancora fulminato. Mi sembrava un déjà vu.

 

«Aspetta, com’era? Ah, già… Tu non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?» mi rispose, imitando la mia voce. In altri momenti avrei anche potuto ridere, ma non sapevo se fosse l’alcool o l’irritazione nel sentire la sua voce a trattenermi.

«E anche per non essere simpatica, aggiungerei, ma non voglio offendere un’esponente dell’altro sesso.» Poi, come se nulla fosse, mi porse il mio drink e riprese a pulire bicchieri.

 

«Mai pensato che potresti appena averlo fatto?» dissi, sbattendo il mio bicchiere sul bancone e avvicinandomi ai suoi occhi di ghiaccio.

 

Posò lo strofinaccio vicino al mio bicchiere, avvicinò le sue mani alle mie sul bancone e mi fissò, di rimando, con intensità. «Mai pensato che potrebbe non fregarmene un cazzo?»

 

«Deficiente.» ribattei, riprendendomi il drink e andandolo a sorseggiare ad un tavolo libero.

 

«Stronza.» sussurrò, riprendendo a pulire.

 

«Ti ho sentito!» gli urlai, mentre mi sedevo distante da lui.

 

Stando attenta a non versare il liquido per il mio scarso equilibrio, mi sistemai meglio, per trovare una posizione comoda su quello sgabello alto.

O forse, il problema era proprio che fosse troppo alto.

Non che ci volesse molto, comunque.

Non nascondevo di essere una tappetta di centocinquantotto centimetri, accettati da me con grande dignità e menefreghismo.

Certo, fino all’anno scorso.

Infatti, durante tutti i miei primi quindici anni di vita, non avevo fatto altro che lamentarmi di quanto Madre Natura fosse stata un po’ bastarda con la sottoscritta.

“Alle galline vanno tette e culo, alle intelligenti cervello e lungimiranza.” recitava la maglietta che indossavo quella sera.

Altro che solidarietà femminile…

Ma, comunque, venivo prontamente consolata.

“Tutte le ragazze più graziose sono basse, amore.”  

 

“Già, facile a dirsi, quando tua madre è più alta di te di venti centimetri.” le rispondevo stizzita ogni volta.

 

Risi amaramente e abbassai lo sguardo, fissando il Long Island e girandolo con una cannuccia.

Forse non era proprio il momento di pensare a mia madre.

Né a lei, né al comportamento che avevo assunto oggi pomeriggio nei suoi confronti.

Mi resi conto che stavo piangendo solo quando vidi delle goccioline d’acqua spuntare dalla superficie liscia e patinata del tavolo.

Le lasciai cadere. Era una bella sensazione sentire due rivoli di lacrime freschi sul viso accaldato.

 

Un’ora di pensieri sulla mia infanzia dopo, sospirai ed ebbi la raffinata eleganza di dire:«Che serata di merda.»

 

«Che c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come me?»

 

 

***

 

Evan's pov

 

 

“Dio, che mal di testa…” pensai, mentre il chiacchiericcio di sottofondo del Sabato sera mi riempiva le orecchie.

Guardai la sala e scoprii che il locale era pieno, come al solito.

Mi soffermai con lo sguardo su ogni uomo o donna che stava seduto ai tavolini. Potevo distinguere a vista d’occhio per quale motivo erano venuti qui. S’imparava a riconoscerli, col tempo.

C’erano le persone sole, che non avevano nessun altro con cui passare il tempo se non un bicchiere di vodka.

C’erano le persone tristi, che piangevano in silenzio, perché la loro vita non meritava neanche un po’ di rumore.

C’erano le persone deboli, che consideravano questo bar come la loro casa, perché non potevano o non volevano tornarci.

E poi, c’erano le persone sorridenti. Quelle erano le più pericolose, perché riuscivo a vedere la menzogna e l’illusione trasudare dai loro occhi. Non potevi mai essere felice se sceglievi di ubriacarti.

Tutte volevano dimenticare qualcosa.

Tutte sembravano dei tramonti che morivano lentamente sulla cresta del mare.

 

Poi, però, mi ricordai che anch’io avevo qualcosa da dimenticare.

Così, preso dalla frustrazione, iniziai a strofinare un bicchiere di vetro sempre più velocemente.

Al solo pensiero di quello che mi aspettava domani, avrei voluto lanciarlo sulla parete e vederlo rompersi in mille pezzi.

Kevin mi aveva avvisato che a casa ci sarebbero stati ospiti e che mio padre aveva già fatto preparare le stanze migliori.

“Vedrai, tu e Evan andrete d’accordo con le nuove arrivate.” gli aveva detto.

Avevo analizzato questa frase svariate volte e avevo scoperto che contenevano tre fattori importanti che mi mandavano letteralmente in bestia.

 

Punto primo: Perché bisognava andare per forza d’accordo con le persone che s’incontravano per la prima volta?

Per perbenismo?

Per buona educazione?

E dov’erano il perbenismo e la buona educazione quando la gente si mandava a fanculo, alle Hawaii?

Io adoravo quando mi mancavano di rispetto, perché così potevo essere maleducato e cafone quanto volevo.

Punto secondo: Se anche avessi provato ad andarci d’accordo, sarebbe andata a finire male.

L’imminente urgenza di mio padre di far trovare la villa pulita e ordinata, peggio di una pubblicità di prodotti per casalinghe, mi induceva a pensare che questi “ospiti” si sarebbero fermati per molto tempo.

Come diceva quel vecchio detto?

L’ospite è come il pesce; dopo tre giorni, puzza.

E cosa si faceva col pesce che puzzava? Lo si buttava.

Per cui, avevo già in mente un paio di modi per far spaventare e far fuggire queste povere malcapitate.

Punto terzo: Già, malcapitate. Mio padre aveva usato il femminile. Quindi, se anche non fossero fuggite di loro volontà, le avrei defenestrate ben volentieri io.

Avere la casa invasa da lucidalabbra e da riviste di gossip era inammissibile e assolutamente inaccettabile.

 

I miei pensieri furono bruscamente bloccati dalla vista della ragazza bionda di prima.

Un secondo prima rideva, un secondo dopo eccola lì che lasciava cadere le sue lacrime.

Bipolare? Forse.

O forse aveva grossi problemi alle spalle.

Era sicuramente una ragazza sola e debole, e anche la tristezza, che lasciava scivolare sulle sue guance, sottoforma di lacrime, era chiaramente visibile.

Però… prima, quando avevamo scambiato civilmente le nostre opinioni, non aveva dato tanti segni di malessere.

Rientrava in tutte le quattro categorie che avevo stilato nel corso degli anni.

Per non parlare, poi, del fatto che fosse terribilmente acida e arrogante.

“È proprio il tipo di persona con cui mi dovrei distrarre.” decisi.

 

Mi avvicinai piano, stando attento a non spaventarla, e arrivai giusto in tempo per sentire la sua bocca pronunciare la frase “Che serata di merda.”

 

«Che c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come me?» le chiesi.

 

Alzò lo sguardo, quasi impaurita, e mi guardò con dei grandissimi occhi azzurri. Non me ne ero accorto prima.

Tentò di asciugarsi le lacrime con una mano, ma fece cadere la cannuccia sul pavimento.

Cercai di soffocare una risata, mentre gliene porgevo un’altra da un tavolo vicino.

Tutta la sua sicurezza di poco prima era sparita. Sembrava… buffa.

«Ecco, tieni. »

 

«Grazie.» mi rispose imbronciata, iniziando a bere piano il drink e distogliendo lo sguardo dal mio.

 

Aspettai un secondo, poi dieci, poi venti, fino a quando, scrollando le spalle, le dissi: «Va bene, visto che non m’inviti tu a sedermi, lo farò io.»

Impostando la voce per renderla simile alla sua, dissi:«Ehi, vuoi sederti?»

Poi, risposi alla mia stessa domanda con il mio tono di voce:«Ma certo, affascinante sconosciuta che non ho mai visto prima.»

E così, con una disinvoltura – e la modestia – degna di un grande attore di Hollywood, mi sedetti sullo sgabello accanto al suo.

La osservai attentamente, in cerca di una qualche crepa nella maschera di indifferenza che si era creata. Niente. Possibile che quella ragazza non ridesse mai?

Arricciò leggermente le labbra e, come se fosse disgustata, si allontanò leggermente da me. 

Alzai un sopracciglio, stranito. «Cosa c’è, adesso? Perché mi guardi così?»

 

Mi fulminò con lo sguardo, ma almeno era tornata a guardarmi. Era già qualcosa. «È soltanto una curiosità. Sei venuto a parlare con me e a fare questa bella scenetta perché non ci sono altre tipe da rimorchiare?»

 

Mmh, vediamo… cosa potevo dedurre da questa domanda?

Sicuramente, aveva una bassa autostima, se pensava di essere la seconda scelta in fatto di ragazze.

Increspai le sopracciglia e incrociai le mani sul tavolino. «Il fatto che io ti abbia rivolto la parola non implica assolutamente il fatto che ti voglia rimorchiare. A meno che io non sia un gancio e tu una macchina. Ma, tralasciando questa improbabile trasformazione in Transformer, sono convinto che la solitudine sia venuta a bussare troppe volte alla tua porta. E nessuno merita mai di stare da solo, in qualsiasi circostanza. Per cui…» dissi, allargando le braccia. «Eccomi qua.»

 

«Dio, se mi avessero detto che avrei trovato un barman rompicoglioni, allora sarei andata da un’altre parte.» mi rispose, alzando le sopracciglia e continuando a bere.

«Desolato di aver tradito le tue aspettative. Comunque, ti va se ci presentiamo, come farebbero due persone normali? »

 

«Tu non sei una persona normale.»

 

«Solo perché sono venuto a parlare con una ragazza che beve il suo drink tutta sola?» Le porsi la mano destra, ma lei continuava a squadrarmi con diffidenza. «Andiamo, non mordo mica.»

 

Roteò gli occhi, ma alla fine me la strinse.

«Il mio nome, come puoi notare dalla mia splendida targhetta, è Evan. Il tuo?»

 

Un lampo di divertimento passò per i suoi occhi. «Ramona.» mi rispose.

 

Sollevai un sopracciglio, ancora. Non rientrava di certo nei nomi che mi ero immaginato. «Ramona?»

 

«Ramona.» confermò e scoppiò a ridere per dieci minuti buoni.

 

«Puoi smetterla di ridere soltanto per un secondo, dannazione?»

 

«S-sì… scusa.» disse, asciugandosi le lacrime che le erano uscite.

 

«Bene. Ora che hai ripreso il quasi controllo di te stessa, potresti parlarmi seriamente?»

 

«Perché dovrei farlo? Era una bellissima serata, fino a quando sei arrivato tu, e io voglio continuare a divertirmi.»

 

«Tu lo chiami divertimento, questo? Sveglia, non sei al Luna Park. E poi, dovresti farlo perché voglio darti una mano con il tuo problema.» ribattei.

 

Il sorriso che stava cercando di bloccare se ne andò al solo sentire della mia voce. «Problemi? Io non ho problemi.» sussurrò.

 

Risi di gusto. «Cosa? Oh, andiamo. Pensavo che la tua maglietta avesse ragione riguardo alla tua intelligenza e lungimiranza.» Feci un cenno alla sua T-shirt e mi strinsi nelle spalle. «Qui tutti hanno problemi, Ramona, e sono problemi che un Long Island non può risolvere. Ma, forse, una semplice chiacchierata potrebbe farlo.»

 

«Beh, non capisco perché dovrei discuterne proprio con te.»

 

«Le persone si aiutano di solito, non te l’ha mai detto nessuno?»

 

Mi guardò un attimo, sorpresa. L’avevo presa in contropiede. «Ma… potresti essere un maniaco sessuale… o un assassino psicopatico.»

 

Le sorrisi. «Beh, c’è sempre quella possibilità. Ma non approfitterei mai di una ragazza ubriaca. Che razza di barman gentile sarei?» La guardai, serio. «Coraggio, sfogati.» 

 

«Beh, vede, signor David Letterman…» mi rispose, mentre io m’infastidivo sempre di più. «L’alcool è una delle poche cose che rendono felici le persone. Soldi? Innamoramenti? Amicizie? Solo stronzate… l’alcool è l’unica cosa che resta.» Fu interrotta da un singhiozzo, ma poi riprese. «Ho bisogno dell’alcool nelle vene….perché… i pensieri si fanno meno fitti… e… mi sento meglio. Capisci cosa intendo?» mi chiese, dopo aver fatto una grande sorsata.

 

 «Sì. L’alcool, per quanto strano possa sembrarti, ti schiarisce le idee, e così sei più lucida da ubriaca, invece che da sobria. Tutto qui.»

 

 Annuì leggermente.

Mi raccontò tutto: la vita che conducevano qui, il nuovo lavoro della madre e la loro litigata.

E pensare, però, che la Pennsylvania non era così male, dopotutto.

 

Dopo che ebbe finito il suo racconto, incrociai le mani sul tavolino e la guardai, dritto negli occhi. «La cosa migliore che tu possa fare in questo momento, è lasciare quel fottuto drink e andartene.»

 

Sembrò non notare il mio tono da rimprovero, anzi, se ne fregò altamente di quello che avevo appena detto e bevve quel poco di liquido che restava nel bicchiere.

 

«E perché dovrei farlo?» mi chiese, ridendo.

 

Incrociai le braccia e strinsi i pugni, forte. Non me la potevo prendere con una ragazza sbronza. «Devi fare pace con tua madre, ecco perché.»

 

Scoppiò in una risata sguaiata. «Ah, sì? E come ci arrivo a casa, se non sono neanche capace di reggermi in piedi?»

 

Come se volesse darmi la prova che stesse dicendo la verità, prese uno slancio esagerato e saltò dallo sgabello. Spinto dalla consapevolezza del suo precario equilibrio, della forza di gravità e del pavimento, scesi dal mio e la afferrai per le spalle, giusto un attimo prima che si potesse fare male.

Sentii le sue mani piccole aggrapparsi alle mie braccia e una fulminea sensazione di piacere mi avvolse, giusto il tempo di vederla allontanarsi da me e sussurrare, con gli occhi bassi per la vergogna, un «Grazie.»

 

Capii immediatamente cosa c’era bisogno di fare.

Mi allontanai di qualche metro, a passo di carica. Non sapevo per quale motivo, ma sentivo solamente rabbia dentro di me. Poi, improvvisamente, mi bloccai e mi morsi il labbro. Forse dopo avrei dovuto pentirmene, ma non ci pensai molto quando le chiesi:«Se ti dico di aspettare qui, al tavolino, mentre vado a parlare con il mio capo, lo faresti?»

 

Venne verso di me, barcollando un po’, e scosse la testa.

Emisi uno sbuffo, infastidito, e roteai gli occhi. «Ovviamente no.» sussurrai a me stesso.

 

«Che cosa stai facendo?» mi chiese.

 

«Cerco di darti una mano.» le risposi.

 

 

Lei mi seguì e io mi avvicinai all’ufficio del signor Barrington, il proprietario, e le sussurrai:«Mi raccomando, stai dietro di me.»

Annuì in silenzio. Poi, bussai allo stipite: la porta era aperta. «Scusi signore, posso parlarle?»

 

Alzò lo sguardo dalle scartoffie che stava firmando. «Oh, Evan. Ma certo, dimmi pure.»

Era quasi inquietante il modo in cui quell’uomo dai capelli castani poteva metterti in soggezione; noi lo chiamavamo il “Generale D’Armata”.

Mi sistemai ancora un po’ verso sinistra, per coprigli, almeno in parte, la visuale di Ramona.

 

«Vorrei avere il suo permesso per allontanarmi dal locale, giusto per una mezz’ora. Sempre se per lei non è un problema.»

 

«Con lei?» mi chiese, facendo un cenno proprio allo spazio che stavo cercando di coprire.

Annuii soltanto. Sapevo come la pensava il mio capo su queste cose e strinsi forte i pugni, nella speranza che ci lasciasse andare in fretta.

«E questa chi è, Taubenfeld? La tua nuova ragazza?» replicò invece lui.

 

La sentii trattenere il fiato, ma non disse niente.

Ecco perché volevo che, prima, rimanesse accanto al tavolo. Il signor Barrington era particolarmente incline a non farsi mai i cazzi propri. Sospirai. «No, signore, non è la mia ragazza.»

 

«Beh, è davvero un peccato. Un gran bel peccato.» Si accese una sigaretta e, aspirando, continuò a squadrarla.

 

Diventai irrequieto. Non mi piaceva quando usava quello sguardo sulle ragazze.

Mi schiarii la voce. «Non mi ha risposto, signore.» Lo guardai ancora più intensamente, dritto in quei suoi occhi color marrone chiaro. «Posso andare?»

 

Non distoglieva lo sguardo da Ramona e tutto ciò cominciava a darmi sui nervi. Poteva fare di tutto, era vero. Poteva chiamare mio padre e dirgli che mi aveva buttato fuori a calci, o peggio, dirgli che avevo boicottato la visita delle “ospiti” per aiutare una ragazza che avevo conosciuto da appena un’ora e mezza. Riflettei su quell’ultima frase e scoprii che no, il pensiero del boicottaggio non mi dispiaceva affatto.

Si strinse nelle spalle. «Va bene, fa’ come vuoi, l’importante è che torni qui vivo.» Poi, strinse gli occhi. «Non voglio avere rogne.»

 

“Con mio padre.” stavo per aggiungere io, ma non lo feci. Mi era andata bene e non volevo fargli cambiare idea.

Lo ringraziai con un cenno del capo e, dopo essermi infilato giubbotto e sciarpa, trascinai Ramona per un braccio fuori dal locale.

 

«Ehi, piano, piano, mi stai facendo male.» mi disse. «Sarò anche sbronza, ma la mia percezione del dolore funziona ancora bene.»

 

Allentai un po’ la presa, ma non la lasciai andare del tutto.

Raggiungemmo la mia moto e le lanciai il casco, dopo aver allacciato il mio.

 

«Tieni, prendilo. Salta su e andiamo.»

 

«Perché dovrei ascoltarti?» mi chiese brusca.

 

«Perché lo dico io. Forza.» la incitai, mentre mettevo in moto.

 

Roteò gli occhi e allargò le braccia. Sembrava infastidita. «Sai che c’è? Io non voglio venire con te.» Se non fosse stato per il fatto che stesse gridando, il doppio senso sarebbe stato divertente. Prima ti comporti come un coglione, poi mi vieni a parlare e fai tutto il carino e adesso vuoi che io obbedisca. Potresti essere davvero un assassino psicopatico. Sei lunatico!»

 

Sgranai gli occhi, furioso. «Ah, sarei io quello lunatico?»

 

«Sì!»

 

Dio santo, quella ragazza era incredibile. «Beh... allora tu sei un’ingrata. Lo sai, il mio capo potrebbe denunciarmi per assenza sul posto di lavoro, e tu che fai? Ti lamenti perché non vuoi tornare a casa e non vuoi fare pace con tua madre.» Scossi la testa, ridendo istericamente. «Assurdo.»

 

 

«Assurdo? E perché sarebbe assurdo, sentiamo! Tu non mi conosci, non sai niente di me e io non ti devo nessuna spiegazione.»

 

«Già, è vero. Io non ti conosco e non voglio entrare nella tua vita. Ma sai perché ho lasciato il bar e perché sto rischiando che quello stronzo mi denunci, eh?»

Sentivo una miscela di rabbia e delusione montarmi dentro. Non sapevo neppure che sentimento fosse davvero; sapevo solo che ce n’era tanto e che avrei voluto tirarle uno schiaffo dritto in faccia per la chance che stava buttando all’aria.

«Perché non voglio che sprechi la possibilità di riconciliarti con tua madre!»

Feci un profondo respiro, rendendomi conto di quanto la stessi spaventando. «Almeno tu, ne hai una.» sussurrai.

Non sapevo nemmeno io se mi stessi riferendo alla madre o alla possibilità. In tutti e due i casi, a me non erano state concesse.

«Ma hai ragione, sono stato un coglione. Va’ pure dentro ad ubriacarti, vedrai che tua madre sarà fiera di te.» finii, freddo.

Chi ero io per immischiarmi nella sua vita? Nessuno.

E, pertanto, come Nessuno dovevo essere trattato.

Avvicinai le mani per slacciare il casco, ma sentii la sue piccole dita toccarmi sulla spalla sinistra.

Stavolta non si ritrasse e assaporai quella sensazione per un attimo.

 

«Aspetta.» mi disse, bloccandomi. «Vengo con te.»

Poi montò sulla moto e partimmo per il buio.

Ricordavo poco del viaggio: la via dove abitava, le sue braccia strette alla mia vita e il suo naso che si strofinava sulla mia maglietta, prima che mi dicesse: «Comunque, sei uno stronzo. Però hai un buon profumo.»

 

Alla fine costeggiai accanto ad una villetta. Aveva i classici tetti spioventi rossi per la neve ed un giardino non molto curato all’esterno.

La finestra al piano terra era rotta, ma nel complesso l’abitazione non sembrava malridotta.

Non era grande come la mia, certo.

Nessuna casa lo era.

 

La chiamai, girandomi un po’ verso di lei: «Ramona.»

Nessuna risposta.

«Ramona!» dissi, più forte.

Niente. Sentivo soltanto i grilli frinire per coprire il silenzio circostante.

A quel punto, scesi dalla moto con un balzo e, mentre mi toglievo il casco, mi girai, per gridarle contro.

Mi stava facendo perdere tempo e Barrington mi aveva concesso solo mezz’ora.

Ma poi, mi accorsi che era accaduto il peggio.

Si era addormentata.

Per due minuti non feci altro che imprecare.

Me ne stavo lì, sul ciglio della strada, immobile, e vomitavo parolacce su parolacce.

Lei emise un gemito, appena percettibile, ma fu abbastanza per farmi scuotere e riprendere.

 

Le tolsi il casco e sistemai tutti i capelli biondi che le ricadevano sul viso. Poi, la presi in braccio e la sentii inspirare sul mio collo, mentre mi avvicinavo alla porta della casa.

«Ramona.» sussurrai. «Svegliati.»

 

Sussultò, ma solo per un attimo. «Non ora, mamma… altri cinque minuti e poi vado scuola.» farfugliò.

 

Risi. La situazione diventava ogni secondo più tragica. «No, non sono tua madre.»

 

Aprì un poco gli occhi e sembrò mettermi a fuoco. «Chi sei, Evan?»

 

Annuii. «Bingo. Devo portarti dentro casa. Che faccio, suono?»

 

Scosse la testa, confusa. «No, c’è… c’è mia madre, sta dormendo… non la voglio svegliare.»

 

«Non hai le chiavi?» Scosse ancora quella piccola testolina bacata che si ritrovava. «Sei incredibile. In senso negativo, ovviamente.»

 

Mi squadrò, offesa. «E tu sei poco pratico. Ho già pensato ad un’idea.»

 

«Che sarebbe?»

Invece di rispondermi, si morse il labbro e abbassò lo sguardo.

Alzai la voce e ripetei:«Che sarebbe?»

 

Mi fissò, con aria di sfida, e mi rispose:«Passare attraverso la finestra, salire le scale e portarmi in camera mia senza che mia madre si accorga di niente.» Incrociò le braccia. «Ecco, te l’ho detto.»

 

Per poco non la lasciai cadere sull’asfalto dalla sorpresa. «COSA?!» gridai. «Non ho ancora il potere di trasformarmi in fantasma e di attraversare i muri, in caso non l’avessi notato.»

 

«Peccato, forse te ne saresti un po’ più zitto. Non quella del primo piano, cretino. Quella del piano terra. È rotta, vedi?»

 

«Sì, vedo, ma… come faccio a saltarci con te in braccio?»

 

Si strinse nelle spalle, come se non fossero fatti suoi. «Hai i muscoli, no? Beh, usali.»

 

Era stupefacente come riuscisse a farmi imprecare più volta in soli cinque minuti.

Non so neanch’io come feci, ma presi lo slancio adatto e riuscimmo ad entrare.

Mi graffai soltanto un po’ sulla mano destra, ma non aveva importanza.

 

«Dovreste farla riparare. In questo modo potrebbe intrufolarsi chiunque e voi non ve ne accorgereste neppure.» sussurrai.

 

«Tante grazie, Capitan Ovvio.»

 

Sospirai, mentre iniziavo a salire le scale. «Dimmi, sei così acida con tutte?»

 

Mi fece la linguaccia. «Solo con chi mi sta antipatico.»

 

Scossi la testa, sorridendo. Avevo fatto tutto questo per lei e guarda un po’ come venivo ripagato…

 

«Ecco, adesso svolta a destra e ci sei.»

 

Mi ritrovai di fronte ad una porta mezza socchiusa. La aprii senza troppe cerimonie e, facendo attenzione, appoggiai con delicatezza Ramona sul letto.

 

«Beh, credo di meritarmi appena un...»

 

Si alzò sulle ginocchia e mi baciò sulla guancia. Poi, mi sussurrò:«G-grazie.»

 

Notai che stava tremando e le diedi la mia sciarpa. «Non posso darti il mio giubbotto, quello mi serve, ma credo che questa andrà bene lo stesso.»

 

Se la mise intorno al collo e inspirò l’aria per un attimo.

 

«Allora... ciao.» dissi, sorridendole.

 

Le voltai le spalle e feci per uscire dalla camera, ma la sua voce arrivò flebile alle mie orecchie. «Ci rivedremo?»

 

Pensai a tutto quello che mi aspettava domani: alle valigie che dovevo ancora preparare, al viaggio, al rivedere mio padre e Kevin.

«Credo di no.» le sussurrai. Poi, tornai indietro, le posai un bacio sui capelli biondi e feci al contrario il percorso di prima.

 

Uscii all’aria fresca, sfregandomi le mani, e saltai in sella alla mia moto.

 

’Notte.” pensai.

Mi rinfilai il casco e ripartii, mentre sentivo, per la seconda volta in quella sera, i grilli che popolavano la notte.

 

 

***

 

 

God knows what is hiding, in that world of little consequence.
Behind the tears, inside the lies,
a thous
and slowly dying sunsets.
God knows what is hiding in those weak and drunken hearts.
I guess the loneliness came knocking.
No one needs to be alone. Oh, save me.
People help the people,
and if your homesick, give me your hand, and I'll hold it.
People help the people,
and nothing will drag you down.

 

 

Dio sa cosa quel mondo di poca importanza nasconde.

Dietro le lacrime, dentro le bugie,

un migliaio di tramonti lenti che muoiono.

Dio sa cosa quei cuori deboli e ubriachi nascondono.

Immagino che la solitudine venga a bussare.

Nessuno merita di stare da solo. Salvami.

Le persone si aiutano,

e se hai nostalgia di casa, dammi la tua mano, e io la stringerò.

Le persone si aiutano,

e niente ti trascinerà verso il basso.

 

~ Birdy – People Help The People

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Capitolo 5
*** 4. Mobile ***


Buonsalve a tutti!

Dite un po’, da uno a dieci, quanto siete contenti che la scuola sia finita?

Io centordici. (?)

Allora, in questo capitolo saranno introdotti ben tre nuovi personaggi.

Alcuni dovrebbero non conoscersi e invece parlano tra loro… chissà.

Il mistero s’infittisce ancora di più. *risata malefica*

Volevo dirvi solo una piccola cosuccia, prima di scomparire: nella storia ci saranno multipli riferimenti al libro “Colpa delle Stelle”, di John Green. [Come potete apprendere dalla bio, è il mio libro preferito, lol.]

Ovviamente, nessuno è obbligato a leggerlo, ma se volete capire meglio la fan fiction, vi consiglio di farlo.

Anche perché, il libro merita molto.

Bene, ho finito.

Have a good day. <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

 Avril Lavigne - Mobile

 

 

***

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Napanee, Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

 

Aprire gli occhi richiedeva un’energia sovrumana.

Mi costava talmente tanto che, nel momento in cui li aprivo, già li richiudevo per abbandonarmi ad un sonno ad intermittenza, per un tempo che mi sembrava durare giorni, settimane.

La testa era stranamente leggera, come se fosse stata un palloncino libero di volare in aria.

Mi girai su un fianco, con le mani sotto la guancia, e percepii qualcosa di morbido lambirmi la pelle.

Riuscivo a sentire una voce femminile e dei rumori forti, insieme con un potente odore di lillà.

Dei ricordi cominciarono ad affiorare: grida, rabbia, un vuoto nel cuore.

Con gli occhi chiusi, sentivo intorno a me svariate imprecazioni e udii anche un rumore di qualcosa che sbatteva contro la porta della mia stanza.

 

Di nuovo rapita da delle immagini, rividi un bancone argentato, dei capelli biondi e degli occhi color ghiaccio che mi fissavano.

Aprii gli occhi di scatto, ma, prima di richiuderli, cercai di mettere a fuoco.

L’immagine era confusa; non riuscivo a scorgere niente, solo macchie bianche e indistinte.

Poi, tornò ancora quell’odore di lillà e riuscii a percepire davanti a me una figura china.

Abbassai le palpebre, convinta di aver sentito qualcuno sussurrare il mio nome.

Mi sforzai di tenere gli occhi aperti.

Non riuscivo ancora a scorgere i contorni del viso davanti a me, perché avevo la testa rivolta verso il cuscino.

Continuavo a vedere delle immagini sfocate: qualcosa di verde, forse degli occhi.

 

Poi, una voce mi sussurrò delle parole che non capivo. Non riuscivo a parlare.

Quel profumo… Era l’odore della pelle di qualcuno, che stava molto vicino al mio viso.

Nonostante fosse persistente, quella fragranza mi dava un senso di sicurezza e di conforto.

Cercai di focalizzare l’attenzione, ma non avevo ancora una visuale nitida.

«Avril, svegliati.» sussurrava la voce. «Apri gli occhi, amore.»

E così feci.

Aprii gli occhi e vidi accanto a me il viso di mia madre.

 

Improvvisamente, come se il mondo fosse stato risucchiato, tutto intorno a me diventò silenzioso.

La testa, adesso, pesava tonnellate. Era pesante come pietra, anzi, come mille pietre messe assieme.

Una fitta cominciò a martellare.  

No, non di nuovo…

Spalancai gli occhi.

Cercavo di aggrapparmi a qualcosa, ma non riuscivo più a distinguere i suoni.

Non riuscivo più a distinguere le sfumature dei colori.

Tutto intorno a me era bianco, di un bianco accecante.

Percepivo solo la fitta nella mia testa. Più forte, più forte. Sempre più forte.

Fatela smettere, vi prego…

Allungai la mano verso quella che doveva essere mia madre.

«Ma-Mamma… pillole…» riuscii ad articolare.

Non sentivo neanche la mia voce. Forse era così che dovevano sentirsi le persone mute.

Il dolore non accennava a diminuire. Era incessante, continuo, come se volesse ricordarmi che lui poteva essere dentro di me ogni volta che lo avesse desiderato.

 

Dopo qualche secondo, sentii delle piccole capsule solide e un liquido freddo scendermi in gola.

Soltanto allora, il dolore cominciò ad essere meno persistente e meno accecante.

Tutto si fece buio, di uno scuro rassicurante, e mi riaddormentai.

Il sonno si fece ancora più discontinuo. Pezzi di ricordi si susseguivano frenetici, troppo fugaci per cercare di metterli a fuoco.

 

Riuscii, miracolosamente, a risvegliarmi.

La prima cosa che vidi furono gli occhi verdi di mia madre riempirsi di lacrime.

«Ehi.» sussurrò, accarezzandomi dolcemente i capelli.

 

«Ehi.» le risposi, con la bocca impastata. «Dove sono?»

 

«Nella tua camera.»

 

Distolsi gli occhi dai suoi.

Mi guardava con un amore tale che era impossibile sostenere il suo sguardo.

«Che è successo?»

 

«Beh… ti ricordi che dobbiamo partire, no? Io stavo preparando le valigie. Ero entrata in camera tua per prendere qualche vestito pesante e ho capito che ti stavi per svegliare. Così, mi sono avvicinata al letto e poi, dopo qualche minuto… ho visto… ho visto i tuoi occhi spalancarsi. Le pupille sono diventate così grandi, che l’azzurro delle tue iridi non si riconosceva più.» Singhiozzò. «Hai avuto… hai avuto un attacco.»

 

Chinai la testa. Mi sentivo come se stessi fluttuando in aria.

«Wow, siamo a quota due, questo mese. Fantastico.» borbottai.

 

«Sì, tesoro. Sono stata così in ansia… Mi ha preso alla sprovvista e… non sapevo se ti saresti risvegliata o no.»

 

«Beh… immagino che abbia fatto un sonnellino più lungo del solito.»

 

Sulla fronte, le si formò la classica ruga che aveva quando sorrideva. «Credo di sì.» mi rispose, continuando a piangere.

 

Sollevai pianissimo il busto, cercando di mettermi a sedere. Volevo evitare giramenti di testa, anche se una sensazione di malessere si stava diffondendo nello stomaco.

 

«Ce la fai ad alzarti?» mi chiese, asciugandosi le lacrime e sorreggendomi prontamente con le sue braccia.

 

«Sì, sì, non preoccuparti, faccio da sola. E, mamma… basta piangere.»

 

Annuì appena, singhiozzando leggermente. «Va bene.» Scostò le braccia e mi baciò sulla testa, uscendo molto lentamente dalla stanza.

 

Quel gesto mi rimase fulmineamente impresso nella mente: avevo già provato la sensazione di sentire delle labbra appoggiate sui miei capelli.

Anziché alzarmi completamente, rimasi distesa supina.

Il cotone morbido del cuscino avvolse la mia schiena come una seconda pelle.

Un tessuto appena rugoso mi toccò il braccio e mi voltai, per capire di cosa si trattasse.

Fu allora che la vidi: una sciarpa di lana blu scura.

La presi tra le mani ed inalai lentamente l’odore pregnante.

Sorrisi. Sapeva di notte, di fresco, del suo collo… Sapeva di lui.

Ricomposi i pezzi del puzzle e ricordai tutto.

O almeno… quasi tutto.

Come si chiamava il ragazzo? Ivan? Eran?

Ero sicura che me l’avesse detto, ma non riuscii ad evocare il suo nome.

Ancora una volta, totalmente indifferente agli stimoli esterni, mi cinsi le ginocchia con un braccio e me le portai al petto, mentre fissavo il muro color crema di fronte a me.

 

Gli attacchi erano iniziati cinque anni fa, tre settimane dopo il mio dodicesimo compleanno.

Non potevo raccontare cosa successe quel giorno, perché non lo ricordavo.

Sapevo solo che, da quel giorno, una parte del mio cervello non ricevette più l’ossigeno per brevi secondi, e io non ricordavo più cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo.

Nero. Buio. Vuoto.

Questo fenomeno si ripeté sempre da allora, e ovviamente, continuava a non esserci una data precisa in cui io potessi dire: “Ecco, succederà oggi.”

Gli attacchi andavano e venivano, a loro piacimento. Sembrava volessero dirmi: “Decidiamo noi quando arrivare e tu non puoi farci niente. Non puoi controllarci, piccola lampadina guasta.”

 

«Avril, vestiti. Il jet atterrerà tra poco vicino casa e dobbiamo essere pronte.»

 

Risvegliata dalla voce di mia madre, sciolsi il groviglio delle mie braccia e mi alzai lentamente.

Scelsi una maglietta a caso e dei pantaloni altrettanto anonimi. Non ne guardai neanche il colore. Mi ricordai soltanto di prendere il cellulare e le mie cuffie.

Non avevo bisogno di nient’altro.

Poi, mi avviai verso la porta d’ingresso.

 

Medici, chirurgi, psichiatri non erano riusciti a dirci niente. Neanche una singola spiegazione a cui aggrapparci. Mi avevano prescritto solo delle pillole, che dovevo assumere subito, ogni qualvolta l’attacco si ripresentava.

In tutto questo, non c’era nessuna causa apparente, né tantomeno nessun effetto collaterale. Nessuna infezione, nessuna malattia, nessuna patologia. Niente.

E così, la mia vita andava avanti, tra pasticche, lacrime, e tenebre momentanee.

Speravo solo di non arrivare mai a quel punto.

Il punto in cui i miei demoni mi avrebbero detto: “Sei sempre stata una lampadina guasta, difettosa. Inutile. E tu sai benissimo cosa facciamo con gli oggetti danneggiati, l’hai sempre saputo. Non servi più. La piccola lampadina è da buttare.”

 

***

Dieci minuti dopo che mia madre ed io eravamo uscite all’esterno con le valigie in mano ed imbacuccate dalla testa ai piedi, arrivò il jet.

Notai che assomigliava di più ad un mostro marino con l’elica.

Era molto più grosso e alto rispetto agli aeri normali. Mi chiedevo come diavolo facesse a volare.

Non solo trascinai la valigia, ma anche la mia paurosa genitrice, che era ancora più timorosa di me ad entrare.

Alla guida ci accolse un signore anziano di nome Peter: aveva pochi capelli bianchi ai lati e dei baffi ben curati.

Un perfetto Alfred Pennyworth, insomma… solo un po’ più grasso. [N.d.A. Maggiordomo di Batman]

Ci disse che aveva ottenuto l’autorizzazione dalla provincia dell’Ontario per atterrare vicino casa nostra e in uno spazio superiore ai 200 mq e che, a meno che non ci fosse stata una bomba a bordo, potevamo rilassarci e goderci il viaggio in tutta tranquillità.

Macabro senso dell’umorismo, aggiunsi mentalmente alla descrizione dell’uomo.

Poi, ci aiutò a disporre le valigie in una cappelliera apposita e sparì nella sala di comando.

 

Mi sistemai in uno dei dodici sedili accanto al finestrino con le cuffie nelle orecchie.

Sin da piccola, mi era sempre piaciuto osservare i paesaggi e vederli susseguirsi sotto il mio sguardo.

Mia madre, invece, prese posto su uno dei sedili più vicini alla sala di comando e vidi che chiacchierava con il pilota attraverso la tendina, nervosa.

Durante quei pochi viaggi che avevamo fatto, non ricordavo che fosse stata così ansiosa.

Scrollai le spalle. Non me ne importava molto.

Appoggiai la testa al finestrino e riflettei un po’ su cosa significasse questa partenza per me.

Napanee era la città dove ero nata [N.d.A. So che nella realtà non è così, ma per evitare complicanze, ho deciso di cambiare questa piccola cosa], dove mia madre mi aveva cresciuta come un maschiaccio, dove ero andata a scuola, dove avevo scoperto la mia profonda avversione per il formaggio, dove avevo preso a pugni un mucchio di ragazzi e dove ero stata licenziata perché avevo lasciato cadere accidentalmente un fottuto culo di pollo fritto nel caffè della mia professoressa di chimica.

Sarebbe cambiato, tutto questo?

No.

Sarebbe cambiato il clima, sarebbe cambiata la città, sarebbero cambiate le persone, ma, di certo, non sarei cambiata io.

Tutto sarebbe diventato mutevole all’esterno, ma, dentro di me, sarei rimasta per sempre me stessa.

Mi sarei sempre vestita come un maschiaccio, avrei sempre arricciato il naso davanti ad un pezzo di formaggio, avrei sempre preso a pugni i ragazzi fuori e dentro la scuola e avrei sempre fatto cadere cose disgustose nelle bevande delle persone che mi stavano antipatiche… sempre accidentalmente, naturalmente.

Lasciai che il viaggio trascorresse, tra pensieri, polli fritti e brani in riproduzione casuale.

 

***

Judy's pov

 

«Come stai, Peter?» chiesi, rivolgendomi alla tendina rossa che ci separava.

 

«Oh, bene, signora Lavigne. Sono ancora in servizio, come può vedere. Lei?»

 

«Peter… dopo oltre diciott’anni che ci conosciamo, mi dai ancora del lei?»

 

«Mi perd… perdonami, Judy.» Sentii la sua risata cordiale.

                                                      

Lo ricambiai. «Grazie.» Mi girai verso Avril, completamente addormentata sul suo sedile con le cuffie nelle orecchie. «Comunque, non potrebbe andare peggio, Peter.», gli dissi.

 

Non potrebbe andare peggio.

 

 

 

***

 

 

Avril's pov

 

 

E così, alle ore 16:52, dopo seicentocinquantadue km e a malapena un’ora e un quarto di viaggio, lasciammo una città di cinquemila abitanti per toccare il suolo di una che ne aveva quarantacinquemila in più.

Sotto una coltre di nuvole grigie e minacciose, si nascondeva la città di Harrisburg.

Eravamo in Pennsylvania, uno dei cinquanta Stati degli Stati Uniti d’America.

Peter atterrò su un terrazzo e, con educazione, aiutò a scendere sia me che mia madre.

 

Ci guidò attraverso un’uscita laterale e poi, spalancò un cancello nero in ferro battuto.

Un enorme viale si stagliava di fronte a noi.

Vasi, piante rampicanti, alberi, fiori di ogni genere erano ovunque. Ero accecata da tutte queste tonalità di verde.

Fu un attimo e accanto al cancello vidi una colonna in marmo bianco, con sopra inciso “Villa Taubenfeld”.

Perplessa, vidi Peter farci un cenno, col sorriso sulle labbra, per invitarci a seguirlo.

Mia madre mi strinse al suo braccio e, iniziando a camminare, le bisbigliai: «Ma questa… è una villa?»

 

«Vedo che sei particolarmente perspicace, oggi, amore.» mi rispose.

 

«Non è divertente.» La strattonai appena. «Mi avevi detto che avresti insegnato in una scuola privata!»

 

«Ssh, abbassa la voce.» ordinò. «Sì, è vero, ti avevo detto così. Ma la sostanza non cambia: insegnerò in questa casa, privatamente…» disse, sottolineando l’ultima parola. «…A te e ai ragazzi che ci abitano.»  

 

«COSA?!» gridai, facendo spaventare il povero Peter. Tornai a bisbigliare. «Questo vuol dire che non andrò in una normale scuola pubblica e che la mia insegnante sarai tu?»

 

Annuì. Due volte. E neanche mi guardò in faccia.

Mi staccai dalla sua presa e iniziai a camminare spedita verso quello che doveva essere l’ingresso, superando lei e Peter, che mi guardò stranito.

 

Potevo passare sopra il fatto che mia madre non mi avesse detto tutto questo subito.

Potevo passare sopra il fatto che, per fare seicentocinquantadue km, avessi preso un jet privato e non un aereo, come i comuni mortali.

Ma non potevo passare sopra il fatto di avere mia madre come insegnante.

 

C’era sempre stato un tacito accordo tra noi due, per quanto riguardava la mia educazione scolastica: io cercavo – con scarsi risultati – di andare decentemente a scuola e lei cercava – con altrettanti scarsi risultati – di non impicciarsi nei fatti miei.

E adesso questo patto era sparito.

Alzai gli occhi e, accanto alla porta d’ingresso, vidi un ragazzo che mi sorrideva con aria gentile.

Era molto alto, e aveva una mascella squadrata incorniciata da dei capelli castano chiaro, quasi rossicci.

Per ultimo, osservai gli occhi. Erano di un verde brillante.

«Piacere, io sono Kevin.», si presentò, quando gli passai accanto. «Benvenuta nel Commonwealth of Pennsylvania

 

«Sì, sì, piacere e grazie per il comitato di benvenuto.» gli risposi, sorpassandolo velocemente.

Ero infuriata con tutti e non avevo bisogno di chiacchiere.

Entrai senza troppe cerimonie e rimasi allibita: quella casa era mastodontica e avevo visto solo un pezzo dell’ingresso e le scale.

Queste ultime erano a chiocciola, con la ringhiera in ferro battuto e un tappeto che copriva gli scalini.

Delle tende color rosso vermiglio lasciavano filtrare una luce soffusa, mentre, a terra, un caldo parquet appariva lucidissimo.

Tutto questo era niente, comparato al fantastico lampadario di cristallo che era posizionato al centro del soffitto.

Mentre rimanevo totalmente a bocca aperta, mia madre mi raggiunse, con l’affanno.

 

«Non provare mai più ad…» iniziò a dire, ma fu interrotta dalla vista di un uomo.

Aveva dei capelli molto ordinati e ingrigiti dall’età, ma portava dei baffi e un pizzo molto curato, che gli davano un’aria ancora giovane.

Gli occhi, azzurri, erano magnetici.

Ci sorrise in modo educato. Tutto in lui esprimeva raffinatezza.

«Prego, accomodiamoci pure di là.»

 

Cavolo, persino la voce era affascinante.

Così, nella sua giacca nera, ci invitò a sedere su un divano in pelle marrone ed incrociò le gambe, elegantemente. Il ragazzo che avevo liquidato prima si sedette accanto a lui.

«Ben trovate nella nostra umile dimora.» disse, sorridendo affabilmente.

“Umile”, pensai. “Mica tanto.”

«Io sono il duca Mark James Tiberius Taubenfeld, duca della contea di Dauphin e padrone di questa villa, dove alloggerete personalmente sotto la mia custodia.»

Poi, indicò il ragazzo. «Questo è Kevin. Ha lavorato qui sin da bambino, ma ormai è uno di famiglia.»

 

«Grazie, duca.» gli rispose.

 

«Beh… tuttavia, all’appello, manca una persona…»

 

Il duca fu interrotto da dei passi provenienti dall’esterno e da una voce incazzata al telefono.

«No, Matt, non lo so, quando. Ti ho già detto che ho da fare. No, cazzo, ti richiamo io!»

La comunicazione s’interruppe. Così come il mio respiro. Mi si mozzò in gola.

 

«Scusami, papà, non ho potuto fare prima.»

 

Io conoscevo già questa voce.

 

«Oh, non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le nostre nuove ospiti.», disse, facendo un cenno verso di noi.

«Signore, ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio unico erede.»

 

Mi girai.

Oh, no, cazzo. Non poteva essere lui…

 

«Evan Taubenfeld.»

 

***

 

 

 

Went back home again.
This sucks, gotta pack up and leave again,
say goodbye to all my friends.
Can't say when I'll be there again.
Its time now, I turn around.
Turn my back on everything.
Turn my back on everything.
[
]

Everything's changing, when I turn around,
I'm out of my control,
I'm a mobile.
Everything's changing, out of what I know
Everywhere I go,
I'm a mobile.
Everywhere I go,
I'm a mobile.




 

Sono tornata di nuovo a casa. 
Che schifo, devo fare i bagagli e ripartire ancora, 
dire addio a tutti i miei amici. 
Non so dire quando tornerò. 
Adesso è ora di voltarsi. 
Volto le spalle a tutto. 
Volto le spalle a tutto. 
[…]
Tutto sta cambiando, quando mi volto,

sono senza controllo,

sono mutevole. 
Tutto sta cambiando, fuori da ciò che conosco 
Ovunque vada, sono mutevole. 

Ovunque vada, sono mutevole.

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Capitolo 6
*** 5. I knew you were trouble ***


Buonsalve a tutti!

Capitolo molto frizzante e più movimentato rispetto ai precedenti.

Se potete, ascoltate la canzone che vi linko sotto: renderà meglio la lettura.

Ultima cosa: nel capitolo ci saranno riferimenti ad una hit dance recente, quindi non del 2001: concedetemi questa piccola “licenza poetica”.

Have a good day. <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

 The Animal In Me - I Knew You Were Trouble [Originally performed by Taylor Swift]

 

 

***

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Napanee, Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001

 

 

Evan's pov

 

 

Erano le ore 01:58 e mi apprestavo ad incominciare la giornata seccante che volevo evitare a tutti i costi da due settimane.

 

“Estremamente mattiniero, forse troppo.” starete pensando.

 

Ricordatevi che, però, tutti i grandi maghi avevano un trucco per i loro spettacoli. Persino Houdini ce li aveva.

E qui, il trucco, era che erano le 01:58 di pomeriggio.

 

Adesso il vostro giudizio è radicalmente cambiato, vero?

 

Ma non vi preoccupate, anche questi altri tre pelandroni ancora addormentati con cui condividevo il bunker – chiamavamo così il mio appartamento, gentilmente ceduto da mio padre – avevano lavorato – si faceva per dire – ieri sera.

Già, ieri la band – orfana del suo eccellente primo chitarrista, cioè io – si era esibita nel locale più frequentato della città, il “The Crazy Drunkards”.

 

Che letteralmente significava “Gli ubriaconi impazziti”.

 

E indovinate un po’ cosa aveva fatto Matt, il nostro batterista, dopo l’esibizione?

 

Esatto, aveva fatto a botte con un ubriacone.

 

Un nome che era tutto un programma.

 

In sua difesa, aveva soltanto detto che era stato un bene che avesse lasciato nel bunker la sua padella, dato che era stato parole sue “quel vecchio rincoglionito inacidito ad iniziare.”

 

Già, Matt aveva questa fissa della padella da quando aveva quattordici anni.

Ogni volta che lui era arrabbiato/frustrato/nervoso/triste/malinconico o che sapevo io, prendeva la prima padella che trovava ed iniziava a battersi dei piccoli colpi sulla testa.

 

Non prendetelo per pazzo: tutti abbiamo un antistress.

 

E così, ancora mezzo addormentato per via del poco sonno che avevo in corpo, mi ritrovai ad attraversare in punta di piedi peggio di un equilibrista al circo la montagna di vestiti sporchi e di cartoni di pizza vuoti sparsi sul pavimento.

 

Non dovevo fare assolutamente rumore. Gli altri mi avrebbero ucciso se…

 

Beep beep.

 

Oh no, ti prego, non dirmi che sta per partire…

 

“I GOT THIS FEELING ON THE SUMMER DAY, WHEN YOU WERE GONE.

I CRASHED MY CAR INTO THE BRIDGE. I WATCHED, I LET IT BURN.”

Un grugnito si levò nell’aria. Probabilmente era Jesse, il secondo chitarrista.

«Dio, Evan, spegni quel tuo coso infernale.» Il coso a cui si stava riferendo Charlie, il nostro bassista, era una sveglia abbandonata chissà dove nel bunker.

«Non è mia. È di Matt.» Parlavi del diavolo…

Sapevo che era la sua perché lui rubava costantemente le mie idee: qualche settimana fa avevo scoperto questo pezzo e avevo deciso di cambiare la suoneria dell’orologio, ma avevo come la sensazione che lui mi avesse subito copiato.

Il brano era “I love it” delle Icona Pop. Non mi piacevano molto i brani dance, ma se volevi qualcosa per svegliarti, non c’era niente di meglio.

Ma poi, a lungo andare, mi si erano - Come dirlo in maniera non troppo volgare?... Oh, ecco – scartavetrati gli zebedei e avevo deciso di cambiare la musica proprio ieri.

Ultimo fattore: noi avevamo solo due sveglie, e se non era la mia…

Bene, adesso chiamatemi pure Mr. Logica Infallibile.

“I THREW YOUR SHIT INTO A BAG AND PUSHED IT DOWN STAIRS.

 

I CRASHED MY CAR INTO THE BRIDGE.”

Charlie si sistemò il cuscino sopra la testa. «Non me ne frega un cazzo, adesso tu trovi quella sveglia e la spegni!»

Due pensieri mi colpirono simultaneamente:

Eh, facile a dirsi, quando sei l’unico in piedi…

Oh, no, ecco che arriva il ritornello…

“I DON’T CARE, I LOVE IT!

I DON’T C-“

Un forte rumore di metallo interruppe bruscamente la canzone. Ci girammo tutti per vedere Matt che si stava avventando sull’orologio con la sua padella peggio di Godzilla sui grattaceli di New York City.

«NON. VOGLIO. PIÙ. SENTIRE. QUESTA. MERDA.»

Inutile dire che, sia della sveglia, che della padella, rimasero solo le ceneri. O forse neanche quelle.

Dopo qualche secondo di black-out, completamente attonito alla vista di quello che aveva fatto, mi ripresi.

«Oh, ma insomma, amico, quella era la nostra ultima padella! E adesso come le friggiamo le patatine, eh?»

Matt abbassò la testa, vergognandosi per quello che aveva fatto. Continuai imperterrito.

«Ed era anche la tua sveglia! Dovresti tenere di più alle tue cose, che diamine.»

«No, la mia l’ho spadellata la settimana scorsa. Quella era la tua.»

«Ah.» commentai, non riuscendo a dire altro per lo sguardo fulminante che Charlie mi lanciò.

Beh, dovevo semplicemente modificare il mio soprannome: da Mr. Logica Infallibile a Mr. Logica Infallibile Nel Fallire.

«E tu? Che ci fai già in piedi a quest’ora

Vi ricordo che erano sempre le 2 del pomeriggio, ma, quando si trattava di sonno, Matt non badava proprio ad orario. Certe volte mi chiedevo se non dormisse con il fuso orario dell’Australia…

Feci una smorfia di disappunto, controllando l’orologio sul polso sinistro. «Tra un’ora devo fare il check-in e casini vari. Meglio che mi sbrighi, se voglio essere puntuale.» In realtà, volevo ritardare il più possibile, ma il pensiero che mio padre mi tagliasse i fondi per la band mi aveva convinto ad essere mattiniero.

Il mio amico mi guardò con un’aria di scherno. «Puntuale tu? E quando mai?» Disse il ragazzo col fuso orario d’oltreoceano…

«Beh…» gli risposi, prendendo la valigia e accostandola alla porta. «…c’è sempre una prima volta per tutto, no?»

Si avvicinò alla porta e me la aprì. «Un vero gentiluomo.» commentai, alzando un sopracciglio.

«Già, e cerca di fare lo stesso con le tue madamigelle, disperatamente in attesa del ritorno del principe azzurro con la sua moto.»

Due secondi dopo aver pronunciato questa frase, si ritrovò con la schiena attaccata al battiscopa del muro. «Stronzo.» mi disse, ridendo per la spinta che gli avevo dato.

Lo aiutai a risollevarsi e mi salutò con due pacche sulle spalle, prima che lo sentissi sbattere la porta e gridare dall’interno:«Ragazzi, ma abbiamo un’altra padella, vero?»

Scossi la testa e, con un sorriso nostalgico, oltrepassai e richiusi il portone dietro di me. Sapevo già che quel posto mi sarebbe mancato da morire.

Poi, inaspettatamente, mentre mi avvicinavo alla mia Harley [N.d.A. Il nome completo è Harley-Davidson: è una famosa casa motociclistica americana], mi ritornò in mente qualcuno. Esatto, proprio quel qualcuno: aveva usato lo stesso insulto di Matt, ma in quell’occasione, mi era sembrato… non so… dolce.

Sono strano forte, eh? Oh, fate attenzione: la domanda è chiaramente retorica, smettetela di sghignazzare.

Legai la valigia alla sella della moto e ci montai sopra.

Durante il viaggio pensai alla band, alla villa, a Kevin, a mio padre, alle galline… - No, non avevamo una fattoria. Semplicemente, avevo già deciso il soprannome delle nostre ospiti speciali. – e mi rassegnai al mio destino. Infatti, sapevo che, da adesso in poi, mi avrebbero aspettato solo smalti per unghie e pettegolezzi su chi facesse le corna a chi.

Quello che ancora non sapevo era che avrei sentito ancora l’insulto. La parola “stronzo”, infatti, sarebbe stata pronunciata, o, per meglio dire, inflazionata, da quel qualcuno.

***

 

Mezz’ora dopo, in perfetto orario, mi ritrovai seduto sulla scomode poltroncine in plastica dell’aeroporto di Kingston, pronto per il check-in.

Tramite la telefonata con Kevin, avevo scoperto che mio padre mi aveva caldamente consigliato – il che consisteva praticamente nel minacciarmi – di prendere il jet di famiglia, così avrei potuto portare direttamente la mia Harley con me.

Su di questo, però, ero stato irremovibile. Non volevo sembrare un fottuto Reale d’Inghilterra e far scomodare Peter solo per me.   

Ma non volevo lasciare la mia bellissima moto in balìa del vento canadese, e così, sempre attraverso Kevin, avevo proposto altrettanto caldamente al mio papino – il che consisteva praticamente nel contro-minacciarlo – che, se il jet poteva compiere un viaggio di 650 km solo per una persona, allora avrebbe potuto farlo anche per una signora motocicletta. Sarebbe venuto Austin, un autista appena assunto, al posto di Peter. Principalmente, per due ragioni: primo, questo nuovo tizio mi stava decisamente antipatico – No, non ci avevo mai parlato: già alla prima occhiata non lo avevo potuto soffrire, figuriamoci se avesse aperto la bocca. La discussione sarebbe sicuramente sfociata in tragedia. Per lui, ovviamente. – e secondo, come avevo già detto, non volevo disturbare il buon caro vecchio Peter.

 

***

 

Una volta sull’aereo, appoggiai il viso sul finestrino, ma non riuscii ad addormentarmi: ero troppo nervoso.

Un’ora e mezza dopo, il volo terminò e misi piede sull’asfalto,

Nel frattempo, mentre m’incamminavo verso casa, orfano della mia Harley – lasciata qualche kilometro prima dell’aeroporto di Kingston –, ma in compagnia della mia valigia, mi chiamò Matt.

Parlammo del più e del meno: di come fosse andato il volo, della voglia che aveva di comprare un intero set di padelle nuove e della data delle prove della band.

 

“Amico, non sei più presente come una volta. Devi riconoscerlo.” mi disse al telefono.

 

Al toccare di quel tasto, m’infervorai. Ero a qualche passo dalla villa. «Matt, adesso ho da fare. E poi, la cosa che hai appena detto non è assolutamente vera, e lo sai.»

 

“Ah sì? E dimmi, allora, come si spiega la tua assenza di ieri al “The Crazy Drunkards”, eh?”

 

Sbuffai, mentre reggevo il telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre con l’altra spalancai il cancello d’entrata. «Io lavoro, a differenza tua! Sai, mi sa che, per te, questo è un concetto alquanto sconosciuto.»

 

“E va bene, e allora dimmi una data. Dimmi quando potrai per una prova con la band e non ti romperò più.”

 

«No, Matt, non lo so, quando. Ti ho già detto che ho da fare.»

 

“Sì, certo, il Presidente ha l’agenda troppo piena. Ti richiamo tra qualche minuto, va’.”

 

«No, cazzo, ti richiamo io!»

 

Percorsi velocemente gli ultimi metri del viale e premetti nervosamente il tasto rosso, interrompendo la comunicazione. Matt era un vero rompicoglioni quando ci si metteva.

 

Entrai nel salone e incrociai per primo lo sguardo arrabbiato di mio padre, insieme a quello allegro di Kevin. Mi scusai prontamente. «Scusami, papà, non ho potuto fare prima.»

 

«Oh, non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le nostre nuove ospiti.» E solo allora, mi accorsi delle due figure femminili nella stanza: una era una donna, un po’ più alta della ragazza che mi stava ancora dando le spalle.

 

«Signore, ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio unico erede.»

 

E poi, come se fossimo stati in una stupida commedia romantica, la ragazza si girò verso di me, e il respirò mi si mozzò in gola.

 

Non ascoltai neanche mio padre asserire il mio nome, neanche dovessero spuntare le trombe e un tappeto rosso da un momento all’altro.

 

Era lei… Ramona.

 

Entrambi sgranammo gli occhi, ma lei si riprese più velocemente e mi venne incontro.

Mi risvegliai improvvisamente anch’io.

 

«Cosa ci fai qui?!» esclamammo insieme.

«No, tu cosa ci fai qui!» ripetemmo.

«Io ci abito!» concludemmo ancora in coro.

 

Mio padre intervenne. «Ehm… figliolo, per quanto mi piacerebbe continuare ad ascoltare le vostre voci all’unisono, noi stavamo finendo le presentazioni.» Poi, facendo un cenno verso quella che presumevo essere sua madre, disse:«Lei è la signora Judith Lavigne, è esatto?» Al suo freddo cenno d’assenso, mio padre spostò l’attenzione sulla ragazza di fronte a me. «E il tuo nome, invece, è…?»

 

«Avril Ramona Lavigne.» annunciò. Mi parve di percepire una leggera punta di fierezza nella sua voce, ma non ero sicuro.

 

Papà sfoderò il suo miglior sorriso. «Preferisci essere chiamata Avril Ramona oppure…?»

 

«Solo Avril, grazie.»

 

Interruppi la scenetta assurda che si era venuta a creare. «Bene, papà, io porto Solo Avril a fare un giro per la casa. Non ti dispiace, vero?»

 

Non aspettai neanche la sua risposta e, stringendola fermamente per il braccio sinistro, accompagnai la ragazza al piano di sopra, verso quella che, a quanto ero riuscito a capire, era diventata la sua nuova stanza.

 

Sulla soglia della camera, lei incominciò a gridare:«Ehi, lasciami, mi fai male!»

Continuò. «Certo che, con te, le vecchie abitudini sono dure a morire!» disse, riferendosi al fatto che l’avevo trascinata per il braccio anche ieri sera.

 

«Beh, almeno io non cambio dalla sera alla mattina.» le risposi, alzando un sopracciglio ed incrociando le braccia.

 

Roteò gli occhi e si spazientì ancora di più. «Senti, cos’è che vuoi? Il mio nome vero e ufficiale è Avril e ieri ho usato il mio secondo nome per prenderti per il culo. C’è altro?

 

«Oh, aspetta, fammi pensare… Sì!» Allargai le braccia. «Per quale cavolo di motivo abiti qui, nella villa di mia proprietà?» Ok, tecnicamente la villa era ancora di mio padre, ma questa frase mi dava un certo senso di importanza, non trovate?

E non roteate anche voi gli occhi al cielo!

 

«Perché, mister “erede del mio culo”» disse, mimando in aria le virgolette, «mia madre ha accettato il lavoro da insegnante privato che tuo padre le ha offerto.» E poi, entrò nella stanza, osservandola dall’interno e lasciandomi come un deficiente sulla soglia.

 

Insegnante privato? Non capivo. Avevo fatto quella stupida richiesta a mio padre un mucchio di tempo fa e non avrei mai pensato che avrebbe potuta prenderla sul serio. «Questo vuol dire che tua madre insegnerà a me, Kevin e te… qui?!» le chiesi, quasi strozzandomi per l’assurdità della cosa.

 

«Bingo!» mi rispose, citando la mia parola della sera precedente. «Oh, quasi dimenticavo…» disse, aprendo la cerniera della valigia che le era stata sistemata vicino al letto color panna. «Riprenditi pure l’avanzo della pelle di pecora.» E poi, con un gesto fulmineo, appallottolò la mia preziosa sciarpa blu, quella che le avevo dato a Napanee, e me la tirò dritta sul viso. «E adesso… FUORI!»

 

Ci mancò tanto così che spiaccicasse la porta sul mio naso, data la violenza che ci mise nello sbattermela in faccia.  

 

Avril's pov

 

 

Trenta minuti dopo aver cacciato Evan, sentii un leggero bussare alla porta.

«Chi è?» chiesi, timorosa che potesse essere ancora lui.

 

«Avril, sono Kevin.» Posai i vestiti che stavo sistemando nell’armadio e andai ad aprire.

 

Il viso felice e gli occhi sorridenti di Kevin comparvero davanti a me. «Oh, ciao.»

 

«Ciao.» gli risposi, facendogli un sorriso. Di fronte all’allegria di quel ragazzo veniva naturale.

 

«Beh… volevo solo dirti che tua madre sta per iniziare la lezione e… sai, dovremmo scendere in biblioteca per… andarci.»

 

S’imbarazzò ancora di più e gli sorrisi calorosamente. A differenza di qualcuno, quel ragazzo era davvero a posto. «Certo, fammi strada.» gli dissi, dopo aver chiuso la porta della mia nuova camera.

 

«Con piacere.» mi rispose, offrendomi il braccio come un vero cavaliere. Lo allacciai immediatamente al suo e notai un particolare di lui che prima mi era sfuggito.

 

Quel ragazzo, a prima vista, era tutto: dolce, gentile, simpatico ed educato.

Sarebbe stato davvero perfetto se non fosse per il fatto che… zoppicava.

 

Manteneva la maggior parte del peso sulla gamba destra, mentre quella sinistra era claudicante.

Lui mi sorrise ancora e io lo ricambiai, non facendogli notare che avevo scoperto questo dettaglio.

 

Mi condusse al piano di sotto, in libreria, dove era stata posizionata una lavagna e tre banchi.

Ci sistemammo nel seguente ordine: Kevin a sinistra, io a destra e il cafone al centro.

 

Mia madre mi sorrise incoraggiante, mentre io, per la vergogna di ritrovarmi lei come insegnante, riuscivo a pensare ad una sola frase:”Dio, ti prego, fai aprire una voragine proprio sotto i miei piedi, per favore.”

 

La nostra nuova insegnante ruppe il silenzio. «Allora, Kevin.» gli disse, facendogli un cenno con gli occhi che le brillavano. «Dimmi, c’è qualche argomento di cui vuoi parlare liberamente?»

 

«Oh, no, di solito lascio l’onore ad Evan di rompere il ghiaccio.» rispose, indicandolo con una mano.

 

Ecco, pensai, primo difetto di Kevin: era grande amico del cafone.

 

«Va bene, Evan. Di cosa vuoi parlare?»

 

«Beh, non so», disse «Potremmo parlare… mmh… dei reati commessi dagli adolescenti, per esempio.» Guardò mia madre con un sorriso angelico.

Strinsi gli occhi. Non mi fidavo per niente di lui. Affatto.

 

Mia madre fu visibilmente presa in contropiede. «Oh. Cosa, nello specifico?»

 

Lo guardai ancora con più intensità. Se voleva fare il bastardo, quella era la sua occasione.

«I tipici reati che i ragazzi commettono il venerdì sera.» spiegò. [N.d.A. In America le scuole rimangono chiuse sia il sabato, che la domenica, per cui il loro giorno di uscite, cioè il venerdì, equivale al nostro sabato.] «Come non fornire la propria vera identità o ubriacarsi al di sotto dell'età legale.»

Mia madre - confusa - cercò di capire il nesso logico tra le due frasi appena pronunciate, ma non ne trovò: così, soppesò nella sua mente se fosse in una posizione abbastanza forte da poter contraddire il cafone già il primo giorno. Però, decise evidentemente che fosse meglio lasciar correre e proseguire. Dopotutto, lui era pur sempre il grande ereditiero della cafonaggine.

Già, perché lo stronzo doveva ancora finire il suo bel discorsetto.

«E tu cosa ne pensi, Avril?» disse, guardandomi.

 

Touché, pensai.

Un colpo da maestro, una mossa finale in grande stile, una stilettata bastarda degna dei più grandi bastardi, niente da dire.

Oh, ma se voleva giocare, beh... non mi tiravo di certo indietro.

Distolsi lo sguardo dal suo. «Sono più che d'accordo.» risposi, in finto tono accondiscendente.

La tensione nell'aria era talmente tanta che si poteva tagliare con un coltello.

 

Mia madre se ne accorse, e approfittò di quel mio piccolo momento di pausa per intervenire e calmare le acque.

«E infatti, io proporrei di allargare i nostri orizzonti e di analizzare più approfonditamente la questione della sicurezza nazionale nei…»

 

Scusa, mamma, pensai, prima di interromperla, ma questa è guerra. Una guerra che devo assolutamente vincere.

«Ma possiamo anche parlare di alcuni reati minori.» E finalmente, dannazione, tornai a guardare quegli occhi di ghiaccio. «Come, per esempio…» continuai, imitando il suo tono di poco prima. «… il sequestro di persona e effrazione in una proprietà privata, magari solo per essere entrati di notte in una casa da… che so… una finestra?»

Detto ciò, aggiunsi la mia personale ciliegina sulla torta: gli restituii il falso sorriso angelico.

 

Si alzò fluidamente dalla sedia e torreggiò davanti a me: mi accorsi che era più alto di una spanna.

I suoi occhi, fissi nei miei, erano completamente traboccanti di ira.

Se gli sguardi potessero uccidere, pensai, io sarei stata già morta stecchita.

Lo fissai a mia volta, con determinazione, e un brivido mi percorse la schiena.

No, non era paura, nel caso in cui ve lo steste chiedendo. Era eccitazione.

Come potevo avere voglia di picchiarlo e di baciarlo in una sola volta?

 

Poi, si decise a parlare. «Ehi, stronzetta. Se non fosse stato per me, tu saresti ancora su quel merdoso sgabello.» sibilò sottovoce, pronunciando le sue ultime parole.

E quelle lo sarebbero state davvero, pensai.

Non ci vidi più e scattai in avanti: fu un movimento unico, che bastò, però, ad inondare il mio corpo di adrenalina.

Lo buttai a terra e mi misi a cavalcioni su di lui, bloccandogli le braccia e pronta a tempestare il suo bel faccino da stronzo di pugni.

E lo avrei fatto davvero, se mia madre non avesse urlato e se Kevin non mi avesse trascinato con la forza lontana da lui.

 

«Evan, Avril, basta! Ma che diavolo vi è preso?!» gridò mamma. «Adesso andate tutti quanti in camera vostra e non fatevi vedere in giro prima dell'orario di cena, è chiaro?»

 

Non le risposi neanche e, con uno strattone, mi liberai dalle forti braccia di Kevin e mi diressi verso quella che, con fatica, ricordavo essere la mia camera.

Avevo bisogno di aria.

Reazione troppo esagerata? Forse.

M’importava qualcosa? Assolutamente no.

 

Non mi resi conto neanche di quanto tempo era passato. Sentii soltanto dei passi veloci salire le scale.

Alzai lo sguardo e me lo vidi davanti: eccolo ancora, lo stronzo in tutta la sua… beh… stronzaggine.

 

«Che cazzo ci fai qui? Non ti è bastato prima?» gli urlai contro.

 

I suoi occhi sembravano tranquilli. «Avril, ascoltami, volevo solo dirti che…»

 

«Stai zitto!» Mi avvicinai velocemente a lui e gli puntai il dito indice al petto. «Non voglio sentire una sola parola provenire da te.» Poi, mi allontanai, perché il contatto con il suo corpo mi aveva provocato un’inspiegabile e piccolissima scossa elettrica. Probabilmente, la percepii anche lui. «Sapevo che saresti stato un guaio dal momento in cui ti ho visto al bancone. Io ti odio, hai capito? Molto di più del formaggio! Io… io ti panino al formaggio, ecco.»

 

Qualcosa nel suo sguardo cambiò: la serenità di poco prima scomparve. Al suo posto c’era solo rabbia. «”Ti panino al formaggio?” Ma quanti anni hai, cinque?»

Poi, passò alla derisione e un ghigno di scherno gli si formò sul volto. «Dio, quanto sei infantile. Adesso capisco perché tua madre ti fa ancora da insegnante!»

 

Alle sue parole, non capii più niente. Volevo solo togliergli quel ghigno strafottente e spaccargli la faccia.

E questa volta, a giudicare dal rivolo di sangue e dal gemito di dolore che emise, c’ero riuscita benissimo.

«Non ti azzardare più a nominare mia madre con quella fogna, stronzo!»

C’era mancato poco che gli sputassi sul viso e lo avrei fatto, se non avessi sentito la voce di mia madre annunciare che fosse pronta la cena.

Così, lo lasciai a terra dolorante: solo per quel momento, misi da parte i miei piani omicidi e scesi al piano di sotto.

 

 

***

 

‘Cause I knew you were trouble, when you walked in. 

So, shame on me now. 
Flew me to places I'd
never been, 
so you put me down, oh. 
I knew you were trouble, when you walked in. 
So, shame on me now. 
Flew me to places I'd never been, 
now I'm lying on the cold hard ground. 
Oh, oh, trouble, trouble, trouble. 
Oh, oh, trouble, trouble, trouble. 

No apologies. 
He'll never see you cry. 
Pretend he doesn't know 
that he's the reason why. 
You're drowning, you're drowning, you're drowning. 





 

Perché sapevo che eri un guaio, quando sei arrivato.
Quindi, peggio per me ora.
Mi hai portata in posti dove non ero mai stata,
così mi hai umiliata, oh.
Sapevo che eri un guaio, quando sei arrivato.
Quindi, peggio per me ora.
Mi hai portata in posti dove non ero mai stata,
 ora sono a terra, su un pavimento duro e freddo.
Oh, oh, guaio, guaio, guaio.

Oh, oh, guaio, guaio, guaio.

 

Niente scuse.
Lui non ti vedrà mai piangere.
Finge di non sapere
di esserne il motivo
Stai affondando, stai affondando, stai affondando.

 

 

~ The Animal In Me – I Knew You Were Trouble

 

P.S. C'è qualche fan di Doctor Who, qui? Ho trovato questo video del Decimo Dottore e Rose con sottofondo "When You're Gone" della nostra Av. Volevo solo condiverlo con voi perché è qualcosa che ti prende le emozioni e te le fa a pezzi.

Link video ->The Doctor and Rose - When You're Gone - YouTube

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Capitolo 7
*** 6. Evan Way ***


Buonsalve a tutti!

Per problemi ho anticipato l’aggiornamento ad oggi (il prossimo avverrà Domenica prossima, as always.) e causa vacanza di una settimana in Norvegia, non ho potuto rispondere alle recensioni. Ma, adesso che sono tornata, provvederò immediatamente.

Anyway, in questo capitolo ci sarà la prima canzone del patato! (Cioè, del nostro caro Evanuccio.)

In più, scopriremo qualcosa del passato dell’Evan della storia e di Kevin.

Spero, come sempre, che la storia vi piaccia.

Ci vediamo al prossimo capitolo <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Evan Taubenfeld - Evan Way

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 5 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

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Scesi velocemente l’ampia scalinata in parquet, facendo comunque attenzione a dove mettessi i piedi: non volevo correre il rischio di inciampare in quello che aveva tutta l’aria di essere un costosissimo tappeto in velluto rosso.

 

Mossi le dita della mia mano destra e le sentii scricchiolare leggermente. Avevo provato soltanto una piccola fitta di dolore quando avevo colpito il naso di Evan, ma non m’importava.

Sicuramente, le sue parole avevano avuto un effetto più devastante del mio pugno.

 

Sentii uno strepitio di piatti alla fine del corridoio e, grazie a quei rumori, riuscii ad orientarmi e ad arrivare alla sala da pranzo.

Un forte odore di cucina aveva invaso la stanza.

 

I primi occhi che incrociai furono quelli sorridenti di Kevin, che mi salutò con un cenno appena percettibile da un lato del tavolo.

Poi, scorsi la figura distaccata del duca, a capotavola. Allungai lo sguardo al capotavola opposto, ma non c’era nessuno. Non mi ero ancora soffermata a pensare a quale fosse lo stato civile del padrone di casa e non avevo visto fedi al suo anulare, ma, finora, non avevo visto nessuna figura femminile, oltre mia madre. Chissà se era mai stato sposato…

Come se lei fosse stata richiamata dai miei pensieri, voltò la testa di scatto verso di me.

I suoi occhi verdi erano ansiosi e percorrevano preoccupati tutto il mio corpo, come se sapesse che fosse successo qualcosa di cui non era a conoscenza.

Spostai il peso da una gamba all’altra e mi sedetti accanto a lei.

Dannato istinto materno.

 

Distolsi lo sguardo da quello di mia madre e mi misi a guardare attentamente l’ambiente circostante. Un marmo grigio con parecchie venature nerastre ricopriva le pareti e il soffitto, da cui scendevano due grandi lampadari dorati.

Ma non quanto quel coso mastodontico all’ingresso, riflettei.  

Poi, passai ad ispezionare il tavolo in legno.

Sembrava appena essere uscito da una favola, quando il re e la regina cenavano nel loro castello seduti alla loro lunghissima tavolata.

Non che la fantasia fosse poi così distante dalla realtà.

 

Una voce maschile e decisa interruppe le mie osservazioni.

«Allora, Avril…» mi disse il duca, fissandomi con sincera curiosità. «Ti stai ambientando bene, qui alla villa?»

 

Come un pesce che va a fare shopping. «Abbastanza, duca.»

 

Una lieve risata scosse le sue spalle. «Oh, ti prego, chiamami pure Mark. Dopotutto, tu e tua madre potete essere considerate parte della famiglia.» Notai che una leggera scintilla aveva scalfito la tranquillità dei suoi occhi azzurri, ma scomparve dopo un secondo. «E dimmi, cosa ne pensi di Kevin e Evan? Immagino che avrai già un rapporto stretto con loro.»

 

Ma certo, pensai. Ho appena preso a pugni il tuo adorato figlioletto. Più stretto di così si muore!

 

Abbassai per la prima volta gli occhi dai suoi, fissando la tovaglia di pizzo. Cosa potevo rispondere?

Per mia fortuna, o sfortuna, visto che la cosa poteva essere considerata sotto entrambi i punti di vista, non mi fu concesso l’imbarazzo di dare una risposta dallo stesso Evan, che era appena sceso, in compagnia anche del sangue secco sotto il suo naso.

Guarda, guarda. Ho fatto proprio un bel lavoro, mi ritrovai a pensare, in un impeto irrazionale di orgoglio.

 

Si sedette accanto a Kevin, esattamente di fronte a me. Iniziò a fissarmi con uno sguardo intenso, ma non disse nulla.

 

Una voce femminile alta, squillante e dal forte accento italiano ruppe il silenzio.

«Salve a tutti!» disse una donna sulla sessantina, con folti capelli marroni che le cadevano sulle spalle insolitamente larghe per una donna.

«Io sono Maria.» Indicò nella propria direzione con un cucchiaio di legno che portava nella mano destra «Ma le nuove arrivate possono tranquillamente chiamarmi Mary!» Strizzò l’occhio a me e a mia madre, che stavamo osservando la scena completamente ammutolite. «Nel caso ve lo stesse chiedendo, sono la cuoca ufficiale della baracca.» Mosse ancora il cucchiaio, descrivendo un’ampia arcata. 

Beh, non si può di certo dire che abbia il senso della misura, se questa per lei è una “baracca”, notai, con una certa simpatia.

Quella donna voleva senz’altro portare un po’ di allegria in una serata che, altrimenti, sarebbe incominciata con rigidità. E io gliene ero grata.

«Allora, questa sera serviremo le seguenti portate.» Si schiarì la voce, prendendo un piccolo taccuino dalla tasca del grembiule, e s’inforcò gli occhiali che aveva legato ad una catenella appesa al collo. «Come antipasti, avremo asparagi avvolti in un prosciutto crudo squisito; come primo piatto, servirò delle pappardelle con un sughetto di pomodoro freschissimo; come secondo piatto, cucinerò una costata di maiale alla griglia e per chiudere in bellezza…» Si fermò, creando suspense per il momento clou del menù. «Come dolce, ci sarà un tiramisù con salsa al cioccolato, proprio come piace tanto al nostro Kevin!»

Gli si avvicinò per dargli un pizzicotto, ma si fermò a due millimetri dalla sua guancia.   Stava fissando Evan con uno sguardo preoccupato.

«Uagliò, ma che diavolo hai fatto a quel naso?»

Non capii bene la prima parola che disse, ma riuscii ad afferrare tutto il resto.

Improvvisamente, tutta l’attenzione che Mary era riuscita a catalizzare su di sé, si spostò su di lui.

 

Per fortuna nessuno pensò che fosse il caso di fissare me.

Il terrore che Evan potesse spiattellare tutto mi paralizzò.

Lui, oltre che a restare stronzo, era comunque il figliol prodigo, e incominciavo a temere che tutto quello che gli avessi detto o fatto si potesse ritorcere contro di me.

Non avere paura, Avril. Tu sei sempre stata una profonda pacifista con lui. 

Già, la mia coscienza sceglieva sempre i momenti più sbagliati per fare sarcasmo.

 

Tenne gli occhi fissi nei miei, prima di abbassare lo sguardo e di sussurrare:«Niente Mary. Sono solo andato a sbattere contro lo stipite della porta della mia camera. Tutto qui.»

 

Ripresi a respirare, guardandolo sorpresa. Aveva più l’aria di un cane bastonato che di uno che si voleva vendicare.

Dopotutto forse non è così stronzo come avevi pensato. Ancora la mia dannatissima coscienza.

 

Mary rise di gusto. «Menomale. Dalla tua faccia sembrava che avessi fatto a pugni con qualcuno.»

Ricacciai indietro un brivido.

 

La voce autorevole del duca riprese il controllo della situazione. «Grazie per la tua presentazione, Mary. Sono convinto che tutti qui aspettiamo con ansia le tue magnifiche portate.»

 

«Certo, duca. Vado subito, duca.» replicò lei, impacciata per la prima volta dall’inizio della serata. Sparì subito nelle cucine e, qualche minuto dopo, piatti fumanti furono posizionati davanti a noi.

 

«Buon appetito a tutti.» augurò Kevin, guardandomi sorridente.

Non lo ricambiai, però. Ero troppo presa ad osservare come ricadevano dei ciuffi di capelli biondi sulla fronte di Evan, combattendo l’impossibile e allo stesso tempo fortissimo impulso di alzarmi e di toccargli il viso per metterli al loro posto.

 

All’inizio pensai che fosse solo per ricambiare la sua gratitudine. Lui era stato gentile con me e io volevo esserlo con lui. Tutto qui, mi dissi mentalmente, citando le sue parole.

Ma mi sbagliavo. Non potevo ancora immaginare come quello sarebbe stato l’inizio di tutto.

 

***

 

Un’ora dopo avevamo finito quella cena faraonica. Tutti i piatti, dal primo all’ultimo, erano stati una vera bomba.

E anch’io, per certi aspetti, mi sentivo così. Pronta a scoppiare, nel caso avessi visto ancora cibo nel raggio di due millimetri.

 

Kevin si pulì il labbro col tovagliolo accanto a lui e si schiarì la voce. «Bene, grazie dell’ottima cena, duc- Mark.», si corresse velocemente. Almeno non ero l’unica ad avere problemi su come chiamare il duca. «Credo che Avril voglia tornare nella sua camera.» Poi, rivolgendomi un sorriso gentile, mi chiese:«Vuoi che ti ci accompagni?»

 

Evan lo guardò con quella che mi parve essere aria seccata, ma non fiatò.

Stavo per accettare la sua offerta, quando, ancora una volta, la voce del duca Taubenfeld ci interruppe. «Un attimo, Kevin. Volevo comunicare una notizia importante a tutti e tre.»

Lo guardammo, aspettando che continuasse. «Io e la signora Lavigne ci siamo confrontati sul vostro incontro questo pomeriggio in biblioteca, e anche sul piccolo…» Sembrò scegliere la parola con cura. «…incidente tra Evan e Avril. Abbiamo stabilito entrambi di non voler vedere che eventi del genere accadano ancora, per cui… ci è sembrato più saggio che tu e mio figlio, insieme con Avril, frequentaste il “Sanford-Brown” college. È uno dei più prestigiosi college di tutta la Pennsylvania, se non addirittura il migliore. Inoltre, il preside è un mio carissimo amico e gli ho già telefonato per avviare le vostre iscrizioni. Abbiamo pensato che questa situazione fosse troppo nuova e prematura per voi due, ragazzi, e così abbiamo deciso di comune accordo che tutti e tre frequentaste gli stessi corsi, in modo da non sentirvi ulteriormente spaesati. Per quanto riguarda te, Evan, mi spiace dirti che il tuo desiderio di avere un tutore privato non potrà più essere realizzato. Andrai in una normale scuola e spero, ovviamente, che non te la prenderai per questo.»

Evan indurì la mascella, guardando fisso davanti a sé, ma non disse niente.

 

Quanto a me, la testa mi girava vorticosamente. La mia vita sembrava stesse cambiando di giorno in giorno, e questo era decisamente troppo per me.

«Ma… Ma lei non può fare questo…»

 

Il duca girò la testa nella mia direzione e mi parve di vedere ancora una vola una scintilla di rabbia repressa nei suoi occhi. «Perché no, Avril? Tua madre è d’accordo con me e, se non mi sbaglio, già in Canada frequentavi una scuola pubblica. E poi, se il problema è il mancato stipendio di tua madre, non preoccuparti: è colpa mia se si è verificato questo repentino cambio di programma e non c’è dubbio che lei riceverà il compenso promessole.»

 

Il problema non sono i soldi, avrei voluto gridare. Il problema è che non posso continuare a veder cambiare la mia vita senza che io non faccia niente! 

Ma non fiatai. Mi limitai a digrignare i denti e a stringere i pugni, come facevo quando volevo ricacciare indietro le lacrime.

 

«Ora, Kevin.» Aggiunse il duca. «Puoi accompagnare Avril nella sua stanza.»

 

«Conosco la strada, grazie.» scandii lentamente, prima di alzarmi dalla sedia e di uscire da quella stanza.

 

Credevo che stare un po’ da sola mi avrebbe fatto bene.

Entrai nella mia camera e, dopo essermi chiusa la porta alle spalle, andai alla finestra.

Non avevo ancora potuto vedere la vista da lì e mi accorsi, con grande stupore, che si affacciava sull’immenso giardino della villa.

Osservai con talmente tanta cura tutte le piante, tutti i fiori e tutti gli alberi che popolavano quel giardino… che non mi accorsi neanche del lieve bussare alla porta,

All’inizio, pensai fosse Kevin. Così, quando capii in realtà di chi si trattasse, mi bloccai.

 

«Avril? Avril, posso entrare?» Era Evan.

Il panico mi travolse. Cosa dovevo fare?

Che prima avesse finto davanti a tutti e volesse vendicarsi affrontandomi direttamente?

Che mi fossi, ancora una volta, sbagliata su di lui?

Presi un respiro profondo ed andai ad aprire.

 

Gli indicai l’interno della stanza con un cenno del capo. «Entra.»

 

Chiusi la porta e mi sedetti a gambe incrociate accanto a lui sul mio letto.

«Ascolta. Prima che tu ti trasformi ancora in Rocky Balboa [N.d.A. Famoso personaggio interpretato da Sylvester Stallone. È un pugile.], volevo solo…»

Non sapevo quello che stava per dirmi. Pensavo che si sarebbe arrabbiato, che mi avrebbe dato ancora dell’infantile e dell’ipocrita. E, invece, disse solo…«… chiederti scusa.»

 

Lì per lì non seppi cosa dire, ma fu lui che proseguì. «Sono stato un completo arrogante. Ma anche la parola “stronzo” va benissimo.» Aggiunse, con una smorfia.

«Non avevo il diritto di comportarmi così, né di dire tutte quelle cose spregevoli su di te e su tua madre e…»

 

Decisi che avevo sentito abbastanza. «Evan, basta.»

Mi guardò smarrito, come se fosse stato troppo preso dal suo discorso di scuse per ricordarsi che c’ero io, lì con lui.

«Sono io che devo chiederti scusa. Anche io non avevo il diritto di darti un pugno sul naso, sai? Anzi…» dissi, prendendo un fazzolettino dalla tasca del giubbotto e accostandolo sulla sua piccola ferita. «Ti fa molto male?»

 

Appoggiò la sua mano sulla mia e fui percorsa da un brivido sulla schiena. Emise un gemito di dolore, ma, nonostante questo, rispose di no.

Ritrassi la mano, spaventata dalle mie stesse reazioni.

 

«Allora…» Cercai di intraprendere un discorso. Peccato che interloquire con i ragazzi della mia stessa età non fosse mai stato il mio forte. «Devi ancora dirmi qual è il tuo secondo nome e cosa ci facevi ieri sera a Napanee quando abiti in un altro Stato.»

 

Sgranò leggermente gli occhi. «Non pensavo ti ricordassi del nome. E comunque, non posso dirtelo. Non ancora, almeno. È una specie di regola che è venuta a crearsi nel corso degli anni: dico il mio secondo nome soltanto alle persone di cui so che mi posso fidare ciecamente. E anche mio padre rispetta questa… direttiva, per così dire. Non dice mai il mio secondo nome in presenza di estranei.»

Cioè quello che sono io, mi dissi mentalmente, provando una lieve fitta di tristezza.

«Per quanto riguarda cosa ci facessi a Napanee, beh, è piuttosto semplice: lì ci lavoravo. Di solito, mio padre finanzia la band e ci trova date, piccoli locali dove esibirci, cose così. L’ultimo posto in cui ha insistito affinché suonassimo è stato proprio Napanee, e ho pensato di unire l’utile al dilettevole, trovando lavoro in quel bar.» concluse, con una scrollata di spalle.

 

«Come si chiama? La band, intendo.» gli domandai, con curiosità.

 

«Ci chiamiamo i “Nameless”.» Senza-nome.

 

Lo fissai perplessa. «Nel senso che non avete un nome o…?»

 

Rise, per la prima volta in quella serata. «No, è proprio il nostro nome. Matt, il nostro batterista, era stanco di doversi scervellare per trovare un nome adatto, che ci rappresentasse, e alla fine ha rinunciato. Il giorno dopo l’annunciatore, non vedendo nessun nome scritto sul foglio, decise di gridare “Nameless”, ed è così che decidemmo di chiamarci, da quella volta.»

 

«Beh, senz’altro è originale.» riflettei.

 

«Già.»

 

Restai per un secondo in silenzio, incerta. Poi, decisi di buttarmi. «Posso farti un’altra domanda?»

 

«Certo, spara.» Il sorriso gentile non andò via dal suo volto.

 

«Perché tuo padre ha detto che “il tuo desiderio di avere un tutore privato non potrà più essere realizzato”? Cos’è, non volevi andare in una scuola pubblica?»

 

A quel punto, si fece serio. «No, è più di questo. Non si tratta di un mio semplice… capriccio. In realtà, riguarda Kevin. Ho già capito che sai del suo piccolo difetto e me ne sono accorto dal modo in cui lo guardi. È lo stesso modo in cui si guarda una sfumatura di colore troppo forte in un quadro perfetto. E lo capisco perché è la stessa cosa che provai anch’io la prima volta dopo…» Deglutì, improvvisamente a corto di parole. «Dopo l’incidente.»

Abbassò lo sguardo e riprese a parlare.

«Vedi, durante le vacanze estive, quando ero piccolo, io, mio padre e Kevin andavamo alla nostra piccola villetta nel Maryland. Io e lui andavamo sempre in esplorazione, cercando di scoprire dei tesori nascosti da terribili pirati. Sorrise al ricordo. Un giorno, per caso, m’imbattei in un piccolo vicoletto in salita. Si chiamava “Evan Way”. [N.d.A. Letteralmente significa “Via Evan”] Capisci che l’euforia s’impossessò di me per quella fortuita coincidenza, ero solo un bambino. E così, dopo averglielo detto, decidemmo di andare a prendere le nostre biciclette e di arrivare in cima. Io partii per primo e lo lasciai indietro. Lui… lui era sempre stato un po’ più debole di me e… la bicicletta si ribaltò, finendogli addosso.»

Emise un verso strozzato, di disperazione.

«Lo portammo subito all’ospedale e i medici ci dissero che aveva un’infezione all’osso femorale: se voleva sopravvivere, avrebbero dovuto amputargli la gamba. Poi, per il suo ottavo compleanno, gli regalammo una protesi, in modo tale che potesse almeno camminare. Volevo avere un insegnante privato perché così, almeno, avremmo fatto a meno di tutte le prese per il culo dei nostri eventuali compagni.»

 

Appoggiai ancora una volta la mano sulla sua e questa volta gliela strinsi forte. «Mi dispiace tanto, Evan.»

 

Mi guardò con la tristezza negli occhi. «Non capisco perché ti devi dispiacere per una cosa di cui non hai assolutamente colpa. Naturalmente, è stato mio padre a raccontarmi tutta la storia, perché non me la ricordavo. Ma, da allora, non posso fare a meno di dirmi che, magari, se non mi fossi intestardito così tanto con quella stupida strada e se non lo avessi lasciato indietro, lui sarebbe ancora un quadro perfetto.»

 

Gli parlai piano, con dolcezza. «Evan. Non devi né vergognarti, né darti la colpa per quello che è successo. Magari adesso Kevin non sarebbe più il ragazzo sorridente che è e tu non saresti più il ragazzo meraviglioso che sto imparando a conoscere. Sono le esperienze più profonde che cambiano le persone. Il dolore ci rivela.»

 

Si raddrizzò, riprendo a sorridere leggermente. «E quest’ultima frase l’hai presa da un libro?»

 

«Sì.» Arrossii, sentendomi stupida. «È il mio libro preferito.»

 

«L’ho capito dal cambiamento del tuo tono di voce. Bello.» commentò. «E così, domani è il primo giorno di scuola nella capitale?» disse con il sorriso sulle labbra, cercando di cambiare argomento e di sdrammatizzare.

 

Per un attimo, fui presa in contropiede. «Harrisburg, la capitale della Pennsylvania? Ma non era Philadelphia?»

 

Rise, e notai come il suo sorriso contagiava i suoi altrettanto splendidi occhi azzurri. «No, la capitale è sempre stata Harrisburg. La geografia non è proprio il tuo forte, eh?» mi chiese.

 

Distolsi lo sguardo, leggermente imbarazzata. «No, in effetti no.»

 

Dopo pochi secondi di silenzio, mi domandò:«Qual è la tua materia preferita?»

 

Ancora una volta, rimasi confusa, per il repentino cambio di domanda, ma, dopo essermi ripresa, risposi senza alcuna esitazione.«Matematica.»

Non ebbi il tempo di chiedere quale fosse la sua, che arricciò subito il naso.

 

«Che c’è?» gli domandai, disorientata per la terza volta di fila dal suo atteggiamento.

 

Mi rispose con quella che doveva essere una citazione. «Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e finché sono certe non si riferiscono alla realtà.»

 

Lo guardai interrogativa con curiosità, aspettando che continuasse.

 

«Albert Einstein.» spiegò infine.

 

«Beh… secondo me tu e il buon caro e vecchio Albert vi sbagliate. La matematica è la disciplina più solida che esista. Voglio dire, avrai sempre la certezza che due più due fa quattro, e non magari cinque.»

 

«Ed è proprio questo il problema.» disse, sorridendo. «Nella realtà, sei fermamente convinta che due gocce d’acqua unendosi ad altre due gocce d’acqua diano sempre come risultato quattro gocce e non magari una più grande?»

 

Aprii la bocca ma la richiusi di scatto. Non avevo niente con cui replicare. Mi aveva ancora completamente e inequivocabilmente spiazzato.

Evan 4, Avril 0, pensai.

«A proposito di realtà… sei… sai… sei… fidanzato?» dissi, pentendomi nell’istante stesso in cui pronunciai quelle parole.

 

Il suo sguardo, dapprima perso nel vuoto, si posò su di me. «Cosa?»

 

Deglutii, cercando di prendere un po’ del coraggio necessario. «Insomma… mi stavo chiedendo se adesso… tu stessi con…»

 

«Una ragazza?» finì per me, in tono interrogativo. Annuii. «Beh… sì, qualche ragazza c’è stata… ma mai niente di serio.»

 

«Oh. Capisco.» gli risposi, cercando di non dare troppo a vedere il rossore che si estendeva sulle mie guance.

Ma perché mi andavo sempre ad impelagare in certi discorsi?

La mia coscienza mi rispose quasi istantaneamente. Perché lui ti p-

Ssh, zitta!

 

«E tu? Hai mai…» Fece per chiedermi, ma non finii mai la domanda, perché Kevin aprì la porta.

 

«Cavolo, scusate, non volevo interrompervi. È solo che la signora Lavigne mi ha mandato a dirvi che domani mattina dovremo svegliarci alle sette in punto, per cui secondo lei sarebbe meglio se andassimo a letto adesso.» ci disse, con una scrollata di spalle.

 

«Sì, certo.» Evan si spazzolò i jeans e si alzò dal letto. «È meglio che vada.»

 

«Io ti aspetto in corridoio. Buonanotte Avril.» ribadì Kevin, prima di scomparire.

 

«Buonanotte, Kevin.» gli gridai di rimando. Poi, tornai a guardare Evan.

 

«Allora… ‘Notte.»

 

«‘Notte.» gli risposi, quasi delusa che non ci fosse stato nessun “bacio della buonanotte”.

Non essere stupida!, pensai.

 

Lo vidi avvicinarsi alla porta e socchiuderla alle sue spalle, prima di aggiungere:«Ah, Avril?»

 

«Sì?» gli risposi, tenendo gli occhi nei suoi.

 

«Ieri sera ci hai azzeccato.»

 

Lo guardai senza capire.

 

«David. È David il mio secondo nome.» finì e sparì anche lui nel corridoio, chiudendo la porta.

 

Mi buttai completamente sul letto, stremata da quella giornata.

Poi, con un sorriso idiota che aleggiava sul mio viso, mi addormentai.

 

 

 

***

 

What if she got in the car?
And they never even crash
ed.
Wo
uld it change who we all are?
Would I have this photograph?
Now I wonder everyday, how a telephone pole missed him.
I'm so glad he stayed awake.

'Cause I don't think I'd be living.

Don't be ashamed,
You made a mistake.
We'll all be okay.

And things go wrong, sometimes we fall.
The world turns and we move along, and that's what makes us who we are.
So just be strong, 'Cause life's not long.
Before you know it we'll all be gone,
and this will be the last today, ever.

[…]

I know you don't wanna change
I just hope that you'll do it
What we learned on Evan Way.
And maybe the best thing to happen now.


 

Che sarebbe successo se lei fosse salita sulla macchina
e non ci fosse stato nessun incidente?
Questa cosa avrebbe cambiato 
quello che siamo oggi?
Avrei ancora questa fotografia?
Ogni giorno rifletto, come ha fatto a schivare un palo della luce.
Sono contento che sia stato attento

 perché non credo che sarei ancora vivo.

Non vergognarti,
hai fatto un errore.
Staremo tutti bene.

Le cose non vanno come dovrebbero andare,

delle volte cadiamo.
Il mondo gira e noi giriamo con lui,

 ed è questo che ci fa diventare ciò che siamo.
Quindi sii forte, perché la vita non è lunga.
Prima che tu lo sappia ce ne saremo già andati tutti
e questo sarà l'ultimo giorno, di sempre.

[…]

Io so che non vuoi cambiare
spero solo che tu lo faccia
quello che abbiamo imparato dall'Evan Way*
forse è la cosa migliore che sia successa fino ad ora.
 

 

 

~ Evan Taubenfeld – Evan Way

 

*L’Evan Way è una via realmente esistita. Si trovava accanto alla casa dove viveva Evan nel Maryland.

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Capitolo 8
*** 7. Sk8er Boi ***


Buondì!

Dalla prossima volta cercherò di aggiornare ogni Domenica al mese.

Spero di riuscirci e spero, come sempre, che la storia vi piaccia.

Mi ritiro per vedere Once Upon A Time.

Ci vediamo al prossimo capitolo <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Avril Lavigne - Sk8er Boi

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 6 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

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L’oscurità regnava sovrana.

Persino la luna era di un inquietante bianco pallido, come se volesse nascondersi in tutto quel buio.

Mi guardai attorno e, a giudicare dai rami degli alberi che s’intrecciavano tra loro, dovevo trovarmi in un bosco.

Le mie gambe si mossero prima che il mio cervello lo volesse veramente.

Andavo in cerca di un qualsiasi elemento che potessi riconoscere in quell’oblio sconosciuto.

Poi, col respiro ansante, mi ritrovai ai piedi di un sentiero in salita.

Ero certa di non averlo mai vista prima, ma aveva comunque un’aria… familiare.

Riuscii a scorgere due bambini: uno, con i capelli talmente chiari da sembrare argentei, era già in cima; l’altro, all’inizio del vicoletto, aveva i capelli rossicci.

Mi avvicinai a lui. Aveva un’aria incerta, impaurita, e passava il suo sguardo dubbioso dai suoi piedi ai capelli color cenere del bambino in cima al sentiero.

Ero pronta a chiedergli cosa stesse facendo lì e se avesse bisogno di aiuto, ma le parole mi morirono in gola.

Lo scenario cambiò improvvisamente: i bambini e la strada svanirono e vidi un uomo col volto completamente inghiottito dalle ombre.

Aveva una postura rigida, quasi educata. «Guardalo.» mi disse, in tono tranquillo.

Ma io non riuscivo a staccare gli occhi dalla sua faccia: era come guardare in fondo ad un pozzo senza fondo.

«Maledizione, guardalo.» gridò, con le spalle percorse da un fremito di pura rabbia. «Tu… tu, lurida puttana, tu gli hai fatto questo!» aggiunse, indicando con il dito indice il mucchio di terra dove prima c’era il vicolo.

Completamente sconvolta dalla paura, incominciai a correre.

Ripercorsi il bosco a perdifiato, evitando gli alberi e cercando di non cadere nel terreno.

Poi, però, inciampai in qualcosa: non mi curai di cosa fosse, perché sapevo e sentivo, dentro di me, che era arrivata la fine.

Non avevo mai pensato alla mia morte, ma, di certo, non l’avrei immaginata così.

Vidi l’uomo sorridere in modo inquietante: si passò la lingua sulle labbra, come se avesse pregustato quel momento da tutta una vita.

«Tu gli hai fatto questo.» ripeté, sussurrando. «Ma non sai neanche chi lui sia.»

Scossi la testa, terrorizzata dalla vista di quel volto fatto di oscurità.

Si chinò su di me e riuscii a sentire il suo fiato caldo sul viso. Poi, urlò ancora. «E come potresti saperlo, dato che non sai neanche chi tu sia veramente?»

 

 

Mi svegliai con un grido e mi ritrovai a fissare le ombre della mia stanza.

Era avvolta da una fitta oscurità, esattamente come nell’incubo.

Guardai le lancette fosforescenti dell’orologio e scoprii che erano le 06:20 del mattino.

Ancora con un vago senso di panico, cercai di mettermi seduta, scalciando via le coperte.

Di continuare a dormire non se ne parlava e, in più, dovevo scendere a fare colazione per le sette in punto: meglio prepararsi prima.

Entrai nel grande bagno in camera e mi feci una doccia calda, sciogliendo la tensione nelle spalle.

L’avevo sempre trovato un buon toccasana, quando il nervosismo minacciava di sopraffarti.

Poi, ancora avvolta nel soffice accappatoio bianco, scelsi i miei vestiti per quel primo e nuovo giorno di scuola: le mie Vans blu, dei jeans scoloriti e una felpa di color grigio scuro.

Ebbi anche il tempo di prendere l’unico zaino che mi ero portata da Napanee, quello verde militare, con dentro un astuccio viola e un quaderno.

Controllai ancora l’orologio, scoprendo che erano le 06:50.

Con un sospiro, uscii dalla mia camera e mi avviai, zaino in spalla, verso la sala da pranzo.

 

Scesi velocemente le scale, aspettando di trovare la stanza vuota.

Invece, seduto su una sedia, completamente da solo, c’era Kevin.

Uno zaino color ruggine era stato fatto cadere scompostamente accanto alla sua sedia.

Si intona al colore dei suoi capelli, pensai, mentre rigirava un cucchiaino nella sua tazza, con le spalle lievemente ricurve e uno sguardo perso nel vuoto.

«Buongiorno.» lo salutai.

 

Si girò verso di me, posando un attimo il cucchiaino. «Buongiorno a te.»

 

Nonostante il suo sorriso, non potei fare a meno di notare delle leggere ombre sotto il contorno dei suoi occhi verdi.

«Nottataccia?» chiesi, scivolando sul posto accanto al suo e appoggiando lo zaino alla spalliera.

 

Fece una smorfia di disappunto. «Poche ore di sonno, in realtà.»

 

Ripensai al mio incubo, al modo in cui l’uomo mi aveva aggredito e al modo in cui avevo gridato. Beato te.

 

Poi, nell’ordine, entrambi sentimmo: dei passi veloci provenire dalle scale, un singolo rumore secco, che immaginai essere un piede che veniva sbattuto sulla ringhiera in ferro e un’imprecazione, che doveva essere qualcosa del tipo “Vaffanculo, che male!”

Infine, vedemmo Evan entrare nella sala da pranzo.

La sua smorfia di dolore si trasformò in un’espressione di sorpresa, quando vide le nostre facce divertite.

«No, è che… il piede… sono inciampato…» balbettò, facendo cadere senza preoccupazione il suo zaino nero sul pavimento.

  

Kevin liquidò il tutto con un gesto della mano e lo invitò a sedersi di fronte a noi.

Lo osservai: indossava dei jeans scuri e una maglietta bianca con un teschio che faceva l’occhiolino con la scritta nera in stampatello “ROCKERS DO IT BETTER”.

Lo guardai e sollevai il sopracciglio destro, a metà tra il curioso e il divertito.

Lui si limitò a scrollare le spalle, prima di esclamare ad alta voce:«Allora, ciurma, cosa si combina quest’oggi?»

 

«Parla in termini pirateschi solo quando è nervoso.» bisbigliò Kevin al mio orecchio, sorridendo.

Risi anch’io, cercando di camuffare la risata con un colpo di tosse, ma non ero molto sicura del risultato.

 

Infatti, com’era prevedibile, Evan se ne accorse. Puntò un dito contro di noi, con aria accusatoria. «Voi due, state facendo comunella contro di me. È così che sarà, d’ora in avanti? Verrò emarginato? Di questo passo, mi toccherà essere amico di Austin.»

 

«Austin è un nuovo autista che abbiamo assunto da poco.» m’informò Kevin. «E comunque, tu e Austin non vi sopportate a vicenda.» osservò.

 

«Di Mary, allora.»

 

«Mary ti rimpinzerà di cibo fino a che non scoppierai.»

 

«Ma almeno potrò assicurarmi di mangiare bene.» concluse con un tono alla “Ho vinto io!”. Finì di imburrare una fetta biscottata e la addentò.

 

Kevin roteò gli occhi al cielo, ma non aggiunse altro: in effetti, non potevo biasimarlo, anche se parlare con questo Evan bambinesco era divertente e… mi piaceva.

 

«Cofa fi pvofpetta per la giovnata?» domandò, a bocca piena.

 

Kevin, sorridente e leggermente disgustato, fece per rispondere, ma fu interrotto da una voce maschile.

 

«Si prospetta di non parlare mentre si mangia. Non ti ho mica educato come un villano, figliolo.»

Non mi girai neanche, sapevo già a chi appartenesse quella voce.

Invece, sollevai lo sguardo e guardai Evan, che abbassò la testa e mormorò:«Scusa, papà.»

 

Il duca si sedette a capotavola e sorrise, come se fosse rincuorato per la sua risposta. «A parte questo, ho chiesto a Peter di accompagnarvi e di farvi venire a prendere con la limousine, naturalmente.»

 

Quasi rischiai di strozzarmi, per il caffè che mi andò di traverso. «La… limousine?» chiesi.

 

Il duca annuì, guardando nella mia direzione. «Ovviamente. Sarai sorpresa di vedere quante ce ne saranno nel parcheggio del Sanford-Brown.»

 

Distolsi lo sguardo, reprimendo un’improvvisa ondata di rabbia.

Sembrava come se il duca fosse… soddisfatto dalla sua superiorità.

 

In breve tempo, sia io che Kevin e Evan finimmo la colazione, e stavamo quasi per varcare la soglia della villa, quando mia madre scese le scale e mi chiamò.

Mi raggiunse accanto alla porta. «Buona scuola, amore.»

Abbassò il braccio destro, avvicinandomelo pericolosamente.

«No, mamma, per favore, non farlo…» le intimai, sottovoce.

Sbam! Troppo tardi. Mi aveva augurato:«Imbocca al lupo!»

Ma, la cosa peggiore, era che mi aveva appena dato una pacca sul sedere.

Non avevo mai sopportato quel gesto, ma adesso che sentivo le risatine dei ragazzi dietro di me, lo odiai ancora di più.

Insomma… era così imbarazzante!

«Mamma… ti prego…»

 

«Va bene, va bene, ho capito. E voi due, smettetela di ridere.»

Poi, con un leggero sorriso sulle labbra, ci diede le spalle e se ne andò nella sala da pranzo.

 

Mi voltai, vedendo che Evan non aveva ancora smesso di sghignazzare. Gli diedi una gomitata nelle costole e, con un laconico “Andiamo”, percorremmo il viale.

 

 ***

 

Il viaggio non fu così sgradevole come avevo pensato ma, a differenza di quanto aveva predetto il duca, non erano solo le limousine che infestavano il parcheggio, ma anche Porche, Ferrari, Mercedes…

Robbetta, insomma.

Entrammo nell’atrio, ma prima che potessi guardare l’edificio, Evan imprecò.

«Cazzo, siamo già in ritardo! Col mio skate avremmo fatto sicuramente prima.»

 

Lo guardai. «Tu hai uno skate?»

 

Annuì, ma rivolse lo sguardo altrove. Kevin bisbigliò al mio orecchio:«Sul suo microfono ha scritto “Sk8er Boi”. Sai, proprio con l’otto e con la i.»

 

Sollevai le sopracciglia, ma non commentai ulteriormente.

Evan sospirò. «E così, eccoci qui, come tre guerrieri dell’Apocalisse che si preparano ad affrontare il loro destino.»

 

Kevin lo guardò stranito. «Guerrieri dell’Apocalisse? Ma che razza di metafora è?»

 

«Innanzitutto, mio caro Kevin, questa è una similitudine, poiché viene espressa in maniera esplicita, grazie anche all’utilizzo delle congiunzioni “come” o “simile a”; mentre, invece, la metafora viene espressa in maniera implicita e non ci sono congiunzioni.» Abbandonò il suo tono da maestrino e fece spallucce. «E comunque, l’ho voluta buttare sul tragico, perché io sono un vero poeta, e un vero poeta non si deve contraddire mai.» concluse, sorridendo.

 

«Bene, ora che questo bellissimo scambio di battute è giunto al termine…» dissi, andando al sodo. «…potrei chiedere dove diavolo dobbiamo andare?»

 

Evan non si girò neanche a guardarmi. «Beh, volendo, possiamo anche andare a f-»

 

«Quello che Avril intende…» lo interruppe Kevin. «…è che non sappiamo neanche quale sia la classe dove dovremmo entrare per primi.»

 

«Possiamo entrare in tutte le classi e domandare:”Salve, è qui che avete ottenuto lo straordinario privilegio di avere il signor Evan David Taubenfeld come vostro alunno?”»

 

«Oppure…» fece Kevin, con un tono leggermente spazientito. «…possiamo andare in segreteria e chiedere il nostro fascicolo con all’interno l’orario.»

Con il dito indice, indicò una stanza con scritto sopra “SEGRETERIA”.

 

«Sì.» Alzò ancora una volta le spalle. «È un’idea come un’altra.»

 

«Peccato che non è così che funzioni.» dissi. Si girarono entrambi a guardarmi, con aria interrogativa. «Per avere i nostri fascicoli dovremmo possedere prima un’autorizzazione scritta da un professore, e solo dopo andare in segreteria. Ma, visto che non sappiamo in quale classe andare…»

 

Kevin si grattò il mento, con fare pensieroso. «Sai, Evan, mi sa che la tua idea iniziale non era affatto male.»

 

Lui liquidò con un gesto della mano le nostre preoccupazioni. «Ah, sciocchezze. Datemi cinque minuti e avrete tra le mani questi dannati fascicoli.»

Poi, con passo di carica, si avvicinò alla porta della segreteria, bussò ed entrò, senza neanche aspettare una risposta.

 

Esattamente cinque minuti dopo, venne ancora verso di noi, con le mani dietro la schiena.

«Allora?» gli chiese Kevin. «Li hai avuti?»

 

Scrollò le spalle. «Beh, sai, i complimenti uniti al mio fascino incontestabile da playboy sono letali. Eccoli qui.» rispose e ci consegnò i nostri rispettivi fascicoli.

 

Lo aprii e guardai con impazienza la prima ora di lezione. «Evvai, matematica!» esclamai contenta.

 

Evan fece una smorfia. «Sì, che bello, andiamo tutti a fare i calcoli.» disse, poco entusiasta.

 

Memorizzai il percorso per arrivare all’aula e lo trascinai per la manica. «Oh, andiamo, non fare il guastafeste. Venite.»

 

Percorsi quasi correndo il corridoio, per poi spalancare una porta che era esattamente come tutte le altre.

In quel momento, mi bloccai, mentre Evan e Kevin andarono a sbattere contro la mia schiena.

La scena sarebbe stata senz’altro divertente, se non fosse stato per l’orrore che mi attanagliava le gambe.

All’incirca una trentina di teste si voltarono verso di noi.

Soffocai un gemito di disperazione, quando la mia mente confermò che, in quell’aula, erano seduti solo e soltanto maschi.

Ma vi rendete conto?! Ero l’unica ragazza lì dentro!

 

«Oh, voi dovete essere i nuovi arrivati. Prego, accomodatevi pure nei tre banchi lì infondo.» ci comunicò quello che doveva essere il professor Billigan, che stava in piedi accanto ad una lavagna elettronica.

Certo, perché le comuni lavagne in ardesia nera costavano troppo poco, pensai.

 

Mi sedetti al banco, e vidi che su ognuno di essi vi era posato un computer portatile.

Evidentemente era con quello che si studiava, lì.

Mi sentii estremamente stupida per il quaderno che avevo con me nello zaino.

 

Il professore si schiarì la voce, e capii che ce l’aveva con me. Evidentemente, come già avevo pensato, lì ero una novità assoluta.

«Mi dica, signorina…» diede un’occhiata al registro, prima di pronunciare il mio cognome. «…Avril Lavigne. Qual è il suo argomento scolastico preferito?»

 

Confusa, corrugai la fronte. Chi diavolo pronunciava le parole “argomento scolastico”?

 

«Tutto ciò che insegna lei, professor Billigan.» Ed era vero. In altre occasioni, non avrei di certo risposto a quel modo: fare la parte della saputella non mi era mai piaciuto.

 

«Ah, davvero?» disse sorpreso, aggiustandosi gli occhialini. Quindi, se io chiedessi alla classe quale sia la definizione di “retta tangente”, svolta all’inizio dello scorso trimestre, loro mi risponderebbero dicendo?»

 

Un silenzio tombale si diffuse nell’aula.

Il professore annuì, come se se lo aspettasse. «Niente, esattamente. Ma, se lo chiedessi a lei…?»

 

«Le risponderei che la tangente è una retta che tocca una curva in un solo punto. Se la curva viene toccata in due punti, la retta sarà secante. Se invece non lo sarà affatto, allora la retta sarà esterna.»

 

Mi girai verso Evan, sinceramente impressionato dalle mie capacità matematiche.

 

Il professor Billigan sorrise ed aggiunse:«Ragazzi, mi sa che, quest’anno, qualcuno partirà avvantaggiato.»

 

Poi, una voce gutturale e piena di sarcasmo intervenne dal nulla, girandosi verso di me. «Ma certo, lei è una ragazza. E tutti sanno che le ragazze sono facilitate perché hanno… quella cosa lì.»

 

«Signorino Axel, la pregherei di non comportarsi sgarbatamente.»

 

Ero rimasta talmente sbigottita, che non mi veniva in mente nessun modo per replicargli a tono.

 

Ma Evan mi precedette. «Esatto, e quella cosa si chiama cervello, Alex.» Pensai che avesse sbagliato il suo nome in buona fede, ma una vocina nella mia testa mi suggerì che forse l’avesse fatto di proposito.

 

L’altro grugnì. «Il mio nome è Axel.»

 

«Signori.» Era ancora Billigan. «Vi pregherei di mettere da parte i vostri alterchi e di prestare attenzione per una nuova sessione di lezioni.»

 

Detto questo, si girò e incominciò a scrivere sulla lavagna elettronica.

 

***

 

 

He was a boy, she was a girl.
Can I make it anymore obvious?
[…]
He wanted her, she'd never tell
,
secretly she wanted
him as well.
[…]
He was a skater boy, she said “See ya later, boy”.
He wasn't good enough for her.
Now he's a super star, slammin' on his guitar.
Does your pretty face see what he's worth?

Sorry girl, but you missed out.

Well, tough luck, that boy’s mine now.
We are more than just good friends,
this is how the story ends.
Too bad that you couldn't see,
see the man that boy could be.
There is more that meets the eye,
I see the soul that is inside.

He's just a boy and I'm just a girl.
Can I make it anymore obvious?
We are in love.
Haven't you heard how we rock each other’s world?


Lui era un ragazzo, lei era una ragazza.
Posso fare la cosa più ovvia?
[
]

Lui voleva lei, lei non l'avrebbe mai detto,
ma in segreto anche lei voleva lui.

[…]

Lui era uno Skater Boy, lei disse “Poi ci vediamo”.
Non era abbastanza buono per lei. 
Ora lui é una superstar, 
suonacchia con la sua chitarra. 
Il tuo bel viso riesce a vedere il suo valore?

Mi spiace, ragazza, ma hai perso l'occasione.
Il ragazzo ora è mio. 
Siamo più che buoni amici, 
è cosi che finisce la storia. 
È troppo brutto perché tu potessi vedere, 
vedere l'uomo che quel ragazzo poteva essere. 
C'é di più nell'incontro di uno sguardo, 
io vedo l'anima che c'é dietro. 

Lui é solo un ragazzo e io sono solo una ragazza. 
Posso fare la cosa più ovvia?
Siamo innamorati.

Non hai sentito come rockeggiamo il nostro mondo?

 

 

~ Avril Lavigne – Sk8er Boi

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Capitolo 9
*** 8. Carpe Diem || Naked ***


Buondì a tutti!

Vi anticipo che questo è il capitolo che più preferisco fino ad ora e, state tranquilli, capirete il perché.

Avevo pensato anche di scriverlo dal punto di vista di Avril, ma non ci sarà… almeno fino a Domenica prossima, lol.

Aspetterete solo una settimana, dai.

Ci vediamo al prossimo capitolo <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Avril Lavigne - Naked

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Febbraio 2001

 

 

Evan's pov

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«Direi che può bastare per oggi, con Les Misérables. Passiamo invece alla Divina Commedia, vi va?»

 

Un coro di disapprovazione si fece strada tra gli studenti, ma il professor Wilson riuscì, con mio profondo stupore, a domarlo.

La nostra nuova “avventura scolastica”, se così poteva essere definita, era iniziata da oltre una settimana, e stavo già resistendo al fortissimo impulso di alzarmi dalla sedia e scappare a casa.

Avevo cercato di comprendere quale fosse la mia preoccupazione e, alla fine, partendo da due “non-problemi”, ero arrivato a centrare l’unico e solo “problema” di questa scuola.

Non fate quelle facce stranite, adesso mi spiego meglio:

  1. Il primo “non-problema” erano i corsi: come al solito, dovevo frequentare quelli che mi piacevano di più – come quello a cui state assistendo voi, letteratura straniera, tenuto dal professor Wilson, o inglese e storia, tenuti sempre dal professor Wilson – e quelli che mi piacevano di meno – come matematica o chimica, col professor Billigan al centro della scena, insieme alle sue orecchie a forma parabolica. – Ma questo, come già detto prima, era un “non-problema”. E, in caso ve lo steste chiedendo, sì, avevamo solo due professori per tutti i corsi: il professor Wilson per le materie umanistiche e, indovinate un po’ chi? Esatto!, il professor Billigan per quelle scientifiche. Questo stranissimo sistema di divisione rendeva la vita molto più facile a tutti, perché (a) la scuola non doveva rubare fondi allo Stato per elargire quelli che sospettavo essere stipendi ultramilionari a migliaia di professori e (b) potevo anche fare a meno di scervellarmi per capire quale professore odiare di più: puntavo tutto su Mr. Parabola.

     

  1. Il secondo “non-problema” erano i compagni di classe: se pensavo che tutti i ragazzi, dal primo all’ultimo, ci avrebbero evitato… beh, mi sbagliavo. Infatti, ci evitavano tutti dal primo all’ultimo, con la straordinariamente seccante eccezione di… rullo di tamburi… Axel “per i non-amici Alex” Foffuck. Tralasciando la sua presunta origine polacca - sulla quale dovevo indagare - e il fatto che il suo cognome anagrammato desse origine a “fuck off” - cosa per niente trascurabile - il suo quadro generale mi era piuttosto chiaro: con la sua bassezza, i capelli neri ed ispidi e gli occhi scuri – forse marrone cacca, non saprei –, il qui presente Foffuck era il classico esempio del ragazzo-so-tutto-io solamente perché papino-c’ha-i-soldi. Ma Foffuck si sbagliava, perché non sapeva proprio un cazzo, ma neanche mezzo: basti pensare alle penosissime battute che raccontava sul piccolissimo incidente avvenuto l’8 Marzo 1908, a New York, quando solamente 129 operaie morirono a causa di un incendio in una fabbrica mentre lavoravano, perché, per non farle protestare per ottenere i loro diritti, il proprietario aveva accidentalmente dimenticato di lasciare aperte le uscite della fabbrica. E tutto questo succedeva durante le lezioni di matematica, come se, per me, risolvere un’equazione non fosse già abbastanza difficile e si dovesse mettere anche lui in mezzo con la sua ignoranza!

 

Scusate il non-piccolo sfogo, ma tant’è…

Ora, vi starete chiedendo dove abbia lasciato a marcire il vero problema di questa mia settimana di scuola. Ve lo mostro subito.

Il problema, miei cari, erano i due professori, e non perché erano due stronzi-pezzi-di-merda-stretti-di-voto. Oddio, forse quello anche, ma la questione principale era che non sapevano farsi valere.

Mi spiego subito: essendoci qui una percentuale pari al 99,9 % non di batteri, ma di studenti-figli-di-papà, Wilson e Billigan si adeguavano alla loro condizione di perfettini. Niente “FOFFUCK, NOTA SUL REGISTRO E DRITTO DAL PRESIDE!”, ma solo “Signorino Axel, la pregherei cordialmente di interrompere le sue burle e di ripristinare la sua attenzione verso la lezione.”

Adesso capite quanto la cosa si è rivelata frustrante?

 

L’unico motivo per cui non avevo ancora denunciato tutti, lì dentro, era Avril.

Alla compagnia di Kevin ci ero abituato da dieci anni, certo, ma stavo imparando a conoscere meglio quella ragazza con i capelli lisci e che indossava felpe molto discutibili.

Oggi ne portava una con la stampa di un unicorno che vomitava un liquido di color arcobaleno. Letteralmente.

Allungai il collo verso sinistra, per vedere cosa stava scarabocchiando sul banco.

Mentre Wilson parlava di Dante e della figura mistica di Beatrice, lei continuava a disegnare una stella a cinque punte, con all’interno scritto “Black Star”.

Le piacciono le stelle, mi appuntai mentalmente.

Non prestava molta attenzione alla lezione del povero professore, nonostante venisse continuamente bersagliata dalle più svariate domande, perché, in una classe di soli maschi, rappresentava una novità del tutto sconvolgente.

E come dar loro torto…

 

«Dunque, vediamo… chi mi sa dire a quale canto di quale regno appartiene la citazione “Amor, ch'a nullo amato amar perdona?”»

 

Roteai gli occhi: il target del professor Wilson era alquanto basso.

Quinto canto dell’Inferno, verso 103, pronunciato da Francesca da Rimini.

Più semplice di così…

Ma, a quanto pareva, i miei compagni di classe non la pensavano come me e il silenzio generale ne era una prova evidente.

Avrei potuto vedere una balla di fieno rotolare e non mi sarei affatto sorpreso.

 

«Nessuno? Neanche lei, signorina Avril?»

 

Avril alzò di scatto la testa e sgranò gli occhi, come se la stessero accusando di aver mangiato dei piccoli e teneri cuccioli di panda.

Cercai di schiarirmi silenziosamente la voce, in modo da avere la sua attenzione.

Mi guardò per un breve secondo, in cerca di aiuto, e, con la mano sinistra, mimai un cinque sul banco, seguito subito dopo da delle corna, per indicare l’Inferno.

Distolse velocemente lo sguardo, prima di essere beccata, e lo rivolse a Wilson.

 

«Ehm… il quinto canto dell’Inferno, signore.» rispose.

 

«Molto bene. Sapreste dirmi il significato di queste parole?» chiese ancora, lasciando vagare il suo sguardo per tutta l’aula.

 

Non so cosa successe di preciso in quell’istante, ma sentii le parole venir fuori dalla mia bocca, come se avessero una volontà propria. «Vuol dire: “L'amore, che a nessuno risparmia, se amato, di riamare.” Francesca da Rimini sta giustificando a Dante il suo amore per Paolo Malatesta, nonostante fosse sposata con il fratello di costui, Gianciotto. Il loro è un sentimento messo a dura prova dalla morte di entrambi, causata proprio da Gianciotto, ma riesce a superare persino il più grande ostacolo di tutti, quello a cui non c’è rimedio. Non molto diverso da “Romeo e Giulietta” di Shakespeare, in effetti. Il verso parla del loro legame forte, del loro obbligo di proteggersi e di potersi amare l’un l’altro anche nell’aldilà e…» Mi ritrovai a girare la testa verso sinistra e a fissare gli occhi azzurri di Avril. «…e di come l’amore nasca soprattutto quando non ce lo aspettiamo, come una stella che non pensavamo di scorgere nel cielo.»

 

Distolsi gli occhi da lei e vidi Wilson che mi fissava con curiosità. «Ottima similitudine e anche ottima analisi, signorino Evan. Ma la prossima volta è pregato di alzare la mano prima di rispondere, se non le dispiace.»

 

Axel sghignazzò, senza darsi troppe preoccupazioni di essere sentito, e lo fulminai con lo sguardo.

Certo, lui faceva battutine su una tragedia avvenuta 93 anni fa e non veniva neanche ripreso, mentre io che rispondevo correttamente ad una domanda ero “pregato di alzare la mano”. Patetico.

Per fortuna, il suono della campanella m’impedii di essere scurrile davanti a tutti.

Anche questa giornata era finita.

 

Appena fummo in corridoio, Kevin mi diede una forte pacca sulla spalla. «Wow, amico. Sei stato grande!»

 

Vedere la sua genuina allegria mi risollevò il morale. «Contento che ti sia piaciuta.»

 

«Sì, insomma, la tua risposta è stata eccezionale.» intervenne Avril. «E, a proposito, grazie.»

 

Le sorrisi, felice di scorgere della gratitudine in quei occhi a cui prima mi ero rivolto. «Di nulla.»

 

Stavamo per oltrepassare l’uscita del Sanford-Brown, quando una voce squillante ci giunse alle orecchie. «Ehi, voi tre. Fermi lì.»

 

Ci girammo tutti nello stesso istante e vedemmo una ragazza di carnagione scura con dei capelli neri a caschetto farsi avanti, con una cartelletta in mano. Era tallonata da un ragazzo riccioluto e in carne. «Voi siete…» Fece scorrere un dito su svariati nomi scritti su un elenco. «…Avril Lavigne, Evan Taubenfeld e Kevin Beadfluent, giusto?»

 

Annuii per loro.

 

«Bene. Io sono Camille Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D.»

 

«Asini Morenti In Disgrazia?» chiese Kevin.

 

«Ma no, sciocchino! Ma come ti viene in mente?» Con mia grande sorpresa, era stato il ragazzo riccio a parlare.

 

Camille fece un piccolo sorriso. «No, noi siamo l’Associazione Matricole In Difficoltà. [N.d.A. I nuovi arrivati nei college americani, come si spiegherà più avanti, sono le Matricole.] Questo ragazzo accanto a me è Will Grayson, la nostra “bussola ambulante”. Se non sapete raggiungere un posto in questo college, chiedete a Will e lui saprà sicuramente indicarvi la direzione giusta.»

 

Will rise in modo stridulo.

 

«Ok, ma cosa vuol dire Associazione Matricole In Difficoltà?» dissi, rivolgendomi a Camille.

 

«Beh, ci occupiamo dei nuovi iscritti che sono appena arrivati qui, del loro orientamento, della loro integrazione sociale nel college… cose così.»

 

«Esattamente.» riprese Will. «E ricordate: la prima regola delle Matricole è fare amicizia solo con le altre Matricole, perché tutti gli altri vi eviteranno peggio della peste.»

 

«E questo è anche il motivo per cui dovete seguirmi.» aggiunse Camille, iniziando a camminare e dandoci le spalle. «Introdurremo le Matricole, cioè anche voi, attraverso il gioco del “Baciato e Baciatore.”»

 

«Il cosa?» chiese Avril, parlando per la prima volta davanti a lei.

 

Camille alzò un sopracciglio, come se stesse soppesando se fosse realmente sorpresa o no. «Davvero non lo conosci?»

 

«Ehm… no.»

Mi guardò per un secondo, come se volesse un suggerimento, ma scrollai le spalle: non sapevo davvero di cosa stessero parlando.

 

La ragazza sbuffò leggermente e alzò il passo, portandoci in una piccola saletta dove c’erano altri quindici o sedici ragazzi. Tutti avevano un’aria molto sorpresa e confusa.

Altre matricole, supposi.

Ci mettemmo accanto a loro, mentre Camille, davanti a noi, batteva rumorosamente le mani. «Per favore, ragazzi, un attimo di silenzio.» La piccola folla si acquietò. «Grazie. Innanzitutto, vi do il benvenuto al college “Sanford-Brown”. Questo è l’istituto più valido di tutta la Pennsylvania, ma, purtroppo, la compagnia non è granché.»

Fece una piccola smorfia, e un piccolo moto di riso si levò tra i ragazzi. «Io sono Camille Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D., l’Associazione Matricole In Difficoltà. Vi aiuterò, in queste prime settimane, ad orientarvi nella vostra nuova scuola, a riconoscere le aule, ad evitare alcuni dei cibi tossici che danno in mensa e soprattutto a relazionarvi tra di voi. Ogni anno, proprio per questo motivo, organizziamo appositamente il gioco del “Baciato e Baciatore”.»

 

Kevin alzò la mano e lei gli diede la parola. «Cos’è, una specie di “Gioco della Bottiglia”?»

 

«Oddio, no, sciocchino, qui non c’è propria nessuna bottiglia. Anche se, devo ammetterlo, un bicchierino con te lo farei molto volentieri.» gli rispose Will, ammiccando.

 

Kevin arrossì improvvisamente, ma fu Camille a salvarlo dalla situazione. «D’accordo Will, adesso puoi anche andare in corridoio e aspettare i Baciati lì.»

Poi, appena lui si allontanò, aggiunse:«Scusatelo, certe volte non riesce a trattenere i suoi… impulsi.»

Alcuni ragazzi risero ancora e mi ritrovai ad ammettere che Camille ci sapeva fare.

«Allora, adesso vi spiego in cosa consiste il gioco: vi dovrete dividere in due gruppi e decidere cosa essere, se i Baciati – e vi sposterete a destra – o i Baciatori – in quel caso, vi metterete a sinistra –. Ogni Baciato dovrà pescare una carta su cui ci sarà scritta la classe di un qualsiasi corso. Per fare un esempio, se pescherete la carta con scritto “classe del corso di spagnolo”, dovrete andare nella classe del corso di spagnolo. Una volta presa la carta, la rimetterete nel mazzo e io mischierò, rivolgendomi ai Baciatori. Ogni Baciatore, se vorrà guadagnarsi il bacio, dovrà rispondere correttamente ad una domanda che gli verrà posta, e soltanto dopo potrà pescare una carta dallo stesso mazzo usato prima dai Baciati e recarsi nella classe scritta. Sia i Baciatori che i Baciati verranno accompagnati da Will, con la differenza che quest’ultimi verranno bendati. Soltanto domani, se vorrà, il Baciatore potrà svelare la sua identità al proprio Baciato e, magari, chissà, fargli o farle anche un regalino. Per quanto riguarda i baci, non ci sono limiti: sulla guancia, sulla bocca, sulla fronte, sui capelli, vanno tutti bene. Ricordate però che non voglio avere dei bambini sulla coscienza, quindi non fatevi trasportare troppo. È tutto chiaro?»

 

Il meccanismo del gioco mi risultava semplice. L’unico problema era scegliere chi essere, se Baciato o Baciatore.

Però, non volevo ricevere baci in parti alquanto spiacevoli, quindi scelsi di essere un Baciatore.

Evidentemente, sia Kevin che Avril non la pensarono come me, perché scelsero di andare nella parte opposta, cioè i Baciati.   

Insieme ad altri cinque ragazzi e due ragazze, mi spostai sul lato sinistro della stanza, allontanandomi da loro due.

E così, questo stupido gioco per agevolare il nostro inserimento sociale incominciò: ogni Baciato pescò una carta dal mazzo che reggeva Camille, e dopo aver visto la classe scritta su ogni carta, la ripose nelle mani della ragazza e si allontanò nel corridoio.

«E adesso, passiamo alle vostre domande, cari Baciatori.» annunciò Camille.

 

Prima che arrivasse il mio turno, fece delle domande sugli argomenti più disparati: dalla cucina, allo sport e alla letteratura.

Sugli otto ragazzi che eravamo all’inizio, soltanto due ragazzi riuscirono a rispondere correttamente, a pescare una carta, e a vedere la classe in cui dovevano raggiungere il proprio Baciato.

Poi, toccò al sottoscritto. Camille prese un fogliettino e lesse. «Uh, questa è difficile, davvero molto difficile. Parliamo di politica, Evan. Ti chiedo: chi fu il primo ministro canadese nel 1936?»

 

Primo ministro canadese nel 1936…

Ripensai al mio libro di storia buttato sulla scrivania, e visualizzai mentalmente il capitolo sul Canada. Ricordai che, nel 1936, a Toronto, fu costruita la prima fabbrica post prima guerra mondiale che lavorava l’acciaio, e fu inaugurata da…

«William Leon Mackenzie King.» risposi, con sicurezza.

Mi ricordavo di lui perché avevo pensato che avesse abbastanza nomi per due persone, un po’ come mio padre.

E poi, che diavolo di nome era Leon?

 

«Io… wow. Dico solo wow. Ok, puoi pescare la tua carta, te la sei proprio meritata.» disse Camille, sgranando gli occhi.

 

Presi la prima carta che le mie dita trovarono e lessi “classe del corso di trigonometria”.

 

Wow, allora forse dovevo incominciare a pensare sul serio ad un ripensamento sul mio odio verso le materie scientifiche.

 

Alla fine, io e gli altri due ragazzi ci alzammo e raggiungemmo Will. Gli riferimmo le classi che avevamo pescato e lui ci accompagnò uno alla volta.

Una volta arrivato davanti alla classe del corso di trigonometria, aprii la porta.

Le tapparelle alle finestre erano completamente abbassate e nella stanza c’era soltanto una tenue luce proveniente dall’esterno.

Scorsi una figura esile, sicuramente una ragazza, seduta su un banco.

Mi girai ed accostai la porta, per non far sprofondare l’aula nella completa oscurità.

Poi, mi diressi piano verso la ragazza, per non farla scappare terrorizzata e… quasi scappai terrorizzato io.

Cristo, era lei!

Era Avril!

I capelli color castano chiaro le ricadevano sulle spalle improvvisamente irrigidite dalla mia presenza, mentre la benda le copriva gli occhi azzurri.

Vi riassumerò la mia situazione in cinque parole: Non. Sapevo. Che. Cazzo. Fare.

Per fortuna, il latino venne in mio aiuto.

“Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.” 

“Mentre parliamo, il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani” scriveva Orazio, nelle Odi.

Non c’era citazione più azzeccata di questa.

E poi, l’avrei saputo solo io, giusto?

Ero ancora combattuto quando mi misi davanti a lei e le posai una mano sulla guancia sinistra, racchiudendole il viso con un mano.

Irrigidì completamente il suo corpo di fronte a quel contatto.

Avvicinai leggermente la bocca alla sua e, all’inizio, fu solo un piccolo sfioramento di labbra.

Poi, la baciai.

Completamente stordito, vulnerabile e senza alcuna protezione davanti a lei, assaporai il suo sapore dolce e la morbidezza delle sue labbra.

Mi accorsi, con un guizzo di lucidità, che stava tremando.

Le mie braccia la avvolsero, tenendola stretta e sorreggendola.

I palmi delle mie mani scesero sulla sua schiena.

La sentii respirare contro di me, un gemito fra un bacio e l’altro.

Sentii le sue dita piccole e sottili avvolgermi il collo, tendermi di più verso di lei.

Avvertii quella leggera pressione sulla nuca e fra i capelli, mentre lei me li tirava dolcemente, come se volesse trattenermi a rimanere lì dov’ero.

Le labbra di Avril si dischiusero ancora sotto le mie, e io mi abbandonai contro di lei, incapace di fermarmi.

Poi però, una folata di vento mi riportò alla realtà e mi costrinse a fare la cosa più difficile in quel momento: staccarmi bruscamente da lei.

Lei viveva con noi, e non potevamo… io… non potevo farle questo.

Era semplicemente… sbagliato.

Non riuscendo a fare alcunché, con il respiro ansante le sussurrai:«No.»

Obbligai le braccia a rimanere sui miei fianchi.

Mi allontanai da lei, aprendo la porta e, con il suo sapore ancora sulle labbra, guadagnai in fretta l’uscita.

 

 

***

 

 


But then
you came around me.

The walls just disappeared.

Nothing to surround me,

And keep me from my fears.

I'm unprotected,

See how I've opened up.

Oh, you've made me trust.

 

Cause I've never felt like this before.

I'm naked, around you.

Does it show?

You see right through me,

and I can't hide.

[…]

I'm trying to remember

why I was afraid

to be myself

and let the covers fall away.

Guess I never had someone like you.

To help me, to help me fit,

in my skin.

 




Ma poi sei venuto da me.
I muri sono scomparsi.
Niente che mi circondi,
e che mi protegga dalle mie paure.
Sono senza alcuna protezione,
guarda come mi sono aperta.
Oh, tu mi hai fatto aver fiducia.

 

Perché mai prima mi ero sentita così.
Sono nuda, intorno a te.
Si vede?
Tu vedi dentro di me,
e non posso nascondermi.
[…]

Sto cercando di ricordare
perché avevo paura
di essere me stessa e lasciare
cadere via le coperture.
Penso di non aver mai avuto nessuno come te.
Ad aiutarmi, ad aiutarmi a star bene,
nella mia pelle.

 

 

~ Avril Lavigne – Naked

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Capitolo 10
*** 9. All About You ***


Buonasera a tutti!

Ecco il capitolo dal punto di vista di Avril, con il nostro Evanuccio alla fine.

Il tutto sarà accompagnato dalla seconda canzone di Birdy "All About You".

Ci vediamo al prossimo capitolo <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Birdy - All About You

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

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Dio mio, che giornata.

Non solo affrontare i ghigni da decerebrato di Axel Foffuck era ancora più seccante, ma ci si doveva mettere anche il professor Wilson con la Divina Commedia, Beatrice, Dante e i suoi maledettissimi regni dell’aldilà.

Ma dico io, dichiara i tuoi sentimenti per lei e smettila di romperci le scatole, benedetto uomo!

Per fortuna, stavamo per tornare tutti a casa.

Non dovevo far altro che attraversare corridoio, sorpassare il cancello e…

 

«Ehi, voi tre. Fermi lì.»

 

Sospirai. Era sempre una pessima cosa quando gli altri contraddicevano le mie intenzioni.

 

Io, Kevin ed Evan ci girammo nella direzione in cui proveniva la voce e scorgemmo una ragazza – probabilmente di un anno più grande di noi venire avanti verso di noi, affiancata da un ragazzo grosso e con i capelli ricci.

 

«Voi siete…» Parlò con una voce molto sicura, quasi fosse abituata a interrompere le persone mentre queste percorrevano disperatamente la via di fuga! «…Avril Lavigne, Evan Taubenfeld e Kevin Beadfluent, giusto?»

 

Cosa c’è, ho vinto un milione di dollari?

 

Evan fece un cenno di assenso alla sua domanda.

 

«Bene. Io sono Camille Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D.»

 

Io sono Camille Miller e sarò la vostra carceriera per tutti gli anni che vi restano da vivere.

Ah, quanto adoravo prendere per il culo le persone.

 

«Asini Morenti In Disgrazia?» chiese Kevin. Quanto mi piaceva quel ragazzo…

 

«Ma no, sciocchino! Ma come ti viene in mente?»

Guardai il ragazzo riccioluto che aveva appena parlato. Sciocchino? Che fosse…

 

«No, noi siamo l’Associazione Matricole In Difficoltà. Questo ragazzo accanto a me è Will Grayson, la nostra “bussola ambulante”. Se non sapete raggiungere un posto in questo college, chiedete a Will e lui saprà sicuramente indicarvi la direzione giusta.»

 

La risata stridula di Will mi portava a pensare ancora una volta che lui fosse…

 

«Ok, ma cosa vuol dire Associazione Matricole In Difficoltà?» le domandò Evan.

 

«Beh, ci occupiamo dei nuovi iscritti che sono appena arrivati qui, del loro orientamento, della loro integrazione sociale nel college… cose così.»

 

Will intervenne. «Esattamente. E ricordate: la prima regola delle Matricole è fare amicizia solo con le altre Matricole, perché tutti gli altri vi eviteranno peggio della peste.»

 

Ma guarda, e io che pensavo di invitare Axel Foffuck a cena!

 

Camille iniziò a camminare e ci parlò, dandoci le spalle. «E questo è anche il motivo per cui dovete seguirmi. Introdurremo le Matricole, cioè anche voi, attraverso il gioco del “Baciato e Baciatore.”»

 

«Il cosa?» chiesi.

 

Camille alzò un irritante sopracciglio. «Davvero non lo conosci?»

 

Macché, sto solo parlando a vanvera e ti sto mentendo per costringerti ad usare la macchina della verità con me. «Ehm… no.»

Guardai rapidamente Evan ma, a quanto pareva, neanche lui sapeva qualcosa, perché scrollò le spalle.

 

Camille sbuffò leggermente e alzò il passo, portandoci in una piccola saletta dove c’erano altri ragazzi che bisbigliavano.

Batté rumorosamente le mani. «Per favore, ragazzi, un attimo di silenzio. Grazie. Innanzitutto, vi do il benvenuto al college “Sanford-Brown”. Questo è l’istituto più valido di tutta la Pennsylvania, ma, purtroppo, la compagnia non è granché.»

 

E dimmi, cara, te ne sei accorta solo ora?

 

«Io sono Camille Miller e sono la presidentessa dell’A.M.I.D., l’Associazione Matricole In Difficoltà. Vi aiuterò, in queste prime settimane, ad orientarvi nella vostra nuova scuola, a riconoscere le aule, ad evitare alcuni dei cibi tossici che danno in mensa e soprattutto a relazionarvi tra di voi. Ogni anno, proprio per questo motivo, organizziamo appositamente il gioco del “Baciato e Baciatore”.»

 

Kevin alzò la mano e lei gli diede la parola. «Cos’è, una specie di “Gioco della Bottiglia”?»

 

«Oddio, no, sciocchino, qui non c’è propria nessuna bottiglia. Anche se, devo ammetterlo, un bicchierino con te lo farei molto volentieri.»

 

Will aveva veramente… ammiccato?

Bene, la mia ipotesi era stata appena confermata. Will Grayson era inequivocabilmente gay.

 

Il povero Kevin arrossì e la-carceriera-Camille riprese il suo discorso. «D’accordo Will, adesso puoi anche andare in corridoio e aspettare i Baciati lì.»

Poi, appena lui si allontanò, aggiunse:«Scusatelo, certe volte non riesce a trattenere i suoi… impulsi. Allora, adesso vi spiego in cosa consiste il gioco: vi dovrete dividere in due gruppi e decidere cosa essere, se i Baciati – e vi sposterete a destra – o i Baciatori – in quel caso, vi metterete a sinistra –. Ogni Baciato dovrà pescare una carta su cui ci sarà scritta la classe di un qualsiasi corso. Per fare un esempio, se pescherete la carta con scritto “classe del corso di spagnolo”, dovrete andare nella classe del corso di spagnolo. Una volta presa la carta, la rimetterete nel mazzo e io mischierò, rivolgendomi ai Baciatori. Ogni Baciatore, se vorrà guadagnarsi il bacio, dovrà rispondere correttamente ad una domanda che gli verrà posta, e soltanto dopo potrà pescare una carta dallo stesso mazzo usato prima dai Baciati e recarsi nella classe scritta. Sia i Baciatori che i Baciati verranno accompagnati da Will, con la differenza che quest’ultimi verranno bendati. Soltanto domani, se vorrà, il Baciatore potrà svelare la sua identità al proprio Baciato e, magari, chissà, fargli o farle anche un regalino. Per quanto riguarda i baci, non ci sono limiti: sulla guancia, sulla bocca, sulla fronte, sui capelli, vanno tutti bene. Ricordate però che non voglio avere dei bambini sulla coscienza, quindi non fatevi trasportare troppo. È tutto chiaro?»

 

Avevo stampate nella mente solo quattro parole: Che. Gioco. Di. Merda.

Eravamo per caso tornati ad avere nove anni, quando i bambini ti davano un bacio sulla guancia e ti chiedevano “Vuoi metterti con me?”?!

Non che qualcuno l’avesse mai chiesto a me, certo.

E il problema era proprio questo: io… io non avevo mai baciato nessuno.

Persino un innocuo bacio sulla guancia mi avrebbe fatto vergognare, lo sapevo.

Quindi, cosa avrei dovuto scegliere, Baciatore o Baciato?

Rischiare di fare figure di merda colossali nel tentativo di appoggiare le mie labbra sull’epidermide di qualcun altro o subire passivamente l’azione di un’altra persona?

Sospirai, e mi mossi verso destra – insieme a Kevin, notai – ed andai nei Baciati.

E vada per il ruolo passivo…

 

Fummo noi a dare l’inizio a tutto: pescammo una carta dal mazzo che reggeva la-carceriera-Camille e, dopo aver visto la classe scritta su ogni carta, la riponemmo nelle sue mani, per poi allontanarci nel corridoio.

Lì ci aspettava Will, tutto pimpante per il ruolo a sua detta fondamentale che la-carceriera-Camille gli aveva attribuito.

Quando fu il mio turno di essere accompagnata da lui, gli dissi quale fosse la classe, quella del corso di trigonometria, e ci avviammo.

 

«Allora, cosa ne pensi di noi, dei tuoi nuovi compagni di studi?»

 

Vi odio e spero che crepiate presto. «Beh, siete… simpatici. Tu soprattutto.» gli risposi con un sorriso.

 

«Ah no, ragazza mia, non provare a flirtare con me. So che dovrebbe essere un segreto, ma… in realtà, a me piacciono i ragazzi. Sono gay.»

 

Mi trattenni miracolosamente dal roteare gli occhi. «Non l’avrei mai detto, Will.»

 

Ridacchiò. «Sì, lo so, lo nascondo molto bene. Oh, eccoci qui, trigonometria.»

 

Fissai la porta plastificata di color bianco e la aprii.

Cigolò leggermente ma, a parte questo, non notai nessun altro segno di usura.

Le tapparelle alle finestre erano completamente abbassate e nella stanza c’era soltanto una tenue luce proveniente dall’esterno.

Più che un’atmosfera “romantica”, questa mi sembrava “lugubre”.

Sarebbe stata perfetta per un appuntamento con un vampiro, in effetti.

 

«Bene, adesso ti devo bendare.» mi disse Will, con un pezzo di stoffa in mano.

  

«Oh andiamo, è proprio necessario? Voglio dire, sicuramente non lo conoscerò nemmeno, il mio Baciatore, per cui mi sembra un po’ inutile usare…» 

 

«Ah-ah, ferma lì. Le regole dicono “benda”, e quindi Will dice “benda”. È inutile discutere con me, tesorino.»

 

Gli scoccai un’occhiata feroce, ma mi arresi un secondo dopo.

Su una cosa aveva proprio ragione: con lui discutere serviva come una pelliccia per un pinguino.

Mi sedetti su un banco in prima fila e mi lasciare fasciare gli occhi.

 

Dopo qualche minuto, con l’oscurità che era scesa su di me, Will esclamò trionfante:«Ottimo, tesorino, ho fatto. Ti auguro una buona giornata.»

 

«Anche a te» sussurrai, sentendo la sua voce allontanarsi sempre di più.

 

Annusai l’aria intorno a me.

Sapeva di chiuso e di… polvere.

Forse hanno tagliato gli stipendi ai bidelli per comprare i computer.

Per ingannare il tempo, iniziai a pronunciare velocemente l’alfabeto.

Ero arrivata alla trentaduesima W, quando sentii un rumore di fronte a me.

Sembravano… passi.

Irrigidii le spalle per l’improvvisa consapevolezza della presenza di qualcun altro nella stanza.

Poi, sentii una sensazione di calore sulla guancia sinistra.

Era… Era una mano!

Sulla mia guancia!

Che schifo, toglimela, toglimela, toglimela!

 

Stavo per gridare a squarciagola, quando avvertii le labbra dello sconosciuto avvicinarsi alle mie.

Mille brividi si propagarono per la mia schiena.

Possibile che fossi… eccitata?

Accantonai momentaneamente quel pensiero, perché sentii le sue labbra pressare sulle mie.

Mi stava baciando!

E, in risposta a quanto mi ero chiesta prima… sì, ero eccitata da pazzi.

 

All'inizio sembrò quasi che non avesse voluto farlo: la sua bocca era rigida contro la mia.  

Come se volesse sorreggermi, mi avvolse con tutte e due le braccia e mi attirò a sé.

Le sue labbra si ammorbidirono e riuscii a sentire il battito rapido del suo cuore.

Le sue mani scesero sulla mia schiena, facendomi sospirare con un piccolo gemito di piacere.

Mossi anche le mie mani e le infilai nei suoi capelli, arricciandoli intorno alle dita: erano corti e soffici.

Lo tirai ancora di più verso di me, chiedendogli tacitamente di rimanere lì dov'era.

Poi però, lo sconosciuto si staccò improvvisamente da me e sussurrò:«No.»

Ancora completamente stordita dal bacio, non capii subito cosa intendesse dire.

All'inizio pensai che gli avessi fatto male, che magari avessi fatto qualche gesto troppo brusco; invece, ci arrivai perfettamente quando sentii il cigolio della porta e i suoi passi allontanarsi velocemente da me.

Con il cuore che mi martellava nel petto, mi tolsi la benda.

Quello era era stato il mio primo bacio.

Ed ero sul punto di vomitare.

Era normale che mi sentissi così… rifiutata?

Ripensai a quella voce, a quel sussurro, quel "No" appena accennato, e un pensiero mi colpì fulmineamente, facendomi sgranare gli occhi.

Possibile che fosse lui?

Possibile che fosse Evan?

Mi alzai dal banco e corsi quasi a perdifiato verso l'uscita.

 

***

Evan's pov

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Ero appoggiato al muro esterno della scuola e mi trattenni dal mettermi le mani nei capelli.

Insomma, ma che diavolo mi era venuto in mente?

Baciarla era stata l'idea più inutile, stupida e magnificamente stupenda che avessi mai avuto.

Ero una contraddizione vivente, lo sapevo.

Se mi passavo la lingua sul labbro inferiore, riuscivo ancora asentire il suo sapore: sapeva di dolce.

Sapeva di lei.

E io... io non sapevo più cosa pensare.

 

Qualche minuto dopo, come se i miei occhi fossero inesorabilmente attratti da lei, la vidi che superava il cancello d'uscita.

Aveva i capelli scompigliati dal vento e gli occhi persi nel vuoto.

Appena si accorse di me, mi sorrise debolmente e mi raggiunse.

Mi ritrovai a pensare che fossi davanti ad un bivio: porevo confessarle candidamente che, per uno strano scherzo del destino, ero stato io il suo Baciatore e che la cosa non si sarebbe ripetuta mai più, oppure potevo mentire con naturalezza, dicendole che ero stato il Baciatore di qualcun'altra.

 

«Allora com'è andata?» sussurrò.

 

«Ascolta Avril, ti devo parlare. Io»

 

«Ehi, ragazzi!» Sussultai di stupore, appena vidi Kevin venire verso di noi. «Non immaginereste mai quello che mi è successo! Ho avuto un bacio! Sulla guancia!»

Mi prese per le spalle e mi scosse. «Capisci, amico? Qualcuno mi ha baciato sulla guancia! Ah, mi sento proprio…»

Poi mi lasciò e spostò lo sguardo da me ad Avril, confuso. «Scusate, ho… ho interrotto qualcosa?»

 

Stavo per rispondere, ma lei mi anticipò. «No, io... stavo raccontando ad Evan del bacio che ho ricevuto.»

Sgranai gli occhi e mi girai attonito verso di lei.

Aveva davvero capito che fossi stato io?

«Si è trattato solo di un bacio sulla guancia, certo, ma è stato… bello, suppongo.»

 

Kevin annuì, poco interessato, e per tutto il viaggio di ritorno non fece che ripetere le sensazioni che aveva provato per il suo bacio e cosa significava questo per lui.

Ero contento per lui, davvero, ma non riuscivo a non pormi una domanda: perché Avril aveva mentito?

La considerava una cosa di poco conto, tanto da ridurla ad un semplice bacio sulla guancia, o forse pensava che fossero fatti suoi e non voleva che noi ne fossimo a conoscenza?

In ogni caso, volevo sapere quale fosse la risposta.

Così, quando arrivammo a casa e lei salì in camera sua, la seguii.

Bussai leggermente e aprii la porta.

«Ehm…Ciao.»

 

Alzò gli occhi da un libro dalla copertina azzurra che stava leggendo. «Oh, ciao.»

 

Mi infilai le mani in tasca, a disagio, e mi sedetti accanto a lei sul letto. «Senti, mettiamola così: io so che hai mentito prima, riguardo al bacio a scuola. Quello che mi stavo chiedendo è…perché.»

 

Lei sgranò gli occhi e ribatté prontamente:«Come hai fatto a scoprirlo?»

 

Bene, almeno l'aveva ammesso. «Dal nero dei tuoi occhi.» le risposi. Il che, in parte, era vero. Mi guardò senza capire. «Vedi, quando hai detto quella frase, le pupille ti si sono allargate solo per un secondo e poi hai abbassato subito lo sguardo.» Scrollai le spalle e proseguii. «Sono un buon osservatore e quindi ho capito che la tua era una bugia.»

Come se io stessi dicendo tutta la verità

 

Chiuse il libro che aveva in mano e mi fissò a lungo, sorridendo amaramente. «Wow…mi rallegra il fatto che io sia così facile da leggere.»

No, avrei voluto dirle, per me sei molto difficile da leggere e sto solo iniziando a scoprire tutto di te.

«Comunque hai ragione, ho mentito. Non si è trattato di un bacio sulla guancia, anzi, è stato molto… davvero molto di più.»

Sorrisi leggermente, perché era esattamente quello che pensavo io. «Stare tra le sue braccia è stata la cosa più perfetta di questo mondo. Mi sono sentita viva e consapevole di me stessa come mai prima d'ora. Solo che, poi…»

 

«Poi?» la invitai ad andare avanti, con voce improvvisamente roca.

 

«Beh, poi… poi è successo che il bel tipo ha deciso di andarsene senza neanche una spiegazione, e io mi sono sentita così immatura. Ecco perché non ho detto niente.»

Immatura?

Ma se era stato il bacio più bello della mia vita!

Sospirò. «A questo punto, spero almeno di ricevere il regalo.»

 

Pensai a lei, a lei con il naso all'insù e a lei durante le lezioni.

Ebbi un'idea. Un'idea talmente pazza che poteva funzionare.

«Sì. Ne sono sicuro.»

 

 

***

 

 

Why does she make sure to be so immature about these things.

I don’t want you to change around it.
And sometimes this love will end,

and all will be forgotten.

Then, someday, we will laugh about it.
And you say that it's alright,
and I know that it’s a lie,
from the black in your eyes.


You don’t have to do this on your own,
like there’s no one that cares about you.
You don’t have to act like you're alone,
like the walls are closing in around you.

You don’t have to pretend no one knows,
like there’s no one that understands you

[…]

And you should know that someone cares about you.
I know all about you.




Perché lei è sicura di essere così immatura su queste cose.

Non voglio che tu cambi su questo.
E questo amore finirà,

e tutto sarà dimenticato.

Poi, un giorno, ci rideremo su.
E tu dici che è tutto a posto,
e io so che è una bugia,
dal nero dei tuoi occhi.

 

Non devi far questo a te stesso,
come se non ci fosse nessuno che si preoccupa per te.
Non devi comportarti come se fossi solo,
come se le pareti ti stessero circondando.

Non devi fingere che nessuno ne sia a conoscenza,
come se non ci fosse nessuno che può capirti.

[…]

E dovresti sapere che qualcuno si preoccupa per te.

Io so tutto di te.

 

 

~ Birdy –All About You

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Capitolo 11
*** 10. All of the Stars ***


Buongiorno a tutti!

Scusate se non ho aggiornato ieri, ma proprio non ce l’ho fatta.

Bene, prima canzona di Ed Sheeran – il testo e la traduzione la troverete all’interno del capitolo, e non alla fine – e primo POV Kevin!

Contenti?

Ci vediamo Domenica prossima <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Ed Sheeran - All Of The Stars

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 28 Febbraio 2001

 

 

Kevin's pov

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«Ehi, Kevin, che ci fai ancora con quel cappello?»

 

Riconobbi la voce allegra di Avril giungermi alle spalle, mentre ammiravo un fiore bianco della magnolia del Duca Taubenfeld in tutta la sua bellezza.

Toccai istintivamente il copricapo e sorrisi.

Era cominciato tutto il giorno dopo quello stupido gioco: ogni Baciatore doveva regalare qualcosa al suo Baciato e, se avesse voluto, avrebbe potuto anche rivelare la sua identità.

Per quanto mi riguardava, si era trattato soltanto di un bacio sulla guancia, accompagnato poi da dei passi che si allontanavano e da una risatina stridula.

E così, tutto eccitato al pensiero di un regalo, mi ero diretto quasi di corsa verso il mio armadietto, trascinando la protesi per la foga.

Una volta aperto il piccolo sportello, mi ero ritrovato davanti ad un cappello beige con dei lustrini dorati sulla falda.

Ricordavo ancora la scrittura svolazzante del biglietto che accompagnava il regalo:”Spero che apprezzerai xoxoxo.”

 

«Non so perché lo porto ancora. Immagino che mi faccia sentire… apprezzato.»

 

Lei sorrise apertamente per la mia risposta. Il nostro rapporto era cresciuto molto in confronto ai primi giorni, proprio quando Evan…

 

«Ehm, Kevin, mi chiedevo… non è che, così, per puro caso, tu abbia visto Evan?»

 

Sospirai. Parli del diavolo e spuntano le corna. In quei tredici giorni, Evan era stato sempre distante e occupato – oserei dire quasi nevrotico – verso qualunque cosa respirasse.

Aveva sempre da fare e ogni occasione era buona per chiudersi in camera sua.

«Probabilmente starà in camera sua.» le dissi.

 

«Come sempre.» replicò.

 

Appunto.

 

***

Avril's pov

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Salii velocemente le scale. Dopo aver parlato con Kevin, il mio dubbio iniziale aveva trovato un'unica certezza: Evan mi stava evitando.

Non sapevo ancora perché, ma dal giorno del gioco era diventato scontroso con tutti, persino con Kevin.

Mi ritrovai subito di fronte alla sua camera. Era ora di ricevere qualche risposta.

 

Stavo oer bussare, ma la mia mano rimase a mezz'aria. Aveva aperto la porta prima di me, e adesso la sua bocca era così vicina...

 

«Ciao.»

 

Arrossii, rendendomi conto che stavo facendo la figura dell'idiota. «Oh... ciao.»

 

Sorrise. «Dai, entra. Non vorrai stare tutto il giorno lì impalata.»

Sentii le orecchie farsi bollenti. «Sai, ho pensato che io visto la tua camera, ma tu non sei mai entrata nella mia.»

 

In effetti, non ci avevo mai pensato. Era vero, non ero mai entrata in camera sua. Le pareti erano di colore giallo pallido, coperte ovunque sa vasti scaffali pieni di libri.

Passai le dita sulle copertine dei CD, mentre ne leggevo i nomi degli artisti: Michael Jackson, Metallica, Sex Pistols, Nirvana, Tina Turner...

 

No, un attimo... Tina Turner?

 

Mi girai verso di lui, incredula. «Come puoi avere nella stessa collezione i Metallica... e Tina Turner?»

 

Scrollò le spalle. «Cosa ti posso dire? Ogni volta che sento "Simply The Best" mi scateno.»

 

Annuii, sovrappensiero. «Qual è il tuo libro preferito?»

 

Si dondolò sui talloni. «Non ho un libro preferito. I libri mi piacciono tutti, perché mi piace il semplice atto di leggere, mi piace la magia di trasformare dei segni su una pagina in parole da assaporare nella mia mente.»

 

«Okay, allora... che mi dici di un libro importante, con un gusto particolarmente stuzzicante?»

 

Gli occhi di Evan s'illuminarono completamente, di una luce un po' più calda rispetto ai suoi curiosi occhi azzurri. «Questa, Avril, è davvero un'ottima domanda. Nonché un'apprezzabile rima.»

 

Fece strisciare, letteralmente, le suole delle sue scarpe sul parquet, fino ad arrivare accanto ad uno scomparto della sua immensa libreria. Poi, senza neanche vedere i titoli, prese in mano un libro dalla copertina blu scura. Si avvicinò a me, con passo trionfante, e me lo porse.

Allora è così che devono apparire gli uomini quando fanno le proposte di matrimonio e ti porgono un anello impacchettato di tutto punto: come se tu dovessi proteggerlo, perché quell'oggetto è immensamente...

 

«Importante» mi lesse nel pensiero. «Quel libro è molto importante per me.»

 Feci cadere lo sguardo sul libro e ne scorsi il titolo: "Biografia di Socrate".

«Socrate è stato un filosofo greco, se non addirittura il più grande. Vediamo... ti sei mai chiesta perché sei nata?»

 

Beh, con una malattia inspiegabile, una madre sull'orlo della crisi e un padre mai conusciuto, questa domanda ricorreva spesso nella mia mente. «Sì.»

 

«E ti sei mai data una risposta?»

 

«Ehm... no.» ammisi.

 

«Beh, Socrate lo fa, ti da una risposta. "Conosci te stesso", dice. Per lui, tutte le risposte che vorremmo avere, tutte le soluzioni a quesiti all'apparenza irrisolvibili, sono dentro di noi. Dobbiamo soltanto tirarle fuori.»

Feci un cenno d'assenso. Sembrava così facile, all'apparenza...

«E adesso, fammi vedere il tuo libro preferito.»

 

Alzai la testa e lo guardai di sbieco. «Che c'è, per me la regola di amo-tutti-i-libri non vale?»

 

Roteò gli occhi. «Ma se l'altro giorno mi hai detto quella citazione! Com'era? Ah, già, "il dolore ci rivela". Mi hai detto anche che deriva dal tuo libro preferito. E poi, dieci giorni fa o giù di lì, avevi in mano un libro dalla copertina azzurra e sembrava che volessi far sprofondare il naso in quelle pagine: mi pareva chiaro che fosse quello, il tuo preferito. Non sono così tonto come sembro... solo un po' di più.» Sorrise, scrollando le spalle. «Dai, su, vallo a prendere.»

 

Mi precipitai fuori dalla sua porta ed entrai in camera, presi il libro in mano e mi diressi ancora verso la sua stanza.

Stavo per entrare, quando mi bloccò fuori. «Alt, alt. Girati.»

Mi fece voltare di schiena e mi mise una benda sugli occhi. Oh, no, non un'altra volta!

 

«Evan, ma che diavolo stai facendo?!» gli chiesi, con la voce che mi si alzò almeno di un'ottava.

 

«Ssh, stai tranquilla. Voglio solo portarti in un posto della villa che non hai mai visto. Tanto ormai tu sei pratica di bendaggio, no?»

 

«E tu come lo sai che sono stata bendata?»

 

Lo sentii temporeggiare. «Beh, l'ha spiegato Camille nelle regole, ti ricordi?»

 

«Ah, già.»

E così, guidandomi e sussurrandomi dove dovevo mettere i piedi, salimmo svariate rampe di scale, per poi fermarci qualche minuto dopo.

 

«Okay, adesso sposta il viso all'insù e...»

 

Appena fui slegata, la prima cosa che vidi furono migliaia di puntini bianchi che risplendevano nel cielo scuro: le stelle.

 

Mi girai verso di lui, incredula. «Mi hai portato a vedere le stelle!»

 

Annuì. «Questo è il terrazzo della villa. Avevo pensato che, magari, ti avrebbe fatto piacere.»

 

Spinta dalla sua dolcezza, presi la rincorsa e lo abbracciai.

Lui mi strinse a sé, ma solo allora mi accorsi di quello che portava: aveva un cestino da picnic, due coperte e la chitarra in spalla.

«Uh, che bello, la tua chitarra!»

Gliela sfilai e mi sistemai sulla coperta di plaid che, nel frattempo, lui aveva steso sul pavimento.

Iniziai a pizzicare le corde, suonando il giro di Do.

 

«Sei brava, sai? Hai imparato da sola?» mi chiese.

 

Gli porsi lo strumento e scossi la testa. «No, a Napanee avevamo una scuola di musica, e mia madre un anno fu assunta lì. Mi ha insegnato lei qualche nota.»

Annuì, abbassando lo sguardo. Era come se si fosse... intristito, in qualche modo.

«E tu? Ti ha insegnato qualcuno a suonare?»

 

«No, tutto quello che so l'ho imparato da qualche vecchio libro di mio padre. Vedi, io non ho mai... avuto una madre, in realtà. Proprio come tu non hai mai conosciuto tuo padre, beh, per me è stato lo stesso con mia madre. Mio padre e Kevin sono stati la mia famiglia, per tutti questi anni.» Alzò lo sguardo al cielo, sorridendo improvvisamente. «Non che Kevin abbia le tette, comunque.»

 

Risi per la sua battuta. «Sai, ho sempre pensato che il più semplice ed immediato dei gesti, come ridere, richiede una certa dose di prudenza. Voglio dire, ridere è una cosa seria, non posso mica farlo con chiunque. Ma... con te mi riesce bene. Grazie.»

Mi sorrise, riconoscente. «Dai, suona qualcosa.»

 

Obbedì al mio suggerimento e incominciò a far scorrere le dita sulle corde. «Si chiama "All of the Stars".» m'informò.

 

It's just another night

And I'm staring at the moon

I saw a shooting star

And thought of you.

 

E' solo un'altra notte

E sto fissando la luna

Ho visto una stella cadente

E ho pensato a te

 

La sua voce era incredibile: era calda, dolce e decisa allo stesso tempo.

 

I sang a lullaby
By the waterside and knew
If you were here,
I'd sing to you
You're on the other side
As the skyline splits in two
I'm miles away from seeing you
I can see the stars
From America
I wonder, do you see them, too?

So open your eyes and see
The way our horizons meet
And all of the lights will lead
Into the night with me
And I know these scars will bleed
As both of our hearts bleed
All of these stars will guide us home

I can hear your heart
On the radio beat
They're playing 'Chasing Cars'
And I thought of us
Back to the time,
You were lying next to me
I looked across and fell in love
So I took your hand
Back through Londons streets I knew
Everything led back to you
So can you see the stars?
Over Amsterdam
You're the song my heart is
Beating to

So open your eyes and see
The way our horizons meet
And all of the lights will lead
Into the night with me
And I know these scars will bleed
But both of our hearts bleed
All of these stars will guide us home

And, oh, I know
And oh, I know, oh
I can see the stars
From America.

Ho cantato una ninna nanna
In riva al fiume e sapevo che
Se tu fossi stata qui,
L'avrei cantata a te
Tu sei dall'altra parte
Mentre l'orizzonte si divide in due
Io sono lontano dal vederti
Riesco a vedere le stelle
dall'America
Mi chiedo, non le vedi anche tu?

Quindi, apri gli occhi e guarda
Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano
E tutte le luci ci guideranno
Nella notte con me
E so che queste cicatrici sanguineranno
Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno
Tutte queste stelle ci guideranno a casa

Riesco a sentire il tuo cuore
Battere in radio
Stanno suonando 'Chasing Cars'
E ho pensato a noi
Indietro nel tempo,
Stavi riposando accanto a me
Ho guardato e mi sono innamorato
Così ti ho preso la mano
Ho fatto ritorni nelle strade londinesi che conoscevo
Tutto ciò ha portato di nuovo a te
Così puoi vedere le stelle?
Oltre Amsterdam
Tu sei la canzone che il mio cuore sta suonando

Quindi, apri gli occhi e guarda
Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano
E tutte le luci ci guideranno
Nella notte con me
E so che queste cicatrici sanguineranno
Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno
Tutte queste stelle ci guideranno a casa

E, oh, lo so
E, oh
​ ​, lo so, oh
Riesco a vedere le stelle
dall'America.

 

«Wow, Evan.» riuscii a balbettare. «Sei stato bravissimo. Vederti suonare con le stelle sopra di noi è stato... magnifico, davvero.»

 

Sorrise appena, come se non si riconoscesse nelle mie parole, e appoggiò la chitarra accanto a lui. «Allora...» disse, prendendo il cesto da picnic «...la casa offre due fantastici sandwich. Ne vuole approfittare, Madame?»

 

«Sarebbe certamente un delitto rifiutare questa sua gentile proposta, Monsieur.»

 

Mi porse il mio panino e diede un morso al suo. «Dentro c'è prosciutto, due fette di pomodoro, qualche foglia di insalata e una fetta di formaggio.»

Sgranai gli occhi. Aveva proprio detto...

«Ma no, dai, sto solo scherzando. Il tuo odio verso il formaggio mi è costato una quasi-frattura al setto nasale, non me lo potrei mai scordare. Quella è solo maionese.»

 

Sospirai di sollievo. Menomale.

 

«Allora.» mi disse, continuando a mangiare. «Qual è il titolo del libro che hai scelto come tuo prediletto?»

 

Sorrisi per la sua scelta di linguaggio.  «Colpa delle Stelle.» risposi.

 

«Uhm... e perché le stelle dovrebbero avere la colpa di qualcosa?» mi chiese.

 

«No, veramente nel libro è esattamente il contrario. L'autore vuole sottolineare che, la maggior parte delle volte, la colpa delle cattive azioni deve ricadere soltanto su noi stessi, e non su altri fattori - cioè le "stelle" -.»

 

«Ho capito.» Con un gesto veloce, mi tolse il libro dalle mani. «Non ti dispiace se ci do un'occhiata, vero? Tanto sarà la trilionesima volta che lo leggi.»

 

Arrossii. «Okay. Ma poi me lo ridai, va bene?»

 

Annuì, portandosi la mano sul cuore. «Parola di scout.»

 

«Bene.»

Appena finii il mio panino, mi distesi sulla coperta accanto a lui, e sospirai. «Le stelle creano sempre un’atmosfera… romantica, credo.»

 

Evan ridacchiò. «Beh, la costellazione della Vergine e della Fenice potrebbero non essere d’accordo con te.»

 

Lo guardai senza capire minimamente di cosa stesse parlando. «Che vuoi dire?»

 

Mi fissò, sorridente. «Vedi, ho sempre trovato affascinati i miti indiani che spiegavano l’origine delle costellazioni. Da piccolo ne andavo matto. In particolare, mi ricordo della storia infelice di Amita e Kedar, due giovani ragazzi indiani che…»

 

Lo interruppi. «Ma che c’entra questo con la Fenice e la Vergine?»

 

Mi lanciò un’occhiata d’ammonimento, sempre però con il sorriso sulle labbra. «Aspetta, fammi finire. Dicevo… Amita e Kedar erano due giovani indiani come tanti altri, seppur di classi sociali diverse: lei era la più piccola tra le sei figlie del dispotico Imperatore Manuraj, mentre lui, poveretto, orfano di padre e di madre, aveva solo uno zio indovino – cieco, tra l’altro – e viveva con le sue pecore nei boschi. Immagina il profumino!»

Risi per la sua battuta.

«Era un giorno come tanti, quando Kedar, pascolando con il gregge nel bosco, s’imbatté in Amita. La giovane era spaventata dalla presenza possente di Kedar, ma lui riuscì a tranquillizzarla e a farsi dire come fosse capitata lì, per quei sentieri pericolosi. La ragazza gli disse che, insieme alle sue cinque sorelle, erano andate ad abbeverarsi ad un ruscello non molto distante dall’inizio del sentiero, ma poi loro si erano allontanate, e lei era rimasta a vagare da sola. Si era sempre sentita esattamente in quel modo, sola, con la sua famiglia. Troppo grande perché si comportasse ancora con la spensieratezza dei bambini, ma troppo piccola perché capisse appieno il mondo degli adulti. Così, con il pastore che comprendeva la sua solitudine e che, per questo, la incitava, Amita gli raccontò della sua vita e della sua gioventù. Altrettanto fece Kedar, ignorando il continuo belare delle pecore alle sue spalle.

In breve, i due ragazzi s’innamorarono, e non di un amore qualsiasi: era un amore completo, totalizzante, e dava loro la linfa vitale per affrontare le difficoltà della loro realtà. Ad ogni loro secondo, ad ogni loro respiro, sognavano sempre le loro labbra toccarsi. Erano sempre nei pensieri dell’altro: Amita non era niente senza Kedar e Kedar non era niente senza Amita. Ma, come ti ho già detto prima, questa storia non ha un lieto fine. Infatti, il padre della ragazza, l’Imperatore Manuraj, scoprì la loro storia e separò i due innamorati, lanciando su di loro una terribile maledizione: il loro sarebbe stato il più sventurato tra tutti gli amori, poiché, pur di preservare l’integrità della figlia, Manuraj trasformò Amita in una costellazione, in modo che fosse irraggiungibile per Kedar. La chiamò Vergine e la sistemò nell’emisfero boreale. Nel frattempo Kedar, disperato per la perdita dell’amata, chiese aiuto a suo zio, l’indovino cieco di cui ti avevo parlato all’inizio. Il vecchio gli disse che non c’era alcun rimedio per la maledizione scagliata su di loro, ma poteva sempre esser d’aiuto: vedendo la determinazione di suo nipote, gli disse che l’unico modo per arrivare in cielo era quello di ridurre il suo corpo in polvere, in modo che il vento lo trasportasse su, fino alla volta celeste. Kedar acconsentì immediatamente e, senza neanche pensarci due volte, si buttò dalla rupe più profonda del Paese e morì. Lo stesso zio, con i suoi occhi infermi e per amore del giovane, ridusse il corpo di Kedar in cenere. In questo modo, la costellazione venne collocata nell’emisfero australe e le venne dato il nome della Fenice, cioè dell’animale che risorge dalle sue ceneri, esattamente come aveva fatto il giovane pastore. E così, Amita, nell’emisfero nord, e Kedar, in quello sud, sono costretti tutt’ora a rincorrersi, senza ricongiungersi mai. Erano sempre, però, l’uno nei pensieri dell’altra.»

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Capitolo 12
*** 11. Things I'll Never Say ***


Buonasera a tutti!

Questo capitolo sarà un miscuglio di felicità e tristezza :3

Per questo, ho scelto la meravigliosa canzone “Things I’ll Never Say” della nostra Av.

Ultima cosa e poi tolgo il disturbo, lol.

State leggendo “Colpa delle Stelle”?

Ripeto che ci saranno molteplici riferimenti al libro – come quelli dello scorso capitolo – e se volete capire bene, vi consiglio di darci uno sguardo.

Detto ciò, ci vediamo Domenica prossima <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

Avril Lavigne - Things I'll Never Say

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 10 Marzo 2001

 

 

Evan's pov

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«Ma sei impazzito o ti sei dato qualche padellata di troppo, Matt? Ti ripeto che non lo farò.»

Stavo accarezzando le corde della chitarra per calmarmi… ma non era un’impresa facile.

«E poi, bell’amico che sei, non mi hai neanche chiesto come sto o come va la situazione a casa e a scuola!» dissi, nella speranza vana di cambiare discorso.

 

«Hai ragione.» si scusò. «Va tutto bene

 

«Benissimo» risposi, a metà tra l’offeso e lo speranzoso.

 

«La tua famiglia?»

 

«Tutto a posto, grazie per l’interessamento.»

 

«E a scuola?»

 

«Mmh, più o meno: c’è un tipo che è veramente stronzo.»

 

«Capito. Va beh, io vado, allora.»

 

Non ci credo, ero riuscito a filarmela! «Va bene, ci sentiamo presto.» Perfetto, adesso non dovevo far altro che riattaccare e…

 

«Ecomunqueperchénonvuoi?» gridò velocissimo, sfondandomi un timpano. Era inutile: nessun cambio di discorso funzionava con Matt.

«Ascolta, tu te ne sei andato da oltre un mese, giusto?» continuò.

 

«Sì.» sbuffai.

 

«Ok, ti faccio un veloce elenco della situazione, in modo che puoi renderti conto della gravità della cosa: da più di un mese, io sono in crisi spadellistica perché non riesco a trovare una fottuta padella decente nel raggio di cinque chilometri, Jesse passa tutto il giorno a grugnire come un maiale – e ti assicuro che anche la sua puzza non è molto diversa – e Charlie, beh… continua ad essere Charlie!»

 

«Finiscila, testa di cazzo.» gridarono insieme i due.

 

Sentii Matt coprire il ricevitore con una mano e trasferirsi in un’altra stanza, lontano da loro. «Seriamente, Evan, i Nameless stanno andando a puttane. Almeno, non letteralmente, visto che non abbiamo un centesimo. Insomma, devi fare qualcosa.»

 

«E che cosa dovrei dare?!» lo interruppi, brusco. Matt mi stava dipingendo come un menefreghista a cui non importava niente del suo gruppo, quando invece non era assolutamente così. Cedevo ad ogni ricatto di mio padre, pur di suonare da qualche parte con loro.

 

«Non lo so, componi qualche nuovo pezzo, balla la Macarena, datti al bricolage… qualsiasi cosa. Jesse e Charlie stanno da cani, davvero, e…» A questo punto, alzò la voce, probabilmente per rendere partecipi anche gli altri due della nostra conversazione. «…E NON IMPORTA QUANTO IO LI MANDI A FANCULO, LORO RIMARRANNO SEMPRE DEI GRANDI COGLIONI E…»

 

Come ultima cosa, sentii delle forti grida e delle imprecazioni, poi il vuoto.

Sospirai. E così, un altro telefono se n’era andato ai pesci.

Insieme alla dannata padella di Matt.

Fantastico.

 

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 28 Marzo 2001

 

Avril's pov

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«E così, il 1° Settembre del 1939, dopo venticinque anni dalla Grande Guerra, che scoppiò il 23 Luglio del 1914 dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando II, inizia la Seconda Guerra Mondiale, che porterà all’incirca ad 1 miliardo e 900 milioni di morti. Davvero raccapricciante.» disse Kevin, sgranando gli occhi. Dopo qualche minuto, sfogliando le pagine del nostro libro, si rivolse a me. «Hai capito?»

 

Sbuffai. Quanto odiavo la storia. «Gesù, Kevin, non mi entrano in testa le date. E poi, non capisco: perché intraprendere una seconda guerra spargi-budella a 25 anni di distanza dalla prima? Che c’è, erano duri di comprendonio e non avevano ancora imparato la lezione?»

 

Si grattò un orecchio, imbarazzato. «Beh… beh, ecco… in realtà, non ne ho la minima idea. Qui ci vorrebbe…» Chinò la testa e non finì la frase, rivolgendo lo sguardo ad altre pagine del libro.

 

Riuscii benissimo a leggere tra le righe: Evan. Ci serviva come il pane una sua spiegazione, perché lui era un genio in storia/geografia/inglese/letteratura straniera/filosofia/qualsiasi altra materia in cui io ero un cesso.

 

«Senti, facciamo così: impariamo le date e le principali notizie, senza chiederci perché. Ok?» mi propose, con un lieve sorriso d’incoraggiamento.

 

Annuii, sconsolata. Purtroppo, io e Kevin dovevamo accontentarci di quello: il piccolo “genio della lampada” era costantemente occupato.

Stava sempre nella sua camera a studiare e, se non stava sui libri, allora suonava la sua chitarra, maledicendo chiunque avesse intorno.

In tutti questi giorni, se non per bisogni primari, non aveva messo fuori il naso dalla sua stanza. Neanche per sbaglio.

 

Ricordavo ancora quando, qualche settimana fa, io e Kevin, disperati dalle ennesime farneticazioni di James Joyce, ci eravamo rivolti a lui per tentare di capirci qualcosa in più. Determinati come non mai, ci eravamo accostati alla sua porta, dalla quale proveniva un debole suono di chitarra.

 

«Allora.» mi aveva detto Kevin, con l’Ulysses in mano.[N.d.A. È l’opera più famosa di Joyce.] «Io entro dentro e cerco di fargli dire qualcosa, mentre tu stai dietro di me e prendi appunti, nel caso riacquisti la capacità di parlare.»

 

Io avevo annuito, seria. Ci giocavamo la sufficienza con Wilson.

Kevin aveva bussato, ma senza ricevere risposta. Così, costretto dalla situazione, aveva spalancato la porta senza troppe cerimonie ed avevamo visto Evan seduto sul letto e la chitarra in grembo, con una penna ed un foglio accanto.

Era completamente rilassato, come se nulla fosse, e non aveva dato il minimo segno di essersi accorto di noi.

 

«Ehm… Ciao, Evan. Volevamo sapere delle cose riguardo all’Ulysses di Joyce. Hai presente?»

 

«Mmh.» aveva mugugnato lui.

 

«Beh, ci chiedevamo… perché l’autore associa ad ogni capitolo un colore, una scienza ed una parte del corpo? Che bisogno c’è?»

 

Avevamo aspettato per minuti che ci giungesse qualche risposta, ma niente. Zero assoluto.

 

Kevin, innervosito dal suo atteggiamento, aveva tentato il tutto per tutto. «Ah, volevo informarti che spesso, ultimamente, mi sono vestito da donna. E che mi eccito guardando la tua chitarra, è così sexy.»

Ancora silenzio.

Aveva roteato gli occhi e mormorato a bassa voce. «Non arriveremo da nessuna parte, in questo modo. Ti dovrebbero nominare traditore dell’anno.»

 

Improvvisamente, Evan aveva sgranato gli occhi. «Kevin!» aveva urlato a pieni polmoni.

 

«Cosa?» Kevin era sembrato allarmato. «Guarda che non mi eccito mica a guardare la tua chitarra. Stavo solo cercando di attirare la tua attenzione. Anche se devo ammettere che è una gran bella chitarra.»

 

«Ma no!» aveva replicato lui. «Traditore dell’anno… Cheater of… Cheater of the Year! [N.d.A. Canzone realmente composta da Evan.] Dio, sei un genio!»

E così dicendo, si era alzato dal letto, gli aveva appioppato un bacio sulla fronte e ci aveva sbattuti fuori.

  

E indovinate un po’ che fine aveva fatto la sufficienza con Wilson?

Esatto.

Sparita, volatilizzata, scomparsa, dissolta. Kaputt.

 

Mi ero chiesta più volte il motivo di quell’isolamento continuo e non ero riuscita a darmi una spiegazione.

Almeno fino ad oggi.

 

Infatti, qualche minuto dopo aver ripassato storia, il duca Taubenfeld ci chiamò dal piano di sotto.

«Ragazzi, scendete. Presto, dobbiamo accompagnare Evan all’aeroporto.»

M’immobilizzai, sbalordita.

 

All’aeroporto?

 

***

 

Le ore successive erano trascorse in modo molto confuso: vi erano susseguiti bagagli, corse, grida, traffico sull’autostrada e, infine, l’Harrisburg International Airport.

Non avevo capito molto di quello che era successo.

Riuscivo soltanto a fissare il vuoto e a sentire un’insopportabile sensazione alla bocca dello stomaco.

Non era fame, chiaro: se avessi visto cibo sulle scomode sedie della sala d’aspetto dell’aeroporto, cioè dove mi trovavo ora, probabilmente ci avrei vomitato sopra.

Quello che provavo era più totalizzante, come se comprendesse tutto il mio corpo e non volesse più lasciarlo andare.

Gli altri erano andati ad informarsi del volo prima che Evan s’imbarcasse, ma io non mi ero mossa da lì.

Mi sentivo improvvisamente distante e svuotata: come potevano loro anche solo pensare di camminare?

 

«Dove vai?» gli chiesi, con un filo di voce.

 

Non mi guardò. «Il volo è per New York. Poi partirò con i Nameless per una piccola tournée che abbiamo deciso di fare: Nevada, Oregon, Utah… più stati riusciamo a toccare, più soldi facciamo.»

 

«Tutti stati dell’Ovest.» notai. E noi siamo ad Est.

Lui annuì. «Quanto… quanto tempo?»

 

Si girò verso di me e quasi mi chiese scusa con gli occhi. «Due mesi.»

 

La sensazione soffocante di prima mi gravò addosso con più forza.

 

Forse capendo il mio stato d’animo, mi trascinò vicino alle enormi vetrate dell’aeroporto, accanto al corridoio che doveva percorrere per partire.

«Ma… Evan, non capisco. Che senso ha andare in tournée per guadagnare soldi, quando tu li puoi avere semplicemente chiedendo a tuo padre?»

 

«Non si tratta solo di me, Avril. Ci sono altri tre ragazzi che smaniano di respirare musica ma non ne hanno la possibilità.

Voglio essere io l’unico disegnatore della mia vita, l’unico scrittore della storia in cui vivo… non mio padre.

E poi, a lui non importa di me, per quanto finga il contrario.»

 

Ma a me sì!, avrei voluto gridare. A me importa di te, e anche mentre balbetto, anche mentre cerco di trovare le parole nella mia testa, vorrei che tu ti fermassi. Anche mentre cerco di rimanere calma, anche mentre cerco di essere perfetta per te, vorrei urlarti di rimanere qui. Accanto a me.

 

Ma la cosa più dolorosa era che lo capivo, capivo il suo ragionamento e le sue scelte.

La vita era sua, il resto era solo una stupida cornice. Per quanto, poi, nella stupida cornice ci fossi anch’io.

 

Si chinò, rimanendo in equilibrio su un ginocchio.

Un pensiero stupido e folle mi passò per la mente: gli avrei anche chiesto di sposarmi, pur di farlo rimanere.

«Non voglio che tu pianga.» Mi parlò con un tono dolcissimo, come quello che usa un padre per consolare la sua bambina. «Altrimenti poi le tue lacrime offuscheranno la vista del più bel fusto d’America, e questo non è assolutamente accettabile.»

Incredibile come riuscisse a farmi ridere anche in quel momento.

«E voglio anche che tu veda bene un’altra cosa.

 

Indicò con un dito il soffitto sopra di noi. «Voglio che tu veda il cielo, ogni sera. Voglio che tu riconosca la costellazione della Vergine e della Fenice e che ricordi il mito di Amita e Kedar. E poi, proprio come il tuo libro preferito, che leggerò in ogni momento libero a mia disposizione, voglio che tu guardi le stelle, perché saranno le stesse che guarderò io.»

 

Poi, si alzò da terra. «Vuoi abbracciarmi, adesso?»

Annuii, incapace di parlare. «E allora fallo forte. Se qualcuno mi chiedesse “Qual è il posto migliore in cui sei stato?”, risponderei “Facile, quell’abbraccio.” Perché vuoi tornare tra quelle braccia, più volte che si può, e non riuscirai mai a rivivere le stesse emozioni che quello sfiorarsi ti ha regalato.»

 

Feci come mi aveva detto e, con ormai le lacrime che scendevano dai miei occhi, gli diedi l’abbraccio più stritola-ossa di cui ero capace.

 

«Avril… Forse… troppo forte…» disse, senza fiato.

 

«Oh, scusa.» Mi staccai immediatamente, con un debole sorriso nascosto tra le lacrime.

 

Mi sorrise, per poi tornare subito serio. «Salutami tu gli altri, okay?»

 

Deglutii e annuii. Se avessi anche solo provato a parlare, avrei avuto una vera crisi di pianto.

Poi, esattamente come la sera in cui ci conoscemmo, posò un bacio leggero sui miei capelli.

Cercai di imprimermi il tocco morbido delle sue labbra, il suo profumo di sole e di aria fresca e la forza con cui il suo braccio mi cingeva le spalle, come se volesse sostenermi.

Alzai lo sguardo e camminò lontano da me, fino a scomparire dalla mia vista.

 

Cos’era quella morsa asfissiante da cui volevo liberarmi?

Era terrore?

Forse sì.

E terrore di cosa?

Terrore che lui potesse sostituirmi, che potesse conoscere qualcuno migliore di me, qualcuno che lo avrebbe portato via… da me?

Odiavo con ogni fibra del mio essere l’idea di… di doverlo dividere con qualcun’altra.

Ma, questo, non potevo dirglielo.

Non potevo dirgli che non avevo la minima idea di come farcela senza di lui per due mesi.

Non potevo dirgli che quell’abbraccio stritola-ossa mi aveva anche spezzato il cuore.

Sarebbero rimaste cose che non avrei mai detto.

 

Ciao, Evan.

Benvenuta, tristezza.

Benvenuto, cuore infranto.

 

 

***

 

I'm tugging out my hair, 
I'm pulling at my clothes. 
I'm trying to keep my cool. 
[…] 
I'm staring at my feet, 
My checks are turning red. 
I'm searching for the words inside my head. 
Cause I'm feeling nervous, 

trying to be so perfect. 
Cause I know you're worth it. 
[…] 
Am I squeezing you to tight? 
If I could say what I want to see, 
I want to see you go down... on one knee 
Marry me today. 
Guess I'm wishing my life away, 
with these things I'll never say


 

 

Mi sto tirando i capelli,

mi sto tirando i vestiti.

Sto cercando di mantenere la calma.

[…]

Fisso i miei piedi,

le mie guance diventano rosse.

Sto cercando le parole dentro la mia testa.

Perché mi sento nervosa,

cercando di essere perfetta.

Perché so che ne vali la pena.

[…]

Ti sto stringendo troppo?

Se io potessi dire ciò che vorrei vedere,

vorrei vederti andare giù… su un ginocchio.

Sposami oggi.

Penso di stare ignorando la mia vita,

con queste cose che non dirò mai.

 

 

~ Avril Lavigne – Things I’ll Never Say

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Capitolo 13
*** 12. Maybe goodnight will be our okay/always || Goodnight Moon ***


Bonsoir a todos! (?)

Questo capitolo sarà molto tenero e, soprattutto per chi ha finito di leggere “Colpa delle Stelle”, preparatevi per i feels!

Se, nel caso, non l’avete ancora finito di leggere, allora vi consiglio di fermarvi a questa introduzione, completare di corsa la lettura del libro e ritornare qui.

Ci saranno spoiler e citazioni. Parecchi e malefici spoiler e parecchie e malefiche citazioni.

Io vi ho avvertito u.u

Il capitolo si apre e si conclude con uno scambio di messaggi tra il nostro Evanuccio – frasi in blu – e la nana – frasi in rosa –.

La canzone di oggi è di un gruppo che ho conosciuto da poco, i Go Radio, e si chiama “Goodnight Moon”.

Guardate il video della canzone, se potete.

È molto dolce e divertente.

Ci vediamo Domenica prossima <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Go Radio - Goodnight Moon

 

***

 

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Salt Lake City, Utah / Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 01 Aprile 2001

 

*Evan è online*

 

Ore 03:58.  Drin, drin, drin! Sveglia, dormigliona!

 

*Avril è online*

 

Ore 06:58. Evan… cosa c’è…?

 

Ore 03:58. Niente, ti volevo solo dare il buongiorno.

 

Ore 06:59. Oh… ehm, grazie. Ma… che ore sono?

 

Ore 03:59. Da me sono le 04:00. Quindi, suppongo che da te debbano essere le 07:00.

 

Ore 07:00. …

 

Ore 04:00. Che c’è?

 

Ore 07:00. Perché mi mandi un messaggio a quest’ora?

 

Ore 04:01. Te l’ho detto, volevo darti il buongiorno, in modo che tu possa affrontare solare e raggiante un’altra magnifica giornata di scuola.

 

Ore 04:02. Avril?

 

Ore 04:04. Avril, ci sei?

 

Ore 04:08. Avril, cosa è successo? Mi stai facendo preoccupare…

 

Ore 04:17. AVRIL RAMONA LAVIGNE O COME CAVOLO TI VUOI CHIAMARE, SE NON RISPONDI ENTRO UN SECONDO, CHIAMO IL 911 E TI FACCIO ARRESTARE!

 

Ore 07:18. SICURO, VERRÒ ARRESTATA PER OMICIDIO VOLONTARIO!

 

Ore 04:19. …?

 

Ore 07:22. EVAN! È DOMENICA, SANTO CIELO! DO – ME – NI – CA!

 

Ore 04:23. …

 

Ore 04:24. Beh… e tu non usare il maiuscolo con me!

 

Ore 07:24. Va bene, devo cercare… di mantenere… la calma. Ricapitolando, È DOMENICA MATTINA, LA SCUOLA È CHIUSA, TUTTI DORMONO BEATAMENTE, TU MI SVEGLI ALLE 07:00 E TI GIUSTIFICHI DICENDO CHE NON DEVO USARE IL MAIUSCOLO?

 

Ore 04:26. Se la vuoi mettere in questo modo…

 

Ore 07:27. EVAN!

 

Ore 04:29. Ok, ok, ti chiedo scusa. Mi ero completamente dimenticato che fosse Domenica, che la scuola fosse chiusa, che tutti dormissero beatamente e bla bla bla.

Volevo solo darti il buongiorno e parlare con qualcuno. Qui dormono tutti.

 

Ore 07:31. E ci credo, sono le 4 e mezza! Dove siete adesso?

 

Ore 04:33. Ora siamo nello Utah, a Salt Lake City. Verso le 10 prenderemo un pullman che ci porterà in Nevada e suoneremo un po’ in giro. A voi come stanno andando questi giorni senza il vostro cavaliere senza macchia e senza paura, Mademoiselle?

 

Ore 07:35. Non credo di aver inteso bene, Monsieur. Il cavaliere senza macchia e senza paura sareste voi?

 

Ore 04:37. Mais oui, Mademoiselle. Ovviamente.

 

Ore 07:41. Mmh, piuttosto bene, a dire la verità. Monsieur Orecchie-Paraboliche-Billigan in questa settimana sta spiegando le funzioni. Nessuno dei nostri esimi colleghi ha capito un accidente.

 

Ore 04:43. Neanche tu?

 

Ore 07:45. Ahahah, per favore. Non abbassiamoci a tanto.

 

Ore 04:48. Ero sicuro al 90% che il tuo piccolo cervellino matematico ce l’avrebbe fatta.

 

Ore 07:50. Vaffanculo.

 

Ore 04:50. Per cosa?

 

Ore 07:51. Per l’altro 10%. E anche per aver definito il mio enorme encefalo un “piccolo cervellino.”

                             

Ore 04:51. Mi scuso umilmente con voi, Mademoiselle.

 

Ore 07:52. Uhm, devo ancora decidere della vostra sorte, Monsieur. Sono indecisa tra decapitazione o pena capitale.

 

Ore 04:52. Avril, la pena capitale in Francia è illegale da un bel po’ di anni.

 

Ore 07:52. Dettagli. Avrai tanto da recuperare, con Billigan.

 

Ore 04:53. Nah, Kevin mi invia giornalmente qualche appunto. Mi sto tenendo al passo.

 

Ore 07:53. Allora non avrai problemi a dirmi cos’è un coseno.

 

Ore 04:53. …

 

Ore 04:53. Non è una cosa che si mangia, giusto?

 

Ore 07:54. Ahahahahah, direi di no.

 

Ore 04:59. Ora devo dirti una cosa molto importante, Avril.

 

Ore 07:59. Ok… cosa c’è?

 

Ore 05:02. Tu mi piaci. Tu mi piaci dal primo giorno che ti ho vista, da quando dovevo accompagnarti con la moto da tua madre e tu, testarda come al solito, non volevi.

Mi sei sempre piaciuta, persino quando mi hai tirato un pugno al naso, o quando ti estranei in quel mondo fatto di numeri e immaginazione in cui stai tutto il tempo.

Mi piaci quando alzi improvvisamente gli occhi e ti rendi conto solo in quel momento che qualcuno ti sta parlando e, più di tutto, mi piace da matti quella risata imbarazzata che fai subito dopo.

Tu mi piaci, ecco cosa c’è.

 

Ore 08:07. Evan, io… Io non so cosa dire…

 

Ore 05:10. Non ti preoccupare, dì semplicemente “Evan David Taubenfeld, tu sì che sei il re dei pesci d’Aprile!”.

 

Ore 05:13. Avril?

 

Ore 05:17. Avril, perché non rispondi?

 

Ore 05:25. AVRIL, DANNAZIONE, VUOI RISPONDERE A QUESTO DANNATO COSO?!

 

Ore 08:28. Il messaggio di prima… era un pesce d’Aprile?

 

Ore 05:29. Mais oui, Mademoiselle.

 

Ore 08:32. Wow… ci sono proprio cascata…

 

Ore 05:33. Allora? Sono perdonato?

 

Ore 08:34. Per cosa?

 

Ore 05:34. Per averti svegliato.

 

Ore 08:35. Oh… Sì, sei perdonato. Ora scusa, devo andare. Bello scherzo, comunque.

 

*Avril è offline*

 

Ore 05:37. Già, è proprio un bello scherzo, quando qualcuno crede di amarti…

 

*Evan è offline*

 

***

 

San Francisco, California, Stati Uniti d’America, 30 Aprile 2001

 

 

Evan's pov

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Ieri sera il pub era davvero stracolmo, nonostante avessimo finito di suonare quasi alle tre del mattino.  

Non ne avevo mai visto uno così pieno, ma, a quanto pareva, i Nameless stavano avendo un discreto successo.

O forse tutti i ragazzi che erano venuti a sentirci avevano un problema all’udito, oltre ad essere alcolisti.

Chi poteva dirlo.

 

Con il proprietario del locale, un uomo pelato e sulla sessantina, ci eravamo accordati per un prezzo di 700 dollari ma, visto tutti i quattrini che aveva guadagnato quella sera, ci disse – cito le sue parole – di “avere un improvviso e del tutto inaspettato attacco di generosità”, e così ce ne diede 1000.

Non male per una band che a Napanee intascava appena 50 bigliettoni.

 

Inutile dire che, appena saputa la notizia, Matt aveva dato di matto e aveva voluto – anche qui, cito testualmente – “festeggiare sobriamente”.

E indovinate quanti litri di vodka comprendeva il suo “festeggiare sobriamente”?

Adesso erano le cinque del mattino, e noi eravamo ancora impegnati in questa festa totalmente misurata e senza eccessi.

 

Una sveglia trillò nella mia mente.

Erano le cinque del mattino.

Dovevo chiamarla.

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 30 Aprile 2001

 

Avril's pov

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Erano le otto dell’ennesimo Lunedì traumatico e, come ogni Lunedì traumatico che si rispetti, stavo camminando per i corridoi del “Sanford–Brown” insieme a Kevin.

Dovevo ammettere che la sua compagnia mi aveva aiutato molto, nell’ultimo mese.

Avevamo riso, avevamo scherzato sulle orecchie di Billigan, avevamo roteato gli occhi vedendo i comportamenti sempre più da deficiente di Axel Foffuck.

Mi era stato vicino e per me rappresentava il fratello che non avevo mai avuto.

 

Ma, se da una parte avevo guadagnato un’amicizia solida, dall’altra avevo irrimediabilmente perso qualcosa.

E lo capivo da come mi si spezzava il cuore e da come il groppo che avevo in gola m’impediva di parlare, ogni volta che ripensavo a quello stupidissimo pesce d’Aprile che mi aveva fatto.

Non ero arrabbiata con lui. Non era colpa sua se non mi ricambiava.

Ero semplicemente… delusa.

Delusa che quelli fossero gli stessi sentimenti che provavo per lui e delusa per avergli creduto così facilmente.

La prossima volta non sarebbe successo.

 

Improvvisamente, una vibrazione nella tasca del mio giubbotto mi fece sobbalzare. Lessi il nome sullo schermo.

Parlavi del diavolo…

 

«Ciao, Evan.» … E spuntavano le corna. «A cosa devo l’onore?»

 

«Ehi, Avril! Non sai che piacere è sentirti!»

 

Involontariamente, il mio cuore fece un balzo. «Già, sapessi per me…» brontolai, roteando gli occhi.

 

«ANDIAMO… IGH…. EVAN, SOLO UN… IGH… CICCHETTO!» sentii gridare al telefono.

 

«Sta’ zitto, Matt! Scusalo, è leggerissimamente ubriaco. Dicevi?»

 

«Niente, niente.» cambiai subito discorso. «Come vanno lì le cose?»

 

«Alla grande, direi!» Sembrava davvero euforico. «Stanotte abbiamo guadagnato ben 1000 bigliettoni. Matt ha detto che si comprerà una padella tempestata di diamanti, con tutti questi soldi.»

 

Non risi per la sua battuta. Non ci riuscii. «Wow, ehm… sono… contenta per voi.»

 

«Sì, sembri contenta nella stessa misura in cui lo sono io prima di affrontare due ore consecutive di matematica. È successo qualcosa?»

 

«No, tranquillo, non è successo niente.» Ed era proprio questo il problema. Da quando ci eravamo scambiati quei messaggi, non mi aveva più parlato, se non per chiedere qualche informazione su ciò che spiegava Billigan.

Non avevo mica scritto “Google” sulla fronte.

 

Stette qualche secondo in silenzio. «Ah, ho capito cos’è che non va!» esclamò trionfante.

 

Sgranai gli occhi. «Davvero?» Le mani cominciarono a tremarmi leggermente e il respiro mi si fece più ansante. Quante possibilità c’erano che avesse effettivamente capito?

 

«Sì, il problema è che stai per affrontare un altro Lunedì con Wilson alla prima ora. Ho indovinato?» Sbarrai gli occhi. Possibilità zero.

 

«Già. È Wilson il problema.» mugugnai.

 

Sembrò piuttosto soddisfatto di se stesso, tanto che ridacchiò. «Non ti preoccupare, Avril. Se può risollevarti il morale, ti informo che ho ufficialmente incominciato a leggere “Colpa delle Stelle”.»

 

Mi rallegrai un po’ alla notizia. «A che punto sei?»

 

«Più o meno alla metà.»

«E? Ti ha preso?»

 

«Sospendo il giudizio finché non l’avrò finito. Senti, ma alla fine Augustus e Hazel Grace ci vanno ad Amsterdam?»

 

«Ah, no, niente spoiler.» dissi.

 

«Se salta fuori che non prendono quel dannato aereo, strappo gli occhi all’autore.»

 

«Quindi… ti ha preso.» costatai.

 

Rise. «Sospendo il giudizio! Non vedo l’ora di discutere con te del bellissimo finale che questo libro avrà sicuramente.»

 

“Certo, bellissimo…” pensai tra me e me. «Discuteremo solo quando lo avrai finito. Prima, di sicuro no.»

 

«Allora è meglio se metto giù e ricomincio a leggere.»

 

«Infatti.» dissi, e chiusi la telefonata, senza aggiungere altre parole.

 

***

Portland, Oregon / Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 07 Maggio 2001

 

*Evan è online*

 

Ore 22:02.  AVRIL RAMONA LAVIGNE!

 

*Avril è online*

 

Ore 01:03. Evan… ma non riesci proprio a messaggiare ad un orario accettabile?

 

Ore 22:03. Beh… Per me è un orario accettabile…

 

Ore 01:04. Ma non lo è per me! Comunque, non voglio incominciare un’altra discussione. Cosa c’è?

 

Ore 22:05. HO BISOGNO DI RISPOSTE!

 

Ore 01:06. Non mi hai scambiato mica per una sfera di cristallo, vero?

 

Ore 22:07. TI PREGO, DIMMI CHE SULLA TUA COPIA HANNO SBAGLIATO A SCRIVERE IL VENTUNESIMO CAPITOLO!

 

Ore 01:09. Oh, ma ti riferisci al libro…

 

Ore 22:11. AVRIL, DIMMI CHE NON SONO ARRIVATO ALLA FINE DI QUESTO LIBRO!

 

Ore 01:12. E invece sì. Benvenuto nel dolce supplizio di chi legge “Colpa delle Stelle”.

 

Ore 22:15. Non citarlo! Ti proibisco nel modo più assoluto di farlo! Tutto questo non mi sembra affatto dolce!

 

Ore 01:16. Infatti accanto c’è la parola “supplizio”.

 

Ore 22:18. Questo è il peggior ossimoro che abbia mai letto.

 

Ore 01:18. Non fare il maestrino con me, io stavo cercando di dormire.

 

Ore 01:21. Evan?

 

Ore 01:25. Evan, rispondi.

 

Ore 01:37. EVAN, NON È DIVERTENTE! TUTTO BENE?

 

Ore 22:39. A meraviglia. Sono andato a comprare i fazzoletti ad un supermarket vicino. Puoi immaginare perché li ho finiti.

 

Ore 01:41. Già. Io consumai ben tre pacchetti, appena finii il libro.

 

Ore 22:43. Dio. Oh mio Dio. SANTISSIMODIO, NON CREDO DI POTERCELA FARE. È così… così fottutamente doloroso.

 

Ore 01:44. Lo so. John Green, l’autore, ti prende il cuore direttamente con le mani e te lo strizza finché non hai versato tutte le tue lacrime.

 

Ore 22:46. Proprio così. E io che speravo in un “vissero tutti felici e contenti”. Ma il lieto fine non fa parte delle grandi storie d’amore, vero?

 

Ore 01:52. No. Credo di no.

 

Ore 22:53. Pensavo che ti fossi addormentata.

 

Ore 01:54. No, ci sono ancora. Per tua sfortuna.

 

Ore 22:55. Lo sai, vorrei che tu fossi qui.

 

Ore 01:55. Ma io ci sono.

 

Ore 22:56. No, qui proprio nel senso di qui, accanto a me. Stranamente, Matt e gli altri mi hanno dato il letto più grande, e tu ci saresti stata proprio comoda. Così, mi avresti consolato e avremmo pianto insieme per quell’IGNOBILE fine di quell’IGNOBILE libro.

 

Ore 02:00. Anch’io vorrei stare lì, ma non posso, e non c’entra la scuola. Quando avevo più o meno sette anni, mia madre ed io avevamo abbastanza soldi da permetterci una vacanza. Mi chiese quale fosse il posto in America che più desiderassi vedere. Poi, però, facemmo un patto: decidemmo che quella sarebbe stata una vacanza con i fiocchi e che non avremmo più speso soldi per grandi spostamenti.

 

Ore 23:01. No… Non dirmi che…

 

Ore 02:01. Sì, sono colpevole.

 

Ore 23:01. Non è possibile… ANCHE TU SEI ANDATA A DISNEY WORLD?!

 

Ore 02:02. Te l’ho detto, sono colpevole.

 

Ore 23:02. È incredibile come i parchi a tema abbiano così tanta influenza sui bambini.

 

Ore 02:04. Già. Quanti altri giorni starai via?

 

Ore 23:04. All’incirca… una ventina.

 

Ore 02:04. Sicuro? Non è… che so… un pesce di Maggio?

 

Ore 23:05. Al 100%. Ti ho mai detto una bugia?

 

Ore 02:06. …

 

Ore 23:06. Ok, ok, forse una. O due. Probabilmente anche tre, non tengo mai bene il conto di niente.

 

Ore 02:07. Prometti che non mi mentirai più, anche per la cosa più banale?

 

Ore 23:09. Prometto solennemente. Parola di scout.

 

Ore 02:11. Va bene. Ora vado a dormire.

 

Ore 23:11. Buonanotte.

 

Ore 02:13. Buonanotte.

 

Ore 23:16. Buonanotte.

 

Ore 02:18. Buonanotte.

 

Ore 23:21. Buonanotte. Forse buonanotte sarà il nostro okay/sempre.

 

Ore 02:24. Buonanotte.

 

Ore 23:25. Non posso credere che tu l’abbia detto!

 

Ore 02:28. Già. Neanche io.

 

*Avril è offline*

 

Ore 23:31. Forse c’è la possibilità che io ti abbia mentito ancora, Avril. Non sono mai stato uno scout, in effetti. Io li odiavo, gli scout. Mi rivedrai molto prima di quanto credi…

Menomale che avevo le dita incrociate mentre digitavo.

 

*Evan è offline*

 

 

***

 

And don't go to bed yet, love.

I think it's too early,
and we just need a little time to ourselves.
If my wall clock tells me that it's 4 in the morning,

I'll give it hell.

Cause I've been trying way too long
to try and be the perfect song.
When our hearts are heavy burdens,
we shouldn't have to bear alone.

[…]

And sing for me softly, love,

your song for tomorrow, and tell

my name’s the one that's hidden in there somewhere.
And dream for me anything,
but dream it in color about.

When all the suns still rising and we don't care.

[…]

So goodnight you.

And goodnight, moon.
When you're all that I think about,
all that I dream about,
how'd I ever breathe

without a goodnight kiss.

From “Goodnight You”.

The kind of hope they all talk about,
the kind of feeling we sing about,
sit in our bedroom and read aloud.
Like a passage from “Goodnight Moon”.
From “Goodnight Moon”. 

 

 

E non andare ancora a dormire, amore.
Penso che sia troppo presto,

 e abbiamo solo bisogno di un po' di tempo per noi stessi.

Se il mio orologio a muro

 mi dice che sono le quattro del mattino,
lo manderò al diavolo.

 

Perché ho cercato per troppo tempo
di provare a essere la canzone perfetta.
Quando i nostri cuori sono pesanti,
non dovremmo sopportarlo da soli.

[…]

E canta per me dolcemente, amore,
la tua canzone per domani, e dimmi
che il mio nome è l’unico nascosto lì da qualche parte.

E sogna per me ogni cosa,
ma sognalo a colori,
quando tutto il sole continua a sorgere e a noi non importa.

[…]

Allora buonanotte a te.
E buonanotte, luna.
Quando sei tutto quello a cui penso,
tutto quello che sogno,
come potrei respirare

anche senza un bacio della buonanotte,
per “Buonanotte a te”.

Il tipo di speranza di cui tutti parlano,
il tipo di sensazione che cantiamo,
seduti nel nostro letto e leggendo a voce alta.
Come un passaggio per "Buonanotte Luna".
Per "Buonanotte Luna".

 

~ Go Radio – Goodnight Moon

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Capitolo 14
*** 13. American Idiot ***


Salve.

Scusatemi tanto se ieri non ho aggiornato, ma l’intera serata è stata dedicata a “Colpa delle Stelle”.

Ieri sera in un cinema della mia città hanno proiettato il film in anteprima, e così sono subito corsa a vederlo.

Non mi ha emozionato come il libro – ergo, non mi si sono aperte le fontane –, ma è stato comunque un bellissimo film, nonostante le traduzioni sbagliate o il posizionamento delle scene, che non era proprio fedele al libro di John Green.

Ora passiamo al capitolo.

La canzone di oggi sarà quella strafiga di “American Idiot” di quei strafighi dei Green Day.

Non voglio anticiparvi niente, vi lascio alla lettura.

Ci vediamo Domenica prossima <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Green Day - American Idiot

 

***

 

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 08 Maggio 2001

 

Avril's pov

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«Allora, ricapitoliamo.» ripetei ad alta voce. «L’espressione “Guerra Fredda” sta ad indicare non una battaglia tra due gelati avvenuta in un freezer, bensì la… com’è che diceva… ah, sì, la contrapposizione… ehm… politica e militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E questa battaglia a colpi di ghiacciolo si concluse con la caduta del Muro di Berlino nel… nel…»

Non guardare sul libro, Avril.

«Si è conclusa nel… ’69?»

Non devi guardare.

«’79?»

NON. GUARDARE.

«No, sono sicura che è l’88.»

Alla fine, lottando contro la mia coscienza, sbirciai la data sul libro.

«Fanculo, lo dicevo io che era l’89!» esclamai, richiudendolo frustrata.

 

Le date non facevano per me.

La storia non faceva per me.

Lo studiare da sola come un’asociale non faceva per me.

Ma, come al solito, non avevo alternative.

Anche Kevin, con mio grande dispiacere, si era preso l’Evanite.

 

«L’Evanite, cari ragazzi, è una malattia che colpisce tutti gli uomini in età adolescenziale, e i sintomi che potete veder affiorare nel soggetto colpito sono indifferenza verso il mondo esterno, il restare rinchiusi ogni ora nella propria stanza e il totale menefreghismo verso i poveri plebei che non sanno un fico secco di materie interessantissime, quali la storia.» dissi, imitando alla perfezione il tono del professor Wilson.  

Tutto chiaro, no?

Insomma, per farla breve, anche Kevin non mi parlava più, e i miei voti con Wilson stavano precipitando alla velocità di una bomba atomica appena sganciata, giusto per rimanere in tema.

Stavo incominciando a credere che ci fosse qualcosa di sbagliato in me.

Non era possibile che una settimana prima mi parlavano e una settimana dopo sembravano essere a corto di voce.

Però, nonostante tutto, ero riuscita a farmi due nuovi amici:

-         Philip, un simpatico e tenero brufolo che mi era spuntato sulla tempia destra;

-         Jack, il loquace muro accanto al mio letto a cui esponevo i miei problemi esistenziali durante la notte.

 

La mia situazione era sempre più disperata.

Sospirai, osservando l’assoluta immobilità di Jack, e riaprii il libro di storia.

«L’espressione “Guerra Fredda” sta ad indicare la contrapposizione politica e militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questa battaglia si concluse con la caduta del Muro di Berlino nel… nel…»

 

«Nell’89.»

 

«Esatto, nell’89, grazie Kevin, avvenuta più precisamente il 9 Novembre…»

Mi fermai un attimo e sgranai gli occhi, rendendomi conto di chi avesse parlato.

Alzai lo sguardo e lo vidi appoggiato allo stipite della porta.

«Kevin! Ma cosa… cosa ci fai qui?»

 

Scrollò le spalle. «Niente, ti ascoltavo.»

 

«Quindi… Sei uscito dal letargo, dalla pausa meditativa, dal silenzio stampa o quel che era?»

Annuì, facendo un sorriso tirato.

«Allora puoi aiutarmi a…»

 

«No, mi dispiace, non posso darti una mano in storia, oggi.»

Abbassai la testa, sconfitta e disperata, mentre tutte le mie speranze di una misera sufficienza andavano distrutte.

 

«Dovrai sospendere giusto per un attimo, sai? Ora dobbiamo proprio andare, altrimenti faremo tardi.»

 

Lo guardai accigliata. «Andare dove?»

 

«Alla stazione.»

 

***

 

Kevin's pov

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Avril guardava fuori dal finestrino, confusa, mentre con una mano accarezzava gli interni in pelle.

«È tua, questa macchina?»

 

Sorrisi, non staccando gli occhi dall’asfalto. «No, questa è l’utilitaria che la famiglia Taubenfeld usa per i piccoli spostamenti. Peter mi ha dato il permesso di prenderla.»

 

«Sei uno di famiglia per loro, ormai.»

 

«Già.» concordai.

 

«Kevin… mi stavo chiedendo da un po’… dove fosse la tua famiglia.» mi chiese, con voce dolce. «Perché non torni da loro?»

 

«È un tasto delicato, questo.» Strinsi talmente tanto il volante che mi si sbiancarono le nocche. «Il fatto è che… non mi ricordo niente di loro. Qualche volta… mi sembra di vedere una donna dai capelli biondi… con degli occhi verdi, ma poi tutto si riduce ad una macchia di colore indistinta. Non so neppure se ci sia veramente qualcuno ad aspettarmi, lì fuori.»

 

Stranamente, invece di guardarmi con compassione, come facevano tutti coloro a cui raccontavo questa storia, da circa dieci anni a questa parte, lei mi guardò con comprensione.

Per qualche ragione, lei mi capiva.

 

Improvvisamente, sentii una piccola vibrazione ripetuta nella tasca dei jeans.

Presi una cuffia degli auricolari, la infilai nell’orecchio sinistro e accettai la chiamata.

 

“Ciao, Kevin. Lei c’è?

 

Mi schiarii la voce, sperando che lo prendesse come un segno affermativo.

 

“Puoi essere più chiaro?”

 

Alzai gli occhi al cielo e canticchiai un “Mmh mmh”.

 

“Bene. Dovrei essere lì tra una decina di minuti. Ricorda che lei non deve assolutamente sospettare di niente.”

 

Ripetei ancora quel suono, sentendomi infinitamente stupido.

Girai la testa e scoprii Avril guardarmi in modo preoccupato.

«Kevin… Tutto ok?»

 

Annuì, fingendo di avere una convinzione in realtà inesistente. «Sì, tutto a posto.» Le indicai la cuffia. «Sto solo… cantando una canzone. Nonostante sia altamente ripetitiva, seccante ed egocentrica.» le risposi, sperando che lui capisse il mio riferimento.

 

“Kevin, lasciatelo dire. Sei uno stronzo, amico.” Menomale, almeno ci era arrivato…

 

Avril continuò a guardarmi, sempre più preoccupata. «E allora perché l’ascolti?»

 

Scrollai le spalle, cercando di sembrare il più indifferente possibile. «Perché mi va.»

 

Annuì, guardando l’asfalto sfrecciare sotto i suoi occhi. «Aspetta, ora che ci penso, non mi hai ancora detto perché stiamo andando alla stazione.»

 

Oh, merda. «Perché stiamo andando alla stazione, eh?» chiesi, cercando di prendere tempo.

 

“Dille che stai andando a prendere un amico!”

 

«Sto andando a prendere un amico.» ripetei.

 

«Chi? Lo conosco?»

 

«Sì, è Evan.» risposi, senza pensarci. Oh, cazzo.

 

Sgranò gli occhi, incredula. «Evan?»

 

“Cosa stracazzo dici, Kevin?!”

 

Deglutii, desiderando che una voragine si aprisse sotto di me e mi inghiottisse. «Voglio dire… Ethan. Devo andare a prendere Ethan alla stazione.» Sentii un sospiro di sollievo nel mio orecchio sinistro.

 

«E chi è?»

 

«Oh… è… è un mio vecchio amico d’infanzia. Fa una visitina alla città e… ho pensato che potessi conoscerlo.»

 

«Ok. Sei sicuro di stare bene?»

 

Annuii ancora. «A meraviglia.»

 

“Sei stato grande, Kevin, mi hai salvato. Ti devo un favore.”

 

«Non uno.» mugugnai, fingendo un colpo di tosse.

 

“Sì, hai ragione, solo mezzo. Cinque minuti e sono lì. E ricorda, binario 9.” [N. d. A. Il ¾ non c’è, mi dispiace.]

E poi riattaccò, ridendo.

 

Sospirai. Aiutali, gli amici…

 

 

***

 

Avril's pov

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Qualche minuto dopo, Kevin mi fece scendere dalla macchina. «Tu incomincia ad andare e aspetta il prossimo treno al binario 9.»

 

«Ma come riconoscerò Ethan?»

 

«Beh. Smilzo, biondino, occhi azzurri… lo riconoscerai sicuramente. Nel frattempo, io vado a… comprare le sigarette… e poi torno.»

 

«Tu fumi?»

 

«No. Sono per… Ethan. Sì, sai, lui fuma come una ciminiera.»

 

Annuii ed entrai nel grande edificio, andando in cerca del binario numero 9.

Appena lo trovai, mi sedetti su una panchina vicina e pensai al comportamento di Kevin.

Per tutto il tragitto, era stato strano. Molto strano.

Lo schermo segnava che il prossimo treno sarebbe arrivato tra un minuto.

Mi guardai intorno e, non vedendo nessuno, mi misi a parlare ad alta voce, per ingannare il tempo.

«Ho come la sensazione che Kevin mi abbia raccontato una montagna di balle.

Però, dall’altro lato, mi ha sempre detto la verità.

Mi ha sempre aiutato. Beh, tranne oggi, per storia, ma aveva un impegno, comunque.

No, non può avermi raccontato bugie.

Lui non è come…»

 

«Lui non è come me?» mi chiese una voce, una voce che conoscevo fin troppo bene.

Alzai lo sguardo, incredula, e lo vidi.

Evan.

Se ne stava lì, con un sorriso stanco e gli occhi tristi, a qualche metro di distanza da me, mentre le altre persone scese dal treno si disperdevano intorno a noi.

Era come se tutto intorno a noi… si fosse fermato.

C’eravamo solo noi, con le nostre frasi non dette e con la nostra vicinanza ritrovata.

Dimenticai la rabbia per la sua improvvisa partenza, la delusione per lo scherzo, la tristezza per la lontananza e l’incredulità di vederlo lì, di fronte a me.

Dimenticai tutto e corsi verso di lui, circondai la sua vita con le mie ginocchia e lo abbracciai.

 

Lui restituì l’abbraccio e mi accarezzò i capelli, tenendomi sollevata. «Ehi.»

Fu tutto quello che mi disse.

Ma a me bastò per sapere che lui, in quel momento, era davvero lì con me. Era reale.

 

Poi, la rabbia, la delusione, la tristezza, l’incredulità, tutto quello che avevo cercato di reprimere tornò, e mi staccai da lui.

Lo fissai, seria. «Ma, Evan… Tu ieri mi hai detto che tornavi tra una ventina di giorni… e Kevin… quell’Ethan eri tu.»

 

Sorrise. «Va bene, lo ammetto. Io e Kevin ci siamo messi d’accordo. Non volevamo che sospettassi nulla per il mio ritorno, e così, all’ultimo momento, si è inventato la scusa di “Ethan”. Volevamo solo farti una sorpresa. Ah, a proposito…» Si chinò verso la mia guancia destra e mi baciò. «Buona festa della donna.»

 

«Oh… grazie. È vero, oggi è l’8 Maggio, me ne ero completamente dimenticata.»

 

«Beh, io no. E ho anche in mente il modo perfetto per festeggiare.»

 

***

 

Scoprii, soltanto dopo, che il suo modo perfetto per festeggiare era portarmi in un centro commerciale per…

 

«Tatuaggi! Questo è il negozio migliore, se ti vuoi tatuare.» esclamò, sorridendo.

 

«Ma io non voglio farmi un tatuaggio.» replicai.

 

«Oh, andiamo, tutti gli adolescenti vogliono scrivere sulla loro pelle ed evadere dalle regole! Coraggio.»

Mi costrinse ad entrare nel piccolo negozio ed un omone completamente tatuato dalla testa ai piedi comparve davanti a noi.

«Ciao, Frank.» lo salutò, con una pacca sulla spalla. «Siamo venuti qui perché vogliamo farci un tatuaggio. Niente di così appariscente, però.» lo ammonì, indicando il suo dragone rosso fuoco sull’avambraccio sinistro.

 

L’omone ridacchiò. «Va bene, ragazzi. Prego, accomodati pure, Evan.»

 

Lo trattenni per un braccio, prima che potesse seguire Frank. «Vogliamo? Vuoi dire che lo faremo in due?»

 

«Ma certo!»

 

«E cosa ti tatuerai, un cuore colpito da una freccia con la scritta “I love Mom”?»

 

Sorrise. «Effettivamente, mi era passato per la testa, ma no, non voglio essere uno stupido idiota americano. Per ora non voglio dirti niente, ma quando entrambi avremo finito, ci confronteremo. Dobbiamo condividere anche i piccoli dolori della vita, no?»

 

«Parli come un uomo sposato.» scherzai.

 

Mi fece l’occhiolino e scostò la piccola tendina che separava la stanza centrale dalla “sala d’attesa”.

 

Non sentii assolutamente nessun lamento, nessun grido di dolore, niente.

Una decina di minuti dopo, quando uscì, sembrava che avesse fatto una passeggiata e avesse preso un caffè, talmente era tranquillo.

«Adesso tocca a te.» mi disse.

 

Feci una smorfia di dolore, immaginando già quello che sarebbe successo di lì a poco. «Grazie per avermelo ricordato.»

 

Mi feci coraggio e mi sedetti sulla sedia reclinabile al centro della stanza.

«Allora…» mi chiese Frank, mentre puliva un ago affilatissimo. «Dove lo vuoi, il tatuaggio?»

 

Il mio livello salivare era a zero, avevo davvero paura. «Polso… polso sinistro.»

 

«Va bene. Che disegno vuoi sopra?»

 

Glielo spiegai e, quando si mise all’opera, arrivarono, come previsto, i dolori.

In fondo, ma proprio molto in fondo, Frank era stato davvero bravo. Così, soddisfatta per il mio primo tatuaggio, scostai la tendina e raggiunsi Evan all’esterno.

 

«Quanto ti devo?» disse, prendendo il portafogli.

 

«Niente. Ti pare che faccio pagare due fidanzatini come voi?»

 

«Ehm…» Avevo improvvisamente perso l’uso della parola.

 

«Veramente noi… noi non siamo… fidanzati.» se ne uscì, completamente rosso in viso.

 

Dal canto suo, Frank ci puntò un dito contro. «Non me la contate giusta, voi due. Comunque, adesso devo andare, devo rimettere a posto il negozio.»

 

«Va bene.» gli disse Evan, ancora imbarazzato. «Noi andiamo. Ci vediamo, Frank.»

 

Appena fummo usciti, fuori di sé dalla curiosità, mi chiese cosa mi fossi tatuata.

E così, gliela mostrai.

Avevo scelto una stella nera stilizzata e sotto c’era la scritta “Questa non è una stella, David.”

 

Era un chiaro riferimento a “Colpa delle Stelle”, anche se, più precisamente, si riferiva alla pipa di Magritte, secondo cui la pipa da lui rappresentata non era di fatto una pipa, ma il disegno di una pipa.

 

Appena Evan vide la scritta, scoppiò a ridere per dieci minuti.

Se ne stava seduto su una panchina lì vicino e continuava a tenersi la pancia per le risate.

 

Ovviamente, il fatto di non sapere per cosa stesse ridendo mi diede non poco fastidio.

«Evan, si può sapere cosa c’è di tanto divertente?»

 

In tutta risposta, continuò a ridere ancora, e mi mostrò il suo avambraccio destro.

Sopra di esso, c’era il tatuaggio di un pezzettino di formaggio con sotto la frase “Questo non è formaggio, Ramona.” e poi, ancora più piccola, la scritta “Okay, forse lo è.”

 

Finalmente, risi insieme a lui, per l’ironia della situazione.

 

***

 

Appena finimmo di asciugarci le lacrime per le troppe risate, ci prendemmo un po’ di zucchero filato e andammo in giro per il centro commerciale.

«Allora…» incominciai a chiedere. «Come stanno gli altri? Matt?»

 

Storse il naso. «Gli altri stanno bene, grazie, e Matt stamattina ha comprato una nuova padella. E le ha dato anche un nuovo nome.»

 

«Davvero?»

 

Annuì. «Sì, stamattina non la piantava di blaterare di quanto fosse bella Susy, di quanto fosse figa Susy e bla bla bla. All’inizio abbiamo tutti pensato che parlasse di una ragazza.» Sospirò. «Soltanto dopo abbiamo scoperto che, in realtà, si trattava della padella nuova. Quel ragazzo mi fa venir voglia di prendere a testate un muro, certe volte.»

 

«Va bene, ma non farlo su Jack.» mi premurai.

 

Si accigliò. «Jack?»

 

«Il muro… la testata… oh, lascia perdere.»

 

Stette qualche minuto in silenzio e poi si fermò improvvisamente davanti ad un negozio di vestiti.

Mise le mani in tasca, guardò dritto davanti alla vetrina e un sorriso leggero gli illuminò il viso.

 

«È un sorriso quello?» gli chiesi, curiosa.

Si ricompose immediatamente e scosse la testa, indifferente.

«Ah, no, questa non me la dai a bere. Hai sorriso, dimmi perché.»

 

Senza che riprendessimo a camminare, guardò dritto davanti a sé ed evitò il mio sguardo indagatore. «No.»

 

«No che non hai sorriso?»

 

«No che non voglio dirti il perché.»

Quel sorrisetto da schiaffi tornò subito sul suo volto.

 

Sbuffai più sonoramente del dovuto, in modo che lui potesse sentirmi, ma non pronunciò una sola sillaba.

Incrociai le braccia e battei ritmicamente il piede sulla moquette del corridoio del centro commerciale: mi chiesi se tutti i pannelli di vetro gli facessero quell'effetto bambinesco.

 

Eravamo ancora fermi da qualche minuto fuori da quel dannato negozio di vestiti ed Evan continuava a fissare la vetrina come un ebete.

Il pensiero che desiderassi essere per un attimo uno di quei manichini per essere guardata in quel modo da lui mi fece sbottare. «Oh, andiamo, mi fai sentire una poppante così. Voglio sapere perché stai continuando a sorridere nonostante tu dica che non stai sorridendo. Sto per scoppiare di curiosità puramente infantile, Evan!»

 

«Ho una paresi facciale.» disse, senza smettere di guardare il vetro.

 

«Lo sai, sei veramente uno str-»

 

«Okay, okay. Sono arrivato alla conclusione che tu mi conosci abbastanza bene e che non troverai questo racconto molto strambo.»

 

«Evan, tu potresti arrivare secondo ad una gara di stramberia perché saresti troppo strambo per vincerla.»

 

Si grattò un orecchio, imbarazzato. «Già, ma ti prometto che questo sarà meno strambo. Almeno non più del solito.»

 

«Okay, racconta.»

 

«Va bene. Devi sapere che, quando avevo undici anni, pensavo»

 

«Pensavi di poterti perdere in un supermercato e di poter sopravvivere tranquillamente rubando le caramelle gommose dal reparto dolciumi?»

 

«Esattamente no, aspetta cosa?!»

Mi guardò come se fossi pazza.

 

«Che c'è?» replicai, assumendo l'aria più innocente che riuscissi a fare.

 

«Ora capisco chi sarebbe arrivato al primo posto alla gara di stramberia.»

 

Roteai gli occhi. «Beh, per tua informazione, una volta mi sono persa per davvero e ho potuto verificare questa mia teoria per ben cinque ore.»

 

«Non voglio immaginare lo stato di quella povera donna di tua madre.»

 

Arrossii. «Già, in effetti su questo è meglio glissare.»

 

Annuì rapidamente, concentrato. «Dicevo quando avevo undici anni, pensavo che tutte le persone fossero perfette. Credo che questa mia teoria fosse nata dai cartoni animati che trasmettevano il pomeriggio, non so.

Naturalmente, non potevo pensare lo stesso degli estranei, delle persone che per me erano senza volto, e così mi limitai a far aderire quella convinzione alla gente che per me non era ignota. Kevin, mio padre, Alfred, Mr. Leo»

 

«Chi?» lo interruppi.

 

«Mr. Leo, il mio graziosissimo tigrotto di peluche. Perdonami il nome molto poco fantasioso ma, andiamo, avevo solo undici anni. Insomma, tutti erano perfetti, nella mia visuale da bambino undicenne. Poi, quando incominciai a crescere, capii che tutti, adulti, bambini o animali da peluche che fossero, non erano assolutamente perfetti, anzi. Tutti quanti avevano un'imperfezione, un piccolo neo, una minuscola crepa che impediva loro di raggiungere la più totale perfezione.»

 

«Come l'hamartia di Hazel Grace.» riflettei.

 

«Esatto.» Notai che gli brillavano gli occhi, quando capiva di essere capito. «Ogni singolo elemento su questa Terra aveva, ha e continuerà ad avere una sua hamartia personale, fino alla fine dei giorni.»

 

«Qual era quella di Mr. Leo?»

 

«Oh, quella di Mr. Leo era avere un proprietario come me. Non hai idea di come lo deformavo, travolgendolo nel mio abbraccio stritolatore.»

Si sbagliava, perché anch'io avevo ricevuto quell'abbraccio.

Indicò la vetrina con il pollice e continuò a parlare, senza smettere di guardarmi. «E adesso stavo ridendo, perché ho pensato che anche i manichini hanno un hamartia tutta loro.»

 

«Uhm, vediamo Sono bellissimi e non si devono preoccupare ogni mattina di rifarsi il trucco.» osservai. «Non capisco proprio quale sarebbe la loro hamartia.»

 

Rise. «Loro sono bellissimi e non si devono preoccupare ogni mattina di rifarsi il trucco, certo, e questo semplicemente perché non hanno vita.» Si voltò a guardarli. «Non hanno avuto il privilegio di possedere quel soffio vitale così prezioso e assurdamente fragile.»

 

Riflettei, in cerca di una domanda da porgli. «E che succede se, per assurdo, una qualsiasi creatura non possedesse nessun hamartia?»

 

«Beh, nessun hamartia equivale a Dio. O ad un'altra qualsiasi entità perfetta in cui si voglia credere.»

 

Annuii, d'accordo con lui. «Oppure equivale ad una principessa delle favole. Anche loro sono bellissime e non si devono preoccupare ogni mattina di rifarsi il trucco.»

 

Pensai che la battuta gli facesse ridere, ma non fu così. «No, ti sbagli. Anche loro hanno un hamartia.»

 

«Che sarebbe?»

 

Mi guardò negli occhi, serio, e sospirò. «Essere intrappolate in racconti a cui non crede più nessuno.»

 

Mi ritrovai ad annuire, per la seconda volta in pochi minuti. Questo sì che era un vero record.

E poi, inaspettatamente, mi chiesi quale fosse la sua, di hamartia.

Un brivido alla schiena mi travolse per qualche secondo e sapevo esattamente quale fosse il motivo.

Lui mi aveva definito come "una persona che lo conosceva abbastanza bene" ma, nonostante questo, non sapevo quale fosse la sua hamartia.

 

E forse, era perché la sua piccola crepa doveva ancora arrivare.

 

***

 

Don't wanna be an American idiot. 
Don't want a nation under the new mania. 
And can you hear the sound of hysteria? 
The subliminal mind fuck America.

[…]

Television dreams of tomorrow, 
We're not the ones who're meant to follow. 
For that's enough to argue. 
Well, maybe I'm the faggot America. 
I'm not a part of a redneck agenda. 
[…]

Welcome to a new kind of tension. 
All across the alienation. 
Everything isn't meant to be okay.


 

 

 

Non voglio essere un idiota americano. 
Non voglio una nazione così succube dei nuovi media. 
E lo senti il rumore dell’isteria? 
Il suono subliminale che fotte i cervelli dell’America. 

[…]

Sogni televisivi del futuro, 
noi non dobbiamo per forza dargli retta 

e convincerli a starci dietro. 
Beh, forse io faccio parte dell’America gay. 
Non sono nella lista dei bigotti conservatori. 

[…]

Benvenuti in un nuovo tipo di pressione mentale, 
che attraversa una nazione ormai diversa.

Non tutto deve andare bene per forza.

 

~ Green Day – American Idiot

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Capitolo 15
*** 14. Royals ***


Buonsalve a tutti.

Come vi sentite al pensiero che, tra un po’, si ricomincia con la scuola?

Io… non tanto bene.

Alla fine, ho scritto davvero una one-shot sulla MattxSusy, o meglio, sulla Matsy. [Tutti i diritti vanno a Solluxy per il nome lol] Potete trovarla qui --> http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2806665&i=1

Comunque, passiamo al capitolo.

All'inizio ci sarà una chat tra Kevin e un personaggio misterioso, che ho soprannominato "X". [Molto originale, sì]

Poi, la canzone di oggi sarà all’interno e vi consiglio di ascoltarla mentre, nel frattempo, leggete il testo. Sarebbe fenomenale.

Ancora una volta, so che la canzone è del 2013 e non del 2001, ma ho voluto inserirla lo stesso.

E non preoccupatevi, nel capitolo ci sarà una cover decisamente più bella della canzone originale, almeno a mio parere.

Bene, ci vediamo Domenica prossima <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Closer To Closure - Royals (Lorde Cover)

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 15 Maggio 2001

 

[Laboratorio d’informatica del Sanford-Brown]

 

A: Computer 04 (K)

 

Ciao :)

 

- X

A: Computer 23 (X)

 

Ehm… ciao.

 

- Kev

A: Computer 04 (K)

 

Un po’ di entusiasmo in più sarebbe gradito :)

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Senti, sto cercando di ascoltare la lezione. Se vengo beccato a chattare sulla connessione interna del collage, sono fregato.

 

- Kev

A: Computer 04 (K)

 

Non ti facevo così secchione, Beadfluent. E smettila di guardare verso il mio computer ;)

 

- X

A: Computer 23 (X)

 

Voglio solo capire chi sei.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Chi sei, come stai, cosa fai… le solite domande da chat porno. Piuttosto, come stai? ;)

 

- X

A: Computer 23 (X)

 

Non credevo che in questa scuola ci fossero anche pervertite. Sono un po’ confuso…

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Anch’io! Voglio dire, le hai viste le orecchie del signor Billigan? È chiaro che poi uno è confuso, non ne avevo mai viste di così grosse.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Chissà se prendono anche i canali satellitari…

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Ahahahahahahah.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Oddio. Oh, mio Dio!

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Cosa c’è, hai visto un alieno che si scaccola?

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Magari! È Billigan, che si sta scaccolando. E ha un’enorme caccola che gli sta penzolando dal naso.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Bleah, che schifo!

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

È il tipo più brutto che abbia mai visto.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Sì, è vero.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Penso che dovremmo dire alla polizia che abbiamo un alieno che si scaccola per professore.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Ma questa è una magnifica idea!

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Perché?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Perché, poi, i poliziotti arresterebbero noi per aver fatto morire tutti quegli esperimenti segretissimi dell’Area 51. L’alito di Billigan è davvero letale.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

… E cosa ci trovi di magnifico?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Beh… gli stessi poliziotti ci metterebbero in prigione. Pensa a noi due, insieme, nella stessa cella…

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Che c’è, stai flirtando?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Forse…

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Lo stai facendo male, sappilo.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Oh, andiamo, faccio davvero così schifo?

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Sì.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Ma come?! Questo è il momento in cui tu mi dici:”Ma no, non fai schifo, devi solo fare pratica.”

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Questo non c’è scritto sul copione.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Sei proprio cattivo, uffa…

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Ho solo detto la verità, cerco di farlo sempre. O almeno, quasi sempre…

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Quindi, se ti chiedessi se ti è piaciuto il mio cappello, tu mi risponderesti…?

 

- X

 

*Connessione terminata*

 

 

***

 

Avril's pov

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«Ehm, Avril… mi sembri un po’ nervosa.»

 

Evan mi aveva invitato ad andare con lui in un locale, quel lunedì sera.

Aveva insistito affinché io lo vedessi “in azione” con i Nameless, e così mi aveva proposto di passare la serata a vederlo provare in un locale semivuoto.

Ed era proprio questo il problema: sapevo che Matt e gli altri erano tornati tre giorni fa dalla loro tournée e il fatto di conoscerli mi metteva un po’ in… agitazione.

 

Battei ritmicamente le dita sul sedile della macchina. «Io?! Nervosa?! No.»

 

Lo sentii deglutire rumorosamente. «Okay… per me, insomma… per me non è un problema, se hai… le tue cose

 

Lo fulminai con un’occhiataccia. «Si chiama ciclo. CICLO. C-I-C-L-O. Non capisco perché voi ragazzi pensate sempre che ce l’abbiamo, ogni volta che siamo nervose.»

 

«Ma allora sei nervosa! Comunque… non ho un… insomma… assorbente, qui in macchina…»

 

«Oh mio Dio, Evan, non ho il ciclo! Non ce l’ho, okay? Okay. Ho solo paura di… inciampare, cadere, scivolare, e anche di averlo improvvisamente, il ciclo, se proprio lo vuoi sapere.»

 

Alzò un sopracciglio. «Ma di che cavolo stai parlando?»

 

Incrociai le braccia e sbuffai. «Ho paura di fare una qualsiasi figura di merda e di non piacere ai tuoi amici. Ora te l’ho detto, sei contento?»

 

A quelle parole, accostò immediatamente al marciapiede sulla destra, si slacciò la cintura e mi prese il viso tra le mani. «Ehi, ascoltami un attimo.»

Mi guardava negli occhi con un’intensità da far male. «Tu non potresti mai sfigurare davanti ai miei amici. È impossibile, perché… sei magnifica, intelligente, divertente, e questo non è un pesce d’Aprile. E poi, se anche avessi improvvisamente il… ehm, ciclo… potrei chiedere a Matt se Susy, la sua padella, abbia un… assorbente. Okay?»

 

Abbassai gli occhi, ridendo, e poi li rialzai verso di lui. «Okay.»

 

Annuì con convinzione e ritornò con le mani sui fianchi, togliendole dal mio viso. «Bene. Adesso puoi scendere, il locale è quello lì.»

 

***

 

Una volta presentata agli amici di Evan, scoprii di essermi fatta mille problemi inesistenti. Come al solito.

Erano molto gentili con me e si vedeva che condividevano gran parte del loro tempo tra di loro.

In particolare, notai che Matt era particolarmente euforico dal vedermi lì, e che, ogni volta che intervenivo nella conversazione, dava delle gomitate ad Evan e mi lanciava delle occhiate… strane.

 

«Cari signori e signore…» disse, facendo un cenno nella mia direzione. «Proporrei di bere qualcosa, prima di iniziare a suonare.»

 

«Non so se è il caso, Matt…» s’intromise Evan.

 

«Oh, andiamo! Lo so che sei preoccupato per la salute di Avril, amico, ma credo che lei apprezzerebbe, no?» E anche qui, mi rifilò un’occhiata alquanto bizzarra. 

 

«Beh, si potrebbe anche fare…» tentai di replicare, sentendomi tirata in causa.

 

«Perfetto.» mi rispose, sorridendomi. «Allora, chi vuole un bicchierino?»

 

Inutile dire che, dopo quel singolo bicchierino, ce ne furono molti altri.

Insomma, nel giro di dieci minuti, eravamo tutti quanti ubriachi.

 

«E adesso voi… voi… vorreste suonare?» biascicai. Chissà perché non la smettevo di vedere doppio…

 

«Certo!» mi rispose Evan, che non se la stava cavando tanto meglio. «Adesso… finisco di bere questo… e poi… suoniamo!»

 

Matt fece in tempo a rubare il bicchiere dalle mani di Evan e a scolarlo al posto suo. «CHE COSA SUONIAMO, RAGAZZI?» urlò alla band.

 

«VOGLIO UN PO’ DI SBALLO, MATT!» gridò in risposta Jesse, il secondo chitarrista, come se quello non fosse già abbastanza. «SUONIAMO ROYALS

 

«Io adoro quella canzone!» dissi ad Evan. «Posso cantare con voi?»

 

Evan scosse la testa, appoggiandosi allo sgabello per non perdere l’equilibro. «No… non puoi…»

 

«MA CERTO CHE PUÒ, EVAN!» intervenne Matt. «ANDIAMO RAGAZZI, FACCIAMO URLARE LE CHITARRE!»

 

Tutti si sistemarono ai propri posti e qualcuno – non feci in tempo a vedere chi – mi mise un microfono in mano.

 

La batteria di Matt iniziò con un ritmo martellante e Charlie, con il suo basso, iniziò a cantare.

 

I've never seen a diamond in the flesh. 
I cut my teeth on wedding rings in the movies. 
And I'm not proud of my address, 
In the torn-up town, no post code envy. 


 

Non ho mai visto un diamante nella carne. 
Mi sono fatta le ossa sulle fedi nuziali nei film. 
E non sono orgogliosa del mio indirizzo nella città lacerata, 
nessuna invidia per il codice postale. 

 

Jesse continuò.

 

But every song's like gold teeth, Grey Goose, trippin' in the bathroom, 
Blood stains, ball gowns, trashin' the hotel room. 
We don't care, we're driving Cadillacs in our dreams. 

 

Ma ogni canzone è come 
denti d’oro, Grey Goose, un giro nel bagno,
macchie di sangue, vestiti da ballo, spazzatura in una stanza d’albergo. 
Non ci importa, guidiamo le Cadillac nei nostri sogni. 

 

 

Gli subentrò Matt.

 

But everybody's like Crystal, Maybach, diamonds on your time piece. 
Jet planes, islands, tigers on a gold leash. 
We don't care, we aren't caught up in your love affair. 


Ma tutti sono come 
Cristal, Maybach, diamanti sul tuo orologio. 
Aerei, isole, tigri col guinzaglio d’oro. 
Non ci importa, non siamo nelle tue questioni amorose. 

Poi, io ed Evan cantammo insieme il ritornello.

 

And we'll never be royals (royals). 
It don't run in our blood. 
That kind of
lux just ain't for us, 
We crave a different kind of buzz. 
Let me be your ruler (ruler), 
You can call me queen Bee. 
And, baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll rule. 
Let me live that fantasy. 


E non saremo mai nobili. 
Non scorre nel nostro sangue. 
Quel tipo di lusso non è per noi, 
ci piace un altro tipo di squillo. 
Fammi essere il tuo sovrano, 
puoi chiamarmi ape regina. 
E, tesoro, governerò, governerò, governerò. 
Fammi vivere quella fantasia. 

 

Ancora, ripresero a cantare Charlie, Jesse e Matt.

 

My friends and I, we've cracked the code. 
We count our dollars on the trai
n to the party. 
And everyone who knows us knows that we're fine with this, 
We didn't come for money. 


Io e i miei amici abbiamo decodificato il codice. 
Contiamo i dollari sul treno per la festa. 
E tutti quelli che ci conoscono sanno che ci va bene, 
non siamo venuti per i soldi. 

 

But every song's like gold teeth, Grey Goose, trippin' in the bathroom, 
Blood stains, ball gowns, trashin' the hotel room. 
We don't care, we're driving Cadillacs in our dreams. 

Ma ogni canzone è come 
denti d’oro, Grey Goose, un giro nel bagno,
macchie di sangue, vestiti da ballo, spazzatura in una stanza d’albergo. 
Non ci importa, guidiamo le Cadillac nei nostri sogni. 

 

 

 

But everybody's like Crystal, Maybach, diamonds on your time piece. 
Jet planes, islands, tigers on a gold
leash. 
We don't care, we aren't caught up in your love affair. 


Ma tutti sono come 
Cristal, Maybach, diamanti sul tuo orologio. 
Aerei, isole, tigri col guinzaglio d’oro. 
Non ci importa, non siamo nelle tue questioni amorose. 

 

And we'll never be royals (royals). 
It don't run in our blood. 
That kind of
lux just ain't for us, 
We crave a different kind of buzz. 
Let me be your ruler (ruler), 
You can call me queen Bee. 
And, baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll rule. 
Let me live that fantasy. 


E non saremo mai nobili. 
Non scorre nel nostro sangue. 
Quel tipo di lusso non è per noi, 
ci piace un altro tipo di squillo. 
Fammi essere il tuo sovrano, 
puoi chiamarmi ape regina. 
E, tesoro, governerò, governerò, governerò. 
Fammi vivere quella fantasia. 

 

Evan mi lasciò cantare interamente il bridge.

 

Oooh, ooooh, ohhh. 
We're bigger than we ever dreamed, 
And I'm in love with being queen. 
Oooh ooooh ohhh. 
Life is game without a care. 
We aren't caught up in your love affair. 


Siamo meglio di quanto abbiamo mai sognato 
e adoro essere una regina. 
La vita è un gioco senza importanza. 
Non siamo nelle tue questioni amorose.  

 

 

Alla fine, decidemmo di spartirci l’ultima strofa. Lui cantò la prima parte, mentre io la seconda.

 

And we'll never be royals (royals). 
It don't run in our blood. 
That kind of
lux just ain't for us, 
We crave a different kind of buzz. 


 

E non saremo mai nobili. 
Non scorre nel nostro sangue. 
Quel tipo di lusso non è per noi, 
ci piace un altro tipo di squillo. 

 

Mi avvicinai al suo orecchio, mettendo da parte il microfono per un attimo.

 

Let me be your ruler (ruler), 
You can call me queen Bee. 
And, baby, I'll rule, I'll rule, I'll rule, I'll rule. 
Let me live that fantasy. 


Fammi essere il tuo sovrano, 
puoi chiamarmi ape regina. 
E, tesoro, governerò, governerò, governerò. 
Fammi vivere quella fantasia. 

 

E poi, successe una cosa che mai mi sarei aspettata da lui.

Mi baciò.

 

***

 

Il bacio era stato fantastico.

Con una mano mi aveva afferrato delicatamente la nuca, guidandomi verso la sua bocca, mentre con l’altra mano mi aveva accarezzato la guancia.

Le sue labbra sapevano di dolce e di alcool, ma non mi fermai.

Il suo tocco e le sue labbra erano esitanti, e io sapevo il perché: si preoccupava che avrei potuto respingerlo.

Ma non lo avevo fatto in quel momento, e non lo avrei fatto mai.

Così, avevo alzato le braccia e le avevo portate intorno al suo collo, per attirarlo ancora di più a me.

 

Avevamo continuato a baciarci e poi, una volta separati, scoprii che la serata, purtroppo, non era ancora finita.

Infatti, qualche ora dopo, con la testa in fiamme, venni brutalmente strappata dal mondo dei sogni.

Il mio incubo peggiore si stava avverando.

Spalancai gli occhi, terrorizzata, e urlai.

Urlai contro quel dolore che minacciava di sopraffarmi.

No, non l’avrebbe fatto.

Non stavolta.

Nonostante il buio che mi avvolgeva, riuscii a toccare la scatola delle pillole che avevo sotto il cuscino e a prenderne una.

 

Nel frattempo, sentii dei passi farsi sempre più veloci.

Qualcuno spalancò la porta.

«Avril… che succede?»

 

Era la sua voce.

Era lui.

 

«Va’ via, Evan.»

 

«Ma cosa…»

 

«VATTENE!» gli urlai.

 

Poi ingoiai la pillola e non sentii più niente.

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Capitolo 16
*** 15. With Me ***


Salve salvino (?)

Non mi piace molto com’è venuto questo capitolo, ma ho voluto aggiornare oggi perché sarò molto impegnata nei prossimi giorni, e credo che non sarei riuscita proprio a mettermi al computer.

Comunque, la canzone sarà “With Me”, dei miei amori Sum 41.

Le loro canzoni all’interno della storia, per il momento, dovrebbero essere sette. Sempre che non cambi idea ^^”

Spero vi piaccia :3

Ringrazio molto chi apprezza questa storia silenziosamente e chi la legge e la recensisce.

Buon nuovo anno scolastico a tutti. In bocca al lupo <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Sum 41 - With Me

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 16 Maggio 2001

 

Avril's pov

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La luce del sole filtrò dalla finestra in camera mia e mi svegliai.

Aprii piano gli occhi e mi stiracchiai per bene, ma non fu un buon risveglio.

In un attimo, ricordai tutto quello che era successo la sera prima: l’agitazione per l’incontro con Matt e gli altri, la frenesia subito dopo aver bevuto, il bacio… e il buio.

Avevo avuto un attacco. Di nuovo.

 

Scostai le coperte e mi alzai: qualcosa di giallo era attaccato alla porta.

Mi avvicinai e vidi un post-it, riconoscendo subito la scrittura disordinata con cui era scritto il messaggio.

Ho visto che stavi dormendo e non ho voluto svegliarti. Tutto bene? - E

Lo strappai bruscamente e lo accartocciai.

 

Tutta la rabbia, che avevo cercato di trattenere inutilmente, venne fuori: rabbia verso questa stupida malattia, che era sempre lì, pronta a sopraffarmi in ogni momento, e rabbia verso Dio, perché aveva scelto proprio me per sopportarla.

Strinsi il biglietto appallottolato nella mano destra. Ero arrabbiata, delusa e ferita, soprattutto perché avevo permesso a lui di vedermi in quello stato.

 

Le lacrime minacciavano di uscire, ma le ricacciai immediatamente indietro.

Provavo vergogna, una cocente e dolorosa vergogna.

 

Vergogna perché mi aveva vista nel peggiore dei momenti.

Vergogna perché mi aveva vista quando ero debole e inerte.

Quando ero vittima della mia malattia senza nome.

 

Guardai il tatuaggio sul polso sinistro e fissai, per dieci, lunghissimi secondi, il suo secondo nome, David.

Strinsi le nocche fino a farle sbiancare.

 

Non succederà mai più una cosa del genere, promisi a me stessa.

Mai più.

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 01 Giugno 2001

 

 

La campanella suonò, dichiarando conclusa un’altra noiosissima giornata di lezione.

Qualche minuto dopo, voltai piano la testa e mi guardai le spalle con circospetto, sperando che lui non ci fosse.

 

«Avril.»

 

Saltai dalla sedia per lo spavento e fulminai Kevin con lo sguardo. «Kevin! Mi hai fatto perdere quindici anni di vita!»

 

«Wow, ti facevo un po’ più grande di una poppante…»

Roteai gli occhi, ma non ebbi il tempo di replicare. «Se lo stai cercando, mi dispiace, ma non c’è.» disse. «È stato uno dei primi ad andarsene e adesso starà sicuramente in sella alla sua moto sulla via di casa.»

 

Emisi un impercettibile sospiro di sollievo e rilassai le spalle. «Va bene. Noi andiamo con Alfred?» chiesi, alzandomi.

 

Annuì. «Certo.»

 

E così, accompagnata dall’andatura leggermente zoppicante di Kevin, percorsi il corridoio del Sanford-Brown e raggiunsi la limousine guidata da Alfred.

Strabuzzai gli occhi: era completamente nera, tirata a lucido e, beh… enorme.

Decisamente poco vistosa.

 

Io e Kevin ci sedemmo sui sedili posteriori, mentre venimmo accolti dalla baritonale voce di Alfred, che canticchiava “James Bond”.

Appena si accorse del nostro imbarazzo, s’interruppe subito. «Oh, scusatemi tanto, ragazzi. È che, da bambino, fantasticavo di essere una spia in missione che sparava con la pistola ad acqua e pensavo che bastasse solo canticchiare questa canzoncina per entrare nell’FBI.» ridacchiò, ricordando quello che, evidentemente, era rimasto solo un sogno infantile. «Piuttosto, com’è andata la vostra giornata?»

 

Io e Kevin rispondemmo in coro.

«Magnifica.» disse lui, facendo un sorriso da 1060 watt.

«Noiosa.» risposi io, roteando gli occhi.

 

Alfred rise ancora. «Beh, mettetevi d’accordo.»

 

«Direi magnificamente noiosa, Alfred.» terminò Kevin, sempre con il sorriso.

 

Mi girai verso di lui. «Perché magnifica?»

 

Fece un cenno con il capo. «Perché… sono riuscito a seguire tutto il discorso di Wilson.»

 

Alzai un sopracciglio. «Tu ti addormenti, alle lezioni di Wilson.»

 

Arrossì. «E… perché… uhm… Mary ha fatto le polpette al sugo. Io adoro le polpette al sugo. E anche tu adori le polpette al sugo. Chi non adora le polpette al sugo?»

 

Ridussi gli occhi ad una fessura. «Tu non me la racconti giusta, Kevin Beadfluent.»

 

Scrollò le spalle e diresse lo sguardo all’esterno della macchina.

Anch’io guardai il finestrino e riconobbi la moto di Evan parcheggiata accanto al cancello di villa Taubenfeld.

Sentii improvvisamente lo stomaco in subbuglio.

 

Kevin scese dalla limousine e mi tenne la portiera aperta, in modo da poter far scendere anche a me. «Dio, ho una fame!»

 

Aprì il cancello con la chiave e percorremmo il viale. «Allora ti è andata proprio bene, visto che Mary ha preparato le polpette al sugo.» dissi, dandogli una pacca sulla spalla.

 

Lui, però, ebbe una reazione del tutto inaspettata: con una smorfia, si scostò.

Lo guardai, totalmente confusa.

 

Abbassò lo sguardo. «Scusami, tu non c’entri niente. È che… ho la schiena completamente coperta di ferite. E, beh… mi fa male anche se qualcuno mi sfiora.» sussurrò.

 

Abbassai subito la mano, sentendomi terribilmente in colpa. «Oddio, mi dispiace tanto Kevin, non lo sapevo. In che senso… ferite? Cosa sono, graffi?»

 

Scosse la testa. «No, sono delle lesioni più profonde, non semplici graffi.»

 

«E come te le sei procurate?»

 

«Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Ce le ho sempre avute, da quel che ricordo.»

Ci fu qualche breve istante di silenzio, in cui pensai a cosa potesse essergli capitato.

Poi, parlò di nuovo. «E tu?»

 

«Cosa?» gli chiesi, mentre aprivamo la porta e andavamo verso la sala da pranzo.

 

«Hai fame?»

 

“Più di quanto immagini.” stavo per rispondergli.

Ma non pronunciai una sola sillaba, perché una morsa mi strinse pericolosamente lo stomaco.

Alzai gli occhi e vidi Evan, seduto al tavolo, con lo sguardo dritto verso di me.

 

«No. Credo che salirò in camera.»

E scomparsi dalla sua vista.

 

***

 

 

 Evan's pov

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Inspirai ed espirai profondamente.

Poi, mi presi la testa tra le mani ed emisi un gemito di frustrazione.

 

In tutta risposta, sentii Kevin spingere indietro la sedia, facendola raschiare sul parquet.

«Ehm… Che succede, amico?»

 

Alzai lo sguardo verso di lui. «Ti manca solo la carota e poi saresti un perfetto Bugs Bunny.»

 

Alzò le spalle. «Allora? Mi vuoi dire che succede?»

 

Sospirai. «È evidente, non c’è altra spiegazione: ce l’ha con me.»

 

«Chi ce l’ha con te?»

 

Roteai gli occhi. Kevin era il mio migliore amico, va bene, ma era un po’ duro di comprendonio. «Mia nonna.» gli risposi sarcasticamente.

 

«Non sapevo avessi una nonna…»

 

«Oh mio Dio, Kevin, non è di mia nonna che sto parlando! Si tratta di Avril!»

 

«E che ne so io! Se tu mi dici “Mia nonna”, io credo veramente che tu intenda tua nonna, scusa.»

 

Ignorai la sua ultima risposta. «Il fatto è che sento che mi sta evitando. E lo sta facendo con tutte le sue forze.» Appoggiai le mie mani sulle sue. «Ti prego Kevin, aiutami, non so cosa fare!»

 

«Non toccare le mie mani, maniaco!» mi disse, facendo una finta faccia schifata. «E poi, non capisco: perché non ci vai a parlare e risolvi tutta la faccenda?»

 

Sgranai gli occhi.

Era un’idea così semplice… che poteva funzionare!

Un secondo dopo, però, la sorpresa venne rimpiazzata da un’enorme sensazione di stupidità.

Perché non ci avevo pensato prima, dannazione?!

 

«Grazie Kevin, sei un vero amico!»

 

«Figurati, “Centro d’Ascolto” è il mio secondo nome. Beh no, in effetti sarebbe il secondo e il terzo…»

 

Ma non lo stavo già più ascoltando.

Non mi complimentai per la sua battuta e salii in fretta le scale.

Poi, cercando di calmarmi, bussai alla porta della camera di Avril.

 

***

 

 

 Avril's pov

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Sentii qualcuno bussare alla porta.

Increspai le sopracciglia ma, sicura che fosse Kevin, andai ad aprire.

E, invece, mi ritrovai davanti… Evan.

Rimasi completamente paralizzata, non sapendo se sbattergli la porta in faccia o se lasciarlo entrare.

Così, approfittando della mia indecisione, decise lui per tutti e due e si catapultò nella mia camera, muovendosi irrequieto.

 

«Non va bene. Non va bene per niente.»

 

Lo guardai, confusa. «Di cosa…»

 

«No, non interrompermi, sto cercando di mettere insieme un discorso decente. In questo modo, la cosa non può più andare avanti.» Si passò una mano tra i capelli. «Io non posso più andare avanti, Avril. Sono quindici fottutissimi giorni che mi eviti. Andiamo a scuola e tu mi eviti. Cerco di attirare la tua attenzione e tu mi eviti. Persino se mi parassi davanti a te e ti mettessi un dito nell’occhio, tu mi eviteresti! E non dire che non è vero! Non ti sento più vicina come prima, mentre invece vorrei che tu fossi sempre con me.

È da quella sera al locale che sei distante e mi sto scervellando da allora, perché non riesco a capire se il problema sia stato il bacio o quello che è successo dopo!

Prego che tu non ti sia pentita del bacio, perché… insomma… è stata la cosa più bella di tutta la mia vita. Poi, dopo quell’episodio, io e tua madre abbiamo parlato. Non del bacio, è chiaro, ma di quello che ti è successo quella notte: mi ha spiegato la tua malattia e mi ha detto anche della sua assurdità, perché, voglio dire, non c’è alcuna causa che la determini. E se, magari, tu provi… non so… vergogna… o imbarazzo… ti posso assicurare che non ce n’è alcun bisogno, perché, andiamo, io m’imbarazzo a dire la parola “assorbente”!» Fece una breve risata isterica, ma tornò subito serio. «La affronteremo. Affronteremo questa malattia insieme. Io sarò il tuo Augustus e tu sarai la mia Hazel Grace. Sempre se lo vuoi. Quello che voglio dire è che… insomma… io… io sto impazzendo… senza di te.»

 

Avevo sentito abbastanza.

Mi avvicinai a lui, allacciando le mani al suo collo.

«Sta’ zitto.» gli sussurrai.

 

E poi, mi alzai sulle punte, e lo baciai.

 

***

 

I don't want this moment to ever end,
wh
ere everything's nothing, without you.
I'd wa
it here forever just to,
to see you smile.
'Cause it's true,
I am nothing without you.

[…]

I want you to know,
with everything, I won't let this go.
These words are my heart and soul.

I'll hold onto this moment, you know,
'cause I'll bleed my heart out to show.
And I won't let go.

[…]

All the streets,
where I walked alone,
with nowhere to go,
have come to an end.

[…]

I don't want this moment to ever end,
where everything's nothing, without you.

.

 

 

Vorrei che questo momento non finisse mai, 
dove tutto è niente, senza di te. 
Aspetterò qui per sempre, 
solo per vedere il tuo sorriso. 
Perché è vero, io non sono niente senza di te. 

[…]

Voglio che tu sappia che, 
con tutto quello che è successo, 
non permetterò che questa cosa vada in fumo. 
Queste parole sono il mio cuore e la mia anima. 
Terrò stretto questo momento, lo sai, 
mentre il mio cuore sanguina per mostrartelo.

E non permetterò che questa cosa vada in fumo. 

[…]

Per le strade, dove cammino da solo, 
senza alcun posto dove andare, 
sono arrivato alla fine. 

[…]

Vorrei che questo momento non finisse mai, 
dove tutto è niente, senza di te. 

 

~ Sum 41 – With Me

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Capitolo 17
*** 16. I Love the Both of You ***


Salve.

Mi dispiace di non aver aggiornato per molto tempo questa storia.

Così, ho pensato di interromperla, per mancanza di tempo.

Non ve la prendete.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scherzetto!

È ovvio che non la interrompo e, anche se il tempo è mio nemico, cercherò lo stesso di aggiornare il più velocemente possibile.

Scusatemi davvero per il ritardo, ma voi non potete capire cosa sono stati questi primi 15 giorni di scuola: compiti, compiti, compiti e compiti.

Uhm, vediamo, ho già detto compiti?

 

Se finisco ogni sera alle nove, è un miracolo.

Cercherò di rispondere al più presto alle recensioni e scusatemi anche per com’è venuto questo capitolo, ma, davvero, è stato molto difficile scriverlo nelle mie condizioni ^^”

Al prossimo aggiornamento <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Evan Taubenfeld - I Love The Both Of You

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 30 Maggio 2001

 

Avril's pov

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Riuscivo a sentire gli strilli del piccolo.

Era nato solo da qualche settimana, ma la sua voce già pretendeva di essere sentita.

Sorrisi tra me e me. Sarebbe stato un ottimo urlatore.

Poi, però, il mio sorriso svanì.

Avvicinai il mio orecchio alla porta che separava il reparto della neonatologia dalla sala d’attesa, ed ascoltai.

Erano grida. Grida di un uomo.

 

Scossi i capelli via dagli occhi e mi concentrai sulla voce maschile.

«Non mi capacito di come possa essere successo…»

 

Cercai di visualizzare la scena.

Un uomo, probabilmente sulla quarantina, stava camminando nervoso su e giù per il corridoio della sala d’attesa.

Riuscivo a sentire i suoi passi irrequieti strisciare sul linoleum.

Forse era solo, o forse c’era qualcuno con lui.

 

«Calmati, ti prego.» Una donna. C’era anche una donna.

 

«No che non mi calmo. Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione.»

 

Sentii la donna emettere un gemito di dolore, come se l’uomo le avesse dato un pugno nello stomaco.

«Come… Come puoi parlare così di tuo figlio?»

 

La rabbia dell’uomo esplose incontrollata e la voce gli salì di un’ottava. «Quello non è mio figlio! QUELLO È UN ABOMINIO! NON È UN BAMBINO, È SEMPLICEMENTE UNA COSA, UN ESPERIMENTO RIUSCITO MALE!»

Poi deglutì, come se stesse cercando di calmarsi, invano. «È fragile, è debole. È malato. Dobbiamo rimediare, Avril.»

 

Il discorso dell’uomo era stato molto concitato, certo, ma c’era qualcosa che non mi quadrava.

 

Come faceva a sapere il mio nome?

 

E poi, la sentii.

Sentii una voce gutturale, di un ragazzo, che mi chiamava dolcemente.

«Avril. Avril, svegliati.»

 

E mi risvegliai dal sogno.

 

Sgranai gli occhi e alzai di scatto il busto, con il respiro ansante.

Di fronte a me, vidi un’espressione accigliata diffondersi sul viso di Evan.

 

«Che succede?» mi chiese.

 

«No… niente. Solo un brutto sogno.» Cercai di sorridergli, ma credo che il mio cervello optò per l’opzione “Smorfia non del tutto convincente”.

 

Alzò un sopracciglio e fece un sorriso sghembo. Notai che a lui, invece, i sorrisi uscivano benissimo. «Che mi nascondi qualcosa? Tipo, un sogno erotico su di me, o robe del genere?»

 

«Ma no, scemo.»

Scostai le coperte e mi alzai in piedi, di fronte a lui.

Fece scivolare le braccia intorno al mio corpo, e mi strinse a sé, sollevandomi sulle punte dei piedi.

Lo baciai lentamente e nascosi il viso tra l’incavo della sua spalla, respirando il suo odore di pulito.

«Mmh… baciarti potrebbe diventare il mio hobby preferito.» sussurrai.

 

«Beh, il mio lo è già.»

 

Risi di gusto e circondai il suo collo con le braccia. «Allora? Cosa hai fatto da quando ti sei svegliato?»

 

«Uhm, vediamo.» mi rispose, poggiando l’indice sul mento. «Ho fatto una bella doccia calda e rilassante, poi sono sceso giù, ho apparecchiato il tavolo, ho preparato la tua colazione, mentre tu dormivi ho già fatto lo zaino che tu avresti dovuto fare ieri e, cosa più importante di tutte… mi sono svegliato con il sorriso sulle labbra, il che è magnifico, se penso che il motivo della mia felicità sei tu.»

 

Lo baciai ancora e lo strinsi forte a me. Si poteva avere un buongiorno migliore?

«Wow.» commentai ironica. «Certo che si hanno dei vantaggi ad avere un fidanzato, se ti prepara la colazione.»

 

Si staccò da me, con un’espressione sbalordita sul viso, e si toccò il petto con una mano. «Avril Ramona Lavigne, posso affermare, in tutta onestà, che questo non me lo sarei mai aspettato da te.» mi disse, scherzando. «Se me l’avessi detto prima, a quest’ora sarei già in una famosissima università parigina dove studiano solo come servire le colazioni!»

 

«Mi dispiace, signor Taubenfeld, ma le toccherà passare un’altra giornata con me in un anonimo college americano.»

 

«Non chiedo di meglio.» Sorrise, contagiando anche i suoi occhi azzurri, e andò verso la porta. «E così, adesso sarei il tuo ragazzo, eh? Immagino sia un grande cambiamento, comunque: da protagonista di un sogno porno di una ragazza a suo fidanzato. Lo ammetto: sono colpito.»

 

Mi tolsi una pantofola e provai a tirargliela dietro, senza successo.

Lo sentii ridacchiare e vidi che aveva già iniziato a scendere i primi scalini, quando si fermò improvvisamente e tornò indietro di corsa.

 

Evan si sporse verso di me, finché a dividere i nostri volti non ci furono solo che pochi millimetri. Scorgevo le piccole sfumature azzurre dei suoi occhi, mentre non riuscivo a staccare lo sguardo dalle sue labbra leggermente socchiuse: riuscivo a sentire il calore del suo respiro.

Poi, si avvicinò ancora di più a me, per sussurrare al mio orecchio. «Cerca di metterti qualcosa di carino, Lavigne. Questa sera si va in un posto speciale.»

 

***

 

 [Laboratorio d’informatica del Sanford-Brown]

 

A: Computer 04 (K)

 

Ciao.

 

- X

A: Computer 23 (X)

 

Ciao, X. Stai ancora pensando alla nostra chiacchierata di due settimane fa?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Certo.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Uhm… posso provare ad indovinare chi sei?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Va bene, Kevin.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Sai, mi dà un po’ fastidio il fatto che tu sappia chi sia io, mentre io non so niente di te.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

È la vita. C’è chi può e chi non può. E io può sempre. [N.d.A. Non vi preoccupate, l’errore è fatto di proposito]

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Dunque, incominciamo con le venti domande…

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Te ne concedo al massimo dieci, Beadfluent.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Uh, qualcuno qui vuole mantenere segreta la sua identità, eh? Comunque, iniziamo. Prima domanda: sei davvero di questo college?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

No, cioè, fammi capire: io e te abbiamo già chattato due volte nella rete privata della scuola, in più sai che ti ho regalato il cappello… E TU MI CHIEDI SE SONO DI QUESTO COLLEGE?!

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Non scrivere in stampatello, sembri in preda ad un attacco isterico. Ho semplicemente voluto controllare, non si sa mai con Internet. Saresti sempre potuto essere un hacker… o peggio, un pazzo squilibrato…

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Lo diventerò molto presto, se continuo a leggere queste tue supposizioni. Andiamo avanti, che è meglio.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Va bene, seconda domanda: sei nel consiglio studentesco?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Stranamente… no.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Riformulo la domanda: sei mai stato cacciato dal consiglio studentesco?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Stranamente… sì.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Fantastico. Hai mai più ripensato alla caccola super-mega-caccolosa di Billigan?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Purtroppo sì, me la vedo davanti agli occhi tutte le notti. È una cosa… brrr.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Bleah. Come mai hai scelto proprio me?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Non lo so, non credo ci sia un perché. Forse possono influire i soldi, chi lo sa… Non è che sei milionario?

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Ehm… No.

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Peccato, vorrà dire che tenterò con qualcun altro.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Divertente. Molto divertente. E non sono neanche sarcastico, pensa un po’. Se ti trovassi davanti ad un ragazzo con una… instabilità fisica, chiamiamola così… cosa faresti?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Beh, lo tratterei esattamente come faccio con tutti. Il che vuol dire che, per svegliarlo, la mattina, gli verserei una bella secchiata ghiacciata nelle mutande. Perché questa domanda?

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Niente, niente. Prossima: credi nell’amore a prima vista?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Sì e no. Voglio dire, non è affatto come scegliere un vestito e dire:”Mi piace, lo prendo”. Innamorarsi di qualcuno vuol dire stare assieme a quella persona minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Non sei innamorato solo perché non hai alternative, perché non puoi stare con qualcun altro. Sai già che ti appartiene e ci stai bene insieme perché, nonostante tutto, continuerai sempre a scegliere lui. O lei.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Noi due… noi due ci siamo già incontrati?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Sì.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

E come posso averti incontrato senza sapere neanche chi sei?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Forse non stavi prestando attenzione nel modo giusto.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Va bene. Come ultima cosa, vorrei chiederti… sei un ragazzo, vero?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Questa è l’unica domanda a cui non posso rispondere, Beadfluent. Mi dispiace, ma devo andare. Sono in ritardo.

 

- X

 

A: Computer 23 (X)

 

Aspetta. In ritardo? In ritardo per cosa?

 

- Kev

 

A: Computer 04 (K)

 

Per rientrare nella realtà.

 

- X

 

*Connessione terminata*

 

***

 

Avril's pov

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Mi rosicchiai le unghie, nel tentativo disperato di calmarmi.

Sì, lo so, non era un buon rimedio. Ma che ci volete fare, quando ero nervosa, le mie unghie erano la prima cosa che trovavo su cui sfogare la mia agitazione.

Wilson continuava a blaterare di qualcosa che aveva a che fare col “poema cavalleresco”, ma non gli prestai ascolto.

Ero troppo impegnata ad alimentare le mie insicurezze e a farmi brutti film mentali su cosa sarebbe successo quella sera con Evan.

Fino a quel momento, ero riuscita a fare solo tre ipotesi:

 

- La prima: Evan che mi lasciava.

Sì, so che non aveva molto senso, visto che mi aveva detto di vestirmi elegante. Ma magari voleva solo addolcirmi la pillola…

 

- La seconda: Evan che mi raccontava qualcosa del suo passato.

Magari mi avrebbe detto qualcosa di scabroso, tipo che era un agente del KGB o un membro del FBI sotto copertura e che il suo fidanzamento con me era tutta una montatura.

 

- La terza: Evan che mi diceva che andava tutto bene.

Mi avrebbe confessato quanto mi amasse, quanto io fossi speciale per lui, quanto fossi importante nella sua vita… e poi mi avrebbe scaricato.

 

Emisi un sospiro di disperazione e mi misi le mani tra i capelli.

Ora come ora, l’unica opzione possibile mi sembrava sbattere la testa contro il muro fino a quando non mi fossi calmata.

 

Poi, per fortuna, la campanella decretò la fine di quella giornata di lezione e, in men che non si dica, mi ritrovai nel corridoio, insieme a Kevin.

Mi guardai attorno, per cercarlo, ma di lui non c’era traccia.

«Evan?» chiesi a Kevin.

 

Dal canto suo, lui continuava a fissare dritto di fronte a sé, senza dare segno di avermi sentito.

Sembrava… assente.

 

Gli passai una mano davanti agli occhi, per attirare la sua attenzione. «Kevin? Ci sei?»

 

«Eh?» Sembrò mettermi a fuoco solo in quel momento. «Che c’è?»

 

«Ti ho chiesto se sapessi dove fosse Evan.»

 

«Evan? Dovrebbe essere a casa, adesso. È uscito prima e ha saltato l’ultima ora. Non te ne sei accorta?»

 

Increspai le sopracciglia, pensierosa. «No… non credo.»

Feci un rapido riassunto della situazione, e capii che ero stata talmente presa dalle mie ansie che non mi ero nemmeno accorta della sua assenza.

 

Fantastico.

La giornata non poteva andare peggio di così.

 

Invece, scoprii, con mio grande disappunto, che, effettivamente, la giornata poteva anche andare peggio.

Tre ore dopo, infatti, mi resi conto che Evan non era affatto tornato a casa, come mi aveva suggerito Kevin, e che non aveva lasciato niente di scritto per me.

Ergo, non sapevo né l’ora, né tantomeno il luogo dell’appuntamento.

E questo era niente, in confronto alla Scelta che dovevo prendere.

La Scelta con la S maiuscola.

 

COSA DIAVOLO DOVEVO METTERMI?

 

Mi aveva detto di vestirmi elegante, certo, ma c’era una bella differenza tra sentirlo dire dal tuo ragazzo e indossare un bel vestito, sentendoti completamente inadatta.

 

Dopo una doccia rilassante, alla fine, optai per un vestitino nero, di quelli leggeri e sopra il ginocchio, che ti fanno venir voglia di sprofondare appena metti piede fuori casa.

 

E fu proprio in quel momento che Peter bussò alla porta della mia stanza e mi comunicò che doveva portarmi, “su ordine del signorino Evan”, in un posto speciale.

 

***

 

Peter mi fece salire con gentilezza sulla limousine che aveva parcheggiato fuori dalla villa.

I sedili in pelle nera erano comodissimi e, in qualche modo, conciliavano il sonno, ma io non avevo alcuna intenzione di dormire.

Anzi, per l’agitazione, sembrava quasi che mi stessi sedendo su degli spilli acuminati.

 

Mossi nervosamente le dita, nella speranza che Peter facesse retromarcia indietro e che mi riportasse a casa, dove sarei stata la classica fifona di sempre insieme al mio pigiama con gli orsacchiotti.

 

Peter, leggendo probabilmente quello che doveva trasparire dai miei occhi, cercò di rassicurarmi. «Non si preoccupi, signorina Avril. Sa, è capitato che il signorino Evan non sia sempre stato gentile con tutti, ma io riesco a notare i piccoli cambiamenti legati alla sua vicinanza. Lei lo sta cambiando in meglio, e di questo ne deve essere fiera.»

 

Arrossii fino alle punte dei capelli e tentai, con un penoso balbettio, di ringraziarlo.

Dopo qualche minuto, Peter accostò accanto ad un marciapiede.

Alzai lo sguardo, come attirata dalla sua presenza, e lo vidi.

Tutte le ansie che avevo avuto fino a quel momento, si sciolsero come neve al sole di fronte alla sua vista.

 

Era incredibilmente bello: indossava uno smoking nero, che gli metteva in risalto il fisico snello, mentre i capelli biondi erano scompigliati dalla leggera brezza che soffiava quella sera.

Ma la cosa che mi colpì, più di tutto, fu il sorriso: gli illuminava il viso in una maniera sconvolgente.

 

Scesi dalla macchina con le ginocchia che mi tremavano, e non di certo per il freddo o per la paura!

Venne verso di me, non togliendomi mai gli occhi di dosso, e mi diede il suo braccio, che presi molto più che volentieri. «Se ti dicessi che sei incredibilmente sexy con quel vestito, Ramona, cosa succederebbe?»

 

«Ti risponderei che sei un maniaco, David. Oltre che un pazzo.»

 

Mi guardò con quegli occhi fiammeggianti. «Oh, ma io lo sono. Sono completamente, totalmente e irrimediabilmente pazzo di te. E, a questo proposito…» disse, conducendomi all’entrata di un cancello. «Ho preparato questa piccola sorpresina.»

 

Camminammo insieme in un piccolo viale circondato da piante e fiori di ogni genere: piccole luci decoravano e percorrevano centinaia e centinai di rami.

L’atmosfera era magica.

 

Infine, arrivammo ad un tavolo apparecchiato per due: sopra una tovaglia bianca, che doveva essere probabilmente seta, vi era posizionato un unico grande vassoio d’argento circolare coperto da una calotta coordinata.

 

Mi girai per guardarlo, con la bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato questo?»

 

«Sì. Perché, non ti piace?»

 

Dio, mi veniva una voglia incredibile di baciarlo, quando faceva la parte dell’insicuro.

«Stai scherzando, vero?» Corsi verso il tavolo, dimenticando per un attimo di non indossare i miei comodi e vecchi jeans. «Evan, questo è… questo è… semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»

 

«Oh, beh, allora devi ancora vedere il meglio.»

 

Mi aiutò a sedermi, proprio come un vero gentiluomo, e tolse il coperchio argentato dal vassoio.

Mi aspettavo di vedere salmone, caviale, o roba ancora di più da riccastri, quando invece c’era solo…

 

«Pizza? Hai ordinato una pizza?!» dissi, a metà tra lo sbalordito e il divertito.

 

«E non una comune pizza! È una pizza gigante con würstel e patatine sopra. Ho pensato che informale sarebbe stato meglio.»

 

Mi alzai dalla sedia e allacciai le mie braccia al suo collo. «Grazie per questa serata. Ti…»

 

Amo, stavo per dirgli.

Ma non lo feci.

C’era qualcosa che mi bloccava.

Eppure sarebbe stato così semplice!

Quell’unica parola era lì, a portata di mano.

Ma, non so per quale motivo, quelle tre lettere non volevano uscire dalla mia bocca.

 

Così deglutii, piena di vergogna, e staccai a fatica lo sguardo da lui, tornando lentamente al mio posto. «Ti sei preparato molto bene.» conclusi.

 

Per fortuna, non notò il mio improvviso malessere. «Certo. Dai, coraggio, attacca la pizza, Tigre.»

 

Diciamo che, più che altro, la pizza la mangiò lui.

Io non avevo molta fame, e sentivo ancora quel maledetto peso sullo stomaco per la frase non detta di prima.

 

«E adesso, se non ti dispiace, vorrei concludere la serata in bellezza.» disse poi.

Si abbassò sotto il tavolo e prese la sua chitarra classica, che prima non avevo notato.

«Sai, ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che occuparsi di un’altra persona dia solo fastidi inutili.» Sorrise. «Ma, grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito che niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi farti abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore appena senti che quella persona ti dà il buongiorno. La verità è che non si sta meglio da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Per cui… ho scritto questa canzone.»

 

E allora incominciò a suonare, completamente estraniato dal mondo.

 

So, we got an issue.
Put away the tissues.
I'm telling you now that things will be alright.
The woman that you're swearing,
and
other times you caring.
And how will I ever know what's on your mind?

Well, hear me out,
I'm not complaining.
Got a theory that explains it.

I guess you're schizophrenic,
but I swear I don't regret it.
Yeah, I love the things you do,
I promise that is true.
Here is my confession,
Yeah, I heart your imperfections.
And I think it's time you knew,
I love the both,
I love the both of you.

We got an issue.

No, I don't need a warning,
at least you’re never boring.
I'm watching you laugh yourself until you cry.
Well, I don't let it face me,
‘cause we're all a little crazy.
But who wants to have the sugar with no spice?

Well, hear me out,
I'm not complaining.
I don't ever want you changing.

I guess you're schizophrenic,
but I swear I don't regret it.
Yeah, I love the things you do,
I promise that is true.
Here is my confession,
Yeah, I heart your imperfections.
And I think it's time you knew,
I love the both,
I love the both of you.

And like a box of chocolates
And the coin after it flips
Like a card out of the deck
How can you ever be sure what you're gonna get?

I guess you're schizophrenic,
but I swear I don't regret it.
Yeah, I love the things you do,
I promise that is true.
Here is my confession,
Yeah, I heart your imperfections.
And I think it's time you knew,
I love the both,
I love the both.
I think it's time you knew,
I love the both,

I love the both of you.

I don't ever want you changing, girl.

 

Quindi, abbiamo un problema.
Metti via i fazzoletti.
Ora ti sto dicendo che le cose andranno bene.
La donna su cui stai giurando,
e di cui altre volte ti prendi cura.
Riuscirò mai a capire cosa c'è nella tua mente?

Ascoltami bene,
non mi sto lamentando.
Ho una teoria che spiega tutto questo.

Credo che tu sia schizofrenica,
ma giuro che non mi dispiace.
Amo quello che fai,

giuro che è vero.
Questa è una confessione,
amo le tue imperfezioni.
Credo sia ora che tu sappia,
che amo tutto.
Amo tutto di te.


Abbiamo un problema.

Non ho bisogno di un allarme,
almeno non sei mai noiosa.
Ti sto guardando ridere finché non piangi.
Non mi lascio fronteggiare,
tutti siamo un po’ pazzi.
Ma chi vuole avere lo zucchero senza sapore?

Ascoltami bene,
non mi sto lamentando.
Non vorrei mai che tu cambiassi.


Credo che tu sia schizofrenica,
ma giuro che non mi dispiace.
Amo quello che fai,

giuro che è vero.
Questa è una confessione,
amo le tue imperfezioni.
Credo sia ora che tu sappia,
che amo tutto.
Amo tutto di te.


E, come una scatola di cioccolato,
e la moneta dopo averla lanciata,
come la carta fuori dal mazzo,
come puoi sempre essere sicura di cosa otterrai?

Credo che tu sia schizofrenica,
ma giuro che non mi dispiace.
Amo quello che fai,

giuro che è vero.
Questa è una confessione,
amo le tue imperfezioni.
Credo sia ora che tu sappia,
che amo tutto.
Amo tutto di te.


Non vorrei mai che tu cambiassi, ragazza.

 

E poi, come se fosse stata parte della canzone, disse una frase.

Una singola frase.

 

«Ti amo, Avril Ramona Lavigne.»

 

Deglutii a fatica, scacciando quel groppo pesante che mi si era formato in gola.

«Evan, io… non… non posso. Vorrei tanto dirti quelle due parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due settimane sono state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo perché c’eri tu. E forse mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo presto per me, ma, io… io… non ci riesco.»

 

La vergogna era troppa.

Non riuscivo a dirgli a mia volta che l’amavo.

Così lasciai che lui guardasse me, fino a quando non annuì, con le labbra contratte, e tornò a guardare la sua chitarra.

 

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Capitolo 18
*** 17. Stubborn ***


Salve salvino.

Scusatemi, ancora una volta, per il ritardo.

Credo che gli aggiornamenti andranno un po’ così, almeno fino a Natale. [Sempre se ci arrivo in possesso delle mie facoltà mentali…]

Anyway, ho deciso di descrivere anche l’incontro tra Evan e Avril nella prima parte; inoltre, la canzone sarà la mia preferita di Evan, ovvero “Stubborn”. *fangirla*

E fate attenzione alle frasi scritte in grigio: quelle saranno le parole sacre ed intoccabili, udite udite, della sua coscienza. U.U

Infine, prima di lasciarvi al capitolo, volevo ringraziare tutte le persone che seguono questa ff quotidianamente [Veramente, grazie di cuore] e volevo anche dire grazie a tutte le persone che continuano a leggere Little Black Star, l’altra mia fanfiction su Avril.

Il primo capitolo ha appena superato quota 1500 visite! *me superfelice*

E comunque no, tutti questi ringraziamenti non sono dovuti ad un imminente fine della storia, non vi preoccupate lol.

Al prossimo aggiornamento [Si spera presto] <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Evan Taubenfeld - Stubborn

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 7 Giugno 2001

 

Evan's pov

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Mi rigirai, ancora una volta, nel mio letto.

Ancora una volta, in quella dannatissima settimana, non riuscivo a dormire.

C’erano sempre quegli occhi… quel viso… che mi facevano stare male.

 

Così, feci un profondo respiro e mi immersi, per l’ennesima sera, nel mio incubo.

 

Ricordavo di aver pensato questo, prima che succedesse tutto: ci sono sessanta secondi in un minuto, milleottocento in mezz’ora e tremilaseicento in un’ora.

E, proprio in uno di questi secondi, Avril potrebbe decidere di fare marcia indietro e di tornare a casa e…

 

Sospirai. Da lì, erano iniziati quegli stupidi discorsi con la mia coscienza.

 

Calmati, Evan. Stai divagando.

 

Va bene. Non è la fine del mondo, in fondo.

Lo sarebbe se, magari, lei ti rifiutasse, o non volesse venire, o ti piantasse con una qualsiasi scusa, oppure…

 

Dio mio, basta!

 

La mia coscienza sceglieva sempre i momenti meno opportuni per torturarmi.

Mi ero messo una mano tra i capelli e avevo incominciato a camminare avanti indietro sul marciapiede.

 

Sei nervoso.

 

Chi, io? Nervoso? Ma figuriamoci…

Avevo sbloccato rapidamente il cellulare e avevo visto, sullo schermo, se fossero arrivate nuove chiamate: non c’era nessun messaggio di Avril.

Ok, coscienza, hai ragione.

Forse, un po’ nervoso, lo ero.

 

Poi, all’improvviso, avevo sollevato lo sguardo e avevo scorto l’ombra di una limousine nera avvicinarsi sempre di più.

Mi spazzolai i pantaloni neri eleganti, in completo con lo smoking, e feci un rapido rewind della mia situazione:

- Vestito? A posto;

- Capelli? Si spera non arruffati come al solito. Presumibilmente, a posto;

- Sorriso? Oh, no, quello mi mancava.

 

Immediatamente, anche immaginando semplicemente di trascorrere la mia serata da solo con Avril, i 13 muscoli del mio viso si erano mossi e avevano creato un sorriso sincero.

Va bene, va bene, sapevo che, di solito, i muscoli facciali che si contraevano per sorridere erano 12, ma speravo di riservare per l’occasione un sorriso più… smagliante.

 

Evan, stai divagando. Di nuovo.

 

Maledizione coscienza, hai ragione. Di nuovo.

 

Nel frattempo, Peter aveva accostato, con la limousine, accanto al marciapiede dove mi trovavo, era sceso dal posto di guida e, dopo avermi fatto un occhiolino veloce, aveva aperto lo sportello del passeggero, aiutando Avril a scendere.

 

Istintivamente, trattenni il fiato: era bellissima.

Non indossava nient’altro che un semplice tubino nero corto, sopra il ginocchio, ma il mio occhio non poté fare a meno di notare la porzione di pelle delle gambe lasciata scoperta.

 

Distogli lo sguardo, bello mio. Credimi, è meglio così.

 

Giusto. Sai, ripensandoci, “coscienza” è troppo lungo. Ti darebbe fastidio, se da adesso iniziassi a chiamarti “Cos”? Oppure preferisci “Enza”?

 

Lasciamo perdere…

 

Avevo accantonato per un momento la conversazione con Cos e ricordavo di essermi concentrato solo su Avril. Mi ero incamminato verso di lei e le avevo proposto di aggrapparsi al mio braccio.

«Se ti dicessi che sei incredibilmente sexy con quel vestito, Ramona, cosa succederebbe?» le avevo chiesto.

 

Ma la vuoi smettere di fare il maniaco sessuale, una volta per tutte?

 

«Ti risponderei che sei un maniaco, David. Oltre che un pazzo.»

 

Vedi?

 

«Oh, ma io lo sono. Sono completamente, totalmente e irrimediabilmente pazzo di te.» le avevo risposto, guidandola verso l’entrata della villa. «E, a questo proposito, ho preparato questa piccola sorpresina.»

 

Cosa avevo organizzato per la serata? Semplice.

Avevo semplicemente “preso in prestito” il giardino di una delle innumerevoli proprietà di mio padre e, soprattutto grazie all’aiuto di Peter, avevo pensato di passare questa serata insieme a lei a modo mio.

 

Solo ora mi rendevo conto che, forse, per lei, questo non era stato abbastanza.

 

Avevamo percorso il piccolo viale e ci eravamo fermati accanto al tavolo apparecchiato per due.

 

Mi aveva guardato con la bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato questo?»

 

«Sì.» Il dubbio improvviso, che avessi fatto qualcosa di sbagliato, mi attanagliò lo stomaco. «Perché, non ti piace?»

 

«Stai scherzando, vero?» Avril osservava rapita ogni dettaglio, che fossero le luci, i fiori o anche le semplici posate in argento. Sembrava… felice. Almeno per il momento.

«Evan, questo è… questo è… semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»

 

Avevo scrollato le spalle. «Oh, beh, allora devi ancora vedere il meglio.»

 

L’avevo aiutata a sedersi e, prima di accomodarmi al mio posto, avevo tolto il coperchio argentato dal vassoio sul tavolo, svelando una gustosa e fumante…

 

«Pizza? Hai ordinato una pizza?!» mi aveva chiesto, sorridendo.

 

«E non una comune pizza! È una pizza gigante con würstel e patatine sopra. Ho pensato che informale sarebbe stato meglio.»

 

Poi, la vidi alzarsi dalla sedia e venire verso di me.

Con un sorrisino, mi circondò il collo con le sue braccia.

 «Grazie per questa serata. Ti…»

 

In quel momento, mi si era mozzato il respiro.

Per un istante, solo per un piccolo istante, avevo pensato che lei potesse dire quello che speravo.

 

«… Sei preparato molto bene.» aveva detto invece, staccandosi da me.

 

«Certo.»

Mi ero leccato le labbra, sentendo improvvisamente la gola secca. «Dai, coraggio, attacca la pizza, Tigre.»

 

Mangiammo ognuno la sua metà, in silenzio.

Alla fine, però, mi era parso di sentire uno strano senso di agitazione, in lei.

Come se stesse pensando a qualcosa di ossessivo.

Come se, proprio quel qualcosa, non volesse dirmelo.

 

E adesso capivo il perché.

 

Così, una volta finita la nostra porzione di pizza, avevo deciso di spezzare la tensione, schiarendomi la voce. «E adesso, se non ti dispiace, vorrei concludere la serata in bellezza.»

Mi ero abbassato fluidamente sotto il tavolo e avevo tirato fuori la mia chitarra dalla custodia.

Poi, avevo sistemato il lato destro della cassa sulle gambe e avevo incominciato il mio discorso.

«Sai, ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che occuparsi di un’altra persona dia solo fastidi inutili. Ma, grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito che niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi farti abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore appena senti che quella persona ti dà il buongiorno. La verità è che non si sta meglio da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Per cui… ho scritto questa canzone.»

 

E, detto ciò, avevo iniziato a suonare per lei.

Solo per lei.

 

Non ricordavo esattamente quando avevo pensato di creare questa nuova canzone, che avevo chiamato “I Love the Both of You”.

 

L’ispirazione, secondo gli antichi greci, significava dare ascolto ad un’irrazionale ed incomprensibile esplosione di creatività.

Ed era ciò che era capitato a me.

Quella parte totalmente illogica di me stesso era sgorgata fuori e, beh… io non avevo fatto altro che raccogliere i miei pensieri e imprigionarli su un foglio di carta.

Ogni fatto, ogni avvenimento, ogni strada, nella mia testa, aveva una melodia.

Dovevo solo farla venire fuori con le parole più adatte.

C’era una cosa, però, di cui mi vergognavo un po’, quando ho iniziato a prendere sul serio quello che, per me, all’inizio, era solo un hobby e nient’altro.

La gente non m’ispirava.

Le persone, infatti, così noiose e così fastidiosamente prevedibili, non potevano costituire una fonte d’ispirazione, per me.

Lo erano i gesti: quelli sì che mi colpivano.

 

E non parlavo metaforicamente, anzi: quando dicevo “colpire”, intendevo proprio letteralmente.

Credevo che, proprio quel pugno, assestatomi dritto lì, esattamente al centro del naso, mi avesse fatto capire quanto lei fosse importante per me.

 

Quanto noi fossimo importanti l’uno per l’altra.

 

Stronzate. Solo stronzate.

 

Ed era proprio per inseguirle, queste stronzate, che, dopo aver pizzicato le ultime corde della mia chitarra, le avevo confessato quello che sentivo. «Ti amo, Avril Ramona Lavigne.»

 

Ero stato testardo, troppo testardo.

 

Poi, avevo tenuto lo sguardo sulle corde e tutto quello che feci fu… aspettare.

Avevo aspettato, aspettato, aspettato.

Volevo solo una sua risposta.

Quando, però, mi ero reso conto che avevo aspettato molto, forse troppo, avevo alzato lo sguardo.

 

E lei si era decisa a parlare. «Evan, io… non… non posso. Vorrei tanto dirti quelle due parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due settimane sono state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo perché c’eri tu. E forse mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo presto per me, ma, io… io… non ci riesco.»

 

In quel momento, mi ero chiesto che cosa fare.

Ed era strano, perché, nei libri per il collage, non c’era un manuale d’istruzioni che potevo consultare, in casi come questi.

Ero solo.

Così, avevo annuito, con le labbra contratte, ed ero tornato a guardare la sua chitarra.

Lei, almeno, non mi aveva mai abbandonato.

 

Ritornai con la mente al presente, stanco dell’incubo che si presentava puntualmente ogni sera da una settimana, ormai.

 

Ma non riuscivo a dimenticarmi dell’espressione di Avril.

Non riuscivo a scordarmi della sua voce mentre mi rifiutava.

 

Mi sfuggì un gemito di disperazione.

 

Era questo il rumore di un cuore spezzato?

 

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 14 Giugno 2001

 

Avril's pov

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Guardavo Wilson gesticolare: tentava di enfatizzare la sua spiegazione su “Cime tempestose”, il romanzo di Emily Brontë, ma niente, non c’era verso.

Non avevo memorizzato un’acca dall’inizio della lezione.

Ero riuscita solo a captare qualche frase, come “scritto a metà del 1800” oppure “ambientato nello Yorkshire”.

 

Poi, però, prestai attenzione appena Wilson analizzò il tema del romanzo.

«Il sentimento che, sicuramente, predomina in questa lettura, è l’amore. E non un tipo di passione qualsiasi, ma la forma più difficile da comprendere: vedete… si tratta di un amore così forte, che va al di là delle regole e delle convenzioni dell'amore stesso. Si intreccia con la vendetta, ma ne esce sempre puro. Nonostante i protagonisti siano pieni di difetti e nessuno dei due possa essere di certo essere eletto come “Mr. buono dell’anno”, il loro sentimento è vero. Supera i confini del tempo e della morte. Perché, alla fine, è il loro amore che li rende buoni, anche se non avranno mai l'occasione di viverlo.»

 

Il loro sentimento è vero.

 

Supera i confini del tempo e della morte.

 

Anche se non avranno mai l’occasione di viverlo.

 

Una fitta al petto mi fece mancare il respiro.

Sentivo il dolore nelle mie vene come il sangue: vivo, pulsante e costante.

Non mi lasciava mai.

 

Continuavo a sentire ancora quel dannato groppo in gola: era come se fossi ancora lì, con lui, quella sera.

 

Era inutile girarci intorno, tanto valeva accettare la realtà: il nostro rapporto si era completamente interrotto.

Da più di due settimane, ormai.

 

Anche solo guardarlo di sfuggita mentre entrava in classe significava… sofferenza.

Non sapevo neanche io cosa fossimo.

Era troppo desiderare che fossimo ancora amici?

O, magari, anche scambiarsi un semplice “buongiorno”?

 

Forse sì.

Forse, era troppo per me.

Era troppo, per chi aveva la colpa di tutto questo.

 

Ma volevo provare lo stesso: non volevo farmi sfuggire il suggerimento che, indirettamente, Wilson mi aveva dato.

Così, proprio mentre la campanella suonava e tutti gli studenti si riversavano fuori dalle aule, chiusi lo zaino e cercai di seguire con lo sguardo i suoi capelli biondi tra le altra migliaia di teste presenti nel corridoio.

Impresa non facile, per una che è alta 1,56 cm.

 

Dopo qualche secondo, riuscii ad individuarlo.

Stava appoggiato con la schiena sul muro. Sembrava triste, con gli occhi rivolti verso il basso.

Mi fermai, senza fiato: vederselo davanti così, con lo sguardo perso, faceva male.

 

Poi, però, notai qualcosa che mi era sfuggito: al suo fianco, c’era Camille Miller, la ragazza che ci aveva reclutato per quello stupido gioco del “Baciato e Baciatore”.

Lei si stava attorcigliando attorno al dito una ciocca di capelli neri, mentre gli parlava di chissà cosa.

 

Lui mi sembrava perplesso, dato che increspava più volte le sopracciglia, ma, nel complesso, era tranquillo.

Non sembrava… infastidito dalla sua presenza.

 

Certo, la sua fidanzata la evita, mentre le smorfiose le accoglie a braccia aperte!

O, forse, dovrei dire semplice conoscente?

 

Strinsi forte i pugni e sentii le unghie penetrare nel palmo della mia mano.

«Evan! Evan, aspetta!»

 

Non sapevo se avessi fatto bene o no, a seguirlo di corsa e a gridare quella frase.

Lui la sentì di sicuro, perché lo vidi fermarsi di scatto e immobilizzarsi.

 

Poi, vidi Camille parlargli con un’espressione a metà tra l’imbarazzato e l’insicuro. «Ehm… forse è meglio se vado, Evan. Cerca di risolvere i tuoi problemi, d’accordo»

 

Oh, benissimo. E così le aveva detto anche di quello che era successo.

Incominciai ad incamerare più aria nei polmoni, nel tentativo disperato di calmarmi.

 

«Sì. Forse è meglio se vai. Ci vediamo domani.»

 

Indicai in direzione di Camille con uno sguardo furente. «Le hai raccontato tutto. Ogni cosa. Cos’è, ti sei fatto anche l’amichetta del cuore, adesso?»

 

Mi fulminò con un’occhiataccia. «Il mondo non gira tutto intorno a te.»

 

Resistetti all’impulso di indietreggiare ed incrociai le braccia al petto, cercando protezione in me stessa. «Me ne sono accorta, visto che ci hai messo così poco per dimenticarmi.»

 

Avevo voglia di prendermi a schiaffi da sola.

Non avrei dovuto dire questa cosa.

Non avrei dovuto fargli male. Un’altra volta.

 

Ma era troppo tardi. Mi guardò, torvo e furibondo. «Ma cosa vuoi che faccia, eh?»

 

Non l’avevo mai visto così arrabbiato, così fuori controllo. Non era l’Evan che conoscevo.

 

«Vuoi che torni tutto come prima dopo l’altra sera? Beh, ti do una notizia fresca di stampa: non si può. Sì, magari con il passare dei giorni, la situazione potrebbe tornare ad avere una “parvenza” di normalità… ma non sarà più la stessa cosa.»

 

Lo fissai, e lui, a sua volta, mi lasciò guardare i suoi occhi azzurri di cui mi aveva privato per due settimane.

Permisi alla mia mente di rielaborare le sue parole.

Facevano male.

Facevano veramente male.

 

Ma, nonostante questo, ingoiai il groppo che avevo in gola e le lasciai adagiare sul fondo della mia coscienza.

Perché sapevo che me le meritavo.

Perché sapevo quanto avesse ragione.

 

«Mi hai ferito, e questo non potrà mai essere cancellato. La ferita non guarisce in profondità. Non qui. Non adesso.»

 

Mi guardò ancora negli occhi, e ne approfittai per imprimermi ogni dettaglio del suo viso nella mente: i capelli biondo cenere, che risplendevano sotto i riflessi delle luci al neon; le folte ciglia scure, che impreziosivano i suoi occhi color ghiaccio; il naso dritto e aquilino, che arricciava ogni qual volta era perplesso; e, per finire, le labbra: quella bocca che avevo baciato così tante volte, adesso, l’avevo lasciata per ultima, come se si trattasse di un semplice ricordo.

Sapevo che ne avrei avuto bisogno.

 

«Non con me.» sussurrò.

 

E poi, si girò di spalle e, con le mani in tasca, incominciò a incamminarsi verso l’uscita.

 

Sentivo le lacrime bruciarmi gli occhi.

Mi appoggiai con una mano al muro in cartongesso del corridoio e cercai di ricompormi.

Non piangere, non farlo, dicevo a me stessa.

 

Ma diventò un’impresa non cedere, quando anche le labbra incominciarono a tremare, travolte da piccoli ma costanti singhiozzi.

Sapevo che questo fosse il minimo, dopo quello che gli avevo fatto.

 

Non potevo dimenticarlo.

Non potevo dimenticare quando lui mi aveva confessato il suo amore e io l’avevo ricambiato con una semplice occhiata di dispiacere.

 

Eppure, tra i miei pensieri, in queste due settimane, era riapparso costantemente il suo viso.

E anche in quel momento, mentre tentavo di respirare a fondo, per evitare di scoppiare a piangere davanti a tutti, ripensavo a quello sguardo che mi scrutava, fino a pochi secondi fa.

Riuscivo a vederlo con tanta chiarezza che mi sentivo stringere il petto da un dolore straziante.

 

Ero rimasta travolta da come Evan, solo qualche giorno fa, mi avesse fatta sentire desiderata e sì, anche amata, con i suoi baci, con i suoi sorrisi, con le sue attenzioni.

Niente a che vedere con ciò che ero in quel momento: una ragazza vuota, inutile, degna solo di essere disprezzata e lasciata lì, a crollare, persino davanti a se stessa.

 

***

 

Things used to be great, now we can’t relate.
And everyday is a struggle.
Something
’s not right, you just want to fight.
Well, go find someone else,
‘cause you’re not my type anymore.

I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.

Nothing I do ever pleases you,
I wonder how you’d like that.
What should I say, you’ve made it this way.
And I’m supposed to fix this.

[…]

 

 

It’s over now, we’re finally through.
It’s all because of you.
Don’t know why I tried, you never cared.
I don’t think that’s fair.

[…]

 

I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.

Just try life without me.

 

 

Le cose erano fatte per andare bene,
adesso non abbiamo a che fare l'uno con l'altra.
Ed ogni giorno è una lotta.
C'è qualcosa che non và,
tu vuoi soltanto litigare.
Beh, vai a cercare qualcun altro,
perché tu non sei più il mio tipo.

Non voglio fare i tuoi giochi.
Non m’importa, se ti perdo oggi,
perché tu non sei mai soddisfatta di niente.
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.

Niente di quello che faccio ti soddisfa,
e penso a come farebbe a piacerti.
Che cos’altro dovrei dire, l'hai messa in questo modo.
Ed ho intenzione di aggiustare tutto.

 

[…]

 

È finita adesso, l’abbiamo superato.
È stato tutto per colpa tua.
Non so perché ci ho provato,
non te ne è mai importato niente.
Non credo sia giusto.

[…]

Non voglio fare i tuoi giochi
Non m’importa, se ti perdo oggi
Perché tu non sei mai soddisfatta di niente
quindi prova a vivere la tua vita senza di me

Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.

~ Evan Taubenfeld – Stubborn

 

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Capitolo 19
*** 18. Iris || Socrates ***


Salvesalvesalve (?) a tutti.

Ancora una volta, sono qui, in ginocchio, a chiedervi perdono per il ritardo con cui sto aggiornando.

Capitemi, plis. (?)

Quindi, passando al capitolo… vi comunico che dovrete armarvi di estintori – per spegnere svariati situazioni “accaldate” – e di cuffie, perché la canzone del capitolo è una versione punk di “Iris”, la famosissima canzone dei Goo Goo Dolls [Interpretata anche dalla nostra Avril. Sorvoliamo sul suo stato durante il duetto con i Goo Goo Dolls nel 2014, per bontà divina.]

Concedetemi una piccola variazione sul compleanno di Matt, che è il 14 Novembre, mentre nella mia storia è il 23 Giugno lol.

Al prossimo aggiornamento [Si spera presto] <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Until the End – Iris (Goo Goo Dolls Cover)

***

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 16 Giugno 2001

 

Matt's pov

 

Si stava rivelando davvero una giornata splendida, questo 16 Giugno.

Avevo la mia Susy con me, il clima era caldo, il cielo azzurro e gli uccellini cinguettavano gioiosi…

 

Oh, andiamo, ma chi volevo prendere in giro?

Il tempo era una merda, il cielo faceva presagire non so quale catastrofe naturale e gli unici “uccellini” che vedevo erano i mini-polli fritti del locale tra la 90esima e Baker Street, verso cui stavo camminando.

 

In più, avevo anche lasciato Susy a casa. Sigh.

Avevo pensato che stessi abusando troppo del suo utilizzo, e così le avevo lasciato i suoi spazi.

Ah, valle a capire le donne!

 

Ma, nonostante ciò, questa rimaneva comunque una giornata splendida.

Volete sapere perché?

Bene, vi accontento subito.

 

Entrai nel locale – sì, esatto, quello dei mini-polli – e mi sedetti ad un piccolo tavolino circolare di colore bordeaux.

Non c’erano molti clienti, se non quelli abituali che si facevano un panino durante la pausa-pranzo.

Controllai l’orologio che avevo al polso e vidi l’ora: ah, bene, avevo solo 30 minuti di ritardo.

Ma, a quanto pareva, il mio migliore amico era più in ritardo di me.

Mi sfregai le mani più volte, per farmi un po’ di calore.

Cazzo, faceva veramente freddo!

 

Nel frattempo che lo aspettavo, mi persi a guardare il culo di una cameriera bionda che stava al bancone: aveva intercettato le mie occhiate più di una volta e mi aveva sorriso, ammiccante, mentre io ricambiavo facendole l’occhiolino.

 

Poi, sentii la porta del locale aprirsi ed alzai gli occhi dalle curve della cameriera: eccolo lì.

 

Portava le mani nelle tasche di un lungo cappotto di velluto nero, che faceva risultare ancora di più il suo pallore, e dei pantaloni dello stesso colore.

Nah, niente a che vedere col mio giubbotto in pelle sintetica e i jeans strappati.

 

Lo salutai. «Ciao, fratello.»

 

Mi rispose solo con un cenno. Molto loquace, direi.

 

«Ti va bene un caffè?» gli chiesi e lui annuì in risposta.

Mi alzai dalla sedia ed andai verso il bancone, dove, sorridente, dissi alla cameriera: «Due caffè, dolcezza.»

 

Lei ridacchiò ed io ritornai molto lentamente al mio tavolo. La biondina ha proprio un bel culo, notai.

 

«Allora…» incominciai una volta seduto, tentennando un po’ e guardandomi attorno. «Come va la vita?»

 

«Vai al succo, Matt.» mi rispose. «Lo sai già come va la mia vita. Piuttosto, perché mi hai voluto vedere?»

 

Sospirai. Era sempre stato più bravo di me nelle domande dirette.

«Manca solo una settimana al mio compleanno e un mio amico ha organizzato una piccola festa per me in un locale non molto lontano da qui.»

Ecco spiegato tutto lo “splendore” di quella giornata.

«Ti andrebbe di unirti a noi, visto che sei il mio migliore amico?» gli chiesi, un po’ velenosamente.

 

Strinse gli occhi. «Noi chi?»

 

Merda. «Beh, noi. Jesse, Charlie, tutti i nostri amici.» Feci una piccola pausa. «Avril…» aggiunsi alla lista.

 

Il suo tono era glaciale. «Assolutamente no.»

 

Sgranai gli occhi. «No, cosa?»

 

«No, non vengo se c’è anche lei.»

 

Alzai gli occhi al cielo, esasperato. «Oh, andiamo, Evan. Hai proprio bisogno di svagarti e non puoi evitarla per sempre. Ma cosa sei, un bambino di due anni?»

 

«Disse quello che si prendeva a padellate in testa.» Scacciai le sue parole con una mano, come se non fossero importanti. «E comunque, io sto benissimo.» replicò.

 

Ma certo. Se per “benissimo” intendeva magrissimo, pallido in un modo esagerato e con due occhiaie da far invidia ad un morto vivente… allora sì, aveva proprio ragione.

 

Annuii sarcastico, e lanciai un’occhiata d’apprezzamento alla biondina che si stava avvicinando al nostro tavolo.

«Ecco i due caffè.» disse, sorridendo specialmente nella mia direzione, e andandosene.

Già, davvero un gran bel culo.

 

Misi le mani a coppa sulla plastica del bicchiere, riscaldandomi, e ne bevvi un sorso.

 

«Io verrò, Matt. Ma tu non farlo.» mi pregò.

                    

Capii immediatamente a cosa si riferisse. «No, non posso non invitarla. È anche mia amica.»

 

Annuì, livido e con le labbra contratte e si alzò improvvisamente dal tavolo. «E allora sai che ti dico? Bevitelo da solo questa merda di caffè.» mi sfidò, con gli occhi fiammeggianti.

 

Ma io non gli risposi, non volevo cedere alla sua provocazione. Se voleva fare il bambino capriccioso, che facesse pure.

 

Così, vidi Evan uscire dal locale, sbattendo la porta, e allontanarsi per strada.

 

Scrollai le spalle, non badandoci.

Meglio, avrei avuto due caffè per me.

 

L’avevo detto io che questa era una giornata splendida.

 

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 23 Giugno 2001

 

Avril's pov

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Andai a bussare alla porta di Kevin, agitata. «Ehi, sei pronto?»

«Eh? Oh, sì… ehm… ora arrivo.» mi rispose.

Sospirai, cercando di ricompormi. Matt ci aveva invitato a quella che era solo la sua “innocua festa di compleanno”, come l’aveva definita lui, e io non stavo più nella pelle.

Non stavo più nella pelle di trovare una scusa per non andarci, sia chiaro. 

Finalmente, dopo un paio di minuti, Kevin venne fuori dalla sua stanza: indossava una giacca nera sbottonata e dei jeans aderenti.

 

«Wow, stai benissimo.» commentai.

 

«Grazie… anche tu.» bofonchiò.

 

Annuii, osservando il vestito di chiffon verde acqua prestatomi da mia madre.

Ero incerta su come dovessi prendere il complimento.

In questi giorni era stato un po’… strano e, anche mentre eravamo nella limousine con Peter alla guida, non fu da meno.

 

Alzava e abbassava la gamba destra nervosamente, si mordicchiava le unghie e l’interno della guancia, e non c’era secondo in cui non vedesse quel dannato orologio sul cruscotto della macchina.

Ed andava avanti così da una settimana, più o meno dal giorno in cui Matt ci aveva avvisato della sua festa.

 

Avrei tanto voluto sapere cosa non andasse in lui, ma non ero mai stata brava a parlare con gli altri.

L’unica persona con cui avevo provato seriamente a farlo mi aveva piantato in asso, figuriamoci.

 

Cercai di scacciare via quel pensiero dalla mente e di rilassarmi.

Anche se non era facile farlo, visto che la persona che mi era vicina era ancora più nervosa di me.

 

Sentimmo delle urla di divertimento ancora prima di imboccare la via del locale: dall’esterno sembrava carino e ben curato.

Il problema era all’interno: c’erano bottiglie vuote dappertutto e corpi di persone non esattamente identificate che si strusciavano gli uni sugli altri ovunque.

La musica, poi, era decisamente assordante: un brano dance veniva pompato nelle casse e, dopo solo due minuti, mi venne già il mal di testa.

 

Nella confusione generale, intravidi Jesse e Charlie, ma non c’era traccia… di lui.

 

«Sarà una lunga serata…» borbottai, mentre vidi Kevin andarsi a prendere un drink e dirigersi verso i bagni.

 

«Dove spero che tu ti ubriacherai.» mi disse una voce maschile alle mie spalle, facendomi sussultare.

 

Mi girai, con gli occhi sgranati. «Matt, mi hai fatto spaventare! E io che speravo che diventassi più grande anche a livello celebrale…» cercai di scherzare.

Notai che portava un buffo cappellino di cartone a punta sulla testa. Niente da fare, avevo il sospetto che Matt sarebbe rimasto sempre lo stesso.

 

«No, non sono quel genere di persona. Tu, piuttosto, lasciatelo dire…» aggiunse, facendomi un sorriso e brindando in segno d’apprezzamento.

Pensai volesse farmi un complimento, ed invece disse soltanto… «Stai una merda.»

 

Incrociai le braccia, irrigidendomi. «Grazie, tu sì che sai sempre come tirarmi su di morale.»

 

«Per te, questo ed altro. A proposito di merde, vado a vedere anche come se la sta cavando lo zombie. Sai, credo proprio abbia bisogno di… compagnia.» finì con un sospiro, allontanandosi.

 

Non ci misi molto a capire a chi si stesse riferendo e seguii con lo sguardo la direzione in cui stava andando.

 

Rincorsi il festeggiato, stando attenta a non farmi vedere, e mi nascosi dietro una colonna da cui non potevo essere vista.

 

Da lì, riuscii a vedere finalmente Evan: ancora una volta, era bellissimo.

Mi accorsi che indossava lo stesso abito del nostro tragico appuntamento, ma sembrava più provato… più stanco.

La gioia di vederlo a pochi metri da me si sbriciolò, quando vidi accanto a lui quello strano ragazzo, Will Grayson e, soprattutto, Camille Miller.

 

Appoggiai le mani sulla colonna e cercai di contenere il dolore.

Stranamente, il contatto con il fresco del muro riuscì a calmarmi, e capii di essere anche in una buona posizione per sentire i loro discorsi.

 

«Non ci presenti?» stava chiedendo Matt, guardando Will e Camille.

 

«Certo. Lui è Will Grayson e lei è Camille Miller. Sono due miei compagni di scuola. Ragazzi, lui è Matt, un mio carissimo amico.» finì Evan.

 

I tre si scambiarono amichevoli strette di mano e Matt si soffermò in particolar modo sulla stronza. «È… la tua nuova fidanzata?»

 

Vidi Camille arrossire e lo sguardo di Evan si ridusse ad una fessura. «No, è una mia amica. Mi sta aiutando a… capire di più una certa persona.»

Non mi accorsi di aver trattenuto il respiro per quella risposta solo fino a quando non lo buttai tutto fuori. Beh, meglio di niente, almeno.

Poi, però, riflettei sulle sue parole: si stava per caso riferendo a me?

 

«Bene, ragazzi…» disse Will, che stava parlando per la prima volta. «Io credo che andrò un attimo in bagno… sì.»

 

Dopo che il ragazzo finì di parlare, il gruppetto si sciolse e ognuno si sparpagliò in direzioni diverse del locale.

Così, dato che era finita la scena, appoggiai la schiena alla colonna.

Stavo cercando di mettere ordine tra i miei pensieri, quando all’improvviso…

 

«Buh!» gridò una voce da dietro.

 

«MATT!» urlai in risposta, mentre sentivo i battiti del mio cuore impazzito. «MA NON PUOI FARMI PRENDERE UN COLPO TUTTE LE VOLTE, CHE CAZZO.»

 

Alzò un sopracciglio e mi rivolse un sorrisetto impertinente. «Wow… non ti avevo mai sentito così… volgare.»

 

«E so dire anche di peggio, credimi.» gli risposi, con un’occhiata di fuoco.

 

Cambiò completamente argomento, diventando improvvisamente serio. «Perché semplicemente non gli parli, invece di spiarlo?»

 

Abbassai lo sguardo. Colpita e affondata. «Non so a chi ti riferisci.»

 

«Oh, Gesù. Non la fare tanto lunga, dai.»

 

E va bene. Voleva giocarla sporca? Ecco che lo accontentavo. «Beh, non posso farlo perché lui non mi vuole vedere, figuriamoci parlare.»

 

«E ti sei chiesta il perché, no?»

 

Sempre più colpita e affondata. «Sì. Ed il motivo è che sono una testa di cazzo, principalmente.»

 

«Bene. Prova ad ammettere i tuoi errori e vedrai che, secondo me, ti darà una possibilità.»

 

Annuii, registrando nella mente le sue parole. «Sai, non ti facevo così saggio.»

 

La sua replica, però, fu tagliente. «Ed io non ti facevo così stupida. Non farlo soffrire di nuovo.»

 

Poi, se ne andò, e mi lasciò a pensare da sola.

Pensai, pensai, pensai.

E, alla fine, lo ringraziai mentalmente.

 

Ringraziai Matt, perché adesso sapevo cosa fare.

                                                                                        

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 23 Giugno 2001

 

Evan's pov

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La festa era finita da un pezzo, ed io mi ero trovato da solo in mezzo ad una marea di sconosciuti.

Che bello.

Ora stavo tornando a casa in moto e stavo tentando di rimuovere alcuni pezzi della serata dalla mia mente.

 

Il contatto claustrofobico con altri corpi.

L’espressione amareggiata di Matt nel vedermi in quello stato.

Il viso di Avril.

 

Staccai solo per qualche secondo le mani dal manubrio e mi sfregai gli occhi.

Non ci pensare, Evan. Vai più veloce, più veloce.

 

E così feci. Superai il limite di velocità parecchie volte, prima di arrivare nel retro di casa.

La limousine di Peter non c’era: bene, ero arrivato prima di loro.

 

Mi tolsi il casco e smontai dalla moto, prendendo dalla tasca del cappotto le chiavi di casa.

Rabbrividii per il contatto con il metallo ghiacciato e percorsi il vialetto.

Poi, finalmente, aprii la porta d’ingresso, la richiusi alle mie spalle e partii rapidamente verso la mia stanza.

 

Salii i gradini due a due e, una volta entrato nella mia camera, sospirai.

Avrei tanto voluto poter cancellare dai miei ricordi il suo volto, il suo abito… il suo sguardo…

 

«Evan.»

 

Mi bloccai all’istante.

No.

Non poteva essere.

Non poteva…

 

Alzai lentamente lo sguardo davanti a me e la vidi lì, seduta sul mio letto, con ancora quel vestito che le stava meravigliosamente indosso.

 

Scrutava ogni dettaglio del mio viso con i suoi occhi azzurri e, a quel punto, non potei fare a meno di risponderle.

«C-ciao.»

 

Deglutì, intimorita, e si mordicchiò il labbro inferiore. «Posso… posso parlarti?»

 

Ero ancora un po’ intontito per via della sua presenza, ma annuii, colto alla sprovvista.

 

«Io… ti volevo chiedere scusa per l’altra sera.»

 

Mi irrigidii ancora di più al suono delle sue parole. «Davvero, ascolta, non ne voglio parlare…»

 

«No, ascolta tu!» disse, alzandosi in piedi. «Ci sono tre motivi per cui mi sono decisa a parlarti oggi: il primo è che volevo scusarmi per quello che è successo l’altra sera perché… ho commesso un errore. Un errore che ha portato ad entrambi solo dolore, un dolore crudele e violento. Il fatto è che… ero talmente occupata a pensare a quello che provavo per te che, alla fine, quando è arrivato il momento di dirtelo, non sono riuscita a tirarlo fuori. E questo non me lo perdonerò mai, visto che, ormai, non mi sono state concesse altre possibilità di rimediare.» disse, con una punta di veleno alla fine.

 

Non riuscivo a capirla. «Cosa?»

 

Mi fissò, prendendo un bel respiro. «Camille.» mi rispose, a denti stretti, come se pronunciare il suo nome le costasse chissà quanta fatica.

 

«Camille?» chiesi stupito.

 

«Sì, Camille. Sai, la ragazza che ti ronza sempre attorno e che ti sta “aiutando a capire di più una certa persona” che non perdonerai mai!»

 

«Ma che diavolo stai dicendo?!» gridai. Poi, però, la vidi avvampare di vergogna… e alla fine capii. «Tu stavi spiando la nostra conversazione!» la accusai.

 

Cercò di difendersi come meglio poteva. «Sì, beh, non vedevo altro modo.»

 

«E tu pensi che quella frase fosse riferita a te!» continuai, sempre più alterato.

 

«Perché, non è così?» mi chiese.

 

«Ma no che non è così, razza di idiota! Era per Kevin.»

 

«Kevin?» domandò sbalordita.

 

«Sì, Kevin!» Presi un respiro profondo e mi calmai. «Non so se lo hai notato, ma è stato molto strano, durante quest’ultima settimana. E lo stesso è stato per Will. Per questo, Camille pensa che questa potrebbe anche non essere una coincidenza e sta incominciando a credere che Will possa star “influenzando” Kevin, in qualche modo.» Poi, mi mossi un po’ verso di lei e mi arrotolai una sua ciocca di capelli sul dito. «E comunque, io ti ho già perdonato.» le dissi, ricordandomi le sue parole di qualche secondo fa.

 

«Davvero?» mormorò.

 

Le feci un mezzo sorriso. «Sì. L’ho capito più o meno una settimana fa, quando ho parlato con Matt. Ero arrabbiatissimo con lui, perché voleva invitare alla festa anche te, a tutti i costi. Ma la vuoi la verità? Beh, la verità è che ero incazzato nero con me stesso, perché sapevo che questa farsa dell’evitare qualsiasi contatto con te doveva finire, prima o poi, e sapevo che la stavo tirando troppo alla lunga. Per cui… adesso voglio il secondo e il terzo.»

 

Mi guardò disorientata. «Il secondo e il terzo cosa?»

 

«Il secondo e il terzo motivo per cui hai deciso di venirmi a parlare.» le risposi.

 

«Oh, già. Il secondo motivo è che… sei davvero uno schianto con quello smoking e mi sembrava l’occasione giusta per comunicartelo.»

 

Risi. «E il terzo?»

 

Mise le mani sul mio petto e mi sentii pervadere da un calore fortissimo. «Il terzo è… Socrate.»

 

Ero confuso. «Socrate?»

 

«Già, Socrate. Ti ricordi, no, tutta la faccenda del “conosci te stesso” e del sapere il motivo per cui siamo nati.»

 

Le sorrisi, non capendo comunque dove volesse arrivare, ma felice che si ricordasse della nostra chiacchierata. «E quindi, ci hai pensato? Sai darmi una risposta?»

 

Avvicinò il suo viso al mio. «Sì, ci ho pensato e sì, ho una risposta.»

I suoi occhi azzurri scivolarono sulle mie labbra e il suo respiro si fece più affannoso, insieme al mio.

«La risposta è che…» sussurrò.

Si passò la lingua sul labbro inferiore e i nostri sguardi s’incrociarono di nuovo: ero ipersensibile nei confronti del suo corpo così vicino.

Riuscivo a sentire ogni cosa: le mie mani su i suoi fianchi, le sue sul mio petto, il suo viso a pochi centimetri dal mio.

«Io…»

Appoggiò la fronte sulla mia e mi toccò il naso con il suo.

«Sono nata…»

Respiravo il suo odore così buono.

«Per dirti…»

Sentivo il suo respiro sulla pelle.

«Ti amo.»

 

Poi, finalmente, le mie labbra trovarono le sue.

Mi gustai completamente il sapore delle sue labbra. Mi staccai solo di un po’.

 «Dillo ancora.» sussurrai, estasiato.

 

«Ti amo.»

 

Assaporai ancora ogni secondo della dolcezza del contatto con la sua lingua.

«Ancora.»

 

«Ti amo, ti amo, ti amo.»

 

La poggiai delicatamente sul letto ed incominciai a spogliarla, lentamente.

 

Quella notte ci dedicammo solo a noi stessi, scoprendo lati di noi di cui non eravamo nemmeno a conoscenza e unendoci, davvero, in un solo corpo.

Alla fine, posò la testa nell’incavo della mia spalla nuda.

«”Ti panino al formaggio.”»

La guardai, completamente sbalordito. Ma, per lei, “panino al formaggio” non significava…? «Non in quel senso.» mi rassicurò subito. «Nel senso che ti amo.»

Ridacchiai. «Oh, beh, allora… “ti panino al formaggio” anch’io.» le risposi.

«Sai, potrei anche tollerare l’esistenza del formaggio, d’ora in poi.»

«Perché vuoi stare con me?» le chiesi.

«Sì. Perché voglio stare con te.» E si addormentò dolcemente tra le mie braccia.

Anch’io, Ramona.

Anch’io lo avrei tanto voluto.

Ma, purtroppo, non ci sarà dato il tempo per realizzare questo nostro sogno.

***

 

And I'd give up forever to touch you, 
'cause I know that you feel me somehow. 
You're the closest to heaven that I'll ever be. 
And I don't want to go home right now. 

And all I can taste is this moment. 
And all I can breathe is your life, 
'cause sooner or later it's over. 
I just don't want to miss you tonight.

And I don't want the world to see me, 
'cause I don't think that they'd understand. 
When everything's made to be broken, 
I just want you to know who I am. 

And you can't fight the tears that ain't coming, 
or the moment of truth in your lies. 
When everything feels like the movies, 
yeah, you bleed just to know you're alive. 

And I don't want the world to see me, 
'cause I don't think that they'd understand. 
When everything's made to be broken, 
I just want you to know who I am. 

[…]


I just want you to know who I am.

 

E ho rinunciato per sempre a toccarti, 
perché so che tu mi senti in qualche modo. 
Sei più vicina al paradiso di quel che io sia mai stato. 
E non voglio andare a casa ora.

 
E tutto quello che posso assaporare è questo momento. 
E tutto ciò che posso respirare è la tua vita, 
perché presto o tardi è finita. 
Non voglio perderti questa notte. 

E io non voglio che il mondo mi veda, 
perché non penso che la gente capirebbe. 
Quando tutto è stato fatto per essere distrutto, 
io voglio solo che tu sappia chi sono. 

E tu non puoi combattere le lacrime che non stanno per arrivare, 
o il momento della verità nelle tue bugie. 
Quando tutto sembra come nei film, 
sì, tu sanguini solo per capire che ancora sei viva. 

E io non voglio che il mondo mi veda, 
perché non penso che la gente capirebbe. 
Quando tutto è stato fatto per essere distrutto, 
io voglio solo che tu sappia chi sono. 

[…]

 

Io voglio solo che tu sappia chi sono. 

~ Until the End – Iris

 

P.S. Quanta suspense. (?)

P.P.S. Ma voi sapete qualcosa del video di GYWYL? Io neanche.

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Capitolo 20
*** 19. Skumfuk ***


Salve salvino.

Pronti per un nuovo capitolo leggero e pieno di allegria?

Ehm… in realtà, no.

Questo capitolo, a dir la verità, sarà tutto fuorché allegro: ci sarà rabbia, disperazione, litigi ed altre scene abbastanza “spinte”.

Non uccidetemi, plis.

Ultima cosa e poi me ne vado, aspettando che mi lanciate un’intera cassetta di pomodori addosso: ho intenzione di scrivere due one-shots [Al più presto, si spera]

La prima sarebbe una song-fic su “Adia”, dato che Avril ha fatto una cover del meraviglioso brano di Sarah McLachlan, e la seconda sarebbe una vera e propria one-shot incentrata su Kevin e su cosa sia successo quella sera al locale durante la festa di Matt con Will. [Eheheh]

Che ne pensate?

Bene, ora vi lascio [Aspetto sempre i vostri pomodori, eh] e me ne vo (?)

Al prossimo aggiornamento ~

 

~ Cruel Heart.

 

***

Sum 41 - Skumfuk

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 24 Giugno 2001

 

Evan's pov

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Sentii Avril appoggiare la testa sull’incavo della mia spalla e la baciai dolcemente tra i capelli: non volevo svegliarla, ma non riuscivo proprio a concepire l’idea che le mie labbra si separassero da lei.

Che io mi allontanassi da lei.

Ma questo non sarebbe mai successo, perché, adesso, soltanto immaginare una cosa del genere, mi avrebbe provocato un dolore indicibile, mille volte superiore alla sensazione che avevo provato pochi giorni fa, quando lei aveva nascosto il suo amore per me.

Ero lì, a notte fonda, a fissare la ragazza che amavo, mentre dormiva accoccolata al mio petto.

Non ero uno stalker o un vampiro psicopatico, no.

Al massimo solo uno con una faccia da pesce lesso e con un sorriso da ebete.

Oppure, un semplice ragazzo innamorato.

 

Sarei potuto stare lì a guardarla dormire per tutta la notte, senza che io facessi nient’altro fuorché osservarla.

E avrei potuto farlo davvero, se non fosse stato per un rumore.

Proveniva dal piano di sotto e sembrava come se qualcosa… fosse andato in frantumi.

Mi vennero in mente svariate cose: una finestra rotta, un bicchiere caduto in cucina, ma l’unica cosa che mi convinceva sia per la distanza, sia per il tipo di suono, era il vaso nello studio di papà che andava in mille pezzi al secondo piano.

Cercai di focalizzare tutta la mia attenzione su quel rumore, ma niente, le mie orecchie captavano solo il silenzio.

 

Così, staccai piano il braccio dalla spalla destra di Avril e, facendolo scivolare molto lentamente sotto la sua schiena, mi alzai dal letto.

Ma, nonostante questo, sentii il suo respiro tranquillo interrompersi. «Evan, non… non lasciarmi.» mormorò, ancora con gli occhi chiusi.

Mi cercò con la mano e io gliela presi subito tra le mie.

Le baciai le nocche, una per una, senza fretta, e le sussurrai che tutto andava bene e che tra poco sarei tornato da lei.

Sebbene fosse ancora assonnata, mi ascoltò e si girò su un fianco, portando le mani sotto la testa, a mo’ di cuscino.

 

Appena sentii che il suo respiro era ridiventato regolare, presi la mazza da baseball che tenevo sempre accanto alla scrivania.

Poi, uscii di soppiatto dalla stanza e, cercando di fare il meno rumore possibile, mi diressi verso lo studio di mio padre: non sapevo cosa aspettarmi, e l’ultima cosa che volevo era essere disarmato di fronte a dei ladri.

Scesi le scale, un gradino alla volta, stando attento a dove mettessi i piedi, e iniziai a percorrere il lungo corridoio.

Già appena incominciai a muovere i primi passi, riuscii nettamente a distinguere due voci piuttosto alterate: una era quella bassa e baritonale di mio padre, autoritaria come al solito, e l’altra era una femminile, già conosciuta.

Non ci misi molto a riconoscere il tono della madre di Avril, la signora Judith, ma mi sfuggiva il motivo per cui stessero litigando, e a quest’ora, poi.

Così, posai la mazza da baseball accanto al muro, senza far rumore, e sbirciai dalla porta, da cui riuscivo a vedere una parte piccolissima della scena.

 

La prima cosa che notai furono i cocci di ceramica sparpagliati per quella piccola porzione di pavimento che riuscivo a scorgere: ci avevo visto giusto, si trattava del vaso di mio padre.

Poi, iniziarono le urla:

 

«Non puoi fare sempre così, Judy!» Sgranai gli occhi: da come mio padre le si era rivolto, sembrava come se… la conoscesse da molto tempo.

 

«Io faccio quello che mi pare! LEI È LA MIA BAMBINA!» urlò la donna. Sentii scorrere un gelido brivido sulla schiena al pensiero che l’argomento della discussione era Avril.

 

A quel punto, riuscii a distinguere solo la sagoma di mio padre che andava incontro a quella di Judy: lui, decisamente più alto, la sovrastava completamente e la fissava con uno sguardo gelido e furioso allo stesso tempo.

«Lo sai che non è così, Judy. È anche la mia bambina.»

 

Appoggiai la mano al muro, barcollando.

Che cosa… cosa voleva dire?

 

«Non ti azzardare a dire una cosa del genere, Mark. Credi che non sappia cosa hai fatto appena me ne sono andata, eh?» sibilò Judy, furente. «Non sei mai stato un padre per lei e pretendi di esserlo adesso?»

 

«Lo so, ho sbagliato, ma adesso… adesso voglio porre rimedio ai miei errori. Sono entrambi figli miei e questo, purtroppo per te, non cambierà mai.»

 

Un dolore incontenibile mi fece vacillare.

Le ginocchia mi tremavano, ma la morsa non si fermò, non arrestò la sua corsa.

Così, non riuscendomi a reggere neanche sui miei piedi, travolsi tutto quello che mi trovai davanti e, con le lacrime agli occhi, mi misi a correre.

 

***

 

Duke Mark's pov

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Avevamo avuto un’accesa discussione io e Judy, quella sera.

Non riusciva ancora a capire come potessi decidermi a voler conoscere mia figlia, di punto in bianco.

Ebbene sì: dopo anni di silenzio, dopo anni di oscurità, avevo deciso di redimermi.

Feci un mezzo sorriso crudele: certo, agognavo la redenzione, ma l’avrei ottenuta soltanto alle mie regole.

Judy se n’era andata furibonda, dopo l’ultima frase che ci eravamo scambiati.

Sospirai, infastidito. Come al solito, mia moglie voleva sempre avere l’uscita di scena e, beh… io l’avevo semplicemente accontentata.

All’improvviso, mi bloccai: avevo sentito un rumore, come un qualcosa che andava a sbattere.

Strinsi gli occhi e parlai, in modo chiaro e sicuro. «Coraggio, so che sei lì.»

Aspettai qualche secondo e non ebbi alcuna risposta.

«Avanti, non essere timido, su.»

Questa volta, invece, riuscii a captare un leggero fruscio di passi.

Bene, si stava avvicinando ancora di più.

«Vieni avanti… Kevin.» gli ordinai, con voce imperiosa.

 

Davanti a me, comparve una figura con la testa china, le spalle incassate e con quell’andatura dannatamente strascicante che avevo sempre odiato con tutto me stesso.

Eccolo lì. Ah, quant’era facile piegare le persone con così poca personalità.

«Sai tutta la verità adesso. Vero?» gli chiesi.

 

La sua risposta non arrivò e io gli ribadii il concetto. «VERO?» gridai.

Annuì guardando verso di me, velocissimo, come se le mie parole lo avessero ferito irrimediabilmente.

«Ottimo. E dimmi, come ti senti, adesso?»

 

Abbassò lo sguardo, pieno di vergogna. «Io… io non so come…»

 

Fece una pausa e ne approfittai, avvicinandomi a lui. «Prima regola della persuasione, Kevin. Non devi mai staccare lo sguardo dal tuo interlocutore. Mai.» gli dissi, afferrandogli il mento, e costringendolo a guardare nei miei occhi.

Mi allontanai, dandogli le spalle. «Ma so, comunque, che tu faresti di tutto per farmi felice, no?»

Questa volta, non aspettai la sua risposta e continuai direttamente. «Ho bisogno che tu faccia una cosa per me, Kevin.»

 

Mi girai verso di lui e, inaspettatamente, lo vidi stringere gli occhi, sospettoso.

Finalmente, adesso lo riconoscevo!

«Che genere di cosa?»

 

Gli spiegai brevemente quello che volevo che facesse, ma la sua ostinazione fu ancora più grande della mia capacità persuasiva.

«No, assolutamente no!» mi rispose, quasi gridando. «Non potrei mai fare una cosa del genere. Non a loro, poi! Sono i miei amici!»

 

Sollevai un sopracciglio, meravigliato da tanta audacia. «Oh, davvero? E, dimmi…» continuai, prendendo dalla tasca interna della giacca la busta da lettera. «Con queste, potresti cambiare idea, magari?»

 

Lasciai che aprisse il plico, lasciai che vedesse quelle foto, lasciai che ogni singolo fotogramma gli si piantasse e gli scoppiasse nella mente.

 

«Tu… tu… queste foto… Will… COME HAI POTUTO?!»

 

Risi, prendendomi gioco della sua ingenuità. «Andiamo, credevi davvero che quei due ragazzi al di fuori dei bagni di quello stupido locale dove siete andati a sbaciucchiarvi tu e quell’altro fossero davvero solo due tipi sbronzi che stavano facendo qualche foto all’ambiente?»

 

Vidi i suoi occhi traboccare di rabbia, ma non gli diedi il tempo di farla fuoriuscire.

«Ti propongo un patto, Kevin: tu accetti di fare quello che ti ho chiesto e tu e quel finocchio del tuo fidanzato potete continuare a vivere la vostra… ridicola… “storia d’amore.”» [N.d.A. Scusate per il termine volgare e se ho urtato la sensibilità di qualcuno, ma mi sembrava più adatto al contesto.]

 

«NON OSARE CHIAMARE WILL IN QUEL MODO!»

 

«Oppure…» dissi, interrompendolo nuovamente. «Se tu non dovessi accettare, beh… mi troverei costretto a fare una telefonatina al preside, e ad indurlo a far allontanare il tuo amichetto per… diciamo… tutti gli anni a venire?»

 

«VUOI FAR ESPELLERE WILL?!»

 

Sporsi il labbro inferiore. «Se la vuoi mettere in questo modo, sì.»

 

«Brutto bastardo…» sibilò.

 

«Alt, alt, niente insulti. Allora, che fai? Accetti di mantenere questo piccolo segreto solo tra noi due?» Non potei fare a meno di sorridere. Faceva uno strano effetto pronunciare di nuovo le stesse parole dopo quasi undici anni.  

 

Mi fissò, lanciandomi occhiate di odio puro.

Ma a me non importava, volevo solo arrivare al mio obiettivo, qualunque fosse il mezzo.

Dopo qualche minuto, lo vidi annuire leggermente, a testa bassa.

 

I miei occhi si accesero di felicità. «Bene, bravo.»

Così, pensai di finirla lì, di lasciarlo andare, ma mi venne in mente un’altra idea.

 

«Ah, un’ultima cosa.» aggiunsi, muovendomi verso di lui. «Dimmi…» gli chiesi, grattandomi leggermente il mento. Riuscivo a vedere la paura nei suoi occhi, riuscivo a vedere il terrore nel fronteggiarmi, nello stare occhi negli occhi. Un’altra volta.

«Sai dove posso trovare Evan?»

 

 

***

 

Evan's pov

 

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Non sapevo neanche io come, ma ero riuscito a raggiungere la biblioteca.

Fin da piccolo, era sempre stato il mio rifugio: l’unico luogo in cui mi sentivo al sicuro in quella casa enorme.

Ma, adesso, non era più così.

Cercavo il conforto in un altro luogo, tra le braccia di un’altra persona… l’unica persona che non potevo avere.

Mi avvicinai alla scrivania di fronte alla finestra e rovesciai tutti i libri su di essa, buttandoli a terra.

Volevo spaccare qualcosa. Dovevo spaccare qualcosa.

Mi presi la testa fra le mani e iniziai a tempestare il muro di pugni.

Forte, forte, sempre più forte: non mi fermai neanche quando il sangue cominciò a scorrere tra le mie dita.

Urlavo di dolore, di rabbia, di frustrazione, ma quello che il mio fisico provava non era niente in confronto a quello che mi sentivo dentro.

Poi, mi fermai, con le mani sporche di sangue e con il respiro ansante.

Lui era lì.

Mi stava fissando con uno sguardo compiaciuto, come se gli facesse piacere vedere la mia sofferenza esposta davanti ai suoi occhi.

«CHE COSA VUOI?» gridai.

 

Si accigliò, ma non smise di avere quel sorrisino falso spalmato sulla faccia. «Voglio che tu stia bene, Evan. E che mi stia a sentire.»

 

Distolse lo sguardo dal mio e si avvicinò alla scrivania, dandomi le spalle.

«Ascolta, so che le rivelazioni di questa notte possono averti fatto male, ma…»

 

«Fatto male?! Fatto male, papà? MI HANNO DISTRUTTO! SONO TOTALMENTE DEVASTATO!»

 

Espirò brevemente. «Lo so, e mi dispiace.» Sembrava quasi che gli costasse molto pronunciare quelle parole.

 

«E allora perché non me l’hai detto prima?»

 

«Perché non volevo che tu soffrissi. Vedevo come la guardavi, vedevo come ti struggevi per lei, e nonostante questo, ho cercato in tutti i modi possibili per interrompere il vostro rapporto malsano senza provocarvi altro dolore.»

 

Spalancai gli occhi, avvicinandomi a lui. «Rapporto malsano?»

 

Fece un mezzo sorriso. «Beh, come credi che si possa definire una relazione di questo tipo? Hai bisogno di staccare, di non pensare più a lei. E, a questo proposito…» disse, frugando nella sua tasca e tirando fuori un biglietto. «Mi sono permesso di darti una mano e di anticipare le cose.»

 

Presi il biglietto e lo lanciò sul tavolo, infilando poi le mani nelle tasche dei suoi pantaloni eleganti.

Afferrai il piccolo foglio rettangolare e capii subito di cosa si trattava.

Era un biglietto aereo. Di sola andata.

 

«Cosa…? Come…?» riuscii a balbettare, fissandolo confuso.

 

«Io so solo che devi starle lontano, Evan. E, questo, adesso, lo sai anche tu. Devi troncare.» mi disse, scandendo lentamente le parole.

 

Inspirai bruscamente. «E se mi rifiutassi?»

 

Inclinò la testa da un lato e si strinse nelle spalle. «Allora… vorrà dire che Judy e Avril saranno buttate fuori da questa casa e se ritorneranno in Canada.»

 

Strinsi gli occhi. «Loro hanno una casa, lì.» Evitai di dirgli che ci ero già stato.

 

«No, ti sbagli. Non l’hanno mai avuta, in realtà. Quella casa è sempre stata intestata a me e l’avevo ceduta a Judy solo temporaneamente.» Puntò il suo sguardo nel mio. «Se non accetti, Evan, credo che la loro nuova casa sarà un grazioso monolocale sotto un qualche ponte.»

 

Non ci vidi più dalla rabbia e tentai di addossarlo al muro. «RAZZA DI FECCIA UMANA!» gli urlai.

Provai a colpirlo con un gancio destro, poi con uno sinistro, ma riuscii entrambe le volte a bloccarmi.

 

Con il respiro ansante per lo sforzo, cercai di ribellarmi e di sfuggire alla sua morsa, ma era inutile.

Alla fine, dopo qualche minuto, mi lasciò andare e io, di conseguenza, mi arresi: ero completamente impotente e non riuscivo ad oppormi.

Mi aveva fregato.

Ci aveva fregati tutti.

 

«La scelta è tua, Evan.» Mi guardò serio.

«O la sua felicità» disse, poggiando un dito sui biglietti.

«O la sua disperazione.» concluse.

E spostò il dito sul mio petto.

 

***

 

Take the pictures off the wall.
Erase the thoughts, forget them all.
The choice is yours to save yourself,

or in the hands of someone else.

 

Broken thoughts and alibis
conscious disappears in time.
My voice is all that I can show,
That all that I have is a soul.

[…]

What can I say?
Guess it’s obvious you would end up this way.
When you live amongst the dead,
the best of luck,
as the one and only resident skumfuk.
A victim or just a tragedy?

I hear you talk, 
but I don't hear you speak.
You don't make sense.
Your mind is incomplete,

I can't believe all 
the things that you say.
You just can't get enough.
We'll all be waiting here just for the day,
guess your time is up.
[…]

All that I need
is time for me to breathe.
Dreams, little dreams,
that only I believe.
Now that I see,
beyond the light.
I know I'll be…
I'll be alright.

 

 

Togli le foto dal muro.

Cancella i pensieri, dimenticali tutti.

La scelta di salvarti è tua,

o nelle mani di qualcun altro.

 

Pensieri distrutti e alibi
scompaiono consapevolmente col tempo.
La mia voce è tutto ciò che posso mostrare.
E tutto ciò che ho è un'anima.

 

[…]

 

Beh, cosa posso dire?
Suppongo sia ovvio 
che tu abbia voluto terminare in questo modo.
Quando vivi ad un passo dalla morte,
il meglio dalla fortuna
come l'unica e sola feccia. 
Una vittima o solo una tragedia?

Ti sento parlare, ma non ascolto cosa dici.
Dici cose senza senso.
La tua mente è incompleta,
non posso credere alle cose che dici.
Non puoi semplicemente averne abbastanza.
Aspetteremo qui il giorno,
immagino che il tuo tempo sia scaduto.
[…]

Tutto ciò di cui ho bisogno è tempo per respirare.
Sogni, piccoli sogni, gli unici in cui credo.
Ora ciò che vedo, oltre la luce.
Starò...
Starò bene.

 

~ Sum 41 – Skumfuk

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Capitolo 21
*** 20. Beside You ***


Salve youtubers e benvenuti ad una nuova recensione!

Ah…

Ma io… non sono Yotobi…

Quindi…

Salve little black stars e benvenuti ad un nuovo capitolo!

Ecco, così va meglio.

Finalmente sono riuscita ad aggiornare, deo gratias.

Vi consiglio caldamente di leggere queste righe con il link del brano qui sotto in sottofondo.

Io mi sto drogando di questa canzone ed è bellissima <3

Qualche giorno fa mi sono accorta che le immagini che avevo scelto da mettere sotto ogni p.o.v. sono state cancellate dal server, ahimè, e quindi ho deciso di caricare altre foto dei nostri personaggi sclerati preferiti (?)

[Compreso il duca che adesso odierete molto di più]

Anche le immagini nei precedenti capitoli saranno ripristinate a breve.

Spero che questo aggiornamento sia di vostro gradimento… e spero anche di non essere uccisa alla fine della vostra lettura, sigh.

A presto :)

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Marianas Trench - Beside You (Live)

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 25 Giugno 2001

 

Avril's pov

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Mi accorsi sin da subito che qualcuno aveva chiuso le tende della mia finestra.

I pochi raggi di sole, che riuscivano ad entrare nella mia camera, mi creavano un senso di inquietudine non indifferente.

Tuttavia, questa strana sensazione di timore fu soppiantata da una gioia incontenibile che, da una settimana a questa parte, mi riscaldava il cuore: Evan.

Tastai la porzione di materasso accanto alla mia, ma non trovai le sue braccia pronte ad accogliermi.

Disorientata, feci pressione sui gomiti e, sollevandomi col busto, lo chiamai più volte.

Aspettai di sentire la sua risata allegra arrivare da qualche stanza sul piano, ma niente: c’era solo il silenzio, insolito ed innaturale per quell’ora del mattino.

 

A quel punto, mi alzai completamente dal letto, scostando le coperte calde, e m’incamminai verso la porta, per scendere al piano inferiore.

Prima di uscire, però, mi accorsi di due cose alquanto strane.

La prima: vicino al suo armadio, non c’era la custodia con la sua chitarra. La metteva sempre lì, perché diceva che era l’unico punto della stanza a non essere soggetto a cambi di temperatura, e quindi, in questo modo, le corde della chitarra non potevano rovinarsi.

La seconda: proprio ai piedi della sedia della sua scrivania, sul pavimento, c’era un foglio di carta. Probabilmente, doveva essergli caduto e si era dimenticato di raccoglierlo.

Nonostante questo, comunque, uscii dalla camera e scesi le scale, per andare in sala da pranzo: avrei pensato dopo a quello che avevo notato.

 

Staccai la mano dal corrimano in legno e la prima cosa che vidi fu il tavolo pronto per la colazione: era apparecchiato solo per due persone.

Increspai le sopracciglia e tamburellai con il dito indice sulla tovaglia ricamata.

Tutto questo non mi piaceva affatto: come mai la tavola era approntata solo per due? Che fine avevano fatto tutti?

 

Purtroppo, il flusso dei miei pensieri fu interrotto da un forte rumore proveniente dalla cucina.

Camminai verso di essa a passo spedito e vidi mia madre che sfornava una tortiera con un soufflé al cioccolato dentro.

 

Lei percepì la mia presenza e si girò verso di me.

«Oh… ben alzata.» Fece un sorriso appena accennato, striminzito, e abbassò lo sguardo verso il dolce che aveva fatto.

«Dai, vai a metterti a tavola, che tra un po’ è pronto.»

 

Aprii leggermente la bocca, confusa, ed aspirai un breve soffio d’aria.

Certo, mi aveva guardata con quegli occhi tristi, quasi spenti, ma non era per questo che me ne stavo lì, immobile, con un’espressione corrucciata.

 

Una volta, quando ero piccola, mi aveva raccontato che, da giovane, la chiamavano la “Soufflé Girl”, ovvero la ragazza dei soufflé*: questo perché diceva sempre che “quando la vita ti infligge una perdita di qualcosa a te caro, un buon soufflé è la vendetta migliore.”

 

Una perdita.

 

Come se qualcuno avesse improvvisamente spinto l’interruttore per la messa in moto del mio cervello, collegai il motivo del soufflé, l’assenza di tutti, la chitarra mancante, quel pezzo di carta e Evan.

E sgranai gli occhi.

Adesso, tutto tornava.

 

«No…. no.» rantolai.

Appena mia madre si rese conto di quello che mi stava succedendo, corse verso di me e mi abbracciò stretta, cercando di bloccarmi con le sue braccia.

 

«No. No. No. No. No. No. No.» ansimavo, sempre più forte. Riuscii a divincolarmi dalla sua presa e corsi nella camera di Evan.

 

Aprii le ante dell’armadio e iniziai a buttare per terra freneticamente tutti i miei vestiti che avevo portato in quella settimana dalla mia stanza alla sua.

Non erano lì.

I suoi vestiti non erano lì.

 

C’era soltanto la sua sciarpa, quella sciarpa di lana blu scura che mi aveva dato la sera in cui c’eravamo conosciuti, quasi cinque mesi fa.

La presi in mano e inspirai il suo odore, mentre si confondeva con il sapore acre delle lacrime, che incominciavano a scorrere sul mio viso.

 

Poi, posai il mio sguardo su quel foglio di carta lasciato lì, sul pavimento.

Lo raccolsi, lentamente, e iniziai a leggere.

 

Cara Avril,

 

sai, pensavo di essere più bravo con le parole.

Pensavo di riuscire a trovare la frase più adatta per dirti tutto quello che meriti di sentire, ma la verità è che non riesco a fare altro se non mettermi le mani nei capelli e urlare a squarciagola quanto tutto questo mi stia uccidendo.

Quello che voglio dirti è che… mi dispiace.

Mi dispiace così tanto.

Lo so che queste due parole sono niente, in confronto al dolore che starai sentendo in questo esatto momento.

Ti immagino lì, con la mia sciarpa in mano, mentre i tuoi occhi azzurri scorrono su queste righe: spererai disperatamente che tutto questo sia solo un brutto sogno, pregherai con tutto il tuo cuore che, alla fine di questa lettera, me ne esca con il mio solito sorriso da due soldi e ti dica che è stato solo uno scherzo.

Non è così.

Mi dispiace.

Sono partito questa mattina, all’alba, come fanno i codardi, e sarà un biglietto di sola andata.

Ho preso un paio di vestiti, qualcosa da mangiare, la mia chitarra e sono andato via.

Non provare a cercarmi, non nutrire questa speranza inutile: nessuno sa dove sono, nessuno sa se la strada che sto per prendere è quella giusta.

Non lo so nemmeno io.

Non sprecare i tuoi singhiozzi per un tipo come me, ma odiami e leggi.

Ad ogni libro che comprerai, accrescerai il tuo odio nei miei confronti.

Ad ogni pagina che sfoglierai, mi disprezzerai sempre di più.

E va bene, perché con quel “ti panino al formaggio” di quattro mesi fa, sarà tutto più facile.

E va bene, perché leggere è una forma di consolazione: inizi davvero a farlo, quando capisci che la tua vita non è un granché.**

Anche quando detestarmi ti sembrerà impossibile, anche quando penserai che io sia accanto a te, allontanami.

Dimenticami.

Esattamente come sto cercando di fare io.

Quando asciugherai frettolosamente le tue ultime lacrime, per mentire sul fatto che tu stia bene, e i tuoi occhi stanchi rifiuteranno di chiudersi e di dormire in tua difesa…

Quando l’unica cosa che vorrai sarà solo restartene lì, ferma, con le braccia strette al petto…

Quando proverai a parlare ma non riuscirai ad emettere alcun suono e le parole che vorrai urlare saranno al di fuori della tua portata, sebbene non siano mai state così forti e violente…

Quando il tuo cuore si spezzerà a causa mia e quando tutto questo inferno si farà troppo per te…

Ti imploro di pensarmi.

E di andare avanti senza di me.

 

Evan.

 

 

***

*lasciatemi citare Doctor Who :3

**citazione presa da un’intervista ad Alessandro Baricco.

 

***

 

 

When your tears are spent,

on your last pretense, 
and your tired eyes refuse to close

and sleep in your defense… 

When it's in your spine,

like you've walked for miles, 
and the only thing you want is just

to be still for a while…

If your heart wears thin,

I will hold you up and I will hide you.

When it gets too much,
I'll be right beside you.
I'll be right beside you.

When you're overwhelmed

and you've lost your breath. 
and the space between the things you know

is blurry nonetheless...

When you try to speak,

but you make no sound, 
and the words you want are out of reach,

but they've never been so loud…

[…]

 

I'll be right beside you.
I'll be right beside you.

 

[…]

 

Trust in me, trust in me.

 

[…]

I'm just trying

to keep this together, 
‘cause I could do worse

and you could do better.

When your tears are spent,

on your last pretense, 
and your tired eyes refuse to close

and sleep in your defense… 

 

[…]

 

When it gets too much,
I'll be right beside you
Nobody will break you.
.

 


Quando avrai versato le tue lacrime,
per la tua ultima messa in scena,
e i tuoi occhi stanchi
rifiuteranno di chiudersi
e di dormire in tua difesa...

Quando lo sentirai nella tua spina dorsale,
come se avessi camminato per molte miglia,
e l'unica cosa che vorrai sarà solo
restartene ferma per un po'...

Se il tuo cuore perderà la pazienza,
io ti sosterrò e ti nasconderò.
Quando diventerà troppo,
io sarò proprio accanto a te.
Io sarò proprio accanto a te.

Quando sarai sopraffatta
e avrai perso il fiato

e lo spazio tra le cose che conosci
sarà tuttavia confuso...

Quando proverai a parlare,
ma non riuscirai ad emettere suono,
e le parole che vorrai
saranno fuori portata,
sebbene non siano state mai così forti...

[…]


Io sarò proprio accanto a te.
Io sarò proprio accanto a te.

[…]


Fidati di me, fidati di me.

[…]

Sto solo provando a mantenere
tutti i pezzi assieme,
perché potrei fare di peggio
e tu potresti fare di meglio.


Quando avrai versato le tue lacrime,
per la tua ultima messa in scena,
e i tuoi occhi stanchi
rifiuteranno di chiudersi
e di dormire in tua difesa...

[…]


Quando diventerà troppo,
io sarò proprio accanto a te.
Nessuno ti spezzerà.

 

 

~ Marianas Trench – Beside You

 

 

P.s. Per quanto riguarda le due one-shots di cui vi parlavo nel precedente capitolo, potete leggere la mia song-fic su “Adia” qui.

Per l’altra one-shot sulla Kill… sulla Wevin… vabbè, sulla Kevin x Will [Solluxy, aiutami tu!], dovrete pazientare ancora un po’. ^^”

 

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