Amore Proibito: un Fiammifero batte le Tenebre?

di Non ti scordar di me
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** He is here. ***
Capitolo 2: *** Today, you killed Matt. ***
Capitolo 3: *** Ruin you. ***
Capitolo 4: *** The bet. ***
Capitolo 5: *** You're an obsession. ***
Capitolo 6: *** I'll win. ***
Capitolo 7: *** It'll be late. ***
Capitolo 8: *** Birthday. ***
Capitolo 9: *** Caos. ***
Capitolo 10: *** A match. A match? ***
Capitolo 11: *** Past. ***
Capitolo 12: *** I'm useless. ***
Capitolo 13: *** I'll love you, as a girl loves her boyfriend. ***
Capitolo 14: *** Solo me stessa. ***
Capitolo 15: *** Free. ***



Capitolo 1
*** He is here. ***


Capitolo uno.
He is here.
 
Due anni.
Due fottutissimi anni.
Pensai, aspirando un po’ di nicotina. Ancora non credevo che era passato così tanto tempo. Non credevo che erano passati esattamente settecentotrenta giorni dal mio ultimo giorno a Mystic Falls.

E pensare che andarmene di là mi sembrava una buona idea. Ora, invece, ero sola. Sola con tante persone che mi circondavano, eppure di tutte quelle persone che conoscevo non ce ne era una. Una sola che rappresentasse appieno la parola ‘amicizia’.

Il dolore che provavo non era finito, no, inizialmente cresceva. Cresceva sempre più e mi divorava l’anima. Poi mi ero resa conto che non potevo andare avanti così per sempre e ho iniziato lentamente ad anestetizzare tutti quei sentimenti che mi laceravano l’anima fino al profondo.
Eppure ora sentivo tutti i miei sentimenti tenuti bloccati dentro di me per mesi venire fuori, perché oggi erano due anni. Due anni da quando ero a Londra.
Due anni da quando ero andata avanti, due anni da quanto non ero più in bilico.

All’inizio mi sentivo in bilico, ero in bilico tra due mondi diversi.
Un mondo che mi premeva contro, che mi faceva pressioni su pressione che mi costringeva ad essere chi non ero e un altro mondo…Un mondo diverso, un mondo senza più colori.

Perché uno era il bianco e uno era il nero.
Un tempo scartai subito il bianco. Io non potevo far parte del bianco. Insomma, ero un disastro. Il colore bianco non mi rappresentava. Ero puro, ingenuo, dolce e pulito. E io non ero pura, né ingenua, né dolce…E tantomeno ero una persona pulita al massimo. Continuavo a mentire a me stessa da anni e a quelle poche persone che s’interessavano veramente a me.
Continuai a riflettere e mi resi conto che non potevo neanche essere il nero. Io non ero sprofondata completamente. Non davo sfogo alla mia rabbia e non ero ancora stata inghiottita dal tunnel dell’agonia e della tristezza.

Ero un’oppressa ma continuavo a combattere. Per questo motivo ora ero lì, alla vecchia pista di motocross ad osservare quelle persone che erano come me.

Tutte, dalla prima all’ultima, portavano con sé un dolore. Un dolore forte che nessuno poteva comprendere. E sì, il dolore in più persone faceva meno paura. Sembrava meno pauroso, ma non faceva meno male.
Questo l’avevo capito in seguito.

Il dolore aumentava e condividerlo peggiorava la situazione. All’inizio pensavo che andare dallo psicologo potesse aiutarmi, ma vedere tutte quelle persone fissarmi, sentire i mormorii, vedere lo sguardo dello psicologo…Non faceva altro che farmi sentire peggio.

Mentre lì, in quella pista di motocross, eravamo tutti disinteressato al dolore degli altri. Ognuno annegava nel proprio dolore ma non lo nascondeva. Quella pista era il mio posto, mio e di tutti quelli che voleva un piccolo posto dove poteva essere sé stesso. Quel posto che non ci considerava mostri, che non ci considerava sbagliati, che non ci faceva sentire costantemente non all’altezza…Che non mi considerava come un reietto della società.

Oggi era una delle mie giornate NO, quel momento in cui ti alzavi la mattina e sentivi un vuoto all’altezza del petto che niente e nessuno potrebbe mai colmare? Sì. Oggi quello provavo.

Provo qualcosa. Pensai con la sigaretta tra i denti. All’inizio avevo contratto una forma di lieve apatia, o almeno quella era l’unica spiegazione possibile che mi venne in mente al mio disinteressamento totale al mondo che mi circondava.
«’Lena non fai un giro con Kai?» Mi urlò una voce familiare. Liv mi sorrideva con una birra fra le mani e un sorriso sghembo. Subito spostai lo sguardo poco dietro la ragazza.

Kai mi stava fissando intensamente e mi invitava con la testa a rispondere alla sorella. Quel ragazzo lo odiavo, ma non quanto odiavo lui.
Sapevo che non meritava il mio odio, non meritava niente di quello che provavo per lui…Eppure non riuscendo a capire cosa nascondeva il nostro proibito, riassumere tutto sotto una parola era troppo complicato. Così l’odio mi era sembrato un buon ripiego.

«Nessuno mi parla nei miei giorni storti. Perché tu? Perché ora?» Le chiesi svogliata. La ragazza sbuffò vistosamente e si portò indietro i lunghi ricci biondi dietro la schiena.

«Forse perché sei mia amica?» Già, Liv era una ragazza strana…Non strana quanto il fratello, ma pur sembra bizzarra.

«No, Liv, sono…Cosa ci fa…» Non conclusi neanche la frase. A passi enormi mi avviai verso l’entrata della pista di motocross e buttai a terra il mozzicone di sigaretta.
Sorpassai i diversi capannoni e mi avvicinai con sguardo severo al ragazzo che si guardava attorno con aria persa.

«’Lena sei qui.» Disse con un sospirone. Sospirai lentamente e lo guardai di traverso.

«Perché sei qui? Non è esattamente il tuo…non frequenti questi luoghi.» Gli dissi sventolando le mani teatralmente. Il biondo sfoggiò uno dei suoi sorrisi dolci e non potei non addolcirmi.
«Non sei venuta a lezione e…so che in questo mese c’è qualcosa che ti turba. E’ da una settimana che sei così…Così schiva.» Disse con voce sommessa.

«Luke non è posto per te. Ti prego, ritorna a lezione?» Gli chiesi gentilmente. Luke probabilmente era uno dei veri pochi amici che avevo a Londra. Era stato lui a tirarmi fuori dal mio stato di apatia. Lui con i suoi modi buffi e divertente. Lui con la sua timidezza. Lui con la sua cotta inspiegabile per quel coglione di Kai.
«Non stai bene, ‘Lena. Sono solo le tre del pomeriggio e stai già brilla, lo sai questo?» Mi disse incrociando le braccia al petto. Rotei gli occhi al cielo. Lui con la sua fissazione moralista. Quel ragazzo mi manteneva salda a terra, ma in momenti come questi mi dava al cervello.

«Non sono brilla…» Gli dissi sospirando lentamente. Come potevo farlo andare via da qui se non mi ascoltava?
«Oh, no. Tranquilla sei solamente diversamente sobria.» Mi disse seriamente alzando un sopraciglio con aria superiore. Madonna Santa, perché faceva così? Perché doveva provare ad aiutarmi?

«Ha detto che vuole rimanere.» Intervenne una terza voce. Oh, bene. Di male in peggio. Mancava solamente Kai a rompere le palle e non saremo andati lontani.

«Kai, vattene.» Gli dissi alzando gli occhi e massaggiandomi lentamente le tempie con le dita.
«Il tuo amico non sa parlare?» Lo sfidò il ragazzo con gli occhi che gli brillavano in modo strano, oserei dire quasi perverso.
Le guance di Luke si tinsero lentamente di rossastro. Perché non si faceva mai valere con Kai?

«Elena, andiamo a casa.» Mi disse strattonandomi leggermente. Facevo fatica a camminare su quei trampoli. Erano delle semplice zeppe ma in quel momento sembrava che tutto stesse girando intorno a me troppo velocemente, sembrava che un treno mi stesse passando sopra, sembrava di trovarmi in una stanza che si faceva sempre più piccola.

«Oh..» Mugolai leggermente appoggiandomi placidamente a Luke, ormai aveva imparato com’ero fatta. Sapeva che non c’era più niente da fare, però mi sopportava. Da più o meno due anni. Con i miei sbalzi d’umore e le mie cazzate.

«Stai messa proprio bene, Els.» Mi sfottò allontanandosi da lì a piccoli passi mentre Kai ci osservava.
«E tu? Stai messo meglio? Vedo che Kai non ha perso il suo ascendente su di te.» Gli ammiccai debolmente. All’inizio pensavo che mi volesse conoscere solo per arrivare a lui.

«Senti, posso presentarti Kai. Ma non venire da me con la scusa del ‘voglio essere tuo amico’» Gli avevo detto acida non appena si era presentato da me. La sua risposta fu completamente diversa da come me l’immaginavo.

«Io non voglio conoscere Kai. Voglio conoscere te…Ti sembra così strano?» Sorrisi a quel ricordo. Voleva consocermi…Bah, mi suonò strano un tempo. Ora invece non mi sorprendeva affatto i suoi modi gentile e apprensivi.
Era un ottimo amico, ovvio se toglievamo il problema principale. Era completamente andato per Kai Parker, un bastardo patentato che si divertiva con le persone.

«A cosa pensi?» Mi chiese, girando l’angolo. La pista di motocross era in uno dei quartieri più diseredati di Londra. Mancava poco e saremo arrivati poco più al centro.

«Penso a quando mi hai conosciuto.» Gli rivelai con un mezzo sorriso ironico. Dire che volevo togliermelo davanti era dire poco, non volevo proprio stringere amicizia con lui.
«Stai cercando di cambiare argomento?» Mi chiese divertito. Arricciai il naso e inclinai la testa. C’era un discorso principale?

«Non pensavo stessimo parlando di qualcosa.» Gli feci notare, reprimendo un conato. Dovevo segnarmelo: mai accettare un drink il pomeriggio. Mi faceva diventare più idiota del solito.
«Mi spieghi il perché di questa ricaduta improvvisa? Era da un po’ che non andavi alla pista.» Mi fece notare con un’alzata di spalle. Chiusi gli occhi e deglutii.

Colpita e affondata.
Uh, ecco un’altra cosa che odiavo di Luke: andava dritto al sodo e affondava nei problemi con una semplicità impressionante.

Mi scostai leggermente da lui e recuperai il mio equilibrio, iniziando a camminare accanto a lui.
«Non andavo da ventisette giorni, se proprio t’interessa.» Dissi ironica sistemandomi i capelli ricci che ricadevano lunghi dietro la schiena.

«Non cambiare argomento, Elena.» Uh, mi aveva chiamato con il mio nome? Niente nomignoli idioti o insopportabili? Non mi piaceva affatto.
«Cosa posso dirti? Mi dispiace?» Provai sbattendo gli occhioni che di solito funzionava con tutti. Continuai a camminare allontanandomi dal ragazzo che stranamente si era fermato dietro di me.

Non mi girai, fino a quando non sentii una forte presa sul polso. Ora ero faccia a faccia con Luke che mi guardava…seriamente preoccupato.

«Non deve dispiacere a me. Non capisco perché sei così. Ti giuro quando ti ho conosciuta ho pensato che per aprirti ci sarebbe voluto del tempo, ma non due anni.» Sbottò infastidito anche se la voce era piuttosto debole. «Due anni. Elena, questa storia sta andando avanti da due maledetti anni.» Alzò il tono di voce.

La testa mi stava scoppiando e le sue parole vorticavano in testa velocemente.
«Quale storia?» Chiesi con un filo di voce, provando a sottrarmi alla sua presa – più forte di quanto pensassi –.
«Quale storia? Stai bene un mese circa, stai apposto e spensierata…Poi, poi arriva un momento in cui ti chiudi in te stessa, fai una cazzata, ti ubriachi e io vengo a riprenderti.» Grugnì a voce bassa. «Parlami. Sono tuo amico ma non posso aiutarti se non so il motivo che ti rende così vulnerabile.» Questa volta la voce era più dolce, mi stava supplicando.

«Okay. Lasciami. Lascia la presa e ti dirò il mio problema.» Lo invitai con lo sguardo. Luke si soffermò pochi istanti sulle mie parole e quando capì che gli avrei detto veramente tutto lasciò la presa.
Massaggiai il polso e chiusi gli occhi cercando di non far uscire una sola lacrime. Ero troppo orgogliosa.

«Vuoi sapere il perché delle mie ricadute? Perché dopo aver vissuto qualche giorno spensierata, il passato ritorna a tormentarti e mi sento una merda. Mi sento una merda, va bene?» Gli urlai rabbiosa. «E vuoi sapere perché oggi sono così incazzata? Sono così incazzata perché oggi è l’anniversario della sua morte. Oggi io dovevo morire. Oggi io dovevo morire, chiaro?» Sbattei i piedi a terra e mi girai verso Luke che mi guardava con un’espressione tra lo sconvolto e il basito.
L’avevo lasciato – letteralmente – senza parole.

«Anniversario di morte?» Mi chiese avvicinandosi lentamente e con cautela.
«Volevi sapere? Ecco tutto. Non c’è altro. Sei contento ora? Puoi sparire se ti va, non mi offenderò.» Gli ringhiai tra i denti con lo sguardo fiammeggiante.
«E’ morto il tuo ragazzo oggi?» Mi chiese lentamente. A quelle parole, sentii formarsi un nodo all’altezza dello stomaco.
«Il mio ragazzo? Oh no. L’ho semplicemente abbandonato a sé stesso da grande stronza quale sono.» Dissi fermandomi. Avevo il respiro accelerato e i brividi. Mi appoggiai alla staccionata e mi sedetti a terra.

«Stai farneticando. Non ti capisco. Non capisco di che stai parlando, Els.» Mi disse sedendosi accanto a me. Mi prese la mano e mi sorrise incoraggiante.
Come faceva a non stufarsi di tutto quello? Come aveva fatto a non innervosirsi? Ma soprattutto come era riuscito a trattenere la voglia di mandarmi a quel paese?

«Di cosa sto parlando? Sono un disastro, Lukey. Sono un’apatica assassina insopportabile. Cos’altro c’è da spiegare?» Dissi stizzita con gli occhi che s’inumidivano lentamente. Poggiai la testa sulla sua spalla.
«Assassina?» Mi chiese con un filo di voce. «Cosa ti ha spinto a venire fino a qui?» Cambiò completamente discorso.

«Non ho idea. La scusa era medicina. Volevo studiare medicina a Londra.» Dissi divertita. «Il motivo reale? Volevo andarmene da Mystic Falls, piccola cittadina della Virginia che mi addita come una giovane stronca vite.» Feci l’ironica, scoppiando in una risata nervosa.

«Giovane stronca vite? Oh andiamo cosa potresti aver mai fatto?» Buttò lì. Provava a prendere tutto in modo leggero, ma sapevo che quella mia confessione lo aveva lasciato senza parole.

«Ero in macchina con il mio amico…E in un attimo ho deviato il manubrio della sua auto per evitare non mi ricordo quale maledetto animale e ci siamo schiantati contro un albero.» Commentai cercando di non incontrare i suoi occhi.
«Oggi…oggi è il giorno in cui…» Lo interruppi annuendo. Non volevo sentire quelle parole in bocca da nessuno.
«Forse sarà scontato, ma non è colpa tua…» Disse.

«Stesse parole. Dette da persone diverse.» Commentai. All’inizio, due anni fa, avevo provato ad anestetizzare tutto…Però quando mi era arrivato il primo anniversario di morte di Matt avevo avuto un crollo.
Finalmente avevo realizzato, veramente, che era morto. Che non sarebbe più ritornato. E che la colpa era mia.
«Mh, sei complicata.» Sorrise leggermente guardandomi.

Le persone che passavano ci guardavano di sottecchi con sguardo perso. Probabilmente si chiedevano perché eravamo seduti a terra come dei barboni? Non lo sapevo neanche io, ma ora quel posto mi sembrava adatto per riposarmi un po’, per estraniarmi dal mondo pochi istanti.

«Quindi il rimorso ti sta divorando, eh?» Mi chiese dopo un po’. Annuii debolmente. «La domanda che mi viene spontanea è: perché sei ancora qui? Perché sei ancora viva? Sei forte per essere così gracile all’esterno, uhm.» Tutto mi sarei aspettata, ma ancora una volta Luke mi aveva sorpreso.

«Perché una persona mi ha insegnato che non devo darla vinta a nessuno. Non devo darla vinta a quelli che mi dicono che è colpa mia se lui è morto, non devo darla vinta a quelli che parlano di me alla spalle, non devo darla vinta alla società che uccide senza pietà.» Gli risposi. Strano a dire il vero, ma il suo sorriso si allargò sempre di più.

«Cos’altro ti ha insegnato questa persona?» Sbuffai e pensai a cosa rispondere senza dare troppe informazioni.
«Mi ha insegnato a non farmi uccidere dal rimorso. Lui è sopravissuto, devo farlo anch’io.» Lasciai il discorso lì in sospeso. Solitamente il biondo non si addentrava mai nei dettagli, rimaneva in silenzio e captava le notizie senza fare troppe domande.

«Devi farlo per lui?» Domanda sbagliato al momento sbagliato. Perfetto.
«Lo devo fare per me, per lui e per lei
«Lo amavi?» Uhm, Luke oggi era più curioso del solito. Lo amavo? Non ne avevo idea. Dopo la sua lettera mi ero resa conto che Damon aveva ragione su tutto.

In ogni parola che aveva messo su carta non c’era un solo errore. Strano da dire, visto che noi eravamo costituiti solo da errori sopra errori.

«No.» Decretai con un’alzata di spalle. Luke si allontanò poco da me e mi guardò stranito.
«Non lo amavi? Da come parli sembri…sembri molto presa.» Commentò con una risata ingenua.
«Non lo amo. Insomma quel ragazzo era un casino. Non puoi immaginare quanti problemi abbia quel tipo, eppure c’era una scintilla che mi riportava sempre da lui.» Gli spiegai con un po’ di sufficienza.

«E quella scintilla non era amore?» Gli sembrava piuttosto strano quel discorso, e sì anche a me se qualcuno mi avesse detto un paio di anni fa questa teoria complicata sarei scoppiata a ridergli in faccia.
Oggi, a distanza di anni, mi rendevo conto che Damon non era un rebus complicato. No, lui era un libro aperto. Uno di quei libri dalla bella copertina e dal contenuto illeggibile.

Un contenuto pieno di segreti. Un contenuto difficile da decifrare, perciò no, non era un rebus. Perché un rebus potevi risolverlo, lui invece non doveva essere risolto.
Doveva essere capito. E non era così semplice.

Non era semplice capire e comprendere una persona. E io ci avevo provato, avevo provato a capire tutte le sue buoni ragioni per mentirmi e sì…l’avevo perdonato, perché non volevo infangare il suo ricordo. Ma di quello che c’era prima ora non era rimasta neanche una briciola.

«Non era amore. Per questo ora non provo niente per lui.» Confermai. Due anni fa, avevo scambiato il nostro proibito per amore. E mi ero scottata, mi ero illusa da sola.
«Posso dirti una cosa?» Mi chiese con la voce ridotta a un filo poco udibile. Mi misi a sedere meglio e portai le gambe al petto sorridendogli.

«Ti ascolto.» Alzai le spalle e gli sorrisi ancora con uno dei miei sorrisi migliori che riservavo solo alle persone che valevano veramente quel sorriso.
«Sono contento del tuo rimorso.» Disse sospirando. Arricciai il naso. Cosa intendeva? Perché era contento di questo sentimento lacerante?

Stavo per ribattere ma chiusi la bocca, vedendo che stava riprendendo il filo del discorso.
«Sono contento perché provi un sentimento. Perché il rimorso per quanto sia lacerante ti mantiene qui con me.» Disse con la voce ferma. Lo guardai sorpresa. Non ci avevo mai pensato…Senza il rimorso, cosa diventavo?

«Quando ti ho visto la prima volta e ho incontrato i tuoi occhi avevo capito che eri una ragazza diversa dal solito.» Continuò. «Eri apatica, avevi un senso di indifferenza che mi metteva i brividi.» Dove voleva andare a parare con questo discorso?
«E con questo?» Lo spronai.

«Poi ti ho conosciuta meglio, ho visto che eri più complicata di come pensavo…ma hai mostrato meno indifferenza e se questo interessamento per quello che ti circonda è dettato dal rimorso ben venga.» Concluse con la voce piccola.
Pensava che il rimorso mi abbia aiutata nel non cadere nel tunnel dell’apatia? No. Si sbagliava di grosso.

«Hai sbagliato, sai.» Gli comunicai. «Non è il rimorso a mantenermi viva. Perché il rimorso non è un sentimento per me. Il sentimento lo associo a qualcosa di bello, di piacevole…Il rimorso è solo qualcosa che ti attanaglia mente e stomaco.»

«Con questo cosa intendi?» Mi chiese Luke non riuscendo a capire dove voleva arrivare.
«Non è il rimorso ad avermi salvato. La tua amicizia e l’amore di mia madre mi hanno aiutato a superare l’apatia.» Gli dissi alzandomi da terra, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.

Non amavo le cose sdolcinate e dirle mi faceva sentire più idiota, perciò limitavo le scenette dolci e insopportabili che mi davano il voltastomaco.
«Grazie, Luke.» Gli dissi girandomi di scatto e fissandolo negli occhi.
Anche lui era in piedi. Non disse niente, si avvicinò a me e mi strinse in un grande ed enorme abbraccio.
«Di niente, Elena.» Mi sussurrò tra i capelli con un leggero sorrisino ad illuminargli il viso. A piccoli passi ci avviammo verso casa mia.

«Io ti ho aiutato a superare l’apatia, chi invece ti ha salvato da questa società?» Mi chiese continuando a camminare.
Chi mi aveva salvato? Solo un nome mi balzò in mente.
Damon. Damon mi aveva salvato, mi aveva salvato lasciandomi andare via da Mystic Falls. Lontano dagli occhi indiscreti, lontano dalle parole, lontano dalle voci.

«Lui.»

«Lui è lo stesso lui che non ami?» Mi chiese. Spesso gli avevo parlato di un lui, ma non avevo mai fatto nomi. Non amavo fare nomi e non volevo neanche che venisse a sapere che quel lui era mio fratello.
«Mh…Troppe domande, Luke.» Avevo imparato che quando qualcuno ti faceva una domanda troppo diretta a cui non volevi rispondere, bastava rispondere con qualcosa che sviasse il tutto.

«Siamo quasi arrivati.» Mi disse non volendo più insistere su quell’argomento.
Svoltammo all’angolo, poco più lontano c’era casa.

Mi sorpresi vedendo che di fronte casa c’era la macchina di mamma con diverse valigie accanto.
«Non sapevo avessi ospiti, Els?» Mi disse Luke incrociando le braccia al petto e squadrandomi con fare sospetto. Strano a dirlo ma non sapevo che avessimo ospiti.

«Ehm, non ho idea di chi possa essere, sai?» Aguzzai lo sguardo, mentre Luke cercava di vedere chi ci fosse all’interno della macchina.

«Quello sì che è un bel tipetto.» Disse il biondo, indicando con la testa un ragazzo che stava uscendo dalla macchina.
Oh porca miseria.
Persi un battito e con una velocità impressionante strattonai Luke via da lì e mi nascosi dietro il muretto per non farmi vedere.

«Cosa ti prende?» Mi chiese con espressione stralunata.
«Porca miseria, è qui.» Dissi con l’ansia a mille.
«Chi è qui?» Sbottò Luke.

«Lui.» Dissi lapidaria.

Damon era qui. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hi girls! <3
Non ho parole, sono tornata con questa storia che è *rullo di tamburi* il sequel dell’altra mia storia. Amore proibito: un fiammifero batte le tenebre?
Sono ritornata oggi perché è il mio compleanno e ho deciso di farvi un regalo (?) Okay no, lasciate perdere questo sclero XD
Spero che vi sia piaciuto il primo capitolo e probabilmente avrete notato che la mentalità di Elena è diventata più complicata di com’era.
Prima di lasciarvi andare, faccio alcuni chiarimenti/premesse:
  • Per la faccia dei personaggi, Elena corrisponde all’Elena della quarta stagione, sia per un po’ il carattere sia per l’aspetto fisico. Damon corrisponde a quello della sesta/quinta stagione, per il comportamento…Be’ non voglio anticiparlo! *.*
  • Secondo chiarimento: nella fan fiction Luke non è fratello a Liv e Kai, però Kai e Liv sono fratelli. Luke è gay e non chiedetemi perché ma Kai è bisex. Okay, fatemi sapere se questa cosa non vi piace, provvederò a inventarmi qualcuno per il mio povero Lukey *-*
  • Luke è diventato amico a Elena. Boh, personalmente a questa povera sfigata volevo darle un amico a Londra e mi è venuto in mente lui, lol.
  • La storia ha preso una piaga piuttosto complessa, sia dal punto di vista fraterno che dalla psicologia dei personaggi (che io amo) perciò userò probabilmente un linguaccia un po’ forte che non ho idea magari potrà turbare qualcuno! (?)
  • AVVERTENZA: HO GIA’ IN MENTE LA STORIA, PER LA FINE HO DUE IDEE DIVERSE TRA LORO. NON PROMETTO NIENTE SULLA FINE DI AMORE PROIBITO.
Credo di aver finito no? Spero solo che vi piaccia e se lasciaste qualche recensione mi farebbe solo piacere.
Non ti scordar di me.

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Capitolo 2
*** Today, you killed Matt. ***


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Capitolo due.
Today, you killed Matt.
 
«Oh merda.» Ripetevo le stesse parole da dieci minuti e non riuscivo a respirare. Tutto intorno a me si stava facendo più piccolo e girava tutto velocemente.
Le mie braccia iniziarono a tremare lentamente, accompagnate da un fastidioso tremolio della gambe. Luke mi guardava con espressione calma, sapeva già cosa fare.

«Elena, respira.» Mi disse prendendomi per le spalle. «Non farti prendere da un attacco di panico, okay?» Continuò scuotendomi leggermente, mentre il tremolio alle gambe stava aumentando gradualmente.
«Mi sento male…» Rantolai appoggiandomi al mio amico che mi tenne stretta a sé saldamente.
Non dovevo farmi prendere dal panico, non dovevo cadere in iperventilazione e dovevo calmare questi attacchi di panico improvvisi.

«Siediti e respira. Respiri profondi, fai come me.» Mi sedetti a terra e iniziai ad imitare Luke. Respiri lunghi e profondi, cercare di guardare un punto fisso e non farsi prendere dal nervosismo.
«E’ da tempo che non vedevo un attacco di panico. Non ne avevi uno da mesi.» Mi ricordò il biondo accarezzandomi la mano comprensivo. Sospirai pesantemente e iniziai ad elaborare quelle poche informazioni che avevo colto in così poco tempo.

«Non può essere, Luke. Hai visto la stessa cosa che ho visto io, vero?» Gli dissi convinta. Il formicolio alle braccia e alle gambe erano spariti e il senso di soffocamento iniziale era scemato.

«Ehm…Ho visto un figo da paura scendere da una macchina?» Tentò con un sorriso. No. Non era possibile. Perché dovrebbe venire qui? Per quale motivo era venuto a Londra?
«Quello…Quello è…» Oddio, sto rientrando nel panico più totale.
«Ehi, Els, calma. Spiegati.» Intervenne Luke accarezzandomi i capelli. Sospirai pesantemente e guardai negli occhi il mio amico che mi fissava spaesato. Come aveva fatto a sopportarmi in questi mesi? Se io fossi stata al posto suo me la sarei già date a gambe.

«E’ mio fratello. Quello è mio fratello.» Gli dissi stringendogli la mano. E non era un fratello normale, non era Stefan, non lo sarebbe mai stato…e questa cosa mi spaventava, tanto. Troppo.
«Non vuoi rivederlo?» Mi chiese stranito. Già, un’altra sorella sarebbe corsa tra le braccia del fratello e si sarebbero abbracciati contenti. Io no. E non perché non potevo, ma non volevo. Non volevo averlo né tra i pensieri né nel cuore.

«Non siamo…molto uniti.» Improvvisai una scusa su momento, sforzando un debole sorriso. Lui annuì comprensivo.
«Sai cosa facciamo, ora?» Mi chiese abbassandosi sulle ginocchia e porgendomi la mano. Scossi la testa e afferrai la mano, invitandolo a parlare. «Ti accompagno a casa e insieme vediamo cosa succederà.» Mi consigliò, aiutandomi ad alzarmi.

«Prima o poi, ti racconterò tutto.» Gli dissi abbracciandolo stretto. Sapevo che dentro stava morendo dalla voglia di capire. Ma lui non voleva curiosare nella mia vita, aveva solo voglia di capire la situazione e più di tutto voleva comprendermi.
«Ci conto, Els.» Mi disse lasciando qualche schiaffetto amorevole dietro la schiena. Mi sistemai i capelli, presi un respiro e oltrepassai il nascondiglio con Luke che mi teneva stretta per mano.

La macchina di mamma era sparita, così come i bagagli. Ciò significava che Damon era entrato dentro. Niente di più semplice, dovevo solo entrare.
Apri la porta, fai ciao con freddezza e vai in camera con Luke a studiare. Mi dissi. Mi resi conto che stavo ripetendo quella frase fin da quando avevo superato il mio nascondiglio e che ora mi ritrovavo faccia a faccia con la porta di casa mia.

«Luke sai che possiamo studiare a casa tua?» Gli dissi ironica, prendendo le chiavi dal mio giubbotto. Il biondo scoppiò a ridere e mi fece cenno di inserire la chiave nella serratura.
La infilai e la girai nella toppa, lentamente aprii la porta. Casa era così come l’avevo lasciata questa mattina, se ovviamente volevamo togliere tutti quei bagagli presenti in salotto.

«Entra, Lukey.» Lo invitai con un sorriso tenue. Mi chiusi le porta alle spalle e mi resi conto che in casa non c’era assolutamente nessuno, o quel qualcuno non voleva farsi vedere.
«No, tranquilla. Me ne vado…» Annunciò giocherellando con la tasca dei jeans. Aggrottai le sopraciglia, pensavo si sarebbe fermato un po’.
«Ma…» Scosse la testa divertito e mise su quel sorriso insopportabilmente dolce che ti faceva solamente tenerezza. Se prima volevo urlargli contro, dopo aver visto quell’espressione da cucciolo non ne avevo proprio la forza.

«Dove andrai stasera?» Mi chiese. M’inumidii le labbra e non gli risposi. Non voleva sentire quelle parole, perciò perché ripetergliele e vedere la sua espressione da stai-sbagliando-tutto? Potevo gentilmente evitare questo step, quindi perché non saltarlo e passare direttamente alla ramanzina che mi faceva sempre?

«Okay, dimmi l’ora. Vengo a prenderti.» Commentò con una scrollata di spalle. Strabuzzai gli occhi. Sbaglio o Lukey – lo stesso Luke che odiava la pista di motocross – mi stava chiedendo a che ora doveva passarmi a prendere?
«Non devi venire per forza.» Gli dissi sentendomi quasi in colpa. Insomma…Non poteva passare tutta la vita dietro me e le mie stronzate, giusto?

«Oh, dolcezza, non ti lascerò di certo andare da sola.» Ammiccò col tono tra il divertito e l’incerto. Scoppiai in una risatina e sperai con tutta me stessa che non mi facesse quella domanda che mi chiedeva sempre.

«Partecipi?» Ecco. Mi sembrava piuttosto strano che non mi aveva ancora chiesto niente.
«Sì. L’ho promesso a Kai.» Al nome del ragazzo, vidi Luke tremare leggermente. Sapevo che era facilmente influenzabile da lui e non avevo la più pallida idea del perché.

Uhm, è innamorato. Mi ricordai, mettendo su un’espressione pensierosa. Questo ti faceva l’amore? Anche Damon diventava così quando si trattava di Katherine?
Rabbrividii, era da secoli che non andavo al cimitero da Katherine…A pensarci bene, era un secolo che mi rifiutavo categoricamente di andare a cimitero e basta.

«Bene, vengo a vederti.» Continuò con aria innocente. Chiusi gli occhi, perché aveva la capacità di mettersi nei casini con così tanta facilità? Era peggiore di me.
«Non sei obbligato, Luke.» Provai a dissuaderlo, anche se sapevo che questa volta non l’avrei avuto vinta. Per una ragione sconosciuta, oggi quel ragazzo voleva sfidare la sorte.

«Ehi, voglio solamente venire a vederti. Sarai migliorata dall’ultima volta che ti ho vista, no?» Alzò le spalle ridacchiando. Alzai le braccia al cielo e mi arresi. Per una volta che voleva venire con me, cosa poteva succedere di male?
«Per le dieci, Lukey. Vieni in moto!» Mi raccomandai, dandogli un bacio sulla guancia.

«A più tardi, Els.» Chiuse la porta alle sue spalle e io sospirai. Un solo pensiero mi attanagliò la mente.
Dov’è lui? Pensai guardandomi attorno. Scrollai le spalle con calma e mi avviai in cucina. Dovevo prendere al più presto un antidolorifico, altrimenti questa sera non sarei riuscita a stare in piedi.

A passo filato mi avviai verso la cucina e presi un bicchiere d’acqua liscia. Chiusi il frigo e bevvi un sorso d’acqua.
In casa era tutto troppo tranquillo. Non voleva una mosca e la curiosità era troppa. Cercando di scacciare quel pensiero, uscii dalla cucina per andare verso il bagno e prendere qualcosa per questo mal di testa.

«Ritornata da un’uscita romantica?» Mi fermai immediatamente e sentii il mio cuore battere sempre più velocemente. Mi girai e lo vidi.
Lo vidi stravaccato sul divano con una sigaretta in bocca e un insopportabile sorriso in volto. Aspirava lentamente mentre io lo osservavo con calma mantenendo il respiro regolare e non lasciandomi andare nel panico totale.

I capelli neri erano sempre lucidi, sistemati in modo diverso…Ora aveva una riga più ordinata da come la ricordavo; gli occhi azzurro cielo erano cambiati, erano freddi e calcolatori; la bocca piegata in un ghigno quasi cattivo…Era cambiato.
«Dovrei ridere?» Chiesi brusca, inchiodando i miei occhi nei suoi. Non era proprio giornata, ora volevo solamente sapere perché era qui. E sapere quando se ne fosse andato via.

«Dovresti.» Ribatté alzandosi dal divano. Finalmente potei osservarlo in piedi, non era cambiato. Anche il suo look era rimasto quello: completamente nero.
«Dovrei fare tante cose. Peccato che non mi piace ascoltare le persone.» Non gli avrei lasciato l’ultima parola. Il suo sguardo mi stava sfidando come sempre d’altronde. Mi avvicinai di più e posai il bicchiere d’acqua sul tavolino che avevo di fronte.

Il mal di testa poteva aspettare. Ero vicinissima a lui e mi sentii fortunata a non essere troppo bassa, visto che lui mi sovrastava di pochi centimetri.
«Spostati.» Disse brusco guardandomi di sottecchi. Sgranai la bocca e gli occhi. Non mi aspettavo un grande trattamento da parte sua, ma neanche che si comportasse come un cavernicolo.

«Ehm…Mai sentito parlare di educazione e rispetto nei confronti delle persone?» Gli chiesi facendo un passo analogo al suo non lasciandolo andare via. Mi dava fastidio quel comportamento e sapevo che lui aveva ragione, sapevo che tra i due ero io quella ad aver sbagliato…Ma quell’indifferenza mi dava sui nervi.
«Sì.» Rispose. «Sto facendo l’educato, ma il rispetto delle persone si guadagna bimba.» Continuò, facendo uscire del fumo dalla bocca e indirizzandolo verso di me.

Mi stava dicendo che mi ero perso il suo rispetto? Stavamo scherzando?
«Smettila di trattarmi con quest’aria di sufficienza.» Gli dissi con voce bassa. Camminava con la testa alta e con troppa sicurezza, una sicurezza insopportabile. Usava quel tono di voce provato che mi faceva sentire una merda, perché mi sentivo colpevole. Di tutto.
«E come dovrei trattarti? Dovresti ringraziarmi.» Sputò inacidito. Ringraziarlo? Dovevo ringraziarlo?

«E per cosa?» Chiesi con il suo stesso tono di voce. Un tono raschiato e sofferto, un tono da cui trasudava in ogni sillaba e in ogni parola acidità e veleno.
«Se ora sei così sicura di te e combatti questa merda che hai intorno, è merito mio. Ti ho reso forte io, bimba.» Commentò stanco.
«Fammi capire…Se ora non sono più insicura di me e non ho paura di dire le cose in faccia come stanno, è merito tuo? Oh, non ci siamo proprio capiti noi due.» Replicai. Lui poteva aver fatto tutto, tutto quello che riteneva necessario per rendermi forte…Ma se ero così, era merito mio. Mio e della mia costanza
nell’andare avanti, nel guardare in faccia alla persone e non aver paura di dire crepa, non m’interessa, nell’avere il coraggio di farsi valere con gli altri.

«No, forse sei tu che non hai capito me.» M’interruppe, gettando il mozzicone di sigarette nel posacenere. Mi afferrò per il polso e mi trasse a sé bruscamente, facendo combaciare il mio petto col suo.
«Non hai più di fronte il Damon di due anni fa. Quello che si fa prendere in giro, che si fa manipolare, che si fa comandare, che lascia libere le persone. Ti è chiaro?» Scandì quelle parole lentamente e furono meno dolorose di quanto pensassi. All’inizio pensavo che vedere il suo cambiamento interiore mi avrebbe spaventato, mi avrebbe reso più vulnerabile…No. Mi sentivo solo più fomentata di prima, sentivo che quel proibito stava bruciando creando una nuova energia. Un’energia negativa. Nei suoi confronti.

«Sei cambiato. Lo siamo tutti.» Grugnii infastidita provando a minimizzare il dolore fisico che stavo provando al polso. Questo brutto stronzo mi stava facendo male.

«Non sono cambiato, le circostanze mi hanno cambiato.» Le circostanze. Neanche quelle parole mi scalfirono, non quanto mi avrebbero scalfito un tempo.

«E come sei cambiato?» Lo sfottei con lo sguardo lampeggiante di divertimento. A volte era meglio puntare sull’ironia che sulle offese. Con lui non volevo giocare, non volevo manipolarlo con i giochi di parole insolenti…Non perché non ci riuscissi, ma perché con lui non funzionavano.

«Ogni traccia di buon sentimento che c’era, ora non c’è più. Spazzato via tutto.» Quelle parole dette con quel tono mi fecero venire in mente la chiacchierata avuta con Luke. Anche lui…Anche lui si era creato attorno un muro d’indifferenza, ma era ancora qui. Ancora vivo.

«Siamo simili, allora. Quale sentimento ti mantiene qui?» La voce mi uscì più acida di come avevo immaginato, però volevo sapere la sua risposta. Volevo sapere il sentimento che l’aveva salvato.

«Solo l’odio.» La voce era incrinata e gli occhi cupi e tetri. Fu in quel momento che mi resi conto di come lo avevo distrutto. Distrutto in tanti pezzi. Lui aveva sperato, probabilmente, aveva sperato in un mio ritorno a Mystic Falls…Un ritorno mai avvenuto. E si sa che dopo un po’ le speranze diminuiscono, fino ad azzerarsi completamente.

«Solo odio e un pizzico di speranza, bimba.» Ripeté, lasciandomi bruscamente il polso e andandosene via dal salotto.
Stronzo era, stronzo è rimasto. Forse è peggiorato.
 

«Dove vai, sorellina?» La voce di Stefan inondò la stanza potente come sempre. Per un momento mi sentii a Mystic Falls. Stefan che usciva e veniva dalla mia stanza, gli urli, le litigate per il bagno…La situazione che c’era un tempo in America si è trasferita qui, a Londra. E non sapevo neanche il vero motivo.
Perché io non credevo alla scusa del una rimpatriata in famiglia di Stefan. O almeno ci credevo parzialmente: avevo creduto a Stef, dopo anni voleva rincontrarsi con la madre…però Damon no. Non riuscivo a credere alla scusa della mancanza.

Damon non era né tipo da cose sdolcinate, né esprimeva al massimo i suoi sentimenti.
Dopo l’amorevole chiacchierata con Damon, me ne ero andata in stanza e ho iniziato a studiare per distrarmi. O almeno ci avevo provato, fin quando non mi ero ritrovata Stefan in camera che mi stringeva a sé felice come una Pasqua.

«Dio siete entrambi qui!» Avevo detto sconcertata. Proprio per questo la cosa mi puzzava parecchio. Sia Damon che Stefan avevano fatto un viaggio oltreoceano lasciando papà da solo? Non riuscivo a crederci.

«Sei ancora sorpresa?» Mi chiese Stefan sedendosi sul letto e osservandomi mentre mi preparavo per stasera. Gli avrei chiesto di venire con me, ma scartai subito l’idea per due motivi. Primo motivo: non c’era posto per lui sulla moto. E secondo – più importante – non volevo che venisse in quel posto, sapevo che avrebbe iniziato con i suoi discorsi razionali e che avrebbe riferito tutto a mamma.

E ora non volevo proprio avere guai.

«Diciamo che sono senza parole.» Commentai non guardandolo neanche. Mi stavo sistemando gli orecchini e aspettavo una sua risposta.
«Mamma non mi ha detto niente.» Continuai girandomi verso di lui e sfoggiando uno dei miei sorrisi falsi migliori. Stefan mi guardò stranito per pochi secondi, pensava che sapessi del loro arrivo? Oh no. No. Era stata una sorpresa. Una vera sorpresa.

«Be’…Ho fatto un giro veloce per Londra con lei, Damon è rimasto a casa…Voi due…Ecco…» La sua pelle chiara si colorì leggermente e non riuscii a non trattenere una risatina. Anche se non c’era più un ‘noi’, era sempre imbarazzante parlarne con qualcun altro di questo segreto.

«Stef sto bene. Non mi vedi? Sono felice, ho dei buoni amici, una magnifica università, ho ritrovato una madre…» Oddio, ma quante cazzate stavo sparando in quel momento? Ne stavo dicendo una peggio dell’altra.
Non ho dei veri e propri amici, se vogliamo scartare Luke. Non sto affatto bene. Dell’Università non me ne poteva fregare niente in quel momento. Però sì, almeno avevo recuperato i rapporti con mia madre!

«E un fidanzato?» Tentò Stefan. Lo sapevo che doveva chiedermelo. Sbuffai e non risposi. Non volevo parlargli di come sfruttavo i miei sentimenti per le persone.

Mi guardai allo specchio. Niente di troppo esagerato, altrimenti non sarei riuscita a fare niente lì.
Pantaloni neri a vita alta da dentro una semplice maglia con scollatura a cuore e ai piedi i miei comodi stivali di cuoio neri.
Afferrai il cellulare che infilai nel giubbotto e diedi un’ultima occhiata.

«Non mi hai ancora risposto.» Mi fece notare Stefan che si alzò dal letto venendomi incontro. «Se non mi vuoi dire niente, forse c’è veramente qualcuno.» Canzonò con la vocina da bambino che a volte metteva su.

«Elena, Luke è qui!» Mi chiamò mamma. In questi periodi era sempre protettiva, più del solito. E sapere che uscivo con un ragazzo come lui, la tranquillizzava parecchio.
Stefan mise su un espressione divertita.

«Non vedo l’ora di conoscere questo Luke.» Mi prese in giro uscendo dalla camera. Dio Santo, perché ora doveva farmi fare una di quelle figure di merda galattiche di fronte uno dei pochi – se non l’unico – amico che mi ero fatta qui?

«Els, pronta?» La voce del ragazzo mi arrivò alle orecchie e mi sorrise non appena mi vide.
«Els?» Chiese Stefan con lo sguardo divertito. «Ops, non mi sono presentato. Sono Stefan, fratello di Elena.» Gli porse la mano che il mio amico afferrò con incertezza. Io da dietro a Stefan cercavo di fargli capire che non era lui il fratello con cui avevo un brutto rapporto, ma tutte le speranze erano inutili.

«Luke, migliore amico di tua sorella.» Commentò ironico. Sospirai non appena sentii il suo tono di voce. Niente tracce di ironia, sarcasmo o odio mal celato. Meglio così.

Stefan per poco non scoppiò a ridere.
«Migliore amico? Seriamente? Trattala bene.» Si raccomandò lasciandomi un bacio sulla guancia e avviandosi verso la cucina dove c’era anche mamma.
«Ma’ io vado via con Lukey.» Le urlai trascinandolo via di lì a forza.
Usciti di casa vidi la faccia di Luke contorcersi in una smorfia più che divertita.
«Tuo fratello pensa che sia etero?» Chiese. «Cosa più sconvolgente: pensa che io sia il tuo ragazzo?» Scoppiò a ridere e lo seguii a ruota. Con una risata sincera.
La moto di Luke era parcheggiata proprio di fronte casa. Strano a dirsi ma nonostante la guidasse con una certa maestria non aveva mai voluto partecipare a nessuna delle gare che i miei ‘amici’ organizzavano.

«Non credo sia lui il fratello odiato, eh?» Mi provocò divertito, porgendomi il casco che infilai.
«E’ uscito prima di me. E’ un coglione, fidati.» Gli dissi. Luke ingranò e partì.
«Sai dove devi andare.» Gli sussurrai all’orecchio stringendomi dietro di lui e godendomi il passaggio. Londra di sera era uno spettacolo e a volte mi piaceva
rimanere a fissare il cielo o a guardare un punto non definito intorno a me.

Il vento mi spostava i capelli, mentre giravamo verso sinistra pronti per addentrarci nelle parti meno…raccomandate – se volevamo chiamarle così – di quella città tanto bella quanto pericolosa di sera. Ma ormai non avevo più paura, non era mai successo niente.
A volte bastava mostrare sicurezza per uscire vivi da situazioni che sembravano improponibili. Luke si fermò e improvvisò un parcheggio alla bella e buona.

«Madame…» Disse ridendo scendendo dalla moto e porgendomi la mano da bravo gentiluomo. «Se devo essere il tuo finto fidanzato, almeno interpreto bene la parte.» Commentò con un ghigno malizioso in volto. Scesi dalla motocicletta e mi avviai con Luke all’entrata della pista.
«Sei ancora in tempo per andartene.» Gli sussurrai all’orecchio.

«Els, non me ne andrò da qui senza te.» Replicò sicuro. Scossi la testa arresa ed entrai dentro con il mio amico al seguito.
Lo trascinai vicino ai miei…amici di cui pochi erano rimasti veramente sobri.

«Dolcezza, chi ti sei portata oggi? Non pensavo fosse posto per te, Luke.» Commentò Kai con quel suo sguardo psicopatico. Luke sudava freddo ma io non mi facevo problemi a rispondere, tantomeno a quello stronzo.
«Non rompere le palle, Kai.» Lo avvertii. Ero venuta solo per passare quel giorno maledetto che sembrava non passare più, non per litigare. Tantomeno volevo litigare con un decerebrato come lui. «Me ne vado, non ho voglia di stare a sentire le tue cazzate.» Continuai, facendo un passo indietro.
Inaspettatamente qualcuno mi prese il polso e alzai lo sguardo sul mio amico. Cosa stava facendo?

«Non dargli conto. Andiamo a divertirci, Els.» Commentò guardandomi negli occhi e ignorando completamente Kai. Sorrisi vittoriosa e lo condussi lontano da quell’energumeno che non aveva più ribattuto.

Come sempre, c’erano già molti ragazzi con la moto pronti a partire e ovviamente alcolici a volontà. Afferrai una birra e me la portai alle labbra sotto lo sguardo vigile di Luke.
Gliene porsi una che rifiutò gentilmente.
«Sono venuto per aiutarti, visto la tua specialità nel metterti nei casini.» Mi ricordò ridendo. «E uno di noi deve essere sobrio, quel qualcuno sono io.» Continuò ancora. Distolsi l’attenzione pochi minuti, osservandomi intorno.

Mi girai nuovamente verso il mio amico, solo quando mi strappò di mano la bottiglia di birra. Alzai un sopraciglio. Doveva comandare su tutto? Cercare di controllarmi?

«Non ti vieto di bere, ti vieto di andare in moto da ubriaca.» Disse chiaramente, portandosi alle labbra la birra e bevendone un po’.
Ehm…Non era lui quello che doveva rimanere sobrio?

«Un sorso non mi farà male, tesoro.» Ammiccò per poi lasciare la birra sul tavolino degli alcolico. Sorprendentemente decisi di seguire il suo consiglio. Fin’ora non avevo mai – e intendevo MAI – guidato da ubriaca, non avevo intenzione di fare stronzate proprio oggi.

«Cosa fate di solito qui?» Intervenne Luke sventolandomi una mano di fronte al volto per farmi riprendere. A volte mi perdevo nei miei pensieri. Avevo lo sguardo perso e la mente era altrove, immaginando altre cose o persone.

«Di solito, mh? Affoghiamo la tristezza nell’alcool, la noia con del buon sano sfogo a letto e per gli oppressi ci sono le gare clandestine.» Gli spiegai.
Affogare la tristezza e il dolore dell’alcool non aiutava affatto. Ci avevo provato all’inizio, ma era inutile. Completamente. Il giorno dopo avevi una sbronza da smaltire e il dolore amplificato. In una parola? Una vera e propria merda e spreco di alcool.

Alla fine optavo quasi sempre per l’ultima opzione. Mi piaceva – stranamente – gareggiare e in quei due anni ero riuscita a imparare a cavalcare una moto senza mettere a rischio la mia vita.

Quando ero sul sellino della moto e sfrecciavo sul terriccio, sentivo le preoccupazioni scivolare e mi sentiva viva. Sentivo la forza bruciare e alimentarsi, fin’ora quella forza non era stata più alimentata…Ora mi sentivo già fomentata.
L’arrivo di Damon mi aveva destabilizzato, non quanto l’arrivo dei fratelli Salvatore in genere e basta.

«Interessante, Els.» Commentò Luke con una scrollata di spalle. Stavo per replicare quando un’idiota mi venne addosso con la sua birra.
«Che cazzo vuoi stare più attento?» Ringhiai. La mia maglia era quasi andata. Per fortuna si era macchiata meno di quanto potessi immaginare.
Lo sconosciuto ghignò divertito e mi resi conto che quello non era uno sconosciuto.
«Anche tu qui, bimba?» Chiese irritato. Ancora quel sopranome. Odiavo i sopranomi, in particolar modo se usati da lui.

«Vengo qui da un po’.» Commentai inacidita alzando lo sguardo. Incontrai gli occhi di Damon, sempre la stessa vena calcolatrice e malefica che aveva anche oggi pomeriggio.
«E lui chi è?» Povero ed innocente, Luke. Non aveva idea di chi avesse di fronte. Ma io sì. E sapevo che nei suoi occhi non c’era più una sola traccia del Damon di anni fa, c’era un nuovo Damon.

Un Damon più stronzo e calcolatore del previsto. Pronto a scavarti dentro, più acido e maligno di come lo ricordavo.
«Non usare questo tono con me.» Grugnì il corvino con tono superiore.

«Non usare tu questo tono con lui.» Replicai, anticipando Luke che aveva – forse – iniziato a capire quanto fosse complicata quella situazione.
«Dio, tu sei suo fratello?» Fece il biondo fissando sia me che lui. Damon fece un mezzo inchino, quasi onorato di essere stato riconosciuto da qualcun altro.
«Sì.» Rispondemmo contemporaneamente con due tono completamenti differenti. Io avevo un tono raschiato, infastidito…Lui, lui si divertiva e basta.
«Luke mi accompagni a controllare la moto? Devo vedere se è apposto.» Dissi indifferente verso il mio amico. Con la coda dell’occhio, osservai il corvino con la birra in mano che mi fissava normale.

Il biondo mi fissò incerto. Non aveva capito le mie intenzioni e a dir la verità non avevo neanche io capito quali erano. Perché avevo deciso di ‘rivelare’, da subito a Damon, che gareggiavo quella sera?
«Certo, Els-» Non fece neanche in tempo a finire la frase, Damon mi prese il polso violentemente e si rivolse verso Luke.

«Lasciaci in pace, devo parlare con lei.» Commentò apatico. Senza un filo di emozione. Ma non era quello che mi infastidì di più, no, mi dava alla testa quel lei. Pronunciato con uno sforzo immane, come se pronunciare il mio nome vero potesse fargli male.

«Sei proprio bipolare.» Sussurrai più a me stessa che a lui. «Luke, vai. Ti raggiungo.» Gli dissi. Quest’ultimo non era certo, mi fissava incerto…Aspettava una mia parola di dissenso e mi avrebbe trascinato fuori da quella pista, lo sentivo.

«Non ti è chiaro? Ha detto che puoi andare.» Intervenne Damon fissandolo in cagnesco. «Sono…il fratello.» Mi venne la pelle d’oca. Il fratello, per lui era una maledizione essere mio fratello, mio consanguineo.
«Cosa vuoi? Non ho tempo da sprecare con te.» Buttai acida, anche se in realtà non volevo essere così dura. A dirla tutta, non avevo idea che il suo cambiamento fosse stato così radicale.
«Vuoi gareggiare?» Mi chiese con un ghigno più che divertito in volto. Eppure quel ghigno nascondeva una leggera preoccupazione, lo sentivo.
«Preoccupato Salvatore?» Lo sfottei. Per un momento mi venne in mente di proporgli se volesse gareggiare contro di me, però scartai quell’idea improbabile e assurda.

«Sai che giorno è oggi?» Usò un tono quasi canzonatorio. Che giorno era oggi? Inizialmente non riuscii a collegare. Perché mi chiedeva che giorno era oggi? A che scopo?

«Un giorno come un altro, credo.» Risposi scocciata, incrociando le braccia sotto il seno guardandolo di sbieco. L’aria fu spezzata da una risata cattiva, gutturale che uscì fuori dalle labbra di Damon con una fluidità impressionante.

«No, bimba.» Replicò con una luce perversa ad illuminargli gli occhi. «Oggi è il giorno in cui hai ucciso Matt.» Disse cattivo.
Persi il respiro.
Quelle parole furono un pugno allo stomaco.
Come quando stavi facendo un bel sogno e d’improvviso ti svegliavi con quella sensazione fastidiosa addosso.
Come quando in una fredda giornata d’inverno, scoppiava un temporale ghiacciato.
Come quando abbracciavi una persona e poi quella stessa persona ti accoltellava senza pietà.
Come se l’ossigeno venisse a mancare per pochi minuti.

Sbiancai e mi portai una mano alla testa.

«’Fanculo, Damon.» Dissi fra i denti con la voce ridotta ad un udibile sussurro. Probabilmente, nessuno si era accorto di questa litigata ma io me la sarei ricordata tutta la vita.
Perché quello è stato il giorno in cui Damon, sangue del mio sangue, mi ha accusato di essere un’assassina. E non c’era cosa peggiore al mondo che sentirsi dire questo da lui, perché con lui avevo condiviso gran parte del mio dolore.

Lui sapeva che tasti toccare, come e quando.
E ora mi chiedevo «Perché me l’hai ricordato?» Chiesi ancora, avvicinandomi a lui in modo alquanto pericoloso. Ero tentata di tirargli uno schiaffo e nessuno me l’avrebbe impedito.

«Perché voglio avvertirti. Morire lo stesso giorno del tuo amico, ouch…» Commentò divertito. Mi sorprendeva la cattiveria con cui parlava. Quello non era mio fratello, non era la persona che conoscevo. Era solo uno spietato calcolatore pronto ad attaccarti.

«Perché sei ritornato? Perché non te ne ritorni a Mystic Falls? Mi faresti un piacere.» Dissi riducendo gli occhi a due piccole fessure.

«Niente che tu debba sapere, per ora…» Disse giocherellando con il giubbotto di pelle. Mi superò con una spallata e ammiccò leggermente, lasciandomi lì con quel groppo in gola insopportabile.
«Forse una cosa posso dirtela…» Mi girai di spalle, vedendolo a qualche metro da me. «Mi piace ricordare i tuoi sbagli, mi fa sentire giusto.» Se ne andò.
Il cuore batteva all’impazzata, avevo gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta. No. NO. NO. Afferrai la prima cosa che mi capitò sotto tiro e la gettai a terra, incazzata.

Non doveva nominare Matt, non doveva. Quindi perché? Perché colpirmi e affondarmi, senza un briciolo…di pietà? Compassione?
Osservai la bottiglia di vetro frantumata a terra e mi avviai verso le moto, pronta per salire a bordo. Sentivo già da lontano la voce di Luke provare a sovrastare quella di Kai.

«Elena…Manca una mezz’ora abbondante, perché non ti bevi qualcosa eh?» Mi propose quest’ultimo cambiando argomento non appena mi vide arrivare.
«Faccio un giro, Kai.» Gli comunicai, sfilandogli di mano il casco e indossandolo. Lo lasciai aperto e presi la moto per il manubrio spingendola avanti.
«Un giro?» Si fermò osservando il mio volto che probabilmente parlava da solo. Si notava che ero arrabbiata e veramente in quel momento volevo solo urlare come un’ossessa maledicendomi per aver mosso quello sterzo in quel momento.

«Piano, Gilbert. Il terreno slitta un po’.» Si raccomandò dopo. Luke strabuzzò gli occhi e rivolse un’occhiata truce al moro.
«Cosa? La lasci andare? Oh, andiamo è entrata in modalità ora-ammazzo-tutti!» Commentò il biondo. Voleva risultare simpatico? Perché stava fallendo miseramente.

«So quello che faccio. Un giro solo.» Commentai salendo sulla moto. Sgommai leggermente e le uniche parole che sentii furono tranquillo, è una ragazza in gamba.
Sarò in gamba, ma ora mi sentivo…Boh, non trovavo una parola per descrivermi. Questa giornata era veramente partita troppo bene, tutto stava andando per il meglio, avevo pregato per Matt…Poi tutto era andato a rotoli, incominciando con l’arrivo  di Damon per finire con le sue parole velenose.
Quelle parole erano arrivate nel profondo e mi aveva stretto il cuore in una morsa d’acciaio.

Il vento sferzava sui capelli che si erano spostati dal volto, la velocità era impressionante. La moto slittava perfettamente sul terriccio.
Sterzai leggermente prendendo la curva alla larga, continuando per la pista e ignorando le sue parole. Aumentai ancora la velocità e l’adrenalina era alle stelle. La sensazione di libertà che mi invase quando la moto si alzò da terra di una manciata di centimetri da terra non potevo descriverla.
Era un’emozione eccitante, ma al contempo terrificante. Non sapevi cosa poteva succederti e mi piaceva, mi piaceva non sapere cosa stessi facendo in quel momento.

Volevo vivere il minuto, quel minuto fatale che non sai che è il tuo ultimo minuto. Era un po’ come l’ultimo giorno di vita di una persona, io non sapevo se quello era l’ultimo giorno della mia vita…Perciò dovevo impiegarla al massimo e vivere fino alla fine ogni più piccolo sentimento che provavo.
Quando, però, le ruote dalla moto toccarono l’asfalto tra tante persone che c’erano…Io mi concentrai su di lui. Con le mani in tasca e lo sguardo di sfida, mi fissava con un ghigno cattivo e con gli occhi illuminati.

Oggi è il giorno in cui hai ucciso Matt. Quelle parole mi arrivarono forte e chiaro, ricordai l’ultimo minuto fatale di Matt e le parole di Damon fredde come il ghiaccio.

Mi ricordai degli occhi vispi del mio amico che mi squadravano sempre con interesse, i capelli biondi in perenne disordine e il carattere insopportabile.
E io Ho ucciso tutto questo. Pensai distogliendo momentaneamente lo sguardo dalla pista.
Senza rendermene conto la moto slittò più del dovuto sulla terra, così tenni stretto il manubrio tra le mani e cercai di frenare producendo uno stridio alle mie orecchie fastidioso.

«Elena!» Sentii qualcuno chiamarmi, ma io non davo retta né a Luke né a Kai…Né a chiunque altro stesse cercando di parlarmi e mi stesse dicendo di scendere da quella fottuta moto per salvarmi la pelle.
Ora mi stavo concentrando solo su una cosa: vivere quell’istante e vivere quel sentimento incredibilmente eccitante e alquanto pauroso.

Alla fine, la moto s’inchiodò a terra duramente.

Il cuore batteva più forte di prima. Le ruote della moto imbrattate di terriccio e le scarpe nuove imbrattate di fanghiglia. I capelli erano disordinati e appiccicati al casco. Il mio colorito era diventato probabilmente biancastro. Ma non m’importava niente, non ora.
Ora ero solo occupata ad affogare nel dolore. Ad affogare negli occhi blu di Damon che per un mezzo secondo mi ricordarono quelli di Matt.
Quegli occhi che erano chiusi da due anni a questa parte.

Intorno a me c’erano diversi ragazzi, certi avevano iniziato persino ad applaudire per la mia manovra improvvisata…Kai e Luke mi guardarono in due modi completamente differente: il primo era incuriosito, il secondo preoccupato. Veramente preoccupato.

«Parla, Elena.» M’incoraggiò Kai con il suo tono di voce profondo e temperato come al solito.
Ma le sue parole arrivarono alle mie orecchie in modo lontano e sfocato, tutto era veramente troppo lontano da me.
Mi sfilai il casco da testa e lo gettai a terra, mi sedetti sulla moto prendendomi la testa tra le mani. Le braccia e le gambe iniziarono a formicolare e una consapevolezza si fece strada in me.

Una brutta consapevolezza.
Un leggero fastidio al petto iniziò ad aumentare e il sudore mi imperlava la fronte. Mi sentivo soffocata da tutte quelle persone che mi stava attorno, mi sentivo soffocata da tutti quei paia di occhi.

«Mi manca…aria…» Boccheggiai, provando ad aggrapparmi alla moto. No. No. Non dovevo cadere nel panico, ma ormai era tutto inutile.
Il fastidio all’altezza del petto aumentava insieme al formicolio.

«Cosa ti succede?» La voce di Kai mi arrivò forte e chiara alle orecchie ma non riuscivo ad interagire con lui. Sentivo solo l’aria venir meno, scossi la testa e scesi dalla moto.
Non potevo camminare, le gambe non riuscivano a reggermi.

«Ha un attacco di panico, Dio!» Urlò Luke. Non…non dovevano entrare anche loro nel panico. Stavo soffocando.
«Luke, aiutami, sto soffocando…» Rantolai. Avevo paura, una paura sproporzionata per quello che quella sera poteva succedermi. Mi incolpavo di ciò che era successo e mi sentivo un’idiota…perché ero sollevata, ero sollevata di essere ancora viva. E per un solo secondo, ringraziai qualcuno lassù per avermi fatto vivere.

«Ha una sensazione di asfissia.» Disse Luke. «Non statele tutti addosso!» Urlò. Tra la gente che mi osservava curiosa notai due occhi azzurri come il mare.
«Devi farla stendere.» Intervenne la sua voce ferma.

«E tu cosa ne sai?» Non potevo rispondere, non potevo parlare. Ora volevo solo ritornare a respirare regolarmente.
«Sai da cosa sono causati questi attacchi di panico, eh?» Chiese con voce piatta. «No? Bene, io lo so.» Grugnì infastidito.
Damon si avvicinò a me e mi fece cenno di stendermi a terra. Non replicai, mi stesi a terra ma niente. L’asfissia continuava a perseguitarmi, mentre il formicolio alle gambe erano spariti.

«E’ tutto un circolo vizioso.» Commentò. «Devi solo non farti prendere dall’ansia. Ricorda, cosa stavi facendo prima di avere questo attacco?» Mi chiese.
Iniziai a controllare lentamente il respiro.

«Un giro…in moto…» Dissi tra un respiro e l’altro.

«Dove ti trovi?» Continuò. Cosa mi stava facendo? Iniziai a rifletterci sopra e iniziai a calmarmi.

«Alla vecchia pista…di…motocross…» Ansimai, mentre continuavo a tenere gli occhi chiusi.

«Conta. Conta e pensa che passerà.» Mi ordinò. Scossi la testa. Non ce la potevo fare, dovevo combattere il mio panico. Non dovevo farmi annientare in questo modo.

«Non serve a un cazzo fare così!» Ringhiò, vicino a me. Luke mi prese per mano e incastrò i suoi occhi verde scuro con i miei color cioccolato.

«Ascoltalo, Els. Fallo per me.» Mi strinse la mano e rivolsi la mia attenzione solo ed esclusivamente su Damon.
«Uno…Due…Tre…» E così iniziai a contare, contare fino a quando il mio respiro non si fece più calmo. Fin quando tutto ciò che mi circondava aveva iniziato a riprendere una vera e propria forma.

«Continua a contare e convivi con il tuo attacco di panico, prima o poi passerà.» La voce di Damon era chiara e limpida. E per un solo minuto pensai che fosse realmente preoccupato, ma il viso tradì le mie aspettative.
Era calmo e composto, non gliene fregava nulla né di me né di come stavo. Sul suo viso non c’era un filo di preoccupazione, anzi manteneva la sua aria da stronzo.

Odio, solo odio. Pensai.

«Trentadue…» Continuai a contare.
Pochi altri numeri e tutto intorno a me iniziò a riacquistare una forma, un colore, un viso. La sensazione di soffocamento era sparita.
Ora sentivo solo un grosso cerchio intorno alla testa.

«Dio, ti è passato.» Sospirò Luke. Lui sì che era preoccupato e anche Kai lo era, glielo si leggeva in volto. Mi misi a sedere e mi guardai attorno. Tante persone erano intorno a me ed erano sconvolti, altri erano consapevoli di ciò che mi era successo e altri ancora…non se ne fregavano proprio niente.
Tra tutti i volti preoccupati, ne incontrai uno. Uno solo in lontananza.

«Come ha fatto a calmarmi?» Sussurrai a me stessa. Quel ragazzo era cambiato, cambiato come me.
Le sue parole erano state lame fredde che giocavano nella mia carne, ma avevo capito il suo gioco.
Era un gioco perverso e divertente per me. Voleva distruggermi e poi curarmi.
Ma non ne sarei uscita perdente, voleva giocare a chi si faceva più male?
Apriamo i giochi.
 
 
 
 
 
 
 
A/N:
Dopo una settimana, i’m back. Ammetto che forse dopo aver letto questo capitolo penserete quante canne si è fumate questa tipa prima di scrivere questo…’capitolo’?  E invece io vi assicuro che l’ho scritto con tutti i buoni propositi di questo mondo, cè se è uscito così deprimente è perché nella mia testolina doveva essere così. Okay…lasciate perdere queste stupidaggini, perché ne ho dette veramente troppe XD.
Volevate e aspettavate il bell’incontro di Elena e Damon…Beh ecco la rimpatriata, ed è una vera e propria rimpatriata visto che c’è pure Steffy *0* Tralasciando ciò, quante di voi amano Lukey? Io lo adoro a quel ragazzo, un amico proprio perfetto.
E quante di voi shippano già Lai (Okay questo nome fa proprio cacare ma non mi veniva in mente niente .-.)? Io sì. Proprio come inizio a shippare Woobrev! *-* Non ho lo più pallida idea di cosa questo c’entri ora, ma ve lo chiedo ugualmente: quante di voi – come me – vedono bene la Doobrev con lo psicopatico alia Chris Wood?
Chiusa questa parentesi tra ship, continuo con il capitolo. Anzi, no prima chiedo: vi piace il banner? *0* Ringrazio la mia migliore amica per sopportarmi e farmi da film maker/bannerista (?)/sopportatrice (?) qualsiasi stupidaggine la mia mente partorisca. <3
Ora giuro non vi farò perdere altro tempo:
Il nostro Damon sembra piuttosto nervosetto eh. Mi piace troppo. Lui con tutto questo buon sano odio! (Tranquille non sono del tutto suonata) Elena anche lei sembra aver capito che il corvino non è più come prima.
Giusto per farvi capire: se prima era il Damon della quinta stagione, cioè un Damon perso per Elena (perso in modo bizzarro nella mia storia XD) ora è come se ci trovassimo nella seconda stagione alle prese con Katherine!
Wow, spero che abbiate capito qualcosa perché io faccio fatica a capire ciò che ho scritto XD
Comunque, vediamo la nostra Elena piuttosto sicura di sé anche se sembra avere dei cedimenti durante il suo quasi – incidente in moto.
Damon è stato proprio crudele. Almeno se qualcuno venisse da me e mi dicesse che in quel giorno ho ucciso il mio migliore amico, minimo (come minimo) la bottiglia gliel’avrei spaccata in testa altro che in terra come fa la nostra protagonista :)
Quella frase sta a indicare proprio come è cambiato il corvino. Prima non avrebbe mai fatto una cosa del genere, anzi prima le ripeteva sempre che non era colpa sua. Immaginate cosa possa essergli successo in due anni :’) :’(
Sono veramente cattiva muhaahmuhahmuhaha!
E tutto ciò si conclude con un attacco di panico. Tutto ciò che ho scritto è assolutamente vero, non ho inventato niente! Almeno questi dovrebbero essere i sintomi per un attacco di panico causato da qualcosa che tormenta una persona. Questi attacchi potrebbero causare anche depressione e come Damon ha fatto con Elena è solo uno dei tanti metodi per provare a “gestirli”. Spero che non vi abbiano…non so…infastidito? Boh, non ho idea! :)
Se qualcosa non vi convince, magari il linguaggio forte che la storia ha preso o qualsiasi cosa che secondo voi abbia trattato con un po’ troppa leggerezza mi fareste un grandissimo favore e me lo direste? Così proverò a migliorare ;)
Chiuso con il capitolo, ringrazio mille/cento volte le sei ragazze che mi hanno lasciato la loro opinione: Bea_01, NikkiSomerhalder, PrincessOfDarkness90, BunnyDelena, MySecretGarden e ValyDeleNian.
Concludo ringraziando le 21 (la mia faccia quando ho visto quel numero -à *-*) che hanno inserito la storia tra le preferite, le 22 (stessa faccia *-*) che l’hanno inserita tra le seguite e le 4 che l’hanno inserita nelle ricordate.
Siete le migliori :) <3 Vi amo!
Alla prossima, belle! Ci sentiamo alle recensioni.
Non ti scordar di me.

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Capitolo 3
*** Ruin you. ***


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Capitolo tre.
Ruin you
 
Oh, miseria che mal di testa.
Peggio di quanto immaginassi. I post sbornia erano sempre i peggiori ed era da tante che non li provavo. Mi veniva solo la nausea a pensare a come stavo messa ora. Ero nel letto, stesa come un’inferma, mentre mi chiedevo come fossi arrivata lì.
Luke era proprio il migliore. Riuscire a non cedere a Kai – cosa alquanto difficile per lui – e mantenermi coi piedi per terra non era affatto un’impresa facile.
Volevo tanto alzarmi e fargli una chiamata, una sola per dirgli di stare bene e ringraziarlo per com’era paziente. Mi misi a sedere e aprii prima un occhio e poi l’altro.
La luce filtrava dalla finestra illuminando parzialmente la stanza, mi stiracchiai e misi i piedi a terra. Rabbrividii quando entrarono in contatto con il pavimento, ma non ci feci caso. Notai il mio cellulare a terra, mi chinai a prenderlo da terra e notai che c’erano già diversi messaggi da mittenti diversi.
Lena è da un secolo che non ci sentiamo. Contenta del suo ritorno a Londra? Xxx Care.
Sì. Certamente Caroline. Stavo facendo i salti di gioia per l’arrivo di mio fratello a Londra, un fratello che mi odiava e che se avesse potuto mi avrebbe già declassato da ruolo di sorella.
Decisi di risponderle più tardi e controllai l’altro messaggio.
Voglio una statua d’oro dopo questa cazzata, Elena! Dormi bene xxx. Sorrisi e sbadigliai apertamente. Non avevo ancora idea di come quel ragazzo non si fosse ancora scoraggiato. Assecondava le mie stupidaggini, veramente, da troppo tempo. Ancora stentavo a credere che non se la fosse data a gambe.
Io cosa avrei fatto al posto suo? Non volevo fare la moralista, né la persona dai giusti ideali perché ero la meno indicata per parlare di cos’era giusto o no. Ma di una cosa era certa, più che certa. Se le situazione fossero state diverse, non avrei sopportato a lungo quella situazione.
Perché sapevo perfettamente che ero sommersa dallo schifo, le persone che mi circondavano, certi ambienti che per qualche ragione sconosciuta avevo iniziato a frequentare…Sapevo che questi errori mi stavano sommergendo e sapevo che non era qualcosa di sostenibile.
Non lo sostenevo io, come faceva Luke a farcela?
Quindi no. Io non sarei mai stata capace di aiutare così una persona. Mai. Mai e poi mai ce la potevo fare.
Mi farò perdonare. Giorno Lukey! Xxx Abbozzai velocemente e premetti invio. Notai, però, che c’era un terzo messaggio. Questa volta era un numero sconosciuto.
Tu e l’alcool siete una brutta combinazione. Sorrisi leggermente e scossi la testa amareggiata. Chi poteva mandarmi messaggi del genere? Non volli indagare più a lungo, ma non negai a me stessa che per un momento mi ritornò in mente una persona.
O meglio, una vecchia fantasia.
Ian. Quel nome mi balzò in mente, ma lo cancellai immediatamente. Ian era solo un espediente per parlarti e per comprenderti, ora non c’era più. Non c’era più perché Damon non voleva più comunicare con me, così come io non volevo comunicare con lui.
Damon.
Damon era così indecifrabile ai miei occhi. Mi era difficile capire cosa avesse potuto scaturire questo suo odio sviscerato verso di me. Oh meglio avevo capito da dove il suo odio fosse fondato, ma sapevo – anzi sentivo – che c’era qualcosa che non andava.
Perché non potevo credere alle sue parole. Non riuscivo a capire i suoi motivi. Ieri mi aveva esplicitamente detto di non volermi rivelare le vere ragioni che l’avevano riportato qui. La mia mente era divisa in due, anzi io ero divisa in due.
C’era la parte meno razionale, quella più dura, quella che mi diceva di intraprendere quella gara pericolosa con Damon. Era tutto una gara, o almeno quel suo sguardo mi aveva trasmesso quella sensazione. Era una gara, una brutta gara. E se due anni fa facevamo di tutto per non ferirci ora era tutto cambiato, ora volevamo ferirci.
In tutto questo dolore, sia io che lui eravamo sopravissuti e sia io che lui volevamo che uno dei due cadesse. Che uno dei due cedesse. E quell’uno non sarei stata io e sapevo che, anche, lui non voleva essere quell’uno. Proprio per questo, avevo aperto i giochi. Non poteva ferirmi, senza passarla liscia.
Posai il cellulare sul letto e a grandi passi uscii da camera mia. Non era più così silenziosa. Di solito a quest’ora mamma era già iper attiva, mi aveva già svegliato e non sentivo neanche il buon odore di pancake che preparava i giorni in cui era a casa.
Facendo lunghi passi mi avviai verso la cucina, mi bloccai solo dopo aver realizzato che non ero sola. Mamma era già sveglia e con lei c’era Stefan.
Non avevo la più pallida idea del perché mi fossi nascosta dietro al muro come una bambina che cercava di origliare i discorsi tra grandi, ma avevo capito che quei due non me la stavano raccontando giusta.
«Damon l’ha presa male. Molto male.» Disse con voce dura. Osservavo di sbieco mio fratello, non sembrava neanche lui. Aveva i capelli spettinati, per non parlare della due grandi occhiaie che gli contornava gli occhi. E la cosa che più mi metteva inquietudine era un’altra: era il suo sguardo così triste, si sentiva quasi colpevole di qualcosa di cui io ero all’oscuro.
«Quanto male?» La voce di mamma era incrinata. Grosse lacrime cercava di nascondere, mentre i singhiozzi si facevano sempre più forti.
«Io…Vieni qui…Ti voglio bene, lo sai?»Le disse Stefan stringendola in un grande abbraccio, uno di quelli che ti facevano scaldare il cuore solo a vederli. Perché tutto questo mistero? E cosa Damon aveva preso male?
Mi resi conto che qualsiasi cosa facessi riportava sempre a lui. Cosa m’importava di Damon? Non m’importava niente né di lui né di quello che gli era successo in quei due anni di cui io non ero stata partecipe di mia spontanea volontà.
«Ehi, andrà tutto bene.» La consolò ancora, mentre io decisi di allontanarmi da lì. Mi avviai verso camera mia, ma prima mi soffermai sulla stanza in cui Damon doveva dormire. Deglutii, chissà se era dentro. Mi avvicinai alla maniglia della porta e la poggiai sopra. La strinsi e presa da un attacco di follia istantanea l’abbassai.
Era tutto così come l’avevo lasciato io. E la cosa sorprendente era che tutto era intatto. Le tende erano ricoperte di un leggero strato di polvere e la finestra era sigillata. Il muro contava sempre quegli incavi sul muro che erano aumentati.
Ogni giorno, ogni santo giorno, andavo lì in quella camera e aggiungevo due tacchette che indicava un altro giorno senza Katherine e un altro giorno senza Damon.
Più, però, passavano i giorni; più mi rendevo conto di come non riuscissi a scacciare Damon dai miei pensieri.
Perché anche se dentro la mia testa mi ripetevo che segnare un giorno di lontananza da lui mi aiutasse a scacciare il suo ricordo, la verità non era questa. La verità era che volevo aggrapparmi a qualcosa, anche qualcosa di insignificante come un piccolo intaglio lì sulla parete.
Mi avvicinai al letto e notai che era integro. Il copriletto era stato cambiato solo perché mamma l’aveva cambiato per il suo arrivo ma era come nuovo.
Ciò stava a significare che non aveva dormito lì quella sera. Eppure i miei occhi caddero poco lontano da lì, vicino alla scrivania c’erano le sue scarpe e i vestiti.
Aggrottai le sopraciglia e mi chiesi come fosse possibile che lui si fosse spogliato lì ma non avesse dormito in quel letto.
Stufa di quei pensieri, uscii frettolosamente da quella camera e mi fiondai nella mia per prendere un semplice intimo. Dopo un’ubriacata ci voleva solamente una doccia fredda per farti riprendere.
Mi chiusi la porta alle spalle e m’imbattei in uno Stefan diverso, oserei dire più finto. Ora aveva un sorriso sul volto – e se non avessi visto la situazione com’era prima forse non mi sarei accorta di come stesse cercando di mascherare qualcosa – e i capelli poco più sistemati di prima.
«’Giorno, ‘Lena!» Mi salutò gentilmente sistemandosi il ciuffo ritmicamente come un tic nervoso.
«’Giorno Stef!» Ricambiai con un’alzata di spalle.
«Elena, oggi, io avevo in programma di visitare un po’ Londra…» Mi disse con un piccolo sorriso. Visitare Londra? Non era un’idea che mi alettava particolarmente. Stamattina avevo un grosso cerchio alla testa post-sbornia e fingere che tutto vada bene mentre in realtà niente va bene, Forse avrei potuto credere alla sua scusa fino a pochi minuti fa della famigliola felice…Ora, invece, dopo aver sentito la loro conversazione ero solo più sospettosa.
«Io vi raggiungerò più tardi. Ho un gran mal di testa.» Gli dissi incrociando le braccia al petto e spostando lo sguardo altrove.
«Scommetto che ieri hai fatto scintille con il tuo ragazzo…» Mi diede una gomitata cercando di reprimere il sorrisetto malizioso che si era formato sul volto. Sgranai leggermente la bocca e pensai a come spiegargli che in realtà io e Luke non eravamo fidanzati, che lui non era neanche ETERO!
«Non puoi immaginare…» Sussurrai guardando altrove.
«Stefan, hai svegliato…Oh, tesoro, sei già sveglia.» Mamma si avvicinò a me e mi strinse a sé in un grande abbraccio che ricambia perplessa. Perché era così…così espansiva questa mattina?
«Dormito bene?» Mi chiese accarezzandomi i capelli. Annuii distrattamente e mi schiarii la voce.
«Ehm…Avete in programma di girare un po’ Londra? Me l’ha detto Stefan.» Le dissi guardandola. Lei si sistemò i bei capelli e annuì.
«Sì…Pensavo di portare anche te e Damon.» Mi comunicò. Oh, perfetto. Un’intera giornata con Damon, facendo finta che tra noi non fosse mai successo nulla?
«Mamma, magari Elena può raggiungerci più tardi…E’ ancora assonnata.» Intervenne mio fratello vedendo il mio grande disagio.
«Oh, allora puoi venire con Damon! Ci raggiungete quando entrambi siete pronti, no?» Un momento…Damon era a casa?
«E ora dov’è? Non è in camera sua…» Farfugliai. Più che altro ero curiosa di sapere dove fosse e a che ora fosse ritornato ieri sera.
«E’ in bagno. Forte mal di stomaco.» Mi spiegò, mente io annuii distrattamente. Damon con un forte mal di stomaco? E da quando? Insomma non credo era la prima volta che beveva e si ubriacava.
«Okay, allora vi raggiungeremo. Tempo un’oretta.» Conclusi con un’alzata di spalle.
«Oh, perfetto. Tesoro mi raccomando.» Ed ecco che ripartiva sempre con le stesse insopportabili raccomandazioni. Non avevo più cinque anni ora riuscivo a badare a me stessa, insomma avevo vent’anni.
«A più tardi!» Li liquidai, lanciando uno sguardo di gratitudine a Stefan che mi aveva letteralmente salvato. Non sarei mai andata lì con Damon, avrei inventato qualcosa…Un test, un mal di testa…Qualcosa. Aspettai che i due uscissero di casa e  mi avviai verso il bagno.
Ricordai le parole di mamma e bussai.
Toc. Toc.
Bussai la prima, la seconda, la terza e ci fu, anche, una quarta e una quinta volta. Ma niente. Nessuna risposta. Così poggiai la mano sulla maniglia e l’abbassai, ma era chiusa dall’interno. Perché si era chiuso dall’interno e non mi rispondeva?
Forse non mi aveva sentito?
«Damon?» Lo chiamai. Solo un angoscioso silenzio come risposta. Ripresi così a bussare. Perché cazzo non mi rispondeva?
«Damon, porca miseria, devo entrare in questo bagno. Apri la porta!» Urlai dando alla porta un leggero calcio, sperando che mi avesse sentito.
«Sparisci…» La sua voce arrivò alle mie orecchie in modo strascicato, quasi forzato. Come se quell’unica parola che aveva detto gli pesasse in qualche modo.
«Damon, devo entrare in bagno. Esci, subito!» Gli ordinai con tono fermo, cercando di non far notare lo sgomento che avevo. La voce del corvino era strana, più debole di come immaginassi. Pensavo di ricevere una risposta brusca e maleducata, invece, no. No. Si era limitato a sussurrarmi un semplice sparisci.
«Elena, va via!» Grugnì infastidito. Aspettai pochi secondi e un fastidioso rumore proveniva dal bagno. Che cazzo stava facendo?
«Damon. Voglio. Sapere. Che. Cazzo. Stai. Facendo.» Scandii chiaramente le parole e poggiai un orecchio sulla porta sperando di capire qualcosa di più.
Quel fastidioso rumore era soltanto qualcosa che sbatteva ritmicamente sulla porta.
«Stai zitta…La tua voce è fastidiosa…» Disse, questa volta il tono di voce era più forte. Ma non era il tono che aveva usato ieri, no, era un tono sempre decadente…sempre più debole.
Decisi di cambiare approccio e mi poggiai alla porta iniziando a tamburellare con le dita su di essa, sperando di provocare in lui qualche reazione.
«Porca miseria, peggiori le cose con sto ticchettio!» Ringhiò da dietro la porta. Un sorriso spontaneo si formò sulle mie labbra e mi schiarii la voce.
«Smetterò quanto tu, finalmente, uscirai da questo bagno.» Risposi con lo stesso tono di voce.
«Ve-vengo ad aprirti…» La sua voce questa volta mi arrivò solamente come un debole sussurro. Rumore di pochi passi e poi un tonfo sordo.
Inizialmente non riuscii a pensare che fosse successo qualcosa, però quando tutto diventò calmo capii che non stesse bene.
Iniziai a chiamare più volte il suo nome.
«Damon! Dio, Damon se è uno scherzo giuro che non è divertente!» Urlavo sempre le stesse cose ma veramente non mi veniva altro da dirgli se non che in quel momento mi stavo seriamente preoccupando per lui. Doveva stare bene, insomma cosa poteva succedergli? Era in un bagno. Niente di importante. In un posto sicuro. Non…non…Dio, no, no, doveva essergli successo qualcosa!
Perché non mi apriva la porta?
«Damon! Fammi…Dammi un segno! Mi sto spaventando!» Ed era vero. Non lo dicevo solo per fargli aprire la porta del bagno. No. Lo dicevo perché questo non era un comportamento tipico di Damon. Lui non faceva questi giochi, non spaventava le persona perché gli andava.
Non era così insensibile.
Ma questo non è il mio vecchio Damon. Mi ritrovai a pensare, mentre continuavo a chiamarlo. Ora non avevo più di fronte, quel ragazzo corvino che mi aveva lasciato libera. Che aveva deciso di lasciarmi andare per la mia strada.
Ora c’era solo questo ragazzo dagli occhi color ghiaccio che faceva finta di non riconoscermi. Che sperava che io non esistessi.
C’era solo un nuovo Damon.
«Sto parlando da sola? Dammi un cenno!» Gli urlai ancora, sbattendo i pugni sulla porta. La mia attenzione fu catturata, però, dallo squillare del mio cellulare. Fu così che lasciai a terra ciò che avevo in mano e mi catapultai in stanza. Afferrai il telefono e risposi alla chiamata – vedendo che era Luke.
- Buongiorno, dormigliona! Va meglio? – la sua voce scherzosa non faceva proprio per quella situazione.
«Luke, ti prego, mi devi aiutare.» Avevo la voce quasi supplichevole e mi resi conto che stavo facendo tutto questo per Damon.
Perché fare questo per una persona che ti aveva esplicitamente detto di odiarti? Mhm. Mi soffermai più tempo su quella domanda a cui trovai una sola risposta.
Glielo devo. Mi ha aiutato ieri sera. Questa era la risposta più plausibile. Misi da parte questi pensieri non appena il tono del mio amico cambiò.
- Els? Cos’hai? Un altro attacco di panico? – Mi chiese. Scossi la testa e uscii da camera mia per dirigermi nuovamente verso il bagno per accertarmi che tutto quello non fosse solo un terribile scherzo del corvino.
«E’ bloccato dentro. Non mi risponde. E mi sto preoccupando, cazzo!» Urlai al telefono, sperando di farmi sentire da quel maledetto che era chiuso lì senza dar segni di vita.
- Non ti seguo. Chi è bloccato dove? – Oh, giusto. Luke non era qui con me.
«Come posso aprire una porta chiusa dall’interno?» Gli chiesi controllando il tono di voce.
- Perché vorresti aprire una porta? Se è chiusa dall’interno qualcuno sarà lì! Perché ti preoccupi? – Per fortuna la preoccupazione che avevo avvertito prima, ora era scomparsa lasciando spazio a dell’ilarità insopportabile.
«Perché quel maledetto che è chiuso dentro non dà segni di vita. Prima stavamo discutendo, ho sentito dei passi e poi il silenzio! Il silenzio seguito da un tonfo sordo!» Stavo urlando. Urlando come se fosse una questione importante e lo era.
- Chiama qualcuno! Tua madre! L’ambulanza! Chiama qualcuno! – Sembrava un disco rotto. Ripeteva sempre le stesse cose non lasciandomi neanche il tempo di replicare.
«Ho chiamato te. Mi risponderesti ora?» Finalmente quell’insopportabile cantilena si bloccò. Forse stava riflettendo su cosa dirmi.
- E’ il bagno con la maniglia? – Mi chiese. Abbozzai un veloce e aspettai una risposta. – Credo che un cacciavite possa bastare per togliere le viti…- Disse soprapensiero. Un momento…Dove potevo trovare un cacciavite?
«Un cacciavite…Okay…Non ho idea di dove si possa trovare un cacciavite in casa mia!» Sbottai, abbassandomi per osservare la maniglia. Aveva delle viti ai lati e in quel momento un’idea del tutto insana mi venne in mente.
«Prendo un coltello.» Dichiarai a gran voce avviandomi verso la cucina.
- Un coltello? Non fare cazzate. Elena, mi senti? – Urlava Luke che sembrava quasi sfiancato.
«Ho-ho tutto sotto controllo.» Dissi chiudendogli la chiamata in faccia e prendendo il coltello. Lo impugnai normalmente e lentamente iniziai a girarlo su sé stesso provando a svitare quelle viti.
«Damon! Se è uno scherzo, non è divertente!» Continuai a urlare. Nonostante girassi la lama del coltello nell’incavo della vita non era cambiato niente. 
Feci più pressione del previsto e mi sfuggì di mano tagliandomi leggermente il dorso della mano. Oh porca miseria che male.
«Quando uscirai da qui, ti ammazzerò.» Sussurrai a denti stretti facendo una leggera pressione sul taglio che continuava a sanguinare. Perfetto, veramente perfetto. Peggio non poteva andare.
«Mediterò vendetta.» Continuavo ad imprecare a bassa voce, mentre tamponavo con un fazzoletto sul dorso della mano.
Non avevo veramente idea di quello che stavo facendo, sapevo solo che in quel momento Damon era bloccato dentro quel bagno e gli era sicuramente successo qualcosa.
Oddio, come faccio ora? Mi chiesi osservando quella serratura. Perché diamine non avevo idea di dove potessi trovare un cacciavite a casa?
Così iniziai a riflettere su cosa potessi inventarmi lì su due piedi. Mi venne un lampo di genio quando mi ricordai della signora Rose.
Era la nostra anziana vicina di casa e forse lei poteva darmi una mano. Incurante di com’ero conciata mi limitai ad alzarmi da terra, correre verso camera mia e cercare distrattamente qualcosa con cui vestirmi e chiedere a quella gentile signora un semplice prestito.
In tutto ciò, anche, il campanello contribuì di suo. Iniziò a suonare ritmicamente impedendomi praticamente di continuare quello che stavo facendo.
A grandi passi vidi dallo spioncino chi era la persona che non faceva altro che suonare ripetutamente. Sorrisi non appena vidi chi era e aprii la porta.
«Oddio, sei il migliore!» Gli urlai saltandogli completamente addosso e stritolandolo.
«Ero in giro e ti ho chiamato per chiederti di fare una passeggiata…vedo, però, che sei già sommersa di guai eh?» Mi sfotté entrando in casa e chiudendo la porta alle sue spalle. Lo ignorai e gli presi la mano conducendolo verso il corridoio.
«Che ti sei fatta?» Mi chiese prendendomi la mano. Gli feci un sorriso di chi la sapeva lunga e scrollai le spalle. Luke osservò nuovamente la mia mano e poi il suo occhio cadde sul coltello a terra.
«Quale concetto del non fare cazzate non ti è chiaro?» Mi urlò, prendendo il coltello in mano.
«Mio fratello è chiuso lì dentro da una vita. Non si fa sentire. E io devo sapere se sta bene. Si è chiuso dall’interno quel…» Iniziai a parlare velocemente, sempre più velocemente e dopo un po’ non riuscivo a capire se Luke mi stesse seguendo o stesse facendo finta di capirmi.
Alla fine della mia spiegazione lo guardai.
«Okay, rimani calma. Ti aiuterò…Mhm…» Iniziò ad osservare la porta e lo vidi indietreggiare lentamente.
«Cosa vorresti fare?» Gli chiesi, sperando che non volesse fare la stupidaggine che sospettavo.
«Abbatto la porta con una spallata?» Tentò di smorzare la tensione con una battuta. M’inumidii leggermente le labbra e scossi la testa divertita.
«Funziona solo nei film.» Gli dissi prendendo in mano il coltello e provando a forzare quelle piccole viti. «Posso farcela!» Continuai sicura di me. Sentivo lo sguardo del mio amico puntato sul mio volto. Non avrei mai ammesso di non avere alcuna idea di come svitarle, perciò sperai che Lukey cercasse di aiutarmi in qualche modo.
«Forse se tu girassi la lama del coltello in senso orario…» Commentò sarcastico.
«Sei insopportabile!» Costatai, seguendo però il suo consiglio. Oh, ora era tutto più semplice.
«Posso sapere almeno ieri cosa…cosa è successo?» Mi chiese sedendosi a terra e scrutandomi con i suoi occhi chiari. Mi morsi la lingua e pregai che non facesse troppe domande.
«Perché cos’è successo?» Feci la finta tonta alzando innocentemente le spalle.
«Perché eri così sconvolta? Cosa ti ha detto?» Insistette ancora. La prima vite cadde a terra, seguita poco dopo dalla seconda. Ora ne mancavano solo due.
Mi sistemai i capelli e non degnai neanche di uno sguardo al mio amico. Non avevo intenzione di raccontargli tutte le stupidaggini che avevo fatto fino ad ora.
«Vecchie questioni irrisolte.» Lo liquidai.
Già, vecchie questione irrisolte. Si trattava solo di questo giusto? Bastava parlare con Damon e chiudere tutto? Non era così semplice come volevo credere. Come volevo che fosse.
Non potevo parlargli e lasciare alle spalle un capitolo della mia vita troppo importante sia per lui che per me. Eravamo…due persone diverse dal solito e come due persone diverse avevamo i nostri modi per comunicare.
Uno dei tanti era quello di ieri: mi aveva ferito, per curarmi dopo e ferirmi nuovamente.
Si era divertito a rigirare il dito nella piaga. La sua battuta era stata detta solo per ferire, per farmi perdere la lucidità, per minare alle mie sicurezze.
Dopo Damon si era dilettato in quello in cui eccelleva meglio: curarmi con quella finta preoccupazione che per un momento mi aveva quasi impressionata. Non era la prima volta che voleva leccarmi le ferite, che voleva rimarginarle ma era la prima volta che le riapriva così velocemente.
«Oh, caduta anche l’ultima vite.» Dissi raccogliendole velocemente e poggiandole sul mobile più vicino. Luke lentamente sfilò la maniglia e tirò verso se la porta che si aprì rivelando una scena che non scorderò mai.
«No…No…Non…Oddio, Damon.» La voce mi uscì strozzata e incrinata. Sentii gli occhi pizzicarmi lentamente e un nodo formarsi all’altezza dello stomaco. Cosa gli era successo?
«Elena, rimani calma. E’ solo…svenuto…» Mi spiegò prendendomi il viso tra le mani. Iniziai ad annuire freneticamente e mi avvicinai al corvino.
Gli occhi erano chiusi e la carnagione era pallida, simili al latte. Le vene era più evidenziate del solito e aveva due grosse occhiaie sotto gli occhi.
Calmati, Elena. Respira. Respira. Mi dissi. Osservai attentamente al bagno. Era tutto intatto, anche se i miei occhi caddero poco più lontano. Scacciai quell’idea che mi venne in mente e mi sedetti vicino a lui.
«Vuoi chiamare un’ambulanza?» Mi chiese Lukey. Scossi la testa.
«No…E’ solo svenuto…Niente di preoccupante…» Dissi mostrandomi convinta. Il biondo mi scrutò per dei lunghi istanti.
«Non sei neanche convinta di ciò che dici.» Mi riprese, facendosi più vicino e osservandolo attentamente.
«Aiutami, serve un ambiente ben areato.» Gli dissi spostando lentamente Damon fuori da quel minuscolo bagno che mi trasmetteva solo angoscia.
«Ora alziamogli le gambe.» Continuai alzandogli le gambe, facendo sì che il sangue arrivi lentamente al cervello.
«Si vede che stai studiando medicina, sai?» Mi sfottò Luke che faceva aria con un panno che era andato a prendere in cucina.
«Secondo te…da cosa può esser stato causato questo svenimento?» Gli chiesi osservando i tratti di Damon più rilassati di prima.
«Non credo sia dettato da una crisi epilettica.» Disse ovvio. Ci riflettei in silenzio. L’epilessia è quasi sempre accompagnata da movimenti convulsivi del corpo e momentanea perdita della coscienza.
«No. Non ha avuto una crisi, l’avrei sentito.» Costatai avvicinandomi a Damon e toccandogli lentamente i suoi capelli scuri impregnati di sudore.
C’era qualcosa che, anche, lui mi stava nascondendo. Non aveva senso quello che era appena successo.
«Si sta già riprendendo…» Mi sussurrò Luke, facendo un cenno del capo. Damon aveva iniziato a sbattere lentamente le palpebre.
Mi alzai da terra e presi in disparte Luke.
«Forse è meglio che tu vada.» Gli dissi. Lui, in risposta, scosse la testa sicuro di sé. «Conosco Damon. Non ama farsi vedere…in queste condizioni.» Ero più che certa che già questo cedimento che mi aveva mostrato se lo sarebbe rinfacciato a sé stesso per sempre, vedere Luke lì avrebbe peggiorato solo il tutto.
«Promettimi che andrete da un medico.» Mi disse. Mi morsi un labbro, dovevo solo temporeggiare.
«Lo convincerò.» Confermai con un tenue sorriso.
«Sei un caso perso.» Mi disse avviandosi verso la porta. Sospirai pesantemente quando era sull’uscio. «Fammi sapere!» Sentii solo quelle due parole, dopo di che chiusi la porta e mi massaggiai la testa lentamente col pollice e l’indice.
Ora Damon mi dovrà della grandi spiegazioni. Pensai andando a grandi passi verso il corridoio. Vidi il corvino, ancora, a terra con lo sguardo perso nel nulla.
Almeno aveva gli occhi aperti. Mi feci forza e mi avvicinai. Dovevo sembrare incurante e menefreghista. Lui così aveva fatto con me.
«Va meglio, Salvatore?» Gli chiesi appoggiandomi sulle ginocchia e rivolgendogli uno dei miei sorrisi più stronzi. Il ragazzo sbatté più volte le palpebre.
«Mhm…Che mal di testa…Cos’è successo?» Farfugliò sistemandosi distrattamente i capelli e poggiandosi sui gomiti.
«Cos’è successo? Dimmelo tu.» Lo incoraggiai. «Ti ho trovato in bagno svenuto. Dovresti ringraziarmi…Immagina se mamma ti avesse visto in queste condizioni…» Improvvisai una finta faccia dispiaciuta prima di dargli le spalle e sistemare nuovamente quella maniglia.
A volte rivolgevo qualche occhiata a Damon che non faceva altro che fissarmi insistentemente quasi con l’intento di incenerirmi con lo sguardo.
«Invece mi hai trovato tu in queste condizioni. Fa un certo effetto, mhm?» Mi chiese con un sorrisetto insopportabile stampato in faccia. Perché doveva sempre rigirarle carte in tavola? Perché doveva far sì che tutto girasse a suo svantaggio?
«Fare un certo effetto?» Gli chiesi. Strano a dirsi ma non stavo cercando di provocarlo: veramente non avevo capito cosa intendeva con quella odiosa battuta.
«Trovare tuo fratello con cui avevi un rapporto incestuoso steso a terra…Ti avrà fatto un certo effetto, no?» Mi provocò mostrando due leggere fossette agli angoli della bocca che aveva increspato formando un ghigno.
Dire che mi aspettavo tutto era poco. Mi ero aspettata una risposta sgarbata, una battuta, una frase a doppio senso…Ma non pensavo facesse riferimenti così chiari.
«Uhm, brucia forse il rifiuto Salvatore?» Perché lo stavo chiamando per cognome? E perché stavo dicendo queste stupidaggini?
«Non lo chiamerei rifiuto. Chiamiamolo scelte di vita diverse.» Insistette scrutandomi con quegli occhi color ghiaccio. «E non chiamarmi per cognome.» Commentò infastidito, guardando altrove.
«Scelte di vita diverse? Oddio, sei esilarante!» Dissi scoppiando a ridergli in faccia. Non riuscivo a rimanere seria dopo che aveva sparato una stupidaggine del genere!
«Esilarante? Mhm, sei diventata più ottusa in questi anni…» Ottusa? Veramente era quello il massimo che gli veniva in mente?
«Perché eri chiuso in bagno da così tanto tempo?» Cambiai completamente discorso fissando i suoi tetri occhi chiari e cristallini. Indurì lo sguardo e lo distolse pochi istanti lasciandolo girovagare un po’ ovunque – tranne che su di me –.
«Perché ti interessa?» Mi fece scocciato. Non c’era un motivo. Non uno ben preciso. Oh meglio c’era ma non volevo dirglielo.
«Per attaccare il nemico, devi conoscere le sue mosse. Ti sto studiando.» La mia voce uscì più cattiva e inquietante del previsto, ma con Damon nei dintorni non riuscivo ad essere gentile. Tutto quello che non volevo essere con lui, lo ero. La parte di me più cattiva, più malsana, più perversa usciva fuori con lui accanto.
E questo non mi piaceva affatto.
«E perché dovresti attaccarmi?» Ridacchiò leggermente, spostandosi in maniera lenta da posizione stesa a seduta.
«Non c’è un perché. So che tu mi hai già attaccata. Non permetterò che mi prenda in contropiede.» Dissi con semplicità alzando le spalle.
«E quand’è che ti avrei attaccato, bimba?» Mi chiese. Alzai gli occhi per quell’orribile sopranome ma non ci feci molto caso. Come mi chiamava era il problema più piccolo.
«Ieri. Ti diverti a tirare fuori i fantasmi del passato delle altre persone giusto?» Quelle parole bastarono per farmi scattare completamente. Non le avrei mai dimenticate. Mi aveva rinfacciato di aver ucciso Matt.
«Non quanto mi diverte vederti ferita da qualcuno. Soprattutto se quel qualcuno sono io.» Commentò con una scintilla di pura follia negli occhi. Quella frase detta di getto in quel modo ebbe su di me un effetto strano, mi venne la pelle d’oca. Perché era serio. Estremamente serio.
«Ti diverte vedere il dolore delle persone? Sei pazzo. Completamente pazzo.» E lo pensavo veramente. Non avevo mai visto prima una persona che si divertiva col dolore di altre persone. Questo suo nuovo modo di fare mi innervosiva e mi spaventava, anche, in un certo senso.
«Non del semplice dolore. Mi diverte vedere solo il tuo di dolore.» Scoppiò in una risata cattiva e raschiata, ma non mi lasciai impressionare. Quel giorno non gli avrei lasciato vincere.
«E’ una semplice proporzione, quindi?» Gli chiesi. Le sue sopraciglia si incurvarono così come le sue labbra. «Il tuo divertimento aumenta proporzionalmente al mio dolore, giusto?» Annuì leggermente. «Peccato che io  non faccia parte di questo gioco.» Dissi. Vidi il suo viso cambiare, da divertito a sorpreso.
«Che vorresti dire?» Mi spronò.
«Vuoi giocare? Vuoi veramente giocare a chi ferisce prima l’altro? Giochiamo, ma non sarò io a perdere.» Lo avvertii. Non c’era un motivo per cui stava facendo quella specie di scommessa senza senso. Insomma era puro masochismo!
«Io ho i miei motivi per voler giocare. Tu? Vuoi veramente giocarti tutto?» Mi chiese interessato, alzandosi lentamente da terra. Lo imitai e mi ritrovai a pochi centimetri da lui con i nostri sguardi che si fronteggiavano apertamente e un clima teso che ci circondava.
«Mi gioco anche il nome. Non perderò.» Ero convinta.
«Ti rovinerò, bimba.» Mi disse stringendomi la mano con gli occhi ridotti a due piccole fessure.
«Non puoi rovinare chi è già rovinato, Salvatore.» Replicai lasciandogli freddamente la mano. Lo lasciai lì, entrai in bagno e prima di chiudermi la porta alle spalle gli lanciai un ultimo sguardo.
Lo rovinerò. Pensai, sapendo che quel giochetto tanto perverso quanto masochistico ci avrebbe portato lentamente alla pazzia.
 
 
 
 
 
 













Hi girls! <3
I’m here, dopo una settimana spaccata!
Uhm, colgo l’occasione di augurarvi un po’ in ritardo un sereno Natale! Okay, cambiamo tattica: visto che è già passato vi chiedo solo se vi siete divertite? A me tutto bene, ho mangiato fino allo sfinimento…ma questo non v’interessa!
Okay, ritorno in me. Passiamo ad altro!
Il capitolo.
E’ piuttosto interessante. Perché nel prequel sapevamo che tutto girava intorno all’incesto in sé per sé, ora non abbiamo più una situazione del genere. I sentimenti sono cambiati e loro sono cambiati. Tutte le carte in tavola di prima sono cambiate! E non avete idea di quanto mi diverta questa situazione!
Rileggendo il capitolo mi sono resa conto di come la mia sanità mentale stia peggiorando! AHAHAHAHAHAH. Giuro che non volevo sembrare una pazza con voglie omicide! Anche se alcune frasi sono uscite fuori in modo piuttosto strano. Cè strano nel senso che mettono un po’ i brividi!
Mado’ mi chiedo come facciate a non impaurirvi ^^
Però di una cosa sono certa! DEVO FARE NA STATUA A LUKE! Quel ragazzo è il DIVINO! ^^ E noto con piacere che questo mio Luke vi abbia un po’ affascinato! Io sono troppo presa!
Ora, visto che sono partita dai personaggi principali concludo con gli ultimi due. Stefan ed Elisabeth. Mhm. Quei due non me la raccontano bene, voi che ne pensate? Avete in mente delle idee? Magari qualcuna di voi indovina, chissà ;)
Forse avrete notato che i capitoli si fanno più lunghi e spero che non vi dispiaccia. Il punto è che troppe idee e quando parto in quarta con un capito – come mi è successo con questo – non ho idea di come possa finire fin quando non mi viene il lampo di genio che è arrivato oggi, esattamente alle 16:24!

Comunque tralasciando questo dettaglio, ringrazio le 7 anime (NianDelLove, Bea_01, NikkiSomerhalder, PrincessOfDarkness90, Al_Halliwell_vampirelove, ValyDeleNian e Kove) che hanno recensito. Grazie alle 29 anime (oddio siete aumentate o sbaglio? OuO) che l’hanno inserita nelle preferite. Grazie alle 25 (credo di avere le allucinazioni, siete aumentate anche voi? +_+) che l’hanno inserita nelle seguite. E grazie anche alle 4 che l’hanno inserita nelle ricordate.
Stata aumentando e sono super contenta! *-*
Grazie a tutte voi, ovviamente grazie anche ai lettori silenziosi!
Spero di risentirvi alla recensioni,
Non ti scordar di me.
 
Ps. Per il banner grazie alla mia migliore amica, Simona.

 
 

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Capitolo 4
*** The bet. ***


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Capitolo quattro.
The bet.
 
Svogliatamente sfogliavo le pagine ingiallite del mio libro di medicina, mentre Luke litigava furiosamente con Kai. Perfetto, di questo passo non sarei andata lontano.
Era pomeriggio inoltrato e me l’ero svignata da casa mia solo con la scusa del ho tanto da studiare a cui mia madre era amabilmente cascata.
Casa mia era off limits per quanto riguardava lo studiare, ora più che mai con Stefan alle presa da bravo turista e Damon modalità ora rovinerò la tua vita on.
Quando invece ero andata a casa di Luke, il mio amico mi aveva gentilmente pregato di andare da qualche altra parte che non fosse lì.
Perciò la mia mente non aveva fatto altro che cercare un posto adatto e soprattutto silenzioso per studiare. L’unico posto che non fu da scartare era uno: la pista di motocross. Durante il pomeriggio c’era veramente poca gente e ormai tutti mi conosceva, non credevo che avrebbero fatto una tragedia della mia improvvisa voglia di studiare…e invece mi sbagliavo di grosso.
Perché al mondo esistevano sempre quelle persone che io definivo idioti con un quoziente intellettivo pari a una cozza che dovevano rompere. E una di quelle persone era KAI!
Che non appena mi aveva visto si era lamentato del fatto che avessi portato con me Luke. E da lì quei due non facevano altro che provocarsi. Perfetto. Meglio di così non poteva andare!
«Sentite, fatemi un favore e toglietevi davanti. Le vostre voci mi stanno innervosendo.» Proruppi io, fissando prima Kai e poi rivolgendo solo un cenno del capo al biondo.
«Oh, la principessa ha deciso di degnarci del suo parere!» Commentò serafico Kai regalandomi uno dei suoi sorrisi più falsi. Roteai gli occhi al cielo per quell’odioso sopranome ma feci finta di non darci peso.
«Sentimi bene,  Parker, devo studiare. Non ho tempo da perdere. Vuoi che il mio pugno arrivi sulla tua faccia ora o tra un’oretta?» Gli chiesi alzando lo sguardo dal libro.
Ancora mi maledicevo. Perché non me n’ero rimasta a casa a fare il Cicerone a mio fratello! No. Io dovevo studiare e il posto che mi era sembrato più calmo era esattamente quello che non avrei mai raccomandato a nessuno.
Grande mossa, Salvatore. Mi complimentai con me stessa, mentre nel mio subconscio tante piccole me mi applaudivano.
«Andiamo, perché non ti calmi un po’? Da quando ti importa dello studio?» La cosa più strana fu sentire quelle parole non da Kai, ma da Luke. Quello stesso Luke che due settimane fa non voleva accompagnarmi nello stesso posto in cui ora ci trovavamo.
«Perché non dovrebbe importarmi?» Gli chiesi alzando le spalle e indicandogli il libro con un cenno del capo. Kai si mostrò da subito disinteressato, mentre Luke cercò di trattenere delle risate. Peccato che io ero seria, estremamente seria.
«Cosa c’è da ridere?» Tuonai poco dopo, alzandomi dalla sedia e sbattendo i pugni sul tavolo per richiamare l’attenzione del biondino.
«Niente…Solo che è strano…» Commentò. Strano?
Oh, finalmente aveva smesso di ridere. Mi appuntai mentalmente, mentre lo squadravo attentamente.
«Strano cosa?» Dissi con la voce incuriosita. Non avevo la più pallida idea di cosa stessi dicendo e non capivo perché mi stessi riscaldando in quel modo.
«Strano che…Andiamo, sei sommersa da casini su casini…non credo che lo studio sia, ora, la cosa più importante per te.» Mi spiegò limpido. Quelle parole ebbero un’ascendente piuttosto forte. Non l’avrei mai ammesso, però mi diede fastidio la calma e la serenità con cui aveva detto quelle parole come se fosse qualcosa di scontato.
La prima cosa che mi venne da fare fu quella di dargli uno schiaffo. La mia mano era già in collisione. Fui fermata solo da una voce.
«Non lo farei se fossi in te.» Commentò Kai, squadrandomi con i suoi occhi scuri. Abbassai la mano, rendendomi conto della stronzata che stavo per fare e sospirai.
«Ah sì? Che t’importa?» Mi anticipò Luke che probabilmente aveva capito perché quelle parole mi stessero facendo tanto male.
«M’importa. E sai perché? Perché solo io, io posso fare quello che voglio con i miei giochi.» Grugnì infastidito, riducendo lo spazio che c’era tra lui e il mio amico.
Oh, ma che cosa carina! I due erano in procinto di dichiararsi! Proprio belli. Peccato che io non volevo assistere a quella scenetta, non ora, non dopo aver sentito dalla bocca del mio migliore amico quelle parole.
«Io me ne vado.» Borbottai infastidita, raccogliendo le mie cose e infilandole distrattamente nella mia tracolla.
«Elena, no. Elena non intendevo…Dio, perché ho parlato?» Imprecò Luke cercando di fermarmi. Avrei studiato da un’altra parte. L’importante era non vedere Luke con la sua insopportabile faccia di bronzo perché sarei scoppiata a breve.
«Lasciala stare. E’ fatta così.» Disse una quarta voce. Bene. Proprio bene. Mi girai, immediatamente, verso quella voce che riconobbi come quella di Damon Salvatore.
«Chiudi quella bocca.» Mormorai con gli occhi spalancati. Ora lo stavo detestando, più del solito. Perché doveva fare il paladino della giustizia? Non voleva quel…quella specie di gentilezza improvvisata su due piedi.
«Bimba, sei piuttosto nervosa o sbaglio? Rilassati.» Mi consigliò con un mezzo sorriso. Lanciai un mezzo sguardo a Kai che di tanto in tanto lanciava sguardi intensi al biondo.
«Salvatore, o chiudi la bocca o te la chiuderò io con la forza.» Dissi, poi mi rivolsi a Kai: «Azzardati a fare qualcosa di sbagliato con il mio amico e finirai male. Molto male.» Lo avvertii.
Non avevo mai avuto un grande senso di protezione per le persone. Era una sensazione ansiosa che si era sviluppata lentamente col passare del tempo.
Mi aro affezionata a Luke in modo strano e morboso. Avevo un’irrazionale paura di poterlo perdere da un momento all’altro e la cosa che mi spaventava di più non era quella di poterlo perdere. La mia paura era quella di invischiarlo in giri che non gli appartenevano.
Perché nessuno nasceva in quei giri. Io non ci ero finita per caso. Non ci ero neanche nata. Semplicemente mi ero addentrata lì in quel postaccio e aveva capito come funzionava lì.
Una volta finito dentro non potevi più uscirci per un semplice motivo: sapevi troppo. E lì nessuno si fidava così tanto di te per raccontarti tutto. No. Eravamo solo degli psicopatici con tanti segreti che custodivamo gelosamente.
E io non volevo che Luke sentisse qualcosa di sbagliato, al momento sbagliato. Altrimenti era spacciato.
«So da badare a me stesso.» Intervenne il diretto interessato che pensava di sapere tutto. Pensava di poter gestire queste situazioni. Ma non aveva capito niente. Questo posto era la fosse dei leoni, non potevi giocare all’allegro ragazzino innamorato e cercare di far cambiare un mostro in un agnellino docile.
Non potevi. E Luke questo doveva ancora capirlo.
«Perché sei così protettiva?» Chiese ancora visibilmente infastidito.
Mi fermai a squadrarlo lentamente e ci riflettei su. Scrollai le spalle, facendo finta di non aver sentito quella domanda che uscì dalla bocca del biondo come un debole sussurro.
«E’ molto semplice il motivo.» Commentò Damon. Mi girai verso di lui e capii immediatamente cosa stava per fare. Stava per tirare uno dei suoi colpi bassi.
«Damon.» Lo freddai con un’occhiataccia, sperando che non continuasse quello che stava per dire. E per mezzo secondo vidi nei suoi occhi il sentimento più ripugnante che potesse provare per me: compassione e pietà.
«Parlo, Elena?» Me lo chiese seriamente e con la testa inclinata. Il sole si rifletteva sulla suo imponente figura che si avvicinò a me con passo lento e strascicato.
«A che gioco stai giocando, Damon?» Era strano pronunciare il suo nome carico di ansia e nervosismo. Fin’ora non l’avevo più nominato.
«Sto giocando al tuo gioco, con le mie regole.» Commentò con un sorrisetto da vero bastardo sul volto. Aveva preso sul serio la mia provocazione. E anch’io non ero da meno. Giocavamo a chi si feriva per primo.
«In questo gioco detto io le mie regole.» Gli dissi stringendo i pugni. Sia io che lui eravamo due megalomani e sapevo bene che in questo modo stavo solamente minando alla mia stabilità mentale.
«Non ci siamo capiti, bimba.» Rispose piatto con un cipiglio sul volto.
«In tutti i casi credo che il senso di protezione della mia sorellina verso te – si girò verso Luke – sia dettato dalla paura di perderti.» Trattenni il grande sospiro che stavo per fare. Forse non era meschino come pensavo.
«Probabilmente teme di ucciderti.» Sgranai gli occhi e irrigidii i lineamenti. Anche Kai e Luke mi guardarono leggermente sorpresi. Cosa stava dicendo? Non avevo mai uccido nessuno.
«Sta sparando solo tante cazzate.» Sibilai stringendo così forte i pugni da far diventare le nocche quasi bianche.
«Come potrebbe questo scricciolo di ragazza uccidere qualcuno?» Mi diede man forte Kai che – una volta tanto – con le sue battutine idiote mi stava aiutando.
«Fidati. Può, eccome.» Si girò di spalle, calciò un sassolino per terra e con le mani in tasca si avviò verso un luogo non definito.
Incontrai gli occhi di Luke che erano velati di chiaro terrore e diffidenza.
«Giuro non so cosa gli sia preso. Non ne ho idea. Di solito non è così…» Oh andiamo! Non era così e basta. Avevo sempre avuto a che fare con un Damon scorbutico, antipatico, - a volte – dolce…Ma mai avevo avuto a che fare con un Damon così meschino e cattivo.
«Elena, a cosa alludeva?» Mi chiese Luke che mi guardava di traverso. Incassai quella domanda e iniziai a trovare una plausibile risposta. Risposta che mi parve subito chiara.
«Credo che alludesse a…a Matt.» Ero insicura. Perché non aveva sganciato la bomba senza sganciarla in tutta la sua forza? Perché mantenere un’aria di mistero? Non ce n’era motivo.
Il mio amico mi sorrise triste e probabilmente rimase sconvolto da come Damon – che era persino mio fratello – mi attaccasse così, senza pietà.
«Io vado…Voi chiaritevi.» Dissi loro. Mi girai di spalle e mi guardai attentamente attorno. Se quello stronzo pensava di passarla liscia, non mi conosceva affatto. Lo vidi in lontananza, vicino alla staccionata, lontano da tutti e da tutto.
A grandi falcate mi avviai verso di lui fissandolo negli occhi. Lui mi sorrise e alzò la testa, mentre stava fumando una sigaretta. Aveva lo sguardo pieno di consapevolezze: lui voleva che io gli parlassi.
«Mi concedi una tirata?» Gli chiesi con un sorriso pacifico. Il corvino alzò il sopraciglio e sospirò pesantemente. Annuii calmo e misi la sigaretta tra i denti.
Sapeva di menta.
«Sei qui solo per finirti la mia sigaretta?» Mi chiese con un mezzo sorriso. Roteai gli occhi al cielo e indirizzai il fumo nella sua direzione. Buttai a terra il mozzicone e lo calpestai con forza con il mio anfibio.
«Non ho idea del perché tu sia ritornato qui. Non voglio saperlo. So solo che non voglio che mi ricopri di merda con le tue chiacchiere.» Dissi incrociando le braccia al petto e fissandolo con gli occhi infiammati di rabbia. Damon mi prese per i fianchi e fece combaciare il mio corpo col suo.
«Chiacchiere? Forse puoi far credere al santarellino del tuo amico che tu sia solo un’innocente ragazza invischiata per sbaglio in questo posto, ma noi sappiamo la verità.» Disse ad un palmo dal mio viso. Pensava che non riuscissi a rispondergli solo per quella vicinanza?
«Verità? Mi parli tu, Salvatore, di verità?» Gli chiesi con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Sì. Pensi che venire a Londra sia una seconda chance per iniziare una nuova vita? I fantasmi del passato ritorneranno sempre a farti visita.» Alzò un labbro e incespicò un mezzo ghigno.
«Oh, si parla del passato? Vogliamo parlare dei tuoi di fantasmi? Non vorrai farmi credere di essere l’unico sbaglio qui in mezzo, vero?» Scoppiai a ridere, con una risata di gola senza sentimento. «Anche tu non sei da meno. Come ci si sente ad aver soffocato una persona?» Gli chiesi.
I suoi occhi celesti si spalancarono per la rabbia. Mi allontanò da sé repentinamente e si scostò da me. Ora io ero poggiata sulla staccionata e lo provocavo divertita.
Ecco il tallone d’Achille, Salvatore. Pensai.
«E’ bello svegliarsi la mattina e pensare ho spinto una persona al suicidio? Wow.» Quel commento potevo risparmiarlo. Era cattivo, cattivo e meschino. E sapevo che l’avevo colpito con qualcosa di grosso.
A quelle parole era scattato. Prima era di spalle, ora invece respirava a tentoni e sul volto aveva un espressione tra la rabbia e la repulsione.
«Non hai il diritto di parlare di Katherine.» Disse inchiodandomi alla staccionata rudemente.
«Ho detto la verità.» Sputai acida guardandolo negli occhi. Quel gioco che stavo portando avanti ci avrebbe distrutti. Non solo lui e non solo io. Alla fine entrambi saremo distrutti. Uno sarà senza forze annientato dall’altro e l’altro sarà sconvolto da sé stesso per aver distrutto una persona.
«Vuoi la verità? Bene. Io devo convivere con il ricordo di Katherine, tu come ti senti ad essere un reietto della società?» Presi un grosso respiro e sbattei più volte le palpebre. Dovevo prepararmi psicologicamente a rispondergli.
«E’ questa sarebbe la grande verità? Mi aspettavo di meglio da te.» Non riuscivo a rispondergli. Ormai ero diventava brava ad eludere le domande e non dare risposta. Perché non avevo risposta per quella domanda detta di getto e con rabbia.
«Sei solamente l’errore della società umana. Hai condannato Matt, rapporto incestuoso con tuo fratello e ora stai condannando anche Luke. Ma che brava, ti diverti a invischiare le persone nella tua orrenda vita, eh?» Iniziò a ridere convulsivamente cercando di trattenere le lacrime per le troppe risa, mentre io assimilavo ogni colpo e mi preparavo una risposta convincente.
Ma non c’era nessuna risposta convincete. Era quello il problema. Aveva maledettamente ragione.
«Parli come se qui fossi l’unica con degli scheletri nell’armadio. E tu? Tu sei pulito e apposto con te stesso, vero?» Gli chiesi improvvisando un tono sicuro.
«Io sì. Io sono apposto con me stesso. Per questo non sono un oppresso e un reietto, come te. Io mi definisco sopravissuto, e sai perché? Perché non me ne può fregare di meno se la gente dice che sono un errore o un mostro. Sono vivo, cosa importa?» Mi spiegò. Era questa la differenza tra noi. A me importava. Per qualche motivo a me importava. Importava troppo.
E avevo paura – anche se non l’avrei mai ammesso –, avevo paura che le persone potessero sapere i miei segreti. Avevo paura che all’università iniziassero ad additarmi come un’assassina. Paura che in giro le persone mi guardassero di sottecchi parlottando tra loro.
Avevo paura di quello che mi circondava.
«Tu, due anni fa, grazie a me ti sei salvata. Ora sono qui, ma non ti prometto niente.»
«Non mi prometti cosa?» Sussurrai confusa. Non avevo la più pallida idea di ciò che stesse dicendo in quel momento.
«Non ti prometto che ti salverò di nuovo.» Dopo quell’affermazione calò il silenzio. Iniziò a giocherellare prima con una ciocca dei miei capelli, mentre io riflettevo su quelle parole che in tutta la loro crudeltà erano tremendamente vere.
Damon si sistemò la giacca di pelle e fece qualche passo in avanti.
Pensa che lo lasci andare così semplicemente? Mi chiesi divertita prima di fermarlo prendendolo per il polso. Come una molla, Damon si girò e i suoi occhi azzurri perforarono con la loro pesantezza i miei cioccolato.
«Smettila di provocarmi, bimba.» Commentò lanciandomi un’occhiata di fuoco e guardando poi il suo polso stretto tra le mie mani.
«Cosa ti è successo?» Gli chiesi inumidendomi le labbra. Era una domanda generale, ma Damon aveva già afferrato dove volessi andare a parare.
«Tante cose.» Le sue labbra si piegarono in un ghigno e i suoi occhi erano illuminati di malizia. Aveva capito cosa intendevo, ma non si sarebbe mai stancato di quei giochetti.
«Riformulo la domanda: cosa ti è successo quel giorno in bagno?» Fui diretta. Il corvino roteò gli occhi al cielo e con la mano libera si sistemò nervosamente i capelli sottili. Notai che non faceva niente per liberarsi della mia presa, sperava che lo lasciassi andare così?
«Te lo dico ancora: smettila di provocarmi e molla la presa.» La voce era dura e raschiata. Metteva i brividi. Forse se al posto mio ci fosse stato qualcun altro si sarebbe spaventato per la sua schiettezza, ma io non mi spaventavo. Non per lui, non per mio fratello.
«Perché non ti liberi da solo dalla mia presa? Non dovrebbe essere difficile. Cosa c’è hai perso la tua forza, Salvatore?» Arricciò infastidito il naso e si morse lentamente il labbro cercando una risposta sensata alla mia provocazione.
«Non voglio farti male. Evita di farmi arrabbiare seriamente. Lascia la presa.» Ripeté come una cantilena. Ogni parola la pronunciava sempre più cupamente e vederlo così duro e senza una sola emozione a dipingergli il volto mi faceva accapponare la pelle.
«Rispondi alla domanda e ti lascerò.» Replicai con una scrollata di spalle. Serrò le labbra e con la mano libera mi afferrò l’altro polso. Lo guardai con aria di sfida.
Damon serrò la presa sul polso e chiusi gli occhi per la forza. Era più forte di come ricordassi, anzi a pensarci bene non aveva mai usato la violenza contro di me.
Era rimasto sempre calmo, o almeno ci aveva provato.
«Fa male, Elena?» Mi chiese con una nota di pure divertimento nella voce. In quel momento pensai solo che Damon fosse completamente pazzo. Completamente andato. Ora c’era solo uno sconosciuto che le stava facendo male al polso con una scintilla di follia negli occhi.
«Non ti pregherò mai di lasciarmi il polso, chiaro?» Ringhiai sbattendo ritmicamente gli occhi per cercare di controllare le lacrime che mi pizzicavano. Prendevo grandi boccate d’aria e iniziai a concentrarmi sul altro.
«Sei rimasta sempre la solita testarda.» Sputò avvicinandosi di più.
«E tu sei rimasto sempre il solito stronzo.» Gli gridai attirando l’attenzione di molte persone presenti lì in quel luogo, ma veramente m’importava poco. Veramente poco. In quel posto nessuno ti faceva domande e in un certo senso era solo quello il motivo per cui io ero là. Poteva dire, fare e urlare di tutto tanto sapevo che nessuno mi avrebbe mai chiesto il perché delle mie azioni e nessuno avrebbe spifferato niente.
«Intendevi seriamente quello che hai detto due settimane fa?» Mi chiese poco dopo, aumentando la presa sul polso. Mi sarebbe uscito un livido spaventoso e faceva, anche, male. Strinsi i denti e alzai lo sguardo feria.
«Pensi che non abbia il coraggio di rovinarti?» Gli chiesi. Il coraggio non mi mancava, non mi era mai mancato…La domanda era: avrei avuto la forza di rovinarlo? Non ne avevo idea, ma avrei tentato. Tentavo il tutto per tutto, ma non avrei perso.
Quella era una battaglia con me stessa. Mi serviva. Mi serviva per farmi capire di non essere completamente pazza, di non essere ancora presa da mio fratello.
«Penso che tu voglia rovinarmi e io penso che questa situazione sia parecchio eccitante.» La voce piena di malizia. Trovava questa situazione eccitante? Si divertiva ad aumentare la stretta sul mio polso? A vedere quanto male mi stesse facendo in quel momento?
«Sei folle. E sadico.» Grugnii alzando lo sguardo per scrutarlo meglio. Accennò un sorriso che tutt’al più poteva assomigliare ad un ghigno.
«Rendiamo questo gioco più interessante, bimba, ti va?» No. Quella fu la prima risposta che mi venne in mente. Non avevo intenzione di rendere quel gioco più interessante, anche perché la mente di Damon in questo momento mi sembrava annebbiata da uno scatto di pura pazzia.
«Sentiamo.» Ignorai la parte razionale del mio cervello che mi diceva di tirarmi indietro da questa malsana idee e lo invitai a continuare. Lessi chiaramente nel suo sguardo lo sgomento e la sorpresa.
Non mi arrenderò facilmente. Pensai. Mi resi conto di tenere ancora stretto il suo polso, così come lui teneva in una morsa d’acciaio il mio.
«Rendiamo il gioco, una scommessa.» Rizzai le orecchie. Dopotutto non mi sembrava un’idea così pericolosa, ma quando si parlava di Damon Salvatore nulla era mai troppo sicuro.
«Ti ascolto.» Sibilai cautamente, prendendo una grande boccata d’aria. Lanciai, anche, un piccolo sguardo alla sua forte stretta ma questo non lo fece demordere. La sua stretta era sempre la stessa: forte e rude. Non diminuiva.
«Chi dei due distruggerà prima l’altro vince. E con distruggere intendo annientare completamente lo spirito della persona con cui si gioca.» Chiarì subito. Avevo gli occhi sgranati mentre pensavo al da farsi. Uno dei due doveva distruggere l’altro.
E se fossi stata io quella ad essere distrutta? Come ne sarei uscita?
Però anche tu potresti distruggerlo. Immagina come ti sentiresti ad aver distrutto la persona che ti ha cambiato. Pensai con lo sguardo acceso e gli occhi illuminati.
Così dissi due semplici parole e mi segnai la condanna a morte: «Ci sto.» Gli dissi. «Se ti distruggerò, dovrai andartene da qui. Dovrai ritornare a Mystic Falls e lasciarmi vivere in pace la mia vita qui.» Continuai sicura.
Era quello che volevo. Volevo che lui se ne andasse da me, dalla mia vita. Che mi lasciasse libera di fare quello che desideravo, che non m’imponesse le sue regole.
Damon, a quella richiesta, sgranò gli occhi e s’inumidì le labbra. Era sorpreso quanto me di quella richiesta che avevo detto di getto, mi era venuta in mente e l’avevo detta senza pensare alle conseguenze.
«Per me, va bene.» Commentò. Aggrottai le sopraciglia. Non mi aspettavo una risposta del genere. Era calmo e pacato.
Pensavo ad una reazione più spropositata, degna di Damon Salvatore. E invece si era dimostrato quasi comprensivo.
«E se perdessi io? Cosa vorresti in cambio?» Gli chiesi spavalda. Lui scrollò semplicemente le spalle, i suoi lineamenti erano duri, la mascella contratta.
«Devo ancora pensarci.» Rispose con una semplice alzata di spalle. Allora capii che quel ragazzo mi stava mentendo, che lui sapeva esattamente la posta in palio se avesse vinto ma – per qualche motivo a me sconosciuto – non me lo voleva rivelare.
«Per me va bene.» Replicai ancora, mentre nella mia testa si formavano tante domande. Perché aveva proposto quella scommessa se non aveva idea della vincita che desiderava?
E soprattutto io come poteva distruggerlo?
Finalmente lasciò il mio polso e io lasciai in contemporanea il suo. Sollevai il giubbino e vidi che c’era un grosso livido violaceo sulla mia pelle candida. Gli lanciai uno sguardo di fuoco e vidi una scena strana: anche lui si massaggiava lentamente il polso. Eppure la mia presa non era stata così forte.
Mi porse la mano che accettai senza esitazioni.
Lui mi trasse prepotentemente a sé e finii schiacciata contro il suo corpo. Avvicinò la bocca al lobo e si schiarì la voce: «Ora ti distruggo.»
Sbiancai a quelle parole dette di gola e Damon sorrise malignamente. Non riuscii neanche a replicare perché mi prese per i fianchi e indietreggiamo insieme lentamente fino ad arrivare alla staccionata.
«E ora? Cosa vuoi fare, Salvatore?» Lo provocai. Il sorriso sul suo volto si allargò sempre più e fece scontrare le sue labbra con le mie.
Era solo un’incontro di labbra e basta. Iniziò a mordermi il labbro inferiore e fui costretta a poggiare le mani sui suoi capelli per il dolore.
«Bastardo.» Digrignai. I nostri nasi sfioravano ancora e il corvino aveva le labbra tinte leggermente di rosso. Con la lingua m’inumidii il labbro inferiore e notai che perdevo un po’ di sangue.
Ha il mio sangue sulla bocca. Perché trovo questa cosa maledettamente eccitante? Pensai. Un’altra persona si sarebbe disgustata. E subito dopo un altro pensiero arrivò alla mia mente: perché sta facendo questo? E’ il suo modo per vincere la scommessa?
Presi in mano le redini del gioco e mi avvicinai a lui poggiando le mie labbra sulle sue. Con la lingua pulii il suo labbro sporco di sangue e sorrisi, baciandolo con rabbia inespressa.
Damon posò le mani sui miei fianchi stringendolo così forte da lasciarci le impronte, ma non ci feci caso. Le mie mani sui suoi capelli li tiravano forte per fargli capire di diminuire la presa sui fianchi.
Non avevo mai baciato nessuno in modo così violento. Così impetuoso. Se prima era passione, ora c’era solo tanta rabbia.
Così continuammo per poco il gioco. Una mano del corvino salì sul collo, iniziando ad applicare forza sul nervo. Inarcai la schiena e con la scarpa calpestai il suo piede.
Cosa stavamo facendo? Ci stavamo solamente facendo male, entrambi.
Si scostò da me subito dopo e io lasciai la presa sulla sua scarpa non appena lui lasciò quella sul mio fianco dolorante.
Damon è un concentrato di rabbia. Pensai guardandolo. Aveva gli occhi sgranati e pieni di odio.
Odio verso di me.
«Ora la scommessa è aperta ufficialmente.» Sputò girandosi lasciandomi lì a maledirlo.
 
 
 
 
 
 






Hi girls, innanzitutto BUON 2 0 1 5!
Com’è iniziato l’anno? A me bene tutto sommato!
Pensavate forse che non aggiornassi vero? Eh, ditelo che ci avete sperato fino alla fine! Ma io caparbia come sono, mi son detta no, il capitolo uscirà. OKAY? OKAY. AHAHHAAHHAAHAH!
Comunque, il capitolo è questo qui ed è piuttosto lungo.
Però vado con ordine:
  • Luke! Luke cosa mi fai? Con quella frase ha perso molti punti per me (^^) e per voi? Sarà che io non riesco ad essere arrabbiata con lui! Insomma è un cucciolo quel ragazzo **
  • Continuiamo con la scenetta Lai/Kuke (okay, non ho idee migliore per la loro ship, se ne avete uno ditemelo urgentemente XD). Quei due sono proprio gli opposti, per questo li AMO. E’ un peccato che in TVD abbiano relegato Luke in una storyline così scialba, per voi?
  • E ora botto finale: Damon e la sua schiettezza. Mhm, dice che Elena ha paura di uccidere il suo amico ma non fa riferimento a Matt. Non è strano? O forse vuole continuare con il suo alone di mistero? Qual è la vostra opinione? (Io so già tutto muhahahmuhahaah ^^)
  • Preparate lo champagne e i fuochi d’artificio finiamo il capitolo con il bacio Delena! (Prendetelo come un regalo di Capodanno ^^) Forse è un po’ affrettato? Per me no, insomma quei due non è che sono sconosciuti! Hanno condiviso di tutto e di più sti poveri disastri ambulanti. Comunque spero che il messaggio vi sia arrivato: in quel bacio non c’è né amore né passione. Volevo comunicare rabbia per lo più. A voi che sentimento è arrivato? Giusto per farmi un’idea su cosa riesco a trasmettervi :)
Ho concluso con il commento del capitolo e ringrazio le 5 anime che hanno recensito (PrincessOfDarkness90, Bea_01, NikkiSomerhalder, Sereniti2783 e Alil_), grazie alle 33 che l’hanno inserita nelle preferite (Non avete idea di come sono contenta che a soli quattro capitoli la storia già vi piaccia ^^), grazie alle 25 che l’hanno inserita nelle seguite (aumentate sempre **), grazie alle 4 che l’hanno inserita nelle ricordate e un grazie enorme ai lettori silenziosi!
Ho finito questa volta, a venerdì prossimo. Ci sentiamo alle recensioni!
Non ti scordar di me.

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Capitolo 5
*** You're an obsession. ***


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Capitolo cinque.
You’re an obsession.
 
Oh, quel ragazzo mi avrebbe sentito! Eccome! Non sarebbe sfuggito alla mia sfuriata. Affatto. Ero quasi vicina a casa del biondo, anzi ero – praticamente – di fronte ad essa.
Sospirai lentamente e pensai al – reale – motivo che mi aveva portato lì. Luke non aveva fatto niente di male, giusto? Giusto. Mi rassicurai.
Allora, perché maledizione non mi fidavo di Kai? Perché non potevo essere felice per lui, com’era successo per Caroline ed Enzo? Perché non poteva andarmi giù Kai? In fondo non sembrava…così…così malvagio, ma il mio istinto – lo stesso istinto che mi suggeriva di stringere patti idioti con mio fratello – mi aveva suggerito di andare da lui.
Solo per fare due chiacchiere. Insomma…ora una ragazza non poteva più parlare col migliore amico?
Non bussai neanche, si sentivano dalla casa diverse urla e imprecazioni. Incurvai le labbra in un espressione indefinita e aggrottai le sopraciglia.
I due già stavano litigando apertamente? E sono passate solo quarantotto ore. Pensai, immaginando già la scena che avrei visto pressappoco.
Luke sul divano di casa mia a sbraitare contro Kai per chissà quale motivo.
Mannaggia a me e a quando li ho lasciati da soli. Continuai a maledirmi.
«Parker non farmi perdere tempo.» Questa non era la voce di Luke, tantomeno era quella di Kai. Sentii il mio stomaco contrarsi in un nodo e la gola farsi secca. Poggiai un orecchio sulla porta – mi ero ridotta a fare queste scenette da film scontato pur di capire cosa stava succedendo in quella casa – però dopo quella brutta sfuriata non sentivo altro se non tanti mormorii.
Stupida porta.
Non posso bussare, questo è sicuro. Pensai. Nella mia testa già stavo immaginando le diverse opzioni da considerare per entrare in quella casa, vedere con i miei occhi che Luke stava bene e poi inveire contro Kai.
Questo nel migliore dei casi. E se per caso non tutto fosse apposto? Mi chiesi, mentre guardavo distrattamente l’orario al cellulare.
Avevo a disposizione poche ore, poi ero obbligata a ritornare a casa. Avevo…una specie di riunione con i miei fratelli – se così si poteva chiamare.
Al sol pensiero di sedermi con Stefan e Damon ad un tavolo, senza mamma ignara di tutto quello che era successo mi metteva soggezione.
Decisi di non rimanere lì ferma ad aspettare che qualcuno mi aprisse, solo quando sentii qualcosa frantumarsi a terra.
Presi il cellulare e premetti invio sul numero che cercavo.
Primo squillo. Secondo squillo. Terzo squillo. Mi aveva chiuso il cellulare in faccia? M’inumidii le labbra e continuai a provare insistentemente.
- E-Elena? – La voce tremolante del mio amico mi arrivò debolmente alle orecchie. Ora ero sicura, più che sicura: stava succedendo qualcosa all’interno di quella casa.
«Sì. Io in persona. Ora, Luke, apri questa porta o la sfondo.» Dissi chiaramente. Se mi avesse aperto subito, allora ero diventata una paranoica che vedeva guai ovunque. Se avesse tentennato…
- Puoi a-aspettare due minuti? – Ecco la conferma. Non ero paranoica. E i guai me li ritrovavo dietro sempre e comunque.
«Non aspetterò due minuti. Cosa sta succedendo là dentro?» Gli urlai, cercando di farmi sentire magari anche da quelli che stavano dentro casa.
- Chi è? – La voce dura e raschiata non apparteneva a Luke. – Ne-nessuno…- Ecco, questo era Luke. E non stava parlando Kai. In quella casa c’era qualcun altro oltre i due ragazzi che conoscevo. – Sei proprio un…- Ringhiò la voce, ma non concluse la frase. – Non. Avvicinarti. A. Lui. – Dio, Kai sia benedetto!
«Fatemi entrare o chiamo la polizia!» Urlai all’altro capo del telefono. Niente. La linea era caduta.
No. No. Non poteva essere successo niente di quello che stavo immaginando.
Io non dovevo farmi prendere dal panico. Non vedevo tutto quello che mi circondare girare vorticosamente. Iniziai a respirare e a contare, come mi aveva suggerito Damon poco tempo fa.
Pensa: non ti aprono? Fatti aprire.
Scorsi in rubrica i numeri e chiamai l’altro numero che avevo.
«Sentimi bene, ora o uscite da quella casa o mi fate entrare in quella casa. E’ una scelta semplice. E ti giuro che in entrambi i casi, ti ammazzerò nella peggiore maniera che conosco.» Cercai di essere convincente. In risposta ebbi solamente dei mezzi risolini e qualcuno – dubito che Kai mi avesse chiuso il telefono in faccia, ancora – mise giù.
Non riuscii neanche a ribattere, poiché la porta si aprì rivelando la faccia di uno sconosciuto. Chi era?
«Sei tu quella che mi ammazzerà nella peggiore maniera che conosci?» Mi sfottò un ragazzo dai capelli e dal sorriso enigmatico. Quello non era Kai, tantomeno era Luke.
Per prima cosa notai che non era Londinese, non aveva l’accento stretto di quel posto e non aveva i tipici tratti europei.
«Dove sono? E tu, perché sei in casa di Luke?» Gli chiesi infastidita. Nella mente come un disco rotto ripetevo sempre le stesse parole sapevo che Kai avrebbe portato solo guai su guai.
Già ero complicata di mio, se ora ci si metteva anche lui con queste stupidaggini.
«Entra.» Grugnì in risposta, allungando una mano verso il polso – dolorante per via di Damon e della sua brutta stretta – e trascinandomi malamente dentro.
«Togli quella mano.» Replicai infastidita, scollandomelo di dosso. Ispezionai velocemente la casa di Luke e persi il respiro quando vidi Luke con Kai – a quest’ultimo gli usciva copiosamente del sangue dal naso –.
«Oddio, siete delle bestie!» Sputai andando loro incontro. Il naso di Kai era ridotto piuttosto male e notai poco sangue incrostato al labbro inferiore del biondo.
«Cos’hai detto, mocciosa?» Inveì contro l’altro. Mi girai e vidi la seconda figura – lo riconobbi come il tipo che aveva chiuso la chiamata, o almeno la voce era simile a quella sentita a telefono – imponente nella sua altezza scrutarmi con gli occhi iniettati di sangue.
«Non mi hai sentito? Ho detto che siete delle bestie!» Ribattei, mentre Luke mi ammoniva spaventato con lo sguardo. Sapevo che non avrebbero alzato le mani su una donna, o minimo così credevo.
«Sei una piccola stronza.» Commentò avvicinandosi a me.
«Lei non c’entra in questa maledetta storia. Così come non c’entra lui.» La voce di Kai proruppe quella momento tediante. E io immediatamente scattai verso di lui. Cos’aveva fatto?
«C’entra dal momento in cui ha iniziato a rompere le palle con le sue chiamate. Si è invischiata da sola in questa faccenda.» Disse rude l’altro dalla carnagione scura.
Come sempre mi presento nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Mi complimentai con me stessa, mentre li osservavo con un groppo in gola. Cosa diamine aveva fatto Kai?
«Cos’hai fatto, Kai?» Sputai velenosa, verso di lui che non nascose il suo divertimento a quella faccenda.
«Meno sai, meglio starai in futuro. Te lo dico per il tuo bene, dolcezza.» Riprese lo stesso ragazzo che mi ammiccò leggermente.
Disgustoso. C’era solo quell’aggettivo per descriverlo. Anzi, entrambi sono disgustosi. Costatai poco dopo con la pelle d’oca.
«Chiudi la bocca, maledizione.» Gli occhi di quel tipo si assottigliarono leggermente. Buttò a terra la sigaretta che stringeva tra i denti e la calpestò con forza. Venne verso di me a grande falcate, con forza mi prese il gomito e mi avvicinò a sé.
«Sento che mi scapperà il morto, se non chiudi tu quella boccaccia.» Ringhiò. E per un momento valutai la sua opzione. Era meglio chiudere la bocca, o limitare quelle battutacce gratuite che gli stavo propinando.
«Non ti azzardare a toccarla.» La buttò lì Luke. E sorrisi, perché lo disse con convinzione. Non fui l’unica a sorridere, anche quei bastardi sorrisero – anzi scoppiarono a ridere.
«Chi è la tua ex? Mhm, te la fai con ragazze carine.» Commentò divertito lo straniero che finalmente lasciò la presa sul gomito e iniziò a squadrarmi il viso tenendo il mio mento tra pollice e indice.
«E’ mia amica. Basta questo, lasciala. Veramente.» Replicò Luke, che strinse la mano di Luke a sé mentre io ci stavo sempre capendo di meno. Perché diavolo li avevano fatti entrare?
«Sei divertente, ragazzino…» Disse ridendo. La sua mano scese verso il collo per poi afferrarlo violentemente. Oddio, l’aria sembrò venirmi meno. E in quel momento che ebbi paura, paura di quello che poteva succedere perché avevo capito che non stavano scherzando.
Quel mi scapperà il morto non era una battuta detta così. Era serio. E io era sotto la sua mira, con l’aria che diminuiva e con il cuore che rischiava di esplodermi in petto.
«Non lo farei se fossi in te.» Lo avvertì Kai. La sua presa rallentò leggermente sul collo e sentii l’aria fluire correttamente nei miei polmoni. Lo sconosciuto fece un ghigno insopportabile e lo invitò con un cenno del capo a continuare quel discorso che forse quel maledetto che mi teneva per la gola trovava patetico.
«E’ la sorella di Damon Salvatore.» La sua presa si allentò immediatamente e mi spinse indietro con gli occhi che schizzavano fuori dalle orbite. Bastava così poco per lasciarmi andare?
«Ouch, credo di non essermi presentato adeguatamente.» Quello sguardo era inquietante, ma non dissi niente. «Sono un amico di tuo fratello.» oh, immagino quanto tu sia amico. Pensai sprezzante.
Si vedeva lontano un miglio che aveva una paura irrazionale di Damon, ma non celava quel moto di fastidio che aveva percepito non appena sentito quel nome.
«E io sono la sorella. Piacere, sono Elena.» Mi presentai con un sorrisetto divertito. Mi accarezzai lentamente il collo e sperai che non si fossero formate delle chiazze troppo evidenti.
«Sparite da questa casa.» Continuai inacidita. «Se volete parlare con Kai, fatelo fuori da qui. E non coinvolgete me e il mio amico. Kai, per me, potete pestarlo a sangue, ma non in casa sua. – mi riferii a Luke.» I due ragazzi sgranarono leggermente la bocca a quelle parole dure.
«Ops, non vi ho detto che la sorella di Damon Salvatore mi odia profondamente?» Quella battuta di Kai smorzò quell’atmosfera serrata che c’era e mi sciolsi anch’io – per quanto potessi sciogliermi viste le condizioni e la situazione.
«Parker un mese spaccato. Un solo mese. Poi salderemo il tuo danno, a modo nostro.» Disse quello che dei due parlò meno. Dopo di che a passo lento e strascicato se ne andarono sbattendo la porta.
Rimasi lì impalata a guardare la stanza. Era tutto in ordine, escludendo il cellulare di Luke a terra e il centro tavola ridotto in mille pezzi…sì, tutto bene.
«Entrambi in cucina.» Ordinai con un’occhiata eloquente. Non me ne sarei andata da casa di Luke senza una spiegazione valida.
«Non darmi ordini. Sai bene che m’infastidisce.» Commentò Kai con lo sguardo già infuocato. Aveva persino il coraggio di far finta che andasse tutto bene? Da dietro di lui, Lukey – il mio migliore amico – cercava di calmarlo.
«So bene che ti infastidisce, ma fino a prova contraria non sono io quella che ha il naso spaccato e un labbro sanguinante.» Detestavo fare la crocerossina ma li dovevo aiutare. Sentivo di doverlo fare. Volevo aiutare il mio migliore amico e anche quell’idiota del suo ragazzo – o qualsiasi altro rapporto legasse i due –.
Kai dovette cedere e tutti e tre di avviammo verso la cucina. Aprii il frigo e cercai il contenitore con il ghiaccio – se non mi sbagliavo Luke mi aveva detto di conservarlo sempre – e infatti eccolo lì, dietro l’insalata.
Lo presi con due pezze che trovai lì e lo posai sul tavolo.
«Credo che non sia rotto.» Gli dissi sinceramente, mentre lui mi lanciò un solo cenno del capo come ringraziamento.
«Io sto benone, Els.» Mi assicurò Luke, sciogliendo la presa dalla mano di Kai per portarla sulla mia. Sospirai e ritrassi la mano.
«Sentiamo la storia.» Li invitai.
«E’ lunga.» Disse il moro con un sorrisetto da perfetto stronzo. Oh, si vedeva che non mi conosceva abbastanza. Non avrei mollato.
«Ho tutto il tempo del mondo.» Queste frasette da quattro soldi prese dai soliti film scontati a volte servivano, no?
«Allora? Non parla nessuno?» Li spronai. Volevo sentire quello che era realmente successo e poi vedere il da farsi. E pensare che io avevo paura che Luke sentisse qualcosa di sbagliato o carpisse informazioni sbagliate. Lui in questo guaio non si era trovato per caso, no, lui si era buttato a capofitta in quel caos. E c’ero anch’io lì.
«Si tratta di un debito, niente più niente meno. Li pagherò e basta.» Mi spiegò.
«Wow, meno male che era una storia lunga.» Commentai ironica. Lanciai una rapida occhiata all’orologio, sperando di non tardare di troppo a quella “riunione” con i miei fratelli. Poi mi concentrai su Luke e capii che Kai stava facendo il furbo.
«Pensavo desistessi e non insistessi, infatti.» Sbuffò divertito e si tamponò il naso con il ghiaccio. Mi alzai dalla sedia – provocando uno stridio fastidioso – e roteai gli occhi al cielo.
«E io pensavo che tu non fossi così idiota da mentirmi.» Lo provocai con un sorriso innocente sul volto. Vidi Luke lanciargli uno sguardo di scuse – ormai lo conoscevo come le mie tasche –.
«Luke so che pensi che io sia una stronza impassibile che se ne freghi dell’amicizia. So che stai pensando che probabilmente questa sia una stupidaggine rispetto a quello che io non ti voglio raccontare di me, ma ti assicuro che non è così.» Lo guardai dritto negli occhi, ma cercai di dissimulare il più possibile.
Mi ero esposta fin troppo in quei sentimenti che prendevano il nome di ‘amicizia’. Perché io a Luke non gliel’avevo mai detto. Non gliel’avevo mai confidato. Ma era così.
Era il mio migliore amico, eccome se ci tenevo a lui.
«Perciò te lo chiedo a te, perché so che tu puoi vedere tutta la paura che ho di perderti, cosa Kai non mi vuole dire?» Era strano dirgli questo proprio davanti a quel ragazzo che adesso ci stava guardando dietro i suoi occhi impassibili.
Era una scelta: o io o lui. E sapevo che quella scelta era maledettamente sbagliata. Così come sapevo che davanti ad una persona con certi sentimenti non potevi dargli questo out-out. Ma dovevo.
Dovevo perché non mi fidavo di Kai.
«Elena…» La sua voce era incrinata e io capii che lui aveva fatto la sua scelta. Il mio out-out non era servito a niente.
Proporre amicizia a chi aveva trovato l’amore era una cosa così scontata e inutile. L’avevo detto veramente? E la cosa più strana era che io ci credevo, pensavo che si fidasse di me abbastanza. Che mi volesse poco più bene di quel ragazzo…Che…che almeno volesse accettare il mio aiuto.
Incassai il colpo e annuii con un sorriso amaro.
«Fa niente, Luke. Ti capisco.» Dissi. In realtà no, non lo capivo affatto. Perché non voleva fidarsi di me? Avrei potuto aiutarlo, aiutare anche Kai.
«Quando si incontra l’amore si inizia a perdere colpi.» La buttai sull’ironia. «Spero che tutto vada bene.» Conclusi guardando il moro. Meglio per te che tutto vada bene. Ripetei mentalmente.
«Perché eri venuta?» Stavo uscendo ma la voce di Luke  - un po’ ovattata – mi arrivò alle orecchie. Non potevo di certo dirgli che ero andata là con l’intento di farmi raccontare tutto quello che era successo con Kai, - perché anche non lo avrei mai ammesso, ero contenta che i due avessero deciso di darsi una mossa – così optai per la scusa più soft.
«Perché una ragazza non può più venire a trovare l’amico? Ah, scusa, vedo che hai già compagnia.» Questo commento acido non riuscii a risparmiarmelo e mi avviai verso l’uscita.
«Avvertimi quando vorrai un’amica, io sono qui.» Detto ciò uscii da lì e mi chiusi alle spalle la porta. Sospirai pesantemente.
Luke non è Matt. Mi ripetei. Era quello il mio problema. Avevo paura che…che tutta la storia si ripetesse e sopportare un’altra morte non era nei miei piani. A dire il vero non rientrava nelle mie forze, non sarei riuscita a sopportare la sua morte.
 
Ammazzerò Kai. Se prima non lo ammazzeranno quelli, ovvio. Mi ripetevo quella stessa in testa dal tragitto casa di Luke – casa mia. E ora continuavo a ripeterlo ancora, forse per convincermi. E per rendermi conto che la scelta di Luke non ero io, la scelta era stata per lui una cosa scontata.
Perché quel ragazzo non era stupido, era furbo. E sapeva quanto gli volevo bene, sapeva come sarebbe stato semplice farmi ritornare da lui.
Guardai l’ora e me la svignai in camera, prima della riunione – ancora non capivo perché c’era tutto questo mistero.
La prima cosa che feci fu togliermi il giubbotto di pelle e la maglia pesante. Rimasi in legghins e in reggiseno. Deglutii e mi avvicinai allo specchio. Il polso era violaceo, merito della stretta di Damon di un paio di giorni fa e sui fianchi si intravedevano ancora qualche graffio.
«Questo come lo copro?» Dissi ad alta voce, legandomi i capelli in una coda alta e osservando il collo. Quell’energumeno e quel suo tentato strangolamento. Sospirai pesantemente, ai lati del collo si vedevano chiaramente le impronte delle mani di un uomo.
Non passerà inosservato agli occhi di Stefan. Quello fu la prima cosa che pensai, mordendomi un labbro. Nella mia testa non arrivò neanche il pensiero che, anche, Damon potesse preoccuparsi per me. Insomma…aveva affermato – e mi aveva fatto capire chiaramente – di volermi distruggere.
Mi avviai verso l’armadio ed presi una maglia dal collo alto. La indossai velocemente e sistemai accuratamente il collo bianco per evitare che potesse scorgersi qualcosa.
Ero nervosa.
Non solo per la reazione che Stefan poteva avere se avesse visto qualcosa. Ero nervosa, anche, per quello che era successo in casa di Luke.
Forse un’altra persona avrebbe chiamato la polizia, ma quando si parlava di debiti tra ragazzi – ragazzi pericolosi – non c’era niente da fare. Non potevi metterti in mezzo e andare alla polizia significava condannare sia me che i miei amici.
Mi avrebbero fatto troppe domande e avrei dovuto dare delle risposte sensate. Risposte che avrebbero procurato troppi danni a quei ragazzi che ormai basavano la loro vita solamente su quel giro sbagliato.
Elena si tratta di Kai. Che t’importa? Mi rincuorai da sola. Ma dove sta Kai, sta Luke. Continuai.
Bene, ritornavo sempre allo stesso punto.
Scacciavo dalla mente quei pensieri e mi diedi dell’idiota. Veramente mi stavo facendo troppi problemi.
Uscii nuovamente dalla stanza e andai verso la cucina.
Stefan e Damon erano già lì, seduti al tavolo. Il primo mi sorrideva apertamente, il secondo aveva in volto sempre la stessa espressione che metteva su quando ero nei dintorni.
Fastidioso.
Notai che la finestra presente in cucina era aperta e il sole illuminava con i deboli raggi la stanza. Dio, già era difficile mettere su quella finzione…ora faceva caldo.
Peggio di così non poteva andare.
Presi un bicchiere d’acqua e lo sorseggiai lentamente.
«Scusate il ritardo.» Dissi con un’alzata di spalle, mi sedetti a capotavola e gli sguardi dei due erano incentrati proprio su di me.
Seguirono alcuni momenti imbarazzanti, soprattutto perché nessuno dei tre spiccicava parola.
«Ehm, Stefan, perché hai organizzato questa cosa?» Gli chiesi. Aspettando una sua risposta mi legai nuovamente i capelli, questa volta in una coda più alta.
«Toglitela.» Grugnì la voce di Damon. Ora sedeva composto, non era più stravaccato sulla sedia. La schiena era dritta e le mani incrociate sul tavolo. Il suo sguardo era quasi divertito, mentre io boccheggiai qualche istante.
Parlava con me?
«Scusa?» La mia voce uscì come un debole sussurro. Feci finta di non capire, ma in realtà avevo sentito quello che aveva detto. Il problema era che mi risultava difficile mantenere un profilo basso con lui.
«Se hai caldo cambia la maglietta, Elena.» Continuò con una scrollata di spalle.
Risposi con un mezzo cenno del capo e poi rivolsi il mio miglior sorriso a Stefan che ci fissava – per non dire squadrare – silenziosamente.
«So che praticamente il vostro rapporto, ormai, è andato.» Sapevo che stava parlando sul piano personale. Perché anche se non avevo mai parlato di Damon con Stefan, lui aveva sempre avuto la capacità di capirmi all’istante con uno sguardo. Lo faceva fin da piccolo e continuava questo suo modo di fare tutt’ora.
Sapevo perfettamente che Damon in quei due anni gli aveva parlato di me, o almeno gli aveva parlato di quello che era successo in modo dettagliato.
E non peccavo di arroganza. No. Vedevo dagli occhi di Stefan la consapevolezza di avere in sé tante informazioni che non voleva mantenere segrete.
«E che ora volete solamente ricominciare con le vostre vite…ma c’è qualcosa che ci accomuna.» Continuò con gli occhi pieni di speranza. La speranza era l’ultima a morire, allora perché non vedevo lo stesso sentimento negli occhi di Damon?
Perché in lui la speranza se n’era andata completamente? Perché non provava un po’ di speranza? PERCHE’, maledizione?
«E cosa?» Sbottò acido Damon.
«L’essere fratelli, forse?» La buttai là, guardando il corvino alla mia sinistra con aria di sfida. Non mi rispose, almeno, non mi rispose sgarbatamente come immaginavo.
«Forse.» Disse lapidario, portando la sua attenzione altrove.
«Oltre, Elena. Sapete che giorno è tra due settimane?» Ci guardò entrambi e sia io che il corvino mettemmo da parte quelle occhiatine insopportabili che ci stavamo mandando da quando mi ero seduta a tavola.
«Il compleanno di mamma.» Scattammo all’unisono. Oddio, come potevo dimenticarmi il compleanno di mia madre. Scossi la testa quasi infuriata, come potevo essere così idiota?
L’anno scorso l’avevamo festeggiato tra noi. Quest’anno compiva la bellezza di cinquantacinque anni.
«Ho pensato che…visto che io e Damon siamo qui per stare un po’ con lei e con te, potremo organizzare qualcosa, no?» Propose con un mezzo sorriso. Fare qualcosa?
Anzi, io e Damon collaborare? Senza farci fuori?
Non sarebbe una brutta idea…Potrei vincere la scommessa e carpire qualche suo punto debole. La mia mente contorta elaborò quel pensiero e mi resi conto di come stessi storpiando la realtà che mi circondava.
Veramente tutto doveva arrivare al distruggerlo? Volevo così tanto che lui se ne andasse dalla mia vita prima che me la rovinasse completamente? La risposte c’era, ma non volevo ammetterla.
Dicevo di sì perché era quella più semplice. La risposta che ogni persona normale darebbe. Ma io non ero una persona normale e provare a distruggerlo sapendo di ferirmi da sola – perché era pur sempre mio fratello – era da masochisti.
Da veri masochisti. E in questi giochi strani e contorti, io mi trovavo bene.
«Si può fare. Potremo organizzare un catering nel giardino!» Trillai, già pensando alle decorazioni. Mi piaceva progettare queste festicciole per mia madre, soprattutto per quello che stava facendo per me nel corso di quegli anni.
Era improponibile fare quello che aveva fatto lei: aveva taciuto tutto quello che pensava di me e dei miei comportamenti, più volte mi aveva aiutato nei miei momenti di panico e a volte si era ridotta a dormire accanto a me nel letto per cercare di calmare alcuni incubi che avevo.
Sospirai. Quei tempi erano i primi, era tutto durato per sei mesi…ma quale altra donna avrebbe sopportato tutto questo per così tanto tempo? Forse un’altra madre – che non voleva veramente recuperare il rapporto con la figlia – l’avrebbe già rispedita a casa dal padre.
«Però sotterriamo quest’ascia di guerra tra voi due.» La battuta di Stefan risuonò in cucina e sia io che Damon ci lanciammo uno sguardo. Cosa intendeva?
Non può sapere della scommessa. Mi dissi.
«Siete così tesi! Elena stai sudando e sei rigida, Damon non smetti di fissarla come se da un momento all’altro potesse morire!» Commentò il tutto con leggerezza. Sorrisi pensando alla descrizione di Stefan riguardo Damon e il suo modo di fissarmi.
«Lo faccio per mamma.» Usai il suo stesso tono e mi alzai dalla cucina. Dovevo andare a farmi una doccia fredda. Stavo sudando in quella maglia a collo alto.
«Magari ne riparliamo dopo.» Continuai andandomene via da lì e avviandomi verso la mia stanza. Tra me e me speravo che quei segni se ne fossero già andati, ma sospettavo che sarebbero rimasti più tempo del previsto.
Mi sedetti sul letto e misi il cellulare a caricare. Dopotutto quell’idea non era brutta, anzi era geniale!
Alzai la testa dal cellulare e persi quasi un colpo quando vidi Damon sull’uscio con le braccia conserte. L’avevo notato solamente dallo specchio che rifletteva la sua immagine, altrimenti non ci avrei fatto caso per quant’era silenzioso.
Sbuffai.
«Esci da camera mia, Salvatore.» Scattai sulla difensiva posando il cellulare sul comodino e incrociando le braccia al petto.
Il corvino in risposta entrò completamente dentro e chiuse alle spalle la porta. Girò nella toppa la chiave e mi lanciò un’occhiata di sfida.
«Smettila di fare l’idiota, esci…» Non continuai la frase, solo perché la sua voce si sovrappose alla mia.
«Togliti la maglietta.» Ordinò.
Assottigliai gli occhi. Qualsiasi cosa volesse fare era solo per distruggermi. Era per questo. Voleva farmi in piccoli pezzi, ma non gliel’avrei permesso.
«Non sono in vena per questi giochetti.» Commentai infastidita. In realtà la cosa che mi infastidiva era che voleva ricorrere a questi mezzucci idioti e di bassa lega per farmi cedere.
«Togliti quella fottuta maglia, Elena.» Alzai lo sguardo e fissai i suoi occhi celesti. Non era lo stesso tono che aveva usato in quei tempi con me. E nei suoi occhi non c’era repulsione, ora erano solo tetri e opachi.
Stava celando la tristezza. Stava celando tutto e non voleva più farmi sentire sbagliata.
Cos’era cambiato?
«No.» Risposi dura.
«Elena, togli quella maglia o te la toglierò io con le cattive.» Ringhiò avvicinandosi. Mi prese per il polso, vidi che stava trattenendo grandi sospiri e gli occhi spalancati incutevano una certa paura.
«Fallo e giuro che ti denuncio per molestie.» Commentai. Quella carta funzionava sempre, ma non con lui. Perché lui non era il solito ragazzo, lui era mio fratello. Era Damon Salvatore.
«Allora andrò in galera.» Replicò con voce incrinata. Spostò la sua mano sui miei fianchi e mi spinse indietro. Ero spalle al muro e vedevo che con lo sguardo mi stava implorando di non farglielo fare.
Giocò con l’orlo della maglietta, ancora, un po’.
«Elena non voglio farlo…» Aveva la voce rotta e mi sentii una merda. L’avevo lasciato, calpestato e ora lui…lui era lì davanti a me e si stava preoccupando.
«Allora non farlo.» Gli dissi allontanando la sua mano dall’orlo della maglietta. I suoi occhi celesti mi scrutarono attentamente, con una mano sfiorò leggermente l’attaccatura dei miei capelli e lo vidi sospirare rumorosamente.
«Devo farlo.» Insistette duramente.
«Per quella scommessa?» La mia voce era sottilissima. Damon era cambiato, ma speravo che in fondo non volesse fare tutto questo solo per un fine. Mi illudevo che lui fosse preoccupato per me.
«No.» Fu una risposta istantanea. Non ci pensò molto, pochi secondi. I suoi tratti erano rigidi e i suoi occhi celesti erano incatenati nei miei color cioccolato. Era strano guardare negli occhi la persona che in passato aveva tenuto la tua vita in mano.
«Perché?» Non riuscivo a formulare una frase di senso compiuto ed ero sicura che se avessi fatto un passo in là le mie gambe non mi avrebbero retto. Sarei caduta a terra e non volevo dimostrarmi debole. Era quello il suo scopo.
Indebolirmi e colpire.
Dio, sto impazzendo. Impazzendo veramente. Pensai deglutendo.
«Devo sapere cosa ti è successo.» Scandì lentamente quelle parole, quasi volesse pesare la loro portata. Quasi non volesse esporsi troppo. Lui non era fatto così. No. Prima era lui quello che si esponeva al massimo, ora…era tutto cambiato.
Come i nostri sentimenti. Erano diversi e distorti. Quello che provavo per lui l’avevo distorto in modo irreale e incredibile per farmi smettere di provare quello che provavo.
«Perché diamine?» Gli urlai furiosa. Mi sporsi in avanti e le nostre labbra erano vicine. Carnose al punto giuste di un bel roseo. Distolsi l’attenzione dalle sue labbra al suo volto. Anche lui era irrimediabilmente stanco e per poco pensai che la sua stanchezza – mentale – fosse dovuto a qualcosa di cui non ero a conoscenza.
«Perché sei un’ossessione. Una maledetta ossessione.» Ringhiò. Il suo tono raschiato mi aveva spiazzato e probabilmente se n’era accorto visto che si schiarì nuovamente la voce. «Ti prego, non farmelo fare con le cattive…» Sussurrò poggiando il capo nell’incavo del mio collo. Le sue mani mi circondarono la vita e inspirò lentamente il mio profumo, come io mi beai del suo.
Puzzava di tabacco, ma la menta rimaneva sempre forte e onnipresente.
Così chiusi gli occhi e non dissi niente: lo allontanai da me e presi tra le mani il bordo della maglietta. Mi avvicinai allo specchio e con la coda nell’occhio notai Damon seguirmi silenziosamente.
Mi sfilai la maglietta e la lasciai a terra.
Gli occhi di Damon si sgranarono e subito si avvicinò a grandi passi.
Non disse niente e non ebbe la reazione peggiore che mi aspettavo. Anzi, reagì meglio del previsto.
Mi osservò lentamente e i suoi occhi mi squadravano attentamente, soffermandosi ovunque per pochi secondi. Davano l’impressione di memorizzare ogni singolo dettaglio di te.
«Dio, chi ti ha fatto questo?» La sua voce uscì come un ringhio. Posò le mani fredde sul collo e seguì la scia rossa della mano che era impressa sul mio collo.
«Io…» S’interruppe pochi secondi. «Io ti ho fatto questo.» Continuò inorridito toccandomi il polso violaceo. Fin’ora mi ero stata zitta, ma sentire quelle frasi da lui con quel tono ebbero uno strano effetto. Per pochi istanti pensai che si stesse preoccupando per me come faceva un tempo.
«E ti ho fatto anche questo…» Le sue mani si spostarono poco dietro i fianchi. Erano solo pochi lividi che sarebbero spariti a breve. Deglutii, cercando di non dar a notare come il mio corpo reagiva al suo tocco.
Quella sensazione non era cambiata.
«Ma non ti farei mai questo, chiaro?» Ora mi stava toccando con una mano le scapole e con l’altra toccava leggermente il collo che mi doleva. Le mie mani, invece, erano serrate in due pugni.
Il collo era rosso e gonfio, ad ogni suo tocco bruciava sempre più ma non potevo dirgli che mi stava facendo male. Mi avrebbe fatto solo più domande.
Avevo anche evitato il suo sguardo. Ero in imbarazzo. Ma non perché ero in reggiseno davanti a lui, anzi quello era l’ultimo dei miei problemi.
Mi sentivo solo…sottomessa. Sotto quegli occhi celesti che mi guardavano cercando un mio passo falso, sotto quelle mani che mi stavano toccando provocandomi mille brividi, sotto Damon in tutta la sua imponenza mi sentivo tremendamente sotto esame. E detestavo il fatto che questa orribile sensazione la provassi solo con lui.
«Chi è stato?» Soffiò sul mio collo e io persi il respiro.
Perché l’ho fatto? Perché mi sono tolta la maglietta? Mi ritrovai a pensare. Era così persuasivo? Mi risposi da sola e mi diedi della sciocca.
Come sempre, mi aveva giocato. Mi aveva abbindolato per farmi vedere quanto semplice fosse ascoltarlo. Eppure la sua voce non era calcolatrice, lui non voleva togliermi la maglietta con la violenza – ne ero certa –, l’avrei capito se mi stava prendendo in giro giusto?
Forse è…preoccupato?
«Nessuno.» E a chi andava il premio per la stupidità? Ad Elena Salvatore.
Chi mai darebbe una risposta del genere?
Damon, tuttavia, non insistette. Iniziò a massaggiarmi il collo, istintivamente inclinai il capo e mi rilassai. Era piacevole. Tutto quello che lui fa è piacevole, mi corressi mentalmente.
«Vorresti farmi credere che questo te lo sei procurata da sola?» Tra una parola e l’altra sospira e prendeva grosse boccate d’aria, come a volersi calmare.
«Non ti deve interessare, okay?» Scattai sulle difensive girandomi verso di lui, dando le spalle allo specchio.
«Qualcuno ti sta facendo male?» Continuò.
Oddio, mi ero dimenticata di quanto potesse essere asfissiante alle volte!
«No, nessuno mi sta facendo niente.» Replicai. Era vero, non stavo mentendo e lui forse lo notò.
«Ti piace quando gli uomini ti trattano come una pezza?» Chiese già più infastidito. Arricciai il naso e feci per replicare, ma m’interruppe ancora. «Devo fare anch’io così? Devo farti male fisicamente? Vuoi questo?» Mi prese per le spalle. La vena pulsava sul suo collo, questo significava solo una cosa: si stava scaldando.
«Lo hai già fatto, Damon.» Lo stuzzicai. Cosa diavolo avevo detto?
A quelle parole mi strinse a sé e ribaltò le posizioni: ora lui dava le spalle allo specchio e lentamente avanzava mentre io indietreggiavo.
Finii al bordo del letto e non fece più un passo.
«No, Elena.» Sussurrò toccando le punte dei miei capelli. «Io ho fatto questo, sì…» Mi prese il polso violaceo e ci poggiò sopra le labbra lasciando intorno un’umida scia di baci. Mi lasciai scappare un gemito che notò.
Sorrise con il solito ghigno insopportabile. Delicatamente si lasciò cadere sul mio letto portando me con lui. Ero – completamente – su di lui.
E quella scena mi sembrò troppo familiare. Ricordai quella scena. Da lì tutto iniziò ad andare storto. Da lì tutta la mia vita era diventata un inesorabile valanga di guai su guai.
Eravamo sempre in quella posizione, io su di lui, avevo il cuore a mille e le guance erano arrossate. I nostri cuori battevano veloci, eravamo troppo eccitati per capire cosa ci stava succedendo.
Sentivamo solo quell’attrazione. Quell’attrazione che era stata la nostra condanna. Il nostro amore proibito. Era quello.
E per un momento lasciai da parte i bei ricordi e le sensazioni, ricordando quello che successe dopo.
Era entrato Stefan.
E ora? Ora era uguale. In un letto, io su di lui, ma questa volta a lui non batteva il cuore. Batteva solo a me. E non avevo idea se fosse per quella situazione assurda o fosse quell’attrazione fisica che ci legava.
Lo fa apposta. Pensai. Voleva ricreare i nostri vecchi ricordi?
«Ho fatto anche questi graffi, sì…» Continuò stringendoli piano. Il mio seno era schiacciato sul suo petto, ma sembrava non farci caso…Era occupato a parlarmi, stava provando a farmi capire cosa intendeva, stava mettendo da parte tutto.
«Ma MAI…» Calcò il mai e ribaltò le posizioni. Era sopra di me e una mano era sopra la mia testa. Non era pesante, si stava sorreggendo con i gomiti e mi guardava ardentemente. «MAI, proverei a strangolarti.» Sbiancai a quelle parole. Era così chiaro?
«Perché questi sono segni di strangolamento. E io voglio sapere chi ha azzardato a mettere le mani sul tuo collo.» A quelle parole rabbrividii e non solo per il freddo.
«Cosa c’è? Non ti piace l’idea che qualcuno possa distruggermi prima di te?» Dissi con la mia solita faccia tosta.
«Non mi piace l’idea che qualcuno metta le mani su di te.» Mi baciò il lobo. «Solo io posso. E non lo faccio.» Sussurrò dopo.
Come farò a non farmi distruggere se lui fa così?
Avevo in mente tante domande, volevo sapere perché gli importasse così tanto di me, volevo sapere cosa li stesse passando per la mente…ma le misi tutte da parte.
No. A questo avrei pensato dopo.
Ora dovevo fargli capire che non era lui a comandare.
Mi alzai sui gomiti e feci combaciare le nostra labbra.
Vidi lo sgomento nei suoi occhi, ma ricambiò il bacio. Mordicchiò dapprima il labbro inferiore e poi si concentrò completamente su quel bacio.
«Sei maledettamente convincente quando fai così, lo sai bimba?» Ansimò sciolto il bacio. Mi lasciai andare ad una risata divertita e scossi la testa.
Mi sta abbindolando. Non va affatto bene. Pensai, prima di baciarlo ancora.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Esce da dietro un muro* *fa ciao con la manina*
Hi girls!
I’m here! Ecco…Be’…Da dove devo incominciare?
Mhm, sinceramente ora sarei tentata di stappare lo champagne e iniziare a ballare la macarena *eeeh macarena in sottofondo* …Ma ho deciso di andare in ordine!
Prima cosa! Un MEGA GRAZIE alle buone anime che recensiscono sempre (NikkiSomerhalder, Bea_01, PrincessOfDarkness90, _Alil, Nicoliale), alle 34 (*-*) che hanno inserito questa ‘storia’ tra le preferita, alle 4 che l’hanno inserita tra le ricordate e alle 28 che l’hanno inserita tra le seguite. Okay, voi sapete quanto vi amo? :Q____
Ehm, credo di aver finito i ringraziamenti *mette una x sulla lista ‘cosa scrivere nell’angolo note’ e sorride*
Ora tocca a…*controlla sulla lista* la scenetta KaixLukexElena! Andiamo, pensavate che mantenevo la storia incentrata solo sulla scommessa Delena?
Oh, NO. Sono così diabolica (tranquilli me lo potete dire, non mi offendo ^^’’) che ho messo in mezzo a sti poveri due che almeno sono giunti ad un rapporto carino insieme *-*
Boh, avevo intenzione di raccontare cosa è successo tra loro ma poi ho pensato che non avrebbe senso visto che è dal punto di vista di Elena la storia…Perciò se voi voleste, io potrei scriver una OS ‘missing moments’ su quei due…SEMPRE SE VI VA.
Comunque…Non perdendo il filo del discorso, mhm, cosa volevano quei due ragazzacci di cui uno me voleva strozza’ ad Elena ^^’’ ? Eh, questo ve lo domando. Anche perché sono curiosa di sapere le vostre opinioni, ho in mente diverse soluzioni carine *sottofondo inquietanti* (NB. Quando dico ‘carine’ con soluzioni e mi riferisco a questa storia io mi preoccuperei :*)…Ovvio mi interessa sapere la vostra di soluzione!
Finito di parlare di questo bel trio (Bello poi, sti tre ‘so delle calamite per le sfighe) *mette x accanto a ‘parlare del trio sciagurato’* Passo a del buon sano amore fraterno (?)
Boh, Stefan (il nostro Santo Stefan) ha avuto una buona idea! Non so perché ma lo sto sopravalutando nella storia (nel prequel avevo per lui un odio sviscerato u.u)…però ho finalmente deciso di rivalutarlo e così ho detto ‘mamma Elisabeth non compie mai gli anni?’ e tadaaan!
Così ne vedremo di scene belle Delena…Muahahahahhau. Okay, *mette un’altra x* *consulta lista*
Oh, sulla mia lista c’è ‘sclerare su scena Delena finale con champagne e dolci’ BENE. COSA NE PENSATE?
Ho notato che questo odio rende la storia un po’ angst (?) così ho detto che forse un po’ andava alleggerito il carico e questa scena me l’ero immaginata.
Ora…Secondo voi Damon fa così perché – come ha detto Elena – vuole indebolirla per poi colpire più forte o magari si è solo preoccupato? Chissà. Più in là scopriremo :3
Sinceramente sto abbastanza fuori! Sto tipo ‘modalità pazzia-sclero-terrore on’. Damon magari sta cedendo? Mhm, chi lo sa. Il vostro parere o pensiero qual è? ^^’’
E poi…Per quanto riguarda la scommessa chi vincerà? Non vi rivelo il nome per chi patteggio altrimenti non avrebbe senso (?) anche se io ho un debole per i perdenti!
Ho concluso ciò che avevo da dire *butta all’aria cartellina*
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e invito (^^’’) i lettori silenziosi a farsi sentire. Io non mangio nessuna/o!
Ora vado via, un bacio!
PS. Auguri, cupcake! +26
PPS. #JesuisCharlie
Non ti scordar di me. 

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Capitolo 6
*** I'll win. ***


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Capitolo sei.
I’ll win.
 
Sistemai nella borsa nera il libro e decisi di ritornare a casa. Per quel giorno avevo finito le lezioni all’università e in quel momento l’ultima cosa che volevo fare era studiare il basic life support. No. Decisamente era meglio ritornare a casa e distendere un po’ i nervi.
Avevo la fermata tra poco, ma mi fermai non appena adocchiai un volto familiare. Anzi, un volto tumefatto familiare.
Io gliel’avevo detto. Pensai con un groppo in gola. Ero ancora indecisa sul da farsi. O andare a parlare con lui e perdere il pullman o ignorarlo e prendere il pullman.
Maledizione, sono troppo buona. Mi maledii mentalmente. E immaginare che un tempo avevo sfiorato quasi l’apatia.
Il biondo era seduto a gambe incrociate a terra e aveva la testa china su un libro, quasi a nascondersi. Ero di fronte a lui ma faceva finta di non vedermi – era quasi impossibile non vedere una ragazza super incazzata venire verso di te.
«Luke.» Lo chiamai freddamente. Mi scontrai con i suoi occhi e provai a reprimere un conato di disgusto. Al labbro spaccato si era aggiunto anche il sopraciglio.
«Elena.» Ricambiò con eguale apatia. O almeno provò a fare del suo meglio. Non riusciva a non parlarmi per molto tempo, di solito cedeva lui – anche perché questa volta stranamente avevo ragione io.
«Cos’hai fatto al sopraciglio?» Gli chiesi sedendomi accanto a lui e sfilandogli il libro per tenerlo stretto. Mi guardò quasi scocciato e poi si decise a parlare.
«Stavo aiutando mia madre a sistemare non so quale cosa su uno stupido scaffale e sono caduto.» Alzò le spalle e si sporse un po’ per riprendersi il libro – cosa che impedii fermamente.
«E tu credi che io possa credere a questa scusa?» Replicai a muso duro. Per un momento avevo pensato che sarebbe scoppiato a piangere e che mi avrebbe dato ragione? Ah, no. Non stavo parlando con una persona normale, stavo parlando con Luke.
Lo stesso Luke che non voleva mai sentire i miei consigli. Lo stesso Luke a cui avevano fatto fuori i connotati.
«Fin’ora tutti ci hanno creduto…» Farfugliò iniziando a giocare con quello stupido braccialetto che teneva sempre al polso.
«Non tutti sanno che quel bastardo di Kai deve debiti a chissà chi.» Commentai distaccata. Solo al nome del ragazzo, Luke scattò in quarta. Come se avessi toccato qualcosa che non mi appartenesse, come se non potessi avvicinarmi troppo o non potessi osare con le parole.
«Non è così male come pensi. Lui ha detto che sistemerà tutto.» Credo che in quei due anni, quella fosse la prima volta che Luke prendesse una posizione così ferma. E questo tutta per colpa di…Kai.
Sospirai pesantemente e iniziai a pensare. La soluzione non era parlar male di lui col suo ragazzo, no? Meglio mostrare buon viso a cattivo gioco.
«E come pensa di sistemare tutto?» Grugnii con gli occhi assottigliati. Non avrei mai dimenticato tutte quelle giornate con un Damon costantemente alla calcagna per sapere cosa fosse successo e soprattutto chi fosse stato a farmi quel lividi.
«Lo farà. Abbiamo ancora tempo!» Posò una mano sul mio braccio. Quello stronzetto del mio amico sapeva che tasti toccare e quando toccarli. Sapeva che non potevo resistergli anche per molto, come sapeva perfettamente che io gli volevo tremendamente bene.
Perché quel discorso che gli avevo fatto a casa sua non era finto. Io gli volevo bene e se non glielo avessi mai dimostrato era perché ero fatta così. Perché non volevo fargli capire quanto fosse importante, le persone si approfittano delle tue debolezze, ti distruggono fino alla fine e ti lasciavano da solo col dolore.
«No. Non avete tempo. Pensi che aspetteranno, veramente, un mese per quello che vogliono?» Gli feci notare. Abbassò gli occhi e non replicò più.
C’era qualcosa che non mi aveva detto.
«Non stanno già aspettando vero?» Gli chiesi ora completamente presa dallo sconforto. Quel sopraciglio era solo uno dei tanti avvertimenti. Se magari potessi sapere cosa Kai ha combinato, tutto sarebbe più semplice.
Luke annuì in risposta e sentii il nodo allo stomaco salire verso la gola.
«Posso sapere cosa deve Kai a quei tipi? Sai bene che non dirò niente.» Provai a convincerlo, stranamente lui scosse la testa convinto.
«Mai.» Fu lapidario. Arricciai il naso e capii che Kai aveva detto qualcosa a Luke. Qualcosa che mi riguardava e che aveva messo Luke sugli attenti. Qualcosa che aveva messo in guardia inaspettatamente il mio amico da me. L’unica persona che non voleva fargli del male.
«Pensi che possa tradirti?» Gli chiesi, provando a carpire più informazioni possibili.
«Non penso questo, Els.» La sua risposta fu veloce e per niente incerta. Non si trattava di una questione di fiducia. Lui si fidava di me, ma qualcosa lo stava frenando. Qualcosa che non m avrebbe detto ora.
«Perché fai tutto questo per Kai?» Pronunciare quel nome e cercare di non essere disgustata mi dava il voltastomaco. Avevo tanti motivi per odiare Kai, forse perché Kai era una di quelle persona che sapevano troppo di me.
E per questo avevo paura di cosa avesse detto a Luke, perché non diceva stupidaggini. Kai era fermo e micidiale. Colpiva al momento giusto, ma non diceva bugie.
Quello che gli aveva detto era tremendamente vero. Il punto era: cosa gli aveva detto di tutto quello che io non gli avevo raccontato?
«Non hai mai avuto l’impressione di impazzire per una persona? Non hai mai pensato che per una persona avresti dato tutto?» Mi chiese – non rispondendo alla mia domanda e smettendo di giocare con quel bracciale –.
Damon. Mi venne in mente solo quel nome. Solo con lui avevo avuto quella sensazione fottutamente schifosa. Quella sensazione di poter morire soffocata se lui mi avesse tenuta con sé. Potevo morire, ma per mano sua e con la sua mano nella mia intrecciata, morivo dolcemente.
Per quanto una morte potesse essere dolce.
«Sì. Ho presente questa sensazione.» E forse lì mi tradii da sola, perché Luke sgranò gli occhi ma non lo diede a notare. Inclinò la testa e mi studiò attentamente – quasi a capire se avessi sparato una stronzata.
«E questa sensazione ti entra dentro. Inizia prima ad entrarti sotto la pelle e poi non ne esce più. Ormai Kai mi è entrato dentro. E’ entrato dentro fin dalla prima volta che lo visto più di un anno fa.» Mi strinse la mano e allora capii che quell’amore consumato che avevo condiviso fino alla fine con Damon non era lo stesso amore di Luke e Kai.
Perché tra loro non bruciava. Il loro amore era lì, presente. Aveva solo tanti problemi.
Un momento perché parlo dell’amore tra me e Damon? Pensai solo dopo aver realizzato il tutto.
Mi inumidii le labbra e sorrisi al mio amico.
«Non credo che tu possa paragonare quello che stai condividendo con Kai, con quello che ho condiviso io con una persona.» Gli assicurai passando alla mia solita acidità. Quando parlavo di questi argomenti l’acidità cresceva in me in modo troppo spontaneo.
Luke, però, si rabbuiò.
«Io non la penso così. L’amore è uno. Ognuno ha un suo amore, ovvio, ognuno lo affronta in modo diverso…ma la fine è sempre una. Se tra te e questa persona è finita, significa che quell’amore non era il tuo di amore.» Forse se Luke sapesse con chi avessi condiviso quella sensazione, non avrebbe reagito male. Almeno non sarebbe stato catastrofico quanto te.
«Il punto è che a me questa persona è entrata fino alla fine. E non va bene, chiaro? Non va affatto bene. Perché, poi, quella persona ha su di te un ascendente assoluto. E se non sei abbastanza forte non ne uscirai più.» Gli spiegai. Aveva il volto sconvolto, anzi si vedeva chiaramente che non aveva afferrato il concetto. «Quando quella persona ti distruggerà e ti annienterà, tu non avrai più la forza di reagire. Perché quella persona ti sarà entrata troppo in profondità per sradicarla.» Ed era maledettamente vero. Due anni fa pensavo di essermi salvata da quello che mi circondava grazie a Damon, ma solo col tempo mi sono resa conto che se non avessi avuto la forza di lasciarmi tutto alle spalle ora non sarei qui.
Ora sarei una persona finita e consumata.
«Vuoi dire che non sono abbastanza forte? Pensi che se un giorno Kai mi mollasse non avrei più la forza di continuare?» Chiusi gli occhi e capii che quel discorso ora con lui non c’entrava niente.
«No. Tu dici che l’amore alla fine è sempre lo stesso sentimento solo che provato da diverse persone? Io dico che non è così. Perché l’amore tra te e Kai non è consumato, non è sofferto fino alla fine e nessuno dei due si brucerà.» Solo allora sembrò capire il mio discorso.
«Elena…e tra te e questa persona chi si è bruciato?» Mi chiese alzando lo sguardo. Persi un battito a quelle parole. Non pensavo che fosse così…così diretto. E non credevo che avessi il coraggio di farmi una domanda così personale.
Di solito lui ci arrivava a queste domande, non le poneva in modo crudo e duro.
«La domanda non è chi si è bruciato, Luke.» Ridacchiai leggermente e mi sistemai i capelli. «La domanda è chi si è bruciato di meno…» Non avevo la più pallida idea. Chi dei due si era bruciato di meno?
«Lo amavi?»
«No.» La mascella di Luke quasi toccava il prato. Forse avevo azzardato troppo. In quel discorso aveva dato per scontato che lo amassi, ma non lo amavo. Non lo amavo, perché l’amore era quel sentimento che ti faceva sentire libero e con un peso in meno sul cuore.
Quando ero con Damon, mi sentivo sempre più coinvolta. Sempre con un peso in più e con un segreto in più. Eppure non mi ero pentita di quei mesi. Era strano descrivere il sentimento che mi aveva tenuta a lui per così tanto tempo.
Noi eravamo quel per sempre che bruciava sotto i nostri occhi. Consumavamo insieme il nostro per sempre, perché non poteva essere per sempre.
Mi alzai da terra e gli sorrisi. Avevo giocato più che bene le mie carte. La curiosità era sempre stato un punto forte per Luke. Quell’informazione ormai era già nel suo cervello, già stava pensando a tante soluzioni e non ci avrebbe messo molto tempo a chiedermi altro. E a quel punto, avevo il piano pronto.
Feci pochi passi, però mi fermai.
La voce di Luke mi arrivò alle orecchie chiara e forte.
«Anche tu avrai il tuo lieto fine.» Quelle parole mi sembravano così belle. Aveva una di quei lieto fine che vedevo nei film. Poter andare avanti con tutto e resettare tutto.
Non mi girai, continuai a camminare pronta per prendere il pullman successivo. Avevo una decina di minuti per arrivare in tempo alla fermata, altrimenti non sarei tornata a casa per pranzo.
«Vai da qualche parte?» Gelai sul posto. Non può succedere niente. Niente. Sei fuori dall’Università. Non possono farti niente. Quelle parole iniziarono a ripetersi nella mia mente all’infinito.
Mi girai e sfoggiai uno dei miei migliori sorrisi. M’imbattei in quel ragazzo – tanto affascinante quanto stronzo – che aveva provato a strangolarmi.
«Sparisci.» Commentai con una scrollata di spalle. In tutti i casi non mi mossi da lì. A quell’ora non c’era molta gente alla fermata e preferivo cento volte rimanere lì che allontanarmi e rischiare di rimanere solo con quel tipo.
«Tesoro, rimani calma…Sto solo parlando.» Mi fece notare alzando un sopraciglio. I tratti erano tesi e tra i denti teneva un sigaretta accesa da poco. Se non avesse provato a strangolarmi, oserei dire che era oggettivamente di bell’aspetto.
«E di cosa vorresti parlare?» Gli chiesi divertita. Quei tipi come lui non erano fatti per parlare. Loro avevano tutto un programma e ora – per colpa della mia testardaggine – io ci rientravo. E un po’ forse avevo paura. Perché una volta finita dentro quei giri si finiva sempre male. Tremendamente male.
«Delle checca del tuo amico, no?» Aveva superato il limite. La mia pazienza – già precaria – era finita. Lo guardai negli occhi e schiarii la voce.
«Sentimi bene, perché non sprecherò altra energia per parlare con un essere come te.» Chiarii a voce bassa. «Nessuno può chiamare checca il mio amico. Non mi importa di te, non mi importa neanche di quello che puoi farmi ma non offendere Luke. Siamo in un epoca abbastanza evoluta, no? Ognuno può amare chi vuole. E tu dovresti solo chiuderti quella bocca e sciacquarla almeno due volte prima di parlare di lui o di me.» Sul suo volto si era dipinta una smorfia più che divertita. Trovava divertente quella situazione?
«Vedo che sei di una mentalità aperta.» Commentò aspirando la nicotina della sigaretta. «Riformulo la domanda: vorresti venire questa sera con me al Blue eyes?» Avevo sentito quel nome. Era da un mese che si vociferava di questo nuovo pub esclusivo.
«E’ un invito?» Lo presi in giro, piegandomi in due dalle risate. «E perché mai dovrei accettare?»
«Vuoi sapere si o no cosa sta succedendo a quei due?» Se c’era qualcosa che odiavo era quando le persone mi mettevano spalle al muro. Quando dovevo accettare per forza una proposta, perché poteva cambiare le cose.
«Potrei considerare l’idea.» Conclusi lapidaria, guardandomi attorno e cercando disperatamente con lo sguardo qualche mia compagna di corso per aggregarmi con lei e svignarmela da lì.
«Ti vengo a prendere io.» Era un’affermazione. Uhm, un’altra cosa che detestavo: le persone che prendevano decisioni – anche se giuste – per me. Io avevo il controllo della mia vita e potevo fare quello che volevo, non avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse cos’era meglio fare per me.
«Non sai dove abito.» Gli feci notare roteando gli occhi al cielo.
«Chi non sa dove abita Damon Salvatore? Tu dovresti vivere là, sbaglio?» Perché qualsiasi persona che incontrassi sapeva chi era mio fratello e quant’era pericoloso?
«Perché è così famoso Damon? Credo mi abbia nascosto questa parte della sua vita…» La buttai sul ridere, anche se da ridere c’era ben poco. Sospettavo che il corvino non fosse nei giri migliori di Londra, ma non pensavo che ci fosse così dentro.
«Se è per questo, mi ha nascosto l’esistenza di una sorellina…Dove ti teneva rinchiusa?» Ridacchiò leggermente.
Stavo per replicare, ma vidi il sorriso del moro aprirsi sempre più.
«Credo che qualcuno sia venuto a prenderti.» Mi girai velocemente e vidi in lontananza una chioma nera uscire fuori da una macchina troppo familiare.
«A stasera, dolcezza.» Ammiccò e se ne andò a passo lento. Un momento…non so il suo nome! Alzai lo spalle e mi appuntai mentalmente di chiedergli il nome.
Il mio sguardo vagò dritto altrove. Incontrai due occhi azzurri come il mare e freddi come il ghiaccio. Mi fissavano indiscretamente. Damon poggiato allo sportello semiaperto della macchina con lo sguardo accigliato incuteva quasi timore.
Velocemente lo raggiunsi e mi rincuorai della sua presenza – mi sentii al sicura –. Incrociai le braccia al petto e con un cenno del capo lo incitai a parlare.
«Entra.» Mi ordinò. Un’altra persona che mi stava dando ordini. Un’altra persona insopportabile.
«Cosa ci fai qui?» Gli chiesi sostenendo il suo sguardo.
«Entra.» Ripetè con la voce ferma. La sua mano era poggiato sullo sportello che aveva aperto e con un mezzo sorriso mi invitava ad entrare.
Subito mi chiesi perché mi fosse venuto a prendere all’Università.
«Tu mi rispondi, io entro.» Gli proposi porgendogli la mano che non strinse. La sua era ancorata allo sportello che sembrava la sua ancora.
Rimanemmo in silenzio per svariati minuti. Agli occhi delle persone sembravano strani e inusuali, ma io e lui sapevamo cosa stava succedendo. Ci sfidavamo apertamente con lo sguardo che distolsi solamente quando vidi delle mie compagne di corso passarci vicini e squadrare il corvino con aria visibilmente spaventata.
Solo allora realizzai quello che stava – realmente – succedendo e di malavoglia – dovendo darla vinta a Damon – entrai in macchina chiudendo violentemente lo sportello.
Lui sorrise ed entrò, allacciandosi la cintura.
«Hai cambiato idea in fretta, eh?» Mi sfotté divertito.
«Parti.» Questa volta fui io ad usare un tono duro e stranamente non replicò. Mi allacciai la cintura e come mio solito mi ancorai al sedile. La schiena aderiva perfettamente ad esso e il mio sguardo viaggiava dalle mani di mio fratello sul volante alla strada di fronte.
Il nervosismo di stare in una macchina non mi sarebbe mai passato.
«E’ colpa di quelle ragazzine?» Sbottò tutt’un tratto, serrando la presa sul volante. Stringeva così forte che le nocche diventarono sempre più bianche e io deglutii.
Non pensavo avesse notato loro e non pensavo che avesse notato me guardare loro.
«Come scusa?» Fare la finta tonta aiutava a volta, ma con lui non attaccava bottone. Non appena il rosso scattò Damon fece una frenata e rivolse i suoi occhi freddi e vitrei su di me.
«Sei entrata nella macchina per le occhiate di quelle ragazzine?» Aveva la voce assurdamente seria e forse per un momento pensai che l’avessi ferito per quel comportamento da vigliacca che avevo assunto.
Però mi corressi immediatamente, Damon non veniva ferito. Non per queste cazzate, no?
«Che tipo di occhiate?» Continuai.
«Oh, non mi prendere in giro. Ho capito tutto perfettamente.» Sputò acido, rivolgendo il suo sguardo altrove. Chiusi gli occhi e iniziai a formulare diverse idee per ribattere.
Volevo ribattere in modo acido e duro, quasi a volergli far capire che qualsiasi cosa stesse pensando aveva ragione ma alla fine optai per un semplice e d’effetto: «E cos’hai capito?»
«Ho capito che non vuoi farti vedere con me da quelle ragazzine ricche e insopportabile. Come ho capito quanto tu tenga a questa nuova vita che ti sei creata.» Mi spiegò. Inutile negare che la capacità di leggere i miei comportamenti non era affatto svanita. «Peccato che tu non sei di qui. Tu non sei la ragazza schifosamente perfetta e dai buoni comportamenti. Queste cose che racconti sono fasulle, così com’è fasulla l’Elena che ho visto pochi istanti fa.» Continuò alzando il tono di voce. Era sbottato completamente. Era rosso in visto e la vena del collo pulsava forte, evidenziando il colorito.
«Non c’è nessuna Elena fasulla. Sono fatta così.» Gli dissi incurante e feci finta di rilassarmi, mentre in realtà non vedevo l’ora di arrivare a casa mia e scendere da quell’aggeggio infernale che mi stava portando all’esaurimento.
Ormai non guidavo più. Non volevo più vedere una macchina e non avevo intenzione di guidarla dopo l’incidente. Ci salivo solo in casi estremi e solo con persone di cui mi fidavo particolarmente.
Questo vuol dire che mi fidavo, ancora, di Damon? Mi chiesi.
«Non è vero. L’Elena vera è quella ragazza che beve, che ha paura delle macchine, che gareggia in moto, che scommette il tutto per tutto.» Mi disse. Il semaforo scattò nuovamente, divenne verde e Damon premette il piede sull’acceleratore.
«So bene chi sono. Semplicemente farsi vedere in giro con Damon Salvatore, una delle persone meno raccomandabili a detta di tutti, non mi fa una grande reputazione.» Commento acido e cattivo che lo prese alla sprovvista.
«Qualcuno ti ha messo la pulce nell’orecchio.» Disse con un sorriso sornione. «Forse è quella stessa persona che ti ha messo le mani addosso?» Continuò ancora. Alzai gli occhi al cielo. Per quanto lo stessi insultando e ignorando – pensando anche a un modo per uscire da quella scommessa pur di evitare stretti contatti – quel pensiero lo perseguitava.
«Damon non m’importa se vuoi avere l’esclusiva, okay? E’ la mia vita.» Fin’ora avevo sempre cambiato argomento, oppure mi chiudevo nella mia stanza. Costatando che non avevo più argomenti con cui ribattere e che non potevo buttarmi giù da una macchina in movimento.
«Secondo te si tratta di avere l’esclusiva?» Ribatté alzando la voce. In realtà non speravo in una reazione così. Perché io lo pensavo veramente, non vedevo altri motivi.
«No, porca miseria. Si tratta di te e della tua vita che stai buttando nel cesso. Non puoi capire cosa possa succederti una volta entrato nel giro sbagliato.» Tuonò potente. Cercai di nascondere la paura che mi colse in quel momento. Perché io non dovevo stare attenta a non entrare in un giro, no, ora dovevo solo capire come uscire da quel brutto giro.
«Senti…» Non riuscii neanche a completare la frase. Una bambina – sfuggita probabilmente alla madre – stava attraversando le strisce pedonali.
«DAMON, DAVANTI A TE!» Era come se tutto fosse tornato a quella sera di due anni fa. Era sparita dai miei occhi la Londra a cui mi ero abituata. La strada asfaltata era stata sostituita da una piccola via in campagna al buio. Al posto della bambina c’era quel maledetto cervo…Era come il mio sogno.
Come quel maledetto incubo che mi tormentava la notte.
Era tutto uguale. Il cuore iniziò a battere velocemente e iniziai a respirare a tentoni rimanendo ancorata al sedile.
Ecco, perché io non volevo più salire in una macchina.
Per un momento mi sembrò tutto troppo familiare e mi estraniai completamente da quel luogo. Con la mente ripercorsi quello che successe effettivamente quel giorno: avevo sterzato al posto di Matt, uscimmo fuori strada e lui perse la vita sul colpo.
Ormai quella scena mi perseguitava. E la cosa peggiore era ricordarla come se non l’avessi vissuta in prima persona.
Nell’incubo ero la spettatrice di quel macabro spettacolo e per quanto urlassi, per quanto cercassi di farmi vedere e di far sentire la mia voce era tutto inutile.
Come lo ero stata io per Matt.
«Dio, stai…» Aprii gli occhi. La bambina era nelle braccia della madre che la stringeva possessivamente a sé rivolgendo un’occhiata piena di gratitudine sia a me che al corvino.
Si era fermato in tempo.
Perché non era successo anche con Matt?
Perché era morto sul colpo e non aveva resistito pochi minuti?
«Tieni ancora la fobia…» Non lo feci neanche concludere. Ignorai i clacson che suonavano – visto che avevamo bloccato una fila di automobilisti – e ignorai Damon che provava a parlarmi.
Mi tolsi la cintura, afferrai la tracolla e al volo scesi da quella macchina.
Quella macchina sembrava tanto il vecchio pick up di Matt. Matt. Il ragazzo d’oro, il ragazzo che nonostante lo trattassi uno schifo e lo respingessi sempre mi rivolgeva sempre uno dei suoi migliori sorrisi. Uno dei quali me l’aveva dedicato poche ore prima della sua deceduta.
Aveva nella sua mente il suo sorriso e quegli occhi azzurri che si scambiavano con quelli del corvino che era ripartito per andare chissà dove.
E non pensai neanche a dove stesse andando e non mi arrabbiai rendendomi conto che mi aveva lasciato lì, o almeno così sembrava.
Feci pochi passi, ma le gambe sembravano non reggere più il mio peso. Un leggero dolore iniziò a manifestarsi all’altezza del petto, quel dolore lo conoscevo bene. E non potevo sopportarlo ancora.
Non poteva far sì che il suo ricordo prendesse su di me il sopravento.
«Non puoi scendere dall’auto così!» In lontananza vidi il corvino venire verso di me a grandi falcate. Il dolore al petto fu sostituito da un fastidioso tremolio alle gambe.
«Non puoi comportarti da bambina a vent’anni, maledizione!» Grugnì ad un passo dal mio volto, afferrandomi per il polso.
Forse quel contatto fu la goccia che fu traboccare il vaso.
Il suo respiro sul mio collo mi faceva sentire bloccata chiusa e la paura di poter risalire in macchina e schiantarmi come successe al mio amico si amplificava sempre di più.
«Fammi aria…» Sussurrai con respiro corto, allontanandolo da me. Solo in quel momento Damon sembrò riacquistare un po’ del suo polso e fissarmi dapprima con espressione incerta per poi mutare in una delle sue tante maschere che ancora non riuscivo a decifrare.
«Elena, abbiamo già affrontato un attacco di panico. Ricordi?» Questa volta il tono era pacato e calmo, ma sentivo che stava facendo di tutto per non urlarmi addosso.
Scossi la testa in segno positivo, mentre l’ambiente che mi circondava sembrava scivolasse sempre più lontano da me.
«Vieni…Siediti qui.» Si muoveva indietro e mi indicò con un cenno del capo la sedia.
«Damon non c’è la farò ad arrivare lì…» Commentai con il panico che saliva a dismisura. Le sue sopraciglia s’incurvarono e s’inumidì le labbra – chiaro segno di nervosismo –.
«Perché mai? Sono pochi passi.» Mi incoraggiò con voce assurdamente pacata.
«Morirò…Morirò come è morto Matt. E non voglio morire. Chiaro?» Iniziai ad alzare la voce spropositatamente, alcune persone si girarono persino a guardarmi.
«Elena non stai salendo su una macchina.» No. No. Lui non poteva capire. Ormai avevo la sensazione di essere sola, sola in una macchina che sfrecciava a tutta velocità. E io non potevo fare altro che urlare e urlare per farmi sentire.
«Elena sei con me. Ad un bar.» Continuò prendendomi la mano. «Io sono reale e sono con te. Mi stai tenendo la mano…Ora hai solo paura.» Pian piano sentii la paura abbandonarmi.
Questi attacchi avevano una breve durata, ma la cosa peggiore non era il mentre: era il posto attacco di panico. Perché la paura costante di avere una seconda ricaduta c’era sempre e non mi sarei liberata di quest’odiosa sensazione fin quando non mi sarei sentita al sicuro.
E questo era impossibile. Non mi sentivo al sicuro…Avevo sempre il terrore di commettere un passo falso e far crollare tutto quello che avevo costruito.
«Sediamoci, ti va?» La sua voce vellutata mi arrivò alle orecchie. Orgogliosa come sempre gli lasciai la mano – quasi fossi scottata da quel contatto – e mi sedetti ad uno dei tanti tavolini, lasciando il corvino dietro.
Lo sentii sbuffare e accomodarsi.
«Qualcosa di freddo?» Mi suggerì chiamando il cameriere con un’occhiata. Io non risposi. Poggiai la testa sul tavolino e mi tenevo i capelli fra le mani. Col pollice e l’indice massaggiavo le tempie sperando di scrollarmi da dosso quella paura che non si accennava ad allontanarsi da me.
«Signorina, tutto bene?» Il cameriere teneva in mano un taccuino e mi guardava preoccupato. Alzai lentamente il capo e scossi lentamente la testa.
«Ha bisogno di un po’ di ghiaccio, grazie.» Fu secco Damon al posto mio. «Oh, anche due cocktail – dei due uno analcolico.» Precisò subito dopo freddandolo con un’altra occhiataccia.
«Sai vero che posso bere alcolici?» Lo presi in giro togliendomi i capelli dalla faccia. Presi il codino e abbozzai una misera coda. Il senso di asfissia non era passato ancora del tutto, per non parlare del nervosismo a fior di pelle.
«Dopo un attacco di panico vorresti bere un alcolico?» Sorrise enigmaticamente e si aggiustò i capelli scuri. Sembrava calmo, forse troppo. Perché sapeva come agire in questi casi? Aveva già affrontato qualcosa del genere?
Neanche Luke la prima volta aveva reagito come lui. Si era fatto prendere anche lui dal panico e forse si era chiesto cosa c’era che in me non andava.
Questo me lo chiedevo anch’io, però. Perché era formata solo da tanti guai? Perché non c’era una parte di me normale? Perché di sicuro non lo ero. Niente di quello che mi veniva in mente, niente di quello che dicevo, niente di niente era normale.
«Mamma lo sa?» Mi riscosse dai miei pensieri. Quella domanda fu una doccia fredda. Mamma…La stessa donna che ogni giorno mi chiedeva apprensivamente se tutto andasse bene. La stessa donna che notte controllava se ero ritornata a casa, la stessa che chiamava Luke alle quattro del mattino per chiedergli se ero con lui, la stessa che mi teneva in casa con lei nonostante fossi un completo disastro.
«Non lo sa. E non deve saperlo.» Partii in quarta. Avevo capito perfettamente cosa stesse facendo Damon. Stava continuando il suo giochetto, ma mamma non doveva sapere niente. Già aveva capito che tipo di persone frequentassi e per quanto cercasse di far finta di niente sentivo sempre i suoi occhi indagatori su di me. Sapevo che quando non ero in casa, probabilmente frugava nei miei cassetti cercando qualcosa che non avrebbe trovato. E lei doveva continuare a credere che tutto questo fosse reale.
Che frequentassi le persone sbagliata, ma che quelle persone non influissero su di me. In realtà era vero. L’unica persona che influiva fortemente su di me era qui, avanti a me e mi guardava seriamente con gli occhi azzurri cielo freddi e calcolatori.
«Sai a cosa portano questi attacchi?» M’inumidii le labbra e mi sedetti meglio su quella sediolina. Non mi aspettavo una domanda del genere, una domanda a cui non avevo una risposta. Scossi la testa e lui si schiarì la voce.
«Di solito questi attacchi non sono particolarmente pericolosi. E forse un’altra persona potrebbe classificare il tuo sotto un semplice attacco, ma io che ti conosco e che so da cosa sono causati posso solo dirti che ti porteranno alla depressione.» Mi spiegò stringendo il menù che aveva tra le mani così forte quasi da spezzarlo.
«Non sono depressa.»
«Questo lo dici tu.» Replicò smettendo di stringere tra le mani quel menù.
Sospirai pesantemente.
«Mi stai parlando come se fossi una persona instabile.» Scandii lentamente ogni parola. Non ero instabile. Stavo dannatamente bene con me stessa, cercavo di dare il meglio e…Cosa stai dicendo? Pensai interrompendo il flusso dei miei pensieri.
«Lo sei.» I suoi occhi azzurri mi scrutavano attentamente e per un momento pensai di andarmene via da lì. Però quella non era la soluzione. «Da quanto non trovi piacere a fare qualcosa? Da quanto tempo non dormi la notte?» Continuò.
Riflettei su quelle domande, stavo per rispondere ma la voce mi mancò. Perché le risposte che stavo per dargli erano delle risposte che io non volevo sentire e che lui non voleva sentire.
Io non le volevo sentire perché equivaleva a dargli ragione. Perché era da una vita che non riuscivo a chiudere gli occhi e a dormire per più di sei ore. Perché non riuscivo a ridere e ad avere un umore leggero neanche a pagamento.
Lui, invece, non le voleva sentire e basta. Potevo capirlo dallo sguardo che aveva su di me…Quasi sperava che gli rispondessi con una bugia.
«Cos’è una di quelle rimpatriate tra fratelli? Ora ci confesseremo i nostri segreti e tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni?» Rispondere con una domanda ad un’altra domanda funzionava sempre. O quasi. Distraevano la persona che avevi davanti e senza rendertene conto stavate già parlando d’altro. Damon non ebbe la reazione tipica di tutti, sulla sua bocca si formò un ghigno e mi sorpresi che avesse abbassato  così facilmente la guardia.
«Non sarebbe un’idea malvagia…Tu come hai passato questi anni?» Ed ecco che la domanda che avevo provato ad eludere ritornava più chiara e diretta. Damon Salvatore non si giocava facilmente.
«Il cocktail analcolico per lei…» Intervenne il cameriere che spezzò quell’atmosfera pesante tra noi. «E quello alcolico.» Lo servì anche al corvino e andò via da lì.
Sbuffai e bevvi lentamente da quel coso – era imbevibile.
«Li ho passati come mi si presentavano davanti. Belli o brutti che siano.» Le risposte vaghe erano le migliori e notai sul suo viso il suo sgomento. Si era meravigliato di come una persona potesse cambiare? Pensava che sarei rimasta sempre la stessa? Quella ragazza a cui bastavano due belle parole per farle sciogliere la lingua? Non lo ero mai stata…Forse con lui, c’era stato un tempo in cui non riuscivo a parlargli se non per dirgli tutto quello che mi passava per la mente con sincerità…Ma ora NO. Non c’era niente.
Tutto spazzato via.
«Mi piace questa filosofia di vita.» Alzò il cocktail a mo’ di brindisi e ne bevve un po’.
«Questo vuol dire che anche tu sei instabile come persona?» Ci scherzai su. Non volevo rendere quella conversazione, già pesante di suo, ancora più insostenibile.
«Sono esattamente come te. Completamente andato. Ma io la mia instabilità la tengo per me. Dovresti farlo anche tu.» Mi consigliò con un tenue sorriso ad illuminargli il volto.
«Cosa ti è successo quella volta in bagno?» Cambiai completamente argomento. Ero curiosa anch’io. Avevamo tanti segreti, uno dei due doveva cedere per primo.
«Cosa ti è successo per ritornare a casa con quei segni?» Replicò spostando la mano avanti per spostarmi leggermente la mega sciarpa che tenevo al collo. Mi ritrassi da quel contatto e roteai gli occhi al cielo.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra.»
«Tu lo hai fatto prima. Siamo pari, no?» Mi sorrise sghembo prendendo un altro sorso di cocktail. Si leccò sensualmente le labbra e si accomodò meglio sulla sedia.
«Sei un mistero.» Diedi vita ai miei pensieri guardandolo incuriosita.
«Lo sono sempre stato. Tu lo sei diventata.» Disse sistemandosi la giacca in pelle.
«Conferma le mie teorie.» Scrollai le spalle con aria convinta. Arricciò il naso e capii che non aveva afferrato quello che volevo dire. «Questo indirizzare il discorso verso di me, vuol dire una sola cosa.»
«E cosa?» Dalla sua voce trasudava quell’ironia tagliente che feriva. Che mi aveva ferito in passato, ma ora anche io sapevo giocare con quell’ironia senza farmi male.
Questo lui non poteva saperlo. Non ancora.
«Hai un segreto. Un grande segreto.» La sua espressione mutò. «Lo scoprirò e ti distruggerò, Salvatore.» Decretai. Sgranò gli occhi e aprì leggermente la bocca: non aveva parole per ribattere.
Proprio quello che volevo.
Mi alzai dal tavolino e presi la borsa, sarei ritornata a piedi a casa.
«Una volta distrutto non potrai far niente per rimettere i pezzi insieme, bimba.» Replicò calmo, giocando con la canuccia del mio analcolico quasi pieno – non avrei mai bevuto quella schifezza.
Cosa intendeva?
«Non ho intenzione di rimetterti insieme una volta distrutto.» Sbuffai divertita. Pensava che fosse così importante per me?
«Non parlavo di me.» Aveva fatto un passo avanti. Mi aveva confuso nuovamente le idee. Cosa stava a significare? Avrei distrutto qualcun altro, se scoprissi il suo segreto per ritorcerglielo contro?
«Non parlavi di te?» Gli feci l’eco, visto che non avevo idea di cosa replicare.
«Una volta che sarò distrutto, ci sarà qualcun altro che sarà distrutto.» Sorrise malignamente. «Giochi a tuo rischio e pericolo, bimba?» Avrei giocato costi quel che costi.
Dovevo scoprire quello che mi nascondeva Damon.
«Giocherò e vincerò, Salvatore.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 







Look into my eyes, it’s where my demons hide…It’s where my demonssss hideeeee.
OKAY. STOP.
Sono io e sono in fissa con quella canzoncina di cui ho improvvisato i versi (?) Okay, scusatemi ancora…Non ho idea di cosa mi stia succedendo, ma questo capitolo mi è uscito più pesante di come lo immaginassi e ho un groppo in gola perché non ho idea se questo genere di cose possa piacervi.
Diciamo che l’argomento principale che sto intraprendendo è un po’ pesante e forse vi sembrerà obbrobrioso? Scritto da un criceto? Da un ippopotamo? O da un ornitorinco? (?) Da dove mi è uscito ornitorinco non ne ho idea, ma vabbeh.
Oggi ho quest’umore un po’ strano e boh mi dovrete sopportare così e basta!
Comunque ora sono seria, se qualcuno di voi è infastidito da certi argomenti di cui sto trattando per le mie descrizioni magari insensibili (vi giuro io provo a descrivere il tutto con massimo realismo) o che possano turbarmi avete tutto il diritto di dirmelo.
Tralasciando ciò – spero che mi facciate sapere così da migliorare – ora passo al capitolo *0*
Primo punto:
- Elena e Luke. Oddio quei due diventeranno una fissa ora. L’unica domanda che mi viene in mente è: ELENA COSA DICI A LUKE? QUANTE STUPIDAGGINI HAI DETTO UNA DIETRO L’ALTRA? Anche se ha riacquistato i punti quando ha iniziato a parlare di un amore particolarmente tormentato (eheheh, chissà a chi ti riferivi tesoro mio *-*)
Luke in generale lo amo. COME DIFENDE KAI QUEL RAGAZZO. *0* Okay, credo che avrò seri problemi quando li vedrò nella season 6 e si odieranno ^^’’
Poi…La domanda di Lukey, ora, ve la pongo a voi: chi dei due tra Elena e il misterioso ragazzo (noi sappiamo che è Damon ^^’’) si è bruciato di meno? Mhm. Quoto Elena. E voi? Elena si è bruciata di meno di Damon in quella relazione? Sono curiosa di sapere cosa pensiate *.*
- Il BADBOY ritorna all’azione. Quante di voi si sono preoccupate per quei ragazzi in casa di Luke? Ora quanto vi preoccuperete pensando ad ELENA PIU’ QUEL RAGAZZO (di cui non ho ancora svelato il nome u.u) insieme IN UN PUB? Io la vedo male. Molto male u.u
Oh, già…Come avrete notato il ragazzo è piuttosto affascinante dalle mie descrizioni…E boh, io quando l’ho descritto ho immaginato come la bella faccia di Zayn Malik (per chi di voi non sappia che faccia ha – okay dubito che qualcuno non sappia che faccia abbia – basta andare su google immagini).
Almeno potete dargli un volto a quel tipo (e che volto aggiungerei *0*). Comunque…Quante di voi vogliono ammazzarlo per aver offeso LUKE? IO SI’. ORA PREPARO I FORCONI, tranquille!
- Concludo con quei due. Quei due che mi stanno completamente facendo uscire fuori dai gangheri. Oh, mio dio DAMON TU NON PUOI. E voi vi chiederete non può cosa? E io dico NON PUO’ FARE NIENTE. Non potete immaginare la mia faccia mentre immaginavo Damon mentre beveva quel cocktail, la morte mia *-*
Mhm, la nostra Elena ha un attacco di panico ed ecco che il nostro super Damon (?) accorre in suo aiuto. Ribadisco che quello che ho scritto per quanto riguarda ciò che gli attacco di panico portano e la depressione è tutto vero, non mi sono inventata niente. ^^
Però dai l’odio si sta diradando! Sta diminuendo…e lascia spazio a qualcosa di non ancora ben definito…COSA SARA’ MAI?
IO LO SO u.u
Comunque tutte quelle frasi tra quei due mi stanno facendo male, molto male. Ora sto iper attiva e vomito cuori e arcobaleni ovunque!
Ora spero di avervi aiutato con tutti questi punti interrogativi. Abbiamo capito che Damon ed Elena hanno un segreto. Quello di Elena già l’abbiamo appreso, poiché la narrazione è dal suo punto di vista…Mentre per Damon non ne sappiamo (alias sapete) ancora niente.
Sorge spontanea la domanda: per voi cos’ha Damon? La soluzione per me è scontata visto che già lo so, ma sono curiosa di saperlo da parte vostra :3
Uh, mi stavo quasi dimenticando le parole del corvino! Quando Elena avrà saputo il suo segreto non sarà solo lui la persona distrutta. Che significa? E’ un buon indizio per capire cos’ha quel povero ragazzo *-*
E poi…ah, è finito il capitolo!
In realtà è incompleto, perché dovevo metterci anche l’appuntamento di Elena col misterioso ragazzo però sarebbe venuto lungo e troppo pesante, così l’ho diviso. ^^ :)
Ora ringrazio le 8 anime (Alil_, Bea_01, NianDelLove, NikkiSomerhalder, Sereniti2783, Elenafire, PrincessOfDarkness90, Nicoliale) che hanno recensito. Grazie anche le 34 che l’hanno inserita nelle preferite, graize le 30 che l’hanno inserita nelle seguite, grazie le 4 che l’hanno inserita nelle ricordate e GRAZIE ai lettori silenziosi che invito sempre a farsi vivi! AHAHAHAHAHAHHAHAH.
Detto ciò, me ne vado veramente. Ci sentiamo alle recensioni!
Non ti scordar di me.
PS. Avete sentito la notizia che Mrs Reed diventerà a breve Mrs SOMERHALDER? Un colpo al cuore.

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Capitolo 7
*** It'll be late. ***


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Capitolo sette.
It’ll be late.
 
E’ solo un’uscita. Perché sono così nervosa? Pensavo allisciandomi meccanicamente i pantaloncini che avevo indossato. Per uscire con una persona di cui non ero realmente interessata non avevo mai impiegato così tanto tempo per prepararmi.
Il punto era che qualsiasi cosa decidessi di indossare mi sembrava sempre troppo. Prima di adottare quei calzoncini, avevo indossato uno dei miei vestiti più sobri. Era di un semplice blu e scendeva morbido sui fianchi, eppure una volta visto addosso avevo iniziato a farmi troppi complessi.
Un vestito non era troppo elegante? Alla fine optai per qualcosa di soft.
Dei pantaloncini di jeans – non eccessivamente corti – con sotto una calzamaglia sfilacciata sulle ginocchia, una maglia nera che lasciava un effetto vedo non vedo – senza ricadere nel volgare – e a coronare il tutto il mio giubbotto nero.
Me la presi con comodo anche perché non credevo che al famoso pub Blue Eyes potessimo entrare prima delle nove.
Erano le undici quando il campanello di casa suonò. Feci un corsa spaventosa verso il salotto – rischiando di inciampare sul tappeto – e mi presi un colpo quando vidi mamma seduta sul divano seduta ad osservarmi con occhio critico.
«Con chi esci?» Mi chiese chiudendo la rivista che stava leggendo. Uhm, con chi uscivo? Era un’ottima domanda.
«Un ragazzo…» Improvvisai su momento, già pesando a un modo per svignarmela da lì. «L’ho conosciuto ad un corso di medicina…» Continuai, provando ad affievolirle la paura che le si leggeva in volto.
Mamma si avviò verso la porta e l’aprì tenendo per sé l’ansia che la stava divorando. Sgranai gli occhi quando vidi quello sconosciuto davanti alla porta con un sorriso – che sembrava alquanto rassicurante.
Indossava dei normali jeans che gli fasciavano le gambe, sopra una camicia bianca che metteva in risalto la carnagione scura e ai piedi aveva delle belle scarpe.
Grazie a Dio sembra un tipo raccomandabile. Pensai alludendo all’aspetto che aveva. Forse – cosa alquanto improbabile – mamma si stava rilassando.
«Hai le chiavi di casa.» Mi ricordò con un sorriso, cercando di non far notare troppo il modo in cui vigile squadrava il ragazzo davanti a lei. «Non…non esagerare, tesoro
Con quel ‘non esagerava’ mi aveva fatto capire che si stava fidando. Si stava, nuovamente, fidando. Significava che questa sera non mi avrebbe aspettato, sarebbe andata a dormire e avrebbe provato a non aspettarmi. Perché lei sperava che io non mi facessi una delle mie solite sciocchezze.
Non la deluderò. Pensai alludendo allo sguardo spaventato che, qualche mese fa, le aveva oscurato il volto. Mi venne la pelle d’oca a quel ricordo ma scacciai quei ricordi.
«Possiamo andare.» Mi rivolsi a quello stronzo che non mi stava neanche squadrando. Aveva mantenuto un buon portamento, il suo occhio non era sceso neanche troppo…Mhm, un grande attore, glielo concedevo.
Chiusi alle mie spalle la porta e buttai fuori il grande sospiro che trattenevo da quando mamma aveva aperto quella porta.
«Bell’abbigliamento.» Ammiccò, scendendo i gradini del piccolo porticato di casa. Deglutii a vuoto salita e sospirai ancora. Notai con piacere che non aveva con sé la macchina, era venuto con la moto.
Per fortuna. Poteva sembrare strano, qual era la differenza tra una macchina e una moto?
Oh, ce n’era di differenza per me. Ormai avevo associato le macchine alla sua morte, mentre per le moto non era così.
Quando ero su una moto aveva una sensazione di adrenalina che mi faceva sentire più leggera. Meno colpevole.
Afferrai il casco e mi appoggiai ai lati della moto. Non mi sarei mai appoggiata a quel verme che avevo lì davanti.
Sul suo volto si dipinse un sorriso e notai che non aveva un doppio casco.
«Puoi stringerti a me, tranquilla.» Lo disse in modo asciutto, ma io non avevo intenzione di allacciare le mie braccia al corpo dello stesso ragazzo che aveva picchiato il mio migliore amico.
E Kai. Mi ricordò quell’insopportabile vocina che rappresentava la parte più razionale del mio subconscio.
Grugnii una risposta incomprensibile alle sue orecchie e alzai gli occhi al cielo. Ingranò subito una grande velocità.
Inizialmente andava adagio – dovevo ammettere che non guidava male – perciò era stato semplice non appoggiarsi al suo corpo ma ai lati della moto.
Dopo pochi secondi mi rivolse un’occhiata fugace e sul suo viso comparse uno di quei sorrisi bastardi che fin’ora avevo visto solo su…Damon.
La velocità aumentò notevolmente e quel maledetto si divertì a zigzagare tra le macchina che suonavano i clacson ripetutamente. Potevo sentire persino le bestemmie dei guidatori.
Sorrisi leggermente e capii le sue intenzioni.
Le mie mani erano saldamente ancorate ai lati della moto e non accennavo a toglierle da lì per nessuna ragione al mondo.
Mi fossi anche sfracellata lì, ma non gli avrei dato nessuna soddisfazione.
Arrivammo pochi istanti dopo, improvvisò un mezzo parcheggio – in doppia fila – e scese dalla moto. Lo seguii e mi tolsi il casco porgendoglielo in modo stizzito.
Lo afferrò e il ghigno si distese in un sorriso.
«Ora posso dire che sei la degna sorella di Salvatore.» Commentò, mettendo il casco sotto il sellino della motocicletta.
«Sono molto meglio di lui.» Replicai inacidita. Avere quella ‘fama’ – se fama poteva essere definita – non era qualcosa che mi piaceva particolarmente. E soprattutto non capivo neanche da cosa derivasse.
Cosa poteva aver mai fatto Damon prima di sparire da lì?
«Entriamo.» M’invitò con un mezzo sorriso. Alzai un sopraciglio e diedi uno sguardo alla moto parcheggiata lì.
«La lascia in doppia fila?» Gli chiesi. Il ragazzo alzò le spalle e mi porse la mano. Io, in risposta, me le infilai nelle tasche del giubbotto e lo seguii in silenzio.
Wow. Era la prima volta che venivo in quel pub – inaugurato da poco tempo, al massimo un paio di settimane.
Le descrizioni che avevo non gli rendevano giustizia. Non era uno di quei pub squallidi, dove trovavi ragazzi ubriachi fradici e altri a pomiciare mentre si scolavano dell’alcool di bassa lega.
Mhm, un posto che non era alla mia portata. Preferivo i pub più piccoli e perché no, neanche troppo famosi. In quelli troppi grandi c’era sempre il rischio di incontrare troppa gente.
Già da lontano avevo adocchiato un paio di ragazze che avevo visto di sfuggita all’Università. Non mi preoccupai più di tanto, non mi aveva mai parlato…perché dovevano iniziare proprio ora?
«Che ne pensi di un posto più appartato per…» Ci pensò pochi istanti, era sull’uscio della porta. «Parlare?» Era suonato alle mie orecchie in modo, veramente, troppo inquietate.
Scrollai le spalle e annuii in risposta. Ero di poche parole, o almeno lo ero quando si trattava di cose futili come queste.
C’era parecchia gente, eppure era presto. Di solito i pub non erano così pieni a quell’ora…Erano solo le undici e un quarto.
«Andiamo di là…» Mi urlò provando a superare la musica. Mi prese la mano e la strinse alla sua – distorsi la bocca a quel contatto – ma non replicai.
Mentre mi trascinava chissà dove, mi guardai attorno e squadrai attentamente quel luogo memorizzando tutti i particolari di quel locale che mi piacque particolarmente a primo impatto.
Eravamo in una saletta…notai che ce n’erano di diverse. L’eleganza domina questo posto. Costatai, notando le magnifiche poltroncine rosse che erano sotto i miei occhi.
«Non ti siedi?» Mi chiese estraendo dalla tasca un pacco di sigarette. Ero a disagio e non perché fossi in compagnia di un perfetto sconosciuto…Più che altro tutto quello che circondava quel posto mi faceva sentire fuori luogo.
Se avessi saputo o avessi immaginato come fosse elegante – per essere un pub riservato ai giovani era uno dei più decenti in cui fossi mai entrata – non avrei indossato qualcosa di così scialbo.
Cosa potevo saperne io…Non avevo idea che questo posto fosse a standard così alti. Pensai contrariata, posando la mia attenzione sul volto di quello sconosciuto.
«Perché dovrei sedermi accanto ad una persona di cui non conosco neanche il nome?» Gli dissi incrociando la braccia al petto.
«Mhm…Allora perché sei venuto in questo locale con me perfetto sconosciuto?» Rigirò la domanda in suo favore e questo m’infastidì notevolmente.
Quella era una mia esclusiva. Solo io – e Damon, aggiunse il mio subconscio – potevo rigirare le persone.
«Touchè.» Gli concessi prendendo posto sull’altra poltroncina.
«Non credo ti dia fastidio se fumo una sigaretta, no?» Mi chiese. Lo guardai con un espressione tra lo sconcertata e l’infastidita. Perché chiedermi il permesso, se aveva già acceso la sigaretta?
«Ancora non so il tuo nome.» Cambiai completamente discorso. Gli occhi scuri del ragazzo si posarono pochi istanti su di me e poi si spostarono altrove.
Fece uscire dalla bocca un po’ di fumo e poi aspirò nuovamente.
«Sono Joseph.» Finalmente si presentò con un sorriso.
«E io sono Elena. Probabilmente saprai già chi sono…Io, però, non so chi tu sia.» Andai dritta al punto abbozzando un mezzo sorriso che probabilmente lo fece divertire visto la sua espressione illuminata.
«Mhm, sai chi è tuo fratello? Chi è Damon Salvatore?» Mi prese in contropiede. Non immaginavo che mi rifilasse una domanda del genere. Mi irrigidii. Non amavo parlare di Damon, sia perché avevo paura di farmi scappare qualcosa di sbagliato sia perché mi metteva una spropositata ansia.
«Uno stronzo.» Risposi sorprendendolo. «E per te, invece?» Cosa pensavano le persone di Damon? Avevano paura di lui? Se sì, perché avevano così paura?
«Penso che sia meglio non provocarlo…anche se ora sta perdendo colpi.» Arricciai il naso all’ultima frase. Joseph notando il mio volto si schiarì la gola e continuò: «Mhm, se n’è andato via da qui due anni fa circa…molti pensano sia cambiato, i suoi amici dicono che c’entri una ragazza.» Commentò con un sorrisetto amaro.
Persi un colpo a quell’affermazione. L’ultima volta che Damon era venuto in Inghilterra risaliva…risaliva al viaggio che aveva fatto con me, dove avevo provato a farlo riconciliare con Alaric.
Parla di me. Costatai.
I suoi amici non sospettavano che fossi la sorella…E ora? Alaric non si faceva vedere in giro da un po’. Aveva cambiato aria…A pensarci bene, i volti alla pista di motocross erano cambiati molto in quegli anni.
«E questo cosa c’entra con quello che fai tu?» Pensava di avere a che fare con una persona che si faceva abbindolare facilmente?
«Semplice…Quello che fa lui, faccio ioPorca miseria. E’ uno spacciatore. Fu quello il primo pensiero che mi venne in mente.
«E tu cosa c’entreresti con Kai?» Kai non comprava droga. Non era un drogato, a pensarci bene non l’avevo neanche mai visto fumarsi qualcosa che non siano le sue sigarette – non era mai andato troppo oltre.
Non era un patito di queste cose. Ecco perché c’era qualcosa che non quadrava.
«C’entro molto, fidati.» Quella vocina insopportabile che stava usando mi stava urtando il sistema nervoso. Ora l’avrei ammazzato.
«Kai non si droga.» Proruppi con un cipiglio sul volto. Joseph scoppiò in una risata liberatoria, anzi quasi isterica. Aveva le lacrime agli occhi.
«Tesoro non abbiamo questi tipi di problema con lui.» Sorrise enigmatico. Non aveva questi problemi? Era serio?
«E di cosa si tratta, allora?» M’inumidii le labbra e alzai un sopraciglio aspettando una risposta attesa.
Il ragazzo stava per portarsi alla bocca la sua sigaretta, ma gliela sfilai prontamente e feci un leggero tiro.
Non avevo con me il pacchetto e mi ero stufata di osservarlo.
Sbuffò infastidito e si sistemò il ciuffo scuro che gli ricadeva leggermente sugli occhi.
«Soldi sporchi. Ma non ha a che fare con la droga.» Chiarì immediatamente. Soldi sporchi? Quali altri soldi sporchi esistevano se non quelli…Oh.
«Scommesse.» Dichiarai alzando il capo di scatto. Gli occhi del ragazzo si illuminarono e mi osservò nei minimi dettagli mentre aspiravo un po’ di nicotina e riducevo ad una poltiglia il mozzicone di sigaretta.
«Sei intelligente e scaltra, te lo concedo.» Disse con un mezzo sorriso sul volto. Mi rilassai leggermente. Non erano finiti in guai del tutto irrimediabili, potevo ancora fare qualcosa.
«Cosa posso fare per…insomma, per non far rimettere la pelle a nessuno dei due?» Chiesi a disagio. Avevo parlato diverse volte con gente del genere. Il più delle volte ci passavo anche il tempo alla pista di motocross, ora però era cambiato qualcosa.
Era differente.
Quel tipo, Joseph, mi metteva una certa soggezione.
«Farsi difendere da una ragazza? Ouch, sono disperati.» Commentò per poi scoppiare in un’altra risata liberatoria. Uhm, era senza ombra di dubbio un bel ragazzo…Per non parlare del sorriso che gli si formava quando rideva.
Un tipo interessante. Così lo classificai.
«Nessuno dei due sa di questa iniziativa. Nessuno deve saperlo, chiaro Joseph?» Lo guardai interdetta pochi secondi. Non avevo idea di come potesse reagire. Mi era sembrato un tipo strano – per non dire pericoloso – e avevo ancora difficoltà a gestire una persona così.
«Uhm…Chiuderò un occhio, solo a una condizione tesoro.» Sorrise. E allora iniziai a preoccuparmi. Cosa voleva chiedermi? Mi appiattii alla poltroncina di velluto rosso e gli feci cenno di continuare.
Presi una grande boccata d’aria e aspettai che parlasse per tirare un vero sospiro di sollievo.
«Parteciperesti ad una gara in moto per me?» M’inumidii le labbra. Quel per me era chiaro e cristallino. Stava a significare fallo e quei due sono ‘salvi’. Per quanto potessero ritenersi ‘salvi’ visto le situazioni che aleggiavano intorno a Kai.
Scrollai le spalle e non impiegai molto a porgergli la mano per accettare.
Era una gara, no? Non era niente di nuovo. L’ultima volta che ero andata in moto era stata la volta in cui Damon era ritornato in città. Il giorno del mio penultimo attacco di panico.
«Ci sto.» Commentai calma e pacata.
Joseph afferrò la mia mano e la strinse.
«Hai coraggio.» Oh, ne avevo da vendere. Avevo fegato di rischiare. E l’avevo capito da soli due anni. L’avevo capito quando Kai mi aveva proposto di imparare ad andare in moto e sentirmi veramente bene. L’avevo capito quando avevo deciso di continuare a vivere e a combattere contro tutti.
L’avevo capito quando mi ero salvata da quel fottuto incidente.
Se fossi morta, cosa sarebbe rimasto di me? Niente se non uno stupido ricordo. E le mie ceneri.
Non mi bastava. Non volevo essere una ragazza anonima, volevo lasciare qualcosa, volevo che qualcuno potesse dire per me un giorno lei ha fatto tutto quello che una persona poteva fare in vita.
Volevo provare ogni emozione, dalla migliore alla peggiore.
E fin’ora ero a buon percorso. Ma mancava molto, tanto. Non avevo paura del giudizio di tutte queste persone, no, avevo il coraggio di alzare la testa e continuare.
Perché anche se avessi perso quella maledetta scommessa con Damon, avrei provato un’emozione diversa dall’apatia che in questo periodo mi stava sommergendo.
«Sembrerei troppo sfacciato se ti chiedessi il numero di cellulare?» Mi chiese alzandosi dalla sedia e mi porse una mano. Abbozzai un mezzo sorriso e mi alzai da sola senza il suo aiuto.
«Volevi qualcuna con il coraggio di gareggiare, no? L’hai trovata. Cos’altro c’è?» Ero diffidente. Forse troppo. Anche se abbassare la guardia non era nel mio essere, soprattutto con qualcuno che aveva provato in precedenza a strangolarti senza un valido motivo.
Ouch, l’avevo provocato. Mi ricordai con un mezzo ghigno che si stava formando sul volto. In tutti i casi non è una scusa per ammazzarmi. Mi liberai di quei pensieri e scrollai le spalle.
«Tesoro non è niente di strano o eclatante…Due persone si incontrano, si conoscono e magari si scambiano il numero di cellulare.» La buttò sull’ironia.
Alzai un sopraciglio? Due persone si incontrano? Il nostro incontro gli sembrava normale? O forse dovevo rinfrescargli la memoria?
«Mhm, suona strano detto da te. Persona che ha provato a strangolarmi.» Gli ricordai inacidita. Joseph alzò gli occhi al cielo e si sistemò il ciuffo scuro – aveva un tic nervoso, ogni due minuti doveva toccarli e allisciarli, era seccante da guardare –.
Il moro mise su un’espressione pensierosa e uscì fuori da quella saletta allontanandosi. Un momento dove andava quello stronzo? Voleva mollarmi là?
A grandi passi uscii da lì e spalancai la bocca non appena vidi la massa di persone ubriache che ballava al centro della pista da ballo.
E Joseph? Si era già dileguato?
Mi avvicinai a quel bar e presi posto su uno di quegli sgabelli, guardandomi attorno con aria infastidita. Se non fosse ricomparso entro dieci minuti avrei trovato un altro passaggio per ritornare a casa.
Dovessi anche fare autostop e ritornare a casa su una macchina di vecchietti ultra sessantenni!
Osservai i ragazzi ballare e non mi sorpresi quando vidi le mie altolocate compagne di corso completamente sbronza semi vestite. Mhm, prevedibile.
Fingere di essere una persona a casa e poi far uscire il tuo vero io in modo esemplare e plateale in un luogo che non faceva per loro.
Quelle ragazze avevano tutto. La scelta più ardua la mattina era se scegliere il tacco a spillo o la zeppa.
E poi c’ero io, una normale ventenne, che si fa troppi complessi ogni santo giorno sperando di riuscire a non farsi divorare nell’apatia.
«Ecco a lei il suo drink.» Un giovane cameriere mi porse un liquido colorato. Storsi il naso. Non avevo ordinato niente e se c’era qualcosa delle ‘regole’ che papà mi ripeteva sempre era che non dovevo bere niente se offertomi da qualcuno che non conoscevo.
«Non ho ordinato nulla.» Dissi al barista che non sembrava sorpreso di quella mia osservazione.
«Te lo offre quel ragazzo lì.» M’indicò un ragazzo seduto pochi posti più lontano da me. Perché Joseph se la filava e poi mi offriva da bere?
Afferrai il bicchiere – contenente quel liquido rossastro che non avrei bevuto – e mi avviai verso di lui con un cipiglio sul volto.
«Spiegami qual è il tuo problema.» Gli ordinai.
«Mhm, nessuno...Ho solo cercato di offrire da bere ad una bella ragazza. Sono Joseph, qual è il tuo nome tesoro?» Aveva in volto un sorriso quasi affidabile e per un momento non capii cosa stesse cercando di fare. Era un gioco?
«Mi prendi in giro?» Cercai di trattenere le risate, ma vederlo lì seduto con un bicchiere in mano e con un sorriso a dir poco da bravo ragazzo metteva i brividi.
«Ehi, sto solo ricominciando. Una seconda chance, no?» Mi disse con un mezzo sorriso.
E allora lì capii che quella era una delle altre sfide che non avevo mai intrapreso.
«Sono Elena, molto piacere.» Era qualcosa di nuovo, sentivo l’eccitazione salire.
 
La moto di Joseph camminava piuttosto veloce sull’asfalto.
Mi sentivo incredibilmente in pace. Strano. Forse non era una cattiva idea dargli una seconda chance. Dopotutto eravamo due persone simili e io avevo bisogno di qualcuno che reggesse i miei standard. Anche se per pochi istanti avevo sentito all’altezza un’emozione strana, una di quelle emozioni che ti faceva sentire…nostalgia.
Nostalgia del passato e di sentimenti vecchi che avevo chiuso in un baule e mi ero lasciata alle spalle. Deglutii cercando di non pensarci più.
«Tesoro, ti riporto a casa tua giusto?» Mi chiese svoltando l’angolo.
«Sì, grazie.» Dissi concisa, tenendomi stretta ai lati della moto. Non mi sarei ugualmente appoggiata a lui, avevo sempre la mia faccia tosta.
«Prendiamo una scorciatoia.» Mi avvertì girando a sinistra. Era una delle tante viuzze di Londra.
Mi strinsi di più ai lati della moto. Non amavo particolarmente passare da quelle parti in quelle viuzze, soprattutto nel cuore della notte.
C’erano tante persone lì. Londra era divisa in tanti quartieri.
Nessuno si sarebbe mai permesso di inoltrarsi in determinati vie di Londra, forse perché definite ‘poco raccomandabili’.
E quella viuzza che ora stavamo percorrendo con la motocicletta di Joseph era una di quelle.
Aumentò un po’ la velocità e finalmente ci lasciammo alle spalle quella stradina inquietante. In lontananza vedevo il portone di casa e persi un battito non appena vidi Damon alla prese con uno Stefan più strano del solito.
«Lasciami qui.» Gli dissi. Non volevo neanche immaginare la faccia di Damon a vedermi su una moto con un tipo che mi aveva quasi strangolato.
«Perché?» Mi chiese frenando lentamente. Non gli permisi neanche di replicare nuovamente, mi alzai dalla moto e mi sfilai il casco.
«Fratelli in avvistamento. Sono un po’ troppo…» Mhm, come definirli? «…Protettivi.» Accompagnai il tutto con una risatina nervosa. Il ragazzo scese dalla moto e afferrò il casco senza fiatare.
«Spero di rincontrarti, Elena.» Mi disse. «Vale ancora il nostro accordo. Vinci una gara e lasciamo in pace i tuoi amici.» Mi ricordò avvicinandosi.
Annuii semplicemente, mentre lui giocava con una ciocca dei miei capelli.
«Notte, Joseph.» Il ragazzo spostò la sua attenzione sulle mie labbra e si prese pochi istanti per guardarle. Non realizzai quello che stava accadendo, fin quando non avvertii un sapore diverso dal solito. Non era il sapore di cuoio e di menta che mi piaceva…Era diverso.
Non era il sapore di Damon.
«Notte, Elena.» Mi salutò. Era stato un bacio semplice, casto, non rispecchiava i modi di fare di quel ragazzo così misterioso.
Scrollai le spalle. Non c’era bisogno di dire altro, con un leggero imbarazzo mi avviai verso il portone di casa mia.
Notai – con una punta di acidità – che Damon era ancora lì…E Stefan era completamente steso a terra.
«Stefan…» Il suo nome mi uscì dalla bocca come un leggero tremolio. Il mio fratellone aveva gli occhi socchiusi ed era poggiato al portone di casa con il corvino che lì accanto provava ad aiutarlo senza alcun risultato.
Incontrai gli occhi azzurri di Damon, ma spostai immediatamente lo sguardo su Stefan.
Sentivo il cuore battere più lentamente e la paura avvolgermi nuovamente. Cosa gli era successo?
Gli occhi già si stavano inumidendo e non m’importava di mostrarmi debole sotto lo sguardo del corvino, perché ora avevo solo una tremenda paura di dover lasciare andare mio fratello troppo presto.
«Damon, ti prego, dimmi che…» Che non ha niente di grave. Non riuscii a continuare la frase. All’altezza della gola c’era un groppo che m’impediva di dar voce ai miei pensieri.
«Sta bene, Elena.» Mi rassicurò avvicinandosi ancora di più a lui e provando ad aiutarlo. Mi avvicinai ai due e sospirai.
«E’ solo ubriaco.» Continuò. Mi accigliai immediatamente. Il primo pensiero che formulai fu perché? Perché ubriacarsi?
In questi tempi, ‘ubriacarsi’ era sinonimo di ‘divertirsi’. Per me non era così. Ubriacarsi non significava divertirsi, tutt’altro. Ubriacarsi voleva dire buttarsi alle spalle la realtà, cercando di evadere da qualcosa che ti stava sopprimendo lentamente.
«Perché si è ubriacato?» Gli chiesi arcigna. Nel frattempo, Stefan mosse lentamente la testa e aprì prima un occhio e poi l’altro.
«Avrà le sue ragioni.» Mi rispose acido Damon che frugava nelle tasche del cappotto alla ricerca di qualcosa. Sospirai pesantemente e mi sedetti accanto a Stefan. Non mi sorpresi quando incontrai i suoi occhi e vidi le pupille completamente dilatate.
Era fatto di qualcosa. Qualcosa di non troppo pesante, anche se non aveva mai retto bene l’alcool. A pensarci bene non ricordavo un solo momento in cui Stefan si era dato alla pazza gioia nell’alcool.
«Cosa cerchi?» Gli chiesi scontrosa.
«Le chiavi di casa. Che probabilmente avrò lasciato dentro.» Grugnì. Seguirono diverse imprecazioni, mentre io estrassi un mazzo di chiavi dal giubbotto.
Mi alzai da terra e sbuffai.
«Aiutalo a sollevarsi da terra…Io apro casa.» Gli ordinai. Ci furono alcuni minuti di imbarazzante silenzio, in cui nessuno dei due voleva darla vinta all’altra.
Potevamo passare così ancora molto tempo, se Stefan non avesse iniziato a tremare convulsivamente e a reprimere brividi di freddo.
Il corvino aiutò Stefan a rimettersi in piedi e io lentamente inserii la chiave nella toppa e la girai. Era tutto buio, mamma stava già dormendo.
Uhm, l’una di notte. Non dovrebbe sentirci. Costatai entrando dentro casa lentamente e lasciando le chiavi sul primo mobile che mi capitò a tiro.
Accesi la lampada e mi tolsi il giubbotto.
Damon aveva superato da poco l’uscio della porta e teneva Stefan stretto a sé. Un suo braccio gli circondava il collo, mentre il corvino lo teneva per il busto.
«Vuoi una mano?» Gli chiesi. All’inizio volevo usare un tono canzonatorio e provocatorio nei suoi confronti, ma non riuscii ad essere così meschina.
Non ero cieca.
Vedevo perfettamente la realtà.
E in quel momento mi stavo chiedendo chi tra Stefan e Damon fosse più debole. A primo impatto, un’altra persona avrebbe risposto senza pensarci dando per scontato che Stefan fosse quello messo peggio tra i due.
Io, invece, mi soffermavo sui dettagli.
Stefan era debole, sì, ma era ubriaco marcio. Damon, invece, perché era così debole? Non aveva bevuto, le sue pupille non erano dilatate…Cosa gli succede?
Faceva fatica a camminare.
«C’è la faccio.» Rispose rude. Come sempre fraintendeva tutto. Volevo sembrare gentile, volevo fargli capire che in fondo ero disposta ad aiutarlo per qualsiasi cosa gli stesse succedendo e non lo facevo solo per quella stupida scommessa.
Lo facevo perché non volevo che fosse distrutto da qualcuno che non sia io. Volevo essere io la persona che l’avrebbe distrutto, forse sembrava strano…Forse qualcuno potrebbe giudicarmi pazza, ma non lo ero.
Per quanto volessi essere io la ragione della sua distruzione, sapevo perfettamente che non avrei mai trovato il coraggio necessario per farlo.
Non replicai e lentamente ci avviammo verso la loro camera.
Attraversammo il corridoio immerso nel buio più totale, chiusi la porta della stanza di mamma – che aveva lasciato aperta –.
«Elena…» Sentii il mio nome come un debole sussurro. Accesi la luce e mi precipitai verso Damon e Stefan. Il corvino era appoggiato allo stipite della porta e teneva stretto a sé il minore come se fosse il suo unico sostegno per rimanere in piedi.
«Dio mio, cosa vi è successo?» Usai un tono così basso che l’udii solo io. Mi avvicinai e poggiai il braccio di Stefan intorno al mio collo. Il letto dopotutto non era così lontano.
«Sorellina…Ti sei divertita?» Il ragazzo sbatté più volte le palpebre e iniziò a sussurrare frasi sconnesse l’una dall’altra.
Era completamente sbronzo.
«Domani faremo i conti.» Gli dissi a denti stretti, lasciandolo cadere sul letto. «Hai bisogno di qualcosa, Stef?» Gli chiesi in tono più dolce. In risposta ebbi solo un mugolio. Stefan aveva la testa poggiata sul cuscino e cercava di prendere sonno.
A quel punto concentrai l’attenzione su Damon.
Era seduto a terra, poggiato allo stipite della porta con le mani tra i capelli e la testa tra le ginocchia. Il suo corpo era percosso da brividi, forse per pochi secondi pensai che stesse piangendo ma cancellai immediatamente quell’idea dalla mente.
«Damon…» Lo chiamai calma, provando a contenere il panico che si stava impadronendo di me. Non l’avevo mai visto in queste condizioni, anzi…l’ultima volta che avevo visto un Damon così debole e indifeso risaliva a quel giorno in cui lo trovai svenuto in bagno.
«Damon…» Insistetti ancora, avvicinandomi. Inutile. Il corvino era silenzioso, cercava di rimanere calmo. Stufa di quell’angoscioso silenzio mi sedetti a terra anch’io e iniziai a fissarlo, sperando che si renda conto della mia esistenza e che decida finalmente di rivolgermi la parola.
Rimasi lì ad osservarlo per un tempo indeterminato.
Lui non si era mosso. Era rimasto fermo ed immobile. E io lo studiai attentamente, era cambiato tutto in lui. I suoi modi di fare erano cambiati, ma – in primis – era cambiato lui interiormente.
Il Damon, che avevo conosciuto due anni fa, non si sarebbe mostrato così a nessuno. Neanche a me.
Ora, invece, stavo facendo i conti con un Damon nuovo. E mi spaventava. Mi spaventava tremendamente, perché non capivo a cosa fosse dovuto questo cambiamento radicale.
«Elena…» Chiamò il mio nome dopo troppo tempo, tra poco avrei perso la speranza. Scossi leggermente la testa e sbattei più volte le palpebre. Mi stavo appisolando lì.
«Vattene via…» Continuò, alzando di sbieco lo sguardo. Incontrai i suoi occhi celesti e allora decisi di non seguire le sue parole. Perché quegli occhi mi chiedevano di restare con lui e non potevo abbandonarlo di nuovo.
«Rimarrò qui fin quando non capirò cosa vi sta succedendo, sia a te che a Stefan.» Decretai con una scrollata di spalle.
«Non me ne fotte niente se vuoi vincere quella stupida scommessa…Vattene da qui.» Replicò con voce pesante e sistemandosi leggermente i capelli. Ancora non capivo come riusciva a farmi sentire così. Con lui sentivo sempre qualcosa bruciare, sentivo l’ansia consumarsi e la paura aumentare.
«A prescindere da questa scommessa, scoprirò quello che ti sta succedendo.» Dissi a muso duro. Damon scoppiò in una risata dura e raschiata, una di quelle che ti mettevano i brividi.
«Stai cercando di salvarmi, bimba?» Mi chiese canzonatorio. Stavo cercando di salvarlo? No. Non stavo cercando di fare un bel niente, anche perché non avevo intenzione di salvarlo in alcun modo. Come potevo salvare qualcuno, se io per prima avevo bisogno di qualcuno?
«Salvarti da cosa, Salvatore?» Detestavo ritornare a quegli odiosi nomignoli, anche se mi divertiva la smorfia che si formava sulla faccia di Damon quando lo chiamavo per cognome.
«Salvarmi dalla fine
«La fine?» Questa era una delle conversazioni più strane che avessi mai sostenuto in vita mia. E non solo perché la mia mente stava pensando già a migliaia di soluzioni possibili per sradicare Damon e tutti i suoi misteri.
«Quando capirai sarà tardi.»
Era qui che si sbagliava.
Io avrei capito. L’avrei salvato e l’avrei distrutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Hi girls!
Spero mi scusiate per questo piccolo ritardo di due giorni, ma non sono stata bene di salute e non ho potuto scrivere. Questo capitolo l’ho ultimato oggi, esattamente pochi minuti fa e spero vi sia piaciuto.
Non sprecherò molto tempo, perché sinceramente non mi sento granché.
Inizio da principio. Cosa ne pensate di questo ‘Joseph’? E soprattutto cosa ne pensate di questa nuova coppia (?) JosephxElena? Tranquille, non me ne uscirò con delle stupidaggini. Il pairing Delena rimarrà tale! :3
In tutti i casi sappiamo cosa Elena dovrà fare per evitare una morta certa sia per Kai che per Luke. Mhm, non vi sembra troppo semplice che con una semplice gara clandestina tutto ritorni a posto?
Le cose troppo banali non sono nel mio stile, forse però ho cambiato idea. Chi lo sa ;)
Superato questo momento, si salta alla parte finale. Credo di aver chiarito un po’ i vostri dubbi, no?
Qual è la vostra ipotesi? Cos’ha Damon? Elena lo salverà e lo distruggerà? Ora sono curiosa di sapere cosa ne pensiate.
Mi scuso in anticipo se ci sono un po’ troppi errori di battitura, non appena mi sentirò meglio lo revisionerò.
Finisco con i ringraziamenti!
Grazie alle 39 persone che hanno inserito la storia tra le preferite, grazie alle 33 che l’hanno inserita nelle seguite e grazie alle 4 che l’hanno inserita nelle ricordare.
Uhm, quasi dimenticavo: un grazie a NikkiSomerhalder, Bea_01, Nicoliale, PrincessOfDarkness90, Kovu e _Alil.
Conclusi i ringraziamenti, ci sentiamo alle recensioni!
Un forte abbraccio,
Non ti scordar di me.

 
 

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Capitolo 8
*** Birthday. ***


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Capitolo otto.
Birthday.
 
Era un maledetto incubo.
Tutto quello che stava succedendo era un maledetto incubo. Quello che stava succedendo a Damon era un incubo, eppure anche se l’incubo era di Damon riguardava me. Era come se fosse qualcosa che mi riguardasse e anche se non avevo alcuna certezza sentivo una sensazione raccapricciante alla mente e al cuore.
Ma Damon era veramente troppo testardo. E troppo orgoglioso. Forse più di me…o forse no.
Sospirai pesantemente, ricordando le chiacchierate – se così si potevano definire – che avevamo avuto.
«Damon?» Avevo una voce intorpidita, memore della nottata passata a terra. Ouch, non poteva andare peggio di così. Il collo era indolenzito, così come tutti gli altri arti del corpo.
Aprii prima un occhio e poi l’altro: dalla finestra filtravano alcuni raggi scuri, era l’alba. Il corvino era completamente addormentato, anzi era sprofondato in un sonno profondo.
La sveglia segnava le cinque del mattino, ciò significava che mamma era ancora a letto – così come Stefan che era lì, dove l’avevo lasciato la sera precedente.
Mi presi così una buona manciata di minuti per osservare il ragazzo che era lì di fronte a me. La pelle era chiara, anche se ‘chiara’ non era la parola esatta da usare per lui. Aveva un volto cadaverico, le vene bluastre erano più accentuate del solito. Il mio occhio cadde, poi, sui capelli scompigliati…Fin’ora non ero, ancora, riuscita a toccarglieli se non quando eravamo nel ‘mentre’ della nostra scommessa.
Cancellavo ogni volta che tra noi succedeva qualcosa di fisico, non potevo accarezzargli dolcemente i capelli quando lui mi stringeva i fianchi con forza…no, dovevo rispondere sempre con una forza uguale o maggiore.
Le labbra erano ridotte in una riga, come sempre carnose ed invitanti. Mi chiedevo come faceva a dormire in quella posizione scomoda. Oltre che essere poggiato sullo stipite della porta, una mano ricadeva a terra e l’altra era quasi schiacciata dietro la schiena.
Mi spostai da terra e con una mano sfiorai le sue dita. Un ricordo che avevo conservato bene erano le sue mani: lisce e poco più grandi delle mie.
Dopo di che, mi soffermai sull’anello che portava al dito. Lo riconobbi immediatamente e fui tentata di controllare se anche Stefan lo avesse al dito.
Lo sfiorai leggermente e gli toccai i polsi. Sobbalzai quando la sua mano si mosse e si chiuse attorno alla mia in una morsa d’acciaio.
Damon aveva aperto gli occhi di scatto e si girò verso di me. Il suo sguardo vagava dal mio volto alla mia mano fino ad arrivare al suo polso.
Sembrava quasi incredulo di trovarmi lì a…a fare cosa, esattamente? Lo stavo solo osservando mentre dormiva. E uno dei tanti pensieri che feci fu, senza ombra di dubbio, quanto non assomigliasse a me e a Stefan.
Mentre io fantasticavo su questi lontani pensieri, Damon si era stiracchiato e stava riprendendo coscienza di sé.
«Non mi toccare.» Quelle tre parole erano una doccia gelata. Perché mi fecero quest’effetto? – Ora però tralasciai quella domanda, chiedendomi perché stesse mostrando tutto questo restio nell’essere toccato da me. O forse era così con tutti?
«E’ l’anello dei Salvatore.» Gli feci notare, sospirando. Era quasi una tradizione – se così si poteva chiamare. Ogni antenato aveva un gioiello che veniva poi tramandato col tempo.
La storia di quella coppia di anelli e se non sbaglio di una collana – che né Stefan né Damon indossavano – mi aveva sempre affascinato.
Papà me ne accennò un tempo qualcosa. Quegli anelli e la collana erano magnifici, erano ritenuti il simbolo della famiglia Salvatore a Mystic Falls.
Di quella storia sapevo poco – non conoscevo i dettagli – in compenso ero riuscita a carpire la trama di quegli oggetti custoditi con tanta cura.
Risalivano all’ottocento, quei gioielli legavano tre fratelli – due ragazzi e una ragazza – che si divisero nel tempo. Un mio antenato – probabilmente il loro padre – li aveva forgiati e aveva espressamente sottolineato l’importanza di tenerli sempre con sé, così che un giorno i tre potessero rincontrarsi e riconoscersi solo per via di quegli stemma.
Ancora mi chiedevo com’era possibile che quei gioielli fossero arrivati fino a noi, se i tre fratelli della storia si erano poi divisi…Non avevo mai scoperto la fine di quella storia, anche se sospettavo che papà avesse vuotato il sacco con loro due.
«E con ciò?» Mi chiese alzando un sopraciglio irritato.
«Detesti essere chiamato per cognome, ma porti l’anello dei Salvatore.» Gli feci notare scrollando le spalle. La reazione che vidi mi disarmò completamente. Si tolse l’anello e se lo portò più vicino agli occhi iniziando ad osservarlo attentamente, quasi a volerlo incenerire.
Non avevo idea di cosa stesse osservando, so solo che dopo pochi istanti se lo infilò nuovamente al dito e sospirò pesantemente.
«Come mai tutta questa debolezza?» Gli chiesi ancora. Finalmente si degnò di alzare lo sguardo e perforarmi persino l’anima con quegli occhi cerulei.
«Te l’ho già detto…» Replicò alzando gli occhi al cielo. «Quando capirai sarà tardi.»
Quando capirò che cosa? Il suo segreto? Era qualcosa di…così importante? Così serio?
«Perché non vuoi dirmelo?» Grugnii infastidita.
Il corvino si alzò dal pavimento lentamente, stringendo i lembi della giacca nera e mantenendo un’espressione torva. Lo guardavo attentamente, aspettando una mossa falsa.
«Perché non ne ho voglia.» Scandì ogni parole e se ne andò di là.
Questa era solo una delle tante volte in cui avevo provato a parlargli, dopo le situazione erano non solo diminuite ma peggiorate.
Per non parlare della situazione di Luke e Kai. Sembrava stesse andando tutto bene, tutto troppo bene. Doveva essere una gara semplice e veloce, peccato che Joseph – lo stesso ragazzo che avevo baciato – mi avesse chiamato il giorno prima disdicendo tutto e spiegandomi che era rimandata a data di destinarsi.
Ero in allerta ogni momento. Con questo cambio di programma avevo paura che qualcosa potesse andare storto.
Sospirai e controllai l’orario.
Perché il catering non arrivava? Era già in ritardo di una manciata di minuti.
Almeno questo progetto sta avendo fine. Pensai ironica osservando casa mia. Neanche sembrava la stessa casa di poche ore fa.
L’idea di organizzare un compleanno per nostra madre era qualcosa che effettivamente ci aveva unito, per quanto fosse possibile.
O almeno aveva aiutato me e Stefan a chiarire, ma tra me e Damon era lo stesso. L’ascia di guerra era sotterrata di fronte a lui, però la situazione era la stessa.
Ogni cosa che equivalesse a parlare, chiarire o prenderlo in giro era pari a zero.
«STEFAN!» Non avevo idea di dove si trovasse in questo momento, sapevo solo che dovevo farmi sentire da lui. Il ragazzo uscì pochi istanti dopo dalla cucina.
Cercai di non ridere vedendo quella scena – a dir poco esilarante – ma non riuscii a trattenermi. Per qualche ragione sconosciuta Stefan indossava un grembiule bianco, teneva in mano un bicchiere di cristallo e nell’altra stringeva una pezza.
«Cosa…» S’interruppe quando vide che stavo prendendo il cellulare. «Che stai facendo?» Si corresse arricciando il naso.
Non gli risposi e aprii la fotocamera, click. Clik. Un’altra per sicurezza. Click.
«Non potevo non fare questa foto, Stef.» Lo presi in giro con un super sorriso.
«Sei di buon umore, sorellina?» Mi chiese distogliendo lo sguardo e continuando a lucidare quel bicchiere. Un momento…Perché lucidava la cristalleria con una pezza che si usava per lavare a terra? Incapace.
«Solo quando Damon non è fra i piedi.» Risposi acida, pensando – come sempre, aggiungerei – al corvino che non si era ancora presentato e non ci stava aiutando. Erano passate due ore e lui – probabilmente – stava dormendo nella sua camera o stava perdendo tempo, mentre io e Stefan preparavamo la festa per nostra madre.
«Allora il cattivo umore è in agguato.» Commentò una terza voce. Sgranai gli occhi quando lo vidi. Indossava un pantalone di jeans stretto sulle gambe e sopra aveva una maglia a maniche lunghe nera. Non moriva di caldo?
Certo, Londra era una città fredda ma in quella casa si moriva di caldo. Forse non voleva aiutarci e preferiva uscire. Poteva essere solo quella l’unica soluzione, aveva detto di voler partecipare all’iniziativa ma alla fine alle riunioni che avevamo fatto in quella settimana si era presentato una volta sì e una no.
«Stefan passione casalinga?» Il ragazzo gli rivolse il dito medio e si girò di spalle.
«STEFAN!» Lo richiamai con stizza.
«Cosa c’è?» Tuonò sciogliendo finalmente il nodo che teneva quel grembiule saldo al suo corpo e togliendoselo.
«Mhm, stavi bene. Ti faceva sexy, fratellino.» Intervenne Damon con un sorrisetto a dir poco amabile.
Gli lanciai un’occhiataccia e sospirai.
«Il catering è in ritardo di almeno venti minuti.» Gli feci notare. «Se il catering non arriva, non posso iniziare a decorare il giardino, come non posso iniziare a preparare gli stuzzichini, come non posso iniziare a lucidare questo posto!» Per un momento mi feci paura da sola. Mi ricordavo in maniera spropositata Caroline con i suoi modi dittatoriali e inquietanti. Sorrisi al ricordi della mia amica e mi ritenni una sciocca e pessima amica per non averla ancora chiamata.
«Il catering ha chiamato e ha detto che verrà un’ora più tardi.» Mi disse Stefan con un’alzata di spalle. Perché io non ne sapevo niente?
«Perché non mi ha avvertito?» Gli chiesi, sbuffando e dando un’occhiata alla lista da fare che tenevo in mano. Secondo i piani mamma era con la sua amica Cathy e stavano usufruendo del buono che tutti e tre le avevamo regalato.
«Ma non ho parlato io col catering.» Alzò le mani in segno di resa. No? «Damon non ti ha detto niente?» Trattenni a stento un grugnito che mi avrebbe fatto apparire poco femminile.
«Ups, credo sia colpa mia.» Sul volto del corvino si formò un sorrisetto, un di quei sorrisetti da bastardo che a volte facevano perdere la testa.
Sospirai pesantemente.
«Bene. Piano B.» Proclamai con calma e pacatezza. Stefan annuì e si allontanò mentre Damon m guardava con un sopraciglio alzato perplesso.
«Piano B?» La sua voce era ironica ed era intenzionato a provocarmi, però non sarei scesa al suo livello. Non oggi, almeno. Non il giorno del compleanno di mia madre. Dopo…dopo avremo fatto i conti e avrei riciclato tutti i buon insulti che mi sarebbero passati per la mente.
«Ecco a te.» Stefan gli porse una scopa e il suo volto parlava chiaro.
«Se fossi venuto ad una delle nostre riunioni, sapresti che il piano B è quello di diversi in tre gruppi. Uno pulisce casa, uno la migliora, uno pulisce il giardino.» Okay, dovevo ammettere che quella non era tutta farina del mio sacco…Parlare con Care e farmi aiutare da lei in web con i preparativi era stata un’idea più che buona!
Non sarei mai stata capace di organizzare da sola – Stefan e Damon non potevano definirsi degli aiutanti perfetti – quella festa, perciò quale persona chiamare se non Caroline?
«Io non pulisco.» Borbottò Damon. «E’ un lavoro da donne.» Sputò subito dopo guardandomi dall’alto in basso. Non sapevo se prenderla come un complimento o come un insulto…Con Damon era meglio non prendere niente sul personale, dopo un po’ avrebbero iniziato a bruciare meno quelle battutine idiote.
«Tecnicamente io dovevo occuparmi del catering e voi due avreste dovuto pulire casa e giardino.» Gli spiegai.
«Ma tu non mi hai detto che il catering aveva chiamato, perciò ora uno dei due viene ad aiutarmi in giardino e l’altro pulisce casa.» Ordinai seriamente guardando entrambi di soppiatto. Li lasciai lì in cucina e mi avviai verso il balcone che si affacciava sul giardino di casa.
Lo aprii velocemente e m’infilai una felpa blu da sopra – il venticello si faceva sempre sentire –. Il giardino non era enorme, però era spazioso – senza contare casa che era piuttosto grande -, ospitare una trentina di persona non doveva essere un problema.
Afferrai il rastrello e iniziai a togliere le foglie che erano cadute dagli alberi che dovevano essere urgentemente potati – dopo la festa avrei chiamato un giardiniere, ora non c’era proprio tempo –. Mi girai di scatto quando sentii il fruscio e poi il rumore di foglie spezzate dal passo di qualcuno.
«Cosa dovrei fare?» Mi chiese a muso duro. Deglutii. Speravo che alla fine l’avesse vinta Stefan e lasciasse Damon in casa…Quando mai non è Damon a vincere? Pensai.
«Allora…Dobbiamo togliere queste foglie, magari potresti prendere quelle buste nere e aiutarmi con le erbacce, che ne pensi?» Proposi incerta. Era strano essere così uniti…Far finta di tutto e mi piaceva. Mi piaceva vivere nell’illusione e credere che tutto andasse bene.
Credere che fossimo tre fratelli normali che avevano deciso di organizzare una festa a sorpresa per la madre. Però sapevamo bene la verità, quelle erano solo menzogne che sarebbero crollate come un castello di carta.
«Okay.» Fu lapidario. In un batter d’occhio mi fu accanto e iniziò a prendere anche diverse erbacce da terra con le mani.
«Perché non usi dei guanti al posto di prenderli con le mani?» Gli suggerii indicando i guanti bianchi in lattice che mamma usava per il giardinaggio. Non mi rispose neanche, non sprecò fiato. Si allontanò silenziosamente da lì e s’infilò i guanti per poi continuare a prendere erbacce.
Non avremo parlato molto, costatai continuando a rastrellare tutte le foglie che erano cadute.
Le misi tutte in un angolino.
Mentre lavorava, a volte, perdevo persino minuti interi a vederlo e sorrisi. Sorrisi perché stava lavorando senza protestare e lo faceva per la madre. Dopotutto con lei aveva passato gran parte della sua vita, rispetto a me e a Stefan.
Sospirai e arricciai il naso a quei pensieri. Stavo pensando a quanto mi piacerebbe vivere nell’illusione che tutto quello sia normale? Non c’era bisogno di fingere. Forse…potevo fare qualcosa per rendere tutto più normale.
E la prima cosa tra quelle era una.
«E’ annullata.» Sbottai così dal nulla. Il corvino aveva delle erbacce in mano che stava buttando e mi guardò confuso. Ero così presa dal flusso dei miei pensieri, non ricordando che Damon non potesse sentirli.
«La scommessa.» Chiarii. «La scommessa è annullata.» Ora il volto del corvino si era rabbuiato. Era stato come un fulmine a ciel sereno. Le labbra se prima erano piegate in un mezzo – quasi inesistente – sorriso, erano una linea ferma. Gli occhi assottigliati a due piccole fessure, l’espressione quasi minacciosa mi fecero venire i brividi.
Lasciò immediatamente le erbacce e la bocca era leggermente dischiusa. Cercava di trovare le parole…ma per che cosa?
«Annullata? Perché?» Le braccia erano stese lungo il corpo e i suoi piedi parevano chiodati a terra. Cosa potevo rispondergli? Perché poi annullarla? Forse perché non capivo cosa gli stesse succedendo? Sì.
Era per quello. Non potevo distruggere una persona che aveva qualcosa di evidentemente troppo grave.
«Tu sei malato.» Gli dissi provando a non risultare offensiva. «Damon tu hai qualcosa. Hai qualche malattia e io non posso distruggere una persona che potrebbe morire da un momento all’altro.» Gli spiegai.
Era una piano semplice il mio. Fargli credere di non voler continuare se avesse qualcosa di serio. Volevo solamente avere una sua conferma, una conferma seria. Non un giro di parole, non delle affermazioni dette così per caso o per sfizio.
Volevo che mi guardasse negli occhi e che me lo giurasse.
«Non puoi, o non vuoi?» Dalla voce trasudava ironia, ma era evidente che non voleva veramente.
«Non sono così meschina!» Gli dissi brandendo in aria il rastrello come se fosse un’arma, in effetti quel rastrello poteva diventare una potenziale arma contro quel ragazzo.
«Pensi che stia per crepare?» La sua risata era così dura e per poco pensai di essere esagerata. Si parlava solo di debolezza, giusto?
No. La gente non sviene così, senza un motivo. Pensai subito dopo fissandolo ancora.
«Pensi che sia in punto di morte? Non ho nessuna malattia, chiaro?» Quasi ringhiò. Allora feci la cosa che mi venne più spontanea, lasciai il rastrello a terra e mi avvinai a lui a grande falcate.
Gli presi il viso tra le mani e lo avvicinai al mio.
Incastrai il suo sguardo nel mio, fuoco contro fuoco, uno scontro tra titani. Chi dei due avrebbe avuto la meglio?
«Guardami negli occhi, Damon, guardami e se quello che è successo tra noi due anni fa ha avuto senso per te, promettimi che non hai niente. Niente.» Rimarcai bene ogni singola parola. Nei suoi occhi celesti lessi soprattutto incertezza, ma come sempre la determinazione.
«Io non devo prometterti niente.» Grugnì.
«Vuoi continuare con questa folle scommessa? Giurami che non hai niente di grave.» Ruggii avvicinando il suo volto al mio. Le nostre fronti si sfioravano leggermente e finalmente potei sfiorargli i capelli senza essere aggressiva, senza essere cattiva.
«Non ho niente di quello che tu pensi.» Non era quello che gli avevo chiesto, però.
«Significa che c’è qualcosa?» Era una domanda più a me stessa che a lui. Sì, c’era qualcosa e apparentemente – da come mi aveva fatto intendere – non era niente di particolarmente importante.
«Non ho detto questo.» Si liberò della mia prese e si sistemò la giacca che aveva indossato per uscire in giardino.
«Per la cronaca, la scommessa si chiude quando lo decido io.» Ringhiò. Mi girai di spalle per non dargliela vinta e per reprimere l’istinto di non urlargli contro epiteti offensivi.
Non poteva decidere lui, non poteva decidere niente per me, non poteva decidere neanche cosa farne di quella stupida scommessa.
Maniaca del controllo. Sembravo una manica, ma lo ero. Ero quasi ossessionata dalla libertà di fare quello che volevo, di liberarmi di tutti i tipi di catene che mi tenevano stretta…e una di quelle era Damon.
Lui era una catena e nella mia mania era un intacco, qualcosa da eliminare. Perché lui era l’unico che poteva limitarmi e questo lo odiavo. Lo odiavo troppo.
«Guardami quando ti parlo!» Tuonò ancora. Mi afferrò violentemente il polso e sbattei la spalla destra sulla sua. Trattenni un sussulto e lo fissai negli occhi.
«Io la chiudo qui.» Dichiarai cristallina con un’alzata di spalle. Lo superai e decisi di rientrare in casa, avevo bisogno di un bicchiere d’acqua.
«Tu non chiudi un bel niente, chiaro?» Urlò quasi isterico. All’inizio non mi girai, feci solo qualche altro passo in avanti. Non dovevo ascoltarlo.
«Non puoi ignorarmi.» Continuò, sempre col tono di voce alto. «Non puoi e basta! Non puoi fare niente, non puoi andartene!» Un altro passo non avevo idea con che coraggio lo feci.
Chiusi gli occhi e sentii un frastuono. Mi girai velocemente e la scena che si presentò sotto gli occhi fu più che raccapricciante.
Damon aveva scagliato il rastrello contro…contro di me. Sentii il cuore in petto aumentare i battiti, non sembrava lui completamente accecato dalla rabbia. Non riuscivo neanche a credere a quello che aveva fatto.
Aveva preso quel maledetto aggeggio e lo voleva scagliare su di me, anche se la sua ragione gli aveva impedito di fare un lancio veramente pericoloso per me.
Mi voleva colpire. Realizzai guardandolo con gli occhi sbarrati.
«Non puoi, Elena.» Era una cantilena, era tutto una cantilena insopportabile. Lo aveva ripetuto già diverse volte.
«Cosa non posso?» Gli urlai, allora, con tutto il fiato che avevo.
«Non puoi chiudere. Non puoi!» Fece un passo in avanti, ma cadde sul terriccio sulle ginocchia.
Mi avvicinai immediatamente e col fiato sospeso e il cuore che rischiava di esplodere gli toccai la spalla. Guardava il terreno, aveva le mani chiuse sugli occhi e si tirava i capelli fastidiosamente come un tic nervoso.
«Stai bene?» Gli chiesi cauta.
«Sembra che stia bene, Elena?» Mi gridò in faccia. «Sto fottutamente male. E non interessa a nessuno.» Continuò. All’inizio sembrava tutto qualcosa di insensato. Sembrava che quello sfogo fosse qualcosa di campato in aria, qualcosa per attirare l’attenzione…Non lo era. Solo ora riuscivo a capire che quell’attacco d’ira era il metodo di Damon per esprimere i sentimenti che ora provava.
E da quello che avevo visto, in lui c’era solo rabbia repressa e tanto profondo e sviscerato odio.
«Sono uno psicopatico. Dio, ti volevo scagliare il rastrello contro.» Parlò a voce più bassa e con entrambe le mani mi prese i polsi e fece perdere anche a me l’equilibrio.
Mi ritrovai nelle sue braccia e stavo bene. La sensazione di tepore, di calore, di sicurezza non erano svanite negli anni. E sorrisi. In un momento del genere, così drammatico, sorrisi come un’ebete perché i miei incubi – quelli che facevo i primi anni – si erano realizzati e non sembravano più spaventosi.
«Non ti ho colpito, vero?» Con le mani toccò il collo, i polsi, il viso…Tutto. Ora era stranamente calmo.
E se fosse bipolare? Era l’unica opzione che mi veniva in mente. L’unica e la sola che poteva spiegare tutto, o almeno che poteva spiegare i suoi costanti cambiamenti di umore.
«S-sto bene. Ora l’importante è come stai tu.» Sapevo che argomenti prendere e soprattutto sapevo come prenderli. Lui voleva sentirsi dire quelle parole, perché sì, Damon era un tipo forte…ma ora il ragazzo forte, mio fratello, stava crollando e io non sapevo perché.
«Sono un coglione.» Commentò incolore sfiorandomi i capelli.
Lui è mio fratello.
E non c’era niente di peggio al mondo che vedere tuo fratello crollare. E per me, la cosa peggiore non era vederlo a pezzi ma pensare che qualcosa lo avesse massacrato e che quel ‘qualcosa’ non fossi io.
Se fossi stata io la responsabile di quel crollo, avrei potuto rimettere insieme i pezzi…Ora non sapevo niente. Non sapevo cosa gli fosse successo, ero solo certa che Damon stava male e che la colpa non fosse solo mia.
Sì, apprendere di non essere l’unica ad averlo ferito era difficile.
 
Era tutto finito. Mancava poco e finalmente quella festa avrebbe avuto inizio e tutto sarà maledettamente normale.
Chi prendo in giro? Pensai poco dopo. Non c’era niente di normale, a partire dalla mia insana decisione di accettare quella scommessa fino alla sfuriata di Damon. Erano passate un paio d’ore dalla sfuriata e l’unica cosa che riuscivo a pensare era che avesse bisogno, urgentemente, di uno psicologo.
Quegli attacchi d’ira istantanea, accompagnati da questi sbalzi d’umore e questa debolezza non l’avrebbero portato da nessuna parte.
Indossavo solo l’intimo nero in pizzo e osservai sul letto il vestito per quella sera. Mi avvicinai e lo presi per indossarlo, ma prima la mia attenzione ricadde sul mio telefonino illuminato.
Joseph? Pensai arricciando il naso. Non si faceva sentire da quasi un mese, dopo avermi dato buca per quella stupida gara.
Risposi alla chiamata e aspettai che parlasse.
- Stasera, Elena. – Disse piatto. Stasera? Stasera no, non avrei fatto quella gara. Non il giorno del compleanno di mia madre col rischio di rovinarle la festa. Quella gara era stata già rimandata una volta, non era un problema rimandarla una seconda.
«No. Stasera non se ne parla.» Dall’altra parte del telefono sentii solamente diverse imprecazioni sussurrate, probabilmente non erano rivolte a me ma a qualcun altro. Con chi si trovava Joseph?
- Non puoi? Elena devi venire qui, c’è troppo in alto. Troppo. – Tuonò più che incazzato. Sospirai con calma e massaggiai le tempie col pollice e l’indice. Quel ragazzo era insopportabile.
«Joseph rimanda tutto. Io non ci vengo oggi.» Sputai acida, chiudendo la chiamata e buttando sul letto il cellulare. Mi infilai le calze color carne e subito dopo indossai il vestito nero.
I capelli erano resi ricci dall’arricciacapelli e per quanto riguarda il trucco velocemente feci qualche passata di mascara e con la mano che tremava applicai velocemente l’eyeliner.
«Manca poco…» Sussurrai guardando la sveglia che segnava le otto di sera. Mamma stava ritornando e molti dei suoi amici erano già in salotto – dovevo sbrigarmi – per fortuna Stefan e Damon erano già pronti e stavano accogliendo gli ospiti.
Presi il rossetto rosso e lo applicai minuziosamente sulle labbra. Nell’insieme non era niente male, non cadevo nella volgarità visto che il vestito non era eccessivamente corto e il trucco non era uno dei miei più pesanti…Era adatto a quell’occasione.
Mi allisciai le pieghe del vestito e prima di chiudermi alle spalle la porta diedi un’ultima occhiata al cellulare che squillava insistentemente.
Lo lasciai sul letto e chiusi la porta.
Sospirai e mi avviai verso il salotto. La veranda era aperta e molti ospiti stavano fuori a parlare tra loro con un sorriso in volto.
Vedendo quella scena non potei fare a meno di sorridere. Casa nostra era impeccabile, così come il giardino. Non fremevo più, la sorpresa che attendeva mamma in giardino faceva stare in ansia più io che l’avevo organizzato.
«Splendida, bimba.» Mi irrigidii sentendo quella voce e mi girai spostando i capelli dalla spalla destra a quella sinistra.
Sfiguro con lui accanto. Pensai con un sorrisetto. Indosso con solo una camicia nera e un pantalone scuro risultava ugualmente irresistibile.
«Anche tu sei niente male, Salvatore.» Commentai con un mezzo sorriso. Mi rivolse un’occhiata quasi stranita, neanche lui credeva alle mie parole. Non potevo darla a bere a nessuno, stava bene. Maledettamente bene vestito così. Con quei capelli sistemati in quel modo. Con quei maledetti occhi color lapislazzuli.
Era fottutamente perfetto.
«Mamma sta arrivando.» Mi avvertì prendendomi per il braccio e trascinandomi velocemente verso la porta. Il piano era semplice: Stefan doveva condurla dentro casa dicendole di non voler rivelare il nostro regalo e andare verso il giardino.
Mamma camminava a tentoni e rideva come una pazza, mentre Stefan le copriva con una mano gli occhi e con l’altra le teneva la mano.
Gli invitati, invece, sorridevano con gli occhi che brillavano…Nessuno si aspettava una cosa organizzata in quel modo. In modo così perfetto.
Io e Damon ci avviamo verso il giardino e sospirai osservando quell’enorme telone bianco che era appeso all’albero centrale del giardino.
Quella sì che era stata un’improvvisata. Non avevo la più pallida idea che Damon e Stefan avessero organizzato qualcosa tra loro. Neanche io sapevo cosa tramavano, avevo capito che era video e che lo volevano proiettare per lei.
E’ una cosa carina. Avevo pensato, quando insieme al catering avevo visto entrare anche dei tecnici per montare l’essenziale.
Dove avevano trovato i soldi non lo sapevo. E non volevo neanche saperlo.
«Stefan, perché siamo in giardino?» Ero accanto a mio fratello e mi divertivo a vedere il suo viso contrarsi in diverse smorfie, una peggio dell’altra.
«Come fai a sapere che siamo in giardino?» Intervenni io, affiancandola e stringendole la mano.
«Tesoro!» Trillò immediatamente. «Diciamo che ho un buon senso dell’orientamento. Sai, è casa nostra.» Continuò con un enorme sorriso ad illuminarle il volto.
Io ero alla sua destra e Stefan alla sua sinistra e con la mano le copriva gli occhi. Damon, invece, si trovava dietro il computer e fece cenno di proseguire.
«Tanti auguri mamma.» Le disse Stefan rivelando la sorpresa. Sul viso si alternarono diverse emozioni. Era sorpresa, girò su sé stessa con un sorriso da ebete e le mani che coprivano la bocca semiaperta per lo sgomento.
«Oddio, ragazzi, non avrete fatto quello che penso…» La voce era ridotta ad un filo e gli occhi già si stavano inumidendo.
«Pensavo volessi festeggiare i tuoi cinquant’anni.» Le dissi con un mezzo sorriso. Era un cinquantesimo, ma non li dimostrava. I capelli erano sempre lucidi e curati, le rughe di espressioni erano poche e le conferivano un aspetto più raffinato – non che non lo fosse già – e gli occhi verde foglia sgargianti e brillanti come quelli di Stefan erano sempre lì.
«Non è finita qui…» Continuò Stefan. Cathy – l’amica che ci aveva aiutato – mi sorrise e io le mimai un semplice grazie. Era vicino a suo marito e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio che non capii.
Damon era rimasto vicino al computer, osservando il tutto. Passarono pochi istanti e un proiettore iniziò ad illuminare il telo bianco.
Non potei neanche io credere ai mie occhi.
Io ricordavo quel video. O meglio, papà me l’aveva mostrato una volta.
Era di quando mamma e papà erano, ancora, insieme. Quando avevo circa un anno e Damon era ancora con la nostra famiglia, mamma era ancora con noi.
Era così diverso. Papà aveva un sorriso più sgargiante e in che modo guardava mamma era qualcosa di più che spettacolare.
E pensare che un anno dopo tutto questo era finito. Pensai con rammarico. Era un video semplice, c’era solo mamma che teneva in braccio un piccolo batuffolo ovattato – ero io –, papà che era alle prese con un barbecue.
Riconobbi anche il posto. Lì, è dove mi portò Damon. Dopo una mega sfuriata, l’avevo baciato lì sotto la pioggia.
«Non ci credo che avete fatto una cosa del genere…» Sussurrò con le lacrime che si formavano ai lati degli occhi. Oh, mamma, non credevo neanche io che quei due potessero fare una cosa del genere.
Era un susseguirsi di video e fotografie. Tante fotografie con sottofondo una dolce canzone.
Scoppiammo tutti in una risata quando sullo schermo comparse una mia vecchia foto – avevo sei anni ed era il primo giorno di scuola elementare. I capelli erano legati in due codini un po’ malfatti e indossavo un bel grembiulino bianco latte.
Dopo poco comparse un sottotitolo.
La tua piccolina cresce velocemente e non te ne sei mai accorta. Fu lì che scoppiò a piangere come una fontana e anch’io feci fatica a non scoppiare.
Man mano che andava avanti crescevo sempre più, dal primo giorno di scuola al primo anno di scuola superiore al ballo…Fino ad arrivare ad una foto di tre anni fa.
Damon non era tornato. Avevo un mega sorriso in volto e insieme a me c’era Caroline. Il giorno del diploma.
Dopo toccò a Stefan. E non potei non credere ai miei occhi…Stefan da piccolo era irriconoscibile, con le guance paffute e lo sguardo innocente.
Era cambiato, anche, lui. Non ero cambiata solo io, non era cambiato solo Damon. Tutti erano cambiati in qualche modo.
Mamma non era più la stessa dopo di vent’anni fa. E Stefan non era più quel bambino che mi abbracciava la notte e mi copriva le orecchie durante i temporali. Ora aveva ventidue anni. Era diventato un uomo, così come Damon. Così come io non ero più una bambina.
Sono cresciuta. E quello che stavo provando lo classificai come rammarico. Se non si fossero mai separati, io e Damon non ci saremo mai odiati? Non sarei finita in questo giro? O forse l’attrazione sarebbe nata lo stesso?
«E’ magnifico...» Singhiozzò mamma.
«Merito di Damon. Lavora a questo progetto da un po’.» Le rispose Stefan, tenendola stretta tra le braccia. A quelle parole alzai la testa e incontrai lo sguardo di Damon.
Era vacuo, perso. Eppure quell’idea era sua. Era lui che aveva preso le mie foto, che le aveva scelte e scartate…Lui aveva montato la musica, lui aveva scelto i colori…Lui aveva fatto tutto. Allora perché quell’espressione in volto?
«Ri-ritorno subito.» Le sussurrai sciogliendo la presa sulla sua mano. Velocemente passai avanti al proiettore e mi avvicinai al corvino che fissava ancora ipnotizzato il video che scorreva.
«Vieni con me.» Gli ordinai a voce ferma. Damon non mi sentiva. Sbatté più volte le palpebre ma lui era lì immobile con lo sguardo perso a pensare a chissà cosa.
«Damon vieni con me!» Continuai scuotendolo leggermente.
«Ritorna da mamma, Elena. Lei ha bisogno di sua figlia…E’ il suo compleanno.» Proruppe fissandomi negli occhi.
«Lei ha bisogno dei suoi figli.» Replicai inacidita. «Me, Stefan e Te. Smettila con queste manie da sociopatico. E’ il suo compleanno, vieni con me e abbracciala.» Gli presi la mano e lo portai vicino a me. Il video – probabilmente – stava arrivando alla fine.
«Oh, Damon…E’ bellissimo.» Proruppe subito mamma, abbracciandolo così forte da togliergli il respiro. In quel momento mi sentii di troppo. Lasciai la presa dalla mano di Damon e mi avvicinai a Stefan.
Tra i due all’inizio era solo lei a stringerlo a sé, ma dopo un po’ anche Damon circondò con le sue mani il bacino di mamma e poggiò il viso nell’incavo del suo collo.
«Grazie, Elena.» Era una frase sussurrata. Stefan mi stringeva a sé con gli occhi lucidi. Pensava che non avessi sentito…Perché mi stava ringraziando?
«Anche voi, su…» Mamma tirò un po’ su col naso e sciolse l’abbraccio con Damon. Ci avvicinammo a lei e ci inserimmo sia io che Stef.
Ora, nelle braccia di quella donna, nelle braccia di Stefan, nelle braccia di Damon mi ero sentita viva. E non quel vivo che provavo quando ero su una moto. Non era la stessa emozione, perché questa non bruciava. Non bruciava e non mi corrodeva dentro, mi faceva solamente sentire completa.
Mi faceva sentire stramaledettamente bene.
«Vi amo, famiglia.» Mi uscì spontaneo. E vidi lo sgomento negli occhi di tutti e tre. In particolare in quelli di Damon. Mi sentii immediatamente sotto accusa. Lui faceva parte della famiglia, no? Questo significava che gli avevo detto di amarlo?
Scacciai quel pensiero e alzai gli occhi al cielo per impedire alle lacrime di fuoriuscire. Mamma, invece, era una fontana.
Era troppo contenta.
«I figli migliori ce li ho io.» Disse con una punta di orgoglio.
«Cara, cosa ne pensi di questa sorpresa?» Le chiese Cathy con un grosso sorriso in volto. Sospirò mia madre e poi rise di gusto.
«Penso che sia fantastica.» Le rispose. «Ritorno subito, okay?» Si rivolse a noi tre, seguendo la signora dai capelli rossi per andare chissà dove.
«Siamo una bella squadra.» Dissi rivolgendomi ai miei fratelli.
«Lo siamo.» Concordò Stefan, mentre Damon si limitò ad un grugnito per poi andarsene via da lì e salire le scale della verande ed entrare dentro casa.
«Perché fa così?» Chiesi a Stefan con stizza. Lui lo sapeva. Doveva saperlo. In quel mese – già era passato un mese da quando erano qui – avevo letto nei suoi occhi sempre una certa inquietudine e inaffidabilità nei confronti del corvino.
C’era qualcosa che quei due volevano nascondermi.
«Elena vorrà bere qualcosa…» La buttò lì Stefan rivolgendo il suo sguardo altrove, anzi su qualcuno. Una ragazza – figlia di chissà quale famiglia amica di mamma – era seduta sul divano con in mano un bicchiere.
Era visibilmente annoiata. In effetti, noi eravamo gli unici ad avere un’età al di sotto dei venticinque.
«Mi stai ascoltando?» Lo ripresi, consapevole del fatto che anche se sapesse qualcosa di sicuro non l’avrebbe detto a me.
«Certo, Elena.» Mi rispose con un’alzata di spalle.
«Mhm, vai.» Dissi semplicemente. «Prendile qualcosa da mangiare e vai da lei.» Spiegai con un mezzo sorriso.
Mi scoccò un bacio sulla guancia e subito se la filò. Perfetto. Ora sì che ero davvero senza compagnia.
C’è Damon. Ricordai. Sospirai, conoscendomi a breve sarei andata a cercarlo. Ed era una cosa sbagliata. Perché né io né lui dovevamo interagire…Erano troppo esplosivi. Eravamo due bombe ad orologeria. Da un momento all’altro una delle due avrebbe fatto scoppiare l’altra e lì sarebbe stato un problema.
Cacciai dalla testa quei pensieri e mi avviai dentro casa. Era inutile pensarci, alla fine avrei fatto quello che volevo fare.
E in quel momento volevo andare da Damon. E infastidirlo o parlargli. Semplicemente avere la sua compagnia.
Lunatica. Mi definii in quell’istante. Un momento prima volevo chiudere il capitolo ‘Damon’ e un momento dopo andavo da lui a passo spedito.
In salotto vi erano diverse persone, ma la maggior parte era concentrata in giardino. Per fortuna che non era brutto tempo oggi. Altrimenti avrei dovuto spostare tutto.
Mi allontanai dal salotto e mi bloccai non appena vidi due sconosciuti sull’uscio della porta. Ero nascosta dietro il muro che portava verso il salotto e di tanto in tanto lanciavo qualche occhiata. Perché Damon stava litigando con quelli? Erano degli amici?
«Fuori da casa mia.» Ringhiò con voce grave.
«Damon…cosa succede?» Gli chiesi assottigliando lo sguardo e uscendo dal mio nascondiglio. Tre paia di occhi si spostarono su di me. I due sconosciuti mi squadrarono pochi istanti e sui loro volti si formarono dei ghigni insopportabili.
«Niente.» Rispose lapidario. Con passo cadenzato mi avvicinai a Damon e lo squadrai con attenzione.
«Cosa sta succedendo?» Gli chiesi posando una mano sulla sua spalla e incenerendolo con lo sguardo.
«Niente, Elena!» Tuonò ancora liberandosi dalla mia presa.
I due sconosciuti erano sull’uscio della porta e guardavano entrambi sconvolti.
«Tu vieni con noi.» Disse uno dei due. Trattenni a stento una risata. Io andare con loro?
«Non ho idea di chi siate.» Gli feci notare provando a trattenermi dalle risate. Damon, stranamente, non trovava divertente quella situazione. Tutt’altro mantenne un’espressione indecifrabile in volto e assottigliò lo sguardo riducendo gli occhi in due piccole fessure.
Se gli occhi potessero uccidere…
«Però sai chi è Joseph, giusto?» Mi chiese uno dei due. A quel nome sentii quasi l’aria venir meno. Cosa c’entrava con tutto questo Joseph?
«Joseph? Joseph chi?» Grugnì Damon con aria infastidita.
«King.» Lo liquidò velocemente l’altro. «Senti, dolcezza, non ho tempo da perdere…Vieni.» Ringhiò uno dei due, allungando la mano per afferrarmi.
Fu tutto troppo veloce. Damon si sovrappose tra me e quel bastardo. Lo afferrò per le spalle e con una forza sconvolgente lo prese per il collo.
«Non toccarla, chiaro?» Ringhiò a pochi centimetri dalla sua bocca. «Andrai a finire male, oggi.» Lo prese in giro. Il compagno, allora, mi afferrò bruscamente per il braccio.
«Lascia il mio compagno, o la ammazzo.» Damon lasciò la prese sul collo e lo spinse in avanti, tenendo la testa ferma tra le sue braccia.
Io, invece, ero lì paralizzata e cercavo ancora di realizzare cosa c’entrassero questi due con Joseph. E soprattutto cosa volessero.
«Ammazza lei e ammazzerò te, lui e quello stronzo di King.» Non avevo mai visto Damon così sicuro di sé…A pensarci bene non avevo mai visto il vero Damon, il Damon bastardo. Solo ora mi resi conto di non sapere niente di Damon. Non sapevo cosa avesse fatto prima di venire a Mystic Falls, mi ero limitata alla superficie…Mi ero accontentata di quelle poche informazioni che avevo.
Non era buone compagnie. Ora ha smesso. Aveva, anche, smesso…ma cosa aveva fatto di così importante da farsi ricordare da tutti come il temibile Damon Salvatore?
«Lasciamo entrambi al mio tre.» Propose quello che mi teneva stretta a sé.
«No. Tu lascerai lei perché te lo dico io.» Lo interruppe il corvino con voce fredda.
«La lascerò quando tu lascerai il mio amico. Insieme e non fare giochetti.» Il mio cuore iniziò a battere furiosamente. Damon non era tipo da cedere a questi stupidi ricatti.
«Ci sto.» Sta mentendo? Mi chiesi quasi impaurita. Non volevo morire per una cazzata del genere…non volevo proprio morire.
«Uno.»
«Due.» Ti prego, Damon.Ti prego non fare stronzate. Era quasi una cantilena, la ripetevo nella mente lentamente sperando che in qualche modo il corvino potesse cogliere quella supplica silenziosa.
«Damon…» Sussurrai con un filo di voce. Incontrai i suoi occhi, aveva già capito tutto da quel sussurro.
«Tre.»
Entrambi lasciarono la presa. Mi liberai dalla presa e mi avvicinai a Damon che si mise davanti a me con un’espressione che non gli avevo mai visto.
«Cosa vuole King da mia sorella?» Continuò fissando uno dei due e intimandoli con lo sguardo a parlare.
«Salvatore, tua sorella non è un angioletto. Chiediglielo, no?» Crepa. Pensai, mordendomi un labbro. Cosa voleva Joseph da me? Voleva che facessi quella gara.
«In cosa ti sei andata a cacciare?» Mi ringhiò ad un palmo dal naso.
«In un grande casino, Damon.»
 
 
 






A/N:
Hi beatiful world!
Sono io. *fa ciao con la manina*
Ehm…Forse non mi aspettavate così presto? In effetti neanch’io pensavo di poter aggiornare così presto! A dire il vero questo capitolo è uno dei più lunghi che abbia mai scritto…Immaginate che non è neanche completo, questa è solo la prima parte.
Ho dovuto staccare per un semplice motivo: il capitolo sarebbe uscito almeno di  venti/ventiquattro pagine di Word e non potevo farlo così lungo e pesante.
Così vi lascio con le spine – nel vero senso della parola – e con una frase ad effetto perfetto per la Katherine della seconda stagione!
Sapete quando scrivo di Elena e dei suoi comportamenti a volte mi chiedo se non assomigli più a Katherine, anche se poi ci sono quei momenti ‘umani’ che ricordano vagamente l’Elena dolce e cucciola :3
Ora, parto da principio.
Pensavate che il compleanno di mamma Elisabeth lo lasciassi da parte? Ovvio che no, ragazze. Vi aspettavate qualcosa di diverso? Scusate ma io sto ancora piangendo arcobaleni per la scena di famiglia e l’abbraccio *0*
I miei poveri feels per questa stramba famiglia sono morti.
Però, stop, facciamo retromarcia!
Abbiamo un flashback! Ora più o meno sapete come è andata il risveglio dalla sbronza di Stefan (che per ora lasciamo da parte). E notiamo un particolare che Elena vede solo ora: l’anello dei Salvatore che possiedono sia Stef che Damon. E poi c’è una collana…(la collana sarebbe quella che indossa Elena le prime stagioni)…Mhm, non vi suona strano questa storia?
Oltre il fatto che da ciò che ho scritto sembra che questi anelli e collana si debbano tramandare ai propri figli. Non è strano che Damon e Stefan abbiano l’anello ed Elena invece no? Cosa sta succedendo?
Voi cosa pensate?
Tralasciamo questa parte e salto alla parte dei preparativi. Scusate ma Stefan versione casalinga ci voleva, anche perché in mezzo a questi disastri ambulanti ci vuole un po’ di ironia altrimenti mi cadono le braccia.
E poi…DI NUOVO FEELS CON DAMON ED ELENA!
Mhm, le scommesse su chi cedeva prima? Alla fine cosa aveva concluso? Elena ha perso o semplicemente se n’è tirata fuori? Qual è il vostro parere? Fa bene? Ha ragione a non voler ferire una persona già debole? Che è suo fratello? (io non ho mai smentito nessuna domanda sui loro gradi di parentela)
Ouch, mi stavo dimenticando quasi quasi…la scena del rastrello. Quello che è successo a Damon è semplicemente un attacco d’ira, porta le persone a fare qualcosa di cui potrebbero pentirsene. E c’è un piccolo accenno al bipolarità (cambiamenti di umore, come notiamo Damon un momento prima scaglia il rastrello contro la ragazza e il momento dopo le chiede se non le ha fatto del male).
E LA FESTA ALLA FINE HA FATTO BOOOOOOOM *esplosioni*
Pensavate che facessi passare un cinquantesimo normale a quella povera famiglia? Sarebbe troppo bello e semplice per una ragazza cattiva come me u.u
Joseph fa la sua apparizioni e giustamente ora pinco pallino vuole che quella porella venga a gareggiare per lui. E che facciamo? Tu chiami e quella arriva? Beh, Elena non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Giustamente la ragazza rifiuta...
Si salta alla scena di famiglia e notiamo un Damon strano, più vacuo. Quasi apatico. Mhm, cosa ne pensate? E QUEL GRAZIE ELENA, sussurrato da Stefan? Ora le idee diventano più chiare?
Nelle recensioni per me potete sparare tutte le ipotesi di questo mondo, però sono curiosa di sentirle. :)
Poi…Ultima scena *finalmente direte voi* Damon ha aperto la porta a questi due tipi che freschi freschi vogliono entrare in casa.
Elena fa la sua apparizione alla ‘Katherine-Sono-Sexy-Lo-So-Petrova’ e Damon le intima di starne fuori (e poi dite che sti due non fanno progressi! ^^), peccato che fatto il suo nome i due capiscono che lei è la persona che cercano.
Ora…Vi ricordo che i nodi stanno venendo al pettine. Damon non sa che Elena ha stretto un patto con Joseph, come non sa che è Joseph che ha provato a strangolarla. Ed Elena non sa altre cose di Damon che non sapete voi ma che so io perché sono la scrittrice di questo disastro…Oops, volevo dire storia lol.
Okay, domandina di routine: vi tornano i conti o volete spiegazioni? Basta chiedere!
Ringrazio, infine, le 7 (Nikkisomerhalder, PrincessOfDarkness90, Bea_01, _Alil, Ire_39, EscapeFromHeart e nanerottola83). Grazie alle 40 che l’hanno inserita nelle preferite, grazie alle 34 delle seguite e grazie alle 5 delle seguite.
Beh, non c’è altro.
Spero che il capitolo (questa è la prima parte u.u) vi sia piaciuto, vi invito a lasciare un opinione visto che non mangio nessuno e vi abbraccio forte.
 
Quasi dimenticavo, ho scritto una nuova storia sul Delena ----> Si chiama Supereroi falliti. Passate se volete. Xxx
Non ti scordar di me.

 
 

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Capitolo 9
*** Caos. ***


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Capitolo nove.
Caos.
 
Damon a quelle parole sgranò gli occhi e intensificò la presa sul braccio.
«Cosa intendi per grande casino?» Ringhiò fissandomi con i suoi occhi celesti. Erano un misto tra rabbia e frustrazione. Questa volta non l’avrei passata liscia, me lo sentivo.
Damon avrebbe fatto domande, domande a cui non potevo non rispondere. Perché lui se le meritava, meritava delle risposte vere. E io avevo paura di dirgliele. Ma non era una paura fondata, non era una di quelle paure che venivano coltivate col tempo, non era vera perché lui non poteva arrabbiarsi con me.
Lui non ne aveva il diritto, eppure si arrabbiava sempre. Si arrabbiava e sfogava la sua rabbia in qualcosa, qualcosa che non avevo identificato.
«Dolcezza, Joseph ti vuole parlare. O con le buone…» Intervenne uno dei due scagnozzi. «O con le cattive.» Mi morsi un labbro nervosa, mentre osservavo Damon squadrare nei minimi dettagli quei due energumeni che avevamo di fronte.
«Se si tratta di soldi…» Iniziò Damon con voce calma e pacata, ma fu interrotto dal segno di negazione di uno dei due.
«Salvatore, Joseph non vuole soldi in contanti da lei.» Commentò. Il corvino sbuffò.
«Vengo.» Intervenni io con sguardo fermo. Dopotutto era una stupida gara e io gliel’avevo promesso. A quelle parole i due di fronte a noi si rilassarono maggiormente, mentre Damon mise su un espressione tra lo scioccato e l’incazzato.
Se fossi uscita viva da quella situazione, Damon me l’avrebbe fatta pagare.
«Metto qualcosa di più comodo…E vengo.» Assicurai loro, liberandomi dalla presa stretta di mio fratello.
«Allora abbiamo risolto tutto. Veloce, dolcezza.» Mi disse quello che Damon stava per strangolare con voce carica di malizia.
Annuii semplicemente e feci qualche passo indietro, sperando che nessuno dei tre si facesse male in quel lasso di tempo. Mi precipitai in camera e i miei occhi caddero sul cellulare che vibrava.
Lo afferrai velocemente e risposi sapendo già chi era il mittente.
«Sto venendo. Non rompere più le palle.» Lo liquidai chiudendo nuovamente la chiamata e gettando il cellulare sul letto, incazzata nera. Non doveva andare così, non quella sera, doveva essere perfetto…Per mamma.
Perché quando volevo che qualcosa fosse perfetto, andava tutto a rotoli? Aprii le ante dell’armadio e afferrai dei jeans neri e una camicia rossa.
Mi sfilai velocemente il vestito – che finì sul letto – e mi tolsi quelle scarpe che mi stavano distruggendo i piedi.
Non riuscii neanche a infilarmi i pantaloni: qualcuno era entrato in camera mia sbattendo rumorosamente la porta.
Damon teneva le mani chiuse in due pugni e lo sguardo infiammato. Non sapevo se era più arrabbiato con quei due sconosciuti che erano piombati in casa nostra minacciando o lo era con me per avergli omesso tutta questa situazione.
«Di cosa si tratta?» Mi chiese semplicemente, mantenendo lo sguardo fisso sui miei occhi nonostante stessi praticamente mezza nuda di fronte a lui.
Mi infilai la camicia e con le mani che tremavano iniziai ad abbottonarla.
«Devo solo parlarci. Tornerò subito.» Gli promisi con un’alzata di spalle sistemando i capelli che erano finiti davanti agli occhi. Per pochi secondi pensai che se la fosse bevuta, ma non avrei dovuto abbassare la guardia. Non con Damon. Non con l’unica persona capace di rigirarmi a suo piacere.
«King ci sa fare con le donne, sai?» Mi provocò. «Se si trattasse solo di scambiare due chiacchiere, sarebbe venuto in persona.» Continuò avvicinandosi sempre più. Ad ogni passo il mio cuore iniziava a battere sempre più forte sapendo che le mie bugie stavano cedendo…tutto il castello di bugie che avevo costruito stava per cedere. E non doveva succedere.
«Gli ho promesso una cosa, okay?» Sbottai afferrando il mio giubbotto nero. Finalmente Damon sembrò più rilassato, o forse era un impressione?
«Che genere di cosa?» Continuò. Alzai gli occhi al cielo e feci per superarlo, ma lui era davanti a me. Ad ogni passo ne faceva uno analogo.
«Niente di quello che stai pensando, fidati.» Grugnii infastidita, superandolo. Lo superai e mi chiusi alle spalle la porta.
La porta di casa era chiusa, probabilmente quei due mi stavano aspettando fuori.
Vai, vinci e vattene. Semplice no? Mi dissi aggiustandomi il giubbotto. Ripetevo mentalmente quelle azioni, sperando che fosse tutto vero.
«Dove credi di andare, senza tuo fratello?» Ero di spalle e avevo la mano sulla maniglia. Mi accigliai e vidi Damon con in mano le chiavi della macchina e con addosso la sua inseparabile giacca di pelle.
«Non penserai di accompagnarmi, vero?» La mia voce salì di tre ottave, probabilmente. Il nervosismo era alle stelle, avevo pensato di cavarmela con quelle poche frasi evasive ma  evidentemente non avevano funzionato. Non con lui, almeno.
«Non penserai di andare da sola, vero?» Replicò con lo stesso tono, rivolgendomi un’occhiata divertita.
«Tu non verrai.» Dissi decisa incrociando le braccia e rivolgendogli una dura occhiata. Non lo volevo tra i piedi, non volevo assolutamente gli occhi di Damon puntati su di me. Non lì, a quella maledetta gara.
«La mia non era una domanda.» Affermò avvicinandosi con non curanza e poggiando una mano sul mio fianco.
«Neanche la mia lo era.» Dissi inacidita, fissandolo con un espressione truce.
«Non ti lascerò andare da King, senza qualcuno che ti sorvegli.» Diedi un’occhiata all’orologio poggiato su uno tanti mobili. Non era tanto tardi…Idea.
«Chiamerò Luke.» Alzai le spalle. Non l’avrei mai chiamato, non per una cosa così insensata e pericolosa. Però speravo che Damon mi credesse.
«Rettifico: non ti lascerò andare da King, senza di me.» Ringhiò spostando la mano dal fianco alla mano e avvicinandomi brutalmente a lui. Le mie mani – poggiate sul suo petto – ci dividevano. C’era veramente troppo poco spazio tra noi.
«Non capisci che non ti voglio? E’ maledettamente pericolo!» Gli spiegai. Ecco, ora avevo decisamente segnato la mia condanna a morte. Forse facendogli presente quanto quella situazione fosse pericolosa, avrebbe cambiato idea?
Mhm. Non credo proprio. Anzi, avevo avuto come risultato l’effetto contrario.
«Pericoloso per te. Io conosco questi posti da anni.» Replicò. «Non hai idea di cosa fanno quelle persone. Quelle persone si ammazzano a vicenda senza battere ciglio.» Le parole che uscirono dalla sua bocca furono fredde e glaciali.
In cosa mi sono cacciata? Pensai mentre un brivido mi attraversava la schiena.
«Andiamo.» Esalai infine aprendo la porta. Quei due sedevano all’interno di una macchina scura. Il passeggero scese dall’auto e venne verso di noi.
«Cosa ci fa qui?» Mi chiese indicando con un cenno del capo il corvino che era dietro di me e che mi teneva stretta a sé per le spalle.
«Mia sorella non si muove senza me.» Mi anticipò su tempo, rivolgendogli un’occhiata fredda e distaccata. Il ragazzo biondo alzò gli occhi al cielo e trattenne a stento una risata.
«Damon Salvatore nella parte del bravo fratello. Questa è bella…» Commentò con ironia. A quelle parole il corvino lasciò la presa sulle mie spalle e prese per le spalle il biondo.
«La mia famiglia non si tocca.» Sussurrò con voce gutturale. «Lei è della famiglia. Tu e quello stronzo di King farete una brutta fine se scopro che state tramando qualcosa.» Continuò. Era la prima volta che vedevo Damon così.
Sembrava trasformato. Come se quelle situazioni per lui fossero normali, perché lui considerava normale strangolare una persona in una casa. O minacciarla di morte.
Per me, però, era tutto nuovo. Stranamente non mi faceva così paura. Era un gioco, o si vince o si perde. E io dovevo vincere assolutamente, dovevo vincere per Luke. Per me. Per la mia incolumità. Per quella di Damon, di mia madre e di Stefan.
Se avessi perso quella gara, tutto sarebbe peggiorato. Ancor più di così. E non potevo permettermelo.
«Proseguite. Vi seguo con la mia macchina.» Comunicò loro. Il biondo mi lanciò uno sguardo invitandomi ad entrare in macchina. Questa volta impedii a Damon di ribattere.
«Non entrerò in quella macchina con voi.»  Chiarii subito avvicinandomi a Damon. «Vi seguirò con lui.» Continuai sicura.
«Posso fidarmi?» Mi chiese il delinquente con un mezzo sorriso provocatorio.
«Non hai altra scelta.» Proruppe Damon prendendomi la mano e portandomi verso la nostra auto. Aprii lo sportello e mi infilai dentro.
«Ancora non mi hai detto cosa vuole King da te.» Provò ad attaccare bottone. Non aveva idea, cosa poteva fare? La verità l’avrebbe saputa prima o poi. Meglio poi che prima. Pensai alzando gli occhi al cielo e invitandolo a seguire quel SUV nero che stava già svoltando a destra.
Il corvino non replicò più. Così lo osservai: era teso. La mascella in avanti, segno che si stava spazientendo, le mani chiuse intorno al volante ed espressione ferma ed immutabile.
«Sai dove siamo diretti?» Gli chiesi io. Non aveva problemi a seguire quell’auto e sul suo viso non si era dipinta nessuna sorpresa o sgomento.
«Un ex scuola di ballo.» Inclinai la testa e lo invitai a spiegarsi meglio. «Di solito King è sempre lì. E’ un buon posto per scommesse e gare, ormai non ci va più nessuno.» Rabbrividii per un secondo e cercai di spostare lo sguardo altrove. Però qualsiasi cosa facessi o pensassi, mi assicuravo sempre di averlo lì con me.
«Qualsiasi cosa sia…Ne uscirai viva?» Avvertii nella sua voce un leggero cambiamento, ma era impossibile. Damon non poteva più cambiare, era cambiato solo in peggio…E quella voce, quella voce mi ricordava solo il vecchio Damon apprensivo nei miei confronti.
«Lo spero.» Deglutii a disagio. Mai detto una bugia così grossa. Sapevo perfettamente che se non avessi vinto quella gara le cose si sarebbero messe male, non solo per Luke e Kai. Anche per me e Damon che si era messo nel sacco da solo.
«Non ce la farai, vero?» La capacità di leggermi dentro e di capire se stessi dicendo una stupidaggine non gli era passata. Neanche un po’.
«Non ho detto questo.» Partii in quarta. «Non travisare le mie parole.» Gli dissi seriamente. Il punto era che lui non aveva travisato un bel niente, aveva solamente capito in grande linee quanto fosse complicata quella situazione. E forse il fatto che io non ne volessi parlare con lui – una delle poche persone capaci di aiutarmi nelle mia più grandi stronzate – era la prova che cercava.
«Ti tirerò io fuori da questa merda.» Esalò Damon parcheggiando la macchina dopo aver visto il SUV accostare.
A quelle parole spalancai gli occhi e capii che qualsiasi cosa stesse per fare dovevo fermarlo. Scesi dall’auto e sbattei con forza la portiera.
«Tu non mi tirerai fuori da un bel niente, Damon.» Sputai acida prendendolo per il polso. Chiuse gli occhi e mugugnò qualcosa di incomprensibile, prima di rivolgermi uno sguardo freddo.
«Vuoi dirmi che sai come uscire da questo caos? Sai quali sono gli unici modi per farti uscire da questo casino?» Grugnì. Le lacrime volevano tanto uscire e non erano lacrime di paura, né di felicità, né di terrore…Era solo uno sfogo personale.
Era pressata ovunque.
«O King muore…» Ecco, questa possibilità era improbabile.
«Salta subito alla seconda.» Non volevo avere a che fare con morti accidentali, non volevo proprio far parte di quei giri.
Alle mie parole il volto di Damon s’incupì maggiormente e già m’immaginai le parole che stava per dire. Avevo avuto sempre paura di sentire un giorno quelle parole…Non riuscivo ancora a metabolizzare.
«O muori tu.» Rimarrò in questa merda per sempre. Deglutii e mi morsi nervosa un labbro. Non ne sarei mai uscita da lì, era come un tunnel. Una volta che ti aveva risucchiato non ne potevi più uscire, non potevi neanche provarci.
Non potevi parlare, dovevi combattere e non farti ammazzare dai tuoi simili.
E non potevo che ripetermi che quella vita non la volevo. Non volevo vivere con il terrore di morire, non volevo sottostare agli ordini di King – come non volevo sottostare a quelli di Damon -.
Perché mi ero resa conto di tutto quando era troppo tardi? Perché non mi ero ritirata prima da quel luogo? Ora era tutto all’aria, tutti i miei piani, i miei sogni. Tutto era stato spazzato via solo perché volevo fare l’eroina.
Quel ruolo non era per me. Io non potevo aiutare Luke, non potevo. E tra potere e volere c’era una grande differenza. Io volevo aiutarlo, ma non potevo perché io, per prima, avevo bisogno di qualcuno.
E non avevo nessuno.
«So cosa stai pensando.»  Mi ridestò Damon da quei macabri pensieri.
«Cos’altro potrei pensare? Sono una stronza psicopatica con problemi su problemi. E, mio Dio, ho solo vent’anni Damon! Non avrò una vita normale, non potrò mai avere una famiglia, non potrò sposarmi normalmente…non diventerò mamma.» Quello era la parte peggiore. Chi vorrebbe una madre delinquente? Quale ragazzo vorrebbe accanto una persona così?
Damon sgranò la bocca a quelle parole e sospirò pesantemente.
«Perché invischiarti in tutto questo, allora?» Mi chiese.
«Perché volevo aiutare Luke. Perché avevo bisogno di aiutare un amico senza ammazzarlo. Perché non voglio che LUKE sia MATT.» Sbottai. Era la prima volta che lo ammettevo ad alta voce e mi sentii meglio.
Aver ammesso il vero problema. Il problema erano i miei sensi di colpa.
«Avrai il tuo matrimonio, Elena. Sarai vestita di bianco e sarà il giorno più bello della tua vita. Troverai il marito che fa per te, Elena. E il cuore batterà a mille. Avrai la tua famiglia.» Mi sta dicendo solo stronzate. Mi ripetevo mentre gli occhi si inumidivano sempre più.
«No, invece, no, rimarrò sola. SOLA, capito?» Urlai con la testa che mi scoppiava.
«Porca miseria, ho detto che avrai una fottuta vita perfetta e che sarai maledettamente felice! Sto cercando di convincermi di non averti rovinato.» Pensa di avermi rovinato. Costatai. Deglutii e mi dissi che non aveva tutti i torti.
Era cominciato da lui, dal suo arrivo…E poteva concludersi solamente con lui.
Non avrò mai la mia vita, se lui non finirà giù con me.
«Avremo entrambi la nostra vita.» Me lo promisi.
«Io sto bene così…Questa è la mia vita, mi piace.» Concluse sospirando e afferrandomi la mano. Ci avvicinammo ai due scagnozzi.
Era la prima volta che andavo in quei miseri quartieri di Londra. Era tutto troppo scuro, la maggior parte dei lampioni erano rotti – ne funzionavano un paio -, la strada era completamente dissestata ed erano posti diversi ostacoli.
Si svolgerà qui la gara? Non avevo mai gareggiato su delle strade fin’ora solamente su delle vere e proprie piste da motocross.
«King è dentro, dolcezza.» Ammiccò indicandomi quella che doveva essere la vecchia scuola di danza. Era più che inquietante.
«Ritornerò subito, Damon.» Gli dissi con non curanza. Non riuscii neanche a fare due passi che la sua voce mi arrivò alle orecchie forte e limpida.
«Se non sei fuori entro cinque minuti, vengo a riprenderti.» Costava tanto darmi quello spazio, o almeno così credevo. Aprii la porta e osservai la struttura dall’interno.
La chiusi e mi guardai attorno.
«Come mai in un posto come questo, tesoro?» Mi chiese un ragazzo dalla carnagione scura. Lo osservai attentamente, aveva un volto già visto. Dove l’ho conosciuto?
«Cerco quel bastardo di King, ti basta come risposta?» Ridacchiò leggermente e fece cadere a terra…Dio mio. Portava in giro una pistola. Cercai di non soffermarmi più di tanto su questi dettagli, nascondendo l’ansia.
Non aveva motivo di utilizzarla. Mi ero detta scrollando le spalle con indifferenza.
«Ultima porta a destra.» Mi rispose come un cavernicolo. Gli diedi le spalle e prima di avviarmi lungo quel corridoio, non mi sfuggirono le sue ultime parole.
«Dove l’ho già vista…» Non era una sensazione. L’avevo già incontrato da qualche parte. Ma dove? Dovetti ignorare quei pensieri e concentrarmi su quella porta.
Oh, andiamo. Non sono mai stata così in vita mia. L’hai baciato e ti ha chiesto di uscire, cosa potrà farmi? Aprii la porta con non curanza e puntai immediatamente lo sguardo sul ragazzo che parlava al telefono urlando solo maledizioni e bestemmie.
Storsi il naso, in quella stanza c’era puzza di fumo. Troppe sigarette. Molte erano a terra, altre erano state spente sulla scrivania…Era piuttosto spoglia e a terra giacevano diverse schegge grandi e piccole. Residui di chissà cosa scaraventato a terra.
Joseph mi rivolse un’occhiata di pura rabbia.
«Elena…Piccola, dolce, stupida Elena!» Gridò sbattendo le mani sulla scrivania. Mi aspettavo una sfuriata del genere, ma non ci feci caso.
Mi sistemai i capelli avanti e misi su la mia espressione più persuasiva.
«Joseph…Piccolo, stronzo, bastardo Joseph. E’ un piacere per me rivederti.» Dissi con ironia avvicinandomi alla scrivania e sedendomi sulla poltrona rossa carminio.
Accavallai le gambe e gli rivolsi uno dei miei sorrisi più falsi.
«Sei in vena di battute? Non c’è da ridere.» Sputò. Aggrottai le sopraciglia. Cosa stava succedendo?
«Senti ho lasciato il compleanno di mia madre a metà, sono venuta in questa merda di posto e ora osi usare questo tono?» Anche se non calcai molto sull’ironia, la mia era una battuta solo per innervosirlo. Sinceramente non capivo neanche come mai stessi tirando la cosa tanto per le lunghe.
«Oh, piccola, ti avevo chiamato un’ora fa. Una stramaledetta ora fa.» Questa volta il suo pugno si scontrò contro il muro.
«Meglio tardi che mai.» Non feci in tempo neanche a prendere un po’ d’aria. Joseph si era avvicinato a grandi passi con espressione incazzata e mi prese rudemente per i polsi.
«Hai perso.» Quelle parole furono come un pugno nello stomaco. Ma c’era qualcosa che non quadrava.
«Come ho potuto perdere se non ho gareggiato?» Ringhiai più per il dolore ai polsi che per le sue parole. Il volto del ragazzo si distese in un mezzo sorriso, aveva un’espressione folle in volto.
«Hai dato forfè.» Chiusi gli occhi e mi maledii per quanto avessi abbassato la guardia. Ecco il perché di tutta quella velocità, di tutto quell’accanimento. «E io ho perso tanti, troppi, soldi
«E con questo? Cosa posso farci io se tu hai perso i tuoi soldi?» Sputai acida alzando il tono di voce di almeno due ottave. Avevo bisogno di Damon. E forse sentendo la mia voce sarebbe accorso prima.
«Perché li ho persi per colpa tua.» Collegai velocemente i tasselli. Ha scommesso sulla mia vittoria. E io ho dato forfè.
Ora, sì, che potevo dire a gran voce di essere finita in un casino di dimensione galattiche.
«Pensavi di fare più soldi con le scommesse su di me, che estorcendo soldi a Kai.» Tornava tutto. Era tutto organizzato. Ero stata presa in giro.
Era quello il suo intento. Farmi gareggiare per prendersi i soldi delle vincite. Per lui il mio arrivo sparato a casa di Luke era stata una salvezza.
Voleva arricchirsi.
«Oltre che belle, anche intelligente.» Commentò lasciandomi i polsi. «Ti hanno mai detto che in questi posti le ragazze intelligenti non sono ben viste?» Mi chiese poco dopo. Sul suo viso si dipinse un mezzo sorrisetto e io mi pentii di non aver fatto entrare Damon con me in quella casa.
Queste parole le ho già sentite. Mi venne in mente solo la prima volta che avevo messo piede in quel campo di motocross. Damon era stato così chiaro, in posti come quelli le ragazze erano sempre pericolose. Perché la ragazza intelligente ti truffava, la ragazza stupida ti portava solo soldi. E Joseph pensava che fossi stupida e che fossi caduta nel suo tranello.
E in effetti ci ero caduta, la sua trappola aveva funzionato…Ora con la mia forfè si ritrova con un pugno di mosche. King pensava che io avessi programmato tutto, o almeno dalle sue parole sembrava l’unico motivo per avere tanta rabbia nei miei confronti.
«Mhm, diciamo che ne so qualcosa.» Commentai alzando innocentemente le spalle. Joseph rise e mi rivolse un mezzo sorriso, uno di quei sorrisi che t facevano accapponare la pelle.
«Allora saprai come si esce da questi giri, no?» Aggrottai le sopraciglia e mi morsi il labbro cercando di non rispondergli in modo troppo sgarbato, una mia mossa falsa e sarebbe tutto crollato. Non sarei uscita da lì.
«Non sapevo si potesse uscire da questi giri, King.»  Sputai acida. Il tentativo di risultare gentile era fallito miseramente. Quel ragazzo per quanto potesse essere bello e maledettamente persuasivo era uno stronzo. Pensava di potermi prendermi in giro, ancora una volta.
Pensava che non avessi notato la sporgenza che s’intravedeva dalla tasca dei suoi pantaloni neri.
Calma e respira.
«Si esce solo con la morte, piccola.» Alitò sul mio collo. «Tu vorresti uscire da questo giro? Potrei aiutarti.» A quel punto non avevo nessun altro pensiero se non le parole di Damon. Perché lui aveva ragione in macchina. Non sarei uscita viva da lì.
«Muori, stronzo.» Gli diedi una leggera spinta all’indietro solo per sbilanciarlo e correre verso la porta. Le gambe mi reggevano a stento, afferrai la maniglia e apri quella benedetta porta intenta a svignarmela da lì.
«Dove hai intenzione di andare?» La sua mano era stretta intorno al mio polso e mi strinse a sé portando il braccio intorno al mio collo.
«Ti. Ammazzo.» Scandì le parole lentamente con voce roca al mio orecchio. La mia schiena fu percossa da diversi brividi mentre mi ribellavo a quella stretta.
Oh mio Dio.
«Non-non mi hai detto di essere armato…» Dissi con un filo di voce mentre una lacrima sfuggì al mio controllo. Questo non era niente rispetto ai miei attacchi di panico, tutt’altro.
Di solito dopo un attacco avevo la costante paura di poter morire, ma tra la paura di morire e avere la consapevolezza di avere pochi istanti era una cosa diversa.
Anche solo respirare mi sembrava una perdita di tempo prezioso, perché ora anche secondi mi sembravano dannatamente importanti.
«Sei troppo ingenua…Questo posto non è per te…» Continuò facendo scorrere la pistola sul mio collo. «Sei finita qui per caso?» Ridacchiò ancora.
«Come ho fatto ad uscire con te? Sei un bastardo.» Grugnii fissando ardentemente la porta e alzando il tono di voce spropositatamente.
«Fine dei giochi.» Proclamò. Sistemò davanti ai miei occhi quella pistola, togliendole la sicura.
Le lacrime ormai scorrevano sulle mie guance, non ce l’avrei mai fata a trattenerle ancora per molto. Con tutta quell’ansia che mi stava attanagliando la mente.
«Oh, no.» Sgranai gli occhi quando vidi la porta spalancarsi. «I giochi iniziano ora.» Vedere lì Damon che fissava il ragazzo che mi teneva stretta a sé  era stata la salvezza. Incontrai il suo sguardo e per mezzo secondo ebbi l’impressione che avesse abbassato lo sguardo per guardarmi  e assicurarsi che stia bene.
«Hai accompagnato la sorellina?» Lo prese in giro stringendo di più la presa sul mio collo. «Ammirevole. Peccato che abbia una pistola senza sicura in mano.» La reazione di Damon non sorprese solo me, sorprese ancora di più Joseph.
«Pensavi che sarai venuto qui senza niente con me?» Il corvino puntò una pistola verso Joseph. Come non ho notato che avesse portato con sé una pistola? Pensai allarmata. Un momento...Come può avere con sé una pistola? Avevo così tante domande e passare dalle braccia di un ragazzo che teneva una pistola puntata contro alle braccia di mio fratello era strano.
Strano perché fino a un mese fa e più era lui che voleva distruggermi. Ora mi stava salvando.
«La tua sorellina ti ha raccontato del casino in cui si è cacciata, no?» Gli chiese. E ora? Cosa gli avrebbe detto Damon?
«Ne so qualcosa.» Rispose piatto con un’alzata di spalle. Quella pistola ancora tra le sue mani ferme, Damon non tremava. Era calmo, parlava con calma agghiacciante e freddezza da far paura.
«Lasciala mia sorella e ne discutiamo da uomo a uomo.» Io, nel frattempo, scalciavo ed evitavo di bestemmiargli contro.
«Chi mi assicura che non mi ucciderai?» Chiese Joseph giocando con quella pistola sul mio collo. Avevo il batticuore e sapevo che uno di noi lì ci avrebbe rimesso le penne.
E quel qualcuno non volevo essere io. E non volevo che fosse Damon. Perché Damon era…Damon. Era quel fratello che avevo odiato, odiato così tanto da arrivare a provare sentimenti contrastanti e contradditori che mi colpivano la mente ogni giorni, odiato così tanto da trasformare la repulsione in altro. E quel semplice altro imparare a reprimerlo nel corso di quei due anni lontano da lui.
E ora…Ora tutto stava saltando fuori. Quell’altro, quel sentimento inclassificabile, era venuto fuori ancora.
«La tua pistola è nel nostro mirino. Ti basta come garanzia?» Lo provocò con un mezzo sorriso. A quel punto sorrisi divertita, sono salva. O quasi.
Joseph lasciò la presa sul mio collo e mi costrinse a fare qualche passo in avanti. Feci due passi, a malapena tre, non ce la feci più. Caddi nelle braccia del corvino che automaticamente fece cadere la pistola a terra.
E’ tutto avvenuto in un lampo.
Damon che mi stringeva a sé, il tonfo sordo della pistola a terra, Joseph caricò la sua puntando al corvino.
«Damon, giù!» Mi aggrappai a lui con tutto il mio peso. L’intenzione era quella di farlo sbilanciare verso sinistra o destra…Il corvino mi rivolse uno sguardo interrogativo, non riuscì neanche a dire una sillaba: la porta si era spalanca colpendolo alle spalle. Cadde automaticamente a terra e mugugnò qualcosa di incomprensibile.
Per un secondo pensai di non poterlo più abbracciare, di non potergli urlare più contro, di non poter più fare niente con lui. Pensai che ormai il danno era fatto, perché avevo sentito lo sparo.
Però mi resi conto che lui stava bene, perché mi stava stringendo a sé. Alzai lo sguardo e lanciai un urlo a quella scena.
«Oh mio Dio.» L’uomo che aveva aperto la porta era caduto a terra sulle ginocchia e teneva una mano sul petto. La maglietta era completamente rossa sangue, il suo viso contratto in una smorfia di dolore e dalla sua bocca uscivano solo piccoli rantoli.
«Mio Dio, non può morire.» Mi liberai dalla presa di Damon e mi avvicinai al ragazzo a cui avevo rivolto la parola circa una mezz’oretta fa.
«Stenditi.» Gli ordinai sedendomi sulle ginocchia e aiutandolo a stendersi senza fargli perdere troppo sangue.
«Oh, Trevor…gli volevo bene.» Alzai lo sguardo verso quello stronzo e non riuscii a trattenermi e gli rivolsi uno sguardo di puro disgusto.
«Stai zitto!» Gli ringhiai, premendo sul petto del ragazzo che non poteva avere più di ventidue anni circa. Dovevo fermare la fuoriuscita di tutto quel sangue. Premevo sul suo petto ritmicamente.
«Damon! Damon ti prego, ti prego, aiutami!» Lo pregai con le mani sporche di sangue e gli occhi pieni di lacrime. Non poteva essere vero, non poteva accadere tutto di nuovo.
Sentivo il mio cuore battere troppo velocemente, mentre il ragazzo morente stava socchiudendo gli occhi.
«Ehi, ascoltami. Ascoltami! APRI GLI OCCHI!» Gli urlai scuotendolo leggermente. «Chiamate una fottuta ambulanza!» Continuai con tono spezzato facendogli ancora pressione sul petto.
«Farebbero domande, non se ne parla.» Proruppe serio Joseph guardandomi con i suoi occhi ambra.
Il mio labbro tremava e il trucco stava colando sulle guance. Ora però non era quello l’importante, l’importante era salvare quel ragazzo: non poteva succedere. Non a me, ancora.
Il ragazzo aveva il volto pallido, ma teneva la sua mano stretta al mia.
«Elena…» Damon provò a distrarmi, gli feci cenno di chiudere la bocca. «Elena…»
«Chiudi quella bocca, mio Dio!» Mi sgolai.
«Trevor? Trevor perché sei entrato in quel maledetto istante? Perché?» Gli urlai scuotendo il corpo del ragazzo che mi fissava ancora con gli occhi semi aperti e il respiro corto.
«A-avevo sen-sentito…urlare…» Era stato attirato dal mio urlo. Ennesima botta al cuore, ennesima colpa che si stava imprimendo lentamente nel mio cuore.
Ennesima stronzata fatta da Elena Salvatore. Mi si strinse il cuore a vederlo lì a terra, pensando che fino a pochi minuti fa lui era vivo e vegeto e mi aveva anche parlato.
«Ti prego, o-ora chiamerò un’ambulanza…Ti sal-…» Non conclusi neanche la frase, gli occhi del ragazzo si chiusero completamente. Ero in una pozza di sangue e la sua stretta sulla mia mano si fece inesistente.
NO. NO. Mi avvicinai ancora di più e gli presi il polso.
«Damon…» Lo chiamai flebile. Il corvino era stato sempre lì accanto a me e mi stava guardando con occhi consapevoli.
«Damon…Dimmi che…» Mi bloccai e lo guardai speranzoso.
«E’ morto.» Proruppe una terza voce neutra. Mi girai verso di lui e mi alzai da terra come una furia.
«Tu! Tu sei solo un bastardo! Dovevi morire tu! Volevi ammazzare Damon, volevi uccidere una persona innocente…Ci sei riuscito, come ti senti ora?» Gli urlai.
Avevo solo tanta rabbia, volevo andare lì e schiaffeggiarlo ma mio fratello mi teneva per il bacino mentre io mi dimenavo invano.
«E’ stato un piccolo incidente.» Commentò giocherellando con la pistola che aveva ucciso quel ragazzo. «Nessuno dovrà farne parola.» Sgranai gli occhi. Pensava che mi sarei stata zitta? Cosa aveva in mente? E i genitori del ragazzo…oh mio Dio, quando sapranno che è morto…Oh Dio, non può essere vero. Non riuscivo a formulare un pensiero normale, avevo solo tanta paura.
Non potevo nascondere quella morte, era qualcosa di troppo grosso. Troppo grosso, almeno, per me.
«Andrò dalla polizia e ne parleremo eccome. MARCIRAI IN PRIGIONE, assassino!» Scalciavo in avanti con l’intento di colpirlo.
Joseph trattenne una risata e concentrò la sua attenzione su Damon.
«Spiega a tua sorella cosa si può e cosa non si può fare in questi giri.» Commentò freddo buttando a terra quella pistola. «Ne va la sua incolumità.»
«Noi ci rivedremo, King.» Lo salutò. Dopo di che uscì via da quella stanza, mentre io gli urlavo contro tutto ciò che mi passava per la mente.
«Lasciami! Devo ammazzarlo. Devo uccidere quello stronzo!» Strillai. Uscimmo finalmente da quella vecchia scuola di ballo e mi trascinò rudemente verso la nostra macchina, sotto gli occhi di tanti ragazzi ubriachi che non avevano capito gran che di quello che stava succedendo.
«Chiudi quella bocca. Non ucciderai nessuno.» Disse incastrando il mio corpo tra lo sportello della macchina e il suo corpo. Sospirai e cercai di calmarmi, tirando su col naso.
«L’ha ucciso. L’ha ucciso sotto i miei occhi. Se magari non fossi caduta in avanti, tu non avresti abbassato la guardia e…» Il corvino poggiò una mano sulla bocca e mi rivolse un’occhiata minacciosa.
«Tu non hai visto niente. Noi abbiamo la festa di mamma solo per fare una passeggiata, intesi?» Spalancai gli occhi. Non poteva sostenere anche lui una follia del genere.
«Damon non è un gioco! Una persona è…morta.» Deglutii a fatica inalando un altro po’ d’aria.
«Una persona è morta, okay. E la prossima? Sai chi è la prossima?» Mi chiese. «La prossima sarai tu se non chiuderai quella boccaccia.» Continuò con gli occhi seri.
Avevo capito il succo della questione. Avevo, anche, capito come Joseph e Damon avrebbero agito. E no, non potevo sostenerli, non in una cosa così sbagliata.
«Non posso fare una cosa del genere…» Sussurrai debolmente.
«La farai. La farai perché te lo sto ordinando.» Digrignò i denti. «La farai perché devi vivere. Devi ancora vivere…E se un giorno qualcuno decidesse che è arrivata la tua fine, quel qualcuno sarò io.» Scossi la testa debolmente e non riuscii a trattenere un singhiozzo.
Era partito tutto veramente troppo bene.
«Ora non puoi più uscire da qui. Abbiamo visto qualcosa che non dovevamo vedere, mi capisci?» Annuii e io capii che dal giorno dopo tutto sarebbe cambiato. Perché la mia non era più vita, la mia era solo un tirare avanti e quel tirare avanti si stava esaurendo.
Avevo capito che non potevo fare così, che prima o poi qualcosa di questo mio modo di vivere sarebbe andato storto. Era arrivato quel giorno, quel giorno che rimandavo da una vita.
Mi ero salvata e ora mi sono condannata.
Le parole di Damon erano stata chiare, limpide e cristalline. Non c’era niente che potessimo fare. Avevamo visto con i nostri occhi la morte di quel ragazzo…E in questo caso, due erano le chance che ci erano rimaste. O ignorare tutto e cercare di allontanarsi da quei giri o morire.
«Sono finita, vero?» Chiesi in un debole sussurro.
«Io l’avevo detto…» Mi rispose. «Da lì non ne saresti uscita viva.»
Sì, quella era la conferma. Non avrei vissuto a lungo e con me avevo condannato mio fratello.
Ho segnato la nostra condanna.
 
                                             
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
a/n: Faccio pena lo so. Aggiorno ad orari improbabili e rispondo alle vostre magnifiche recensioni dopo secoli, mi faccio pena da sola. Mi scuso innanzitutto, ma questo capitolo è stato un caos.
Un vero caos. Perché ho dovuto rivoluzionare tutto (ora dovreste iniziare a preoccuparvi) e la testa mi sta scoppiando. Ora ho capito che linea la storia deve prendere e ho deciso come ‘finirà’.
Comunque ringrazio sin da subito le ragazze che hanno lasciato la loro opinione (NikkiSomerhalder, Bea_01, PrincessOfDarkness90, Nicoliale, Sereniti2783, Ire_39, _Alil e anche EscapeFromHeart). Grazie anche a voi lettori silenziosi e coloro che aggiungono la storia tra preferite (40 **), ricordate (6 ^^) e seguite (37 *-*).
Che dire…Ho poco tempo, visto che devo fare un paio di cosette. Mi scuso anche per gli errori magari di battitura che ci sono nel capitolo (è uscito lunghissimo, non me l’aspettavo così lungo ^^).
In tutti i casi il primo segreto (primo di almeno una decina) è uscito fuori. Sappiamo cosa voleva Joseph da Kai: soldi di una scommessa e quando ha visto Elena e ha saputo che faceva gare…Gli è venuta la brillante idea di ingannarla. Peccato che la ragazza sia arrivata in ritardo alla gara dando forfè.
Joseph ha perso dei soldi, cosa succederà? Li rivorrà indietro? E quel povero Trevor che ho fatto schiattare subito (^^’)? Sinceramente lui ricomparirà (okay io non faccio risuscitare persone) però si farà sentire a modo suo.
Mhm, diciamo che questo argomento è già più delicato. Si parla di giri sbagliati e all’inizio doveva essere solo ‘un gruppo di ragazzi sbagliati’ niente di particolare, ora si è trasformato in una di quelle associazioni a delinquere. Diciamo che sto rappresentando un po’ ‘la mafia’ – se così volete chiamarla – e i suoi effetti.
Ora che Damon ed Elena hanno visto l’assassinio del ragazzo cosa farà Joseph?
Vorrà uccidere entrambi? Perché diciamo che hanno visto qualcosa di sbagliato. Elena giustamente vuole raccontare tutto alla polizia, ma Damon prova a ‘dissuaderla’.
Che succede nel prossimo capitolo per voi?
Voglio sapere cosa ne pensiate e soprattutto voglio sapere se avete le idee più chiare ^^. Comunque…Mhm, credo di aver disseminato un po’ di scene Delena nel mezzo della storia (Damon sbaglio o sembra preoccupato?). Vi sono piaciute?
Non ho altro da aggiungere, se non ringraziarvi di cuore per il supporto.
Ci sentiamo alle recensioni.
Non ti scordar di me.
 
Ps: HO AGGIORNATO SUPEREROI FALLITI (altra mia storia DELENA) spero di sentirvi anche là e invito chi non l’abbia ancora letta di provare almeno a leggere l’introduzione.
Baci :*

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Capitolo 10
*** A match. A match? ***


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Capitolo dieci.
A Match. A match?
 
L’orologio segnavano le dodici del mattino e la voglia di andare all’Università si era eclissata da almeno una decina di giorni, non sarei mai riuscita a superare gli ultimi test e passare l’anno…Ma in quel momento non era quello l’importante, no, l’importante era capire cosa mi stesse succedendo.
Stavo, seriamente, nascondendo un omicidio? Perché sì, quello di Trevor, era un omicidio in piena regola. Quello psicopatico gli aveva sparato. E riuscivo ancora a sentire il ticchettio delle sue dita su quell’arnese, così come il suono di quello sparo riecheggiava nella mia mente costantemente.
Passai un po’ di fondotinta sulle occhiaie e infilai in tasca il cellulare e un pacchetto di sigarette. Mamma era a lavoro e non aveva ancora finito di ringraziarci per quella magnifica serata.
Non si era neanche accorta della nostra mancanza, o meglio se n’era accorta ma non ci aveva dato peso. I vestiti sporchi di sangue io stessa li avevo stracciati e bruciati nel caminetto di casa, quando non c’era nessuno. Dopo avevo tolto, persino, le ceneri.
Non era rimasto niente, nessun’altra prova se non la mia testimonianza.
Non avevo ancora capito cosa Damon e Joseph avessero architettato sapevo soltanto che si erano incontrati più volti da quel giorno, poi nient’altro.
Forse era meglio così, meglio non sapere i loro programmi così sbagliati. Sospirai e ripensai a quello che dovevo fare.
Era il decimo giorno che parlavo da sola davanti allo specchio. Non era strano, anzi. Mi sfogavo…E fin’ora non avevo trovato nessuno con cui parlare apertamente…Chi meglio di me? Chi meglio del mio riflesso poteva ascoltarmi?
Sapevo perfettamente che parlavo da sola, ma vedendo la mia immagina allo specchio pensavo di essere meno sola.
«Ho il coraggio. Ho la macchina. Ho tutto.» Mi girai di spalle e aprii la porta di camera mia. Mi affacciai in corridoio assicurandomi che né Stefan né Damon fossero nei dintorni.
A passo lento e silenzioso sgusciai fuori dalla stanza e afferrai le chiavi della macchina. Avevo deciso ormai e nessuno sarebbe riuscito a farmi cambiare idea.
Aprii la porta e presi un colpo – nel vero senso della parola – quando vidi la figura possente di Damon troneggiare lì davanti a me con espressione poco stupita.
«Diretta da qualche parte, tesoro?» Mi chiese con un mezzo sorriso. Bastardo. Sapeva perfettamente dov’ero diretta e trovavo incredibilmente stupido che Damon stesse facendo tutte quelle moine per non farmi uscire di là.
«Diretta alla centrale di polizia. Mi accompagni?» Gli chiesi diretta con lo stesso tono. Inventare scuse e far finte di temporeggiare con lui non funzionava, tanto valeva dirgli cosa volevo fare…Non poteva di sicuro tenermi rinchiusa in quella casa per sempre.
Non appena avesse abbassato la guardia, io sarei andata dritta dalla polizia e Joseph sarebbe finito in galera per parecchi anni.
«Certo, ti accompagno io.» Alzò semplicemente le spalle. Il suo sorriso era ancora lì ed era tediosamente fastidioso. Perché era lì? Perché non se ne andava? E soprattutto perché stava sorridendo?
Lui non sorrideva, non per quelle stupidaggini. Non per le mie provocazioni.
«Se vuoi accompagnarmi spostati.» Gli  feci notare con uno sguardo eloquente. Quella situazione era improponibile e i sensi di colpa per aver occultato – sì, io stavo occultando un cadavere tecnicamente – il corpo di Trevor cresceva sempre  più.
«Facciamo un accordo, ti va?» Mi chiese inumidendosi le labbra e porgendomi la mano. Alzai un sopraciglio dubbiosa e non accettai la mano.
«L’ultima volta non è finita bene. Cosa vuoi propormi questa volta? Una sfida a chi si ammazza prima?» Ringhiai spingendolo leggermente. Per pochi secondi, avevo sperato di poterlo spostare da lì…Damon – anche se evidentemente meno forte del passato – non si accennava a smuoversi di là.
«Un accordo più semplice, bimba. Paura?» Mi prese in giro con uno strano luccichio negli occhi. Sbuffai pesantemente e riflettei sulle sue parole…Potevo ascoltarlo, dopotutto non ero obbligata ad accettare quel suo patto.
«Damon, hai solo due minuti.» Gli comunicai dando uno sguardo al cellulare che avevo preso dalla tasca. «Dopo andrò dritta dalla polizia e se mi fermi ti denuncerò.» Continuai. Non avevo paura, anzi forse farlo marcire in prigione sarebbe stato veramente divertente…Scacciai quel pensiero dalla mente.
Non potevo far marcire mio fratello in prigione.
«Una giornata. Una giornata insieme.» Mi propose.
Scherza? Quell’idea era completamene irreale, io e Damon insieme, come farebbero due persone normali senza attentare l’incolumità dell’altro?
Non va bene. E non perché fossi assolutamente e incondizionata da lui, no, non andava bene perché stavo cedendo. Quell’odio mal celato – che non era neanche odio in realtà – stava cedendo, tutto intorno a me stava cedendo e questo avrebbe portato un altro problema.
Quello da cui scappavo da due anni.
«Se stai cercando di temporeggiare…» Partii in quarta, ma non continuai. Damon mi fece cenno di stare zitta e io lo feci continuare.
«Ti rimangono meno di due minuti per convincermi.» Gli dissi alzando lo sguardo e fissando quei lapislazzuli magnetici che mi squadravano attentamente.
«Una giornata per convincere l’altro a fare la cosa giusta.» Finì la sua proposta. Era insensata. A dire il vero tutto quello che succedeva tra me e Damon era fuori dal normale, noi eravamo insensati.
«Spiegati meglio.» Lo spronai mordendomi l’interno della guancia pensierosa sul da farsi. Damon era un mago per certe cose: riusciva a farti cambiare idea troppo repentinamente.
«Non sono passati già due minuti, bimba?» Mi prese in giro indicando il cellulare che scattò esattamente il passare del secondo minuto che gli avevo concesso.
«Tu spiegati.» Continuai ad insistere. Quella sua frase mi aveva messo quasi in allerta.
Una giornata per convincere l’altro a fare la cosa giusta. Cosa significava? Perché lui avrebbe dovuto convincere me a fare la cosa giusta? Io volevo fare, stranamente, la cosa giusto. Dovevo andare in quella fottuta centrale e dire quello che avevo visto con i miei occhi.
Cosa c’era di sbagliato?
Niente.
Era semplice, dovevo solo rifiutare il suo accordo…Anche se le cose potrebbero diventare più interessanti, magari potevo convincerlo realmente a fare la cosa giusta.
«Fidati del tuo istinto. Pensi che sia proficuo accettare questo accordo?» Quel tono maledettamente da saputello – non gli si addiceva affatto – non era ancora scomparso.
Ormai il danno è fatto. Andare ora o andare domani alla centrale. Lo farà ugualmente. Mi dissi. Gli afferrai la mano e la strinsi.
«Preparati, Salvatore.» Alzò gli occhi al cielo quando lo chiamai per cognome e sorrisi divertita. Mi chiusi alle spalle casa e diedi due mandate alla porta.
«Ora che ho accettato questa malsana idea…» Lo ammonii con lo sguardo. «Mi spieghi meglio cosa intendi per una giornata per convincere l’altro a fare la cosa giusta?» Scimmiottai un po’ per imitarlo.
«Quello che hai capito.» Mi rispose semplicemente infilando le mani in tasca. «Tu cos’hai capito, Elena?» Era ancora strano sentire il mio nome pronunciato da lui in modo non troppo cattivo.
«Dovrei convincerti ad andare dalla polizia perché è la cosa giusta da fare…E tu dovresti convincere me che non devo andarci…» Iniziai leggermente perplessa. Non era assolutamente un accordo normale, perché lui non mi avrebbe mai dato un motivo valido per non denunciare quello stronzo.
«Perspicace.» Commentò semplicemente.
«Per te, occultare la morte di quel disgraziato è la cosa giusta?» Forse alzai troppo il tono di voce, diverse persone che camminavano tranquillamente per il marciapiede si girarono verso di noi. Deglutii e li liquidai con uno sguardo, non avevo capito almeno il succo della questione.
Mancava solamente la voce che due giovani ragazzi litigavano sull’occultamento del cadavere e veramente sarei dovuta andare via anche da lì.
«Lo è.» Disse monosillabico.
«Convincimi, allora.» Lo sfidai. Il corvino piegò le sue labbra in un ghigno divertito e mi indicò la moto che era a pochi passi da noi.
«Sei venuto in aereo…Dove hai preso questa moto?» Gli chiesi con stizza, mentre Damon roteò gli occhi al cielo stufo di tutte quelle domande.
«Sali, bimba?» Mi porse il casco e anche se lo presi in mano non lo indossai.
Volevo sapere dove aveva preso quella moto, anzi volevo sapere se l’aveva comprata. Sto insinuando che è un ladro? Forse per qualche altra persona poteva sembrare strano, chi accuserebbe mai il fratello di aver rubato una moto?
«Prima dimmi dove l’hai presa.» Strinsi il casco al petto impaziente di aver una risposta che probabilmente non sarebbe mai arrivata.
«Da quando ti fai questi problemi?» Mi prese in contropiede e mi ritrovai spalle al muro questa volta: non potevo più ribattere. Perché se avessi detto qualcosa, sarebbe stato qualcosa di tremendamente scontato, come una di quelle frasi fatte prese da inutili clichè.
«Mi hai convinto.» Mugugnai quasi tra me e me. Infilai il casco e salii a bordo reggendomi al corvino. Non avevo bisogno di appoggiarmi a lui, potevo perfettamente rimanere in equilibrio, potevo reggermi ai lati…Potevo inventare tante di quelle scuse per non appoggiarmi a lui ma non ne ebbi il tempo, né la voglia.
Mi strinsi a lui e mi rilassai. Era piacevole, era da molto che non salivo su una moto con Damon.
L’ultima volta risaliva alla mia prima gara. Damon guidava e io ero dietro di lui, stretta a lui con il cuore a mille e l’agitazione palpabile persino nell’aria.
«Dove stiamo andando?» Gli chiesi notando che stava guidando verso la parte centrale di Londra, quella costeggiata da  diversi ristorantini – alcuni piuttosto scarsi, altri iper costosi –, poco lontani dalle metropolitane.
Parcheggiò non appena trovò posto, sciolsi velocemente le mia mani dalla sua vita e scesi togliendo il casco e poggiandolo sulla moto.
Il corvino perse diverso tempo con il parchimetro mentre io lo osservavo con aria più che divertita.
«Stai seriamente usando un parchimetro?» Gli chiesi alzando un sopraciglio. Voleva usare un parchimetro, ma non voleva rilevare un omicidio? Ho sempre pensato che abbia grandi problemi.
Sbuffai vistosamente alla sua non risposta e mi guardai attorno. Perché eravamo venuti qui?
«Non ho ancora capito cosa stai architettando.» Gli dissi una volta che aveva finito di sistemare quella stupida moto e smesso di litigare con il parchimetro.
«Mangiamo?» Rimasi momentaneamente senza parole. Mi stava seriamente chiedendo una cosa del genere?
«Tu vuoi mangiare?» Non che fosse qualcosa di così strano, solo che non mi aspettavo che fosse una specie di uscita. L’avevo presa come una giornata necessaria solo per provare a convincere l’altro a fare la cosa più sensata…Niente di particolare.
«Non possiamo parlare civilmente davanti a un po’ di cibo, bimba?» Mi sorrise ampiamente e mi porse il gomito da brava gentiluomo. Faticai a non ridere a quella versione surreale di Damon: quando mai avrei avuto la possibilità di vederlo di nuovo in versione così spensierata?
Sì, il Damon che avevo davanti era spensierato. Sembrava che stesse bene con sé stesso, ma non era possibile. Quel Damon era il Damon di due anni fa…Quella che mi stava mostrando era solo una maschera, o almeno questo ripetevo farneticamente nella mia mente cercando di non mostrarmi troppo debole a quell’improvvisata.
«Se per civilmente intendi senza insultarci, senza arrivare ad attacchi di rabbia, senza provare ad uccidere l’altro…credo sia quasi impossibile.» La buttai sull’ironia, anche se lo pensavo. Fin’ora non c’era stata una volta in cui io e il corvino fossimo riusciti a parlare senza imprevisti.
Non era giusto chiamarli imprevisti…Ma non avevo altre parole per descrivere quello che succedeva ad entrambi quando eravamo in compagnia l’uno dell’altro. Era come se avessi sempre un incentivo per attaccare bottone con lui, per parlargli, per farmi bruciare da lui e dalle sue parole.
«Uhm, sei molto scortese.» Disse con voce bassa. «Mi ricordi qualcuno…» Lasciò la frase in sospeso e scoppiai a ridere pensando che quel riferimento fosse a sé stesso. «Stefan è insopportabile a volte.» E risi ancora di più quando mi resi conto che il corvino era un tale egocentrico che poteva quasi superarmi.
«Non sembri tu…Pensi di potermi piegare con questo scadente umorismo?» La conversazione era leggera e noi camminavamo lungo la strada alla ricerca di chissà cosa.
«Penso di poterti piegare con un buon pranzo, quello sì.» Ammiccò leggermente indicandomi con un cenno del capo il luogo dove mangiare.
Ammisi a me stessa che Damon non aveva perso il suo lato chic. Quel bar, pizzeria – o qualunque altra cosa fosse – era di buon gusto. Forse troppo per essere un normale grill, mi ricordava un po’ quello di Mystic Falls.
«Non ho soldi, Damon.» Gli feci notare con un mezzo sorriso in volto.
«Non mangeremo gran chè.» Commentò con un’alzata di spalle aprendo la porta di quel bar. Entrai dentro e una ragazzo bruna ci venne incontro col fiatone.
«Solo in due?» Chiese mentre il suo sguardo vagava incessantemente dal blocchetto alla piccola saletta a loro due.
«Credo possa andare bene quel tavolo, no?» Aveva un accento inglese molto stretto. In tutti i casi annuii semplicemente e sforzai un sorriso avviandomi con Damon al seguito a quel tavolo.
«Mhm, hai la mia attenzione già per il tuo buon gusto Salvatore.» Dissi scrollando le spalle. Iniziai a leggere il menù e optai per qualcosa di semplice.
Da dietro il menù osservai con attenzione il corvino. Stava studiando attentamente il menù e aveva in volto un’espressione quasi disgustata – chissà su quale portata aveva posto la sua attenzione -. Era una scena comica, la sua espressione variava a secondo di cosa stesse leggendo.
«Ti stai divertendo, a quanto pare.» Smisi di ridacchiare e lui posò il menò.
«Non ne hai idea, Salvatore.» Continuai a chiamarlo per cognome: per lui era snervante e per me semplicemente ironico.
«Ora che hai finito di…osservare il menù, potremo parlare?» Gli chiesi sospirando. Il corvino scosse la testa divertito indicando con il capo la cameriera che stava venendo verso di noi con un sorriso tirato.
«Avete bisogno di aiuto?» Ci chiese cortese, senza distogliere lo sguardo dal suo taccuino.
«Il piatto numero quattro.» Rispose Damon.
«Anch’io.» Intervenni con un sorriso in volto. Mentre la ragazza appuntava tutto sul block notes, Damon scrutava ancora il menù. Era un metodo stupido per evitare di parlarmi?
«Anche due birre, grazie.» La bruna annuì semplicemente e andò ad accogliere altri due clienti appena entrati.
«Sentiamo un po’…Come va la scuola?» Sgranai la bocca a quella domanda inusuale. Perché chiedermi della scuola?
«Seriamente mi stai chiedendo una cosa del genere?» Gli chiesi ironica, sperando di suscitare sul suo viso una minima reazione. Il corvino in risposta alzò un sopraciglio in risposta.
«Seriamente non sai rispondere ad una domanda del genere?» Mi rimbeccò con aria saccente – aria che detestavo profondamente su di lui -.
«Che dire…Pensare che avevo cinque anni e curavo Stefan dicendo di voler diventare un medico e vedermi ora che sto studiando per diventare medico…» Non trovavo neanche io le parole per esprimermi, era qualcosa di sensazionale.
Pensare che un giorno qualcuno ti avrebbe chiesto cosa volevi fare da bambina e rispondere con un filo di orgoglio quello che sto facendo ora.
«Fa un certo effetto, eh?» Mi prese in giro. Annuii semplicemente e mi resi conto che in fondo era tutto merito suo. Costava tanto ammetterlo, ma se ora mi trovavo lì era solo per merito suo. Lui mi aveva condotto in quell’università, lui aveva ritirato i moduli per la borsa di studio…Aveva fatto tutto lui.
E io non l’ho mai ringraziato. Deglutii a fatica quando lo realizzai.
«Credo che il merito sia tuo…Tu mi hai convinta a realizzare il mio sogno.» Sussurrai. Era in imbarazzo e non solo perché lo stavo ringraziando, ero in imbarazzo perché non avevo mai sparato stronzata più grande di quella.
La verità era un’altra e anche Damon stentò a credere alle mie parole.
«Io ti ho dato il motivo per andartene.» Commentò a bruciapelo.
Colpita ed affondata. Lui mi aveva dato il reale motivo per andarmene via da quella piccola cittadina e forse lo stavo ringraziando proprio per questo.
«Sai non ti ho mai chiesto cosa tu abbia fatto in questi anni.» Dissi alzando le spalle e indirizzando l’argomento da me a lui. Quei sotterfugi erano le cose migliori che sapevo fare…Era l’unica cosa che potevo fare in quel momento, in una conversazione così scomoda.
«Ho impiegato il tempo…Cos’altro potevo fare?» Mi chiese.
«Magari trovare una ragazza?» Mi morsi la lingua non appena pronunciai quelle parole, non dovevo chiedergli una cosa del genere ma la mia bocca aveva già pronunciato quelle parole quando la parte razionale di me aveva capito del passo falso compiuto.
Probabilmente non si aspettava neanche lui quella domanda posta così, su due piedi e senza un motivo valido.
«Una ragazza, dici? Ho trovato altro da fare in quel tempo.» Commentò enigmatico. Perché intorno a lui aleggiava questo strano velone di mistero? Perché non riuscivo a spiegarmi nessuno dei suoi strani comportamenti?
«Cosa progettavi?» Lo presi in giro.
«Avevo in mente diversi piani.» Mi spiegò sorridendo cordialmente alla cameriera che aveva appena posato sul tavolo le birre e una bottiglia d’acqua che non le avevamo chiesto.
«Ne hai realizzato qualcuno fin’ora?» Era una conversazione normale dopotutto, anche se con lui dovevo sempre riflettere prima di parlare. Avevo sempre paura di dire qualcosa di sbagliato, qualcosa che ci facesse crollare, che minasse quel momento così calmo.
«Sì, credo di poter dire di averne realizzato qualcuno…» S’inumidì le labbra e bevve un sorso dalla birra. Cosa c’è di strano in te? Mi chiesi. Perchè in lui c’era quella scintilla di pura stranezza che mi metteva solo inquietudine? Anche se quello non era la domanda che più mi ronzava in mente, no, la cosa che mi chiedevo costantemente era perché quella stesse scintilla nei suoi occhi la vedevo nei miei quando parlavo di lui.
Quella piccolo scintilla che non sapevo definire perfettamente – pazzia? Follia? Stranezza? – mi spaventava e mi metteva a disagio…Disagio con le altre persone che sembravano sempre dannatamente perfette.
«Cos’hai realizzato? Sono curiosa.» Lo invitai prendendo la birra e versandone un po’ nel bicchiere. Bevvi solo per distendere momentaneamente i nervi che erano – come sempre con lui nei paraggi – a fior di pelle.
«Ho realizzato, probabilmente, una delle cose più importanti.» Perché non vuole dirmi cosa? Perché non si sbilanciava? Subito però mi resi conto che lui si era più che sbilanciato. Lui in quel momento, anzi, lui dal momento in cui mi aveva accompagnato da King si era più che sbilanciato.
Aveva mostrato nei miei confronti un emozione che non sia l’odio, il ribrezzo e il rigetto.
«Posso sapere cosa? O vuoi lasciare intorno a te questo alone di mistero tipico dei film gialli scadenti?» Andai al punto. Finalmente si lasciò andare ad una risata.
«Sono tornato qui.» Mi rivelò bevendo un altro sorso dalla  birra.
«Perché era così importante?» Gli chiesi curiosa deglutendo a vuoto e sperando che quella cameriere si muovesse. Almeno se avessimo avuto da mangiare, avremo ridotto al minimo il dialogo.
«E’ importante per realizzare un altro dei miei progetti.» Progetto di cui non mi avrebbe rivelato niente. Sapevo perfettamente che se avessi chiesto al corvino più informazioni avrei ottenuto la reazione contraria.
Si sarebbe chiuso in sé stesso, non raccontandomi niente.
«Spero che riuscirai a realizzare questi progetti, allora.» Gli dissi con un sorriso falso portando in alto la bottiglia di birra per un brindisi.
«Se sapessi cosa riguardano, non saresti così predisposta alla loro realizzazione.» Mi comunicò brindando con me. Mi attaccai anch’io alla bottiglia e mi leccai le labbra togliendo la birra in eccesso. Detestavo rimanere con le labbra completamente bagnate.
«Ah sì? E perché mai?» Chiesi curiosa, poggiando i gomiti sul tavolo.
«Perché riguardano te.» Il sorriso che avevo sul volto sparì velocemente, così come il battito del mio cuore che aumentò le pulsazioni. Quelle frasi – quasi ad effetto – non mi facevano bene, mettevano i brividi e aumentavano la mia curiosità.
«Riguardano me?» Il tono era provocatorio, ma la voce leggermente tremolante mi tradiva. «I tuoi due anni sono ruotati solo di me?» Gli chiesi provando a trattenere una risata. Era fuori di testa.
Nessuno sano di mente avrebbe passato più di due anni dietro ad un’altra persona.
«Vuoi farmi credere che in questi due anni tu ti sia scordata della mia esistenza?» Replicò divertito col suo ghigno bastardo sul volto.
Ero pazza. Pazza come lui. Perché, forse, lui aveva passato due anni della sua vita dietro il mio inutile ricordo e io, invece, avevo passato due anni con il suo maledetto ricordo che mi tormentava.
Con i ricordi più piacevoli, con quelli che mi facevano bruciare, con le sue labbra sulla mia pelle e le mie labbra sulle sue. E il suo sapore, quel sapore quasi paradisiaco mi mandava in estasi.
«Sono rimasta attaccata a un ricordo.» Confessai. Non era strano dirlo, non potevo dimenticarlo così…Era mio fratello, lo sarebbe sempre stato.
«Ma un ricordo tremendamente sbagliato.» Continuai poco dopo, stupendolo. «Perché ora che sei qui, che sei di fronte a me, posso dire che tu non coincidi con il mio ricordo.»
Gli occhi azzurri del ragazzo mi scrutarono attentamente pochi secondi, poi arrivò la cameriera con le portate.
Iniziai a mangiucchiare quello che c’era nel piatto senza distogliere lo sguardo dal corvino che non aveva toccato cibo.
«Com’era il tuo ricordo?» Mi chiese dopo essersi – apparentemente – ripreso. Sospirai e per pochi secondi chiusi gli occhi.
«Io ricordo un ragazzo stronzo e bastardo, con due occhi tremendamente tristi. un ragazzo sconvolto dalla morte della sua ragazza, l’unica che abbia probabilmente mai amato.» Dissi con un fil di voce. «Così all’inizio, poi col tempo i tuoi occhi diventavano sempre più lucenti e forse per poco avevo pensato che fosse merito mio.» Scrollai le spalle e mangiai un boccone di quello che mi avevano servito.
«Questo è il mio ricordo.» Continuai, visto che non accennava a dire altro.
«Per te, quindi, non sono più così?»
«Il tuo essere bastardo non è cambiato, tranquillo.» Cercai di smorzare l’aria più tetra che ci stava circondando.
«So solo che se prima eri una persona migliore, ora non rimane altro che un briciolo del vecchio Damon. Credo sia qualcosa di normale cambiare, ma siamo noi a decidere se cambiare in peggio o in meglio.» Nessuno aveva costretto a peggiorare, lui aveva scelto quel cambiamento.
«Non sono d’accordo.» Proruppe. «Non siamo noi a decidere se cambiare in meglio o in peggio. Le persone ti fanno cambiare e tu non puoi fare altro che cambiare irrimediabilmente adattandoti alle circostanze, altrimenti non ci sarà più posto per te.» Era, momentaneamente, ritornato alla sua freddezza disarmante.
Ignorai il suo repentino cambiamento di umore e a me stessa – perché non l’avrei mai ammesso a voce alta – dissi che il suo discorso non era del tutto insensato.
Tu potevi decidere come cambiare, ma le persone accanto a te in qualche modo ti influenzavano.
«La presenza di quale persona ti ha fatto diventare così?» Era stupido, più che stupido, pensare che lui in qualche modo stesse parlando di me…Così com’era stupido pensare di poter cambiarlo, perché nessuna donna al mondo sarebbe mai riuscita a cambiare un uomo.
Era una missione impossibile.
«Non sono cambiato per la presenza di determinate persone.» Commentò con la voce ancora dura e schietta. «Sono cambiato per l’assenza di determinate persone.» E quello fu il colpo decisivo.
Fu il colpo decisivo perché pensai che forse era colpa mia, forse io facevo parte di quelle determinate persone.
 
«Ancora non capisco perché mi hai fatto prendere una stupida metropolitana!» Gli urlai contro con i piedi che mi facevano male. Quegli stivali erano sempre stati comodi, ma da oggi non li avrei mai più indossati. Non sentivo più i piedi e quella giornata era stata un Inferno – nel vero senso della parola.
Dopo il pranzo – non era andato così male come pensavo – era stato un disastro, Damon aveva insistito per prendere la metropolitana e portarmi chissà dove.
Peccato che avessimo sbagliato due volte la fermata e non avevo fatto altro che bestemmiargli contro tutte le maledizioni che mi passavano per la mente.
«Siamo quasi arrivati, bimba.» Mi rassicurò prendendomi la mano e andando chissà dove. Lo seguii in silenzio e cercai di ignorare i brividi di piacere che mi colsero alla sprovvista quando la mia mano entrò in contatto con la sua.
«Damon siamo nella zona nord di Londra…Cosa può esserci di così interessante?» Sbottai lasciandogli la mano, attirando la sua attenzione. Mi sedetti sulla prima panchina che costeggiava il marciapiede e sospirai stanca.
«E’ la prima volta che prendo tre metropolitane, sai? Non è successo neanche i primi giorni in cui ero appena arrivata.» Sbuffai. Lo osservai con la coda nell’occhio sedersi accanto a me e un mezzo sorriso increspò le sue labbra.
«Siamo quasi arrivati. Fidati, ne vale la pena.» Sussurrò all’orecchio con il suo tono più roco.
«Damon questi stivali non sono il massimo della comodità.» Un momento…veramente stavo parlando di stivali? Con lui? Con la stessa persona che fina a una decina di giorni fa voleva distruggermi?
«Ti porto io.» Propose alzandosi repentinamente dalla panchina. Mi porse la mano e fece un mezzo inchino.
Sorrisi leggermente e lo osservai di sbieco, probabilmente sarei ceduta da un momento all’altro a quello sguardo.
«Sei serio?» Gli chiesi con un chiaro segno di ironia nella voce.
Damon alzò lo sguardo e scrutai con attenzione gli occhi azzurri del corvino. Avevo sempre invidiato quegli occhi che sembravano quasi vitrei.
Non riuscivi a leggere niente in quegli occhi troppo profondi, forse quello era uno dei tanti motivi per cui lui era ancora un rebus per me.
«Sulle mie spalle.» Commentò girandosi. A questo punto non trattenni più la voglia di scoppiare a ridere. Non avevo più dieci anni! Neanche papà faceva così quand’ero piccola.
«Scherzi?» Replicai ancora, incerta.
Damon roteò gli occhi al cielo e posò le sue mani sulle mie spalle.
«Devi solo aggrapparti alle mie spalle e io ti sorreggo le gambe.» Si girò di spalle e mi fece segno di aggrapparmi a lui. Poggiai le mani sulle sue spalle e con un piccolo balzo mi afferrò le cosce, mentre io allacciavo le braccia al suo collo.
Iniziò a camminare e io non riuscii ancora a credere che proprio lui – lo stesso ragazzo freddo e cinico di ieri – mi stava scarrozzando in giro per Londra come se fosse un taxi.
«Le persone ci stanno fissando…» Gli sussurrai all’orecchio non trattenendo le risate. Il mezzo sorriso ormai era diventato un vero e proprio sorriso.
«Ti vergogni?» Mi chiese divertito accelerando il passo. Poggiai la testa sulla sua spalla sinistra e la mia guancia sfiorò di poco la sua. La leggere barbetta sfiorò la mia pelle e il suo buon odore m’invase le narici.
Il suo profumo. Pensai subito. Non avevo ancora capito che tipo di profumo fosse, ma era paradisiaco. Non mi piacevano particolarmente i ragazzi che si riempivano di profumo, ma a lui non era uno di quei profumi troppo forti o stucchevoli…Era qualcosa alla Damon.
Era qualcosa che solo Damon poteva usare, che solo Damon poteva possedere. Perché quel profumo mischiato al suo dopobarba non poteva averlo nessuno, perché nessuno poteva avere il suo buon odore.
«Lo trovo divertente…» Soffiai al suo orecchio. Il corvino iniziò man mano a rallentare il passo e io spalancai la bocca quando vidi quella magnifica distesa d’erba sotto i miei occhi.
«Ora si gioca, bimba.» Iniziò a correre velocemente, troppo velocemente, con me sopra di lui. Era un bel parchetto che non avevo mai visto.
«Damon potremo cadere…» Lo avvertii stringendomi maggiormente a lui.
Niente da fare, le mie parole furono completamente ignorate. Anzi continuò a correre e ad un certo punto rallentò bruscamente la velocità lasciando la presa sulle cosce.
Sorpresa da quel gesto, istintivamente, mi aggrappai maggiormente a lui ed entrambi ci sbilanciammo in avanti.
«Oh Dio.» Bofonchiò il corvino, cadendo rovinosamente a terra con me sopra di lui. In volto aveva un’espressione buffa, sembrava contrariata ma il luccichio dei suoi occhi mi faceva capire che non era realmente infastidito. Era divertito.
Damon con un movimento secco si girò supino e io mi sistemai al suo fianco.
«Sei così maldestra…» Commentò a bassa voce spostando la sua mano sul mio fianco. Iniziò a disegnare una serie di cerchi immaginari sul fianco con un mezzo sorrisetto sul volto.
«Sei così indecifrabile…» Replicai alzando lo sguardo.
Quegli atteggiamenti mi facevano solo confondere maggiormente. Un momento prima mi ricordava il vecchio Damon, il Damon per cui avevo perso completamente la testa…E pochi istanti dopo si chiudeva nel suo piccolo mondo grigio e cupo in cui non mi aveva mai permesso di entrare.
Persino quando mi aveva rivelato la morta di Katherine era rimasto sempre chiuso in sé stesso, persino in quella lettera che avevo trovato sulla tomba della ragazza avevo avvertito sempre una sorta di rigetto o di paura ad aprirsi con me. Nonostante avessimo condiviso situazioni complicate.
«Fin’ora abbiamo parlato di cosa io penso di te.» Esalai con calma. «Tu? Il tuo ricordo coincide con quello che sono ora?» Gli chiesi curiosa.
Quella mattinata da un lato era stata più che produttiva. Io e Damon avevamo riscoperto quel legame strano che un tempo avevamo, era come se fossimo ritornati indietro. Come se non avessi mai scoperto di Katherine, come se non avessi mai collegato Ian a Damon.
Ed era perfetto. Costatai con rammarico. Mangiare insieme e parlare normalmente, come farebbero tutti, mi aveva fatto ricordare quant’era bello non sapere.
Forse se fossi ritornata indietro ora mi sarei fermata, forse avrei impedito a me stessa di andare quella mattina a quel cimitero.
Forse Damon mi avrebbe rivelato la verità. E io non sarei scappata. A distanza di anni ancora mi ponevo questo quesito: cosa sarebbe successo se non fossi mai andata in quel cimitero e non l’avessi visto lì?
«Il mio ricordo era piuttosto sfocato…» Disse con un mezzo sorriso fissando un punto indefinito sopra di noi. Eravamo ancora stesi a terra e lui aveva iniziato a fissare il cielo. Non avevo mai osservato il cielo a Londra, non in una giornata non piovosa, non con accanto Damon.
Era un azzurro limpido ricordava vagamente i suoi occhi. La stessa intensità di colore, gli occhi di Damon erano dello stesso colore del cielo.
E non solo. I suoi occhi erano il cielo. Com’era possibile che un paio di occhi possano racchiudere così tanti sentimenti? E che possano anche tenerli mascherati?
«Ricordo una ragazza codarda che è fuggita da qualcosa di troppo grande per lei.» Commentò con un tono duro. Era strano parlargli senza guardarlo negli occhi, anche se tecnicamente potevo sempre fissare il cielo. L’intensità sarebbe stata la stessa.
«Eri spaventata dai tuoi sentimenti, da me, da Katherine.» Continuò ancora. Non avevo mai notato la sua capacità di leggere gli sguardi.
Ripensai alla scelta di venire a vivere a Londra forse quella era stata la scelta più avventata che avessi mai preso da sola e senza l’influenza di nessuno.
Prenderla da sola, ignorando l’aiuto di mio padre e dei miei fratelli, era stata una mia decisione. Perché non potevo rendere partecipi nessuno di loro di quello che in realtà pensavo mentre compivo quella follia.
Forse solo Damon ci era arrivato, lui con quella frase che aveva appena pronunciato mi aveva fatto capire di avermi compreso alla perfezione.
«E perché mai?» Gli chiesi curiosa. Più che altro volevo vedere se fosse così intelligente e sveglio come pensavo. E sapevo perfettamente che lui era molto più sveglio di come pensassi, era un tipo furbo e pieno di risorse.
Aveva sempre un asso nella manica e oggi me l’aveva dimostrato nuovamente. Oggi con la sua proposta di quell’uscita era riuscito a giocarmi, ad allontanarmi dalla voglia di correre dalla polizia e denunciare Joseph e quel delitto.
Probabilmente quei modi gentili erano dovuti solo a quello, erano dovuto a qualcosa che dovevi fare per salvarti la pelle. Damon aveva bisogno di salvarsi la pelle, di rifugiarsi e forse quello era uno dei suoi tanti piani.
Uno dei tanti piani che aveva sviluppato recentemente.
«Perché non sapevi gestire questa bomba. Io ti ritenevo all’altezza di reggere tutto, sai?» Disse e nella sua voce lessi quasi l’intento di provocarmi. Feci finta di non ascoltare quella vocina che mi consigliava di rispondergli male e mi stetti zitta perché dopotutto aveva ragione lui.
Avevo paura di quello che poteva succedere.
Avevo paura di tutte quelle persone pronte a parlarmi da dietro, pensare solo di camminare per Mystic Falls e sentire gli occhi di tutti su di me.
Non era qualcosa che rientrava nelle mie competenze.
Era un punto debole.
«Per questo non ti ho impedito di partire.» Per un momento chiusi gli occhi assimilando quella verità cruda. Perché fino a quel momento mi aggrappavo alle sue ultime parole. Alla parole sussurrate il giorno del viaggio, alle parole più dolci che qualcuno mi avesse mai detto.
Però le avevo interpretate male.
Mi aveva lasciato andare, sì. Ma non perché mi amasse, no, il suo intento non era quello. Lui già sapeva che non mi amava, che quel sentimento strano e malato era solo una collisione, solo un errore.
Il suo intento era quello di lasciarmi crescere, lasciarmi crescere e forse poter cambiare. Perché se fossi tornata indietro non sarei più partita.
Non sarei partita senza lui. O almeno sarei partita, ma avrei continuato a parlargli. Avrei continuato a farmi sentire. Io, invece, da brava stronza l’avevo tagliato fuori e lui aveva fatto lo stesso.
«E ora? Cosa vedi ora?»
Più che altro ero incuriosita, mi aveva dipinto in modo strano…In modo piuttosto colorito. E forse tutto il suo odio era giustificato, forse avrei potuto anche scrivergli un semplice messaggio per fargli sapere che io non mi dimenticavo di lui.
«Un fiammifero.»
«Un fiammifero?»
«Un fiammifero che prova a battere le tenebre. Ecco cosa sei ora.» Non replicai più a quel botta e risposta. Anche perché non sapevo cosa dirgli. Non riuscivo a comprendere appieno ciò che volesse dirmi.
«Spiegati meglio.» Lo incoraggiai, girandomi di fianco per osservarlo meglio. Mi ero stancata di osservare il cielo, ora osservavo il suo profilo.
Le sue ciglia erano lunghe e il suo profilo pressoché perfetto. Il suo petto si alzava e abbassava a seconda del suo respiro e i suoi occhi ancora fissi su un punto dell’enorme cielo che ci sovrastava.
«Vedila così. Un fiammifero è qualcosa di piccolo, di debole, qualcosa di insignificante.» Ero così inutile per lui? E la paura di essere di troppo ritornò a farmi visita per pochi istanti. La paura di essere un reietto, di essere qualcosa di sbagliato, di essere fuoriposto mi fece visita dopo anni.
«E le tenebre…Le tenebre sono qualcosa di indefinito. Qualcosa di paurosamente grande, di buio, qualcosa di enorme pronto ad inghiottirci giù e trattenerci lì lasciandoci soffocare.» Uno dei pensieri più filosofici sentiti dalla sua bocca probabilmente.
«Il fiammifero sei tu, le tenebre sono la società.» Continuò sistemandosi meglio sull’erba. Sospirò e finalmente si girò su un fianco.
«E’ la situazione contraria a due anni fa…» Costatai ridacchiando di gusto.
Prima scappavo dalla società, scappavo a gambe levate. La voglia di scappare era costante e arrivata a Londra avevo trovato davanti una nuova realtà.
Scappando da Mystic Falls, ero scappata anche dalla società. Scappata dai mormorii e dalle brutte parole, dalle frase sussurrate e dalla voci finti, dagli amici non veri e dagli amori destinati a finire.
Ora, invece, la situazione si era ribaltata.
Io non scappavo più dalla società. Era la società che scappava da me. Perché per quanto avessi provato ad iscrivermi all’università, per quanto avessi provato a farmi nuove amicizie, per quanto avessi cercato di stare negli schemi era impossibile.
Era impossibile essere perfetti come quegli schemi ordinavano. O almeno lo era per me.
«Sapevo che prima o poi saresti cambiata…Saresti diventata la ragazza che volevi. La ragazza che vuole gareggiare su una moto senza paura di sfracellarsi, la ragazza che vuole difendere l’amico buttandosi in una missione impossibile, la ragazza che vuole distruggere il fratello perché è annoiata dalla vita.»
Finì di parlare e le sue labbra furono sulle mie.
Ancora non capivo com’era possibile sentirsi così per una persona che aveva il tuo stesso sangue. Così come non capivo fin dove il suo odio si potesse spingere.
«Non ti capirò mai…» Sussurrai a fior di labbra. «Non dovevi convincermi a fare la cosa giusta?» Continuai col fiato spezzato.
«Ti è piaciuta questa giornata?» Mi chiese. Annuii confusa. «Se vuoi altre giornate così normali, non devi denunciare quel bastardo.» La normalità. A quella parole i miei occhi si illuminarono, quanto desideravo qualcosa di normale…E questa giornata era stata un piccolo assaggio di quella normalità che avevano segnato i miei primi diciotto anni di vita.
Ora avevo vent’anni e la parola normale mi sembrava solo un ricordo, eppure erano passati scarsi tre anni.
«Devi solo lascia perdere tutto questo. Non andare più alla pista di motocross, non frequentare più questi posti. Dimenticati di questo omicidio.» Mi spiegò.
Scossi la testa. No. Non potevo e per quanto desiderassi la normalità non era quella la scelta giusta.
«E tu?»
«Occulterò tutto questo, bimba.» Sussurrò lasciandomi un bacio vicino all’orecchio. Gemetti in silenzio e sospirai.
«No.» Lui alzò lo sguardo con gli occhi sorpresi. «Non ti lascio nella merda per colpa mia.»
Io, Elena Salvatore, avevo rinunciato all’unica possibilità di avere una vita normale.
E l’avevo fatto per mio fratello, fratello che progettava di distruggermi.
 
 
 
 





























A/N:
Sono tornata puntuale con un capitolo diverso dal solito. Molte di voi mi avete chiesto quando sarebbe arrivato il momento per i due di ‘andare avanti’, be’ è arrivato!
Ora posso dire che la storia inizia a farsi più interessante! *-* Molto più che interessante, anche perché più va avanti più la situazione cambia!
In tutti i casi, prima ringrazio le 6 anime che hanno recensito (NianDelLove, Ire_39, PrincessOfDarkness90, NikkiSomerhalder, Bea_01 e Atlantide08), le 40 che l’hanno inserita nelle preferite, le 37 che l’hanno inserita nelle seguite e le 6 che l’hanno inserita nelle ricordate.
Passo ora al capitolo.
Premetto che è forse un po’ troppo lungo, perciò se volete che le dimensioni siano ridotte basta che me lo dite. Anche se credo che non vi spiaccia se siano così lunghi, no? :)
Sorpassato questo appunto, vi dico che sto vomitando arcobaleni e cuori perché quei due stanno facendo progressi!
Dai, so perfettamente che anche voi eravate sconvolte quando Damon l’ha presa in braccio stile ‘scimmia’! Scusate ma quella scena era troppo naijfvanirfgvjnaseiaebniu nel mio subconscio e ho dovuto scriverla! *-*
In tutti i casi, ho anche svelato molto in questo capitolo.
Ho svelato il motivo per cui il titolo della storia sia Amore Proibito: Un fiammifero batte le tenebre?
Credo che non ci sia altro da dire perché nel capitolo sono stata chiara, nel prequel tutto era incentrato sul ‘proibito’ e anche se molte di voi definivano il loro un amore non lo era, era solo un proibito e potete interpretarlo nel modo in cui preferite.
Ora il sequel è diverso, perché l’attenzione non va riposta nella prima parte del titolo. L’attenzione va sul un fiammifero batte le tenebre? Perché è come chiedersi se Elena ce la farà a battere tutto questo.
Per voi ce la farà?
Poi…Volevo fare un altro appunto, giusto per aiutarvi con le idee. Damon le ha spiegato come lui la vedeva un tempo e come la vede ora. Elena ora è diventata quello che lei ha sempre tenuto chiuso dentro sé. Damon stesso ha detto che lei ha deciso di distruggerlo senza un motivo, ha accettato quella scommessa perché era annoiata dalla vita.
Forse è per questo che l’ha voluta annullare? Perché ora c’è qualcosa che rende la sua vita meno noiosa? Cosa per voi? E Damon? Elena agisce per noia (così la definisce il corvino), Damon per cosa esattamente?
L'ultima cosa riguarda Joseph, credo che questi giri più o meno vi siano chiari. Diciamo che Damon le ha proposto solamente un assaggio di normalità per poi dirle che di starne fuori per continuare con quella normalità. Lei però decide di non lasciarlo in quel guaio da solo. L'ultima frase in corsivo cosa vi fa pensare?
Mhm, credo che ora possa salutarvi e mandarvi un abbraccio, sperando di sentirvi numerosi alle recensioni!
 
NB. NON AGGIORNERO’ LA PROSSIMA SETTIMANA DI VENERDI’, MA CON UN PAIO DI GIORNI IN RITARDO. SONO FUORI CASA E NON POSSO PORTARMI IL COMPUTER.
SPERO POSSIATE PERDONARMI.

 
Non ti scordar di me.

 
 

 

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Capitolo 11
*** Past. ***


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Il capitolo presenta FRASI FORTI CHE POTREBBERO INFLUENZARE NEGATIVAMENTE IL LETTORE, NON per persone facilmente influenzabili.
RIPETO: NON condivido assolutamente quello che fanno i personaggi della mia storia.
 
Capitolo undici.
Past.
 
«Non sei obbligata a fare niente.» Sospirò per la duecentesima volta Damon aprendomi lo sportello dell’auto di mamma e invitandomi con un cenno del capo ad entrarci.
«Chi ti ha detto che mi sento obbligata a fare una cosa del genere?» Gli chiesi alzando gli occhi al cielo con stizza. Mi allacciai la cintura di sicurezza e mi appiattii contro il sedile sperando che tutto finisse al più presto.
«Elena puoi rimanere a casa.» Mi ripeté infilando le chiavi nella toppa e accendendo il motore. «Io e Joseph discuteremo di…» Si bloccò osservando il mio sguardo perplesso e non continuò.
Deglutì e prese una lunga boccata d’aria, prima di far muovere finalmente quella macchina.
«Discutere?» Chiesi alzando un sopraciglio incerta. Già mi puzzava parecchio quel discutere, sapevo che il loro discutere non equivaleva al mio di discutere.
Era uno delle tante motivazioni per cui avevo convinto – o meglio, per cui avevo costretto – Damon a portarmi con sé: speravo che con una ragazza presente la situazione non sarebbe degenerata.
«Di cosa, precisamente?» Insistetti. Il corvino fermò la macchina al semaforo rosso e iniziò a picchiettare sul finestrino un motivetto improvvisato ignorandomi completamente.
«Porca miseria, parla!» Alzai la voce sedendomi meglio sul sedile. Damon – per la terza volta – mi ignorò e partì visto che il semaforo era passato dal rosso al verde.
«Del cadavere.» Sbottò dopo pochi istanti di silenzio.
Spalancai la bocca e sgranai gli occhi, mentre un groppo si formava all’altezza della gola. Ero convinta che avessero già risolto questo problema, Damon mi aveva detto che avevano risolto questa parte di questa situazione complessa.
«Pensi di spaventarmi e farmi scappare a gambe levate?» Ridacchiai a disagio spostandomi i capelli dalla spalla sinistra a quella destra.
«So che non mi lasceresti.» Commentò con un mezzo sorriso. Il tono fastidioso e maledettamente sicuro che aveva usato mi mandava in bestia, così come mi mandava in bestia il fatto che lui avesse completamente ragione.
«Non hai pensato che potrei non mantenere la nostra promessa?» Chiesi curiosa. Quest’idea non mi era passata neanche per un secondo nella mente, non avevo mai calcolato l’ipotesi di tradire mio fratello, sangue del mio sangue.
«Ho pensato anche a questo.» Disse telegrafico girando a destra e incanalandosi in una strada che ci avrebbe condotti alla periferia di Londra.
«E non hai paura?» Damon non aveva mai girato lo sguardo verso di me, era rimasto fermo ed immobile. Il respiro calmo e regolarizzato come se fosse un normale viaggio in macchina e aveva, persino, il coraggio di comportarsi da grande bastardo.
«Che tu possa tradirmi?» Rise apertamente e mi chiesi se le mie mosse fossero così semplici da codificare. «Non molto, sinceramente.» Disse regolando le risa spropositate.
Perché? Pensai tra me e me. Non diedi voce a quello che avevo pensato, Damon probabilmente aveva già capito dove volevo andare a parare.
«Se avessi il minimo sospetto che tu volessi tradirci, ti avrei già uccisa.» Sentire una frase dal genere ti destabilizzava, completamente. Non avevo mai pensato, né calcolato l’ipotesi che Damon mi volesse uccidere o si volesse assicurare il mio silenzio.
Non può dire sul serio. Sono sua sorella.
Potevo pensare solamente a questo, solo questo pensiero mi vorticava in mente mentre mantenevo un’espressione seria e imperturbabile.
«Sono tua sorella.» Gli ricordai alzando un sopraciglio. Il corvino si girò repentinamente verso di me, rivolgendomi una mezza occhiata interrogativa.
«Avresti il coraggio di guardarmi negli occhi e uccidermi a sangue freddo?» Non mi pentii affatto di quella domanda avventata. Per quanto temessi la sua risposta, non potevo avere questo dubbio: volevo sapere se quello che stavo facendo – se coprirlo – aveva un senso. Volevo avere la certezza che lui non si sarebbe seriamente sbarazzato di me se diventassi troppo scomoda.
Il silenzio governò nell’abitacolo diversi minuti, io non replicai più e Damon guidava in silenzio stringendo le mani intorno al volante tanto forte da far diventare le nocche bianche.
Parcheggiò vicino ad un marciapiede e riconobbi subito il posto in cui ci trovavamo. Eravamo a pochi isolati di distanza dalla vecchia scuola di ballo, solo a ricordare quel luogo mi venivano i brividi, pensare che lì dentro era morto qualcuno e che io stavo aiutando l’assassino a coprire il danno mi faceva accapponare la pelle e i sensi di colpa riemergevano troppo velocemente.
«Damon, voglio una risposta.» Gli dissi slacciandomi la cintura e sbattendo con forza lo sportello. Il corvino scese subito dopo di me e mi affiancò accelerando di poco il passo.
Non mi rispose, continuò a camminare e mi superò di qualche metro avviandosi spedito verso quel lugubre luogo.
Dio mio. Pensai trattenendo l’aria per l’ansia.
«Fermati!» Gli urlai a gran voce. «Sono sempre in tempo per ritornare indietro e fare una cazzata, sai?» Solo a queste parole finalmente si fermò e si girò, costatando che la distanza che ci separava era di svariati metri.
«Non ho tempo per i capricci.» Mi rispose acido giocherellando con le chiavi dell’auto.
Capricci? Detestavo quando giocava quella carta: tentava di farmi cambiare idea e di rimandare qualche discorso che sapeva avremo affrontato.
«Non ho tempo da spendere con una persona che mi ucciderebbe senza problemi.» Risposi piccata. Lo vidi sgranare gli occhi e mordersi l’interno guancia, combattuto sul da farsi.
«Vuoi parlare di questo proprio ora?» Ringhiò facendo un paio di passi avanti. Gli occhi quasi gli uscivano fuori dalle orbite, era tangibile il suo nervosismo.
«Voglio solo una risposta.» Gli feci notare avvicinandomi a lui e affiancandolo completamente. I suoi occhi azzurri scrutavano attentamente il mio volto, aprì la bocca ma non ne uscì fuori alcun suono. Sembrò rifletterci su e solo dopo pochi secondi decise di parlare.
«Forse non ti è chiaro una cosa. Sono disposto a giocare carte false per assicurarmi che le persone che amo stiano bene…» La prima cosa che mi chiesi era se io ero tra quelle persone, chissà se in quel piccolo cerchio di persone c’ero anch’io.
«Ero disposto a tirarti fuori da questa merda, okay? Tu hai deciso di arrivare fino in fondo e qui ognuno cerca di sopravvivere a modo proprio.» Scandiva attentamente tutto ciò che diceva, stava pesando tutto quello che diceva, quasi a volermi far capire l’importanza di quello che stava cercando di trasmettermi.
«Ognuno è custode della propria vita, ora.» Sospirò. «E io non posso proteggere la mia vita e la tua, chiaro? Le mie forze bastano solo per una persona.» Mi prese per le spalle e alzai lo sguardo incontrando quei magnifici occhi azzurri che nascondevano troppe ombre.
Ombre di cui non sapevo neanche l’esistenza.
«Vuoi che impieghi le mie forze per proteggere la tua vita?» Persi un battito quando sentii quelle parole pronunciate proprio da lui. Era un ragionamento così masochista degno di Damon Salvatore.
«Non ti chiederei mai una cosa del genere.» Dissi a muso duro. Mi infastidiva, mi nauseava il solo pensiero che mi avesse considerata così narcisista e stronza da chiedergli di rinunciare alla sua vita per me. Nessuno poteva fare questo discorso, nessuno. Neanche lui, neanche il peggiore degli assassini poteva considerare così banale la propria vita.
«Mi stai dicendo di impiegare le mie forze per me stesso, ti prendo in parola. Per difendermi sono disposto a giocare carte false con tutti, anche con te.» La sua risposta era un fottuto sì. Lui per difendere la sua vita, sarebbe arrivato ad uccidere sua sorella.
Forse alle orecchie di qualcun altro, Damon poteva sembrare un abominio…Io invece non lo vedevo così. Il suo era…istinto di conservazione. Forse non era la definizione più appropriata da dargli, ma in quel momento non riuscivo a catalogarlo come altro. Non volevo pensare a lui come un mostro.
Perché non lo era.
«E ti chiedo, Elena, di giurarmi che giocherai carte false anche tu per la tua vita.» Inclinai leggermente la testa sorpresa.
«Che intendi?» Mi aspettavo che la voce mi uscisse come un debole sussurro o che non uscisse affatto, invece ormai avevo imparato a non rimanere mai senza parole. Tutto quello che avevo sentito – e che stavo sentendo – mi facevano sempre comprendere di più come questo mondo sia completamente inesplorato per me.
Avevo vissuto così tanti anni nel buio, alla ricerca di qualcosa di stupido, alla ricerca del lieto fine, alla ricerca del brivido…Ed ora era questo il prezzo da pagare.
Mi ero immischiata in questo casino solo per noia, per provare qualcosa di diverso…Questo era il risultato.
«Intendo che se un giorno dovrai uccidermi perché ti sarò di intralcio, tu dovrai farlo.» Il tono di Damon così serio e raschiato mi faceva pensare che avesse qualcosa in mente, che uno dei suoi piani sarebbe stato più dannoso per lui che per me.
«Non dirlo neanche per scherzo.» Lo aggredii liberandomi delle sue mani sulle mie spalle. Cercai di togliermi di dosso quella sensazione soffocante e continuai a camminare dritta vedendo da lontano l’insegna della scuola in cui Joseph ci stava aspettando.
Non volevo neanche pensare a qualcosa di così macabro. Non volevo neanche pensare che un giorno questa storia si sarebbe conclusa, non volevo immaginare il finale di questa storia perché il mio cuore sapeva che non si sarebbe conclusa bene.
«Promettimelo.» Mi prese il polso. Non osai neanche girarmi per guardarlo in quegli occhi. «Devo sapere che se ci fossero complicazioni, tu saresti disposta ad uccidermi così come io lo sono io.» Voleva assicurarsi che avessi il coraggio di farlo fuori? No, non era questo che voleva assicurarsi.
La sua era una tacita supplica, mi stava chiedendo di ucciderlo. Perché sapeva che lui non mi avrebbe uccisa, però voleva la certezza che io ne fossi in grado.
«E se entrambi promettessimo di proteggere l’altro a costo della vita?» Avevo in qualche modo eluso la sua supplica, dandogli un motivo per restare.
«Stai dicendo che dovremo impiegare le nostre forze per proteggerci?» Non ha capito cosa intendo. Scossi la testa e deglutii sapendo che quello che stavo per dire era tremendamente sbagliato.
«Sto dicendo di essere disposta a impiegare le mie forze per proteggere te, se tu fossi disposto a impiegare le tue forze per proteggere me.»
Entrambi dovevamo avere la vita dell’altro nelle nostre mani. Solo così potevamo veramente avere la voglia di combattere.
Mi aveva detto di essere disposto di impiegare le sue forze per me, non mi andava bene. O entrambi impiegavamo le nostre forze per l’altro, o niente.
«Pensi che ti lascerei fare una cosa del genere? Che razza di fratello sarei?» La sua mano mi sfiorò il fianco e distolse per pochi istanti i suoi occhi azzurri per guardare altrove.
«E’ un patto equo, Damon.» Gli dissi, cercando di sottrarmi alle sue mani che ora mi circondavano il bacino. Il suo profumo mi inondò le narici e mi resi conto che non sarei mai stata in grado di ucciderlo. Non avevo il coraggio, non avevo la voglia.
«Tu non devi impiegare le tue forze per proteggermi. Impiegale per proteggere te stessa.»
«Damon, devi capire che non sarò mai in grado di ucciderti.» Incominciai tentennando. «Se vuoi morire, almeno fallo combattendo. Non ti faciliterò il gioco con questa storia perversa dell’ucciderci a vicenda.» In realtà stavo cerando di carpire più informazioni possibili. Dovevo capire perché volesse a tutti i costi morire, dovevo sapere perché la sua voglia di vivere era sotto zero.
«O almeno, abbi il coraggio di segnare la fine della tua vita.» Gli stavo suggerendo di uccidersi? Stavo, seriamente, suggerendo di togliersi la vita?
«Non mi manca il coraggio.» Soffiò a voce bassa provocandomi mille brividi. Al sol pensiero di Damon che compisse un gesto del genere, mi veniva già la pelle d’oca. «Ma preferisco aspettare.»
«Aspettare che sia qualcuno di degno di mettere fine alla mia vita.» A quelle parole scoppiai, la mia mano entrò in collisione col suo volto. Il suono dello schiaffo risuonò nel silenzio di quelle stradine.
«Nessuno sarà mai degno di toglierti la vita. Nessuno, Damon. E mi fa schifo, mi fa schifo pensare che per te la tua vita valga così poco.» Gli dissi a denti stretti. Il corvino non reagì, non aprì neanche la bocca riguardo lo schiaffo.
«Mi fa schifo pensare che tu per un momento abbia pensato seriamente di chiudere tutto senza dirmi addio.» Lo guardai negli occhi e sentii un macigno gravare sul cuore quando incontrai quegli occhi così colpevoli.
E allora realizzai quello che stava succedendo.
«Tu…tu hai…Seriamente hai pensato di farlo? Senza dire niente a me? A Stefan? Alla tua famiglia?» Mi sentii sconsolata.
Era depresso. Pensai. Era ad una depressione avanzata, probabilmente. E né io, né la mamma ne sapevamo qualcosa.
Stupida. Stupida perché non ci ero arrivata prima.
Sciocca. Sciocca perché tante volte gli avevo detto e ripetuto che per me, lui era uno zero.
Inutile. Inutile perché mio fratello voleva morire e io non gli stavo dando motivo di andare avanti.
«Sono padrone della mia vita.» Riuscì a replicare solo questo.
«Tu NON sei padrone di un cazzo. Se fossi padrone della tua vita, non faresti questi discorsi campati in aria!» Ruggii infastidita dandogli una spinta che non gli fece alcun effetto.
«Non puoi parlare. Non ci sei stata in questi anni.» Non disse queste parole in modo acido, il suo tono era piatto, neutro. Parole piene di apatia ed indifferenza.
«Ci sono ora, però.» Non lo lascerò. «E se ti serve un motivo per vivere, te lo darò io. Non hai voglia di impiegare le tue forze per te stesso, impiegale per me. E io le impiegherò per te.»
Sentendo le ultime parole arricciò il naso.
«Non c’è bisogno che tu spreca le tue energie per me.» Deglutii, già pensando alle miliardi di soluzione che potevo analizzare per aiutare Damon ad uscire da quel tunnel nero e buio che lo stava inghiottendo.
«Lo voglio fare.» Insistetti.
«Come puoi fidarti completamente di me?» Mi chiese ancora con uno sguardo indecifrabile.
«Da quello che ho potuto sentire, vuoi mettere fine alla tua vita ma non vuoi mettere fine alla mia.» Doveva solamente trovare un motivo per andare avanti e capire che non era la soluzione giusta finire la sua vita in quel modo.
«Ci sto.» Mi porse la mano e gliela strinsi. Dopo di che ci rivolgemmo uno sguardo d’intesa e ci avviammo verso il nostro punto di incontro – sempre con le mani intrecciate. –
«Sei armato?» Gli chiesi ad un certo punto. Sapevo che non aveva armi con sé, quella pistola che aveva con sé – la sera di quel maledetto giorno – l’aveva solamente sottratta ad uno dei tanti delinquenti che aveva sotto tiro.
«Solo un coltellino.» Rispose asciutto aprendo con un calcio secco la porta. Misi piede all’interno e presi quasi un colpo vedendo che Joseph era seduto sulle scale di fronte a noi con una sigaretta in mano e ci squadrava divertito.
«La prima ragazza con il fegato di rimanere invischiata in una situazione del genere, ti ammiro.» Si alzò da sedere e fece cadere un po’ di cenere a terra.
«Smettila.» Intervenne con voce secca Damon. Il corvino si ancorò maggiormente alla mia mano, stringendola più forte e io provai a rispondere alla sua stretta poderosa con tutta la forza che possedevo.
«Salta i convenevoli.» Lo appoggiai irrigidendo tutti i muscoli del corpo vedendo che Joseph ci faceva segno di seguirlo.
«Rilassati, bimba.» Mi sussurrò lentamente all’orecchio guidandomi verso una delle tante sale da ballo che il ragazzo aveva improvvisato a mo’ di ufficio.
«Non capisco perché siamo qui.» Gli dissi non curandomi del tono di voce troppo alto, volevo che Joseph mi sentisse e che magari fosse lui a rispondermi. Damon mi aveva detto che dovevano parlare del cadavere, ma non ero così stupida da credere che dopo più due settimane quei due non si fossero già sbarazzati del corpo del povero Trevor.
«Ottima domanda, Elena.» Damon fu preceduto da quel bastardo che aveva accavallato le gambe e aspirava fumo dalla seconda sigaretta che aveva acceso non appena messo piede in quella stanza.
«Rispondi allora.» La buttò lì il corvino. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, incontrai i suoi occhi e capii che neanche lui sapeva il reale motivo per cui quello stronzo ci aveva chiamati.
E’ un’imboscata. Fu il primo pensiero che mi venne in mente e iniziai a guardarmi attorno sperando di trovare una possibile via d’uscita in caso di problemi.
«Tranquillo, amico. Abbiamo sistemato il cadavere…La questione è un’altra.» Disse con semplicità. Presi un colpo a quelle parole e mi sorse subito un dubbio c’erano altre questioni? E perché non ne sapevo niente?
«Non ho tempo da perdere.» Lo spronai a continuare, ma in risposta ebbi solamente una finta smorfia di dissenso da Joseph e un’occhiata di ammonimento da parte di Damon.
«Cosa aspetti? Hai sentito quello che ti ha chiesto?» Decise di darmi man forte il corvino lasciando la mia mano per prendermi delicatamente per le spalle e farmi fare un passo indietro.
«Non mordo, sai? Potresti lasciarla avvicinare di più, eh?» Cambiò completamente argomento Joseph spegnendo la sigaretta sulla scrivania.
«Non ci tengo, grazie.» Grugnii fra i denti stringendo il braccio di Damon.
Lui ridacchiò leggermente.
«Non la pensavi così…» Borbottò più a sé stesso che a noi. Sbiancai all’istante ma feci finta di non capire quello che disse: non avevo raccontato a Damon di come avevo, effettivamente, conosciuto Joseph e non avevo intenzione di dirglielo fino a quando tutta questa storia non fosse morta e sepolta.
«King non rompere il cazzo e parla.» Sputò acido sbuffando.
«La tua bella deve rimanere qui?» Sganciò quell’affermazione con un sorriso da stronzo sul volto. Alzai repentinamente lo sguardo e assottigliando gli occhi, non capendo se fossi io a capire male o se lui intendesse quello che avevamo afferrato io e il corvino.
«Sorpreso, Salvatore?» Lo prese in giro. «Pensavi seriamente che non sapessi chi fosse realmente per te questa ragazza?» Gli chiese inclinando il volto con finta aria da saputello.
«L’ultima volta che sei ritornato mi hanno detto che eri in compagnia di una bella ragazza…» Incominciò incurante. «Me l’hanno descritta come una ragazza stronza e bastarda, insomma la degna compagna di un Salvatore.» Commentò toccandosi i capelli.
«E con questo? Sai con quante donne posso essere stato?» Ridacchiò sprezzante stringendo la mia mano. Non capivo come fosse possibile che Joseph avesse capito tutto quanto, eravamo stati così attenti fin’ora. Perché doveva uscire tutto fuori ora?
«Infatti non ci ho dato peso, poi per sbaglio ho incappato nella tua sorellina. L’hai nascosta bene da questa vita, peccato che lei sia esattamente come te.» Era una specie di complimento? «Dalla sera in cui ti ho visto puntarmi contro una pistola per difenderla, ho capito che forse lei potrebbe coincidere con i tratti di questa misteriosa ragazza che ha avuto il coraggio di partecipare con te ad una gara clandestina.» Alla fine della sua spiegazione, la sua bocca si era increspata in un grande sorriso.
Sgamati in pieno. Ora eravamo in guai seri.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando.» Mentì Damon scrollando le spalle. Dovevo dargli corda.
«Non c’è bisogno che mentiate. Non m’interessa in che situazione vi troviate e non mi interessa come sia possibile che siate attratti l’uno dell’altro, okay?» Non sembrava schifato, non aveva neanche detto i soliti commenti che avevo sentiti fin’ora.
«Allora cosa ti interessa?» Damon si era liberato dalla mia presa sul suo braccio e si avvicinò pericolosamente a Joseph che si era alzato dalla scrivania per fronteggiare il corvino.
«M’interessa preservare la mia vita. Non voglio finire in prigione e so che per amore si gioca tutto fino alla fine.» Joseph King – lo stesso ragazzo che mi aveva puntato una pistola alla gola – aveva paura che uno dei due – tra me e Damon – potesse cedere per amore.
Aveva completamente sbagliato strada.
«Il punto è che non è amore.» Intervenni io che ero rimasta immobile. Richiamai l’attenzione dei due. Joseph mi osservò per pochi istanti, forse incerto su come procedere.
«Mi fiderò, Elena.» Commentò dando una leggere spinta al corvino come per scollarselo di dosso. «Se per  
Ecco il motivo reale per il quale aveva chiesto quell’incontro: voleva che tutti noi avessimo una stessa versione da propinare in caso di problemi.
«Paura che ceda?» Gli chiesi curiosa. In realtà, nel profondo, anch’io avevo paura di cedere e vuotare il sacco. Avrei dovuto lavorarci su questa parte troppo vulnerabile del mio carattere, non avrebbe portato a molto.
«Non esattamente.»
Mi sorrise enigmatico.
 
*
Mi venne in mente quella discussione, avuta con quei due, - più di un mese fa – non appena aprii la porta di casa e mi ritrovai davanti un poliziotto in divisa che aveva in mano un taccuino e mi fissava con circospezione.
Era successo troppo in quel mese e mi sentii sollevata per essere riuscita a cambiare quella parte vulnerabile del mio carattere. Ora riuscivo a mentire perfettamente ed ero persino riuscita a maneggiare un’arma – Damon era stato fin da subito contrario a questa mia malsana idea, ma alla fine avevo avuto la meglio -.
«Elena Salvatore?» Mi chiese il poliziotto in divisa segnando chissà cosa su quel taccuino. Alzai scocciata lo sguardo e annuii facendo la finta disinteressata.
«Dovrei chiedervi qualche domanda, se non le spiace.» Continuò gentilmente. Si stava autoinvitando in casa mia? Per un momento, ringraziai il cielo che mia madre non era in casa altrimenti avrebbe preso un colpo.
Deglutii pensando che avrei dovuto spiegarle per sommi capi come mi ritrovavo in quella complicata situazione.
«E’ un interrogatorio?» Chiesi ironica facendomi da parte e invitando con un cenno del capo il poliziotto di entrare in casa.
«Suppongo che abbiate guardato il telegiornale in questi tempi, giusto?» Mi morsi un labbro e iniziai a pensare a cosa rispondere. Era chiaro come il sole che stava cercando di mettermi alle strette provando a innescare qualche sensazione o emozione che avrebbe potuto dichiararmi indagata di quel caso.
«Sì, solo non capisco come mai voi siate qui.» Dissi innocentemente.
«Avete mai visto Trevor Wood? O sentito parlare di Trevor Wood?» Dritto al punto. Feci finta di pensarci su, anche se in realtà ricordavo perfettamente chi fosse Trevor Wood.
Quel ragazzo era solo la vittima di uno psicopatico che non vedevo da più di un mese.
«Quel ragazzo scomparso? Ne ho sentito parlare al telegiornale.» Dissi giocando con le ciocche dei miei capelli con finta aria disinteressata.
«Dalle notizie che si sono pervenute, era amico di Joseph King.» Quel nome mi avrebbe perseguitato tutta la vita, ne ero certa. Ogni volta che sentivo quel nome, era quasi impossibile non reprimere i brividi di paura e la nausea.
«Joseph King? Quel Joseph King?» Aggrottai le sopraciglia e mi preparai già il discorsetto che mi ripetevo ogni sera prima di andare a dormire.
«Io sto parlando del delinquente Joseph King, l’ultima volta che abbiamo provato ad incastrarlo ne è uscito pulito...» Lasciò il discorso in sospensione e io sospirai.
«E io vorrei capire come mai voi stiate associando il nome di quel delinquente al mio.» Sputai acida. Il poliziotto si chiuse alle spalle la porta di casa e accennò un sorriso tirato.
«Dove possiamo accomodarci?» Andrà per le lunghe. Pensai, sorridendo e indicandogli la cucina da dove proveniva un forte odore di tè – che fino a pochi minuti fa stavo preparando -.
«Mi scuso per questa intrusione.» Continuò. Io scossi la testa e presi dalla credenza un’altra tazza e gliela poggiai sul tavolino.
«Continui.» Lo invitai a parlare, accomodandomi di fronte a lui.
«L’ultima volta che abbiamo avuto a che fare con King, è stato nel 2007. Era stato accusato di premeditato omicidio contro una giovane ragazza.» Mi spiegò. Realizzai che erano otto anni che stavano provando ad incastrarlo e facendo due conti veloci a quel tempo Damon aveva circa diciotto anni.
«Ripeto: non capisco cosa questo possa c’entrare con i Salvatore.» Replicai sinceramente infastidita. Non c’erano prove contro di me o contro la mia famiglia, non riuscivo a capire come erano riusciti ad arrivare da noi.
«Questa giovane ragazza si chiamava Katherine Pierce.» Porca puttana, non può essere. A quel nome non riuscii a controllare lo stupore e involontariamente sgranai la bocca incerta. «Suppongo che sappia chi sia questa giovane, no?» Sul volto dell’agente comparì un sorrisino soddisfatto.
Era un colpo basso. Non avevo la più pallida idea che Joseph avesse provato ad uccidere la fidanzata di Damon. E in più quel bastardo non aveva accennato niente alla sua fedina penale, io mi ero informata ma non ero riuscita ad ottenere nulla di significativo.
«Non l’ho mai conosciuta. E’ solo un nome.» Dissi scrollando le spalle e bevendo un po’ del tè che si stava freddando.
«La cosa più strana è che dopo essere sfuggita a questo omicidio premeditato, non sono passati neanche due giorni che la ragazza si è suicidata.» L’atmosfera stava diventando troppo tesa per i miei gusti e non perché stessimo parlando della ex-fidanzata di mio fratello, ma perché quel poliziotto mi stava facendo chiaramente capire che c’era qualcosa nella morte di Katherine che non tornava.
«E la persona che ha chiamato l’ambulanza per avvertirci che la ragazza si era buttata dal WaterLoo Brigde era proprio Damon Salvatore, suo fratello.» Assottigliai gli occhi e cercai di sforzarmi, di provare a capire dove stesse mirando quel poliziotto.
«Sembrerò stupida, ma non capisco come questo suicidio possa essere collegato alla scomparsa di Trevor Wood.» Andai dritta al punto e non perché volevo liberarmi di lui, anzi la situazione si faceva più complicata di quanto immaginassi, ma perché seriamente non riuscivo a trovare un netto logico per venire qui da me a farmi un terzo grado.
«Abbiamo imparato che King non uccide senza un motivo. Se ha ucciso o se ha premeditato l’omicidio della signorina Pierce, un motivo ci sarà.» Incominciò. «I genitori della ragazza hanno spesso accennato alla presenza di un ragazzo che non è vostro fratello nella vita della figlia.»
Iniziai a collegare i pezzi e intuii, finalmente, il motivo per il quale erano venuti proprio qui.
«E per caso questo misterioso ragazzo corrisponde a Joseph King?» La buttai lì per verificare se le mie ipotesi erano corrette.
«Siete proprio intelligente, signorina Salvatore.» Si complimentò.
Intelligente tanto quanto sono astuta. Pensai.
«La domanda che ci siamo posti è perché provare ad ucciderla se i due si parlavano e si conoscevano?» Stessa domanda che mi stavo ponendo io, in quel momento. «Ora noi sospettiamo di King per questa scomparsa perché Wood era un altro suo amico, volevo solamente chiedere al signor Salvatore se sapesse qualcosa in più sul suo conto.»
Perciò avevano già iniziato le indagini e volevano parlare con Damon per informazioni su King, informazioni che probabilmente non avrebbe mai dato.
«Quante persone sanno di questo tentato omicidio da parte di King nei confronti di Katherine Pierce?» Gli chiesi a muso duro.
«Poche. Il caso della signorina non è ancora stato archiviato da me personalmente, ora ho la possibilità di mettere nel sacco quel delinquente e di incolparlo per due morti.» Spalancai gli occhi a quell’affermazione e anche l’agente si rese conto che aveva fatto un passo falso.
«Mi state dicendo che sospettate che il suicidio di Katherine Pierce non sia un suicidio in piena regola?» Damon non sapeva niente di tutto questo, io non sapevo niente di tutto questo. Joseph si portava questo segreto dietro da anni e nonostante questo sia io che Damon lo stavamo coprendo.
«Ho questo sospetto.» Dovevo aiutarlo, non per lui, per Damon. Perché merita di sapere la verità. «Queste informazioni, vi chiederei, di non divulgarle.» Si raccomandò.
«Vi aiuterò.» Dissi, poggiando la tazza di tè sul tavolo. «Quel bastardo marcirà in prigione.» Decretai.
Aveva ingannato sia me che Damon. Ora si cambiava gioco, lui non sapeva quello che avevo intenzione di fare e non mi sarei fermata.
A costo di essere arrestata.
A costo della vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vi ho fatto aspettare veramente troppo e non c’è assolutamente niente che possa dire per migliorare la situazione. Non ho avuto tempo per scrivere e voglio essere sincera non avevo più l’ispirazione. Inizialmente avevo in mente tutto quanto, a partire da come doveva iniziare la storia a così come si doveva concludere. Poi rileggendo quello che ho scritto mi ero resa conto che era tutto troppo banale – okay, forse a voi non lo sembrerà, però per me lo era -, la storia non stava seguendo le mie aspettative, stavo perdendo il significato. Stava perdendo tutto, in breve.
Questo capitolo è in lavoro da questa settimana perché ho iniziato a rileggere il prequel e mi sono ricordata dell’esistenza di Katherine, così mi è venuto in mente un ritorno in grande stile. Probabilmente sarete cadute dalla sedia o dal letto mentre avete letto quello che ho pensato.
E fidatevi neanche io posso capacitarmi della piaga che da questo capitolo ha preso la storia, vi avverto che è tutto in discussione! Niente è come prima, perché prima seguivo un copione che avevo fisso nella mia mente…Ora invece è tutto a ruota libera, tutto quello che la mia mente detta scrivo e non so se è una cosa bella. Un’altra cosa: non ho idea di quando aggiornerò, in questo periodo mi sento particolarmente giù e fuori forma. Anche il mio umore non è granche e forse si riversa anche nel mio modo di scrivere. Questo capitolo è veramente pesante, forse uno dei “peggior” che abbia mai scritto. Mi rendo conto che è presente quasi un’istigazione al suicidio da parte di Elena a Damon e non ho idea se quello che ho scritto possa turbarvi o magari possa trasmettervi quello che volevo trasmettervi. Credo che tocchi a voi dirmi se sono riuscita a trasmettervi quello che intendevo.
Spero che tutti voi non siate rimasti turbati da questo cambio repentino di vedute, che vi sia piaciuto il capitolo. E che non vi siate dimenticate di me.
Ringrazio le ragazze che mi seguono e mi incoraggiano in tutte le storie, per chi stesse leggendo l’altra mia storia ‘I HATE U OR NOT?’ e mi stava chiedendo quando riaggiornassi questa storia eccomi qui! Per chi invece non l’ha ancora letta vi invito a passarci, perché non è assolutamente nel mio genere drammatico.
Spero che mi sosteniate sempre,
Non ti scordar di me.

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Capitolo 12
*** I'm useless. ***


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Capitolo dodici.
I’m useless.
 
«Dove stai andando?» Stavo per uscire da casa e mi fermai istantaneamente. Mi girai lentamente e incontrai gli occhi di Damon che mi squadravano incerti. Indossava dei semplici boxer neri e una maglietta bianca. Teneva tra le mani una tazza fumante di caffè e mi guardava con uno sguardo assonnato.
«Non è presto?» Erano le nove meno un quarto, mi rimanevano solo pochi minuti per prendere il pullman. Deglutii a disagio, squadrandolo attentamente. Damon in quel momento sembrava un tenero cucciolo indifeso, era strano vederlo così indifeso.
«No, faccio solo un giro. Sbrigare qualche cosuccia all’università…» Dissi prendendo dalla borsa un libro che non toglievo mai. Per fortuna sono una persona molto abitudinaria. Mi dissi, osservando i lineamenti del corvino piuttosto tesi. Neanche lui sapeva cosa dire, forse non si fidava neanche di quello che dicevo ma era evidente che non volesse pensarci più di tanto.
«Ritornerai entro due ore?» Mi chiese incerto squadrandomi dall’alto in basso. Cosa succedeva tra due ore? Feci mente locale, oggi era Martedì…Damon il martedì aveva…Aveva la seduta dallo psicologo – sedute a cui lo obbligavano a prenderne parte.
Mi portai una mano in faccia, nel caos generale mi ero completamente dimenticata di quelle sedute – dovevo come sempre ringraziare Luke che mi aveva fatto il grande favore di parlare con suo padre per riceverci.
«Me n’ero…» Non riuscii neanche a finire la frase, incontrai gli occhi del corvino e mi morsi la lingua. Fargli sapere che mi ero dimenticata di una cosa – veramente troppo – importante di lui equivaleva a dirgli che io mi ero dimenticata di lui.
E questo non l’avrebbe aiutato. Avevo paura che Damon fosse in una depressione avanzata, avevo persino pensato di dirlo a mamma però lui mi aveva assicurato che ne avrebbe parlato lui con la madre – se ovviamente non lo sapesse già -.
«Dimenticata?» Continuò lui la frase per me. Sospirai pesantemente e ci pensai più volte prima di dirgli qualcosa. Probabilmente quel silenzio lo avevo innervosito più del previsto. «Mi innervosisce questo fatto.» Grugnì precedendomi. Mi spiazzò con quell’affermazione così campata in aria.
«Solo perché sono inutile non voglio che tu smetta di dirmi quanto sia bastardo o quanto sia coglione.» Mi spiegò. Voleva che tutto rimanesse com’era, ma questo non era possibile. Non potevo – non avevo il coraggio – di dirgli delle cose del genere proprio in un momento così delicato.
Avevo paura che da un momento all’altro potesse scoppiare. Non sapevo esattamente cosa ci legasse, non capivo neanche perché volevo aiutarlo in quel modo. Dopotutto lui poteva perfettamente andare da solo da uno psicologo, no? Poteva prendere i tranquillanti che il medico gli aveva prescritto senza la mia supervisione, giusto?
Allora perché volevo essere al corrente di tutto?
«Tu non sei inutile.» Gli dissi deglutendo. Inizialmente non facevo caso a quante volte dicesse quella frase nell’arco di una giornata, ora invece sembrava che la ripetesse sempre…Non avevo mai notato il suo malessere, non avevo notato in più di quattro mesi che mio fratello fosse in piena crisi depressiva e io aggravavo solo il tutto.
«Non ho niente. Niente, se non guai su guai.» Replicò intensificando la presa sulla tazza che stringeva nella mano sinistra.
«Se fossi inutile, non staresti cercando di uscire vivo da questa situazione.» Gli dissi avvicinandomi cautamente a lui che osservava tutti i miei movimenti.
«Io non sto cercando di fare niente, Elena.» Il mio nome pronunciato dalla sua bocca in quel modo così cadenzato e sofferto mi fece rabbrividire.
«Come, prego?» Sussurrai tra l’incredulità e la rabbia. Avevamo una promessa, ci saremo spalleggiati a vicenda.
«Tu stai cercando di mantenermi qui. Con questa storia, stai cercando inutilmente di mantenermi in questa vita maledetta.» Ogni parola uscì dalla sua bocca con fatica, mi sentii tremendamente in colpa e avvertii anche un senso di ansia improvvisa.
Ero arrivata in tempo. Forse se mi fossi resa conto di questa sua depressione più in là, non ci sarebbe stato altro da fare.
«Sei terribilmente egoista.» Mi accusò, poggiando la tazza che teneva in mano sulla mensola dietro di lui. Sospirai pesantemente e irrigidii tutti i muscoli del mio corpo.
«Egoista? Sarei io quella egoista? Sei tu che vuoi gettare all’aria la tua vita. Sai quante persone vorrebbero qualche giorno in più e non sono riusciti ad averli? Sai quanta gente avrebbe voluto solo qualche minuto in più per ricordare ad una persona tutto l’amore che provava?» Gli chiesi infervorata.
Non sopportavo quei discorsi, non riuscivo a concepirli. Non riuscivo a capire perché certa gente – come mio fratello – volesse smettere di combattere contro qualcosa che aveva le possibilità di vincere.
«Sei egoista perché mi stai trattenendo qui. E lo fai, non te ne sei resa neanche conto. Mi stai dando la tua vita nelle mie mani, con la certezza che non farò una delle mie solite stronzate. E mentre tu cerchi di salvare la mia vita, io custodisco la tua.» Sputò stringendomi le spalle e fissandomi con i suoi occhi lapislazzulo. Non sapeva quanto aveva ragione.
Affidargli qualcosa – anche se si trattava della mia vita – mi era sembrata la cosa migliore per una persona depressa, volevo che trovasse un incentivo per vivere, che coltivasse nuovamente la voglia di vivere.
«Ti serve un motivo per restare. E io lo sto cercando.» Mentii sperando che abboccasse. Ma Damon è troppo bravo, troppo bravo per cadere nei miei tranelli.
«No, Elena. Tu il motivo per farmi restare l’hai già trovato e lo stai già sfruttando.» Fu un colpo al cuore in piena regola.
Parlavo regolarmente con il padre di Luke per tenermi un po’ aggiornata su Damon e sulla sua depressione, ogni volta che parlavo con lui sentivo sempre un peso in più sul cuore. Mi descriveva Damon come un automa privo di forze e voglia di vivere pari a zero. L’unica cosa che mi aveva consigliato era quello di trovargli un motivo valido per non permettergli di fare un passo troppo azzardato.
Farlo rimanere per me mi è sembrata l’idea peggiore e migliore che mi sia venuta in mente fin’ora.
La Migliore perché avevo notato che dargli quel movente e continuare a stimolarlo, lo facevano animare. A volte lo intravedevo sorridere, intravedevo i suoi occhi poco più accesi e la sua solita malinconia sembrava scorrere via.
La Peggiore perché mi stavo comportando in modo tremendamente egoistico, ero egoista e non solo nei confronti di Damon ma nei confronti di tutti.
Nei confronti di mia madre, ignara della situazione che avvolgeva suo figlio. Nei confronti di Stefan, che imperterrito continuava la sua nuova vita a Londra – aveva persino trovato un lavoro part-time. Nei confronti di mio padre, non gli avevo rivolto una sola parola su quest’argomento e ogni volta che mi chiedeva di Damon io lo ignoravo e lo depistavo.
Ed ero egoista, anche, verso me stessa. Mi stavo privando da sola della mia vita. Chi – CHI – affiderebbe la propria vita in mano di una persona in uno stato di depressione molto più che avanzato?
«Ti sto dando un’opportunità per ritornare a vivere. Non so da cosa sia causata questa depressione, so solo che mio fratello sta diventando un vegetale senza emozioni.» Gli dissi stizzita.
Rivolsi un’occhiata veloce all’orologio, era in un enorme ritardo. Ritardo giustificato. Mi rincuorai, scrollando le spalle. Quello che dovevo fare, poteva aspettare ancora qualche minuto.
«E lasciami vivere così. Ti costa tanto, Elena?» La sua voce era incredibilmente roca. Lo osservai in silenzio: i raggi deboli del sole che filtravano dalle tende gli illuminavano il profilo e la sua espressione burbera meno spaventosa.
«Sì, mi costa tanto.» Diedi una risposta secca e vidi il suo viso cambiare. Mi sentii sollevata vedendo che finalmente un’emozione a dipingergli il volto: era sorpreso.
«Per te è così strano che qualcuno tenga a te, Damon?» Mi ritrovai a chiedergli inclinando la testa. Damon non poteva seriamente sminuirsi in quel modo, non poteva e basta. Era bello, veramente bello, lo sapeva e ne era più che consapevole. Come mai ora aveva questa insicurezze infondate?
«Vai, Elena.» Mi indicò la porta con una mano. Deglutii e assottigliai gli occhi. Ne avremo riparlato e ne riparleremo anche con nostra madre e nostro fratello.
Mi sistemai meglio la borsa in spalla e sospirai dandogli le spalle. Feci qualche passo, mi fermai non appena avvertii la mano di Damon stringermi delicatamente – con una presa incredibilmente debole – l’avambraccio.
Si avvicinò a me e incerta iniziai  a balbettare diverse frasi insensate fin quando non ritrovai il mio solito contegno. «Cosa stai facendo?» Gli chiesi con un fil di voce.
I suoi occhi cerulei si alzarono verso il mio volto e lo studiarono lentamente, si morse il labbro incerto e poi prese coraggio per parlare.
«Voglio baciarti, non posso?» In quel momento, mi resi conto quanto Damon stesse male. Perché un tempo non si sarebbe fatto scrupoli, mi avrebbe baciato e se ne sarebbe fregato della mia volontà, avrebbe seguito quello che dettava il suo cuore.
«Baciami, Damon.» Gli sussurrai all’orecchio, sperando che in quel momento nessuno facesse qualche entrata improvvisata.
Il corvino mi strinse delicatamente i fianchi e avvicinò prima le sue labbra al mio lobo. Sfiorò buona parte del volto, si soffermò pochi istanti sull’angolo della mia bocca prima di sfregare le sue morbide labbra sulle mie.
Non era uno dei nostri vecchi baci. Noi eravamo irruenti, passionali, sbagliati e i nostri baci consumati al buio mi facevano capire quanto fossi sbagliata…Questo sfioramento di labbra quasi inesistente non faceva lo stesso effetto.
Il gesto di volermi baciare in casa – sapendo che potevamo essere sgamati in qualsiasi momento – non mi facevano sentire sbagliata, non mi faceva pensare che io e Damon eravamo qualcosa di irrimediabilmente sbagliato.
Il gesto di volermi chiedere il permesso di sfiorarmi mi aveva trasmesso solamente un bisogno d’affetto smisurato, non voleva baciarmi perché lui voleva farlo a tutti i costi. Voleva baciarmi sapendo che ero accondiscendete, sapendo di non violarmi e non provocarmi.
Era qualcosa di normale. Costatai mentre lentamente alzava lo sguardo e si separava da me.  Gli sorrisi apertamente e feci un passo avanti incerta.
Al diavolo. Pensai. Mi girai e lasciai sulle sue labbra un altro bacio a stampo.
Stavo uscendo da casa, ma avvertii chiaro e tondo il suo «Grazie.» quasi sussurrato.
E’ il minimo.
 
*
La prenderà male. Deglutii nervosa, guardando l’orologio. Ero in camera mia e osservavo il cellulare, mi era arrivato quel messaggino da circa dieci minuti e lo fissavo incerta. Era un numero sconosciuto, ma sapevo perfettamente chi fosse e cosa intendesse con quel testo dell’sms.
Oggi, è arrivo il momento. Alle 6. Recitava il testo.
Erano due settimane che complottavo alle spalle di Damon, con l’aiuto di quel poliziotto. Sapevo che in questo modo avrei quasi rotto il momento idilliaco che sembravamo vivere.
Non sapevo neanche cosa stessi facendo. Sapevo solamente che ormai la mia vita era sempre la stessa cassetta a ripetizione e io non ne ero mai stanca.
Ormai non era strano passare ore intere con Damon, perdendo tempo sul mio letto. Mi piaceva passare le mie giornate così, cercare di far spuntare sul viso di mio fratello un tenue sorriso stava diventando una missione sempre più complicata.
«Damon, siamo in ritardo!» Sbottai inacidita. Ero seduta sul divano del salotto con mia madre intenta a guardare il telegiornale.
«Come vanno le sedute?» Mi chiese con un sorriso accennato. Mi sembrava strano parlare con mamma di questo problema, era qualcosa che solo io e Damon stavamo condividendo. E un’altra cosa che mi aveva dato alla testa era venire a sapere che mia madre era già al corrente di questa situazione alquanto difficile che suo figlio stava attraversando.
 
Era strano vedere l’intera famiglia guardarti con occhi curiosi e incerti, ma ancora più strano era vedermi seduta ad un tavolo con Damon accanto e mia madre e Stefan seduti di fronte. Entrambi ci guardavano incerti – soprattutto mamma -, ma lo sguardo del ragazzo era più penetrante quasi consapevole.
Avevo subito capito cosa pensava, Stefan era un ragazzo troppo prevedibile. I suoi occhi verdi erano dipinti di piena paura ma non per sé stesso, paura per noi.
Era chiaro come il sole che aveva il piccolo dubbio di cosa ci fosse realmente tra me e Damon, la cosa che mi indispettiva parecchio era come non sembrasse turbato da ciò.
Anzi era quasi rilassato e di tanto in tanto rivolgeva al corvino degli sguardi pieni di ammirazione.
«Damon, inizi tu?» Dissi stringendogli la mano da sotto il tavolo. Il corvino alzò lo sguardo e puntò gli occhi su Stefan. I due si rivolgevano occhiate intense, avevo la sensazione che quello fosse il loro modo per comunicare e mi sentii quasi estromessa da questo legame che avevano creato in due anni.
«In realtà, loro sanno.» A quella parole spalancai la bocca e deglutii. Cosa significava ‘loro sanno’? Come potevano sapere? Come potevano averlo notato prima di me? Era stata così accecata dalla rabbia di rivederlo da non riuscire a capire in che situazione si trovasse?
«No…Come…Un momento, come potete saperlo se io l’ho capito solo un mese fa?» Chiesi stizzita, sciogliendo repentinamente la stretta con la mano di mio fratello e sbattendo le mani a pugno sul tavolino.
«Sapevo del suo arrivo e sapevo del motivo del suo arrivo.» Bingo. Pensai arcuando le sopraciglia. Ecco cosa non mi aveva detto, anche se era più corretto dire che questa era solo una delle troppe cose che mi stava occultando.
«Sei venuto qui per…per cambiare aria?» Gli chiesi a questo punto. Damon non mi rispose, era chiuso nel suo mutismo – tecnica che aveva adottato da poco –. Guardai così i due che avevo di fronte: c’era mamma che si sistemava ripetutamente i capelli dietro le orecchie con fare frenetico e c’era Stefan che aveva assunto un’espressione infastidita e non perdeva occasione per incenerire Damon con lo sguardo.
«Pensavo che questo senso di inutilità sarebbe sparito se fossi venuto qui, se fossi ritornato da mia madre.» Esalò aprendo bocca dopo attimi che mi sembravano infiniti.
Chiusi gli occhi – tentando di non far sparire gli occhi lucidi – e inspirai profondamente. Una volta riaperti gli occhi, mi sentii tremendamente a disagio tanto quanto mi sentii stupida. Avevo così insistito con Damon affinchè tutta la famiglia sapesse di questo problema per aiutarlo al meglio…E ora, lui mi diceva che loro sapevano già tutto?
E – cosa peggiore – mi rivelava che il suo motivo di ritorno era stato determinato dalla speranza di sentirsi più vivo?
«Perché ero l’unica a non saper niente? Mamma perché non me ne hai…parlato?» Chiesi guardando mamma che posò una mano sulla mia stringendola e rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi incoraggianti.
«Volere di tuo fratello.» Damon la gelò con lo sguardo a quel commento ed ebbi la netta sensazione che quei due non me la stessero raccontando giusta, c’erano troppe cose senza senso. Perché mamma non poteva mettermi in guardia sulla salute della persona che doveva essere mio fratello? Se me lo avesse detto prima, avrei potuto…Avrei potuto fare cosa esattamente? Forse comportarmi da persona meno stronza? Forse evitare di dirgli tutto quello che pensavo su di lui?
Probabile che mi sarei comportata così. E realizzai che in effetti quello era ciò che Damon voleva evitare. Non voleva che mi comportassi diversamente da com’ero, voleva avere a che fare con la solita Elena, non con una finta me che si trovava a fingere di essere contenta per il fratello.
«Mi trattate come se potessi esplodere da un momento all’altro. Non ho bisogno di questo, ho bisogno di qualsiasi cosa che non sia compassione. Non voglio essere trattato come una bomba pronta ad esplodere.» Proruppe Damon incespicando le labbra in una smorfia infastidita.
«Qui, vogliamo solo aiutarti.» Intervenne mamma, invitandolo con lo sguardo a calmarsi.
Dopo di che afferrò anche la mano di Stefan e la mia. Tutti e tre intrecciamo le nostre mani.
«Rimarrete sempre i fratelli Salvatore, qualsiasi cosa succeda. Supererete tutto.» Aveva la voce che tremava e gli occhi lucidi. Sorrisi a vederla così vulnerabile, si era fatta prendere dal momento.
Supereremo anche questo. Mi diedi forza.
 
«Molto meglio.» Le dissi sorridendo apertamente. Vidi il suo sguardo accendersi e distogliere lo sguardo dalla televisione per guardarmi con aria speranzosa.
«Ero sicura che il tuo aiuto incidesse molto su di lui.» Si morse il labbro inferiore provando a non farmi notare i suoi bellissimi occhi verdi inumidirsi. «Cosa dice lo psicologo?» Mi chiese. Mi morsi un labbro a disagio, sperando che Damon si desse una mossa.
«Elena, andiamo?» Salvata in calcio d’angolo. Rivolsi uno sguardo di scuse a mamma e alzai le spalle con finta aria innocente e afferrai la borsa.
«No, un momento…Elena mi ha detto che va meglio, non vuoi parlarmene?» Ci fermò mamma con il suo tono di voce perentorio che m’incuteva da sempre un gran timore.
«Ti parlerò dei miei progressi solo dopo questa seduta, ti spiace?» Le chiese regalandole un grande sorriso, forse il primo che vedevo in tanto tempo. Lei lo assecondò facendoci segno di muovere.
Presi le chiavi della sua macchina ed uscii fuori – seguita da Damon. Sospirammo e ci scambiammo uno sguardo di intesa. La macchina era parcheggiata sul vialetto.
Il corvino alzò un sopraciglio non appena vide che mi stavo avviando verso il sedile da guidatore.
«Non posso guidare una macchina?» Gli chiesi ironica, sedendomi e allacciando la cintura. Lo vidi annuire in silenzio, ma potevo avvertire la tensione che c’era in macchina.
Feci riscaldare pochi istanti il motore e ingranai la marcia per uscire dal parcheggio.
«Sei brava a mentire.» Commentò il corvino guardando la strada dritta davanti a sé. Sbiancai leggermente e sospirai.
«Anche tu non sei niente male, Salvatore.» Lo presi in giro con voce ironica. Ero tesa, forse troppo. Ormai era diventato semplice mentire, a partire dalle piccole bugie bianche ad arrivare alle bugie troppo grandi. E quella che avevo detto era solo una piccola bugia bianca.
«Perché non dirle la verità?» Ormai non parlava quasi più. Mi faceva così strano vederlo sempre taciturno sul suo letto con un computer intento a fare chissà cosa. Damon era sempre stato un tipo energico, o almeno così lo era due anni fa.
Come ho potuto non notare questi cambiamenti? Me lo chiedevo ogni giorno e mi rinfacciavo da sola quanto fossi stata stupida e cieca nel non vedere il suo malessere.
«Non sapevo che dirle.» Risposi secca girando a destra e imboccando la strada che ci avrebbe condotti dallo studio del dottor Parker. Non vedevo il padre di Luke da tempo e non potevo neanche entrare dentro per salutarlo visto che Damon mi aveva quasi implorato di non seguire con lui le sedute.
Ero così tentata di imporre la mia presenza – volevo essere al corrente di tutto nei minimi dettagli – poi avevo capito che forse era meglio per lui stare solo, prima o poi mi avrebbe chiesto di entrare con lui, no?
«Potevi dirle semplicemente che è tutto uguale a un mese fa.» Disse a muso duro. Inghiottii la saliva e mi morsi la lingua per evitare di dire cose che magari non pensavo neanche.
«Non potevo dirle che…» Non osai continuare perché non l’avevo ancora accettato. Fin’ora mi ero limitata a dirlo a me stessa solo nella mente, ma mai l’avevo detto ad alta voce.
Dire Damon è caduto in una grave depressione mi faceva sentire inutile e dirlo ad alta voce significava ammettere a me stessa di essere stata una pessima sorella.
«Che la mia voglia di vivere è sempre pari a zero?» Provò con un sorrisetto bastardo.
Almeno è ironico. L’ironia era pur sempre un sentimento, no?
«Perché? Perché, Dio mio, non riesci a capire quanto tu sia importante? E quanto sia importante la tua vita?» Diedi un pugno al volante nel moto di rabbia e trattenni una smorfia di dolore.
«Perché non è importante. Sono un fottuto sbaglio, capisci?» Per la prima volta si girò verso di me e mi fissò con i suoi occhi azzurri. Erano leggermente lucidi e mi dissi che avevo visto male, perché non era possibile…Non potevo concepire che Damon stesse per scoppiare e che io non stessi facendo niente per aiutarlo.
«Vuoi continuare a crederlo per sempre?» Chiesi guardandomi intorno alla ricerca di un posto libero dove parcheggiare la macchina.
«Non lo credo. Io lo sono.» E decisi di non replicare più. Perché non potevo farcela a replicare per sempre quello che dice, in quel gioco lui rimaneva sempre il migliore. Per quanto fossimo simili, non sarei mai riuscita a dargli una risposta degna dopo la sua detta n modo fermo e gelido.
«Puoi scendere.» Dissi in un sussurro, indicandogli con un cenno del capo la porta davanti alla quale mi ero fermata.
Il corvino non ci pensò due volte e scese dalla macchina, lo osservai salire i tre scalini e premere il bottone per citofonare allo studio del dottore.
Non appena vidi la porta aprirsi, ingranai la marcia. Prima di lasciar libero il parcheggio diedi un’ultima occhiata a Damon che era ancora fermo lì davanti alla porta, aggrottai le sopraciglia e spalancai la bocca quando lo vidi fare dietrofront e riavvicinarsi alla macchina.
Picchiettò sul finestrino e lo abbassai rivolgendogli un’occhiata incerta.
«Scendi.» Aveva la voce ferma, il suo non era un invito: suonava più come un ordine. Nella mia mente sorrisi, quel suo tono di voce insopportabile e quasi da dittatore mi ricordava troppo il vecchio Damon.
«Accompagnami.» Ripeté addolcendo la voce e guardandomi con i suoi penetranti occhi azzurri. Spensi il motore, alzai il finestrino e tolsi le chiavi dalla macchina. Aprii lo sportello e lo chiusi con forza.
«Sicuro?» Non volevo che si sentisse in obbligo, anche se dai suoi occhi avevo capito che non si sentiva obbligato. Lui voleva solo che qualcun altro lo sentisse, che qualcun altro potesse capire quello che provava.
Ha scelto me tra tanti. Mi dissi mentre un tenue sorriso si faceva spazio sul mio volto. Entrammo dentro e Damon mi condusse verso una porta – probabilmente lì c’era il dottor Parker. –
Rimase lì impalato pochi istanti, iniziando a sospirare pesantemente. Vedendo la sua agitazione, gli strinsi la mano e gli rivolsi un sorriso rassicurante.
Bussò tre volte alla porta e dopo aver udito un flebile «Avanti», la aprì.
Il dottor Parker non era cambiato dall’ultima volta che l’avevo visto: i capelli brizzolati erano solo più corti e poche rughe d’espressione gli contornavano gli occhi. Era impegnato a leggere un libro che posò non appena notò Damon.
«Oh, puntuale come un orologio svizzero.» Gli disse con un mezzo sorriso, il mio sguardo si posò sull’orologio appeso alla parete: segnava le 4.30 spaccate.
«Hai finalmente deciso di portare la tua ragazza.» Continuò squadrandomi pochi istanti con un mezzo sorriso. Probabilmente non si ricordava di me.
Mi squadrò pochi istanti, poi m’inumidii le labbra per parlare ma Damon mi precedette: «E’ mia…sorella.» Gli spiegò serrando la mascella e lasciando la presa sulla mia mano.
«Tu sei la compagna di Luke?» Mi disse porgendomi la mano che strinsi gentilmente. «Mi sembravi un volto familiare.» Prese da dietro la sua scrivania la sua sedia e la posizionò davanti la scrivania.
«Posso rimanere in piedi, grazie. Sedetevi voi.» Dissi con cortesia. Sul suo viso si formò uno sguardo contrariato e iniziò a picchiettare sulla sedia.
Così mi sedetti e il dottore si sedette sulla scrivania: afferrò un taccuino e una penna; poi si girò verso Damon che era seduto su una sedia rossa bordò e guardare il soffitto.
«L’ultima volta ti avevo chiesto di scrivere o di appuntare qualcosa nei momenti in cui eri più giù…» Ecco perché portava sempre con sé dei piccoli post it. Pensai spostando lo sguardo dallo psicologo a Damon che estrae dalla sua giacca nera diversi fogli pieghettati e rovinati.
«Potrei leggerli io?» Chiesi con il cuore in gola. Damon spostò il suo sguardo dal soffitto su di me, non seppi decifrare il suo sguardo. Forse era meglio se non dicevo niente, avevo esagerato con quella richiesta.
Mi aspettavo una reazione sconsiderata che non arrivò: Damon annuì in direzione di Parker che prese un foglio a caso e me lo porse.
Lasciai a terra la borsa e strinsi quel pezzo di carte tra le mani tremanti. Mi schiarii la gola e decisi di leggere.
«Mi sembra di vivere in una stanza buia, aspettando che qualcuno mi trovi per mettere fine alla mia solitudine.» Lessi quelle righe con incertezza e con la voce che mi tremava. Rivolsi un’occhiata a Damon che non mi stava neanche guardando: il suo sguardo era puntato sul soffitto ma i suoi occhi erano chiusi.
«Mi piacerebbe chiudere gli occhi solo per un minuto, sapendo di non poterli più riaprire.» Sospirai e alzai gli occhi al cielo, cercando di trattenere le lacrime. Era sempre stato difficile trattenere le lacrime, perché sentivi la gola bruciarti, gli occhi ti sembrano umidi e pensi che le lacrime possano fuoriuscire da un momento all’altro, ogni muscolo del tuo corpo si irrigidiva per evitare di crollare.
«L’inutilità porta il mio nome. La stupidità porta il mio cognome. La tristezza porta il mio volto.» Avevo la tentazione di accartocciare il foglio che avevo tra le mani e farne coriandoli degli altri.
Leggere quei pensieri così tetri mi trasmettevano troppa inquietudine e un pensiero dentro di me si faceva strada velocemente, mentre vedevo tutto annebbiato realizzando il tutto.
Iniziai a pensare il peggio e deglutii a vuoto più volte.
Aveva mai tentato di uccidersi? Mi chiesi. Damon aveva il volto scavato da profonde occhiaie e non parlava, teneva gli occhi serrati e delle piccole rughette si erano formate agli angoli della bocca. Le mani erano chiuse a pugno e le nocche era tremendamente bianche.
Stava maledettamente male. Soffriva per qualcosa che né io né la mia famiglia né il medico potevamo capire perché lui era troppo occupato a chiudersi in sé stesso per aprirci e farci partecipi del suo dolore.
«Leggine  un’altra.» Mi incoraggiò il dottor Parker questa volta con sguardo serio. Decisi di scegliere qualche altro pensiero di un altro foglio. Presi un piccolo post it, dove la scrittura era piuttosto indecifrabile.
«Non condivido il mio dolore non perché non voglio la loro comprensione, ma perché non voglio trascinarli nel mio personale tunnel degli orrori.» E forse questa era stata il colpo di grazia. Il colpo più duro che potesse sferrarmi, che potesse sferrare a me e alla sua famiglia.
Fin’ora avevamo pensato che non riuscisse ad aprirsi perché troppo spaventato o troppo chiuso, avevamo tutti pensato che non fosse in grado di parlarci di quello che stava affrontando. No. La realtà era che lui riusciva a parlare dei suoi problemi, non voleva immischiarci. Pensava, nella sua mente contorta, che se si fosse aperto saremo stati bloccati nel suo inferno; non sapendo che il suo silenzio era un inferno.
«Damon, pensi che tua sorella non voglia essere trascinata nella tua situazione?» Gli chiese il medico, togliendo il tappo dalla penna e preparandosi a scrivere ciò che avrebbe detto.
«Penso che lei voglia immischiarsi fin troppo in questa situazione.» Deglutii e sospirai, mi conosceva troppo bene. «Il punto è che non voglio toglierle il sorriso.» Continuò.
Aprii la bocca, ma mi zittii non appena vidi lo sguardo di ghiaccio che mi rivolse Parker.
Mi morsi la lingua ed evitai di replicare.
«Perché pensi che tu possa toglierle il sorriso?» Gli chiese, continuando a scrivere chissà cosa su quel maledetto block notes. Io ero rimasta immobile su quella sedia: la schiena aderiva alla pelle blu che la ricopriva, le gambe accavallate, la mano sinistra stringeva i fogli spiegazzati e l’altra arricciava convulsivamente le punte.
«Perché l’ho già fatto in passato.» Rispose duro.
«E perché l’hai fatto?» Mi irritava notevolmente il tono con cui gli parlava: sembrava stesse parlando ad una persona con problemi mentali, con quel suo stupido ed insopportabile tono pacato sembrava volesse minare alla sua calma.
Voleva una reazione sconsiderata per studiarlo meglio. Detestavo gli psicologi, non mi scordavo le sedute con MaxField avute anni prima, non mi scordavo il suo tono insopportabile.
Gli psicologi erano persone tremendamente subdole, volevano studiare la psiche delle persone che li circondavano ma non capivano che le persone non andavano studiare come animali.
Le persone andavano capite, non studiate. E il dottor Parker ora mi stava dando l’impressione che cercasse di punzecchiarlo per farlo scoppiare, anche se avevo la netta sensazione che sarei scoppiata prima io di lui.
«Perché volevo farla soffrire come lei ha fatto soffrire me.» Colpo al cuore.
Sin dalla prima volta che l’avevo rivisto – alla pista di motocross – avevo capito che qualcosa si era inclinato, che lui aveva covato troppo rancore e che lo stesse coltivando male, in cattività.
«E ci sei riuscito?» Serrai la bocca e inclinai la testa in attesa di una risposta.
«All’inizio no, anzi si divertiva quando la punzecchiavo.» Si fermò un attimo per prendere aria. «Lei si divertiva, io mi sentivo inutile ancora di più.» Più io mi divertivo, più lui si sentiva inutile perché non riusciva nel suo intento.
Era completamente pazzo. Non riuscivo a pensare ad altro.
«Credo che volevo farla soffrire più che altro per dimostrare a me stesso che potevo fare qualcosa, che potevo riuscire in qualcosa.» Spiegò, alzando lo sguardo. Puntò i suoi occhi nei miei. Il suo sguardo parlava da solo, sembrava si stesse in qualche modo scusando per quello che aveva cercato di fare.
«E ci sono riuscito, non volontariamente.» Sia io che il padre di Luke non riuscimmo a comprendere questa sua affermazione.
«Lei sta soffrendo ora. Perché sto soffrendo io.» Sentivo un vuoto all’altezza del petto. Non capivo da cosa fosse caratterizzato, non capivo da cosa fosse causato. Io lo odiavo, l’avevo sempre odiato. Il nostro rapporto è sempre iniziato dall’odio.
Sin dalla prima volta che lo vidi a casa mia che rideva e scherzava con Stefan e papà. Era stata una scintilla di odio a far innescare tutto e a chiudere il tutto era stata una scintilla di pazzia.
Ora invece non capivo più da cosa fosse mosso tutto. Non era l’odio che mi muoveva, non aveva senso preoccuparsi per una persona in questo modo.
Non mi preoccupavo per lui in modo ossessivo come due anni fa. Era questa la cosa che mi faceva sentire meno strana, non avvertivo più il senso di colpa per quello che facevamo. Non ero mangiata dalla consapevolezza di coltivare un amore malato e malsano con mio fratello.
Cosa mi sta succedendo? Mi chiesi in quel momento, rendendomi conto di come la situazione fosse cambiata. Era partito tutto dall’odio e ora a cosa eravamo arrivati? Non c’era più odio da parte mia e aveva veramente troppa paura per capire e scavare nel profondo dei miei sentimenti. Non avevo la forza di classificare questo sentimento sotto un nome per paura di dargli il nome sbagliato.
Due anni fa ero convinta fosse amore, poi avevo capito che era solo ossessione e desiderio di qualcosa di proibito…Ora cos’era? Dovevo rischiare e affibbiare a questa cosa che provavamo un nome, magari sbagliato?
«E non è come lo immaginavo. Vedendola soffrire per me, mi sento solo più inutile. Ho pensato di morire, di farla finita a questa noiosa monotonia…» Con il cuore in gola distolsi lo sguardo dai suoi occhi. Perché dai suoi occhi potevo realmente capire se era tutto finito o no, se c’erano ancora speranze o no.
«Cosa ti ha fermato, Damon? DILLO AD ALTA VOCE.» Lo incoraggiò Parker posando finalmente il taccuino ed alzandosi da sedere. «Tenendo tutto dentro non concluderai niente.»
«Mi ha fermato la consapevolezza di avere tra le mie mani non solo la mia di vita, ma anche un’altra.» Mi ritrovai a sorridere alla sua affermazione, io l’avevo fermato. Avevo evitato di fargli fare una cazzata, un peso in meno sul mio cuore.
«Un momento…» In un batter d’occhio, Parker aveva ripreso il suo taccuino e aveva ricominciato a scrivere velocemente.
«Sto dicendo che se sono ancora vivo è solo perché non voglio far soffrire mia sorella Elena. Perché lei mi ha affidato più di una volta la sua vita, anche ora le nostre vite sono indissolubilmente legate. E non ho intenzione di fare stronzate, le è chiaro?» Grugnì infastidito.
Non riuscivo a descrivere esattamente cosa stessi provando: forse felicità? O una malinconia mal celata? Non ne avevo idea.
«E perché non hai intenzione di fare stronzate?» Mi irritai ancora di più a quella domanda. Non pensavo che in queste sedute lo psicologo avesse una certa confidenza con il paziente.
«Perché è mio sorella…» Iniziò incerto. «E la amo.» E la amo. Porca puttana, l’ha detto veramente. Un sorriso spontaneo si formò sul mio volto.
Anche io, Damon. Mimai con le labbra.
«Lei ha bisogno di te…Questo non è un buon motivo per restare un giorno in più?» Damon serrò gli occhi e non rispose. Rimanemmo in silenzio per una manciata di minuti.
Damon aveva le mani fra i capelli e li stringeva e tirava come un tic, gli occhi serrati da cui potevo intravedere delle piccole lacrime che cercava di trattenere.
«Ti prego…» Mormorò a bassa voce. «Falla uscire da qui…Ti prego…» Voleva che me ne andassi via, non era pronto per avermi con sé durante una seduta.
«Damon, Damon non mi chiudere fuori…Posso capirti…» Bugie, solo bugie. Non potevo capirlo se non mi rivelava il motivo per il quale si sentiva così solo e triste. Non potevo farcela, non potevo neanche sforzarmi a capire qualcosa che non sapevo.
«Ti scongiuro, Elena, va via.» Sputò fuori ogni parola lentamente e il mio cuore batteva più velocemente. Il dottor Parker mi guardava con aria di disapprovazione e si alzò dalla scrivania.
Di scatto mi alzai anch’io dalla sedia.
«Elena, ti invito ad uscire.»
«E’ mio fratello, ha bisogno di me.» Replicai avvicinandomi a lui. Damon non mi rivolgeva la parola, teneva le mani sulla testa e cercava di nascondere il volto.
«No, Elena.» Il dottor Parker si tolse gli occhiali e sospirò. «Ha solo bisogno di libertà. Qui con te si sente oppresso.» Lo opprimevo. Mi morsi la lingua per evitare di replicare con qualcosa di offensivo e afferrai la borsa.
«Me ne andrò solo quando me lo dirà Damon.» Fammi rimanere qui con TE. Dovevo rimanere con lui, era mio fratello e aveva un chiaro bisogno di me.
Ora era solamente nella fase della negazione, pensava che aprirsi con me fosse un segno di debolezza.
«Elena, vai. Se mi ami come dici, vai via da qui.» E con quelle parole non riuscii più a replicare.
Se mi ami come dici, vai via da qui. Dovevo farlo, solo per dimostrargli che quello che provavo era più forte della mia testardaggine.
Afferrai la borsa e me ne andai da lì, sbattendo la porta.
«Come vedi, ti amo abbastanza.» Grugnii a bassa voce.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




Posto oggi perché domani partirò e starò via per un paio di giorni.
Sono veramente contenta che questa storia vi abbia conquistato a tal punto da seguirla anche a distanza di mesi, ora prometto che aggiornerò più assiduamente – non vi do appuntamenti perché ho paura di non mantenerli.
In tutti i casi, il capitolo di oggi è più che deprimente…E oddio scusatemi se è uscito così lungo e se vi mette tristezza ma non riesco a scrivere altro. Comunque vediamo che ci sono molti progressi tra i due, già dicono di amarsi (come fratelli…Poi ognuno lo può vedere in modo diverso.), abbiamo anche visto come Damon vede il mondo…E tutte le frasi dei pensieri di Damon sono farina del mio sacco – magari vi chiederete che razza di mente mi ritrovo, beh non lo so neanche io.
Vi ringrazio per tutto, per le recensioni, per come seguite la storia, per le visualizzazione. Veramente non so cosa dirvi, vi dedico questo capitolo – probabilmente uno dei pochi che m convincano abbastanza.
Comunque questi capitoli malinconici escono quasi da soli, se vi turbano o vi turbano questi argomenti potete dirmelo senza problemi e cercherò di ‘contenere’ queste mie idee.
Spero di sentirvi nelle recensioni.
Buona Pasqua, splendori.
Non ti scordar di me.
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** I'll love you, as a girl loves her boyfriend. ***


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Capitolo tredici.
I’ll love you, as a girl loves her boyfriend.
 
«Non sta rimandando un po’ troppo signorina Salvatore?» Alzai il viso dalle carte che stavo studiacchiando in quell’ufficio da più di un’ora e inclinai la testa assimilando le sue parole.
«Non mi dia del lei, mi fate sentire vecchia.» Gli ricordai ammonendolo ridacchiando. L’agente Young mi sorrise apertamente e si accomodò meglio su quella scomoda sediolina rossa.
Stavamo scartavetrando i vecchi mandati di perquisizione riguardanti Joseph King da troppo tempo, andavo avanti da settimane e mi sorprendevo di come quel bastardo organizzasse tutto nei minimi particolari. Non c’era stata una sola volta in cui avesse fatto un passo falso, non aveva mai lasciato tracce se non quella particolare eleganza nel commettere un omicidio che lo contraddistingueva.
«Rimandando cosa, esattamente?» Chiesi continuando a leggere uno dei tanti rapporti che avevo sotto le mani.
«L’incontro con vostro fratello. Lui era il diretto interessato nella questione, dovrebbe essere lui il nostro tramite per questa situazione, non voi.» Feci una smorfia, notando con disappunto che non aveva ancora abbandonato le formalità.
La amo.
Quelle parole mi ritornarono in mente e sorrisi istintivamente. Pochi istanti durò quel sorriso, ricordando ciò che era successo subito dopo. Una crisi? Non ero molto brava in questo campo, non avevo idea di come definire tutto quello che stava affrontando.
Quello era il motivo principale per il quale non gli avevo accennato minimamente questa storia. Comunicargli che la ragazza che aveva amato con tutto il cuore aveva rischiato di morire per mano della stessa persona a cui ora stava facendo affidamento non era il massimo.
E pensare che lo vedevo felice in quei giorni, pensare che stavo programmando di parlargli con calma di Katherine…Avevo capito che non era affare fare una cosa del genere quando l’avevo visto sgretolarsi di fronte a me dallo psicologo, avevo visto i suoi nervi cedere a tutta quella pressione.
Cosa potevo fare? Di sicuro non sarei rimasta in silenzio a guardarlo distruggersi con le proprie mani. E non potevo neanche a spettare che tutto si sistemasse da solo, altrimenti non avremo mai cambiato quella situazione – avevo intuito che se fosse stato per Damon quella situazione sarebbe finita tempo prima in modo troppo drastico –.
«Diciamo che ora dovete accontentarvi di me.» Dissi con un mezzo sorriso ironico.
Osservai i tratti dell’agente crucciarsi: le sopraciglia leggermente arcuate, le labbra contratte in una smorfia e gli occhi indagatori indicavano tutto il suo scetticismo.
«Non possiamo accontentarci.» Replicò battendo fermamente un pugno sulla scrivania. «Non stiamo giocando, signorina. C’è in ballo la vita di una persona, non sappiamo più dove si trovi questo giovane, la famiglia è disperata e..» Continuò il suo noioso discorso – noioso almeno per me – e io stetti lì in silenzio annuendo a volte con fare finto interessato, mentre già elaboravo una buona risposta.
«Senza contare che questa è l’opportunità per fare luce sul caso della signorina Pierce.» Concluse stizzito.
Fremevo dalla rabbia: pensava che tutto fosse un gioco? Come poteva pensare che mi piacesse invischiarmi in situazione così complicate?
L’agente era convinto che fosse un gioco per me, ma non lo era affatto. Non avevo idea di quanto avrei dato pur di vivere normalmente, anche ora preferivo stare a casa mia alle prese con Damon e i suoi costanti sbalzi d’umore che trovarmi qui alle sue spalle.
«Dovrete accontentarvi. Se potessi porterei qui mio fratello, ma non posso.» Dissi piccata, contenendo il mio linguaggio colorato.
«Quanto tempo ci vorrà ancora, esattamente? Non abbiamo tutto questo tempo.» Il tono pieno di fastidio non fece altro che rendermi ancora più indisposta nei suoi confronti.
Feci finta di fare mente locale: quanto tempo ci voleva?    
«Tutto il tempo necessario, Agente Young.» Commentai con ironia. Aveva la bocca spalancata e mi fissava con gli occhi strabuzzati.
«Potrebbero volerci anche mesi.» Ripresi il discorso non appena mi resi conto che stava per replicare. «Però avete qualcosa, avete una possibilità di fare luce su questi due casi. Se volete qualche informazione, chiedete a me.» Continuai.
Non volevo assolutamente altre interruzioni di agenti in casa mia, tanto meno con mamma e i miei fratelli in casa – anche perché mamma non capirebbe il motivo per il quale mi ero invischiata in tutta questa storia e spiegarglielo era improponibile.
«Le informazioni che potreste fornirci non sono quelle che ci servono.» Insistette il poliziotto che sembrò rilassare momentaneamente i lineamenti. «Abbiamo bisogno di altri particolari, dovremo chiedere ancora a vostro fratello le modalità con cui tutto è avvenuto.»
A cosa serviva chiedergli nuovamente come sia avvenuto il tutto, lo trovavo patetico. Quando Katherine aveva perso la vita, l’avranno già tartassato di domande giusto? Non poteva di certo dare nuovi informazioni utili a quel caso.
«Credo che l’abbiate interrogato tempo addietro o sbaglio?» Decisi di dare vita ai miei pensieri, prendendo in contropiede l’agente che s’inumidì le labbra leggermente a disagio.
Aggrottai la fronte quando vidi quel gesto, mi concentrai su altri particolari a cui prima non avevo fatto caso il ticchettio insistente della sua scarpa a terra, il suo mordersi il labbro in modo quasi ossessivo e i suoi muscoli completamente rigidi.
Il mio occhio cadde istantaneamente sulla scrivania e mi resi conto che il suo registratore era quasi nascosto dietro il computer.
Notai il suo riflesso e non mi sorpresi molto quando vidi il bottoncino - che indicava che stava registrando -  era acceso e lampeggiava.
Sanno qualcosa in più che non mi stanno dicendo. Stronzi. Pensai deglutendo e accavallando le gambe. Voleva giocare sporco, probabilmente non si fidavano di me e non capivano perché stessi temporeggiando in quel modo la comparsa di Damon in tutta quella storia.
«Dovrei chiedergli anche se ha ancora rapporti con King…» Si fermò istantaneamente per riprendere pochi istanti dopo. «Se ha mai avuto rapporti con King.» Si corresse scuotendo la testa con un mezzo sorriso pacato.
Passo falso, idiota. Voleva parlare con Damon e voleva sapere se c’entrasse qualcosa in tutta questa storia, non l’avrei permesso, non in un momento delicato come quello che stava vivendo: tutto avrebbe potuto sgretolarsi troppo velocemente.
«Fatelo non tanto per farci catturare quel criminale, fatelo per quelle famiglie. Non sapete come siano ridotte.» Puntò sulla compassione. Peccato che non funzionasse più, almeno non più. Non riusciva a far leva sul mio senso di colpa perché c’era altro per cui dovevo preoccuparmi.
Pensare a come si stavano sentendo le famiglie Wood e Pierce non era quello che mi interessava: io mi interessavo solo della mia famiglia, la famiglia Salvatore.
«E voi sapete qualcosa della mia di famiglia?» Sputai acida sedendo meglio e spostando la sedia in avanti. Scrutai lo sguardo penetrante dell’agente e lo vidi sorpreso da quella presa di posizione così dura.
Se voleva incastrarmi, doveva impegnarsi di più.
«Perché volete per forza vostro fratello fuori da questa storia?» Replicò con una domanda diretta. Assottigliai gli occhi. Potevo continuare quel gioco a lungo, ero troppa brava a depistare le persone…E per quanto l’Agente Young fosse bravo e competente nel suo lavoro, io ero più scaltra di lui.
«Forse potrebbe essere la soluzione a tutto.» Continuò, rivolgendomi un sorriso. Con quelle parole inquadrai tutto quello che stava succedendo in modo chiaro e cristallino: loro non sospettavano di me, sospettavano di mio fratello e di King.
Per qualche motivo assurdo, pensavano che fosse qualcosa organizzata in due. Non sapevo invece che ero proprio io la complice, che proprio io avevo causato tutto questo.
Deglutii e spostai i capelli dietro l’orecchio.
«Potrei denunciarvi sapete? E’ un accusa pesante la vostra.» Aveva il volto sconvolto,alzai gli occhi al cielo e mi spiegai meglio. «State indirettamente accusando mio fratello di essere il colpevole di questa scomparsa?»
Scelsi accuratamente le parole da pronunciare, anche solo un verbo diverso e mi avrebbero ingannato. Non volevo fargli capire che sapevo di quel registratore, doveva pensare di essere un passo più avanti di me – anche se non lo erano.
«Non mi permetterai mai di dire una cosa del genere.» La tentazione di rispondergli sgarbatamente era forte, ma mi morsi la lingua ed evitai di dire qualcosa di cui mi sarei pentita.
«Allora cosa state insinuando con il potrebbe essere la soluzione a tutto?» Scimmiottai imitando il suo tono e rise sentendo la mia patetica imitazione – da ridere c’era ben poco.
«Sto dicendo che forse non sapete tutto di vostro fratello. Nei precedenti incontri mi avete detto che avete vissuto la vostra vita in una cittadina giusto?» Annuii scrollando le spalle, sempre più infastidita di tutte quelle insinuazioni.
«Vostro fratello non ha una grande condotta, più volte è venuto qui da noi ed è stato trattenuto.» Mi spiegò. Mancava solamente che mi facesse vedere la sua fedina penale e potevo dire che quell’uomo lo stava accusando di qualcosa che non aveva fatto assolutamente.
«Non so se è peggio il fatto che state insinuando che mio fratello abbia contribuito alla morte della sua ragazza o il fatto che voi non riusciate a guardare oltre le vostre convinzioni da persona chiusa.» Dissi secca. Non avevo detto neanche una parola offensiva: solamente pura verità.
Damon non aveva una grande reputazione, magari più volte si era trovato in una caserma per chissà quale stronzata ma erano pur sempre passati quattro anni!
Perché dare per scontato che fosse rimasto sempre lo stesso coglione di sempre? Perché non supporre per pochi istanti che abbia messo la testa apposto?
«Nessuno sta sospettando questo.» Chiarì immediatamente.
«Dovreste esprimervi meglio allora.» Sfoggiai un sorriso enorme e mi beai della sua espressione sconvolta. Farsi beffa di una persona chiaramente più stupida di te e con convinzioni assurde mi divertiva.
«Voi mi state dicendo che vostro fratello amava follemente questa ragazza, no? Se l’avesse amata in modo così smisurate, non si sarebbe fatto due domande su questo suicidio improvviso della giovane?»
Cosa sta farneticando? Aveva seriamente detto che il suicidio di Katherine era stato un ‘suicidio improvviso’?
«Com’era Katherine Pierce?» Gli chiesi allora.
«Che domanda è?»
Era una domanda strana, perfino io mi stavo dando della stupida per aver chiesto seriamente una cosa del genere. Sospirai profondamente e cercai di capirci meglio in tutto quel casino.
«Vorrei solamente sapere che tipo di persona era. Non l’ho mai conosciuta…Suppongo abbiate parlato con i familiari, almeno per capire i motivi di questo suicidio dovreste sapere com’era no?» Dissimulai perfettamente il tutto facendo finta di non sapere niente su di lei.
«I genitori l’hanno descritta come una ragazza d’oro influenzata negativamente dalle compagnie che frequentava, cocciuta, testarda e sicura di sé. Diciamo che è piuttosto contraddittoria come descrizione…» Sospirò massaggiandosi la testa.
Rimasi in silenzio pochi istanti riflettendo su come dire. La descrizione che mi era stata riferita da Damon – allora nei panni di Ian – era tutt’altra: ragazza timida, solitaria, debole per vivere e con una patologia di tafofobia.
Erano solo cazzate?
«E Damon? Damon come ve l’aveva descritta?» Chiesi con finto fare angelico. Questa volta non riuscii a mettere nel sacco l’agente che mi rivolse uno sguardo penetrante.
«Me l’ha descritta in modo opposto, praticamente!» Non è ugualmente una buona scusa per accusarlo. Quello era l’unico pensiero che elaborai su momento.
«E solo perché l’ha descritta in modo diverso sospettate di lui? Avete parlato con qualcun altro? Con qualche amico della ragazza? O con il fratello o la sorella, se ne ha.» Sapevo dell’esistenza di Gabriel, però era meglio far finta di non sapere niente di lui.
Se avessi accennato a lui, sarebbe partite troppe domande. Domande le quali non c’entravano minimamente con questa storia, anzi ne aprivamo un altro off limits.
«Ho parlato con i suoi amici, se così possiamo chiamarli.» Sospirò. «E’ stata descritta come una ragazza debole e remissiva solamente da vostro fratello.» Perché avrebbe dovuto mentirmi su una cosa del genere?  Non ne aveva motivo allora, non ne avrebbe tratto vantaggio.
Com’era in realtà Katherine Pierce? Era la ragazza sicura di sé con cattive compagnie – come diceva la famiglia e gli amici – o era la ragazza debole e bisognosa di aiuto – come invece sosteneva Damon?
«Questo è strano…» Commentai quasi soprapensiero. L’Agente annuì e mi avvicinò un foglio. Lo presi in mano e vidi che quella foto rappresentava proprio Katherine.
La riconobbi subito, non mi sarei mai dimenticata la sua foto sulla lapide. Osservai attentamente la foto, ma questa foto non rappresentava lo standard di ragazza timida e posata che fin’ora Damon mi aveva presentato…Se per questo non mi ricordava neanche lo standard della foto presente al cimitero.
Lo scatto era stato preso in un momento in cui lei non si era accorta della macchina fotografia: stava ballando selvaggiamente con una bottiglia in mano di chissà quale liquore.
Non era tanto quello che mi aveva stupito, più che altro mi aveva lasciato basita il resto: il vestito rosso fuoco arrivava sotto la coscia, i capelli biondi lisci le ricadevano sulle spalle e gli occhi erano truccati in modo particolarmente scuro.
«Cosa dovrei farci con questa foto?» Chiesi acida. Odiavo quella ragazza fin da quando Damon me ne aveva parlato, non soltanto perché era la sua ragazza – e io allora ero ossessionata da lui – ma non mi era mai andata giù…Quale persona si toglierebbe la vita sapendo di avere tutto l’amore a disposizione per continuare a vivere?
«Questa era Katherine Pierce. Una ragazza esuberante, questa foto risale a un paio di anni fa. Siamo stati chiamati da dei passanti, probabilmente la festa nascondeva altro.» Lasciò il discorso in sospeso.
«Droga?» La buttai lì incerta.                          
«Esattamente.» Ora avevo le idea molto più che confuse. Come poteva una ragazza – sempre facendo riferimento alla descrizione fornitami da Damon – trovarsi in un giro del genere? Nessuna ragazza, vittima di tafofobia, avrebbe partecipato ad una feste del genere.
La tafofobia non era solo la fobia della morta, spesso veniva associata a problemi di claustrofobia…In una festa del genere dovevano trovarsi in un caos enorme – cosa improponibile per una persona tafofobica.
Qualcuno mi ha mentito. Mi dissi. Qualcuno ci ha mentito. Mi corressi mentalmente. Non ero l’unica ad essere stata presa in giro, c’era chi era stato completamente raggirato.
Damon. Come gli avrei detto che quella ragazza non era chi credeva fosse?
«Alla fine il caso è stato offuscato, a quella festa c’erano tanti ragazzi con un cognome...piuttosto famoso.» Persone raccomandate con famiglie troppo facoltose alle spalle per reggere scandali del genere. Li odiavo.
«Sta di fatto che questa foto non rappresenta una persona remissiva. Non credete anche voi?» Mi disse ironico.
«Non ho cambiato idea su ciò che penso.» Dissi infastidita. «Non sospetto ugualmente su mio fratello.»
L’agente Young borbottò qualcosa di incomprensibile in risposta.
«Mi basterebbe solo una chiacchierata con lui, solo per chiarire la situazione. Credo che anche lui voglia sapere com’era in realtà la sua fidanzata.» Insistette ancora.
E non ci vidi più. Non riuscii più a collegare, la mia mente era solo offuscata dalla rabbia, non potevo sopportare che quell’uomo volesse far aprire gli occhi a mio fratello.
Non potevo permetterglielo, non potevo permettere che sconvolgesse mio fratello in questo modo facendo solo male.
«Ascoltatemi bene, signor Young , perché non lo ripeterò più.» Mi alzai da sedere facendo striare la sedia a terra. «Io e la mia famiglia stiamo attraversando un periodo particolare. Già è tanto che io sia qui ad aiutarvi con qualcosa che voi dovreste aver già chiuso da anni.» Lo stupore sul suo viso era immenso, non riuscii a non sentirmi più che soddisfatta del mio discorso improvvisato.
«Se volete altre informazioni sapete dove trovarmi, mio fratello non si tocca. Non metterete a repentaglio la sua salute per una cazzata del genere.»
Ero stata vaga, ma credevo fermamente in ogni parola che avevo detto.
Se c’è qualcuno che può distruggere Damon, quella sono io. Nessun altro.
 
*
Bussai ripetutamente alla porta della camera di Damon, aspettando una sua risposta. Rimasi lì impalata fino a quando non mi stufai di aspettare come una stupida una risposta che non sarebbe arrivata in tempi veloci. Aprii leggermente la porta e notai con disappunto che era immersa nel buio, ad eccezione di un piccolo spiraglio di luce che filtrava da dietro la tenda.
«Sono Elena.» Dissi immediatamente entrando nella stanza. Chiusi alle spalle la porta e mi guardai attorno: la stanza era messo peggio di quanto ricordassi. L’ultima volta che ci ero entrata era un paio di giorni fa, potevo giurare che tutti quegli indumenti non erano sparsi in quel modo e che quei fogli sparsi ovunque fossero aumentati notevolmente nel giro di pochi giorni.
«Damon?» Il ragazzo era steso sul letto con le coperte tirate fin sopra le braccia, era quasi rannicchiato in posizione fetale sul letto e il suo respiro era regolare. Da quanto tempo non si alzava da quel letto?
Era mezzogiorno inoltrato e lui era ancora nelle sue coperte a dormire beatamente, perchè dormiva così tante ore? Io non riuscivo a dormire più di sei ore a volte e l’insonnia era sempre più forte la notte, a volte non sapevo neanche come impiegare il tempo.
Mi avvicinai alla sua scrivania e vidi un grande diario marroncino da cui spuntavano diversi fogli e post it di vario colore, la copertina era rovinata e le pagine sembravano piene di scarabocchi. Mi avvicinai e lo presi in mano, era una specie di diario ed era completo – non c’erano altre pagine bianche.
Deglutii e lo aprii, dopotutto non c’era alcun lucchetto e anche se sapevo che era strettamente qualcosa di privato ignorai la vocina ragionevole che mi diceva di mettere via quel diario.
Spalancai gli occhi quando vidi una delle date che aveva segnato agli angoli spiegazzati delle pagine.
Era così bella in quel vestito rosa, sembrava una ninfa con quei fiori decorativi tra i capelli. I suoi capelli profumavano sempre, ma quella volta avevano un odore più forte del solito: mi piaceva ugualmente.
Le gambe lunghe e affusolate chiuse all’interno di quel tacco troppo alto per lei, era quasi buffa mentre si destreggiava su quei trampoli.
La data segnava 14 Febbraio 2012. La prima cosa che ricordai fu la morte di Matt, quel giorno era uno dei tanti giorni da cancellare. Così mi chiesi, perché scriveva proprio quel giorno delle cose del genere? Solo dopo, realizzai l’anno in cui era stato scritto: erano passati quasi tre anni.
Il giorno dell’incidente. Prima dell’incidente. Mi dissi mentalmente, saltando un paio di righi e continuando quella lettura in silenzio.
L’ho vista tremante in quella macchina con i vetri che le tagliavano la pelle candida. Dalla testa le usciva del sangue scarlatto a piccole gocce e il suo colorito era innaturale (anche se non quanto quel ragazzo biondo alla guida).
L’ho tirata via da lì senza pensarci due volte, l’ho stretta a me e ho sospirato quando ha ricambiato debolmente l’abbraccio. E mi sono reso conto che l’avevo salvata: in qualche modo era arrivato in tempo, solo per lei. Per la mia Elena, la mia piccola Elena.
M’inumidii le labbra e mi chiesi com’era possibile che non mi fossi mai resa conto che scrivesse i suoi pensieri su un diario, non avevo mai pensato che lui – proprio lui – scegliesse un metodo del genere per scaricarsi.
Sento la mia pelle bruciare contro la sua e mentre lei si sente sbagliata, io mi sento tremendamente giusto. Quella frase saltò all’occhio perché era stata calcata più volte con un penna nera, quasi a volerlo evidenziare. Chiusi il diario quando capii che non volevo leggere oltre, non volevo scoprire quello che Damon scriveva su di me o sulla sua vita. Era qualcosa di troppo privato e anche se ero una persona tremendamente egoista e curiosa, non avrei mai fatto una cosa del genere – o almeno non fino in fondo, visto che alla fine avevo spulciato all’interno del diario.
Chissà se ne scrive ancora uno. Mi ritrovai a pensare chiudendo quell’enorme diario e mettendolo nello stesso punto in cui l’avevo trovato. Mi avvicinai a lui e gli scostai le coperte completamente dal volto: Damon era tremendamente adorabile quando dormiva.
I capelli erano scompigliati e alcune ciocche  gli coprivano il volto – non avevo idea di come siano arrivate davanti il suo viso -, le labbra erano strette in una linea ferrea e il suo petto si alzava e abbassava ogni volta che respirava.
Mi sedetti lì accanto e iniziai a chiedermi come mai non si fosse ancora svegliato: in fondo non ero mai stata famosa per i miei modi delicati.
Girando lo sguardo, vidi un barattolino di pillole sul comodino. Sentii l’ansia crescere lentamente, con la mano tremante afferrai il contenitore – era meglio non farlo e non avrei rischiato di perdere diversi anni di vita –, costatai che quelle erano pillole tranquillanti servivano per far dormire.
Lessi velocemente le avvertenze.
INGERIRNE UNA ALLA VOLTA,  A DISTANZA DI ALMENO TRE ORE. Quella scritta catturò la mia attenzione, feci un rapido calcolo: Damon aveva iniziato a prendere i tranquillanti da diverse settimane…Li prendeva sempre con uno della famiglia accanto, tranne che…
Oh merda. Mi ricordai che ieri non c’ero, troppo occupata a trovare un metodo per rimandare un esame di medicina a cui sarei stata sicuramente bocciata.
Aprii il barattolo e notai che non ce n’erano più, neanche una pillola.
«Oddio…ODDIO!» Mi alzai repentinamente dal letto e repentinamente iniziai a muovermi avanti e indietro, fin quando non riacquistai le mie facoltà mentali: con il cuore in gola portai le mani alla sua gola e tastavo inutilmente sul collo alla ricerca del suo battito – anche se debole, avremo potuto fare qualcosa.
«Damon!» La voce non era uscita come immaginavo, lo scossi leggermente e iniziai a respirare velocemente. Sarei andata in iperventilazione. «Damon!» Questa volta fui forte e chiara.
Mi allontanai dal letto e a grandi passi mi avviai verso la porta, corsi più veloce che potevo e afferrai il mio cellulare, chiamando immediatamente un’ambulanza non sapendo cosa fare.
Rispondete, maledizione. Aspettando che rispondessero alla chiamata, corsi nuovamente verso la stanza del corvino.
E pensare che avevo fatto tanto per evitare questo momento, avevo provato a rallentare il tempo sperando di riuscire nell’arco di tempo rimasto a salvarlo da quel buco che si era costruito da solo.
Ora, mentre lo guardavo steso sul letto con gli occhi chiusi, capivo quanto tempo aveva sprecato: avevo sprecato tempo ad andare da quel poliziotto, avevo sprecato tempo con lui, avevo sprecato tempo e non ero riuscita a farlo vivere veramente. Non ero riuscita a fargli sentire l’ebbrezza della vita, del pericolo, della voglia di continuare a muoversi e a infastidirmi con la sua voce e con i suoi modi di fare.
Pensare che gli avevo affidato la mia vita, lo avevo quasi obbligato a tenere la mia vita nelle sue mani. Mi sentii stupida: veramente pensavo di fermarlo con un pretesto così debole?
La mia vita non bastava a farlo rimanere qui. Niente sarebbe bastato: ormai Damon era entrato in collisione, era entrato in uno di quei momenti bui della vita che prima o poi affrontavano tutti…Io mi chiedevo solamente perché dovesse capitargli tutto ora.
Perché chiunque ci fosse lassù, non mi dava un aiuto o qualche segno di vita? Eravamo così maledetti da non poter essere salvati neanche da qualcuno superiore a noi?
Ero una miserabile? Ero una persona da cancellare solo perché stavo ricoltivando il mio sentimento per mio fratello in modo più giusto?
Solo il pensiero di non poter più far nulla per lui, mi faceva accapponare la pelle. Non mi ero resa conto di non riuscire a digitare i numeri esatti, non mi ero resa conto che ero seduta a terra con la schiena poggiata allo stipite della porta…Non avevo neanche notato le lacrime che erano già partite.
Poteva veramente bastare poco, poteva bastarmi un solo momento e l’avrei salvato.
«Mamma…devo chiamarla…» Dissi ad alta voce, cercando di darmi un contegno. Non rispose né al primo squillo né al quinto, continuai ad insistere fin quando non si inserì la segreteria telefonica.
Avevo sprecato già troppo tempo: cinque minuti erano andati.
Potevano essere essenziali.
Non rispondeva, così come non rispondevano al centralino o chiunque era l’addetto alle chiamate di emergenza all’ospedale di Londra.
«Elena?» Tirai su col naso e vidi che avevo fatto partire una chiamata. Vidi il nome sullo schermo e mi portai immediatamente il cellulare all’orecchio.
«Stefan, ritorna. Ritorna a casa.» Mi ritrovai ad urlare con aria isterica mentre mi alzavo da terra per avvicinarmi a quel letto.
«Cosa sta succedendo? Elena, rispondi!» Deglutii e provavo a spiegargli la situazione ma era così difficile, così difficile riuscire a pronunciare quelle parole, non potevo neanche pensare che quel coglione avesse ingerito quelle pillole…Non aveva avuto neanche rimpianti, non c’era una lettere, non c’era una scritta. Solo il vuoto.
Ora c’ero solo io, io e il vuoto, il silenzio. Un silenzio che mi faceva sentire solamente più sola, più triste, senza speranze. L’unica persona che avrebbe potuto fare qualcosa mi aveva lasciato o mi stava lasciando.
«Mi sono allontanato di casa due minuti, dannazione! Cosa è successo?» Il tono di voce di mio fratello era terrorizzato, almeno riusciva a parlare.
«Elena sto correndo a casa, ma parlami. Damon, parla con Damon…Oh, no…Com’è? Dov’è?» Continuò ad urlare al telefono: la sua voce metallica martellava la mia mente e non faceva altro che farmi sentire peggio.
Stefan era come la coscienza, sempre nei momenti più opportuni o meno ritornava e ti faceva la solita ramanzina, provava a farti ragionare. E falliva miseramente.
Con me non attaccava, non avevo bisogno di una coscienza e non avevo bisogno di un fratello che mi urlava al telefono di parlargli quando in realtà la situazione stava precipitando.
Forse non aveva neanche, o meglio, sicuramente non stava lontanamente pensando che Damon avesse fatto una cosa del genere…E allora mi maledii ancora, perché mentivamo? Perché non dire a Stefan e a mamma che Damon era ad una situazione critica, così tanto da poterlo spingere ad un gesto estremo?
Non l’ho fatto perché non pensavo ne fosse capace. Sottovalutavo tutto, sminuivo tutto: a partire da me, dai miei sentimenti fino ad arrivare alla vita di Damon, alla sua situazione.
Non potevo essere la sua croce rossina a vita, non potevo essere in grado di salvarlo in un baratro così profondo senza salvare prima me stessa.
«Ste-Stefan?» Singhiozzai al cellulare. Chiamai più volte il suo nome, ma la chiamava l’aveva chiusa già da una manciata di minuti.
«Fanculo, qualcuno mi risponda!» Iniziai a digitare nuovamente il numero d’emergenza per chiamare l’ambulanza, sperando di non sbagliare i tasti.
Smisi di comporre il numero d’emergenza solo quando sentii un flebile sospiro, avevo il cuore che batteva a mille, persi il respiro vedendo il corvino con gli occhi socchiusi.
«Elena?» Suonò quasi come una domanda. L’ansia si era eclissata e la paura di perderlo era già lontana: ora la mia attenzione si concentrava solamente sul suo volto rilassato, gli occhi più azzurri che mai che splendevano sotto quel piccolo raggio di sole che filtrava dalla tenda e le labbra piegate in una smorfia che gli creavano ai lati degli occhi delle piccole rughette.
«Perché piangi? Elena!» Si agitò mettendosi a sedere sul letto. Una morsa alla gola impediva all’aria di fluire nei polmoni e le mie gambe erano troppo pesanti per muoversi. Gli occhi erano gonfi e le lacrime insieme al mascara sciolto si erano raggrumate sotto gli occhi, le labbra martoriate erano rosse e probabilmente spiccavano sul colorito biancastro che avevo.
«Elena, dimmi qualcosa…» Si allarmò ancora di più, poggiandosi al letto fece forza per alzarsi e venire da me. Camminava con le mani avanti e mi rivolgeva sguardi comprensivi cercando di avvicinarsi.
«Da-Damon…» Riuscii a pronunciare il suo nome, poi tossicchiai a corto d’aria. Le braccia mi tremavano e le gambe stavano cedendo.
Non può essere. Lui, il suo battito… Avevo troppi pensieri per la testa e si affollavano uno sull’altro cercando di scovare più risposte possibili.
«Tu sei morto…Hai…Le pillole erano poche…» Iniziai a straparlare e il corvino aggrottò le sopraciglia avvicinandosi sempre più. Mi toccò il polso e mi ritrassi istantaneamente dal suo contatto.
«Sei morto! Io ho visto…Ho sentito il battito…Sono pazza…pazza…» Non mi ero sbagliata, non potevo aver fatto un passo falso del genere, non mi sarei mai esposta a quel modo se non ero certo della sua situazione critica…Perché mi stavo facendo prendere dal panico?
«Elena, sono vivo. Sto con te e ti sto toccando, vieni qui.» Scossi la testa e mi sedetti a terra, portando le ginocchia vicino alla testa. Non potevo, non potevo farmi prendere così da lui, non di nuovo.
Non nel momento sbagliato. Mi dissi. Rimuginai sul mio ultimo pensiero e mi diedi della stupida: per me non ci sarebbe mai stato un momento adatto, sarebbe stato sempre il momento sbagliato perché dovevamo essere sbagliati.
Dovevamo perché così mi dovevo sentire, dovevo sentirmi in ansia per mio fratello, dovevo aver paura di veder morto mio fratello…Io invece mi preoccupavo di altro. Mi preoccupavo di perdere quel ragazzo dagli occhi azzurri che mi faceva perdere il respiro ogni volta che apriva bocca per parlarmi, mi metteva ansia sapere di perdere la mia ancora, mi sentivo persa senza lui – mi ero sentita persa quegli istanti in cui credevo di averlo perso – e la domanda era perché?Perchè mi preoccupavo per lui nel modo sbagliato?
Non sarò mai sua sorella. Non mi sento sua sorella. Realizzai. Se mi fossi sentita sua sorella, non avrei questa attrazione, non avrei questi pensieri contorti…Lo amo nel modo giusto, qualunque esso sia.
«Damon…» Singhiozzai, non appena sentii due braccia stringermi a sé delicatamente. Ero così egoista, non doveva preoccuparsi per me e io non dovevo crollare così, era lui a dover essere aiutato non io. Perché non riesco a fare qualcosa per lui?
«Amore, calma…Non piangere. Cos’hai?» Sussurrò sfregando il naso sulla mia spalla, sembrava un gattino che faceva le fusa. Con la mano destra giocherellava con alcune ciocche di capelli e l’altra cingeva la mia spalla.
«Io ho aperto la porta e mi sono avvicinata…ed eri pa-pallido e le pil-pillole erano finite e ho pensato…» Mi morirono le parole in gola e lo guardai sperando che smentisse tutto, che in realtà lui aveva il sonno pesante e che non aveva fatto niente del genere.
«Ne ho prese quattro.» Rivelò, asciugando una lacrima con il pollice. «Ma non volevo fare quello che stai pensando.» Mise in chiaro.
Mi inumidii le labbra e deglutii.                    
«Posso fidarmi?» Chiesi in un leggero sussurro. Volevo veramente fidarmi di lui, ogni più piccola particella del mio corpo mi diceva di fidarmi di lui e tutto di lui mi faceva supporre di potermi fidare. C’era solo la parte razionale, era troppo forte e mi diceva di rimanere sempre in guardia, di non farmi abbindolare da lui perché c’era qualcosa che non mi aveva ancora detto, che provava a tenermi nascosto.
«Ti lascerò solamente quando riavrai nelle tue mani la tua vita.» Il pensiero di riprendere in mano la mia vita e lasciare Damon senza uno scopo, senza qualcosa che lo teneva qui mi faceva accapponare la pelle. Non avrei mai fatto una cosa del genere, nessun passo falso, niente di troppo azzardato.
Scegliere le parole adatte diventava più difficile, perché ogni verbo, ogni parola, ogni locuzione che potevo utilizzare poteva ritorcersi contro di noi.
«Non accadrà mai.» Sospirai.
«Accadrà invece, non te ne accorgerai neanche ma arriverà il momento in cui avere un fratello depresso sarà un impiccio.» Le sue labbra si incresparono in una smorfia amara e il suo sguardo era fisso davanti a sé, più precisamente sul diario posato sulla scrivania.
«Non credo arriverà quel momento, o almeno non così velocemente.» Diedi voce ai miei pensieri non prima di aver pensato bene a quello da dire. «Non hai paura di morire?» Chiesi subito dopo, più che altro volevo capire com’era possibile che non avesse un briciolo di paura.
Solo il pensiero di non poter vivere un giorno in più, mi faceva venire la nausea. Come poteva lui sperare che quel giorno arrivasse prima del previsto?
«Non molto…Vedo la morte come l’unica possibilità di salvezza che ho. Forse starò meglio, no?» Quanto stava sbagliando: l’unica possibilità di salvezza che aveva era l’amore, l’amore che tutti noi – la famiglia Salvatore – provavamo per lui. Quello che avrebbe potuto salvarlo, ma era troppo cieco per capirlo.
«Non hai paura di soffrire? Non ti spaventa il dolore che proverai?» Continuai con le domande. Distolse finalmente lo sguardo dalla scrivania e mi lasciò un bacio sulla fronte per poi appoggiarsi meglio a me.
«Mi spaventa di più il dolore che proverai tu, quando saprai che non ci sono più.» Pronunciò ogni parola con lentezza assurda, quasi a volersi rimangiare tutto da un momento all’altro.
Mi spaventa di più il dolore che proverai tu. A lui non spaventava il dolore che avrebbe provato, spaventava di più quello che avrei provato io. Ma il dolore che avrei provato, non sarebbe valso un minimo di quello che lui avrebbe provato direttamente sulla propria pelle.
«Non dovresti preoccuparti di questo, lo sai?» La mia voce era incredibilmente bassa, ero a secco: parlare con lui diventava sempre più complicato, ogni parola era una lama nella mia pelle che lui – inconsapevolmente – rigirava più volte facendomi perdere il respiro.
«Non temo il dolore fisico, temo di più il dolore psicologico.» Non avevo mai pensato a quale dei due fosse peggio: forse qualcuno avrebbe detto che il dolore psicologico, quello che può farti una persona era cento volte peggio del dolore fisico…Però io non ne ero certa, non avendo mai provato un grande dolore fisico non potevo giudicare.
Sapevo solo che il dolore non passava, non passava neanche col tempo, rimaneva lì, sotterrato per bene in un piccolo angolino del tuo cuore per ritornare all’attacco non appena si fosse presentato il momento.
«Le persone possono giocare con noi, Elena. La società può giocare con noi. Può cambiarci, può manipolarci, può renderci uguali agli altri, ma alla fine siamo noi quelli che la mattina si devono specchiare e si devono accettare.» Scosse la testa portando la mano – che prima giocava con i miei capelli – sulle tempie per massaggiarle lentamente. «Riesci a specchiarti la mattina, Elena?»
Sì. Potevo specchiarmi perché nello specchio non vedevo altro che una ragazza sicura della via che stava prendendo, che non si guardava alle spalle assalita da troppi ‘se’ e da troppi ‘forse’. Non erano quelli che mi avrebbero assicurato più tempo nel mondo, solamente l’essere spietati mi avrebbe assicurato un posto in questa vita.
Forse non era la persona più incline a questa vita, però ero incline alla vita, qualunque essa sia; basta che abbia aria da respirare e delle persone che mi amino.
«Non è così difficile specchiarsi. Basta essere chi vuoi con chi vuoi.» Abbassò leggermente la testa e si appoggiò alla porta mentre mi sistemavo meglio sul suo petto.
«Quando mi guardo allo specchio, non riesco a vedere niente se non il nero. E’ ovunque, Elena, dietro a me, accanto a me, dentro me. C’è solo nero.» Disse intrecciando la sua mano con la mia. «Sono solo una chiazza di nero su un foglio bianco.»
Mi era sempre piaciuto il nero, era un colore così scuro e mistico. Non era il solito bianco candido, quel bianco che illuminava e che risaltava, quello non era per me. Il bianco era un colore così sopravalutato ora.
«E con questo? Cosa vorresti fare per cambiare questa chiazza nera?»
«Bisogna eliminarla.» Mi venne la pelle d’oca, sentendo con quanta determinazione aveva detto quella frase. Perché eliminare il nero sul bianco? Perché non lasciarlo estendere? Perché non osservarlo muoversi su quel foglio per vedere cosa succederà?
Perché Damon non si concedeva più tempo per vivere?
«Perché eliminare qualcosa di diverso?»
«Sto eliminando un errore, Elena.» Prima ero io a pensarla così – non in modo così risoluto -, e prima era lui ad avermi fatto capire come sia bello continuare a lottare, come sia bello ed eccitante l’ebbrezza del pericolo,come sia bello sentire la vita nelle tue vene scorrere velocemente.
«E una volta eliminato il nero, Damon? Ci sono ancora io, ci sarò io ad inquinare questo mondo finto e costrutto.» Gli dissi ironicamente. Questa volta replicò con una risata quasi isterica.
«Tu non inquini questo mondo, tu provi a cambiarlo. E per cambiarlo devi eliminare gli errori…E io…» Deglutii e mi schiarii la voce.
«Non ti ucciderò, Damon. Se è questo quello che stavi per chiedermi, sappi che la mia risposta è no.» Misi in chiaro, stringendo ancora di più la sua mano.
«Vuoi aiutarmi?» Mi chiese a voce bassa. Le occhiaie spiccava sul volto pallido e cristallino, sembrava così debole per essere così massiccio rispetto a me. Sentivo il cuore battere a mille ogni volta che parlava, mi sembrava così stupido preoccuparsi in questo modo…Perché non riuscivo a stare calma?
«Voglio aiutarti.» Concordai.
«Sono un egoista, sono una persona cattiva e calcolatore  e quello che ti sto chiedendo è la cosa più idiota che probabilmente ti abbia mai detto.» Disse allontanandosi da me per sedersi meglio e prendermi entrambe le mani nelle sue.
«Parla chiaro.» Lo incitai, cercando di prevedere le sue mosse. Damon era da sempre una persona istintiva, seguiva il momento, seguiva quello che si sentiva al momento e non ero mai riuscita a prevere le sue mosse magari prendendolo in contropiede.
«Amami.» La sua capacità di lasciarmi senza parole non era svanita, un’altra volta mi aveva lasciato a bocca asciutta. «Ma non di quell’amore malsano e malato, amami con quell’amore che può aiutarmi. Amami come una sorella ama un fratello, ti chiedo solo questo.» Il suo respiro affannato lo percepivo ad una distanza minima, il suo naso sfiorava il mio e le nostre labbra erano praticamente distanziate di qualche centimetro.
Ed era troppo, persino per me quel discorso era troppo. Gli lasciai le mani e gli accarezzai i capelli avvicinando le sue labbra alle mie, sentendo nuovamente il suo sapore.
Ci baciammo con calma, senza nessuno che ci mettesse fretta. Poteva entrare Stefan, mamma, Caroline o qualsiasi altra persona conoscessimo; se Damon voleva essere aiutato si faceva a modo mio.
Ci baciammo con dolcezza, senza rabbia e frustrazione come eravamo soliti fare. Non avevamo niente da rinfacciarci a vicenda, l’unica cosa che potevamo ricordare era la nostra stupidità in tutto il tempo che avevamo perso.
Succhiò lentamente il labbro inferiore, mordicchiandolo e poi leccandolo quasi a voler assicurarsi di non avermi ferito. Le sue mani mi circondavano la vita e in pochi istanti mi ero ritrovata su di lui, con le labbra sulle sue e la voglia di amarlo alle stelle.
«Farò di più. Ti amerò come una ragazza ama il suo fidanzato.»
Lo amerò normalmente, lo amerò fino alla fine delle forze, perché potevo fare solo quello.
 
 
 








Due settimane sono accettabili? O forse è troppo? Scusate se non ho aggiornato la settimana scorsa ma questo capitolo è stato un parto ed è anche un po’ lunghetto (11 pagine di word, una faticaccia).
In tutti i casi, dopo averlo aspettato tanto almeno spero che siate soddisfatti. Abbiamo il ritorno in grande stile della magica Katherine Pierce – avevate pensato che fosse un angioletto giusto? Eh no, un po’ mi dovevo attenere allo show.
Chissà cosa nasconde la ragazza di Damon, chissà cosa le è successo. Cosa ne pensate?
Comunque non mi dilungo su di lei, passo ai dolci Delena: ditelo che vi siete scandalizzati e voleva uccidermi quando avete letto che Damon aveva inghiottito quelle pillole. Scusatemi per il ““““““piccolo”””””” spavento, ma dovevo scriverlo. Almeno, però, vediamo un’Elena preoccupata a tutti gli effetti e finalmente capisce – più o meno – come si sente! Avete anche visto qualche straccio del diario di Damon, allora? Sospettavate che avesse un diario? E poi…lo so che stavate anche voi ballando la macarena quando Damon le ha chiesto di amarlo e so perfettamente che avete stappato lo spumante leggendo le ultime righe del capitolo. L’ho fatto solo per voi ^^
Ringrazio le magnifiche persone che mi sostengono sempre, credo di aver risposto a tutti (è passato un po’ da quando risposi se non sbaglio, credo di aver risposto a tutti. In caso contrario mi scuso enormemente). Non ho altro da aggiungere, se non scusarmi per il ritardo e gli argomenti delicati che tratto (spero di non infastidire nessuno).
Le canzoni che hanno ispirato il capitolo:
  • Uncover, Zara Larsson.
  • Elastic Heart, Sia.
  • Take me to the Church, Hozier.
  • Love me harder, Ariana Grande.
Consiglio a tutti di ascoltarle perché sono una migliore dell’altra. **
Un abbraccio, ci sentiamo alle recensioni.
Non ti scordar di me.
 
Già che ci sono, vi dico che ho postato una OS drammatica originale, in caso voleste farmi sapere cosa ne pensiate la trovate nel mio profilo con il nome ‘Non ti scordar di me’.

 
 

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Capitolo 14
*** Solo me stessa. ***


Sono io. 
E immagino la vostra delusione a vedermi qui dopo un'assenza così lunga. 
Sono una scrittrice - grosso parolone, perché non posso considerarmi tale. Forse prima potevo ma ora decisamente ho perso il "titolo" - a dir poco pietosa.
Pietosa perché vi ho lasciato così, ho lasciavo voi che siete quelli che mi spronano a migliorare costantemente. Siete la mia forza e vi giuro che non ho programmato questa mia uscita di scena, è avvenuto tutto per caso. Neanche mi ricordo perché ho appeso al chiodo il mio computer e Messi da parte i miei sogni, perché questa storia era - ed è ancora - il mio sogno.
Se vi ho in qualche modo fatto preoccupare sappiate che sto bene, ovvio, "bene" forse è un parolone grande perché in campo di ispirazione e di scrittura avevo il vuoto.
Ho seriamente cercato di scrivere un capitolo, ma mentre scrivevo e abbozzavo qualche idea mi sono resa conto che stavo scrivendo e stavo in qualche modo sforzando anche me stessa a far uscire un capitolo dal nulla, dal vuoto cosmico. 
Scrivere è da sempre qualcosa che mi ha permesso di evadere dal mondo che ho attorno, in questo account a nessuno importa chi sono veramente. Mi seguite perché vi piacciono le mie idee, vi piacciono le mie storie, mi seguite non conoscendomi mai del tutto e all'inizio questo account doveva esistere per perdere tempo.
Poi mi sono resa conto che se il mio intento era quello di rimanere in un angolino, senza farmi notare scrivendo solamente non mostrando me stessa, stavo fallendo miseramente.
Perché in questa storia ci sono io, ho riletto i capitoli e sì, questa storia mi rappresenta. 
E se volete una motivazione per averla lasciata incompiuta tutto questo tempo l'avete sotto il naso.
Io sono la mia storia, mi sono basata tutto questo tempo su me stessa, mettendo nei miei personaggi particolari del mio carattere che sicuramente non sono dei migliori, descrivendo le loro emozioni come se fossero mie, dando un tocco stravagante e folcloristico alla combattiva e risoluta Elena, esprimendo la mia personale visione della nostra società. 
E si, sono una delle persone più pessimiste che potreste mai incontrare ma sono anche una delle persone più emotivamente instabili che potreste mai conoscere.
Quando mi sento vacillare, mi viene naturale riversare tutto nella mie storie ed è sbagliato.
Completamente sbagliato. Perché poi peccano in quando coerenza, certamente non potevo rovinare una storia in cui ci ho messo sudore, sangue e lacrime solo perché io non riuscivo più a riconoscermi.
Ho dovuto chiudermi tutto alle spalle, cercare di non rovinare la mia storia con i miei amatissimi personaggi. Ho dovuto prima cercare me stessa, cercare di capirmi e mettere per iscritto successivamente quello che sono per davvero.
E vi assicuro che ora non sono come lo ero sei mesi fa. 
Ho progetti diversi, ho in mente tante cose, non avete idea.
Non vi chiedo di capirmi, nè di seguirmi ancora, ma io sentivo di dovervi una spiegazione perché non vi avrei mai lasciato così, senza una motivazione valida.
In conclusione? Senza me, senza la mia visione del mondo questa storia non avrebbe neanche avuto un'inizio. E certamente se ad un punto avessi perso me stessa, avendo un momento di smarrimento non avrei potuto scrivere nulla.
Perché non sarebbe stato più per esprimere me stessa. L'avrei fatto solo per fan-service, per avere più fama qui, per far conoscere ancora la mi storia.
E ammetto che è egoistico, ma nella mia storia io mi ci voglio specchiare.
È egoistico nei vostri confronti forse? Non so come lo vediate, forse mi potrete capire perché oltre che lettori tutti voi siete scrittori.
 
Detto questo, ve lo dico, ho ritrovato me, il mio carattere, la mi storia.
Tornerò ragazzi, molto presto. E queste pause così lunghe - se ce ne saranno ancora di così lunghe - saranno dovute solamente ai troppi impegni e al troppo studio.
Ve lo prometto.
Non ti scordar di me è qui.
E ora non se ne andrà.
Vi amo.
 

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Capitolo 15
*** Free. ***


Capitolo tredici.
Free.
 
C’erano delle volte in cui non sapevi precisamente cosa stavi facendo, non riuscivi più a ragionare lucidamente perché qualcosa ti annebbiava la vista o il lume della ragione, altre volte preferivi chiudere gli occhi e scollegare tutto solo per illuderti che tutto sarebbe potuto andare bene.
Oh, nel caso mio tutto questo non funzionava.
Non funzionava un cazzo.
Perché se la ruota girava per tutti, non girava assolutamente per me. Per me, mai qualcosa doveva girare nel modo giusto. Assolutamente nulla, non c’era nulla che girasse dalla mia parte regalandomi un centesimo della felicità che meritavo…Oops, forse non la meritavo? Forse tutto quello che aveva fatto mi aveva portato dov’ero ora e forse la ruota girava per tutti quelli che la meritavano, non per quelli che non meritavano nulla.
E io sapevo troppo bene dove mi trovassi, io ero nel lato sbagliato ovviamente.
Ero precisamente nel lato sinistro, quello sfigato. Nella mia mente era diviso tutto a destra e a sinistra, ogni volta che dovevo agire in qualche modo stilavo mentalmente sempre due liste e se nella lista alla destra c’erano le opzioni più intelligenti da utilizzare, potete immaginare cosa ci sia nella lista alla sinistra.
E conoscendomi, sapevo perfettamente quale lista avrei scelto alla fine. Perché, quindi, continuare a stilare queste due liste se alla fine mi ostinavo a seguire sempre la parte oscura del mio cervello – decisamente era anche la parte che funzionava meglio –?
Perché nella mia fottutissima mente contorta avrei avuto più possibilità di portare a termine ciò che avevo in mente seguendo le idee più pericolose che mi venivano in mente.
Ecco, decisamente per qualche mese ero riuscita in qualche modo a tenere a bada la parte più distruttiva di me. La parte in cui il mio subconscio mi suggeriva magari di tirare un pugno alla cassiera che mi chiedeva ripetutamente delle informazioni che non sapevo, o di tirare una cinquina a quel coglione dell’Agente Young che ancora ostinava a perseguitare me e la mia famiglia per le informazioni su King & Co.
Da quando avevo parlato con Damon, erano passate tre settimane e mezzo – quasi un mese a breve – e tra le sedute dallo psicologo, le uscite normali che io stessa organizzavo, le serate al karaoke, qualche sessione di studio che mi servivano per recuperare la moltitudine di esami che avevo perso e tante altre attività che avevo organizzato pur di distrarlo un po’ dalla sua monotonia erano diventante un’abituè per entrambi.
E anche se fingevo che tutto stesse andando per il meglio, sapevo che quelle due settimane erano state le peggiori che avessi passato in tutti quei mesi. Oltre che mentire a Damon – ovviamente le bugie per incontrare l’Agente Young si facevano sempre più frequenti, maledetto lui e la sua incompetenza! – non riuscivo più a reggere io stessa quello standard di vita.
Perché, decisamente, fare la brava ragazza non era la parte che faceva per me; non mi calzava e per quanto stessi cercando di impersonarla al meglio questo mio insolito comportamento iniziava a puzzare a troppe persone.
Dio, fare la parte della brava ragazza è così noioso. Non che fossi una killer seriale – sebbene ci fossi vicina dal diventarlo –, ma certamente non faceva parte del mio stile attuale di vita passare i pomeriggi sui libri e la sera ai barbosi eventi organizzati in locali dal nome maledettamente impronunciabile e con compagne di corso che volevano mettere le grinfie su mio fratello.
Ripensandoci, come facevo a vivere prima della comparsa di Damon nella mia vita? Ero la tipica adolescente con un’amica, problemi familiari e solite cazzate che tutti affrontavano almeno una volta nella vita a diciassette anni.
Poi mi ero rovinata. Rovinata non rappresentava neanche un decimo di come mi ero seriamente ridotta nel giro di qualche anno, eppure se avessi l’opportunità di tornare indietro non cambierei questo stile di vita; cambierei solo qualche decisione.
Il pericolo, l’adrenalina, il sangue che pompa, il cuore che minaccia di uscire dal cuore erano delle sensazioni che avevo scoperto relativamente da poco ma non volevo abbandonarle.
Non volevo tornare alla normalità, eppure io mi ero ricostruita una facciata nel giro di qualche giorno, ho costretto me stessa a sorridere e obbligarmi a recitare la parte della collegiale per far assaggiare la normalità a Damon.
Io avevo vissuto nella normalità, nella noia per la maggior parte della mia vita – sedici anni non erano affatto pochi –, Damon invece era l’esatto opposto.
Non aveva avuto un pizzico di normalità, catapultato nella grande metropoli di Londra fin da quando era piccolo, con solamente sua madre e nessuno a sostenerlo.
Non aveva avuto la mia infanzia.
Il piano era quello di ridargli ciò che non aveva avuto: uscite, sbronze normali in un locale, quattro chiacchiere davanti una birra e stronzate del genere.
Eppure mi ero resa conto che ormai quello non era più affare mio. Non riuscivo ad ubriacarmi in un bar, non riuscivo neanche a sentirmi felice sostenendo una chiacchierata con qualche ragazza del mio corso.
Ero di un altro mondo, un mondo che non sapevo neanche esistesse fino a poco tempo fa.
Era come se ogni più piccola particella del mio corpo mi dicesse di ritornare alla mia vita, all’Elena che guidava una motocicletta completamente ubriaca, all’Elena fuori di testa che accettava di occultare un cadavere per sentire il brivido.
Ero risucchiata in uno di quei vortici che ti risucchiavano più della droga, così la vedevo la mia situazione. Avevo maledettamente bisogno di prendere un sospiro da quel mese estenuante per me e aveva un assaggio di quello che mi ero persa in quel poco tempo.
E l’avrei anche fatto, senza alcun problema; però la mia coscienza – Dio, la detestavo in questi momenti – mi ricordava che Damon aveva bisogno di quell’aria più calma, di quell’aria più vivibile e allora cancellavo tutto quello che avevo programmato.
Ogni singolo programma andava a puttane solo se la mia mente proiettava il nome Damon. Una di quelle sensazioni che ti prendevano lo stomaco e si allargavano fino ad arrivare al cervello e al cuore.
Situazione alquanto scomoda.
Stavo, gradualmente, perdendo il controllo di quello che io avevo creato. Ed era bizzarro vedere quello che avevo creato soffocarmi, eppure sarei disposta a lasciarmi soffocare pur di farlo respirare un secondo.
Come se fossi drogata, come se rivivere il brivido e l’adrenalina fossero la mia eroina.
Ma le dipendenze peggioravano, dopo l’eroina c’era sempre qualcosa di più pesante no?
In questo caso non sapevo assicurarmi se sia più forte il bisogno di riavere la mia vita o il bisogno di far avere a Damon la vita che desiderava.
 
*
Katherine Pierce.
Dio, quanto la stavo odiando in quel momento. Quella piccola stronza perfino dall’altro mondo – o ovunque si trovasse in questo momento – mi stava rovinando la vita.
L’unica cosa che io sapevo più della polizia era che Trevor Wood era stato ucciso per sbaglio. La sua morte era la tipica morte causata da una stupidaggine, si era trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Pensare che se avesse tardato qualche minuto in più o non si fosse piazzato davanti alla porta ora sarebbe stato vivo mi metteva i brividi.
La polizia aveva tra le mani due casi, uno nuovo di zecca tra le mani che non risolveranno molto facilmente e uno vecchio lasciato marcire nel passato fin ora, fin quando King non si era rifatto vivo in qualche modo.
Cosa sapevo io, di Katherine Pierce?
Sapevo che era una ragazza asociale, con problemi di autostima, chiusa in un mondo tutto suo con la paura costante di morire.
Sapevo che era morta, che si era suicidata buttandosi giù da un ponte. Sapevo che Damon l’amava alla follia e che lei era ancora troppo giovane per morire a quell’età.
Cosa sapeva la polizia, di Katherine Pierce?
Sapeva che era una ragazza d’oro, con amici raccomandabili e un fidanzato discutibile per uno stile di vita particolarmente diverso dal solito.
Sapeva che era fidanzata con Damon Salvatore e che era amica di Joseph King, due dei nomi più conosciuti nei sobborghi e nelle stradine malfamate di Londra.
Decisamente percorrevamo strade diverse con direzioni diverse ma con una stessa meta. E nonostante la polizia fosse convinta che eravamo una squadra, io avevo deciso di fare a modo mio.
Non potevo certamente permettere a quei bastardi di arrivare prima di me alla soluzione e poi spiattellarla su tutti i giornali senza pensare alle conseguenze.
Avrei dovuto scoprire cosa stava succedendo, capire se Damon c’entrasse qualcosa, parlargli e poi…senza ombra di dubbio, ammazzare King in caso fosse lui il responsabile del finto suicidio di Katherine.
I fascicoli parlavano chiaro, Katherine Pierce aveva stretti rapporti con King. O almeno, così sembrava, dalle descrizioni dei genitori della ragazza.
Puntualmente, ogni lunedì e mercoledì la ragazza usciva la sera in compagnia di questo misterioso ragazzo che non era certamente Damon e ritornava solamente il mattino successivo ad orari improbabili, certe volte neanche ritornava.
L’unico punto che non mi tornava e non tornava neanche alla polizia era la completa assenza di una dichiarazione da parte di Gabriel*, fratello della ragazza. Fratello che io stessa avevo conosciuto due anni fa quando avevo messo piede per la prima volta in Inghilterra.
Ricordavo ancora il tatuaggio sul suo braccio: una K. Mi metteva i brividi, non lo vedevo più da tempo, alla pista di motocross non si era mai fatto vivo, dalla volta in cui l’avevo incontrato all’aeroporto due anni fa non l’avevo più visto se all’inizio della mia permanenza a Londra e un…un’altra volta.
Oh merda. Come ho potuto dimenticarmi di una cosa del genere?
Raccolsi immediatamente le scartoffie che giacevano sul mio letto, infilando nella federa del cuscino – mi sembrava l’unico posto sicuro per nascondere dei documenti così importanti -, presi le chiavi della moto e sgattaiolai fuori da camera mia.
Damon era rinchiuso nella sua stanza, lo capivo dalla musica spacca timpani che provenivano dalla camera. Decisamente, Stefan lo stava infastidendo con il suo stile di musica preferito – orribile, a mio modesto parere.
Non portai neanche con me la borsa, sarebbe stata solo di impiccio. Tutto ciò che mi serviva l’avevo a portata di mano: cellulare nella tasca dei pantaloni, chiavi di casa nel giubbotto e le chiavi del motorino tra le mani.
Possibile che non mi era venuto in mente prima? Mi maledii, partendo verso la mia destinazione. Diedi un’occhiata veloce al mio orologio: avevo scarsi tre quarti d’ora per trovare quello che cercavo, poi sarei dovuta ritornare a casa e prepararmi per un’altra magnifica serata, una ragazza biondina aveva invitato Damon alla festa della sua confraternita ed ovviamente l’avrei accompagnato – sia perché mi aveva invitato ad andare con lui e non potevo declinare l’invito sia perché da solo nella confraternita di quell’arpia bionda non ci sarebbe entrato –.
Nel frattempo, riflettevo sull’ultima volta che avevo visto Gabriel.
Non ricordavo com’era possibile, ma un paio di mesi prima del ritorno di Damon in Inghilterra mi ero imbattuta proprio in quel ragazzo.
Ero al supermercato, presa dalla fretta di tornare a casa per sistemare il tutto avevo urtato qualcuno che non si era rivelato un semplice sconosciuto.
Gabriel Pierce mi guardava desolato, osservando la confezione di latte distrutta a terra che si allargava velocemente sul marciapiede.
«Dio, scusami…» Mi aveva detto scrutandomi attentamente. L’avevo riconosciuto velocemente e dire che mi sentivo a disagio era poco. Non volevo proprio avere a che fare con lui, anche perché era strano essere a stretto contatto con il fratello della ex ragazza di mio fratello, fratello di cui ero ossessionata.
«Sta più attento la prossima volta, che ne dici?» Avevo allora risposto io, celando la mia acidità anche se era tangibile l’aria tesa che aleggiava tra noi due.
«Casa mia è a qualche passo, ho un cartoccio di latte come nuovo.» E la prima cosa che pensai fu che il ragazzo aveva bisogno di imparare dei modi migliori per abbordare le ragazze.
«Non ce n’è bisogno.» Avevo mormorato stizzita, volendo liberarmi di lui.
Ero così convinta di non lasciarmi abbindolare, di continuare dritto per la mia strada e risalire sulla mia macchina parcheggiata lì vicino.
Eppure alla fine mi ero ritrovata a casa sua. E non era come me la immaginavo: la mia fervida fantasia aveva immaginato un luogo più silenzioso, più cupo e con un’aria stantia che rendeva impossibile una normale vita all’interno di quella casa.
Sorprendentemente non c’era nessuno, non c’era il silenzio poiché la televisione era stata lasciata accesa, non c’erano troppe fotografie e le poche che c’erano non rappresentavano certamente Katherine.
Questo mi fece sentire poco meglio, poi entrai in cucina e spalancai gli occhi vedendo diversi cartoni ancora aperti pieni di vestiti, effetti personali, disegni prettamente femminili.
«Scusa il disordine…» In realtà non ci avevo neanche fatto caso. Più che altro ero maledettamente curiosa, come sempre. Perché tutti quei cartoni imbottiti di oggetti che evidentemente non erano suoi?
«Non ti preoccupare…Piuttosto, è da un po’ che non ti vedo, tutto bene?» All’inizio, quando avevo appena messo piede a Londra passava intere giornate alla pista di motocross e – datemi della paranoica – sentivo i suoi occhi puntati costantemente sulla mia schiena.
«Ho viaggiato un po’, l’aria di Londra mi stava soffocando.» E non insistetti più, perché evidentemente stava ancora affrontando il suo dolore e io non ero nessuno per mettere il naso nel dolore altrui e cercare di comprenderlo, non era certamente compito mio.
«Spero ti sia schiarito le idee…» Dissi spostandomi innocentemente verso il tavolo da pranzo su cui erano poggiati la maggior parte dei cartoni, imballati e non.
I miei occhi ricaddero sul primo cartone. Era l’unico che non sembrava potesse scoppiare da un momento all’altro: erano sistemati all’interno svariati diari di dimensioni modesti, ne erano almeno una decina.
Istintivamente allungai la mano per toccarne uno, ma «Erano di Katherine.» la voce di Gabriel mi fece sposare istantaneamente l’attenzione su qualcos’altro.
«E’ tutto quanto di Katherine?» Chiesi quasi a disagio. Se prima non avevo avvertito un’aria pesante, ora sembrava l’esatto opposto.
Gabriel sembrava quasi sugli attenti, una molla pronta a scattare da un momento all’altro.
«Sto sistemando la sua stanza. E’ la prima volta che…» Lasciò il discorso in sospeso ma avevo afferrato il concetto.
Non riuscii neanche a replicare, poiché lo osservai prendere quel cartone sotto i miei occhi ed imballarlo per poggiarlo su un altro già sigillato.
Come non ero riuscita a capire che quei diari contenessero la risposta a tutto?
Il lasso di tempo dal suicidio di Katherine al tentato omicidio era di qualche giorno, in quei pochi giorni avrebbe dovuto scrivere qualcosa all’interno del suo diario – diario che probabilmente Gabriel non aveva dato nella mani della polizia, altrimenti l’Agente Young mi avrebbe detto della sua esistenza.
L’idea di presentarmi a casa sua non era niente male, peccato che ora mi ritrovassi davanti il portone di casa Pierce e la mia moto parcheggiata lì vicino.
Come ci entro in casa? Mi maledii.
Presa dal lampo di genio non mi era assolutamente venuta in mente un valido motivo per poter entrare in casa sua. Frustata mi sedetti sulla moto, sperando che mi venga in mente qualche idea.
Il mio sguardo era concentrato su un punto fisso davanti a me, la mia mente stava pensando diverse soluzioni ma non mi ero resa conto che la soluzione era esattamente davanti a me.
Un signore stava trafficando con il motore della sua automobile e un sorriso spuntò sul mio volto.
Quella sì che era un’idea geniale.
 
Tralasciando il fatto che ero in ritardo sulla mia tabella di marcia e che mi rimanevano solamente dieci minuti per entrare in casa di Gabriel, cercare quei fottuti diari e ritornare a casa mia; ora stavo bussando alla porta di casa Pierce sperando con tutta me stessa che ci fosse solo lui in casa.
La porta si aprì dopo pochi istanti e…Dio è dalla mia parte. Pensai vedendo Gabriel sull’uscio della porta guardarmi con un’espressione mista tra il sorpreso e lo sconcertato.
«Elena?» Mi chiese aggrottando le sopraciglia, evidentemente sorpreso della mia presenza lì. Accennai un sorrisetto verso di lui e annuii schiarendomi la voce.
«Elena Salvatore in persona.» Dissi sfoderando le mie capacità persuasive. Poggiai una mano sulla maniglia della porta spalancandola completamente.
«Wow, non ti vedo da mesi…» Era a disagio. Neanche io mi sentivo a perfettamente a mio agio a parlare con lui, ma dovevo calarmi nella parte.
«Speravo di trovarti a casa, in verità…» Sussurrai utilizzando un tono innocuo, un tono che non era mio. «Ho forato, mi sono ricordata che abitavi qui e ho pensato forse Gabriel potrebbe aiutarmi?»
Quasi mi veniva da piangere. Per due motivi distinti.
Il primo era che ero entrata così bene nella parte da meritarmi un premio per la recitazione e il secondo motivo – nonché più importante – era che avevo voglia di strapparmi i capelli pensando a quello a cui avevo sottoposto la mia povera moto.
«Sei in macchina?» Mi chiese accennando un sorriso. Scossi la testa e gli indicai la mia motocicletta parcheggiata poco distante da casa sua.
«Potresti darle un’occhiata? Non sono, ancora, una meccanica…» Gli dissi scostandomi da davanti alla porta allontanandomi di qualche passo facendogli segno di seguirmi.
Era la prova dell’otto. Se mi avesse seguito, sarei riuscita a risolvere una buona parte dei miei problemi.
«Diamoci un’occhiata.» Mi disse uscendo completamente di casa sua seguendomi.
Bingo.
«Ti serve qualcosa o si può risolvere facilmente?» Gli chiesi con un sorriso consapevole. Non era un semplice problemino, io stessa avevo forato la mia ruota e mi ero accurata di forarla con attenta precisione.
«Mhm, credo che avrò bisogno di una ruota nuova.» Mi disse. «Seguimi, nel ripostiglio dovrebbe essercene una della mia vecchia moto, credo possa andare bene per il tragitto da qui a casa tua»
Avevo accennato al fatto che forse la ruota una volta tanto stava girando dalla mia parte? Non avevo la più pallida idea di dove si trovasse il suo garage, sapevo però che non era quello il mio obbiettivo.
Io dovevo assolutamente entrare in casa, trovare camera della ragazza e sperare che i diari non li avessero riposti da qualche altra parte. E per realizzare tutto questo mi rimanevano solamente cinque minuti.
Rassegnata al fatto che avrei fatto sicuramente tardi e che forse in qualche modo sarei riuscita a scampare la serata alla confraternita di quella stronzetta, mi schiarii la voce attirando l’attenzione di Gabriel.
«Ehm, potrei utilizzare il bagno?» Chiesi incerta, sperando che abboccasse al tranello.
Vidi un lampo di incertezza passare negli occhi del ragazzo, deglutì insicuro e poi accennò un movimento cauto del volto aprendo la porta di casa sua.
«Sali le scale, prima porta a destra.» Disse, sorridendo. «Vado a prendere la ruota, nel frattempo.»
Entrai in casa con il cuore in gola e salii velocemente le scale, identificai immediatamente il bagno e chiusi la porta alle spalle sbattendola con forza.
Aprii la porta non prima di aver fatto passare un paio di minuti, quasi a volermi accertare che Gabriel non fosse incerto sul mio obbiettivo.
Dopo esser uscita dal bagno e aver chiuso la porta nel modo più silenzioso possibile feci qualche passo avanti e mi guardai attorno.
C’erano tre porte, di cui una era certamente camera di Gabriel – fu semplice da riconoscere, vi era un mega cartello in nero che vietava l’accesso a chiunque. Ridacchiai leggermente e la sorpassai, andando ad istinto aprii quella accanto dando per scontato che la sorella dormisse accanto a lui.
«Troppo scontato.» Diedi voce ai miei pensieri. Certamente quella non era camera di Katherine, perché certamente Katherine non dormiva su un letto matrimoniale ancora sfatto.
Rimasi ancora più sconvolta quando mi resi conto di aver scartato a priori la camera della ragazza.
Perchè mettere un cartello del genere sulla porta della camera della sorella?
Entrata dentro, chiusi la porta alle spalle a chiave.
Oh, beh, se prima avevo qualche dubbio sulla personalità di Katherine Pierce ora era anche peggio. Era del tutto fuori strada, quella camera non rappresentava minimamente Katherine innocente ragazzina Pierce.
Era grigia. Anzi, tutto quanto era grigio. La stanza sfiorava tutte le tonalità del colore cupo, a partire dal copriletto fino ad arrivare alle tende.
Mi avvicinai alla scrivania, sopra vi erano una serie di libri di psicologia – non avevo la più pallida idea che le interessassero quei temi -, un computer nuovo di zecca e un solo portafotografie.
Ero sempre più convinta di aver sbagliato stanza, la fotografia all’interno rappresentava Gabriel e una ragazza dai capelli corvini e gli occhi marroni, con un trucco eccessivo e un rossetto nero sulle labbra.
Curiosai in quella stanza senza prestarci attenzione, fin quando non aprii l’anta dell’armadio e mi resi conto che in quella stanza qualcuno ci viveva.
Quella era l’unica spiegazione a quelle lenzuola pulite poste e quei cuscini che profumavano di pulito.
Forse aveva buttato tutto? Aveva dato fuoco a tutto quello che apparteneva alla sorella?
Richiusi l’anta e decisi di uscire da lì. Avrei veramente fatto un solo passo in più se la mia attenzione non fosse ricaduta nuovamente sul pc.
Mi aveva dato l’impressione di essere nuovo di zecca, la verità era che era fin troppo nuovo. Quel computer era troppo nuovo per appartenere a Katherine, non era stato neanche prodotto quattro anni fa.
Notai che era già acceso, segno che qualcuno era entrato recentemente in quella stanza.
Il desktop era sommerso di cartelle ognuna con un titolo diverso, di cui ovviamente non sapevo il significavo e non avevo neanche il tempo per aprirle tutte e controllarle personalmente.
Katherine 2002.
Katherine 1996.
Katherine 2005.
Non sapevo nulla di lei, quella camera non la rappresentava affatto, non vi erano tracce della ragazza eppure quel computer era pieno di cartelle con il suo nome. Probabilmente erano solo fotografie.
Era nata il mio stesso anno, o almeno dalle informazioni che avevo di lei.
Era del 1996. Damon era del ’94. Se fosse ancora viva, avrebbe avuto vent’anni.
Katherine 2010. L’anniversario della sua morte. E poi subito dopo vi erano un’altra serie di cartelle dal nome quasi impronunciabile. Alla fine cliccai due volte sulla cartella, sperando che si aprisse al più presto.
Vi erano più di cento file all’interno, costatai che erano solamente fotografie…delle pagine di un diario. Mi serviva urgentemente il cartaceo, che probabilmente era stato perduto.
La data che segnava la fotografia però segnava l’inizio del 2010, probabilmente una data troppo lontana dal giorno del tentato omicidio.
Quella situazione era più complicata di quanto potessi immaginare, non avevo abbastanza tempo per scorrere tutte quelle fotografie e analizzarle nei dettagli.
Chiusi repentinamente quella cartella e lasciai il computer così come l’avevo trovato.
Diedi un calcio frustata a terra e sbattei i pugni sulla scrivania. Possibile che Gabriel avesse offuscato tutto quello che riguardasse la sorella? Non aveva neanche senso. Perché togliere di mezzo gli ultimi ricordi di tua sorella? Perché metterli su un computer e non lasciare semplicemente il cartaceo?
Perché il cartaceo è una prova troppo schiacciante. Se ci fosse stato qualcosa di scandaloso in quei diari, qualcosa che avrebbe attestato che quella di Katherine non era un suicidio…Gabriel li avrebbe consegnati alla polizia, giusto?
O forse, stavo cercando di proteggere e Damon dalla persona sbagliata? Per ultima cosa frugai nel comodino.
Era in legno scuro. Ovviamente pieno di scartoffie che osservai passivamente. Erano solo appunti, disegni, cose inutili che non mi sarebbero servite a nulla.
Notai, però, che il cassetto era poco profondo. Qualcosa non tornava.
Afferrai il cassetto e lo tirai completamente fuori dal comodino, lo svuotai cautamente e oltre alla caduta di tutti i fogliettini che erano riposti all’interno caddero una teca di legno che probabilmente era stata incastonata all’interno del cassetto e un diario.
Riposizionai tutto alla perfezione mentre riflettevo dove mettere il diario. Certamente non potevo uscire da quella camera con quel diario in mano.
Per ora l’importante era uscire dalla camera, aprii la porta e corsi nuovamente verso il bagno.
Gabriel non si era ancora fatto vivo, possibile che non avesse neanche un sospetto?
Mi chiusi all’interno del bagno e posai il diario sul lavabo pensando a qualcosa.
L’unica cosa da fare era nasconderlo. Mi sbottonai il giubbotto di pelle e infilai il diario sotto la maglia grigia, senza problemi ritirai la zip della giacca e mi morsi il labbro.
Non avrebbe funzionato.
«Elena?» Sobbalzai sentendo la voce del ragazzo dietro la porta e sospirai, non sapendo cosa dire. In qualche modo sarei dovuta uscire dal bagno.
«Scusami, non mi sento molto bene…» Aprii la porta e osservai Gabriel in silenzio, cercando di capire in qualche modo se sospettasse di qualcosa. Mi portai le mani sul ventre e misi su una delle espressioni più dolorose che potessi improvvisare.
«Vuoi che ti accompagni a casa?»
Scossi la testa e pregai in silenzio che finisse tutto lì. Dovevo andarmene da quella casa.
 
*
Se prima pensavo che forse qualcosa stesse girando per il verso giusto, ora ero più che certa che qualcuno lassù stesse cercando di mettermi i bastoni tra le ruote.
Scampavo ad un guaio, ne trovavo un altro a poco tempo di distanza.
Ero appena rientrata in casa, avevo chiuso alle mie spalle la porta sperando di non dare troppo nell’occhio. Non ero neanche riuscita a sospirare e prendere una boccata d’ara.
«Da chi stai scappando?»
Sobbalzai nel sentire la voce di Damon calma e pacata, mi girai e mi colse alla sprovvista inquadrandomi con i suoi occhi azzurri.
«Da nessuno.» Neanche pensavo di trovarlo seduto su quella poltrona: era immobile, le gambe accavallate e sul volto vi era un’espressione pensierosa. Da quanto tempo, precisamente, era seduto lì?
«Cosa nascondi?» Un’altra domanda a cui non sapevo rispondere.
Fui incerta pochi secondi, non sapendo cosa intendesse con quella domanda. Mi chiedeva cosa nascondevo, ancora, sotto la maglietta o mi chiedeva cosa gli stavo nascondendo in generale?
«Riformulo la domanda: per quale ragione stai nascondendo quello che sembra un libro?» Era stato molto più che preciso. Dritto al punto.
«Non è qualcosa che ti possa interessare, Damon.» Gli dissi, non accennando neanche un sorrisetto. Non volevo fargli credere che si trattasse di una cazzata, perché non lo era. E non volevo neanche dirgli la verità, perché quella sarebbe stata semplicemente…troppo.
Troppo per lui, che avrebbe scoperto particolari della morte della sua ex ragazza di cui neanche sapeva l’esistenza.
E troppo, anche, per me. Dirgli la verità, significava ammettere a me stessa di essermi immischiata in una situazione fin troppo complicata.
«Elena.» La sua voce arrivò alle mie orecchie dura e perentoria. La sua mano si poggiò delicatamente sul fianco destro, mi attirò poco più vicino a sé e posò le sue labbra sul mio lobo.
«Qualsiasi cosa riguardi te, mi interessa.» Lo stomaco era sottosopra, come succedeva sempre quando ero troppo vicina a lui.
«Siamo in ritardo per quella festa.»
«Si vede che non sei tagliata per la vita da universitaria…» Mi sussurrò all’orecchio, cingendomi la vita con entrambe le braccia. Posò il suo mento sulla mia spalla e lentamente strofinò il suo naso contro il mio collo.
«Possiamo andare alla vecchia pista di motocross, non pensi?»
Decisamente non era quella la proposta che mi aspettavo da lui.
«Non ci andiamo da tempo. King potrebbe essere nei paraggi…» Gli dissi. Mi girai per osservare la sua reazione, non era spaventato da un probabile incontro con King; sembrava tutto fuorchè intimidito da quel bastardo.
«Non fanno per noi quei posti. Non fanno per noi le serate seduti con la musica di sottofondo, non siamo noi quei fratelli seduti su una sedia in camoscio, non siamo noi quei fratelli che bevono vino costoso. Tutto questo non fa per noi, non siamo noi.»
Ebbi la sensazione che avesse intuito quello che stavo facendo per lui. Come se in qualche modo avesse potuto sentire tutte le emozioni che provavo quando ero seduta in uno di quei locali al centro di Londra infilata in uno di quei tubini neri troppo scomodi.
«Noi abbiamo bisogno di provare tutto. Ora più che mai non dovremo rifugiarci in una realtà che non è nostra.» Mi spiegò, stringendo le sue mani nelle mie.
Quel mese era stato uno dei peggiori della mia vita, non riuscivo proprio a passare ogni giorno in completa tranquillità. Mi guardavo attorno, alla ricerca di qualcosa da fare.
Qualcosa di nuovo, che mi avrebbe messo ancora alla prova, che mi avrebbe spinto al limite e mi avrebbe aiutato a superarlo.
«Non credo sia una buona idea. Non va affatto bene tutto questo. Non è assolutamente normale che io la mattina mi svegli pensando a cosa fare per provare un po’ di adrenalina. Io dovrei svegliarmi, andare all’università, studiare, avere un futuro…Ma questa non mi sembra vita. » Sussurrai.
Era così strano alzarsi la mattina e pensare che la tua vita era diventata una serie di azioni che avresti dovuto ripetere per troppo tempo.
«Perché non è più la tua vita. Elena, tu vuoi provare tutto. Noi siamo quel tipo di persone che fanno di tutto pur di vivere veramente. Un giorno avrai una famiglia e cosa potrai dire della tua vecchia vita? Di quanto fosse tanto facile quanto noiosa? O magari, racconterai fieramente ciò che hai fatto fin’ora?» Mi chiese con tono di voce persuasivo. «Vuoi una vita piena, non l’avrai continuando a vivere nella convinzione che questa vita mi faccia stare meglio.»
Colpita ed affondata.
«Perché non mi fa stare meglio, chiaro?» Non sapevo da quanto tempo si tenesse dentro tutte quelle parole, sapevo però che condividevo ogni parola che aveva detto fin’ora.
Eravamo talmente simili da pensarla allo stesso modo, da condividere le stesse emozioni e da decidere di buttarci a capofitto in imprese che avranno conseguenza catastrofiche…Tutto pur di scoprire ogni giorno un’emozione diversa.
«E cosa ti fa stare meglio? Esiste qualcosa che ti fa stare seriamente meglio? Perché i tuoi sto bene del cazzo, non convincono più nessuno.» Gli dissi, sperano che potesse capirmi. Ogni giorno era sempre la stessa cosa, non c’era un solo giorno in cui non gli avessi chiesto come stava.
E la sua risposta era sempre la stessa, ci avevo fatto l’abitudine a sentire sempre quelle due parole ma mai sarei riuscita a crederci al cento per certo.
«Vuoi saperlo? Vuoi sapere cosa mi fa stare bene?»
Successe troppo velocemente. Un momento prima Damon spostava le sue mani sui miei fianchi e faceva aderire i suoi fianchi ai miei, il momento dopo portava la mano destra sul mio volto e un secondo dopo le sue labbra erano sulle mie.
Fui quasi presa alla sprovvista, ma dopo lo sgomento iniziale lo strinsi a me più forte che potevo. Lo stavo stringendo a me con tutta la forza che possedevo, quasi a farlo diventare una seconda pelle perché delle volte era quello di cui avevi bisogno.
Non avevi bisogno di quei baci spettacolari, con le luci soffuse e l’atmosfera romantica.
Delle volte ti facevi bastare quello che ti si presentava senza pensare a come succedeva, l’importante era che era successo.
Non mi importava se tra me e Damon c’era quel fastidioso diario ad impedire il contatto completo tra i nostri corpi, non mi importava di stringerlo in quel modo quasi ossessivo, non mi importava di quello strato di vestiti in eccesso a coprire entrambi.
Stava succedendo, cogli l’attimo prima che sparisca. Ripeteva il mio cervello a macchinetta.
«Tu. Tu con i tuoi abbracci che spaccano le ossa, tu con i tuoi atteggiamenti, tu con i capelli spettinati, tu con un sorriso a incresparti le labbra, tu con il tuo modo di mandarmi a fare in culo.» Grugnì, accarezzandomi la guancia.
«Voglio ubriacarmi, voglio fumare sigarette, voglio farmi una canna, voglio correre su una motocicletta, voglio fare tutto basta che ci sia tu.» Mi spiegò con gli occhi spalancati.
Non ero brava a comprendere i sentimenti delle persone, per quanto cercassi sempre di sforzarmi c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Con Damon, invece, succedeva l’esatto contrario. Con Damon avvertivo tutto, persino i sentimenti più stupidi e futili li avvertivo dal primo all’ultimo e la parte strana era che ne ero contenta.
Ero contenta di poter assaporare tutti i nostri momenti con la consapevolezza di dare un nome a quello che sentivo.
«Sai cosa vorrei io? Vorrei solo che ti stessi zitto e che mi baciassi ancora, coglione.»
E probabilmente non saremo mai liberi del tutto, forse non potrò mai camminare mano nella mano con lui e non potrò mai uscire con lui, questo non cambiava nulla.
Questo non significava che non eravamo liberi, significava che le piccole libertà che ci concedevamo erano riservate a pochi.
E seguì un bacio, poi un altro e un altro ancora fin quando entrambi non avevamo il fiato per continuare.
Vedevo lo sguardo di Damon, così preso da quello che eravamo che all’improvviso quel diario che avevo nascosto stava diventando troppo pesante.
C’era qualcosa che mi stava dicendo che continuare a mantenere quel segreto non mi avrebbe aiutato a nulla, anzi avrebbe solamente peggiorato il tutto e avrebbe anche creato una crepa tra il rapporto che io e Damon stavamo creando.
«Damon…» Avevo la voce ridotta a un debole sussurro, il che lo insospettì visto che arricciò il naso e incurvò le sopraciglia.
Mi allontanai da lui e sbottonai il giubbotto, sotto lo sguardo sorpreso di Damon che non riusciva a capire cosa stessi facendo.
«Ti devo parlare di una cosa che non ti ho detto.» Gli dissi, portando al petto il diario che lui non aveva evidentemente riconosciuto.
«Cosa?» Aveva indurito la voce, mi guardava con un occhio critico ed mentalmente stava già pensando cosa non gli avessi detto.
Sospirai.
King forse ha ucciso Katherine, io sono andata da Gabriel alla ricerca di qualcosa di indefinito e ho trovato questo diario. Mi avrebbe ucciso e sarebbe rimasto anche sconvolto perché a) avrei sganciato una bomba a orologeria che non sapevo quando sarebbe scoppiata, b) avrei dovuto raccontargli del piano che ho messo in atto per prendere quel diario e c) avrebbe capito che ho fatto irruzione in casa della sua ex ragazza e ho frugato in quella che doveva essere camera sua.
Chissà cosa è successo su quel letto. Fin’ora non avevo neanche pensato a cosa quei due avessero fatto su quel letto, quasi mi venne la pelle d’oca ma decisi di non pensarci. O sarei impazzita.
«Qualcuno ha tentato di uccidere Katherine.» Prima bomba. «E penso che quel qualcuno sia King.» Seconda bomba.
Chiusi istintivamente gli occhi, aspettandomi una di quelle reazioni esagerate e tipiche di Damon, mi aspettavo una sfuriata, una serie di bestemmie, magari anche un pugno al muro…ma mai mi sarei immaginata di vedere Damon di fronte a me a squadrarmi in silenzio non sapendo cosa fare.
Perché sì, Damon Salvatore non sapeva cosa fare. Stava cercando di temporeggiare con me.
Sorprendendomi, non fece nessuna mossa falsa.
«Con chi hai parlato, Elena?» Chiese preoccupato. E allora capii che forse era meglio se avessi parlato prima con lui, prima di mettermi in mezzo in fatti che non mi riguardavano in prima persona.
«Tu lo sapevi?» Replicai con gli occhi sbarrati. «E come puoi aver accettato il piano di King? Possiamo sbatterlo in prigione per doppio omicidio e uscirne puliti!» Forse non proprio uscirne puliti. In qualche modo io sarei stata interpellata, su quel cadavere c’erano le mie impronte e avevo la netta sensazione che Damon si sarebbe messo in mezzo nonostante non c’entrasse.
Il corvino scosse la testa divertito e poi scoppiò in una risatina che mi diede sui nervi.
«Non può essere King.» Dissi stizzito.
Già sapeva del quasi incidente di Katherine, non gli era neanche venuto il dubbio che quel suicidio fosse una messa in scena per coprire un omicidio? Possibile che non avesse ancora capito che razza di persona era Katherine Pierce? E soprattutto, perché non sospettava di King?
«Come puoi esserne certo?» Gli chiesi assottigliando gli occhi in due fessure.
«Ne sono certo perché quella sera in cui qualcuno ha cercato di uccidere Katherine, lui era con me.»
Alzai lo sguardo verso di lui e capii che non solo la polizia era fuoristrada ma che io non ero un passo avanti a loro.
Sia io che la polizia eravamo in un vicolo cieco, da anni non riuscivano ad incastrare King perché forse lui non c’entrava realmente con quel quasi omicidio.
«Perché sei venuto a Mystic Falls, Damon? Dubito che sia veramente per la tua discutibile condotta scolastica.» Gli dissi con voce autoritaria.
In tutta quella storia c’era seriamente qualcosa che non tornava. Andarsene da Londra per venire a Mystic Falls sapendo che la tua ragazza era morta per via di una terza persona, non aveva assolutamente senso.
«Perché dopo Katherine, c’ero io.» Dopo Katherine, c’era lui? Ripetei mentalmente più volte quella frase e non riuscivo a darmi una spiegazione che potesse sembrare normale.
«Cosa vuoi dire?» Non sapevo se volessi veramente sapere la sua risposta, ma ormai ci ero dentro. E volevo mettere un punto al grande mistero che si aggirava intorno alla morte di Katherine Pierce.
«Voglio dire che c’è qualcuno che ha tentato di uccidere me, dopo di lei.»
Merda.
Ora capivo che fin’ora Damon combatteva su un proprio binario e che solamente ora mi aveva permesso di salire sul suo treno.
La domanda da farsi era: il treno arriverà a destinazione?
 
 
 
 
 














Dalla specie di annuncio che ho lasciato vi avevo fatto capire che sarei tornata presto.
So che è passato forse troppo tempo, ma ho capito che scrivere deve essere un piacere, non un obbligo.
E quando non ho nulla da scrivere, è meglio non scrivere nulla invece che mettere stupidaggini online giusto per mettere un capitolo che magari non vale nulla.
Questo che avete letto vale molto poco per me, ma io sono un’autocritica spaventosa. Lo ero prima e ora in questi tempi credo sia peggiorata di gran lunga i miei modi di rivedere/giudicare le storie/i capitoli.
Ho riletto tutto ciò che ho scritto ed è tutto mediocre, mi fa veramente pena. E rispetto a quello che sto progettando – ma che non pubblicherò – mi fa veramente schifo.
La storia in sé la trovo buona, ma la stesura mi ha lasciata senza parole. Perciò cercherò di migliorare questa storia e contemporaneamente la sto riscrivendo con personaggi originali, narrazione alla terza persona e altri dettagli che aggiungo man mano.
Tralasciando la parte ‘autocritica’ del capitolo e della storia in generale, passo al contenuto.
Questo capitolo più che altro ‘informa’ diversi progressi, anche se vi assicuro che la storia è leggermente complicata – forse è per questo che mi è difficile scrivere i capitoli.
Ammetto di essermi divertita a scrivere la parte ‘investigativa’ del capitolo – la storia era nata come un romanzo d’amore, poi per sbaglio si è evoluta in altro.
Sta di fatto che questo intrigo mi ha aiutato a creare personaggi migliori, più decisi e con una storyline migliore di quella che avevo in mente.
La trama non l’ho mai cambiata radicalmente, ho sempre avuto le idee chiare ma ovviamente ci sono stati molti miglioramenti e anche idee che dovevano sorprendere voi lettori (spero di esserci riuscita in qualche modo).
Comunque, ora che avete il quadro della storia più confuso del previsto cosa farete? Continuerete? Avete già capito qualcosa? E soprattutto siete seriamente convinte che King non c’entri nulla?
Poi vorrei sapere cosa ne pensiate di Damon, vi aspettavate una cosa del genere da lui? Secondo voi qualcuno ha seriamente tentato di uccidere lui e Katherine? Perché?
Vi lascio con questi interrogativi e ringrazio le ragazze che mi hanno spronato a continuare sia via recensione sia alle ragazze che mi hanno contattato privatamente.
Sappiate che non mi aspetto nulla da voi, per come mi sono comportata capisco perfettamente che non vogliate più seguirmi. Ho scritto questo capitolo un po’ come…prova? Ho piacere a continuare questa storia, se a qualcuno interessa ancora.
A presto, in caso qualcuno voglia ancora sopportarmi.
Non ti scordar di me.

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