Reverse This Course di Elizabeth_Keats (/viewuser.php?uid=53142)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lunedì nero ***
Capitolo 2: *** Vecchiette e hamburger ***
Capitolo 3: *** All'ospedale ***
Capitolo 4: *** Convergenza ***
Capitolo 1 *** Lunedì nero ***
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Reverse this
course
1.
Lunedì nero
Faceva
freddo: un’altra fottutissima giornata d’inverno. L’ennesima. Dio, ma possibile
che quel cavolo di cane ci mettesse così tanto a pisciare?!? Stava ormai per
diventare viola dal freddo e quel maledetto animale che faceva? Continuava a
girare a zonzo annusando alberi e pali. Ma dico io, è così difficile?!? Prendi
il primo palo, alzi la gamba e ci pisci, stupido cane, no? No, perché il suo
compito, il suo obiettivo nella vita era farlo dannare, più che poteva e in
qualsiasi momento, approfittando soprattutto di quelle giornate gelide in cui
avrebbe tanto preferito rimanere a letto al calduccio. Invece no, perché doveva
portare fuori il cane! E dire che lui aveva sempre preferito i gatti…
«Vuoi
muoverti, accidenti? Si muore di freddo qua fuori!» esclamò al meticcio
trattenendo a stento una bestemmia. E quello, di tutta risposta, gli girò le
spalle e continuò a giocherellare con un bastoncino lì per terra.
Perfetto.
Davvero perfetto. Sarebbe anche arrivato tardi al lavoro.
Gerard
Way si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso, che fece voltare una vecchia
intenta a dar da mangiare ai piccioni lì vicino, che gli lanciò uno sguardo
obliquo.
Lo
sapeva: sarebbe stato un lunedì nero. L’aveva capito fin da quando Norah, sua
moglie, l’aveva svegliato aprendo bruscamente la finestra della camera da letto
(un gesto a dir poco traumatizzante data la temperatura), per poi ordinargli
con tono imperioso di andare “a svegliare i bambini”: Adam, 7 anni, e Rachel, 4
anni: il suo orgoglio e la sua croce. Poi, mentre i suoi due figli scorazzavano
per la casa facendo baccano col cane, lui aveva avuto appena il tempo di bere
un sorso di caffè che Norah gli aveva messo in mano il guinzaglio e l’aveva
quasi sbattuto fuori dalla porta, raccomandandosi di fare presto. Se…
E,
quindi, ora si trovava in compagnia del suo “adorato” cucciolo, che ancora non
si decideva di fare quel che doveva, con le mani affondate nelle tasche e i
denti che battevano per il freddo, a passeggiare per Central Park, a New York.
E mentre camminava svogliato tirandosi dietro quel “sacco di pulci”, che la sua
famiglia aveva chiamato Crocchetta (nome stupido quanto l’animale), pensava a
quanto non ne potesse più di quella vita. Cioè, amava alla follia la sua
famiglia, il suo lavoro gli piaceva, poteva perfino dire che se quel dannato
cane fosse morto in fondo in fondo ci sarebbe rimasto male… ma c’erano anche
certe volte in cui gli sembrava di essere chiuso in gabbia.
Quand’era
adolescente e frequentava il liceo di Belleville, nel New Jersey, aveva sempre
sognato di avere una vita emozionante, degna di essere raccontata una volta
diventato vecchio, di non stare mai fermo in un solo posto a fare un lavoro
normale con una vita e una famiglia normale. Di non ritrovarsi intrappolato
nella solita routine. Sì, il Gerard Way adolescente aveva tantissimi sogni per
il futuro, molti dei quali parecchio avventati, ma ci credeva, forse anche per
non dover pensare a quanto era sfigato e non dover stare a sentire i commenti
malefici che lo inseguivano ogni volta che percorreva i corridoi della
Belleville High School. Ma, nonostante ci credesse fermamente, i sogni erano
rimasti tali ancor oggi, anzi avevano iniziato a sfumare, mentre lui si
rassegnava a quella vita tranquilla ma monotona per sempre. E così, Gerard Way
a 31 anni stava ancora aspettando che qualcosa sconvolgesse il suo quotidiano…
invano (o quasi).
Ritornò
a galla dai suoi pensieri quando si sentì strattonare e vide Crocchetta
riprendere a spasso spedito la via di casa. Sia ringraziato il cielo!
«Bravo
cane! Bravo bravo cane!».
Forse
quel lunedì non era poi così nero come credeva.
Ma,
naturalmente, si sbagliava.
«Che
lunedì di merda!» borbottò tra sé e sé mentre, recandosi al lavoro, si era
ritrovato imbottigliato nel traffico cittadino.
Se
Norah non l’avesse trattenuto un quarto d’ora in più per spiegargli i perché e
per come riguardo a una faccenda di bollette, se non avesse perso tempo da
quella “strega” di sua suocera, da cui aveva appena lasciato Rachel, e se non
ci fosse stata la strada chiusa per lavori in corso per arrivare alla scuola di
Adam, forse (e dico forse) avrebbe evitato almeno un po’ di quel traffico
infernale. Ma, d’altronde, tutte le sfighe dovevano capitare a lui, no?
Suonò
il claxon per l’ennesima volta, lasciandosi andare a tutte quelle imprecazioni
che non aveva potuto pronunciare in presenza dei suoi figli. Gli veniva voglia
di piangere. Porca biiip, d’un biiip di biiip, santo biiip dei miei biiip.
Eccetera, eccetera. E, ciliegina sulla torta, il tassista che aveva davanti si
era pure fermato a chiacchierare con un collega, fermo proprio in mezzo alla
strada. S-P-L-E-N-D-I-D-O. Desideravano anche tè e biscotti i signori? Guardò,
ormai disperato, l’orologio: le otto e venti. Cazzo: avrebbe dovuto essere in
ufficio alle otto spaccate. Si passò una mano tra i capelli, per poi gettare
uno sguardo distratto allo specchietto retrovisore e per poco non fece un salto
sul sedile nel vedere la sua immagine riflessa. Capelli neri scompigliati
leggermente lunghi, colorito pallido, occhiaia e espressione tirata: la
personificazione dello stress. Oh. Mio. Dio.
Solo
dieci minuti buoni dopo riuscì ad arrivare “sano e salvo” al parcheggio vicino
al suo ufficio. E adesso chi lo spiegava al capo quel ritardo di quasi
mezz’ora? Mi scusi, mi scusi tanto, ma mi si è fermata la macchina e… Oppure:
mi dispiace infinitamente ma mia suocera ha avuto un malore (magari!) e ho
dovuto… No, così non andava. Sei proprio nei guai, Mr. Way! Scese dall’auto
sbattendo la portiera con noncuranza, ma non fece neanche in tempo a voltarsi
che… SPLASH! Una macchina che passava proprio lì accanto aveva preso in pieno
un’enorme pozzanghera d’acqua nera e sporca, facendo la doccia al nostro povero
malcapitato, che rimase al lato della strada con i vestiti fradici che gli
pendevano addosso.
Un
commento istintivo gli uscì dalle labbra: «Che vita di merda!».
Primo
tentativo di ff sui mitici MyChem. Non so ancora di preciso cosa ne
verrà fuori nè se il progetto andrà avanti, visto
che ho anche un'altra ff in cantiere e gli impegni scolastici non mi
danno un attimo di respiro (senza contare che ho anche una vita io!),
quindi diciamo che sto tastando il terreno per capire se vale la pena
investire qui o altrove XD
Recensite vi pregoooooooooooooooooooooooooooooooooo! Fatelo almeno per il povelo povelo Mr. Way!
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Capitolo 2 *** Vecchiette e hamburger ***
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1.
Vecchiette
e hamburger
Mezzogiorno
e venticinque: cinque minuti alla fine del suo turno. Un brivido
d’eccitazione
gli percorse la schiena, mentre finiva di mettere a posto una fila di
libri di
Stephen King sull’ultimo scaffale. Ancora cinque minuti e suo
fratello lo
sarebbe passato a prendere appena uscito per la sua pausa pranzo, poi,
più
tardi, una volta tornato a casa avrebbe finalmente rivisto la sua
fidanzata,
Alicia.
Era
ormai quasi un anno che convivevano in un piccolo appartamento di
Brooklyn e
ormai nella mente di Mikey Way iniziava a maturare l’idea del
matrimonio. Da
quando era arrivato a New York insieme a suo fratello e alla sua
famiglia, ne
aveva fatta di strada. Aveva trovato lavoro in quella piccola libreria
del
centro e con gli anni era riuscito a mettersi da parte un bel
gruzzoletto. Ma
ancora un pensiero lo ostacolava dal compiere il grande passo: quello
di finire
come suo fratello. Ok, la sua famiglia era favolosa ed amorevole con
lui ma…
be’, troppo spesso, a giudicare dalla faccia di Gerard, la
cosa gli pareva
troppo asfissiante per valerne la pena. Era ancora troppo giovane per
rinunciare a quella frizzante libertà, alle serate passate
con Alicia in
qualche pub, senza alcun obbligo o responsabilità, e i
week-end trascorsi
lontani da tutto quel trambusto metropolitano. No, decisamente ci
teneva troppo
a quella spensieratezza per pensare di mettere su famiglia. Avrebbe
aspettato
ancora un anno o due.
Si
diresse alla cassa con degli scatoloni vuoti in mano, fischiettando
leggermente
e così attirando l’attenzione di Lily, la sua
collega di lavoro, una ragazza
eccentrica con i capelli rossi e un piercing al naso. Ok, aveva una
ragazza
fantastica, un lavoro sicuro e una vita relativamente tranquilla,
ma… be’,
diciamo che, come il maggiore dei Way, anche lui aveva dei dubbi. Era
tutto
troppo tranquillo, ovvio e scontato. E i sogni dove erano andati a
finire? Eh,
bella domanda: quasi non se ne ricordava più. Da piccolo,
insieme a Gerard,
anche lui aveva sognato un futuro avventuroso, un futuro che si
distinguesse
dagli altri, forse anche insicuro ma pur sempre entusiasmante. Ma alla
fine la
voglia di basi solide aveva avuto la meglio e ora anche lui era una
persona
qualunque tra altre persone qualunque… anche se, magari, un
po’ meno stressato
e depresso di suo fratello maggiore.
Oh,
ma che discorsi stai a fare, Mikey Way?, lo rimproverò la
sua coscienza dal
fondo della sua mente. Hai una vita invidiabile, tranquilla e con tutti
i
confort standard; quindi basta con questi castelli in aria:
è inutile
complicarsi la vita quando non ce n’è bisogno!
Vero, pensò il piccolo Way,
potrebbe andarmi peggio… E gli ritornò in mente
suo fratello perennemente
incazzato nero con… Alt! Basta. Però lui era una
di quelle persone che credeva
davvero nei sogni, nell’impossibile, nel “se vuoi
una cosa, vattela a
prendere”. Ma ora non era più un bambino,
pensò con rammarico gettando
un’occhiata al reparto libri per l’infanzia
lì vicino alla cassa. Era ormai
finito il tempo del “quando sarò grande
sarò… diventerò…
farò…”; alla fine era
cresciuto ed era diventato quello che era. Punto e stop. Ah, ingenua
fanciullezza! Ora doveva occuparsi di Alicia, di fare la spesa, di
pagare le
tasse e le bollette, di…
«Mikey!».
L’esclamazione secca di Lily lo riportò
bruscamente alla realtà.
«Eh,
sì, chè c’è?».
Per
un attimo la collega lo guardò stralunata, come per dire
“ci sei o ci fai?”,
per poi indicargli con un gesto perentorio la cassa.
«Io
devo finire con questa roba…» disse indicando uan
fila di volumi ancora
imballati. «Te ne occupi tu, vero?».
Sulle
prime il povero Mikey non recepì a pieno il messaggio, ma
una seconda occhiata
fulminante della rossa gli fece tornare in mente tutto in un batti
baleno. Si
sporse oltre al cassa ed intravide una docile vecchietta minuta e tutta
raggrinzita con la sua corsettina anni ’30 (del Novecento o
dell’Ottocento?), lo
scialle di lana ricamato a mano e un “adorabile”
cappellino troppo simile a una
presina per passare per decente. Con un altro sorrisino dal gentile
nonna
papera gli porse una pila di tipo dieci libri e, avvicinandosi a lui
con fare
confidenziale, disse: «Seghe mentali, eh,
giovanotto?».
Le
labbra di Mikey si modellarono in
un
muto “co-come?”, ma alla fine il ragazzo
optò per il silenzio neutrale e si
concentrò sui libri. Ce n’erano così
tanti che gli avrebbero dovuto pagare
almeno un quarto d’ora di straordinari per batterli tutti.
Senza contare la
vecchina che lo fissava curiosa con gli occhi ridotti a due
fessure…
12:40
pm
Gerard
trattenne una bestemmia, l’ennesima della giornata, quando
parcheggiando
davanti alla libreria dove lavorava il fratello per poco non
andò a tamponare
l’auto davanti: un fuoristrada corazzato che
l’avrebbe fatta pagare cara alla
sua semplice utilitaria. Cercando di allontanare la
negatività di quella
tragedia sfiorata (e di tutta la mattinata) si sporse oltre il
finestrino in cerca
di Mikey, certo che avrebbe avuto come sempre una parola di conforto e
di
incoraggiamento per lui. Ma di lui non c’era traccia. Strano,
visto che Gerard
era arrivato anche in ritardo (per ovvi problemi col capo) e tenendo
conto che
l’altro spaccava sempre il secondo riguardo la
puntualità. Avrà avuto da fare,
si disse, scendendo dall’auto ed entrando nella libreria.
Appena varcò la
soglia gli si presentò davanti una scena mai vista prima.
«Brutto
mascalzone! Truffatore! Criminale!».
Mikey
fece un rapido salto indietro e si andò a nascondere dietro
la cassa, nel
disperato tentativo di evitare la borsa che la vecchietta agitava nella
sua
direzione come una mazza chiodata urlando come un vichingo inferocito.
E lui
che l’aveva definita “docile vecchietta”!
Seeeee, come no!
«Ma,
signora, lei non capisce! Io non intendevo…
C’è stato un equivoco…
io…» tentò abbattuto,
ma la pensionata non pareva avere la minima intenzione di dargli
ascolto,
mentre continuava ad urlare la sua sfilza di insulti ed epiteti vari.
«Come
ti permetti di ingannare una povera vecchia come me? Vile!
Manipolatore!».
Il
piccolo Way si guardò attorno in cerca d’aiuto:
Lily probabilmente era all’altro
capo del negozio a riordinare la merce se non nel magazzino, quindi era
assai improbabile
che accorresse in suo soccorso; le poche altre persone presenti nel
negozio
osservavano incuriositi quella scena buffa senza però
muovere un dito a favore
del malcapitato commesso. Quindi era da solo in balia di
quella… quel King Kong
di vecchietta inferocita. E il tutto per un semplice errore di resto!
Invece che
2 dollari e 50 Mikey gliene aveva dato solo due e quando si era accorto
dell’errore
era ormai troppo tardi per chiedere perdono alla cliente che, resasi
conto del
misfatto, aveva urlato alla truffa ai quattro venti. Merda…
Lo sapeva che c’era
qualcosa che non quadrava in quella lì!
«Pensavi
forse che fossi scema? Rimbambita come tutte le altre vecchie? Eh?
Rispondi,
farabutto!».
Un
pesante colpo della borsa arrivò sulla cassa che emise uno
scricchiolio
sinistro, sul punto di aprirsi in due. E a quel punto Mikey si chiedeva
se ne
sarebbe uscito intero... L’assicurazione sulla vita non ce
l’aveva… Acc…!
«Signora…».
Una
voce profonda e familiare intervenne improvvisamente tra i tonfi della
borsa
sul bancone e le grida isteriche della pensionata.
«Signora,
le sembra il modo di comportarsi in un luogo pubblico?».
Per
un attimo la signora non rispose, come se fosse appena stata presa alla
sprovvista, mentre Mikey si sporse di qualche centimetro fuori dal suo
nascondiglio per vedere in faccia il suo salvatore. E appena scorse un
volto
pallido (forse un po’ più tirato del solito) e una
chioma di capelli corvini
subito i suoi occhi s’illuminarono. Aveva sempre saputo di
poter contare sul
suo fratellone ma… be’… di sicuro non
si sarebbe mai aspettato di vederlo
spuntare lì per salvarlo dall’ira di quella
nonnetta. Che dire, un deux ex
machina veramente ben riuscito! Poi gli ritornò in mente
tutto: quel giorno
Gerard gli aveva promesso che alla fine del turno l’avrebbe
passato a prendere
in negozio per andare a mangiare un boccone insieme. E ora eccolo
lì, a
difenderlo come ai vecchi tempi, quando i bulletti della scuola lo
prendevano
in giro per via degli occhiali.
«Sono
sicuro che c’è una spiegazione a questo equivoco e
credo che il signore qui
presente possa dare una spiegazione?» continuò
Gerard in tono pacato e
lasciando senza parole la nonnina.
A
quel punto Mikey poté abbandonare del tutto il suo
nascondiglio: non aveva più
nulla da temere ormai.
«Sempre
a cacciarti nei guai te, eh?».
Cinque
minuti dopo si trovavano in macchina (guidava Gerard) e discutevano
dell’accaduto,
girando a caso per il quartiere ancora incerti sul luogo dove mangiare.
Intanto
Mikey continuava a dare riposta ai numerosi perché e per
come di Gerard sulla
quella faccenda e come ci fosse finito “in mezzo”,
cioè tra la vecchietta e il
suo resto. Era felice di rivedere suo fratello, dato che
l’ultima volta che si
erano incontrati era stata a casa sua e in mezzo a tutto il casino che
facevano
i suoi figli non erano riusciti a parlare granché. Ora,
invece, erano
finalmente soli e potevano discutere tranquillamente di tutto. Anche se
a
giudicare dal volto del fratello, più pallido e trasandato
del solito, quella
non doveva essere stata una settimana particolarmente rilassante per
lui. Come le
altre del resto.
«Io
quello che si mette nei guai? Ma se te con i guai ci vai a braccetto
tutti i
giorni…».
Il
volto di Gerard, nell’udire quelle parole, si fece
più cupo e Mikey si rimangiò
subito quello che aveva detto. Sapeva benissimo quanto il fratello
amasse la
sua famiglia e, nonostante questo, non poteva negare quanti problemi
gli
causasse, quanto a volte lo rendesse infelice e preoccupato, quanto gli
fosse
costato abbandonare i suoi sogni per loro. Però, loro gli
volevano bene, sua
moglie e i suoi figli, e lui voleva bene a loro… e questo
avrebbe dovuto
bastargli. Ma a volte Mikey, come forse anche Gerard, pensava che suo
fratello
sarebbe stato meglio se non avesse avuto quel fardello sulle spalle. E
questa
era una contraddizione di cui entrambi preferivano evitare di parlare.
Per
qualche secondo, mentre erano fermi a un semaforo, rimasero in silenzio
e Mikey
si diede del deficiente per aver parlato troppo, frenando il desiderio
irresistibile di mordersi la lingua fin a farla sanguinare come
punizione. Solo
quando scattò il verde ritrovò il coraggio di
parlare.
«Vabbè…
tu? Novità? Al lavoro tutto ok?».
Gerard
fece un sorriso tirato e da quella sua espressione Mikey seppe di aver
toccato
un altro tasto dolente. Merda.
«Se
non contiamo il ritardo di quasi mezz’ora per i soliti vari
motivi e la
conseguente incazzatura del capo e i soliti commenti del cavolo di
Nate… Oh,
sì, una favola!».
Mikey
sospirò, sentendosi quasi più in pena del
fratello. Erano ormai quasi cinque
anni che Gerard lavorava in quello studio di fumetti, ma in tutto quel
tempo
non aveva fatto alcun progresso nella carriera, ultima aspirazione che
gli
rimaneva. Innanzitutto il capo, forse anche perché Gerard
non si poteva
definire a prima vista un tipo “professionale”, non
aveva mai cercato di instaurare
un buon rapporto con lui, poi quello stronzo di Nate, tipico figlio di
papà,
single, disposto a lavorare anche dodici ore per farsi un nome non
mancava mai
un’occasione per sottolineare la scarsa competenza di Gerard.
Ma Mikey sapeva
che Nate si sbagliava: aveva sempre creduto nelle capacità
del fratello e non
aveva dubbi sulla sua bravura solo che… be’, una
volta per un motivo una volta
per un altro, la sua decennale sfortuna non gli permetteva di rivelarla
al
mondo. E così…
«Norah
e i bambini stanno bene?» chiese Mikey sperando di approdare
su una spiaggia
sicura.
«Sì,
bene» rispose Gerard e finalmente un piccolo sorriso gli
rischiarò il viso. «Adam
ha preso il suo primo 8 a scuola».
A
quel punto anche Mikey non poté fare a meno di sorridere.
Almeno una cosa ce l’avevano,
per sorridere.
«Volta
qui, a destra» disse subito dopo notando l’insegna
luminosa di un fast-food di
cui gli avevano parlato bene.
Gerard
ubbidì subito, svoltando nel parcheggio quasi del tutto
pieno a quell’ora,
mentre Mikey pensava che finalmente avrebbero potuto sedersi
tranquillamente in
un posto caldo, a parlare come i vecchi tempi, quando, ancora
adolescenti,
sognavano di avere in pugno il mondo.
«C’è
un parcheggio liberò laggiù».
«Sìsì,
lo so, l’ho visto…».
Forse
Gerard aveva visto il posto libero, ma probabilmente non aveva visto
qualcos’altro,
qualcosa che non era di certo piccolo. E diciamo che quel qualcosa lo
centrò in
pieno, per poi sterzare bruscamente con un’imprecazione,
seguita da un tonfo
sordo e l’urletto di Mikey che per poco non veniva
catapultato contro il
parabrezza.
«Oh,
cazzo!» esclamò ancora Gerard osservando la cosa,
o meglio il chi, aveva quasi
tirato sotto.
«Porca
troia, Gerard, ma… ma che hai fatto?!?»
esclamò invece Mikey con gli occhiali
di traverso sul naso per l’urto.
«Non
è colpa mia! Era in mezzo alla strada e… non
l’ho visto…».
Ma
Mikey era già corso fuori dall’auto in aiuto del
poveretto, ma appena mise
piede sull’asfalto non poté trattenere una
risatina. Il tipo in questione, che probabilmente
lavorava in quel fast-food, era vestito da hamburger e sparsi attorno a
lui c’erano
un sacco di volantini che pubblicizzavano il locale in questione.
Inoltre Mikey
non poté non notare le braccia completamente tatuate che
spuntavano da quel
ridicolo costume, il piercing al labbro e la bassa statura. Un tipo
strano non
c’è dubbio. In meno di un nanosecondo fu raggiunto
da Gerard che rimase
altrettanto sorpreso.
Mikey
si chinò e, dopo aver dato uno scossone al malcapitato e
avendo costatato che
era privo di sensi, disse: «Cazzo, Gerard, hai investito un hamburger!».
Ok
questa volta capitolo lungo per ricompensare i cari lettori della lunga
attesa (causa: scuola e sfinimento psicologico). Be', non so giudicate
un po' voi, a me non sembra un granchè. Vabbè
questa volta non mi va di indugiare molto in questo spazio, anche
perchè le mie povere dita, mani e braccia non ne possono
più di battere su questa tastiera dimmerda. Ultima cosa:
indico un sondaggio. Domandone da 1 milione di euro: chi
sarà mai l'uomo-hamburger? Lo scoprirete nella prossima
puntata! (ma daiiiii che lo sapete!).
Infine
ringrazio tutti gli arditi che hanno avuto il coraggio di recensire
questa ff: spero che mi rimaniate fedeli. In particolare: princes_of_the_univers, Dominil,
friem, OOgloOO, ElfoMikey.
See you soon, guys!
|
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Capitolo 3 *** All'ospedale ***
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3.
All’ospedale
«Ehi,
amico, ci sei? Mi senti?».
Mikey
era inginocchiato a terra di fianco all’uomo-hamburger e
cercava di fargli
riprendere conoscenza con qualche schiaffo e scossone. Che naturalmente
non
avevano avuto l’effetto sperato. Intanto una piccola folla si
era riunita sul
luogo del misfatto e un uomo grassoccio con i baffi a manubrio,
probabilmente
il proprietario del fast-food, insieme ad un altro paio di persone,
continuavano ad insultare pesantemente Gerard, dandogli del
“pirata della strada
alcolizzato e drogato” e minacciando di denunciarlo. Cercando
di non prestare
ascolto a tutta la confusione che lo circondava, il maggiore dei Way si
disse
che, visto che il tizio non dava segni di vita, forse era meglio
chiamare un’ambulanza.
Sì, molto meglio. “Merda, l’ho ucciso,
l’ho ucciso!” continuava a ripetersi
mentre componeva il numero del pronto soccorso e non potendo fare a
meno di
notare un’evidente ammaccatura sul cofano della sua auto.
Doppiamente merda…
senza contare che l’hamburger avrebbe potuto benissimo
chiedere i danni. Non poté
fare a meno di passarsi una mano tra i capelli arruffati, mentre la
voce
squillante dell’infermiera di turno gli riempiva le
orecchie…
Un’ora
dopo si trovavano ancora in ospedale. In attesa che qualcuno si
presentasse
chiedendo del signor hamburger.
Mikey
aveva appena telefonato ad Alicia per spiegarle l’accaduto e
dirle che avrebbe
fatto tardi, e Gerard in ufficio per avvisare che quel pomeriggio non
si sarebbe
presentato. Naturalmente il capo, che non aveva ancora digerito il
ritardo di
quella mattina, era saltato su tutte le furie, ma Gerard era riuscito
ad
arginare un po’ la sua ira spiegando che anche lui si era
fatto male nell’incidente
e probabilmente aveva un braccio rotto. Non sapeva che cosa avrebbero
pensato i
suoi colleghi il giorno dopo vedendolo arrivare senza fasciature di tal
sorta e
del tutto incolume, ma quello al momento era un problema del tutto
marginale. Anche
perché era quasi sicuro di aver sentito una delle risatine
di nate in
sottofondo alla sua telefonata…
E
adesso erano lì seduti, lui e Mikey, ad aspettare ed
aspettare ancora che quel
figlio di… ehm, che il ragazzo si svegliasse o si
presentasse qualche suo
parente. Gerard dopo mezz’ora iniziò ad odiare con
tutta l’anima quel corridoio
bianco, immacolato, sterilizzato e che puzzava di disinfettante. Avete
presente
quei corridoio d’ospedale dei film dove tutti piangono, si
disperano e si
trasformano in vampiri con due dita di occhiaie in attesa che qualcuno
con il
camice bianco spunti dalla porta in fondo e, con espressione provata,
dica “mi
dispiace, ma non ce l’ha fatta” e giù
altre lacrime? Ecco, un corridoio come
quello. Solo che né Gerard, appoggiato al muro con i nervi a
fior di pelle, né Mikey,
seduto con in mano il suo terzo caffè, si stavano disperando
o piangevano
strappandosi i capelli. Erano SOLAMENTE incazzati neri. E Mikey che
sperava in
un pranzo tranquillo con il fratello…
«E
se è morto davvero? O se è andato in
coma?» disse quest’ultimo ad un certo
punto sorseggiando il caffè.
Gerard
gli lanciò un’occhiata fulminante: non voleva
neanche pensare a quella
possibilità. Se il cretino non si risvegliava entro poco
l’avrebbe riportato in
vita con le dure. No, aspetta: forse era lui il deficiente che non
sapeva
guidare. Sì, era tutta colpa sua! Maledetto, maledetto,
Gerard, che non ne fai
mai una giusta!
Poi,
ad un certo punto dal fondo del corridoio comparve qualcuno, che di
certo non
era né un medico né un’infermiera. Con
stupore Gerard e Mikey si accorsero che
era una donna e che si stava dirigendo verso di loro e, con altrettanto
stupore
e anche un certo imbarazzo, notarono il suo abbigliamento succinto. Era
alta e
bionda (sicuramente tinta), con una minigonna leopardata di
cì o no venti centimetri,
tacchi vertiginosi su cui camminava con un’andatura
ondeggiante, una maglietta
aderente con una scollatura che lasciava ben poco
all’immaginazione e, infine,
un rossetto così rosso che si poteva vedere da un chilometro
di distanza. Insomma,
quella ragazza a prima vista sembrava proprio la classica donna da
marciap…. Ehm,
ehm, meglio lasciar perdere. Fatto sta che appena fu vicina a loro, sia
Mikey
che Gerard diventarono paonazzi e cercarono di allontanare le loro
menti dalla
realtà pensando al voto di fedeltà fatto
rispettivamente a fidanzata e moglie. Non
fecero nemmeno in tempo a domandarsi chi fosse o che cosa ci facesse
lì, che un
medico dall’aria incartapecorita sbucò dalla
stanza a fianco, dove avevano
portato l’uomo hamburger.
«Chi
di voi è parente del paziente?» domandò.
«Io»
intervenne la donna ruminando come un cammello con la gomma in bocca.
«Katy
Russel, sono la sua fidanzata…».
Hai
capito il piccoletto…, pensò istintivamente
Gerard.
«Ah,
molto bene, signorina Russel. Se vuole entrare… si
è appena svegliato».
«Oh,
grazie al cielo!» esclamò la
“graziosa” signorina, scuotendo la chioma bionda
ed esprimendo a pieno il pensiero di Mikey e, soprattutto, Gerard, che
si
accasciarono sollevati su due sedie lì vicino.
Se
non fossero stati in un luogo pubblico e così silenzioso,
Gerard si sarebbe
messo ad urlare di gioia e a ballare la tarantella davanti al suo primo
colpo
di fortuna della giornata. Così nessuno avrebbe potuto
fargli causa… Ah, che
sollievo! Per un nanosecondo aveva quasi avuto la sensazione di
rinascere, di
ascendere ad una dimensione ancestrale di pace e serenità,
quando… Come un pugno
nello stomaco un gridolino acuto lo riportò alla
realtà.
«GERARD!
Ma si può sapere che diavolo hai combinato?!?».
Ma
porc…!
Non
fece neanche in tempo a finire quell’esclamazione che una
donna minuta dai
boccoli color cioccolato gli saltò addosso quasi prendendolo
al collo e continuando
ad urlare…
«Ma
sei matto?!? Avresti almeno potuto avvisarmi! Almeno per sapere che
stavi bene…
Gerard, sei sempre il solito irresponsabile! Accidenti, mi è
quasi venuto un
infarto quando me l’ha detto Alicia! Potevo rimanere
vedova… Potevi lasciare
orfani i tuoi figli!».
C’era
da aspettarselo, come al solito…
«Norah,
tesoro, calmati è tutto a posto. Sto benissimo, non mi sono
fatto neanche un
graffio! Guarda, sono…» cercò di
replicare prendendo le mani della moglie e
stringendola a sé.
Ma
lei lo respinse, facendo quasi andare a sbattere contro il muro.
«Sì,
vedo benissimo! Sei il solito cretino, Gerard! Ma ti rendi conto che
potevi,
anzi potevate, farvi veramente molto MOLTO male?!? Ma dico, dove hai la
testa?!
Neanche una telefonata, niente! Potevi essere morto e io non lo
sapevo!»
continuò Norah e le sue parole taglienti rimbombarono nel
corridoio.
Intanto,
Gerard si appellava ad ogni santo che gli veniva in mente, chiedendo
aiuto
contro la sfuriata della moglie e facendo le corna dopo tutti gli
accidenti che
gli aveva tirato quella. Non aveva previsto tutto
ciò…
«Ma
mi stai ascoltando?!? Sei il solito adolescente con la testa tra le
nuvole! E quel
poveretto? Oh mio Dio… Spero che non si sia fatto nulla di
grave, altrimenti
sei davvero nei guai signor Way! Giuro che se un innocente…
io… io… e tutto per
la tua… la tua NONCURANZA!».
Gerard
si nascose il volto tra le mani, mentre Norah continuava a rincarare la
dose:
aveva voglia di sprofondare nel pavimento. Aveva ragione: era un
disastro, un
totale disastro su tutta la linea. Un disastro come dipendente, un
disastro
come marito, un disastro come padre… un disastro come essere
umano. Come mai
era ancora lì? Perché la selezione naturale non
aveva contribuito ad epurare il
mondo dagli essere irresponsabili ed inetti come lui? Aveva sempre
saputo di
non essere niente e nessuno di eccezionale, ma si era sempre illuso di
essere
almeno una persona normale. Invece era un completo fallimento. E basta.
Non aveva
saputo combinare niente di buono o che valesse la pena di essere
ricordato in
tutta la sua vita e, in più, quel poco di bello che era
riuscito a guadagnarsi,
come al sua famiglia, bè, non se lo meritava. E sentire
Norah che continuava a
rimproverarlo, a sottolineare quanto fosse incapace… era un
colpo ancora
più duro per lui. Si sentiva le gambe
tremare per la vergogna e sul capo gravare la scritta a caratteri
cubitali:
PERDENTE. Sentiva di fianco a sé la presenza di Mikey, che
forse avrebbe voluto
intervenire, mettere una buona parola a favore del fratello. Ma,
probabilmente,
anche lui si sentiva impotente di fronte a tutto ciò. Poteva
percepire la
delusione che proveniva da Norah quasi come un’esalazione
infernale.
«Hai
rovinato tutto, Gerard…».
Quelle
ultime parole lo colpirono in particolare al cuore, come una scheggia
di
ghiaccio avvelenato che lo trapassasse da parte a parte. Suonava come
una
condanna, come un terribile ed irreversibile verdetto, come il suono
del giudizio
universale. Alzò lo sguardo su Norah e vide gli occhi della
moglie diventare
lucidi, non tanto per tutto il casino che aveva combinato in quel
momento, per
il fatto che avrebbe potuto rimanere ferito nell’incidente,
per la sua imprudenza…
Ma quelle lacrime erano la conseguenza di tutto ciò, di
quella giornata che era
stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ora non era tanto
importante la macchina sbocciata, il tizio in ospedale, il disappunto
del capo,
la sua dimenticanza di avvertire la moglie
dell’accaduto… Ma contava il
significato di tutto ciò: cioè che Norah, che
aveva sempre creduto in Gerard
nonostante tutte le sue sfortune, si stava ricredendo sul suo conto,
iniziando
forse a vedere quello che era veramente: un fallito. Un nessuno. Un
niente. Gerard
avrebbe voluto replicare, avrebbe voluto difendere la sua causa, dire
che non
era vero, che anche lui valeva qualcosa, che doveva solo dimostrarlo.
Ma gli
mancavano le parole. Forse perché anche lui non riusciva a
convincersi di ciò.
Non
chiamato, il medico fece capolino dalla porta e, senza il minimo tatto,
disse:
«Se volete potete entrare anche voi…».
Per
un attimo tutti si guardarono l’un l’altro,
indecisi. Poi Mikey si avvicinò
alla porta, in attesa di Gerard per entrare. Norah si sedette su una
sedia lì
vicino, non senza aver prima lanciato uno sguardo eloquente a Gerard:
era
giunto il momento di portare le sue scuse a quel poveretto, anche prostrandosi a terra se
fosse stato
necessario. Così, non vedendo altra via d’uscita,
Mr Way si fece coraggio e
varcò la soglia della stanza seguito a ruota dal fratello.
Katy
Russel, l’appariscente fidanzata del malcapitato, era seduto
in un angolo e,
continuando a masticare la sua gomma, sfogliava distrattamente una
rivista di
moda spuntata da chissà dove, come se nulla fosse. Invece il
signor hamburger
era seduto sul letto, con un aria a metà tra
l’irritata per ritrovarsi in
ospedale e sorpresa, e, come pensarono i due fratelli Way appena lo
videro,
senza quel costume ridicolo addosso sembrava un’altra
persona. Se non fosse
stato immobile in un letto, con una gamba ingessata, le guance
arrossate e se
non sbuffasse in continuazione mordendosi il labbro inferiore,
bè, diciamo che
in una situazione completamente diversa sarebbe risultato quasi
simpatico.
Appena
vide Gerard, lo sguardo del nanetto si posò attento su di
lui, seguendo ogni suo
movimento. Evidentemente fin dal primo momento in cui si era svegliato
aveva atteso
quel momento, il momento di quando quel pazzoide che l’aveva
investito veniva a
porgergli le sue scuse… magari in ginocchio. Ma Gerard non
aveva la minima
intenzione di inginocchiarsi, così si limitò ad
avvicinarsi al letto, porgendo
la mano al tipo.
«Piacere…
ehm… sono Gerard Way… questo è mio
fratello Mikey… ehm… io
sarei…».
«Lo
stronzo che mi ha appena investito».
«Ehm…
sì. Mi… mi dispiace tanto…
Davvero… Io non avevo intenzione di…».
«Sìsì,
ho capito» fece quello sbrigativo per poi stringergli la
mano, ma suonando tutt’altro
che cordiale. «Veramente piacere, Frank Iero».
A
quel punto Gerard non seppe più che cosa dire, ma guardando
dritto negli occhi
nocciola di quel nanetto malefico che si faceva chiamare Frank Iero,
aka il
signor hamburger, ebbe la netta sensazione che quella faccenda non
sarebbe
finita lì.
Ebbene,
eccomi di nuovo qui. Leggendo le recensioni, devo ammettere che devo un
milioni di euro a parecchie persone, tutte quelle che hanno indovinato
l'identità del misterioso uomo-hamburger aka Frankieeeeeee.
Eh sì, poveretto, bel lavoro che si ritrova no?
Vabbè approfondiremo meglio la sua vita nel prossimo
capitolo, dove vedrò di continuare anche la faccenda di
Norah e Gerard. Sperando di non avervi annoiato troppo, passiamo ai
ringraziamenti:
OOgloOO:
proprio povero povero Frank... ma non più povero di Gerard!
Per Ray e Bob dovrai aspettare il prossimo capitolo... adesso vedo se
riesco a metterli tutt'e due... comunque Bob dovrebbe esserci quasi
sicuramente (diciamo che non ho ancora una trama precisa)
princes_of_the_univers:
mi dispiace ma non posso dirti cosa succederà Xd
sennò mi brucio il fattore sorpresa. Comunque si accettano
scommesse e suggerimenti di ogni tipo sulla trama...
friem:
cazzo, hai ragione! quando l'ho scritto non mi ricordavo che Frank
è vegetariano XD bè, meglio per il mio piano
diabolico... Sì, sono molto cattiva con loro eh?
rou:
grazie mille davvero! Mi fa piacere che qualcuno apprezza la robaccia
che scrivo XD e sì, anch'io quando ho pensato a
che lavoro far fare a Frank mi è venuto subito il mente
l'uomo-hamburger (che sia qualche reminescenza del video di "I just
wanna live" dei Good Charlotte? mah). Probabilmente perchè
è l'unica persona al mondo che non riuscirei ad immaginare
dietro ad un scrivania...
Dominil:
aggiornare presto? eh tesoro per quel che mi permette la scuola
dimmerda... ce la metterò tutta comunque... a presto!
Che
dire? Continuate a seguirmi in molti, mi raccomando!!!!!
|
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Capitolo 4 *** Convergenza ***
1.
Convergenza
Il
tempo passa. Anche quando
sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male
come il
sangue che pulsa nelle ferite. Passa in una maniera diseguale, tra
strani
scarti e bonacce prolungate, ma passa… Ok.
STOOOOP! Qui c’è un
errore: non siamo nel solito romanzo romantico, così
sdolcinato da far venire
il diabete, dove la solita ragazzina sfortunata (Gerard? Mmm) piange e
sospira
sulla foto del più figo della scuola che (è un
classico9 non la caga (per poi
scoprire che è un essere non umano, dotato di straordinari
poteri, in grqado di
uccidere con niente, che ha come missione… ma questa
è un’altra storia). Vabbè,
facciamo prima a dire che da quel fatidico lunedì nero
passarono tre settimane
e l’autunno era ormai alle porte. Foglie giallastre che
danzavano nel vento,
alberi spogli che sembravano vecchi decrepiti, un cielo plumbeo che
pesava
sulle teste della gente che passava per strada, pozzanghere sempre
più
frequenti e profonde in
cui si
rifletteva un sole pallido e dall’aspetto malaticcio:
così si presentava New
York in quei giorni di fine ottobre.
Ma
il tempo atmosferico non importava granché al signor Gerard
Way, la cui vita
continuava a scorrere “regolare” e
“tranquilla”, anche se con i soliti inciampi
di percorso. Era sabato pomeriggio, la fine di una lunga settimana di
lavoro,
in cui il capo non gli aveva lasciato un attimo di respiro. E ora
Gerard,
cercando di accantonare in un angolo della sua mente la stanchezza,
guardava
fuori dalla finestra di casa sua, indeciso se prendere con
sé o meno l’ombrello
per uscire. Alla fine giunse a una conclusione: meglio non correre
rischi.
«Ciao,
tesoro, allora ci vediamo stasera, ok?».
Norah
gli passò vicino con noncuranza, soffermandosi un attimo
davanti allo specchio
dell’ingresso per sistemarsi il rossetto. Già,
infatti quel pomeriggio sua
moglie sarebbe andata a fare shopping con Alicia (la carta di credito
di Gerard
rabbrividì al solo pensiero), lasciando così i
bambini a lui. Che in quel
momento era la persona più rilassata al mondo…
come al solito. Non poteva nemmeno
affidare Adam e Rachel a Mikey, perché quel giorno il
fratello si trovava nel
Jersey, a casa di mamma, per aiutarla
a
“dare giusto una sistematica al giardino”, come
diceva lei. Quindi si vedeva
costretto a portare i cuoi figli con sé. Per andare dove, vi
chiederete. Be’,
come previsto, la storia con Frank Iero, l’uomo hamburger,
non era certo
finita. Infatti il nanetto malefico gli aveva promesso, una volta
uscito
dall’ospedale, che non l’avrebbe citato per
danni… ma a un prezzo: avrebbe
dovuto aiutarlo in alcuni lavoretti, sia a casa che al noto fat-food in
cui
lavorava, essendo ovviamente impedito in alcuni gesti dalla gamba
ingessata.
Tutto questo per un due mesi circa. E naturalmente il tipo aveva ben
sottolineato le parole “anche sul posto di lavoro”,
probabilmente perché
pregustava un certo piacere nel vedere Gerard affaticarsi al suo posto;
ovviamente non aveva pensato di prendersi neanche un giorno di
malattia: aveva
“tanto bisogno di lavorare” lui! Gerard non lo
conosceva ancora bene, ma già da
quella richiesta aveva capito che quella volta aveva a che fare con
qualcuno di
tosto e veramente crudele e vendicativo. Maledetto folletto fastidioso!
Quale
modo migliore poteva esserci per fargliela pagare di averlo accidentalmente investito?
«Dai,
ragazzi, è ora di andare!» chiamò
dirigendosi in salotto.
Intanto
dall’ingresso provenne lo sbattere della porta, segno che
Norah aveva appena
dato ufficialmente inizio al suo shopping sfrenato (e magari
consolatorio).
Senza neanche un bacio o un ciao. Mah. Vabbè, meglio non
pensarci troppo,
dopotutto c’era da aspettarselo. Anche se non ne avevano
più parlato, Gerard
era più che sicuro che la moglie non avesse ancora cambiato
idea da quel
fatidico giorno: continuava a considerarlo un buono a nulla. E Gerard
non poteva
farci niente…
«Adam,
prendi la sciarpa mi raccomando! Fuori fa freddo!»
strillò dall’altra stanza
mentre allacciava le scarpe a Rachel.
«Papà,
ma dobbiamo proprio andarci?» sbuffò suo figlio
entrando in salotto
trascinandosi dietro la sciarpa che strisciava sul pavimento.
Adam
era un bambino dall’aria sveglia, capelli neri ribelli e
occhi verdi come
quelli di un gatto come Norah. Sul suo viso angelico, su cui di solito
risplendeva sempre un sorrisino beffardo, pronto a combinare qualche
altro disastro,
regnava ora un’espressione scocciata.
«Sì»
rispose Gerard, ora sistemando la giacchetta di Rachel che si lasciava
manipolare come una bambolina. «Papà deve sbrigare
un paio di cose».
«Uffa,
ma io… anzi noi… ci annoiamo! Non possiamo andare
da zio Mikey? Aveva detto che
mi faceva vendere un'altra magia! Uffiiiiii!».
«Sì,
papà» rincarò Rachel. «Io ho
scionno e fuori fa feddo. Vojo rimanere a casa e
giocale con Sally e Adam al dottole!!!!».
Sally
era la bambola di pezza preferita di Rachel e anche lei a giudicare
dall’increspatura delle sue labbra sotto le guance piene e
rosse che mele,
contornate da boccoli di un caldo color cioccolato che la facevano
assomigliare
tanto ad una di quelle bamboline di porcellana, sembrava non gradisse
quell’uscita.
«No,
Rachel, non oggi. Papà deve fare una cosa molto molto
importante e voi due
dovete aiutarlo, ok? Un po’ come Babbo Natale con i suoi
aiutanti, intesi?».
Il
paragone sembrò per un attimo aver convinto Rachel, i cui
occhi naturalmente
iniziavano a brillare ogni volta che si nominava il buon vecchio
barbuto. Aveva
iniziato ad esprimere il suo entusiasmo con brevi strilletti e
saltelli: se
fosse stato un cane si sarebbe messa a scodinzolare. Ma il suo
entusiasmo fu
subito interrotto da Adam.
«Ma
tu fai sempre cose noiose! Uffa! No, io non ci vengo!».
Ecco:
il germoglio. Possibile che a soli sei anni suo figlio si accorgesse
già quanto
fosse sfigato suo padre??? Di sicuro era tutto merito di Norah e delle
sue
solite frasi lasciate a metà durante la cena: Dio, certe
volte credeva che
qualcuno per sbagli avesse esportato una parte del cervello di sua
moglie e
l’avesse trapiantato nel cranio di Adam quanto si
somigliavano! Cazzo, chissà
come sarebbe stato a sedici anni… Ma per fortuna Rachel,
ancora innocente al
100%, continuava a sostenerlo… anche se forse mancava poco
perché anche lei si
accorgesse del vero…
«Poche
storie e cammina!» s’impuntò Gerard con
tono autoritario, prendendo la sciarpa
rossa di Adam, annodandogliela ben bene al colo e spingendolo verso la
porta
mentre teneva sua figlia per mano.
«Su,
cammina, non abbiamo tempo da perdere».
«Uffiiiii
però…».
«Che
bello… Papà, c’è anche Babbo
Natale?».
«No,
non credo, tesoro. Dovrai aspettare ancora un po’».
È
sottointeso dire che quello del padre è il mestiere
più difficile al mondo.
Ed
ecco il colpevole che ritorna sulla scena del delitto: un classico.
Peccato che
quella stessa scena si sarebbe dovuta ripetere per altri due mesi
almeno…
Appena sceso dalla macchina, Gerard schizzò dentro il locale
tenendo per mano i
suoi due figli alla massima velocità che gli permettevano le
sue gambe: meno
tempo passava in quel maledetto parcheggio meglio era: la vergogna per
quella
sua famosa distrazione era ancora fresca.
A
quell’ora (ero quasi le tre del pomeriggio) il piccolo
fast-food era quasi
deserto, se non si contava una coppia di fidanzatini adolescenti e un
signore
di mezza età tutto intento a leggere la pagina sportiva del
Time. Al povero Way
bastò una breve occhiata d’intorno a quel posto
(doveva lui e suo fratello
avrebbero dovuto passare una pausa pranzo relativamente rilassante) per
trovare
chi cercava. Frank Iero era seduto dietro il bancone, con la testa
appoggiata
sui gomiti mentre sfogliava una rivista; un paio di stampelle facevano
capolino
di fianco a lui. Non pareva nemmeno che lavorasse lì tanto
la sua aria era
satura di noncuranza, a differenza delle due ragazze che poco
più in là si
affaccendavano a pulire a destra e a manca chiacchierando non senza
qualche
risatina.
«Papà,
adesso possiamo andare a giocare almeno?» domandò
Adam dando un forte
strattone. Testardo.
Gerard
non lo degnò neanche della minima attenzione, ma si
avvicinò al bancone
trascinandosi dietro i due bambini come due bambole di pezza. Solo
allora
Frank, cogliendo il rumore dei loro passi, alzò lo sguardo
dalla sua lettura e
subito sul suo visetto furbo comparì
un’espressione sorpresa accompagnata da un
sorriso divertito. Indubbiamente Gerard in versione papà
doveva risultare alquanto
insolito e buffo. E, in effetti, anche li si vergognava un
po’…
«Guarda
chi si vede…» rise il nanerottolo e dopo
un’occhiata all’orologio a muro:
«Giusto in orario. Spacchi proprio il secondo,
Gerard!».
Gerard
avrebbe decisamente preferito rimanere più formale, in fondo
essere chiamato
signor Way era la sua ultima fonte da cui attingere un modesto rispetto
e
considerazione. Ma in quel momento, si disse, era meglio non chiedere
troppo.
«E
questi due nanetti chi sono?» domandò Frank e il
suo sorrise si fece se
possibile ancora più largo.
«I
miei figli… Spero non sia un fastidio per te se
stanno…» rispose Gerard con un
flebile sussurro che fu subito coperto dal tono impertinente di Adam.
«Nanetto
sarai tu!».
Fank
scoppiò in una breve risata: non era ben chiaro se era
innocente divertimento o
crudele sarcasmo. Senza ribattere si allungò oltre il
bancone per scompigliare
i capelli del bambino che emise un suono irritato simile a un ringhio.
Gerard
era sicuro che, se al posto di suo figlio avesse avuto un pitbull,
Frank
avrebbe dovuto dire addio alla sua mano già da un pezzo:
infatti il modo
migliore per fare arrabbiare Adam non era togliergli i giocattoli i
spegnergli
la tv… ma ricordargli che lui era solo un bambino di 6 anni.
In questo aveva
preso tutto da Norah…
«Potremmo
iniziare?» sbottò Gerard con un sospiro. Prima
finiva meglio era.
«Oh,
oh, il signor Way è ansioso di mettersi al lavoro al posto
mio? Ma che
generoso…» rise l’altro.
Ma
la sua espressione gaia non arrivò alla faccia scocciata di
Gerard, anzi non
riscaldò nemmeno un po’ l’aria attorno a
Mr Way, perennemente ombreggiata dalla
nuvoletta di Fantozzi.
«Ok,
come preferisci».
A
quel punto Gerard lasciò liberi Adam e Rachel di andare a
giocare a quello che
pareva loro, non senza aver prima riservato loro un’occhiata
ammonitrice; ne
avevano già parlato in macchina: avrebbero potuto
scorrazzare e giocare per il
locale a patto che non facessero troppa confusione e soprattutto che
non
rompessero niente. In caso contrario entrambi conoscevano bene il
genere si
reazione che avrebbe avuto il padre.
Per
il resto, era ora di rimboccarsi le maniche… ed esaudire
ogni richiesta
dell’uomo-hamburger.
Due
ore dopo.
Cazzo,
non si era mai sentito più cretino in vita sua. Aveva
proprio toccato il fondo
una volta per tutte. Si sentiva umiliato, ma così tanto che
neanche ai tempi
della scuola quando tutti lo prendevano in giro per via del suo stile
un po’
stravagante. Aveva lavorato incessantemente per due ora come uno di
quegli
operai cinesi stra-sfurttati. Non si sentiva più la schiena
e le gambe e aveva
la netta sensazione che Frank avesse approfittato della sua condizione
per
fargli sbrigare un sacco di lavori extra. Ma Gerard non aveva fiatato,
non
un’imprecazione, non una lamentela era trapelata dalle sue
labbra, troppo
concentrato sul suo lavoro per pensare ad altro. Non avrebbe
più dato nessuna
occasione a nessuno di dirgli quanto fosse poco professionale, poco
affidabile…
o inutile.
Aveva
lavato e spazzato il pavimento di tutto il locale, che non era certo
piccolo,
aveva aiutato le due ragazze (che aveva scoperto chiamarsi Lizzie e
Sarah) a
mettere in ordine in cucina, aveva servito qualche cliente ed era
andato fuori
a distribuire volantini ai passanti (per fortuna il nanetto gli aveva
risparmiato la tortura di indossare quel ridicolo costume da hamburger).
E
ora, dopo aver controllato che Adam e Rachel, che si era comportati
meglio del
previsto, fossero ancora nel loro angolo a giocare con le carte che
aveva dato
loro Frank, si lasciò scivolare con noncuranza sulla prima
sedia a
disposizione. Non invidiava affatto il lavoro dell’altro: gli
ci sarebbe voluta
una settimana di riposo per ricomporsi.
«Stanco?».
Una
voce familiare lo colse alle spalle facendolo sobbalzare: Frank. Si
stava
dirigendo verso di lui saltellando sulle stampelle e facendo ondeggiare
avanti
e indietro la gamba ingessata ad ogni passo. Per tutto il giorno non
aveva
fatto altro che starsene comodamente seduto dietro il bancone con il
suo
giornaletto e la sua tazza di caffè fumante, guidando Gerard
nelle sue faccende
con pochi gesti decisi. Ed ora eccolo tornare all’attacco:
uffa.
«Che
devo fare ancora?» gli chiese senza muovere un muscolo. Ogni
minimo movimento
sembrava produrre un piccolo strappo in ogni angolo del suo corpo.
«Niente.
Per oggi abbiamo finito, credo».
Grazie
a Dio!
«Ehm,
posso offrirti un caffè?». Lo disse con un tono
che suonava imbarazzato e quasi
arrossendo.
Gerard
dovette contare fino a dieci prima di essere sicuro di aver sentito
bene. Come?
Un caffè?
«Eddai,
non voglio mica avvelenarti!». E si sedette davanti a lui: li
divideva un
piccolo tavolino rotondo che una volta doveva essere stato bianco,
mentre
Gerard non poté fare altro che rimanere immobile
dov’era. Dopo una frazione di
secondo comparve Lizzie (o era Sarah?) con un vassoio con su due tazze
di
caffè, che subito i due si misero a sorseggiare in silenzio.
Passò
non si sa quanto tempo prima che uno dei due spiccicasse parola.
«Hai
una bella famiglia…» sussurrò Frank con
lo sguardo perso dall’altra parte della
stanza, dove stavano ancora giocando Adam e Rachel. «I tuoi
figli sono
deliziosi, davvero».
Gerard
rizzò le orecchie e restò in campana: quelle
smancerie erano tutta una
messinscena per ottenere qualcos’altro? Eppure sembrava
così sincero…
«Grazie»
sussurrò Gerard con gli occhi fissi sul liquido nero nella
sua tazza. Non
sapeva perché, ma si sentiva a disagio a parlare con Frank.
Era come se… Boh,
non riusciva a capirlo neanche lui.
Altro
silenzio.
«Sai,
ti invidio…» sbottò poi
l’altro all’improvviso. «Vorrei avere
anch’io una vita
come la tua…».
Per
poco a Gerard non andò di traverso il caffè:
cosa? Esisteva qualcuno in tutto
il mondo che osava invidiare la sua sfigatissima, merdossissima
insignificantissima vita? O mio Dio!
«Tranquillo,
non sono così malato di mente da invidiare tutta la tua
sfiga» precisò. «Ma…
bè… anche a me piacerebbe avere una bella
famiglia che mi accolga a braccia
aperte tutte le sere quando torno a casa dal
lavoro…».
A
Gerard venne immediatamente in mente la vistosa fidanzata di Frank,
Katy Russel
o come diavolo si chiamava.
«Qualcuno
che mi sostenga incondizionatamente… che creda sempre in
me… che mi dimostri
sempre il suo affetto… come… come a te».
Quelle
ultime parole tracciarono una profonda ferita sul cuore di Gerard:
anche lui
aveva sempre creduto che, nonostante tutta la merda con cui aveva a che
fare,
ci fosse sempre qualcuno al suo fianco pronto a sostenerlo. Ci aveva
creduto
sempre fino a quando Norah non aveva espresso la sua
delusione… e ora anche
quell’ultima speranza era sfumata.
«Anche
a me piacerebbe» mormorò.
«Come?
Tu non…».
«Sembra
che non ci sia più l’intesa di un
tempo…».
«Ah,
mi dispiace».
«Non
fa niente, tranquillo».
Calò
un altro lungo silenzio. Evidentemente Frank si era reso conto di aver
toccato
un altro dei tanti tasti dolenti nella vita di Gerard, lo capiva dalla
sua
espressione afflitta; la stessa di Mikey quando parlavano di cose serie.
Gerard
posò la sua tazza sul tavolino e passò
distrattamente un dito sul suo bordo
liscio: forse era ora di andare. Fece per alzarsi ma Frank lo
fermò con un
repentino: «No, aspetta, non te ne andare subito».
E
lui rimase. Non seppe perché ma rimase.
All’improvviso aveva sentito di essere
molto più vicino e simili a Frank di quanto avesse creduto
fin dal principio.
Quel ragazzo aveva scritte in faccia le sue stesse delusioni, le sue
stesse
aspettative infrante.
«Scusami
se sono stato così invasivo. Non credevo che tu e tua
moglie… Be’, passerà
suppongo… Dopotutto è un periodaccio per molti
questo».
«Cosa
vuoi da me?» chiese Gerard schietto. Stava mandando
all’aria ogni suo tentativo
di apertura, sbarrava con pesanti massi la strada verso la probabile
nascita di
un’amicizia. Ma sentiva che quello non era né il
luogo né il momento adatto per
aprire la sua mente al mondo.
Frank
lo fissò perplesso: di sicuro non si aspettava una domanda
del genere.
«Niente…
Volevo solo… Non importa».
Invece
a Gerard importava. Finalmente aveva trovato qualcuno che sembrava
provare i
suoi stessi tormenti.
«Vai
avanti, ti prego».
Frank
sospirò, rigirandosi la tazza tra le mani per riscaldarsi.
«Niente.
È solo che… guardo la tua famiglia… e
vedo quello che ho sempre desiderato… o
almeno una parte. Sai, quando ero piccolo credevo che le cose brutte
esistessero solo nelle favole, che nella vita reale non si potesse
soffrire,
che niente potesse cambiare davvero: il dolore era solo qualcosa di
fittizio
che usavano gli adulti per fare un po’ di scena. Sembrava
tutto bello e… cazzo,
ci credevo davvero! E poi…».
«Sei
rimasto fregato» sospirò Gerard.
«Già.
Iniziò tutto quando i miei divorziarono… Fu
terribile. E fu proprio in
quell’occasione che capii che tutto quello in cui avevo
sempre creduto non era
che un teatrino ben allestito. Era ormai il periodo in cui dopo aver
letto una
storia di fantasmi potevo riemergere nella realtà e notare
con sollievo che era
tutto a posto, tutto felice. Avevo scoperto che il dolore era vero, che
non era
solo una favola che raccontavano per spaventare i bambini. Quella
è stata la
mia disillusione, diciamo. Avevo dei progetti: suonavo (e suono
tutt’ora) la
chitarra e come ogni ragazzino che si rispetti sognavo un grande
futuro, pieno
di luci e persone che tendevano le braccia a me con esclamazioni di
ammirazione. Avevo creduto talmente fervidamente che tutto sarebbe
andato così
che… be’, era come se dovesse accadere davvero.
Come qualcosa di programmato
che non può cambiare, non so se mi spiego. E, be’,
come la mia famosa
disillusione anche quei piani, all’inizio indistruttibili,
iniziarono a
traballare. Le cose brutte che avevo ritrovato così spesso
nelle favole
sembravano essersi riversate nella mia vita: mi mancava un punto di
riferimento, non sapevo nemmeno quale fosse davvero la vera
realtà».
Le
sue labbra contennero per un attimo quel fiume di parole per lasciare
spazio ad
una breve pausa accompagnata da un sospiro.
«E
poi fui catapultato nella vita. Fino ad allora avevo vissuto come in un
sogno. Però
al quel punto mi trovavo ad affrontare ostacoli che mi parevano
insormontabili
e soprattutto con nessuno di preciso al mio fianco pronto ad indicarmi
la
soluzione. Non sapevo cosa voleva dire essere adulti, me per forza di
cose fui
costretto a diventarlo. Fui letteralmente gettato senza tante smancerie
in questo
postaccio che chiamano età adulta e mi ritrovai a cercare
qualsiasi espediente
pur di affrontarla. Non sapevo come si viveva: ero stato tenuto troppo
a lungo
sotto una campana di vetro che si era rotta senza che nessuno fosse
lì pronto a
raccogliermi tra i cocci e insegnarmi un nuovo tipo
d’esistenza. Me la cavai
certo, imparai tutto molto velocemente… troppo velocemente.
Ma a un prezzo:
tutto quello che avevo sognato… be’, al momento
avevo altre priorità. E così
tutto quel futuro fantastico che avevo sperato avevo dovuto gettarlo
fuori
dalla finestra. Mi trovai parecchi lavoretti precari, che ovviamente
non mi
davano la minima soddisfazione. Sono andato avanti traballando per
molti anni
sotto questo verso… e tutt’ora sono instabile,
ancora bloccato in questo posto
di merda…».
Fece
un ampio gesto che abbracciò tutto l’ambiente
circostante e nei suoi occhi
Gerard poté veder riflessa la delusione di molti anni. Adam
e Rachel stavano
ancora giocando nel loro angolo di favola; chissà per quanto
tempo ancora
sarebbero potuti essere così.
«Be’…
se mi andava (e mi va) male su questo fronte, sull’altro la
situazione non era
certo migliore. I miei genitori… la mia famiglia…
appartenevano al passato, si
erano infranti insieme alla bolla che mi aveva protetto fino ad allora.
Avevo cercato
di ricreare quel calore che ti fa sentire così…
bene. Invano. Avevo cercato
altrove: amici, possibili fidanzate. Non sono stato capace neanche di
questo. Ok,
voglio bene a Katy, lei è carina e tutto il resto
ma… sento tanto freddo. Sono anni
che sento freddo. Mi manca quella persona che sappia quello che penso,
che
sappia confortarmi, che sappia mostrarmi la bellezza in ogni cosa. Per
questo
invidio la tua famiglia: tu almeno hai loro. Può andarti
tutto male, a quanto
ho capito, ma hai loro… e anche se questo è un
periodo un po’ così… be’, non
importa: loro ci sono lo stesso. Io sono continuamente appeso a un
filo. Cerco,
cerco e cerca ma non trovo. Avevo dovuto imparare a vivere, a
combattere per
strappare con i denti e con le unghie quel poco che mi serviva al
mondo, avevo
dovuto abbandonare ciò che desideravo, che poteva dare un
senso al tutto… e non
sono riuscito a trovare o a ritrovare qualcuno che…
be’, fosse la mia stampella…».
Sorrise
ancora, ora giocherellando con la stampella che aveva tra le mani. Ma
quello
che sfoggiava in quel momento non era il sorriso di prima, quello
ironico e
divertito. Aveva una punta d’amarezza… E Gerard
non poteva immaginare quanto il
suo cuore con ogni suo battito stesse approvando quello che stava
dicendo
Frank.
«E
non so… non riesco… non ho, sì, non ho
nemmeno la voglia di provare a crearmi
una vita migliore. Anzi, no… Non ho il tempo…
Tutto è troppo frenetico. Arrivo a
sera così stanco che non ho più la forza di
pensare a cosa cambiare in tutta
questa barzelletta di vita. Mi sento…».
«…soffocare».
La
voce di Gerard, flebile ma allo stesso tempo forte in
quell’atmosfera, risuonò
nell’aria, con una sfumatura quasi profetica. Frank rimase
allibito: era
proprio quello che stava per dire. E l’altro
proseguì il discorso per lui.
«Senti
come se tutto il mondo fosse compresso in un singolo
secondo… e tu fossi al
centro di tutto quel caos. Non hai il tempo per pensare, per sognare,
per
fantasticare quello che avevi sempre sperato. Per capire ciò
che ti sta attorno
o anche solo osservarlo con più attenzione. Ammirare le
cose, le persone… e
magari accorgersi del piccolo ma inesorabile cambiamento che avviene in
loro
ogni giorno. Decifrare i loro pensieri. Capire i loro sentimenti e
stati d’animo.
Capire te stesso. Cosa vuoi veramente e cosa potresti fare per metterlo
in
atto. Accorgerti dove stai sbagliando e rimediare. Approfondire certe
conoscenze per sentirti migliore. Ma non hai il tempo e concentri
l’indispensabile
in quei pochi minuti, cercando ogni giorno di guadagnare un secondo in
più per
dedicarti a quello a cui tieni di più. Sì, lo so
bene. Anch’io mi sento così».
E
per la prima volta da quando Gerard era approdato in quel piccolo
locale quel
pomeriggio, i suoi occhi incontrarono quelli di Frank e entrambi
all’unisono
sentirono che qualcosa li accomunava. Come si suol dire, erano sulla
stessa
barca. E da quel momento avrebbero dovuto navigare insieme.
Ok,
capitolo luuuuuuuungo. Il che spiega anche il mio ritardo. No,
bè, la ragione non è proprio quella: sapete
com'è l'ispirazione andava e veniva insieme alla scarsa
voglia di mettermi qui a fare qualcosa di produttivo, il tempo
scarsissimo (un vero schifo davvero... il discorso di Gerard mi
è sgorgato dritto dal cuore!) e poi... sì, devo
ammettere che sono stata un po' impeganta anche con la mia droga
preferita. Come forse qualcuno di voi saprà la settimana
scorsa è uscito l'ultimo (ahimè T_T) libro della
saga di Twilight *me sbava smodatamente*... e ovviamente la tentazione
ha avuto il sopravvento (e ha contagiato anche questo cap di merda come
avete potuto notare dall'incipit). Ok, lo ammetto sono una drogata
persa di Twilight e affini (fischiate pure) e questa settimana
è stato difficile mettere da parte il libro (Breaking
Dawn... *altra bava*) per scrivere anche solo due righe. Quindi non vi
garantisco la rapidità dei miei aggiornamenti. Bene, ho
già blablato fin troppo (insieme ai miei personaggi).
Ringrazio:
Dominil:
Innanzitutto, sai come si dice: tra moglie e marito non mettere il
dito! Per la fidanzata di Frank... ehm, sì è un
tantino pu.... ma, bè, mi serviva.
princes_oh_the_univers:
come già detto la "morosa" di Frank non può
sparire... almeno per il momento. Mi dispiace. E adesso Gerard ha una
valvola di sfogo contenta?
friem:
grazie per l'entusiasmo! Risparmiami la violenza però eh?
Devi capire che il carattere di Norah è un po'... complesso,
ecco. E orgoglioso. Non la vedo affatto come una di quelle mogli arpie!
E poi se tuo marito ti combinasse un casino dietro l'altro non ci
rimarresti u po' male? Ok, ha dei modi bruschi e questo non
è giusto... però. Ps: Mikey è troppo
superiore x la tarantella
laramao:
grazie 10000 anche a te! ma no che Gerard non si suicida! Lui
è fatto di gomma: resiste a tutto
OOgloOO:
sì, diciamo che Gerard è il Fantozzi della
situazione!
rou:
ma anch'io ti adorooooooo! Tutte queste belle recensioni mi danno una
felicità che guarda :):):):):) grazie per apprezzare,
davvero!
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