Reverse This Course

di Elizabeth_Keats
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lunedì nero ***
Capitolo 2: *** Vecchiette e hamburger ***
Capitolo 3: *** All'ospedale ***
Capitolo 4: *** Convergenza ***



Capitolo 1
*** Lunedì nero ***


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Reverse this course

 

1.          Lunedì  nero

 

Faceva freddo: un’altra fottutissima giornata d’inverno. L’ennesima. Dio, ma possibile che quel cavolo di cane ci mettesse così tanto a pisciare?!? Stava ormai per diventare viola dal freddo e quel maledetto animale che faceva? Continuava a girare a zonzo annusando alberi e pali. Ma dico io, è così difficile?!? Prendi il primo palo, alzi la gamba e ci pisci, stupido cane, no? No, perché il suo compito, il suo obiettivo nella vita era farlo dannare, più che poteva e in qualsiasi momento, approfittando soprattutto di quelle giornate gelide in cui avrebbe tanto preferito rimanere a letto al calduccio. Invece no, perché doveva portare fuori il cane! E dire che lui aveva sempre preferito i gatti…

«Vuoi muoverti, accidenti? Si muore di freddo qua fuori!» esclamò al meticcio trattenendo a stento una bestemmia. E quello, di tutta risposta, gli girò le spalle e continuò a giocherellare con un bastoncino lì per terra.

Perfetto. Davvero perfetto. Sarebbe anche arrivato tardi al lavoro.

Gerard Way si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso, che fece voltare una vecchia intenta a dar da mangiare ai piccioni lì vicino, che gli lanciò uno sguardo obliquo.

Lo sapeva: sarebbe stato un lunedì nero. L’aveva capito fin da quando Norah, sua moglie, l’aveva svegliato aprendo bruscamente la finestra della camera da letto (un gesto a dir poco traumatizzante data la temperatura), per poi ordinargli con tono imperioso di andare “a svegliare i bambini”: Adam, 7 anni, e Rachel, 4 anni: il suo orgoglio e la sua croce. Poi, mentre i suoi due figli scorazzavano per la casa facendo baccano col cane, lui aveva avuto appena il tempo di bere un sorso di caffè che Norah gli aveva messo in mano il guinzaglio e l’aveva quasi sbattuto fuori dalla porta, raccomandandosi di fare presto. Se…

E, quindi, ora si trovava in compagnia del suo “adorato” cucciolo, che ancora non si decideva di fare quel che doveva, con le mani affondate nelle tasche e i denti che battevano per il freddo, a passeggiare per Central Park, a New York. E mentre camminava svogliato tirandosi dietro quel “sacco di pulci”, che la sua famiglia aveva chiamato Crocchetta (nome stupido quanto l’animale), pensava a quanto non ne potesse più di quella vita. Cioè, amava alla follia la sua famiglia, il suo lavoro gli piaceva, poteva perfino dire che se quel dannato cane fosse morto in fondo in fondo ci sarebbe rimasto male… ma c’erano anche certe volte in cui gli sembrava di essere chiuso in gabbia.

Quand’era adolescente e frequentava il liceo di Belleville, nel New Jersey, aveva sempre sognato di avere una vita emozionante, degna di essere raccontata una volta diventato vecchio, di non stare mai fermo in un solo posto a fare un lavoro normale con una vita e una famiglia normale. Di non ritrovarsi intrappolato nella solita routine. Sì, il Gerard Way adolescente aveva tantissimi sogni per il futuro, molti dei quali parecchio avventati, ma ci credeva, forse anche per non dover pensare a quanto era sfigato e non dover stare a sentire i commenti malefici che lo inseguivano ogni volta che percorreva i corridoi della Belleville High School. Ma, nonostante ci credesse fermamente, i sogni erano rimasti tali ancor oggi, anzi avevano iniziato a sfumare, mentre lui si rassegnava a quella vita tranquilla ma monotona per sempre. E così, Gerard Way a 31 anni stava ancora aspettando che qualcosa sconvolgesse il suo quotidiano… invano (o quasi).

Ritornò a galla dai suoi pensieri quando si sentì strattonare e vide Crocchetta riprendere a spasso spedito la via di casa. Sia ringraziato il cielo!

«Bravo cane! Bravo bravo cane!».

Forse quel lunedì non era poi così nero come credeva.

 

 

Ma, naturalmente, si sbagliava.

«Che lunedì di merda!» borbottò tra sé e sé mentre, recandosi al lavoro, si era ritrovato imbottigliato nel traffico cittadino.

Se Norah non l’avesse trattenuto un quarto d’ora in più per spiegargli i perché e per come riguardo a una faccenda di bollette, se non avesse perso tempo da quella “strega” di sua suocera, da cui aveva appena lasciato Rachel, e se non ci fosse stata la strada chiusa per lavori in corso per arrivare alla scuola di Adam, forse (e dico forse) avrebbe evitato almeno un po’ di quel traffico infernale. Ma, d’altronde, tutte le sfighe dovevano capitare a lui, no?

Suonò il claxon per l’ennesima volta, lasciandosi andare a tutte quelle imprecazioni che non aveva potuto pronunciare in presenza dei suoi figli. Gli veniva voglia di piangere. Porca biiip, d’un biiip di biiip, santo biiip dei miei biiip. Eccetera, eccetera. E, ciliegina sulla torta, il tassista che aveva davanti si era pure fermato a chiacchierare con un collega, fermo proprio in mezzo alla strada. S-P-L-E-N-D-I-D-O. Desideravano anche tè e biscotti i signori? Guardò, ormai disperato, l’orologio: le otto e venti. Cazzo: avrebbe dovuto essere in ufficio alle otto spaccate. Si passò una mano tra i capelli, per poi gettare uno sguardo distratto allo specchietto retrovisore e per poco non fece un salto sul sedile nel vedere la sua immagine riflessa. Capelli neri scompigliati leggermente lunghi, colorito pallido, occhiaia e espressione tirata: la personificazione dello stress. Oh. Mio. Dio.

Solo dieci minuti buoni dopo riuscì ad arrivare “sano e salvo” al parcheggio vicino al suo ufficio. E adesso chi lo spiegava al capo quel ritardo di quasi mezz’ora? Mi scusi, mi scusi tanto, ma mi si è fermata la macchina e… Oppure: mi dispiace infinitamente ma mia suocera ha avuto un malore (magari!) e ho dovuto… No, così non andava. Sei proprio nei guai, Mr. Way! Scese dall’auto sbattendo la portiera con noncuranza, ma non fece neanche in tempo a voltarsi che… SPLASH! Una macchina che passava proprio lì accanto aveva preso in pieno un’enorme pozzanghera d’acqua nera e sporca, facendo la doccia al nostro povero malcapitato, che rimase al lato della strada con i vestiti fradici che gli pendevano addosso.

Un commento istintivo gli uscì dalle labbra: «Che vita di merda!».

Primo tentativo di ff sui mitici MyChem. Non so ancora di preciso cosa ne verrà fuori nè se il progetto andrà avanti, visto che ho anche un'altra ff in cantiere e gli impegni scolastici non mi danno un attimo di respiro (senza contare che ho anche una vita io!), quindi diciamo che sto tastando il terreno per capire se vale la pena investire qui o altrove XD

Recensite vi pregoooooooooooooooooooooooooooooooooo! Fatelo almeno per il povelo povelo Mr. Way!

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Capitolo 2
*** Vecchiette e hamburger ***


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1.          Vecchiette e hamburger

 

Mezzogiorno e venticinque: cinque minuti alla fine del suo turno. Un brivido d’eccitazione gli percorse la schiena, mentre finiva di mettere a posto una fila di libri di Stephen King sull’ultimo scaffale. Ancora cinque minuti e suo fratello lo sarebbe passato a prendere appena uscito per la sua pausa pranzo, poi, più tardi, una volta tornato a casa avrebbe finalmente rivisto la sua fidanzata, Alicia.

Era ormai quasi un anno che convivevano in un piccolo appartamento di Brooklyn e ormai nella mente di Mikey Way iniziava a maturare l’idea del matrimonio. Da quando era arrivato a New York insieme a suo fratello e alla sua famiglia, ne aveva fatta di strada. Aveva trovato lavoro in quella piccola libreria del centro e con gli anni era riuscito a mettersi da parte un bel gruzzoletto. Ma ancora un pensiero lo ostacolava dal compiere il grande passo: quello di finire come suo fratello. Ok, la sua famiglia era favolosa ed amorevole con lui ma… be’, troppo spesso, a giudicare dalla faccia di Gerard, la cosa gli pareva troppo asfissiante per valerne la pena. Era ancora troppo giovane per rinunciare a quella frizzante libertà, alle serate passate con Alicia in qualche pub, senza alcun obbligo o responsabilità, e i week-end trascorsi lontani da tutto quel trambusto metropolitano. No, decisamente ci teneva troppo a quella spensieratezza per pensare di mettere su famiglia. Avrebbe aspettato ancora un anno o due.

Si diresse alla cassa con degli scatoloni vuoti in mano, fischiettando leggermente e così attirando l’attenzione di Lily, la sua collega di lavoro, una ragazza eccentrica con i capelli rossi e un piercing al naso. Ok, aveva una ragazza fantastica, un lavoro sicuro e una vita relativamente tranquilla, ma… be’, diciamo che, come il maggiore dei Way, anche lui aveva dei dubbi. Era tutto troppo tranquillo, ovvio e scontato. E i sogni dove erano andati a finire? Eh, bella domanda: quasi non se ne ricordava più. Da piccolo, insieme a Gerard, anche lui aveva sognato un futuro avventuroso, un futuro che si distinguesse dagli altri, forse anche insicuro ma pur sempre entusiasmante. Ma alla fine la voglia di basi solide aveva avuto la meglio e ora anche lui era una persona qualunque tra altre persone qualunque… anche se, magari, un po’ meno stressato e depresso di suo fratello maggiore.

Oh, ma che discorsi stai a fare, Mikey Way?, lo rimproverò la sua coscienza dal fondo della sua mente. Hai una vita invidiabile, tranquilla e con tutti i confort standard; quindi basta con questi castelli in aria: è inutile complicarsi la vita quando non ce n’è bisogno! Vero, pensò il piccolo Way, potrebbe andarmi peggio… E gli ritornò in mente suo fratello perennemente incazzato nero con… Alt! Basta. Però lui era una di quelle persone che credeva davvero nei sogni, nell’impossibile, nel “se vuoi una cosa, vattela a prendere”. Ma ora non era più un bambino, pensò con rammarico gettando un’occhiata al reparto libri per l’infanzia lì vicino alla cassa. Era ormai finito il tempo del “quando sarò grande sarò… diventerò… farò…”; alla fine era cresciuto ed era diventato quello che era. Punto e stop. Ah, ingenua fanciullezza! Ora doveva occuparsi di Alicia, di fare la spesa, di pagare le tasse e le bollette, di…

«Mikey!». L’esclamazione secca di Lily lo riportò bruscamente alla realtà.

«Eh, sì, chè c’è?».

Per un attimo la collega lo guardò stralunata, come per dire “ci sei o ci fai?”, per poi indicargli con un gesto perentorio la cassa.

«Io devo finire con questa roba…» disse indicando uan fila di volumi ancora imballati. «Te ne occupi tu, vero?».

Sulle prime il povero Mikey non recepì a pieno il messaggio, ma una seconda occhiata fulminante della rossa gli fece tornare in mente tutto in un batti baleno. Si sporse oltre al cassa ed intravide una docile vecchietta minuta e tutta raggrinzita con la sua corsettina anni ’30 (del Novecento o dell’Ottocento?), lo scialle di lana ricamato a mano e un “adorabile” cappellino troppo simile a una presina per passare per decente. Con un altro sorrisino dal gentile nonna papera gli porse una pila di tipo dieci libri e, avvicinandosi a lui con fare confidenziale, disse: «Seghe mentali, eh, giovanotto?».

Le labbra di Mikey si modellarono in  un muto “co-come?”, ma alla fine il ragazzo optò per il silenzio neutrale e si concentrò sui libri. Ce n’erano così tanti che gli avrebbero dovuto pagare almeno un quarto d’ora di straordinari per batterli tutti. Senza contare la vecchina che lo fissava curiosa con gli occhi ridotti a due fessure…

 

12:40 pm

Gerard trattenne una bestemmia, l’ennesima della giornata, quando parcheggiando davanti alla libreria dove lavorava il fratello per poco non andò a tamponare l’auto davanti: un fuoristrada corazzato che l’avrebbe fatta pagare cara alla sua semplice utilitaria. Cercando di allontanare la negatività di quella tragedia sfiorata (e di tutta la mattinata) si sporse oltre il finestrino in cerca di Mikey, certo che avrebbe avuto come sempre una parola di conforto e di incoraggiamento per lui. Ma di lui non c’era traccia. Strano, visto che Gerard era arrivato anche in ritardo (per ovvi problemi col capo) e tenendo conto che l’altro spaccava sempre il secondo riguardo la puntualità. Avrà avuto da fare, si disse, scendendo dall’auto ed entrando nella libreria. Appena varcò la soglia gli si presentò davanti una scena mai vista prima.

 

«Brutto mascalzone! Truffatore! Criminale!».

Mikey fece un rapido salto indietro e si andò a nascondere dietro la cassa, nel disperato tentativo di evitare la borsa che la vecchietta agitava nella sua direzione come una mazza chiodata urlando come un vichingo inferocito. E lui che l’aveva definita “docile vecchietta”! Seeeee, come no!

«Ma, signora, lei non capisce! Io non intendevo… C’è stato un equivoco… io…» tentò abbattuto, ma la pensionata non pareva avere la minima intenzione di dargli ascolto, mentre continuava ad urlare la sua sfilza di insulti ed epiteti vari.

«Come ti permetti di ingannare una povera vecchia come me? Vile! Manipolatore!».

Il piccolo Way si guardò attorno in cerca d’aiuto: Lily probabilmente era all’altro capo del negozio a riordinare la merce se non nel magazzino, quindi era assai improbabile che accorresse in suo soccorso; le poche altre persone presenti nel negozio osservavano incuriositi quella scena buffa senza però muovere un dito a favore del malcapitato commesso. Quindi era da solo in balia di quella… quel King Kong di vecchietta inferocita. E il tutto per un semplice errore di resto! Invece che 2 dollari e 50 Mikey gliene aveva dato solo due e quando si era accorto dell’errore era ormai troppo tardi per chiedere perdono alla cliente che, resasi conto del misfatto, aveva urlato alla truffa ai quattro venti. Merda… Lo sapeva che c’era qualcosa che non quadrava in quella lì!

«Pensavi forse che fossi scema? Rimbambita come tutte le altre vecchie? Eh? Rispondi, farabutto!».

Un pesante colpo della borsa arrivò sulla cassa che emise uno scricchiolio sinistro, sul punto di aprirsi in due. E a quel punto Mikey si chiedeva se ne sarebbe uscito intero... L’assicurazione sulla vita non ce l’aveva… Acc…!

«Signora…».

Una voce profonda e familiare intervenne improvvisamente tra i tonfi della borsa sul bancone e le grida isteriche della pensionata.

«Signora, le sembra il modo di comportarsi in un luogo pubblico?».

Per un attimo la signora non rispose, come se fosse appena stata presa alla sprovvista, mentre Mikey si sporse di qualche centimetro fuori dal suo nascondiglio per vedere in faccia il suo salvatore. E appena scorse un volto pallido (forse un po’ più tirato del solito) e una chioma di capelli corvini subito i suoi occhi s’illuminarono. Aveva sempre saputo di poter contare sul suo fratellone ma… be’… di sicuro non si sarebbe mai aspettato di vederlo spuntare lì per salvarlo dall’ira di quella nonnetta. Che dire, un deux ex machina veramente ben riuscito! Poi gli ritornò in mente tutto: quel giorno Gerard gli aveva promesso che alla fine del turno l’avrebbe passato a prendere in negozio per andare a mangiare un boccone insieme. E ora eccolo lì, a difenderlo come ai vecchi tempi, quando i bulletti della scuola lo prendevano in giro per via degli occhiali.

«Sono sicuro che c’è una spiegazione a questo equivoco e credo che il signore qui presente possa dare una spiegazione?» continuò Gerard in tono pacato e lasciando senza parole la nonnina.

A quel punto Mikey poté abbandonare del tutto il suo nascondiglio: non aveva più nulla da temere ormai.

 

«Sempre a cacciarti nei guai te, eh?».

Cinque minuti dopo si trovavano in macchina (guidava Gerard) e discutevano dell’accaduto, girando a caso per il quartiere ancora incerti sul luogo dove mangiare. Intanto Mikey continuava a dare riposta ai numerosi perché e per come di Gerard sulla quella faccenda e come ci fosse finito “in mezzo”, cioè tra la vecchietta e il suo resto. Era felice di rivedere suo fratello, dato che l’ultima volta che si erano incontrati era stata a casa sua e in mezzo a tutto il casino che facevano i suoi figli non erano riusciti a parlare granché. Ora, invece, erano finalmente soli e potevano discutere tranquillamente di tutto. Anche se a giudicare dal volto del fratello, più pallido e trasandato del solito, quella non doveva essere stata una settimana particolarmente rilassante per lui. Come le altre del resto.

«Io quello che si mette nei guai? Ma se te con i guai ci vai a braccetto tutti i giorni…».

Il volto di Gerard, nell’udire quelle parole, si fece più cupo e Mikey si rimangiò subito quello che aveva detto. Sapeva benissimo quanto il fratello amasse la sua famiglia e, nonostante questo, non poteva negare quanti problemi gli causasse, quanto a volte lo rendesse infelice e preoccupato, quanto gli fosse costato abbandonare i suoi sogni per loro. Però, loro gli volevano bene, sua moglie e i suoi figli, e lui voleva bene a loro… e questo avrebbe dovuto bastargli. Ma a volte Mikey, come forse anche Gerard, pensava che suo fratello sarebbe stato meglio se non avesse avuto quel fardello sulle spalle. E questa era una contraddizione di cui entrambi preferivano evitare di parlare.

Per qualche secondo, mentre erano fermi a un semaforo, rimasero in silenzio e Mikey si diede del deficiente per aver parlato troppo, frenando il desiderio irresistibile di mordersi la lingua fin a farla sanguinare come punizione. Solo quando scattò il verde ritrovò il coraggio di parlare.

«Vabbè… tu? Novità? Al lavoro tutto ok?».

Gerard fece un sorriso tirato e da quella sua espressione Mikey seppe di aver toccato un altro tasto dolente. Merda.

«Se non contiamo il ritardo di quasi mezz’ora per i soliti vari motivi e la conseguente incazzatura del capo e i soliti commenti del cavolo di Nate… Oh, sì, una favola!».

Mikey sospirò, sentendosi quasi più in pena del fratello. Erano ormai quasi cinque anni che Gerard lavorava in quello studio di fumetti, ma in tutto quel tempo non aveva fatto alcun progresso nella carriera, ultima aspirazione che gli rimaneva. Innanzitutto il capo, forse anche perché Gerard non si poteva definire a prima vista un tipo “professionale”, non aveva mai cercato di instaurare un buon rapporto con lui, poi quello stronzo di Nate, tipico figlio di papà, single, disposto a lavorare anche dodici ore per farsi un nome non mancava mai un’occasione per sottolineare la scarsa competenza di Gerard. Ma Mikey sapeva che Nate si sbagliava: aveva sempre creduto nelle capacità del fratello e non aveva dubbi sulla sua bravura solo che… be’, una volta per un motivo una volta per un altro, la sua decennale sfortuna non gli permetteva di rivelarla al mondo. E così…

«Norah e i bambini stanno bene?» chiese Mikey sperando di approdare su una spiaggia sicura.

«Sì, bene» rispose Gerard e finalmente un piccolo sorriso gli rischiarò il viso. «Adam ha preso il suo primo 8 a scuola».

A quel punto anche Mikey non poté fare a meno di sorridere. Almeno una cosa ce l’avevano, per sorridere.

«Volta qui, a destra» disse subito dopo notando l’insegna luminosa di un fast-food di cui gli avevano parlato bene.

Gerard ubbidì subito, svoltando nel parcheggio quasi del tutto pieno a quell’ora, mentre Mikey pensava che finalmente avrebbero potuto sedersi tranquillamente in un posto caldo, a parlare come i vecchi tempi, quando, ancora adolescenti, sognavano di avere in pugno il mondo.

«C’è un parcheggio liberò laggiù».

«Sìsì, lo so, l’ho visto…».

Forse Gerard aveva visto il posto libero, ma probabilmente non aveva visto qualcos’altro, qualcosa che non era di certo piccolo. E diciamo che quel qualcosa lo centrò in pieno, per poi sterzare bruscamente con un’imprecazione, seguita da un tonfo sordo e l’urletto di Mikey che per poco non veniva catapultato contro il parabrezza.

«Oh, cazzo!» esclamò ancora Gerard osservando la cosa, o meglio il chi, aveva quasi tirato sotto.

«Porca troia, Gerard, ma… ma che hai fatto?!?» esclamò invece Mikey con gli occhiali di traverso sul naso per l’urto.

«Non è colpa mia! Era in mezzo alla strada e… non l’ho visto…».

Ma Mikey era già corso fuori dall’auto in aiuto del poveretto, ma appena mise piede sull’asfalto non poté trattenere una risatina. Il tipo in questione, che probabilmente lavorava in quel fast-food, era vestito da hamburger e sparsi attorno a lui c’erano un sacco di volantini che pubblicizzavano il locale in questione. Inoltre Mikey non poté non notare le braccia completamente tatuate che spuntavano da quel ridicolo costume, il piercing al labbro e la bassa statura. Un tipo strano non c’è dubbio. In meno di un nanosecondo fu raggiunto da Gerard che rimase altrettanto sorpreso.

Mikey si chinò e, dopo aver dato uno scossone al malcapitato e avendo costatato che era privo di sensi, disse: «Cazzo, Gerard, hai investito un hamburger!».

Ok questa volta capitolo lungo per ricompensare i cari lettori della lunga attesa (causa: scuola e sfinimento psicologico). Be', non so giudicate un po' voi, a me non sembra un granchè. Vabbè questa volta non mi va di indugiare molto in questo spazio, anche perchè le mie povere dita, mani e braccia non ne possono più di battere su questa tastiera dimmerda. Ultima cosa: indico un sondaggio. Domandone da 1 milione di euro: chi sarà mai l'uomo-hamburger? Lo scoprirete nella prossima puntata! (ma daiiiii che lo sapete!).

Infine ringrazio tutti gli arditi che hanno avuto il coraggio di recensire questa ff: spero che mi rimaniate fedeli. In particolare: princes_of_the_univers, Dominil, friem, OOgloOO, ElfoMikey.

See you soon, guys!

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Capitolo 3
*** All'ospedale ***


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3.          All’ospedale

 

 

«Ehi, amico, ci sei? Mi senti?».

Mikey era inginocchiato a terra di fianco all’uomo-hamburger e cercava di fargli riprendere conoscenza con qualche schiaffo e scossone. Che naturalmente non avevano avuto l’effetto sperato. Intanto una piccola folla si era riunita sul luogo del misfatto e un uomo grassoccio con i baffi a manubrio, probabilmente il proprietario del fast-food, insieme ad un altro paio di persone, continuavano ad insultare pesantemente Gerard, dandogli del “pirata della strada alcolizzato e drogato” e minacciando di denunciarlo. Cercando di non prestare ascolto a tutta la confusione che lo circondava, il maggiore dei Way si disse che, visto che il tizio non dava segni di vita, forse era meglio chiamare un’ambulanza. Sì, molto meglio. “Merda, l’ho ucciso, l’ho ucciso!” continuava a ripetersi mentre componeva il numero del pronto soccorso e non potendo fare a meno di notare un’evidente ammaccatura sul cofano della sua auto. Doppiamente merda… senza contare che l’hamburger avrebbe potuto benissimo chiedere i danni. Non poté fare a meno di passarsi una mano tra i capelli arruffati, mentre la voce squillante dell’infermiera di turno gli riempiva le orecchie…

 

Un’ora dopo si trovavano ancora in ospedale. In attesa che qualcuno si presentasse chiedendo del signor hamburger.

Mikey aveva appena telefonato ad Alicia per spiegarle l’accaduto e dirle che avrebbe fatto tardi, e Gerard in ufficio per avvisare che quel pomeriggio non si sarebbe presentato. Naturalmente il capo, che non aveva ancora digerito il ritardo di quella mattina, era saltato su tutte le furie, ma Gerard era riuscito ad arginare un po’ la sua ira spiegando che anche lui si era fatto male nell’incidente e probabilmente aveva un braccio rotto. Non sapeva che cosa avrebbero pensato i suoi colleghi il giorno dopo vedendolo arrivare senza fasciature di tal sorta e del tutto incolume, ma quello al momento era un problema del tutto marginale. Anche perché era quasi sicuro di aver sentito una delle risatine di nate in sottofondo alla sua telefonata…

E adesso erano lì seduti, lui e Mikey, ad aspettare ed aspettare ancora che quel figlio di… ehm, che il ragazzo si svegliasse o si presentasse qualche suo parente. Gerard dopo mezz’ora iniziò ad odiare con tutta l’anima quel corridoio bianco, immacolato, sterilizzato e che puzzava di disinfettante. Avete presente quei corridoio d’ospedale dei film dove tutti piangono, si disperano e si trasformano in vampiri con due dita di occhiaie in attesa che qualcuno con il camice bianco spunti dalla porta in fondo e, con espressione provata, dica “mi dispiace, ma non ce l’ha fatta” e giù altre lacrime? Ecco, un corridoio come quello. Solo che né Gerard, appoggiato al muro con i nervi a fior di pelle, né Mikey, seduto con in mano il suo terzo caffè, si stavano disperando o piangevano strappandosi i capelli. Erano SOLAMENTE incazzati neri. E Mikey che sperava in un pranzo tranquillo con il fratello…

«E se è morto davvero? O se è andato in coma?» disse quest’ultimo ad un certo punto sorseggiando il caffè.

Gerard gli lanciò un’occhiata fulminante: non voleva neanche pensare a quella possibilità. Se il cretino non si risvegliava entro poco l’avrebbe riportato in vita con le dure. No, aspetta: forse era lui il deficiente che non sapeva guidare. Sì, era tutta colpa sua! Maledetto, maledetto, Gerard, che non ne fai mai una giusta!

Poi, ad un certo punto dal fondo del corridoio comparve qualcuno, che di certo non era né un medico né un’infermiera. Con stupore Gerard e Mikey si accorsero che era una donna e che si stava dirigendo verso di loro e, con altrettanto stupore e anche un certo imbarazzo, notarono il suo abbigliamento succinto. Era alta e bionda (sicuramente tinta), con una minigonna leopardata di cì o no venti centimetri, tacchi vertiginosi su cui camminava con un’andatura ondeggiante, una maglietta aderente con una scollatura che lasciava ben poco all’immaginazione e, infine, un rossetto così rosso che si poteva vedere da un chilometro di distanza. Insomma, quella ragazza a prima vista sembrava proprio la classica donna da marciap…. Ehm, ehm, meglio lasciar perdere. Fatto sta che appena fu vicina a loro, sia Mikey che Gerard diventarono paonazzi e cercarono di allontanare le loro menti dalla realtà pensando al voto di fedeltà fatto rispettivamente a fidanzata e moglie. Non fecero nemmeno in tempo a domandarsi chi fosse o che cosa ci facesse lì, che un medico dall’aria incartapecorita sbucò dalla stanza a fianco, dove avevano portato l’uomo hamburger.

«Chi di voi è parente del paziente?» domandò.

«Io» intervenne la donna ruminando come un cammello con la gomma in bocca. «Katy Russel, sono la sua fidanzata…».

Hai capito il piccoletto…, pensò istintivamente Gerard.

«Ah, molto bene, signorina Russel. Se vuole entrare… si è appena svegliato».

«Oh, grazie al cielo!» esclamò la “graziosa” signorina, scuotendo la chioma bionda ed esprimendo a pieno il pensiero di Mikey e, soprattutto, Gerard, che si accasciarono sollevati su due sedie lì vicino.

Se non fossero stati in un luogo pubblico e così silenzioso, Gerard si sarebbe messo ad urlare di gioia e a ballare la tarantella davanti al suo primo colpo di fortuna della giornata. Così nessuno avrebbe potuto fargli causa… Ah, che sollievo! Per un nanosecondo aveva quasi avuto la sensazione di rinascere, di ascendere ad una dimensione ancestrale di pace e serenità, quando… Come un pugno nello stomaco un gridolino acuto lo riportò alla realtà.

«GERARD! Ma si può sapere che diavolo hai combinato?!?».

Ma porc…!

Non fece neanche in tempo a finire quell’esclamazione che una donna minuta dai boccoli color cioccolato gli saltò addosso quasi prendendolo al collo e continuando ad urlare…

«Ma sei matto?!? Avresti almeno potuto avvisarmi! Almeno per sapere che stavi bene… Gerard, sei sempre il solito irresponsabile! Accidenti, mi è quasi venuto un infarto quando me l’ha detto Alicia! Potevo rimanere vedova… Potevi lasciare orfani i tuoi figli!».

C’era da aspettarselo, come al solito…

«Norah, tesoro, calmati è tutto a posto. Sto benissimo, non mi sono fatto neanche un graffio! Guarda, sono…» cercò di replicare prendendo le mani della moglie e stringendola a sé.

Ma lei lo respinse, facendo quasi andare a sbattere contro il muro.

«Sì, vedo benissimo! Sei il solito cretino, Gerard! Ma ti rendi conto che potevi, anzi potevate, farvi veramente molto MOLTO male?!? Ma dico, dove hai la testa?! Neanche una telefonata, niente! Potevi essere morto e io non lo sapevo!» continuò Norah e le sue parole taglienti rimbombarono nel corridoio.

Intanto, Gerard si appellava ad ogni santo che gli veniva in mente, chiedendo aiuto contro la sfuriata della moglie e facendo le corna dopo tutti gli accidenti che gli aveva tirato quella. Non aveva previsto tutto ciò…

«Ma mi stai ascoltando?!? Sei il solito adolescente con la testa tra le nuvole! E quel poveretto? Oh mio Dio… Spero che non si sia fatto nulla di grave, altrimenti sei davvero nei guai signor Way! Giuro che se un innocente… io… io… e tutto per la tua… la tua NONCURANZA!».

Gerard si nascose il volto tra le mani, mentre Norah continuava a rincarare la dose: aveva voglia di sprofondare nel pavimento. Aveva ragione: era un disastro, un totale disastro su tutta la linea. Un disastro come dipendente, un disastro come marito, un disastro come padre… un disastro come essere umano. Come mai era ancora lì? Perché la selezione naturale non aveva contribuito ad epurare il mondo dagli essere irresponsabili ed inetti come lui? Aveva sempre saputo di non essere niente e nessuno di eccezionale, ma si era sempre illuso di essere almeno una persona normale. Invece era un completo fallimento. E basta. Non aveva saputo combinare niente di buono o che valesse la pena di essere ricordato in tutta la sua vita e, in più, quel poco di bello che era riuscito a guadagnarsi, come al sua famiglia, bè, non se lo meritava. E sentire Norah che continuava a rimproverarlo, a sottolineare quanto fosse incapace… era un colpo  ancora più duro per lui. Si sentiva le gambe tremare per la vergogna e sul capo gravare la scritta a caratteri cubitali: PERDENTE. Sentiva di fianco a sé la presenza di Mikey, che forse avrebbe voluto intervenire, mettere una buona parola a favore del fratello. Ma, probabilmente, anche lui si sentiva impotente di fronte a tutto ciò. Poteva percepire la delusione che proveniva da Norah quasi come un’esalazione infernale.

«Hai rovinato tutto, Gerard…».

Quelle ultime parole lo colpirono in particolare al cuore, come una scheggia di ghiaccio avvelenato che lo trapassasse da parte a parte. Suonava come una condanna, come un terribile ed irreversibile verdetto, come il suono del giudizio universale. Alzò lo sguardo su Norah e vide gli occhi della moglie diventare lucidi, non tanto per tutto il casino che aveva combinato in quel momento, per il fatto che avrebbe potuto rimanere ferito nell’incidente, per la sua imprudenza… Ma quelle lacrime erano la conseguenza di tutto ciò, di quella giornata che era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ora non era tanto importante la macchina sbocciata, il tizio in ospedale, il disappunto del capo, la sua dimenticanza di avvertire la moglie dell’accaduto… Ma contava il significato di tutto ciò: cioè che Norah, che aveva sempre creduto in Gerard nonostante tutte le sue sfortune, si stava ricredendo sul suo conto, iniziando forse a vedere quello che era veramente: un fallito. Un nessuno. Un niente. Gerard avrebbe voluto replicare, avrebbe voluto difendere la sua causa, dire che non era vero, che anche lui valeva qualcosa, che doveva solo dimostrarlo. Ma gli mancavano le parole. Forse perché anche lui non riusciva a convincersi di ciò.

Non chiamato, il medico fece capolino dalla porta e, senza il minimo tatto, disse: «Se volete potete entrare anche voi…».

Per un attimo tutti si guardarono l’un l’altro, indecisi. Poi Mikey si avvicinò alla porta, in attesa di Gerard per entrare. Norah si sedette su una sedia lì vicino, non senza aver prima lanciato uno sguardo eloquente a Gerard: era giunto il momento di portare le sue scuse a quel poveretto, anche  prostrandosi a terra se fosse stato necessario. Così, non vedendo altra via d’uscita, Mr Way si fece coraggio e varcò la soglia della stanza seguito a ruota dal fratello.

Katy Russel, l’appariscente fidanzata del malcapitato, era seduto in un angolo e, continuando a masticare la sua gomma, sfogliava distrattamente una rivista di moda spuntata da chissà dove, come se nulla fosse. Invece il signor hamburger era seduto sul letto, con un aria a metà tra l’irritata per ritrovarsi in ospedale e sorpresa, e, come pensarono i due fratelli Way appena lo videro, senza quel costume ridicolo addosso sembrava un’altra persona. Se non fosse stato immobile in un letto, con una gamba ingessata, le guance arrossate e se non sbuffasse in continuazione mordendosi il labbro inferiore, bè, diciamo che in una situazione completamente diversa sarebbe risultato quasi simpatico.

Appena vide Gerard, lo sguardo del nanetto si posò attento su di lui, seguendo ogni suo movimento. Evidentemente fin dal primo momento in cui si era svegliato aveva atteso quel momento, il momento di quando quel pazzoide che l’aveva investito veniva a porgergli le sue scuse… magari in ginocchio. Ma Gerard non aveva la minima intenzione di inginocchiarsi, così si limitò ad avvicinarsi al letto, porgendo la mano al tipo.

«Piacere… ehm… sono Gerard Way… questo è mio fratello Mikey… ehm… io sarei…».

«Lo stronzo che mi ha appena investito».

«Ehm… sì. Mi… mi dispiace tanto… Davvero… Io non avevo intenzione di…».

«Sìsì, ho capito» fece quello sbrigativo per poi stringergli la mano, ma suonando tutt’altro che cordiale. «Veramente piacere, Frank Iero».

A quel punto Gerard non seppe più che cosa dire, ma guardando dritto negli occhi nocciola di quel nanetto malefico che si faceva chiamare Frank Iero, aka il signor hamburger, ebbe la netta sensazione che quella faccenda non sarebbe finita lì.

Ebbene, eccomi di nuovo qui. Leggendo le recensioni, devo ammettere che devo un milioni di euro a parecchie persone, tutte quelle che hanno indovinato l'identità del misterioso uomo-hamburger aka Frankieeeeeee. Eh sì, poveretto, bel lavoro che si ritrova no? Vabbè approfondiremo meglio la sua vita nel prossimo capitolo, dove vedrò di continuare anche la faccenda di Norah e Gerard. Sperando di non avervi annoiato troppo, passiamo ai ringraziamenti:

OOgloOO: proprio povero povero Frank... ma non più povero di Gerard! Per Ray e Bob dovrai aspettare il prossimo capitolo... adesso vedo se riesco a metterli tutt'e due... comunque Bob dovrebbe esserci quasi sicuramente (diciamo che non ho ancora una trama precisa)

princes_of_the_univers: mi dispiace ma non posso dirti cosa succederà Xd sennò mi brucio il fattore sorpresa. Comunque si accettano scommesse e suggerimenti di ogni tipo sulla trama...

friem: cazzo, hai ragione! quando l'ho scritto non mi ricordavo che Frank è vegetariano XD bè, meglio per il mio piano diabolico... Sì, sono molto cattiva con loro eh?

rou: grazie mille davvero! Mi fa piacere che qualcuno apprezza la robaccia che scrivo XD  e sì, anch'io quando ho pensato a che lavoro far fare a Frank mi è venuto subito il mente l'uomo-hamburger (che sia qualche reminescenza del video di "I just wanna live" dei Good Charlotte? mah). Probabilmente perchè è l'unica persona al mondo che non riuscirei ad immaginare dietro ad un scrivania...

Dominil: aggiornare presto? eh tesoro per quel che mi permette la scuola dimmerda... ce la metterò tutta comunque... a presto!

Che dire? Continuate a seguirmi in molti, mi raccomando!!!!!

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Capitolo 4
*** Convergenza ***


1.          Convergenza

 

Il tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in una maniera diseguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa… Ok. STOOOOP! Qui c’è un errore: non siamo nel solito romanzo romantico, così sdolcinato da far venire il diabete, dove la solita ragazzina sfortunata (Gerard? Mmm) piange e sospira sulla foto del più figo della scuola che (è un classico9 non la caga (per poi scoprire che è un essere non umano, dotato di straordinari poteri, in grqado di uccidere con niente, che ha come missione… ma questa è un’altra storia). Vabbè, facciamo prima a dire che da quel fatidico lunedì nero passarono tre settimane e l’autunno era ormai alle porte. Foglie giallastre che danzavano nel vento, alberi spogli che sembravano vecchi decrepiti, un cielo plumbeo che pesava sulle teste della gente che passava per strada, pozzanghere sempre più frequenti e profonde  in cui si rifletteva un sole pallido e dall’aspetto malaticcio: così si presentava New York in quei giorni di fine ottobre.

Ma il tempo atmosferico non importava granché al signor Gerard Way, la cui vita continuava a scorrere “regolare” e “tranquilla”, anche se con i soliti inciampi di percorso. Era sabato pomeriggio, la fine di una lunga settimana di lavoro, in cui il capo non gli aveva lasciato un attimo di respiro. E ora Gerard, cercando di accantonare in un angolo della sua mente la stanchezza, guardava fuori dalla finestra di casa sua, indeciso se prendere con sé o meno l’ombrello per uscire. Alla fine giunse a una conclusione: meglio non correre rischi.

«Ciao, tesoro, allora ci vediamo stasera, ok?».

Norah gli passò vicino con noncuranza, soffermandosi un attimo davanti allo specchio dell’ingresso per sistemarsi il rossetto. Già, infatti quel pomeriggio sua moglie sarebbe andata a fare shopping con Alicia (la carta di credito di Gerard rabbrividì al solo pensiero), lasciando così i bambini a lui. Che in quel momento era la persona più rilassata al mondo… come al solito. Non poteva nemmeno affidare Adam e Rachel a Mikey, perché quel giorno il fratello si trovava nel Jersey, a casa di mamma, per aiutarla  a “dare giusto una sistematica al giardino”, come diceva lei. Quindi si vedeva costretto a portare i cuoi figli con sé. Per andare dove, vi chiederete. Be’, come previsto, la storia con Frank Iero, l’uomo hamburger, non era certo finita. Infatti il nanetto malefico gli aveva promesso, una volta uscito dall’ospedale, che non l’avrebbe citato per danni… ma a un prezzo: avrebbe dovuto aiutarlo in alcuni lavoretti, sia a casa che al noto fat-food in cui lavorava, essendo ovviamente impedito in alcuni gesti dalla gamba ingessata. Tutto questo per un due mesi circa. E naturalmente il tipo aveva ben sottolineato le parole “anche sul posto di lavoro”, probabilmente perché pregustava un certo piacere nel vedere Gerard affaticarsi al suo posto; ovviamente non aveva pensato di prendersi neanche un giorno di malattia: aveva “tanto bisogno di lavorare” lui! Gerard non lo conosceva ancora bene, ma già da quella richiesta aveva capito che quella volta aveva a che fare con qualcuno di tosto e veramente crudele e vendicativo. Maledetto folletto fastidioso! Quale modo migliore poteva esserci per fargliela pagare di averlo accidentalmente investito?

«Dai, ragazzi, è ora di andare!» chiamò dirigendosi in salotto.

Intanto dall’ingresso provenne lo sbattere della porta, segno che Norah aveva appena dato ufficialmente inizio al suo shopping sfrenato (e magari consolatorio). Senza neanche un bacio o un ciao. Mah. Vabbè, meglio non pensarci troppo, dopotutto c’era da aspettarselo. Anche se non ne avevano più parlato, Gerard era più che sicuro che la moglie non avesse ancora cambiato idea da quel fatidico giorno: continuava a considerarlo un buono a nulla. E Gerard non poteva farci niente…

«Adam, prendi la sciarpa mi raccomando! Fuori fa freddo!» strillò dall’altra stanza mentre allacciava le scarpe a Rachel.

«Papà, ma dobbiamo proprio andarci?» sbuffò suo figlio entrando in salotto trascinandosi dietro la sciarpa che strisciava sul pavimento.

Adam era un bambino dall’aria sveglia, capelli neri ribelli e occhi verdi come quelli di un gatto come Norah. Sul suo viso angelico, su cui di solito risplendeva sempre un sorrisino beffardo, pronto a combinare qualche altro disastro, regnava ora un’espressione scocciata.

«Sì» rispose Gerard, ora sistemando la giacchetta di Rachel che si lasciava manipolare come una bambolina. «Papà deve sbrigare un paio di cose».

«Uffa, ma io… anzi noi… ci annoiamo! Non possiamo andare da zio Mikey? Aveva detto che mi faceva vendere un'altra magia! Uffiiiiii!».

«Sì, papà» rincarò Rachel. «Io ho scionno e fuori fa feddo. Vojo rimanere a casa e giocale con Sally e Adam al dottole!!!!».

Sally era la bambola di pezza preferita di Rachel e anche lei a giudicare dall’increspatura delle sue labbra sotto le guance piene e rosse che mele, contornate da boccoli di un caldo color cioccolato che la facevano assomigliare tanto ad una di quelle bamboline di porcellana, sembrava non gradisse quell’uscita.

«No, Rachel, non oggi. Papà deve fare una cosa molto molto importante e voi due dovete aiutarlo, ok? Un po’ come Babbo Natale con i suoi aiutanti, intesi?».

Il paragone sembrò per un attimo aver convinto Rachel, i cui occhi naturalmente iniziavano a brillare ogni volta che si nominava il buon vecchio barbuto. Aveva iniziato ad esprimere il suo entusiasmo con brevi strilletti e saltelli: se fosse stato un cane si sarebbe messa a scodinzolare. Ma il suo entusiasmo fu subito interrotto da Adam.

«Ma tu fai sempre cose noiose! Uffa! No, io non ci vengo!».

Ecco: il germoglio. Possibile che a soli sei anni suo figlio si accorgesse già quanto fosse sfigato suo padre??? Di sicuro era tutto merito di Norah e delle sue solite frasi lasciate a metà durante la cena: Dio, certe volte credeva che qualcuno per sbagli avesse esportato una parte del cervello di sua moglie e l’avesse trapiantato nel cranio di Adam quanto si somigliavano! Cazzo, chissà come sarebbe stato a sedici anni… Ma per fortuna Rachel, ancora innocente al 100%, continuava a sostenerlo… anche se forse mancava poco perché anche lei si accorgesse del vero…

«Poche storie e cammina!» s’impuntò Gerard con tono autoritario, prendendo la sciarpa rossa di Adam, annodandogliela ben bene al colo e spingendolo verso la porta mentre teneva sua figlia per mano.

«Su, cammina, non abbiamo tempo da perdere».

«Uffiiiii però…».

«Che bello… Papà, c’è anche Babbo Natale?».

«No, non credo, tesoro. Dovrai aspettare ancora un po’».

È sottointeso dire che quello del padre è il mestiere più difficile al mondo.

 

Ed ecco il colpevole che ritorna sulla scena del delitto: un classico. Peccato che quella stessa scena si sarebbe dovuta ripetere per altri due mesi almeno… Appena sceso dalla macchina, Gerard schizzò dentro il locale tenendo per mano i suoi due figli alla massima velocità che gli permettevano le sue gambe: meno tempo passava in quel maledetto parcheggio meglio era: la vergogna per quella sua famosa distrazione era ancora fresca.

A quell’ora (ero quasi le tre del pomeriggio) il piccolo fast-food era quasi deserto, se non si contava una coppia di fidanzatini adolescenti e un signore di mezza età tutto intento a leggere la pagina sportiva del Time. Al povero Way bastò una breve occhiata d’intorno a quel posto (doveva lui e suo fratello avrebbero dovuto passare una pausa pranzo relativamente rilassante) per trovare chi cercava. Frank Iero era seduto dietro il bancone, con la testa appoggiata sui gomiti mentre sfogliava una rivista; un paio di stampelle facevano capolino di fianco a lui. Non pareva nemmeno che lavorasse lì tanto la sua aria era satura di noncuranza, a differenza delle due ragazze che poco più in là si affaccendavano a pulire a destra e a manca chiacchierando non senza qualche risatina.

«Papà, adesso possiamo andare a giocare almeno?» domandò Adam dando un forte strattone. Testardo.

Gerard non lo degnò neanche della minima attenzione, ma si avvicinò al bancone trascinandosi dietro i due bambini come due bambole di pezza. Solo allora Frank, cogliendo il rumore dei loro passi, alzò lo sguardo dalla sua lettura e subito sul suo visetto furbo comparì un’espressione sorpresa accompagnata da un sorriso divertito. Indubbiamente Gerard in versione papà doveva risultare alquanto insolito e buffo. E, in effetti, anche li si vergognava un po’…

«Guarda chi si vede…» rise il nanerottolo e dopo un’occhiata all’orologio a muro: «Giusto in orario. Spacchi proprio il secondo, Gerard!».

Gerard avrebbe decisamente preferito rimanere più formale, in fondo essere chiamato signor Way era la sua ultima fonte da cui attingere un modesto rispetto e considerazione. Ma in quel momento, si disse, era meglio non chiedere troppo.

«E questi due nanetti chi sono?» domandò Frank e il suo sorrise si fece se possibile ancora più largo.

«I miei figli… Spero non sia un fastidio per te se stanno…» rispose Gerard con un flebile sussurro che fu subito coperto dal tono impertinente di Adam.

«Nanetto sarai tu!».

Fank scoppiò in una breve risata: non era ben chiaro se era innocente divertimento o crudele sarcasmo. Senza ribattere si allungò oltre il bancone per scompigliare i capelli del bambino che emise un suono irritato simile a un ringhio. Gerard era sicuro che, se al posto di suo figlio avesse avuto un pitbull, Frank avrebbe dovuto dire addio alla sua mano già da un pezzo: infatti il modo migliore per fare arrabbiare Adam non era togliergli i giocattoli i spegnergli la tv… ma ricordargli che lui era solo un bambino di 6 anni. In questo aveva preso tutto da Norah…

«Potremmo iniziare?» sbottò Gerard con un sospiro. Prima finiva meglio era.

«Oh, oh, il signor Way è ansioso di mettersi al lavoro al posto mio? Ma che generoso…» rise l’altro.

Ma la sua espressione gaia non arrivò alla faccia scocciata di Gerard, anzi non riscaldò nemmeno un po’ l’aria attorno a Mr Way, perennemente ombreggiata dalla nuvoletta di Fantozzi.

«Ok, come preferisci».

A quel punto Gerard lasciò liberi Adam e Rachel di andare a giocare a quello che pareva loro, non senza aver prima riservato loro un’occhiata ammonitrice; ne avevano già parlato in macchina: avrebbero potuto scorrazzare e giocare per il locale a patto che non facessero troppa confusione e soprattutto che non rompessero niente. In caso contrario entrambi conoscevano bene il genere si reazione che avrebbe avuto il padre.

Per il resto, era ora di rimboccarsi le maniche… ed esaudire ogni richiesta dell’uomo-hamburger.

 

Due ore dopo.

Cazzo, non si era mai sentito più cretino in vita sua. Aveva proprio toccato il fondo una volta per tutte. Si sentiva umiliato, ma così tanto che neanche ai tempi della scuola quando tutti lo prendevano in giro per via del suo stile un po’ stravagante. Aveva lavorato incessantemente per due ora come uno di quegli operai cinesi stra-sfurttati. Non si sentiva più la schiena e le gambe e aveva la netta sensazione che Frank avesse approfittato della sua condizione per fargli sbrigare un sacco di lavori extra. Ma Gerard non aveva fiatato, non un’imprecazione, non una lamentela era trapelata dalle sue labbra, troppo concentrato sul suo lavoro per pensare ad altro. Non avrebbe più dato nessuna occasione a nessuno di dirgli quanto fosse poco professionale, poco affidabile… o inutile.

Aveva lavato e spazzato il pavimento di tutto il locale, che non era certo piccolo, aveva aiutato le due ragazze (che aveva scoperto chiamarsi Lizzie e Sarah) a mettere in ordine in cucina, aveva servito qualche cliente ed era andato fuori a distribuire volantini ai passanti (per fortuna il nanetto gli aveva risparmiato la tortura di indossare quel ridicolo costume da hamburger).

E ora, dopo aver controllato che Adam e Rachel, che si era comportati meglio del previsto, fossero ancora nel loro angolo a giocare con le carte che aveva dato loro Frank, si lasciò scivolare con noncuranza sulla prima sedia a disposizione. Non invidiava affatto il lavoro dell’altro: gli ci sarebbe voluta una settimana di riposo per ricomporsi.

«Stanco?».

Una voce familiare lo colse alle spalle facendolo sobbalzare: Frank. Si stava dirigendo verso di lui saltellando sulle stampelle e facendo ondeggiare avanti e indietro la gamba ingessata ad ogni passo. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che starsene comodamente seduto dietro il bancone con il suo giornaletto e la sua tazza di caffè fumante, guidando Gerard nelle sue faccende con pochi gesti decisi. Ed ora eccolo tornare all’attacco: uffa.

«Che devo fare ancora?» gli chiese senza muovere un muscolo. Ogni minimo movimento sembrava produrre un piccolo strappo in ogni angolo del suo corpo.

«Niente. Per oggi abbiamo finito, credo».

Grazie a Dio!

«Ehm, posso offrirti un caffè?». Lo disse con un tono che suonava imbarazzato e quasi arrossendo.

Gerard dovette contare fino a dieci prima di essere sicuro di aver sentito bene. Come? Un caffè?

«Eddai, non voglio mica avvelenarti!». E si sedette davanti a lui: li divideva un piccolo tavolino rotondo che una volta doveva essere stato bianco, mentre Gerard non poté fare altro che rimanere immobile dov’era. Dopo una frazione di secondo comparve Lizzie (o era Sarah?) con un vassoio con su due tazze di caffè, che subito i due si misero a sorseggiare in silenzio.

Passò non si sa quanto tempo prima che uno dei due spiccicasse parola.

«Hai una bella famiglia…» sussurrò Frank con lo sguardo perso dall’altra parte della stanza, dove stavano ancora giocando Adam e Rachel. «I tuoi figli sono deliziosi, davvero».

Gerard rizzò le orecchie e restò in campana: quelle smancerie erano tutta una messinscena per ottenere qualcos’altro? Eppure sembrava così sincero…

«Grazie» sussurrò Gerard con gli occhi fissi sul liquido nero nella sua tazza. Non sapeva perché, ma si sentiva a disagio a parlare con Frank. Era come se… Boh, non riusciva a capirlo neanche lui.

Altro silenzio.

«Sai, ti invidio…» sbottò poi l’altro all’improvviso. «Vorrei avere anch’io una vita come la tua…».

Per poco a Gerard non andò di traverso il caffè: cosa? Esisteva qualcuno in tutto il mondo che osava invidiare la sua sfigatissima, merdossissima insignificantissima vita? O mio Dio!

«Tranquillo, non sono così malato di mente da invidiare tutta la tua sfiga» precisò. «Ma… bè… anche a me piacerebbe avere una bella famiglia che mi accolga a braccia aperte tutte le sere quando torno a casa dal lavoro…».

A Gerard venne immediatamente in mente la vistosa fidanzata di Frank, Katy Russel o come diavolo si chiamava.

«Qualcuno che mi sostenga incondizionatamente… che creda sempre in me… che mi dimostri sempre il suo affetto… come… come a te».

Quelle ultime parole tracciarono una profonda ferita sul cuore di Gerard: anche lui aveva sempre creduto che, nonostante tutta la merda con cui aveva a che fare, ci fosse sempre qualcuno al suo fianco pronto a sostenerlo. Ci aveva creduto sempre fino a quando Norah non aveva espresso la sua delusione… e ora anche quell’ultima speranza era sfumata.

«Anche a me piacerebbe» mormorò.

«Come? Tu non…».

«Sembra che non ci sia più l’intesa di un tempo…».

«Ah, mi dispiace».

«Non fa niente, tranquillo».

Calò un altro lungo silenzio. Evidentemente Frank si era reso conto di aver toccato un altro dei tanti tasti dolenti nella vita di Gerard, lo capiva dalla sua espressione afflitta; la stessa di Mikey quando parlavano di cose serie.

Gerard posò la sua tazza sul tavolino e passò distrattamente un dito sul suo bordo liscio: forse era ora di andare. Fece per alzarsi ma Frank lo fermò con un repentino: «No, aspetta, non te ne andare subito».

E lui rimase. Non seppe perché ma rimase. All’improvviso aveva sentito di essere molto più vicino e simili a Frank di quanto avesse creduto fin dal principio. Quel ragazzo aveva scritte in faccia le sue stesse delusioni, le sue stesse aspettative infrante.

«Scusami se sono stato così invasivo. Non credevo che tu e tua moglie… Be’, passerà suppongo… Dopotutto è un periodaccio per molti questo».

«Cosa vuoi da me?» chiese Gerard schietto. Stava mandando all’aria ogni suo tentativo di apertura, sbarrava con pesanti massi la strada verso la probabile nascita di un’amicizia. Ma sentiva che quello non era né il luogo né il momento adatto per aprire la sua mente al mondo.

Frank lo fissò perplesso: di sicuro non si aspettava una domanda del genere.

«Niente… Volevo solo… Non importa».

Invece a Gerard importava. Finalmente aveva trovato qualcuno che sembrava provare i suoi stessi tormenti.

«Vai avanti, ti prego».

Frank sospirò, rigirandosi la tazza tra le mani per riscaldarsi.

«Niente. È solo che… guardo la tua famiglia… e vedo quello che ho sempre desiderato… o almeno una parte. Sai, quando ero piccolo credevo che le cose brutte esistessero solo nelle favole, che nella vita reale non si potesse soffrire, che niente potesse cambiare davvero: il dolore era solo qualcosa di fittizio che usavano gli adulti per fare un po’ di scena. Sembrava tutto bello e… cazzo, ci credevo davvero! E poi…».

«Sei rimasto fregato» sospirò Gerard.

«Già. Iniziò tutto quando i miei divorziarono… Fu terribile. E fu proprio in quell’occasione che capii che tutto quello in cui avevo sempre creduto non era che un teatrino ben allestito. Era ormai il periodo in cui dopo aver letto una storia di fantasmi potevo riemergere nella realtà e notare con sollievo che era tutto a posto, tutto felice. Avevo scoperto che il dolore era vero, che non era solo una favola che raccontavano per spaventare i bambini. Quella è stata la mia disillusione, diciamo. Avevo dei progetti: suonavo (e suono tutt’ora) la chitarra e come ogni ragazzino che si rispetti sognavo un grande futuro, pieno di luci e persone che tendevano le braccia a me con esclamazioni di ammirazione. Avevo creduto talmente fervidamente che tutto sarebbe andato così che… be’, era come se dovesse accadere davvero. Come qualcosa di programmato che non può cambiare, non so se mi spiego. E, be’, come la mia famosa disillusione anche quei piani, all’inizio indistruttibili, iniziarono a traballare. Le cose brutte che avevo ritrovato così spesso nelle favole sembravano essersi riversate nella mia vita: mi mancava un punto di riferimento, non sapevo nemmeno quale fosse davvero la vera realtà».

Le sue labbra contennero per un attimo quel fiume di parole per lasciare spazio ad una breve pausa accompagnata da un sospiro.

«E poi fui catapultato nella vita. Fino ad allora avevo vissuto come in un sogno. Però al quel punto mi trovavo ad affrontare ostacoli che mi parevano insormontabili e soprattutto con nessuno di preciso al mio fianco pronto ad indicarmi la soluzione. Non sapevo cosa voleva dire essere adulti, me per forza di cose fui costretto a diventarlo. Fui letteralmente gettato senza tante smancerie in questo postaccio che chiamano età adulta e mi ritrovai a cercare qualsiasi espediente pur di affrontarla. Non sapevo come si viveva: ero stato tenuto troppo a lungo sotto una campana di vetro che si era rotta senza che nessuno fosse lì pronto a raccogliermi tra i cocci e insegnarmi un nuovo tipo d’esistenza. Me la cavai certo, imparai tutto molto velocemente… troppo velocemente. Ma a un prezzo: tutto quello che avevo sognato… be’, al momento avevo altre priorità. E così tutto quel futuro fantastico che avevo sperato avevo dovuto gettarlo fuori dalla finestra. Mi trovai parecchi lavoretti precari, che ovviamente non mi davano la minima soddisfazione. Sono andato avanti traballando per molti anni sotto questo verso… e tutt’ora sono instabile, ancora bloccato in questo posto di merda…».

Fece un ampio gesto che abbracciò tutto l’ambiente circostante e nei suoi occhi Gerard poté veder riflessa la delusione di molti anni. Adam e Rachel stavano ancora giocando nel loro angolo di favola; chissà per quanto tempo ancora sarebbero potuti essere così.

«Be’… se mi andava (e mi va) male su questo fronte, sull’altro la situazione non era certo migliore. I miei genitori… la mia famiglia… appartenevano al passato, si erano infranti insieme alla bolla che mi aveva protetto fino ad allora. Avevo cercato di ricreare quel calore che ti fa sentire così… bene. Invano. Avevo cercato altrove: amici, possibili fidanzate. Non sono stato capace neanche di questo. Ok, voglio bene a Katy, lei è carina e tutto il resto ma… sento tanto freddo. Sono anni che sento freddo. Mi manca quella persona che sappia quello che penso, che sappia confortarmi, che sappia mostrarmi la bellezza in ogni cosa. Per questo invidio la tua famiglia: tu almeno hai loro. Può andarti tutto male, a quanto ho capito, ma hai loro… e anche se questo è un periodo un po’ così… be’, non importa: loro ci sono lo stesso. Io sono continuamente appeso a un filo. Cerco, cerco e cerca ma non trovo. Avevo dovuto imparare a vivere, a combattere per strappare con i denti e con le unghie quel poco che mi serviva al mondo, avevo dovuto abbandonare ciò che desideravo, che poteva dare un senso al tutto… e non sono riuscito a trovare o a ritrovare qualcuno che… be’, fosse la mia stampella…».

Sorrise ancora, ora giocherellando con la stampella che aveva tra le mani. Ma quello che sfoggiava in quel momento non era il sorriso di prima, quello ironico e divertito. Aveva una punta d’amarezza… E Gerard non poteva immaginare quanto il suo cuore con ogni suo battito stesse approvando quello che stava dicendo Frank.

«E non so… non riesco… non ho, sì, non ho nemmeno la voglia di provare a crearmi una vita migliore. Anzi, no… Non ho il tempo… Tutto è troppo frenetico. Arrivo a sera così stanco che non ho più la forza di pensare a cosa cambiare in tutta questa barzelletta di vita. Mi sento…».

«…soffocare».

La voce di Gerard, flebile ma allo stesso tempo forte in quell’atmosfera, risuonò nell’aria, con una sfumatura quasi profetica. Frank rimase allibito: era proprio quello che stava per dire. E l’altro proseguì il discorso per lui.

«Senti come se tutto il mondo fosse compresso in un singolo secondo… e tu fossi al centro di tutto quel caos. Non hai il tempo per pensare, per sognare, per fantasticare quello che avevi sempre sperato. Per capire ciò che ti sta attorno o anche solo osservarlo con più attenzione. Ammirare le cose, le persone… e magari accorgersi del piccolo ma inesorabile cambiamento che avviene in loro ogni giorno. Decifrare i loro pensieri. Capire i loro sentimenti e stati d’animo. Capire te stesso. Cosa vuoi veramente e cosa potresti fare per metterlo in atto. Accorgerti dove stai sbagliando e rimediare. Approfondire certe conoscenze per sentirti migliore. Ma non hai il tempo e concentri l’indispensabile in quei pochi minuti, cercando ogni giorno di guadagnare un secondo in più per dedicarti a quello a cui tieni di più. Sì, lo so bene. Anch’io mi sento così».

E per la prima volta da quando Gerard era approdato in quel piccolo locale quel pomeriggio, i suoi occhi incontrarono quelli di Frank e entrambi all’unisono sentirono che qualcosa li accomunava. Come si suol dire, erano sulla stessa barca. E da quel momento avrebbero dovuto navigare insieme.

Ok, capitolo luuuuuuuungo. Il che spiega anche il mio ritardo. No, bè, la ragione non è proprio quella: sapete com'è l'ispirazione andava e veniva insieme alla scarsa voglia di mettermi qui a fare qualcosa di produttivo, il tempo scarsissimo (un vero schifo davvero... il discorso di Gerard mi è sgorgato dritto dal cuore!) e poi... sì, devo ammettere che sono stata un po' impeganta anche con la mia droga preferita. Come forse qualcuno di voi saprà la settimana scorsa è uscito l'ultimo (ahimè T_T) libro della saga di Twilight *me sbava smodatamente*... e ovviamente la tentazione ha avuto il sopravvento (e ha contagiato anche questo cap di merda come avete potuto notare dall'incipit). Ok, lo ammetto sono una drogata persa di Twilight e affini (fischiate pure) e questa settimana è stato difficile mettere da parte il libro (Breaking Dawn... *altra bava*) per scrivere anche solo due righe. Quindi non vi garantisco la rapidità dei miei aggiornamenti. Bene, ho già blablato fin troppo (insieme ai miei personaggi). Ringrazio:

Dominil: Innanzitutto, sai come si dice: tra moglie e marito non mettere il dito! Per la fidanzata di Frank... ehm, sì è un tantino pu.... ma, bè, mi serviva.

princes_oh_the_univers: come già detto la "morosa" di Frank non può sparire... almeno per il momento. Mi dispiace. E adesso Gerard ha una valvola di sfogo contenta?

friem: grazie per l'entusiasmo! Risparmiami la violenza però eh? Devi capire che il carattere di Norah è un po'... complesso, ecco. E orgoglioso. Non la vedo affatto come una di quelle mogli arpie! E poi se tuo marito ti combinasse un casino dietro l'altro non ci rimarresti u po' male? Ok, ha dei modi bruschi e questo non è giusto... però. Ps: Mikey è troppo superiore x la tarantella

laramao: grazie 10000 anche a te! ma no che Gerard non si suicida! Lui è fatto di gomma: resiste a tutto

OOgloOO: sì, diciamo che Gerard è il Fantozzi della situazione!

rou: ma anch'io ti adorooooooo! Tutte queste belle recensioni mi danno una felicità che guarda :):):):):) grazie per apprezzare, davvero!

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