In every life

di GretaCrazyWriter
(/viewuser.php?uid=483518)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno studio in rosa: Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Uno studio in rosa: Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Uno studio in rosa: Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Uno studio in rosa: Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Uno studio in rosa: Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Uno studio in rosa: Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Uno studio in rosa: Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Uno studio in rosa: Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Il Grande Gioco: Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Uno studio in rosa: Capitolo 1 ***


PREMESSA: Questa storia non ripercorrerà TUTTE le puntate di Sherlock, ma solo alcune (tra le mie preferite).



Storia dedicata a
_F i r e_
 
Uno studio in rosa





Capitolo 1
Alec fissò la donna seduta davanti a lui. Non era per niente felice del fatto che lei, e quella stanza, gli fossero quasi familiari. Non era una bella sensazione.
«Come procede il suo blog?» chiese la dottoressa. 
«Molto bene» mentì lui.
La donna sospirò. «Non ha ancora scritto nulla, vero?»
Alec si appoggiò all’indietro sulla poltrona in pelle nera reclinabile, tamburellando con le dita sul bracciolo e osservandola mentre scriveva su un block notes.  «Lei ha appena scritto ‘Ha ancora problemi di fiducia’.»
«E lei ha letto ciò che ho scritto al contrario» disse, smettendo di scrivere. «Ha capito quello che voglio dire?» Lui fece un mezzo sorriso, ma non rispose. «Alec… Lei è un soldato. Le ci vorrà un po’ per adattarsi alla vita da civile. E scrivere tutto ciò che le è successo in un blog la aiuterà, davvero.»
Alec scosse leggermente la testa. «A me non succede mai nulla» disse.
 
 
***
 
 
 
«Le indagini preliminari suggeriscono che si tratti di suicidio.» Il sergente Donovan fissò Will, seduto al suo fianco, che, con le mani intrecciate sopra il tavolo, faceva correre lo sguardo tra le telecamere e i giornalisti affollati intorno a loro.
Non poteva biasimarli – tre suicidi identici in pochi mesi non era cosa da poco – ma lo irritava comunque il modo in cui lo tartassavano di domande. Se avesse saputo qualcosa, l’avrebbe detto. Non che tutta quell’attenzione gli dispiacesse, affatto, ma era a dir poco stressante, in quella situazione.
«Possiamo confermare» continuò Donovan «che questo apparente suicidio abbia molte similarità con quello di Jeffrey Patterson  e James Phillimore. Alla luce di tutto ciò crediamo che questi incidenti siano collegati tra loro. Le indagini sono ancora in corso.» La donna si voltò leggermente verso Will. «Ma l’ispettore Herondale risponderà alle vostre domande.»
Un uomo si fece avanti, rivolgendosi all’uomo seduto davanti a lui. «Ispettore, questi  suicidi, come fanno ad essere collegati?»
«Beh» iniziò l’interpellato «hanno preso tutti lo stesso veleno. Sono stati trovati tutti in posti in cui non avevano ragione di trovarsi. Nessuno di loro mostra segni di…»
«Ma non esistono i suicidi seriali» lo interruppe l’uomo.
Will lo fissò con i penetranti occhi blu. «A quanto pare, si sbaglia.»
«Non c’è nessuna connessione tra queste tre persone?» chiese un altro.
«Ancora non l’abbiamo trovata ma… la stiamo cercando, deve sicuramente esserci.»
Un istante dopo che l’ispettore ebbe pronunciate queste parole, tutti i cellulari nella sala squillarono, ognuno, senza eccezione, aveva lo stesso messaggio.
“SBAGLIATO.”
«Per favore» Donovan ripose il proprio telefono e alzò la voce, cercando di riportare la calma generale. «Ignorate quegli SMS!»
«Dice solo ‘Sbagliato’!» fece il primo della folla che aveva parlato.
«Appunto, ignorateli» sbottò la donna. «Se non ci sono altre domande per l’ispettore Herondale, dichiaro chiusa la conferenza stampa.»
«Se sono veramente suicidi» ribatté il secondo giornalista «su cosa sta indagando?»
Will sospirò, senza più cercare di nascondere l’irritazione. «Come ho già detto, questi suicidi sono chiaramente collegati tra loro. È una situazione insolita ed i nostri migliori uomini stanno indagando.»
Di nuovo, lo squillo di tutti i telefoni della sala lo interruppe. Ognuno aveva lo stesso messaggio di prima.
“SBAGLIATO.”
«Di nuovo. Dice ‘sbagliato’» sbuffò qualcuno tra la folla.
«Ultima domanda!» Una donna con gli occhiali si sporse per farsi vedere dal fondo della stanza. «E’ possibile che in realtà questi siano omicidi? E, se così fosse, abbiamo a che fare con un serial killer?»
«So che vi piace scrivere di queste cose ma questi sembrano proprio suicidi.» Ormai Will era oltre il limite di sopportazione. «Noi li sappiamo distinguere.» Fece di nuovo scorrere lo sguardo tra la folla. «Il veleno è stato chiaramente auto ingerito.»
«Sì, ma se si tratta di omicidi, la gente come potrebbe fare per essere al sicuro?» La donna non sembrava voler mollare la propria teoria.
«Beh, basta che non si suicidi» disse Will, con tono acido e sarcastico, fulminandola con gli occhi. «Naturalmente, questo è un periodo in cui si è diffusa molta paura. Ma tutto ciò che ognuno di noi deve fare, è prendere le dovute precauzioni. Ognuno di noi è al sicuro tanto quanto vuole esserlo.»
Per la terza volta, i cellulari tutto attorno squillarono. Il messaggio, di nuovo, era “SBAGLIATO”.
Solo Will ne ricevette uno diverso.
 
“Sai dove trovarmi.
MB.”

 
Sospirò, rinfilando l’apparecchio in tasca e accingendosi ad alzarsi. «Grazie della vostra attenzione..»
Mentre uscivano, Donovan, i lunghi e ricci capelli marroni che sventolavano per la camminata rapida (e anche abbastanza incazzata, a parere di Will), sbottò: «Devi farlo smettere, ci sta facendo passare per idioti!».
La voce di Will era frustrata mentre si voltava verso di lei. «Se mi sai dire come ci riesce, lo fermerò.»
 
 
***
 
 
Un giovane uomo sui venticinque anni stava camminando per i vialetti acciottolati di Hyde Park, aiutandosi con un bastone. La camminata era leggermente rigida (doveva avere un’infermità alla gamba).  Aveva la pelle pallida, capelli nero inchiostro e occhi blu. Indossava jeans scuri e un maglione grigio.
Proseguiva, guardandosi intorno, mentre un gruppo di anatre si agitava su un ruscello vicino, perso tra i propri pensieri. Passò davanti a diverse panchine, tutte occupate, senza badare ai loro occupanti.
«Alec!» lo chiamò una voce. «Alec Lightwood!»  Si fermò all’improvviso, e si voltò, sorpreso. Quel tono gli era familiare, nonostante non lo sentisse da anni.
Quello che lo aveva chiamato, e che si stava alzando proprio in quel momento da una delle panchine, era un uomo che doveva avere pressappoco la sua stessa età. Capelli e occhi dorati, pelle leggermente ambrata. Era poco più basso di lui, e indossava un giubbotto nero in pelle sopra una camicia bianca elegante e jeans chiari. Sembrava sorpreso quanto Alec, mentre gli veniva incontro.
«Sono Jace. Jace Wayland. Andavamo all’Istituto insieme.»
Lo sguardo di Alec si illuminò. «Jace!» Gli strinse la mano. «Sì, scusa, non ti avevo visto.»
Jace gli diede una pacca sulle spalle. «Ho sentito che da qualche parte all’estero ti hanno sparato. Che è successo?» chiese, con lo sguardo sinceramente preoccupato.
«Mi hanno sparato» disse Alec con un mezzo sorriso, e quel pizzico di ironia che usava solo quando era nervoso.
Jace gli restituì il sorriso, e lo trascinò verso un bar vicino, dove si sedettero e ordinarono due caffè freddi.
Dopo qualche imbarazzante momento di silenzio, il moro chiese: «Vai ancora all’Istituto?».
«Ora ci insegno» rispose l’altro. «Ci sono giovani brillanti, proprio come eravamo noi una volta.»
«Dio, quanto li odio» mormorò Alec, e Jace ridacchiò.
«Tu invece?» chiese poi. «Resti in città finché non trovi qualcosa da fare?»
«Non mi posso permettere Londra con la pensione dell’Esercito» sospirò Alec.
«Non sopporteresti di essere altrove» ribatté Jace. «Questo non è l’Alexander Lightwood che conoscevo.»
«Io non sono più quell’Alexander Lightwood.» Evitò volutamente il suo sguardo, concentrandolo su un gruppo d’anatre che si era avvicinato schiamazzando.
«Tuo padre non ha potuto darti una mano?» gli chiese il biondo, incuriosito.
«No… Tanto non accadrà mai.» Le parole erano venate di tristezza. Non vedeva suo padre da anni, da quando era partito per la guerra. Il giorno della partenza, Robert Lightwood non era nemmeno venuto a salutare il figlio. D’altronde, Alec non ne era rimasto stupito. Ferito, sì, ma stupito? Quello no. Cosa ci si poteva aspettare, in fondo, da un padre che reputa il proprio figlio un errore perché gay?
«Non so… Perché non cerchi un coinquilino?» buttò lì Jace, interrompendo il corso dei suoi tristi pensieri.
«Andiamo, chi mi vorrebbe mai come coinquilino?» chiese Alec, con un mezzo sorriso sarcastico, tornando a fissare l’amico.
Jace rise, come se avesse appena sentito una barzelletta e il compagno lo fissò male. «Che c’è?» Il tono di Alec era a metà tra l’acido e l’incuriosito.
«Non sei il primo che me lo dice, oggi.» Ora Jace aveva smesso di ridere, e si era fatto pensieroso.
Si fissarono negli occhi, e dopo un attimo fu Alec a parlare: «Chi è stato, il primo?».





ANGOLO AUTRICE:
Sì, beh, se siete arrivati fino alla fine di 'sta schifezza, complimenti. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. E niente, non ho altro da dire :)
Aggiornerò una volta a settimana, ma, se mi riesce, anche prima.

Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Uno studio in rosa: Capitolo 2 ***


Uno studio in rosa


Capitolo 2
Magnus aprì il sacco funebre,  e diede un’occhiata all’interno. «Quanto è fresco?» chiese.
«E’ appena arrivato» rispose Molly, dall’altra parte del tavolo. A differenza di Magnus, lei indossava il camicie bianco, che spiccava contro i vestiti neri che indossava sotto e gli scuri capelli legati in un’alta coda di cavallo. «Sessantasette anni, morto per cause naturali.» Mentre parlava, aggirò il tavolo, per posizionarsi vicino a lui. «Lavorava qui. Io lo conoscevo, era un uomo gentile.»
«D’accordo» fece Magnus, ritraendosi e richiudendo la cerniera del sacco. «Cominceremo con il frustino da fantino.»
Molly uscì dalla stanza, dopo avergli consegnato il frustino, e si posizionò davanti alla finestra del corridoio che dava sul laboratorio, osservando attraverso i vetri. Magnus impugnò l’arma ed iniziò a percuotere più e più volte il cadavere davanti a lui.
Quando ebbe finito, Molly gli si avvicinò. «Allora…» iniziò, con un sorriso. «Brutta giornata, non è così?»
Magnus tenne lo sguardo puntato sul corpo, iniziando ad annotare vari dati su un quaderno per gli appunti. «Mandami un SMS dicendomi quali abrasioni si sono formate» disse. «Ne va dell’alibi di un uomo.»
Lei annuì. «Senti, mi stavo chiedendo…» iniziò, esitante. «…non è che magari, più tardi, quando hai finito….»
«Hai il rossetto» la interruppe lui, alzando finalmente lo sguardo, e accigliandosi.  «Non l’hai mai messo prima.»
Parve spiazzata. «Ho…» balbettò, con un mezzo sorriso nervoso. «Ho cambiato un po’ look.»
Magnus alzò gli occhi al cielo, e riabbassò lo sguardo sui fogli che aveva tra le mani, ritornando ad annotare.
«Mi stavo chiedendo…» riniziò Molly «se ti andava un caffè.»
Magnus chiuse con uno scatto il quaderno. «Normale, due cucchiaini di zucchero, per favore. Portamelo di sopra.» Detto questo, si voltò e uscì dalla stanza, lasciandola sola.
 
 
***
 
 
Jace lo portò all’Istituto, in uno dei laboratori ai piani di sopra.
Quando entrarono, la prima cosa su cui Alec puntò gli occhi fu le mille attrezzature da laboratorio sparse sui tavoli: ampolle, fiale, microscopi, bilance… Poi, l’uomo chino sul ripiano al centro della stanza, che, quando sentì la porta aprirsi, alzò lo sguardo, per poi alzarsi del tutto quando li vide entrare.
Era alto e magro come una pertica, con capelli a spunzoni così neri da sembrare quasi blu, e la pelle color caramello. Indossava jeans neri aderenti, anfibi neri, una camicia bianca e una giacca, anch’essa nera. Era bello, decisamente; più che bello. Ma quello che colpì di più Alec furono gli occhi, di un incredibile colore verde dorato, con un’intensa luminosità che li faceva sembrare proprio come quelli di un gatto.
L’uomo non si prese la briga di fissarli due volte e tornò a quello che stava facendo prima che entrassero. Alec distolse a forza lo sguardo, guardandosi intorno. «Un po’ diverso dai miei tempi» disse, cercando di non far trapelare l’imbarazzo.
«Non sai nemmeno quanto» rispose Jace.
«Jace, mi presti il tuo cellulare?» chiese lo sconosciuto, interrompendoli. Aveva una voce morbida, ed un accento cadenzato sul quale Alec non poteva mettere il becco.  Sembrava non averli nemmeno sentiti. «Il mio non prende.»
«Perché non usi un fisso?» ribatté l’altro.
«Preferisco mandare SMS.» Mentre parlava, non li fissava nemmeno, come se fossero piccoli dettagli insignificanti.
«Mi dispiace, è nel mio giubbotto» rispose Jace, avvicinandosi a lui.
Dopo un attimo di esitazione, Alec parlò, infilando nello stesso tempo la mano in tasca. «Ecco, prenda» disse, porgendogli il proprio cellulare. «Usi il mio.»
Lui lo fissò per un attimo, come esaminandolo, prima di alzarsi e dirigersi verso di lui. «Grazie.»
«Lui è un mio vecchio amico» disse Jace, facendo un cenno verso Alec. «Alexander Lightwood.»
L’uomo prese il cellulare che Alec gli tendeva, ed iniziò a digitare un messaggio. «Russia?» chiese, mentre digitava.
Alec si voltò di scatto a fissarlo, sbalordito. «Come, scusi?»
«E’ successo in Russia?» specificò lui, smettendo un attimo di digitare, e lanciandogli un’occhiata, come se fosse duro di comprendonio, per poi tornare a messaggiare.
Alec guardò Jace, in cerca di un aiuto, ma l’unica cosa che quello fece fu regalargli un sorrisetto divertito. Tornò a guardare l’altro, che aveva ripreso a battere sullo schermo del telefono. «Sì, in Russia, ma come faceva a saperlo?»
In quell’istante, la porta si aprì ed entrò una ragazza poco più giovane di loro con capelli neri e un camice da laboratorio. Portava una tazza di caffè tra le mani.
«Ah, ecco Molly con il caffè, grazie.» La ragazza – Molly, a quanto pareva – si diresse verso il più vecchio e gli consegnò la tazza sbeccata. «Che è successo al rossetto?» chiese lui, incuriosito.
«Ehm… Non mi si addiceva» rispose lei, evasiva.
«Davvero?» fece lui. «Secondo me era un gran passo.» Si voltò ed iniziò ad allontanarsi, dopo aver restituito il telefono ad Alec. «Ora la tua bocca è troppo piccola.» Fece un gesto noncurante con la mano. «D’accordo» continuò, poggiando la tazza su un angolo libero del tavolo.  «Le dà fastidio il violino?» chiese, voltandosi verso Alec, mentre Molly usciva dal laboratorio.
Alec si ritrovò di nuovo spiazzato. «Come, scusi?»
«Quando rifletto, suono il violino, e, a volte, non parlo per giorni.» spiegò lui, con il tono più ovvio del mondo. «Le darebbe fastidio? I possibili coinquilini dovrebbero conoscere i propri difetti.» Fece quello che di più simile ad un sorriso avesse fatto finora.
Alec  rimase di nuovo spiazzato. Si sentiva anche abbastanza stupido a parlare con uno che sembrava sapere ogni minima cosa, come se avesse qualcosa di tremendamente ovvio sotto il naso, però non riuscisse a coglierlo.  Si rivolse a Jace, che stava esaminando alcune ampolle disposte sul tavolo, rigiradosele tra le mani. «Gli hai parlato di me?»
Il biondo alzò lo sguardo. «No, mai. Neanche una parola.»
«Chi ha parlato di coinquilini, allora?»
«Io» disse quello che, a parere di Alec, era l’uomo più strano che avesse mai avuto la fortuna (o sfortuna) di incontrare. «L’ho detto a Jace questa mattina.» Si infilò un lungo giubbotto in pelle nero, che finora era stato appeso allo schienale di una delle sedie. «Sono un coinquilino difficile da gestire. Ed ora eccolo qui» continuò, e si voltò, facendo un gesto con la mano verso Jace, che assunse un’espressione sulla difensiva «appena tornato dopo aver incontrato un vecchio amico appena congedato dal servizio militare in Russia.» Si avvolse una sciarpa azzurra intorno al collo.  «Non era poi così difficile da capire.»
«Come faceva a sapere della Russia?» chiese Alec.
«Ho messo gli occhi su un bel posticino nel centro di Londra»  continuò lui, senza apparentemente averlo sentito. Iniziò a dirigersi verso la porta. «Dovremmo essere in grado di potercelo permettere.» Si fermò davanti al moro. «Ci incontreremo lì, domani sera alle 7 in punto.» Fece un cenno. «Scusa, sono di fretta, ho dimenticato il frustino da fantino all’obitorio.» Detto ciò, si girò verso la porta, pronto ad uscire.
Aveva quasi abbassato completamente la maniglia quando Alec lo interruppe, alzando la voce. Quel tizio iniziava davvero ad irritarlo – per usare un eufemismo. «Tutto qui?»
L’interpellato si fermò, e si voltò verso di lui. «In che senso?»
«Ci siamo appena conosciuti e già andiamo a guardare un appartamento» ribatté Alec.
«Problemi?» chiese l’altro, annoiato.
Alec lanciò un’occhiata a Jace, che intanto faceva scorrere lo sguardo tra loro ripetutamente, come se stesse guardando un’interessante ed emozionante partita di tennis. «Non sappiamo nulla l’uno dell’altro» disse, cercando di usare un tono conciliante e dio trattenere l’irritazione, ma fallendo miseramente. «Non so dove ci dovremmo incontrare e non so neppure il suo nome.»
Lui lo fissò. «So che lei è un medico militare tornato invalido dalla Russia. Ha un padre che si preoccupa per lei ma lei non vuole chiedergli aiuto, forse perché è un alcolizzato, o più semplicemente perché di recente ha abbandonato la moglie. E so che il suo terapista pensa che la sua zoppia sia psicosomatica, e credo che abbia perfettamente ragione.» Si interruppe, lasciando che Alec assorbisse tutto ciò che aveva detto.  «Credo possa bastare, no?» Si diresse nuovamente verso la porta e la aprì. Prima di uscire del tutto, si sporse e lo fissò. «Io mi chiamo Magnus Bane, e l’indirizzo è il 221B di Baker Street» disse, con una contrazione della bocca che doveva essere un sorriso. «Buon pomeriggio.».
Poi se ne andò, lasciando Alec solo con Jace.
Il biondo, in risposta ad un suo sguardo, annuì. «Sì» disse, divertito «è sempre così.»
Solo in quel momento, Alec iniziò a chiedersi in che razza di casino si fosse cacciato.
 
 



Angolo autrice:
Spero che il capitolo vi sia piaciuto tanto quanto scriverlo è piaciuto a me.
Ho un paio di cose da specificare.
Jace: Ho scelto come cognome di Jace Wayland per il semplice motivo che non potevo usare gli altri, perché Herondale è quello di Will, che è un personaggio nella mia storia, Lightwood quello di Alec e Morgenstern farà la sua apparizione (eheheh). Quindi ho ripiegato sul Wayland.
Magnus: Sì, okay, Magnus che frusta cadaveri con quel senso della necrofilia è decisamente OOC, e in proposito metterò per l'appunto l’avvertimento OOC. La sua parte non è stata per niente facile da scrivere perché già di suo è un personaggio davvero complesso (forse uno dei più complessi di cui io abbia letto. Ma d’altronde è per questo che lo amo), se poi ci aggiungiamo Sherlock, che anche lui è abbastanza complesso, il Magnus di questa FF è complessità al quadrato. In sostanza, spero comunque di aver fatto un buon lavoro.

Ringrazio chi ha recensito il primo capitolo e chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate.



Greta
 
PS D’ora in poi aggiornerò una volta a settimana di sabato.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Uno studio in rosa: Capitolo 3 ***


Uno studio in rosa
Capitolo 3


Più tardi, Alec si trovava nel suo piccolo e spoglio appartamento, con mille domande in testa e senza sapere cosa fare. Continuava a pensare a Magnus Bane e al loro breve incontro, e si chiedeva chi diavolo fosse quel tizio per sapere così tanto di lui. Si sedette sul letto e appoggiò il bastone al proprio fianco.
Si frugò nelle tasche e prese in mano il cellulare, accendendolo ed aprendo la lista dei messaggi inviati. L’ultimo, quello che doveva aver inviato Magnus, diceva:
 
“Se il fratello ha una scala verde, arresta il fratello. MB.”
 
Se possibile, Alec si ritrovò ancora più confuso.
Si diresse verso la piccola scrivania, sedendovisi e accendendo la lampada lì a fianco, ed aprì il portatile. Dopo un attimo di esitazione, entrò su google e cercò “Magnus Bane”.
 
 
***
 
 
Magnus e Alec si incontrarono la sera dopo, precisamente alle 7 in punto, al 221B di Baker Street.
«Salve» fece  Magnus, uscendo dal taxi che lo aveva portato fino a lì, e andando incontro ad Alec.
«Signor Bane» lo salutò questi, stringendogli la mano.
«Magnus, prego» ribatté lui. Aveva una stretta forte ma frettolosa, come se non volesse sprecare tempo con i convenevoli.
«Beh» disse Alec, guardandosi intorno. «E’ un posto di prim’ordine. Deve essere costoso.»
Magnus suonò il campanello ed intrecciò le mani dietro la schiena. «Tessa, la padrona, mi riserva un trattamento speciale. Mi deve un favore. Anni fa, suo fratello fu condannato a morte. Le ho dato una mano.»
«Cosa, è riuscito ad impedire la condanna a morte del fratello?» chiese Alec, incuriosito.
«Oh, no. L’ho garantita» rispose lui, con nonchalance.
In quel momento, la porta si aprì, ed una donna che doveva avere circa la loro stessa età, con mossi capelli marroni ed occhi grigi, comparve sull’uscio. «Magnus!» esclamò. Lui si fece avanti ed i due si abbracciarono velocemente.
Quando si staccarono, Magnus si voltò verso Alec, dicendo: «Tessa, questo è il dottor Alexander Lightwood».
«Alec» corresse automaticamente l’altro, prima di potersi fermare. Magnus si limitò ad inarcare un sopracciglio, ma non ribatté. 
Tessa si scostò dall’uscio e li fece entrare. Salirono le scale che portavano al piano di sopra. Magnus andò dritto, come se quel posto gli appartenesse e lui già sapesse perfettamente la strada, fermandosi solo davanti alla porta, per aspettare Alec che, impicciato della gamba rotta, stava ancora salendo le scale.
Poi entrarono nell’appartamento. Era uno spazio ampio, decisamente comodo. I mobili in legno massiccio, le poltrone e il divano in pelle, libri su libri disposti lungo la libreria, un camino spento. Cucina, bagno, camera da letto.
E il disordine che regnava ovunque. Cuscini sparsi sul pavimento, letti sfatti, libri e giornali sul tavolo e sulle sedie, cenere sparsa nei pressi del caminetto, le tende leggermente impolverate.
«Beh» iniziò Alec, dopo essersi dato un’occhiata generale in giro. «Potrebbe essere molto bello.  Davvero molto bello.»
«Sì» disse Magnus, affiancandosi a lui. «Sì, penso anche io esattamente lo stesso.» Fece una pausa. «Quindi direi che mi trasferisco.» Parve riflettere un attimo, guardandosi intorno. «Sì, beh, posso riordinare un pochino.» Si diresse verso il divano, e ci buttò sopra i cuscini, alla rinfusa; poi afferrò qualcosa da terra, e lo posizionò sulla mensola sopra il camino.
Alec lo fissò allibito. «Quello è un teschio» disse, indicandolo con il bastone, come se Magnus non l’avesse visto.
Lui infilò le mani in tasca, e fece spallucce. «Di un mio amico.» Si diresse verso l’attaccapanni, appoggiandovi il giubbotto. «Cosa ne pensa, allora, dottor Lightwood?»
Intanto, Tessa era entrata a dare un’occhiata. «C’è un’altra stanza, di sopra, nel caso aveste bisogno di due camere» disse, facendo un gesto vago verso il soffitto.
«Certo che avremo bisogno di due stanze» disse Alec, accigliandosi leggermente.
«Oh, non si preoccupi.» fece Tessa, sorridendo. «C’è di tutto da queste parti.» Sorrise di nuovo, e si diresse verso la cucina. «Magnus!»  esclamò, voltandosi verso di lui, che intanto si stava muovendo attorno con aria esperta. «Che confusione hai fatto?»
Alec, ancora leggermente allibito, si sedette su una delle poltrone, scostando il cuscino, e fissò Magnus, che intanto aveva placato il suo continuo girarsi attorno e si era voltato verso di lui. «Ho fatto delle ricerche in internet su di lei, ieri sera» disse, prima di potersi fermare. Quando si accorse di cosa avesse detto, arrossì furiosamente. Non voleva certo apparire come una specie di stalker. Ma ormai aveva catturato completamente l’attenzione di Magnus, e qualcosa, nello sguardo dell’altro, gli diceva che era abbastanza interessato da voler sapere di più su ciò che ne pensava Alec e che non avrebbe mollato il suo obiettivo.
«Niente di interessante?» chiese lui, la voce noncurante e allo stesso tempo interessata.
«Ho trovato il suo sito web» disse Alec, maledicendosi per aver parlato. «La scienza della deduzione
«Che ne pensa?»
«Lei afferma che può identificare un programmatore dalla sua cravatta ed un pilota d’aereo dal suo pollice sinistro.» Probabilmente, il suo tono suonava più stupito del necessario, ma ormai Alec non se ne curava. Voleva sapere chi diavolo fosse questo Magnus Bane.
«Sì» rispose lui. «E posso leggere la sua carriera militare dalla sua faccia e sulla sua gamba. E le abitudini alcoliche di suo padre sul suo cellulare.»
Alec lo osservò, metà ammirato, metà sbalordito. «Come?» chiese.
Vennero interrotti dal ritorno di Tessa, che stringeva tra le mani un giornale. «Allora, che ne pensi di questi suicidi, Magnus? Pensavo fosse roba di tua competenza.»
«Tre esattamente uguali» disse lui, voltandosi verso la finestra e guardando la città fuori.
«Quattro» corresse Tessa. «Ce ne sono stati quattro, ed è in qualche modo diverso, stavolta.»
«Un quarto? Dove?» chiese, e non sembrava più parlare né con Tessa, né con Alec. Quando quest’ultimo si girò, vide che, senza che se ne accorgessero, un uomo, decisamente un agente della polizia, si stava dirigendo verso di loro attraversando il corridoio. Ad un primo sguardo poteva sembrare la copia di Alec, ma se si prestava più attenzione ai particolati si notava la differenza. Il capelli, sempre corvini, erano leggermente mossi, gli occhi di un blu più vicino al violaceo, la linea della mascella più dura, la carnagione poco meno pallida. Era leggermente affannato per la corsa che doveva avere fatto. E sembrava agitato.
«A Brixton» rispose, rivolto a Magnus. «Lauriston Gardens.»
«Che c’è di nuovo?» chiese l’altro. «Non sarebbe venuto qui se non ci fosse qualcosa di nuovo.»
«Sa che non lasciano mai biglietti?» chiese l’agente.
«Sì.»
«Questa volta sì. Viene?»
Una luce parve accendersi negli occhi da gatto di Magnus, come se avesse appena ricevuto un regalo che prometteva fin troppo bene. «Chi c’è della Scientifica?» chiese.
«Anderson» disse l’altro, con un po’ di esitazione. Alec si chiese cosa avesse questo Anderson per far esitare l’uomo.
Magnus borbottò qualcosa di incomprensibile, per poi dire ad alta voce. «Non riesco a lavorare bene con lui.» Guardò Alec, che iniziò a preoccuparsi, chiedendosi cosa diavolo avesse in mente. 
«Beh» fece il poliziotto, con una punta di acidità ed esasperazione. «Non è il suo assistente.»
«Ho bisogno di un assistente.» Magnus fissò di nuovo Alec.
L’altro alla fine sbottò: «Viene
«Non con l’auto della polizia. Vi seguo» disse lui. Si comportava come se lì, in fin dei conti, fosse lui a comandare. Abbastanza seccante, in effetti. Alec poteva capire l’esasperazione e la stizza dell’agente di polizia.
«Grazie» fece questi, parendo eccessivamente sollevato. Magnus non doveva essere un tipo molto disponibile. Fece un cenno verso Alec e Tessa, ed uscì dalla stanza.
Quando fu apparentemente certo che se ne fosse andato, Magnus lasciò che il viso gli si accendesse e fece un salto, iniziando a camminare avanti ed indietro per la stanza, esultante, come se avesse appena ricevuto la notizia più bella del mondo. Alec si limitò a fissarlo, ammutolito da quello scatto di energia, gli occhi spalancati.
«Geniale, sì!» disse, rivolto a nessuno in particolare.  «Quattro suicidi seriali ed ora un biglietto.» Sì mise a volteggiare, agitando le mani come per esporre qualcosa di complesso da spiegare.  Alec dovette trattenere l’istinto di scoppiare a ridere. Sembrava eccitato come un bambino a Natale. «Oh, è Natale» esultò, come leggendogli nella mente, con un sorriso da orecchio a orecchio. «Tessa, farò tardi. Potrei avere bisogno di mangiare.»
Tessa inarcò le sopracciglia, apparendo leggermente scocciata, ma anche esasperata, come se fosse abituata a quel comportamento. «Sono la tua padrona di casa, Magnus, non la tua domestica» disse, mentre questi prendeva il cappotto e se lo infilava, sempre muovendosi per la stanza.
«Andrà bene qualcosa di freddo» continuò lui, imperterrito. «Alec, prenda una tazza di te, si metta a suo agio.»
«Ma lo guardi» fece Tessa, quando Magnus fu uscito, rivolgendosi ad Alec, che intanto era ancora seduto sulla poltrona. «Si dà un gran daffare. Mio fratello era lo stesso.» Alec fece un cenno, ricordando ciò che gli aveva detto Magnus, sul fratello di Tessa. «Le preparo una tazza di te, lei riposi la gamba» continuò lei, e si allontanò dirigendosi verso la cucina.
«Maledetta gamba» imprecò Alec a mezza voce. «Mi dispiace» si scusò. «E’ solo che a volte questa dannata cosa…» si interruppe, distogliendo lo sguardo. Non voleva far sapere quanto tutto ciò lo destabilizzasse. Ci soffriva, a volte.
Tessa gli rivolse uno sguardo comprensivo. «La capisco.»
Alec sospirò, afferrando un giornale lì vicino e iniziando a leggerlo. «La tazza di te va bene. Grazie» fece, senza alzare gli occhi.
«Solo per stavolta.» Tessa sorrise. «Non sono la sua domestica.» Detto ciò, lo lasciò solo in salotto.
Dopo nemmeno un minuto, una voce lo riscosse dalla lettura del quotidiano, facendolo sobbalzare.
«Lei è un medico.»
Alec alzò di scatto lo sguardo, incontrando quello verde dorato di Magnus. Era convinto che se ne fosse andato.
Ma si riprese in fretta dalla sorpresa, e annuì, dicendo: «Un medico militare, in realtà». Sì alzò, aiutandosi col bastone, dirigendo verso l’altro.
«Sì» disse questi. «Ed è bravo?»
«Beh» iniziò Alec, timidamente, scrollando le spalle. «Sì.»
Magnus gli si avvicinò. Continuava a scrutarlo con quello strano sguardo, come se potesse leggere ogni cosa di lui soltanto guardandolo. «Quindi ha visto un sacco di ferite» disse. «Di morti violente.»
«Beh, sì.» Ora Magnus gli era fin troppo vicino. Alec si irrigidì leggermente: non gli era mai piaciuto particolarmente il contatto fisico, o lo stare così vicino a qualcuno, ed ora, con Magnus Bane, si sentiva ancora più teso del solito.
«E anche parecchi guai, suppongo.»
«Sì, certo.» Dovette reclinare la testa per guardarlo dritto in faccia. Era dannatamente e fastidiosamente alto.  «Abbastanza per tutta una vita, molto di più.»
Magnus lo fissò intensamente per un momento. «Ne vuole vedere ancora?»
Alec spalancò gli occhi. Gli stava davvero chiedendo di venire con lui? Ponderò in un attimo tutte le opzioni che aveva. Non gli ci volle più di un secondo per decidere. «Oddio,
L’altro non rispose, e non diede segni di sorpresa per la risposta ricevuta. Si limitò a fare quel suo strano sorriso che assomigliava più ad una contrazione dei muscoli facciali.  Era chiaro che aveva previsto perfettamente la reazione del proprio coinquilino. Si voltò, ed uscì sul pianerottolo, iniziando a scendere le scale.
Alec si affrettò a seguirlo, non prima di aver gridato, per farsi sentire: «Mi dispiace, Tessa, rinuncio al tè!».
«Dobbiamo scappare.» aggiunse Magnus alzando a propria volta la voce.
«Tutti e due?» chiese Tessa, raggiungendoli e facendo passare lo sguardo incuriosito dall’uno all’altro.
«Suicidi seriali? Quattro?» Magnus si diresse verso di lei, poggiandole le mani sulle spalle. Era fin troppo allegro, data la situazione e il posto in cui stavano per andare. «Non ha senso stare chiusi in casa se fuori succede qualcosa di divertente!» Le baciò la guancia, e si voltò verso la porta.
«Ma guardati» fece Tessa, divertita, abbozzando un sorrisetto. «Tutto contento per dei suicidi. Non stai bene.»
«Chi se ne importa se non sto bene!» affermò lui, ormai alla porta. «Il gioco, Tessa, è iniziato!»
 
***
 
Usciti all’esterno, Magnus fermò un taxi, e vi salì, seguito da Alec. Diede all’autista le indicazioni e la destinazione, che il Lightwood non sentì, distratto com’era dai propri pensieri, e partirono.
Passò molto tempo prima che uno dei due parlasse. Alec percepiva quasi fisicamente la tensione, continuava a lanciare occhiate di sbieco all’altro, cercando di intuire cosa stesse pensando o di decifrare le sue espressioni.
«Okay, ha delle domande» disse questi alla fine, con un sospiro.
Quello era decisamente un eufemismo. L’altro aveva così tante domande che gli ronzavano per la testa da non sapere da dove cominciare. Tuttavia, optò per la più semplice e scontata. «Sì. Dove stiamo andando?»
«Sulla scena del crimine» rispose immediatamente. «La prossima?»
«Lei chi è? Cosa fa?» Quella era decisamente la domanda che gli premeva di più. Non sapeva con chi avesse a che fare, se con un pazzo psicopatico o una persona normale che si interessava fin troppo a casi e omicidi da romanzo giallo. Un’opzione però ce l’aveva, poco plausibile, ma ce l’aveva. E Magnus dovette leggerglielo in faccia
«Lei cosa pensa?»
Alec sospirò. «Direi un investigatore privato.»
«Ma…?»  lo incalzò l’altro.
«Ma la polizia non va dagli investigatori privati.» Lo fissò, in attesa di risposte.
Lo sguardo di Magnus era perso fuori dal finestrino. «Sono un consulente investigativo. L’unico al mondo, ho inventato io la carica.»
Alec si accigliò. «Che significa?»
«Significa che quando la polizia si trova impreparata, cioè sempre, mi consulta.» Mise particolare enfasi nella parola ‘sempre’, come se volesse dimostrare la sua importanza nei lavori di ogni giorno compiuti dai poliziotti londinesi.
«La polizia non consulta i dilettanti» ripeté Alec, mordace.
Magnus si limitò a fissarlo. Poi parlò. «Quando ci siamo conosciuti, ieri, ho detto Russia. Sembrava sorpreso.»
«Sì» fece l’altro, perplesso. Magnus stava cercando di cambiare argomento, o puntava dritto ad un obiettivo? «Come faceva a saperlo?»
«Non lo sapevo. L’ho visto.» Era una risposta così evasiva che Alec per poco non gli sbottò addosso di spiegarsi meglio. E lui, forse intuendo – di nuovo – i suoi pensieri, lo fece. «Il taglio di capelli,  il modo di comportarsi, sanno di militare. Ma quello che ha detto a Jace diceva che ha studiato all’Istituto, quindi lei è un medico militare, ovviamente. Il viso è pallido, quasi bianco. La zoppia si vede quando cammina, ma non ha chiesto una sedia per riposarsi, quando era in piedi, come se si fosse scordato del problema. Quindi, almeno in parte, è psicosomatica. Vuol dire che le circostanze originali dell’infortunio sono traumatiche, quindi una ferita in combattimento.» Fece una pausa, come per dare ad Alec il tempo di assimilare il tutto, poi riprese. «Ferita in combattimento, carnagione pallida. Una zona al nord, probabilmente Russia.»
Alec si trattenne dal boccheggiare solo per dignità personale. Non voleva sembrare come un bambino che ha appena scoperto l’esistenza del mondo esterno. «Ha detto anche che io ho un terapista» disse, pacato.
«Poi c’è il padre.» continuò Magnus, ignorandolo. Era palese che ci stesse prendendo gusto. «Il cellulare. È costoso, può mandare e-mail, ha il lettore MP3. Lei sta cercando un coinquilino, non avrebbe sprecato soldi. Quindi è un regalo. C’erano graffi, non uno solo, ma molti, fatti nel tempo. È stato a lungo nella stessa tasca di chiavi e monete. Lei non tratterebbe un bene di lusso in questo modo. Quindi ha avuto un proprietario precedente.» Non stava nemmeno guardando Alec, mentre spiegava. «Il resto è facile, lo sa già. L’incisione? Robert Lightwood. Ovvio, un membro della famiglia le ha dato il suo vecchio telefono. È abbastanza vecchio da non poter essere di un fratello. I giovani li cambiano, gli oggetti, quando sono così usati. Potrebbe essere un cugino o uno zio, ma lei è un eroe di guerra che non trova un posto in cui vivere. Improbabile con una famiglia grande ma non con un solo parente. Quindi è suo padre. Ora, chi è Maryse?»
Alec si irrigidì, sentendo il nome della madre. Stavano iniziando ad avvicinarsi ad un argomento che odiava ricordare e di cui non gli piaceva per niente discutere. Ormai Magnus parlava più a se stesso che all’altro.
«Tre baci dicono che è un rapporto romantico. Il costo del cellulare dice che è la moglie. Deve averglielo regalato lei. Matrimonio in crisi, quindi. Dopo molto tempo lui lo regala. Se l’avesse lasciato lei, lui lo avrebbe tenuto: sentimentalismo. No, voleva liberarsene, quindi l’ha lasciata lui. Ha dato il cellulare a lei, Alec,  in modo che restasse in contatto con lui. Lei è in cerca di un alloggio economico ma non chiederà aiuto a suo padre. Ciò conferma che ha dei problemi con lui, forse un litigio familiare, o non le va che lui beva.»
«Come fa a sapere che beve?» Alec era troppo scioccato per rendersi conto che più chiarimenti chiedeva, più sarebbe stato confuso. Come faceva questo tizio a fare... quello che aveva fatto?
Finalmente Magnus si rivolse a lui, guardandolo. «E’ un’ipotesi azzardata, ma comunque valida.» Inarcò un sopracciglio in sua direzione. «Connettore di ricarica con minuscoli graffi tutto attorno. Ogni sera lo mette in carica e le sue mani tremano. Non vedrà mai quei segni sul cellulare di un astemio, e non mancheranno mai su quello di un ubriaco. Ecco tutto» concluse, sembrando particolarmente soddisfatto di sé. Rivolse al compagno uno sguardo di sufficienza che lo fece accigliare. «Vede, aveva ragione.»
«Avevo ragione?» Alec chiese, perplesso. «Su cosa?»
«La polizia non consulta i dilettanti.»
Ci furono pochi attimi di silenzio, durante i quali Alec poté assimilare a pieno che gli era stato detto. Prese un profondo respiro. «Quello» disse, «è stato fantastico
Magnus parve quasi esitare, prima di chiedere: «Pensa?».
«Certo» fece Alec, gli occhi spalancati. Stentava a credere che qualcuno fosse riuscito ad intuire così tante cose di lui ad una sola occhiata apparentemente generica. «Straordinario.»
«Non è quello che la gente dice di solito» ribatté l’altro.
«E cosa mai dice di solito la gente?»
«‘Vaffanculo!’» fu la risposta. Entrambi risero, ed Alec quasi si sorprese di sentire quel suono provenire da Magnus. In qualche modo, si era convinto che fosse un tipo tutta serietà, un macabro interesse per gli omicidi e niente risate. Decisamente si era sbagliato.







ANGOLO AUTRICE
Dunque.... questo capitolo è davvero lungo, lo so. E non è stato facile scriverlo, quindi spero che non sia venuta una boiata assurda. E niente, non ho nient'altro da dire. Ringrazio tutti quelli che recensiscono, mettono tra le preferite/seguite/ricordate. In particolare, ringrazio _F i r e_ e Ayame Saki.

Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Uno studio in rosa: Capitolo 4 ***


Uno studio in rosa
Capitolo 4
Il taxi si fermò poco tempo dopo, quando la notte era già calata da un pezzo, in una strada malandata, davanti ad un gruppo di case abbandonate. Quella che doveva ospitare la scena del crimine era evidente a distanza. Le macchine della polizia erano parcheggiate tutto attorno all’edificio, circondato da agenti che si muovevano entro i confini del nastro posto per tenere lontani i passanti curiosi. L’unico punto di accesso era sorvegliato da una donna in tenuta da poliziotta, con lunghi e ricci capelli neri e la pelle color cioccolato. Fu proprio verso di lei che Magnus, una volta uscito dalla macchina, si diresse con passo baldanzoso, seguito da Alec.
«Ho sbagliato qualcosa?» chiese mentre camminavano l’uno a fianco all’altro.
Alec sospirò. «Io e mio padre non siamo mai andati d’accordo.» Deglutì, incerto se proseguire o meno. «I miei genitori si sono lasciati pochi mesi fa, hanno divorziato. E sì, Robert ha il vizio del bere.»
«Quindi ho fatto giusto.» fece l’altro, compiaciuto. «Non mi aspettavo di avere ragione su tutto.»
Alec sbuffò, fermandosi e voltandosi verso di lui. «Si può sapere che ci faccio io qui?» sbottò.
Magnus proseguì dritto senza nemmeno rispondergli, parendo troppo preso dalle proprie capacità deduttive per potergli parlare.
«No, sul serio, che ci faccio io qui?» insistette Alec, seguendolo, nel momento stesso in cui arrivavano davanti alla donna all’entrata.
«Ecco quello strambo.» fece lei, roteando gli occhi in direzione di Magnus.
«Devo vedere l’ispettore Herondale.» fece lui, senza sentire l’appellativo con lui l’aveva chiamato l’agente, o più probabilmente senza curarsene.
Il sorriso canzonatorio di lei scomparve, e si accigliò. «Per quale motivo?»
«Sono stato invitato.» Nella voce dell’altro c’era l’arroganza tipica di chi sa di avere il potere di fare ciò che aveva intenzione di fare.
«Per quale motivo?» ripeté la poliziotta.
«Penso che voglia che io dia un’occhiata qui.» Fece un cenno con la testa verso l’edificio alla loro destra, e stringendosi nelle spalle come a dire “Che ci vuoi fare?”.
«Beh, sai come la penso io?» fece lei, parendo quasi arrabbiata.
«Sempre, Sally.» Le baciò la guancia e, approfittando dello sconcerto che quel gesto aveva causato, passò sotto il nastro. Quando si voltò verso Alec e l’agente – Sally, a quanto pareva – aveva un leggero sorrisino stampato in faccia. «So anche perché non sei tornata a casa l’altra sera.»
«Ah, io…» iniziò lei, spiazzata, per poi bloccarsi quando Alec fece un passo avanti con l’intento di oltrepassare il nastro. Gli posò la mano sul petto, per bloccarlo. «E lui chi diavolo è?»
«Un mio collega,» disse Magnus. «Il dottor Alec Lightwood.» Si rivolse ad Alec:.«Alexander, le presento il sergente Sally Donovan.» Las guardò con il capo inclinato. «Una vecchia amica.»
«Un collega?» fece lei, fissandolo incredula. «Come mai ti hanno assegnato un collega? Ti ha per caso seguito a casa?» chiese, come se Alec fosse un marmocchio fastidioso.
Quest’ultimo si accigliò, e guardò Magnus, accorgendosi che l’espressione di pacata nonchalance di poco prima stava cominciando a cedere il passo all’irritazione. Prevedendo aria di guai, decise di intervenire. «Va bene, posso restare qui, non c’è…»
«No.» disse Magnus, deciso. Afferrò il nastro e lo sollevò per lasciar passare Alec, il quale non poté far altro che assecondarlo.
Intanto, Donovan aveva preso il walkie talkie e stava parlando, presumibilmente con uno dei suoi colleghi. «E’ arrivato quello strambo, lo faccio entrare.» Alec rimase sorpreso della punta di irritazione che provò sentendo il nomignolo che la donna aveva dato a Magnus.
Mentre si avvicinavano alla porta d’ingresso dell’edificio, un poliziotto con indosso un camicie di plastica di protezione e dei guanti, anch’essi di plastica, venne loro incontro. Aveva capelli scuri, zigomi sporgenti, il volto contorto in un’espressione arcigna. Fissava Magnus come si potrebbe fissare un cimice spiaccicato sotto la scarpa. «Ah, tenente Anderson.» fece questi, in segno di saluto.
«E’ una scena del crimine.» ribatté l’altro, con voce minacciosa. «Non voglio che venga contaminata, chiaro?»
«Chiarissimo.» L’interpellato studiò l’agente – Anderson – con un velato interesse. «Tua moglie starà via ancora per molto?»
«Oh, non pretendere di aver azzeccato la cosa.» disse l’altro, acido. «Te l’ha detto qualcuno.»
Magnus sbuffò. «Me l’ha detto il tuo deodorante.»
«Il mio deodorante
«E’ maschile.»
«Certo che è maschile, l’ho addosso io.» disse Anderson, esasperato come se stesse parlando ad un bambino ritardato.
«E anche il sergente Donovan.» Il tenente, a quelle parole, si voltò di scatto verso Donovan, che intanto si era avvicinata e che in quel momento pareva pentirsene, ma, quando Magnus parlò di nuovo, riportò l’attenzione su di lui. «Posso entrare?»
«Senti» ringhiò Anderson. «Se vuoi insinuare qualcosa…»
«Non voglio insinuare nulla. Sono certo che Sally sia passata per una chiacchierata...» Mentre parlava, li aggirò e si diresse verso l’entrata. «…e che sia finita per rimanere da te tutta la notte.» La sua voce si fece leggermente acida mentre si voltava un’ultima volta verso di loro. «E presumo che ti abbia lucidato i pavimenti, a giudicare da come sono conciate le sue ginocchia.» Detto questo, si voltò ed entrò nella casa. Dopo un attimo di esitazione e dopo aver guardato i due poliziotti che si scambiavano occhiate scioccate, Alec si affrettò a seguirlo. 
 
 
***
 
 
Entrarono in una stanza vicino all’entrata in cui si trovava un gran numero di gente della polizia. Magnus si diresse verso un tavolo su cui erano appoggiate varie divise simili a quella di Anderson. Lì, Will Herondale li aspettava.  «Deve indossare uno di questi.» disse, facendo un gesto con la mano verso il tavolo a fianco a sé. Afferrò uno dei camici, iniziando ad infilarselo, e così fece Alec. Fu solo in quel momento che l’ispettore parve accorgersi della presenza di quest’ultimo. «Lui chi è?» chiese.
«E’ con me.» rispose Magnus con voce asciutta.
«Ma chi è?»
«Ho detto che è con me.»
Will scosse la testa, apparentemente troppo stanco per rispondergli a tono. «Lei non indossa un camice?»
Invece di rispondere, Magnus chiese: «Dove dobbiamo andare?»
L’altro si accigliò, ma apparentemente era abituato a quel suo modo di fare, e rispose. «Al piano di sopra.»
Mentre salivano velocemente le scale traballanti, Will, che li precedeva, disse: «Vi concedo due minuti.» fece una pausa, come aspettandosi una replica di Magnus, che non tardò ad arrivare. «Potrebbe servirci di più.»
Lui scosse la testa. «Due minuti.» Un'altra pausa, mentre svoltavano un corridoio e imboccavano una nuova rampa di scale. «Si chiamava Jennifer Wilson, secondo i dati sulla carta di credito. Ora stiamo verificando gli altri dati personali.» Entrarono in una stanza. «Non è qui da molto. L’hanno trovata dei ragazzini.»
L’agente si fece da parte, in modo che loro potessero vedere ciò che c’era all’interno della piccola camera. Era  completamente spoglia, la carta da parati scrostata e il pavimento scheggiato. In confronto a quello spazio tetro, il corpo steso a terra era fin troppo appariscente, con quei vestiti rosa shocking, i capelli biondissimi che vi risaltavano contro e la macabra posa che la morte gli aveva dato. La donna non poteva avere più di una trentina d’anni. Alec deglutì. Aveva visto tante volte la morte, fin troppe, ma questo semplicemente era in qualche modo diverso.
La voce di Magnus ruppe quello stato di immobilità. «Silenzio.» disse, con voce scocciata ma pacata, rivolgendosi a Will.
«Non ho detto nulla!» fece questi, sulla difensiva.
«Stava pensando.» disse l’altro con sufficienza «Mi infastidisce.»
L’uomo assunse un’espressione corrucciata, solo leggermente smarrita. Era ovvio che fosse abituato a lavorare con Magnus.
Quest’ultimo intanto si era avvicinato al cadavere, infilandosi dei guanti e accovacciandovisi a fianco. «Rache...» mormorò, fissando qualcosa sul pavimento, vicino alla mano sinistra della donna. Alec strinse gli occhi, cercando di vedere cosa guardasse, e finalmente riuscì a vedere la scritta, posta a fianco della testa e coperta in parte dai capelli biondi. “RACHE”, diceva.
Intanto Magnus stava esaminando il cadavere, esaminando ogni cosa nei più piccoli particolari.
Dopo un po’, Will parlò. «Trovato nulla?»
Magnus si alzò, togliendosi i guanti. «Non molto, purtroppo.» sospirò.
«E’ tedesca.» disse una voce, dietro di loro. Alec si voltò, trovando Anderson appoggiato allo stipite della porta, le braccia conserte. «”Rache” in tedesco significa “vendetta”. Probabilmente cercava di dirci qualcosa…»
Fu interrotto da Magnus, che lo spinse via, come se fosse un moscerino irritante, e gli chiuse la porta in faccia, dicendo:  «Sì, grazie del suggerimento.»
«Quindi è tedesca?» chiese Alec, parlando per la prima volta da quando erano entrati.
«Certo che no.» disse Magnus con ovvietà, voltandogli le spalle. «Però viene comunque da fuori. Aveva programmato di stare a Londra per una sola notte, prima di ritornarsene a casa a Cardiff. Più ovvio di così.»
«Ovvio?» Il tono incredulo di Will fece voltare Magnus. «E che mi dice del messaggio?»
«Dottor Lightwood, cosa ne pensa?» chiese l’investigatore privato.
«Del messaggio?» fece Alec, leggermente spaesato.
«Del corpo.» rispose Magnus. «Lei è un medico.»
«Ma abbiamo un intera squadra della Scientifica!» protestò con forza l’ispettore.
«Non lavorano con me.» Fu la semplice risposta.
Will contrasse la mascella. «Ho contravvenuto alle regole facendovi venire qui.» 
«Certo.» lo interruppe l’altro. «Perché ha bisogno di me.»
l’ispettore sospirò rumorosamente. «Sì,» ammise. «E’ vero.» Incrociò le braccia, appoggiandosi alla parete, come se quello fosse l’unico muto segno di protesta che gli era permesso, almeno con Magnus. Alec provò un moto di simpatia verso Will. Non doveva essere facile ritrovarsi a chiedere aiuto a qualcuno di così saccente.
«Dottor Lightwood!» disse questi, alzando la voce e ridestandolo dai propri pensieri.
In cerca di un assenso, si voltò verso l’ispettore, che scosse la testa. «Faccia pure quello che le dice di fare.» disse, prima di uscire a grandi passi dalla stanza. Sentirono la sua voce parlare un’ultima volta. «Anderson, tieni lontani tutti per un paio di minuti.»
Si accovacciarono uno ad entrambi i lati del corpo steso a terra, Alec appoggiando il bastone a fianco a sé.
«Allora?» fece Magnus, impaziente.
«Che ci faccio io qui?» chiese Alec, invece di rispondergli. Si stava ponendo quella domanda da quando erano arrivati.
«Mi aiuta a chiarire una cosa.» disse Magnus con semplicità.
«Avrei dovuto aiutarla a pagare l’affitto.» rispose Alec, duro. Stava iniziando a stancarsi dell’atteggiamento del suo nuovo coinquilino.
«Sì, ma questo è più divertente.» disse Magnus, sporgendosi in avanti verso di lui.
«Divertente?» fece Alec, incredulo, facendo un gesto verso il cadavere tra loro. «C’è una donna morta stecchita.»
«Analisi inappuntabile.» fu la risposta.  «Ma mi sarei aspettato che verificasse meglio le cose.»
Alec strinse i denti, ma si chinò comunque sul corpo, iniziando ad esaminarlo, proprio mentre Will rientrava nella stanza, osservando,li a braccia incrociate.
Quando finì l’esame, si raddrizzò, alzando il volto verso Magnus. «Possibile asfissia.» diagnosticò. «Morta soffocata dal suo stesso vomito. Non sento traccia di alcol. Potrebbe essere stato un colpo apoplettico. Forse della droga.»
«Lo sa cosa è stato.» disse Magnus, lentamente. «Ha letto il referto.»
«Beh,» fece Alec, con una leggera scrollata di spalle. «E’ una dei suicidi. La quarta?»
«Magnus,» intervenne Will, deciso. «Ho detto due minuti. Mi dica tutto ciò che sa.»
L’interpellato sospirò, e senza nemmeno guardare l’ispettore, tenendo lo sguardo fisso sul cadavere, iniziò a spiegare. «La vittima ha trent’anni. È una professionista, a giudicare dagli abiti. Suppongo lavori per i media, a giudicare da quell’accesa tonalità di rosa.» Mentre parlava, si era alzato, seguito da Alec, ed ora stava percorrendo avanti e indietro il perimetro della stanza. Sembrava che ora più che spiegare a loro stesse riflettendo tra sé e sé, come se avesse dimenticato di essere in una stanza con altre due persone. «Arrivata oggi da Cardiff, intendeva rimanere a Londra per una sola notte, a giudicare dal suo bagaglio.» Uscì dalla stanza, senza smettere di parlare.
«Bagaglio?» chiese Will, perplesso, seguendolo insieme ad Alec.
Magnus si fermò e si voltò verso di lui. «Bagaglio, sì.» disse. «Sposata da più di dieci anni, ma non felicemente. Ha avuto diversi amanti, ma nessuno di loro sapeva che era sposata.»
«Oh, per carità di Dio,» sbottò Will, incredulo. «Se ti stai inventando tutto…»
«La fede nuziale,» spiegò Magnus, interrompendolo ancora prima che potesse terminare la frase. «Vecchia almeno di dieci anni. Il resto dei gioielli sono stati accuratamente lucidati, ma non la sua fede nuziale. Lo stato del matrimonio è chiaro. L’interno dell’anello è più lucido rispetto all’esterno. Significa che veniva regolarmente tolto, e si lucidava automaticamente quando se lo toglieva dal dito. Ma non per lavoro. Guardate le unghie. Non faceva lavori manuali. Quindi per cosa, o piuttosto per chi, si toglieva l’anello? Sicuramente non un amante, visto che non sarebbe mai riuscita a fingere così a lungo di essere single, quindi diversi amanti. Semplice.»
«Stupefacente.» disse Alec, senza riuscire a trattenersi. Sia Magnus sia Will si voltarono a fissarlo, e lui arrossì. «Scusate.» fece, maledicendosi.. perché diavolo aveva parlato?
«E’ ovvio, vero?» chiese Magnus, e pareva sinceramente aspettarsi una risposta affermativa. Alec quasi si sentì in colpa nel rispondere: «Non lo è per me.»
Ma il senso di colpa scomparve rapidamente, quando l’altro fece: «Buon Dio, ci si deve annoiare a morte, con dei buffi cervellini come i vostri.» Si voltò verso Will. «Il suo cappotto! È leggermente umido. Deve essere rimasta sotto la pioggia nelle ultime ore. Non ha piovuto a Londra in quel lasso di tempo. Anche il bavero del cappotto è umido. L’aveva usato per ripararsi dal vento. Aveva un ombrello nella tasca sinistra, ma è asciutto, non è stato usato. Non semplice vento, quindi, ma un vento forte, troppo per poter usare l’ombrello. Sappiamo dal bagaglio che intendeva rimanere qui per la notte, quindi deve venire da fuori città. Ma non ha viaggiato più di due o tre ore, perché il cappotto non si è ancora asciugato, quindi… dove si sono avuti forte pioggia e forte vento nelle ultime ore?» Estrasse il cellulare, facendolo vedere ad entrambi. Era aperto sulla pagina del meteo di Cardiff. «Cardiff.»
Di nuovo, Alec parlò prima di riuscire a trattenersi. «Fantastico.»
Magnus roteò gli occhi verdi dorati verso di lui. «Lo sa che l’ha detto ad alta voce?» disse, ma sembrava comunque compiaciuto.
«Mi dispiace, sto zitto.» 
«No,» fece Magnus, e sembrò calmare leggermente la propria foga, mentre lo fissava con il capo inclinato. «Va… benissimo.»
«Perché continua a parlare di bagaglio?» chiese Will, interrompendo lo scambio di sguardi.
«Già…» disse Magnus, e si voltò verso di lui. «Dov’è finito?» si diresse di nuovo verso la porta. «Deve aver avuto un cellulare o un palmare.» continuò. «Troviamolo… e scopriamo chi è Rachel.»
«Stava scrivendo “Rachel”?» domandò Will.
L’altro si voltò verso di lui, e gli si avvicinò. «No.» disse. «Ci stava lasciando una nota piena d’ira in tedesco. Certo che stava scrivendo “Rachel”, non potrebbe essere altrimenti.» si avvicinò di nuovo al cadavere. «Il problema è: perché ha atteso di essere in punto di morte prima di scriverlo?»
«Come fa a sapere che aveva un bagaglio?» chiese per l’ennesima volta l’ispettore, e finalmente Magnus rispose. «Guardi la gamba destra.» Indicò con la mano l’arto pallido. «Piccoli schizzi sul calcagno destro, e sul polpaccio, ma nulla sul lato sinistro. Aveva un trolley che si tirava indietro con la mano destra. Si vede bene dalla disposizione degli schizzi. Un trolley piccolo, vista la distribuzione. Una valigia così piccola per una donna così chic… è chiaro che sarebbe rimasta a dormire per una sola notte.» Si chinò di nuovo sul corpo. «Dov’è la valigia? Che cosa ne avete fatto?»
«Non c’era nessuna valigia.» fu la risposta secca di Will.
A quel punto, Magnus si alzò, voltandosi lentamente a guardarlo. «Come, prego?»
«Non c’era una valigia.» ripeté l’ispettore. «Non c’è mai stata una valigia.»
L’altro lo fissò un attimo, per poi dirigersi spedito verso la porta, uscendo dalla stanza, iniziando a percorrere i corridoi e a scendere le scale e chiedendo a gran voce: «Una valigia! Qualcuno ha trovato una valigia? C’era una valigia in questa casa?»
«Magnus!» lo chiamò Will, da l pianerottolo di sopra, dove ancora si trovava insieme ad Alec. «Non c’è nessuna valigia!»
Questi si voltò verso di lui, sbottando. «Ma prendono il veleno spontaneamente, ingoiano le pillole per conto loro. C’erano segni evidenti, nemmeno a voi potevano sfuggire.» Iniziò a scendere rapidamente le scale, e Will dovette sporgersi per parlargli, le mani appoggiate sulla balaustra, e Alec fece lo stesso. «Sì, beh, gentilissimo. E?»
Magnus si fermò, finalmente, inclinando la testa per guardare in alto, verso il suo interlocutore. Si trovava su un pianerottolo insieme a vari poliziotti, che lo guardavano come se fosse pazzo. «Sono tutti casi di omicidio. Non so spiegarlo, però. Ma non sono suicidi. Sono omicidi, omicidi seriali.» Si sfregò le mani. «Abbiamo un serial killer! Fantastico! Le sorprese non finiscono mai.» Riniziò a scendere le scale.
«Come fai a dirlo?» chiese Will, sporgendosi ancora di più e alzando la voce fin quasi a gridare per farsi sentire dai piani che li separavano.
«La sua valigia!» Magnus non si fermò nemmeno, mentre rispondeva. Continuò semplicemente a scendere. «Andiamo, dov’è la valigia? Se l’è mangiata? C’era qualcun altro, qui, qualcuno che le ha preso la valigia! Quindi il killer è venuto qui in macchina e si è scordato di scaricare la valigia.» A quel punto, si era di nuovo fermato, e stava rivolgendo loro uno sguardo esasperato.
«Magari era andata in un hotel e ha lasciato lì la valigia.» rispose Alec, e Will gli lanciò uno sguardo grato, come se anche quel minimo supporto lo facesse sentire meno stupido come Magnus li faceva sentire tutti.
«No,» rispose quest’ultimo. «Non è mai arrivata all’hotel. Guardale i capelli! Mette rossetto e scarpe dello stesso colore! Non sarebbe mai uscita da un hotel con i capelli ancora…» Si bloccò di scatto, alzando le mani come a chiedere il silenzio, e spalancando gli occhi da gatto. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza apparentemente riuscire a formulare parola. Si battè le mani davanti al viso, come giunto ad un’illuminazione divina.  
«Magnus?» chiese Alec, iniziando a preoccuparsi.
«Che succede, che c’è?» aggiunse Will.
«E’ sempre dure con i serial killer.» disse Magnus, quasi in modo assente. «Devi sempre aspettare che facciano un errore.»
«Non possiamo aspettare!» sbottò l’ispettore.
«No!» assentì Magnus, mentre ricominciava a scendere i gradini. «Basta aspettare! Osservala, osservala per bene! “Houston, abbiamo un errore”! Andaste a Cardiff! Trovate amici e parenti di Jennifer Wilson. Trovate Rachel!» Ormai  era arrivato alla fine delle scale.
«Sì, certo» fece Will, con fare accondiscendente. «Ma… che errore?»
Magnus si sporse di nuovo per farsi vedere. «Rosa!» fu tutto ciò che rispose, prima di voltarsi e correre via come se avesse avuto il fuoco sotto i piedi.
 
 
***
 
 
Uscito all’esterno, Alec si guardò intorno, ma di Magnus non c’eras traccia.
«Dannazione.» imprecò con uno sbuffò. «Se n’è andato.»
La voce del sergente Donovan lo riscosse, facendolo voltare verso di lei. «Chi, Magnus Bane?» Annuì. «Sì, è appena partito. Lo fa spesso.»
«Secondo lei tornerà?» chiese Alec con una punta di speranza.
«Non ne sembrava intenzionato.» fu tutto ciò che ottenne. Non che non se lo fosse aspettato. Da ciò che aveva capito di Magnus, era così che andavano le cose, quando passavi il tempo con lui.
Si morse un labbro, indeciso. «Bene.» sospirò. Guardò di nuovo la donna davanti a sé, ora intenta in un’accesa conversazione con un passante. «Scusi… dove siamo?»
«A Brixton.» rispose lei, tornando a guardarlo.
«Sa dove potrei rimediare un taxi?»
Lei si diresse verso il nastro divisorio, alzandolo per permettergli di passare. «Provi sulla strada principale.» disse.
«Grazie.» Mentre si accingeva ad andarsene, la voce di lei lo richiamò.  «Però lei non è suo amico.» Alec si fermò, senza voltarsi a guardarla. «Lui non ha amici. Quindi lei chi è?»
«Io…» iniziò Alec in imbarazzo, voltandosi finalmente verso di lei. «Io non sono nessuno, l’ho appena conosciuto.»
«Okay, allora le do un consiglio.» disse Donovan, e lo fissò negli occhi, con sguardo fermo. «Stia alla larga da lui.»
«Perché?»
Donovan emise una risata gelida. «Sa perché si trova qui? Non è che lo paghiamo, eh! È solo che gli piace. Si eccita con queste cose. Più il caso è strano, più è eccitato. E sa una cosa?» chiese, e, senza attendere risposta, continuò. «Un giorno non gli basterà più venire qui. Un giorno troveremo un cadavere e sarà stato Magnus Bane a mettercelo.»
«E perché mai dovrebbe farlo?» chiese Alec, spiazzato, aggrottando la fronte. Magnus era la persona più strana che avesse conosciuto, ma non gli aveva mai dato, nelle poche ore in cui l’aveva visto, l’impressione di essere un assassino.
«Perché è uno psicopatico.» La risposta arrivò più diretta e dura di quanto si fosse aspettato. «Gli psicopatici si annoiano.»
«Donovan!» la voce di uno degli agenti interruppe il discorso del sergente.
«Arrivo!» rispose questi, e iniziò ad allontanarsi da Alec, per poi fermarsi all’ultimo minuti, e voltarsi verso di lui. «Stia lontano da Magnus Bane.» disse, poi rientrò all’interno dell’edificio, lasciando Alec solo, con l’unico eco di quelle parole che non volevano andarsene dalla sua mente.
 
 
 
 


 
ANGOLO AUTRICE:
Dunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Non ho avuto molto tempo per scriverlo, anzi, solo poche ore, causa scuola e impegni vari, ma spero che non faccia totalmente schifo. Ringrazio come sempre tutti i coraggiosi che seguono la mia storia e che trovano il tempo di recensire. Vi adoro tutti.
E… niente, non ho niente da dire, anche perché sono talmente stanca che rischio di mettermi a vaneggiare.
 
 
Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Uno studio in rosa: Capitolo 5 ***


Uno studio in rosa
Capitolo 5
 
 
Alec camminava per il marciapiede (era appena entrato in una strada affollata), ignorando le persone che gli passavano a fianco, perso tra i propri pensieri. Non poteva togliersi dalla testa le parole di Donovan, perché anche se razionalmente non riusciva a crederci, non potevano fare a meno di farlo dubitare della propria sicurezza. In fondo, lui che ne sapeva di Magnus? L’aveva anche ammesso, parlando con Donovan: l’aveva appena incontrato, non poteva sapere cosa si celasse dietro quella mente geniale.
Stava passando davanti ad una cabina telefonica vecchio stile quando sentì uno squillo. All’inizio, credette si trattasse del proprio cellulare, e fece per prenderlo, quando si rese conto che proveniva proprio dalla cabina telefonica a fianco a sé. Si bloccò. C’era qualcosa che non andava, e solo dopo un attimo capì cosa: le cabine telefoniche non squillano a caso. Non gli ci volle molto per decidere cosa fare. La curiosità vinse contro tutte le altre emozioni contrastanti, e lui, un po’ a fatica per via del bastone, entrò nel piccolo abitacolo, per poi alzare la cornetta.
«Pronto?» chiese.
Ci fu un attimo di silenzio, poi una voce del tutto sconosciuta parlò. «C’è una telecamera di sicurezza sull’edificio alla sua sinistra. Riesce a vederla?» Alec, smarrito, spostò lo sguardo dove gli era stato indicato e, in alto, nascosta dietro vari cartelloni troppo vicini, nelle pieghe del muro, la vide. 
Si riscosse velocemente dallo stupore. «Chi è?» domandò.
L’uomo – perché dalla voce doveva essere un uomo – dall’altra parte della linea non rispose. «Vede la telecamera, dottor Lightwood
Alec respirò profondamente, valutando le proprie opzioni. Avrebbe potuto appendere, o mollare la cornetta lì, ma in qualche modo seppe che non avrebbe funzionato per liberarsi del suo interlocutore. «Sì.» disse con tono restio, puntando gli occhi sul’apparecchio che aveva precedentemente notato. «La vedo.»
La voce continuò. «Guardi: c’è unì’altra telecamera sull’edificio di fronte a lei, riesce a vederla?» Alec deglutì, spostando lo sguardo e posandolo sulla seconda telecamera. «E ancora una.» proseguì l’altro senza attendere risposta. «Sull’edificio alla sua destra.» Di nuovo, Alec spostò lo sguardo e la vide. Nel frattempo una macchina aveva parcheggiato lungo il marciapiede. Era nera e lucida, ed un uomo vestito di scuro ne uscì. Non ebbe nemmeno il tempo di dire o chiedere niente che l’altro uomo al di là del telefono disse: «Entri nella macchina, dottor Lightwood. Normalmente potrei minacciarla.» Una pausa. «Ma confido che lei capisca in che situazione si trovi.» E con questo gli appese. Il tizio vestito di scuro lanciò un’occhiata ad Alec, poi gli aprì la portiera dell’auto con un gesto elegante.
Alec ripose con calma il telefono al proprio posto, per cercare di prendere tempo. Si sentiva la gola secca. Avrebbe voluto scappare, ma c’era qualcosa di intrinsecamente minaccioso nella voce che gli aveva appena parlato. Sapeva, intuiva, che non poteva fuggire. Prese un respiro profondo, buttò fuori tutta l’aria che aveva trattenuto, ed entrò nella macchina.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Dentro, c’era una donna sulla trentina, dai lunghi capelli biondo chiaro e la carnagione che alla luce della città fuori sembrava quasi di un colore azzurrato. Gli rivolse uno sguardo obliquo mentre si sedeva a fianco a lei e con voce tranquilla disse: «Si metta comodo. Sarà un lungo viaggio.»
Ci volle quasi mezz’ora prima di arrivare a destinazione. Era un complesso di edifici abbandonati, tra cui un grande parcheggio coperto, di quelli ormai usati come magazzini, vicino al quale parcheggiò l’auto che portava Alec. Quest’ultimo scese lentamente, osservando l’uomo che, in piedi al centro dello spazio chiuso, ricambiava il suo sguardo. Non poteva avere molti anni più di lui, ma era difficile dirlo con esattezza. Aveva capelli brizzolati e occhi di un verde tenue, la pelle di un colorito olivastro. Indossava un completo nero elegante, e si appoggiava con un braccio sullo schienale di una sedia in legno.
Gli sorrise, alzandosi e facendo un cenno con la mano verso la sedia. «Si sieda, Alexander.»
Lui si rifiutò di obbedire e gli si avvicinò, cercando di non mostrare il timore che sentiva strisciare in lui. «Sa,» fece. «Ho un cellulare. Avrebbe potuto chiamarmi con quello e dirmi di venire qui. Non che non sia stato un trucco ingegnoso, questo.» Lui stesso percepiva l’acidità del proprio tono.
«Quando si tenta di non essere notati da Magnus Bane…» disse l’uomo misterioso. «… si impara ad essere discreti. Ecco perché ci troviamo qui.» Inclinò il capo, osservandolo. «La gamba deve farle male. Si sieda.» disse, indicando di nuovo la sedia con un gesto elegante che ad Alec ricordò qualcosa di già visto. Ma non ricordava cosa.
«Non voglio sedermi.» ribatté con voce dura.
L’altro rise. «Non sembra molto spaventoso.» disse, divertito.
Alec serrò la mascella. «Nemmeno lei lo sembra.»
«Sì…» disse l’altro, smettendo di ridacchiare e fissandolo con un sorriso canzonatorio. «Il coraggio del soldato. “Coraggio” è il sinonimo più gentile di “stupidità”, non crede?» Fece una pausa, e non stava più sorridendo. «Com’è legato a Magnus Bane?» chiese.
«Non siamo legati.» disse Alec, sorpreso della piega che avevano preso gli eventi. «Ci siamo conosciuti ieri.»
«E da ieri è andato a vivere con lui e ora risolvete casi insieme. Crede che per il fine settimana sarete già una felice coppietta?»
Alec dovette inclinare il capo all’indietro per fissarlo, ora che gli si era avvicinato. «Lei chi è?» chiese.
«Una parte interessata.» fu la risposta.
«Interessata a Magnus? Perché? Immagino che non siate amici…»
«Lo conosce.» disse l’altro con semplicità. «Quanti amici crede che abbia?» Attese un attimo prima di proseguire, come aspettandosi che Alec parlasse, ma quando non lo fece, proseguì. «Sono la cosa di più simile ad un amico che Magnus Bane potrà mai avere.»
«E cioè?»
«Un nemico.» L’uomo lo fissò negli occhi per qualche istante, come soppesando le proprie parole.
Alec si sentiva un groppo in gola. In che diavolo di situazione si era cacciato?  «Un nemico?» chiese.
«Nella sua testa è sicuramente così.» Fece un leggero sorriso. «Se dovesse chiedere a lui, probabilmente direbbe che sono il suo acerrimo nemico. Gli piace un sacco fare il drammatico.»
«Beh,» disse Alec sarcastico. «Sicuramente lei è superiore.» Proprio in quel momento, la suoneria del proprio cellulare partì. Dopo un attimo di esitazione, lo afferrò, aprendo il nuovo messaggio.
 
BAKER STREET. VIENI IMMEDIATAMENTE, SE PUOI. MB
 
Si chiese cosa avesse di tanto urgente Magnus. Aveva forse scoperto qualcosa sui suicidi?
«Ha intenzione di portare avanti il suo rapporto con Magnus Bane?» chiese l’uomo davanti a lui, interrompendo i suoi pensieri.
Rinfilò il telefono in tasca e tornò a guardarlo. «Magari mi sbaglio,» disse. «Ma credo che non siano affari suoi.»
«Potrebbero esserlo.» L’altro inclinò il capo, ed estrasse dalla tasca interna della propria giacca un taccuino, aprendolo. «Se decidesse di trasferirsi davvero al 221B di Baker Street sarei felice di donarle regolarmente una cospicua somma di denaro regolarmente, per facilitarle le cose.»
«Perché?»
«Perché lei non è un uomo ricco.» Il tono era quello arrogante di chi era perfettamente sicuro di sé e del proprio successo.
«In cambio di cosa?» chiese Alec esitante.
«Informazioni.» rispose l’uomo. Scosse la testa davanti all’espressione di Alec. «Nulla di indiscreto, nulla che la farebbe sentire a disagio. Mi dica solo cosa ha in mente.»
Deglutì. «Perché?» ripeté. Non ci vedeva chiaro in quella faccenda, e non gli piaceva.
«Mi preoccupo per lui. Costantemente. Tuttavia,» continuò. «preferirei per varie ragioni che la mia preoccupazione restasse confidenziale. Noi due abbiamo quella che si potrebbe definire…» Si guardò intorno quasi in cerca di ispirazione. «una relazione complicata.»
Il cellulare di Alec squillò di nuovo, interrompendolo, e l’uomo gli fece un cenno, come invitandolo a rispondere.
 
SE NON TI E’ POSSIBILE, VIENI LO STESSO. MB
 
Alzò lo sguardo dallo schermo, e finalmente rispose. «No.» disse secco.
«Non le ho ancora detto la cifra.»
«Non si disturbi.» lo interruppe Alec, gelido.
«Lei è molto leale.» Sembrava divertito, e ciò non fece che irritare l’altro. «E in così breve tempo.»
«Non lo sono.» rispose lui. «Semplicemente non mi interessa.»
L’uomo gli rivolse uno sguardo che turbò Alec. Non gli piaceva. Estrasse di nuovo il taccuino, e lo aprì ad una delle prime pagine. Erano ricoperte da una calligrafia elegante e ordinata. «Qui c’è scritto “problemi di fiducia”.» disse. «E lei, tra tutti, ha deciso di fidarsi di Magnus Bane
Quelle parole richiamarono in Alec qualcosa di già sentito… “Stia alla larga da Magnus Bane.”, aveva detto Donovan. «Chi dice che mi fido di lui?» chiese. Ma proprio mentre lo diceva, seppe di star mentendo. La verità era che, per qualche strano motivo, si fidava di Magnus.
«Non sembra uno che faccia amicizia facilmente.»
Alec lo interruppe bruscamente. «Abbiamo finito?»
L’altro lo guardò intensamente. «Me lo dica lei.» disse, lentamente.
Lui non rispose. Si limitò a fare un cenno di saluto e a voltarsi per andarsene. Non era nemmeno a metà strada quando l’uomo lo fermò. «Immagino che l’abbiano già avvertita di stare alla larga da lui. Ma a giudicare dalla sua mano sinistra, vedo che non ha intenzione di farlo.»
Alec si bloccò e si voltò, provando un vago senso di stupore. «La mia… cosa
«Me la faccia vedere.» Gli si avvicinò prendendogliela senza attendere risposta. Alec si irrigidì, ma non si ritrasse. «Notevole.» annuì tra sé dopo un po’ l’uomo, lasciandogliela andare. «Molte persone vagano per questa città,» disse. «non vedendo altro che strade, auto e negozi. Quando lei cammina con Magnus Bane vede il campo di battaglia. E lei lo ha già visto, non è vero?»
«Cos’ha che non va la mia mano?» chiese Alec, accigliandosi.
Lui fece un sorrisetto. «Lei ha un tremore alla mano sinistra.» spiegò. «La sua terapeuta ritiene che si tratti di una sindrome post-traumatica da stress. Crede che lei sia tormentato dal ricordo della sua vita militare. Beh, la licenzi. La verità è l’esatto contrario. In questo momento è sotto stress, e la sua mano non trema per niente. Lei non è tormentato dalla guerra, dottor Lightwood. A lei manca la guerra. Bentornato.» E con queste parole, si voltò, incamminandosi verso la strada affollata. «E’ tempo di decidere da che fronte stare, Alec.» disse, poi sparì dalla sua vista.
 
 
 
***
 
 
 
Per tornare a casa – era strano come si fosse già abituato a definire Baker Street “casa” – Alec dovette prendere un taxi. Non ci mise tanto quanto aveva pensato, ma fu comunque troppo tempo. Tempo che avrebbe preferito non impiegare a spremersi le meningi fino a farsi venire l’emicrania per capire chi diavolo fosse l’individuo con cui aveva appena parlato.
Lei non è tormentato dalla guerra. A lei manca la guerra. Bentornato.
Quelle parole continuavano a perseguitarlo, tanto che all’ultimo minuto chiese al tassista di dirigersi verso il suo vecchio appartamento. Arrivato lì, non ci mise molto a trovare ciò che cercava. Da un cassetto della scrivania tirò fuori un revolver ancora carico. Se lo infilò nella tasca del giubbotto, poi rientrò nel taxi.
 
 
 
***
 
 
 
Quando Alec rientrò, trovò Magnus steso sul divano a fissare il soffitto con sguardo perso. Si era tolto la giacca, ed ora indossava solo una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti e jeans scuri.
«Ho bisogno di fumare.» disse come saluto. «Ma purtroppo di questi tempi, a Londra, è impossibile permettersi il vizio del fumo. Una vera sfortuna per il cervello.»
«Una vera fortuna per i polmoni.» ribatté Alec, avvicinandoglisi.
«Oh, i polmoni!» sbuffò Magnus, e rotolò a pancia in giù, per fissare il coinquilino con i suoi occhi felini. «Respirare è noioso.» Si risistemò come prima, e unì le mani davanti al viso, chiudendo gli occhi.
Alec si rese conto solo dopo qualche minuto di silenzio che lo stava ancora fissando, e distolse lo sguardo arrossendo.  «Perché mi ha chiamato?» chiese. «Deve essere importante.»
Lui parve ridestarsi all’improvviso. «Oh, sì, certo.» disse, aprendo di scatto gli occhi. «Può prestarmi la penna?»
«La… penna
«Non trovo la mia.» spiegò, senza accennare ad alzarsi, ma inclinando il capo per guardarlo di traverso. «L’ho cercata, ma non la trovo.»
«Poteva chiedere a Tessa.» disse Alec debolmente.
«E’ di sotto.» rispose lui.  «Ho provato ad urlare, ma non è venuta.»
«Io ero dall’altra parte di Londra!» sbottò Alec.
«Non fa niente,» Magnus scrollò le spalle. «Non avevo fretta. E mi serve anche il cellulare. Non uso il mio, potrebbero riconoscerlo.»
Alec scosse la testa, già esasperato. Estrasse dalla tasca una penna ed il cellulare, e glieli porse. Lui li afferrò, senza accennare a ringraziarlo.
«E’ solo a questo che devo il viaggio? Il suo viaggio?» mormorò Magnus tra sé.
L’altro si voltò verso di lui, perplesso. «Il “suo” viaggio? Il viaggio di chi?» chiese.
«La sua valigia, ovvio.» rispose lui. «L’ho trovata.»
Alec prese un profondo respiro, tentando di calmarsi. Il suo perenne tono ovvio iniziava ad urtargli i nervi in un modo impossibile. «Okay,» disse. «Ha trovato la valigia. E allora?»
«E’ inutile.» Magnus continuò con i propri ragionamenti ad alta voce, ignorandolo. «Non c’è altro modo. Dobbiamo rischiare.» Si rivolse ad Alec. «Sulla mia scrivania c’è un numero. Voglio che lei mandi un messaggio.» Gli restituì il cellulare che Alec prese con stizza
«Mi ha fatto venire qui,» disse. «per farmi mandare un messaggio
«Un messaggio,» annuì l’altro. «Il numero è sulla scrivania.»
Alec scosse la testa, e non rispose, mentre i pensieri tornavano allo strano uomo che aveva incontrato.
«Che c’è?» chiese Magnus.
«Ho appena conosciuto un suo amico.» disse lentamente.
«Un amico?» Il tono era incuriosito. «Un nemico.» lo corresse. «Quale?» Lo chiese con così tanta nonchalance da scioccare l’altro. Come se nella vita quotidiana fosse normalissimo avere più di un nemico, o anche semplicemente averne uno. Ma ormai Alec aveva capito che in Magnus Bane non c’era nulla di quotidiano.
«Beh,» fece. «Il suo acerrimo nemico, a quanto dice. Le persone normali hanno un acerrimo nemico?»
Magnus si voltò finalmente verso di lui e senza rispondergli chiese: «Le ha offerto del denaro per spiarmi?»
«Sì.»
«Ha accettato?»
«No.» disse Alec, aspettandosi per lo meno un “grazie”, che però non arrivò.
«Peccato,» disse Magnus, non sembrando né deluso né soddisfatto. «Potevamo dividerlo. Ci pensi meglio, la prossima volta.»
«Chi è?» chiese l’altro.
«L’uomo più pericoloso che lei abbia mai conosciuto. E… ora non è un mio problema.» Il suo tono divenne perentorio. «Sulla scrivania… il numero!»
Alec sospirò, rassegnato, ed afferrò il foglietto, cominciando a digitare il numero. Quando l’occhio gli cadde sul nome scarabocchiato sulla carta, però, si bloccò. «Jennifer Wilson.» disse, stupito. «Non era…? Aspetti.» Alzò lo sguardo sull’altro, ancora steso sul divano. «Non è la donna che è morta?»
«Sì, non è importante,» fece lui sbrigativo. «Digiti il numero.»
Alec riprese a digitare, sapendo che non avrebbe ottenuto delle risposte finché non avesse scritto quel maledetto messaggio. «Sta digitando?» chiese Magnus, senza guardarlo.
«Sì.»
«Ha finito?»
«Un attimo!» sbottò lui.
Magnus continuò imperterrito. «Digiti queste esatte parole: “Cosa è successo a Lauriston Gardens? Devo aver perso i sensi. Northumberland Street 22. Vieni, per favore.”» Si alzò di colpo, mentre Alec scriveva il messaggio, e si diresse con uno scatto verso un angolo della stanza. «Digiti e invii. Velocemente!» Afferrò un piccolo trolley rosa, trascinandolo verso la scrivania. Lo aprì proprio mentre Alec premeva l’invio.
Alec lo fissò per un attimo. «Quella è… la valigia della donna vestita di rosa.» disse, atono.
«Sì, lo è.» Magnus vi si sedette accanto. Poi alzò lo sguardo e colse l’espressione sul viso dell’altro. «Forse dovrei precisare che non l’ho uccisa io.» disse.
«Non l’ho mai pensato.» ribatté Alec, e non mentiva.
«Perché no?» Magnus sembrò quasi stupito.  «A fronte del messaggio appena spedito e del fatto che io abbia la valigia sembrerebbe la spiegazione più logica.»
Alec scosse piano la testa. «Di solito ritengono che l’assassino sia lei?» chiese. Sentì un pizzico di tristezza, pensando che quella mente geniale rimanesse così incompresa.
«Di solito, sì.» rispose Magnus. Salì con agilità sulla sedia, accovacciandovisi sopra, come un gatto.
«Okay…» Alec aggirò la valigia, sedendosi sulla poltrona davanti a Magnus. «Quindi?» incitò l’altro a spiegare.
«L’assassino deve averla portata in auto a Lsuriston Gardens. Se la valigia era nell’auto,può averla tenuta solo per sbaglio. Nessuno potrebbe girare con una valigia del genere senza attirare l’attenzione. In particolare un uomo, il che è statisticamente più probabile. Perciò ovviamente ha avuto l’impulso di sbarazzarsene. E non gli ci saranno voluti più di dieci minuti per rendersi conto dell’errore. Ho cercato in ogni vicolo a cinque minuti da Lauriston Gardens abbastanza grande da tenere un’auto e dove si potesse scaricare un oggetto voluminoso senza essere visti. Ci è voluta meno di un’ora per trovare il cassonetto giusto.»
«Tutto questo perché ha capito che la valigia doveva essere rosa?» chiese Alec incredulo.
«Beh, era ovvio che fosse rosa.»
«Perché non ci ho pensato?» disse Alec tra sé. Magnus faceva sempre sembrare tutto così dannatamente semplice…
«Perché è un idiota.» rispose lui. «Oh, non si offenda,» aggiunse, notando la sua occhiataccia. «Lo siete praticamente tutti.» Indicò la valigia.  «Ora osservi.» disse. «Vede cosa manca?» E, senza attendere risposta: «Il telefono. Dov’è il suo telefono? Non sul corpo, non sulla valigia. Sappiamo che l’aveva. Quello è il numero.» Fece un cenno verso la scrivania. «Ha appena spedito un messaggio. Aveva parecchi amanti, ed era prudente. Non lasciava mai il telefono a casa.»
«Perché ho appena spedito quel messaggio?» chiese Alec, dopo qualche attimo di silenzio.
«La domanda è,» disse Magnus, mettendosi seduto e fissandolo intensamente. «Dove si trova il suo telefono adesso?»
«Beh, potrebbe averlo perso…» tentò Alec.
«Certo. Oppure?»
Finalmente Alec capì dove volesse arrivare. «L’assassino…» mormorò. «Crede che il cellulare lo abbia l’assassino?»
Magnus annuì soddisfatto. «Forse,» disse. «se l’è dimenticato in macchina quando ha preso la valigia.»
«Magari lo ha preso per qualche motivo.» propose Alec.
«In ogni caso, l’assassino ha il cellulare.»
«Scusi…» lo interruppe Alec spalancando gli occhi. «Cosa diavolo stiamo facendo? Ho appena mandato un SMS ad un assassino? Perché?»
In quel momento, il suo telefono squillò. Lo sguardo  di entrambi si posò su di esso.
«Poche ore dalla sua ultima vittima,» disse Magnus. «ed ora riceve un SMS che poteva mandargli solo lei. Se qualcuno avesse trovato il telefono, avrebbe ignorato l’SMS. Ma l’assassino sarebbe andato nel panico.» Si alzò di scatto, iniziando a percorrere avanti ed indietro il salotto. Afferrò la giacca nera e se la infilò.
«Ne ha parlato con la polizia?» chiese Alec alzandosi a sua volta.
«Sono morte quattro persone,» rispose l’altro sbrigativo. «Non c’è tempo.»
«Allora perché sta parlando con me?»
«Tessa ha preso il mio teschio.» rispose Magnus.
«Quindi in pratica io sostituisco un teschio?» chiese Alec, non sapendo se ridere o arrabbiarsi. Perfetto, pensò. Ora il mio scopo nella vita è prendere le veci di un teschio.
«Si rilassi, sta andando benone.» Si infilò il giubbotto, e lo guardò con insistenza. «Beh?» disse.
«Beh cosa?» fece Alec, perplesso.
«Beh, potrebbe starsene semplicemente lì seduto a vedere la televisione.»
Alec si voltò di scatto verso di lui, sorpreso. «Vuole che venga con lei?»
«Mi piace la compagnia quando esco,» spiegò Magnus, scrollando le spalle. «E riesco a pensare meglio ad alta voce. Il teschio attira solo l’attenzione, quindi…» Si lego la sciarpa al collo. «Ci sono problemi?»
«Sì,» disse Alec, esitante. «Il sergente Donovan… ha detto che ti avrebbe eccitato tutto questo, che ti sarebbe piaciuto.»
Magnus fece un sorriso felino. «Ed io ho detto “pericoloso”,» disse. «Ed eccoti qui.»






ANGOLO AUTRICE:
Quindi... mi scuso in anticipo per il ritardo nell'aggioornamento, ma non sono riuscita a pubblicare prima.
Uhm... cos'abbiamo in questo capitolo? Magnus che vuole la penna di Alec, ovvio. Okay, tralasciando le mie fantasie erotiche sui Malec, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e ringrazio chi mette tra le seguite/preferite/ricordate. Ringrazio specialmente _ F i r e _ che mi aiutasempre molto con i dettagli di questa storia.
Per darvi tempo di recensire questasettimana aggiornerò domenica, poi riprendo con gli aggiornamenti regolari il sabato.
Alla prossima


Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Uno studio in rosa: Capitolo 6 ***



Uno studio in rosa
Capitolo 6
Usciti dal 221B, Magnus decise che avrebbero raggiunto il luogo dell’incontro a piedi.
«Northumberland Street è a 5 minuti da qui.» spiegò con una scrollata di spalle.
«Pensa che l’assassino sia tanto stupido da andarci?» chiese Alec, mentre camminavano per il marciapiede.
«No, penso che sia piuttosto intelligente.» Magnus aveva un’aria soddisfatta. «Adoro quelli intelligenti. Muoiono tutti dalla voglia di essere catturati.»
«Perché?» domandò Alec sorpreso.
«Apprezzamento! Applausi! Gli piace finire sotto i riflettori.» disse Magnus con semplicità. «E’ la debolezza dei geni, Alexander. Hanno bisogno di un pubblico.»
Alec annuì, pensieroso. «Già.» Pensò al modo in cui l’altro era parso costantemente compiaciuto dell’attenzione, dell’incredulità e dell’ammirazione degli altri, e pensò che sì, aveva ragione. E per qualche strano motivo pensò anche che quella sarebbe stata la sua rovina, come lo era stata per molti altri geni.
«Questo è il suo terreno di caccia.» stava intanto continuando Magnus facendo un rapido giro su se stesso. «Qui, nel centro cittadino. Sapere che le sue vittime sono state rapite cambia tutto. Perché tutte le sue vittime sono scomparse da strade trafficate, posti affollati, ma nessuno le ha viste.» Si portò una mano agli occhi, come cercando di concentrarsi, sempre continuando a camminare. «Di chi ci fidiamo anche se non lo conosciamo? Chi passa inosservato ovunque vada?» Abbassò il braccio. «Chi caccia nel bel mezzo della folla?»
Alec scosse la testa. «Non saprei. Chi?»
«Non ne ho la più pallida idea. Hai fame?» Il repentino cambio di conversazione spiazzò l’altro, che tuttavia lo seguì mentre entrava in una piccola ma accogliente tavola calda. Il cameriere fece loro segno di sedersi e Magnus scelse un tavolo per due davanti alla vetrata che dava sulla strada.  «Il 22 di Northumberland Street è proprio qui di fronte.» disse questi a bassa voce, in modo da non farsi sentire dagli altri occupanti del locale. «Lo teniamo d’occhio.»
«Non suonerà mica il campanello, no?» chiese Alec mentre si toglieva il giubbotto. «Sarebbe folle.»
«Ha ucciso quattro persone.» ribatté l’altro in tono eloquente, e l’altro si zittì. Non aveva tutti i torti.
Arrivò un altro cameriere piuttosto nerboruto, con un codino castano, che diede a Magnus una calorosa stretta di mano. «Magnus!» esclamò a mo’ di saluto. «Tutto quello che c’è nel menù, ogni cosa che vuoi, gratis.» disse. «Offre la casa. Per lei e per il suo ragazzo.»
A quelle parole Alec per poco non si strozzò, avvampando e affrettandosi ad abbassare il capo per impedire che si vedesse il suo rossore. Tuttavia sentendo la risatina di Magnus capì di aver fallito miseramente. «Non sono il suo ragazzo!» disse con foga.
«Mi ha scagionato da un caso di omicidio.» gli disse il cameriere, indicando Magnus ed ignorandolo. Sembrava che in quei pochi giorni tutti si fossero coalizzati per ignorare ogni sua parola. Questa cosa iniziava davvero ad irritarlo. «Tre anni fa ha provato con successo ad Herondale che nel momento in cui avveniva un triplo omicidio…»
«Angelo era dall’altra parte della città a svaligiare una casa.» completò per lui Magnus, ora appoggiato al sedile di pelle della propria sedia come se non avesse nessun problema per la testa.
Angelo, il cameriere, annuì per poi dire:  «Prendo una candela da mettere sul tavolo. Così è più romantico.» ed allontanarsi, presumibilmente per prendere suddetta candela.
«Non sono il suo ragazzo!» ripeté Alec, arrossendo di nuovo.
«E’ meglio se mangi qualcosa. Potremmo dover aspettare per un bel po’.» gli disse Magnus, afferrando il proprio menù ma continuando a fissare la strada fuori. In quel momento, Angelo tornò, posando una candela al centro del tavolo. Alec scorse con la coda dell’occhio il sorrisetto di Magnus, che disse un noncurante: «La ringrazio.»
Dopo qualche attimo passato a mordicchiarsi le labbra indeciso, Alec alzò lo sguardo. «La gente normale non ha acerrimi nemici.» disse.
L’altro voltò di scatto la testa verso di lui, parendo sorpreso, come se Alec lo avesse distratto da delle intense elucubrazioni mentali. «Come prego?»
«Nella vita reale.» spiegò Alec sporgendosi in avanti. «Non ci sono gli acerrimi nemici nella vita vera. Non esistono.»
«Ah no?» fece l’altro annoiato. «Mi sembra un po’ noioso.»
«Allora…» sospirò Alec. «Io chi ho incontrato?»
«Cos’hanno le persone, nelle “vite vere”?» chiese invece Magnus.
Lui scrollò il capo. «Amici?» disse. «Persone che conoscono, persone che stanno simpatiche, persone che stanno antipatiche. Ragazze, ragazzi…»
«Sì beh,» lo interruppe l’investigatore. «Come stavo dicendo, noioso.»
«Quindi non hai una ragazza.» disse Alec prima di potersi trattenere, per poi maledirsi internamente. Succedeva un po’ troppo spesso, da quando aveva conosciuto Magnus.
«Ragazza?» chiese lui evasivo, come se si trattasse di una parola in una lingua sconosciuta. «No, non è esattamente il mio campo.»
Alec esitò, mentre la sua mente elaborava un’idea che gli parve sia assurda sia plausibile. «Hai un ragazzo?» chiese, per poi aggiungere frettolosamente. «E comunque non ci sarebbe nulla di male.»
«Lo so che non c’è niente di male.» Magnus tornò finalmente a guardarlo.
«Quindi hai un ragazzo?»
«No.» rispose.
«Va bene. Okay.» disse Alec, più imbarazzato che mai, distogliendo gli occhi da quelli felini di lui. «Non hai legami. Come me. D’accordo. Bene.»
Per un attimo, Magnus rimase a fissarlo, come se fosse impazzito. «Alec…» disse poi. «Credo che dovresti sapere che mi considero sposato con il mio lavoro. E anche se sono lusingato…»
Alec strabuzzò gli occhi. «No,» lo interruppe. «Non sto…» balbettò. «Non sto chiedendo se… No. Sto solo dicendo che… che non c’è niente di male.»
Di nuovo, Magnus lo fissò come se fosse impazzito, ed Alec iniziò a credere che in effetti doveva esserlo per fare discorsi così sconclusionati. «Ottimo.» disse poi, tornando a guardare con nonchalance fuori dalla finestra. Dopo un po’ riprese. «Guarda fuori dalla finestra. C’è un taxi. Si è fermato.» Alec si voltò seguendo la direzione del suo sguardo. «Nessuno entra e nessuno esce.» Gli occhi felini scintillarono. «Astuto…» mormorò tra sé. «E’ lui. Non fissarlo.» aggiunse rivolto all’altro.
«Tu lo stai fissando.» ribatté lui.
«Ma non possiamo fissarlo entrambi.» disse. Poi si alzò con uno scatto ed uscì dal locale. Dopo un attimo, Alec lo seguì, così preso dal momento che si dimenticò del bastone.
Lo raggiunse giusto in tempo per vedere il taxi scomparire. In un attimo, si misero a correre per seguirlo. Andarono a sbattere contro una macchina che stava parcheggiando, ma con un salto si puntellarono sul cofano, quasi correndoci sopra, senza mai interrompere la loro corsa.
Si fermarono solo quando capirono di averlo definitivamente perso. «Ho preso il numero del taxi.» disse Magnus alzando una mano per fermare Alec. Sembrava stesse ragionando tra sé, mormorando indicazioni stradali come se seguisse il percorso della macchina. Dopo un attimo alzò lo sguardo di colpo e prese una svolta a destra, iniziando a correre, seguito subito da Alec.
Andarono a sbattere contro varie persone, per poi entrare in un edificio a più piani. Imboccarono le scale e salirono sul tetto. Lì, Magnus gli rivolse uno sguardo veloce come per assicurarsi che ci fosse, sorprendendo Alec. Si era aspettato che proseguisse dritto senza guardarsi indietro.
Sul bordo del tetto arretrò di poco per prendere la rincorsa e saltò, atterrando sul tetto vicino. L’altro dopo un istante di esitazione lo seguì.
Mentre saltavano da un tetto all’altro seguendo il taxi, l’aria fredda della sera sferzò il viso di Alec, facendogli provare quel genere di euforia e adrenalina che ti prendono solo durante le battaglie. Era come se, per la prima volta da troppo tempo, si sentisse vivo.
 
 
***
 
 
Dopo un tempo che parve interminabile scesero dai tetti attraverso una stretta scaletta, attraversarono vari vicoli bui, per poi sbucare in una strada affollata e continuare a correre.
Alec si sentiva i polmoni in fiamme, ma non gli importava. Non quando poteva sentire tutte quelle emozioni bruciare in lui come un fuoco.
Per un attimo parve che lo avessero perso, ma poi dopo un po’ di esitazione Magnus quasi urlò: «Da questa parte!» riprendendo a sfrecciare tra le macchine. Si infilarono di nuovo in un vicolo laterale, scavalcando sacchi della spazzatura e schivando cassonetti vuoti. Uscirono di nuovo in strada ed andarono a sbattere contro il cofano del taxi. Esattamente il taxi che stavano inseguendo.
Magnus fu il primo dei due a riprendersi, dirigendosi verso la portiera posteriore e aprendola con uno scatto. Mise una mano in tasca e tirò fuori un documento, sventolandolo come uno stendardo. «Siamo della polizia!» Osservò il passeggero ed i suoi occhi si allargarono, increduli. «Denti bianchi, castano, è della California.» mormorò tra sé, ritraendosi e scuotendo la testa. Si rivolse ad Alec. «Viene da Los Angeles, Santa Monica, è appena arrivato.»
«Come fai a saperlo?» chiese Alec.
«Il bagaglio.  Probabilmente il suo primo viaggio a Londra. Vero?» chiese al passeggero (un ragazzo di non più di una ventina d’anni) che li osservava scioccato. «A giudicare dalla sua destinazione finale e dal percorso del taxi…» continuò senza attendere risposta, come suo solito.
«Scusate,» li interruppe il ragazzo. «Siete della polizia?»
«Sì.» rispose Magnus alzando di nuovo il documento e mostrandoglielo. «E’ tutto a posto.» Fece una pausa e prima di andarsene disse: «Benvenuto a Londra.»
 
 
***
 
 
«Praticamente era solo un taxi fermo.» disse Alec, piegandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Si erano un po’ allontanati dall’auto che avevano appena inseguito, che comunque continuava ad essere in vista.
«Praticamente.» annuì Magnus.
«E non era l’assassino.»
«Non era l’assassino, no.»
Alec si rialzò e fece un passo avanti, afferrando il polso dell’altro e togliendogli di mano il documento della polizia. «Dove l’hai preso questo?» chiese, guardandolo. Sgranò gli occhi. «Ispettore Herondale
«Già.» Magnus annuì soddisfatto. «Lo derubo quando mi infastidisce.» disse, sembrando tanto un bambino dispettoso. «Puoi tenerlo, se vuoi. Ne ho un sacco nel mio appartamento.»
Alec sbottò in una mezza risata, senza riuscire a trattenersi.
«Che c’è?» chiese Magnus fissandolo perplesso.
«Niente,» rispose lui, ancora ridendo. «Solo quel “Benvenuto a Londra”.»
L’altro accennò un sorriso, che si spense subito quando girò il capo verso il taxi. Alec seguì la direzione del suo sguardo e fissò l’agente di polizia che, parlando con il passeggero, si era appena voltato verso di loro. La sua espressione, anche a distanza, era inequivocabile. «Hai ripreso fiato?» chiese Magnus senza guardarlo.
Alec intuì al volo. «Sono pronto quando lo sei tu.» disse.
E ripresero a correre.
 
 
***
 
 
Rientrati al numero 221B di Baker Street, si appoggiarono al muro, lasciandosi andare alle risate. «E’ stato ridicolo.» rise Alec. «La cosa più ridicola… che abbia mai fatto.»
«E dire che hai invaso la Russia!» ridacchiò Magnus.
Risero di nuovo. «Non c’ero solo io.» ansimò lui tra le risate.  Alla fine, dopo molti minuti, si ripresero abbastanza da permettere ad Alec di chiedere: «Perché non siamo tornati al ristorante?»
«Possono tenere loro gli occhi aperti.» disse Magnus, scollandosi finalmente dalla parete. «Era comunque un tentativo improbabile.»
«Allora cosa ci facevamo lì?» chiese Alec seguendolo.
Magnus fece spallucce. «Oh, stavamo solo passando il tempo. E dimostrando qualcosa.»
«Che cosa?»
«Tu.» fu la semplice risposta. Poi alzò la voce: «Tessa! Il dottor Lightwood prenderà la stanza di sopra!»
«E chi lo dice?» ribatté il diretto interessato, nonostante avesse già deciso di non andarsene da lì.
Magnus si voltò verso di lui, fissandolo intensamente. «Lo dice l’uomo che sta alla porta.» rispose, e in quell’esatto istante il campanello suonò. Confuso, Alec si girò ed aprì la porta d’entrata. Si ritrovò davanti il cameriere della tavola calda, Angelo, che subito gli porse un oggetto lungo e cilindrico: il suo bastone.
«Magnus mi ha mandato un messaggio.» spiegò Angelo. «Dice che lei ha dimenticato questo.»
Alec si limitò a fissarlo per un attimo, mentre la sua mente elaborava ciò che era accaduto: aveva corso come un pazzo, saltando attraverso tetti e buttandosi in mezzo a strade trafficate per più di mezz’ora, senza usare l’oggetto da cui dipendeva da mesi. Lentamente lo afferrò. Poi si voltò verso Magnus. L’investigatore gli stava sorridendo, per la prima volta di un sorriso sincero, privo di malizia o arroganza, ed Alec sentì le proprie labbra piegarsi all’insù come di propria iniziativa per ricambiare il sorriso.
Prima di rientrare, si rivolse ad Angelo con un ultimo frettoloso «Grazie.»
Quando la porta si fu chiusa alle sue spalle, arrivò di corsa Tessa, fissandoli con rimprovero. «Magnus, che hai combinato?» sbottò.
«Che cosa…?»
«Di sopra…» spiegò lei.
Gli altri due si scambiarono una veloce occhiata prima di affrettarsi a salire.
Mentre percorrevano le scale, Alec si prese il proprio tempo per osservarlo. Aveva un aspetto straordinariamente giovane, con i vestiti stropicciati e i capelli ritti in testa a causa del vento della corsa. Dubitò di avere un aspetto migliore, ma a Magnus dava quel non so che di… affascinante. Sexy. Molto sexy. A quei pensieri Alec arrossì furiosamente e si costrinse a distogliere lo sguardo, imbarazzato con se stesso.
Fecero irruzione nell’appartamento, trovandolo completamente a soqquadro, agenti della polizia ovunque e William Herondale seduto su una delle poltrone in pelle. «Che state facendo?» sbottò Magnus, furente. «Non potete irrompere così in casa mia!»
«E tu non puoi nascondere prove.» ribatté Will, alzandosi in piedi come per fronteggiarlo e facendo un cenno verso la valigia rosa che giaceva aperta a terra, al c’entro del salotto. «Non ho fatto irruzione in casa tua.»
«Come lo chiami questo allora?» chiese Magnus allargando le braccia come per mostrargli il disastro che li circondava.
«E’ una retata antidroga.» spiegò Will con tono di superiorità.
Alec si fece avanti, affiancandosi al proprio coinquilino. «Sul serio?» chiese incredulo. «State scherzando.»
Magnus gli afferrò un braccio, come per calmarlo. Poi si rivolse a Will. «Non sono il suo cane antidroga.» disse.
«No,» assentì l’ispettore. «Anderson è il mio cane antidroga.»
«Cosa? A…?» Magnus si bloccò, voltandosi verso la cucina, da dove Anderson li fissava. Il tenente alzò una mano e sfarfallò le dita con scherno, come per salutarli. «Anderson, che ci fai qui in una retata antidroga?» chiese, lasciando andare il braccio di Alec.
«Sono un volontario.»
«Lo sono tutti.» ribatté Magnus avvicinandosi. «Non sono esattamente della squadra antidroga, ma sembrano molto entusiasti.»
«Questi sono… occhi umani?» chiese Donovan, tirando fuori dal microonde una bacinella piena di una sostanza gelatinosa non meglio identificata.
«Rimettili subito a posto!» fu la secca risposta di Magnus.
«Erano nel microonde!» sbottò la donna. Alec non poté biasimarla.
«E’ un esperimento.» disse l’altro stizzito.
«Continuate a cercare, ragazzi.» disse Will, per poi rivolgersi a Magnus, che intanto andava avanti e indietro per il salotto come un leone in gabbia. «Oppure potresti aiutarci tu, ed io li fermerò.»
«Che infantile!» sbottò questi.
«Beh,» disse Will, mordace, seguendolo con lo sguardo. «Io ho a che fare con un bambino!» Poi parve calmarsi e sospirò. «Magnus, questo caso è nostro. Ti ci ho fatto entrare ma non puoi indagare per conto tuo! Capito?»
«Quindi…» disse Magnus, bloccandosi di colpo davanti a lui. «Insceni una finta retata antidroga per intimorirmi?»
«Non sarà più finta se troviamo qualcosa.» Will lo fissò con aria di sfida.
«Io sono pulito!» sbottò Magnus. Si slacciò i bottoni della manica della camicia, tirandola su in modo da lasciar vedere l’avambraccio. «Non fumo nemmeno!»
Will incrociò le braccia, fissandolo. «Allora lavoriamo assieme.» disse semplicemente. «E devi sapere che ho trovato Rachel.»
 
 
 
 


 
ANGOLO AUTRICE:
Sono abbastanza di fretta, quindi non mi perdo in parole inutili. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio chi mette tra le preferite/seguite/ricordate, tutti quelli che recensiscono e i lettori silenziosi. Grazie mille a tutti J
 
 
 
Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Uno studio in rosa: Capitolo 7 ***


Uno studio in rosa

Capitolo 7
 
 
 
 
 
Will incrociò le braccia, fissandolo. «Allora lavoriamo assieme.» disse semplicemente. «E devi sapere che ho trovato Rachel.»
 
A quelle parole Magnus sentì l’adrenalina e l’eccitazione invaderlo, e le domande si accavallarono senza controllo nella sua mente. «Chi è?» chiese.
«L’unica figlia di Jennifer Wilson.» rispose Will.
«Sua figlia?» Magnus aggrottò la fronte. «Perché avrebbe dovuto ascrivere il nome di sua figlia?»
«Chi se ne frega!» sbottò Anderson, sbucando dalla cucina. «Abbiamo trovato la valigia! A detta di qualcuno l’assassino ha la valigia, e l’abbiamo trovata nelle mani del nostro psicopatico preferito.» E qui sparò un’occhiata acida a Magnus.
L’interpellato sbuffò. «Non sono psicopatico, Anderson.» fece con tono annoiato. «Sono un sociopatico iperattivo. Impara.» Tornò a rivolgersi a Will. «Devi convocare Rachel ed interrogarla.» disse perentorio.
L’ispettore scosse la testa. «E’ morta.»
«Ottimo!» fece l’altro. «Come, quando, perché?» Gesticolò in direzione di Will. «C’è un collegamento? Deve esserci!»
«Ne dubito.» lo interruppe lui. «Dato che è morta quattordici anni fa. Tecnicamente, non è mai esistita. Rachel è la figlia nata morta di Jennifer Wilson.»
Magnus scosse la testa, confuso. «No, è…» Si interruppe. «Perché lo avrebbe fatto? Perché?»
«Perché mai pensare a sua figlia nei suoi ultimi istanti?» sbuffò Anderson. «Già, sociopatico… ora capisco.»
Magnus si voltò di scatto verso di lui, irritato. «Non ha pensato a sua figlia!» sbottò. «Ha inciso il suo nome sul pavimento usando le unghie! Stava morendo, si sarà sforzata, deve essere stato doloroso!» Riprese a camminare avanti ed indietro, passandosi ripetutamente le mani tra i capelli, riflettendo alta voce.
«Lei ha detto che le vittime hanno preso loro stesse il veleno.» disse Alec, e per poco Magnus non sobbalzò. Si era quasi dimenticato che fosse lì. «Che le costringe a prenderlo. Beh…» Esitò, come per paura di dire qualcosa di sbagliato, e Magnus gli fece cenno di parlare, senza mai smettere di camminare. «Magari lui… non so… gli parla. Forse ha usato la morte di sua figlia in qualche modo.»
«E’ stato secoli fa.» disse Magnus, esasperato. «Perché avrebbe dovuto starci ancora male tanto da essere convinta a suicidarsi?» Scosse la testa. «Se tu stessi morendo… se venissi ammazzato, nei tuoi ultimi secondi cosa diresti? Jennifer Wilson» continuò, senza aspettare risposta. «con tutti quegli amanti, era furba. Sta cercando di dirci qualcosa!»
In quel momento comparve Tessa sulla porta. «Il tuo taxi è qui, Magnus.» disse.
«Non ho chiamato un taxi. Lo faccia andare via!» rispose brusco lui.
«Oh Dio,» disse la padrona di casa, guardandosi intorno ed accorgendosi della confusione. «Cos’è tutto questo casino? Cosa stanno cercando?»
Magnus sentì distrattamente Alec spiegarle: «E’ una retata antidroga.» e gli agenti di polizia parlare in sottofondo, e alla fine esplose: «State tutti zitti!» quasi urlò. «Zitti! Non muovetevi, non parlate, non respirate! Cerco di pensare!» Fece un cenno deciso verso la cucina. «Anderson, girati dall’altra parte. Mi sconcentri!»
«Come?» fece l’altro, sbalordito. «La mia faccia ti…»
«Tutti zitti e fermi.» lo interruppe Magnus.
Will scosse la testa. Era l’unico che fosse anche solo minimamente abituato agli scatti dell’investigatore. «Anderson, girati.» disse, pacato.
«Ma…»
«Girati adesso, grazie!» Il tono quasi furioso di Magnus parve sortire l’effetto desiderato.
«E’ il tuo taxi.» intervenne Tessa.
«Tessa!» sbottò l’altro.
Anche lei parve recepire il messaggio e si diresse a passo veloce verso le scale, non senza avergli risparmiato un’occhiata indignata.
Finalmente lui si rilassò e continuò a spiegare, ignorando gli occhi spalancati di Alec che lo osservavano come se fosse impazzito. «Era furbissima, sì. È più furba…» Riprese camminare per la stanza.
«di tutti voi messi insieme. Ed è morta. Vedete, capite? Non ha perso il telefono, non l’ha mai perso! L’ha piazzato su di lui! Quando è uscita dall’auto, sapeva che sarebbe andata incontro alla sua morte. Ha lasciato lì il telefono per condurci al suo assassino!»
«Ma come?» chiese Will.
«Cosa significa, come?» fece Magnus, irritato. Non era ovvio? «Rachel! Non capite? Rachel!» Tutti lo fissavano allibiti. «Ma guardatevi, siete così assenti…» disse. «E’ bello non essere me, vero? Deve essere così rilassante. Rachel non è un nome!»
«E allora cos’è?» disse Anderson, sarcastico.
«Alec, sulla valigia c’è una targhetta, un indirizzo e-Mail. Leggilo.» Si sedette alla scrivania, aprendo il portatile ed andando su internet.
«jennie.pink@mephone.org.uk.» lesse Alec, e Magnus digitò l’indirizzo, dopo essere entrato nell’e-Mail.
«Sono stato lento.» disse intanto. «Non aveva un portatile, il che significa che lavorava con il cellulare. Quindi è uno smartphone, accede alle e-Mail. Quindi c’è un sito per il suo account. E ovviamente la password è “Rachel”.»
«Bene.» disse Anderson. «Possiamo leggere le sue e-Mail, e allora?»
«Anderson, sta zitto.» disse tranquillamente Magnus, senza scollare gli occhi dallo schermo. «Abbassi il quoziente intellettivo di tutto il quartiere. Possiamo fare molto più che leggere e-Mail.» spiegò poi. « È uno smartphone, ha il GPS. Se lo perdi, puoi localizzarlo online. Ci sta conducendo direttamente all’assassino.»
«Se non se n’è liberato.» obiettò Anderson, ignorando l’ordine di Magnus.
«Sappiamo che non l’ha fatto.» ribatté Alec. Era appoggiato allo schienale della sedia di Magnus e si sporgeva per vedere lo schermo.
Intanto il GPS doveva ancora localizzare il cellulare. «Avanti,» mormorò Magnus, impaziente. «Avanti, più veloce…»
In quel momento Tessa tornò. «Magnus, questo tassista…» iniziò, ma lui la interruppe, alzandosi in piedi e dirigendosi verso di lei. «Tessa, non è ora del tuo the serale?» Si rivolse a Will, mentre Alec prendeva il suo posto alla scrivania. «Prendi un’auto, prendi un elicottero, dobbiamo essere veloci.»
«La batteria non durerà per sempre.» osservò Donovan.
«Abbiamo un punto sulla mappa, non un nome!» aggiunse Will.
«E’ un inizio!» li zittì Magnus.
«Magnus…» mormorò Alec, ancora al computer, ed il suo tono sembrava quasi sconvolto.
«Sono un po’ meno di tutta Londra.» continuò questi, ignorandolo. «E’ la prima vera traccia che abbiamo!»
«Magnus.» Alec alzò la voce, e finalmente il suo coinquilino si voltò verso di lui. «Dov’è? Veloce, dov’è?»
Gli occhi di Alec erano spalancati, ed un attimo dopo Magnus capì il perché. «Qui.» disse piano. «E’… al 221B di Baker Street.»
Magnus dischiuse le labbra, voltandosi lentamente verso il resto della stanza. «Come può essere qui? Come
«Beh, forse era nella valigia quando l’hai portata qui ed… è caduto da qualche parte.» tentò Will, con il tono di chi però dubita delle proprie stesse parole.
«Ed io non l’ho notato? Io? E comunque,» riprese. «Gli abbiamo scritto e lui ha richiamato.»
Mentre l’ispettore ordinava di cercare un cellulare lì intorno – cosa che, secondo Magnus, era abbastanza inutile – nella mente dell’investigatore riaffiorarono le proprie stesse parole.
Di chi ci fidiamo anche se non lo conosciamo?
Posò gli occhi su Tessa, e poi sulla figura che stava dietro di lei. L’aveva appena notata, doveva essere il tassista di cui parlava.
Chi passa inosservato ovunque vada?
La targhetta appesa al collo del tassista… non gli era nuova.
Ovviamente. Era la targa del suo taxi, e il taxi era lo stesso che lui e Alec avevano inseguito.
Chi caccia nel bel mezzo della folla?
L’uomo tirò fuori un oggetto dalla tasca. Un cellulare, uno smartphone dalla cover rosa shocking.
Digitò qualcosa, e un attimo dopo il telefono di Magnus squillò.
Era un messaggio da un numero sconosciuto. Diceva solo tre semplici parole:
 
VIENI CON ME
 
Alzò lo sguardo, ed osservò il tassista girarsi ed andarsene, lentamente, come se volesse lasciargli il tempo di fermarlo.
«Magnus?» chiese Alec, fissandolo confuso.
«Stai bene?» aggiunse Tessa.
«Sì, sì… sto bene.» rispose distrattamente.
«Allora, come fa il cellulare ad essere qui?» chiese Will.
«Non lo so.» disse Magnus, senza prestare la minima attenzione.
«Ci riprovo.» Alec tornò al computer.
«Meglio.» assentì Will.
«A meno che l’assassino non sia proprio qui.» aggiunse allusivamente Anderson.
Senza ascoltarli, Magnus si diresse verso la porta, ed uscì in corridoio.
Alec parve l’unico ad accorgersene. «Dove vai?»
«A prendere un po’ d’aria. Vado fuori solo un momento.» rispose. «Non starò via molto.»
L’altro aggrottò le sopracciglia. «Sicuro che vada tutto bene?»
Magnus non rispose, ed iniziò a scendere le scale. Dapprima lentamente, poi, quando fu certo di non essere visto, correndo.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Quando uscì all’esterno trovò ad aspettarlo un taxi parcheggiato esattamente di fronte all’appartamento e, appoggiato alla portiera anteriore, un uomo di mezza età con radi capelli bianchi ed un soprabito beige, che lo osservava indecifrabile.
«Taxi per Magnus Bane.» disse con tono beffardo.
Non era ciò che Magnus si sarebbe aspettato, ma in ogni caso decise di stare al gioco. «Non ho chiamato un taxi.» disse.
L’uomo inclinò il capo. «Non significa che non ne abbia bisogno.»
L’altro fece un passo avanti. «Lei è il tassista.» fece, scrutandolo. «Quello che si è fermato a Northumberland Street. Era lei. Non il passeggero.»
Lui fece un sorriso grottesco. «Vede? Nessuno pensa mai ai tassisti. È come essere invisibili. Solo una nuca. Un bel vantaggio per un serial killer.»
Magnus gli si avvicinò ancora di più, le mani nelle tasche del giubbotto nero. «E’ una confessione?» chiese, ben sapendo la risposta.
«Sì.» Lo fissò con occhi quasi vacui. «Le dirò di più. Se chiama i poliziotti adesso, non scapperò. Me ne starò tranquillo e potranno portarmi via, lo prometto.»
L’investigatore aggrottò la fronte. «Perché?»
Il tassista gli fece di nuovo quel suo sorriso di chi sa di averla vinta. «Perché non lo farà.»
«Ah, no?»
«Non ho ucciso quelle quattro persone, signor Bane.» disse. «Ho parlato con loro… e loro si sono suicidate. E se ora chiama i poliziotti le prometto una cosa.» Si sporse, sempre appoggiato alla macchina. «Non le dirò mai che cosa ho detto loro.» Si scollò dalla portiera e fece il giro dell’auto, verso il posto di guida.
«Comunque,» lo bloccò Magnus. «Nessun’altro morirebbe, e questo sarebbe un bel traguardo.»
«E lei non capirebbe mai come sono morte quelle persone.» disse l’assassino. «Quale tipo di traguardo le interessa?» E salì al posto di guida del taxi.
Magnus si morse il labbro, guardando verso la finestra da cui provenivano voci concitate. Si chiese cosa stessero facendo e se si fossero accorti che lui mancava da ormai troppo tempo. Forse, forse, Alec l’avrebbe fatto… Appena quel pensiero gli si formò in mente, lo scacciò con stizza. Non aveva tempo per pensare a certe cose. Si chinò all’altezza del finestrino del guidatore, che era abbassato, probabilmente non per caso.
«Se volessi sapere,» disse lentamente. «che cosa dovrei fare?»
L’uomo davanti a lui alzò le sopracciglia ingrigite, come se fosse ovvio. «Venga con me.»
«Così può uccidere anche me?» fece Magnus sarcastico.
«Non voglio ucciderla, signor Bane.» disse l’altro con calma. «Io le parlerò… e poi lei si suiciderà.»
Magnus si raddrizzò. La sua mente lavorava frenetica. Avrebbe dovuto chiamare Will e gli altri, questa era la scelta giusta da fare. Ma non sarebbe stato quello che lui avrebbe voluto fare. Non gli ci volle più di un paio di minuti a decidersi.
Sbuffò, afferrò la maniglia della portiera e, spalancandola, dopo un attimo di esitazione, entrò nel taxi, che subito si mise in moto.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Alec attraversò a passo pesante la stanza, sotto lo sguardo attento di Will. Aveva il telefono all’orecchio. Stava tentando di chiamare il numero del cellulare di Jennifer Wilson, senza però molti risultati. Si affacciò alla finestra, dando un’occhiata di sfuggita sulla strada sottostante... giusto in tempo per vedere la figura longilinea di Magnus salire su un taxi che se ne andò, sfrecciando tra la folla.
«E’ appena salito su un taxi…» disse con incredulità. Abbassò il cellulare, voltandosi verso gli altri. «E’… Magnus. Se n’è appena andato in taxi.»
«Gliel’ho detto che fa così.» Donovan scosse la testa, rivolgendosi a Will. «Se n’è andato, di nuovo.» Sbuffò. «Stiamo perdendo tempo!»
«Sto chiamando il cellulare…» disse Alec a Will, che pareva l’unico che lo calcolasse minimamente al momento. «Non risponde, squilla a vuoto…»
«E se sta squillando, non è qui.» osservò Will.
«Ha importanza?» sbottò Donovan. «Qualcosa qui ce l’ha?» Si rivolse ad Alec: « È solo un pazzo e ti delude sempre! E tu stai perdendo tempo. Tutti lo stiamo perdendo.» Alec si sforzò di ignorarla, afferrando il portatile e riprovando a far partire il GPS.
Intanto, Donovan e Will si stavano fissando con aria di sfida ed ora anche gli altri agenti nella stanza li osservavano, come aspettando una qualsiasi reazione di uno dei due.
Alla fine Will sospirò. «Okay, gente…» disse rassegnato. «Abbiamo finito, qui.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
«Come ha fatto a trovarmi?» Magnus fu il primo a rompere il silenzio che da quasi dieci minuti era piombato nel piccolo abitacolo del taxi.
«L’ho riconosciuta.» rispose il tassista, osservandolo attraverso lo specchietto retrovisore. «Appena ho visto che inseguiva il mio taxi… Magnus Bane. Mi avevano avvisato. Sono anche stato sul suo sito web. Delle cose geniali! Le ho adorate.»
Magnus deglutì. «Chi è che l’ha avvisata?»
L’altro fece impercettibilmente spallucce. «Solo qualcuno là fuori che l’ha notata.»
L’investigatore si protese in avanti. «Chi?» Con la coda dell’occhio iniziò a registrare vari dettagli del guidatore che prima non aveva visto. «Chi mi avrebbe notato?»
«E’ troppo modesto, signor Bane.» Il tono era canzonatorio, ma anche ammirato.
«Non lo sono affatto.» dissentì lui.
Dopo una pausa, il tassista disse: «Un suo ammiratore.»
«Mi dica di più.» lo esortò Magnus.
L’altro ghignò. «Questo è tutto quello che saprà.» Una pausa. «In questa vita.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Il salotto era vuoto, tutti se ne erano andati, compresa Tessa, rimanevano solo Will ed Alec, intenti in un animata discussione.
«Perché se n’è andato?» sbottò l’ispettore accigliato, mentre si infilava la giacca. «Perché ha dovuto andarsene.»
Alec si strinse nelle spalle. «Lei lo conosce meglio di me.»
Will si abbottonò il giubbotto scuotendo la testa. «Lo conosco da cinque anni, e no, non è vero.»
«Allora perché lo viene a cercare?»
Will gli rivolse uno sguardo esausto. «Perché sono disperato, ecco perché.» Si diresse verso la porta ma, prima, si voltò di nuovo verso di lui. «E perché Magnus Bane è un uomo fantastico e credo che un giorno, se saremo molto fortunati, potrebbe anche diventare un brav’uomo.» Fece una pausa e disse poche parole, parole che Alec non avrebbe mai scordato. Mai. «Io credo in Magnus Bane. E lei?»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Il taxi si fermò in un angolo buio del parcheggio di una scuola nei sobborghi di Londra, quando era ormai mezzanotte passata.
Quando il tassista scese, Magnus non si mosse, aspettando che fosse lui ad aprirgli la portiera.
«Dove siamo?» chiese quando furono faccia a faccia, senza accennare ad alzarsi.
«Lei conosce ogni strada di Londra.» ribatté l’altro. «Sa esattamente dove siamo.»
Senza esitare, lui disse: «Istituto parauniversitario Roland-Kerr. Perché qui?»
L’uomo fece un cenno vago con il capo. «E’ aperto. Ci sono gli inservienti.» spiegò. « Quando si è tassisti si conosce sempre un bel posticino tranquillo per un omicidio. Sono sorpreso che molti di noi non lo facciano.»
«E porta semplicemente dentro le sue vittime?» chiese Magnus incuriosito. «Come?»
L’assassino alzò il braccio, puntandogli contro la pistola che aveva finora tenuto nella tasca, l’indice già posizionato sul grilletto.
Magnus sbuffò, annoiato. «Che sciocchezza.» disse con una mezza risatina. «Non si preoccupi. Migliorerà.» Scosse la testa. «Non può costringere le persone a suicidarsi con una pistola puntata contro.»
«Non lo faccio. E’ molto meglio.» rispose il tassista. «Non mi serve questa con lei.» Abbassò il braccio. «Perché lei mi seguirà.» E se ne andò, percorrendo un vialetto che conduceva ad un’entrata laterale.
Dopo un istante, Magnus lo seguì.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Alec rientrò in salotto dopo aver accompagnato Will alla porta. La stanza era ancora come gli agenti l’avevano lasciata: in completo disordine.
Il computer era acceso, appoggiato sul tavolino da caffè. Fu proprio quello ad attirare l’attenzione di Alec, dando un lungo segnale acuto. Il ragazzo, che stava per uscire in strada con l’intento di trovare Magnus, si bloccò.
Si voltò verso l’apparecchio e si chinò ad osservarne lo schermo.
La posizione del cellulare (e quindi, presumibilmente, dell’assassino) era cambiata. Si trovava nei pressi di una strada dei sobborghi.
Trattenne il fiato. Un’idea gli era balzata in mente, tanto impossibile quanto plausibile.
Infondo, era sempre così quando si aveva a che fare con Magnus, ormai l’aveva capito.
Senza nemmeno spegnere il computer o chiudere la porta, afferrò il giubbotto e corse giù per le scale, addentrandosi nella notte.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Entrarono in un aula conferenze, percorsa da tre lunghi tavoli in legno laccato circondati da comode sedie in pelle nera. La debole luce proveniente dai lampioni e dal chiarore della luna non era sufficiente per permettere a Magnus di vedere tutto ciò che vi si trovava dentro, ma tanto bastava. In ogni caso, non era importante.
Come indovinando quei pensieri, il tassista accese le luci. «Beh,» disse. «Cosa ne pensa?» Quando Magnus si voltò a guardarlo, aggrottando la fronte, spiegò: «Sta a lei. È lei che morirà qui.»
L’investigatore strinse la mascella. «No, non è vero.»
L’altro rise. «E’ quello che dicono tutti.» Si avvicinò ad un tavolo, tirando indietro una sedia. «Possiamo parlare?»
Magnus lo osservò a lungo, prima di sedersi dall’altra parte del banco, di fronte a lui. D'altronde, aveva forse scelta?
Si appoggiò con nonchalance allo schienale, attento però ad ogni minimo movimento dell’altro. «E’ stato un po’ rischioso, no?» esordì. «Portarmi via sotto gli occhi di una mezza dozzina di poliziotti… non sono così stupidi. E Tessa si ricorderà di lei.»
L’uomo davanti a lui scosse il capo. «Quello lo chiama rischio? No…» Mise una mano nella tasca della divisa da tassista, e ne estrasse qualcosa di cilindrico, che appoggiò sul tavolo. «Questo è rischio.» Era una boccetta di vetro contenente una singola pillola bianca. «Mi piace questa parte.» disse l’assassino. «Perché ancora non capisce, vero? Ma ci è vicino… Devo solo fare questo.» Estrasse un’altra boccetta uguale identica alla prima, sia per aspetto sia per contenuto, e la poggiò a fianco all’altra. «Non se lo aspettava, vero?» ridacchiò. «Lo adorerà.»
«Adorerò cosa?»
«Magnus Bane.» disse l’uomo. «Ma si guardi. Qui, in carne e ossa. Me ne ha parlato il suo ammiratore, di quel suo sito.»
«Il mio ammiratore?» Chi diavolo era quest’uomo che sembrava così importante per ciò che stava succedendo?
«Lei è intelligente.» fece con una vocina petulante. «Lei è un vero genio. La Scienza della Deduzione. Ora, quello sì che è pensare. Che resti tra noi, perché le persone non riescono a pensare? Non la fa arrabbiare? Perché le persone non riescono a pensare e basta?»
Ci fu un lungo istante di silenzio, poi Magnus parlò. «Capisco.» disse ironico. «Così anche lei è un vero genio.»
«Non sembra, eh?» domandò retorico l’altro. «Un omino buffo che guida un taxi. Ma lei ne saprà di più tra qualche minuto. Probabilmente sarà l’ultima cosa che saprà.»
«Okay.» disse Magnus, cercando di ostentare indifferenza. «Due bottiglie. E allora?»
«C’è una bottiglia buona e una cattiva. Se prenderà la pillola della bottiglia buona, vivrà. Se la prenderà dalla bottiglia cattiva, morirà.»
Magnus lo osservò con le palpebre socchiuse. «Ovviamente le bottiglie sono identiche.»
«In tutto.»
«E lei sa quale è quale.»
«Ovviamente.»
Inclinò il capo. «Ma io no.»
«Non sarebbe un gioco se lo sapesse. È lei che sceglie.» spiegò il tassista.
«Perché dovrei? Non ho niente in ballo.» Si sporse sopra il tavolo. «Cosa ci guadagno?»
«Non le ho ancora detto la parte migliore.» lo fermò l’altro. «Qualsiasi bottiglia lei prenderà, io prenderò la pillola dell’altra. E poi insieme prenderemo la nostra medicina. Io non barerò. Sta a lei scegliere. Prenderò qualsiasi pillola lei rifiuterà. Non se lo aspettava, vero, signor Bane?»
«E’ questo che ha fatto agli altri?» chiese Magnus. «Ha dato loro una scelta?»
«Ed ora la do a lei. Ci pensi bene. Rifletta. Voglio il suo gioco migliore.»
Magnus scosse la testa. «Non è un gioco. È il caso.»
«Ho giocato quattro volte. Sono vivo.» Ora il suo tono aveva assunto una nota maniacale. «Non è il caso, signor Bane. Sono gli scacchi. È un gioco di scacchi, con una sola mossa… e un solo sopravvissuto. E questa… questa… è la mossa.» Spinse verso Magnus le due boccette. «Può scegliere la bottiglia che vuole.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
«No, no, ispettore Herondale. Devo parlargli. È un emergenza!» Alec, nel taxi che lo avrebbe portato a dove si trovava l’assassino, e, molto probabilmente, Magnus, cercava di convincere la segretaria dell’ufficio di polizia a farlo parlare con Will. Senza risultato.
E, Dio, perché ci mettevano così tanto ad arrivare?
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«E’ pronto a giocare, signor Bane? Ha scelto?»
Magnus lo fissò. «Giocare a cosa? Ho il cinquanta percento delle possibilità di sopravvivere.»
L’altro scosse nuovamente la testa. «Non gioca con i numeri. Gioca con me. Le ho appena offerto la pillola buona o quella cattiva?»
«E’ solo il caso.» ribatté il moro.
Il tassista lo guardò con impazienza. «Quattro persone? Di fila? Non è il caso.»
«Fortuna.»
«E’ genialità.» lo corresse lui. «So come la gente pensa.» disse. «So come la gente pensa che io pensi. Lo vedo come una mappa nella testa. Sono tutti così stupidi, anche lei. O forse Dio mi ama e basta.»
Magnus intrecciò le mani al di sopra del tavolo. «In entrambi i casi, lei è sprecato come tassista.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
E… sì, sono ancora viva, sì, mi odio perché sono in super ritardo e vi chiedo tremilaventordici volte scusa, sì, arrivo con un capitolo che ha un finale che vi farà venir voglia di uccidermi, no, non potete uccidermi perché devo ancora scrivere taaaaante storie ed uccidere tanti personaggi.
Comunque, davvero, chiedo scusa per il ritardo, ma tra compiti, un po’ di febbre, impegni vari e droghe (*coff* OUAT *coff*) e una fanfiction Klaine che mi sta facendo venire varie crisi psicoisteriche… beh, non sono riuscita ad aggiornare prima.
Spero che il capitolo vi piaccia e ringrazio al solito tutti quelli che seguono la storia e che trovano il tempo di recensire.
A sabato.
 
 
 
 
 
Greta

PS Dovrebbe mancare solo un paio di capitoli alla fine di "Uno studio in rosa"

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Uno studio in rosa: Capitolo 8 ***


Uno studio in rosa
Capitolo 8
Magnus prese un profondo respiro, cercando di mantenere la calma. Una piccola parte di lui gli diceva di mettersi in gioco, di rischiare, ma venne presto messa a tacere dalla sua razionalità. Tempo, gli serviva tempo. «Allora…» cominciò. «Lei ha rischiato la vita quattro volte solo per uccidere degli sconosciuti. Perché
Il tassista scosse la testa. «E’ il momento di giocare.»
«Oh, io sto giocando.» Sorrise, come un predatore che ha appena avvistato il proprio prossimo pasto. «Ora tocca a me. C’è della crema da barba dietro al suo orecchio sinistro. Nessuno gliel’ha fatto notare. Ci sono segni dove è già successo, quindi è ovvio che viva da solo. Non c’è nessuno che glielo dica. Ma c’è una foto strappata con dei bambini. La madre è stata tagliata. Se fosse morta, ci sarebbe ancora. La foto è vecchia, ma la cornice è nuova. Lei pensa ai suoi figli, ma non li può vedere. Un padre allontanato.» Mentre parlava, scrutava con occhi gelidi l’uomo davanti a sé, attento ad ogni reazione, ma lui rimase completamente immobile. «La madre si è presa i bambini. Ma lei li ama ancora e soffre ancora. Ah, ma c’è dell’altro. I suoi vestiti sono stati lavati di recente. Ma tutto quello che indossa è vecchio di almeno… tre anni? Mantiene le apparenze, ma non fa programmi. Ed eccolo qui, che agisce per un impulso omicida kamikaze. Come mai?» Ci furono lunghi attimi di silenzio, durante i quali i due si limitarono a scrutarsi a vicenda. «Tre anni fa…» riprese Magnus. «E’ stato allora che gliel’hanno detto.»
«Detto cosa?» Cercava di ostentare impassibilità, ma era ovvio che ormai si fosse messo sulla difensiva.
«Che è un uomo morto che cammina.» rispose Magnus, e sentì le proprie labbra guizzare all’insù.
«Anche lei
«Non le è rimasto molto tempo, però.» Inclinò il capo di lato. «Mi sbaglio?»
Lentamente, l’altro scosse la testa. «Un aneurisma.» disse, ed alzò una mano per picchiettarsi un dito sulla testa. «Proprio qui. Ogni mio respiro potrebbe essere l’ultimo.»
«E visto che sta morendo ha deciso di uccidere quattro persone… mi pare giusto.»
«Sono sopravvissuto a quattro persone.» lo corresse lui. «E’ la cosa più divertente che si possa fare, con un aneurisma.»
«No.» dissentì Magnus. «No, c’è qualcos’altro. Non ha ucciso quattro persone perché è amareggiato. L’amarezza è da paralitici. L’amore è una motivazione molto più terribile. In qualche modo, c’entrano i suoi figli.»
L’assassino distolse lo sguardo, annuendo tra sé. «Lei è proprio bravo, eh?» Scosse piano la testa e, per la prima volta, Magnus scorse della tristezza nella sua espressione. «Quando morirò i miei figli non otterranno molto. Non si fanno soldi a guidare taxi.»
«O con gli omicidi seriali.» aggiunse Magnus.
«Ne resterebbe sorpreso.» lo contraddisse lui.
«Mi sorprenda.»
Il tassista si chinò, come per afferrare qualcosa sotto il tavolo. «Ho un finanziatore.» spiegò poi. «Per ogni vita che prendo, ai miei figli vanno dei soldi. Più io uccido, meglio staranno loro. Vede? È meglio di quante pensasse.»
L’altro aggrottò la fronte. «Chi finanzierebbe un serial killer?»
«Chi sarebbe un ammiratore di Magnus Bane?» Ci fu una lunga pausa, poi riprese. «Lei non è l’unico a cui piace un bell’omicidio. Ci sono altri, in circolazione, proprio come lei. Ma lei è solo un uomo. E loro sono molto più di questo.»
«Che vuol dire ‘più di un uomo’?» lo spronò Magnus. «Un’organizzazione, cosa?»
«C’è un nome… un nome che nessuno dice. E non lo dirò nemmeno io.» Il suo sguardo si venò di qualcosa di simile alla pazzia. «Ora basta con le chiacchiere. È il momento di scegliere.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Alec correva per i corridoi della scuola buia, aprendo varie porte a caso, con il cuore che batteva così forte da minacciare di esplodere, chiamando insistentemente Magnus ad alta voce. Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto fare più piano. Ma non gli importava, perché dentro di sé sapeva anche che non c’era tempo.
Tutto dipendeva da quanto velocemente si fosse mosso.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
«E se non scelgo nessuna delle due?» chiese Magnus, con tono di sfida. «Potrei semplicemente andarmene.»
Senza esitare – come se non avesse atteso altro per tutto il tempo – l’assassino estrasse la pistola, puntandogliela contro, esattamente tra gli occhi.
Okay, probabilmente Magnus avrebbe dovuto imparare a considerare meglio le proprie possibilità…
«Può accettare una probabilità del cinquanta percento.» disse il tassista. «Oppure io le posso sparare in testa. Strano ma vero, nessuno sceglie mai questa opzione.»
Magnus sfoggiò un sorriso smagliante. «Io vorrei la pistola, per cortesia.»
«Sicuro?»
«Assolutamente.» Magnus sollevò il mento. «La pistola.»
«Ultime parole? Non vuole chiamare un amico?»
Scosse la testa. «La pistola.» ripeté.
Fu presto esaudito. Impassibile, l’uomo premette il grilletto.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Non partì mai nessun colpo. La canna della pistola emise uno sbuffo di fumo, ed una leggera fiammella ne uscì.
Con aria vagamente soddisfatta e annoiata, Magnus si appoggiò allo schienale della propria sedia. «Riconosco una pistola vera quando la vedo.»
Il tassista abbassò l’arma. «Nessuno degli altri l’ha riconosciuta.» disse.
«Evidentemente.» Magnus si alzò in piedi. «Beh, è stato davvero interessante. Non vedo l’ora di andare in tribunale.» Si diresse a passo svelto verso la porta. Quando aveva ormai posato la mano sulla maniglia, l’altro parlò.
«Prima di andare…» lo bloccò. «L’aveva capito? Qual è la bottiglia buona?»
«Certo.» Scrollò le spalle. «Un gioco da ragazzi.»
«Beh, qual è, allora?» chiese lui. «Quale avrebbe scelto? Almeno saprò se avrei potuto batterla… Forza. Giochi!»
Lentamente, come se stesse andando al patibolo – e, al cinquanta percento delle probabilità, era così – Magnus si avvicinò al tavolo. Afferrò la boccetta sulla destra.
Il tassista afferrò l’altra. «Interessante…»
Entrambi estrassero la pillola dalla propria bottiglietta, mentre l’uomo più vecchio continuava a sorridere.
«Allora, che ne pensa?» chiese. «Lo facciamo?» Si alzò dalla sedia, restando in piedi davanti all’altro. «Allora? È abbastanza in gamba da riuscire a battermi?» lo incitò.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Alec entrò in un corridoio a cui si affacciavano diversi uffici. Senza fermarsi a pensare, varcò una delle porte. Si guardò intorno freneticamente, come se Magnus potesse nascondersi sotto la cattedra o qualcosa del genere.
Nulla, come in tutte le altre stanze.
Stava per uscire quando l’occhio gli cadde sulla finestra. Gli si mozzò il fiato in gola. Un vicolo buio lo separava dall’altro blocco dell’edificio. Dalla finestra parallela a quella a cui era affacciato, il ragazzo finalmente vide Magnus. Era di schiena e non poteva guardarlo in faccia. Ma vedeva la sua mano ambrata sospesa a mezz’aria, e la pillola bianca stratta tra le sue dite. Non fece molto caso all’altro uomo, si rese conto solo che era basso, di mezza età, e che indossava una divisa da tassista.
Capì cosa stava per succedere, e combatté contro il filo di panico che minacciava di impossessarsi di lui. «Magnus!» urlò.
Niente.
Non lo sentì.
Sentì il respiro accelerare, e si sforzò di mantenere la calma.
Merda.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
«Scommetto che si annoia, vero?» lo derise il tassista. «So che è così. Un uomo come lei… così intelligente. Ma che gusto c’è ad essere intelligente se non lo si può provare?» Magnus alzò la pillola, portandosela davanti agli occhi. «Però ne è dipendente, vero?» continuò l’assassino. «Questo è ciò di cui è davvero drogato.» Magnus portò la mano con la pillola più vicina alle labbra, sempre più vicina… «Farebbe qualsiasi cosa… qualsiasi… per smettere di annoiarsi. Ora non è annoiato, vero?» lo incitò. «Bello, vero?»
Venne interrotto da un rumore improvviso di vetri fracassati. Un sibilo vicino all’orecchio di Magnus. Un tonfo.
L’altro abbassò lo sguardo a terra, vagamente sconvolto. La pallottola aveva colpito il tassista al petto, vicino al cuore.
Si voltò di scatto. La finestra era in frantumi, e così pure quella di fronte ad essa. Qualcuno doveva aver sparato dallo studio buio a cui si affacciava la finestra. Aguzzò lo sguardo, ma non vide niente tranne che ombre.
Si voltò e si avvicinò all’uomo morente sul pavimento. «Okay.» disse, chinandosi. «Mi dica una cosa.» Aveva il respiro affannoso, come se avesse corso, e la voce di ghiaccio. «Il suo finanziatore, chi era? Quello che le ha parlato di me, il mio ammiratore. Voglio un nome.»
«No…» gemette l’altro.
Magnus serrò la mascella, alzandosi in piedi. «Lei sta morendo.» disse. «Ma non significa che io non abbia ancora tempo per farle del male. Mi dia… un nome…» Di nuovo, l’uomo scosse la testa. Lo stivale di Magnus si posò sulla sua spalla. L’urlo che seguì, quando Magnus premette con tutto il proprio peso, soffocò il nauseante scricchiolio delle ossa rotte e probabilmente si sentì in tutto l’edificio. «Ora. Voglio il nome!» sbottò Magnus.
Il viso dell’assassino aveva assunto una sfumatura quasi violacea, una smorfia di puro dolore ad alterarne i lineamenti. Con i suoi ultimi respiri, sussurrò un unica parola. «Morgenstern.»
Poi morì.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Magnus sbuffò, roteando gli occhi, mentre l’ennesimo paramedico gli posava sulle spalle per l’ennesima volta un’orribile coperta di un rosa smorto, che non solo stonava in un modo da considerarsi illegale con i suoi vestiti, ma era anche abbastanza inutile.
Will uscì in quel momento dall’edificio universitario e si diresse verso di lui, facendosi largo tra la calca di agenti e medici tutt’attorno.
«Perché ho questa coperta?» chiese subito Magnus. «Continuano a mettermela.»
Will alzò le spalle. «Per lo shock.»
«Non sono sotto shock.» ribatté stizzito Magnus.
«Sì, ma alcuni dei ragazzi vogliono fare delle foto al corpo.» spiegò Will. Probabilmente si era reso conto della spalla rotta dell’assassino, ed aveva tratto le proprie conclusioni.
Magnus sospirò teatralmente. «Allora, nessuna traccia di chi ha sparato?»
«E’ sparito prima che arrivassimo.» rispose l’ispettore. «Ma un tipo come quello doveva avere molti nemici.» aggiunse con tono ragionevole. «In ogni caso, non abbiamo nulla su cui lavorare.»
L’altro fece un’espressione sprezzante. «Oh, non direi.» dissentì.
Will alzò gli occhi al cielo. «Okay, dimmi.»
«Il proiettile che hanno estratto appartiene ad una pistola.» iniziò a snocciolare lui. «Un tiro mortale da quella distanza, e con quell’arma… cercate un cecchino. Ma non un tiratore. Un soldato. Le sue mani non potevano tremare, quindi è chiaro che sia abituato alla violenza. Cercate un uomo con un passato militare, e...» spostò lo sguardo sull’alta figura che stava in piedi fuori dalla linea tracciata dalla polizia con il nastro isolante. «…nervi d’acciaio…» Incontrò lo sguardo di Alec, ed era consapevole che il proprio era diventato abbastanza assente da preoccupare Will. «A dire il vero,» disse, voltandosi verso l’ispettore. «sai che ti dico? Ignorami.»
«Cosa?»
«Ignora le mie parole.» Fece un gesto sbrigativo, forse un po’ troppo brusco, dato che rischiò di colpire un paramedico nell’occhio. «Sono solo… parlo perché sono sotto shock.» Si allontanò da lui con nonchalance.
«Aspetta.» Will lo fermò per un braccio. «Dove vai?»
«Devo… sapere una cosa sull’affitto.» si inventò sul momento Magnus.
«Ho ancora delle domande.» ribatté Will, esasperato.
«Sono sotto shock.» rispose Magnus. «Guarda. Ho una coperta.» E gliela sventolò sotto il naso come una bandiera.
Evidentemente, non risultò molto credibile, perché Will incrociò le braccia al petto, sbuffando. «Magnus…» iniziò.
«E ti ho pure preso un serial killer.» continuò Magnus, con lo stesso tono di chi raccontava di aver ordinato una pizza particolarmente buona. «Più o meno…» aggiunse sotto lo sguardo scettico di Will.
Questi scosse la testa, apparentemente capendo che non avrebbe vinto quella battaglia. «Okay. Ne riparliamo domani. Ora vai.»
Prima di oltrepassare il  nastro divisorio, Magnus appallottolò la coperta e la lanciò dentro il finestrino aperto di una macchina della polizia. Sperava fosse quella di Anderson.
«Donovan mi ha appena spiegato tutto.» disse Alec quando lo raggiunse. «Due pillole… una cosa terribile… terribile, sì.»
Magnus combatté l’istinto di scoppiargli a ridere in faccia – il ragazzo aveva ancora molta strada da fare per imparare a mentire decentemente. Invece chinò il volto verso quello di lui e mormorò: «Bel tiro.»
Alec gli rivolse uno sguardo vacuo.
«Beh,» disse Magnus. «Devi toglierti la polvere la sparo dalle dita. Non credo che finiresti in prigione, ma è meglio evitare un processo.»
L’altro si infilò di scatto le mani in tasca, come un bambino sorpreso a combinare qualche casino, ed arrossì furiosamente – non si capiva bene per quale motivo.
Adorabile, fu il primo pensiero di Magnus. «Stai bene?» gli chiese.
«Sì, certo che sto bene.» rispose Alec, apparendo confuso.
«Hai appena ucciso un uomo.»
«Già…» Alzò le spalle. «Ma non era un uomo molto gentile.»
«No, decisamente non lo era.»
«Francamente, un pessimo tassista.»
Magnus ridacchiò, iniziando a spostarsi verso la zona della strada meno affollata. «Vero.» assentì. «Avresti dovuto vedere che strada ha preso per arrivare fin qui.»
Alec si mise a ridere. Cercò di calmarsi, e diede un leggero schiaffetto sul braccio di Magnus. «Smettila.» sibilò, ma si vedeva che cercava ancora di trattenere le risate. «Non possiamo ridere su una scena del crimine!»
«Sei tu che gli hai sparato.»
«Abbassa la voce.»
«Scusa.» disse Magnus. «Sono… i nervi, credo.»
All’improvviso, mentre camminavano, Alec si fermò, fissandolo intensamente con i grandi occhi blu. «Avresti preso quella pillola, vero?»
Magnus si voltò a guardarlo, e all’improvviso decise istintivamente di non dire la verità. Forse, d'altronde, era davvero sotto shock... «No, certo che no.» mentì. «Stavo solo prendendo tempo. Sapevo che tu saresti arrivato.»
«No, non lo sapevi.» ribatté Alec, duramente. «E’ così che ti diverti, non è vero? Rischi la vita per dimostrare che sei intelligente.»
«E perché lo farei?»
«Perché sei un idiota.»
Non sapeva se ridere o sentirsi offeso. Gli ritorceva contro le sue stesse parole. «Cena?» disse invece. La propria convinzione di essere realmente sotto shock trovava sempre più conferma.
Alec sorrise. «Muoio di fame.»
Ripresero a camminare. «In Baker Street c’è un buon cinese. Tiene aperto fino alle due.»
Una voce a Magnus fin troppo conosciuta interruppe quella che sarebbe potuta diventare una conversazione piuttosto... interessante. «Un buon cinese si riconosce dalla parte finale della maniglia della porta.»
Alec tirò leggermente la manica di Magnus. «Magnus…» sussurrò concitato. «E’ lui… l’uomo di cui ti ho parlato.»
Magnus si liberò con un leggero strattone dalla sua stretta. Era irritato, ma non con Alec, bensì con l’uomo che gli si stava avvicinando. Possibile che si trovi ovunque?, pensò. E poi si disse che, sì, era possibilissimo. «So benissimo chi è.» rispose.
«Allora…» iniziò l’uomo. «Un altro caso risolto. Ottimo servizio pubblico. Anche se non è mai stata quella la tua motivazione, vero?»
«Cosa ci fai qui?» chiese Magnus, senza rispondere.
«Come sempre, mi preoccupo per te.» disse lui, e Magnus quasi ci credette. Quasi. Era passato un bel po’ di tempo da quando ci aveva creduto davvero.
«Sì, ho sentito parlare della tua preoccupazione.» ribatté con voce grondante sarcasmo.
«Sei sempre così aggressivo.» sospirò l’uomo, rassegnato. «Non ti è mai venuto in mente che io e te stiamo dalla stessa parte?»
Magnus finse stupore. «Che strano… no
«Abbiamo in comune molto più di quello che credi.» Si stava accalorando, come tutte le volte. «Questa meschina faida tra noi sta diventando tremendamente infantile. Delle persone soffriranno
«Ti sembra,» mormorò Magnus. «che me ne sia mai importato?»
«No.»
«E cosa dovrebbe cambiare ora?»
L’altro gli fece un sorriso e, chinandosi verso di lui in modo che Alec non potesse sentire, disse: «Ora mi pare proprio che tu abbia un motivo per non far soffrire qualcuno.» Si alzò.  «Delle persone soffriranno.» ripeté. «E tu sai quanto questo ha sempre sconvolto la mamma.»
Magnus sentì il desiderio di mollargli un pugno farsi sempre più forte. «Io l’ho sconvolta? Io? Non sono stato io a sconvolgerla, Ragnor.» Si voltò verso Alec, che aveva assunto un’espressione metà confusa metà scioccata.
«Lui è mio fratello, Ragnor Fell.» Si rese conto di aver marcato un po’ troppo la voce sul cognome. Non che gli importasse. Tornò a rivolgersi a Ragnor. «Stai ingrassando.» buttò lì, per cambiare argomento.
«Veramente, sto dimagrendo.» lo corresse lui.
«Aspetta…» li interruppe Alec. «Tuo fratello
«Certo che è mio fratello.» disse Magnus.
Alec parve imbarazzato. «Quindi non è… che so… una mente criminale?»
Magnus si voltò verso il fratello con le sopracciglia inarcate ed uno sguardo che sembrava dire “Hai sentito? Lo dice anche lui”. «Ci sei andato vicino.» disse.
«Per l’amor del cielo!» lo rimproverò Ragnor, ma stava ridendo. Poi parlò ad Alec. «Occupo una posizione minore nel governo britannico.» spiegò.
«Lui è il governo britannico.» intervenne Magnus. «Quando non è troppo occupato nei servizi segreti e nella CIA come freelance.» Gli fece un cenno.
«Buonasera, Ragnor. Cerca di non far scoppiare una guerra prima che io arrivi a casa. Sai cosa fa questo genere di cose al traffico.» E se ne andò.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Prima di seguire Magnus, Alec si voltò di nuovo verso Ragnor. «Quindi…» iniziò. «Quando dice di essere preoccupato per lui, lei è veramente preoccupato?»
«Certamente.» fu la risposta. Non si prolungò in altri dettagli.
«Voglio dire,» disse Alec. «è veramente una faida infantile?»
Ragnor scosse la testa. «E’ sempre stato così pieno di risentimento.» disse, alludendo a Magnus, il quale intanto si era fermato a qualche metro di distanza, limitandosi a guardarli mentre aspettava Alec. «Si può immaginare le cene di Natale.»
«Sì…» disse Alec. Poi si interruppe. «No, Dio, no.» Sentì Ragnor ridacchiare mentre, dopo un rapido saluto, si voltava e si dirigeva verso Magnus.
Via via che si allontanavano dal fratello, l’investigatore parve sempre meno teso.
«Prevedo i biscotti della fortuna.» gli annunciò Magnus allegramente.
La voce di Ragnor li raggiunse a distanza. «No, non può farlo.»
«Quasi.» disse Magnus.
Quando furono troppo distanti per farsi sentire, Alec chiese a Magnus: «Perché sei così contento?»
«Morgenstern.» fu la risposta.
Alec aggrottò la fronte. «Cos’è Morgenstern?»
«Non ne ho assolutamente idea.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
«Interessante, quel soldato.» disse Catarina, avvicinandosi a Ragnor, il quale annuì, pensieroso, continuando a fissare le due sagome che si allontanavano.
«Potrebbe tirare fuori il meglio da mio fratello…» disse. «…o renderlo peggiore che mai.» Sospirò. «Comunque, faremo meglio ad aumentare il loro status di sorveglianza. Grado tre.»
Catarina parve indecisa. «Lo status di chi?»
Ragnor rispose: «Magnus Bane e Alexander Lightwood.»
 


 
 
ANGOLO AUTRICE:
E... abbiamo finito Uno studio in rosa. Sì, con un capitolo prima del previsto. *si applaude*
Duuuunque. Il prossimo episodio di Sherlock, tanto per dirvelo, sarà The Great Game, Il Grande Gioco.
Dato che sono un panda buono, carino e coccoloso vi darò un miniminiminiminuscolo spoiler e un altrettanto mini snippet. Lo spoilerino (?) è "Morgenstern". Lo snippet è:

Magnus si limitò a fissarlo, abbassando il braccio. Sentì una leggera fitta di shock, mista a qualcos'altro: paura. Non poteva essere, non di nuovo. E certamente non Alec.

Suppongo che chi ha visto Sherlock sappia a cosa mi riferisco. In caso contrario: LOL.
Comunque - so di essere noiosa ma vabbè - ringrazio tutti voi delle recensioni o anche solo di seguire questa storia.

Al prossimo capitolo.




Greta

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il Grande Gioco: Capitolo 9 ***


Il Grande Gioco
Capitolo 9
Magnus osservò l’uomo seduto davanti a sé con moderato interesse. Si trovavano nella mensa della prigione bielorussa, e sarebbe stato completamente buio se non fosse stato per le finestre sbarrate da cui arrivava la luce del sole. Nella penombra, i lineamenti dell’altro uomo non apparivano certi, ma mostravano comunque quella disperazione di chi si appiglia ad ogni possibilità di rimanere in vita.
Faceva così freddo che poteva vedere il proprio respiro condensarsi in nuvolette di vapore, mentre parlava.
«Mi dica solo cos’è successo, dall’inizio.» disse Magnus.
L’altro – un uomo piuttosto giovane, con i vestiti arancioni da carcerato – sospirò. «Eravamo in un bar, un bel posto. E… io mi sono messo a parlare con una delle cameriere. E Karen non ne era felice, quindi… quando siamo tornati in hotel abbiamo finito per bisticciare un po’. Mi dà sempre contro, sa. Pensa che non sono un vero uomo.»
«Non sia un vero uomo.» lo corresse istintivamente Magnus.
«Cosa?» Parve confuso.
«Si dice “sia”, non “sono”.» Il giovane lo fissò a lungo, come se cercasse di capire cosa dire ora. Magnus sbuffò. «Prosegua.»
«Beh,» fece l’altro, tentennante. «poi non so come è successo, ma mi sono ritrovato un coltello tra le mani. Mio padre era un macellaio quindi so come maneggiare i coltelli. Mi ha imparato come sventrare un animale.»
«Insegnato
«Cosa?»
«Le ha insegnato a sventrare un animale.» Magnus appoggiò la guancia sul palmo della mano e gli fece cenno di continuare. Iniziava sul serio ad annoiarsi.
«Sì, beh, poi ha successo.»
«E’ successo.»
Quell’ennesima correzione parve farlo scattare, e all’improvviso sbatté il pugno su tavolo tra loro, con fare rabbioso. «E’ successo! L’ho pugnalata! Ancora e ancora e ancora e poi ho abbassato lo sguardo e lei non si ha…»
«Non si è.» Magnus continuò imperterrito a correggerlo, studiandosi con moderato interesse le unghie smaltate di nero.
«…non si è …muovata più.» Colse l’occhiata sbieca di Magnus e si corresse. «Mossa.» Si passò le mani sul volto, disperato. «Che Dio mi aiuti, non so cosa è successo ma è stato un incidente, lo giuro.»
Ci fu un attimo di silenzio, rotto poi dal grattare della sedia di Magnus mentre quest’ultimo si alzava e, le mani in tasca, si dirigeva tranquillamente verso la porta.
«Ehi, deve aiutarmi, signor Bane!» lo supplicò il carcerato. Magnus si bloccò. «Dicono tutti che lei è il migliore. Senza di lei verrò giustificato per questo.»
Magnus roteò gli occhi, voltandosi verso di lui. Per i suoi gusti, aveva già sentito abbastanza insulti verso la lingua inglese. «No, signor Bewick. Non verrà giustificato, nient’affatto.» E, sorridendo lentamente, disse: «Giustiziato, sì.»
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Magnus, praticamente disteso sulla sua poltrona in pelle, con indosso il suo pigiama preferito (di morbido tessuto blu su cui erano disegnati motivi di pinguini e orsi polari danzanti), si voltò verso la parete marrone chiaro, su cui aveva dipinto un’enorme – e piuttosto deforme – faccina felice. Allungò la mano verso il tavolino a fianco a sé, su cui era casualmente poggiata la pistola. Afferrò l’arma e la puntò verso la faccia dipinta di giallo. Premette il grilletto. Lo fece di nuovo, e di nuovo, molte volte. Quando si rese conto di non aver centrato il bersaglio aggrottò la fronte, abbassò il braccio e fissò con sguardo truce la pistola.
Nello stesso istante, Alec irruppe nella stanza, i capelli neri arruffati e gli occhi blu spalancati, una nota di allarme in volto. «Che diavolo combini?» sbottò.
Magnus si voltò verso di lui e, con tono lamentoso che suonava – in seguito non l’avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso – come quello di un bambino a cui erano stati tolti i suoi giocattoli preferiti, disse: «Mi annoio.»
«Cosa?!»
«Mi annoio!» ripeté Magnus, alzandosi dalla poltrona e dirigendosi verso la parete bucherellata dai proiettili. La studiò a fondo, finché non scorse un foro che aveva colpito proprio l’occhio della faccia sorridente. Si sentì enormemente soddisfatto. Tornò verso il tavolo e ricominciò a sparare. Non durò molto, perché Alec, con uno scattò, gli afferrò il polso e gli tolse di mano la pistola. Con uno sbuffo, Magnus risprofondò nella poltrona. «Non so cosa sia successo alla classe criminale.» si lamentò. «Per fortuna non ne faccio parte.»
«E te la prendi col muro?» chiese Alec, che intanto si stava dirigendo verso la cucina.
«Se l’è meritato.» Magnus lo seguì con lo sguardo.
«Muoio di fame.» disse Alec scrollando le spalle. «C’è niente in frigo?» Aprì l’anta, per poi chiuderla di botto con un «Oh, caz…» L’altro alzò un sopracciglio, divertito, mentre Alec, quasi con precauzione, riapriva il frigo e fissava il suo contenuto, sconvolto. Si girò verso di lui e iniziò:
«Magnus…»
«Sì?»
«C’è una testa. Una testa mozzata!»
«Per me solo del te, grazie.»
«C’è una testa nel frigo.»
«Quindi?»
«Una cavolo di testa!» ribadì Alec, come se non fosse già abbastanza chiaro.
Magnus si strinse nelle spalle. «Dove altro avrei dovuto metterla? Non è un problema, vero?»
«Beh…» iniziò Alec, con tutta l’aria di voler polemizzare.
«L’ho presa dall’obitorio dell’Istituto.» spiegò lui. «Sto misurando la coagulazione post mortem della saliva.»
Alec si passò una mano sulla faccia, apparentemente troppo stanco per ribattere. «Va bene.» disse. «Fa quello che vuoi. In ogni caso, devo andare.»
Magnus scattò a sedere come una molla. «Dove?»
«Isabelle è in città e...»
«Tua sorella?» Inarcò un sopracciglio, interrompendolo senza tante cerimonie. «Wow, credevo fosse a New York per qualche servizio fotografico.»
«Quello è stato sette mesi fa, Magnus.» disse Alec, scocciato. «Sarà in città solo per pochi giorni, per qualche contratto o simili, ed oggi è il suo unico giorno libero.» Si strinse nelle spalle. «Quindi… sì, vado.» Afferrò la giacca lisa, gli fece un cenno di saluto e uscì dalla porta.
Magnus si rannicchiò sul divano a ridosso della parete su cui aveva appena finito di sparare, voltando le spalle a qualsiasi cosa non fosse le schienale scuro. Passarono solo pochi secondi prima che Tessa, carica di borse per la spesa, entrasse dalla porta da cui era appena uscito Alec.
Lanciò solo una veloce occhiata a Magnus che, riscossosi, si alzò e si diresse verso la finestra. Scostò la tenda verde oliva, osservando Alec che camminava a passo spedito per le strade affollate, scomparendo ben presto alla sua vista.
«Fa piuttosto freddo.» disse Tessa, come leggendogli nel pensiero, mentre posava le borse di plastica sul tavolo della cucina. «Avrebbe dovuto coprirsi di più.»
«Guarda là fuori, Tessa.» mormorò Magnus. «Quiete. Calma. Pace.» Sospirò, e diede una mezza risata. «Non è odioso?»
«Oh, sono certa che accadrà qualcosa, Magnus.» Tessa, dopo aver svuotato le borse, si diresse verso la porta. «Un bell’omicidio. Qualcosa che ti tirerà su.»
«Non verrà mai abbastanza presto.»
Tessa si voltò verso di lui, probabilmente per dirgli qualcosa, e il suo sguardo si posò sul muro trivellato.  «Che hai fatto al mio dannatissimo muro?» sbottò.
Mentre se ne andava scuotendo la testa, Magnus si voltò verso l’irritante faccina felice.
In effetti…, pensò.
Nello stesso istante, esplose la bomba.
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Duuuunque. Spero che mi perdoniate per il ritardo, ma ho dovuto prendermi un attimo di pausa per raccogliere le idee su un punto particolarmente complicato su questo episodio di Sherlock, e sono anche bombardata di compiti.
Questo capitolo è piuttosto corto, I know, ma è perché (a) è un capitolo puramente di passaggio e (b) non ho avuto molto tempo per scriverlo.
Spero che nonostante questo non sia venuto una schifezza (a voi il giudizio).
Come al solito ringrazio chi recensisce e chi segue la storia e blablabla.
Penso di riuscire ad aggiornare sabato prossimo. Penso. (quanto odio il trimestre).
Quindi… alla prossima!
 
 
 
Greta
PS Izzy è tipo una modella, o una roba del genere (?) non è che la sua professione sia chissà quanto importante, anzi, ma era per specificare.
PPS Mi scuso per non trovare il tempo di rispondere alle vostre recensioni, ma ne ho a malapena abbastanza per scrivere. Probabilmente con le vacanze riuscirò a portarmi avanti.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2852449