Storia di due fratelli

di Akemichan
(/viewuser.php?uid=134)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1932 - Parte I ***
Capitolo 2: *** 1932 - Parte II ***
Capitolo 3: *** 1940 - Parte I ***
Capitolo 4: *** 1940 - Parte II ***
Capitolo 5: *** 1940 - Parte III ***
Capitolo 6: *** 1941 - Parte I ***
Capitolo 7: *** 1941 - Parte II ***
Capitolo 8: *** 1942 - Parte I ***
Capitolo 9: *** 1942 - Parte II ***
Capitolo 10: *** 1942 - Parte III ***
Capitolo 11: *** 1943 - Parte I ***
Capitolo 12: *** 1943 - Parte II ***
Capitolo 13: *** 1944 - Parte I ***
Capitolo 14: *** 1944 - Parte II ***
Capitolo 15: *** 1944 - Parte III ***
Capitolo 16: *** 1944 - Parte IV ***
Capitolo 17: *** 1946 - Parte I ***
Capitolo 18: *** 1946 - Parte II ***
Capitolo 19: *** 1956 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1932 - Parte I ***


1932 - Parte I
 

Château d'Ô, 28 Luglio

La Grande Depressione era un'ombra nera sul destino del mondo negli anni trenta, con le aziende in fallimento e la disoccupazione imperante. Ciò nonostante gli uomini non si arrendevano, cercando con le proprie forze di portare innovazioni e migliorare la qualità della vita, che fosse con nuove invenzioni o con espressioni artistiche.

Da questo punto di vista, la Francia era uno dei paesi in cui si concentrava la maggior parte degli artisti, pittori e poeti che contribuivano a renderla viva e pulsante. E all'interno della Francia si trovavano anche persone che non solo non erano state colpite dalla crisi, ma che avevano prosperato grazie al loro acume, alle loro conoscenze e alla loro discendenza. Se poi eri il figlio di queste determinate persone l'unica tua preoccupazione negli anni trenta non poteva essere altro che dare la caccia alle anatre, seduto sul bordo del piccolo lago che circondava il castello che rappresentava la tua residenza estiva.

Questa era l'attività a cui si stava dedicando Stelly, il secondogenito della famiglia Outlook, che si stava dedicando appunto ad ampliare la sua mira nel lancio dei sassi, dato che nessuna delle anatre aveva intenzione di farsi colpire da lui.

In realtà, non è corretto sostenere che quella fosse la sua unica preoccupazione, ne aveva anche una seconda, solo che al momento non se ne stava curando. Gli venne in mente quando avvertì uno spostamento d'aria a pochi centimetri dal suo viso, subito seguito dal suono di qualcosa che cadeva in acqua. Stelly voltò appena lo sguardo per notare un fazzoletto bianco che galleggiava fra le ninfee. Capì immediatamente quello che poteva essere successo, perciò si alzò di scatto rivolgendosi verso le finestre del corridoio che sovrastava il portico del castello, ben sapendo che ci avrebbe trovato suo fratello maggiore e il suo amichetto, i quali lo consideravano la loro vittima preferita.

Non fece nemmeno in tempo a vederli, tuttavia, perché un altro fazzoletto attorcigliato e bagnato lo colpì in pieno viso. Stelly barcollò appena per il colpo e ciò lo fece scivolare sul bordo del lago. Incapace di mantenere l'equilibro scivolò in acqua in un tripudio di spruzzi. Riemerse tra le ninfee agitando le braccia: non era mai stato un buon nuotatore.

«Oh, mio Dio!» gridò la madre, che era seduta dall'altra parte del lago, all'interno del giardino all'inglese. «Sabo! Vai immediatamente ad aiutare tuo fratello!»

Invece Sabo si limitò a scattare una foto a Stelly che continuava ad agitarsi come un pesce fuor d'acqua inghiottendo ninfee nel tentativo di respirare. Una delle cameriere uscì di fretta dalla cucina per tentare di salvarlo dall'affogamento. «Sabo, Ace! Smettetela con questi giochi pericolosi.»

Ma a quel punto i due ragazzi se l'era già data a gambe ridendo, lasciando aperta la finestra dietro di loro. Si rifugiarono nell'ufficio del capofamiglia, Outlook III, che al momento era assente per affari, finché non riuscirono a calmare le risa che la loro bravata gli aveva causato.

«Però anche il “tiro allo Stelly” sta diventando noioso» commentò Ace. Si era sdraiato sul tappeto della stanza, con le braccia piegate dietro la testa. «È troppo facile colpirlo.»

Sabo annuì. «Per te, però. Siamo ventiquattro a ventisei.»

«Tutto merito del baseball. Dio benedica l'America!» Si alzò seduto per fissare Sabo, e soprattutto la macchina fotografica che portava appesa al collo. «Speriamo che la foto almeno sia venuta bene.»

«Penso di sì, ho sentito solo cose positive sulla Leica II» rispose lui, soppesandosela con orgoglio fra le due mani. «Ho dovuto mettere da parte parecchie paghette per comprarla, ma credo che ne sia valsa la pena.» Per un attimo, notò uno sguardo d'invidia negli occhi di Ace, che però scomparve immediatamente.

Sapeva che anche a lui sarebbe piaciuto diventare un fotografo, ma negli Stati Uniti le cose non andavano altrettanto bene e al momento non aveva ancora racimolato abbastanza risparmi per potersene permettere una, anche perché non aveva senso comprarne una se non si poteva poi allestire una camera oscura personale.

«Vieni con me» gli disse. Allungò la testa nel corridoio, ma sembrava che la cameriera avesse rinunciato ad inseguirli. Allora si diresse verso lo studio verde e frugò in uno degli armadi, stipati con cianfrusaglie che i suoi genitori conservavano per non voler buttare mai nulla che in futuro avrebbe potuto assumere un valore.

Ace lo fissò interrogativo, ma poi la sua espressione si illuminò quando vide Sabo allungare verso di lui una vecchia macchina fotografica e un paio di rullini. La prese e la tenne delicatamente fra le mani, per paura di romperla.

«È una Leica I, purtroppo è un po' vecchia e non credo producano più rullini adatti» spiegò Sabo, mentre tentava di richiudere lo sportello dell'armadio. «Però puoi usarla per esercitarti finché stai qua.»

«Sicuro che me la puoi dare?» commentò Ace, al quale non importava quanto vecchia fosse, pur di avere una personale, invece di dover sempre chiederla in prestito. «Adesso diventerò più bravo di te.»

«Oh, non credo proprio!» replicò Sabo, che si era voltato immediatamente a fissarlo con sfida. Poi sorrise. «Come vorrei che fossi tu mio fratello.»

Ace annuì. «Io non capisco come tu e Stelly possiate essere parenti...» Si concentrò per un attimo a inserire il rullino nella macchina, e si sentì soddisfatto del rumore che avvertì chiudendo lo sportello. «Come prima foto, bisogna trovare qualcosa di notevole.» Ed il sorriso che aveva in viso significava una cosa sola: qualunque scena avrebbero scelto, sarebbe stata ai danni di Stelly.

«Ho un'idea!» esclamò Sabo, dopo averci riflettuto per un attimo. «Vieni con me.»

Attraversarono il corridoio per tornare nella parte del castello addetta ai servizi e, una volta accertatisi che nessuno li stava osservando, uscirono, superarono il ponte sul lago e si addentrarono all'interno della grande foresta che circondava il giardino della residenza, seguendo il corso del fiume. A non troppa distanza si trovava il mulino e la residenza dei fattori che si occupavano delle proprietà della famiglia Outlook. La grande ruota ruotava lentamente schizzando attorno spruzzi d'acqua.

Sabo si allungò per aprire la porta. «Ehi, c'è nessuno?» chiamò.

«Fermi là!» Dadan, l'enorme donnone che comandava tutto il resto degli operai, si frappose fra i due ragazzi e l'interno, nascondendo alla vista la grande macina che si muoveva lentamente sotto la sorveglianza dei suoi uomini. «Ti ho già detto che questo non è posto per ragazzini!» Nonostante la deferenza nei confronti della famiglia che le dava un lavoro, Sabo era una seccatura perché andava sempre a curiosare nel loro lavoro con quella sua maledetta macchina fotografica. O almeno, questo era quello che diceva per darsi un contegno. «Uhm? E questo chi è?» chiese, notando che il seccatore numero uno della zona era accompagnato da un altro bambino della sua età.

«Il mio amico Ace dagli Stati Uniti» le spiegò allora Sabo. «Lo stiamo ospitando per fare un favore a suo nonno con cui mio padre vuole fare affari.»

«Spero che non sia fastidioso come te!» replicò lei seccata.

«Chi è questa grassona?» domandò Ace un istante dopo.

«Chi hai chiamato grassona?!» Dadan sembrava sul punto di esplodere, perciò gli altri contadini dovettero trattenerla indietro per farla sfogare senza che potesse scatenarsi.

«Va tutto bene, Sabo?» lo salutò uno di loro, Dogura. «Avete bisogno di qualcosa.»

Sabo ringraziò che ci fossero lui e Magura, perché dubitava che sarebbe riuscito a tirare fuori qualcosa da Dadan. «Volevo un sacchettino di farina...»

«Oh!» Ace fissò l'amico e capì immediatamente che cosa aveva in mente. Un sorriso si dipinse sul suo volto.

«Non vorrete fare qualche scherzo, vero?» commentò Magura, ma alla fine recuperò un piccolo sacco, con abbastanza farina ma non troppo pensante affinché i due bambini riuscissero a trasportarlo senza troppe difficoltà. Né Ace né Sabo garantirono che non sarebbe stato usato in modo improprio.

Difatti il loro obiettivo fu di appenderlo sopra la porta della stanza di Stelly, lasciandola appena socchiusa, quindi nascondersi all'interno ad aspettare il suo arrivo. Fu un'attesa lunga, insopportabile, ma di fronte al fatto che per un fotografo imparare la pazienza era fondamentale resistettero. Non riuscirono però a non chiacchierare, cosa che fu la loro fortuna perché quando Stelly comprese che si trovavano nella sua stanza si precipitò ad aprire la porta di scatto. Il sacchetto precipitò quindi con forza su di lui: la farina lo ricoprì completamente , con nuvolette bianche che si allargarono poi sul pavimento e sul tappeto attorno.

Ace e Sabo scattavano fotografie e contemporaneamente ridevano, cosa che probabilmente non aiutava a realizzare delle foto decenti, tuttavia la situazione era troppo comica per resistere. Stelly si pulì gli occhi, col risultato di farci finire più farina. Così, con le palpebre chiuse e i bulbi che gli bruciavano cercò di gettarsi contro di loro, spargendo farina ovunque e scatenando maggiormente la loro ilarità, dato che anche in circostanze normali non era all'altezza di nessuno dei due.

«Che cosa sta succedendo?» Outlook III, evidentemente appena tornato dal suo viaggio d'affari, si era appena materializzato sulla porta. Osservò disgustato le scarpe che si stavano sporcando di farina. Stelly si precipitò verso di lui a tentoni, piangendo.

«Papà, Sabo ed Ace sono cattivi!»

I due interessati erano rimasti fermi, le mani sulle loro macchine fotografiche e gli occhi che guardavano da un'altra parte, con indifferenza. Nessuno dei due aveva paura del padre di Sabo, ma sapevano che era molto severo e qualunque sia decisione avrebbe comunque guastato il loro divertimento.

Outlook li guardò con uno sguardo esasperato, poi si chinò a prendere il suo secondogenito in braccio. «Siete fortunati che non abbiamo tempo da perdere» disse infine. «Preparatevi, torniamo a Parigi.»

«Perché?» domandò Sabo, stupito. Adorava la città, quando poteva abitarci senza dover andare a scuola, ma era raro che vi si recassero d'estate.

«Il Viceammiraglio Garp sta arrivando, dobbiamo andare ad accoglierlo» spiegò suo padre. Poi si rivolse ad Ace. «A quanto pare, arriverà anche tuo fratello.» Quindi si voltò. «Andiamo a lavarci, Stelly. Comunque, dovresti imparare a difenderti meglio, ci sono squali ben peggiori là fuori.»

A Sabo non importava che suo padre preferisse il suo fratellino, ma era rimasto sorpreso dalla novità. Sapeva che era probabile che prima o poi il nonno di Ace sarebbe potuto venire a visitare di persona la Francia, però non si aspettava succedesse così in fretta, e soprattutto non si aspettava che portasse con lui l'altro suo nipote. Ace ne parlava come un seccatore di dimensioni colossali.

«Vengono tuo nonno e tuo fratello» ripeté stupidamente, con la speranza di avere qualche reazione da parte di Ace.

«Non sono davvero mio nonno e mio fratello, sono un vecchio che si occupa di me e suo nipote» ribatté Ace. «Speravo di essermene liberato per un po'.»

«Se non altro avremo qualcun altro a cui fare scherzi, per uscire dalla noia di Stelly» mormorò Sabo, cercando di suonare divertente. Non sapeva bene com'erano i rapporti tra Ace e la sua famiglia, ma aveva l'impressione che fossero pessimi tanto quanto i suoi con suo padre, per cui evitava di chiedere.

«No» disse Ace alla fine. «Rufy è meglio di Stelly, in un certo senso. Dall'altro lato, però... è molto, molto peggio.»

 

Parigi, 13 Agosto

Mentre gli adulti erano a pranzo da altri nobili ed imprenditori parigini, la bambinaia si occupava di preparare i pasti per i quattro bambini di casa. Incurante delle sue proteste, Ace e Sabo si erano seduti sul pavimento, il piatto davanti a loro, ad ascoltare la radio. Il presentatore annunciò la vittoria di Louis Salica nel pugilato durante lo scontro per il terzo e quarto posto.

«E con questo sono 103 medaglie per gli States!» contò sulla punta delle dita Ace, con evidente soddisfazione. «E primo posto.»

Sabo sbuffò. «Non posso credere che la Francia abbia vinto solo diciannove medaglie...»

«Quando sarò io alle Olimpiadi, porterò l'oro agli States, non il bronzo.» Rufy era seduto al tavolino, ma spostato abbastanza vicino a loro per riuscire ad ascoltare i loro discorsi, e si stava leccando le dita della mano sporche di olio.

Ace si voltò appena verso di lui con uno sguardo di sufficienza in viso. «Tu alle Olimpiadi? E in qualche disciplina, idiozia acuta?»

«Pugilato!» ribatté Rufy, non cogliendo in pieno l'insulto che gli era stato lanciato. «Il mio pugno è fortissimo!»

Sarebbe bastata la prima affermazione a farli ridere, ma la seconda li fece sganasciare: Sabo ed Ace si sdraiarono praticamente sul pavimento, incapaci di contenersi. Era in parte una farsa, ma entrambi ritenevano un'idiozia l'affermazione di Rufy, che era piccolo e magro anche per un bambino della sua età.

«Non riderete così quando dovrete farmi una foto sul podio!» ribatté Rufy, dopo aver finalmente capito che non gli stavano credendo. Strinse una mano sulla tesa del cappello di paglia, che non si levava mai. «L'ho promesso a Shanks...» mormorò.

Ace si alzò in piedi di scatto e gli strappò il cappello dalla testa, tenendolo poi in alto sopra di lui. «Ah, sì? Allora fammi un po' vedere questo tuo famoso pugno.»

«Ridammelo!» Rufy si arrampicò sulla sedia per cercare di recuperarlo, ma Ace si allontanò e continuò a tenerlo fuori della sua portata. Sobbalzò solo un attimo quando Rufy si gettò contro di lui a testa bassa, riempiendogli il petto di colpi, ma la realtà era che fisicamente era troppo allenato perché i pugni di un bambino di tre anni più piccolo potessero scalfirlo.

«Dai, smettila» disse Sabo. Prese la sua macchina fotografica e se la mise al collo. «Abbiamo di meglio da fare.»

Ace allontanò Rufy con una spinta e poi lanciò il cappello dalla parte opposta della stanza, per costringerlo a corrergli dietro, quindi afferrò la sua personale Leica. «Hai ragione.»

«Non potete andare in giro da soli!» protestò la bambinaia, che però non riusciva ad essere abbastanza autorevole da fermare l'impeto dei due bambini. Li lasciava semplicemente fare, fingendo con i genitori che andasse tutto bene e pregando che non succedesse loro niente mentre erano al di fuori della sua guardia.

Ace non aveva nulla di personale contro di lei, ma andare a spasso con il cane da guardia dietro non faceva per lui. Adorava troppo Parigi per poter sopportare che qualcuno controllasse i suoi movimenti.

Quando vi aveva abitato in precedenza non era riuscito ad apprezzarla così tanto perché i loro movimenti erano limitati dagli orari del collegio e delle lezioni di scherma e di pianoforte, tutte cose che non gli interessavano minimamente. L'unico quartiere che aveva esplorato a sufficienza era l'Île Saint-Louis, dove si trovava la residenza di Sabo.

Ora che però aveva la possibilità di utilizzare tutte le ore del giorno per esplorare, vedeva Parigi per quello che realmente era: una città viva e pulsante, tutto il contrario della sua Boston ormai svuotata dai contadini e riempita dai disoccupati a seguito della crisi.

Adorava correre tra i vicoli di Monmatre e Montparnasse, aspirare gli odori delle crepes e delle baguette che si mescolavano alla pittura degli artisti, ascoltare il particolare jazz che proveniva dai bar ed osservare gli altri fotografi, come loro, alle prese con il desiderio di immortalare una coppia che si baciava su una panchina. I palazzi antichi gli davano l'idea di trovarsi in una città davvero importante, con una storia fondamentale per il mondo, qualcosa che valeva la pena di essere fotografato. Spesso rimaneva sorpreso ed estasiato per le piccole cose, come il tram che attraversava la strada con le persone stipate al suo interno.

Sabo era un'ottima guida, e lo portava sia nei luoghi principali come l'imponente torre Eiffel o l'ombra dell'arco di trionfo, sia nei vicoli sconosciuti pieni di banchi del mercato da cui si riusciva sempre a rubare un frutto o un macaron. Facevano molte foto, a tutto ciò che li colpiva, ma spesso si mettevano semplicemente sulla riva della Senna a lanciarsi la palla da baseball che Ace aveva portato direttamente dall'America. Molti bambini erano rimasti impressionati dal loro gioco, ma non avevano dato confidenza a nessuno. Ace sapeva che lo consideravano solo uno yankee, curioso ma inferiore ai parigini, e Sabo non voleva rischiare che si stessero avvicinando solo per i soldi della sua famiglia.

E poi, bastavano a loro stessi.

«Se adesso fingessi di sbagliare e prendessi in pieno quell'uomo?» domandò Ace, in equilibrio su un piede solo e con il braccio alzato, la mano che stringeva la palla.

Sabo si voltò per vedere un pittore che dipingeva la Senna en plein air, residuo di una moda impressionista ormai passata. «Suppongo che gli rovineresti accidentalmente il quadro...» Non sapeva se incoraggiare lo scherzo, che sarebbe stato indubbiamente divertente, o risparmiare il povero artista.

Ace ghignò e prese la mira, ma non attimo prima di tirare sentì qualcuno chiamarlo e la palla gli scivolò dalle mani, rischiando invece di colpire Sabo in pieno viso.

«Aaaace! Saaabo! Vi ho trovati!» Rufy era a poca distanza, in cima alla strada che costeggiava la Senna e attirava la loro attenzione agitando le braccia in maniera inconsulta, totalmente incurante dello sguardo seccato che gli era stato rivolto. La bambinaia aveva arrancato dietro di lui, visibilmente col fiatone ma sollevata di averli ritrovati ancora una volta sani e salvi.

«Coraggio, bambini, torniamo tutti a casa.»

Sabo ed Ace si scambiarono un'occhiata, decidendo silenziosamente di obbedire. Anche se l'avessero ignorata e se ne fossero andati, ormai Rufy li aveva beccati e riuscire a seminarlo avrebbe guastato tutto il divertimento, costringendoli a sprecare le ultime ore della giornata.

«Avevi ragione, tuo fratello è una seccatura enorme» commentò Sabo, mentre recuperava la palla.

«Te l'avevo detto.» Ace sbuffò. «E non è mio fratello.»

Ritornarono mogi alla residenza della famiglia Outlook, ma tutti i loro sforzi per far capire a Rufy che non lo sopportavano risultavano vani, dato che la sua insistenza era direttamente proporzionale ai trattamenti rudi che riceveva. Fu un sollievo per i due arrivare a casa e rifugiarsi nel ripostiglio che Sabo aveva adibito a camera oscura per sviluppare le fotografie. Potendo chiudersi dentro a chiave, avrebbero impedito a Rufy di stare loro troppo vicino.

Ovviamente, lui non si perse d'animo e continuò a battere i pugni contro la porta nella speranza che lo facessero entrare. «Aprite! Voglio vedere anche io che cosa fate!» La porta chiusa che gli impediva di scoprire i segreti dei due fratelli aumentava la sua curiosità fino a renderla insopportabile.

«Vattene via!» ribatté Ace da dentro, con le mani premute nelle orecchie. Quando Sabo ebbe finito di preparare le vasche per lo sviluppo, Rufy aveva fortunatamente smesso di lamentarsi. «Oh, silenzio, finalmente!» Ace si avvicinò per osservare meglio il processo: l'aveva visto più volte ma continuava a restare sbalordito dalla precisione di Sabo nello sviluppo. Aveva paura di non riuscire ad essere altrettanto abile ed ogni tanto si chiedeva se loro due non avrebbero potuto continuare a lavorare assieme in eterno, come una squadra.

Da fuori, Rufy si era accasciato a terra davanti alla porta. Voleva davvero entrare e vedere che cosa stavano facendo. Sentiva che qualunque attività Sabo ed Ace svolgessero era sicuramente un'avventura divertente e voleva parteciparvi, ma non riusciva a capire quale fosse il problema. Probabilmente bastava semplicemente insistere.

«Non prendertela, sono piuttosto selettivi quando si tratta dei loro segreti.» Stelly si era avvicinato a lui quando l'aveva visto accasciato davanti alla porta. «Io stesso ci ho messo del tempo prima che mi facessero entrare.»

«Sei entrato là dentro?!» Rufy balzò in piedi ed lo guardò con occhi nuovi. A pelle non gli era mai stato troppo simpatico e trovava le sue attività noiose, ma quella rivelazione lo rendeva in un attimo estremamente interessante.

«Esatto» gonfiò il petto Stelly.

Rufy scoccò un'occhiata alla porta. «E perché adesso sei chiuso fuori come me?» domandò innocente, senza rendersi conto di essere vicino a riconoscere una bugia.

Sfortunatamente Stelly si riprese subito dalla domanda arguta. «Oh, non m'interessa quello che fanno.» Agitò la mano in maniera noncurante.

«A me sì!»

«Be', allora devi guadagnartelo.» Un luccichio maligno comparve negli occhi di Stelly. «Devi dimostrargli di essere alla loro altezza, oppure non ti considereranno mai.»

«E come si fa?» Rufy stava intravedendo una possibilità di avvicinarsi al mondo di Ace e Sabo e avrebbe fatto di tutto per coglierla.

«Oh, è molto semplice...»


Parigi, 16 Ottobre

Sabo frugò nel vaso dove aveva nascosto la chiave della sua stanza oscura, senza trovarla. Le cambiava nascondiglio ogni volta, perché non si fidava degli scherzi che poteva tirargli Stelly, quindi pensò che forse non era il posto giusto.

Si voltò verso Ace. «Ti ricordi se l'ho messa da qualche altra parte?»

Ace smise di tirare la palla da baseball contro il muro. «Non la trovi?»

Sabo scosse la testa, poi tentò di nuovo di riguardare nel caso l'avesse nascosta troppo bene anche a se stesso. «È strano. Sono sicuro di averla messa qua proprio perché è fuori dall'altezza di Stelly e Rufy...»

«Ti hanno visto nasconderla?» domandò Ace, con un forte sospetto improvvisamente in mente.

«Sì» annuì Sabo. «Sai che Rufy ci viene sempre dietro, ma sono stato ben attento che non fosse nei paraggi quando l'ho messa qui.»

Non che un ostacolo del genere potesse fermare un guastafeste come Rufy. Ace aveva un brutto presentimento. «Andiamo a vedere» affermò, quindi lo precedette lungo il corridoio verso il ripostiglio, che si trovava dietro l'angolo vicino alle scale, in un posto buio e facilmente visibile, motivo per cui ad Outlook non interessava molto cosa ci fosse all'interno.

Ace sfiorò appena la porta e la sentì muoversi sotto di lui: non era chiusa a chiave. Scoccò un'occhiata a Sabo, quindi la spalancò improvvisamente. Non successe nulla. Allora si decise ad entrare con prudenza ed allungò la mano per accendere la luce: non avevano lasciato rullini in vista, quindi sentiva di poterlo fare senza pericolo.

Nonostante i suoi sospetti, la visione lo colpì comunque in maniera devastante: tutto era per terra e distrutto. I liquidi per lo sviluppo erano stati rovesciati a terra rendendo il pavimento una sorta di lago appiccicoso, su cui galleggiavano in mille pezzi tutte le fotografie che avevano scattato nel momento in cui Ace aveva ricevuto la Leica in regalo. Anche i macchinari che Sabo si era procurato con risparmio erano stati battuti fino a distruggersi. I rullini erano stati srotolati e gettati per terra alla stessa maniera.

«No...» Sabo si gettò al centro della stanza, nella speranza di trovare qualcosa che non fosse stato distrutto. Si chinò, ma non riusciva nemmeno ad afferrare le fotografie che si erano appiccicate al pavimento.

«Mi dispiace...»

Sabo alzò lo sguardo, e così fece Ace: solo in quel momento notarono che Rufy era seduto ad un angolo della stanza, con le guance piene di lacrime e gli occhi nascosti dall'enorme tesa del cappello di paglia. «Mi dispiace...» ripeté, in un singhiozzo quasi incomprensibile. «N-non volevo... N-non sapevo...»

«Che cosa hai fatto?!» sbottò Sabo. Si alzò in piedi di scatto e si avvicinò verso di lui.

Rufy singhiozzò ancora, ma deglutì. Quando riaprì la bocca, la sua voce era più chiara: «Mi aveva detto che se avessi trovato la chiave vi avrei dimostrato che potevo giocare con voi. Però poi me l'ha presa e... Ho cercato di fermarlo...». A ben notare, aveva alcuni graffi sulle braccia.

Era chiaro di chi stesse parlando. Prima che Sabo potesse anche solo imprecare, Rufy aggiunse: «Ha preso le macchine». Era vero: tra tutte le rovine della stanza, nessuna delle due Leica era in vista, intera o distrutta.

In quel momento, Ace scattò. Non sapeva dove avrebbe potuto trovare Stelly, ma avrebbe corso per tutta la residenza finché non l'avesse scovato. Non fu necessario, dato che era dove sempre, nella sua camera a studiare. Ace lo afferrò per il bavero della camicia e lo trascinò in malo modo contro la parete.

«Non è così bello quando siete dall'altra parte dello scherzo, vero?» commentò Stelly, ma tremava sotto la sua presa. Fissò il pugno che Ace aveva alzato. «Non oserai...»

Ed Ace osò: lo colpì al viso finché non sentì il sangue sulle nocche, quindi lo gettò a terra. A quel punto, Sabo e Rufy lo avevano raggiunto, ma nessuno dei due fece una mossa per fermarlo. «Dove sono le Leica?» domandò

«Mio padre te la farà pagare!» ansimò Stelly, prima di essere colpito da un calcio all'addome.

Sabo fece un passo avanti e trattenne Ace per un braccio, ma non sembrava né impressionato né dispiaciuto per l'intera scena. «Vogliamo solo le nostre macchine fotografiche. Dove sono?»

Stelly sembrava sul punto di confessare, ma poi alzò lo sguardo al suono dei rumori ed improvvisamente sorrise. Gli adulti erano appena tornati a casa e non furono per nulla soddisfatti della scena che si presentava ai loro occhi. Stelly si gettò nelle braccia della madre, piangendo.

«Cos'è successo?» domandò Outlook, passando gli occhi fra i suoi due figli.

«Mi ha distrutto la camera oscura e mi ha rubato le macchine fotografiche» spiegò Sabo.

«E io l'ho picchiato» aggiunse Ace, ma venne ignorato.

«Ha fatto bene» fu il commento di Outlook. «Era ora che la smettessi con questo passatempo inutile.»

«Non è un passatempo inutile!» protestò Sabo, e questa volta fu il suo turno ad essere ignorato, perché suo padre si rivolse direttamente a Garp, che stava osservando la scena senza apparire particolarmente impressionato.

«Viceammiraglio, mi dispiace. Voglio continuare a fare affari con lei, ma non posso più tollerare suo nipote in casa mia.»

«Suvvia, è solo una lite tra bambini!» Garp rise: per come li aveva allevati, il fatto che avessero fatto a botte doveva renderlo orgoglioso.

«Non la penso così» ribatté Outlook. «Suo nipote ha una cattiva influenza su mio figlio e l'ho sopportato abbastanza. Ovviamente restate miei ospiti e ci penserò io a pagarvi l'albergo migliore di Parigi, ma voglio questo problema fuori da casa mia in serata.»

«No!» protestarono contemporaneamente Sabo e Rufy, ma la decisione era stata presa, perché Outlook non si preoccupò nemmeno di discutere oltre: prese Stelly in braccio e si allontanò chiamando la bambinaia, rea di non aver controllato i bambini a sufficienza.

To be continued...
 
***
 
Akemichan parla senza coerenza:

Quest'estate sono andata in vacanza in Normandia per l'anniversario dei Settant'anni dallo sbarco e l'emozione che ho provato sulla spiaggia di Omaha Beach e al Cimitero dei Caduti Americani è stata così forte che sapevo che dovevo scrivere qualcosa. Il fatto che sulla tabella della maritombola mi sia capitata proprio la "war AU" è stato un segno del destino, così come il prompt per il Contest AU di Emmastar, per cui mi sono messa a scrivere sul fandom che mi dà più emozioni di recente ed è saltata fuori questa long, in cui ho cercato di mettere le sensazioni che ho provato in Normandia, e spero di esserci riuscita.
I personaggi sono per la maggior parte quelli di One Piece (negli avvisi ho citato i principali, ma ce ne sono molti altri) ma compaiono anche alcune personalità storiche realmente esistenti, anche se magari meno conosciute. Mi sembrava comunque giusto, nei confronti di questi veri eroi di guerra, che avessero una comparsa nella storia, oltre al fatto che danno un tocco di realismo.
Una nota fondamentale: character!Death. E' la storia di una guerra, non potevo fare altrimenti, quindi siete avvertiti.
Ringrazio Mad_Fool_Hatter che mi ha betato la storia e mi ha aiutato con alcune imprecisioni. La fanart scelta coem copertina (perché l'unica che avesse un qualche collegamento con i personaggi in tenuta da guerra) è della bravissima Tsuyomaru, andate a vedere le sue fanart perché sono meravigliose.

Bibliografia/Filmografia/ecc:

La "Trilogia del Secolo" di Ken Follet
"Mezzanotte a Parigi" di Dan Franck
"Suite Francese" di Irene Nemirovsky
"Il ballo" di Irene Nemirovsky
"The longest Day" di Cornelius Ryan

La bibliografia di Tony Vaccaro
La bibliografia di Irene Nemirovsky

Documentari del National Geographic
Salvate il soldato Ryan
Bastardi senza gloria
Il Giorno più lungo

Wikipedia
Mémorial de Caen


 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1932 - Parte II ***


1932 - Parte II
 
 
Parigi, 20 Agosto
 
Al terzo colpo che avvertì contro la finestra, Sabo decise di alzarsi dal letto per andare a controllare, perché era evidente che non erano casuali. Affacciandosi, vide Ace per strada, appena riconoscibile alla luce del lampione acceso, la palla da baseball in mano.

Non si erano più visti dal giorno che chiamava “la tragedia della camera oscura” perché Sabo era stato messo in punizione e non era riuscito a sgattaiolare via per le strade di Parigi. Non poteva esprimere in toto la gioia che stava provando nel rivederlo. «Ciao!»

Ma Ace non era venuto per chiacchierare, anche se provava gli stessi sentimenti, per cui accennò appena un sorriso. «Hai per caso visto Rufy?»

«No... perché?» Era una domanda bizzarra. Sabo capì che doveva essere successo qualcosa, per cui aggiunse: «Aspetta, vengo giù». Chiuse la finestra e sgattaiolò al primo piano, nella cucina. La bambinaia probabilmente lo credeva già addormentato, per cui non stava controllando. Il portone era pesante, ma aveva imparato da anni dove fare leva per aprirlo.

«Cos'è successo?» domandò, una volta che ebbe fatto entrare Ace all'interno della hall.

«Rufy è scomparso!» Poi si accorse di essere sembrato un po' troppo preoccupato, e guardò appena sulla destra per cercare di spiegare meglio la situazione. «Da quando è successo tutto ha continuato a dire che doveva recuperare le Leica. Era fissato.»

«Si sente responsabile» dedusse Sabo. Sapeva già che la colpa era tutta da attribuire a Stelly, ma doveva ammettere che non riusciva a perdonare Rufy per aver dovuto per forza impicciarsi nei loro affari.

«Gli ho detto di lasciare perdere, che tanto non ci sarebbe mai riuscito, ma sai com'è, non dà mai retta. Ha iniziato ad andarsene in giro da solo, ma di solito tornava a casa almeno per la cena. Invece, stasera...»

«E tuo nonno?»

Ace alzò gli occhi al cielo. «Figurati! Secondo lui qualsiasi situazione può essere un allenamento per farci diventare futuri membri della marina, probabilmente si farebbe una risata e poi andrebbe a letto!» Sbuffò. «In ogni caso è coi tuoi a quella festa, quindi è inutile comunque.»

Sabo annuì. «Che cosa facciamo?» Per quanto Rufy fosse un seccatore, era comunque un bambino di sette anni, non era il caso di lasciarlo da solo per Parigi di notte.

«Ho pensato che forse Stelly potrebbe saperne qualcosa» disse Ace. «È stato lui a prendere le Leica, quindi magari sa anche dove è andato Rufy a cercarle.»

«Giusto!» applaudì Sabo. «Però non so quanto sia disposto a dircelo.» Stelly poteva essere piuttosto arrogante, per cui non era sicuro che il pericolo che Rufy avrebbe potuto correre sarebbe bastato.

«Se mi tieni occupata la tipa, ci penso io.» Era un bambino americano di dieci anni che viveva a Boston: sapeva come si facevano certe cose.

Sabo capì che intendeva la bambinaia. Annuì. «Lascia fare a me.» Mentre Ace si nascondeva in camera sua, lui si recò in uno dei due bagni, si rovesciò un po' di acqua in testa e poi iniziò a gridare, tenendosi le mani sulla pancia. Non appena la bambinaia ebbe accesso la luce del corridoio per controllare la situazione, Ace sgusciò fuori ed entrò nella stanza di Stelly.

Lo trovò che dormiva beatamente e, per svegliarlo, lo prese per un braccio e lo trascinò a terra. Mentre non si era ancora reso conto di quello che stava succedendo, Ace lo portò vicino alla finestra e la aprì, quindi lo gettò quasi al di fuori, tenendolo lui in equilibrio con la mano poggiata sulla schiena.

L'aria fresca e il vuoto svegliarono Stelly completamente. Agitò le braccia e le gambe ma non riuscì a liberarsi. «Mio padre te la farà pagare!»

«Se cadi da qui, tuo padre non saprà nemmeno a chi la deve far pagare» ribatté Ace, facendosi riconoscere. «Voglio sapere se hai parlato con Rufy e se sai dov'è.»

«Non ne ho idea! E ora lasciami andare!» Ace lo spinse ancora di più nel baratro. «Va bene! Va bene!» Stelly emise un sospiro di sollievo quando si sentì tirare un po' all'indietro.

«Dimmi tutto» gli intimò Ace.

«Voleva sapere dove avevo messo quei macchinari a cui tenete tanto. Li ho dati ad uno dei camerieri per un banco dei pegni così che mi portasse i soldi incassati.» Era chiaro che glielo stava spiegando con l'intenzione di ferirlo, ma al momento le Leica non erano nei pensieri di Ace, anche se non poteva negare che la cosa gli avesse dato fastidio. «Non so dove siano, ma quel bambinetto continuava a darmi fastidio, per cui gli ho detto che il banco dei pegni era da qualche parte nel quartiere di Montparnasse.»

Era tutto quello che ad Ace interessava sapere: Rufy era uno sconsiderato, di sicuro aveva pensato che bastasse girare a caso per ritrovare le macchine fotografiche. E poi doveva essere successo qualcosa, forse si era semplicemente perso perché le strade di quel quartiere non erano di facile memoria.

Abbandonò Stelly in malo modo contro il suo letto. Poteva anche chiamare aiuto, se voleva, ma Ace aveva saputo ciò che voleva e senza i suoi genitori in casa nessuno avrebbe potuto impedirgli di andare a cercare Rufy. Si nascose nuovamente in camera di Sabo, sotto il suo letto, finché questi non ebbe finito con la recita del mal di pancia e fino a che la bambinaia non lasciò la stanza.

Emerse da sotto, con Sabo che si era già liberato delle coperte che erano state così precisamente rimboccate. Gli sorrise: «Grande performance!».

Sabo ricambiò il sorriso. «Avrei potuto fare di meglio se avessi potuto prepararmi. So fingere anche il vomito, sai?»

Ace non aveva dubbi a proposito, ma rise comunque al pensiero. Poi si fece serio. «So dove potrebbe essere: Montparnasse. Vado a prenderlo.»

«E io vengo con te» replicò immediatamente Sabo, con un tono che non ammetteva repliche. Ed Ace non replicò, ma sorrise: non gliel'avrebbe chiesto, ma era felice che venisse con lui, non solo perché conosceva meglio la città ma anche perché gli mancava la sua compagnia.

Sabo si vestì in fretta, quindi entrambi sgusciarono fuori dal portone. Non potevano lasciarlo socchiuso, quindi era chiaro che alla fine qualcuno avrebbe scoperto la loro fuga quando avrebbe dovuto rientrare, ma se avessero trovato Rufy sano e salvo non sarebbe importato.

Montparnasse era molto diverso di notte da come si presentava di giorno, dovette riconoscere Ace. Quelle che normalmente erano delle strade trafficate ora erano deserte, e i palazzi avevamo assunto tutti un colorito scuro che li rendeva irriconoscibili l'uno dell'altro. Le uniche botteghe ancora aperte erano alcuni bar, ma le porte erano chiuse dando l'impressione che si facessero al suo interno cose che non potevano essere viste dai passanti occasionali.

Non aveva paura, questo no. Ma stava comunque attento a dove metteva i piedi nell'acciottolato appena illuminato. Sabo camminava più sicuro di lui, d'altronde conosceva quei vicoli talmente bene da non aver bisogno della luce del giorno per riconoscerli. Dopo una serie di svolte che sembravano farli entrare sempre maggiormente nel quartiere ma che invece li riportarono al punto di partenza, fu chiaro che non aveva senso semplicemente camminare nella speranza di incappare in Rufy per caso.

Sabo guardò l'altro. «Forse dovremo chiedere aiuto ai gendarmi.»

«No!» replicò immediatamente Ace, probabilmente con un po' troppa veemenza. «No...» ripeté, per calmarsi. «Non mi fido di loro» spiegò in maniera vaga.

«Va bene.» Sabo lo stava guardando incuriosito, ma non chiese nulla. Se non voleva dirglielo, voleva dire che non era pronto a farlo. Gli dispiaceva, ma non l'avrebbe pressato. Si voltò verso il bar aperto più vicino ed entrò.

Vi erano presenti solo adulti, intenti a chiacchierare o a bere. Dall'altra stanza provenivano altri rumori, ma non indagarono su cosa si trattava. Sabo si rivolse invece ad una donna appoggiata contro il bancone. «Scusi...» mormorò, per attirare la sua attenzione.

In tutta risposta, lei incrociò le gambe, rivelando ancora più pelle grazie alla sua gonna corta di Coco Chanel, e fissò entrambi. «Non è tardi per i bambini? I vostri genitori sono qui?»

«Ha visto un bambino più piccolo di noi?» Ace ignorò la domanda e andò dritto al punto. «Magrolino, con una cicatrice sotto l'occhio sinistro e un cappello di paglia.»

«Uhm...» La donna ci pensò per un attimo, quindi si voltò verso il bancone. «Blueno!» chiamò.

L'uomo al balcone la raggiunse immediatamente. «Che c'è, Califa?» Lei gli ripeté la domanda che le avevano rivolto. «No, non credo proprio» rispose Blueno dopo averci pensato un attimo. «Si è perso? Forse dovremmo chiamare la polizia...»

A quel punto Sabo ed Ace avevano già lasciato il locale. Avevano deciso di non fidarsi dei gendarmi e di continuare le ricerche per conto loro, quindi se n'erano andati in fretta. Nei bar successivi, stettero ben attenti a rivolgersi solo alle persone che erano troppo impegnate per aver tempo di pensare che non era normale per due bambini muoversi da soli a quell'ora di notte. Non ebbero comunque fortuna nelle risposte rapide e seccate che queste persone rivolgevano loro prima di tornare alle loro attività.
Non potevano darsi per vinti e, sebbene non l'avessero concordato, sapevano entrambi che avrebbero girato ogni singolo bar e ogni singolo vicolo di Montparnasse finché non avessero trovato Rufy. Sabo iniziò a pensare che Stelly poteva anche aver mentito, ma la realtà era che non avevano altri indizi a cui aggrapparsi e girare, anche se a vuoto, li faceva sentire utili.

«Guarda!» esclamò ad un certo punto Ace, allungando un dito in avanti.

La visibilità non era buona, ma la luce del bar dalla quale era appena uscito mostrava chiaramente un cappello di paglia sulla testa dell'uomo. Ovviamente, se avessero saputo che quell'uomo li stava seguendo dal primo bar in cui erano entrati e che la sua uscita mentre passavano non era casuale, avrebbero evitato di correre nella sua direzione e seguirlo in un vicolo. Ma non lo sapevano e si accorsero dell'errore solo quando si trovarono le strade bloccate da un gruppo di uomini.

«Quello è il cappello di mio fratello» affermò Ace, che aveva intenzione di comportarsi come se quella situazione non fosse affatto a loro sfavore. «Dov'è?»

«Questo?» domandò noncurante l'uomo, toccandolo appena con la punta delle dita. Poi tornò a fissarli. «Io non capivo nulla di quello che diceva, ma il capo aveva ragione a dire che ci avrebbe portato fortuna.»

«È per questo che lui è il capo e non tu, Porshemy!» lo prese in giro un altro degli uomini, che si erano fatti sempre più vicini.

«Ridammelo!» esclamò allora Ace, a cui era ormai chiaro che la scomparsa di Rufy non aveva nulla a che fare con la sua sbadataggine. Si gettò in avanti con un salto nel tentativo di buttare a terra Porshemy, ma venne intercettato ed afferrato per un braccio da un altro uomo al suo fianco. Allora lo morse ed una volta di nuovo libero tentò con un calcio alle gambe di atterrarlo, ma senza successo.

Sapeva di essere forte per la sua età, ma non aveva avuto molte occasioni di battersi con adulti, per di più in gruppo. Sabo lo afferrò per il braccio e gli disse, in americano: «Andiamo via!».

«Hanno Rufy!» ribatté Ace, liberandosi anche dalla sua presa. Nel mentre, fece un passo indietro e due uomini lo afferrarono per le spalle, immobilizzandolo.

«Lascialo andare!» esclamò Sabo. Si gettò contro le braccia di uno degli uomini, ma questo permise ad altri due uomini di afferrare anche lui e premergli forte la mano sulla bocca. Tentò di morderla, ed in cambio ricevette uno schiaffo che gli fece sanguinare il labbro.

«Basta così, non rovinatemeli, o il signor Bluejam se la prenderà con me» disse Porshemy. «Volete il proprietario di questo, no?» disse, toccando il cappello di paglia. «Allora venite con noi.»

Sabo ed Ace si guardarono. Entrambi sapevano che la cosa migliore sarebbe stata cercare di scappare alla prima occasione e più aspettavano meno ne avrebbero avute, ma dovevano trovare Rufy e quella era l'unica possibilità che gli si era presentata fino a quel momento.

Porshemy conosceva Montparnasse decisamente meglio di quanto non lo conoscesse Sabo, perché prese alcune strade che lui non aveva mai visto, anche se poteva essere la notte che lo ingannava. La casa in cui entrarono non si trovava nelle strade principali ma sembrava più un fondo commerciale che un appartamento vero e proprio. Ace e Sabo furono lasciati solo quando venne raggiunto lo studio e la luce accesa quasi li accecò.

Ci misero un po' a mettere a fuoco la situazione e l'uomo che stava seduto dietro la scrivania. Il signor Bluejam invece li aveva già osservati bene per sapere che la sua intuizione si era rivelata corretta.

«Il primogenito degli Outlook, vero?» Sabo sgranò gli occhi: non gli era mai capitato di essere additato con un membro della nobiltà al di fuori delle conoscenze di suo padre, soprattutto nelle sue scorribande per Parigi. La sua espressione fece scoppiare a ridere Bluejam. «Davvero pensavi che non se ne sarebbe mai accorto nessuno?»

«Che cosa vuoi?» domandò allora Sabo, in tono duro. Non voleva utilizzare il nome di suo padre per uscire da quella situazione, perché non condivideva la sua ideologia, ma sperava che quell'uomo fosse abbastanza intelligente da capire che non era il caso di sfidare qualcuno della nobiltà.

«Dov'è Rufy?» chiese invece Ace, che stava occhieggiando gli uomini dietro di loro che bloccavano l'unica via d'uscita.

«Rufy...? Vuoi dire quel ragazzino che non parla francese? È stata dura capire cosa volesse.» Bluejam si voltò, aprì lo sportello di una credenza e poi posò sulla scrivania due macchine fotografiche: le loro due Leica. «Voleva queste. Vedo che le conoscete» aggiunse, osservando le loro espressioni. «Io invece conosco voi. È abbastanza facile risalire all'identità di un americano, anche se parla una lingua incomprensibile. E quando ho saputo chi era, ho pensato di aver avuto fortuna.» Si voltò e rimise le macchine fotografiche dove le aveva prese. «Ma non immaginavo così tanta. Insomma, ero convinto che sareste usciti da soli di giorno, invece ci avete facilitato il lavoro!»

Ace strinse i pugni: si sentiva un idiota per essersi gettato in quella situazione, ma ancora di più non tollerava che Rufy fosse finito nei guai per cercare di fare un favore a loro. «Dov'è mio fratello?!» gridò. Non aveva interesse ad ascoltare ancora quell'uomo vantarsi di averli messi nel sacco.

Bluejam sorrise e fece un cenno con la mano ai suoi uomini. Porshemy li afferrò per il braccio e li trascinò via incurante delle loro proteste, e poi li lanciò giù per le scale di un seminterrato. Prima di chiudere la porta alle loro spalle gettò verso di loro anche il cappello di paglia.

«Maledetti bastardi!» sbottò Ace, tenendosi il gomito dolorante per la botta presa rotolando per le scale.

«Oh!» esclamò invece Sabo, che aveva immediatamente dato un'occhiata nella stanza per vedere una via d'uscita. Un attimo dopo, infatti, furono entrambi gettati nuovamente a terra, questa volta da un Rufy piagnucolante che li stava abbracciando in maniera un po' troppo entusiasta.

«Brutto idiota!» esclamò Ace togliendoselo di dosso. «Cosa ti è saltato in mente? Hai visto in che guaio ti sei cacciato?»

Rufy lo fissò con le lacrime agli occhi, per cui Sabo intervenne: «Non essere così duro, stava cercando di farci un favore».

«Anche peggio!» ribatté Ace. Poi si addolcì un attimo, vedendo Sabo che gli controllava le ferite. Fortunatamente apparivano solo come graffi, nulla di serio. «Voglio dire, la Leica non era poi più importante di altro, ecco...» Prese il cappello di paglia da terra e glielo passò.

Rufy tirò sul col naso, poi se lo mise in testa. «Mi dispiace...»

«Be', non è che ora possiamo farci molto» terminò, imbarazzato. «Pensiamo a come uscire da qui.»

Sabo si guardò intorno: si trovavano probabilmente sotto il livello stradale, dato che lo studio era al piano terra, ma la stanza era completamente vuota. «Abbiamo qualcosa di utile in tasca?»

La risposta fu negativa: Ace aveva solamente la sua palla da baseball e Rufy una scatola di fiammiferi, che aveva rubato una volta in un bar sperando di imitare i due ragazzi più grandi. «Potremo dare fuoco a qualcosa» propose Ace.

«Non c'è combustibile a parte i nostri vestiti» rispose Sabo. «E rischieremo di morire soffocati prima che si accorgano dell'incendio» aggiunse, facendo rabbrividire Rufy. «Non ci resta che provare da quella finestra» sospirò ancora, indicando una piccola apertura rettangolare al confine col soffitto.

«Io non ci passo, è troppo piccola» affermò Ace.

«Nemmeno io» replicò Sabo. «Però Rufy sì, e se saliamo uno sulle spalle dell'altro dovremo riuscire a raggiungerla.»

«Non credo che sia una buona idea, insomma...» Non voleva dare dell'incapace al fratello, ma non sapeva né il francese né orientarsi per i vicoli. «E poi, una volta fuori, cosa potrebbe fare?»

«Chiamare aiuto. Se gli insegniamo un paio di parole, dovrebbe essere abbastanza per un gendarme.» Pronunciò quest'ultima parola con prudenza, perché Ace aveva messo ben in chiaro che non apprezzava la scelta. «O tuo nonno» aggiunse, nel tentativo di trovare un'altra soluzione.

«Nah, quello direbbe che la dobbiamo cavare da soli!» commentò, ricordando i duri allenamenti a cui erano stati sottoposti a Boston. «E poi è ad una festa assieme ai tuoi genitori, ricordi?»

«Già, è vero. Il palazzo è troppo lontano, non si può raggiungere a piedi in fretta e comunque non saprei come spiegargli la strada da qui» rispose Sabo. «E vale lo stesso per casa mia, dalla bambinaia.»

«Posso farcela!» esclamò Rufy. La sua voce suonava più convincente del suo corpo, ma era effettivamente l'unica possibilità ed era chiaro che voleva rimediare per quanto poteva, dato che fino a quel momento ogni cosa che aveva fatto per diventare loro amico si era risolta in un disastro.

«Pare che non abbiamo molta scelta...» Ace non era decisamente convinto, né del fatto che avrebbero messo Rufy in pericolo, né del fatto che dovevano contare su di lui. Gli schiaffò la palla da baseball in mano. «Vedi di riportarmela!»

«Contiamo su di te» gli disse Sabo.

Sabo rifletté a lungo su come fare esattamente per far in modo che Rufy riuscisse a trovare un poliziotto, fargli capire la situazione e condurlo a loro. Per prima cosa, gli insegnò le parole francesi “aide” e “saisie”, che stavano per “aiuto” e “rapimento”, nella speranza che bastassero ad insospettire qualcuno.

La pronuncia di Rufy non era esattamente delle migliori, ma non potevano perdere troppo tempo in una completa lezione di francese, anche perché riuscire a farlo uscire dalla finestra impiegò una buona dose di impegno e di tempo. Rufy temette di rimanere incastrato tra i due infissi, ma strusciando con forza riuscì a passare. Aveva graffi anche in posti che non pensava di avere e gli bruciavano, ma strinse i denti per resistere.

Sentì Sabo ed Ace dargli le ultime indicazioni ed ascoltò con attenzione per non commettere errori, quindi annuì e sgusciò via. Come gli era stato detto, prese le strade che individuava come più luminose, finché non raggiunse una delle principali. A quel punto seguì la strada luminosa cercando di individuare l'insegna dei gendarmi che Sabo gli aveva descritto.

La trovò all'incrocio successivo e, seduto sulla soglia, vi era un poliziotto dall'espressione burbera che fumava due sigari. Rufy aveva già scordato le parole in francese che gli erano state insegnate, quindi parlò in americano: «La prego signore, ci hanno rapito, deve venire a salvare i miei amici!». Le prime due volte fu cacciato via in malo modo, ma la sua insistenza fece capire che poteva effettivamente esserci qualcosa sotto.

«Tashigi!»

Una giovane donna emerse dalla porta a fianco a dove l'uomo fumava beatamente. «Cosa succede, signor Smoker?»

«Questo bambino vuole qualcosa, ma mi è incomprensibile. Forse è inglese.»

«La prego, signorina, mi aiuti!»

Lei inforcò gli occhiali per guardarlo meglio. «Non credo che sia inglese, l'accento mi sembra americano.»

«Oh, fantastico, un piccolo yankee

«Ti sei perso?» gli domandò Tashigi, chinandosi verso di lui. «Dove sono i tuoi genitori?»

«Non mi sono perso, ho bisogno d'aiuto!» E cercò di prendere per mano l'uomo per trascinarlo con sé, inutilmente perché era pesante come una roccia e non si muoveva.

«Non puoi andare a svegliare Kuzan? Lui sa l'inglese» disse Smoker. «Scommetto che sta di nuovo dormendo in guardina.»

«Infatti. Lo vado a chiamare...» Il tono era incerto, perché non le faceva piacere svegliare un superiore, anche se su ordine del suo capo. «Ehi, piccolo!» esclamò poi, notando che il bambino aveva smesso di tentare di parlare con loro e stava scappando.

«Accidenti!» sbottò Smoker. Ora doveva spegnere i sigari e rincorrerlo, perché non poteva certo lasciare un bambino di notte in giro per Parigi.

Rufy non aveva mai avuto molta pazienza, e, quando aveva visto che nessuno lo capiva o faceva lo sforzo di ascoltarlo, aveva pensato che non avesse altra alternativa che salvare gli altri da solo. Aveva seguito il consiglio di Sabo di gettare un fiammifero ad ogni angolo di strada che svoltava, per cui nonostante il suo scarso senso dell'orientamento riuscì a tornare indietro, ma una volta davanti alla porta dei rapitori, si rese conto di non avere idea di cosa avrebbe potuto fare.

Fissò ciò che aveva con sé: una palla da baseball e due fiammiferi rimasti. Forse avrebbe potuto accendere una fiamma, ma con cosa? Era stata un'idea scartata anche perché non avevano nulla a cui dare fuoco. Si strinse nelle spalle: aveva freddo e si sentiva scoraggiato, ma non poteva darsi per vinto.

In quel momento, si ricordò che aveva qualcosa che poteva incendiare: i suoi vestiti. Si tolse la maglia e la avvolse attorno alla palla da baseball, poi diede fuoco al fiammifero. La prima volta non ci riuscì, ma la seconda un lembo del vestito si accese. Aspettò che il malloppo si fosse acceso abbastanza, poi lo prese e pur bruciandosi, lo lanciò contro la finestra, infrangendola e gettando la fiamma all'interno.

Se fosse scoppiato un incendio, i poliziotti l'avrebbero notato e sarebbero corsi nella strada e forse avrebbero indagato meglio. Avrebbe anche potuto mostrare loro la stanza dov'erano rinchiusi. Ma dall'appartamento non si stava sviluppando alcun fuoco, usciva solamente un sottile filo di fumo che andava sparendo nella notte.

La porta d'ingresso si aprì e ne comparve Porshemy. «Tu» disse, riconoscendo Rufy. «Che cos'hai fatto? Come hai fatto a scappare?»

Rufy lo fissò terrorizzato: anche l'ultimo filo di fumo era scomparso e non c'era nessuno in vista. Si voltò e fece per scappare, ma Polshemy si gettò su di lui e lo afferrò per un braccio. Rufy glielo morse, tenendo fermi i denti sul suo braccio. Polshemy lo agitò fino a scrollarselo di dosso e lanciarlo contro il muro. Rufy si alzò con il naso che gli colava e si sentì afferrare nuovamente, stavolta per il collo. «Lasciami!» gridò, agitandosi.

Il suo desiderio fu esaurito, perché si sentì cadere a terra e riuscì appena in tempo a mettere le mani in avanti per attutire la caduta. Si voltò in tempo per vedere Smoker che stringeva Polshemy contro il muro. «Adesso ci mettiamo anche a picchiare bambini?»

La porta dell'appartamento era ancora aperta, era un'occasione. Rufy si rialzò e corse dentro. Il mucchio nero dei suoi vestiti giaceva spento accanto alla finestra, tra i vetri rotti. Li superò senza nemmeno tentare di evitarli e si gettò contro la porta, sbattendoci i pugni sopra.

Smoker aveva ammanettato Porshemy e l'aveva lasciato sotto il controllo di Tashigi, quindi aveva seguito Rufy all'interno. Le sue orecchie erano buone abbastanza da sentire delle voci che provenivano dall'interno della porta, quindi si avvicinò e fece segno a Rufy di allontanarsi. Lui lo guardò, poi annuì e si spostò.

«Fate attenzione!» gridò Smoker verso la porta, poi l'abbatté con una spallata. «Oh, grandioso, altri mocciosi» commentò poi quando Sabo ed Ace balzarono fuori, metà rassicurati e metà sorpresi per tutta la confusione che si era creata. «State bene?» gli domandò poi, osservando il gomito gonfio di Ace.

Sabo annuì, poi si presentò. «Siamo stati rapiti!»

«L'avevo capito» annuì Smoker.

L'intera confusione creata aveva svegliato anche Bluejam, che emerse dalla sua stanza da letto ancora con indosso il pigiama. La prima cosa che notò fu la porta aperta e la presenza di Smoker, per cui si mise a sbraitare. «È un abuso, non potete entrare così in casa d'altri!» Poi notò i tre bambini e si rese conto che difficilmente avrebbe potuto negare una cosa del genere, quindi cercò di darsi alla fuga verso la porta aperta, ma sbatté contro un uomo alto che stava entrando e venne ribattuto all'indietro.

«Alla buonora» commentò Smoker, seccato.

Kuzan non fece nemmeno segno di chiedere scusa per i suoi pisolini. «Che abbiamo qua? Dimmi che è la volta buona che riusciamo ad arrestarlo.»

«Direi di sì. Rapimento di minori» rispose Smoker indicando i tre bambini che erano ancora fermi dietro di lui.

«Allora mi tocca lavorare» commentò Kuzan con un sospiro. Afferrò Bluejam per un braccio mentre estraeva le manette. Una volta che l'ebbe accompagnato fuori a far coppia con il suo tirapiedi, Tashigi entrò per esaminare la situazione. Non appena vide i bambini, si diresse verso di loro per controllare che stessero bene.

Ace aveva dato la maglia a Rufy e come conseguenza era rimasto scoperto lui, per cui Tashigi gli passò la sua giacca. Poi controllò il suo gomito e il viso di Rufy: il naso aveva smesso di sanguinare ma stava comparendo un livido su una guancia. Anche il labbro di Sabo si era leggermente gonfiato.

«Credo sia meglio portarli all'ospedale, per assicurarsi che stiano bene» affermò. Non parevano ferite gravi, però non aveva dietro strumenti per il pronto soccorso e voleva comunque che fossero medicati.

«Concordo» disse Smoker. «Accompagnaceli tu e già che ci sei avverti anche i genitori.» Lui preferiva stare il più alla larga possibile dalle polemiche, per cui colse la palla al balzo di affidare il lavoro a lei, che comunque se la cavava meglio con i bambini. «Kuzan e io torniamo in centrale per il rapporto.»

«Va bene» annuì Tashigi. «Ce la fate a camminare dietro di me?» Tutti e tre annuirono, ma Rufy sembrava molto stanco, per cui lei lo prese in braccio comunque.

Smoker lo fissò. Fece una smorfia, poi allungò con prudenza la mano per dare una carezza in testa a Rufy, che singhiozzava.  «Sei stato molto coraggioso» gli disse. «Ottimo lavoro, ma la prossima volta aspettami.» Rufy annuì appena, anche se non aveva capito nulla di quello che gli era stato detto.

Tashigi sorrise soddisfatta e lasciò l'appartamento in direzione dell'ospedale. In realtà, Ace avrebbe voluto protestare e tornare immediatamente alla stanza d'albergo, ma il gomito gli faceva davvero male e anche i graffi di Rufy necessitavano di un controllo. E magari il padre di Sabo sarebbe stato più comprensivo se li avesse visti fasciati e feriti.

Quando Tashigi fece sedere Rufy sulla sedia del pronto soccorso per andare a chiamare uno dei medici, lasciandoli per un attimo da soli, Ace gli si avvicinò e disse: «Non so cos'hai combinato, ma grazie». Il piano non pareva essere andato esattamente come previsto e immaginava che non avrebbe più rivisto la sua palla da baseball, ma stavano tutti bene e gli bastava.

«Davvero, ben fatto» confermò Sabo con un sorriso.

Rufy era al settimo cielo, e li prese entrambi per mano.


 
Parigi, 21 Agosto
 
Il rapimento ebbe delle conseguenze per la maggior parte positive. Outlook fu troppo preoccupato ad arrabbiarsi con la banda di Bluejam per aver solo pensato di potergli chiedere un riscatto per prendersela con il figlio che aveva totalmente disubbidito all'ordine di parlare con Ace e per di più aveva lasciato la casa in piena notte. Anzi, aveva deciso di rivedere la sua posizione precedente, per cui le due famiglie stavano facendo colazione assieme quella domenica.

Ace non poteva essere più soddisfatto: stava di nuovo assieme a Sabo e avevano avuto indietro le macchine fotografiche. Non avevano più una camera oscura, ma sapevano entrambi che difficilmente Stelly sarebbe tornato a vendicarsi: aveva troppo paura che suo padre scoprisse che erano state le sue azioni a portare all'iniziale rapimento di Rufy.

Il quale, dovette ammettere Ace, era il vero eroe della giornata. Era stato stupido e imprudente e s'era ficcato nei guai, ma era davvero riuscito a ritrovare dove le macchine fotografiche erano state vendute e a chiamare aiuto per salvarli. Sabo la pensava nella medesima maniera.

Così, quando lasciarono il tavolo da colazione con l'intenzione di andare sulla Senna a scattare qualche fotografia, entrambi si voltarono verso Rufy senza nemmeno doversi consultare: «Vieni?».

Rufy, che non se lo aspettava, sgranò gli occhi. Poi sorrise, si infilò l'enorme pezzo di pane col burro in bocca e saltò immediatamente giù dalla sedia per seguirli. Outlook si limitò ad alzare lo sguardo e scrutare la bambinaia, che in un attimo fu in piedi presso i tre bambini.

Averla dietro era una seccatura, ma se parlavano in inglese lei non li avrebbe capiti, per cui avrebbero potuto progettare una fuga, se avessero voluto. Ma non volevano, per una volta avrebbero potuto semplicemente giocare sulla riva. Sentivano di aver bisogno di riposo. Ciò non significava che non avrebbero parlato in inglese, anche solo per darle l'idea di star progettando qualcosa.

«Allora... Come mai vuoi diventare un pugile?» domandò Sabo a Rufy. «Ha qualcosa a che fare con il cappello?»

«Ho fatto una promessa a Shanks che me l'ha regalato» annuì Rufy. «Diventerò il miglior pugile che si sia mai visto e vincerò un sacco di Olimpiadi e tornei.»

«Shanks era un pugile, secoli fa» spiegò Ace. «Ha perso un braccio in un incidente e si è ritirato. Non mi hai mai detto di averlo conosciuto» aggiunse, con un tono di voce strano. Non sapeva se essere più offeso o più stupito.

«Be', non è che tu mi abbia mai considerato molto.» Era una frecciata involontaria da parte di Rufy, anche perché era vera, per cui Ace girò lo sguardo verso la Senna e fece finta di nulla. «Shanks ha perso il braccio per colpa mia» continuò lui. «Voglio diventare forte tanto e più di lui.»

I due bambini più grandi si fissarono, poi guardarono Rufy: l'avevano sempre visto come un seccatore e uno stupido, e si trovavano a scoprire che c'era molto di più sotto.

Rufy non sembrava avere risentimenti, era soddisfatto di essere finalmente in giro con loro e ciò gli bastava. «Quando vincerò le Olimpiadi, farete una foto anche a me?» domandò. Ed Ace capì perché trovata tanto difficile avere a che fare con lui, era una persona che parlava con il cuore e sembrava non avere esitazioni.

«Quando vincerai le Olimpiadi, sarò un fotografo così famoso che sarai tu ad essere onorato e non il contrario» rispose allora, sorridendo.

«Ma io sarò ancora più famoso di lui» intervenne Sabo, con lo stesso ghigno sul volto. «E dovrai aspettare prima di avere una foto da me!»

«Ti piacerebbe!» ribatté Ace e gli diede un pugno sul braccio. «Non pensare di aver vantaggio su di me perché hai più esperienza.»

«Mi dispiace davvero per quello che è successo» disse allora Rufy, perché la risposta gli aveva fatto venire in mente ciò che era successo con la camera oscura.

Sabo agitò la mano noncurante. «L'ho capito che è stata tutta colpa di Stelly, lasciamo perdere.»

«Non capisco come possa essere tuo fratello» commentò allora Rufy. «Vorrei che avessi un fratello come ho io.» Per una volta, Ace non lo corresse con la solita frase “non siamo davvero fratelli”. Alla fine, per un complimento che non si aspettava.

«Oh, credimi, vorrei che Sabo fosse mio fratello» fu l'unica cosa che commentò.

«Anche io!» aggiunse immediatamente Rufy.

«Grazie» mormorò allora Sabo, gli occhi fissi sull'erba ingiallita del prato. «Peccato che non sia possibile, ma grazie. Piacerebbe anche a me.»

«Perché non è possibile? Siamo tutti d'accordo, quindi è deciso!»

«Non è così semplice, non puoi decidere per conto tuo, stupido!» Ace tirò a Rufy un piccolo schiaffo sulla nuca.

«Chi hai chiamato stupido?!»

Sabo non interruppe il loro litigio, perché stava riflettendo con il pollice appoggiato sul mento. «Forse lo è» mormorò infine, attirando l'attenzione degli altri due. Si morse il dito fino a farselo sanguinare, quindi lo allungò nella loro direzione. «Possiamo fare un patto di sangue e giurare che da questo momento in poi ci considereremo fratelli a dispetto di tutto.»

Ace ricambiò il sorriso, quindi imitò il suo gesto e poi pose il polpastrello su quello dell'altro. Rufy li fissò, poi fissò il suo pollice. Ci mise un'eternità a metterselo in bocca, ma gli altri lo stavano aspettando. «Ahia, che male!» gridò dopo aver affondato i denti, ma sentì il sapore del sangue e si affrettò a poggiare il dito assieme a quello degli altri.

«Da questo momento in poi... siamo fratelli!» annunciò Ace.

«E quando vincerò le Olimpiadi e voi sarete fotografi famosi dovrete assolutamente venire a farmi una foto, promesso!» aggiunse Rufy.

«Allora vedi d'impegnarti, perché così mingherlino non ti vedo bene» ribatté Sabo, per il gusto di farlo arrabbiare.

Il sangue gli era colato dalle dita, si era mescolato a quello degli altri due ed era gocciolato sull'erba.

Sarebbe stato bello se quello fosse stato l'unico sangue versato sul suolo di Francia.

 
To be continued...
 
***
 
Akemichan parla senza coerenza:

Questa è la seconda parte del prologo, è venuto troppo lungo per cui ho dovuto dividerlo in due. Ovviamente ho voluto riportare il canon della storia dei due fratelli nella mia storia per indicare come anche qui abbiano questo particolare tipo di legame ma, per ovvi motivi di contesto storico, ho evitato l'utilizzo del bere saké che è una cosa tipicamente giapponese. Il sistema che ho trovato m'ha comunque soddisfatto perché penso che si adatti bene anche al contesto di guerra in cui la mia storia si inserisce.
Grazie, come al solito, a tutti quelli che l'hanno letta e apprezzata :) Presumo che continuerò ad aggiornare ogni due settimane, come in questo caso.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 1940 - Parte I ***


1940 - Parte I
 
 
Château d'Ô, 13 Maggio
 
«Che cavolo succede?!» esclamò Sabo con la voce ancora impastata dal sonno, svegliato improvvisamente da quello che pareva un terremoto al piano inferiore.

Si sfregò un attimo gli occhi per riprendersi: aveva deciso di provare a fotografare un'alba col risultato di aver passato a dormire il resto della mattinata. Uscì dalla stanza e si affacciò dalla finestra del corridoio degli specchi in direzione della città: nel parcheggio a destra del castello si trovavano quattro camion e alcuni addetti stavano caricando delle casse.

Aveva risolto il mistero del rumore che l'aveva svegliato, ma non significava che avesse tutte le risposte. Non aveva idea di chi fosse tutta quella gente, né di cosa stessero facendo, perché suo padre non ne aveva fatto cenno la sera precedente.

Prima però aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Si lavò velocemente, si vestì e scese in cucina. La cuoca non c'era, per cui aprì la dispensa e prese un po' di pane e marmellata. Mentre si sedeva sul tavolo per mangiare, notò che delle scatole. Incuriosito, si allungò e alzò la confezione: dentro erano state inserite una serie di pentole, del servizio buono.

Sabo cominciava ad avere un sospetto. La politica era stata sempre fondamentale per gli affari di famiglia, ma da un anno a questa parte, ogni volta che era lui stesso ad introdurre l'argomento, suo padre cambiava discorso. Gli aveva anche accennato all'idea di arruolarsi quando la Francia aveva dichiarato guerra alla Germania e, non avendo ricevuto risposta, aveva inviato la domanda senza la sua autorizzazione.

Tuttavia, nonostante lo spauracchio della Grande Guerra, a Parigi e nei suoi dintorni la situazione era ancora abbastanza tranquilla. L'esercito si era mobilitato verso la linea Maginot, ma erano passati sei mesi e non era successo molto. Certo, la Germania aveva invaso la Danimarca, ma erano avvenimenti così lontani che non sembravano nemmeno reali. Perché allora un trasferimento? L'unica cosa cambiata in quei mesi era il governo a Parigi, ma suo padre era stato favorevole al nuovo presidente.

Si ingozzò quasi con il pane e marmellata e poi risalì al piano superiore e bussò nell'ufficio di suo padre. Quando entrò, rimase per un attimo stupefatto: tutti i mobili erano vuoti. Era quasi irreale, come stanza. Suo padre stava finendo di inserire dei documenti e gli oggetti che un tempo esponeva sulla sua scrivania all'interno di una scatola, mentre poneva quelli di valore all'interno di una valigia.

«Ah, ti sei alzato finalmente» commentò suo padre, quando lo vide. «Inizia a preparare la valigia con le cose che ti servono di più. Mando qualcuno a prendere il resto.»

«Che cosa significa?» domandò Sabo, che non riusciva a staccare gli occhi dalle librerie vuote.

«Partiamo per gli Stati Uniti» rispose suo padre, che aveva ripreso a lavorare alla divisione degli oggetti personali. «Ci imbarchiamo da Bordeaux domani per Londra, e da là in aereo.»

«Perché?» Era una domanda stupida, se ne rendeva conto, dato che sapeva benissimo il motivo: evitare di abitare in un paese in guerra. «Ho fatto domanda per arruolarmi» aggiunse. «Non posso andarmene prima di aver ricevuto la risposta.»

Outlook fece una smorfia. «Vai a preparare la valigia.»

«Cosa hai fatto?» Sabo si avvicinò alla sua scrivania. «Sembri avere la certezza che non mi chiameranno.»

«Perché non hanno mai ricevuto la tua domanda.» Finalmente suo padre focalizzò la sua attenzione su di lui. «Cosa credi, che sarei stato disposto a mandare i miei figli a morire in trincea come gente qualunque? Abbiamo un impero qui! Ci ho messo anni a costruirlo e l'ho aumentato nonostante la crisi. Tu e Stelly dovete solo preoccuparvi di mantenerlo.»

Sabo tremò per un attimo. Aveva trovato strano che non gli avessero mai risposto e per sicurezza aveva mandato altre domande a distanza di mesi, ma non aveva mai sospettato che suo padre non le avesse mai spedite o avesse usato la sua influenza per farlo escludere dalle liste. A pensarci, però, era quasi ovvio.

«Non me ne importa nulla della tua maledetta impresa!» sbottò, sbattendo le mani sulla scrivania. «Non lascerò la Francia. A te non interessa, ma io voglio combattere in quelle trincee per la mia patria! E se fossi un uomo vero, lo faresti anche tu invece di scappare come un codardo.» Lo schiaffo lo prese alla sprovvista e non riuscì ad evitarlo.

«Non sono riuscito a toglierti queste idee dalla testa, ma prima o poi mi ringrazierai» disse suo padre, con voce tagliente. «Non m'importa quello che pensi. Per diciott'anni ti ho vestito, dato da mangiare, educato. Non manderai tutto questo in fumo per un capriccio.»

In quel momento un dei camerieri bussò appena alla porta che Sabo aveva lasciato aperta. «Mi scusi per il disturbo, signore. I primi tre camion sono partiti. E ho avuto la conferma che la casa di Parigi è stata perfettamente svuotata.»

«Benissimo» commentò Outlook. «Potete iniziare a caricare i vestiti negli altri due. Domani, quando ce ne saremo andati, dovrete impacchettare le ultime cose e spedirle allo stesso indirizzo.» Il cameriere annuì e fece per andarsene, ma venne richiamato. «Ho un altro compito da affidarti: accompagna mio figlio in camera sua e assicurati che ci resti. Se non vuole preparare la sua roba, occupatene tu.»

«Certamente, signore.» Il cameriere non sembrava aver opinioni riguardanti il comportamento di Sabo, ma lui provò antipatia istantanea. Nulla di personale, semplicemente lo vedeva come un'estensione naturale della decisione di suo padre.

«Faccio da solo» sbottò, quando il cameriere fece segno di volerlo afferrare per il braccio. Uscì dall'ufficio e si incamminò verso la sua camera. La porta di Stelly era aperta perciò lo vide mentre preparava alacremente la sua roba.

Il suo cervello lavorava a pieno regime: aveva deciso che non avrebbe lasciato la Francia e che in qualche modo sarebbe riuscito a farsi arruolare. Con il cameriere che sorvegliava i suoi movimenti era difficile poter attuare qualcosa.

«Posso almeno andare in bagno?» commentò ironicamente.

«Certamente, signore. La accompagno.» Il cameriere era inespressivo ma inflessibile.

«Lascia perdere» scosse la testa Sabo, aprendo l'armadio.

L'unico vantaggio che aveva al momento era poter preparare i suoi bagagli da solo. Mentre tirava fuori la roba e la poggiava sul letto, iniziò a formare il suo piano. Suo padre aveva detto che sarebbero partiti l'indomani mattina, quindi aveva ancora un po' di tempo.

Doveva pensare alle cose che avrebbero potuto servigli se sarebbe dovuto rimanere a Parigi da solo. Aveva bisogno di un paio di cambi, almeno, vestiti leggeri. Una giacca. Delle scarpe comode. La sua macchina fotografica. Tutte cose che fortunatamente poteva inserire nella valigia senza destare sospetti. Lasciò momentaneamente lo zaino da un lato: quello non l'aveva messo nella valigia, ma aveva aspettato una distrazione del cameriere, quando gli addetti erano venuti a ritirare i primi scatoloni, per farlo scivolare sotto al letto.

Suo padre mantenne la parola data sul fatto che non intendeva essere contraddetto e gli impedì di lasciare la sua camera anche per la cena, che gli fece consegnare in camera. Per Sabo andava benissimo, dato che fu l'unico momento della giornata in cui il cameriere, preso da altri impegni, lo lasciò da solo.

Tirò fuori lo zaino da sotto il letto e vi infilò dentro tutto il necessario che aveva messo in cima valigia, per averlo a portata di mano. Poi prese la Leica I: Ace non l'aveva portata con sé perché sosteneva che la sfida fra loro due sarebbe stata leale unicamente se fosse riuscito a comprarsi una macchina fotografica con le sue forze. Per quel motivo Sabo l'aveva utilizzata per nascondere i suoi risparmi: un rotolo da mille e cinquecento franchi al posto del rullino. Ne fece tre mucchietti diversi e li nascose uno nello zaino e due nelle scarpe.

Quando il cameriere tornò, lo trovò alla scrivania intento a scrivere una lettera, già con il pigiama. I piatti erano vuoti e impilati su un lato. La valigia era chiusa e le ultime cose erano state inserite nell'ultima scatola: il giorno successivo ci sarebbero state posizionate le lenzuola per poi essere spedite con l'ultimo carico.

«Signorino, credo sia meglio andare a riposare per il viaggio di domani.» Il cameriere sembrava rassicurato dal suo comportamento.

«Finisco di scrivere questa lettera. Domani ti chiederò di imbucarla per me, devo avvertire delle persone che sto per arrivare negli Stati Uniti.»

Il cameriere sapeva dell'esistenza di Ace e Rufy, anche se non conosceva i dettagli della loro relazione, perciò prese quella frase come la certezza che Sabo si fosse ormai adattato alla situazione. «Certamente. Se dovesse aver bisogno di altro, sarò qui fuori.»
Sabo lasciò asciugare l'inchiostro, poi mise i fogli nella busta, la chiuse e scrisse l'indirizzo. La lasciò momentaneamente sulla scrivania, spense la luce e si mise a letto.

Non aveva intenzione di dormire e fortunatamente il fatto di aver poltrito fin dopo pranzo lo aiutava da questo punto di vista. La noia rischiava di farlo cedere, ma tenne duro finché non fu sicuro che non ci fosse più un solo rumore all'interno del castello. Sapeva che il cameriere era all'esterno della sua porta, quindi si alzò da letto con prudenza e, dopo aver aperto la finestra, attese se ci fossero dei movimenti, ma nulla.

Allora prese le lenzuola una alla volta e le avvolse ed attorcigliò per formare delle corde, quindi le legò assieme e poi una delle estremità alla maniglia della finestra. Mise la lettera nello zaino e se lo caricò in spalla. Poi balzò sulla finestra e si calò giù lentamente. Le finestre ai piani sottostanti erano buie e riuscì ad atterrare senza far rumore.

La sua camera dava sul lato opposto rispetto alla porta d'ingresso e questo significava che non c'erano ponti per attraversare il lago. Tuttavia, non c'erano nemmeno strade per tornare verso il cortile, solo la facciata, e di sicuro non poteva tentare di scassinare una finestra. Aveva pensato anche a questo, era il motivo per cui aveva tenuto addosso il pigiama.

Lasciò lo zaino al limite della riva e sgusciò lentamente in acqua per essere sicuro di fare il minor rumore possibile. Le anatre erano già rifugiate all'interno della loro tana sull'isoletta, ma se si fossero messe a starnazzare avrebbero coperto altri rumori, per cui non se ne preoccupava. Prese lo zaino e lo tenne in alto con la mano sinistra, mentre nuotava verso la riva opposta con le gambe e l'altro braccio. Era difficile e stancante, per cui non appena fu abbastanza vicino lanciò lo zaino, con l'erba che attutì il rumore, coprendo l'ultima parte del percorso con bracciate piene.

Una volta sull'altra sponda, si spogliò. Aveva deciso che avrebbe abbandonato il pigiama proprio in quel punto, a spregio. Era convinto che sarebbe stato abbastanza lontano da non doversi più preoccupare di suo padre. Si era portato dietro un asciugamano per asciugarsi, che fece la stessa fine del pigiama, quindi si mise uno dei due cambi che si era portato.

Zaino in spalla, si avviò verso il fiume e ne seguì il corso. Era così abituato a farlo che il fatto che fosse notte non lo ostacolava affatto. Superò il mulino e si diresse verso la casa dei fattori. Bussò la porta con forza e chiamò. «Dadan! Dogura! Magura!»

Ci misero un po' a rispondere, erano a letto e non avevano capito subito che era davvero qualcuno che bussava alla loro porta. «Che c'è? Ma sai che ore sono?» lo investì Dadan aprendo la porta. Poi si accorse di chi si trattava e capì subito che stava succedendo qualcosa.

«Sto scappando di casa» affermò Sabo, sgusciando fra lei e la porta ed entrando nella cucina. Gli altri contadini si erano affacciati dal dormitorio comune per vedere cosa stava succedendo.

«Cosa pensi di fare, stupido ragazzino?!» sbottò Dadan. La porta si chiuse di botto dietro di lei.

«Non voglio andare negli Stati Uniti, voglio rimanere in Francia e combattere.»

«Tu non sai cosa sia la guerra, lasciatelo dire da una che ci è passata una volta di troppo...» iniziò Dadan. «Vattene finché sei in tempo.»

«No.»

«Fa' quello che ti pare!» esclamò allora lei, sedendosi al tavolo e imponendosi di ignorarlo.

«Tuo padre non è d'accordo, vero?» domandò Magura.

«No» confermò Sabo. «Devo farlo da solo. Per questo sono qui: qualcuno può accompagnarmi a Parigi in auto? Devo arrivarci in fretta.»

«Cosa pensi di fare, una volta là?» Dadan teneva con forza la testa voltata da un'altra parte, come se la cosa non lo riguardasse, ma ascoltava tutto.

«Non lo so» ammise Sabo. «Ma lì almeno ho un tetto sulla testa, finché non riuscirò a farmi arruolare. Mio padre partirà domani, devo solo resistere una giornata.»

«Non sarà contento» affermò Dogura. «Non credo se ne andrà senza di te.»

«Lo farà, ha predisposto tutto da mesi e non ci rinuncerà per me» disse Sabo convinto. «Forse mi farà cercare, questo sì, ma una volta arruolato non potrà farci più nulla.»

«Comunque non abbiamo una macchina, quindi fila via.» Dadan stava solo cercando di proteggerlo, in realtà. Non voleva vederlo morire in guerra.

«Veramente c'è quella vecchia Citroën C4» intervenne Dogura, cosa che gli fece guadagnare un'occhiataccia. «Non la muoviamo da una vita, ma abbiamo ancora una tanica di benzina per le emergenze.»

«Prestatemela! Non ho la patente, ma so guidare.» Sabo guardò uno ad uno quei contadini con cui aveva passato l'infanzia e con cui era cresciuto. «Non voglio farvi finire nei guai per causa mia, ma non posso restare qui. Non voglio diventare come mio padre.»

«Col cavolo che ti lascio guidare per andare a sbattere contro il primo palo!» Dadan si alzò facendo cadere la sedia dietro di lei, aprì uno dei cassetti e estrasse roba che gettò per terra finché non trovò le chiavi della macchina. «Magura, accompagnalo tu» ordinò, consegnandogliele.

«Grazie» commentò allora Sabo, con un groppo in gola. Si rendeva conto che non era un addio, ma ci andava molto vicino. Non sapeva cosa gli sarebbe successo da lì in avanti, dove sarebbe stato inviato come soldato. E non sapeva se sarebbe morto. «So quello che faccio.»

«No, non lo sai» replicò Dadan, incredibilmente calma. «Non sai niente della guerra e io spero che non lo imparerai nella maniera peggiore.» Poi prese un sospiro. «Prova a morire e ti uccido.»

Doveva ammetterlo, era commosso. «Non succederà» promise, anche se sapeva che non dipendeva da lui. Provò ad abbracciarla, ma lei si ritrasse cercando di recuperare, invano, un po' di dignità e soprattutto di non piangere.

Sabo le facilitò il lavoro. «Ah, c'è un altro favore che vorrei chiedervi.»

«Ancora?! Cos'altro vuoi, il sangue?» sbraitò allora Dadan, recuperando la sua compostezza.

«Potete inviarla per me? Non sono riuscito a trovare un francobollo» disse Sabo, dopo aver estratto la busta dallo zaino e averla appoggiata sul tavolo.

Dadan ne scrutò l'indirizzo. «Ah, già, gli altri due!»

«Te la spediamo noi» lo assicurò Dogura. Nonostante la dichiarazione di guerra, le comunicazioni francesi funzionavano ancora normalmente, per cui non avrebbero dovuto esserci problemi nel farla giungere al destinatario.

Sabo li ringraziò ancora, abbracciandoli uno ad uno, tranne Dadan, naturalmente, a cui si limitò a dare una pacca sul braccio. Poi seguì Magura all'esterno, fino a raggiungere il bordo della strada che portava al paese vicino, Mortrée: l'automobile era parcheggiata in un piccolo viottolo seminascosto dalle piante. Non era stata usata da anni, e si vedeva: era ricoperta dalle piante ed arrugginita.

Una volta ripulita e con il serbatoio riempito, Magura cercò di metterla in moto, ma fu solo dopo che Sabo l'ebbe spinta fin nella strada principale che il motore, seppur cigolando, si avviò. In circostanze normali, Sabo impiegava tre ore per raggiungere Parigi, ma la C4 non era potente come la Roll-Royce di suo padre e Magura guidava con una prudenza estrema, sia perché non si fidava dell'automobile e del rumore che faceva, sia perché non era sicuro di riconoscere le strade al buio. Sabo pensò più volte che forse a piedi ci avrebbe impiegato meno tempo.

Arrivarono a Parigi alle prime ore dell'alba, ed impiegarono ancora un po' di tempo perché Magura non conosceva la viabilità dell'enorme città e raggiungere l'Île Saint-Louis era ancora più complicato dato che si trovava in pieno centro.

«Frena e torna indietro!» esclamò Sabo, proprio quando avevano finalmente trovato la strada giusta. «Guarda là» aggiunse poi, indicando con un cenno della mano. Davanti alla porta di una delle residenze, Magura vide che erano appostate due guardie.

«Pensi che tu padre sappia già che sei scappato?» gli domandò, mentre faceva retromarcia con attenzione e imboccava un'altra strada.

«Non lo so, forse. O forse sono lì solo per sicurezza per preparare il trasloco» ipotizzò. Certo il tempo per chiamare qualcuno l'avrebbe avuto, se l'avesse scoperto. Comunque fosse, aveva perso l'unico tetto sulla testa.

Magura parcheggiò ad un lato della strada, in attesa di ordini. Fosse stato per lui, sarebbe tornato a Mortrée con sollievo. Sabo aveva abbassato il finestrino e vi aveva appoggiato il gomito per riflettere. La sua situazione non era molto dissimile da quella della Francia dalla dichiarazione della guerra in poi: grandi propositi e sicurezza, scarsa capacità di realizzazione. Troppa fiducia nei loro mezzi.

Lungo la senna si stavano spegnendo le luci: fra poco suo padre si sarebbe svegliato, se già non l'aveva fatto. «Portami alla stazione. Gare Saint-Lazare» specificò.

Aveva preso la sua decisione: sarebbe andato a nord-ovest, verso la linea Maginot.
 
Les Andelys, 20 Maggio
 
Sabo aveva preso il treno la mattina stessa, senza una destinazione precisa. Era stato costretto a fermarsi a Limay, perché la notizia che la Germania aveva invaso Belgio e Olanda e aveva sfondato le impreparate linee degli alleati a nord aveva finalmente raggiunto anche il resto della Francia e le linee ferroviarie erano state interrotte per permettere il passaggio delle armi e dei rinforzi.

Aveva rubato una bicicletta e si era procurato una mappa della zona, poi aveva proseguito seguendo semplicemente la direzione nord: non aveva senso cercare la linea Maginot quando era chiaro che i tedeschi avevano deciso di aggirarla. Si rese subito conto che stava procedendo in senso contrario rispetto alla maggior parte della gente, perché sulle strade incontrava solo persone che cercavano di raggiungere Parigi, o città ancora più a sud. Comprensibile, dato che si trattava per la maggior parte di famiglie con bambini.

La scusa di essere in fuga dall'esercito tedesco gli permetteva di farsi ospitare gratuitamente all'interno delle fattorie che incontrava nelle strade meno trafficate che aveva deciso di percorrere. Di solito dormiva nel granaio, ma non si lamentava, aveva un tetto sulla testa e spesso anche un pasto caldo. Si sentiva in colpa a mentire così spudoratamente, ma doveva conservare i suoi risparmi perché non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato per farsi arruolare.

Al settimo giorno della sua avventura solitaria, la fattoria dov'era stato ospitato era piuttosto vicina alla città, per cui non si stupì quando fu svegliato dal rumore di auto sulla strada. Ma quando queste cominciarono ad essere troppe e troppo rumorose, balzò su dal suo giaciglio di paglia e si affacciò per vedere la strada che portava verso Les Andelys: non erano automobili, erano carri di soldati.

Aveva finalmente trovato l'esercito francese! Afferrò lo zaino e si precipitò fuori: la famiglia che l'aveva ospitato era all'esterno della loro abitazione, a fissare la coda di camion che passavano a poca distanza. Gli adulti erano preoccupati, i giovani estasiati esattamente come Sabo.

«Chi sono? Dove vanno?» domandò, ma nessuno aveva risposte da dargli. Avrebbe dovuto chiederlo personalmente. Quando l'intera colonna fu passata per fermarsi all'interno della città per i rifornimenti, Sabo fece una corsa verso la Senna per darsi una breve lavata: doveva presentarsi al meglio per non dare l'idea di essere un vagabondo. Indossò il vestito che aveva usato di meno durante il viaggio e poi entrò in città.

Era impressionante vedere come la zona si era animata con l'arrivo di quel gruppo di soldati. Gli uomini in divisa erano ovunque ma il loro umore pareva buono, per cui chiacchieravano con piacere con le persone che erano interessate all'andamento della guerra. Vivevano tutti nell'illusione che la situazione non fosse grave come appariva, e che sarebbe stato un altro 14-18, quando almeno i civili erano stati risparmiati. La Polonia e la Norvegia avrebbero dovuto essere miglior esempi.

Sabo stesso era preso da questa sorta di follia collettiva per cui l'esercito francese non poteva essere sconfitto e camminava per le strade come in un sogno, immaginandosi con quella divisa addosso. Si fermò accanto ad un gruppo di uomini che stava conversando tra di loro: «Chi sono?».

«Il Quinto Gruppo Franco Motorizzato di Cavalleria, li mandano a Rouen per creare una nuova linea difensiva» rispose uno degli uomini, con tono cupo.

«Rouen?» ripeté Sabo, accedendo alle sue nozioni di geografia. «Non è già troppo dentro la Francia?»

«Appunto.»

La sua soddisfazione per aver finalmente trovato l'esercito francese non fu intaccata dal dubbio che la destinazione da raggiungere era sospetta. Fermò il primo gruppo di soldati che sembrava avere poco più della sua età. «Scusate, posso parlare con uno dei vostri superiori?»

Lo guardarono con curiosità. Poi uno di loro fece un cenno in avanti. «Vedi quello là con i capelli lunghi e biondi? È il Colonnello Bastille.»

Sabo annuì. «Grazie.» Si avvicinò con discrezione all'uomo che stava finendo di discutere con la proprietaria della bottega che avevano appena praticamente svuotato ed aspettò che si accorgesse della sua presenza. «Buona giornata, Colonnello. Io vorrei arruolarmi nell'esercito.»

Bastille lo scrutò. «Quanti anni hai, ragazzo?»

«Diciotto.»

«Sei troppo giovane, torna a casa» fu la brusca risposta.

«Per la leva, ma non per l'arruolamento volontario!» ribatté Sabo, prima che Bastille si voltasse e terminasse la conversazione. Aveva fatto le sue ricerche. «Avevo provato a fare domanda, ma le lettere non sono arrivate. Non ho altra scelta che chiederlo di persona.»

«Be', non qui e non ora. Stiamo andando sul fronte, se non l'hai capito, e di certo non ci porterò un soldato senza nessun addestramento.»

«Allora mi mandi dove posso farne uno» replicò Sabo. Se c'era una cosa che Rufy gli aveva insegnato in quegli anni era a non mollare la presa.

Prima che Bastille potesse replicare ancora, fu affiancato da un uomo più anziano, con cicatrici attorno agli occhi e l'aspetto autorevole. «Generale di Divisione Issho» si presentò, porgendogli la mano. Significava che era a capo dell'interno esercito all'interno di Les Andelys. «Che sta succedendo?»

Sabo capì che doveva parlare prima che Bastille intervenisse per dire che la conversazione era finita. «Vorrei arruolarmi. Qualunque posto va bene, vorrei solo combattere per il mio paese.»

L'atteggiamento di Issho era decisamente più accomodante di quello del Colonnello. «Qual è il tuo nome?» domandò gentilmente. Quando Sabo glielo disse, capì immediatamente, dall'espressione dei loro occhi, di aver commesso un errore. Non poteva mentire perché necessitava dei documenti per arruolarsi in maniera legale, ma non aveva considerato quanto suo padre potesse essere famoso. «Della stessa famiglia Outlook delle Imprese Outlook?»

«Ma avevo sentito che erano partiti per l'America» aggiunse Bastille. Il tono preannunciava che non aveva apprezzato la loro fuga e questo fece risalire l'opinione che Sabo si era creato su di lui.

«Magari!» esclamò, sperando di suonare convincente. «È solo un'omonimia.» Poi cercò di cambiare immediatamente discorso. «Allora, prenderete in considerazione la mia candidatura?»

«Non possiamo arruolarti noi così direttamente» spiegò Issho. «Devi passare una serie di controlli e di visite e naturalmente essere addestrato. Ma posso mandare una richiesta alla sede centrale, se hanno disponibilità in uno dei campi d'addestramento.»

«Grazie! Sarebbe fantastico!» Sabo poteva dirsi soddisfatto: ovviamente immaginava che non avrebbe potuto semplicemente entrare nella compagnia. «Posso chiedervi un altro favore?» chiese, approfittando del fatto che Issho pareva essere una persona gentile. Non aveva intenzione di lasciarli partire con una promessa, li avrebbe seguiti finché non l'avrebbero mantenuta. «So che state andando a Rouen, e quella era... anche la mia destinazione. Mia zia vive lì e con questa storia della guerra i miei genitori sono preoccupati. I treni non partono e per ora sto andando a piedi...»

Issho lo bloccò immediatamente. «Non c'è alcun problema. Prendi la tua roba e vai da uno dei camion e dì all'autista che ti ho autorizzato io a salire. Entro stasera staremo a Rouen.»

«Ma Generale!» protestò Bastille, che fino a quel momento era stato zitto, anche se con lo sguardo torvo.

«Stia tranquillo, Colonnello, dubito che i tedeschi riusciranno a raggiungerci sulla strada» rispose Issho calmo. «E se così fosse, di sicuro qui non sarebbe più sicuro.» Poi tornò a rivolgersi a Sabo: «Ricordati di lasciarmi l'indirizzo a cui potrò contattarli per l'arruolamento».

«Certamente! Grazie!» Ce l'aveva fatta e quasi non ci poteva credere. Avrebbe avuto un passaggio per il fronte senza dover sprecare energie a pedalare e sarebbe riuscito ad arruolarsi. Il pensiero dei tedeschi oltre i confini francesi era diventata improvvisamente una notizia lontana.

Solo quando Sabo si fu allontanato, Bastille si permise di dire al suo superiore quello che pensava dell'intera situazione. «Lei è troppo permissivo, Generale. La situazione è già abbastanza difficile senza mandare dei bambini in guerra» commentò. «Ed è altamente irregolare trasportare un civile a bordo dei nostri mezzi.»

«Ha notato i suoi vestiti?» Issho non sembrava impressionato da tutta la storia.

«No... Voglio dire, erano sporchi e usurati, ma mi pare normale se stava andando a Rouen a piedi.»

«È vero che erano rovinati, ma io parlavo della stoffa. Decisamente di valore. Non lo indosserebbe normalmente qualcuno che dovrebbe viaggiare a lungo, né qualcuno con poche disponibilità economiche.»

Bastille rimase ancora una volta impressionato dalla capacità intuitiva del suo superiore, cosa che lo rendeva orgoglioso di stare sotto il suo comando. «Che cosa significa, allora?»

«Penso che abbia mentito sul fatto di non essere parte della famiglia Outlook. Potrei ricordare male, ma credo che abbiano due ragazzi, e uno di loro di circa quell'età» spiegò Issho. «Non manderei nessun ragazzo a morire in guerra, se potessi evitarlo. Con un nobile e un imprenditore bisogna fare ancora più attenzione. Possono rovinare carriere.»

«È una seccatura» confermò Bastille, dando voce al pensiero del suo superiore. «Che cosa pensa di fare?»

«Appena arrivati a Rouen, cerchiamo di confermare i miei sospetti. Poi, se le comunicazioni funzioneranno, contatteremo la famiglia. La decisione è loro.»

Sabo non era a conoscenza dei sospetti del Generale, era troppo impegnato a godersi del senso di vittoria che provava. Da quando aveva lasciato il castello in tutta fretta aveva vissuto nell'incertezza totale, ma finalmente aveva un obiettivo e una possibilità concreta. Per questo non si sentiva in alcun imbarazzo a stare in mezzo a tutti quei soldati che lo scrutavano curiosi, ma cercava di fissarli per imparare tutto ciò che poteva.

«Come funziona?» domandò al soldato più vicino a lui, quando la sola vista non bastò più. Stava indicando il suo fucile.

Il soldato lo fissò, poi si guardò intorno a disagio. Un altro, seduto dall'altra parte, scosse la testa e si spostò dal suo sedile per avvicinarsi. «Ti faccio vedere io» disse, allungando il fucile davanti a lui. «Questo è un Mas-36, ha solo cinque colpi, ma in sequenza.» Aprì il caricatore, mostrò i proiettili all'interno. Li estrasse, li rimise al posto e ricaricò il fucile. Aveva fatto tutti quei movimenti in una manciata di secondi.

«Con la punta, pulisci la canna quando si blocca.»

Sabo era stupefatto. Non l'aveva mai nemmeno tenuto in mano, un fucile. Senza il coraggio di chiedergli di provarlo, tentò di replicare il movimento solamente con le mani.

«Eh, così è troppo facile!» esclamò un altro soldato, che aveva alzato il dito per mostrare la fasciatura al pollice. I caricatori potevano fare brutti scherzi, se non li si sapeva maneggiare con cura. Evidentemente doveva essere un episodio famoso all'interno della truppa, perché tutti risero ricordandolo. Nonostante la presenza di Sabo, l'atmosfera si fece più rilassata.
Forse, a quel punto, l'unico non ancora a suo agio era proprio Sabo, che stava desiderando ancora più ardentemente essere lì, in mezzo a loro, con la stessa divisa.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 1940 - Parte II ***


1940 - Parte II
 
Rouen, 25 Maggio
 
Rouen, anche conosciuta come la città di Giovanna d'Arco, giacché la maggior parte della sua vita si era svolta in quella città, o almeno i fatti salienti: la nascita e la morte. Sabo aveva preso la sua destinazione come un segno del destino.

La prima cosa che aveva fatto era cercare una locanda che potesse in qualche maniera avvalorare la storia che aveva raccontato a Issho sui motivi del suo viaggio. Molti locali era chiusi, ma scoprì un piccolo ostello proprio nelle strette vie dietro la cattedrale, l' “Amazon Lily”, che era gestito da un'anziana signora e le sue tre figlie. Il prezzo non era eccessivo, per cui Sabo sperò che i suoi risparmi bastassero per coprire il tempo fino al suo arruolamento. Il giorno successivo era andato a comunicare il suo indirizzo alla sede temporanea del Quinto Gruppo Motorizzato.

A Rouen lo stato di guerra si sentiva in maniera più incisiva rispetto a Parigi: la maggior parte delle case e dei negozi erano chiusi, con le finestre e le saracinesche serrate. Non passava un giorno in cui non ne veniva chiuso un altro e si poteva vedere la famiglia prendere i propri bagagli e incamminarsi verso sud.

Trovare i generi alimentari stava diventando difficile, perché la maggior parte delle riserve venivano spedite al fronte per l'esercito, quindi si doveva uscire presto al mattino per comprare qualcosa. Era l'unico momento della giornata, assieme all'orario della messa, in cui si poteva vedere un nutrito gruppo di persone per strade, altrimenti Rouen era una città morta.

Sabo era uno di quelli che usciva raramente: aveva esplorato la zona per curiosità solo il primo giorno, fatto qualche fotografia nei luoghi di Giovanna d'Arco e recuperato un paio di libri alla biblioteca dell'università, che era stranamente aperta ma deserta. Il resto del tempo lo passava a leggere nella sua stanza d'albergo o ad aiutare la vecchia Nyon, la proprietaria della locanda, dato che le sue figlie erano state tra quelle che aveva visto emigrare verso sud. Non voleva rischiare di non esserci se fossero arrivate comunicazioni dall'esercito.

Fu lo stesso Issho a presentarsi alla porta dell' “Amazon Lily”. La sua divisione era ferma in città ad attendere ordini sulla loro destinazione successiva, che dipendeva dai movimenti dell'esercito tedesco. Sabo era in camera e scese immediatamente a terra.

«Grazie, zia!» Sabo salutò la vecchia Nyon, per mettere subito in chiaro che c'era un motivo per cui si trovava in un albergo. «Buona giornata, Generale. Ci sono novità?» chiese poi immediatamente.

«Siediti davanti a me» gli disse Issho, che si era accomodato nella piccola hall dell'albergo, tre sedie e un tavolino di vimini in un angolo scuro. Sabo obbedì, titubante. Forse c'erano stati dei problemi, considerando l'esercito tedesco alle porte.

«Sono riuscito a contattare i tuoi parenti» disse Issho, dopo un attimo di silenzio. «Ti farà piacere sapere che sono arrivati in America senza problemi e si sono stabiliti a New York. Ho l'indirizzo.»

Il viso di Sabo non era cambiato di una virgola durante il discorso, anche perché si era morso una guancia per la tensione. Capiva che non c'era possibilità di negare. «Ha contattato i miei genitori» ripeté, in tono neutro. Nessuna emozione, solo una costatazione, anche se Sabo lo riteneva un tradimento.

«Ti manderanno un biglietto per raggiungerli, ma devi tornare a Parigi» proseguì Issho. Se aveva avvertito l'ostilità, non lo diede a vedere. «Ti sarai reso conto che sono molti ad emigrare e le vie di comunicazione non funzionano, ma credo di poter trovare qualcuno che ti accompagni.»

«Ha visto le persone che hanno lasciato Rouen in questo periodo, Generale?» domandò Sabo, senza scomporsi. «Intere famiglie a piedi, o con un carretto, o un'auto scassata in cui entrava a malapena la roba. I bambini con le borse in mano perché gli adulti non riuscivano a tenerle tutti. Come può chiedermi di alzare le spalle e andarmene?»

«Non è qualcosa che dipende da me» rispose Issho. Aveva atteso per dargli una risposta, e la piega che avevano preso le sue labbra gli indicava che la situazione non piaceva nemmeno a lui. «Ero giovane quando sono stato mandato in trincea, e se potessi eviterei questa sorte a chiunque. Tu puoi evitarla.» Sabo stava per protestare ancora, ma Issho alzò il braccio per sbloccarlo. «Puoi aiutare la Francia in maniera diversa. L'America non è pronta ad intervenire e non vuole farlo, ma potremo aver bisogno dei suoi rinforzi. Qualcuno deve andare là e perorare la nostra causa contro il nazismo. Sarai sicuramente più utile in America che qui, quando non sai nemmeno tenere in mano un fucile.»

Faceva male. Naturalmente Sabo sapeva che non era intenzionale, ma il generale non poteva sapere quanto avesse provato ad entrare nell'esercito fin dall'anno precedente e gli era stato impedito con l'inganno. Se adesso si trovava in quella situazione, non era colpa sua. Strinse le labbra.

«Ha ragione» affermò. Si alzò. «Vado a prendere la mia roba.» Quando passò davanti alla vecchia Nyon, le sorrise perché aveva almeno provato a sostenere la sua menzogna. «Il conto, per favore.»

Salì rapidamente in camera: non aveva molto da preparare, solo il secondo cambio, che aveva lavato nel piccolo bagno ed era ancora umido. Spinse tutto dentro lo zaino e lo chiuse. Prese centocinquanta franchi da una delle scarpe e li lasciò sul letto.

La fortuna aveva voluto che la sua camera si affacciasse su uno dei vicoli dietro l'albergo, non davanti, a stretto contatto con i palazzi vicini. Balzò sulla finestra: come al solito, le strade erano deserte. Scese sul cornicione e poi balzò sul terrazzo dell'edificio vicino, e da lì riuscì a spingersi a terra. Poi si allontanò in fretta nella direzione opposta rispetto alla strada principale.

Non sapeva dove andare. A differenza di Parigi, non conosceva nessun rifugio, nessuno a cui chiedere aiuto. Aveva preso talmente tante strade che aveva finito per tornare alla cattedrale. Vi entrò: forse, se fosse riuscito a nascondersi dal prete, avrebbe avuto almeno un tetto sulla testa. Si sedette in una delle panche delle cappelle laterali.

Si sentiva sconfitto, come quando aveva abbandonato il castello in piena notte. Pensava che ormai il peggio fosse passato, che si sarebbe arruolato e avrebbe avuto uno scopo. Invece il risveglio alla realtà era stato peggiore della prima volta: il nome di suo padre avrebbe continuato a perseguitarlo, impedendogli di essere libero.

L'America l'aveva tentato per un attimo: aveva potuto salutare Ace e Rufy solo tramite lettera, sempre che fosse arrivata, e non si erano incontrati nemmeno l'anno precedente per via del rischio di guerra già imminente. Gli mancavano. Però non voleva lasciare la Francia con quel senso di sconfitta, con l'incapacità di aiutare il suo paese.

Si stava quasi appisolando, quando avvertì un colpo secco alla testa e balzò in piedi, lo zaino che cadeva a terra. «La Leica!» esclamò, chinandosi a controllare che non si fosse danneggiata. Poi si voltò a vedere chi l'avesse colpito e sgranò gli occhi: era la vecchia Nyon. «Come mi ha trovato?»
«Pensavo che Dio fosse l'ultima cosa che ti era rimasta, stupido ragazzo.»

Non aveva tutti i torti, probabilmente, ma Sabo ne aveva abbastanza di ramanzine. «Si può sapere cosa c'è di male a voler combattere per il proprio paese?!» sbottò. «Erano stupidi tutti quelli che si sono arruolati alla scorsa guerra e hanno dato la vita per proteggere quello a cui tenevano?! Allora incendiamo tutto e suicidiamoci, se non vale la pena combattere!»

La vecchia Nyon lo aveva interrotto durante il suo sfogo e rimase a guardarlo mentre riprendeva fiato. Poi si voltò e disse: «Torniamo a casa».

Sabo le fissò la schiena, incredulo. Poi afferrò il suo zaino e si affrettò a seguirla. «È una trappola? Il Generale è ancora in albergo?»

«No, se n'è andato» gli rispose lei. «Se vuoi la mia opinione, si aspettava la sua fuga o forse ci sperava.»

«Ah.» Non sapeva cosa rispondere: Issho gli era sembrato piuttosto inflessibile, ma era anche vero che era stato piuttosto permissivo nel lasciarlo salire in camera da solo. Forse sperava di poter evitare di rinunciare ad uno dei suoi uomini per accompagnarlo a Parigi e allo stesso modo non essere responsabile della situazione. «Ma cosa posso fare? Non ho più il contatto con l'esercito.»

«Intanto puoi aiutare me, ho un po' d'artrite e non riesco a fare tutti i lavori da sola, adesso che le ragazze non ci sono» rispose la vecchia Nyon, che camminava al suo fianco.

«Questo lo facevo già» sottolineò Sabo. «Come mai non è emigrata anche lei?» le domandò.

«Sono troppo vecchia, posso anche morire.» Era come se sottolineasse che invece lui avrebbe dovuto far di tutto per rimanere in vita, ma non lo disse.  «Possiamo provare a spedire un'altra lettera all'esercito, non appena il Quinto Gruppo avrà lasciato la città. Sempre che le poste funzionino» aggiunse, dando voce alle paure di Sabo.

Ma non ci avrebbe rinunciato, non finché c'era ancora una possibilità di riuscirci. «Grazie.»
 
Rouen, 9 Giugno
 
Il primo bombardamento arrivò quasi senza preavviso. L'allarme suonò, almeno, ma un attimo dopo il rumore degli aerei lo aveva coperto. Sabo si era affacciato oltre la porta della locanda per capire quello che stava succedendo ed alzò la testa in tempo per vedere un aereo passare sopra di lui. Lo seguì con lo sguardo finché non lo vide sganciare una bomba in lontananza, al di là del fiume. Il suono rimase tremendo nonostante la distanza ed immediatamente il fumo che si alzava dal luogo colpito.

Non aspettò di veder arrivare gli altri aerei, rientrò dentro e afferrò il suo zaino che teneva sempre a portata di mano. La vecchia Nyon gli impedì di prenderla sulle spalle e lo anticipò fuori dalla porta. Rispetto a prima, la strada si era riempita di persone: Rouen era una città svuotata, ma coloro che non avevano le possibilità erano ancora abbastanza numerosi ed ora si sentivano tutti come topi in trappola.

Correvano in maniera scomposta, le madri con i bambini in braccio e i vecchi che si aggrappavano a coloro che gli capitavano a tiro per non cadere e farsi travolgere. Sabo seguiva la corrente verso il rifugio antiaereo, ma la sua mente lavorava meglio delle sue gambe.

Gli aerei erano indubbiamente tedeschi, ma i francesi avevano una contraerea in grado di contrastarli? Non ne aveva idea. Il Quinto Gruppo Motorizzato si era allontanato da tempo da Rouen, lasciando solo un piccolo contingente di sicurezza, per andare a porre le difese più verso est. In linea teorica non c'era alcun motivo di bombardare la città, a meno che, naturalmente, le difese non fossero già cadute e i tedeschi non si stessero spianando la strada.

Non voleva pensarci. Non aveva ancora avuto risposta dall'esercito alla sua lettera, ma se Rouen fosse stata conquistata dai tedeschi non sarebbe mai arrivata. Però in quel momento erano le sue gambe al comando, a dirgli di allontanarsi dalle bombe che cadevano. Non c'era un posto sicuro, gli aerei che volavano sulla loro testa sembravano infiniti e il rumore si avvicinava sempre di più. Ogni volta che una bomba colpiva il terreno sotto di loro tremava, facendo cadere sempre qualcuno e rendendo il movimento della folla sempre più sconnesso.

Il rumore delle bombe che cadevano sembrava essersi fatto più vicino, ma forse era solo un effetto dato dalle orecchie che si abituavano al suono. Quando la bomba colpì l'edificio all'angolo della strada che la folla stava per aggirare, fu chiaro a tutti che non si trattava di un'illusione.

Sabo si sentì inciampare e poi invadere da una folata d'aria calda e polvere che lo scaraventò a terra. Si alzò tossendo, con gli occhi che gli occhi che gli bruciavano. Non riusciva a respirare bene, perché la polvere era ancora alta più di lui e gli impediva di vedere quello che stava succedendo. Si mise un braccio davanti al viso per coprirsi la bocca con una manica della giacca, quindi fece alcuni passi incerti in avanti, sentendo con i piedi che stava toccando altri al suo fianco.

Quando finalmente la polvere si posò a terra, il disastro si mostrò chiaramente davanti ai suoi occhi. La bomba non aveva colpito precisamente l'edificio, ma l'aveva fatto comunque crollare completamente. Alcune persone erano rimaste sotto le macerie e si vedevano braccia o gambe che si muovevano ancora, laddove altre erano invece già ferme e ruotate in posizioni strane. Ma la cosa peggiore era la strada, dove le persone erano state colpite direttamente dalla bomba. Di alcuni non era rimasto molto, ma di altri il corpo era abbastanza integro da poter ammirare la carne spappolata in tutto il suo orrore.

«Ci stanno bombardando» disse Sabo. «Ci stanno bombardando apposta.» Non era una guerra quella, era un massacro.

Anche il resto dei sopravvissuti pareva essersene accorto, perché appena si avvertì il suono dell'aereo che tornava nella loro direzione, ciascuno cercò di fuggire in una direzione diversa, di sicuro non verso il rifugio: li avrebbero uccisi tutti prima che ci fossero arrivati.

Sabo si voltò a cercare la vecchia Nyon, con il terrore di trovarne solo un pezzo sanguinante attaccato al bastone nodoso. Invece era ancora integra, ma pareva avere difficoltà ad alzarsi. Le si avvicinò e stavolta non ebbe proteste quando la prese per le spalle. Non c'era molto tempo per scappare, l'aereo stava già arrivando nella loro direzione. Guardandosi attorno, notò che nel palazzo crollato c'era una piccola apertura, utile per nascondere due persone.

Vi ci si infilò in un attimo: sarebbe stato stupido bombardare un palazzo già crollato, no? Lui e Nyon si sedettero sotto quel pezzo di calcinaccio che poteva cadergli addosso in un attimo e tentarono di puntellarlo con il bastone. Non c'era altro da fare che aspettare che il suono del bombardamento cessasse.

Gli aerei continuavano a sibilare minacciosi sopra la loro testa, le bombe a cadere facendo tremare il loro rifugio improvvisato ogni volta, le urla della gente si facevano sempre più distanti in lontananza. Sabo teneva le mani premute sulla testa per non ascoltare. Non si era mai sentito così inutile in vita sua, ma non sapeva cos'altro fare se non dimenticarsi di non poter far nulla.

Le mani erano così strette che quando ci fu davvero silenzio non era sicuro che fosse vero. Si affacciò con prudenza oltre il calcinaccio, ma il cielo era sgombro. «Vado a controllare» disse allora alla vecchia Nyon, che pareva rassegnata.

«Benvenuto in guerra» commentò solo. Anche se non lo voleva umiliare, fu così che si sentì.

Scese scivolando tra i calcinacci ridotti ormai a ciottoli, fino a ritrovarsi in strada. Non somigliava più ad una strada, con tutti i resti che la costellavano e i crateri che ne avevano distrutto l'acciottolato. Il palazzo di fianco al loro aveva resistito, ma era uno dei pochi perché il resto della strada pareva la bocca di un vecchio sdentato.

Sabo si incamminò verso il centro, anche per verificare se la locanda era ancora in piedi. Cercava di evitare di guardare i cadaveri o i pezzi sparsi, ma era difficile resistere a quella curiosità malsana. Su un lato di una strada, vide una bambina seduta a gambe incrociate davanti ad un cumulo di macerie. Avvicinandosi, notò che stava tenendo un braccio bianco e inerte che emergeva dal palazzo distrutto.

«Mamma» disse lei, accorgendosi di essere osservata.

Lentamente, Sabo mise le mani sopra il calcinaccio più grande e spinse per sollevarlo: il tanfo del sangue lo colpì immediatamente e dovette riabbassare il detrito per il disgusto. «Prendo io tua madre» disse allora. «Tu aspettala là, dove c'è quella signora anziana.» E indicò il rifugio che aveva utilizzato fino a quel momento. «Su» la incoraggiò, perché lei passava lo sguardo tra lui e il braccio inerte, indecisa.

Solo quando si fu allontanata Sabo si fece il segno della croce e poi riprese il cammino. Il fumo che si innalzava il lontananza non gli dava vibrazioni positive, ma prima che potesse raggiungerlo avvertì degli altri rumori che non conosceva. Non sembravano altri aerei, ma per sicurezza si scostò dalla strada principale e si infilò in uno dei vicoli. In lontananza, vide che era un carro armato che si faceva strada tra i detriti. Era della Wehrmacht.

Rouen era caduta, senza più dubbi ormai. Sabo non ritenne prudente avvicinarsi troppo, anche se teoricamente era solo un civile. Raggiunse il centro città nei vicoli più nascosti, che aveva imparato a conoscere durante le settimane di permanenza, ma non dovette avvicinarsi troppo per capire quello che stava succedendo.

I bombardamenti avevano colpito la cattedrale e le fiamme che ne erano derivate aveva iniziato ad invadere il resto del quartiere vecchio e non accennavano ad estinguersi. Vista l'impossibilità a proseguire, Sabo pensò che convenisse tornare indietro ed aspettare che l'incendio fosse spento dagli addetti, sempre che non fosse stata bombardata anche la sede dei pompieri.

Le orecchie percepirono una parlata straniera e decise di seguire quel suono, che gli sembrava mescolato alla lingua francese. Si affacciò oltre il muro di un palazzo semi-crollato e notò due carri armati tedeschi che bloccavano quella parte della strada che andava diritta verso la cattedrale. Oltre loro, il camion dei pompieri che imploravano di poter passare.

«È la cattedrale!» protestavano. «Forse ci sono ancora persone all'interno!»

Non capiva quello che i tedeschi rispondevano, a parte quel ripetuto “verboten, verboten” che suonava pericoloso. Stava per allontanarsi, quando un movimento attirò la sua attenzione: era un soldato francese, le cui gambe erano rimaste bloccate sotto il crollo dell'edificio opposto. Non era davvero cosciente, si limitava a lamentarsi e lo squarcio che aveva sull'addome diede a Sabo l'idea che non ci fosse niente da fare per aiutarlo.

Al suo fianco, il fucile pareva ancora intero. Era un Mas-36, come quello che i soldati del Quinto Gruppo gli avevano mostrato durante il viaggio per Rouen. Istintivamente, Sabo lo afferrò e richiamò alla memoria come si ricaricava: aprì il caricatore e verificò che c'erano ancora due proiettili. Scrutò il corpo del soldato, ma non vide delle munizioni, allora richiuse il caricatore e si mise il fucile sulle spalle.

Si bloccò avvertendo degli spari e, passata la sensazione che fossero rivolti verso di lui, tornò prudentemente ad affacciarsi nella strada principale. Alcuni pompieri avevano tentato di scalare i carri armati e per tutta risposta i tedeschi gli avevano sparato, poi avevano aperto il fuoco contro il camion, crivellandolo di colpi. Gli altri pompieri cercavano di fermarli facendo da scudo umano, venendo colpiti a loro volta.

Sabo non capiva. La città era conquistata, non era necessario impedire che il fuoco venisse spento. Era pura crudeltà. Senza nemmeno rendersene conto aveva il fucile in mano e sparava. Era una cosa futile, perché con due soli colpi non sarebbe certo riuscito a fermare i soldati tedeschi, ma almeno li avrebbe distolti dai pompieri.

Si rese subito conto che la sua mira non era nulla di particolare, dato che nessuno degli uomini sembrava aver accusato il colpo, ma il proiettile doveva essere passato vicino ad un tedesco, perché questi si voltò indietro. Sabo sparò di nuovo e questa volta lo colpì: l'uomo fece una giravolta e poi cadde scompostamente all'indietro, attirando inevitabilmente l'attenzione di tutti gli altri.

Sabo gettò il fucile ormai inutile e si scapicollò quasi inciampando nella via da dove era arrivato, un attimo prima di avvertire la raffica dei colpi che si infransero sul muro ancora integro dietro al quale si era nascosto prima. Sentiva la voce dei tedeschi e la loro marcia dietro di lui e non riusciva a ragionare su che strada prendere. I suoi piedi lo portarono nella zona a lui familiare, finché non si trovò davanti il muro di fuoco che si era sparso a tutto il quartiere.

Fermatosi a prendere un attimo fiato, decise che l'incendio era meglio dei tedeschi. Quando le voci furono troppo vicine, si gettò nella strada e si mise a correre. Gli edifici crollavano mentre correva, spargendo detriti infuocati che lo ostacolavano. Il fumo e il caldo rendevano il suo cammino difficile, eppure non si fermava. Sapeva che era la forza della disperazione e aveva intenzione di sfruttarla tutta.

Non riuscì ad evitare un detrito che lo colpì sulla spalla: Sabo urlò e cadde quasi a terra, ma riuscì a mantenere l'equilibrio. Si levò la giacca prima che prendesse fuoco, ma era troppo tardi per la vistosa scottatura. Tentò di riprendere a correre, ma il dolore gli aveva bloccato le gambe. Al primo ostacolo cadde rovinosamente a terra, con le mani che lo protessero a malapena.

Da sdraiato l'aria era più respirabile, per cui Sabo tentò di strusciare infilando le unghie nel terreno. Il terreno bruciava e il pavimento sconnesso gli sgraffiava il petto nudo. A fermarlo definitivamente fu un altro detrito che gli cadde sulla gamba destra. Non aveva nemmeno la forza di urlare ancora.

Sarebbe morto nel fuoco come Giovanna d'Arco. Nonostante la tragicità della situazione, Sabo sorrise. Era così ironico, dato che non era riuscito a raggiungere nemmeno uno degli obiettivi che si era prefisso, al contrario di quella donna che aveva salvato da sola la Francia. Quasi non si meritava di morire come lei.

Il suo ultimo pensiero fu per Ace e Rufy: avrebbe dovuto impegnarsi di più per scrivere quella lettera. Avrebbe voluto dirgli almeno addio, salutarli per l'ultima volta come si doveva. Non voleva che fosse l'ultimo ricordo che avevano di lui, ma era troppo tardi per pensarci. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulle braccia.
 
Rouen, 18 Giugno
 
La luce del sole filtrava dalle assi che bloccavano la finestra dall'interno. Sabo ne seguiva il percorso con gli occhi, dal pavimento fino alla finestra e ritorno. Il dolore delle ferite era andato scemando da quando si era ripreso per la prima volta, ma era il primo momento in cui sentiva che le forze gli stavano tornando. Pensava che non fosse più sotto l'effetto degli antidolorifici.

Per questo si sentiva annoiato: aveva passato gli ultimi giorni in uno stato di semi incoscienza, svegliandosi in preda dei bruciori e addormentandosi altrettanto immediatamente quando le medicine facevano effetto. Forse erano passate settimane, o mesi, non sapeva dirlo. Le cose erano andate migliorando nel corso del tempo, e, finalmente, si sentiva completamente sveglio, con il cervello che funzionava.

Allungò una mano verso il comodino per afferrare il bicchiere d'acqua. La gola aveva smesso di bruciare, ma sentiva ancora la sensazione del fumo che gli entrava dentro  i polmoni e il palato sempre secco. Non aiutava il fatto che non parlasse da giorni. Gli urli per il dolore non avevano aiutato, ma per il resto non c'era davvero molto per cui servisse aprire la bocca. L'unica persona con cui ricordava di essere entrato in contatto era il medico, che parlava esclusivamente russo, con la conseguenza che non riusciva a capire nulla di quello che diceva, frustrando ogni speranza di sapere che cosa stava succedendo.

Ora che il cervello si era rimesso in modo, poteva provare a collegare le poche informazioni che aveva. Era ancora vivo, il che era già di per sé una cosa incredibile. Dalle finestre serrate con il legno poteva forse ritrovarsi ancora a Rouen, ma immaginava che altre città avessero le case ridotte nella stessa maniera. Ciò che lo faceva  propendere per Rouen era il fatto che difficilmente, con la guerra in corso, qualcuno sarebbe riuscito a spostare un malato grave da una città all'altra senza mezzi a disposizione. E se avessero avuto i mezzi, sarebbe stato in un ospedale, non in una stanza di un appartamento.

Per il resto, però, non aveva alcuna idea. Non sapeva come, perché e da chi fosse stato salvato, né  cosa ci facesse un medico russo in quella situazione, uno che tra l'altro non poteva dargli alcuna informazione e che cucinava solo rape. In vari modi, ma sempre rape.

Rimise il bicchiere sul comodino e per un attimo rischiò di cadergli. Non era facile vedere la profondità con l'occhio sinistro completamente coperto. Si chiese se l'aveva definitivamente perso o se l'avrebbe recuperato la vista una volta liberatosi della fasciatura.

Sapeva che c'era uno specchio all'interno dell'armadio a muro, l'aveva visto una volta. O forse se l'era sognato mentre stava delirando, ma valeva un tentativo. Spingendosi con le mani si mise seduto: i muscoli protestarono contemporaneamente, ma non era nulla di paragonabile al dolore che aveva già provato.

Scostò le coperte e mise i piedi a terra. Non era sicuro che le gambe gli reggessero, quindi restò aggrappato al bordo del letto. Si sentiva debole, ma dopo qualche passo incerto acquistò abbastanza confidenza da essere sicuro che non sarebbe caduto. Rimase comunque aggrappato finché poté e poi spostò la sedia per usarla come trampolino per raggiungere l'armadio.

Lo specchio c'era. Raggiunse le estremità della benda che gli fasciava la testa ed iniziò a srotolarla. Pian piano che cadeva a terra, rivelava l'orrore al di sotto. La pelle era completamente scottata, addirittura scavata con i bordi ancora rossi e le vesciche piene. Con apprensione, rimosse la benda. La palpebra era chiusa e ridotta come il resto della pelle che la circondava, ma muovendola appena la luce entrò nella pupilla, quasi accecandolo dopo quell'oscurità forzata.

Quel semplice movimento lo stancò e una delle vesciche si aprì, quindi la richiuse di scatto e recuperò una benda da terra per premersela contro.
«Era una brutta ferita e ti resterà la cicatrice, ma non hai perso l'occhio. C'è da festeggiare.»

Sabo si voltò di scatto, troppo di scatto perché i suoi muscoli non protestassero. Non aveva minimamente sentito, nel silenzio della stanza, quell'uomo entrare. Eppure era spesso in grado di capire quando qualcuno saliva le scale per raggiungerlo, mentre in quel caso non aveva nemmeno avvertito la porta che si apriva e si chiudeva. Ma era così felice di sentir qualcuno parlare francese che lo stupore fu presto superato.

Fece un passo verso di lui, rischiando di inciampare, per cui l'uomo si avvicinò per sorreggerlo e riportarlo verso il letto. Una volta che fu di nuovo dove i muscoli non lo odiavano, Sabo diede voce a tutte le domande che aveva formulato fino a quel momento.

L'uomo non sembrò impressionato e mantenne la sua stessa espressione indifferente. «Puoi chiamarmi Dragon» disse alla fine. «Come ti ho salvato non è importante, in quanto al perché, non credo sia necessario spiegare perché un essere umano senta la necessità di aiutarne un altro. Nel tuo caso, però, ho apprezzato quello che hai cercato di fare per i pompieri.»

«Davvero?» Sabo emise una risatina. «Perché a ripensarci mi sembra solo stupido.»

«Oh, stupido lo era davvero» confermò Dragon.  «E anche la tua mira potrebbe essere migliorata. Il potenziale c'è, però.»

Era una sorta di complimento, per cui Sabo sorrise. Forse era la prima volta da quando era iniziata tutta quella storia che sentiva di aver ottenuto davvero qualcosa. «Ma perché non volevano spegnere l'incendio? Avevano vinto.» Quella scena continuava a tormentarlo, assieme al pensiero degli aerei che bombardavano la folla.

«La guerra tira sempre fuori il peggio e il meglio dalle persone» rispose Dragon. Era come se nulla potesse impressionarlo. «In quel caso, presumo fosse il peggio. La propaganda tedesca è fortemente anti francese e questo si manifesta sul campo.»

Rimasero in silenzio ancora per un attimo, poi Sabo fece la domanda che lo terrorizzava maggiormente. «Cos'è successo dopo?»

«Versione breve: i tedeschi sono arrivati a Parigi e la Francia ha chiesto l'armistizio. Verrà divisa in due parti, una sotto il controllo diretto della Germania  e l'altra libera, almeno nominalmente.»

«Quindi abbiamo perso.»

«Non credo abbiate mai iniziato a giocare» affermò Dragon. Avrebbe anche potuto elencare tutti gli errori commessi dalle autorità francesi, ma in fondo erano simili al comportamento di Sabo, troppo sicuro di sé, con la guerra presa sottogamba.

«E il Generale Issho?» L'aveva tradito, ma era comunque l'unica linea di difesa prima di Rouen, e aveva cercato di aiutarlo.

«Se è stato fortunato, è prigioniero.» C'era solo amara considerazione nella voce di Dragon. Difficilmente avrebbe potuto sapere della vecchia Nyon o della bambina che aveva perso la madre sotto il bombardamento, per cui Sabo evitò la domanda.

Il dottore entrò nella stanza con il vassoio del cibo. «Fatemi indovinare: ancora rape?» commentò con un sospiro. Forse era un sorriso quello comparso sul viso di Dragon, ma com'era arrivato scomparve.

«Finché non verrà firmato l'armistizio, difficilmente arriveranno altre provviste.»

«No, va bene. Grazie.» Non voleva dare l'idea di quello che si lamentava, ma doveva ammettere che la carne gli mancava. Nonostante non sopportasse suo padre, era abituato alla vita che conduceva. E si sentiva in  colpa ogni volta che si rendeva conto che la comodità gli mancava.

Prima  di poter mangiare dovette aspettare che il dottore gli risistemasse la benda sul viso, tra le sue lamentele. O almeno immaginava che fossero lamentele, perché erano in russo.

«Puoi tornare su e portare con te la radio, Ivankov?» domandò Dragon, una volta che la benda fu di nuovo al suo posto. «Credo che ci sia una cosa che dobbiamo tutti sentire. Anche Inazuma.»

«Certamente» annuì Ivankov. «Deduco che hai ricevuto qualche comunicazione di cui non mi dirai. Cattivo!»

Sabo aveva alzato il cucchiaio per la sua prima boccata di passato di rape, ma rimase col braccio a mezz'aria e gli occhi sgranati. «Parli francese?!» L'accento russo era ancora forte, così come la erre moscia che gli conferiva una parlata strana, ma la grammatica era perfetta.

«Tesoro, come avrei potuto vivere in questo paese senza sapere il francese? Pensate sia la migliore lingua del mondo!»

«Mi ha fatto credere per tutto questo tempo che non capiva nulla di quello che dicevo!» esclamò in direzione di Dragon, una volta che il dottore ebbe lasciato la stanza.

«Se l'hai insultato, non è il tipo da prendersela» commentò semplicemente Dragon, per nulla impressionato dalla cosa. Conosceva Ivankov da abbastanza tempo per sapere che si divertiva anche con queste piccole cose. «Ma è il dottore migliore che conosco, e ti rimetterà in sesto.»

«Chi siete voi, esattamente?» domandò allora Sabo, scrutando l'uomo davanti a lui. Era riuscito a salvarlo da quel mare di fiamme, il che era già impressionante in sé, ma aveva al seguito un medico capace di curarlo e soprattutto i medicinali, che sicuramente erano limitati in tempo di guerra. «Siete delle specie di spie? Tu sei americano, no?»

Per la prima volta dal loro incontro, Dragon fu sorpreso. Anche questa espressione durò un attimo, ma era comparsa. «Come lo sai?»

«L'accento.»

«Io non ho accenti.» Era confidente nei suoi mezzi, ma aveva ragione, il suo francese era senza imperfezioni.

«Ma la cadenza nel pronunciare le frasi è la stessa di alcuni americani che conosco» ribatté Sabo, con un sorriso soddisfatto. Era familiare e decisamente nostalgico, sentirlo parlare francese come faceva Ace; Rufy, al contrario, non aveva mai imparato come si doveva.

«Potenziale, come ho detto.» Dragon non aggiunse altro, e non rispose alla domanda su chi fosse in realtà, per cui Sabo non chiese e si dedicò a terminare il suo piatto. Se anche fosse stato una spia, avrebbe avuto tutte le ragioni a non dirglielo. Quale sarebbe stato il punto, altrimenti?

Ivankov entrò in camera con la pensante radio in braccio, aiutato da un altro uomo. I due parlavano in russo, per cui Sabo scoccò loro un'occhiataccia ma fece finta di nulla. Quando Dragon accese la radio, tuttavia, sobbalzò per la sorpresa: era una stazione inglese, e fu subito chiaro che era Radio Londra. Ripensandoci, però, era quasi ovvio: se la Francia era stata conquistata, l'unico sistema per conoscere la verità di quello che stava succedendo era rivolgersi a paesi ancora liberi.

«Non sarà mica illegale?» chiese, quasi a se stesso, mentre rifletteva sulla situazione.

«Non ancora.»

«Sono proprio curioso di sapere che sorpresa hai preparato per noi» commentò Ivankov nel suo strano accento.

Non dovettero attendere molto: il programma di musica venne prontamente interrotto per un messaggio straordinario riguardante la guerra. Il generale De Gaulle aveva infatti un discorso da fare alla sua nazione. Probabilmente era per quello che Dragon aveva commentato “non ancora”: quando i tedeschi l'avrebbero sentito, non sarebbero stati felici. Nella stanza regnava il silenzio mentre il generale parlava, prima in francese, e poi in inglese. Sabo aveva chiuso gli occhi e ascoltava attentamente.
 
“Io, generale de Gaulle, attualmente a Londra, invito gli ufficiali ed i soldati francesi che si trovano in territorio britannico o che vi si troveranno in futuro, con le loro armi o anche disarmati, io invito gli ingegneri e gli specialisti delle industrie d'armamenti che si trovano in territorio britannico, o che vi si troveranno in futuro, a mettersi in rapporto con me.
Qualunque cosa accada, la fiamma della Resistenza francese non si dovrà spegnere e non si spegnerà.”

Dragon spense la radio subito dopo, ma non disse nulla. Ivankov, al contrario, sembrava divertito e applaudì. «Molto bello, davvero! Complimenti! Che ne pensi, Inazuma?»

«De Gaulle ha appena scavalcato il governo ufficiale» rispose l'uomo che l'aveva accompagnato. Aveva il suo stesso accento, ma parlava in maniera più delicata. «Sarà guerra anche tra le due France.»

«Già, ma era inevitabile» commentò Dragon. «In ogni caso, lo sapevamo già, quindi non cambia nulla per noi.»

«E i soldati in Francia?» domandò improvvisamente Sabo. Non aveva quasi sentito i discorsi oltre a quello di De Gaulle. Mentre lo sentiva parlare, aveva capito che non si era ancora arreso, ma come prima non aveva un obiettivo, né le capacità di farlo. Persino De Gaulle aveva nominato solo i soldati in Inghilterra, non i giovani che erano ancora in Francia.

«Tesoruccio, cosa credi sarebbe successo se De Gaulle avesse incitato alla rivoluzione direttamente gli uomini qui? Con i tedeschi che la occupano?»

«Be', non sarebbero contenti, immagino...» Già alle sue orecchie il discorso incitava abbastanza alla rivolta. No, Radio Londra non sarebbe stata legale ancora per molto.

«Oh, è intelligente, il cucciolo.»

Sabo si sentì punto sul vivo, per cui trattenne la domanda che aveva sulla punta della lingua. L'aveva detto come una sfida, e aveva intenzione di accettarla. Fissò i tre uomini davanti a lui. «Siete voi qui a dare ordini al posto di De Gaulle» dedusse. Forse l'espressione era un po' troppo sorpresa dalla sua stessa rivelazione.

«Sì, è intelligente» confermò Dragon, il sorriso acceso e spento subito. Ormai Sabo ci aveva fatto l'abitudine a quelle espressioni flash. «La resistenza funzionerà meglio se ci sarà un centro comune che coordinerà le azioni. Noi siamo la France Libre, Francia Libera, facciamo riferimento direttamente al Generale De Gaulle.»

«Allora, tesoro, vuoi unirti a noi?» domandò Ivankov, occhieggiando nella sua direzione.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 1940 - Parte III ***


1940 - Parte III
 
Boston, 22 Giugno
 
L'irritante voce del presentatore iniziava a dargli sui nervi. Il jazz gli piaceva, ma in quel momento riteneva che ci fossero notizie più importanti da dare, come ad esempio cosa stesse succedendo in Europa, dove c'era, tipo, una fottuta guerra!
«E basta! Dammi qualche notizia, maledizione!» Ace afferrò il cuscino più vicino a sé e lo lanciò con forza verso la radio. Il cuscino colpì la radio in pieno e la fece precipitare oltre il tavolino su cui era accomodata. «Merda!»
Si alzò di scatto per recuperarla e mosse le manopole per farla riprendere, ma pareva morta. La agitò un attimo sperando di ridarle vita, ma fu tutto inutile. «Oh, ridicolo ammasso di ferraglia» sbottò. Non era possibile che si rompesse per un colpo così minuscolo come quello.
Si accoccolò di nuovo sul divano, seccato: non solo non era riuscito ad avere notizie sulla guerra, ma adesso non aveva nemmeno la consolazione del jazz. Il silenzio non era positivo, lo costringeva a pensare. E pensare significava Sabo.
L'anno precedente c'erano state le prime avvisaglie di un nuovo conflitto, per cui Ace e Rufy non avevano potuto passare l'estate allo Château d'Ô com'era abitudine da anni. E già quello era stato insopportabile da accettare. Tuttavia, nonostante la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania, le lettere di Sabo erano arrivate con regolarità e nulla indicava che la sua vita avesse subito un qualche cambiamento sostanziale.
Le notizie erano peggiorate in primavera, ma l'invasione della Francia era stato comunque un fulmine a ciel sereno. Avevano provato a spedire dei telegrammi per avere notizie, ma nessuno era giunto a destinazione. Parigi aveva subito una forte emigrazione, per cui non era improbabile che anche Sabo l'avesse lasciata, ma non erano arrivate lettere di avvertimento con nuovi indirizzi.
Ed Ace non era abbastanza paziente da rimaner seduto finché la radio decidesse che quello che succedeva in Europa era abbastanza importante anche per gli americani. La radio comunque non poteva essere più utile al momento. Non avevano notizie da Sabo da quasi due mesi e il pensiero che non sapessero come raggiungerlo era insopportabile.
La porta si aprì di scatto e Rufy balzò nella stanza gridando. Ace era talmente preso dai suoi pensieri che quasi cadde giù dal divano per lo spavento.
«Accidenti a te, che caspita ti è preso!»
Rufy era troppo eccitato per preoccuparsi di una cosa di così poco conto come il bernoccolo che aveva procurato. Allungò la busta che teneva con entrambe la mani, quasi fosse una reliquia sacra. «Una lettera da Sabo...» esalò, con le guance rosse e gli occhi brillanti.
«Scherzi?» Ace scavalcò il divano e gliela strappò dalle mani: era davvero una lettera da Sabo, la scrittura era la sua e il francobollo era francese. «Perché non l'hai detto subito!» esclamò, mentre la apriva.
«Ma se è la prima cosa che ti ho detto!» protestò Rufy, con gli occhi che seguivano ogni movimento delle sue mani, da quando aveva strappato la busta a quando ne aveva esaminato il contenuto. «Leggi, leggi!»
 
Cari Ace e Rufy,
probabilmente non riesco ad esprimere a parole quanto mi mancate e quanto sia dura dover rinunciare ad una seconda estate con voi. Se avessi avuto più tempo, avrei cercato di descrivere meglio i miei sentimenti, ma vado piuttosto di fretta oggi. Vi devo chiedere scusa: ho la possibilità di poter venire da voi, a Boston, ma ho deciso di non sfruttarla. La mia decisione non ha nulla a che fare con voi e voglio che sappiate che mi mancherete moltissimo.
Come probabilmente saprete, la Francia è in guerra contro la Germania e pare che uno scontro fra i due eserciti sia imminente. Mio padre vorrebbe semplicemente andarsene, ma io non posso farlo. Ho intenzione di arruolarmi e andare a combattere per la salvezza della mia patria. Forse non approverete la mia decisione, ma sono sicuro che capirete come mi sento.
Non è stato facile decidere e rinunciare a voi e ho dovuto farlo in fretta. Cercherò di farvi avere mie altre notizie in futuro, se potrò, ma dovunque siate sappiate che vi voglio bene perché siete i miei preziosi fratelli e che non smetterò mai di pensare a voi.
Ace, mi raccomando, se dovesse succedermi qualcosa spetterà solo a te accompagnare Rufy sul podio olimpico. Lo sai che conto su di te.
 
L'ultima frase era sbavata e mal scritta, come se per Sabo fosse stato difficile mettere su carta la paura che non sarebbe tornato dall'avventura che lo stava aspettando. Ace stringeva la lettera con forza e ne fissava le frasi nere sperando che indicassero qualche altra notizia.
«Almeno sappiamo che sta bene» commentò Rufy, dato che non gli piaceva il silenzio che era sceso alla fine della lettura della lettera.
«È vecchia.»
«Cosa?»
Incapace di guardare ancora quelle parole, Ace la appallottolò e la gettò via. «Risale a più di un mese fa. Chissà dov'è adesso!»
Sabo aveva ragione, per quanto lo capisse non gli era piaciuta la decisione che aveva preso. Sapeva cosa stava succedendo in Francia, eserciti in rotta, centinaia, migliaia di prigionieri e morti anche fra i civili. Aveva sperato, ogni giorno, di ricevere notizie che indicassero che il fratello era ben lontano da quel disastro e adesso scopriva che ci era finito proprio in mezzo. Volontariamente, per di più! “L'imbecille...” pensò.
«Andrà tutto bene» affermò Rufy annuendo. «Abbiamo fatto una promessa, ricordi? Sabo mantiene le promesse.»
Ace gli scoccò un'occhiataccia ed ebbe l'intenzione di lanciargli una frecciata sul fatto che la guerra non fosse uno scherzo, ma poi notò che Rufy non era certo così sicuro come lasciava credere: era pallido e sudava.
«Se Francia e Germania sono arrivate ad un accordo, forse le poste torneranno a funzionare» rifletté. «A quel punto, Sabo potrà farci sapere qualcosa.» Sempre che non fosse prigioniero in qualche campo. Sempre che non fosse morto. Ma quelle non erano cose che poteva dire a Rufy.
«Hai ragione!» Rufy sorrise. Era rilassante vederlo cercare di conservare il buonumore nonostante la situazione. «La radio ha detto qualcosa di nuovo?»
Ace scoccò uno sguardo al macchinario che giaceva ancora abbandonato sul pavimento. «Credo di averla rotta» affermò, con una leggera smorfia.
«Ma fai sempre danni!»
«Sei l'ultima persona che può dirmi una cosa del genere!»
L'unica alternativa ormai era provare a fare un salto al tecnico dall'altra parte del quartiere. Ace recuperò la lettera di Sabo e la ripose nella scatola che teneva in camera, mentre Rufy si cambiava dalla tuta da palestra e sistemava la borsa. Dal tecnico scoprirono che la radio era riparabile, ma era necessario ordinare un pezzo e non era certo quando sarebbe arrivato.
Così, quando tornarono a casa, nonostante l'odore del cibo che la loro governante Makino stava preparando e nonostante ciò facesse brontolare i loro stomaci all'unisono, nessuno dei due aveva appetito.
Makino si affacciò alla finestra, sorpresa che non andassero a cercare di rubare degli assaggi prima del tempo, ma al momento la cosa più importante per loro era la luce che filtrava sotto la porta dello studio di Garp, che indicava il suo ritorno.
Come rispettabile membro della marina degli Stati Uniti, c'era da aspettarsi che avesse notizie di prima mano sulla situazione in Europa, perciò si precipitarono all'interno ignorando la regola che imponeva loro di bussare e si scaraventarono contro la sua scrivania gridando e parlando contemporaneamente. Si calmarono e si sedettero sulle poltrone, per quanto a malavoglia, solo quando Garp li colpì con il suo famoso pugno d'acciaio che conoscevano fin troppo bene. Vedendo la loro espressione, tuttavia, decise di accontentarli.
«L'armistizio è stato firmato oggi, ne ho avuto notizia proprio poco fa» raccontò, accomodandosi meglio sulla poltrona. «La parte nord della Francia, compresa Parigi, è sotto il controllo della Germania, la parte a sud è formalmente territorio libero del nuovo governo francese di Vichy.»
«Formalmente?» domandò Rufy.
«Vuol dire che in realtà non prenderanno decisioni contro quelle della Germania, anche se sono indipendenti» commentò Ace.  «Mi sbaglio?»
Garp scosse la testa.
«Quindi, che succede ora?»
«La Germania è ancora in guerra con l'Inghilterra, e l'Inghilterra è ancora alleata della Francia, quindi i prossimi scontri saranno tra queste due potenze probabilmente» disse Garp. «Difficile che decidano di attaccare la Russia prima di aver sistemato il fronte occidentale.»
«E noi? Cosa farà l'America?» Ace non stava facendo le domande di cui voleva davvero una risposta, ma prima sentiva di dover capire esattamente cosa stava succedendo.
«Non abbiamo alcun motivo di intervenire. Certo, una vittoria della Germania non è auspicabile, ma non è un nostro problema. Possiamo guadagnare molto di più  mandando rinforzi a tutti piuttosto che entrando in un conflitto che non ci interessa.»
Ace strinse i denti: Sabo era chissà dove, con la sua bella divisa indosso, a combattere, e lui viveva in un paese che guardava il resto del mondo bruciare sperando che il fuoco gli cuocesse meglio la carne. Rufy non era altrettanto interessato alle questioni politiche, per cui andrò dritto al punto.
«Adesso che c'è l'armistizio, sarà possibile avere notizie dirette dalla Francia, no? Dobbiamo sapere dov'è Sabo.»
«Non è a New York?» rispose Garp, alzando un sopracciglio.
«Perché mai dovrebbe essere a New York!» sbottò Ace, che stava ancora cercando di immaginare come si potesse essere vivere in un paese sotto assedio e per questo l'atteggiamento conciliante e tranquillo di suo nonno gli dava ai nervi.
«Be', Outlook ora abita là. Mi ha mandato un telegramma due settimane fa.» Si chinò, aprì uno dei tre cassetti della scrivania e, dopo una rapida ricerca, estrasse un pezzo di carta e lo appoggiò sul bordo della scrivania, verso i due nipoti. «Ha spostato tutte le sue attività dopo la dichiarazione di guerra alla Germania e appena possibile ha fatto i bagagli e si è messo al sicuro qui in America. Ma non ve l'avevo detto?»
Ace e Rufy fissarono il telegramma con occhi spalancati. Ora che ci pensavano, però, Sabo aveva parlato di un'occasione per venire a Boston e probabilmente doveva riferirsi al trasferimento di suo padre. Ace non riusciva a credere che Outlook se ne fosse andato lasciando il figlio alle prese con una guerra, ma tutto sommato era una cosa perfettamente normale da parte sua.
«Dannazione, vecchio, avresti dovuto dircelo subito!» sbottò. «E comunque è tardi, Sabo è rimasto in Francia e si è arruolato.»
«Scelta onorevole.»
Né Ace né Rufy condividevano la carriera di Garp nella marina, e manifestarono in maniera decisamente plateale il loro disappunto sulla questione. «Be', perché non provate a mandare un telegramma ad Outlook? Lui di sicuro saprà come contattare Sabo.»
Si tenne per sé il pensiero che potevano anche non essere buone notizie, o non essercene affatto visto il caos che ancora regnava in quella nazione, ma era anche possibile che nelle prossime settimane si sarebbero avute notizie circa i caduti e i sopravvissuti, sperando che la situazione si stabilizzasse a sufficienza.
Sul telegramma c'era il nuovo indirizzo della famiglia Outlook: Sabo era l'unico con cui andavano veramente d'accordo, però non c'erano altre alternative. «Sì, proviamo a mandargli un telegramma.»
 
 
Boston, 9 Luglio
 
La risposta arrivò oltre due settimane dopo, sotto forma di una lettera. Il mittente non era segnalato, se non un generico “famiglia Outlook”. Il fatto che fosse passato così tanto tempo poteva indicare sia una notizia positiva sia una notizia negativa. Forse avevano impiegato tempo anche loro a ricevere comunicazioni dalla Francia.
Ace era comunque grato che gli avessero risposto, anche se magari solo per Garp e non per loro. Il suo senso di gratitudine crollò immediatamente quando capì che quella lettera l'aveva scritta Stelly in persona e non certo per bontà di cuore. Come la lettera di Sabo, l'aveva trovata Rufy che ora aspettava impaziente che gli venisse letta, ma Ace non lo fece. Non poteva.
 
È bello vedere che voi due vi ricordate della mia esistenza solo quando avete bisogno di qualcosa o solo quando volete tormentarmi. Ma sarò buono e vi darò le informazioni che bramate tanto: mio fratello è morto. Morto, avete capito bene, defunto, deceduto, addio. Ha cercato di fare l'eroe, l'ingrato. Non ha dato ascolto a papà e s'è fatto ammazzare come un cane sotto un bombardamento. Degna fine, se volete la mia opinione. A quanto pare non è rimasto nemmeno un cadavere, l'incendio di Rouen ha cancellato tutto.
Non abbiamo nemmeno fatto il funerale, a cosa sarebbe servito? Non abbiamo tempo di guardarci indietro, con questo nuovo paese tutto da conquistare. La Francia non è più viva di mio fratello.
Passatemi a trovare, quando volete; purtroppo la camera di Sabo è già stata adibita a mio studio personale, ma vi troveremo sicuramente un'altra sistemazione.
 
«Che cosa dice, allora?» Rufy lo scrollò un attimo, liberandolo dal suo stato di trance.
Gli occhi di Ace bruciavano, ma non voleva piangere. Sapeva perché Stelly aveva scritto la lettera, e perché l'aveva fatto a quel modo e non voleva dargli soddisfazione, nemmeno a distanza. Comunque sia, ciò che c'era scritto sarebbe bastato a distruggerlo in ogni caso.
«Allora?» insistette Rufy. Stava diventando ansioso.
Ace scosse la testa. «Mi dispiace.» Non riusciva a dirlo. Non aveva il coraggio di dare quella notizia a suo fratello. «È la guerra...» mormorò. L'aveva sentito dire tante volte, come giustificazione per tutto, ma al momento aveva solo voglia di mettersi a gridare.
Rufy capì. Non era sempre così intuitivo, ma era bravo a leggere le espressioni degli altri e probabilmente lesse la sua disperazione. Al contrario di lui, non si trattenne: le lacrime uscirono immediatamente copiose e lui cadde sulle sue ginocchia, gridando. «Non è vero! Non è vero!»
«Mi dispiace...» Ace non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto abbracciarlo, consolarlo, ma provava una così grande rabbia dentro che non si sentiva in grado di fare nemmeno una cosa così semplice. Rimase semplicemente fermo, con la mano che serrava la lettera come gli artigli di un'aquila.
Makino uscì dalla cucina e fissò i due ragazzi: ormai li conosceva così bene, li aveva visti crescere, che sapeva esattamente che cosa poteva provocare una simile crisi. Non disse nulla, semplicemente si chinò di fronte a Rufy e lo abbracciò, lasciando che nascondesse la testa contro il suo petto.
«Io esco.» Di sicuro quello non bastava ad indicare quando grato Ace fosse di poter contare su di lei in quel frangente: lui aveva bisogno di sfogarsi, ma non avrebbe potuto farlo sapendo che suo fratello aveva bisogno di lui. Adesso poteva andarsene senza sentirsi in colpa.
In realtà, si sentiva comunque in colpa. Le ultime parole di Sabo erano riferite al suo compito di proteggere Rufy e stava venendo meno ai suoi doveri. Avrebbe rimediato. Prima, però, si prese la soddisfazione di bruciare la lettera di Stelly fino a vederla ridurre in cenere. Poi tornò all'ufficio postale e inviò un telegramma in cui accusava il suddetto di aver mentito e che non credeva ad una parola di quello che gli aveva detto. Il tono fu decisamente più colorito, quasi da sconvolgere l'addetto dell'ufficio postale che dovette domandargli più volte se fosse sicuro di voler spedire una comunicazione del genere.
Quando tornò a casa, si sentì decisamente sollevato. Vide Makino uscire dalla camera di Rufy e fargli segno di silenzio con il dito sulla bocca. «Sono riuscita a convincerlo a riposarsi.»
«Grazie.» Annuì e entrò in camera sua. In realtà sperava di poter raccontare al fratello della sua bravata all'ufficio postale, ma ripensandoci era meglio che dormisse, così non avrebbe pensato per un po' alla situazione. Forse avrebbe dovuto provarci anche lui, ma quando si sdraiò vide bene che non era possibile, aveva gli occhi spalancati e attivi.
Allora si alzò, aprì l'armadio ed estrasse una scatola. All'interno c'erano tutte le lettere che lui e Sabo si erano scambiati in quegli anni, ordinate accuratamente per anno e mese. Per il 1940 ce n'erano solamente tre, più quella spiegazzata che avevano ricevuto come una sorta di ultime volontà.
E poi c'erano le fotografie, tutte quelle che Sabo aveva scattato quando non erano assieme e che trovava meritevole di mostrargli. Raffiguravano una Parigi ed una Francia pacifiche e piene di vita, come se le ricordava e come probabilmente non erano più.
In fondo alla scatola, c'era una fotografia scattata da Ace in persona. Una delle prime con la Leica che Sabo gli aveva regalato, una seria, non le stupidaggini di quando facevano gli scherzi a Stelly.
Si ricordava la giornata in cui l'aveva scattata. Sabo era sulla riva della Senna, a cercare di attirare i cigni vicino con della mollica del pane. Ace era dietro di lui, ma leggermente spostato per poter avere una visuale migliore del fiume durante lo scatto.
Poi un cigno si era avvicinato davvero ed aveva morso la mano di Sabo nel tentativo di sottrargli il cibo. “Spero che tu abbia fatto una foto come si deve!” aveva esclamato seccato, agitando la mano per far cessare il dolore. Poi si era voltato e gli aveva sorriso e in quel momento esatto Ace aveva premuto il pulsante.
E così gli era rimasto quel ricordo, di Sabo bambino seduto sull'erba di Parigi che gli sorrideva. E si rese conto che non l'avrebbe più visto sorridere così e che quella foto sarebbe rimasta come simbolo di un periodo che era stato strappato via.
Gli occhi gli dolevano, tanto aveva trattenuto le lacrime, ma non ce la faceva più. Da solo in camera sua, non aveva bisogno di mostrarsi forte di fronte a nessuno. Si chinò all'indietro appoggiando la schiena al letto e lasciò che il suo corpo gli dicesse quando aveva bisogno di sfogarsi.
Le lacrime scorrevano lungo le guance, gocciolando sulla camicia, ma lui non alzò mai la mano per asciugarsele. Solo quando gli fu quasi impossibile respirare per via del muco che gli ostruiva il naso e la gola fu troppo impastata, si alzò. Andò in bagno e si asciugò, poi scese in cucina a bere un bicchiere d'acqua. Makino probabilmente notò i suoi occhi rossi, ma non disse nulla.
«Esco, torno fra poco» le disse. Per la seconda volta nella giornata, si recò all'ufficio postale.
Questa volta, però, non era una lettera d'insulti per sfogarsi, ma una decisione che aveva maturato per onorare la volontà del fratello, a cui non aveva potuto dare nemmeno un ultimo saluto.
 

 
Boston, 29 Luglio
 
Rufy si era impuntato a guardare il suo piatto. Ace era semplicemente annoiato dall'intero incidente che si stava svolgendo di fronte a lui, perché se c'era una cosa che non sopportava erano le ramanzine del nonno, anche quando non erano rivolte a lui, e soprattutto durante i pasti. Gli rovinavano la digestione.
«Ho parlato col preside» esordì Garp, con tono truce. «Dato che i testimoni hanno parlato di una rissa vera e propria, probabilmente avrai solo una sanzione disciplinare. Tuttavia...» E alzò il dito, pronto ad iniziare una filippica sul fatto che non era quello il tipo di comportamento che si aspettava da un futuro marine e roba simile.
Ace decise di anticiparlo. «Quel tipo ha detto che gli americani si dovrebbero arruolare nella Wehrmacht, secondo me Rufy ha fatto solo bene a picchiarlo.»
«Non ti ci mettere anche tu!» Era fuori dalla sua portata, seduto dall'altra parte del tavolo per poterlo colpire con uno dei suoi famosi pugni. Ace avrebbe parlato comunque, ma era felice di essersela scampata.
«Perché avrebbe detto una cosa del genere?» Makino, che cenava con loro, intervenne nel tentativo di sviare la conversazione su qualcosa che accomunava la famiglia: l'odio per i tedeschi. Funzionò.
«La sconfitta della Francia ha fatto credere che la vittoria di Hitler sia ormai imminente e l'unico baluardo per sconfiggere la Russia bolscevica» spiegò Garp. «Sono in parecchi a pensarla così, anche se non la maggioranza.»
«Scommetto che parlano senza sapere le cose» sbottò Ace. «Rufy ha dovuto inculcargli un po' di buon senso a suon di pugni.»
«Per te è solo perché Sabo è morto.» Garp era tornato sul filone iniziale della ramanzina per la rissa che Rufy aveva scatenato a scuola, ma l'aveva fatto nel peggiore dei modi. Nominare Sabo non era mai una buona idea per mettere i due fratelli in una buona disposizione d'animo. «Se non fosse successo, a nessuno di voi sarebbe importato dei tedeschi. Invece, quando sarete in marina...»
«Sabo non è morto.» Rufy aveva aspettato di terminare il piatto prima di interromperlo con la sua convinzione. Dato che gli altri tre lo fissarono stupiti, aggiunse: «Insomma, laggiù c'è un gran casino, no? Come fanno ad esserne sicuri? Secondo me potrebbero benissimo essersi sbagliati, Sabo non si farebbe ammazzare così».
Ace lo guardò. Adesso capiva perché negli ultimi tempi era tornato ad essere allegro come sempre e in un certo senso invidiava quella fiducia e quell'ottimismo che lo contraddistinguevano. Rimase incerto sul da farsi: forse era meglio lasciargli quell'illusione, se serviva a farlo vivere più tranquillo. Poi però pensò che doveva conoscere la verità e andare avanti con quella.
«Sono sicuri» affermò. «Stelly mi ha mandato il telegramma che gli è arrivato direttamente dal Governo di Vichy. Una cosa seria.»
«No, non l'ha fatto» replicò Rufy. «Non c'era con il telegramma che hai letto con me.»
«Ne ha mandato un altro.» Ace sospirò. «Suppongo che non gli abbia fatto piacere che gli abbia dato del bugiardo. O forse non gli è piaciuto come gli ho dato del bugiardo.» Garp alzò un sopracciglio: Ace poteva essere decisamente colorito, a volte, e si chiese se convenisse chiedergli di più per poi andare a parlare con Outlook, oppure ignorare l'intero incidente.
«Voglio vederlo» affermò Rufy. Era offeso che Ace gli avesse nascosto un'informazione così essenziale.
«Fa' pure. È in camera mia, nel primo cassetto della scrivania.» Ace non fece alcun segno di alzarsi, non ci teneva a riprendere in mano quel telegramma. Non aveva avuto il coraggio di buttarlo, ma meno lo vedeva meglio era. Rufy balzò in piedi quasi rovesciando la sedia dietro di lui, salì le scale in fretta e si sentirono i passi sul soffitto, poi quelli che scendevano, più affrettati di quelli precedenti tanto da farli assomigliare ad una mandria di elefanti.
«Cos'è questo?» esalò, fermo sulla porta della cucina.
«Impara il francese come si deve, una buona volta» sospirò seccato Ace, quindi si voltò con l'intenzione di tradurglielo. Ma Rufy non aveva in mano il telegramma di Sabo. «Oh.» Non aveva previsto che lo scoprisse in quella maniera. «È la risposta alla mia domanda di leva.»
Gli altri tre rimasero senza fiato per la notizia inaspettata.
«Dove hai fatto domanda?» abbaiò Garp, che ovviamente era sempre stato certo che i suoi nipoti si sarebbero arruolati in marina sotto il suo comando.
«Nell'esercito. Parto per Fort Jackson tra una settimana.»
«Traditore! E poi Fort Jackson è chiuso da anni.»
«L'hanno riaperto di recente. Sai che hanno rimesso in atto la leva obbligatoria di un anno, no? Per via della guerra di Europa.»
«Quando hai fatto domanda?» Rufy si era seduto al tavolo: pareva più calmo, adesso, e fra i tre era l'unico che sembrava cercare di comprenderlo.
«Quando è arrivato il telegramma di Stelly» rispose Ace. Guardò il fratello ed ebbe la certezza non solo che capiva la sua decisione, ma l'approvava. Makino, dopo quell'affermazione, sembrava essere solidale, anche se l'espressione tradiva un po' d'apprensione. Garp era l'unico ancora irritato dalla questione.
«Bah! E che cosa pensi di fare?»
«Prendere i tedeschi a calci in culo.»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 1941 - Parte I ***


1941 - Parte I
 
 
National Training Center Fort Irwin, 15 Febbraio
 
Odr Junior era uno dei fortunati finiti nella lista degli estratti per il Servizio di Leva Obbligatorio post-1940. Nonostante fosse alto più di due metri e con le spalle di un nuotatore, non si sentiva affatto adatto alla vita del soldato. E a suo modo gli addestramenti che facevano lo dimostravano, perché il suo nome finiva sempre in fondo alla lista dei risultati ottenuti.

L'ansia da prestazione era particolarmente forte durante gli esami di controllo, quando le prove da sostenere aumentavano di livello, e a ciò imputava le sue cattive prestazioni. Normalmente sarebbe riuscito a superare la parete dell'arrampicata, con difficoltà, certo, ma ce l'avrebbe fatta. Invece era lì da cinque minuti e non riusciva a salire per quella dannata corda per più di due metri e gli erano passati praticamente davanti tutti quelli dei turni di partenza successivi. Non aiutava il fatto che l'istruttore continuasse ad urlare che avrebbero dovuto completare il percorso in un tempo prestabilito, pena corse supplementari.

Riprovò per l'ennesima volta ad arrampicarsi su quella corda, con le braccia che ormai gli facevano male. Sentì le mani che scivolavano e capì che sarebbe caduto, ma poi la sua corsa si arrestò e lui istintivamente strinse maggiormente la corda e puntò i piedi sulla parete di legno che stava cercando di scalare.

Poi si rese conto che c'era qualcuno che lo stava sostenendo, perché avvertì una presa ferrea sul gomito. Si voltò: accanto a lui un altro ragazzo stava scalando la parete e riusciva a tenersi in equilibrio sfruttando la forza delle gambe; in questa maniera era in grado di sostenere il peso di entrambi.

Gol D. Ace. Nonostante fossero nella stessa unità ed avessero iniziato l'Addestramento Individuale Avanzato assieme, Odr non ci aveva mai scambiato una parola. Il nome di suo padre lo precedeva e per questo erano tutti un po' diffidenti, se non apertamente ostili, nei suoi confronti. E lui stesso sembrava non essere interessato a nessuno.

«Spingiti coi piedi e non mollare la presa» gli disse Ace. Strinse maggiormente le gambe attorno alla corda, tolse la mano ed in un istante la riafferrò cinque centimetri più in alto. Poi si appoggiò per un piede contro una parete e lo usò per darsi una spinta più in alto. Ripeté l'operazione un paio di volte, poi strinse la presa contro il braccio di Odr, che non aveva lasciato, e praticamente lo sollevò fino a fargli raggiungere la sua stessa altezza.

Odr cercò di aiutarlo come poteva spingendosi con i piedi, ma non osava lasciare la presa sulla corda quando Ace saliva per paura di cadere e trascinarli a fondo assieme. Finì quindi per farsi sollevare come un peso morto fino sulla cima, dove praticamente si gettò sul parapetto, felice di avere di nuovo i piedi su una superficie solida.

«Grazie» mormorò ad Ace, che dopo avergli fatto raggiungere la cima l'aveva raggiunta un attimo dopo. Lui alzò le spalle.

«Figurati.» E senza aggiungere altro si gettò per lo scivolo che c'era dall'altra parte della parete per proseguire il percorso di guerra.

Solo in quel momento Odr si ricordò che dovevano concludere in un certo tempo prestabilito e si affrettò a seguirlo. Fece appena in tempo, anche se l'occhiata che l'esaminatore gli aveva lanciato non era delle più esaltanti.

Non riuscì a rivedere Ace fino alla sera, perché le prove avevano occupato tutta la giornata e passò il tempo a mensa con gli altri ragazzi con cui aveva legato. Quando furono tutti riuniti nella camerata comune per il tempo libero prima dello spegnimento della luce, ognuno occupato con le proprie faccende, decise che un ringraziamento era d'obbligo.

Ace era seduto sul suo letto e usava un libro come tavolo per scrivere una lettera, per cui Odr si sentì in imbarazzo a disturbarlo, limitandosi a stare in piedi e a pensare a come introdurre l'argomento. Fu Ace che avvertì la sua presenza ed alzò la testa. «Ehi.»

«Ciao.» Odr fece un timido sorriso. «Grazie ancora per oggi, mi hai davvero salvato.»

«Non è stato niente.»

«Niente? Io ancora mi chiedo come tu abbia fatto a tirare su questo bestione!»

«Vero! Quanto peserà, centoventi chili?»

Odr, a mensa, aveva raccontato quello che era successo ai ragazzi dell'esercito con cui aveva fatto amicizia più profondamente, Squardo e MgGuy, che avevano fatto l'Addestramento di Combattimento Basilare con lui a Fort Benning. I due erano rimasti molto impressionati.

«Non è stato davvero niente» ripeté Ace. Sebbene fosse soddisfatto che il suo talento venisse riconosciuto, ormai si era abituato ad essere il disadattato della compagnia e quella situazione era quasi strana. «Mio nonno mi faceva sollevare di peggio.»

«Aspetta, vuoi dire che tuo nonno era persino peggio del nostro istruttore? Com'è possibile?» domandò Squardo.

«È possibile se ti chiami Monkey D. Garp, credimi.»

I tre soldati lo fissarono: ovviamente era un nome molto conosciuto in America, visti i meriti ottenuti durante la Grande Guerra.
«Non sapevo che l'Eroe della Marina e Gol D. Roger fossero parenti» commentò Squardo, infine.

Odr lo notò subito, il cambiamento d'espressione di Ace. Prima era abbastanza tranquillo, ma non appena era stato fatto il nome di suo padre si era praticamente paralizzato, con gli occhi fissi in avanti. Quasi non respirava.

«Infatti non lo sono» rispose fra i denti, con fatica. «Garp si è preso cura di me, ma non è davvero mio nonno.»

«Ah! Perché anche tua madre è morta, vero...» Squardo non sembrava affatto essersi accorto di quello che aveva scatenato. «Ma perché proprio Garp? Insomma, è praticamente l'opposto di Roger...»

Ace si alzò di scatto. «Vado a pisciare» annunciò. Poi si fermò a metà strada verso il bagno, si voltò e aggiunse: «Io non ho mai incontrato mio padre e non me ne fotte nulla di lui, per cui vi sarei molto grato se evitaste di nominarlo in mia presenza».

«Sei stato poco delicato» commentò Odr, una volta che fu rimasto solo con i suoi due amici.

«Che?» Squardò alzò un sopracciglio, scrutandolo. «Ho solo fatto delle domande. Non c'è niente di male.»

«A dire la verità, pareva anche a me che non ne volesse parlare» intervenne McGuy.

«Sì, ma abbiamo il diritto di sapere, no?» Squardo era convinto di non essersi comportato scortesemente. «Insomma, Gol D. Roger è stato giustiziato per aver disertato. Non esattamente un'accusa leggera per un soldato. Sinceramente io vorrei sapere se mi posso fidare di qualcuno sul campo di battaglia, e come inizi non sono incoraggianti, ecco.»

Odr sapeva che i pensieri di Squardo erano condivisi dalla maggior parte dei soldati della compagnia, era il motivo per cui praticamente nessuno aveva cercato di avvicinare Ace nei primi mesi d'addestramento. Non importava che fosse praticamente l'unico volontario del gruppo, se suo padre aveva disertato non c'era motivo di credere che lui non l'avrebbe fatto.

«Non sono incoraggianti i suoi inizi?» ripeté Odr. «Se non fosse stato per lui, io oggi non avrei passato il test. Voi dove cazzo eravate, esattamente?»

McGuy e Squardo rimasero interdetti: era raro che lui esprimesse così veementemente i suoi sentimenti e che prendesse posizione. Non risposero alla domanda, perché sapevano che era retorica: durante i test di solito erano tutti ognuno per sé. Tranne Ace, a quanto sembrava.

«Io ho ascoltato attentamente il discorso che il Generale Newgate ci ha fatto quando siamo arrivati qui tre mesi fa. Ha detto che non importava chi eravamo, ci avrebbero formato loro se gliene avessimo dato la possibilità» proseguì allora Odr. «E io ho intenzione di dare una possibilità ad Ace. Lui non è suo padre e lo giudicherò per quello che è. Finora, ho visto solo un soldato che è meglio di chiunque altro qui dentro.» Dopo averlo aiutato, infatti, era riuscito comunque a terminare il percorso di guerra con il miglior tempo.

Ace tornò dal bagno e si riaccomodò sul suo letto, recuperando la lettera. Si era calmato, ma aveva evitato di guardare i tre uomini affinché capissero che non era una buona idea parlare di quell'argomento. Già odiava suo padre, e detestava ancora di più il fatto che fosse obbligato ad usare il suo cognome invece che quello di sua madre, ma nei documenti ufficiali era così. Introdurre l'argomento madre avrebbe potuto essere potenzialmente pericoloso per chiunque.

«A chi scrivi?» domandò Odr gentilmente.

«A mio fratello.» Ace apprezzò il cambio nella conversazione. «È un miracolo che non abbia ancora combinato qualche grande casino senza di me» aggiunse, perché parlare di Rufy lo metteva sempre di buon umore. «È un impulsivo, ingenuo e non si ferma davanti a niente, sono sempre molto preoccupato per lui...»

E Odr notò di nuovo un cambio d'espressione netto: spesso e volentieri Ace era serio, o semplicemente annoiato. Invece, mentre parlava di suo fratello, gli occhi gli brillavano ed improvvisamente ci si chiedeva perché non avessero notato prima quant'era simpatico.

«Ehi, volete fare una partita a briscola, mentre aspettiamo che spengano la luce?» domandò McGuy. «Ho bisogno di distrarre la mente dopo i test di oggi.»

«Idem» annuì Squardo. Non sembrava ancora convinto della situazione, ma non aveva aggiunto altro. Odr guardò Ace.

«Massì, tanto se Rufy incendierà Boston stasera non è che io ci possa fare molto.» Ripose libro e lettera nel baule dei suoi averi personali ai piedi del letto e raggiunse gli altri tre soldati.

 
National Training Center Fort Irwin, 3 Marzo
 
Il Colonnello di Brigata Marco bussò all'ufficio di uno dei responsabili del National Training Center di Fort Irwin, suo diretto superiore, il Generale Edward Newgate. Quando non ricevette risposta, aprì ugualmente la porta e lo vide seduto alla scrivania, al telefono. Poiché gli aveva fatto segno, entrò e si accomodò su una delle sedie, in attesa.

«Bene, allora cortesemente fatemi il favore di andare tutti al diavolo!» Così terminò la conversazione telefonica, con la cornetta sbattuta con forza.

Marco non era estraneo a comportamenti del genere, per cui ridacchiò. «Prima o poi si stancheranno di sentire lei che li manda a quel paese.»

«Nah, finché gli sarò utile sopporteranno» ribatté Newgate, accomodatosi meglio sulla sua enorme poltrona.  «È così che funziona questo paese. Uno scandalo può distruggerti, un atto eroico esaltarti per sempre e far sopportare qualsiasi eccentricità. E poi se lo meritavano» aggiunse.

«Non lo metto in dubbio» disse Marco gentilmente.

«Avanti, ragazzino, dimmi tutto.» Non importava che fossero passati anni e promozioni, gli uomini che aveva allenato personalmente rimanevano sempre dei ragazzini, per lui. E per loro lui era sempre il loro comandante, quasi più di un padre.

«Volevo parlarle a proposito di uno dei soldati della compagnia che sto addestrando io da dicembre.»

«Gol D. Ace» intuì immediatamente Newgate.

Marco spalancò gli occhi per un attimo: non era facile stupirlo, ma il generale ci riusciva sempre, soprattutto per come anticipava le sue mosse. «Vedo che sa tutto, come sempre» commentò.

«Devo essere informato di quello che succede nella mia base» fu la replica, soddisfatta. «Ma non so esattamente tutto. Per esempio, non so perché sei preoccupato.»

«Sembro preoccupato?»

«So che lo sei.»

Marco sorrise, un accenno appena a ricordo di quanto l'uomo davanti a lui lo conoscesse bene e da anni. «Sarò molto franco, allora. Gol D. Ace è il miglior soldato che mi sia mai capitato di addestrare. Ha delle mancanze a livello teorico e spesso è impulsivo, ma il suo istinto in guerra è ottimo e i suoi risultati impressionanti.»

«Ho letto le valutazioni. Non ero rimasto più così colpito da quando ho addestrato te e gli altri, lo ammetto.» Naturalmente, non aveva mai nascosto le sue preferenze ed era stata una sua decisione tenere con sé quegli uomini, senza considerare che aveva fatto pressioni perché ottenessero le promozioni che riteneva meritassero.

«Non credo ci sia bisogno di specificare chi sia suo padre.»

Newgate sbuffò. «È un problema per gli altri soldati?»

«Lo era, ma non più. È riuscito a conquistarli tutti» spiegò Marco. Era preoccupato all'inizio, doveva ammetterlo, perché notava la diffidenza con cui gli altri fissavano Ace e l'ostilità con cui lui li ricambiava, ma alla fine le acque si erano calmate. «Durante uno dei test, ha aiutato un altro soldato. Piano piano, si sono affidati tutti a lui per migliorare. Se la cava come leader.» Certo, c'erano ancora dei problemi, ma nulla che non si verificasse normalmente. Era impossibile evitare antipatie in gruppi così grandi ed eterogenei.

«Meglio così. Sarebbe stato seccante che pagasse per un errore giudiziario.»

«Lei è ancora convinto che sia stato un errore.» Quella storia Marco la conosceva. Be', la conoscevano tutti in America, aveva fatto scalpore vent'anni prima poiché essere un disertore era forse la cosa peggiore per i patrioti degli Stati Uniti. Però si era informato meglio quando aveva scoperto che avrebbe avuto il figlio di Roger come allievo e solo in quel momento si era reso conto che le connessioni con il suo Generale erano più profonde di quello che credeva.

«Non ne sono convinto, lo so» sbuffò Newgate. «Roger, con il suo comportamento, aveva messo in luce tutte le mancanze dei nostri superiori. Nessuno era stato contento, e così l'hanno fatto tacere» spiegò. «Era una testa calda, è stato facilissimo trovare degli episodi ambigui e girarseli come volevano loro. Io non ho potuto farci niente» aggiunse, con mestizia. «Ah, naturalmente anche Garp lo sapeva. Loro due si conoscevano da anni. Tutte le persone intelligenti d'America lo sapevano, e sono sempre state molto poche.»

Questo spiegava il perché Garp avesse allevato Ace: Marco se l'era effettivamente chiesto, quando l'aveva scoperto. Tuttavia, stavano divagando dall'aspetto principale della conversazione, perciò per quando avesse voluto sapere di più sull'intera questione e sul rapporto che intercorreva tra tutte quelle personalità dell'esercito e della marina, riportò la conversazione sui binari corretti.

«Crede che la vicenda di suo padre abbia influenzato la vita di Ace?» domandò.

«Difficile pensare il contrario. È rimasto orfano sia di padre sia di madre. È cresciuto con un unico parente, un nonno. Impossibile che non abbia influito» commentò Newgate, dopo un attimo di riflessione. «Ma se mi stai chiedendo quanto abbia influito anche nella sua decisione di entrare nell'esercito... Non te lo so dire. So che è motivato, questo sì. Ma quale sia la motivazione, dovresti dirmelo tu.»

Marco sospirò. «Non ne ho idea. Gol D. Ace è un autentico mistero, per me.» Newgate aveva alzato leggermente le sopracciglia e l'aveva fissato intensamente, ma non aveva aggiunto altro: aspettava. Per cui Marco decise di proseguire: «La prima volta che l'ho visto, pensavo fosse un tipo introverso. Vista la sua storia, sarebbe stato naturale. Poi l'ho visto sorridere con altri soldati ed era come vedere una persona completamente diversa: aperta, divertente».

Fece una pausa, cercando di richiamare alla memoria degli episodi che potessero servire a spiegare meglio il suo problema. «Durante le azioni di lotta è preciso, letale, quasi crudele, ma poi si gira e sarebbe disposto a dare un braccio per un altro soldato. Fa discorsi maturi per un ragazzo della sua età, poi si irrita e compie le peggiori stupidaggini.» Sarebbe potuto andare avanti ad oltranza con gli episodi, per cui fu grato quando Newgate stesso lo interruppe.

«A te piace questo ragazzo.»

«Be', sì» ammise Marco, un po' stupito dalla frase. «Come le ho detto, è il miglior soldato che mi sia mai capitato.»

«Quanti anni hai detto che ha?»

«Dovrebbe averne compiuti diciannove quest'anno, dovrei controllare nel fascicolo...» E poi capì che quella domanda aveva ben altre implicazioni, e non erano innocenti. «Generale, sono offeso da questa insinuazione. Sono venuto per un consiglio professionale, nulla più.»

Newgate scoppiò a ridere. «Dio, non ti vedevo così imbarazzato da anni!» Ci mise un attimo a calmarsi da quello scoppio d'ilarità. «Scusami, ma parlavi davvero come una ragazza del suo fidanzatino, non ho resistito. Spiegami ancora qual è il problema professionale

«Il punto è che non lo capisco,  non so cosa aspettarmi da lui e questo mi preoccupa.» Marco decise di ignorare completamente quella parte della conversazione. «Ho l'impressione che sia disperato per qualcosa e che pensi che essere un soldato lo faccia sentire meglio, per qualche motivo.» Anche se, come sempre, il Generale ci aveva preso in pieno: gli piaceva anche come persona, non solo come soldato. Gli piaceva il suo comportamento verso i compagni, la sua voglia di vivere e il suo sorriso.

«E ho l'impressione che questa disperazione avrà la meglio su di lui, prima o poi» concluse.

«Ho capito» annuì Newgate, che rifletteva con gli occhi chiusi. «Pensi che la disperazione possa derivare dal fatto che vuole dimostrare di essere meglio di suo padre.»

«Esatto» confermò Marco. «Speravo che quando gli altri lo avessero accettato, avrebbe capito che era diverso da suo padre. Ma vedo ancora quella disperazione, a volte. Ho paura che finisca per esplodere.»

«La mela non cade mai lontano dall'albero. Tale padre tale figlio. Proverbi cretini, se vuoi la mia, ma non sarebbe strano un sentimento del genere.» Newgate si alzò in piedi, ergendosi in tutta la sua spropositata altezza. «Non voglio perdere un ragazzo promettente per una colpa che non ha.»

«Nemmeno io» dichiarò Marco. Per rispetto, decise di alzarsi, ma era molto difficile guardarlo negli occhi da quella posizione e capire che cosa pensava. «Che cosa posso fare?»

«Non introdurre l'argomento padre, questo di sicuro. Ma so che non l'hai fatto.» Entrambi erano uomini abbastanza intelligenti e sensibili da capire che sarebbe stato peggio prendere il toro per le corna. «Tienilo d'occhio più che puoi. Se quello che temi deve succedere, succederà. Assicurati solo di essere lì a spegnere l'incendio prima che si propaghi.»

«Sissignore.»

Quando Marco uscì dall'ufficio, non era sicuro di sentirsi più rilassato. Newgate aveva capito bene la situazione, ma, come lui, sapeva che non c'era altro da fare che aspettare. I loro timori erano solo sensazioni, dopotutto. Potevano anche non avverarsi, ma ne dubitava. Se erano bravi come comandanti era anche perché prevedevano i problemi fra i soldati.

Non voleva perdere Ace, né come soldato né come persona. Newgate aveva ragione a dire che gli piaceva, anche se non nel modo in cui aveva insinuato scherzosamente. Era semplicemente un apprezzamento per qualcuno che aveva tante qualità positive.

Marco era certo che se Ace avesse fallito come soldato, se avesse fallito nel dimostrare quello per cui si impegnava tanto, avrebbe perso una parte di sé, forse quella che lo rendeva così speciale. Marco era intenzionato a non farlo succedere, in alcun modo.
 

 
National Training Center Fort Irwin, 11 Maggio
 
Ciao Ace!
Ho ricevuto il tuo regalo di compleanno, grazie mille. In realtà è arrivato qualche giorno prima, ma ho aspettato ad aprirlo che fosse il giorno giusto. È stato il migliore, come sempre. Il nonno invece mi ha regalato un libro sulla storia della marina militare in Italia, una noia pazzesca. L'ho messo in camera tua perché non posso buttarlo, non ti dispiace, vero?
 
Ace ridacchiò. Le lettere di Rufy lo mettevano sempre di buon umore, sia per la loro totale mancanza di stile, sia perché raccontavano sempre avventure idiote. Non che l'idea di regalo di Garp fosse nuova, ogni singolo anno doveva essere qualcosa di legato alla marina. Era una specie di tentativo di lavaggio del cervello, ma senza successo.
 
Questo è il primo compleanno in cui non c'eri ed è stato un po' triste. Ma non preoccuparti, ho invitato tanta gente e ho fatto una festa fighissima in stile hawaiano. Mi sono anche ubriacato, quello è stato meno bello. Pensavo di aver vomitato anche le budella. Ah, e mi ricordo la metà delle cose che sono successe a quella festa, ma non importa.
 
Ace roteò gli occhi. Rufy aveva appena compiuto sedici anni, non era una buona ragione per farlo ubriacare. Cosa aveva in mente quel pazzo di suo nonno? Conoscendolo, avrebbe detto che un vero marine doveva imparare anche ad affrontare le sbronze. Anche se Rufy sembrava tranquillo, gli dispiaceva non esserci stato.
 
A te come va? Sai, in realtà ero un po' preoccupato quando il nonno mi ha detto che il Generale della base era un vecchio amico di tuo padre. Scusa, so che non ne dovrei parlare, però ero davvero preoccupato. Le tue prime lettere dalla California mi sembravano un po' strane. Ma adesso sembra che le cose vadano meglio. È successo qualcosa? Forse è una mia impressione... Fammi sapere se va davvero tutto bene. Sono grande adesso, posso aiutarti!
 
Rufy era stupido e poco accorto nella maggior parte degli avvenimenti e dei comportamenti, ma a volte era davvero, davvero empatico per quanto riguardava i suoi sentimenti. Questo gli faceva piacere e lo irritava alla stessa maniera perché non avrebbe mai voluto che il suo fratellino si preoccupasse per lui. Era il fratello maggiore, a lui spettava portare il peso delle situazioni. Eppure, spesso, capitava che fosse Rufy la sua ancora.

E aveva azzeccato anche questa volta. Ace non era stato felice di dover utilizzare il cognome di suo padre, a differenza di quello di sua madre con cui si presentava di solito. Ma erano documenti ufficiali, e ufficialmente non aveva mai chiesto il cambio. Finire nella base di un conoscente di Roger aveva solo peggiorato le cose. Ma il National Training Center di Fort Irwin aveva il tipo di addestramento avanzato che voleva e rinunciarci avrebbe davvero significato permettere a suo padre di influire ancora sulla sua vita.

I primi tempi erano stati difficili, perché non riusciva a fidarsi degli altri soldati. Aveva paura che lo vedessero non per quello che era, ma per quello che rappresentava. Anche a Fort Jackson, per l'Addestramento di Base per le Reclute, era stato così, ma almeno erano state solo dieci settimane, sapeva che difficilmente avrebbe rivisto i suoi compagni oltre quel tempo.

Il National Training Center di Fort Irwin era totalmente diverso, perché era dove aveva intenzione di passare almeno l'anno dell'addestramento obbligatorio, prima di una possibile entrata in guerra. Stare così a lungo con persone diffidenti senza poter condividere nulla era stato frustrante. Inoltre, era l'unico volontario della sua compagnia, di fronte agli altri che erano obbligati e non condividevano il suo entusiasmo. Perciò si limitava a fare il suo dovere e lo faceva al meglio.

Però poi Odr era venuto a parlargli e da quel momento era iniziato tutto. Era il migliore del corso, lo sapeva e lo sapevano tutti. Piano piano, si erano affidati a lui per migliorare ed Ace era ben contento di poter essere d'aiuto e di sentirsi importante. E di avere un gruppo con cui condividere la vitaccia da soldato. Non si era accorto di quanto evidentemente fosse stato rilassante per lui avere delle persone che poteva davvero considerare amici in quella base, lontano da Boston e da suo fratello. Rufy l'avevano notato anche prima che lo facesse lui.
 
Ma veniamo alle notizie positive. Tre giorni fa ho fatto un torneo di pugilato, una specie di audizione per un torneo più grande. E ho vinto! È stata una figata perché c'erano avversari davvero fortissimi provenienti da tutto lo stato.
Ma ce l'ho fatta! Sono stato scelto e andò a fare le selezioni per i nazionali! Ovviamente le Olimpiadi sono lontane, soprattutto adesso che c'è la guerra, ma in ogni caso sto iniziando a farmi conoscere! Te l'avrei detto prima e ti avrei chiesto se volevi venire, ma è stata una cosa improvvisa. Non importa, ci saranno altre occasioni per farmi delle foto. Magari potresti avere una licenza per i nazionali, sarebbe bello! Ti farò sapere. In ogni caso devi impegnarti all'addestramento perché se la guerra continua addio Olimpiadi. Conto su di te!
Ah, ti allego un articolo che hanno stampato sul torneo, parlano di me! È una cosa fighissima. Adesso il mio pugno è davvero forte come un colpo di pistola!
 
Ace frugò nella busta e ne estrasse l'articolo tagliato da uno dei giornali principali di Boston. A quanto pare Rufy non esagerava, era davvero l'occasione che aspettava per iniziare la sua carriera. Certo, era un articolo molto breve, ma si trattava comunque di un torneo giovanile, era una soddisfazione notevole. La scuola che Rufy frequentava non era famosa per aver creato dei campioni, probabilmente cercavano di spingere su un cavallo vincente.

Avrebbe voluto esserci a vedere Rufy vincere. Però aveva una missione da compiere, se voleva rispettare le ultime volontà di Sabo la prima cosa da fare era fermare la guerra in modo che le Olimpiadi riprendessero. E l'avrebbe fatto.

«Ehi, ragazzi!» chiamò. L'interno dormitorio si voltò nella sua direzione. «Guardate qui.» Alzò il ritaglio di giornale davanti a sé. «Mio fratello ha vinto un torneo e andrà ai nazionali. Hanno scritto di lui sul giornale!»

La stanza si riempì di  applausi e fischi d'approvazione. Ace parlava spessissimo del fratellino, molto più di quanto parlava di se stesso, e lo conoscevano tutti. Da amici, condividevano la sua soddisfazione per i successi di Rufy.

«Be', mi venga un colpo se non è una cosa di famiglia» commentò McGuy. «Volete lasciare qualche vittoria anche a noi oppure no?»

«Se lo chiedi gentilmente, ti manderò un biglietto per la cerimonia di premiazione» rispose Ace, guardandolo divertito.
«Mi pagherai anche il viaggio?»

«Adesso non allarghiamoci!»

Sentendo la confusione nel dormitorio, il Sottotenente Doma aprì la porta e tossì per attirare l'attenzione. «Stiamo per spegnere le luci» avvertì truce. «Non è il momento di fare confusione.»

Ace alzò gli occhi. Tra lui e Doma, che apparteneva ad un'altra compagnia ed era più anziano in termini di servizio, c'era stata subito rivalità, forse perché erano entrambi volontari ma i suoi risultati erano decisamente superiori, nonostante il minor tempo trascorso ad allenarsi. E Doma era uno dei pochi che considerava ancora importante chi fosse suo padre e glielo faceva presente ad ogni occasione.

Siccome era felice per i risultati ottenuti da Rufy, Ace era in vena di fare polemiche.  «Mi scusi, Sottotenente, potrebbe voltarsi un attimo?» domandò. Allo sguardo stupito che ricevette, spiegò: «Vogliamo vedere chi ha ragione qui, se lei è davvero così o ha una scopa su per il culo».

La scena era già abbastanza divertente in sé, ma i soldati cercavano di trattenersi. Era difficile farlo se si guardava la faccia di Doma, che era passata dalla sorpresa all'arrabbiatura, gonfiandosi nel tempo di tre secondi netti. Ace decise di aggiungerci un carico da undici. «Sa, non ci ho fatto caso perché non passo il tempo a guardarle il deretano, tanto per quello basta la sua faccia.»

L'intero dormitorio scoppiò a ridere, coprendo le grida di Doma che cercava di farli smettere promettendo terribili punizioni che non poteva mantenere, perché non aveva l'autorità per farlo. Ace rise compostamente. Considerava la serata decisamente riuscita, fra le buone notizie da Rufy e la soddisfazione che s'era preso nei confronti di Doma.

I soldati capirono che non era il caso di irritarlo più del necessario e, una volta che si furono calmati, si prepararono ordinatamente prima che arrivasse l'orario stabilito per lo spegnimento delle luci. Ace ripose la lettera di Rufy assieme al pacco delle altre precedenti, ma decise che l'articolo meritava un posto più speciale. Aveva portato con sé la foto di Sabo, per ricordarsi in ogni momento perché era nell'esercito e che sopportava le privazioni per una buona ragione. La teneva avvolta in una busta di stoffa affinché non si rovinasse e nello stesso posto ripose anche l'articolo, piegato accuratamente.
 
  
National Training Center Fort Irwin, 9 Giugno
 
Turno di guarda alla base. Due ore di ronda al buio attorno ai dormitori. Era impossibile che succedesse qualcosa e lo sapevano tutti, serviva solo per addestrare i soldati. Ace consciamente lo capiva, ma il suo corpo protestava per il fatto di doversi svegliare per due ore nel cuore della notte e di restare comunque inattivo. Fortunatamente nella base si trovavano abbastanza uomini per fare in modo che il proprio turno accadesse solo una volta a settimana e, se era fortunato, divideva il tempo con qualcuno di simpatico di qualche altra compagnia.

Quella sera non era stato fortunato, dato che gli era capitato Doma come compagno di turno. Il grado di Sottotenente non lo risparmiava da certi tipi di dovere. Però le due ore stavano per scadere e Ace riteneva una vittoria essere riuscito ad evitarlo fino a quel momento. Poiché mancavano pochi minuti, decise di finire il turno vicino al suo dormitorio, dove avrebbe dovuto chiamare il suo cambio se quest'ultimo non si fosse svegliato per tempo, cosa che succedeva spesso.

Girò l'angolo e si ritrovò faccia a faccia con Doma. «Mi stai evitando?»

«Non sufficientemente bene, a quanto pare» sospirò Ace. C'era fin troppo astio fra di loro per nasconderlo. Almeno avrebbe dovuto sopportarlo per pochi minuti.

«Oh, be', la cosa non mi stupisce.» Doma non sembrò impressionato dalla cosa. «Alla fine la codardia è di famiglia.»

Ace odiava che si facessero insinuazioni su suo padre e lo detestava soprattutto quando non avevano fondamento. Lo evitava per resistere alla tentazione di spaccargli la faccia, non per paura. Si limitò a scoccargli un'occhiata seccata e a cercare di superarlo per raggiungere il suo dormitorio, ma Doma gli sbarrò la strada.

«Codardo.»

«Dillo un'altra volta e forse rimpiangerai che non lo sia davvero» mormorò Ace pericolosamente.

«Ehi, che cattiveria. E io che volevo fare solo un attimo conversazione.» Ace lo guardò con uno sguardo da “non me la bevo” e tentò nuovamente di proseguire. «Soprattutto su questa foto.»

Era buio, ma per Ace fu immediatamente chiaro a che fotografia si riferisse. Il solo pensiero che l'avesse in mano lui era insopportabile. Sapeva che c'erano rischi di furti nei dormitori, motivo per cui non aveva portato con sé la sua macchina fotografica, ma non aveva mai pensato che si potessero attaccare a qualcosa di così poco valore. Anche se per lui aveva un valore inestimabile. «Ridammela.»

«Mi stavo chiedendo perché la conservassi con tanta cura» continuò Doma, facendo un passo indietro per mettersi lontano dalla portata del suo braccio. «Non è tuo fratello, no?» Come osava. «Allora chi è? E mi pare un po' piccolino per, insomma... Ho visto soldati tenere così solo le foto delle proprie ragazze.» Come osava.

«Ridammela.» Il tono di Ace si era fatto basso. E parlava lentamente. Doma poteva non conoscere la storia che intercorreva fra lui e il soggetto nella foto, ma avrebbe dovuto essere più sensibile e attento alle reazioni che stava causando. Invece non riuscì a prevedere quello che sarebbe successo: sorrise e strappò la foto a metà.

I due  pezzi non fecero in tempo a cadere a terra che Ace gli era già addosso. Lo gettò a  terra, si sedette su di lui e lo prese a pugni finché  non avvertì il sangue sulle nocche delle mani. Allora si alzò e quando vide che cercava di rimettersi in piedi lo colpì ancora, al torso. Doma alzò le braccia per proteggersi, ma arrivò il punto in cui non ce la fece più. Gli stava pregando di smetterla piangendo.

Il sangue che era affluito alla testa lentamente tornò a scorrere normalmente ed Ace fissò quello che aveva fatto con distacco. Non era stata una buona idea, una cosa del genere poteva costargli il congedo dall'esercito con disonore. Credeva di essere diventato più paziente durante l'addestramento, ma bastava che qualcuno gli toccasse la famiglia e non riusciva più a ragionare. Forse era davvero come suo padre, dopotutto.

Raccolse le due parti della fotografia strappata e lasciò Doma lì, senza aggiungere una parola. Girò l'angolo per il suo dormitorio e si ritrovò davanti a Squardo. Lo sguardo terrorizzato gli fece immediatamente capire che aveva visto tutto.

«Che cosa hai fatto?» esalò.

«Mi ha provocato.» Ace sapeva che come giustificazione suonava debole, anche se era la verità. Avrebbe dovuto addentrarsi in maggiori spiegazioni riguardo al perché si fosse arrabbiato, ma non voleva farlo. «Non lo dirai a nessuno, vero?»

Squardo deglutì. «Ma... Anche se non lo faccio, lui sa che sei stato tu e... e...»

«La sua parola contro la mia. E tutti sanno che mi odia.» Ace gli diede una leggera pacca sulla spalla e lo superò. «Conto su di te.» Era di certo più sicuro di quanto appariva, perché sapeva di essere stato stupido.

Lasciò Squardo al suo turno di guardia, rimise la foto strappata al suo posto, sollevato che l'articolo di Rufy fosse ancora integro all'interno, e si sdraiò a letto. Non riuscì a dormire, però. Maledisse se stesso e il suo atteggiamento: per proteggere un pezzo di carta poteva aver perso l'occasione di vendicare sul serio suo fratello.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 1941 - Parte II ***


1941 - Parte II
 
 
National Training Center Fort Irwin, 14-15 Giugno
 
Quando Marco interruppe gli allenamenti della sua compagnia prima del tempo perché doveva parlare loro, tutti capirono che si trattava di una questione seria. L'orario riservato per le comunicazioni e i problemi era dopo cena, chiaramente se sentiva la necessità di convocarli fuori programma voleva dire che era importante.

Ace mormorò una maledizione fra i denti quando vide avvicinarsi un altro dei Colonnelli di Brigata, Satch, che si occupava della compagnia di Doma, accompagnato proprio dal diretto interessato. Anche se nessuno parlava, tutti avevano l'impressione di sentire il cervello degli altri che lavorava a pieno regime. Sapevano che il Sottotenente Doma era finito in ospedale, ma nessuno aveva scoperto le circostanze attorno a quell'incidente e vederlo così, con il volto tumefatto ed entrambi le mani ingessate, non poteva lasciare indifferenti sull'accaduto.

«Sicuro che lo vuoi gestire tu?» domandò Satch.

Marco annuì. «È la mia compagnia.» Si voltò e si rivolse al gruppo dei soldati perfettamente allineati di fronte a lui. «Vedete tutti il Sottotenente Doma. Cinque giorni fa è stato aggredito durante il suo turno di guardia. Inutile dire che il colpevole può essere solo qualcuno all'interno della base.» Aspettò qualche minuto affinché la notizia potesse essere recepita da chiunque in tutta la sua gravità. Vedeva degli sguardi stupidi, alcuni quasi orripilati, ma era solo uno che gli interessava. «Soldato Squardo, un passo avanti.»

Lui obbedì, ma con lentezza. Era in prima fila, quindi gli bastò fare davvero solo un passo per allontanarsi dal resto della fila, ma fu un movimento molto lungo.

«Il soldato Squardo ha assistito all'intero incidente. Vuole condividere con noi il nome del colpevole?»

«Sissignore.» Parlava anche con lentezza. Lo sguardo era puntato in avanti, ma i suoi occhi guardavano in basso. Nonostante fosse con la schiena voltata verso il resto della compagnia, sentiva bene che tutti erano concentrati su di lui.  «È stato il soldato Gol D. Ace.»

Ace chiuse gli occhi ed emise un sospiro appena accennato. Aveva capito che era finita nel momento esatto in cui il Colonnello Satch si era presentato con Doma, ma averne la conferma definitiva era stato comunque sconvolgente; soprattutto perché veniva dalla bocca di un suo amico. Non ascoltò il resto della testimonianza, ma cercò di trovare un modo con cui poteva uscirne senza venire dismesso dall'esercito. Quando fu invitato a presentarsi davanti, non aveva ancora una soluzione.

Marco lo fissò intensamente. Le sue preoccupazioni si erano avverate e nella maniera peggiore possibile. Un'aggressione non era una cosa tollerata e salvare il salvabile avrebbe richiesto tutta la sua diplomazia. Cercava di capire che cosa potesse passare nella mente di Ace, ma come al solito quel ragazzo era un mistero per lui.

«Soldato, come risponde alle accuse che le sono state rivolte?»

«Non ho niente da dire» rispose Ace. Poteva quasi sentire i pensieri degli altri. Ovviamente era tutto nella sua immaginazione, ma era certo di non essere tanto lontano dalla verità. Non aveva fatto espressioni strane, ma aveva fissato tutti comunque negli occhi. Era Squardo che non riusciva a guardarlo.

«Quindi nega che queste accuse siano vere?»

«Non ho niente da dire» ripeté Ace.

«Be', non credo che ci sia bisogno di aggiungere altro!» gridò Doma.

«Ha diritto a rimanere in silenzio, se vuole...» commentò Satch, che osservava tutto l'intero svolgersi della situazione perplesso. Non capiva cosa avesse in mente il suo collega e per quale motivo si stesse comportando in quella maniera.

«Credo che capisca bene che a questo punto non ci resta che rivolgersi al tribunale militare» proseguì Marco, ignorando totalmente la sfuriata di Doma. «Ovviamente avrà diritto ad un avvocato, ma non credo che le cose cambieranno, a meno che non abbia delle prove diverse.» Attese due minuti, ma pareva che Ace non avesse nulla da aggiungere. Si limitava  a stare dritto e a fissarlo. Allora sospirò e fece per svoltarsi. «Pare che sia vero, tale padre tale figlio...»

«Scusi?» Per la  prima volta, gli occhi di Ace avevano mandato un lampo d'interesse per l'intera faccenda. Marco sapeva benissimo che l'avrebbe ferito e sapeva anche che avrebbe detto cose che non pensava. Non gli sarebbe importato perdere la sua stima, se fosse servito a non perdere lui come soldato.

«Credo che abbia sentito benissimo» rispose Marco. La voce si era fatta diversa, meno dura, ma in un certo senso più tagliente. «Non possiamo escludere qualcuno a priori solo per le sue origini, ma viste le conseguenze, forse sarebbe il caso.»

Ora, ad Ace Marco piaceva. Lo prendeva in giro come facevano tutti negli spogliatoi perché aveva una capigliatura improbabile e perché era estremamente severo, ma aveva anche compreso che era competente nel suo lavoro e gli era grato per ciò che gli aveva insegnato. Le sue opinioni non andavano oltre quelle del suo ruolo come insegnante, ma in quel momento lo stava giudicando come persona.

«Io non sono mio padre!» affermò con  forza.

«Sicuramente una condanna per aggressione contribuirà a sostenere la sua tesi» commentò Marco sarcastico.

«E sicuramente vincerete la guerra con gente come Doma appresso.» Il cervello di Ace era partito per la tangente. Era sempre così, quando si nominava suo padre, ma la maggior parte delle volte riusciva a controllarsi. La tensione del momento e le provocazioni di Marco erano state sufficienti. «Quest'imbecille è qua da due anni e le sue valutazioni sono peggio di quelle di tutti noi che siamo qui da sei mesi. L'avete promosso perché è quasi d'obbligo, ma è un incompetente.»

«Come osi!»

Ma Satch mise la mano in avanti per fare segno a Doma di tacere. «Non sta dicendo altro che la verità.»

Anche Marco alzò la mano verso il collega, per fargli segno che se ne poteva occupare lui. Si era fermato e stava ascoltando ogni parola con attenzione. Capiva che era una sfuriata data dalla rabbia e dalla disperazione, ma poteva essere l'occasione che aspettava per capire un po' di più quali erano i sentimenti di Ace.

«Mi ha provocato dal primo momento in cui sono arrivato qui, perché sono dannatamente meglio di lui in tutto. Be', non che ci voglia molto, siamo tutti meglio di lui.» I soldati si sentirono in dovere di annuire appena: nonostante l'intera situazione li mettesse a disagio, su quello erano d'accordo. Doma era un incompetente che sfogava la sua frustrazione su coloro che erano meglio di lui.

«Volete cacciarmi dall'esercito perché gli ho dato la lezione che si meritava? Fatelo, non m'importa! Voglio andare in Francia e ci andrò, anche da solo.» Poi si rese conto che stava dicendo troppo, perché Marco aveva cambiato per la prima volta espressione da quando aveva iniziato a parlare. Sospirò e riprese il discorso principale. «Sono il miglior soldato di questa base e dovreste chiedervi se vi conviene perdermi per tenervi questo.»

«È parecchio presuntuosa, come affermazione.» Marco aveva fatto un leggero sorriso ironico e gli occhi gli si erano accesi di una strana luce. Finalmente sentiva di essere vicino ad un qualche tipo di risultato e non intendeva perdere la presa.

«È la verità.» Ace sapeva di essere il migliore, aveva visto i risultati. Aveva aiutato gli altri e non aveva intenzione di vantarsi davanti a loro, perché alla fine ciò che lo interessava era diventare in grado di combattere per ottenere i suoi scopi, non vincere un qualche tipo di record. Ciò non significava che non gli piacesse sentirsi riuscire bene in quello che faceva.

«Allora dimostralo.»

«Come?» domandò Ace, sbattendo leggermente le palpebre.

Marco incrociò le braccia. «Hai detto che non dovremmo perdere un soldato come te, che sei il migliore.» Sapeva già che aveva ragione, ma non l'avrebbe ammesso così facilmente. «Allora dimostrami che davvero non dovrei mandarti subito davanti ad un tribunale.» Doma provò ad intervenire, ma nuovamente fu fermato da Satch, che però capiva sempre di meno la situazione.

«Che cosa stai facendo?» gli domandò, con una certa urgenza. Marco non gli diede soddisfazione nemmeno di una risposta.

Se c'era qualcosa che impediva ad Ace di tirarsi indietro, era una sfida diretta. Per di più, si trattava di provare il suo desiderio di andare in Francia, e non poteva arrendersi. «Certo. Che cosa devo fare?»

«Iniziamo con delle flessioni.»

Ace gli scoccò un'occhiata superiore. Bastavano delle flessioni a fare un buon soldato? Forse lo stava sottovalutando. In ogni caso, si chinò, si mise in posizione e cominciò. Le contava mentalmente. Dato che non gli era stato dato un numero preciso, era curioso di vedere fino a che numero l'avrebbe fatto arrivare.

Respirava piano e compiva ogni movimento senza affrettarsi. Stendeva completamente le mani ed espirava, quindi si abbassava inspirando. Non aveva mai fatto così tante flessioni  come nel periodo dell'Addestramento di Base per le Reclute, ma era comunque un esercizio standard a casa Monkey D. Garp, per  cui non erano mai state un problema, al massimo una seccatura.
Arrivato a cinquecento in un'intera botta, senza nemmeno potersi fermare a riposare, doveva però ammettere che iniziava a stancarsi. Era difficile mantenere il respiro composto e le mani, poggiate fisse sul terreno, formicolavano, ma non poteva muoverle o avrebbe rischiato di perdere il ritmo. E i muscoli delle braccia iniziarono a protestare.

Fino a quel momento c'era stato silenzio attorno a lui, ma improvvisamente si sentì della confusione. Pochi attimi dopo, suonò la campana che avvertiva che erano le cinque. L'orario di cena. Infatti le altre compagnie presenti alla base vi si stavano tutte recando, ma molti uomini si fermavano per la strada incuriositi da ciò che stava succedendo.

«È vero, è tardi» affermò Marco, rivolgendosi al resto dei soldati. «Potete pure andare in mensa.» Nonostante il tono gentile, tutti compresero che era un ordine ed obbedirono. «Soldato Doma, anche lei, prego.»

«Non posso credere a quello che hai fatto!» esclamò Odr una volta che furono abbastanza lontani dalle orecchie  del loro comandante.

«Ma che cosa dovevo fare?» protestò Squardo. «Ha picchiato un altro soldato, per di più suo superiore. Non è una cosa normale.»

«In effetti ha ragione» intervenne McGuy. «Dobbiamo aspettarci che reagisca così anche con noi, se per caso lo contrariamo?»

«Oh, smettetela. Lo sapete che Doma è sempre stato una testa di cazzo.» Odr sbuffò e superò i suoi compagni. Avrebbe difeso Ace anche a costo di rimetterci la sua, di carriera. Era abbastanza sicuro che ci fosse una motivazione dietro.

«Be', in effetti credo che sia stato provocato...» ammise Squardo.

«Ecco! Vedi?» Odr si fece raccontare com'era andata tutta la scena, poi lasciò il gruppo. «Andate a mangiare voi, vi raggiungo fra poco.» Aveva intenzione di provare a parlare direttamente con il Generale Newgate.

Ace invece non riusciva a pensare ad altro che al cibo. Forse perché il suo metabolismo aveva capito che ore erano e protestava con tutto se stesso per non essere stato ancora nutrito, ma fare flessioni diventava sempre più difficile. Non aveva ancora fatto una pausa da quando aveva iniziato, ma sentiva che il ritmo si era fatto per forza di cose più lento. Appena indugiava, però, diventava difficile rialzare le braccia. Quando le piegava, il suo corpo cercava di buttarsi a terra per riposarsi, e doveva fare maggiore resistenza per tenersi in equilibrio. Ma non avrebbe smesso nemmeno per un attimo, piuttosto sarebbe crollato svenuto.

«Ah, Jaws, Vista, per favore» sentì Marco chiamare gli altri due Colonnelli di Brigata. «Potete aiutarmi con un paio di cose?»

«Certamente» rispose Vista. «È per quello che ci hai detto?»

«Sì. Sistematele come le mettiamo di solito, dovrebbe andare bene.»

Ace sperò per un attimo che quel dialogo indicasse che Marco doveva occuparsi di altre cose, invece non accadde nulla. Dovette continuare a fare flessioni con l'impressione che le braccia si sarebbero spaccate a metà, prima o poi. Nel momento in cui ebbe la certezza che non sarebbe più riuscito ad alzarsi, Marco lo fermò. «Basta così.»

Ace balzò in piedi un po' troppo di scatto, lo capì dal dolore alle articolazioni che ne conseguì, ma non voleva dare l'impressione di essersi stancato così tanto. Osservò il mucchio di armi che uno degli altri comandanti aveva accatastato in quella zona: immaginava che non bastasse così poco per vincere questa sfida.

«Che cosa devo fare?» domandò, anticipando qualsiasi ordine.

«Prendi questi.» Marco si abbassò e prese il fucile, che gli passò. «È tutto l'equipaggiamento standard per un soldato.» Era già capitato che facessero esercizi con l'armamentario indosso, ma quella era decisamente più roba del solito. Armi, munizioni, bombe, granate, cibo e medicinali di scorta. Non sembrava, ma avere tutto indosso aumentava notevolmente il peso.

«Così è come saresti in una guerra vera. Vediamo come te la cavi.» Marco indicò il percorso di guerra. Ad un'occhiata rapida, ad Ace sembrava essere aumentata la difficoltà, forse perché nel pomeriggio era stato utilizzato da una compagnia con più mesi di allenamento alle spalle. Inoltre, erano stati messi i manichini che simboleggiavano i nemici a cui era necessario sparare mentre ci si muoveva all'interno del percorso, ed erano più numerosi del solito. Marco prese il cronometro. «Subito.»

Per Ace il percorso di guerra non era un problema, forse perché suo nonno usava spesso abbandonare i due nipoti in campagna dove se la dovevano cavare da soli. Sapeva che poteva completarlo in fretta, anche se non era abituato a quella velocità. La sua mira nello sparo con il fucile era ottima, non precisa come quella di alcuni cecchini, ma nel caso di un manichino bastava a colpirlo. Ed era rapido a ricaricare il fucile.

Si accorse subito di aver sopravvalutato le sue forze. Aveva perso il conto del numero di flessioni che aveva fatto, ma gli fu chiaro che gli arti avevano accusato lo sforzo e adesso rispondevano male ai suoi comandi. Ricaricare il fucile e prendere la mira era difficile con le braccia doloranti e le gambe ci mettevano più tempo a riprendere il ritmo della corsa. Quando terminò il percorso, aveva il fiatone, cosa che non gli era mai successa.

«Di nuovo» disse Marco, azzerando il cronometro. Non pareva impressionato. «E stavolta impiegaci cinque minuti di meno.» Ace lo maledì mentalmente, ma annuì. Riprese le munizioni per sostituire quelle che aveva utilizzato e iniziò il percorso.

Marco continuava a controllarlo con la coda nell'occhio, mentre osservava le varie compagnie che stavano lasciando la mensa e si stavano ordinatamente sistemando nello spazio davanti alla zona di allenamento.

«Che cosa significa?» domandò Marco ai colleghi Colonnelli, che si erano posti al suo fianco.

«Abbiamo deciso che le compagnie possono osservare, come lezione di oggi, anziché far loro il solito discorso» commentò Satch. Poi gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio: «Non è quello che vuoi, alla fine?».

«È un ordine del Generale» aggiunse Izou. Gli rivolse un sorriso complice: sapeva bene che dietro quel comportamento c'era una sorta di accordo fra i due.

Marco annuì, quindi si rivolse ai soldati sotto la sua responsabilità: «Oggi non ho tempo di dirvi niente, restate pure a guardare».

Ad Ace non importava avere pubblico, anzi. Se doveva dimostrare qualcosa, tanto valeva farlo davanti a tutti. Ciò l'avrebbe spronato a dare il massimo per non fallire. Doveva però ammettere che era sempre più difficile. Ad ogni percorso gli veniva ordinato di completarlo in sempre meno tempo, senza un attimo di riposo tra l'inizio e la conclusione, mentre le sue braccia e le sue gambe diventavano sempre più stanche.

Non aiutava il fatto che Marco lo riprendeva ogni qual volta la stanchezza lo rallentava. “Se fossi davvero in battaglia ti avrebbero già mitragliato”, se si attardava su un pezzo aperto. “Se non uccidi subito loro uccideranno te”, quando la mira non era abbastanza precisa. “Saresti morto su una mina” ad ogni sbilanciamento sulla zona del filo minato. “Ti pare la corsa di un soldato?” per via dell'inciampo dovuto alle gambe doloranti.

Per i soldati era difficile rimanere a guardare Ace che continuava a correre in questo percorso di guerra, sempre più veloce nonostante la stanchezza. Ad un certo punto Vista diede voce a quello che tutti pensavano: «Non starai esagerando?». Marco non diede loro la  soddisfazione di una risposta e continuò a controllare il cronometro e a lanciare ordini ogni qual volta Ace commetteva un errore.

Odr era irritato e, quando non aveva lo sguardo fisso su Ace, scoccava occhiatacce a Squardo e Doma, il quale stava mostrando insofferenza di fronte all'intera situazione, ma non osava lamentarsi. Quando il Generale in persona si unì all'intero gruppo, sperò che fosse venuto per mettere la parola fine a quella farsa, dopo aver conosciuto anche l'altra versione dei fatti che lui stesso gli aveva raccontato.

Invece Newgate aveva intenzione di fare solo da spettatore. «Soldati, avete sforato nel vostro tempo libero. Se volete, potete andare a fare ciò che volete. Be', nei limiti, ovviamente!» Erano già le otto di sera, un'ora di libertà prima dello spegnimento delle luci, il periodo di tempo più atteso. Ma nessuno si mosse, continuarono tutti a fissare il percorso di guerra.

«Oh, questo è ridicolo!» sbottò Doma, alla fine. «Mi ha aggredito, deve andare davanti ad un tribunale e basta.»

«Ho saputo che le cose non sono andate esattamente come lei ci ha raccontato.» Newgate sembrava non averlo ascoltato, invece gli rispose, anche se parlava senza guardarlo. «Sicuramente si è trattato di un reato grave, tuttavia vorrei essere sicuro prima di perdere un soldato promettente. E ne sto vedendo uno proprio adesso.» Doma rimase in silenzio.

L'arrivo del Generale aveva preoccupato Ace. Non conosceva i particolare sui trascorsi fra lui e suo padre, ma si conoscevano, questo era certo. Ace non sapeva cosa pensasse del fatto che era suo figlio. Di certo però immaginava che non fosse il caso di dimostrare delle debolezze. Inconsciamente, aumentò il ritmo.

Così, però, raggiunse più velocemente il limite e alla fine il suo corpo cedette. Stava salendo la parete di legno appeso alla corda, normalmente una sciocchezza per lui, quando le braccia non riuscirono più a reggerlo e cadde rovinosamente al suolo. Quando si rialzò, sentì le gambe che gli tremavano. Ma non poteva arrendersi, quindi afferrò nuovamente la corda e ci riprovò. Si sentì di nuovo cedere ma stavolta riuscì a tenersi appeso per una mano ed agitò le gambe per aiutarsi a rimanere in equilibrio.

Odr rivide la giornata di qualche mese fa, quando si era ritrovato nella stessa situazione, con la differenza che Ace stava facendo quel percorso per l'ennesima volta, dopo un'intera giornata di allenamenti. Era quasi disumano e lui soffriva a non poter essere al suo fianco, ad aiutarlo, per una volta.

Quando vide Ace cedere di nuovo e di nuovo riuscire a mantenersi in equilibrio precario con una mano, il suo corpo reagì quasi senza riflettere. «Forza, Ace! Puoi farcela!» Un secondo dopo se ne pentì, perché lo sguardo di tutti era concentrato su di lui.

«Siete nel vostro orario libero, potete fare quello che volete» commentò Newgate, alzando le spalle. Allora Odr si voltò e riprese ad urlare.

Ace l'aveva sentito benissimo la prima volta e aveva afferrato la corda con entrambe le mani. “Idiota” pensò, ma strinse i denti e riprese la salita. Inizialmente non se n'era accorto, ma la voce di Odr non era più l'unica. Quando finalmente riuscì ad aggrapparsi sulla cima della parete, tutte le compagnie gridarono contemporaneamente come durante un home run. Ma il percorso di guerra era ancora da completare, per cui Ace si concesse solo un rapido sorriso e poi riprese a correre.

Doveva ammette che non pensava di farcela: aveva perso molto tempo in quella maledetta parete e non riusciva più a correre come prima, però non si sarebbe arreso finché gli restava una possibilità, soprattutto considerando tutte le persone che stavano facendo il tifo per lui. Quando superò la linea del traguardo, però, aveva solo voglia di gettarsi per terra e non svegliarsi mai più. Il resto del soldati applaudì fragorosamente, ma Ace sapeva che non aveva ancora vinto.

«Ho fatto in tempo?» domandò.

Marco annuì.

«Direi che così è sufficiente, vero?» disse allora Newgate, sorridendo.

«Per me lo è.»

Ace non fece nemmeno lo sforzo di impegnarsi, si lasciò cadere a terra a peso morto tanto era il sollievo. Per un attimo, aveva seriamente pensato che gli sarebbe stato ordinato di fare un altro giro e sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Odr era al suo fianco per aiutarlo a sollevarsi e allora si aggrappò a lui per tenersi in equilibrio mentre riprendeva fiato. Gli altri soldati gli davano pacche sulle spalle e gli stringevano la mano. Lui sorrideva a tutti, ma non aveva la forza di ringraziarli.

Una volta recuperato fiato a sufficienza, si staccò dalla spalla di Odr e verificò di riuscire a camminare in maniera appena decente. Si fece largo fra il gruppo scusandosi e ringraziando contemporaneamente, per dirigersi verso il generale. Doma era lì, in piedi, pallido e impietrito. Ace chinò il capo davanti a lui.

«Mi dispiace, ho sbagliato» disse. «Non voglio lasciare l'esercito, ci tengo troppo.» Doma non rispose, si limitò a lanciare delle occhiate tese ai Colonnelli di Brigata, come se loro potessero dare la risposta al posto suo.

«Abbiamo superato l'orario limite» affermò allora Newgate. «Tornate tutti alla base. Soldato Doma, soldato Gol D., venite con me.» Senza aggiungere altro si avviò verso la jeep.

«Avanti, ragazzi, vi siete alzati alle quattro oggi» commentò sorridendo Satch, che aveva notato i mormorii delusi dei soldati che erano curiosi di sapere come si sarebbe conclusa la vicenda. Mentre l'intero gruppo si avviava verso i dormitori, si voltò verso Marco e gli lanciò un'occhiata complice. «Pare che le cose siano andate come volevi.»

«Ho fatto tutto quello che potevo» commentò Marco. «Ma non è stato solo merito mio. E tu hai applaudito» aggiunse, scoccandogli un'occhiata divertita.

«Tutti l'abbiamo fatto» si giustificò Satch, allargando le braccia.

Ace non sapeva che cosa pensare. Il suo corpo doleva da qualsiasi parte e aveva polvere e fango anche in posti che non sapeva di avere, ma l'ansia lo teneva sveglio e attivo. D'altronde, sembrava che il suo destino fosse nelle mani di un uomo che lo odiava. Il Generale non disse nulla fino a che non furono nel suo ufficio, ma anche Doma era silenzioso e non l'aveva guardato nemmeno per un attimo.

«Quello che ha fatto è molto grave» disse, una volta accomodatosi sulla enorme poltrona della sua scrivania. «Mi hanno detto che sei stato provocato. Non che la cosa possa essere una giustificazione, comunque. Ma è vero?»

Ace annuì.

«Puoi dirmi per quale motivo?»

«Se possibile, no» rispose Ace. Non voleva parlare di Sabo. Aveva l'impressione che avrebbe perso di significato farlo. Anche Doma taceva, ma Newgate non gli chiese nulla comunque.

«Se è qualcosa che ha a che fare con tuo padre, lascia che ti dica una cosa» disse.

«Lei pensa che c'entri mio padre?» lo interruppe immediatamente Ace. «Non è così!» Roger aveva influenzato la sua vita in maniere che non aveva previsto, ma non tutte le sue decisioni erano dipese da lui. Quella specifica di arruolarsi nell'esercito aveva come motivo una persona molto più importante per lui di quanto suo padre sarebbe mai stato. «Quella foto rappresenta una promessa che ho fatto a me stesso, ma non ha niente a che fare con mio padre.» Fece uno sbuffo. «Di lui non m'importa nulla, figuriamoci.»

Newgate lo guardò con una sorpresa accennata negli occhi. «Meglio così. Tu sei una persona completamente diversa da lui, sarebbe un peccato se ti facessi influenzare da ciò che gli è successo.» Annuì, in approvazione. Poi, per la prima volta, si rivolse direttamente a Doma. «Gol D. Ace è il miglior soldato che mi sia capitato di vedere da anni. Penso che rinunciarci sarebbe un peccato per l'intero esercito degli Stati Uniti, soprattutto con la situazione mondiale in queste condizioni. Tuttavia, non possiamo nascondere ciò che è successo. La scelta è tua» concluse. «Se deciderai di proseguire con la denuncia, non avrò alternative che appoggiarla.»

«Non c'è niente da denunciare.» Doma aveva finalmente parlato, dopo quel silenzio forzato, ma la voce era sicura. Doveva aver pensato molto a quello che voleva dire. «Mi sono fatto male durante l'addestramento, succede. Sono stato imprudente.»

«Mi fa piacere sentirlo.» Newgate fece un cenno col capo. «Ma sono sicuro che non ricapiterà.»

Ace, che aveva fissato Doma con gli occhi spalancati, davvero sorpreso per quello che aveva detto, si riscosse. «No, signore, non ricapiterà!» confermò. «Grazie» aggiunse, abbassando il capo.

Doma fece un accenno di sorriso. «Vorrei essere bravo la metà di te e avere una simile considerazione da parte dei superiori» sussurrò.

«Bene.» Newgate si alzò. «Vieni con me, soldato Doma, ti faccio accompagnare al tuo alloggio.» Poi si rivolse ad Ace. «In fondo al corridoio, l'ultima porta, c'è la mia stanza. Puoi approfittare del mio bagno così non disturberai il resto dei soldati nel dormitorio.»

«Sissignore, grazie.» Ace non sapeva come il Generale avesse capito che necessitava di una doccia, ma probabilmente dipendeva dalle condizioni in cui era. Abbassando la testa, tra l'altro, notò che aveva lasciato una scia di impronte infangate per la stanza. Si levò gli stivali e li tenne in mano mentre camminava scalzo fino a dove gli era stato indicato, poi li gettò in un angolo assieme ai vestiti sporchi. I primi getti della doccia che scendevano nello scarico erano neri come la pece, poi pian piano la sua pelle tornò al suo colore naturale.

Il caldo e il vapore gli stavano facendo venire sonno, ma cercò di resistere alla sua narcolessia finché non fu sicuro di essersi liberato di tutto il fango, quindi uscì. Nella stanza trovò una sua divisa pulita e anche degli asciugamani: non si poteva sentire più felice. Si asciugò e si vestì in fretta per non occupare troppo a lungo la camera del Generale, ma quando uscì non c'era nessuno in vista. Si recò quindi a passo svelto nel dormitorio già buio, ma scoprì che i suoi compagni erano tutti svegli e lo stavano aspettando.

«Sono ancora qui» disse solo. Immaginava che volessero sapere i particolari, ma non ne aveva la forza. Non appena si mise sul letto, crollò addormentato.

Quando si risvegliò, il giorno successivo, il sole era già alto e non c'era nessuno nel dormitorio. Ace si era alzato di scatto, pensando come poteva essere possibile che nessuno l'avesse svegliato per l'addestramento. Poi, mentre i suoi muscoli protestavano, si ricordò che era domenica.

«Che fortuna!» esultò. Non era sicuro che avrebbe potuto resistere ad un'altra giornata di allenamenti senza avere la possibilità di riprendersi.

Oltre ai suoi muscoli, anche lo stomaco aveva deciso di dolergli, dopotutto aveva saltato la cena e la colazione e probabilmente era tardi anche per pranzo. Per cui si lavò in fretta, ringraziando chiunque avesse lavato la sua divisa al posto suo, e si diresse verso la sala mensa nella speranza di poter trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

E lì pensò che la giornata forse non era iniziata così tanto bene come pensava, perché la stanza era vuota, tranne il Colonnello Marco che leggeva e contemporaneamente sgranocchiava qualcosa. «Signore» lo salutò con un cenno del capo, quindi decise di ignorarlo per rivolgersi a Zeff, il capo-cuoco della mensa. Come Shanks, aveva perso un arto per salvare la vita di suo figlio ed era tramite quella somiglianza che Ace aveva fatto amicizia con lui, cosa che gli garantiva sempre una porzione extra ai pasti.

«Quante volte devo dirvi che la domenica dovete avvertirmi se rimanete qui?» gli disse, colpendolo in fronte col manico del coltello. «Non c'è più niente da mangiare.» Poi ridacchiò all'espressione affranta di Ace, scosse la testa e aggiunse: «Fortunatamente il Generale me l'ha comunicato al posto tuo. Un attimo ed è pronto».

«Non si fanno questi scherzi!» protestò Ace, che per un istante aveva seriamente pensato di darsi al cannibalismo. E sapeva anche esattamente chi avrebbe potuto mangiare, anche se non era tanto in carne.

«Speri che prima o poi prenda fuoco?» domandò Zeff, riferendosi alle occhiate non proprio amichevoli che ogni tanto lanciava a Marco.

«Be', magari.» Ace era irritato dalla sua presenza. Già non aveva idea di come sarebbero andati gli addestramenti ora che c'era stata quella vicenda fra di loro, non aveva grande voglia di dividere una stanza da solo con lui. Era vero che la maggior parte dei Colonnelli rimaneva alla base anche di domenica, a differenza dei soldati che ne approfittavano per passare il tempo in città a rilassarsi, ma doveva proprio stare in sala mensa? «Quello non mi sopporta.»

«Già, hai ragione.» Il tono con cui Zeff l'aveva detto indicava che pensava l'opposto. «Infatti non ti ha salvato il culo facendoti fare bella figura davanti a tutti ed evitandoti la corte marziale.» Gli pose davanti il vassoio pieno. «E per di più non ha convinto Doma ad aspettare il sabato, dandoti l'intera domenica per recuperare.»

Ace prese il vassoio con difficoltà e si sedette ad uno dei tavoli, riflettendo sulle sue parole. Era vero che senza quella sfida probabilmente Doma l'avrebbe denunciato, però come poteva Marco essere sicuro che sarebbe riuscito a vincere? Alla fine era merito suo che ce l'aveva fatta. Poi diede un'occhiata al vassoio e la saliva che gli si formò in bocca fu sufficiente a fargli dimenticare l'intera questione. Erano bistecche, bistecche vere alte cinque centimetri. Esattamente quello che ci voleva per recuperare.

Aveva appena tagliato il primo boccone con un po' di difficoltà perché le braccia dolevano ancora, quando sentì muoversi una sedia: Marco si era appena accomodato di fronte a lui. Lo fissò stupito con la forchetta con la carne ancora in mano, finché lui non disse: «Forse dovresti saltare anche il pranzo. A volte capita che i soldati in guerra debbano rimanere a digiuno». Pose davanti, sul tavolo, uno degli snack vitaminici che venivano dati in dotazione. «Questo dovrebbe bastarti.»

Ace continuò a fissarlo con la forchetta in mano. Sentiva l'odore delle bistecche nel naso e si chiedeva se davvero avrebbe dovuto rinunciarci. L'espressione di Marco era seria. Allora gettò la posata sul piatto, seccato. «Certo che per uno che vuole aiutarmi, lei si comporta davvero come un grandissimo pezzo di merda!»

Zeff fece cadere la pentola che stava lavando, da quanto aveva alzato la testa di scatto a quella frase. Marco, invece, dopo averlo fissato per un attimo, scoppiò a ridere. «Immagino che ieri tu abbia pensato ben di peggio.»

«Decisamente» rispose Ace, con sincerità. Non sapeva come interpretare quell'improvviso scoppio d'ilarità.

«Me lo sono meritato, credo.» Marco gli fece cenno con la mano che poteva servirsi ed Ace non se lo fece ripetere due volte e si gettò sulla prima bistecca. La divorò in fretta, al punto da sentirsi lo stomaco già pieno, perciò bevve mezzo litro d'acqua tutto assieme e poi ruttò sonoramente. Se il comandante aveva intenzione di continuare a fissarlo, fatti suoi.

«Quindi è vero che lei ieri ha cercato di aiutarmi?» domandò allora. Non si sentiva più a disagio, ma dato che era lì, tanto voleva approfittarne.

«Non sembrava, eh?»

«Per niente!»

Marco rise ancora. Ace lo fissò estasiato. Come addestratore, l'aveva sempre ammirato, ma rispetto ad altri suoi colleghi era uno dei più seri e ligi al dovere. Guardarlo mentre rideva era strano ma piacevole, era come scoprire la persona dietro il comandante. Era interessante.

«Insomma...» cercò di spiegare il suo punto di vista. «È stata davvero dura. E se avessi fallito?»

Marco evitò di dirgli che aveva mentito praticamente sempre sui suoi tempi di arrivo; anche se erano stati comunque notevoli lui aveva richiesto l'impossibile e lo sapeva. «Ti ho addestrato io in questi mesi, ero certo che ce l'avresti fatta» affermò. «Credimi se ti dico che sei il miglior soldato che mi sia mai capitato in anni di lavoro. Non volevo perderti.»

Il Colonnello si lasciava andare in complimenti del genere molto raramente. Uniti a quelli del Generale la sera precedente, Ace aveva decisamente aumentato il suo ego a livelli non quantificabili: era soddisfatto. «Be', allora le consiglio di andarci piano domani, perché non vorrei finire in infermeria.»

«Non ci provare» scosse la testa Marco, ma sorrideva. Poi si fece serio. «Tra l'altro, ti devo chiedere scusa. Anche io pensavo che dipendesse tutto da tuo padre. Il Generale mi ha detto che non è così.» Allargò le braccia. «Sono stato superficiale nel giudicare le cose, ma devo ammettere che sei difficile da comprendere.»

«Non fa niente.» Ace non amava parlare di suo padre, ma in quel momento pensò che Marco aveva diritto ad una spiegazione, dopo averlo fatto sentire così speciale. «Alla fine, non credo che sia scorretto dire che mio padre c'entra. Una delle ragioni per cui Doma ce l'aveva con me era lui. Molti ce l'avevano con me» aggiunse, ricordando com'era stato i primi mesi, con gli altri soldati che lo evitavano.

«Sai, tuo padre e il Generale erano amici e compagni nell'esercito, hanno combattuto assieme nella Grande Guerra» raccontò allora Marco. Non ne era sicuro, ma se c'era anche solo un frammento di Ace che pensava di aver ereditato qualcosa dalla sua discendenza, era il caso di spiegargli come erano andate davvero le cose. «Lui sostiene che Roger sia stato condannato ingiustamente, per via di problemi con i superiori. Aveva anche testimoniato a suo favore, ma la loro amicizia aveva impedito ai giudici di tenere in considerazione la sua parola.»

«Davvero?» Ace non ne sapeva nulla di quella storia, anche perché non aveva mai chiesto al nonno ulteriori spiegazioni, nonostante anche lui sostenesse che la pena di morte era stata una condanna troppo severa. «Be', non importa. Sono state comunque le sue azioni che lo hanno condannato e hanno fatto uccidere mia madre. Non si può tornare indietro.»

«Tua madre...» mormorò Marco, cercando di ricordare se ne sapeva qualcosa. «Non era stata uccisa durante una manifestazione? Mi pare di ricordare che non hanno mai trovato il colpevole...»

«Non hanno voluto trovarlo» corresse Ace. «È stato qualcuno che pensava che lei non avesse diritto a niente, per essersi innamorata di un disertore. E i poliziotti pensavano che se lo meritasse, per lo stesso motivo. Non hanno mai veramente indagato.» Ruttò di nuovo: aveva finito la seconda bistecca. «Per questo non importa cosa il Generale pensi di mio padre, alla fine è comunque colpa sua.»

Marco decise di non insistere su quel punto. Pensava che fosse già stato abbastanza doloroso rievocare i ricordi dell'uccisione della madre. «Hai ragione, non importa» gli disse. «In fondo tu sei tu, non tuo padre.»

Ace rimase sorpreso per un attimo da quell'affermazione, poi sorrise. «Lo apprezzo, grazie.»

«Posso chiederti perché proprio la Francia?» Marco continuava a non capire quel ragazzo. Credeva di essersi avvicinato e invece ogni volta si rivelava per qualcosa di nuovo. «Sei stato molto specifico, ieri.»

«Ho un motivo personale per voler andare a combattere là» affermò Ace. «È un motivo egoista che non c'entra niente con l'essere statunitense, ma sento di doverlo fare.» Era tutto quello che avrebbe concesso come spiegazione. Il Colonnello si era rivelato una persona migliore di quello che aveva pensato fosse, ma non era ancora disposto a parlargli di Sabo.

«Capisco.» Marco non chiese oltre, ma si alzò. «Sono contento che siamo riusciti a risolvere tutto. Come ho detto, mi sarebbe dispiaciuto perderti.»

Ace lo fissò mentre lasciava la sala mensa. Avrebbe voluto pensare qualcosa di sensato riguardo all'intera conversazione che avevano avuto e che gli aveva mostrato un aspetto completamente nuovo del suo istruttore, ma tutto quello che poteva pensare in quel momento era che il Colonnello di Brigata Marco aveva davvero un gran bel culo.

 
 
National Training Center Fort Irwin, 7 Dicembre
 
I soldati erano in sala mensa per il pasto, quando Doma entrò nella stanza.

Erano mesi che non lo vedevano e fu un'incredibile sorpresa quando apparve, senza più le bende e l'ingessatura con cui lo ricordavano. Molti dei soldati della sua compagnia avevano terminato l'anno obbligatorio della leva e avevano lasciato la base, ma erano presenti comunque alcuni amici da salutare.

Ace l'aveva visto, ma era rimasto seduto a mangiare con il suo gruppo. Non avrebbe saputo cosa dirgli. Non si erano lasciati male, dato che lui aveva deciso di non denunciarlo e aveva anche espresso ammirazione per le sue capacità di soldato, ma era stato comunque per mesi in riabilitazione per colpa sua.

Fu Doma stesso ad andare al suo tavolo a salutarli, per cui Ace decise di fingere che l'intera storia della rissa non fosse mai successa. Gli altri soldati lo imitarono, ma c'era qualche tensione fra di loro. Soprattutto Odr non lo aveva ancora del tutto perdonato.

«Quando sei arrivato?» gli domandò Squardo gentilmente.

«Due settimane fa» spiegò Doma. «Ho fatto la visita completa e hanno confermato che posso tornare in servizio senza ricadute. Da domani riprenderò il ritmo normale dell'addestramento.»

«Be', è sempre la solita roba, non ti sei perso niente.»

«A proposito.» Doma infilò la mano in tasca e ne estrasse due pezzi di carta. Uno era la fotografia di Sabo, riparata alla bell'e meglio con un po' di scotch. Ace non si era nemmeno accorto che era sparita perché non aveva avuto occasione di controllare o di aggiungere articoli su Rufy nei giorni scorsi, ma non fu felice. Aveva forse intenzione di ripartire con il piede sbagliato? Poi vide l'altro foglio: era un disegno a matita, una riproduzione fedele della fotografia. L'artista doveva essere molto bravo perché l'effetto era davvero realistico.

«Per puro caso ho visto i lavori del mio vicino di casa, e gli ho chiesto un favore. So che non è come l'originale, ma...» Poiché Ace osservava il disegno in silenzio, aggiunse: «Volevo farti una sorpresa, scusa se l'ho presa senza permesso».

Ace appoggiò foto e disegno sul tavolo, quindi si alzò molto lentamente. Chinò il capo. «Grazie, è stato un pensiero gentile.» Rivedere il sorriso di Sabo senza quello strappo in mezzo l'aveva quasi fatto commuovere. Poi allungò la mano verso di lui. «Abbiamo sbagliato entrambi, ma spero che si possa rimediare di qui in avanti.»

«Io conto su di te per recuperare questi mesi di allenamento» disse Doma, ricambiando la stretta.

«Guarda che sono severo, ho imparato dal Colonnello Marco.»

«Adesso sì che ti devi preoccupare!» esclamò Squardo, e tutti risero. Nessuno di loro aveva scordato quello che era successo a Maggio.

Poi l'attenzione si spostò dal loro tavolo all'ingresso della sala mensa: il Generale Newgate era appena entrato, cosa decisamente insolita.

«Vi devo rovinare la digestione, ma credo che dobbiate saperlo subito» disse, senza tanti convenevoli. Era sempre spiccio nei modi. «Stamattina la nostra base navale di Pearl Harbor è stata attaccata a sorpresa dalle truppe aeree giapponesi. Non vi sto ad elencare il numero delle perdite, non ne abbiamo ancora la certezza.» Fece una pausa per verificare che effetto avevano fatto le sue parole sui soldati, che non scostavano lo sguardo da lui, increduli. Ma purtroppo per loro Newgate non stava mentendo. «Penso sappiate cosa possa significare una cosa del genere.»

 
 
National Training Center Fort Irwin, 11 Dicembre
 
«Avanti.» Marco non aveva nemmeno alzato lo sguardo. Era raro che qualcuno lo disturbasse in ufficio e, se si trattava di un altro Colonnello o del Generale, l'avrebbe capito dal fatto che non avrebbero nemmeno bussato, sarebbero semplicemente entrati. Quindi doveva trattarsi di un soldato e preferiva farsi vedere impegnato.

«Posso disturbarla?»

Quello gli fece alzare la testa di scatto: non si aspettava di vedere Ace. «Certo, accomodati.» Aveva preso l'abitudine di dargli confidenza quand'erano da soli, dopo l'incidente di Maggio. Per fortuna non accadeva spesso, perché sapeva in partenza che non era una cosa corretta, ma non aveva potuto evitarlo. «Dimmi tutto.»

«Io non ci capisco molto di politica» esordì Ace. «Però, per quello che è successo a Pearl Harbor... Suppongo che si debba entrare in guerra, no?»

Marco ricordò che era un volontario e che aveva un obiettivo preciso in mente. «Siamo già in guerra, dal giorno successivo all'attacco. Il Presidente non aspettava altro» confermò. «Non poteva con l'opinione pubblica contraria, ma i giapponesi gli hanno fatto un favore. Hanno toccato il nostro orgoglio, non possiamo semplicemente far finta di nulla.»

«Il giorno dell'infamia» citò Ace. Poi aggiunse: «Ma andremo in guerra contro il Giappone».

«E a te non interessa.»

«Be', no, mi interessa.» Ace aveva già espresso il suo egoismo nei riguardi del suo ruolo nell'esercito, ma rimaneva pur sempre uno statunitense. Non era stato felice di quello che era successo e sentiva di comprendere ancora meglio perché Sabo aveva preso la decisione di rimanere a combattere per la sua patria. «Insomma, è stata una vigliaccata! Che cavolo, mio nonno lavora là! Fortuna che era in licenza a Boston...»

Marco si ritrovò a sorridere: nonostante non parlasse mai in termini molto lusinghieri di Garp, era chiaro che gli voleva bene. «Non credo tu ti debba preoccupare troppo. La guerra nel pacifico sarà più navale che altro, almeno all'inizio.»

«Sì, ma...» Ace non sapeva come formulare la domanda. Alla fine optò per la soluzione più chiara. «Il Giappone è alleato di Germania e Italia, no? Però tutti dicono che non siamo in guerra contro di loro. Com'è possibile?»

«Per il semplice fatto che ci stiamo andando piano» spiegò Marco. «Anche se sono paesi alleati, per ora non abbiamo motivi per combattere in Europa. Dobbiamo solo difendere i nostri interessi nel Pacifico.»

«Anche se l'Inghilterra ha dichiarato guerra al Giappone?»

Marco annuì. «Quella è stata una mossa furba e sono sicuro che alla Casa Bianca c'è stato un deciso accordo a questo riguardo. Ma per l'opinione pubblica è ancora troppo presto.»

«Diamine, ma cosa vogliono!» sbottò Ace, irritato. Era arrabbiato con i giapponesi, ma era ancora più arrabbiato per il fatto che si stava spostando il campo di battaglia da ciò che realmente gli importava.

«Ad esempio, una dichiarazione di guerra da parte della Germania.»

«Accadrà mai?» Ace pareva affranto. Pensava che i tedeschi non sarebbero mai stati tanto stupidi da andare a disturbare gli Stati Uniti, come avevano fatto durante la Grande Guerra. Almeno il Giappone aveva i suoi motivi di supremazia, il suo attacco aveva un senso.

In quell'esatto momento la porta di spalancò e l'enorme figura del Generale comparve sulla soglia. «Italia e Germania ci hanno appena dichiarato guerra» annunciò. «Informate gli altri, io devo parlare con gli imbecilli del governo.» Poi scomparve lasciando la porta aperta.

«A quando pare sono fortunato» commentò Ace, dopo qualche minuto. Entrambi erano rimasti in silenzio ad assimilare la notizia che gli era appena stata data. Forse “fortunato” non era la parola giusta, ma non gliene venivano altre.

Marco fece un sorriso appena accennato. «Mi fa piacere, ma spero che la prossima volta tu voglia solamente un cane.»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 1942 - Parte I ***


1942 - Parte I
 
 
Caen, 8 Giugno
 
Sabo era riuscito a catturare un cerbiatto. Non aveva sprecato munizioni, ma l'attesa nel bosco era diventata talmente lunga che aveva avuto tutto il tempo di preparare una trappola e farci cadere dentro l'animale. Non poteva accendere un fuoco che avrebbe rischiato di rivelare la sua posizione, ma la sua necessità di carne era troppo forte per resistere, quindi aveva tagliato le parti più morbide e le aveva mangiate crude con il pane che si era portato dietro e che inizialmente doveva essere la sua cena. Le provviste scarseggiavano ed era sempre positivo riuscire ad ottenere del cibo extra.

Era stato sveglio tutta la notte e cominciava a pensare che qualcosa fosse andato storto. Forse il lancio era stato annullato per problemi meteorologici, o questi ultimi avevano causato un cambio di rotta e un posto di atterraggio diverso da quello previsto. Considerando che era la prima volta che tentavano, delle complicazioni non sarebbero state strane.

Aveva l'ordine di rimanere in posizione oltre l'alba, se fosse stato necessario, e l'avrebbe fatto, tuttavia si stava annoiando. La caccia aveva svolto il suo ruolo per tenerlo sveglio, ma ora la pancia piena lo stava facendo appisolare. Aveva chiuso gli occhi cercando di convincersi che “era solo per cinque minuti” quando il suono di un aereo passò sulla sua testa.

Balzò in piedi, attivo: non era riuscito più a dimenticare quel suono dai tempi di Rouen. Alzò lo sguardo e riuscì a vedere chiaramente alle prime luci dell'alba qualcosa che cadeva dall'aereo prima che questo scomparisse. Afferrò la borsa che aveva con se e si scapicollò verso la direzione in cui sembrava dover precipitare. Quando vi arrivò, il paracadutista era già a terra e si stava liberando dell'ingombrante paracadute.

Quando lo vide comparire, lasciò quello che stava facendo e si mise sull'attenti. «Sergente Bartolomeo Kuma» si presentò. Era un uomo gigantesco, che di sicuro non sarebbe passato inosservato, con un viso impassibile.

Sabo non era abituato che qualcuno lo salutasse con il saluto militare. Avrebbe apprezzato, anche se non aveva un vero grado nell'esercito, se la situazione non fosse stata così pericolosa. «In fretta, su» gli disse, recuperando il paracadute e trascinandoselo dietro. Non avevano tempo di fermarsi né potevano lasciare in vista qualcosa di compromettente.

Anche se erano finiti leggermente fuori del sentiero che pensava di seguire, riuscì comunque a ritrovare la strada per dove voleva andare. Era una piazzola nascosta all'interno del bosco dove solitamente comunicavano con il resto dell'armata che si nascondeva perché costituita da soldati francesi scappati dai campi di prigionia o altri che erano stati abbastanza fortunati da riuscire a nascondersi in precedenza.

«Metti questo.» Sabo passò a Kuma un vestito di ricambio che l'avrebbe fatto passare per un meccanico francese, e intanto nascondeva la sua divisa e il paracadute all'interno di un enorme tronco che era stato scavato per essere utilizzato come deposito segreto. Erano d'accordo che se ne sarebbero sbarazzati gli altri.

«Siete arrivati tardi» commentò poi, una volta che ebbero lasciato la radura per tornare in direzione della città.

Kuma lo seguiva in silenzio e fino a quel momento non aveva messo in discussione nessuna delle sue decisioni. «Sì, non riuscivamo a trovare la rotta giusta a causa del vento.» Aveva un accento che era decisamente più americano che inglese, ma la divisa era britannica.

«Be', era il primo tentativo.»

Non dissero altro finché non furono in città. Il sole era già sorto, ma Sabo temeva che fosse ancora l'orario del coprifuoco. Avrebbe preso in ogni caso strade secondarie, ma si sarebbe sentito meno tranquillo. Ogni parete era comunque tempestata da cartelli con scritto “verboten”, era impossibile scappare dagli ordini tedeschi. Il cervello stava cercando di suggerirgli una storia credibile, se avessero incontrato dei gendarmi.

Cosa che effettivamente avvenne. Fortunatamente si trattava di un semplice poliziotto francese, di quelli che facevano il loro lavoro ma non apprezzavano che gli ordini arrivassero da Berlino.

«Siete oltre il coprifuoco» annunciò loro, con tono tranquillo.

«Mi dispiace» disse Sabo. «Si tratta di un'emergenza.» Sapeva che non poteva inventare cose poco verificabili: la cicatrice che aveva sul volto era un segno troppo riconoscibile e il gendarme si sarebbe ricordato di lui.

«È colpa mia» intervenne Kuma. «Mia moglie si è sentita male stanotte e devo cercare un dottore al più presto. Stiamo fuori città, credevo fosse già giorno.» Sabo era rimasto senza fiato: il suo francese era perfetto, senza alcun accento.

«Va bene, ma fate attenzione la prossima volta» annuì il poliziotto, che di sicuro non aveva sospettato di trovarsi di fronte ad un sergente dell'esercito britannico. Li lasciò andare, ma Sabo fece comunque un giro differente rispetto a quello previsto per evitare che potesse ricostruire il loro percorso.

Quando furono finalmente nella casa che utilizzavano come base segreta, Sabo ebbe risposta ai suoi dubbi, che erano come poteva Kuma parlare un francese così perfetto e perché avevano scelto lui, che non era decisamente uno che passava inosservato per via della sua stazza. E la risposta era piuttosto ovvia: conosceva Dragon e dal tono in cui conversavano dovevano essere anche amici di lunga data. Non che stessero svelando alcun mistero, ma si capiva dal modo in cui parlavano.

Poi Dragon lo invitò ad entrare nella studio e chiuse la porta dietro di sé, senza dire nulla a Sabo, il quale rimase deluso. Finalmente erano riusciti a mettere in atto uno degli obiettivi dell'esercito della France Libre, cioè iniziare a far atterrare soldati dall'Inghilterra per comunicazioni, provviste, munizioni e missioni segrete e gli scocciava che non gli venisse comunicato nulla.

Ivankov spuntò e gli scoccò un sorriso e un occhiolino. «Coraggio» gli disse, un attimo prima di bussare alla porta chiusa e venire ammesso ad entrare.

Sabo fissò l'intera scena seccato. Era possibile che anche Ivankov fosse uno stretto conoscente di Kuma e con Dragon dovevano essere in contatto da anni, come spie, mentre lui era soltanto un ragazzo francese che cercava di combattere per la propria patria. Tutto un altro livello di obiettivi, ma gli dispiaceva essere escluso  dalle discussioni importanti.

Inazuma sembrò comprendere i suoi sentimenti e gli si affiancò senza dire una parola: entrambi aspettarono in silenzio davanti alla porta, finché questa non si aprì. Dragon non sembrò impressionato di vederli in attesa. «Vieni dentro» disse solo, facendogli cenno con la testa.

Sabo ubbidì. Prese posto fra Kuma ed Ivankov, davanti alla scrivania. In realtà era più un tavolo rovinato con una gamba più corta, ma era tutto quello che potevano permettersi. Ora che era all'interno provava un po' di soggezione per i segreti che potevano essere rivelati, ma aveva tutta l'intenzione  di essere all'altezza della situazione.

«De Gaulle sostiene che è venuto il momento di iniziare ad organizzare i vari gruppi di resistenza sotto un'unica autorità» esordì Dragon. Non era una sorpresa, era l'intero scopo del loro gruppo fin dall'inizio ed era diventata una necessità impellente da quando anche l'America era entrata in guerra. Non si era ancora parlato di come gli Stati Uniti avrebbero potuto intervenire: prima bisognava preparare il terreno.

«Avrei preferito iniziare da gruppi più vicini in Normandia e in Bretagna e poi scendere lungo la costa, ma la necessità ci chiama da un'altra parte.» Dragon allungò la mano per far cenno a Kuma di proseguire al posto suo.

«Abbiamo intercettato delle comunicazioni e sembra che i tedeschi stiano preparando un grosso rastrellamento di ebrei» disse allora Kuma.  «Diverso dagli altri. Un rastrellamento alla tedesca, con anche donne e bambini.»

Sabo lo guardò con gli occhi spalancati. «Ma perché? Non danno forza lavoro.» In Francia c'erano stati altre due rastrellamenti perché i tedeschi avevano bisogno di braccianti per le loro industrie, e avevano iniziato dagli ebrei invece che dai francesi, ma non era stato nulla di inusuale rispetto alla normalità di una guerra. «Cosa vogliono fare?» Il silenzio che ne seguì fu abbastanza evocativo a fargli capire qual'era la situazione, quindi abbassò lo sguardo e tacque, vergognandosi per la sua ingenuità. «Che cosa possiamo fare per salvarli?» domandò infine.

«Nulla.» Dragon immaginava che ci sarebbero state proteste, perciò alzò la mano in anticipo per poter proseguire il discorso. «Il numero di ebrei è troppo grande e noi siamo troppo pochi. Loro hanno un esercito. Non avremo abbastanza posti dove nascondere tutti e non abbiamo ancora una via sicura per farli emigrare.»

«Sappiamo che il Governo di Vichy è appaiato per questa operazione di rastrellamento, quindi anche spostarli in quella parte di Francia è fuori discussione» aggiunse Kuma.

«Tesoro, lo so che sembra crudele, ma non possiamo salvare tutti» gli disse Ivankov, poggiandogli una mano sulla spalla. «Dobbiamo salvare quelli che possono combattere per salvare la Francia, piuttosto che sacrificare qualcuno col rischio di non riuscire a salvare nessuno. Capisci?»

Sabo annuì lentamente. «Che cosa devo fare? Che cosa posso fare?» Era già abbastanza difficile dover accettare di sacrificare migliaia di persone nella speranza di salvare il futuro di quelli che sarebbero rimasti, non avrebbe potuto sopportare l'idea di rimanere fermo mentre succedeva tutto a pochi passi da lui. Era già stato in missione e si era allenato a lungo. Si sentiva pronto.

«Uno dei gruppi che vogliamo si affilino a noi è l'Armée Juive, che si nasconde nella regione nord della Loira» spiegò allora Dragon. «Il loro capo, Fisher Tiger, è piuttosto conosciuto nell'ambiente perché ha fatto fuggire molti ebrei dalla Germania dopo il 1933.» L'ambiente doveva essere quello delle spie, probabilmente.

«Pensiamo che se scoprisse del rastrellamento, potrebbe tentare missioni impossibili, mentre la sua competenza potrebbe essere utile alla France Libre, così come i suoi uomini.» Gli scoccò un'occhiata eloquente e Sabo si morse il labbro: Dragon non era un'idealista, capiva la praticità delle situazioni al punto da essere cinico.

«Quindi dovremo contattarlo per impedirgli di combattere?» domandò Sabo, mettendo subito in chiaro che non aveva intenzione di protestare contro la sua decisione di non intervenire nei rastrellamenti.

«Voglio che lo faccia tu» precisò Dragon.

«Io?»

«Conosci meglio la zona e penso che tu possa anche trovare un rifugio temporaneo finché non avremo deciso meglio come comunicare fra i vari gruppi.» Capiva bene a cosa si riferisse: il paese di Mortrée non era lontano dalla Loira e il castello dei suoi genitori era disabitato e disponibile. Annuì per indicare che aveva capito. «Inoltre, penso che tu sia in grado di farlo.»

«Lo sono. Dove posso trovare Fisher Tiger?»

«In un paese vicino a Mayenne.» Dragon si alzò. «Kuma verrà con te. Il suo obiettivo è di scendere verso i Pirenei per aprire una prima via di fuga dalla Francia, così potranno mandare da noi altri paracadutisti.»

«Benissimo.» Sabo seguì il suo esempio, impaziente.

«Ehi, tesoro, calma i bollenti spiriti. Non partirai fra cinque minuti» lo fermò Ivankov.

«Stiamo aspettando un secondo lancio» gli spiegò Dragon. «Nuove armi e provviste. Stanotte andrete di nuovo nella foresta e recupererete i pacchi per consegnarli nella solita radura. Portate con voi quello che pensate serva.» Poi si rivolse esclusivamente a Sabo: «Quando sarai sistemato assieme al gruppo di Fisher Tiger, ci sentiremo per nuove istruzioni, quindi non spostatevi finché non saremo riusciti a contattarci». Estrasse dall'armadio una piccolo telegrafo. «Per il resto, lascio tutto nelle tue mani.»

 
Coulongé, 13 Giugno
 
I piccoli paesi di campagna della Francia occupata si assomigliavano tutti, constatò Sabo. Molti negozi erano chiusi e le case erano tempestate dai poster con tutti gli ordini e le notizie dei tedeschi. Raramente si vedevano uomini all'esterno, solo giovani donne e bambini. Anche gli anziani rimanevano in casa. Loro, una guerra l'avevano già affrontata. Si chiese com'era nel suo paese, a Mortrée, e se anche loro erano stati obbligati ad ospitare per lungo tempo i soldati conquistatori. L'avrebbe scoperto presto, se fosse riuscito nella sua missione.

Aveva lasciato Kuma e le sue armi in campagna ed era entrato nel paese da solo. Un forestiero era già abbastanza sospetto, senza contare che con i capelli biondi l'avevano già scambiato più volte per un tedesco. E la cicatrice lo rendeva abbastanza riconoscibile. Attese che fosse l'orario di pranzo prima prendere uno dei viottoli che si dirigevano verso il lato sud del paese. La strada che portava in campagna era quasi sterrata e costeggiata dai muri di piccole fattorie, muri bianchi sormontati da qualche edera che dava colore alla zona.

La terza villa sulla destra aveva una porta arrugginita che permetteva di entrare nel cortile. Appena Sabo la spinse, notò che il catenaccio era nuovo, a differenza di tutto il resto. Ciò gli fece capire che era nel posto esatto. Fece un passo indietro e verificò che arrampicarsi per il muro non sarebbe stato difficile, quindi prese la rincorsa e saltò; afferrò con una mano l'edera e con l'altra il limite della parete, quindi si sollevò e balzò dall'altra parte.

Notò subito che l'intera zona era in rovina. La casa vera e propria, una semplice costruzione a due piani con mattoni a vista, aveva la maggior parte delle finestre rotte o chiuse da tavole di legno. Le foglie morte sui cornicioni indicavano che nessuno le aveva pulite di recente. Il cortile, un tempo adibito ad orto, ormai non era altro che una distesa di erba maligna che cresceva disordinatamente. Da un lato, si notava ancora una casetta vuota per le galline.

Fece un passo in avanti verso la porta della casa, quando ebbe la netta impressione di aver sentito dei passi dietro di lui. Si voltò, ma pareva non esserci nessuno. Allora tornò ad incamminarsi verso la porta: era indeciso se bussare o provare ad entrare direttamente. Aveva alzato la mano, ma un secondo dopo sentì nuovamente il suono dei passi. Forse era quel silenzio innaturale che gli giocava brutti scherzi.

Tentò di voltarsi di nuovo, ma stavolta avvertì qualcosa di appuntito che gli bucava la schiena. Si era addestrato abbastanza per riconoscere la punta di un fucile, anche quando veniva usata per minacciarlo. Evidentemente era davvero nel posto giusto. Alzò entrambi le mani. «Non ho cattive intenzioni.» Si sentiva sempre stupefatto dal fatto di non provare paura, in quelle situazioni. Era già arrivato così vicino alla morte che al momento nient'altro era riuscito a spaventarlo.

«Questo lo vedremo.» La voce della persona che lo minacciava era più giovane di quello che si aspettasse. «Chi sei?»

«Non è carino non presentarsi prima» rispose Sabo. Non avrebbe parlato della sua missione finché non sarebbe stato sicuro di trovarsi davanti alle persone giuste. L'altro non rispose, ma si limitò a sbatterlo contro la parete per poterlo perquisire. «Non sono armato» assicurò Sabo, ma non ottenne risposta. Sentì invece le braccia che gli venivano tirate in malo modo dietro la schiena, allo scopo di legargli i polsi. Poi gli fu posto anche un sacco sulla testa.

Sabo prese un sospiro. La situazione iniziava a seccarlo, ma doveva cercare di resistere per dimostrare di essere in buona fede. Almeno, gli sarebbe piaciuto guardare in faccia con chi aveva a che fare. Anche se non vedeva niente provò a capire dove lo stavano portando, richiamando alla mente l'immagine della fattoria, ma non fu facile. Di sicuro non erano entrati  in casa e quando notò che stavano scendendo delle scale, capì che probabilmente c'era una qualche cantina nella zona.

Ringraziò quasi che l'avessero fatto accomodare su una sedia, non era facile stare in piedi senza vederci nulla. Sentiva dei passi attorno a lui e delle voci, ma parlavano troppo piano perché riuscisse a capire cosa stavano dicendo. Ma man mano che alzavano la voce, capì che stavano cercando di capire  di chi fosse la colpa, dato che il loro rifugio era stato scoperto.

«Sentite!» provò a richiamare la loro attenzione. «Sapevo di questo posto perché me l'aveva detto una fonte sicura. Sono venuto qui apposta per parlare con Fisher Tiger.»

Non sapeva quanto avesse funzionato, ma la discussione si era interrotta per un attimo, poi era ripresa a tono più basso. Sentì altri rumori di passi e per un attimo pensò che l'avrebbero lasciato lì seduto per sempre. Eppure lui voleva parlare, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno della tortura.

Strizzò gli occhi un attimo quando gli venne tolto il sacco dalla testa, ma nella stanza non c'era comunque abbastanza luce per accecarlo. Si guardò attorno per un attimo: il gruppo di uomini davanti a lui erano decisamente le persone che stava cercando. Erano tutti diversi come aspetto e costituzioni ed età, certo un gruppo eterogeneo, esattamente come il gruppo che Dragon aveva radunato a Caen.

«Sei tu Fisher Tiger?» domandò all'uomo seduto davanti a lui.

«No.»

«Posso parlare con lui?»

«No.»

Sabo sospirò: non era esattamente come aveva previsto sarebbero andate le cose, ma capiva perché fossero così prudenti, se davvero Fisher Tiger aveva liberato ebrei dalla Germania doveva essere nella lista nera di molte persone.  «Sono qui su ordine del Generale De Gaulle» disse allora. «Vogliamo unificare i gruppi francesi che si oppongono al regime nazista. Compresi voi» aggiunse.

«Sciocchezze!» sbottò uno del gruppo.  «Guardatelo, è un ragazzino! Chi manderebbe un ragazzino a fare della diplomazia?»

«Non sembra molto più giovane di me.» La voce che aveva commentato era quella della persona che lo aveva attaccato all'esterno, perciò Sabo si voltò appena per fissarlo: in effetti, doveva avere all'incirca la sua età. Lo sentì subito simpatico, senza motivo.

«Non abbiamo molti uomini, e la maggior parte sono prigionieri di guerra scappati dai campi tedeschi» intervenne, per difendersi sul punto dell'età. «Sono meno sospetto proprio perché sono ancora un ragazzo.»

L'uomo che era seduto di fronte a  lui alzò il braccio per fare silenzio, quindi domandò:  «Come hai fatto a sapere dove trovarci?».

A quella domanda, Sabo non sapeva come rispondere. Era Dragon: sapeva sempre tutto. Dopo un anno trascorso con lui, aveva smesso di chiedersi come facesse ad ottenere tutte le informazioni, le aveva ed erano sempre esatte.

«Gliel'ho detto io.» Tutti si voltarono verso l'uomo che aveva parlato, uno dei più anziani del gruppo.

«Hack! Come hai potuto?»

Ma Hack non si scompose: rimase seduto contro il muro con le braccia conserte. «Abbiamo bisogno di aiuto» spiegò. «Abbiamo perso due uomini per assaltare quel deposito di armi, e non ne abbiamo ricavato nulla se non doverci nascondere. Non vedo perché non dovremmo poter sfruttare le armi inglesi o americane, se possiamo. O avere delle soffiate per evitare di finire in imboscate.»

«Te lo spiego io il perché.» L'uomo che prima l'aveva accusato di essere troppo giovane si stava avvicinando pericolosamente ad Hack, per cui Sabo decise di intervenire.

«Perché non siamo ebrei?» domandò secco. Nella stanza scese il silenzio. Poteva capire come dovessero sentirsi  ad essere braccati senz'altro motivo che la loro religione o discendenza, tuttavia doveva impedire che si comportassero nello stesso esatto modo con persone che erano dalla loro parte. «A me non interessa. Se volete combattere per la Francia, allora siete con noi.» E fissò intensamente la persona ancora seduta di fronte a sé, che era l'unica che non si era ancora espressa a quel riguardo, ma che era chiaro che veniva considerato come una sorta di capo.

«Avresti dovuto dircelo prima di prendere contatti da solo con la France Libre» sospirò quest'ultimo.

«Mi dispiace, Jinbe, ma ho avuto l'occasione di farlo e l'ho colta. Penso davvero che sia la soluzione migliore.»

«Arlong, basta così!» Jinbe si era alzato e aveva bloccato l'uomo che stava ancora tentando di protestare. «È chiaro che siamo ancora tesi per quello che è successo al deposito di munizioni e non ragioniamo lucidamente. Ma tutti noi ci fidiamo delle decisioni di Fisher Tiger, per cui chiederemo a lui.»

«E vorresti mandare questo qua dal capo?» protestò Arlong. «Se fosse tutta una trappola? Come fa Hack ad essere sicuro di aver contattato le persone giuste?»

«Lo accompagnerò io.» Sabo lo guardò grato: lui e l'altro ragazzo non avevano iniziato nel migliore dei modi, ma forse quel gesto voleva indicare che gli aveva fatto una buona impressione. Tuttavia, l'altro lo ricambiò con un'occhiataccia e non aggiunse nulla.

«Koala, te la senti davvero?» gli chiese Jinbe. «Possiamo anche mandare qualcuno a comunicare la questione...»

«No, devo parlargli io!» intervenne immediatamente Sabo. Aveva capito da com'era andata la discussione che nessuno dei presenti sarebbe riuscito a perorare la causa di De Gaulle come Dragon gli aveva ordinato di fare.

«Non preoccuparti» rispose allora Koala. «Se prova a fare qualcosa di sospetto gli sparo.» E Sabo non aveva alcun dubbio che avrebbe mantenuto la parola.

«Vado anche io» si offrì Hack. «D'altronde questa è stata una mia idea.»

Jinbe annuì. «Ci rivediamo all'altra base, allora» fu il suo modo di salutarli. «Non è più sicuro rimanere qui.»

Nonostante ciò, Sabo fu di nuovo bendato e venne liberato solo quando furono nuovamente sulla strada esterna del paese. Era grato di essere di nuovo all'aria aperta e con le braccia in movimento. Non sapeva definire come fosse andato l'incontro, ma aveva possibilità di parlare con Fisher Tiger e sarebbe stata quella conversazione a decidere tutto.

«Dobbiamo andare di qua» disse Koala, indicandogli una direzione.

«Prima c'è un'altra cosa che devo fare, venite.» Sabo prese la direzione dalla quale era venuto, ma notò che c'era troppa gente in giro in quel momento, quindi uscì dal villaggio e lo aggirò per tornare all'incrocio della strada dove aveva lasciato Kuma. Lui era ancora lì che lo aspettava: gli spiegò cos'era successo e dove doveva andare.

«Capisco» disse Kuma. «Che cosa devo fare?»

Sabo era un po' titubante che un vero ufficiale dell'esercito chiedesse istruzioni a lui, ma non doveva dimostrarsi diffidente. «Se Fisher Tiger accetterà, ci nasconderemo momentaneamente dove sai» gli disse. «Possiamo avere un rendezvous lì e nel frattempo puoi occuparti di trovare la strada per il sud.» Aveva cercato di essere più chiaro possibile perché non voleva che i due uomini che lo accompagnavano sospettassero che fossero delle spie.

Kuma annuì. «Benissimo.»

«Cos'è questa storia?» domandò Koala.

«Il Sergente Kuma è qui per esplorare dei sistemi che permettano di fuggire dalla Francia. Ci sarà utile per quando arriveranno i soldati a portarci dei rinforzi» spiegò Sabo, rimettendosi il suo fucile sulla spalla.

«Potrebbe essere usata anche per far fuggire gli ebrei?» Koala era improvvisamente interessata.

«Lo sapremo quando avremo trovato una via sicura» rispose lui. «E solo se Fisher Tiger sarà d'accordo, ma prima devo parlargli.»

«Allora andiamo.»
 

 
Dintorni di Sarcé, 15 Giugno
 
Fisher Tiger si stava nascondendo in una delle tante fattorie isolate che costellavano le grandi pianure francese. Quella in particolare era proprietà di Arlong e al momento vi abitata sua sorella Shirley con altre amiche e i loro figli, tutti rigorosamente ebrei come indicava anche la stella gialla cucita sui loro vestiti. Per rispetto, Sabo aveva tolto il fucile dalla spalla e l'aveva consegnato a Koala.

Fu solo dopo che anche Hack ebbe introdotto l'argomento, che a Sabo fu concesso di entrare nella sala per poter avere una conversazione con Fisher Tiger. Era un uomo autorevole e con un grande carisma, lo si poteva capire anche quando si limitava a star seduto su una sedia a fissarti, ma fortunatamente Sabo era stato addestrato da un uomo con altrettanto carisma da permettergli di non restare troppo affascinato.

«Allora, ragazzo, spiegami tutta questa storia della France Libre.» Non sembrava aver pregiudizi di sorta nel modo in cui aveva formulato la domanda.

Sabo ubbidì: gli spiegò del gruppo che Dragon aveva radunato nei dintorni di Caen e dell'esercito che De Gaulle stava costruendo in Inghilterra con i soldati che erano riusciti a fuggire in tempo. Gli raccontò come volevano essere organizzate le azioni fra i vari gruppi di resistenza e il compito dei soldati inglesi che sarebbero stati paracadutati sulla Francia. Non fece nomi, ma descrisse la situazione molto vividamente e non venne interrotto nemmeno una volta.

«Dopo che Hitler ha preso il potere, la situazione per gli ebrei non si è messa bene. Io ho cercato di far emigrare più persone che potevo, finché non ho avuto altra scelta che scappare.» Fisher Tiger lo diceva con disprezzo: non era qualcosa di cui andava orgoglioso. «Ho cercato di far del bene anche qua, dove pensavo che i miei compagni fossero al sicuro. Finora, nessuno mi ha aiutato. Ho dovuto fare tutto da solo.»

«Ammirevole.» Sabo era sincero. «Però immagino che si renderà conto di quanto potrebbe migliorare la situazione con gli aiuti che siamo disposti ad offrire.»

«Sai perché non ho avuto aiuti prima? Perché in fondo tutti pensano che gli ebrei non valgano nulla, non solo i nazisti.» Fisher Tiger incrociò le braccia e lo fissò intensamente. «Dimmi un po', a quanti altri gruppi avete chiesto collaborazione?»

«Voi siete i primi. Ci abbiamo messo un po' ad organizzarci.» Sabo avrebbe voluto rispondere all'accusa sul non considerare gli ebrei, ma aveva l'impressione che non sarebbe servito. L'antisemitismo era effettivamente qualcosa di radicato all'interno della società, i nazisti l'avevano solamente sfruttato.

«Perché proprio noi?» Ora era diventato improvvisamente diffidente. «Ci dev'essere un motivo.» Era chiaro che non era a conoscenza del rastrellamento che ci sarebbe stato in quel periodo e pensava di essere al sicuro. Sabo avrebbe potuto non dirglielo, proprio per evitare di rischiare che volesse intervenire in qualche maniera, ma considerando che si trovavano in una casa di proprietà ebrea non era impossibile che lo venisse a sapere. Doveva essere sincero.

«I tedeschi stanno preparando un ulteriore rastrellamento di ebrei» disse allora. «Sarà più grande dei precedenti, tanto che è stato chiesto aiuto anche al Governo di Vichy.» Notò che anche Koala e Hack  lo fissavano ad occhi spalancati: questo non l'aveva detto in precedenza.  «Vogliono prendere anche le donne e i bambini, questa volta. Chiunque.»

«Cosa? E perché?» Koala stringeva spasmodicamente il suo fucile e le nocche gli erano diventate bianche. «Non possono lavorare nelle loro fabbriche.»

«Non credo che li prendano per farli lavorare.» Sabo e Koala si fissarono e lui capì senza fare ulteriori domande.

Fisher Tiger era  depresso, ma rassegnato. «Hanno iniziato anche qui, dunque» commentò, alzandosi. «Bene, direi che possiamo subito mettere in campo la nostra collaborazione. Qual è il piano della France Libre?» Stava succedendo esattamente ciò che Dragon temeva; spettava a Sabo impedirlo.

«Non fare nulla.»

Lo sguardo di Koala era diventato ancora più sconvolto e Hack aveva l'espressione di chi si chiedeva se avesse sbagliato tutto. Fisher Tiger emise un riso amaro. «Giusto, alla fine che importa, sono ebrei.»

«Non si tratta di quello.» Sabo cercava di mantenersi calmo e non era facile, perché comprendeva che lo attendeva un compito molto duro. «Avete idea di quanti ebrei abitino nella regione di Parigi? Migliaia» spiegò. «Dove pensate di nasconderli, una volta salvati? Loro possono disporre della  Milice Français al gran completo, dell'esercito tedesco e dei mezzi. Noi in quanti siamo?» domandò. «Ci vorranno mesi solo per accordare tutti i gruppi di resistenza e abbiamo appena tentato i lanci di munizioni dall'Inghilterra. Non siamo pronti ancora per nulla.» Prese un gran respiro, ricordandosi quello che aveva provato quando Dragon aveva comunicato la stessa decisione a lui. «Semplicemente, non possiamo salvarli. È la guerra, non si può salvare tutti.»

Il suo discorso era finito. Sperò che fosse piuttosto chiaro che la sua posizione non aveva nulla a che fare con il fatto che si trattasse di ebrei, ma con il più alto obiettivo di essere pronti a combattere quando sarebbe stato il momento.

«Vieni con me» disse semplicemente Fisher Tiger. Non era chiaro se fosse arrabbiato o rassegnato, perché riusciva a controllare bene le sue emozioni. Sabo lo seguì nell'atrio: nel sottoscala c'era una botola che portava in una stanza sotterranea. All'interno materassi abbandonati per terra che avevano ospitato persone in fuga. Al momento c'era solo una donna con quattro bambini piccoli, di cui la più piccola in fasce. Fisher Tiger la introdusse come Otohime.

«La conosco» disse immediatamente Sabo. «Ha parlato qualche volta a Parigi contro il governo nazista.» La fissò per imprimersi bene il volto di quella donna coraggiosa.

Lei annuì, ma non sembrava altrettanto entusiasta.

«Suo marito è stato uno dei primi ad essere deportato in Germania proprio per questo motivo» gli spiegò Fisher Tiger. «Sappiamo che è stato fucilato poco dopo.»

«Lei l'ha salvata» dedusse Sabo. L'altro non disse nulla, ma si limitò ad uscire dal nascondiglio segreto. «Mi dispiace per la sua perdita» mormorò allora ad Otohime, prima di seguirlo all'esterno. «Quanti altri ebrei state nascondendo?»

«Di fuggitivi, solo lei» rispose Fisher Tiger. «Ma qui siamo tutti ebrei, e da quello che mi dici ci stanno dando la caccia.» Si voltò e d'improvviso gli occhi gli balenavano di una luce diversa. «Non rimarrò fermo a vedere  la mia gente che viene deportata se posso anche solo provare ad impedirlo.» Indicò la botola da dov'erano appena usciti. «Guarda quella famiglia e dimmi che hai il coraggio di mandare altre persone così alla morte.»

Sabo aveva lo stomaco stretto in una morsa dopo aver visto quei bambini attaccati alla gonna della loro madre, ma deglutì e ritrovò la voce. «Qui non si tratta di volere, ma di potere» ribatté. «Non possiamo farlo perché non ne abbiamo la possibilità. Morireste e basta e non avrete ottenuto nulla.»

«Non puoi saperlo finché non ci provi.» Koala era infine intervenuto, frapponendosi fra i due. «Fisher Tiger ha rischiato la morte per salvare me sotto un bombardamento. Avrebbe potuto non farlo e avrebbe avuto la certezza di sopravvivere, ma ha rischiato. E siamo qui entrambi. Finché avrò la forza di combattere non lasceremo morire nessuno.»

Sabo si guardò intorno in cerca di qualcuno che fosse dalla sua parte, ma anche Hack, pur non intervenendo, pareva non essere incline ad accettare le sue argomentazioni. Eppure percepiva un sentimento, in Koala, simile a quello che lui provava per Dragon, l'uomo che l'aveva salvato. Gli si avvicinò, ponendo una mano sulla cicatrice.

«La vedi?» domandò. «Me la sono fatta a Rouen, sotto l'esplosione. Sarei morto, se Dragon non mi avesse salvato. Non credere che non sappia cosa vuol dire avere qualcuno che ha pensato a te esclusivamente. Ma tante persone sono morte quel giorno al posto mio.» Si allontanò. «Avrei voluto salvarli tutti, ma non ho potuto. Però sono sopravvissuto per non dimenticare. Non dimenticare che posso salvare qualcuno, ma se devo salvare tutti ho bisogno della forza. E quella ci manca ancora.»

Avrebbe voluto avere il tempo di vedere che effetto avevano fatto le sue parole, ma Kaime, una delle donne che abitavano alla fattoria, venne ad annunciare che un'auto si dirigeva verso di loro. «Milice Français» aggiunse Shirley, che li aveva visti dalla finestra.

«Lavorano con i tedeschi» affermò Sabo. «Dobbiamo nasconderci. E voi dovete togliervi la stella di dosso.»

«Ma ci arresteranno se la togliamo» replicò Kaime, stringendosela con fare protettivo.

«Se non ve la togliete vi faranno ben di peggio.» Si avvicinò con forza e le afferrò il lembo del vestito, strappandogliela con forza. «Fate come vi dico, maledizione!»

Fisher Tiger annuì. «Fatelo, è meglio. Non è certo quella stella che dimostra chi siete.» Poi la maggior parte delle donne si unì a loro nella stanza sotterranea e rimasero in silenzio mentre sentivano i poliziotti entrare. Otohime stringeva a sé i bambini e li cullava per non farli piangere e nella stanza quasi non si sentivano le persone respirare. I passi al di sopra facevano tremare il soffitto.

Sabo aveva teso le orecchie per cercare di capire i discorsi, ma il gruppo si era allontanato prima ancora di aver detto qualcosa di veramente interessanti. Però aveva sentito quella che sembrava una voce familiare. Poteva sbagliarsi e in quel caso avrebbe corso un rischio per nulla, ma se avesse avuto ragione allora valeva la pena tentare.

Prese il fucile e si avviò verso le scale. Fece cenno al gruppo che era con lui di tacere. Vedeva lo sguardo di Fisher Tiger e gli fece un leggero cenno: non li avrebbe traditi. Mise la testa fuori e notò che i poliziotti erano nell'altra stanza, quindi uscì e sgattaiolò nella sala, nascondendosi dietro il vecchio divano polveroso.

Quando uno dei poliziotti entrò nella stanza, ebbe la conferma che non si era sbagliato. «Buona giornata, signor Kuzan. È passato molto tempo» lo salutò, uscendo dal suo nascondiglio.

Kuzan si voltò lentamente a guardarlo. «Oh.» L'aveva riconosciuto. Dopotutto, si erano visti spesso a Parigi, anche se Sabo non era più stato rapito da nessuno. «Credevo fossi in America.»

«La mia famiglia sì, io sono rimasto qui. Come stanno il signor Smoker e la signorina Tashigi?»

«Come tutti, sopravvivono.» Kuzan aveva perfettamente notato il fucile che aveva sulla spalla. «Sei un maquis» dedusse. Sabo tolse il fucile e lo appoggiò a terra con movimenti lenti, per dimostrare la sua buona fede.

«Se è venuto qui a prendere gli ebrei, non lo faccia» gli disse. «Sono donne e bambini. Credo che anche lei sappia che cosa significa.»

«Ti è sempre piaciuto ficcarti nei guai.» Kuzan sembrava ricordare un tempo troppo lontano per essere vero. «Spero che tu sappia quello che stai facendo.» Poi si voltò, appoggiò il blocco di fogli che aveva in mano sul tavolino e vi rovesciò sopra la bevanda che prima era destinata a Fisher Tiger. Poi tornò nell'atrio e chiamò i suoi colleghi. «Ragazzi, mi sa che ho sbagliato, non è questo l'indirizzo. Ci ho rovesciato sopra del brodo, non si legge bene.»

«Che?» rispose un altro degli uomini. «Faccia attenzione, quelli sono documenti ufficiali. Non vorrà che facciano casino a noi.»

«Scusatemi, scusatemi.» Poi Kuzan si rivolse a Shirley. «Mi dispiace per l'inconveniente, non cercavamo voi.»

«Be', infatti non hanno mica la stella. Mi pareva strano stessero mentendo così spudoratamente» commentò l'altro poliziotto.

Sabo era rimasto nella sala, nascosto dietro la porta per tutto lo scambio e ne uscì solo quando avvertì il suono dell'automobile che si allontanava dalla fattoria. Si affacciò dal vetro in tempo per vederli mentre si allontanavano dal vialetto.

«Se avessimo avuto la stella, non avremo potuto negare di essere ebrei» disse Shirley dietro di lui. Era una specie di ringraziamento.

«Non avevi detto che voi della France Libre non avreste aiutato gli ebrei?» Fisher Tiger era uscito dal nascondiglio, seguito da tutti gli altri.

«Ho detto che non possiamo salvare tutti» rispose Sabo, senza nemmeno voltarsi a guardarli. «Non significa che non lo faremo se ne avessimo la possibilità. L'avevo» aggiunse. Poi si avvicinò a loro. «Se ho rischiato di morire a Rouen, è stato perché ho sparato a dei tedeschi che non volevano che i pompieri spegnessero l'incendio» raccontò. «Non ho risolto nulla e sono quasi morto. Se sto combattendo è perché voglio risolvere le cose, ma bisogna farlo con criterio.» Guardò Koala fisso negli occhi. «Mi capisci?» Lo vide annuire.

«Dicci che cos'avete in mente, allora» disse Fisher Tiger.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 1942 - Parte II ***


1942 - Parte II
 
Château d'Ô, 19 Giugno
 
Fisher Tiger era andato a chiamare i suoi uomini in uno dei loro rifugi segreti per comunicargli che aveva deciso di accettare la proposta della France Libre di collaborare e in cambio avrebbero ricevuto l'aiuto per far emigrare le loro famiglie in Spagna e successivamente in paesi amici. Sabo aveva dato loro appuntamento nelle vicinanze di Mortrée.

Quando si erano riuniti, Sabo aveva ben notato che c'era un gruppo all'interno dell'Armée Juive che non approvava la decisione di Fisher Tiger, ma il suo carisma bastava a promettergli che non avrebbero compiuto azioni contrarie agli ordini. Jinbe, che gli era sembrato il vice-capo, era invece dalla sua parte e ciò lo rassicurò.

Non aveva parlato con loro da quando li stava guidando verso il rifugio. La realtà era che non tornava al castello da due anni, da quando aveva deciso di scappare di casa per andare in guerra. Per lui quel luogo rappresentava la sua infanzia e i momenti felici che aveva vissuto prima della guerra, ma anche il senso di impotenza e disprezzo per quella che era la sua vera famiglia. Aveva bisogno di fare i conti con i suoi sentimenti prima che questi traboccassero e rovinassero la sua missione.

Per un attimo i suoi pensieri l'avevano distratto dalla strada che stava percorrendo, ma poi avvertì dei rumori decisamente sospetti nei dintorni e tornò alla realtà. Fece segno al gruppo di fermarsi e fare silenzio. Un attimo dopo, un intero gruppo di contadini armati di rastrelli e vanghe uscirono dalla macchia e si precipitarono verso di loro. Si capiva che erano motivati dalla paura, ma ciò nonostante alcuni degli uomini estrassero i propri fucili.

«Fermi!» gridò Sabo, facendo un passo avanti. Poi si rivolse ai contadini all'attacco.  «Dadan! Sono io! Dogura! Magura!»
Al sentirsi chiamare per nome, si fermarono tutti per scrutarlo. Tante paia d'occhi lo stavano fissando, finché Dadan non chiese quello che tutti stavano pensando: «Sabo?».

Lui annuì. «È tanto che non ci vediamo.» Un secondo dopo, stava soffocando sotto il suo abbraccio e sotto quello di tutti i contadini, che praticamente stavano cercando di ucciderlo sotto il loro peso.

«Credevo fossi morto, stupido ragazzino.» Poi Dadan si accorse di essersi lasciata andare troppo ai sentimenti, si asciugò in fretta le lacrime e si allontanò.  «Non ero preoccupata, comunque, te l'eri andata a cercare.»

«Sei cresciuto un sacco» gli disse Magura. «E che brutta cicatrice! Chissà quante ne hai passate in questo periodo...» Poi si voltò a fissare gli uomini che lo stavano accompagnando, e così anche gli altri contadini.

«Sono maquis, come me» spiegò Sabo. Non era il caso di raccontare che lui lavorava direttamente agli ordini di De Gaulle, il fatto che erano membri della resistenza doveva bastare ad indicare come fosse la situazione. «Pensavo di utilizzare il castello come base temporanea.» Fissò Dadan: non aveva approvato la sua idea di andare in guerra e temeva avrebbe ostacolato anche quest'altra proposta.

«Sono in tanti, non sono sicura che le provviste basteranno per tutti» gli comunicò lei semplicemente, senza aggiungere altro. «Bisognerà anche trovare delle coperte, al castello non c'è più nulla. Vedremo.»

Sabo si sentì sollevato: lei era una donna dura e iraconda, ma onesta. Non si sarebbe tirata indietro di fronte alla possibilità di aiutare la Francia. «Com'è stato qui?» domandò.

«Fortunatamente l'esercito tedesco è passato più a sud e siamo stati risparmiati dai bombardamenti» gli spiegò Magura. «L'anno scorso al villaggio abbiamo dovuto ospitare una guarnigione tedesca, prima che partissero per la Russia, e ci sono stati degli arresti nei giorni scorsi, ma a parte questo la zona è abbastanza tranquilla.»

L'ideale per nascondere momentaneamente un gruppo di ribelli. Sabo sperò solamente che questi arresti fossero una cosa casuale e che la polizia non passasse più a sorvegliare quella zona, ma  in ogni caso difficilmente avrebbero controllato il castello che era disabitato da tempo.

«Vorresti stare qua?» gli domandò Koala, non appena ebbero raggiunto la radura del castello. Il suo tono non nascondeva la sua sorpresa e il suo stupore, anche se la residenza non era certo nella sua forma migliore: il parco attorno non era più stato tagliato da anni ed era cresciuto rigoglioso, il giardino all'inglese non esisteva più e le ninfee erano marcite trasformando il laghetto in una palude. Le anatre erano probabilmente state mangiate dalla popolazione affamata.

«Sì, c'è spazio per tutti e i proprietari non torneranno» rispose Sabo, avvicinandosi alla porta d'ingresso, chiusa con il cancello di ferro.

«Come lo sai?» incalzò Koala.

Sabo fece saltare il lucchetto con un colpo di fucile. «Lo so e basta.»
 
Château d'Ô, 3 Luglio
 
Come aveva preventivato, non era stato facile lavorare al castello. Come base era ottima perché lontana dalle normali vie di comunicazione e c'era spazio a sufficienza per tutti. L'aiuto di Dadan e degli altri si era rivelato fondamentale per procurarsi i generi di prima necessità. Dragon era riuscito a passargli degli ordini mentre aspettavano il ritorno di Kuma, cosa che gli consentiva di distrarsi e tenere la mente allenata.

Ma certe volte il peso dei ricordi diventava davvero opprimente. Gli bastava distrarsi un attimo e gli sembrava di vedere Rufy ed Ace che si scambiavano la palla da baseball sul prato dall'altra parte del lago. C'era ancora il segno delle loro altezze su una delle colonne del portico, fino a quando non avevano compiuto quattordici anni, poi suo padre se n'era accorto e avevano dovuto smettere.

Era molto difficile pensare che quei tempi sarebbero ritornati. A Sabo piaceva credere che una volta finita la guerra li avrebbe invitati nuovamente a trascorrere le vacanze a casa sua. Dopotutto, era anche per quello che stava combattendo. In altre occasioni sembrava un mondo così lontano che aveva perso la speranza.

«Che cosa stai preparando, principino?»

Non aiutava il fatto che le persone con cui trascorreva il tempo non fossero di suo gradimento. Fortunatamente Fisher Tiger, Jinbe e qualche altro erano dalla sua parte, ma anche per loro era difficile accettare di prendere ordini dall'esterno, con l'impressione di essere utilizzati solo come carne da macello.

Sperava di poter stabilire un rapporto migliore con Koala, dato che avevano età simili, ma il proposito era fallito in fretta quando aveva scoperto che era una donna. Non che l'avesse fatto di proposito a stringerle una tetta, era stato un incidente! Da parte sua, non poteva credere di non essersene accorto prima, dato che si considerava intelligente. Da parte di lei, gli seccava perché non voleva essere trattata in maniera diversa.

Sabo pensava che non fosse vero, ma la realtà è che non poteva evitare di lanciarle frecciatine quando lei faceva riferimento alla sua origine nobile, dato che non era riuscito a nascondere a lungo la verità riguardante il suo rapporto con il castello. Koala capiva il suo punto di vista e lo condivideva, ma ciò nonostante non riuscivano ad andare d'accordo.

«Sto preparando una pianta per indicare il percorso trovato dal Sergente Kuma» le disse. Era troppo impegnato per offendersi del titolo. «Anzi, puoi radunare tutti in cortile? È ora di cominciare a evacuare.»

«Le donne e i bambini, ovviamente» concluse la frase lei. Non attese risposta e lasciò la stanza.

Sabo terminò la pianta e la portò nel cortile. Usò la parete dell'Orangerie, la sala esterna privata di suo padre, per appenderla e poi aspettò che fossero tutti radunati davanti. Mancavano Arlong e il gruppo che solitamente stava con lui.

«Sono andati ad aiutare i contadini per le provviste» gli spiegò Fisher Tiger. «Inizia pure.» Sapevano che al momento Otohime, Shirley e le altre erano al sicuro, ma volevano tutti che emigrassero oltre il confine prima di iniziare con attività di boicottaggio serio, mentre per ora si erano dedicati soprattutto allo spionaggio. C'era un po' di frustrazione da parte di tutti.

«Va bene.» Sabo annuì ed iniziò ad illustrare la via di fuga che Kuma intendeva utilizzare. Si trattava di passare il confine per Vichy nella zona centrale, dove c'erano solo fattorie e non era molto controllato. Ciò significava comunque andare a piedi e camminare soprattutto di notte. Al paese più vicino ai Pirenei c'era un gruppo di emigranti spagnoli dai tempi della guerra civile che conoscevano  i sentieri per passare la montagna e giungere in Spagna. Da lì in poi potevano andare dove desiderassero.

«Al momento non abbiamo ancora una linea per aiutare le persone oltre il confine» ammise Sabo. «La stiamo preparando dato che sarà indispensabile per i soldati. In ogni caso, dato che quella zona è sotto il controllo di Vichy, per il momento non sarà pericoloso una volta in Spagna.» Kuma non aveva detto una parola, nonostante la missione fosse stata svolta da lui. Si limitò a fargli cenno di proseguire. «Ho già preparato i documenti e il permesso di circolazione per alcuni» spiegò, rivolgendosi direttamente alle donne. Era grato che Dragon gli avesse insegnato quei piccoli trucchi. «Avrei preferito non mandarvi subito, perché sarà un lungo cammino per dei bambini» aggiunse, all'indirizzo di Otohime. «Ma penso anche che sia più sicuro per voi raggiungere prima il confine.»

«Ce la faremo» assicurò lei. Si vedeva che non voleva andarsene e che le sarebbe piaciuto rimanere a combattere, perciò poteva aiutare solamente non lamentandosi delle difficoltà da affrontare.

«Sono sicuro che in Inghilterra il tuo aiuto sarà prezioso» le disse Fisher Tiger. «Credi di poterci insegnare come creare quei documenti?» chiese poi, rivolgendosi a Sabo. I documenti erano diventati obbligatori dopo la conquista, e di recente non si poteva passare da una città all'altra senza autorizzazione. Potersene procurare uno quando necessario era indispensabile.

«Naturalmente, se volete.» Per Sabo l'unico problema era recuperare i materiali.

Stava finendo di distribuire tutta la documentazione quando il gruppo di Arlong spuntò dal lato del bosco. Non c'erano contadini con loro, né portavano i rifornimenti che avrebbero dovuto. Si approcciarono a Fisher Tiger con fare aggressivo.

«Questi bastardi ci hanno fregato» affermò Arlong. «Ci hanno tenuti occupati mentre i tedeschi rapivano la nostra gente!»

«Che cosa significa?» domandò Jinbe, calmo.

«Due settimane fa c'è stato un grosso rastrellamento di ebrei, ce l'hanno detto i contadini perché è successo anche qui al villaggio» spiegò Kuroobi, che aveva un tono più pacato. «L'ultima notizia che hanno qui è che erano in un centro di prigionia a Pithiviers, ma non si riesce ad avere comunicazioni.»

«Intere famiglie! Bambini di tutte le età!» Arlong aveva ripreso il controllo, ma la rabbia era ancora presente. «Non abbiamo potuto salvare nessuno perché stavamo giocando a fare le spie!» Indicò Sabo col dito. «Lo sapeva, e non ce l'ha detto di proposito! Non possiamo più fidarci...» E il suo sermone andò lentamente scemando quando notò lo sguardo di Fisher Tiger. «Anche tu lo sapevi» capì. Si voltò e fissò il viso dei suoi compagni, soffermandosi più a lungo su quelli che mostravano chiaramente rimorso per l'intera faccenda. Si fermò a fissare la sorella. «Lo sapevate tutti...»

«Avrei dovuto dirvelo.» Fisher Tiger si voltò anche verso gli altri uomini che erano rimasti sconvolti dalla notizia.

«Non è stata una decisione facile, ma non c'era nulla da fare.» Koala aveva fatto un passo avanti e si era posizionata davanti a lui: era sempre molto protettiva. «Non avevamo mezzi e uomini e abbiamo-»

«Taci, stupida donna!» Koala non si aspettava quel colpo improvviso e cadde all'indietro. Fisher Tiger la afferrò prima che finisse a terra, e lei si lasciò andare, tossendo leggermente. «Una falsa ebrea non riuscirà mai a capire come ci sentiamo!»

Un attimo dopo, Kuma aveva atterrato Arlong, quasi senza che lui se ne accorgesse. Erano stati movimenti così rapidi e silenziosi che nessuno l'aveva capito prima che l'intera azione fosse terminata.

«Il governo tedesco ha chiesto aiuto a quello francese» disse Sabo. «È stata un'azione coordinata e pianificata, con mezzi e uomini. Tutto il contrario di noi. Non potevamo fare altro.»

Shirley si alzò in piedi. «Se non fosse stato per lui, avrebbero deportato anche noi» affermò. «Adesso abbiamo una possibilità di scappare in Spagna.»

«Non è stata una decisione facile da prendere e non ne vado orgoglioso» affermò Fisher Tiger. «Voglio ancora salvare la mia gente. E lo farò, una famiglia alla volta. O combattendo.» Fece cenno a Kuma di lasciare andare Arlong, e lui obbedì. «Capisco come ti senti: anche io vorrei prendere il mio fucile e marciare verso Pithiviers. Ma preferisco rimanere qui e preparare l'offensiva che mi permetterà di aiutare anche gli ebrei che ho dovuto lasciare in Germania.» Si voltò verso il suo gruppo. «Se volete andarvene perché non approvate la mia decisione, mi dispiacerà ma lo capirò.» Allungò la mano per indicare Sabo. «Ma io voglio restare dove posso avere i mezzi per combattere e proteggervi.»

Nessuno degli uomini si mosse. Arlong si era alzato ed aveva sputato per terra, ma né lui né il suo gruppo aggiunsero una parola. Aladdin si era sporto per controllare Koala, ma a parte un taglio in bocca e il rossore per il colpo sul viso, stava bene.

«Possiamo continuare» disse Sabo dopo aver lasciato passare qualche minuto, e riprese a spiegare cosa avrebbero dovuto fare per la fuga in Spagna. Il primo gruppo, con Otohime e un altro paio di donne, sarebbe andato con Kuma. Con lui sarebbe dovuto andare, a scelta, un altro del gruppo che desiderava rimanere in Francia a combattere, in modo che potesse imparare la strada e poi tornare indietro a prendere il resto delle donne. Era ora per Kuma di tornare in Inghilterra a riferire e non poteva permettersi di ripetere il percorso per una terza volta.

Sabo lasciò l'Armée Juive a decidere chi sarebbe partito con il primo gruppo di emigranti e tornò verso il castello con Kuma. Dovevano preparare anche le provviste per i primi giorni di marcia, per cui Sabo, dopo aver bruciato la mappa della Francia affinché non restassero prove del percorso, si recò da Dadan per chiederle aiuto. Predisposero tutto per la partenza quella notte stessa.

Mentre tornava verso il castello seguendo il fiume, si fermò un attimo al mulino. Era in rovina, con la ruota ormai marcia bloccata dalle pietre. Dovevano nascondere il raccolto dai tedeschi, che altrimenti gliene avrebbero confiscato la maggior parte, per cui usavano gli asini per muovere la macina, fingendo che il mulino non funzionasse più.

«Pithiviers...» mormorò fra sé, sedendosi sul ciglio del fiume. Era a nord di Parigi, non vicino ma nemmeno lontano da dove si trovavano. Tre giorni di marcia, forse quattro e ci sarebbe arrivato. Nella mente poteva quasi raffigurarsi le famiglie stipate negli edifici in attesa del loro destino. Se avesse fatto esplodere i muri sarebbero potute scappare. E poi la milizia avrebbe sparato sulla folla, aggiunse la voce della sua coscienza, che aveva assunto il tono di Dragon.

Lo sapeva. Non poteva far niente per salvare quegli ebrei, ma non significava che ci convivesse. Quante persone aveva salvato, da quando la guerra era iniziata? Per quello che ricordava, il numero si riduceva ad uno soltanto: se stesso. Abbassò la testa e lasciò che il dolore scorresse libero per una volta. Quando sarebbe tornato al castello, avrebbe dovuto di  nuovo avere la forza per sopportarlo.

Sentì un rumore dietro di lui e si voltò di scatto, ma era solamente Koala che compariva dal dietro il mulino. Si guardarono per un attimo, poi lei si sedette di fianco a lui sull'erba, con i piedi che quasi toccavano l'acqua. Non disse nulla. Sabo si asciugò le lacrime e tornò a fissare il fiume che scorreva lento nel suo argine: era l'unica cosa che non era cambiata in quegli anni.

Rimasero seduti in silenzio ad osservarlo, come se il suo scorrere potesse far scivolare via da loro tutte le preoccupazioni.

 
In viaggio da Château d'Ô a Parigi, 20-25 Luglio
 
«Ho bisogno di te» disse Sabo a Koala. Sapeva che lei non avrebbe apprezzato la richiesta che stava per farle, quindi cercò di far uscire le parole rapidamente con l'impressione che notasse di meno quello che le stava chiedendo. «Mi serve una donna incinta.»

«Cosa?» In effetti la richiesta poteva essere fraintendibile.

«Devo andare a Parigi per comprare un pezzo di ricambio per il telegrafo, o non riuscirò più a comunicare col mio capo» si spiegò meglio lui. «Potrebbero esserci posti di blocco sulla strada e ho notato che la Milice tende ad essere meno severa con le donne, specie se incinte.» La cosa non le fece piacere, poteva notarlo benissimo. «Fosse per me lo chiederei anche agli altri, ma insomma, non credo ingannerebbero nessuno. I soldati sono gentili, non stupidi.»

Per un attimo, Koala passò lo sguardo su alcuni uomini del gruppo e ridacchiò: probabilmente se li stava immaginando vestiti da donne e la cosa doveva essere ridicola. «Puoi farlo tu» gli disse poi. «Cicatrice a parte, hai un viso femminile.»

Sabo ci rifletté per un attimo, ma decise che non sarebbe stato quello il giorno di lottare per la parità dei diritti. «Lascia perdere, andrò da solo.»

«Aspetta» lo fermò lei. «Lo faccio. Ma spero che ti vada bene solo una donna, perché per l'incinta ci vorrebbe troppo.»

«Non volevo dire quello...» arrossì lui, facendola scoppiare a ridere. «Grazie.»

Aveva chiesto a Dadan un carretto in prestito, assieme ad un asino che usavano per macinare il grano. La C4 sarebbe stata più comoda, ma avrebbe decisamente attirato l'attenzione, mentre loro avevano bisogno di passare inosservati. Koala si era fatta prestare un vecchio vestito di Dadan e l'aveva leggermente riadattato perché gli andasse  preciso e per poterci nascondere sotto la finta gravidanza, sotto forma di due pezzi di stoffa arrotolati. Nonostante la stranezza della situazione, Sabo si era fissato a guardarla: era la prima volta che non nascondeva i seni e improvvisamente sembrava un'altra persona.

Lei non parve apprezzare il suo sguardo e salì sul carretto dopo avergli scoccato un'occhiataccia. Sabo si rese conto che forse quella richiesta non fosse stata una buona idea, perché avrebbe significato dover trascorrere parecchi giorni da solo con lei. Non è che i loro rapporti fossero così pessimi come prima, ma si sentiva sempre un po' a disagio. Sapeva che non voleva essere trattata diversamente in quanto donna, ma allo stesso modo per lui era difficile vederla in un altro modo.

«Senti, mi dispiace» le disse dopo un po'. Un viaggio in completo silenzio l'aveva già fatto con Kuma ed era stato terribile. Con lui, però, aveva difficoltà a parlare perché era un soldato esperto, lei invece aveva all'incirca la sua età. «È solo che, insomma... Tu sei una donna e per me è un po' difficile fingere che tu non lo sia, ecco... E poi sei... sei ca... cari...» La voce gli mancò e si chiese se non avesse  peggiorato le cose.

Koala si affiancò a lui alla guida del carretto e lo fissò intensamente. Poi scoppiò a ridere. «Sei diventato tutto rosso!»

«Non è vero!» protestò lui.

«Fa' niente» allargò le braccia lei. «Sei tenero. Si vede che sei giovane.»

«Guarda che avrai la mia età.» Non apprezzava molto sentirsi dare del ragazzino, anche quando si trovava in situazioni in cui effettivamente non aveva esperienza.

«Quanti anni hai?» fu l'ovvia domanda successiva.

«Diciannove.»

«Ah! Io ne ho venti!» esclamò Koala soddisfatta.

«È solo uno in più!»

«Ma tu non sei comunque esperto di ragazze, vero?» ribatté lei. «Scommetto che non ne hai avuta nemmeno una.»

«Non è affatto vero, io ed Ace teniamo il conto da sempre» rispose lui. «Non sono mai andato fino in fondo, ecco tutto.»

Da quando avevano avuto la prima eiaculazione lui ed Ace avevano deciso di sfidarsi anche in quello. Con Rufy dietro, che invece era ancora un bambino, era difficile riuscire a combinare qualcosa, per cui in media si trattava di tentare di affascinare qualcuna abbordata per la strada. Per di più, avendo frequentato il collegio maschile, non aveva avuto molte ragazze da guardare.

Sia lui sia Ace preferivano le donne più grandi che vivevano a Montparnasse, ma loro ovviamente non degnavano di uno sguardo i ragazzini, per cui al massimo erano riusciti a far loro delle fotografie. Poi Ace aveva ammesso di essere omosessuale e le sfide si erano fermate perché sarebbe stato più difficile abbordare i maschi per strada.

«Chi è Ace?» domandò Koala, risvegliandolo dai suoi pensieri.

«Mio fratello» rispose immediatamente, quasi senza pensare. «Be', non proprio. Io, lui e Rufy abbiamo giurato di considerarci fratelli, ma non lo siamo veramente» si corresse. «Per me però contano molto di più della mia vera famiglia.»

Koala sembrava interessata. «Anche loro sono nella resistenza?»

«Oh, no. Loro sono americani. Per fortuna» aggiunse. Anche se gli Stati Uniti erano entrati in guerra, loro due non avevano alcun motivo per arruolarsi e la cosa lo rassicurava, perché li sapeva al sicuro.

«Quindi sono loro le altezze sulla colonna?»

«Le avevi notate?» Sabo scoppiò a ridere. «Venivano in Francia solo per le vacanze estive, quindi dovevamo assolutamente verificare quanto eravamo cresciuti nel frattempo. Poi mio padre ci ha beccato» raccontò. «A detta sua avevamo rovinato un'importantissima opera storica. Proprio per questo non ha mai trovato qualcuno che fosse, secondo lui, all'altezza di restaurare la colonna e quindi è rimasta così!»

«E la tua famiglia vera?» domandò Koala, con un po' di titubanza.

«Anche loro sono in America, adesso» rispose Sabo, alzando gli occhi al cielo. «Sono scappati alla prima avvisaglia di guerra, figuriamoci. Per loro è sempre importato più il patrimonio di tutto il resto.»

«Sono davvero così ricchi? Insomma... Non avevo mai conosciuto nessuno che abitasse in un castello.»

«Sì, molto.» Sabo stava guardando di fronte a sé. «Non me n'ero mai accorto, finché non mi sono trovato in guerra, di quanto fossi privilegiato. Anche se ho sempre trovato snob la mia famiglia, alla fine usavo i loro soldi. Se c'è stata una cosa positiva della guerra è stata questa.»

«Ah, e pensare che io volevo chiederti scusa per averlo pensato» commentò Koala facendo un gesto accennato con la mano. «Se dici così non serve più.»

«Be', no, non sono mai stato così pessimo come credevi» si irritò un attimo lui. Gli dispiaceva che qualcuno lo accomunasse nel gruppo di suo padre, perché si era sempre opposto a quello che lui rappresentava. «Voglio dire, non sono mai stato razzista, o antisemita... Per me quelle cose non contavano. Però pensavo solo a me stesso, a quello che volevo fare io. O ad aiutare le persone a cui tenevo. È solo quando è scoppiata la guerra che ho sentito che volevo fare qualcosa anche per gli altri.»

Lei annuì. «Ti capisco, è come quando ho incontrato Fisher Tiger. Lui mi ha aperto un mondo, salvandomi.» Sorrise appena. «Sono diventata ebrea per lui.»

Questa era una novità. «Ah, ecco perché Arlong ti ha definito falsa» commentò, ricordandosi la scena.

Lei annuì. «Non è cattivo, ma ne ha passate troppe ed ha reagito male» lo giustificò. «Io sono ebrea perché Fisher Tiger mi ha convertito davvero. Ho persino cercato d'imparare l'yiddish

«Non lo metto in dubbio» disse subito Sabo. Capiva bene cosa significava avere un uomo da ammirare, per lui era stato Dragon.

Dopo quello, rimasero in silenzio per un altro po', ma era un silenzio diverso dal precedente, era come quando si erano trovati al mulino.

«Parlami ancora dei tuoi fratelli» gli chiese Koala, dopo un po'. Sabo sorrise: per quello, c'era modo di occupare tutti i giorni di viaggio per Parigi. E così fu.

Per altro non incontrarono difficoltà lungo la strada né da parte della polizia né da parte di altri. Un paio di sere riuscirono addirittura a trovare un tetto dove riposarsi, dato che all'addiaccio uno di loro due doveva comunque rimanere di guardia.

Il numero di persone incontrate, benché senza alcun problema, aumentò man mano che si avvicinavano a Parigi. La strada era diventata asfaltata e spesso capitava che passassero delle automobili, per cui trovarono più sicuro lasciare il carretto e l'asino ad una casa in periferia e poi recarsi in città a piedi, camminando sul ciglio della strada.

Erano appena entrati a Parigi da sud-ovest, seguendo il corso della Senna, quando un'automobile si fermò di fianco a loro e ne scesero due gendarmi. Jango e Fullbody erano due normali poliziotti, né buoni né cattivi e non troppo intelligenti, ma persino loro trovavano curioso due ragazzi che camminavano dalla campagna fino alla città. I vestiti, di proposito, non erano quelli tipici dei cittadini.

«Hei, voi» li chiamarono. «Che cosa state facendo?»

Sabo aveva stretto la mano di Koala nella sua. «Sto accompagnando mia moglie all'ospedale, signore» rispose. «È incinta» specificò, anche se non avrebbe dovuto essercene bisogno.

«Avete i documenti?» domandò Fullbody, che aveva scrutato Koala da testa a piedi con interesse, ma aveva poi fatto un'espressione disinteressata una volta arrivato alla vistosa pancia (finta) che aveva. «Da dove venite?»

«Da Feucherolles.» Sabo aveva abbassato lo zaino per recuperare i documenti, che gli consegnò. Erano ovviamente falsi, ma non dubitava che nessuno dei due gendarmi che aveva davanti fossero capaci di distinguerli. Aveva scelto un paese abbastanza vicino da giustificare il loro arrivo direttamente a Parigi.

«Non ci sono medici là?» domandò Fullbody, il quale non sembrava aver notato alcun problema nei documenti.

«L'unico medico era ebreo.» Sabo li vide imbarazzati e per un attimo si chiese se anche loro avessero partecipato al rastrellamento di giugno. Sarebbe stato possibile, dato che la zona interessata era la regione di Parigi.

Anche Jango diede un'occhiata ai documenti, quindi glieli riconsegnò. «Avete il permesso di circolazione?»

«No.» Sabo deglutì: non aveva fatto in tempo a prepararli, anche se sapeva che avrebbero potuto chiederglielo. «Ci vogliono giorni per procurarseli e mia moglie stava male, io...» L'obiettivo era muoverli a pietà, per questo aveva scelto la copertura di una donna incinta.

Koala superò se stessa. Si strinse la pancia, si piegò sulle ginocchia e gridò: un secondo dopo, liquido rosso scivolò oltre le sue caviglie e macchiò il terreno. Sabo si preoccupò seriamente, dato che sapeva che la gravidanza era falsa e non riusciva a spiegarsi come potesse stare male veramente.

I due gendarmi sembrarono a disagio. «Sentite, va bene» disse Jango. L'ultima cosa che voleva era avere problemi con una donna incinta. «Andate pure.»

«Oh, grazie! Grazie mille!» Sabo li vide salire in automobile e allontanarsi. Se fossero stati dei poliziotti come si doveva, probabilmente li avrebbero accompagnati all'ospedale, ma incredibilmente il fatto che non lo fossero li aiutava, perché all'ospedale sarebbe stato davvero difficile spiegare come potessero sanguinare dei pezzi di stoffa.

Una volta che si furono allontanati dalla strada principale, Sabo fissò Koala ed esclamò: «Come cavolo hai fatto?!».

«Ho le mestruazioni.» Lei rise. «Mi ricordavo quello che avevi detto sui poliziotti gentili e ho pensato che potesse servire, quindi ho solo fatto uscire un po' di sangue dall'assorbente.»

«Vedi? Non avrei mai potuto fare questo senza di te. Sei fantastica.»

«Be', anche un maschio travestito avrebbe potuto farlo, bastava un po' di sangue di gallina...» si schernì lei, ma il complimento le era piaciuto. Sabo era entusiasta e onesto.

«A un maschio non sarebbe mai venuto in mente» gli assicurò lui. Prese uno dei suoi vestiti di riserva per farla pulire, dato che sarebbe stato un problema camminare per strada così sporca, e poi ritornarono nella strada principale.

Fortunatamente il negozio che stavano cercando non era distante dal quartiere in cui erano entrati e riuscirono a trovarlo facilmente. Il proprietario li squadrò da capo a piedi, ma quando Sabo pronunciò la parola chiave si limitò ad annuire e a fargli segno di seguirlo nel retro. Lì aveva scavato una piccola buca sotto una delle piastrelle del pavimento, e vi teneva alcuni pezzi di ricambio che sapeva destinati a radio, telegrafi o stampanti illegali. Consegnò a Sabo ciò di cui aveva bisogno e se lo fece pagare più del necessario. Non che fosse strano, le persone rischiavano molto e parecchie volevano qualcosa in più per il rischio. Fortunatamente potevano sfruttare i franchi che Kuma aveva portato con sé.

Prima di lasciare il negozio, nascosero il pezzo di ricambio all'interno della stoffa che costituiva la pancia di Koala.

«Tutto qui?» domandò lei, notandone le dimensioni. «Pensi di riuscire ad aggiustarlo da solo?»

«Lo spero, ma forse c'è anche qualcuno al villaggio che può aiutarmi» rispose Sabo. «Ma senza questo non si può chiamare il capo, e significherebbe essere senza la loro protezione. Non mi piace come situazione.»

Lasciarono il negozio e si avviarono a recuperare il loro carretto.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 1942 - Parte III ***


 
1942 - Parte III
 
 

 
Verso Château d'Ô, 30 Luglio
 

Sabo alzò lo sguardo al rumore e vide un'automobile in lontananza. Poiché era raro vederne nelle strade sterrate delle campagne, si voltò verso Koala. «Stai sdraiata.» Lei non se lo fece ripetere un attimo, anzi, chiuse gli occhi fingendosi in riposo.

Quando l'automobile fu più vicina, Sabo notò che la marca era straniera: una Volkswagen. Fece comunque finta di nulla, controllando la situazione con la coda dell'occhio, mentre ordinava con le redini al vecchio asino di Dadan di spostarsi un po' sulla destra. Tuttavia, la macchina frenò esattamente davanti a loro e gli uomini scesero. Sabo sperò di non essere sembrato troppo sorpreso, mentre imprecava mentalmente: non erano solo soldati tedeschi, erano delle SS. Erano solamente in quattro, anche se ciò non rendeva la loro situazione meno preoccupante, perché nonostante fossero un paese occupato, era raro che le SS vi si recassero. Doveva essere qualcosa riguardate gli ebrei.

L'uomo che si presentò davanti a loro era l'Obergruppenfűhrer Sakazuki. Parlava un buon francese e il suo grado era piuttosto alto. Sabo lo fissava e si sentiva agitato.

«Avete il permesso di circolazione?» domandò loro. Aveva guardato attentamente i loro documenti, poi li aveva passato ad uno dei suoi sottoposti affinché lo controllasse anche lui.

«Mi dispiace, no.» Sabo aveva l'intenzione di presentare davanti a loro la medesima commedia che aveva già recitato davanti ai due gendarmi a Parigi. «Ci vogliono giorni per procurarseli e spesso non è nemmeno possibile, mia moglie stava male, non sapevo cosa fare...» Sfruttava la sua agitazione per mostrarsi davvero come un marito preoccupato.

«Certo, capisco.» Sakazuki parlava con un tono di voce molto basso, ma non faceva trapelare nulla di ciò che pensava. «L'amministrazione qui dovrebbe funzionare in modo più efficiente, come in Germania.» Gli altri tre uomini continuavano a fissare i documenti e parlavano sottovoce in tedesco. Sabo non riusciva a capire cosa dicessero. «Come sta adesso, signora?» domandò Sakazuki, che aveva fatto qualche passo avanti per poter scrutare meglio nel carretto.

«Bene» rispose lei in un sussurro.

«Siete una coppia molto giovane» commentò lui casualmente.

«Be', sa, la guerra... Si prende quello che si può» rispose Sabo con un accenno di sorriso. «E poi non è lo stesso Fűhrer che consiglia di avere molti bambini?» Aveva letto molta, troppa della propaganda nazista.

«Vero» annuì Sakazuki. «Mi stupisco che si conosca così bene la saggezza tedesca anche qui.»

Sabo si morse la lingua: nel tentativo di sembrare collaborazionista aveva esagerato. «I buoni consigli arrivano in fretta.»

Gli uomini avevano smesso di controllare i documenti e uno di loro esclamò qualcosa. La frase fu troppo veloce ed improvvisa e Sabo, che era ancora un novellino nello studio della lingua, non ne colse il significato appieno. Quello che riuscì a capire però gli gelò il sangue nelle vene, perché sapeva che era in riferimento alla falsità dei documenti che avevano consegnato.

L'espressione di Sakazuki, tuttavia, non cambiò. «Posso toccarle la pancia, signora?» domandò in tono cordiale. «Come buon augurio.»

Koala e Sabo si scambiarono un'occhiata, che normalmente sarebbe passata come semplicemente titubante nei confronti di una richiesta strana ma che non potevano rifiutare. In realtà erano terrorizzati: se avessero detto di no, sarebbero risultati sospetti, ma non potevano certo dire di sì. Poi Sabo notò che la forma della finta gravidanza di Koala era leggermente cambiata. Capì ed annuì.

Allora lei si fece leggermente avanti trascinandosi con le gambe sul carretto, in maniera che Sakazuki potesse toccarla, ma un attimo prima che lui lo facesse, sparò. Aveva nascosto la Webley, una delle armi che Kuma aveva portato dall'Inghilterra, sotto il vestito, e aveva la mano sul grilletto fingendo di tenersi la gonna. Sparò tutti i suoi colpi sull'uomo di fronte a lei, il quale cadde riverso sul carretto con una botta secca, quasi ribaltandolo.

Sabo era balzato a terra un attimo prima, si era chinato ed aveva estratto il suo revolver da dentro lo stivale. Il colpo improvviso di Koala aveva preso di sorpresa le altre tre SS, che non erano state in grado di reagire istantaneamente. Lo aveva fatto invece l'asino, spaventandosi ed iniziando a scalciare. Quei pochi minuti avevano dato tempo a Sabo di mettersi in posizione: aveva solo sei colpi e non li avrebbe sprecati. Due per ciascun soldato, uno alla testa e uno al petto, per essere sicuri. La vicinanza non gli aveva fatto sbagliare mira.

Koala era  balzata giù dal carretto, dopo aver spostato con un calcio Sakazuki ed essersi assicurata che fosse morto davvero. «Ho dovuto farlo, ci avrebbero scoperti.»

«Già. Siamo stati sfortunati.» Ma Sabo non pensava si trattasse di sfortuna: se le SS si trovavano in quella regione, voleva dire che era successo qualcosa di grave. Però Koala aveva ragione, se li avessero arrestati o perquisiti avrebbero trovato delle armi britanniche e il pezzo di ricambio per il telegrafo, cosa che li avrebbe compromessi definitivamente e avrebbe rischiato di far scoprire anche l'intera Armée Juive o il progetto degli aviatori inglesi.

«Non possiamo lasciarli qui» affermò, dopo aver controllato che fossero tutti e quattro effettivamente morti. «Se scoprono l'uccisione di soldati tedeschi, potrebbero rifarsi sulla popolazione dei dintorni.»

«Come li nascondiamo?»

Sabo si guardò attorno: poco lontano iniziava un bosco che sembrava piuttosto fitto. Le fattorie attorno erano abbastanza distanti, quindi probabilmente non avevano sentito gli spari, il che gli forniva un po' di tempo. Salì sulla Volkswagen e la diresse a tutta velocità verso gli alberi, quindi si buttò fuori dalla portiera un minuto dopo. Lo schianto era stato forte, ma non abbastanza.

«Mettiamoli dentro» disse. Trascinarono con fatica i cadaveri e li sistemarono nei seggiolini. Poi recuperarono anche la terra dalla strada che si era macchiata di sangue, gettandola sparsa all'interno del bosco dove probabilmente nessuno sarebbe andato a controllare e pulirono anche il carretto, che decisero di abbandonare nel campo arato poco distante. Dovevano allontanarsi di fretta, quindi era meglio proseguire a piedi. L'asino era ormai scappato e non potevano perdere tempo a recuperarlo.

Poi Sabo sparò al serbatoio un paio di colpi con la Webley di Koala. Un attimo dopo era steso a terra per proteggersi dalla forte esplosione che ne seguì.

Il rumore avrebbe di sicuro attirato qualcuno, per cui era meglio sparire al più presto. Però la scena avrebbe dato l'idea che si fosse trattato di un semplice incidente autostradale, e con un po' di fortuna i corpi sarebbero bruciati tanto da non permettere di individuare ad una prima occhiata i colpi di pistola che li avevano uccisi. Anche se l'avessero scoperto successivamente, almeno avrebbero guadagnato un po' di tempo.

Proseguirono per il castello prendendo una strada diversa, più lunga ma più lontana dal luogo dell'incidente.

Fu molto strano arrivare e non trovare nemmeno una persona che sorvegliava il parco che circondava il castello. L'incontro che avevano avuto li aveva preoccupati a sufficienza per prendere qualsiasi movimento differente dal normale come un fattore negativo. Si scambiarono un'occhiata prima di avvicinarsi con circospezione all'edificio. Si sentivano dei rumori, sicuramente dei passi agitati all'interno, ma nulla di troppo diverso dal solito. Erano i gemiti che si sentivano che li preoccupavano.

Sabo prese il suo fucile e salì la scala della cucina con circospezione, fino al corridoio degli specchi. Era la stanza che avevano adattato a dormitorio perché era la più ampia; al momento, più che un dormitorio pareva un'infermeria. Aladdin si spostava da una branda all'altra spargendo cure e parole, mentre alcuni degli ebrei che sembravano ancora in perfetta salute lo aiutavano come potevano.

«Che cavolo è successo?!» esclamò Sabo.

«Dov'è Fisher Tiger?» chiese invece Koala. Se alcuni degli uomini erano feriti, doveva esserci un grave motivo per tenerlo distante da quell'infermeria improvvisata.

Aladdin alzò lo sguardo. «Ah, siete tornati» disse solo. «Sono impegnato, se volete spiegazioni chiedetele agli altri.» Ed accennò con la testa alla fine del corridoio. Evidentemente doveva essere un racconto lungo, il che non preannunciava nulla di buono.

Superarono con attenzione tutta la sala degli specchi: alcune ferite erano superficiali, mentre in altri casi la situazione sembrava grave. Al termine c'era la stanza verde, che un tempo veniva utilizzata come salotto per gli ospiti. Era completamente vuota rispetto al periodo in cui Outlook vi passava del tempo, e Hachi stava seduto sul davanzale della finestra a fissare il lago sottostante e singhiozzava. Fu a lui che i due ragazzi ripeterono le loro domande, con molta più apprensione rispetto a quando le avevano poste ad Aladdin. Difatti, Hachi faceva parte del gruppo che aveva accompagnato Kuma verso i Pirenei e, secondo lo schema che avevano fatto, avrebbe dovuto essere in viaggio per condurre il secondo gruppo verso il confine.

Hachi scoppiò a piangere e inizialmente fu molto difficile riuscire a tirargli fuori delle parole o comprendere quello che stava dicendo quando ci riusciva, per cui Sabo pensò che fosse meglio cercare di indirizzarlo verso la strada giusta.

«Otohime e i suoi sono salvi? Siete tornati indietro a prendere Kaime e gli altri?»

«S-sì...» Hachi annuì. «Siamo partiti da qui seguendo la strada che l'inglese ci aveva indicato e poi...»

«Un'imboscata.» Sabo e Koala si volsero verso la porta, dove si trovava Arlong. Se non fosse stato per la voce, sarebbe stato praticamente irriconoscibile: il viso era completamente bendato e si vedevano le macchie di sangue che lo costellavano. Uno degli occhi era coperto, mentre l'altro brillava di rabbia. Persino il suo enorme naso era stato schiacciato. Aveva bende anche in numerose parti del corpo, ma ciò che colpì Sabo furono le mani: il sangue era maggiormente concentrato sulla punta delle dita. Era stato torturato.

«Che cosa significa?» domandò Koala lentamente, umettandosi le labbra.

«Era la Milice Français» rispose Arlong. Le ferite dovevano essere dolorose, ma la rabbia lo rendeva lucido. «Era come se sapessero dove saremmo passati.» Lo sguardo che gli aveva scoccato con l'unico occhio libero non piacque a Sabo, ma decise di soprassedere: era al comando dell'intera operazione e se qualcosa era andato storto doveva saperlo.

«Siete riusciti a scappare?»

«Solo Hachi.» Arlong accennò col capo all'uomo ancora singhiozzante alla finestra.

«Sarebbe stato meglio che avessero arrestato anche me» disse lui, in un francese finalmente comprensibile, per quanto venato dai singhiozzi.
«Dov'è Fisher Tiger?» domandò per la terza volta Koala, ma ottenne solamente una nuova scarica di pianto.

«È venuto a salvarci, assaltando la stazione della polizia dove stavano aspettando ordini per decidere cosa fare di noi» spiegò allora Arlong. La sua voce era ferma, ma tremava per la rabbia. «Ci ha salvati tutti, o quasi... E ci ha rimesso la vita.»

Lo sguardo di disperazione sul viso di Koala era qualcosa di terribile da vedere. Era paralizzata completamente, senza nemmeno la forza di piangere. Guardava fisso davanti a sé e le labbra erano leggermente incurvate, quasi come se si aspettasse che le dicessero che era tutto uno scherzo e dovesse sorridere immediatamente al ritorno di Fisher Tiger.

«Vi avevo detto di non prendere iniziative finché non fossi tornato da Parigi!» sbottò Sabo. La sua rabbia non era indirizzata verso qualcuno in particolare, o forse verso se stesso per non essere stato presente ad impedire quella carneficina. Era sicuro che Dragon avrebbe trovato una soluzione per liberarli senza tentare un'azione così pericolosa.

«Tu gli avresti detto di non farlo, vero? Ci avresti lasciato a morire, tanto chissenefrega di qualche ebreo di meno al mondo!»

Arlong avrebbe continuato a parlare, ma Sabo decise di ignorarlo completamente: lo scostò con una mano mentre usciva dalla stanza senza nemmeno guardarlo. Si recò al piano superiore, in quella che una volta era la sua camera e che al momento era stata riservata a area comunicazioni. La delicata operazione di riparazione del telegrafo riuscì a tenergli la mente impegnata abbastanza a lungo da farlo calmare.

Non appena ebbe riparato il meccanismo, inviò immediatamente un messaggio con quello che era successo: Fisher Tiger era morto e la Milice Français era a conoscenza del fatto che l'Armée Juive era nella zona. Forse non avevano ancora trovato il loro rifugio, ma era questione di tempo. La riposta di Dragon arrivò quasi subito: “Lo so. Rimanete dove siete, al momento siete al sicuro. Aspettate istruzioni”.

Sabo si accasciò contro la parete, con un sospiro: aspettare, non fare nulla. Pareva che non ci fosse altro che poteva fare e la cosa lo frustrava oltre ogni limite. Credeva di essere riuscito finalmente a fare del bene, aiutando la famiglia di Otohime e tutti gli altri a fuggire, invece era andato tutto storto e ora si ritrovavano uno dei più importanti nuclei di resistenza senza il loro capo principale e quasi dimezzato.

Sentì dei passi venire nella sua direzione e alzò lo sguardo. Jinbe si era fermato sulla soglia: aveva un braccio fasciato, ma nel complesso era più in salute degli altri.

«Quando Hachi è riuscito a tornare al castello per dirci che gli altri erano stati catturati, ho provato a fermare Fisher Tiger» gli disse. «Lui sapeva che non avresti approvato, lo sapevamo tutti, ma non potevamo fare altrimenti.»

«Assaltare una base della Milice Français!» sbottò Sabo. «Certo che potevate fare altrimenti!»

Jinbe scosse la testa. «Non più. Sono dieci anni che Fisher Tiger aiuta gli ebrei a scappare e non ha potuto salvare tutti. Credo che il pensiero di essere fuggito dalla Germania invece che restare a combattere l'abbia sempre tormentato» gli spiegò. «Era arrivato al punto che non poteva più continuare a sopravvivere per combattere in futuro. Ha preferito andarsene facendo quello che voleva fare.» Si voltò per andarsene. «Voi siete giovani, potete ancora farcela, lui non poteva più sopportarlo. Non giudicarlo troppo male per questo.»

Sabo si chiese se fosse vero: perché anche lui, dopo così tanti fallimenti, forse avrebbe raggiunto il limite delle sue possibilità. Ma non poteva arrendersi, non ancora.

Vedendo che non arrivavano ulteriori messaggi da Dragon, si alzò per andare a casa di Dadan: doveva informarla della situazione, se non ne fosse stata ancora a conoscenza, e chiederle di tenere gli occhi aperti nel caso avesse visto passare delle pattuglie. Dragon aveva detto che erano al sicuro e Sabo gli credeva, senza nemmeno chiedersi come esattamente facesse a saperlo, ma preferiva comunque essere prudente.

Seguì il corso del fiume fino al mulino: Koala era lì, con le ginocchia strette al petto e circondate dalle braccia, la testa chinata.

Piangeva.

«Avrei voluto almeno salutarlo un'ultima volta» disse, quando si accorse della sua presenza, ma senza muoversi dalla sua posizione.

Sabo si sedette al suo fianco senza dire una parola.

 
Mortrée, 6 Settembre
 
La zona della Bassa Normandia dove si trovava Mortrée non era famosa per le sue residenze come la Valle della Loira, ma aveva il suo piccolo distretto signorile, costituito da sei palazzi risalenti circa al XVI secolo; uno di questi era lo Château d'Ô. Quando Sabo usciva per le ricognizioni giornaliere, aveva preso l'abitudine di passare per le altre cinque residenze, che erano tutte chiuse e abbandonate come quella della sua famiglia.

Non c'era un motivo, solo conosceva il percorso perché suo padre lo costringeva spesso ad andare in visita ai vicini, anche se erano odiati, e quindi i sentieri dove passare senza essere individuato dai paesi a cui i palazzi afferivano. L'unico paese che non evitava era proprio Mortrée, dato che i cittadini si erano presto accorti della confusione attorno al castello; nonostante l'antisemitismo imperante anche in Francia, Mortrée aveva subito per mesi l'occupazione tedesca e questo li spronava a non essere collaborazionisti con la polizia. Erano i primi che avevano escogitato diversi sistemi per nascondere i raccolti agli occupanti, con l'aiuto di Dadan e degli altri.

Anche quel giorno, quindi, Sabo passò per la via principale, nonché praticamente unica, del paese, ma capì subito che c'era qualcosa che non andava. Come tutti i posti nel nord della Francia, Mortrée aveva subito un'emigrazione, senza considerare i soldati che aveva fornito e che erano ancora prigionieri in Germania; tuttavia, era sempre possibile incontrare qualcuno mentre si passava, specialmente a quell'ora della giornata.

Per un attimo, Sabo temette che la milizia li avesse finalmente trovati, e che tutti si fossero chiusi in casa in attesa del destino inevitabile che avrebbero avuto gli ospiti al castello. Lo sparo che seguì gli diede la certezza che aveva indovinato, quindi scattò in avanti seguendo il rumore, ma si rese subito conto che era troppo vicino per essere stato sparato al castello.

La via principale si allargava in avanti in un piccolo spiazzo che non si poteva nemmeno definire piazza, ma era semplicemente una zona più larga, su cui a volte si trovavano le anziane signore sedute sulle soglie delle porte. Ed era proprio in quel posto che era radunato, da quello che sembrava, l'intero paese. Qualsiasi cosa stesse succedendo, era talmente grave che impediva a chiunque di notare il suo arrivo, per cui Sabo si fece strada quasi a forza tra le persone fino a raggiungere lo spazio libero.

La scena lo paralizzò per un attimo. Arlong era al centro della piazzola, con il suo gruppo e i fucili in mano. Dovevano già aver sparato anche in precedenza, perché non era uno solo il ferito tra le persone in prima fila. I colpiti erano quasi tutti uomini, dei pochi che erano rimasti in paese, ma non sembravano ferite gravi. La maggior parte degli abitanti stava indietro e fissava la situazione senza sapere come intervenire.

«Cosa cavolo sta succedendo?!» esclamò Sabo, palesando finalmente la sua presenza.

Si riferiva non tanto alla sparatoria, ma alla scena che aveva attirato i suoi occhi. Al muro esterno di una delle case che si affacciavano sulla piazza erano state inchiodate tre persone. I pezzi di metallo, di forma e dimensione diverse perché probabilmente recuperati da vari oggetti, erano stati infilati direttamente nella loro carne, negli avambracci e nelle cosce. Il fatto che fossero costretti a tenere le braccia in alto faceva scorrere il sangue più velocemente.

Dei tre, Sabo ne conosceva perfettamente due: il dottore del paese, che spesso era stato necessario quando la sua famiglia passava le vacanze al castello, e il vecchio guardiano, Genzo, che era rimasto disoccupato dopo la partenza di suo padre per l'America. Erano tutti e due brave persone.

Non aveva mai visto la donna, invece; Dadan gli aveva detto che era nata a Mortrée ma abitava da anni negli Stati Uniti, ed era tornata solamente perché preoccupata per lo stato di guerra in cui versava la Francia. Sembrava essere quella che era stata torturata più pesantemente: la maglia era strappata e il seno gocciolava sangue in maniera copiosa; alcune macchie nere sembravano indicare delle bruciature.

«Ah, sei tu.» Arlong gli aveva lanciato un'occhiata annoiata, ma non gli aveva risposto.

«Per favore, abbiamo bisogno del medico!» disse una donna al fianco di Sabo, che teneva una gamba premuta sul braccio di un ragazzo, probabilmente suo figlio.

«Ti ho chiesto cosa cazzo sta succedendo!» Sabo percorse la piazza con ampie falcate e si sistemò davanti ai tre crocifissi: solo i due uomini avevano alzato la testa quando l'avevano visto.

«Stiamo solo dando una lezione a questi traditori» rispose finalmente Arlong, con un tono condiscendente. «Sono sicuro che è colpa loro se siamo finiti in quell'imboscata e se Fisher Tiger è morto. D'altronde, per loro siamo solo ebrei, chissà, magari gli dava fastidio che stavamo nei paraggi.»

«Non puoi saperlo» rispose Sabo, stringendo i denti. Sapeva che molti francesi erano collaborazionisti, non ultimi la milizia che aveva effettuato il rastrellamento di Giugno. Tuttavia, riteneva stupido che i francesi si combattessero fra di loro quando avevano un nemico comune da scacciare. Non c'erano stati già abbastanza morti a Mortrée, senza creare processi improvvisati?

«Non siamo stati noi!» gridò qualcuno dal gruppo che era radunato ad assistere allo spettacolo, e per tutta risposta Arlong sparò a caso sulla folla: la persona colpita si accasciò e venne immediatamente sostenuta dai vicini.

«Me ne occupo io» gridò immediatamente Sabo, per evitare che parlassero ancora e finissero solo per farsi sparare addosso. Poi tornò a rivolgersi al gruppo dell'Armée Juive. «Non sono stati loro.»

«Ah, e su che base lo dici? Perché non sono ebrei?» Il fatto che puntasse direttamente ad indicare la sua religione nonostante nessuno l'avesse nominata indicava chiaramente qual'era il problema: l'antisemitismo di cui era stato fatto oggetto l'aveva reso peggiore dei suoi aguzzini. Qualsiasi prova avesse portato per l'innocenza dei cittadini non sarebbe bastata.

«Fisher Tiger non avrebbe mai voluto questo» disse Sabo, in tono basso. «Ti stai comportando come i nazisti che lui ha combattuto per anni.»

«L'unico errore di Fisher Tiger è stato fidarsi di te!»

«Eppure è grazie a me e a Kuma, se tua sorella adesso è in un paese non in guerra» rispose Sabo con molta tranquillità. Shirley era partita con il primo gruppo, quello che era riuscito a passare senza problemi i Pirenei. Scoccò un'occhiata ai feriti. «Hanno bisogno di un medico» affermò. Senza più badare al gruppo, si voltò a controllare la situazione dei tre che erano stati crocifissi. «Ce la fa a lavorare?» domandò al medico, controllando le sue ferite.

Era debole, ma respirava in maniera profonda ed era lucido. «Credo che abbiano reciso i muscoli, non sono in grado di operare» fu la risposta, con voce bassa ma udibile. «Avete un dottore voi, nella resistenza, no? Chiamate lui, io posso fornire alcuni medicinali.» Aladdin aveva già avuto bisogno di rivolgersi a lui per procurarsi rifornimenti, per cui era ovvio che sapesse della sua presenza. Sabo annuì e si sistemò meglio il fucile sulla spalla, per dare l'idea che si sarebbe diretto immediatamente al castello per chiamare Aladdin.

«Per favore, aiuta prima lei!» gridò Genzo. Sembrava essere svenuto, invece si era ripreso immediatamente quando aveva visto che poteva contare su qualcuno. «Le hanno fatto di tutto.» La donna che si trovava fra i due gli sembrava già morta, a dire la verità; non aveva alzato la testa nemmeno per un attimo e il sangue che le usciva dalla bocca e scivolava lungo il mento contribuiva a darle un aspetto cadaverico. Non aiutava l'impressione che le dita fossero state spezzate una ad una.

Arlong le sparò prima che Sabo avesse il tempo di controllare se respirasse ancora. Fu una crivellata di colpi, l'intero caricatore da cinque proiettili contro il petto già martoriato. Il corpo della donna venne scosso contro i pezzi di metallo che lo inchiodavano alla parete, e poi si accasciò definitivamente. «Adesso non ha più bisogno di un dottore» concluse Arlong, ricaricando il suo fucile.

Sabo rimase paralizzato dalla sorpresa, poi dentro di lui sbocciò la consapevolezza che non sarebbe riuscito a fermarli, che non sarebbero stati soddisfatti finché non si sarebbero, secondo loro, vendicati di ciò che era successo a Fisher Tiger. Imbracciò il suo fucile.

«Sparite» ordinò. «Ero venuto qui per arruolarvi, ma non ho bisogno di nazisti nella France Libre. O ve ne andate, o la finiamo qui.» Era solo una minaccia, che non sapeva nemmeno se avrebbe attuato oppure no.

«Hai solo cinque colpi, faresti meglio a non fare l'eroe» rise Arlong. In realtà il fucile di cui disponeva Sabo non era il classico francese, era la Carabina DeListe da otto colpi che Kuma aveva portato dall'Inghilterra, ma non si curò di correggerlo. Lo teneva semplicemente stretto, pronto a sparare. «Be', alla fine questa situazione è anche colpa tua.» E Arlong alzò il suo Mas-36.

Sabo sparò: fu un unico colpo, ma da quella distanza era impossibile sbagliare. Il proiettile si schiantò contro il viso ancora bendato di Arlong, distruggendogli mezza faccia e cancellandogli quel ghigno di rabbia. Cadde all'indietro di peso, alzando la polvere del terreno davanti a se, con il fucile che rimbalzava su di lui. Sangue e materia celebrale si diffusero come aureola attorno alla testa spappolata.

Sabo era rimasto col fucile in posizione, pronto a sparare ancora nel caso gli altri del gruppo tentassero qualcosa. Il fatto che Arlong fosse stato ucciso e che fosse stato lui ad avere il coraggio di sparargli aveva fatto loro perdere tutta la baldanza che avevano dimostrato finora. Hachi, che era l'unico che anche in precedenza sembrava dubitare della situazione, appariva distrutto mentre fissava il cadavere del compagno.

Sabo si rilassò unicamente quando vide apparire, dall'altro lato della strada, l'intera Armée Juive rimanente, per lo meno coloro che stavano bene o che si erano già ripresi dalle ferite inferte durante il conflitto con la milizia francese. Anche Koala era con loro e fu che lei che domandò: «Che sta succedendo?» Era incredula, ma la scena era fraintendibile.

«Chiedetelo a loro» rispose Sabo, in tono secco. «Aladdin, c'è bisogno di te. Penso che tu possa utilizzare gli strumenti qui.» Si rimise il fucile sulla spalla e andò a controllare le condizioni della donna. Non l'aveva notato prima, ma le avevano strappato la lingua, che ora giaceva a terra ai suoi piedi.

«Come sta?» gli domandò Genzo, con apprensione. «Si salverà?»

«Mi dispiace.» Sabo le aveva appoggiato le dita sul collo, non avvertendo alcun battito. Anche il respiro era assente.

Genzo accasciò la testa e singhiozzò. «Maledetti, maledetti...»

Sabo si morse il labbro: lei era venuta dall'America per combattere contro i tedeschi ed era stata uccisa da dei francesi; ebrei, ma pur sempre francesi. Arlong era stato uno stupido: l'odio portava solo altro odio. Non aveva ottenuto altro che far in modo che in cittadini che prima li avevano aiutati adesso li avrebbero odiati tanto quanto o forse più dei tedeschi invasori.

Jinbe aveva già capito la situazione. «Mettete giù quei fucili, subito!» E fissò intensamente tutti gli uomini che avevano appoggiato l'azione di Arlong, finché questi non chinarono la testa e lasciarono cadere a terra le loro armi.

Aladdin aveva già esaminato i feriti nel gruppo. «Sono ferite leggere, ma devo comunque controllarle» affermò. «Portateli nell'ambulatorio cercando di non muoverli troppo.» Poi si avvicinò a Sabo e agli altri due che erano ancora crocefissi alla parete. «Se togliamo i chiodi, uscirà troppo sangue» spiegò, dopo aver controllato dove era stata perforata la carne. «Dobbiamo trasportarli così e poi procedere a tamponare le ferite prima di estrarli.»

Sabo controllò il pezzo di metallo; se si spostavano leggermente in avanti le braccia e le gambe, avrebbe potuto allargare il buco nella facciata e far in modo che il pezzo di metallo uscisse direttamente. Poi avrebbero avuto bisogno di qualcuno che trasportasse i due feriti stando attenti a non far uscire dalla carne il chiodo improvvisato. Ma voltandosi nel cercare aiuto, notò che nessuno, nemmeno i feriti, si era mosso all'ordine di Aladdin.

Era normale, dopo quello che Arlong aveva fatto.

Jinbe si chinò e si inginocchiò, fino a toccare il terreno con la sua fronte. «Mi dispiace per quello che è successo.» Stava piangendo. «Accetteremo qualsiasi vostra decisione successiva, ma adesso, lasciate che vi aiutiamo.» Era per questo motivo che Fisher Tiger l'aveva scelto come suo secondo: non combatteva l'odio con l'odio.

Koala non aveva aspettato che i cittadini di Mortrée decidessero a chi dare ascolto, ma si avvicinò e allungò verso la bocca del dottore ancora crocifisso un pezzo di stoffa. «Stringa forte, farà male» gli disse, prima di voltarsi verso Sabo. «Spostiamo un arto alla volta?»

Sabo annuì: era rassicurato che lei non sembrasse avercela con lui per quello che era successo. E prese il polso del dottore, mentre lei lo afferrò per il gomito. Un attimo dopo, un altro uomo del villaggio era al loro fianco, ad aiutarli. In poco tempo, riuscirono a liberare il dottore, che venne consegnato alle cure di Aladdin, e presero ad occuparsi di Genzo. Respirava a fatica, ma aveva smesso di singhiozzare. Sabo controllò che non avesse ulteriori ferite da tamponare immediatamente.

«Come si chiamava?» gli domandò gentilmente Koala, accennando con la testa alla donna morta al suo fianco. La risposta arrivò quando ormai avevano quasi finito di liberarlo dalla parete, così piano che non erano sicuri di averla sentita davvero.

«Bellmere.»

 
Château d'Ô, 8 Settembre
 
 
Sabo aveva dovuto comunicare a Dragon ciò che era successo al villaggio, nonostante la situazione al momento fosse sotto controllo. Jinbe aveva preso il comando, ma non aveva scacciato gli uomini che avevano appoggiato Arlong, perciò era stata conclusione di tutti che sarebbe stato meglio abbandonare lo Château d'Ô per una più sicura base. Gli abitanti avrebbero potuto covare risentimenti che loro stessi non ammettevano.

Dragon aveva comunicato loro un'altra località dove probabilmente avrebbero trovato rifugio, unendosi ad un altro gruppo di ebrei in fuga. A Sabo, invece, era stato dato ordine di ritornare a Caen. La situazione stava precipitando e non era più momento, per lui, di rimanere in quella regione.

«Ci separiamo qui» disse Jinbe, che lo stava osservando mentre finiva di preparare i suoi bagagli.

«Già.» Sabo annuì. «Ma seguiremo sempre un percorso comune, è per questo che vi lascio il telegrafo.» Indicò il macchinario, già smontato per facilitarne il trasporto, poggiato per terra a fianco della finestra.

«Noi continueremo la nostra missione di salvare ebrei facendoli emigrare per i Pirenei, sulla strada che il Sergente Kuma ci ha insegnato» spiegò Jinbe. Lo accompagnò mentre scendeva le scale della cucina, ma poi si fermò. «Potremo contare su di voi per informazioni e rifornimenti?»

«Naturalmente, a patto che oltre agli ebrei aiuterete anche i soldati inglesi che si paracaduteranno qui per portarci quei rifornimenti.» Dragon era stato molto chiaro, a quel proposito: la via aperta da Kuma aveva uno scopo ben preciso e come tale andava utilizzata, anche se ciò non significava non aiutare chi ne aveva bisogno.

Jinbe annuì: avevano un accordo e pareva ragionevole. Sabo era felice che ci fosse lui al comando dell'Armée Juive, perché avrebbe portato avanti gli ideali di Fisher Tiger, ma con una maggior prudenza. Si salutarono come due vecchi commilitoni e c'era un po' di dispiacere da entrambe le parti. Quando Sabo uscì dalla cucina, gli parve quasi di averlo sentito singhiozzare per un attimo.

Stava decidendo se passare da Dadan per un ultimo saluto prima di prendere la strada per Caen, quando alzò lo sguardo e vide Koala ed Hack in piedi davanti all'ingresso principale del castello, entrambi con il loro bagaglio in mano.

«Veniamo con te» spiegò l'ovvio lei.

«Siete sicuri?» domandò Sabo. Era incredulo che fossero disposti a seguirlo dopo quello che era successo. Lo disse chiaramente: «Ho ucciso Arlong». Anche se era stata legittima difesa, non l'aveva apprezzato lui stesso.

Koala abbassò per un attimo lo sguardo. «Conoscevo Arlong e ho pianto per lui, ma l'odio l'aveva consumato» disse. «Quello che ha fatto a quella donna... È stato orribile.»

Sabo era grato che lei capisse. Quando aveva sparato non si era reso conto delle conseguenze, cercava solo di proteggere quelle persone, solo dopo aveva pensato a quello che poteva comportare. Il fatto che loro non lo odiassero contava molto per lui. «Jinbe lo sa?»

Hack annuì. «Anche lui pensa che sia positivo avere un componente dell'Armée Juive che coordina la situazione dall'Alta Normandia.»

Sabo li fissò: probabilmente per Dragon non ci sarebbero stati problemi, Hack era una persona che capiva come andavano le cose, lo aveva capito prima di tutti quanti. E Koala era in gamba, sarebbe stata un ottimo aiuto.

«Una donna incinta fa sempre comodo alla resistenza, no?» disse lei, anticipando la battuta che lui stava per farle.

«Finché continui a partorire solamente Webley, per me va benissimo» rispose lui, con un sorriso. «Andiamo.»

 
Caen, 12 Settembre
 
 
Caen non sembrava cambiata molto da quanto l'aveva lasciata qualche mese prima. Forse erano aumentati i cartelli con scritto “verboten”, ma dato che il grosso dell'esercito era ormai stato stanziato in Russia, si trattava di avvisi vecchi ed ingialliti. Alcuni negozi avevano addirittura riaperto: era come se la gente avesse iniziato ad abituarsi all'occupazione. Da quello che aveva intuito, però, la povertà e la scarsità di generi alimentari era aumentata, così come la mancanza di manodopera maschile.

Ivankov accolse il suo ritorno abbracciandolo così stretto da fargli pensare che fosse un tentativo di omicidio tipico delle spie dell'est. Forse lo stava anche palpando in posti non riportabili, ma Sabo dovette ammettere che gli era mancato quello strambo dottore dall'accento russo.

Koala ed Hack sembravano fissarlo straniti, ma poi entrambi rimasero soggiogati da Dragon, che aveva fatto il suo ingresso nella stanza accompagnato dalla sua solita aura di autorità.

Sabo li presentò. «Ho pensato che due paia di braccia in più ci facessero comodo.»

Dragon li fissò intensamente. «Benvenuti» disse. «Di aiuti ne abbiamo sempre bisogno. Sarà rischioso e farete cose di cui non andrete fieri, per cui vi ringrazio.» Strinse personalmente le mani ad entrambi, e Sabo tirò un sospiro di sollievo.

«Siete arrivati giusto in tempo» proseguì Dragon, rivolgendosi a tutti. «La Germania ha appena invaso anche l'ultima parte libera della Francia.» La notizia li colse impreparati: il Governo di Vichy era stato collaborazionista al massimo, fino a quel momento. «Era prevedibile, con il grosso delle loro forze concentrato in Russia non possono rischiare. Probabilmente, questo indicherà tempi duri per tutti noi: i tedeschi avranno bisogno di manodopera per le loro fabbriche e la prenderanno dai paesi occupati.»

Era una situazione che era stata ampiamente prevista, anche se non auspicabile. «Vuol dire che non potremo più abitare qui, dovremo nasconderci o verremo deportati» spiegò Sabo, giusto perché la situazione fosse chiara.

Hack la prese con filosofia. «Io sarei stato deportato anche prima, non mi cambia molto.»

«Tutti noi tranne lei, ovviamente.» Ivankov si unì alla discussione ed indicò Koala con un occhiolino. «Si sa che per i tedeschi le donne sono brave solo a far figli.» Sabo e Koala non poterono fare a meno di ridere: il ruolo di donna incinta le veniva bene, lo sapevano entrambi.

«È vero, e proprio per questo sarà un compito importante» disse Dragon, quando l'ilarità cessò. «Significherà controllare la situazione in città e coordinare le informazioni fra i vari gruppi. Tutto ciò che per noi significherebbe esporsi troppo, dovrai farlo tu. Te la senti?»

«Certamente.» Koala non ebbe nemmeno un'esitazione: era andata a Caen per quella ragione.

«Bene» annuì lui, soddisfatto. «Ma avremo tempo di parlarne a cena. Andate pure a riposarvi, avete fatto un lungo viaggio.»
«Ci sono rape!» comunicò loro Ivankov, mentre lasciavano la stanza. Quando furono al piano di sopra, chiuse la porta e si voltò verso Dragon. «Hai intenzione di dire loro che è stato Kuma a tradirli?»

«No.» Dragon l'aveva detto in un tono che indicava che per lui la questione era chiusa, ma Ivankov non era un tipo da lasciar perdere.

«Era previsto che, se fosse stato arrestato, avrebbe cercato di fingersi un doppiogiocchista» riassunse. «Doveva consegnare loro qualcuno che i tedeschi volevano davvero, ed era Fisher Tiger. Era inevitabile, anche se entrambi avremmo preferito non dover sacrificare uomini dalla nostra parte della barricata.» Indicò la porta chiusa. «Il cucciolo capirebbe.»

«Ne sono sicuro» rispose Dragon, che non aveva alzato gli occhi dai fogli che aveva iniziato a consultare. «Ma nel migliore dei casi diventerebbe cinico come noi, nel peggiore perderebbe la speranza. E per salvare la Francia abbiamo bisogno di persone idealiste che sperino in un mondo migliore, anche a costo della loro vita.»

«Persone così non sarebbero disposte a sacrificare quella degli altri» dedusse Ivankov.

«Esatto.» Dragon annuì. «Per quello ci siamo qua noi.»

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 1943 - Parte I ***


1943 – Parte I
 
 
National Training Center Fort Irwin, 15 Marzo
 
Quando i soldati si riunirono dopo la mensa per il classico discorso effettuato dai loro Colonnelli di Brigata e videro che con loro era presente anche lo stesso Generale Newgate, ebbero un unico pensiero: sarebbero andati in guerra. Era passato più di un anno dalle vicende di Pearl Harbor, ma fino a quel momento l'esercito di terra non era stato impiegato se non sporadicamente. Sapevano tutti che il loro momento di brillare sarebbe stato, più che l'Africa, l'Europa.

Quasi nessuno vedeva davvero i tedeschi come nemici. Dopo l'attacco giapponese la visione di molti soldati era cambiata: la guerra era vista in maniera entusiastica e c'era stato anche un incremento dell'economia americana. Ace ne era soddisfatto, perché ciò aveva significato che molti della sua compagnia, non volontari come lui, avevano deciso di restare ben oltre l'anno che sarebbe stato obbligatorio.

Ciò nonostante, lo irritava che non avessero il suo stesso obiettivo di voler battere i tedeschi, anche se poteva capire perché fossero tutti concentrati più sui giapponesi. O sull'idea di guerra in sé e non sul nemico che si andava ad affrontare. Ad Ace non restava che sperare che il Generale portasse loro una missione che li mandasse immediatamente contro la Wehrmacht.

«Il Governo degli Stati Uniti d'America ha deciso di incrementare le sue forze» esordì il Generale. «Lo scopo è addestrare soldati con le abilità migliori che affrontino quelle missioni estreme che una compagnia normale non potrebbe portare a termine.»

Sapevano tutti che cosa significava: i Ranger. Il gruppo armato più preparato e più capace dell'esercito statunitense. Un primo battaglione era già stato addestrato ed era pronto ad entrare in azione in Africa. Poiché Newgate si fidava dei suoi uomini e sapeva che avevano capito, non specificò.

«Lo scopo è addestrare almeno altri quattro battaglioni» spiegò. «A me è stato chiesto di segnalare i nomi dei miei uomini migliori, ma non ho intenzione di farlo. Credo che ognuno abbia il diritto di decidere se provare a far parte dell'élite dell'esercito.» Era uno dei motivi per cui Fort Irwin era così apprezzato come luogo di addestramento: nessuno veniva lasciato indietro. «Sappiate tuttavia che l'addestramento sarà estremo: dei millecinquecento selezionati per il 1° Battaglione, solo cinquecento sono stati promossi.»

Se prima molti degli uomini si erano dimostrati entusiasti alla prospettiva, preda di quell'euforia guerriera che li aveva trattenuti nell'esercito, ora la prospettiva si era fatta meno interessante. Non era facile scegliere se restare in una divisione meno preparata, ma più sicura, o se tentare l'avventura e migliorare le proprie competenze.

«Per chiunque sia interessato, vi aspetto nel mio studio quando volete, per fare richiesta ufficiale ai responsabili di Fort Lewis, dove verrete trasferiti in caso di accettazione» terminò Newgate. «Fatemelo sapere entro la prossima settimana: l'addestramento inizierà il primo di Aprile e in quel giorno arriveranno due nuove compagnie da addestrare, per cui dovrò avere il tempo di riorganizzare la base per ospitarli.»

La guerra imminente aveva fatto alzare il numero di volontari ed abbassare l'età dell'addestramento coercitivo, per cui nessuno si sorprese al pensiero che il numero delle compagnie ospitate nel forte sarebbe aumentato. Ace era a Fort Irwin da abbastanza tempo per aver visto diversi uomini lasciare o unirsi all'esercito.

Dopo questo annuncio, i Colonnelli non avevano molto altro da dire, per cui furono tutti liberi di tornare ai propri dormitori. L'umore dei soldati era calato, per l'adrenalina persa alla mancanza di una guerra vera. Molti erano eccitati all'idea di poter far domanda per entrare nel battaglione dei Ranger, ma altri capivano che sarebbero stati selezionati solo coloro che avevano un certo standard di risultati e credevano che non valesse nemmeno la pena provare a candidarsi.

«Pensi di fare domanda?» domandò Odr ad Ace, mentre tornavano verso la base  assieme.

«No, non m'interessa» rispose Ace. Era orgoglioso dei risultati ottenuti, che erano come al solito i migliori dell'intera base, ma aveva un obiettivo preciso in mente e non vedeva come diventare un Ranger l'avrebbe aiutato. Non che l'idea di essere fra i selezionati migliori della nazione non lo attirasse, ma sapeva che il 1° Battaglione era già in guerra e non nelle zone dove avrebbe voluto recarsi lui.

«È uno spreco, sono sicuro che saresti preso subito» commentò Doma. «Vedrai che ti chiameranno anche se non farai domanda.»

«Forse.» Ace crogiolò nella soddisfazione di essere ritenuto il migliore. «In ogni caso non sono interessato. Perché non fate domanda voi?»

Gli altri erano indecisi: da una parte temevano di non essere abbastanza bravi per essere selezionati, considerando con chi competevano quotidianamente, dall'altra non erano sicuri che fosse la soluzione migliore. Qualcuno disse che avrebbe provato.
«Anche a me non interessa» rispose Odr, sicuro.

«Io non ci provo nemmeno, so bene che non mi chiameranno» disse Doma. Da quando c'era stata la vicenda, era migliorato sensibilmente come soldato, ma non si sentiva ancora all'altezza dei migliori.

«Bene, perché contavo su di voi per preparare gli scherzi per le nuove leve» ridacchiò Ace. In realtà, non poteva non ammettere a se stesso che era felice di non perdere gli amici che era riuscito a conquistare.

 
National Training Center Fort Irwin, 22 Marzo
 
Per l'accoglienza delle nuove leve, Ace e il suo gruppo avevano sempre organizzato scherzi differenti, in maniera che nessuno di loro avrebbe potuto essere avvertito da amici e parenti. Il Colonnello di Brigata Satch era sempre favorevole a quel tipo di divertimento all'interno della base e, con ampia disperazione dei suoi colleghi, lo appoggiava ed incoraggiava.

In questo caso, prestando loro una divisa da Colonnello. Fu vestito in questo modo che Doma andò ad accogliere il gruppo della prima delle due compagnie previste in arrivo, appena scese dai pullman con ancora lo zaino della loro roba appresso, ma già ordinati in fila, come erano stati preparati all'addestramento base.

«Vorrei potervi dare un benvenuto, ma non posso» esordì, sistemandosi davanti al gruppo. Erano tutti giovani, com'erano loro quando erano arrivati per la prima volta. «Purtroppo è appena arrivato un dispaccio da Washington, l'esercito americano necessita rinforzi in Europa. Siamo pronti a invadere la Francia.» Doma fece una pausa, per vedere l'effetto che le sue parole stavano facendo su di loro e per assicurarsi che nessuno degli amici che li accompagnava stesse ridendo prima del tempo. «So che avete alle vostre spalle solo l'Addestramento di Base per le Reclute, ma l'America vi chiama. Preparatevi a partire» terminò.

Adesso l'orrore era palpabile negli occhi della nuova brigata. Alcuni erano effettivamente terrorizzati, altri erano increduli del fatto che si potessero mandare soldati così poco addestrati in guerra. Solo pochi parevano poco impressionati dalla vicenda, ma di sicuro non ne erano entusiasti. Uno di loro, invece, era decisamente esaltato all'idea.

«Ma quindi andremo in Francia?!»

Nonostante l'addestramento che aveva insegnato loro a rimanere ordinati in fila a prescindere da quello che succedeva, molte teste si voltarono in direzione del proprietario della voce. Il contrasto era evidente: lui era allegro, sorrideva estasiato aspettando la risposta; il soldato al suo fianco, un uomo di colore, era invece terrorizzato e lo guardava come se fosse pazzo.

Ad Ace era sembrato di riconoscere la voce, ma aveva pensato di essersi semplicemente ingannato. Tuttavia, quando i soldati si voltarono, non poté non notare chi stavano guardando e quella cicatrice sotto l'occhio era inconfondibile. Attraversò a grandi passi le file ordinate dei soldati, giusto per essere sicuro che la vista non lo ingannasse.

Ma non lo ingannava: quello era veramente suo fratello con indosso la divisa dell'esercito degli Stati Uniti d'America. Rimase a fissarlo paralizzato, finché non fu Rufy stesso a notarlo.

«Ace!» esclamò riconoscendolo. Aveva visto molte volte in fratello in divisa, ma sul campo faceva tutt'altro effetto. «Sei stato promosso? Non me l'hai detto!»

«Cosa ci fai qui?» esalò Ace. Aveva molte parole in mente, la maggior parte delle quali erano poco carine, e alla fine non era riuscito a dire altro che quella più banale.

«Ho finito l'Addestramento di Base per le Reclute e ho pensato che qui fosse l'ideale per la fanteria» rispose Rufy, che non riusciva esattamente a capire dove fosse il problema. «E ho fatto bene. Andiamo in Francia!»

«Non andiamo in Francia!» sbottò lui. «Era solo uno scherzo!»

Ciò fece tirare un sospiro di sollievo all'intero gruppo, tranne che allo stesso Rufy, che invece pareva decisamente deluso. Il soldato di colore al suo fianco gli tirò la manica della divisa. «Smettila!»

«Non vedo perché» ribatté lui. «Io sono venuto qui apposta. Ah, questo è Usop, eravamo a Fort Jackson assieme.»

Ad Ace non interessava nulla di tutto quello, quindi si limitò a fare un cenno del capo di saluto per educazione e tornò a rivolgersi al fratello. «Perché cazzo ti sei arruolato?» gli gridò.

Rufy lo guardò come se fosse pazzo. «Come sarebbe a dire?»

In quel momento, Marco arrivò nel parcheggio della base e notò subito che c'era qualcosa di strano. Lanciò un'occhiata a Doma, riconoscendo che la divisa non era la sua, e scosse la testa. Poi si rivolse all'intera truppa. «Sull'attenti!»

Ace quasi non se n'era accorto, ma lasciò immediatamente la fila per ritornare col suo gruppo e mettersi in posizione. Marco lo squadrò, incuriosito da quello che era successo, quindi scrutò il gruppo di soldati che si erano allineati davanti e capì: era impossibile essersi allenati a Fort Irwin e non riconoscere Rufy, dato che Ace ne parlava e mostrava le foto ad ogni occasione.

«Non credete ad una parola di quello che vi hanno detto» disse, con un leggero sorriso. Poi si rivolse al gruppo dei veterani: «Andate pure, direi che vi siete divertiti abbastanza».

In realtà, Ace non si era divertito affatto. Era ancora incredulo sul fatto che Rufy si fosse arruolato e che gliel'avesse tenuto nascosto per tutto questo tempo. In effetti, negli ultimi tre mesi aveva ricevuto solo un paio di lettere da lui ed erano piuttosto vaghe riguardo ai suoi impegni. Era chiaro che stava progettando qualcosa, ma non si sarebbe mai aspettato quello. Credeva fosse in riferimento al suo sogno di diventare pugile professionista, e ciò avrebbe dovuto comportare anche l'iscrizione all'università.

Per altro, lui aveva sempre mandato le lettere a casa, a Boston, il che significava che Makino, senza dirgli nulla, le rigirava a Fort Jackson e poi gli rimandava la risposta in maniera che non sospettasse nulla; un'altra ragione per cui ne erano giunte così poche, dato il tempo che si impiegava a fare i vari passaggi. Era stato un inganno bello e buono!

Rinunciò a recarsi a Los Angeles con gli altri soldati, cosa che ogni tanto organizzavano la domenica per svagarsi in una città che offrisse più divertimenti di un paio di bar di Fort Irwin, e rimase a rimuginare su quella storia. Naturalmente i suoi amici gli avrebbero voluto chiedere di Rufy e della situazione, curiosi com'erano dopo tanto tempo che ne avevano solo sentito parlare, ma quando capirono che non era il caso, lo lasciarono da solo.

Passò il tempo a leggere qualche libro di tedesco, per fare un po' d'esercizio con la lingua, poi non appena l'introduzione delle nuove leve fu terminata, andò a cercare Rufy e lo prese da parte. Era chiaro che anche lui aveva già parlato del fratello a tutto il gruppo, perché si sentì osservato mentre lasciavano il dormitorio.

Non fecero molta strada, perché Ace aveva decisamente voglia di urlare cose molto brutte. «Non posso crederci che tu abbia fatto una cazzata del genere!»

«Ma di che parli?» Rufy incrociò le braccia e mise su il broncio. «Non ci vediamo da Natale e tu non hai fatto altro che urlarmi contro. Pensavo fossi contento di vedermi.»

«Be', non mi aspettavo di vederti...» Ace fece un eloquente gesto con la mano, che sperava parlasse di più delle sue parole, «...così!»

Rufy si guardò. «A me questa divisa piace.»

Era inutile, bisognava parlare direttamente con lui perché era chiaro che non ci sarebbe mai arrivato da solo. «Voglio dire... Perché hai scelto di arruolarti?»

«Ci pensavo da un po'» rispose Rufy, che finalmente aveva capito qual era la vera domanda. «Però volevo anche seguire il mio sogno di diventare pugile, ma con la guerra e tutto non è che ci siano tante possibilità.» Le Olimpiadi erano ovviamente state sospese da tempo e la maggior parte degli uomini si era arruolata o era stata chiamata per la leva obbligatoria. Nonostante la loro situazione non fosse brutta come nei paesi veramente in guerra, non c'era molto spazio per i divertimenti. «E così mi sono detto: “perché no?”. Anche io voglio andare a salvare Sabo.»

Se Ace aveva compreso la prima parte del discorso ed era dispiaciuto che la guerra interrompesse la scalata del fratello verso il suo sogno, rimase stupefatto dell'ultima parte. «Vorrai dire, a vendicarlo» lo corresse.

«No» ribatté Rufy con decisione. «Sono sicuro che Sabo sia là da qualche parte. Magari è stato preso prigioniero e per questo non è riuscito ad avvertirci.»

Erano passati due anni dall'ultima volta che ne avevano parlato ed Ace era convinto che Rufy fosse semplicemente in una fase di negazione della realtà e che prima o poi avrebbe accettato che erano unicamente sue fantasie. «Rufy» mormorò lentamente. «Sabo è morto.» Odiava dirlo. Odiava ripeterlo.

«No» ribadì Rufy seccamente. «Ho tradotto quel foglio.» Gli scoccò un'occhiata eloquente, per indicargli che si era impegnato per migliorare il suo francese. «Potrebbero sempre essersi sbagliati, il nonno ha detto che succede spesso. Hanno dedotto che fosse lui, ma sono tutti indizi circostanziali.»

Ace rimase basito: non era sicuro che suo fratello conoscesse davvero il significato della parola “circostanziale”. Lasciò perdere il discorso, per il momento: aveva la testa più dura della sua e non voleva continuare a parlare dell'argomento Sabo. «Capisco che sia un tempo duro per il pugilato» disse. «Ma non lo trovo un buon motivo per rischiare la vita in guerra.»

«Il motivo principale è Sabo» venne immediatamente corretto.

«Be', nemmeno lui è un buon motivo.» Ace stava perdendo la pazienza. «Se morissi per salvarlo, Sabo non se lo perdonerebbe mai. Preferirebbe che tu rimanessi qui a combattere per il tuo sogno, ne sono sicuro.» Quella poteva essere una buona strategia, ed era sicuro di rispettare la memoria dell'altro fratello.

«Io non morirò» affermò Rufy, come se fosse una decisione che dipendesse da lui. Ace era rimasto un attimo senza parole: dopo così tanto tempo passati separati, si era scordato di quanto potesse essere snervante discutere con lui, che rigirava ogni cosa a suo modo e aveva sempre la risposta pronta con una logica difficile da scardinare. Rufy approfittò di questo silenzio: «E tu allora?».

«Io cosa?»

«Anche tu potresti morire.»

Gli venne un'ovvia voglia di toccarsi nelle parti basse. «Io non morirò!» esclamò e poi si bloccò, rendendosi conto di aver affermato la medesima cosa del fratello e senza nemmeno pensarci. Rufy sorrise con il modo soddisfatto da “te l'avevo detto”. Ace sbottò. «Non è comunque una buona ragione, voglio che tu te ne vada a casa e lo faccia subito!» Era una tattica che non poteva funzionare e lo sapeva.

«Sei un egoista!» Rufy strinse i pugni e per la prima volta dall'inizio di quella discussione sembrò davvero arrabbiato. «Tu puoi andare in guerra per Sabo e rischiare di morire, ma non lo posso fare io?!»

«Non voglio perdere un altro fratello!»

«Nemmeno io!»

Da quando Sabo era morto, Ace aveva il terrore. Era come se si fosse rotto qualcosa dentro di lui e non riuscisse ad andare avanti finché non avesse risolto la questione. Se avesse perso anche Rufy, davvero non sapeva cosa sarebbe potuto succedere. Adesso vedeva chiaramente che probabilmente gli stessi pensieri erano passati nella testa anche al fratello.

«Io non morirò, te lo prometto» mormorò lentamente.

«Bene!» Rufy non sembrava già più arrabbiato; non portava rancore durante le discussioni se gli altri erano disposti ad accettare il suo punto di vista. «Aspetta qua.» Corse via verso il dormitorio, che era poco lontano, e tornò un attimo dopo con un pacco in mano. «Tieni. Non te l'ho voluto inviare per sicurezza, è il tuo regalo di compleanno.»

«Un po' in ritardo» scherzò Ace. Non gli piaceva litigare con lui, anche se la rabbia per la decisione che aveva preso non gli era ancora passata. Scartò il regalo e rimase senza fiato: una macchina fotografica, e non una qualunque. «Ma questa è una Argus C3. Come te la sei procurata?»

Rufy ridacchiò: era soddisfatto di averlo stupito. «Ho fatto qualche incontro clandestino e ci ho scommesso sopra» spiegò. «Mi hanno detto che è la miglior macchina fotografica in circolazione e tu non dovresti avere nulla di meno.» Annuì convinto.

«Incontri clandestini? Ma sei matto?» Sapeva benissimo che Boston aveva la sua criminalità e che certe cose erano all'ordine del giorno, ma suo fratello era un ragazzino e non riusciva a vederlo infilato in situazioni così pericolose. Tutta colpa del fatto che non fosse a controllarlo... Ma bisognava dire che sembrava essersela cavata bene. «Grazie.» Non voleva mostrarsi commosso, ma lo era.

Rufy ridacchiò. «Adesso ti devi lasciare perché io e i ragazzi andiamo a bere qualcosa in città.» Indicò il gruppo di quattro o cinque persone, tra cui Usop, che si era radunato all'ingresso del dormitorio e gli stava facendo dei cenni. Ace non si chiese come aveva fatto a conoscere così tanta gente in così breve tempo, era la caratteristica tipica di Rufy.

Quando lo guardò allontanarsi, si rese conto che quella discussione non aveva portato a nulla, anzi, Rufy era probabilmente ancora più sicuro della decisione che aveva preso. Ace si maledisse per essersi fatto praticamente comprare con una macchina fotografica, ma che ricordasse non c'era stato un solo argomento che era riuscito a vincere con lui. Quello non aveva certo fatto eccezione.

 
National Training Center Fort Irwin, 24 Marzo
 
Era raro che Ace andasse nel suo ufficio, ma quando succedeva teneva comunque un comportamento rigido da soldato: bussava, dava del lei, si metteva sull'attenti. Così non avvenne quel giorno, perché Ace non si premurò nemmeno di bussare ma aprì la porta di scatto, esclamando: «Dimmi che c'è un modo per cacciare qualcuno dall'esercito!».

Marco lo trovò un piacevole cambio nelle loro abitudini e gli fece cenno di accomodarsi con un sorriso. «Suppongo che tu ti riferisca a tuo fratello.» Persino nel circolo ristretto dei Colonnelli non si era parlato d'altro: una cosa era sentire delle notizie, una cosa era vedere il diretto interessato dal vivo. Marco doveva ammettere che era anche più incredibile di quello che emergeva dai racconti.

Ace si accasciò sulla sedia. «Già» confermò. «Non puoi tipo trovare che non è adatto ad essere nell'esercito o qualcosa del genere?» Nonostante la discussione che aveva avuto, il suo terrore era ancora presente e, anche a costo di farsi dare dell'egoista, preferiva andare da solo in guerra.

«Temo proprio di no, mi dispiace» rispose Marco gentilmente. In realtà, tecnicamente sarebbe stato possibile, ma avrebbe significato infrangere numerose leggi. Inoltre, non lo trovava giusto nei confronti di Rufy, il quale, sebbene non avesse ancora i risultati del fratello, era decisamente il migliore dei nuovi arrivati. «Non è nemmeno sotto il mio comando. Da quando hanno deciso di aumentare il numero delle truppe, sono stati mandati nuovi istruttori e le nuove leve non mi sono state affidate.»

La delusione di Ace era palpabile, ma sembrava aver previsto la risposta. Probabilmente quella richiesta era frutto della disperazione. «Non mi resta che sperare che si infortuni prima di essere mandato in missione.»

«Da quello che ho visto, non lo vedo probabile.» Marco sorrise: aveva preso in simpatia entrambi i due fratelli, doveva ammetterlo. «E non mi sembra carino» aggiunse divertito.

«Ma tu conosci l'istruttore della compagnia?» Ace tornò al piano originario. «Se è uno a posto, magari potresti accennargli la cosa...»

«Non lo conosco di persona, solo di nome» rispose Marco, indicando che non sarebbe stato il caso di proporre qualcosa di illegale ad un semplice conoscente. «Potresti provare a parlargli tu. Si chiama Silvers Rayleigh.» Era stata una carognata, quindi tentò di trattenersi dal ridere al cambio d'espressione di Ace.

«Fantastico!» esclamò. Non solo il fratello era nell'esercito, ma veniva allenato da quello che era considerato il miglior amico di suo padre, all'epoca della Grande Guerra. Ma cosa stava diventando Fort Irwin, un covo per gente che era implicata col processo a Roger? Come minimo avrebbe finito per scoprire l'assassino di sua madre, se continuava così.

«Io penso che parlargli in generale possa essere una buona idea» gli suggerì Marco. Rayleigh era uno di quelli che credeva all'innocenza di Roger, ma dopo l'esecuzione della sentenza aveva rinunciato a difenderlo. Aveva persino lasciato l'esercito e solo le pressioni dalla Casa Bianca l'avevano fatto tornare unicamente come addestratore straordinario. Pensava che Ace avrebbe potuto migliorare la sua opinione su suo padre se ci avesse scambiato due chiacchiere.

«No.» Ace mise fine alla discussione.

«Va bene, parliamo d'altro.» Marco non voleva vederlo di cattivo umore, lo preferiva quando sorrideva. «Non ho ancora ricevuto la tua domanda per l'ammissione al reparto dei Ranger.»

«Questo perché non l'ho fatta» rispose Ace, dopo un attimo. Stava ancora rimuginando sulla situazione di Rufy e non aveva capito bene di cosa stessero parlando.

«E come mai?»

«Sai che mi sono arruolato per un motivo preciso e sinceramente non pensavo che andare nei Ranger facesse la differenza» rispose Ace. Certo, l'idea di far parte dell'élite dell'esercito lo attirava, ma alla fine lui non era davvero interessato a far carriera, terminata la guerra sarebbe tornato a fare il fotografo. Anzi, ora che aveva una Argus C3, pensava di poter scattare delle foto durante le campagne.  «E poi adesso c'è Rufy...»

«Anche se rimanessi qui, non potresti proteggerlo» disse Marco. «Siete in due compagnie differenti.» Non lo diceva per intristirlo, ma dato che stava succedendo incalzò nuovamente: «Io credo che tu dovresti entrare nei Ranger».

«Lo credi?»

Marcò annuì. «Ti prenderebbero senza pensarci due volte» affermò. «Saresti decisamente più utile come Ranger che qui nell'esercito normale.» Lo pensava veramente. Le potenzialità di Ace lo lasciavano stupefatto ogni volta e sicuramente avrebbe potuto dimostrare il suo valore in una missione come quelle speciali che venivano affidate ai Ranger che all'interno di un gruppo più preciso, dove doveva muoversi in gruppo, magari con soldati meno preparati.

Inoltre, Ace non aveva molte prospettive di carriera perché non aveva una laurea, ma di recente la guerra aveva fatto in modo che la promozione si basasse più sui meriti che sull'istruzione. Era sicuro che avrebbe ottenuto una posizione da comandante più facilmente nei Ranger, dove avrebbe avuto più occasioni di guadagnarsi delle premiazioni.

«Tu vuoi che lasci la base per andare là?» Ace aveva una faccia strana, ma Marco non riuscì a coglierla; pensava solamente di essere sulla buona strada per convincerlo e quindi proseguì senza incertezze.

«Assolutamente sì.» Annuì convinto. «Se hai dei problemi burocratici ti posso aiutare io, dato che non c'è molto tempo rimasto per fare domanda.» Gli sarebbe dispiaciuto perderlo, come soldato e come persona, ma doveva pensare esclusivamente al suo bene. «Credo che sia la cosa migliore. Qui non abbiamo bisogno di te, mentre i Ranger sono l'ideale.»

Ace si alzò di scatto. «Signore, la ringrazio per i suoi consigli e per la sua disponibilità, ma non intendo fare domanda» affermò. «Vorrei andare, adesso.»

«Oh, sì, certo, prego.» C'erano poche cose che lo stupivano al mondo, ma il comportamento di Ace ci riusciva sempre. Stava andando tutto così bene, l'aveva quasi convinto, o almeno così gli era sembrato, e invece per qualche motivo aveva rovinato tutto. Probabilmente la cosa che gli aveva fatto più male era stato vederlo tornare ad essere così formale, mentre poco prima avevano discusso quasi come due persone alla pari. Credeva di essere riuscito a capirlo, di aver finalmente stabilito un contatto e adesso, per qualche motivo, era tornato al punto di partenza.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 1943 - Parte II ***


1943 – Parte II
 
 
Fort Irwin, 7 Maggio
 
La città di Fort Irwin era piccola, per cui per un vero divertimento i soldati cercavano sempre di allontanarsi verso Los Angeles, ma il sabato sera non restava che far riferimento ai numerosi bar locali che avevano aperto proprio per essere di sollievo e svago ai soldati. Rufy non si era fatto intimidire dalla situazione e aveva deciso comunque di organizzare una specie di festa di compleanno in uno dei locali più grandi della città, anche perché aveva invitato praticamente l'intero esercito.

Ace non l'aveva mai visto così pieno, in effetti. Lui ed il suo gruppo erano arrivati più tardi e non c'era un solo posto libero dove accomodarsi e anche riuscire ad ordinare qualcosa al bancone poteva essere un'impresa difficile. Odr approfittò della sua stazza per allungarsi e farsi passare qualche birra.

Di Rufy non c'era nemmeno l'ombra, notò Ace dopo aver esplorato il locale con lo sguardo e aver scattato qualche fotografia. Era davvero l'unica persona che poteva presentarsi in ritardo alla sua stessa festa di compleanno. Individuò però ad un tavolo il suo gruppo più stretto di amici, costituito da Usop, Zoro e Sanji, che avevano scoperto essere il figlio di Zeff, il quale non era stato felice nel sapere che aveva avuto la sfortuna di essere convocato nell'esercito.

Ace si avvicinò per salutarli: non aveva confidenza, ma li conosceva tutti. «Avete notizie di mio fratello?» domandò. I tre scossero la testa.

«Forse si è perso» ipotizzò Zoro.

«Sei l'ultima persona che può dire una cosa del genere!» sbottò Sanji: tutti nell'esercito sapevano che Zoro era riuscito a sbagliare strada durante il percorso di guerra.

«A dire la verità, aveva detto che doveva andare a prendere qualcuno» gli disse Usop. Ace si domandò di chi si trattasse, dato che dubitava che i suoi amici di Boston avrebbero attraversato l'intera America solo per venire alla sua festa di compleanno. Sperò solo non si trattasse di suo nonno: non lo vedeva da un po' e gli sarebbe piaciuto proseguire su quella strada.

Poi la porta si aprì ed entrò un gruppo che fece strabuzzare gli occhi a tutti e sbavare Sanji come nemmeno i piatti di suo padre riuscivano a fare: erano delle ragazze. Ovviamente, capitava di vederle spesso, nella stessa città ne abitavano diverse e a Los Angeles parecchie. Queste, però, erano differenti da tutte le altre: erano in divisa.

Da quando era passata la legge che istituiva un gruppo della WASP, la Women Airforce Service Pilotes, un esercito di ragazze che si occupavano di pilotare determinati tipi di aeroplani, c'erano state molte discussioni anche fra i soldati. Molti pensavano che l'esercito non fosse posto per le donne. Ad Ace sinceramente non importava molto. Non sapeva dire se il suo essere omosessuale lo rendesse più sensibile a quel tipo di questioni, dato che sapeva che se l'avessero scoperto sarebbe stato probabilmente allontanato, ma non ci trovava nulla di male se una donna voleva prendere le armi per il suo paese.

Non aveva idea, però, che suo fratello conoscesse un gruppo di soldatesse, né che queste fossero disposte a venire alla sua festa di compleanno. Erano decisamente uno spettacolo curioso, per cui la mano gli corse inevitabilmente alla macchina fotografica, per scattare alcune fotografie. Le ragazze se ne accorsero, e così Rufy.

«Ehi, Ace! Queste sono le ragazze della WASP» le introdusse.

«L'avevo notato» sorrise Ace. «Grazie per essere pazienti con questo idiota» aggiunse, rivolgendosi direttamente a loro, le quali sembrarono trovare divertente la cosa e parevano incuriosite dalla sua macchina fotografica.

Rufy decise che era il momento di fare il giro di tutti gli invitati e possibilmente recuperare dei regali, mentre altri soldati decisero finalmente di farsi avanti verso le ragazze, per cui Ace le lasciò e approfittò del fatto che la folla si fosse dispersa per prendere un'altra birra.

«Addirittura una fotografia?» gli disse una delle ragazze, che aveva superato il cordone di uomini che si era formato attorno al suo gruppo e l'aveva raggiunto accanto al bancone.

«Fotografo quello che trovo interessante» rispose Ace, mentre la vedeva ordinare una birra.

«Quindi siamo interessanti?»

«Abbastanza per delle fotografie.» Capiva che avrebbe potuto dare l'idea di essere interessato a loro come donne a tal punto da voler conservare una loro immagine, ma così non era, gli piaceva solamente documentare quello che succedeva nell'esercito. Anche nel caso che quella ragazza cercasse davvero della compagnia, lui non aveva alcun interesse.

«Mi chiamo Nojiko» si presentò lei. Ace ricambiò la sua stretta con un sorriso, e poi tornò alla sua birra.

«È un piacere conoscere di persona il famoso Ace» gli disse poi. «Rufy ci ha parlato di te.»

Essere conosciuto per le parole di suo fratello era decisamente meglio che esserlo per via di suo padre. «Spero per lui che siano state tutte cose positive» commentò, facendola ridere. Rufy era sincero, quindi chissà che avrebbe potuto raccontare anche involontariamente. Preferì non sapere e cambiò argomento, domandando: «Come mai sei entrata nell'esercito?».

«Intendi, per essere una donna?»

«No, non volevo dire quello!» cercò di giustificarsi Ace: sapeva quanto le soldatesse fossero sensibili all'argomento dei pari diritti. Lei ridacchiò del suo disagio. «Okay, volevo dire quello» ammise lui. «Ma non in senso sessista. Io sono un volontario e ho un motivo per essere qui. Voi siete volontarie, quindi pensavo aveste un motivo diverso dall'essere costrette come molti dei soldati.»

Nojiko apprezzò la sua sincerità. «Vedi quella ragazza?» Accennò col capo ad una rossa che si era seduta al tavolo degli amici di Rufy, dove Sanji le aveva ceduto il posto. «È mia sorella Nami. Non siamo veramente sorelle, entrambe siamo state adottate da una magnifica donna di nome Bellmere.»

«Come me e Rufy» commentò Ace. «Solo che a noi è toccato Garp come nonno e “magnifico” non è l'aggettivo che userei per descriverlo.»

La frase la fece ridere di cuore. «Rufy ha detto più o meno la stessa cosa» gli comunicò con un sorriso. Ace prese un sorso ed aspettò che lei continuasse. «Nostra madre è di origine francese, i suoi erano emigrati a Los Angeles dopo la Grande Guerra. Quando c'è stata l'invasione della Francia, ha voluto tornare al suo paese per aiutare.»

Il comportamento di Bellmere ricordava molto da vicino quello di Sabo: entrambi avevano rinunciato ad un posto sicuro negli Stati Uniti per fare ciò che ritenevano giusto per la loro patria. «Cosa le è successo?» domandò, pensando che anche il loro destino avrebbe potuto essere simile.

«Non lo sappiamo» rispose Nojiko. «All'inizio ci sono arrivate un paio di lettere, ma dopo che la Germania ha invaso anche il sud della Francia, non abbiamo più avuto comunicazioni.»

«E così volete andare là di persona a controllare» terminò Ace. Ora capiva come mai Rufy avesse fatto così facilmente amicizia con loro, andavano in guerra per lo stesso identico motivo, con la differenza che nel loro caso la speranza di ritrovare Bellmere aveva un senso.

«Da che paese viene?» Non che la geografia di Ace sulla Francia fosse così sviluppata da conoscere ogni singolo paese, ma se la cavava meglio di altri.

«Non credo che tu lo conosca, è davvero un posto piccolo, in Bassa Normandia» rispose Nojiko. «Si chiama Mortrée.»

Ace quasi si strozzò con la birra. «Mortrée?! Davvero?!» esclamò. «Ci ho passato un sacco di estati, lo conosco benissimo!»

«Ma dai!» Nojiko era sorpresa quanto lui.

«Be', così sarà sicuramente più facile trovare il posto. Quando saremo in Francia vi darò volentieri una mano» si propose Ace. Non disse che avrebbe voluto essere al loro posto, con un luogo preciso dove andare a cercare e una speranza più concreta.

«Grazie! Lo apprezzo molto.»

Due delle soldatesse si erano sedute con alcuni soldati, e Nojiko si unì a loro. Rufy era tornato al tavolo degli amici più stretti e, notò Ace, aveva ricevuto un regalo di compleanno da Nami: dal tipo di confezione, sembrava un libro. Era chiaro che quella donna non lo conosceva affatto, pensò mentre si voltava a restituire il bicchiere vuoto.

«Ace, guarda qui!» Rufy lo aveva raggiunto al bancone. «Guarda cosa mi ha regalato Nami!» Lui fissò la copertina del libro, che raffigurava un bambino dagli scarmigliati capelli biondi con un vestito elegante. “Il piccolo principe”, titolava l'intestazione. Lo prese in mano e lo sfogliò per un attimo: era scritto con caratteri grandi ed erano presenti molte figure.

«Sembra un libro per bambini» commentò.

«È esattamente un libro per bambini» affermò Nami, che era venuta al bancone con lui. «Però l'ha scritto un francese: Antoine de Saint-Exupéry.» Ace aveva sentito quel nome, era un aviatore francese che aveva cercato di convincere gli Stati Uniti a scendere in capo per la Francia. Ritirò quello che aveva pensato in precedenza: quella donna conosceva suo fratello dannatamente bene.

«Non capisci?» Però Rufy sembrava un po' troppo entusiasta riguardo a quel libro. Indicò il personaggio sulla copertina. «È sicuramente Sabo.»

Ace aveva rinunciato a convincerlo che fosse davvero morto, perché conosceva la testa dura del fratello meglio di chiunque altro, ma avrebbe voluto che Rufy capisse che anche lui aveva la testa dura e sarebbe stato impossibile convincerlo del contrario. «Non dire assurdità.»

«Niente affatto, è la prova definitiva» ribatté Rufy, convinto. «È un principe, è biondo, e il libro è stato scritto da un francese. Non può essere una coincidenza!»

«Invece sì!» Ace stava iniziando ad innervosirsi. «Ma sai quanti nobili francesi biondi esistono?»

Dato che Rufy non poteva ribattere a quell'argomentazione, cambiò strategia: «Ma perché non vuoi ammettere che potrebbe esserci una possibilità che Sabo sia ancora vivo?».

«Perché non c'è una possibilità.»

«Non puoi saperlo!» Rufy strinse i pugni e guardò da un'altra parte, come se si vergognasse di quello che stava per dire. «Sembra quasi che tu voglia che Sabo sia morto.»

«Come osi!» Ace fu sul punto di colpirlo seriamente, come non faceva da anni. Si trattenne a malapena perché Nami aveva fatto un passo in avanti con fare protettivo.

«O forse perché per te è più facile pensare che sia morto davvero, rispetto all'idea che tu possa averlo abbandonato per questi anni» rincarò la dose Rufy. E questa volta la presenza di Nami non lo salvò dal pugno che si prese in pieno viso. La confusione attirò l'intero locale, che si voltò assieme quasi fosse un'unica entità.

Ace sapeva che suo fratello non l'avrebbe denunciato com'era successo con Doma, ma lui aveva fatto una promessa al Generale che simili scene non si sarebbero ripetute e in un certo senso l'aveva già infranta. Per cui superò Nami, che si era chinata a controllare Rufy, ed uscì a grandi passi dal locale, non fermandosi nemmeno quando sentì Odr chiamarlo.

Fuori era buio e le strade erano deserte: i soldati erano già rintanati dentro i bar o nascosti nelle strade più piccole, per non farsi vedere a fare qualcosa di illegale. Ace si diresse direttamente verso la strada che riportava alla base. I Colonnelli, in gruppo, stavano venendo nella direzione opposta. Era raro che lasciassero gli uffici il sabato sera, per cui per un attimo pensò che Rufy avesse invitato anche loro alla sua festa di compleanno; conoscendolo, sarebbe stato decisamente possibile. Fece il saluto militare in fretta e li superò.

Pensava di averli lasciati indietro, ma Marco si era separato dal gruppo e lo aveva raggiunto, affiancandosi. «Non sei al compleanno di tuo fratello?» gli domandò gentilmente.

«No.» E poi aggiunse, anche se non c'era motivo: «Abbiamo litigato».

Marco lo fissò stupito. «Vieni a bere qualcosa in un posto tranquillo» gli disse. Non aspettò la risposta, ma si voltò e tornò nella strada principale. Ace non aveva molta voglia della sua compagnia, ma anche stare da solo non era un'opzione valida, così lo seguì. Presero una stradina secondaria e si ritrovarono in un bar che Ace non conosceva, e per un motivo: l'arredamento e la musica erano degli anni venti. Nessun soldato che cercava un po' di distrazione dagli addestramenti vi sarebbe andato. E il posto era deserto, a parte qualche vecchio abitante del luogo.

Marco si sedette nel tavolo più isolato ed ordinò un gin. Per non essere da meno, Ace lo imitò. Per qualche minuto rimasero in silenzio a bere, finché non si decise a chiedere: «Non vuole sapere perché ho litigato con Rufy?».

«Se me lo volessi dire, me lo diresti» rispose Marco tranquillamente. «Se non volessi e io te lo chiedessi, sarei semplicemente invadente.»

«Okay.» Non era sicuro di volerglielo dire, al momento. Era grato che non cercasse di premerlo e di farlo parlare.

«Però c'è una cosa che mi piacerebbe chiederti» ammise Marco. Parlava con lo stesso tono di voce atono. «Credo di aver detto qualcosa che ti ha offeso, durante la nostra ultima conversazione, ma non so cosa.»

Ace se lo ricordava bene, era quando era andato nel suo ufficio per chiedere se poteva espellere Rufy dall'esercito. Poi era saltato fuori l'argomento Ranger e improvvisamente si era sentito come se non fosse il benvenuto. Però non era sicuro che sarebbe riuscito ad esprimere a parole la situazione.

«Stavamo parlando del mio possibile trasferimento alla divisione dei Ranger» disse, indicandogli che aveva capito quale situazione intendesse.

«Per caso ci stai ripensando?»

«Forse.» Molti soldati avevano fatto domanda e parecchi di loro erano stati presi: tutti avevano risultati inferiori ai suoi e il pensiero che risultassero in qualche modo migliori di lui lo indispettiva. Anche se non gli importava far carriera nell'esercito, aveva un suo orgoglio ed era soddisfatto dei suoi risultati. «Avrei più possibilità di andare in Francia?»

«Il Pacifico e l'Africa sono già prese, quindi manca solo l'Europa» affermò Marco. «E lì ci sono due possibili punti: l'Italia e la Francia. Non so dirti chi sarà mandato dove. È una scommessa. D'altronde, vale la stessa cosa anche per noi qui.» Si trattava solamente di decidere se voleva essere nell'esercito regolare o in quello più esperto. Però, se Ace se ne fosse andato e poi avesse scoperto di aver sbagliato, si sarebbe decisamente arrabbiato. «Te l'ho già detto, secondo me dovresti andare» terminò Marco.

«Certo che lei fa proprio di tutto per mandarmi via, eh» commentò Ace. Era proprio quel tipo di atteggiamento che gli aveva dato sui nervi l'ultima volta. Era abituato alle persone che non lo tolleravano, ma sinceramente credeva che Marco fosse diverso, visti tutti i discorsi che gli aveva fatto sul fatto che era un bravo soldato e tutto.

Marco lo fissò, poi scoppiò a ridere. «Era questo il problema?» chiese, cercando di controllarsi. Allungò una mano e gli sfiorò una guancia. «Scemo, guarda che se fosse per me vorrei che rimanessi qui.»

Ace si toccò il viso, stupito per quel gesto inaspettato che somigliava tanto ad una carezza. «Be', le assicuro che non sembrava.»

«Ti chiedo scusa, allora» rispose Marco dolcemente. «Come comandante e come» gli sembrava che dire “amico” fosse esagerare, «persona che tiene a te, era mio dovere consigliarti quello che penso sia il meglio.» Prese un sorso di gin. «Qui non hai prospettive. Ovvio che mi dispiacerebbe, come dispiacerebbe a tutti, ma non dobbiamo essere egoisti.»

«Nah, non credo che dispiacerebbe a molti» commentò Ace. Dentro di sé era felice di aver totalmente frainteso le sue parole.

«Come puoi pensarlo?» si stupì Marco. «Il soldato Odr ha detto chiaramente che se tu farai domanda la farà anche lui.»

«Davvero? Oh...» Odr era un buon amico, da sempre. Si poteva contare su di lui. Non era facile, però, dopo anni a credere che meritasse l'amicizia di qualcuno. Si rese conto che Marco aspettava una risposta da lui, che però non era ancora pronto a dargli.

«Il mio primo vero amico è stato un bambino francese» disse allora. Era la prima volta da quando aveva fatto domanda nell'esercito che cercava di spiegare il suo punto di vista. «Sabo» aggiunse. «Forse perché non conosceva la storia, ma è stato il primo a considerarmi solamente per quello che ero e non per mio padre. Subito dopo è arrivato Rufy: per questo abbiamo giurato di considerarci fratelli, anche se non lo siamo davvero.» I giorni in cui loro tre scorrazzavano per Parigi sembravano davvero lontani, anche se erano passati solo pochi anni.

Marco aveva posato il bicchiere: capiva che gli stava raccontando una cosa importante. Era la seconda volta che si apriva in questa maniera e voleva essere sicuro di non perdere nemmeno una parola o un'espressione. «Il bambino della foto che ti aveva strappato Doma era lui» affermò.

«Gliel'avevo scattata io stesso» gli raccontò, con un sorriso orgoglioso. «Ne ho anche altre, ma quella era speciale.»

«Questo ha a che fare con il tuo desiderio di andare in Francia.» Marco si era sempre chiesto perché quella foto avesse quella grande importanza, ma non aveva mai voluto chiederglielo. Era felice che ora si fidasse abbastanza da confidarglielo.

«Mio fratello è morto durante l'invasione tedesca, nel '40» annuì Ace. «Voleva combattere per la sua patria e aveva solo diciotto anni.» Gli tornò il groppo in gola che aveva avuto il giorno in cui aveva letto il telegramma di Stelly e abbassò lo sguardo.

Marco gli poggiò una mano sulla sua, che ancora stringeva il bicchiere. «Vuoi andare a terminare il lavoro per lui» dedusse.

Ace annuì ancora. «Ma non voglio perdere un altro fratello» dichiarò, alzando nuovamente lo sguardo. Non stava piangendo, ma gli occhi gli bruciavano.

«Mi piacerebbe dirti che non succederà, ma non posso assicurartelo.» Marco non smise un attimo di fissarlo e non tolse la mano da dove l'aveva appoggiata. «Gli altri Colonnelli si sono addestrati con me quando eravamo ragazzini. Il Generale ci ha tolto dalla strada e ci ha dato una nuova vita. Perdere qualcuno di loro mi devasterebbe» raccontò. «Anche se non mi piace, devo riconoscere che non dipende da me. L'unica cosa che posso fare è essere un buon comandante in maniera da perdere meno uomini possibili e completare le missioni.» Sarebbe stata la prima volta anche per loro in una guerra di così grandi dimensioni. «Anche se rimanessi nello stesso battaglione, non è detto che avrete gli stessi incarichi o addirittura che finiate nello stesso posto. Non puoi proteggerlo.»

Temette di essere stato troppo duro, ma gli occhi di Ace erano tornati asciutti e appariva più tranquillo. «Hai ragione, non mi piace questa cosa» affermò. «Però, se entrassi nei Ranger, le missioni più difficili le avrei io e potrei fare in modo che il resto dell'esercito sia più tranquillo, giusto?»

«Dovrebbe essere così.» Marco notò che gli aveva di nuovo dato del tu ed apprezzò. Tolse però la mano, perché credeva di aver superato la linea decisamente troppo.

«Be', credo di dover tornare alla festa adesso» disse Ace alzandosi. Era grato che Marco l'avesse aiutato a decidere che cosa fare in futuro e anche aver scoperto che non era vero che lo voleva cacciare dalla base. Non gli aveva raccontato il motivo del litigio con Rufy, ma era sicuro che dopo la storia di Sabo l'avesse in qualche modo intuito. Non era più nemmeno arrabbiato, tutto sommato pensava che Rufy avesse ragione: non voleva sperare che il foglio del governo francese fosse sbagliato, per non essere deluso di nuovo.

«Io torno alla base.» Marco terminò il suo gin e poi pagò per entrambi.

Uscirono assieme ed Ace allungò il piede in direzione della strada principale, quando si sentì afferrare per un braccio ed essere tirato indietro. Si ritrovò spalle al muro, nell'angolo più scuro, dove la luce del bar non arrivava.

«Ma che...»

La sua domanda fu interrotta dalle labbra di Marco che premevano sulle sue. Si ritrovò a schiudere appena la bocca, senza nemmeno accorgersene, ma il bacio non venne approfondito.

«Mi mancherai, ragazzino» mormorò, il suo fiato che sapeva ancora di gin che gli accarezzava la pelle. Poi si separò da lui e si allontanò senza aggiungere altro.

Ace era rimasto ancora spalle al muro, paralizzato. Si toccò le labbra con la punta delle dita. Era incredulo. Una cosa del genere non poteva essere successa davvero. Sapeva, anche se non riusciva a crederci fino in fondo, che Marco lo apprezzava, ma fino a quel punto...! Però sentiva ancora la sensazione del bacio, per cui non poteva esserselo sognato.

Se avessero scoperto una cosa del genere li avrebbero potuti espellere entrambi dall'esercito. Non se lo poteva permettere, quindi non avrebbe potuto parlare di quella cosa con nessuno né provare a chiedere spiegazioni su quell'atteggiamento.
Però, che cavolo, non poteva baciarlo e poi lasciarlo lì con la voglia addosso!

 
Okanogan National Forest, 15-16 Maggio
 
Il primo giorno di Ace al campo di addestramento dei Ranger non si stava rivelando come previsto. Invece di portarli direttamente a Fort Lewis, li avevano fatti vestire con l'uniforme e con tutto l'equipaggiamento standard, quindi li avevano caricati su vari pullman senza specificare loro la destinazione. I pullman avevano seguito la stessa direzione all'inizio, per poi dividersi. Al momento, la strada sterrata in salita che stavano percorrendo li aveva separati da tutti gli altri.

Nessuno parlava. Ace guardava fuori dal finestrino la vegetazione che si faceva sempre più fitta e si chiedeva esattamente che razza di addestramento avevano in mente per loro. Non che ne avesse paura, ma immaginava che fosse qualcosa di totalmente diverso dal solito.

Fu solo quando raggiunsero un'altezza considerevole che il Maggiore che li accompagnava si alzò. «Ascoltatemi bene, merdine» esordì. «Non abbiamo certo il tempo di occuparci degli scarti, siamo qui per dare agli Stati Uniti il meglio del meglio. Chi non supera questa prova può anche tornarsene nella fogna da dove proviene.»

Ace roteò appena gli occhi. Sapeva che la maggior parte degli istruttori si comportava in maniera estremamente aggressiva ed offensiva: temprava gli uomini, così dicevano. Lui ne aveva avuto esperienza durante l'Addestramento di Base per le Reclute. La cosa sinceramente non lo disturbava, ma si vedeva la differenza estrema delle eccezioni che faceva il Generale Newgate.

«Siamo all'interno del Parco di Okanogan» spiegò il Maggiore. «A ciascuno di voi sarà affidata una mappa e delle missioni da completare, quindi verrete lasciati da soli, come se foste davvero in guerra.» Sorrise. «Ovviamente, niente contatto radio. Dovete affrontare la situazione più difficile in assoluto per un soldato. Il punto di rendez-vous è Fort Lewis direttamente.» Prese una borsa di cuoio da sotto il suo sedile e convocò uno dei soldati, a cui furono consegnati i fogli con il necessario. «Il Generale Kaido mi ha detto di dirvi queste esatte parole: “chiunque ci impieghi più del tempo previsto, può anche non tornare”.»

«Ed io che pensavo che quello che ti aveva fatto il Colonnello Marco fosse eccessivo» sussurrò Odr ad Ace, mentre il primo soldato veniva fatto scendere e il pullman ripartiva lasciandolo da solo. «Il Generale Kaido è una vera bestia!»

«Non muoverti dal punto quando toccherà a te» gli rispose semplicemente lui, ignorando qualsiasi commento. Kaido poteva anche essere un mostro, per quello che gli importava, ma non aveva voglia di parlare di Marco. Aveva lasciato Fort Irwin senza riuscire a chiarire la situazione con lui e la cosa lo indisponeva.

Man mano i soldati venivano lasciati sui bordi dei sentieri, mentre il pullman continuava la sua corsa. Era probabile che si fossero tutti separati proprio per spargere gli uomini dentro tutto il parco. Venne anche il turno di Odr ed Ace gli fece un sorriso d'incoraggiamento. Subito dopo, fu il suo turno di essere sbarcato.

Aspettò che il pullman si fosse allontanato dalla sua vista, quindi si sistemò meglio il fucile sulle spalle e tornò indietro per la strada da cui era arrivato, ignorando il sentiero che avrebbe dovuto prendere secondo la mappa. Non era sicuro di quanti chilometri avrebbe dovuto percorrere, ma non credeva fossero molti. Tuttavia, vista la strada in salita, ritornò al punto dove era stato sbarcato Odr e arrivò che era già scesa la notte.

Lo trovò subito: aveva aspettato, come gli era stato detto, ma si era messo un po' sull'interno, per non essere esattamente vicino alla strada. Non aveva acceso un fuoco per non essere individuabile, ma era riuscito ad avere delle braci con cui aveva riscaldato della selvaggina. Anche se erano in un parco, nessuno gli aveva detto che non potevano cacciare.

«Grazie per essere tornato per me» gli disse, offrendogli una parte della sua cena. «Ma non so se hai fatto bene, ti rallenterò e basta.»

«Sciocchezze.» Ace si sarebbe comportato nella stessa maniera in ogni caso, perché lo considerava un amico, ma si sentiva anche in parte responsabile dato che Odr aveva deciso di far domanda per i Ranger solo per seguire lui. «Completeremo le nostre missioni, in due. Dopotutto, i soldati combattono assieme in battaglia, no?»

Odr annuì commosso. Continuarono a mangiare in silenzio e, dato che l'oscurità impediva loro di fare qualsiasi cosa, decisero di riposarsi in vista del giorno successivo, con turni di guardia a testa ogni due ore.

La mattina successiva, all'alba, riuscirono finalmente a leggere le missioni che gli erano state assegnate, che in pratica consistevano nel raggiungere e conquistare determinati luoghi segnati sulla mappa. Decisero il percorso da seguire in modo da ottimizzare il tempo e si incamminarono sul sentiero.

Fu verso il pomeriggio, quando credevano di non essere troppo lontani dal loro primo obiettivo, che Ace avvertì qualcosa nel bosco. Inizialmente pensava che fosse qualche animale selvatico e già pregustava un pasto migliore di quello che avevano avuto per pranzo, ma poi si accorse che erano delle voci.

Fece segno ad Odr di fare silenzio, quindi iniziò a camminare fuori del sentiero, cercando di essere il più silenzioso possibile. Non era facile perché la maggior parte degli addestramenti fatti fino a quel momento erano più di attacchi combinati e di gruppo, essendo di fanteria. Attenzioni del genere erano più adatte agli aviotrasportati, che in media operavano da soli o in piccoli gruppi.

Fortunatamente, sembrava che le voci fossero troppo impegnate a litigare piuttosto che ascoltare i rumori della foresta. Allungò la testa oltre l'albero dietro cui si era nascosto: a un paio di metri di distanza c'era l'incrocio con un altro sentiero. In totale c'erano quattro soldati, tutti aspiranti Ranger evidentemente; non erano però nel loro pullman, per cui Ace pensò che provenissero dall'altro lato del versante. Solo due discutevano fra di loro, mentre gli altri due li spalleggiavano ma senza dire una parola. Il motivo della discussione non gli era chiaro, parevano più che altro insulti.

Ace strinse più forte il suo fucile: l'M1 Garand, orgoglio dell'ingegneria americana, sparava otto colpi a ripetizione senza necessità di ricarica o di pulizia della canna. In una situazione del genere, anche se si fossero trovati quattro nemici di fronte, avrebbero potuto sopraffarli.

Sorrise in direzione di Odr, quindi decise di provare se davvero poteva funzionare. In un attimo, si gettò di lato e sparò tutti ed otto i colpi del caricatore: la mira fu volontariamente alta, in maniera da non colpire effettivamente i soldati ma solo gli alberi dietro di loro. Serviva solo a dare l'idea che avrebbe potuto centrarli in pieno, se avesse voluto.

Il rumore degli spari e dei proiettili che colpivano i tronchi fu più che sufficiente ad interrompere la discussione e a far gettare tutti lateralmente, per proteggersi dietro rocce o alberi, con i loro fucili pronti e spianati.

«Ehi, ehi.» Ace entrò nel sentiero tenendo il fucile alto con il braccio, anche se l'aveva già ricaricato. Odr lo seguì, ma lui teneva l'arma ben in mano. «Se avessi mirato correttamente sareste già morti.»

Il soldato dai capelli rossi pareva sul punto di ribattere, ma l'uomo che lo accompagnava lo interruppe. «Ha ragione lui» affermò.

«Io ti conosco» disse un altro soldato, il secondo che era preso dalla discussione. Pareva seccato per essere stato sorpreso in quella maniera, ma lo stava nascondendo bene. «Gol D. Ace.» Non era un buon inizio, ma si fece subito perdonare. «Sono Trafalgar Law. Stavo giusto spiegando a quest'idiota che è molto più sensato collaborare per questa missione invece che combatterci a vicenda.»

«Oh, suppongo che il mio intervento non abbia aiutato molto la tua tesi» commentò Ace divertito.

«Al contrario» replicò Law gentilmente. «In due contro quattro, non avreste avuto possibilità. Per questo bisogna collaborare.»

Ace era incline a dargli ragione. Se c'era una cosa che il Generale Newgate gli aveva insegnato era il lavoro di squadra. Inoltre, non aveva mai avuto troppi problemi ad aiutare e farsi aiutare dagli amici e aveva l'impressione che nel bel mezzo di un'azione di guerra tutti i soldati si considerassero molto vicini fra di loro.

«Che missioni avete?» domandò Law. «Io e Bepo dobbiamo dirigerci verso sud, come questi due» accennò col capo agli altri soldati. «Il mio invito a fare gruppo si estende anche a voi. Avere tante competenze assieme può essere solo un bene.»

«E chi ci dice che la vostra missione non consiste nello spiare le missioni degli altri?» domandò Odr, parlando per la prima volta. Non aveva abbassato il fucile nemmeno per un attimo.

Law alzò lo sguardo al cielo: era stanco di litigare con persone che avevano la testa più dura della sua. Prese un foglio dalla sua tasca. «Controllate pure, se volete» commentò. «È solo un'esercitazione e credo che collaborando riusciremo a svolgerla meglio che altri. In realtà, ho già deciso chi voglio nel mio gruppo» aggiunse.

«Davvero?» Ace passò il foglio a Odr perché lo controllasse. «E chi hai scelto?»

«Tu, tra gli altri» ammise Law. «Ho visto i tuoi risultati e ti preferisco dalla mia parte che contro» gli spiegò. «Come ho detto, è questione di competenza. Ho individuato alcuni soldati che si sono distinti per particolari qualità. Qui si tratta di decidere chi sarà con noi sul campo di battaglia e voglio soldati con un senso.»

Ace non si era mai posto il problema di più forti o meno forti, si era fatto degli amici e su di loro contava durante le battaglie d'addestramento. Tuttavia il discorso di Law aveva un senso, si trattava di selezionare il meglio del meglio e il suo ego era soddisfatto di far parte di quella ristretta élite.

«Certo che visto come vi siete fatti sorprendere, granché non mi sembrate» ridacchiò. «Lui viene con noi, però» aggiunse immediatamente, indicando Odr.

«Sei sicuro che sia il caso?» domandò quest'ultimo.

«Tranquillo, li ho già fatti fuori una volta, posso farlo di nuovo» commentò sorridendo. Era una chiara minaccia, perché non avrebbe tollerato se si fosse trattato di un inganno. Law replicò con un sorrisetto, ma non disse nulla. «Spiegami perché hai scelto 'sto tizio, ad esempio.»

«Ti sembrerà strano, ma anche i suoi risultati sono tra i migliori» commentò Law. «È Eustass Kidd.» Anche lui era abbastanza famoso, perché i suoi risultati erano di poco inferiori a quelli conseguiti da Ace.

«Se non la piantate di parlare di me come se non ci fossi, vi ficco una pallottola su per il culo e senza sbagliare mira.» Sia Law sia Ace lo guardarono seccati: per quanto la minaccia potesse essere vera, credevano di poter essere in grado di batterlo senza troppe difficoltà. «A me va bene questa storia dell'alleanza, non mi piace ma capisco che sia necessaria.»

«Stavamo litigando su chi dovesse essere al comando» spiegò Law. Normalmente in un gruppo ci sarebbe stato un ufficiale superiore, ma in quel caso, dato che si trattava di un'alleanza improvvisata, avevano tutti lo stesso grado.

Ovviamente, Ace non aveva alcun dubbio, sarebbe spettato a lui. «Sono Sottotenente» annunciò, ma era probabile che anche gli altri lo fossero. «E i miei risultati sono migliori di tutti qui.»

«Oh, avanti, lo sanno tutti che il vecchio Newgate è una leggenda ma è troppo buono con i suoi uomini!» sbottò Kidd.

«Prova a ripeterlo!»

«Basta così.» Il soldato che accompagnava Kidd si frappose fra i due. «Ci stiamo comportando esattamente come prima, e non andremo da nessuna parte, anzi, ci rallenteremo a vicenda. Se siamo tutti d'accordo nel compiere le missioni assieme dovremo risolvere questa cose in maniera civile.»

«Killer, sei troppo serio» commentò Kidd, ma parve ascoltarlo. «La maniera migliore è con una bella rissa.» Fissò Ace e Law con cupidigia. «Potrei battere entrambi nello stesso momento.»

Ace si era rimesso il fucile sulla spalla. «Ah!» Sorrideva: in realtà una bella scazzottata non gli sarebbe dispiaciuta.

«Scusatemi...» Il soldato Bepo parlò per la prima volta: il suo tono di voce era basso, quasi come se si vergognasse. «Credo che dovrebbe comandare Law. In fondo è un Tenente, il grado più alto fra tutti qui.»

Kidd era sconvolto, in maniera negativa: non poteva accettare che dovesse considerarlo un suo superiore. «Perché non l'hai detto prima?» domandò invece Ace. Non aveva troppa simpatia per lui, al momento; sapeva il fatto suo, ma tendeva ad essere un po' troppo enigmatico per i suoi gusti.

«Ho avuto la promozione perché sono laureato» spiegò Law. «Credo che a comando del nostro gruppo ci voglia qualcuno preparato non per promozioni date per meriti al di fuori dell'addestramento. Tuttavia, sono perfettamente in grado di guidarvi anche senza il grado» aggiunse, per mettere in chiaro che non si considerava affatto inferiore a loro anche non considerando il fatto di essere un Tenente.

«Ah, è vero, hai fatto la Specializzazione Occupazionale Militare per l'unità medica in Texas» disse Killer. Evidentemente Law non era stato il solo a studiare gli altri potenziali candidati a Ranger.

«Quindi sei un medico?» Ace, invece, ignorava tutto quello che riguardava i suoi futuri compagni e non pareva avere grandi intenzioni di colmare la lacuna. «Adesso sì che assumi un'utilità!»

«Bene, quindi è deciso, comanderò io.» Law prese immediatamente la palla al balzo per chiudere definitivamente la discussione. «Seguitemi, abbiamo perso fin troppo tempo.» Indicò Bepo. «Ci guiderà lui, è il migliore di tutti a leggere le mappe militari.»

Ace e Kidd si guardarono: per entrambi la discussione non era conclusa ed entrambi erano ansiosi di mettere in luce le rispettive capacità per dimostrarsi migliori degli altri. Forse avrebbero anche ascoltato i suoi ordini, ma di sicuro non sarebbero sottostati definitivamente a lui. Gli si affiancarono sul sentiero e non cedettero il passo di un istante.

Bepo prese la mappa e sospirò; Killer e Odr abbassarono i rispettivi fucili e alzarono le spalle. A quanto pareva, l'alleanza era decisa, anche se non funzionava ancora al meglio.

 
Seattle, 20 Maggio
 
Seattle era una città in pieno sviluppo, proprio grazie alla guerra. Durante la Grande Depressione era in piena crisi, ma poi la domanda incessante di Boeing per la guerra aveva aumentato in maniera esponenziale il carico di lavoro delle aziende, che avevano assunto più lavoratori rispetto a qualunque altro luogo della zona. Tale sviluppo dell'industria si percepiva anche all'interno della stessa città: certo, c'erano sempre i disagi di trovarsi in un paese che era in guerra, ma il rifornimento di generi alimentari era superiore ad altre città e anche le proteste erano ridotte al minimo.

All'interno di questo livello di vita alta c'era anche la locanda “Dressrosa”, un albergo che sopravviveva anche grazie ad attività non esattamente legali, almeno a quanto sosteneva Law. Gli uomini e le donne che ci lavoravano dentro erano in effetti poco raccomandabili e per nulla amichevoli, cosa che in pratica allontanava i clienti piuttosto che attirarli. Non era bello trascorrere del tempo in un pub dove si rischiava di essere presi a pistolettate da Baby-5, la cameriera.

Ciò nonostante, Kaido passava tutti i sabati sera in quella locanda, e se non aveva troppo lavoro accumulato a Fort Lewis, anche qualche altra serata. Quella settimana era stato sfortunato, dato che era stato assegnato al comando del 2° Battaglione Ranger e si era dovuto occupare di preparare le sistemazioni per i soldati che avrebbero superato la prova della foresta. Pensava che non fossero molti, il che gli avrebbe permesso di fare meno fatica e non dover addestrare degli incapaci.

Fu quindi con grande sollievo che, il sabato, riuscì finalmente a recarsi al “Dressrosa” con l'idea di godersi un paio d'ore di rilassamento e magari vedere qualche incontro di boxe clandestino organizzato dal boss della malavita locale, Diamante. I suoi piani andarono in fumo nell'esatto momento in cui mise piede nel locale: in uno dei tavoli, ancora con le loro divise da Ranger pulite e stirate, c'era un gruppo ben nutrito dei suoi futuri uomini.

«E voi che diavolo ci fate qui?» li aggredì, dirigendosi verso di loro. «Dovevate arrivare minimo una settimana fa!»

«Al momento stiamo mangiando» commentò Law, indicando l'ovvio dei piatti fumanti che erano stati deposti davanti a loro. «E siamo arrivati una settimana fa» specificò. «Ci è stato detto che i nostri dormitori non erano ancora pronti, per cui abbiamo pensato di cercarci una sistemazione più confortevole.»

Ovviamente era stata scelta accuratamente, così che Kaido potesse rendersi conto fin da subito che loro erano effettivamente i soldati migliori della sua divisione.

«Confermo, sono qui da una settimana» disse Baby-5, che stava portando altri piatti e contemporaneamente puntando la pistola contro un uomo che aveva cercato di toccarle il sedere. «Anzi, se se li porta via mi fa un favore, stanno spaventando gli amici di Diamante, se capisce cosa intendo.»

Kaido capiva perfettamente che cosa intendeva dire. «Era previsto che svolgeste le vostre missioni da soli.»

«Nient'affatto» intervenne Hawkins, uno degli altri soldati che si era unito al gruppo, esperto in comunicazioni. «L'ordine era di completare le missioni entro un certo limite. Ci avete lasciati da soli, ma non avete mai specificato che avremmo dovuto continuare così.»

«Andate alla base, adesso» ordinò allora Kaido, con voce rude. «Voi siete veramente il peggio

Law, Kidd ed Ace si scambiarono un'occhiata soddisfatta: era quanto di più vicino ad un complimento ci fosse, e loro stessi erano soddisfatti del gruppo che avevano messo assieme. Sapevano tuttavia che non era il caso di irritare ulteriormente il Generale, quindi lasciarono il pasto a metà; in realtà Ace lo terminò ficcandosi tutto in bocca e praticamente inghiottendo i bocconi interi, ma fu l'unico in grado di riuscirci.

A Fort Lewis erano arrivati altri soldati, nel frattempo, ma non erano molti. Quasi tutti erano arrivati da soli, come Kaido si aspettava. Il primo fra di loro era Cavendish, che era famoso come schermidore, anche se lo scoppio della guerra aveva frustrato le sue possibilità di recarsi alle Olimpiadi. Ace avrebbe anche potuto trovarlo simpatico, dato che aveva lo stesso sogno del fratello, ma il suo narcisismo lo rendeva difficile da tollerare. Per di più gli aveva giurato eterna vendetta quando aveva scoperto che erano arrivati prima di loro.

«Capisco perché tu non lo abbia scelto» commentò Ace all'indirizzo di Law, mentre sistemava la sua roba all'interno del baule ai piedi del suo letto.

«Be', anche tu e Kidd siete stati una bella gatta da pelare» replicò lui, ricordando la fatica che aveva fatto a convincerli. «Tuttavia, siete più ragionevoli di lui, bisogna riconoscerlo.»

Ace gli fece un sorrisetto e stava per rispondergli, quando sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Si voltò e notò un soldato che li stava spiando da dietro la porta che portava alle docce. «Ehi, tu!» lo chiamò.

Il soldato scattò, preso alla sprovvista, ma poi si fece coraggio e si avvicinò. «Sei Gol D. Ace, vero?» gli domandò. «Il fratello di Monkey D. Rufy?»

Ace non tollerava che si parlasse del suo cognome, cosa che succedeva spesso, ma era la prima volta che qualcuno gli chiedeva di suo fratello, anche perché molti non notavano la parentela avendo due cognomi differenti. Per cui annuì, perplesso, e fu ancora più sconvolto quando il soldato si gettò praticamente ai suoi piedi chiamandolo “signore”.

«Ma che diavolo...?» fu il commento di Ace, che non si trattenne dal tirargli un calcio per farlo calmare.

«Io sono un grandissimo fan del Maestro Rufy!» La frase di Bartolomeo era quasi incomprensibile fra le lacrime di gioia che ancora gli solcavano il viso. Tornò verso il suo letto e ne emerse con il cartoncino che conteneva una collezione di articoli riguardanti le imprese sportive di Rufy persino più ricca di quella che Ace aveva messo da parte in quegli anni. «Ho anche seguito la sua carriera... non esattamente legale...» aggiunse, con fare cospiratorio, dando chiaramente idea di dove esattamente avesse visto il suo idolo per la prima volta.

«Tuo fratello ha dei fan?» domandò Odr.

«Apparentemente.» Ace era ancora sconvolto dall'intera scena che si era svolta di fronte ai suoi occhi ed offeso che qualcuno possedesse più articoli di lui su suo fratello.

«Crede che sia possibile ottenere un autografo?» domandò Bartolomeo, mettendosi praticamente in ginocchio.

«Glielo chiederò» rispose Ace, anche per scollarselo di dosso. In fondo, però, era orgoglioso di Rufy: significava che aveva davvero iniziato a farsi conoscere nell'ambiente se c'erano persone che facevano il tifo per lui.

Law aveva guardato tutta l'intera scena con un sopracciglio leggermente alzato. «Certo che, per essere il gruppo d'élite dell'esercito americano, c'è gente fuori come un balcone.»

 
Fort Lewis, 3 Settembre
 
«C'è una chiamata per te» lo informò Cavendish, quasi senza guardarlo. Non tollerava nessuno che avesse risultati superiori ai suoi e non ne faceva mistero, ma aveva una sua morale che Ace rispettava, per cui finse di ignorare il tono seccato con cui gli era stata riportata la notizia.

«Sarà per caso il Maestro Rufy?» domandò Bartolomeo,  balzando in piedi sul letto. Era sempre interessato a qualunque notizia potesse provenire da Fort Irwin, anche se non c'erano molte novità rispetto al fatto che si stava addestrando.

Ace gli scoccò un'occhiata per indicargli che, anche nel caso, non sarebbe potuto venire con lui nella stanza centrale ad ascoltare la conversazione. Non si sentì  in colpa a lasciarlo nel dormitorio depresso, stava iniziando a diventare decisamente troppo appiccicoso.

In ogni caso, non credeva che fosse Rufy. Loro si sentivano sempre tramite lettere, quindi a meno che non fosse successo qualcosa di grave, non poteva essere lui. Ovviamente, poteva essere qualcosa riguardante il vecchio Garp, che a discapito della sua età era a combattere nel Pacifico per vendicare i suoi promettenti uomini uccisi a Pearl Harbor.

«Sono Gol D. Ace» si presentò a malavoglia alla cornetta: nell'esercito doveva per forza usare il suo vero nome, anche se la cosa lo seccava.

«Ho una notizia per te.»

Ace trattenne il fiato per un attimo: quella era decisamente la voce di Marco. Era così felice di sentirlo! Non erano riusciti a spiegarsi prima che partisse per entrare nei Ranger e la situazione lo disturbava ancora. Certo, non era il caso di farlo al telefono, dove qualcuno avrebbe potuto ascoltare la conversazione. Un'accusa di omosessualità avrebbe garantito per entrambi la fine della carriera militare.

Tuttavia non riusciva a smettere di sorridere. Marco non si era presentato, per cui nemmeno lui fece il suo nome. «È bello sentirti» commentò sinceramente. «Cosa devi dirmi?»

«Il 1° Battaglione Ranger è stata trasferito dall'Africa per partecipare all'Operazione Avalanche» rispose Marco, ignorando la prima parte della frase. «Il che vuol dire che al 2° Battaglione Ranger spetterà l'operazione Overlord.» E riattaccò.

Ace rimase con la cornetta premuta all'orecchio, incredulo. Non si sentivano da mesi e praticamente non si erano nemmeno salutati. Avrebbe potuto anche evitare di baciarlo se quello era il risultato. Quando l'irritazione iniziò a scemare, si rese conto del motivo per cui gli aveva telefonato: aveva scoperto in anticipo quale sarebbe stata la sua destinazione e aveva cercato di comunicargliela. Era stato volutamente anonimo ed evasivo, ma gli aveva dato un indizio.

Ace tornò al suo dormitorio e svegliò Law tirandogli un calcio e praticamente buttandolo giù dal letto. Il suo patrigno Doflamingo, per quanto lui sembrasse detestarlo, era ammanicato ovunque, quindi di sicuro conosceva il significato dei nomi in codice.

Law riemerse da dietro il letto dove era stato gettato con un'espressione decisamente non felice. «Cosa sono l'Operazione Avalanche e l'Operazione Overlord?» domandò immediatamente Ace, prevenendo qualsiasi protesta.

«Dove hai sentito questi nomi?» Law si era fatto interessato, dimenticando come era stato svegliato malamente.

«Fonte sicura» rispose Ace. Gli tirò un'occhiata che indicava che non aveva senso perdere tempo a chiedergli maggiori informazioni. «So che noi siamo destinati all'Operazione Overlord.»

Gli altri soldati avevano assistito alla scena, ma solo quando si resero conto che quello poteva significare per il loro futuro nell'esercito, si avvicinarono ai due per ascoltare la spiegazione. Law attese che fossero tutti a portata d'orecchio prima di parlare.

«Immagino che voi idioti sappiate bene che l'obiettivo principale è, ed è sempre stata, l'Europa.» Alla parola “idioti” aveva fissato Kidd intensamente, ma Killer aveva impedito che la discussione si spostasse su argomenti non pertinenti. «Sono tre anni che si prepara il piano per invaderla e solo due sono le possibilità per colpire su più fronti i tedeschi: la Francia e l'Italia.» Si chinò in avanti, imitato da tutti gli altri, e abbassò la voce. «Nei prossimi giorni dovrebbe partire l'ordine per la prima invasione, Operazione Avalanche: lo sbarco nella città di Salerno.»

Law controllò i volti dei soldati: Salerno non era certo un luogo molto conosciuto, ma viste le uniche due possibilità, non fu difficile per nessuno capire dove si trovasse e di che missione si trattasse. L'Italia era passata da nemico a paese alleato conquistato dai tedeschi. «In realtà, è una semplice operazione di depistaggio, in attesa di convincere gli inglesi alla necessità di attaccare direttamente» specificò Law. «Il vero obiettivo è un altro. Sapete che cosa significa?»

«Oh, sì.» Ace sorrideva e gli occhi gli brillavano. Ora capiva perché Marco avesse voluto immediatamente chiamarlo, pur rischiando di passare informazioni segrete, per informarlo di quello che aveva scoperto. «Andremo in Francia.»
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 1944 - Parte I ***


1944 – Parte I
 
 
Southampton, 13 Maggio
 
Quando Ace e il resto del 2° Battaglione Ranger sbarcarono finalmente in Inghilterra per unirsi al resto della truppa che da marzo si preparava all'Operazione Overlord nelle coste inglesi, rimasero stupefatti dalla quantità di forze che erano state preparate per essere impiegate per l'invasione della Francia. Aerei, carri armati Sherman anfibi, carri bonifica mine, carri getta ponti e getta rampe, senza contare la flotta che era stata preparata per trasportare armamenti e truppe e tutto il resto delle armi personali.

Si respirava la guerra in maniera più decisa che in altre zone di addestramento. Per documentare ciò che vedeva usò tre rullini che aveva appena comprato, ma pensava che ne valesse la pena.

La prima cosa che Ace fece fu andare a cercare la base della 29° Divisione Fanteria: aveva tutti i suoi vecchi compagni d'addestramento da salutare, soprattutto il fratello. Rufy era al tavolo con il suo solito gruppo di amici a passare il tempo giocando a carte. Come tutti i soldati, avevano l'umore alle stelle. Probabilmente era l'adrenalina che permetteva loro di sentirsi così esaltati.

Rufy era ovviamente il più eccitato di tutti. «L'Inghilterra è ok, ma non vedo l'ora di essere in Francia. Quando dovremo ancora aspettare?» commentò, mentre cercava di strozzarlo con un abbraccio.

«Le inglesi non sono male, ma voglio conoscere qualche bella francese» commentò Sanji. Fumava, con il mento appoggiato ad entrambe le mani, e pareva in un mondo tutto suo.

«Imbecille» fu il commento di Zoro, che ostentava indifferenza.

«Tu vedi di non perderti!»

Rufy rise. «Anche se la spiaggia è dritta, riesce sempre ad andare dalla parte sbagliata.»

Al contrario degli altri, Usop pareva desiderare che l'operazione non iniziasse mai. Nonostante la sua pelle scura era più pallido dei compagni. «È da quando siamo arrivati qui che sto male, davvero, dovrei essere esonerato ma non vogliono farmi tornare a casa...»

«Oh, ma se vuoi conosco un medico» disse Ace allegramente. «Ehi, Law!» chiamò, approfittando del fatto che il collega stava passando proprio vicino al loro tavolo.

«Che c'è?» Law si avvicinò con sguardo truce e niente affatto rassicurante per essere un dottore.

«Puoi dargli un'occhiata?» Ace indicò Usop. «Dice che sta male.»

«Sapete una cosa? Improvvisamente mi sento meglio» commentò Usop, che aveva la vaga impressione che fosse meglio andare in guerra piuttosto che farsi visitare da quel medico, il cui sorriso era particolarmente inquietante.

«Wow, l'ha guarito soltanto guardandolo!» commentò Rufy. «Allora è vero che i Ranger sono di un'altra categoria!»

Law alzò leggermente il sopracciglio, poi fissò Ace con un'espressione che diceva “ma vedi con chi dobbiamo stare” e poi accennò col capo dietro di lui. Solo in quel momento Ace notò Bartolomeo che stava nascosto sotto ad uno dei tavoli, con grande stupore di tutti i suoi occupanti, e li fissava con espressione estasiata e le lacrime agli occhi.

«Vieni, devo presentarti una persona.» Ace prese il fratello per un braccio e lo trascinò vicino al tavolo, ma appena fece per abbassarsi per far uscire Bartolomeo allo scoperto, questi fece un balzo felino e si dileguò.

Rufy fissò l'intera scena incuriosito. «Tu conosci solo strani tipi» commentò.

«Sì, a partire da te» ribatté Ace. «Guarda che quello è un tuo fan, ha cercato di avere il tuo autografo da quando mi ha beccato a Fort Lewis.»

«Un mio fan? Davvero?» E alla conferma definitiva, si voltò e si mise all'inseguimento di Bartolomeo. «Fermati, fan!» E lo rincorse per tutta la base, con sommo divertimento e perplessità degli altri soldati presenti.

Ace si voltò verso Law, che era rimasto ad osservare l'intera scena per poi scuotere la testa, poco convinto dalla maniera in cui venivano scelti i soldati negli Stati Uniti. Lui si limitò ad allargare le braccia: non c'entrava nulla e i suoi sforzi per migliorare il fratello non erano mai serviti a nulla.

Ma non aveva il tempo di stare troppo dietro a Rufy, nonostante gli sarebbe piaciuto fotografare quella strana corsa, perché c'era un'altra persona che aveva assolutamente necessità di incontrare, per cui salutò il gruppo e si diresse verso la fattoria vicino alla base che era stata allestita a dormitorio per gli ufficiali superiori. Incrociò quasi subito Vista, che anche se non era stato il suo istruttore lo conosceva abbastanza bene.

«Dove posso trovare il Colonnello Marco?» gli domandò, dopo aver fatto una breve conversazione sull'addestramento dei Ranger.

«Nell'ufficio, forse. Terza porta sulla destra.»

Non erano più a Fort Irwin, quindi era una stanza in comune con molti altri ufficiali anche degli eserciti inglese, canadese e francese, cosa che non si sposava bene con la privacy di cui Ace aveva bisogno. In ogni caso, Marco non c'era, quindi si sistemò davanti alla porta in attesa che arrivasse. Non dovette aspettare per molto: non appena individuò la testa bionda ad ananas emergere dal corridoio, si diresse nella sua direzione.

Marco lo vide subito e sorrise.  «Capitano...» lo salutò. Non riusciva a nascondere l'orgoglio che provava: gli aveva consigliato di andare nei Ranger  perché sapeva che poteva fare carriera e così era stato.

Ace non lo salutò: si guardò intorno, per vedere se c'era qualcuno nel corridoio che li poteva vedere, quindi aprì la porta del bagno e vi si infilò dentro. Marco lo seguì perplesso: come al solito, non riusciva a capire che cosa gli passasse nella testa. Ace attese un attimo per ascoltare che non ci fossero passi nel corridoio, quindi, senza aggiungere altro, gettò con forza Marco dentro una delle toilette e lo baciò. Era più di un anno che aspettava quel momento: voleva di nuovo sentire la sensazione delle loro labbra che si toccavano, ma questa volta voleva assaporare il momento per bene e prendersi tutto il tempo di approfondire.

Dopo un attimo di esitazione, sentì le mani di Marco stringersi sui suoi fianchi per avvicinarlo maggiormente a se e allora schiuse la bocca e lasciò la lingua passare sulle sue labbra prima di  infilarla lentamente a sfiorargli il palato. Mise le mani sulle sue spalle e premette il bacino contro di lui.

«Come hai osato lasciarmi appeso per tutto questo tempo?» commentò, guardandolo male ma tenendo i loro visi a pochi centimetri e i corpi stretti l'uno all'altro.

«Scusa.» Marco sorrise dolcemente. «Non è stato corretto da parte mia, ma avevo paura.» Era sempre stato il più diretto nei suoi sentimenti. Non che Ace non lo capisse: lui aveva avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose come Rufy e Sabo che non l'avevano mai giudicato, ma l'omosessualità era così malvista al mondo che non c'era da stupirsi se le persone tendevano a ritrarsi di fronte alla prospettiva di rivelarsi completamente. Senza contare che era un suo superiore nell'esercito.

«Hai paura anche adesso, Colonnello?» domandò Ace, soffiandogli sulla pelle. Poteva dirsi soddisfatto che avesse avuto abbastanza coraggio da dargli quell'unico bacio, perché lui probabilmente non l'avrebbe mai fatto.

«Sì» ammise Marco. «Stiamo per andare in guerra e potrebbero morire le persone a cui tengo. Potrei restare l'unico in vita e la cosa mi terrorizza.»

Ace lo baciò ancora: non voleva pensare a quello in quel momento. «Allora non è il caso di perdere tempo.» Fece scivolare la mano seguendo la linea dei bottoni della divisa, fino a raggiungere la cintura, ma Marco lo fermò.

«Sei sicuro?»

«Dannatamente sicuro» ribatté Ace. Era da quando aveva lasciato Fort Irwin che non aveva smesso di pensare a quanto lo voleva e a come non se ne fosse accorto prima. «Non sono un ragazzino» aggiunse. In effetti, non aveva idea di quanti anni in meno avesse, ma non gli importava al momento.

«È solo che...» mormorò Marco, stranamente esitando per un attimo. «Io voglio fare sul serio, con te.»

Ecco, forse questa è una cosa che Ace decisamente non si aspettava. Gli strinse maggiormente le spalle, abbassando la testa. Non ci aveva ancora pensato, a quello che voleva fare dopo, alla fine della guerra. Diamine, non sapevano nemmeno se l'avrebbero vinta! Però, in quel momento la sua concentrazione era sull'erezione che gli stringeva nei pantaloni e che non sarebbe passata, non fintanto che continuava a stringersi sul bacino dell'altro.

«Ti dirò che cosa voglio fare io» disse allora. «Per prima cosa voglio scoparti. Quindi voglio che questa maledetta Operazione Overlord abbia inizio così posso rispedire i tedeschi dove si meritano.» Era quella la sua priorità, e Marco avrebbe dovuto saperlo bene. «E quando questa guerra di merda sarà finita, vedremo. Pensi che ti possa andare bene?» Fece scivolare una mano in tasca. «Ho i preservativi» aggiunse, con un po' d'imbarazzo. Anche se ci pensava da tempo, non era sicuro che volesse proprio dare l'idea.

Marco lo baciò e contemporaneamente allungò la mano verso la porta della toilette, chiudendoli dentro.

«Non c'è proprio verso che sia tu a scoparmi, ragazzino» fu la sua risposta.


 
Caen, 1 Giugno
 
Koala stava tagliando a pezzi le rape, con la pentola sul fuoco che bolliva. Era stato un giorno fortunato, per lei, perché grazie alla tessera annonaria era riuscita a procurarsi anche due fette sottili di pancetta. Ne stava succhiando una, ben sapendo che difficilmente avrebbe ottenuto ulteriore carne nei prossimi giorni e aveva in mente di farla durare il più possibile.

La radio era accesa sulla BBC, a volume molto basso, in maniera che solo lei che c'era praticamente accanto potesse sentirla; nell'altra stanza, prudentemente, ne era stata accesa una su una frequenza tedesca.

La rapa venne affettata con più forza quando la radio trasmise i primi versi della Chanson d'automne. «Les sanglots longs des violons de l'automne» ripeté, quasi paralizzata. Era il segno concordato, che significava che entro due settimane sarebbe stata effettuata l'invasione della Francia. I maquis dovevano tenersi pronti per i sabotaggi quando il momento preciso sarebbe arrivato.

Spense il fuoco e la radio, si infilò tutta l'intera pancetta in bocca perché era il momento di festeggiare, e uscì di casa. Inforcò la sua bicicletta e si diresse fuori del paese.

Caen era una delle zone con la più stretta sorveglianza tedesca, soprattutto da quando Rommel aveva supervisionato personalmente il miglioramento delle difese sul cosiddetto “Vallo Atlantico”, ma ciò nonostante non avevano mai sospettato di Koala, forse proprio perché ritenevano difficile che in città ci fossero spie della France Libre. Molti la guardavano male perché era giovane e non sposata e lei cercava di rimediare flirtando anche con i soldati tedeschi, conscia del fatto che non sapessero che era ebrea, e ciò le aveva fatto avere la fama di persona frivola. Solo gli altri della resistenza, a cui si erano rivolti spesso per ospitare e  i piloti inglesi che si paracadutavano nella zona, sapevano che era tutta una posa.

Per cui anche quel giorno Koala poté lasciare Caen verso le fattorie esterne in tutta sicurezza: i pochi soldati che intravide sapevano che aveva una storia con uno dei figli del fattore, che era un collaborazionista e aveva anche aiutato durante l'erezione delle difese sulle spiagge della Normandia. In realtà anche quella era una finta, lui ne approfittava per passare ai servizi segreti le informazioni esatte su dove bombardare e lei lasciava la bicicletta alla sua fattoria prima di dirigersi nelle montagne dove stava nascosto il resto della France Libre.

Poiché era raro vederla ad orario di pranzo, gli uomini capirono immediatamente che era successo qualcosa e si riunirono attorno a lei senza bisogno che gli venisse ordinato.  «Ci siamo» comunicò lei, con gli occhi che le brillavano e un sorriso sul viso. «C'è stata la trasmissione del primo messaggio.»

«Bene» commentò Dragon, con il solito viso inespressivo. «Voglio che vi prepariate tutti, quando arriverà il secondo messaggio dovrete essere tutti in posizione per i sabotaggi.» Avevano già predisposto tutto, sapevano che avrebbero dovuto arrivare fino a Calais per dare l'illusione ai tedeschi che lo sbarco sarebbe potuto avvenire lì.

Ognuno aveva la zona nella quale dirigersi, quale squadra sarebbe andata ad affiancare di quale compito si sarebbe occupato, dalla distruzione delle linee ferroviarie ai fili elettrici per le comunicazione. Non avevano più necessità di rimanere nella foresta, dovevano andare e radunare i propri gruppi attendendo la seconda comunicazione dagli alleati.

Dragon passò comunque fra tutti a dare gli ultimi ordini e le ultime raccomandazioni, perché era il momento decisivo e un minimo sbaglio avrebbe potuto svelare troppo ai tedeschi. Se l'essere catturati era un problema prima, esserlo in quel momento avrebbe costituito un disastro.

«Vi ho lasciati per ultimi perché per voi ho un altro compito» disse infine a Sabo, Koala e Hack, che erano gli unici tre a cui non era stato dato un ruolo nei sabotaggi prima dell'invasione. «Sarà il più importante e difficile, per questo lo affido a voi. Siete pronti?»

«Sì» risposero in coro, senza nessuna esitazione. Koala era felice di essere stata inclusa nella missione: sapeva che le comunicazioni dipendevano esclusivamente da lei, ma voleva avere un ruolo più attivo. Hack aveva aiutato Jinbe e i suoi a far uscire gli inglese dalla Normandia, compito che più volte gli era quasi costato la vita, per cui non aveva più paura di niente. Sabo voleva che tutti i sacrifici di quegli anni valessero finalmente qualcosa.

«E credo avrete bisogno di queste.» Dragon porse loro un pacco di vestiti, che ad un occhio più attento si rivelarono essere delle divise. «De Gaulle vi chiama Forces Françaises de l'Intérieur, ma siete a tutti gli effetti soldati del suo esercito.» La croce azzurra di Lorena, simbolo dell'armata della France Libre, spiccava sulla stoffa grigia.

«Anche io?» mormorò Koala incredula, mentre le veniva consegnata la divisa. Essere un membro della resistenza non era un problema per una donna, anche se non andava bene a tutti, ma essere un vero soldato era tutta un'altra storia.

«Naturalmente» rispose Dragon, come se la domanda fosse ridicola.

«Ti starà benissimo» affermò Hack, che la conosceva da più tempo di tutti.

Sabo si sarebbe complimentato con lei, se non fosse stato così coinvolto da quel momento. Prese la divisa con le mani tremanti. Sapeva di aver svolto un compito fondamentale in quegli anni, ma finalmente stava per diventare un vero soldato.
 

 
Ponte di Bènouville, 6 Giugno
 
La meteorologia pareva non essere dalla loro parte e con il cielo totalmente coperto era davvero difficile riuscire a distinguere qualcosa a pochi metri davanti a sé. Sabo teneva lo sguardo fisso davanti e procedeva a passi corti per non inciampare nelle radici. Con le orecchie percepiva il movimento dei suoi compagni attorno. Seguivano tutti Dragon, che al contrario sembrava vedere esattamente dove stavano andando.

Il rumore dell'aliante però fu abbastanza chiaro da renderlo perfettamente visibile, nonostante il buio. L'aereo fendette l'aria e passò sopra le loro teste, superandolo. Un istante dopo si avvertì lo schianto di un atterraggio non perfettamente riuscito tra gli alberi.

«Non esattamente quello che si dice un profilo basso» commentò Dragon. «Dobbiamo raggiungerli prima di altri.»

Non era facile correre al buio, ma in qualche maniera riuscirono ad arrivare al luogo d'atterraggio senza inciampare su loro stessi. Dragon aveva decelerato fino quasi a fermarsi e tutti l'avevano imitato. Da lontano potevano individuare con fatica persone che scendevano dall'aereo, ma era difficile riconoscerne i contorni; avevano i fucili in mano, pronti a sparare. Si avvertì chiaramente un tac, poi Dragon rispose con un doppio tac: era il segnale concordato per riconoscersi. Dall'altra parte si sentì un sospiro di sollievo.

«Be', non è stato proprio un atterraggio super, ma non è andata così male.» Le figure si avvicinarono a loro. «Sergente Franky della 6° Divisione, con me ci sono il soldato Brook e il Caporale Nico Robin.»

«Siete solamente voi?» domandò Dragon.

«No, c'erano altri sei alianti, con il resto della divisione e il Maggiore Howard che comanda la spedizione.» Sabo  rimase stupefatto: al buio era impossibile distinguerli, ma quella era chiaramente una voce femminile.  «Abbiamo perso contatto per via del maltempo.»

Dragon  annuì. «Be', se i tedeschi vi hanno sentito, c'è il rischio che si mettano in allarme. Dobbiamo prendere il ponte adesso.»

«Solo noi?» Questa era la voce di Brook, con un tono a metà fra il terrorizzato e l'eccitato.

«Be', non sarebbe la cosa più pericolosa che mi è capitato di fare» rispose Robin. «È un piacere lavorare di nuovo con lei, Compagno Dragon.»

«Il piacere è mio. Ora andiamo» rispose lui seccamente, prima di voltarsi e guidare l'intero gruppo nella foresta.

Koala si affiancò lentamente a Franky. «È normale per l'Inghilterra avere donne nell'esercito?» domandò, con un tono che pareva indicare “paese civile!”.

«No, ma lei è super» replicò Franky con tono orgoglioso. «Faceva la spia per la Russia ed è una delle persone più ricercate dal Reich, nessuno la rifiuterebbe.»

Sabo non fu molto stupito al sentire quelle informazioni, perché Robin conosceva Dragon e ci aveva già lavorato assieme, il che la poneva nel novero delle super-spie internazionali senza alcun bisogno di ulteriori raccomandazioni.

«In ogni caso, anche tu sei una donna nell'esercito, no?»

Koala sorrise: era davvero orgogliosa di poter indossare quella divisa. «È solo una cosa temporanea, purtroppo. Non siamo un vero esercito.»

«Lo siete eccome» ribatté Franky. «Le Forces Françaises de l'Intérieur. Oh, è il biondo qua è un Caporale.»

«Cosa?» Sabo si toccò la divisa, dove l'altro stava indicando le mostrine. Non ci aveva minimamente fatto caso, era rimasto abbastanza stupefatto dall'idea di aver potuto indossare finalmente una. «Ma non ho mai nemmeno fatto un addestramento ufficiale.»

«In questi tempi, non che conti molto» replicò Franky. «Tieni alto quel fucile e spara a più tedeschi possibili.» Sabo aveva tutte le intenzioni di seguire il consiglio.

Arrivarono in vista del ponte e si fermarono prima di poter essere visti. Non sembravano esserci movimenti sospetti, il che indicava che non avevano individuato gli alianti arrivare. Si notavano due sentinelle su un lato; per sicurezza Brook fece suonare le cicale, ma non ebbe risposta, identificandoli come tedeschi.

Robin si allungò ed indicò la torre alla destra del ponte. «Se riuscissi a salire lassù, potrei colpire dall'alto, in maniera da rientrare in vantaggio rispetto al nostro minor numero.»

«Le comunicazioni dovrebbero già essere state interrotte dal resto della resistenza, ma in questo modo ci assicureremo che non possano chiamare rinforzi» annuì Dragon.

Sabo fissò la torre a cui si riferivano: non era eccessivamente alta, solamente due piani, ma era a picco  sul fiume, il che rendeva un po' più difficile la scalata.  «Lo faccio io» si propose comunque.

«Vengo anche io» aggiunse Koala.

Robin le sorrise. «Io vi copro» affermò, estraendo il fucile: era un Lee-Enfield da dieci colpi, più preciso rispetto a quelli che usavano loro.

«Bene, allora lasciamo fare a voi. Super!» gridò, con voce bassa, Franky per darsi la carica, quindi balzò fuori dalla macchina e scaricò la sua arma contro le due sentinelle, che caddero senza aver il tempo di accorgersi della situazione. Gli altri lo seguirono, pronti a quando gli spari avrebbero attirato il resto del gruppo di difesa tedesco.

Sabo e Koala si appiattirono, quindi corsero immediatamente dall'altra parte, sulla riva: nell'acqua bassa e buia era impossibile identificarli. Sentivano che la battaglia era ormai iniziata ma non avevano possibilità di capire che cosa stesse succedendo esattamente. Sabo lanciò il rampone, attorcigliandolo contro la balaustra del tetto. Tirò con forza la corda per verificare che non avrebbe ceduto per il peso ed iniziò la scalata.

Le mani gli bruciavano perché, senza altro appiglio che la fune, era costretto a stringersi più strettamente mentre usava i piedi per spingersi in altro. Anche i muscoli delle gambe erano in tensione, perché la corda si muoveva sotto la sua presa. Koala la afferrò a terra e cercò di tenergliela tesa il più possibile, cosa che gli rese più facile la salita. Fu quasi con sollievo che appoggiò i piedi contro la parete della torre per avere un appoggio più stabile.

Cercò di trovare un appiglio a cui fissare la corda, in maniera che Koala potesse iniziare ad arrampicarsi dietro di lui senza che entrambi si rallentassero a vicenda, quindi le fece cenno di salire mentre lui si spingeva sul bordo del ponte e proseguiva. Superò senza troppe difficoltà la prima finestra, che era sbarrata, e si appoggiò con il piede sullo spigolo per darsi la spinta.

In quel momento, la finestra del secondo piano si aprì e un soldato vi si affacciò: da quella posizione era impossibile non vederli. Sabo imprecò ed immediatamente staccò una mano, rimanendo in equilibrio precario, nel tentativo di  recuperare la sua pistola dalla cintura, ma non servì perché un attimo dopo il soldato tedesco fu colpito da un proiettile preciso in testa: la luce della stanza l'aveva reso un bersaglio facile agli occhi di Robin, che stava perfettamente nascosta.

Sabo si spostò di lato in tempo per evitare il corpo che cadeva schiantandosi nelle acqua basse del fiume. Chinò la testa: Koala era riuscita a raggiungere la base della torre e gli annuì. Lui voltò e proseguì. Arrivò appena sotto la finestra, ma capì che non vi poteva entrare. Aveva sentito altre voci che parlavano in tedesco e sapeva bene che, non fidandosi di mettersi troppo vicino alla finestra, stavano  aspettando che si affacciasse per sparagli.

Tenendosi in equilibrio con una gamba piegata attorno alla corda e l'altro piede contro la parete, fece scivolare il fucile giù dalla spalla e poi usò la punta in ferro per levarsi il basco e lasciarlo infilzato, quindi alzò lentamente l'arma sopra di lui, facendo apparire dalla finestra unicamente il cappello. Un secondo dopo sentì una raffica di colpi che lo bombardava e per il contraccolpo perse la presa. Koala si diede una spinta con i piedi e riuscì a spostarsi abbastanza in fretta per recuperarlo prima che cadesse nel fiume, poi glielo lanciò.

«Grazie.» La finestra era tornata ad essere silenziosa, ma ora sapevano che c'erano almeno due uomini appostati. Robin aveva sparato di nuovo e avevano chiaramente sentito delle grida, ma non avevano la certezza che entrambi fossero stati colpiti.

«Tieniti forte» gli disse Koala, quindi prese la spinta con i piedi, e poi usò la forza che gli dava la corda per colpire la finestra del primo piano, che era ancora chiusa. Sabo avvertì chiaramente il rumore dei vetri che si infrangevano e poi una botta sorda. Imprecò quando sentì i primi spari.

Si spinse con i piedi, passando a destra della finestra fino a rimanere in equilibrio sulla punta del cornicione, in modo che il suo corpo non potesse comparire a chi era all'interno. Ripose il fucile ed estrasse la Webley, più facile da maneggiare perché più piccola, quindi afferrò un gruppo di proiettili e lo lanciò dentro la stanza. Non appena avvertì gli spari si gettò dentro e premette il grilletto più volte, senza nemmeno prendere la mira.

Erano due i soldati rimasti in vita dopo i colpi di Robin, ma troppo presi dalla sua distrazione non fecero in tempo a mirare di nuovo i fucili contro di lui in maniera efficace, prima di essere uccisi. Sabo abbandonò la pistola ormai scarica e prese il fucile per dirigersi al piano sottostante, quando avvertì una fitta bruciante al braccio sinistro. Si voltò: uno dei soldati tedeschi non era ancora morto e, da terra, con un ultimo spreco di energie, aveva cercato di colpirlo. Sabo gli si avvicinò e gli tolse l'arma dalle mani con un calcio. Forse non era necessario, sarebbe morto comunque, ma per sicurezza gli sparò in fronte.

Tornò verso la porta proprio nel momento in cui vi entrava Koala, con l'arma in mano. «Sei ferita?»

«No. Tu sì, però.» Ed indicò il braccio. Sulla divisa blu si stava allargando una macchia rossa. Sabo ci premette sopra un fazzoletto: faceva male, ma non abbastanza da renderlo inattivo.

Robin comparve in quel momento dalla finestra e diede un'occhiata in giro. «C'è ancora da fare» annunciò, affacciandosi cautamente dall'altra finestra, quella che dava sul ponte. La battaglia era diventata meno feroce, più accorta, perché i tedeschi avevano finalmente compreso che erano sotto attacco. Tuttavia, l'incursione sulla torre aveva permesso al gruppo di Dragon di farsi avanti senza più il pericolo dei cecchini che potevano colpirli dall'alto, per cui si stavano facendo sempre più vicini. Robin appoggiò il suo fucile sul davanzale e sparò ai soldati tedeschi che vedeva avvicinarsi. Sabo e Koala non avevano la sua mira e non riuscivano a distinguere i nemici dagli amici, quindi scesero al piano terra e, dopo essersi assicurati di aver eliminato tutti i soldati presenti, aprirono la porta per permettere al resto del gruppo di rifugiarsi all'interno.

Hack era ferito, per cui Sabo diede una mano a sdraiarlo a terra e a cercare degli altri medicinali all'interno della torre che potessero essere utili. Nel frattempo Franky aveva iniziato a gettare i cadaveri fuori, sul fiume, dopo averli spogliati di tutte le armi.

Ogni tanto Robin sparava ancora qualche colpo ai soldati che osavano avvicinarsi troppo, ma ormai avevano capito che c'era un cecchino in agguato e stavano nascosti in lontananza. «Credo che sia meglio aspettare rinforzi» affermò, mentre continuava a tenere d'occhio la situazione. Ora che avevano conquistato quella posizione, non aveva senso lasciarla per rischiare di essere tutti uccisi e perdere il ponte.

Franky aveva trovato dei mezzi per cercare di riparare la radio portatile e riuscì a mettersi in contatto col gruppo della 6° Divisione, che era come previsto atterrata troppo lontano dal posto concordato, ma avevano trovato la strada giusta e sarebbero arrivati in fretta.

Sabo e Koala guardarono ammirati Robin che, dopo aver verificato che effettivamente le comunicazioni fossero state interrotte, il che assicurava che fosse impossibile un rinforzo tedesco in breve tempo, cercava di attirare altri soldati tedeschi usando le loro stesse radio portatili, con un tedesco senza alcuna inflessione.

«È fantastica» commentarono contemporaneamente.

«Vuoi darmi una mano?» domandò gentilmente Robin a Koala, mentre sistemava meglio il fucile sulla finestra.

«Certo!» esclamò lei felice.

«Geloso?» commentò Ivankov, che gli si era avvicinato di soppiatto, quasi spaventandolo.

«No! Perché dovrei esserlo?» rispose Sabo, preso alla sprovvista dalla domanda. Poi fissò le due donne e immaginò che forse un pochino lo era, ma non sapeva dire esattamente verso che cosa questa gelosia fosse indirizzata.

«Vieni, cucciolo, ti risistemo quel braccio.»

Sabo si era quasi scordato della ferita, ma in effetti continuava a bruciargli, per cui lasciò gli altri ad occuparsi di tutto e scese al primo piano. Si tolse la giacca sporca di sangue e notò che quasi tutto il braccio era rosso, ma il colpo sembrava superficiale.

«Sei stato fortunato, solo un colpo di striscio» gli disse Ivankov, che non gli diede nemmeno alcun antidolorifico, si limitò a pulirlo e poi a fasciarlo strettamente con una benda. Sabo notò Hack, che era sdraiato praticamente immobile su una coperta che avevano ritrovato e non si lamentava neppure.

«Ce la farà?» domandò.

«Non credo» ammise Ivankov con sincerità. «Non sono in condizioni di operarlo.»

Sabo si era abituato alla morte, perché tra i maquis e i loro alleati era una cosa quotidiana, considerando che vivevano sotto una dittatura che non andava tanto per il sottile in quanto a processi ed esecuzioni. Però Hack era al suo fianco da anni e l'aveva sempre supportato, perciò quell'ammissione lo devastò.

«Ehi...» gli sorrise, sedendosi al suo fianco.

«Non sono di gran compagnia, sono imbottito di morfina» gli comunicò Hack, voltando appena la testa verso di lui. Non sembrava impaurito.

«Beato te» commentò Sabo, indicando la sua ferita che invece doleva ancora. Voleva essere una battuta, ma probabilmente non l'aveva pronunciata nel modo giusto, perché il viso di Hack si rabbuiò.

«Alla fine, posso dirmi soddisfatto» commentò. «Morirò con una divisa addosso, come un vero soldato.»

«Ehi, non morirai affatto!» ribatté Sabo, con un po' troppa foga. «C'è Ivankov, ricordi? Il miglior dottore del mondo.»

«Che però non fa miracoli.»

La discussione fu bruscamente interrotta dal rumore di una sparatoria all'esterno. Sabo tornò immediatamente al secondo piano, dove tutti si erano messi in allarme, con le armi in pugno. Durò pochi minuti, quindi si avvertì chiaramente il suono di un tac. Franky immediatamente replicò con due suoni.

«Sono il Maggiore Howard!» gridò allora uno degli uomini al di sotto, avvicinandosi alla finestra. «Il ponte è nostro!»

«Sono il Sergente Franky, con il mio gruppo e il gruppo della France Libre» rispose immediatamente lui. «Se avete dei feriti, portateli dentro, abbiamo altre medicine. Quali sono gli ordini?»

«Resistere finché non ci daranno il cambio.» Il che voleva dire dopo lo sbarco, senza un orario preciso. Fortunatamente nella torre c'erano altre munizioni tedesche che avrebbero potuto utilizzare, ma non sarebbe stato facile, se fossero arrivati altri gruppi tedeschi. Almeno adesso erano in un gran vantaggio numerico.

«Però abbiamo conquistato il primo obiettivo, è una vittoria» commentò Sabo all'indirizzo di Koala.

Lei annuì. «Sarà comunque un lungo giorno.»

Scesero al piano di sotto per aprire al resto della Divisione. Hack aveva gli occhi chiusi e sembrava dormire, ma Sabo aveva già capito che non era così.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 1944 - Parte II ***


1944 – Parte II

 
 
Point du Hoc, 6 Giugno
 
Aveva aspettato quel momento per così tanto tempo, che credeva di essere pronto per quando sarebbe successo. Non lo era, ma non se ne rendeva esattamente conto, sapeva solo che l'attesa era fastidiosa. Erano saliti sulle navi a mezzanotte, subito prima della partenza delle truppe aviotrasportate, ma questo aveva significato attendere svegli tutta la notte, dato che avrebbero attaccato nella prima mattinata. Alle quattro erano scesi sulle barche apposite, trenta ciascuna: erano basse, adatte per arrivare fin sulla spiaggia per farli sbarcare, ma ciò le rendeva decisamente instabili sull'acqua, mossa dal terribile tempo.

Un paio si erano già capovolte. Ace aveva la nausea ma stava cercando di tenere duro, mentre attorno a lui non erano in pochi quelli che avevano vomitato anche le interiora. Law, con la sua bella fascia bianca con la croce rossa sul braccio, aveva alzato gli occhi al cielo, e poi aveva tentato di dare consigli per evitare il mal di mare, ma con scarsi risultati. Era un momento così depressivo che Ace non aveva nemmeno voglia di scattare fotografie.

Per questo motivo tutti accolsero con sollievo quanto via radio gli venne comunicato che era ora di mettersi in marcia. Il sole stava appena sorgendo all'orizzonte, permettendo almeno di vedere la terra che si estendeva davanti a loro. Anche i tedeschi appostati sulle rive probabilmente li avevano individuati: era venuto il momento di attaccare. Le navi che prima erano servite per trasportare gli uomini iniziarono a martellare, il fragore delle bombe che si  infrangevano contro la terra  era come un suono di tromba che avvertiva i soldati di prepararsi.

Bepo si spostò dalla sua posizione con attenzione, camminando carponi per evitare di cadere, e si avvicinò a Law ed Ace.  «Mi sa che abbiamo sbagliato direzione» affermò.

«Maledizione!» Law non metteva mai in dubbio le capacità come navigatore di Bepo. Ace si fece passare un binocolo e controllò la costa: la nebbia pareva diradarsi pian piano alla luce del sole e davanti a loro c'era chiaramente una distesa di sabbia bianca, non la parete di roccia da scalare che avevano previsto.

Gli altri soldati, quelli che si erano ripresi dal mal di mare, cominciarono a capire che qualcosa non stava andando per il verso giusto. «Me ne sono accorto!» gridò il conducente. E poi aprì la radio per avvertire il resto del gruppo. «Non arriveremo nell'ora prevista!» annunciò.

«Almeno arriviamoci» commentò Law. «Bepo, guidali tu.» Lui obbedì e si allungò per poter dare indicazioni al guidatore. Lentamente, la nave virò praticamente di 180 gradi. Dietro di loro, anche le altre navi che trasportavano il 2° e il 5° Battaglione Ranger si mossero per seguirlo.

Finalmente avvistarono all'orizzonte la lunga parete del Point du Hoc, il che significava che si erano rimessi in rotta.

«Vogliono che scaliamo quello?» commentò uno dei soldati, con gli occhi spalancati.

Ace annuì, con un sorriso divertito. «Non solo, quando saremo su dovremo anche distruggere tutte le armi dei tedeschi e non morire nel frattempo.»

«Oltre a farlo in minor tempo rispetto al previsto, dato che dobbiamo anticipare le truppe di fanteria» aggiunse Law. «Ma forse ci avanzerà del tempo per spazzare un po' per terra, già che ci siamo.»

Quando sbarcarono ai piedi della scogliera, però, non ci fu più il tempo di preoccuparsi di quanto fosse alta, o delle missioni pericolose che dovevano compiere, perché furono troppo preoccupati a non farsi ammazzare.

I tedeschi li avevano individuati e stavano lanciando delle granate per colpirli non appena mettevano piede sulla spiaggia. Per questo molti uomini si gettarono lateralmente, finendo con i piedi nell'acqua bassa. L'armamento pesante fece inciampare Ace, che precipitò di botto. Annaspò per qualche minuto e riuscì a trascinarsi sulla spiaggia, completamente bagnato. Diede una rapida controllata al suo M1 Garand: ovviamente aveva smesso di funzionare. Si guardò e notò un cadavere, di quelli che erano stati colpiti appena scesi. Si gettò a terra e si prese il suo fucile, quindi lo alzò e sparò in alto, verso la scogliera.

I tedeschi avevano smesso momentaneamente di lanciare granate e i Ranger ne approfittarono per sparare sulla roccia i loro ramponi: non tutti si aggrapparono perfettamente, cosa che costringeva i Battaglioni ad arrampicarsi pochi alla volta. Law trattene Ace per una spalla: «I primi che saliranno saranno i primi a morire. Aspetta».

Aveva aspettato fin troppo a lungo, pensò, ma non per farsi ammazzare due minuti dopo essere sbarcato, per cui seguì il suo consiglio e attese un attimo prima di salire. Ne aveva approfittato per controllare le armi, l'acqua gli aveva rovinato parecchie delle munizioni, per cui avrebbe dovuto far attenzione a risparmiare i colpi. Sperò che almeno la macchina fotografica fosse al sicuro.

Arrampicarsi non fu semplice: gli stivali imbrattati di sabbia e fango scivolavano sulle rocce a cui cercava di appoggiarsi e persino le corde erano bagnate, fornendo un appiglio precario. Strinse i denti e proseguì: ogni volta che sentiva che i piedi gli slittavano dalla roccia su cui si faceva appiglio si aggrappava anche con le braccia per non cadere e poi si spingeva finché non trovava una miglior presa. Aveva già visto qualche soldato precipitare e non aveva intenzione di seguire il suo esempio.

Odr era nella corda al suo fianco, per cui Ace si allungò per vedere se aveva bisogno di una mano, ma lui scosse la testa e continuò la  scalata da solo. Ace sorrise, e tornò a guardare la parete di roccia che ancora mancava da scalare. Era quasi in cima, quando avvertì il suono dei colpi che venivano sparati ai ranger prima di lui. Allora si voltò di scatto, con la schiena che gli sbatté con forza sulla roccia, al riparo dai colpi e dalle bombe che venivano di nuovo lanciate sulla spiaggia.

Quando vide che i suoi compagni l'avevano imitato, prese una delle sue granate: le adorava, perché erano a forma di palla da baseball e ciò gli permetteva di lanciarle in maniera migliore e per questo doveva a ringraziare tutto l'allenamento che aveva fatto con Sabo.  Si piegò leggermente all'indietro e la scagliò a cupola sul promontorio sopra di lui. Altri soldati lo imitarono e lo scoppio delle bombe fece tremare la parete su cui si tenevano, ma nessuno cadde.

Un istante dopo si precipitarono tutti sulla roccia, percorrendo in un attimo l'ultima parte di corda che restava loro. Le granate avevano allontanato o ucciso i soldati più vicini e reciso il filo spinato, per cui corsero in fretta verso l'interno, allontanandosi dal precipizio, e poi si gettarono per nascondersi all'interno di uno dei crateri che i bombardamenti dei giorni precedenti avevano creato.

Ace approfittò del momento di calma per scartare altre munizioni bagnate.

«Tieni, prendi un po' delle mie» gli disse Odr, al suo fianco, passandogliene una manciata.

«Grazie.» Ace ricaricò il suo fucile con l'intenzione di non sprecarle, poi balzò fuori e sparò verso alcuni soldati, prima di tornare a nascondersi nuovamente dentro un altro cratere, con il gruppo dietro di lui che lo seguiva, ma diventava sempre più ristretto nel mentre che il Battaglione si divideva per conquistare i vari obiettivi.

Aveva appena raggiunto una delle trincee scavate dai tedeschi, che gli permetteva di procedere in maniera più rapida all'interno del promontorio, quando sentì la terra che gli tremava sotto i piedi e un istante dopo fu scagliato in avanti dalla forza di un vento caldo. Le orecchie gli scoppiarono per i rumore della bomba che li aveva colpiti.

Si rialzò in un attimo, sputando il fango che gli si era infilato in bocca e si voltò indietro. La parte del gruppo che era rimasta più indietro rispetto a loro era stata colpita in pieno e molti soldati erano stati scagliati in varie direzioni, mentre del resto non restavano che pochi pezzi. Ace andò immediatamente a controllare i feriti e  cercò di trasportarli più indietro, fuori dell'apertura che lo scoppio aveva aperto nel terreno.

Odr era uno di loro: la sua gamba destra era praticamente squarciata dal femore in  giù. «Law! Muovi il culo e vieni qui subito!» In un attimo Law fu al loro fianco, ma ciò che vide non gli piacque molto. Piegò appena il labbro, diede ad Odr degli antidolorifici e cercò di rattoppargli la gamba alla bell'e meglio, mentre dava indicazioni agli altri soldati perché non poteva occuparsi di tutti contemporaneamente.

Ace si guardò attorno, col fucile spianato, per cercare di capire da dove fosse venuto il colpo: erano venuti a Point du Hoc apposta per distruggere i cannoni, ma era improbabile che i tedeschi avessero mirato a loro con quelli da quella distanza ravvicinata.

«Sono stati gli inglesi» affermò Hawkins, stoico come al solito. «Abbiamo perso il contatto radio e quindi non sanno più dove siamo.»

«E per questo ci sparano addosso?!» Come se non avesse avuto abbastanza motivi per prendere a pugni gli inglesi, che avevano fatto ostruzionismo allo sbarco fin dall'inizio. «Insomma, voi due!» sbottò ad Hawkins ed Apoo, che parevano aver accettato la situazione senza sapere cosa fare. «Siete voi gli addetti alle comunicazioni, trovate una cavolo di soluzione, adesso!»

Tornò a controllare la situazione di Odr: la sua gamba, per lo meno ciò che ne rimaneva, era stata fasciata stretta ma già le bende erano gonfie di sangue. Odr stesso, preda degli antidolorifici, pareva in overdose. «Ehi, amico, stai tranquillo» gli disse, toccandogli una spalla. «Hai appena vinto un viaggio di ritorno in America.»

«Avrei preferito rimanere con te a combattere» rispose lui a voce bassa. Lentamente, cercò di recuperare il resto delle sue munizioni e gliele passò: non gli servivano più, ma Ace avrebbe saputo come usarle.

«Non addormentanti, va bene?» gli disse Ace, scuotendolo di nuovo. «Aspettami.»

Bepo comparve al suo fianco e Law terminò di risistemare un altro paziente per venire a sentire cosa aveva da dire. «Hawkins ed Apoo sono riusciti a comunicare con gli inglesi, hanno messo su un sistema di comunicazioni morse con le luci» li informò quindi Bepo. «Ora sanno dove siamo.»

«Sono sollevato, almeno non morirò per mano loro» commentò ironico Law. «Dobbiamo restare qui a controllare i feriti, non ce n'è uno in condizione di combattere ancora.»

Ace annuì. «Dov'è il resto del gruppo?» domandò.

«Sono andati ad ovest, ad aggirare la prima casamatta per espugnarla. Una volta che l'avranno fatto potremo spostare i feriti là.»

Lui non poteva permettersi di aspettare, erano già in ritardo sull'orario e da un momento all'altro la 29° Divisione sarebbe scesa sulla spiaggia di Omaha. Dovevano eliminare le difese tedesche prima di quel momento. Law lo guardò non convinto, ma gli passò comunque altre armi che aveva recuperato dai cadaveri.

«Torno subito, vado ad ammazzare qualche tedesco» disse Ace, rivolgendosi soprattutto ad Odr, quindi riprese il cammino nella trincea.

Apparentemente il resto della difesa tedesca si era concentrato nella protezione delle casematte, perché avanzò per parecchio senza incontrare nemmeno un nemico. Ad un certo punto si rese conto che probabilmente aveva perso la strada e, con molta attenzione, balzò oltre la trincea. Il percorso lo aveva portato ben oltre le casematte, e persino il promontorio pareva essere parecchio lontano.  Sentiva gli spari dei combattimenti e poteva individuare con difficoltà i tetti delle casematte nel terreno, ma lui si trovava in quel momento al limitare della foresta, dove la collina iniziava a scendere. Era un peccato che nessun altro fosse venuto con lui, avrebbero potuto chiudere i tedeschi in una morsa.

Non potendo attaccare da solo, diede un'occhiata dietro di sé per vedere se i nemici avessero dei rifornimenti che erano pronti ad attaccare nel momento in cui avrebbero abbassato la guardia ed individuò subito una strada, che probabilmente era stata scavata per portare le truppe. La percorse per un attimo all'interno della foresta, nascondendosi sempre con la schiena contro i grandi alberi, perché gli era sembrato di individuare una grande tenda. Poco più avanti, infatti, c'era un grande spiazzo: non c'era un rumore, quindi si avvicinò e con cautela alzò una parte della tenda e vi si infilò al di sotto.

Ciò che trovò lo prese completamente alla sprovvista; era un numero piuttosto cospicuo di Tank 30, i cannoni antiaerei che avrebbero dovuto essere all'intero nelle casematte dei tedeschi, pronti a sparare sulla spiaggia contro gli alleati. Ace non riusciva assolutamente a capire perché si trovassero tutti radunati in quel luogo. Il motivo comunque non gli doveva importare, erano venuti a Point du Hoc apposta per distruggerli.

Estrasse la dinamite dallo zaino, soffiando sullo spago e sperando che la stoffa spessa l'avesse protetto dal bagno imprevisto, poi sparse una parte su ciascuno dei tank, quindi con il filo che li collegava in mano e con attenzione uscì da dove era entrato. Continuava a non esserci nessuno in vista, quindi proseguì per un attimo nella foresta finché non pensò di essere abbastanza a distanza dalla futura esplosione e diede fuoco, gettandosi  a terra e coprendosi la  testa. Il colpo e il rumore furono terribili e fecero tremare il terreno in cui era sdraiato, ma i Tank 30 erano completamente in fiamme.

Il rumore avrebbe attirato qualcuno, per cui Ace si rimise in fretta in piedi, anche se con la testa che gli risuonava, e tornò verso il promontorio scoperto. Un gruppo di tedeschi veniva di corsa nella sua direzione e senza nemmeno rifletterci  puntò il suo M1 Garand e sparò tutti e otto i colpi  su di loro. Non era sicuro di averli colpiti tutti, per cui si gettò nel cratere più vicino per ricaricare il fucile, ma quando riemerse, Kidd e un altro gruppo  di Ranger l'aveva raggiunto.

«Oh, mi sa che li abbiamo ammazzati tutti, 'sti bastardi!» commentò con orgoglio, prendendo a calci uno dei cadaveri. Poi notò Ace e aggiunse, soddisfatto: «Abbiamo espugnato le casematte!».

«E scommetto che erano vuote, niente Tank 30» ribatté Ace, emergendo dal cratere.

«Già...» Kidd non sembrava soddisfatto. «Come lo sai?»

«Perché li ho distrutti io, erano tutti assieme nella foresta» spiegò Ace. Non gli era sembrata un granché, come operazione, finché non aveva visto l'espressione poco felice di Kidd. «Non li avevano ancora predisposti.»

«E perché? Che significa?»

«Te lo dico io che significa, idiota» intervenne Law, che aveva raggiunto il resto del gruppo per controllare che non fossero rimasti dei feriti. «Che siamo saliti quassù per niente.»

La notizia abbassò di molto l'umore del gruppo, che si era appena alzato per aver completato la missione. Nonostante tutto, però, erano vivi e vittoriosi, e avevano ucciso dei tedeschi, per cui si sentivano in forma anche avendo compiuto qualcosa di totalmente inutile.

Ace tornò verso la trincea spaccata a metà, dove altri soldati del gruppo avevano iniziato a trasferire i feriti all'interno delle casematte, al sicuro. Odr era uno di quelli rimasti a terra, seduto nella sua stessa macchia di sangue. Dormiva.

«Sono tornato. E li abbiamo battuti.» Ace si chinò con un sorriso accanto a lui e lo scosse per svegliarlo, ma senza successo. Con una scossa troppo forte, Odr cadde su un lato come un sacco di patate e continuò a non muoversi. In quel momento la verità colpì Ace come un fulmine: non stava affatto dormendo.

Ace strinse i denti per trattenere le lacrime e lo afferrò per il colletto della divisa, continuando a scuoterlo anche se sapeva che era perfettamente inutile. Odr era rimasto con lui fin dall'inizio di quell'avventura, si era addirittura unito ai Ranger per potergli stare accanto, ed ecco quello che ne aveva ottenuto. Se l'avesse lasciato perdere sarebbe sicuramente sopravvissuto.

Ace gli strappò la targhetta con il nome, stringendola nella mano, e dopo essersi asciugato per un attimo gli occhi tornò verso il gruppo. Solo in quel momento notò quanti pochi fossero rispetto al numero effettivo. Quante perdite avevano avuto non riusciva nemmeno a quantificarlo.

Il Tenente Colonnello Rudder era riuscito a contattare finalmente l'altra parte del gruppo del Battaglione Ranger che avrebbe dovuto arrivare a Point du Hoc dopo di loro per supportarli e portare dei rifornimenti. La comunicazione non fu delle più ottimistiche.

«Troppo tardi, il resto dei Ranger è già sbarcato a Omaha Beach. Dovete resistere, per il momento.»

I soldati si guardarono: potevano utilizzare alcune munizioni rubate ai tedeschi, ma molte erano già andate disperse tra le esplosioni e il loro utilizzo. Senza sapere quando e con che forze i tedeschi avrebbero contrattaccato, era una missione suicida ancora più di quella che li aveva portati a scalare Point du Hoc.

Ace strinse maggiormente la targhetta di Odr, ancora nella sua mano. «Se dobbiamo resistere, resisteremo» affermò.
 
 
Omaha Beach, 6 Giugno
 
La spiaggia di Omaha non era mai stata una località balneare anche prima di quel giorno, quando era stata indicata come meta per lo sbarco per le divisioni americane. Probabilmente non lo sarebbe stata mai più, almeno a giudicare dalle condizioni in cui era ridotta in quel momento.

Usop non sapeva da che parte guardare. In avanti, c'erano ancora tutte le difese tedesche pronte, ben al sicuro oltre la scogliera della spiaggia, che permetteva loro di colpire i nemici stando ben al sicuro. Dietro, c'era il risultato di quell'attacco: cadaveri o pezzi di cadaveri sparsi ovunque lungo tutta la spiaggia. Ogni tanto arrivava un'onda leggermente più alta, che imbrattava la spiaggia del colore rosso che ormai contraddistingueva quelle acque. L'unico rumore che si avvertiva incessantemente era quello delle mitragliatrici Spandau, ogni volta che qualcuno tentava inutilmente un assalto.

«Tanto siamo morti comunque» commentò infine. Non riusciva a far altro che rimanere seduto dietro il gruppo di rocce che forniva loro un riparo, con i pantaloni imbrattati dei suoi stessi escrementi. «A che serve?»

«In effetti, puzzi già come un cadavere» sbottò Zoro, che si ostinava a combattere anche se il dottore l'aveva già rattoppato tre volte. «Datti una mossa, Usop, se proprio devi morire fallo con dignità» cercò di incoraggiarlo poi con le buone.

Sanji era seduto tra loro due e, nonostante la situazione, fumava. Il suo incoraggiamento fu passargli il pacchetto, anche se era quasi vuoto. «Almeno andrò al creatore con un po' di piacere.»

«Ragazzi, avanti!» Rufy era l'unico che non si era ancora perso d'animo nonostante la situazione. Ogni volta che guardava un cadavere di un amico, cioè di quasi ogni soldato, gli venivano gli occhi lucidi, ma poi stringeva i denti e continuava a tentare di trovare un modo per uscire da quella situazione. La loro fortuna era stata far parte della seconda ondata, quando avevano potuto almeno avanzare di qualche metro sulla spiaggia per proteggersi dai colpi. Rufy lo considerava già una vittoria.

«Se solo riuscissimo ad aprirci un varco nel filo spinato, potremo radunarci sotto la scogliera» disse, indicando davanti a sé. «In questo modo sarebbe più difficile colpirci e potremo aprire salire.»

«Non funzionerà» disse Usop tetro.

«Invece sì!»

Sentirono di nuovo la mitragliatrice Spandau in azione, ed un attimo dopo Bartolomeo scivolò in salvo dietro la loro stessa trincea di sabbia. «Ecco, Maestro Rufy!» esclamò, felice, stringendo tra le braccia un mazzo di tubi di gomma. «Ho preso tutti quelli che sono riuscito a trovare!»

Il 2° Battaglione Ranger era stato diviso e, mentre il gruppo di Ace era arrivato effettivamente a Point du Hoc dove era previsto, l'altro era stato fatto sbarcare ad Omaha come supporto al resto dell'esercito. Senza ordini precisi e con molti dei comandanti che erano morti, persino i Ranger erano allo sbaraglio e prendevano per buono qualsiasi consiglio arrivava loro. Bartolomeo, ovviamente, aveva fatto del proteggere il suo idolo la sua missione principale.

«Benissimo!» esultò Rufy. «Adesso possiamo finalmente aprire il filo spinato.»

«Quelli sono dei bangalore torpedo» commentò Zoro. Da quello che sapeva, la maggior parte dei geriatri aveva perso la propria artiglieria durante lo sbarco, un altro motivo per cui la loro avanzata era così lenta, in mancanza di mezzi. «Dove li hai trovati?»

«Sparsi nella spiaggia, spesso attorno ai cadaveri» rispose Bartolomeo. «Ci sono state un sacco di perdite fra i geriatri, per cui dobbiamo usarli noi.»

«Sempre che funzionino» aggiunse Usop. Rufy gli diede uno schiaffo sulla nuca, perché si era stancato del suo pessimismo.

«Ora li proviamo e vediamo!» Ne prese uno e lentamente lo alzò sopra la trincea di sabbia e lo fece scivolare in avanti, aiutato nella spinta da Zoro. Quando sentirono che aveva sfiorato il filo spinato, provarono ad attivarlo, ma si resero subito conto che l'acqua aveva danneggiato il cavo, per cui era impossibile attivare l'esplosivo. Rufy non si perse d'animo e ne prese in mano un altro, ma anche questo non funzionò. Li provarono tutti, solo per scoprire che erano stati abbandonati proprio perché non funzionanti.

«Uffa! Se solo non ci fosse quel filo spinato...» Rufy credeva di aver trovato l'idea giusta e non  aveva intenzione di arrendersi solo per un inconveniente del genere.  «Non mi resta che andarci di persona a far esplodere una bomba.»

«È una follia!» esclamò Usop, dando però voce a quello che pensavano tutti guardandolo.

«È sempre meglio che restare qui a farsi ammazzare, no?» ribatté lui, incrociando le braccia.

«Sono d'accordo di fare qualcosa, ma bisogna avere un piano» disse Zoro. «Se esci da qui per raggiungere il filo spinato ti spareranno subito e sarà stato tutto inutile.»

«Non se ci sarà qualcuno a coprirmi» disse Rufy. Adesso che poteva contare su qualcuno che voleva combattere come lui, si sentiva pronto a ragionare. «Abbiamo ancora dei fumogeni, vero?» chiese, rivolto a tutti. «Con quello non dovrebbero vedermi e dovrei riuscire ad arrivare e a piantare le bombe in tempo.»

«E per tornare?» domandò Sanji, che aveva deciso di risparmiare i fiammiferi ora che potevano servire. «Il fumo non durerà a lungo.»

«Può coprirmi Usop» affermò, senza nemmeno chiedere se il diretto interessato fosse d'accordo o meno. «Dategli tutte le munizioni che vi sono rimaste, può sparare a chi sta per sparare a me.»

«No, non posso farlo!» esclamò Usop.

«Invece sì» ribatté Rufy, con un tono che indicava che il discorso era chiuso. «Sei il miglior cecchino di tutti noi. Puoi farcela, lo so.»

«Se il Maestro Rufy dice che ce la puoi fare, io gli credo!» esclamò Bartolomeo, che supportava il suo idolo anche nelle situazioni peggiori. «Però ci voglio andare io a piazzare l'esplosivo.» Aveva solo senso, dopotutto, dato che era un Ranger ed era stato addestrato per le missioni più pericolose. Rufy era un po' deluso di dover rimanere ancora nelle retrovie, ma annuì.

Il piano era deciso: non c'era nemmeno bisogno di avvertire degli ufficiali, non avevano il tempo di cercarne uno, dato che molti erano morti e altri erano sbarcati in luoghi completamente diversi da dove si trovavano loro in quel momento. Bartolomeo prese tutto l'esplosivo che erano riusciti a raccogliere e lo collegò assieme, poi si mise in posizione.

Non appena gli altri scagliarono i fumogeni, si gettò in avanti e corse con tutta la spinta che aveva nelle gambe: nemmeno lui vedeva bene cosa aveva davanti, ma tentò di calcolare la distanza, finendo quasi per sbattere contro il filo spinato. Si fermò scivolando giusto in tempo, quindi sparse l'esplosivo in modo da abbattere più metri possibili e tornò indietro con il collegamento fra le mani.

Il fumo che l'aveva protetto fino a quel momento si stava lentamente diradando e un istante dopo avvertì il rumore degli spari  dietro di lui, quindi si gettò a terra. I proiettili si infransero sulla terra accanto a lui, ma sentì anche un dolore lancinante al braccio e al fianco.

«Barto!» Rufy era con Sanji e Zoro un po' spostato sulla destra per cercare di sviare l'attenzione dei nemici su un'altra zona, ma appena vide quello che era successo balzò oltre la trincea di sabbia per raggiungerlo ed aiutarlo.

«No, Rufy! Morirai!» gridò Usop dietro di lui. Era rassegnato a terminare la sua vita in quella spiaggia, anche se la cosa lo terrorizzava, ma quello che davvero non riusciva a sopportare era veder morire i suoi amici. Era la prima volta che era stato accettato da un gruppo di bianchi e che questi non l'avevano trattato come spazzatura. Rufy, soprattutto, non l'aveva mai considerato un diverso e gli aveva sempre dato fiducia.

Diamine, sarebbe morto facendo la cosa giusta. Imbracciò il suo fucile e lo puntò sulla scogliera, quindi sparò tre colpi: un attimo dopo tre cadaveri di tedeschi caddero rotolando sulla roccia. Erano quelli che potevano mirare meglio nella zona dove era caduto Bartolomeo, che adesso era allo scoperto.

«Fantastico!» esclamò Sanji. «Nessuno di noi sarebbe in grado di prendere la mira così distante!» Zoro non disse nulla, ma fece un sorrisetto soddisfatto.

«Guardate che avete a che fare con il cecchino più temuto dell'intero impero germanico!» ribatté Usop, mentendo per farsi coraggio. «Non volevano farci sbarcare per evitare di combattere contro di me!»

Rufy si era chinato su Bartolomeo: era ferito, ma respirava ancora e la sua mano non aveva mollato nemmeno per un attimo il collegamento con le bombe. «Adesso torniamo al sicuro» gli disse.

Fece un sussulto quando avvertì qualcuno a sé, ma era solamente Cavendish. Anche lui sbarcato con il gruppo dei Ranger di Omaha, era rimasto nel loro settore e quando aveva visto il movimento vicino al filo spinato, aveva deciso che era il suo momento per brillare.

«Io non lascio Barto qui» affermò, per mettere in chiaro che non gli avrebbe lasciato le bombe senza un aiuto.

«Non scherzare, nemmeno io abbandono un compagno» replicò, stranamente serio, Cavendish.

«Oh. Allora sei anche una brava persona, Cavolish» commentò Rufy. Ignorò le polemiche successive riguardanti il fatto che non si ricordava bene il suo nome, per alzare un braccio a Barto e passarselo sopra la spalla. Cavendish lo imitò con l'altra, quindi annuirono all'unisono e si misero  a correre trascinando dietro il compagno ferito.

Altri soldati avevano recuperato delle bombe fumogene, e le lanciarono ai loro fianchi, cercando di nascondere la loro fuga. Usop, da dietro la trincea, continuava a sparare per cercare di colpire i nemici. Non tutti i colpi erano andati a segno, ma parecchi sì e la vista dei cadaveri che crollavano aveva ridato fiducia agli altri, che avevano cercato di imitarlo, facendo allontanare i tedeschi dal limite della scogliera.

Il gruppo aveva quasi raggiunto la trincea, dove sarebbero stati al sicuro, quando Usop notò che da un lato della scogliera stava scendendo un gruppo di tedeschi con una nuova mitragliatrice Spandau. «Sbrigatevi!» gridò, balzando sopra la trincea di sabbia cercando di colpire i tedeschi prima che potessero sparare. Finì le munizioni prima di poterli colpire tutti.

Si guardò intorno in un attimo, disperato, poi si sentì tirare indietro oltre la trincea e subito dopo il suono della mitragliatrice, poi tre persone gli caddero addosso.

«Oh, mio Dio, Rufy, stai bene!»

Rufy balzò in piedi. «La dinamite! Fatela esplodere ora!» ordinò.

Cavendish era stato colpito in una gamba, ma riuscì a trascinarsi in avanti e recuperare il filo dalla mano di Bartolomeo, che era vivo ma non aveva la forza di muoversi. Qualcuno gli passò il conduttore ed immediatamente lui attivò l'esplosivo. Si avvertirono una serie di colpi in successione, con tanto di nuvole di sabbia che si alzavano e ostruivano la vista. Quando tutto cessò, notarono che il filo spinato era completamente squarciato per un numero sufficiente di metri da far passare tutti quelli rimasti sulla spiaggia.

«Tutti dentro!» gridò una voce non ben identificata all'interno del gruppo, quindi i soldati si gettarono in avanti, oltrepassando  la trincea di sabbia e correndo verso la scogliera. Molti caddero ancora, colpiti dalla Spandau, ma erano troppi e i soldati tedeschi che non vennero colpiti nel frattempo si diedero alla fuga di fronte alla massa dei soldati americani.

Usop non poteva crederci, forse sarebbe sopravvissuto. Ricaricò il suo fucile con le poche munizioni che gli erano rimaste.

«Evviva!» esultò, alzandolo in aria.

Rufy si accasciò sulla sua schiena. «Sei stato grande» commentò, in un sussurro. Sorrideva. «Ora andiamo in Francia.»

Sul suo addome si stava facendo spazio una larga macchia rossa.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 1944 - Parte III ***


1944 – Parte III
 
 
Colleville-sur-Mer, 8 Giugno
 
Gli avevano detto di resistere e stavano resistendo, ma dopo due giorni l'umore dell'intera truppa, o meglio di quello che ne era ormai rimasto, aveva raggiunto dei livelli per cui era quasi impossibile continuare. Avevano respinto diversi attacchi dei tedeschi e ormai le munizioni stavano terminando, senza considerare le medicine. La maggior parte dei feriti era morta nell'agonia della mancanza della morfina, tanto che un paio si erano sparati quando il dottore aveva detto loro che non poteva fare altro.
«Va bene che siamo i migliori, ma qui si sta esagerando» commentò Kidd, mentre scavava l'ennesima buca per un cadavere. «Dove cazzo sono finiti tutti quanti?»

«Forse sono stati sconfitti» commentò Law, che nonostante la situazione non aveva perso nemmeno per un attimo il suo aplomb. «L'Operazione Overlord verrà ricordata per essere riuscita a liberare solo un piccolo pezzo di promontorio.»

«L'intera Europa conquistata dai tedeschi, tranne Point du Hoc!» Non è che Ace avesse granché voglia di scherzare, ma gli dava corda perché era l'unico modo per non impazzire totalmente. Dopo la morte di Odr, non avere notizie di tutti gli altri, specialmente di Marco e Rufy, era intollerabile. «Vivremo qui e inizieremo a coltivare la terra tra una tomba e l'altra.»

 
«Peccato che siamo tutti maschi, saremo costretti ad accoppiarci fra di noi senza avere una discendenza» rincarò la dose Law, non sapendo che tutto sommato ad Ace non sarebbe nemmeno dispiaciuto.

«Col cazzo!» protestò Kidd, il quale aveva già iniziato a dimostrare insoddisfazione all'idea di vivere in una casamatta di cinque metri quadrati due minuti dopo che era stato loro comunicato che sarebbero dovuti rimanere fissi sul promontorio. «E tu smettila con 'ste cazzo di fotografie» aggiunse in direzione di Ace, che riusciva a tenersi impegnato documentando tutto il lavoro dei Ranger. «Piuttosto prendo il mio fucile e vado a piedi fino a Berlino da solo.»

 
Non fu necessario: il terzo giorno arrivò finalmente un intero battaglione della 29° Divisione di Fanteria. L'esercito aveva finalmente sfondato anche le linee più interne della Normandia, aprendo le strade per Rouen, Caen e la penisola di Cherburg. Dato che le posizioni erano quindi state assestate in maniera migliore, avevano potuto andare a prenderli.

Marco era con loro e Ace ebbe la netta tentazione di saltargli addosso e farselo lì dentro uno dei crateri dovuti alle bombe, ma si rendeva perfettamente conto che non era il caso, anche per rispetto verso i compagni morti, quindi si limitò a fargli il saluto militare.

 
Dopo tre giorni si rendevano tutti conto che non era il caso di essere così formali, per cui dopo un breve aggiornamento della situazione tra i comandanti, l'intero gruppo ruppe le righe e si spostò verso il villaggio collinare dietro Omaha Beach, dove era stato allestito uno dei campi temporanei, in modo che i ranger potessero rifocillarsi e i feriti avessero delle altre medicine. Era stato anche allestito un cimitero temporaneo, per cui alcuni soldati vennero incaricati di recuperare i cadaveri e spostarli. Ciò non rese felice Kidd, che era stato uno dei più assidui nello scavo delle fosse.
 
Ace ne approfittò per avvicinarsi a Marco ed affiancarlo mentre si dirigevano all'accampamento. Per un attimo, Marco gli strinse un braccio con forza. Anche se probabilmente nessuno li stava osservando, non era il caso.
 
«Che cos'è successo? Com'è andata?» domandò allora Ace. Era davvero ansioso di sapere la situazione del resto della compagnia di cui faceva parte una volta.
 
«Siamo finiti fuori rotta e non siamo sbarcati esattamente dove previsto» raccontò Marco. Questo era prevedibile, dato che era accaduto anche al Battaglione dei ranger. «Non tutte le difese tedesche erano state distrutte dai bombardamenti. Inglesi, canadesi e francesi hanno avuto meno problemi di noi. Omaha è stata il peggio, soprattutto il settore di Red Dog. Abbiamo perso uomini e mezzi e solo dopo ore sono riusciti a sfondare le linee.» Prese una pausa, con un  lungo sospiro. «Molti degli obiettivi non sono stati raggiunti in tempo. Penso che ci fosse troppo ottimismo.»

«Quindi abbiamo perso?» Ace non si aspettava una situazione così tragica: certo, c'erano state molte vittime, ma loro avevano effettivamente conquistato Point du Hoc e il fatto che fossero sbarcati gli aveva dato l'impressione che la situazione fosse buona.

«Avremmo perso se ci avessero bloccato sulla spiaggia, invece siamo sulla terraferma» rispose Marco. Ora sorrideva, forse si era accorto di aver portato solo le notizie negative. «Adesso invece abbiamo la possibilità di vincere, con il turno in battuta. All'ultimo inning.»

«Non avrei mai pensato di sentirti fare una similitudine con il baseball!» esclamò Ace, ridendo. Però stette al gioco: «Quindi dobbiamo fare un home run».

«Direi di sì, e probabilmente toccherà a voi.» Marco non sembrava totalmente rilassato, ma era felice di vedere Ace così in forma. «D'altronde siete stati i primi a raggiungere l'obiettivo, nonché tra i pochi.»

«Oh, be', se per obiettivo intendi distruggere delle armi che non erano nemmeno pronte a sparare, allora sì.» Ace non aveva ancora mandato giù il fatto che il comando avesse totalmente ignorato le comunicazioni della resistenza francese e li avesse mandati in ogni caso a Point du Hoc, a conti fatti inutilmente. Si incupì leggermente. «Odr è morto» disse tetro. Continuava a sentirsi in colpa per non essere riuscito a proteggerlo sapendo quando lui gli era stato vicino in tutti quegli anni.

Si aspettava che Marco si dispiacesse e dicesse qualcosa per consolarlo, in fondo era stato un suo allievo a Fort Irwin, invece lui si limitò a fissarlo con un viso triste. «Vieni con me, devo farti vedere una cosa» gli disse e non aggiunse altro.

Quello che Marco intendeva era il cimitero temporaneo che era stato predisposto per i soldati americani caduti a Omaha e Utah. Con la coda dell'occhio Ace vide che stavano trasportando i cadaveri dei Ranger nello stesso luogo, ma la sua attenzione era troppo focalizzata sulla quantità delle croci di legno presenti. Si vedeva che era una cosa temporanea, costruita con i rami ancora grezzi degli alberi dei dintorni, ma già quelle lapidi artigianali davano l'idea del disastro che era stato lo sbarco.

Non avrebbe dovuto esserne così sorpreso, perché anche dei Ranger ne erano sopravvissuti meno della metà, tuttavia la battaglia e la successiva resistenza gli avevano impedito di rifletterci su. Ora il cimitero lo colpiva con la cruda verità. Se prima non aveva avuto la possibilità di contare i morti, ora aveva l'impressione che non ci sarebbe riuscito, c'erano troppe tombe.

Marco proseguì fino a fermarsi davanti ad una croce in particolare. Ace lo seguì, notando che era una delle poche dove c'erano omaggi floreali artigianali e qualcuno a pregare. Solo quando fu più vicino riconobbe che si trattava di Usop, uno del gruppo di suo fratello. Non aveva idea di come fossero rimasti i loro rapporti, dato che aveva lasciato Fort Irwin pochi mesi dopo il loro arrivo.

Usop alzò lo sguardo. Aveva gli occhi rossi e le occhiaie, ma quando vide Ace, le lacrime tornarono ad uscire copiose, senza che lui provasse nemmeno per un attimo a fermarle. «Si era fidato di me...» mormorò, con voce impastata. «Aveva detto che potevo farcela, che li avrei protetti dai cecchini tedeschi... Perché si è fidato di me? Perché?»

Ace fissò Marco, ma lui non lo stava guardando. «Volevo essere io a dirtelo» commentò solo.

Allora Ace si chinò e sfiorò appena la targhetta identificativa: era stata appesa alla croce, in maniera da poter distinguere le tombe in futuro. In cuor suo, aveva già capito dall'inizio perché erano venuti nel cimitero, ma il cervello di era rifiutato anche solo di pensare una cosa del genere, finché non lesse “Monkey D. Rufy” scritto a chiare lettere su quella targhetta.

Anche Bartolomeo e Cavendish li avevano raggiunti: il primo era bendato un po' dovunque e il secondo camminava col bastone per via della gamba fratturata, ma erano entrambi vivi grazie a ciò che Rufy aveva fatto. Bartolomeo piangeva come un maialino sgozzato. «Ha salvato il culo a tutti» affermò tra un singhiozzo e l'altro. «Era un idolo in tutto e per tutto! Che grossa perdita per il pugilato, sarebbe sicuramente diventato un grande campione!»

«Mi tocca ammetterlo, è stato il migliore. Anche meglio di me.» Nonostante le sue parole, Cavendish non aveva tanta voglia di mettersi in competizione. «È morto facendo quello che doveva, dovremmo essere fieri di lui.»

«Ti sembra un buon modo di consolarlo?» protestò Bartolomeo.

«Sempre meglio di te che sai parlare solo del pugilato, pensi che gliene fotta qualcosa?»

Ace non li stava nemmeno ascoltando, aveva lo sguardo fisso su quella targhetta, ancora nelle sue mani. «No» mormorò, scuotendo un attimo la testa. Non voleva crederci. «No!» Scostò di scatto Usop ed iniziò a scavare con le mani nude, ignorando il dolore alle vesciche che gli erano rimaste dopo la scalata con le corde. La terra e i frammenti di erba secca gli si infilavano sotto le unghie, ma continuò a scavare finché non raggiunse il corpo al di sotto.

Allora lo libero dal terriccio con più delicatezza. La parte destra del viso di Rufy, con ancora la cicatrice sotto l'occhio ben visibile spuntava tra la terra come la mezzaluna nel cielo. «No» ripeté Ace, ma questa volta sembrava meno convinto. Le mani che fino ad un attimo prima si erano mosse freneticamente adesso non erano sicure di cosa fare, ma continuavano comunque a scavare attorno.

Marco fece un cenno agli altri tre di allontanarsi, e loro obbedirono subito capendo che dovevano lasciarlo sfogare. Poi pose le sue mani su quelle di Ace, per fermare. «Basta così.»

«Com'è successo?» ebbe la forza di chiedere Ace, anche se aveva la gola completamente bloccata.

«Un colpo di mitragliatrice di rimbalzo» rispose Marco. «Aveva appena messo l'esplosivo per distruggere il filo spinato e permettere a tutti di togliersi dalla spiaggia e salvarsi la vita.» Sapeva bene che era una magra consolazione, ma voleva che sapesse quando importante fosse stato il ruolo di Rufy nella battaglia di Normandia.

Lentamente, Ace scostò le mani e ricoprì la tomba con la terra che aveva tolto poco prima. Ogni tanto si fermava, digrignava i denti e stringeva le mani infilando le dita in quella poltiglia nera, poi riprendeva. Marco si aspettava che scoppiasse in lacrime, gridasse o maledisse qualcuno, perché conosceva la storia meglio di chiunque altro.

Invece non successe nulla. Il viso di Ace sembrava essere diventato una maschera di pietra e pure gli occhi erano asciutti. Poi si alzò e si diresse lungo il promontorio, da dove era possibile vedere la spiaggia. Due giorni di marea avevano portato via tutti i cadaveri e l'acqua era ritornata azzurra.

Marco lo seguì preoccupato.

Non che Ace non fosse triste: si sentiva distrutto dentro. Era venuto per realizzare il sogno di un fratello, non per distruggere quello dell'altro. Aveva fatto di tutto, era diventato un Ranger pur di poter realizzare la sua missione. Aveva fatto del suo meglio, ma non c'era riuscito. Rufy era morto.

Ace non era solo triste, era incazzato. Con Rufy, col destino, coi tedeschi, ma soprattutto con se stesso e con la sua impotenza. Con Sabo, non era nemmeno riuscito a salutarlo per l'ultima volta, era solo riuscito a bruciare la lettera di Stelly e ad insultarlo per sfogarsi. E adesso Rufy era morto e anche con lui non c'era stato nemmeno il tempo di un saluto e peggio che mai, nessuno con cui sfogarsi.

Ace prese a calci l'aria, poi si chinò e prese a pugni il terreno. I tedeschi che gli avevano sparato probabilmente erano già stati uccisi, oppure erano prigionieri ma impossibili da identificare. Non c'era nessun contro cui prendersela per quello che era successo, tranne che con se stesso. Marco lo afferrò per le spalle e lo costrinse ad alzarsi prima che gli si riaprissero tutte le vesciche alle mani.

«Mi dispiace.» Lo strinse al petto, incurante del fatto che qualcuno potesse vederli, e gli accarezzò i capelli per cercare di calmarlo. Non gli aveva detto che anche Satch era morto e che pure per lui era dura, ma non poteva farlo. Soprattutto non dopo averlo visto così distrutto, perché aveva capito che aveva bisogno di lui.

Ma Ace si scostò bruscamente, lo sguardo duro. Non era in condizioni di accettare gentilezze nemmeno da lui, era troppo arrabbiato per poterlo sopportare. «Non cambia nulla, devo sempre uccidere ogni singolo tedesco fino a Berlino.» Ora per due fratelli invece che uno solo.

Marco fissò la sua schiena che si allontanava dal cimitero per tornare verso l'accampamento. Come al solito, Ace si comportava in una maniera per lui incomprensibile ed era terribile non riuscire nemmeno a pensare a cosa fare o dire per aiutarlo. Però era sicuro di una cosa, lo aveva notato quando lo aveva visto prendere la targhetta identificativa fra le mani: qualcosa si era rotto dentro Ace e adesso che aveva chiuso la porta a tutto, Marco temeva che non sarebbe riuscito più a rimettere assieme i pezzi.

 
 
Ponte di Bènouville, 8 Giugno
 
In quanto a rinforzi, il gruppo della Forces Français de l'Interior era stato più fortunato, dato che gli inglesi erano riusciti ad arrivare il giorno stesso dello sbarco a portare loro rifornimenti, per di più al ritmo della cornamusa.

Tuttavia non si erano mossi dalla custodia del ponte; Dragon stava aspettando di unirsi direttamente all'esercito della France Libre e intanto preparava le strade per il resto delle truppe. Sabo aveva dato una mano, spiegando ai soldati inglesi com'era la situazione in Normandia e anche correggendo il francese di alcuni di loro, almeno finché Dragon non lo chiamò all'ordine.

«Voglio che tu vada a Parigi» gli comunicò. «Sotto copertura, ovviamente, perché è ancora in mano ai tedeschi.»

«No.» Sabo non aveva mai contestato gli ordini di Dragon, nemmeno per una volta, perché aveva fiducia in lui e nelle sue informazioni. Ma finalmente aveva la divisa addosso, era un vero soldato, con delle vere armi e in un vero esercito. Aveva passato quattro anni di incertezza e adesso voleva davvero dimostrare a se stesso che non erano stati tutti inutili.

Dragon sembrò ignorarlo. «Ho bisogno di qualcuno per dirigere i gruppi di resistenza della regione dell'Ilê de France» spiegò. «Gli Alleati vorranno dirigersi subito in Germania per anticipare i Russi, ma questo vorrebbe dire ancora occupazione da parte dei tedeschi. E noi non lo vogliamo, vero?» domandò, ben sapendo che lo scopo principale di tutto il suo gruppo era stata la liberazione della Francia. «Bisogna far scoppiare una rivolta in modo che l'esercito sia costretto a correre in aiuto dei ribelli.»

Sabo lo capiva ed era anche onorato che avesse pensato a lui per una missione così importante, ma non era quello che voleva fare. Voleva entrare a Parigi da vincitore, con la sua divisa e le sue truppe. Però notò che c'era qualcosa di diverso dal solito: Dragon era meno incisivo, i suoi movimenti erano lenti e non lo guardava in faccia.

«C'è qualche problema?» domandò, temendo che lo sbarco non fosse stato il successo che pensava.

Per un attimo, sul volto di Dragon passò un sorriso d'orgoglio, fiero di quanto perspicace fosse il suo allievo. «Non a livello generale» fu la risposta. «Ho avuto un messaggio dalle truppe americane. Mio figlio è morto.»

«Mi dispiace.» Sabo si sentì immediatamente in colpa, perché ciò che gli era venuto alla mente per prima cosa non erano le condoglianze, ma la domanda “hai un figlio?!”. L'aveva sempre ritenuto un lupo solitario, non avrebbe mai immaginato che avesse una famiglia da qualche parte. «È stato durante lo sbarco?»

«Era nella 29° Divisione Fanteria, ha avuto la sfortuna di sbarcare nel settore peggiore della spiaggia» annuì Dragon. «Ma mi hanno detto che si è comportato meglio di tutti.»

Non che ci fosse tanto da stupirsene, visto di chi era figlio. «Quanti anni aveva?»

«Diciannove.» Dragon lo stava fissando intensamente e per un attimo Sabo pensò che fosse perché gli stava facendo domande troppo indiscrete, ma gli sembrò che ci fosse qualcos'altro sotto. «Si chiamava Monkey D. Rufy.»

Fulmine a ciel sereno. Però probabilmente in America vivevano un sacco di Monkey D. Rufy! Non sapeva quanto popolare fossero quel nome o quel cognome, ma insomma, sarebbe stata una coincidenza assurda che proprio lui... Ma lo sguardo di Dragon gli diede la certezza che non era una coincidenza per nulla. «No...» Si sentì cedere le gambe e cadde sul pavimento di schianto, con le lacrime che uscivano senza che nemmeno se ne fosse reso conto. «No, no!» Fino a quel momento aveva dato per scontato che i suoi fratelli fossero in America, al sicuro da tutto. Era così sollevato che non dovessero subire le sofferenze che erano toccate a lui...! Non aveva potuto nemmeno mandargli una lettera in quegli anni, il suo ultimo saluto era ancora quelle poche righe che aveva scritto prima di scappare dal castello...

«Com'è possibile?» si domandò, fra i singhiozzi. «Perché quell'imbecille era nell'esercito?!»

«Negli Stati Uniti c'è la circoscrizione obbligatoria. Ma io non penso che sia questo il caso» rispose Dragon, anche se la domanda non era esattamente rivolta a lui.

Sabo capì benissimo quello che voleva dire: Rufy era venuto in Francia per lui! Non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto! Perché cavolo Ace non l'aveva fermato? E sì che gliel'aveva affidato... Però si rese immediatamente conto di una cosa: no, Ace non avrebbe mai lasciato Rufy da solo nell'esercito.

«Sai qualcosa su un altro soldato? Portgas D. Ace?» A quel punto aveva la certezza che anche lui fosse in qualche modo nell'esercito, non sapeva dove, ma sapeva che c'era.

«Ho notizie solo di mio figlio, ma posso provare a chiedere» rispose Dragon. Poi lo superò. «Preparati per partire.» Nonostante tutto, non aveva perso la sua compostezza e l'obiettivo che dovevano perseguire.

Sabo desiderò di poter essere come lui, ma al momento non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine del fratellino da solo a combattere in quella spiaggia insanguinata. Rimase seduto sul pavimento per quelle che sembrarono ore, prima di alzarsi e prendere una decisione: avrebbe combattuto ancora più di prima. Forse Ace era ancora vivo da qualche parte là fuori e l'unica cosa che poteva fare era far finire quella guerra prima che morisse anche lui.

Scese al primo piano della torre, che avevano adibito a dormitorio, e recuperò la sua roba: si tolse la divisa e indossò i vestiti normali e il suo basco, poi scese sul ponte ed inforcò una delle biciclette che erano state sequestrate dall'esercito. Prima Parigi, poi Berlino.

Koala si era affiancata a lui, con lo zaino già in spalla e i vestiti da donna indosso. Poi prese un'altra bicicletta. «Vengo anche io.»

«Credevo volessi rimanere con Robin» disse Sabo. Era perplesso, praticamente non aveva più avuto occasioni di parlarle dato che le due donne stavano sempre assieme, a parte per quando avevano seppellito Hack.

«Lei è fantastica, ma io non voglio diventare una spia» rispose Koala. «Voglio solo vincere la guerra per far smettere le persecuzioni sugli ebrei.» Poi sembrò rifletterci per un attimo. «Ma lei è davvero una grande.»

«Già, lo è» convenne Sabo, con un leggero sorriso. Non ne era geloso, ma doveva ammettere di essere felice di avere compagnia, dato ciò che era successo.

Lei sembrò leggergli nel pensiero. «Inoltre, credo che adesso tu abbia bisogno di qualcuno.»

«Tu ci sei già passata» affermò, ricordando benissimo quello che era successo con Fisher Tiger. Non ne parlavano mai, solo ogni tanto a lei capitava di accennare qualche vecchio episodio, ma nessuno approfondiva mai, era una ferita ancora aperta. Una ferita che la morte di Hack aveva rischiato di allargare.

«Già» confermò Koala. «Per questo vengo.»

Sabo non sapeva esprimere la sua gratitudine per quella donna e quanto adorasse la sua forza d'animo, che riteneva decisamente superiore alla sua. «Allora, ti prego, fammi il favore di non morire.» Era un pensiero egoista, ma era stanco di dover salutare le persone che amava per l'ultima volta.

 
 
Parigi, 18 Giugno
 
Raggiungere Parigi fu meno pericoloso di quello che avevano previsto. Conoscevano le strade interne, quelle che l'esercito tedesco non avrebbe mai preso, e nei paesini l'occupazione si era ormai ridotta, dato che tutti i soldati erano stati mandati nelle zone dov'erano previsti gli attacchi alleati. Evitando le grosse città, era stato facile non incontrare la Wehrmacht.

Entrare a Parigi sarebbe stato più problematico. Avevano lasciato le armi il giorno precedente, per evitare il rischio di una perquisizione, ma le porte d'accesso alla città erano tutte sbarrate e protette dai carri armati Renault FT-17 e la Milice Français controllava tutti e respingeva la maggior parte delle persone.

Sabo si stava avvicinando con la bicicletta portata a mano e si guardava attorno per cercare di trovare una via d'entrata più facile, quando Koala lo tirò per una manica e poi si diresse con sicurezza verso due soldati. Solo quando furono più vicini anche lui li riconobbe, anche se erano passati due anni: erano stati quelli che avevano chiesto loro i documenti quanto erano venuti a recuperare il pezzo di ricambio per il telegrafo.

Anche loro li riconobbero, Sabo lo capì dallo sguardo che diedero alla sua cicatrice. In effetti era qualcosa difficile da dimenticare e per quanto fosse un problema nel suo lavoro sotto copertura, in quel momento tornava loro utile.

«Oh, eh, salve.» Jango pareva in imbarazzo.

«Com'è finita poi la sua gravidanza?» domandò Fullbody gentilmente, rivolgendole un sorriso interessato. Ora che non era più incinta evidentemente era diventata una donna appetibile. Aveva anche iniziato a portare vestiti migliori di quelli di Dadan.

«Abbiamo avuto un maschietto!» Koala si era già superata come attrice. Il modo in cui li stava lusingando era fantastico e Sabo quasi si scordò di dover fare altrettanto.

«Non ce l'avremmo mai fatta senza di voi, senza un dottore... La vostra gentilezza ci ha salvato» affermò.

«Che cosa ci fate qui oggi?» domandò Jango, notando che un soldato tedesco li stava osservando.

«Dobbiamo comprare del cibo.» Sabo estrasse i suoi documenti, ovviamente falsi. C'era stato anche il tempo di fare un finto permesso di circolazione, ma aveva l'impressione che con gli Alleati alle porte sarebbe apparso più sospetto che altro. «Da noi non ne arriva più da due giorni e ci hanno detto che a Parigi siete messi meglio.»

«Non ti credere» scosse la testa Fullbody. «Andate, andate, basta che torniate indietro prima del coprifuoco.»

«Grazie mille, sicuramente!» Koala sorrideva e intanto pensava che erano venuti a Parigi per restarci definitivamente.

«È stato un piacere.»

Solo quando furono abbastanza lontani dalle orecchie indiscrete dei soldati alla porta, lei commentò, con tono disgustato: «Collaborazionisti! È così facile fregarli».

«Meglio per noi» rise Sabo, che era convinto dipendesse solo dalle sue capacità recitative.

«Ora che cosa facciamo?»

«Raduniamo l'esercito.»

Parigi non era cambiata molto: i danni dei bombardamenti che aveva subito nel 1940 erano stati riparati e se non fosse stato per i molti negozi chiusi, per i cartelli in tedesco coperti da molti della resistenza strappati e per qualche barricata e per le lunghe file davanti ai pochi negozi aperti, non sembrava nemmeno una città in guerra. Montparnasse ne era l'esempio più tipico, dato che molti artisti erano rimasti a vivere in quel luogo quasi indisturbato e avevano continuato a renderlo così caratteristico.

C'era anche un'altra cosa in quel quartiere che non era cambiata: la gendarmeria, con Smoker, costretto dalla crisi a smettere di fumare, e la sua fidata segretaria Tashigi, che portava gli occhiali con una lente rotta. Entrambi erano più magri e con i vestiti vecchi, lui aveva anche qualche cicatrice in viso, ma parevano possedere la stessa energia di allora.

Smoker riconobbe Sabo quasi subito, nonostante l'avesse visto per l'ultima volta quattro anni prima. Tashigi ci mise un po' di più, ma poi rimase sorpresa dalla cicatrice e quasi le vennero le lacrime agli occhi; però si riscosse un attimo vedendo Koala e il viso si aprì in un sorriso.

«Non vi ho più visti» commentò Smoker. «Dove sei stato?»

Sabo alzò le spalle. «Se venite un attimo con me, glielo mostro.»

I due si guardarono, ma poi annuirono contemporaneamente. «Meglio farlo prima del coprifuoco, allora. Muoviamoci.» Smoker si alzò. Era chiaro che la frase di Sabo gli aveva ben fatto intendere che c'era qualcosa di illegale riguardo a quella faccenda.

«Come sta il signor Kuzan?» domandò Sabo, mentre li guidava verso era l'Île Saint-Louis.

«Non bene» fu la risposta. «Ha lasciato la polizia dopo il terzo rastrellamento di ebrei ed è entrato nella resistenza. Ha perso una gamba in uno scontro a fuoco e poi è stato deportato.»

«I tedeschi sono sempre ansiosi di portarsi via quelli che ritengono gli scarti della società» commentò Tashigi malinconica. Era chiaro che non avevano molte speranze di rivederlo vivo. Sabo se ne dispiacque: ricordava ancora che era stato anche merito di Kuzan se era riuscito a portare Fisher Tiger dalla sua parte.

All'incrocio per la via che portava al suo vecchio palazzo, c'era un uomo che fingeva di risistemare la sua bicicletta. Sabo se ne accorse subito perché era un vecchio trucco che avevano usato spesso. Tossì appena per attirare la sua attenzione e proseguì. Un attimo dopo l'uomo li aveva raggiunti e anticipati davanti all'entrata del portone, lo aprì e vi entrò. Sabo lo seguì, lasciando le biciclette nell'atrio, e solo quando l'ebbe chiusa dietro il gruppo che lo seguiva, si arrischiò a dire: «Il Colonnello Rol-Tanguy?»

«Chiamami Henri» disse l'uomo. «Siamo tutti contenti di vederti qui, Caporale Sabo.»

Due giorni di combattimento l'avevano reso consapevole del suo grado e anche del fatto che fosse famoso all'interno delle forze di resistenza in quanto uno degli uomini di fiducia di Dragon. «Fammi vedere come siete messi.»

Henri annuì, poi fece un leggero sorriso a Smoker, che aveva tirato fuori un sigaro e lo stava rigirando fra le mani. «Io quello non lo accenderei.» Poi li condusse al primo piano della residenza, che era stata completamente svuotata prima della guerra, e aprì appena le tende in modo da far entrare un filo di luce sufficiente a mostrare loro l'arsenale di fucili, munizioni, bombe, spara granate anti-carro ed altro che era stato radunato in quegli anni dalla resistenza. Erano tutte armi di paesi diversi: francesi recuperati dai soldati scappati dopo il 1940, rifornimenti inglesi, furti dai magazzini tedeschi, qualcosa di spagnolo ed italiano.

Smoker aveva già capito che c'era qualcosa che non andava, ma sentir parlare i due uomini come due soldati navigati lo aveva stupito più di quanto prevedeva. Quell'arsenale gli aveva dato il colpo definitivo. Si mise il sigaro, l'ultimo rimasto dopo quei quattro anni di astinenza, e lo morse con forza.

«Cosa siete?» domandò.

«L'esercito della France Libre» rispose Sabo, che si era avvicinato e aveva preso un fucile in mano. Il tipo inglese, la Carabina da sette colpi a cui era abituato e la caricò in un istante. «Be', al momento siamo solo la Forces Françaises de l'Intérieur, visto che la Francia è ancora occupata, ma ci riteniamo comunque un vero esercito. Il vero esercito francese» puntualizzò.

Smoker scosse la testa. «Dovevo immaginare che non te ne saresti mai stato tranquillo.» Era un chiaro riferimento a quando era bambino e scorrazzava libero per i quartieri pericolosi di Parigi.

«Si ricorda dei due bambini che stavano con me?» domandò allora Sabo. «Soprattutto quello piccolo?» Smoker annuì. Se lo ricordava molto bene. «È morto il sei Giugno, in Normandia, nell'esercito Americano.» Lasciò passare qualche minuto, il tempo per processare la notizia. Tashigi si era tolta gli occhiali e singhiozzava lentamente. «Io non ho intenzione di sprecare il suo sacrificio e quello di molti altri. Ho aspettato fin troppo, adesso è ora di combattere.»

Smoker prese un profondo sospiro. «Tashigi, esci da qui.» Era pallida e pareva essere rimasta colpita da quello che stava succedendo. Non voleva coinvolgerla in quella storia, se poteva evitarlo, anche perché sarebbe stato rischioso. Era riuscito a proteggerla fino a quel momento e avrebbe continuato, se necessario.

Ma lei scosse la testa. Allungò la mano e prese uno dei fucili e tentò di imitare Sabo nel caricamento: prese le munizioni corrette, ma l'arma era differente, un Karebre 98 Kurz, difficile da manovrare. Si ferì al dito mentre chiudeva il caricatore, ma fece appena un gemito di dolore.

«Io resto» affermò. Tremava, ma lo sguardo era deciso.

Smoker passò lo sguardo a lei a Koala, che aveva incrociato le braccia e pareva sfidarlo con lo sguardo a dire qualcosa. Sorrise. «Eh, le nostre donne hanno più palle di tutti i nostri generali.» Si tolse il sigaro di bocca e fissò intensamente Sabo ed Henri. «Allora, qual è il piano?»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 1944 - Parte IV ***


1944 – Parte IV
 
 
Brest, 10 Agosto
 
«Cazzo! Merda!» Kidd era come al solito estremamente colorito nell'esprimere i suoi sentimenti. «'Sta cazzo di città di merda!» Anche se dopo settimane a stretto contatto, iniziava a diventare un po' ripetitivo.

Non che Ace non lo capisse, l'assedio di Brest andava avanti da giorni e in pratica riuscivano a conquistare una strada alla volta. I tedeschi erano con le spalle al muro, ma non si poteva dire che non fossero combattenti straordinari per come avevano deciso di resistere. Sapevano che le truppe alleate avevano bisogno di porti per i rifornimenti prima di partire per la Germania e non avevano intenzione di cedere.

Da parte sua, poi, c'era anche frustrazione. Brest era lontana da Parigi e praticamente dalla parte opposta rispetto a Berlino. Non era il posto dove sentiva di voler stare, per cui dopo un po' le lamentele di Kidd diventavano semplicemente intollerabili.

«Se non chiudi quella bocca ti sparo.» Erano tutti nella stessa situazione, stanchi e delusi da come stavano andando le cose.

Law alzò gli occhi al cielo. «Da quando è morto tuo fratello hai una scopa su per il culo» commentò. Non sapeva cosa fosse la delicatezza, o molto probabilmente non gliene importava abbastanza.

«Sparo anche a te» gli comunicò Ace.

Poi il M4 Sherman davanti a loro iniziò a bombardare, rendendo la conversazione impossibile. I tre Ranger imbracciarono i loro fucili e attesero che il fumo delle esplosioni si diradasse, prima di infilarsi nel buco delle difese tedesche. Spararono ancora prima di vedere qualcuno, quindi si ripararono dietro il primo edificio non appena sentirono il suono delle mitragliatrici.

Un attimo dopo era tornato il silenzio: come al solito i soldati tedeschi si ritiravano e preparavano un'altra barricata poco più avanti, in maniera da impedire alla fanteria di avanzare. I carri armati avevano difficoltà nelle vie strette e dovevano farsi avanti lentamente. Ace si guardò intorno: avevano conquistato dieci metri di terreno e perso due uomini.

Si sentì il suono di un'altra esplosione sulla sinistra e il gruppo dei Ranger si diresse in quella direzione, sperando che si fosse aperta un'altra via più larga dove passare. In quel caso, però, l'attacco era stato tedesco: un Panzer V aveva aggirato una delle sue stesse barricate e aveva iniziato a sparare contro uno degli Sherman. L'attacco aveva distrutto gli edifici vicini, colpendo un gruppo della 29° Divisione.

Kidd estrasse una delle sue granate anticarro e corse in avanti per lanciarla, mentre gli altri lo coprivano da dietro. Ace balzò verso un edificio vicino ancora intero ed entrò dalla finestra rotta, per poi affacciarsi lungo la strada e sparare ai soldati tedeschi dall'alto. Questi risposero al fuoco senza riuscire a colpirlo, poi vennero investiti in pieno dall'esplosione che distrusse il Panzer.

Ace balzò a terra, prima che anche l'edificio in cui era entrato crollasse, e si unì al gruppo dei Ranger che stava andando a recuperare i soldati feriti. Molti erano già morti, mentre alcuni erano riusciti a scampare al crollo e stavano obbedendo agli ordini di Law su come trattare le ferite prima che arrivasse lui a controllarle. Ace si diede un'occhiata in giro per vedere se poteva dare una mano ed individuò un paio di gambe che uscivano da un detrito più grosso.

Si avvicinò per notare che non si muovevano, ma gli pareva invece di aver notato che, dall'altra parte, un braccio aveva avuto un sussulto. Aggirò il detrito per vedere se apparteneva al proprietario delle braccia e improvvisamente non ebbe più importanza.

«Marco!» Ace si chinò immediatamente al suo fianco, controllando la situazione. Il masso gli era caduto sul corpo, schiacciandolo dall'addome in giù. Lo toccò per vedere se si scostava, ma sembrava troppo pensante per lui. «Law! Law, muovi il culo, maledizione!» chiamò. Poi tornò a voltarsi verso Marco. «Cosa posso fare?»

Marco tossì. «Mi dispiace, non avrei voluto che mi vedessi in queste condizioni.»

«Va tutto bene» gli rispose Ace, cercando di capire che cosa poteva fare. Poggiò la mano sull'addome per controllare al limite della pietra: non sembrava esserci molto sangue.

Law arrivò al suo fianco, scoccò una rapida occhiata e poi diede a Marco qualche antidolorifico. «Tutto qui?» esclamò Ace, balzando in piedi quando lo vide allontanarsi. «Dobbiamo spostare la pietra e poi ci saranno sicuramente delle ferite da curare!»

«Se levi quel masso, lo uccidi più in fretta.» Law lo guardò con uno sguardo di superiorità. «Non c'è nient'altro che io possa fare se non alleviargli il dolore.»

«Ma sei un medico!»

«Appunto per questo il mio dovere è cercare di guarire i feriti, non sprecare medicine con chi sta già morendo.» Non rimase ad attendere una risposta, ma si diresse verso il suo prossimo paziente.

«Oh, maledizione!» Ace si rifiutava di credere che non ci fosse una possibilità di fare qualcosa. Prese la pietra con entrambe le mani, da sotto, e provò a sollevarla, ma era chiaro che da solo sarebbe stata troppo pensate per lui. Allora la prese a pugni, con l'unico risultato di riempirsi le mani del suo stesso sangue.

«Basta così. Ace, per favore» mormorò Marco. Gli antidolorifici avevano iniziato a fare effetto e si sentiva in condizioni di dare ordini.

Ace lo fissò digrignando i denti, poi obbedì. Lo aggirò e si sedette su un altro detrito piatto, a pochi centimetri dalla sua testa. Con Sabo, era lontano mille miglia. Con Rufy, era impegnato a fare una missione inutile. Adesso era lì, davanti a lui, e gli veniva detto che non c'era comunque non poteva fare nulla. Tutto sommato, non aveva senso continuare a combattere, tanto evidentemente non aveva nemmeno una possibilità di salvare coloro a cui teneva.

Gli altri avevano terminato di impacchettare i feriti e, mentre alcuni tornavano indietro verso le linee americane, i ranger avevano intenzione di proseguire oltre l'apertura che la bomba di Kidd era riuscita ad aprire.

«Io resto qui» comunicò Ace quando Law venne a richiamarlo.

Lui lo guardò alzando un sopracciglio. «È diserzione, Capitano.»

«Allora sparami.» Ace non era riuscito a salutare i suoi fratelli per l'ultima volta, non se ne sarebbe andato.

«Se vuoi davvero far qualcosa, forse dovresti sparare a lui» accennò con il capo al corpo di Marco a terra, «e risparmiargli una morte dolorosa.» Poi si allontanò senza aggiungere altro e in lontananza iniziarono a sentirsi nuovamente spari ed esplosioni.

«Dovresti andare» disse Marco gentilmente.

«No» rispose Ace secco. Poi deglutì. «A meno che tu non voglia davvero... che io...» Non riusciva a pronunciarlo, non sapeva con che coraggio avrebbe estratto la sua pistola per sparargli.

«Voglio essere egoista» rispose Marco, allungando un braccio verso di lui. «Se posso avere qualche altro minuto con te.»

Ace gli prese la mano con le sue e gliela strinse forte. Non vedeva davvero come propendere per una morte lenta e tremenda solo per stare con lui fosse in qualche maniera egoistico. Non se lo meritava dopo che non era riuscito a proteggere nessuno. Eppure nemmeno lui aveva il coraggio di andarsene. Strinse i denti e cercò di non piangere.

«Mi dispiace» disse Marco dopo un po'. «Non avrei voluto lasciarti da solo. Sai... Quello di cui avevo più paura.»

«Smettila.» Non voleva sentirlo parlare della sua morte. Non voleva sentirlo scusarsi in quel momento. Non voleva piangere. «Io non capisco...» aggiunse poi. «Perché ho avuto la fortuna di sopravvivere? Proprio io?» Tra tutti quelli che conosceva, era quello che se lo meritava di meno.

«Se può valere qualcosa, io sono felice» rispose Marco. Se c'era una cosa che gli era sempre piaciuta di lui, era la sua forza di volontà. Sarebbe stato un peccato vederla morire. «Certo, avrei voluto sopravvivere anche io con te.» Ridacchiò. «Soprattutto dopo tuo fratello...» aggiunse, tornando serio. «Avrei voluto rimanere al tuo fianco.»

«Tu facevi sul serio. Tra di noi, intendo.» Ace non riusciva a capire perché fosse così interessato a lui. Non aveva niente di speciale, anzi, portava solo problemi. E ciò nonostante non era quello che stava per morire.

«Sì, lo sono» confermò Marco, ribadendo il tempo presente. «Ho una casa, a Phoenix, dove sono nato... Pensavo di tornare ad abitare là. C'è un bello stadio da baseball...» Si fermò un attimo per tossire. Si sentiva un vecchio, al pensiero che aveva fatto seriamente programmi su loro due. «Forse per te è meglio così. Ti troverai una ragazza e metterai su una famiglia normale, senza problemi.»

«Certo, perché sono sempre stato felice di quello che pensava la gente di me» ribatté Ace sarcastico. Aveva passato anni con gente che lo giudicava per quello che non era, passare il resto della sua vita da reietto perché viveva con un uomo anziché con una donna non sarebbe stato un problema per lui. «La voglio vedere, questa casa. Scommetto che ha bisogno di un po' di vita.»

Marco rise, una risata che diventò un colpo di tosse. «Non sono vecchio come pensi, sai.»

«Io non ero serio» ammise Ace, deglutendo per cercare di liberare la bocca dall'impastamento. «Avevo... Ho altro in mente e non...»

«Non mi sembri uno che non era serio» lo interruppe immediatamente Marco, e la presa sulle sue mani si fece più stretta.

Aveva ragione: era dannatamente serio. Non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci, perché non aveva deciso cosa avrebbe fatto dopo aver vinto la guerra. Non aveva nemmeno pensato di  trovare qualcuno nell'esercito. Era sempre stato sicuro che avrebbe passato il resto della vita da solo, dato che gli omosessuali erano ancora condannati nella società. Però sentiva che con Marco avrebbe potuto funzionare, ma  ovviamente proprio adesso che ne aveva la possibilità era già tutto finito.

«È stata comunque una delle migliori scopate della mia vita.»

«Ovvio.» Ace sorrise. Avevano passato così poco tempo assieme...

«Raccontami qualcosa di Rufy e Sabo» gli chiese Marco, chiudendo gli occhi.

«Perché?»

«Perché li incontrerò prima di te e vorrei portargli i tuoi saluti, dato che non hai fatto in tempo» fu la risposta. «Voglio che sappiano che cosa stai facendo per loro.»

Fu troppo: le lacrime iniziarono a scorrergli copiose lungo le guance mentre gli baciava la mano che ancora teneva stretta fra le sue. Persino in quel momento Marco si preoccupava più dei suoi sentimenti che di se stesso.

Iniziò a parlare, così come gli veniva. Del primo incontro con Sabo, di come avevano condiviso lo stesso sogno di diventare fotografi, di come Rufy aveva fatto danni e poi risolto la situazione, delle loro scorribande per Parigi. Più parlava più piangeva più diventava difficile andare avanti, ma non smise nemmeno per un attimo, finché non avvertì che la stretta si era fatta più leggera e il braccio di Marco scivolò dalla sua presa.

Non se n'era nemmeno reso conto, di quando fosse diventato importante Marco nella sua vita e adesso era troppo tardi per qualsiasi cosa. Probabilmente ci sarebbero voluti anni prima di ritrovare qualcuno che contasse così tanto per lui. Anzi, no, probabilmente sarebbe morto prima di amare qualcun altro come aveva amato Sabo, Rufy e Marco. Sarebbe stato troppo doloroso. Aveva chiuso definitivamente le porte della sua anima.

Con la testa chinata, si asciugò le lacrime dagli occhi e dal viso e si alzò. Gli spari risuonavano in lontananza, ma non se ne curò. Era stato così inutile combattere fino a quel momento, che aspettare qualche minuto in più non avrebbe fatto la differenza.

Scostò lo zaino dalla spalla e prese la sua macchina fotografica.


 
Parigi, 25 Agosto
 
Parigi era diventata un vero e proprio campo di battaglia da ben cinque giorni. Il gruppo di Sabo aveva passato tutto il mese di luglio a distribuire le armi dell'arsenale a chiunque volesse combattere, finché non ne erano rimaste. Smoker sapeva chi erano davvero i collaborazionisti e chi invece fingeva solo di esserlo, per cui avevano trovato le persone giuste e avevano potuto organizzare al meglio la futura rivolta.

Questa in realtà era scoppiata improvvisamente, approfittando del fatto che i tedeschi avessero spostato tutti i loro Panzer negli Champs Élysées, a partire dai conducenti del metrò e a seguire la polizia. Subito i gruppi delle Forces Français de l'Interior, con Sabo ed Henri al comando, avevano iniziato ad organizzarsi in maniera che quella rivolta fosse controllata e non andasse persa.

Così era cominciata una lotta senza quartiere con la guarnigione tedesca che era rimasta a controllare la città. I non combattenti avevano dato una mano innalzando delle barricate con tutto quello che si poteva trovare e i vicoli erano diventati i luoghi dove i ribelli erano asserragliati. C'erano state vittorie e sconfitte da entrambe le parti e non si facevano prigionieri, ma era chiaro a tutti che i tedeschi non avevano più l'umore per resistere, anche se non si arrendevano.

E poi erano arrivate le prime truppe della France Libre. Sabo e Koala avevano indossato la divisa e si erano uniti immediatamente a loro, in maniera che i soldati non rischiassero di colpire i civili in combattimento.

Sabo sentiva che lo scontro finale era finalmente arrivato. Era salito su una delle case vuote di Piazza della Concordia e teneva d'occhio la situazione sotto di lui. Aveva colpito qualsiasi soldato tedesco fosse passato nella sua visuale negli ultimi due giorni, ma da quando erano arrivate le truppe corazzate, la battaglia si era trasformata in uno scontro fra potenze sui carri armati e un membro della fanteria non aveva possibilità di intervenire. Il Panzer V, l'ultimo rimasto, era stato ormai immobilizzato, ma aveva ancora la possibilità di sparare, per cui nessuno riusciva ad avvicinarsi.

Poi però arrivarono altri carri armati di rinforzo, la produzione americana dei M4 Sherman guidati da un'altra divisione della France Libre. Era meglio costruito e più resistente rispetto al Panzer, per cui, essendogli arrivato su un lato, decise direttamente di speronarlo.

A quel punto Sabo lasciò la sua postazione sulla finestra e scese in fretta in strada, proprio quando il Panzer veniva finalmente ribaltato completamente. Lo sportello si aprì e i soldati tedeschi iniziarono ad uscire per tentare di fuggire, ma Sabo sparò per impedirglielo. Ne uccise due, prima che gli altri capissero che era finita.

Dallo Sherman scese il Sergente Bizier. Sabo gli fece immediatamente il saluto militare. «Quali sono gli ordini?»

«Facciamoli uscire» fu la risposta. «La battaglia è finita.»

Sabo annuì e poi parlò in tedesco. «Lasciate le armi e uscite con le mani alzate.» Aveva puntato nuovamente il fucile, perché non si fidava totalmente, anche se qualunque altra azione sarebbe stata semplicemente un suicidio, era possibile che qualcuno preferisse morire piuttosto che arrendersi. In questo caso i soldati uscirono obbedienti e abbandonarono indietro le loro armi.

«Chiedo il permesso di andare a recuperare i miei soldati» disse poi al Sergente.

«Accordato, Caporale. Non ci sono altre truppe tedesche in città, vero?»

«Non carri armati» fu la risposta. C'era ancora il gruppo di fanteria al loro quartier generale, ma da quello che sapeva se ne stava occupando la 2° Divisione, che era entrata in città per prima.

Sabo superò gli Sherman e si diresse in Rue de la Concorde: non c'erano barricate perché la strada era già stata liberata per far largo ai mezzi pensanti, per cui era facile camminarci, nonostante i detriti. Si fermò quando vide venire nella sua direzione una Renault, che era stata dipinta con i colori della France Libre: era stata una cosa tanto inutile quanto importante per tutta la resistenza e non erano poche le automobili sistemate in quel modo. Si spostò sul ciglio della strada immaginando che potesse essere uno dei suoi che veniva a controllare la situazione.

L'automobile si fermò prima ancora di raggiungerlo e Koala balzò giù dalla porta del guidatore. «Che ci fai qui?» domandò Sabo. L'aveva lasciata a controllare le loro truppe perché si fidava solo di lei, ora significava che gli uomini erano allo sbando.

«Si sono arresi!» esclamò lei, raggiungendolo. «Si sono arresi!» ripeté, perché Sabo non sembrava aver capito perfettamente quello che era successo. «Stanno firmando la resa proprio adesso. Abbiamo vinto!»

«Dio!» Sabo non riusciva a crederci. «Abbiamo vinto!» La abbracciò senza nemmeno pensarci e rise per il sollievo. Non pensava che quel giorno sarebbe mai arrivato. Parigi era libera.

«Andiamo, De Gaulle terrà un discorso» lo informò lei, liberandosi dal suo abbraccio ma tenendogli la mano mentre lo guidava dentro l'auto.

«De Gaulle è qui?» Aveva lavorato per quel Generale così a lungo da ritenerlo quasi un conoscente, ma non l'aveva mai visto dal vivo. Dovevano andare ad ascoltare il suo discorso: così come il primo che aveva tenuto quattro anni prima aveva iniziato la sua avventura nella resistenza, quest'altro ne avrebbe decretato la fine.

Capirono subito che viaggiare in automobile sarebbe stato impossibile: i soldati della Forces Français de l'Interior non erano abituati alla disciplina e appena erano stati informati si erano scatenati per la città, presto accompagnati dal resto della popolazione. Se non fosse che non c'erano rumori di spari sarebbe sembrata una battaglia, ma era una gioia da guardare, pieno di persone che ridevano, gridavano e agitavano bandiere francesi.

Abbandonarono l'auto praticamente in mezzo alla strada e proseguirono a piedi, facendosi trascinare da quella massa festante. I ragazzi si divertivano a strappare anche gli ultimi manifesti rimasti con le scritte tedesche, lasciando solamente gli avvisi che la resistenza aveva appeso negli ultimi giorni. Le finestre erano nuovamente aperte e tutti sentivano che era venuto il momento di mettere allo scoperto anche le poche risorse che avevano custodito per tempi migliori.

Per la strada incontrarono anche Tashigi e Smoker, il quale aveva acceso il suo ultimo sigaro. «Danno Via col Vento!» disse lei con entusiasmo. «La Cineteca ne ha trovato una copia. Basta film tedeschi finalmente!»

«Non che questo sia tanto meglio...» borbottò Smoker fra sé.

«Vuoi vederlo anche tu?» domandò Sabo, mentre proseguivano fra la folla cercando di farsi strada.

«Sono più interessata al discorso di De Gaulle» rispose lei con un sorriso. «D'ora in poi al cinema potremo andarci quando vogliamo.»

La quantità di gente che si era radunata sotto il Comune, in Rue San-Dominique, era impressionante. Alcune persone avevano sfondato le porte delle case adiacenti per affacciarsi dalle finestre, altre che ancora vi abitavano avevano aperto le porte affinché tutti potessero beneficiarne.

«Koala! Sabo!» I due si voltarono e videro Jinbe che si faceva strada verso di loro. Aveva la giacca strappata ed era dimagrito rispetto a quello che si ricordavano, ma stava bene. Li abbracciò entrambi quasi soffocandoli.

«Quando sei arrivato?»

«Stamattina» rispose lui. «Eravamo al confine con la Spagna quando abbiamo saputo dello sbarco, per cui siamo tornati subito indietro, ma solo oggi siamo riusciti ad entrare a Parigi. E Hack?» aggiunse.

Sabo si incupì: avrebbe voluto che il compagno che era stato con lui per tutti quegli anni potesse vedere il giorno della libertà per la Francia. «Purtroppo ci ha lasciato.»

Jinbe non disse nulla, ma rafforzò la presa che aveva sulle loro braccia. «Anche noi abbiamo avuto delle perdite, come tutti.»

La confusione attorno a loro si bloccò quando la finestra sul balcone si aprì e il Generale De Gaulle uscì. Tutti stavano aspettando di vederlo finalmente in Francia a riprendere il comando delle truppe. Era stato l'unico che non si era mai arreso ai tedeschi. Sabo strinse maggiormente la mano di Koala mentre De Gaulle iniziare a parlare: l'aveva presa per non perdersi nella folla, ma adesso voleva sentirla vicina.

«Bene, bene.» Jinbe probabilmente interpretò in una maniera differente questo gesto, ma c'era un'altra cosa che lo aveva colpito di quei due ragazzi. Due combattenti della resistenza, due eroi, uno alto e biondo come un ariano puro e una ebrea per scelta e non per nascita. Nel giorno della liberazione della Francia, non avrebbe potuto chiedere altro di vedere una coppia che simboleggiava la libertà di essere e scegliere chi si voleva.

Era così preso a osservarli che perse una parte del discorso. Quando si voltò ed alzò la testa verso il balcone, ormai De Gaulle aveva quasi finito.
 
“Per questo le nostre coraggiose e preziose truppe della Forces Français de l'Interior imbracceranno ancora le armi, armi moderne. É per la vendetta, per la vendetta e per la giustizia, che continueremo a combattere fino all'ultimo giorno, fino la giorno della vittoria completa e totale.”
 
Sabo aveva stretto ancora maggiormente la mano di Koala. Aveva già deciso, in cuor suo, che sarebbe rimasto nell'esercito finché non avrebbe costretto la Germania a capitolare da ogni paese che aveva invaso. Sentire De Gaulle che diceva la stessa cosa gli riempiva il cuore di forza, così come le esclamazioni “Vive la France” che si alzavano ad ogni parte.

«Io non potrò venire, adesso che abbiamo vinto le donne non servono più» disse Koala, al suo fianco. Aveva già capito cosa aveva deciso. «Ma tu devi andare.»

«Sarai utile anche qui» rispose lui, per incoraggiarla. «E poi questa cosa la cambieremo, quando tutto il mondo sarà in pace.»

Ma era vero, doveva andare. De Gaulle aveva parlato di vendetta e giustizia: Sabo aveva un buon motivo, di nome Rufy, per riconoscersi in quelle parole. E un altro buon motivo, di nome Ace, per voler combattere e far terminare la guerra il prima possibile.

Prima Parigi, poi Berlino.

E dopo, forse, sarebbe stato davvero libero.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 1946 - Parte I ***


1946 - Parte I
 
 
Colleville-sur-Mer, 6 Giugno
 
Se avesse progettato di tornare in Normandia per l'anniversario dello sbarco, probabilmente non ci sarebbe riuscito. Invece aveva semplicemente l'idea in testa, ma si era mosso a zig zag per tutta l'Europa prima di avere il coraggio di farlo e in questo modo aveva azzeccato la giornata giusta.

Aveva chiesto il congedo dall'esercito non appena la guerra era terminata, ma avevano potuto concederglielo solo alcuni mesi dopo. Aveva preso la sua Argus C3 e i rullini che era riuscito a farsi spedire e si era messo a girare per l'Europa. La notizia che aveva avuto una medaglia per meriti di guerra l'aveva raggiunto quand'era in Austria, purtroppo: gli sarebbe piaciuto rispondere che se la potevano infilare su per il culo per quanto gliene importava.

Si sentiva svuotato. Vincere la guerra e sconfiggere i tedeschi non aveva portato la soddisfazione per la vendetta che credeva, soprattutto quando aveva visto lo stato in cui versavano i civili a Berlino. Non aveva aiutato nemmeno sapere che la maggior parte delle vittime francesi degli ultimi due anni erano state provocate dagli Alleati.

Il fatto che le foto che aveva tentato di inviare ai giornali fossero state sequestrate e poi accuratamente censurate dall'esercito era stato il colpo di grazia. Fortunatamente non aveva scelto come prima spedizioni quelle che riteneva migliori e le aveva bruciate per poi tenere al sicuro solo i rullini. Tuttavia, non aveva voglia di tornare a Boston e non sapeva che cosa fare della sua vita.

Dopo aver visto i campi di concentramento in Polonia e i disastri che i soldati russi avevano portato sul proprio cammino, ed aver attraversato parte dell'Italia del nord, andare in Normandia era sembrata l'unica altra meta accettabile.

Aveva pensato di scendere alla spiaggia per trovare il coraggio di recarsi al cimitero, ma la trovò che pullulava di soldati francesi. Riconobbe le divise: erano della France Libre. Probabilmente stavano bonificando definitivamente la zona dalle mine tedesche, perché dopo lo sbarco gli alleati le avevano completamente abbandonate a se stesse, concentrandosi sul conquistare i porti per avere rifornimenti.

Non gli restava che farsi coraggio e salire direttamente al cimitero. Era rimasto più o meno uguale a come se lo ricordava, due anni prima, ma sembrava essere diventato più grande. In effetti, aveva solo senso dato che il numero dei morti era aumentato dopo lo sbarco, ma aveva pensato che molte famiglie avessero chiesto indietro i corpi.

L'erba era ricresciuta rigogliosa in mezzo alle tombe e le croci, un tempo dei semplici rami messi assieme con delle corde, erano state sostituite di recente con delle altre, sempre di legno ma costruite con cura. Erano sparite le targhette e il nome dei soldati era stato inciso direttamente sul legno.

Cercò di richiamare alla memoria dov'era la tomba del fratello, ma non era facile dato che apparivano tutte uguali. Non gli restò che camminare nella zona che gli sembrava più somigliante al passato e leggere tutti i nomi finché non la trovò. C'era un mazzo di fiori posato davanti alla croce, ed erano freschi. Ce n'erano parecchie che avevano un onore simile.

Ace si chiese di chi fossero. Rufy aveva moltissimi amici nell'esercito e qualcuno era sopravvissuto. Possibile che prima di essere congedati dall'esercito e tornare a casa uno di loro avesse deciso di passare dal cimitero, come aveva fatto lui stesso. Si sedette di fronte alla croce continuando a fissare quel mazzo di fiori e alla mente gli tornò la domanda che si era fatto praticamente ogni giorno nei due anni precedenti: “Perché sono sopravvissuto?”.

Rufy aveva una promettente carriera nel pugilato, piaceva a tutti e aveva persino degli ammiratori che lo idolatravano. Marco era una brava persona e non aveva fatto altro che appoggiarlo ed aiutarlo. Sabo aveva rinunciato a tutto per combattere per la sua patria, perché riteneva che fosse la cosa giusta da fare. Odr era stato un vero amico e non l'aveva mai abbandonato, qualunque decisione avesse preso. Il Generale Newgate era il miglior comandante del mondo.

Tutte queste persone fantastiche erano morte e lui era sopravvissuto a tutto. Non era mai nemmeno stato ferito! Era come se il destino avesse deciso di prendersi gioco di lui, in modo che ogni giorno della sua vita si rendesse conto che era ancora vivo, ma da solo e senza meritarlo assolutamente. Morire sarebbe stato troppo semplice, per uno come lui.

Non tutti i suoi amici erano morti: Doma e Squardo se l'erano cavata bene ed erano entrambi già tornati in America. Più della metà dei Colonnelli della 29° Divisione erano sopravvissuti ed erano ancora in Europa, perché dovevano monitorare la situazione di Berlino. Kidd aveva perso un braccio ma era più in forma che mai, e pure Law, perché a quello non l'ammazzava nessuno. Ace sapeva che anche Zoro e Sanji, gli amici di Rufy, erano vivi e avevano deciso di continuare la carriera nell'esercito. Nessuno di loro, tuttavia, era importante quanto coloro che aveva perso.

Incapace di piangere e di dire o pensare qualcosa di sensato, rimase semplicemente seduto davanti alla croce, con le gambe incrociate finché queste non iniziarono a formicolargli. Allora si alzò per scattare qualche fotografia del cimitero e del mare che si vedeva dalla cima della collina. In questo modo notò che i soldati francesi si erano ritirati dalla spiaggia e decise che era venuto il momento di scendervi.

In realtà era la prima volta in assoluto che lo faceva: durante la guerra non ce n'era stato il tempo, se non per recuperare i cadaveri, e quando aveva lasciato Point du Hoc anche quel lavoro era già stato eseguito. Però l'aveva vista dall'alto e in quel momento non sembrava assolutamente quella che era un tempo. Ora non era altro che una normalissima spiaggia di sabbia bianca che si allungava in lontananza. Niente più armi abbandonate ovunque o navi minacciose all'orizzonte, o parti di carri armati mezzi affondati sulla riva.

Come spettacolo era quasi deludente. Una cosa però attirò l'attenzione di Ace: era rimasto un unico soldato francese a Omaha Beach. Era in piedi a pochi metri dalla riva, le braccia abbandonate lungo i fianchi, e gli dava le spalle, fissando l'orizzonte di fronte a sé. Sotto il basco blu che i soldati della France Libre indossavano poteva vedere dei ciuffi di capelli biondi e ricci che il vento faceva leggermente muovere. Il profilo si vedeva appena, ma appariva molto giovane.

Senza nemmeno pensarci Ace prese la sua macchina fotografica e scattò delle foto al soldato e al paesaggio. Il rumore degli scatti dovette attirare la sua attenzione, perché si girò subito nella sua direzione, con la mano che andò immediatamente alla cintura dove teneva la pistola. Ace riconosceva il gesto, era tipico dei soldati che dovevano sempre essere pronti a sparare perché dietro di loro avrebbe potuto esserci un nemico.

Lasciò la Argus, che si abbassò di scatto dondolando sul suo petto, ed alzò le mani, per dimostrare che non era armato. «È vietato stare qui?» domandò, in americano. Aveva notato che le persone tendevano a rispettarlo maggiormente se capivano che era uno degli Alleati.

Il soldato lo stava fissando con gli occhi spalancati, per cui Ace pensò che forse fare delle fotografie non era stata una buona idea, magari per le leggi francesi non era permesso fotografare le zone di guerra. Però ora poteva guardarlo meglio: era effettivamente giovane, come sembrava dal profilo, e aveva una grossa cicatrice che gli prendeva il lato sinistro del viso, proprio attorno all'occhio.

«È vietato stare qui?» ripeté, dato che non aveva ricevuto risposta. Parlò in francese, pensando che non conoscesse la sua lingua e quindi non avesse capito la prima domanda.

Il soldato gli si avvicinò, camminando lentamente. Aveva tolto la mano dalla pistola e non appariva irritato dall'intero avvenimento, ma sconvolto. Quando gli fu ad un passo si fermò e continuò a scrutarlo per un attimo.

«Ace...?»

Fu il turno di Ace di essere sconvolto. Durante la guerra aveva avuto poco a che fare con l'esercito francese e anche se si era distinto come soldato, era impossibile che il suo nome fosse diventato così famoso. Inoltre non aveva senso essere trattato in quel modo da qualcuno che lo conosceva come Ranger, la reazione sarebbe stata totalmente diversa. C'era solo un motivo possibile.

«Sabo...?»

Nessuno dei due rispose effettivamente alla domanda dell'altro, ma non ce n'era davvero bisogno. Si gettarono l'uno nelle braccia dell'altro, cadendo in ginocchio sulla sabbia. Ace credeva di aver esaurito tutte le sue lacrime quando Marco era morto, ma in quel momento le sentiva scendere copiose sulle guance come il giorno in cui aveva ricevuto la lettera di Stelly. Le sue braccia stringevano spasmodicamente la schiena e le braccia dell'altro, premendo sulla ruvida stoffa della divisa fino a sentire la carne calda e resistente al di sotto. Contemporaneamente avvertiva le braccia di Sabo che lo stringevano e le sue dita che si muovevano su di lui. La Argus era in mezzo a loro due e premeva dolorosamente contro i loro petti. Il suono della risacca era completamente coperto dai loro singhiozzi.

«Pensavo che fossi morto!» riuscì a dire quando ebbe la quasi certezza che non se lo stava sognando. Il naso aveva iniziato a colargli e il moccico gli scendeva sulle labbra; probabilmente non era una bella visione, ma non gli importava.

«Mi dispiace così tanto...!» Sabo gli parlava senza nemmeno ascoltarlo. «Sono entrato nella resistenza... E poi c'erano i tedeschi... Non potevo mandare una lettera, non potevo parlare con nessuno...»

«Pensavo che fossi morto...» ripeté Ace, in cui iniziava a farsi strada il senso di colpa per non averci creduto prima. «Stelly mi aveva mandato quel certificato e io... E io...»

«Stelly?» Il nome aveva risvegliato per un attimo Sabo e la voce era diventata più ferma.

Ace ne approfittò per pulirsi il naso dal moccico con il dorso della mano. «Dopo la resa della Francia abbiamo cercato di avere notizie su di te e lui mi ha mandato questo certificato di morte che-»

«Quella piccola merda!» lo interruppe di scatto Sabo. «Oh, scommetto che ci ha goduto. Ma la vedrà, mi prenderò l'eredità che mi spetta fino all'ultimo centesimo. Ne abbiamo più bisogno noi, qui in Francia.»

Ace non vedeva Sabo da sette anni. Sette lunghi anni. Per questo non l'aveva riconosciuto subito, era cambiato un sacco. La guerra li aveva entrambi fatti diventare degli uomini maturi con grande esperienza della vita. Ma in quel momento ebbe la certezza che suo fratello, di base, non era cambiato affatto. Era come tornare indietro nel tempo a prima di quell'inferno.

«Anche tu, però, dov'eri finito?» domandò Sabo, che aveva deciso di aver dedicato fin troppo tempo a parlare di Stelly. «Ti ho cercato dappertutto, ho chiamato Garp e m'ha detto che eri nell'esercito, ma nessuno sapeva niente di te, per loro non esistevi. E io non riuscivo a capire dove fossi finito e temevo...» Non finì la frase perché gli stavano tornando le lacrime.

Solo in quel momento Ace si rese conto che non gli aveva mai detto qual era il suo vero nome. «Nell'esercito mi sono arruolato come Gol D. Ace, che è il cognome di mio padre» gli spiegò. «Portgas era il cognome di mia madre. Se mi hai cercato con quello è normale che non sapessero chi fossi. Mi dispiace» aggiunse immediatamente, rendendosi conto dello sguardo che Sabo gli stava rivolgendo.

«Perché?» Il tono era deluso. Oltre alla paura e allo sgomento che aveva provato nel non trovarlo, ora subentrava un senso di smarrimento all'idea di aver passato tutti quegli anni senza sapere una cosa così importante.

«Non so perché non mi è mai venuto in mente di dirtelo» rispose Ace, deglutendo. «Mio padre è stato giustiziato come disertore dopo la Grande Guerra e mia madre è stata uccisa per questo, senza ottenere giustizia da nessuno, perché persino i poliziotti pensavano che se lo fosse meritato» raccontò. «Sono sempre stato giudicato per mio padre e quando sono venuto in Francia ho cercato di essere qualcun altro. Tu non sapevi niente di questa storia e finalmente potevo essere me stesso e poi...»

«Io non ti avrei giudicato» affermò Sabo. Era come vedere un lato di Ace totalmente nuovo e la cosa lo deludeva. Nonostante i cambiamenti fossero stati normali in quei setti anni, aveva avuto l'impressione che in fondo non fosse cambiato affatto. Questa però era una novità. Ora capiva anche da cosa derivava l'avversione per i poliziotti.

«Lo so. Mi dispiace» ripeté. «Non ci ho più pensato, semplicemente.» Si sentiva tremendamente frustrato: aveva ritrovato il fratello dopo anni che aveva creduto di averlo perso per sempre ed era saltato fuori che gli aveva nascosto una cosa fondamentale. Si sarebbe preso a pugni.

Non dissero più nulla, rimasero seduti sulla sabbia rivolti verso il mare, ad ascoltare il suono lento delle onde e il loro respiro. Poi Ace si rese conto di una cosa importante: Sabo non gli aveva chiesto nulla di Rufy. Lo scrutò per un attimo, pensando di aver trovato il proprietario dei fiori. Lo sapeva, doveva saperlo se aveva chiamato l'esercito. Era quasi grato di non dover essere lui a dirglielo.

Sabo aveva voltato leggermente lo sguardo verso la sua macchina fotografica, poi aveva alzato la testa sentendosi osservato. Gli occhi gli diventarono lucidi per un attimo e tornò a fissare l'orizzonte.

«È morto qui, vero?» disse infine. «Omaha Beach, Red Dog. Il settore peggiore dello sbarco.» Si sentiva che ne voleva parlare e che contemporaneamente la cosa lo distruggeva, per cui aveva accuratamente evitato di dire il nome ed Ace gliene fu grato. Sentiva la gola totalmente impastata. Annuì lentamente.

«Ha comunque salvato il culo a tutti, prima.» Marco aveva tentato di consolarlo nello stesso modo, per cui sapeva che non avrebbe funzionato, ma glielo doveva far sapere comunque. «Sono riusciti a sfondare grazie al suo esplosivo che ha distrutto il sistema di difesa.»

«Raccontami com'è stato.» La fatica nel formulare la richiesta era papabile nel tono di voce.

«Io non sono sbarcato qui.» Ace allungò la mano per indicare Point du Hoc: la punta della penisola si vedeva perfettamente in lontananza. «Il mio obiettivo erano le difese tedesche di quella zona.»

Sabo aveva voltato lo sguardo seguendo la direzione indicata, poi fissò Ace con gli occhi spalancati. «Tu eri nel Battaglione dei Ranger?!» esclamò. «Avete compiuto un'impresa incredibile!» Aveva sentito il racconto dai membri della France Libre che aveva incontrato quando avevano riunito l'esercito e ancora si chiedeva come avessero fatto.

«Sì, be', grande impresa» mormorò Ace. Lo stupore del fratello lo lusingava, ma aveva smesso da anni di godere delle proprie vittorie. «Mentre Rufy era qui a morire sulla spiaggia, noi eravamo a distruggere armi che non c'erano...»

Sabo sapeva anche quello. «Noi della resistenza ve l'avevamo detto» puntualizzò.

«Lo so!» sbottò Ace. «Ma i nostri superiori se ne sono sbattuti. Se avessi saputo che la notizia veniva da te, stai sicuro che non mi sarei mosso!» Le informazioni potevano essere sbagliate, ma non se gliele comunicava Sabo.

Lui era tornato a fissare Point du Hoc. «Non sareste dovuti venire.» Era un'affermazione secca. Poi si voltò verso Ace e gli occhi erano di nuovo pieni di lacrime. «Perché siete venuti...? Perché siete venuti per me...?» aggiunse.

Improvvisamente, Ace ebbe la chiara visione di come era stato per Sabo ricevere la notizia della morte di Rufy. Lui ne era rimasto devastato, ma sapeva a priori che poteva accadere, erano in guerra. Era rimasto sconvolto ricordando come si erano parlati pochi giorni prima. Ma Sabo non li vedeva da quattro anni, non aveva potuto contattarli per quattro anni ed era convinto che fossero al sicuro. Aveva combattuto una guerra per quattro lunghi anni pensando che spettava a lui sopravvivere per rivederli.

«Dovevamo farlo» rispose semplicemente. «Come dovevi farlo tu.»

«Non me lo perdonerò mai.»

Ace non disse nulla. Avrebbe potuto parlare a lungo, ripetendo tutte le cose che gli erano state dette per consolarlo, ma la realtà era che nemmeno lui se lo sarebbe mai perdonato. Non era nemmeno colpa loro, ma avrebbero sempre portato sulle spalle il pensiero che non erano riusciti a proteggere il loro fratellino.

«Sai, Rufy non ha mai creduto che tu fossi morto» gli disse. «Era convinto che venendo in Francia saremo riusciti a trovarti, mentre io non volevo farmi illusioni. E aveva ragione.» Tirò su col naso perché aveva ripreso a colargli. «Ha sempre avuto ragione.»

Sabo stava piangendo di nuovo, ma poi si pulì la faccia col manico della divisa e si alzò. «Andiamo a dirglielo» affermò.

«Credo di dovergli delle scuse» aggiunse Ace, afferrando la mano che gli stava porgendo per aiutarlo ad alzarsi. Si lasciarono la spiaggia alle spalle per risalire la collina verso il cimitero. Per evitare il silenzio, chiese: «Quando l'hai saputo?».

«Pochi giorni dopo» rispose Sabo. Camminava davanti a lui con il passo sicuro di un soldato esperto. «Sai, l'uomo che ha comandato la resistenza in Francia per conto di De Gaulle era suo padre.»

«Il padre di Rufy?!» Ace era stupefatto. Nessuno in famiglia ne aveva mai parlato e lui aveva dato per scontato che fosse morto così come la madre, anche se effettivamente non aveva mai visto la tomba.

«Già, è tipo una super-spia internazionale» disse Sabo divertito. Era stata la sua stessa reazione, un attimo prima della disperazione per la notizia che gli aveva portato. «Non si somigliano per niente, comunque.»

«Dov'è adesso?»

Sabo fece cenno con le mani per indicare un numero di magia. «Sparito. Immagino che sia da qualche parte del mondo a combattere ancora.»

Aveva provato a chiamarlo dopo la liberazione di Parigi, ma il Maggiore Howard non ne sapeva nulla, dato che il gruppo della France Libre che era con lui se n'era andato senza dirgli niente. Allora aveva chiesto direttamente a De Gaulle e aveva saputo che Dragon si comportava così: compiva la missione e poi scompariva. Appariva solo quando si aveva bisogno di lui e del suo gruppo. A Sabo era dispiaciuto perché avrebbe voluto ringraziarlo: era merito suo se era diventato un soldato, quando ormai non aveva più speranze.

Ace era così preso dal pensiero che Rufy aveva un padre del genere e che probabilmente non ne sapeva nulla che non si accorse che erano già arrivati al cimitero. Guardò davanti a lui e vide una ragazza che aveva appena portato dei fiori sulla tomba di suo fratello. Non la conosceva, ma figuriamoci se Rufy non aveva fatto amicizia con qualcuno tipo ovunque, anche dove lui non riusciva ad arrivare!

«Koala!» la salutò Sabo, alzando il braccio.

Lei li notò e sorrise, poi fissò incuriosita Ace e soprattutto la sua macchina fotografica. «È un giornalista?» domandò, in francese. Ne avevano visti tanti, ma solitamente non davano loro confidenza.

Sabo rise. «Koala, questo è Ace. Ace, Koala. È stata con me nella resistenza» spiegò, perché aveva notato in che modo il fratello passava lo sguardo fra loro due, perplesso.

Koala aveva spalancato gli occhi, fissandolo. «L'hai trovato» affermò, con un sorriso ancora più ampio.

«In realtà credo che sia più corretto dire che lui ha trovato me, ma comunque... sì.»

«Allora vi lascio soli» disse lei, dopo aver scoccato un'occhiata di traverso alla croce di legno. «Voi tre avrete da parlare.»

“Noi tre...?” si domandò Ace, e poi capì che stava parlando di Rufy, che anche se non era materialmente fra di loro era come se ci fosse. «Chi è quella?» domandò quando si fu allontanata abbastanza da non poterli sentire.

«Te l'ho detto, era nella resistenza con me.»

«Bugiardo.» Koala aveva dato chiaramente segno di conoscerlo abbastanza bene da sapere quali erano i rapporti che intercorrevano fra di loro e da capire di cosa avessero bisogno senza che glielo dicessero. Lui aveva parlato di Sabo solamente a Marco, il che la diceva lunga su che tipo di relazione potevano avere quei due. «Non ci credo che non hai combinato nulla con una ragazza così carina.»

«Be', una volta abbiamo finto che fosse rimasta incinta, in effetti» scherzò Sabo, ricordando quasi con piacere quell'avventura. Si rese conto che questo non aveva fatto altro che aumentare la sua curiosità, per cui cambiò argomento. «E poi tu che nei sai di ragazze carine? Manco ti piacciono!»

«Non è carina?»

«Sì che lo è» ribatté Sabo. Poi arrossì. «Ma non vuol dire che me la debba portare a letto...»

Ace lo guardò storto. «Ne riparleremo perché tu non me la racconti giusta.» Poi si chinò sulla tomba e parlò verso la croce: «Sappi che me lo sentirai dire solo questa volta ma... Avevi ragione».

Sia Ace sia Sabo ebbero la chiara impressione di sentirlo rispondere con quella sua risata contagiosa: “Te l'avevo detto!”.

«Non c'è nemmeno soddisfazione» commentò Ace, sedendosi. «In una situazione del genere me l'avrebbe rinfacciato per anni.»

Sabo si sedette al suo fianco. «Be', posso farlo io al posto suo, se vuoi.»

«Non ci provare.» Rimasero in silenzio per un po', poi Ace aggiunse, sfiorando la sua macchina fotografica: «Questa me l'ha regalata lui».

«Era un messaggio subliminale per ricordarti che avevi una promessa da mantenere?» scherzò Sabo. Fra tutti, Rufy era quello che teneva maggiormente al suo sogno, forse perché dipendeva anche dal senso di riconoscenza che provava per via di Shanks. Ne parlava continuamente. «È una bella macchina.»

«Funziona perfettamente!» Ace ne era molto orgoglioso, in quegli anni era l'unico modo che gli aveva fatto sentire i suoi fratelli al suo fianco anche se era solo. «E la tua?» domandò. Era stato proprio Sabo ad introdurlo a quel mestiere.

«L'ho persa nel bombardamento di Rouen.» La mano corse da sola a sfiorare la sua cicatrice, facendo chiaramente capire come se la fosse procurata. «Poi non c'è più stato tempo né la possibilità di procurarsene una... E adesso non ha più senso. Non c'è più nemmeno una promessa da mantenere.»

Ace deglutì. Era la stessa sensazione di vuoto che provava lui. Finché c'era un obiettivo il futuro davanti a loro appariva estremamente chiaro, con nessuna incertezza riguardante il fatto che sarebbero riusciti a realizzare i loro sogni. In quel momento sembrava che farlo non avesse più senso, dato che sarebbero stati incompleti. «Che hai intenzione di fare?»

«Entrerò in politica» fu la risposta decisa di Sabo. «De Gaulle si è dimesso quest'anno, ma io voglio continuare. Abbiamo perso la guerra anche per l'incapacità dei nostri governanti e io non voglio che succeda di nuovo.»

«Capisco.» In realtà Ace non era sicuro di capirlo, lui non aveva vissuto per anni in un paese occupato e la guerra era sembrata comunque qualcosa di poco personale, anche se la combatteva per la sua vendetta. Ma Sabo doveva averla vissuta in pieno.

«E poi non possiamo più fare quello che avevamo promesso, quindi...»

Ace deglutì e cambiò argomento. Pensare che non aveva più un obiettivo lo lasciava senza fiato ed era una sensazione che ritrovare il fratello gli aveva quasi cancellato. «Lascerai l'esercito?»

«Non appena avrò finito qui.» Sabo accennò con la mano al cimitero attorno a loro. «Abbiamo deciso di cedere questo terreno agli Stati Uniti come cimitero di guerra perpetua, ma c'è molto lavoro da fare. Alcuni corpi sono stati recuperati, altri sono tornati a casa su richiesta dei familiari» spiegò. «Inoltre abbiamo dovuto catalogare tutte le tombe e cercare di risalire a tutti i proprietari. Ci tengo personalmente.» Non aggiunse il perché ci tenesse, era chiaro per entrambi.

«Rufy rimarrà qui?» domandò Ace.

«Per Garp va bene, gliel'ho chiesto. Per te?»

«Sì. Credo che sia giusto così.» Il fratello aveva dato la vita per quella nazione e quella nazione avrebbe dovuto omaggiarlo come si doveva, così come avrebbe fatto con tutti gli altri soldati.

Poi ad Ace venne in mente una cosa e scrutò Sabo per un attimo. «Quindi tu sai tutti quelli che sono sepolti qui?» domandò.

«Io personalmente no, sarebbe impossibile» rispose con tono triste. «Ci sono dei documenti, vogliamo che i parenti possano ritrovare i loro cari» spiegò. «Ci sono persone che conosci?»

«Forse.» Non aveva idea se fossero rimasti sepolti o fossero stati spediti in America, però gli sarebbe piaciuto vedere le tombe se fossero state ancora in quel cimitero. Soprattutto quella di Odr, e poi... «Qui sono sepolti soldati morti per tutta la Francia o solo a Omaha Beach?»

«Spara il nome» disse Sabo. Aveva perfettamente capito che si riferiva a qualcuno di particolare.

«Colonnello di Brigata Marco.»

Sabo ci pensò per un attimo. «Oh, sì, mi ricordo.» Si alzò e si guardò intorno lungo la fila di tombe di legno. «Dunque... Mi pare di qui.»

«Avevi detto che non ti ricordavi a memoria.» Ace lo seguì, un po' tremante. Gliel'aveva chiesto tanto per, con la certezza che non fosse presente.

«Infatti, ma le sepolture degli ufficiali superiori sono rare e quindi è più facile che mi restino in mente» rispose Sabo, che infatti non procedeva del tutto sicuro, ma controllava attorno per richiamare le scene alla mente. «In più mi pare di ricordare che sia uno di quelli spostati di recente. Mi pare che venisse...»

«Da Brest.» Ace terminò la frase per lui. «Dove è morto il 10 Agosto del '44, verso le quattro e mezza del pomeriggio.»

Sabo si fermò un attimo a guardarlo, ma non aggiunse nulla. Continuò semplicemente a cercare la tomba finché non la trovò. Solo in quel momento affermò: «Eri lì». Ace annuì, con lo sguardo fisso sul nome inciso sulla croce di legno. «Chi era?»

«Il Colonnello che mi ha addestrato prima che entrassi nel Battaglione dei Ranger.» Fece una pausa e deglutì. «E l'uomo di cui mi ero innamorato.» Non l'aveva mai detto a nessuno, anzi, era forse la prima volta che lo ammetteva a se stesso. Però, se non l'avesse detto a Sabo, a chi avrebbe potuto dirlo?

Sabo si era limitato a fissarlo, con l'espressione a metà fra lo stupito e il dispiaciuto. Alzò il braccio per stringergli la manica della camicia. Poi gli fece una domanda insolita, che non si sarebbe mai aspettato: «Eri ricambiato?».

Annuì lentamente. «Credo che... avrebbe potuto funzionare.» La presa di Sabo sulla sua manica si fece ancora più stretta, prima di separarsi da lui e fare qualche passo indietro. Era chiaro che lo voleva lasciare da solo. «No. Resta.» Ace sfiorò il limite della croce, poi si chinò molto vicino. «Ciao, Marco...» mormorò sorridendo. Poi accennò con la mano a Sabo di fronte a lui. «Non ci crederesti mai, ma Rufy aveva ragione da sempre. Ho ritrovato mio fratello.» Chinò la testa fino ad appoggiare la fronte contro il legno. «Non ti devi più preoccupare per me adesso, perché non sono più da solo. Non sono rimasto da solo.»

Sabo si era chinato al suo fianco. «Sono Sabo» si presentò all'aria. «Grazie per esserti preso cura di Ace.» Deglutiva e stava cercando di trattenersi, ma con quelle frasi non è che ci riusciva granché bene e non faceva altro che far piangere di più anche lui.

«Scusami, sono in pessime condizioni» disse. «Sono il fratello maggiore, io.»

«Sei nato solo tre mesi prima di me» protestò Sabo, che forse aveva fatto una risatina ma era uscita comunque come un singhiozzo.

«Tre mesi vogliono dire che sei più piccolo di me.»

Sabo si rivolse alla croce. «Guarda con chi mi tocca stare!» commentò, allargando le braccia. «Avrei voluto conoscerlo» aggiunse poi.

«Ti sarebbe piaciuto.» In fondo avevano qualche somiglianza, rispetto a lui erano tutti e due più riflessivi e calmi.

«Avrei anche voluto vedere Rufy combattere sul ring almeno una volta» proseguì Sabo. «Sarebbe andato alle Olimpiadi di sicuro.»

«Con la testa dura che si ritrovava... Faceva pure gli incontri clandestini!»

«Che?!» Sabo sapeva che avevano sei anni da recuperare, ma in quel momento si rese conto che non poteva aspettare. Non avrebbe lasciato il fratello dopo averlo appena ritrovato e voleva farsi raccontare tutto. «Vieni a Caen con me» gli disse. «Conosco un locale dove si mangia bene e a poco prezzo. Così... parliamo un po'.»

«Certo.» Ace la pensava come lui, non l'avrebbe certo lasciato adesso dopo averlo creduto morto. «Domani torniamo qui?» propose, mentre andavano verso la strada.

«Io devo lavorare, quindi puoi venire con me» rispose Sabo. «E se hai altri nomi da cercare potrò aiutarti meglio.»

«Grazie.» In effetti avrebbe voluto vedere se c'erano altri suoi amici sepolti e salutarli, anche se aveva visto quelli che erano più importanti per lui. Aveva pianto come non credeva di poter fare ancora, ma si sentiva meglio. Aveva deciso di non amare più nessuno perché era stato troppo doloroso, ma adesso Sabo era al suo fianco e non è che potesse smettere di volergli bene.

Tuttavia, questa certezza gli aveva anche dato una nuova energia. Lui sapeva come si era sentito quando credeva di essere l'ultimo fratello rimasto e, anche se in fondo al cuore credeva che sarebbe stato meglio se ci fosse Rufy al posto suo, per la prima volta sentiva che la sua sopravvivenza aveva un senso.

Capiva perché Sabo avesse rinunciato al suo sogno per entrare in politica. Lui però era più libero e decise che, in qualche maniera, avrebbe mantenuto la promessa per tutti e tre.

Koala li stava aspettando all'automobile, la stessa Citroën con cui Sabo era fuggito dal castello la prima volta. Non apparve affatto sorpresa di vederli tornare assieme. «Guido io» disse solo, dando per scontato che andasse con loro. «Passi prima in caserma o ti porto direttamente alla locanda?»

Sabo sorrise. «Devo passare ad avvertire che torno più tardi.»

Ace li fissò in maniera inquisitoria: erano veramente troppo sospetti. «Vieni anche tu a cena con noi.» Quando Koala apparve sorpresa dalla richiesta, aggiunse: «Voglio sapere cos'ha combinato Sabo in questi anni e sono sicuro che eviterà qualcosa».

Sabo lo guardò male, poi scosse la testa sorridendo. «Ti chiederà di quando sei rimasta incinta» le comunicò.

Koala allargò le braccia. «Abbiamo avuto un bel maschietto, ricordi?»

«Voi due continuate a non raccontarmela giusta» commentò Ace, aprendo la portiera dell'auto.

«Non c'è veramente niente da dire» rispose Sabo, sedendosi a fianco del guidatore, com'era abitudine consolidata.

«Va bene...» Il tono chiaramente indicava che Ace non ci credeva affatto e avrebbe continuato a cercare dei riferimenti per tutto il resto della serata. Sabo pensò che lo poteva sopportare, avrebbe fatto la medesima cosa se avesse incontrato Marco. Però non poteva più farlo e ciò rendeva la situazione terribile. Qualche frecciata di tanto in tanto non era niente.

«A proposito, ti è capitato di tornare a Mortrée di recente?» domandò Ace, mentre Koala inseriva la retromarcia ed entrava nella strada principale.

«Sì, più volte. Dadan è ancora là più in forma che mai!»

«Figurati, a chi l'ammazza quella!» rise Ace. Tuttavia, non era per quel motivo che voleva saperlo. «Per caso, hai incontrato una donna americana di nome Bellmere?» Avrebbe voluto andare avanti con la spiegazione sul perché gli interessasse, ma non era necessario, perché aveva visto perfettamente il modo in cui entrambi si erano irrigiditi a sentire quel nome. L'automobile aveva persino sussultato per via del fatto che Koala aveva inserito la marcia sbagliata.

Per questo motivo, passò direttamente alla domanda successiva: «Che cosa le è successo?».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 1946 - Parte II ***


1946 - Parte II
 
 
Los Angeles, 29 Giugno
 
Il fumo della sigaretta saliva lentamente verso il soffitto, mentre le braci consumavano la canna. Solo quando la cenere cadde per terra Nojiko si riscosse: prese una boccata finale e poi la spense definitivamente nel portacenere.

«Grazie per essere venuto a dirmelo» mormorò infine.

Ace annuì, ma non aggiunse altro. Non disse nemmeno “mi dispiace” o “condoglianze”, se l'era sentito dire talmente tante volte che aveva capito quanto poco senso avesse. Quando Sabo gli aveva raccontato quello che era successo a Mortrée, Ace aveva sentito che fosse una sua responsabilità passare l'informazione alle figlie di Bellmere. Ovviamente Nojiko sapeva già quello che era successo perché era riuscita a raggiungere Mortrée nel '45, però era estremamente incuriosita dall'avere un'altra versione.
«Certo che è una coincidenza incredibile che tuo fratello fosse il ragazzo biondo che ha cercato di aiutare mia madre.» Nojiko si alzò dalla sedia e raggiunse la credenza, da dove estrasse una bottiglia di liquore. Quando gli fece cenno se ne voleva, Ace scosse la testa.

«Ti devo chiedere scusa» disse. «Ti ho invidiato, un tempo, perché credevo che tu avessi una speranza che io non avevo più. E invece...» Bellmere era morta e Sabo era vivo. Ancora in quel momento Ace non riusciva a credere alla fortuna che aveva avuto e che sentiva di non meritarsi.

«Non è mica stata colpa tua» rispose Nojiko, dopo aver preso un sorso di liquore, con un po' troppa foga, tanto che una goccia marrone le scese lungo il mento. «Anzi, Genzo mi ha detto quanto tuo fratello abbia cercato di fare.» Prese un respiro. «I giornali ci hanno bombardato riguardo alla crudeltà dei campi di concentramento tedesco... e mia madre è stata uccisa da un ebreo.»

«Credere che due schieramenti in guerra rappresentino il bene e il male è un grosso errore di valutazione.» Ace lo sapeva bene, l'aveva provato nella sua stessa pelle. I bombardamenti alleati avevano ucciso più francesi che tedeschi, inizialmente, senza contare le razzie di cui erano stati fatti vittime. E Sabo gli aveva raccontato anche delle esecuzioni sommarie che erano seguite alla liberazione di Parigi, che certo non erano molto diverse dalla giustizia dei collaborazionisti tedeschi.

«Comunque, se vuoi puoi mandare una lettere a Sabo e farti raccontare direttamente da lui» propose Ace. Il fratello non ne parlava volentieri, ma sapeva anche che era disposto a farlo se era per far un favore a qualcuno. «Ti lascio l'indirizzo.»

«No, non preoccuparti, quello che ho saputo mi basta.» Nojiko sorrise tristemente. «Riascoltare più volte la stessa storia non ne cambierà l'epilogo.»

«Come vuoi.» Ace non aveva intenzione di insistere. «Ti lascio comunque l'indirizzo, magari a tua sorella interessa.»

Lei sembrò fissarlo sorpresa. «Non le hai già parlato?»

«No, ho chiesto all'esercito e ho avuto solo il tuo indirizzo... Non abitate assieme?» domandò Ace, che l'aveva dato per scontato.

«No, lei ora sta ad Atlanta con suo marito e... Credevo lo sapessi» aggiunse, scrutandolo con un'espressione strana.

«Non ne avevo idea.» Ace non capiva cosa ci fosse di così strano, aveva incontrato Nami solo una volta, al compleanno di Rufy, prima di partire per i Ranger. Di certo non si poteva dire che la conoscesse, se non attraverso qualche racconto di Rufy. Probabilmente aveva sbagliato lui a non chiedere informazioni su Nami all'inizio, in modo da mettere in chiaro che non aveva notizie.

«Dovesti davvero incontrarla, allora.» Nojiko prese un pezzo di carta e iniziò a scriverci sopra con una calligrafia chiara. «Ora fa la giornalista per un piccolo giornale, per cui credo che sapere questa storia da parte tua o di tuo fratello le sarebbe utile.»

Ace prese il foglio e fissò l'indirizzo. Non sapeva quanto Sabo fosse disposto a dire ai giornali, ma era anche vero che le grandi testate americane parevano voler raccontare solo una parte della storia, laddove i veri protagonisti si ritrovavano in racconti che non gli appartenevano. Da parte sua, avere una conoscente giornalista forse avrebbe significato aver qualcuno di cui fidarsi. E poi era amica di Rufy.

«Credi che possano interessarle anche delle fotografie?»

Nojiko lo guardò per un attimo, ricordandosi della prima volta che si erano incontrati. «Tue? Della guerra?» A cenno positivo, sorrise. «Portagliele senza alcun dubbio.»
 
Atlanta, 2 Luglio
 
Non intendeva dimostrarsi così sorpreso, ma lo era. Certo, non conosceva Nami abbastanza bene e quindi non si era immaginato di conoscere suo marito. Il fatto che fosse Usop lo colpì particolarmente perché era uno dei pochi amici di Rufy che ricordava bene.

«Capitano...» Usop era sorpreso quanto lui. Certo non si aspettava quella sorpresa a quell'ora della sera. Poi però esclamò: «Era ora!».

«Non sono più nell'esercito, quindi chiamami pure Ace» gli rispose. Usop gli piaceva: quando aveva processato la notizia, aveva apprezzato l'idea di averlo trovato sulla tomba di suo fratello e successivamente l'aveva anche fotografato. «Ti chiedo scusa per l'orario, Nojiko mi ha dato il vostro indirizzo perché devo parlare con Nami. Se potete darmi un appuntamento quando vi va bene...»

«Adesso.» Usop lo invitò ad entrare e chiuse la porta dietro di lui per indicare che non avrebbe accettato un no come risposta, quindi gli fece cenno indicandogli la cucina, da cui sentiva provenire delle voci. «Noi abbiamo già finito di cenare, ma credo che sia rimasto ancora qualcosa.» Lo precedette. «Nami, guarda chi è venuto a trovarci!»

Ace entrò nella cucina con l'intento di salutarla, ma rimase pietrificato sulla soglia: il tavolo era apparecchiato per quattro persone e una di queste era Garp. Non lo vedeva dall'ultimo Natale che era riuscito a trascorrere a casa, nel '40, prima di Pearl Harbor. Non era cambiato molto, in fondo anche da bambino gli era sempre sembrato indistruttibile. Rimase fissarlo, incapace di articolare una parola.

Al contrario Garp pareva avere molte cose da dirgli. «Nipote degenere!» Si alzò dalla sedia in tutta la sua enorme stazza. «Cosa ti è saltato in mente di mollare l'esercito e sparire senza dire una parola? Dovresti essere il bastone della mia vecchiaia!»

«Lasciami stare, vecchio pazzo» commentò, cercando di sottrarsi alla sua presa. Era vero che non l'aveva nemmeno chiamato prima di essere congedato, ma aveva paura di affrontare con lui la morte di Rufy. Il suo vero nipote era morto, quando lui era sopravvissuto.

«Non hai idea di quello che...» Ace era convinto che l'avrebbe colpito come faceva quand'erano bambini, invece si ritrovò stretto nel suo abbraccio, che faceva male comunque, ma non intenzionalmente. «Credevo di aver perso anche te...» Singhiozzava con la testa appoggiata contro la sua spalla.

Da quello che Ace ricordava, era la prima volta che lo vedeva piangere. Ed era anche la prima volta che pareva dargli un affetto vero. Però era l'uomo che l'aveva cresciuto ed improvvisamente sembrava aver semplicemente senso che avesse pianto per lui. D'altronde, per Ace era stata la stessa cosa: quando aveva sentito di Pearl Harbor il pensiero che suo nonno potesse essere stata una delle vittime era stato tremendo. Incapace di contenere le lacrime per quell'affetto improvviso, ricambiò l'abbraccio.

Poi Garp si ricompose e decise di dimostrarlo colpendolo effettivamente. «Mandami un telegramma la prossima volta.» Si voltò verso Nami e Usop, che erano rimasti ad osservare i due uomini senza dire una parola, ma con visibile commozione. «Scusatemi per questa scena patetica.»

Nami scosse la testa. «Ci mancherebbe.»

«Usop mi ha fatto entrare nonostante l'ora, quindi prenditela con lui» le disse Ace. «Nojiko mi ha dato il tuo indirizzo perché volevo parlarti di persona di tua madre.» Poi scoccò un'occhiata a Garp: la commozione aveva per un attimo preso il posto della sorpresa. «Di certo non mi aspettavo di trovare lui qui.»

«È perché Rufy non ti ha detto niente.» Nami fece un lungo sospiro. «Lo sospettavo, dato che non l'aveva detto a nessuno. Probabilmente aspettava il momento giusto o non gli è venuto in mente.»

Gli fece cenno di seguirlo per un attimo nell'altra stanza, quella da dove era entrato prima. Sul divano c'era un fagottino che aveva notato in precedenza, ma ora, con la luce accesa e la vicinanza, notò che era un bambino avvolto in una coperta. Il caos che il suo arrivo aveva creato lo aveva svegliato, perché aveva ancora lo sguardo addormentato, ma si strofinava gli occhi con la manica del pigiama.

«Questo è mio figlio Rufy. Noi lo chiamiamo Junior.» Nami incrociò le braccia e studiò Ace aspettandosi che ci arrivasse da solo. Ace osservò Junior e il suo viso rotondo circondato dai capelli neri spettinati. La pelle era chiara, cosa che lo portava a dubitare che fosse di Usop. Ed improvvisamente gli fu tutto chiaro.

«È figlio di Rufy?» E alla risposta positiva non poté far altro che esclamare: «Ma io lo uccido!». Già l'idea che suo fratello avesse avuto una ragazza e ci avesse anche fatto sesso era incredibile solo da pensare, ma il fatto che se ne fosse andato in guerra lasciandola incinta era assurda. «Lo sapevo che avrebbe combinato danni senza di me...» Era colpa sua che era nell'esercito nel momento in cui Rufy esplorava la pubertà. Figuriamoci se aveva una chiara idea di cosa fossero gli anticoncezionali!

Nami rise. «Il signor Garp ha avuto la stessa reazione» gli comunicò, non rendendolo felice. «Junior, questo è Ace, il fratello di tuo padre.»

Junior lo guardò con sguardo curioso. Uno sguardo fin troppo familiare. Poi sorrise. «Ciao.»

«Ciao...» Ace si sentiva come se Rufy gli avesse appena lasciato un piccolo se stesso indietro, a consolarlo. Però non sapeva veramente come comportarsi con lui. «Vuoi vedere una foto di tuo padre?» gli chiese infine.

«Sì!» Il volto di Junior si aprì in un grande sorriso. Ace aspettò il cenno positivo di Nami, quindi si sedette sul divano ed estrasse dal suo zaino la busta con le fotografie che aveva sviluppato. Non ce n'erano moltissime di Rufy perché il periodo che avevano trasmesso a Fort Irwin assieme era stato limitato, tuttavia ne aveva un paio dove si vedeva bene.

Junior gli si avvicinò e studiò attentamente la figura che lui gli indicava con il dito. Poi sorrise. «Questo è papà» commentò, indicando Rufy. «E questo è l'altro papà» aggiunse, indicando la foto di Usop. «Dov'è la mamma?»

«È più intelligente di Rufy» affermò Ace in direzione di Nami.

Lei annuì. «Fortunatamente ha preso da me.»

Ace non aveva una foto precisa di Nami, ma non voleva deluderlo dicendoglielo, quindi si limitò a mostrargli altre foto nel tentativo di distrarlo, cosa che parve funzionare. Junior le osservò tutte attentamente e sorrideva ogni volta che riusciva ad identificare Rufy, Usop o lo stesso Ace. Aveva già iniziato a chiamarlo “zio” come se lo conoscesse da sempre. Per Ace guardare quelle foto era meno doloroso con un bambino al fianco che non sapeva che cosa rappresentassero.

Quando lo vide sbadigliare, Nami decise che per quella sera era abbastanza. «A letto, su.»

«Ci penso io» si offrì Garp, cosa di cui Ace fu grato perché aveva ancora molto di cui discutere con gli altri due.

«Se il nonno ti tratta male, dimmelo, ti proteggo io» sussurrò a Junior, facendolo ridere, prima di lasciare il divano e tornare in cucina, che era stata riassettata nel frattempo. «Be', questa è sicuramente stata una sorpresa» esclamò, facendosi cadere sulla sedia di schianto. «Mio fratello è sempre stato un cretino, ma non mi aspettavo così cretino.»

«Eravamo tutti cretini.» Nami scosse la testa. «Era la guerra, nessuno di noi voleva rischiare di essere troppo considerato.» Guardò in lontananza verso la porta della stanza da letto dove Garp aveva portato Junior. «Ero furiosa per essere stata così stupida e aver perso l'occasione di andare in Francia, ma adesso...» Gli occhi le diventarono umidi. «Sono contenta di aver potuto approfittarne finché era possibile.» Usop si sedette al suo fianco e le mise una mano sulla spalla.

Ace li guardò: erano una coppia interrazziale, il che indicava che probabilmente avevano avuto un sacco di problemi e ancora li avrebbero avuti in futuro, in quel paese libero e razzista che era l'America. Ma erano anche due persone che avevano attraversato la morte di una persona che era loro estremamente cara, per cui erano abbastanza forti per affrontare qualsiasi cosa. Pensava che avrebbe dovuto essere irritato con Nami per aver sostituito Rufy così in fretta, ma non lo era: quei due avevano bisogno l'uno dell'altro perché capivano perfettamente quello che avevano provato.

Ace abbassò leggermente lo sguardo e coprì le lacrime con la mano. Rufy aveva colpito la vita di così tante persone, la sua compresa. Aveva un figlio. Ed era morto. Il senso di colpa per essere sopravvissuto lo invase con forza, ma cercò di cacciarlo. C'erano ancora più persone adesso che avevano bisogno che lui fosse forte.

«Posso offrirti qualcosa? Hai cenato?» Nami cercò di spezzare il silenzio con frasi di circostanza, perché la presenza di Rufy in quella stanza era diventata troppo papabile.

«Sono a posto, ma dimmi che hai qualcosa di forte da bere.» Ne sentiva il bisogno, aveva avuto decisamente troppe emozioni per quella sera. Mentre lei si alzava per recuperare un bicchiere e la bottiglia di liquore, si rivolse ad Usop: «Siete proprio sposati?».

«Sì» fu la risposta imbarazzata.

«Dev'essere stato difficile.» Era una semplice osservazione. «Siete stati molto coraggiosi.»

«È stato molto difficile, persino i preti neri come me non volevano saperne di una coppia mista» confermò Usop. «Ma se c'è una cosa che Rufy mi aveva insegnato era a non arrendermi.» Abbassò lo sguardo. «Vivere come un reietto per via della mia pelle era sempre stata la soluzione più facile, ma dopo aver conosciuto Rufy ho visto le cose da una diversa prospettiva. Lo voglio cambiare, questo paese. Voglio che tutti abbiano la possibilità di essere trattati come Rufy ha sempre trattato me.»

Era un Usop completamente diverso rispetto a quello che ricordava di aver incontrato a Fort Iwin e poi in Inghilterra prima dello sbarco. La guerra aveva cambiato la vita delle persone, ma non tutte in peggio. Ace si commosse davvero a sentirlo parlare così di suo fratello, perciò tentò di proseguire la conversazione per evitare di pensare troppo a lui. «Come vi siete incontrati?»

«Ci conoscevamo da prima, era stato Rufy a presentarci. Sapevo che stavano assieme, perciò quando sono riuscito ad essere congedato, ancora prima della caduta di Berlino, sono venuto a cercarla. Volevo raccontarle come Rufy ci aveva salvati tutti.» Usop non faceva altro che ripeterlo, perché per la sua vita era stata fondamentale la fiducia che era stata riposta in lui quel giorno, quando tutto sembrava senza speranza. «Ho scoperto di Junior e ho pensato che avessero bisogno di me.»

Nami pose il bicchiere davanti ad Ace e gli versò da bere. «Non ci siamo sposati per rimediare» aggiunse. «Ci siamo innamorati.»

«Non ti devi certo giustificare con me.» Ace ingoiò il liquido tutto d'un fiato, rischiando quasi di strozzarti. «In più non so se augurare a qualcuno di finire sposato con Rufy. Credimi, ci ho vissuto assieme per anni.»

«Penso di poterlo immaginare» sorrise Nami. Con il gruppo scherzavano sempre riguardo la sua idiozia, ma lo rispettavano tutti. Era bello poter continuare a riderne nonostante tutto quello che era successo, le ricordava com'era prima.

«Rufy non è il tipo che porta rancore a nessuno e non vedo perché dovrei farlo io. Certo, sono piuttosto sconvolto dalla cosa.» Anche perché continuava a non riuscire ad immaginarsi Rufy con una donna. O con un uomo, ovviamente. Per altro non aveva idea di come comportarsi con i bambini, né se fosse positivo per Junior che fosse comparso improvvisamente nella sua vita.

«Avevo provato a cercarti per dirtelo, ma ho trovato solo il Viceammiraglio Garp» disse Usop. «Parevi sparito.»

In un certo senso, lo era. «In guerra ho perso praticamente tutte le persone a cui tenevo. Avevo bisogno di assimilare quello che era successo.»

«E ci sei riuscito?» domandò Nami gentilmente, ma sottraendogli la bottiglia di liquore prima che se ne servisse un terzo bicchiere pieno.

«Un po' sì, ma non per merito mio.» Prese un respiro profondo. «C'è un altra persona che deve sapere di Junior» affermò. «Sabo.»

I due lo guardarono, poi Nami spalancò la bocca e infine fece un sorriso soddisfatto. «Rufy aveva ragione!»

«Sì, gliel'ho già detto e credo che abbia gongolato parecchio» annuì Ace, accennando ad un piccolo sorriso. «L'ho incontrato per caso in Francia e... Ho scoperto che era lui il ragazzo biondo della resistenza il giorno che tua madre è stata uccisa.» Era stato diretto, ma lei gli era sembrata abbastanza forte da sopportarlo. «Ero venuto a dirti questo.»

Forse erano state troppe informazioni contemporaneamente, perché Nami sembrò cedere per un attimo, ma subito dopo riprese il controllo. «Davvero?» domandò in un sussurro, ma era una domanda retorica. «È come se fossimo tutti collegati...»

«Già.» Ace annuì. Trovava incredibile che Bellmere venisse da Mortrée, ma adesso che Nami era improvvisamente diventata la madre di suo nipote, le coincidenze del legame fra le loro due famiglie diventava assurda. Era quasi destino. «Nojiko mi ha detto che fai la giornalista, per cui pensavo che magari poteva interessarti la testimonianza diretta.»

Nami lo stava fissando intensamente. «Sabo... Era nella resistenza francese?»

«Oh, molto di più. Era nella France Libre, dal '40» rispose Ace con un sorriso. Era estremamente orgoglioso di entrambi i suoi fratelli.

«Credi che sarebbe disposto a concedermi un'intervista? Vorrei davvero scrivere articoli da diversi punti di vista.»

«Non ho alcun dubbio a proposito.» Sabo era stato elusivo nei confronti dei giornalisti, ma quando avrebbe scoperto che era la madre di suo nipote non avrebbe saputo dire di no. Francamente voleva essere lui a dirglielo, sarebbe stato divertente vedere la sua faccia. «Anzi, saresti interessata anche alle mie foto? In realtà te le avrei fatte vedere comunque, ma adesso sei quasi una di famiglia e...» Rimase un attimo incerto: Nami si era già costruita una famiglia per conto suo, non aveva certo bisogno di lui che spuntava improvvisamente nella sua vita.

Lei allungò la mano verso la busta senza alcuna incertezza. «Rufy non la smetteva mai di parlare dei suoi fratelli e della loro bravura con le fotografie» spiegò. Le prese e le sparse lungo tutto il tavolo, che era stato liberato dalla quantità di piatti che c'erano quando era entrato. Sia lei sia Usop rimasero a fissarle a lungo, senza dire una parola.

«Sono fantastiche!» esclamò infine Usop, senza riuscire a trattenere l'entusiasmo. «Ehi, qui ci sono anche io.»

«Le dobbiamo pubblicare assolutamente» affermò Nami. «Il mio capo al giornale te le pagherà a peso d'oro, me ne assicurerò personalmente.»

«No, no» scosse la testa Usop. «Sono sprecate per un giornale, specialmente uno così piccolo. Dobbiamo organizzare una mostra.»

«Pensi che sia possibile?»

«Certo, dobbiamo solo trovare un posto giusto.» Recuperò un enorme foglio dalla credenza ed iniziò a disegnare una possibile pianta di come esporre le foto e anche di come fare i cartelloni pubblicitari.

Ace era rimasto stupefatto dalla calda accoglienza delle sue foto e dato che i due parevano parlare di loro come se lui non ci fosse, li lasciò fare, contagiato dal loro entusiasmo. Vedeva bene perché Rufy li avesse scelti e perché gli volessero ancora così bene. Si sentiva come se fosse stato lui, a essere appena stato adottato da una nuova famiglia.

Una mostra... Poteva funzionare. Anzi, avrebbe funzionato. In un modo o nell'altro sarebbe riuscito a mantenere la promessa che aveva fatto a Rufy tanti anni prima e quello poteva essere il primo scalino. Era sopravvissuto e doveva trovare una ragione per motivarlo.

«Ci vorrebbe una foto d'impatto, per la pubblicità» stava dicendo Usop. «Una davvero forte.»

«Questa.» Ace non esitò nemmeno per un istante a porgergli quella che aveva scattato a Brest, al corpo di Marco sdraiato ai suoi piedi. Era l'ultima cosa che si ricordava di lui e aveva dovuto immortalare quel momento.

Usop deglutì dalla forza di quell'immagine, poi parve riconoscere l'uomo nella foto. «Questo è...»

«Il Colonnello Marco. Noi due stavamo assieme.» Non aveva avuto più alcuna esitazione nel dirlo: era davanti alle due persone più importanti della vita di Rufy oltre ai suoi fratelli, ed era davanti ad una coppia interraziale che sicuramente non l'avrebbe giudicato. Le lacrime tornarono a scorrergli lungo le guance. Era in famiglia.

Nami e Usop lo guardarono con gli occhi lucidi, poi giunsero contemporaneamente alla stessa conclusione. «Allora questa dev'essere l'immagine simbolo della mostra.»
 
Parigi, 4 Luglio
 
L'ufficio era ormai vuoto quando Koala spense le luci e chiuse a chiave la porta. Era sempre l'ultima ad andarsene, ma era anche quella per cui quel lavoro era una questione personale. I suoi colleghi le dicevano spesso di prenderla più con calma, perché a livello emotivo poteva essere devastante. E lo era, ogni singola volta che doveva comunicare ad una famiglia ebrea che i loro parenti erano stati confermati come deceduti.

Aveva iniziato quasi per caso, con l'intenzione di ritrovare Shirley, Kaime e le altre e comunicargli cos'era successo ai loro familiari, poi aveva capito che era quello che voleva fare, cercare per quanto possibile di dare una speranza alle famiglie. La sua più grande soddisfazione era poter comunicare di averli ritrovati ancora vivi e ciò la compensava per tutti gli altri fallimenti.

Anche i suoi colleghi erano motivati da nobili scopi, ma non avevano vissuto le sue stesse esperienze, cosa che per lei trasformava il lavoro in una missione di vita. Anche per questo non aveva problemi a stare a lungo da sola in ufficio.

Quel giorno però aveva fatto effettivamente tardi: aveva promesso a Sabo che si sarebbero visti per cena e invece era rimasta ben oltre l'orario per terminare una ricerca. Per questo motivo quasi non si accorse della figura che la stava aspettando ai piedi della scala del palazzo, nella penombra.

«Robin...» esalò, quando l'ebbe riconosciuta e si fu tranquillizzata.

«Non volevo spaventarti» disse lei con gentilezza.

«No, non preoccuparti, ero solo sovrappensiero.» Koala non la vedeva dal '44, quando avevano combattuto assieme per conquistare il ponte. Non aveva un suo contatto e non era riuscita a rintracciarla. «Come stai? È passato molto tempo.» Era felice di vederla: la stimava moltissimo come donna e come persona.

«Tutto bene. Avevo una cosa da fare a Parigi e ho pensato di passare a salutarti prima di ripartire.»

Koala sorrise. «Hai notizie di Dragon e degli altri?»

«Stanno bene. Hanno le loro cose da fare, come sempre.» Poi aggiunse: «Spero che non ve la siate presa perché sono spariti così, è il loro lavoro».

«Sì, l'avevamo capito» annuì Koala. Lei e Sabo avevano persino smesso di chiedersi esattamente per chi o che cosa lavorassero, li avevano presi per delle persone che combattevano per la fazione che ritenevano nel giusto. E soprattutto che era meglio averli dalla propria parte. «Resti a cena con noi? Io dovevo andare da Sabo e penso che anche a lui faccia piacere rivederti.»

«No, mi dispiace, ma grazie. Devo ripartire subito.» Robin aveva lo sguardo serio, raramente sorrideva. «In realtà, sono venuta qui per chiederti di venire con me.»

«Intendi... Tipo in missione?» domandò Koala stupita.

«Esatto.» Robin annuì. «So che dopo la liberazione di Parigi hai dovuto lasciare l'esercito, purtroppo è ancora così che funziona, ma come spie le donne sono estremamente utili. E ho visto di cosa sei capace.»

Koala rimase immobile. Era lusingata, ovviamente, che Robin avesse pensato solo a lei. E tentata, anche. Voleva vivere in un mondo dove l'essere una donna non veniva considerato un problema ed era sempre rimasta stupefatta dai risultati di Robin. «Mi piacerebbe, davvero» rispose. «Ma sto facendo un lavoro qui che sento davvero mio e non voglio lasciarlo.»

Robin la fissò. «Ne sei sicura?»

«Sì.»

«Allora non insisterò.» Robin sorrise, uno dei suoi rari sorrisi che la facevano sembrare una persona totalmente diversa da come appariva. Koala era onorata di essere riuscita a vederlo in più occasioni. «Ti auguro solo il meglio, qualunque cosa tu abbia deciso. E naturalmente credo che tu stia facendo un lavoro molto importante.» Robin scomparve nella notte com'era arrivata, e Koala si limitò a fissare per un po' il punto dove l'aveva vista, era sicura, per l'ultima volta, con rammarico, ma con la consapevolezza di aver preso la decisione giusta. Molte cose erano cambiate durante la guerra e su quelle lei aveva costruito la sua vita.

Inforcò la sua bicicletta e si diresse all'Île Saint-Louis: lei e Sabo condividevano l'appartamento di famiglia che lui stava facendo ristrutturare e sistemare per adibirlo a sua residenza fissa, perché sentiva di dover avere una casa all'altezza del suo status di uomo politico. Koala l'aveva sempre vista come un magazzino per le armi, ma da quando aveva iniziato a recuperare il vecchio splendore ne era quasi spaventata. Dopo anni a rape e pancetta, qualsiasi lusso le pareva strano.

Lo trovò seduto in una delle future stanze da letto, che stava venendo riverniciata in quel periodo e in cui si avvertiva un forte odore di pittura fresca. Sabo aveva deciso di far restaurare gli affreschi nelle sale di rappresentanza e di dare semplicemente un colore unico in quelle private, per risparmiare, per cui i muri di quella avrebbero avuto solo una passata di bianco.

Quando la sentì entrare non si voltò nemmeno, ma indicò con il dito un angolo della parete non ancora tinteggiata. Qualcuno, molto tempo prima, vi aveva scritto sopra con l'inchiostro nero. Da quello che poteva leggere, erano parole inglesi.

Si sedette di fianco a lui. «Questa è opera tua» disse.

«Mia e di Ace e di Rufy» rispose lui. «Infatti è in inglese perché Rufy non ha mai imparato il francese. Sono insulti nei confronti di Stelly, per la maggior parte.»

«Li lascerai così?»

«Forse. Ci sto pensando.»

Ora che a Koala veniva in mente, non avevano parlato di cosa sarebbe successo una volta che la casa sarebbe stata pronta. Dovevano ancora arredarla, in ogni caso, quindi non si era preoccupata di pensare a una divisione delle stanze. E in fondo quella non era nemmeno casa sua, era solo un'ospite. Forse avrebbe potuto pagare un affitto.

«Vado in America» annunciò Sabo, prima che lei avesse il tempo di accennare qualsiasi cosa.

«Oh.» Era una cosa strana, così all'improvviso. Non conosceva la sua famiglia e sapeva che lui ne parlava con termini non entusiastici, ma forse vivere in quella casa gli aveva fatto tornare dei ricordi. «C'è un motivo particolare?»

«Ace mi ha chiamato poco fa, sta organizzando un'esposizione per le sue fotografie» le raccontò. Continuava a tenere lo sguardo fisso sulla parete di fronte a sé. «Ci voglio essere.»

«Be', sarà una bella cosa» mormorò Koala. C'era qualcosa che non andava, lo sentiva, ma non sapeva cosa. Non era successo nulla di particolare quella mattina.

«Vuoi venire con me?» le chiese gentilmente lui.

Lei scosse la testa. «Non posso lasciare il lavoro proprio adesso che stiamo ottenendo dei risultati.»

«Immaginavo, ma valeva la pena chiedertelo.»

«Comunque voglio un resoconto completo.»

«Certamente.» Rimasero nuovamente in silenzio. Koala si chiese se non era il caso di dirgli di Robin, giusto per rallegrare un po' l'atmosfera e farlo parlare, quando fu Sabo a riprendere l'argomento: «Ace mi ha detto anche un'altra cosa».

«Positiva o negativa?»

«Positiva, credo...» Sabo sembrò pensarci. «Ti ricordi che ci ha parlato delle figlie di Bellmere?» Koala se lo ricordava bene, era rimasta davvero sorpresa dal fatto che Ace le conoscesse. Era come se fossero tutti collegati. E naturalmente non avrebbe mai più potuto dimenticarsi quella scena, né lo sguardo sconvolto di Genzo quando le avevano detto che Bellmere era morta. «Be', apparentemente Rufy stava con una delle due e ci ha pure fatto un figlio prima della guerra.»

Koala lo fissò per un attimo per assimilare la notizia. «Hai un nipote!» Sabo non aveva mai parlato di Rufy ed Ace in termini diversi da “fratelli” e benché lei sapesse che non lo erano, li considerava tali comunque. Era una cosa che Sabo aveva sempre apprezzato di lei.

«Già.» Sabo fece un debole sorriso. «Voglio incontrarlo. Voglio vedere la mostra. Non voglio più perdermi nulla.» Aveva le lacrime agli occhi, ma le tratteneva più che poteva. «Rufy è morto senza nemmeno sapere che ero vivo... Be', l'ha sempre sperato, ma non ha avuto da me che una stupida lettera scritta male. Non voglio che ricapiti mai più.»

«Devi andare.» Koala sapeva benissimo com'era perdere qualcuno di fondamentale per la propria vita, e anche com'era non averlo potuto salutare un'ultima volta. «Non ti preoccupare di niente, anche ai lavori ci bado io.»

«Grazie.» Sabo aveva sempre potuto contare su di lei. Allungò il braccio e le strinse la mano. «Lo capisco che tu non possa venire con me, però poi vorrei passare il resto della mia vita con te.»

«Cosa?» Koala rimase a fissarlo per un attimo. «È una proposta?»

«Non è esattamente una proposta...» si schernì lui.

«Oh, no, lo era chiaramente» ribatté lei. Adesso era più divertita che altro dalla sua espressione imbarazzata. «Ti tiri indietro?»

«No, è che... Oh, sei impossibile!» sbottò Sabo alzandosi di scatto. Lo vide prendere un respiro profondo, prima di tornare a voltarsi verso di lei. «Siamo stati assieme per così tanto tempo che non riesco ad immaginare un futuro in cui le nostre strade si separeranno. Però adesso non abbiamo più un vero motivo per stare assieme, non c'è più la guerra e ognuno di noi ha la sua vita. Semplicemente non voglio che questo finisca.» Oramai aveva il viso più rosso della sua cicatrice. «Niente, te lo volevo solo dire prima di partire, metti che muoio in un incidente aereo.»

«Che cretinata! Perché dovrebbe accadere?»

«Be', sono cose che succedono!»

«Certo che sarebbe ben stupido essere sopravvissuto a sei anni di guerra e morire così.»

Sabo incrociò le braccia. «In effetti sì, sarebbe una morte idiota. Nel caso, inventati che ero già morto e un sosia mi aveva sostituito.» Risero entrambi, ma Koala aveva capito il suo punto di vista, anche se ci aveva scherzato sopra. Era importante non avere più rimpianti e dire quello che era importante dire, in un mondo dove sarebbero potuti essere uccisi ogni giorno.

«Sono incinta.» Non aveva risposto direttamente a quello che lui aveva detto, anche perché Sabo non sembrava voler davvero una risposta, ma solo esternare i suoi sentimenti.

Lui la fissò. «Ma siamo sempre stati attenti...» Adesso era impallidito: era piuttosto comico vedere la gamma dei colori che il suo viso poteva assumere.

«Non sono infallibili, a volte succede» commentò Koala.

«Lo terrai?» Sabo non aveva idea se per la religione ebraica l'aborto fosse considerato un tabù come per il cristianesimo, ma a parte quello non sapeva che cosa ne pensasse lei. Quella era la prima occasione in cui parlavano effettivamente del loro futuro assieme e decisamente non si aspettava una cosa del genere.

«Se dico di sì?»

«Avremo un bambino.» Sabo si sedette quasi abbandonandosi a fianco a lei. «In un giorno sono diventato zio e padre. Caspita.» Poi sorrise. «Adesso lo sai che ti tocca restare con me, vero?»

«Be', non ti credere, potrei sempre scappare e partorire in segreto e dire che il padre è morto in guerra» annuì Koala convinta.

«Poi ad Ace glielo spieghi tu» ribatté Sabo. «È diventato iperprotettivo di recente. Be', in realtà lo è sempre stato, ma fa ridere ora che ho vent'anni e passa.»

Lei rise di cuore. Ace le piaceva, non aveva pregiudizi di alcun tipo nei suoi confronti, era simpatico e avrebbe dato un braccio per le persone a cui teneva. Non era rimasta per niente stupita che avesse quel carattere, conoscendo Sabo. In ogni caso, stava scherzando e sapeva che non c'era nemmeno bisogno di spiegarlo. Anche lei voleva stare con lui: non si erano mai preoccupati di innamorarsi o cose del genere, erano già diventati una coppia senza nemmeno rendersene conto, per questo era stato sempre tutto così facile fra di loro. Diventare parte della sua famiglia era quasi ovvio: era un gruppo strano, composto solo da due fratelli che non erano nemmeno parenti alla lontana, e adesso dal figlio del fratello che avevano perduto, ma era diventata anche la sua. D'altronde, non le era rimasto nessun altro.

«Puoi piangere, se vuoi» le disse Sabo improvvisamente.

«Perché dovrei?»

«Dopo la morte di Fisher Tiger, non te l'ho mai visto fare» rispose Sabo. «Pensavo fosse perché le cose passavano, dopo un po', quando si aveva dell'altro da fare. Adesso so che non passano affatto.» Dopo due anni, faticava ancora ad accettare la morte del fratellino. Ritrovare Ace gli aveva dato una gioia che non pensava di poter provare ancora, ma ciò nonostante non riusciva ancora a sentirsi meglio. Invidiava la forza d'animo di Koala, che invece aveva stretto i denti in ogni occasione, mentre a lui veniva da piangere anche per delle stupide scritte sul muro.

Lei si strinse a lui e nascose il viso sul braccio. «Sono gli ormoni della gravidanza. Dovrai sopportarli per un po'.» Poteva anche lasciarsi andare, in quel momento.

Sabo le passò il braccio sulla spalla. «Quanto vuoi.»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 1956 - Epilogo ***


1956




 
 
Parigi, 1 Giugno
 
«Sono un po' teso» ammise Sabo a Jinbe, mentre si risistemava la cravatta.

«Avresti potuto chiedere a Koala di restare.»

«Ho detto che sono teso, non che ho bisogno di una baby-sitter» ribatté lui, scoccandogli un'occhiataccia. «E in ogni caso non potevo chiederle di saltare il lavoro per una cosa del genere.»

Jinbe accennò un sorriso. «Andrà tutto bene. Non c'è niente che non vada in questo accordo.»

«Lo spero.» Sapeva che il lavoro svolto da Jinbe fino a quel momento era stato esemplare, ma se erano dieci anni che stavano dietro a quella causa non era certo per colpa sua, ma per l'ostruzionismo della sua famiglia. La conosceva abbastanza da capire che il rischio che si opponessero anche questa volta era alto. Però voleva davvero concludere quella storia una volta per tutte.

Sentì il campanello: erano arrivati. Scese al piano di sotto per aprire la porta lui stesso. Non li vedeva da sedici lunghi anni e non si poteva dire che si fossero salutati nel migliore dei modi. «Benarrivati» disse, con un sorriso tirato.

Sia suo padre sia sua madre erano invecchiati, ma cercavano di non dimostrarlo vestendosi elegantemente e truccandosi. Parevano essere diventati la caricatura di loro stessi. Stelly era ora la copia di suo padre: più panciuto e più ostentato nel modo di vestirsi. In pratica, erano diventati degli estranei.

«Che bell'uomo che sei» commentò sua madre. Il tono era forzato, sembrava che l'avesse detto perché sentiva che era la cosa più educata da dire, non perché lo pensasse davvero. E a Sabo non era certo sfuggita l'occhiata che i tre avevano dato alla sua cicatrice: dal vivo faceva tutto un altro effetto.

«Grazie. Vi vedo bene» rispose comunque, per non iniziare la conversazione subito in maniera aggressiva. «Prego.» Gli fece cenno di entrare e poi chiuse la porta.

«Avresti almeno potuto farci introdurre da un cameriere» commentò suo padre, che si era diretto con passo sicuro verso il piano superiore senza nemmeno attenderlo.

«Qui non ci sono camerieri» fu la risposta.

I tre si fermarono permettendogli finalmente di superarli solo sulla soglia dello studio, sorpresi dalla presenza di Jinbe, già accomodato al tavolo con i documenti preparati ordinatamente davanti a lui. «Questo è il signor Jinbe, il mio avvocato» lo presentò Sabo. Fece cenno alla sua famiglia di accomodarsi. «Posso offrirvi qualcosa?»

«Del brandy, anche se non mi aspetto che la qualità sia eccellente» rispose Stelly. Stava portando indietro la sedia per sua madre e sembrava seccato dal dover eseguire anche quel semplice gesto. «Non ci avevi detto che avremo bisogno di un avvocato. Certo sarebbe stato scomodo farlo venire dall'America, com'è stato scomodo per noi.»

«Talmente scomodo che hai prenotato due settimane di vacanza in Italia. Tua moglie e i bambini sono già a Roma, no?» domandò Sabo con un sorriso furbo, mentre gli versava il liquore. «A proposito, congratulazioni, mi hanno detto che tua moglie è di nuovo in dolce attesa.»

«Come lo sai?» Stelly lo fissava sospettoso.

«Ho un sacco di amici che sanno un sacco di cose» rispose Sabo sul vago. Aveva imparato da Dragon che le informazioni erano tutto, ma era importante anche non far sapere agli altri dov'era possibile reperirle. «Comunque non c'è bisogno di avvocati, Jinbe è qui solo per certificare la regolarità dell'atto.» Appoggiò un bicchiere davanti a suo padre e Outlook annuì per fargli segno che poteva versare anche a lui. Non stava però nascondendo il disgusto che provava all'idea che suo figlio non usasse un dipendente per fare qualcosa di così manuale.

«Hai riverniciato e arredato» commentò infine.

«Per forza, io vivo qui» rispose Sabo. «E poi era ridotta male, è stata usata come deposito di armi per la resistenza per anni.» Aveva deciso che avrebbe cercato di fare più riferimenti alla guerra possibili.

«Non mi piace.»

“Pensa quanto me ne frega” fu il suo pensiero, ma non lo disse. Doveva cercare di essere paziente, speranzosamente dopo non avrebbe avuto più a che fare con loro. Quindi lasciò la bottiglia di liquore sul tavolo e si sedette vicino a Jinbe.

Quest'ultimo allungò una copia del contratto verso di loro. «È come avevamo stabilito l'ultima volta» spiegò. «La casa di Parigi e lo Château d'Ô restano di proprietà del mio cliente, che né adesso né in futuro potrà vantare pretese su qualsiasi altra parte del vostro patrimonio.»

Stelly si impadronì della copia. Estrasse una lente d'ingrandimento e poi iniziò a leggerla con cura, come se si aspettasse che avessero inserito qualche cavillo minuscolo tra una lettera e l'altra. Outlook lo lasciò fare. Senza aggiungere una parola si alzò e cominciò a camminare a passi lenti nello studio, osservando ogni minima cosa con attenzione.

Sabo gli scoccò un'occhiata, ma cercò di non farsi innervosire da quell'atteggiamento. Suo padre l'avrebbe giudicato a priori, perché era quello che aveva sempre fatto. Lo studio era stato arredato con attenzione e l'aveva fatto cercando di rappresentare se stesso ed un luogo dove gli piaceva lavorare. Voleva che fosse accogliente. La cosa che gli piaceva di più erano i quadri che aveva scelto: tutte foto estremamente famose di Ace, che lui gli aveva firmato e regalato senza nemmeno chiedere un compenso. Ovviamente, erano le cose che Outlook aveva guardato con più disgusto.

«Mi pare che sia tutto regolare» affermò Stelly al termine della sua lettura. La voce aveva un tono sorpreso, come se si fosse davvero aspettato un qualche tipo di inganno. «Possiamo firmare senza problemi.»

Sabo prese la sua penna, per indicare che era pronto a farlo anche immediatamente, per primo.

«No» disse suo padre, che si era fermato davanti alla scrivania e gli dava le spalle.

Lui alzò gli occhi al cielo. «Qual è il problema, questa volta?»

«Cosa hai intenzione di fare con queste case?»

«Viverci?» Non capiva il senso di quella domanda. In realtà era qualcosa che faceva già da anni: quando aveva deciso di rimanere a Parigi per entrare in politica quell'appartamento era stata la soluzione più facile, era della sua famiglia e nessuno poteva reclamarlo, tranne le persone davanti a lui, che però abitavano negli Stati Uniti e parevano non essere interessati alla Francia.

«Da quello che vedo potresti vivere da qualsiasi parte, sembri fuori posto qui» commentò Stelly divertito.

«Già, è vero, in fondo sono io quello che alla prima avvisaglia di pericolo ha preso tutto quello che aveva e si è trasferito in America ignorando il proprio paese in guerra per farsi una nuova vita.» Si fermò un attimo, come se si fosse improvvisamente ricordato di una cosa. «Ah, no, è vero, siete stati voi.» Riservò a Stelly un sorriso conciliante. «Se non avessimo vinto la guerra probabilmente queste case sarebbero state sequestrate dai tedeschi, come qualsiasi altra cosa. E dato che non avete nemmeno contribuito un po' alla vittoria...» Allargò le braccia per indicare che la conclusione era ovvia.

Stelly era sul punto di protestare, ma Sabo alzò un dito per fermarlo. «Non ci provare: lo so che avete continuato a fare affari con i tedeschi fino a Pearl Harbor. Quello deve avervi dato davvero fastidio.»

«Ho ereditato queste case da mio padre» commentò Outlook. «E lui da suo padre. Non avrei problemi a lasciarle a mio figlio, naturalmente» gli scoccò una lunga occhiata penetrante, «se facesse ancora parte della famiglia.»

Stelly afferrò di scatto la penna, quasi strappandola dalle mani di Sabo e firmò i fogli con foga. «Non abbiamo bisogno di lui, padre. Non l'abbiamo mai avuto. Hai detto che sono un fantastico vice-presidente.»

«Non ho alcun interesse ad entrare nei vostri affari.» Sabo fissò quello scarabocchio blu con soddisfazione, poi appose la sua firma con calma.

«Penso che potremo esserci utili a vicenda» rispose Outlook. «Sei un politico e i politici hanno bisogno dell'approvazione delle aziende e magari anche di soldi per le campagne elettorali.»

«E naturalmente le aziende hanno bisogno di leggi ad hoc.» Sabo fece un sorriso e scosse la testa. «Non sono in politica per quello.»

Outlook tentò di cambiare approccio. Prese la foto che era sulla scrivania: anche quella di Ace, ma non di quelle famose. Raffigurava lui e Koala sulla riva della Senna, con i loro due bambini. L'avevano scattata l'anno prima, durante l'estate. «Tua moglie?» Il tono era affettato. Sapeva bene che per lui, così com'era stato per Stelly, avrebbe voluto un matrimonio politico e non con un'illustre sconosciuta.

«No.»

«Che vuol dire no?» Outlook pareva essere preso in contropiede per la prima volta.

«Non siamo sposati» spiegò allora Sabo, con pazienza. «Abbiamo due religioni diverse e non volevamo scendere a compromessi per accontentare l'altro, avrebbe rovinato il nostro rapporto.»

«Avresti dovuto convincerla a convertirsi.»

«A parte che non avrei mai potuto farlo, non ne avevo il minimo interesse.»

«Ma è la madre dei tuoi figli!» Sua madre pareva scandalizzata e aveva totalmente perso la sua compostezza. «Cosa dirà la gente!»

«Danno tutti per scontato che ci siamo sposati durante la guerra e che il certificato sia andato perso nei bombardamenti» rispose Sabo. «Non ci siamo mai preoccupati di correggerli. E francamente non ce n'è mai importato niente.» La vide impallidire e rimanere ancora più sconvolta, fino ad allungare la mano per prendere il bicchiere ancora pieno del marito e berlo tutto d'un fiato.

«Ti rovinerà la carriera» esclamò Stelly. «Oh, se te la rovinerà. Non voglio niente di mio associato a una cosa così scandalosa.»

«Be', allora la cosa migliore è che tu non dica nulla» commentò gentilmente una voce alle sue spalle.

Sabo aveva alzato lo sguardo verso la soglia e poi aveva allargato le labbra in un ampio sorriso nel vedere Ace. Adesso si sentiva veramente rilassato. «Quando sei arrivato?»

«Poco fa, l'aereo era in ritardo.» Poi fissò nuovamente Stelly. «Anche perché non sarebbe bello andare a dire in giro i segreti degli altri, no? Insomma, pensa che brutto sarebbe se qualcuno dicesse ai giornali di certe transazioni non proprio legali delle tue aziende.» Se ne intendeva di queste cose, dato che il suo vecchio commilitone Law aveva un patrigno che controllava una buona parte della malavita della costa est.

Con Sabo, Stelly aveva sempre tenuto un atteggiamento di superiorità. Di fronte ad Ace, i suoi occhi esprimevano solamente odio, forse perché una volta aveva sperato di essersi vendicato e di aver raggiunto il successo prima di lui, ma adesso Ace era un eroe di guerra e un fotografo famoso, decisamente più apprezzato di un vice-presidente che era in quella posizione per diritto ereditario. «Come sei entrato? Questa è una riunione privata!»

«Ho le chiavi» rispose Ace alzando le spalle. Trovava la domanda particolarmente stupida e non lo nascondeva di certo.

«Hai dato le chiavi di casa nostra ad un estraneo?!» Si era voltato nuovamente verso Sabo e lo fissava scandalizzato.

«Ho dato le chiavi di casa mia a mio fratello» lo corresse gentilmente Sabo. «Non ci vedo nulla di strano.»  Si alzò e si avvicinò a Ace, che nel frattempo  era entrato nello studio, per  abbracciarlo. Non si vedevano da qualche mese, dato che lui era stato impegnato per un servizio fotografico in Italia, in occasione dell'inizio dei lavori per la nuova autostrada.

«Resto solo fino all'inaugurazione, poi devo partire per la Svezia per le Olimpiadi» gli disse. «Spero di riuscire a tornare presto, però. Com'è la situazione?»

«Ci sono stato una settimana fa, era già tutto pronto» rispose Sabo. «Sarà una bella cerimonia e il posto è splendido. Certo, resta un cimitero, ma almeno è curato.»

Avevano iniziato a parlare come se fossero soli nella stanza e questo ovviamente irritò Stelly oltre misura. «Non è tuo fratello! Non ha alcun diritto su questa casa!»

Sabo alzò gli occhi al cielo, chiaramente seccato da quell'interruzione. «In realtà ne ha più di voi, ma soprassediamo» rispose. Aveva deciso che aveva esaurito la sua pazienza e la presenza di Ace gli dava più forza. «Mi avete chiesto perché voglio tanto queste case. Bene, il primo motivo è perché me le sono guadagnate.»

Accennò un'occhiata ad uno dei quadri, che raffiguravano un edificio crollato nel centro di Brest, in cui si potevano vedere ancora gli interni a metà delle case. «Io ho protetto la Francia e quello che ne è conseguito mentre voi eravate al caldo e al sicuro.»

Allungò il braccio per indicare la sala al di là dello studio. «Io e Koala abbiamo fatto l'amore per la prima volta là, per terra, su delle coperte sporche, il giorno dopo la liberazione di Parigi. A Château d'Ô ci abbiamo vissuto, quando ci nascondevamo dai tedeschi assieme al resto della resistenza ebrea. Queste case sono mie. I miei figli ci vivranno sapendo che cos'è la guerra e perché bisogna impedire che accada di nuovo.»

Ace mosse leggermente le labbra in un sorriso ironico. «Tu al massimo potresti usarle per insegnare ai tuoi figli come si riesce a non cadere nel lago. Anzi, no. Non ne sei mai stato capace.»

«Fosse per me avrei anche evitato di contattarvi dopo la guerra, ma c'è un altro motivo per cui l'ho fatto.» Sabo fece un sorriso soddisfatto in direzione di Ace e poi terminò: «Per farvi incazzare».

Tornò vicino al tavolino, prese i fogli del contratto e le penne e le pose sulla scrivania, vicino a suo padre che non si era mosso, né aveva appoggiato la foto che teneva ancora in mano. «Questa è la miglior offerta che potrete avere, oppure cercherò con ogni sistema di prendermi la parte dell'eredità che mi spetta al solo scopo di darvi fastidio.»

«Papà, firma.» Quello di Stelly era quasi un ordine. «Te ne pentirai, il giorno in cui ti serviranno soldi. Ed io non ti darò nemmeno un centesimo.»

Sabo gli rivolse un sorriso condiscendente. «Ho vissuto per sei anni a carne cruda e rape, credimi quando ti dico che non me ne faccio nulla dei tuoi soldi.»

«E poi probabilmente farà fallire l'azienda alla prima occasione» aggiunse Ace divertito.

«Non ho bisogno nemmeno di voi come famiglia, ne ho già una.» Sabo tornò a rivolgersi a suo padre. «Ho mio fratello.» Indicò Ace, che rispose con un sorriso soddisfatto. «Ho Koala e i nostri due figli, che voglio tenere il più lontano possibile da voi. Ho mio nipote, il figlio dell'altro mio fratello, con sua madre. Ah, c'è anche il suo nuovo marito con la loro figlia. Ti ho accennato al fatto che è di colore e che sta lavorando con Martin Luther King?»

Ace si stava trattenendo a malapena dal ridere. Il viso dell'intera famiglia Outlook era una maschera a metà fra il disgusto e l'incredulo, laddove Sabo non era mai apparso più soddisfatto. E poi c'era Jinbe, che faceva davvero fatica a mantenersi serio. Alla fine prese un sospiro profondo.

«Quindi hai in famiglia due figli illegittimi fuori dal matrimonio, per di più con un'ebrea, e una coppia interrazziale con due bambini da due padri differenti.»

«E un fratello omosessuale» aggiunse Ace. «Vuoi farmi passare per l'unico normale?»

«Giusto» annuì Jinbe. Aveva un atteggiamento serio, ma era chiaramente divertito. «Ditemi se non è la famiglia migliore con cui io abbia avuto a che fare.» E lo pensava davvero, l'aveva pensato da quando aveva visto Sabo e Koala stringersi la mano il giorno della liberazione di Parigi. Certo, erano poco convenzionali, scandalosi anche, e rappresentavano tutto ciò che la società stava rifiutando.

Erano il futuro così come avrebbe dovuto essere.

Outlook sbatté a terra la foto con forza, distruggendone il vetro, quindi afferrò i fogli e li firmò con una foga da quasi bucare la carta. Prese la sua copia. «Andiamo.» Lasciò la stanza a grandi passi, immediatamente seguito dagli altri due, senza che nessuno si preoccupasse di salutare.

Ace si avvicinò alla scrivania. Sabo aveva aspettato che la sua famiglia uscisse prima di accasciarsi leggermente e tremare. «Tutto bene?»

«Ho salutato per l'ultima volta molte persone negli scorsi anni e sono morto dentro ogni volta.» Poi alzò lo sguardo: sorrideva e gli occhi gli brillavano. «È la prima volta, finalmente, che sono contento di averlo fatto.»
 
 
 
Colleville-sur-Mer, 6 Giugno
 
Non gli avevano detto che avrebbe dovuto tenere un piccolo discorso, il che non rendeva le cose semplici perché non si era preparato nulla da dire. Aveva quasi pensato che fosse un tentativo di metterlo in imbarazzo davanti al mondo intero, ma poi aveva capito che era un modo per riconoscere il suo impegno nella costruzione di quel cimitero.

Guardò la folla davanti a sé e poi la fila di lapidi bianche a forma di croce o di stella che si perdevano in lontananza, chiaramente visibili sul perfetto prato verde.

«Non ho preparato un discorso perché nessuno mi aveva detto che dovevo farlo» cominciò, dopo aver preso un lungo sospiro. «Normalmente siamo più organizzati, giuro. Se dirò qualche strafalcione perdonatemi e fate finta di niente. Parlo soprattutto di quella giornalista là con i capelli rossi che sicuramente scriverà tutto.»

Nami gli scoccò un'occhiata di fuoco, prima di tornare a concentrarsi sul suo blocco appunti, mentre tutti si fissavano a guardarla, chiedendosi se non fosse una persona famosa. «Taci e prosegui!»

Sabo pensò che difficilmente avrebbe potuto continuare il discorso se doveva stare zitto, per cui si limitò a sorridere appena. «Qualunque cosa potrei dire riguardo a questo luogo sarebbe banale e ridondante ed altre persone l'hanno già fatto prima di me» proseguì. «Quindi parlerò di me personalmente. A Omaha Beach ho perso un fratello. Non era davvero mio fratello, ma lo consideravo tale. Ora è sepolto qui assieme a tutti gli altri.» Fece una pausa per lasciare che ognuna delle persone davanti a sé si ricordasse dei propri defunti. «Mio fratello si era arruolato per venire ad aiutare me, in Francia, e per questo motivo ha perso la vita. È una cosa che non potrò mai perdonare a me stesso.» Lo sguardo si spostò sulle vere celebrità di quella festa, il presidente francese Pompidou e il presidente americano Eisenhower. «Anche se non ero stato io a voler entrare in guerra, mi ci ero solo ritrovato. È anche per questo che sono entrato in politica: per evitare che qualcun altro possa provare lo stesso senso di colpa che sto provando io.» Alzò la voce. «Ed è per questo che volevo qui questo cimitero: per ricordarci delle vite che sono state date per la salvezza di altri e per ricordarci costantemente che siamo in debito con loro. E che l'unico modo per ricambiare è non farlo accadere ad altri.»

«È stato un bel discorso» gli disse Ace, una volta che Sabo l'ebbe raggiunto, alla fine della cerimonia d'inaugurazione, davanti alla tomba di Rufy. Non era più una semplice croce di legno, ma in marmo perfettamente scolpita, con la data della morte e l'appartenenza alla 29° Divisione ben in vista sotto il suo nome.

«Non so, alla fine mi pare di aver detto le banalità che volevo evitare.» Sabo però non aveva saputo cos'altro dire, se non la verità. Non si sarebbe mai perdonato la morte di Rufy, né l'avrebbe mai potuta dimenticare pur andando avanti con la propria vita. Poteva solo cercare di proteggere gli altri da un destino che conosceva come tremendo.

«Però è stato divertente, sembrava qualcosa che Rufy avrebbe potuto tirare fuori» rise Ace.

«L'idea era quella.»

Ai piedi delle croci erano stati deposti molti fiori, da tutti i parenti che erano riusciti ad essere presenti per l'inaugurazione, ma forse quella di Rufy era una delle più decorate. Ace ne aveva approfittato per rivedere dei vecchi commilitoni, tra cui anche dei Colonnelli venuti per l'ultimo saluto a Marco e a Newgate.

«Come ti senti?» gli chiese quindi Sabo. Era l'unico che era rimasto da solo, fedele al suo lavoro come fotografo, che non gli permetteva di sistemarsi in un solo luogo, e alla famiglia che Sabo e Rufy avevano creato.

«Non riuscirò mai a capire ed accettare di essere sopravvissuto, rispetto ad altri» ammise. «Però ci posso convivere.»

«Zio Ace! Zio Sabo!» Junior era cresciuto e a dodici anni assomigliava davvero molto a suo padre, anche se certe espressioni e la furbizia negli occhi erano di Nami. Dietro di lui si scapicollavano i due figli di Sabo, che avevano rispettivamente dieci e sette anni. «È vero che una volta siete stati rapiti e papà vi ha salvato?»

«Allora, innanzitutto è stato lui che si è fatto rapire per primo e noi siamo dovuti andarlo a cercare» precisò Ace, facendo un gesto con la mano che indicava che non avrebbe mai accettato una spiegazione dei fatti diversa da quella.

«Ma poi è stato papà che ha tirato fuori tutti dai guai, no?» incalzò Junior.

Sabo annuì. «In effetti sì, è stato lui a chiamare aiuto e a farci ritrovare.»

«Ve l'avevo detto!» esultò Junior, riferendosi agli altri due. «Mamma, avevo ragione io!»

«Se non si fosse fatto rapire lui per primo, non ci sarebbe stato bisogno di salvarci!» esclamò Ace, ma era troppo tardi perché i tre bambini erano già corsi via. Sabo rise, mentre li seguiva con lo sguardo. Nami e Koala lavoravano assieme da qualche anno per ritrovare i dispersi degli altri eserciti, non più solo gli ebrei, ed erano quindi impegnate in una fitta conversazione. Usop era  separato da loro, a parlare con gli altri soldati sopravvissuti del suo battaglione e a presentare a tutti la figlia di cinque anni, di cui andava orgogliosissimo e di cui raccontava molte più cose di quelle vere.

A Sabo tornò in mente l'espressione sconvolta di suo padre quando gli aveva descritto la sua famiglia, ma lui non avrebbe potuto chiedere niente di meglio. «Chi ha dato a Junior il cappello di paglia?»

«Il vecchio, l'ha trovato in camera di Rufy e ha pensato che fosse un regalo simpatico.» Per Ace era davvero difficile vederglielo indosso: adorava suo nipote, ma doveva continuamente ricordarsi che non era un sostituto del fratello.

«Hai mai avuto occasione di incontrare Shanks? Rufy ne parlava continuamente.»

Ace annuì. «Mi ha detto che era certo che Rufy sarebbe riuscito a rispettare la promessa che gli aveva fatto, per cui per lui andava bene così.»

Sabo pensò che comunque non c'erano particolari alternative e l'accettazione della perdita era l'unica cosa possibile. Forse Shanks era comunque orgoglioso di aver salvato un uomo che era diventato un eroe. Quindi rimase stupefatto quando Ace affermò: «Io invece penso finalmente di essere riuscito a mantenere la mia».

«Come?» Non sarebbe mai stato possibile fotografare Rufy sul podio olimpico.

«Be', ovviamente non è la stessa cosa» precisò immediatamente Ace. Aveva pensato per anni, mentre continuava a fare il fotografo, a come poter pareggiare i conti con Rufy. «Però penso di aver trovato qualcosa che vada bene lo stesso. Qualcosa che ha a che fare con una foto e con Rufy.»

Sabo lo guardò seccato. «Avanti, spara, mi stai facendo morire di curiosità.»

«Non è stato ancora annunciato, ma una mia fotografia ha vinto il premio della World Press Photo.»

«Davvero?» Era stato istituto da solamente due anni, ma era composto dai massimi esperti di fotografia al mondo ed era praticamente un marchio di qualità. «È fantastico!»

Ace frugò nel suo zaino e ne estrasse un pacchetto: la dimensione e la forma davano chiaramente l'idea che si trattasse di un portafoto. «Volevo che fosse questa foto a vincere, perché era l'unico modo per mantenere la promessa.»

«Hai fatto una copia anche per me?» capì Sabo, vedendo che gli stava porgendo il pacchetto.

«Certo. Tra tutte le mie, questa è quella che sicuramente devi avere.»

Sabo la aprì con mano tremante, perché si rendeva conto che si trattava di una foto molto importante. Rimase sorpreso quando la vide e per un attimo rischiò di farla cadere: raffigurava lui stesso, visto di spalle, sulla spiaggia di Omaha Beach, il giorno in cui si erano ritrovati per caso. Si era quasi dimenticato dell'esistenza di quell'immagine, perché Ace non gliel'aveva mai mostrata prima di allora, né l'aveva mai fatta esporre nelle sue mostre.

«È questa la foto che ha vinto il premio?» domandò, con voce tremante. Aveva la gola completamente bloccata. «La foto della promessa?» Non era giusto: quella foto avrebbe dovuto rappresentare Rufy, non lui.

«Sì, è l'unica adatta» annuì Ace. «Una mia foto. A mio fratello. Sulla spiaggia dove è morto l'altro mio fratello.» Non lo disse perché sentì che gli stavano venendo le lacrime agli occhi, ma quella fotografia rappresentava qualcosa di importante: non solo la perdita, ma anche la gioia di aver ritrovato quello che considerava perso per sempre. «Credi che vada bene?»

Sabo non sapeva se avrebbe ritrovato la voce per parlare, perciò si limitò a fissare l'immagine finché non sentì le labbra smettere di tremargli. «Credo che vada benissimo» affermò. «Essere su quella spiaggia, occuparmi di questo cimitero... Era un modo per salutarlo un'ultima volta, perché non c'ero riuscito di persona» ammise.

Nemmeno Ace aveva potuto farlo, perché era arrivato con due giorni di ritardo. «Ora è l'ultimo saluto anche per me.»

Si sedettero sull'erba perfettamente tagliata ed appoggiarono la foto contro la croce bianca, sopra i fiori di tutti i colori, e rimasero in silenzio finché gli altri non vennero a chiamarli. Allora si alzarono e si lasciarono la lapide alle spalle.

 
Fine
 
Akemichan parla senza coerenza:
Eh sì, alla fine siamo arrivati in fondo a questa storia. Devo dire di essere la prima a dispiacersene, perché è una storia a cui sono molto affezionata, che ho scritto con il cuore, su cui ho pianto e ho sudato per recuperare tutte le informazioni e di cui in generale sono molto soddisfatta, cosa che mi capita raramente. Mentre la pubblicavo mi sono venute in mente mille altre sottotrame che avrei potuto inserire, e chissà che un giorno non decida di riprenderci mano e allungarla, ma per ora questa è davvero la fine.
Il banner che vedete qui è di Starhunter, per il suo contest a cui ho partecipato con la storyline di Marco e Ace dell'anno 1944; l'ho adorato e ho voluto metterlo qui come cover conclusiva dell'ultimo capitolo. Che spero vi sia piaciuto e che rappresenti una degna conclusione per questa storia.
Devo ringraziare sicuramente Emmastar, perché non so se sarei riuscita a trovare lo stimolo giusto per scriverla senza il suo contest. Poi voglio ringraziare _Lady di Inchiostro_ che in pratica mi ha recensito ogni capitolo rendendomi felicissima con i suoi commenti; fightformanga1 che da quando ha scoperto la storia non ha mai mancato un capitolo ed è sempre stata puntualissima nel commentarmi; fenicerossa_00 che è stata la prima a commentare quando questa storia ancora non se la filava nessuno; sarathepooh, che è stata l'ultima arrivata ma mi ha commentato sempre; Kuruccha che ha iniziato a recuperare i capitoli pian piano commentandoli tutti; LysL_97 e Out_Jean che mi hanno lasciato commenti sparsi ma sempre graditi.
Spero di non aver dimenticato nessuno! Davvero, grazie a tutti per i commenti che mi avete lasciato, sono stata felicissima di riceverli e di poter continuare a pubblicare la storia per voi. Spero che la conclusione vi abbia soddisfatto :) E grazie anche a tutti quelli che hanno seguito silenziosamente tutti i capitoli. Lasciatemi un commento, se vi va, ma in ogni caso grazie anche solo per averla letta.
Ci rivediamo alla prossima con un'altra storia. Come al solito, potete trovarmi su blog, facebook, twitter, tumblr e ask. A presto! :)

 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2947057