Love School - La Scuola dell’Amore

di Cassidy_Redwyne
(/viewuser.php?uid=445821)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -•Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** -•Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** -•Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** -•Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** -•Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** -•Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** -•Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** -•Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** -•Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** -•Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** -•Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** -•Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** -•Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** -•Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** -•Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** -•Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** -•Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** -•Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** -•Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** -•Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** -•Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** -•Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** -•Capitolo 23 ***



Capitolo 1
*** -•Capitolo 1 ***




«Kia, dai, aprila!»

«Che aspetti?!»

«Aprila, dannazione!»

«Va bene, va bene» borbottai sbuffando, rigirandomi la busta fra le mani.

Infine era arrivata. La lettera che avrebbe sancito la mia ammissione al nuovo liceo.

Alzai gli occhi sui miei quattro amici, che parevano più emozionati di me, seduti in cerchio nel soppalco del fienile della fattoria.

Mio padre stava lavorando nei dintorni e, vedendoci in quella posizione che ricordava vagamente l'inizio di un rito satanico, ci aveva scoccato un'occhiata perplessa, ma si era saggiamente astenuto dal fare commenti. Aveva solo spostato i capretti in un altro recinto, così, per sicurezza.

Camila era seduta in braccio a George e si dimenava in preda all'emozione, mentre sul volto di lui si delineavano smorfie più sofferenti. Fortunatamente lei non poteva vedere la sua faccia o gliele avrebbe cantate, rendendo l'espressione dolorante che in quel momento il mio amico aveva stampata in faccia il ritratto della felicità.

Leo era seduto accanto a loro a gambe incrociate, con gli sbarazzini capelli neri che gli arrivavano fin sugli occhi, ma che non riuscivano a nascondere lo scintillio furbetto che aveva sempre nello sguardo.

E poi Beth, la mia Beth, seduta appena un po' in disparte, come se non riuscisse a farsi del tutto coinvolgere dall'entusiasmo degli altri, con una lettera identica alla mia fra le mani. Sorrideva, ma era un sorriso che non arrivava fino agli occhi. Dopo quella faccenda, pensai con un sospiro, non era più la stessa.

Leo mi passò un coltello con aria solenne e beccai mio padre a fissarci.

«Devo portare via anche gli agnelli?» lo sentì chiedere in tono allarmato.

«FALLA FINITA!»

Abbassai gli occhi sulla lettera con uno sbuffo esasperato e aprii la busta, estraendo il foglio che c'era all'interno. Lo srotolai sotto gli occhi incuriositi dei miei amici ed iniziai a leggere ad alta voce.

«"Signorina Ross Kia, abbiamo preso in considerazione la sua richiesta di trasferimento nel nostro istituto. Le comunichiamo che è stata ammessa... "» alzai gli occhi su di loro, senza riuscire a trattenermi dall'esclamare: «Sono stata ammessa! Sono stata ammessa!»

«UOOOOOOH!» gridò Camila, mulinando le braccia.

«AHI!» fu l'unico commento di George.

«Avevi dubbi?» fece Leo, visibilmente divertito da tutto quell'entusiasmo.

«Forza!» esclamai, rivolta a Beth. «Aprila!»

Vedendo che la ragazza sembrava non avermi sentito, afferrai della paglia e gliela scagliai dritta in faccia.

«KIA!» protestò lei, a cui sfuggì un violento starnuto, che fece scoppiare tutti a ridere.

Beth si ripulì alla bell'e meglio i lunghi capelli corvini dalla paglia e, dopo avermi scoccato un'occhiata omicida, passò all'apertura della sua lettera.

«Vuoi il coltello?»

«No, grazie. Non finché c'è tuo padre in giro» rispose lei, abbassando lo sguardo sulla parte sottostante del fienile. «Sta continuando a guardarci come se dovessimo sgozzare qualcuno da un momento all'altro.»

Scollò l'apertura della busta, aprì il foglio e fissò il suo contenuto con la fronte aggrottata così a lungo che noialtri iniziammo a scambiarci delle occhiate esitanti.

«Sono stata ammessa» mormorò infine lei, abbassando la lettera e permettendomi così di scorgerle il volto. Il suo tono era neutro, ma il gran sorriso che le era apparso sul volto stavolta era sincero.

«SÌ! SI PARTE!» esclamai, gettandole le braccia al collo.

Cademmo entrambe all'indietro, rotolando nella paglia tra le risate generali, quando un orribile scricchiolio ci fece ammutolire.

«Oh merda» dissi. Poi il soppalco crollò sotto di noi.

Precipitammo con un urlo, ma la caduta fu breve e priva di pericoli, poiché atterrammo sul morbido, sulla cima di un imponente mucchio di paglia.

Dopo aver appurato di essere tutte intere, Beth ed io ci scambiammo uno sguardo e scoppiammo a ridere come matte. La ragazza era coperta di truciolo dalla testa ai piedi, con i capelli tutti scarmigliati, e qualcosa mi diceva che il mio aspetto non doveva essere molto diverso.

Mio padre era accanto a noi, con il forcone in mano, che ci fissava con gli occhi strabuzzati. Borbottò qualcosa a proposito dei malsani effetti dell'evocazione del diavolo e si allontanò a passo veloce, continuando a lanciarci delle occhiate sospettose da dietro la spalla.

Continuando a ridere, rivolsi uno sguardo al soppalco: nel punto in cui le travi di legno avevano ceduto era apparso un buco dai contorni irregolari, dal quale ben presto spuntarono le teste dei miei amici, che ci scrutarono per accertarsi che fossimo ancora vive.

«Tutto sotto controllo!» li informò Beth ridendo, alzando il pollice nella loro direzione.

A quel punto anche i miei amici stavano ridendo a crepapelle e, in un soffio, realizzai che di lì a poco non li avrei più visti per chissà quanto. Un groppo di nostalgia mi attanagliò la gola.

«Mi mancherete» esclamai, mettendomi di scatto a sedere, gli occhi rivolti in alto, fissi su di loro. L'entusiasmo vacillò per un momento nei loro occhi e capii che per loro era esattamente lo stesso.

Certo, avevamo pensato spesso all'eventualità che ci saremmo dovuti separare, se Beth ed io fossimo state ammesse al liceo di St. Elizabeth, che si trovava in Northumbria, a chilometri e chilometri da Londra. Ma ora, con la lettera fra le mani, con la certezza che saremmo andate via, era tutto dolorosamente reale.

«Vi chiameremo!» affermò Camila.

«Così tanto che vi verremo a noia» rincarò la dose George.

Mi sforzai di sorridere, ma la verità era che avrei voluto che tutti e tre venissero con noi. La scuola della nostra cittadina, dopotutto, sarebbe rimasta chiusa anche quell'anno, finché non avessero riparato il soffitto, crollato l'anno prima. Se non ci era caduto sul cervello, mandandoci tutti all'altro mondo, tra l'altro, era stato un vero miracolo.

L'anno prima, per una serie di improbabili coincidenze, eravamo finite alla Royal High School, la scuola privata più prestigiosa di tutta Edimburgo, ma le sue tasse andavano decisamente oltre la nostra portata.

Quell'anno, sia io che Beth avevamo sperato di poter frequentare il liceo a Londra – non nella soffocante parte in cui abitavamo noi, che di Londra aveva solo il nome, ma possibilmente nelle prime, allettanti zone – ma frequentare una scuola nella capitale richiedeva un affitto che nessuna delle due poteva assolutamente permettersi.

Confrontandoci con la nostra amica scozzese Arianna, anch'essa in cerca di una nuova sistemazione scolastica, ci eravamo poi imbattute nel liceo di St. Elizabeth. Era semplicemente perfetto: abbastanza lontano da Londra perché potessi dire con una certa fierezza che frequentavo una scuola lontano da casa, ma allo stesso tempo accessibile economicamente.

Nell'inviare la richiesta d'iscrizione, Beth ed io non avevamo avuto un attimo di esitazione. Eravamo sempre state sulla stessa lunghezza d'onda, dopotutto. Avevamo fame di novità, di nuove esperienze, e non ne potevamo più della campagna inglese che, in quanto ad arretratezza culturale, pareva rimasta ferma a cinquant'anni fa.

Quello che non avevo messo in conto, però, era che i miei amici non sarebbero stati dello stesso avviso. Non avevano tutta questa fretta di allontanarsi da casa: molto probabilmente avrebbero dovuto farlo per l'università e quindi, dopo aver appurato che il nostro liceo, a Enfield, non avrebbe riaperto neppure quell'anno, avevano deciso di ripiegare su uno nelle vicinanze. Questo significava che ci saremmo potuti vedere solo durante le vacanze, quando avremmo fatto ritorno a casa.

Sospirai rumorosamente e, vedendo che Leo mi stava fissando con una certa insistenza, mi affrettai a distogliere lo sguardo.

«Kia, lo vedo da qui che hai gli occhi lucidi» osservò, sogghignando.

«Ma no» ribattei, affrettandomi ad asciugarmi gli occhi con l'orlo della manica e maledicendo la sua vista di falco. «Mi è solo finito un filo di fieno nell'occhio.»

****

Beth si infilò le cuffie nelle orecchie e diede una rapida occhiata al suo lettore musicale: Hello Goodbye dei suoi amati Beatles, seguita da One Day I'll Fly Away, da uno suoi musical preferiti, Moulin Rouge!.

Beth inarcò un sopracciglio. Non poteva certo dire che la riproduzione casuale non possedesse senso dell'ironia.

Dopo aver dato l'avvio alla canzone, si incamminò sul vialetto diretto verso casa sua, il vento che le scompigliava i lunghi capelli corvini.

Voltandosi, poteva scorgere i contorni della casa di Kia e del suo fienile, la stessa vista che vedeva ogni giorno, da quando lei e la sua famiglia si erano trasferiti nella casa accanto a quella dell'amica. Provò una strana emozione all'idea che, di lì a poco, non avrebbe più visto quel paesaggio di campagna per un bel po'.

Stavano per partire. Finalmente. Certo, sarebbero sempre finite in un paesaggio di campagna, ma, se non altro, sarebbero stata lontane da casa. Beth sognava Londra – quella vera, non certo Enfield – , Liverpool, l'Europa, ma sapeva che al momento i suoi genitori non potevano permettersi nulla di tutto ciò. Sarebbe partita alla volta del mondo, sì, ma a piccoli passi.

Oltre al desiderio di vedere il mondo, poi, Beth era spinta anche da altre necessità: aveva disperatamente bisogno di stravolgere la sua vita, in quel momento. Sentiva che sarebbe impazzita, se fosse rimasta lì, dopo tutto quello che era successo.

I suoi amici si erano accorti di quanto fosse cambiata e poteva percepire i loro sguardi apprensivi su di sé, primo fra tutti quello di Kia: condividevano il suo dolore, certamente, ma solo fino ad un certo punto. Non potevano spingersi oltre, in un lutto per una persona a cui avevano solo voluto bene. Ma il suo ricordo era ovunque, insieme alle malelingue della gente di campagna, e Beth voleva solo lasciarsi tutto alle spalle.

Ricominciare con Kia dopo come l'aveva trattata, ecco quello che doveva fare. Sentiva che la nuova scuola, il prestigioso liceo di cui Arianna aveva loro parlato, sarebbe stata l'occasione perfetta. Sarebbero state migliori amiche di nuovo, senza più segreti, proprio come ai vecchi tempi.

Beth chiuse gli occhi per un attimo, la voce calda di John Lennon che le riempiva le orecchie ed il cuore, e continuò a camminare verso quella che sarebbe stata casa sua ancora per un paio di giorni soltanto.

****

«Signorina, ha un momento?»

Quando udì Otis, il maggiordomo di casa sua, tamburellare con le dita sulla sua porta, Arianna si stava truccando allo specchio a parete della camera.

La ragazza trattenne uno sbuffo d'irritazione e abbassò lo scovolino del mascara, lanciando un'occhiata al suo orologio da polso. Si sarebbe dovuta incontrare con Margaret tra tre ore e si stava truccando da una e mezzo, ma quell'interruzione avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Sbuffò. Adesso avrebbe sicuramente fatto ritardo.

«Signorina Arianna?» ripeté Otis, tamburellando un po' più forte.

«Arrivo!» fece lei, abbandonando a malincuore i trucchi sulla scrivania per andare ad aprire.

«Che succede, Otis?»

Il maggiordomo era ritto sulla soglia della sua camera e, quando la ragazza ebbe aperto la porta, lui le porse una lettera senza dire una parola.

Arianna la prese fra le mani, che avevano improvvisamente cominciato a tremarle. Se si trattava davvero di lui... non ebbe il coraggio di guardare il mittente.

Con il cuore che le batteva forte nel petto, strinse la lettera fra le dita e ringraziò Otis con un cenno del capo.

Osservò per un lungo attimo il maggiordomo allontanarsi lungo il corridoio e poi giù per le scale, scorrendo con le dita il lucido corrimano d'ottone, e poi richiuse la porta della sua camera.

Solo allora, con il battito del cuore che le rimbombava nelle orecchie, Arianna si decise ad abbassare gli occhi sulla busta. No, non era lui, realizzò in un soffio. Era il liceo di St. Elizabeth.

Arianna inghiottì il boccone amaro della delusione e sentì il suo corpo afflosciarsi contro la porta chiusa della camera. Di colpo, neanche la prospettiva che avrebbe fatto ritardo al suo appuntamento con Margaret le parve più di alcuna importanza. Come aveva anche solo potuto pensare che potesse trattarsi di lui? Non le aveva più scritto una parola da quando era partito per l'America, perché scomodarsi a spedirle una lettera?

Poggiò la nuca contro la porta e stava facendo appello a tutto il suo autocontrollo – ne aveva parecchio – per non piangere, quando una voce calda si levò all'improvviso dall'ala est della casa, così chiara e squillante che poteva udirla chiaramente, malgrado la porta chiusa.

Sua madre, realizzò Arianna, tornando bruscamente alla realtà. Stava provando, accompagnata dal pianoforte di suo padre, e cantava in un francese che avrebbe fatto invidia ad un madrelingua. Dopo qualche attimo, la ragazza si rese conto di conoscere l'opera su cui la madre si stava esercitando. Era la Carmen.

Arianna chiuse gli occhi e si abbandonò alla melodia. Le parole di sua madre sembravano penetrare attraverso i muri della casa, in un'aria che Arianna trovò dolorosamente vicina alla sua situazione.

L'amour est l'enfant de Bohême,
Il n'a jamais, jamais connu de loi;

Si tu ne m'aimes pas, je t'aime;
Si je t'aime, prends garde à toi!

Si tu ne m'aimes pas, je t'aime; 
Mais si je t'aime, si je t'aime...

Prends garde à toi!*

Arianna aveva amato. La ferita che sentiva al petto ogni volta che pensava alla sua partenza ne era la dolorosa certezza. Ma lui... non era così sicura che Jake avesse ricambiato fino in fondo il suo sentimento. Finché lui era corso dietro a lei e alla sua reputazione di ragazza più popolare della scuola, Arianna era stata certa di averlo in pugno. Ma poi i ruoli si erano bruscamente invertiti: Arianna pregava per avere un briciolo d'attenzione da lui, che era diventato sempre più sfuggente. Alla fine, quel ragazzo di cui si era perdutamente innamorata l'aveva lasciata per Kia. L'amore era davvero un piccolo mascalzone.

Arianna si alzò in piedi con un sospiro, allontanandosi dalla voce di sua madre e, con lei, dalla sua vita precedente. Si era interrogata a lungo sulla ragazza che, con tutta probabilità, quell'anno sarebbe venuta a scuola con lei ed era giunta alla conclusione che no, non ce l'aveva con Kia. Arianna non era solita portare rancore: non era mica come quella sua scalmanata e violenta compagna di classe alla Royal High, Angie. Al pensiero che anche lei si sarebbe trasferita con loro, si sentì impallidire.

Arianna si sedette alla scrivania, afferrò le forbici dall'astuccio e aprì la busta con precisione chirurgica. All'interno, come aveva immaginato, c'era la sua lettera di ammissione. La scorse rapidamente con gli occhi, senza trovarvi grandi sorprese.

Era stata ammessa – ovviamente – e, secondo l'istituto, non c'erano problemi a entrare a scuola a quattordici anni: avrebbe solo dovuto sostenere un test d'ingresso, nient'altro che una formalità. Arianna abbassò il foglio sulla scrivania. Era ufficiale, sarebbe partita.

All'inizio, i suoi genitori avevano opposto resistenza: come il fratello maggiore Finn, Arianna avrebbe dovuto frequentare solo le migliori scuole di tutta la Scozia, ma alla fine i suoi erano stati felici di scoprire che anche il St. Elizabeth godeva di grande prestigio, sebbene le sue tasse fossero meno astronomiche di quelle della Royal High. Il che li aveva resi altrettanto lieti.

Arianna sospirò. Cambiare scuola avrebbe significato lasciarsi tutto alle spalle: la popolarità, Jake, l'America e tutto il resto. Era l'occasione perfetta per ricominciare senza di lui, senza la sua reputazione che la precedeva ovunque andasse. Arianna sorrise a fior di labbra. Sì, sarebbe stata una persona diversa.

Riprese in mano il mascara e ricominciò a truccarsi, non prima di aver lanciato un'altra occhiata all'orologio. Il primo passo per essere una persona nuova poteva essere quello di impiegare meno di cinque ore per prepararsi.

Si morse il labbro quando lo scovolino sbaffò, disegnandole una minuscola macchiolina nell'angolo dell'occhio destro, e lei si interruppe per pulirla con lo struccante.

Sarebbe stata dura.

****

Angie sputò a terra sprezzante e Daniel ritrasse istintivamente le gambe, rannicchiandosi contro il muro e cercandosi di fare piccolo piccolo. Il segno lasciato dal pugno che la ragazza gli aveva assestato in pieno volto stava diventando violaceo.

«Hai capito chi comanda qui, adesso?»

La figura della ragazza bionda torreggiava su di lui.

Daniel si affrettò ad annuire, gli occhi pieni di lacrime, il volto sporco di terra e sangue.

«Bene» mormorò lei, abbozzando un sorriso soddisfatto. «Toglietemelo da davanti.»

Si fece da parte per fare spazio a Frank e Chris che, incuranti delle sue proteste, sollevarono il ragazzo di peso e lo condussero verso l'uscita del vicolo. Le sue urla presto furono solo un fastidio brusio in lontananza.

Angie incrociò le braccia al petto, sospirando rumorosamente. Quel deficiente di Daniel e la sua gang avevano deciso di appropriarsi del suo territorio, quando erano mesi che la sua banda controllava il sobborgo di Ballyfermot, nella zona ovest di Dublino. Evidentemente credeva di potersene approfittare solo perché lei, al contrario loro, aveva le tette, ma c'era voluto poco per ristabilire la gerarchia.

Quando udì lo schiocco di un accendino alle sue spalle, si rese conto che Joe era rimasto dietro di lei e si voltò di scatto verso il suo numero due.

«Che vuoi?» lo apostrofò, tradendo un sorriso colmo d'affetto.

L'alto ragazzo moro guardò verso l'uscita del vicolo e sospirò, aspirando una lunga boccata.

«Mi ha chiamato Sean.»

Angie lo inchiodò con lo sguardo, confusa. Perché diavolo suo fratello l'aveva chiamato?

«Ti è arrivata la lettera.»

Angie lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sgranò gli occhi.

«Gesù» disse.

 

Raggiunsero la casa di Angie di soppiatto, Frank e Joe in testa, Chris che le copriva le spalle. Se sua madre avesse visto com'era conciata, stavolta sarebbero stati guai seri: con i capelli ricci ritti in testa come un cespuglio, i pantaloni e la maglia strappati e sporchi di un sangue che non era il suo, sarebbe stata dura inventarsi una scusa credibile.

Si appostarono in giardino, sotto la grande finestra della cucina, sbirciando verso l'interno. Angie tirò un sospiro di sollievo nel vedere che c'era solo Sean. Il minore dei suoi fratelli stava bevendo un bicchiere di latte e teneva d'occhio il giardino, forse in attesa proprio di scorgere lei.

Angie picchiettò con il dito contro il vetro e Sean incrociò il suo sguardo, rivolgendole un sorriso d'intesa. La ragazza osservò il fratello poggiare il bicchiere vuoto nel lavello, afferrare una busta bianca dalla tavola e poi avvicinarsi alla finestra. La aprì quel poco che bastava a farle scivolare la lettera fra le mani.

«Fred e Nathan stanno distraendo la mamma» le bisbigliò, prima di richiuderla.

Angie sillabò un "Grazie" e poi si voltò verso i suoi amici, dai cui volti la tensione era palpabile.

Strappò la busta come se si fosse trattata dei capelli di Daniel, poco prima, e scorse rapidamente il contenuto della lettera.

«Ehi» mormorò sorpresa, alzando gli occhi. «Ma non è la denuncia!»

«Che cosa?» esclamò Chris, a bocca aperta.

«No» rispose lei, studiando la lettera da ogni angolazione. «È della scuola, quella nuova.»

Angie tirò un sospiro sollievo. A quanto pare, i poliziotti non erano ancora riusciti ad identificare chi aveva rubato l'auto dei Byrne, la settimana prima. Meglio per lei, che avrebbe evitato le ire dei suoi genitori ancora per un po'.

«Sean mi ha fatto prendere un colpo...» borbottò, lanciando uno sguardo torvo in direzione della finestra.

«Che idiota» commentò Frank, scuotendo la testa.

«Be', già che ci sei, leggila» propose Chris, facendo spallucce.

Angie annuì, abbassando gli occhi sul foglio. In realtà aveva già letto rapidamente il contenuto quando aveva aperto la busta, ma voleva studiare la reazione dei suoi amici. Rimase immobile e zitta per un bel po', in teatrale concentrazione e, quando alzò gli occhi su di loro, la ragazza soffocò a stento una risatina, nel vedere che erano tutti in ambasce.

«Vuoi una mano a leggerla?» la prese in giro Joe dopo un po', rompendo quel silenzio d'attesa.

Per tutta risposta, lei lo fulminò con lo sguardo. Era una teppista, non una cavernicola. Anzi, a dirla tutta, Angie era una studentessa brillante: era solo così che aveva potuto frequentare per due anni la prestigiosa Royal High School, in Scozia, senza sganciare un soldo.

Peccato che l'ultimo anno non le avessero rinnovato la borsa di studio e per giunta l'avessero bocciata, solo per aver fatto gli occhi neri a qualche deficiente di troppo. Era quello, dopotutto, il motivo per cui aveva fatto domanda alla St. Elizabeth School, dopo aver sentito che Kia e Beth sarebbero andate lì. Così come quella smorfiosa di Arianna, pensò, trattenendo un gemito.

«Dice che non c'è alcun problema ad iniziare scuola nel secondo trimestre» mormorò infine, decretando di aver punzecchiato abbastanza i suoi ragazzi. «Test d'ingresso, bla bla bla

Rivolse loro un sorrise emozionato. «È ufficiale, ragazzi. Parto!»

Le sue parole piombarono nel silenzio ed Angie non riuscì a trattenere una smorfia. Dalle facce lunghe dei suoi amici, sembrava che avesse appena annunciato la sua dipartita. A dirla tutta, aveva sperato in un po' più di entusiasmo. Che se la fossero presa per averli lasciati un po' troppo sulle spine?

«Ehi, avete sentito...?» sbuffò lei.

«Ci mancherai» proruppe Chris.

Sentendo che la voce gli si era improvvisamente incrinata, Angie gli piantò gli occhi in faccia e assunse un'espressione incredula: no, non se l'era immaginato, il ragazzo dai lunghi capelli neri aveva davvero gli occhi lucidi.

E non era il solo. Sempre più scioccata, Angie fece vagare lo sguardo su quei ragazzi dalle criniere folte e dai muscoli guizzanti, alti il doppio di lei e massicci il quadruplo, con i lucciconi agli occhi.

«State... piangendo?» Angie non credeva ai propri occhi.

«No» si affrettò a dire Frank, tirando su col naso. «È che Daniel mi ha ferito l'occhio, prima.»

«Razza di idioti» borbottò Angie, scuotendo la testa e avvicinandosi per stringerli uno ad uno. «Mi mancherete anche voi.»

Quando sciolse l'abbraccio, Angie assunse di colpo un'espressione seria.

«E mi raccomando. Proteggete il nostro territorio.»

****

Alzai lo sguardo sull'imponente edificio che era il St. Elizabeth, svariati giorni dopo.

«Wow» bisbigliai, un po' intimorita, stringendo l'impugnatura della mia valigia.

Era magnifico. Su internet avevo visto qualche foto del liceo e di Alnwick, l'anonima cittadina in cui era ubicato, ma trovarselo davanti fu completamente diverso.

«Sembra un castello!» commentò Angie, bloccandosi dal chiacchierare a ruota libera delle lezioni di arte, che sperava fossero all'altezza di quelle della scuola precedente. Discorso a cui, a dire la verità, avevo prestato ben poca attenzione.

Le sue parole, in ogni caso, mi destarono dalla trance in cui ero caduta, perché era esattamente come anche io lo avrei definito.

Oltre la robusta inferriata, immerso in una pineta i cui alberi gareggiavano in altezza con il liceo stesso, si ergeva un massiccio edificio di mattoni rossi tendenti al rosa che sembrava uscito da un romanzo di Jane Austen. Tutto nell'architettura sembrava gridare epoca vittoriana: due enormi colonne costituivano la facciata dell'istituto, le quali terminavano in aguzze guglie grigie, mentre dozzine e dozzine di finestre con magnifiche arcate e colonnine spiccavano dall'edificio come occhi aperti a metà.

Il giardino di fronte all'ingresso, sebbene seminascosto dal robusto cancello di ferro, sembrava finto, da quant'era perfettamente curato: un vialetto di ciottoli conduceva fino ai gradini dell'ingresso e, tutt'intorno, un magnifico prato tagliato al millimetro, sul quale si stagliavano i mastodontici pini che avevano attirato la mia attenzione, insieme ad altre varietà di alberi meno imponenti.

Il giardino brulicava di ragazzi, che bighellonavano in attesa dell'inizio delle lezioni, e Beth e Arianna sembravano stare sbirciando attraverso il cancello. Le loro espressioni erano talmente scioccate che mi spinsero ad avvicinarmi perché, sebbene avessimo davanti agli occhi un liceo che avrebbe fatto sfigurare persino la Royal High School di Scozia, le loro facce erano davvero un po' troppo scioccate.

«Ehi!» esclamai, avvicinandomi all'inferriata e seguendo il loro sguardo. «Che succed...

La voce mi morì in gola. Davanti a me, oltre il cancello, era appena passato il più bel ragazzo che avessi mai visto in vita mia. Riccioli neri gli incorniciavano il volto, sul quale spiccavano due occhi vivaci e un sorriso da copertina. Abbassai lo sguardo e vidi che la camicia sbottonata dell'uniforme lasciava intravedere il suo fisico perfetto.

Probabilmente il grazioso tipo si doveva essere accorto che lo stavo fissando come una deficiente – al pari di Arianna e Beth – perché mi strizzò l'occhio.

Arrossii d'istinto e mi affrettai a distogliere lo sguardo, quando l'occhio mi cadde su un altro ragazzo, che gli stava passando accanto in quel momento. Rimasi a bocca aperta: anche lui era bellissimo, con corti capelli biondi e un corpo che, sebbene coperto dalla camicia, pareva statuario. Poco più avanti, vidi un altro bellissimo tipo. E un altro. E un altro ancora. Dovunque mi si posasse lo sguardo, nel cortile c'erano solo tipi da rivista.

«Non è possibile...» sentii mormorare Angie. Anche lei doveva essersi resa conto dello spettacolo a cui noialtre stavamo assistendo.

Passai in rassegna con lo sguardo le ragazze che passeggiavano nel giardino e mi accorsi che i maschi non erano i soli privilegiati: le studentesse sembravano appena uscite da una rivista di moda, con corpi atletici e flessuosi, lineamenti delicati e capelli scintillanti e perfettamente pettinati.

«Ragazze!» esclamai, voltandomi di scatto verso le mie amiche. «Ma... avete visto che roba? Mi sembra di essere un cucchiaio nel cassetto delle forchette!»

Angie mi scoccò uno sguardo allibito, mentre Beth scoppiava a ridere.

«E questa da dove ti è uscita?» esclamò, appoggiandosi al cancello con le lacrime agli occhi. Era più abituata di Angie ai miei improbabili paragoni.

Risi a mia volta, mentre Arianna tentava di dare un senso alle mie parole.

«Ti senti fuori posto, eh?»

La ragazza lanciò uno sguardo attraverso l'inferriata.

«Anche io mi sento diversa, tra tutte queste bellezze» mormorò, sistemandosi i lunghi capelli castani dietro le orecchie.

«Ah sì?» Angie levò gli occhi al cielo. «E allora cosa dovremmo dire noi, Arianna?»

Angie non aveva tutti i torti. Arianna era tra le ragazze più belle che avessi mai visto – anche se, a giudicare dalle silfidi nel cortile, avrebbe presto avuto visto concorrenza – oltre ad essere stata la ragazza più popolare della sua scuola, corteggiata e ammirata da chiunque. L'unica fra tutte noi, insomma, che avrebbe potuto tenere la bocca chiusa.

«Finirò per diventare strabica» commentò Beth. «Non so dove guardare.»

Scoppiai a ridere, quando un improvviso e inconfondibile rumore di una valigia che veniva trascinata sull'asfalto ci fece voltare in direzione della strada.

Un ragazzo, con un trolley alla mano, stava venendo nella nostra direzione, verso la scuola.

Dopo aver osservato i nostri nuovi compagni, belli come dei greci, mi colpì il suo aspetto del tutto... normale. Era basso, mingherlino, con una scodella di capelli castani in testa.

«Anche voi siete nuove?» ci chiese quando ci ebbe raggiunte, scrutandoci con viva curiosità.

«Già» risposi, rivolgendogli un sorriso nervoso. Ero ancora un po' a disagio, dopo quello a cui avevo appena assistito, e mi chiesi se il ragazzo fosse già a conoscenza dell'aspetto dei suoi nuovi compagni di scuola.

«Vieni qui» proruppe Angie in tono cospiratorio, afferrandolo per un braccio e conducendolo verso l'inferriata. «Devi essere iniziato.»

Il ragazzo la guardò sconcertato, ma dovette intuire, forse per via del suo aspetto vagamente minaccioso, che era meglio non discutere con lei e si lasciò trascinare senza fare storie.

«Ehi, voi!»

Angie mollò subito la presa sul poverino e ci voltammo tutti in direzione del cancello d'ingresso, dal quale era spuntato un uomo che aveva tutta l'aria di essere un bidello. Era alto e magro, dall'aspetto po' trasandato e, dopo averci adocchiato, fece rotta verso di noi con un passo che avrei definito militaresco. In mano aveva un fascio di fogli svolazzanti.

«Siete i nuovi allievi, giusto?» domandò, scrutandoci da sotto due folte sopracciglia grigie.

Ci affrettammo ad annuire. Quel tipo mi metteva vagamente in soggezione e, a giudicare dai volti intimoriti degli altri, non dovevo essere la sola a cui faceva quell'effetto.

«Bene» fece lui sbrigativamente. «Seguitemi.»

Gérard – così lessi sulla targhetta che aveva appuntata al petto – ci fece passare oltre il cancello e ci condusse lungo il vialetto che portava all'entrata della scuola, attraverso quell'eden di creature ultraterrene e tentazioni irresistibili.

«Penso che la mia iniziazione sia completa» bisbigliò il ragazzo incantato, dando di gomito ad Angie.

«Te l'avevo dett...

«Volete darvi una mossa?» la interruppe Gérard, guardandoci storto.

Il bidello, infatti, aveva raggiunto il portone d'ingresso da un pezzo e ci stava fissando con le mani sui fianchi, un'espressione irritata stampata sul volto.

Divorammo a malincuore i pochi metri che ci separavano dal portone e salimmo i gradini che conducevano all'entrata.

L'atrio si stagliò di colpo davanti a noi e ci lasciò senza fiato.

«Oddio» mormorai, con gli occhi che mi brillavano. Dopo quelle statue in giardino, non avevo idea che dentro mi sarei trovata davanti uno spettacolo altrettanto meraviglioso, sebbene di diversa natura.

«Oddio» fece Gérard di rimando, levando gli occhi al cielo. Probabilmente doveva aver capito che ci saremmo di nuovo fermati per chissà quanto.

Forse accentuato dal fatto che fosse deserto, ma l'atrio mi parve enorme ed arioso, con un'architettura circolare che mi ricordò vagamente quella di un tempio. Ai lati aveva quattro colonne di marmo bianco, lo stesso materiale di cui era fatto il pavimento, ma il soffitto a volta era ligneo e vi era appeso un magnifico lampadario scintillante.

Anche le mie amiche, accanto a me, erano senza parole. Quel posto sembrava una sala da ballo, più che l'atrio di una scuola. L'unica cosa che mi convinse che mi trovavo lì per studiare e non per entrare in società era una scrivania, nell'angolo destro dell'atrio, verso la quale Gérard si era diretto per prendere delle penne. Ad un lato della scrivania partiva un'elegante scala dai gradini in marmo, con un corrimano di ferro battuto; all'estremità opposta, invece, il pavimento degradava ed intravidi le moderne porte di quelle che dovevano essere le classi. La scrivania, che intuii essere territorio dei bidelli, sembrava fare da spartiacque tra il moderno e l'antico, tra le classi e quello che c'era ai piani superiori. Con un brivido d'emozione, mi resi conto che non vedevo l'ora di scoprirlo. Questo posto è magnifico.

Gérard nel frattempo era tornato da noi, cacciandoci in mano i fogli e le penne che aveva con sé senza tante cerimonie.

«Devo farvi firmare questi fogli» spiegò, incrociando le braccia sul petto.

Abbassai gli occhi su quel fascicolo e mi sentii inorridire quando vidi che erano pagine e pagine. Le sfogliai senza neanche guardarle finché non ebbi individuato la casellina dove firmare.

Lanciando loro un'occhiata di sottecchi, vidi che anche gli altri stavano facendo la stessa cosa. Tutti tranne Arianna.

«Non avrai intenzione di leggerli sul serio?» fece Gérard, dando voce ai miei pensieri.

Arianna alzò gli occhi e lo squadrò, visibilmente scocciata. Il bidello doveva aver disturbato la sua lettura.

«Certo» rispose, abbassando di nuovo gli occhi sui fogli.

«Non ho mica tutto il giorno!» si spazientì lui. «Sono solo formalità!»

Noialtri intanto avevamo già firmato e Gérard sembrava sul punto di strapparsi i pochi capelli che aveva sul cranio. Alla fine, tanto disse e tanto fece che Arianna smise di leggere e firmò a sua volta, consegnando i fogli a Gérard con un'occhiata grondante odio.

Dopo aver ritirato i fascicoli, il custode ci condusse a sinistra, verso la parte moderna dell'istituto, e ci fece rapidamente strada attraverso i corridoi, mentre noi ne osservavamo rapite ogni centimetro quadrato, le rotelline delle nostre valigie che rumoreggiavano sui pavimenti.

«Qua» esclamò lui ad un certo punto, bloccandosi di fronte ad una porta chiusa in fondo ad un corridoio.

Ci affollammo intorno a lui e mi chiesi se si trattasse dell'ufficio della preside ma, quando vidi Gérard estrarre un mazzo di chiavi dalla tasca, iniziai ad avere qualche sospetto. Sospetto che divenne realtà quando entrammo nella stanza, che si rivelò del tutto vuota, ad eccezione di... un ascensore.

«Che ci fa un ascensore in una stanza?» mi bisbigliò Beth all'orecchio.

«Non lo so» borbottai. «Questo non c'era sul sito internet!»

Eppure, sembrava proprio un ascensore, dalle lucide pareti grigie.

Nella stanza, ampia e illuminata da una grande finestra, non c'era nient'altro, se non due grandi specchi, appesi alle due pareti di fronte. Ricambiai il mio sguardo attraverso il vetro, da cui si evinceva tutta la mia confusione. I miei neuroni, già provati dallo spettacolo all'esterno, stavano per andare in cortocircuito. Non avevo idea del perché ci trovassimo lì, del perché i ragazzi in quella scuola fossero così belli, ma sapevo solo una cosa: da claustrofobica qual'ero, non avevo nessuna intenzione di entrare in ascensore.

Mi voltai a guardare Gérard, in cerca di spiegazioni, ma il suo sguardo era insondabile.

«Lasciate pure qui le vostre valigie» fece l'uomo, indicandoci la parete accanto alla porta. «Ci vorrà un attimo.»

«Cosa stiamo facendo?» chiese Arianna, guardandosi intorno con aria inquieta.

«È la nostra procedura» tagliò corto lui. «Le valigie» ripeté, stringendo gli occhi.

Rassegnandoci all'idea che Gérard non ci avrebbe degnato di ulteriori spiegazioni, ci limitammo ad obbedire.

«Tu, fai un passo avanti» ordinò poi Gérard al ragazzino, che obbedì senza fiatare.

Le ragazze ed io ci stringemmo le une alle altre, intimorite, gli occhi fissi sul martire che avanzava in direzione di quello strano ascensore.

Gérard stava consultando una scheda, la fronte corrugata. Per un attimo pensai che si trattasse delle istruzioni di quell'aggeggio ma, quando il custode attaccò a parlare, capii che si trattava delle formalità del ragazzo.

Cercando in tutti i modi di distrarmi per non focalizzarmi troppo su quel minaccioso ascensore, mi misi ad ascoltarlo e scoprii che, a quanto pareva, Brian Adley era più piccolo di noi di un anno ed era originario di Newcastle.

Il bidello gli stava chiedendo conferma delle informazioni che la scuola aveva in possesso su di lui e, quando il ragazzo ebbe finito di rispondere – con un'infinita sequela di  – l'uomo lo spinse dentro l'ascensore senza tante cerimonie e chiuse ermeticamente la porta.

Mi sentii gelare il sangue e mi voltai a guardare le mie amiche, ugualmente terrorizzate.

Gérard intanto aveva preso a cliccare freneticamente sui tasti di uno schermo collegato a quell'aggeggio, che adesso tutto mi sembrava fuorché un ascensore, dal quale ben presto iniziarono a provenire dei gorgoglii soffocati. Che diavolo stava succedendo lì dentro?

Non so quanto tempo passò. Minuti, ore, giorni, passati con gli occhi fissi su quella macchina.

Dopo un'attesa interminabile, la capsula si aprì con uno sbuffo di fumo. Le ragazze ed io trattenemmo il fiato.

Dal vapore emerse un ragazzo. Un bellissimo ragazzo, alto e slanciato, con un fisico atletico che si intravedeva da sotto la maglietta. Ci misi un attimo per rendermi conto che io quella maglietta l'avevo già vista, così come il resto degli abiti indossati dallo sconosciuto: era vestito esattamente come quel Brian Adley. Perché, realizzai a bocca aperta, era proprio lui.

«Puoi andare» mormorò Gérard senza neanche guardarlo, mentre curiosava fra le schede.

Apparentemente ignaro del suo cambiamento d'aspetto, il ragazzo ci superò di slancio e recuperò la sua valigia. Si voltò verso di noi per salutarci, ma fu in quel momento che dovette scorgersi in uno degli specchi. La sua espressione cambiò.

«Cazzo» lo sentì dire, mentre si portava una mano al volto, incredulo.

Ero rimasta così allibita che non mi accorsi che Gérard mi aveva appena chiamata.

«Ross Kia?»

Merda.

Rivolsi uno sguardo disperato alle mie amiche, ma non c'era nulla che potessimo fare. Come potevamo fuggire da quel posto? Cos'avremmo fatto, a chilometri e chilometri da casa?

«Ross Kia?» Stavolta il tono del custode era un po' più seccato.

Abbandonai a malincuore l'idea della fuga e venni avanti come un automa.

«Lei è la signorina Ross Kia?»

Io.

«Ha quattordici anni?»

Non.

«È nata ad Honolulu?»

Ci.

«Risiede a Londra?»

Entro.

«Il suo indirizzo è 288, Whitewebbs Woods, Enfield...»

Continuai ad annuire meccanicamente, mentre Gérard snocciolava tutto il mio indirizzo. Io, però, non lo stavo minimamente ascoltando, gli occhi fissi sull'ascensore dietro di lui.

«Benissimo» concluse l'uomo. «Ora tocca a te.»

Sentii le sue mani spingermi all'interno della capsula e cercai in ogni modo di opporre resistenza.

«AIUTO!» urlai, in preda al panico, puntando i piedi per terra.

Ma non avevo speranze contro di lui. Ansimante di terrore, finii dentro l'ascensore e non feci in tempo a voltarmi che le pareti si erano già chiuse alle mie spalle.

Ero in trappola.

 

*Il testo non mi appartiene. È Habanera, aria tratta dalla Carmen di Georges Bizet.

L'amore è un piccolo zingaro
Non ha mai, mai conosciuto legge;

Se tu non mi ami, io ti amo;
Se io ti amo, attento a te!

Se tu non mi ami, io ti amo;
Ma se io ti amo, se io ti amo...

Attento a te!
 

Eccoci dunque al primo capitolo, in cui facciamo la conoscenza delle nostre quattro scapestrate protagoniste.

Il motivo per cui le ragazze abitano così lontana l'una dall'altra è che la me tredicenne evidentemente credeva che le dimensioni della Gran Bretagna fossero più o meno le stesse della Repubblica di San Marino e che le protagoniste abitassero davvero ad un tiro di schioppo. Certo, certo, me tredicenne. 

Da qui la scelta di posizionare il liceo di St. Elizabeth ad Alnwick, che si trova (molto approssimativamente) a metà strada fra tutte loro. Probabilmente capireste meglio se vi facessi un disegnino... quindi ve lo faccio sul serio.

Un grazie speciale ad Angie (quella vera!) che sta facendo tutte le copertine dei capitoli. È una bravissima grafica e le voglio bene comunque, anche se disprezza la mia mappetta.

Curiose di sapere cosa succederà a Kia nella misteriosa macchina? Continuate a seguire la storia!

Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** -•Capitolo 2 ***




Ero terrorizzata. Sola, chiusa in una sottospecie di ascensore senza alcuna via d'uscita, con il pensiero che, da un momento all'altro, l'aspetto con cui convivevo da quattordici anni a questa parte sarebbe cambiato.

Ad essere del tutto onesta, l'idea di alzare di qualche centimetro e mettere su un po' di tette non è che mi dispiacesse più di tanto, ma scacciai quel pensiero frivolo con la stessa rapidità con cui l'avevo concepito. Ero stata chiusa in un ascensore che, a quanto pareva, avrebbe modificato il mio aspetto, senza avere la minima idea del perché lo stessero facendo, e che diavolo!

Le pareti intorno a me cominciarono improvvisamente a risplendere di un azzurro sempre più chiaro, che ben presto divenne così luminoso da costringermi a chiudere gli occhi.

Trattenni il fiato quando percepii un vago calore pizzicarmi le piante dei piedi, nonostante le scarpe, e poi risalirmi lungo le gambe. Avvolse il torace, la schiena e le braccia e, man mano che saliva verso l'alto, il calore ed il pizzicore divennero sempre più intensi, quasi insopportabili, finché non percepii la pelle del viso dolere come se mi ci stessero conficcando migliaia di spilli. 

Il mio intero corpo fu inondato da quel calore azzurrino, lo sentii accarezzarmi e pizzicarmi la pelle e penetrarmi fin dentro le ossa.

Non avevo il coraggio di muovere un muscolo e così rimasi immobile, come se mi avessero pietrificato, finché non udii uno sbuffo e mi azzardai ad aprire un occhio. Davanti a me, le porte della capsula si erano aperte di scatto.

Mi precipitai fuori barcollando, il cuore che mi martellava nel petto per la paura. Mi dovetti appoggiare a quella sottospecie d'ascensore per non crollare a terra. Ansimando, alzai lo sguardo sulle mie amiche.

«Kia!» esclamò Beth. «Come è stato?»

«Be', ecco, proprio come...»

«Risparmiaci uno dei tuoi paragoni, per favore» tagliò corto Angie. «Piuttosto... KIA!» gridò, facendo un passo indietro per rimirarmi meglio.

Scoccai loro un'occhiata confusa. Mi stavano fissando con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, tutte e tre con la stessa espressione incantata stampata sul volto.

Stupita da quelle reazioni che a dirla tutta mi sembravano un po' esagerate, mi voltai verso uno degli specchi e, in linea con l'atteggiamento delle mie amiche, mi lasciai sfuggire un piccolo grido. I pensieri frivoli per un momento ebbero la meglio, mentre mi rimiravo: ero alzata parecchio, la mia pelle scura era ancora più lucente e finalmente ero dotata di un discreto davanzale. Wow.

Ma, dopo un momento, una domanda fece vacillare la mia iniziale euforia: perché? Perché lo avevano fatto? Quale scuola ritocca l'estetica dei propri studenti?

Mi voltai verso Gérard, disorientata.

«Scusi, ma perché mi ha appena...»

«È la nostra procedura» tagliò corto lui, lasciandomi di sasso. «Non sono autorizzato a dire altro.»

Quindi il custode mi indicò la porta con un'occhiata, peraltro piuttosto seccata. Mi stava invitando ad andarmene in modo neanche troppo velato.

«Ma non è possibil...»

«La prossima» mi interruppe Gérard, parlando a voce più alta per sovrastare le mie parole. «Rivers Arianna?»

Fissai Gérard con un'ondata d'odio, ma il custode non mi stava degnando di uno sguardo, gli occhi fissi sul foglio contenente le generalità di Arianna.

«Vi aspetto in corridoio» borbottai rivolta alle mie amiche, afferrando la mia valigia con un gesto di stizza e uscendo a passo di carica dalla stanza.

Ribollivo dalla rabbia al pensiero del comportamento sgarbato ed evasivo del bidello ma, mentre aspettavo nel corridoio insieme al ragazzo – che sembrava averla presa con molta più filosofia di me – all'irritazione ben presto si affiancò la curiosità di vedere come sarebbe stato l'aspetto "migliorato" di Arianna. Lei, dopotutto, era già perfetta di suo.

Quando la mia amica uscì dalla capsula, infatti, udii Gérard borbottare qualcosa circa il malfunzionamento della macchina: dopo un paio di calci e una serie di imprecazioni sempre più colorite, il custode si dovette infine rendere conto che, oltre ad aver fatto una figura di merda con le mie amiche, Arianna non aveva alcun bisogno di essere migliorata.

Quando uscì in corridoio, trascinando la sua valigia, ne ebbi conferma. Arianna non era cambiata di una virgola: era sempre alta, snella e graziosa anche se un po' minuta, con i suoi lisci capelli castani dai riflessi biondi, le gambe lunghe e la solita espressione impassibile stampata in faccia di fronte ad ogni circostanza.

«Sono preoccupata per questa storia» mi confidò, avvicinandosi.

Era un po' difficile da credere, visto che il suo volto era il ritratto dell'imperturbabilità.

Arianna aveva parlato a bassa voce, probabilmente per non farsi udire dall'altro ragazzo che, dal canto suo, non sembrava indifferente agli effetti che la macchina aveva avuto – o non aveva avuto – su di noi, sebbene cercasse di non farlo notare, sforzandosi di tenere gli occhi fissi sul pavimento.

«Anche io» risposi, quindi, sempre sussurrando.

Attendemmo in un silenzio inquieto che anche Angie e Beth fossero entrate nella capsula e, una volta conclusa l'operazione, che Gérard richiudesse a chiave la porta di quella misteriosa stanza. A quel punto, Beth si azzardò a chiedergli la nostra prossima destinazione.

«Le vostre stanze» rispose secco Gérard, precedendoci lungo il corridoio.

«Non dovremmo incontrare la preside?» osò chiedergli Arianna e ammirai il suo coraggio.

«La preside è molto impegnata, al momento» tagliò corto lui, guardandola storto.

«Loquace» commentò Angie sottovoce e mi trattenni a stento dallo scoppiare a ridere.

Superate le classi deserte, il custode ci condusse nuovamente nell'atrio che, per la seconda volta quella mattina, mi colpì per la sua magnificenza.

Stavolta eravamo diretti alla scrivania, l'unico elemento piazzato nell'atrio che, come ci tenne a farci sapere Angie, andava a cozzare con l'architettura dell'ambiente e secondo lei creava quasi un senso di stordimento.

Mi guardai intorno, mentre attraversavamo l'atrio, i nostri passi che rimbombavano sul pavimento deserto, e ne approfittai per dare una sbirciatina all'esterno, attraverso il vetro del portone d'ingresso. Nel giardino non c'era più un'anima, segno che quei meravigliosi ragazzi erano già tutti entrati e, dal momento che anche le classi erano vuote, ipotizzai che fossero nei dormitori.

Lanciai un'occhiata curiosa alla scala. Che gli alloggi fossero ai piani superiori?

Gérard nel frattempo aveva raggiunto la scrivania, dov'erano radunati un gruppetto di custodi con in mano dei caffè. Una di loro, una donna dai lunghi capelli grigi raccolti in uno chignon, si affrettò a poggiare il bicchierino sulla scrivania e si sporse in direzione di Gérard.

«Questi sono i nuovi arrivati» spiegò il custode, indicandoci con un'occhiata. «Avete già i numeri delle loro stanze?»

La donna annuì al collega e spostò lo sguardo su di noi.

«Benvenuti!» esclamò, rivolgendoci un sorriso amichevole. Allora i bidelli non erano tutti dei mostri in quella scuola, pensai, sollevata.

La custode nel frattempo ci aveva dato le spalle e aveva preso a rovistare tra le chiavi, appese al muro con un pannello di sughero che mi ricordò vagamente quello di una reception.

«Allora, le stanze...»

Trovato finalmente quello che cercava, la custode si voltò nuovamente verso di noi.

«Questa è per il ragazzo. Camera numero 29, primo piano.»

Il nuovo arrivato si fece avanti, un po' timoroso, e afferrò la chiave che la donna gli stava porgendo.

«Dividerai la stanza con altri tre ragazzi del primo anno, se non sbaglio proprio della tua classe, la D» lo informò lei, per poi indicare la scala accanto a sé. «Da questa parte.»

Ci avevo visto giusto, allora! Con un fremito di impazienza, attesi che la bidella si rivolgesse a noi, mentre il ragazzo si dirigeva sulle scale, dove udimmo lo scarrozzare della sua valigia per un bel po'.

«E questa per voi, la 17. Sempre al primo piano» mormorò la custode, allungando la chiave nella nostra direzione. Mi sporsi per afferrarla.

«È una camera da quattro, quindi non avrete sorprese.»

Dopo averla ringraziata, facemmo per incamminarci sulle scale, più che liete di separarci da quel bidello a dir poco inquietante, ma Gérard non aveva ancora finito.

«Vi ricordo che la vostra sezione è la C e che le lezioni iniziano alle otto in punto.»

Il custode strinse gli occhi. «Puntuali

Annuimmo come soldatini e ci lanciammo sulle scale, incespicando nei gradini, sotto lo sguardo attonito di Gérard. Nella nostra rocambolesca fuga, però, non avevamo messo in conto le nostre valigie, pesanti come macigni, che ci rallentarono non poco nell'impresa.

«Ma un ascensore?» protestò Beth, a metà delle scale, asciugandosi il sudore dalla fronte.

«Quale, quello che ci ha appena fatto diventare delle bombe sexy?» fece Angie di rimando.

Quando infine mettemmo piede nel corridoio, non sarei stata in grado di salire un solo gradino di più e ringraziai il cielo che la nostra stanza fosse solo al primo piano.

Trovammo senza difficoltà la porta della nostra camera e, mentre infilavo la chiave nella toppa, diedi una rapida occhiata a quella di fianco alla nostra, la 18, da cui provenivano delle urla selvagge e concitate voci maschili.

Aggrottando le sopracciglia, mi scambiai un'occhiata dubbiosa con le mie amiche e poi tornai ad armeggiare con la serratura. Quando quella scattò, spalancai la porta con un gesto solenne e finalmente potemmo entrare.

Superata la soglia, rimanemmo un attimo immobili nel piccolo ingresso.

La camera si stagliava davanti a noi, ampia e spaziosa, illuminata da una grande finestra con due tende color verde bottiglia ai lati.

Chiusi la porta alle mie spalle e feci qualche passo in avanti, trepidante, osservando rapita ogni centimetro quadrato della stanza: era tutta in legno – il parquet, il soffitto, nonché i letti, l'armadio adagiato in un angolo e i comodini – e sembrava l'interno di un cottage.

«È bellissima!» esclamai, guardandomi intorno.

I letti, dalle allegre coperte a scacchi, erano sistemati contro i quattro angoli della stanza, ognuno provvisto di abat-jour. Sulla parete di sinistra, tra i due letti, c'era uno scaffale vuoto, ad eccezione di una scatola tonda, di colore azzurro, e di un piccolo televisore; su quella destra, oltre all'armadio, c'era una porticina che si rivelò l'ingresso di un minuscolo ma attrezzatissimo bagno.

«WOW!» gridò Beth, buttandosi sul letto con un tuffo. La vidi sprofondare tra le coperte e dopo un momento riemerse, con i capelli tutti spettinati, dicendo: «Ok, vi informo che il letto è comodo.»

Angie si avvicinò alla finestra con gli occhi che le brillavano e pensai che volesse guardare giù ma, dopo aver scostato le tende, la ragazza si mise a controllarne il tessuto con occhio critico.

«Le tende sono a posto» decretò infine, dopo un'attenta osservazione.

Noi tre non replicammo, limitandoci ad un'occhiata allibita.

«Niente male» mormorò Arianna, che in quel momento si stava affacciando alla porta del bagno. «Davvero niente male.»

Oltre all'entusiasmo, però, notai una sfumatura diversa nel suo tono di voce: confusione. Anche lei, come me e probabilmente le altre, non riusciva a togliersi dalla testa il dubbio su quello che ci avevano appena fatto.

Per distrarci, decidemmo di mettere in ordine ed in mezz'ora – ero stupita dalla nostra stessa celerità – avevamo già deciso i letti senza scannarci e disfatto le valigie, il cui contenuto era stato ordinatamente riposto nell'armadio.

Dal momento che mancava ancora una mezz'ora abbondante all'inizio delle lezioni, Angie ebbe la brillante idea di mettersi a trafficare con il televisore.

«Il pulsante di accensione si dovrebbe illuminare se collego questo filo a... CAZZO! Perché caspita non va?!» sbottò, mentre impugnava le prese per la centesima volta, dopo una lunga sequela di moccoli e tentativi vani. 

Niente, la televisione non sembrava proprio volerne sapere di accendersi.

Beth, spaparanzata sul suo letto, mi lanciò un'occhiata preoccupata. Probabilmente anche lei, come la sottoscritta, temeva che di lì a poco ci saremmo ritrovate in compagnia di un'amica folgorata, con i capelli ancora più ricci di quanto già non li avesse.

«Kia, perché non vai a sentire se qualcuno di un'altra stanza può aiutarci?» propose Arianna, guardando Angie, che continuava a borbottare da sola china sul televisore, con un misto di pietà e sottile repulsione. Più o meno come se stesse facendo l'elemosina ad un vecchio barbone con le pulci.

«Va bene» mormorai, con un'alzata di spalle. Non avevo niente da fare, dopotutto, ed ero curiosa di conoscere i nostri nuovi vicini di stanza. Urla selvagge a parte, s'intende.

Uscita in corridoio, mi parai di fronte alla camera numero 18, adesso silenziosa, e bussai alla porta, ripescando nella mente qualche frase di circostanza da usare non appena qualcuno mi avesse aperto. Ciao, sono una nuova studentess...

«ADAM, CHE CAZZO VUOI ANCORA?»

La porta si spalancò di scatto e qualcuno mi diede un violento spintone, facendomi ruzzolare all'indietro sul pavimento.

«Ahi!» protestai, portandomi una mano alla testa con un gemito.

Sforzandomi di ignorare il dolore, alzai lo sguardo su colui che mi aveva così gentilmente aperto, pronta a dirgliene quattro.

In piedi di fronte a me si ergeva un ragazzo alto ed atletico, dai riccioli neri e gli occhi altrettanto scuri, che mi stava fissando con espressione mortificata.

«S-scusami!» balbettò, paonazzo. «Ti ho fatto male?»

Doveva essersi trattato di un malinteso, ma ero troppo occupata a fissare imbambolata il volto di quel tizio per potermi concentrare su qualsiasi altra cosa. Con un rantolo, mi accorsi che lo conoscevo: era quel gran pezzo di ragazzo che mi aveva strizzato l'occhio all'entrata della scuola!

Oddio. Abbassai gli occhi, rendendomi conto di essere ancora immobile a terra, con l'espressione di un branzino stampata in faccia, e di non averlo ancora degnato di una risposta.

«T-tu... I-io...» balbettai, prendendo aria come se fossi in preda all'asfissia.

Complimenti, Kia. Lo hai illuminato.

«Va tutto bene?» chiese lui, sporgendosi verso di me e allungandomi una mano. «Devo portarti in infermeria?»

Mi morsi la lingua, trattenendomi a stento dal dirgli che avrebbe potuto portarmi ovunque volesse, anche perché con tutta probabilità quella frase, che nella mia testa suonava così bene, nella realtà sarebbe parsa più come una serie di mugolii soffocati, come se mi stessi strozzando con qualche cibo.

Dai, magari dopo ti fa la manovra di Heimlich e ti sfiora con quelle braccia...

Dopo aver mentalmente preso a ceffoni il mio cervello, riuscii a mettere in fila qualche parola di senso compiuto.

«No, grazie. Sto bene» bofonchiai, abbassando lo sguardo sulle scarpe e lanciandogli un'occhiata di sottecchi.

A giudicare dalla sua espressione perplessa, il ragazzo non doveva aver riconosciuto in me l'anima gemella scorta per un nanosecondo attraverso l'inferriata, ma fu comunque piuttosto cavalleresco.

«Ci conosciamo?» chiese, appoggiandosi allo stipite della porta e rivolgendomi un sorriso amichevole. «Non ti ho mai vista in giro.»

Mi ritrovai a desiderare intensamente di essere quello stipite e rifilai un secondo ceffone immaginario al mio cervello.

«No» mi affrettai a dire. «Sono una nuova studentessa e...»

Esitai. Dove diamine erano finite le frasi di circostanza di cui dovevo servirmi? Maledetto, maledetto cervello.

Alla fine, anche se con grande difficoltà e altrettanti mugolii, riuscii a spiegargli il motivo per cui mi ero arrischiata a bussare alla sua porta.

«Certo che ti aiuto! Vieni un attimo dentro» disse lui in tono affabile, facendosi di lato per farmi entrare nella sua stanza.

Lo fissai sbattendo le palpebre, non certa di aver capito bene.

«Io? Dentro? Non tu?» balbettai e fu un autentico miracolo se lui riuscì ad afferrare qualcosa dalle mie frasi sconnesse, dalle quali probabilmente pensò che dovessi essere semianalfabeta.

«Non c'è bisogno» mormorò lui, scrollando le spalle. «Ti spiego come vanno sistemati i cavi e poi tu lo riferisci alla tua amica.»

Non volendo sembrare ulteriormente cerebrolesa, mi affrettai ad obbedire ed entrai all'interno della camera, passando pericolosamente vicino al ragazzo.

«Sei nella 17, hai detto...» stava commentando lui. «Forte, siamo vicini di stanza!»

Io non replicai. Ero rimasta senza parole. Pensavo che sarei stata in imbarazzo all'idea di trovarmi da sola con quel bellissimo ragazzo – nella sua camera da letto, per di più! – ma il caos che regnava all'interno della camera in questione aveva attirato tutta la mia attenzione, privandomi momentaneamente di ogni imbarazzo.

A giudicare dai letti, la camera era da due persone ma, vista la confusione, sembrava che fossero in quindici ad abitarci. E che fossero tutti e quindici piuttosto sciatti.

«Ah, non fare caso al disordine» si affrettò a dire lui ridendo. Forse doveva aver notato il mio sguardo allibito. «Il mio compagno di stanza è un casinista.»

In quel momento una profonda – e irritata – voce maschile, proveniente dal bagno, s'inserì nella conversazione.

«Chi sarebbe il casinista?»

«Non provare a negarlo, Night» borbottò il ragazzo sbuffando, per poi abbassare gli occhi sulla marea di oggetti che inondava il pavimento, come a conferma di quel che diceva.

«Vieni» esclamò poi, rivolgendosi a me. «La televisione è qui.»

Si avvicinò ad un angolo della stanza, dov'era sistemato lo stesso scaffale che avevamo anche noi in camera, con la medesima scatola azzurra e il televisore.

Il ragazzo si chinò dietro l'apparecchio e, deglutendo rumorosamente, mi chinai a mia volta, cercando di mantenere un minimo di distanza di sicurezza tra noi. Sentivo che, se l'avessi superata, non avrei più risposto dei miei istinti.

Mi sforzai di concentrarmi su ciò che il ragazzo stava facendo ma, dopo appena mezzo minuto, provai un istintivo moto di compassione nei confronti della povera Angie: in quell'intrico di fili e prese non ci capivo assolutamente un cavolo.

«Ecco qua» concluse il ragazzo, al termine di una lunga spiegazione della quale avevo capito sì e no tre parole. «Vedi la lucina rossa, qui a fianco? Se si illumina, significa che la televisione è funzionante.»

Annuii. Era quella fastidiosa luce vagamente paranormale davanti alla quale saremmo state costrette a mettere un cuscino tutte le notti, se avessimo voluto dormire in pace.

«Sì, quella che ogni notte ti fa credere che gli alieni siano atterrati per sbaglio nella vostra stanza» aggiunse, ridacchiando.

Lo fissai, chiedendomi se possedesse pure il dono della chiaroveggenza, e il riso mi sfuggì dalle labbra.

«Grazie» dissi poi, un po' più distesa. Sentivo che adesso sarei anche stata in grado di mettere tre o quattro parole in fila. Tre, magari.

«Figurati!» fece lui, sorridendo. «A proposito, non ci siamo neanche presentati. Io sono Shadow.»

«Io sono Kia» risposi, sistemandomi nervosamente i capelli dietro le orecchie.

Il ragazzo, infatti, aveva preso a fissarmi con uno sguardo piuttosto insistente e mi chiesi distrattamente se mi fosse improvvisamente spuntato un brufolo particolarmente schifoso in faccia o se lui mi trovasse interessante. In entrambi i casi, era una pessima notizia.

«Wow, che nome particolare!» commentò Shadow, sgranando gli occhi.

Senti chi parla, pensai, soffocando a stento un risolino.

«Be', allora ci vediamo, Kia» mormorò, salutandomi con un cenno, sempre con quello stesso sguardo intenso.

Borbottai un saluto frettoloso e mi lanciai verso la porta. Di colpo, avevo un gran bisogno d'aria. Forse mi ero solo immaginata quello scintillio d'interesse nello sguardo. Sì, era senz'altro così.

«Ah, Kia!» esclamò di colpo lui, quand'ero ormai sulla soglia.

Mi bloccai ad un passo dall'aprire la porta e voltai il capo con dolorosa lentezza.

«Sì?» pigolai.

«Lo sai che profumi di cocco?» esclamò, rivolgendomi un sorriso malizioso.

Spalancai la bocca come un pesce, senza fiatare, per poi richiuderla di scatto, così come la porta. 

Rimasi un attimo ferma sull'uscio, rossa di vergogna, e rivolsi uno sguardo titubante alla porta della camera, temendo per un momento che si sarebbe aperta all'improvviso, facendo uscire Shadow, la sua malizia e il suo sguardo adesso inequivocabilmente interessato.

Oh, merda. Ma la cosa peggiore di tutta la faccenda era che, viste le mie reazioni da decerebrata, non sembravo essere rimasta affatto indifferente al fascino di lui.

Ma poi, quand'è che diamine aveva avuto modo di annusarmi?!

Una volta tornata in camera, tentai di spiegare ad Angie quel che avevo visto fare a Shadow, ma ero stata un po' troppo concentrata a fissare il suddetto invece di seguire le sue indicazioni e impiegammo un'altra mezz'ora buona per far funzionare la televisione.

«Sono stati gentili nella 18?» domandò Beth, che si stava provando l'uniforme scolastica, la quale consisteva in una camicia bianca e in una gonna tartan al ginocchio. Le avevamo trovate nell'armadio della camera e, a quanto diceva il bigliettino sopra di esse, erano obbligatorie da indossare durante le lezioni.

«Sì. Due... ragazzi» dissi in tono vago e, al ricordo delle parole che Shadow mi aveva rivolto, divenni di colpo paonazza.

«Ragazzi?» Angie si voltò nella mia direzione, improvvisamente interessata.

«Già. Io ne ho visto solo uno, in realtà» borbottai, evitando il suo sguardo.

Angie nel frattempo continuava a fissarmi in attesa che le dicessi qualcosa di più e sospirai, capendo che non avrei potuto continuare a glissare sulla questione.

«Sì, Angie, è carino» sbottai infine, levando gli occhi al cielo. «Come, be', tutti i ragazzi di questa scuola. Contenta adesso?»

Mi avvicinai al televisore, sul quale era finalmente comparsa la fantomatica lucina rossa, e ripensai alla battuta che aveva fatto Shadow.

«Ed è anche molto gentile» aggiunsi in un sussurro, sperando che nessuna di loro mi avesse sentita.

Spostando lo sguardo dalla televisione allo scaffale che vi era accanto, la graziosa scatola azzurra che avevo notato anche in camera di Shadow attirò la mia attenzione, anche perché era l'unico suppellettile di tutto il mobile.

«Ragazze, sapete cosa c'è lì dentro?» chiesi, inclinando il capo.

Arianna alzò lo sguardo dalla sua valigia. «In realtà no.»

«Uh! Fa' vedere! Fa' vedere!» Angie comparve in un attimo di fianco a me, incuriosita.

Mentre anche Beth si avvicinava, io raggiunsi lo scaffale e sollevai il coperchio. Ma, quando vedemmo cosa c'era all'interno della scatola, un urlo ci sfuggì dalle labbra.

Preservativi.

Dozzine di preservativi.

E un foglietto bianco in bella vista con su scritto "Servitevi pure".

Il coperchio della scatola mi scivolò di mano e finì a terra con un tonfo sordo.

I collegi di solito proibivano il sesso nel dormitorio. Questo sembrava addirittura incoraggiarlo!

Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo delle mie amiche, rimaste immobili e allibite come me.

«Siamo finiti in una scuola di maniaci» pigolai, lasciandomi cadere sul letto.

«AIUTO! MA PERCHÉ?!» gridò Beth, cadendo in ginocchio sul pavimento.

«Dobbiamo fuggire da qui!» esclamò Angie, guardandosi freneticamente intorno, prima di precipitarsi alla finestra. «SUBITO!»

Presto cominciammo a fare ipotesi assurde sulla scuola, con le nostre voci che si sovrapponevano in una cacofonia di urla, lamenti e grida isteriche. Ci avevano rese irresistibili senza alcun apparente motivo. C'erano ragazzi meravigliosi dappertutto. Avevamo trovato una scatola piena zeppa di preservativi e c'era scritto di usarli tranquillamente. Cos'altro...?

«Smettetela.»

La voce seria di Arianna ci zittì all'istante. Ci voltammo all'unisono verso di lei, la sola rimasta a fissare la scatola senza battere ciglio.

«Non è una scuola per maniaci o altre porcate» mormorò, chinandosi per raccogliere il coperchio che avevo lasciato cadere.

«Certo, è insolito, ma magari questo è solo un collegio dove l'amore non è proibito. Sono solo un po' più elastici, tutto qua.»

Il realismo di Arianna di solito ci faceva tornare alla realtà con delusione, ma stavolta era stato di conforto. Non che le credessimo al cento per cento ma, almeno per il momento, un appiglio il più possibile vicino alla realtà era d'aiuto.

«Be'» proruppi, scambiando un'occhiata con Beth ed Angie, anch'esse tranquillizzate dalle parole della nostra amica. «Resta comunque da capire come mai ci abbiano ridotte cos...

Non riuscii a concludere la frase, perché la voce di Arianna mi interruppe di colpo.

«Ah, un'altra cosa... Manca dieci alle otto.»

 

Uniformi, zaini, gonne e spazzole volavano dappertutto, nella confusione generale.

Non potevamo fare tardi. Non il nostro primo giorno di scuola!

In mezzo al delirio, qualcuno ebbe la brillante idea di bussare alla porta. Ci scambiammo uno sguardo irritato, mezze svestite. Chi diamine poteva essere?

Come per un tacito accordo, puntammo tutte lo sguardo su Beth, la più vestita tra di noi, che sbuffò e andò ad aprire controvoglia. Mentre mi sfilava accanto, con i capelli tutti arruffati, mi accorsi che aveva la camicia al contrario e soffocai a stento una risata.

In ogni caso, il suo colloquio fu breve. In un attimo era già di ritorno e posò il suo sguardo su di me con aria interrogativa.

«Kia» mormorò, indicando la porta semiaperta con lo sguardo. «Uno splendido tizio ti cerca...»

Conoscevo solo uno splendido tizio in tutto l'istituto – non che ce ne fossero pochi, comunque – quindi non fu difficile per me immaginare chi fosse.

«Deve essere il nostro vicino di stanza» spiegai, sotto gli sguardi indagatori delle mie amiche, mentre mi avviavo verso la porta, con un pessimo presentimento.

«Wow, Kia, non hai perso tempo!» commentò Angie, ridendo.

Per tutta risposta, le lanciai una scarpa.

Quando aprii la porta, come prevedibile, mi trovai davanti Shadow e cercai di mantenere un certo contegno di fronte alla sua presenza.

«Ciao Kia!» esclamò lui, tutto pimpante. 

Fece per appoggiarsi allo stipite della porta, ma si ritrovò ad abbassare la testa di scatto, evitando per un soffio la spazzola che Angie mi aveva lanciato di rimando. La osservammo colpire il muro dietro di noi con un tonfo, prima di cadere sul pavimento.

«Non farci caso» mormorai, tossicchiando. «Comunque... cerchi qualcosa?»

Con mio immenso sollievo, lui non ci mise molto a riprendersi dallo shock della spazzola.

«Volevo solo dirti che siamo nella stessa classe.» Fece un sorriso furbetto e aggiunse: «Ho fatto qualche ricerca. Terzo anno anche tu?»

Lo fissai spalancando la bocca. No, non era possibile!

«Terzo anno?» riprovò lui.

Dovevo essere rimasta a bocca teatralmente aperta per qualche attimo di troppo.

«Davvero?» esclamai, boccheggiando. «Sì, sono al terzo... allora ci vediamo di sotto!» riuscii infine a dire. Sarebbe stata dura averlo come compagno di classe, sia per i miei ormoni che per la mia integrità morale.

«A dopo!» concluse lui, salutandomi con la mano. 

Fece per avviarsi, ma poi parve ricordarsi della spazzola, rimasta nel bel mezzo del corridoio. La raccolse da terra e me la passò con un sorriso. Nel farlo, le nostre dita si sfiorarono per una frazione di secondo.

«Carino il reggiseno, comunque» bisbigliò lui strizzandomi l'occhio, prima di sparire giù per le scale.

Abbassai lo sguardo e mi sentii avvampare. Merda. Da un lato, la camicia dell'uniforme era rimasta impigliata nella spallina del reggiseno.

Rimasi immobile, pietrificata al pensiero di aver parlato fino a quel momento con un ragazzo con metà reggiseno in bella vista.

«Io volevo dirtelo..!» mi bisbigliò Beth all'orecchio, comparsa all'improvviso dietro di me. «Ma il ragazzo sembrava così impaziente...»

«BETH, VUOI MORIRE?!»

«Ragazze, sbrigatevi, sono le otto in punto!»

Spettinate e con metà bottoni delle camicie saltati, arraffammo gli zaini e ci lanciammo in una rocambolesca corsa giù per le scale. Una volta giunte nell'atrio, avevamo tutte e quattro il fiatone.

Ci affrettammo a chiedere alla bidella dove fosse la nostra sezione che, con nostra fortuna, si rivelò essere situata proprio dopo l'atrio, subito sulla destra.

Ci avviammo a passo veloce in quella direzione ma, dopo un momento, Beth, Arianna ed io realizzammo che Angie non era con noi.

Voltandoci verso l'atrio, la vedemmo ferma di fronte alle macchinette automatiche. Notando che la stavamo fissando ad occhi sgranati, lei agitò gli spiccioli che aveva in mano nella nostra direzione.

«La corsa mi ha messo sete» spiegò in tutta calma.

«Angie!» protestai, cercando di parlare a voce bassa, visto che la bidella di prima continuava a lanciarci delle occhiate perplesse. «Siamo in ritardo!»

Lei scrollò le spalle con noncuranza e, dopo un attimo, era già tornata a guardare la macchinetta davanti a sé.

Voltandomi verso le mie amiche, vidi che Beth stava scrollando le spalle, come se non avesse idea di cosa fare, mentre Arianna scuoteva la testa con aria rassegnata, con l'aria di chi, invece, aveva già assistito a quella scena un centinaio di volte. Inutile ricordarle che eravamo in un ritardo spaventoso, ci disse: se Angie aveva sete, Angie doveva avere una bottiglietta d'acqua.

Dopo averle lanciato un ultimo sguardo, ci rassegnammo a lasciarla sola e ci avviammo in classe.

 

Angie si parò davanti ad una delle macchinette situate nell'atrio, rigirandosi gli spiccioli fra le dita.

Mentre cercava con gli occhi il costo delle bottiglie d'acqua, provò la spiacevole sensazione di essere osservata. Nel riflesso nel vetro vide che un ragazzo, comparso all'improvviso dietro di lei, la stava fissando.

Lo sconosciuto aveva corti capelli castani scuri e magnetici occhi verdi, un naso che aveva tutta l'aria di essere stato rotto e un sorriso strafottente sul volto che Angie trovò fin da subito piuttosto irritante. Era la classica espressione da bulletto tormentato, che intimoriva i ragazzi più piccoli e che faceva arrossire le ragazzine. In entrambi i casi, per paura o per fascino, chiunque l'avrebbe lasciato passare avanti. Ma non Angie Stevens.

«Che cazzo hai da guardare?» l'apostrofò lei, voltandosi.

Si accorse subito che il ragazzo la sovrastava di almeno un palmo, ma non si lasciò intimorire e sollevò il mento verso di lui in segno di sfida.

Il sorrisetto del ragazzo si spense all'istante e i suoi occhi si strinsero.

«Ce l'hai con me?» mormorò poi, inarcando un sopracciglio. Sembrava sinceramente stupito dall'atteggiamento spavaldo di lei.

Angie si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, beandosi della confusione che gli balenava negli occhi. Credeva forse di spaventarla, con quell'aria da ragazzaccio? Aveva a che fare con stronzetti del genere tutti i giorni, a Dublino. Persino l'accento le ricordava un po' casa sua.

In ogni caso, Angie dovette ammettere che lo sconosciuto non ci mise molto a riprendersi dalla confusione. E a passare al contrattacco.

«Mi stavi coprendo la visuale» disse, senza darle il tempo di replicare. L'afferrò per la gola e la spinse contro il vetro delle macchinette, strappandole un gemito.

Angie boccheggiò in cerca d'aria e, dopo un istante che le parve lungo un'eternità, il ragazzo allentò la presa sul suo collo e la lasciò andare.

Tenendo gli occhi fissi a terra e inspirando a pieni polmoni, Angie deglutì: nel farlo, percepì un'acuta fitta di dolore alla gola e serrò istintivamente i pugni. Non riusciva a credere a ciò che quello stronzo le aveva appena fatto. Nel punto in cui aveva sbattuto il vetro, la nuca le bruciava da impazzire, ma era così arrabbiata che il dolore svanì insieme alla sete. Come si permetteva?

«La sai una cosa?» proruppe, alzando gli occhi su di lui. La voce le usciva un po' roca, ma non se ne preoccupò. «L'avevo visto dal vetro, che la tua era proprio una faccia da schiaffi. Anzi, da calci.»

Con uno scatto fulmineo, sollevò la gamba e lo prese in pieno volto con la scarpa, facendolo indietreggiare di qualche passo.

Il ragazzo si portò una mano alla guancia tumefatta, le dita viscide di sangue, e la fissò con autentico stupore. Non doveva essere abituato a incontrare ragazzi al suo livello, pensò Angie. Soprattutto, be', quando non erano ragazzi.

«Peccato che al naso ci abbia già pensato qualcun altro. Sono un po' gelosa» mormorò lei, facendogli il broncio.

«Brutta stronza.»

Dopo un attimo, il ragazzo l'aveva inchiodata di nuovo contro il vetro delle macchinette, sferrandole un pugno nello stomaco che la piegò in due.

Angie soffocò un gemito e urlò di rabbia, liberandosi dalla sua stretta e caricando il pugno. Voleva abbattersi sulla sua faccia e cancellargli quell'odioso sorrisetto una volta per tutte.

Erano entrambi troppo occupati a darsele di santa ragione per accorgersi della figura infuriata che stava venendo verso di loro.

«COSA STATE FACENDO?!» sbraitò, dividendoli.

Angie si trovò di colpo lontana dal suo avversario, che continuò a fissare in cagnesco, trattenendosi a stento dallo sputargli addosso. Una figura, infatti, si era improvvisamente intromessa tra di loro e la ragazza sbatté le palpebre: conosceva quel tizio. Era il custode che le aveva condotte alla macchina, un paio d'ore prima. Gérard.

«Harris, ancora tu?» Gérard si rivolse al ragazzo ed Angie notò che l'espressione del custode non sembrava più furiosa, quanto delusa.

L'odioso tipo si limitò ad abbassare lo sguardo a terra, senza dire una parola.

A quel punto, il custode si rivolse ad Angie. «E tu... la nuova arrivata?» mormorò, squadrandola da capo a piedi.

Angie pensò che la sua non dovesse essere esattamente la migliore delle presentazioni: l'uniforme era tutta sgualcita e sporca di sangue e, anche se non poteva vederli, sapeva che i suoi capelli in quel momento dovevano assomigliare ad un cespuglio. Si limitò a rivolgere a Gérard un sorriso sornione.

«Cominci bene» commentò lui, stringendo gli occhi. A quanto pareva, non era un individuo granché compassionevole. «Tutti e due in presidenza.»

Angie aprì la bocca per protestare, ma il custode non gliene diede il tempo. Li afferrò tutt'e due per il colletto della camicia e li trascinò lungo il corridoio, fino all'ufficio della preside.

In presidenza li attendeva una bella ramanzina, con tanto di punizione. Con una certa ironia, Angie realizzò che aveva conosciuto prima la preside dei suoi professori. Non era mai finita in presidenza così presto e, mentre la donna parlava, in Angie cresceva l'odio per colui che l'aveva fatta finire lì.

Tornò verso la sua classe a passo di carica, col sangue che le ribolliva. Si sentiva offesa e indignata, tutto per colpa di quell'odioso individuo. Ma non l'avrebbe passata liscia. Night Harris, così si chiama quel completo idiota, l'avrebbe pagata cara.

Ad Angie quasi venne un infarto quando vide che il ragazzo lo stava seguendo.

«CHE DIAVOLO VUOI ANCORA DA ME?» sbraitò, bloccandosi nel bel mezzo del corridoio.

«Non posso andare in classe, Gonnellina al Vento?» mormorò lui con sufficienza, superandola senza degnarla di uno sguardo.

«Come diavolo mi hai chiamat... CHE COSA?!»

Angie rimase a bocca aperta, paralizzata, gli occhi fissi sul ragazzo che continuava ad avanzare tranquillo verso la sua classe. La loro classe. 

Se solo non li avesse amati così tanto, in quel momento Angie si sarebbe volentieri strappata i capelli. Non solo quello stronzo le aveva appena affibbiato un assurdo nomignolo ma, a quanto pareva, erano entrambi al terzo anno, nella sezione C.

Angie si sentiva di colpo svuotata di ogni energia. Con aria sconsolata, si rassegnò a seguirlo a capo chino ma, un attimo prima di entrare, Night si appoggiò alla porta chiusa della classe e si voltò verso di lei, sbarrandole la strada.

Angie sbuffò, incenerendolo con lo sguardo. La tentazione di farlo fuori era irresistibile. Solo il pensiero che finire per la seconda volta in presidenza nel giro di cinque minuti non fosse esattamente un'idea saggia la convinse che la sua vendetta avrebbe dovuto attendere.

«Sappi che la pagherai» sibilò, scattando in avanti e cercando di raggiungere la maniglia, incurante del corpo di lui che si frapponeva fra lei e la porta. Si diverte così tanto a provocarmi?

«Lasciami entrare, idiota!»

«Non ho mai incontrato una ragazza come te, lo sai?»

Night continuava a fissarla con un'aria al contempo curiosa e divertita. All'improvviso si chinò su di lei, con un gesto repentino che la colse del tutto alla sprovvista.

Pensando che stesse per colpirla di nuovo, Angie trasalì e scoprì i denti, ma Night aveva altre intenzioni. Si fece così vicino al suo volto che per un attimo la ragazza pensò che lui l'avrebbe baciata e impallidì alla sola idea.

«Penso proprio che ci divertiremo» bisbigliò, rivolto alle sue labbra.

Rossa di rabbia, Angie allontanò la testa e fece per protestare, ma lui aprì di scatto la porta dietro di sé e i due furono costretti ad entrare in classe.

 

Ciao!

Eccovi il capitolo due, dove fanno la loro entrata in scena Night, personaggio chiave della nostra storia, e il suo vivace compagno di stanza, Shadow! Chiedo venia per i nomi vagamente trash: evidentemente la me tredicenne e le sue amiche credevano che dare ai ragazzi nomi di agenti atmosferici accrescesse in qualche modo il loro sex appeal. Boh, non so cosa ci fumassimo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere!

Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** -•Capitolo 3 ***




Scoccai un’ultima occhiata ad Angie, che in quel momento si stava avvicinando alle macchinette automatiche contando gli spiccioli e, voltandomi verso porta della classe, dove mi attendevano Arianna e Beth, ebbi un improvviso attimo di panico.

«Ragazze…» pigolai, senza avere il coraggio di guardarle in faccia, mentre mi torturavo l’orlo della gonna. «Potete entrare prima voi? Io aspetto Angie.»

Arianna mi fissò come se fossi impazzita. «Ma se le hai appena detto che siamo in ritardo!» esclamò, per poi dare un’occhiata al suo orologio da polso e inorridire. «Schifosamente in ritardo!»

«Avanti, Kia!» mormorò Beth, con un sorriso comprensivo, dandomi una pacca d’incitamento sulla spalla.

Feci un respiro profondo e rivolsi uno sguardo grato a Beth. Lei mi conosceva come le sue tasche, sapeva che quelle situazioni mi mandavano nel panico. Era il fatidico primo giorno. Dozzine di paia d’occhi ci avrebbero squadrato, decine di bocche avrebbero sussurrato commenti alle nostre spalle, altrettante menti avrebbero fatto chissà quali pensieri. Se c’era una cosa che detestavo era stare al centro dell’attenzione ed essere la protagonista di strampalate congetture. La sola idea di varcare la soglia mi terrorizzava. Sapevo che non avrei potuto rimandare quel momento all’infinito, ma continuavo a ripetere tra me e me che sarei entrata insieme ad Angie, aggrappandomi alla sua presenza alle macchinette come fosse la mia sola ancora di salvezza.

«Kia, dobbiamo entrare» mi incitò Beth, inclinando il capo.

«Senti, fa’ come ti pare» sbottò Arianna, levando gli occhi al cielo. «Noi intanto andiamo.»

Aprì con decisione la porta della classe, dal quale proveniva una caciara non indifferente, e trascinò dentro Beth, che fece in tempo a lanciarmi un’ultima occhiata apprensiva prima che Arianna chiudesse la porta e il corridoio piombasse di nuovo nel più completo silenzio.

Il cuore mi batteva forte, mentre facevo nervosamente avanti e indietro, lanciando di tanto in tanto delle occhiate sempre più irritate in direzione di Angie. Ma quanto cavolo ci metteva? Sbuffai esasperata e mi balenò in testa l’idea che forse sarei dovuta entrare senza di lei. Più il ritardo si allargava, peggiore sarebbe stata la mia brutta figura con il professore e i nuovi compagni, più insistenti le loro occhiate e più strampalate le loro congetture su di me.

Facendo un respiro profondo, poggiai la mano sulla maniglia, quando quella si mosse all’improvviso senza che io avessi fatto alcuna pressione. La porta si spalancò di colpo e mi ritrovai faccia a faccia con un ragazzo dall’aria annoiata, che stava uscendo in quel momento.

Trattenni il fiato e ci scambiammo uno sguardo ugualmente sorpreso, studiandoci a vicenda. Il tipo era alto diverse spanne più di me e troneggiava sulla mia figura con fare vagamente minaccioso. Aveva corti capelli castani scuri e occhi verdi, dei meravigliosi occhi verdi, mi ritrovai a pensare come una cretina.

«Scusami» mi affrettai a dire, riscuotendomi e facendomi da parte per lasciarlo passare, un po’ intimorita. Era indubbiamente un ragazzo affascinante, ma c’era qualcosa in lui che mi metteva in soggezione, lasciandomi all’erta. Sembrava il tipo che ti passa il braccio intorno alla vita solo per poterti sfilare meglio il portafogli dalla tasca dei jeans.

Contro ogni previsione, lui non si mosse dalla soglia e si limitò a squadrarmi.

«Sei una delle nuove arrivate?» azzardò, inarcando un sopracciglio.

Rimasi immobile davanti a lui come un pesce lesso, prima di realizzare che mi aveva fatto una domanda e annuire lentamente.

A quel punto fu lo sconosciuto a farsi di lato, lasciando libera la traiettoria che conduceva alla porta.

«E allora perché non entri?» domandò. Il suo tono era perplesso e beffardo insieme, mentre le sue sopracciglia adesso erano così inarcate che sembravano sul punto di prendere il volo.

Seguì un silenzio imbarazzante, a cui decisi ben presto di dare un taglio, onde evitare di farmi classificare ufficialmente come un pesce lesso. Schivando abilmente il suo sguardo curioso, bofonchiai a denti stretti, le gote paonazze: «Sono terrorizzata.»

Udii un suono che assomigliava vagamente ad un risolino e, alzando gli occhi con un po’ di timore, vidi che il ragazzo stava effettivamente ridacchiando, ma il sorriso che aveva sul volto pareva sincero e non ironico. Di colpo, sembrava meno minaccioso.

«Nessuno morde, là dentro. Giuro» mormorò. Mi porse improvvisamente la mano. «Io sono Night, comunque.»

Quel nome improbabile mi fece scattare in mente qualcosa. Un ricordo. “Non provare a negarlo, Night!” aveva detto Shadow, quella stessa mattina. Dubitavo che esistessero altri individui di nome Night in tutto l’istituto. Che fosse lui, quindi, l’altro nostro vicino di stanza?

«Kia» risposi titubante, ricambiando la sua stretta dopo un attimo.

Se anche Night si accorse della mia esitazione, non lo diede a vedere. Dopo avermi salutato brevemente, si allontanò in direzione delle macchinette. Dove, notai trattenendo un urlo di rabbia, c’era sempre Angie, che picchiettava con le dita sul vetro.

Ah, vaffanculo!, pensai, aprendo infine la porta della classe.

Il silenzio calò di botto nell’aula dove, fino giusto ad un secondo prima, stava regnando il finimondo e decine di paia d’occhi si voltarono a fissarmi, compresi quelli del professore dietro la cattedra, un insegnante con una rada capigliatura e gli occhiali.

Abbassai gli occhi sulle scarpe, paonazza. Be’, in fondo me l’ero cercata. Se non altro, l’aula era piccola e accogliente, pensai, alzando infine lo sguardo e facendolo vagare nervosamente tra i banchi, alla ricerca delle mie amiche, cercando accuratamente di evitare ogni altro possibile contatto visivo. Le individuai subito, Arianna vicina ad un massiccio ragazzo dai folti capelli biondi e Beth ad un ragazzo dai capelli castano chiaro e i lineamenti efebici.

Mi ero immaginata di trovarle sedute accanto, ma probabilmente era stato il professore a decidere i posti. Sbattendo le palpebre, mi resi improvvisamente conto che tutti i banchi erano divisi a due a due e vi erano seduti un ragazzo ed una ragazza. Non c’erano banchi con due femmine o con due maschi. Mi dissi che doveva trattarsi di una casualità, ma la cosa mi colpì più profondamente di quanto avessi voluto ammettere. Di certo non poteva avere a che fare con il fatto che ci avessero reso di colpo delle bellezze stratosferiche e ci avessero praticamente invitate a copulare…

Un colpetto di tosse da parte del professore mi riscosse e mi affrettai a riportare l’attenzione su di lui.

«Stevens Angie?» azzardò lui, abbassando un momento lo sguardo sul registro.

Mi trattenni a stento dal levare gli occhi al cielo, perché il professore avrebbe frainteso il mio gesto, ma dentro di me mi augurai che la mia amica si fosse finalmente decisa a prendere quella dannata bottiglietta d’acqua.

«Ross Kia» lo corressi timidamente.

Spostando lo sguardo, vidi che c’era una coppia di banchi vuoti, i penultimi della fila vicino alla finestra. Sperai ardentemente che fossero per noi, quando mi accorsi che, nella coppia di banchi dietro, uno era vuoto e l’altro era occupato niente meno che da Shadow, i suoi riccioli neri e il suo sorriso da infarto. Con un improvviso nodo allo stomaco, realizzai che molto probabilmente non sarei finita accanto ad Angie.

«A cosa dobbiamo questo ritardo?» il professore mi scrutò da dietro il suo spesso paio d’occhiali, l’espressione torva. «Le ricordo che deve ancora superare il test d’ammissione. Di certo questo non è un buon inizio.»

I ragazzi seguivano la scena con malcelato interesse, ma mi sforzai di ignorare i loro sguardi brucianti su di me. Il tono seccato del professore era un campanello d’allarme, segno che ero partita subito con il piede sbagliato. Dovevo assolutamente rispondergli in modo adeguato, onde evitare di scavarmi ulteriormente la fossa con le mie mani.

«Mi scusi, professore» mormorai quindi in tono accondiscendente, abbassando lo sguardo. «Ho avuto qualche problema a trovare la classe, ma giuro che non succederà più.»

Lo vidi annuire. Sembrava soddisfatto di quella risposta.

«Ora va’ a sederti» mormorò, indicando il banco vuoto accanto a Shadow. «Il tuo posto è là in fondo.»

Mi incamminai a capo chino verso il mio banco, trattenendomi a stento dall’imprecare. Mi misi a sedere con la stessa disinvoltura che avrei avuto se avessi appena ingoiato un manico di scopa, ma il mio atteggiamento non parve affatto turbare Shadow, che mi sorrise allegramente.

«Ciao Kia!» esclamò, rivolgendomi uno scintillante sorriso a trentadue denti.

Lanciai uno sguardo disperato a Beth, nella fila parallela alla mia e, per tutta risposta, lei mi fece l’occhiolino. Fu solo il pensiero che da quel momento in poi dovevo rigare dritto con il professore a farmi desistere dal mostrarle il terzo dito.

Tornai a guardare il mio nuovo compagno di banchi di sottecchi. Dannazione. Shadow aveva tutta l’aria di essere un tipo adorabile, ma non potevo cadere in tentazione, anche se avevo la netta sensazione che il ragazzo stesse equivocando il mio atteggiamento. Non poteva certo sapere che i miei modi gentili ed educati erano dati dai miei insegnamenti familiari e non certo dal fatto che lo trovassi carino. Non solo dal fatto che lo trovassi carino, per lo meno.

Ma qualcosa mi distrasse dai miei pensieri su Shadow. Il professore, infatti, aveva iniziato a fare l’appello ed era stupito dall’assenza di Angie. La nostra amica infatti non era ancora tornata e la cosa stava iniziando a preoccuparmi.

«Avete notizie di Angie Stevens?» chiese, facendo vagare lo sguardo tra me e le mie amiche.

«Era alle macchinette, un attimo prima che entrassimo» spiegò Beth, in tono inquieto. «Non so perché non sia già qui.»

La mia modesta dose di tranquillità svanì d’un colpo quando fu Arianna, da sempre la più calma del gruppo, a lanciarmi un’occhiata densa di preoccupazione.

Mentre il professore si rassegnava ad iniziare la lezione senza di lei, bussarono d’improvviso alla porta. Mi voltai di scatto verso la soglia ed il mio cuore perse un battito quando vidi che ad entrare era stato solo Gérard, il custode che avevamo conosciuto quella mattina, con un’aria cupa e profondamente delusa. Non potei fare a meno di pensare che quel tipo fosse davvero inquietante: sembrava uscito direttamente da un film dell’orrore.

«Sì?» fece il professore, alzando gli occhi sul bidello e corrugando la fronte. «È successo qualcosa?»

Gérard sospirò. «Sì, professor Anderson. Harris ha di nuovo provocato una rissa.»

Shadow, accanto a me, si irrigidì di colpo e gli lanciai un’occhiata perplessa. Chi era Harris? L’occhio mi cadde sui due banchi vuoti davanti ai nostri, uno dei quali, a un’occhiata più approfondita, rivelò avere uno zaino ai suoi piedi, segno che il suo proprietario doveva essersi solo momentaneamente assentato. Esplorando rapidamente la classe, vidi che tutti gli altri posti erano occupati e qualcosa mi si agitò nello stomaco. Dal momento che mancava solo Angie all’appello, capii che la rissa doveva avere a che fare con l’inquietante ragazzo in cui mi ero imbattuta davanti alla porta della classe.

«C’era da aspettarselo… quel delinquente. Con che professore se l’è presa, stavolta?»

Gérard assunse un’espressione leggermente imbarazzata. «Nessun professore, in realtà. Si tratta di una studentessa.»

Il professore boccheggiò. «Una studentessa? Qual è il nome della vittima?»

Il custode si grattò la nuca, sempre più a disagio. «Ecco… vede… io non la definirei vittima, da come gliele ha suonate.»

Vidi Shadow, come metà della classe, spalancare la bocca con aria allibita.

«Si tratta di una delle nuove arrivate nella sua classe. Sono venuto ad avvertirla che sono entrambi in presidenza e che torneranno a minuti.»

La mascella di Shadow a quel punto sembrava sul punto di staccarsi. Beth, Arianna ed io, invece, ci scambiammo un lungo sguardo d’intesa. La vittima di quella rissa era senz’altro Angie. Ma perché Angie aveva picchiato quel ragazzo, Night? Non riuscivo a crederci. Era il suo primo giorno di scuola, aveva così tanta furia di farsi etichettare come una teppista?

«Quindi la ragazzina… è Angie Stevens» mormorò il professore, senza riuscire a mascherare il suo stupore, controllando il registro.

Gérard annuì e i due continuarono a parlare fitto fitto tra di loro, mentre nell’aula si diffondeva un fitto chiacchiericcio su ciò che il bidello aveva appena comunicato. Tutti sembravano molto impressionati dal gesto della fantomatica Angie Stevens e il fatto che nessuno l’avesse ancora vista non faceva che alimentare il suo mito.

Quando Gérard ebbe lasciato la classe, il professor Anderson ci mise al corrente di ciò che era accaduto, anche se avevamo già sentito ogni cosa. Da come ne parlava, Night Harris, a capo di una banda molto temuta nella scuola, doveva essere un vero delinquente. Non avevo idea se si trattassero di voci o meno, visto che il mio incontro con il suddetto, dopotutto, si era svolto in modo piuttosto pacifico, ma di una cosa ero certa: Angie non si lasciava intimorire da niente e nessuno. Quando decideva di pestare qualcuno, quella ragazza era una macchina da guerra e non andava sottovalutata, sebbene fosse un errore che facevano in tanti. D’altronde, chi avrebbe mai detto che una figura così eterea e innocente potesse avere dentro di sé tutta quella violenza?

Quando infine Night ed Angie varcarono la soglia d’ingresso, ebbi un tuffo al cuore.

Il silenzio calò nell’aula, mentre tutti – professor Anderson compreso – scrutavano con vivo interesse la ragazzina che aveva avuto il coraggio di suonarle a quello che era, secondo l’opinione comune, il ragazzo più pericoloso della scuola. Dal canto suo, Night appariva tranquillo e impassibile, come se andare in presidenza per lui fosse di routine. Lo stesso non si poteva dire della mia amica, che era rossa di rabbia e sembrava sul punto di esplodere da un momento all’altro.

Night si sedette al banco davanti al nostro, come avevo immaginato, e vidi Angie guardarsi disperatamente intorno, prima probabilmente di realizzare che l’unico posto libero era quello accanto alla sua nemesi. Incassò la testa nelle spalle, assunse un’espressione afflitta e fece per dirigersi lì, ma doveva ancora vedersela con il professor Anderson.

«Angie Stevens» proruppe lui e vidi la mia amica trasalire e voltarsi di scatto in direzione dell’insegnante, che la stava fissando con aria severa.

«Ancora non la conosco, ma sono molto deluso da quello che mi è stato riferito. La informo, nel caso non lo sapesse già, che il suo comportamento di poco fa influirà sulla sua valutazione e potrebbe di conseguenza compromettere la sua ammissione in questa scuola. Lo tenga a mente. Su, ora si sieda nel posto libero.»

Angie si rabbuiò e borbottò qualcosa tra sé e sé, tenendo gli occhi bassi, prima di mettersi seduta davanti a me con una faccia da funerale. Quando voltò la testa e mi vide, però, il suo volto si distese.

«Oh, Kia!» sospirò con aria afflitta.

Io stavo per rimproverarla a dovere, ma la voce di Shadow, vicino a me, mi interruppe.

«Te la sei cavata, Night?» domandò, dando un colpetto amichevole al ragazzo, che si voltò a sua volta verso di noi. Ci avevo visto giusto, allora: era lui il compagno di stanza di Shadow.

«Nulla di che» rispose Night, con un’alzata di spalle. «Una delle solite punizioni.»

Spostando lo sguardo, sembrò notarmi. «Ah, ciao Kia» disse e, sogghignando, aggiunse: «Allora ce l’hai fatta ad entrare.»

«KIA, CONOSCI QUESTO DEFICIENTE?»

«Shh! Abbassa la voce, Angie!» ribattei, vedendo che il professor Anderson aveva appena lanciato un’occhiata di fuoco nella nostra direzione.

«Voi due vi conoscete?» Shadow fece vagare lo sguardo tra me e Night con aria confusa.

«Ci siamo presentati prima» spiegò Night, mentre Angie mi lanciava uno sguardo orripilato.

«Prima che faceste a botte» mi affrettai a precisare ma, vedendo che l’espressione di Angie non era cambiata di una virgola, decisi di cambiare argomento. «Voi due siete compagni di stanza, invece?»

«Già» rispose Night, abbozzando un sorriso. Sebbene avesse scoperto che Angie ed io eravamo amiche, non sembrava affatto ostile nei miei confronti.

Non potei fare a meno di pensare che, vista la reciproca antipatia che sembrava essere sorta fra Angie e Night e il fatto che fossimo tutti vicini di stanza, ne avremmo davvero viste delle belle.

Il professor Anderson nel frattempo aveva richiesto un po’ d’attenzione – e lanciato una seconda occhiata rovente verso di noi – così Angie e Night si voltarono all’unisono in direzione della cattedra.

«Mi hai dato una gomitata» brontolò lei, scacciandolo.

«Ti ho solo sfiorata, stupida.»

«Razza di idiota.»

«Harris e Stevens, potrei avere un po’ di silenzio?» intervenne il professore, fulminandoli con lo sguardo.

Dopo che i due si furono zittiti, il professor Anderson approfittò probabilmente dell’unico momento di silenzio che avrebbe avuto in tutta l’ora e, tutto ringalluzzito, esclamò: «Benissimo. Cominciamo le lezioni.»

 

Man mano che i minuti passavano, mi sorpresi ad apprezzare il metodo d’insegnamento del professor Anderson, che scoprimmo essere l’insegnante di storia e di inglese. Era molto preparato ed il suo modo di spiegare era sorprendentemente chiaro ed esaustivo.

L’unica nota dolente era che ben pochi ragazzi gli stavano prestando ascolto e lui non riusciva a farsi rispettare. I ragazzi chiacchieravano, disegnavano, guardavano fuori dalla finestra, si agitavano sulle sedie, per non parlare di Angie e Night, che passarono tutta l’ora a spintonarsi e a riempirsi di insulti. Erano davvero scalmanati, non potei fare a meno di notare, mentre cercavo con scarso successo di seguire la lezione. Scoccai a Shadow un’occhiata disperata e lui scoppiò a ridere.

Nel bel mezzo dell’ora, bussarono alla porta e il professor Anderson alzò stancamente la testa verso la bidella che aveva appena fatto capolino sulla soglia.

«Professor Anderson, buongiorno» disse. «Potrebbe ospitare due ragazzi della sezione A? Manca la loro insegnante.»

Vidi il professore annuire e indicare lo spazio vuoto in fondo all’aula, proprio dietro i banchi di Beth ed il suo compagno di banco, che erano gli ultimi della fila centrale. «Possono accomodarsi lì.»

Fu proprio l’espressione di Beth a colpirmi, mentre i nuovi arrivati facevano il loro ingresso, trascinandosi dietro le loro sedie. La mia amica, infatti, era sbiancata, anche se non avrei saputo dire chi dei due fosse il responsabile: ad entrare erano stati un bel ragazzo alto e dinoccolato, con una giacca di pelle nera sopra l’uniforme e i capelli neri e arruffati, e un’altrettanto bellissima ragazza, dai lunghi boccoli rossi e le lentiggini, con indosso una maglietta dei Rolling Stones di almeno tre taglie in più della sua.

Vedendo che la mia amica stava fissando il moro come se gli stesse facendo una radiografia, capii che era lui l’oggetto del suo interesse e le lanciai un’occhiata maliziosa, ma Beth sembrava pietrificata. I due si sedettero dietro la mia amica, che nel frattempo era diventata rossa come un peperone.

«Clarke, giusto?» fece il professor Anderson.

La bella ragazza dai capelli rossi alzò la testa e annuì.

«E Davinson.»

Gli occhi dell’insegnante si strinsero, mentre il moro sollevava il mento e ricambiava lo sguardo del professore con due pozzi neri e spaventosamente inespressivi.

«Cerchi di comportarsi bene» mormorò il professor Anderson in tono d’avvertimento e lo vidi scoccare un’occhiata a Night. «Il suo capo è qui per seguire la lezione.»

L’avvertimento dell’insegnante perse ogni connotazione severa quando Night scoppiò a ridere, trascinando tutta la classe nell’ilarità generale. Il ragazzo moro si limitò a sorridere, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi ed io inarcai un sopracciglio: quindi quel tipo faceva parte della banda di cui Night era indiscutibilmente il leader.

Non mi piaceva l’idea che Beth fosse rimasta colpita da un ragazzo del genere, ma d’altro canto il suo volto tutto rosso era uno spettacolo davvero impagabile. Avrei voluto continuare ad osservarlo ancora per un bel po’, ma il professor Anderson ricominciò a spiegare – o almeno ci provò – e fui costretta a distogliere lo sguardo dalla mia amica e riportarlo sulla lavagna.

 

Nel vedere entrare quel Davinson, il cuore di Beth aveva perso un battito.

E non solo perché era dannatamente carino, ma perché con quella giacca di pelle, i capelli un po’ lunghi rispetto agli standard maschili del momento e l’aria vagamente trasognata, quel tipo pareva appena uscito da Grease (inutile dire che Beth aveva visto quel musical almeno trecento volte). Aveva avuto la simultanea percezione che quel ragazzo fosse stato catapultato lì da un’altra epoca e che in qualche modo fossero sulla stessa lunghezza d’onda. Sentiva nella pelle che, se avessero avuto occasione di parlare, tra loro ci sarebbe stato subito del feeling.

Nello spostare lo sguardo sulla ragazza dai capelli rossi, però, Beth realizzò con una certa amarezza che la loro immaginaria coppia di ragazzi vintage sarebbe stata costretta a diventare un trio. La rossa indossava pantaloni a zampa, una maglia a maniche corte con una stampa dei Rolling Stones e, a giudicare da come rideva e scherzava con il moro, i due sembravano molto in intimità. Beth fu colpita dal pensiero che potessero stare insieme e l’entusiasmo le si sgonfiò nel petto come un palloncino bucato.

Quando si sedettero dietro lei e Ben, il suo amabile compagno di banco, la ragazza non riuscì a seguire la lezione un minuto di più e si mise ad origliare la loro conversazione, cercando di apparire disinvolta. Il suo intento di apparire discreta fallì miseramente quando, nel sentire che i due si trattavano scherzosamente come amici d’infanzia e niente più, le sfuggì un rumoroso sospiro di sollievo.

Ben le scoccò un’occhiata perplessa e lei evitò il suo sguardo, ritrovandosi a fissare con grande interesse la camicia sudaticcia del professor Anderson.

Mentre faceva finta di seguire la lezione, mordicchiando l’estremità della penna, Beth si lambiccava il cervello. Aveva problemi molto più urgenti dell’invasione della Gran Bretagna da parte dei Vichinghi: ad esempio, come attirare la loro attenzione?

Abbassò un momento gli occhi sulla sua maglia ed ebbe un’illuminazione. I due non avevano dato segno di averla notata, entrando – se avessero fatto qualche commento, lei li avrebbe di certo sentiti – ma poteva sempre rimediare.

Con aria casuale, lasciò cadere la penna a terra, proprio dietro di sé. Per raccoglierla, si voltò a mezzo busto, contorcendosi come una neofita dello yoga, cosicché entrambi i ragazzi potessero vedere la sua maglia che, come molte della sua collezione, ritraeva i quattro ragazzi di Liverpool.

«Ehi, bella maglia!»

Era stata la ragazza a parlare e Beth inghiottì la delusione, la sua voce che le risuonava nelle orecchie. La rossa era almeno a conoscenza dell’eterna lotta in corso fra i Beatles e gli Stones? Sospirando tra sé, si disse che era meglio di niente e che attaccare bottone con lei avrebbe potuto comunque rappresentare un inizio.

Si voltò quindi verso i due ragazzi, sperando che il professor Anderson non le dicesse nulla. Dopotutto, pur dandogli completamente le spalle, il suo era comunque uno dei comportamenti più disciplinati che in quel momento erano in corso nella classe.

«Grazie» disse Beth, sorridendo. «Anche la tua» aggiunse, indicandola con lo sguardo. In fondo, era risaputo che le diatribe tra i Beatles e gli Stones fossero sempre state ingigantite dai giornalisti.

La rossa ricambiò il sorriso. «Io comunque sono Annie, piacere.»

«Io Beth.»

Le strinse la mano e poi, proprio come Beth sperava, indicò l’amico. «Lui invece è John.»

Sentendosi nominare, il ragazzo, che nel frattempo si stava lanciando delle occhiate con Night, rivolse a loro la sua attenzione e Beth si sentì improvvisamente la gola secca.

«Piacere» mormorò lui, inchiodandola con i suoi occhi neri.

La mente di Beth, nel frattempo, scorreva all’impazzata come lo slot di una macchinetta. Pensa a qualcosa di sensato, pensa a qualcosa di sensato, pensaaqualcosadisensato.

«John?» ripeté lei, abbassando un momento gli occhi sulla sua maglia per poi tornare a fissare il ragazzo. Annie ormai era solo una macchia rossa sulla sfondo, di scarso o scarsissimo interesse. «Come John Lennon!»

La macchia rossa sullo sfondo ridacchiò allegramente ma, contro ogni previsione, il ragazzo fece una smorfia, come se Beth avesse appena detto qualcosa di disgustoso.

«John Lennon?» ripeté. «Ma fa schifo!»

Beth rimase un attimo interdetta, come se un fulmine le avesse appena colpito il cervello. Di certo, non era il colpo di fulmine in cui aveva sperato lei. Aveva preso un abbaglio. Quel ragazzo non era come lei: come minimo, quel look un po’ datato era studiato a tavolino per far colpo sulle ragazzine.

Assunse un’aria indignata e fulminò il ragazzo con lo sguardo. Come osava quell’idiota offendere il suo idolo?

«Non capisci proprio un cazzo» sibilò e, senza neanche dargli il tempo di ribattere, si voltò con aria offesa.

****

Dopo la fine delle lezioni, tornammo in camera a riposarci un po’ prima di pranzo, scambiandoci le impressioni che avevamo avuto quella mattina. Dalle parole delle mie amiche, il primo giorno di scuola sembrava essere andato piuttosto bene a tutte. L’unica a tenere il muso per tutto il tempo fu Beth, che non aveva ancora digerito quelle parole sgarbate nei confronti del suo mito.

«Avanti, Beth!» intervenne Angie dal suo letto, in quel momento intenta a spazzolarsi i lunghi ricci biondi. «Se è amico di quello stronzo di Night, come credi che sia fatto?»

«Night non è uno stronzo…» provai a dire timidamente, ma Angie mi incenerì con lo sguardo.

«SÌ CHE LO È!»

Mi affrettai a cambiare discorso.

«Avete visto chi mi è toccato come compagno di banco?» dissi, ridacchiando con aria nervosa. «Shadow!»

«Io penso che Shadow ci voglia provare con te» buttò lì Arianna, come se niente fosse.

«Ma no!» mi inalberai e, mio malgrado, sentii le gote prendermi fuoco. «Però è simpatico» borbottai a denti stretti, tenendo gli occhi bassi.

Le ragazze mi lanciarono all’unisono uno sguardo carico di sottintesi, ma io scossi energicamente la testa. La mia mente bacata aveva sicuramente ingigantito lo sguardo malizioso con cui mi guardava. Shadow non ci voleva provare. E, se anche avesse voluto farlo, io non avevo alcuna intenzione di cedere alle sua avances.

«Lucas, il mio compagno di banco, non sta un attimo fermo» brontolò Arianna, sospirando. Fissa davanti allo specchio del bagno, la ragazza si stava ritoccando il trucco. «Ci credo sia il mito della palestra della scuola, è iperattivo!»

«Ben è meraviglioso! DOLCEGENTILEDISPONIBILE!» esclamò Beth tutto d’un fiato, sfoggiando il primo sorriso da quando avevamo varcato la soglia della nostra camera. «… e gay, ovviamente.»

«Ti invidio, Beth» borbottò Angie. «Night è insopportabile! Non fa che provocarmi, cazzo, lo odio!»

Il suo tono era salito di un’ottava e aveva preso a pettinarsi sempre con più con foga, con la stessa delicatezza con cui io strigliavo i miei cavalli, in campagna. Sembrava davvero arrabbiata.

«LO ODIO!» ripeté indignata, scagliando la spazzola contro la parete e lasciandoci di stucco. No, io di solito non mi mettevo a lanciare striglie e brusche contro la parete; il mio paragone doveva tacere.

«Cos’è, il lancio della spazzola è diventata una nuova disciplina olimpionica?» la punzecchiò Arianna dal bagno.

Dopo aver imprecato contro Arianna – e aver raccolto la sua spazzola – Angie ci raccontò con dovizia di particolari cos’era successo alle macchinette.

«Ti ha seriamente presa per il collo?» chiese Beth, visibilmente turbata.

Angie liquidò la domanda con un’alzata di spalle. «Già. Non fare quella faccia, Beth, in Irlanda facevano molto di peggio.»

Ci scambiammo un lungo sguardo, evitando di approfondire la questione. Nessuna di noi voleva davvero sapere che cosa si celasse dietro quel “peggio”.

«Per punizione dovrai davvero pulire tutte le classi con Night?» domandai, un po’ per cambiare argomento e un po’ perché quel provvedimento mi sembrava davvero esagerato.

Lei annuì con aria sconsolata e Arianna s’intromise all’improvviso nella conversazione, informandoci che eravamo in ritardo per il pranzo.

Ci precipitammo al piano di sotto, rischiando di romperci l’osso del collo in una corsa a perdifiato giù per le scale, la seconda e probabilmente non l’ultima di quella giornata, e ci dirigemmo in mensa rischiando l’infarto.

Ad attenderci, una confusione così assordante che trattenni a stento l’impulso di coprirmi le orecchie con le mani. La struttura dell’enorme stanzone adibito a mensa era moderno e quasi cozzava con il fascino antico del resto dell’istituto. Le pareti erano grigie e spoglie e le finestre erano molto in alto, forse troppo, a giudicare dall’afa che si respirava lì dentro. C’erano lunghe file di tavoli e panche, traboccanti di cibo e ragazzini urlanti.

Le ragazze ed io ci scambiammo uno sguardo di muta comprensione reciproca.

«Aiuto…» bisbigliò Beth a nome di tutte noi.

«Laggiù!» esclamò di colpo Angie, riportandoci alla realtà.

Seguendo il suo sguardo, vedemmo che la ragazza aveva adocchiato uno striminzito angolo di un tavolo in cui noi quattro ci saremmo potuto sedere, stringendoci un bel po’.

Ci dirigemmo a passo rapido in quella direzione, quando due ragazzi, molto più vicini di noi, vi poggiarono sopra i loro vassoi e si sedettero, soffiandoci i posti.

«Troppo tardi…» borbottai, iniziando già a guardarmi intorno per cercare un altro tavolo.

«Lasciate fare a me.»

Arianna si rimboccò le maniche della camicia e si diresse con passo deciso verso i due ragazzi. Passo che, non potei fare a meno di notare, stava diventando sempre meno deciso e sempre più ancheggiante man mano che si faceva vicino al tavolo.

Angie la fissava a bocca aperta. «Non avrà intenzione di picchiarli?»

Le lanciai un’occhiata. «Francamente ne dubito, Angie.»

Avevo intuito cosa volesse fare la ragazza, che ormai aveva raggiunto l’obbiettivo.

Sotto i nostri sguardi attoniti, Arianna si spalmò sul tavolo, inarcando il bacino e rivolgendo ai due ragazzi uno sguardo languido. Vedevo le sue labbra muoversi ma non udii cosa disse loro, che la stavano fissando come un angelo sceso in terra. In ogni caso, parve bastare: i due scattarono in piedi come soldatini e le lasciarono subito libero il posto, mettendosi anche a pulire la superficie del tavolo finché non prese a brillare.

«I miei complimenti, Arianna» bisbigliai dopo averla raggiunta, a metà fra il divertito e l’impressionato.

«Sono ancora capace di far colpo su qualcuno, a quanto pare» ridacchiò lei, ma il riso le morì in gola ed i suoi occhi si affrettarono ad evitare il mio sguardo. Sapevo che stava pensando a Jake, il suo ex ragazzo, e quel pensiero mi rese inquieta. Arianna non si era ancora ripresa dalla partenza di lui in America e forse neanche dal fatto che avessi avuto un breve flirt con lui proprio mentre stavano insieme. Non lo sapevo, in realtà, perché era da molto tempo che non tornavamo sull’argomento e di certo non avevo intenzione di farlo proprio adesso.

Ci sedemmo a tavola in silenzio, l’imbarazzo talmente palpabile che avrebbe potuto prendere posto accanto a noi e così ingombrante che probabilmente ci avrebbe lasciato ancora meno posto dove sederci.

«Chissà chi è il compagno di stanza di Shadow» esclamò Beth all’improvviso, nel maldestro tentativo di cambiare argomento.

Il ragazzo moro, infatti, ci era appena sfilato accanto ed ero sicura che a nessuna di loro fosse sfuggito l’occhiolino che lui mi aveva rivolto.

«Night» mi affrettai a dire, sperando di allontanare l’attenzione tanto da Jake quanto da Shadow.

«CHE COSA?!» strillò Angie.

«Ma se ce lo ha anche detto, in classe…» le feci notare, scuotendo la testa.

«Dev’essere il destino, Angie» rise Beth, godendosi l’espressione allibita sul volto dell’amica.

Scoppiamo tutte a ridere, l’atmosfera di nuovo distesa. A turno, poi, andammo a prendere da mangiare. Quando toccò a me, notai con piacere che la scelta era vastissima, dal classico junk food a scelte più salutari e non sapevo se dare la colpa al mio stomaco brontolante, ma aveva tutto un aspetto a dir poco delizioso.

Dopo aver studiato con attenzione le pietanze dall’altro lato del vetro, decisi che per quel giorno le scelte salutari potevano aspettare.

«Una fetta di pizza, per favore» dissi, sorridendo alla donna dietro al banco.

C’era rimasto l’ultimo pezzo e assunsi un’espressione trionfante quando lei me l’ebbe posato sul vassoio, ignorando l’occhiata d’odio che un’agguerrita ragazzina bionda mi rivolse, la quale doveva aver avuto la mia stessa idea.

Un profumino invitante mi invase le narici e fu solo per pietà sua che evitai di addentarne una fetta lungo il tragitto.

«Il cibo non sembra male» osservò Arianna, quando fui tornata al tavolo, che stava osservando il gigantesco hamburger che aveva tra le mani, probabilmente indecisa sul lato dal quale addentarlo per prima.

«Un giorno mi spiegherai come fai a non ingrassare» borbottò Angie, fissandola con aria truce, mentre apriva la sua lattina con uno schiocco.

Con aria divertita, non potei fare a meno di notare che tutte noi avevamo spontaneamente deciso di rimandare il cibo sano all’indomani. Noi tre, per lo meno.

«A proposito, quanto ci mette Beth?» mormorai, guardandomi intorno.

 

Con l’acquolina in bocca, Beth si fece dare un’enorme fetta di torta al cioccolato e panna dalla donna dietro il bancone e la ringraziò con un cenno del capo.

Si allontanò a passo svelto dalla fila di ragazzi in attesa di essere serviti e si avviò verso le sue amiche, il cui tavolo, ottenuto grazie all’ascendente di Arianna, era situato in un angolo appartato della mensa.

Sospirò rumorosamente, vedendo quant’era lontano da lì: avrebbe dovuto superare un percorso ad ostacoli per arrivarvi sana e salva.

Mentre si faceva strada fra i ragazzi agitati e affamati, stando attenta a non rovesciare il suo vassoio, una voce risuonò alle sue spalle.

«Ehi, tu!»

Si voltò di scatto, stupita. Pensava di aver frainteso, che quella voce ostile non ce l’avesse con lei ma, quando si trovò davanti John, che la fissava con aria minacciosa, capì che non c’era stato nessun errore. Deglutì a vuoto. Dietro di lui, seduti a tavola ma attenti a non perdersi un attimo di quella scenetta, c’era un gruppetto di ragazzi che dovevano essere suoi amici, tutti con la stesso sorrisetto pericoloso stampato in faccia.

«C-cosa vuoi?» balbettò Beth. Il vassoio le traballò pericolosamente fra le mani.

«Cosa voglio?» John sbuffò con aria divertita. Sembrava stare godendo della sua paura. «Non è ovvio? Voglio fartela pagare per come mi hai trattato in classe, mocciosa.»

Fece un passo avanti e la trafisse con lo sguardo.

Beth rimase immobile, un brivido gelido che la percorreva da capo a piedi. Avrebbe voluto indietreggiare, abbandonare lì il vassoio e fuggire a gambe levate da quel ragazzo, ma aveva come i piedi incollati al pavimento.

John intanto proseguiva inesorabilmente verso di lei, avvicinandosi ancora, sempre di più.

«Io mi chiedo…» John si bloccò, ormai ad un passo dalla ragazza. «…come ti sei permessa.»

Un sorriso divertito gli illuminò il volto di un bagliore sinistro. Fu un attimo. Diede un violento colpo al vassoio di Beth, che le si rovesciò addosso insieme al suo pranzo.

La ragazza spalancò la bocca con orrore, le lacrime in bilico sulle ciglia mentre abbassava gli occhi sul disastro che John aveva fatto. Il vassoio era a terra, il cibo le colava sui vestiti e gocciolava sul pavimento, come avrebbero fatto le sue lacrime se solo non si fosse sforzata così tanto di ricacciarle dietro le palpebre. L’intera mensa sembrava esplosa in una fragorosa risata, che rimbombava tra le pareti dell’edificio, colpendo Beth da ogni direzione e lasciandola senza fiato.

Confusa e umiliata, quasi non si accorse che Annie era apparsa tra lei e John.

«John, adesso stai esagerando!» sibilò, afferrando il ragazzo per un braccio. «Lasciala stare!»

Per tutta risposta, John si liberò dalla sua stretta e scoppiò a ridere fragorosamente, seguito a ruota dal suo gruppo di amici e dal resto della mensa.

Beth teneva gli occhi bassi e tremava dall’umiliazione e dalla rabbia. Provò improvvisamente l’impulso di farsi avanti e assestare un bel pugno dritto in faccia a John e si stupì del suo stesso pensiero. Lei, che da sempre si considerava una pacifista e girava vestita da hippie da quando aveva dieci anni. Eppure, quella della violenza le parve per un attimo una tentazione irresistibile. 

Ma, quando l’occhio le cadde sul vassoio ai suoi piedi e sulla fetta di torta al cioccolato, l’unica a non aver subito gravi danni, le venne un’idea migliore. Un’idea folle. Ma nella mente di Beth, in cui si rimestavano confusamente la rabbia per essere stata umiliata davanti a tutta la mensa il suo primo giorno di scuola, l’ingiustizia suscitata dal comportamento prepotente di John nei suoi confronti, per non parlare dell’offesa rivolta al suo mito, non era un’idea poi così folle.

Quindi, assecondando la rabbia che scorreva dentro di sé, Beth si chinò a terra, afferrò a piene mani quel che restava della sua torta e la lanciò dritta in faccia a John.

Il ragazzo boccheggiò, il volto ridotto a una maschera informe di panna e cioccolato, mentre le risate nella mensa si triplicavano. Dal canto suo, Beth incrociò le braccia sulla camicia inzaccherata, un sorriso pienamente soddisfatto che andava delineandosi sul suo volto.

John si scostò la panna dagli occhi, che mandavano lampi in direzione della ragazza e avevano tutta l’aria di volerla strangolare, ma doveva essere stato colto talmente alla sprovvista che non riuscì a proferire neanche una parola.

«Ops» fece Beth, sorridendogli innocentemente.

Raccolse il vassoio vuoto da terra, lo strinse a sé e, ignorando il fatto di avere l’uniforme sporca e macchiata come un quadro d’arte astratta, si diresse serafica verso le sue amiche.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** -•Capitolo 4 ***




«Beth... sono senza parole» esclamai, mentre lei si sedeva al nostro tavolo con aria solenne, forse consapevole di avere ancora su di sé gli occhi dell'intera mensa.

Senza dire una parola, Arianna le allungò metà del suo hamburger.

«Ari, sei un tesoro» mormorò lei, dandogli un poderoso morso. «Buono!» biascicò poi, a bocca piena.

«Quell'idiota» borbottò Angie, lanciando a John un'occhiata torva.

Seguii il suo sguardo. Il ragazzo era tornato al suo tavolo a ripulirsi il viso e qualcosa mi diceva che non avrebbe dato fastidio a Beth per un bel po'.

«Infatti!» concordò Beth, tutta infervorata. «Come ha potuto offendere John Lennon?!»

Noialtre la fissammo, non del tutto certe di aver sentito bene.

«Cioè, ti sei davvero offesa più per Lennon che per il fatto di essere stata umiliata davanti a tutta la scuola?» domandai, perplessa.

Lei annuì convinta, facendomi scoppiare a ridere.

****

Quel pomeriggio ci attendevano due ore di educazione fisica. Non era esattamente il modo migliore con cui inaugurare le lezioni pomeridiane, dato che nessuna di noi era una grande fanatica dello sport né era particolarmente portata per la materia, ad esclusione di Arianna che, come al solito, riusciva ad eccellere in qualsiasi cosa si cimentasse.

In ogni caso, all'ora stabilita ci presentammo in palestra, dopo aver sostituito l'uniforme con una tuta per stare il più comode possibili.

Come le mie amiche mi fecero premurosamente notare, Shadow faticava a togliermi gli occhi di dosso e, con una punta di irritazione, cercai di farmi piccola piccola dietro Angie. La ragazza, nel frattempo, si stava legando i lunghi ricci biondi in una coda di cavallo e intanto fissava in cagnesco Night, dal lato opposto della palestra, che la osservava con aria sfacciatamente divertita.

Malgrado l'odio atavico nei confronti della ginnastica, i nostri bellissimi compagni di classe impegnati nelle attività sportive rappresentavano una piacevole distrazione a cui le mie amiche ed io non ci sottraemmo: eravamo così impegnate a fissare quel succulento spettacolo – con tanto di filo di bava all'angolo della bocca – che inizialmente non sentimmo neanche la fatica. Solo inizialmente.

Finalmente ebbi modo di osservare in azione Lucas, il compagno di banco di Arianna, considerato l'allievo più promettente di tutto l'istituto. Era veramente bello, con i suoi brillanti occhi verdi, i capelli biondi ed il fisico statuario, tant'è che riusciva spiccare persino tra tutti i ragazzi veramente belli della nostra classe. Ma ciò che mi colpì di lui fu il suo innegabile talento: pareva instancabile, mentre compiva senza sforzo dozzine di giri di corsa intorno al campetto, mentre noi comuni mortali cercavamo di stare al suo passo, fallendo miseramente nell'impresa e sudando come capre nel tentativo.

Durante gli esercizi, poi, il biondo si lanciò sulla palla come un fulmine, non sbagliando mai un tiro e riuscendo a salvare il pallone anche nei momenti in cui lo davo per spacciato. Allo stesso tempo, però, mi accorsi che era un ragazzo davvero agitato e non riusciva a stare un attimo fermo: doveva per forza palleggiare con il pallone o correre sul posto o dare noia a qualche nostro compagno di classe o tutte e tre le cose assieme. Inarcai un sopracciglio, dubbiosa. Qualcosa mi diceva che Arianna, con il suo atteggiamento zen, non fosse esattamente la sua compagna di banco ideale.

Dopo esserci riscaldati con qualche devastante giro del campetto e altrettanto devastanti esercizi con la palla, la professoressa di ginnastica, che si presentò come Mrs. Cooper, ci diede il colpo di grazia con la pallavolo.

Prima della partita vera e propria, però, ci mise in coppie per svolgere un esercizio di allenamento, che consisteva nel lanciare la palla al compagno davanti e aspettare la sua ricezione.

Iniziai con una ragazza bionda, che mi sorrise con aria amichevole e disse di chiamarsi Emily, ma non ebbi modo di affezionarmi granché, perché la Cooper cambiava le coppie ad ogni giro, così che ognuno si ritrovasse sempre a rispondere ai palleggi di qualcun altro.

Dopo un po', decisi tra me e me di essermi meritata una pausa e, dopo aver chiesto il permesso alla professoressa, mi avviai negli spogliatoi a prendere un po' d'acqua.

Mentre bevevo come se avessi appena concluso una maratona nella savana, ferma sulla soglia degli spogliatoi femminili, lanciai uno sguardo ai ragazzi che continuavano a cambiare e di colpo inorridii quando vidi che toccava alla coppia peggio assortita di tutta la lezione: Lucas e Arianna.

Incapace di deglutire, rimasi immobile a fissarli, con la bocca piena d'acqua a mo' di criceto. Arianna era agile, scattante e piuttosto forte sebbene fosse così minuta, ma vederla di fronte a quel colosso di Lucas faceva comunque un po' effetto.

Anche lei doveva essere inquieta, perché la sentii dire: «Vacci piano, per favor...»

Ma non riuscì a concludere la frase, perché il pallone schiacciato da Lucas la colpì in pieno volto, facendola cadere a terra.

«ARIANNA!» gridai, sputazzando acqua tutt'intorno a me come una fontana, ma erano tutti troppo presi dalla mia amica per accorgersi che il pavimento della palestra era improvvisamente diventato a pois.

Corsi verso di lei, mentre la confusione intorno a me che diventava solo un leggero brusio: le urla di spavento, gli sguardi preoccupati, le parole della professoressa Cooper. L'unica cosa che riuscivo a mettere a fuoco era il viso sanguinante della mia amica, immobile a terra.

Beth ed Angie erano già chine su di lei, mentre gli altri ragazzi, pur continuando a lanciarle degli sguardi preoccupati, si tenevano a debita distanza, come se avessero timore di avvicinarsi.

«Arianna!» mormorai, inginocchiandomi vicino a lei. «Stai bene?»

Lei si voltò lentamente verso di me. Era cosciente, ma il sangue continuava a colarle copiosamente dal naso alle labbra e le riempiva la bocca, impedendole di parlare.

Mentre la aiutavamo ad alzarsi, lo sguardo di Arianna si fece di colpo allarmato, fisso su un punto oltre la mia spalla.

Voltandomi, vidi che Lucas si era avvicinato e teneva gli occhi bassi, mentre si torturava le dita delle mani. Sembrava mortificato.

«M-mi dispiace» balbettò, alzando infine lo sguardo. «Non volevo...

«E se le hai rotto il naso?» scattai, senza riuscire a trattenermi, incapace di controllarmi, stupendomi della mia stessa reazione. «Vergognati, razza di esagitato!»

L'espressione di Lucas se possibile si fece ancora più colpevole e mi chiesi se non avessi esagerato: il ragazzo sembrava sul punto di scoppiare a piangere da un momento all'altro.

In quel momento, qualcuno mi afferrò saldamente per le spalle e mi allontanò da Lucas. Era la professoressa di ginnastica, la Cooper.

«Sei una delle ragazze nuove?» domandò, inarcando le sopracciglia. «Calmati, adesso. Si è trattato di un incidente. Lucas, per favore, accompagna la ragazza in infermeria.»

«Certo, certo. Subito» si affrettò a dire lui.

Feci vagare lo sguardo tra Lucas e la Cooper, non certa di aver sentito bene. Quell'energumeno aveva appena atterrato Arianna con una pallonata e la professoressa lasciava che lui la portasse in infermeria?

«Ma...» provai a dire, ma nel frattempo Lucas aveva già preso Arianna tra le braccia con la stessa grazia con cui avrebbe sollevato un sacco di patate particolarmente sgradito e si stava dirigendo verso l'uscita della palestra. Il sangue della ragazza gli stava imbrattando tutta la canottiera bianca, ma Lucas non sembrò curarsene.

Avevo ancora la bocca teatralmente spalancata, gli occhi fissi sulla sua – gigantesca – schiena, quando fui raggiunta dalle altre ragazze, che stavano osservando la stessa cosa.

«Che fortunata!» sospirò una con aria sognante.

«È la ragazza nuova, no?» fece un'altra.

«Io non so cosa darei per stare un po' in braccio a Lucas!»

«Oh, sì! È così splendido!»

Mi allontanai a passo di carica, non volendo condividere un momento di più il mio ossigeno con quel gruppo di oche. Lucas poteva anche essere un bel ragazzo, ma fino a quel momento aveva dimostrato un cervello pari ad una nocciolina americana e, con tutta probabilità, aveva appena rotto il setto nasale di Arianna. Ma com'era fortunata, dopotutto era tra le sue braccia!

«Kia, perché quella faccia?» proruppe Angie, avvicinandosi.

«Niente, niente» tagliai corto, interrompendomi dal fissare le ragazze con profondo disgusto.

Beth stava fissando preoccupata l'uscita della palestra e ci propose di chiedere alla Cooper il permesso di raggiungere Arianna in infermeria.

La donna, però, liquidò la questione con un gesto della mano, ci riportò tutti in classe e, una volta conclusa l'ora, ci consigliò caldamente di lasciare ad Arianna un po' di tranquillità, mentre si rimetteva.

«Tranquillità» borbottai fra i denti. «M'immagino, con quel Lucas...»

****

Quando Arianna aprì un occhio con fare circospetto, più tardi, si rese conto di essere sdraiata un letto dell'infermeria, tra due tende bianche disposte come divisori.

Quando spalancò anche l'altro, fu trafitta da un acuto dolore al naso. E ricordò.

Si ritrovò a provare un'istintiva antipatia verso quel Lucas e, quando voltò lentamente la testa da un lato e si trovò davanti proprio la faccia di lui, quasi rischiò una sincope.

Le sfuggì uno strillo e fece un balzo all'indietro sul letto, con l'unica conseguenza di una fitta ancora più dolorosa al naso.

Se anche Lucas si era accorto del suo orrore nello scorgerlo, non lo diede a vedere, mentre la fissava felice come un cucciolo scodinzolante, facendo scricchiolare la sedia su cui era più o meno seduto vicino al suo letto.

«Finalmente stai meglio!» urlò, scattando in piedi e rovesciando la sedia nel mentre, per poi allungarle una poderosa pacca sulla spalla che per poco non la spezzò in due.

«AHIAA!»

«Scusami, scusami!» si affrettò a dire, agitando le mani e colpendola per sbaglio sul naso.

«AHIAAA!»

Un'infermiera fece capolino dalla soglia, probabilmente attirata dalle urla.

«Che succede qui?» domandò, perplessa.

«Me lo levi di torno» implorò Arianna, facendosi il più lontana possibile dal ragazzo, al punto che quasi cadde giù dal letto. «La scongiuro.»

«Lucas!» esclamò l'infermiera in tono di rimprovero, le mani sui fianchi. «Che stai combinando? Non devi agitarti, maldestro come sei!»

Lucas assunse la sua consueta aria da cane bastonato – Arianna si chiese distrattamente se possedesse qualche altra espressione facciale oltre a quelle rubate dal mondo canino – e l'infermiera si chinò a sollevare la sedia che il biondo aveva scaraventato a terra, prima di rivolgersi a lei.

«Come va, ti sei ripresa?» domandò, sorridendole.

Arianna fece sì con la testa, ma fu colpita da un'altra leggera fitta.

«Il naso però mi fa ancora un po' male» mormorò. «Me lo sono rotto?» aggiunse.

«È normale» rispose l'infermiera con aria comprensiva. «Comunque no, anche se c'è mancato poco. In ogni caso, ti ho dato una medicina per il dolore.»

Arianna si portò sovrappensiero la mano al naso. Non aveva neanche una fasciatura e, al tatto, non percepì alcuna gobba. Eppure in palestra era certa di esserselo rotto, visto il dolore e tutto quel sangue... sperò che non c'entrasse nulla con quegli assurdi ritocchi estetici a cui era stata sottoposta insieme alle sue amiche.

«Quanto a lui» proruppe l'infermiera, rompendo un silenzio che, almeno alle orecchie di Arianna, suonava piuttosto imbarazzato. «è rimasto tutto il tempo qui.»

Stava indicando Lucas con lo sguardo e Arianna lo fissò a sua volta, inarcando un sopracciglio. Non voleva sembrare scortese ma, a dirla tutta, avrebbe preferito che il ragazzo fosse andato a farsi una bella passeggiata, possibilmente lontano da lei, invece di presenziare al suo risveglio come un principe delle fiabe.

L'infermiera e Lucas, però, continuavano a fissarla con insistenza e Arianna si sentì vagamente a disagio. Forse si aspettavano che dicesse qualcosa.

Disse: «Ah.»

«Se ti senti meglio, comunque, puoi tornare in camera» mormorò l'infermiera, almeno apparentemente non disturbata dai suoi vocalizzi. «Le lezioni sono finite» la informò.

«Va bene.»

Arianna si mise a sedere e fece per scendere dal letto ma, con uno scatto fulmineo, Lucas si avvicinò e la prese in braccio.

«Lasciami!» strillò lei, divincolandosi. Inutile, quel gorilla era troppo forte per lei.

«A che piano stai?» domandò lui, ignorando le sue urla, mentre uscivano.

Alle loro spalle, Arianna udì l'infermiera scoppiare a ridere e borbottare fra sé qualcosa di malizioso sui giovani.

«Lasciami, ho detto!»

La ragazza cercò in ogni modo di liberarsi dalla stretta ferrea del ragazzo, ma lui non sembrava sentire storie e la portò sulle scale fino al primo piano, sorridendo innocentemente di fronte agli sguardi allibiti dei ragazzi che incrociavano lungo i corridoi.

Nel giro di mezzo minuto, Lucas riuscì a dare alla ragazza un altro colpo sul naso, a storcerle un braccio, a scrocchiarle una mano e a infilarle un dito nell'occhio.

 

«AHIAAAA!»

Uno strillo isterico mi fece trasalire e alzai di colpo gli occhi dal libro di storia, lanciando uno sguardo d'intesa a Beth ed Angie. Quella voce acuta apparteneva ad Arianna!

Balzai giù dal letto e spalancai la porta, voltandomi in direzione delle scale giusto in tempo per vedere Lucas dirigersi verso la nostra camera con Arianna tra le braccia. Non potei fare a meno di notare che la mia amica aveva un'espressione omicida stampata sul volto da fare invidia ad Angie. Aggrottai le sopracciglia, ma mi astenni saggiamente dal fare domande.

«Grazie, ehm... del passaggio.»

Facendo un sorriso a trentadue denti, strappai letteralmente Arianna da quei due tronchi d'albero che erano le braccia di Lucas e la trascinai dentro la stanza, chiudendomi la porta alle spalle.

Non appena Lucas sparì alla nostra vista, Arianna poté dare libero sfogo a ciò che non poteva esternare in presenza di altri, per via della sua rigida adesione al galateo.

«Quanto lo odio!» urlò, dirigendosi in bagno a passo di carica e sbattendo la porta dietro di sé in una mossa che, ancora una volta, mi ricordò paurosamente Angie.

Beth si affacciò all'ingresso, lanciandomi un'occhiata d'intesa.

«L'iperattivo?»

Annuii, levando gli occhi al cielo.

Un primo giorno di scuola davvero intenso, dovevo ammetterlo.

 

La mattina del giorno dopo, in compenso, fu molto più tranquilla della precedente.

Nessuna capatina dalla preside, nessun incidente e conseguente infermeria, niente di niente. Almeno così credevo.

All'ultima ora, in linea con il tenore della mattinata, avevamo una soporifera lezione di arte. L'unica di noi che aveva a cuore quella materia era Angie, che accolse con entusiasmo tutto ciò che Mrs. Rooth proponeva e si guadagnò fin da subito la sua simpatia.

La lezione, in realtà, non sarebbe stata neanche poi così terribile, se solo avessi posseduto un minimo di talento nelle arti. La Rooth, infatti, ci aveva condotti nell'aula di arte per lavorare con la creta, ma era da mezz'ora che cercavo di modellare la statuetta che ci aveva detto di fare senza grandi risultati.

Tentai disperatamente di darle un aspetto almeno vagamente umano ma, al termine della lezione, sembrava che la mia donnina avesse sguazzato nell'acido muriatico.

Quando infine suonò la campanella, tirai un sospiro di sollievo. Dopo aver lanciato uno sguardo d'odio alla mia creazione, tra le grida euforiche dei miei compagni e il trillo incessante nelle orecchie, iniziai a preparare la cartella.

In quel momento, Angie comparve di fronte a me. Tutti gli altri ragazzi se n'erano già andati, comprese Beth e Arianna, che si erano avviate in camera.

«Kia!» esclamò con fin troppo entusiasmo. Mi rivolse un sorriso così largo che potei controllare senza alcuna difficoltà lo stato di salute delle sue tonsille.

Conoscevo fin troppo bene quella strategia e lo sguardo che le restituii fu glaciale.

«Che ti serve?»

«Puoi mettere questa nel tuo zaino?» domandò allora lei in tono sbrigativo, capendo di essere stata smascherata, e poggiò sul tavolo da lavoro la sua statuetta.

Nel vederla, mi sfuggì un sospiro afflitto. Era meravigliosa, ovviamente: i lineamenti della donna sembravano fatti di carne, le proporzioni erano perfette, i particolari precisi e rifiniti in ogni piccolo dettaglio.

«Sai, la Rooth ha detto che chi ha finito la statuetta può portarla in camera.»

Lanciai un'occhiata alla mia – il pensiero di portare in camera quell'obbrobrio non mi aveva neanche sfiorato l'anticamera del cervello – e poi tornai a guardare Angie, stringendo gli occhi.

«Mi spieghi perché non puoi portarla t... ACCIDENTI

Avevo fatto per prendere in mano la statuetta e c'era mancato poco che crollassi sotto il suo peso.

«È pesantissima!»

La rimisi faticosamente sul tavolo, appoggiandomi al bordo per riprendere fiato.

«Ecco perché non voglio portarla io» spiegò Angie, facendo un sorriso innocente. «E poi sarà anche pesante, ma è fatta bene, a differenza della tua, che è sfigurata!» borbottò poi, lanciandole un'occhiata.

Seguii il suo sguardo e increspai le labbra. Di colpo mi sentivo in dovere di difendere la mia donnina disgraziata.

«Guarda che non è affatto sfigurata, è una scelta artist...»

Ma non riuscii a concludere la mia arringa perché Angie, dopo aver afferrato lo zaino, uscì correndo dall'aula, lasciandomi sola a ciarlare coma una deficiente.

«ANGIE!» gridai inviperita, ma non ricevetti risposta.

Imprecai sottovoce. Non gliel'avrei lasciata vinta, nossignore. Rassegnandomi all'idea che mi sarebbe stata diagnosticata un'ernia al disco in giovane età, cacciai le due statuine nello zaino e mi avviai faticosamente fuori dall'aula, alla ricerca di Angie.

Uscii dallo stanzone appena in tempo per vedere i ricci biondi della ragazza volteggiarle sulle spalle mentre usciva saltellando dal portone d'ingresso, in direzione del giardino.

Scossi la testa, allibita. Voleva che le portassi quella zavorra di statuetta solo perché potesse bighellonare all'aperto in santa pace?

«Angie!» la chiamai sbuffando ma, una volta uscita, la ragazza era scomparsa nel nulla.

Il giardino era gremito di studenti e, mio malgrado, rimasi colpita dalla bellezza di quel posto, che il giorno prima avevo solo intravisto dal cancello e poi attraversato frettolosamente, mentre Gérard ci conduceva verso quell'inquietante macchina. Al solo ricordo, mi venivano i brividi.

Senza quasi che me ne accorgessi, mi ritrovai a camminare lungo il vialetto, con il peso delle statuine che sembrava di colpo essersi alleggerito sulle mie spalle.

Ai lati del vialetto si estendeva un'imponente pineta, con svariate panchine in legno e aiuole di margherite dai petali bianchi o color porpora. Tutt'intorno, i ragazzi perlopiù chiacchieravano vivacemente, mentre altri stavano facendo a botte, emettendo urla scimmiesche. Evitai accuratamente questi ultimi, tagliando attraverso il prato, dopo essermi accertata che Angie non fosse tra loro: dopotutto lei adorava le risse e non mi sarei affatto stupita di trovarla nella mischia.

Fu così che mi ritrovai davanti alla fontana. Era situata in una posizione un po' decentrata rispetto al vialetto d'ingresso ed era davvero imponente, tanto che mi lasciò a bocca aperta.

Mi avvicinai, sorpresa e affascinata. Lo specchio d'acqua era di grandi dimensioni, delimitato da una bassa recinzione in muratura e, proprio al centro della fontana, c'era la statua consunta di una donna dall'aria inquietante, al pari della mia orrida statuetta.

Sbirciando oltre il muretto, sgranai gli occhi. Il fondo sembrava stranamente profondo e non era visibile, probabilmente anche per via dell'acqua torbida e del muschio che vi galleggiava in superficie. Con un sospiro, pensai a quanti studenti ci dovessero essere caduti dentro, con quell'assurda recinzione che invece di proteggerti sembrava essere stata costruita appositamente per farti inciampare.

Feci un passo indietro e mi voltai, decisa a tornare dentro e ad ammettere la mia sconfitta ad Angie ma, quando alzai gli occhi e vidi chi avevo davanti, mi si gelò il sangue nelle vene.

Era un ragazzo moro dall'aria strafottente, con una giacca di pelle nera sopra l'uniforme. Mi bastò un attimo per riconoscerlo: John Davinson, la nemesi di Beth, e non c'erano dubbi che ce l'avesse con me, perché mi stava fissando come se avesse voluto farmi a pezzi.

«Tu sei l'amica di quella mocciosa?» domandò, facendo un passo avanti.

«Beth?» mi sfuggì. Mi tappai subito la bocca, dandomi dell'idiota.

L'espressione neutra di John si fece di colpo interessata.

«Ci avevo visto giusto, allora.»

Sul suo volto spuntò un sorriso nient'affatto amichevole: sembrava che adesso, oltre volermi squartare, avesse intenzione di cacciare i miei resti in un surgelatore.

Arretrai d'istinto, ma le mie scarpe urtarono contro la bassa recinzione della fontana. Merda. Feci per scartare di lato, ma John avanzò di scatto e mi afferrò per un braccio, impedendomi di fuggire. Ero in trappola.

Il cuore mi batteva all'impazzata nel petto e mi guardai intorno nel giardino. Dato che la fontana era situata un po' in disparte, nessuno si era accorto di quel che stava succedendo e, se anche qualcuno l'aveva notato, stava facendo abilmente finta di nulla.

Tornai a guardare John, la mente che correva all'impazzata. Non avevo vie di scampo, a meno che non volessi farmi un bel bagnetto nella fontana... che diamine potevo fare?

«Sì, sono sua amica» dissi allora, in un tono di sfida. «E se anche fosse?»

Come il giorno prima, quando avevo inveito contro Lucas, mi stupii di quella reazione che non mi si addiceva per niente. Da dove nasceva tutta quella spavalderia?

In ogni caso, non si rivelò una grande idea, dato che John non parve gradire affatto quella risposta.

«Credi che non l'abbia vista venire al tuo tavolo?» sibilò, sprezzante. «Sei una smorfiosa, proprio come lei.»

Accadde tutto in un attimo. John mi diede una violenta spinta e io persi l'equilibrio: indietreggiai barcollando, ma inciampai nel muretto, trascinata all'indietro dalla statuetta di Angie e da una seconda spinta di John, tanto per essere sicuri.

Precipitai nel laghetto, sollevando una miriade di spruzzi, e l'acqua gelida mi mozzò il fiato. Sbattei contro il fondo e le statuette che avevo nello zaino mi si conficcarono nella schiena, strappandomi un urlo muto, con il quale mi riempii la bocca e i polmoni d'acqua .

In preda al panico, agitai convulsamente braccia e gambe nel tentativo di mettermi seduta e riemergere, ma avevo la schiena ancorata al fondo e, dopo un attimo, capii il perché. Maledicendo la Rooth, Angie, John, le statue e, già che c'ero, anche qualche santo, mi sfilai faticosamente quel macigno di zaino, ostacolata dai vestiti che mi si erano incollati addosso, e mi resi conto che non riuscivo più a trattenere il respiro.

Libera da quella zavorra, però, mi tirai facilmente su con la schiena e in un attimo ero fuori dall'acqua, boccheggiando nel tentativo di riappropriarmi di un po' d'ossigeno.

Respirando a pieni polmoni, mi stropicciai gli occhi per liberarmi le ciglia dall'acqua e finalmente riuscii a mettere a fuoco il giardino di fronte a me.

Come prevedibile, John era scomparso, ma in compenso il mio bagnetto aveva attirato l'attenzione di tutti i ragazzi nelle vicinanze, che in quel momento mi stavano indicando con la mano e ridacchiavano sommessamente. Divenni rossa come un peperone, tanto per l'imbarazzo quanto per la rabbia.

«Hai deciso di farti una nuotata?»

Mi voltai di scatto. In piedi, oltre la recinzione della fontana, Shadow incombeva su di me, fissandomi con un misto di confusione e divertimento negli occhi.

«Divertente» sibilai fra i denti. «Mi ci ha spinto quell'idiota di J-John... ETCIÙ

«Salute! Vieni, lascia che ti aiuti.»

Afferrai con gratitudine la mano che il ragazzo mi aveva porto e mi issai in piedi, provocando un'onda anomala nella fontana che inzaccherò ben bene anche lui.

Scavalcai il muretto con un borbottio di scuse, cercando di non concentrarmi troppo sul muschio che, a quanto pareva, si era così affezionato ai miei vestiti da decidere di abbandonare il laghetto per rimanervi avvinghiato.

Una volta al sicuro sul tappeto d'erba e aghi di pino, vi smollai il mio zaino fradicio con un gesto rabbioso. Quanto alle statuette, speravo che quell'acqua radioattiva le avesse sciolte. Era la fine che si meritavano.

Alzando gli occhi su Shadow, vidi che il ragazzo continuava a fissarmi ed aveva improvvisamente aggrottato le sopracciglia.

«Che c'è?» chiesi, prima di essere squassata da un altro violento starnuto. Fantastico. Mi ci manca solo il raffreddore!

«Fa' attenzione a John» esclamò Shadow, con espressione seria. «È un caro amico di Night, ma è un po' strano... hai presente? Sempre incazzato, sempre per conto suo. A dire il vero, non credo gli sia andata giù la faccenda della mensa.»

Abbassai lo sguardo sui miei vestiti fradici. Be', dire che non gli era andata giù era un eufemismo, contando che io non ero neanche la responsabile di quello che era successo. Provai un brivido al pensiero di ciò che quello squilibrato avrebbe potuto fare a Beth.

«Lo terrò a mente» mormorai, inquieta. «Adesso vado a cambiarmi, le mie amiche mi avranno data per dispersa» conclusi, facendo per incamminarmi lungo il vialetto.

«A proposito, Kia!» esclamò lui all'improvviso.

Mi voltai di scatto, impallidendo alla sola idea di ciò che aveva da dirmi. Di quale imbarazzante verità mi avrebbe resa partecipe, stavolta? Che profumavo come un frutto esotico o...

«Carino il reggiseno!» commentò, strizzandomi l'occhio.

Abbassai con orrore lo sguardo sulla camicetta bianca dell'uniforme che, a contatto con l'acqua, si era fatta trasparente. Chiusi gli occhi e per un lungo, doloroso attimo desiderai soltanto morire. Dovevo per forza aver fatto qualche imperdonabile torto nell'aldilà per meritarmi tutto ciò, non c'era altra spiegazione.

L'attimo dopo avevo puntato il portone d'ingresso e mi ci ero diretta a passo di marcia come un soldato, decisa a non voltarmi indietro neanche sotto tortura.

Purtroppo, però, la combo camminata militare + vestiti gocciolanti + camicia con effetto vedo non vedo non passò inosservata e, malgrado fosse l'ora di pranzo e ci fossero ben pochi ragazzi in giro, dovetti sorbirmi tutte le loro risate e le loro occhiate maliziose.

Una volta salita in camera, mi chiusi la porta alle spalle con un sospiro di sollievo. Ero stato probabilmente il tragitto più umiliante della mia vita e avevo ancora le guance bollenti. Tutto per colpa di John. Serrai i pugni, travolta da un'ondata d'odio nei suoi confronti. Non mi faceva paura, ma solo tanta rabbia, tanto che dovetti fare un paio di respiri profondi per calmarmi.

Le mie amiche dovevano essere già a mensa, perché la stanza era deserta. Controllando l'orologio a parete, mi accorsi che era tardissimo e che, se non volevo digiunare a pranzo, mi sarei dovuta dare una mossa.

Mi spogliai a velocità a record, stesi l'uniforme fradicia ad asciugare e poi mi infilai sotto la doccia per liberarmi da quel disgustoso muschio, talmente affezionatosi a me che dovetti praticamente scuoiarmi per levarmelo di dosso.

Dopo essermi cambiata, corsi al piano di sotto, con i capelli ancora bagnati che mi gocciolavano sulle spalle.

In mensa non era rimasto altro che l'insalata e mi rassegnai all'idea che quel giorno il cibo sano mi sarebbe toccato davvero, ma contro la volontà. Pensando poi che, se fosse dipeso da me, probabilmente il giorno in cui avrei iniziato a mangiare qualcosa di sano non sarebbe mai arrivato, ventilai l'idea di arrivare in ritardo un po' più spesso.

Dopo essere stata servita dalla donna dietro al bancone, mi voltai verso i tavoli, alla ricerca delle mie amiche. Individuai Beth ed Angie, sedute poco lontano, e mi diressi a passo svelto verso di loro. Di Arianna, nessuna traccia.

«Kia, non ti vedevamo più!» esclamò Beth quando mi vide, facendosi di lato perché potessi sedermi vicino a lei.

«Lo so» mormorai, sospirando, mentre mi mettevo a sedere. «È che il tuo grande amico mi ha gettata nello stagno.»

Le forchette che le mie amiche avevano in mano caddero con un tintinnio nei loro piatti.

«CHE COSA?» biascicò Angie, a bocca piena.

«Ben?» Beth sgranò gli occhi. «Come mai?»

«Non lui, Beth!» borbottai, levando gli occhi al cielo. «Ero ironica! Intendevo John, John-non-Lennon

La vidi serrare i pugni. «Quell'idiota!» tuonò e poi aggiunse, in tono deciso: «Dopo vado a farci quattro chiacchiere.»

Angie s'illuminò. «Grande Beth!» esclamò, sporgendosi per darle il cinque.

Scossi la testa. Per lei, ovviamente, "quattro chiacchiere" era sinonimo di "fare a pugni". Una definizione un filino più diplomatica, solitamente da usare di fronte alle autorità.

«No!» esclamai, così precipitosamente che entrambe si voltarono a guardarmi con aria stupita.

«Shadow mi ha detto una cosa...

«Che c'entra Shadow con questa storia?» mi interruppe Beth, scoccandomi un'occhiata maliziosa.

«Mi ha solo dato una mano, dato che stavo praticamente affogando» borbottai, fulminandola con lo sguardo. «Non farti strane idee.»

«Sì sì, come no.»

Mi schiarii la voce, decisa ad ignorarla. «Comunque, Shadow mi ha detto che John è un tipo strano...»

«Capitan ovvio!» mi interruppe di nuovo Beth, ridendo.

«Comunque» ripetei spazientita e, captando il mio brusco cambio di tono, finalmente la mia amica si decise a zittirsi. «sembra che ti abbia presa di mira, Beth. Quindi fa' attenzione, per favore.»

«Ma ha superato il limite!» intervenne Angie. «Lascia che Beth vada a farci quattro chiacchiere!»

Beth stava scuotendo la testa. «Non è giusto fare finta di nulla! Prima mi umilia davanti a tutta la scuola, ora ti getta nel laghetto! Ma come si permette?»

Si bloccò un attimo e assunse un'espressione pensierosa. «E poi, mi spieghi come diamine hai fatto ad affogare in quella fontana? Saranno sì e no due centimetri d'acqua...»

Lanciai uno sguardo ad Angie, che si bloccò dal mangiare il suo pollo e mi rivolse un sorrisino storto. Doveva essersi resa conto che la sua deliziosa statuetta poteva aver contribuito al mio annegamento.

«Voglio parlarne con la preside» proruppe Beth all'improvviso.

La fissai, sorpresa. «Di John?»

Beth annuì convinta. Anche Angie era d'accordo con lei.

«Anche perché è ingiusto che lui non riceva alcuna punizione!» intervenne sbuffando. «Io sono qua da tre giorni e non faccio altro che finire in presidenza con quello stronzo di Night!»

«Ma se ci sei finita una volta...» commentai, inarcando un sopracciglio.

«NON È QUESTO IL PUNTO!»

«Potremmo anche chiederle qualche spiegazione riguardo quella strana macchina...» aggiunse Beth, pensierosa.

Drizzai le antenne. Non ci avevo pensato, ma non era davvero un'idea niente male!

«Mi sembra un buon piano. Parliamone anche con Arianna, però» dissi. «A proposito, dov'è?» aggiunsi, guardandomi intorno.

«È al tavolo di quelli popolari» fece Beth con fare cospiratorio, indicandomi probabilmente il tavolo più rumoroso di tutta la mensa.

«Per farsi perdonare dalla faccenda di ieri» spiegò Angie sbrigativamente, tornando a rosicchiare i suoi ossicini di pollo con grande concentrazione. Quando la conversazione verteva su Arianna, per Angie nove volte su dieci era del tutto opinabile.

Mi voltai verso il tavolo indicatomi da Beth e finalmente scorsi Arianna. Era seduta vicino a Lucas e in quel momento stava ridendo a crepapelle, mentre una ragazza le sussurrava qualcosa all'orecchio. Inarcai un sopracciglio: Arianna sapeva ridere? La mia amica sembrava perfettamente a suo agio in mezzo a tutti quei ragazzi, che stavano facendo una gran confusione e sembravano divertirsi un mondo. Spostai di nuovo lo sguardo sull'imponente ragazzo biondo seduto vicino ad Arianna e mi resi conto che non le toglieva gli occhi di dosso. Chissà se lei se n'era accorta.

Mi affrettai a distogliere lo sguardo da quella scena. Che per Lucas la faccenda dell'incidente in palestra fosse solo una scusa per passare un po' di tempo insieme ad Arianna?

 

Quel pomeriggio, dopo che lezioni pomeridiane furono concluse, decidemmo di salire in camera. Il motivo ufficiale era che dovevamo fare la lezione, ma ben presto, come al solito, ci ritrovammo a chiacchierare di tutt'altro.

Angie, tuttavia, non partecipò con troppo entusiasmo alla conversazione – né al presunto studio di gruppo – e continuava a lanciare occhiate torve in direzione dell'orologio. Quel giorno avrebbe dovuto scontare la punizione con Night e non sembrava esattamente entusiasta all'idea.

«Come sono gli amici di Lucas?» chiesi ad Arianna dopo un po', in tono innocente.

«Simpatici» rispose lei, facendo spallucce.

«Sembravi divertirti molto, oggi» osservai, scrutandola alla ricerca di un segno che mi desse conferma di ciò a cui avevo assistito in mensa.

«Be', sì...» fece lei in tono evasivo, ma Beth la interruppe all'improvviso.

«Al contrario di Kia! Lo sai, Ari? Quel John Davinson l'ha buttata nel laghetto!» La ragazza si era tutta infervorata e aveva iniziato a gesticolare in preda alla rabbia. «NEL LAGHETTO!»

Arianna si voltò a fissarmi, allibita.

«Già» borbottai, ricambiando il suo sguardo. «Ha scoperto che sono un'amica di Beth e mi ha spinta nell'acqua.»

Dopo averle raccontato nei dettagli cos'era successo, Arianna pareva piuttosto scossa.

«Quello è matto» decretò. «Fossi in te, Beth, non lo infastidirei.»

«Ma come!» protestò lei. «Io vorrei solo farci quattr...

Beth fu bruscamente interrotta da un brontolio che, a dirla tutta, pareva più il minaccioso ringhio di un pitbull.

Ci voltammo tutte verso la fonte del rumore: Angie, che in quel momento stava scivolando giù dal letto e mugugnava parole incomprensibili – che avrei scommesso essere bestemmie – con gli occhi fissi sull'orologio.

«Pulizie con Night?» azzardai.

«Voglio morire» fu la sua risposta.

****

Angie si sistemò i lunghi capelli ricci in una coda di cavallo, sforzandosi di ignorare i primi morsi della fame. Quello stronzo di Gérard aveva fatto casualmente in modo che la punizione che lei e Night dovevano scontare coincidesse con l'orario della cena e, visto che avrebbero dovuto pulire tutte le classi dell'istituto, qualcosa le diceva che quella sera non avrebbe toccato cibo.

Soffocando l'odio verso quel bidello rinsecchito, Angie si avviò a passo di carica verso l'unica classe illuminata del corridoio: come lesse sulla porta, si trattava della sezione A, primo anno.

Facendo capolino dalla soglia, vide che Night, munito di scopa, stava spazzando il pavimento con scarso entusiasmo. Se non altro, i due dovevano essere accomunati dall'odio verso quella prugna secca di un bidello, a giudicare dall'espressione truce dipinta sul volto del ragazzo.

«Ehilà» mormorò Angie, decidendosi infine ad entrare. «Lì per lì ti avevo quasi preso per Gérard» aggiunse in tono scherzoso, propensa a deporre l'ascia di guerra, almeno per quella sera. Dopotutto avrebbero dovuto passare l'intera sera a pulire insieme e sarebbero state delle lunghe, lunghissime ore, specialmente se si fossero messi a litigare.

«Sei in ritardo» fece Night per tutta risposta, senza neanche alzare lo sguardo.

Angie levò gli occhi al cielo.'fanculo, ne prendo due, di asce, pensò, dimenticandosi all'istante dei suoi buoni propositi, mentre afferrava uno spray ed uno straccio da un mucchio sulla cattedra e soffocava la tentazione di lanciarglieli addosso.

Limitandosi a immaginare quell'allettante scena nella mente, Angie si arrotolò le maniche fino ai gomiti e, dopo aver spaziato la classe con lo sguardo, si avvicinò a quello che a prima vista le era parso il banco più pulito.

Il banco in questione, per la cronaca, aveva scritte sconce scritte a caratteri cubitali sul legno che la ragazza da lontano non aveva notato e si rivelò un osso duro: Angie vi spruzzò sopra lo spray, premendo sull'erogatore come se se si fosse trattato del grilletto di una pistola, ma neanche dopo averlo inondato riuscì a fare andare via la scritta, una struggente dedica alle tette di una compagna. Alla fine, Angie si rassegnò a lasciarla lì: l'autore evidentemente teneva al fatto che quel messaggio venisse tramandato ai posteri.

Si chinò sotto il banco e trattenne un urlo quando vide che era ricoperto da altre duecento scritte a pennarello indelebile. Si mise a strofinare come un'ossessa, evitando accuratamente i residui di gomma da masticare che qualcuno molto poco educato aveva appiccicato negli angoli.

Al secondo banco Angie era già a pezzi e fu con immenso sforzo che si chinò sotto di esso per affrontare una nuova mandata di organi sessuali maschili e femminili finemente disegnati e reperti di chewing-gum masticati.

Quando si tirò su, dopo quell'epopea che l'aveva provata mentalmente e fisicamente, sentì che qualcosa non andava. Di colpo, infatti, si sentiva incredibilmente fresca, proprio là sotto.

Intuendone il motivo, si voltò con un ringhio e sorprese Night ad alzarle ed abbassarle la gonna dell'uniforme con la scopa.

«CHE CAZZO STAI FACENDO?» scattò lei, inviperita. «Smettila di fare porcate e vedi di pulire, idiota!»

«Ma così il tuo soprannome ti si addice di più» protestò lui e, sogghignando, aggiunse: «Gonnellina al Vento

«SMETTILA!»

Angie decise che ne aveva davvero abbastanza, sia della pulizia dei banchi che di Night Harris. Abbandonò straccio e spray e fece per saltargli addosso, ma il ragazzo fu più rapido e la anticipò, spingendola all'indietro.

Angie perse l'equilibrio e finì dritta contro un banco, che si rovesciò e cadde in terra insieme a lei. Una delle zampe di metallo le si conficcò nella schiena e la ragazza soffocò un grido di dolore. Una fitta lancinante l'aveva piegata in due e, con immensa frustrazione, la ragazza scoprì di non riuscire ad alzarsi, tanto le doleva la schiena. Non poté fare altro che rimanere immobile a terra, mentre Night le si faceva sempre più vicino.

Angie si limitò a fissarlo in cagnesco, mentre il ragazzo si chinava su di lei e le immobilizzava le mani sopra la testa.

In quella posizione umiliante ed equivoca, Angie si accorse di due cose. La prima era che, nonostante si sforzasse di apparire calmo, Night aveva l'aria affaticata ed esasperata almeno quanto lei; la seconda, decisamente più inquietante della prima, era che le mani di lui, che nel tirarle su i polsi le avevano sfiorato il ventre, rimasto scoperto dalla camicia, avevano provocato in lei un fastidioso quanto impercettibile fremito.

Decisa ad ignorare l'una e l'altra cosa, Angie si limitò a puntare i suoi occhi in quelli di Night, che la stavano fissando con odio.

«Smettila a chi?» sibilò il ragazzo. Aveva serrato i denti e si era fatto ancora più vicino, come per imprimerle meglio il concetto. «Io faccio quel che mi pare, qua dentro, è chiaro?»

In quel momento i loro visi erano così vicini che Angie avrebbe potuto infilargli un dito nell'occhio senza alcuna difficoltà. Ah, se solo avesse avuto le mani libere!

L'espressione di Night nel frattempo era cambiata, notò lei. Il ragazzo, infatti, era leggermente impallidito, come se fosse inquieto dall'improvvisa vicinanza dei loro visi. Angie lo vide indietreggiare un poco e nel farlo le sfiorò le gambe che, in un lampo, la ragazza ricordò essere libere.

Rivolse un ghigno a Night che, dal canto suo, la fissò senza riuscire a mascherare la sua confusione. Angie agì in fretta, onde evitare che il ragazzo capisse quello che aveva in mente. Si raggomitolò su se stessa, portando le ginocchia al petto, per poi sferrare un calcio nello stomaco di Night con tutte le sue forze.

Il ragazzo si portò le mani al torace con un gemito, lasciandole andare i polsi, e lei ne approfittò per balzare in piedi.

«Che ti prende, eh?» mormorò, sprezzante. «Ti trovi faccia a faccia con una ragazza e di colpo non sai più come comportarti?»

Recuperò il suo armamentario dal banco e si diresse a passo deciso verso la porta, ignorando le lancinanti fitte alla schiena che ogni passo le provocava.

«Razza di idiota» commentò, lanciandogli un'occhiata da dietro la spalla. Night era immobile a terra, che imprecava per il dolore.

«Vado a pulire un'altra sezione» annunciò poi, uscendo con decisione dalla classe e sbattendo la porta dietro di sé.

La schiena le doleva da morire, mentre si incamminava zoppicando verso un'altra classe, ma si sforzò di ignorare il dolore.

Quello e quel fremito d'eccitazione nel ventre che non aveva nulla a che fare con la botta che aveva appena preso.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** -•Capitolo 5 ***




Night si passò una mano tra i capelli sudati, soffocando uno sbadiglio. Sentiva che, se si fosse lasciato andare anche solo per un attimo, sarebbe crollato lungo disteso sul pavimento. Era a pezzi, dopo aver pulito tutte le classi. Da solo.

Dopo avergli rifilato un calcio nello stomaco che l’aveva piegato in due ed essere fuggita, infatti, Gonnellina al Vento si era rinchiusa nella classe della sezione F ed era sempre lì da almeno tre ore.

Dopo aver spento le luci della B, Night si avvicinò di soppiatto alla porta della classe dove la Stevens si era barricata, controllando l’ora sul cellulare: era tardissimo! Ma con che cosa stava pulendo l’aula per metterci tutto quel tempo, uno spazzolino da denti?

Il pensiero di quella ragazza matta come un cavallo suscitava in lui reazioni contrastanti. L’aveva conosciuta da meno di due giorni e già sentiva di odiarla, ma allo stesso tempo lo incuriosiva. E poi, quell’accento… mancava da troppo tempo dall’Irlanda, cos’era successo nel frattempo agli adolescenti? Che razza di sostanze stupefacenti mettevano nei loro porridge a colazione?

Non si era mai imbattuto in una ragazza simile prima d’allora. Era isterica ed insopportabile, picchiava più forte della metà dei suoi ragazzi e sapeva che lo avrebbe messo sicuramente nei guai con Gérard, andando a peggiorare la delicata situazione in cui si trovava con il custode. Eppure, nel momento in cui i loro visi si erano trovati uno di fronte all’altro, così vicini che i nasi avrebbero potuto sfiorarsi, Night aveva avuto altri pensieri. Pensieri che non provava da tanti anni e che, a dirla tutta, nemmeno pensava che certe cose gli suscitassero.

Si affacciò alla porta della classe con fare circospetto. Era troppo stanco per poter reagire alle sue probabili provocazioni.

Ma non accadde nulla.

Gonnellina al Vento era profondamente addormentata su uno dei banchi.

Night si stropicciò le palpebre, credendo che la stanchezza gli stesse giocando qualche brutto scherzo.

No, la ragazza dormiva veramente. E stava pure russando.

Night fu travolto da un’ondata di rabbia. Infuriato, afferrò la scopa e fu tentato di abbatterla sul cranio della ragazza, ma dopo un istante l’aveva già posata a terra e si era messo a spazzare con aria rassegnata.

Dopo aver finito di pulire la classe al posto suo, Night ripose scopa e cassetta al loro posto, soffocando uno sbadiglio, e si avvicinò ad Angie.

La ragazza dormiva in una posizione davvero improbabile. Era seduta, con la testa poggiata sul banco da un lato, come un qualsiasi studente che sonnecchia durante una lezione particolarmente noiosa, ma aveva afferrato le gambe del banco con le braccia, come se lo stesse abbracciando.

A vederla, l’ombra di un sorriso gli balenò per un attimo sul volto.

Si voltò e si incamminò verso la porta, deciso ad andarsene. Per quel che gliene importava, Gonnellina al Vento avrebbe potuto rimanere con il suo nuovo amico banco fino all’indomani mattina. Così magari Gérard le avrebbe dato un’altra punizione.

Era già soglia quando qualcosa lo costrinse a voltarsi. Combattuto con se stesso, guardò Angie, che nel frattempo aveva iniziato a mugugnare parole incomprensibili nel sonno, ma dopo un istante distolse lo sguardo e uscì con decisione dalla classe.

Percorse solo pochi metri prima che i sensi di colpa lo obbligassero a tornare sui suoi passi, dentro la classe, fino al banco dove giaceva la ragazza.

Sospirando, provò a staccarle le mani con cui stringeva convulsamente le gambe del banco, ma la ragazza aveva i pugni serrati e, malgrado tutti i suoi sforzi, non riuscì a liberarla.

Night imprecò fra i denti. Ma chi gliel’aveva fatto fare? Se almeno si fosse mostrata un po’ collaborativa…

Afferrò la ragazza per la schiena e la tirò su, con lo stesso garbo con cui avrebbe sollevato una cassa per caricarla su un camion dopo che la suddetta gli fosse finita sull’alluce, impallidendo quando le sue mani sfiorarono inavvertitamente il petto di lei. Merda.

Era rimasto così scioccato da quel contatto – e dall’enormità delle sue tette – che ci mise un attimo ad accorgersi che Angie, la quale aveva finalmente mollato la presa con le mani, era rimasta attaccata alla parte superiore del banco con le gambe. Fottuta merda.

Iniziò così un avvincente tira e molla tra Night e il banco, in cui il ragazzo cercava disperatamente di liberare Angie, scuotendola come se agitando uno shaker per cocktail, con l’unico risultato di lasciare la ragazza ugualmente abbarbicata al banco e profondamente addormentata.

Dopo che Night, che continuava a bestemmiare tra sé, chiedendosi cos’avesse fatto di male nella sua vita, si fu trascinato dietro la ragazza e il suo inseparabile amico fino alla porta della classe, il banco si decise infine a lasciarli liberi. Si staccò da Angie e rotolò a terra, esprimendo tutto il suo disappunto con uno schianto metallico che rimbombò per mezz'ora nelle classi deserte.

Night implorò pietà, chiedendosi per la seconda volta nel giro di mezzo minuto cos’avesse combinato di male nella sua vita per meritarsi tutto ciò.

Angie, invece, continuò beatamente a ronfare.

****

La mattina dopo, preludio del nostro terzo giorno di scuola, ci eravamo appena svegliate e, come al solito, non eravamo esattamente in orario.

Arianna era filata in bagno a farsi una rapidissima doccia, io mi stavo vestendo in tempo record e Beth era ancora troppo assonnata per rendersi conto di ciò che le stava accadendo intorno. Quanto ad Angie, non c’era stato verso di svegliarla ed era ancora nel dormiveglia, mormorando parole incomprensibili nel sonno, tra le quali riuscii a cogliere almeno tre imprecazioni piuttosto colorite.

Mentre indossavo la camicia dell’uniforme, un urlo agghiacciante mi fece sobbalzare. Era proprio Angie che, forse non più nel dormiveglia, era appena venuta a sapere che Night l’aveva riportata in camera nostra, la sera prima.

«VOI GLIELO AVETE CONCESSO?!» inveì contro Beth che, stordita com’era, si limitò a sorriderle con aria assente.

«Angie, guarda che ti ha fatto solo un favore» intervenni, sospirando.

Lei mi fulminò con lo sguardo, Beth si limitò ad un rumoroso sbadiglio e in quell’esatto momento la porta del bagno si spalancò, riversando nella camera una densa nuvola di vapore, dalla quale comparve un’Arianna alquanto seccata.

«Cos’è tutto questo baccano?» sibilò, spegnendo il phon con rabbia.

Notando l’espressione furente di Angie, un lampo di consapevolezza le attraversò lo sguardo.

«È venuta a saperlo?» domandò poi, facendo vagare lo sguardo tra me e Beth.

«NON PARLARE COME SE NON CI FOSSI!»

Io mi affrettai ad annuire, mentre Beth, che probabilmente non doveva aver capito neanche una parola di quella conversazione, fece sì con la testa e ci rivolse un altro sorriso assente.

Arianna levò platealmente gli occhi al cielo.

«Angie» mormorò poi, inchiodandola con lo sguardo.

Dall’altra parte della stanza la ragazza riccia la stava fissando con aria cocciuta, le braccia incrociate al petto in un gesto di sfida.

Dal canto mio, iniziai a sudare freddo. La temperatura della camera sembrava improvvisamente essersi abbassata di qualche grado.

«Night ci ha detto che eri profondamente addormentata su un banco, quando ti ha trovata. Abbracciata al banco, ha detto proprio così» spiegò Arianna, fingendo di pensarci su. «Lui ti ha fatto solo un favore, ok?»

La ragazza parlava in tono paziente, come se stesse cercando di convincere una bambina particolarmente testarda a fare il bagno ma, man mano che proseguiva, la sua voce si faceva sempre più seccata,coperta a stento da un velo di pacatezza.

«Noi non gli abbiamo concesso un bel niente, dato che non c’eravamo. E comunque, se non volevi farti riportare in braccio da quel tizio, potevi rimanere sveglia.»

Scoccatole una sguardo di fuoco in risposta, Angie scattò in piedi e corse verso il bagno, cercando di raggiungerlo prima che vi tornasse Arianna, che però la bloccò sulla porta, brandendo il suo phon come un’arma.

E, mentre le due iniziavano l’ennesimo litigio, stavolta su chi delle due dovesse entrare per prima al gabinetto, io mi limitai a scuotere la testa con aria rassegnata, mentre Beth mi rivolgeva l’ennesimo sorriso assente di quella mattina.

 

Le lezioni mattutine passarono abbastanza rapidamente, specialmente nelle ore del nostro coordinatore di classe, il professor Anderson. A spiegare era davvero in gamba e rimpiansi amaramente il fatto che non fosse altrettanto capace di tenere a bada i bollenti spiriti dei nostri compagni.

Fare lezione, infatti, era pressoché impossibile, sia per lui che per gli altri professori. Era come se i ragazzi non riuscissero a stare seduti e a concentrarsi per più di cinque minuti consecutivi e, con un certo orrore, mi resi conto che la stessa cosa cominciava a succedere anche a me. Mi stavano contagiando!

La mia situazione, poi, era aggravata dalle presenza dei tre individui a cui avevo avuto la sfortuna di capitare accanto.

Shadow che, con grande soddisfazione di tutt’e tre le mie amiche – e mio sommo orrore – ormai aveva scoperto le sue carte. Non potevo più negare l’evidenza che ci stesse spudoratamente provando con me e intanto provavo a decodificare i segnali opposti inviati dal mio corpo, cercando di non uscirne matta: il cervello, che mi diceva di ignorarlo, perché era dannatamente scorretto, e gli ormoni, che mi dicevano di saltargli addosso e possibilmente anche in fretta.

A completare il quadretto, ci si mettevano Angie e Night ed i loro continui litigi, che mi facevano venire l’emicrania e rendevano la voce dei professori un leggero brusio continuamente ostacolato dai loro “SMETTILA!” o “Sei stato tu!” o ancora “Falla finita, Gonnellina al Vento!”

Ero disperata. Più volte fui sul punto di chiedere a qualche professore di cambiare posto, per poi guadagnarmi probabilmente la nomea di studentessa più irrequieta dell’istituto, pronta a essere spostata di banco dopo appena tre giorni di scuola. Ricordandomi com’erano esagitati i nostri compagni di classe, poi, pensai che forse quel titolo era già stato assegnato.

Dopo le lezioni, salimmo in camera a lasciare gli zaini e a riprenderci psicofisicamente prima di andare in mensa. All’appello mancava solo Beth, che era andata a portare gli appunti di quella mattina a Ben, il suo compagno di banco, quel giorno assente per la febbre.

****

A metà dei gradini, Beth aveva già il fiatone.

Mentre cercava di mettere insieme le forze per proseguire lungo le scale, la ragazza si chiese distrattamente come facessero gli studenti dei piani più alti a salirle e a scenderle tutti i santi giorni, senza neanche usare l’ascensore.

L’ascensore qui lo usano per altri scopi, pensò, la mente che le tornava inquieta a quella strana capsula e alle sue trasformazioni. Perché diamine le avevano “migliorate” in quel modo?

Scacciò quel pensiero dalla testa ed iniziò a leggere le targhette sulle porte, mentre proseguiva lungo il corridoio sempre più vuoto. Quarto piano, stanza numero 34, così le aveva detto Ben.

Quando finalmente ebbe trovato quel che cercava, fece per bussare, ma in quel momento l’occhio le cadde sul numero del piano, scritto sulla parete di fronte alle porte delle camere. Con orrore, vide che era il terzo.

Dio santo Beth, ma perché sei così rintronata?

Mentre si allontanava a passo svelto dalla camera 34 sbagliata, pensò che era stata fortunata ad accorgersi dell’errore prima di mettersi a bussare: se le avessero aperto e si fosse trovata davanti il Ben sbagliato, avrebbe pure dovuto spiegargli che non era neanche in grado di leggere i numeri dei piani.

Beth si lanciò sui gradini, destreggiandosi tra i ragazzi diretti in mensa che procedevano nel senso opposto al suo, rassegnandosi all’idea di un’altra rampa da percorrere e pensando già al necrologio che avrebbero scritto su di lei quando l’avessero trovata morta stramazzata sulle scale.

Era così concentrata sulla salita da percorrere, possibilmente senza perdere un polmone lungo il tragitto, che non fece caso ai ragazzi che superava. Quando il suo sguardo incrociò per una frazione di secondo quello di un familiare ragazzo moro, era già troppo tardi.

Beth si sentì afferrare per il cappuccio della felpa e le mancò l’equilibrio. Cercò disperatamente di rimanere attaccata al corrimano, ma qualcuno alle sue spalle continuava a strattonarla e perse la presa sul ferro, rovinando all’indietro.

Gli occhi della ragazza si sgranarono per l’orrore, mentre precipitava nel vuoto. Gridò per il terrore, ma dopo un attimo era già atterrata. Sul morbido.

Scattò subito in piedi, le gambe che le tremavano per lo spavento e, voltandosi, vide che John era dietro di lei, a terra, ai piedi delle scale. Capì in un attimo quello che il ragazzo avrebbe voluto farle e sentì la rabbia annebbiarle il cervello.

«Ma dico, sei impazzito?» urlò, fulminandolo con lo sguardo.

Ma cosa passava nella mente di quell’individuo? Se fosse caduta all’indietro, come John molto probabilmente avrebbe voluto, si sarebbe aperta la testa in due. Finendogli addosso, però, Beth aveva fatto sì che John si ritrovasse coinvolto e, a giudicare dall’espressione sofferente del ragazzo, si doveva essere fatto molto più male di lei.

«Tu sei pazzo» proseguì Beth, scuotendo la testa.

«Stupida mocciosa» gemette lui, alzandosi in piedi a fatica. «Mi fai fare sempre la figura del debole.»

«Io stupida?» Beth era senza parole. «Che gran faccia tosta! A quanto pare non ti è bastato spingere nel laghetto la mia migliore amica, ci mancava il trauma cranico! Be’, ti ringrazio per essertelo procurato al mio posto.»

John non disse nulla. Teneva lo sguardo basso e la ragazza lo vide portarsi una mano alla testa e soffocare un gemito di dolore quando si sfiorò la nuca con le dita.

L’irritazione abbandonò per un attimo il volto di Beth. «Ehi, tutto bene?»

Il ragazzo continuava a non dire nulla e lei fu travolta da un’ondata di preoccupazione. Sembrava essersi fatto davvero male e il fatto che non stesse neanche rispondendo a tono alle sue provocazioni era un pessimo segno.

«Ti porto in infermeria» esclamò, afferrandolo per un braccio.

Lui si liberò con uno strattone. «Assolutamente no. Non ce n’è bisogno.»

Beth levò gli occhi al cielo. «Ma cos’è che stai dimostrando, esattamente? È una prova di virilità?»

John le lanciò un’occhiata perplessa, ma Beth non lo degnò di uno sguardo e ne approfittò per farsi più vicina al ragazzo, gli occhi fissi sulla sua testa.

Lui fece per indietreggiare, ma Beth riuscì ugualmente a tastargli la nuca e, quando percepì le dita inumidirsi, il cuore le si impennò nel petto per l’ansia.

Non appena le ebbe di nuovo davanti al volto, i suoi sospetti trovarono conferma: sangue.

«Tu in infermeria ci vieni eccome» fece lei, in un tono che non ammetteva repliche.

Gli appunti di Ben potevano aspettare, pensò poi, mentre trascinava John giù per le scale.

****

Quando Beth ci raggiunse in mensa, trafelata, noi l’avevamo ormai data per dispersa.

«Beth!» esclamai, scattando in piedi.

«Dove sei stata?» domandò Arianna.

«Ho portato John in infermeria» spiegò lei tutto d’un fiato, appoggiandosi al tavolo al quale eravamo sedute.

Noialtre ci scambiammo uno sguardo perplesso.

«In infermeria?» ripetei, soffocando a stento l’irritazione nel sentire nominare quell’odioso ragazzo.

«Lo hai picchiato?» Angie si era improvvisamente interessata al discorso.

Beth si affrettò a scuotere la testa.

«È stato picchiato?»

«No, Angie» sospirò l’altra. «Secondo voi riesco a mangiare qualcosa?» aggiunse, guardandosi intorno nella mensa ormai semideserta.

La maggior parte degli studenti aveva già finito di mangiare da un pezzo ed era uscita a godersi la breve pausa prima dell’inizio delle lezioni pomeridiane.

«Penso di sì» feci io, seguendo il suo sguardo.

«Sappi che non voglio arrivare in ritardo a lezione» intervenne Arianna. «Quindi sbrigati.»

Beth annuì di slancio e corse verso il bancone, dal quale tornò poco dopo vittoriosa, con un vassoio stracolmo di cibo tra le mani.

La ragazza si sedette al tavolo e rimanemmo a farle compagnia mentre lei mangiava il più veloce possibile, sotto gli occhi attenti di Arianna, che smetteva di fissarla solo per poter lanciare un’occhiata al suo orologio da polso, per poi tornare svelta a controllare l’altra.

«Avevo una fame…» biascicò Beth, a bocca piena.

«Cosa è successo a John?» chiesi a un tratto.

«È caduto dalle scale» rispose lei, tra un boccone e l’altro.

Rimanemmo stupite di fronte a quella risposta vaga, a cui non seguirono altre spiegazioni, complice forse lo sguardo minatorio di Arianna.

Come mai Beth lo aveva portato in infermeria? Non lo odiava tanto? Forse era rimasta coinvolta. Mi rassegnai all’idea che le mie domande non avrebbero trovato risposta, almeno per il momento. Oltretutto sapevo bene che, se Beth avesse voluto tenere quell’episodio per sé, non mi avrebbe raccontato un bel niente, in barba alla nostra amicizia, esattamente come era accaduto con quella faccenda, l’anno prima.

Scacciai quel pensiero fastidioso dalla mente. Le cose erano diverse con Beth, adesso.

Dopo che la nostra amica ebbe finito di mangiare, salimmo in camera a prendere gli zaini e poi ci precipitammo al piano di sotto per le lezioni pomeridiane.

Quel giorno avevamo un’ora di matematica e una di musica, che in teoria doveva essere un po’ più rilassante della prima ma si rivelò altrettanto estenuante, per tutti meno che per Beth. La mia amica, infatti, con le sue conoscenze musicali e il fatto che sembrasse aver preso il tè con tutti quanti i membri dei Beatles, si guadagnò subito i favori del professor Caldwell.

Dopo le lezioni, Beth avrebbe voluto andare a vedere come stava John ma, quando la accompagnai in infermeria, ci venne riferito che il ragazzo era andato in camera sua subito dopo le medicazioni. Non avendo idea di dove fosse la sua stanza, Beth si rassegnò a seguirmi in camera.

«Non è che ti sei presa una cotta per lui?» scherzai, voltandomi di colpo verso di lei mentre procedevamo lungo il corridoio, dirette alla nostra stanza.

«Assolutamente no!» tuonò lei, in tono così accalorato che mi fece trasalire. «Ma che ti salta in mente?!»

«Ehi, scusa» mormorai, aggrottando le sopracciglia. «Guarda che stavo scherzando. Lo so che a te…»

«Scusami, non so cosa mi sia preso» si affrettò a dire lei, interrompendomi. Doveva essersi accorta di aver esagerato. «Sono solo preoccupata, tutto qua. Sembrava essersi fatto davvero male.»

 

Quella sera ero di ritorno dalla mensa, dopo cena, quando incrociai Shadow davanti alla porta di camera sua.

«Ehilà, Kia!» esclamò lui, vedendomi.

«Ehm… ciao» risposi, dopo aver lanciato nervosamente un’occhiata alle mie spalle. Angie, Beth ed Arianna non si vedevano all’orizzonte. Dovevano essere ancora sulle scale e non sapevo se essere contenta o dispiaciuta del fatto che fossimo soli.

«Posso proporti una cosa?» fece lui all’improvviso, tamburellando con le dita sulla porta. Sembrava di colpo un po’ meno sicuro di sé.

Mi sentii improvvisamente la gola secca e il cuore iniziò a palpitarmi nel petto. Oddio. Cos’è che voleva propormi?

Shadow intanto continuava a fissarmi e realizzai che il copione prevedeva che in quel momento io dessi qualche cenno di vita, cosicché lui potesse farmi quella benedetta proposta.

«Dimmi.»

«Domani sera organizziamo una festa in giardino. Ti andrebbe di venire?» Dopo un momento, aggiunse: «Con me?»

Rimasi immobile. Quella pausa era chiaramente un invito che non aveva niente a che fare con la festa, un invito che dovevo rifiutare. Era anche l’occasione perfetta per dirglielo una volta per tutte, onde evitare malintesi.

Feci un respiro profondo e lo fissai dritto negli occhi, ma tutti i miei buoni propositi andarono a farsi benedire quando ricambiai quello sguardo gentile, affascinante e soprattutto pericolosamente speranzoso e colmo di aspettative, che mi fece diventare le gambe di gelatina.

«Certo» risposi senza neanche rendermene conto. NO. NO. NO!

«Fantastico!» esclamò lui, con rinnovata sicurezza.

Mi morsi la lingua. Non potevo credere di aver accettato sul serio. Razza di deficiente.

«Ma scusa, vi permettono di organizzare una festa in giardino?» domandai, nel vano tentativo di allontanare da me i sensi di colpa. Davvero vano.

«Sì» rispose lui, facendosi pensieroso. «Sembra quasi che ci tengano a farci conoscere nuove persone.»

La aggiunsi mentalmente alla lista di stranezze di quell’istituto, tra i preservativi e l’ascensore dei ritocchi estetici. Stava diventando lunga.

Shadow mi diede appuntamento per l’indomani ed entrò in camera sua, giusto un attimo prima che le ragazze spuntassero dalle scale.

Mi affrettai a raggiungerle, senza dire loro una parola sulla festa alla quale avevo appena malauguratamente accettato di partecipare.

 

Quella notte non riuscii a prendere sonno e avevo come il vago sospetto che Shadow c’entrasse qualcosa.

Mi rigirai più e più volte nel letto, attorcigliandomi nelle lenzuola alla vana ricerca di una posizione comoda. Inutile, avevo gli occhi sbarrati.

Angie, oltretutto, russava come un trombone: quando finalmente chiudevo gli occhi e mi rilassavo, lei iniziava a rumoreggiare ancora più forte, facendomi venire voglia di urlare.

Non potevo neanche mettermi a leggere, dato che Arianna aveva espressamente chiesto di non accendere la luce, dicendo che era stanca e non voleva essere disturbata. Non potei fare a meno di chiedermi come facesse a dormire con l’orchestra che Angie scatenava russando e a svegliarsi con la pallida luce di un abat-jour.

Dopo quella che mi parve un’eternità, sentii infine le palpebre farsi pesanti. Così, quando intravidi Beth alzarsi in piedi e avviarsi verso la porta, pensai di essermi finalmente addormentata e di stare sognando.

 

Beth non riusciva a dormire.

Era da quando aveva messo piede nel letto che non prendeva sonno, con Kia che si rotolava tra le coperte come un criceto rabbioso e Angie che russava ininterrottamente a bocca spalancata. Dopo aver fissato il soffitto per quella che le parve un’eternità, si alzò a sedere e scivolò giù dal letto, lasciando le sue amiche addormentate.

Senza neanche chiedersi che cosa stesse facendo, arraffò la chiave della camera dal comodino, aprì la porta con un cigolio e uscì, chiudendosela alle spalle.

Attraversò il corridoio in punta di piedi, completamente scalza. Si guardava intorno e si sorprese a sperare di incrociare qualcuno, ma era notte fonda, chi mai sarebbe stato così pazzo da andarsene in giro a quell’ora?

Solo io, ovviamente, pensò Beth scuotendo leggermente la testa, quando un rumore di passi alle sue spalle la smentì clamorosamente.

Si voltò, confusa e un po’ inquieta, e si trovò davanti Lucas, che camminava lungo il corridoio a testa bassa, come se fosse immerso nei suoi pensieri. Il bel ragazzo biondo era a torso nudo e Beth era così presa da quella visione celestiale che ci mise un po’ ad accorgersi che aveva qualcosa tra le dita. Qualcosa che lasciava ben poco all'immaginazione.

Preservativi: servitevi pure, pensò la ragazza, inarcando un sopracciglio.

Lucas non dava segno di averla notata, almeno finché non sollevò la testa e i loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo. Il ragazzo sgranò gli occhi e le puntò il dito contro. All’improvviso, sembrava terrorizzato.

Dal canto suo, Beth si sentì morire. Aveva fatto qualcosa di male? C’era un serial killer alle sue spalle armato di coltello e lei non se n’era accorta? Si sforzò di pensare a un’ipotesi più spaventosa di un serial killer e le venne in mente solo Gérard. Ma, dopo essersi voltata, vide che non c’era traccia di quell’inquietante bidello né di assassini muniti di coltelli. Non c’era nessuno. Ma allora cos’è che aveva spaventato tanto Lucas?

Tornò a guardare il ragazzo e fece un passo nella sua direzione, ma lui indietreggiò di scatto, l’orrore che si faceva strada sul suo volto.

«Ma cos...»

«UN FANTASMAAA!» ululò lui, bianco come un cencio, voltandosi di scatto e correndo via, probabilmente verso la sua stanza.

Prima che il terrorizzato grido di Lucas potesse svegliare qualcuno, Beth si lanciò sulle scale e cominciò a scendere in preda al panico, diretta al piano terra.

Possibile che quel cretino l’avesse presa davvero per un fantasma? Era a piedi nudi e aveva una lunga camicia da notte bianca, ma non credeva di avere un viso così inquietante, soprattutto dopo gli effetti di quella stramaledetta macchina. Forse.

Era così occupata a riflettere che le ci volle un po’ per rendersi conto che ad ogni suo passo un rumore sordo rimbombava in tutta la scuola. Maledicendosi fra sé, rallentò l’andatura.

Il pavimento gelido le stava facendo rabbrividire le piante dei piedi, mentre attraversava silenziosamente l’atrio.

Beth si arrestò solo quando il portone d’ingresso le si stagliò di colpo davanti e a quel punto vi si avvicinò, chiedendosi distrattamente se si potesse uscire. Figurati.

Provò comunque a spingere in avanti il portone e quello, contro ogni previsione, si aprì con un cigolio. Beth trasalì per la sorpresa. Forse era stata una svista degli inservienti.

Superò la soglia come se stesse sognando e si ritrovò di colpo all’aperto, esposta ad un refolo di vento che la riportò bruscamente alla realtà. Si affrettò a scendere i gradini che la dividevano dal vialetto e il suo sguardo corse al robusto cancello in fondo al giardino, chiedendosi se qualcuno dei suoi selvaggi compagni di scuola ne avesse mai tentato la scalata per fuggire.

Mentre abbandonava il vialetto coperto di aghi di pino e si addentrava nel cuore del giardino, Beth alzò la testa e lanciò un’occhiata alla luna piena che illuminava quella notte senza stelle, che brillava fulgida come un faro in quel mare notturno.

Rabbrividì al tocco dell’erba che, umida di guazza, le inumidiva i piedi nudi. Il silenzio accompagnava i suoi passi, donandole la quiete che quella notte aveva invano cercato nel sonno.

Mentre camminava lentamente nel buio, un’improvvisa folata di vento portò all’orecchio di Beth una melodia, costringendola a voltarsi. Non era possibile, c’era davvero qualcuno in giardino a quell’ora della notte… e non era certo un qualsiasi qualcuno!

Illuminato dal pallido chiarore della luna, John stava suonando la chitarra, seduto su una panchina.

Beth spalancò la bocca, senza riuscire a credere a ciò che vedeva. Ma, se anche gli occhi la stavano ingannando, la musica che John stava suonando suonava perfettamente reale alle sue orecchie.

«Che ci fai qui a quest’ora?» non riuscì a trattenersi dall’esclamare, avvicinandosi a grandi passi.

Il ragazzo si bloccò dal pizzicare le corde della chitarra e alzò gli occhi su di lei, scoccandole uno dei suoi consueti sguardi di superiorità.

«Potrei farti la stessa domanda, mocciosa» disse poi con voce tagliente, chiaramente scocciato da quell’interruzione. Senza aspettare una sua replica, abbassò lo sguardo sulla chitarra e tornò a suonare senza curarsi di lei.

Beth sbuffò, irritata dai suoi modi sgarbati. Avrebbe potuto tornare indietro o proseguire attraverso il giardino, ma non poteva ignorare il fatto che fossero probabilmente gli unici studenti a zonzo a quell’ora della notte, se escludeva quell’idiota di Lucas. Ignorarsi così platealmente non era da lei, a cui, a dire il vero, non sarebbe dispiaciuta un po’ di compagnia. Certo, avrebbe preferito di gran lunga quella di un cactus a John che, a giudicare da come la squadrava, sembrava della stessa idea, ma ogni tanto ci si doveva anche accontentare, dopotutto.

Così, forse anche per ripicca dopo come John l’aveva apostrofata, Beth si lasciò cadere sulla panchina accanto a lui, rabbrividendo al contatto del legno contro la sua pelle nuda. Se non altro, pensò, John non l’aveva scambiata per uno spettro, vedendola, o aveva quantomeno deciso di tenerlo per sé.

«Non sapevo suonassi la chitarra» proruppe lei. «Proprio come John L...

Lui si voltò verso di lei e la zittì, posandole un dito sulle labbra, sulle quali forse indugiò un momento di troppo.

Beth impallidì e si scostò bruscamente, turbata da quel contatto. Non aveva potuto fare a meno di notare che le dita di John erano bollenti. Quelle stesse dita che adesso erano tornate a scorrere sicure sulle corde della chitarra, emettendo suoni malinconici.

Nel sentirlo suonare, Beth provò un brivido che non aveva niente a che fare con il freddo. Le costava caro ammetterlo, ma John ci sapeva davvero fare.

Ma i brividi d’emozione ben presto lasciarono il posto a quelli di freddo, dato che il vento continuava a soffiare ininterrottamente, senza un attimo di tregua.

Beth si strinse nella camicia da notte, maledicendosi per essere uscita solo con quella. Ma cosa le era saltato in mente, credeva di girare il remake di The Ring?

«Su, vieni» borbottò John all’improvviso, poggiando la chitarra a terra.

Beth lo guardò, perplessa. «Scusa?»

John le fece segno di avvicinarsi e Beth lo fissò con tanto d’occhi, credendo di esserselo solo immaginato. Dopo avergli scoccato uno sguardo diffidente, la ragazza si decise infine ad obbedire. Gli si fece un po’ più vicina, muovendosi molto lentamente e senza mai perderlo d’occhio un istante, come se si aspettasse una trappola da un momento all’altro.

Ma non sembrava esserci nessun inganno. John le circondò le spalle con un braccio e la attirò a sé, in un gesto che a Beth parve improvviso e repentino, almeno paragonato ai suoi movimenti.

A contatto con il corpo del ragazzo, che in confronto a lei pareva una stufa, Beth arrossì un poco e deglutì, cercando di non farsi prendere dal panico. Quella situazione non le piaceva per niente. John era il ragazzo che aveva offeso Lennon, dopotutto, non poteva certo scordarlo! Ma faceva freddo, diamine se faceva freddo, e John era l’unica fonte di calore che aveva a disposizione.

Meglio che morire assiderati, si rassegnò infine Beth, poggiando la testa contro la spalla del moro. Chiuse lentamente gli occhi, dimenticandosi per un attimo di detestare John con tutta se stessa perché, semplicemente, in quel momento non era lui. 
Fa’ finta che sia una stufa a legna. Dai, non dovrebbe essere poi così difficile.

«Non ti mettere a dormire, però» mormorò il ragazzo ad un tratto. A Beth non sfuggì una vaga nota divertita nel suo tono di voce, al posto del solito astio.

Per tutta risposta, lei emise un grugnito di protesta, che lo fece scoppiare a ridere.

Beth realizzò che non lo aveva mai sentito ridere prima d’allora e aprì gli occhi per potergli lanciare un’occhiata, così, per assicurarsi che non stesse avendo un’allucinazione.

John si stava sistemando i capelli corvini con gesti nervosi e, nel farlo, Beth intravide delle bende, probabilmente il risultato dell’incidente di quel pomeriggio. Era sul punto di chiedergli se stava meglio, ma alla fine optò per rimanere in silenzio. C’era un’insolita quiete fra di loro, come se niente di tutto ciò che era accaduto fra di loro fosse mai successo, e Beth non aveva intenzione di romperla.

Rimasero a lungo in quella posizione, finché il ragazzo non si riscosse, come se si fosse appena improvvisamente risvegliato da un sogno.

«Mi è venuto freddo» borbottò, il tono tornato tagliente. «Se non ti dispiace, io me ne vado.»

La allontanò da sé e si alzò lentamente in piedi, afferrando la chitarra e facendo per incamminarsi lungo il vialetto.

«Va bene» replicò lei, in un moto di stizza. Fece per aggiungere qualcosa, ma nell’aprire bocca le sfuggì un sonoro sbadiglio. «Tanto mi stavi facendo addormentare.»

Contro ogni previsione, John si voltò verso di lei, un’espressione indefinibile dipinta sul volto.

«Torniamo dentro, allora» disse, tendendole la mano.

Beth la fissò con aperta diffidenza, ma poi, rendendosi conto che si era così stravaccata sulla panchina che molto probabilmente non sarebbe riuscita ad alzarsi da sola, si convinse e la strinse.

John la tirò su con slancio, apparentemente senza alcuna difficoltà. Ma, proprio mentre Beth si trovava a mezz’aria, il ragazzo si liberò dalla sua stretta e si avviò sul vialetto per conto suo, lasciandola da sola, immobile e confusa.

«Bel cavaliere che sei, prima fai tutto il gentiluomo e poi non mi aspetti neanche!» gli urlò dietro con rabbia.

Tentò di rincorrerlo lungo il vialetto, imprecando sottovoce per gli aghi di pino che le si conficcavano nelle piante dei piedi, ma il ragazzo era molto più avanti di lei.

In un attimo John era arrivato al portone della scuola e, come notò Beth con rabbia, non si degnò neanche di girarsi verso di lei. Lo sentì farfugliare qualcosa, prima di entrare, ma non riuscì a capire le sue parole.

«Che hai detto?» esclamò, seguendolo. «Avanti, John!»

Quando entrò all’interno della scuola, però, lui era già scomparso.

«Ah, quel deficiente!» sbottò e, salendo le scale due gradini per volta, Beth se ne ritornò in camera sua.

 

Le labbra di Beth erano incredibilmente morbide.

John aveva fatto quell’inaspettata scoperta nel preciso momento in cui aveva fatto per zittirla. Non avrebbe voluto toccarla, in realtà, ma il suo era stato un gesto istintivo: con Annie, dopotutto, era abituato a farlo di continuo. Dopo un attimo, però, si era reso conto che con questa ragazza non aveva alcuna confidenza e che non avrebbe dovuto farlo.

Eppure, il suo dito aveva esitato, premuto sulle labbra di lei. Non erano come quelle di Annie, che si lamentava sempre di non potervi mettere il burro di qualcosa perché finiva sempre per mangiarselo. Erano piene e morbide, e John si sorprese ad indugiare su quei cuscinetti, finché lei non si scostò bruscamente da lui, guardandolo storto.

Solo a quel punto il ragazzo aveva realizzato ciò che aveva fatto e si era rimesso a suonare, sforzandosi di ignorare quella fastidiosa presenza accanto a lui.

Quando l’aveva vista emergere tra gli abeti ed i pini, come una specie di ninfa, a John era quasi venuto un colpo. Poi aveva realizzato chi fosse e aveva maledetto tutti i santi che gli erano venuti in mente, prima di arrendersi all’evidenza che quell’odiosa ragazza non si sarebbe schiodata dalla sua panchina. Quel pomeriggio, infatti, aveva potuto rendersi conto che, oltre ad essere insopportabile, Beth o come caspita si chiamava era pure testarda come un mulo.

John aveva continuato a suonare, ma si era accorto da un pezzo che la ragazza tremava come una foglia e avrebbe voluto darle la sua giacca di pelle, ma continuava a dirsi di non farlo.

«Su, vieni» aveva borbottato infine, voltandosi verso di lei, dopo aver poggiato delicatamente la chitarra a terra.

Lei l’aveva guardato come un timoroso animale selvatico, prima di avvicinarsi. John le aveva passato un braccio intorno alle spalle, come era accaduto mille altre volte con Annie ma, nel preciso momento in cui l’aveva fatto, aveva realizzato che forse darle la sua giacca sarebbe stata un’idea migliore.

Beth era troppo vicina. Decisamente troppo vicina. John era paralizzato e non riusciva a pensare a nient’altro che non fosse la sua testa poggiata contro la sua spalla, i suoi capelli mossi dal vento che gli solleticavano la guancia, la sua pelle fredda stecchita a contatto con la sua. E poi c’era il suo profumo, intenso e del tutto sconosciuto, che lo stava stordendo come se stesse fumando dell’erba.

Lanciò un’occhiata di sottecchi alla ragazza e vide che aveva gli occhi chiusi. Sembrava stesse dormendo e un risolino gli sfuggì dalle labbra.

«Non ti mettere a dormire, però.»

Un’improvvisa folata di vento gli scompigliò i capelli, che vide bene di risistemare, anche perché Beth aveva aperto di scatto gli occhi, forse disturbata da quel refolo.

C’era una strana tranquillità fra di loro e, dopo un lungo tormento interiore, John decise che quell’improvvisa vicinanza non gli piaceva e lo metteva a disagio. Non poteva certo ignorare il modo in cui lei lo aveva trattato davanti a tutti.

Fece appello a tutto se stesso per resistere, perché c’era qualcosa in lui che lottava per emergere e per mantenere quella pace fra di loro, ma alla fine non riuscì più a sopportarla.

«Mi è venuto freddo» borbottò, senza riuscire a pensare a nient’altro di meglio da dire.

Scostò bruscamente la ragazza da sé e si alzò in piedi. Senza il corpo di lei premuto contro il suo, gli pareva di essere tornato a respirare.

«Va bene» fece lei di rimando.

La sua voce era come una miriade di spilli, che si andarono a conficcare nella schiena di John e non furono per niente piacevoli. Il ragazzo levò gli occhi al cielo, chiedendosi perché dovesse capitare proprio a lui, e non poté fare altro che girarsi.

Con una mano strinse la sua chitarra, da cui non si separava mai, e tese l’altra alla ragazza.

«Torniamo dentro, allora.»

Ancora una volta, Beth lo fissò poco convinta, ma alla fine allungò la sua.

John la tirò su con slancio e per un solo, lungo attimo, poté sentire il calore che sprigionavano le loro mani.

È tutto così fottutamente romantico, pensò, impallidendo. Decisamente troppo romantico per me.

Ruppe quell’assurdo contatto e si avviò sul vialetto per conto suo, con lo sguardo della ragazza che gli bruciava sulla schiena.

Ignorò gli improperi che lei gli lanciò dietro e percorse a passo veloce i pochi metri che lo separavano dal portone d’ingresso.

Quando lo ebbe raggiunto, fu tentato di girarsi verso Beth, ma poi pensò che lei avrebbe visto la sua espressione e non era affatto una buona idea. Chissà cos’avrebbe pensato.

«Dannata mocciosa, mi fai fare sempre la figura del debole» borbottò prima di entrare.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** -•Capitolo 6 ***




Quella mattina ero china sul mio porridge, cercando di non sbrodolarmi – com’era successo tutti e tre i giorni precedenti –  ma avevo la testa da tutt’altra parte.
Gli occhi fissi sul cellulare, continuavo a leggere insaziabilmente il messaggio che avevo ricevuto al mio risveglio. Era da parte di Leo, che non sentivo da quando ero partita. Non potevo che essere al settimo cielo!
George e Camila, infatti, erano stati fedeli ai loro propositi e mi telefonavano tutte le sere ma, tra noi, Leo era sicuramente il meno tecnologico del gruppo ed era un autentico miracolo che mi avesse scritto.
Erano successe talmente tante cose dal nostro arrivo a scuola che non sapevo neanche da dove cominciare a rispondergli. Meglio dirgli che il liceo mi aveva ritoccata esteticamente con un’improbabile macchina o che mi stavo cacciando in una situazione davvero indecorosa con un ragazzo conosciuto da tre giorni? Avevo l’imbarazzo della scelta.
Avevo subito fatto sapere a Beth del messaggio, dato che Leo nel testo si rivolgeva anche a lei – ma quell’idiota lo aveva inviato solo a me per risparmiarsi la fatica di scriverne due o di usare il tasto “inoltra” – e anche la mora pareva tutta felice, mentre sorseggiava il suo caffè americano.
La notizia, invece, non aveva granché toccato le altre due ragazze: Angie pareva sul punto crollare addormentata da un momento all’altro ed era da almeno mezz’ora che Arianna mescolava il suo caffè con il lato sbagliato del cucchiaino. Non potevo biasimarle: non erano amiche di Leo come lo eravamo noi e, a dirla tutta, credevo che lo considerassero un tipo piuttosto bizzarro. Come dare loro torto, dopotutto?
Dopo averla scritta, stavo per inviare la risposta a Leo, quando un urlo mi fece trasalire e un cucchiaio di porridge mi finì dritto sui jeans. Merda.
«KIA!» Shadow era apparso dal nulla davanti al nostro tavolo, tutto pimpante.
Non potei fare a meno di notare che il suo strillo aveva mietuto altre vittime, oltre alla sottoscritta: Angie era caduta dalla sedia e Beth si era rovesciata addosso tutto il suo caffè. Entrambe scoccarono a Shadow una simultanea occhiata di fuoco.
«Come fai a essere sempre così energico?» fece invece Arianna, che aveva tutta l’aria di voler prendere appunti sui suoi metodi.
«È da quando sono qui, in realtà» rispose lui, facendo spallucce. Quindi tornò a rivolgersi a me. «A chi stai scrivendo?»
«Un amico» tagliai corto, nascondendomi il telefono dietro la schiena con un gesto istintivo.
«Posso vedere?» domandò lui, gli occhi che gli brillavano per la curiosità, mentre faceva il giro del tavolo per raggiungermi.
«NO!» risposi di getto, sollevando il cellulare sopra la testa. «Fatti gli affari tuoi!»
Le altre ragazze seguivano la scena in un silenzio di disapprovazione e sapevo che stavano traendo le loro conclusioni.
Nel frattempo, Shadow mi aveva raggiunta e mi trattenni a stento dal dargli il telefono sul cranio. C’erano tutta una serie di motivi per cui non doveva assolutamente sbirciare: odiavo chi si faceva gli affari miei, non volevo che vedesse quello che avevo scritto di lui a Leo e, soprattutto, non volevo che leggesse certi altri messaggi…
«Leeeeo, eh?» riuscì a leggere lui. «Chi è?»
«Te l’ho detto» risposi, guardandolo storto, mentre mi infilavo il cellulare in tasca. «Un amico.»
«Non si direbbe» scherzò lui. «Non è che magari è il ragazzo che ti piace?»
Divenni paonazza e lo sguardo delle mie amiche a quel punto si fece insopportabile. Era chiaro che Shadow stesse solo sondando il terreno, ma quelle parole mi colpirono più del previsto e sapevo che la mia reazione avrebbe portato il ragazzo a fraintendere.
«No» risposi a denti stretti, scattando in piedi.
Afferrai il mio piatto, la tazza e i resti stropicciati di un tovagliolo e feci per allontanarmi dal tavolo, con il ragazzo che mi fissava confuso.
«Ci vediamo stasera» gli borbottai, prima di ricordarmi che nessuna delle mie amiche era a conoscenza di quell’invito.
Inorridii e lanciai loro una breve occhiata, sperando ardentemente che non mi avessero sentita.
 
Il resto della giornata trascorse senza intoppi, con metà scuola che non faceva altro che parlare della festa di quella sera. Trattandosi di un sabato, il giorno seguente non avremmo avuto lezione, per cui saremmo stati liberi di fare le ore piccole.
«Voi ci andate?» chiese Beth, dopo pranzo. «Ho saputo da Ben che ci sarà una specie di buttafuori, quindi non si entra senza invito.»
«Non credo proprio» mi affrettai a dire, sperando che non avesse fatto quella domanda per un motivo particolare. Tipo quello che ti sei lasciata sfuggire con Shadow. «Voi?»
«No» rispose Arianna. «In realtà sono stata invitata, ma ho rifiutato.»
«SEI STATA INVITATA?» berciarono Beth ed Angie all’unisono. La prima con sincera emozione, la seconda con malcelata invidia, come se non si fosse ancora lasciata del tutto alle spalle la spietata competizione in cui si trovava con Arianna l’anno prima, quando entrambe ambivano al titolo di ragazza più popolare della Royal High.
«Già» fece lei, scrollando le spalle. «Ma non volevo andare senza di voi.»
Beth la abbracciò stretta ed io abbozzai un sorriso, ricacciando il senso di colpa in fondo al petto.
«Uffa» borbottò Angie. «Io ci volevo andare! Tanto lo so che mi sarei riuscita ad imbucare…»
Arianna le scoccò un’occhiata che non riuscii a interpretare.
«Va bene, va bene» fece lei di rimando, levando gli occhi al cielo.
«Che succede?» non riuscii a trattenermi dal chiedere.
«Niente…» Beth esitò. «È che… Arianna vorrebbe solo portare Angie sulla buona strada.»
«Una battaglia persa» commentai, facendole scoppiare a ridere.
 
Quella sera attesi sotto le coperte che le ragazze si fossero addormentate e poi scivolai giù dal letto, cercando a tentoni qualcosa da mettermi senza battere in tutti gli spigoli possibili e immaginabili.
Per non destare sospetti, infatti, avevo dovuto mettermi il pigiama come al solito, anche se, una volta uscita dal bagno, avevo trovato le mie amiche già sotto le lenzuola, come se fossero pronte per dormire, il che mi aveva lasciata di stucco. Di solito ci mettevano delle ore per prepararsi e Arianna aveva persino saltato il suo rituale di bellezza serale!
Solo il pensiero che Shadow mi stava aspettando in giardino e che io indossavo ancora il pigiama – con una stampa di palme e noci di cocco, per la precisione – mi distolsero dal sospetto che le mie amiche non me la stessero raccontando giusta.
Prepararsi al buio, in ogni caso, fu una vera impresa. Per non fare rumore aprendo l’armadio, fui costretta a servirmi dei vestiti che avevo lasciato in giro per la stanza: i jeans macchiati di porridge e un anonimo maglione nero che usavo per stare in camera, con un collo che mi arrivava fin sopra la testa e che dovetti arrotolare circa una ventina di volte, facendomi assomigliare vagamente ad un tacchino.
A truccarmi non ci pensai neanche: non ero mai stata capace di farlo e il buio non mi avrebbe di certo aiutata, a meno che non avessi voluto somigliare ad un membro di una tribù amazzonica prima di un combattimento.
Uscii dalla camera e mi sentii davvero fuori posto, in mezzo alle ragazze che stavano attraversando il corridoio in quel momento, tutte con abiti provocanti e trucco pesante. Sospirai piano, sentendo più che mai la mancanza delle mie amiche.
Scesi al piano di sotto e per poco non lasciai qualche dente lungo il tragitto, dato che continuavo ad incespicare nei gradini, nel buio più completo.
Avanzando a tentoni, riuscii infine a raggiungere l’atrio. Una volta all’ingresso, venni bloccata da un ragazzo. O forse era un armadio?
Non riuscivo a capire chi fosse – o meglio, cosa fosse – poiché era seminascosto nel buio, ma era muscoloso da far paura ed ipotizzai fosse il buttafuori di cui ci aveva accennato Beth.
Mi guardai nervosamente intorno, ma in quel momento non c’era nessuno. Le ragazze in cui mi ero imbattuta uscendo dalla camera dovevano essere ancora al piano di sopra, gli altri ragazzi erano tutti fuori, in giardino, e di Shadow nessuna traccia. Mi sarei aspettata di trovarlo lì e deglutii rumorosamente, in preda ad un’improvvisa ansia.
«Chi sei?» mi chiese il ragazzo, con una nota di esasperazione nella voce. Dovevo essere la centesima persona a cui rivolgeva quella domanda, quella sera.
Mi schiarii la voce. «Ecco, mi chiamo Kia...»
«Sai bene che non posso fare entrare chiunque, vero?» mi interruppe lui, squadrandomi dall’alto in basso.
Provai un’istintiva antipatia nei confronti di quell’energumeno.
«Mi ha invitata Shadow!» esclamai, rimpiangendo amaramente il trucco pesante e gli abiti provocanti che avevo visto addosso a quelle ragazze. Magari così avrei potuto sfruttare il mio ascendente che, con la patacca sui jeans e il collo da tacchino, in quel momento faticava ad emergere.
«Shadow?» ripeté lui, facendo una smorfia. «Dì la verità, sei una delle ragazzine urlanti che gli vanno dietro? Fammi il piacere, vattene. E, se volevi far colpo su di lui, forse quel maglione potevi anche evitarl...»
«COME TI PERMETTI?» scattai. «Shadow è il mio vicino di stanza, ti dico che è stato lui ad invitarmi!»
«Vattene, ho detto» ripeté lui, fissandomi come se fossi stata un insetto.
«Va tutto bene, Adam.»
Una voce alle nostre spalle ci fece voltare di scatto. Night era dietro di noi, spuntato dalle tenebre dell’atrio. Stringeva tra le mani un bicchiere di carta e aveva un’aria rilassata, che mi fece istintivamente pensare che il drink che stava bevendo fosse almeno il quarto di quella serata.
Vedendolo, l’espressione sul volto dell’armadio cambiò di colpo.
«Night!» esclamò, illuminandosi. «Qui c’è una ragazzina che fa un po’ di storie. Continua a ripetermi che è stato Shadow ad invitarla...»
«È vero» rispose Night. Il suo sguardo si posò su di me e mi rivolse un cenno di saluto. «Shadow me l’aveva detto. Avanti Adam, lasciala passare.»
Adam sgranò gli occhi e spostò interrogativamente lo sguardo da me a Night, come aspettandosi che il ragazzo cambiasse idea ma, dato che lui non aveva aggiunto altro, alla fine si rassegnò ad aprire controvoglia la porta d’ingresso e si fece di lato per farci passare.
Mentre Night ed io scendevamo i gradini che portavano al vialetto, mi voltai per poter lanciare un’ultima occhiata d’odio ad Adam, trattenendomi a stento dal fargli una linguaccia.
Ritto sull’ingresso ed illuminato dalle luci della festa, mi accorsi per la prima volta del colore dei suoi capelli e mi chiesi distrattamente se anche lui fosse irlandese come Angie. In ogni caso, non possedeva la simpatia della mia amica.
«Ti ringrazio» dissi poi, rivolta a Night, dando le spalle ad Adam per poterlo seguire. «Mi hai salvata da quel pel di carota
Nel sentire come l’avevo apostrofato, Night scoppiò a ridere, facendo ondeggiare pericolosamente il suo bicchiere. «Ti assicuro che non è poi così male. Cerca di capirlo, c’è un sacco di gente che tenta di intrufolarsi alla festa. Ho visto persino qualcuno cercare di scalare le finestre, stasera.»
Il mio sguardo corse istintivamente alla facciata dell’istituto. C’era davvero chi sarebbe stato disposto a rischiare la vita pur di partecipare ad una stupida festa?
«Adam è un tipo a posto. In realtà, credo non volesse farti passare perché gli hai detto che ti aveva invitata Shadow.»
Tornai a guardarlo, sgranando gli occhi. «Che cosa?»
«Tra di loro non scorre buon sangue» spiegò Night. «Credo che Adam sia geloso della popolarità di Sha. È altrettanto donnaiolo, sai, ma non ha la stessa fortuna con le ragazze.»
Scossi la testa, ripensando per la seconda volta quanto mi sarebbero stati utili il trucco e i vestiti provocanti, e poi mi guardai intorno, cercando di non perdere di vista Night nella folla di ragazzi a cui stavamo andando incontro.
Il giardino era completamente trasformato rispetto a com’era di giorno e, se possibile, era ancora più bello. Aveva un’aria al contempo misteriosa ad affascinante, data dal buio e dalle numerosi luci colorate arrotolate ai rami degli alberi.
Ai lati del vialetto erano sistemati dei tavoli, stracolmi di cibo e per lo più di bevande, tra cui spiccavano numerose marche di alcolici. Inarcai un sopracciglio, chiedendomi per circa la millesima volta come fosse possibile che la scuola potesse autorizzare una cosa del genere.
I ragazzi sembravano essere dappertutto e, in mezzo a loro, intravidi la sagoma di qualche bidello, recatosi lì per controllare che la situazione non degenerasse.
Non c’era musica, ma in compenso la confusione che facevano i ragazzi bastava e avanzava. Man mano che passavamo fra di loro, un brusio sempre più concitato ci avvolse, tant’è che alla fine Night ed io fummo costretti ad urlare per parlarci, anche se eravamo a mezzo metro di distanza.
 «Ti va di bere?» mi chiese. Senza attendere risposta, aggiunse: «Sì, cazzo, beviamo. Ho voglia di ubriacarmi.»
«V-va bene» balbettai, non altrettanto convinta.
Ci fermammo di fronte ad un tavolo e, mentre Night preparava i drink, beccammo una bidella a fissarci con aperta disapprovazione.
«Non riesco a credere che non dicano nulla» bisbigliai, scoccando un’occhiata dubbiosa a Night.
«Questa scuola è particolare» rispose lui in tono evasivo, scrollando le spalle. «E così… è stato Shadow ad invitarti.»
«Già» feci io, corrugando la fronte. Non mi era affatto sfuggito il modo in cui aveva glissato sull’argomento. «Anche se non l’ho ancora visto.»
Sospirando, afferrai il bicchiere che Night mi stava porgendo, senza chiedergli che cosa ci avesse messo dentro. Mi limitai a berlo a lunghe sorsate, proprio come stava facendo lui.
«Credo che stasera voglia fare grandi passi avanti» mi confidò, sogghignando mentre poggiava il suo bicchiere vuoto sul tavolo.
Risposi con un sorriso incerto, non sapendo se essere più preoccupata per i grandi passi avanti di Shadow o per il sapore disgustoso che aveva la bevanda che stavo sorseggiando. Ma cosa ci ha messo dentro, benzina?
La buttai giù tutta d’un fiato, chiudendo gli occhi per resistere al dolore che quel liquido corrosivo mi provocò mentre scendeva giù per la gola. Feci un enorme sforzo per non sputarlo direttamente nell’aiuola che c’era a lato del vialetto e alla fine poggiai il mio bicchiere vuoto sul tavolo con un gesto vittorioso. Era stata una tortura.
«Rimarrei a parlare con te per chiederti qualche consiglio tattico su come sopravvivere ad Angie Stevens» esclamò Night all’improvviso, «ma vedo Shadow avvicinarsi e preferisco lasciarvi soli.»
Stava fissando un punto oltre le mie spalle e non feci in tempo a girarmi che sentii qualcuno cingermi la vita con un braccio e costringermi a voltarmi.
«Shadow!» esclamai sorridendo, facendo un passo indietro ed ignorando il brivido che avevo provato nel trovarmi all’improvviso così vicina a lui.
Vista tutta quell’improvvisa confidenza, sperai ardentemente che non avesse deciso di sbronzarsi come l’amico.
«Ciao Kia!» fece lui, allegro come suo solito. Almeno apparentemente, non sembrava ubriaco. «Ti va di bere qualcosa?»
Senza darmi il tempo di rispondere, mi ritrovai in un attimo di fronte ad un altro tavolo, con un bicchiere colmo della stessa bevanda disgustosa di prima in mano e Shadow che mi fissava con un sorriso pienamente soddisfatto.
«G-grazie» risposi in un rantolo.
Non ne sarei uscita viva.

 
****
 
Non appena Kia ebbe lasciato la stanza, Beth, Arianna ed Angie scattarono a sedere sul letto. Sotto le lenzuola, le tre ragazze erano completamente vestite.
«Abbiamo fatto bene a non dirle nulla» bisbigliò Arianna, con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Io ve l’avevo detto che ci sarebbe andata!» esclamò Angie. «Shadow le piace, è evidente.»
«Parla piano!» la sgridò Arianna. «Potrebbe essere ancora dietro la porta.»
Angie levò gli occhi al cielo. «Chi se ne importa! È la volta buona che apre gli occhi!»
«Non so cosa pensare…» borbottò Beth, mordendosi il labbro. «Non è molto giusto nei suoi confronti. Kia non si sta comportando molto bene, non credete?»
«Non sarà giusto, ma è molto meglio per lei» ribatté Angie. «Non c’è paragone.»
«Allora, Angie» intervenne Arianna, affrettandosi a riportare l’attenzione sul loro piano. «La chiave dov’è?»
La ragazza riccia cliccò sull’interruttore a parete che aveva di fianco al letto e di colpo la luce invase la stanza. Con gli occhi fissi su di lei, le altre due osservarono Angie infilarsi una mano nella scollatura ed estrarne una chiave.
«Nel posto più sicuro» fece Angie in tono solenne, guadagnandosi un’occhiata disgustata da parte di Arianna.
Quando Angie aveva detto loro di aver rubato la chiave della misteriosa stanza dell’ascensore direttamente dalla divisa di Gérard, Beth ed Arianna l’avevano guardata senza riuscire a trattenere lo scetticismo. Entrambe erano consapevoli del fatto che la loro amica irlandese non fosse esattamente uno stinco di santo ma, andiamo, Gérard era la persona più inquietante in cui loro si fossero mai imbattute. Eppure, eccola lì, la chiave, che penzolava tra le dita di Angie.
«Sei assolutamente sicura che sia quella giusta?» chiese Arianna, assottigliando le palpebre.
Angie annuì, serissima in volto, e le due ragazze si scambiarono un’occhiata. Non erano del tutto certe di voler sapere dove la loro amica avesse imparato i suoi trucchi.
«Allora» le incalzò lei. «Vogliamo andare o no?»
 
Nessuna delle ragazze aveva idea di cos’avrebbero trovato.
L’unica certezza era quella che, se le avessero scoperte, sarebbero finite tutt’e tre in un mare di guai.
Eppure, il desiderio di voler a tutti i costi scoprire qualcosa di più su quell’inquietante scuola aveva prevalso su ogni buonsenso. Erano a pronte a correre quel rischio, pur di trovare qualche indizio: e qual’era il posto migliore dove iniziare a cercarli se non la misteriosa stanza delle trasformazioni?
La festa della scuola era capitata a fagiolo. I custodi sarebbero tutti stati impegnati a sorvegliare gli studenti in giardino e loro avrebbero avuto campo libero. Angie, con i suoi metodi non molto ortodossi, era poi riuscita a sgraffignare la chiave di quella stanza a Gérard. Erano pronte ad agire.
Ovviamente, non avrebbero voluto tenere Kia all’oscuro del loro piano. Progettavano di dirglielo, ma poi la ragazza se n’era uscita con quella frase rivolta a Shadow, a colazione.
Mentre la loro amica si recava in camera, loro tre avevano capito che Kia per quella sera aveva altri progetti e dato che ognuna di loro, in cuor suo, sperava che tra lei e Shadow nascesse qualcosa, le avevano taciuto ogni dettaglio del piano.
Scesero le scale in preda al nervosismo ma, una volta giunte nell’atrio, rallentarono il passo e si sforzarono di assumere un’aria disinvolta. Potevano essere tranquillamente scambiate per studentesse invitate alla festa – magari delle studentesse invitate alla festa un po’ sciatte, ecco – ma quel passo felpato avrebbe di certo attirato qualche sospetto.
Davanti all’ingresso che conduceva all’esterno si stagliava un enorme figuro che le ragazze scrutarono con apprensione, ma quello che aveva tutta l’aria di essere l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia stava osservando la festa e dava loro le spalle.
Tirando un sospiro di sollievo, le ragazze iniziarono ad attraversare l’atrio in fila indiana, gli occhi fissi sul corridoio che conduceva alle classi e alla loro meta, quando un urlo le fece sobbalzare.
«GONNELLINA AL VENTO!»
Solo una persona sull’intera faccia della Terra si sarebbe mai azzardato a chiamare Angie in quel modo e fu con un moto di orrore che lei e le ragazze si voltarono in direzione della voce.
«N-Night» balbettò Angie, cercando con scarso successo di assumere un’espressione innocente.
Il ragazzo stava venendo loro incontro a passi incerti, un bicchiere di carta tra le mani e un sorriso tremolante sul volto.
Le tre ragazze lo osservarono avvicinarsi, cercando di ignorare gli occhi del gorilla all’ingresso, che adesso erano fissi su di loro.
«Cerchi la tua amichetta?» domandò lui, incespicando nelle parole.
Le ragazze si scambiarono un’occhiata. Night sembrava ubriaco fradicio.
Senza attendere risposta, il ragazzo continuò. «Mi dispiace, sai, non posso dirti dov’è…» Si interruppe e un rutto gli sfuggì dalle labbra.
«Le b-buone m-maniere…»
Beth si affrettò a soccorrere Arianna, che stava per svenire.
«Penso che sia impegnata con Shadow.» Night ridacchiò. «Hai capito che intendo..?»
«Angie!» berciò Beth, mentre cercava di far rinvenire l’amica.
«Staranno trombando… almeno, lo spero per loro…»
«Che c’è?!» strillò Angie sottovoce. Solo lo sguardo sospettoso del buttafuori la stava trattenendo dall’allungare un calcio nei gioielli di Night per zittirlo una volta per tutte.
«Non so che ci trovi Sha in lei…»
«Devi distrarlo!» proseguì Beth.
«IOO?!»
«Però insomma, io non è che ne sappia molto…hic!»
«Abbassa la voce, King Kong ci sta guardando!»
«Non trovate che sembri asiatica?»
«Ti prego Beth, non puoi farmi questo!» Angie fissò l’amica con aria implorante, per poi ribattere, rivolta a Night: «È hawaiiana, cretino.»
«Comunque ha poche tette» proseguì lui, ignorandola.
«Angie, devi farlo! Questo qui ci fa saltare il piano! Dai, dammi la chiave!»
«Mi piacciono decisamente più le tue.»
«CHE CAZZO HAI DETTO DELLE MIE TETTE?»
Angie afferrò Night per il bavero della giacca e lo sospinse verso l’ingresso, in direzione del gorilla.
«EHI, SCIMMIONE! HAI SENTITO CHE HA DETTO QUESTO QUI?!» gli urlò.
Il gorilla distolse lo sguardo da Beth e dalla moribonda Arianna per lanciare un’occhiata ad Angie.
«Wow» commentò. Inutile dire che non la stava guardando negli occhi.
«COME VI PERMETTETE?»
La bionda si voltò un attimo verso Beth, che le sillabò un “grazie”, prima di proseguire indisturbata lungo il corridoio con Arianna, che i berci di Angie stavano facendo rapidamente tornare in sé.
 
****
 
«Guarda, la festa è enorme!» esclamò Shadow. «Si estende fin laggiù!»
Il ragazzo mi diede le spalle per indicarmi un punto fino al giardino.
«Oh sì, sì, grandioso.»
Approfittai di quella distrazione per sputare il drink in un’aiuola e rovesciare nello stesso punto ciò che rimaneva nel bicchiere. Salva per un pelo.
«Ti piace, Kia?» Shadow si era voltato verso di me e stava indicando il mio bicchiere vuoto, tutto sorridente.
«No, io veramente…»
«Anche io lo adoro! Dai, prendine un altro» mormorò, afferrando un altro bicchiere stracolmo dal tavolo e passandomelo. Nel farlo, sfiorò inevitabilmente le sue mani con le mie.
Probabilmente lo aveva fatto solo per quel contatto, ma ero troppo occupata a fissare orripilata il bicchiere che avevo in mano per prestare troppa attenzione alla cosa.
Shadow, oltretutto, continuava a fissarmi e così fui anche costretta a scolarmelo fino all’ultima goccia.
«Gesù…»
«…se è buono, eh?»
Il ragazzo fece per offrirmene un altro ancora, ma declinai gentilmente l’offerta e mi affrettai a condurlo lontano dai tavoli, prima di vomitare anche l’anima.
«Ti va di andare in un posto più tranquillo?» propose lui, dopo un po’ che passeggiavamo tra i ragazzi ubriachi fradici, che cominciavano anche ad essere piuttosto assonnati, a giudicare dai loro sbadigli.
A quella domanda, cominciai a sudare freddo. Avevo lo stomaco sottosopra e non solo per quei drink imbevibili: allontanarsi dalla confusione avrebbe significato rimanere sola in compagnia Shadow e del senso di colpa che ormai mi stava divorando.
Ero così persa nei miei pensieri che ci misi qualche momento ad accorgermi che, senza aver atteso risposta da me, Shadow mi aveva condotta in un angolo appartato del giardino, lontano dal brusio della festa e dalle luci degli alberi, del tutto immersi nel buio.
Un posto palesemente, inevitabilmente, orribilmente intimo.
 
****
 
Angie lanciò un’occhiata colma di desiderio oltre il vetro e sbuffò sonoramente. La festa, là fuori, sembrava chiamarla per nome.
Avrebbe dato un braccio per parteciparvi – lei adorava la feste! – e, adesso che era svincolata dal piano, avrebbe anche potuto farlo, ma non aveva messo in conto quella zavorra di Night appresso e quell’energumeno lì davanti, che continuava a guardarla storto e si interrompeva solo per fissarle il seno.
Continua a fissarmi così e ti faccio diventare strabico sul serio.
Certo che però, già che c’era, una capatina alla festa avrebbe anche potuto farla. Tanto Beth ed Arianna erano ormai andate avanti senza di lei, che si era nobilmente sacrificata per la causa. Sperò che le due ragazze se la cavassero. Con quella snob di Arianna, crollata dopo neanche cinque minuti dall’inizio dell’azione, non ne era del tutto certa.
«Allora, ci fai passare o no?» borbottò, rivolta al buttafuori.
«Night può passare» rispose lui, con un accento che ad Angie parve familiare. «Tu non sei stata invitata.»
«CHE COSA?» tuonò lei, serrando i pugni. «Ma che razza di discorso è?»
«Night, vuoi uscire?» domandò premurosamente l’odioso tipo, ignorandola completamente.
Night si guardò intorno, socchiudendo le palpebre. «Uscire? Io non posso mica uscire…»
«Ma lo vedi? Non si regge in piedi! Lascia che lo accompagni!»
«Tu non puoi passare.»
«Ah sì?» Angie sentì la rabbia montarle nel petto come un’onda anomala. «Cretino, guarda che mi basta passare da una delle finestre. Non ci hai pensato?»
Ma no che non ci ha pensato, avrà il quoziente intellettivo di un pesce rosso.
Il ragazzo si voltò a mezzo busto verso di lei. «Tu provaci» sibilò. «e io ti spezzo in due.»
Angie serrò i pugni. «Credi forse di spavent…»
La voce le morì in gola. Da quella posizione, illuminato dalle lucine colorate appese ai rami degli alberi, la chioma del ragazzo si rivelò essere inconfondibilmente rossa.
Oddio. Quei capelli, uniti a quell’accento, per Angie erano meglio di un passaporto. Un’idea le fece capolino nella mente. Certo, poteva anche non conoscerli, ma decise di rischiare comunque. Se la cosa fosse andata a buon fine, sarebbe uscita indenne da quella situazione senza dover ricorrere alle mani. Viste le dimensioni del suo avversario, era un’idea oltremodo saggia.
«Sei irlandese, vero?»
Il ragazzo non replicò, limitandosi a fissarla in cagnesco, le braccia incrociate sul petto.
«Irlandese?» Night spuntò tra di loro, apparentemente ignaro della tensione che saliva, circondandoli con un braccio come se fossero tutti dei vecchi amici. «Certo che è irlandese! Dublino, per la precisione! Proprio come m…»
«Allora forse conoscerai gli Stevens» buttò lì Angie, con finta indifferenza.
Il rosso, che stava fissando Night come se avesse voluto strozzarlo a mani nude, si bloccò di colpo e si voltò a guardarla. Un’ombra gli attraversò lo sguardo per un attimo.
Dentro di sé, Angie iniziò a gongolare. Sì! Ci ho preso!
«G-gli Stevens?» ripeté il ragazzo allarmato. «Tutti li conoscono.»
«Io mica li conosco. Hic!»
«Mi fa piacere.» Angie gli rivolse un sorrisetto innocente. «Sono i miei fratelli.»
Il pomo d’Adamo del rosso fece su e giù.
«I-I tuoi fratelli?»
«Già» rispose lei. «Spero proprio di non dover dire loro che…» si bloccò, dando di gomito a Night, che per poco non crollò a terra. «Com’è che si chiama questo qui?»
«Adam O’Dooley» rispose obbedientemente Night, cercando di rimettersi in piedi.
«Ecco, che Adam O’Dooley mi ha infastidita e non mi ha permesso di partecipare alla festa della scuola.» Le labbra di Angie si piegarono all’ingiù. «Sarebbe un vero peccato, non credi?»
Adam sembrava aver improvvisamente perso tutta la sua spavalderia.
«Certo, certo» mugugnò. «Passate pure. Divertitevi.»
«Grazie, Adam» fece lei amabilmente, passandogli davanti con aria disinvolta e trascinandosi dietro Night che, dall’espressione, doveva essere rimasto molto colpito dalle sue minacce.
«Wow, Gonnellina al Vento» biascicò. «Ne hai di potere.»
«Visto? Vedi di tenerlo a mente, per il futuro.»
Scese i gradini saltellando, con Night dietro di lei che inciampava ad ogni passo e, una volta atterrata sul vialetto – Night vi si spiaccicò di faccia – si guardò intorno emozionata. Fissò i ragazzi intorno a lei, che certo non potevano sapere che Angie Stevens era l’anima di ogni festa che si rispettasse, e chiuse gli occhi, pronta a percepire le scariche elettriche che i party le davano.
Dopo un attimo, aprì un occhio titubante, percependo che qualcosa non andava. In quell’atmosfera c’era una nota stonata, anzi, di note non ce n’erano affatto.
Si voltò a fissare Night, rimasto immobile a terra. «Ehi, ma dov’è la musica?»
«Non c’è musica» rispose il ragazzo dopo un attimo. Si stava tastando il naso con espressione confusa. «Penso di essermelo rotto» bofonchiò infine.
«Ma no, deficiente» lo rimbeccò lei. «Che vuol dire che non c’è musica?!» urlò poi, mettendosi le mani tra i capelli. Quella era una tragedia, un’autentica tragedia!
Night, seduto sul vialetto, fece spallucce. «Quella stronza della preside non vuole. Troppo casino, credo. È la sua unica regola.»
«Ma…ma…» Angie non credeva alle proprie orecchie. «Ma una festa senza musica non ha senso di esistere! È come Arianna senza la puzza sotto il naso, come il sesso senza preliminari, come i Nirvana senza Kurt Cobain, come…»
«Che hai detto sul sesso?»
Angie sospirò affranta. Persino parlare con quello scimmione di Adam le avrebbe dato più soddisfazione, in quel momento.
«Vieni, tirati su» borbottò, tendendogli la mano. «Hai intenzione di mettere radici, lì in terra?»
Lui la afferrò, fissandola confuso. «Radici? Si fumano, per caso? Come i funghi?»
Angie si diede una manata in fronte, dimenticandosi che era quella che aveva teso a Night, che crollò di nuovo a terra con un lamento.
«Ops
Si chinò su di lui e lo sollevò di peso e, con uno sforzo titanico, finalmente il ragazzo riuscì a puntare i piedi per terra e ad alzarsi.
Angie lo fissò senza riuscire a trattenere lo stupore. Quel tizio che barcollava e che sembrava essere appena atterrato su Marte era davvero Night Harris, quel violento e odioso ragazzo con una reputazione – molto sopravvalutata, secondo il suo modesto parere – da delinquente?
«Si può sapere quanto cazzo hai bevuto?» non riuscì a trattenersi dal chiedere.
Night la fissò sbattendo le palpebre, poi abbassò lo sguardo sui palmi delle mani, come se potessero rivelargli la risposta. Dopo un’eternità, esclamò: «Ehi, credo che non mi bastino le dita.»
Angie scosse piano la testa, lanciando un’occhiata al vialetto davanti a sé, che portava dritto al cuore della festa, dove si trovavano il grosso dei ragazzi e dei tavoli. Sospirò, delusa. Per lei non aveva senso rimanere lì, senza un po’ di buona musica. Senza contare che non aveva voglia di fare da balia a Night tutta la sera.
Fece per voltarsi verso il ragazzo ma, con crescente orrore, si accorse che era sparito.
«Night?» esclamò, guardandosi intorno. «Night?»
Infine lo vide. Malgrado la sua sbronza colossale, doveva essere riuscito a riconoscere qualche volto familiare ed in quel momento stava salutando un gruppo di ragazzi, sul lato destro del vialetto, vicino ad un’aiuola.
Angie sospirò di sollievo. Guarda come parlava con i suoi amici! Be’, dai, era evidente che si fosse ripreso alla grande. Si vedeva da un miglio che non aveva più bisogno del suo supporto.
Attenta a non farsi notare, la ragazza si allontanò dal vialetto e si incamminò lentamente verso i gradini, pronta a filarsela.
Voltandosi per lanciare un’ultima occhiata a Night e assicurarsi che non gli venisse la balzana idea di seguirla, vide con orrore che il suo gruppo di amici si stava allontanando lungo il vialetto, dandogli le spalle, mentre Night era chino sull’aiuola e stava vomitando sulle margherite. Cazzo.
«NIGHT!» berciò, correndogli incontro. «Levati di qui! Abbi un po’ di rispetto per queste povere piante!»
Il ragazzo alzò la testa dall’aiuola. Era bianco come un cencio.
«Gonnellina al Vento» disse in un soffio, fissandola come se fosse un’apparizione divina. «Penso di sentirmi male.»
«Ah, lo vedo» fece Angie, arricciando il naso per la puzza di vomito. «Fai tanto il duro e poi non reggi neanche un po’ d’alcol.»
Preferì soprassedere sul fatto che “un po’ d’alcol” probabilmente corrispondesse ad una ventina di cocktail e lo afferrò saldamente per un braccio, per poi iniziare a trascinarlo verso il portone d’ingresso.
«Dove stiamo andando?» chiese Night.
«Ti riporto in camera» annunciò Angie in tono deciso.
In realtà le era venuto in mente in quell’istante, ma era davvero un’ottima idea: non solo non avrebbe avuto più debiti nei suoi confronti, dopo che lui l’aveva riportata in camera ma, dopo averlo scaricato davanti alla sua porta, Angie se ne sarebbe potuta tornare a dormire. Avere Night Harris come compagno di stanza, dopotutto, aveva anche i suoi lati positivi.
Vedendoli già di ritorno, Adam impallidì.
«T-tutto bene?» balbettò. «Ho fatto qualcosa di male?»
«Ma no, idiota» rispose Angie sbuffando. «Accompagno il tuo amico in camera sua.»
«Non è mio amico» si affrettò a dire Adam.
Angie lo fissò con tanto d’occhi. Eppure, da come si trattavano, lei aveva pensato proprio che fossero…
«Lui è il mio capo» la corresse lui con solennità.
«Ah.» Angie scosse la testa, chiedendosi se ci fosse qualche speranza per lui. «Augh, allora» aggiunse, avviandosi verso le scale con il ragazzo che ondeggiava dietro di lei.
«Augh!» ripeté Night con un risolino, voltandosi verso Adam.
«Augh?» ripeté il rosso a sua volta, non troppo convinto.
«Ce la fai a salire le scale?» chiese Angie, voltandosi appena verso Night, quando vi furono davanti.
«Non potremmo volare?»
Angie soffocò la tentazione di mollargli un ceffone. Viste le sue condizioni, non sarebbe stato molto leale nei confronti del suo avversario.
«Appoggiati a me» sospirò infine lei.
«Che cosa?»
«Appoggiati a me, ho detto.»
Night non pareva troppo convinto e alla fine fu Angie a passargli un braccio intorno alla vita per guidarlo lungo i gradini. Se avesse aspettato Night, l’indomani mattina sarebbero stati sempre lì.
Arrancavano ondeggiando ed ogni passo era un supplizio per Angie, che più volte fu tentata di scaraventare il ragazzo giù dalle scale e abbandonare lì il suo cadavere.
E menomale che siamo solo al primo piano, pensò per circa la millesima volta da quando si era trasferita in quell’improbabile scuola.
Night era decisamente troppo vicino per i gusti di Angie e nelle sue narici si mescolavano indistintamente l’odore acre del vomito, quello dolciastro dell’erba e poi quello di lui, un odore forte, maschile, che copriva tutti gli altri e la metteva vagamente a disagio.
«Ti piace il basket?» sentì Night chiedere quando furono più o meno a metà rampa.
Angie gli scoccò un’occhiata perplessa. Ma che senso aveva quella domanda?
«C’è davvero qualcuno su questa Terra a cui non piace il basket?»
Night ridacchiò. «Niente male, Gonnellina al Vento
Dopo quel commento, sprofondò in un insolito silenzio – musica per le orecchie di Angie – e la ragazza proseguì la scalata, arrancando faticosamente fino al loro piano.
«Night, siamo arrivati» borbottò, mentre avanzavano lungo il corridoio.
Nessuna risposta.
Angie impallidì. Non è che era morto? Cazzo, se fosse successo ai piedi delle scale, almeno avrebbero dato la colpa ad Adam.
«Night..?»
Angie udì un borbottio indistinto e di colpo capì, l’irritazione che cresceva dentro di lei.
«TI SEI ADDORMENTATO?!»
Una porta si spalancò nel corridoio e i due inquilini della camera numero 21 si affacciarono dalla soglia, le loro espressioni nient’affatto amichevoli.
«Fai piano, qui vogliamo dormire!»
«VAFFANCULO!»
Angie scagliò il ragazzo lungo il corridoio con un grido rabbioso. Avrebbe voluto colpire quei due stronzi, ma Night atterrò sul pavimento svariati metri prima. In ogni caso, i ragazzi capirono l’antifona e si affrettarono a barricarsi dietro la porta. Saggi.
«Ahi!» gemette Night, cercando di rimettersi in piedi. «Ma che fai?»
Angie proseguì fino alla porta della sua camera a passo pesante, cercando di far sbollire la rabbia. La tentazione di colpire Night, adesso che era immobile a terra, inerme ed intontito, era più forte che mai.
«Sbrigati ad entrare in camera» borbottò. «Così avrò estinto il mio debito.»
«Ma di che stai parlando..?» biascicò il ragazzo, barcollando verso la sua porta.
A braccia conserte, Angie lo osservò frugarsi in tasca alla disperata ricerca della chiave. Dopo quella che alla ragazza parve un’eternità, riuscì a cacciarla fuori dalla tasca.
Angie tirò un sospiro di sollievo. Per un lungo, orribile attimo, aveva temuto che avrebbe pure dovuto dare ospitalità a quel deficiente ubriaco.
«Gonnellina al Vento» bisbigliò Night, mentre tentava con scarso successo di centrare il buco della serratura.
Percependo una nota anomala nel suo tono di voce, Angie rimase all’erta. «Sì?»
«Puoi dormire insieme a me?» chiese all’improvviso, fissandola con occhi imploranti. «Non voglio dormire da solo.»
Angie gli piantò gli occhi in faccia, senza riuscire a trattenere una smorfia. «Ma che hai, cinque anni? Fila ad entrare, prima che ti ci spinga dentro a calci.»
Night annuì, poco convinto, e riprese ad armeggiare con la serratura, finché quella non scattò con un rumore davvero incantevole per le orecchie di Angie.
A quel punto, la ragazza si affrettò a tirare fuori la sua, di chiave. Pregustava già le sue coperte, il suo morbido cuscino...
«Gonnellina al Vento
Angie sbuffò esasperata e tornò a guardare Night. «Cosa c’è ancora?»
Il ragazzo pareva titubante, mentre indugiava sulla soglia della sua stanza.
Dopo una lunga pausa, chiese: «Domani non racconterai a nessuno di stasera, vero?»
Per tutta risposta, Angie sogghignò. «Certo, come no.»
 
****
 
Rimaste orfane di Angie, Beth ed Arianna proseguirono fino al corridoio dove Gérard le aveva condotte, quel fatidico primo giorno.
«Quel ragazzo» stava borbottando Arianna, che ancora faticava a riprendersi dai modi raffinati di Night. «Ci credo che vada d’accordo con Angie, è un cafone…»
«In realtà non si possono vedere» le fece notare Beth, inarcando un sopracciglio.
Arianna stava per ribattere, quando Beth si immobilizzò.
«È questa qui!»
La porta che dava sulla stanza misteriosa era comparsa all’improvviso davanti a loro, isolata rispetto alle entrate delle altre classi.
Beth era paralizzata al punto che non poté fare altro che consegnare la chiave ad Arianna e rimanere a guardare mentre l’amica la infilava nella toppa.
«Non ci posso credere» esclamò Arianna, quando infine la serratura scattò. Era stata pronta a scommettere fino all’ultimo – metaforicamente parlando, ovviamente; la scommessa era quanto di più deplorevole ci fosse al mondo –  che Angie avesse preso la chiave sbagliata, visto l’enorme mazzo che Gérard possedeva.
Con il cuore in gola, Arianna aprì la porta e le due ragazze scivolarono silenziosamente all’interno della stanza.
Dentro regnava il buio più completo. Le tende erano tirate, non permettendo alla luce della luna di penetrare all’interno, e l’apparecchio che aveva trasformato il loro aspetto giaceva al centro della stanza come se fosse addormentato, immerso nell’oscurità, con solo qualche spia arancione a tradire il suo presunto sonno.
«Se ci beccano» bisbigliò Arianna. «siamo morte.»
Beth deglutì nel sentire quant’era tesa la voce dell’amica, di solito così calma di fronte ad ogni circostanza. C’era da dire però che Arianna, alla stregua di Hermione Granger, considerava l’essere espulsi il più grande crimine di cui un individuo potesse mai macchiarsi. Al secondo posto c’era disonorare il galateo.
Le due ragazze si armarono delle torce dei loro cellulari e si misero ad esplorare la stanza, facendo almeno dieci volte il giro dello strano ascensore, esaminando dozzine di volte gli stessi punti, gli specchi e le finestre.
«Trovato niente?» domandò Arianna.
«Niente» sospirò Beth.
Dopo un’attenta analisi, furono costrette ad ammettere a loro stesse che la stanza non nascondeva niente oltre a ciò che avevano già visto il primo giorno di scuola, quando Gérard le aveva condotte lì.
«Eppure…» borbottò Arianna.
«Cosa speravi di trovare?» chiese Beth, percependo un’insolita testardaggine nel suo tono di voce.
«Non lo so» ammise l’altra. «Qualcosa. Con che cosa diavolo ci hanno fatto diventare così? Con la magia?»
«Non pensi che sia tutta opera della macchina?» chiese Beth, dando un colpetto con le nocche all’ascensore.
«Dong» fece quello, con un lungo rimbombo metallico. A giudicare dal rumore sordo, dentro doveva essere vuoto e al tatto le pareti parevano sigillate. Illuminato dalla torcia di Beth, sembrava più una cella frigorifera che un ascensore.
«La macchina funziona con qualcosa» disse Arianna. Dopo un momento, aggiunse: «Ho visto che Gérard buttava via delle fiale, dopo averci migliorate.»
«Forse tengono queste fiale in un’altra stanza» mormorò Beth, pensierosa. Non si era accorta della scena a cui aveva assistito Arianna, ma non era un’osservatrice altrettanto attenta.
«Ho un’idea!» esclamò improvvisamente Arianna.
Beth la osservò dirigersi verso gli specchi come se li avesse visti per la prima volta.
«Ci ho già guardato» fece lei, ma l’altra alzò una mano per zittirla.
Anche Arianna aveva ispezionato quel punto una ventina di volte, ma non aveva pensato ad un’ipotesi che, in quel momento, le parve più che mai plausibile.
«Ce l’ho anche io, nel bagno di casa» mormorò, voltandosi verso Beth che, dal canto suo, ricambiò il suo sguardo corrugando la fronte. Cos’è che aveva al gabinetto, un ascensore-chirurgo plastico? Be’, di certo si sarebbero spiegate molte cose.
«Un’anta a specchio.»
Dopo un momento di esitazione, Arianna fece scorrere lo specchio verso destra e, sotto gli occhi strabuzzati di Beth, quello si spostò come se fosse stato esattamente progettato per tale scopo.
Lo specchio era a diretto contatto con la parete, quindi a prima vista non sembrava nascondere alcunché ma, quando Arianna lo ebbe fatto scorrere per tutta la lunghezza, rivelò una rientranza incassata nel muro.
«Bingo» fece Arianna.
«Ari, sei un genio» bisbigliò Beth, facendosi più vicina.
In quel quadrato, della stessa identica misura dello specchio posto a coprirlo, le due ragazze scoprirono dozzine di fialette sistemate su due piani, con delle etichette che si rivelarono piuttosto criptiche.
«LH… TSH…» lesse Beth, scostando le fiale di vetro ed illuminandole una ad una con la torcia. «Cos’è questa roba?»
Arianna scrollò le spalle. «Non ne ho la più pallida idea.»
In quel momento, l’inconfondibile cigolio di una porta che si apriva si sovrappose per un momento al tintinnio del vetro.
Beth ed Arianna si immobilizzarono, scambiandosi un’occhiata terrorizzata.
«Angie… sei tu?» pigolò Beth, voltandosi verso l’ingresso con il cuore in gola.
«Non credo proprio» rispose Gérard.
Un urlo di terrore sfuggì dalle labbra delle due ragazze.
Di colpo la luce invase la stanza, rivelando la figura del custode ritta sulla soglia, con una mano sull’interruttore. Il suo sguardo era truce, mentre fissava le due ragazze come se stesse progettando di scannarle. Ad entrambe sembrò più un avanzo di galera che il custode di una scuola.
«Cosa state facendo qui?» sibilò, avanzando nella loro direzione.
Arianna e Beth si affrettarono ad allontanarsi dallo specchio a parete, ma il cantuccio nascosto era stato rivelato, le fialette tutte disordinate. Quello che stavano facendo sarebbe stato chiaro pure ad un cieco.
Gli occhi di Gérard si posarono su quelle prove schiaccianti e poi tornarono con un guizzo su di loro.
«Avete idea di quello che stavate combinando?»
«C-ci dispiace» balbettò Beth, indietreggiando. «N-noi…»
«Ci espellerà?» la interruppe Arianna, in un tono davvero allarmato per i suoi standard.
«Io no.» Gérard fece una pausa, come per lasciare il tempo alle due di tirare un sospiro di sollievo; cosa che entrambe fecero, prima che l’uomo aprisse di nuovo bocca. «La preside non ci penserà due volte.»
Con il terrore negli occhi, Beth ed Arianna si strinsero l’una all’altra. Era la fine, quindi. Entrambe erano disperate, seppur per motivi diversi: la prima sapeva di aver deluso i suoi genitori, che stavano facendo i salti mortali per farla studiare, in un momento in cui riuscivano a stento a pagare l’affitto della loro casa; la seconda sapeva che avrebbe gettato un’onta di vergogna su tutti i suoi parenti, il cui membro più illetterato si era appena laureato a Oxford con il massimo dei voti.
«È un bene che sia io ad avervi trovato.» Gérard fece un sorrisino storto, che a Beth ed Arianna parve il ritratto del sadismo. «Oh sì, siete state fortunate.»
Il bidello fece un passo nella loro direzione e le ragazze ne fecero almeno tre all’indietro, finché non si trovarono con la schiena contro le porte dell’ascensore. Erano in trappola.
«Uscite subito di qui.» sibilò il bidello, fissandole in cagnesco. Sputò fuori le parole con tale rabbia che, insieme ad esse, una pioggia di saliva cadde loro addosso. «Non voglio mai più vedervi a ficcanasare in modo così imprudente.»
Le due ragazze non se lo fecero ripetere due volte. Si lanciarono correndo verso la porta, decise a lasciarsi alle spalle il custode, l’ascensore e quelle fiale alle spalle una volta per tutte.
«Ma come diamine avranno fatto a fottermi la chiave…» stava borbottando Gérard nel frattempo, grattandosi la nuca.
 
****
 
Shadow mi indicò una panchina poco lontano, debolmente illuminata dalla luce di un lampione.
«Ci sediamo?»
Annuii riluttante e presi posto nel più completo silenzio, gli occhi fissi sui ragazzi in lontananza, nella speranza che qualcuno decidesse di spostarsi in quell’angolo del giardino dove la confusione non sembrava arrivare. Rispetto alla festa che ci eravamo lasciati alle spalle, infatti, lì regnava la quiete e nell’aria c’era un’atmosfera insolita.
La testa mi girava, opera dei due cocktail che ero stata costretta a bere, e sperai che l’effetto dell’alcol di lì a poco non mi giocasse qualche brutto scherzo.
Mi strinsi nel mio scialbo maglione nero e, visto che nessuno degli studenti sembrava rispondere al mio richiamo mentale, alzai gli occhi sul firmamento. Qualsiasi cosa pur di non guardare Shadow in faccia. «Ehi, guarda che bella luna!»
Non lo avevo detto solo nel fiacco tentativo di prolungare la conversazione: il cielo spoglio e senza stelle metteva in risalto la perfetta mezzaluna che riluceva nella notte.
«Già» fece Shadow di rimando.
Captando il suo tono decisamente poco entusiasta, mi decisi infine ad incrociare il suo sguardo. Tanto sapevo già cosa vi avrei trovato.
Vicinissimo a me, Shadow mi fissava con un’intensità tale da farmi vacillare. Ogni cosa nei suoi occhi neri esprimeva desiderio. E, con un brivido, mi resi conto che anche io avrei voluto baciarlo.
Quando avvicinò le sue labbra alle mie, non mi mossi. Riuscii solo a trattenere il fiato, mentre dentro di me l’angoscia cresceva e cresceva, martellandomi le tempie, urlandomi che stavo commettendo un grosso errore.
Ma non accadde nulla.
Aprii un occhio, confusa, e mi ritrovai davanti il volto ancor più confuso di Shadow.
Lo sguardo di entrambi cadde sulle mie braccia che, inconsciamente, lo stavano spingendo lontano da me.
Lo avevo appena respinto.
«Perché?» La voce perplessa di Shadow ruppe il silenzio. «Se non ti senti ancora pronta lo capisco benissimo, dopotutto ci conosciamo da poc…»
«Non c’entra questo!» esclamai di getto, così precipitosamente che il ragazzo mi scoccò un’occhiata perplessa.
«Allora qual è il problema?»
Mi morsi la lingua, maledicendo per la mia avventatezza.
«Il fatto è che io…» Sentii tutte le umiliazioni di quella sera montarmi dentro, mentre cercavo disperatamente di dirgli la verità. Devi farlo. «Adam, quegli schifosissimi drink, il maglione tacchino, cioè no! Shadow, io sono…»
«Dimmi la verità» mi interruppe lui, un’espressione ferita che andava comparendo sul suo volto. «C’entra qualcosa il Leo di stamattina, non è così?»
Lo fissai sgranando gli occhi, la bocca spalancata.
«COSA?!» esclamai, senza riuscire a credere a ciò che Shadow aveva appena detto.
Tutto, tutto mi sarei aspettata, fuorché un’ipotesi del genere.
«Be’, tornerebbe tutto» borbottò lui, lanciandomi un’occhiata di sottecchi. Sembrava non sapere se interpretare la mia reazione come incredulità o schiacciante colpevolezza. «Perché non volevi farmi leggere il messaggio che gli stavi inviando, per esempio. Potevi essere onesta con me.»
«Shadow, stai fraintendendo!» mi affrettai a dire. «E, se mi conoscessi meglio, sapresti che…»
Saprebbe cosa, Kia? Quel piccolo dettaglio che hai casualmente deciso di tacergli?
«… che odio la gente che si fa gli affari miei! Tutto qua!»
«Be’, evidentemente non ti conosco abbastanza bene, allora» mormorò lui, levando gli occhi al cielo. «Ho frainteso anche il fatto di piacerti? Altrimenti non mi spiego questo tuo improvviso rifiuto.»
Mi piantò gli occhi in faccia e distolsi in fretta lo sguardo, avvampando. Purtroppo no, non aveva affatto frainteso i miei sentimenti!
«Dimmi la verità, Kia.» Shadow pareva furioso. «Leo c’entra qualcosa, non è vero?»
Mio malgrado, sentii gli occhi farsi umidi. Abituata a vederlo sempre così vivace e gentile, quella versione di Shadow mi destabilizzava. E la consapevolezza che la sua rabbia fosse più che legittima non faceva che peggiorare le cose. Ma poi, perché diamine si era fissato su Leo?
«Ma perché non mi ascolti?» sbottai, scoppiando in lacrime. «Leo non c’entra nulla! È un mio amico d’infanzia, in quattordici anni non c’è mai stato niente fra noi! È pure… è pure un etero distorto!»
«Un etero distorto?» ripeté lui sbattendo le palpebre, dimentico per un attimo della nostra lite.
Balzai in piedi dalla panchina, ignorando un improvviso giramento di testa.
«Kia, aspetta!»
Shadow fece per afferrarmi il polso, ma mi liberai con uno strattone e mi misi a correre in direzione del vialetto, cercando di non inciampare fra l’erba. Volevo solo lasciarmi tutto alle spalle. Lo sguardo ferito di Shadow, la verità che mi gravava sul petto, quella stupidissima festa.
Mi asciugai alla bell’e meglio le lacrime dalle guance e proseguii incerta verso il portone d’ingresso, andando più volte a sbattere contro degli sconosciuti, che però non se la presero troppo a male: dovevano essere tutti più brilli di me.
Superato con qualche difficoltà l’ingresso, inorridii nel trovarmi davanti Adam che, nonostante il buio, riuscì a scorgermi in viso.
«Perché piangi?» borbottò, dimostrando la sensibilità di una corteccia. «Ti è andata male con Shadow? Bah, lo dicevo io, che con quel maglione...»
Soffocando un urlo di rabbia, lo superai con slancio e mi gettai sulle scale, piangendo e incespicando in ogni gradino.
Ma perché doveva andare a finire così? pensai, ma dentro di me conoscevo già  la risposta.
Il mio cervello non aveva pietà di me. Me l’ero cercata: avevo illuso tanto me quanto lui e la colpa era solo mia. Cosa credevo di fare, esattamente? Trasferirmi in una nuova scuola e capitombolare davanti al primo ragazzo che mi si presentava, dimenticando tutto quello che già possedevo, compresi i problemi? No, non funzionava così.
Ma lui era così gentile.
Caddi in ginocchio sulle scale, singhiozzando.
Razza d’idiota.
Se non altro, però, le avances di Shadow non mi avrebbero più messa in difficoltà.
Strano, non mi faceva per niente stare meglio.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** -•Capitolo 7 ***




Senza quasi che ce ne accorgessimo, arrivò l’autunno.
Foglie secche cadevano dappertutto, colorando di varie tonalità la scuola che, come mi resi conto durante le sempre più frequenti passeggiate in giardino, era più bella che mai. La sua architettura vittoriana aveva un fascino d’altri tempi e i caldi colori autunnali la rendevano ancor più magnifica.  
Dopo aver quasi rischiato l’espulsione per essersi intrufolate nella stanza dell’ascensore, Beth ed Arianna raddoppiarono i loro sforzi per eccellere nel test d’ingresso a cui fummo sottoposte che, in ogni caso, andò piuttosto bene a tutte.
Contro ogni nostra previsione, l’unica ad avere qualche difficoltà fu Angie. La ragazza, infatti, si era già fatta notare per il suo caratteraccio e i suoi comportamenti aggressivi e furono solo la simpatia che la professoressa di arte nutriva nei suoi confronti e gli eccellenti lavori che le aveva portato in quel breve periodo a salvarla. Da quel momento, eravamo studentesse effettive della St. Elizabeth High School.
Nei giorni che seguirono la festa, le mie amiche ed io ci raccontammo quello avevamo tenuto nascosto le une alle altre.
Rimasi scioccata nel sentire cos’avevano combinato le ragazze, che erano rimaste così spaventate da Gérard da non voler più sapere nulla di quella storia; quanto a me, mi vidi costretta a raccontare loro cos’era successo tra me e Shadow la stessa sera e a subire i loro sguardi di disapprovazione.
Dalla quella notte, le cose tra me e Shadow non erano cambiate e faticavamo a rivolgerci la parola. Tuttavia, superato lo sconforto iniziale, non stavo più troppo male e dopotutto era meglio che la storia si fosse chiusa lì. Così, almeno, continuavo a ripetermi.
Angie e Night continuavano a provocarsi e a picchiarsi dappertutto, ricevendo punizioni sempre più dure. L'ultima, se non ricordavo male, era di rastrellare le foglie morte nell'enorme giardino dell’istituto.
Beth non c'era mai. Spariva per ore ed ore e poi tornava affannata, scusandosi a più non posso ed evitando le nostre domande. La cosa mi insospettiva parecchio e morivo dalla voglia di chiederle spiegazioni, ma sapevo che dovevo evitare di pressarla: conoscendola, avrei solo ottenuto l’effetto opposto e Beth si sarebbe chiusa a riccio. Così, a malincuore, attendevo che fosse lei ad aprirsi e mi rodevo nell’attesa.
Arianna era fredda e distaccata come al solito ma, anziché mettersi in mostra e ricercare la popolarità come faceva nella sua vecchia scuola, se ne stava sempre in disparte. In ogni caso, il risultato fu lo stesso: in poco tempo era già diventata la ragazza più corteggiata del nostro anno.
 
****
 
«Kia, a te la palla!»
In quella faticosa ora di educazione fisica, era in corso una partita di basket femminile. In realtà in quel momento avremmo dovuto avere un’ora di inglese ma, allo squillare della campanella, la Cooper era spuntata a sorpresa nella nostra classe, annunciandoci che avrebbe coperto l’ora d’assenza del professor Anderson. Noi quattro ci eravamo recate in palestra con l’umore sotto i tacchi e, così come il resto delle nostre compagne, non avevamo dietro il cambio per la palestra e stavamo giocando in uniforme, camicia e gonna comprese, per la felicità dei nostri compagni di classe e dei loro occhi.
Mi spostai rapidamente, intercettando il pallone che Angie mi aveva lanciato e afferrandolo con entrambe le mani.
Palleggiai verso il canestro avversario e, conclusi i passi, alzai lo sguardo trepidante. Dietro un paio di ragazze dell’altra squadra, Arianna mi stava facendo un impercettibile cenno ed io mi affrettai a lanciarle il pallone, abbastanza in alto perché non venisse preso dalle altre.
Dopo averlo afferrato, la mia amica spiccò il salto. Mentre era in aria, la gonna dell'uniforme ondeggiò pericolosamente di lato, mostrando un paio di gambe lunghe a dir poco perfette.
Ridacchiai, non potendo fare a meno di notare lo sguardo incantato di tutti i ragazzi della classe.
«Gonnellina al Vento non è più solo il soprannome della Stevens, allora» mormorò Night divertito, dando di gomito a Lucas, che era rimasto a fissare Arianna come in trance.
Quasi nessuno si accorse che la mia amica aveva appena segnato. Fu solo quando il pallone da basket cadde a terra con un tonfo che la classe esplose in un boato fragoroso.
Sorrisi e feci per raggiungere la mia squadra, che stava festeggiando e portando Arianna in trionfo, quando per poco non mi scontrai con la professoressa di ginnastica.
Dopo avermi superata di slancio, la Cooper si avvicinò ad Arianna, che era stata appena messa a terra dalle ragazze della nostra squadra, e prese a girarle intorno.
«Le gambe sono perfette» stava borbottando tra sé. «Fisico agile e asciutto. Molto, molto carina...»
Arianna le rivolse uno sguardo stupito. «Scusi?»
«Hai mai pensato di diventare una cheerleader?» esclamò la professoressa, sorridendo. «Tra poco c'è la partita, e tu saresti perfetta!»
Non lasciò alla mia amica tempo di replicare e aggiunse: «Potresti venire a vedere un allenamento, oggi pomeriggio. In palestra. Alle cinque.»
Parlava così veloce che aveva a malapena tempo di prendere fiato tra una parola e l’altra. «Allora, posso contare su di te?»
A giudicare da come sbatteva le palpebre, la mia amica sembrava travolta da quella marea di informazioni. Parve riflettere un po’ prima di annuire e, mentre la donna si allontanava a passo veloce, raggiunsi Arianna per complimentarmi con lei, subito seguita da tutta la classe. Beth stava letteralmente per impazzire, Angie preferì darle una pacca sulla spalla che per poco non la troncò.
«Sei stata fortunata!» intervenne Lucas, avvicinandosi. «Le cheerleader sono scelte molto, molto scrupolosamente!» 
«Grazie» si limitò a dire lei, scrollando le spalle.
«Posso parlarti un attimo?» aggiunse lui.
Arianna annuì e i due rimasero indietro, mentre Angie, Beth ed io tornavamo in classe insieme agli altri.
«Che avrà voluto dirgli?» domandò Beth, facendo un sorriso malizioso e voltandosi per cercarli tra la folla.
«Non ne ho idea» borbottai. Ero insofferente verso tutto ciò che riguardava l’amore, in quel periodo.
 
Mentre ci avviavamo su per le scale, dirette in camera per riposarci un po’ prima di pranzo, Arianna ci raggiunse trafelata.
«Che avete fatto?» volle sapere Beth, sporgendosi verso di lei, gli occhi che scintillavano di curiosità.
«Se avete pomiciato, non ti avvicinare!» Angie si scansò, disgustata, ma finì per inciampare nei gradini e si stampò rumorosamente sul corrimano. La afferrai rapidamente per un braccio un attimo prima che cadesse giù dalle scale.
Arianna osservò l’intera scena inarcando un sopracciglio.
«Mi ha fatto solo i complimenti per la partita di basket» spiegò poi con distacco. «E mi ha proposto di vederci oggi pomeriggio per allenarci un po’, prima dell’incontro con le cheerleader.»
«Allenarvi, come no…» commentò Beth, facendo un sorriso sornione, di fronte al quale Arianna levò gli occhi al cielo.
«Oh, no... io oggi pomeriggio devo scontare la punizione con Night!» esclamò Angie sbuffando, mentre attraversavamo il corridoio.
«Scommetto che non ti ricordi neanche il motivo per cui siete stati messi in punizione» borbottai, scuotendo la testa, e  scoppiammo tutte a ridere.
 
****
 
Quel pomeriggio, dopo aver discusso per mezz’ora sull’ingiustizia di quelle punizioni con le sue amiche, Angie si avviò imbronciata in giardino, cercando di metterci più tempo possibile.
Quando arrivò, infatti, vide che Night si era già messo all’opera, tutto intento a radunare le foglie morte in un mucchio poco lontano. Quando si accorse che la ragazza lo aveva raggiunto, lui la guardò in cagnesco, borbottando qualcosa a proposito della puntualità, e poi gli indicò con un gesto sbrigativo i rastrelli poggiati contro un albero, prima di rimettersi al lavoro.
Angie si avvicinò e, fingendosi molto interessata, iniziò a studiare i rastrelli uno per uno con espressione concentrata.
«Sbrigati a prenderne uno» sbottò lui dopo un po’, lanciandole un’occhiata.
Angie impiegò un’altra decina di minuti a saggiarli e a sollevarli tutti, come se fossero stati delle mazze da golf. Alla fine la ragazza scelse quello a suo parere più leggero e, senza troppo entusiasmo, realizzò che adesso avrebbe dovuto mettersi al lavoro sul serio.
«Noi dobbiamo solo radunare le foglie in mucchi» le spiegò Night, in un tono più conciliante del solito. Forse confidava nel fatto che finalmente non avrebbe più dovuto sgobbare da solo. «Dopo di che, dobbiamo solo avvertire Gérard. Al resto ci pensa lui.»
La ragazza annuì e Night si rimise al lavoro, dandole le spalle. Lei gli lanciò un’occhiata e cercò di rastrellare a sua volta, imitando i suoi movimenti, ma ben presto si rese conto che era più difficile di quanto pensasse, perché ad ogni minimo movimento le foglie sfuggivano ai denti del rastrello e svolazzavano dappertutto.
Dopo diversi tentativi vani, Angie si spazientì e, anziché rastrellare, iniziò a dare rastrellate al suolo, sollevando tutti i cumuli di foglie che Night aveva appena radunato.
«NOOO!» urlò quello, strappandole di mano il rastrello con un gesto rabbioso.
Angie ipotizzò che stesse soffocando la tentazione di darglielo dritto sul cranio.
«Smettila di pensare che le foglie siano un ragazzo da prendere a pugni» borbottò, guardandola storto.
Per tutta risposta, la ragazza gli lanciò uno strano sorrisetto.
«Smettila di pensare che le foglie siano me» si corresse, levando gli occhi al cielo.
Angie ridacchiò sommessamente e, dopo che Night le ebbe spiegato come usare correttamente il rastrello, si rimisero entrambi al lavoro.
Numerose foglie secche continuavano a volteggiare intorno ad Angie mentre lei cercava invano di rastrellarle ma, per evitare di farsi prendere di nuovo dal nervoso, decise di estraniarsi con la mente e di colpo non fu più nell’immenso giardino della scuola, in compagnia di quell’odioso individuo, ma a casa sua, in Irlanda.
Poteva udire chiaramente i battibecchi dei suoi tre fratelli, bellissimi quanto strampalati, che cercavano di darsi un tono in sua presenza, forse sperando di darle il buon esempio, malgrado lei sapesse benissimo che i tre facevano parte di una famigerata gang di Dublino. Da chi aveva preso, sennò? Pensò alla sua, di banda, che aveva messo in piedi insieme ai suoi amici Joe, Frank e Chris, e fu travolta dalla nostalgia. L’Irlanda le mancava da impazzire e non aspettava altro che le vacanze natalizie per poter finalmente fare ritorno a casa.
Si immerse completamente in quei ricordi piacevoli, mentre rastrellava annoiata.
Poi si ritrovò di colpo a pensare a Night, mentre i ricordi piacevoli andavano a farsi fottere.
Gli lanciò un’occhiata di sottecchi. Nelle rare volte in cui avevano avuto una conversazione, oltre che prendersi a pugni, Angie aveva notato che il ragazzo parlava con un debole accento irlandese, ma forse era solo suggestione. In ogni caso, Night sarebbe rimasto un vero mistero per lei. Vedeva come lo guardavano gli studenti nei corridoi, sentiva le voci che correvano su di lui. Aveva la fama di essere il ragazzo più pericoloso della scuola, a capo di un’altrettanto pericolosa banda, ma Angie non lo aveva mai visto concretamente fare qualcosa di violento, oltre a prendersela con lei, né aveva visto agire i suoi ragazzi contro qualcuno. Anzi, era rimasta stupita dalla quasi totale assenza di bullismo, in quelle prime settimane di scuola: le poche prese in giro che aveva udito erano state ben presto risolte a suon di pugni ed Angie non poteva che trovarsi d’accordo con quel metodo.
Continuò a osservare Night che, chino sul rastrello e del tutto ignaro delle sue riflessioni, continuava a radunare le foglie secche. Angie aveva notato che i ragazzi della scuola lo rispettavano non per paura, ma per ammirazione. Malgrado il suo carattere prepotente, era pieno di amicizie.
Da Night, la sua mente passò a Shadow, che pareva adorare il suo compagno di stanza. Angie sospirò. Quel ragazzo le faceva compassione: era cotto di Kia, ma lei non poteva ricambiarlo. Forse posso provare a convincerla. Si appuntò mentalmente di parlare con la sua amica e nel frattempo di fare amicizia con Shadow.
 
Cercando di non essere visto, Night scoccò ad Angie un’occhiata in tralice e, vedendo che la ragazza sembrava persa in un altro mondo, fece una smorfia. Senza le sue provocazioni, si stava annoiando terribilmente.
Abbandonò ben presto le occhiate fugaci, perché tanto la ragazza non gli stava prestando alcuna attenzione, e la fissò imbronciato. Sembrava che Angie stesse pensando e Night quasi si stupì che la ragazza ne fosse in grado: aveva gli occhi velati, sorrideva leggermente tra sé e sé e, appoggiata al rastrello, non stava neanche più fingendo di lavorare.
Night decise che la ragazza aveva riflettuto abbastanza, per quel giorno.
«SVEGLIAA!» gridò, punzecchiandola con i denti del suo rastrello.
Con immensa gioia di Night, la ragazza si riscosse bruscamente e lo fulminò con lo sguardo. Sembrava inviperita.
«Mi spieghi che diavolo vuoi?» abbaiò, assumendo in un batter d’occhio una posizione di difesa, con il rastrello teso davanti a sé come una sciabola.
Di fronte a quella scena, Night scoppiò a ridere. Poi la sua attenzione fu attirata da due figure nel campo da basket, di fronte a loro. Si trovavano nei pressi nel campetto all’aperto, dove si sarebbe disputata la partita di quell’anno.
«Guarda, c’è la tua amichetta. Quella che da strage di cuori» osservò Night, indicando un punto oltre la spalla di Angie.
La ragazza si voltò nella direzione indicata, dandogli le spalle. Per un attimo Night osservò a sua volta Lucas e Arianna Rivers, che stavano palleggiando nel campo, e soprattutto il meraviglioso fondoschiena di lei, ritrovandosi a pensare che forse il biondo non era così stupido come dava a vedere, ma improvvisamente gli venne un’idea migliore.
Tornò a guardare Angie, che nel frattempo continuava a dargli le spalle, e la colpì alla caviglia con il manico di legno del rastrello, strappandole un urlo.
«NIGHT!» tuonò lei, voltandosi con espressione furiosa.
Lui scoppiò nuovamente a ridere, gettò il rastrello a terra e vide che Angie aveva raccolto la sfida. Dopo essersi chinata per massaggiarsi la caviglia, la ragazza balzò in piedi, si arrotolò le maniche della camicia e prese ad avanzare verso Night.
«Lo hai voluto tu» sibilò lei, gettando via il rastrello a sua volta. Serrò i pugni, ridusse i grandi occhi a due fessure e, con un urlo, saltò addosso al ragazzo.
Night perse l’equilibrio e cadde all’indietro sul tappeto di foglie, proteggendosi il volto dai pugni che la ragazza continuava a tirargli e allo stesso tempo cercando di scrollarsela di dosso, dimenandosi, scuotendosi e tirandole calci alla schiena.
Nessuno dei due si accorse dei passi che scricchiolavano sulle foglie ingiallite, diretti verso di loro.
 
****
 
«Bel colpo, Ari!»
«Grazie... sono Arianna» precisò lei, infastidita dall'ennesimo nomignolo confidenziale.
Lanciò il pallone a Lucas ed il ragazzo lo afferrò con entrambe le mani, palleggiò con un sicurezza per un breve tratto e quindi saltò, centrando il canestro senza difficoltà.
Arianna non lo avrebbe mai detto, ma si stava divertendo, in quel pomeriggio di basket con Lucas. Il ragazzo era divertente e tutto sommato era anche un bravo insegnate... oltre a essere un tipo piuttosto carino. La ragazza si perse un attimo nei suoi magnifici occhi blu, nel suo sorriso allegro e divertito, da bambino ingenuo.
«Ehi, tocca a te!» Lucas le lanciò il pallone, che le mancò il viso di poco.
«Sta’ attento» lo ammonì lei, chinandosi per raccoglierlo da terra.
Palleggiò per qualche metro, si posizionò davanti al canestro e cercò di concentrarsi sulla posizione delle braccia che Lucas le aveva spiegato. Gli lanciò un’occhiata da dietro la spalla per vedere la sua espressione e vide che il ragazzo stava scuotendo la testa: probabilmente stava sbagliando qualcosa. Mordendosi il labbro, spostò le braccia e cambiò posizione.
«No… così, Arianna.»
Lucas le si fece più vicino e di colpo sentii le sue forti braccia sfiorarle la vita e afferrare la palla insieme a lei, da dietro.
Lei sussultò, cercando di sottrarsi a quel contatto.
«Non toccarmi» borbottò, di colpo a disagio.
«Ehi, sta’ tranquilla» rispose lui, ridendo. «Cosa vuoi che ti faccia?»
Qualcosa che lui avrebbe fatto di sicuro, pensò Arianna, trattenendo un sospiro.
Da quando Jake era partito per l’America senza lasciarle notizie, lei si era chiusa in se stessa ed era diventata scontrosa. Arianna era consapevole dell’impressione che faceva alle altre persone ma, se agli occhi tutti poteva sembrare piena di sé e arrogante, in realtà dentro stava solo soffrendo. Solo le sue amiche la facevano stare un po’ meglio e, si rese conto di colpo, anche quel bonaccione biondo aveva un effetto positivo su di lei, anche se non avrebbe saputo dire come.
Fece un respiro profondo, cercando di mantenere la calma ed ignorare quel contatto ravvicinato, ed eseguì il tiro. Lucas la accompagnò nel movimento e la palla centrò il canestro con un cigolio.
«Brava!» esclamò lui, allontanandosi dal corpo della ragazza.
Arianna si voltò verso di lui con espressione soddisfatta, accennando un sorriso.
«Wow!» mormorò Lucas, sgranando gli occhi per la sorpresa. «È la prima volta che ti vedo fare un sorriso! Giuro!»
Lei  ricambiò il suo sguardo, vagamente divertita. Sì, è decisamente una buona terapia.
«Sei bella quando sorridi» disse lui all’improvviso, con una sincerità così disarmante che Arianna si ritrovò ad arrossire di colpo.
«Non che tu non sia bella da imbronciata, però» si corresse subito lui, grattandosi la nuca con aria pensierosa.
Arianna inarcò le sopracciglia. «Cosa bisogna fare per farti stare in silenzio?» borbottò poi scuotendo la testa, ma il tono era evidentemente scherzoso ed entrambi scoppiarono a ridere.
«Sarai stanca, ti va di tornare dentro?» propose Lucas, accennando con lo sguardo all’uscita del campetto.
La ragazza annuì. I due recuperarono i palloni e si avviarono lungo il perimetro del campo, ma di colpo il biondo la precedette correndo,  imboccò l’uscita e la lasciò da sola.
«Lucas, ma che fai?!» esclamò lei, colta alla sprovvista. «Aspettami!» urlò, iniziando a correre a sua volta per stargli dietro.
 
****
 
China sulla finestra, spaziai il meraviglioso giardino della scuola con lo sguardo.
Gli alberi e il tappeto di foglie ai loro piedi erano di un giallo e di un arancio così intenso che sembrava ci fosse il sole, malgrado il cielo fosse coperto dalle nubi.
Nel campetto da basket, vidi Arianna e Lucas allenarsi con i canestri e sorrisi impercettibilmente, vedendo che i due sembravano divertirsi parecchio. La mia attenzione venne poi attirata da un tafferuglio poco lontano e, spostando lo sguardo, vidi Angie e Night picchiarsi con una violenza che metteva i brividi, sollevando una pioggia di foglie intorno a loro. Non riuscendo a sopportare quella visione un minuto di più, distolsi lo sguardo e di colpo mi ritrovai a sospirare. Possibile che fossi l’unica a non avere niente da fare, in quella scuola?
Mi voltai verso la pila di libri che mi attendeva sulle coperte e mi sfuggì un gemito. Niente di interessante da fare, mi corressi.
Beth mi aveva promesso che quel pomeriggio avremmo studiato insieme, ma ormai era via da chissà quanto e la cosa mi preoccupava ed insieme mi insospettiva. Beth dopotutto era la mia migliore amica; ignorai una vocina nella mia testa che mi diceva che per lei non era sempre stato così. Scossi la testa, cercando di scacciare quel fastidioso pensiero. Esclusa quella faccenda, non c’erano mai stati segreti fra di noi ed io mi fidavo ciecamente di lei. Sapevo che prima o poi mi avrebbe detto che cosa stava succedendo.
L'avviso di un messaggio mi riscosse dai pensieri su Beth. Voltandomi di nuovo, vidi che si trattava del il mio cellulare, il cui schermo si era illuminato, sul bordo del comodino su cui lo avevo messo a caricare.
Lasciai la finestra e lo afferrai rapidamente, sbloccando lo schermo e lasciandomi cadere sul letto. Avevo appena ricevuto un messaggio e sussultai quando vidi chi me lo aveva mandato. Luke.
Lessi con trepidazione, mentre il cuore mi batteva forte nel petto ed emozioni confuse e contraddittorie si agitavano dentro di me: l’emozione, la gioia, la rabbia. Che cavaliere che era, mesi che non si faceva vivo.
Di colpo realizzai che neanche io lo avevo mai cercato, ma scacciai quel pensiero e rilessi il messaggio più e più volte, scorrendo le dita sulle parole apparse sullo schermo come per imprimerle meglio nella testa.
Alla fine poggiai il cellulare sul comodino e mi raggomitolai sul letto con un sospiro. Nulla di importante ma, trattandosi di Luke, solo il fatto che avesse fatto trasparire un po’ d’affetto nei miei confronti era un autentico miracolo. Con una certa amarezza, realizzai che non avevo alcuna voglia di rispondergli. Ma forse avevo trovato qualcosa da fare, pensai, scattando a sedere sul letto.
Uscii dalla camera con i nervi a fior di pelle, attraversai il corridoio e mi avviai giù per le scale a passo svelto. Avevo il cuore in gola e la testa piena zeppa di pensieri, ma di una cosa ero certa: volevo saperne di più su quella strana scuola.
Giunta nell’atrio, non sapevo come muovermi per raggiungere  la presidenza, ma mi bastò chiedere ad un paio di ragazzi che incrociai nelle vicinanze per trovarla. Era in fondo ad un lungo corridoio, superati un paio di classi dell’ultimo anno, i bagni e lo sgabuzzino dei custodi.
Ma, mentre percorrevo quegli ultimi metri, gli occhi fissi sulla porta della presidenza, mi ricordai del perché avevamo abbandonato l’impulsivo progetto di parlare con la preside delle stranezze della scuola. Se era lei a controllare tutto, perché avrebbe dovuto dirci la verità? Non avevamo niente in mano, quindi cosa potevamo imputarle? La presenza dei preservativi nelle camere?
Potevamo, dovevamo parlare con la preside e fare chiarezza, ma solo una volta che ci fossimo informate per conto nostro. Non potevamo essere prese in contropiede. Ma non avevamo idea di dove partire perché, a parte l’essere cresciute, niente era apparentemente cambiato in noi, nessuno sembrava farsi domande al riguardo e oltretutto, dopo l’episodio dell’ascensore, in cui Gérard aveva minacciato apertamente di far espellere Beth ed Arianna, non potevamo più permetterci di esporci.
Così, quando mi ritrovai davanti alla porta e sfiorai la maniglia con le dita, di colpo fui incerta se bussare oppure no. In camera mi era parsa un’idea valida, ma mi resi conto che si trattava di un gesto sciocco e impulsivo, agire da sola –  perché ero l’unica di noi che non sapeva come ammazzare il tempo – senza uno straccio di prova contro la preside. Se fossi entrata, avrei solo fatto la figura della stupida.
Stavo per girare sui tacchi, quando udii dei concitati mormorii provenire da dietro la porta. La preside stava discutendo animatamente con qualcuno e mi bloccai di colpo quando mi parve di cogliere il nome “John” nella sua filippica.
Diedi un’ultima, bramosa occhiata alla porta e feci per allontanarmi, la mente affollata da mille pensieri, ma la curiosità ben presto ebbe la meglio su di me e tornai sui miei passi, acquattandomi dietro la porta.
Sperai con tutta me stessa che a nessuno venisse in mente di fare una capatina dalla preside proprio in quel momento, perché sarebbe stata dura inventarsi una scusa per chiunque mi avesse visto in quella posizione.
Alla fine, sentendomi troppo esposta, decisi di rintanarmi nel minuscolo sgabuzzino dei custodi, situato proprio lì accanto, che sembrava avere una parete in comune con la presidenza.
Dopo aver accostato la porta dietro di me, mi feci spazio alla cieca tra le scope e gli stracci e, protendendomi al massimo contro il muro rivolto verso l’ufficio della preside, tesi l’orecchio. Potevo sentire due voci discutere, sebbene mi giungessero molto ovattate, e capii che una delle due doveva appartenere alla preside.
«Lanciargli del cibo senza alcun rimorso, ma non prenderlo a pugni. È prova di grande coraggio, reagire così ad un’umiliazione» stava dicendo la preside. La udivo chiaramente, dato che parlava ad un tono di voce piuttosto alto.
«Lo crede davvero?» disse l’altra voce, che pareva più incerta, o almeno così mi parve.
Rimasi a bocca aperta. Perché diamine stavano parlando di Beth? E poi… io conoscevo quella voce. Per quanto ovattata, l’avrei riconosciuta ovunque.
«Lei quindi crede… che ci sia una speranza?» chiese nuovamente la voce.
Corrugai la fronte, il cuore che aveva preso a martellarmi nel petto. Non stavo più seguendo il dialogo, di cui non avevo capito una parola. La mia attenzione era stata tutta calamitata da quella voce. Non era possibile, eppure era la sua. Si trattava davvero di…
«E tu che ci fai qui?»
Fui investita di colpo da una lama di luce e mi voltai di scatto verso colei che aveva aperto la porta dello sgabuzzino.
Una bidella era apparsa sulla soglia, le mani sui fianchi e l’espressione sospettosa.
«Che stavi facendo?» mi apostrofò.
La mia espressione colpevole doveva essere più eloquente di qualsiasi spiegazione.
«N-niente…» balbettai, allontanandomi dal muro. «Io… io devo proprio andare!» aggiunsi, sgattaiolando fuori dallo sgabuzzino e superandola di slancio, per poi correre via attraverso il corridoio.
Udii indistintamente la donna urlare qualcosa, ma non mi voltai. Continuai a correre, con i polmoni che parevano scoppiarmi, e non mi fermai finché non raggiunsi l’atrio. A quel punto recuperai il fiato e, dopo essermi guardata le spalle per accertarmi che la bidella non mi avesse seguita fin lì, mi inerpicai su per le scale, ansimante.
Il cuore mi martellava ancora nel petto per lo spavento e, dentro di me, cercavo di non pensare a quanto avevo appena udito. A quella voce, a quello che, lo sapevo fin troppo bene, era un dialogo che non avrei dovuto ascoltare.
Un dialogo che c’entrava qualcosa con il misterioso segreto di quella scuola.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** -•Capitolo 8 ***




Lucas imboccò l’uscita del campetto e attraversò correndo il giardino, diretto all’ingresso.
«LUCAS, FERMATI!» gridò Arianna, che gli stava dietro a stento, ansimando.
Una pioggia di foglie morte danzava tutto intorno a loro, impreziosendo il giardino di varie tonalità ocra e rosso bruno.
Il ragazzo si voltò e sorrise, continuando a correre, del tutto ignaro del rastrello a terra davanti a lui.
«LUCAS! Attent...
Troppo tardi.
Lucas poggiò il piede sul rastrello che, sollevandosi di scatto, lo prese in pieno volto. Il ragazzo emise un gemito e crollò a terra, privo di sensi.
«Così maledettamente... plausibile» sbuffò Arianna, avvicinandosi al ragazzo.
Mentre gli controllava il respiro, per accertarsi che fosse regolare, notò con la coda dell'occhio una figura dirigersi a passo di carica nella loro direzione. Impallidì ma, voltandosi di scatto, vide che non stava puntando loro, bensì un grosso cespuglio poco più avanti dal quale, osservò la ragazza stupita, provenivano mugolii soffocati.
Certa che la figura non li avesse visti, Arianna si nascose dietro ad un altro cespuglio, trascinando con qualche difficoltà il massiccio corpo di Lucas con sé. Da lì, perfettamente mimetizzata tra le fronde, poté assistere indisturbata alla scena. E ciò che vide la lasciò di stucco.
Un uomo si era appena piazzato di fronte ai cespugli, con le mani sui fianchi. Un uomo  alto e magro, con un uniforme della scuola e corti capelli grigi.
Lo riconobbe come Gérard, uno dei custodi della scuola. E, a giudicare da come gli tremavano il volto e le mani, doveva essere davvero infuriato.
«Voi due. In piedi» disse. Si sforzava di mantenere un tono di voce calmo, ma il comando era comunque parso come l’abbaio di un cane rabbioso.
Arianna si sentì inorridire, ma l’uomo non stava guardando loro. L’ordine era rivolto ad Angie e Night, che spuntarono coperti di foglie e lividi dal cespuglio davanti a quello dov'era nascosta. Lei aveva la camicia dell'uniforme sporca di terra e le braccia coperte di graffi, lui il viso gonfio e ricoperto di lividi e ferite .
Sempre a picchiarsi, pensò Arianna, levando gli occhi al cielo.
«Gérard?» esclamò Night. Il ragazzo era impallidito di colpo. «Lei cosa ci fa qui?»
«Cosa stavate facendo?» chiese lui, ignorando la domanda del ragazzo. «Eravate incaricati di ripulire il giardino dalle foglie morte! Invece vi stavate picchiando, non è così?» gridò,  trafiggendoli con lo sguardo e sputazzando saliva dappertutto.
Angie fece per annuire, ma il ragazzo la bloccò con un movimento del braccio e la attirò a sé, abbassando debolmente lo sguardo.
«È così imbarazzante... Gérard, le prometto che non faremo più cose del genere rischiando di essere visti. Quel genere di cose, capisce?»
Angie spalancò di scatto la bocca in un moto d’orrore, seguita a ruota da Arianna dietro i cespugli e, inevitabilmente, da Gérard.
«Capisco che questa scuola mandi in confusione i vostri ormoni, ma non azzardatevi più a fare quel genere di cose in giardino, CHIARO?» berciò il custode, senza riuscire a trattenere una smorfia di disgusto.
Night assunse un’espressione pentita e annuì lentamente, mentre Angie rimase immobile, a bocca teatralmente spalancata, tant’è che, notò Arianna, il ragazzo dovette darle un paio di gomitate prima che l’amica annuisse a sua volta.
«Oh, ci dispiace così tanto, Gérard» mormorò Angie, sorridendo con aria imbarazzata. «Cercheremo di non farci più prendere la mano.»
«Uhm...» Gérard strinse gli occhi. Non sembrava granché convinto, ma alla fine si limitò a scrollare le spalle.
«Vi tengo d'occhio, coppietta sospetta» borbottò poi, allontanandosi.
Non appena il custode ebbe superato l’ingresso, il sorrisetto di Angie si deformò all'istante.
«DEFICIENTE! COSA CASPITA GLI HAI DETTO?!» urlò al ragazzo, trattenendosi a stento dal saltargli addosso.
«Se gli avessimo detto la verità, sarebbe stato mille volte peggio, non credi?» mormorò lui, sospirando.
«Ma  adesso crede che noi stiamo insieme!» si lagnò la ragazza, disperata.
Night scrollò le spalle. «Allora glielo faremo credere.»
«Non potevi inventarti una scusa migliore?» protestò Angie, infuriata. «Siamo gonfi e ricoperti di graffi, pensi si sia bevuto la tua storiella?»
«Be’…» Night scoccò un’occhiata al cespuglio dietro di loro. «Farlo nei cespugli deve essere doloroso. Almeno credo.»
La ragazza soffocò un urlo di rabbia, ma fu interrotta da un’improvvisa e fragorosa risata proveniente dai cespugli.
Sotto gli occhi esterrefatti dei due ragazzi, Arianna emerse gattonando da dietro un cespuglio, con le lacrime agli occhi.
«Arianna!» Angie sgranò gli occhi. «Che cosa ci facevi qui?» chiese poi, lo stupore che lasciava il posto al sospetto, mentre la squadrava con aria minacciosa.
L’altra ragazza, intanto, continuava a ridere a crepapelle.
«Rivers, hai sentito tutto?» domandò Night, fissandola con sguardo truce. «Tieni chiusa quella bocca, se vuoi rimanere tutta intera.»
Arianna si fece seria in un attimo. Più per proteggere la sua immagine di ragazza impassibile che per le loro minacce, a dirla tutta.
«Non mi conosci proprio» replicò, ricambiando lo sguardo di Night senza alcun timore. «Non dirò niente a nessuno. Ma voi cercate di stare attenti…» aggiunse, spostando lo sguardo su Angie. Quel bidello sembrava davvero pericoloso e, anche se non gliel’avrebbe mai confessato, non le piaceva l’idea che avesse preso di mira una sua amica.
Poi si schiarì la voce. «Potete aiutarmi con Lucas?» Indicò i cespugli con lo sguardo e borbottò: «È svenuto.»
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata e la guardarono perplessi.
«Ha preso uno dei vostri rastrelli in fronte» si affrettò a spiegare lei, traendo un lungo sospiro.
I tre si avvicinarono al cespuglio dal quale era spuntata Arianna. Dietro c’era Lucas, sdraiato ed immobile, con gli occhi semiaperti e la lingua che gli penzolava da un lato della bocca.
«È inquietante» constatò Angie, facendo un passo indietro e lanciando a Night uno sguardo eloquente. Poi incrociò le braccia sul petto, nel caso lui non avesse afferrato il concetto.
Lui la fulminò con gli occhi. «Ho capito. Lo porto io in infermeria» borbottò, chinandosi e sollevando il ragazzo apparentemente senza alcuno sforzo.
Arianna non riuscì a trattenersi dal lanciargli uno sguardo d’ammirazione.
«Cosa pensate di fare con Gérard?» chiese poi, mentre si avviavano verso l’ingresso dell’edificio.
«Gérard è uno con cui non si scherza, lo so per esperienza. Sarà meglio fargli credere che noi stiamo insieme» rifletté Night, sospirando.
Per tutta risposta, Angie imprecò.
Night ed Arianna si scambiarono un’occhiata e non replicarono.
 
Mentre salivano le scale dirette al portone d’ingresso, con Arianna qualche gradino davanti a loro, Angie ribolliva dalla rabbia.
Non voleva far finta di essere la ragazza di Night e la cosa che più la faceva arrabbiare era che il ragazzo non sembrava mostrare alcuna preoccupazione al riguardo.
Lo osservò con la coda dell'occhio e notò che il suo sguardo era fisso su Arianna.
Ma su un punto preciso di Arianna.
«VUOI SMETTERE DI FISSARLE IL CULO?» urlò allora.
Night si voltò di scatto a guardarla con espressione colpevole. Beccato, stronzo.
Arianna, che stava aprendo il portone in quel momento, si voltò a sua volta e trafisse il ragazzo con lo sguardo.
«Con me il vostro segreto è al sicuro, comunque» disse, per poi gettare un frettoloso sguardo all’orologio. «CASPITA! Tra poco ho l'incontro con le cheerleader! Devo scappare!» aggiunse, lanciando un’ultima occhiata a Lucas e sparendo all’interno dell’edificio.
Night fermò il portone con un braccio un attimo prima che sbattesse.
«Ci sarà da fidarsi?» borbottò poi, rivolta ad Angie, quando l’altra non fu più a portata d’orecchio.
«Arianna è una fin troppo seria» rispose lei. «Ma sappi che io non ho nessuna intenzione di coprirti in questa sceneggiata.»
Detto ciò, si allontanò a passo veloce, piantando Night e l’inquietante colosso biondo che teneva sulle spalle nel bel mezzo dell’atrio.
 
****
 
I giorni trascorsero veloci e ben presto abbandonammo definitivamente il proposito di parlare con la preside delle stranezze della scuola.
Sentivamo lo sguardo di Gérard che ci seguiva dappertutto e temevamo di essere colte di nuovo con le mani nel sacco. Oltre a tutto ciò, non avevamo materialmente il tempo di pensare alla nostra indagine, prese com’eravamo dalla nuova routine scolastica, che scoprimmo essere davvero impegnativa.
I professori erano davvero esigenti, anche se spesso in classe non riuscivano a fare lezione, tanto erano disturbati da alcuni studenti, che scoprii essere membri della famigerata banda di Night. Quei ragazzi esagitati tenevano in scacco gli insegnanti come fossero stati loro coetanei e la cosa mi lasciava davvero allibita. In cuor mio mi chiedevo come Angie riuscisse a tenere testa al leader di una banda così pericolosa, anche se non potei fare a meno di notare che Night, malgrado la sua terribile fama, si esponeva raramente durante quegli episodi. Se si escludevano tutti i pestaggi e i litigi con Angie durante le ore di lezione, ovviamente.
L’autunno lasciò il posto all’inverno e con lui arrivò il vero freddo. Non mi ero mai abituata al clima inglese e il gelo di quella regione era persino peggio di quello a cui ero abituata a casa, nella campagna di Londra. Fuori tirava un vento gelido e fastidioso e ormai non uscivamo quasi più in giardino, con grande gioia di Angie, che non ne poteva più di fare giardinaggio per punizione.
L’8 Dicembre, anniversario della morte dell’idolo musicale di Beth, John Lennon, scoprimmo che, per un infame segno del destino, in quel giorno cadeva anche il compleanno di John.
Quella mattina Beth si era rifiutata di uscire di camera anche per le lezioni, malgrado le nostre proteste. L’avevamo lasciata sul suo letto, a canticchiare Imagine tra i singhiozzi, circondata da dischi e immagini di Lennon che di tanto in tanto abbracciava.
Angie e Arianna erano rimaste scioccate da quella visione, ma io le avevo rassicurate dicendo che accadeva così tutti gli anni e di non farci caso, così ci eravamo recate in classe, lasciandola sola.
Avevamo detto al professor Anderson che Beth stava poco bene – sarebbe stato difficile spiegargli il vero motivo della sua assenza – ma, quando lui mandò una custode a controllare la nostra amica, noialtre ci lanciammo degli sguardi preoccupati, al pensiero di ciò a cui la bidella avrebbe assistito.
Ma forse Beth aveva trovato un’altra fan, perché la donna tornò poco dopo in classe con le lacrime agli occhi, stringendo tra le mani uno degli ultimi dischi di John Lennon prima della sua morte, a mo’ di reliquia. Il professor Anderson si astenne saggiamente dal commentare.
All’ora di pranzo eravamo finalmente riuscite a portare Beth al piano di sotto ma, una volta in mensa, la ragazza aveva adocchiato John.
Non avrei saputo dire se per il nome o per l'aspetto che un poco lo faceva assomigliare a Lennon, ma Beth aveva quasi avuto una crisi isterica nel vederlo e il povero ragazzo era rimasto esterrefatto di fronte alla sua reazione. Beth infatti l’aveva additato ed era scoppiata in lacrime, continuando a gridare “Tu! TU!”, finché non l’avevamo trascinata via di peso.
John era rimasto a fissarla con occhi strabuzzati: immaginai che sapesse di non stargli troppo simpatico, ma non credeva certo fino a quel punto. Spedimmo quindi Arianna a spiegare a John il motivo dell’umore della nostra amica ed il malinteso fu subito chiarito e, fortunatamente, dopo quel giorno Beth tornò a essere quella di sempre.
 
Il freddo nel frattempo imperversava ma, malgrado la sua vecchia architettura vittoriana, il St. Elizabeth possedeva dei moderni impianti di riscaldamento e non faceva penetrare all’interno nemmeno una minima traccia di gelo e umidità. Dentro la scuola, infatti, c’era sempre un piacevole tepore e dopo le lezioni preferivamo rimanere in camera o nella sala comune. Come tutti gli altri studenti, con quel tempo evitavamo saggiamente di uscire all’aperto.
Una mattina, però, quella psicopatica della nostra professoressa di ginnastica, la Cooper, ebbe la brillante idea di portarci tutti fuori per fare una prova di salto in lungo.
La classe si era riunita nel campetto e si gelava, tanto che eravamo tutti stretti gli uni agli altri nel tentativo di riscaldarci, come dei pinguini. Eravamo tutti imbottiti per fronteggiare il freddo e, come ci fece notare la Cooper con aria seccata, la nostra mobilità per il salto in lungo sarebbe stata compromessa, ma a nessuno sembrava importare granché.
Battevo i denti dal freddo, mentre attendevo immobile il mio turno in fila, così presi a guardarmi intorno, nel tentativo di distrarmi. Da un lato il campetto costeggiava il giardino, quello in cui Angie e Night, circa un mesetto prima, erano stati costretti a rastrellare le foglie morte, dall'altro una collinetta brulla e deserta. Visto com’era incolta, dubitai che fosse di proprietà della scuola.
Tornai a guardare la fila e con lo sguardo cercai Beth che, facendo di cognome Anderson, doveva essere tra i primi a provare, ma mi accorsi che non c’era.
Mi guardai freneticamente attorno, ma la mia amica sembrava scomparsa nel nulla. Scervellandomi,  giunsi alla conclusione che doveva essere andata in bagno per evitare di fare l’esercizio e mi diedi della stupida per non averci pensato anch’io. In quel momento, i miei pensieri furono interrotti da uno strillo.
Era Angie che, poco lontano, stava litigando con Night. Strano.
«Lasciami in pace!» urlò lui.
«Ma mi hai pestato il piede!» replicò lei.
Intorno ai due si era radunata una piccola folla di curiosi. Decisi di avvicinarmi anche io, dopo aver lanciato una rapida occhiata alla fila: procedeva piuttosto lentamente e la professoressa Cooper, concentrata com’era sull’esecuzione degli studenti, non sembrava essersi accorta del litigio.
«Night, zittiscila a suon di pugni!» esclamò in quel momento un nostro compagno, Rick, a voce abbastanza alta perché entrambi lo potessero sentire, provocando numerose acclamazioni.
Quando Night incrociò il suo sguardo, il silenzio calò di colpo intorno a lui. Aveva assunto un’aria minacciosa e il sorriso strafottente sul volto di Rick si deformò all’istante.
«Scusa?» Gli occhi ridotti a fessure di Night tradivano il suo tono di voce pacato. «Cosa dovrei fare alla mia ragazza
Lo fissai un momento, non del tutto sicura di aver capito bene. La sua ragazza? Spostai subito lo sguardo su Angie e notai che lei sembrava stupita quanto me, ma nessuno pareva farci caso:  l’attenzione era tutta concentrata su Night, a cui i ragazzi stavano lanciando fischi e occhiate maliziose.
Cercando di non venire travolta dall’improvvisa confusione creatasi, mi sporsi tra i nostri compagni e rivolsi ad Angie uno sguardo confuso. Lei mi rispose scuotendo vigorosamente la testa e sillabando un “No”.
Avrei voluto avvicinarmi per chiederle spiegazioni, ma io ero bloccata dall’ingorgo di ragazzi, lei dall’abbraccio in cui Night l’aveva coinvolta.
 
Angie non riusciva a crederci. Night l’aveva fatto sul serio. Maledetto.
Dal giorno in cui erano stati colti in flagrante da Gérard e Night aveva addotto a quella scusa pietosa, il ragazzo non era più tornato sull’argomento, perché sapeva che lei non avrebbe mai accettato. Comunque, sembrava che non ce ne fosse più alcun bisogno: il custode aveva smesso di fare commenti sulla loro presunta relazione, anche quando si era trovato a metterli nuovamente in punizione. Di fronte allo sguardo confuso di lei, Night si era limitato a dire di aver fatto quattro chiacchiere con Gérard e non aveva aggiunto altro. Ad Angie, d’altro canto, non importava sapere di più: l’importante era che Gérard non la prendesse troppo di mira e che potesse continuare a darle di santa ragione a Night.
Così, credeva di essersi lasciata alle spalle quella storia una volta per tutte. Ma, a quanto pareva, si sbagliava di grosso.
Tentò con scarso successo di liberarsi dalla stretta ferrea di Night, di fronte agli sguardi curiosi dei suoi compagni di classe. Fatevi i cazzi vostri, stronzi, pensò, incenerendoli ad uno con lo sguardo.
Il ragazzo si avvicinò al suo volto, gesto che provocò altrettanti sguardi maliziosi e risolini, ma Angie sapeva che voleva solo sussurrarle qualcosa di maligno all’orecchio senza che gli altri lo udissero.
«Ora non hai più scelta» bisbigliò infatti. «Ti conviene stare al gioco, Gonnellina al Vento.»
Per tutta risposta lei si liberò con un ultimo, violento strattone e si allontanò, furibonda.
 
Alla fine la Cooper dovette accorgersi che mancavano diverse persone all'appello e ci richiamò per farci rimettere in fila, piuttosto scocciata da quell’interruzione.
Mentre ci riordinavamo, riuscii finalmente a raggiungere Angie. Fortunatamente le iniziali dei nostri cognomi erano vicine, quindi potevamo stare accanto senza creare disordine nella fila.
Tutte le ragazze vicino a noi parlottavano fra loro, continuando a lanciare sguardi in direzione di Angie, che si affrettò a fare loro il terzo dito.
«Che cazzo avete da guardare?!» sbraitò, fulminandole con lo sguardo.
Mi affrettai a distoglierla da loro, sperando in cuor mio che la Cooper non l’avesse sentita.
«Angie, cos'è questa storia?» le chiesi poi, confusa.
Lei mi rivolse uno sguardo affranto. «Kia, devi credermi! Quell’idiota mi ha incastrata, noi non stiamo insieme!» mormorò, con una punta di isteria nella voce.
Non capivo come mai Night avesse agito in quel modo, ma potevo capire la disperazione di Angie: detestava a morte quel ragazzo e adesso tutta la classe pensava che stessero insieme. Era finita in un bel guaio.
In quel momento dalla fila spuntò Arianna, seria e impassibile come sempre, che doveva avere già svolto l'esercizio.
«Posso sapere qualcosa anche io?»
 
****
 
Beth raggiunse la collinetta con il fiato corto, esausta e tormentata dai sensi di colpa.
Si sentiva davvero una stupida per aver mentito alla Cooper ed essere fuggita lì. Certo, odiava la ginnastica con tutta se stessa ed evitava spesso di parteciparvi, ma neanche il pensiero di aver saltato la prova di salto in lungo – probabilmente l’esercizio che detestava di più – la faceva sentire meglio.
Malgrado ciò che le era stato detto, non si sentiva affatto pronta per quello che doveva fare. E poi chissà cos’avrebbe pensato la Cooper, a cui aveva detto di dover andare al bagno, non vedendola arrivare prima di un quarto d'ora. E se l’avesse vista da lì?
Con il cuore in gola, lanciò un’occhiata al campetto sotto di lei dove, in lontananza, i suoi compagni erano ancora tutti in fila, in attesa di svolgere l’esercizio. Anche lei si trovava lì, giusto un attimo prima. Prima di alzare gli occhi sulla collina e vedere che c’era qualcuno.
Sperando che nessuno la notasse, proseguì, salendo ancora un po’ verso la figura che sedeva sulla cima della collinetta. Non poteva certo dire che non avesse scelto un bel posto. Da lì si godeva di un panorama davvero singolare: la collina sovrastava tutto il campetto, la porzione di giardino non nascosta dalla scuola e gran parte dell’imponente edificio di St. Elizabeth. Beth trovava che fosse davvero magnifico, con quel fascino un po’ antico, le pareti color quarzo e le colonne bianche. Eppure, dopo ciò che aveva scoperto, non riusciva ad apprezzare quella scuola fino in fondo…
Alzando di nuovo gli occhi verso la cima della collinetta, Beth realizzò con orrore che, dall’espressione divertita con cui la stava fissando, John doveva essersi accorto della sua presenza già da un pezzo.
Merda. Rossa di vergogna, non poté fare altro che avvicinarsi, consapevole di avere gli occhi di lui che la seguivano mentre arrancava faticosamente fino in cima.
Come aveva visto dalle pendici della collina, John era seduto a gambe incrociate e aveva la chitarra in grembo.
Beth aveva il fiatone, quando infine lo raggiunse, e il ragazzo ridacchiò, lanciandole uno sguardo sprezzante.
«Marini le lezioni?»
«Già. E noto con piacere che non sono l’unica» replicò lei a tono, lasciandosi cadere sull’erba accanto a lui. Si sentiva pesante e sudata, ma si strinse comunque nel cappotto quando un improvviso refolo di vento le penetrò nelle ossa, facendola rabbrividire.
Ben presto Beth realizzò che da lassù le raffiche erano più forti e la ragazza sperò ardentemente di non beccarsi un raffreddore per colpa di John. Il pensiero del ragazzo le fece ricordare che poco prima gli aveva risposto d’istinto e, maledicendosi tra sé e sé, si ricordò dei suoi propositi.
Si voltò verso di lui, facendo un respiro profondo. «Perché non torniamo a scuola? Qua si gela.»
John le scoccò un’occhiata. «Torna tu.» Poi abbassò lo sguardo sul campetto. «Fino a prova contraria, quella è la tua classe.»
Beth levò gli occhi al cielo e si sforzò di mantenere la calma, ma era un’impresa. Lei glielo aveva detto, di non essere all’altezza di quel compito: John riusciva a tirare fuori il peggio da lei e non aveva idea di come prenderlo.
«Quanto odio la ginnastica» borbottò, più a se stessa che a John, dimenticandosi del vero motivo per cui era salita fin lassù.
«Almeno su una cosa siamo d’accordo» disse lui.
Scrutandolo da sopra la spalla, Beth vide che stava sogghignando.
«Mi hai interrotto, comunque» aggiunse lui, piuttosto infastidito, riprendendo la chitarra fra le braccia.
La ragazza gli lanciò un’occhiataccia, evitando di rispondere. Sarebbe stato fiato sprecato.
Seguì il silenzio, interrotto solo dalle dita di John che lentamente riprendevano a pizzicare la chitarra.
Beth rimase piacevolmente in ascolto, distendendosi sull'erba.
Il vento sembrò calmarsi, il freddo sembrò d'un tratto meno ostile, tutto sembrò fermarsi di colpo.
Esistevano solo lei e la musica. Sì, forse anche John.
Beth si ritrovò a sorridere senza un vero motivo, inspirando l’aria fredda a pieni polmoni.
Dopo un po’ la melodia si interruppe e la ragazza tornò seduta, lanciando uno sguardo interrogativo a John.
Lui si era bloccato di colpo e fissava la chitarra con insistenza, le dita immobili sulle corde. Di colpo alzò la testa e puntò i suoi occhi color petrolio in quelli di Beth.
«Vuoi provare tu?»
Lei trasalì, presa alla sprovvista. Tutto si sarebbe aspettata, fuorché una proposta simile! Rimase un momento in silenzio, incerta sulla risposta da dargli. Un momento di troppo, forse.
«Ti ho fatto una domanda, mocciosa.»
Beth ignorò l’odioso nomignolo e infine annuì, poco convinta. Strusciando sull’erba, si avvicinò di poco al ragazzo, che le porse delicatamente la chitarra.
«Prova a rovinarla e sei morta» disse lui e non sembrava affatto scherzare.
Beth la prese tra le mani come se stesse maneggiando un reperto storico, attenta a non farla sbattere troppo quando se la posò sulle ginocchia. La studiò attentamente, soffocando un brivido d’emozione al pensiero che era quello lo stesso strumento che avevano maneggiato anche tutti i suoi più grandi idoli musicali.
Ma, al di là del fascino che suscitava in lei, Beth non aveva la più pallida idea di dove mettere le mani e così, dopo aver fissato la chitarra con aria inebetita per un po’, si voltò verso John, in trepidante attesa. Gli rivolse anche un sorriso timido, sperando ardentemente che lui comprendesse il suo disagio e si offrisse di darle qualche dritta. Ma aveva a che fare con una persona decisamente poco intuitiva.
«John» mormorò infine lei, dopo un’eternità. «Non so come si suona.»
«Stai scherzando?» fece lui, sgranando gli occhi. «Non sai neanche come maneggiarla?»
Scosse la testa, come se non riuscisse a credere alle sue orecchie, e fece una smorfia.
«Su, vieni» borbottò poi in tono seccato, allargando appena le gambe.
Beth lì per lì non capì. Stava facendo spazio a lei? A giudicare dall’espressione esasperata che John assunse quando vide che lei non si era mossa, sì.
«Guarda che non ti mangio mica» borbottò lui, vagamente divertito, facendole segno di avvicinarsi.
Beth obbedì, riluttante. Quando però sentì la sua schiena poggiare contro il solido torace del ragazzo, si sentì avvampare. Quel contatto non le piaceva per niente e si sentiva terribilmente a disagio. Non era così che doveva finire…
Ma, nonostante l'imbarazzo, cercò di concentrarsi sulla posizione delle mani che John le stava mostrando.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** -•Capitolo 9 ***




«Fattelo dire, fai proprio schifo» commentò John, dopo che dalla chitarra uscì l’ennesimo suono sghembo.
Il ragazzo aveva deciso di insegnarle una canzone, senza però rivelarle il nome. Doveva essere una sorpresa, ma la situazione era diventata pesante, anche perché John era un pessimo insegnante: si arrabbiava subito e non le lasciava il tempo di provare con calma.
Beth sospirò. Era almeno la centesima volta che continuava a ripetere le stesse frasi sgarbate e non riusciva più a sopportare i suoi continui commenti negativi.
«Almeno cerca di fare una critica costruttiva!» protestò. «Ci credo che poi rimani sempre da solo.»
John la fissò senza parlare, limitandosi a darle un lieve colpetto sulla spalla, come un avvertimento.
«Non è quello» disse. Il suo tono era inafferrabile. «Non mi piace stare in mezzo alla gente, tutto qua.»
«Che asociale» borbottò lei.
«Falla finita, d’accordo?!» esclamò allora lui, in un improvviso scatto d’ira. Poi si dovette accorgere che lei era rimasta impietrita, perché si addolcì.
«Piuttosto, stai sbagliando la posizione delle mani.»
Indicò le dita esili di lei, che arricciò il naso.
«Allora fallo tu, visto che sei tanto bravo!» sbottò Beth, infastidita.
John le afferrò la mano sinistra, poggiandola delicatamente sulla corde e pressando con i polpastrelli. A quel punto dalla chitarra uscì quello che per lei era il suono della vittoria.
«Wow» mormorò raggiante, percependo ancora il vibrare delle corde sotto le dita.
«Poi devi metterle lì» spiegò John con pazienza, ma senza l’entusiasmo della ragazza davanti a sé.
Spostò nuovamente le mani di lei, che però si lasciò guidare, affascinata com’era dal moro. Si vedeva che per lui era una passione: cambiava atteggiamento quando si trattava della sua chitarra, della musica.
«Allora, si può sapere cosa mi stai insegnando?» domandò lei, fissando attenta le mani di John.
Si aspettava una risposta sgarbata, ma stranamente non fu così.
«Vedi Beth, se sei veramente una fanatica degli anni ‘50, ‘60 e via dicendo, come sostieni di essere,  la riconoscerai... seguimi» disse, ricominciando a guidare le sue mani sulla chitarra.
La ragazza ascoltò con più attenzione e si ritrovò a sorridere quando riconobbe l'intro della canzone: era Love Me Tender di Elvis Presley. Impossibile per lei non conoscerla e non adorarla, e il fatto che il ragazzo gliel’avesse proposta la stupì piacevolmente: forse quel look d’altri tempi non era completamente studiato a tavolino. Una vocina nella sua testa ci tenne a ricordarle che quella era praticamente la canzone più famosa di Elvis e probabilmente anche un neonato in fasce l’avrebbe conosciuta, ma lei si affrettò a farla tacere.
Per niente intimorita dalla presenza di John, iniziò a cantarla senza difficoltà. Conosceva bene le parole e cantare le sue canzoni preferite le dava sempre una certa soddisfazione.
«Così la conosci...» ridacchiò John. «Canti bene» osservò poi, sincero.
«Grazie» disse lei in un sussurro, ritornando a concentrarsi sulla canzone.
Si sentiva un po’ a disagio, perché John continuava a guardarla e non le piaceva essere fissata in quel modo.
«Be’, grazie di tutto» disse lei, una volta che la canzone fu terminata.
Quando la musica si interruppe, anche la situazione idilliaca che si era venuta a creare fra loro sembrò incrinarsi. La magia era finita e, anche se entrambi erano rimasti in silenzio da allora, Beth se ne accorse chiaramente.
«Adesso penso che dovrei proprio andare» disse quindi, voltandosi di scatto.
Si ricordò troppo tardi di essere estremamente vicina al ragazzo, che nel girarsi si ritrovò ad un passo dal volto, tanto che poteva percepirne il respiro.
John sorrise ma, forse accorgendosi anch’egli di essere pericolosamente vicino a Beth, si allontanò con uno schiarimento di voce.
La ragazza allora si alzò in piedi, lieta di avere di nuovo un po’ di spazio per muoversi e respirare normalmente. Quel contatto così ravvicinato la stava ancora facendo sudare freddo.
Si ripulì i pantaloni dai fili d’erba, fece un cenno di saluto a John e iniziò a scendere giù dalla collina, in direzione del campetto, dove la sua classe stava finendo gli esercizi.
«Beth!» la chiamò improvvisamente John.
«Cosa c’è?» gridò lei in risposta, voltandosi.
Il ragazzo era rimasto immobile a sedere e Beth lo vide sfoggiare un mezzo sorrisetto che non le piacque per niente.
«Cerca di non montarti troppo la testa» la ammonì lui. «A cantare te la potrai anche cavare, ma sappi che con la chitarra fai proprio schifo.»
Beth aprì la bocca di scatto. «M-ma vaffanculo!» rispose poi su due piedi, incrociando le braccia al petto con espressione offesa, non sapendo se ridere o infuriarsi con quel ragazzo insopportabile.
 
****
 
Quando vidi Beth venirmi incontro, di ritorno da chissà dove, non riuscii a trattenermi dall'esplodere.
«Si può sapere dove sei stata?!» dissi, a metà fra il sollevato e l’arrabbiato.
Credevo che fosse in bagno, ma era scomparsa da più di mezz’ora e stavo iniziando davvero a preoccuparmi.
Lei fece per aprire bocca per darmi spiegazioni, ma Angie non gliene diede il tempo.
«BETH?! DOV’ERI?!» urlò, trapanandoci i timpani e facendo voltare all'unisono tutta la fila verso di noi.
Beth si fece piccola piccola ed Angie si limitò a sorridere innocentemente, mentre io mi rivolsi al resto della classe in modo disinvolto, spiegando che non era successo assolutamente niente.
Fu in quel momento che avvistammo Arianna: si stava facendo largo tra i ragazzi per raggiungerci e anche lei sembrava abbastanza preoccupata.
«Beth! La Cooper avrebbe potuto accorgersi che non c’eri» bisbigliò, quando si fu avvicinata. Sembrava nervosa ed era un autentico miracolo che facesse trasparire le sue emozioni.
«Diamine!» protestò Beth.  «So di essere stata un po’ avventata, ma...»
«Un po’?» ripeté Angie, sbuffando.
«...Ma ne avevo bisogno» proseguì lei, ignorando il suo commento. «In fin dei conti non è successo nulla. Io oltretutto ero già passata dalla Cooper e difficilmente mi avrebbe richiamata. Quindi potete anche smetterla di comportarvi così» concluse, levando gli occhi al cielo.
Notando la sua espressione corrucciata, Angie scoppiò a ridere.
«Non farci passare per quelle apprensive, Beth» intervenni, incrociando le braccia al petto. «Siamo nuove qui, non possiamo permetterci certi comportamenti.»
«Già, cerchiamo di non fare come Angie» aggiunse Arianna, sottolineando con una frecciatina il fatto che la nostra amica si fosse già fatta etichettare come una teppista, nella nuova scuola.
Angie la incenerì con lo sguardo, ottenendo l’effetto sperato dall'altra.
Mentre Beth interveniva per fermare sul nascere il loro litigio, io mi guardai intorno: anche gli ultimi ragazzi dovevano aver finito l’esercizio, perché la classe si stava preparando per rientrare.
«Mi dispiace interrompervi ragazze, ma penso sia l’ora di andare» dissi e, contemplando già il calore del termosifone della nostra camera, ci affrettammo  a raggiungere gli altri.
Mentre la Cooper apriva la porta d’ingresso, vidi con la coda dell’occhio un familiare ragazzo moro avvicinarsi a noi e d’istinto spinsi in avanti le mie amiche, cercando in qualche modo di raddoppiare la nostra distanza.
Angie stava per protestare ma, voltandosi, sembrò capire il perché del mio comportamento.
«Perché continui a evitarlo? Non avete più chiarito dalla festa?» bisbigliò, tornando a guardarmi e cercando allo stesso tempo di non perdermi di vista tra la folla.
Non dovevo essere l’unica ad agognare il calore dei termosifoni, a giudicare dalla foga con la quale i nostri compagni stavano entrando.
«No. E sai benissimo perché lo evito» risposi piuttosto seccata, mentre i ragazzi continuavano a spintonarci per entrare.
«Povero Shadow... sì, conosco la tua situazione, ma continuo a pensare che tu stia facendo un errore, Kia» si limitò a dire Angie, prima di sparire nella confusione.
                                                                                                                                                                                    
****
 
«Vai così, Arianna!» esclamò Beth, euforica, scattando d’istinto in piedi.
«BETH Scendi subito!» le urlai sottovoce, vedendo che le poche persone presenti si erano voltate verso di noi, esterrefatte.
Per tutta risposta la mia amica ridacchiò, per niente imbarazzata, e poi tornò seduta sulle gradinate della palestra come se nulla fosse.
In palestra, quel pomeriggio, si teneva l’ultima prova delle cheerleader prima della partita   della nostra scuola e Arianna ci aveva invitate ad assistere. Beth ed io eravamo venute volentieri, mentre Angie era rimasta in camera, dicendo di avere da fare: la sua aveva tutta l’aria di essere una scusa, ma Ari non era parsa troppo dispiaciuta.
Osservammo con attenzione il numero che le ragazze avevano progettato: era molto breve e comprendeva una complicata serie di acrobazie – che solo a vederle mi provocarono il voltastomaco – unite alla coreografia di un balletto di danza moderna e allo slogan della scuola. Tutte le studentesse erano davvero brave, ma notai con una punta di orgoglio che era Arianna quella in testa al gruppo.
Ad un tratto Beth mi indicò una delle ragazze dietro Arianna: era alta e slanciata, con lunghi boccoli rossi legati in una coda di cavallo.
Non mi ricordavo chi fosse, ma aveva l’aria vagamente familiare e Beth chiarì i miei dubbi quando disse: «È Annie, l’amica di John.»
«Ah, non l’avevo riconosciuta! È piuttosto brava, non trovi?»
«È amica di quello stronzo: la odio a prescindere» la schernì lei.
Ignorando il suo commento pungente, preferii rimanere in silenzio e continuare ad osservare l’esibizione. E rimasi a bocca aperta quando alla fine Arianna si esibì in un salto mortale, prima di essere riacciuffata al volo dalle compagne. Non avevo idea che la mia amica fosse in grado di fare cose simili!
 
Beth non sapeva proprio cosa pensare.
John non le stava particolarmente simpatico, ma molto – mooolto –  raramente era persino piacevole. Quella mattina, per esempio, era stata bene in sua compagnia, nonostante i suoi frequenti commenti sprezzanti. Eppure non riusciva a sopportare Annie, la sua amica dai ricci capelli rossi, tutta falsi sorrisi: non la trovava sincera, tantomeno simpatica, e quel modo con cui si era opposta a John in mensa, poi! Era chiaro che volesse solo farsi notare.
Dentro di sé si sentiva vagamente in colpa per quell'avversione nei confronti di una ragazza che in fin dei conti non le aveva fatto nulla di male. In fondo teneva solo compagnia a quel ragazzo solitario, eppure la infastidiva terribilmente e solo vederla le provocava un’ondata di irritazione. 
In conflitto con se stessa, Beth attese la fine dell’esibizione nel più completo silenzio.
 
«Ari, sei stata bravissima!» le dissi, una volta finito l’allenamento.
Beth ed io l’avevamo seguita insieme alle altre cheerleader negli spogliatoi femminili.
«Per non parlare di quella capriola...» aggiunse Beth, ammirata.
Mi voltai istintivamente verso di lei: era la prima volta che apriva bocca dalla fine dell’esibizione e mi rasserenai nel vedere che sembrava tornata di buonumore.
«Grazie ragazze!» sorrise lei, prendendo la sua bottiglia d'acqua dal borsone, in un angolo dello spogliatoio. «Ormai manca solo un giorno alla partita, siamo tutte in preda all’ansia.»
«Sono sicura che farete un figurone» la rassicurai.
In quel momento una ragazza entrò a passo veloce dalla porta e, voltandomi appena verso di lei, vidi che si trattava di Annie.
La ragazza si sciolse la coda di cavallo, quindi si passò una mano fra i lucenti capelli rossi e cacciò l’elastico in fondo alla sua borsa. Voltandosi verso di noi, notò Beth.
«Ciao!» esclamò, con un sorriso a trentadue tenti.
Percepii l'immane sforzo della mia amica nel ricambiare il saluto.
Il suo sguardo passò da lei a me.
«Ciao anche a te, ehm...»
Mi ricordai che lei non aveva idea di come mi chiamassi.
«Kia, piacere!» dissi in tono cordiale.
«Piacere mio» rispose lei, esibendo un altro dei suoi esagerati sorrisi. Poi si rivolse alla squadra. «Ragazze, avete per caso visto John in giro? È da stamattina che non lo vedo»  domandò, mentre afferrava la sua bottiglietta.
Nessuno rispose, ma colsi un guizzo di autentico terrore negli occhi di alcune ragazze che non mi stupì affatto. John, con le sue strane compagnie e la sua fama di delinquente, era considerato un tipo pericoloso e piuttosto temuto nella scuola, avevamo avuto modo di rendercene conto anche noi.
Accanto a me, notai Beth irrigidirsi. Ma, prima che riuscissi a chiederle qualunque cosa, nello spogliatoio irruppe la Cooper.
«Ragazze, sono appena arrivate le vostre uniformi da cheerleader! Venite a dare un’occhiata? Su, vi voglio tutte nell’atrio.»
Il silenzio fu immediatamente spazzato via dall’entusiasmo generale.
Le ragazze finirono di prepararsi in fretta e furia e, dopo aver preparato alla bell’è meglio le loro sacche, uscirono dallo spogliatoio quasi correndo, pur di stare dietro alla Cooper.
«Kia, Beth, venite anche voi?» chiese Arianna, sistemandosi il proprio borsone sulla spalla, mentre faceva cenno alla professoressa di aspettarla.
Beth ed io ci scambiammo un'occhiata e annuimmo all'unisono. Perché no? Dopotutto non avevamo niente da fare ed Angie quel pomeriggio sembrava voler stare per conto suo.
Proprio a lei pensavo, mentre imboccavamo il corridoio diretto all'ingresso a passo rapido, e non potei fare a meno di chiedermi cosa stesse combinando in quel momento.
 
****
 
Qualunque malcapitato si fosse azzardato a passare lungo il corridoio del primo piano, precisamente davanti alla porta della camera numero 18, difficilmente sarebbe tornato vivo per raccontarlo. In quel preciso istante, fortunatamente, il corridoio era del tutto deserto.
Lì il malcapitato in questione avrebbe di certo notato una ragazza. Totalmente innocua, all'apparenza: non eccessivamente alta, molto formosa, dai ricci boccoli color miele e gli occhi verdi. Un serafico angelo biondo che solo uno sguardo attento avrebbe classificato come un potenziale pericolo da cui tenersi saggiamente alla larga.
Quando Angie Stevens avrebbe inchiodato il malcapitato con il suo sguardo scocciato, allora probabilmente per lui sarebbe stato troppo tardi.
Perché “scocciato” probabilmente non rendeva bene l'idea.
Era infuriata.
Incazzata nera.
Pronta ad esplodere.
Ribolliva dalla rabbia in maniera tale che, quando poggiò la mano sulla porta della camera, desiderò con tutto il cuore poterla scardinare e abbatterla senza pietà sulla fonte dei suoi problemi, fino a spezzargli l'osso del collo. Angie inspirò, chiudendo gli occhi, mentre si immaginava l'intera scena: una visione sublime.
Perché la causa di tutto ciò era ovviamente da ricercarsi in Night Harris e lo scherzetto da quattro soldi che aveva deciso di giocarle quella mattina e che probabilmente avrebbe compromesso la sua reputazione fino alla fine dei suoi giorni.
Ma l'avrebbe pagata cara, quella faccia da schiaffi poteva starne certa. Non c'erano punizioni, ramanzine e rapporti disciplinari che stavolta potessero impedirle di pestare Night a dovere.
Dopo essersi concentrata per fare un altro paio di respiri profondi, bussò con foga alla porta.
Udì un rumore di passi all'interno e, quando la porta le si aprì davanti, non riuscì più a trattenersi e partì all'attacco con tutta la voce che aveva in corpo.
«TU, TU! PEZZO D'IMBECILLE, TI FACCIO VEDERE IO! COME TI SEI PERMESSO?! NON SEI ALTRO CHE…»
Solo quando alzò gli occhi si rese conto che quello che aveva davanti non era affatto la sua nemesi, ma il povero Shadow, che la fissava interdetto. Cazzo.
«...UN RAGAZZO!» gridò la prima cosa che le venne in mente e pregò che una voragine le si aprisse improvvisamente sotto i piedi, ma il pavimento del corridoio rimase ben saldo sotto le suole delle sue scarpe.
Shadow la stava fissando sbattendo le palpebre. Tanti dovevano essere i pensieri che gli frullavano per la testa, magari perché Angie Stevens avesse appena inveito contro di lui come un’invasata ma, da cavaliere qual’era, decise di stare al gioco.
«Sembra proprio di sì. Ma, se mai deciderò di cambiare sponda, sarai la prima a cui lo dirò, lo giuro.» Ammiccò verso di lei in modo volutamente effeminato, scoppiando a ridere.
Angie sentì le guance tornare del proprio colore naturale, mentre l’imbarazzo affievoliva e si univa alle risate del ragazzo.
«Sei venuta qui solo per minacciarmi o hai bisogno di qualcosa?» domandò poi lui, con un sorriso divertito.
«Temo ci sia stato un equivoco... ma sì, in effetti stavo cercando Night.»
Il sorriso di Shadow si fece ancora più largo e Angie colse nei suoi occhi un lampo di malizia. «Ah, il tuo ragazzo.»
La precaria quiete appena raggiunta dalla ragazza fu sul punto di vacillare, ma si impose di rimanere calma. Ancora un poco e avrebbe avuto la sua vendetta.
«Si sta facendo la doccia e, conoscendo i suoi tempi, ci vorrà ancora un bel po’. Vuoi entrare comunque?»
«Va bene» mormorò lei, borbottando qualcosa a proposito del suo pessimo tempismo.
Shadow si fece di lato per farla passare e Angie varcò trepidante la soglia della fantomatica camera numero 18, davanti alla quale si immobilizzò, a bocca spalancata.
Là dentro, ne era certa, doveva essere esplosa una bomba.
La camera sua e delle ragazze certo non era il ritratto dell'ordine – anche se Arianna lo avrebbe desiderato – ma non era minimamente paragonabile al caos presente in quella stanza: lì la confusione regnava indiscutibilmente sovrana.
Fece qualche esitante passo in avanti, camminando sulle punte per non calpestare i vestiti e le scarpe che ricoprivano ogni centimetro quadrato del pavimento, che non era nemmeno visibile ad occhio nudo. L’impressione era quella di attraversare un campo minato.
«Scusa il disordine» mormorò Shadow, notando la sua espressione allibita. Attraversò la stanza in un modo che rese le fatiche di Angie per non calpestare nulla vane e anche piuttosto ridicole: sollevava ad ogni passo mucchi di vestiti e chissà cos’altro sepolto lì sotto, senza curarsi di ciò che finiva sotto le sue scarpe. Si bloccò solo quando i due udirono chiaramente un sonoro crac.
«Mmn, credo di aver appena pestato un cellulare. Spero fosse quello di Night.»
«Lo spero anche io» commentò Angie, continuando a guardarsi intorno. «La cosa sconcertante è che la dividete in due!»
«Chi c’è con te, Sha?»
Una familiare, odiosa e profonda voce maschile s’inserì nella conversazione. Proveniva dal bagno, la cui porta era situata in un angolo della stanza, ed Angie non ebbe difficoltà a riconoscere a chi appartenesse. Serrò istintivamente i pugni.
«La tua ragazza!» rispose lui, di nuovo con quella scintilla maliziosa nello sguardo. «Vuole parlarti.»
Night mugugnò qualcosa di incomprensibile dal bagno, poi ci fu il silenzio.
«Mi sa che dovrai aspettare un po’» mormorò Shadow in tono di scuse.
Angie si morse un labbro. «Tranquillo, aspetter… EHI!» esclamò, fissando a bocca aperta un poster a parete in fondo alla stanza, che lì per lì non aveva notato, visto che la sua attenzione era stata attirata dalla confusione sul pavimento.
Imitando la tecnica di Shadow, si fece largo con noncuranza tra i mucchi di vestiti e di dischi e si avvicinò alle familiari sagome del suo gruppo preferito, con i poster dei quali aveva completamente tappezzato la sua stanza, a Dublino.
«Piacciono anche a te i Guns ‘N Roses?» chiese Shadow, sedendosi sull’unico letto in ordine tra i due presenti nella stanza.
«Se mi piacciono? Dire che li amo è riduttivo!» disse Angie, euforica, osservando il poster con curiosità: quello in effetti mancava alla sua collezione.
«È di Night» spiegò Shadow, notando il suo interesse.
Angie si voltò di scatto, non del tutto sicura di aver sentito bene. «Sul serio?»
«Giuro! I Guns  non sono decisamente il mio genere» rispose lui, scrollando le spalle.
«Prova ad ascoltare l’assolo di chitarra di Sweet Child O’ Mine e vedrai che cambierai idea» disse Angie con fare da esperta, accarezzando il volto di Axl Rose che sembrava sorriderle attraverso il poster. Nel farlo, si stupì di sentire una superficie sagomata sotto di esso, come se la gigantesca foto del gruppo fosse stata posta a coprire qualcos’altro. Ma cosa?
Con la coda dell’occhio, notò che Shadow era impegnato con il suo cellulare e le stava dando  le spalle. Vinta dalla curiosità, Angie decise di approfittarne.
Alzandosi sulle punte, afferrò un lembo del poster dei Guns che sembrava leggermente scollato e lo sollevò, scoprendo parte dell’immagine che vi era dietro.
La ragazza non capiva le ragioni che avevano portato un’idiota come Night a coprire un poster con un altro poster, se non per non nascondere qualcosa di particolarmente imbarazzante, e nella sua testa stavano già prendendo forma diverse ipotesi, per cui, in seguito, avrebbe potuto ricattare il ragazzo a vita. Ma, qualsiasi cosa le fosse venuta in mente, di certo non era psicologicamente pronta allo spettacolo che le si palesò davanti.
Dietro il poster dei Guns ‘N Roses c’era l’immagine di un unicorno.
Un unicorno rosa, dalla criniera luccicante di glitter e dagli occhi grandi e acquosi, in stile manga, che galleggiava in uno sfondo rosa.
Un unicorno. Rosa. Nella camera di due ragazzi. Coi glitter!
«Tutto bene?»
La voce perplessa di Shadow la riscosse, ed Angie si affrettò a re-incollare in fretta e furia il lembo del poster che aveva sollevato, per poi voltarsi di scatto verso il ragazzo con un sorriso serafico. «Certo!»
Io non ho visto nulla, disse tra sé e sé, allontanandosi dal poster incriminato per andare a sedersi sul letto, accanto a Shadow, che continuava ad osservarla con stupore, forse per via dell’espressione scioccata che non riusciva a mascherare.
Per evitare di tradirsi, Angie si affrettò a portare l’attenzione su altro. «Allora… che mi dici di Kia?»
Nell’udire il nome della ragazza, Shadow si rabbuiò ed Angie si sentì vagamente in colpa per averlo costretto a rimuginare sopra qualcosa a cui stava chiaramente evitando di pensare. Se non altro, però, aveva smesso di fissare lei.
«Io… non so cosa pensare» ammise lui, evitando il suo sguardo. «Ma dopotutto non mi era mai accaduta una cosa simile, prima.»
Angie sgranò gli occhi. «Non dirmi che non eri mai stato rifiutato!»
La ragazza lo vide arrossire visibilmente e si trattenne a stento dal ridere, perché sapeva che lo avrebbe ferito. Preferì poggiargli una mano sulla spalla.
Shadow le piaceva molto, ma era un ragazzo piuttosto prevedibile ed a Edimburgo, nella sua vecchia scuola, di tipi come lui ne aveva conosciuti a frotte. Bellissimi ragazzi con un ego smisurato, a cui non era mai stato detto di no, né dal paparino né dallo stuolo di ragazze che avevano ai loro piedi.
Ma, vista l’attuale situazione sentimentale di Kia, Angie avrebbe preferito mille volte vederla al fianco di Shadow, un po’ troppo sicuro di sé ma dal cuore d’oro, che al fianco di un idiota. Ed Angie si sentiva terribilmente in colpa per il ruolo che aveva avuto nella vicenda di Kia e di un certo idiota. Ah, se solo avesse potuto far accendere la scintilla tra lei e Shadow!
«Lasciarsi corteggiare per poi darmi il benservito» stava bofonchiando il ragazzo. «È come se l’avesse fatto per ferirmi!»
Angie sospirò. «Kia non aveva alcuna intenzione di ferirti, Shadow.»
Lui la guardò mestamente. «Lo pensi davvero?»
Lei sorrise. «Ne sono sicura! Kia è fatta così, è fin troppo gentile con tutti. Per questo è probabile che tu abbia frainteso le sue intenzioni. Vedi…»
«Io però non ho alcuna intenzione di arrendermi. Vedrai» esclamò, lanciandole uno sguardo penetrante, di fronte al quale persino lei si sentì vacillare, «riuscirò a conquistarla!»
A quelle parole, la ragazza abbassò lo sguardo e si maledì.
«Non puoi, Shadow, mi dispiace. Kia è già fidanzata.»

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** -•Capitolo 10 ***




Fu solo poco prima di cena che ci avviammo finalmente sulle scale, dirette alla nostra stanza.
Avevamo passato il pomeriggio insieme ad Arianna che, dopo essersi provata l’uniforme insieme alle altre cheerleader, ci aveva condotte nel campetto all’aperto, dove ci eravamo date da fare per i preparativi della gara dell’indomani. Ce n’erano di cose da preparare, tra la sporcizia del campetto da rimuovere e le tribune da pulire, e un paio di braccia in più avevano fatto comodo agli organizzatori. Beth ed io avevamo dato una mano molto volentieri, ma adesso eravamo a pezzi.
«Comunque, Ari, la vostra uniforme è fantastica!» dissi, mentre arrancavo su per le scale.
«È vero. Mi fa quasi venire voglia di unirmi alle cheerleader» commentò Beth, con il fiato corto.
«Mmn, in effetti ti ci vedo proprio, a fare il triplo salto mortale...»
«Oh, sta’ zitta, Kia!»
«Vi consiglio di risparmiare il fiato» osservò Arianna con occhio critico. Nonostante avesse partecipato agli estenuanti allenamenti ed avesse trottato tutto il pomeriggio per organizzare l’evento del giorno dopo, pareva fresca come una rosa. Mi chiesi quale fosse il suo segreto.
«Forza, ci siamo quasi» ci incitò, salendo gli ultimi gradini a due a due, prima di sparire nel corridoio.
Io e Beth osservammo la scena a bocca aperta e, da brave comuni mortali, ci scambiammo uno sguardo di comprensione reciproca.
Con le ultime forze rimaste, attraversammo il corridoio ed entrammo in camera, a prima vista deserta.
«Angie…?» chiamai, ma non ebbi risposta.
«Non c’è» rispose Arianna, comparendo dal bagno con una spazzola in mano. Dopo un attimo, prese a pettinarsi con cura i lunghi capelli biondi.
«Dio!» sbottai. «È diventata una moda, quella di sparire?»
«Be’, sarà con il suo fidanzato» rispose lei, del tutto impassibile.
L’urlo agghiacciante di Beth, rimasta ferma nell’ingresso, ci fece gelare il sangue.
Pensando che avesse visto una qualche bestiola, fui travolta da un’improvvisa ondata di energia, strappai la spazzola dalle mani di Arianna e balzai sul mio letto, dove rimasi in piedi su una gamba sola, brandendo il pettine come un’arma.
«COSA? DOVE? DOV’È?!»
«Kia, non c’è nessun insetto qui» mormorò Arianna, sospirando. Doveva aver capito cosa mi fosse passato per la testa. «Beth non sa semplicemente niente di Angie e Night.»
Rincuorata, abbandonai lentamente la mia posizione di difesa, mentre Arianna esprimeva i suoi dubbi circa il fatto che abitassi in campagna.
«Kia, potrei riavere la mia spazzola, adesso?»
«Angie e Night…» fece Beth, perplessa. «Che strana accoppiata. Ma sono felice per loro!»
«Be’, di sicuro lo sei più di Angie» replicai.
Lei mi guardò senza capire.
«Angie è stata incastrata da Night. Per ragioni che non vi sto a spiegare, è costretta a fare il suo gioco» spiegò Ari, sedendosi lentamente sul suo letto.
«Aspetta» feci, avvicinandomi a lei e scrutandola attentamente. «Tu sai il perché?»
La ragazza tacque, evitando il mio sguardo.
Quatta quatta, Beth si fece a sua volta vicino a noi e, a quel punto, sedute tutte e due sul suo letto, aspettammo pazienti che Arianna si pronunciasse.
Pendevamo dalle sue labbra a tal punto che la ragazza, dopo un lunghissimo silenzio, diede in escandescenza.
«Finitela di guardarmi così!» sbottò. «Non posso dirvelo! Mi hanno pregato di mantenere il segreto!»
Vedendo però che la sfuriata non aveva sortito alcun effetto e che le nostre espressioni non erano cambiate di una virgola, levò gli occhi al cielo.
«E va bene…» cedette, e finì per raccontarci tutto.
 
****
 
Angie lasciò che Shadow si sfogasse, senza avere il coraggio di intervenire.
Cosa avrebbe potuto dirgli, dopotutto? Aveva maledettamente ragione nel sentirsi ingannato! Angie era convinta che qualcuno dovesse dirgli la verità, ma era anche enormemente seccata, perché aveva dovuto farlo lei e non la diretta interessata.
Ma perché Kia non gli aveva mai spiegato come stavano veramente le cose? Tacere la verità forse poteva averla aiutata all’inizio, ma la sua reticenza, protratta nel tempo, aveva provocato solo una delusione più grande in Shadow.
Si sentì il cuore colmo di tristezza, quando il ragazzo incrociò il suo sguardo con aria abbattuta.
«Posso essere del tutto sincero con te?» disse poi lui, dopo aver fatto un respiro profondo.
«Spara.»
«Devo ammettere che…» si bloccò, come se fosse alla ricerca delle parole giuste. «non pensavo fosse così brava a rimorchiare. Solo quattro mesi qui e già…»
«Oh no, non è di questa scuola» si affrettò a spiegare lei.
«Ah!» Shadow serrò i pugni. «Quel Leo, lo sapevo!»
Nell’udire il nome dell’amico più stravagante di Kia, Angie ridacchiò. «Ma no!»
Shadow sospirò afflitto, distendendosi sul letto accanto a lei che, vagamente a disagio, prese ad osservarsi con insistenza le punte delle scarpe.
«Mi dici qualcosa di lui?» esclamò ad un tratto, facendola sobbalzare. «Spero sia un bravo ragazzo.»
Angie a quel punto non sapeva se ridere o piangere. Un bravo ragazzo?
Avrebbe voluto mangiarsi le mani, tanta era la sua irritazione. Era tutta colpa sua, che lo aveva presentato a Kia tanto tempo prima, per aiutarla a dimenticare la cocente delusione amorosa provocata da Jake, credendo di farle un favore. Ma, nel vedere come erano andate a finire le cose, con la sua amica che soffriva terribilmente per il carattere inafferrabile di lui, Angie avrebbe fatto qualsiasi cosa per rimediare a ciò che aveva combinato.
«Allora?»
Era così presa dai suoi pensieri da non rendersi conto che Shadow si aspettava una risposta da lei. Si riscosse e fu con grande sforzo che riuscì a farfugliare qualcosa.
«No… cioè sì, ma è una persona così strana! È talmente solitario… no, anzi, è un completo idiota! E poi non si vedono mai, insomma…»
Shadow la fissava perplesso, mentre la ragazza continuava ad arrampicarsi sugli specchi.
«Ah, si chiama L…»
Un rumore improvviso li interruppe.
Night era davanti a loro, immobile.
Per averla appena salvata in corner Angie realizzò che, probabilmente per la prima volta da quando aveva avuto la sfortuna di imbattersi in lui, era quasi felice di vederlo.
Non in quelle condizioni, però.
Non praticamente nudo, ad eccezione di un misero asciugamano legato in vita che copriva a stento ciò che c’era da coprire, con i capelli scuri fradici e le gocce d’acqua che parevano fare le montagne russe sui definiti muscoli del torace, che guizzavano in avanti ad ogni suo respiro. Decisamente no.
Shadow tossicchiò leggermente, di fronte alla sua reazione teatrale, bocca spalancata compresa. A quel punto la ragazza si ricompose e distolse con forza lo sguardo.
«Qualcosa addosso… magari?» fece, rossa in volto.
«I miei vestiti sono qui» ribatté lui, lanciandole un’occhiataccia.
«Ah.»
Angie era rimasta così destabilizzata da dimenticarsi, per un attimo, le ragioni che l’avevano portata con una furia omicida proprio nella sua stanza.
Si era imposta di non fissarlo un secondo di più, anche se, con la coda dell’occhio, non poté fare a meno di notare che il ragazzo, dopo essersi chinato davanti al cassetto dell’unico grande armadio della stanza, si era messo a rovistare selvaggiamente tra i vestiti. Sembrava un cane che dissotterra un osso, mentre lanciava per aria felpe e magliette, le quali, dopo un breve volo, ricadevano  nell’humus di oggetti che si era creato ai loro piedi.  
Shadow le lanciò un’occhiata eloquente. Era piuttosto facile indovinare cosa, o meglio chi, fosse la causa del disordine, là dentro.
La ragazza notò, infatti, che il letto sul quale erano seduti lei e Shadow era perfettamente in ordine: le lenzuola rifatte, il cuscino sprimacciato, il comodino del tutto sgombro, ad eccezione di un bicchiere d’acqua e di un paio di occhiali, mentre l’altro era da crisi isterica.
Angie si voltò verso il suo proprietario, sentendo la familiare rabbia tornare a montarle dentro, ed era già pronta a dirgliene quattro quando si accorse con orrore che il ragazzo, voltato di spalle, si stava cambiando davanti a loro.
Angie avrebbe potuto giurarci, sul fatto che lo stesse facendo apposta per metterla a disagio. E quando l’asciugamano, sistemato alla bell’è meglio sui fianchi, si slacciò e finì ai suoi piedi, rivelando ciò che stava coprendo, la ragazza sentì il sangue affluirle al cervello. Se per la rabbia o per la vergogna, non avrebbe saputo dirlo.
«Avanti!» intervenne Shadow, sereno, notando che Angie, color peperone, si stava coprendo gli occhi con le mani.  «Adesso state insieme, non devi sentirti in imbarazzo per una situazione del genere!»
Quelle parole, seguite dal risolino sommesso di Night, furono la goccia che fece traboccare il vaso.
«NOI NON STIAMO INSIEME!» tuonò Angie, livida di rabbia. «Almeno, non veramente! Se solo quell’idiota non mi avesse dato letteralmente la zappa sui piedi…»
«Era un rastrello.»
«…non sarebbe successo niente!» concluse lei, ignorandolo.
«E ti ricordi perché ci è stata data quella punizione?» replicò lui, mentre si abbottonava i jeans, continuando a darle le spalle.
Senza aspettare risposta da Angie, si voltò, incrociando le braccia nude al petto. «Perché tu, razza di cretina, mi hai preso a calci nel corridoio…»
«Perché tu mi avevi dato un pugno a lezione!»
«Perché prima tu…»
«BASTA!»
La voce di Shadow li zittì, ma non impedì ai due di continuare a lanciarsi occhiate di fuoco.
«Finitela» continuò, serio in volto. «È solo colpa di entrambi se quando siete insieme non riuscite a comportarvi civilmente.»
Dopo una breve pausa, domandò: «E così… non state insieme veramente, ehh
Angie lo fissò, sorpresa. Il suo tono di voce era diverso, così come la sua espressione: un sorriso furbetto gli era comparso sul volto e gli occhi, d’un tratto colmi di curiosità, vagavano insaziabili da lei a Night, pregandoli silenziosamente di dire qualcosa in più.
Ecco il lato di Shadow che Kia non sopporta, pensò la ragazza.
«Per ora no» rispose Night, con un sorriso malizioso.
Angie scattò in piedi, furiosa. Era davvero troppo.
Prese a piene mani un mucchio di vestiti dal pavimento e li scagliò in faccia a Night con tutta la forza che aveva nelle braccia. Notò con sottile soddisfazione che il ragazzo si portava di scatto le mani al volto: dopotutto, forse sul pavimento non c’era solo inutile stoffa.
«Noi non stiamo insieme. Né adesso, NÉ MAI!» gli urlò rabbiosa, prima di uscire dalla stanza sbattendo la porta e recarsi in camera sua a passo di carica.
 
«Angie! Dove…»
A Beth la voce morì in gola, notando l’espressione truce che la ragazza le rivolse dopo aver varcato la soglia.
«Dov’ero? Da Night» si limitò a dire lei, brusca.
Dopo aver attraversato la stanza a grandi passi, si lasciò cadere sul letto. «Non è andata molto bene» borbottò poi, sospirando.
«Vi abbiamo sentito, temo» mormorai, prima di gridare, tentando malamente di imitare l’accento irlandese di Angie:  «NÉ ADESSO! NÉ MAI!»
Vidi che la mia – sebbene pessima – imitazione aveva suscitato l’effetto sperato: l’espressione corrucciata sul volto di Angie si distese e la ragazza scoppiò a ridere fragorosamente, prima di bloccarsi di colpo.
«Che c’è?» chiese Arianna, alzando gli occhi dal libro che stava leggendo.
«Avete sentito tutto?» domandò Angie, le guance leggermente purpuree, e notai che stava fissando me.
Quando le rivolsi un’occhiata interrogativa, lei distolse in fretta lo sguardo.
«Solo le grida del tuo litigio con Night» intervenne Beth, scrollando le spalle.
«Con Night? Bene.»
La ragazza bionda tirò un sospiro di sollievo, ma notai che continuava ad evitare il mio sguardo e la cosa non mi piacque. Sperai si trattasse solo di una mia impressione.
«Cioè, in realtà non va bene per niente!» esclamò poi, ridacchiando. In un attimo sembrava tornata quella di sempre. «Vi rendete conto di cosa ha combinato..?»
A metà del suo racconto sullo spogliarello di Night, sia io che Beth avevamo le lacrime agli occhi dal ridere. Mi accorsi che anche Arianna, che ci teneva a mantenere sempre un profilo austero e impassibile, stava ridacchiando sommessamente, coperta dalle pagine del suo romanzo rosa.
«Ah, ragazze» fece poi, scostando il libro per dare un’occhiata al suo orologio da polso. «Siamo in ritardo per la cena.»
 
****
 
Il giorno dopo la scuola fremeva dall’eccitazione per la partita, che si sarebbe tenuta a metà pomeriggio, troncando a metà l’orario delle lezioni pomeridiane. Con nostro grande dispiacere.
Non si parlava d’altro, nei dormitori, in mensa, nelle classi e persino nei gabinetti. L’unico argomento di conversazione, oggetto anche di numerose scommesse, era quella fantomatica partita di basket, l’incontro più importante dell’anno per la nostra scuola, in quanto si sarebbe giocata le qualificazioni per le nazionali dell’anno dopo.
Personalmente, non avevo mai sentito nominare la scuola dalla quale proveniva la squadra avversaria ma, come mi raccontò Annie nei bagni, quando la incontrai quella mattina, era nota per essere una delle migliori di tutta la contea.
«E noi saremo in grado di batterla?» le avevo chiesto, colpita.
«Noi abbiamo Lucas Smith: abbiamo già vinto, Kia» aveva risposto lei, con ovvietà.
Come Annie, quasi tutti gli studenti della scuola contavano su Lucas per la vittoria: dopotutto era il ragazzo più talentuoso dell’istituto e persino io, che sapevo a malapena cosa fosse il basket, mi ero accorta di quanto fosse dotato, le rare volte che accompagnavo Arianna a vedere i suoi allenamenti.
Spesso mi domandavo come la mia amica reagisse di fronte a tutta la popolarità che aveva il ragazzo che ormai chiaramente l’aveva puntata, chiedendomi se l’avrei mai colta a disagio o imbarazzata da quella situazione, ma non era mai successo.
Arianna, con mia sconfinata ammirazione, manteneva sempre un certo aplomb e non dava peso alla notorietà che subiva di riflesso, comparendo sempre più spesso al fianco di Lucas: essendo già stata una ragazza popolare nella sua precedente scuola, doveva esserci abituata e forse, anche se non lo dava a vedere, le piaceva stare sotto i riflettori.
Durante l’ultima ora di lezioni di quel giorno, in cui il professor Anderson ci stava spiegando con non tropo successo le rivoluzioni inglesi del Seicento, bussarono alla porta.
Io avevo appena ricevuto un bigliettino da Beth, in cui la mia amica mi comunicava con una certa serietà che avrebbe fatto un giro di telefonate per scoprire se il professor Anderson fosse suo parente o meno e, quando il professore in questione aprì la porta, dovetti trattenermi dal non scoppiare a ridere.
«Vedo che Oliver Cromwell ti sta appassionando molto» mi canzonò Angie, voltandosi verso di me mentre ci alzavamo in piedi per salutare il nuovo arrivato.
La nuova arrivata, realizzai, vedendo che una donna era appena apparsa sulla soglia. Non era troppo alta, dai capelli a caschetto tinti di biondo e, a giudicare dalle numerose rughe che solcavano il suo volto, doveva essere sulla cinquantina. Dietro un paio di occhiali rossi, dalla montatura spessa e fuori moda, aveva due occhi scuri, tanto che non distinsi l’iride dalla pupilla, severi ma gentili. Se si trattava di una professoressa, non l’avevo mai vista prima d’ora.
Inoltre, non mi sfuggì la rapida ma omicida occhiata che si scambiarono lei e Night.
«Buongiorno professore» disse e sobbalzai. Conoscevo quella voce! L’avevo identificata come quella della preside, quando avevo origliato una sua conversazione, diverso tempo prima.
Il professor Anderson fugò ogni mio dubbio, quando disse, rivolgendosi a noi: «Ragazzi, la preside è qui per farvi un annuncio.»
I battiti del mio cuore accelerarono, mentre spostavo lo sguardo sulla persona che pensavo di aver sentito parlare con la preside, quello stesso pomeriggio d’autunno: il suo volto era impassibile, e mi chiesi se stesse solo fingendo. Cercavo di non pensare mai a quell’episodio, perché altrimenti sarebbe stata dura trattenersi dall’inscenare un interrogatorio, e mi dissi che prima o poi me l’avrebbe confessato di sua spontanea volontà. O almeno così speravo.
Stropicciando il bigliettino che avevo ricevuto, mi rimisi a sedere come gli altri, mentre la preside iniziava a parlarci con voce stanca.
«Siete tutti pregati di ascoltare, anche se, per chi frequenta questa scuola già da tempo, non sarà certo una novità...»
Un sottile brusio iniziò a diffondersi fra i banchi ed io guardai le mie amiche con aria interrogativa.
«Dovete sapere che tutti gli anni, a Dicembre, il liceo di Saint Elizabeth organizza un ballo d’Inverno, per salutare i suoi studenti prima delle vacanze natalizie. Quest’anno abbiamo deciso di darvi un margine di libertà: ogni ragazzo sarà libero di invitare due persone a testa che non siano necessariamente alunni di questo istituto.» disse e fece una pausa d’effetto, sorridendo leggermente quando diversi ragazzi esultarono.
«Abbiamo deciso di fare le cose in grande, come piace a noi. Fatelo sapere ai vostri amici per tempo: il ballo si terrà il venti e nei prossimi giorni vi verranno date ulteriori informazioni. Grazie per l’attenzione.»
Dopo che la preside ebbe lasciato la classe, in classe scoppiò l’anarchia.
I ragazzi gridarono ed esultarono, alzandosi in piedi con euforia, senza che il professor Anderson peraltro li richiamasse. L’uomo si limitò a sedersi alla cattedra, sconsolato: doveva aver capito che la storia, per quel giorno, avrebbe dovuto aspettare.
Dal canto mio, rimasi seduta al mio posto, ma con la testa ero da tutt’altra parte. Un ballo? Un ballo d’Inverno? Ero assolutamente elettrizzata all’idea. E poter invitare anche i propri amici era davvero il massimo… io e Beth ci scambiammo uno sguardo d’intesa e sorridemmo.
I miei migliori amici mi mancavano da impazzire e andare ad un ballo tutti insieme sarebbe stato grandioso!
Già sognavo il rinfresco, le musiche, e già ridevo per quando avrei visto Leo in abito da sera, quando il mio sguardo incrociò per un attimo quello di Shadow, accanto a me, e tornai bruscamente alla realtà.
Mi morsi il labbro. Non avevo fatto i conti con un piccolo particolare: se si fosse presentato anche lui, come avrebbe reagito Shadow?
Dopo come mi ero comportata la sera della festa, senza alcun chiarimento da parte mia…
Avevo lo stomaco in subbuglio, mentre riflettevo e con la coda dell’occhio osservavo il suo profilo. Lo vidi punzecchiare la spalla di Night con la punta della penna e, dopo che quello si fu voltato, perplesso, scoppiare a ridere come un bambino. Si passò una mano tra i folti capelli scuri e, tra me e, presi una decisione.
Dovevo dirglielo.
 
Quel pomeriggio, dopo aver pranzato, decidemmo di rintanarci tatticamente in camera in attesa dell’incontro, l’unico posto dove potevamo trovare un po’ di pace.
«Dio! Non parlano d’altro che di questa partita» brontolò Beth e non potei che essere più d’accordo.
Angie, sdraiata sul letto, non poteva sentirci perché aveva la musica talmente alta nelle cuffie che potevamo udirla chiaramente anche noi, ma annuì all’affermazione di Beth per pura solidarietà.
Arianna non era con noi: dopo pranzo era salita nei dormitori a prendere la sua uniforme ed era scomparsa, liquidando ogni spiegazione dicendo che “c’era bisogno di lei tra le cheerleader”. Qualcosa mi diceva che non l’avremmo più vista fino alla fine della partita.
Quando iniziammo a udire dei tramestii in corridoio e Beth, dopo essersi affacciata alla porta, ci informò che i ragazzi stavano iniziando a scendere al piano di sotto, lasciammo la camera per unirci alla massa di studenti esultante.
L’atrio era quasi del tutto irriconoscibile, quando vi arrivammo, tanto era gremito di persone: sembrava che l’intera scuola si fosse riunita lì e probabilmente era davvero così.
C’era un chiacchiericcio talmente fitto che per parlare fummo costrette a gridare, nonostante fossimo a neanche un metro di distanza le une dalle altre.
«E ora che si fa?» urlai, cercando di sovrastare l’incessante brusio.
Angie scrollò le spalle. «Seguiamo il gregge!» spiegò con aria pratica, indicandoci il corridoio diretto al campo all’aperto, punto in cui gli studenti sembravano affluire.
Ci accodammo agli altri ragazzi, ma nella folla persi di vista sia Angie che Beth. Non potendo guardarmi intorno, poiché avevo persone che mi spintonavano da ogni lato, proseguii in avanti e sperai di potermi ricongiungere alle ragazze una volta uscita all’aperto.
Fu proprio così: all’ingresso del campetto mi aspettavano Angie e Beth, una d’un tratto nervosa, l’altra tutta sorridente.
«Temevamo di averti persa!» fece Beth, sollevata. «Abbiamo appena incrociato Shadow e Night, stanno per entrare in campo» mi disse, facendo una pausa significativa quando pronunciò il nome del ragazzo che avevo ferito. Capii che, tra le righe, mi stava chiedendo come mi sentivo al riguardo.
«Bene!» dissi, strizzandole l’occhio. «Significa che la partita sta per iniziare. Forza, sbrighiamoci!»
Le diedi un rapido abbraccio, prima di dirigerci tutte e tre verso le tribune.
Angie non aveva ancora spiccicato parola e mi chiesi se c’entrasse qualcosa l’incontro che avevano avuto poco prima, quand’ero ancora persa nella mandria di ragazzi.
Salimmo sugli spalti, alla ricerca di tre posti liberi. Non era facile, perché i ragazzi cercavano di accaparrarsi i migliori e la maggior parte delle sedie era già stata occupata, ma Beth, davanti a noi, individuò in un attimo una fila quasi del tutto libera, in una buona posizione, centrale e piuttosto rialzata.
«Venite!» disse, indicandoci i posti accanto al suo.
Angie ed io la affiancammo e finalmente potei dare una scorsa al campo davanti a me: era davvero un’ottima postazione! Avevamo avuto proprio un colpo di fortuna e stavo per comunicarlo alle mie amiche quando, voltandomi, ebbi un tuffo al cuore: Angie era a capo chino, avvolta in un silenzio che non era proprio da lei.
Quell’aria insolita mi preoccupava, così le diedi un colpetto sulla spalla, senza farmi notare da Beth.
«Abbiamo davvero un’ottima visuale, da qui!» stava dicendo lei che, al contrario della bionda, era completamente su di giri.
Angie nel frattempo si era voltata verso di me e, ad un mio cenno, indietreggiò con la schiena fino a vedermi completamente; io feci lo stesso, mentre Beth continuava a chiacchierare allegramente.
«Ehi, ma quelli sono i ragazzi dell’altra squadra!»
«Angie!» bisbigliai, avvicinandomi a lei dietro la schiena di Beth. «Perché sei così giù? Se…»
«Non ho niente che non va» tagliò corto lei, ma il suo sguardo diceva altro. Non era mai stata particolarmente brava a fingere.
«Wow… siamo davvero così sicuri di vincere?» continuò la mora.
«Guarda che se hai dei problemi con Night, a me puoi…»
«Niente» sibilò lei e tornò di scatto al fianco di Beth.
«In effetti sono alti il doppio dei nostri!» commentò poi, dandole di gomito, come se nulla fosse.
Per niente rassicurata e un poco infastidita dalla sua risposta, evitai di guardarla e, lo sguardo dritto davanti a me, cercai di concentrarmi sulla partita.
Le due squadre, la nostra in rosso, quella avversaria in blu, si fronteggiavano ai lati del campo.
Beth in effetti non aveva tutti i torti: i ragazzi dell’altra scuola erano delle pertiche, alti il doppio dei nostri giocatori, anche se non altrettanto massicci. Inoltre le loro espressioni non erano delle più amichevoli e improvvisamente fui contenta di trovarmi lì, al sicuro sulle tribune.
Tra i nostri, notai spostando lo sguardo, spiccava Lucas, con la maglia rossa della squadra che metteva in risalto i suoi muscoli scolpiti. Quando salutò il pubblico con un sorriso entusiasta e sicuro di sé, le ragazze impazzirono e i nostri timpani implorarono pietà.
Riconobbi tra i membri della nostra squadra anche Night e Shadow, un po’ in disparte, che stavano parlando fitto fitto tra loro, e beccai Angie a fissarli, con il labbro che le tremava impercettibilmente. Inarcai un sopracciglio, ma evitai di commentare.
«Guardate!» esclamò Beth. «C’è Arianna!»
Angie ed io seguimmo il suo sguardo. Ad un cenno dell’allenatrice, la professoressa Cooper, le cheerleader stavano entrando in campo, tra gli applausi e qualche fischio d’ammirazione del pubblico. Con la loro divisa bianca e rossa tutte facevano davvero la loro figura, ma notai con una certa soddisfazione che Ari, bellissima e flessuosa, era in testa al gruppo e stava spiegando gli ultimi dettagli della coreografia alle altre, al centro del capannello creatosi.
Sorrisi tra me e me: c’era poco da fare, se Arianna si impegnava riusciva in tutto, tranne forse nell’essere allegra.
«È già diventata il capo» commentò Angie, scuotendo la testa divertita.
Beth si stava guardando intorno. «Quello stupido…» borbottò. «Non è da nessuna parte!»
«Chi?» chiesi.
«John!» rispose ed io la guardai sorpresa. Da quando tutto quell’interessamento?
«Che ti aspettavi da quell’asociale?» mormorò Angie, stringendo le braccia al petto.
«Che si comportasse come tutti gli altri» mugugnò l’altra.
Sforzandomi di ignorarle, decisi di concentrarmi unicamente sul numero delle cheerleader.
 
Lucas osservò un momento i suoi avversari, che lo fissavano con aria di sfida, avendo riconosciuto in lui il playmaker, ma non si lasciò scalfire dai loro sguardi minacciosi.
Salutò la sua scuola sulle tribune con un cenno e, incoraggiato dal boato che esplose dagli spalti, seguito da uno scroscio di applausi, si ringalluzzì e si rivolse alla squadra.
«Cerchiamo di dare il massimo d’accordo?» gridò, osservando i suoi ragazzi uno per uno.
«E tu, Shadow… via quella faccia da funerale e cerca di impegnarti» aggiunse, vedendo che il  moro non sembrava del tutto a suo agio e se ne stava in disparte, imbronciato.
«E tu vedi di concentrarti sugli avversari e non sulla gonna della Riv...» fece lui a mezza voce, ma Night gli rifilò un calcio nello stinco e lo zittì, impedendo a Lucas di capire la fine della frase.
«Cioè… vedrò di giocare bene» farfugliò, massaggiandosi la gamba.
Lucas gli sorrise, quindi richiamò i ragazzi intorno a sé e illustrò loro nuovamente la linea d’attacco.
Nutriva grandi speranze per Adam, quindici anni e folti capelli rossi, che era entrato in squadra solo quell’anno e si era rivelato fin da subito un vero fuoriclasse. In quella partita, infatti, avrebbe fatto da numero due.
Dopo aver augurato a tutti buona fortuna, Lucas sciolse l’assembramento e la squadra si avvicinò compatta a bordo campo.
Le cheerleader si stavano esibendo proprio in quel momento. I giocatori cercarono di rimanere indifferenti ai loro movimenti, ma non fu cosa da poco.
Lucas cercava di non fissare Arianna troppo a lungo, concentrandosi sulla squadra avversaria, sulle tribune gremite di persone, su qualsiasi cosa non fosse la gonnellina a pieghe della ragazza che si sollevava pericolosamente ad ogni suo passo. Perché lo sguardo continuava a cadergli proprio lì?
«Gonnellina al Vento non è più un soprannome adatto solo per la Stevens, decisamente...» mormorò Night accanto a lui, colpito anch’esso dalle movenze della ragazza.
«Che dici?» domandò Shadow, che invece stava osservando le tribune.
«Avvicinati un po’, che ti stai perdendo lo spettacolo
Lucas osservava rapito la ragazza, la sua lunga coda di cavallo che ondeggiava a destra e sinistra mentre danzava, la sua figura sottile come un giunco che si piegava e saltava apparentemente senza sforzo, sollevata dalle altre cheerleader della squadra un attimo prima che cadesse a terra, sotto gli occhi affascinati del pubblico.
Mentre le ragazze si disponevano a formare una piramide umana, di cui Arianna doveva essere la punta, Lucas notò con una punta di fastidio che anche Adam sembrava particolarmente interessato alla ragazza, o forse solo al suo fondoschiena, dato che continuava a fissarlo senza neanche troppa discrezione.
Il ragazzo fece finta di nulla, ma non gli sfuggirono le occhiate fameliche del rosso e dentro di sé iniziò a ribollire di rabbia: non voleva che lui la guardasse in quel modo, con quello sguardo con cui sembrava violarla senza neppure sfiorarla. Era terribilmente sbagliato.
Dopo che Arianna fu giunta in cima alla piramide, si lasciò cadere in avanti, compiendo una avvitamento in aria mozzafiato, alla fine del quale atterrò in piedi, con un movimento aggraziato, sancendo la fine dell’esibizione.
Il pubblico si alzò in piedi, applaudendo ed esultando a gran voce, ma Lucas era così inquieto che non si godette quell’ultima straordinaria mossa acrobatica.
Non aveva occhi che per Adam, a sua volta rapito dal culo di Arianna, e la sua stima verso di lui era ormai pari a zero: peccato fosse ormai troppo tardi per relegare quel bastardo in panchina, perché se lo sarebbe meritato.
Mentre le cheerleader, dopo un inchino, si apprestavano a lasciare il campo, Arianna rivolse un cenno di saluto a Lucas. Il biondo, salutandola a sua volta, notò Adam  dirigersi furtivamente dietro di lei e, incapace di staccargli  gli occhi di dosso, lo vide allungare una mano e palparle il fondoschiena.
I giocatori della squadra lo fissarono ammutoliti, mentre Arianna, pietrificata, si faceva dello stesso colore vermiglio della loro uniforme.
«Razza d’infame!» gridò, voltandosi di scatto verso di lui e alzando una mano per schiaffeggiarlo, ma il pugno di Lucas fu più veloce: colpì Adam in pieno volto e lo spedì a terra.
Nel campo calò di botto il silenzio. Le cheerleader ed i giocatori di entrambe le squadre rimasero a bocca aperta e sembrò che persino il pubblico, sulle tribune, avesse trattenuto il fiato.
Adam rimase immobile a terra, il volto sanguinante e, in quel momento in cui il tempo sembrava essersi fermato, gli sguardi di Lucas e Arianna si incrociarono: lui le rivolse un sorriso sghembo e la ragazza, inaspettatamente, arrossì ancora di più.
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** -•Capitolo 11 ***




Night, tra i ragazzi della squadra, fu il primo a riscuotersi.
Si accorse che Lucas non ne aveva ancora abbastanza e lo afferrò per le spalle, allontanandolo da Adam prima che potesse colpirlo di nuovo.
«Pezzo di deficiente! Vuoi farti sospendere un minuto prima della partita?» gli sbraitò contro, scuotendolo per le spalle. «Vuoi imparare a controllarti?!»
Il biondo si liberò dalla sua stretta ferrea, evitando il suo sguardo. Respirò a pieni polmoni, nel tentativo di porre fine alla rabbia che lo stava logorando. Non vedeva altro che rosso: la sua ira, la gonnellina di Arianna, le sue guance, il sangue sul volto di Adam…
«Calmati» disse Night lentamente, interrompendo il corso confuso dei suoi pensieri.
Nel caos che seguì, Shadow rivolse ad Arianna un sorriso malizioso.
«Non è come pensi» si affrettò a dire lei, per poi rifugiarsi dalle altre cheerleader, che la confortarono a lungo, vedendola ancora scossa dall’accaduto.
Lucas nel frattempo era tornato vicino ad Adam.
«Che peccato, un infortunio poco prima della partita. Temo proprio che oggi ti toccherà la panchina» sibilò, sputando in terra sprezzante.
Il rosso si alzò in piedi a fatica, ma nessuno si fece avanti per aiutarlo. Il sangue gli colava copioso sulle labbra e sul mento e lui si ripulì con l’orlo della manica, nel più completo silenzio.
Silenzio che fu interrotto dall’arrivo della Cooper, infuriata.
«Se Lucas non fosse il miglior giocatore della squadra finirebbe sospeso. All’istante
I suoi occhi mandavano lampi e, quando trafisse il ragazzo con lo sguardo, quello non riuscì a sostenerlo e chinò il capo.
«Ma si dà il caso che lo sia…»
Lucas drizzò le antenne, intravedendo un bagliore di speranza.
«Dato che non ho alcuna intenzione di perdere contro quelli della Grafton» mormorò, lanciando alla squadra uno sguardo complice. «Oggi vedrò di chiudere un occhio.»
Si avvicinò ad Adam per controllargli l’ematoma sul viso, quindi si voltò un’ultima volta verso di loro. «Sappiate che lo riaprirò dopo la partita, quindi non sentirti in alcun modo graziato, Lucas. Che non accada più.»
L’intera squadra tirò un sospiro di sollievo, mentre la Cooper consigliava ad Adam di passare dall’infermeria per farsi medicare, prima di andare in panchina.
«Ma come ti è saltato in mente di fare una cosa simile?» aggiunse poi, senza riuscire a trattenere una smorfia di disgusto.
Mentre la professoressa andava incontro alle cheerleader, Lucas si avvicinò a Night.
«Siamo stati graziati» stava borbottando quello.
«Te la senti di fare da numero due?» gli domandò Lucas, con uno sguardo serio.
Dopo Adam, Night era il miglior tiratore della squadra, e non potevano permettersi che l’assenza del rosso li penalizzasse in alcun modo. Anzi, Lucas voleva dimostrare che potevano farcela benissimo anche senza di lui. Quel bastardo. A partita finita, l’avrebbe cacciato dalla squadra.
Night annuì e Lucas, dopo essersi guardato un attimo intorno per assicurarsi che il resto della squadra non li stesse ascoltando, espresse un dubbio che lo tormentava da prima.
«Comunque… secondo te la Cooper diceva sul serio?» chiese, abbassando la voce.
«Che te la farà scontare dopo l’incontro? Credo proprio di s…»
«No, no! Che terrà un occhio chiuso fino alla fine della partita! Ma come farà?» continuò il biondo, impressionato, mentre cercava di ammiccare a sua volta.
Night sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi rinunciò, limitandosi ad un lungo sospiro.
 
«Arianna, tutto bene?» fece la Cooper avvicinandosi alle cheerleader, che l’avevano circondata con fare protettivo.
La ragazza annuì piano, anche se era ancora molto imbarazzata.
Osservò prima Adam, che si stava allontanando dal campo, e provò istintivamente un moto di rabbia, poi Lucas, che parlava con Night, e il suo stomaco fece una capriola.
Per un lungo attimo desiderò solo di essere molto, molto lontano da lì.
«Dobbiamo andare, la partita deve cominciare» disse Annie in tono autoritario, rivolta alle altre ragazze.
Arianna rimase immobile per un attimo, osservando sovrappensiero il pubblico, e pregò che le sue amiche non avessero visto tutto.
«Forza, si comincia!» il grido della professoressa Cooper la riportò bruscamente alla realtà e Arianna si affrettò a lasciare il campo.
 
«Avete visto?» esclamai, allibita. «Quel pel di carota è uno stramaledetto porco!»
«Un vero maiale» rincarò la dose Beth.
«Lucas gliele ha suonate!» intervenne Angie, in tono d’ammirazione. Chiunque alzasse le mani su qualcun altro si guadagnava seduta stante il suo rispetto.
«Chi l’avrebbe mai detto» fece poi, con una punta di sarcasmo. «Arianna ha fatto strage di cuori anche tra i ragazzi della squadra.»
«E non ragazzi qualunque…» ridacchiai, posando lo sguardo su Lucas che, a partita iniziata, stava guidando con sicurezza la squadra nella metà campo avversaria.
Dietro di noi, lo stesso gruppo di ragazzine che poco prima ci aveva quasi private dell’udito stava continuando a rendermi indirettamente partecipe dei loro sogni erotici con il biondo.
La loro telecronaca di risatine e commenti sconci riprendeva ad intervalli regolari ad ogni intervento di Lucas ed in poco tempo scoprii anche quante posizioni avevano sperimentato in sogno.
Tossicchiai leggermente, nel tentativo di far capire loro che potevano parlare anche con un po’ più di discrezione, e Beth si dovette accorgere della mia espressione scandalizzata.
«Kia, tutto bene?» mi chiese, ma in quel momento ci arrivarono allo stesso trapanante volume anche le scommesse sulle sue misure, con conseguenti risatine isteriche, e pure Beth rimase di sasso.
Ignara di tutto, Angie, l’unica di noi che conosceva la pallacanestro, stava seguendo la partita con attenzione e continuava a chiacchierare, per renderci partecipi di mosse che a noi profane potevano sfuggire.
Decisi di ascoltarla con maggiore attenzione, nel tentativo di ignorare quelle deficienti.
«Adam ricopriva il ruolo più importante della squadra, dopo quello di Lucas: la guardia tiratrice» spiegò indicando Night, che in quel preciso momento stava penetrando verso il canestro avversario, eludendo la difesa dell’altra squadra e continuando a palleggiare.
«Lucas lo ha sostituito con Night. A quanto pare ha intenzione di perdere l’incontro» borbottò ed io le rivolsi uno sguardo infastidito.
«Scusa. Terrò per me le considerazioni personali. CAZZO!»
Night aveva tentato di fare punto, ma all’ultimo il pallone era stato deviato da uno stangone della squadra avversaria.
Le tribune proruppero in un collettivo “NOOO!” di disappunto.
Lucas però aveva facilmente ripreso la palla e adesso conduceva il gioco con estrema abilità, tra gli applausi e gli incoraggiamenti del pubblico.
La telecronaca sexy dietro di noi nel frattempo era arrivata a toccare l’argomento su chi, fra Night e Shadow, fosse il più dotato ed io, con i conati di vomito, incoraggiai Angie a parlare a voce ancora più alta.
«In questo momento siamo messi male, perché l’altra squadra ha segnato nel primo periodo. Vediamo se riusciamo a pareggiare.»
Trattenemmo il fiato, mentre Lucas passava il pallone a Night, il quale, conclusi i suoi passi, la lanciava a sua volta a Shadow.
«Adesso tira» mormorò Angie, gli occhi fissi sul campo.
«Ma è lontanissimo!» fece Beth e io convenni con lei.
«State a vedere.»
Come se Angie gli avesse letto nel pensiero, il ragazzo moro lanciò il pallone, nonostante si trovasse piuttosto lontano dal canestro, circondato dagli avversari. Non potei fare a meno di pensare che fosse un’azione del tutto azzardata, ma la palla, dopo aver descritto un perfetto arco, lo centrò, e il pubblico esplose in un boato.
«Wow» fu l’unica cosa che riuscii a mormorare, mentre osservavo Shadow che riceveva numerose pacche sulle spalle dai suoi compagni esultanti.
Avevo la pelle d’oca e sperai fosse solo per l’incredibile gioco di squadra dei nostri e non per il giocatore che aveva segnato.
«Questo canestro vale il triplo di quello degli avversari» spiegò Angie e, di fronte alle nostre espressioni perplesse, si affrettò a spiegare: «È stato fatto all’esterno dell’area dei tre punti, vedete la linea? Adesso siamo di nuovo in vantaggio.»
«Come fai a sapere tutte queste cose?» le domandò Beth, impressionata.
Lei scrollò le spalle. «Quando vivi con tre fratelli maschi…»
Stava per riprendere la cronaca, quando un rumoroso sbadiglio la interruppe. «Oh, no» disse inorridita, tappandosi la bocca con una mano. «Dio, fa’ che non mi addormenti proprio qui!»
Inarcai le sopracciglia. Angie ci aveva spesso raccontato di essere narcolettica e quindi di ritrovarsi addormentata all’improvviso nei luoghi più impensabili, ma non le era mai successo dal nostro arrivo nella nuova scuola.
«Come farò senza la mia cronista?» scherzai, per tirarle su il morale, e lei scoppiò a ridere.
Nel frattempo, dopo l’incredibile gioco di squadra da parte dei nostri, la partita era ripresa e si era fatta, se possibile, ancor più movimentata.
La squadra avversaria, dopo un momento di iniziale  disorientamento, era tornata a piantarci grane e in poco tempo era riuscita a rimontare.
«Siamo di nuovo par…» fece Angie, ma fu interrotta da un altro sbadiglio.
Il gioco ormai mi aveva totalmente preso e feci per sfogarmi con Beth per l’irritazione che mi provocavano gli avversari, quando mi accorsi che lei si stava alzando in piedi.
Aveva lo sguardo dritto davanti a sé, ma non stava guardando la partita. Cercai di seguirlo e di capire che cosa avesse attirato la sua attenzione, ma non vidi nulla di anomalo all’orizzonte.
«Dove vai?» chiesi con sospetto.
Beth mi fissò confusa, come se si fosse ricordata solo in quel momento della mia esistenza.
«Ehm… in bagno» balbettò, facendo per allontanarsi.
La afferrai per un braccio, ma lei si liberò con uno strattone e accelerò il passo, allontanandosi dai nostri posti.
«Beth!» la chiamai, ma lei non si voltò e, dopo aver sceso i gradini in lamiera delle tribune, sparì alla mia vista.
Fui pervasa da un moto di rabbia: perché continuava a sparire senza darmi alcuna spiegazione? In bagno. Come se me la fossi bevuta.
«Angie» domandai. «Beth ti ha detto dove andava?»
Sperai che almeno lei la pensasse come me e non mi desse della paranoica ma, voltandomi, rimasi a bocca aperta. La ragazza era profondamente addormentata e, sdraiata sul suo posto, si era allungata ad occupare anche quello di Beth.
«Non ci credo…» mugugnai, scuotendola nel tentativo di svegliarla.
Niente da fare, le sue palpebre rimanevano chiuse. Dormiva profondamente.
«Angie… svegliati» mormorai e lei iniziò a borbottare frasi incomprensibili nel sonno.
«Mmn… Fred… ancora cinque minuti.»
«Eh?»
«Ehi Fred…»
Angie, ancora addormentata, allungò una mano davanti a sé, afferrando i capelli della ragazza davanti, che si scansò, disgustata.
«…hai ricordato a Sean che deve prendermi… mmn… i calzini dalla lavanderia?»
«Angie…?»
«I calzini, Fred!»
«Gesù» mormorai, scuotendo la testa.
La ragazza davanti a noi si alzò per cercare un altro posto.
«Vergognatevi!» sibilò, scoccandomi uno sguardo di fuoco.
«Nathan, ti prego, non ti ci mettere anche tu.»
A quel punto avrei voluto sotterrarmi.
Mi allontanai da Angie, lasciandola a sonnecchiare e parlare tra sé, e cercai di concentrarmi sulla fine della partita, ma avevo la testa da un’altra parte. Non ero tranquilla, con Beth finita chissà dove ed Angie che immaginava dialoghi immaginari con il fratello che doveva recuperarle i calzini dalla lavanderia.
 
****
 
Quando Beth, seguendo distrattamente la partita, aveva notato una chitarra che conosceva bene, appoggiata alla rete del campetto, aveva avuto un tuffo al cuore.
Come ci era finita lì? Non vedendo John nei paraggi, era balzata in piedi, pronta ad andare a recuperarla, e nessuno, fosse un pensiero razionale o una persona in carne ed ossa, era riuscito a dissuaderla da quell’idea.
Le dispiaceva da morire aver mentito a Kia, che sicuramente non ci era cascata e in seguito avrebbe preteso da lei delle spiegazioni, ma aveva seguito l’istinto, guidata da ragioni che le erano del tutto sconosciute e che non avevano niente a che fare con il progetto a cui era stata costretta a prendere parte.
Dopo essere scesa dalle tribune, quindi, si era precipitata nel punto in cui aveva giurato d’aver visto la chitarra, ma quando arrivò, trafelata, l’oggetto tanto caro a John era scomparso nel nulla. Non posso crederci.
Azzardò qualche passo in avanti, appena fuori dal campetto.
Si trovava in prossimità della pineta, dove gli echi e gli strilli sembravano lontani, e il pensiero della partita le riportò improvvisamente alla mente ciò che aveva appena fatto, gesto che solo in quel momento la parte razionale di lei stava iniziando a metabolizzare.
Era scappata. La chitarra le aveva dato l’occasione di fuggire dalla confusione degli spalti, dalle urla dei suoi compagni, dalle pettegole che non avevano smesso un attimo di fare commenti sconci, e anche da Angie che imprecava ad ogni punto avversario e da Kia, totalmente assorbita dalla partita… ma la cosa più sconvolgente di tutto ciò era che in quei momenti assomigliava in tutto e per tutto a John, e quella consapevolezza bastò a convincerla che quello che aveva fatto era sbagliato.
Adesso torno indietro, pensò con decisione, quando un rumore di passi, attutito dal tappeto di foglie e aghi di pino, la costrinse a voltarsi.
Ancor prima di vederlo in volto, Beth sapeva già chi si sarebbe trovata davanti.
John era lì. Appoggiato ad un albero della pineta, le braccia incrociate al petto, la stava fissando.
La chitarra era accanto a lui e, vedendola, la ragazza tirò un sospiro di sollievo.
Notando che la stava fissando sollevata, il ragazzo ridacchiò e la guardò a sua volta.
«Non ero sicuro che avrebbe funzionato, ma…»
Beth lo fissò, senza capire. «Che cosa? Credevo che qualcuno te l’avesse rubata!»
Lui scoppiò a ridere e la ragazza sentì montare l’irritazione. Era scappata dalla partita, aveva quasi litigato con la sua migliore amica… ed era stato tutto architettato?
Dimenticandosi di tornare indietro, Beth gli si avvicinò con lo sguardo torvo.
«Lo sai una cosa…?» esclamò, furente.
Tanti erano i pensieri che vorticavano dentro di lei, primo fra tutti la prorompente rabbia per essere stata ingannata, ma una vocina dentro di lei le ricordò che doveva aiutare John, e alla fine quell’istinto prevalse.  
«Dovresti proprio smetterla di fare l’asociale!»
«E tu dovresti smetterla di farti i fatti miei» ribatté lui, a tono. «Non mi piace la confusione, tutto qui.»
Per partito preso, Beth iniziò a difendere a spada tratta l’evento da cui era appena fuggita.
«Ma è un’occasione unica per la nostra scuola, e poi…»
John fece una smorfia.
«La preside ti ha fatto il lavaggio del cervello, per caso?» commentò, levando gli occhi al cielo.
Beth trasalì di colpo, ma cercò di non dare a vedere quanto quella frase l’avesse turbata.
Inizialmente non replicò, poi gli rivolse uno strano sorriso e disse, imitando una voce robotica: «Può darsi.»
Lui la fissò sorpreso e la ragazza trattenne il fiato, non sapendo se lui avrebbe deciso di stare al gioco o si sarebbe limitato a schernirla, come suo solito.
«Stammi lontano, allora!» urlò allora lui, con un’espressione esageratamente disgustata. «Che schifo!»
Beth scoppiò a ridere, poi iniziò a rincorrerlo.
«Vieni qui, che ti riporto alla civiltà!» gridò con la stessa voce robotica, le mani tese davanti a lei come uno zombie.
«Sta’ indietro!» rise lui, voltandosi verso la ragazza con la chitarra tesa davanti a sé, come un’arma. Poi però, ritenendola forse troppo preziosa per quella sottospecie di gioco, la lasciò appoggiata ad un pino e iniziò a rincorrere Beth a sua volta, raggiungendola dopo pochi metri, afferrandola e sollevandola di peso.
Lei, che tutto si aspettava fuorché una simile mossa, strillò.
«MA CHE FAI?!» protestò la ragazza allibita, a cui ormai facevano male i muscoli dal ridere.
Cercò di sottrarsi a quella stretta, tempestando di pugni la schiena di lui e dimenandosi come un’anguilla, con l’unico risultato di far perdere l’equilibrio a John, che crollò rovinosamente in avanti: caddero entrambi sugli aghi di pino e lei finì schiacciata sotto il suo peso.
«Ahia!» gemette ma, passato un momento, in cui appurò di essere ancora tutta intera, riprese a prenderlo in giro. «Sei pesantissimo!»
Lui, ancora sopra la ragazza, si finse offeso. «Come ti permetti?»
«È la pura verità!» continuò lei, così presa dal battibecco da non far caso alla loro improvvisa vicinanza.
«Credi forse che John Lennon fosse magro?»
«Sicuramente più di te» ribatté lei con un sorrisetto.
«Piccola mocciosa.»
Mentre Beth rideva fino alle lacrime, John si puntellò sui gomiti, schiacciandola ancora di più sotto di lui, e si avvicinò pericolosamente al suo volto. Quando le scostò una ciocca di capelli che le era finita sul viso, la ragazza smise improvvisamente di ridere.
«Come osi offendermi?» sussurrò lui al suo orecchio.
L’atmosfera era improvvisamente cambiata. Perché fino ad un attimo prima stavano ridendo a crepapelle e adesso era calato quello strano silenzio, carico di elettricità e parole non dette?
Beth deglutì a vuoto. Cercò di sottrarsi allo sguardo saldo di John, così terribilmente vicino, di pensare a qualcosa di sciocco, come Kia che si rotolava nel fienile di casa sua, alle sue sorelline che le leggevano la mano, a qualsiasi cosa non fosse ciò che stava accadendo tra loro in quel momento.
Tentò di pensare razionalmente: non poteva liberarsi perché, così bloccata, agitandosi avrebbe finito solo per avvicinarsi ancora di più a quell’asociale, per cui, in attesa di un’idea migliore, preferì stare al gioco.
«Ah, non posso?» mormorò con un sorriso divertito e poi continuò, con una certa serietà nella voce: «Effettivamente non so se tu sia grasso o meno, ma non ho alcuna intenzione di verificarlo.»
Dal momento che, per farlo, dovrei spogliarti…
Per tutta risposta John sbuffò, inarcando un sopracciglio.
«Sai che non sei nella condizione di prendermi per il culo?»
Continuò a fissarla e le accarezzò quasi distrattamente i capelli, con mano leggera.
Dal canto suo Beth, profondamente a disagio, si rese conto di dover essere arrossita: poteva percepire chiaramente il suo cuore scalpitare nel petto come impazzito, tanto da fare invidia ad uno dei puledri iperattivi di Kia.
Pietrificata da quel gesto, non riuscì a fare altro che perdersi nelle pupille di John, scure come l’inchiostro, che la fissavano con una certa intensità.
Il suo sguardo dagli occhi scese alle labbra di lui, dove ebbe un improvviso tumulto… e poi scese ancora, e di colpo Beth ebbe un’illuminazione.
Scattò con la testa in avanti, cogliendo il ragazzo di sorpresa, e lo colpì dritto sul mento.
Lui imprecò, allontanandosi di scatto da  Beth, che fu libera di alzarsi in piedi.
«CHE CAZZO TI È SALTATO IN MENTE?» gridò John, massaggiandosi il mento dolorante.
«Cosa è saltato in mente a te!» ribatté lei. «Razza di maniaco» borbottò poi, mentre il dolore alla testa, provocato dalla botta, iniziava a farsi sentire.  
«Be’, mi hai provocato» rispose lui dopo un momento, tornato improvvisamente freddo.
«Perché ho detto la verità?» scherzò lei, un mezzo sorriso sul volto, per cercare di tenere a bada il dolore.
La fronte le pulsava terribilmente al punto che, se avesse potuto, si sarebbe messa ad urlare, ma mai e poi mai avrebbe dato quella soddisfazione a John.
Lui scosse la testa, vagamente divertito dalle parole della ragazza.  Recuperò la sua chitarra e le fece un cenno di saluto.
«Torna alla partita, mocciosa» disse. «Dopotutto… cos’è che dicevi? È un’occasione unica per la nostra scuola!» aggiunse, facendole il verso.
Per tutta risposta Beth raccolse una pigna da terra e gliela lanciò contro, mancando la chitarra per un soffio.
«Sparisci, prima che ti insegua per tutta la pineta» borbottò lui, allontanandosi. «Di nuovo.»
Devo migliorare la mira, pensò Beth fra sé e sé, incamminandosi nella direzione opposta, verso il campetto.
Quando il pubblico, in lontananza, esplose in un impressionante tripudio di grida e applausi – sì, ma per quale delle due squadre? – la ragazza accelerò il passo, per poi mettersi direttamente a correre, gli aghi di pino che scricchiolavano sotto le suole delle sue scarpe.
Seguendo le urla e le risate, sempre più chiare man mano che si avvicinava, Beth imboccò rapida l’entrata del campetto e non riuscì a trattenere un sorriso.
Aveva scherzato con John. Quelli sì che erano progressi.
Poi lei aveva dato di matto, ma non aveva importanza. Avevano scherzato insieme!
Se lo sarebbe appuntato sul calendario.
 
****
 
Avevamo vinto.
Tutto merito di una combinazione mozzafiato che, in realtà, senza la spiegazione di Angie, avevo seguito a stento, ad opera di Lucas ed un ragazzo biondo platino, tendente al bianco, che non avevo mai visto prima d’ora a scuola, con il volto affilato e un taglio di capelli alla Tom Felton.
Dotato di un’impressionante abilità, nell’ultimo periodo Draco Malfoy aveva sottratto il pallone all’altra squadra, sul punto di fare canestro e quindi decretare la nostra sconfitta, e lo aveva passato, zigzagando tra gli avversari, a Lucas. Lui non aveva potuto passarla a nessuno dei suoi, perché quella di Draco era stata un’azione così fulminea che tutti erano rimasti nell’altra metà campo, ma il playmaker non si era lasciato impressionare, così come nessuno dei ragazzi sulle tribune, me compresa: nel preciso momento in cui la palla era finita nelle sue mani, avevamo capito che avremmo vinto.
Il biondo, infatti, aveva palleggiato con sicurezza verso il canestro e aveva lanciato il pallone con una tranquillità quasi ostentata, senza che nessun avversario potesse fare nulla, facendo centro.
Quando la palla era caduta a terra, rimbalzando, il pubblico era balzato in piedi sotto uno scroscio di  applausi, mentre Lucas e Draco venivano portati in trionfo.
Con un fracasso tale, persino Angie finì per svegliarsi di soprassalto.
«Cosa? Come? Sean? ABBIAMO VINTO?!» si alzò in piedi urlando, contagiata dall’euforia generale.
«Davvero?»
Beth apparve dietro di noi con un sorriso imbarazzato, evitando accuratamente il mio sguardo.
«Beth!» esclamai, a metà tra il sollevato e l’inquisitore. «Dove cavolo eri fin…»
«ABBIAMO VINTO!»
«Grazie Angie, mi hai illuminato. Beth…?»
Feci per voltarmi verso di lei, ma Angie ci afferrò sottobraccio e ci trascinò giù dagli spalti, continuando ad esultare.
«ANGIE!» esclamammo io e Beth, all’unisono.
«Andiamo! Dobbiamo scendere di sotto e congratularci con i ragazzi!» fece lei, tutta felice e, dopo un breve sguardo d’intesa, Beth ed io capimmo che sarebbe stato meglio non protestare.
Giunte nel campetto, realizzammo con orrore che più della metà del pubblico aveva avuto la nostra stessa idea e fu a forza di berci e spintoni che arrivammo al centrocampo, dove le cheerleader si stavano esibendo per l’ultima volta.
Rimanemmo incantate di fronte al loro spettacolo e mi accorsi, in quel caleidoscopio di corpi in movimento, colori sgargianti e pon-pon, che la coreografia era variata leggermente rispetto a quella del numero iniziale, poiché prevedeva molte più acrobazie che passi di danza. Nello svolgerle, mi accorsi  che Arianna sorrideva appena, probabilmente memore di ciò che le era accaduto prima, mentre le altre ragazze avevano un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Quando giunsero alla fine dell’esibizione, se da un lato fu replicata la piramide umana di prima, dall’altro Ari stupì tutti esibendosi, dalla cima, in una capriola in aria che ci mozzò il fiato.
Osservammo la scena rapiti, mentre la ragazza volteggiava come sospesa nell’aria: chi rimase incantato dalla gonna troppo corta che si era sollevata come un ombrello capovolto dal vento, chi rimase incantato dalla capriola stessa, che si protrasse per un altro lungo attimo come se Arianna fosse d’un tratto priva di gravità, chi rimase incantato proprio da lei.
Come Lucas, che teneva gli occhi fissi sulla ragazza con un’espressione imbambolata. Quando la vide cadere verso il basso, si fece largo fra il pubblico, la afferrò con un movimento aggraziato che non gli si addiceva proprio e, una volta che fu al sicuro tra le sue possenti braccia, la baciò.
 
 
Ma ciao!

Spero che il capitolo 11 vi sia piaciuto :) Fatemi sapere!

Per quanto riguarda le (pessime) descrizioni della partita di basket...




«Come fai a sapere tutte queste cose?» le domandò Beth, impressionata.

Lei scrollò le spalle. «Internet!»




Ho cercato di informarmi un po' sull'argomento e spero di non aver scritto delle complete assurdità visto che, in linea con le protagoniste della storia, la sportività ed io siamo agli antipodi XD 

La copertina dovrebbe rappresentare il giardino della scuola dove si incontrano John e Beth, ma sembra più il locus amoenus di una poesia trecentesca. Dettagli.

Oltre al loro incontro (soprassediamo sul dialogo, che ogni volta mi fa rabbrividire leggermente, prova che a tredici anni NON sapessi davvero come scrivere una conversazione... John Lennon grasso, magro, blu, verde, a pois, ma perché?) in questo capitolo ricco di sorprese (credici), tra telecronache sexy, calzini e mosse alla Chuck Norris (brava Beth), abbiamo anche il bacio finale tra Arianna e Lucas. Cosa combinavano questi due mentre Kia era troppo occupata a farsi seghe mentali per parlare di Arianna? 

Ci vediamo al prossimo capitolo!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** -•Capitolo 12 ***


" />

Di fronte a quella scena, le tribune si riempirono di un boato ancora più assordante e i ragazzi intorno a  noi scoppiarono in un sonoro, collettivo OOOOH! di puro stupore.
I due continuarono a baciarsi appassionatamente e rimasi immobile, a bocca aperta, mentre un fiume di studenti, chi appena sceso dagli spalti, chi voleva stringere la mano ai giocatori, chi stava uscendo dal campo, mi spintonava da ogni parte senza che io opponessi alcuna resistenza. Ma, a giudicare dai corpi pietrificati delle mie amiche al mio fianco, non dovevo essere stata l’unica ad avere quella reazione.
Lucas aveva appena baciato Arianna. Lucas e la nostra Ari!
Sapevo fin troppo bene che Arianna non era una santarellina. Quando l’anno prima avevo frequentato per un periodo la sua stessa scuola con Beth, infatti, non mi andava troppo a genio proprio perché aveva un enorme successo con il genere maschile. Ma tutto ciò era ormai acqua passata: Ari ed io avevamo superato da tempo i dissapori ed andavamo d’amore e d’accordo, anche se probabilmente non la conoscevo ancora così bene.
Era evidente che Lucas avesse un debole per lei e che presto o tardi avrebbe manifestato i suoi sentimenti, ma non mi sarei mai aspettata una simile reazione da parte di Arianna, che oltretutto in quel periodo era così fredda e taciturna! Stentavo a riconoscerla, coinvolta nell’abbraccio del ragazzo, mentre lo fissava dritto negli occhi con un sorriso a fior di labbra che avrebbe fatto venire le ginocchia molli a uno qualsiasi dei suoi ammiratori.
Quando però tornò a terra e allontanò leggermente Lucas da sé con un braccio, con un gesto impercettibile ma deciso, riconobbi in lei l’Arianna di sempre.
Mi voltai verso le mie amiche: Beth, con le pupille strabuzzate, pareva ancora scioccata, mentre Angie, ripresasi dall’iniziale stupore, guardava Arianna a braccia incrociate con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. Il suo atteggiamento non mi stupì più di tanto: dopotutto lei la conosceva meglio di noi, visto che avevano sempre frequentato le stesse scuole.
Dopo aver scosso la testa, la ragazza bionda si avvicinò spedita ai giocatori, complimentandosi con loro per la bella partita e menzionando mosse che, nonostante la sua telecronaca, non avevo mai sentito nominare.
Nella confusione generale apparve la Cooper, che li richiamò. I i ragazzi, euforici per la vittoria, si avviarono verso l’uscita, seguiti da Angie, che continuava a chiacchierare con loro e, poco lontano, da Arianna e Lucas, che camminavano fianco a fianco, nonostante la ragazza mantenesse tra loro una certa distanza di sicurezza.
Notai con la coda dell’occhio Beth seguirli e mi incamminai dietro di lei, insieme ad una mandria di studenti esultanti che però mi superarono e raddoppiarono in un attimo la distanza tra me e la mia amica.
Cercai inutilmente di seguirla, facendomi spazio tra i ragazzi che continuavano a spintonarsi e ad urlare e, proprio quando mi parve di intravedere un caschetto di capelli scuri all’orizzonte, una figura che andava nella direzione opposta alla folla agitò le braccia davanti a me, nel tentativo di allontanare da sé un gruppo di ragazze, e mi prese in pieno volto.
«Ahi!»
Alzai gli occhi, infastidita e mi trovai davanti nientedimeno che Draco, il ragazzo biondo la cui azione era stata decisiva per la vittoria dei nostri, con un’espressione mortificata in volto. Mi urlò un frettoloso “Scusami!” con voce nervosa e scomparve nella confusione.
Borbottai qualcosa di poco gentile nei suoi confronti, cercando invano di ritrovare la chioma di Beth, ma ormai l’avevo persa nella folla.
No, no, non di nuovo! pensai, accelerando il passo e continuando a guardarmi intorno, ma dopo pochi metri mi dovetti arrendere all’evidenza.
Sospirando, mi feci largo a fatica tra i ragazzi urlanti che, nonostante gli ammonimenti degli insegnanti presenti, non davano alcun segno di voler rientrare e continuavano a scorrazzare, intonando cori vittoriosi per la nostra vincita. Correvano e mulinavano le braccia come animali e, dopo avermi colpita per la quinta volta di seguito (episodio di Draco compreso) sarei scoppiata in lacrime: era davvero troppo per una claustrofobica come me!
All’improvviso, però, qualcuno mi afferrò saldamente per un braccio e mi trascinò lontano da quel girone infernale, lasciandomi poco più avanti, dove la confusione andava disperdendosi e una massa di studenti, meno colossale e più ordinata di quella in cui ero rimasta bloccata fino all’attimo prima, si stava avviando dentro l’istituto.
«Ti vedevo un  po’ in difficoltà» proruppe il mio salvatore, vagamente divertito.
Riconoscendo subito la sua voce, mi voltai verso di lui.
«Night!» esclamai, ancora ansimante. «Grazie per avermi salvata.»
Di fronte al mio tono serissimo, lui scoppiò a ridere. «Oh, non c’è di che.» Guardandosi intorno, mentre procedevamo, aggiunse: «Non vedo la tua combriccola, in giro.»
Lo guardai di sottecchi, non capendo se quell’affermazione fosse seria o una sottile presa in giro. Alla fine, nonostante quel combriccola intriso di sarcasmo, propesi per la prima ipotesi.
«Sono state più fortunate di me. A quest’ora saranno già salite in camera» borbottai sospirando.
«Be’, non ne dubito. Gonnellina al Vento si sarà fatta strada a suon di pugni, per entrare» osservò lui.
«È probabile.» Scoppiai a ridere, non potendo fare a meno di notare che Angie fosse costantemente nei suoi pensieri.
Superato l’ingresso, tirai un sospiro di sollievo. Finalmente eravamo dentro! Dietro di noi, alcuni insegnanti stavano gridando a squarciagola nel tentativo di recuperare qualche ultimo ribelle che, a differenza nostra, non aveva alcuna intenzione di tornare a scuola.
«Anche io ho sempre fatto così, quindi non posso biasimare quei ragazzini» commentò Night alle urla dei professori. Lo sguardo gli si velò per un attimo, facendolo apparire molto più grande della sua età.
Non sapendo cosa replicare, vedendolo di colpo così pensoso, preferii cambiare argomento.
«Comunque… be’, bella partita, Night!» buttai lì, abbozzando un sorriso.
Lui parve tornare in sé e ricambiò il sorriso. Quindi, dopo avermi rivolto un cenno di saluto, si allontanò in direzione di un gruppo di ragazzi in fondo al corridoio.
A quel punto, rimasta sola, svoltai a destra e attraversai a grandi passi l’atrio, ancora molto affollato, per poi imboccare le scale e procedere in direzione del primo piano.
In camera mi aspettava un assurdo spettacolo.
Invece che dai saluti delle ragazze, ad accogliermi fu una terribile confusione. Beth, in piedi sul letto, stava urlando qualcosa ad Arianna, Angie stava sgridando Beth con venti decibel in più della norma, Arianna stava gridando ad entrambe perché voleva un po’ di silenzio.
«EHI!» urlai a mia volta, sbracciandomi. Mi pareva quasi di essere un naufrago che avvista una nave all’orizzonte, dopo settimane e settimane su un’isola deserta.
Dopo un momento, accortesi che in quella cacofonia era subentrata una nuova voce, in camera scese il più completo silenzio e tutte e tre le ragazze si voltarono nella mia direzione.
«Kia!» esclamò Beth, la prima a riscuotersi. «Ma dov’eri finita?»
«Sono rimasta bloccata in quella bolgia infernale» mugugnai, chiudendomi la porta alle spalle.
«Hai assistito al bacio? Eh? Lo hai visto, vero? Dimmi che lo hai visto!» continuò lei, eccitata al punto da non riuscire neanche a stare ferma. Si lasciò cadere sul mio letto a peso morto, sospirando con aria sognante.
«A dire il vero, credo lo abbia visto tutta la scuola» mormorai, sedendomi a mia volta accanto a lei, per impedirle di agitarsi oltre.
«Meglio così! Sembrava un film!»
Ignorando completamente la mia presenza, Beth iniziò a rotolare sul mio letto, sgualcendo il mio piumino e facendo cadere il mio cuscino a terra. Riuscì ad urtare pure il mio comodino e afferrai di scatto l’abat-jour per non far schiantare a terra anche lui, mentre mi davo mentalmente dell’idiota: sembravo uno degli affamati gabbiani di Nemo.
Qualcosa mi dice che più tardi dovrò rifarmi il letto.
«Hai avuto un’overdose di romanticismo, Beth?» scherzai. «Dai, cerca di calmarti» mormorai, quasi obbligandola a mettersi seduta.
«Ciao Kia.»
«Ciao Ar…ngie?»
Sbigottita, mi voltai verso di lei, che si sforzò di sorridermi. Con quel tono così distaccato, l’avevo scambiata per Arianna.
La protagonista indiscussa della partita, invece, era sdraiata sulle coperte a gambe incrociate e stava scrivendo messaggi al cellulare. Beth si alzò dal mio letto e, preso lo slancio, si lanciò sul suo, facendole quasi prendere un collasso.
«BETH! Ma che combini?»
«Con chi ti messaggi? Eh?» domandò subito lei, tentando di sbirciare.
Niente da fare: Arianna si nascose il cellulare dietro la schiena con una mossa fulminea e allontanò la mora piantandole un piede nudo dritto in faccia.
«Che schifo!» fece Beth disgustata, arretrando di scatto e, di fronte a quella scena, non potei che scoppiare a ridere fragorosamente. Angie non si unì a me e rimase a fissarle in silenzio.
«Così impari» rispose Arianna, con un sorrisetto. «Comunque nulla di che, stavo solo parlando con Margaret» fece poi, scrollando le spalle. «…una mia amica di Edimburgo» si affrettò ad aggiungere, notando i nostri sguardi perplessi.
Fu in quel momento che mi ricordai improvvisamente della festa. Allungai una mano per afferrare il mio cellulare dal comodino, lo sbloccai e selezionai l’icona della rubrica.
«Beth» mormorai, e la mia amica si voltò di scatto nella mia direzione. «Hai già avvertito qualcuno dei ragazzi della festa?»
Lei scosse la testa ed io buttai lì: «Be’, visto che possiamo invitare due persone ciascuno, potremmo chiedere a Leo, George, Camila e…» deglutii. «…Luke.»
Tre paia d’occhi si voltarono di colpo a fissarmi.
«Ne sei sicura?»
«Ecco Kia, non mi sembra esattamente una buona idea… »
«Luke? È ancora vivo?»
«Grazie ragazze, siete sempre di supporto» borbottai, guardandole in cagnesco. «Comunque Beth, ci pensi tu o faccio io?»
Lei mi lanciò uno sguardo eloquente.  «Il mio telefono non ha più credito, per cui…»
«Non che il mio ne abbia parecchio» risposi, scorrendo la rubrica. Sicuramente non ne avevo abbastanza per chiamare, ma forse quel poco rimasto mi sarebbe bastato per un messaggio, ma indirizzato a chi?
Cami, Geo o Leo?
Leo rifiutava la tecnologia in blocco e, per tale motivo, non aveva mai il telefono a portata di mano; quanto a Camila, smarrirlo sei volte al giorno di media era la prassi. Incredibile a dirsi, ma probabilmente George, la persona meno seria che conoscessi, era il più affidabile dei tre, e con lui avrei avuto qualche speranza che l’invito arrivasse ai destinatari. Luke non lo presi neanche in considerazione, visto che probabilmente avrebbe ignorato il messaggio solo per farmi dispetto.
Cliccai sull’icona del bel ragazzo biondo, immortalato in una foto scattata da me, risalente a qualche anno prima, dove cercava di toccarsi il naso con la lingua. Inarrivabile, in tutti i sensi. Soffocando una risata, nel ricordare le dinamiche in cui era stata scattata quella foto, iniziai a scrivere il messaggio.
Beth, intanto, continuava a tormentare Arianna.
«Da quanto state insieme?» domandò, avvicinandosi, incurante della minaccia dei piedi dell’altra.
«Non stiamo insieme» replicò Ari, continuando a cliccare freneticamente sulla tastiera.
«Ah, e ti ha baciata perché non aveva nient’altro da fare?» La voce di Angie si levò dall’angolo della stanza in cui si era rintanata e dal quale non aveva ancora spiccicato parola.
Arianna alzò il capo e le piantò gli occhi in faccia, bloccandosi un attimo dallo scrivere.
«L’ho intesa come una dichiarazione» disse in tono glaciale.
Beth captò subito l’improvviso cambiamento d’aria e si voltò verso la ragazza bionda.
«Andiamo Angie, sono sicura che in fondo al tuo repertorio hai anche qualche complimento da fare» scherzò, vagamente a disagio, nel chiaro tentativo di stemperare l’atmosfera.
Arianna inarcò un sopracciglio. «Il copione qua prevede che tu sia felice per me.» Si bloccò, stringendo le labbra.  «O, almeno, che faccia finta di esserlo.»
«Poverina!» fece Angie, mettendo il broncio. «Fatti consolare da Margaret, allora. Lei sarà sicuramente felice per te!»
Arianna non proferì parola, limitandosi a sollevare il suo cellulare, sul cui schermo acceso continuavano ad apparire messaggi in rapida successione, mentre la suoneria pareva come impazzita.
«Mi sta mandando messaggi con scritto solamente WAAAAAA! da…» Diede una rapida scorsa all’orologio. «Mezz’ora.»
«Che deficiente» fu l’unico commento di Angie, prima di balzare in piedi e uscire dalla camera, sbattendosi la porta alle spalle.
«Com’è infantile» mormorò Arianna, distendendosi di nuovo sul letto. «Parte subito all’attacco e poi, non appena le cose si mettono male e capisce di aver torto marcio, scappa.»
Scosse la testa ed io fissai pensierosa la porta chiusa della nostra camera.
«Forse dovremmo andare a recuperarla» dissi, lanciando un’ultima occhiata allo schermo del mio cellulare, in attesa del responso di George.
«Secondo me dovremmo solo lasciarla sbollire» ribatté Arianna, stirandosi come un gatto.
«Non credo si sbollirà affatto, se finisce in camera di Night» intervenne Beth. «Magari otteniamo esattamente l’opposto.»
«Non è detto che vada da quel ragazzo perverso, ma forse hai ragione» rispose l’altra, socchiudendo gli occhi.
«Vado io a cercarla» annunciai dopo un po’, notando che la risposta di George tardava ad arrivare.
Riposi il cellulare nella tasca dell’uniforme ed uscii.
Dietro di me, Beth pregava per l’ennesima volta Arianna di raccontarle qualche dettaglio sul suo bacio con Lucas.
«E va bene…» disse lei con un sospiro di resa, mentre chiudevo la porta.
 
****
 
Angie inspirò a fondo, per poi lasciarsi sfuggire un verso a metà fra un grugnito, un gemito e un sospiro.
Avanzò di qualche passo nel corridoio deserto, riflettendo sul magico potere che aveva Arianna di provocarle l’urticaria. Non che fosse mai andata particolarmente d’accordo con lei, ma quando faceva la finta indifferente con i ragazzi, quasi meravigliandosi che, con il suo atteggiamento da nobildonna, tutti le andassero dietro e la considerassero la più popolare, la faceva infuriare.
Anche quando andavano a scuola insieme ed erano fortemente in competizione, Angie si era sempre dovuta accontentare di essere la numero due, nonostante facesse la miglior musica rock in circolazione e vantasse le migliori conoscenze dell’istituto. Ma ad Arianna bastava sbattere le lunghe ciglia e tutto ciò che desiderava pioveva magicamente dal cielo.
L’ho intesa come una dichiarazione… Dio, ma si ascolta?
Si bloccò davanti alla stanza numero diciotto, come un magnete attratto da una calamita, e scrutò attentamente la porta.
Dall’altra parte, solo silenzio.
Sorrise fra sé e sé. In effetti, tutta quell’irritazione le aveva messo una gran voglia di pestare qualcuno. E, nel caso in cui quell’idiota di Night fosse stato a farsi la doccia, avrebbe potuto scambiare quattro chiacchiere con Shadow.
Sì, magari c’era Shadow.
Magari.
«Shaddy?» cinguettò Angie, bussando.
La porta si aprì di scatto, rivelando un Night che la fissava orripilato.
«Chi… chi diavolo hai chiamato Shaddy?» domandò disgustato, con una nota stridula nella voce.
«Di certo non tu» replicò lei, approfittando dello spiraglio creatosi per sgattaiolare all’interno della camera, disastrata come al solito.
«Ciao Shadow!» aggiunse, notando il ragazzo moro seduto sul letto, che ricambiò il saluto con un cenno.
«Shaddy…» borbottò Night tra sé e sé. «…cioè, capiti proprio al momento giusto, Gonnellina al Vento» esordì, chiudendo la porta.
Angie non aspettava altro. Prese un grosso respiro e, dopo essersi rapidamente scrocchiata le nocche, fece per avventarsi sul ragazzo.
«Dobbiamo parlare.»
La ragazza si bloccò ad un passo dall’aggredirlo, non del tutto certa di aver capito bene.
«Scusa?»
«Hai capito benissimo.»
Night le indicò con decisione il letto dov’era seduto Shadow, che si fece da parte per farle posto. Angie obbedì come un automa, ancora troppo esterrefatta per ribattere.
Quando la ragazza ebbe preso posto, nel più completo silenzio, Night si parò davanti ai due.
«Riguarda la festa» iniziò lui.
Angie annuì meccanicamente. Era ancora piuttosto perplessa dall’atteggiamento di Night ma, a dire il vero, era emozionatissima all’idea di partecipare al ballo d’inverno dell’istituto: adorava le feste e, anzi, era solita organizzarle lei, ad Edimburgo. Aveva anche pensato di invitare uno dei suoi fratelli, se non avevano altri impegni, ma sarebbe stato arduo decidere chi dei tre.
«Di solito ci si va in coppia… giusto?»
Night le stava parlando con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolto ad un decerebrato ed Angie annuì nuovamente.
«Bene» concluse sbrigativamente lui, vedendo che aveva afferrato il concetto basilare. «Ci devi venire con me.»
Lei fece per annuire di nuovo, ma si bloccò a metà. «CHEEEEE?!»
Di fronte alla sua reazione scomposta, Shadow le poggiò una mano sulla spalla con fare solidale.
«Sta’ calma, Angie» mormorò, serafico.
«Tutta la scuola crede che noi stiamo insieme! Non te ne puoi andare alla festa con un altro, così, come se niente fosse!» spiegò Night, spazientito.
«Possiamo sempre dire che ci siamo lasciati» ribatté Angie, incrociando le braccia al petto.
«Gérard non se la berrà mai» borbottò cupamente il ragazzo.
«Ma perché? Mi spieghi perché dobbiamo fare tutto questo per un custode decrepito? Chi cazzo se ne importa!»
«Che finezza, Angie» commentò Shadow, ridacchiando.
La ragazza a quel punto li avrebbe volentieri strangolati entrambi.
«Tu non capisci…» tentò di spiegare Night, ma Angie lo interruppe subito.
«Preferirei persino andarci con Shadow!»
«Grazie, eh!» borbottò il diretto interessato.
Dopo aver visto che riusciva a battibeccare pure con il suo migliore amico, Night diede in escandescenza.
«Fa’ come ti pare, allora!» gridò. «Lo sai che sei veramente insopportabile? Te lo dicono mai le tue amichette?»
«A proposito di amichette…» intervenne Shadow, dando di gomito ad Angie che, dopo le parole di Night, stava ribollendo. «Arianna e Lucas sono stati davvero memorabili, oggi!»
«Quel figlio di puttana! La più gnocca si doveva pomiciar…»
Per Angie quello era davvero troppo.
Scattò in piedi e, avventandosi su Night, lo schiaffeggiò più forte che poté, stampandogli le cinque dita della mano sulla guancia.
 
****
 
Mi avventurai nel corridoio deserto e silenzioso, senza intravedere alcuna traccia di Angie.
Forse era da Night a litigare, pensai, facendo per bussare alla porta della sua camera, quando il mio cellulare vibrò nella tasca.
Tempismo perfetto, Geo!
Dovunque fosse Angie e qualsiasi cosa stesse combinando, avrebbe dovuto aspettare.
Mi allontanai dalla porta e mi appoggiai contro la parete di fronte, piazzandomi a sedere nel bel mezzo del corridoio. Dopo essermi sfilata il cellulare di tasca, diedi un’occhiata alle notifiche: era proprio George! Aveva risposto al mio messaggio di convenevoli e, mentre leggevo il suo, mi ritrovai a pensare proprio ad Angie e a quanto fosse stata fastidiosa con Arianna quel pomeriggio.
Le due, fin dai tempi di Edimburgo, erano sempre state in competizione, ma Angie era semplicemente troppo orgogliosa per ammettere che Arianna era non solo più popolare, ma ci sapeva anche fare con i ragazzi molto meglio di lei. Dopotutto, non potei fare a meno di pensare, Arianna li corteggiava, non li riempiva di botte.
«Il venti dicembre organizzano un ballo nella mia scuola» scrissi, realizzando che, con il botta-e-risposta, mi sarei bruciata in un attimo il poco credito che mi era rimasto.
Pazienza.
«Davvero? Ma è fantastico! Comunque ti salutano anche Cami e Leo, siamo tutti insieme» mi rispose lui poco dopo e fui travolta da un’ondata di nostalgia.
«Già! Ma il bello è che possiamo invitare due amici ciascuno. Io e Beth vorremmo invitare voi, che ne dite?»
Sentii un tafferuglio proveniente dalla camera di Night e Shadow e alzai gli occhi verso la porta. Le urla si mescolarono ad imprecazioni piuttosto colorite e colsi chiaramente la voce isterica di Angie in mezzo al trambusto. Provai un po’ di pena per i due ragazzi chiusi in camera con lei e, sospirando, lessi la risposta di George.
«Sarebbe fantastico! Ti faccio sapere se per quel giorno siamo liberi.»
«Perfetto. Ah, Geo… contatti anche lui?»
«Quel lui?»
«Quel lui.»
«Ok. Dubito che verrà, ma farò un tentativo.»
La porta della camera di Night e Shadow venne aperta e poi sbattuta con violenza. Colsi indistintamente dei movimenti davanti a me, seguiti un rumore di passi che facevano su e giù per il corridoio ma, concentrata com’ero a rispondere a Geo, non ci feci troppo caso e non alzai neanche lo sguardo.
«Grazie George! Ti abbracciamo.»
«Perché ti abbracciamo? Io neanche lo conosco.»
Lanciai un urlo. Ma che diavolo… Night, seduto accanto a me, stava fissando pensieroso lo schermo illuminato del mio cellulare. Ma come diamine avevo fatto a non accorgermene?
«E tu che ci fai qui?» esclamai, ancora spaventata.
«Sono uscito dalla camera da un pezzo, ma tu non ti sei accorta di niente» spiegò, scrollando le spalle.
Realizzai in un attimo a chi appartenesse il rumore di passi che avevo udito poco prima.
«Eri troppo impegnata a parlare con Geo… chi è, a proposito?»
Lo guardai seccata. «Non iniziare a fare come Shadow. È un amico» risposi, calcando bene sull’ultima parola. Ero stanca di incappare in fraintendimenti con ragazzi che conoscevo da quand’eravamo entrambi in fasce.
«Ah, capisco» fece Night con un tono inafferrabile, adagiandosi ancora di più contro la parete. Mentre si muoveva, un particolare sospetto attirò la mia attenzione.
«Che hai fatto al volto?» domandai, preoccupata, indicandogli quello che aveva tutta l’aria di essere il segno di una mano a palmo aperto.
«Gonnellina al Ven…gie.» rispose lui, laconico, e non ci fu bisogno di ulteriori spiegazioni.
Avevo capito benissimo cosa doveva essere successo nella loro camera: decisamente, l’umore di Angie non era migliorato andando lì.
«Non ha alcuna intenzione di venire al ballo con me» disse lui all’improvviso, facendo una risata amara, e lo fissai sorpresa.
Non era proprio da lui raccontare i fatti suoi con così tanta leggerezza ed ipotizzai fosse davvero sfinito. Mi ricordai che aveva obbligato Angie a fingere di essere la sua ragazza per la questione di Gérard e che Arianna aveva promesso loro di non farne parola con nessuno.
Bugia.
Rimanemmo in silenzio per un po’, perché non mi veniva niente di confortante da dirgli, poi mormorai: «Oggi dev’essere una brutta giornata per Angie, comunque. Prima ha trattato male pure noi.»
Night mi osservò con la coda dell’occhio. «A quanto pare, ho il piacere di incontrarla solo nelle sue brutte giornate» disse e ridacchiai sommessamente.
«Ti rendi conto? Ha detto che preferirebbe persino andarci con Shadow, alla festa!» borbottò poi e, mio malgrado, sentii una morsa attanagliarmi lo stomaco.
«Ah» mi limitai a dire, abbassando lo sguardo.
Non mi faceva piacere parlare di lui e Night dovette accorgersi del mio repentino cambiamento d’umore, perché si affrettò a glissare.
«Tu ci andrai con uno dei tuoi amici?» domandò, inclinando la testa da un lato.
«Spero di sì» risposi, pensando istintivamente a Luke, ma poi scacciai il pensiero in fretta com’era arrivato.
Probabilmente mi sarei fatta accompagnare da Leo; dopotutto Camila e George si erano messi insieme l’anno prima e ipotizzai che, se fossero stati liberi, sarebbero venuti come coppia.
Le mie riflessioni furono violentemente interrotte dallo sbattere della porta numero diciotto, dalla quale uscì Angie, a prima vista più tranquilla di quand’era uscita come una furia dalla nostra stanza, seguita da Shadow. I nostri sguardi si incrociarono per una frazione di secondo, ma entrambi girammo di scatto la testa come se avessimo preso la scossa.
«L’ho fatta ragionare» esclamò poi il moro con aria scherzosa, rivolto a Night.
«Non credo alle mie orecchie» si limitò a dire lui e la ragazza lo incenerì con lo sguardo.
«Hai deciso, Angie?» domandai di getto, in uno dei rari casi in cui la bocca si aziona prima del cervello.
Mi pentii immediatamente di quell’intervento: non c’entravo assolutamente niente in quella storia, che diritto avevo di metterci bocca?
Difatti arrossii quando tutti e tre si voltarono a fissarmi, perplessi, in particolar modo Angie, il cui sguardo però poi si posò su Night, rendendosi conto che doveva essere stato lui a mettermi al corrente del loro bisticcio.
«Cioè, con chi andare alla festa» spiegai, anche se non ce n’era alcun bisogno, nel tentativo di rimediare alla mia uscita fuori luogo.
Quindi mi alzai in piedi, riponendo il cellulare in tasca, pronta ad andarmene nel caso in cui la conversazione avesse preso una brutta piega.
«Ci andrò con…»
«Ma no, lei vuole andarci con Shadow» la interruppe Night, alzandosi in piedi a sua volta, e notai che Shadow, cinereo, in quella situazione era a proprio agio più o meno quanto me.
Angie lo fissò senza scomporsi. «Bene, visto che sei d’accordo, ci andrò con lui.»
Detto ciò, girò sui tacchi e sparì in camera nostra, senza che nessuno dei tre avesse il tempo di aprire bocca. Se ne avessi avuta l’occasione, probabilmente avrei commentato con un altro Ah, che in quel momento mi venivano tanto spontanei quando nella conversazione veniva nominato Shadow. Il mio vocabolario doveva aver subito un qualche tipo di trauma, ultimamente.
Night non disse nulla ma, a giudicare dal pugno che assestò alla parete, dandomi i brividi, doveva essere a dir poco infuriato.
«No, no!» esclamò Shadow, in preda al panico, e provai un po’ di compassione per lui. Poi si fece serio d’un colpo. «Lei deve andarci con te. Vado a parlarle.»
Rivolse a Night uno sguardo di scuse e fece per bussare alla porta della nostra camera, ma l’altro lo interruppe.
«Lascia stare, credo sia impossibile farle cambiare idea» disse. Non c’erano note di tristezza nella sua voce, solo una cupa consapevolezza.
In quel momento capii più che mai di essere davvero di troppo e mi avvicinai alla porta, evitando accuratamente il contatto con Shadow, ancora immobile lì davanti.
«Dopotutto oggi è una brutta giornata, per Angie» fece poi Night sorridendo debolmente, scambiandomi uno sguardo d’intesa.
Scossi la testa, vagamente divertita, ed entrai in camera, dubitando per un attimo della sanità mentale della mia amica.


 

Ciao a tutti!

Eccomi di ritorno con un nuovo aggiornamento :) Questo capitolo è più breve degli altri e fondamentalmente piuttosto inutile, visto che, insomma, non succede niente, però rileggerlo mi diverte un sacco, perché Angie e Night (e Shaddy!) mi fanno troppo ridere. Sono di gran lunga la mia coppia preferita, seguiti da Lucas e Ari.

Tornano alla luce vecchi dissapori tra Angie e Arianna, diverse come il giorno e la notte, Night (a proposito di notte) cerca invano di perorare la sua causa (ma come mai insisterà così tanto?) e Kia contatta Geo <3 Mi dispiace non dare molto rilievo a questo personaggio che, nell'immaginario prequel di Love School, è uno dei protagonisti, ma tant'è :C 

Ah, e non dimentichiamoci dell'apparizione di "Draco"! ;)

Piccola precisazione: i nostri amici si contattano via SMS (non ho aggiunto emoticon et similia, che sicuramente sarebbero state verosimili, perché altrimenti i miei occhi avrebbero pianto sangue) perché la storia è ambientata nei primi anni duemila. Quindi... niente whatsapp per le nostre protagoniste!

Ciao, ci vediamo nel prossimo capitolo (spoiler: è il preferito della vera Angie. Guess why!)

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** -•Capitolo 13 ***




Qualche settimana dopo, non particolarmente memorabile se non per la quantità di compiti e interrogazioni che i professori concentrarono negli stessi giorni in vista delle vacanze natalizie, iniziarono i preparativi per il tanto atteso ballo d'inverno.

Quella mattina mi svegliai di colpo nell'udire non la sveglia, ma un'altrettanto familiare musica esotica. Dopo qualche secondo di totale scombussolamento, capii. Era la mia suoneria.

Grugnii, il viso premuto contro il cuscino, e allungai alla cieca un braccio verso il comodino, alla ricerca del cellulare. Nell'impresa caddero con un gran fracasso l'abat-jour, la sveglia – quella vera – la bottiglia dell'acqua, un paio di libri, i miei fazzoletti e fu un vero miracolo se riuscii ad afferrare il telefono prima di svegliare tutte quante.

«Pronto?» biascicai, assonnata. Chi cavolo poteva essere, a quell'ora?

«Ti ho appena svegliata, eh?»

«Ah, Geoooooooorge.» Mi scappò uno sbadiglio, mentre realizzavo il perché di quell'insolita telefonata. Li avevo invitati al ballo. Giusto.

«Ci sono novità?» chiesi, d'un tratto più attenta.

«Ebbene sì!» fece lui, in tono teatrale. «Cam ed io possiamo venire alla festa. Leo purtroppo no, per l'appunto è impegnato con la famiglia proprio in quei giorni.»

«Mi dispiace molto per Leo!» mormorai, sinceramente amareggiata. Lo avrei rivisto molto volentieri, e poi avevo un'intera scuola piena di segreti da mostrargli! «Ma sono davvero contenta che voi due ci siate.»

Mi sistemai con qualche difficoltà i capelli dietro le orecchie, che in quel momento dovevano assomigliare più ad un cespuglio, e feci un respiro profondo, per prepararmi psicologicamente alla prossima domanda.

«Quell'idiota si è fatto sentire?»

Il telefono, per tutta risposta, gracchiò. George, dall'altra parte, stava ridacchiando sommessamente.

«Sì, gli ho telefonato e diciamo pure che mi ha sbranato. Stava facendo un allenamento e la suoneria ha spaventato il suo ronzino» borbottò. «Ha detto che ci avrebbe pensato, ma ti dico la verità, Kia, dal tono di voce non mi sembrava molto convinto.»

«Fa lo stesso. Grazie per esserti sacrificato per me, Geo!» scherzai. «Dai un bacio a Camila da parte mia. No, dai, non essere geloso!» Risi forte nell'udire le sue finte proteste. «Allora ci vediamo alla festa!»

Riattaccai con il sorriso sulle labbra. Poi abbassai lo sguardo sul pavimento e il sorriso svanì.

Sospirando, appoggiai il cellulare sul comodino e mi apprestai a raccogliere tutto ciò che avevo fatto cadere mentre tentavo di rispondere alla telefonata.

Poco dopo il trillo della sveglia buttò giù dal letto anche le altre tre.

«Ho il torcicollo» annunciò Beth, ancora intontita, mentre tentava di stirarsi con scarso successo. Nel fare un movimento falso emise un verso animalesco che mi fece accapponare la pelle.

«Tutto bene?» domandai, voltandomi verso di lei che, non potendo annuire per via del collo bloccato, si limitò a farmi il pollice in su.

«Come mai sei già sveglia, Kia?» mi chiese Angie, dopo essersi stropicciata gli occhi, vedendomi china sul pavimento.

«Mi ha chiamata George» spiegai, alzandomi in piedi dopo aver raccolto tutto e recuperando la divisa scolastica dall'armadio.

«Inutile dire che ho sentito tutta la vostra conversazione» borbottò Arianna, che si stava avviando verso il bagno. «Comunque sono contenta che i tuoi amici possano venire.»

Le sorrisi. «Tu hai invitato qualcuno?»

Lei si limitò a scuotere la testa, prima di chiudere la porta.

«Chi? Chi può venire?» intervenne Beth, eccitata.

«Camila e George» spiegai, sorridendo.

Lei fece per esultare, ma nel gesto mosse di nuovo il collo e per il dolore replicò di nuovo quell'orribile verso. Con nostro grande piacere.

«Beth, ti prego!» protestò Angie, lanciandole un cuscino.

 

Mentre ci avviavamo in classe, dopo la colazione, un gruppo di ragazzine nel corridoio indicò Arianna, provocando immediatamente un coro di risatine e sguardi a metà tra l'incantato e l'invidioso.

La nostra amica tirò dritto, lo sguardo fisso davanti a sé come se non esistesse nient'altro che la porta della nostra classe. Ammiravo i suoi nervi saldi e il suo senso di impassibilità totale, che però non facevano che aumentare il suo stuolo di ammiratori. E ammiratrici.

Se prima Arianna non passava inosservata per i corridoi della scuola, infatti, dopo il bacio con Lucas alla partita la cosa era quadruplicata. Non c'era passo che facesse che non provocasse parole d'ammirazione o di gelosia, risatine, malelingue e commenti sottovoce.

Anche se agli occhi di tutti i due sembravano già la coppia del secolo, Arianna ci aveva detto che, nonostante il loro bacio e il fatto che ogni tanto uscissero insieme, lei e Lucas non erano impegnati: la ragazza infatti era ancora incerta sul da farsi. Ipotizzai che i sentimenti contrastanti che provava per Jake, adesso all'estero, continuassero a turbarla.

Giunti in classe, notammo che i banchi erano stati uniti e sistemati al centro, a formare un grande piano di lavoro, sul quale i ragazzi stavano preparando le decorazioni per la festa.

In vista del ballo, che si sarebbe tenuto in palestra, le lezioni erano ormai piuttosto rare e di solito passavamo le ore a preparare festoni e decorazioni di carta o in pan di zenzero, tutte ovviamente a tema invernale e natalizio. Ogni classe era adibita ad uno scopo diverso e la nostra era dedicata alla creazione di striscioni, ma non eravamo vincolati dalle sezioni ed ognuno di noi era libero di dedicarsi a ciò che preferiva.

Vedendoci la Rooth, la professoressa di arte, ci assegnò subito qualcosa da fare.

Maledissi la limitata perspicacia della donna quando mi spedì ad aiutare Shadow con uno striscione dai bordi già segnati da colorare di rosso e di verde. 

E, a giudicare dalla sua grandezza, probabilmente ci avremmo messo un'eternità.

«Tieni» mi disse lui, porgendomi un pennarello rosso.

Lo ringraziai, quindi ci mettemmo all'opera.

Anche se di norma preferivo tenermi alla larga da lui, mi ero accorta che dopo la partita Shadow era tornato quello di sempre. Non sembrava turbato da me, anzi, scherzava e sorrideva come suo solito, ma senza apparenti secondi fini. Tutto ciò mi lasciava perplessa perché, nonostante me lo ripromettessi ogni volta, non avevo ancora trovato la giusta occasione per chiarire l'episodio della festa e dirgli la verità una volta per tutte.

Quando finalmente finimmo di colorare, dopo quello che mi sembrò un secolo, consegnammo lo striscione alla professoressa Rooth. Mentre il ragazzo cercava qualcos'altro da fare, ne approfittai per dare una rapida occhiata agli altri.

Lucas era riuscito a distinguersi come suo solito e, mentre i ragazzi coloravano scrupolosamente gli striscioni assegnati loro, aveva fatto cadere sul pavimento le puntine con cui avremmo dovuto appenderli alle pareti, e adesso tutti camminavano come fossero stati su un campo minato.

Arianna, accanto a lui, lo stava sgridando.

«Complimenti, Lucas!» borbottò. «Dai, aiutami a raccoglierle.»

Fece per chinarsi in ginocchio ma, con un rapidissimo movimento, lui la bloccò un attimo prima che la ragazza si inginocchiasse sopra una puntina.

La mia amica arrossì, ancora stretta tra le sue braccia, e ovviamente non fui l'unica ad accorgermi di quello che stava accadendo fra loro. In un attimo tutti i riflettori erano puntati su Lucas e Arianna, come se ci fossimo trovati al cinema. Notai che persino la Rooth, in un angolo della classe, stava seguendo la scena con malcelato interesse.

«I riflessi pronti di un giocatore di pallacanestro» fece lui, strizzandole l'occhio, ed entrambi ridacchiarono. 

Arianna ne approfittò per allontanarsi appena, ma mi accorsi che Lucas continuava a tenerle una mano su un fianco e che lei non ne sembrava affatto infastidita.

Scossi la testa, sorridendo tra me e me. Se Arianna rideva, poteva davvero accadere di tutto: non mi sarei stupita meno se di lì a poco avessi visto atterrare un'astronave nel cortile.

Quanto ad Angie e Night, erano stati entrambi reclutati da una professoressa che stava facendo il giro delle classi per cercare persone che se la cavassero ai fornelli. Adesso erano in un'altra sezione a preparare il pan di zenzero per le decorazioni natalizie e mi chiesi cosa stessero combinando laggiù, se fossero tranquilli o più probabilmente si stessero prendendo a pugni come loro solito, scandalizzando gli altri ragazzi.

Beth invece, così come Arianna, era rimasta con me a decorare cartelloni nella nostra classe. Lei e Ben ne avevano finito di colorare uno e lo avevano appeso, ma poco dopo quel precisino del suo compagno di banco le aveva fatto notare un'imprecisione e aveva costretto la mia amica a correggerla. Le modalità, però, erano state piuttosto bizzarre: dal momento che, pur salendo su una sedia, Beth non arrivava al cartellone e la Rooth aveva proibito loro di tirarlo giù dalla parete per non perdere ulteriore tempo, la mia amica era salita sulle spalle di Ben e, sorretta dal ragazzo, si era messa a colorare la parte poco precisa in quella posizione. Oltretutto, data la sua mobilità da novantenne per via del collo intorpidito, Beth stava facendo una gran fatica.

Mentre la mia amica faceva le ultime rifiniture, tutta concentrata, Adam – che si era rifiutato di aiutarli, perché ce l'avrebbe fatta alla grande, essendo alto da solo il doppio dei due ragazzi – non mancò di commentare maliziosamente la loro posizione e qualcuno dei nostri compagni si bloccò a fissarli e ridacchiò.

Beth non si voltò neanche, per principio o forse perché impedita dal torcicollo, e si limitò a borbottare qualcosa di indecifrabile, mentre Ben, punto nel vivo, voltò di scatto la testa.

«Stammi a sentire, sottospecie di gorilla, Beth ed io siamo solo amici» ribatté, innervosito al punto che il tono gli andò in falsetto. «Nel mio cuore, infatti, c'è spazio solo per...» 

Si bloccò di colpo, arrossendo fino alla radice dei capelli, e tutti noi ci voltammo a fissarlo.

«...ERIC!» esclamò, indicando un ragazzo dai corti capelli castani che, ignaro di tutto, stava prendendo una confezione di colori da un armadietto a parete.

Nell'udire il suo nome il suddetto, di cui dubitavo fortemente l'omosessualità, lasciò cadere il barattolo a terra, sconcertato.

Beth, che aveva lanciato uno strillo quando Ben l'aveva sorretta per un attimo con una sola mano, adesso stava per avere una delle sue solite overdose di romanticismo, a giudicare da come si agitava tutta gongolante sulle spalle dell'amico.

«Beth! Così mi fai perdere l'equilibrio! BETH!»

Ridacchiai appena e poi, vedendo che Shadow aveva trovato un altro cartellone da decorare, mi avviai verso di lui.

****

Angie si arrotolò le maniche fino ai gomiti e sospirò stancamente.

Chissà come se la stanno cavando le altre, pensò, dandosi un'occhiata intorno.

Conosceva la classe in cui si trovavano, spaziosa e dal soffitto alto, perché molto tempo prima, in occasione di una delle innumerevoli punizioni che lei e Night avevano dovuto scontare, aveva avuto modo di pulirla. Se non ricordava male, era la sezione F.

Fruste, mattarelli e altri utensili da cucina erano sparsi dappertutto, nell'aria si respirava un forte odore di cannella e i banchi, uniti a due a due, erano tutti impolverati di farina, al punto che non sembrava neanche più di trovarsi in una classe, ma in una pasticceria.

I ragazzi erano divisi in coppie e impastavano di buona lena, ed Angie lanciò uno sguardo di sottecchi al compagno che malauguratamente le era toccato, ancora incredula dal fatto di trovarlo lì.

Infatti, quando poco prima una professoressa che non aveva mai visto, la Foster – così aveva detto di chiamarsi – aveva fatto irruzione nella loro classe, domandando se qualcuno sapesse cucinare, aveva alzato la mano e, con orrore, aveva visto che Night fare lo stesso.

«Mi annoio» borbottò, più a se stessa che a lui, fissando il suo impasto con aria assente.

Accanto a lei, sul banco, un foglietto tutto infarinato, che la professoressa aveva consegnato a tutti i ragazzi prima di iniziare, le ricordava quali ingredienti mancavano ancora all'appello. 

Burro, giusto devo ancora metterci il burro.

«Hai finito di contemplare il vuoto?» fece Night, schizzandole volutamente il volto con una manciata di farina.

Angie soffocò la tentazione di dargli il mattarello sul cranio e, senza neanche pulirsi, si limitò ad afferrare il panetto di burro in un angolo del banco, lo aprì ed iniziò a tagliarlo rapidamente a dadini.

Quando ebbe finito, si rivolse a Night. «Non sapevo fossi uno chef» commentò malignamente. «Allora sai anche fare qualcosa di utile, nella tua vita.»

Night inizialmente non replicò, tutto intento a rompere il guscio di un uovo sul bordo della sua terrina, per poi svuotarlo al centro dell'impasto, che aveva versato sul piano di lavoro a formare una fontana.

«Sta' zitta, Gonnellina al Vento

«Mi annoio» ripeté lei, strofinandosi la fronte con il polso, ma ricordandosi troppo tardi di avere le mani completamente infarinate.

Fece per afferrare un fazzoletto dal banco, ma urtò la frusta che, prima di cadere a terra, descrisse un arco nell'aria e le schizzò di pasta il volto e il grembiule. A quel punto sospirò afflitta e Night, che aveva assistito alla scena ad occhi sgranati, scoppiò a ridere.

Lei lo ignorò, chinandosi per raccogliere la frusta, ma non abbastanza in fretta per non notare il ragazzo che, dopo aver afferrato un altro uovo, adesso ne stava lisciando la superficie con aria meditabonda.

«Ma non ne serviva solo uno, di uov...» era sul punto di chiedere, perché così le era parso di aver letto sul foglietto, ma si interruppe di colpo quando sentì chiaramente qualcosa di liquido e vischioso colarle sui capelli, sulla fronte, poi sugli occhi e sulle labbra, ed esplose in uno strillo.

Tutti gli altri ragazzi sollevarono lo sguardo nella sua direzione ed assunsero un'espressione inorridita. Nella confusione che scoppiò quando la videro, sentì indistintamente qualcuno che si affrettava a chiamare la professoressa Foster.

«NIGHT!» gridò lei, con voce rotta.

«Oops» commentò lui innocentemente, mentre la ragazza tentava di liberarsi dall'uovo che continuava a colarle sulla faccia, mescolandosi alle poche lacrime che non era riuscita a trattenere.

Si stropicciò gli occhi ma, più cercava di liberarsene, più l'albume continuava a colarle sulle palpebre. Sarebbe volentieri scoppiata in singhiozzi, ma non avrebbe dato a Night la soddisfazione di vederla disperata a quel punto.

La professoressa Foster le si avvicinò, preoccupata, seguita dagli altri ragazzi.

«Tesoro, ma è uovo questo? Come hai...»

«Mentre raccoglieva la frusta da terra mi ha urtato, ed io gliel'ho rovesciato addosso. È stato un incidente» si affrettò a spiegare Night, senza dare alla ragazza tempo di aprire bocca. «La porto subito a sciacquarsi» aggiunse, trascinandola fuori dalla porta.

Giunti in corridoio, lui si slacciò rapidamente il grembiule e lo passò ad Angie che, in un silenzio tombale, si ripulì alla bell'e meglio il volto sporco d'uovo.

I ricci capelli biondi erano tutti appiccicosi e continuavano a gocciolare, per cui la ragazza si fece una sorta turbante con il grembiule.

Ed è solo questione di tempo prima che inizino a puzzare, pensò con rabbia, voltandosi verso Night, pronta ad apostrofarlo con una bestemmia, un'offesa, un'imprecazione, qualsiasi cosa ma, prima che lei avesse il tempo di aprire bocca, lui la anticipò.

«Contenta? Così hai smesso di annoiarti» esclamò, facendo una buffa espressione, a metà tra una smorfia ed un sorriso.

Angie deglutì a vuoto. Era Night, quello?

Percepì i battiti del suo cuore accelerare di colpo e sperò profondamente di non essere arrossita, quando una disgustosa parte di tuorlo le colò sul collo, facendola tornare bruscamente alla realtà. Dove Night, prima di farla imbarazzare con i suoi sorrisi sghembi, le aveva rotto un uovo sul cranio.

«Sei uno stronzo» sibilò, afferrandolo per un braccio e trascinandolo con forza lungo il corridoio, mentre il ragazzo tentava invano di sottrarsi alla sua stretta.

«Che fai?» domandò, confuso.

«Adesso mi aiuti.»

****

«Dichiarare la sua omosessualità ed il suo amore per Eric, ma non è romantico?» fece Beth, sospirando con aria sognante.

Non si era ancora del tutto ripresa dall'episodio di poco prima e, probabilmente, neanche Eric.

«Già, Ben è stato dolcissimo» convenni, sorridendo. «Anche se è un miracolo che l'amore della sua vita non sia morto sul colpo» aggiunsi e mi ritornò in mente il volto scioccato del povero Eric, mentre attraversavamo fianco a fianco il corridoio semideserto.

Beth trattenne a stento una risata.

Avevamo chiesto alla professoressa Rooth di poter andare in bagno e ne stavamo approfittando per prenderci una pausa e riposarci un po'. Non che si faticasse molto, comunque.

Stavamo per imboccare la porta del bagno delle ragazze, quando notai Beth irrigidirsi di colpo. 

Stavo per chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, ma poi scorsi una figura uscire dal bagno dei maschi, vicino al nostro, e serrai istintivamente i pugni. John.

Lanciai di sbieco uno sguardo alla mia amica, la cui espressione ai miei occhi era come un libro aperto, e scossi leggermente la testa.

Diamine Beth, ma perché proprio lui?

«Vi lascio soli» annunciai e Beth si voltò di scatto verso di me, rivolgendomi uno sguardo di muto terrore.

«Un giorno mi ringrazierai» le bisbigliai, dandole un colpetto sulla spalla, per poi fare dietrofront e avviarmi in bagno, sempre osservando Beth con la coda dell'occhio, che si stava timidamente avvicinando al ragazzo.

In quella posizione, però, non vidi chi stava venendo nella mia direzione e mi ci scontrai violentemente.

«Ahi! Ma che...» Alzai gli occhi, massaggiandomi la testa, ma mi zittii di colpo.

A ricambiare il mio sguardo era stato il ragazzo biondo platino che aveva fatto vincere la nostra squadra insieme a Lucas, alla partita.

Draco!

Aveva un'espressione strana e, osservando di striscio il corridoio dal quale proveniva, con un tuffo al cuore mi resi conto di conoscerlo bene. Era cieco e non c'erano altro che la presidenza e lo sgabuzzino dei custodi dove avevo ascoltato la criptica conversazione della preside, quel pomeriggio d'autunno. La porta dello stanzino era aperta e si muoveva ancora, segno che qualcuno era stato lì da poco.

Gli piantai gli occhi in faccia. «Cosa stavi facendo?»

Lui mi fissò, sorpreso. «Cos'è, un interrogatorio?»

Tra me e me, realizzai che non aveva poi tutti i torti. Ma cosa mi era saltato in mente? Solo perché io avevo usato quel posto per origliare la preside, non era detto che lo facesse chiunque.

«Comunque stavo prendendo uno straccio. Scusa, ma ora devo proprio andare» si affrettò poi ad aggiungere il biondo, superandomi ed allontanandosi a grandi passi.

Lo seguii con lo sguardo e realizzai che forse i miei sospetti non erano del tutto infondati.

Inarcando un sopracciglio, infatti, non potei fare a meno di notare che in mano il ragazzo non aveva nessuno straccio.

 

«Ciao» mormorò Beth, avvicinandosi un poco.

John la scrutò, rimanendo in silenzio.

«Guarda che ti ho salutato» borbottò la ragazza, contrita.

«E allora?» fece lui, come se non avesse sentito.

«Be', sarebbe carino ricevere una risposta» mugugnò lei, con una punta di risentimento.

Il ragazzo levò gli occhi al cielo. «C-I-A-O» sillabò. «Contenta adesso?»

Beth scosse la testa con rassegnazione. Poi, non sapendo cos'altro aggiungere, si limitò a fissarsi le scarpe, imbarazzata.

«Ci vai al ballo?» domandò John dopo un poco.

Sorpresa, lei alzò di scatto la testa e annuì.

«Anche io, purtroppo» rispose lui, contrariato.

Beth prese il coraggio a due mani e domandò, mordicchiandosi il labbro inferiore: «Ci vai con qualcuno?»

John sospirò, scrollando le spalle. «È Annie che mi ha costretto a venire, quindi ci vado con lei.»

Nascondere l'immediata delusione non fu semplice, ma Beth ci provò con tutte le sue forze. Ancora meno semplice fu soffocare l'istintivo odio che provò verso Annie, che l'aveva preceduta. 

Non mi interessa. Non mi interessa un accidente se ci va con Annie, perché non mi interessa lui, pensò, nel tentativo di auto convincersi.

«Bene» disse infine, dopo una pausa un po' troppo lunga.

Approfittando del fatto che un ragazzo biondo stesse venendo verso di loro, John si avvicinò pericolosamente a lei per farlo passare.

Beth continuava a fissarsi i piedi, non avendo il coraggio di guardarlo in faccia, e il ragazzo forse se ne accorse, perché allungò una mano e le sollevò delicatamente il mento, affinché si fissassero negli occhi.

Quando lo sguardo della ragazza incontrò gli occhi color petrolio di lui, accadde quella che ormai era diventata una consuetudine: il suo cuore scalpitò impazzito nel petto e solo inutilmente Beth cercò di abbassare di nuovo la testa. Niente da fare, il ragazzo glielo impediva.

«Ehi... va tutto bene?» bisbigliò lui.

Il cervello della ragazza però era in tilt, troppo occupato a pensare Troppovicinitroppovicinitroppovicini per poter recepire qualsiasi altro segnale.

«È inutile che tu me lo nasconda.» Troppovicinitroppovicini. «Lo so che...»

Le guance di Beth si fecero improvvisamente color porpora.

Ecco, se n'è accorto.

«...ti vedi con la preside, di recente» concluse e la ragazza, colta alla sprovvista, rimase a bocca aperta. «Cazzo, però così suona davvero male» aggiunse poi lui, grattandosi la testa.

Beth aprì la bocca e la richiuse, senza essere in grado di dire una parola. Tutto si aspettava, fuorché quello! E poi, come diamine faceva a...

«Beccata!» Notando la sua espressione colpevole, lui si allontanò di qualche passo, con un ghigno sul volto che non le piacque per niente.

«Tu c-cosa...» balbettò lei, alla disperata ricerca di una frase sensata. Le pareva di avere il cervello in poltiglia.

«Devo andare, mocciosa. Alla prossima!»

John si allontanò ridacchiando, lasciandola sola, con la mente affollata da pensieri.

Fece un paio di respiri profondi, cercando di far tornare il battito alla normalità. Quando la tachicardia fu passata, cercò di fare mentalmente tabula rasa di ciò che era appena successo, sperando in cuor suo che il ragazzo non decidesse di spifferare in giro i fatti suoi.

La conversazione, la loro improvvisa vicinanza, la rivelazione di John riguardo quella cosa ed il suo conseguente shock lasciarono sgombra la sua mente a fatica, ma c'era una cosa, un pensiero fisso, che proprio non riusciva a scacciare e continuava a farla ribollire dalla rabbia.

Annie. Annie. ANNIE.

Strinse i pugni e d'un tratto provò una furia incontrollabile. Si augurò che Kia non decidesse di uscire dal bagno proprio in quel momento, o probabilmente si sarebbe trovata con un occhio nero e qualche dente in meno.

Allora è così che si sente Angie prima di una rissa?

Soffocò un urlo e, a costo di sfogarsi, tirò con tutte le sue forze un pugno al muro che, ovviamente, non cedette di un millimetro.

 

«BETH! Ma che cosa ti sei fatta?»

Uscita dal bagno, mi attendeva uno spettacolo surreale. Beth, con un'espressione incredula quasi al pari della mia, si stava fissando la mano, le cui nocche erano irriconoscibili per via del sangue che, lento ma implacabile, continuava a colarle fra le dita e cadeva a terra in piccole gocce.

«Beth!» gridai, avvicinandomi di corsa. «È stato John a farti questo?»

Lei scosse piano la testa, poi indicò con un cenno un punto oltre la mia spalla. Mi voltai e, senza riuscire a credere ai miei occhi, vidi le impronte del pugno insanguinato di Beth impresse contro il muro bianco.

«Penso di aver sclerato» mormorò allora lei, con voce flebile.

Non sapevo se essere più preoccupata o furiosa.

«Niente di rotto?» domandai infine, osservando la situazione e sforzandomi di rimanere impassibile di fronte a tutto quel sangue, per non agitare la mia amica.

Le nocche erano tutte sbucciate ma, almeno a prima vista, non mi sembrava niente di grave.

Lei mosse piano la mano, facendo una leggera smorfia, ma le dita si flessero senza alcun problema. Tirammo all'unisono un sospiro di sollievo.

«Che ne dici, prolunghiamo il giretto passando dall'infermeria?» proposi, sorridendole.

Lei si asciugò gli occhi lucidi con la mano sana e fece sì con la testa.

«Certo che oggi non te ne va bene una! Prima il torcicollo, poi questo» dissi, e lei ridacchiò.

Preferii non indagare sul perché avesse improvvisamente deciso di prendersela con il muro, dato che avevo il fugace sospetto che quell'idiota di John c'entrasse qualcosa. Non ero del tutto sicura sull'influenza più o meno positiva che quel ragazzo aveva su Beth ma, visto l'umore mogio di lei, preferii soprassedere.

«Certo che dobbiamo inventarci una scusa credibile, con la Rooth» aggiunsi, pensierosa.

«In effetti sarebbe imbarazzante dirle che ho fatto a botte con il muro.»

«Angie sarebbe così fiera di te!» esclamai, fingendo di asciugarmi una lacrima.

****

«Abbiamo le docce comuni, sul serio?» domandò Angie, incredula. Quella scuola non avrebbe mai smesso di sorprenderla.

Night le stava camminando velocemente davanti e non si voltò. Inizialmente non rispose neanche, tanto che la ragazza pensò che non avesse sentito.

«Già» rispose infine, dopo quella che le parve un'eternità, con un tono stranamente cupo persino per uno come Night, che la fece rabbrividire.

L'ingresso delle docce era in fondo alle aule, posto in penombra, non troppo lontano dalla sezione in cui lei e Night stavano cucinando.

Varcarono l'ingresso senza porte e, davanti a lei, su un pavimento piastrellato, si profilò una triste e lunga fila di docce tutte uguali con un'altrettanto triste tendina grigia davanti.

Il luogo era semibuio ed immerso nel più religioso dei silenzi.

Angie si strinse nella divisa inzaccherata, scossa da un improvviso brivido. Quel posto non le piaceva per niente.

«So che non sembra» mormorò Night, e la sua voce rimbombò nelle docce deserte. «Ma, prima che decidessero di aggiungere il bagno nella camere, questo era un posto perennemente affollato.»

Le aveva dato le spalle per avvicinarsi ad una delle tendine e, passandovi il dito sopra, quello si coprì subito di polvere.

«Adesso credo che nessuno ci metta più piede. Gli studenti più giovani non sanno neanche della loro esistenza» continuò, in tono criptico. «In effetti, forse non dovremmo stare qui.»

Angie sbuffò. Crede forse di spaventarmi?

«Ma perché non le usano più?» non poté trattenersi dal chiedere.

Night rimase in silenzio. I suoi occhi si fecero velati, persi nei ricordi, ed Angie capì che non le avrebbe dato una risposta. Ma, in ogni caso, non era del tutto sicura di volerla conoscere.

Attese in silenzio, picchiettando la punta della scarpa sulle piastrelle.

«L'acqua dovrebbe funzionare» esclamò Night bruscamente, riprendendosi. «Va' a lavarti quei capelli luridi, Gonnellina al Vento

«Luridi per colpa di chi?» borbottò lei, sospirando.

Si parò davanti ad una della tante docce e scostò la tendina, sollevando un cumulo di polvere che la fece tossire. 

Dietro la tenda vi era uno spettacolo sudicio a tal punto che i deboli di stomaco probabilmente non avrebbero retto. Nel vedere lo spesso strato di sporco sul pavimento, la ragazza si lasciò sfuggire un gemito.

Giuro che, se adesso spuntano gli scarafaggi dallo scarico, vomito.

«Ah, tieni questo.» Night sollevò la tendina e le allungò una bustina di shampoo.

«Allontanati, razza di maiale» lo schernì lei, chiedendosi in un secondo momento da dove diavolo Night avesse tirato fuori una bustina di shampoo. La afferrò sgarbatamente e gli richiuse la tendina in faccia. Ma poi, dopo averle dato un'occhiata di sfuggita, un altro gemito le sfuggì di bocca.

Sulla bustina era raffigurato un unicorno rampante. Ma che diavolo...?

Night doveva aver sentito i suoi lamenti, perché si affrettò a spiegare: «Non farti strane idee. È di mia sorella.»

Oh, immagino sia di tua sorella anche quello che tieni nascosto in camera tua, pensò Angie, e dovette mordersi la lingua per non parlare. Avrebbe chiesto spiegazioni a Shadow al più presto.

Relegando gli unicorni in un angolo della mente, la ragazza fece per sollevarsi la maglia, ma d'un tratto si bloccò, sospettosa.

«Sei lontano, vero?» mormorò, tendendo l'orecchio.

Il ragazzo non disse nulla, ma dal sospiro incazzato che Angie udì in risposta doveva essere pressappoco un paio di docce più avanti.

A quel punto la ragazza tirò un sospiro di sollievo e si sentì libera di sfilarsi la maglia. Rimasta in reggiseno, si legò la camicia in vita e aprì l'acqua e la bustina di shampoo.

Però, profuma di fragola.

Dopo un gorgoglio sommesso che per un attimo le fece temere il peggio, l'acqua cominciò a scendere. Pulita, notò Angie con sollievo. Regolò rapidamente la temperatura e, quando le parve abbastanza tiepida, si parò dietro il getto, di fronte alla tenda – per fermare Night in caso di aggressioni – e mise il capo sotto l'acqua, attenta a non schizzarsi ulteriormente.

Cominciò a sciacquarsi e, man mano che vedeva i disgustosi resti dell'uovo scorrere via nello scarico e sentiva i capelli tornare morbidi fra le sue dita, la ragazza iniziò a rilassarsi.

Ma, anche se più distesa, in cuor suo non poteva ancora dirsi tranquilla, perché non poteva ignorare la presenza di Night poco più avanti, mentre lei era lì, indifesa e mezza nuda nella doccia.

È un idiota, ma non si abbasserebbe mai a questi livelli, pensò e quel pensiero bastò a convincerla.

Si fece due rapidi lavaggi con lo shampoo dell'unicorno – davvero ottimo, fu costretta ad ammettere – completando la meticolosa operazione con un lungo risciacquo finale.

Mentre finiva di lavarsi, il getto d'acqua smise improvvisamente di scorrere.

Stupita, Angie sollevò il capo e il sangue le si gelò nelle vene quando incontrò lo sguardo di Night, ad un passo dal suo viso. Le sue guance presero fuoco.

Il ragazzo aveva chiuso il rubinetto per farle alzare la testa ed Angie fece appena in tempo a realizzare che era senza maglia, con i capelli ancor più bagnati di prima e le tette in bella vista, che Night la spinse contro la parete gelida della doccia e la baciò.

Presa alla sprovvista, la ragazza rimase senza fiato, ma non oppose alcuna resistenza. 

Cogliendola di sorpresa nell'unico momento in cui aveva abbassato la guardia, Night era riuscito a far sì che per una volta non avesse il tempo di ribattere.

E, in effetti, lei di ribattere non aveva alcuna intenzione. Anzi, doveva ammettere che Night non baciava affatto male ed in altre circostanze avrebbe anche potuto pensare di godersi quel momento, ma non con il rubinetto fastidiosamente puntato nella schiena e il seno praticamente nudo schiacciato contro il suo petto. No.

Night continuava a baciarla ma, quando il fastidio del rubinetto premuto contro la sua spina dorsale divenne dolore, Angie tentò invano di allontanarsi: la stretta del ragazzo era ferrea, così non le rimase altro che inarcare la schiena, finendogli ancora più attaccata. Se non altro adesso il dolore era sopportabile, ma la situazione era diventata piuttosto equivoca.

«Perché ti spalmi così addosso a me?» ansimò lui contro il suo orecchio, staccandosi un attimo dalle sue labbra. «Tutto d'un tratto ti sei addolcita?»

A malincuore, Angie si rese che la voce di lui che le bisbigliava all'orecchio le provocava brividi ovunque. Quando sentì che il ragazzo dall'orecchio stava scendendo a baciarle il collo, si impose di non gettare il capo all'indietro e tentò di darsi un contegno.

«Non mi sono addolcita affatto... è che... che... questo rubinetto mi sta uccidendo» tentò di replicare, allontanandolo a fatica da lei.

Night si staccò, ansimante, il viso più bagnato del suo, ed Angie si affrettò a coprirsi faticosamente il petto con le braccia, anche se lui non sembrava prestargli alcuna attenzione e continuava a fissarla intensamente negli occhi.

«E adesso» esordì Angie, schiarendosi la voce, «lasciam...»

Ma non riuscì a concludere un bel niente, perché l'attimo dopo le labbra del ragazzo furono nuovamente sulle sue.

Questa volta lui la schiacciò alla parete con tutto il suo peso e alla ragazza mancò il respiro per un attimo, seguito da una lancinante fitta alla schiena.

Dio, maledetto rubinetto!

Cercò di ignorare il dolore, concentrandosi sulla bocca di lui, che ormai sembrava essere diventata un tutt'uno con la sua, tant'è che Angie schiuse le labbra senza esitazione quando Night approfondì gradualmente il bacio.

Entrambi erano fradici e ansimanti, mentre il ragazzo cercava di restare in piedi a fatica, sul pavimento bagnato e sdrucciolevole.

Angie sentiva le mani di lui fra i suoi capelli, sul collo e, non ancora soddisfatta, lo attirò a sé, circondandogli il collo con le braccia. Mentre ogni tensione tra loro sembrava essere svanita, finirono nuovamente entrambi sulla parete, alla ricerca di un precario equilibrio.

Angie percepì un'altra fitta di dolore, ma si sforzò di ignorarla. Senza pensarci, mentre lui continuava a baciarla come insaziabile, nell'assecondare i suoi movimenti lei mosse il rubinetto in senso orario con la schiena e aprì l'acqua, che investì Night in pieno.

Lui si allontanò con uno scatto, ma scivolò sul bagnato e quasi cadde sul pavimento, infradiciandosi sempre di più con gli schizzi mentre tentava di riacquistare l'equilibrio.

Angie non si bagnò, poiché era dietro il getto dell'acqua e, nell'osservare Night che ondeggiava e mulinava le braccia come un pattinatore alle prime armi, soffocò a stento una risata.

«Ti...ti dispiacerebbe chiudere il rubinetto?» borbottò lui, a denti stretti.

La ragazza smise all'istante di ridere e obbedì. A quel punto Night, raggiunta una certa stabilità, si appoggiò con un braccio alla parete, immobile e fradicio come un cane bagnato, lo sguardo fisso sul pavimento.

Angie rimase in silenzio a fissarlo, a braccia conserte. Dopo quello che era successo, neanche il fatto di trovarsi mezza nuda davanti a lui sembrava turbarla più di tanto.

L'aveva baciata. E come l'aveva baciata!

Ci teneva a lei, allora? O, più probabilmente, il suo era solo un patetico tentativo di convincerla ad andare al ballo con lui, per poter continuare quella stupida recita?

Angie non ebbe bisogno di riflettere oltre. Si avvicinò al ragazzo, che non aveva ancora proferito una parola, e gli afferrò il mento con un gesto non troppo aggraziato per costringerlo a fissarla negli occhi. Lo lasciò solo quando i loro sguardi si furono incrociati e, a quel punto, Angie provvide a nascondere le sue grazie per l'ennesima volta.

«Puoi anche smetterla di coprirti, tanto ho già visto tutto quel che c'era da vedere» le fece notare lui, con un sorrisetto. «E non mi dispiac...»

«Sta' zitto» sibilò lei, fulminandolo con lo sguardo mentre, suo malgrado, le guance le si imporporavano. «Sappi soltanto che io non cambio idea» continuò molto lentamente, senza mai smettere di guardarlo.

Non ci fu bisogno di specificare alcunché: Night sembrava aver capito benissimo.

Quindi la ragazza lo superò con slancio, a testa alta e sicura di sé, pronta per un'uscita di scena memorabile con cui dargli il colpo di grazia, ma scivolò sul bagnato e, dopo una mossa da aeroplano in caduta libera, si stampò rumorosamente sul pavimento della doccia.

Per tutta risposta, Night ridacchiò sommessamente.

La ragazza, fradicia ma tutta intera, si alzò in piedi a fatica e, sforzandosi di ignorarlo, uscì come se nulla fosse, ricordandosi solo all'ultimo momento di indossare la camicia. Fradicia pure quella.

 

Gérard stava facendo il suo solito giro di ricognizione all'interno dell'istituto.

Aveva appena ripreso una coppietta di studenti che, seminascosta vicino all'ingresso della scuola, si stava quasi letteralmente mangiando l'un l'altro.

L'uomo sospirò, vagamente disgustato al ricordo. In ogni caso, ormai ci stava facendo il callo: episodi come quello accadevano quotidianamente e non poteva che essere altrimenti, con tutti gli ormoni che quei ragazzi avevano in corpo.

Mentre camminava stancamente lungo il corridoio deserto, si imbatté in quella che riconobbe come la ragazza di Night, dai lunghi ricci biondi e, notò il custode con un certo stupore, la divisa fradicia. Si accorse anche che, a dispetto del viso ovale e dai lineamenti delicati, la giovane aveva un'aria infuriata. Come sempre, del resto.

Fu tentato di fermarla per chiederle come fosse finita in quello stato e magari farle una ramanzina ma, vedendo da dove partivano le impronte delle sue scarpe bagnate, Gérard si sentì gelare il sangue e nient'altro lo distolse dal dirigersi lì.

Mentre si avviava a passo spedito verso le docce, il cuore che iniziava inevitabilmente a martellargli nel petto, gli sembrò di rivivere la stessa scena di sei anni prima. Solo che, al posto delle urla disperate, ci fu solo il silenzio ad accoglierlo quando ebbe superato l'ingresso.

«Chi c'è?» domandò con voce alterata.

La sua voce rimbombò tra le pareti apparentemente deserte. Una parte di lui non voleva addentrarsi in quel posto, memore di ciò che vi era accaduto, ma alla fine azzardò qualche passo in avanti. Forse la ragazza aveva picchiato qualcuno lì, che adesso poteva aver bisogno d'aiuto.

«Chi c'è?» ripeté aspramente, guardandosi intorno. Le docce però sembravano in perfetto ordine.

«Gérard...?»

All'improvviso l'uomo udì una voce fievole e si bloccò, riconoscendola. Dopo un momento, da una delle docce uscì Night, malfermo sulle gambe e fradicio dalla testa ai piedi.

Gérard rimase a bocca aperta. Per un attimo al suo posto vide la figura di un'altra persona, ma si affrettò a scuotere la testa e tornare alla realtà.

«Night! Ma che ci fai qui?» Il suo tono era cambiato immediatamente. Da furioso qual'era appena entrato, si avvicinò preoccupato al ragazzo.

Lui gli fece un sorriso mesto. «È una lunga storia...»

****

Beth ed io ci stavamo lanciando cuscini da un letto all'altro, in piedi, io in mutande, lei senza maglia, quando Angie fece il suo ingresso in camera.

Eravamo troppo occupate a ridere come matte, saltando come delle bambine sulle coperte, che nessuna delle due, pur avendola vista entrare, la degnò di un'ulteriore sguardo.

Angie non dovette gradire, a giudicare da come si mise a sbraitare.

«RAGAZZE!»

Tutte e due ci voltammo verso di lei, zittendoci di colpo.

«Vi rendete conto che siete mezze nude e con la porta socchiusa?!» tuonò.

Beth si fece d'un tratto pensierosa. «Ah... ecco come hai fatto ad entrare.»

Angie levò con esasperazione gli occhi al cielo. «QUALCUNO POTEVA VEDERVI!» gridò istericamente l'attimo dopo, facendoci prendere un infarto.

«Meglio» commentò l'altra, accennando un sorriso malizioso.

«Beth!» La spinsi in avanti, facendola cadere a faccia in giù sul letto. 

La sentii ridere a crepapelle e ridacchiai a mia volta.

«Come sei audace! Così ci scandalizzi...» la presi in giro ma, a giudicare dall'espressione di Angie, probabilmente la mora doveva averla scandalizzata sul serio.

«Angie, come mai sei così nervosa?» domandai, lanciandole uno sguardo preoccupato, notando confusa che aveva la divisa dell'uniforme tutta bagnata.

«IO NON SONO NERVOSA!» urlò lei, serrando i pugni. Poi si rivolse bruscamente a Beth: «E tu, non avevi il torcicollo?»

Lei sollevò il capo dal letto, i capelli tutti scompigliati sparsi sulla fronte. «Sono andata in infermeria... per questo» borbottò, alzando la mano con cui aveva colpito il muro, che adesso era ricoperta da un'ingente fasciatura. «E, già che c'ero, mi hanno aiutata anche con il collo.»

«E alla mano? Che ti sei fatta?» continuò Angie, con lo stesso sgarbo.

Beth evitò di rispondere, replicando invece: «A me, comunque, sembri nervosa eccome. È forse successo qualcosa con Night?»

Pensai che fosse lecito chiederlo: dopotutto, nove volte su dieci, l'umore nero di Angie derivava da una litigata o uno scontro con lui.

«Non vi sarete forse... baciati?» scherzai, notando un vago rossore sulle guance di lei quando Beth ebbe pronunciato il nome del ragazzo.

Mi sedetti sul bordo letto, guardandola con l'aria di chi la sa lunga.

«COME FAI A SAPERLO?» esclamò Angie di scatto.

«Intuito» risposi, strizzandole l'occhio.

Dentro di me dovetti fare uno sforzo titanico per non scoppiarle a ridere in faccia. Avevo tirato ad indovinare, tanto per farle infuriare un po', ed invece...

Beth fissava Angie con gli occhi sgranati. «Allora è vero?!» domandò, incuriosita.

«Voi. VOI. VOI...»

«È vero» commentammo Beth ed io all'unisono, lanciandoci uno sguardo d'intesa.

«Sì... è vero» ammise Angie, lasciandosi cadere sul suo letto con un sospiro.

«A proposito... come mai sei tutta bagnata?» le chiesi, osservando con più attenzione la sua camicia fradicia. «Ti conviene stenderla ad asciugare un po', tanto è acqua.»

«Siamo sicuri che sia acqua?» mormorò Beth, maliziosa. «Magari non si sono solo baciati...»

«Dio Beth, che schifo!» risposi, lanciandole un cuscino che le mancò di poco il volto. «Ma che ti prende, oggi?»

Dal canto suo, Angie rimase immobile, a faccia in giù, il viso nascosto dal cuscino. Non proferì più una parola e, vedendola così giù di morale, Beth ed io preferimmo non insistere e dopo un po', contagiate dal suo atteggiamento, tornammo in silenzio sui nostri rispettivi letti.

Udimmo nuovamente la voce di Angie dopo quella che mi parve un'eternità.

«Quasi quasi invito mio fratello Nathan alla festa.»

«Ah sì?» feci io, percependo finalmente un po' di entusiasmo nel suo tono di voce.

La ragazza sporse un braccio per afferrare il cellulare dal comodino e, dopo essere tornata comoda sul letto, iniziò a scrivere.

«Sì, lui le adora! E poi si trova ad Edimburgo, quindi non gli sarà difficile venire» spiegò e mi rasserenai nel vederla sorridere.

Mentre Beth ed Angie chiacchieravano dei turbolenti fratelli di lei, io mi sdraiai sul letto, lo sguardo rivolto al soffitto, intenta a riflettere su un pensiero che aveva improvvisamente fatto capolino nella mia mente.

«Pensavo una cosa» dissi dopo un po', tornando seduta.

«Sì?» esclamò Beth, sollevando il capo.

«Uhm?» grugnì Angie, bloccandosi un attimo dallo scrivere.

«Stavo pensando che... noi siamo abbastanza diverse, adesso» dissi, e loro annuirono. «Come pensate che reagiranno i nostri genitori?» domandai, improvvisamente turbata.

«Diremo loro che siamo cresciute» borbottò Angie, scrollando le spalle.

«Be'... che il periodo che abbiamo passato qui ci ha rese più mature... in tutti i sensi!» scherzò Beth.

«Ragazze, seriamente!» sbottai.

Non mi ero mai fermata a pensarci ma, adesso che saremmo tornate a casa per le vacanze natalizie, non riuscivo a immaginare quali sarebbero state le reazioni delle nostre famiglie nel vederci così.

«Kia, tranquilla...!» mormorò Beth, che parve sul punto di aggiungere qualcosa come "Non fare come Angie!" ma, dopo aver lanciato uno sguardo di sottecchi alla ragazza, che nel frattempo aveva ripreso a scrivere, parve ripensarci. «E poi, ricordati che abbiamo sempre Arianna come alibi. Lei dopotutto non è cambiata di una virgola. È già perfetta di suo!»

«Ma se ha un petto che è una tavola...» commentò Angie, quasi fra sé.

«Tra la sua prima e la tua quinta, ci vorrebbe una via di mezzo» disse Beth, lanciandomi uno sguardo di solidarietà dal suo letto, ed Angie le fece una linguaccia.

«Non capisco perché ai maschi debbano piacere così tanto le tette» mugugnai, pensando d'istinto a Luke: probabilmente adesso, vedendomi, avrebbe pensato che mi fossi fatta un intervento di chirurgia plastica.

Notai con la coda dell'occhio che, dopo il mio commento, Angie era arrossita vistosamente e mi chiesi il perché di quella reazione.

«A proposito, dov'è Arianna?» fece lei, affrettandosi a cambiare argomento. «Mi sembrava che si stesse un po' troppo bene, in camera.»

«Ci raggiunge per pranzo» risposi, ignorando il suo tono canzonatorio. «L'hanno trattenuta per rifinire i dettagli di alcuni cartelloni, in palestra.»

«Avevano bisogno di una precisina!» spiegò Beth, ridendo.

****

Arianna camminava spedita sul sentiero diretto a scuola, accompagnata da un vento fastidioso che le scompigliava i lunghi capelli, facendoli volare in tutte le direzioni. Cominciava a fare fresco e lei si maledì per essere uscita senza cappotto.

E sono in ritardo per il pranzo.

La professoressa Rooth le aveva spacciato ciò che doveva fare in palestra come un lavoretto da poco ed invece era rimasta bloccata lì, insieme ad altre malcapitate come lei, per almeno mezz'ora, a colorare ogni dettaglio di quegli insulsi cartelloni.

Mentre rovistava nello zaino alla ricerca di un elastico, si imbatté in un pennarello che evidentemente credeva soltanto di aver ridato alla Rooth, prima di andarsene. Per un attimo le balenò in mente l'idea di riportarlo indietro, ma poi scrollò le spalle e proseguì lungo il vialetto. Un pennarello blu in più o in meno non avrebbe certo fatto la differenza.

L'unica cosa vagamente interessante che aveva udito in palestra, da una ragazza di un paio d'anni più grande di lei, era che, in vista del ballo, una professoressa avrebbe portato chi lo desiderava in un borgo vicino Alnwick a fare compere. Le aveva raccontato che, a dispetto del piccolo paesino, nel centro storico c'era un bellissimo negozio di vestiti in cui ogni anno le studentesse lasciavano a cuor leggero le proprie paghette. Arianna era davvero curiosa di dargli un'occhiata.

Camminando lungo la stradina, le parve d'intravedere un ragazzo moro intento suonare la chitarra, in un angolo della pineta, ma non gli prestò molta attenzione e proseguì a passo svelto.

Dopo un altro paio di metri realizzò con sollievo che, oltrepassato il campo da basket, sarebbe finalmente arrivata. Nel superarlo velocemente, l'occhio le cadde per un attimo su una figura tutta intenta a fare canestri e alla ragazza venne quasi un infarto quando si accorse che si trattava di Lucas.

Si bloccò di scatto, gli occhi fissi su di lui come ipnotizzata e, dopo un momento di indecisione, si avvicinò all'entrata del campo per fargli un saluto.

Al diavolo il pranzo!

Lucas non l'aveva vista, concentrato com'era nel palleggiare, e lei fece per attirare la sua attenzione, quando le parve che il ragazzo avesse detto qualcosa. Dopo un attimo di perplessità, si accorse che non se l'era immaginato. 

Lucas stava parlando. 

Da solo.

Preoccupante.

Dalla sua posizione non riusciva a capire che cosa stesse dicendo, per cui, vinta dalla curiosità, entrò di soppiatto nel campo, cercando di non farsi notare. Non fu difficile, comunque: Lucas era del tutto preso da ciò che stava facendo e non alzò un attimo gli occhi dal pallone.

Lei lo osservò con una sottile curiosità compiere un paio di palleggi, seguiti un mezzo giro con cui si posizionò a centrocampo, dando le spalle al canestro.

La ragazza si avvicinò ancora, sentendo che il ragazzo aveva ripreso a chiacchierare, ma rimase pietrificata quando udì che cosa stava dicendo.

«Se faccio canestro... chiedo ad Arianna di mettersi con me.»

Il cuore di Arianna perse un battito. Poi Lucas tirò ed accadde tutto in una frazione di secondo. Il pallone che volava nella sua direzione, lei che lo vedeva venire verso di sé senza che fosse in grado di reagire, di muoversi, tantomeno di allontanarsi, il cuore che le martellava nel petto e la palla che la colpiva in pieno volto.

«Arianna!»

La voce spaventata di Lucas la riscosse. La ragazza lo vide confusamente correre verso di lei, preoccupato, mentre la testa continuava a girarle.

«Tutto bene? Ti fa male? Mi dispiace moltissimo!» domandò, senza neanche prendere fiato tra una frase e l'altra. «Ma che ci fai qui?» aggiunse poi perplesso, dopo un momento.

Mmn... Ti stavo spiando?, pensò lei, evitando accuratamente di dirglielo, non ritenendola nella top ten delle migliori motivazioni.

Si massaggiò la testa, constatando che non le era successo nulla – se il colpo le fosse arrivato sul naso, a quell'ora probabilmente avrebbe già perso conoscenza – e si chinò a raccogliere il pallone da terra, ai suoi piedi.

«Tranquillo, è tutto a posto. Comunque... ti ho visto e volevo solo passare a salutarti» spiegò, facendo un sorriso a cui, sperava, Lucas avrebbe creduto.

Fregare Lucas era facile come rubare le caramelle ad un bambino. Il ragazzo sorrise a sua volta, gli occhi che gli brillavano, ma dopo un attimo il suo volto si fece serio.

«Hai... hai sentito tutto?» chiese, chinando il capo.

Arianna si sentì di colpo la gola secca. Sapeva dove sarebbe andata a parare la conversazione e avrebbe voluto continuare a fuggire dall'inevitabile, ma capì di non poterlo fare. Non con Lucas, perché dopotutto non se lo meritava.

Rivolgendo lo sguardo oltre il campetto, sforzandosi di non fissare il ragazzo di fronte a lei, annuì piano.

«Ed hai una risposta?» proseguì lui, alzando lo sguardo ed inchiodandola con occhi straordinariamente seri.

Arianna non riuscì a sostenere il suo sguardo, imbarazzata.

Non voleva giocare con i suoi sentimenti perché, nonostante la sua ingenuità e tutte le sue stranezze, Lucas era davvero un ragazzo d'oro. Sembrava tenere davvero molto a lei e, ormai lo aveva inquadrato, sapeva che avrebbe fatto di tutto per renderla felice.

Ma d'altronde non voleva neanche ingannarlo, perché una parte di lei, nel profondo, desiderava ancora Jake: nessuno, a parte le sue più care amiche di Edimburgo, sapeva che era stato il primo e l'unico ragazzo che avesse mai avuto, con cui aveva condiviso tutto, che l'aveva aiutata a guarire dalla sua malattia. Non lo aveva ancora dimenticato e si chiedeva se sarebbe mai riuscita a farlo, nonostante fosse partito per l'America da mesi, ormai, senza più farsi vivo: si era fatto una nuova vita laggiù, Arianna in cuor suo lo sapeva. Forse aveva già un'altra ragazza.

Si limitò a rimanere muta, in un atroce tormento inferiore.

Lucas dovette interpretare il suo silenzio come un segno di diniego e sospirò.

«Capisco» disse. Il suo tono non tradiva alcuna emozione. «Non verresti comunque al ballo con me... vero?»

La sua pietosa insistenza, unita al ricordo di Jake che la sua mente aveva appena risvegliato, le fecero improvvisamente venire voglia di piangere. Le salirono le lacrime agli occhi, ma si affrettò ad asciugarle in fretta e furia con il dorso della mano, imponendosi di mantenere il controllo.

Non qui. Non ora. Non davanti a Lucas.

«Io... ci penserò. Te lo giuro. Ora devo andare, Lucas» mormorò, sforzandosi di tenere salda la voce. «Sei in ritardo per il pranzo!» aggiunse, prima di voltarsi ed allontanarsi a passo svelto. Non appena gli ebbe dato le spalle, non riuscì più a trattenere le lacrime.

Che razza di persona sono?

Quello che era diventata la disgustava. Non aveva neanche una risposta da dare a Lucas, che era gentile, premuroso e così interessato a lei.

Pensò paradossalmente a quanto si struggesse per Jake che, da quando era partito, non le aveva mai fatto sapere niente: né una mail, né una lettera, né una banale telefonata. Di certo non era di lei che aveva bisogno: era evidente che l'avesse dimenticata e in quel momento probabilmente si stesse divertendo, mentre lei era lì a disperarsi. Ma se lui era così felice, perché per una volta non poteva esserlo anche lei?

Fece per uscire dal campo, ma si accorse di avere ancora in mano il pallone da basket con cui Lucas l'aveva colpita. Lo osservò a lungo, fissando le linee blu che lo attraversavano, mentre un pensiero le andava al pennarello che aveva ancora nella tasca dello zaino, e di colpo prese una decisione.

 

Lucas osservò la ragazza allontanarsi nel più profondo silenzio.

Una parte di lui avrebbe voluto rincorrerla e fermarla, ma non ebbe la prontezza di farlo.

Arianna lo aveva appena rifiutato, realizzò con amarezza. Dopo le loro uscite, dopo quel bacio, il ragazzo era convinto di essere riuscito a fare breccia nel cuore di ghiaccio di lei – come lo definivano i suoi compagni di squadra – ma evidentemente aveva preso un abbaglio. Eppure non poteva credere che Arianna lo avesse soltanto usato: no, non era da lei, così riservata, così poco incline a dimostrare affetto. No, quel giorno aveva colto in lei un profondo malessere, ma non avrebbe saputo spiegarne la causa, dal momento che Arianna non si apriva facilmente neanche con lui.

Un tonfo improvviso interruppe il filo dei suoi pensieri. Il pallone era appena rimbalzato ai suoi piedi. Riscuotendosi, il ragazzo lo prese tra le mani e rimase a bocca aperta.

Proprio al centro della palla, a pennarello, vi era scritto SÌ.

E, a giudicare da quanto ci aveva pigiato sopra, il pennarello in questione doveva essere finito.

In un attimo Lucas capì e alzò gli occhi, ma la ragazza se n'era già andata.

«Arianna!» gridò, avvicinandosi all'uscita del campetto. «Quale delle due proposte?!»

Silenzio. Sembrava essersi volatilizzata.

Lucas rimase immobile a fissare la scritta sul pallone, dubbioso.

Forse viene al ballo con me... o è appena diventata la mia ragazza, rifletté, mentre l'emozione lo invadeva.

Lo sguardo del ragazzo si fece di colpo più serio, più maturo, al punto che, se ci fosse stata in giro qualche sua ammiratrice, probabilmente nel vederlo sarebbe svenuta.

O magari entrambe le cose.

«EVVAI!» Lucas non riuscì a trattenersi dall'urlare, facendo un salto e lanciando il pallone dietro di sé in un momento di euforia.

Un cigolio alle sue spalle attirò la sua attenzione e il ragazzo si voltò di scatto. Aveva appena fatto canestro.

 

Ehilà! 

Eccomi qui con il capitolo tredici :) Spero vi sia piaciuto! Avete capito perché è il preferito della vera Angie? XD 

Devo ammettere che piace molto anche a me, perché ci sono un sacco di avvenimenti e rivelazioni:  dal bacio di Angie e Night, al rapporto di quest'ultimo con Gérard (che d'un tratto sembra molto diverso da come appare...), dalle affermazioni di John agli strani comportamenti di "Draco"... che prima o poi assumerà un'identità. Il mistero si infittisce!

Vi sono piaciute le scene romanticose di Lucas e Arianna (amori miei) e di Angie e Night, travolti dalla passione (e dal getto dell'acqua)?  Nulla di nuovo sotto il sole, ne sono consapevole, però spero che quei due vi abbiano strappato un sorriso <3

Continuate a seguirci e alla prossima!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** -•Capitolo 14 ***




Fu un vero e proprio miracolo se la notte prima del ballo riuscii a chiudere occhio, tanta era la mia eccitazione. Non vedevo l'ora che fosse l'indomani!

La mattina dopo, mentre ero ancora mezza addormentata, una fastidiosa luce mi colpì in pieno viso. Per quanto cercassi di ignorarla, girandomi e rigirandomi nel letto, pochi minuti dopo ero perfettamente sveglia.

Mi guardai intorno, sbadigliando: le tende dalla camera erano state spalancate e una luce tiepida annunciava, stranamente, una giornata di sole. Nell'abbassare lo sguardo, sgranai gli occhi: appoggiata sul davanzale, con lo sguardo perso lontano, c'era Beth.

«Come siamo mattiniere, oggi!» mormorai, stirandomi.

Lanciai di sfuggita uno sguardo alla sveglia: in effetti era abbastanza presto.

«Ciao Kia. Scusami, non volevo svegliarti» borbottò lei, senza voltarsi.

«Ed io che pensavo ti fossi svegliata prima per l'emozione... mi sembri piuttosto depressa, va tutto bene?» le chiesi, con un velo di preoccupazione nella voce.

«Mmn...» fece lei per tutta risposta.

«Dovresti essere felice, stasera si torna a casa!» esclamai.

Proprio così: quella sera, dopo la festa, Beth ed io saremmo tornate a casa per le vacanze, nella campagna di Londra, accompagnate dai genitori di Camila, che avrebbero riportato anche lei e George. Anche Arianna ed Angie sarebbero partite quella sera, mentre alcuni ragazzi avrebbero atteso il giorno dopo per fare ritorno dalle loro famiglie, ma dopotutto non mi importava: prima mi fossi allontanata da quella strana scuola, meglio sarebbe stato.

Non ottenendo risposta da Beth, ma lungi dal gettare la spugna, decisi di cambiare argomento. «Pronta per la festa?»

Lei annuì piano.

«Alla fine ci vai con qualcuno?» chiesi come se nulla fosse, anche se sentivo che quello era il nocciolo della questione.

Come previsto, Beth si lasciò sfuggire un rumoroso sospiro. Poi, forse capendo che non l'avrei lasciata in pace tanto facilmente, parve rassegnarsi e venne a sedersi accanto a me, sulle coperte.

«Ci vado con Ben» borbottò, tentando senza troppo successo di nascondere la delusione.

«Pensavo sarebbe andato con Eric!» scherzai, scrollandomi le coperte di dosso.

«Non penso ricambi i suoi sentimenti...» osservò Beth, pensierosa e, dopo un attimo, scoppiammo entrambe a ridere.

«E tu, Kia?» riprese lei, lanciandomi uno sguardo malizioso. «Speri che venga Luke? Ti farai bella per lui?»

«Penso sia tempo sprecato» dissi, scrollando le spalle. «Non verrà.»

Nonostante cercassi di non mostrarmi troppo avvilita, ero brava più o meno quanto Beth a fingere, perché dal mio tono si percepiva chiaramente un'amara delusione.

La mia amica se ne dovette accorgere, perché non disse nulla e mi abbracciò stretta. Ricambiai l'abbraccio e poi le punzecchiai un po' una spalla, facendole il solletico.

«Qualcosa mi dice che non sei molto entusiasta all'idea di andare alla festa con Ben» osservai, tornando all'attacco.

Lei rimase in silenzio, ma la sua espressione parlava chiaro.

«Dimmi la verità... volevi andarci con John?» chiesi, lentamente.

Mi ero accorta di come Beth lo fissasse dopo la partita, di come si irrigidisse quando lo incrociava nei suoi corridoi, di come arrossisse e distogliesse lo sguardo quando aveva occasione di rivolgergli la parola.

Beth alzò gli occhi, di colpo umidi, e in silenzio mi dissero tutto. Non ci fu bisogno di parole.

Quando la strinsi forte tra le braccia avevo gli occhi pieni di lacrime anch'io.

«Anche quella volta, quando sei sparita durante la partita... eri con lui?»

Beth annuì ed io le sorrisi, grata che fosse stata sincera. Per un attimo mi balenò in mente l'idea di chiederle una cosa, un dubbio che mi tormentava atrocemente da quando avevo ascoltato di nascosto quella conversazione che aveva a che fare proprio con John... ma Beth attaccò a parlare come un fiume in piena e non me ne diede il tempo.

«Oh, Kia! Non so cosa fare! Non lo sopporto, ha un carattere tremendo, ma non riesco a fare a meno di pensare a lui, al fatto che forse sarebbe stato tutto diverso se lo avessi invitato al ballo prima di...» si bloccò un attimo e serrò i pugni, trattenendo un urlo di rabbia.

Sta parlando di John o di Luke?, pensai scuotendo la testa, ma non mi sembrava una cosa carina da dirle, visto che Beth stava soffrendo davvero e, paragonando la sua cotta al mio ragazzo anaffettivo, avrei mandato in frantumi le sue speranze.

«Ti piace, questo è più che evidente. In effetti era da un po' che lo sospettavo...» Mi lasciai sfuggire un sorriso, poi tornai seria. «Eppure è come se non accettassi di essere innamorata di lui. Sembra quasi che tu non voglia dargli questa soddisfazione!»

«Perché lui non se lo merita!» obbiettò Beth. «È uno stronzo arrogante, odia John Lennon... non dovevo innamorarmi di lui!»

«Cara Beth, all'amor non si comanda!» mormorai in tono drammatico e lei, per tutta risposta, mi diede uno spintone.

La mia amica non era come quell'orgogliosa di Angie: non poteva continuare ad ignorare i suoi sentimenti, perché non ne era proprio capace. Ecco spiegato il motivo del suo malessere. Oltre al fatto di non essere riuscita ad invitare John al ballo prima di... giusto, prima di chi?

«Con chi va alla festa John, comunque?» domandai.

Lo sguardo di Beth si fece truce. «Ci va con... CON ANNIE!» urlò quasi istericamente.

«Shh, fa' piano!» bisbigliai, notando le altre due ragazze agitarsi fra le coperte.

Angie scattò a sedere sul letto, gli occhi semichiusi.

«Annie, h-hai detto?» balbettò. «Che ti aspettavi da quella puttan...»

Prima di riuscire a concludere la frase, la ragazza crollò di nuovo addormentata.

«Angie non ha tutti i torti» osservò Beth.

Incrociai le braccia al petto. «Angie, non essere offensiva gratuitamente!» sbottai, anche se probabilmente non poteva sentirmi. Poi mi rivolsi a Beth: «Annie può non starti simpatica ma, solo perché è più amica di John di te, non c'è alcun bisogno di offenderla.»

Lei mi guardò con l'aria di chi la sapeva lunga. «E me lo vieni a dire tu che, quand'eri innamorata di Jake, non ti preoccupavi affatto di offendere la sua ragazza, ovvero Arianna?»

«Jake è stato molto tempo fa» ribattei, guardando altrove.

Beth, mio malgrado, non aveva tutti i torti: in quel periodo detestavo Arianna con tutta me stessa, perché stava con il ragazzo che mi piaceva, e adesso la mia amica non era in una situazione poi molto diversa.

Quando mi decisi ad incrociare nuovamente lo sguardo di Beth, ci fissammo un attimo in silenzio e poi scoppiammo a ridere.

«Però insomma...» fece poi Beth, sospirando. «Annie, oltre a conoscere meglio John, è anche molto più bella di me. Non credo di avere alcuna speranza.»

Scossi la testa. Beth aveva davvero una percezione distorta di se stessa ma, se anche le avessi detto la verità, difficilmente mi avrebbe creduto. «Oh, Beth... la bellezza è fatta di tante cose. E poi» aggiunsi, scrollando le spalle, «magari non gli piacciono le rosse.»

Udii Beth ridacchiare. «George ti sta contagiando?» mi chiese, scuotendo la testa.

In effetti il nostro amico era famoso per consolarci solo e soltanto facendo battute: era solito dire di non essere in grado di fare discorsi seri e la sua frase ricorrente "So che adesso tu ti aspetti che io faccia un discorso intelligente, ma come posso farlo se io non lo sono?" era ormai storia.

«Può darsi» risposi, divertita.

Ci fissammo di nuovo prima di ricominciare a ridere a più non posso.

«Ragazze, fate un po' di silenzio!» Angie scattò di nuovo a sedere e i suoi capelli ricci, già disastrati dal sonno, si arruffarono ancora di più. «Sto cercando di dorm...»

Crollò nuovamente addormentata prima di riuscire a finire.

«La sveglia non è ancora suonata, ma potremmo svegliarle comunque» propose Beth ed io annuii. «Dopotutto abbiamo un mucchio di cose da fare, oggi!» esclamò poi allegramente, alzandosi in piedi.

Se non altro, notai con un mezzo sorriso, le era tornato il buonumore.

«Giusto, stamattina andiamo a fare shopping sfrenato per la festa!» mi venne in mente.

Non vedevo l'ora. Il paesino dove ci avrebbero portato, vicino Alnwick, in realtà non era molto grande, per cui dubitavo ci fossero tanti negozi, ma anche solo l'idea di uscire finalmente dalle mura scolastiche e prendere una boccata d'aria mi allettava.

«Come sei emozionata!» notò Beth, osservandomi di sottecchi mentre si avvicinava al letto di Arianna. «Sicura che Luke non venga?»

«Sarà meglio per te se tieni chiusa quella bocca» risposi ridendo, mentre scuotevo Angie nel tentativo di svegliarla.

****

«Il paese alla fine non è male» mormorò Arianna un'ora dopo, sedendosi con un movimento aggraziato su una delle panchine disposte intorno alla piazzetta.

Dopo esserci vestite – per la prima volta in borghese dopo secoli! – ed aver fatto una rapida colazione, potevamo scegliere se finire di decorare la palestra per quella sera oppure andare a fare shopping per la festa e non ci stupimmo affatto nel constatare che più della metà delle studentesse avesse optato per la seconda opzione.

«Già. È molto carino» convenni, avvicinandomi alla fontana posta al centro della piazza, piccola ma caratteristica.

Mi fermai di fronte alla ringhiera in ferro battuto che la circondava, osservando dei graziosi pesci rossi che nuotavano a pelo d'acqua e spuntavano di tanto in tanto in superficie.

Dopo un attimo, realizzai con un brivido che gli zampilli della fontana arrivavano fin lì, quando numerose gocce d'acqua mi schizzarono il volto, e mi affrettai a farmi indietro.

Mi venne improvvisamente in mente la terribile figuraccia che avevo fatto all'inizio dell'anno, quando John mi aveva fatto cadere nel laghetto della scuola. Tutta colpa di quell'idiota.

Sospirai tra me e me: possibile che Beth dovesse andare ad innamorarsi proprio di un tipo simile? Mi infastidiva terribilmente ma, da amica qual'ero, avrei fatto il possibile per sostenerla.

«Ragazze!» La voce della professoressa che ci aveva accompagnato mi riscosse. «Mi raccomando, rimanete nei paraggi. Ci ritroviamo qui in piazza a mezzogiorno!» spiegò a tutte noi, prima di infilarsi in uno dei tanti negozietti disposti lungo la strada.

Molte studentesse la imitarono, chi proseguiva lungo la via e chi si limitava a curiosare fra le vetrine.

«Che ne dite se cominciassimo con il cercare un negozio di vestiti?» propose Beth e fummo tutto d'accordo. D'altronde nessuna di noi aveva ancora un abito per la festa.

«Una ragazza mi ha detto che c'è un bellissimo negozio di vestiti, qui nei dintorni» spiegò Arianna. «Mi ha dato un paio di indicazioni.»

Dopo aver girovagato in lungo e in largo, cominciando a pensare di esserci davvero perse in un paesino di neanche trecento abitanti, ci ritrovammo davanti ad un negozio di vestiti dall'aria molto sofisticata e paurosamente costosa.

«Sicura che sia questo?» gemette Angie, che non riusciva a staccare gli occhi dalla luccicante insegna.

Arianna la ignorò e si affrettò ad entrare. La seguimmo all'interno e, sopra le nostre teste, una campanella appesa alla porta tintinnò, segnalando la nostra presenza.

«Buongiorno» mormorammo in coro, guardandoci intorno a bocca aperta.

Se non altro, ne era valsa la pena: il negozio sembrava una boutique d'alta moda, scintillante ed in perfetto ordine.

Wow, pensai tra me e me.

«Buongiorno» rispose una voce e, dopo un attimo, una donna tutta agghindata sbucò ondeggiando su un paio di tacchi vertiginosi da dietro un manichino.

Non potei fare a meno di pensare che avesse un'aria davvero poco amichevole.

Con la coda dell'occhio notai che all'interno c'erano numerose studentesse e, dopo esserci addentrate in quel posto fiabesco, scoprimmo che più avanti il negozio si apriva su tre lati, regalandoci uno spettacolo ancor più mozzafiato: dovunque posassi lo sguardo non c'erano che vestiti, di ogni tessuto e colore, con dettagli che andavano dallo strass al tulle passando per le paillettes. Non c'era neanche uno spazio libero e sembrava di trovarsi in un'oasi di luci e colori.

«VESTITI!» non riuscimmo a trattenerci dall'esclamare Arianna, Beth ed io.

«TENDE!» gridò Angie.

La fissammo sconcertate.

Tende? Tende? TENDE?!

La nostra amica si era precipitata alla grande finestra a parete, che ai due lati aveva due magnifiche tende rosa confetto, decorate in fondo con una serie di rose ricamate. Bellissime sì, ma pur sempre delle tende.

«Sono meravigliose!» mormorò lei in estasi, affrettandosi a controllare il tessuto.

Nel vedere Angie palpare senza ritegno le sue tende, l'acida proprietaria assunse un colorito violaceo e mi affrettai ad avvicinarmi alla mia amica.

«Già, e non credo siano in vendita» le bisbigliai, continuando a tenere d'occhio quella melanzana, che stava manifestando i segni di un'imminente crisi di panico.

«Non abbiamo ancora visto niente e già facciamo brutte figure» borbottò Arianna, scuotendo la testa. «Lasciate fare a me» disse poi, avvicinandosi di slancio alla proprietaria.

Stampatosi un sorriso civettuolo in volto, iniziò a curiosare fra i vestiti, elogiando a gran voce marche prestigiose che, se per me erano aramaico antico, d'altra parte parvero rilassare la donna, che stava già riacquistando un colorito naturale.

Imitando Arianna, Beth cominciò a dare un'occhiata in giro, ma sembrava sinceramente delusa, come se fosse alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare.

Strattonai Angie per un braccio, rimasta immobile a palpeggiare le tende.

«Angie» sibilai, «smettila di fare così! Ma poi, da quanto ti piacciono così tanto le tende? Com'è che non dai spettacolo davanti a quelle della nostra camera?»

«Le tende sono artistiche!» gemette lei, opponendo resistenza.

Levai gli occhi al cielo, pensando a quante stupidaggini dovesse averle messo in testa la madre pittrice.

«E poi» continuò Angie, «le tende della nostra camera sono di quel noioso verde bottiglia! Hai visto quanto sono belle queste?»

«Sì. Bellissime» sbuffai, trascinandola a forza via dalla finestra. «Adesso scegli un vestito. Sempre se tu al ballo non voglia andarci indossando una tenda.»

Dopo che la mia amica fu tornata in sé, cominciai anch'io a curiosare in giro, non sapendo che cosa andassi cercando finché non me li ritrovai davanti, disposti per sbaglio dietro una lunga fila di gonne a palloncino.

Nell'attimo in cui li vidi, capii che al ballo non ci sarei andata indossando un vestito.

«Scusi» mormorai, rivolta alla proprietaria del negozio, sforzandomi di mantenere un'espressione gentile quando mi fissò con la sua aria altezzosa. «Ha per caso qualcosa da abbinare a questi pantaloni?»

Lei abbassò lo sguardo su ciò che avevo tra le mani e si lasciò sfuggire un sorriso.

«Ottima scelta. Ecco... penso di avere esattamente quello che fa per te.»

Scomparve un attimo dalla mia visuale per poi ricomparire con in mano quello che aveva tutta l'aria di essere un body, di colore bordeaux.

«Questo si sposerà con la tua carnagione» asserì lei.

Di fronte a tutta quella sicurezza io le feci un sorriso imbarazzato, prima di precipitarmi in camerino.

Quando li ebbi indossati, capii che con i pantaloni ci avevo proprio azzeccato.

Erano dei lunghi pantaloni neri a palazzo, dalla vita alta e con una generosa svasatura in fondo, che fasciavano e slanciavano le mie lunghe gambe al punto che sembravano essere stati cuciti su misura per me.

Dovetti ammettere che anche quella puntigliosa della proprietaria sapeva il fatto suo: il body semplice e attillato, che si adattava perfettamente allo stile ampio dei pantaloni, aveva un audace scollo che arrivava quasi fin sotto il seno e metteva in risalto la mia carnagione scura, facendo sì che sembrasse brillare.

Mi rimirai nello specchio: forse non sarei stata tra le più eleganti, ma quella era un'accoppiata davvero vincente, non potevo sbagliarmi!

Uscii dai camerini con un sorriso a trentadue denti stampato in volto e la proprietaria, squadrandomi da capo a piedi, mi fece un impercettibile cenno di assenso.

«Hai pensato alle scarpe?» mi chiese poi, avvicinandosi.

«Visto che con questi pantaloni non si noteranno molto, pensavo a qualcosa di semplice. Dovrei avere qualcosa...» dissi, pensando ad un paio di tacchi neri che avevo cacciato in valigia prima di partire per la scuola, in un raro momento di femminilità, e che, come prevedibile, non avevo mai tirato fuori.

«Kia, stai benissimo!» esclamò Arianna e mi voltai verso di lei, facendo per ringraziarla.

Mi bloccai a metà quando vidi che cos'aveva la ragazza fra le mani: doveva probabilmente essere il vestito più elaborato di tutto il negozio, il cui strascico le arrivava fino ai piedi, perdendosi in innumerevoli pieghe. Era rosso ciliegia, con sottili ricami neri e un fiocco dello stesso colore legato in vita. Il tipico genere di abito con cui io sarei sicuramente apparsa ridicola, ma a che ad Arianna sarebbe stato d'incanto.

Mentre la proprietaria, che aveva chiaramente preso in simpatia la mia amica, le dava qualche consiglio relativo al suo elegante vestito rosso, Beth si avvicinò, con gli occhi bassi.

«Mi scusi...» mormorò e la donna si voltò verso di lei, fissandola accigliata. «Non è che qui ci sono anche dei vestiti un po' più...»

«Più come?» fece quella sbrigativamente.

Di fronte alla sua scortesia, Beth si fece rossa in volto.

«...Un po' più degli anni '60?» pigolò.

La proprietaria pareva non credere alle sue orecchie. «Vestiti degli anni '60?»

Beth alzò lo sguardo e la fissò, speranzosa.

«Forse abbiamo qualcosa in magazzino. Non sono esattamente gli abiti più richiesti... in ogni caso, vado a dare un'occhiata» disse l'altra, incamminandosi ticchettando verso l'uscita del negozio.

Non mi era sfuggito il tono quasi sofferente con cui aveva pronunciato la parola magazzino: chissà se sarebbe tornata viva da quell'impresa.

«Dei vestiti degli anni '60?» ripeté Arianna, incredula.

Beth, rincuorata dalle parole della proprietaria, annuì. «È il tema del ballo di quest'anno! Non lo sapevi?»

Lei levò gli occhi al cielo. «Beth, nessuno segue mai il tema» disse in tono quasi compassionevole e, per un attimo, parve tornare la ragazza altezzosa di un tempo.

«Ma io amo gli anni '60!» ribatté Beth ed io sorrisi tra me e me: sapevo bene che la mia amica era una patita di quegli anni e che avrebbe fatto di tutto per rinascere in quell'epoca.

«Comunque Kia, stai da dio» aggiunse lei, voltandosi a guardarmi.

«Grazie Beth!»

«Ragazze! Come sto?» Angie uscì trafelata dai camerini, parandosi di fronte a noi.

Quasi non la riconobbi, vedendola con una mise così femminile. Indossava un vestito blu elettrico molto meno sofisticato di quello di Arianna, ma non per questo meno elegante: lungo fino ai polpacci e ripreso in vita, le fasciava le curve mettendo in risalto i suoi fianchi ben modellati, con il seno prosperoso stretto in uno scollo a V che non aveva niente a che vedere con il mio.

«Angie... ti sta benissimo!» esclamai, senza fiato.

«Ma com'è sexy!» commentò Beth, ridacchiando.

«È molto bello» fu costretta ad ammettere anche Arianna, avvicinandosi di qualche passo.

«Arianna, ricordati che è una festa scolastica, non un matrimonio» fece Angie per tutta risposta, fissando l'abito che la ragazza aveva in mano.

Anche con il più femminile dei vestiti, non avrebbe mai perso la sua lingua velenosa, pensai, scuotendo la testa.

Arianna si fece scura in volto e la sua risposta non si fece attendere. «Ah, sì? E tu ricordati che siamo ad una ballo, non ad un nightcl...»

«Ho trovato un abito!» la interruppe la proprietaria, entrando in negozio con in mano un vestito completamente diverso dai nostri: di stoffa semplice, aveva un'elegante scollatura quadrata ed era lungo fino al ginocchio, con una svasatura in fondo completamente in stile d'epoca ed una fantasia a scacchi bianchi e neri che lo rendeva davvero grazioso.

Lanciai di sfuggita uno sguardo a Beth: a giudicare dalla sua espressione imbambolata, doveva essere stato amore a prima vista.

«È uno dei pochi che sono riuscita a trovare» spiegò la donna, porgendoglielo.

Beth lo prese senza fiatare.

«Spero ti piaccia, altrimenti ne vado a prend...»

«Questo è perfetto!» la interruppe lei, accarezzando la stoffa bicolore.

Dopo aver ringraziato la proprietaria, sparì nei camerini e, dopo che fu uscita con indosso il suo abito, constatammo che le donava moltissimo: sembrava davvero spuntata da un'altra epoca.

«Sei bellissima, Beth» le dissi, sorridendo.

Sperai in cuor mio che se ne rendesse conto anche quello stupido di John.

Beth iniziò a saltellare, in preda all'euforia, e mi augurai che la proprietaria non l'avesse vista, o probabilmente avrebbe rischiato una sincope.

Dopo esserci gongolate ancora un po' davanti agli specchi, Arianna ci comunicò che era ora di andare e, a malincuore, ci affrettammo a rivestirci.

Una volta alla cassa, scoprii che fortunatamente il body bordeaux non era un articolo particolarmente costoso, ma lo stesso non si poteva dire dei meravigliosi pantaloni a palazzo. Nonostante ciò, pagai senza esitazioni: sicuramente non erano regalati, ma quei soldi li valevano tutti.

Quando lanciai di sottecchi un'occhiata ad Arianna, mi accorsi che neanche lei sembrava dare troppo peso al fatto di aver praticamente svuotato il suo portafogli.

Fu proprio lei a sollevare un problema a cui nessuna di noi aveva pensato, mentre stavamo uscendo dal negozio, le braccia cariche di sacchetti.

«Ragazze...» mormorò, sbattendo le palpebre. «Abbiamo i vestiti. Ma a tutto il resto chi ci pensa?»

«Tutto il resto cosa?» feci per dire, perplessa, ma Angie mi interruppe.

«IL MAKE-UP!» esclamò, portandosi di scatto le mani al volto, come se le fosse venuto in mente solo in quel momento. Dopotutto, quando ne avevamo parlato in camera prima di andare, lei si era presa la briga di truccarci. «I trucchi non mi basteranno mai per tutte quante!»

«Io ho bisogno di un coprispalle, di una pochette!» riprese Arianna, che stava andando nel panico.

A quel punto anche Beth, che tra noi era l'addetta alla bigiotteria, impallidì. «In effetti... anche io potrei aver bisogno di comprare una collana e qualche bracciale...»

Augurandomi che la proprietaria del negozio di vestiti non stesse osservando quella scena delirante dalle vetrine, mi affrettai a riportare la calma tra le ragazze, le cui grida sembravano gli starnazzi di un gruppo di oche.

«Smettetela di agitarvi» dissi con fermezza, dopo che si furono interrotte un momento per ascoltarmi. «Innanzitutto, quanto tempo abbiamo ancora?»

Arianna diede una rapida occhiata al suo orologio da polso. «Dieci minuti, non di più.»

«Giusto il tempo di ritornare alla piazza...» fece Beth mestamente.

«Allora, ho un'idea. Io adesso mi avvio all'appuntamento e, una volta lì, chiedo alla professoressa se può aspettare qualche minuto in più. Voi intanto andate a comprare ciò che manca per stasera. Cosa ne pensate?»

«È perfetto, Kia!» esclamò Angie a nome di tutte, di colpo di nuovo positiva.

A quel punto ci separammo, con la promessa che avremmo fatto i conti una volta tornate in camera e, dopo che Beth fu entrata in un negozio di gioielli – che sembrava più lo studio di una chiromante – e che anche le altre due si furono dileguate, mi incamminai da sola lungo la via.

Dopo un po' iniziai a far dondolare avanti il sacchetto, fischiettando di tanto in tanto un motivo che avevo in testa.

La strada era completamente deserta e, quasi senza rendermene conto, iniziai a saltellare lungo il marciapiede. Mi sentivo un po' come in quei musical degli anni '60 che Beth ed io guardavamo il sabato sera, invece di uscire come facevano tutte le nostre coetanee.

Chiunque mi avesse visto in quello stato probabilmente avrebbe chiamato seduta stante la casa di cura più vicina, per cui non mi stupii più di tanto quando un auto, spuntata dal nulla, mi suonò il clacson, ma non m'impedì di avvampare comunque, in preda alla vergogna.

Quando alzai lo sguardo, rimasto fino ad allora fisso sul marciapiede, la macchina era già scomparsa. In compenso, dall'altro lato della strada, notai l'insegna di un parrucchiere e in un flash ricordai che avevo promesso alle mie amiche che quella sera avrei acconciato i loro capelli. Ma ero tranquilla, dato che mia madre faceva la parrucchiera di professione e potevo dire di aver ereditato un po' del suo talento, dopo aver passato metà della mia infanzia nel suo negozio.

Continuai a fissare la vetrina, travolta da un'improvvisa nostalgia di casa, e poi ripresi a camminare spedita.

Non a passo di danza, stavolta.

 

Quando arrivai in piazza, a mezzogiorno spaccato, mi accorsi con sollievo che ben poche ragazze – me compresa – avevano rispettato l'ora dell'appuntamento.

La professoressa, al centro di un capannello di studentesse, non ne sembrava troppo stupita. La avvertii comunque del ritardo delle mie amiche.

Rimasi ad aspettare in silenzio, in mezzo al brusio delle ragazze cariche di sacchetti e visibilmente elettrizzate per quella sera e, una decina di minuti dopo, vidi spuntare all'orizzonte Beth ed Arianna. Mi affrettai a raggiungerle.

«Com'è andata? Avete comprato qualcosa?»

Per tutta risposta, Beth sollevò le braccia, che tintinnarono. Le fissai ad occhi sgranati: erano coperte da decine di braccialetti scintillanti, di ogni colore e fattura.

«Direi che è andata bene!» dissi, ridacchiando.

«La proprietaria mi ha praticamente regalato metà dei gioielli del negozio» fece lei e, ripensando a quanto apparisse stravagante la gioielleria, ipotizzai che Beth fosse la prima cliente che vi entrava dopo secoli.

«E tu, Arianna?» chiesi, notando che anche lei non era da meno: aveva le mani ingombre di pacchettini e sacchetti al punto che le nascondevano parzialmente il volto.

«Mmn, vediamo. Ho preso un paio di scarpe... un foulard...» elencò lei, sbirciando dentro i sacchetti. «Ah sì, già che c'ero, anche qualche completino sexy.»

Beth ed io la fissammo, allibite.

«Che c'è?» sbottò lei, notando le nostre facce. «Erano a metà prezzo!»

«EHI!»

Le giustificazioni di Arianna furono interrotte dall'improvviso arrivo di Angie, anche lei carica come un mulo. Oltre ai sacchetti, che recavano il marchio della profumeria dov'era stata, notai perplessa che aveva tra le braccia due involti alti quasi quanto lei.

«Angie...?» bofonchiai, dubitando che in commercio esistessero mascara di quelle dimensioni.

«I trucchi ve li faccio vedere in camera, promesso!» ci assicurò lei.

Poi si dovette accorgere che tutte e tre stavamo fissando gli altri due mastodontici pacchi.

«Ah, questi! Sapete, accanto alla profumeria c'era un bellissimo atelier e non ho proprio resistito...»

Pensando a quali poteri paranormali dovesse possedere Angie per trovare il tempo e il denaro di comprare dei quadri in meno di dieci minuti, non mi accorsi che una familiare testa rossa aveva fatto capolino in mezzo a noi.

«Ragazze!»

Annie, avvolta in una nuvola di profumo e con i lunghi boccoli rossi che le ricadevano perfettamente sulle spalle, troneggiava su di noi con un sorriso da rivista stampato in volto.

«Vedo che avete fatto spese!» esclamò, in tono esageratamente cordiale. «Mi fate dare un'occhiata?»

Per tutta risposta Angie strinse a sé i suoi pacchetti, fissandola in cagnesco, e Beth non reagì proprio. La situazione si stava facendo imbarazzate, ma Arianna, impassibile come sempre, le avvicinò prontamente uno dei suoi sacchetti, permettendole di sbirciare dentro.

«Wow, Arianna! Hai buon gusto!» cinguettò Annie, fissando uno dei suoi completini.

Beth soffocò una risata ed io le allungai una gomitata nelle costole.

A quel punto Annie, evidentemente sprovvista di perspicacia, si passò una mano fra i capelli superbamente agghindati e fece vagare lo sguardo tra i suoi e i nostri.

«Ma... non vi siete fatte nulla ai capelli?» chiese, in un patetico tentativo di prolungare la conversazione.

«Glieli sistemerò io questo pomeriggio, me la cavo abbastanza» le spiegai, con un sorriso.

Lei scosse la testa. «Ci credo, ma avreste fatto meglio a sistemarveli adesso!»

Contro ogni previsione, Beth fece un passo avanti e la fissò con aria di superiorità. Stentavo a riconoscerla.

«E invece no» rispose seccamente e mi stupii del suo tono ostile. «I capelli non ti dureranno mai fino a stasera» spiegò, con la stessa pazienza con cui si sarebbe rivolta una bambina.

Annie captò – stranamente – la piega che andava prendendo la conversazione.

«E invece sì » ribatté, a tono.

«E invece no» replicò Beth.

«Sì.»

«No.»

«Staremo a vedere» concluse Annie, girando sui tacchi, non prima di aver scoccato a Beth uno sguardo di pura superiorità.

****

«RAGAZZEEEE!»

Annie spalancò con un tonfo la porta della nostra camera. Stava singhiozzando.

Stavo giusto per chiederle chi le avesse dato il numero della nostra stanza, quando lo sguardo mi cadde sui suoi capelli, e non potei fare a meno di inorridire. Perché forse capelli non era il termine adatto per definire quella massa rossiccia ed informe: sembrava che le fosse esplosa una bomba sul cranio.

Beth, seduta sul letto di fronte al mio, scosse la testa divertita, mentre Angie, dopo aver fatto capolino nell'ingresso ed averle lanciato un'occhiata, scoppiò a ridere sguaiatamente.

A quella reazione, altri lacrimoni minacciarono di spuntare dagli occhi della ragazza ed io fulminai Angie con lo sguardo.

«Annie! Ma che cosa ti è successo?» domandai, bloccandomi un attimo dal passare l'arricciacapelli sulle ciocche di Arianna, che non aveva avuto nessuna particolare reazione di fronte a quel cespuglio con le gambe. Almeno lei.

«J-John mi ha... mi ha rovinato i capelli!» fece Annie, scoppiando in singhiozzi.

Angie intanto continuava a sghignazzare senza ritegno ed io mi voltai un attimo verso di lei, indicando con lo sguardo la piastra in fondo al letto e sillabando un'unica parola.

Lisci.

Angie si zittì all'istante, impallidendo.

Tornai a rivolgermi ad Annie, rimasta immobile e tremante al centro della stanza. «Se solo tu potessi aiutarmi...» stava supplicando lei, tra un singulto e l'altro.

«Ma certo» esclamai senza esitazioni, ignorando gli sguardi di disapprovazione di Beth ed Angie fissi su di me. «Arianna, per favore, puoi fare posto ad Annie?»

La mia amica annuì senza fare commenti. Con l'acconciatura a metà, che la rendeva piuttosto buffa, si alzò in piedi e andò a sedersi vicino a Beth, sul suo letto. Angie si affrettò a raggiungerle.

Scoccai a tutte e tre uno sguardo d'avvertimento, prima di far accomodare Annie vicino a me ed iniziare.

Fortunatamente quel pomeriggio avevo svuotato la mia valigia e tirato fuori tutto il necessario per acconciare i capelli delle mie amiche, per cui avevo tutto il mio armamentario a disposizione. Scelsi un pettine dai denti molto larghi e iniziai a districare delicatamente quella matassa, ma non era un'impresa da poco. Quando provai a mettere un po' di forza, non avendo fino ad allora ottenuto alcun risultato, Annie trattenne a stento un gemito.

«Mi dispiace» le dissi, sincera. «Ma non è facile senza farti male. Si può sapere come ha fatto John ha ridurti i capelli in questo stato? Ti ha spazzolato con una forca da fieno?»

Annie non rispose, tuttavia rise alla battuta ed io approfittai di quel momento di distrazione per affondare senza troppi complimenti il pettine tra i nodi.

Per evitare di spezzarle le punte, optai poi per ammorbidirle le ciocche con l'acqua e alla fine, con molta pazienza, riuscii a districarle i nodi senza troppi danni. Dopo averla rapidamente asciugata con il phon, le rifeci i boccoli, cercando di ricordare come li aveva quella mattina, il tutto con lo sguardo penetrante delle mie amiche che seguiva ogni mia mossa, meglio di qualsiasi cronometro.

«Oh Kia, non so come ringraziarti! Mi hai salvato la vita. Grazie, grazie mille!» esclamò lei, una volta che ebbi concluso l'opera, mentre si rimirava nel piccolo specchio che le avevo dato. «Sono venuti benissimo, più belli di quelli che avevo stamattina!»

«Sono contenta che ti piacciano» risposi, sorridendo.

Lei però continuava a fare complimenti e a ringraziarmi a più non posso, apparentemente ignara del fatto che la sua presenza iniziasse ad essere di troppo.

«Adesso devi vestirti, giusto?» feci, con un sorriso tirato, sospingendola verso la porta.

Speravo che capisse l'antifona e mi lasciasse sistemare le ragazze, ma non fu così, e la mia domanda funse da pretesto per iniziare a parlare a ruota libera dei vestiti che aveva in camera e del fatto che fosse enormemente indecisa sulla scelta di quella sera.

Doveva essere trascorso almeno un altro quarto d'ora quando alla fine riuscii a buttarla fuori dalla stanza.

Arianna diede un'occhiata al suo orologio da polso e sospirò. «Ecco. Ora siamo in ritardo.»

«Non se ne voleva più andare!» sbottò Beth.

La fulminai con lo sguardo. «Zitta. Zitta! Chi è che se l'è dovuta cuccare?»

Inizialmente le avevo dato una mano volentieri, soprattutto avendola vista così disperata, ma si era rivelata così logorroica da far innervosire anche me. Nel vedermi così alterata, Beth trattenne a stento una risata.

«RAGAZZEEEE!» le fece il verso Angie, facendoci scoppiare a ridere.

«Forza Ari, vieni che finisco di sistemarti» proruppi, riprendendo in mano l'arricciacapelli.

Senza lacca, i boccoli che le avevo fatto prima dell'arrivo di Annie si erano un po' sgonfiati, così diedi loro una seconda passata, prima di dedicarmi alle ciocche ancora lisce. Al termine, passai delicatamente le dita tra i boccoli, che si estesero fino a creare un mare di volute bionde e castane.

«Wow!» esclamai, seguita a ruota da Beth ed Angie.

Altro che Annie, pensai, scuotendo leggermente la testa.

Poi fu il turno di Beth. Per quanto cercassi di sbrigarmi, l'acconciatura Beehive sulla quale io e la mia amica ci eravamo accordate non era cosa da poco, ma il risultato finale avrebbe ripagato ogni sforzo. Le cotonai con cura i capelli e poi glieli sistemai, aiutata dalla lacca, in cima alla testa, per creare il tipico nido d'ape sfoggiato da ogni diva degli anni '60.

«Non vedo l'ora di vederti con il vestito addosso!» le dissi, mentre Beth, specchiandosi, si gongolava per il risultato dell'acconciatura.

Quando toccò ad Angie, mi disse che non aveva alcuna idea in particolare.

Io in realtà un'ispirazione l'avevo, ma sapevo che per spuntarla avrei dovuto lottare.

«Ti fidi di me?» chiesi.

Lei si voltò di scatto a guardarmi, chiaramente scettica. «In che senso?»

«Ti fidi di me?» ripetei, allungandomi per prendere la piastra.

Il gesto non sfuggì ad Angie, che fece per balzare in piedi.

«NON TI AZZARDARE!» gridò, proteggendosi la chioma con le mani.

Beth ed Arianna mi fissarono interdette, ma parvero capire quando mostrai loro la piastra con uno sguardo eloquente.

Come prevedibile, non appena feci per avvicinarle quell'arma ai capelli, Angie scansò la testa di lato, per poi voltarla dall'altra parte quando la ebbi avvicinata di nuovo.

«Andiamo Angie, dammi un po' di fiducia...» borbottai, trattenendo a stento un sorriso.

Per lei i ricci erano un vero e proprio culto e qualsiasi tentativo di alterarli veniva considerato un affronto personale; lo sapevo benissimo, ma non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che, con quel magnifico vestito blu, i capelli lisci vi sarebbero stati d'incanto...

Provai pazientemente a spiegarglielo ed alla fine lei emise un verso strozzato, che decisi di interpretare come un segno di assenso.

Rimasi affascinata quando i suoi ricci vennero docilmente piegati dalla piastra, senza i segni di resistenza dimostrati dalla loro proprietaria: alcuni capelli crespi erano davvero difficili da domare, ma quelli di Angie sembravano nati per essere lisciati. In ogni caso, evitai saggiamente di esprimere ad alta voce questo pensiero, poiché volevo tenermi tutti i denti in bocca.

«Angie... ma stai benissimo!» esclamò Beth, senza fiato, quand'ebbi finito.

Le porsi lo specchio tascabile con una certa trepidazione e la vidi sgranare gli occhi quando incrociò il suo riflesso. La fissai titubante, non sapendo come interpretare quell'espressione.

«È vero. Non sono poi così male» mormorò lei dopo un attimo, quasi non lo credesse possibile.

«Bene, bene» tagliò corto Arianna. «Adesso però passiamo al trucco, Angie. Altrimenti non arriveremo mai in orario!»

«Voi truccatevi pure, io devo sempre sistemarmi i capelli» ricordai loro, ridacchiando.

Staccai la piastra dalla spina e mi diressi in bagno, per poter usufruire dello specchio. Dal momento che non avevo intenzione di farmi un'acconciatura troppo complessa, non avrei dovuto metterci troppo.

Ben presto udii provenire dall'altra stanza risate e commenti d'ammirazione, mentre Angie cominciava ad occuparsi del trucco di Arianna. Nonostante in fatto di precisione le due ragazze fossero agli antipodi, Angie non aveva eguali nel mondo del make-up: passava il trucco sul volto come il pennello sulla tela. I risultati erano vere e proprie opere d'arte.

Quando uscii dal bagno, con i capelli acconciati – piastrati, con una treccia a cascata all'altezza della nuca – Angie aveva finito anche il trucco di Beth e, con l'aiuto del mio specchio tascabile, stava ritoccando il suo. In un attimo si stava già occupando di me.

«Kia, ma che ciglia lunghissime hai?» esclamò ridendo, mentre mi passava il mascara.

Mi rimproverò bonariamente, perché secondo lei non le valorizzavo abbastanza ma, dal canto mio, preferivo evitare di truccarmi da sola: essendo totalmente incapace, a quell'ora mi sarei già cavata gli occhi con lo scovolino.

Beth ci distribuì poi una collana ciascuna, osservando quali meglio si abbinavano ai nostri vestiti, e qualche bracciale tra quelli che quella sottospecie di chiromante le aveva venduto – e regalato. Per quanto li aveva pagati, facevano davvero la loro figura.

A quel punto potemmo vestirci, sempre tenendo d'occhio l'orologio. Arianna, con il suo magnifico vestito rosso, era di certo la più elegante, ma anche noi non eravamo da meno. Conclusi gli ultimi ritocchi, eravamo pronte davvero in tempo record, nonostante il contrattempo di Annie ci avesse un po' rallentate.

«Puoi essere fiera di noi, Ari» dissi, provocando una risata generale.

L'appuntamento in palestra era previsto per le otto e mezza ed eravamo perfettamente in orario.

«Potremmo anche avviarci» propose Arianna, facendo capolino dal bagno, in cui si era momentaneamente rinchiusa per potersi rimirare nello specchio.

Annuii e spalancai la porta, essendo la più vicina all'ingresso delle quattro, e per poco non ebbi un infarto quando mi trovai di fronte Night, appoggiato allo stipite, che si stava mettendo una camicia.

«Non va più di moda vestirsi nelle proprie camere?» scherzai, maledicendomi quando l'occhio mi cadde sui muscoli dell'addome, lasciati scoperti dai lembi della camicia che il ragazzo non aveva ancora abbottonato.

Lui ridacchiò, passandosi una mano fra i capelli arruffati.

«Arianna, per caso stai andando ad un matrimonio?» disse poi, quando la ragazza comparve di fianco a me, avvolta una nuvola di profumo.

Lei lo fulminò con lo sguardo. «Tu ed Angie ve le studiate la notte, queste brillanti battute?» sbottò, levando gli occhi al cielo. «Mi dispiace che non possiate fare altro che darvi al cabaret, visto che evidentemente lei preferirebbe buttarsi da una rupe, piuttosto che dartel...»

«Arianna!» la interruppe Shadow, uscendo dalla sua stanza. «Non fare caso a quest'idiota, stai da Dio» continuò, strizzandole l'occhio.

Lei gli sorrise, sinceramente rincuorata, ed io notai, con un misto di stupore e sollievo, che in tutto questo il ragazzo non mi aveva degnata di uno sguardo.

«Ah! Devo andare!» esclamò di colpo Arianna, riscuotendosi.

«Dove?» le chiesi, voltandomi verso di lei.

«Lucas mi aspetta nell'atrio» mi spiegò con aria complice, avviandosi a passo svelto verso le scale.

In quel momento Angie comparve sulla porta, strappando a Night un'espressione che sarebbe stata da incorniciare. Pareva quasi mancargli il fiato, mentre la osservava a bocca aperta e, dopo un momento, capii il perché.

Angie era una bellissima ragazza ma, conoscendola, sapevo che non le interessava più di tanto mettere in mostra il suo personale; anzi, il suo modo di vestire rispecchiava il suo atteggiamento tutt'altro che femminile e la capivo benissimo perché, come lei, passavo spesso per una ragazza un po' mascolina, soprattutto se paragonata ad una silfide qual'era Arianna. Ma con i grandi occhi verdi finemente truccati, i lunghi capelli biondi pettinati e le curve sinuose fasciate dal vestito giusto, era una bellezza semplicemente mozzafiato e non aveva niente da invidiare alla nostra popolare amica.

«Shadow, sei pronto?» esclamò Angie, godendosi la delusione negli occhi di Night.

«Eccomi.»

Shadow chiuse la porta della camera, avvicinandosi poi alla ragazza e porgendole il braccio, cui Angie si aggrappò con un movimento plateale, non prima di essersi assicurata con la coda dell'occhio che Night li stesse fissando.

Nel passarmi davanti il sorriso di Shadow si spense, ma fu solo una frazione di secondo e l'attimo dopo i due erano già sulle scale, sottobraccio, ridendo a più non posso. Il tutto con Night che continuava a fissarli con un'espressione da pesce lesso stampata in faccia.

Di fronte a quel teatrino, non potei che scuotere leggermente la testa. Appena scomparvero alla vista, vidi Night allungare il collo verso le scale, fremente d'impazienza, nonostante tentasse con scarso successo di non darlo a vedere.

«Cosa aspetti?» dissi divertita, e lui si voltò di scatto a fissarmi, impallidendo. «Avanti, va'!»

Lui annuì con slancio, precipitandosi a rotta di collo giù per le scale. Ridacchiai leggermente, mentre mi affacciavo alla porta della camera.

«Beth, sei pronta? Altrimenti facciamo tardi!»

Il riso mi morì in gola quando vidi la mia amica seduta sul letto, a capo chino, stringere tra le dita un oggetto che conoscevo bene.

Avvertii un brivido lungo le braccia e mi feci avanti a fatica. Quella faccenda sarebbe per sempre rimasta una ferita aperta, realizzai.

«Non sapevo che lo avessi portato con te» mormorai, con voce flebile.

Era vero. Non lo vedevo da tempo, da quando era stato consegnato a Beth, e credevo stupidamente che, in preda al dolore, lei se ne fosse sbarazzata o lo avesse riposto via. Come avevo fatto io con il suo ricordo. Ma Beth non poteva farlo.

Mi sentii improvvisamente in colpa. Di nuovo.

Beth alzò lo sguardo e mi fissò, con gli occhi pieni di lacrime.

«Pensi che dovrei metterlo?» chiese, incerta.

«Sì» risposi, senza un attimo di esitazione.

«Non voglio sfoggiarlo come fosse un gioiello, sarebbe di pessimo gusto, ma non voglio neanche dimenticare... Kia, non voglio dimenticare.»

La voce di Beth si strozzò ed io sentii le lacrime salirmi agli occhi. Mi feci avanti, stringendola forte finché non udii più i suoi singhiozzi.

«Sì che dovresti metterlo» le dissi, dopo che ci fummo staccate. «Ti ricordi quanto adorava le feste? Vieni qui, ti aiuto ad allacciarlo.»

****

«Shadow, posso chiederti una cosa?» domandò Angie, mentre scendevano le scale.

Dopo essersi allontanati a sufficienza da Night, la ragazza ne aveva avuto abbastanza di quella farsa ed aveva lasciato il braccio del ragazzo, che non sembrava aver avuto nulla in contrario.

«Certo, dimmi» fece lui, voltandosi a guardarla.

Pareva tutto normale, come se lui non le avesse retto il gioco fino ad un attimo prima, dopo che Angie gli aveva chiesto di ridere a crepapelle, come se gli avesse raccontato chissà quale esilarante battuta, solo per insospettire il suo migliore amico.

Angie giocherellò con i bracciali che portava al polso, improvvisamente a disagio. Non appena erano rimasti soli, le era parso il momento ideale per chiarire una volta per tutte la faccenda degli unicorni, ma ora non sapeva da che parte cominciare.

«Sai se Night ha una sorella?» chiese infine, scrutando attentamente Shadow.

Il ragazzo sgranò gli occhi, a metà tra il confuso e il divertito.

«No... Night ha un fratello. Un fratello maggiore.»

Ah ah!

Quindi le aveva mentito. Ma, per quanto si sforzasse, ad Angie non veniva in mente nessun valido motivo per cui Night avesse dovuto farlo.

Poi, di colpo, ebbe un'illuminazione.

«E suo fratello è per caso... gay?»

Un ragazzo patito di unicorni molto probabilmente apparteneva all'altra sponda e, avendo Night la mentalità di un uomo delle caverne, probabilmente se ne vergognava e lo teneva nascosto. Ecco spiegato il perché le avesse raccontato una frottola.

Era sicura di averci preso, ma la reazione di Shadow la destabilizzò.

Il ragazzo infatti era scoppiato a ridere a crepapelle, in maniera così sfrenata che ben presto fu costretto ad appoggiarsi al corrimano per non perdere l'equilibrio.

«Dave... Dave gay?» esclamò. «Angie, il fratello di Night è fin troppo etero, credimi» continuò, con un tono che non ammetteva repliche.

Angie lo fissò, spiazzata. Improvvisamente non riusciva a pensare a niente, se non al fatto che avrebbe dovuto fare al più presto quattro chiacchiere con Night.

«Tutto ok?» le chiese Shadow, che si doveva essere accorto del suo shock.

«Sì, certo!» fece lei, esibendo un sorriso tremolante.

Il ragazzo non sembrava aver abboccato, ma non replicò.

I due continuarono a scendere i gradini in silenzio ed erano ormai arrivati ai piedi della scala quando Angie, dopo aver fatto un respiro profondo, parlò di nuovo.

«Comunque Shadow, la faccenda dell'accompagnatore... insomma, il mio era solo un capriccio per infastidire Night.» Lo disse in un soffio, così rapidamente che c'era da augurarsi che Shadow non avesse udito solo un borbottio confuso. «Non lo volevo davvero. Non che tu non mi stia simpatico, sia chiaro!» si affrettò ad aggiungere.

Ammetterlo ad alta voce le costava davvero tanto ed il ragazzo, a giudicare dal sorriso conciliante che le rivolse in risposta, doveva averlo capito.

«Anche tu mi stai simpatica, Angie» rispose, ridacchiando. «Comunque me n'ero reso conto» proseguì, con un tono che lasciava intendere che ne sarebbe accorto chiunque. «Allora, che ne dici di finirla qui?»

Erano appena giunti nell'atrio, gremito di studenti, ed Angie annuì.

«Grazie per essere stato al gioco.»

«E di che? Che migliore amico sarei, se non rompessi un po' le palle a Night?» fece lui, mentre si allontanava, facendola scoppiare a ridere.

«Sei fin troppo clemente!» gli urlò in risposta, prima di scuotere la testa fra sé e sé.

Diamine, ma perché quella stupida di Kia non lo considera neanche un po'?

 

«Wow... ma è bellissima!» esclamai stupefatta, guardandomi attorno in quella che fino al giorno prima era stata la nostra palestra.

Mai avrei detto che quel luogo squallido, puzzolente di chiuso e di gomma, potesse di colpo apparire così elegante.

«È irriconoscibile» disse Beth, ugualmente colpita.

Gran parte della sala, ancora semivuota, era occupata da tavoli imbanditi, colmi di stuzzichini e gigantesche coppe ricolme di punch, che Beth puntò non appena vi ebbe posato lo sguardo.

«Beth, aspettami!» borbottai, vedendo che era partita in quarta.

Appena arrivata, l'avevo vista salutare Ben ma, come per un tacito accordo, i due si erano separati poco dopo, entrambi troppo presi dalle loro cotte per poter far finta di nulla e andare al ballo insieme.

Camminando per raggiungerla, notai che il parquet era ricoperto da manciate di coriandoli, i quali si sollevavano ad ogni nostro passo e, alzando gli occhi, vidi striscioni e decorazioni appesi su ogni centimetro quadrato del soffitto, simili a nuvole bianche e rosse.

All'estremità opposta della palestra, dov'erano le tribune, era stato allestito un enorme palco, da cui proveniva il motivo di una hit da radio; ma la presenza di un complesso sistema audio e di svariati strumenti musicali mi suggerì che a breve sarebbe arrivata anche la musica dal vivo.

«Abbiamo fatto davvero un bel lavoro» mormorai, colma d'orgoglio, per un attimo fiera di far parte della scuola che aveva contribuito a creare lo spettacolo cui ci trovavamo di fronte.

Beth intanto stava dando un'occhiata allo sconfinato buffet e notai che, con il suo particolare vestito e l'elaborata acconciatura, non passava di certo inosservata. Trattenni un sorriso, vedendo che lei non se n'era minimamente accorta.

Pian piano la palestra iniziò a riempirsi e tutt'intorno si diffuse un brusio concitato, che ben presto coprì il sottofondo musicale.

Osservando le grandi finestre a parete, vidi che fuori stava cominciando a nereggiare, e ben presto la sala fu riempita anche da coloro che si erano attardati all'aperto.

Mi feci più vicina a Beth e, da quella posizione, vidi Annie e John comparire in un angolo del salone, e mi affrettai ad indicarglieli.

Bastò un'occhiata perché ci scambiassimo un pietoso sguardo d'intesa nel constatare che, di tutto il suo guardaroba, Annie aveva probabilmente scelto il vestito peggiore. Non ero neppure certa che quell'abitino di latex, aderentissimo e d'un rosso fiammeggiante che avrebbe abbagliato persino un ipovedente, si potesse definire vestito. Gli stivali neri alti quasi fino al ginocchio, infine, completavano l'opera.

Inarcai un sopracciglio, pensando che nemmeno gli eleganti boccoli che le avevo fatto con tanto impegno contribuivano a renderla un po' meno volgare.

«John non vede l'ora di fuggire» mi bisbigliò Beth e, spostando lo sguardo sul ragazzo, non potei che convenire con lei.

Ero rimasta così sbalordita da quella escort mancata da accorgermi a malapena del suo accompagnatore. Visibilmente seccato da quella situazione, il moro continuava a lanciare degli sguardi torvi in direzione di Annie, che lo teneva saldamente per la mano, come se intendesse stritolargliela da un momento all'altro. Qualcosa mi diceva che, se solo avesse avuto con sé un guinzaglio, non avrebbe esitato un momento a metterlo a John.

In ogni caso, Beth era stata previdente: bastò un attimo di distrazione da parte di Annie, che si era staccata da lui un momento per andare a salutare un gruppo di amiche, perché John, dopo essersi rapidamente guardato intorno, infilasse la porta e fuggisse in giardino.

A quel punto Beth ed io ridevamo così tanto da avere le lacrime agli occhi e, mentre tentavamo di riacquistare un contegno, individuai nella folla sempre più consistente di ragazzi in abito da sera Angie, Arianna e Lucas, che chiacchieravano di fronte ad un tavolo dal lato opposto della sala.

Mi affrettai a raggiungerli, convinta che Beth mi avrebbe seguito, ma quando la vidi immobile, con lo sguardo fisso sulla porta semichiusa da cui era appena fuggito John, seppi che quella per sera la mia amica aveva tutt'altri piani.

Fatti valere, Beth.

«Ehi!» esclamai, sbracciandomi in direzione dei miei amici.

«Kia!» mi salutò Arianna, vedendomi.

Pareva una diva dello spettacolo, con il suo incantevole vestito rosso, e mi accorsi solo in un secondo momento che era mano nella mano con Lucas.

Vedendo che l'avevo notato, Arianna mi rivolse un sorriso d'intesa, prima di chiedere, guardandosi intorno: «Beth dov'è?»

«Beth? Ehm... in giro.»

Lei mi fissò, scettica, ed era sul punto di aprire bocca quando Angie, grazie al cielo, la interruppe urlando.

«KIA! Hai visto che festa? IO AMO LE FESTE!» gridò, ma la sua voce si perse nella confusione generale, evitando di farla sembrare una pazza furiosa.

Sia io che Arianna, dopotutto, sapevamo il perché di tutto quell'entusiasmo: quando, per un breve periodo, avevo frequentato la loro stessa scuola, le feste che Angie organizzava e in cui suonava musica rock dal vivo erano leggenda, tra gli studenti di Edimburgo.

Sfortunatamente, l'unica a cui avevo avuto l'onore di partecipare si era conclusa nel peggiore dei modi, dato che mi ero presa una sbronza colossale. Al solo – vago – ricordo mi veniva la pelle d'oca.

«Nathan dovrebbe arrivare a momenti!» proseguì Angie, tutta allegra, guardandosi intorno.

La imitai, anche se non avevo la minima idea di come fosse fatto il maggiore dei suoi fratelli. Una parte di me era davvero curiosa di conoscerlo, visto che Angie ne parlava in continuazione, anche se speravo che avesse un carattere un po' più trattabile del suo.

«Non lo vedo...» borbottò Angie, prima di farsi scura in volto. «Ah, guarda chi c'è.»

Seguii il suo sguardo, immaginando chi le avesse suscitato quella reazione.

«Ciao Night!» esclamai e, dopo avermi adocchiata, il ragazzo fece rotta verso di noi.

«Davvero un'ottima idea, Kia» fece Angie tra i denti, scoccandomi un'occhiata omicida.

Lucas lo salutò con una pacca sulla spalla e lui ci sorrise distrattamente. La sua attenzione, infatti, era del tutto catalizzata da Angie che, non appena lo aveva visto, era fuggita dietro di me e adesso osservava con improvviso interesse le pietanze del buffet.

«Gonnellin...Angie» mormorò il ragazzo, abbozzando un sorrisetto.

«Che vuoi?» fece lei, voltandosi bruscamente.

L'espressione di Night mutò all'improvviso e non rispose alla domanda di lei, limitandosi a fissarle sfacciatamente il seno.

A quel punto tutti i presenti, me compresa, seguirono il suo sguardo, a cui seguirono svariate occhiate imbarazzate.

«Angie...» tossicchiai, mentre gli altri mi facevano silenziosi cenni di ringraziamento, per essermi arrischiata a farglielo notare. «La scollatura.»

Nei bruschi movimenti della ragazza, provocati dall'apparizione di Night, il profondo scollo del suo vestito era sceso giù, lasciando ben poco all'immaginazione.

Angie abbassò a sua volta lo sguardo e divenne rossa come un peperone.

«OH CAZZO!» gridò, affrettandosi a sistemarsi e avrebbe continuato con gli improperi se, in quell'esatto momento, una profonda voce maschile non l'avesse interrotta.

«Sempre fine come al solito, Angie!»

Ci voltammo. Davanti a noi era apparso un ragazzo alto, in abito da sera, con corti capelli castani chiari, occhi verdi ed un sorriso aperto e cordiale. Dopo un attimo di spaesamento, realizzai che aveva gli stessi lineamenti di Angie.

«Nathan!» esclamò lei, improvvisamente dimentica di essersi quasi denudata di fronte a noi, prima di gettargli le braccia al collo.

«Come siamo eleganti, stasera!» commentò lui, quando si sciolse dall'abbraccio.

La fissò così intensamente che, per un attimo, ebbi il timore che si fosse accorto delle sue migliorie, ma poi il suo sguardo si posò su di noi.

«Mi presenti i tuoi amici?» domandò e, dentro di me, tirai un sospiro di sollievo.

Angie annuì, visibilmente emozionata all'idea che ci conoscessimo.

«Lei è Kia» disse, indicandomi.

Sorridendo, gli feci un cenno di saluto, che lui ricambiò.

«Questa invece è Arianna» proseguì, indicandola. «Ti ricordi di lei? Eravamo compagne di scuola anche a Edimburgo. Sua madre è una grande ammiratrice della mamma.»

Arianna si limitò a un impercettibile cenno del capo, tanto che mi chiesi se Nathan, che sembrava ancora riflettere sulle parole di Angie, se ne fosse accorto.

«Ah, ho capito! La cantante lirica!» esclamò lui di colpo, illuminandosi. «Piacere di conoscerti!»

«Lui è Lucas» continuò Angie.

Il biondo fece per salutarlo, rischiando di travolgere una pila di bicchieri di carta poggiata sul tavolo accanto a noi.

Di fronte a quella scena, Arianna scosse la testa con aria sconsolata.

«E lui...» concluse Angie, indicando il ragazzo davanti a sé e, peraltro, non facendo nulla per mascherare il suo tono seccato, «...è Night.»

Tutto sorridente, Nathan fece per salutarlo come aveva fatto con gli altri ma, quando i suoi occhi si posarono sul ragazzo, rimase pietrificato. Lo fissò con occhi spalancati, come se non si capacitasse di ciò che vedeva davanti a sé.

Di fronte a quella reazione, Angie rimase stupefatta.

«Nathan... tutto bene?» bisbigliò.

Il ragazzo si riscosse bruscamente.

«Certo, certo. Tutto bene. Piacere di conoscerti, Night» disse, ma a nessuno di noi sfuggì il fatto che evitava di guardarlo in faccia e che ignorò deliberatamente la mano da stringere che il ragazzo aveva allungato. Tantomeno ad Angie.

«Vieni, fratellone» esclamò quindi lei, con un tono che non ammetteva repliche, prendendolo da parte. «Ti verso qualcosa da bere.»

Lui annuì, capendolo al volo.

Captando l'aria che tirava, Arianna trascinò via Lucas ed io mi affrettai a fare lo stesso.

L'unico a rimanere lì fu Night, che osservava con la coda dell'occhio i due fratelli, ancora confuso da quel che era appena successo.

 

«Vuoi spiegarmi che diamine succede?!» sbraitò Angie, cercando di tenere a bada il tono di voce, mentre versava del punch per entrambi. «Sembrava tu avessi visto un fantasma!»

«Dannazione Angie, è qui vicino a noi! Parla piano!» bisbigliò Nathan, che non lo perdeva d'occhio un istante. «È tuo amico?» le domandò poi, incrociando finalmente il suo sguardo.

Lei lo fissò come se avesse detto un'assurdità. «Assolutamente no!»

Poi prese a sorseggiare il suo punch, tentando con scarso successo di apparire disinvolta. Suo fratello infatti stava iniziando ad attirare l'attenzione dei ragazzi vicini, dato che non riusciva a stare un attimo fermo e faceva avanti e indietro lungo il buffet da almeno dieci minuti.

«Nathan!» sibilò, allungandogli un calcio nello stinchi.

Se non altro, il gesto servì a far bloccare il fratello, a cui Angie rifilò subito il bicchiere di punch.

«Ti prego...» fece lui, passandosi nervosamente una mano fra i capelli. «Ti prego, dimmi che non fa Harris di cognome.»

Angie fece finta di pensarci su un momento. «Sì» mormorò poi, glaciale. «Night Harris.»

Per poco il fratello non sputò il contenuto del suo bicchiere.

«Oh cazzo, cazzo... lo sapevo!» gemette.

«Nathan, finiscila! Si può sapere qual è il problema con lui?» ringhiò lei. «Mi sembra che tu stia davvero esagerando, e te lo dice una che lo odia a morte.»

Lui abbassò gli occhi, sfuggendo al suo sguardo inquisitore.

«Non è lui il problema» balbettò, di colpo a disagio. «È suo fratello Day. Ultimamente ci sta dando parecchi problemi.» Dopo avergli lanciato un'altra occhiata, Nathan aggiunse, bisbigliando: «E non ci sono dubbi che sia suo fratello, è la sua fotocopia.»

Tra i due calò un attimo di silenzio, rotto da Angie, che scoppiò improvvisamente a ridere.

Il suo proposito di non attirare l'attenzione fallì miseramente quando si ritrovò puntati addosso gli occhi di tutto il salone, ma lei era troppo occupata ad asciugarsi le lacrime – che avrebbero rovinato il suo prezioso make-up – per accorgersene: piangeva dal ridere.

«Nathan...» mormorò, facendo un respiro profondo, quando fu riuscita a tornare in sé. «Si può sapere cos'hai fumato prima di venire qui? Night, Day?! A questo punto, non mi meraviglierei se spuntasse fuori un fratello di nome Light o un cugino di terzo grado di nome Morning!»

Tornata a ridere a più non posso, dovette appoggiarsi al tavolo del buffet per non perdere l'equilibrio.

«Falla finita di prendermi per il culo» rispose Nathan, fulminandola con lo sguardo. «Sono sicuro che suo fratello sia Day. Sono identici. Vuoi che vada a chiederglielo?»

Tornò a fissare Night che, nel frattempo, intuendo forse che non sarebbe più stato incluso nella loro conversazione, si era allontanato e stava chiacchierando animatamente con un gruppo di ragazzi.

«Suo fratello si chiama Dave» ribatté Angie, ricordandosi all'improvviso delle parole di Shadow. «Me l'ha detto poco fa il suo migliore amico.»

Nathan levò gli occhi al cielo. «Mai sentito parlare di soprannomi? David, Dave, Day! Pensavo fossi più sveglia, Angie.»

A quello Angie non aveva pensato. Non sapendo cosa replicare, ammutolì.

«Vedi?» mormorò il fratello, trionfante, di fronte al suo silenzio. «Lascia che ti spieghi.»

Ancora scettica, ma disposta a vederci più chiaro, Angie ascoltò con attenzione le parole del fratello.

«La nostra banda è una delle più temute di Dublino, questo lo sai, vero?»

Angie annuì. I suoi tre fratelli facevano parte di una banda piuttosto conosciuta nella loro città, ma non le permettevano di sapere niente al riguardo, per tutelare la sua sicurezza. Come se non facesse lei stessa parte di una gang!

«Bene. Day e i suoi continuano a metterci i bastoni fra le ruote, soprattutto in questo periodo» proseguì lui. «Non avevo mai visto suo fratello prima d'ora, quindi non credo che faccia parte della sua banda, ma fa' comunque attenzione.»

«Guarda che io sono perfettamente in grado di difendermi!» proruppe Angie, incrociando le braccia al petto. «Comunque, perché non ho mai sentito parlare di questo Day? Anche se mi proibite di impicciarvi dei vostri affari, qualche commento sui vostri avversari vi scappa sempre... soprattutto a tavola» aggiunse, soffocando una risata.

Nathan sospirò. «È una storia lunga. Di solito non parliamo di risse per te, per non farti incuriosire, ma quando si tratta di Day... lo facciamo per non fare infuriare la mamma.»

Angie sgranò gli occhi. Cosa caspita c'entrava la loro mamma?

«Vedi, la madre di Day è una che disprezza l'arte, per cui non va molto a genio alla mamma. Diciamo pure che la odia. Quindi preferiamo non parlarne, oppure lo facciamo senza che lei capisca.»

Nathan conosceva il fratello di Night, sua madre era la nemica numero uno della mamma, loro parlavano di Day senza farsi capire... Angie era sempre più confusa e, a giudicare dall'espressione comprensiva che suo fratello le rivolse, la sua faccia doveva parlare chiaro. 

Così Nathan decise di venirle in aiuto, ricordandole un episodio di qualche tempo prima, quando Fred era entrato in casa, precipitandosi in salotto – dov'era riunita tutta la famiglia – e aveva iniziato a parlare concitatamente, dicendo ai suoi fratelli ad uscire, perché era giorno. Un giorno bellissimo! Perché starsene in casa ad oziare quando fuori era ancora giorno? Salvo poi vedere dalla finestra che fuori infuriava un temporale con tanto di tuoni e fulmini.

La mamma si era insospettita parecchio, Angie aveva riso fino alle lacrime, mentre i tre fratelli erano usciti di corsa, e adesso lei sapeva il perché.

«Basta che tu stia attenta» concluse Nathan. «Ma se mi assicuri che sei in grado di difenderti...»

«Certo che sì!» lo interruppe lei, quasi offesa che lui glielo stesse chiedendo.

Il fratello le sorrise, scompigliandole affettuosamente i capelli. «Ci conto. Sei una Stevens, dopotutto!»

Dopo averla messa al corrente degli avvenimenti che la ragazza si era persa in quei mesi di scuola, Nathan la piantò in asso, confidandole di aver visto una bella ragazza in un angolo del salone.

Angie tentò senza successo di capire di chi stesse parlando, poi si rassegnò a lasciarlo andare, non prima di avergli dato del dongiovanni.

Di colpo sola, Angie si ricordò che di lì a poco sarebbero arrivati gli amici di Kia... e forse anche Luke, pensò, inorridendo.

Si chiese come avrebbe reagito Shadow. Luke era stato un suo compagno di classe per anni e, c'era poco da fare, era davvero affascinante, tanto che avrebbe potuto tranquillamente confondersi tra i ragazzi migliorati dell'Istituto. Ma niente, comunque, avrebbe potuto compensare il suo odioso carattere, che lo rendeva egoista e arrogante, l'esatto contrario di Kia.

Mentre rifletteva, si ricordò che lei non era ancora riuscita a dire a Kia che aveva detto a Shadow che lei era fidan...

Oh cazzo.

Doveva dirglielo. Subito.

Ma dov'era finita?

****

Facendosi coraggio, Beth uscì all'aria aperta. Subito una violenta folata di vento la colpì in pieno viso e lei fu scossa dai brividi. Dopotutto era Dicembre e, realizzò la ragazza amaramente, non si era neanche portata dietro un cappotto.

Si strinse nel leggero vestito e, dopo aver fatto un respiro profondo ed essersi riempita i polmoni d'aria gelida, si diresse verso la familiare figura di un ragazzo moro, seduto sulla chiazza d'erba dietro la palestra.

Udendo i suoi passi, John si voltò ma, almeno apparentemente, non sembrò scocciato di vederla.

«Ciao» mormorò lei, piano, sedendosi ad una certa distanza da lui.

Il suo saluto si perse nel silenzio quasi innaturale che li avvolgeva. La confusione proveniente della palestra, infatti, sembrava non arrivare fin lì.

«Io e Kia ti abbiamo visto fuggire da Annie, prima» riprese Beth, lungi dall'arrendersi, vedendo che il ragazzo non replicava.

«Oh!» esclamò John, riscuotendosi di colpo. «La odio quando fa così! Quando si mette in testa una cosa, non c'è verso di farle cambiare idea!» sbuffò, sdraiandosi a terra.

Beth accolse il tono accalorato e spontaneo con cui le aveva risposto come una piccola vittoria, e sorrise tra sé e sé.

«A proposito di testa» aggiunse, decidendo di spingersi oltre. «Ma come l'hai conciata?!»

Ridacchiò, ma il riso le morì in gola quando i suoi occhi si posarono sul corpo di lui, soprattutto su quella parte di torace rimasta scoperta dalla camicia...

«Ci ho messo tutto il mio impegno» mormorò John, in tono confidenziale, sorridendo furbetto. «Non so proprio come sia riuscita a tornare così perfetta.»

Ha dei denti splendidi, si ritrovò improvvisamente a pensare Beth, che arrossì violentemente di fronte a un tale pensiero. Per fortuna era buio, si disse, e John non avrebbe visto nulla.

«Strano che Annie non sia ancora venuta a dirmi nulla» notò il ragazzo, controllando l'ora sul suo cellulare. «Che palle, non vedo l'ora che questo strazio finisca.»

«Invece è divertente!» disse lei, tutta pimpante.

«Se ti diverti tanto, com'è che ora sei qui con me?»

A quell'affermazione Beth trasalì, il battito che aumentava pericolosamente. Aprì la bocca, ma non aveva nulla da replicare. John l'aveva incastrata. Le guance le si imporporarono, mentre si malediva tra sé. Perché una conversazione normale con quel ragazzo non era destinata a durare più di mezzo minuto?

Si voltò verso John, imbarazzata, e d'un tratto si rese conto che lui non era più sdraiato a terra, ma era tornato seduto, le gambe incrociate, e ora la stava fissando con una certa insistenza.

Beth, come pietrificata, rimase immobile. Non si mosse neppure quando lui si avvicinò molto – troppo! –, fino a sfiorarle il ginocchio nudo con la mano destra. Non incontrando resistenza, le dita di lui rimasero lì dov'erano, mentre quelle della mano sinistra salirono fino a toccare il viso di Beth e le accarezzarono una guancia, spostandole delicatamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Era come se Beth non fosse più padrona di se stessa. Ricambiò lentamente il suo sguardo e socchiuse gli occhi quando vide il volto di lui farsi vicino, vicinissimo, finché... il cellulare di John non iniziò a squillare ininterrottamente.

Ripresasi da quella trance, Beth spalancò gli occhi e, trovandosi di colpo vicinissima al volto di John, con le sue mani su di lei, si allontanò come se avesse preso le scossa.

Rimase a bocca aperta, con il battito del cuore che le rimbombava nei timpani. Ancora non riusciva a crederci. John la stava davvero per...?

Scoccò al ragazzo uno sguardo in tralice, rossa di vergogna. Ma John si stava sfilando il cellulare di tasca e non le stava prestando alcuna attenzione; aveva un'espressione torva dipinta sul volto e, dopo che ebbe dato una rapida occhiata allo schermo, si incupì ancora di più. Beth ebbe un brivido lungo la schiena, vedendolo così infuriato.

«Cosa caspita vuo...»

«JOHN!» In un attimo, la voce seccata di Annie fu chiara ad entrambi, tanto stava urlando. «Si può sapere dove ti sei cacciato?»

«Cazzi miei» sibilò lui per tutta risposta.

«Avanti Jo, smettila di fare così, qui ci stiamo divertendo tantissimo! E poi» disse, abbassando la voce, come se non si volesse far sentire da chi aveva accanto, «c'è un figo... non penso sia di questa scuola, perché sembra parecchio grande e non l'ho mai visto prima... Nathan, vieni qui!»

In quel momento un'altra voce, assai familiare a Beth, entrò prepotentemente nella conversazione e trapanò i timpani al povero John. Era Angie, isterica, che minacciava Annie di non provare a toccare suo fratello neanche con un dito, altrimenti l'avrebbe picchiata.

John allontanò il telefono dall'orecchio, quanto bastava per non essere assordato.

«Annie, sai benissimo che non sono gay» urlò nel ricevitore, «e sai altrettanto bene che ODIO LE FESTE! LASCIAMI IN PACE!» sbraitò, buttando giù.

Si ficcò il cellulare in tasca, l'intero corpo che tremava per la rabbia.

Beth rimase immobile, non osando muoversi né a parlare, e persino respirare in quel frangente le parve inappropriato. In quello stato, John la metteva davvero in soggezione.

Voltandosi a guardarla, il ragazzo dovette accorgersi che la stava spaventando, perché le rivolse un sorriso mesto.

«Quella... quella...» proruppe, per poi sospirare pesantemente. «Sembrava averlo fatto apposta!»

Beth ricambiò il sorriso, imbarazzata, ma non rispose. Era vero, ma d'altro canto lei era così sconvolta da non essere nemmeno troppo arrabbiata con Annie per... averli interrotti.

Si portò una mano al viso, confusa. Prima, in quell'attimo in cui entrambi avevano socchiuso gli occhi, in cui i loro volti si stavano per incontrare, il suo corpo le era sembrato del tutto sicuro di quel che stava facendo. Sembrava sapesse esattamente ciò che c'era da fare.

Adesso, invece, ogni cosa era innaturale e le sembrava di procedere a tentoni, in quell'atmosfera di colpo così imbarazzante. Aveva assecondato un impulso di John, stava per accadere qualcosa, dannazione, non potevano ignorarlo!

Ma tra i due si respirava di nuovo un'aria pesante, quindi Beth preferì non proferire parola e, per quanto dentro di sé lo ritenesse sbagliato, decise di far finta di nulla.

Si voltò verso John che, nel frattempo, era tornato a pancia in su sull'erba e teneva gli occhi chiusi. Osservandolo, la ragazza si accorse che il cellulare di John doveva essersi sfilato dalla tasca dei suoi pantaloni, mentre il ragazzo si metteva sdraiato, e adesso giaceva incustodito fra i fili d'erba, a pochi metri da lei.

Assecondando un impulso improvviso, Beth si allungò e lo prese in mano, attirando l'attenzione di lui, che aprì subito gli occhi.

«Che fai?» esclamò, scattando a sedere.

Quando vide che la ragazza aveva in mano il suo telefono, la guardò con aria interrogativa.

«Posso darti il mio numero?» propose Beth, su due piedi.

John rimase un momento in silenzio. «Se ci tieni tanto...» borbottò poi, scrollando le spalle.

Mentre Beth abbassava lo sguardo sullo schermo, si rese improvvisamente conto di ciò che gli aveva appena chiesto, e avvampò.

Da dove mi viene tutto questo coraggio, stasera?

Sorrise appena, pensando che fino ad allora il ragazzo non aveva mostrato niente in contrario.

Sbloccò rapidamente lo schermo, ma l'immagine che John aveva sfondo la lasciò di stucco, facendola indugiare un attimo di troppo.

«Tutto bene?» fece John, notando la sua esitazione.

Era la foto di una bambina dai capelli rossi e ribelli, con grandi occhi verdi e una spruzzata di lentiggini sulle guance. Rivolgeva all'osservatore un sorriso birichino e Beth dovette ammettere che aveva un'aria davvero graziosa, anche se credeva di aver capito di chi si trattasse e dire che la detestava era un eufemismo.

«Perché hai una foto di Annie come sfondo del cellulare?» domandò, senza riuscire a mascherare del tutto il suo disprezzo.

John le rivolse uno sguardo perplesso. Poi, abbassando lo sguardo, parve capire.

«Quella non è Annie. È Amy» la corresse lui, come se fosse ovvio.

«Sua sorella?» replicò Beth, non riuscendo a trattenersi.

«No» rispose secco John, fulminandola con lo sguardo. «Ma per me era come una sorella.»

Captando in lui un improvviso cambio di tono e capendo di aver fatto una gaffe, Beth non disse nulla, limitandosi a cliccare sull'icona della rubrica.

Com'era prevedibile da un asociale qual'era John, i suoi contatti si contavano sulle dita di una mano. Non resistendo alla curiosità, Beth scorse rapidamente i numeri e lesse i nomi di Annie, Night, e altri che invece non aveva mai sentito nominare. Aggiunse il suo contatto e fece per ridare il cellulare al suo legittimo proprietario, quando uno schiocco improvviso la fece trasalire.

Alzando di scatto lo sguardo, Beth vide che John si stava accendendo una sigaretta e dall'accendino saettava una fiamma.

Fuoco.

Lasciandosi sfuggire un grido di terrore, Beth scartò bruscamente di lato e si allontanò più che poté dal pericolo, strisciando a ritroso sull'erba.

John, colto alla sprovvista, si bruciò le dita con l'accendino e bestemmiò.

«Si può sapere che ti è preso?» gridò, agitando la mano bruciata, mentre con l'altra recuperava il cellulare da terra, che Beth aveva lasciato cadere nella fuga. «Sei un animale, per caso?»

Forse vedendo che non rispondeva né tantomeno accennava ad avvicinarsi, John si fece avanti, fino a scorgerla bene in volto. A quel punto, la sua espressione si addolcì: i suoi occhi dovevano essere riflessi di puro terrore.

«Ehi, ehi...» disse, inginocchiandosi vicino a lei, che continuava ad ansimare. «Tutto bene?»

Beth chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Quando li riaprì, sentì che stava tornando in sé e si affrettò ad assicurare John, che tuttavia continuava a rimanerle vicino.

«Non lo fare mai più, intesi?» disse poi lei, guardandolo fisso.

John ricambiò il suo sguardo, basito. «Cosa, fumare? Te lo puoi scord...»

«Farmi vedere il fuoco.» Dopo quella parola, la voce le si strozzò in gola.

«Fuoco? Quella fiammella dell'accendino?» John era esterrefatto.

La ragazza non rispose, limitandosi ad abbassare lo sguardo. Le sue mani cercavano il medaglione tra le pieghe del vestito, quel medaglione che, solo qualche ora prima, Kia l'aveva convinta ad indossare. Quando finalmente le sue dita lo ebbero trovato, vi si strinsero al punto che le si sbiancarono le nocche. Sapeva bene che John la stava osservando e che quel gesto non doveva essergli sfuggito, ma in quel momento non le importava affatto.

«Che cosa ti è successo?» chiese infatti lui, piano.

Beth alzò gli occhi, di colpo lucidi. «Scusa, ma non mi va molto di parlarne» rispose, con voce flebile.

John annuì, pensieroso, senza fare commenti. Poi, senza alcun preavviso, la strinse di colpo a sé, togliendole il fiato per un attimo.

Le mani di Beth, rincuorata da quella stretta, allentarono la presa sul medaglione, e la ragazza abbandonò la testa contro il petto di lui.

«Grazie» bisbigliò, così piano che si chiese se John l'avesse udita.

I due, immobili e silenziosi, rimasero stretti in quella posizione per quella che a Beth parve un'eternità, quando la voce di John la riportò bruscamente alla realtà.

«Hai visto chi c'è?»

Beth, cercando di ignorare il suo cuore andato in tilt, sollevò il capo e vide, poco lontano da dov'erano seduti, un gruppetto di ragazzi dirigersi dietro la palestra, dal lato opposto in cui si trovavano. Riconobbe fra loro Night e, con un certo disappunto, anche Annie.

Voltandosi nella loro direzione, Night li vide. Fece loro un cenno di saluto e fu lì che Beth si accorse che aveva in mano delle bottiglie.

«Ragazzi!» esclamò a gran voce, barcollando verso di loro.

Beth e John, ancora stretti l'un l'altro, si scambiarono un'occhiata: Night brillo non doveva aver molto chiaro il concetto di privacy.

«Venite con noi?» propose, quando fu giunto a pochi metri da loro.

«Che combinate?» domandò John, separandosi da Beth, che invece rimase immobile.

Si era solo immaginata il tono un po' seccato con cui aveva risposto a Night?

«Non vogliono alcol alla festa» rispose il ragazzo, facendo tintinnare le bottiglie, come ad indicare quanto quel divieto fosse stato rispettato. «Abbiamo preso un paio di queste e pensavamo di andarle a bere sul tetto della veranda, così, per divertirci un po'. Ci state?»

Prima che la ragazza potesse rispondere, John esclamò: «Perché no? Beth?»

Si voltò verso Beth che, manco a dirlo, non aveva alcuna intenzione di andare a fare da balia ad un gruppo di ubriachi. Ma il tono entusiasta di John e il raro sorriso che illuminò il suo volto ebbero la meglio su di lei, che si ritrovò ad annuire.

I due si alzarono in piedi, ripulendosi gli abiti dai fili d'erba, e Night fece loro strada nel buio, debolmente rischiarato dalla luce dei lampioni disposti intorno alla palestra.

Ben presto Beth si accorse che le gambe faticavano a reggerla.

Troppe emozioni in una sola sera, si disse.

Quel bacio non andato a buon fine, quell'abbraccio, quelle piccole vittorie con se stessa, nel dare il suo numero a John... e quel ricordo dell'incendio che avrebbe accompagnato lei e Kia per sempre, e che persino una sciocchezza come la fiamma di un accendino bastava a far riemergere.

****

«Angie, mi spieghi dove stiamo andando?» domandai per l'ennesima volta alla mia amica, che mi stava guidando fuori dalla palestra.

Giusto pochi attimi prima era comparsa davanti a me, trafelata, dicendo che doveva parlarmi urgentemente, ma non mi aveva detto nient'altro, e stavo iniziando a spazientirmi.

«Ancora un attimo» mormorò lei, senza neanche voltarsi. «Te l'ho detto, voglio parlarti in privato.»

«Sì, ma c'era bisogno di allontanarsi così tanto?» obbiettai, un po' seccata, rabbrividendo per il freddo.

Eravamo ormai lontane dalla confusione della palestra e anche dalle luci dei lampioni, per cui continuavo ad inciampare nella ghiaia, nel buio più completo.

All'improvviso Angie si bloccò, ma io non me ne accorsi finché non le finii addosso.

«Ahia!» borbottò platealmente lei e dovetti trattenermi dal metterle le mani al collo.

Tanto con quel buio non l'avrei trovato, realizzai poi, ironicamente.

Mi guardai attorno, nel punto in cui Angie si era fermata e, cercando di abituare gli occhi all'oscurità, distinsi i profili degli alberi e quello di una piccola costruzione in legno.

«Siamo dietro la palestra?» chiesi, tentando di orientarmi.

«Esatto. Questa è una veranda» rispose Angie, indicando l'edificio che avevo messo a fuoco a fatica. «L'ho vista per la prima volta un giorno in cui, indovina un po', stavo rastrellando foglie insieme a Night» spiegò poi, avvicinandosi.

«Che senso ha costruire una veranda come questa dietro una palestra?» dissi, più a me che a lei, mentre la seguivo all'interno della costruzione.

Gli scalini in legno cigolavano sotto il mio peso con un rumore sinistro, facendomi rabbrividire.

«Ci si può stare, qui?» aggiunsi, sporgendomi contro la palizzata, dal lato opposto della veranda.

Sotto di noi intravidi quelli che avevano tutta l'aria di essere dei cespugli e poi... il nulla. Non sembrava essere troppo profondo, ma il buio non mi era d'aiuto.

«In effetti, non ne ho idea» ridacchiò Angie, quando una risata sguaiata ruppe il silenzio, gelandoci il sangue.

Alzammo entrambe lo sguardo sull'ampio soffitto a volta, perché sembrava provenire proprio da lì.

«John, passami quella bottiglia!» gridò una voce, seguita da un urlo. Poi altre risate.

«Questa è la voce di Night!» mi sussurrò Angie, confusa.

«Ehi, anche a me!» Stavolta fu un'acuta voce femminile ad interromperci. Feci notare alla mia amica che sembrava proprio quella di Annie.

Tendemmo l'orecchio, cogliendo altri stralci di conversazione, e non ci mettemmo molto a fare due più due: John, Night, Annie e chissà chi altri si stavano ubriacando sopra di noi, sul tetto della veranda.

«Non credo che ci abbiano sentite» bisbigliò Angie, sollevata.

«Ne voglio ancora, Night» sentimmo dire a John.

«È finita!» sbottò quello.

Qualcosa venne lanciato di sotto e urtò la palizzata, provocando un fragoroso schianto, cui seguirono nuove risa. Dovevano aver tirato giù la bottiglia di vetro, riducendola in mille pezzi.

«È finita?» singhiozzò John, suscitando l'ilarità generale.

«Qua sono davvero ubriachi fradici» mi sussurrò Angie, facendosi più vicina.

Ci fu un colpo secco e una figura piombò giù dal tetto, atterrando in piedi a pochi metri da noi. Il buio ci nascondeva, ma in cuor mio sperai comunque che non si voltasse nella nostra direzione.

«Vado a recuperare qualcosa» disse la figura, che si rivelò essere Night, rivolto ai ragazzi sul soffitto.

Quindi si incamminò barcollando lungo il sentiero e ben presto fu inghiottito dal buio.

Il silenzio fu all'improvviso rotto da Annie, che scoppiò in una risata stridula, la stessa, realizzai, che ci aveva spaventate appena arrivate alla veranda.

Devono divertirsi parecchio, là sopra.

A giudicare dai commenti, John stava cercando di zittirla insieme ad altri ragazzi, ma lei continuava a ridere ininterrottamente, e dava davvero i brividi.

«Ce ne andiamo? Quello che dovevi dirmi me lo dici da un'altra parte» esclamai, facendo per scendere dalla veranda, ma Angie mi afferrò un braccio, impedendo di allontanarmi.

«No, te lo dico adesso» disse, ma colsi un velo di incertezza nel suo tono di voce.

Attesi, perplessa. Cosa doveva dirmi di tanto importante, al punto da farci rimanere sotto una Annie con i neuroni carbonizzati e un John ancora più inquietante di quello che era da sobrio?

«Allora?» la incalzai.

«Devi sapere che...» esitò. «Ho detto a Sh...»

«SASSI!!»

L'urlo isterico di Annie coprì le parole della mia amica. Sospirammo all'unisono, mentre la rossa continuava a ridacchiare da sola.

«Ho detto a Shadow» ripeté, facendomi improvvisamente sudare freddo, «che tu sei fid...»

«SASSI!!»

«Con Lu...»

«SASSI!!»

La fissai senza capire. Avrei strozzato quell'oca di Annie al momento opportuno, prima dovevo saperne di più. Pregai Angie di ripetere quel che aveva detto.

Angie fece un respiro profondo e disse, tutto d'un fiato: «Insomma, gli ho detto che tu stai con L...»

«SASSI!!»

«B A S T A!»

Un urlo collettivo si levò dalla veranda: io, Angie e tutti i ragazzi di sopra ne avevamo davvero abbastanza.

Si udì un tonfo sordo, seguito da un urlo agghiacciante. Annie era caduta di sotto.

Angie ed io ci precipitammo alla palizzata, paralizzate dal terrore, e guardammo giù, cercando di scorgere qualcosa nel buio. Annie era ricoperta dai cespugli, immobile, ma, quando la udimmo ridacchiare, tirammo un sospiro di sollievo.

Probabilmente fu allora che Annie ci udì, perché sollevò faticosamente il capo nella nostra direzione.

«John, ti sei travestito?» esclamò, indicandomi, prima di scoppiare a ridere.

«JOHN!»

Una voce furiosa, la prima non impastata dall'alcol tra quelle che si erano levate dal soffitto, ci lasciò di sasso. Era la voce di Beth!

«Ti rendi conto di cosa hai combinato?»

«Ma dai, non si è fatta nulla!» protestò debolmente lui. «La senti come ridacchia? E poi non sono stato io, è stato Adam!»

«Non è vero!» ribatté quello, con voce strascicata.

Quella di Annie, quindi, non era stata una caduta accidentale data dall'ubriachezza, ma era stata spinta dagli altri. In circostanze normali, la cosa mi avrebbe fatto infuriare, ma al momento tutta la mia rabbia era rivolta altrove.

«Cosa ci fa Beth là sopra?» esclamai, furibonda.

Ignorando le proteste di Angie, che mi ordinava di scendere immediatamente, mi issai sulla palizzata e, puntellandomi sui gomiti, in un attimo fui sul tetto.

La mia improvvisa apparizione, occhi fiammeggianti e mani sui fianchi compresi, suscitò le reazioni più disparate tra i ragazzi, disposti in cerchio davanti ad una montagna di bottiglie e lattine vuote, che coincidevano con la cupola del tetto.

Chi urlò, chi si limitò a fissarmi con sguardo vacuo, chi attribuì alla mia comparsa motivi esoterici.

«Sei un angelo sceso in terra?» domandò Adam, fissandomi intensamente.

Lo ignorai, così come feci con gli altri, mentre facevo scorrere lo sguardo tra i presenti.

Individuai Beth in un attimo, seduta in un angolo, vicino a John. Non appena mi vide, a differenza degli altri, impallidì, il che mi parve già un buon segno.

«BETH!» gridai. «Cosa ci fai qui? Con... con loro?»

«Cosa ci fai tu qui!» ribatté nervosamente lei, mentre gli altri ragazzi ci fissavano confusi.

Mi sembrava di capire che l'unica persona rimasta sana di mente in quel momento fosse la mia amica.

«Cosa ci fate!» la corresse Angie, gridando, dalla veranda.

Beth mi fissò, sconcertata. Senza dubbio, Angie ed io eravamo state molto silenziose.

«Siamo arrivate qui per caso e vi abbiamo sentito strillare come aquile» mormorai, scuotendo la testa. «Ma non avevo idea che ci fossi anche tu!»

«Io non ho toccato una bottiglia!» si affrettò a spiegare Beth, prima di partire all'attacco. «Ma... ma se anche fosse? Non devo chiedere il permesso a nessuno, tantomeno a te, Kia!»

Alzai le mani. «Certo che no, sei libera di fare quel che ti pare. Ma sono la tua migliore amica, Beth» dissi amaramente e, dallo sguardo colpevole che lei mi rivolse, capii di aver fatto centro. «Non lo sarei se non mi preoccupassi per te, se ti lasciassi qui a passare la serata con dei ragazzi ubriachi fradici che, tra l'altro, hanno appena buttato una decerebrata giù dal tetto. Non credi che tu avresti fatto lo stesso, trovandomi in una situazione del genere?»

Lei annuì piano, mordendosi il labbro, ed io le sorrisi.

«Andiamo, Beth.»

«Hai ragione... aspettami, vengo con voi.» Si alzò in piedi, sistemandosi l'abito.

«Dove vai?» mugugnò John, trattenendola per l'orlo del vestito.

«Torno alla festa, John» mormorò lei, senza guardarlo, mentre i ragazzi esprimevano tutta la loro disapprovazione.

«Ma quanto caspita ci mette Night?» borbottò Adam, stancamente.

«Mi sa che è rimasto in palestra!» esclamò Angie, euforica, da sotto. «Adesso sì che ci si diverte!»

Tendemmo l'orecchio. In lontananza si udiva una musica... e non una musica qualsiasi!

«RAY CHARLES!» urlò Beth, eccitata, riconoscendolo all'istante. «MUSICA ANNI '60!»

Afferrò John per un braccio, costringendolo ad alzarsi in piedi.

«Beth...» protestò lui, barcollando. «Cosa...»

«Vieni con me!» disse lei, in un tono che non ammetteva repliche, aiutandolo a scendere dalla palizzata.

Non appena John fu sceso a terra fu il turno di Beth, poi il mio e dopo un altro ragazzo, ridotto un po' meglio degli altri, incaricato di recuperare Annie dai cespugli.

«Andiamo! Andiamo!» gridò Angie quando ci vide, emozionatissima.

«A momenti dovrebbero arrivare anche George e Camila!» mi ricordai improvvisamente, battendomi una mano sulla fronte.

«Allora andiamo!» concluse Beth, trascinandosi dietro John, che si reggeva a malapena sulle gambe.

Nel vedere quella strana coppia arrancare lungo il sentiero, Angie ed io scoppiammo a ridere.

«Angie» esordii, e lei rallentò fino ad avermi al suo fianco. «Comunque penso di aver capito ciò che volevi dirmi. Hai detto a Shadow... di Luke?»

Lei annuì, evitando di guardarmi in faccia, mentre camminavamo nel buio.

«Non voglio sapere perché lo hai fatto. Non avresti dovuto ma, a giudicare dalla tua aria da cane bastonato, direi che lo sai benissimo» mormorai, dandole scherzosamente di gomito. «In ogni caso, era la cosa migliore da fare. Non dovevo illuderlo.»

«Ma allora perché non glielo hai detto subito?» esclamò Angie, riscuotendosi. «Kia, ci è rimasto davvero male! Dovresti parlargli una volta per tutte!»

Sospirai, torcendomi le dita. «Hai perfettamente ragione, Angie, ma vedi...» La voce mi si incrinò. Feci un respiro profondo, mentre lei attendeva pazientemente. «Angie, sarò sincera. Le cose tra me e Luke stanno precipitando. Io non stavo illudendo Shadow, stavo illudendo me stessa. Non sai quante volte ho addirittura pensato di...»

Non continuai, sapendo che Angie avrebbe inteso quel che c'era da intendere.

Ammetterlo ad alta voce mi imbarazzava, ma era inutile girarci intorno: avere il piede in due scarpe non era cosa di cui andare fieri, ma d'altro canto Shadow era sempre stato gentile con me, e sembravo piacergli così tanto! Luke invece era il suo esatto contrario, sempre odioso, scontroso e sgarbato. Eppure mi sentivo tremendamente in colpa per aver anche solo pensato di tradirlo.

Ma perché ci sto ancora insieme?

Avvampai, ripensando poi all'ultima volta che ci eravamo visti: se da una parte eravamo agli antipodi, dall'altra l'attrazione tra di noi era ancora forte.

«Secondo me dovresti parlare con Shadow» mormorò Angie. «E poi devi assolutamente fare chiarezza con Luke!» proseguì, scuotendo la testa. «Il vostro rapporto è indecifrabile! Vi offendete, cinque minuti dopo state pomiciando! Peggio di me e Night!»

Ridacchiò, prima forse di rendersi conto di aver alluso a lei e Night come una coppia.

«Cioè... come io mi comporto con Night...» balbettò.

Scoppiai a ridere. «Angie, non sei credibile. Ormai lo abbiamo capito che ti piace.»

«Kia... stai zitta!» gridò lei, furiosa, facendo per afferrarmi.

Scattai in avanti e, nel tentativo di seminarla, inciampai in tutte le radici sporgenti possibili e immaginabili.

Fu così, correndo e ridendo a più non posso, sulle note di Mess Around, che tornammo alla festa.

****

Quando Angie ed io fummo entrate in palestra, entrambe con il fiatone, vidi Beth in un angolo del salone, che chiacchierava animatamente con due figure che riconobbi all'istante.

«Ci sono Geo e Cam!» esclamai emozionata ad Angie, mentre ci dirigevamo verso di loro.

«Ma non vedo Luke...» mi fece notare lei, guardandosi intorno.

«Non è una novità» mormorai con un'alzata di spalle, cercando di non mostrarmi troppo delusa.

Scacciando dalla mente il pensiero di Luke, mi sbracciai in direzione dei miei amici che, non appena mi videro, mi corsero subito incontro.

«Kia!» urlarono entrambi, al settimo cielo.

Non ebbi il tempo di rispondere al loro saluto perché Cam mi saltò praticamente in collo, stritolandomi in uno dei suoi abbracci.

«Ragazzi!» esclamai, quando riuscii a liberarmi.

Mentre li abbracciavo a mia volta, non potei fare a meno di notare che, a differenza nostra, in quei mesi non erano cambiati di una virgola. Camila era sempre piccolina, con i capelli corvini tagliati a caschetto e il fisico mingherlino, un po' da bambina; George era sempre biondo, alto e apparentemente affascinante, con quell'aria da copertina che svaniva non appena apriva bocca per dire una delle sue assurdità. Un po' come Luke, pensai, ma in positivo.

«Kia, ti vedo cresciuta» commentò George ridacchiando, mentre mi squadrava dall'alto in basso. 

Mi morsi la lingua, sforzandomi di ridere a mia volta.

«Lei è Angie, ragazzi, vi ricordate?» chiesi, introducendo la mia amica, nel tentativo di sviare l'attenzione da me.

Mentre lei li salutava con un'energica stretta di mano, entrambi diedero segno di averla riconosciuta: dopotutto non era facile scordarsi di un tipo come Angie.

«Eri nella stessa classe di Luke, giusto?» domandò Camila, ed Angie annuì.

A quelle parole, George ed io ci scambiammo una rapida occhiata. Fu lui il primo ad abbassare lo sguardo, prima di lasciarsi sfuggire un sospiro.

«Onestamente non ne ho idea» mormorò, capendo al volo. «Gli ho lasciato l'indirizzo della scuola, ma non si è più fatto vivo.»

Per la seconda volta in quella serata, feci del mio meglio per non apparire troppo amareggiata. Dovevo aspettarmelo ma, come mio solito, avevo finito per fantasticare all'idea che sarebbe apparso all'improvviso, senza dir nulla a nessuno, per farmi una sorpresa. Dovetti trattenermi per non prendermi a ceffoni da sola: era di Luke che stavamo parlando, non del principe azzurro.

«Pazienza. Sappiamo tutti com'è fatto» dissi, scrollando le spalle. «Ma sono così contenta che voi siate venuti!»

Rivolsi loro un sorriso sincero. Era la verità: dopo mesi che non vedevo i miei migliori amici, che non udivo il suono delle loro risate, che non mi tiravano su di morale con le loro battute, non vedevo l'ora di trascorrere insieme un po' di tempo. La loro presenza mi era mancata come ossigeno.

Dopo aver chiacchierato un po' con Camila, Angie si congedò da noi, dicendoci che doveva andare a cercare Nathan, perché di lì a poco sarebbero dovuti partire per cercare di prendere in tempo l'ultimo traghetto per Dublino.

La salutammo, ripromettendoci di tenerci in contatto durante le vacanze natalizie, quindi decidemmo unanimemente di andare a prendere qualcosa da bere al buffet, dove però, come ci accorgemmo dopo esserci avvicinati, di cibo e bevande era rimasto ben poco.

«Sono passate le cavallette?» fece George, facendoci scoppiare a ridere.

Mentre Beth si ingegnava nel riempire i nostri quattro bicchieri con il poco punch rimasto nelle brocche, parlammo del più e del meno. Sia io che lei volevamo assolutamente sapere tutto ciò che era accaduto in campagna durante la nostra assenza ed essere messe al corrente di ogni pettegolezzo che aveva visto protagonisti i nostri amici o i loro familiari, e Camila e George non se lo fecero ripetere due volte.

La loro presenza e gli aneddoti che ci raccontarono furono terapeutici per me e, se da una parte accrebbero la mia nostalgia da casa – attenuata dal pensiero che quella sera sarei tornata – dall'altra parvero attenuare un po' la mia delusione per l'assenza di Luke.

«È ufficiale, non vedo l'ora di tornare!» comunicai loro, scoppiando a ridere.

Beth mi seguì a ruota e, dopo che ebbe distribuito i bicchieri, brindammo in nome della nostra amicizia.

«Kia, da quella parte è rimasto qualche tramezzino?» mi domandò Camila, approfittandone per farsi più vicina.

Dando un'occhiata alla tavola semideserta, non mi parve di vederne, ma lei, facendo in modo di non essere udita dagli altri due, si affrettò a rassicurarmi dicendo: «Tranquilla, non li voglio sul serio. Volevo solo sapere come stavi. Davvero.» Calcò bene sull'ultima parola, facendomi sorridere. «Potrai anche ingannare gli altri, ma non me.»

«...Insomma» dissi infine, dopo una lunga pausa, capendo di non poter continuare a fingere che andasse tutto bene.

Ero grata che Camila si preoccupasse per la mia situazione, ma una parte di me voleva solo ignorare il problema, come del resto avevo fatto fino ad allora.

«Forse dovresti parlare con Luke» mormorò lei, cercando il mio sguardo.

Mi sfuggì un sospiro. Era davvero così evidente che la mia relazione stesse andando a rotoli? Che Luke non mi ascoltasse mai, che non facesse mai niente di ciò che gli chiedevo? Nobile intento quello dei miei amici, ma ero stufa che anche una normale conversazione dovesse andare a parare sempre lì.

Le lacrime mi salirono di colpo agli occhi e, per evitare che mi tradissero, evitai lo sguardo di Camila, ma nel voltarmi incrociai quello di Beth, che parve capire al volo quel che stava succedendo.

«Camila, Geo! Non mi avete ancora raccontato niente su mio fratello. Cosa combina quando non ci sono?» domandò all'improvviso.

«Eddie?» esclamò George, afferrando Camila per le spalle. «Mettiti pure comoda!»

«Io vado a cercare qualcos'altro da bere» dissi in tutta fretta, non prima di aver rivolto un sorriso grato a Beth, che mi gridò un "Buona fortuna!", mentre mi avvicinavo ad un altro tavolo, anche quello reduce da una carestia.

Mentre mi rassegnavo all'idea che non mi sarebbe toccata nemmeno un bicchiere d'acqua, l'allegria che mi aveva accompagnato per tutta la sera e che di recente aveva cominciato a subire qualche tracollo svanì definitivamente, lasciando dentro di me solo un profondo senso di vuoto.

Sulle prime tentai di non lasciarmi condizionare, ma ben presto la tristezza ebbe la meglio su di me e, sperando che i miei amici fossero distratti, mi lasciai cadere pesantemente su una delle sedie disposte intorno a quel che rimaneva del buffet.

Intorno a me, i ragazzi che non erano ancora andati via ballavano al ritmo della musica dal vivo, ridendo e cantando a tutto spiano, ma tutta quella felicità, da cui fino a quel momento mi ero lasciata avvolgere, adesso iniziava a darmi davvero sui nervi.

Infastidita da tutto quel frastuono, abbassai lo sguardo sul pavimento, delusa e arrabbiata con me stessa, con Luke, con Cam e Angie che non si facevano gli affari loro e continuavano a darmi gli stessi consigli.

«Ehi... tutto ok?»

Una voce maschile mi costrinse ad alzare la testa.

Davanti a me c'era Adam, con l'aria un po' meno stravolta di quella che aveva quando l'avevo lasciato sul soffitto della veranda. Lo osservai con sincera curiosità: aveva finalmente finito di sbronzarsi?

«Certo, tutto ok» borbottai, con un tono che suonò poco convincente persino alle mie orecchie.

Neanche Adam, sbronzo o sobrio che fosse, sembrava essersela bevuta.

«Non mi sembra proprio» ribatté, lasciandosi cadere su una delle sedie accanto alla mia.

«E invece sto benissimo» dissi, con tutto il brio che riuscii a mettere insieme, sforzandomi anche di fargli un sorriso.

«Menomale» mormorò lui, per poi abbassare lo sguardo con un sospiro. «Comunque, mi dispiace per quello che hai dovuto vedere sul tetto, prima. Abbiamo fatto una figuraccia» borbottò, passandosi una mano fra i folti capelli rossi.

Lo fissai, stupita da quell'atteggiamento improvvisamente remissivo.

«Be', io non sono stata da meno» gli feci notare, ripensando alle parole con cui avevo apostrofato Beth. «Vi ho dipinto come un branco di idioti.»

«Non è che tu abbia tutti i torti» fece lui, facendomi scoppiare a ridere.

«Ora sì che sei sincera!» esclamò. «A chi volevi darla a bere, prima? E invece sto benissimo!» aggiunse, e la sua pessima imitazione mi fece ridere ancora di più.

«Effettivamente non stavo proprio benissimo» ammisi, rivolgendogli un sorriso autentico.

«Difficile non accorgersene. Spero solo che tu stia meglio» mormorò, sorridendo a sua volta.

Lo osservai, sempre più sorpresa, sforzandomi di capire se stesse dicendo sul serio. Non riuscivo a credere di stare davvero parlando con il porco che, alla partita, aveva palpato senza ritegno il culo di Arianna. Possibile che mi fossi sbagliata, sul suo conto?

Ero così persa nei miei pensieri che non mi accorsi subito che Adam mi aveva sfiorato le mani con le sue, di proposito. Le ritrassi di scatto.

«Scusami» fece lui, con un mezzo sorriso.

Tratta nuovamente in inganno, abbassai nuovamente la guardia e me ne resi conto troppo tardi, quando sentii le sue mani sfiorarmi viscidamente i capelli e poi scendere sulle spalle.

Lo spinsi via, allibita. «Adam, smett...»

«Allontanati da lei.»

Una voce profonda, che avrei riconosciuto tra mille, fece voltare entrambi di scatto.

Davanti a noi si ergeva un elegante ragazzo, biondo e statuario, che ci squadrava con due occhi blu oceano, affascinanti ma spaventosamente inespressivi. L'unico segno di attività cerebrale, infatti, era la bocca, piegata all'ingiù in un'inequivocabile smorfia di disprezzo.

Alto, muscoloso e ben piantato, nel complesso era di una bellezza che gli avrebbe tranquillamente consentito di confondersi tra i perfetti allievi della nostra scuola.

Perché non era di lì, come forse stava pensando Adam. Quel ragazzo così bello quanto freddo, tanto affascinante quanto insensibile, con quell'aria così perfetta che tanto poco si addiceva ad uno come lui, era probabilmente la persona più stronza, maleducata e incomprensibile che io avessi mai conosciuto.

Il mio ragazzo.

«LUKE?» gridai, scattando in piedi.

Poco lontano vidi distrattamente Shadow, accanto a Night, voltarsi al suono della mia voce, ma ero così sconvolta da quell'apparizione che non gli prestai alcuna attenzione.

Luke inizialmente non disse nulla, limitandosi a squadrarmi dall'alto in basso.

«Un chirurgo plastico, vedendoti, ha avuto compassione?» mormorò infine, con sufficienza.

«Ah, come mi era mancato il tuo senso dell'umorismo!» esclamai con rabbia.

E non sai quanto ci sei andato vicino.

«Probabilmente non ti ricordi neanche più come sono fatta.»

Notai con la coda dell'occhio che Adam, quatto quatto, se la stava svignando. Scelta saggia: mai rimanere nelle vicinanze mentre Luke ed io stavamo litigando.

«Esagerata come al solito» commentò lui sprezzante, passandosi una mano fra i capelli biondo scuro.

«Sai com'è, sono mesi e mesi che non ci vediamo» ribattei, fulminandolo con lo sguardo. «Per non parlare della tua apparizione di stasera... non ti aspettavo neanche più.»

«Non è una scusa per spassarsela con altri ragazzi» fece lui, glaciale. Diede un'occhiata al suo orologio da polso e aggiunse: «E poi, sono solo un po' in ritardo.»

La mia pazienza aveva un limite.

«UN PO' IN RITARDO?» gridai.

Notai che i miei amici ci stavano guardando con aria preoccupata, e non erano i soli: anzi, probabilmente dovevo avere gli occhi di tutto il salone puntati addosso, ma ero così furiosa che non mi importava.

«Non mi hai neanche avvertita! Ma poi, quando pensavi di arrivare, alle quattro del mattino? Puoi sempre rimanere a pulire con i custodi, tanto per partecipare alla festa in qualche modo!»

Luke si limitò ad un sospiro seccato. Dopo essersi frugato a lungo nelle tasche, ne estrasse quello che un tempo doveva essere stato un telefono cellulare, ormai irriconoscibile: accartocciato come una lattina, era solcato da una ragnatela di vetri rotti e sembrava sul punto di smembrarsi da un momento all'altro.

«Questo» mormorò, sventolandomi davanti quella carcassa, «è il motivo per cui non ho potuto avvertirti. È finito sotto gli zoccoli di Argent durante il concorso di oggi. Concorso» continuò lentamente, avvicinandosi a grandi passi, «che è la ragione per cui non sono potuto venire prima. Sai com'è, l'istituto che frequenti non è esattamente dietro l'angolo.»

Colta alla sprovvista, non seppi cosa replicare. Lui, ormai ad un passo da me, approfittò del mio silenzio per continuare imperterrito.

«Sono stremato dagli allenamenti e domani ho un'altra gara importante, ma volevi il tuo ragazzo alla festa, no?» fece un ampio gesto con le braccia. «Eccomi qua.»

«I-o...» balbettai, spiazzata.

Non sapevo cosa dire. Luke pareva sincero e, per la prima volta nella storia, probabilmente aveva ragione: era qui, nonostante dicesse di odiarmi, nonostante fosse pieno di impegni e sempre in viaggio per via dei concorsi ippici o per i genitori giornalisti, entrambi di origine americana. In cuor mio avevo sperato che si presentasse alla festa, facendomi dannare tutto il tempo, e alla fine lui l'aveva fatto.

«Io... ti detesto!» finii per sbottare, mentre lacrime di rabbia e di gioia mi rigavano le guance.

Scuotendo la testa, lui mi afferrò le mani e sul suo volto comparve per un attimo l'ombra di un sorriso.

«Potresti anche accontentarti» bisbigliò. «Invece di strillare come tuo solito.»

Lasciai che posasse le sue labbra sulle mie, dopo mesi d'astinenza.

Il silenzio più assoluto calò nella sala, interrotto solo dal bicchiere di Shadow che cadeva a terra, frantumandosi in mille pezzi.

 

SASS...cioè, ehilà!

Questo era il capitolo quattordici. Spero vi sia piaciuto. È probabilmente il più lungo dell'intera storia (e, tolto il capitolo sedici, anche quello che mi ha richiesto più tempo) ma devo ammettere che ci sono molto affezionata. Ci sono delle scene (vedi: SASSI!!) così assolutamente nonsense che mi fanno sorridere tuttora, al ricordo di come sono state ideate.

Qualcosina (spoiler: non sarà affatto ina) a proposito di questo capitolo. Direi di partire da lui, insomma, ecco, avete capito... Luke, fantomatico individuo che finalmente fa la sua entrata in scena nella storia. Dovete sapere che anch'egli, al pari di Cam e Geo, è una figura di spicco nell'immaginario prequel di Love School, mentre qui si limiterà a qualche breve cameo. Perché abbiamo scritto prima il sequel del prequel? Ah, boh. Ci riforniamo dallo stesso spacciatore di Nathan.

Mi sento in dovere di fare un "disclaimer". Luke è, oserei dire, il prodotto della mia ingenuità/idiozia adolescenziale/immaginario sociale. Al di là del fatto che mi diverte scrivere le sue battute, perché la sua ironia pungente mi fa sganasciare (penserete che mi diverta proprio tutto, e forse avete ragione), non so bene come potessi anche solo pensare che un individuo così antipatico, anaffettivo, acido e sgarbato nei confronti della sua ragazza fosse AFFASCINANTE.

Ma dove? Ma in che universo? Rileggendo certe cose, il facepalm diventa un riflesso involontario. Boh, per lo meno avevo la decenza di rendermi conto che una relazione del genere non potesse che essere in crisi, almeno questo XD Vabbè, portate pazienza. Nel caso non l'aveste capito, comunque, sono #TeamShadow.

Non so perché abbia speso qualcosa come cinque pagine per descrivere gli oufit delle protagoniste, si vede che all'epoca andava di moda così. Se non altro, avevo la decenza di definire i loro urletti "gli starnazzi di un gruppo di oche". Sempre puntare sull'autoironia, sempre.

Il mio ultimo commento sul capitolo va alla (povera) Annie. Non so esattamente quand'è che il suo personaggio abbia preso questa deriva da oca (per rimanere in tema) XD Inizialmente, infatti, non era sorta come un personaggio negativo... poi ci siamo un po' fatte prendere la mano. Penso che l'antipatia che la vera Beth e (soprattutto) la vera Angie nutrivano nei suoi confronti abbia influito. Vabbè, Kia ci prova a fare loro qualche discorsetto sulla solidarietà femminile. Comunque non preoccupatevi, sporadici fan di Annie, anche lei avrà il suo momento di gloria!

Ci vediamo al prossimo (improbabilissimo) capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** -•Capitolo 15 ***




«La colazione è pronta, signorina» cantilenò Otis, bussando con delicatezza alla porta di camera di Arianna, prima di precipitarsi sulle scale, diretto al piano di sotto per servire il resto dei familiari.

La ragazza aveva un sonno davvero leggero, per cui, non appena udì la voce del suo maggiordomo, spalancò gli occhi e si liberò dalle pesanti coperte di flanella che aveva addosso, per poi scivolare a terra nelle sue morbide pantofole e avviarsi sbadigliando verso il bagno.

Quella mattina, che annunciava l'inizio delle sue vacanze, Arianna era veramente stanca. Si sentiva intontita, dato che aveva dormito un po' troppo per i suoi standard e non ci era più abituata. D'altro canto, durante i mesi scolastici era solita alzarsi all'alba per prepararsi in tempo.

Teoricamente quel giorno se la sarebbe anche potuta prendere comoda, ma era stranamente inquieta dalla sera prima, quando, appena tornata a casa dalla festa, i suoi genitori le avevano detto che al mattino le avrebbero comunicato alcune novità.

Cosa mai poteva essere accaduto? Anita, la loro cameriera assunta da poco, era stata licenziata? Finn, suo fratello maggiore, si era laureato? Lo zio Frank, che viveva in campagna, era finalmente morto?

Arianna socchiuse gli occhi, pensierosa. Voleva assolutamente essere messa al corrente di quelle novità.

 

Arianna arrivò nella sala da pranzo con un passo nervosamente rapido che non le si addiceva proprio.

Aveva ancora la faccia disastrata dal sonno e si era preparata il più velocemente possibile, mettendosi addosso le prime cose che aveva trovato: un paio di leggins scuri che le fasciavano le gambe magre e una lunga maglia rossa, che le erano valsi solo venti minuti di tempo.

Insomma, niente di speciale o particolarmente sofisticato per una che impiegava anche diverse ore per decidere cosa indossare.

Prima di lasciare la sua stanza aveva lasciato un messaggio a Margaret, la sua migliore amica, per informarla che era di nuovo in città e che non vedeva l'ora di rivederla. Sperava che le novità di cui doveva essere messa al corrente non riguardassero lei, la sua più cara amica.

Si accomodò alla lunga tavola sedendosi vicino a Finn, che la salutò con un cenno e le rivolse uno sguardo neutro.

Decisamente, non era la sua laurea la novità che i genitori dovevano comunicarle, o avrebbe reagito in modo completamente diverso, probabilmente urlando emozionato la notizia a gran voce e alzandosi in piedi per abbracciarla, rovesciando nel farlo la tovaglia e il suo contenuto. Si immaginò la povera Anita, scandalizzata, che probabilmente sarebbe svenuta per l'imminente disastro da pulire.

La ragazza scacciò il buffo pensiero con un impercettibile movimento del capo e si sistemò sulla sedia, lanciando una fugace occhiata ai suoi familiari.

La sua sorellina minore Daisy, seduta di fronte a lei, giocherellava con l'estremità della tovaglia e di tanto in tanto le lanciava un'occhiata dispettosa, degna di una bambina stronzetta e smorfiosa come lei; alle due estremità del tavolo, capotavola come sempre, sedevano i suoi genitori, immobili e pazienti mentre attendevano la colazione.

Non una parola sul fatto che quella fosse la prima mattina in cui Arianna sedeva a tavola con loro dopo mesi, ma d'altronde la sua non era mai stata una famiglia calorosa.

Il rigido silenzio in cui era immersa la famiglia venne interrotto da Anita, che entrò ciabattando nella sala, spingendo un lungo carrello stracolmo di vassoi, tazzine e una teiera fumante contenente tè.

«Ecco la colazione!» esclamò la donna sorridente, incurante delle facce da funerale dipinte sul volto di tutti, mentre poggiava uno dei vassoi sul tavolo e sollevava il coperchio, rivelando una montagna di friabili scones* dall'aria deliziosamente invitante.

Decisamente, pensò Arianna, non era del licenziamento della cameriera che i genitori dovevano parlarle. Cosa mai poteva essere, una notizia così importante da non essere potuta annunciare la sera prima?

Arianna afferrò una delle tazzine dal carrello e si fece servire il tè da Anita, quindi si schiarì la voce.

«Allora, di cosa dovevate parlarmi?» chiese, cercando di non apparire nervosa.

Sua madre sgranò gli occhi, quindi parve ricordare.

«Oh sì, giusto.»

La donna lanciò uno sguardo complice al marito, che si bloccò dal portarsi la tazzina fumante alle labbra e la appoggiò sul tavolo, incrociando lo sguardo della figlia.

«Arianna, devi sapere che mentre tu eri a studiare, Finn e Daisy» Suo padre li indicò con lo sguardo, come se Arianna non sapesse chi fossero suo fratello e sua sorella, «hanno passato, a turno, diverse settimane dallo zio Frank.»

Quindi lo zio Frank non era morto, realizzò Arianna. Aveva però una vaga idea su quello che i genitori stavano per dirle e non le piaceva affatto.

«Non...» iniziò, ma fu interrotta da Otis, che era comparso in sala.

«Signor Paul, il tè è di suo gradimento?»

«Arianna, pensiamo che quindi tu debba passare almeno una settimana dallo zio, durante le vacanze.»

«NO!» protestò lei, avendo conferma dei suoi sospetti.

Sbatté con forza la tazzina sul tavolo e, così facendo, rovesciò inevitabilmente il tè bollente sulla giacca scura e sul viso del povero Otis.

«Bollente al punto giusto, direi» mugugnò lui.

«Otis!» esclamò sua madre, scattando in piedi e precipitandosi dal maggiordomo.

«Signora Loreline, stia tranquilla...» si affrettò a dire lui, che faceva del suo meglio per non esternare il suo dolore.

«Io e tua madre pensiamo che l'aria di campagna ti possa fare bene» proseguì suo padre, ignorando i lamenti del povero maggiordomo. «Quindi partirai il prima possibile.»

«No!» ripeté Arianna, sconcertata. Non voleva passare le vacanze da quello psicopatico di suo zio, non potevano farle questo!

«Io non... c'è il mio compleanno!» esclamò all'improvviso, sperando di riuscire a dissuaderli. Oltretutto ci teneva davvero, a festeggiarlo con la sua famiglia.

«Un compleanno in campagna, non è una bella idea?» suggerì sua madre, facendole un sorriso d'incoraggiamento, mentre trascinava Otis in cucina.

«Non potete farmi questo!» gridò Arianna, furibonda.

«Ari, sta' calma» intervenne Finn serafico, mentre sorseggiava il suo tè.

«Non sei tu quello che deve passare le vacanze di Natale e il suo compleanno da un vecchio depravato, psicopatico e perennemente sbronzo!» urlò lei arrabbiata, incapace di controllarsi.

Non era da lei perdere le staffe in quel modo, ma non aveva alcuna intenzione di darla vinta ai suoi genitori.

«Allora è deciso. Parti tra due giorni» concluse suo padre, ignorandola, per poi riprendere a mangiare.

Davanti a lei, Daisy continuava a riempirsi selvaggiamente la bocca di scones e Finn a sorseggiare tè come se nulla fosse.

Arianna fece un profondo respiro e decise che ne aveva davvero abbastanza. Il suo ultimo barlume di lucidità di quella mattina si spense come una lampadina in cui si era bruciato il filamento.

Si alzò in piedi bruscamente e uscì dalla sala a passo di carica, lasciando la sua colazione praticamente intatta.

Sapeva di aver perso e questo la mandava su tutte le furie. Odiava a morte suo zio, quel rozzo contadino senza pudore che non aveva un minimo di rispetto per lei e per le sue esigenze, e stava per passare con lui i mesi che preferiva di tutto l'anno, le vacanze natalizie e il suo compleanno.

Se poi ripensava al comportamento della sua famiglia, quella calma ostentata e completamente falsa, il sangue le andava alla testa e lo stomaco le si chiudeva ancor di più.

Di colpo ripensò alla colazione che non aveva neanche toccato, rimasta intatta sul tavolo.

C'era stato un momento in cui saltare i pasti le dava una perversa soddisfazione, in cui conosceva a memoria le calorie di ogni singolo scone e, al pensiero di provare di nuovo quelle sensazioni, ebbe un brivido e si portò istintivamente la mano al ventre piatto.

No, non avrebbe più dovuto trascurare i pasti, o si sarebbe di nuovo rinchiusa con le sue stesse mani in quella gabbia senza vie d'uscita che era stata la sua malattia.

****

Ero a casa. A casa mia, a Londra, constatai quella mattina, svegliandomi nel mio letto, nella mia camera disordinata, nella mia casa di campagna.

Sorrisi, stirandomi e scacciando via le coperte. Dal piano di sotto provenivano urla e risate e riconobbi tra queste, oltre a quelle dei miei familiari, anche la voce di George.

Non mi stupiva il fatto che il mio amico fosse in casa nostra a quell'ora: mia madre era una persona estremamente accogliente e probabilmente lo aveva invitato per la colazione. Il suo carattere andava però tenuto sotto controllo perché, con il suo altruismo esagerato, aveva spesso finito per invitare mezzo paese in casa nostra per i pasti.

Mi alzai faticosamente in piedi, sbadigliando, e mi affacciai all'enorme finestra che mio padre aveva aggiunto in seguito per illuminare la stanza, dato che era stata ricavata da una soffitta.

Scostando le tende, osservai rapita il panorama familiare che in quei mesi mi era mancato così tanto: ettari ed ettari di campi coltivati si estendevano di fronte a me, alle pendici delle colline e, proprio vicino alla nostra casa, si intravedeva quella di Beth.

Sorrisi tra me e me. Finalmente avrei potuto tornare, anche se per un breve periodo, alla mia vita quotidiana, a Leo, ai miei amici e alla mia famiglia. Ne avevo davvero bisogno, e loro mi erano mancati così tanto!

Mentre riflettevo, appoggiata alla finestra con i gomiti, udii dei rapidi passi sulle scale e un attimo dopo la testa bionda di George fece capolino dalla porta di camera mia.

«Kia, ti sei alzata finalmente!» esclamò lui, entrando definitivamente. «E hai i capelli unti» aggiunse, inarcando un sopracciglio.

Mi scostai una ciocca bruna dalla fronte e sbuffai sonoramente. «I capelli sono così, di mattina. Basta pettinarli.»

«No no, sono proprio unti.»

Gli scoccai un'occhiata glaciale e, dopo aver tratto un sospiro di resa, gli spiegai cos'era successo la sera prima. Appena arrivata casa, infatti, non avevo neanche fatto in tempo a varcare la soglia che mia madre era inorridita, vedendo i miei capelli così sciupati e sfibrati.

Effettivamente in quei mesi di scuola, libera dal giogo della mamma – che mi costringeva a spalmarvi sopra i peggio intrugli – li avevo un po' trascurati e così, prima di andare a letto, intontita dal sonno e dal viaggio, mi aveva obbligato a lavarmeli e tutti quegli oli miracolosi che mi aveva costretto ad usare probabilmente li avevano nutriti... fin troppo.

«Povera te... immagino che avresti voluto andare a dormire, ieri sera. Adesso sembri la versione abbronzata di Severus Piton» mormorò lui, divertito.

Ridacchiando sottovoce, mi avvicinai all'armadio, dall'altra parte della stanza, e cominciai a rovistare fra i miei vestiti alla ricerca di qualcosa da mettere.

«Chi c'è di sotto?» chiesi senza voltarmi, mentre recuperavo al volo un paio di jeans e una camicia dai primi cassetti aperti.

Imprecai sottovoce, non trovando il reggiseno da nessuna parte.

«Io, tua madre...» sentii George fare una lunga pausa. «...e Steve.»

Chi caspita era Steve? Anche il senzatetto della zona si chiamava Steve, ma sperai si trattasse solo di una coincidenza.

«Geo, c'è per caso un reggiseno, in giro...?» domandai, mentre entravo fino a metà schiena nell'armadio, frugando anche negli angoli più nascosti e finendo per dare una testata contro la mensola posta sopra di me.

«Ehi, ce n'è uno qui.»

Per niente imbarazzato dalla domanda, George indicò la testiera del letto, a cui era appeso un reggiseno rosa pallido.

«Ah-ah! Ecco dove ti eri cacciato» esclamai, mentre con una mano mi massaggiavo la testa dolorante e con l'altra afferravo il fuggiasco.

A quel punto, ordinai al mio amico di lasciare la stanza.

«Va bene, va bene, ti lascio la tua privacy» fece lui, alzando le mani. «Ci vediamo di sotto!» aggiunse, uscendo dalla camera e avviandosi giù per le scale.

Io afferrai il mucchio di vestiti ed entrai in bagno, continuando a rimuginare su chi caspita potesse essere quello Steve.

Dopo essermi cambiata al volo, scesi le scale a due a due e mi precipitai in cucina.

Mia madre era di spalle e canticchiava a bassa voce, mentre spremeva alcune arance sullo spremiagrumi. Seduto al tavolo, George beveva la sua spremuta, fissando con malcelato imbarazzo la figura indesiderata seduta dall'altro capo del tavolo.

Vedendomi, il mio amico parve rilassarsi appena, mentre io sgranavo gli occhi alla vista dell'uomo a tavola, che mi sorrise mettendo in mostra i numerosi denti che gli mancavano.

«Mamma.» Notai che la mia voce suonava fastidiosamente stridula, mentre fissavo a bocca aperta l'uomo davanti a me.

Non avrei voluto essere scortese né fare una scenata di fronte a lui, ma allo stesso tempo volevo dannatamente sapere cosa ci facesse il barbone della zona seduto al tavolo di casa mia.

«Tesoro!» Mia madre si voltò, sorridendo a trentadue denti e porgendomi un bicchiere colmo di succo d'arancia, come se niente fosse. «Vieni, siediti accanto a George... caspita, come ci sei mancata!» proseguì, poggiando una scatola di biscotti sulla tavola su cui Steve si avventò con estrema voracità.

Vidi George allungare una mano timidamente, cercando di afferrare almeno un biscotto, ma l'espressione minacciosa che l'uomo gli rivolse ci fece capire che a noi non ne sarebbe toccato nemmeno uno.

«Mamma» ripetei, sedendomi a debita distanza dal senzatetto, che nel frattempo continuava imperterrito a divorare biscotti.

La fissai disperatamente, spostando lo sguardo da lei a Steve.

«Oh, giusto!» Mia madre parve ricordarsi solo in quel momento di chi era seduto al tavolo della sua cucina. «Lui è Steve, stamattina si ferma a colazione da noi. Abiti qui vicino, vero?»

Dato che non aveva neanche una casa, forse abitare non era il termine più adatto, ma non glielo feci notare, limitandomi a fissare senza battere ciglio Steve, che per tutta risposta annuì con il capo, spargendo briciole di biscotti ovunque.

Mi schiarii la voce. «Dove sono gli altri?» chiesi, guardandomi intorno.

«Kaila e tuo padre dovrebbero arrivare a momenti, sono andati a controllare la fattoria. Harry invece dorme ancora» spiegò mia madre, rimettendosi ai fornelli.

Mio padre, rustico uomo di campagna, aveva cercato in tutti modi di trasmettere la sua passione anche ai suoi figli. Con mio fratello maggiore, Harry, aveva completamente fallito, mentre io avevo ereditato da lui solo la sua passione per i cavalli, ma Kaila era diventata il suo pupillo. La mia sorellina, infatti, indottrinata fin da piccolissima, era sempre stata affascinata dalla vita nei campi e adesso, all'età di dieci anni, aiutava continuamente nostro padre con i lavori nella fattoria.

Mentre mia madre ci serviva la colazione, composte da uova, bacon e un altro bicchiere di spremuta, sentimmo dei passi al piano di sopra e poco dopo, sulla soglia della cucina, apparve Harry, con i capelli ricci tutti arruffati e l'aria stravolta dal sonno.

«Buongiorno a... tutti

Mio fratello posò interrogativamente lo sguardo su Steve, che non lo degnò di uno sguardo, e poi su me e George, che gli indicammo silenziosamente mia madre.

«Mamma» sibilò Harry, procedendo a passo di carica verso di lei.

Io e George posammo forchetta e coltello, curiosi di assistere alla scena.

«Mi spieghi cosa ci fa qui il senzatetto della zona? Come ti è venuto in mente di invitarlo a casa nostra?!» strillò lui sottovoce.

«Harry, non tutti possono permettersi una casa o una famiglia. Sii rispettoso verso Steve. Lo sai dove vive? In una scatola di cartone!» replicò nostra madre inviperita, la voce che le andava incrinandosi.

Di fronte al suo tono lamentoso, mio fratello alzò le mani in segno di resa.

«Basta che lo teniate lontano da me» chiarì, lasciandosi cadere sulla sedia accanto alla mia.

«Ci ho provato anche io» lo informai, vedendo la sua espressione sconsolata, mentre tagliavo a fettine il bacon. «E questo è il risultato...»

Osservai Steve, che stava leccando il piatto, lucido come fosse stato appena tolto dalla lavastoviglie.

«Non ha un minimo di educazione» brontolò lui, seguendo il mio sguardo e lanciando a Steve un'occhiata in cagnesco.

«Be', dopotutto vive in una scatola di cartone» intervenne George, sorseggiando serafico la sua spremuta.

Scoppiamo tutti a ridere, tentando di non farci sentire dalla mamma.

Mentre cercavamo di fare colazione come se nulla fosse, la porta della cucina, che dava sul cortile, si spalancò di colpo e Kaila entrò trafelata dentro casa, accompagnata da uno spiffero d'aria gelida. Portava sottobraccio un cesto stracolmo di uova e, nonostante indossasse una logora maglia chiazzata di rosso e avesse i capelli raccolti disordinatamente in una coda di cavallo, era di una bellezza mozzafiato. Mi accorsi in un soffio che era cresciuta ancora, dall'ultima volta che l'avevo vista. La sera prima, infatti, appena arrivata a casa – e prima che mia madre mi rinchiudesse nella doccia – non avevo avuto modo di salutarla, poiché era stata già mandata a dormire.

«Kaila!» esclamai, alzandomi in piedi per abbracciarla.

Lei soffocò un urlo emozionato e fece per gettarsi tra le mie braccia, prima di bloccarsi bruscamente.

«Credimi Kia, vorrei abbracciarti, ma devo prima cambiarmi» si affrettò a spiegare, indicandosi la maglia sporca.

«Tranquilla, posso anche macc...» tentai di dire, ma fui interrotta da mia madre, che fissava accigliata le chiazze rosse sulla maglietta di mia sorella.

«Kaila... cos'hai fatto?»

Lei non disse nulla, limitandosi a guardare la mamma con un'aria improvvisamente colpevole.

«Tu non avrai...»

«Ero solo troppo vicina, te lo giuro!» esclamò Kaila, cogliendo un guizzo furioso negli occhi della madre.

«Quello sconsiderato di tuo padre!» sibilò lei, prima di esplodere in un urlo di rabbia e precipitarsi fuori di casa, in direzione della fattoria.

«JACK!» gridava, «JACK! COME DIAMINE HAI POTUTO? AVRESTI POTUTO TRAUMATIZZARLA A VITA!»

I suoi urli contro nostro padre si fecero via via più distanti e Kaila, dopo aver lasciato il cesto con le uova sul piano di cucina, si lasciò al tavolo con un sospiro.

«Ha di nuovo sparato a un animale mentre eri nei dintorni?» domandò Harry, bloccandosi dal continuare a mangiare, mentre io fissavo mia sorella scandalizzata.

«Oh Gesù» commentò George, portandosi una mano alla bocca, come fosse preda di un improvviso conato di vomito. Quei discorsi dovevano turbarlo non poco, visto che era da sempre un vegetariano convinto.

«Sì, ma io sono meno debole di quello che pensa la mamma!» protestò Kaila, mettendo il broncio. «Comunque» ci informò, «a breve mangeremo carne di maiale.»

«Oh Ges...»

«Buono il maiale!»

Ci voltammo tutti verso Steve, che ci rivolse un sorriso sdentato.

«Che dite, ne approfittiamo per cacciarlo di casa?» sussurrò Harry, indicando con lo sguardo la porta semiaperta della cucina. Mia madre non era ancora tornata.

Trattenendo a stento una risata, gli facemmo segno di sì. Mentre Harry e George si facevano vicini a Steve, un rumore improvviso attirò la mia attenzione.

Il mio cellulare, in salotto, stava squillando.

Lasciai rapidamente la cucina e, una volta afferrato il telefonino, notai che mi era arrivato un messaggio da Arianna. Lessi attentamente: a breve avrebbe festeggiato il suo compleanno e, oltre ad avermi invitato, mi aveva scritto di portare Luke.

Leggermente turbata all'idea di portarlo con me al compleanno di una mia cara amica, lasciai il cellulare sul divano e, cercando di non pensarci, tornai in cucina.

****

«Sorgi e splendi, tesoro!»

Beth grugnì, agitandosi fra le coperte e tirandosele su fin sopra nuca, nel tentativo di sfuggire al luminoso raggio di sole entrato attraverso l'ampia finestra, finalmente libera dalle tende che la figura in piedi, davanti al letto di Beth, aveva appena tirato verso di sé.

«Amore mio, ci sei mancata così tanto!» proseguì la figura, letteralmente strappando le coperte dal corpo di Beth, che espresse tutta la sua disapprovazione.

«Eddie... stupido... spegni quella luce...» borbottò Beth, allungando le mani a tentoni per tentare di allontanare da sé il fratello.

«Beth, mia cara, devi alzarti» replicò lui, perentorio.

Di fronte all'ennesimo mugolio di protesta della sorella, reagì in modo piuttosto drastico: la sollevò di peso e si incamminò verso la porta della camera, diretto in cucina.

«Eddie! Mettimi giù!» protestò Beth, ancora intontita, cercando di opporre resistenza.

Niente da fare, la sua stretta era ferrea: nonostante non lo desse a vedere, suo fratello era piuttosto muscoloso.

«Lo sai che non devi svegliarmi prima dell'una!» strillò.

«Oh, andiamo, oggi puoi fare un'eccezione» ribatté lui, ignorando Beth che si dibatteva fra le sue braccia come un'anguilla.

L'incubo della ragazza terminò solamente quando Eddie la lasciò finalmente a terra, all'ingresso della cucina.

Di colpo libera, Beth tirò un sospiro di sollievo che somigliava più ad uno sbadiglio e varcò la soglia, seguita dal fratello.

I due si sedettero a tavola, dov'era radunata la famiglia al completo. Sua madre le dava le spalle, canticchiando mentre preparava la colazione, mentre suo padre leggeva tutto assorto il giornale, seduto al tavolo. Accanto a lui, sua sorella Martha, di cinque anni maggiore di Beth, stava posando due tazze fumanti davanti alle gemelle Julie e Mary, di tredici anni.

Mentre Beth si sistemava vicino a Julie, sua madre si voltò nella sua direzione.

«Beth! Come ci sei mancata!» esclamò allegramente. «Vieni, ti servo la colazione.»

Dopo averle scoccato un bacio sulla guancia, le passò una tazza di tè bollente.

«Sei cresciuta» intervenne suo padre, alzando gli occhi dal giornale, osservandola mentre si alzava in piedi per arrivare a prendere la zuccheriera, dall'altro capo del tavolo.

Al commento del padre, la ragazza trasalì. Arraffò la zucchero e l'attimo dopo era già tornata al suo posto, ridacchiando per mascherare il proprio disagio.

«Avanti, Ringo, sono passati soltanto un paio di mesi, ti eri scordato del mio aspetto?» scherzò, giocherellando con il suo cucchiaino dentro la tazza.

«Non chiamarmi Ringo» protestò il padre, tuttavia vagamente divertito.

Vista la grande passione che Beth nutriva per i Beatles, suo padre Richard era da sempre detto Ringo, nonostante egli non ne fosse troppo entusiasta.

Nonostante tutto, Beth amava sua padre. Richard era fondamentalmente un uomo buono: vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, riusciva a cogliere il meglio nell'animo di ogni persona e, nonostante le stravaganze di sua madre e i suoi modi di fare vagamente hippie, lui sembrava apprezzarla davvero.

Ma avrebbero dovuto appellarsi a tutto il loro ottimismo, pensò amaramente Beth, per far fronte al brutto periodo che in quel momento stavano attraversando a causa sua e che aveva rischiato di trascinare nel baratro l'intera famiglia. Richard, infatti, aveva perso il lavoro dopo un fatto eclatante che però era già noto a tutti tranne, a quanto pareva, lui. La dichiarazione dell'omosessualità di Eddie.

Beth non credeva che suo padre fosse omofobo, solo molto, molto all'antica. In una famiglia di sole femmine, riponeva grandi speranze e progetti nell'unico figlio maschio e scoprire che il suddetto era probabilmente più donna di tutte loro messe insieme era stato per Richard un vero e proprio shock.

A tirarlo su di morale – e a risollevare le finanze della famiglia – in compenso ci aveva pensato Martha che, appena ventenne, era già laureata in medicina all'Imperial College London ed era sempre in giro per il mondo a compiere missioni di volontariato.

«Oggi non c'è il solito cane che sta vicino ai cespugli» osservò la madre di Beth, sbirciando fuori dalla finestra di cucina.

«Mamma non è un cane, è un senzatetto» intervenne Mary, alzando lo sguardo.

«Strano, avrei giurato fosse un cane» replicò, lei strizzando gli occhi.

Beth sospirò, vagamente divertita. Sua madre era cieca come una talpa, ma sosteneva che gli occhiali fossero un affronto alla sua bellezza e non li indossava mai, con l'unico risultato che non vedeva mai un accidente.

«Mi chiedo se non sia opera di Nahoa» mormorò Richard, corrugando la fronte. La madre di Kia era solita invitare a casa sua chiunque possedesse anche solo la capacità di respirare.

«Allora, Beth, ti trovi bene nella nuova scuola? Hai fatto amicizia con i tuoi compagni di classe?» chiese poi, voltandosi verso la figlia.

Beth ci pensò su. «Alcuni ragazzi sono un po' agitati, Ringo» disse infine, «ma mi ci trovo bene. Oltre alle mie ragazze, ho fatto amicizia con il mio compagno di banco, Ben» aggiunse, stringendo improvvisamente le mani intorno alla sua tazza calda per non costringersi a parlare di John.

Non sapeva se avrebbe dovuto dirgli di lui e dello strano legame che avevano stretto, un alternarsi di commenti velenosi e momenti silenziosi ma di malcelata emotività, in cui sembravano venir fuori solo le loro emozioni più fragili e nascoste. Era molto confusa riguardo al loro rapporto e preferì tenerlo per sé.

«È carino?» domandò Martha incuriosita, sedendosi a tavola.

Beth ci mise un attimo a capire che si riferiva a Ben e non a John.

«Molto!» disse, affrettandosi ad aggiungere: «E anche molto gay.»

Eddie voltò di scatto la testa. «Cosa aspettavi a dirmelo? Lo voglio conoscere!» esclamò, facendo un sorriso furbetto.

Beth rise, seguita dai suoi familiari, e promise che al suo ritorno a scuola avrebbe sicuramente parlato di lui a Ben che, vista la faccenda di Eric e tutto il resto, non era più fortunato in amore di quanto non lo fosse Eddie. Suo fratello, infatti, era da sempre innamorato di Harry, lo statuario fratello di Kia che, nonostante gli volesse un gran bene, non poteva ricambiarlo. Una storia d'amore duratura sarebbe stata per lui un vero passo avanti.

«In quanto a bei ragazzi, laggiù?» domandò Julie ad un punto, facendo un sorrisetto malizioso.

«Ragazzi etero» precisò Mary.

«Perché solo gli etero?» protestò Eddie, mettendo il broncio.

«Lasciatela parlare! Siete le solite pettegole» intervenne la mamma, dando una poderosa pacca sulle spalle di Martha, che espresse tutto il suo disappunto.

«Scusa tesoro, ti avevo scambiata per quelle due belve.»

«Grazie» rispose lei, sbuffando. «Sono così grossa?» fece poi, lanciando uno sguardo frustrato a Beth.

Lei sorrise divertita, realizzando quanto gli fosse mancato quel familiare trambusto. Approfittando di un – raro – momento in cui tutti avevano la bocca chiusa, attaccò a parlare come un fiume in piena.

«Martha, non sei grassa, cerca di non farti troppi complessi. Mamma, è davvero il caso che tu ti decida a metterti gli occhiali, Ringo ha ragione. Eddie, parlo di ragazzi in generale, non conosco l'orientamento sessuale di tutti i bei ragazzi della mia scuola!»

Che non sono pochi, avrebbe voluto aggiungere, ma si fermò appena in tempo.

«Tesoro, se ci sono dei bei ragazzi, perché non ti fai aiutare da Julie e Mary?» intervenne sua madre, indicandosi il palmo della mano.

Beth la fissò, senza capire.

«La mamma ci ha insegnato a leggere la mano» esclamarono loro all'unisono, sorridendo entusiaste.

«Sono davvero bravissime» le assicurò la mamma.

Di fronte a tutto quell'entusiasmo, Beth annuì piano, giusto per non mettere in discussione il loro talento. Sua madre si professava chiromante e, di tutta la famiglia, le due sorelle gemelle erano le più interessate al suo improbabile lavoro. Per Beth chiamarlo lavoro era già abbastanza offensivo: non aveva mai creduto a quel genere di cose, nonostante sua madre fosse assai nota nel paese per le sue presunte capacità.

Solo fortuna e coincidenza.

Riluttante, posò la mano a palmo aperto sul tavolo, di fronte a Julie e Mary. Le due si chinarono ad osservare le linee zigrinate che le tracciavano la pelle, le loro espressioni teatralmente concentrate. Già pentita, di fronte a quel teatrino, Beth stava per ritrarre la mano, quando Julie alzò la testa di scatto.

«La tua vita procede come sempre» sentenziò. «Ma...»

«Ma c'è stato un cambiamento» la interruppe Mary. «Vedi questa linea, leggermente sconnessa dalla principale?» La voce le tremava dall'eccitazione.

Beth annuì di nuovo, nonostante non vedesse assolutamente nulla di quel che le stava dicendo la sorella. Non volendo deludere le sue aspettative, fece del suo meglio per stare al gioco.

«Dovresti aver superato da poco questa linea» osservò Julie, pensierosa. «È accaduto qualcosa di particolare, in questo periodo?» domandò poi, fissandola intensamente, come se cercasse di leggerle dentro.

Beth fu turbata dalle sue parole, ma cercò di concentrarsi sulla domanda. Qualcosa di particolare in quel periodo ? John, John, John, continuava a ripetere una vocina nella sua testa, che cercò in tutti i modi di ignorare. Cominciava ad averne abbastanza di quell'interrogatorio.

«Non potrebbe essere stato il trasferimento nella nuova scuola?» intervenne Richard, quasi timidamente.

La ragazza tirò un sospiro di sollievo, ma sua madre e le due aspiranti chiromanti si voltavano all'unisono a fissarlo, come se avesse bestemmiato. Bastò un attimo perché lui si affrettasse a scusarsi e tornasse in silenzio. Quindi gli sguardi di tutti tornarono sulla povera Beth.

«Non saprei...» balbettò lei, a disagio.

«Sei incinta?»

«Hai avuto un brutto litigio?»

«Hai conosciuto un ragazzo?»

Beth negava una domanda dopo l'altra, ma di fronte a quella di Julie fu costretta a bloccarsi, le sue parole che le rimbombavano nelle orecchie. Fissò a bocca aperta la sorella, mentre la sua domanda le piombava addosso come una pioggia improvvisa, senza che lei avesse con sé un ombrello. La vocina nella sua testa si intensificò e la ragazza notò che sul volto di Julie si stava facendo spazio un sorriso trionfante.

È la fine, pensò Beth. Cercò di pensare ad una qualsiasi spiegazione da dare ai suoi familiari, quando l'avessero messa sotto torchio, ma lei non ne aveva. Non aveva idea di come spiegare il suo rapporto con John, non era chiaro nemmeno a lei stessa, come avrebbe potuto spiegarlo ad altri? Non sapeva mentire, non ne era mai stata capace, e in quel momento solo un miracolo poteva salvarla.

I suoi pensieri furono interrotti dalla voce di sua madre e da una canzone dei Beatles in lontananza. Possibile che..?

«Beth, il tuo telefono sta squillando!»

****

Angie si agitò fra le coperte, infastidita dalle voci concitate dei suoi fratelli che riempivano la stanza e da un continuo cigolio che non le dava tregua. L'ultima volta che aveva udito un cigolio simile a letto, Fred aveva invitato un'amica per la notte ma, visto che suo fratello non era l'unico a gridare e dubitava che nella loro camera ci fosse un'orgia, scacciò quel pensiero e cercò di concentrarsi sull'agitata conversazione.

«Che diavolo ci faceva insieme a uno come lui?» stava urlando Sean.

«Non lo so, ma credetemi se vi dico che era la sua copia!» rispose Nathan.

«Questa è bella! Dov'era il fratello di Day in tutti questi anni? Non lo abbiamo mai visto!» intervenne Fred, sarcastico.

«In un collegio inglese, mi pare evidente.»

«Ma hai detto che è nella classe di Angie! Quindi avrebbe lasciato l'Irlanda solo pochi anni fa!»

«È sicuramente un ripetente. Se ha preso da quel coglione di Day, non mi meraviglia il fatto che sia sempre al terzo anno.»

Approfittando del silenzio tra i tre dopo la risposta di Nathan, Angie scattò a sedere con un mugolio rabbioso.

«Lasciatemi dormire, razza di idioti! Perché dovete parlare proprio qua in camera?» urlò, passandosi le mani fra i capelli in disordine.

«Angie, riguarda la tua sicurezza!» intervenne Sean in tono serio, lasciandosi però sfuggire un mezzo sorriso.

«Ho sentito» sibilò lei per tutta risposta. «Sai, parlate a voce leggermente alta.»

«Avanti Angie, su con la vita! Sei a casa!» esclamò Fred allegro, avvicinandosi al letto e scompigliandole i capelli – già scompigliati – con una mano.

«Non toccarmi i capelli!» scattò lei, inviperita, scuotendo il capo.

«Come sei gentile, la mattina» borbottò lui, evitando un morso della sorella per un soffio.

«Un vero angelo» aggiunse Nathan, immediatamente fulminato dallo sguardo di Angie.

Imprecando contro i suoi fratelli, la ragazza si alzò in piedi, trascinandosi con fatica al piano di sotto.

Nathan, Fred e Sean la seguivano poco distanti, mentre lei lentamente lungo le scale, intontita dal sonno e nervosa per il brusco risveglio.

Le pareti di casa sua erano da sempre tappezzate da ogni genere di quadro, tutti firmati da Katherine Stevens, nata Marchand, sua madre: una persona originale e forse un po' stravagante, come ogni artista che si rispetti.

Angie adorava la madre. Era da lei, dopotutto, che aveva ereditato il suo amore per l'arte pura, espressa in qualsiasi tipo di forma.

Giunta al piano di sotto, vi trovò suo padre, intento a leggere il giornale in salotto. Andò a salutarlo e ne approfittò per chiedere notizie della madre. Katherine, le disse, era chiusa nel suo studio da quella mattina e nessuno l'aveva ancora vista, presa com'era dal suo nuovo progetto.

Lui le consigliò di andare a salutarla più tardi ed Angie annuì, recandosi quindi in cucina, dov'erano già seduti i suoi fratelli e sua nonna, Beau. La ragazza corse ad abbracciarla: come il resto della famiglia, era molto affezionata a quella caparbia donna francese, la madre di sua madre, nonostante con l'età avesse cominciato a perdere qualche colpo ed era necessario che vivesse sotto il loro stesso tetto.

Dopo averla stampato un bacio sulla guancia, si sedette vicino a Fred.

«Nonna, potresti passarmi il cesto di frutta?» domandò poi, indicando la voluminosa cesta in un angolo dell'acquaio, a cui l'anziana si era avvicinata.

«Ma chérie, è pesantissima!» protestò lei.

«Allora potresti prendermi solo una banana, da quel pesantissimo cesto di frutta?» si corresse Angie, sospirando.

L'anziana ammiccò verso suo fratello. «Ma a quello può pensarci Fred, non è vero?»

«NONNA!» esclamarono loro due all'unisono, fissandola scandalizzati.

Lei ridacchiò sommessamente, mentre Angie, visto l'andazzo, si alzava in piedi per servirsi da sola.

«Quello si chiama incesto» osservò Nathan divertito, probabilmente l'unico ad aver apprezzato l'atroce battuta della nonna.

«In-cesto?» ripeté Beau. «Un nome non casuale...» Si voltò verso Angie, che stava osservando con occhio critico le uniche tre banane della cesta, dall'aspetto triste e raggrinzito.

Mentre Nathan e la nonna ridacchiavano, tentando con scarso successo di non essere uditi, Katherine comparve all'improvviso sulla soglia della cucina.

Angie la osservò, preoccupata, vedendo che aveva un'aria davvero stravolta: nonostante fosse pieno inverno, indossava una canottiera sgualcita, coperta di macchie di colore, e teneva i capelli spettinati raccolti in ciuffi disordinati sparsi qua e là per la testa, per non intralciare il lavoro. Inoltre, aveva gli occhi iniettati di sangue e pesanti borse le solcavano il viso, segno che molto probabilmente non era da quella mattina che si dedicava al suo progetto, bensì da tutta la notte.

«Mamma» fu tutto quello che riuscì a dire, vedendola appoggiarsi con un braccio al tavolo per non crollare a terra.

Lei alzò lo sguardo stanco verso Angie e la squadrò lentamente da capo a piedi, provocandole un brivido lungo la schiena. Che avesse capito del...?

«ANGIE!» gridò, accapponandole la pelle. «A CHI LE HAI RUBATE QUELLE GAMBE?» proseguì, puntandole un dito contro.

Angie rimase pietrificata, senza riuscire a replicare. Con tutta probabilità, sua madre stava delirando per la stanchezza, ma in cuor suo sapeva bene che in quelle parole urlate istericamente era nascosta una parte di verità.

«A CHI LE HAI STRAPPATE DAL CORPO?!» riprese, ma fu interrotta da Sean che, apparso dietro di lei, le poggiò le mani sulle spalle, delicatamente ma con fermezza.

«Mamma, sei molto stanca» disse calmo, per niente impressionato dalla sua scenata. «Non vedi che stai spaventando Angie? Andiamo, ti accompagno di sopra a riposare.»

Sotto il tocco del figlio, Katherine si rilassò e annuì, lasciandosi guidare docilmente fuori dalla cucina. A quel punto, nonostante il cuore che continuava a scalpitarle nel petto, Angie tirò un rapido sospiro di sollievo.

«Il lavoro di vostra madre non procede bene, mes chéris» osservò la nonna, con una nota di tristezza nella voce.

«Già, altrimenti non si comporterebbe così» confermò Fred, mentre Angie tornava silenziosamente al suo posto, ancora scossa.

«Però non aveva tutti i torti, hai le gambe leggermente diverse...» mormorò Nathan, fissandola, e la ragazza si sentì nuovamente raggelare.

«Quanto prendi a notte?» scherzò Fred, dandole di gomito.

«Incesto...» ridacchiò la nonna, lanciando uno sguardo complice a Nathan, che soffocò a stento una risata.

Angie si limitò a incenerirli tutti e tre con lo sguardo.

 

In tarda mattinata il cellulare di Angie squillò e lei, notando con un certo stupore che la chiamata era da parte di Arianna, salì in camera sua per rispondere.

«Pronto... Arianna?» esordì, chiudendosi la porta alle spalle. Forse aveva sbagliato numero.

«Ciao Angie.» No, non aveva sbagliato numero. «Tutto bene?»

Arianna aveva una voce persino più triste del solito, notò subito Angie.

«A parte il fatto che i miei hanno subito notato qualcosa di diverso nel mio aspetto...» rispose, ripensando inquieta all'episodio di quella mattina. «Tutto bene.»

«I miei genitori non ci hanno fatto nemmeno caso» fece Arianna, piano e, di nuovo, Angie notò un'indefinibile nota amara nel suo tono di voce. «Vogliono mandarmi in campagna per il mio compleanno» aggiunse poi, contrariata.

Ecco la causa del suo malumore, pensò Angie.

«Da quel folle di tuo zio?!»

«Esatto.»

«Mi dispiace...» mormorò Angie, vagamente a disagio.

I racconti su quell'inquietante individuo erano tramandati da Arianna come leggenda e persino lei, che di rado prestava ascolto a ciò che diceva, li ricordava chiaramente.

Dall'altro capo ci fu un attimo di silenzio, ma Arianna si riprese subito.

«Ti ho chiamato per invitarti alla festa»

«Verranno anche le tue amiche di città?» si informò Angie, già incline a rifiutare.

Si avvicinò alla grande finestra della sua stanza, che dava sulla casa dei suoi odiosi vicini. Lei in realtà non li aveva mai conosciuti ma, in seguito a numerosi litigi legati ai confini delle due proprietà, erano diventati un vero e proprio tabù per la sua famiglia.

«Te le immagini le mie amiche di città nella campagna di mio zio?»

«Effettivamente no» ammise Angie, sogghignando.

«Infatti.» Di nuovo silenzio. Poi Arianna disse, tutto d'un fiato: «Puoi invitare anche Night, se ti va. So che anche lui è di Dublino.»

Questa volta fu Angie a rimanere in silenzio.

«Non ho la più pallida idea di dove abiti e, anche se lo sapessi, non avrei alcuna intenzione di chiedergli di venire con me!» esclamò poi, indignata. Come le era saltato in mente di farle quella proposta?

A quel punto fu Arianna a rispondere infastidita, ma Angie non fece caso alle sue parole.

La sua attenzione, infatti, era stata attirata dall'enorme balcone della casa dei suoi vicini, dal quale era uscita una persona. Era un ragazzo alto, con corti capelli castani scuri e il naso rotto, che però non pareva neanche un inestetismo ma, al contrario, contribuiva solo a renderlo più affascinante. Era uscito per fumare una sigaretta ed Angie lo osservò più attentamente.

«AAAAAAAAH!» gridò, interrompendo quel discorso di Arianna che non stava minimamente ascoltando.

«Cosa succede?» esclamò lei, preoccupata.

«OH CAZZO! DALLA FINESTRA!»

«Eh?»

«L'HO VISTO!»

«Angie, calmati!»

«COME FACCIO A CALMARMI?! HO APPENA VISTO NIGHT DALLA FINESTRA!» urlò istericamente.

Improvvisamente le balenò in mente il pensiero che lui potesse vederla, alzando lo sguardo, e si allontanò dalla finestra, in preda al panico.

«CHE COSA?!» gridò Arianna, esterrefatta.

«Nathan aveva ragione, AVEVA RAGIONE! Ma non pensavo fosse... DIO, SONO I NOSTRI VICINI!»

Angie si impose di mantenere la calma. Avrebbe solo finito per svegliare la madre, continuando a gridare come un'ossessa. Si sedette sul letto e respirò a pieno polmoni, gli occhi chiusi.

«Guarda il lato positivo» disse improvvisamente Arianna, una nota divertita nella voce, «non dovrai fare alcuna fatica per invitarlo alla mia festa di compleanno.»

Angie era sicura che in quel momento la vipera stesse sorridendo.

«Grazie per avermi ricordato il motivo per cui non ti sopporto, Arianna.»

 

*SCONES – biscotti inglesi simili a brioches, farciti con marmellata e burro. Sono i dolci tradizionalmente serviti all'ora del tè, ma sono spesso usati anche per la colazione.

 

Ehilà!

Salve a tutti, eccomi di ritorno con questo capitolo persino più stravagante del solito, che descrive il primo giorno delle vacanze natalizie delle nostre protagoniste. Spero lo abbiate apprezzato, nonostante non contenga fatti avvincenti come negli altri capitoli: si tratta di un capitolo corridoio! Avevo in mente già da tempo di scrivere qualcosa sulle pazze famiglie delle protagoniste, ma adesso vediamole in dettaglio.

La famiglia di Arianna è veramente aristocratica, come spero di avervi fatto capire. Ari in questo capitolo ha un istinto vagamente assassino verso lo zio Frank, può sembrare eccessivamente crudele con lui... ma scoprirete che non ha tutti i torti. La sorellina invece me la immagino come una di quelle bambine stronzette, viziate e perfide, LEL. Finn invece è uno studente universitario, bello come la sorella e altrettanto studioso. Qui scoprirete anche qualcosa in più sul passato di Arianna, che comunque verrà approfondito molto nei prossimi capitoli.

La famiglia di Kia, nella campagna inglese, è composta da improbabili contadini (e una parrucchiera). Li adoro! È anche una famiglia multiculturale, perché la madre di Kia è originaria delle Hawaii. A tal proposito, mi immagino Kaila come una piccola Vaiana ed Harry come Maui, tatuaggi esclusi. La loro madre tiene in grandissima considerazione le loro tradizioni e considera sacra l'ospitalità, ecco perché gli amici di Kia (e talvolta anche i barboni) sono sempre i benvenuti a casa loro.

La famiglia di Beth, come avrete capito, è completamente folle. In questo momento di difficoltà economica vivono in affitto in una proprietà della famiglia di Kia, ecco perché le due abitano così vicine. La madre di Beth, un'astrologa-chiromante-ciarlatana (lel) che discrimina gli occhiali da vista, è in definitiva la mia eroina. Ringo, completamente soggiogato dalle donne della famiglia, mi fa un po' pena. Ma solo un po', perché è un uomo all'antica e si merita questo ed altro! Sono una famiglia numerosa e chiassosa, ma in fondo sono tutte brave persone..!

È stato uno spasso anche scrivere della famiglia di Angie, in Irlanda, tra i doppi sensi della nonna Beau, gli scleri di Katherine e i loro meravigliosi litigi con i vicini (e che vicini!). Per non parlare degli affascinanti fratelli di Angie: sì, sono dei teppisti, ma in fondo nessuno è perfetto. Avrete notato che il ramo materno della famiglia di Angie è francese (così come mi immagino francese il vero nome di Angie, che viene nominata solo con il suo soprannome) , anche se lei non ne accenna mai, perché Katherine MERSCION ha sempre vissuto in Inghilterra. 

Sono delle famiglie molto surreali, ovviamente, ma con delle figlie del genere non potevano certo essere normali! Il prossimo capitolo racconta della festa di compleanno di Arianna, dove avremo modo di conoscere lo zio Frank. Ne accadranno davvero delle belle!

Se avete letto questo capitolo mi piacerebbe lasciaste un commentino, è davvero importante! Ringrazio infinitamente chi ha trovato il tempo di leggere la storia fin qui.

Un bacione e al prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** -•Capitolo 16 ***


Ancora non riuscivo a crederci.

Non riuscivo a credere di essere in macchina in direzione di Edimburgo, con mio padre alla guida, con Beth che sonnecchiava a bocca spalancata, adagiata sulla mia spalla, ma soprattutto con Luke, dalla parte opposta alla mia sul sedile posteriore, che guardava fuori dal finestrino con aria annoiata.

Forse Arianna aveva una sorta di potere su di lui. Avrei dovuto essere gelosa?

Quando gli avevo proposto di accompagnarmi alla festa di compleanno di Ari, lui aveva sorprendentemente annuito. Probabilmente sperava che il compleanno si svolgesse nella prestigiosa, meravigliosa, enorme e ricca villa della sua famiglia, nel quartiere residenziale di Edimburgo, ma non era così. Per le vacanze, i genitori di Arianna l'avevano spedita contro la sua volontà da un suo zio che viveva in campagna, Frank, e quindi ci aveva invitato lì.

Altrettanto sorprendentemente Luke non aveva detto nulla al riguardo ed era venuto con noi lo stesso. Forse avrei dovuto davvero essere gelosa di Arianna.

Quanto a mio padre, era bastato dirgli che Frank era un contadino come lui per assicurarsi un viaggio di andata e di ritorno per Edimburgo, nonostante fossero più di sei ore di macchina. Solidarietà fra contadini.

Beth aveva coraggiosamente invitato John a venire con lei alla festa e lui, contro ogni previsione, aveva detto di sì, così ci eravamo incaricati di accompagnarlo. Era di Londra come noi e saremmo potuti passare a prenderlo senza problemi, prima di recuperare Luke a Edimburgo e dirigerci verso la campagna.

John però aveva gentilmente rifiutato, dicendo che sarebbe venuto in treno, e Beth era così emozionata all'idea di vederlo nelle vacanze, ma allo stesso tempo così titubante che, dopo aver sussurrato per tutto il tempo Verrà o non verrà?, era crollata addormentata circa a metà tragitto.

«Kia» mormorò Luke ad un punto.

Mi voltai verso di lui, sorpresa. Era la prima volta che apriva bocca da quando eravamo passati a prenderlo a casa sua, nel centro di Edimburgo.

«Sì?»

«Perché i genitori di Arianna l'hanno spedita in campagna?»

Era la prima volta che apriva bocca e già parlava di Arianna. Forse avrei dovuto seriamente essere gelosa, pensai, trattenendo un gemito.

«Arianna odia la campagna, ma i suoi sono convinti che un periodo lontano dalla città le faccia bene» spiegai, evitando il suo sguardo.

«Come può odiare la campagna?» intervenne mio padre, che probabilmente mi aveva sentito.

Poi cominciò a elencare tutte le meraviglie che, secondo lui, rappresentavano vivere in campagna, in mezzo alla natura, senza neanche rendersi conto che né io né Luke lo stavamo più ascoltando.

Incrociai le braccia al petto, abbandonandomi con la schiena contro il sedile posteriore.

Sarebbe stato un viaggio molto lungo.

****

La proprietà dello zio di Arianna era veramente vasta, constatammo mentre attraversavamo il vialetto diretto a casa sua con la macchina.

Ai lati della strada si estendevano centinaia di ettari di campi coltivati stagliati contro il sole, che iniziava a tramontare proprio in quel momento e, ancora più lontano, si intravedeva la cima di un silos e quella di un mulino. Qua e là, nei pochi campi non ancora coltivati, pascolavano gruppi di mucche e di pecore e si respirava finalmente aria pulita, come a casa mia.

«Che meraviglia» disse Beth, ormai sveglia, sapendo di parlare a nome di tutti e quattro.

La nostra auto procedeva piano, permettendoci di osservare incantati il paesaggio.

Non avevo seguito le parole di mio padre riguardo alle meraviglie di vivere in campagna, ma sapevo che aveva ragione. Come poteva Arianna, o chiunque altro, odiare un posto del genere?

Una volta arrivati nel cortile della grande casa di campagna di Frank, Beth, Luke ed io scendemmo dalla macchina e ci guardammo intorno.

Il casale dello zio di Arianna sorgeva in mezzo ai campi coltivati, vicino ad un'enorme pompa eolica e un fienile di grandi dimensioni, da cui si intravedevano compatte balle di fieno una sopra l'altra; poco lontano c'era la fattoria vera e propria, dipinta di un rosso scuro e rifinita di bianco, con annessa una piccola casupola in mattoni dal tetto spiovente.

Sulla vasta aia davanti ai due edifici razzolavano le galline e, poco più in là, si intravedeva la superficie scura di un lago illuminata dal tramonto. Da lì nasceva un fiumiciattolo che portava al mulino ad acqua, di cui avevamo visto la cima poco prima.

«Allo zio di Arianna non dispiacerà se do un'occhiata intorno, vero?» domandò mio padre, sporgendosi con il busto fuori dal finestrino. «È davvero una bella fattoria» aggiunse, con gli occhi che gli brillavano.

«Penso proprio di no» dissi, affrettandomi a seguire Luke e Beth, che si stavano avviando alla porta della grande casa.

Il ragazzo suonò il campanello e attendemmo sull'ingresso.

Dopo poco la porta si spalancò e Arianna uscì fuori, parandosi di fronte a noi. Indossava un lungo paio di jeans stretti e una camicia a quadri sbottonata in più punti, da cui si intravedeva una lunga canotta bianca. Avrei voluto sorridere, dato che era vestita in perfetto stile di campagna, ma tuttavia non lo feci, limitandomi ad osservarla con più attenzione.

Era dimagrita e non di poco. Le sue gambe, terribilmente esili, sembravano quasi faticare a sorreggerla e, alzando gli occhi per vederla in volto, ebbi la piena consapevolezza che c'era qualcosa che non andava: incorniciato dai lunghi e leggermente arruffati capelli castani sfumati di biondo, il suo viso era paurosamente magro e scavato e pareva contratto in una smorfia. Vedendoci, però, la sua espressione parve rilassarsi appena.

«Ragazzi! Benvenuti» annunciò, abbracciando prima me e poi Beth e sorridendo al mio ragazzo.

Notai con la coda dell'occhio che Luke non aveva avuto nessuna reazione sospetta e ciò mi rincuorò.

«Buon compleanno!» esclamammo io e Beth all'unisono.

Era una dei pochi compleanni che mi ricordavo a memoria, visto che il trentuno Dicembre era una data piuttosto facile da ricordare.

«Auguri» disse Luke senza entusiasmo, dandomi ulteriore prova di quanto mi fossi sbagliata.

«Vi ringrazio! Seguitemi, gli altri sono già dentro» rispose lei accennando un sorriso, indicando con lo sguardo la porta aperta e spostandosi di lato per farci entrare.

Avrei voluto bloccarla per parlarle un attimo, ma mio padre mi interruppe.

«Arianna!»

Ci voltammo tutti nella sua direzione. Era uscito dall'auto e si stava guardando intorno, come avevamo fatto noi.

«Posso chiederti una cosa?»

Lei aggrottò le sopracciglia, stupita, e annuì.

«Come puoi odiare questo posto? È uno splendore!»

Mi nascosi il viso fra le mani, imbarazzata. Ma perché non poteva starsene in silenzio?

Lei parve riflettere molto prima di rispondere.

«Ammetto di non essere una grande amante della vita di campagna, essendo nata e cresciuta in città, ma non odio questo posto. Non so cosa le è stato raccontato...» Arianna fece una breve pausa per potermi lanciare un'occhiataccia, «...ma l'unica cosa qui che odio profondamente è mio zio.»

Mio padre sgranò gli occhi e noi rimanemmo in silenzio, sorpresi e imbarazzati dalla sua schiettezza.

Attendemmo un po' a disagio che Arianna riprendesse il discorso, ma lei non lo fece e continuò a fissare mio padre dritto negli occhi.

Dopo aver coraggiosamente sostenuto il suo sguardo tagliente per circa due secondi e mezzo, lui distolse il suo e chinò il capo.

«Uhm, forse adesso è meglio che vada» borbottò poi, quasi fra sé, incespicando nella ghiaia del cortile e chiudendosi rapidamente in macchina. «Bella campagna, comunque.»

Ci salutò con una mano fuori dal finestrino e quindi iniziò la retromarcia. Dopo qualche manovra sullo sterrato che sollevò cumuli di polvere, mio padre e la sua auto sparirono lungo il vialetto.

Levai gli occhi al cielo, mugugnando qualcosa sulla sua innata sfacciataggine.

«Arianna, tu però la campagna la odi» le feci notare sbuffando.

«Certo che sì. Ma non posso mica dirlo davanti a un contadino!» ribatté lei, incrociando le braccia al petto, mentre entravamo in casa. «E aspettate solo di conoscere lo zio Frank.»

L'interno del casale era in penombra, illuminato solo dalla scarsa luce che facevano delle traballanti lampade sul soffitto.

Scoprimmo che la porta non dava sull'ingresso, ma su una cucina ampia e spaziosa, con un lungo tavolo di legno che la occupava quasi del tutto. Seduti ad esso, immobili a fissarci, c'erano Angie, Night, Lucas e John.

Sorpresa dalla loro presenza, li salutai con un cenno, mentre Beth si pietrificava alla vista di John e rimaneva immobile, a bocca teatralmente spalancata.

Ma una musica familiare, proveniente dalla stanza accanto, ci riscosse di colpo.

Beth aggrottò le sopracciglia e, dopo uno sguardo d'intesa, ci precipitammo nella sala vicina. Là, seduto su un divano stropicciato, c'era un uomo dai folti capelli grigi intento a guardare un musical in televisione che riconoscemmo all'istante.

«THE ROCKY HORROR PICTURE SHOW!» gridammo io e Beth all'unisono, euforiche, probabilmente scandalizzando tutti.

«Ma quello è Frank-N-Furter!» esclamò poi Beth, avvicinandosi allo schermo e riconoscendo nell'immediato l'eccentrico travestito.

L'uomo intento a guardare la televisione si voltò a guardarci e sorrise ugualmente euforico.

«Ragazze! Conoscete questo fantastico musical?» domandò, con gli occhi che gli brillavano. «Ah, Frank-N-Furter» sospirò poi con aria sognante, rivolto a Beth. «È sempre stato il mio personaggio preferito! Rispecchia alla perfezione il mio carattere, addirittura il mio nome! E il mio essere...»

«ZIO.» Arianna irruppe nella stanza, fissando con occhi truci l'uomo dai folti capelli grigi, rivelatosi il famoso zio Frank. «Non scandalizzare le mie amiche con le tue rivelazioni e, per Dio, abbassa quel dannato volume!» ordinò arrabbiata, puntandogli il dito contro.

«Cara, ma lo sai che sono un povero vecchio debole d'udito e che...»

«Abbassa il volume» ripeté Arianna, se possibile ancora più minacciosa. Quindi fece cenno a me e Beth di lasciare la stanza e di tornare in cucina.

Notando che l'aria tra di loro si stava facendo pesante, non ce lo facemmo ripetere due volte. Dopo averci fatte passare, Arianna sbatté la porta della cucina con rabbia, come per isolarci da suo zio, mentre Frank scoppiava a ridere e alzava il volume ancora di più, facendo rimbombare Sweet Transvestite in tutto il casale.

Don't get strung out by the way that I look
Don't judge a book by its cover
I'm not much of a man by the light of day
But by night I'm one hell of a lover

I'm just a sweet transvestite
From Transexual, Transylvania, ha ha*

Lasciandosi cadere al tavolo, la nostra amica ribolliva di rabbia, mentre Beth, al contrario, aveva gli occhi che le brillavano, mentre scivolava accanto a John.

«Quell'uomo è...»

«Completamente pazzo» sospirò Angie.

Beth la fulminò con lo sguardo. Sembrava essere rimasta piacevolmente colpita dallo zio di Arianna, a differenza di tutte noi.

«Bel musical, però» mormorò John, alzando lo sguardo dal tavolo, e fummo tutti d'accordo.

Osservai i ragazzi seduti, facendo cenno a Luke di avvicinarsi a me. Angie e Night erano seduti ai lati opposti del tavolo e di tanto in tanto si lanciavano degli sguardi assassini. Lucas era seduto vicino a Arianna e sembrava avere occhi solo per lei. Mi venne spontaneo pensare se anche lui avesse notato dei cambiamenti nel suo aspetto.

Io presentai Luke ai ragazzi e quindi Ari ci servì da mangiare.

«Proviene tutto dalla nostra campagna» spiegò sorridendo, mentre ci riempivamo i piatti.

Mentre mangiavamo, mi resi conto che Arianna era stata un genio. Mai e poi mai avrei potuto immaginarmi la scena a cui stavo assistendo in quel momento: eravamo tutti seduti a tavola a ridere e scherzare come se ci conoscessimo da sempre, con Night e Angie che si lanciavano molliche di pane mentre Beth rideva a crepapelle, Lucas e Luke che parlavamo animatamente di sport e Arianna che raccontava a me e John gli aneddoti di suo zio. Sembravamo quasi una famiglia, e pensare che ci eravamo conosciuti da appena tre mesi e mezzo – chi da poche ore – e che solitamente ci detestavamo!

Sorrisi, felice per l'esito della cena, e sperai che quell'atmosfera così distesa e piacevole potesse fare un buon effetto anche a colei che aveva programmato tutto, mentre la osservavo piluccare le pietanze nel piatto e tardare a mangiare.

Dopo esserci probabilmente finiti le provviste di tre inverni di Frank tenute nella dispensa, Night, John e Luke vollero provare a tutti i costi qualche bottiglia proveniente dalla cantina, per "poter gustare l'antico fascino dei vini di un vecchio", scusa per assumere alcol che ovviamente non si bevve nessuno, letteralmente. A parte Lucas.

Dopo cena lasciammo lo zio Frank a ridacchiare davanti alla televisione e, una volta indossati i cappotti, uscimmo all'aperto.

La campagna di buio era completamente cambiata, seppur sempre splendida. Si intravedevano i profili degli edifici nei dintorni e, sopra di noi, si innalzava un meraviglioso cielo stellato.

«Cosa facciamo?» chiese Beth, alzando lo sguardo per ammirare il cielo.

Arianna rimase un attimo in silenzio, pensierosa. «A dire il vero non c'è molto da fare, qua fuori.»

«Potremmo giocare a nascondino!» propose Lucas, euforico come un bambino, ottenendo all'istante una cascata di sguardi scettici in risposta che però parvero non influenzarlo.

«Avanti, sarebbe divertente!» continuò lui, sorridendo.

«Lucas, oltre al fatto che la troviamo un'idea piuttosto infantile, siamo al buio e in un posto che non conosciamo» spiegò pazientemente Night, a nome di tutti.

«Io la trovo una grande idea!» ribatté invece Beth, schierandosi al fianco di Lucas. «Al buio sarà più divertente e Arianna potrebbe spiegarci i confini della campagna entro i quali nasconderci.»

«Non avete tutti i torti!» esclamai, e Beth mi rivolse un raggiante sorriso in risposta.

Angie si unì a noi e, dopo un po' di discussioni, riuscimmo a convincere anche gli altri ragazzi e Arianna, che ci spiegò attentamente i confini della struttura, aiutandosi con i punti di riferimento più visibili di notte: il mulino, il fienile e il silos, situato nel punto più lontano da dove ci trovavamo. Per sicurezza, comunque, ognuno di noi si sarebbe portato dietro il proprio cellulare.

Infine decidemmo che sarebbero stati in due a cercare gli altri, visto la grandezza del posto e, con una grande dose di fortuna, uscimmo io e John, che ci preparammo psicologicamente per la partita di nascondino più lunga della nostra vita.

Rimanemmo davanti alla porta della casa di Frank, mentre gli altri si sparpagliavano in giro.

Una volta finito di contare, il cortile era deserto e silenzioso, e inspirai profondamente.

«Cosa proponi?» domandai a John, che si stava guardando intorno con le mani nelle tasche.

«Cioè?»

«Cominciamo a cercare insieme o ci dividiamo?» spiegai pazientemente.

«Dividiamoci, altrimenti non finiremo mai» rispose lui, tirando un calcio al suolo con la suola della scarpa, prima di sparire nel buio.

Lo imitai, facendomi coraggio. Mentre camminavo a grandi passi, mi resi conto di non essere poi così spaventata, malgrado i lampioni illuminassero fiocamente e la campagna fosse animata da continui rumori e scricchioli.

Girovagai a lungo, finché non intravidi la sagoma di un modesto edificio a cui mi avvicinai istintivamente: era la piccola casupola annessa alla fattoria di Frank, quella con il tetto spiovente. Decisi di entrare a dare un'occhiata: qualcuno avrebbe potuto anche nascondersi lì.

Spinsi la porta con decisione, facendo entrare all'interno la debole luce della luna, mentre la aprivo con un lento cigolio. Cercai a tentoni l'interruttore ma, non trovandolo, mi limitai a fare qualche passo in avanti.

Impossibile capire cosa ci fosse dentro quell'edificio: riuscivo solo a distinguere delle figure stagliate nel buio, poggiate su quelli che sembravano essere tavoli. Si respirava un forte odore di chiuso e, dopo qualche altro passo, decisi che quel posto non mi piaceva.

Giunta davanti a uno dei tavoli, feci per girare sui tacchi, guidata dalla luce della luna che illuminava l'ingresso della casupola.

Per non urtare spigoli e fare un po' di luce, decisi di accendere il cellulare. E quella che mi trovai davanti, poggiata sopra uno dei tavoli, fu la testa minacciosa di un grosso cinghiale, i cui piccoli occhi di vetro, riflettendo contro la luce del flash, per un attimo parvero quasi vivi.

****

Un urlo agghiacciante si levò dalla campagna ed Angie si girò in direzione della fattoria.

Era la voce di Kia e d'istinto si mise a correre in quella direzione.

«Mi spieghi cosa stai facendo?»

La ragazza si voltò di scatto, riconoscendo la voce di Night. Il ragazzo infatti era dietro di lei, le braccia incrociate al petto e un espressione scocciata dipinta sul volto.

«Non andrai sul serio dritta da Kia?» continuò, avvicinandosi a grandi passi.

Angie levò gli occhi al cielo, infastidita.

«Voglio sapere cos'è successo, sembrava spaventata! Perché, non posso?» replicò lei a tono, ripresasi dall'iniziale stupore.

«Stiamo giocando a nascondino. Dubito che Kia farebbe mai una cosa simile, ma John potrebbe averla convinta a gridare per attirare la nostra attenzione» spiegò Night, serissimo in volto. «Ti ripeto, vuoi sul serio andare dritta da Kia, nella tana del lupo?»

«Night, penso che tu abbia preso questo gioco un po' troppo sul serio» ridacchiò lei per tutta risposta, ma stava già tornando sui suoi passi.

Nessuno dei due parlò quando si avviarono insieme nella direzione opposta a quella inizialmente presa da Angie e, dopo pochi passi, furono completamente inghiottiti dal buio.

 

«Nei dintorni dovrebbe esserci il mulino» disse Night dopo un po' che camminavano, mentre si guardava intorno, cercando di intravedere una qualsiasi figura nel buio.

Angie si strinse nel cappotto, cercando di seguirlo mentre camminava rapido lungo il sentiero.

Entrambi avevano nelle orecchie il frastuono del fiume che scorreva nelle vicinanze, l'unica guida, oltre alla luminosa luna stagliata nella notte, per raggiungere la loro meta.

Mentre camminavano rapidi e silenziosi, in Angie si rese conto di essere sempre più a disagio, causa ciò che era successo appena qualche giorno prima, quando lei si era presentata a casa di Night per invitarlo alla festa di Arianna. Aveva avuto modo di riparlare con l'amica del fatto che Night fosse un suo vicino giusto qualche ora prima e tuttora faticava a riprendersi. Per la faccenda delle bande, i vicini erano un tabù per i suoi fratelli, per quella della madre antiartistica lo erano per sua madre, e così lei non aveva mai avuto nemmeno modo di vederlo.

I suoi pensieri furono gli unici a tenerle compagnia per tutta la durata del tragitto, finché Night non ruppe il silenzio.

 

Da quando era tornata a casa, Angie aveva trascorso intere giornate cercando di riacquistare pian piano la sua quotidianità: rilassarsi, disegnare e informare di tutte le novità scolastiche la sua famiglia e i suoi più cari amici Joe, Frank e Chris.

Uno di quei tanti pomeriggi tutti uguali stava chiacchierando in veranda con Joe, mentre lui si accendeva una sigaretta, quando le era tornato improvvisamente in mente l'immagine di Night che fumava sul terrazzo e quasi le era venuto un colpo, al punto che Joe le aveva chiesto se andasse tutto bene.

Nei giorni successivi, Angie aveva invano tentato di togliersi quel pensiero dalla testa, ma quello rimaneva lì, senza lasciarle un attimo di tregua. Il suo sguardo correva sempre più spesso alla casa di fronte e si ritrovava sempre a camminare nelle sue vicinanze, attirata come un magnete dal ferro. Un bel giorno decise di darci un taglio. Di quel passo, altrimenti, sarebbe impazzita.

Guidata da un inspiegabile istinto, si recò a casa dei suoi vicini per mettere in atto la folle idea di Arianna. Sì, si disse, era senz'altro quello il motivo per cui ci stava andando.

Bussò alla porta con la grazia di un cinghiale e Night le aprì con altrettanta gentilezza.

Nel vederla, la sua reazione non fu delle migliori. Inizialmente cercò di chiuderle la porta in faccia ma Angie, aspettandosi un simile comportamento, lo anticipò e si precipitò dentro casa, osservando con curiosità l'interno dell'abitazione: l'arredamento era minimo e molto semplice, insopportabile per sua madre, si ritrovò a pensare.

«Mi spieghi che diamine ci fai qui? Sei peggio di una stalker!» urlò Night, ma lei si limitò a indicare dalla finestra di cucina la villetta di fronte, facendo un sorrisetto.

«Quella è casa mia. Non ho forse il diritto di viverci?»

Il ragazzo trasalì. Anche per lui, quindi, il fatto che fossero vicini doveva essere una novità. In ogni caso, non gli ci volle molto per riprendersi da quella notizia.

«Nessuno ti vieta di startene a casa tua, infatti. Fuori di qui!»

«Dio, quanto sei insopportabile!» sbottò lei, dimenticandosi subito dei suoi buoni propositi.

«Almeno io non vengo nelle case altrui a dare fastidio!»

«Volevo solo dirti una cosa, razza di idiota!»

«Allora perché mi attacchi? Dilla e basta!»

«Ma sei hai cominciato tu?!»

Angie perse anche l'ultimo barlume di pazienza rimasto, mentre si avventava contro il ragazzo.

Night la respinse, cercando di spingerla lontano da lui, ma dopo un attimo Angie gli fu nuovamente addosso, intenta a tempestargli il petto di pugni.

«Non è che è tutta una scusa per potermi palpare i pettorali?» scherzò poi.

Angie soffocò un urlo di rabbia e raddoppiò i suoi sforzi nel tentativo di colpirlo. Sapeva che Night l'aveva detto solo per provocarla, ma era più forte di lei.

Il ragazzo si lasciò cadere sul divano ed Angie gli fu subito addosso, ma stavolta lui non agì passivamente. Afferrò i polsi di lei, che sciolse finalmente i pugni e, con un rapido movimento, la schiacciò tra il divano e il suo corpo, rendendola totalmente impotente.

«Non è che è tutta una scusa per potermi stuprare?» cinguettò Angie imitando il suo tono di voce, mentre lo inceneriva con lo sguardo.

«Almeno adesso hai smesso di agitarti. Sembravi impazzita» osservò lui, con aria tutto sommato divertita.

«Comunque» tossicchiò la ragazza, decisa a cambiare argomento. «Il motivo per cui sono qui è che Arianna ti ha invitato alla sua festa di compleanno, il 31 Dicembre.»

Ottimo, aveva fatto il suo dovere, adesso poteva anche andarsene. Peccato solo che Night non sembrasse della sua stessa opinione.

«Che gentile! Spero di essere libero quel giorno» rispose serafico, mentre Angie si agitava sotto di lui, cercando di sottrarsi a quel contatto forzato.

Sentiva la gamba del ragazzo insinuata fra le sue, l'altra poggiata al pavimento per non perdere l'equilibrio e finirle addosso, i loro basso ventri che si univano e si allontanavano quasi impercettibilmente, al ritmo dei loro respiri.

«Benissimo, ho detto tutto quello che avevo da dirti. Non volevi che me andassi di corsa? Adesso voglio farlo» disse tutto d'un fiato, spostando la testa in tutte le direzioni possibili pur di non guardarlo in faccia.

Perché era finita in quella fastidiosa situazione? Maledetta, maledetta, Arianna, l'avrebbe pagata cara.

Vide che Night stava osservando la sua reazione con malcelata curiosità e sentì che le guance le si stavano imporporando. Si maledì, sapendo che lui avrebbe sicuramente capito ciò che le stava passando per la testa.

«Angie Stevens ha un lato umano, chi l'avrebbe mai detto!» commentò infatti. «Non ero riuscito a smuoverti neanche in bagno, quella volta che...»

«Sta' zitto!» gridò lei, sempre più rossa in volto.

Lui inaspettatamente obbedì, limitandosi a scrutarla in silenzio.

«Così va megl...»

Angie lasciò la frase a metà e trasalì quando vide il viso di Night avvicinarsi pericolosamente al suo, ma lasciò che per una volta l'istinto avesse la meglio su di lei.

Ignorando il cuore che sembrava letteralmente esploderle nel petto e certa che anche il ragazzo riuscisse a sentirlo, socchiuse lentamente gli occhi, mentre sollevava il viso per incontrare quello di lui.

Le loro labbra si trovarono a metà strada. E, di colpo, l'estenuante lentezza con cui si erano avvicinati l'una all'altra precipitò e i due si ritrovarono famelicamente avvinghiati l'uno all'altra come se si fossero trattenuti fino a quell'istante, ma non aspettassero altro.

Bocca contro bocca, Night le succhiò il labbro inferiore ed Angie gemette, gettando la testa all'indietro quando lui glielo morse con tanta irruenza che la ragazza fu sicura che lui gliel'avesse spaccato.

Se me lo ha rotto davvero, lo ammazzo, pensò lì per lì ma, a dirla tutta, al momento aveva altre cose per la testa.

Pareva che entrambi, dopo quel piccolo inconveniente nella doccia, sentissero il bisogno di rifarsi, senza più quel fastidioso rubinetto tra le scatole (anzi, tra le scapole).

La ragazza intrecciò le mani dietro il collo di lui e lo attirò a sé, continuando a baciarlo. Lo voleva dappertutto su di sé e Night non sembrava aspettare altro. La baciò sulle labbra, carezzandole con la lingua, poi passò a lasciarle una scia di baci bollenti sul collo, le mani che, dopo un attimo di esitazione, s'intrufolarono sotto la maglietta ed iniziarono a vagarle sul corpo, seguendo la linea dei fianchi.

Probabilmente credeva che Angie lo avrebbe ucciso per quel contatto rischioso, ma la ragazza si scoprì a provare una scarica elettrica sulla pelle, nei punti in cui le dita di Night la accarezzavano, ma Dio, non era abbastanza.

«È quasi meglio che picchiarti» si lasciò sfuggire, inarcandosi contro di lui.

«Eh?» balbettò Night, bloccandosi dal baciarle la clavicola per lanciarle uno sguardo confuso.

«Lascia perdere» mugugnò lei, sollevandosi sulla schiena e zittendolo con un bacio.

Night sorrise contro la sua bocca, le loro lingue che danzavano l'una con l'altra, ed Angie, assecondando un desiderio proibito che giaceva da tempo sopito dentro di lei, gli afferrò d'improvviso le mani e gliele posò sui seni.

Il ragazzo, che probabilmente trovava il giorno in cui gli alieni avrebbero colonizzato il pianeta Terra molto più vicino di quello in cui Angie gli avrebbe permesso di toccarle le tette, trasalì, ma dopo un attimo aveva iniziato ad accarezzarla, le mani che iniziavano a sollevarle i lembi della maglia, mentre Angie si sforzava di darsi un contegno per non gemere come una deficiente.

Iniziò a sua volta sbottonare la camicia di lui, ma era dannatamente difficile, con il ragazzo che continuava a baciarla come insaziabile.

E, proprio quando ogni difesa fra di loro sembrava essere finalmente crollata...

«FERMI RAGAZZI, NO!»

...Una voce isterica risuonò alle loro spalle.

Night, dandosi la spinta con la gamba a terra, tornò seduto composto sul divano, come se nulla fosse; Angie, sistemandosi i lunghi ricci dietro le spalle per apparire più disinvolta possibile, si sollevò e tornò seduta, come se nulla fosse.

Davanti a loro c'era l'esatta fotocopia di Night, se si escludeva la sua capigliatura: solo uno sguardo più attento avrebbe notato che lo sconosciuto era più alto e muscoloso. Il ragazzo li scrutò a lungo con i suoi occhi verdi e si passò una mano fra i lunghi capelli scuri, legati in una corta coda di cavallo.

«Day?» Night lo fissò, sconcertato. «Quando sei entrato?»

Day? Angie osservò con curiosità il fratello di Night, il Day di cui aveva tanto sentito parlare: dunque era proprio lui.

«Proprio adesso, ma credo non mi abbiate sentito...»

Il nuovo arrivato fece un sorrisetto a Night, quindi posò lo sguardo su di lei.

«Sei una Stevens?» chiese. Il suo tono era inafferrabile.

Forse Night le aveva parlato – male – di lei o forse aveva notato la sua somiglianza con i suoi fratelli. In ogni caso, Angie annuì.

«Tecnicamente dovrei odiarti ma, per essere entrata nel covo del nemico come se nulla fosse, ne hai di palle! Metaforicamente parlando, ovviamente.»

Angie rise, ma il ragazzo non aveva ancora finito.

«Cioè mi fido, Night prima avrà avuto sicuramente il tempo di dare una sbirciatina...»

«Day, Cristo santo.»

Angie si voltò verso Night: non aveva più aperto bocca fino a quel momento e adesso sembrava piuttosto scocciato.

Il fratello alzò le mani in segno di resa.

«Ok calma, calma! Vi lascio in pace! Ma voi vedete di lasciare in pace il divano, io ci lavoro.»

Entrambi i ragazzi lo fissarono, allibiti.

«Cioè... ci gioco alla play.»

 

«Penso che dovremmo parlare.»

La voce di Night riscosse Angie dai suoi pensieri.

Ricordare quell'episodio sul divano le provocava sempre reazioni inaspettate e fu sollevata che in quel momento fosse buio pesto, così che il ragazzo non potesse notare il rossore che le colorava le guance.

La ragazza si voltò in quella che doveva essere la sua direzione. Difficile a dirsi, non si vedeva assolutamente niente.

«Cosa c'è?»

«Sai com'è, vorrei vederci chiaro, nella nostra situazione.»

Angie non si aspettava una simile affermazione e, dal suo tono fermo e serio, non sembrava che Night stesse facendo dell'ironia. Ci avrebbe pensato lei.

«Più facile a dirsi che a farsi, è buio pesto. Hai mica una torcia?»

«Per favore. Sei troppo irlandese per fare dell'english humor.»

La gelida risposta che ricevette le fece capire che Night non sembrava in vena di battute. Era serissimo, possibile non riuscisse ad esserlo anche lei?

«Cosa c'è, Night?» domandò infine, addolcendo il tono di voce.

Non le veniva naturale parlare con lui in quel modo, era una delle prime volte, forse l'unica, in cui stavano facendo un discorso serio.

«Sai benissimo cosa c'è! Ma hai tanta voglia quanto me di parlarne.»

La voce di Night risuonò nel buio e colpì Angie come uno schiaffo. Ci aveva preso in pieno.

«Infatti io non ho nessuna intenzione di parlarne» borbottò lei, sulla difensiva.

Udì il ragazzo sospirare, poco lontano.

«Ti va sul serio bene così?»

Il silenzio che seguì esortò il ragazzo a continuare.

«Non puoi negare di non essere attratta da me.»

«COSA?!»

«Com'è che i tuoi calci e le tue imprecazioni finiscono nel preciso momento in cui la nostra distanza si accorcia? Potresti almeno provare a sembrare un po' più contrariata. Sappi che come attrice sei proprio poco convincente.»

Stava rivangando a grandi linee l'episodio sul divano di casa sua, come quello nelle docce della scuola, e Angie si sentì prendere fuoco, per la rabbia e l'imbarazzo che sembravano essersi divisi in egual modo dentro di lei.

Percepiva lo sforzo di Night nell'esprimere ciò che pensava a parole e non a pugni, ma il suo comportamento inusuale la stava mandando completamente in tilt, peggiorando la già delicata situazione.

«I-Io...»

«A quanto pare a te basta così» la interruppe lui. «E non ti biasimo, perché era ciò che ho sempre voluto anche io. Non si può certo dire che sia il classico principe azzurro.»

Angie, nonostante dentro di lei avesse la più totale confusione, riuscì ad abbozzare un sorriso divertito. Night la stava cercando di mettere a suo agio e in quel momento si stava rivelando una persona migliore di lei: nonostante fosse uno stronzo e lo avesse sempre detestato, riusciva a venire a patti con se stesso, anche se con difficoltà.

«In un certo senso ti invidio, perché...» Si zittì, cercando le parole giuste. «Cazzo, ho sempre saputo perfettamente quello che volevo da un rapporto, ma adesso... »

La ragazza stavolta udì la voce di Night più vicina e, alle sue parole, il sorriso si spense e lo stomaco le fece una capriola. Aveva sospettato che il suo discorso potesse andare a finire in una mezza dichiarazione, ma udirla fu completamente diverso.

Non riusciva a credere che quel ragazzo avesse appena confessato i suoi sentimenti: da una parte non se lo sarebbe mai aspettato, dall'altra lo aveva sempre saputo. E, di conseguenza, una parte di lei avrebbe voluto avere con sé un registratore per poterglielo rinfacciare a vita, un'altra stava tentando di rispondergli e, forse, di dirgli di sì.

Che, nonostante il loro rapporto dettato dall'odio, all'origine vi fosse qualcosa di ben diverso? In altre circostanze, Angie non si sarebbe mai sognata di mettere in discussione questo principio, ma adesso forse era giunto il momento di farlo.

Cercando di venirne a capo in preda al nervosismo, con il fragore del fiume nelle orecchie, tirò distrattamente un calcio ad un sasso. O meglio, a quello che credeva fosse un sasso.

«AHIA, PORCA MISERIA

Non era un sasso, ma lo stinco di Night.

«Era solo un calcio!» replicò lei, stordita dall'urlo appena levatosi, che le aveva trapanato i timpani.

Tutti i suoi complessi andarono a farsi benedire, sostituiti da un'unica domanda: quando si erano avvicinati così tanto?

«Perché diamine mi hai tirato un calcio?!»

Angie percepì vagamente uno spostamento d'aria vicino a sé, un oscillamento, come se il ragazzo stesse mulinando alla rinfusa le braccia a un passo dalla sua testa, in cerca di un precario equilibrio.

«Io mi sforzo di fare un discorso serio, ed ecco la tua reazione!» continuò Night. «Un premio a chi riesce a capirti!»

Il suo braccio colpì erroneamente la nuca della ragazza, che trattenne un grido e fece un incerto passo avanti nel buio, segnando in un attimo la fine di quell'assurda conversazione.

Il corpo di Angie si scontrò con quello già in bilico di lui, che precipitò all'indietro; solo allora la ragazza si rese conto che, durante la discussione, non solo si era pericolosamente avvicinata a Night, ma anche al letto del fiume.

Il ragazzo la trascinò con sé nella rovinosa caduta e nessuno dei due fece in tempo a rendersi conto di ciò che stava succedendo che l'acqua gelida mozzò loro il fiato.

****

Corsi, corsi come una matta finché non mi fui allontanata a sufficienza da quell'edificio e non ebbi i polmoni allo stremo e il cuore che chiedeva pietà. Solo allora rallentai, cercando di non incespicare nel buio.

Ripresi lentamente fiato, mentre mi rendevo conto con orrore che, nella mia folle fuga, mi ero allontanata da qualsiasi zona illuminata e, che a circondarmi da ogni lato, non c'era che il buio.

«Oh merda....» bisbigliai, anche se nessuno poteva udirmi.

Non l'avrei mai ammesso ad anima viva ma, in quel momento, persino avere accanto l'inquietante figura di John mi sarebbe parso rassicurante.

Intorno a me, tutto era immerso nel silenzio e solo le suole delle mie scarpe che scricchiolavano sul terreno rompevano quella quiete innaturale. Dov'erano andati a finire i gracidii delle rane, il frinire delle cicale e dei grilli e il fruscio del vento? E, questione più importante, dov'ero andata a finire io?

Frugai nelle tasche finché non ebbi tra le mani il cellulare e feci un po' di luce: la situazione non cambiò più di tanto, ma almeno potei evitare di andare a sbattere contro gli alberi che, di tanto in tanto, facevano la loro comparsa nel paesaggio.

Camminavo senza una meta precisa, sperando di non allontanarmi troppo dalla fattoria, e pensai persino di chiamare John, ma poi ricordai di non avere il suo numero. Perché non ce lo eravamo scambiati prima di dividerci? 

Stupida, stupida, stupida.

Non provai neppure a chiamare gli altri, non perché avrei compromesso l'esito del gioco – di cui sinceramente non m'importava più di tanto – ma perché, mi resi conto con orrore, non c'era campo.

«E adesso come faccio?» gemetti, in preda al panico, quando sentii qualcosa sfiorarmi le spalle.

Fu la fine.

«AAAAAAAAAAAAAAAAH! STA' LONTANO DA ME, CHIUNQUE TU SIA! LASCIAMI, LASCIAMI, LASCIAMI! AIUTO! AIUTOOOOO! AAAAAAAAH!»

«Kia?»

Nel buio riconobbi la voce di John e mi zittii all'istante, sentendomi più che mai una cretina.

«Kia, sono John!» ripeté la voce. «Cazzo, mi hai trapanato i timpani.»

Era dietro di me e per vederlo bene dovetti puntargli in pieno viso la luce del cellulare, da cui il ragazzo si scostò con un'altra imprecazione.

«Era tutto calcolato» assicurai in tono scherzoso, sentendo qualcosa smuoversi dentro di me.

Non ero più sola. Ero con l'inquietante tipo che piaceva alla mia migliore amica, ma in fin dei conti non ero più sola.

«Come hai fatto a trovarmi?» chiesi. 

John, nel frattempo, si era messo a camminare con grande sicurezza verso un punto indefinito nel buio e mi affrettai a seguirlo.

«Ti ho sentita parlare da sola.»

«Non stavo parlando da sola» puntualizzai, rossa di vergogna. «Sai dove stiamo andando?» aggiunsi, guardandomi nervosamente intorno.

«So da dove sono venuto. Ti sto portando al mulino, ero lì fino a poco fa: pensavo che in molti l'avessero scelto come nascondiglio, ma mi sono sbagliato. Non ho avuto molta fortuna, fino ad ora, tu?»

«Nemmeno io. A quanto pare, il massimo che sappiamo fare è trovarci a vicenda.»

La conversazione piombò nel silenzio, interrotto solo dal suono dei nostri passi. Potevo però udire un debole scroscio d'acqua in lontananza: doveva trattarsi del fiume a cui, mentre raggiungevamo il mulino, stavamo andando inevitabilmente incontro.

Ad un tratto, sentii John schiarirsi la voce.

«Posso chiederti una cosa?» Non attese una mia conferma quando disse: «Beth ha paura del fuoco.»

E così chiede di lei, mi ritrovai a pensare per un attimo. Ma quell'affermazione mi aveva colpito molto più di quanto non volessi dare a vedere, e mi limitai a borbottare un .

«E tu sai il perché... vero?»

Mi irrigidii. Di colpo, il fatto di aver ritrovato John non mi diede più tanto sollievo: dove diavolo voleva andare a parare?

«Non sono affari tuoi» tagliai corto, sperando di finirla lì.

«Lo sai.»

Ponderai la situazione. Come faceva lui a saperlo? Forse Beth gliene aveva parlato, ma ne dubitavo fortemente, dato che considerava i suoi ricordi molto privati, specialmente i ricordi di quella faccenda. Non avevo idea di come potesse esserne venuto a conoscenza, ma ero pronta a scommettere che il suo comportamento da sfrontato tradisse una sottile curiosità.

«Cosa te lo fa credere?» chiesi, cauta.

«Oh, così. Vi comportate come se foste molto amiche, e ho fatto qualche ipotesi.»

Ecco dove voleva andare a parare... fare due più due non fu un problema e mi ritrovai a serrare i pugni, infastidita: ma per chi mi aveva preso?

«E, dato che lei non te ne ha voluto parlare, credevi di potermi scucire qualcosa? No John, ti sbagli di grosso, e ti consiglio di starne fuori. È una faccenda che ti non riguarda e di cui non ci piace parlare.»

Per un attimo tra noi tornò il silenzio, tant'è che pensai di aver avuto la meglio.

«Hai detto che non vi piace parlarne... Interessante sapere che non riguarda solo lei, ma tutte e due.»

Rimasi a bocca aperta. Non credevo che John fosse così interessato alla questione da cogliere anche i particolari più insignificanti di una frase che non consideravo un'arma a doppio taglio.

«Perché vuoi saperlo? Beth in passato ci ha sofferto molto e sono dell'idea che il passato debba restare passato.»

Il ragazzo parve riflettere molto prima di rispondere.

«Non fraintendere le mie intenzioni. Non voglio conoscere l'accaduto per poterlo usare contro di lei...» Sembrò sul punto di voler aggiungere qualcosa, ma poi sprofondò nel suo solito silenzio.

«E allora perché?»

«Non sono affari tuoi» replicò lui, ripagandomi con la stessa moneta che avevo usato io fino a poco prima.

Lo fulminai con lo sguardo, anche se non poteva vedermi.

«Non hai la benché minima idea di quanto potresti ferirla ricordandole cos'è successo... ti conviene tenere la bocca chiusa» borbottai, e John dovette percepire la mia arrendevolezza in quelle parole, perché si zittì, lasciando spazio ad un trepidante silenzio di attesa.

«Che resti fra noi...» precisai, con un sospiro di resa. «L'anno scorso c'è stato un incidente in cui entrambe ci siamo trovate coinvolte. Beth... ha perso una persona a cui teneva moltissimo. Da allora è diventata una persona diversa: quella che hai conosciuto non è che l'ombra della Beth di un tempo, che se n'è andata in quell'incendio.»

Sussurravo, anche se sapevo che solo John era in ascolto e decisi di non spingermi oltre, perché sentivo la voce mancarmi. Anche per me era stata una perdita devastante, soprattutto nelle circostanze in cui era avvenuta, ma per Beth il dolore era infinitamente più straziante, perché nel loro legame c'era sempre stata una marcia in più.

John non disse niente per un po'. Mi chiesi cosa gli stesse passando per il cervello, perché avesse voluto sapere quelle informazioni così private riguardanti Beth, ma lui interruppe sul principio le mie riflessioni.

«Il nome della persona che Beth ha perso, qual è?»

Perché cavolo voleva saperlo, un particolare così irrilevante che certo non gli avrebbe cambiato la vita? Sospirai. Per lo stesso motivo, allora non c'era neanche bisogno di tacerlo.

«Lucy» bisbigliai, e nessuno dei due disse più una parola.

Mentre il silenzio tornava ad aleggiare fra noi, il fragore dell'acqua del fiume che scorreva si faceva sempre più chiaro ed insistente e il ricordo di quel terribile incendio scemava pian piano, riportando la calma dentro di me, rimase un solo chiodo fisso a tormentarmi: perché John aveva voluto sapere questioni che riguardavano Beth?! Da quel che sapevo io, non aveva mai dimostrato un particolare interesse nei suoi confronti, anzi. Dovevo essere all'oscuro di qualche dettaglio ma, se così fosse stato, la mia amica mi avrebbe messo al corrente delle novità.

Forse.

A John non lo avrei mai chiesto, perché non avevo la confidenza necessaria e tanto avrebbe liquidato la faccenda con il solito "Non sono affari tuoi".

Così, ignorando la presenza del ragazzo vicino a me, rimasi sola con i miei pensieri a fare ipotesi e ragionamenti, mentre pregavo che la fine di quel tragitto immerso nel buio e nei dubbi fosse vicina.

 

La sagoma del mulino, pur immersa nel buio, era ben riconoscibile e ci apparve davanti dopo quella che mi parve un'eternità. Stagliata contro il cielo notturno e debolmente illuminata dalla luce della luna, aveva un'atmosfera quasi sinistra che mi fece rabbrividire. Alzai lo sguardo verso le enormi pale, immobili sopra di noi, che scricchiolavano di tanto in tanto, mosse dal fruscio del vento e, per un attimo, ebbi il timore che potessero non reggere e finire per crollarci addosso. Scuotendo la testa, ritornai alla realtà con la voce di John.

«Le senti?»

«Cosa dovrei sentire?» chiesi, guardandolo di sfuggita.

«Le voci... » bisbigliò, facendomi segno di fare silenzio.

Io obbedii, anche se piuttosto scettica. Pensavo si trattasse di uno scherzo, ma all'orecchio mi giunsero quasi subito dei rumori indistinti, che riconobbi proprio come voci: venivano da non molto lontano e parevano molto concitate.

«Chissà se sono dei nostri» mormorai, più a me stessa che a John, mentre facevo qualche passo avanti.

Ad un tratto una voce più chiara delle altre risuonò nel buio: era una richiesta d'aiuto!

John si mosse istintivamente verso la sponda del fiume, dove giurava d'aver sentito provenire la voce, che si ripeté un attimo dopo, permettendomi di riconoscerla.

«Ma questa è Angie!»

«AIUTO!» gridò di nuovo lei.

John ed io non perdemmo tempo: raggiungemmo la sponda correndo e, nonostante il buio, intravedemmo due figure in acqua, che si dibattevano nel tentativo di rimanere a galla. Trattenni il fiato, vedendo che si una delle due era proprio Angie, con accanto quello che aveva tutta l'aria di essere Night.

«Kia!» John mi riportò bruscamente alla realtà. «Dammi una mano!»

Ci avvicinammo il più possibile al greto del fiume, incuranti degli schizzi d'acqua gelida, e ci sporgemmo verso i ragazzi che, dopo un attimo, diedero segno di averci visto.

«Ce la fate a venire verso di noi?» urlò John, per sovrastare il fragore del fiume.

Nonostante le modeste dimensioni del fiume, la corrente si rivelò inaspettatamente forte, tant'è che, pur non credendo che Night e Angie avessero qualche problema con l'acqua, non riuscivano a spostarsi con le sole bracciate e venivano trascinati sempre più lontano.

«Fermo, John!» gli urlai, vedendo entrare nell'acqua fino alle caviglie. «Rischi di cadere anche tu. Serve qualcosa... un ramo, serve un ramo!» esclamai, con un'illuminazione.

Corsi via, non prima di essermi accordata con John: lui li avrebbe seguiti lungo la sponda, per non perderli di vista, mentre io sarei andata a cercare qualcosa a cui potessero aggrapparsi.

Con il cuore che mi martellava nel petto, raggiunsi correndo il mulino, guardandomi intorno alla disperata ricerca di qualcosa che avesse potuto fare al caso mio.

Quand'ero già sul punto di ammettere la sconfitta, lo vidi: proprio alla base della costruzione, poggiata contro il muro, c'era una fascina di legna; al buio, adagiata com'era contro la porta scura del mulino, lì per lì non l'avevo vista.

Mi avvicinai e, non senza difficoltà, sfilai un ramo dal fascio. Quindi, dopo averlo messo sottobraccio, tornai correndo verso il fiume, aguzzando la vista per cercare la sagoma di John che, nel frattempo, seguendo Angie e Night, si era allontanato di molto da dove ci eravamo lasciati.

«Eccomi!» esclamai, passandogli il ramo.

Lui capì al volo, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Afferrando saldamente una delle estremità, il ragazzo allungò l'altra una nel fiume, verso i due ragazzi, che vi si aggrapparono con tutte le loro forze.

«Tira!» mi gridò John e non me lo feci ripetere due volte.

Iniziammo ad indietreggiare, i muscoli tesi per lo sforzo e, quando sentii il legno scricchiolare pericolosamente, per un attimo temetti che si sarebbe spezzato, facendoli di nuovo precipitare in acqua. Ma, grazie al sostegno del ramo, Angie e Night erano riusciti a rimettersi in piedi ed erano ormai abbastanza vicini alla riva da poter essere considerati fuori pericolo.

Con un ultimo sforzo, entrambi uscirono dall'acqua, fradici ma sani e salvi.

«Oh, Kia!» urlò Angie, abbracciandomi.

Nonostante fosse gelata, non opposi alcuna resistenza, vedendo quant'era sconvolta. Dubitavo di aver mai visto la mia amica così spaventata.

«Ho avuto tanta paura» mi confidò, con le lacrime agli occhi.

«Night, tu come stai?» domandò John, poggiandogli una mano sulla spalla.

Mi voltai a mia volta verso il ragazzo, che appariva mogio e infreddolito.

«Insomma...» borbottò, facendo un sorriso amaro. «Ci avete trovato.»

«RAZZA DI IDIOTA!» urlò Angie rabbiosamente.

Fece per saltargli addosso, ma la trattenni.

«Lasciami Kia, lasciami! A cosa pensa lui? Al nascondino!»

Scossi la testa, facendo uno sforzo per non scoppiare a ridere.

«Direi che la vostra partita finisce qui» osservò John, grattandosi la testa.

«Ed è il caso che torniate al casale, se non volete beccarvi una polmonite» aggiunsi preoccupata, vedendo che entrambi battevano i denti dal freddo.

Tutti e due parvero della stessa idea.

«Avete idea di dove sia?» chiese Angie, guardandosi intorno.

«Vedo che hai una grande senso dell'orientamento, Gonnellina al Vento

«Sta' zitto, deficiente.»

«Credo di saperci arrivare, da qui» mormorò John. «Posso accompagnarvi per un tratto. Kia, tu che fai?»

Al solo pensiero di ritrovarmi di nuovo sola, persa in mezzo alla campagna, senza luce né campo, ebbi un brivido.

«Vi accompagno anche io» esclamai di slancio. «John ed io possiamo sempre dividerci dopo.»

****

Mentre Arianna avanzava tra le fila di alberi da frutto, le parve di essere tornata bambina.

Probabilmente il frutteto era l'unico posto di tutta la fattoria al quale fosse davvero affezionata. Era lì, infatti, che si rifugiava quando combinava qualche marachella e Frank le urlava contro e giurava di metterla in punizione: allora lei, con gli strilli dello zio che le rimbombavano nelle orecchie, correva attraverso i campi più veloce che poteva e si arrampicava sugli alberi, dove lui non poteva trovarla, perché non alzava mai lo sguardo da terra.

Era capace di rimanere tra i rami per ore intere, finché non le si chiudevano gli occhi dal sonno o lo stomaco non le brontolava per la fame. A quel punto, faceva merenda con ciò che l'albero su cui quella volta si era nascosta aveva da offrire. Giusto, quando ancora non controllava tutto ciò che mangiava.

«Sicura che qui non ci troveranno?» La voce di Lucas la riportò bruscamente alla realtà.

Arianna sbatté le palpebre un paio di volte. Era notte fonda, era il suo quindicesimo compleanno e stavano giocando a nascondino.

«Certo» gli assicurò lei. «E saremo anche i soli ad esserci nascosti qui, ci scommetto.»

Il frutteto era situato un po' fuori porta, lontano dal resto della fattoria e per di più seminascosto dal mulino, per cui, se uno non avesse saputo precisamente la sua ubicazione, difficilmente avrebbe potuto trovarlo, a notte fonda poi.

In pratica, abbiamo già vinto, pensò Arianna, rassegnandosi all'idea che avrebbero passato tutta la serata ad aspettare in cima ad un albero come delle scimmie.

Avanzarono ancora in silenzio, seguendo il filare, debolmente illuminato dalla luce della luna. Dopo aver percorso ancora pochi metri, Arianna si rese conto che, nonostante avessero proceduto ad un'andatura piuttosto tranquilla, aveva già il fiatone e la testa le pulsava. Si dovette appoggiare al tronco di un albero per riprendere fiato e, in cuor suo, sperò che Lucas non se ne fosse accorto.

«Ci fermiamo qui?» domandò invece lui, vedendola immobile.

«Sì, saliamo pure qui» mormorò lei come se nulla fosse, gettando uno sguardo all'albero cui si era adagiata.

Notò che era piuttosto spazioso e, scuotendo leggermente i rami, che si rivelarono ben più resistenti di quel che sembravano, calcolò che li avrebbe retti entrambi senza alcun problema.

Lucas si avvicinò ed Arianna, dandosi la spinta, fece per issarsi sull'albero. Ma non aveva alcuna forza nelle braccia e, dopo aver provato più e più volte, mentre il ragazzo assisteva senza fiatare ai suoi patetici tentativi, si dovette arrendere all'evidenza.

Rossa in volto, evitò lo sguardo di Lucas quando alla fine lui chiese: «Serve una mano?»

Mormorò un  tra i denti e, senza guardarlo in faccia, salì sulle mani che Lucas aveva incrociato e messo all'altezza dei suoi piedi e si arrampicò sull'albero, non senza difficoltà.

Si mise a sedere, ansimante e, quando vide Lucas salire con un agile balzo dopo di lei, si sentì ancor più stupida e patetica.

Il biondo si sedette davanti a lei, a gambe incrociate, e per un po' nessuno dei due proferì parola. Nell'aria si udiva solo l'ansimare di Arianna che, nonostante i suoi sforzi di nasconderlo, era chiarissimo ad entrambi.

«Arianna...» Lucas ruppe il silenzio, esitante. «Va tutto bene?»

Lei si maledì fra sé e sé. Persino Lucas, che viveva in un mondo tutto suo, si era accorto che c'era qualcosa che non andava in lei. E dire che, prima dell'arrivo dei ragazzi, si era ripromessa di sforzarsi di comportarsi normalmente, di mettersi gli abiti più larghi che aveva. Inutile, non era servito a nulla. Come al solito, si era dimostrata un'incapace.

Le salirono le lacrime agli occhi e ringraziò il buio perché le celassero allo sguardo di Lucas.

«Certo» farfugliò, tentando di non far trapelare nulla dal suo tono di voce.

Lucas le poggiò una mano sulla gamba, o meglio, quel che era rimasto della sua gamba. Sentì che, nel percepire di colpo la sua magrezza, aveva trasalito.

«Lucas...» mormorò, ma lui la interruppe.

«Mi stai mentendo.» Il suo tono era dolce, ma fermo. «Tu pensi che io non me ne sia accorto, vero? Ma io ti ho vista arrancare fin qui, ti ho vista non riuscire a salire sull'albero perché le braccia non ti reggevano. Non hai toccato cibo a cena, Arianna.»

Alle parole di Lucas, lo stomaco di Arianna si chiuse in una morsa. Era così evidente persino ai suoi occhi? No, sarebbe riuscita a convincerlo. Costi quel che costi.

«Non mi sento molto bene» spiegò, sfuggendo al suo contatto. «Per questo non avevo fame.»

Lucas non replicò. Lei lo vide allungarsi fino ai rami più alti, in una pioggia di foglie, e tornare di fronte a lei. In mano aveva una mela.

«Be', abbiamo camminato tanto per venire qui, quindi dobbiamo recuperare le energie» mormorò serafico.

Arianna si impose di mantenere la calma. Era una mela, soltanto una stupidissima mela. 

Solo quaranta calorie, su per giù.

Con un gesto secco, Lucas divise il frutto in due metà quasi perfette e porse ad Arianna la sua, che la prese tra le mani, titubante.

«Allora?» fece lui.

«La mangio, la mangio» rispose lei, seccata. «Ma solo per farti un piacere perché, come ho detto, non mi sento molto bene.»

Ne avrebbe dato un piccolo morso e poi l'avrebbe buttata giù, si disse, e le parve un'ottima idea, se solo fosse riuscita a far sì che Lucas non udisse il rumore della mela che toccava terra.

«Bene» disse Lucas.

La ragazza udì il rumore di qualcosa che si spezzava e vide il ragazzo farsi vicinissimo a lei, che lì per lì non capì il perché dei suoi movimenti. Poi vide che il biondo aveva fra le dita una parte della propria metà di mela, nient'altro che un pezzettino ma, quando comprese ciò che lui aveva in mente, Arianna si sentì comunque inorridire.

Il ragazzo si appoggiò con un braccio ad un ramo sopra di lei e con l'altro gli avvicinò la mela alle bocca.

Arianna era sul punto di spingerlo via ma, nell'incontrare i suoi occhi e nel vedere quanta determinazione si celava in quello sguardo, sentì gli occhi inumidirsi e non poté far altro che schiudere le labbra.

«Bravissima» sussurrò lui e Arianna sentì che il cuore le si impennava nel petto.

Catturata dagli occhi verdi di lui, non si accorse neanche di stare masticando e, l'attimo dopo, di aver mandato giù il boccone.

Tra i due cadde un lungo silenzio. Arianna percepì distrattamente il cuore che le pompava nel petto, lo stomaco che, lungi dall'essersi saziato con quel pezzetto di mela, iniziava a brontolare, ma tutto il suo essere era proteso verso Lucas. Ricambiando il suo sguardo, capì che per lui era esattamente lo stesso.

Il ragazzo lasciò cadere la mela, mentre si chinava su di lei, che accolse famelicamente il suo bacio, con un'intensità che sul momento parve stupire entrambi. Ma lo stupore di Lucas durò solo pochi attimi: la sua bocca e le sue mani presero a vagare su di lei, accarezzando con delicatezza il suo corpo martoriato come se volessero sanare ogni sua ferita.

E Arianna aveva bisogno di quel tocco, di quella bocca, i cui baci erano per lei insaziabili, come se avesse digiunato tutta la sera solo per lui, che la stava lasciando senza fiato. Dalle labbra le sfuggì un gemito. Lei, che desiderava apparire sempre fredda ed impassibile.

«Lucas...» sussurrò ansimando, del tutto persa tra le sue braccia.

«Sono qui» bisbigliò lui, stringendola ancora di più a sé.

Arianna capì cosa intendeva dire: era lì in quel momento, a coprirla di baci, ma sarebbe stato al suo fianco anche quando lei avesse deciso finalmente di aprirsi e di condividere con lui i suoi tormenti, lo sapeva. Al pensiero di quanto Lucas tenesse a lei, che lo trattava spesso con sufficienza, di colpo le venne da piangere.

«Ti amo» disse in un soffio, e percepì il corpo di Lucas irrigidirsi.

Si staccò da lei quanto bastava per fissarla negli occhi, come per capacitarsi che la frase che aveva appena pronunciato fosse vera. Nel suo sguardo, che non poteva essere più intensamente serio, Lucas parve trovare conferma. L'attimo dopo la stava baciando di nuovo.

Arianna si abbandonò a sensazioni che credeva di non avere più diritto di provare. Sotto i vestiti, il suo corpo ardeva e, dopo tanto di quel tempo, si sentiva in pace. Si sentiva amata, capita, vista. Da quando aveva fatto ritorno da scuola, nessuno si era mai davvero preoccupato per lei.

Lucas era ovunque su di lei e Arianna intrecciò le gambe alla sua schiena per accorciare ancora di più la loro distanza. Lo strinse forte a sé, nascondendo il volto nell'incavo del suo collo, dove lasciò una scia di baci. Sentì Lucas fremere sotto di lei e si beò del potere che si rese improvvisamente conto di avere su di lui.

Era talmente annegata nelle sue emozioni che, quando alzò gli occhi dalla spalla di Lucas e lo vide, lì per lì il suo cervello non registrò l'informazione. Dovette alzare lo sguardo ancora un paio di volte per incrociare quello dell'intruso e realizzare che Luke era seduto da chissà quanto sull'albero di fronte al loro e li fissava sgranocchiando una mela, come se si stesse godendo lo spettacolo.

«AHHHHHHHHHHHHHH!» gridò, ritraendosi istintivamente. Nel farlo, però, non si rese conto di aver dato una spinta a Lucas, ancora sopra di lei.

Arianna lo vide guardarla confuso, sia da quell'urlo agghiacciante che dalla spinta che gli aveva appena dato, e mulinare le braccia nel tentativo di riacquistare l'equilibrio.

Dopo l'iniziale stordimento, Ariana si era subito protesa in avanti per aiutarlo, ma non aveva certo la forza necessaria per sostenere il robusto ragazzo e lo osservò impotente cadere a terra con un tonfo.

«Lucas!» gridò, sporgendosi dall'albero. «Stai bene?!»

Per tutta risposta, il ragazzo emise un mugolio.

Arianna alzò il capo e fissò furente Luke, che non si era ancora mosso e continuava a mangiare la sua mela come se nulla fosse. Per un attimo fu tentata di staccare un paio di mele dal ramo sopra di lei e scagliargliele contro, prima di rendersi conto che forse la lapidazione non era l'idea migliore che potesse venirle in mente. Dopo aver fatto un respiro profondo, tornò ad essere l'Arianna di sempre.

«Mi spieghi che diamine ci fai qui?» sibilò glaciale.

«Arianna, ma con chi stai parl...»

La voce confusa di Lucas fu interrotta da quella di Luke.

«Mi sto nascondendo, mi pare ovvio» mormorò lui, gettando con noncuranza il torsolo dall'albero.

«AHIA!»

A quanto pareva, aveva preso Lucas in pieno.

«Ma con tutti i posti che ci sono, proprio qui?» insistette Arianna. «Con noi

Luke si limitò ad annuire. «Vi ho seguito di proposito, perché immaginavo che tu conoscessi i posti migliori dove nasconderti. Certo, dovevo anche immaginare che avreste approfittato della situazione per...» Si bloccò e ridacchiò sommessamente. «Mi dispiace avervi disturbato.»

Arianna scosse la testa, non sapendo neanche cosa replicare. Lucas e le sue condizioni erano la sua priorità.

Distolse lo sguardo dal ragazzo di Kia, perché scendere avrebbe richiesto tutta la sua concentrazione. Allungò le gambe verso terra e, facendosi forza sui gomiti, cominciò a lasciarsi scivolare verso il basso. Quel poco che le era rimasto dei muscoli le dolevano da impazzire.

«Ehi uccellino, attento a non romperti un'ala.»

Arianna era troppo impegnata a non spezzarsi l'osso del collo, per l'appunto, per replicare a dovere, ma per sua fortuna ci pensò Lucas.

«Falla finita, d'accordo? Se non vuoi che ti rompa qualcosa io.»

Arianna sorrise nel buio. Non poteva vedere quanto distava dal terreno, ma le parve di essere scivolata abbastanza e, dopo aver trattenuto il fiato, si lasciò cadere giù.

I suoi piedi toccarono terra in un batter d'occhio e tirò un sospiro di sollievo.

«Lucas, stai bene?» ripeté quindi, avvicinandosi.

Il ragazzo annuì. Si era alzato da terra e pareva illeso. La strinse delicatamente a sé in un modo che fece capire ad Arianna che non sembrava avercela con lei per averlo praticamente spinto giù dall'albero.

Luke scese dall'albero a sua volta, con un balzo atletico che sembrava essere stato compiuto unicamente per umiliare Arianna.

La ragazza non tollerava più la sua presenza lì con loro e di colpo le venne un'idea per liberarsene. Si rese conto, infatti, che lei aveva visto Lucas annuire alla sua domanda solo perché gli si era fatta vicino. Luke no.

«Lucas non sta bene» mormorò quindi, allungandogli una gomitata nello stomaco per farlo stare al gioco.

Il ragazzo mugolò di dolore e Arianna non seppe dire se avesse capito o meno. Se non altro, aveva reso la sua balla più credibile.

«Lo riporto alla fattoria.»

Come Arianna aveva immaginato, Luke assunse un'espressione delusa.

«Sul serio?»

«Se vuoi posso dirti un posto dove nasconderti per conto tuo, però.»

L'espressione sul volto di Luke cambiò.

«Spara.»

****

Non mi sentivo tanto tranquilla all'idea di lasciare Night e Angie in compagnia dello zio Frank che, non appena li aveva visti fradici come pulcini, aveva esclamato "Proprio come nel Rocky Horror Picture Show!" e aveva cercato di denudarli, ma John mi aveva convinta.

Il ragazzo mi aveva giustamente fatto notare che tutti gli altri stavano ancora aspettando che noi li trovassimo, oltre al fatto che sia Night che Angie erano perfettamente in grado di badare a loro stessi. Sentirli minacciare Frank di morte, se solo avesse provato a sfiorarli con un dito, mi rincuorò un po'.

Sulla soglia della fattoria, così, John ed io ci dividemmo di nuovo, non prima di esserci scambiati il numero di cellulare.

Mentre procedevo lungo il vialetto, mi imbattei in due figure che venivano nella mia direzione e mi bloccai di colpo.

Non poteva certo trattarsi di John, visto che ci eravamo separati appena cinque minuti prima e che lui aveva preso la direzione opposta.

«Ragazzi!» esclamai dopo un momento, riconoscendo Arianna e Lucas mano nella mano. «Ma che ci fate qui?»

Li osservai, vedendo che erano entrambi coperti di foglie e rametti e che avevano l'aria alquanto... seccata.

«Ci arrendiamo» tagliò corto Arianna.

Di fronte al mio sguardo interrogativo, si affrettò a spiegare: «Il tuo ragazzo ci ha spaventato e ha fatto cadere Lucas giù da un albero.»

Li fissai a bocca aperta. «Luke?! Non riesco a crederci!» Mi voltai verso Lucas, preoccupata. «Ti sei fatto molto male?»

«Nono, io sto bene» si affrettò a dire lui. Grattandosi la testa, aggiunse: «In realtà non ho capito perché ci stiamo arrendendo...»

Arianna sbuffò, levando gli occhi al cielo. «Tornare alla fattoria era l'unico modo per liberarci di quel maniaco del tuo fidanzato.»

Mi indicò con un'occhiata la casupola vicino alla fattoria, quella, realizzai con orrore, da cui ero scappata a gambe levate appena qualche ora prima, e mi fece un sorriso d'intesa.

«Gli ho detto di nascondersi lì.»

Deglutii a vuoto. «Io là dentro non ci torno» pigolai.

Lo sguardo di Arianna si fece di colpo comprensivo, mentre Lucas parve ancora più confuso del solito.

«H-ho visto un animale...» balbettai, e rividi in un lampo la testa di quell'orribile cinghiale.

«Già. Oltre ai travestiti, mio zio Frank ha anche l'hobby della tassidermia» spiegò Arianna, sospirando. «È pieno di animali impagliati, là dentro. In realtà ci ho mandato Luke apposta, sperando di spaventarlo un po' ma, ripensandoci, è più probabile che apprezzi quella roba.»

Non replicai e rimasi a fissare il capanno di Frank, come in trance.

«Non sei obbligata ad andare, se ti sei spaventata» aggiunse Arianna, poggiandomi una mano sulla spalla. «Se nessuno va a cercarlo, prima o poi si stuferà. Noi intanto andiamo.»

Li salutai debolmente e rimasi immobile, in mezzo al vialetto, con le gambe molli, lo sguardo fisso sulla casupola. Una parte di me desiderava ardentemente stanare Luke per pura soddisfazione personale, ma al pensiero di tornare in quel posto orribile mi si accapponava la pelle. Oltretutto, se mi fossi mostrata impaurita, Luke se ne sarebbe approfittato e mi avrebbe spaventata di certo. Serrai i pugni. No, non gli avrei dato quella perversa soddisfazione.

Feci un respiro profondo e mi incamminai a grandi passi verso il capanno, i muscoli tesi e gli occhi fissi sulla porta. Stavolta la aprii di scatto, come se mi aspettassi di trovarvi dietro Luke, con tanta violenza che per un attimo temetti di averla scardinata.

Ancora una volta la luce della luna si intrufolò all'interno dello stanzone, illuminando file e file di sagome scure.

Entrai con un certo timore ma, man mano che proseguivo, mi resi conto con stupore misto a sollievo che, sapendo di cosa si trattavano – nient'altro che involucri riempiti di segatura, in fin dei conti – non ero più così spaventata da quelle figure.

«Luke?» esclamai a gran voce, avanzando tra i tavoli. «Luke, so che sei qui.»

Un cigolio sinistro in risposta.

«Luke, andiamo...» borbottai, con meno convinzione.

Mi infilai la mano in tasca alla ricerca del cellulare, quando la porta si richiuse di scatto, gettando la casupola nel buio più completo.

Il cuore mi balzò in gola, ma feci del mio meglio per mantenere la calma. Come avevo immaginato, Luke cercava di spaventarmi.

«Guarda che non mi fai paura» mormorai, incrociando le braccia al petto e rimanendo immobile. 

Non era affatto così, ma avevo fatto appello ad ogni fibra del mio essere per far sì che la mia voce suonasse tranquilla. Non gli avrei mai, mai dato quella soddisfazione!

A rispondermi, di nuovo, solo un cigolio in lontananza. Sobbalzai. Per un attimo pensai che Arianna mi avesse imbrogliata e che non ci fosse nessuno lì con me, se non il fantasma di qualche animale a cui non era andata giù l'idea di essere impagliato, ma poi la razionalità prevalse. Arianna era la persona più leale che conoscessi e non aveva alcun motivo di mentirmi. I tempi in cui eravamo acerrime nemiche erano finiti da un pezzo. Oltretutto, con tutto quel che Luke aveva combinato quella sera, era molto più probabile che Arianna volesse farla pagare a lui che non a me.

Resistetti alla tentazione di attivare la torcia sul telefono, perché avrei dato l'impressione di avere timore. Anzi, quando udii di nuovo quel cigolio, scattai in quella direzione e dovetti mordermi la lingua per non urlare quando lo spigolo di uno dei tavoli mi si conficcò nell'inguine. 

Imprecai sottovoce, rimpiangendo amaramente di non avere acceso la torcia.

«Chi pensi di spaventare?» mormorai, inghiottendo le lacrime e proseguendo nella stessa direzione.

Stavolta non udii più un cigolio, ma un chiaro rumore di passi. Sorrisi tra me e me e, aguzzando l'udito, seguii il rumore attraverso i tavoli, sempre con più sicurezza, i nostri ruoli che si ribaltavano minuto dopo minuto.

L'inseguimento durò poco. Luke aveva le mie stesse difficoltà senza luce e dopo poco udii, vicinissimo, un tonfo e un frastuono assordante. Il ragazzo doveva essere inciampato e aver fatto cadere uno dei tavoli.

Mi avvicinai senza troppa difficoltà in quella direzione e i miei occhi, che si stavano pian piano abituando al buio, riconobbero una figura stesa a terra, che si stava scuotendo di dosso le bestie che gli erano finite addosso.

«Sappi che sei davvero pessimo» lo presi in giro, inginocchiandomi vicino a lui.

«Aiutami a togliermi questi affari di dosso» sibilò lui per tutta risposta, il suo orgoglio chiaramente scalfito.

Obbedii, non riuscendo a trattenermi dal ridacchiare. Il riso mi morì in gola quando, nel liberarlo da quello che doveva essere un pennuto – che aveva disseminato piume dappertutto – gli sfiorai inavvertitamente la coscia.

Il suo corpo fremette sotto il mio tocco ed entrambi trattenemmo il fiato per un lungo attimo. L'attimo dopo, senza sapere quello che stavo facendo né perché, le mie dita risalirono delicatamente la gamba, fermandosi sulla patta dei pantaloni di Luke.

Lui, che non sembrava avere nulla in contrario, si sporse verso di me, cercando il mio volto con le sue mani, inspirandomi a pieni polmoni.

«Oggi non puzzo di fieno, polvere o sterco di cavallo?» domandai a fior di labbra, stupendomi che non me l'avesse già rinfacciato.

«Oh, sì. Terribilmente» bisbigliò lui mordendomi il labbro, le sue mani che scendevano giù, cercando il mio corpo a tentoni nel buio.

In quel momento poco m'importava che fossimo nel bel mezzo di una partita di nascondino, in un capanno senza luce, con gli occhietti di vetro di quelle bestie impagliate a fissarci.

Volevo solo Luke e, a giudicare dalla foga con cui si avventò su di me, la cosa doveva essere reciproca. Mi augurai per un momento che John se la stesse cavando meglio di me, prima di spegnere il cervello e abbandonarmi completamente al tocco del ragazzo.

****

Dopo un attimo di indecisione, Beth si infilò nel campo più vicino, rischiando di slogarsi una caviglia in quella curva avventata. Nelle orecchie, il suo cuore e lo scalpiccio dei piedi del suo inseguitore tamburellavano all'unisono.

"Corri come se avessi dietro uno stupratore" le avrebbe detto sua madre, e lei non se lo fece ripetere due volte. Il cuore le scoppiava nel petto e guardava fisso avanti, incurante delle pozze d'acqua, lo sterco di mucca e chissà cos'altro nascosto dall'erba e dal buio. Chissà in che stato dovevano essere le sue meravigliose scarpe bianche, comprate tre anni prima in un negozio vintage di Londra, pensò in un soffio. Ma ormai era troppo tardi per preoccuparsene, tanto valeva andare fino in fondo.

Il suo inseguitore però aveva rimontato, approfittando del suo tentennamento. Oltretutto Beth sapeva di essere davvero un'avversaria scarsa, dato che era negata in qualsiasi tipo di sport, corsa compresa.

La ragazza aveva ormai il fiatone e i polmoni le bruciavano da impazzire. Sentiva i passi ed il respiro corto di lui sempre più vicino, sempre più vicino... finché non si sentì afferrare per il cappuccio della felpa.

«Lasciami, John!» gridò lei, scuotendosi nel tentativo di fargli mollare la presa e continuando testardamente a correre.

«HO DETTO LASCIAM...»

Ma non riuscì a concludere la frase.

Di colpo il terreno le mancò sotto i piedi.

Fu un volo breve. Sospesa nell'aria, non fece neanche in tempo a formulare un pensiero di senso compiuto che il terreno duro e umido le mozzò il fiato. L'attimo dopo John le rovinò addosso, strappandole un urlo di dolore.

«Ma che diavolo...» fece John.

Beth intuì confusamente che il ragazzo si era rimesso in piedi e si era accovacciato vicino a lei, forse per aiutarla ad alzarsi. Ma Beth rimase immobile, a faccia in giù nell'erba, il dolore che dalla testa le si propagava in ogni fibra del corpo, troppo spaventata per muovere un muscolo. E se poi avesse scoperto di non essere più in grado di farlo? Forse la caduta le aveva leso la spina dorsale.

«Beth» udì John mormorare. «Come va?»

«Ahia...» mugolò lei per tutta risposta.

Dopo un po' la terra smise di girarle intorno e, contrariamente ai suoi pensieri tragici, Beth scoprì di riuscire a muovere braccia e gambe. Con un grosso sforzo, la ragazza trovò la forza di mettersi a sedere, le gambe che giacevano doloranti sotto di lei. Voltò poi il capo all'indietro, per capire come avevano fatto a cadere in quel modo, e si maledì fra sé e sé quando avvertì una fitta di dolore alla testa.

La spiegazione di quella rovinosa caduta si stagliava prepotentemente di fronte a loro: il terreno su cui fino all'attimo prima i due stavano correndo a rotta di collo si interrompeva bruscamente in una scarpata erbosa. Il prato su cui i due erano caduti si trovava almeno un metro più in basso. Un terrazzamento.

«Non posso credere di non averlo visto» mormorò Beth con voce flebile.

Fortunatamente l'erba aveva attutito la caduta, altrimenti chissà come sarebbe potuta andare a finire.

John scrollò le spalle. «È buio.» Dopo un momento di silenzio, aggiunse: «E poi eri troppo impegnata a correre come una matta.»

"Corri come se avessi dietro uno stupratore."

«Come darti torto...» ammise lei, scoppiando a ridere.

Contro ogni previsione, John ridacchiò a sua volta, ma uno scoppio improvviso li fece sobbalzare. Un boato in lontananza, come lo sparo di un fucile, che si ripeté più e più volte.

Beth trasalì, ritraendosi all'indietro, ma la spiegazione le si palesò davanti l'attimo dopo.

Il cielo nero si illuminò di colpo a giorno e dal nulla fiorirono spirali di luce rosa, azzurra e verde, come se un bambino avesse spruzzato per errore un intero tubetto di colore su una tela.

«Ma come, è già mezzanotte?» proruppe John, apparentemente non troppo colpito da quello spettacolo.

Beth lo osservò con la coda dell'occhio dare una rapida occhiata al cellulare e poi tornare a fissare i fuochi d'artificio.

Dal canto suo, Beth non riusciva a smettere di fissarli. I fuochi morivano e rinascevano uno dopo l'altro, in uno spettacolo meraviglioso e orribile al tempo stesso. Beth ne era al contempo spaventata e affascinata: avrebbe voluto distogliere lo sguardo, raggomitolare il volto tra le ginocchia e tapparsi le orecchie con le dita per coprire quel frastuono assordante. Per qualche strano motivo, però, la attraevano in modo irresistibile e Beth non poté fare altro che rimanere a fissarli ad occhi spalancati.

«Hai paura?» domandò John ad un tratto.

Un meraviglioso fuoco d'artificio dorato colorò il cielo a giorno per poi collassare su se stesso, mentre Beth pensava ad una risposta da dargli. Non si aspettava quella premura da parte sua.

«Un po'» disse alla fine, senza guardarlo.

Giaceva ancora scomposta nella posizione in cui era caduta, con le gambe piegate sotto di lei e braccia abbandonate lungo i fianchi.

John sedeva vicino a lei, la schiena dritta e lo sguardo fisso davanti a sé.

Beth si voltò solo un momento verso di lui, appena in tempo per vedere il suo volto – bellissimo, pensò in un soffio, pentendosene all'istante – illuminato dalle luci dei fuochi. L'attimo dopo la ragazza era già tornata a fissare quei giochi di luce e colore e ci mise un po' per realizzare che John aveva poggiato la propria mano sopra la sua.

Beth deglutì, la gola improvvisamente secca. Di colpo le parve che i fuochi d'artificio si fossero trasferiti nel suo stomaco.

Nessuno dei due disse una parola, mentre continuavano ad osservare lo spettacolo mozzafiato di fronte a loro. Tutt'intorno, il campo erboso si illuminava e si spegneva al ritmo dei fuochi.

Beth si rese conto di quanto fosse magica quell'atmosfera. Le sembrava che ci fossero solo lei e John nell'universo. Il nascondino, i suoi amici, la cena di quella sera, l'ultimo dell'anno, tutto ad un tratto le parvero solo ricordi lontanissimi.

Sentì risuonare nel suo cuore gli accordi di Across the Universe, mentre John stringeva la presa sulla sua mano. Beth si voltò lentamente a fissarlo ed incontrò il suo sguardo. I fuochi d'artificio disegnavano giochi di luce sul suo volto e illuminavano i suoi occhi color antracite, in cui Beth vide se stessa. Si rese conto che non c'era altro posto in cui avrebbe desiderato essere.

Nessuno di loro disse una parola quando i loro volti si avvicinarono come pianeti in collisione.

Beth stavolta non fece caso se il suo cuore le scalpitasse nel petto, se il suo corpo fosse sicuro di quel che stava facendo o meno. Era attratta da John come se fosse stata spinta dalla gravità, allo stesso modo in cui, fino a qualche attimo prima, lo era stata dai fuochi d'artificio. Non esisteva nient'altro.

Di colpo erano fronte contro fronte. Com'era successo? Non le importava.

Beth socchiuse gli occhi e, quando le loro labbra si incontrarono a metà strada, percepì una fiamma rimasta sopita dentro di lei per tanto tempo risvegliarsi di colpo. E poi esplodere come un fuoco d'artificio. 

 

*La canzone non mi appartiene. È "Sweet Transvestite", interpretata da Tim Curry, dal musical The Rocky Horror Picture Show. Si è capito che lo adoro?

Non siate intimoriti dal mio aspetto 
Non giudicare un libro dalla sua copertina 
Non sono un uomo da molto alla luce del giorno 
Ma di notte sono un diavolo d'amante

Sono solo un dolce travestito

Da Transexual, Transilvania (ndr: è una galassia!), ha ha

 

Ehilà!

Fa un certo effetto ripubblicare questo capitolo, pensando che la prima volta su EFP lo pubblicai dopo SETTE anni dall'ultimo aggiornamento. Sette. No, non sto scherzando. Scriverlo è stato un'epopea, ma anche uno spasso. Il compleanno di Arianna e un'apparentemente innocua partita di nascondino diventano, per i nostri protagonisti, l'occasione per esplorare loro stessi e i loro sentimenti, per prendere importanti decisioni, riflettere e anche per scambiarsi i loro primi baci (ciao Beth!). Spero che vi piaccia.

Un bacio anche da parte mia!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** -•Capitolo 17 ***




«Ma cos'avranno da urlare?» borbottò Angie, guardandosi intorno con aria truce.

Scossi la testa con aria sconsolata, seguendo il suo sguardo. Quella mattina in mensa sembrava fosse scoppiata una bomba. C'era un frastuono assordante e i ragazzi non stavano un attimo fermi: chi si rincorreva tra i tavoli, chi saliva sulle sedie e chi, incurante delle conseguenze, faceva a botte sul pavimento. Distolsi lo sguardo di scatto quando vidi un dente volare in aria e attraversare il mio campo visivo.

Sembrava che nessuno avesse accettato di buon grado il rientro a scuola dalle vacanze natalizie.

«Se ci avviassimo in classe?» propose Beth, allontanando da sé i resti della sua colazione.

Non ce lo facemmo ripetere due volte. Scattammo in piedi, liberando il tavolo dalla nostra immondizia, e mi guardai attorno in quel caos alla ricerca di Arianna. Quando finalmente riuscii ad individuarla, tirai un sospiro di sollievo: era seduta con Lucas in un angolo della mensa. I due chiacchieravano animatamente, apparentemente ignari della confusione che regnava intorno a loro. A vederli, così tranquilli e a loro agio, mi venne da ridere.

Quando mi avvicinai mi sentii un'intrusa, vedendoli così in intimità, ma volevo avvertire brevemente Arianna della nostra fuga.

«Ehi!» esclamò lei, quando mi vide.

«Ciao Kia» fece Lucas di rimando, alzando gli occhi dal giornale che aveva tra le mani.

«Ciao ragazzi» mormorai, gettando una rapida occhiata al tavolo.

Arianna non aveva nulla davanti a sé, ma notai che nel mezzo c'era un piatto ricoperto di briciole, ciò che rimaneva di qualcosa che i due dovevano aver fatto a metà. Sorrisi tra me e me: un'idea di Lucas, avrei potuto scommetterci.

Il ragazzo era del tutto preso dalla lettura e la cosa mi stupì. Non che avessi dei pregiudizi nei confronti degli sportivi ma, da quando lo avevo conosciuto, non avevo mai visto Lucas leggere nemmeno un libro di testo.

«Ti rendi conto? Aveva solo ventitré anni!» esclamò all'improvviso, dando un pugno sul tavolo.

Trasalii di colpo e Arianna dovette accorgersi della mia reazione.

«Ieri notte è morto un giovanissimo campione di basket» si affrettò a spiegarmi, indicando il giornale con lo sguardo.

«Non è semplicemente morto» la corresse Lucas, tutto infervorato. «È stato ammazzato! È molto diverso. Lo conoscevi, Kia?»

«Ehm... non credo» mormorai, un po' imbarazzata.

Lo sport ed io eravamo decisamente agli antipodi. Lucas, incurante della mia risposta, mi aveva avvicinato il giornale ed io inclinai la testa di lato per leggere il nome dell'atleta sul trafiletto, giusto per farlo contento. Kyle Marsh. Come immaginavo, non l'avevo mai sentito nominare prima.

«Ari, noi comunque pensavamo di ci avviarci in classe, perché non ne possiamo più di questa bolgia» aggiunsi, guardandomi attorno con aria eloquente. «Tu ci raggiungi dopo?» domandai, intuendo già la risposta.

La mia amica era del tutto presa da Lucas e quando annuì, lanciandomi un sorrisetto d'intesa, non me ne stupii affatto.

Lucas nel frattempo aveva ripreso a parlare del suo idolo e delle circostanze misteriose della sua morte ed era così preso dalla conversazione che, quando li salutai entrambi prima di allontanarmi, mi domandai se mi avesse sentito.

Beth ed Angie mi aspettavano all'uscita della mensa ed io affrettai il passo per raggiungerle, più che lieta di lasciarmi alle spalle quella confusione infernale.

 

Trattandosi del primo giorno di scuola dal rientro delle vacanze natalizie, il professor Anderson fu più che clemente con noi. Si limitò a correggere i compiti delle vacanze, senza andare avanti con il programma, con grande sollievo di tutti, tranne per chi in quei giorni se l'era spassata senza aprire un quaderno.

Mentre il professore procedeva a ritirare i temi sull'età vittoriana, lanciai un'occhiata a Night, uno dei suddetti. Chino sul banco, aveva un'aria più torva del solito e non aveva fatto un solo commento su Angie dall'inizio della lezione. Inarcai un sopracciglio. Decisamente molto strano.

In compenso intavolò una discussione con il professor Anderson, quando questi scoprì che non aveva portato a termine nemmeno un compito tra quelli assegnati. Dopo averlo mandato a quel paese senza mezzi termini, il ragazzo si alzò bruscamente e uscì dalla classe sbattendo la porta, tra le acclamazioni dei compagni.

Il professor Anderson si limitò ad un sospiro, prima di riprendere il suo giro fra i banchi.

«Ha una brutta giornata» mormorò Shadow, accanto a me.

Mi voltai verso di lui, non sapendo come interpretare il suo tono neutro. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola dal rientro e mi ricordai in un lampo che l'ultima scena a cui aveva assistito era stato il mio teatrale bacio con Luke, al ballo scolastico.

Tossicchiai, vagamente imbarazzata. 

«Mi dispiace» dissi poi, non sapendo bene neanch'io a chi dei due mi stessi riferendo.

Per tutta risposta, Shadow fece un sorriso mesto.

«Ti va se dopo ci vediamo?» gli chiesi di getto. «Ho bisogno di parlarti.»

Shadow sgranò gli occhi, non facendo nulla per mascherare il suo stupore.

«Va bene» disse infine, distogliendo lo sguardo da me per puntarlo sul professor Anderson, appena tornato alla cattedra.

Sorrisi tra me e me e tirai un sospiro di sollievo, lieta che avesse accettato. Ero stanca di fuggire dalle mie responsabilità. Non potevo più tergiversare: era ora di affrontare quella questione una volta per tutte. Ero stata io ad illudere Shadow e toccava a me, se non rimediare, almeno dargli una spiegazione. Gliela dovevo.

Cercando di sgombrare la mente tanto da Shadow e il suo sorriso gentile quanto da Luke e il suo tocco quella notte alla fattoria, mi sforzai senza troppo successo di seguire il resto della correzione.

 

«Ma che gli è preso a Night, stamattina?» fece Beth, quando più tardi ci recammo in camera prima della pausa pranzo.

Non mi sfuggii l'aria vagamente colpevole che aveva assunto Angie, la quale cercava con scarso successo di non darla a vedere, mentre sistemava con noncuranza i disegni della sua cartella, sparsi sul letto e sul pavimento.

«Angie, devi forse dirci qualcosa?» domandò Arianna non finta noncuranza. Anche lei doveva aver notato il repentino cambiamento della ragazza.

«Io? Nulla» fece lei per tutta risposta.

Era da cinque minuti che continuava a giocherellare con il solito disegno e le sue guance si erano fatte color porpora.

«Angie» dissi, parandomi di fronte a lei, le mani sui fianchi.

La ragazza levò gli occhi al cielo, facendo un sospiro di resa. «Ok. Penso sia colpa mia» disse tutto d'un fiato.

Vedendo che noi aspettavamo che continuasse, anche se visibilmente controvoglia, ci raccontò con dovizia di dettagli tutto quello che era successo la notte del compleanno di Arianna e, ancora prima, a casa di Night.

«Non. Posso. Crederci» mormorò Beth in trepidazione, quando Angie ebbe finito.

Si lanciò sul letto addosso alla ragazza, strappandole un urlo.

«BETH! I MIEI DISEGNI!»

«Oh Angie, ma ti rendi conto? Night si è dichiarato!» Beth non riusciva a contenere l'eccitazione. «Un duro come lui ti ha espresso i suoi sentimenti! Oddio, è così romantico!»

Dopo aver mollato la presa sulla ragazza, Beth prese a rotolarsi sul suo letto, in preda ad una delle sue overdose di romanticismo. Angie inorridì quando la vide passare sopra un paio delle sue opere, che finirono accartocciate sotto di lei.

«BETH!»

Angie aveva già i pugni serrati ed io mi feci avanti sul letto, affrettandomi a calmare Beth in modo più diplomatico.

«Allora» mormorai poi, rivolta ad Angie. «Cosa pensi di fare?»

«Gli devi una risposta» aggiunse Arianna, sedendosi a sua volta sul letto, dopo essersi fatta uno spazietto tra i disegni.

«So di dovergli dire qualcosa» rispose lei, lanciando un'occhiataccia ad Arianna. «Il problema è cosa

«Cosa provi» insistette Arianna, incurante dell'ostilità dell'altra. «È semplice.»

«Non è semplice, se non so cosa provo!» sbottò Angie.

«Calma, ragazze» mormorai. «Immagino che per Angie non sia facile...»

«Dopotutto si tratta pur sempre di Night» commentò Beth, ripresasi dall'euforia.

«Ma devi fare un'analisi dei tuoi sentimenti» continuai. «Capire cosa provi davvero. La cosa migliore che puoi fare è essere onesta con lui.»

Angie annuì, pensierosa. «Certo che detto da te non è che sia molto credibile, visto quello che hai combinato con Shadow...» borbottò poi, dandomi una spinta scherzosa.

Levai platealmente gli occhi al cielo, facendole intendere che non me l'ero presa per quel commento. Dopotutto era la verità.

«Comunque» annunciai, schiarendomi la voce, «più tardi Shadow ed io parliamo.»

 

«Che cosa volevi dirmi?»

Shadow ed io procedevamo fianco a fianco lungo il vialetto, gremito di studenti. Nell'aria c'era un freddo pungente, ma era una rara giornata di sole e non eravamo stati gli unici ad approfittare della pausa pranzo per uscire un po' all'aperto.

Una miriade di pensieri confusi si rincorrevano nella mia mente. Avevo chiari i concetti che volevo comunicargli, ma non avevo ancora idea come li avrei espressi. Stavo infine per aprire bocca, quando intravidi due ragazze alzarsi da una panchina illuminata dai raggi del sole, sulla nostra destra.

«Ti va se ci sediamo, prima?» domandai, quindi, di getto.

Senza attendere risposta, mi avviai in quella direzione, imitata da Shadow.

Mi lasciai cadere sulla panchina e il ragazzo si sedette a sua volta. Aveva l'aria nervosa e teneva lo sguardo basso. Improvvisamente ricordai che in una panchina come quella, mesi e mesi prima, Shadow aveva tentato di baciarmi. Io lo avevo respinto, senza degnarlo di una spiegazione.

«Io sono fidanzata» proruppi.

Non era proprio così che avevo pianificato di iniziare, ma mi venne spontaneo riprendere da dove, tanto tempo prima, mi ero interrotta. Era come se fossimo tornati alla famosa sera della festa.

No, non era affatto così, realizzai, quando Shadow voltò di scatto la testa verso di me e mi inchiodò con i suoi occhi scuri.

«L'avevo notato» sibilò, glaciale. «È tutto quello che hai da dirmi?»

Deglutii. Troppe cose erano successe per poter semplicemente mandare indietro l'orologio e far finta di nulla.

«No, scusami» mormorai piano. «Ma questo era ciò che avrei dovuto dirti molto tempo fa.»

«E allora perché non l'hai fatto?»

Immaginavo che me l'avrebbe chiesto. Feci un respiro profondo.

«Perché mi piacevi» dissi infine, rompendo un silenzio che si era fatto infinito.

La tentazione era quella di non guardarlo in faccia, ma sapevo quanto fosse importante il contatto visivo in quel momento. Volevo che sapesse che ero sincera.

«Eri gentile e premuroso con me, a differenza del mio ragazzo. Sai, noi litighiamo spesso.»

«Al ballo però mi è sembrato che aveste fatto pace» commentò lui, tagliente.

Arrossii. «Sì. Ma...»

Sospirai, allentando la presa sulla mia mente, e lasciai che i pensieri fluissero liberi.

«Tu sei un ragazzo magnifico, Shadow. So che ti sembrerà stupido che io lo dica, ma lo penso sul serio» mormorai e sorrisi amaramente, vedendo che il ragazzo si era trattenuto a stento dal levare gli occhi al cielo.

Apprezzai il suo sforzo, anche se il gesto non mi era sfuggito.

«Il fatto è che non sei il ragazzo adatto a me.»

Shadow fremette, incapace di trattenersi. «E quel... Luke lo è? Angie mi ha detto che tipo è, come ti tratta.» Il suo sguardo era duro e addolorato al tempo stesso. «Meriteresti di meglio, Kia. Meglio di me, forse, e meglio di lui.»

Gli poggiai una mano sulla spalla e sorrisi.

«Potrei stare ore qui ad elencarti i suoi difetti» dissi sorridendo.

Shadow mi fissò senza capire.

«Ma sai perché li so a memoria? Perché in fondo sono esattamente i miei.»

Il ragazzo aprì la bocca per replicare, ma io lo anticipai.

«Ti ringrazio per la considerazione che hai di me, Shadow, ma non sono affatto perfetta come forse pensi che sia. Luke ed io siamo molto simili, sai? Siamo riservati, ci apriamo a fatica con gli altri e preferiamo nettamente la compagnia dei nostri cavalli a quella delle persone.»

Shadow non riuscì a trattenersi dal ridacchiare.

«Confesso che a volte la sua schiettezza mi ferisce. Il fatto è che conosciamo perfettamente i punti deboli l'uno dell'altra. Sa esattamente dove colpirmi.»

«Sì, ma... non è normale che il tuo ragazzo ti ferisca!» obbiettò Shadow. «Infatti eri attratta da me, no? Non sarebbe successo, se tu fossi stata davvero felice con lui.»

Sospirai. «Sì» ammisi. «Probabilmente mi sono sentita attratta da te anche per i tuoi modi.»

«Io sarei sempre così, Kia» mi interruppe lui. «Dopo quel tizio, meriteresti di essere davvero trattata come una principessa.»

Non riuscii a trattenere una smorfia. «Io... non è quello che voglio, Shadow.» Mi sforzai di trovare le parole giuste. «Lì per lì mi sono sentita lusingata dai tuoi modi, lo ammetto... ma mi conosco. Ci sono già passata.»

Ripensai confusamente a Jake, il ragazzo di Arianna, con cui anni prima avevo avuto una breve liaison, a come mi aveva fatto sentire... a come non lo rimpiangevo affatto.

«Non voglio qualcuno che mi veneri come una principessa. Voglio qualcuno che mi tratti come un suo pari.»

Shadow incassò il colpo senza dire una parola. Avrei potuto anche dirgli che, nonostante i suoi modi fossero gentili, eravamo caratterialmente gli opposti l'uno dell'altra: lui era curioso al limite della ficcanasaggine, socievole e chiassoso, e alla lunga tra noi non avrebbe mai funzionato. Ma a quel punto mi sembrava inutile rigirare il coltello nella piaga.

Il ragazzo infatti era visibilmente giù e fissava dritto davanti a sé, evitando di guardarmi.

«Mi dispiace, Shadow» dissi piano, accarezzandogli una spalla.

Temevo che avrebbe reagito in malo modo, ma lui non si mosse, come se non mi avesse neanche sentito. Capii che in quel momento c'erano solo lui e il suo dolore. E che io ero di troppo.

«Ti lascio solo» mormorai, anche se sapevo che non avrei ricevuto risposta.

Il ragazzo non aveva ancora mosso un muscolo. Mi alzai lentamente in piedi, lanciandogli un'ultima occhiata, e percorsi il vialetto diretto all'ingresso come un automa, trascinando i piedi sul selciato.

Intorno a me, i ragazzi che chiacchieravano e ridevano, di cui poco prima mi ero sentita parte, erano diventati insopportabili da vedere.

Proseguii a capo chino ed ero già a metà degli scalini che conducevano alla porta d'ingresso, quando non riuscii a trattenermi dal rivolgere un altro sguardo alla panchina.

Shadow era ancora lì.

****

Angie fissò la porta della camera numero diciotto ed inghiottì a vuoto, restia a compiere quell'ultimo, fatale passo.

Restia a tal punto che se ne stava lì ferma da almeno venti minuti e si era guadagnata diverse occhiate perplesse da parte degli studenti che facevano avanti e indietro lungo il corridoio. Angie aveva risposto a quegli sguardi interrogativi con un'espressione che aveva fatto saggiamente capire loro che forse era meglio non impicciarsi negli affari altrui.

Angie sollevò una mano e la strinse a pugno, una volta tanto non per colpire Night in pieno volto, ma solo per bussare alla sua porta. Qualcosa dentro di sé, però, le impedì di sfiorare il legno e la ragazza lasciò cadere la mano lungo il fianco con un sospiro.

Aveva saputo da Shadow che, dopo il litigio con il professor Anderson, Night si era chiuso in camera sua e non era più uscito da allora. Visto l'andazzo, Angie immaginava che il ragazzo avrebbe saltato anche le lezioni pomeridiane: se voleva agire, doveva farlo subito. Solo che non era così certa di volerlo fare.

Se avesse compiuto quel passo, realizzò Angie, non sarebbe più potuta tornare indietro. Non sarebbe stata più credibile, se avesse continuato a dire di odiarlo e di non poter sopportare la sua presenza. Ma forse, dentro di sé, si rese conto Angie, non aspettava altro: era stanca di quel teatrino.

Oh, al diavolo.

Angie sollevò una mano e tamburellò con le dita sulla porta della camera. Un suono lieve, un gesto affettato che quasi mal si addiceva ad una come lei.

Dall'altra parte della stanza, silenzio.

La ragazza non si diede per vinta e riprovò, stavolta tamburellando un po' più forte. Niente.

Le dita di Angie iniziavano a formicolare per l'irritazione. Bussò ancora una volta senza ottenere risposta. Dentro di sé, la ragazza tentava di controllarsi, ma cominciava a perdere la pazienza.

'fanculo il tamburellio.

Diede uno, due, tre colpi alla porta a mano aperta come se stesse picchiando un cristiano.

«NIGHT, APRI QUESTA CAZZO DI PORTA!» berciò, dopo essersi abbattuta sulla porta come un toro alla carica.

Non le sfiorò neanche per la mente il pensiero che il ragazzo poteva non trovarsi lì. Sapeva che la stava solo ignorando di proposito.

Continuò a colpire la porta e i ragazzi che passavano stavolta non si limitarono più ad occhiate incuriosite, ma a veri e propri sguardi terrorizzati.

Alla fine, anche se indistinti per via del rumore che stava facendo, sentì dei passi dall'altra parte e poi una serratura scattare.

«Oh, finalmente» borbottò, staccandosi infine dalla porta e facendo un passo indietro.

Night fece capolino sulla soglia e ad Angie, malgrado il nervoso, mancò il fiato per un attimo nel vedere com'era conciato: aveva il viso cinereo distorto in una smorfia e gli occhi iniettati di sangue. Neanche dopo avergliele suonate di santa ragione lo aveva mai visto con quella brutta cera.

Angie deglutì. Viste le circostanze eccezionali, fu sul punto di chiedergli il permesso di entrare, ma poi intravide uno spiraglio tra la porta e il ragazzo e decise di saltare i convenevoli. Li aveva sempre odiati.

«No ma, prego, fa' pure» fu il commento di Night, quando lei si intrufolò senza tante cerimonie all'interno della stanza, dove la accolse il buio più completo: le luci erano spente e le spesse tende color bottiglia erano tirate, impedendo al sole di filtrare all'interno.

Angie si voltò verso la lama di luce disegnata dalla porta rimasta aperta, davanti alla quale si stagliava la figura di Night, che la fissava a braccia incrociate.

«Potresti accendere la luce?» mormorò lei, in tono di sufficienza. «E, per la cronaca, come depresso non sei molto credibile.»

Un lungo sospiro seccato fu tutto ciò che ottenne come risposta, seguito dal click dell'interruttore.

Angie sorrise soddisfatta quando le lampade sul soffitto illuminarono la stanza, immersa, come al solito, nel caos più totale. Si lasciò cadere sul letto di Night, lo sguardo rivolto verso il ragazzo, che la fissava a sua volta, poggiato contro lo stipite della porta.

«Che ci fai qui?» proruppe lui, in tono inafferrabile.

Angie prese a giocherellare con uno dei suoi ricci biondi. Quella sì che era davvero un'ottima domanda, di cui neanche lei era sicura di conoscere la risposta.

«Volevo...» Si incespicò, maledicendosi fra sé. «Volevo vedere come stavi.»

Night le scoccò uno sguardo scettico. «Come sei premurosa. Nel caso non l'avessi notato, sto male. E di solito le persone, quando stanno male, vogliono stare da sole. Ma so che questo pensiero non ti ha neanche sfiorata...»

Angie non poté fare a meno di sogghignare. «No, neanche sfiorata.»

Sul volto devastato di Night comparve per un attimo l'ombra di un sorriso. «Non avevo dubbi.»

Tra i due calò uno strano silenzio. Angie sapeva che stava a lei romperlo. Night la fissava come in attesa e sembrava stare in piedi a fatica, mentre si puntellava con la schiena contro la porta.

La ragazza prese un grosso respiro, come prima di un tuffo. «Io... ho pensato a quello che mi hai detto l'ultima volta.»

Era pronta a qualsiasi reazione, soprattutto con il ragazzo in quelle condizioni ma, a quanto pareva, aveva conservato qualche energia appositamente per farla infuriare.

Night infatti sollevò il capo con aria studiata e, contro ogni previsione, le rivolse un'occhiata platealmente confusa.

Angie ribollì: si vedeva da lontano un miglio che il ragazzo lo stava facendo di proposito. Voleva davvero che gli ripetesse la loro ultima – imbarazzante – conversazione? Certo che lo voleva, glielo leggeva nello sguardo, così falso mentre faceva finta di non sapere di cosa la ragazza andasse blaterando.

Questa me la paghi.

Trattenendosi a stento dal saltargli addosso, Angie emise un sospiro di resa. «Al compleanno di Arianna» disse poi, a denti stretti. «Quando mi hai chiesto se il nostro rapporto mi andava bene così, quando tu...»

«Ah, già!» Night parve riscuotersi tutto d'un colpo. «Giusto, prima che tu mi buttassi nel fiume.»

«È stato un incidente» sibilò lei, sentendo l'irritazione montare, ma si impose di mantenere una parvenza di calma.

Sarebbe stata un'impresa. Ogni volta che cercava di arrivare al punto, finiva fuori strada per controbattere ai commenti odiosi del ragazzo, mentre la rabbia si agitava dentro di lei come un mare in burrasca.

Chiuse gli occhi ed inspirò a pieni polmoni, cercando di acquietare la tempesta che infuriava dentro di lei.

«Comunque no. Non mi va bene così» mormorò poi, quasi in un sussurro, indicando lo spazio vuoto tra di loro con lo sguardo e con esso tutti gli insulti, i pugni e gli schiaffi che erano volati tra quelle mura. «Anche se è dannatamente difficile non picchiarti, se continui a fare lo stronzo e non mi lasci parlare.»

Il ragazzo non aveva ancora detto una parola.

Angie alzò lo sguardo su di lui con una certa trepidazione, temendo un'altra reazione grondante sarcasmo, ma tutto ciò che vide fu l'espressione distesa che Night aveva assunto e soprattutto le sue mani, alzate in segno di resa.

«Grazie» mormorò lei, travolta da una nuova ondata di sicurezza. «Vedi? Da depresso sei quasi una persona ragionevole.»

Night tentò con scarso successo di nascondere una risata ed Angie si ritrovò a sorridere.

Osservò il ragazzo di sottecchi. Era di nuovo in silenzio e, nonostante la ragazza non si considerasse granché perspicace, era piuttosto evidente che in quel momento stesse facendo appello a tutto se stesso per non crollare: lo vedeva dallo sguardo inquieto, dal fatto che continuava a spostare il peso sui piedi e che le gambe non sembravano reggerlo e continuava a scivolare in basso, prima di rimettersi contro la porta con un sospiro. Angie non avrebbe saputo dire che cosa gli stesse passando per la testa ma, di qualsiasi cosa si trattasse, in quel momento era lì con lei e non l'aveva cacciata ma, anzi, era in attesa che lei lo degnasse di una qualche spiegazione. Il minimo che gli doveva era la verità. Così Angie scavò a fondo in se stessa, gli piantò gli occhi in faccia e gliela disse tutta d'un fiato.

«Neanche io so cosa provo, Night. Non sono mai stata brava in questo genere di cose. L'unica cosa di cui sono sempre stata certa è che ti detestavo.» Ignorò l'occhiataccia che lui le rivolse e proseguì, ritrovandosi ad arrossire, rendendosi conto di quel che stava dicendo. «Solo che non lo so più nemmeno io, perché... perché a volte non vorrei picchiarti, ma baciarti.»

Angie si interruppe di colpo. Night aveva sgranato gli occhi e la stava fissando con autentico stupore.

«Magari picchiarti e poi baciarti» si corresse subito lei. «Non sono così sicura di volere solo guerra fra noi. Voglio una tregua.»

Night sbuffò, vagamente divertito. «È un modo originale per dirmi che vuoi una relazione?»

«Una tregua» precisò Angie.

«Tregua» ripeté Night lentamente, come gustando il sapore della parola sulle labbra. «Mi piace.»

Si fronteggiarono in silenzio, i loro occhi agganciati. Nello sguardo che si scambiarono c'era tutto quello che l'uno suscitava nell'altro. Irritazione, divertimento, rabbia, desiderio.

Ma, ricambiando quello sguardo, Angie seppe solo una cosa e, contro ogni previsione, quella consapevolezza non la infastidì affatto. Anche se, ovviamente, non l'avrebbe ammesso neanche sotto tortura.

Seppe che, tregua o no, quell'odioso individuo lì davanti era appena diventato il suo ragazzo.

****

Credevo che chiarire con Shadow mi avrebbe liberata da un peso, o almeno così speravo, ma nel vederlo di nuovo, durante la lezione di ginnastica di quel pomeriggio, scoprii di non sentirmi affatto sollevata.

Il ragazzo sembrava essersi ripreso dall'apatia, ma era comunque visibilmente giù, mentre si affrettava rassicurare i suoi amici, che gli chiedevano con una certa apprensione se fosse tutto ok.

Sapere che la causa del suo malessere ero io mi divorava, tanto che continuavo a lanciargli delle fugaci occhiate, che lui faceva di tutto per evitare.

Se non altro, però, Night era rispuntato e mi sembrava di umore migliore rispetto a quel mattino. Anzi, notai una certa complicità tra lui ed Angie, nonostante gli insulti volassero tra loro come pioggia. Sì, segno che Night era decisamente tornato in sé. Lanciai uno sguardo interrogativo ad Angie e lei mi sillabò un "dopo" senza voce, facendo un sorrisetto.

«Qualcuno qui è riuscito a fare chiarezza nei suoi sentimenti...» mi bisbigliò Arianna, ammiccando verso i due ragazzi, mentre iniziava a correre per il riscaldamento insieme al resto della classe.

Quel giorno la Cooper aveva deciso di farci fare ginnastica nel campetto all'aperto, approfittando della bella giornata.

Io ridacchiai, affrettandomi a seguire Arianna, ma dopo sei metri avevo già il fiatone. La ragazza invece, malgrado la magrezza impressionante, saltellava come uno stambecco, la lunga coda di cavallo che le sventolava sullo schiena mentre raggiungeva Lucas nel giro di due falcate.

Li fissai strabuzzando gli occhi. Erano così perfetti, così atletici.

In quel momento sentii più che mai la mancanza di Beth, che quel giorno, d'accordo con tutte noi, aveva deciso di saltare la lezione di ginnastica. L'avevamo coperta con la Cooper, dicendole che la nostra amica si sentiva poco bene, mentre lei sarebbe andata alla ricerca di John. In condizioni normali avrei disapprovato quel comportamento ma, visto tutto quello che era successo alla festa di Arianna e non avendo più sentito il ragazzo da allora, era comprensibile che Beth volesse parlare con lui.

Se pensavo a ciò che la mia migliore amica mi aveva raccontato, mi sentivo travolta da emozioni contrastanti: ero davvero felice per lei, che era palesemente cotta del ragazzo, ma allo stesso tempo non riuscivo a fidarmi fino in fondo di John. Quel giorno non aveva fatto che evitarla e anche la conversazione che avevamo avuto il giorno della festa... non ne avevo fatto parola a Beth, non volendola turbare ulteriormente, sapendo quanto Lucy fosse ancora un nervo scoperto per lei, ma c'era qualcosa che mi sfuggiva.

Cercai di scacciare i sospetti e pregai che la mia amica se la cavasse, mentre cercavo di fare qualche altro metro senza crollare. Ero incerta sulle gambe e la testa mi girava, come se fossi appena scesa da una giostra.

«Kia?» Arianna, che nel frattempo aveva già compiuto tre giri, mi affiancò. «Ti senti bene? Sei un po' pallida.»

Mi accigliai. La mia pelle era bruna, quindi dovevo essere davvero pallida.

«Mi sento un po' debole» ammisi. «Ma lo sai che la corsa mi fa questo effetto.»

Lei mi fissò, senza fare nulla per mascherare il suo scetticismo. «Hai mangiato a pranzo?» mi chiese quindi in tono inquisitorio.

Sgranai gli occhi, ricambiando il suo sguardo sospettoso. Ci eravamo forse scambiate i ruoli? Avrei dovuto essere io a chiedere alla mia amica, che stava palesemente avendo dei problemi alimentari, se aveva mangiato oppure no, non certo il contrario! Ripensando però al nodo allo stomaco che avevo a pranzo, subito dopo aver parlato con Shadow, realizzai che quel giorno avevo a malapena toccato cibo.

Trattenendo un moto di irritazione, bofonchiai: «No. Non avevo molta fame.»

Lei mi fissò con l'aria di chi la sapeva lunga. «Ho notato. Faresti bene a riposarti, per oggi.»

Detto ciò, si allontanò correndo ed io scossi leggermente la testa, gli occhi fissi sulle gambe fasciate dalla tuta della ragazza, che parevano due stecchini. Quella ragazza era davvero incredibile, pensai, prima di realizzare che l'immagine di Arianna non mi appariva molto chiara. Puntolini bianchi simili a lampi avevano preso ad agitarsi davanti ai miei occhi.

Mi stropicciai le palpebre e accelerai il passo, cercando di raggiungere Arianna anche solo per non dargliela vinta. Ma, quando riaprii gli occhi, i puntini bianchi erano triplicati e riuscivo a malapena a vedere davanti a me.

La testa intanto aveva ripreso a girare e fui costretta a fermarmi per respirare. Abbassai lo sguardo sul terreno candido. Aveva nevicato?

«Kia...?»

Mi parve di sentire la voce di Angie vicino a me, ma potevo anche essermela solo immaginata.

Le forze mi abbandonarono di colpo e percepii il mio corpo accasciarsi a terra, tra le grida spaventate dei miei compagni di classe che divennero presto un leggero brusio, prima che tutto precipitasse nel buio.

****

Beth odiava saltare le lezioni.

Non era proprio da lei, ma si ritrovò a pensare che era già la seconda volta che marinava la scuola per colpa di John. Si trattava pur sempre di educazione fisica e difficilmente i suoi voti in quella materia avrebbero mai superato la sufficienza, ma era comunque piuttosto irritante.

Ma se c'era qualcosa di più irritante, quel giorno, era il comportamento di John nei suoi confronti. Dal compleanno di Arianna, non era passato giorno in cui Beth non avesse pensato al bacio che i due si erano scambiati. Aveva atteso un qualsiasi cenno di vita da parte del ragazzo, controllando il cellulare almeno duecento volte al giorno, ma lui non le aveva scritto.

Mai.

Non che fosse rimasta ad aspettare una sua mossa senza muovere un dito, nella convinzione che toccasse all'uomo compiere quel passo, nossignore. Beth era di larghe vedute.

Dopo una settimana di silenzio lo aveva chiamato lei, ma si era sempre imbattuta nella segreteria telefonica e, di volta in volta, la sua speranza che il ragazzo si facesse vivo si affievoliva sempre di più.

Era giunta alla conclusione che a John si fosse rotto il telefono.

Sì, era senz'altro questa la ragione per cui non l'aveva più chiamata.

Qualsiasi cosa pur di non pensare a quello che Kia le aveva ripetuto fin dal principio, quelle tre paroline che avevano provocato più di un litigio tra loro, di recente.

"Ti sta evitando."

Beth era pronta a scommettere che non era così e non vedeva l'ora di parlare con il ragazzo a voce: probabilmente era stata l'unica studentessa di tutto l'istituto ad aver atteso con impazienza il ritorno a scuola dalle vacanze.

Quella mattina non stava più nella pelle, al solo pensiero che finalmente avrebbe rivisto John.

Quando lo aveva intravisto in mensa e le erano tornate alla mente le emozioni che aveva provato la notte dei fuochi d'artificio, aveva avuto un tuffo al cuore. Aveva incrociato il suo sguardo con trepidazione ma, dopo un attimo, lui aveva distolto il suo, scomparendo nella folla di studenti che stavano uscendo dalla mensa.

Beth era rimasta pietrificata, gli occhi fissi sulla schiena del ragazzo, la consapevolezza che la colpiva in pieno volto come lei stessa aveva fatto con una fetta di torta sul viso di John, molti mesi prima.

"Ti sta evitando".

Si erano di nuovo incrociati durante la pausa pranzo e Beth aveva fatto per rivolgergli la parola, ma ancora una volta il ragazzo l'aveva degnata a malapena di uno sguardo.

Non poteva più negare l'evidenza. Da lì, la decisione.

Dopo aver scoperto per vie traverse che quel pomeriggio John sarebbe stato in aula musica a studiare, Beth aveva deciso di raggiungerlo lì.

Le sue amiche l'avevano coperta con la Cooper, dicendole che lei si sentiva poco bene, così attese pazientemente sotto le coperte che la bidella – mandata dalla professoressa a controllare che fosse la verità – venisse a farle visita e poi sgattaiolò fuori dalla sua stanza, diretta in aula musica.

Dato che tutti avevano lezione a quell'ora, i corridoi erano deserti. Beth li attraversò a passo rapido ma non troppo, così da poter essere scambiata per una qualsiasi studentessa che stesse tornando dai bagni e non sembrare troppo sospetta.

Non era mai stata in aula musica, che si trovava nell'ala opposta rispetto a dov'era situata la sua classe e, quando mise piede sulla soglia, per un attimo fu distratta dalla magnificenza di quel luogo.

Non era molto grande, forse anche per via degli strumenti che, poggiati al muro, venivano avanti sul pavimento fino a coprirne praticamente ogni centimetro quadrato, come una valanga scintillante, illuminata dalla luce che filtrava da un'ariosa finestra a parete.

Beth si guardò intorno, riconoscendo violini, batterie, pianoforti e, in un angolo, anche un sintetizzatore. Pile di sedie erano a loro volta accatastate contro la parete ma, anziché procedere in orizzontale come gli strumenti, svettavano in alto verso il soffitto, come torri di un gioco di costruzioni. Qua e là, scaffali traboccanti di spartiti.

In condizioni normali avrebbe volentieri curiosato in giro, ma quel giorno aveva un unico obbiettivo, che individuò immediatamente, seduto in un angolo dell'aula, con la chitarra fra le braccia.

Non era solo, notò Beth dopo un momento, vedendo che, impegnati anch'essi nello studio, c'erano una ragazza bionda che suonava il flauto traverso e un ragazzo magro chino su un violoncello grande il doppio di lui. Dopo averci riflettuto un secondo, Beth decise che non le importava nulla della loro presenza.

«John» mormorò quindi, avanzando a grandi passi nella sua direzione.

Tre paia d'occhi si voltarono di colpo a fissarla, ma solo uno contava per lei.

Dopo aver alzato la testa di scatto ed averla riconosciuta, John non fece alcunché per nascondere un'espressione colpevole. Il suo sguardo vagò da una parte all'altra della stanza, come alla ricerca di una via di fuga. Lanciò un'occhiata disperata prima ai due ragazzi nella stanza e poi alla finestra a parete dietro di lui, prima di tornare a guardare Beth, dopo aver probabilmente compreso che il suicidio non fosse esattamente l'opzione più saggia.

«Che ci fai qui?» domandò, facendosi piccolo piccolo mentre stringeva convulsamente la chitarra tra le braccia, come volesse nascondervisi dietro.

Beth si piantò davanti a lui, il leggio sul quale il ragazzo stava studiando di fianco a lei. Gli lanciò un'occhiata fugace: erano gli accordi di "Light My Fire".

«Voglio solo sapere perché continui ad evitarmi» disse, tornando a fronteggiare il ragazzo.

Sentì che la ragazza bionda li stava guardando e, voltandosi nella sua direzione, vide che stava fissando John scuotendo leggermente la testa. Quando incrociò lo sguardo di Beth, la flautista abbassò subito gli occhi.

«Io?» fece John, come se Beth avesse appena detto un'assurdità. «Io non ti sto evitando!»

La ragazza si mise le mani sui fianchi con un gesto minaccioso. «Andiamo John, per favore. Non sono stupida. Oggi sei fuggito due volte, quando ho fatto per avvicinarmi, e adesso sembrava che tu volessi buttarti dalla finestra pur di non parlarmi.»

Udirono un risolino alle loro spalle e si voltarono all'unisono verso il violoncellista, che si affrettò a tramutare il riso in un colpo di tosse mentre abbassava gli occhi sullo spartito.

«Io non capisco» ammise poi Beth, rivolgendo al ragazzo uno sguardo più conciliante. «Cosa dovrei pensare?»

John non la stava guardando e a Beth la cosa non piacque per niente. Quando infine il ragazzo alzò gli occhi su di lei, fu percorsa da un brivido.

Gli occhi neri come schegge che la stavano osservando, infatti, appartenevano al John che le rispondeva sgarbatamente e la chiamava "mocciosa", non al ragazzo gentile che l'aveva baciata alla festa di Arianna.

«Non devi pensare nulla.» Anche la sua voce si era fatta di schegge, che perforarono Beth senza alcun preavviso, facendola sussultare. «Cosa ti aspettavi, che sarei venuto a portarti un mazzo di rose e a farti mille moine? È stato solo un bacio, Beth.»

Un tintinnio ruppe il silenzio di tomba che era calato fra di loro. Con la coda dell'occhio, Beth vide il violoncellista chinarsi a raccogliere l'archetto che gli era caduto a terra con un altro colpetto di tosse.

Beth era stordita. Dovette sbattere le palpebre un paio di volte per assicurarsi di non stare sognando. Che John, il quale adesso aveva ripreso a fissare il pavimento come se sperasse intensamente che un buco si aprisse ai suoi piedi e lo inghiottisse, non avesse davvero detto quello che aveva sentito.

Il dolore la colpì dritta in faccia come un ceffone. Ma inghiottì le lacrime e strinse i pugni, lasciando che per una volta fosse la rabbia a prendere il posto della delusione. La percepì dentro di sé come una miccia a cui John aveva appena dato fuoco e decise di assecondarla.

Light My Fire, eh?

«Solo un bacio?» ripeté, la voce più alta di un'ottava.

John le lanciò un'occhiata di sottecchi, forse intuendo che le cose si stavano mettendo male. Ricambiando il suo sguardo che mandava lampi, dovette capire di averci preso.

Beth vide i suoi occhi mandare una muta richiesta d'aiuto sui musicisti dietro di lei ma, a giudicare da come continuarono a suonare come se nulla fosse, quelli dovevano aver capito che non era il caso di mettersi in mezzo.

«SOLO UN BACIO?»

Onde evitare di saltare direttamente al collo di quel disgraziato, Beth si accanì contro la cosa che aveva più vicina a lei dopo il ragazzo.

Il leggio.

Afferrò a piene mani gli spartiti e li fece a brandelli, beandosi del suono della carta che si lacerava. Non fu contenta finché tutti i fogli non furono ridotti in coriandoli e a quel punto li lanciò addosso a John, che prese a toglierseli freneticamente dalla faccia, con movimenti convulsi che a Beth parvero anche un po' ridicoli, dato che in fin dei conti si trattava di carta.

Con gli spartiti che si agitavano come cenere ai suoi piedi, Beth brandì il leggio a due mani, come un'arma. John si affrettò a nascondere la chitarra dietro la schiena, ma non era a lui che Beth puntava.

«VOI!»

Si voltò minacciosamente verso i due musicisti che, non appena capirono di essere nel mirino della ragazza, abbandonarono in fretta e furia i loro strumenti e scattarono verso la porta.

«COSA DEVE FARE UNO PER AVERE UN PO' DI PRIVACY?»

Abbassò il leggio a terra con il fiato corto. Si sentiva svuotata ed era una sensazione del tutto nuova e liberatoria, in cui si immerse completamente, prima di voltarsi per fronteggiare il ragazzo un'ultima volta.

«Lo sai, John?» mormorò, lentamente. «Per me non era solo un bacio.» Si interruppe, ripensando a quanto quelle parole l'avessero lacerata. «Se avevi solo voglia di divertirti... be', potevi fare a meno di illudermi. Paga qualcuno, va' da Annie. Penso che non aspetti altro.»

Al nome della ragazza, come una parolina magica, John sussultò ed alzò infine gli occhi su di lei, tremante. La sua espressione era un mistero per Beth. Non poteva credere che quello sguardo combattuto appartenesse al ragazzo che poco prima le aveva parlato in modo così sprezzante.

A Beth parve di scorgere del dolore, scavando a fondo in quei pozzi di petrolio liquido, ma forse era solo suggestione.

«Io... mi dispiace, Beth.» John sospirò, lasciando la ragazza sbalordita. La sua voce era quasi un sussurro, mentre tentava con scarso successo di mettere insieme i suoi pensieri. «Io non pensavo davvero... ti evitavo... ma il fatto è che... c-che non sapevo come dirtelo...»

«Dirmi cosa?» domandò Beth precipitosamente.

Avrebbe voluto che la sua voce suonasse distaccata, ma la verità era che pendeva dalle sue labbra. C'era qualcosa di non detto fra loro, più ingombrante del pianoforte di quella stanza, e Beth moriva dalla voglia di sapere cos'era.

La ragazza inseguì John con lo sguardo, finché lui non cedette. E lo disse.

E, malgrado la rabbia, l'essersi svuotata e tutto il resto, per Beth fu un calcio nello stomaco.

«Durante le vacanze è successo qualcosa con Annie.»

****

Da quando era caduta di nuovo nel baratro della sua malattia, Arianna aveva ripreso l'abitudine di osservare le persone mentre mangiavano.

C'era del masochismo in tutto ciò, dal momento che lei a malapena toccava cibo. Ma guardare le sue amiche portarsi la forchetta alla bocca, masticare di gusto e deglutire, tra una risata e l'altra, come se per loro il gesto di mangiare fosse così naturale e spensierato, come se il cibo fosse l'ultimo dei loro pensieri, in un certo senso era appagante. Fissandole intensamente, poteva quasi riuscire ad immaginare di essere lei a farlo.

Così continuava ad osservarle di sottecchi, con un misto di invidia e ammirazione. 

E fame.

Per questo, quando aveva visto Kia rifiutare di pranzare, quel giorno, aveva subito immaginato che la lezione di ginnastica di quel pomeriggio per lei sarebbe stata più dura del solito.

Stupida, stupida Kia.

Sapeva che il comportamento dell'amica aveva poco a che fare con l'anoressia e molto a che fare con Shadow, ma il risultato era lo stesso: il corpo di Kia non era abituato al digiuno, mentre Arianna aveva ormai trovato un equilibrio tra le poche calorie che ingurgitava e quelle che le servivano per rimanere in piedi e fare movimento. E farle bruciare ciò che aveva mangiato.

Lei ed Angie avevano accompagnato insieme Kia in infermeria, dopo che la loro amica era svenuta di fronte a tutta la classe.

L'infermiera le aveva rassicurate sullo stato di salute della ragazza, ma le aveva mandate via senza tante cerimonie, dicendo che Kia aveva bisogno di riposo.

Erano quindi tornate in palestra con l'umore sotto i tacchi e, al termine della lezione, quando Lucas le aveva proposto di rimanere nel campetto a fare qualche tiro, lei aveva annuito.

In fin dei conti, un po' di movimento equivaleva a qualche altra caloria bruciata.

Arianna scosse la testa. No. Aveva acconsentito per stare in compagnia di Lucas. Se lo ripeté un altro paio di volte nella testa per auto convincersene.

«Arianna!» La voce del ragazzo la riportò bruscamente alla realtà. «Ci sei?»

Riscuotendosi, Arianna gli fece un cenno affermativo in risposta.

Strinse il pallone fra le mani e si lanciò verso il canestro, mentre Lucas cercava di placcarla.

Il biondo era grosso il doppio di lei, ma Arianna era molto più agile. Scartò di lato per evitare il ragazzo e riprese a correre per non farsi raggiungere di nuovo da lui, che era già alle sue spalle. Puntando il canestro, spiccò il salto dopo i tre passi e lanciò. Il pallone mancò il cestello per un soffio.

«Uffa» sbuffò, mentre il pallone rimbalzava a terra con un tonfo, voltandosi a fissare Lucas con espressione corrucciata.

Il ragazzo fece un sorriso divertito. «Sei stata brava, comunque.»

Era vero. Grazie ai consigli di Lucas, in quei mesi Arianna era migliorata giorno dopo giorno nella pallacanestro, ma sapeva che il sorriso del ragazzo era dovuto ad altro. Si era messo in testa di volerla aiutare con i suoi problemi e, malgrado il tarlo che aveva in testa continuasse a tormentarla, dicendole in tono perentorio cosa fare e soprattutto cosa non mangiare, Lucas si stava dimostrando abile, molto più di quanto lei avrebbe creduto.

Era tornato molto spesso a trovarla, durante le vacanze natalizie, e a scuola aveva continuato ad attenersi al piano che aveva messo in atto a casa di suo zio.

Lucas era ferrato almeno quanto lei nell'alimentazione e, facendola muovere tutto il tempo, sapeva bene quanto lei che dopo avrebbe avuto molta più fame del solito e sarebbe stata molto più incline a cedere.

Quand'erano a tavola, poi, il ragazzo faceva di tutto per distrarla, tentando di far passare sempre il cibo in secondo piano.

Ma più di tutto, il modo in cui le stava facendo vivere lo sport. Non era più un mezzo attraverso il quale bruciare più calorie, quand'era in sua compagnia: mentre stava giocando con Lucas, il pensiero di quanto stava consumando pian piano perdeva significato. Arianna si divertiva sul serio.

«Riproviamo?» propose lui lanciandole il pallone, che aveva appena recuperato.

«Va bene.»

Arianna lo afferrò al volo e riprese posizione, mentre Lucas la osservava di sottecchi.

Quando si mosse verso il canestro, Lucas fu rapido ad intercettarla, ma stavolta Arianna non fu altrettanto veloce nell'evitarlo e presto il ragazzo le fu addosso.

Scartando bruscamente per allontanarsi da lui, la ragazza perse il controllo sul pallone, che le sfuggì tra le mani durante il palleggio. Lucas se ne impadronì subito e si diresse con sicurezza verso il suo canestro.

Arianna gli corse dietro, ma aveva il fiatone, provata com'era da quell'ora e mezzo di attività fisica, e nulla poté quando il ragazzo centrò il canestro senza alcuna difficoltà.

Arianna batté le mani con scarso entusiasmo. «Bravo, bravo» borbottò ironicamente.

Ma doveva immaginare che Lucas, come al solito, non avrebbe capito il suo sarcasmo. Credendo che lei si stesse sinceramente complimentando con lui, il ragazzo le lanciò un'occhiata da seduttore contro e poi prese a pavoneggiarsi con il pallone.

Palleggiava apparentemente senza alcuno sforzo, malgrado il peso del pallone da pallacanestro, prima con un piede e poi con un altro. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo verso di lei, giusto per assicurarsi che la ragazza lo stesse guardando.

Dopo una decina di minuti di quell'esercizio, Arianna forse pensò che fosse il caso di dire qualcosa.

Tossicchiò leggermente. 

«Wow. Sai palleggiare..!» disse poi, non riuscendo a trattenere un tono da presa in giro. Tanto sapeva che al ragazzo sarebbe sfuggito anche quello.

«Oh, non hai visto nulla» fece infatti Lucas, il volto teso per la concentrazione. «Mi passi il pallone da calcio?»

Arianna si limitò a scuotere la testa con aria rassegnata, mentre faceva come Lucas le aveva chiesto.

Avevano lasciato la sacca con i palloni a bordo campo e, dopo averlo raggiunto, la ragazza si chinò a cercare il pallone da calcio. Non trovandolo, ipotizzò che fosse rimasto dentro la palestra, e si accontentò di quello da pallavolo. In confronto a quello da basket, grande e pesante il doppio, le parve leggero come una piuma quando lo ebbe fra le mani.

Si voltò verso Lucas che, preso dall'esercizio, continuava a palleggiare come se nulla fosse.

«Arriva!» gridò Arianna, lanciandogli il pallone.

Lucas alzò finalmente lo sguardo da terra ed intercettò la palla, allungando una gamba per prenderla con il piede e, immaginò la ragazza, riprendere poi a palleggiare.

Si rese conto dopo un momento che Lucas, come lei poco prima, non doveva aver messo in conto la leggerezza del nuovo pallone, soprattutto dato che non si trattava di quello da calcio, e inorridì.

«Atten...»

Troppo tardi. Il ragazzo abbassò rapidamente il piede e lo prese al volo ma, come Arianna aveva previsto, il ragazzo non aveva tenuto in conto la leggerezza della palla e, a quanto pareva, neanche lo slancio che ci aveva messo.

Invece di palleggiare, il ragazzo finì per calciarla dritta davanti a sé.

Sotto gli occhi orripilati di Arianna, il pallone descrisse una lunga circonferenza in aria e rimase sospeso per quella che alla ragazza parve un'eternità, prima di schiantarsi contro una delle finestre dell'istituto.

Il rumore dei vetri infranti continuò a riecheggiare nelle orecchie di Arianna anche molto dopo che la palla era scomparsa alla loro vista.

I due ragazzi fissarono come in trance il buco creatosi nella finestra, per poi abbassare lo sguardo e scambiarsi un'occhiata.

«Cazzo» disse Lucas, rompendo il silenzio.

Non lo aveva esclamato anche Arianna solo perché era fin troppo signorile per imprecare ad alta voce, ma dentro di sé l'aveva pensato anche lei.

«Scappiam...»

A Lucas la voce si strozzò in gola. I suoi occhi fissavano un punto oltre la sua spalla.

Arianna seguì il suo sguardo e si voltò di scatto, giusto in tempo per vedere Gérard dirigersi a passo di carica verso di loro, gli occhi ridotti a due fessure ed i pugni serrati.

Arianna deglutì a vuoto.

Ora sì che erano nei guai.

****

Quando ripresi conoscenza, la prima cosa che misi a fuoco fu il volto arcigno dell'infermiera sopra di me.

Boccheggiai e d'istinto feci per arretrare, ma la mia schiena poggiò subito contro la testiera del lettino su cui ero distesa.

«Calo di zuccheri» disse lei in tono monocorde.

Se anche si era resa conto di avermi quasi fatto prendere un infarto – mi ci mancava solo quello – l'infermiera, con il volto annoiato di chi non vedeva l'ora che il suo turno finisse, non lo diede a vedere.

«Come ti senti?»

Feci dei profondi respiri per riprendermi dallo spavento e riflettei sulla domanda. Avevo la bocca impastata, mi sentivo intontita e...

«Mi fa male la testa» borbottai, massaggiandomi le tempie.

«Immagino» disse lei, sempre con quel tono che avrei trovato straordinariamente adatto per un elogio funebre. «La tua amica, quando ti ha portata qui, mi ha detto che non hai mangiato a pranzo. Come mai?»

Mi trattenni a stento dal levare gli occhi al cielo.

Arianna.

Le avrei fatto un bel discorsetto, più tardi. E perché diamine tutti continuavano a farmi quella domanda?

«Non mi sentivo molto bene» risposi, nascondendo a stento l'irritazione.

«Cerca di non saltare i pasti» mi disse lei, come se seguisse un copione già scritto.

Ipotizzai che fossero quelle le frasi di routine che la donna ripeteva alle ragazzine che non mangiavano e finivano lì. Molto confortante, pensai, provando un moto di compassione verso le ragazzine in questione.

L'infermiera nel frattempo mi aveva porto un bicchiere di plastica e lo afferrai con mani tremanti. 

«Acqua e zucchero» mi spiegò sbrigativamente, indicando poi con lo sguardo il comodino di fianco al letto. «Ti ho lasciato anche una compressa da prendere per il mal di testa. Quando ti sentirai meglio, puoi andare in camera tua. Sentiti libera di tornare qui se ti senti di nuovo poco bene.»

Anche l'ultima frase doveva far parte della routine perché, a giudicare dalla sua espressione, sembrava che la donna sperasse ardentemente che non lo facessi.

Un rumore improvviso di voci concitate e singhiozzi attirò l'attenzione dell'infermiera, che si trattenne a stento dal levare gli occhi al cielo e si diresse a passo veloce in quella direzione, lasciandomi sola sul letto in compagnia dell'emicrania.

Mi guardai intorno sbattendo le palpebre, ancora un po' intontita. Davanti a me s'intravedeva un lavandino con uno specchio e un mobile dalle ante in vetro, stracolmo di medicazioni. Ai lati del letto, invece, c'erano due tende bianche fissate al soffitto ed in quel momento tirate, così che né io né chi c'era dall'altra parte potessimo vederci.

Non ero mai stata in infermeria prima d'allora e di noi solo Arianna, il primo giorno di scuola, vi aveva fatto una visitina. Non vedevo l'ora di andarmene di lì e tornare in camera, proprio come aveva suggerito l'odiosa infermiera. Volevo assolutamente sapere se Beth era riuscita a parlare con John e dirne quattro ad Arianna.

Sospirai, pensando poi che non ce ne fosse alcun motivo: la ragazza si era semplicemente limitata ad accompagnarmi in infermeria e a dire la verità. Quello che in realtà mi infastidiva era che lei, almeno apparentemente, non sembrasse soffrire della mancanza di cibo, mentre a me era bastato un pasto per crollare a terra svenuta. La vita era proprio ingiusta.

Avevo ancora delle fitte alla testa e non ero sicura che le gambe mi avrebbero retto, una volta scesa dal letto, così rivolsi uno sguardo speranzoso al comodino. Mi sporsi per afferrare la compressa e feci scricchiolare rumorosamente il blister.

Probabilmente fu quello a determinare ciò che accadde nei secondi successivi.

Quasi nello stesso momento, la tendina dal lato del comodino venne tirata bruscamente di lato e vidi un volto spuntare all'improvviso da dietro il divisorio, esattamente ad un passo dal mio. Un volto maschile, il cui sguardo vagava freneticamente da me alla compressa che tenevo nelle mani.

Cacciai un urlo e arretrai di scatto, colta alla sprovvista.

«Sta' zitta!» sibilò lui.

Era tutto successo così in fretta che ci misi un attimo ad accorgermi che io avevo già visto quel ragazzo. Lineamenti aguzzi, capelli biondi, sguardo torvo. Era quel tipo strano con cui continuavo a scontrarmi e che mi ricordava la nemesi di Harry Potter!

«Non avrai intenzione di prenderla, vero?» continuò lui con foga, accennando alla compressa.

Ero così destabilizzata da quell'apparizione improvvisa che ci misi un attimo per capire quello che il tipo andava dicendo, mentre continuava a fissarmi con espressione seria, come se fosse questione di vita o di morte.

«Io...» Lo fissai senza capire. «Certo. Perché?»

Lo vidi scuotere la testa e aggrottai le sopracciglia, ripresami abbastanza dallo shock per poter riflettere. Probabilmente era matto, ecco perché si trovava in infermeria.

Sbirciai attraverso la tendina alla ricerca di camicie di forza o cinghie che corroborassero la mia tesi, ma il ragazzo, come avesse capito quello che stavo controllando, sollevò il braccio e quel gesto fu più eloquente di qualsiasi spiegazione. Era steccato e fasciato.

«Mi sono slogato il polso durante gli allenamenti» borbottò lui. Il suo tono era più calmo, adesso.

«Be', vedo che ti sei lasciato fasciare senza fare storie» non potei trattenermi dal commentare.

Lui scosse di nuovo la testa. «Non è la stessa cosa. Come posso spiegarti...»

Sembrava in difficoltà. Il suo sguardo vagava da una parte all'altra della stanza e notai che il suo tono di voce si era abbassato parecchio, come se fosse sul punto di confidarmi un segreto.

Stavo ormai per convincermi della sua pazzia, quando lui disse qualcosa che cambiò tutto.

«È un altro modo che hanno per controllarci. Oltre alla macchina, intendo.»

Lo fissai senza parole. Lui ricambiò il mio sguardo, di nuovo con quell'espressione seria di cui di colpo percepii la gravità.

«Vuoi dire...» esitai. Adesso parlavo a voce bassa anche io. «Tu sai che cosa ci fanno in questa scuola?»

Lui annuì.

Lasciai cadere la compressa ai piedi del letto, senza mai smettere di fissarlo.

«E potresti dirmelo?»

 

Ciao!

Qualche info su quanto avete letto: questi capitoli sono i più recenti e, per quanto io abbia cercato di uniformare lo stile, troverete comunque una certa differenza (spero in positivo XD). Sono anche i capitoli che preferisco: è da questo in poi, infatti, che Kia e il suo amico biondino inizieranno ad indagare seriamente sui misteri dell'istituto ;) Fate attenzione ad ogni dettaglio!

Capitolo ricco di avvenimenti, tra l'ufficializzazione della relaz... pardon, tregua di Angie e Night, Lucas e la sua sbadataggine, che faranno finire Arianna in un sacco di guai, e (finalmente!) il chiarimento tra Kia e Shadow. A tal proposito... ah, cosa mi è toccato scrivere! Conoscete la dissonanza cognitiva? Mi è stata spiegata dalla vera Beth, che studia psicologia. Da quanto ho capito, è quando un tuo comportamento non coincide con un tuo atteggiamento (s'intende come ideologia e pensiero): cioè, in alcune delle frasi di Kia sono stata ""costretta"" a  scrivere una cosa che non penso davvero, che non corrisponde alle mie idee sulle relazioni, e la cosa mi ha suscitato un po' di disagio XD Ve l'ho detto che che Luke mi sta sulle palle e che sono team Shadow, dopotutto! Però allo stesso tempo avevo giurato a me stessa che non sarei intervenuta sulla trama che avevo stabilito con le mie amiche, in cui avevamo deciso da sempre che Kia avrebbe scelto Luke e la sua vagonata di difetti a scapito di Shadow. Ew!

Ok, il pippone di psicologia sociale è finito. Ci vediamo al prossimo capitolo! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** -•Capitolo 18 ***




«Dio mio, che schifo.»

Arianna arricciò il naso mentre, china sul water, vi infilava lo spazzolone fino a metà gomito e tratteneva un conato di vomito. A giudicare dai lamenti disgustati di Lucas, nel gabinetto di fianco al suo, neanche lui se la stava esattamente spassando.

Si trattenne dall'esprimere quel pensiero ad alta voce, ma in quel cesso avrebbe voluto volentieri infilare la testa di Gérard, per averli costretti a quel compito ingrato.

Quando il bidello li aveva colti sul fatto e li aveva messi in punizione, dopo che Lucas aveva sfondato una finestra – che si era rivelata essere quella dell'ufficio della preside – Arianna non si era preoccupata più di tanto. Conosceva le punizioni di Gérard, visto che Angie ne riceveva una praticamente tutti i giorni: sistemare le classi dopo le lezioni, rastrellare il prato. Niente di preoccupante.

Ma, a quanto pareva, a forza punizioni Angie e Night dovevano aver già svolto tutto il lavoro di giardinaggio di cui la scuola aveva bisogno e anche di più, perché quella domenica pomeriggio Gérard si era presentato con scopini e candeggina, al posto dei rastrelli, e li aveva condotti nei bagni senza ulteriori indugi.

Pensando che al bidello quel lavoro ingrato toccava tutti i giorni, l'odio che Arianna provava nei suoi confronti si affievolì un poco.

Con la testa tutta piegata da un lato per non vedere quell'orrido spettacolo, Arianna trattenne il fiato e iniziò a pulire il water alla cieca. Agì più velocemente che poté e, quando le parve di aver fatto abbastanza, si alzò in piedi di scatto, boccheggiando. Colta da un improvviso giramento di testa, dovette appoggiarsi alla porta del bagno per non crollare a terra. L'odore della candeggina le bruciava nelle narici.

Dopo aver fatto un paio di respiri profondi, si sistemò i guanti di gomma alla bell'e meglio, afferrò il flacone di detersivo con una mano e lo scopettone con l'altra e uscì dal bagno, per prendere qualche altra boccata d'aria, possibilmente non contaminata.

Lì fuori trovò Lucas, nelle sue medesime condizioni. Il corpulento ragazzo biondo si era sfilato i guanti e si stava sciacquando il viso con l'acqua. Quando alzò gli occhi, ricambiò lo sguardo di Arianna attraverso il suo riflesso nello specchio.

«Ricordami di dissuaderti la prossima volta che cerchi di metterti in mostra in modo così idiota» borbottò la ragazza, dopo un lungo silenzio.

Lucas la fissò con la fronte aggrottata, goccioline d'acqua che gli scorrevano lungo le tempie.

«Dissuache

Arianna non replicò, limitandosi ad entrare nel gabinetto adiacente a quello da cui era appena uscita e chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.

Dopo un momento, la ragazza realizzò che in quel frangente sbattere la porta non aveva alcun senso, togliendo la teatralità. Già che c'era, tanto valeva approfittarne, pensò poi con un'alzata di spalle.

«Non aprire!» gridò al ragazzo per sicurezza, anche se immaginava che lui non sarebbe entrato in quel gabinetto, dal momento che se ne stava occupando lei. Ma, trattandosi di Lucas, era sempre meglio essere sicuri.

Poggiò scopettone, candeggina e guanti sul pavimento e diede un'occhiata esitante al water, prima di sedersi sulla seggetta, pensando che anche quello avrebbe messo a dura prova il suo stomaco, quando si sarebbe messa a pulirlo.

Dopo aver fatto pipì si alzò in piedi, ritrovandosi di colpo a pensare che era proprio in un bagno, quasi due anni prima, che aveva stabilito una tregua con Kia, molto prima che diventassero le amiche che erano adesso. Solo che lì non stava pulendo cessi, ma vomitando la sua colazione, pensò poi con un brivido.

Lei e Kia erano in competizione per lo stesso ragazzo, il suo ragazzo, e non c'era mai stato altro che odio fra di loro. Ma, quando la ragazza l'aveva colta a vomitare, era cambiato tutto. Odiava pensare che Kia avesse avuto pietà di lei, ma la verità era molto meno semplicistica: in quel momento l'aveva vista non più come la stronza algida che voleva apparire davanti a tutti, ma come una persona vera, per di più estremamente fragile. Arianna sorrise leggermente, pensando a quante cose erano cambiate, da allora.

Abbassò per un attimo lo sguardo sulle sue gambe, sovrappensiero, ma lo distolse altrettanto in fretta, disgustata da quanto fosse ancora grossa. Si chinò con un sospiro sul water per non pensare un secondo di più al grasso delle sue cosce.

Anche stavolta affrontò la pulizia come se qualcuno la stesse cronometrando, in preda al voltastomaco, e si alzò in piedi, continuando a respirare solo con la bocca, la candeggina che le faceva pizzicare la gola e lacrimare gli occhi.

Si asciugò il sudore dalla fronte con il polso e, dopo aver recuperato tutto il suo armamentario, si voltò con decisione verso la porta. Non vedeva l'ora di uscire. Posò la mano sulla maniglia e spinse, ma la porta non cedette di un millimetro.

Arianna ebbe un tuffo al cuore. Lasciò cadere gli oggetti a terra e, con le mani libere, riprovò con più forza, ma nulla. Per quanto smanettasse, la porta era bloccata.

«Lucas» chiamò, una nota d'urgenza nella voce.

Udì il ragazzo bloccarsi dal pulire il gabinetto di fianco al suo. «Che c'è?»

«La porta» mormorò Arianna, riprovando un'altra volta ad aprirla, invano. «Si è bloccata.»

«COSA?»

Sentì un gran tramestio, oggetti che cadevano a terra, una porta che sbatteva e poi la voce di Lucas, vicinissima, adesso. Era dall'altra parte della porta.

«Aspetta.» La sua voce era incrinata per l'ansia, il respiro affannoso. «Oddio. Oddio. Tranquilla Arianna, adesso ti tiro fuori io!»

«Lucas» mormorò Arianna con dolcezza, «sta' calmo.»

Fino a prova contraria, era lei quella bloccata nel bagno.

Lucas cercò di fare forza sulla maniglia, ma la porta non si apriva neanche dalla sua parte.

«È bloccata» diceva lui, con ansia crescente. «È bloccata!»

«Me n'ero accorta.»

«Oddio, Arianna, e adesso?» Sembrava che Lucas stesse per scoppiare a piangere.

La ragazza sospirò. Di lì a poco il biondo sarebbe andato in iperventilazione. «Fai un bel respiro.»

«Ok, ok. Fatto.»

«Fanne un altro, per sicurezza.»

Udiva Lucas inspirare a pieni polmoni e buttare fuori l'aria come un mantice. La tentazione era di fare lo stesso ma, con tutta la candeggina che aveva buttato in quel maledetto cesso, probabilmente poi si sarebbe avvelenata.

«E ora che faccio?» La sua voce, per quanto incrinata dalla paura, sembrava un po' più ragionevole.

«Ora» disse Arianna, cercando di far suonare la sua calma e rilassata, «butta giù questa dannatissima porta, per favore.»

«La butto giù. Sì. La butto giù.»

«Bravissimo» disse Arianna, come se si stesse rivolgendo ad un bambino, trattenendo a fatica un fremito di impazienza.

Percepì Lucas prendere la rincorsa e abbattersi sulla porta che, scricchiolando rumorosamente, si mosse leggermente nella sua direzione. Quell'orrendo cigolio era musica per le orecchie di Arianna, che tirò un sospiro di sollievo.

Dio, grazie.

«Sono andato bene?»

La ragazza si trattenne a stento dallo strapparsi i capelli.

«Oh, benissimo, Lucas» disse, serafica. «Perché non riprovi?»

Un'altra spallata, un altro lamento rugginoso e la porta uscì dai cardini, accasciandosi da un lato come un moribondo. Se non altro si era aperta, pensò Arianna sollevata, ritrovandosi all'improvviso in una pioggia di schegge di legno. Dall'altra parte intravide Lucas, che la fissava immobile, con i lucciconi agli occhi.

«Arianna!» esclamò, tirando su col naso. «Sei viva!»

La ragazza stava per replicare, ma una voce proveniente dalla soglia la interruppe.

«CHE STA SUCCEDENDO QUI?»

Lucas si voltò di scatto in direzione della voce e Arianna si affacciò dalla porta semidistrutta con un sorriso innocente.

«Gérard...»

Il bidello li fissava con gli occhi fuori dalle orbite, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che vedeva davanti a sé, tra la porta scardinata e i pezzi di legno sparsi ovunque sul pavimento.

«I-io...» balbettò, rosso di rabbia. «Io vi darò un'altra punizione! Vergognatevi!»

Lucas rimase pietrificato, probabilmente troppo scioccato da quello che era successo poco prima per poter dire qualsiasi cosa, ma Arianna non ci stava.

Avanzò verso il bidello e lo affrontò a testa alta. Gérard schiumava di rabbia, ma la ragazza non si lasciò impressionare. Dietro di lei, udì Lucas deglutire rumorosamente.

«Scusi, ma non sono d'accordo» mormorò in tutta calma. «Non ce lo meritiamo. Ero rimasta chiusa nel bagno e non c'era verso di aprire la porta. È per questo che Lucas l'ha rotta.»

L'uomo aprì la bocca per ribattere, ma la ragazza fu più rapida.

«Non è giusto» ripeté. «Non ci sta trattando equamente. Perché non mette in punizione Night, che anche oggi si stava picchian...»

«Zitta» sibilò Gérard.

Qualcosa nel suo tono indusse Arianna ad obbedire. La ragazza lo scrutò in silenzio, destabilizzata da quella reazione, e realizzò che probabilmente fare il nome del ragazzo era stato un grosso errore.

Il bidello non sembrava più furente. Se possibile, era persino peggio. Il suo cipiglio si era fatto ancora più accentuato e lo sguardo che rivolse alla ragazza non era truce. Era omicida.

«Zitta» ripeté, sempre con quel tono glaciale che provocò un brivido lungo la schiena di Arianna. «Non ti permetto di parlare di lui in quel modo.»

La ragazza indietreggiò. «Scusi...»

Gérard non sembrava neanche aver sentito. Si era portato una mano alla testa, come in preda ad un improvviso dolore.

«Night sta già subendo abbastanza guai di suo...»

Il bidello non si stava più rivolgendo a lei. Parlava piano, come tra sé, e Arianna gli rivolse uno sguardo confuso.

Ma Gérard non la degnò né di un'occhiata né di una spiegazione. Girò sui tacchi e uscì dal bagno a grandi passi, senza aggiungere altro. I bagni piombarono di nuovo nel silenzio.

La ragazza si voltò lentamente verso Lucas, che la stava fissando come in trance, se per l'incidente del gabinetto o per la sfuriata del bidello, non avrebbe saputo dirlo.

La conclusione di Arianna era una sola: quell'uomo era completamente pazzo.

****

«Ormoni.»

Malgrado la confusione che regnava nella mensa, quella domenica pomeriggio, la voce del ragazzo risuonò dolorosamente chiara nelle mie orecchie.

Gli rivolsi uno sguardo stupefatto, la cannuccia del frullato che stavo bevendo sospesa a mezz'aria nella bocca.

«Ormoni?» biascicai.

Brook – così mi aveva detto di chiamarsi il biondo – annuì piano. Aveva un modo così assennato di fare sì con la testa, come se fosse allo stesso tempo terribilmente serio ma restio ad aggiungere altro, che veniva voglia di afferrarlo per le spalle e scuoterlo fino a cavargli di bocca una parola in più.

Scossi la testa, soffocando a stento quell'istinto. «No. Non è possibile.»

Feci scorrere lo sguardo sui ragazzi intorno a noi, che stavano facendo merenda o finendo i compiti assegnati loro per il giorno seguenti, o entrambe le cose assieme. Pensare che loro, noi, eravamo stati imbottiti di ormoni al nostro arrivo a scuola... no, non riuscivo ad immaginarlo.

Quando tornai a guardare Brook, lui mi rivolse un sorriso amaro.

«So che è difficile da credere» mormorò, con un'alzata di spalle. «Ma è la verità. Testosterone, estrogeni, progesterone. E feromoni, ovviamente. Sono quelli che usano nella macchina, nelle medicine dell'infermeria, nel cibo della mensa.»

Buttai giù il frullato che avevo in bocca come fosse veleno.

«Oddio» bofonchiai, allontanando da me il bicchiere sul tavolo.

«Come il siero del supersoldato, hai presente?» fece Brook, inclinando la testa di lato.

Lo fissai, stringendo gli occhi. «Eh?»

Lui agitò la mano, come invitandomi a dimenticare quel che aveva appena detto. «Lascia perdere. Fumetti.»

Lo scrutai con rinnovato interesse, ritrovandomi a pensare che, sotto la scorza dello sportivo, quel ragazzo sembrava nascondere un'indole decisamente diversa.

«Quindi questa cosa non è...» mi bloccai. «...permanente?»

«No, assolutamente» rispose Brook, scuotendo la testa.

Abbassai quasi involontariamente gli occhi sul mio petto.

Peccato.

Quando alzai lo sguardo, mi accorsi dalla sua espressione che Brook doveva aver capito ciò che mi era passato per la mente e mi sentii una perfetta idiota.

«E fammi capire» proruppi, affrettandomi a colmare quel silenzio imbarazzante, «tu ti apposti nell'infermeria a spaventare le persone affinché non prendano le loro medicine?»

Brook scoppiò a ridere. I suoi lineamenti severi si distesero, lasciando intravedere un volto che mi scoprii a trovare piuttosto carino.

«No» si affrettò a dire lui. «È stato solo un caso. Ti ho vista entrare nell'infermeria e in un certo senso... te lo dovevo.»

Gli scoccai un'occhiata perplessa.

«Quella volta, quando mi hai fermato vicino ai bagni e ti ho risposto male» spiegò lui, notando il mio spaesamento.

Sgranai gli occhi. «Te lo ricordi?»

«Certo» fece lui, quasi stupito dalla mia reazione. Abbozzò un sorriso. «C'è mancato poco che tu mi scoprissi. Ero lì per origliare la preside.»

Pensai a quando anche io lo avevo fatto, quando ero ancora determinata a scoprire i segreti di quella scuola. Al contrario di Brook, però, non avevo mai indagato seriamente, presa dalle lezioni, dai miei dilemmi amorosi miei e da quelli delle mie amiche...

Con un sospiro frustrato, dissi tutto ciò al ragazzo biondo, gli occhi bassi.

Il ragazzo scrollò le spalle. «Fidati, il tuo comportamento è più normale di quanto pensi. Io però posso raccontarti ciò che so.» I suoi occhi brillavano d'impazienza: sembrava veramente non vedere l'ora di confidarsi con qualcuno. «Che non è molto, in realtà» si affrettò ad aggiungere, in tono mesto, il brillio nel suo sguardo che si andava acuendo.

«Non hai scoperto niente neanche origliando la preside?» chiesi, stupita.

Le labbra di Brook si piegarono all'ingiù. «Poco e nulla. Non ho idea del perché ci abbiano fatto diventare così, ma so che tutte le politiche di questa scuola sono volte a contrastare gli effetti collaterali degli ormoni.»

«Cioè?» domandai, confusa.

Brook spaziò con lo sguardo la folla intorno a noi. «Guardaci. Ci hanno resi più maturi, più belli, più precoci. Più adulti, in un certo senso. Ma c'è un rovescio della medaglia.»

In quell'esatto momento udimmo un'improvvisa baraonda e, voltandoci in quella direzione, ciò che ci si profilò davanti fu l'ennesima rissa a cui avevo assistito quella giornata.

Una lampadina si accese nel mio cervello e quella consapevolezza mi colpì come acqua gelata.

«Ecco perché in questa scuola sono tutti così selvaggi!» esclamai, voltandomi per fronteggiare Brook.

Il ragazzo ridacchiò. «Esatto. Sono tutti scalmanati, sono sempre a fare a botte. Secondo te perché andiamo così bene nello sport?»

Parla per te, avrei voluto dirgli. A quanto pareva, qualcuno dei miei ormoni doveva aver fatto cilecca.

«Secondo te perché sono così liberali con il sesso?» continuò Brook.

Alzai gli occhi su di lui, a bocca aperta. «I preservativi!»

Lui annuì. «Ci incoraggiano a fare sesso, a sfogare le nostre pulsioni.»

Scossi la testa, cercando di metabolizzare quel fiume di informazioni. Era incredibile. Eppure eccola lì, la spiegazione, pura e semplice.

«Non posso crederci...»

Quando alzai gli occhi, vidi che Brook si era fatto pericolosamente vicino a me, chino sul tavolo. Abbassando la voce, che si fece roca, affermò: «Scommetto che hai pensato almeno una volta che sono attraente, da quando abbiamo iniziato a parlare.»

Indietreggiai di scatto per ristabilire un po' di distanza fra noi, rossa in volto. «Io...»

«Vero?» Brook tornò al suo posto, la sua voce di nuovo normale. «E scommetto che hai trovato sicuramente qualcuno di interessante, quando sei arrivata qui.» Il ragazzo parve riflettere tra sé e sé. «Nel giro di... tre giorni, massimo. Qualcuno che pensavi fosse l'amore della tua vita.»

La sua ultima frase era venata di sarcasmo, ma io mi ritrovai comunque a boccheggiare, pensando d'istinto a Shadow, conosciuto il primo giorno di scuola, e poi alle mie amiche, ai ragazzi in cui si erano imbattute...

Non dissi nulla a Brook, ma il mio sguardo sfuggente parve bastargli come risposta.

«Non è un caso» mormorò lui. «Loro lo sanno.»

«Stai dicendo che quindi è tutta una finzione?» esclamai, di getto. «Anche le nostre relazioni?»

L'espressione del ragazzo si fece pensierosa. «Non credo. Questa scuola dell'amore potrà anche suscitare in noi l'attrazione fisica, ma non può impedirci di innamorarci sul serio. Controllano il nostro corpo, dopotutto, non la nostra mente.» Dopo una pausa, Brook aggiunse piano: «Io ho conosciuto qui Lacey, la mia ragazza. Anche se adesso si è trasferita in un'altra scuola e ci vediamo molto meno di prima, stiamo sempre insieme.»

Annuii a mia volta. Capivo quello che intendeva. Una relazione a distanza non avrebbe mai funzionato, se si fosse basta unicamente sull'attrazione fisica, ed ero certa che anche per le mie amiche valesse la stessa cosa. Sì, forse la scintilla poteva essere scoccata per motivi puramente fisici, ma c'era dell'altro. Ci doveva essere dell'altro.

«Quello che non capisco è...» Mi interruppi, guardandomi intorno nella mensa gremita, la confusione che giungeva ovattata nelle orecchie. «...nessuno si fa domande su quel che succede? Possibile che a tutti vada bene così?»

Brook fece un lungo sospiro. «Gli altri non si fanno domande, Kia.» Mi guardò dritto negli occhi. «Sei la prima persona a cui rivelo le cose che ho scoperto.»

Sgranai gli occhi. Ecco spiegato il motivo per cui il ragazzo non vedeva l'ora di confidarsi con me. Ma possibile che fossimo soli in quell'impresa?

«La verità è che non importa niente a nessuno» continuò lui, in tono rassegnato. «Certo, magari nei cinque minuti dopo esseri usciti dalla macchina. Ma dopo... puf. Sono improvvisamente cresciuti, bellissimi e attraenti, circondati dall'altro sesso, incoraggiati a scopare. Parliamoci chiaro, la maggior parte dei nostri coetanei a quest'età non pensa ad altro.» Si bloccò, scuotendo la testa. «Vogliono distrarci. E ci stanno riuscendo benissimo.»

«Sì...» mormorai. «Ma da cosa?»

Brook alzò lo sguardo. Ogni rassegnazione era scomparsa dai suoi occhi, in cui lessi una nuova, sfolgorante determinazione. «È quello che ho intenzione di scoprire.»

Gli rivolsi uno sguardo curioso. «Posso chiederti come mai sei così preso da questa storia?»

Brook si limitò ad un'alzata di spalle. «Non c'è un vero motivo. Ti ho già parlato di Lacey, no?»

Non aspettò che annuissi e proseguì, il suo sguardo che vagava sui ragazzi intorno a noi.

«Veniva a scuola qui, prima di trasferirsi a Durham. Devi sapere che...» si interruppe di colpo e si voltò a fissarmi, abbassando la voce «...che l'hanno pagata per il suo silenzio. Ci dev'essere qualcosa sotto, potrei giurarci.»

«Sul serio?» domandai. Quindi la scuola ci teneva affinché il segreto non uscisse dai confini dell'istituto...

Lui annuì. «Già. Ho intenzione di scoprire la verità e denunciare ogni cosa.»

Riflettei. «Ma non hai abbastanza elementi per farlo già?» domandai. «La faccenda degli ormoni suona pericolosamente illegale» commentai, inarcando un sopracciglio.

«Probabilmente» disse Brook, ma non sembrava convinto. «Ma quello che mi manca è un movente

«Qualche idea?»

«Forse.»

Brook non mi stava guardando. Fissava un punto oltre la mia spalla e mi affrettai a seguire il suo sguardo. Ciò che vidi fu Night, in quel momento spaparanzato su un tavolo, le lunghe gambe accavallate, attorniato dai suoi amici. Qualcuno di loro doveva aver detto qualcosa di divertente, a giudicare da come i ragazzi sghignazzavano a tutto spiano, e notai che alcuni di loro indossavano la divisa della squadra.

Mi ricordai che di lì a poco ci sarebbero stati gli allenamenti, a cui Brook non avrebbe partecipato per via del suo polso slogato, che l'avrebbe costretto al riposo per le prossime settimane. Ero sinceramente dispiaciuta per lui, ma il ragazzo aveva liquidato la questione dicendo che in quel modo avremmo avuto più tempo a disposizione per le nostre indagini.

«Forse ci dopano per le gare sportive?» proruppi, tornando a guardarlo. «No, è impossibile» aggiunsi, senza neanche dargli il tempo di replicare, «altrimenti sottoporrebbero alla macchina solo i membri della squadra. Perché arrischiarsi a "migliorare" tutti? Oltretutto sono pronta a scommettere che si tratti di un'operazione piuttosto costosa.»

Brook mi osservava riflettere in silenzio e, quando alzai gli occhi su di lui, mi accorsi che stava sorridendo.

«Che c'è?»

Lui scrollò le spalle. «Non sei poi così male come alleata, Kia» disse in tono di sufficienza, ma era palese che stesse scherzando.

Sbuffai, vagamente divertita. «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?»

Il suo sguardo corse di nuovo oltre la mia spalla. «Ecco...»

«Brook!»

Una voce fece voltare entrambi all'unisono. Due ragazzi erano fermi sulla soglia della mensa e ci stavano fissando con una certa insistenza. Sembravano aspettare che Brook li raggiungesse.

Il biondo si voltò verso di me, rivolgendomi uno sguardo di scuse.

«Devo andare» disse. «Ma devo assolutamente farti vedere una cosa.»

«Pausa pranzo di domani?» suggerii, ricambiando quello sguardo serio.

«Domani. In biblioteca.»

 

Incrociai Arianna sulle scale, anche lei diretta in camera.

Non mi aspettavo di vederla rientrare così presto, ma mi accorsi subito che la ragazza aveva un diavolo per capello. Tremava dalla rabbia e persino il suo passo, solitamente leggero come una piuma, era stranamente pesante, mentre saliva lungo i gradini.

Le lanciai uno sguardo stupito. Raramente l'avevo vista così alterata: sembrava avesse fatto a scambio con Angie.

«Come sono andate le pulizie?» chiesi, cauta, intuendo che fosse quella la causa del suo malumore.

Vidi Arianna trattenere un urlo rabbioso e fare un respiro profondo. Quando parlò la sua voce era calma come al solito, ma potevo percepire l'ira covare sotto la superficie. «Dio. È stata l'esperienza più umiliante, faticosa, ingrata, raccapricciante, ingiust...»

Si bloccò di colpo ed io con lei, quando ci accorgemmo di chi stava scendendo dalle scale, nella direzione opposta alla nostra.

Vedendo che la stavamo fissando come in trance, Annie ci rivolse un debole segno di saluto e proseguì nella discesa, i lunghi capelli rossi che le ondeggiavano sulle spalle ad ogni passo.

Non appena fu sparita dalla nostra visuale, ci scambiammo uno sguardo d'intesa.

Il giorno prima Beth ci aveva raccontato ogni cosa. Non aveva versato una lacrima, nel farlo, e mi era parsa svuotata di ogni emozione, più che dispiaciuta. Quella sua totale apatia mi aveva davvero spaventata, molto più di quanto non avrebbe fatto una sua crisi isterica. D'altronde, potevo solo immaginare cosa stesse passando la mia amica.

Dopo la faccenda di Lucy, sapevo bene che Beth aveva dei problemi a lasciarsi andare: c'era voluto del tempo prima che John riuscisse a penetrare attraverso le mura inespugnabili che la mia amica aveva eretto intorno a sé. Si era conquistato la sua fiducia a poco a poco e infine Beth aveva ceduto, aprendogli il suo cuore. E lui, pensai, soffocando un impeto di rabbia, lui che aveva fatto? L'aveva calpestato senza alcun ritegno.

Ma, se c'era qualcosa che superava di gran lunga la mia rabbia, era la paura all'idea di cosa Angie avrebbe potuto fare ad Annie se avesse scoperto che lei e John si erano baciati.

La ragazza, infatti, non sapeva nulla di quella storia poiché, mentre Beth si stava confessando con me ed Arianna, non era in camera. Come ci aveva detto quando infine era arrivata, con la divisa tutta spampanata, le labbra e le gote arrossate e i ricci sparsi per tutta la testa, come se avesse infilato un dito in una presa di corrente, "stava litigando con Night".

A giudicare dall'aspetto, sembrava che con Night avesse fatto ben altro, ma non avevamo fatto commenti, limitandoci ad un'occhiata scettica. L'avevamo poi invitata a parlare di com'era andato il colloquio con il ragazzo e lei non se l'era fatto ripetere due volte.

Nel frattempo, avevamo pattuito di non parlare ad Angie della vicenda di John e Annie, almeno per il momento. Da parte mia, insistevo nel pensare che la colpa fosse da attribuire soprattutto al ragazzo ma, visto l'odio che la nostra amica provava per la rossa, tutte e tre temevamo che, se fosse venuta a sapere del bacio, ne avrebbe fatto una questione personale e l'avrebbe assalita.

«Angie non deve venire a saperlo» disse Arianna, serissima in volto, lo sguardo fisso sull'angolo a cui Annie aveva appena svoltato.

«Per niente al mondo» concordai con un brivido.

 

«ANNIE HA FATTO COOOOSA?!»

Quando entrammo in camera, la voce isterica di Angie ci investì come un uragano.

La ragazza troneggiava nella stanza, con Beth seduta sul letto che, non appena ci vide, ci rivolse uno sguardo che somigliava più ad una richiesta d'aiuto.

«Che succede?» chiese Arianna, impassibile, e dentro di me provai grande ammirazione per la sua nonchalance.

«CHE SUCCEDE?» ripeté Angie, fulminandola con lo sguardo. «Non osare fare la finta tonta con me!» I suoi occhi irati si spostarono su di me e sentii le forze abbandonarmi. «Volevate tenermi all'oscuro di tutto? Di ciò che quella stronza ha fatto a Beth?»

«Be'...» pigolai. «Tecnicamente la colpa sarebbe di John.»

«STRONZATE! A lui lei non piace per niente, anche un cieco lo noterebbe! Mentre lei se lo mangia con gli occhi, quella putt...»

«Beth, avevamo deciso di non dirglielo» la interruppe Arianna, lanciando alla ragazza mora uno sguardo di rimprovero.

«NON PARLARE COME SE NON CI FOSSI!»

Mi tappai le orecchie, temendo per la salute dei miei timpani e per quella delle finestre della camera. Non solo stavamo probabilmente dando spettacolo in tutto il piano ma, di quel passo, non mi sarei affatto stupita se i vetri fossero venuti giù.

«Angie voleva sapere cos'era successo con John, visto che ieri alla fine non gliel'avevo detto» mormorò Beth piano, gli occhi bassi. «I-io... non ce l'ho fatta a mentire.»

Mi affrettai ad avvicinarmi alla mia amica, circondandole le spalle con un braccio.

«E hai fatto bene, Beth!» esclamò Angie. «È successo qualcosa con Annie! Bell'uso delle perifrasi! Che cavolo vuoi che sia successo?»

«Sarà stato un bacio» tagliai corto, mordendomi al lingua al pensiero che, mentre noi ne stavamo disquisendo, Beth continuava a rivivere quella conversazione ancora e ancora.

«Un bacio?» Angie mi guardò con l'aria di chi la sapeva lunga. «Andiamo Kia, per favore. Poi che hanno fatto, una partita a burraco? Non ci vuole un genio per capire che sono andati a letto.»

Percepii Beth sussultare contro di me a quelle parole e scoccai ad Angie un'occhiataccia.

«Grazie, Angie» sibilai. «Non ci avevo proprio pensato!»

Udì Arianna sospirare. «Quel che è fatto è fatto» mormorò, per poi rivolgere a Beth un'occhiata penetrante. «Ma diciamo pure che glielo hai innocentemente rivelato perché sotto sotto vuoi che Annie paghi per ciò che ha fatto.»

Beth boccheggiò, sfuggendo dalla mia stretta. «No!» esclamò. «Io non...»

Arianna tornò a fronteggiare Angie. «Perché adesso gliela farai pagare, non è vero, Angie?»

Per tutta risposta, Angie si scrocchiò rumorosamente le nocche.

«Io l'ammazzo, quella stronza.»

 

Angie si era precipitata fuori dalla camera come una furia, sbattendo la porta, con noi alle calcagna che le intimavano di fermarsi.

Nel bel mezzo del corridoio, la ragazza si trovò davanti niente meno che Night, che osservammo con una certa compassione venire scaraventato al muro senza alcun apparente motivo, tranne forse trovarsi sulla traiettoria di Angie.

Il ragazzo si voltò a fissarla ad occhi sgranati mentre Angie, senza degnarlo di un'occhiata, proseguiva a passo di carica lungo il corridoio e poi, vedendo che noi le stavamo correndo dietro come matte, assunse un'espressione ancora più confusa.

«È meglio se vieni con noi a cercare di fermare la tua ragazza» gli dissi in tono perentorio, afferrandolo per un braccio.

Non so se fu per la mia espressione terribilmente seria o per il fatto di averla definita "la sua ragazza", ma Night non se lo fece ripetere due volte. Pensai che il poverino non ci dovesse essere granché abituato se, come aveva fatto con noi, Angie aveva definito la loro storia una "tregua". Noi le avevamo fatto notare che di fatto era come se i due stessero insieme, ma per tutta risposta la bionda ci aveva minacciate di morte e da allora noi avevamo saggiamente deciso di non tornare sull'argomento.

Nel frattempo Angie proseguiva imperterrita e, dopo che qualche altro malcapitato venne violentemente scagliato contro il muro solo perché colpevole di intralciare la sua marcia, i ragazzi capirono l'antifona e cominciarono ad aprirsi in due ali ordinate al suo passaggio, fermandosi poi ad osservare noi che le correvamo dietro ad occhi sgranati.

In effetti, quella scena vista dall'esterno doveva sembrare piuttosto curiosa, per non dire comica. Quei poveretti si stavano probabilmente domandando come quell'innocente ragazza bionda potesse agire in modo così violento e apparentemente immotivato. Ecco, forse non così innocente, come un'occhiata più approfondita avrebbe rivelato, visti i suoi occhi fiammeggianti, i pugni serrati ed i passi pesanti nel corridoio. E non avevano davvero visto nulla: se la nostra amica fosse riuscita a raggiungere Annie, gli spintoni dati fino ad allora ai ragazzi in confronto sarebbero parsi timide carezze.

Angie era svariati metri davanti a noi quando fermò un gruppetto di ragazze che, vedendo la scia che la bionda si era lasciata alle spalle, impallidirono di colpo e risposero subito alla domanda che aveva rivolto loro. Feci in tempo a leggere il labiale di Angie, che stava dicendo "Annie", prima di lanciare un'occhiata d'intesa a Beth, Arianna e Night e precipitarmi nella loro direzione.

«Che le avete detto?!» esclamai, vagando da un volto all'altro con crescente apprensione.

«Ho solo risposto a quello che ci ha chiesto» mi rispose una ragazza, visibilmente scossa. «Ho temuto che mi picchiasse, se non gliel'avessi detto. Voleva sapere dov'era Annie.»

«In palestra!»

Ci voltammo tutti verso Arianna, che si era appena data una manata in fronte.

«Sì, esatto» mormorò l'altra ragazza, tremando.

«Oggi c'erano gli allenamenti delle cheerleader» spiegò Arianna. «Cristo, li ho saltati! Ma credevo di essere sempre a pulire gabinetti, a quest'ora...»

«Se non fermiamo Angie, dubito che ci saranno molti allenamenti, oggi» le fece notare Beth, corrugando la fronte. «Presto, sbrighiamoci!»

Ci precipitammo giù per le scale, con il cuore in subbuglio. Ad ogni gradino percepivo una fitta al petto ed avevo ormai il fiato corto, ma non osai rallentare. Angie ormai aveva accumulato un grosso vantaggio su di noi e, alzando gli occhi, mi accorsi che non era più in vista e realizzai che doveva aver già raggiunto il suo obbiettivo.

Superate le scale, vidi Night superarmi e accelerare il passo verso la palestra, seguito a ruota da Arianna, e tirai un sospiro di sollievo, vedendo che i due non sembravano provati da quell'inseguimento quanto lo eravamo Beth ed io.

Quando finalmente varcammo la soglia della palestra, davanti a noi si profilò l'inevitabile.

Ormai ad un soffio da Annie, Angie aveva assunto un'andatura più rilassata, mentre si faceva spazio tra le altre cheerleader, che si stavano preparando per il riscaldamento, e si dirigeva a passo tranquillo verso di lei. Mi guardai intorno in preda all'ansia, alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarci, ma della Cooper nessuna traccia. Doveva essere ancora negli spogliatoi.

«Troppo tardi...» bisbigliai, incapace di distogliere lo sguardo da quella scena, Annie nel mirino della nostra amica, del tutto ignara delle sue intenzioni.

Arianna e Beth erano immobili al mio fianco, ugualmente pietrificate, mentre Night scattò in avanti in un ultimo, disperato tentativo di fermarla.

Osservammo Angie salutare la rossa con la mano che, non appena la vide, si esibì in uno dei suoi esagerati sorrisi.

«Ciao Ang...»

«ANNIE, ATTENTA!» La voce atterrita di Night rimbombò nella palestra, ma era troppo tardi.

Il pugno di Angie la zittì prima che la rossa potesse portare a termine la frase. Un fiotto di sangue disegnò un arco nell'aria, mentre Annie perdeva l'equilibrio e crollava all'indietro sul pavimento.

Urla di terrore si sovrapposero agli insulti che Angie stava rivolgendo alla rossa. La bionda si gettò a sua volta sul pavimento con un grido di guerra, montando a cavalcioni della ragazza, e alzò un pugno per colpire di nuovo, ma stavolta Night le impedì di abbattersi sulla sua faccia. La afferrò per le braccia e la tirò indietro, via dal corpo privo di sensi di Annie, mentre la bionda cercava di sfuggire alla sua stretta, urlando come un animale selvaggio.

In quel momento la Cooper irruppe fuori dagli spogliatoi e, vedendo cos'era successo, si precipitò in soccorso di Annie.

«Be'...» La voce di Beth ruppe il silenzio di tomba che si era creato fra di noi, di fronte alla violenza di cui Angie si era dimostrata capace.

Mi voltai a guardare la mia amica, che arrossì e distolse lo sguardo.

«Forse Arianna non aveva tutti i torti» bofonchiò. «Effettivamente mi ha fatto sentire meglio... Questo fa di me un mostro?»

«Un po'» giunse la voce di Arianna.

Lanciai un'occhiata al corpo immobile di Annie, circondato dalla professoressa e da tutte le altre cheerleader, che le ronzavano attorno con i volti pieni di lacrime e preoccupazione, e poi ad Angie, che stava ancora ululando e lottando contro Night.

«Ma mai quanto Angie» borbottai, scuotendo a testa con aria rassegnata.

****

«Voglio che vi sbizzarriate» mormorò la professoressa Rooth, facendo spaziare lo sguardo sulla classe, il mattino dopo.

Sembrava rivolgersi ad Angie in particolare e probabilmente era davvero così, visto che, qualsiasi cosa dicesse la professoressa di arte, la ragazza si ritrovava a fissarla come in venerazione.

«Potete usare bottiglie di plastica, scatole, indumenti, giornali, vecchie riviste...» proseguì la professoressa, scrivendo di volta in volta gli oggetti sulla lavagna.

«Fantastico. Fantastico» bisbigliò Angie tra sé, affrettandosi ad appuntare qualche idea sul suo bloc-notes. Quel lavoro sui materiali di recupero si prospettava davvero divertente.

Mentre mordicchiava l'estremità della penna, chiedendosi se avesse potuto tagliare parte delle noiose tende della loro camera per spacciarle come materiale di recupero – ancora meglio, i vestiti di Arianna! pensò, affrettandosi a scriverlo – si accorse con una punta di irritazione che Night, di fianco a lei, continuava a fissarla.

Si voltò a guardarlo con un sospiro seccato, non prima di aver tappato con il palmo della mano ciò che aveva scritto sul blocco. Ci teneva all'originalità delle sue idee.

«Che vuoi?» bisbigliò, scoccandogli uno sguardo in tralice.

Night abbassò un attimo gli occhi sulle sue mani, prima di tornare a guardarla con sguardo torvo.

«Non ho intenzione di rubarti le idee!» sbottò, come se non riuscisse a credere che la ragazza stesse pensando una cosa simile.

Angie sospirò di nuovo. Era chiaro Night ce l'avesse con lei dopo quello che aveva fatto ad Annie il giorno prima, ma doveva smetterla di impicciarsi. Al solo ricordo dell'intromissione del ragazzo, che le aveva impedito di picchiarla a dovere, le ribolliva il sangue. Oltre al fatto che quella stronza se l'era meritato, lui non poteva dirle come comportarsi. Angie pensò che ribadire il concetto non fosse una cattiva idea. Probabilmente, con il fatto che di recente si erano avvicinati un po', lui si stava montando la testa.

«Ce l'hai ancora con me per la storia di Annie?» bisbigliò la ragazza, tornando a guardare la Rooth, che stava continuando a dare istruzioni.

La professoressa si era accorta che i due stavano parlando e di tanto in tanto lanciava delle occhiate al loro banco, ma Angie sapeva che non sarebbe andata oltre gli sguardi d'avvertimento. Essere la studentessa d'arte più brillante della sua classe aveva i suoi vantaggi.

«Regola numero uno della nostra tregua» proseguì Angie, in tono solenne. «Non puoi dirmi cosa posso e non posso fare.»

E poi, pensò, non era stata neanche sospesa per quella faccenda, il che era un'ottima notizia. Avrebbe dovuto solo aiutare Gérard con qualche lavoretto, come al solito. Ormai ci aveva fatto l'abitudine e quelle punizioni non le pesavano neanche più. Pensando a quello che aveva raccontato loro Arianna, su ciò che Gérard aveva obbligato lei e Lucas a fare, le venne da ridere sotto i baffi: la diva non era assolutamente abituata a sporcarsi le mani, con lo stuolo di servitori che aveva ai suoi piedi.

Voltandosi appena verso Night, vide che il ragazzo aveva levato gli occhi al cielo.

«Fino a prova contraria, io non ti ho mai detto cosa devi o non devi fare» replicò. «Penso solo che sia stata una cattiveria gratuita.»

«Oh, è arrivato il paladino della giustizia!» lo prese in giro lei, inclinando la testa da un lato.

Night non disse nulla, sprofondando nel silenzio per un po'.

Angie si stava già arrovellando su un modo per stuzzicarlo ancora, quando il ragazzo esclamò, all'improvviso: «E così abbiamo delle regole, nella nostra tregua

Ad Angie non sfuggì il tono sarcastico sull'ultima parola, ma lo ignorò, limitandosi a scrollare le spalle. «Perché no?»

«Bene» fece lui, sistemandosi meglio sulla sedia e sogghignando. «Regola numero due: hai il permesso di baciarmi in pubblico.»

Angie distolse di scatto lo sguardo e tornò a puntarlo sulla professoressa Foster, perché Night non si accorgesse che era arrossita.

«L'unica cosa che potrei mai darti in pubblico è un calcio nelle palle, idiota.»

«Regola numero tre» proseguì lui, ignorandola. «Non puoi accompagnarmi ai miei incontri con la banda.»

Angie tornò a guardarlo, di colpo interessata. «E perché no?»

Il ghigno divertito era scomparso dal volto di Night, sostituito da un'espressione seria che suscitò ancor di più la curiosità della ragazza. «Non è un posto adatto a te.»

«Non credo proprio» ribatté lei. Andiamo, picchiava più forte di metà degli amici di Night. La sua banda era esattamente il posto adatto a lei.

«Angie» mormorò Night, come se cercasse di farla ragionare.

La ragazza si ritrovò a pensare che le piaceva il modo in cui lui pronunciava il suo nome. Forse perché accadeva così di rado?

«Dico sul serio. Per favore, non parliamone più.»

Night non poteva certo immaginare che, ad ogni sua parola, la curiosità di Angie cresceva sempre di più. Ma la ragazza capì che doveva cambiare tattica.

Così assunse un'espressione corrucciata e borbottò, con un sospiro di resa: «E va bene...»

Lui le scoccò uno sguardo perplesso. Non sembrava essersi bevuto il fatto che lei avesse deciso di dargliela vinta così in fretta, ma non disse nulla, forse temendo che la ragazza cambiasse idea. Dentro di lei, infatti, Angie stava gongolando.

Regola numero uno: non puoi dirmi cosa posso o non posso fare.

 

Angie non immaginava certo che la sua curiosità sarebbe stata soddisfatta così in fretta.

Infatti, per quanto Night avesse cercato di glissare sull'argomento, la ragazza riuscì ad afferrare, da vari frammenti di conversazione tra lui ed i suoi amici, che una delle riunioni a cui le era stato proibito di assistere si sarebbe tenuta proprio quella notte. Ovviamente, decise di approfittarne.

Dopo che le ragazze ebbero spento la luce, quella sera, Angie rimase sveglia nel letto, completamente vestita sotto le coperte, con il corpo pronto a scattare come una molla. Fortunatamente le sue amiche erano piuttosto silenziose, mentre dormivano, così poté tendere l'orecchio e concentrarsi per cogliere anche solo il minimo rumore proveniente dall'esterno.

E quando infine udì una serratura scattare e una porta aprirsi e chiudersi, per quanto impercettibilmente, Angie seppe con certezza che si trattava di Night.

Scivolò furtivamente giù dal letto, si infilò le chiavi della stanza in tasca e si acquattò dietro la porta, aprendola il più delicatamente possibile. Era davvero un'impresa per una come lei, che aveva la tendenza a sbattere – e rompere – ogni cosa e possedeva la grazia di un rinoceronte. Mentre girava piano la maniglia, aveva la fronte imperlata di sudore per la concentrazione.

Dallo spiraglio che gettava sul corridoio, Angie vide la sagoma di quello che aveva tutta l'aria di essere Night attraversare a piccoli passi il corridoio.

Bingo.

Intorno a loro, tutto era immerso nell'oscurità e difficilmente lui avrebbe potuto vederla, ma non voleva correre rischi. Così si calò il cappuccio sugli occhi e attese pazientemente che il ragazzo scomparisse giù per le scale, prima di uscire dalla camera, chiudersi la porta alle spalle e mettersi sulle sue tracce.

Angie lo seguiva quatta quatta, camminando in punta di piedi, e il ragazzo non diede segno di averla vista, ma si stupì non poco quando vide che Night non era diretto in una delle classi, come lei avrebbe creduto, ma all'uscita.

Si maledì, pensando alla misera felpa che aveva indosso, e capendo in un attimo perché Night, adesso illuminato debolmente dalla luce lunare che filtrava dal vetro della porta d'ingresso, indossava un giaccone. Nascosta dietro una delle colonne dell'ingresso, Angie lo vide armeggiare con le tasche ed estrarne una chiave.

E quella?

Con poche, rapide, mosse Night aprì il portone d'ingresso e scivolò all'aperto. Angie inorridì, vedendo la porta chiudersi lentamente alle sue spalle e con essa la possibilità di seguirlo fin lì ma, un attimo prima che l'uscio sbattesse, Night fermò il portone con una mano e lo lasciò solo accostato. Angie tirò un sospiro di sollievo.

Osservò dal vetro Night scendere rapidamente i gradini che portavano al vialetto d'ingresso e, dopo essersi guardata attorno nell'atrio deserto e silenzioso, attraversò rapidamente i metri che la separavano dalla porta – i più pericolosi, visto che non c'erano posti dove nascondersi – e, imitando Night, uscì all'aperto, lasciando la porta semichiusa dietro di sé.

Uno spiraglio di vento gelido le penetrò nelle ossa e la fece rabbrividire, ma fu solo un attimo. Il suo obbiettivo si muoveva a passo rapido sul vialetto, proseguendo verso destra, e lei non aveva alcuna intenzione di lasciarselo sfuggire.

'fanculo la polmonite.

Costeggiando la parete di destra e nascondendosi nell'ombra, seguì furtivamente Night fino al luogo del suo appuntamento. Nient'altro che una panchina sgangherata, debolmente rischiarata dalla luce dei lampioni, non troppo lontana dalla veranda in cui al ballo lei e Kia lo avevano beccato ad ubriacarsi, intorno alla quale erano seduti a gambe incrociate una mezza dozzina di ragazzi. Le labbra di Angie si piegarono istintivamente all'ingiù: dopo tutta quella reticenza da parte di Night e il suo pedinamento, si sarebbe aspettata di trovare un posto un po' meno squallido.

Si rese conto che la panchina, intorno alla quale i ragazzi erano riuniti come fosse stata un trono, era riservata a Night e che, se lui si fosse voltato nella sua direzione per mettersi seduto, lei avrebbe perso ogni occasione per avvicinarsi ulteriormente.

Così accelerò il passo, camminando in punta di piedi sull'erba e nascondendosi nell'ombra di Night finché non raggiunse il capannello di persone. Angie non poté fare a meno di pensare che, seduti a gambe incrociate ed illuminati sinistramente dai lampioni, sembravano lì riuniti per un rito satanico ed ebbe un brivido che non aveva nulla a che fare con il freddo.

Non appena i ragazzi ebbero riconosciuto Night, iniziarono ad acclamarlo a gran voce e, del tutto presi da quell'apparizione, Angie ne approfittò per mettersi a sedere nell'ultima fila, lontano da occhi indiscreti. Aveva già individuato tra i ragazzi John e anche Adam, pericolosamente vicino a lei, e si affrettò a calcarsi meglio il cappuccio sulla testa. Di Shadow, invece, nessuna traccia, ed Angie se ne stupì. Visto quanto sembravano essere legati i due ragazzi, credeva che sarebbe stato in prima linea nella sua banda. Per il resto, si trattavano tutti di ragazzi molto più grandi di lei, che dovevano essere circa all'ultimo anno, eppure trattavano Night alla stregua di un capo.

Accompagnato da applausi e acclamazioni, Night si era fatto largo tra i ragazzi e si era accomodato con i piedi sulla panchina, seduto in equilibrio sullo schienale. Da quella posizione aveva una visuale completa, mentre spaziava con lo sguardo su di loro, ed Angie abbassò gli occhi con un moto di inquietudine. Osservandolo di sottecchi, vide che il ragazzo sorrideva e aveva un brillio negli occhi che era certa di non avergli mai visto prima.

Angie si strinse nella felpa, cercando di ignorare il freddo. All'improvviso fiutò nell'aria il familiare odore dell'erba e, guardandosi intorno, vide che i ragazzi delle prime file stavano facendo girare una canna.

«Ehilà!» La voce di Night la fece sussultare. «Cosa mi raccontate? Voglio un po' di buone notizie, oggi. John?»

Night ammiccò verso il ragazzo moro, che Angie sapeva essere il suo braccio destro, il quale si alzò in piedi, scuotendosi l'erba dai pantaloni, strappò la canna dalle mani di colui che la stava fumando in quel momento e raggiunse l'amico sulla panchina, sedendosi però normalmente. Come in una gerarchia, realizzò Angie.

«Nulla di nuovo dalla puttana» lo informò lui, aspirando una boccata, ed Angie lo fissò confusa. Night e gli altri, invece, sembravano aver capito benissimo a chi si stesse riferendo. «Ma dopotutto non può più usare il suo strumento su di me» aggiunse, lanciando un'occhiata d'intesa a Night. Ad Angie non sfuggì che lo sguardo di John si era rabbuiato di colpo.

«So che Matthew ha usato una sparachiodi nell'ora del professor Anderson» proseguì il ragazzo moro, riscuotendosi.

Night inarcò le sopracciglia, mentre quella frase provocava risate e commenti impressionati.

«Una sparachiodi?» ripeté. «Dove hai trovato una cazzo di sparachiodi, Matt? Sei geniale!»

Angie vide sogghignare un ragazzo dai corti capelli castani, a cui gli altri stavano dando delle pacche sulle spalle. «Potrei averla fottuta a Gérard durante una delle punizioni.»

«Geniale» ripeté Night, in tono convinto.

Sembrava nel suo mondo, così a suo agio, così allegro. Non c'era traccia del ragazzo tormentato, violento e rancoroso che aveva conosciuto, anche se quello era esattamente il contesto dove lei si sarebbe aspettata di trovarlo. Eppure, pareva un'altra persona.

«Avete altro?» fece lui, prendendo la canna dalle mani di John.

«Tommy ha dato fuoco alle tende nell'ora della professoressa Foster.»

«Io ho rotto gli occhiali della Cooper, l'altro giorno!»

«Io l'ho mandata a farsi fottere.»

«Mica male, però, quella lì...»

Angie osservava in silenzio mentre, uno ad uno, i membri della banda si vantavano delle loro imprese. La ragazza era senza parole. Si era aspettata una riunione su faide e vendette contro altri studenti, ma niente di tutto ciò era accaduto. I ragazzi erano i leader incontrastati della scuola ed era come se, guidati da Night, seguissero un piano studiato per disturbare le lezioni dei professori. Eppure il ragazzo era il suo compagno di banco, Angie sapeva come si comportava: a parte qualche rispostaccia, non l'aveva mai visto agire in modo così violento contro di loro. Sparachiodi, accendini, minacce, atti di violenza. Si rese conto, man mano che parlavano, che gran parte delle idee erano partorite proprio dalla mente di Night.

Quei ragazzi, anche i più grandi, seguivano alla lettera ciò che lui diceva loro di fare, come fosse stata una divinità, e parevano consapevoli che Night non si sarebbe esposto quanto loro. Ma perché?

«Io ho palpato le tette alla Gallagher, ieri.» La voce di Adam, così vicina a lei, la fece quasi sobbalzare e la ragazza pregò che quel gorilla non se ne fosse accorto.

Lo sguardo di Night li raggiunse, nella penombra. Al pari degli altri ragazzi, pareva davvero colpito. «Dici sul serio?»

«Assolutamente» confermò il rosso, gonfiando il petto.

«Ieri era domenica, Adam» gli fece notare il ragazzo della sparachiodi, Matthew.

«Lo so» rispose lui, piccato. «Si dà il caso che mi stesse facendo una lezione di recupero.»

Diversi "wow" si levarono in coro dai ragazzi. Angie dubitava di aver mai visto la professoressa Gallagher ma, a giudicare dai commenti impressionati, doveva trattarsi di una donna piuttosto procace.

Si rese conto dopo un attimo che era l'unica a non avere avuto alcun tipo di reazione e che Adam la stava guardando con un certo sospetto. Non sapendo come agire, si limitò ad un risolino. Ma fu un errore.

«Che hai da ridere, tu?» l'apostrofò Adam.

Decine di paia d'occhi si voltarono di colpo a fissarla.

Merda.

«Non ci credi? Hai qualcosa di meglio da raccontare? O magari...» Si interruppe, guardandola con occhi cattivi. «...sei solo frocio?»

Angie indietreggiò, ma Adam fu più rapido e la afferrò per l'orlo del cappuccio, che si sfilò, rivelando una matassa di ricci biondi, i quali scintillarono colpevoli sotto la luce dei lampioni.

Il silenzio calò di botto fra i ragazzi di banda.

«Angie?»

La ragazza alzò piano gli occhi. Night la stava fissando a bocca aperta. La canna gli era caduta di mano.

«Oddio, Night, ma non è la tua ragazza?» proruppe una voce.

«Non l'avevo mai vista!»

«È carina!»

Le voci, da esitanti qual'erano all'inizio, si fecero sempre più numerose ed Angie tornò a guardare Night e vide che aveva assunto un'espressione che, per quanto apparisse assurda su uno come lui, le parve piuttosto imbarazzata.

Distogliendo lo sguardo da Night, Angie tornò a fronteggiare quel coglione di Adam che, dopo aver fatto saltare la sua copertura, sembrava aver perso ogni traccia di spavalderia.

«Vaffanculo» sibilò, incenerendolo con lo sguardo. Poi gli assestò un bel pugno in faccia.

 

«Ho seriamente temuto che gli facessi il naso come il mio» commentò Night, vagamente divertito.

«Potrebbe donargli» fece Angie, sogghignando.

Forse prima o poi gli avrebbe detto che trovava quel naso rotto davvero affascinante.

Prima o poi.

I ragazzi della banda si erano ormai sparpagliati, chi si era rollato un'altra canna e adesso la stava fumando sull'erba e chi invece aveva deciso di fare ritorno ai dormitori.

Angie lo fissò con una certa insistenza, lasciando che fosse il silenzio a porre la domanda per lei. Alla fine, Night fece un sospiro.

«Day» disse. «Quando avevo sei anni. Voleva che fosse chiaro fin da subito chi era dei due a comandare.»

Ad Angie sfuggì un risolino. Nessuno dei suoi fratelli le aveva mai rotto il naso ma, in quanto sorella minore, anche lei ne aveva dovute subire parecchie da loro.

«Ma perché non mi volevi qui?» disse poi, spaziando il prato, la panchina-trono e i pochi ragazzi rimasti con lo sguardo. «Mi adorano.»

Era vero. La sua improvvisa rissa con Adam aveva provocato un tifo da stadio, tanto che Angie aveva persino temuto che qualcuno dei bidelli li scoprisse. Ma non era venuto nessuno e la ragazza aveva potuto prendere a pugni il rosso senza alcuna distrazione. Certo, lui aveva provato ad opporre resistenza e aveva una stazza non indifferente, ma Angie non era tipa da lasciarsi intimorire e il tifo che i ragazzi facevano per lei le aveva dato la carica necessaria.

Alla fine, dopo aver lasciato Adam tramortito sull'erba, la banda l'aveva acclamata come una regina e l'aveva fatta fumare. Angie non aveva più sofferto il freddo, si era divertita da matti e aveva deciso che quella sarebbe stata la prima di una lunga serie di incontri. Anche se, a giudicare dall'espressione che Night aveva avuto tutto il tempo, come se avesse mandato giù del veleno, il ragazzo non le era parso granché d'accordo.

Scrutandolo con attenzione, ripensò all'imbarazzo che aveva intravisto sul suo volto, che per un attimo parve balenare di nuovo nei suoi occhi.

«Be'...» Night esitò ed Angie lo fissò con viva curiosità. «Non è un posto adatto a te.»

La ragazza levò gli occhi al cielo e fece per replicare, ma Night non aveva ancora finito.

«Ci sono troppi ragazzi.»

Capendo all'improvviso, Angie spalancò la bocca e il riso le sfuggì dalle labbra.

«NO!» esclamò, facendo impallidire Night. «TU. SEI. GELOSO!»

«Non è vero!» si affrettò a ribattere Night, incrociando le braccia al petto, ma Angie non lo stava ascoltando.

La ragazza mise a saltellare sul prato, in preda ad un attacco di risa. Seduti nelle vicinanze, i ragazzi della banda si voltarono a fissarla, storditi dall'erba. L'unica cosa che probabilmente capirono era che Night sembrava essere oggetto di ilarità, quindi iniziarono a sbeffeggiarlo amichevolmente a loro volta.

«Sei geloso! Sei geloso!» ripeteva lei come in una cantilena, puntandogli il dito contro, mentre con l'altra mano si teneva la pancia, che iniziava a dolerle per le risate.

Night, per niente divertito, le si avvicinò a passo di carica.

«Andiamo» borbottò tra i denti.

Sforzandosi di ignorare gli sguardi d'intesa dei suoi ragazzi, afferrò Angie per un braccio e la trascinò lungo il vialetto, mentre lei continuava a ridere.

«Sono senza parole!» farfugliò.

«Sei fatta, ecco cosa sei» ribatté lui.

Quando infine la lasciò andare, i due si trovavano davanti al portone d'ingresso.

Angie osservò Night di sottecchi: il ragazzo era palesemente scalfito nel suo orgoglio, mentre evitava di guardarla. Suoni di risa si levarono dal prato che si erano appena lasciati alle spalle.

«Domani non si ricorderanno nulla» disse lei. «Forse» aggiunse dopo un attimo, ridendo sommessamente.

Night posò infine lo sguardo su di lei, seccato. «Che ne è delle nostre regole?»

«Oh, andiamo» fece lei, agitando una mano. «Noi due non seguiamo mai le regole.»

Udì Night sospirare. «Be', non hai tutti i torti.»

La loro attenzione fu catturata dai membri della banda che, malfermi sulle gambe, stavano venendo nella loro direzione, intenzionati a tornare dentro o forse a osservarli litigare ancora un po'.

Nel vederli, gli occhi fissi su di loro, un'idea fece capolino nella mente di Angie. Non sapeva se era per il fumo che aveva inalato, per il brivido che le aveva dato essere acclamata da tutti, ma quella sera si sentiva invincibile.

«Sai, ripensandoci...» proruppe, e Night si voltò di scatto a fissarla, captando qualcosa di strano nel suo tono. «Penso che onorerò la regola numero due, stasera.»

Non diede a Night il tempo di replicare, perché in un attimo gli fu vicino e, alzandosi sulle punte dei piedi, gli diede un sonoro bacio sulla bocca.

Un coro di fischi e voci entusiaste si levò dagli amici di Night. Angie si staccò da lui, che la stava fissando con un misto di sorpresa ed eccitazione che le provocarono una capriola nella pancia.

Ad un passo dalle sue labbra, lei gli bisbigliò: «Non farci l'abitudine, perché la prossima volta potrebbe essere un calcio nelle palle.»

Detto ciò, girò sui tacchi e salì i gradini diretti al portone saltellando a due a due. Dopo essere entrata, attraversò l'atrio silenzioso senza mai voltarsi, il rumore dei suoi passi ed il tamburellio del suo cuore che si confondevano nelle sue orecchie.

Le pareva di stare volando, mentre saliva al piano di sopra. L'erba che le avevano offerto doveva essere davvero forte, pensò Angie. Riusciva solo a pensare a quel sorriso strafottente, a quegli occhi verdi che brillavano di malizia, a quel naso...

Angie si bloccò a metà delle scale, la consapevolezza che la colpiva come un ceffone e per poco non la faceva inciampare nei gradini.

Il naso rotto. A sei anni.

Cazzo.

Perché Night non era stato migliorato?

 

Ehilà!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Personalmente, è uno di quelli che preferisco, specialmente la scena di Angie, fattissima (fatta dura, fatta come un copertone! -cit.) che mette in imbarazzo Night XD La nostra bionda preferita sfodera tutta la sua violenza da ghetto contro i gingeri, Arianna rimane chiusa nei gabinetti e Kia viene illuminata da Brook su alcuni dei meccanismi della scuola. Ormoni, proprio così! Ma la domanda è: perché? E perché la banda di Night si comporta in un certo modo? E perché il nas... ok, la smetto. 

Ci vediamo al prossimo capitolo, dove ci saranno molte altre rivelazioni! ;)

PS: 

«Che succede?» chiese Arianna, impassibile, e dentro di me provai grande ammirazione per la sua nonchalance.

Arianna è ufficialmente diventata Morgan.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** -•Capitolo 19 ***




Prima di spingere verso di me due tomi dall'aria consunta, sul tavolo di un angolo tranquillo della biblioteca, Brook mi aveva detto che la macchina era entrata in funzione nel 1999.

Stavo per chiedergli spiegazioni, quando l'occhio mi cadde sul titolo dei due vecchi libri: erano annuari, rispettivamente del 1998 e del 1999.

«La differenza è piuttosto evidente» fece Brook, mentre iniziavo a sfogliare le pagine dell'annuario più vecchio dei due.

Capitata per caso tra gli alunni del primo anno, fui calamitata da quei dettagli che ormai non ero più abituata a vedere: qualche foruncolo qua e là, occhiali come fondi di bottiglia, apparecchi per i denti. La normalità, pensai, traendo un lungo sospiro.

Lasciando l'annuario aperto sul tavolo, aprii trepidante l'altro sotto gli occhi severi di Brook. Notai subito che gli stessi ragazzi, lì al secondo anno, erano sempre imperfetti, seppur di poco cresciuti. I primini del 1999, in compenso, sembravano tutti usciti da una rivista di moda.

«Quindi inizialmente non sono stati tutti migliorati» commentai, pensierosa.

Avevo creduto che, dalla messa in funzione della macchina, tutti quanti gli studenti che in quel momento frequentavano l'istituto vi fossero stati sottoposti.

«No» rispose lui. «Gli studenti entrati a scuola prima del 1999 non sono passati nella macchina.»

Feci un rapido calcolo. «Quindi, considerando che adesso siamo nel 2003...»

«Tutti gli studenti della scuola ad oggi sono migliorati» concluse lui, annuendo. «O almeno... dovrebbero» aggiunse piano, distogliendo lo sguardo per un attimo verso due ragazzi che, vociando, avevano appena fatto il loro ingresso nella biblioteca.

«Che vuoi dire?» chiesi, assottigliando le palpebre. Non mi era sfuggito il cambiamento repentino del ragazzo.

Tornato a guardarmi, Brook accennò ai due annuari. «Notato nulla?»

Aggrottando le sopracciglia, mi rimisi a sfogliare le pagine, ma dopo un momento mi interruppi, colpita da un pensiero.

«Ma questi annuari li hai trovati in biblioteca?» chiesi, lanciando un'occhiata perplessa al ragazzo biondo.

Possibile che quei dati fossero alla portata di chiunque? Sì, nessuno sembrava interessarsi al mistero della scuola, ma la trovavo comunque una mossa piuttosto rischiosa da parte dell'istituto.

Brook scosse piano la testa e mi sorrise con aria di mistero. «Direttamente dall'ufficio della preside.»

Spalancai la bocca. «E come...»

Lui scrollò le spalle. «Ho le mie fonti.»

Gli rivolsi uno sguardo duro. «Ehi. Sbaglio o dovremmo essere alleati?»

Incrociai le braccia al petto, lungi dall'arrendermi: se voleva che indagassimo insieme, doveva essere sincero con me.

«Mi dispiace, Kia» mormorò lui. 

Riecco quello sguardo serissimo, che non sembrava sentire ragioni, dal quale intuii che non l'avrei avuta vinta. 

«Ho promesso di non dire niente. Per adesso, almeno.» Negli occhi gli balenò uno scintillio divertito. «Ora, vuoi metterti a cercare o no?»

Sbuffando sonoramente, sciolsi le braccia e ripresi a sfogliare le pagine, tanto nervosamente che per un attimo temetti che la carta mi si strappasse tra le dita.

«Mi spieghi cosa diavolo dovrei cerc... Oh, cazzo

Mi bloccai, pietrificata. Alzando un attimo lo sguardo su Brook, capii dalla sua espressione che era proprio quello che avrei dovuto notare. Lo abbassai di nuovo sulla foto, senza credere ai miei occhi.

Annuario del 1998. Sei anni prima. Pagina degli studenti non-migliorati del terzo anno, che avevo osservato molto distrattamente sfogliando entrambi i tomi. Infatti ce n'era uno che non avevo notato, forse perché si trovava accanto ad una foto irriconoscibile, tanto era stata scarabocchiata a penna. Quei ghirigori neri avevano attirato tutta la mia attenzione, distogliendola dal ragazzo che c'era accanto. Ma, malgrado i tratti all'epoca un po' infantili, l'avrei riconosciuto ovunque. 

Capelli castano scuro, magnetici occhi verdi. Il naso rotto.

«Night» dissi in un soffio.

Deglutii. Com'era possibile? Night era sì al terzo anno, ma nella nostra classe! Come poteva trovarsi anche tra i ragazzi del 1998?

Alzai gli occhi su Brook. «Ci dev'essere un errore.»

Senza attendere risposta, mi avventai sull'annuario del 1999 e lo aprii alla pagina degli studenti del quarto. Scorsi rapidamente con lo sguardo le foto di quelli che l'anno prima erano i suoi compagni di classe, ma non c'era traccia di Night.

«Lo vedi, c'è un...» Mi interruppi e il libro quasi mi cadde di mano, quando vidi che Night c'era eccome, nel 1999.

Solo che era sempre al terzo anno.

Brook non aveva ancora detto una parola ma, quando alzai lo sguardo, vidi che stava frugando con la mano sana nello zaino e, uno dopo l'altro, tirò fuori altri quattro annuari. Il tonfo che fecero sul tavolo continuava a rimbombarmi nelle orecchie.

«Non è possibile» dissi. «C'è un errore.»

«Allora devono esserci molti errori» replicò lui, spingendo i libri verso di me.

Con il cuore che mi martellava nel petto, aprii l'annuario del 2000. Stavolta sapevo cosa stavo cercando e lo trovai senza alcuna difficoltà. Night, di nuovo tra gli studenti del terzo.

Afferrai di scatto l'annuario del 2001, le dita che mi tremavano febbrilmente. Mi rimisi a sfogliare le pagine, vedendo che quell'anno tutti gli studenti del primo, secondo e terzo erano migliorati. Tranne uno. Night Harris.

«Ancora al terzo anno» bisbigliai, incredula. «Ma come è possibile?» borbottai poi, alzando gli occhi su Brook.

Vidi che il ragazzo aveva già aperto per me gli annuari del 2002 e del 2003, entrambi sulle pagine degli studenti del terzo anno. Non fu una sorpresa vedere che anche in quello del 2002 figurava Night. Quanto al 2003, non avevo molti dubbi, visto che vedevo il ragazzo in classe tutti i giorni.

«Night è in questa scuola dal 1996.» La voce di Brook ruppe il silenzio. «Questo fa di lui...»

«...l'unico studente non migliorato di tutta la scuola» conclusi con un filo di voce.

Non riuscivo a capacitarmene. Night era in quella scuola da otto anni. Otto anni.

«Perché continuano a bocciarlo?» domandai ma, scrutando negli occhi di Brook, capii che nemmeno lui conosceva la risposta a quella domanda.

Non riuscivo neanche ad immaginare che incubo dovesse essere per Night.

«È un mio compagno di classe, io lo conosco! Ha fama di essere un teppista, ma non l'ho mai visto fare a botte, se non con Angie... E poi non va così male a scuola, non dovrebbero bocciarlo! E possibile che i genitori non dicano nulla? È folle, assolutamente folle!»

Brook era rimasto in silenzio per tutto il tempo. Sembrava stesse riflettendo.

«Dev'essere successo qualcosa» mormorò infine. «Qualcosa di molto grave, per cui lo stanno trattenendo qui.»

Il silenzio calò per un attimo fra di noi. Non avevo idea di cosa potesse combinare un ragazzo perché la scuola decidesse di farlo rimanere tra le sue mura per otto anni, come se stesse scontando una pena. Oltretutto, per quanto io e Night andassimo d'accordo, non eravamo in confidenza e lui non si era mai lasciato sfuggire nulla di quella storia. Non sapevo dove sbattere la testa e l'affascinante moro, il ragazzo di una delle mie più care amiche, per un attimo mi parve un perfetto sconosciuto.

«Allora» ricapitolai, riscuotendomi e iniziando a fare ordine tra gli annuari. «Night è in questa scuola dal 1996, mentre la macchina è stata introdotta nel 1999...» riflettei. «...Oddio.»

Lanciai a Brook un'occhiata esitante e, ricambiando il suo sguardo saldo, seppi che aveva pensato la stessa cosa.

«Non lo so» ammise lui. «Però Night sa qualcosa di questa storia, me lo sento.»

Doveva essere per forza accaduto qualcosa negli anni prima del 1999. Qualcosa che aveva spinto l'istituto a prendere quei singolari provvedimenti. Anche se continuava a sfuggirmi come renderci più avvenenti e precoci avrebbe cambiato le cose avvenute nel passato.

Alzai lo sguardo su Brook, anch'egli immerso nei suoi pensieri.

«Hai notato nient'altro di strano negli annuari di quegli anni?» gli chiesi.

«Una cosa, in effetti, sì» fece lui, illuminandosi in viso.

L'impressione era che avesse studiato tutti quei tomi a memoria. Afferrò dallo zaino un libro, che riconobbi come l'annuario del 1997, che ancora non avevamo consultato insieme.

Il ragazzo si mise a sfogliare freneticamente le pagine, ma mi accorsi subito che con una mano sola era in difficoltà. Attesi in silenzio che mi chiedesse di aiutarlo, ma dopo un momento capii che non l'avrebbe fatto.

Dannato orgoglio.

«Da' qua» borbottai dopo un po', strappandoglielo dalle mani. «Dimmi cosa devo cercare.»

«Gli studenti del secondo anno» disse. «Il secondo anno di Night... e di Henry.»

Gli scoccai uno sguardo confuso: non avevo mai sentito nominare prima quel nome, mentre Brook l'aveva pronunciato con una certa familiarità.

Mi fermai alla pagina che il biondo mi aveva descritto e lui indicò con la mano sana la foto di Night. Accanto, c'era di nuovo un volto scarabocchiato. Lessi il suo nome. Henry Jefferson.

«Che strano» mormorai. «Questo tizio compare anche nell'annuario del 1998, ma anche lì la sua faccia è tutta nera.»

«Esatto» rispose Brook, passandomelo.

Il tomo era sempre aperto sulla foto di Night e quella irriconoscibile di Henry.

«Non sto a farti vedere il 1996, il loro primo anno, ma sappi che anche lì lui ha il volto sfregiato» spiegò Brook, corrugando la fronte. «Ma non è la cosa più strana. Dal 1999, infatti, Henry scompare dagli annuari.»

Trasalii. «Scompare?»

Brook annuì. «Sì, si ferma al terzo anno. Come se avesse cambiato scuola.»

Ferma sull'annuario del 1998, feci scorrere lo sguardo tra le due foto. Il sorriso di Night e quegli scarabocchi neri, impressi così in profondità che avevano quasi bucato la carta sotto. Che ci fosse un legame tra i due ragazzi?

«Potrebbe significare qualcosa» dissi. «Quello che stiamo cercando forse è accaduto nel 1998.»

Ripresi a sfogliare l'annuario di quell'anno, sovrappensiero. Pensieri confusi si rincorrevano nella mia mente ed ero già arrivata agli studenti dell'ultimo anno, senza averne guardato davvero neanche uno, quando l'occhio mi cadde su un nome.

Con un sussulto di sorpresa, mi accorsi che lo conoscevo.

«Che c'è?» chiese Brook, che doveva aver notato il mio tentennamento.

«Kyle Marsh» lessi. 

Nella foto, un affascinante ragazzo dai capelli brizzolati, gli occhi vivaci ed un sorriso da rubacuori. Per un attimo fui confusa dalla sua sfolgorante bellezza e solo il ricordo che la macchina era stata introdotta nel 1999 mi convinse del fatto che non poteva trattarsi di uno studente migliorato. Non avevo idea che frequentasse la nostra scuola.

«Non era il campione di pallacanestro?»

Brook mi guardò come se gli avessi detto che il suddetto fosse una famosa drag queen.

«Kyle Marsh!» ripetei, ripensando alle parole di Lucas e fissando Brook con aria speranzosa.

Dall'espressione che lui mi rivolse in risposta, sembrava che gli stessi parlando arabo.

«Non sapevo tu fossi un'appassionata di basket» disse infine, sbattendo le palpebre.

Levai gli occhi al cielo. «Non lo sono! Pensavo che tu lo fossi! Non fai parte della squadra della scuola?!»

A Brook sfuggì un sorriso divertito. «Diciamo che sono nella squadra per altri motivi. Il basket non mi piace molto, in realtà.»

Scossi la testa, senza riuscire a credere alle mie orecchie. E pensare che era grazie a lui che la scuola aveva vinto la partita più importante di quell'anno!

«Altri motivi?» ripetei, inarcando un sopracciglio.

«Tipo diventare amico di Night.» Brook sospirò con aria afflitta. «Con scarso successo.»

Ripensai alle sue parole. "Night sa qualcosa di questa storia." Brook era davvero convinto di quel che diceva e sembrava essere pronto a tutto per dimostrarlo.

Nella mente mi apparve all'improvviso l'immagine di un'innocente ragazza bionda, che mi minacciava di morte quando osavo mettere in dubbio la sua tregua. Non così innocente, dopotutto.

«Forse so chi può darci una mano.»

****

Arianna diede una rapida scorsa all'equazione di Lucas e capì immediatamente dov'era l'errore.

«Qui, Lucas» borbottò, cerchiandoglielo con la penna. «Devi prima scomporre.»

Passò il foglio al ragazzo biondo, steso sul letto poco lontano da lei, che la stava fissando con autentica venerazione.

Di fronte a quello sguardo, ad Arianna sfuggì un sorriso divertito. Aveva promesso di aiutare il biondo con i compiti di matematica, dopo le lezioni di quel pomeriggio, ma non aveva idea che la situazione fosse tanto tragica. Lanciò un'occhiata al suo orologio da polso e sospirò. Erano in camera di Lucas da almeno due ore.

Il ragazzo aveva la fronte corrugata dalla concentrazione mentre osservava il foglio e, sperò Arianna, anche l'errore che aveva commesso.

«Perché hai fatto un cerchietto?» domandò infine lui, alzando gli occhi. «È molto carino» aggiunse, sorridendo.

Arianna soffocò la tentazione di lanciargli addosso la penna.

«Era per farti vedere meglio l'errore, Lucas» spiegò pazientemente lei. «Non guardare il cerchietto. Guarda cosa c'è dentro.»

«Ah.»

La ragazza scosse piano la testa. Era davvero senza speranza.

Lucas nel frattempo si era rimesso a scrivere freneticamente e, dopo avergli dato un'occhiata per accertarsi che stesse seguendo le sue correzioni, Arianna abbassò gli occhi sui compiti che aveva già finito da un pezzo.

«Sei così intelligente» esclamò lui dopo un po'.

Arianna alzò la testa e si voltò di scatto a guardarlo, un sorriso che le si schiudeva sulle labbra. La sincerità di Lucas la coglieva sempre di sorpresa.

«Non è vero» minimizzò lei, alzando le spalle.

Il biondo lasciò cadere i fogli giù dal letto e le si fece più vicino. «Perché ti sminuisci sempre?»

«Lucas» mormorò Arianna, sulla difensiva. «Finisci l'equazion...»

Non riuscì a concludere la frase perché, incontrando il suo sguardo, si sentì di colpo disorientata. Quegli occhi verdi, traboccanti d'affetto per lei, la stavano lentamente disarmando.

«Rispondi» disse lui. Il suo tono era dolce ma fermo al tempo stesso.

Arianna emise un sospiro di resa. Allontanò a sua volta i compiti di matematica e si accoccolò vicino a Lucas, con la testa poggiata sulle ginocchia del ragazzo, seduto a gambe incrociate sulle coperte.

«Io lo vedo come ti guardano» stava mormorando Lucas, forse capendo che lei non gli avrebbe dato una risposta.

Con l'orecchio premuto contro la sua gamba, la voce di lui le arrivava attutita. Arianna sospirò ancora, stavolta di piacere, quando lui prese ad accarezzarle piano i capelli.

«Metà della scuola vorrebbe essere come te, l'altra metà vorrebbe te.» Lucas si bloccò e borbottò: «Soprattutto i ragazzi, credo. Questo, a dire il vero, mi dà parecchio fastidio.»

Nel sentire come si era fatto stizzito il suo tono, un risolino sfuggì dalle labbra di Arianna.

«Anche nella tua vecchia scuola era così?»

La domanda di Lucas era stata innocente, ma Arianna si irrigidì di colpo, mentre vecchi ricordi tornavano a galla uno dopo l'altro.

Il ragazzo, forse percependo la sua tensione, aveva preso a solleticarle le tempie con i polpastrelli e Arianna si ritrovò a pensare che fosse un gesto davvero delicato, per un tipo irrequieto come lui.

Non le piaceva pensare alla sua vecchia scuola di Edimburgo. Non che avesse dei ricordi spiacevoli, legati a quel posto: lei era una regina, laggiù. Eppure, se pensava alla sua fama, agli sguardi ammirati delle ragazze e dei ragazzi, alla costante competizione, alla voglia di esibirsi e mettersi in mostra, le apparivano come un mondo lontanissimo. Un mondo che aveva rinnegato. 

Non le piaceva pensare di essere stata così tanto superficiale, in passato. Aveva accolto a braccia aperte la nuova reputazione di quella scuola, cullandosi nell'idea che Lucas non sarebbe mai venuto a sapere cos'era stata prima della ragazza bella, intelligente e riservata che lui aveva conosciuto. Ma si rese conto che il suo ragazzo meritava di sapere.

«Sì» mormorò quindi lei, dopo un silenzio lunghissimo. Con un grandissimo sforzo di volontà, allentò la presa sul suo cervello e sentì le parole uscirle di bocca senza alcun controllo. «Ma lì adoravo stare al centro dell'attenzione. Volevo che la gente mi dicesse quant'ero bella ed intelligente.» Si interruppe, ridendo sommessamente. «Ero proprio stupida.»

Lucas non disse nulla. Non aveva mai smesso di accarezzarla, sebbene le sue dita avessero avuto un fremito per un attimo, nel sentirla parlare. Arianna sapeva che Lucas non si aspettava che lei si aprisse. Il suo tocco ben presto le fece chiudere gli occhi, quel silenzio che le diceva di continuare.

«C'è voluto un po' per rendermene conto, ma...» Arianna si interruppe, alla ricerca delle parole giuste. «...ma ho capito che le cose importanti sono altre. Sì, i miei compagni di scuola mi adoravano, ma le persone a cui io tenevo di più a malapena mi consideravano. Quindi che senso aveva?»

Ripensò agli sguardi di disprezzo dei suoi genitori e poi a Jake e sentì le lacrime salirle di colpo agli occhi. «Me lo fece capire il mio ragazzo di allora.»

Dietro di lei, udì Lucas trattenere il fiato. Le sue dita erano ferme, adesso, ma Arianna non aveva più bisogno di loro. L'immagine del ragazzo che aveva amato danzava davanti ai suoi occhi.

«Avevo un ragazzo, in quella scuola. Mi aiutò molto con... il mio problema» disse, dopo un momento di esitazione. Preferiva di gran lunga quella parola a quella che sussurravano i suoi genitori o le ragazzine nei corridoi, quando credevano di non essere sentite.

Anoressia.

«Jake era... diverso. Fu un'impresa farsi notare da lui. È lì che ho capito quanto fosse inutile la popolarità. Avevo la scuola ai miei piedi...» Si bloccò, ridendo nervosamente. «Lo sai che Angie mi odiava, per questo? Ma, nonostante tutto, non potevo comunque avere lui. Forse è per questo che l'ho amato così tanto. È per lui che... che all'inizio sono stata così vaga con te. Mi dispiace. Adesso, comunque, è in America. Non l'ho mai più sentito.» Le lacrime gli pizzicavano le palpebre. «Tuttora non so se ho mai avuto davvero il suo amore. O la sua stima. Di certo so di non avere quella dei miei genitori.»

La voce le si strozzò in gola. Si portò le mani agli occhi, nel tentativo di fermare le lacrime che premevano di uscire. Sentì le braccia forti di Lucas sollevarla di peso e metterla seduta, finché non furono uno davanti all'altra, i loro sguardi agganciati.

«Ehi» disse il ragazzo, scrutandola con occhi severi.

Arianna non sapeva dire quali reazioni avessero provocato in lui le sue parole, ma il suo tono era incredibilmente fermo.

«Non pensare più una cosa del genere, intesi?»

La ragazza sentiva le lacrime scorrerle lungo le guance e si vergognò terribilmente di stare piangendo di fronte a lui.

«Tu non li conosci, Lucas» disse, ma a metà fu interrotta da un singhiozzo e si sentì debole e stupida. «M-mi dispiace...»

Lucas scosse la testa. «Perché ti stai scusando?» Le afferrò le mani e proseguì imperterrito, senza mai distogliere lo sguardo da lei. «Forse non conosco i tuoi genitori, ma conosco te. So che persona meravigliosa sei. E, per quanto stronzi potranno mai essere, un po' di merito ce lo avranno, per averti resa così come sei, non credi?» Non attese la sua risposta e aggiunse: «Sono sicuro che ti vogliono bene, a modo loro »

Lucas abbassò gli occhi sul suo corpo. Arianna seguì il suo sguardo e per un unico, sfolgorante attimo, lo vide come lo vedeva lui, come lo vedevano le sue amiche, come lo vedeva chiunque la incontrasse nei corridoi.

Un corpo emaciato, debole, disprezzato.

E, malgrado tutta l'ingenuità che Lucas poteva avere, dal lampo di consapevolezza che attraversò il suo sguardo nel guardarla, Arianna seppe che aveva capito.

Aveva capito che stava riversando odio sul suo corpo nella speranza di farsi notare da chi contava davvero per lei. Perché i suoi genitori non avevano mai sprecato una parola d'affetto o anche solo un abbraccio per lei, perché il ragazzo che aveva creduto l'amore della sua vita l'aveva lasciata per Kia, facendole domandare perché non fosse abbastanza, e poi l'aveva abbandonata senza scriverle neanche una riga d'addio.

Guardò come aveva ridotto il suo corpo, guardò Lucas e poi pianse senza riuscire a trattenersi.

«Sai una cosa?» proruppe lui. Parlava a voce alta, nel tentativo di sovrastare i suoi singhiozzi. «Se anche loro non ti dovessero volere bene, sappi che io te ne voglio. E non puoi neanche immaginare quanto.»

E poi la baciò. 

E Arianna si aggrappò a quelle labbra con tutta la sua forza, con il sapore dolce di Lucas e quello salato delle lacrime che danzavano sulla sua lingua.

Si abbandonò contro di lui e, malgrado tutto, sentì la pace intorno a sé, come se Lucas fosse un faro di luce in mezzo alla tempesta. Lucas era sincerità, solidità, sicurezza. Era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.

La sua bocca si servì dei baci, anziché delle parole, ma Arianna capì comunque quello che lui voleva dirle. Lui l'avrebbe amata, sempre.

A prescindere da quello che avrebbe fatto o detto.

A prescindere dalla forma del suo corpo.

L'avrebbe amata e basta, senza fare domande.

E Arianna, baciandolo con pari intensità, gli rispose che per lei era esattamente lo stesso.

****

«Ti vedo molto presa da questa storia» commentò Beth dal suo letto.

«Mmn» risposi, senza neanche alzare gli occhi dai libri.

Il giorno prima, in biblioteca, avevo chiesto a Brook il permesso di prendere gli annuari sui quali avevamo deciso di concentrarci – 1998 e 1999 – e lui, contro ogni previsione, aveva fatto sì con la testa. 

Ero rimasta spiazzata: Brook aveva tutta l'aria di essere uno che dormiva abbracciato a quei libri, la notte, per cui mi ero già psicologicamente preparata ad un rifiuto. Pensai che forse avesse trovato un orsacchiotto da usare come sostituto e, immaginandomi la scena nella mente, mi ritrovai a ridacchiare tra me e me.

Scoccandole una fugace occhiata, vidi che Beth continuava a fissarmi dalle coperte, malgrado tentasse di fingersi immersa nello studio. Moriva dalla voglia di saperne qualcosa, glielo leggevo nello sguardo. Ed io morivo dalla voglia di rivelarglielo.

Non credevo neanche che Brook avesse qualcosa da ridire al riguardo; anzi, probabilmente sarebbe stato solo contento se avessi trovato qualcun altro disposto ad unirsi alle nostre indagini, ma il problema era mio.

Non avevo detto nulla alle mie amiche perché temevo la loro reazione, specialmente la faccenda degli ormoni, il fatto che ci avessero in qualche modo spinto a incontrare qualcuno dell'altro sesso. Rendeva tutto così squallido e... artificiale.

Le ragazze sapevano solo che avevo iniziato ad indagare seriamente in compagnia di "Draco" – così si ostinavano a chiamarlo – e nient'altro. Fortunatamente nessuna di loro mi aveva ancora esplicitamente chiesto i dettagli, sguardi imploranti di Beth a parte. Ma, nel momento in cui l'avessero fatto, sarei stata costretta a dire loro la verità. A pensarci bene, però, avrei dovuto farlo in ogni caso, se avessi voluto coinvolgere Angie in quella storia. Quindi perché continuare a temporeggiare?

«Come procedono le indagini, Sherlock?»

Beth era tornata alla carica e stavolta ricambiai il suo sguardo con più sicurezza, ignorando il suo tono canzonatorio. Ero pronta a condividere il fardello con lei, ma la mora non aveva ancora finito.

«Secondo me Draco ti piace.»

Per tutta risposta, le lanciai un cuscino dritto in faccia, dimenticandomi all'istante dei miei propositi.

«Si chiama Brook» sentenziai, mentre lei rideva come una matta, rotolandosi fra le coperte, apparentemente non troppo colpita dal mio contrattacco. «E no, non mi piace.»

Scossi la testa, a metà tra il divertito e lo sconsolato, e abbassai di nuovo lo sguardo sull'annuario del 1998. Era ormai la centesima volta che lo sfogliavo senza alcun risultato: mi sembrava evidente che da lì non sarebbero spuntate fuori altre risposte. La tentazione di bussare alla porta della camera numero diciotto, scuotere Night per le spalle e costringerlo a dirmi cosa sapeva era davvero forte. Ma, al pensiero che probabilmente alla porta si sarebbe affacciato Shadow, l'idea mi parve di colpo meno attraente.

Alzai gli occhi su Beth. «Sai che Night è in questa scuola da otto anni?»

Beth spalancò la bocca. «Otto anni?» ripeté.

«Già» risposi, sollevando l'annuario perché Beth potesse leggerne la copertina. «A quanto pare continua ad essere bocciato dal 1998. La preside deve proprio odiarlo a morte» commentai, scuotendo appena la testa.

Mi rimisi a sfogliare l'annuario, ma l'improvviso silenzio di Beth mi costrinse ad alzare nuovamente lo sguardo su di lei.

La ragazza si era messa seduta e si stava fissando le punte delle scarpe come se non le avesse mai viste prima d'allora, il capo chino e il volto teso. Sembrava in preda ad un feroce conflitto interiore.

Dopo aver fatto un respiro profondo, alzò la testa e mi fissò in un modo che mi fece attanagliare lo stomaco.

«Kia» disse. Non riuscì a sostenere il mio sguardo per più di un attimo e, quando parlò di nuovo, si stava di nuovo rivolgendo alle punte delle sue scarpe.

«Io... devo dirti una cosa.»

La mia mente era vuota. 

«Dimmi» udii me stessa mormorare.

«Io...» La ragazza si bloccò. Si stava tormentando le dita delle mani, gli occhi che vagavano da una parte all'altra nella stanza. 

Parlò tutto d'un fiato, quando lo disse.

«Io ho collaborato con la preside.»

Il silenzio calò fra di noi. Il pavimento tra i nostri due letti per un attimo mi parve un baratro.

La voce terribilmente familiare che avevo udito il giorno in cui avevo origliato quella conversazione in presidenza, le improvvise sparizioni. Tutti i segnali che avevo deliberatamente scelto di ignorare, in attesa del momento in cui si sarebbe finalmente aperta con me. In attesa di quel momento.

«Lo so, Beth» dissi infine, incrociando il suo sguardo. I suoi occhi erano pieni di lacrime.

Dentro di me, lo avevo sempre saputo.

****

Annie si tastò la voluminosa fasciatura che aveva sul naso.

«Quella stronza!» sbottò, avvicinandosi pericolosamente al corpo di John perché questi le accendesse la sigaretta.

Si erano seduti su una delle panchine più lontane dalla pineta per poter fumare in pace, ma John sapeva che in cuor suo la ragazza aveva altri progetti.

Annie si comportava in modo così strano con lui, ultimamente. Da quando le aveva raccontato di Beth, per l'esattezza.

Annie era da sempre la sua più cara amica, colei che le era stato più vicino dopo la morte di Amy, e John pensava che sarebbe stata felice per lui: non era certo preparato alla reazione isterica che invece aveva avuto la ragazza e che, a dirla tutta, l'aveva spaventato non poco. Lei lo aveva chiamato insensibile, era scoppiata in lacrime, gli aveva percosso il petto a suon di pugni... e poi lo aveva baciato.

Lì per lì lui non aveva opposto resistenza, forse credendo di rivivere le emozioni indescrivibili che aveva provato la sera dei fuochi d'artificio, ma non era stato così. Non aveva provato nulla, se non un senso di repulsione, dato che il bacio era stato un po' troppo umidiccio per i suoi gusti, e così si era sottratto a quel contatto.

Ancora non si spiegava quei comportamenti assurdi da parte di Annie e non era stato neanche in grado di raccontarli bene a Beth che, ne era certo, doveva aver frainteso tutto.

«Non posso credere che non l'abbiano neanche sospesa!»

John sospirò, lanciando all'amica un'occhiata in tralice. Se uno non avesse saputo cosa le era successo, avrebbe pensato che la rossa fosse reduce da un intervento di rinoplastica.

Si accese la sigaretta a sua volta, evitando di rispondere. Tanto sapeva che di lì a poco Annie avrebbe provveduto a colmare il suo silenzio. Era sempre così.

«E Night?» proruppe infatti la ragazza, dopo un momento. «Non le ha detto nulla?»

«Anche Night le prende e basta, da quella Stevens» fu la risposta di John.

Quel pensiero gli fece venire da ridere ma, vedendo com'era inviperita Annie, evitò di mostrarsi divertito e si limitò ad aspirare. Oltretutto, era da molto che non vedeva Night così di buon umore come quando era in compagnia di quella bizzarra ragazza.

«Quella stronza» ripeté Annie, rabbuiandosi.

A John quel noioso borbottio ricordava una pentola a pressione. Trasse un lungo sospiro.

«Non pensi che forse abbia agito così per quello che hai fatto a Beth? Dopotutto sono molto amiche» disse poi.

Aveva fatto quella domanda sforzandosi di apparire distaccato, ma solo nominare la ragazza gli aveva provocato un involontario fremito nel petto.

Annie si voltò verso di lui, come se non credesse alle sue orecchie. A John dava il nervoso quello sguardo, a metà tra il sarcastico e il divertito. Uno sguardo che non si metteva mai in discussione.

«Io non ho fatto proprio nulla a Beth!» ribatté lei.

John era perseguitato dallo sguardo di Beth. Quando chiudeva le palpebre la vedeva, la sua speranza che andava in mille pezzi, la delusione che si faceva spazio sul suo volto di fronte alla sua confessione. 

Gli tremavano le dita, mentre teneva la sigaretta per buttare fuori il fumo, e si sentiva un idiota. Beth non era nulla di che, dopotutto, no? Solo una ragazzina sciocca, ingenua e a dirla tutta un po' irritante, rimasta indietro di quarant'anni, che credeva di aver capito tutto di lui. Che credeva di poterlo aggiustare, solo perché quella schifosa della preside le aveva detto di farlo. Era solo uno strumento. No? Si sforzava di pensarlo, ma quei pensieri non attecchivano. Nella sua testa c'era solo il suo sguardo traboccante di dolore.

«Beth si deve rassegnare» mormorò la rossa con decisione, accavallando le gambe.

«Rassegnare a cosa?» domandò lui, in tono d'allarme, voltandosi a guardarla.

La ragazza lo stava fissando intensamente, il fumo che le usciva dalla bocca, le cui labbra piene erano rosse quasi al pari dei suoi capelli.

Annie era bellissima, realizzò John. E lo sapeva bene, perché lo era anche prima che la sottoponessero alla macchina. Per strada, la gente si voltava sempre a guardarla e, vedendoli camminare fianco a fianco, gli lanciava sguardi pieni d'invidia, pensando che lui fosse il suo fidanzato.

Eppure, quando lei gettò via il mozzicone di sigaretta e, senza mai smettere di fissarlo, gli si fece ancora più vicino, intrappolandolo alla panchina, John provò un senso di repulsione.

Il ragazzo osservò pietrificato la bocca di Annie avvicinarsi sempre di più, il suo corpo spalmato su di lui e all'improvviso si sentì soffocare. La allontano da sé, indietreggiando sulla panchina.

«No, Annie. Ti prego» mormorò, prendendo fiato.

La confusione si agitava nello sguardo di Annie, l'espressione era ferita.

«Ma...» fece per dire lei, ma John non gliene diede il tempo.

«Non voglio» disse lui, trattenendo a stento una smorfia. Annie non si era mai comportata in quel modo con lui. «Ma che ti prende?»

Annie lo fissava sbattendo le palpebre, come se cercasse di registrare la sua reazione.

«Non vuoi... me?» chiese infine. La sua voce era ridotta ad un sussurro.

John si affrettò a scuotere la testa. Pensieri confusi si agitavano dentro di lui, ma di un paio di cose era assolutamente certo: non desiderava Annie in quel modo e lo sguardo con cui lei lo stava squadrando lo destabilizzava.

La ragazza sembrava persa e i suoi occhi erano lucidi, come se fosse sul punto di mettersi a piangere da un momento all'altro.

John si sistemò meglio sulla panchina, continuando a lanciare delle occhiate perplesse in direzione dell'amica. Non sapeva come comportarsi in presenza di quella che chiaramente non era la Annie che conosceva, sempre così determinata e sicura di sé.

«È Beth che vuoi, non è vero?» domandò lei, dopo un silenzio lunghissimo. La sua voce era tagliente come vetro e non lasciava spazio a dubbi. Era una domanda, la sua, ma l'aveva fatta suonare come un'affermazione.

«Non lo so» sospirò John.

Era la verità. Non si era mai trovato in una situazione del genere, non sapeva cosa pensare. L'unica certezza che aveva era che quell'improbabile ragazza continuava a comparire nei suoi pensieri, non lo lasciava riflettere, non lo lasciava dormire. Il suo sguardo ferito lo inseguiva nei sogni. Quello e le sue labbra morbide, la sera dei fuochi d'artificio.

Si voltò a fissare Annie, del tutto disorientato, e incontrò due occhi tristi. Ma che, al contrario di lui, sembravano aver capito tutto.

«Non possiamo scegliere di chi innamorarci» disse la ragazza. Sul suo voltò si delineò un sorriso amaro. «Credimi. Io lo so bene.»

****

«Perché non me l'hai detto?»

Avevo gli occhi pieni di lacrime anche io. Mi sentivo così sciocca. Ferita, ancora una volta, da quella che consideravo la mia più cara amica. Un'odiosa vocina in un angolo della testa mi ricordò che per lei non era lo stesso, soprattutto dopo quella faccenda. Lucy.

«Ancora segreti. Perché?» Proseguii senza attendere la sua risposta. «Proprio come ai tempi di Lucy.»

Tirare in ballo Lucy era stato un colpo basso e me ne pentii un attimo dopo, quando vidi Beth davanti a me sussultare e poi scoppiare in singhiozzi.

«M-mi dispiace così tanto, Kia...» balbettò lei, asciugandosi freneticamente le guance. «Per Lucy, per non averti detto...»

«Lascia perdere Lucy» mormorai.

Beth parve cogliere uno spiraglio di riconciliazione nel mio tono di voce, perché trovò la forza di alzare la testa ed incrociare il mio sguardo.

Le sorrisi debolmente. «Non rivanghiamo il passato.»

I singhiozzi di Beth pian piano si spensero. Tirò su col naso e, quando infine riprese a parlare, la sua voce era più controllata.

«Stavolta era diverso. Non potevo dirtelo, Kia. Non potevo dirlo a nessuno. La preside mi ha fatto giurare.»

Lo sguardo spaventato di Beth mi provocò un brivido lungo la schiena. Perché la preside si era interessata a lei? Cosa voleva dalla mia migliore amica?

Scesi dal letto in un balzo, mi issai sul suo e la strinsi fra le braccia. Percepii Beth aggrapparsi a me con tutte le sue forze e rimanemmo abbracciate per quella che mi parve un'eternità. Sentii che la ferita inferta dal suo silenzio con il tempo sarebbe guarita. Volevo troppo bene a Beth per anche solo pensare di perderla.

«Cosa voleva da te?» bisbigliai, guardandola fissa negli occhi, quando ci fummo separate.

Beth deglutì rumorosamente, ma non distolse lo sguardo. «Le erano giunte voci di quello che avevo fatto a John in mensa, il primo giorno di scuola.»

Nel nominare il ragazzo, il suo tono si era fatto avvilito. Dal canto mio, sgranai gli occhi e sentii la rabbia montare. Possibile che quel tizio c'entrasse sempre?

Beth si dovette accorgere di cosa mi stava passando nella mente.

«John non sapeva niente di questa storia, Kia» si affrettò a dire. «Ma la preside voleva che la aiutassi con lui.»

Scossi la testa, sempre più confusa. «La preside voleva che tu la aiutassi... con John?» ripetei, inarcando le sopracciglia.

Beth annuì. «John è uno degli elementi più problematici dell'istituto» mi spiegò poi, la voce carica di rammarico nel continuare a parlare di lui.

Io non potei fare a meno di pensare a Night, alla sua fama come teppista, alle sue bocciature.

«Visto che ero riuscita a tenergli testa, sperava che potesse aiutarlo a... tornare sulla retta via, per così dire. Più volte ho cercato di impedirgli di marinare le lezioni, di coinvolgerlo nelle attività...»

«E ti sei innamorata di lui» conclusi, scuotendo appena la testa.

Stavo per commentare sarcasticamente su quanto la preside sarebbe stata contenta, se lo fosse venuta a sapere, ma mi bloccai, la verità che mi colpiva come uno schiaffo. 

Ripensai agli ormoni, al fatto che l'istituto cercasse di accoppiarci in tutti i modi. 

Beth che si innamorava di John era esattamente ciò in cui sperava la preside.

«Diceva che John era uno dei membri più importanti della banda di Night» proseguì Beth e sentire nominare il ragazzo mi riscosse di colpo. «Che sarebbe stata una vittoria, per la scuola, se fossi riuscita ad allontanarlo da quel giro. Era certa che, senza di lui, la banda si sarebbe smembrata.» Beth trasse un lungo sospiro. «Io comunque non ci sono riuscita. E John è pure venuto a sapere della faccenda! Infatti è da molto che non vengo convocata in presidenza...»

Riflettei attentamente su ciò che Beth mi aveva appena rivelato. «Quindi la preside voleva smantellare la banda di Night?»

La ragazza mi rivolse un'espressione strana. «Kia, lei lo vuole disperatamente. Ha perso il controllo su quella banda e parla di distruggerla come se fosse la sua unica ragione di vita.» Scosse piano la testa, mordendosi il labbro. «Non so come dirtelo... lei odia Night. Lo odia sul serio. Per questo, quando mi hai parlato delle sue bocciature e tutto il resto...»

«Ti sei ricordata di dirmi il tuo segreto» borbottai, guardandola storto.

«Mi dispiace» ripeté lei. Le lessi negli occhi che il suo pentimento era autentico. «Mi dispiace da morire, Kia. Ma avevo paura di cos'avrebbe potuto farmi la preside.»

Sospirai, cingendole la spalla con un braccio in un chiaro gesto di perdono, le nostre teste tanto vicine da toccarsi. 

Mi sentivo ferita nel profondo, ma iniziavo a capire le ragioni di Beth. A parti inverse, forse avrei reagito nello stesso modo, se una preside evidentemente instabile mi avesse usato per i suoi scopi, facendomi giurare di non dire niente a nessuno. Una preside che odiava i suoi studenti e ne aveva perso il controllo, una preside che ritoccava la loro estetica. Di cos'altro sarebbe stata capace di fare?

«Beth» mormorai, e lei sollevò il capo. «La preside ti ha mai parlato della macchina o del motivo per cui è stata costruita?»

La ragazza scosse la testa. «No, ma... aspetta.» Si accigliò. «Ha detto che era stupita dall'effetto che la macchina aveva avuto su di me. Che quel giorno, in mensa, non fossi ricorsa alla violenza fisica per difendermi, come tutti gli altri.»

Corrugai la fronte. L'effetto della macchina... forse mi ero focalizzata troppo sui risultati estetici di quel marchingegno. Forse lo scopo della sua esistenza era un altro.

«Tu...» La voce di Beth mi riscosse bruscamente. «Tu pensi che questa faccenda della banda c'entri qualcosa con ciò su cui state indagando tu e Draco?»

Nonostante il peso di quelle nuove rivelazioni, mi sfuggì una risata nel sentire il nomignolo di Brook.

«Credo...»

Un cigolio proveniente dall'ingresso attirò di colpo la nostra attenzione. Voltandoci in quella direzione, vedemmo Arianna entrare e chiudersi la porta alle spalle.

Nel vederla, mi mancò il fiato per un attimo.

Arianna aveva pianto. Dovetti fissarla e sbattere le palpebre un paio di volte per registrare quell'informazione. Ogni tanto mi dimenticavo che Arianna era un essere umano come tutti noi. E aveva pianto, senza alcun dubbio: potevo scorgerle ancora i segni delle lacrime sulle gote arrossate, ma sul volto aveva dipinto un sorriso così largo che dubitavo di averla mai vista con un'espressione tanto felice.

Mentre avanzava verso il suo letto, mi accorsi che le gambe le tremavano, non avrei saputo dire se per il pianto o per l'emozione.

«Tutto bene?» domandò Beth, incerta. Neanche a lei doveva essere sfuggito l'atteggiamento bizzarro della ragazza.

Vedendo che la stavamo fissando immobili, con gli occhi fuori dalle orbite, Arianna rise sommessamente. Quel gesto mi stupì non poco, così come il suo sorriso, che si era allargato ancora di più.

La ragazza fece un respiro profondo e disse, tutto d'un fiato: «Ho detto a Lucas di Jake.»

«NO!» esclamammo Beth ed io all'unisono, senza riuscire a trattenere l'emozione.

Jake, il suo più grande punto debole? Quello era senza dubbio un miracolo.

Arianna annuì, nuove lacrime che minacciavano di spuntarle dagli occhi, ma il sorriso non accennò a diminuire.

«Sì» disse. «Gli ho detto tutto. Dio, mi sento così leggera! Lucas è stato gentilissimo, io...» Si bloccò. «Io penso di amarlo sul serio.»

Beth ed io ci scambiammo uno sguardo d'intesa e ci precipitammo ad abbracciarla. Arianna soffocò un lamento, mentre cadeva sul letto, travolta dal nostro peso. Le sue proteste furono del tutto vane e ben presto ci ritrovammo tutte e tre a ridere.

Era così strano vederla così spensierata, soprattutto in quel periodo così buio. Era incredibile l'effetto che Lucas aveva su di lei. Arianna, poi, era sempre stata serissima nell'esprimere i suoi sentimenti: se diceva di amarlo, faceva sul serio.

Fu in quel momento, avvinghiata alle mie amiche, che lo realizzai.

Capii che, se anche mi fossi trovata rivelare la faccenda degli ormoni, non avrebbe avuto comunque alcuna importanza. Arianna si era aperta ad un ragazzo, gli aveva esposto le sue debolezze, aveva permesso che lui la vedesse piangere. Quella non era una finzione. Quello era amore.

«Ragazze, non respiro» implorò Arianna.

Ci staccammo a fatica, tra una risata e l'altra.

Voltandomi in direzione di Beth, mi rincuorai nel vedere che sembrava altrettanto felice.

«Che stavate facendo?» chiese Arianna, tornata a sedere, mentre si sistemava i lunghi capelli castani dietro le orecchie, nel tentativo di riacquistare un'aria dignitosa.

Stavo per aprire bocca, ma Beth fu più rapida e afferrò i due annuari dal mio letto, sillabando la parola "Kia" e mimando uno sbadiglio.

«BETH!» protestai, offesa, avventandomi su di lei e cercando di strapparle i libri dalle mani, mentre lei rideva a crepapelle.

Mi pareva impossibile che fino all'attimo prima fossimo entrambe in lacrime, sul punto di rottura.

«Ancora con questa storia del mistero?» Dal suo letto, si levò la voce divertita di Arianna. «Draco ha una cattiva influenza su di te.»

«Ari» mugugnai, notando che neanche lei era rimasta immune al nomignolo. «Non ti ci mettere anche tu, per favore.»

Seduta sul mio letto, con Beth sdraiata accanto, che sfogliava con aria terribilmente concentrata gli annuari – in un patetico tentativo di prendermi in giro – cercai di recuperare un po' di contegno.

«Stiamo scoprendo un sacco di informazioni sulla scuola, anche se non sappiamo come collegarle» dissi.

«Kia, non credo che ad Ari importi qualcosa» intervenne Beth, alzando gli occhi dall'annuario per scoccarle un'occhiata.

Mi seccava darle ragione, ma effettivamente la ragazza si era adagiata contro la testiera del letto, aveva tirato fuori dallo zaino il libro di storia e si era messa a leggere. In conclusione, non sembrava troppo interessata alla questione.

«Sì, ma è evidente che ci sia sotto qualcosa di grosso!» protestai.

Fino al giorno prima ero stata indecisa se coinvolgere le mie amiche o no ma, adesso che finalmente avevo preso una decisione e che volevo il loro aiuto, era davvero frustrante vedere che loro non erano granché colpite. Il massimo che riuscivo ad ottenere, a quanto pareva, erano le prese in giro.

«Andiamo» borbottai, voltandomi in direzione di Beth. «Non puoi negarlo. La storia della macchina, tu che sei costretta a rieducare John, la preside che odia Night, Night che viene bocciato senza alcun apparente motivo da anni...»

Un rumore ovattato mi interruppe e mi voltai di scatto verso Arianna.

Alla ragazza era caduto il libro di storia in grembo. La sua espressione era seria, la fronte corrugata.

«Gérard» mormorò piano, come tra sé e sé. I suoi occhi erano rivolti nella mia direzione, ma non mi stava guardando davvero: era come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa.

«Eh?» esclamai, confusa da quella reazione.

Anche Beth distolse l'attenzione dal libro per voltarsi verso di lei.

«Gérard ha detto qualcosa a proposito di Night» continuò Arianna, il volto teso. Il cuore cominciò a battermi forte nel petto. «Il giorno della punizione. Non avete idea di come si è inalberato quando ho fatto il suo nome. Pensavo stesse delirando...»

«Ti ricordi che ha detto?» chiesi.

Lei parve pensarci su, ma alla fine scosse la testa. «No, mi dispiace. Solo che non avrei dovuto più parlare di lui, o qualcosa del genere.»

Sospirai, afflitta, mentre Arianna tornava sul libro di storia.

Nella mia mente, gli ingranaggi erano tornati a mettersi in moto. Era molto probabile che il corpo insegnanti e gli inservienti fossero a conoscenza dei segreti dell'istituto e complici in quella faccenda. Morivo dalla voglia di saperne qualcosa di più, ma chiedere qualcosa a Gérard sarebbe stato inutile. Se fosse stato davvero in combutta con la preside, non ci avrebbe rivelato niente di utile e, anzi, ci saremmo solo esposti. Oltretutto quel bidello, con il suo pessimo carattere, mi sembrava matto da legare.

Lanciai un'occhiata speranzosa ad Arianna, che aveva ripreso a studiare. Speravo che, qualsiasi cosa Gérard le avesse detto, prima o poi potesse tornarle in mente.

«Ehi!»

La voce di Beth, acuta per la sorpresa, mi riportò bruscamente alla realtà. Mi voltai di scatto verso di lei.

«Che c'è?»

«Io questo qui lo conosco!» Beth stava indicando una figura nell'annuario.

Trattenni a stento un sospiro seccato. «Per forza, è Nig...»

Ma la voce mi morì in gola. Beth non stava indicando il ragazzo moro, come credevo, bensì la figura resa irriconoscibile dagli scarabocchi che c'era accanto.

Henry Jefferson.

«Non...» Deglutii. «Non può essere. E poi come fai a dire di conoscerlo? La foto è tutta rovinata.»

Beth scosse la testa, lo sguardo convinto. «Ma no, ti dico che è lui. Riconosco l'attaccatura dei capelli. Guarda, qui si riesce ancora a vedere.»

La ragazza stava facendo scorrere il dito sul cranio, che non era stato del tutto colorato di pennarello, da cui si intravedevano dei corti capelli chiari.

«E poi» aggiunse Beth, scrollando le spalle, «il nome è proprio quello. Lo stesso che c'è sotto la sua foto, in presidenza.»

«In presidenza?» La fissai, boccheggiando.

Sentivo che anche Arianna, dal suo letto, aveva interrotto la lettura e adesso ci stava fissando.

«Sì» disse Beth, lanciandomi un'occhiata stupita. «Henry. Il figlio della preside.»

 

Ehilà! :D

Eccomi di ritorno (ricordate? Aggiornerò più spessAHAHAHAHA) con un capitolo pieno (pienissimo) di rivelazioni. Anzi, spero non vi siate persi. Il mistero si infittisce, con Night che sembra rimasto fermo al suo terzo anno di scuola, la preside che si serve di Beth per redimere John, il braccio destro di Night, e ora questo scarabocchio nero (sorry not sorry Henry)... cosa ci sarà sotto?

In tutto questo, un momento introspettivo di John (il suo pov mancava da troppo tempo) che in fase di scrittura non mi aveva entusiasmato ma che, rileggendolo adesso, ho apprezzato di più. Come avrete intuito, John non ha assolutamente concezione dei suoi sentimenti e di quelli delle ragazze che lo circondano. Vive in un'altra dimensione e, anche se fa tanto il duro, non ci sa assolutamente fare con le ragazze. È per questo che io e la vera Angie lo abbiamo soprannominato broccolo. John, sei un broccolo.  Spero di aver suscitato in voi un po' di compassione per la povera Annie. In questa fase della vita mi viene facile compatirla e provare solidarietà nei suoi confronti, sarà che sono in una situazione simile alla sua. Che pena, gente, che pena.

Non ho nulla da dire sulla scena di Arianna e Lucas perché boh, loro sono i miei amori. Mi fanno una tenerezza immensa :3 (Voce fuori campo: quanto sei vinteigge, faccine che non usavi dal 2010!) E anche Kia e Beth, che si vogliono un sacco di bene, malgrado i loro alti e bassi. Non temete, anche quella faccenda (LUCY!) verrà approfondita a tempo debito.

Un bacio, ci vediamo al prossimo capitolo (uno dei miei preferiti, tra l'altro!)

Cassidy.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** -•Capitolo 20 ***


 



Fu un miracolo che fossi seduta sul letto, quando Beth mi diede quella notizia, perché di colpo sentii le forze venire meno e per un momento credetti di svenire.

Henry Jefferson. Quel ragazzo senza volto, la cui foto sfigurata compariva solo per tre anni di scuola, era il figlio della preside. Preside che odiava a morte Night.

La mia testa stava per scoppiare. Tante, troppe informazioni che non sapevo dove collocare.

Beth e Arianna mi scrutavano in silenzio e, nel preciso momento in cui Angie fece il suo ingresso in camera, sbattendo la porta dietro di sé come se si fosse trattata di uno dei suoi nemici, seppi che la mia emicrania sarebbe solo peggiorata. Non tanto per la sua rumorosa entrata, quanto perché dovevo assolutamente metterla al corrente di ciò che avevo scoperto sul conto di Night.

«Che succede?» fece lei, squadrandoci con espressione stupita. «È morto qualcuno?»

Stavolta notai con una certa soddisfazione che Beth non fece nulla per prendermi in giro.

«Angie, dobbiamo dirti una cosa» mormorai, deglutendo rumorosamente.

Lei inarcò un sopracciglio, ma non fece commenti. Attraversò rapidamente la stanza e si lasciò cadere sul suo letto con uno sbuffo. «Allora?»

«Riguarda Night» mormorò Beth in tono serio.

L'espressione di Angie si fece d'un tratto molto interessata.

Quanto a me, mi voltai stupita verso Beth, che abbozzò un sorriso. Dai suoi occhi era scomparso ogni scintillio divertito e mi rincuorai nel vedere che sembrava aver finalmente preso sul serio la questione.

Osservandola da dietro la spalla, vidi che anche Arianna aveva definitivamente abbandonato la lettura e si era avvicinata al bordo del letto per sentire cos'avevamo da dire.

Feci un respiro profondo e tornai a fronteggiare Angie, che mi stava fissando con malcelata impazienza.

«Night...»

Intravidi un lampo di consapevolezza attraversare il suo sguardo.

«...non è migliorato» concluse lei, abbassando gli occhi.

«Esatt... aspetta, tu come lo sai?!» esclamai, a bocca aperta.

Angie sospirò. «Me l'ha detto lui. Ieri sera.» Di fronte alle nostre espressione stupite, aggiunse: «Probabilmente sperava che fossi troppo fatta per ricordarmelo.»

Deglutii, cercando di metabolizzare quell'informazione. Il fatto che Night si fosse aperto con Angie, comunque, era un'ottima notizia.

«E ti ha detto il perché?» le chiesi. Volevo sapere fin dove si fosse spinta la sua confessione.

Angie aggrottò le sopracciglia. «Perché non è stato migliorato?» Scosse la testa. «No, non me l'ha detto. Voi lo sapete?»

Ci fissò in trepidante attesa.

Beth ed io ci scambiammo uno sguardo preoccupato. Come avrebbe reagito la ragazza?

«Sì» dissi infine. «Night non è stato migliorato perché è entrato a scuola prima che introducessero la macchina.» Mi interruppi e la fissai intensamente. «...precisamente, otto anni fa.»

Il silenzio calò nella stanza.

«Otto anni fa?» La voce incredula di Arianna ruppe il silenzio.

Angie non aveva ancora detto nulla. Si era limitata ad abbassare lo sguardo sul pavimento e pareva ci stesse riflettendo su. Quando alzò di colpo la testa, tutte noi ci preparammo psicologicamente al peggio.

«Be', sapevo che era un coglione, ma non pensavo fino a questo punto» commentò, increspando le labbra.

Beth si lasciò sfuggire un risolino, io un sospiro di sollievo. Arianna stava scuotendo impercettibilmente la testa. Angie aveva reagito decisamente meglio del previsto.

«Quindi Night dovrebbe avere... diciannove anni?» domandò Arianna, pensierosa.

Angie scosse la testa. «No, diciotto. Non ancora compiuti, tra l'altro. Mi ha detto di essere un anticipatario.»

Annuii tra me e me. «Questo spiega il perché non abbia ancora potuto lasciare la scuola.»

«Ma non spiega il perché sembri in tutto e per tutto un nostro coetaneo» ribatté Arianna.

«È vero» mormorò Beth. «Non avrei mai detto che avesse diciott'anni...»

Mi morsi il labbro, capendo perché Night si mimetizzasse così bene tra studenti di quattro anni più piccoli.

«Non è lui il problema» dissi. Consapevole di avere gli occhi di tutte e tre fissi su di me, aggiunsi: «Siamo noi. Sono gli ormoni che ci hanno somministrato. Ci fanno sembrare più grandi della nostra età.»

«Ormoni?» ripeté Angie, fissandomi con occhi strabuzzati.

Annuii piano. «Me l'ha detto Brook. Quella macchina ci ha imbottito di ormoni. Così come il cibo che mangiamo, le medicine che prendiamo...»

Arianna si coprì la bocca con una mano. «Le fiale...» esclamò, lanciando un'occhiata d'intesa a Beth.

Un silenzio inquieto calò nella stanza e le ragazze si scambiarono delle occhiate preoccupate. Sembravano molto turbate e potevo capirle: dopotutto era stato uno shock anche per me.

«È per questo che i ragazzi sono così aggressivi, a scuola» spiegai. «E così allupati» aggiunsi, inarcando un sopracciglio.

«Oddio...» gemette Beth. «Siamo davvero finite in una scuola di maniaci.»

«Di certo questa scuola nasconde qualcosa» dissi. «E credo che Night lo sappia.»

Le ragazze mi stavano fissando con insistenza, aspettandosi che continuassi. Arraffai l'annuario del 1998 dalle coperte e mi voltai a guardarle una per una.

«È dal 1998 che Night continua a ripetere il terzo anno» spiegai. «Nel 1999 è stata introdotta la macchina, il cui scopo tuttora ci sfugge. Brook ed io pensiamo che sia successo qualcosa tra questi due anni. Qualcosa che ha portato alla creazione di quell'aggeggio.»

L'annuario era rimasto aperto sulla pagina di Night e indicai alle ragazze la figura scarabocchiata di nero.

«E poi c'è questo qui. Henry Jefferson. È un compagno di classe di Night, ma scompare dagli annuari dopo il 1998.»

«L'anno in cui Night è stato bocciato per la prima volta» mormorò Arianna.

Annuii gravemente. «E Beth mi ha appena detto che Henry è il figlio della preside.»

«Night odia la preside!» esclamò Angie. «Quando ci mandano insieme in presidenza lui la guarda come se...» Si bloccò, facendosi di colpo pensierosa. «Oddio... ecco chi chiamavano "puttana" i suoi amici!»

Un colpetto di tosse ci interruppe. Ci voltammo tutte e tre verso Beth, che stava giocherellando nervosamente con l'orlo della coperta, il corpo in tensione. Quando fu consapevole di aver attirato la nostra attenzione, alzò la testa. Era serissima

«C'è una cosa che non ti ho detto di Henry, Kia» disse, piantandomi gli occhi in faccia. Poi posò lo sguardo sulle altre, squadrandoci una ad una con lentezza estenuante.

«Penso di sapere cos'ha fatto Night» bisbigliò infine.

Dopo aver fatto un respiro profondo, Beth iniziò a raccontarci ciò che la preside le aveva detto.

****

Quando Angie aveva bisogno di sfogare la tensione, dipingeva.

Era come se, insieme ai colori, scaricasse sulla tela anche tutto lo stress che aveva accumulato, tutti i pensieri che le affollavano la mente. Più la tela si colorava, più la sua testa si faceva bianca, sgombra, leggera.

E, dopo quello che Beth aveva detto loro, Angie ne aveva disperatamente bisogno.

Era passata dalla professoressa Rooth per chiederle il permesso di usare l'aula di arte oltre l'orario scolastico e lei non aveva avuto nulla in contrario, raccomandandole solo di lasciare pulito.

Così Angie si era rifugiata lì. Adorava l'aula di arte. La sua classe non vi si recava spesso, forse perché anche la Rooth doveva essersi ormai rassegnata al fatto che i suoi compagni fossero degli idioti che di arte non capivano nulla.

Ma, quando Angie varcava la soglia di quel posto, si sentiva a casa. Attorniati da dozzine di sgabelli, due tavoli lunghi e stretti erano disposti parallelamente nella stanza. Due tavoli che ne avevano viste parecchie, a giudicare da tutte le macchie di colore che c'erano sul legno. 

In un angolo erano addossati i cavalletti e tra di loro erano state lasciate alcune statue in gesso, come se stessero giocando a nascondino. Tutt'intorno, sugli scaffali stracolmi, spuntavano tele, cartelle, mezzi busti e persino qualche maschera tribale rimasta a metà, che gli studenti forse avevano scordato lì. Angie avrebbe potuto passare delle ore in quel posto, con l'odore dei colori nelle narici. Un odore che le ricordava casa.

Quel giorno vi si aggrappò con tutta se stessa, nel tentativo di non crollare. Si era immersa nella routine con più energia del solito, cercando di non pensare a nient'altro. Aveva preso una tela, l'aveva poggiata sul cavalletto, poi si era dedicata alla preparazione dei colori, si era legata frettolosamente i capelli e infine si era messa all'opera.

Era così nervosa che, se avesse preso in mano un pennello, probabilmente lo avrebbe spezzato in due, così usò le dita. Quel giorno le tremavano febbrilmente e le linee che disegnavano sulla tela bianca erano irregolari, distorte. Erano esattamente come Angie si sentiva in quell'istante.

Così continuò, imperterrita, descrivendo linee su linee, coprendo colore con altro colore, macchiandosi le mani, le braccia, il viso, i vestiti, desiderando solo che Night scomparisse per un attimo dalla sua testa.

Kia le aveva detto che doveva essere lei a parlargli. Dopotutto adesso stavano insieme – Angie era così scioccata dal racconto di Beth che non aveva neanche avuto le forze di controbattere quell'affermazione – e, tra tutte, era sicuramente la più vicina al ragazzo. Ma Angie non aveva idea di come comportarsi con lui e, mentre si scagliava contro la tela con tutte le sue forze, si sentiva terribilmente combattuta. Una parte di lei avrebbe voluto solo evitarlo, l'altra moriva dalla voglia di chiedergli spiegazioni. Voleva disperatamente sapere se era tutto vero, se era quello il motivo per cui continuavano a trattenerlo a scuola.

«Non ci ho mai capito un cazzo, nell'arte astratta.»

Angie trasalì, pietrificata. Sapeva di doversi voltare verso la figura che aveva appena fatto il suo ingresso nell'aula, ma le gambe le erano diventate come marmo. Ci volle tutta la sua forza di volontà perché i suoi piedi le facessero fare il mezzo giro necessario a fronteggiare il ragazzo.

Night era fermo sulla soglia e stava fissando la sua tela, un sorriso divertito sul suo volto.

«Che ci fai qui?» bisbigliò, senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso.

Lui scrollò le spalle. «Si dà il caso che fossi nei paraggi...»

Probabilmente doveva aver origliato la sua conversazione con la Rooth, pensò lei, che però non riuscì ad articolare la frase. Era come se le parole le si fossero incastrate in gola, non riusciva a parlare né a deglutire.

Immobile come una delle statue dell'aula, osservò Night avvicinarsi al tavolo dove aveva poggiato la tavolozza, intingere l'indice nel rosso cremisi e poi voltarsi verso di lei, uno scintillio malizioso nello sguardo.

Il ragazzo si avvicinò con lentezza studiata, mentre lei continuava a fissarlo con occhi strabuzzati e, con un movimento fulmineo, le toccò il naso con il dito.

Angie sbatté le palpebre, percependo la macchia umida del colore sulla punta del naso, l'odore dell'acrilico nelle narici. Probabilmente doveva assomigliare ad una renna dal naso rosso, in quel momento. Sicuramente era molto, molto ridicola.

Si chiese cos'avrebbe fatto in condizioni normali. Sicuramente avrebbe imprecato. Poi si sarebbe vendicata: forse gli avrebbe dato qualche ceffone con le mani sporche di colore per dipingerlo a sua volta, oppure gli avrebbe fracassato la tela sul cranio. 

Qualcosa del genere.

Ma quel giorno Angie non era dell'umore. Diede le spalle a Night e afferrò lo straccio che aveva poggiato sul tavolo per pulirsi le mani.

«Ehi Rudolph, che ti prende oggi?»

Angie non si arrabbiò neanche nel sentire come l'aveva chiamata. Si voltò lentamente verso di lui. Night sembrava un cucciolo bastonato: era palese che fosse stupito e insieme deluso dalla sua passività. Si avvicinò di nuovo e si chinò su di lei, facendo per baciarla, ma Angie lo allontanò da sé.

«Che ti prende?» ripeté lui, inclinando la testa da un lato per scrutarla.

Angie evitò accuratamente il suo sguardo. Intorno a loro, i mezzi busti e i volti scolpiti nella creta li fissavano dagli scaffali come un pubblico.

«Ti devo chiedere una cosa» disse con un filo di voce.

Night le lanciò un'occhiata stupita, poi prese a camminare su e giù per l'aula, osservando le maschere che pendevano dagli scaffali.

«Spara.»

Angie deglutì. Le gambe le tremavano. Neanche lei riusciva a stare ferma, così si avvicinò al tavolo, prese la tavolozza tra le mani e ricominciò a dipingere con gesti nervosi.

«Le ragazze ed io...» Esitò. «...abbiamo iniziato ad indagare sulle stranezze di questa scuola.»

Lanciò un'occhiata di sottecchi a Night e vide che il ragazzo si era fermato nel bel mezzo della stanza. Ebbe un tuffo al cuore.

«Tu sai qualcosa, non è vero?» mormorò piano.

Ad ogni sua parola, l'espressione di Night si faceva sempre più cupa. Il ragazzo aveva serrato i pugni ed Angie si accorse che stava tremando impercettibilmente.

Per la prima volta da tempo immemorabile, Angie fu costretta ad ammettere a se stessa che aveva paura. Paura dell'ipotesi di Beth, paura di come Night avrebbe potuto reagire alle sue parole. Ma, nonostante il groppo che le attanagliava la gola e che le riduceva la voce ad un sussurro, gli fece comunque quella domanda.

«Cosa sai di Henry Jefferson?»

La sua domanda piombò nel più completo silenzio. Per un attimo ad Angie parve che anche le statue lì intorno stessero trattenendo il fiato, temendo la reazione di Night. Che non tardò ad arrivare.

«Niente che ti riguardi» disse lui, dopo un silenzio lunghissimo. La sua voce era ghiaccio.

Soffocando la paura, Angie azzardò qualche passo nella sua direzione.

«Night, noi vogliamo solo...»

«Voi volete solo impicciarvi di cose che non vi riguardano!» urlò lui.

Angie si ritrasse, intimorita.

«Tanto è sempre così, no?» proseguì Night, rosso di collera, avvicinandosi a grandi passi. Il labbro gli tremava dalla rabbia, lasciando scoperti i denti in quello che sembrava un ringhio.

«Ti diverti a fare tutto il contrario di tutto. Ti dico di non venire agli incontri della banda e tu ci vieni comunque. Se ti dicessi di farti i cazzi tuoi, quindi, so che continueresti con questa storia. Allora fallo, dai. Divertiti a fare l'investigatrice con le tue amichette.»

Night era ormai ad un passo da Angie. Il suo sguardo era truce.

«Perché quello che scoprirai non ti piacerà» sibilò. Poi caricò il pugno.

Angie chiuse gli occhi, incapace di reagire, ma lui non la colpì.

Le sue nocche infransero la tela dietro di lei. La preziosa carta si lacerò in un urlo silenzioso che solo la ragazza riuscì a udire.

Night le rivolse un ultimo, feroce sguardo e poi si voltò, uscì dalla stanza a passo di carica e sbatté la porta dietro di sé.

L'aula piombò di colpo nel silenzio. Angie rimase immobile per un lungo momento. Non voleva pensare a niente. 

Si voltò lentamente verso la tela squarciata, accarezzando i lembi sbrindellati con dita tremanti. 

Aveva sperato che Night la rassicurasse, invece quella reazione non aveva fatto che renderlo ancora più colpevole ai suoi occhi. Il mondo intorno a lei stava gridando: la tela, le maschere dalle grandi bocche sugli scaffali, la sua testa.

Si portò sovrappensiero una mano al volto, nel tentativo di zittire la sua mente e, quando la abbassò, realizzò che il colore doveva essere ancora un po' umido, perché le dita le si erano macchiate di rosso.

Per un lungo, orribile attimo, le sembrò che fosse sangue.

****

Mentre Beth raccontava loro ciò che sapeva, Arianna era stata colpita da un pensiero.

Un fastidioso pensiero che era rimasto lì, in un angolino della mente, e non c'era stato verso di allontanarlo per tutta la sera. Era arrivato persino a sostituirsi al cibo, il pensiero su cui la sua mente tornava in ogni momento, soprattutto quando si coricava per dormire. Allora, per quanto si sforzasse di concentrarsi su altro, già pensava alle calorie della colazione del giorno dopo, quella che avrebbe diviso con Lucas, e a quanti giri del campetto avrebbe dovuto fare per bruciarla. 

Ma non quella notte.

Al suo risveglio, quando credeva di essersi finalmente liberata di quell'irritante pensiero, scoprì che era sempre lì, come un fastidioso tarlo, che grattava contro la pareti della sua testa in attesa che lei lo prendesse in considerazione. 

Il pensiero aveva un nome. 

Gérard.

Arianna aveva seguito distrattamente le meticolose indagini di Kia, pensando che fossero solo un capriccio della ragazza e del suo improbabile nuovo amico e che si sarebbero risolte in un buco nell'acqua. Poi, però, la ragazza aveva scoperto quelle cose su Night. E Beth aveva parlato loro della sua ipotesi che, per quanto terribile, aveva la sua ragion d'essere.

Arianna era certa che Gérard nascondesse qualcosa. Il modo in cui l'aveva aggredita quando lei aveva osato nominare Night assumeva di colpo un senso. Non si trattava del delirio di uno squilibrato: il bidello sapeva qualcosa di quella storia e, vista la sua reazione spropositata, doveva anche trattarsi di qualcosa di grave.

Arianna sapeva di dovergli parlare. Ma sapeva altrettanto bene che c'era solo un modo per riuscire ad avvicinare quel custode – che forse un po' squilibrato lo era sul serio – e si sentiva male alla sola idea. 

Doveva farsi mettere di nuovo in punizione.

Così, quella mattina, mentre si vestivano in un silenzio più cupo del solito, che tutte sapevano essere provocato dalle rivelazioni del giorno prima, Arianna aveva messo a punto il suo piano. Aveva lanciato un'occhiata ad Angie, che era davvero giù di corda e aveva tutte le ragioni di esserlo, ritrovandosi a pensare che la ragazza aveva un vero e proprio talento nel farsi mettere in  punizione da Gérard. Ma, per una volta, neanche lei sarebbe stata da meno: forse non era tosta quanto Angie, ma anche lei aveva i suoi assi nella manica.

In mensa, aveva lasciato le ragazze per raggiungere Lucas, proprio come al solito.

Il ragazzo l'aspettava nel loro angolino di sempre e aveva messo al centro del tavolo la colazione di quella mattina. Arianna diede una sbirciatina: pain au chocolat e caffè americano. 

Non poi così terribile, pensò, salutando Lucas con un bacio a fior di labbra.

Dopo essersi messa a sedere, malgrado il nodo che le stringeva lo stomaco e che non aveva niente a che vedere con la colazione di quel giorno, afferrò il suo caffè e fece per portarselo alle labbra. L'americano non rappresentava un grosso blocco per lei: dopotutto era solo acqua.

«Ah ah.» Lucas la fermò un attimo prima che lei iniziasse a bere, agitandole davanti una bustina di zucchero. «Oggi con questo.»

Arianna sbuffò, allontanando da sé la tazza perché Lucas potesse metterle lo zucchero, ma non protestò. La sua mente, infatti, era tutta presa dalla figura di Gérard, in piedi sulla soglia della mensa, che fissava i ragazzi intenti a fare colazione come un avvoltoio famelico. Sembrava non vedere l'ora che scoppiasse una rissa per poter mettere qualcuno in punizione.

Lucas pareva stupito dalla sua totale accondiscendenza, ma si guardò bene dal farglielo notare. Arianna finì il caffè in tre sorsi e l'attimo dopo aveva inghiottito anche la sua metà di croissant.

L'espressione di Lucas a quel punto rasentava lo shock.

«Arianna, ma è fantastico!» esclamò dopo un momento, facendo un sorriso a trentadue denti.

Arianna poteva ancora sentire il sapore del burro che le danzava sulla lingua, ma si sforzò di ignorarlo e fece un respiro profondo. Era tempo di agire.

«Non pensi che meriti un premio?» bisbigliò quindi, facendogli l'occhiolino.

Lucas smise di sorridere e deglutì, fissandola con tanto d'occhi. Probabilmente si stava chiedendo che fine avesse fatto la sua Arianna, che di certo non flirtava con lui in pubblico e non gli strizzava l'occhio nel mentre.

Godendosi la confusione negli occhi di lui, Arianna gli rivolse un sorriso sghembo. Poi scattò in piedi e spinse indietro la sedia, con così tanta irruenza che quella cadde in terra, facendo voltare diverse persone verso di loro. 

Con movimenti estremamente lenti e studiati, poi, la ragazza montò a quattro zampe sul tavolo.

La scena nel frattempo stava attirando l'attenzione di tutti quanti, in mensa, e dai tavoli si levò ben presto un fitto chiacchiericcio, di cui loro, manco a dirlo, erano l'argomento principale. Dopotutto era un evento, che la coppia più chiacchierata della scuola stesse dando spettacolo in pubblico, quando molti si chiedevano se Arianna, con quella faccia priva di qualsivoglia emozione, avesse effettivamente un cuore nel petto e una vagina in mezzo alle gambe.

«A-Arianna...» balbettò Lucas, incapace di staccarle gli occhi di dosso, mentre lei gattonava verso di lui con espressione provocante, ancheggiando ad ogni passo.

Lanciando un'occhiata in direzione di Gérard, la ragazza vide che, malgrado il brusio che si stava diffondendo tutt'intorno, il custode non l'aveva ancora notata. In compenso, spostando lo sguardo su di loro, vide che le sue amiche sembravano sul punto di perdere l'uso della mascella, tanto avevano le bocche spalancate.

Trattenendo a stento l'irritazione, tornò a guardare Lucas con un sorriso da predatrice. Doveva fare di più e, quando vide che Lucas aveva una macchiolina marrone ad un lato della bocca, le venne un'idea.

«Ti è rimasto un po' di cioccolato qui» sussurrò, chinandosi su di lui, che indietreggiò sulla sedia, mentre intorno raddoppiavano i fischi e le risate.

«ARIANNA, MA CHE STAI FACENDO?!» gridò lui, gli occhi fuori dalle orbite. Forse stava riflettendo sull'ipotesi di aver messo della cocaina invece dello zucchero, nel suo caffè.

Incurante delle sue proteste, Arianna si chinò ancora di più, fino a trovarsi davanti il volto spiazzato del ragazzo. A quel punto tirò fuori la lingua e gli leccò via il cioccolato, indugiando sul suo labbro e socchiudendo gli occhi. Ne approfittò per lanciare un'occhiata di sottecchi a Gérard, che li aveva finalmente notati e sembrava incredibilmente, meravigliosamente infuriato.

Ce ne hai messo di tempo.

Sapendo che adesso il bidello avrebbe fatto rotta verso di loro, tornò a rivolgere l'attenzione sulle labbra di Lucas, baciandole con tutta la passione di cui era capace, malgrado il ragazzo fosse immobile sotto di lei e le sembrasse di baciare una statua.

Arianna scese dal tavolo e gli montò a cavalcioni, senza mai smettere di baciarlo, le mani che vagavano sulla sua camicia. Era già al terzo bottone, tra i fischi e gli applausi di tutta la mensa, quando la voce di Gérard li interruppe.

«BASTA COSÌ!»

Il tramestio si acquietò di botto: sembrava che tutti avessero trattenuto il fiato.

Arianna e Lucas si voltarono all'unisono verso il custode, che li stava fissando con le mani sui fianchi, il respiro corto e un'espressione orripilata dipinta sul volto.

«Voi due...»

Arianna percepì Lucas trattenere un gemito d'orrore e si affrettò a scendere da lui, facendosi avanti, incerta sulle gambe.

«No» si affrettò a dire, rivolta a Gérard. «Sono stata io.»

Si sentiva ancora addosso gli sguardi di tutta la scuola e si chiese come avesse potuto desiderare una cosa del genere, in passato.

«Tu, allora» sibilò il custode, incenerendola con lo sguardo. «Sei in punizione.»

Tra i ragazzi della mensa si diffuse un sottile mormorio di protesta. In fin dei conti, sembrava che tutti avessero gradito lo spettacolo.

Arianna abbassò gli occhi a terra e si sforzò di assumere un'espressione contrita. Sbirciando Gérard da sotto in su, vide che sul volto del bidello era comparsa l'ombra di un sorriso. Sembrava stesse godendo del suo disappunto.

Non poteva certo immaginare che, dentro di sé, Arianna stesse sorridendo a sua volta.

****

Beth rivolse un sorriso timido al professor Anderson.

«Lo pensa davvero?»

«Assolutamente» rispose lui, porgendole il tema. «Molto, molto... profondo. Complimenti, Beth.»

Quando, allo squillo della campanella che segnalava l'inizio della pausa pranzo, il professor Anderson aveva fatto cenno a Beth di venire alla cattedra, la ragazza aveva avuto un tuffo al cuore. Aveva fatto cenno alle sue amiche di avviarsi in camera senza di lei e si era avvicinata alla cattedra con la stessa aria con cui si sarebbe diretta alla forca. Il professor Anderson doveva aver corretto i loro racconti e per cos'altro l'avrebbe chiamata se non per annunciarle un votaccio?

Nel suo tema, Beth aveva deciso di mettere a confronto la vita dello stesso adolescente in due epoche diverse, per mettere in luce le tante differenze e le difficoltà che potevano scaturire dall'una e dall'altra. L'animo malinconico di Beth sguazzava in argomenti del genere, ma era certa di essere andata fuori tema e di aver lasciato anche qualche refuso perché, come spesso le accadeva, aveva scritto di getto e aveva a malapena riletto prima di consegnare.

Contro ogni sua previsione, però, il professore le aveva fatto i complimenti. Avrebbe consegnato i racconti alla classe il giorno seguente, ma voleva farle sapere con un po' d'anticipo cosa pensava del suo.

«Sai una cosa?» Il professor Anderson la scrutò da dietro gli occhiali. «Potresti partecipare al concorso di scrittura di quest'anno. Penso che il tuo racconto avrebbe buone possibilità.»

Beth sbatté le palpebre.

«Sul serio?» farfugliò infine. «Mi piacerebbe moltissimo!»

Il professore annuì. Pareva soddisfatto del suo entusiasmo.

«Bene. Ne riparliamo meglio domani, comunque» disse. Alzando gli occhi, si doveva essere accorto che in classe non era rimasto nessuno. «Non voglio trattenerti.»

Al settimo cielo, Beth si allontanò dalla cattedra, afferrò la cartella e, dopo aver rivolto un cenno di saluto al professor Anderson, lasciò la classe trattenendosi a stento dal saltellare.

Quella notizia l'aveva resa così fiera e felice al tempo stesso che, per la prima volta in quella giornata, non avvertì il senso di colpa che la opprimeva da quando aveva rivelato alle ragazze ciò che aveva scoperto su Henry, il pomeriggio prima.

Sapeva di essere la causa dell'umore nero che aleggiava fra le ragazze, in particolare Angie, e le dispiaceva da morire vederle così. Si sentiva quasi sollevata dal fatto di averle lasciate andare in mensa senza di lei, perché si sentiva molto a disagio in loro presenza, costretta com'era ad arrampicarsi sugli specchi per cercare di condurre una qualsiasi conversazione.

Beth sospirò, l'entusiasmo che scemava ad ogni gradino che saliva verso camera sua. D'altronde, che altro avrebbe potuto fare? Aveva dovuto dirglielo, quando Kia pareva ad un passo dalla soluzione di quel mistero. Quello stesso mistero che fino a poco prima lei aveva deriso e che di colpo si era fatto molto più oscuro di quanto tutte loro avrebbero mai creduto.

Aprì la porta della camera tenendo gli occhi bassi, così il foglio di carta che era stato fatto passare sotto lo stipite della porta fu la prima cosa che notò.

Giaceva nel bel mezzo del pavimento dell'ingresso, come se fosse stato messo lì apposta per lei, e Beth lasciò cadere la cartella a terra e lo afferrò con entrambe le mani, il cuore che iniziava a batterle forte.

Arianna non avrebbe mai permesso che ci fosse un foglio in disordine nella loro stanza, per cui Beth ipotizzò che dovessero averlo infilato sotto la porta dopo che le ragazze si erano recate in mensa e pensò subito che fosse qualcosa riguardante il mistero, il suo chiodo fisso in quegli ultimi due giorni. 

Un indizio, forse.

Così, quando vide sul foglio delle note musicali, per un attimo ne fu disorientata. Poi capì e tutto quello che era successo tra lei e John la investì di colpo come un'onda, facendola vacillare. I loro incontri a scuola, il bacio, gli spartiti che aveva fatto a pezzi quando lui non aveva avuto il coraggio di dirle cos'aveva fatto con Annie. Si ricordò di colpo di come Angie l'aveva conciata e fu presa dal panico: che fosse una lettera minatoria indirizzata a loro? Voleva vendicarsi di come la sua amica aveva ridotto quella che Beth ipotizzava fosse diventata la sua ragazza?

Ma non era niente di tutto ciò. Con un certo stupore, Beth realizzò che quello era lo spartito di una canzone che lei conosceva bene. Era di John Lennon, l'artista che Beth amava alla follia e che John detestava a morte. Il motivo per cui si erano scontrati la prima volta.

La canzone era Aisumasen (I'm Sorry).

And when I hurt you and cause you pain
Darlin' I promise I won't do it again*

Beth abbassò per un attimo lo sguardo sulle note e le parole che Lennon aveva dedicato alla moglie Yoko, ma non era quello che avrebbe dovuto notare.

A fianco del titolo, scritta a pennarello, c'era infatti una frase di John. Il suo John. Che le chiedeva di incontrarlo quel pomeriggio, dopo le lezioni, in pineta.

Una parte di Beth avrebbe voluto accartocciare lo spartito come aveva fatto con quelli in aula musica, ma il suo cuore non era d'accordo.

Chiuse gli occhi e strinse la canzone e le scuse di John al petto, con tutte le sue forze.

****

In quei giorni, Brook si sorprese a pensare a Kia un po' più spesso di quanto un alleato serio probabilmente avrebbe fatto.

Come quel pomeriggio, mentre si dirigeva verso la sua classe per le lezioni pomeridiane. Il pensiero di Kia lo colpiva sempre all'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, e lo lasciava intontito.

Il bello era che non sapeva neanche il perché. Cos'aveva di tanto speciale? Come qualunque altro studente di quella scuola, Kia era stata migliorata dalla macchina e di conseguenza era bella, ma aveva notato qualcosa di diverso in lei, rispetto alle altre ragazze che popolavano la scuola, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Forse era il fatto che non fosse inglese, forse era il suo nasino all'insù o forse erano i suoi enormi occhi bruni, per lo più sgranati durante le loro conversazioni. Per non parlare dei suoi capelli, che teneva sempre legati e che Brook un paio di volte aveva immaginato di sciogliere. Quando poi si era rendeva conto di che razza di pensieri gli venivano in mente, diventava rosso come un gambero e scuoteva la testa, cercando di tornare alla realtà. Una realtà di nome Lacey.

Sperava ardentemente che la sua ragazza non si fosse accorta di nulla, anche se, durante la loro ultima conversazione, lei aveva detto di trovarlo un po' strano. Brook aveva dato la colpa alla seccatura data dalla slogatura del polso e dal forzato riposo che ne era conseguito. Peccato che Lacey sapesse meglio di lui quanto odiasse giocare a basket.

In ogni caso, i suoi compagni di squadra non se l'erano bevuta. Vedendoli insieme in mensa, avevano subito iniziato a fare battutine idiote e, quando Brook aveva casualmente portato su di lei la conversazione, qualche giorno prima, il gesto non era certo sfuggito.

Dalle loro chiacchiere in mensa, comunque, Brook aveva scoperto un po' di cose su di lei, anche se non tutte ugualmente interessanti. Non gli importava, infatti, che Kia avesse come compagna di stanza quella che, secondo l'opinione generale, era la ragazza più bella della scuola, anche se di recente si era un po' sciupata: Arianna Rivers, che al momento stava con il loro capitano.

In compenso, aveva teso l'orecchio quando aveva sentito che Kia aveva origini hawaiiane – Hawaiiane? Fantastico, pensò – e che Shadow ci aveva provato a lungo con lei, ma era stato rifiutato. Non altrettanto fantastico. 

Seduto poco lontano da lui, a tavola, Brook aveva scoccato un'occhiata a Shadow senza farsi notare. Quel ragazzo era una specie di divinità, con la sua aria affascinante e i riccioli neri, che di recente il ragazzo aveva lasciato crescere e che adesso gli ricadevano sbarazzini sulla fronte, quelli per cui le ragazzine stravedevano. Brook aveva deglutito a vuoto. Se Kia aveva davvero rifiutato uno come Shadow, che speranza poteva avere lui?

In ogni caso, Brook non era un'idiota: sapeva che Kia non era affatto interessata a lui. Vedeva come lo guardava, come lo canzonava chiedendogli se facesse qualcos'altro nella sua vita oltre che studiare quei dannati annuari. Brook non gli aveva risposto, credendo che fosse professionale da parte sua non entrare nei dettagli, visto anche il poco tempo che avevano a disposizione, ma adesso si mangiava le mani. Avrebbe voluto raccontarle della sua passione per il cinema, del fatto che avrebbe voluto studiare in un'accademia, all'università. Che lei gli ricordava un po' Shannyn Sossamon. Che avesse capito che gli piacevano i fumetti? Sperava di sì. Magari piacevano anche a lei. E se invece aveva pensato che fosse uno sfigato?

Mentre attraversava a passo a passo svelto i corridoi, il suo telefono vibrò. Quasi gli venne un colpo quando vide che il messaggio che aveva ricevuto era proprio da parte di Kia.

Lesse le poche righe che aveva scritto. "Vieni da me dopo le lezioni. Camera numero 17."

Brook deglutì, lo rilesse altre due volte, poi si diede del deficiente. 

È per il mistero. È per il mistero

Oltretutto, quasi sicuramente ci sarebbero state anche le sue compagne di stanza.

Riprese a camminare e si ripromise di dirle tutto, una volta che quella storia fosse finita.

****

Quando Gérard era andato a chiamarla, quel pomeriggio dopo le lezioni, Arianna aveva fatto un respiro profondo, preparandosi psicologicamente per un altro round di cessi da pulire.

Ma stavolta le sue preghiere dovevano essere state ascoltate, perché il custode non la condusse nei gabinetti, ma nelle classi.

Arianna cercò di non mostrarsi troppo contenta, temendo che Gérard decidesse di cambiare idea di punto in bianco ma, quando varcarono la soglia della sezione A, si sentì incredibilmente leggera. Afferrata la scopa dalle mani del bidello, si mise a spazzare per terra con uno zelo che stupì persino il custode, il quale stava spostando i banchi in fondo all'aula per farle spazio.

Arianna gli scoccò un'occhiata mentre era di spalle e vide che il bidello non sembrava intenzionato ad andarsene: la ragazza aveva ipotizzato che, essendo da sola, stavolta Gérard si sarebbe messo a pulire con lei e ci aveva visto giusto. Dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo. Se il custode se ne fosse andato e l'avesse lasciata lì a sgobbare, senza neanche darle le risposte che cercava, tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani.

Per un po' i due pulirono in silenzio, interrotto di tanto in tanto dal cigolio dei banchi che strusciavano sul pavimento o dagli starnuti di Gérard mentre puliva la polvere di gesso dalla lavagna. Fuori dalla finestra, il sole del tardo pomeriggio aveva fatto capolino dalle nubi e proiettava una luce calda all'interno della classe.

Arianna stava passando l'alcol sui banchi con uno straccio, nel tentativo di cancellarvi una formula di matematica scritta a penna, quando alzò nuovamente gli occhi sul bidello, che le stava dando le spalle per rimettere a posto i banchi dove aveva già pulito. Deglutì a vuoto, capendo di non poter rimandare ancora.

«Gérard» mormorò, poggiando lo straccio sul banco.

Era la prima volta che uno dei due apriva bocca da quando erano entrati nella classe.

Gérard non si voltò, continuando ad avanzare con il banco tra le braccia.

«Che vuoi? Sei già stanca?»

La ragazza ignorò quel tono sprezzante. Anzi, apprezzò il fatto che l'uomo avesse deciso di tenere per sé un commento sulla sua costituzione fisica, che chiunque si sarebbe lasciato sfuggire, visto che in quel contesto calzava proprio a pennello.

Sentiva il cuore batterle con prepotenza nel petto e fu presa da una sottile ansia, quando disse: «Lei mi ha detto qualcosa su Night, l'altra volta.»

Il banco sfuggì dalle mani di Gérard e cadde rumorosamente sul pavimento. L'eco rimbombò per diversi attimi nella classe deserta.

Arianna non poteva scorgere l'espressione sul volto del bidello, perché quello continuava a darle le spalle, ma quel gesto parlava da sé.

Gérard si chinò per rimetterlo in piedi.

«Ti avevo detto di stare zitta» mormorò dopo un'eternità, mentre sollevava il banco. Il suo tono era apertamente ostile. «Specialmente se parli di cose di cui non sai nulla.»

Arianna, che non si aspettava più una risposta, trasalì di colpo, ma non si lasciò intimorire dalla sua voce scontrosa. Cose di cui non sapeva nulla? Pensò a quello che Beth aveva detto loro. Era solo un'ipotesi. Ma se si fosse rivelata giusta... decise di tentare.

«Però so cos'è successo a Henry Jefferson» disse, ostentando una sicurezza che non aveva.

Lì per lì Gérard non disse nulla. Poi si voltò lentamente verso di lei e, quando Arianna scorse il suo volto ammutolito, su cui le rughe erano ancora più accentuate del solito, seppe di averci preso. 

Night e Henry. Allora è vero...

Ma l'espressione del custode, nei cui occhi si agitavano convulsamente confusione e dolore, colpì Arianna più in profondità di quanto la ragazza avrebbe mai ammesso.

Per la prima volta, non vide Gérard come un bidello avvizzito, odioso e sadico.

Per la prima volta, lo vide solo come un uomo.

Un uomo vecchio e stanco che, a dirla tutta, le faceva un po' compassione.

****

«Allora, hai novità?»

Feci accomodare Brook accanto a me, sul letto, facendomi da parte con trepidazione. Non riuscivo a stare ferma. Davanti a noi, Beth ed Angie si stavano scambiando occhiate nervose.

Arianna non c'era. Stava scontando la punizione che Gérard le aveva dato, dopo il comportamento inspiegabile che la mia amica aveva messo in atto quella mattina. Tuttora faticavo a riprendermi: Arianna era salita sul tavolo, aveva leccato il volto di Lucas, lo aveva praticamente spogliato davanti a tutta la scuola. Ma perché? Era scontato che uno spettacolo del genere avrebbe suscitato le ire di Gérard e, dopo l'esperienza traumatica nei gabinetti, Arianna non si sarebbe mai più fatta mettere in punizione... a meno che non avesse in mente qualcosa. Forse c'era qualcosa sotto e sperai ardentemente che riguardasse la conversazione su Night che Gérard e Arianna avevano avuto nei bagni.

«Più di una» risposi, fissando Brook intensamente. «Tieniti forte.»

Scambiai un ultimo sguardo con le mie amiche, i loro volti tesi per la tensione. Non riuscendo a stare seduta un minuto di più, balzai giù dal letto e mi parai di fronte a loro, di spalle alla finestra, così da poterli guardare tutti in faccia.

«Abbiamo scoperto che Henry Jefferson è il figlio della preside» mormorai, spostando il peso da un piede all'altro.

Brook spalancò la bocca. «Che cosa?»

Per una volta fui io ad annuire gravemente.

«Proprio così. La mia amica Beth» spiegai, accennando a lei con lo sguardo, «ha avuto diversi colloqui con la preside e lo ha riconosciuto da una sua foto che lei tiene in presidenza.»

Brook, nel frattempo, era già partito in quarta. «Questo però non spiega perché le sue foto sono scarabocchiate, perché scompare dal...»

«Aspetta» dissi, incrociando lo sguardo della mia migliore amica. «Non è finita qui. Beth ci ha detto un'altra cosa.»

Le rivolsi uno sguardo esitante, chiedendole con gli occhi di ripetere quello che aveva detto a noi il pomeriggio prima. Sapevo che per lei non era facile ritornare su quella questione e, quando spostai lo sguardo su Angie, mi ricordai che per lei, se possibile, lo era ancora meno. Le rivolsi uno sguardo di scuse, ma la bionda non mi stava guardando. Teneva gli occhi bassi ed era visibilmente un fascio di nervi, mentre artigliava le coperte con le unghie. Non avevo mai visto Angie in quello stato. Mai.

Beth fece un respiro profondo e, rivolta a Brook, parlò tutto d'un fiato.

«Un giorno in cui mi aveva convocata io... le chiesi di lui. Di Henry. Ero sempre a disagio in presidenza, non sapevo mai cosa fare o dire, quella foto mi fissava dal muro... così gli chiesi chi era.» Beth si interruppe e abbassò gli occhi. «Lei mi rispose che era suo figlio.»

Alzò la testa di scatto e fissò Brook, serissima in volto. «E poi si commosse. Mi disse queste esatte parole: "Era un bravissimo ragazzo. Non si meritava quello che gli hanno fatto".»

Il silenzio calò fra di noi. Un silenzio incredibilmente pesante.

«Quindi non ha cambiato scuola» esclamò Brook, fissandomi con nuova consapevolezza. «È morto.»

«È morto» ripetei, annuendo.

Sentivo la tensione salire fra di noi. Angie non ci guardava e continuava a fissarsi le punte delle scarpe, ingobbita, le dita che stringevano convulsamente le lenzuola fino a farsi sbiancare le nocche. Sembrava sul punto di esplodere.

«Probabilmente nel 1998. Il primo anno in cui Night è stato bocciato.»

Parlavo piano, sapendo che ogni parola che pronunciavo era una stilettata per la mia amica. Ma dovevo andare avanti.

«Night è qui da otto anni. E la preside lo odia con tutta se stessa. Sembra odiarlo per una questione personale, più che per la sua condotta a scuola.»

Tutti stavano pensando la stessa cosa, anche se nessuno aveva il coraggio di dirla.

«Pensiamo che Night abbia ucciso Henry» dissi infine, dopo un silenzio lunghissimo.

****

Gérard era stato colto alla sprovvista.

Quando quella ragazzina secca aveva improvvisamente nominato Night, il suo corpo aveva avuto un tale sussulto che il banco gli era sfuggito dalle mani ed era caduto a terra. Nel rimetterlo a posto, poteva percepire lo sguardo di lei bruciargli sulla schiena.

E poi... Henry Jefferson. Erano anni che il volto di quel povero ragazzo continuava a tormentarlo e sentirlo nominare da una studentessa che non poteva avere idea di chi fosse era stato come essere colpiti da un pugno. Non era riuscito a dissimulare il suo spaesamento. Come diavolo faceva a sapere di lui?

«Tu...» Gérard la fissò, esterrefatto. Poi fu improvvisamene colpito da un pensiero. «Tu collabori con il biondino, vero?»

Sì, era senz'altro così. Gérard gli aveva procurato gli annuari e tutto il resto, ma di certo quel ragazzo si era rivelato più in gamba di quanto pensasse, se era riuscito a capire di Henry. Doveva aver iniziato a lavorare con quella ragazzina, che una notte aveva beccato con un'amica a curiosare nella stanza delle migliorie. Se ricordava bene, aveva provato a spiegare loro la fortuna che avevano avuto nell'essere state trovate da lui e non da un altro custode, che sicuramente avrebbe preso seri provvedimenti nei loro confronti ma, a giudicare dalla loro reazione, ci doveva essere stato qualche malinteso.

Alzò gli occhi sulla ragazza, che lo stava fissando con una maschera di impassibilità totale. Impossibile capire cosa le stesse passando per la testa.

«Sì» rispose infine lei, in un tono inafferrabile.

«Henry Jefferson...» Gérard sospirò e si dovette appoggiare contro un banco. La testa aveva improvvisamente preso a girargli. «Povero ragazzo. Non ebbe vita facile, qui.»

I suoi ricordi di lui erano perfettamente nitidi. A volte gli pareva impossibile che ciò che era accaduto ad Henry fosse avvenuto ormai sei anni prima. Se lo ricordava vagare nei corridoi, venire sballottato dai bulli. Le sue urla strazianti lo svegliavano ancora, la notte.

«È per questo che le sue foto sono tutte sfregiate, negli annuari?»

La mente di Gérard era lontana, la voce della ragazza gli giungeva ovattata. Si ritrovò ad annuire. «Gli fecero passare le pene dell'inferno...»

Rabbrividì al solo ricordo di ciò a cui aveva dovuto assistere. Gli pareva che la ragazza avesse nominato le foto dell'annuario, o se l'era solo immaginato?

«Scarabocchiarono le copie dell'annuario della scuola e bruciarono con l'accendino quelle degli studenti. Volevano...» Gérard deglutì. Aveva la gola secca. «Cancellarlo

La ragazza era rimasta in silenzio tutto il tempo, ma Gérard quasi non se ne rese conto.

Il ricordo di Henry, tornato prepotentemente a farsi sentire, era troppo pesante per poterlo tenere dentro di sé. Dopo tutti quegli anni, non ne poteva più. Forse in cuor suo voleva condividere quel fardello con qualcun altro. Forse fu per quello che continuò a parlare.

«Non so se lo odiavano tanto per i suoi problemi o per il fatto di essere il figlio della preside, ma...» Si bloccò, riscuotendosi. «Be', in ogni caso siete stati in gamba a capire tutto da soli.»

La ragazza aggrottò le sopracciglia. Dopo un momento, chiese: «Perché non ci ha aiutati di più?»

Il custode la fissò con una serietà tale da farla vacillare. Era la prima volta che vedeva tentennare quella ragazzina così solida e impassibile, malgrado l'aspetto macilento.

«Per Night» rispose lui.

Non c'era nient'altro da dire. Non avrebbe reso vani i suoi sacrifici.

La maschera di impassibilità indossata dalla ragazza parve incrinarsi e Gérard vide balenare della confusione nei suoi occhi.

«Per Night?» ripeté lei. Pareva non credere alle sue orecchie. Il suo tono si fece improvvisamente alterato, come fosse al contempo oltraggiata e scombussolata. «Lei sta proteggendo Night?»

Gérard annuì. «Ho sempre protetto Night» rispose.

Vedendo che la ragazza sembrava scioccata, si ritrovò ad abbozzare un sorriso che, pensò, doveva assomigliare più ad una smorfia. Era da un bel po' di tempo che non ne faceva uno vero, forse era un po' arrugginito.

«So che potrà sembrarti strano. Le punizioni, i richiami... tutto quanto. Ma voglio che Night si comporti bene, che la preside cambi idea su di lui.»

La ragazza si afflosciò a sua volta contro il banco, forse sopraffatta dal peso di quelle rivelazioni.

Gérard sapeva che doveva apparire come un vero mostro nei confronti di quel ragazzo, almeno agli occhi degli altri. Ma Night conosceva la verità, sapeva ciò che il custode stava facendo per lui, e quello era l'importante.

«Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per lui.» La sua voce risuonò nel silenzio. «Anche solo rimanere in questo... posto

Non si preoccupò di nascondere il sarcasmo. Dopotutto lei stava con il biondino, quindi sapeva quanto lui odiasse quella scuola. La decisione di insabbiare ogni cosa, di trattenere Night lì, la macchina, quegli stramaledetti ormoni. Non poteva esporsi, perché avrebbe reso vano il sacrificio di Night ma, se solo il biondino fosse riuscito a portare alla luce la verità e avesse distrutto la scuola e la reputazione della preside, sarebbe stata anche una sua vittoria.

«Ma perché fare tutto questo per lui?»

Dopo un silenzio lunghissimo, la ragazza parlò di nuovo.

«Dopo ciò che ha fatto a Henry?»

Gérard strinse improvvisamente gli occhi. Neanche lei sapeva la verità, quindi. Proprio come la preside. La tentazione era forte, fortissima, ma non poteva dirglielo. Eppure... dopotutto era morto, si disse Gérard. Forse poteva. Forse era giunto il momento.

La ragazza si era fatta avanti e lo stava fissando intensamente, pregandolo con gli occhi di dirle di più.

Gérard percepì le proprie difese cedere.

«Dopo ciò che Kyle ha fatto ad Henry» la corresse.

Udì i muri crollare intorno a lui, mentre le diceva come stavano veramente le cose.

Facevano un rumore meraviglioso.

****

Le mie parole furono accolte dal più totale silenzio.

Brook ammutolì.

Beth abbassò gli occhi a terra.

Angie si nascose la testa fra le mani. Le sfuggì un singulto.

Potevo capire il loro shock, perché era anche il mio. Eravamo partiti con l'indagare sulla ragione dell'esistenza di una macchina di ormoni ed eravamo finiti con lo scoprire un omicidio. Omicidio in cui era coinvolto il ragazzo di Angie. Non potevo neanche immaginare come si dovesse sentire lei.

«Io...» Brook scosse la testa. Era visibilmente scosso. «Non riesco a crederci. Night non ha niente da dire in proposito?»

«Night non mi ha detto nulla.»

Dal suo letto si levò la voce cupa di Angie.

«Nulla. Si è solo infuriato quando ho nominato Henry. Sembrava...» Alla ragazza mancò il fiato per un attimo. «...colpevole

Occhiate di muto nervosismo attraversarono la stanza.

«Quello che non mi spiego è... perché Night non è finito in un carcere minorile?» chiese Brook, corrugando la fronte. «Non ha senso.»

Scossi il capo. «Non ne abbiamo idea.»

«È come se questa scuola fosse diventata la sua prigione, però» bisbigliò Beth.

«E Night odia la sua carceriera» intervenne cupamente Angie.

Ci voltammo tutti e tre a guardarla.

«Sono stata ad un incontro della sua banda. È come se facessero di tutto per danneggiare l'immagine della scuola. Non se la prendono con gli altri ragazzi, no... solo con i professori.»

«Si sta vendicando di lei» osservò Brook, scambiandomi un'occhiata.

Tra di noi calò il silenzio per un attimo. Fu in quel momento che una voce s'inserì all'improvviso nella conversazione.

«NON È STATO NIGHT!»

Ci voltammo tutti di colpo verso la soglia. Arianna aveva fatto irruzione nella stanza, sbattendo la porta. Aveva il fiatone, segno che doveva aver corso per tutte le scale.

«Non è stato Night!» ripeté, ansimando.

Il mio cuore perse un battito. Angie si voltò a fissare Arianna e, per la prima volta da quando la conoscevo, sembrava davvero felice di vederla.

«Hai parlato con Gérard?» chiesi, venendo avanti.

«Sì» rispose lei.

Mi trattenni a stento dall'abbracciarla.

«Che ti ha detto?» intervenne Angie. Per quanto si sforzasse di nasconderlo, aveva la voce incrinata per l'emozione.

«Io non sono mai riuscito a cavargli di bocca niente...» mugugnò Brook.

Arianna si voltò a fissarlo, come se l'avesse notato solo in quell'istante. Facendosi di colpo pensierosa, disse: «Gérard mi ha parlato di te, Drac... Brook. Mi ha chiesto se collaboravamo.» Dopo un momento, aggiunse: «Ovviamente gli ho detto di sì.»

Mi lasciai cadere sul letto, di fianco a Brook, mentre Arianna avanzava al centro della stanza.

«Non è che abbia capito molto, in realtà» ammise. «Le risposte di Gérard equivalgono più o meno al responso di un oracolo.»

«Ma quindi Gérard sapeva la verità?» domandai, aggrottando le sopracciglia. «Perché non l'ha detto a nessuno?»

Arianna scosse la testa. «Non lo so. Non voleva dirlo neanche a me. Ma, a quanto pare, Henry era molto preso di mira a scuola e la cosa è degenerata. Night si è preso la colpa del suo omicidio, ma in realtà non è stato lui. È stato...» Si interruppe, lanciandoci uno sguardo perplesso. «Kyle?»

Sgranai gli occhi. «Kyle Marsh!» esclamai di colpo, facendo sussultare Brook, di fianco a me.

«Quel Kyle Marsh?» fece lei, voltandosi verso di me, mentre mi affrettavo ad annuire.

Chissà quanto doveva averla stordita Lucas, a forza di parlargliene.

«Quale Kyle Marsh?» intervenne Beth, confusa.

«Kyle Marsh, il giocatore di pallacanestro» spiegò Angie con ovvietà.

Mi voltai a guardarla, colpita. Le sue conoscenze nel mondo dello sport non avrebbero mai smesso di stupirmi.

«Vi vedo tutte molto appassionate di basket» fu il commento di Brook, visibilmente impressionato.

«Non sapevo che frequentasse questa scuola» disse Angie, stupita.

«Nemmeno io» risposi, afferrando l'annuario del 1998. «L'ho trovato per caso nelle foto.»

Scorsi rapidamente fino a raggiungere la sezione degli studenti dell'ultimo anno e, non appena lo ebbi individuato, indicai loro il bellissimo ragazzo. «Si è diplomato nel 1998.»

L'espressione di Beth si fece pensierosa. «Tornerebbe...»

Arianna scosse la testa. «Non siamo sicuri che si tratti di lui. Gérard non mi ha detto come faceva di cognome. Per quel che ne sappiamo, potrebbero esserci dozzine di altri Kyle.»

Brook sollevò uno degli annuari dalle coperte. «Be', allora controlliamo.»

Ci volle meno di un'ora per controllare tutti gli annuari di cui eravamo in possesso, tra quelli presi in prestito dalla libreria e quelli che Gérard aveva procurato a Brook dalla presidenza. Saltarono fuori solo altri due Kyle in tutto l'istituto di St. Elizabeth: uno si era diplomato nel 1997 e l'altro aveva iniziato a frequentare l'istituto nel 1999.

«Io lo conosco» mormorò Brook. «È adesso al quarto anno.»

«Non può essere lui» dissi. «Doveva trovarsi a scuola negli stessi anni di Henry.»

Chiusi con un tonfo l'annuario del Kyle diplomatosi nel 1997. «E neanche questo qui perché, fino al 1998, Henry era ancora vivo.»

Lo sguardo di tutti tornò sulla foto di Kyle Marsh.

«È lui» sussurrò Brook in un soffio. «È lui il vero mostro.»

«Non è stato Night...» la voce di Angie era traboccante di sollievo.

«Dobbiamo andare dalla preside» dissi, fissandoli uno ad uno. «E scagionare Night.»

 

*La canzone non mi appartiene. È "Aisumasen (I'm sorry)" di John Lennon.

E quando ti ferisco e ti provoco dolore

Cara ti prometto che non lo farò più

 

Ciao!

Aggiorno prima del solito, perché venerdì parto per Londra (tra l'altro farò parte del viaggio con la vera Angie, sono troppo contenta!), e non so quando riuscirò a pubblicarvi gli ultimi tre capitoli. Già, siamo alla fine! :D Gli ultimi capitoli sono i più adrenalinici e ricchi di colpi di scena, spero vi stiano piacendo (non so esattamente a chi io mi stia rivolgendo, ma continuerò a far finta che ci sia qualcuno che segue la storia XD).

Questo capitolo in particolare, come vi avevo preannunciato, credo sia quello che preferisco. (La vera Angie lo adora in particolare per la copertina... che ha fatto lei. Dovete sapere che la modestia è la prima delle sue qualità). Spero di avervi fatto percepire un po' di tensione, con la misteriosa rivelazione che Beth fa alle sue amiche e che viene taciuta fino alla fine, ma che provoca forti reazioni in tutte le protagoniste. Abbiamo inoltre un Night come non lo avete mai visto (ahh, e ancora ne devono succedere!), per non parlare dei tormenti di Gérard, che mostra ad Arianna il suo vero volto. Inizialmente la loro scena doveva svolgersi tutta dal punto di vista di lei, ma mi è venuto quasi naturale iniziare a descrivere gli avvenimenti attraverso i suoi occhi. Gérard è davvero affezionato a Night e odia a morte l'ambiente in cui lavora... nel prossimo capitolo scopriremo infine perché.

La scena di Arianna e Lucas era stata ideata a grandi linee dalla vera Arianna ed esisteva DA SEMPRE, solo che ho deciso di renderla parte del suo piano per farsi mettere in punizione, adattandola agli avvenimenti, così come l'incontro di Angie e Night nell'aula di arte, inizialmente pensato come una scena spensierata e romantica e fatta diventare all'occorrenza un momento al limite del tragico XD Devo ammettere che però mi piace. Spero davvero che sia piaciuto anche a (*fa un respiro profondo e si immagina qualche sporadico lettore, ignorando una dolorosa fitta al petto*) voi :D

Quanto a Brook, be', è un vero ciccino. Kia, SHAME ON YOU, che continui a stare con quel demente di Luke! Beth e John invece la finiranno presto di piangere e disperarsi e arriveranno infine ad un dunque, non temete. Non è colpa mia se sono due broccoli!

Un broccolo e al prossimo capitolo,

Cassidy.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** -•Capitolo 21 ***


 



Dopo l'iniziale euforia, Brook ci aveva bruscamente riportate con i piedi per terra.

«Non possiamo andare dalla preside» disse, spegnendo i nostri entusiasmi. «Non abbiamo prove. È la nostra parola contro la sua.»

«In realtà...»

Ci voltammo all'unisono verso Arianna, che ci fissava con uno strano sorrisetto stampato sul volto.

«Potremmo avere un testimone» disse e, di fronte ai nostri sguardi confusi, diede una rapida occhiata all'orologio. «Se andiamo adesso in presidenza, dovremmo trovare Gérard ad attenderci.»

Spalancai la bocca. «Sul serio?»

Angie assunse un'espressione colpita. «Arianna... non avrei mai pensato di dirlo, ma sei un genio.»

Lei si voltò verso la bionda e sogghignò. «Questa me lo ricorderò.»

«Come cavolo hai fatto a far collaborare quel matto di Gérard?» domandò Beth, a bocca aperta.

Arianna assunse un'espressione pensierosa. «Non lo so. Ma aveva l'aria davvero provata. Sembrava volersi disperatamente confidare con qualcuno.»

Mi scambiai un'occhiata d'intesa con Brook. Potevamo immaginare quel che intendeva dire.

«Mi ha fatto pena» ammise Arianna, abbassando gli occhi a terra per un attimo. Poi si rivolse a me. «Non so cosa l'abbia spinto a dire la verità ma, quando gli ho spiegato cos'avevate intenzione di fare tu e Brook, di andare dalla preside e portare tutto alla luce, si è offerto di aiutarci.»

«Allora andiamo!» proruppe Angie, già sul punto di aprire la porta.

«Aspetta» dissi, poggiandole una mano sulla spalla.

Lei si voltò verso di me e assunse un'aria confusa. Ma fu solo un attimo.

«Night» disse, come leggendomi nel pensiero.

Annuii. «Non so se vorrà recarsi dalla preside con noi, ma è importante. Questa storia lo riguarda in prima persona, dopotutto.»

«Proverò a parlarci» mormorò lei, aggrottando le sopracciglia. «E cercherò di convincerlo. È così ingiusto...»

La scrutai, senza riuscire a mascherare del tutto il mio stupore. Il turbamento di cui era vittima era una totale novità per me. Da quando Beth aveva ipotizzato che lui potesse essere il responsabile della morte di Henry, Angie era cambiata. Doveva aver finalmente ammesso a se stessa che provava qualcosa di più che dell'odio nei confronti di quel ragazzo. Il sollievo che aveva provato dopo aver ascoltato le parole di Arianna ne era la prova.

«Voi avviatevi» disse la bionda, fissandomi con rinnovata sicurezza. «Vi raggiungeremo al più presto.»

Il fatto che avesse parlato al plurale mi riempì di speranza. Se Angie si metteva in testa una cosa, era difficile che non la portasse a termine.

La osservai lasciare la stanza e poi mi voltai un attimo verso gli altri.

«Allora, ci siamo?» domandai, il cuore che mi batteva forte nel petto. Stavamo per recarci dalla preside: il momento della verità era finalmente arrivato.

Incontrai gli sguardi sicuri di Brook ed Arianna ma, quando incrociai quello di Beth, lei lo evitò per un attimo e abbassò gli occhi sul pavimento.

«Beth...» mormorai, piano. «Te la senti di venire dalla preside anche tu?»

Non doveva essere facile per lei, che con quella donna misteriosa aveva già avuto a che fare in abbondanza. Probabilmente avrebbe preferito non fare ritorno in presidenza.

Beth scosse la testa. «Non è questo. È che...» si bloccò, guardandosi intorno nella stanza.

Sotto i nostri occhi perplessi, la ragazza si diresse verso il comodino, dal quale afferrò quella che aveva tutta l'aria di essere una lettera.

Me la passò senza dire una parola ed io le diedi una rapida occhiata. Non era una lettera, realizzai con un certo stupore, ma lo spartito di una canzone di John Lennon. Perché mai... no, c'era una scritta, proprio di fianco al titolo, che parlava di un incontro in pineta, quel pomeriggio. Firmato John.

Alzai gli occhi su Beth, che mi fissava in trepidante attesa, come se spettasse a me dirle cosa fare. Scossi il capo, vagamente divertita di fronte a quell'espressione così seria e obbediente.

«Ci vuoi andare?» chiesi, abbozzando un sorriso.

Ma sapevo che si trattava di una domanda retorica. Per quanto John potesse non starmi simpatico, per quanto Beth avesse sofferto a causa sua, non potevo competere con lo sguardo che in quel momento lei aveva negli occhi. Era lo sguardo di una persona follemente innamorata.

«Io...» Beth esitò. Sembrava preda di un feroce conflitto interiore. Strinse i pugni, levò gli occhi al cielo e, dopo un momento, esplose. «Sì, dannazione! Nonostante tutto, sì. Vorrei davvero sentire cos'ha da dire.»

Scossi la testa, non riuscendo a trattenere un sorriso. Le restituii il foglio e nel farlo le strinsi forte le dita della mano, lanciandole uno sguardo d'intesa.

«Allora vai» dissi, per poi scoccarle una scherzosa occhiata d'avvertimento. «Ma cerca di fare in fretta!»

****

John l'aspettava nella pineta, vicino alla panchina in cui, mesi e mesi prima, i due si erano incontrati, una notte in cui nessuno dei due aveva particolarmente sonno.

Certo, l'atmosfera era molto meno intima, con gli altri studenti che gironzolavano nei paraggi, passeggiando o prendendosi a pugni, con un'avvincente colonna sonora di grida animalesche di sottofondo che Beth si decise a ignorare, mentre si avvicinava a passo svelto verso John. Il ragazzo era in piedi e camminava avanti e indietro, dando calci agli aghi di pino come fosse sovrappensiero, la sua chitarra adagiata sopra la panchina.

«Ciao» mormorò Beth, bloccandosi ad un passo da lui e lanciandogli un'occhiata incerta.

John si arrestò e si voltò di scatto a fissarla, sgranando gli occhi. Sembrava stupito della sua presenza.

«Sei venuta» disse.

Perspicace

Beth tirò fuori lo spartito dalla tasca, ormai un po' spiegazzato, e glielo sventolò davanti. «Sai com'è, non posso resistere al richiamo di Lennon.» Facendo un sorrisino storto, aggiunse: «I tuoi gusti musicali sono migliorati!»

John levò gli occhi al cielo ma, a giudicare dal sorriso che gli spuntò sulle labbra e tradì quell'iniziale gesto d'insofferenza, sembrava piuttosto divertito.

«Sai...» esitò, evitando per un attimo il suo sguardo, come se tirare fuori le parole di bocca gli costasse un grande sforzo. «...devo ammettere che non è poi così male. Mi rivedo un po' in lui. Sembra che stia sempre a rimediare ai casini, scusandosi a destra e a manca. Tipo in Jealous Guy

«Ah sì?» fece lei lapidaria, posandosi le mani sui fianchi e pensando che, effettivamente, facesse proprio al caso loro.

Come ogni altra canzone di John Lennon, ovviamente, la conosceva a memoria. «Come la parte che fa:

I didn't mean to hurt you
I'm sorry that I made you cry
Oh my I didn't want to hurt you

I'm just a jealous guy»

Cantò con voce salda, l'accusa che si insinuava fra le note, e ben presto John si ritrovò a fissare il tappeto di aghi di pino con improvviso interesse.

«Già» s'interruppe Beth, decisa a punzecchiarlo ancora un po', mentre la canzone continuava a tutto spiano nella sua testa. «John si doveva scusare con un sacco di donne.»

Gli piantò gli occhi in faccia, aspettandosi che cogliesse anche questa frecciatina e, nonostante John di norma possedesse più o meno l'acume della sua chitarra, anche stavolta sembrò andare a segno.

«Ti devo delle scuse» esclamò lui di getto. Il suo sguardo e il suo tono erano spaventosamente sinceri. «E delle spiegazioni. Anche se non sono molto bravo con le parole, lo sai.»

Beth incrociò le braccia sul petto e inclinò leggermente la testa, come per invitarlo a parlare. «Dimmi.»

«Quello che è successo con Annie...» John si bloccò ed evitò il suo sguardo, prima di tornare a guardarla, gli occhi color antracite fissi nei suoi. «...non me lo spiego neanche io. Per questo ti ho evitata in quel modo e non sono riuscito a spiegarti come sono andate davvero le cose. Vedi, Annie è la mia più cara amica.»

John stava dicendo la verità. Beth poteva percepire il suo sforzo nell'articolare le parole, nello sputare fuori la confusione che gli si agitava dentro. E, proprio perché si trattava di un momento di sincerità, Beth percepì una fitta al petto nell'udire quelle parole su Annie. Cercò tuttavia di non far trapelare niente all'esterno e di continuare ad ascoltare il ragazzo.

«Ci conosciamo da sempre e lei mi è stata sempre accanto, soprattutto...» La voce gli tremò e i suoi occhi si fecero velati per un lungo attimo. «...quando ho perso una persona cara.»

Beth trasalì di colpo. Non sapeva niente di tutto ciò. Scrutò John con attenzione, il suo dolore che minacciava di traboccare fuori, e d'un tratto lo vide con occhi diversi. Si era sempre cullata nel suo, di lutto, credendo di aver vissuto una situazione unica nel suo genere e che nessuno avrebbe mai capito cosa stava passando, ma in un soffio realizzò che il dolore era uguale per tutti. Forse anche John aveva avuto la sua Lucy, forse anche lui sentiva tutti i giorni la sua mancanza come se di punto in bianco gli avessero strappato via un braccio.

«Ma, quando le ho detto di quello che era successo con te, lei ha dato di matto. Non l'ho mai vista così. È scoppiata in singhiozzi e poi mi ha baciato. Questo è quello che è successo.»

John aveva un'aria talmente confusa, con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo perso, che a Beth fece tenerezza, anche se la descrizione di ciò che Annie aveva fatto aveva provocato in lei ben altri sentimenti, riconducibili più che altro all'omicidio.

John non era affatto uno stupido né un bonaccione come Lucas, ma era evidente che nelle faccende amorose non ci vedesse ad un palmo dal naso. Non avrebbe voluto insistere sulla questione Annie, che la infastidiva terribilmente, ma capì che doveva dirglielo.

«John» mormorò lei piano.

Il suo tono dolce gli fece alzare di colpo gli occhi verso di lei, un'espressione ancor più confusa che si faceva spazio sul suo volto.

Dopo una lunga pausa, la ragazza sospirò e disse: «Annie si comporta così perché è cotta di te.»

Come prevedibile, John fece la stessa faccia che avrebbe fatto se lei gli avesse detto che Annie in realtà era un uomo. 

Magari, pensò Beth, maledicendosi tra sé e sé l'attimo dopo.

«CHE COSA?»

Beth sbuffò. «Lo noterebbe chiunque.»

John scosse la testa, come per scrollarsi di dosso quella notizia. «No, non è possibile, noi siamo amici! E poi a me Annie non piace in quel modo!»

Beth si trattenne a stento dal fare un sospirone di sollievo. Almeno su quello, John sembrava avere le idee molto chiare. «Be', allora devi dirglielo.»

John annuì. «Sì. Glielo dirò.»

Beth tossicchiò. «Bene.»

Ne aveva abbastanza di quella seduta psicologica non prevista incentrata sulla sua arcinemica! Voleva riportare l'attenzione su loro due e, nella furia di pensare ad un espediente con cui tornare sulla questione, si ritrovò a dire, tutto d'un fiato: «Be', quando avrai fatto chiarezza sui tuoi sentimenti, mi dirai anche cosa provi per me.»

Dopo aver realizzato ciò che aveva appena detto, si coprì la bocca con le mani e arrossì di colpo.

Non ebbe il coraggio di guardare subito John in faccia e, quando infine riuscì a lanciargli un'occhiata di sottecchi, vide che il ragazzo aveva assunto di colpo un'aria molto seria.

«Ho una gran confusione in testa, non lo nego» asserì lui, abbozzando un sorriso. «Ma credo di sapere già cosa provo.»

Beth deglutì a vuoto e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, il cuore che le si impennava nel petto.

«È per questo che ti ho scritto quel messaggio, dopotutto.»

John le diede un attimo le spalle, afferrò la chitarra dalla panchina e tornò a fronteggiarla, mentre Beth faceva il possibile per non andare in iperventilazione.

«Come ti ho detto, però, non sono molto bravo con le parole, quindi...»

John fece per pizzicare le corde della chitarra, quando il trillo della campanella che annunciava la cena li interruppe.

Beth si voltò di scatto verso il vialetto d'ingresso, già preso d'assedio da un branco di ragazzi affamati, e in un soffio realizzò che doveva raggiungere gli altri in presidenza.

Imprecò tra i denti. A forza di parlare di Annie, aveva dimenticato lo scorrere del tempo.

Si voltò di scatto verso John, rimasto con le dita a mezz'aria, e lo fissò con occhi imploranti. «Mi dispiace John, devo scappare. Ma tornerò ad ascoltare quello che hai da dirmi, te lo giuro.»

Piantò i suoi occhi in quelli del ragazzo, nei quali era balenata un'ombra di delusione, e aggiunse, ignorando il groppo che le stava serrando la gola: «Non vedo l'ora.»

A malincuore, fece per dargli le spalle ed allontanarsi, ma lui le afferrò il polso e la costrinse a voltarsi di nuovo verso di lui.

«Aspetta» bisbigliò. «Almeno questo.»

Beth vide John chinarsi su di lei e non fece neanche in tempo a realizzare quello che stava succedendo che le labbra del ragazzo furono sulle sue.

Il cuore di Beth per poco non resse il colpo e la ragazza si dovette aggrappare a John con tutte le sue forze; in ogni caso, lui non ne sembrò troppo dispiaciuto, anche se fece tutto il necessario per proteggere la sua chitarra da quel contatto ravvicinato.

Beth sorrise contro la sua bocca, una miriade di emozioni che le sfarfallavano nello stomaco.

Si staccò da lui dopo quello che poteva benissimo essere un secondo o un intero secolo. 

Altro che secolo, io devo andare in presidenza!

Si allontanò dalle sue braccia a malincuore e, con gli occhi fissi in quelli di lui, Beth capì che non aveva bisogno di ascoltare nessuna canzone. Le bastò ricambiare quello sguardo per sapere che John era innamorato tanto quanto lo era lei.

Il sorriso sul suo volto le si allargò ancora di più, mentre si incamminava a passo svelto verso l'ingresso, senza dire una parola. Voltandosi verso John, vide che lui era sempre fermo vicino alla panchina, con la chitarra fra le braccia, che la osservava sorridendo a sua volta.

Era così concentrata a fissarlo come un'idiota che non fece caso alla direzione in cui stava andando e, camminando sempre più veloce, finì per stamparsi rumorosamente contro qualcosa, o meglio qualcuno.

«Cazzo!» imprecò Beth, quando qualcosa di caldo e bruciante le inzaccherò la camicia, scottandole la pelle al di sotto.

L'odore intenso del caffè le si insinuò nelle narici e, abbassando gli occhi, la ragazza vide con orrore una macchia marrone allargarsi sulla sua camicia bianca e gocciolare a terra.

«Accidenti, mi dispiace!»

Alzando gli occhi su colui contro cui si era scontrata, Beth vide che un povero ragazzo le stava rivolgendo un nervoso sorriso di scuse. In mano stringeva un bicchierino, ormai vuoto, ipotizzò Beth, visto che quel fottuto caffè le era arrivato anche nelle mutande.

«Fa niente» tagliò corto lei, sbuffando e superandolo di slancio.

Superati i gradini d'ingresso e giunta nell'atrio, si fermò. Abbassando lo sguardo sul pavimento dietro di sé, vide che si stava lasciando alle spalle una scia di macchie di caffè e sospirò rumorosamente. Kia avrebbe dovuto aspettare, pensò, mentre invertiva la rotta e si dirigeva verso i dormitori.

Mentre correva sulle scale, si chiese sovrappensiero se la caffeina le sarebbe arrivata nel sangue per osmosi. Ne avrebbe avuto un disperato bisogno.

****

Come Arianna ci aveva preannunciato, Gérard ci aspettava davanti alla porta della preside.

«Allora, siete pronti?» esclamò quando Brook, Arianna ed io lo raggiungemmo, lanciandoci un'occhiata d'intesa.

Non riuscii a trattenermi dal fissare Gérard come se gli fosse improvvisamente spuntato un terzo occhio in mezzo alla fronte. Era così strano... quell'uomo che ci aveva rimproverato, lanciato occhiate di disprezzo, osteggiato in ogni modo, oltre all'aver assegnato ogni genere di punizione ad Angie e Night, adesso ammiccava verso di noi con aria complice.

Continuai a fissarlo come un'idiota e ringraziai silenziosamente Arianna per la sua prontezza di spirito.

«Sì, certo» si affrettò a dire lei. «Ci siamo.»

«Bene» disse lui. «Dobbiamo fare in fretta.»

Gérard bussò alla porta e, senza attendere risposta, la aprì di slancio.

Non so esattamente cosa mi aspettassi all'interno. Forse che la preside, seduta alla scrivania con l'aria di chi stava tramando qualcosa di sospetto, avrebbe alzato gli occhi su di noi con aria colpevole, colta nel bel mezzo dei piani malefici che stava architettando alla scrivania; forse che la preside, in piedi contro un'immaginaria finestra, con aria assorta e malinconica, si sarebbe voltata verso di noi sospirando, come se sapesse esattamente il motivo per cui eravamo lì.

Ma non certo che la preside, in piedi a lato della scrivania, stesse gettando frettolosamente il suo foulard ed un paio di fogli nella sua borsa come stava facendo, con l'aria nervosa di chi era sul punto di andarsene e aveva anche abbastanza fretta.

Vedendoci entrare tutti assieme, la donna si bloccò a fissarci con aria visibilmente confusa, facendo vagare lo sguardo su noi ragazzi, per poi lanciare uno sguardo interrogativo a Gérard.

Avendolo alle spalle, non so che espressione dovette assumere il custode, ma dovette bastare. La donna abbandonò la borsa a terra e si lasciò cadere sulla sedia della scrivania con un sospiro.

«Che succede?» domandò. Non potei fare a meno di notare che il suo tono di voce sembrava essere molto stanco.

Ci indicò con lo sguardo le due sedie di fronte alla scrivania e, dopo esserci scambiati un'occhiata, fummo Arianna ed io a sederci. Brook si appoggiò al bracciolo della mia sedia, mentre Gérard rimase in piedi. Scoccandogli un'occhiata di sottecchi, così immobile e saldo, il bidello mi ricordò un albero vecchio e nodoso.

Mi diedi una rapida occhiata intorno, troppo nervosa per riuscire a incontrare lo sguardo della preside. Il suo ufficio era piuttosto spoglio, sebbene molto elegante, con lucidi mobili in legno di mogano e un enorme tappeto dall'aria paurosamente costosa. Di fronte a noi, il volto di Henry ci fissava da una foto appesa al muro e mi scoprii a trattenere il fiato. Non avevo mai visto una sua immagine che non fosse stata sfigurata ma, adesso che me la ritrovavo davanti, capii perché Beth l'aveva riconosciuta subito: era la stessa identica foto dell'annuario, sebbene non scarabocchiata di nero, e ritraeva un gracile ragazzo dai corti capelli biondi e lo sguardo un po' vacuo.

Un colpetto di tosse da parte della preside mi riportò bruscamente alla realtà. Mi scambiai un'occhiata con Brook ed Arianna, ugualmente tesi e incerti su chi avrebbe dato inizio alle danze, ma inaspettatamente fu Gérard a parlare per primo.

«I ragazzi sono qui per dirle una cosa» mormorò, in tono neutro.

La preside si limitò ad inarcare un sopracciglio e poi spostò il suo sguardo indecifrabile su di me, che presi a sudare freddo. Doveva essersi trattato di un caso, ma capii che ormai non potevo più tirarmi indietro e mi schiarii la voce.

«In questo periodo ci siamo trovati a fare delle ricerche su questa scuola» spiegai, bloccandomi per studiare la sua reazione.

Il volto fermo della preside mi ricordò l'espressione peculiare di Arianna: sembrava che niente dei nostri affari terreni potesse smuoverla.

«Vede, noi... abbiamo scoperto cosa successe a suo figlio.» Mi interruppi di nuovo e stavolta vidi un lampo di sorpresa attraversare lo sguardo della donna.

«Quello che è accaduto è terribile, ma c'è stato un errore. Non fu Night a fare...» esitai, vagamente a disagio all'idea di nominare l'omicidio di Henry di fronte a sua madre, non sapendo come avrebbe reagito. Sì, fino a quel momento il massimo dello sbalordimento erano stati sopracciglia inarcate e lampi di sorpresa ma, suvvia, si trattava pur sempre della morte del proprio figlio.

«Non fu Night a fare quello che lei crede abbia fatto ad Henry, ma Kyle» intervenne Brook e gli lanciai uno sguardo colmo di gratitudine.

«Kyle Marsh» precisò Arianna.

«Non è possibile.»

Alzammo gli occhi sulla preside. Nel nominare Night, il suo sguardo si era improvvisamente indurito, al pari del suo tono di voce, che si era fatto tagliente almeno quanto il tagliacarte che teneva in un angolo della scrivania.

«Lui è stato accusato ingiustam...» fece per dire Arianna, ma la preside la interruppe bruscamente.

«No» disse. I suoi occhi erano ridotti a fessure. «Lui confessò.»

Per poco non caddi dalla sedia. «Lui confessò?»

«Ma perché?» domandò Brook, a bocca aperta, lanciandomi uno sguardo confuso.

Ero confusa almeno quanto lui. Perché Night si era preso la colpa di un omicidio che, almeno secondo Gérard, non aveva compiuto?

«Perché Night è il colpevole» mormorò la preside, in un tono che non ammetteva repliche. «Se non avete altro da dire, potete andare.»

Lanciai un'occhiata disperata a Gérard, l'unico testimone della vicenda, colui che aveva promesso di darci una mano. Nel ricambiare il mio sguardo, vidi un lampo attraversargli gli occhi. 

C'è dell'altro.

«Night confessò solo per proteggere Kyle» disse infine lui con un sospiro, rivolto alla preside.

****

Non era stato Night. Non era stato Night. Non era stato Night!

Angie continuava a ripeterselo nella testa e si sentiva leggera, mentre correva sulle scale così velocemente che più di una volta volte pensò che si sarebbe spezzata l'osso del collo. Ma in quel momento, a dire la verità, non le poteva importare di meno.

Era come se Arianna le avesse dato la migliore notizia della sua vita e, quando l'aveva fatto, Angie si era trattenuta a stento dal gridare il suo nome, dall'abbracciarla, dal portarla in trionfo. Si trattava pur sempre di Arianna, dopotutto.

Adesso voleva soltanto parlare con Night e, mentre lo realizzava, la ragazza si stupì del suo stesso pensiero. Parlare, non picchiare, prendere a pugni, sprangate nei denti, calci nelle palle. Eppure era proprio così. In lei si agitavano il senso di colpa per aver dubitato di lui e una marea di altre emozioni a cui non avrebbe saputo dare nome.

Uscita dalla sua stanza, Angie aveva bussato alla porta della camera diciotto con persino più foga del solito, ma era stato Shadow ad aprirle e, nel vederlo, la ragazza aveva trattenuto a stento la delusione.

Il ragazzo era rimasto visibilmente confuso, tanto da quella reazione quanto dalla sua agitazione nel chiedergli dove diamine fosse il suo amico.

Stando alle parole di Shadow, Night doveva trovarsi in giardino ed Angie uscì dal portone d'ingresso come una furia, bloccandosi sui gradini per potersi guardare intorno tra i ragazzi che bighellonavano in attesa della cena. Si era alzato un bel po' di vento e i ricci biondi le volteggiavano intorno al viso come dotati di vita propria.

E poi lo vide. Night era nei pressi della fontana e stava fumando, attorniato da Adam e altri membri della sua banda che aveva conosciuto la notte dell'incontro ma di cui aveva già scordato il nome. Nel vederlo, Angie ebbe un tuffo al cuore.

Gli occhi fissi su di lui, la ragazza lo raggiunse correndo e lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lei.

«Ehi» esclamò lui, sorpreso.

A giudicare dallo sguardo confuso che le rivolse, la ragazza doveva avere un'aria davvero turbata.

Il suo tono era freddo ed Angie si ricordò come in un sogno di come si erano lasciati l'ultima volta, della paura che aveva provato, del pugno di lui contro la tela, della porta dell'aula che sbatteva.

La sua apparizione, in ogni caso, suscitò l'entusiasmo e l'ilarità degli amici di Night, che presero a chiacchierare fitto fitto tra di loro e a lanciare delle occhiate maliziose in direzione di quella che doveva essere la loro coppietta preferita.

«Ti devo parlare» disse lei, cercando di suonare il più seria possibile. «Da solo» precisò, lanciando un'occhiata eloquente ai suoi amici.

«Non ho molta voglia di parlare» replicò lui, portandosi la sigaretta alle labbra. «Lasciami in pace, per favore.»

Angie lottò contro l'improvviso impulso di gettarlo nella fontana. Razza di idiota! Lei si era precipitata lì apposta e lui faceva l'offeso. Possibile che non capisse la gravità della situazione?

La sua mente correva veloce, alla ricerca di un modo per convincerlo. Abbandonò a malincuore l'ipotesi della violenza e gli piantò gli occhi in faccia, optando per l'arma della dialettica.

«Ho scoperto come stanno veramente le cose» disse quindi, alzando il mento in segno di sfida. Non aveva idea di quanto ne sapessero gli amici di Night di quella storia, ma decise che non gliene importava niente. «Che non sei stato tu, ma Kyle.»

Al nome del ragazzo, qualcosa si agitò negli occhi di Night. Qualcosa che Angie non avrebbe saputo definire, ma che provocò in lui una reazione immediata.

Sotto gli occhi attoniti di Angie, Night gettò ciò che rimaneva della sigaretta nell'acqua della fontana, la afferrò per un braccio e iniziò a trascinarla lungo il vialetto, verso l'ingresso.

«Ci vediamo dopo, ragazzi!» disse, voltandosi un attimo in direzione della sua banda, prima di tornare con gli occhi sulla strada davanti a sé.

Angie era così sconvolta da quel repentino cambio d'atteggiamento che non riuscì neanche a protestare. In ogni caso, Night non le disse una parola per tutto il tempo e non fu soddisfatto finché non l'ebbe trascinata dentro una delle classi, a quell'ora deserte, non prima di aver litigato con una bidella per lasciarli passare.

Solo allora si decise a lasciarla andare, per poi affrettarsi a chiudere la porta della classe con un tonfo.

Angie si massaggiò il braccio dolorante, guardando in cagnesco il ragazzo, che continuava a darle le spalle, le mani poggiate sulla porta. «Si può sapere che diavol...»

«Chi ti ha detto di Kyle?» gridò Night, voltandosi di scatto a fissarla.

Sembrava tornato quell'animale che l'aveva attaccata nell'aula di arte, ma stavolta Angie non si lasciò intimorire dal suo tono rabbioso. Non subito, almeno.

«Gérard» rispose, incrociando le braccia al petto.

«Gérard?» ripeté lui. Poi levò gli occhi al cielo e bestemmiò.

«A proposito» aggiunse lei, inarcando un sopracciglio, «devo fare i complimenti ad entrambi per le scenette che avete recitato in mia presenza, quando facevate finta di odiarvi. Siete davvero due attori pieni di talento.»

Night non diede neanche segno di averla sentita. Stava facendo avanti e indietro lungo la classe, borbottando tra sé improperi contro Gérard.

Angie era certa di non averlo mai visto così nervoso e quell'atteggiamento in lui la destabilizzava. Non sapeva cosa aspettarsi.

«Tu non puoi capire» disse, bloccandosi un momento per guardarla dritta in faccia. I suoi occhi si strinsero all'improvviso. «Eppure, con quell'aria strafottente, ti ostini a credere di aver capito tutto. Tu non sai niente.»

Le sputò in faccia quelle parole con una tale rabbia che l'atteggiamento di Angie si fece di colpo un po' meno baldanzoso.

«Che mi dici di Henry e Kyle, eh? Cos'hai scoperto sul loro conto?» Avanzò verso di lei, sempre con quel tono da presa in giro. «Credi di conoscerli?» Scosse la testa. «Sono solo due nomi, per te.»

Le diede le spalle e, traendo un lungo sospiro, ritornò alla cattedra con passi pesanti. Vi si appoggiò contro, facendola cigolare sinistramente e, quando tornò a guardare Angie, il ragazzo sembrava di colpo aver allentato la tensione.

Dal canto suo, Angie era rimasta immobile nel bel mezzo della classe e continuava a fissarlo, all'erta.

Il trillo della campanella che annunciava la cena risuonò nell'aula, ma nessuno dei due diede segno di averla sentita, impegnati com'erano a studiarsi, uno di fronte all'altra.

Angie deglutì. Night sembrava essersi fatto di colpo meno aggressivo, ma non sapeva quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Doveva essere pronta al contrattacco. Ma, contro ogni sua previsione, il ragazzo iniziò a parlare.

«Kyle era il ragazzo più brillante di tutta la scuola, sai?» disse. «Ai nostri occhi... era come una divinità. I professori stravedevano per lui, aveva tutte le ragazze della scuola ai suoi piedi e, per quanto riguarda lo sport, be', puoi immaginare. Era un fuoriclasse. Venivano apposta dalla televisione per intervistarlo, come fosse stata una celebrità. Lo era, in un certo senso. Il suo futuro era già scritto.» Night si interruppe. «Di certo era un'ottima pubblicità per la scuola.»

Il ragazzo parlava con lo sguardo rivolto verso la finestra, verso il suo passato. Angie non sapeva cosa dire, dato che sembrava essersi completamente dimenticato della sua presenza, quando di colpo il ragazzo spostò lo sguardo su di lei.

«Quando entrai nella sua banda, mi sembrò il giorno più bello della mia vita.»

Angie non riuscì a mascherare il suo stupore. Ciò che aveva appena detto strideva con tutto quel preambolo su Kyle. «Un ragazzo del genere... faceva parte di una banda?»

«Era il leader di una banda» la corresse lui, per poi abbozzare un sorriso. Sembrava comprendere la sua confusione. «Per noi era come un dio, te l'ho detto, ma questo non voleva certo dire che lo fosse sul serio. Noi, però, avremmo fatto qualsiasi cosa ci avesse chiesto di fare.»

Night si interruppe ed Angie rifletté sul significato di quelle parole, sentendo un brivido percorrerle la schiena.

«Non so come dire... lui aveva potere su di noi, così come lo aveva sui professori. Si divertiva a tormentare gli altri studenti, sembrava quasi voler vedere fin dove potesse spingersi. E, visto che era inattaccabile sotto il profilo scolastico, i professori chiudevano un occhio, quando si trattava di lui. Così poteva continuare a perseguitare gli studenti.»

«Studenti... come Henry?» fece Angie, esitante.

Night ruotò anche il busto nella sua direzione, come se volesse porre fine una volta per tutte a quella posa sfuggente.

«Oh, Henry era il suo preferito» mormorò.

Il suo tono distaccato fece tremare impercettibilmente le gambe ad Angie.

«Non so perché lo odiasse così tanto, in realtà. A me, a dirla tutta, faceva un po' pena. Ma non ho mai fatto nulla per aiutarlo, niente di niente.»

Scrollò le spalle e distolse lo sguardo da Angie con una risata amara. «Non potevo certo sfigurare agli occhi di Kyle. Ormai ero il suo braccio destro.»

Nonostante non la stesse più guardando, la ragazza riuscì a cogliere un guizzo di rammarico nello sguardo di Night.

«Era palese che Henry facesse la spia per sua madre» proseguì lui. «Era sempre nei paraggi, ronzandoci intorno, sperando di cogliere Kyle con le mani nel sacco perché la madre potesse incriminarlo. La preside lo odiava a morte, ma allo stesso tempo non poteva fare molto contro di lui, un po' perché i professori lo adoravano... ma soprattutto perché quel ragazzo significava troppo per la scuola.»

«Significava troppo?» ripeté Angie, confusa.

«Te l'ho detto, era un'ottima pubblicità. Il St. Elizabeth, nell'anonima cittadina di Alnwick, era di colpo diventato uno dei collegi più popolari di tutta l'Inghilterra. Certo, tristemente noto per gli episodi di bullismo.» Night fece spallucce. «Ma, per l'immagine della sua preziosa scuola, la preside era pronta anche a sacrificare suo figlio.»

Angie deglutì. Mentre mettevano insieme i pezzi, si era fatta l'idea, come tutti gli altri, che Kyle fosse il vero mostro di quella storia. Con un nodo allo stomaco, Angie realizzò che non era il solo. 

«Così continuavamo, senza subire pressoché alcuna conseguenza. Credevamo di essere invincibili, che niente ci avrebbe fermato.» Night si bloccò e trasse un lungo sospiro. «E alla fine perdemmo il controllo.»

«Quello che è successo a Henry...»

«A voler essere precisi, non fummo né io né Kyle a farlo» la interruppe Night. «Ma poco cambia. Non avevamo fatto altro che aizzare la banda contro Henry, in quegli anni, quindi la colpa, in un certo senso, fu comunque nostra.»

Il cuore avevamo iniziato a martellare nel petto di Angie.

«Kyle e gli altri decisero di tenermi all'oscuro di tutto. Forse avevano capito che sotto sotto Henry mi faceva compassione, che avrei disapprovato un'azione del genere. Doveva essere uno scherzo, lo sai?» si bloccò, facendo un sorriso amaro. «Uno scherzo.»

Angie non riusciva a dire nulla. Sentiva la tensione salire nelle parole di Night. Temeva e allo stesso tempo moriva dalla voglia di sapere cos'era successo.

«Portarono Henry nelle docce.»

La voce di Night s'incrinò ed Angie ricordò come in un sogno come il ragazzo aveva cambiato atteggiamento, quando l'aveva condotta nelle docce, il giorno in cui si erano baciati. 

È lì che è successo...

«Non so...» Il ragazzo sembrava lottare per fare uscire le parole di bocca. «...non so se lo violentarono. Ma so cosa successe dopo. Mi dissero che lo avevano visto in un film, quando Kyle venne a chiamarmi e chiesi loro spiegazioni.»

«Kyle venne a chiamarti?»

Gli occhi di Night si fecero velati. «Corse da me in cerca d'aiuto. Non lo avevo mai visto in quello stato. Era terrorizzato. Era uscito dalle docce per andare a prendere una videocamera, credo che volesse filmare Henry. Ma, quando tornò, i ragazzi avevano completamente perso il controllo e non riuscì a fermarli.»

Angie si portò una mano alla bocca, inorridita.

«Lo spogliarono, lo legarono al rubinetto e poi...» Night sospirò rumorosamente. «lo lasciarono sotto l'acqua bollente.»

Angie si dovette appoggiare ad un banco per non cadere a terra. Sentiva che il suo corpo non la reggeva più.

«Gérard accorse quando sentì le urla.» Night si portò le mani alla testa, coprendosi gli occhi.

Angie vide che stava tremando.

«Ma i ragazzi non lo lasciarono intervenire. Poco dopo arrivammo anche io e Kyle. È una scena... una scena che non dimenticherò mai. Urlava disperato... urlava come un animale.»

Paralizzata tanto dall'atteggiamento del ragazzo quanto dalle sue parole, Angie non sapeva cosa dire, ma lui non aveva ancora finito.

«Però era proprio quello che voleva la preside, in fin dei conti, no?» mormorò cupamente, alzando il capo. «Un fatto gravissimo con cui poter finalmente incriminare Kyle. Poco importava che fossero stati gli altri ad agire. Lui era il capo.»

Scosse appena la testa. «Per lui sarebbe stata la fine di tutto. Si sarebbe dovuto diplomare quell'anno, aveva già una borsa di studio per la pallacanestro, un contratto firmato con una squadra...» Night fece un gesto con le mani, come se stesse sgretolando qualcosa di immaginario fra le dita. «Tutto svanito.»

Solo allora Angie capì e la verità la colpì dolorosamente come se qualcuno le avesse assestato un pugno dritto in faccia. Pensò alla carriera sfolgorante di Kyle, a Night rinchiuso in quella scuola per otto anni. Capì infine cos'aveva fatto Night.

«No» disse. Le lacrime le pizzicavano gli occhi. «Non puoi aver...»

«Sì» rispose lui, inchiodandola con lo sguardo. «Dissi che ero stato io.»

Angie boccheggiò. 

«Ma perché?» non riuscì a trattenersi dall'urlare. La sua voce era isterica, ma se ne fregò. «Non potevano incolpare gli altri ragazzi? Furono loro a farlo!»

Night scosse la testa. Paragonato a lei, il ragazzo sembrava così tranquillo... la cosa la faceva imbestialire ancora di più.

«Non capisci. La preside punì i ragazzi e li obbligò a tenere la bocca chiusa sulla questione, ma quello che lei voleva era un capro espiatorio, una punizione esemplare per uscirne pulita. Fu ciò che io le diedi e, dicendo che Kyle non era presente, lo liberai da ogni accusa.»

Angie scosse la testa. Stava piangendo, ma non le importava. Il senso di ingiustizia le mozzava il fiato.

«E Gérard? Lui vide che tu non c'entravi. Avrebbe potuto dire la verità!»

«E mandare tutto a puttane?» Night la inchiodò con lo sguardo. «Gérard voleva dire la verità alla preside, credimi. Ha sempre disapprovato la mia scelta di proteggere Kyle, ma l'ha rispettata. Sapeva bene che, se avesse parlato, tutto quello che ho fatto sarebbe stato inutile. Tu, lui... non capite. Fu la cosa migliore da fare. Il futuro di Kyle era già scritto. Io non avevo niente da perdere.»

Angie scosse la testa, le lacrime che le appannavano la vista, la rabbia, l'ingiustizia ed il peso di quelle rivelazioni che le facevano girare la testa. Tirò rumorosamente su col naso. Non riusciva a credere che il ragazzo stesse parlando sul serio. Non poteva davvero aver deliberatamente scelto di sacrificarsi solo per salvare la reputazione dell'amico. Possibile che non riuscisse a vedere tutto quello a cui aveva rinunciato?

«Non so perché Gérard ti abbia detto di Kyle.» Night si fece d'un tratto pensieroso. «Forse credeva che adesso la verità dovesse venire alla luce, adesso che Kyle è morto...»

«Io non riesco a crederci...» bisbigliò Angie, incurante delle sue parole.

La sua mente non riusciva a distogliere l'attenzione dal sacrificio che aveva fatto il ragazzo, delle ingiustizie di cui era stato vittima. Otto anni rinchiuso in quel posto, a subire le angherie di una preside che lo considerava l'assassino del figlio.

«Ti rendi conto di quello che hai fatto?» Angie lo fissò, scuotendo appena la testa. Si sentiva a pezzi per lui. Come poteva il ragazzo apparire così calmo? «Non avevi niente da perdere? Hai rinunciato a otto anni della tua vita. Otto anni, Night. Solo per salvare la faccia ad un amico.»

Night teneva gli occhi bassi ed Angie pensò che fosse l'atteggiamento di una persona pentita, che stesse finalmente realizzando ciò che aveva fatto. Ma non era affatto così.

Quando alzò il capo, Night fissò Angie con uno sguardo che la fece tremare.

Era uno sguardo consapevole di ciò che aveva fatto.

Uno sguardo che sarebbe stato pronto a fare tutto di nuovo.

«Avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Te l'ho detto, tu non capisci.» Dopo una lunga pausa, disse: «Kyle era molto più di un amico per me.»

****

La voce di Gérard risuonò nel silenzio. Ci voltammo tutti e quattro a fissarlo.

«Proteggere Kyle?» Per la prima volta in quella conversazione, la voce della preside suonò sinceramente sopresa. «Cos'è questa storia?»

Gérard guardava dritto davanti a sé, serio ed impettito, come se stesse confessando un crimine davanti alla corte marziale.

«Night era il braccio destro di Kyle. Dopo di lui, era la figura più importante della sua banda. Pensava che, se si fosse immolato, avrebbe distolto la tua attenzione da Kyle e così fu. Tu ti accanisti contro Night e Kyle poté diplomarsi e avere salva la sua borsa di studio.»

La preside boccheggiò, indietreggiando sulla sedia. «Quindi è stato Kyle...»

Gérard scosse la testa. «In realtà, non fu neanche lui. I veri colpevoli furono gli altri ragazzi della sua banda, ma tutti sapevano che tu te la saresti presa con Kyle. Ammettilo, non vedevi l'ora di incastrare quel ragazzo.»

Noi tre intanto continuavamo a seguire quello scambio a bocca aperta, voltando di volta in volta la testa di scatto come se stessimo assistendo a un torneo di ping-pong.

L'aspetto ariannesco della preside, così tranquillo e pacato, parve incrinarsi di colpo.

«Maledetto...» disse fra i denti, serrando i pugni con rabbia.

Dal canto mio, ero a bocca aperta. Non era stato un malinteso, quindi. Night aveva confessato spontaneamente per proteggere il capo della sua banda... ma perché? Mi sembrava assolutamente folle. Dagli sguardi confusi che mi lanciarono Brook e Arianna, anche loro dovevano essere dello stesso avviso. Forse Night era stato ricattato da quel Kyle. Era l'unica spiegazione sensata che riuscivo a darmi.

Scoccai a Gérard un'occhiata in tralice. Il bidello aveva protetto il segreto di Night per tutti quegli anni. Ecco perché il custode non aveva mai detto la verità alla preside ed inizialmente era stato così restio a parlare con Arianna!

«A prescindere da come siano andate le cose» proruppe coraggiosamente Brook e la preside si voltò a fissarlo come se si fosse ricordata solo in quel momento della sua esistenza, «resta il fatto che Night non è il colpevole della faccenda. Lei deve lasciarlo andare.»

Fissava la preside dritta negli occhi, apparentemente senza alcun timore, e mi scoprii a provare un brivido d'emozione nel sentirlo parlare a quel modo. Non sapevo che nascondesse un lato così impavido.

«No.»

Mi voltai di scatto verso la preside.

«Che cosa?» non riuscii a trattenermi dall'esclamare. «Non può farlo!»

La preside mi fissò, trattenendo a stento una smorfia. «Voi non avete la minima idea di che individuo sia Night. È un ragazzo violento e pericoloso. Non fu lui, non fu Kyle, furono i suoi ragazzi... non m'importa un bel niente!» La sua voce s'impennò. «Tutti prendevano di mira Henry. Tutti. Chiunque di loro avrebbe potuto benissimo essere il responsabile. Io non lascerò andare Night!»

Sbattei le palpebre, non del tutto certa di aver sentito bene. Spostando lo sguardo, vidi che Gérard tremava impercettibilmente, rosso in volto, come se si stesse trattenendo con tutte le sue forze dall'esplodere.

«Sono già d'accordo con i suoi genitori» proseguì lei, incurante del nostro silenzio, apparentemente tornata tranquilla. «Continueremo a trattenerlo qui fino alla maggiore età. È per il suo bene che lo stiamo facendo... così come è per il vostro se ho fatto installare la macchina.»

«La macchina?» esclamò precipitosamente Brook.

La preside annuì. «È per proteggervi.»

Corrugai la fronte. La preside aveva installato la macchina per la nostra salvaguardia?

«Lei non ci ha migliorati esteticamente?» Arianna inarcò un sopracciglio, perplessa.

«Quello è solo uno degli effetti collaterali.»

«Uno dei tanti effetti collaterali.»

La preside ignorò Gérard e proseguì. «Il preciso scopo della macchina è rendervi più sicuri di voi, per reagire alle prese in giro.»

«Rendervi più violenti.»

La preside scoccò a Gérard un'occhiataccia.

«Per reagire alle prese in giro» ripeté, con un tono che non ammetteva repliche, «da parte di quel mostro di Night e della sua banda. Ve ne sarete sicuramente accorti. Siete più spavaldi, più coraggiosi, rispondete a tono senza quasi rendervene conto.»

«E venite alle mani senza quasi rendervene conto. Venite e basta, a pensarci bene.»

«Gérard, la finisca!»

Abbassai gli occhi sui motivi del tappeto. Io non avevo mai picchiato nessuno, né prima né dopo aver iniziato a frequentare quel liceo, così come le mie amiche, del resto; Angie non faceva testo, dato che era sempre stato un tipo violento. In un lampo, però, ricordai alcuni avvenimenti che inizialmente non ero riuscita a spiegarmi: la mia spavalderia nell'affrontare John, poco prima che decidesse di farmi fare un bagno nel laghetto, la violenza con cui avevo aggredito Lucas, in palestra, la mia sfacciataggine nel rivolgere la parola a Brook, la prima volta... le parole di Beth mentre parlava della preside. 

"Ha detto che era stupita dall'effetto che la macchina ha avuto su di me. Che quel giorno, in mensa, non fossi ricorsa alla violenza fisica per difendermi come tutti gli altri."

Gérard aveva ragione. Quella macchina rendeva la maggior parte di noi ingiustificatamente violenti. Gli effetti di cui parlava la preside – quelli che avevamo sperimentato noi – a quanto pare erano molto rari. Così rari da obbligare una ragazza a collaborare con lei per il bene della scuola.

Il pensiero di Beth mi riscosse di colpo e mi ritrovai a lanciare un'occhiata nervosa alla porta chiusa della presidenza. Dove diamine si erano cacciate lei ed Angie?

«La banda di Night, però, non se la prende con gli studenti» puntualizzò Brook, incrociando le braccia sul petto.

«La banda di Night non se la prende più con gli studenti» ribatté la preside a tono, «perché ha trovato pane per i suoi denti. I ragazzi adesso sono in grado di difendersi da soli, a differenza di Henry. Night non ci trova più gusto, così se la prende con il corpo insegnanti.»

Lo sbuffo ironico di Gérard costrinse nuovamente tutti a voltarsi verso di lui.

«Lo trova divertente, Gérard?»

Il custode inchiodò la donna con lo sguardo. «Avanti, dì la verità.»

Fissai Gérard con rinnovato interesse. Di colpo il fatto che non stesse dando del "lei" alla preside non mi parve più maleducazione, ma un atto di grande coraggio, come se non temesse affatto le ire di quella donna.

«Io non so cosa...»

«Dì la verità» ripeté Gérard, serrando la mascella.

«Proprio come nei bagni» mi bisbigliò Arianna all'orecchio, in tono d'ammirazione. «Questo è il suo gioco del bidello buono e del bidello cattivo.»

«Night non se l'è mai presa con gli studenti!» tuonò infine Gérard, spazientendosi. «Mai più, dopo quel che è successo a Henry! Se la prende con i professori per vendicarsi di come lo tratti, perché lo tieni qui da otto anni, rendendogli la vita un inferno! E lui fa di tutto per riscattarsi ai suoi occhi, ha smesso di saltare le lezioni, ha smesso di dare noia in classe, si è pure trovato una ragazza, ma non t'importa nulla! Dì la verità, non vuoi che Night lasci la scuola perché così non avresti più modo di controllarlo, non è vero?»

La preside boccheggiò ed indietreggiò sullo schienale, schiaffeggiata da tutta quella rabbia. Ogni suo gesto, in quella posa, gridava colpevolezza.

«Non vuoi che dica la verità, dopo tutto l'impegno che ci hai messo per coprire l'incidente nelle docce!» proseguì Gérard, inarrestabile. «Non vuoi che rovini la reputazione di questo posto!»

«Tu non hai idea dei sacrifici che ho fatto per questa scuola!» urlò allora la preside, scattando in piedi.

Noi tre ci limitammo a scambiarci uno sguardo terrorizzato. Gridavano così forte che temevo che, anche senza ormoni, presto i due sarebbero passati alle mani.

«Oh, credimi, lo so bene» sibilò Gérard, schiumante di rabbia. «Hai rovinato la vita di un ragazzo solo per l'immagine di questa scuola.»

«Ho rovinato la sua vita come lui ha rovinato quella di mio figlio!» strillò lei.

In quel momento, il rumore acuto di una sirena, persino più acuto della voce della preside, si sovrappose alla loro urla e ci trapanò i timpani, costringendoci a tapparci le orecchie.

Alzammo gli occhi sul soffitto. Una spia rossa si era accesa ad intermittenza, mentre quel rumore assordante, che sembrava direttamente uscire dalle pareti, si propagava per tutta la stanza e, ipotizzai, anche nel resto della scuola. Era l'allarme antincendio.

Osservai la preside. Anche lei aveva alzato gli occhi sul soffitto e aveva spalancato la bocca, un sentimento che non avrei saputo definire che le si agitava negli occhi. Si lasciò cadere pesantemente sulla sedia e, dopo un lungo attimo, alzò gli occhi su di noi.

«Lui è qui» disse.

****

Il mondo franò sotto i piedi di Angie.

Fu un autentico miracolo che fosse poggiata contro il banco, perché ebbe un mancamento e pensò che sarebbe crollata a terra.

Non successe. Rimase lì, a bocca aperta, incapace di distogliere lo sguardo da Night. Il ragazzo seduto sulla cattedra a pochi metri da lei di colpo le parve lontano anni luce.

«Tu...»

Night la fissava con un sorriso triste, uno sguardo insolitamente comprensivo negli occhi, come se quella che Angie stava avendo fosse esattamente la reazione che si era immaginato.

Angie fece un paio di respiri profondi. Si raddrizzò e si sedette a sua volta su uno dei banchi, ignorando il corpo che le tremava come in preda agli spasmi. Non sapeva cosa pensare. Era umanamente possibile che si sentisse peggio di quando Beth le aveva detto che Night poteva aver ucciso Henry?

Incrociò lo sguardo del ragazzo. La sua espressione doveva essere tante cose: confusa, ferita, incredula. Night continuava a sorriderle mestamente, senza dire una parola.

«Lui sapeva?» udì se stessa chiedere, dopo un silenzio lungo un'eternità.

Night piegò il capo all'indietro e rise, una risata amara e priva d'allegria. Quando tornò a guardarla, il sorriso era scomparso dal suo volto.

«Ovviamente no. Nessuno lo sapeva. Mi accontentavo di stare al suo fianco... una magra consolazione, ma tant'è.»

Fece una pausa e si morse il labbro, rivolgendole uno sguardo strano.

Uno sguardo... esitante.

«Sei la prima persona a cui lo dico.»

Angie cercò di deglutire, ma aveva un groppo alla gola che non andava né su né giù.

Night le stava rivelando il suo segreto più inconfessabile, mentre lei aveva ripreso a piangere senza ritegno come una bambina, come se entrambi avessero gettato via le maschere una volta per tutte. Non c'era spazio per l'orgoglio, in quel momento. 

Ammetterlo bruciava, ma su una cosa Night aveva dannatamente ragione. Lei non sapeva niente. Niente di niente. Non conosceva Henry né Kyle, le loro relazioni, cos'era avvenuto nelle docce e, a quanto pareva, non conosceva neppure Night.

«Anche se credo che Gérard abbia capito. Non mi ha mai chiesto nulla, ma negli anni deve aver sospettato qualcosa» proseguì lui dopo un po', colmando il silenzio.

Angie scosse la testa, come per scrollarsi di dosso quella rivelazione, e si asciugò le lacrime dagli occhi, nel tentativo di calmarsi un po'.

«Ero venuta per chiederti di venire con me dalla preside» mormorò poi la ragazza con voce flebile, tenendo gli occhi bassi. «Kia e gli altri sono già lì. Credevo che tu non vedessi l'ora di dire la verità. Pensavamo che fosse tutto malinteso. Io... non avevo idea che tu l'avessi fatto di proposito .» La voce di Angie si incrinò. «Per Kyle...»

Se Night era arrivato a rinunciare a parte della sua vita per lui, doveva averlo amato sul serio, realizzò Angie. E di certo adesso non sarebbe andato dalla preside a scaricare la colpa su di lui.

Night sbuffò ed Angie alzò gli occhi su di lui. Il ragazzo sembrava vagamente divertito.

«Lascia perdere Kyle» disse, e le rivolse uno strano sorriso. «Andare dalla preside... tu non hai ancora capito con chi abbiamo a che fare, eh?»

Il suo tono era cambiato all'improvviso ed Angie fece per replicare, ma lui non gliene diede il tempo.

«Alla preside non importa la verità» disse. «Per lei conta solo la reputazione di questo posto. Secondo te perché sono qui da otto anni? Ti sei mai chiesta perché non sono finito in carcere, in riformatorio o che so io?»

Angie sgranò gli occhi, capendo all'improvviso.

«Non voleva divulgare la notizia» disse in un soffio.

Night annuì. «Lei mise a tacere tutto. Se la notizia fosse trapelata all'esterno, sarebbe scoppiato uno scandalo. La reputazione della scuola sarebbe stata compromessa per sempre.»

Angie aveva preso a sudare freddo. I suoi amici in quel momento erano nell'ufficio di quella donna, a credere di risolvere il mistero, quando il suo preciso intento era sempre stato quello di insabbiare tutto.

«Ti ho già detto che la preside obbligò i ragazzi della banda a tacere. Li minacciò e disse che, se avessero rivelato ciò che era successo nelle docce, la loro vita sarebbe stata rovinata. Quanto a me, venni rimandato per un breve periodo, ma niente di più. Ma, mentre loro arrivarono a diplomarsi, io continuai ad essere bocciato.»

«E i tuoi genitori? Non si fanno domande?»

Night scrollò le spalle e il suo sguardo si incupì. «Sono solo un teppistello per i miei genitori. La preside li ha in pugno. Continua a dire loro che sono un elemento estremamente pericoloso e che è per il mio bene che mi trattengono qui. Loro se la bevono.»

Angie scosse la testa, incredula. «È davvero così subdola?»

Night sorrise tristemente. «Assolutamente. Secondo te perché ha deciso di installare quella fottuta macchina? Poteva parlare dell'incidente delle docce e mettere i ragazzi in guardia dal pericolo del bullismo, ma ha preferito imbottirli di ormoni e renderli preparati a reagire alle prese in giro.» Scosse la testa. «Mi dispiace per quello che abbiamo fatto al figlio, ma quella donna è matta da legare.»

Angie sgranò gli occhi. «Questo è il motivo per cui esiste la macchina?»

Night annuì. «Per potenziarvi. Per permettervi di rispondere alle prese in giro.» Il ragazzo si interruppe e scosse la testa. Pareva divertito. «Almeno, questo era l'intento della preside. Sappiamo tutti com'è finita. L'overdose di ormoni vi crea un po' di problemi a controllare le vostre... pulsioni.»

Angie rifletteva ad alta voce, ogni tassello che andava al suo posto. «Ecco perché in questa scuola non ci sono episodi di bullismo, perché i ragazzi sono così violenti gli uni con gli altri.» Alzò gli occhi su di lui. «Ecco perché voi ve la prendete solo con i professori.»

Night sembrò riflettere sulle parole di Angie. «In un certo senso, sì. Ma il vero motivo per cui ce la prendiamo con i professori è perché è l'unico modo che ho per vendicarmi della preside.»

«Quindi la tua banda sa la verità?» Angie esitò, ripensando all'incontro a cui aveva assistito, all'assenza del vivace compagno di stanza di Night. «E Shadow?»

Night scosse la testa. «No. I ragazzi sanno solo che tra me e la preside è guerra aperta e che io voglio vendicarmi di lei, anche se non posso espormi troppo. Gérard infatti vuole che mi comporti bene e che tenga un profilo basso, nella speranza che la preside cambi idea, ma è un povero illuso. Per questo...» Evitò lo sguardo di Angie per un attimo. «Per questo ti ho costretta a far finta di stare insieme a me. All'inizio» ci tenne a precisare lui, ma la mente della ragazza era altrove.

Ora Angie capiva perché Night l'avesse obbligata a recitare quella farsa con Gérard. Lo scrutò di sottecchi, cercando di capire cosa stesse passando nella mente del ragazzo, ma il suo sguardo era imperscrutabile. Angie si morse il labbro. Era sempre stata una finzione per lui?

«Quanto a Shadow, non fa neanche parte della banda. È un bravo ragazzo, non voglio metterlo nei guai.» Night scrollò le spalle. «Non mi rimane altro che questa guerriglia. Lei ha insabbiato tutto ed io non ho potuto parlarne fino ad adesso, perché farlo avrebbe significato distruggere la reputazione di Kyle.» Si fece di colpo pensieroso. «Se anche venissi con te dalla preside a dire la verità, nessuno mi crederebbe, a parte voi e Gérard. Kyle è morto, non so che ne sia stato degli altri ragazzi della banda e, quanto ad Henry... dopo l'incidente, era stato spedito dalla madre in un ospedale psichiatrico. Ah, l'amore materno! Non mi resta che aspettare di compiere diciott'anni e lasciarmi questa storia alle spalle.»

Nel sentire Night ponderare l'eventualità di andare con lei dalla preside, Angie si era riscossa, ma qualcosa nella frase di lui la lasciò pietrificata.

«Aspetta» mormorò, sbattendo le palpebre.

Night le rivolse uno sguardo stupito. «Che c'è?»

«Henry non è morto?»

Night aggrottò le sopracciglia. «No. Sopravvisse all'incidente delle docce, anche se fu un autentico miracolo.»

Oh, merda

Con orrore, Angie realizzò che nessuno aveva mai detto loro esplicitamente che Henry era morto. Ripercorse con dolorosa precisione le indagini che avevano compiuto e le parole usate dalla preside, da Gérard e adesso da Night. Henry che spariva dagli annuari dal terzo anno di liceo in poi, la preside che diceva che "era un bravissimo ragazzo" e che "non si meritava quello che gli avevano fatto", Gérard che correggeva Arianna parlandole di "ciò che Kyle aveva fatto ad Henry". Neanche Night le aveva mai parlato dell'omicidio di Henry. Perché non era mai avvenuto. Si era trattato di un gigantesco malinteso. Ma questo Kia e gli altri non lo sapevano.

«E adesso...» Angie scosse la testa, cercando di metabolizzare quell'informazione. «È in un ospedale psichiatrico?»

«Non so come stiano esattamente le cose. Henry aveva sempre avuto qualche problema, ma non so se impazzì sul serio dopo quello che gli successe.» Il ragazzo si rabbuiò. «Credo piuttosto che la preside volesse sbarazzarsi di lui, perché avrebbe intralciato il suo piano di insabbiare ogni cosa. Così lo rinchiuse laggiù, ma poi...»

Night si interruppe bruscamente. Di colpo aveva assunto un'espressione pensierosa. «Aveva tante di quelle ustioni... da quel che ne so, fu per quello che sviluppò come... un'ossessione per il fuoco.»

****

Beth sbatté la porta della camera dietro di sé, trattenendo un'imprecazione.

Sentiva la camicia bagnata appiccicata sulla pelle e l'odore del caffè nelle narici le dava la nausea. Doveva fare in fretta, mettersi qualcosa di pulito e raggiungere gli altri dalla preside.

L'ansia che fosse in uno spaventoso ritardo, unita alle parole e al bacio di John, le stava facendo venire le palpitazioni e tremare febbrilmente le mani.

Fu probabilmente per quello che, mentre apriva l'armadio, l'anta le sfuggì dalle mani e sbatté contro il comodino di Angie, facendo cadere a terra tutto quello che c'era poggiato disordinatamente sopra. Beth inorridì quando vide che, sparsi sul pavimento, c'erano tutti i disegni e i progetti di arte della ragazza.

«Oh merda!» esclamò, dimenticandosi in un attimo della camicia e gettandosi a terra, nel tentativo di rimetterli in ordine. Se avesse sciupato uno dei disegni di Angie, avrebbe potuto considerarsi morta.

«MERDAMERDAMERDA!»

Cercò di rimetterli in ordine alla bell'e meglio, cercando di non spiegazzare troppo i fogli né di fare le orecchie ai bordi, mentre li impilava frettolosamente uno sopra l'altro. Mentre era nel bel mezzo dell'operazione, non poté fare a meno di notare che Angie, tra i suoi disegni, aveva del materiale parecchio strano: ritagli di giornale, scampoli di stoffa... erano pezzi di tenda, quelli? Beth si ricordò in un soffio del compito che la Rooth aveva assegnato loro, quello sul materiale di recupero, e si diede dell'idiota, visto che lei non aveva ancora pensato a niente. Si sarebbe fatta fare qualcosa da Angie, pensò, convinta. Arte e ginnastica non erano decisamente il suo forte... menomale che c'era inglese a risollevare le sorti della sua pagella.

Di colpo, un titolo di giornale tra quelli che Angie aveva conservato attirò la sua attenzione. Beth lesse il titolo: era un articolo sulla morte di Kyle Marsh, l'assassino di Henry. Si bloccò e tenne il foglio stretto fra le mani, scorrendo rapidamente l'articolo con lo sguardo alla ricerca di qualche informazione interessante, ma non diceva nulla che non sapessero già. Le circostanze della morte erano misteriose, ma il giornalista parlava chiaro: il suo accoltellamento era senza ombra di dubbio un omicidio.

Beth fece per riporre il giornale sulla pila vertiginosa che aveva eretto, quando l'occhio le cadde su un trafiletto al lato dell'articolo su Kyle Marsh. Qualcosa le si rimestò nello stomaco e la ragazza prese a sudare freddo.

Due notizie apparentemente slegate l'una dall'altra, poste vicine per pura casualità. Ma, adesso che lei sapeva la verità – o almeno così credeva – tutto le apparve chiaro, come un disegno di cui era infine riuscita a collegare i punti. Perché, a giudicare da quel che c'era scritto, lei e gli altri di quella storia non avevano capito un bel niente.

L'articolo parlava della fuga di un paziente da un istituto mentale, con sotto segnato un numero da chiamare nel caso qualcuno l'avesse visto.

Beth aveva la gola secca. C'era anche una sua foto, ma non ci fu bisogno di guardarla. Lei conosceva quel nome.

Il suono della sirena antincendio esplose all'improvviso nelle sue orecchie, ma Beth, pietrificata com'era, lì per lì non ci fece neppure caso.

Il nome del paziente era Henry Jefferson.

 

*La canzone non mi appartiene. Si tratta di "Jealous Guy", di John Lennon.

Non intendevo ferirti

Mi dispiace averti fatta piangere

Oh Dio, non volevo ferirti

Sono solo un ragazzo geloso


Ehilà!

Ho sbagliato a guardare gli orari delle lezioni (geniale, lo so) e mi sono ritrovata con la mattina libera, quindi ne approfitto per aggiornare! Eccomi quindi con un nuovo capitolo... siamo a meno due! :) Spero di avervi lasciato (miei amici fantasma, Sue Sylvester docet) almeno un pochino con il fiato sospeso! Non nego che la parte del mistero mi piaccia molto, mi è piaciuto scriverla e mi piace rileggerla. La vera Beth l'ha paragonata un po' alle indagini che fanno gli Archies in Riverdale, condotte dai teenagerz XD Non sono una grandissima fan della serie tv (i fumetti in compenso li adoroo) però ho super apprezzato il paragone (che anzi, è probabilmente esagerato) **

Questo è il capitolo delle verità, dove tutto viene alla luce: Henry non è affatto morto, come le nostre ragazze credevano e, anzi, a dirla tutta sembra piuttosto incazzato, mentre Night ha scelto deliberatamente di prendersi la colpa del suo incidente e non è vittima di alcun malinteso.

Ah, il nostro Night... vi aspettavate una confessione simile da parte sua? Non ho dato molti indizi al riguardo (a proposito, gli unicorni non c'entrano niente con questa storia, sono un tocco trash senza capo né coda voluto dalla vera Angie XD), se non che Night non si è mai sentito attratto da determinate cose (larga perifrasi per dire LE DONNE!). È una cosa a cui non avevamo pensato subito, nell'organizzare la trama, ma dal momento che Night si "sacrifica" per Kyle, mi sembrava, non so, perfettamente naturale che provasse qualcosa di più che del semplice affetto per lui :) Fortunatamente la vera Angie è stata d'accordo fin da subito (perché in realtà lei spera chiaramente nella coppia NightXShadow) e quindi... et voilà. Per la Angie della storia, in compenso, si tratta di un vero shock.

Ci vediamo al prossimo capitolo, spero non tra un secolo! Un bacio,

Cassidy. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** -•Capitolo 22 ***




Dopo lo scoppio dell'allarme, Brook, Arianna ed io avevamo lanciato un simultaneo sguardo al soffitto, dove un pannello continuava ad illuminarsi di rosso. C'era un incendio?

Mi ero voltata con improvvisa ansia verso Gérard, ma lui non aveva occhi che per la preside.

«Non posso crederci» mormorò scuotendo la testa, i pugni serrati. La sua voce era quasi impercettibile per via della sirena. «Non lo avete ancora ripreso?»

La preside si alzò in piedi, barcollando. Sembrava aver perso d'un colpo tutta la sicurezza che aveva avuto durante lo scontro con Gérard.

«Io... La polizia... stiamo facendo il possibile...»

«Chi?» proruppe Brook, ma la sua domanda si fuse nel suono assordante dell'allarme.

Gérard scosse energicamente la testa, come per riscuotersi. «Se ha appiccato un incendio a scuola, non c'è un solo minuto da perdere. Dobbiamo cercare di fermarlo.» Lanciò un'occhiata penetrante alla preside. «Devi provare a parlargli.»

Alla parola "incendio" scattammo tutti e tre in piedi, mentre la preside fissò Gérard come se il custode le avesse appena consigliato di piantarsi il tagliacarte della scrivania nella giugulare.

«Sei matto?» balbettò. «Non mi ascolterà mai!»

Con movimenti incerti, la donna si fece avanti. Il terrore le si agitava negli occhi. «Lui... mi odia. Mi odia.» Pronunciò l'ultima frase in un sussurro strozzato, così flebile che riuscii solo a cogliere il movimento delle sue labbra.

Gérard nel frattempo si era avvicinato alla finestra e, approfittando della sua lontananza, la preside afferrò la borsa e scattò verso la porta.

«FERMA!» urlai, capendo quello che aveva intenzione di fare ma, come prevedibile, la donna mi ignorò e uscì correndo dall'ufficio, sbattendosi la porta alle spalle.

Una frase sovrastò per un momento quella sirena infernale.

«Brutta stronza.»

Ci voltammo tutti e tre verso Arianna, ammutoliti. La ragazza aveva i pugni serrati e fissava con espressione truce la porta dalla quale la preside era appena fuggita.

«Cosa sta succedendo, Gérard?» domandò Brook, il primo a riscuotersi dall'exploit di Arianna, voltandosi verso il bidello.

«Henry» rispose lui, gli occhi fissi su qualcosa oltre il vetro. «Dio santo» disse in un soffio.

«Henry?» ripetei, a bocca aperta.

La sirena, nel frattempo, continuava implacabile a trapanarci i timpani.

Forse non avevo sentito bene.

«Ma non è...»

«È un piromane» tagliò corto Gérard, senza mai distogliere lo sguardo dalla finestra.

Seguimmo il suo sguardo e lo spettacolo che ci si profilò davanti ci gelò il sangue nelle vene ancor più della frase che Gérard aveva pronunciato: sotto di noi, in giardino, gli alberi che circondavano la scuola erano avvolti dalle fiamme.

Gérard si voltò bruscamente verso di noi. «Era stato rinchiuso da sua madre in un ospedale psichiatrico dopo ciò che successe, ma è riuscito ad evadere.»

«Noi pensavamo che Henry fosse morto» mormorò Arianna, disorientata.

«Era quello in cui sperava la madre, probabilmente.»

Gérard girava nervosamente per la stanza, borbottando qualcosa a proposito di un estintore.

«Quindi impazzì, dopo quello che gli fece la banda di Kyle?» chiesi, fissando con apprensione la porta dell'ufficio, l'allarme che strepitava implacabile. Dovevamo uscire.

«Impazzì dopo che sua madre lo rinchiuse laggiù.»

«Ma perché fare una cosa del genere al proprio figlio?»

«Temeva che parlasse di quegli avvenimenti che lei voleva disperatamente mettere a tacere. Henry era un po' strano, ma non da strizzacervelli.»

Il custode si bloccò in mezzo alla stanza, dopo essersi probabilmente reso conto che lì non c'era più alcun estintore.

«La preside deve aver falsificato una perizia psichiatrica per farlo internare» disse, per poi liquidare quelle parole con un gesto della mano. «Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo andare.»

«E la sua perizia medica psichiatrica si trova qui?» domandò Brook, guardandosi intorno nell'ufficio, apparentemente incurante delle parole del custode.

«Immagino di sì» tagliò corto Gérard. «Henry deve aver dato fuoco anche ad una parte dell'edificio, oltre che alla pineta, o l'allarme non suonerebbe. Forza, andiamo!»

Non aspettavo altro. Ci accodammo al custode, che fece per aprire la porta, quando una nube di fumo proveniente dal corridoio ci investì in pieno, facendoci tossire.

«Merda!» imprecò Gérard, coprendosi la bocca con una mano.

Il fumo mi mozzò il fiato e mi artigliò la gola, con i miei colpi di tosse che ben presto si confusero con quelli di Arianna e si persero nello strepitare della sirena. Il cuore mi pulsava nelle orecchie. Henry era vivo... Henry aveva dato fuoco alla pineta e, a quanto pareva, anche ad una parte dell'edificio... in mezzo al fumo, la consapevolezza mi colpì come uno schiaffo. Quale parte dell'edificio migliore dell'ufficio della madre che lo aveva sbattuto in manicomio?

Arianna e Gérard erano davanti a me, sebbene indistinti per via del fumo, ma non vedevo Brook. 

Voltandomi, in preda all'ansia, lo vidi intento a trafficare tra le scartoffie della preside e ad aprire i cassetti della sua scrivania, con la goffaggine di chi era costretto ad usare un braccio solo.

«BROOK!» gridai, senza riuscire a credere ai miei occhi. Un colpo di tosse mi mozzò il fiato. «CHE CAZZO STAI FACENDO?»

Lui alzò lo sguardo verso di me. «Se troviamo la perizia psichiatrica, avremo incastrato la preside!»

Non riuscivo a credere alle mie orecchie, ormai tramortite dall'allarme. «Ma è come cercare un ago in un pagliaio!» urlai. «DOBBIAMO ANDARE!»

La mia isteria dovette infine farlo ragionare. Con un'ondata di sollievo, vidi Brook abbandonare l'impresa e venire verso di me. In quel momento mi sentii afferrare per il polso con una stretta ferra e, voltandomi di scatto, vidi Gérard, una mano sul mio braccio e una su quella di Arianna.

«Forza, sbrighiamoci!» gridò.

Trattenendo il fiato, ci lanciammo attraverso il fumo.

****

«Cos'è questo rumore?» gridò Angie, guardandosi intorno nella classe deserta.

Una sirena assordante era partita improvvisamente a tutto spiano, talmente assordante che la ragazza fu ben presto costretta a tapparsi le orecchie. Sopra le loro teste, una spia rossa lampeggiava ad intermittenza da un pannello sul soffitto, ma non aveva idea di cosa significasse. Un grumo d'ansia le si insinuò nel petto e fu colpita da un pensiero: che fosse l'allarme antincendio?

Abbassò lo sguardo su Night e l'espressione del ragazzo parve confermare i suoi sospetti, oltre che renderla ancora più inquieta. Il ragazzo, infatti, era inorridito e fissava pietrificato la spia rossa come se si aspettasse di vederla esplodere da un momento all'altro.

«Cazzo» stava dicendo lui, così piano che Angie riuscì a capirlo solo leggendogli il labiale. «Non posso crederci...»

«A CHE COSA NON PUOI CREDERE?» urlò lei, confusa e spaventata, avvicinandosi alla cattedra, dalla quale il ragazzo era appena sceso con un balzo.

Se si trattava davvero dell'allarme antincendio dovevano uscire, e alla svelta.

Night la fissò. I suoi occhi erano enormi per la paura. «Henry.»

«CHE COSA?!» Angie boccheggiò. «MA NON ERA IN MANICOMIO?»

«Hai detto bene» fece Night, correndo verso la finestra. «Era

Angie si affrettò a seguirlo, il cuore che le martellava nel petto, stordita dalla sirena. Che cosa diavolo significava?

«Un po' di tempo fa ho letto che è riuscito ad evadere.» Night parlava dandole le spalle, mentre faceva scorrere orizzontalmente la finestra, in modo da aprire uno spiraglio. «Sono sicuro che è stato lui ad uccidere Kyle.»

Si bloccò e si voltò verso Angie, che lo fissava a bocca aperta, sconvolta dalle parole di lui. Quel rumore insopportabile le impediva di concentrarsi, eppure, si scoprì a pensare Angie, l'ipotesi di Night aveva perfettamente senso: i giornali dicevano che Kyle era stato assassinato e, se Henry era fuggito dall'istituto psichiatrico in cui la madre lo aveva rinchiuso ed era davvero disturbato... il campione di basket poteva non averlo torturato nelle docce, ma era stato comunque il suo aguzzino per anni.

«Io non...» Night si interruppe bruscamente. Il suo volto era distorto in una smorfia e, abbassando gli occhi, Angie vide che le mani gli tremavano febbrilmente. «Dovevo immaginarlo. Dovevo immaginare che, dopo Kyle, sarebbe venuto qui in cerca di vendetta.»

Angie fissò quel ragazzo sconvolto dal terrore e in un lampo comprese quello che gli stava passando per la testa. Capì che Night credeva che Henry fosse venuto lì per lui.

«Dobbiamo uscire da qui.» Night si issò sulla finestra e si calò giù, voltandosi poi verso di lei come per assicurarsi che lei lo stesse seguendo.

«Io...» Angie esitò, le dita che artigliavano la finestra, la sirena che le esplodeva nelle orecchie. «Forse dovremmo raggiungere il resto della scuola, riunirci ad un punto d'incontro, o che so io. E se fosse armato?»

Aveva pensato a quell'eventualità quando Night aveva menzionato l'omicidio di Kyle, ma esprimerla ad alta voce la fece sembrare dolorosamente reale. Il cuore di Angie prese a battere all'impazzata.

«Forse è più sicuro rimanere a scuola. Dopotutto l'edificio è in muratura, no?»

Ad accogliere le parole di Angie fu uno scricchiolio sinistro, così forte da coprire per un attimo la sirena antincendio.

I ragazzi si voltarono all'unisono in direzione del rumore, giusto in tempo per scorgere uno degli enormi abeti del giardino baluginare di rosso e caracollare di lato come se stesse perdendo i sensi. Col fiato sospeso, Angie e Night lo osservarono accasciarsi fra gli altri alberi in una pioggia di aghi e rami spezzati e abbattersi con lentezza inesorabile sull'edificio, schiantandosi contro l'ala opposta a quella dove si trovavano loro. Là dovevano trovarsi i dormitori, pensò confusamente Angie.

Come in un sogno, la ragazza vide che i rami dell'albero, che avevano distrutto colonne e vetrate al loro passaggio, erano avvolti dalla fiamme.

«Oh merda» mormorò, incapace di distogliere lo sguardo.

In lontananza, delle urla terrorizzate si sovrapposero per un attimo alla sirena antincendio che risuonava in tutta la scuola.

«L'edificio sarà anche in muratura, ma dimentichi la fottuta pineta che circonda questo posto!» sibilò Night, lanciandole un'occhiata spazientita. «Che stai aspettando?!»

Come risvegliatasi bruscamente da un sogno, Angie si issò in piedi sulla finestra e saltò giù. Quando i suoi piedi toccarono terra, tremava così tanto che per un attimo credette che sarebbe caduta lunga distesa sul prato.

«Andiamo!» la incalzò Night, afferrandola per un braccio e iniziando a correre.

Intontita, Angie si sentiva incapace di muovere un passo dietro l'altro e incespicò più volte nell'erba. Si lasciò trascinare da Night mentre, intorno a loro, una spessa cortina di fumo iniziava a levarsi dalla pineta. La puzza di bruciato le si insinuò nelle narici e ben presto le iniziarono a lacrimare gli occhi, tanto che la visione della schiena di Night, di fronte a lei, si fece sempre più appannata.

Eppure continuò a correre, sempre più veloce, avvertendo come amplificate le sensazioni che stava provando dentro di sé per via dell'adrenalina: le lacrime date dal fumo, il raschio alla gola e il cuore che le martellava nel petto. Sensazioni che percepiva perché era viva e forse non lo sarebbe stata per molto, se fosse rimasta bloccata tra le mura di quell'edificio.

Riprese a muoversi con più energia, affiancando e poi superando Night, che le lanciò una breve occhiata, come rincuoratosi del fatto che fosse tornata in sé, ed insieme attraversarono il giardino in direzione del cancello d'ingresso.

Mentre si avvicinavano, Angie si rese conto che lei e Night non erano stati i soli a reagire così tempestivamente alla sirena. Il vialetto di fronte al cancello, infatti, era gremito di studenti, probabilmente coloro che si erano attardati in giardino anziché recarsi in mensa per la cena. Davanti a tutti loro, c'era una custode che tremava tutta, mentre armeggiava con chiave e serratura per aprire il cancello.

Entrambi con il fiatone, Angie e Night rallentarono il passo e si unirono a loro. La ragazza prese a guardarsi freneticamente intorno, alla ricerca di qualche volto familiare, ma non riconobbe nessuno. Si ricordò che le sue amiche erano in presidenza e con un groppo alla gola tornò a guardare l'edificio.

L'albero infuocato che era caduto sulla scuola era di modeste dimensioni e non sembrava aver provocato gravi danni all'edificio, limitandosi a rovinare le colonne e l'intonaco esterno. Ma, al di là della facciata di muratura, gli interni erano tutti in legno: le tavole e le sedie delle classi, i letti e i comodini dei dormitori, la biblioteca, nonché tutti i corridoi e i pavimenti, compresi il parquet della palestra. Se l'incendio si fosse propagato all'interno, sarebbe stato il caos.

E, senza riuscire a staccare gli occhi dall'albero che si era abbattuto sulla scuola, Angie realizzò che era proprio quello che era successo: l'albero era sì piccolo, ma era completamente avvolto dalle fiamme e aveva fatto da miccia. Con un crescente senso di nausea, Angie vide dei bagliori rossi baluginare all'interno delle stanze sulle quali l'abete si era abbattuto, da dietro i vetri rotti delle finestre.

Si riscosse quando sentì Night afferrarla per il polso e, voltandosi, Angie vide che la bidella era finalmente riuscita ad aprire il cancello e i ragazzi si stavano riversando all'esterno come formiche.

La ragazza si affrettò a seguire Night e gli altri al di là del cancello, con il senso di colpa che le cresceva nel petto per starsi allontanando sempre di più dalle sue amiche. La custode, infatti, li stava facendo costeggiare l'inferriata, e sembrava intenzionata a condurli in un parcheggio in lontananza.

Angie notò che una folla di curiosi si era fermata sul marciapiede ad osservare la scena: vedendo quel che stava succedendo alla scuola, presero a vociare tutti insieme e, malgrado le loro frasi sconnesse, la ragazza capì che stavano chiamando il 999.

Angie rivolse un'altra occhiata alla scuola, dalla quale il fumo si innalzava sempre più consistente e, quando il peso della colpa divenne insopportabile, puntò i piedi per terra e obbligò Night a fermarsi.

«Le ragazze!» gridò con voce rotta. «Le ragazze sono ancora là dentro!»

Night si voltò a guardarla, spintonato da ogni parte dai ragazzi che correvano terrorizzati in direzione del parcheggio. Nei suoi occhi Angie lesse un misto irritazione e comprensione, in uno sguardo che la scrutò e le fece perdere un po' di presa sul terreno in cui aveva puntato i piedi.

«Angie» mormorò. Il suo tono era stranamente paziente. «Metà scuola è lì dentro.»

Angie lo ignorò, continuando a fissare la scuola con aria disperata. Si liberò con uno strattone dalla stretta del ragazzo, ma l'attimo dopo lui l'aveva riacciuffata per il polso.

«Lasciami andare!»

«Da sola non puoi fare nulla, rischi solo di metterti in pericolo. Dobbiamo aspettare qui.»

Angie deglutì e odiò ammettere a se stessa che, probabilmente per la prima volta in tutta la sua vita, Night poteva anche avere ragione. Se anche fosse riuscita a tornare dentro la scuola, non avrebbe saputo come muoversi. Forse a quell'ora le ragazze erano uscite dalla presidenza, forse si stavano dirigendo verso l'uscita in quell'esatto momento. Quel pensiero le gonfiò il cuore di speranza.

Si rassegnò a seguire Night verso il parcheggio ma, quando si voltò per lanciare un'ultima occhiata da lontano alla scuola, Angie notò un'altra cosa. L'abete che era stato abbattuto sulla scuola non era l'unico in fiamme: era il solo il cui tronco era stato tagliato così che potesse cadere ma, da quella distanza, poteva vedere chiaramente che tutti gli alberi della pineta che circondava la scuola erano stati dati alle fiamme, in un anello di fuoco che non avrebbe lasciato scampo a chi fosse rimasto là dentro.

«Una trappola mortale.»

Angie trasalì e si voltò a guardare Night, anch'egli intento a guardare la scuola, lo sguardo privo di qualsiasi emozione.

«Henry ha pensato proprio a tutto.»

****

Gérard ci lasciò andare solo quando fummo riemersi dalla coltre di fumo, dopo quella che mi parve un'eternità. Arianna ed io quasi crollammo a terra, riprendendo fiato come se fossimo appena tornate in superficie dopo una gara di apnea, ma l'attimo dopo avevamo già ripreso a correre dietro al custode, che puntava con sicurezza la fine del corridoio.

Mi aspettavo da un momento all'altro di trovarmi davanti il familiare sgabuzzino e i bagni, ma Gérard doveva averci condotti molto più avanti e non avevo idea della zona della scuola in cui ci trovassimo. In ogni caso, Gérard era un bidello e sembrava conoscere quel posto a menadito, mentre ci guidava verso i corridoi, e seguirlo mi parve l'unica cosa sensata da fare.

Quando svoltammo a destra, mi voltai un attimo verso il corridoio che ci eravamo lasciati alle spalle e, nel farlo, il mio cuore perse un battito. Non avevo fatto che guardare dritto davanti a me tutto il tempo, verso la salvezza, e così non me n'ero neanche resa conto.

«Gérard...» mormorai, ma la voce mi si strozzò in gola e il custode non riuscì a udirmi per via della sirena, mentre proseguiva correndo lungo il nuovo corridoio, seguito a ruota da Arianna.

«GÉRARD!» urlai allora, afferrandolo per un braccio.

Lui si voltò verso di me, confuso, ma gli bastò un'occhiata alle mie spalle per capire.

«Il biondino» mormorò, lo sguardo fisso su un punto dietro di me, sul muro di fumo che ci eravamo appena lasciati alle spalle.

Le lacrime mi pizzicavano le palpebre. «L-lui...» balbettai, il corpo in preda agli spasmi. «Lui dev'essere rimasto indietro...»

Il volto di Gérard era una maschera di impassibilità.

«Calmati» disse, ed esitò un momento prima di poggiarmi una mano sulla spalla e stringere, come se volesse conficcarmi quelle parole nella pelle. «Ci penso io.»

Come in trance, lo osservai proseguire avanti ancora per qualche metro ed ero sul punto di urlargli contro – che cavolo stava facendo? Brook era dalla parte opposta! – quando capii che cos'aveva intenzione di fare.

A lato del corridoio c'era un estintore: Gérard si affrettò ad infrangere il vetro con il martelletto e lo tirò fuori, per poi tornare correndo verso di noi.

«Conoscete la strada da qui in poi. Dritto lungo tutto il corridoio e poi a destra. Gli altri dovrebbero essere lì. A regola, l'atrio è uno dei punti di raccolta in caso di incendio.» Gérard si bloccò e, dopo un attimo, aggiunse: «Fate attenzione quando uscite.»

«Faccia attenzione anche lei!» gridò Arianna, mentre il bidello brandiva l'estintore e si avventurava nuovamente in mezzo al fumo.

Brook era ancora là dentro. Eppure mi aveva seguito fuori dall'ufficio, lo avevo visto con i miei occhi... Forse il fumo gli aveva fatto perdere l'orientamento. Perché diavolo non gli avevo teso la mano?

Arianna mi strattonò per un braccio, riportandomi bruscamente alla realtà.

«Kia, che stai facendo? Sbrigati!» berciò, mettendosi a correre.

I miei piedi si mossero da soli e in un attimo ero dietro di lei, attraversando di filata il corridoio, con i polmoni che sembravano scoppiarmi nel petto e la testa che era rimasta in quella coltre di fumo, insieme a Brook e Gérard.

Eppure corsi.

Non ero una fanatica dello sport e mai lo sarei stata, ma quella volta corsi, eccome se corsi. Ero così spaventata da non sentire neanche la fatica e il corpo mi sembrava straordinariamente leggero, con i piedi che volavano lungo il corridoio.

Adesso, come Gérard ci aveva detto, sapevo dove ci trovavamo. Quante volte lo avevo percorso, quel corridoio. Nell'angolo, sulla sinistra, sapevo che c'era la nostra classe, ma in quel momento mi parve un luogo del tutto nuovo e sconosciuto. Nella mia mente c'era spazio solo per l'esile figura di Arianna davanti a me e, appena un po' più in là, per Brook e per Gérard, tornato indietro per salvarlo. Pregai silenziosamente che ce la facessero.

Quando infine svoltammo a destra e ci apparve davanti la familiare struttura dell'atrio, tirammo un sospiro di sollievo. Rallentammo istintivamente il passo, vedendolo gremito di studenti, che professori e custodi stavano mettendo in fila indiana prima di farli uscire dal portone d'ingresso. Per una volta, i ragazzi stavano obbedendo senza fare storie ai loro ordini e stavano rigidi e impettiti come soldatini, le loro espressioni tese per la paura.

«Ehi, voi!»

Una custode ci venne incontro correndo, spaventata al pari degli studenti. Urlava così forte che la sentimmo chiaramente, malgrado la sirena antincendio.

«Che state facendo lì? Sbrigatevi a mettervi in fila!»

Arianna ed io ci scambiammo un'occhiata, prima di affrettarci a fare come ci era stato detto.

Non eravamo ancora in salvo.

Se non altro, però, non eravamo più sole.

 

Non alzai mai lo sguardo per tutto il tempo.

Sapevo che il giardino era in fiamme, sapevo che il fuoco era tutt'intorno a noi e che, se non ci fossimo sbrigati, il cerchio di fuoco intorno alla scuola ci avrebbe precluso ogni via d'uscita.

La tentazione di liberarmi da quella fila, che precedeva in modo insopportabilmente lento, e di mettermi a correre lungo il giardino era fortissima, ma mi sforzai di ignorarla e rimasi al mio posto, intrappolata tra Arianna e un ragazzo grande come un armadio a due ante.

Tenni lo sguardo fisso sulle scarpe, che avanzavano incerte sull'acciottolato, il puzzo di fumo che mi mozzava il fiato e il rumore degli alberi che si accartocciavano tra le fiamme nelle orecchie sostituitosi alla sirena antincendio.

Alzai gli occhi solo quando, un'eternità e mezzo dopo, sentii Arianna darmi un colpetto sulla spalla, che mi ricordò quello di Gérard e mi provocò un'improvvisa ondata di nausea. Era riuscito a trovare Brook? Ce l'avevano fatta?

«Siamo fuori» mi disse lei, il sollievo che emergeva dalla voce e tradiva il suo tono monocorde.

Era vero. Dopo aver sollevato appena il capo, mi accorsi con aria trasognata che ci avevano condotti in un parcheggio, a debita distanza dalla scuola. In mezzo a noi c'erano centinaia di altri ragazzi, gli occhi muti di terrore fissi sull'incendio, come se fossero spaventati a morte ma allo stesso tempo incapaci di distogliere lo sguardo su ciò che stava succedendo alla loro scuola.

I professori stavano dividendo i ragazzi per classe e, come in un sogno, intravidi la nostra, in un angolo del parcheggio, con il professor Anderson che girava tra gli alunni e teneva un foglio tra le mani, preparandosi a fare l'appello.

La fila indiana con la quale eravamo uscite dalla scuola si stava smembrando e Arianna ed io ci affrettammo a raggiungere la nostra classe, le gambe che minacciavano di farmi cadere sull'asfalto da un momento all'altro.

Mentre ci avvicinavamo al capannello di ragazzi, riconobbi tra loro un volto molto familiare e sentii il macigno che avevo nel petto farsi un po' più leggero.

«ANGIE!» gridai, accelerando il passo.

La ragazza si voltò di scatto nella nostra direzione, gli occhi traboccanti di sollievo. Corse verso di noi e si lanciò tra le mie braccia, stringendomi in un abbraccio così forte da risultare quasi doloroso.

«Ero così preoccupata!» mormorò, quando infine si staccò da me. «Anche per te, Arianna» aggiunse con un filo di voce e, dopo un attimo di esitazione, strinse anche la ragazza in un abbraccio tritura-ossa.

Fu un vero miracolo se la fragile ragazza ne uscì tutta intera, anche se notai con la coda dell'occhio che ansimava parecchio per riprendere fiato.

«Dov'eri?» le chiesi a bruciapelo. Vidi che Night era poco lontano da lei, attorniato dagli altri ragazzi, ma non la perdeva d'occhio un istante. «Mi hai fatto così spaventare... »

Angie seguii il mio sguardo e parve capire il vero senso di quella domanda. «È una lunga storia... alla fine non siamo riusciti a raggiungervi in presidenza.»

Chinò un momento il capo e, quando incrociò di nuovo i nostri sguardi, ogni traccia di gioia era svanita dai suoi occhi.

«Henry è ancora vivo» disse con voce incrinata. «È stato lui ad appiccare l'incendio.»

Arianna annuì. «Ce l'ha detto Gérard» mormorò, mordendosi il labbro.

Il pensiero del bidello mi riportò a Brook e lanciai un'occhiata disperata alla scuola.

«Sappiamo anche che Night ha confessato unicamente per proteggere Kyle, anche se non sappiamo il perché» proseguì Arianna, aggrottando le sopracciglia.

«Già...» rispose Angie, in tono evasivo. «Sembra che... be', ecco, che i due fossero molto legati.»

Arianna sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma in quel momento una voce s'inserì nella conversazione.

«Arianna!»

D'istinto pensai che fosse Beth, ma quella profonda voce maschile non poteva certo appartenere a lei. Voltandomi, infatti, vidi che si trattava di Lucas: il ragazzo biondo si stava facendo avanti tra i nostri compagni, il volto teso dalla preoccupazione e gli occhi fissi sulla mia amica. Udendo la sua voce, lei si era illuminata in viso e aveva sorriso. Un sorriso tremolante, come se stesse cercando in ogni modo di non mettersi a piangere.

«Lucas» mormorò con voce incrinata, lasciando che il ragazzo la stringesse fra le braccia.

«Beth è con te?» domandai ad Angie, guardandomi intorno tra i ragazzi della classe, un po' inquieta.

Mi ero aspettata di vederla spuntare subito tra la folla, al pari – o al posto – di Lucas e temevo la reazione che la mia amica avrebbe avuto di fronte all'incendio.

Angie corrugò la fronte. «No» rispose e, dopo un attimo, aggiunse: «Non era con voi in presidenza? A proposito, Draco dov'è?»

«Brook è rimasto indietro» mormorò Arianna, abbassando gli occhi e facendosi più vicino a Lucas. «Gérard è tornato dentro per salvarlo.»

«Ragazze, Beth non c'è» dissi, l'ansia che cresceva nel petto.

Dove diamine si era cacciata? Dopo tutto quello che le era successo, Beth non avrebbe mai potuto far fronte al fuoco da sola!

«Doveva vedersi con John» mi ricordò Arianna.

«Giusto» dissi precipitosamente, osservando le altre classi finché non individuai la sagoma del familiare ragazzo moro, tra gli studenti della sezione A, con la custodia della chitarra sulla spalla.

Incurante dell'appello che il professor Anderson stava facendo proprio in quel momento, mi precipitai da lui, ignorando deliberatamente il fatto che, almeno ad una prima occhiata, Beth non sembrasse essere con lui.

No. Non può essere rimasta là dentro da sola.

«JOHN!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo.

Il ragazzo si voltò verso di me, la solita aria indifferente stampata sul volto. «Che c'è?»

«Beth è con te?»

L'espressione sul volto di John cambiò repentinamente.

«No» rispose in un soffio. «Perché?»

Il cuore aveva preso a battermi all'impazzata nel petto. «Non la troviamo. L'ultima volta che l'abbiamo vista ha detto che doveva incontrarti nella pineta.»

Lo sguardo che John mi rivolse era così serio che sentii lo stomaco sprofondarmi nelle scarpe. Dov'era la mia amica?

«Sì, è venuta» rispose, corrugando la fronte. La sua voce tremava impercettibilmente. «Ma non è rimasta molto, ha detto che doveva andare via.»

«Sì, doveva raggiungerci in presidenza. Ma non è mai arrivata.»

«Ah, no?» John sgranò gli occhi, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di cruciale. «Ecco, mentre si allontanava l'ho vista finire contro un tizio che le ha rovesciato un caffè addosso. Forse è andata in camera a cambiarsi.»

Lo sguardo di John si fece esitante per un attimo, come se avesse formulato d'istinto un pensiero e poi lo avesse scacciato altrettanto velocemente. Capii che avevamo pensato alla stessa cosa.

«Credi che sia sempre in camera?»

«Non credo» risposi. «Ne sono certa.»

Feci per voltargli le spalle, andare dal professor Anderson, avvertirlo, fare qualsiasi cosa per portare Beth al sicuro, ma John mi afferrò per una spalla e mi impedì di proseguire.

«Sei sicura che non abbia raggiunto gli altri al punto d'incontro?» mi chiese tutto d'un fiato. «Non credo sia rimasto nessuno nei dormitori.»

«Lei sì» ribattei testardamente.

Avrei potuto metterci la mano sul fuoco, letteralmente. Conoscevo la mia amica come le mie tasche, le sue debolezze e la sua fragilità. Sapevo quali orribili ricordi il fuoco avrebbe scatenato in lei e come avrebbe reagito ad essi.

«Si è fatta prendere dal panico ed è rimasta lì, lo so.»

Quando ricambiai lo sguardo di John, capii che mi credeva. Non lo avevo mai visto in quel modo e l'espressione spaventata che aveva dipinta sul volto, con gli occhi sgranati per la paura, non faceva che attanagliarmi ancor più lo stomaco.

«Vado ad avvertire il professor Anderson» dissi con voce strozzata, ma lui non aveva ancora finito.

Mi afferrò per le spalle e si chinò su di me, guardandomi fisso negli occhi con una serietà tale da farmi tremare le gambe.

«Kia» mormorò molto lentamente. «Ne sei certa?»

«Sì» risposi, ma me ne pentii l'attimo dopo.

John, infatti, aveva preso a sfilarsi la custodia dalla spalla e un sospetto fece capolino in un angolo della mia testa. Quel pazzo patentato non aveva mica intenzione di...?

Invece sì.

Kia, idiota che non sei altro!

Senza che riuscissi a fermarlo, John mi lasciò la chitarra e si mise a correre in direzione della scuola.

 

Night osservava la scuola bruciare con un nodo allo stomaco.

Oh, aveva sognato infinite volte di darle fuoco lui stesso, di vedere quel posto in cui era rinchiuso da anni scomparire tra le fiamme, ma non certo in quel modo.

Vedeva i ragazzi terrorizzati intorno a lui, percepiva la loro paura; sentiva i professori fare l'appello e mutare espressione quando qualcuno non rispondeva al proprio nome, per poi lanciare un rapido sguardo alla scuola con gli occhi pieni di dolore.

Quando i membri della sua banda, vedendolo così incupito, gli scoccarono delle occhiate preoccupate, Night si sentì ancora peggio. I suoi ragazzi erano in pensiero per lui, del tutto ignari del fatto che fosse a causa sua se degli studenti stavano morendo, là dentro.

Trasalì di colpo quando udì delle sirene e pensò di stare impazzendo, visto che nel parcheggio l'allarme antincendio della scuola non li aveva raggiunti. Voltandosi, però, vide che erano arrivati i pompieri, i quali si piazzarono proprio di fronte all'ingresso della scuola. Night si augurò che potessero fare qualcosa per aiutare i ragazzi rimasti dentro.

Quell'apparizione gli diede un po' di sollievo, ma non contribuì ad alleviare il suo senso di nausea. Gli veniva da vomitare alla sola idea che Henry fosse lì per lui. Il pensiero di ciò che gli aveva fatto passare negli anni in quel momento faceva più male del solito: lui, infatti, non era mai riuscito ad andare oltre quei ricordi.

Night sapeva che gli altri avevano superato quella questione da un pezzo e Kyle, d'altronde, ne era la prova. Forse non si ricordava neppure più di lui, tantomeno di Henry. Forse il poverino era il soggetto di qualche suo incubo, ma l'espressione spensierata che aveva sul volto quando lo fotografavano per qualche articolo non era certo la faccia tormentata di chi non poteva sopportare il fatto di aver aizzato la propria gang contro un ragazzino un po' strambo.

Lo stesso valeva per il resto della banda. Gli altri dovevano aver imparato a convivere con il peso di ciò che avevano fatto e, se non era così, ci avrebbe pensato il tempo a lenire i loro sensi di colpa. Dopotutto si erano diplomati da un pezzo, andavano all'università, avevano le loro distrazioni, le loro vite.

Lui invece no. Lui era rimasto intrappolato là dentro, costretto a dover guardare in faccia la realtà di ciò che aveva fatto ogni fottutissimo giorno.

Tutte le mattine attraversava i corridoi dove la sua banda aveva spintonato Henry, lo aveva picchiato, gli aveva strappato i quaderni o i vestiti.

Tutte le mattine passava di fronte alle docce dove le sue urla gli avevano fatto accapponare la pelle, quelle stesse urla che continuavano a disturbargli il sonno.

Vedendo la scuola bruciare, Night si rese conto che per Henry doveva essere lo stesso. Rinchiuso in manicomio dalla madre, doveva aver rivissuto quegli orribili momenti all'infinito, prima di poter finalmente mettere in atto la sua vendetta. Capì che, proprio come lui, anche Henry era rimasto fermo al giorno dell'incidente nelle docce.

Forse erano più simili di quanto sarebbe stato mai disposto ad ammettere.

Forse fu per quello che fu l'unico che lo notò.

Nessuno degli studenti della scuola, dopotutto, poteva sapere chi fosse. Quanto alla preside, era subito accorsa ad aiutare i pompieri, probabilmente per assicurarsi che riuscissero a mettere in salvo gli ultimi studenti ma che lasciassero scomparire nelle fiamme le prove degli esperimenti a cui li aveva sottoposti negli anni.

Night, invece, lo vide, perfettamente mimetizzato tra i curiosi che si erano radunati poco lontano dal parcheggio, tutti con gli occhi fissi sulla scuola che bruciava in un misto di stupore e paura.

Tutti tranne Henry.

Lo sguardo di Henry, sebbene seminascosto dal cappuccio della felpa che si era calato sul capo, infatti, non era né curioso né impaurito. Era fiero. Godeva di quel che aveva fatto, come un regista che osserva con aria soddisfatta la prima del suo film. Night avrebbe potuto descrivere in una parola il sorriso soddisfatto che Henry aveva sul volto: folle.

I suoi piedi si mossero istintivamente verso di lui, ignorando il professor Anderson prima e i custodi dopo, quando gli intimarono di tornare indietro. Non aveva mai ascoltato una parola di quel che dicevano gli insegnanti in quella scuola, e non avrebbe certo iniziato a farlo adesso.

Man mano che si faceva vicino ad Henry e vedeva il sorriso allucinato del ragazzo farsi sempre più largo, la rabbia di Night montava. Era lecito che ce l'avesse con lui, come con Kyle. Era il minimo, dopo gli orrori che gli avevano fatto passare. Ma perché non ammazzare lui e basta, allora? Perché far morire degli studenti che in quella storia non c'entravano assolutamente niente?

Maledetto.

«HENRY!» tuonò, serrando i pugni.

Intuendo la minaccia nella sua voce, il capannello di persone si aprì come un'onda al suo passaggio. Henry, l'unico rimasto immobile al centro della folla, si voltò di scatto verso di lui, gli occhi enormi come quelli di un cerbiatto che si sgranavano per la sorpresa.

Se in lui era rimasto qualcosa del gracile studente che aveva preso in giro nei suoi primi anni di scuola, era appena visibile. Era sempre alto e magro come uno stecco, ma aveva la pelle pallida e smunta, che pareva appesa alla faccia per miracolo, solcata di cicatrici.

Le ustioni.

Sembrava un cadavere. Cerchiati di nero, i suoi grandi occhi inquieti, specchio degli orrori che doveva aver vissuto in manicomio, erano irriconoscibili.

«Night...?» La voce di Henry era un sussurro rauco.

I suoi occhi non stavano mai troppo fermi in un posto. Dopo aver passato in rassegna l'opera di cui era stato l'artefice, si posarono sulla strada che portava all'uscita del parcheggio. Lì rimasero per un momento di troppo, prima di tornare a fronteggiare Night, che capì in un attimo le sue intenzioni.

Quando Henry si mise a correre, Night si lanciò al suo inseguimento.

Attraversarono il parcheggio come saette, con i passanti si affrettavano a farsi di lato al loro passaggio, ma per Night non erano che ombre ai margini del campo visivo: aveva occhi solo per la schiena di Henry. Il cappuccio della felpa, sfilatosi, gli rimbalzava sulle spalle e Night intravide chiazze di cranio calvo, dove i capelli non erano ricresciuti, che lo facevano assomigliare un cucciolo spelacchiato.

Con gli occhi fissi su di lui, Night si scostò appena in tempo, un attimo prima di essere investito da un auto, che gli suonò prepotentemente il clacson. Il ragazzo evitò per un soffio altre due vetture e balzò sul marciapiede, dove Henry lo precedeva di qualche metro.

Il piromane era agile come uno stambecco, mentre correva sul marciapiede, scansando violentemente i passanti al suo passaggio, ma ben presto Night si accorse che stava perdendo terreno. Era rimasto chiuso fra quattro mura per i sei anni precedenti, dopotutto, e non poteva competere con un giocatore di pallacanestro.

Quando vide Henry cambiare di nuovo marciapiede, cercando di depistarlo, Night si lanciò in mezzo alla strada, rischiando nuovamente di essere investito. Clacson e bestemmie esplosero nelle sue orecchie, ma il ragazzo li ignorò.

Mentre correva, il paesaggio gli scorreva rapidissimo ai lati degli occhi e Night si rese conto che si erano allontanati parecchio dalla scuola, perché di colpo ai lati della strada non c'erano più prefabbricati, ma le sponde del fiume Aln. Dovevano trovarsi sul ponte, a giudicare anche dai numerosi turisti che affollavano i marciapiedi.

Night sapeva che quella scena non stava passando inosservata ai loro occhi, vista anche l'espressione truce sul suo volto e quella terrorizzata di Henry, mentre si voltava continuamente indietro per controllarlo. Ma si girò una volta di troppo: mentre correva col capo rivolto in direzione di Night, Henry investì in pieno un anziano signore che stava passeggiando, facendolo cadere e ruzzolando a terra insieme a lui.

Night lo raggiunse correndo e lo afferrò per il cappuccio, impedendogli di sgattaiolare via di nuovo.

«CHE CAZZO CREDI DI FARE, EH?»

Night lo spinse contro il parapetto, bloccandogli qualsiasi possibilità di movimento, e dovette fare appello a tutto se stesso per non scaraventarlo giù nel fiume.

Fece un respiro profondo, prima di incrociare lo sguardo spaventato di Henry. Quegli occhi gli ricordarono in un lampo ciò che lui aveva fatto e gli fecero lo stesso effetto di un calcio nello stomaco.

Sospirando, Night allentò la presa sul ragazzo, che continuava ad ansimare come un animale ferito.

«Come hai potuto...» Night si bloccò, scuotendo la testa. «Come hai potuto farlo?»

Henry si limitava a fissarlo, ansimante, immobile e spaventato. Era come una bambola di pezza fra le sua braccia e Night si chiese come una figura apparentemente così fragile e innocua potesse essere il responsabile di quell'incendio.

«Perché non hai ucciso me?» domandò. Il suo tono era quasi implorante, anche se sapeva che Henry – o quel che rimaneva di lui – non gli avrebbe dato risposta.

Si allontanò un po' dal ragazzo per lasciargli modo di respirare, sempre tenendolo saldamente per le spalle.

«Tutto quel fuoco, per cosa? Degli innocenti stanno morendo, mentre io sono sempre qui.»

«Il fuoco?»

Henry si riscosse di colpo e i suoi occhi si illuminarono, come se Night avesse detto una parolina magica. Sotto il suo sguardo attonito, il ragazzo scosse la testa.

«Il fuoco era per la mamma» disse socchiudendo gli occhi, l'aria terribilmente seria. «Tu e Kyle non vi meritate certo il fuoco.»

Poi tirò fuori dalla tasca il coltello a serramanico.

****

Beth aveva visto l'incendio dalla finestra.

Malgrado lo shock provocato dalla notizia che aveva letto sul giornale, in cui si diceva che Henry Jefferson non era affatto defunto, bensì un ricercato fuggito da un manicomio, aveva subito capito che c'era qualcosa che non andava. Quella sirena antincendio non poteva significare niente di buono. Così si era alzata, ignorando l'improvviso giramento alla testa dato da quella scoperta, e si era diretta barcollando alla finestra.

E lì le aveva viste. Le fiamme. Quelle che le danzavano dietro le palpebre se osava chiudere gli occhi un momento di troppo. Ma non era la sua immaginazione, erano proprio lì, oltre la finestra, che avanzavano serpeggiando fra i rami degli alberi e divoravano il giardino al loro passaggio. 

Era scoppiato un incendio nella pineta della scuola.

Beth aveva artigliato il bordo della finestra con le unghie, soffocando un conato di bile. L'incendio era di fronte a lei, proprio come nei suoi peggiori incubi. Solo che stavolta era reale, e la sirena che le esplodeva nelle orecchie ne era la dolorosa conferma.

«No... no...» balbettò.

Serrò le palpebre e indietreggiò per non osservare quello spettacolo raccapricciante un minuto di più, ma urtò lo spigolo del letto e rovinò a terra, soffocando un gemito di dolore.

Nel tentativo di zittire l'allarme, Beth si tappò le orecchie, ma nella sua testa c'era un rumore ancora più assordante ed erano le sue urla: aveva perso la voce a forza di gridare, quand'era caduta in mezzo alle fiamme, mentre Lucy moriva accanto a lei, il sangue che si allargava intorno alla sua testa come una grottesca aureola.

Beth gattonò fino all'angolo della stanza più lontano dalla finestra, quello tra la parete del bagno e l'armadio di fianco al letto di Angie, e vi si rannicchiò, portandosi le braccia intorno alle ginocchia e dondolandosi avanti e indietro, il corpo scosso dai singhiozzi.

L'incendio l'aveva raggiunta di nuovo. Era tutta colpa sua, quella volta, quando aveva tanto insistito a voler fare quella maledetta passeggiata. 

Povera Lucy. Ci provava, lei, a ricordarla viva, con la sua risata argentina, il suo sorriso contagioso, la ventata d'aria fresca che aveva portato nella sua vita, ma le immagini di morte finivano sempre per prendere il sopravvento. Ricordi marchiati a fuoco nella sua testa, che le scorrevano davanti contro la sua volontà. I suoi occhi aperti ma privi di vita, quando Kia aveva fatto per voltarle il capo, ma aveva visto la sua testa piegarsi in un angolo innaturale come quello di una bambola, e tutto il sangue intorno. E intanto Beth gridava e gridava, mentre le fiamme la divoravano.

Raggomitolata nell'angolo della stanza, Beth gridò come quel pomeriggio che non avrebbe mai dimenticato, ma l'allarme era troppo forte perché qualcuno potesse udirla.

Una parte di lei sapeva che era un'idiozia rimanere lì, che doveva uscire in corridoio, dove era sicura si stessero già radunando gli studenti che si trovavano nei dormitori, ma non ce la faceva. Sapeva di non esserne in grado. Le gambe non la reggevano, la testa le scoppiava e poteva sentire il sapore acido della bile in bocca, insieme alle lacrime che stava inghiottendo fra i singhiozzi.

Già una volta aveva affrontato il fuoco, e il solo ricordo di com'erano andate le cose era tanto doloroso da piegarla in due. Stavolta non aveva la forza di lottare.

Si nascose il volto fra le mani.

Forse, dopotutto, era meglio rimanere lì.

****

Quando Angie aveva visto Night iniziare a correre, era rimasta spiazzata. Cosa diavolo stava facendo?

Poi, però, aveva notato l'esile figura incappucciata fuggire a gambe levate da lui, la stessa che fino solo ad un attimo prima era ferma in mezzo alla folla, ad osservare la scuola che bruciava.

Aveva letto da qualche parte che ai piromani piace assistere agli incendi da loro appiccati, che dà loro un senso di perversa soddisfazione. Ed Angie era sicura che quell'individuo che aveva Night alle calcagna fosse Henry.

In quel momento, a dirla tutta, non riusciva a pensare ad altro che non fosse Beth. Lei ed Arianna si erano affrettate ad avvertire il professor Anderson dell'assenza della loro amica, mentre Kia era corsa a parlare con John ma, proprio come Night le aveva detto all'inizio, non c'era molto che loro potessero fare e quel senso di impotenza la divorava.

Il pensiero di Night, però, le aveva fatto voltare gli occhi verso la strada, contro la quale iniziava a stagliarsi il crepuscolo. I due ragazzi si erano allontanati parecchio dal parcheggio e le loro ombre disegnavano sagome scure sull'asfalto, mentre correvano zigzagando fra le auto in movimento, in direzione del ponte.

Night procedeva come una furia ed Angie fu improvvisamente colpita dal sospetto che volesse uccidere Henry. Il cuore aveva iniziato a pomparle nel petto come un tamburo, mentre teneva gli occhi fissi sulla strada: dopotutto Henry non aveva assassinato Kyle?

L'ansia aveva preso a morderle lo stomaco e, dopo aver scoccato un'occhiata al professor Anderson, che stava fissando a sua volta Night con apprensione, ma con l'aria di chi non aveva alcuna intenzione di intervenire e avrebbe lasciato che quel teppistello si scavasse la fossa con le sue stesse mani, Angie capì che se la sarebbe dovuta cavare da sola.

Così si era messa a correre, ignorando gli avvertimenti che le rimbalzavano sulla schiena: Arianna, Lucas, Shadow, il resto dei suoi compagni di classe, così come il professor Anderson e le custodi, che le gridavano di tornare indietro.

Uscì correndo dal parcheggio e proseguì a tutta velocità lungo il marciapiede, in direzione dello scenografico ponte costruito sopra il fiume Aln, in quel momento affollato di vetture e pedoni.

Angie sfrecciò tra i passanti, con il cuore che le martellava nelle orecchie, peraltro senza riuscire a vedere il suo obbiettivo. Eppure era sicura che si fossero diretti sul ponte!

Improvvisamente si trovò davanti un muro di persone, così consistente che alcune stavano anche affollando la strada, suscitando l'ira degli automobilisti. Con uno sbuffo d'impazienza, Angie fu costretta a rallentare.

Spintonò senza troppo garbo i passanti che si erano assiepati sul marciapiede per riuscire a passare ma, quando fu finalmente riuscita ad emergere da quella marea umana, capì perché si erano tutti radunati lì.

Night ed Henry erano davanti a loro, uno di fronte all'altro, immobili contro il parapetto. 

La folla li osservava trattenendo il fiato, senza avere il coraggio, o forse l'intenzione, di intervenire.

Mentre si fronteggiavano, pronunciando parole che da lì Angie non riusciva a sentire, la ragazza lo aveva visto, rapido ma inconfondibile: il baluginio argenteo di un coltello nelle mani di Henry.

«Oddio, è armato!» urlò qualcuno nella folla.

«Chiamate la polizia!»

Sotto gli occhi atterriti di Angie, i due intanto avevano ingaggiato una furiosa lotta contro il parapetto, in un intrico di corpi tra i quali di tanto in tanto s'intravedeva lo scintillio dell'acciaio.

Angie aveva la gola secca e lì per lì rimase di sasso, ma si riscosse in fretta. Doveva intervenire. Ricacciando la paura in fondo al petto, Angie si diresse verso di loro, strattonandosi per liberarsi quando qualcuno cercò di trattenerla per un braccio e di impedirle di avvicinarsi. Procedeva piano, trascinando a forza i piedi sull'asfalto, perché temeva che, se Night l'avesse vista, si sarebbe distratto ed Henry ne avrebbe approfittato. Oltretutto, Angie non poteva prevedere la reazione del piromane se una terza persona si fosse unita allo scontro.

Con un colpo di reni, nel frattempo, Night aveva ribaltato le loro posizioni. Adesso c'era lui contro il parapetto, mentre lottava per tenere Henry e il suo coltello lontani da sé, con l'esile ragazzo che si agitava convulsamente nel tentativo di colpirlo.

Angie aveva il cuore in gola e si era di nuovo bloccata, con le gambe molli. Che Night avesse intenzione di gettarsi nel fiume? Era molto più forte di Henry, ma il ragazzo si dimenava come un animale e il suo coltello era già andato a segno più volte, aprendogli dei tagli superficiali sul petto e sulle braccia.

Vedendo Night sanguinare e trattenere un gemito di dolore, Angie non ci vide più. In barba all'avvicinamento di soppiatto, scattò in avanti in direzione dei due ragazzi, incurante delle macchine che sfrecciavano da un lato e dall'altro.

Fu proprio in quel momento che successe.

Abbandonando la propria posizione di difesa e lasciando che Henry si accanisse contro il suo torace, Night riuscì a puntellarsi contro il parapetto e a dare uno spintone al ragazzo, che venne catapultato all'indietro, verso la strada.

Henry perse l'equilibrio e barcollò mulinando le braccia, un'espressione di muta sorpresa comparsagli sul volto. Era ancora sospeso in aria quando Angie realizzò con orrore ciò che sarebbe successo, ma era troppo lontana per intervenire. Non poté fare altro che coprirsi la bocca con le mani, incapace di distogliere lo sguardo da quella scena.

Anche Night parve infine accorgersi delle conseguenze della spinta che aveva dato ad Henry e scattò in avanti per afferrargli la mano, ma era troppo tardi per salvarlo. Così come, per la macchina che in quel momento stava attraversando il ponte a cento all'ora, era troppo tardi per rallentare.

Henry crollò sull'asfalto nel preciso istante in cui l'auto stava passando e venne travolto con un orribile scrocchio che schizzò di sangue Night, il paraurti della macchina e la strada.

Angie udì qualcuno gridare nella folla, qualcun altro vomitare sull'asfalto, ma forse se li era solo immaginati.

Era rimasta pietrificata, così come i passanti che stavano arrivando dal ponte nella direzione opposta e le macchine tutt'intorno, che inchiodarono in mezzo alla strada non appena videro cos'era successo.

Dall'auto che aveva colpito Henry uscì barcollando un uomo dall'aria visibilmente scossa. Angie osservò senza vederli davvero Night e il guidatore chinarsi sul corpo di Henry e probabilmente accertarsi che il piromane era morto sul colpo, visto che non si era più mosso dopo la fatale colluttazione.

Quando Night si tirò su, Angie vide che tremava tutto, con il corpo e le mani coperte del sangue di Henry. Indietreggiò, gli occhi fissi sull'incidente, con l'aria scossa di chi sembrava voler negare a se stesso quello che era appena successo.

Angie percepì le sue gambe muoversi nella sua direzione. Quando Night alzò gli occhi e la vide, sembrò sul punto di dire qualcosa, ma tutto quello che gli uscì di bocca fu un verso strozzato.

La ragazza deglutì, cercando di non guardare il sangue che gocciolava dalle mani di Night e che scorreva a rivoli sull'asfalto, il corpo senza vita di Henry straziato dalle ruote.

Con gli occhi fissi in quelli del ragazzo, gli si fece sempre più vicina, finché non lo ebbe stretto fra le braccia. Nessuno dei due disse una parola. Night si abbandonò contro di lei ed Angie lo udì singhiozzare, come se fino ad allora si fosse sforzato di non crollare, ma adesso non riuscisse più a trattenersi.

****

John non aveva avuto un solo attimo di esitazione.

Era un azzardo e lo sapeva, ma gli occhi dell'amica di Beth non mentivano: la ragazza doveva essere rimasta dentro l'edificio.

Così era scattato, approfittando del caos che regnava nel parcheggio e, se anche qualcuno lo aveva visto correre verso la scuola, non aveva fatto niente per fermarlo.

Al cancello ebbe più difficoltà, dato che l'ingresso era presieduto dai pompieri.

«Che cosa cerchi di fare?» gli gridò uno di loro, facendosi avanti con le braccia tese, come per impedirgli di proseguire.

John si avvicinò con fare remissivo e il pompiere, credendo di averla spuntata, abbandonò quella posizione e gli si fece vicino. Il ragazzo ne approfittò per dargli uno spintone e spingerlo lontano da sé, per poi dirigersi a tutta velocità verso il cancello d'ingresso.

«FERMATI!» gli gridò un altro, cercando di placcarlo.

John lo schivò per un soffio, evitando i tentativi di acciuffarlo da parte di altri due uomini, e si lanciò sul vialetto d'ingresso. Aveva in mente un solo pensiero e niente avrebbe potuto distoglierlo da lei.

Beth aveva paura del fuoco. Se lo ricordava benissimo, perché aveva tentato invano di scucirle qualcosa sulla vicenda e poi si era rassegnato a parlarne con la sua amica, che peraltro era stata altrettanto vaga. John soffocò il pensiero che, semplicemente, Beth non l'aveva considerato all'altezza di saperlo. Forse pensava che volesse servirsi di quella debolezza come un'arma contro di lei. Non poteva certo immaginare che il motivo avesse a che fare con ciò che stava per suonarle alla chitarra, un attimo prima che lei lo piantasse in asso per un altro appuntamento.

John si riscosse bruscamente da quei pensieri, che lo stavano facendo solo rallentare, e si voltò un attimo verso l'inferriata. Con un'ondata di sollievo, vide che aveva ormai distanziato parecchio i suoi inseguitori, i pompieri a guardia dell'ingresso, mentre quelli all'interno della pineta erano troppo occupati a svolgere il loro lavoro per prestargli alcuna attenzione. Il grosso degli uomini stava liberando dal fuoco il vialetto, nel tentativo di aprire un passaggio e permettere a chi era rimasto intrappolato all'interno della scuola di mettersi in salvo, mentre pochi altri si stavano dedicando a spegnere gli incendi circostanti, appiccati agli alberi della pineta.

In ogni caso, il vialetto era pressoché sgombro, sebbene invaso dal fumo. Le poche fiamme che non erano state estinte dai pompieri, dopo aver divorato gli alberi che costeggiavano la stradina e ridotto in cenere le panchine circostanti, parevano come incerte sul da farsi, visto che sull'acciottolato non c'era niente da bruciare, e avanzavano con meno sicurezza.

In compenso il fumo era ovunque, così denso da mozzargli il fiato. John non aveva idea di come avrebbe potuto proseguire fino all'interno della scuola con tutto quelle esalazioni ad artigliarli la gola quando, nello scorgere la familiare sagoma della fontana, ebbe un'idea.

Invertì la rotta verso il laghetto, si sfilò velocemente la felpa e la immerse un momento dentro l'acqua, prima di ricominciare a correre come un matto verso il portone d'ingresso.

Quando ebbe raggiunto i gradini, John si era già sistemato l'indumento fradicio sul naso e sulla bocca, annodandoselo dietro la nuca, ed era di nuovo in grado di respirare. Le goccioline d'acqua gelida che gli solleticavano la pelle e s'infilavano sotto la maglietta erano refrigeranti, ma nulla potevano contro il calore rovente che aveva tutt'intorno.

John varcò l'ingresso della scuola, ignorando gli occhi che avevano preso a lacrimargli e la paura che gli serpeggiava nel petto.

L'atrio, davanti a lui, era in fiamme.

C'era passato così tante volte che il suo aspetto irriconoscibile lo colpì alla sprovvista e lo fece tentennare per un attimo. Il fuoco lo stava divorando e pezzi di intonaco crollavano dal soffitto, mentre una figura, che riconobbe come un pompiere, stava guidando un paio di ragazzi nella sua direzione, verso l'uscita. Dietro di loro, il corrimano in ferro battuto delle scale era incandescente e stava iniziando a fondere.

Quell'immagine lo riportò bruscamente alla realtà. Le scale. I dormitori. 

Beth.

Si mise a correre verso la scalinata, cercando di non guardare quello spettacolo raccapricciante per non farsi prendere ulteriormente dal panico.

Tossendo a tutto spiano, John si lanciò in una corsa a perdifiato sui gradini di marmo bianco, gli unici rimasti intatti. Facevano uno strano effetto vicini al corrimano, che si stava afflosciando su se stesso come se fosse stato fatto di cera e dal quale John si tenne a debita distanza.

Giunto nel corridoio del primo piano, si bloccò bruscamente. Le lingue di fuoco non lo avevano ancora invaso del tutto, ma avanzavano minacciose lungo il tappeto disposto lungo il pavimento e si avvinghiavano alle porte di legno, salendo fino al soffitto.

Maledettaschifosavecchia scuola di legno, non riuscì a trattenersi dal pensare John, con il cuore in gola.

Quella catapecchia stava bruciando come se l'avessero coperta di benzina e vederla disintegrarsi sotto i suoi occhi era più di quanto riuscisse a sopportare. La sua testa stava per esplodere, la felpa fradicia che si era messo intorno al volto non era più di nessun aiuto.

La stanza numero diciassette. La diciassette.

Per un attimo, John fu colpito dal pensiero che fosse una delle camere le cui porte erano state invase dalle fiamme ma, avanzando nella parte del corridoio ancora intatta, scoprì che la stanza non era stata ancora raggiunta dal fuoco, poiché si trovava in posizione piuttosto centrale.

Il cuore di John gli martellava nelle orecchie, mentre fissava il pomello d'ottone incandescente. Si sfilò la felpa bagnata e la poggiò sulla maniglia per proteggersi le dita, sperando che Beth non avesse avuto la malsana idea di chiudersi dentro a chiave.

Fece forza sulla maniglia, ma la porta non si aprì.

«MERDA!» gridò, le fiamme che saettavano intorno a lui, facendosi sempre più vicine. «Merda!»

Cominciò a prendere a spallate e calci la porta e forse fu la disperazione, forse fu il legno che si era ristretto per via del calore, ma alla fine la sentì cedere e poi spezzarsi con un suono secco, aprendo un angusto passaggio verso la camera di Beth.

John vi si passò attraverso, ignorando il legno che gli graffiò la pelle e, superato il piccolo ingresso, si bloccò nel bel mezzo della stanza. Faceva uno strano effetto: era così ordinata, così normale, paragonata al caos che regnava nel corridoio e che molto presto l'avrebbe raggiunta.

John scandagliò la stanza con lo sguardo e, quando inizialmente non vide nessuno, pensò che Kia si fosse sbagliata e sentì la paura crescere dentro di lui.

Ma poi la vide.

Beth era lì, rannicchiata in posizione fetale in un angolo della stanza, stretta tra l'armadio e il muro, con una marea di fogli sparpagliati in terra vicino a lei.

A vederla in quello stato, il cuore di John ebbe un sussulto. La ragazza era squassata dai tremiti, come se stesse singhiozzando, e non sembrava intenzionata a muoversi di lì.

John si riscosse. Non c'era un solo attimo da perdere. Attraversò la stanza e si chinò su di lei, prendendole delicatamente il volto tra le mani perché lo alzasse su di lui.

Due occhi enormi e pieni di lacrime ricambiarono il suo sguardo e sbatterono le palpebre più e più volte, come se non riuscissero a credere a ciò che vedevano.

«Va tutto bene, Beth» mormorò John. «Sono qui.»

Sollevò la ragazza fra le braccia e corse verso la porta.

 

Ehilà!

Vi scrivo in delle condizioni pietose, con la schiena a pezzi, il culo che ha preso la forma della mia sedia e gli occhi iniettati di sangue nemmeno avessi fatto una visitina dallo spacciatore di Nathan (magari!). L'università mi sta uccidendo, ve lo giuro. Sono reduce da circa dieci ore di studio (di fronte al pc, per diventare cieca il prima possibile) e in teoria stasera avrei dovuto continuare, ma ho deciso di sfanculare tutto e di pubblicare un capitolo di Love School.

E non un capitolo qualunque, signori e signori (voce fuori campo: ma signori cosa, che non ti s'incula nessuno!). IL PENULTIMO CAPITOLO. 

Vi aspettavate (*zittisce la voce fuori campo con un calcio nei denti, peraltro suscitando l'ammirazione di Angie*) tutto questo DRAMA? No, probabilmente no, considerando che la storia parte da premesse quali scuole popolate da manzi e ormoni a palla. Ma io vi avevo avvertito che la trama avrebbe preso una piega decisamente diversa, verso la fine! ;) Spero davvero che vi stia piacendo comunque. Tra parentesi, scrivere questo capitolo è stato un PARTO. Grazie a Dio non ho mai vissuto una situazione del genere (e tocco ferro!) e quindi sono del tutto ignorante in materia. Vi dicolo solo che per giorni e giorni la mia cronologia è stata popolata da ricerche del tipo "a che temperatura fonde il ferro", "il marmo negli incendi", "sistema anticendio nelle scuole", "comportamento legno con il calore". Spero di non aver scritto troppe castronerie al riguardo XD

Ci vediamo al prossimo (e ultimo, sigh!) capitolo, dove scopriremo se i nostri eroi sono riusciti a non arrostire! Vera Angie, tra parentesi, ti invoco, perché non mi ricordo come avevamo soprannominato Brook (Fuocherello? Arrosticino?), che sta riscuotendo un inaspettato successo tra le nostre lettrici. Kia, se non te lo pigli sei una broccola al pari di John.

Un bacio,

Cassidy.   

PS: Night la fissò. I suoi occhi erano enormi per la paura, ERAN GLI SPECCHI DI UN'AVVENTURA LALALALA LALA LALA, LALALALA LALA LALA

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** -•Capitolo 23 ***




Quando Beth riemerse dallo svenimento, scattò a sedere sul letto e boccheggiò come se si fosse appena risvegliata da un orribile incubo. E un incubo c'era stato davvero, la ragazza se lo ricordava benissimo: l'incendio dell'anno prima, la morte di Lucy... nel sogno, persino la sua scuola veniva avvolta dalle fiamme e lei sarebbe stata spacciata, se solo non fosse sopraggiunto John.

Beth voltò appena la testa di lato e quasi le venne un colpo quando vide che, seduto accanto a lei, c'era proprio il suo salvatore, intento a fissarla come se fosse stata una specie rara allo zoo.

«John?» esclamò, sgranando gli occhi.

Dietro di lui, una mobilia che non era quella della sua camera da letto. Un pensiero fece capolino nella mente di Beth, mentre il suo sguardo correva alla lunga fila di letti vuoti che aveva accanto, tutti accomunati dalle stesse lenzuola bianche e dalle aste per flebo. Il pensiero che forse non si era trattato di un sogno.

«Ti sei svegliata, finalmente» sentì che diceva lui.

«Sono in ospedale?» chiese Beth con una sottile ansia, tornando a guardarlo.

John annuì. «Ma solo perché hai perso i sensi, sta' tranquilla. Sei illesa.»

Illesa? Beth evitò accuratamente il suo sguardo, perché non le leggesse in faccia la confusione che stava provando in quel momento. Mentre osservava l'asettica stanza di ospedale in cui era stata portata, l'occhio le cadde per un attimo sulla chitarra che il ragazzo teneva poggiata contro la sedia.

A John dovette seguire il suo sguardo perché, dopo un momento, esclamò: «Be', che c'è? Non potevo non salvarla dalle fiamme.»

Fu allora che i ricordi colpirono Beth come pioggia. Henry. Il fuoco. La paura cieca che aveva provato. No, non era stato affatto un sogno.

«Oddio» bofonchiò, coprendosi la bocca con una mano, travolta da un'improvvisa ondata di nausea. «L'incendio.»

John abbassò gli occhi sul pavimento. «Già. È da ieri che i pompieri lavorano senza sosta.»

Ieri.

Quindi si trovava lì dal giorno prima, realizzò Beth. Ma dov'erano tutti?

«Le mie amiche come stanno?» chiese di getto, il cuore che iniziava a batterle forte. «Hai qualche notizia?»

«Sono qui fuori» si affrettò a dire lui. «Stanno bene.»

Beth sospirò di sollievo. Era da quando si erano lasciate in camera, con il proposito di ritrovarsi in presidenza, che non le aveva più viste. A dire il vero, da allora aveva incontrato solo John. E, nel pensare a lui, Beth ricordò anche un'altra cosa. E anche quella, come l'incendio, non aveva niente a che fare con i sogni.

«Mi hai salvata» bisbigliò Beth, e sentì che la voce le si incrinava.

«Già.» John aveva distolto un attimo lo sguardo, ma Beth riuscì comunque a cogliere un vago luccichio negli occhi di lui.

«E sono stato anche fortunato, secondo i medici.» Il ragazzo tornò a guardarla e assunse un'espressione furbetta. «Ne sono uscito incolume.»

Beth non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.

«Bene» mormorò, cercando di controllare il tremito che aveva nella voce, per poi indicare la chitarra con lo sguardo. «Anche perché mi devi ancora suonare qualcosa, o sbaglio?»

Gli occhi di John si illuminarono. «Posso?»

Beth annuì, vagamente divertita dall'emozione di lui.

Adagiata sulle coperte, la ragazza osservò John afferrare la chitarra da terra con aria solenne e porsela in grembo, per poi iniziare a pizzicare le corde con dita tremanti.

Dallo strumento si levò una melodia che Beth non aveva mai sentito prima. E, per un'esperta di musica qual'era lei, era molto raro.

Con gli occhi fissi in quelli di lei, John iniziò a cantare.

Hey Lucy, I remember your name
I left a dozen roses on your grave today
I'm in the grass on my knees, wipe the leaves away
I just came to talk for a while
I got some things I need to say

Now that it's over
I just wanna hold her
I'd give up all the world to see
That little piece of heaven looking back at me

Now that it's over
I just wanna hold her
I've gotta live with the choices I made
And I can't live with myself today

Here we are
Now you're in my arms
I never wanted anything so bad
Here we are
For a brand new start
Living the life that we could've had*

Beth era senza parole. Lacrime calde le scorrevano lungo le guance.

John continuava a lanciarle degli sguardi di sottecchi, come cercando di capire le sue impressioni.

Beth non poté fare a meno di notare che il ragazzo sembrava un'altra persona: la fissava con aria visibilmente nervosa, torturandosi il labbro e aggrottando le sopracciglia. L'aria sprezzante e sicura di sé che possedeva di solito era scomparsa.

«John...» mormorò infine lei, tirando su col naso, e il ragazzo si protese nella sua direzione, lo sguardo colmo d'aspettativa. «È bellissima» farfugliò.

Beth vide il corpo di John allentare la tensione, ma di colpo il ragazzo le lanciò un'occhiata sospettosa.

«Dici sul serio?» fece lui nervosamente. «Non me lo dici tanto per dire?»

«Ti sembra che stia fingendo?» borbottò, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

A quel punto John fece un sospiro di sollievo e a Beth sfuggì una risatina. Malgrado tutto, le veniva da sorridere. Non aveva idea di come John fosse venuto a sapere di Lucy, ma il modo in cui aveva intrecciato la vicenda di lei e quella di lui nella canzone era così bello da toglierle il fiato.

«L'hai scritta davvero tu?»

«Sì. È quello che penso» mormorò John, alzando le spalle.

Beth notò divertita che quei complimenti lo stavano mettendo un po' a disagio. Si vedeva da lontano un miglio che non ci era proprio abituato.

«Sai di Lucy, quindi?» domando, il cuore che le batteva un po' più forte al suo ricordo.

John alzò gli occhi su di lei.

«No» rispose dopo un momento, scuotendo la testa. «So solo il suo nome.»

Il silenzio tornò ad aleggiare fra di loro. Un silenzio trepidante, che pose a Beth la domanda che John avrebbe tanto voluto farle.

La ragazza sospirò piano. Dopo tutto quello che aveva fatto per lei, era giusto che sapesse.

«Sai che andavo a cavallo?» proruppe, come se nulla fosse.

John la fissò, senza riuscire a mascherare del tutto il suo stupore. Era lo sguardo di chi si aspettava che lei attaccasse a parlare dell'amica.

Una cosa alla volta, caro mio.

«No, non lo sapevo» disse infine lui, forse capendo che Beth non avrebbe aggiunto altro, per il momento. «Non era alla tua amica che piacevano tanto?»

Beth sorrise. Faceva tanto l'indifferente ma, a quanto pare, non gli sfuggiva nulla. Se si escludevano le faccende amorose, ovviamente.

«Be', Kia ed io siamo amiche per un motivo» disse. «Avevo un bellissimo cavallo nero, di nome Rayblack.»

Gli occhi di Beth si fecero velati per un attimo, al ricordo del suo meraviglioso animale.

«Avevi?»

Il sorriso di Beth si spense. «L'ho venduto a Kia. Non monto più, sai, da quando...» Beth si bloccò e fece appello a tutta la sua forza di volontà per portare a termine la frase. «Da quando ho avuto un brutto incidente.»

John attese in silenzio. La sua battaglia interiore non doveva essergli sfuggita.

«Accadde l'anno scorso. Durante le vacanze di Natale» sputò fuori Beth a fatica. «Una passeggiata a cavallo. Eravamo io, Kia... e Lucy.»

La sua voce le si incrinò. Contro ogni previsione, John le venne in aiuto.

«Anche Lucy andava a cavallo?» domandò.

Beth apprezzò il suo sforzo nel mostrarsi interessato.

«Poco» rispose, sorridendo al ricordo. «Veniva dal centro di Londra, come te, e penso non avesse mai visto un cavallo prima di trasferirsi ad Enfield. Le stavamo insegnando noi.»

John inarcò un sopracciglio. «Le facevi da insegnante?»

A Beth non sfuggì il suo tono sfacciatamente ironico e, malgrado il ricordo della morte di Lucy che le premeva contro le palpebre, rise.

«Una pessima insegnante» fu costretta ad ammettere, ricordando tutte le imprecazioni che l'amica le lanciava durante le loro lezioni improvvisate.

«Comunque, dicevo... quel giorno il tempo era bruttissimo.» La voce di Beth si fece di colpo meno salda. «C'era un temporale in arrivo. Kia e Lucy erano incerte, ma...» Si interruppe e strinse convulsamente le lenzuola del suo letto. «...io insistetti. Alla fine partimmo.»

John attendeva in silenzio che lei trovasse la forza di continuare. Man mano che si avvicinava a quel momento, proseguire era sempre più difficile.

«Ovviamente beccammo il temporale» mormorò, dopo un lungo silenzio. «Mai vista un'acquata come quella. Eravamo fradice di pioggia, i lampi cadevano vicinissimi e i cavalli erano terrorizzati dai tuoni. Tornammo subito indietro ma, per fare prima, decidemmo di tagliare attraverso il bosco.»

L'espressione sul volto di John cambiò. Forse stava iniziando ad intuire qualcosa. Fece per aprire bocca, ma Beth lo anticipò. Sapeva già cosa stava per rimproverarle.

«Lo, lo so. Non avremmo dovuto farlo» disse, abbassando lo sguardo sulle lenzuola. «Sapevamo che era rischioso. Ma dopotutto era la strada più veloce, e pensavamo che non sarebbe successo nulla. Ma ci sbagliavamo.»

Beth si bloccò e rivolse uno sguardo esitante a John. Le costava davvero tanto mettere una parola in fila dietro l'altra.

«Lucy voleva scendere da cavallo» mormorò con voce flebile. «Le dicemmo di rimanere su, perché in sella avremmo fatto ancora più in fretta.» Beth fece un respiro profondo. «Poi il fulmine ci cadde addosso.»

«Gesù.» John si coprì la bocca con una mano. Il silenzio si protrasse per un lungo attimo, espandendosi tra di loro come un baratro. «Lucy...» esitò. «Lucy fu colpita dal fulmine?»

Beth scosse piano la testa. «Colpì me. E l'albero che avevo accanto.»

Gli occhi di John si sgranarono per l'orrore.

«Caddi da cavallo e rimasi ai piedi dell'albero... che nel frattempo, però, aveva preso fuoco.»

«E Kia? E Lucy?»

«Anche Lucy fu disarcionata» disse Beth, che si premette le dita sulle palpebre, facendo uno sforzo per ricacciare le lacrime dietro agli occhi. «Ma non fu altrettanto fortunata. Cadde dritta su un masso che le aprì la testa in due.»

John spalancò la bocca.

«Ricordo tutto, prima del fuoco» proseguì Beth, lo sguardo lontano. «Kia che urlava e piangeva, cercando di trattenere i cavalli, e poi si chinava sul corpo di Lucy. Cercò di rianimarla, ma lei non c'era già più. Aveva tanto di quel sangue intorno alla sua testa...» Beth si bloccò. «Ricordo il suo sguardo vitreo. E ricordo il dolore quando presi fuoco.»

«Oh, Beth...»

La ragazza scosse la testa, cercando di non farsi prendere dal panico. «Ecco perché il fuoco mi fa così paura.»

«Mi dispiace tanto» mormorò lui, visibilmente turbato.

Beth fece un sorriso triste. «È dura. Ma immagino che tu sappia cosa significhi perdere una persona a cui tieni.»

La ragazza ripensò alle parole che John le aveva rivolto nella pineta, ma una fastidiosa vocina le ricordò che, spostando abilmente la conversazione su di lui, stava solo evitando di concludere la vicenda di Lucy. La parte, oltretutto, che John aveva più diritto di sapere.

Si affrettò a far tacere quell'odiosa vocina ed esitò, lanciando un'occhiata al ragazzo, che non aveva ancora proferito parola. «Giusto..?»

John sospirò rumorosamente. «Sì. Amy.»

«Amy?»

Quel nome le riportò alla mente il ricordo della sera della festa, quando aveva trovato il coraggio di lasciare il suo numero a John.

«È la bambina sul tuo telefono» disse in un soffio.

John annuì piano. «È lei.» Dopo un attimo, aggiunse: «Per me era come una sorellina. Mi dava la forza di andare avanti in quel postaccio.»

Beth gli rivolse uno sguardo confuso.

«Scusa» si affrettò a dire lui. «Vedi... la mia situazione a casa non è delle migliori. Mia madre se n'è andata, io vivo con mio padre e lui... lui è un cazzo di idiota. È il principale motivo per cui frequento una scuola così lontana da Londra.» John parve riscuotersi di colpo dalle sue riflessioni e le piantò gli occhi in faccia. «Vivevamo tutti nello stesso condominio, sai? Un posto fatiscente, nella zona est della città. Amy, Annie ed io.»

Beth sgranò gli occhi. «Anche Annie?» esclamò fin troppo precipitosamente.

John fece un sorrisino storto. «Anche lei. Ma non la poteva vedere, Amy. Diceva che era una bambina insopportabile... una zecca, ecco, così la chiamava.»

A Beth, malgrado tutto, sfuggì un risolino. Le riusciva difficile immaginare una situazione del genere: Annie, sempre così esageratamente allegra ed amichevole, che detestava una bambina, mentre il torvo e taciturno John le faceva da fratello maggiore.

«Tu invece andavi d'accordo con lei?»

Gli occhi di John si illuminarono. «Sì. Certo, all'inizio anche io la evitavo come la peste. Ma lei non si arrendeva mai e finivo per ritrovarmela sempre appiccicata. Era adorabile. Così... innocente.»

Beth si ritrovò a fissarlo con occhi diversi, il cuore che le batteva forte nel petto. Il modo dolce con cui John parlava di Amy la destabilizzava. Di quel passo sentiva che avrebbe avuto presto un'altra delle sue overdose di romanticismo.

«Amy guardava il mondo con gli occhi di una bambina, com'era giusto che fosse.» John fissava la finestra della stanza, lo sguardo immerso nei ricordi. «Non l'avevano ancora guastata. Non si rendeva conto della realtà in cui viveva.» Abbassò di colpo lo sguardo. «La sua famiglia, se possibile, era peggio della mia.»

Il suo tono si era incrinato improvvisamente e, esattamente com'era stato poco prima per lei, Beth capì che John stava facendo un enorme sforzo per continuare a parlare.

«Immigrati irlandesi, senza un soldo. Pieni di figli. Penso che il padre li picchiasse.» John fece una pausa e sorrise amaramente. «Un'altra delle cose che avevamo in comune.»

Beth ammutolì, coprendosi la bocca con una mano.

«Quei deficienti non si accorsero della sua malattia.» John scrollò le spalle. Malgrado quell'atteggiamento indifferente, il suo tono diceva tutt'altro. «Fui io a portarla all'ospedale. Di lì a poco, la situazione precipitò.»

Gli occhi di John si erano fatti di colpo lucidi e a Beth la cosa non sfuggì.

«La leucemia se la portò via tre anni fa.»

«Mi dispiace da morire, John» mormorò Beth, ancora scossa da tutte quelle rivelazioni.

John si asciugò le lacrime con un gesto rabbioso. «Fa niente.»

«Dev'essere stata dura» bisbigliò lei.

John annuì piano, tenendo gli occhi bassi. «Anche se Annie mi è stata molto vicino. Non so come avrei fatto, senza di lei. Anche Kia ti è stata accanto?»

«...già.»

Beth tentennò. John aveva involontariamente toccato il tasto dolente della questione e capì era l'occasione per dirgli la verità sul conto di Lucy una volta per tutte. Fece un respiro profondo.

«Anche se... vedi, Kia era un po' arrabbiata con me.»

John alzò di colpo gli occhi. «Perché?»

Beth evitò il suo sguardo e si morse il labbro, il cuore che le martellava nel petto. «Vedi, Lucy ed io eravamo diventate molto amiche...»

John inarcò un sopracciglio. «Kia era gelosa della vostra amicizia?» domandò, come se non riuscisse a credere alle sue orecchie.

«Non proprio» rispose Beth, a disagio. «Kia era arrabbiata perché non le avevo detto una cosa.»

Sapeva di dover parlare chiaro con John. Fece un grosso respiro e tirò fuori la verità tutta d'un fiato.

«Non le avevo detto di essermi innamorata di Lucy.»

La chitarra sfuggì dalle mani di John e mancò poco che si sfracellasse in terra.

«T-tu...» balbettò, sbattendo le palpebre. «Tu quindi sei...?»

«Bisessuale?» fece lei, vagamente divertita dalla reticenza di lui. Si immaginava che avrebbe reagito in quel modo, anche se sperava che non si rivelasse un tipo retrogrado. «No. Non credo, almeno.»

«Ma...» protestò John, paonazzo, ma Beth lo anticipò.

«Non mi sono mai sentita attratta da una ragazza, prima di Lucy» spiegò la ragazza in tono pratico. Si era più volte interrogata sulle sue pulsioni, in quel periodo, e ormai aveva le idee piuttosto chiare al riguardo. «E, in realtà, non credo di aver mai desiderato neanche lei... sessualmente.»

Si bloccò per lanciare un'occhiata a John, il cui volto rasentava lo shock.

«Ti serve una pausa?»

John deglutì rumorosamente. «No, no, continua pure.» Lì per lì evitò il suo sguardo, ma poi le lanciò un'occhiata esitante. «Non fraintendere. Non mi danno fastidio queste cose. È che... non me l'aspettavo.»

«Bene» rispose Beth, vagamente divertita. «Semplicemente, l'amavo. Amavo tutto di Lucy.» Al ricordo della gioia contagiosa di lei, Beth si ritrovò a sorridere. «Sono arrivata alla conclusione che, a volte, una persona ti piace e basta. Ti piace perché ti fa sentire speciale, perché ogni cosa di lei ti fa girare la testa, e non t'importa se è un maschio o una femmina. Quello è veramente l'ultimo dei tuoi pensieri. È un amore che va... oltre, oltre l'attrazione fisica.»

John la fissava senza parlare. «Grazie... grazie per avermelo detto» bofonchiò infine, aggrottando le sopracciglia.

Era un po' turbato e Beth si allungò sul letto per potergli afferrare una mano.

«Dei sentimenti così forti li ho provati solo un'altra volta» disse, fissandolo dritto negli occhi.

John continuava a guardarla con la stessa espressione turbata di prima e Beth sospirò, scuotendo leggermente la testa.

«Per te, John» borbottò poi, dandogli un colpetto sulla fronte con la propria.

Il ragazzo s'illuminò in volto e Beth ridacchiò, sporgendosi ancora un po' per poterlo baciare.

Di colpo, si ritrovò a pensare che a Lucy quel ragazzo improbabile sarebbe davvero piaciuto.

****

«Voi siete quelli di Henry?»

Angie alzò gli occhi stanchi sul nuovo arrivato, che torreggiava su di loro, le mani nelle tasche della divisa. Era un poliziotto giovane, all'incirca dell'età di Nathan, con i capelli brizzolati e un'espressione gasata dipinta sul volto, come se trovarsi lì facesse parte di un emozionante gioco.

«Sì» borbottò infine Night, accanto a lei, agitandosi leggermente sulla sedia.

«Ehm, ecco...» fece lui, abbassando la voce con fare cospiratorio, per poi lanciare un'occhiata al suo superiore, seduto alla scrivania di fronte. «Non dovrei dirvelo, perché si tratta di un'informazione confidenziale...»

«TIM!» berciò il poliziotto più anziano. «Piantala!»

Il giovane si voltò un momento verso di lui e poi tornò a fronteggiarli con lo stesso scintillio curioso nello sguardo. Sembrava che le minacce del collega non avessero sortito alcun effetto.

«Ecco, stavo dicendo...»

«TIM!»

«Dovete sapere che eravamo sulla tracce di Henry Jefferson da un po'» spiegò, elettrizzato. «Da quando è fuggito dall'istituto, per l'esattezza. E poi, tutti hanno visto che era armato e che tu hai agito per legittima difesa. Puoi stare tranquillo, amico.»

Si allungò per dare un'amichevole pacca sulla spalla a Night, che si irrigidì di colpo, e ad Angie non sfuggì il titanico sforzo che fece per non saltare direttamente al collo del poliziotto.

«TIM, PER DIO!»

«Ora devo andare» concluse lui, ammiccando verso di loro, prima di tornare a capo chino verso la scrivania. «Eccomi, eccomi» borbottò, rivolto al collega.

Senza la fastidiosa presenza di quell'individuo, il silenzio tornò ben presto ad aleggiare fra di loro ed Angie lanciò a Night un'occhiata di sottecchi. Lo avevano medicato, prima di portarlo in commissariato, e le ferite che Henry gli aveva inferto con il coltello fortunatamente si erano rivelate tutte superficiali, ma il ragazzo, con il volto pallido e pesanti borse sotto gli occhi, sembrava comunque sul punto di svenire da un momento all'altro.

Angie sospirò, spostando lo sguardo sui due poliziotti, che in quel momento stavano parlando fitto fitto tra loro. A giudicare dall'espressione contrita di Tim, il suo superiore gli stava facendo una lavata di capo.

Li incenerì con lo sguardo, anche se nessuno dei due le stava prestando alcuna attenzione. Non avevano ancora interrogato Night, malgrado fossero lì da ore, a marcire su quelle seggiole, e la ragazza si chiese quando quelli stronzi si sarebbero degnati di farlo.

Angie aveva insistito per accompagnare Night a fare la sua deposizione, sperando di tirarlo un po' su di morale e di distrarlo da ciò che era successo, ma non si era rivelata un'idea poi così brillante, dato che in due ore la ragazza non aveva ancora spiccicato una sola parola.

«È una buona notizia» disse infine, ponendo fine a quel silenzio interminabile. «No..?»

«Dipingeranno Henry come un mostro» mormorò Night cupamente, lo sguardo fisso davanti a sé.

Angie si voltò a guardarlo di scatto, senza riuscire a mascherare il suo stupore. Non si aspettava una sua replica.

«Be'...» Angie esitò. «In un certo senso lo è. Pensa ai ragazzi della scuola, a Kyle.»

Faceva uno strano effetto pensare che l'istituto in cui aveva vissuto fino al giorno prima di colpo non esistesse più. Divorato dalle fiamme, così la descrivevano i telegiornali che erano stati costretti a sorbirsi durante quell'interminabile attesa.

Angie, nonostante tutto, si sentiva stranamente tranquilla, come se la questione la riguardasse fino ad un certo punto. Lei e le sue amiche, in fin dei conti, erano sane e salve. Le avevano raccontato di John che usciva di corsa dalla scuola in fiamme, con Beth tra le braccia, scortato dai pompieri. Vivi per un soffio. Certo, aveva il cuore gonfio di tristezza per Brook, per Adam, per tutti gli altri studenti che non aveva avuto occasione di conoscere, ma c'era qualcosa che le premeva di più, in quell'istante, più dei ragazzi morti nell'incendio. Ed erano gli effetti che esso avrebbe avuto su uno di loro in particolare.

Si voltò di nuovo verso Night che, forse percependo il suo sguardo addosso, si decise a risponderle.

«Lo è diventato, un mostro» disse, sospirando. «Per colpa nostra. Prima di essere un mostro, era una vittima.»

Angie fece per aprire bocca, ma Night non aveva ancora finito.

«Ho intenzione di dire la verità ai poliziotti.» Dopo un momento, aggiunse: «Quando quegli idioti si decideranno ad interrogarmi.»

La ragazza sgranò gli occhi, incredula. «Intendi... la verità sull'incidente delle docce? Sui vostri atti di bullismo?»

Night si voltò a fissarla per la prima volta, gli occhi verdi colmi di tristezza, e annuì.

Malgrado tutto, Angie percepì gli angoli delle sue labbra piegarsi all'insù. «È la cosa giusta da fare.»

Anche se la più difficile, fu sul punto di aggiungere, ma si morse la lingua. Non era il momento di rigirare il coltello nella piaga.

«Ma pensaci bene. Dovrai parlare anche di Kyle e di ciò che ha fatto. Tutti cambieranno idea su di lui.»

Night sospirò rumorosamente, evitando il suo sguardo. «Lo so.»

«Forse è giusto così, però.» Angie si bloccò, incerta su come proseguire. Non sapeva bene fin dove potesse spingersi a parlare del ragazzo, perché Night cambiava atteggiamento solo a nominarlo. «Alla fine... non è poi l'eroe che tutti credono. Non è l'eroe che tu credevi che fosse.»

Scoccò a Night un'occhiata, temendo la sua reazione. Forse aveva esagerato.

«È strano...» fece lui, apparentemente non turbato dalle sue parole dure. «...me ne sto rendendo conto solo adesso. Ora lo vedo chiaramente. Kyle si è approfittato di me.»

Non c'era amarezza nelle parole di Night. Parlava in tono neutro, come se stesse semplicemente prendendo atto della cosa.

«Eppure, in quel momento, io non ho avuto un attimo di esitazione. Mai avuto un dubbio, neanche negli anni successivi. Kyle era tutto per me. Non l'ho mai messo in discussione... e non ho mai fatto caso alle sue ombre.»

«L'amore ci fa apparire le persone in modo diverso» mormorò Angie in tono solenne, stiracchiandosi sulla sedia. A forza di stare seduta, non si sentiva più le chiappe.

Night le scoccò un'occhiata strana. «Ah, adesso si spiega tutto» mormorò.

Il suo tono velatamente ironico non sfuggì alla ragazza, che si voltò di scatto a guardarlo. Night stava sogghignando, gli occhi fissi su di lei.

«Ti consiglio di approfittarne, prima che torni in me.»

«DEFICIENTE!» strillò lei, rifilandogli un pugno sul braccio.

Tim e collega si voltarono a fissarli, gli occhi fuori dalle orbite, ed Angie rivolse loro un sorrisino innocente.

«Prima che torni in te, eh?» borbottò poi, rivolta a Night, quando i due colleghi ebbero smesso di fissarli come avvoltoi. «Che significa? Quando tornerai gay?»

L'aveva detto in tono scherzoso, ma in realtà dentro era in subbuglio, da quando Night le aveva rivelato ciò che provava per Kyle. Moriva dalla voglia di sapere cosa passasse nella testa del ragazzo.

Night la fissò, colto alla sprovvista. «Pensi che io sia gay?»

-Non lo so... vorrei solo capire se devo iniziare a considerare Shadow un potenziale rivale.»

Night sbuffò divertito, ma la sua espressione ben presto divenne incerta. «Non...» esitò. «Non mi piacciono i ragazzi. Credo.»

Angie gli piantò gli occhi in faccia. «Ma ti piaceva Kyle» gli fece notare, inarcando un sopracciglio.

Night si morse il labbro. «Sì» disse. «Mi piaceva. Ma in modo diverso.»

«Non capisco» ammise Angie, grattandosi la nuca.

«A volte...» Night sospirò. Sembrava stare lottando con le parole. «A volte una persona ti piace e basta. Non pensi al resto. Non pensi a cos'ha in mezzo alle gambe.»

Angie sgranò gli occhi, sprofondando nella sedia. Quelle parole l'avevano lasciata di stucco. Non immaginava che Night fosse in grado di fare certi discorsi e il suo animo burrascoso sembrava quasi essersi calmato. Di colpo, però, il ricordo del compleanno di Arianna e delle parole che Night le aveva rivolto tornarono ad agitarla e drizzò improvvisamente la schiena.

«E tutti quei bei discorsi sull'avere sempre saputo cosa volevi da un rapporto? Stronzate!» obbiettò lei. «Non sai nemmeno se ti piace il cazzo o no!»

Aveva di nuovo parlato a voce un po' troppo alta. Le espressioni di Tim e collega, fisse su di loro, rasentavano lo shock.

«Ops» bofonchiò.

Ehi, come aveva fatto a non notare la bellezza delle piastrelle del commissariato? Davvero, davvero artistiche. Al punto che ci avrebbe volentieri infilato la testa, come uno struzzo.

Stavolta toccò a Night rivolgere ai poliziotti un sorrisino storto.

«Non erano stronzate» ribatté poi lui, a voce bassa. «So cosa volevo, perché non mi sono mai interessate certe cose. Te l'ho detto, neanche Kyle mi...» si bloccò, deglutendo. «...eccitava. Tu, in compenso, sì» concluse come se nulla fosse, scrollando le spalle.

Colta alla sprovvista, Angie divenne paonazza.

«Puoi metterti l'animo in pace, quindi» mormorò Night, ghignando. Doveva aver notato l'espressione sul volto di lei, che divenne ancora più rossa.

«Ma...» Lungi dal volergliela lasciare vinta, Angie annaspò alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi. «Come mi spieghi gli unicorni, allora? Eh? EHH?»

«Gli unicorni?» ripeté Night, fissandola come se fosse impazzita. «Che c'entrano gli unicorni?»

«Già. Quei cosi cornuti e sbrilluccicanti per cui sembri avere un'adorazione» mugugnò, guardandolo storto.

Angie non si considerava attaccata agli stereotipi ma, andiamo, tutta quella passione sfrenata per gli unicorni gridava "Gay!" da ogni poro. In falsetto.

Night incrociò le braccia sul petto e le lanciò un'occhiataccia. «Non c'entra un cazzo.» Dopo un attimo aggiunse, piccato: «Gli unicorni sono bellissimi.»

Angie avrebbe voluto tenere il punto, ma il tono convinto e l'espressione corrucciata di lui la fecero scoppiare a ridere senza che riuscisse a trattenersi.

«È vero» ammise Angie, ridendo a tutto spiano e guadagnandosi un'altra occhiata dubbiosa da parte dei due poliziotti. «Gli unicorni sono bellissimi.»

Night stava ridendo a sua volta e, in soffio, la ragazza realizzò che era finalmente riuscita nel suo intento di distrarlo. Scosse appena la testa e si domandò quand'era successo.

Quando si era affezionata così tanto a quel dannato idiota.

****

Brook era morto.

Morto.

Non riuscivo a pensare a nient'altro.

Ricordavo di aver provato anche qualcos'altro.

Gioia, sì, nel momento in cui John e Beth erano riemersi dalle fiamme, quando ormai piangevo senza ritegno e credevo che la mia migliore amica e il ragazzo di cui si era innamorata fossero morti nell'incendio, ma poi li avevo visti uscire dalla scuola.

Gérard e Brook, però, non l'avevano fatto.

Avevo continuato ad aspettare, gli occhi fissi sull'edificio che si scioglieva tra le fiamme, aspettandomi di vederli comparire da un momento all'altro, i miei occhi che cercavano disperati i loro volti nella folla, nel caso in cui i due fossero usciti senza che me ne accorgessi, mentre la speranza si affievoliva sempre di più. E poi i pompieri avevano portato fuori il corpo di Gérard.

Non riuscivo a credere ai miei occhi. Mi ero fatta avanti a spintoni, urlando disperata, chiedendo notizie di lui e di Brook, ma i pompieri mi avevano detto che non c'era nessuno accanto a lui, quando avevano trovato il bidello in fin di vita.

Solo un cadavere.

Il cadavere di un ragazzino con il braccio steccato.

«È stazionario» mi informò Arianna, sedendosi vicino a me e lanciandomi un'occhiata preoccupata.

«Bene» udii me stessa dire, senza ricambiare il suo sguardo.

Gérard si trovava in terapia intensiva da quando era arrivato in ospedale. Le sue condizioni erano critiche ma, a quanto pareva, non stavano peggiorando. Anche Beth era stata portata in ospedale, dato che aveva perso conoscenza, e anche io mi ero ritrovata lì, insieme ad Arianna, anche se non ricordavo bene come.

Mi pareva di essere ubriaca. La testa mi girava e mi sentivo stanca ed intontita. Avevo un nome sulle labbra, volevo urlarlo a squarciagola, ma qualcosa mi tratteneva.

Brook.

Mi avevano detto che non era morto bruciato. Le fiamme lo avevano raggiunto dopo, ma era stato il monossido di carbonio ad ucciderlo. Quelle parole continuavano a rimbombarmi in testa. Me le aveva dette un pompiere dal volto stanco e gentile, probabilmente troppo provato da quella tragedia per far caso ai dettagli che avrebbe potuto omettere di fronte ad una ragazzina.

Un verso strozzato, che avrebbe potuto essere un singhiozzo soffocato, mi sfuggì dalle labbra. Oh, Brook. Chissà se se n'era accorto. Chissà se si era accorto che stava morendo.

Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi senza che riuscissi a fermarle. Arianna mi passò goffamente un braccio intorno alla spalla, ma a malapena me ne resi conto. Poggiata contro di lei, continuai a piangere.

Perché non mi ero assicurata che Brook fosse con noi? Perché non lo avevo preso per mano? Ero stata trascinata via dalla presidenza da Gérard così in fretta che non ne avevo avuto il tempo. Ma era stato un errore imperdonabile. Un errore che non mi sarei mai perdonata.

«Aveva sventato il mistero» singhiozzai. «Stava per incastrare la preside.»

«Non ci pensare, Kia» sentii Arianna sussurrare. «Non ci pensare.»

Ma come potevo non pensarci? Allo sguardo che la preside ci aveva rivolto quando l'avevamo incrociata in ospedale, privo del dolore che la morte del proprio figlio avrebbe suscitato in chiunque. Quello sguardo di sfida, che ci diceva di provare pure ad incastrarla, adesso che tutte le prove dei suoi esperimenti degli studenti erano finite carbonizzate. Quanto a noi, senza gli ormoni che ci venivano somministrati quotidianamente, era solo questione di tempo prima che tornassimo alla normalità.

«È stato tutto inutile» dissi fra le lacrime.

Tutti gli sforzi che Brook aveva fatto erano morti con lui in quell'incendio. Voleva disperatamente portare alla luce la verità e non sarebbe mai successo, adesso che le prove di quegli esperimenti erano andati perduti tra le fiamme. Quella scuola si era portata via i suoi oscuri segreti e, con loro, anche il mio amico.

Contro di me, udii Arianna irrigidirsi e cercai di seguire il suo sguardo, malgrado la mia vista appannata per via delle lacrime.

Vicino alle macchinette automatiche, intravidi Lucas con in mano un bicchierino di caffè, lo sguardo incerto fisso su di noi, come se non sapesse se avvicinarsi oppure no. Arianna lo stava fissando a sua volta.

«Vai pure» mormorai, inghiottendo le lacrime.

Arianna si voltò verso di me e i suoi lunghi capelli mi solleticarono il volto. «Non importa» minimizzò lei. «Posso andarci dopo.»

«No» insistetti. «Vai, Ari.»

Forse Arianna intuì che quella di lasciarmi da sola non era una cortesia che le stavo facendo, ma una necessità, perché ricambiò il mio sguardo annuendo lentamente, e poi si alzò in piedi e si incamminò verso Lucas.

Rimasi a fissare la schiena della mia amica che attraversava il corridoio, sgombro ad eccezione di qualche studente che, come noi, stava aspettando notizie di un amico ricoverato, seduto su quelle scomode seggiole di plastica.

Era un'ala piuttosto tranquilla dell'ospedale e, fino ad allora, avevamo visto passare solo un medico e qualche infermiere. Avevo qualche vago ricordo di essere passata attraverso il pronto soccorso insieme ad Arianna, prima di arrivare lì, attraverso le urla, il caos e gli ordini perentori dei dottori, ma forse me l'ero solo immaginato. Avevo una gran confusione in testa.

In quel momento udii una musichetta esotica, che mi parve vagamente familiare. Rimasi immobile, intontita, finché i ragazzi seduti nelle vicinanze non si voltarono a fissarmi con aria piuttosto seccata. Solo allora realizzai che si trattava del mio cellulare.

Mi affrettai ad estrarlo dalla tasca e, quando vidi chi mi stava chiamando, pensai sul serio di stare sognando e per un attimo fui tentata di buttare giù. Non ero psicologicamente pronta per far fronte ai suoi commenti cinici ma, alla fine, spinta da un sentimento indefinibile che mi si allargava nel petto, mi portai il telefono all'orecchio.

«Luke?» domandai, incerta. Sapevo che, dal mio tono, lui avrebbe sicuramente capito che stavo piangendo e sospirai, pronta a ricevere una cascata di insulti.

«Stai bene?»

Rimasi con il cellulare a mezz'aria, non certa di aver capito bene. Era stato Luke a farmi quella domanda? E cos'era quel tono accalorato? Che fine aveva fatto la sua voce priva di qualsivoglia emozione?

«Kia?» ripeté lui.

«Io... Luke, sei davvero tu?»

Il telefono gracchiò. Luke stava sospirando. «Chi vuoi che sia, deficiente?»

Ora sì che lo riconosco.

«In che senso, se sto bene?» chiesi. «Hai saputo dell'incendio?»

«Certo» fece lui. «Tutti ne stanno parlando.»

Quella notizia mi lasciò vagamente inquieta. Tutti sarebbero venuti a conoscenza dell'incendio che aveva distrutto il liceo di St. Elizabeth, ma nessuno avrebbe scoperto il segreto che nascondeva. L'inquietudine lasciò ben presto il posto alla rabbia.

«Sto bene» mormorai, e fui sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma poi mi zittii, mordendomi la lingua. Dopotutto non stavo mentendo: fisicamente stavo benone.

«Dove sei adesso?»

Un'altra domanda preoccupata, nessun altro insulto. Ventilai l'idea di chiedere a lui se stesse bene.

«Sono in ospedale.»

«Ma...»

«Arianna ed io stiamo aspettando che Beth si svegli» mi affrettai a spiegare. «Sta bene, ma ha perso i sensi. Ha il terrore del fuoco, non so se ti ricordi.»

«Menomale. Be'...» Luke, dall'altra parte, esitò. Era chiaro che quella nuova versione di se stesso mettesse a disagio tanto me quanto lui. «Volevo dirti che sto venendo ad Alnwick.»

«CHE COSA?» non riuscii a trattenermi dall'urlare, mentre tutti i ragazzi si voltavano all'unisono verso di me, fulminandomi con lo sguardo. Abbassai gli occhi a terra, rossa di vergogna.

«Sì, sono già sulla strada» rispose lui, apparentemente non troppo turbato dalla mia reazione scomposta. «I miei stanno preparando un servizio sulla scuola e sto venendo con loro.»

Mi diedi una manata in fronte. Avevo del tutto rimosso il fatto che i genitori di Luke fossero entrambi giornalisti. Era piuttosto naturale che si interessassero di una vicenda che, in quel momento, stava facendo il giro di tutta l'Inghilterra.

«Mi faccio lasciare all'ospedale, va bene?» fece lui. Senza attendere risposta, aggiunse: «Tanto immagino che ce ne sia solo uno. Ma sì, potrei giurarci. In quello sputo di cittadina...»

Non replicai, mentre lui continuava a lanciare improperi contro Alnwick. Scossi leggermente la testa, sconsolata. Non sarebbe mai cambiato.

«Luke?»

Lui si interruppe bruscamente, forse percependo la mia voce incrinarsi.

«Che c'è?» chiese, stupito.

E pensare che, giusto qualche minuto prima, non volevo neanche rispondergli. Mi ritrovai a sorridere impercettibilmente all'idea di vederlo, di gettarmi tra le sue braccia, di dimenticare per un attimo gli orrori che mi si agitavano dietro le palpebre.

«Grazie» dissi in un soffio, le lacrime che mi rigavano le guance.

 

Arianna si affrettò a raggiungere Lucas, che l'aspettava di fronte alle macchinette.

«Mi dispiace» mormorò lui, fissando un punto oltre la sua spalla. Kia, intuì Arianna. «Non volevo disturbarvi...»

«Non c'è problema» mormorò lei, abbozzando un sorriso. Si voltò a sua volta verso l'amica, che fissava come in trance un punto fisso davanti a sé. «Penso che voglia stare un po' da sola.»

«Era così amica di Brook?» domandò il biondo, dopo un momento di esitazione. Arianna gli aveva raccontato a grandi linee la causa del suo malessere.

«Si conoscevano da poco, però... sì» rispose lei, corrugando la fronte con aria pensierosa. Aveva avuto il vago sospetto che tra i due fosse nato qualcos'altro, oltre all'amicizia, ma non era certo il momento di approfondire la questione.

«Ti ho portato il caffè» fece lui, riscuotendosi, allungandole il bicchierino.

«Grazie» mormorò lei, soffiando sopra il liquido, che aveva l'aria a dir poco bollente.

«Gérard invece come sta?» proruppe Lucas, appoggiandosi contro una delle macchinette, che si piegò con uno scricchiolio sinistro sotto il suo peso.

Arianna affrettò ad allontanare Lucas da lì e, al pensiero del bidello, sorrise con affetto. Non era un segreto che la ragazza andasse a controllarlo regolarmente ogni due ore: gli si era sinceramente affezionata, dopo aver scoperto che aveva protetto Night per tutti quegli anni, dopo che aveva aiutato lei e Kia a fuggire dall'incendio e dopo che aveva messo a repentaglio la sua vita per tentare di salvare quella di Brook. Sotto la scorza dell'uomo duro e sprezzante, Gérard nascondeva un animo davvero nobile.

«Stabile» rispose, ripensando alle parole che le avevano rivolto i dottori.

La prognosi del custode a dire il vero sarebbe stata riservata, ma i medici che l'avevano in cura alla fine avevano avuto compassione della gracile ragazzina che faceva instancabilmente la spola dal corridoio alla stanza dov'era stato ricoverato. A dirla tutta, dopo tutte quelle ore passate sveglia, Arianna cominciava a sentire gli effetti della stanchezza.

«Il caffè è zuccherato?» chiese.

«No, no» si affrettò a dire Lucas. «Tranquilla.»

Arianna inarcò le sopracciglia e gli rifilò il bicchierino senza averlo minimamente toccato.

«Fila a metterci lo zucchero» borbottò poi, guardandolo storto.

Lui la fissò come se avesse completamente perso il senno. «C-che cosa?»

La ragazza sbuffò, vagamente divertita da quella reazione che, dopotutto, era più che immaginabile. «Lucas, sono in piedi da venti ore e non ho alcuna intenzione di mettermi a dormire. Ho bisogno di un po' di zuccheri nel sangue, oltre alla caffeina. Sbaglio?»

Essendo un appassionato di sport ed alimentazione, Lucas aveva il pallino della biochimica, malgrado il suo impegno scolastico lasciasse molto a desiderare. Dovette intuire che il discorso di Arianna aveva perfettamente senso, perché drizzò le spalle come un soldatino, si scolò il suo caffè e si mise obbedientemente a farne un altro.

In quel momento, un acuto risolino attirò l'attenzione di Arianna, che si sporse oltre Lucas, in direzione della voce, e quello che vide la lasciò di stucco.

Davanti a loro, nascosti dalla massiccia figura del biondo, c'erano Shadow e Annie.

Li aveva incrociati qualche ora prima e sapeva che entrambi erano stati portati in ospedale per aver riportato delle ustioni superficiali, ma dovevano sentirsi molto meglio, pensò la ragazza inarcando un sopracciglio, a giudicare da come stavano ridendo.

Dei due, solo Shadow aveva delle bende visibili, intorno alle braccia. Annie, in compenso, aveva ancora quella ridicola fasciatura sul naso, dopo la rissa di cui era stata vittima. Arianna sorrise vagamente tra sé e sé, ripensando a quanto aveva goduto nel vedere Angie prenderla a pugni. Anche se non gliel'avrebbe mai detto, ovviamente.

Doveva essere proprio la fasciatura il motivo della loro ilarità, perché lui gliela stava indicando con il dito e stava dicendo qualcosa che Arianna non uscì a udire, dato che la risata squillante di Annie copriva ogni rumore circostante.

Quando nel corridoio risuonò all'improvviso una vivace suoneria – che, voltandosi, Arianna scoprì provenire dal cellulare di Kia – persino più acuta del riso di Annie, Shadow si mise ad ondeggiare al ritmo di musica e a quel punto entrambi ridevano così tanto che si dovettero appoggiare alle macchinette per non cadere.

Arianna si scoprì a sorridere impercettibilmente: erano una boccata d'aria fresca, in mezzo a tutto quel dolore. E non poteva negare che tra i due ci fosse una certa intesa.

«Arianna, il caffè!»

La voce di Lucas la riportò bruscamente alla realtà ed Arianna distolse lo sguardo, affrettandosi ad afferrare il bicchierino che il ragazzo le stava porgendo. «Grazie mille.»

Dopo aver aspettato che il liquido si facesse un po' meno ustionante, Arianna se lo portò alle labbra e sorrise nel constatare che, dopo tutto quello che era successo, l'idea di stare ingerendo dello zucchero non la disturbava poi così tanto.

Non lo bevve tutto d'un fiato, come se fosse in preda ai sensi di colpa e volesse cancellare al più presto le prove di ciò che aveva fatto; non lo bevve a piccoli sorsi, come se ne avesse paura.

Si gustò il suo caffè, inebriandosi del suo aroma e apprezzandone la dolcezza, pensando poi a come avesse potuto berlo nero fino a quel momento, dato che senza zucchero faceva veramente schifo.

«Cosa stanno facendo?» udì Lucas chiedere.

Arianna alzò gli occhi sul ragazzo, che stava fissando dritto davanti a sé, verso Shadow ed Annie, con le sopracciglia aggrottate.

«Niente, Lucas» tagliò corto lei, un sorriso d'affetto che tradiva il suo tono di sufficienza. «Te lo spiegherò quando sarai più grande.»

 

«Li hai visti?»

Alzai stancamente gli occhi verso Arianna, che mi stava venendo incontro. Come faceva a essere così pimpante, dopo che eravamo entrambe sveglie da almeno venti ore?

«Visto cosa?» mormorai, aggrottando le sopracciglia.

Lei liquidò la domanda con un gesto della mano. «Niente, niente.»

Si sedette accanto a me e indicò con lo sguardo il cellulare che avevo in grembo. «Chi era?» chiese poi. «Credo abbiano sentito la tua suoneria anche al decimo piano.»

Mi sforzai almeno di sorridere alla sua battuta, ma le mie labbra parevano incollate all'ingiù e, in un soffio, mi resi conto di essere davvero spossata. Volevo solo accasciarmi da qualche parte. Dormire, magari. Qualsiasi cosa che allontanasse da me il pensiero di Brook almeno per un istante.

Arianna, nel frattempo, continuava a guardarmi e realizzai che stava ancora aspettando una risposta.

«Luke» risposi allora, riscuotendomi.

I suoi occhi bruni si sgranarono per lo stupore.

«Sì» mormorai, sospirando. «Anche io devo sempre riprendermi.»

«Che cosa voleva?» domandò, inclinando il capo. «Pensavo fosse Angie. A proposito, hai sue notizie?»

Osservai Arianna, scuotendo appena la testa. Nonostante nessuna delle due l'avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, erano davvero affezionate l'una all'altra.

«Angie mi ha mandato un messaggio poco fa» risposi, tenendo il cellulare sott'occhio e lottando per tenere le palpebre aperte. «Sembra che Night non rischi il carcere per quel che è successo. Anche se ha raccontato ciò che ha fatto ad Henry durante gli anni di scuola. E poi...» mi bloccai, stringendo gli occhi. «Mi ha scritto qualcosa sugli unicorni. Non capisco.»

«Night ha detto la verità, quindi...» mormorò Arianna, pensierosa.

«Luke invece sta venendo qui.» Notando lo sguardo perplesso della ragazza, aggiunsi: «Accompagna i suoi. Sono giornalisti.»

Arianna mi afferrò un braccio con uno scatto così repentino che quasi mi venne un colpo.

«Che c'è?» bofonchiai, drizzandomi sulla sedia.

Lei aprì la bocca e la richiuse, come se non riuscisse a dare frase a ciò che le passava per la mente. «Kia, ma...» si bloccò, scuotendo vigorosamente la testa. «Ma non te ne rendi conto?»

Ricambiai il suo sguardo emozionato – emozione? Arianna? Stavo forse sognando? – con espressione stanca. «Rendermi conto di cosa

«Kia, hai decisamente bisogno di dormire» decretò lei, scrutandomi con aria comprensiva. «Hai appena detto che i genitori di Luke sono dei giornalisti. Possiamo raccontare a loro la verità sui segreti della scuola!»

La fissai, travolta dal peso di quell'idea, ma dopo un attimo il mio sguardo era già a terra, il mio morale sotto i tacchi.

«È tutto inutile» borbottai. Come faceva Arianna a non capire? «È andato tutto perso. Tutto.»

Con lui.

«Non è vero.»

Il tono di voce di Arianna era così perentorio da costringermi a voltarmi verso di lei, che mi fissava, scuotendo impercettibilmente la testa.

«Non è tutto perduto» affermò decisa. «Non me lo hai detto tu? Night ha raccontato la verità ai poliziotti. Lui, che ha tenuto dentro di sé quel segreto per tutti questi anni, pur di non esporre Kyle. Abbiamo la sua testimonianza. E quella di Gérard.»

Si bloccò un momento e pensai si fosse resa conto che non c'era certezza del fatto che il custode sopravvivesse, ma mi sbagliavo.

«Avanti, è quasi morto per questa storia. Non appena si sveglierà, collaborerà senz'altro.»

«Forse...» borbottai, trascinata mio malgrado dal suo entusiasmo.

«E poi, anche noi abbiamo vissuto in prima persona certe vicende. Abbiamo provato la macchina sulla nostra pelle, abbiamo visto come si comportavano i ragazzi.» Si accigliò all'improvviso. «Lo sai? Ho una teoria. Ho una teoria sul perché gli ormoni si siano manifestati in noi in modo così disomogeneo.»

La fissai come se mi avesse appena spiegato la terza legge della termodinamica in cinese mandarino. «Eh?»

«Per esempio, Lucas è pieno di energie, ma non è violento. Secondo me è perché riesce a sfogarsi nello sport e, be'... in altre attività.» Le sue gote si colorarono leggermente e cambiò agilmente argomento prima che potessi aggiungere altro. «Invece, prendi John. Era considerato dalla preside uno degli elementi peggiori, ad esclusione di Night, ma lui non conta, perché non è mai passato dalla macchina. John era un emarginato, a scuola: non faceva parte della squadra, non frequentava altri ragazzi. E altre ragazze. In pratica, non si sfogava né con lo sport né con... altre attività. Ecco perché era così violento!»

«Ed ecco perché la preside teneva tanto al fatto che Beth lo avvicinasse» mi ritrovai a dire senza neanche rendermene conto.

«Esatto!» esclamò lei. «Kia, stai tornando in te.»

«Forse potremmo parlarne davvero con i genitori di Luke» mormorai, infine. «Basta che la finisci di parlare. Ma che ti hanno fatto, ti hanno dopata?»

Arianna soffocò un risolino. «Penso sia lo zucchero.»

«Lo zucchero..?»

Prima che Arianna potesse degnarmi di una spiegazione, una dottoressa ci si parò davanti. Aveva gli occhi fissi su Arianna e, nel rivolgersi a lei, un sorriso le sfuggì dalle labbra.

«Signorina...» mormorò, l'emozione che trapelava dalla sua voce. «Penso che le faccia piacere sapere che il paziente di cui chiedeva notizie si è appena svegliato.»

A quella notizia, Arianna sgranò gli occhi e scattò in piedi come una molla, affrettandosi a seguire la dottoressa lungo il corridoio, che si era avviata verso il reparto rianimazione.

Mi sentii sinceramente felice per Gérard. Ma il pensiero del custode, malgrado tutto, mi riportava prepotentemente con la mente a Brook.

E il pensiero di Brook, adesso che Luke mi aveva telefonato, mi portava ad altro. Ad un foglietto di carta che avevo nella tasca dei jeans e che di colpo mi parve pesante come un macigno. Me l'ero fatto dare dagli amici di Brook, che mi avevano guardata con espressione strana, sgranando gli occhi come se si fossero resi conto in quell'istante che nessuno di loro ci aveva pensato, o forse avevano evitato accuratamente di farlo.

Era una cosa da fare, per quanto difficile. Mi dissi che magari, in quel lasso di tempo, gliel'avevano già detto. Ma se invece non l'avevano fatto? Non mi erano parsi granché affidabili e tenevo al fatto che lo venisse a sapere da un'amica.

Decisi che era meglio approfittarne, ora che Arianna si era allontanata per un po'. Deglutendo, estrassi il bigliettino dalla tasca. Sopra, scritto a matita, c'era un numero di telefono.

Digitai le cifre con dita tremanti e mi portai il telefono all'orecchio. Il cuore mi batteva prepotentemente nel petto, al ritmo dei tuu-tuu-tuu del cellulare.

«Pronto?»

Aveva risposto.

Aveva risposto sul serio.

In un soffio, mi ritrovai a pensare che la sua voce sembrava simpatica.

«Ciao, Lacey» mi sforzai di dire. «Sono... sono un'amica di Brook.»

«Sì. Cosa c'è?»

Cazzo.

No, non l'avevano ancora avvertita.

Con una fitta al petto, mormorai: «C'è una cosa che devo dirti.»

 

*In un universo parallelo:

Beth: «L'hai scritta davvero tu?»

John: «Assolutamente no.»

 

La canzone non appartiene né a me né a John. È "Lucy" degli Skillet. Se non la conoscete ascoltatela perché non è bella, di più! <3

Hey Lucy, mi ricordo il tuo nome

Oggi ho lasciato una dozzina di rose sulla tua tomba

Sono in ginocchio sull'erba, spazzo via le foglie

Sono solo venuto per parlare un po'

Ho un po' di cose che ho bisogno di dire
 

Ora che è finita

Voglio solo stringerla

Rinuncerei a tutto il mondo per vedere

Quel piccolo pezzo di paradiso guardando dietro di me

 

Ora che è finita

Voglio solo stringerla

Devo vivere con le scelte che ho fatto

E oggi non riesco a vivere con me stesso

 

Eccoci qui

Ora sei tra le mie braccia

Non ho mai voluto così tanto qualcosa

 

Eccoci qui

Per un nuovo inizio

Vivendo la vita che avremmo potuto avere

 

Ebbene sì. Love School finisce così.

Un finale che credo lasci un po' di amarezza nei vostri animi fantasma, ma anche un po' di speranza. Sembra che ogni cosa per le protagoniste in futuro volgerà per il meglio... anche se non ci si può liberare del tutto dall'impressione che la preside l'abbia un po' fatta franca. Per non parlare di Brook! Oh, Brook! (Adam non se lo incula nessuno, a parte Angie).

Spero che abbiate colto il parallelismo delle situazioni sentimentali di Beth e Night. Mi sarebbe piaciuto sovrapporre in qualche modo le loro confessioni, ma insomma, non è un lungometraggio e probabilmente sarebbe venuto un caos, quindi beccateveli così. Adoro l'idea che abbiano scoperto la loro pansessualità in questo modo. Adoro la pansessualità e basta. Dio, se esisti (*si morde la lingua per non fare qualche commento osceno/ateo/blasfemo temendo la presenza di qualche lettore fantasma cristiano*) nella prossima vita fammi rinascere pansessuale, grazie.

Tornando al nostro Strinatino, che dire? Fin dall'inizio avevamo "decretato la sentenza" di Brook (povera stella), ma mi sarebbe piaciuto dargli un po' più di spessore e presenza nella storia, anziché farlo comparire a quattro capitoli dalla conclusione. Come il mistero, del resto. Ehh lo so. Fa un po' schifo, così. Ma ho deciso che Love School, in quanto frutto dei nostri deliri adolescenziali, non potrà mai essere un capolavoro. È una storia senza pretese, che non si prende sul serio, nata per strappare due risate e magari anche una lacrimuccia (dai, per Brook! No, scherzo). Ma a noi, insomma, alla fine piace così. Spero sia piaciuta anche a voi <3

Spero di riuscire a caricare un non-capitolo nei prossimi giorni, per qualche ringraziamento random e qualche curiosità sulla storia e su come abbiamo collaborato per la sua creazione, cosa che magari, non so, vi può far piacere :) Oltre a qualche info pratica su prequel e sequel (Love School è una vera saga, mica pizza e fichi, fantasmi miei!)

Un bacio. Ci vediamo presto,

Cassidy.

PS: Confesso che non è un caso. Mi piace troppo inserire il cantautorato italiano nei miei dialoghi trash. Scusami Rino!

Kia che urlava e piangeva E LA GENTE DICEVA: ANVEDI CHE SANTO, VESTITO D'AMIANTO!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2169711