Finding true love (because everyone needs a happy ending)

di lulubellula
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lost ***
Capitolo 2: *** Pain ***
Capitolo 3: *** Illness ***
Capitolo 4: *** Fever ***
Capitolo 5: *** Lunch ***
Capitolo 6: *** Lion ***
Capitolo 7: *** Fear ***
Capitolo 8: *** Home ***
Capitolo 9: *** Blood ***
Capitolo 10: *** Lake ***
Capitolo 11: *** Together ***
Capitolo 12: *** Fire ***



Capitolo 1
*** Lost ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)

Lost

 

L’Isola che non c’è era un albergo a cinque stelle se messa a confronto con il luogo in cui era capitata ora, soprattutto considerando che stava incredibilmente male, le gambe la sorreggevano a malapena, le braccia, piene di graffi e di ferite, le dolevano sino a farle girare la testa, le vesti, una volta così ordinate e perfette, erano lacerate e strappate in più punti, le scarpe, Dio solo sa che fine avessero fatto.
Era riuscita a mettere in salvo gli altri, a ricongiungerli, a riabbracciare suo figlio Henry eppure qualcosa era andato storto sulla via del ritorno, riuscire nell’impresa di riportare la felicità ai Charmings e di rimanere lei stessa a bocca asciutta rischiava di diventare un precedente pericoloso.
Scappare da Pan era stato a dir poco difficoltoso e ancora di più trovare la via verso casa, ma dopo tanto peregrinare e ragionare, con l’aiuto magico di Trilli reintegrata tra le fate, erano pur serviti a qualcosa.
A riportare loro a Storybrooke e lei ovunque fosse finita.
A giudicare dalla vegetazione lussureggiante e selvaggia, dai sentieri poco battuti e dagli alberi secolari, si sarebbe potuta trovare in una qualsiasi foresta di una qualche landa delle fiabe, ma anche in qualcuna abitata da creature non magiche.
Tutta questa incertezza non la aiutava nemmeno un po’ e le forze la stavano abbandonando da ore ormai. Dopo essersi svegliata nel bel mezzo del nulla, piena di lividi e di tagli e con la testa a dir poco dolorante, aveva tentato per diversi minuti di rialzarsi in piedi, ma, ad ogni nuovo tentativo, vedeva tutto il mondo circostante girarle attorno e la vista annebbiarsi.
 Allora era stata costretta ad aspettare che quella spiacevole attenzione si attenuasse almeno un po’ prima di ritentare l’ardua impresa di riprovare a camminare e aveva cercato a tentoni qualcosa di commestibile, qualcosa che potesse toglierle il senso di nausea che le attanagliava lo stomaco e il senso di angoscia che le opprimeva il cuore.
Ma vicino a lei c’erano solo bacche, erbe non commestibili, radici amare, se non altro sapeva riconoscere cosa fosse velenoso da cosa non lo era, per via del tempo passato a studiare pozioni e incantesimi.
Era stremata e sofferente, sola, di nuovo, al punto di partenza, perché se c’era qualcosa che aveva imparato nel corso dei decenni era che lei era destinata ad una vita solitaria e senza amore, quell’amore che aveva cercato sin dai primi vagiti di neonata, che non aveva trovato tra le braccia di sua madre, troppo impegnata a diventare qualcuno, quel qualcuno che non era, che non sarebbe stato mai abbastanza.
Amore che pensava di aver finalmente trovato con Daniel, ma che le era stato strappato da colei che l’aveva messa al mondo e che vantava per questo su di lei più diritti del dovuto.
Amore che credeva non le servisse più, che non le fosse necessario visto che sembrava arrecarle più dolore che non gioia, quasi come se le si fosse attaccato al cuore alla stregua di una fastidiosa sanguisuga, che, una volta tolta di mezzo l’avrebbe resa più forte, meno vulnerabile.
Non aveva bisogno d’amore, il cuore non era che un organo inutile, un impiccio nel suo disegno malvagio, era colui che la teneva legata alla vita, a quel briciolo d’umanità e fragilità che l’era rimasto impigliato addosso.
L’amore non le era di certo mai stato d’aiuto e non era nemmeno la soluzione.
Soprattutto ora che la vista si era oscurata e la terra si avvicinava pericolosamente a lei, accogliendo le sue braccia stanche e doloranti, la sua fronte così bianca e fredda, i suoi occhi vuoti e senza luce, solo il buio a raccoglierla, a raccogliere quella che per una volta tanto era solo una donna sola e inerme.
Nessuna Regina, nessuna regina, solo una donna qualunque, senza nome, né identità, dispersa chissà dove, senza alcun volto amato, alcun volto familiare a cui fare affidamento, almeno ora che si era guadagnata la stima e il rispetto di persone che una volta aveva odiato a tal punto da distruggere il suo stesso mondo per non vederli correre incontro al loro lieto fine.
Lieto fine che lei non aveva conosciuto e che aveva imparato a non aspettarsi, che era arrivata persino a negare di volere, ma non era di certo così semplice.
Infatti, in qualche strano e forse beffardo modo, stava per arrivare il suo turno, l’occasione per essere felice e provare il sapore del vero amore e percorrere mano nella mano con costui quello che restava della sua vita, quello che comunemente viene definito “e vissero per sempre felici e contenti”.

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Capitolo 2
*** Pain ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)

Pain


Si era svegliata ore dopo, per qualche fugace istante sperava di trovarsi nel suo letto, a Storybrooke, tra lenzuola di lino e cotone, di abbracciare un cuscino morbido e candido, di aprire gli occhi e vedere il soffitto della sua camera, ma sapeva benissimo di non trovarsi lì, di essere dispersa chissà dove, di aver perso la via di casa, di non avere tracce per ritrovarla.

Aveva trovato solo radici amare e bacche troppo acerbe e poco invitanti, ma c’era poco su cui sindacare, era sola, persa e senza mezzi di alcun genere ed era più debole e ferita di quanto non credesse.

Qualche ora più tardi, dopo essersi nutrita e riposata o almeno aver provato a fare l’una e l’altra delle due cose, Regina tentò inutilmente di rialzarsi in piedi, appoggiando gran parte del peso del suo corpo su gambe stanche e stremate, che, com’era ovvio che accadesse, non la sorressero che per pochi secondi.

Ricadde nuovamente a terra, graffiandosi le guance e i polsi, era stremata, sfinita, le forze avevano abbandonato da tempo il suo corpo e, in parte, anche la sua anima.

Si rialzò nuovamente in piedi, aggrappandosi a un bastone trovato per terra, ad ogni passo percorso sentiva il sangue pulsarle nelle tempie, fitte al fianco sinistro a causa di un trauma della caduta, lacrime di dolore e rabbia scenderle lungo il volto sporco di terra e foglie.

Aveva paura, tanta, paura di morire in un angolo di una foresta, un luogo perduto, dimenticato da tutti, che la fine della Regina delle favole fosse la stessa di una mendicante qualunque, paura di non rivedere mai più Henry, che lui con il tempo la dimenticasse.

Se voleva avere anche sola la minima possibilità di sopravvivere doveva prendersi cura di se stessa a cominciare da quella brutta ferita che si era procurata cadendo non appena aveva messo piede in quel nulla in mezzo al niente che era il luogo in cui era stata catapultata contro la sua stessa volontà.

Si tolse la giacca blu che indossava ormai da giorni e sentì un dolore vivo e acuto pervaderla e attraversarle il corpo, il sistema nervoso impazzire dalla sofferenza.

Si fermò per qualche momento, non poteva permettersi di svenire di nuovo, non ancora, non lì, nella solitudine più totale.
Era stata malvagia, cattiva, il Male in persona persino, ma non desiderava mettere la parola “Fine” alla sua tormentata esistenza in quel modo.

Respirò profondamente e temporeggiò un momento, sembrò quasi mancarle il coraggio, poi decise che era meglio non aspettare ancora e guardò la camicetta che indossava sotto la giacca: era intrisa di sangue raggrumato ai bordi, ma rosso e vivo ancora al centro, la ferita doveva essere più preoccupante di quanto pensasse.

Aprì lentamente i bottoni della stessa, a denti stretti, respiri profondi e lacrime calde che le scendevano lungo le guance incrostate di polvere e incredibilmente pallide per via della debolezza.

Il taglio era piuttosto profondo e a contatto con l’aria fredda della sera le sembrava persino bruciare di più, andava assolutamente fasciato e medicato in qualche maniera, ma come?

Lì non c’era nessun Dottor Whale ad aiutarla, nessun anestetico ed era persino troppo debole per tentare di utilizzare la magia, sempre che esistesse nella terra in cui era finita.

Decise di sacrificare le maniche della camicetta, strappandole con i denti, le maniche sarebbero diventate delle ottime bende se solo fosse riuscita ad avere la mente necessariamente lucida e fredda per condurre l’operazione tutta da sola.

Strappò dei lembi di stoffa e li legò poco sopra la vita, la tela da bianca che era diventò immediatamente rossastra, ma perlomeno sembrava compiere la funzione cui la donna la aveva appena destinata.

Regina richiuse la camicia e indossò di nuovo la giacca, in quella foresta cominciava a fare freddo, aveva i brividi, vedeva la luce filtrare dagli alberi ma non sentiva il sole accarezzarle la pelle.

Al solo pensiero che non facesse poi così freddo, ma di sentire comunque quella sensazione, rabbrividì: non era per niente un buon segno, aveva bisogno di trovare una soluzione o sarebbe morta prima di raggiungere il primo centro abitato.

“Dannazione” pensò “la ferita deve essersi infettata, i brividi non sono altro che dovuti alla febbre. Ora che faccio?”.

Le sarebbe bastato trovare un focolare acceso, una casupola abitata da villici, un posto al caldo in cui recuperare le forze, un ovunque che non fosse quel luogo dimenticato da Dio.

Aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lei, anche se odiava ammetterlo, ammettere che Regina Mills potesse dover contare su qualcun altro per salvare se stessa, la sua vita.

Aveva così paura di morire da mischiare lacrime a passi, il dolore fisico che provava faceva a gara con quello psicologico, perché aveva imparato ad amare di nuovo giusto in tempo per perdere tutto, un’altra volta, in un modo non meno straziante del precedente.

“Non tutti possono avere un lieto fine, Regina, l’importante è tra quei ‘tutti’ non rientri tu, mia cara” le aveva detto sua madre Cora, mentre le stringeva il bustino bianco e si preoccupava che il vestito nuziale di sua figlia fosse abbastanza regale per lei.

“Non aspirare a nulla di meno di quanto ti spetti, non lasciare che gli altri ti dicano che tu non puoi andare al ballo, figlia mia, perché ogni singola goccia del tuo sangue merita di essere lì”.

Peccato che non le avesse anche predetto quella situazione a dir poco spaventosa in cui era finita: lei e il nulla a farsi compagnia.

Camminava, Regina, un passo avanti all’altro, a fatica, vedendo la vista annebbiarsi per il male e le lacrime, ma non desisteva, il piede sinistro davanti a quello destro e poi il destro davanti al sinistro, senza darsi tempo di pensare, senza darsi il tempo per crollare sfinita.

Doveva aver percorso un bel po’ di strada ormai o almeno sperava che fosse così, cercava di uscire dalla foresta e trovare sentieri dove potesse passare qualcuno, dove potesse chiedere informazioni, cibo, aiuto.

Raggiunse un masso sul limitare del bosco, si sedette a riprendere fiato e forze, persino quel poco ottimismo che le era rimasto impigliato addosso la stava abbandonando, non c’era via d’uscita, solo una viuzza stretta e tortuosa poco più in là che non le faceva ben sperare, ma solo disperare ancora di più.

Era certa che non avrebbe incontrato nessuno, nessuno di cui si sarebbe potuta fidare almeno, il rischio di incappare in qualche troll di montagna era alto e non avrebbe avuto nessuna possibilità di scampo contro di loro malandata com’era.

“Prendi fiato, Regina” si disse, chiudendo gli occhi per qualche istante “è l’unica possibilità che ti resta quella stradina, l’unica; l’altra non la puoi nemmeno considerare, perché sarebbe restartene qui a morire e non devi, Henry ti aspetta a casa, Henry è la tua ragione di vita ora”.

Inspirò ed espirò, si rialzò e si aggrappò al bastone, doveva solo farsi coraggio e continuare a camminare, solo ancora pochi passi, altri pochi, altri pochi ancora.

Chi voleva prendere in giro? Non sarebbe mai riuscita ad arrivare in fondo al sentiero da sola in quelle condizioni.

Doveva attraversare un ponte di corde piuttosto malandato, mancavano alcuni assi qua e là, ma era l’unico modo per oltrepassare una gola piuttosto profonda e la prospettiva di rimanere da un lato non la attraeva molto, tuttavia nemmeno quella di finire in pasto ai pesci del torrente sottostante la soddisfaceva.

“Ce la posso fare. Un passo alla volta” pensò, tirando l’ennesimo sospiro e accingendosi ad attraversarlo.

“Stai ferma! Consegnami tutto l’oro e il denaro che hai e non ti accadrà nulla! Quello che si usa dire ‘O la borsa o la vita’” si sentì dire alle sue spalle.

Regina restò come paralizzata dalla paura, era incappata in vagabondi, briganti, probabilmente dei ragazzini troppo cresciuti, ma quello che la preoccupava di più era che l’uomo che l’aveva minacciata fosse armato.

Cercò di mantenere la calma e di non far arrabbiare il suo aggressore, si voltò lentamente e fece un passo in avanti nella sua direzione.

“Sono una donna sola, non ho niente qui con me” rispose cercando di interpretare al meglio la parte di una giovane indifesa e senza mezzi, quale, in effetti, era in quel momento, suo malgrado.

L’uomo davanti a lei era alto, dai capelli di una tonalità castana chiara, che dava sul biondo, aveva il volto coperto, ma gli occhi scoperti, di un azzurro torbido, un azzurro che, nonostante la situazione a dir poco surreale, non riusciva a lasciarla indifferente.

“Dalla sua giacca non si direbbe che non possieda nulla, scommetto che sotto tutta questa bella stoffa si nascondono anche dei gioielli” le disse avvicinandosi a lei.

“No, affatto. Non ho nulla con me, se non i vestiti che ho indosso, non ho nulla che lei mi possa rubare” rispose, trattenendo a fatica il dolore della ferita che si doveva essere riaperta per via dello sforzo eccessivo del camminare.

“Non è mia intenzione dare fastidio a una così bella donna, ma mi permetto di insistere e nessuno si farà male” le disse avanzando ulteriormente.

Regina dovette arrendersi e sciogliere un ciondolo che teneva al collo pur di essere lasciata stare dal brigante, l’ultima cosa di cui aveva bisogno ora era di essere derubata da un brutto ceffo in calzamaglia.

Anche se quell’uomo era tutto meno che un brutto ceffo, anzi era del tutto simile a un ladro gentiluomo, una specie di benefattore criminoso.

“Ecco, questo ciondolo è tutto ciò che mi resta, l’ultimo oggetto prezioso che io possieda. Spero che siate soddisfatto”.
L’uomo prese il ninnolo al volo e lo tenne tra le dita per osservarlo, fatto interamente d’oro, sembrava che fosse una specie di cimelio di famiglia.

“La ringrazio, Madame, come vede nessuno si è fatto male, giusto?” le domandò in modo seducentemente beffardo lui.

Regina aveva la fronte madida di sudore, perlata, l’incarnato era divenuto spaventosamente pallido, sentiva che la fine era vicina, che non sarebbe riuscita a resistere ancora per molto, non in quelle condizioni.

Annuì piano per non peggiorare la situazione.

“Si sente bene, Milady?” le domandò preoccupato l’uomo, sfilandosi la maschera che nascondeva un volto ancora più affascinante di quanto la donna non si aspettasse di vedere.

Regina si portò la mano al fianco ferito, il sinistro, e la ritrasse poco dopo macchiata del suo stesso sangue, conscia del fatto che quello non fosse per niente un buon segno, anzi proprio pessimo.

Sentì una forte sensazione di calore irradiarle le tempie, la vista offuscarsi e le parole venirle meno.

“Potrei aver bisogno d’aiut-”iniziò a dire prima di perdere i sensi.

Lo sconosciuto la prese prontamente tra le sue braccia prima che lei potesse cadere a terra e la sorresse come a proteggerla, quella che inizialmente gli era sembrata la solita principessa capricciosa e schifosamente ricca da derubare, forse era più simile a lui di quanto al primo impatto stentasse a credere.

“Daniel” sussurrò lei piano, mentre la stava riportando al suo accampamento.

“Chiunque sia questo Daniel” pensò “di certo non ha saputo prendersi cura di questa donna come lei meriti”.

Pensando a queste parole si diresse verso il centro della foresta, la sua casa, il suo posto sicuro.

 
NdA:
Non so voi, ma io sono curiosissima di vedere Regina e Robin Hood insieme ... ma dovremo aspettare ancora un bel po', nel frattempo vi farò compagnia con questa storia, se avrete voglia di seguirmi. Buone feste!
lulubellula

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Capitolo 3
*** Illness ***


Finding True Love (because everyone needs a happy ending)
Illness

 
Il rientro dell’uomo all’accampamento si faceva sempre più difficoltoso, a rallentarlo la donna che stringeva tra le sua braccia, così ferita, così fragile, febbricitante.

Quella che all’inizio doveva essere solo un bersaglio qualunque delle sue mani di velluto, quelle mani così abili a togliere denari dalle tasche dei più ricchi per riempire, quelle vuote, della povera gente che vedeva in lui una sorta di eroe, di padre buono e leale, che, con il tintinnare di una manciata di monete riusciva a colmare la loro fame, a lenire le loro paure, a rifocillare i loro cuori.

Dovette fermarsi parecchie volte per assicurarsi che lei respirasse ancora, a volte inspirava ed espirava a fatica, altre invece pareva che dalle sue labbra non vi fosse traccia alcuna di alito vitale.

Riusciva a provare compassione per quella dama, sperduta in quell’angolo folto e nascosto della Foresta Incantata, sentiva che nelle vene di quella fanciulla doveva essere corso dolore misto a sangue, nei suoi occhi sofferenza unita alle lacrime versate.

La sentiva di tanto in tanto lamentarsi debolmente in quel sonno malsano in cui era caduta, un sonno pericoloso e devastante, che somigliava ad un alito di vento di morte, vento che aveva sentito arrivare fin troppe volte nel corso della sua vita lunga e piena di avventure.

C’era negli occhi della sua amatissima moglie, lady Marian, un momento prima che il suo sorriso di gioia all’udire il primo vagito del piccolo Roland si spegnesse per sempre, insieme alla sua voglia di vivere, ai suoi occhi grandi, lucenti, colmi d’amore e di promesse incompiute di giorni lieti e felici che non sarebbero mai più arrivati per lei.

Aveva seppellito con lei, ai piedi del salice dove si erano promessi vicendevolmente amore eterno, una parte del suo cuore, se non tutto, giurando a se stesso che non avrebbe più amato altra donna all’infuori di Marian, che il matrimonio, i baci, le parole amorevoli sussurrate all’orecchio della persona amata, sarebbero stati solo un ricordo di ciò che era stato, di ciò che mai più sarebbe stato.

Camminò ancora per diversi minuti, ascoltando il silenzio della foresta, il rumore quasi impercettibile dei suoi passi che gli avevano permesso di non farsi cogliere in fallo dalle guardie del Principe John, che altri non era che il suo acerrimo e odiosissimo nemico, un usurpatore, un monarca ingiusto e vessatore, che non faceva altro che ridurre alla fame il suo popolo per arricchire se stesso.

Si rese conto che arrivare all’accampamento, ad una giornata di cammino di buona lena, in quelle condizioni sarebbe stato pressoché impossibile, la donna che stava trasportando era troppo ammalata per sopportare il freddo di una notte di viaggio e lui era troppo stanco per portarla a destinazione senza essere colto dai pericoli e dal buio che stava per coglierli impreparati.

Decise così di guardarsi un po’ attorno, di cercare se vi fosse un luogo in cui ripararsi, una grotta magari, una casupola disabitata, un vecchio capanno di caccia, ma niente, c’erano solo alberi e sentieri a perdita d’occhio.

Allora si vide costretto a cercare riparo all’ombra di una quercia secolare, adagiò la sofferente compagna di viaggio ai piedi dell’albero e andò in cerca di rami e fogliame con cui costruire un fortino nel quale trascorrere la notte.

Appoggiò a terra l’arco e le frecce, cominciò a controllare il contenuto della sua vecchia e consunta bisaccia verde muschio, aveva una pagnotta, una coperta di lana che aveva visto molti inverni, una borraccia con due dita d’acqua appena, non era di certo equipaggiato al meglio, ma, del resto, quella sosta era un fuoriprogramma del tutto inaspettato.

Dispose i rami, incastrandoli tra loro, come a formare una piccola tenda che ricoprì di rametti sottili e foglie, non era un granché, ma era quanto di meglio si potesse avere in quel momento. Prese la coperta a quadri e vi distese sopra la donna ferita, i lunghi capelli corvini ad incorniciarle il volto e le spalle, il viso pallido e perlato di sudore, le labbra chiare, persino troppo.

Robin si fermò un istante ad osservarla, i suoi occhi si soffermarono su di lei, pur non conoscendola, pur non sapendo chi lei fosse in realtà, non poté far a meno di restare stregato da lei, dalla sua figura sottile, da quel lampo di luce e di dolore che aveva colto quando lei si era voltata, qualche istante prima che perdesse i sensi.

Si allontanò alla ricerca di un ruscello, di un corso d’acqua, doveva assolutamente riempire la borraccia, procurarsene un po’ per dissetarsi, un po’ per pulire le ferite della donna che aveva con sé.

Camminò per qualche centinaio di metri fino ad un torrentello che sgorgava veloce e in piena, l’acqua era pulita e fresca, così che Robin non ebbe difficoltà a berne qualche sorso e a farne provvista per la serata e la nottata a venire.

Tornò indietro verso la quercia e osservò qualche istante la sua compagna di viaggio, il colorito del suo volto non gli piaceva affatto, era pallido e cereo; avvicinò la sua mano alla fronte della fanciulla e si accorse che la febbre doveva essere piuttosto alta e se ne preoccupò parecchio, non aveva altri mezzi per abbassarla se non quelli di prendere alcune bende che portava sempre con sé all’occorrenza e che iniziò ad immergere nell’acqua fredda nel disperato tentativo di farle scendere la temperatura corporea.

Iniziò a levarle la giacca blu, per impedire che i vestiti che indossava acuissero lo stato febbrile in cui lei versava in quel momento e vide che, al di sotto di questa, la camicetta bianca era macchiata e di candido e lindo era rimasto ben poco al di sotto della stoffa.

Aveva una macchia profonda all’altezza del fianco sinistro, stretto in un lembo di stoffa della camicetta stessa che lei probabilmente doveva aver strappato nella speranza che l’emorragia si arrestasse, che le permettesse di avere la forza per camminare abbastanza da trovare un centro abitato in cui richiedere soccorso e pronte cure.

Provò in quel momento una stretta al cuore, così forte che dovette fermarsi un istante a prendere fiato, chiuse gli occhi per un attimo e provò un moto tale di compassione nei suoi confronti che promise a se stesso che si sarebbe preso cura di lei nel modo migliore possibile.

Accese il fuoco ad una distanza tale da permettere che li tenesse al caldo in modo adeguato durante la notte, prese una ciotola di latta e la riempì d’acqua, in modo da averne a disposizione all’occorrenza di calda.

Avvicinò il suo orecchio prima alle labbra, poi al petto della giovane e sentì con estremo sollievo che il respiro, seppur talvolta debole e affaticato, continuava a mantenersi regolare, continuò nel corso delle ore notturne ad appoggiarle sulla fronte calda delle vecchie bende fradice d’acqua fredda e riuscì anche a medicare e pulire, con  i pochi mezzi che aveva la ferita che lei aveva al fianco, in modo da impedire che si infettasse e che lei rischiasse di morire nel più atroce dei modi, in un’agonia lenta e sofferente, nello stesso modo in cui gli era stata strappata la sua Marian.
Verso l’alba, provò a dormire un po’ anche lui, dopo essersi accertato che lei fosse stabile, in modo da recuperare le forze in vista della giornata di cammino che lo attendeva al varco, lunghe ore di scarpinate lungo sentieri poco ospitali e spesso abitati da briganti che avevano intenzioni molto meno amichevoli di quelle che lui era solito avere con i poveri viandanti stanchi e assetati.

Il sonno dell’uomo fu tutt’altro che ristoratore però, agitato e irrequieto com’era in quel momento, fu preda di incubi e di spettri del suo passato, rivide la scena della morte di sua moglie, i suoi capelli scuri fradici di sudore, le sue grida di fronte al un parto che sembrava non finisse mai, la malattia che l’aveva già colta in passato e che si era di nuovo presentata, più forte e potente che mai, come se l’incantesimo della bacchetta magica sottratta a Rumpelstiltskin non l’avesse annullata per sempre, ma solo lasciata in stand by per permetterle di dare alla luce il loro primogenito e poi andarsene per sempre, congedandosi dalla vita, con un saluto lento e straziante.

Si avvicinò a lei in sogno e vide che c’era qualcosa di estremamente diverso, le vesti, il profilo le somigliavano molto, ma, avanzando di qualche passo nella direzione di quella che doveva essere sua moglie, si accorse che non si trattava di lei, quella donna aveva le sembianze della fanciulla in cui era imbattuto durante il giorno precedente e le giaceva sulla sua coperta, a pochi metri da lui.

Quell’immagine lo turbò a tal punto che si svegliò di soprassalto, il respiro corto e veloce, le pulsazioni a mille per l’angoscia che aveva provato di fronte a quell’incubo e la paura che in un modo o nell’altro la sua mente gli stesse mandando una sorta di messaggio, un codice da decifrare, senza però una chiave di lettura ad accompagnarlo.

Cercò di allontanare quell’immagine da sé, una volta che riuscì a svegliarsi completamente, si strofinò gli occhi con le mani e si voltò per cercare dell’acqua con la quale rinfrescarsi il volto ancora assonnato.

Sentì un rumore, quasi un fruscio a malapena udibile, ma non vi prestò molta attenzione, si rialzò, prese la sua bisaccia e si incamminò verso il torrente che aveva scoperto il giorno precedente con l’intenzione di procurarsi altra acqua.

Ogni passo percorso gli pesava e non solo nel senso fisico del termine, cercava di camminare il più velocemente possibile per non lasciarla sola, in preda a facili pericoli e insidie che la periferia della foresta di Sherwood presentava in abbondanza.
Arrivò ben presto al corso d’acqua e lesto tornò indietro sui suoi passi.

Udì di nuovo il suono che aveva sentito pochi minuti prima, suono che inizialmente non riuscì a capire da dove e da chi provenisse.

“Ho sss” sentì e si voltò per vedere se ci fosse qualcosa o qualcuno alle sue spalle.
Lo sentì nuovamente e si avvicinò alla vecchia quercia.
“Sss- ho ssete”.

Finalmente si rese conto che quei suoni, anzi, quelle parole provenivano dalla donna che aveva incontrato una manciata di ore prima.

Si avvicinò alla tenda rudimentale che aveva costruito con i rami, il fogliame e la coperta solo la sera precedente e vide che la donna aveva gli occhi semiaperti, era sveglia, certo, ma sembrava in preda ad una sorta di delirio febbrile.

Si inginocchiò vicino a lei e le porse la borraccia per esaudire la sua debole richiesta.
La donna sembrò vederlo a malapena, teneva gli occhi aperti a fatica e il respiro sembrava che fosse peggiorato negli ultimi minuti.

Notando l’estrema debolezza, Robin la aiutò come poté, con la mano sinistra le sorresse la testa per permetterle di bere più agevolmente, con la destra avvicinò la borraccia alle sue labbra.

La giovane bevve avidamente, sembrava che il suo organismo avesse un disperato bisogno di quanti più liquidi possibili per riuscire a sopravvivere in quelle condizioni disperate.

Robin sorrise alla vista della donna che aveva mostrato un, seppur debole, segnale di miglioramento, riprendendosi per qualche attimo e chiedendogli da bere.

“Signora, ehm, signorina, mi sentite?”.
Regina annuì piano, continuando a fissarlo, faceva fatica a mantenere il contatto visivo per via della spossatezza e della febbre alta.

“Bene - annuì sollevato – mi chiamo Robin, Robin Hood, ci siamo visti per la prima volta ieri in circostanze del tutto straordinarie – sorrise – lieto di rivedere che voi siate tornata tra noi”.

Regina si voltò e non vide nessuno di quel “noi” a cui quello strano tipo aveva fatto riferimento, ma era così stanca e così spaventata che non fece obiezioni, né disse nulla.

Socchiuse gli occhi e riprese a dormire, ricadde in quel sonno pesante e spaventoso nel quale abitavano i suoi peggiori incubi, le sue paure più nascoste.

Robin la vide riaddormentarsi tra le sue braccia, non sapeva chi lei fosse, né forse era importante per lui saperlo in quel dato momento, sapeva solamente che lei aveva un estremo e disperato bisogno delle sue cure e della sua vicinanza, che non l’avrebbe mai e poi lasciata a se stessa, a morire di stenti in un angolo abbandonato di quella foresta grande e sterminata.

Sapeva, in cuor suo, che lei non aveva ancora un nome, non per lui almeno, nessun susseguirsi di vocali e consonanti con cui l’avrebbe potuta chiamare e, allo stesso modo, era conscio che lei stava già occupando un posto in quel luogo che si chiamava cuore.
 




Angolo autrice:
Dopo aver visto la 3x12, ho finalmente trovato il coraggio e l’ispirazione per continuare la mia long su di loro (e sì, ci saranno altri capitoli). Che dire? Io li amo sin da quando si è insinuato in Ouat il pensiero di questa nuova e possibile coppia e, forse, quello che più amo di loro è la sofferenza e la voglia di riscatto che li accumuna (oltre al fatto di essere già entrambi genitori e di aver perso in passato una persona amata).
Gradirei moltissimo sapere le vostre opinioni (nel bene e nel male) e anche sapere se amate anche voi la coppia OutlawQueen tanto quanto me.
A presto
lulubellula

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Capitolo 4
*** Fever ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)
Fever
 
Regina era ancora troppo debole per potersi spostare da sola e camminare al fianco di Robin nella foresta di Sherwood, gli ultimi due giorni l’avevano messa duramente alla prova.

L’infezione e la ferita sembravano migliorare ma non erano del tutto guarite, ma solo sottocontrollo, il fianco le faceva ancora molto male e non aveva provato ad alzarsi, ma al massimo stava seduta o coricata.

Aveva passato molto tempo del giorno precedente e di quello antecedente a quest’ultimo a dormire, si era svegliata solo per dissetarsi e provare a mangiare qualcosina, anche se il cibo di quella landa era povero e ben lontano dall’avere il profumo invitante delle sue famose lasagne.

Aveva scambiato giusto un paio di parole con il ladro che l’aveva prima derubata e poi soccorsa, non sapeva se fosse il caso di fidarsi di lui o meno, il luogo dove era capitata poteva benissimo essere un lembo di terra scampato miracolosamente alla maledizione che lei aveva lanciato sul suo reame incantato una trentina di anni prima.

Nel caso in cui fosse capitata sulle ceneri di quello che una volta era stato il suo regno, non era del tutto sicura che avrebbe fatto bene a confessare la propria identità, ad un fuorilegge per giunta, che quasi certamente era stato inseguito dalle sue guardie personali e perseguitato dalla giustizia regia.

Si era ripromessa che sarebbe fuggita non appena si fosse ritrovata in forze, ma, per il momento, la scelta più saggia, anche se scomoda e fastidiosa, era dividere l’ossigeno con quello strambo uomo, quella figura misteriosa, seducente e al tempo stesso irritante che sembrava averla presa a cuore.

“Vi ho portato la colazione, Milady” le disse portandole una manciata di frutti di bosco freschi e una brocca d’acqua.

Regina osservò il magro bottino e le venne da sorridere in modo beffardo, ma trattenne il sarcasmo e prese la sua porzione di cibo, ringraziando a bassa voce il villico.

“Mi dispiace di non potervi offrire di meglio, ma nei paraggi non ci sono fattorie o case in cui poter fare rifornimento, per il momento vi dovrete raccontare di frutta e del poco pane che mi è rimasto nella bisaccia e che ormai è secco”.

Regina trattenne a fatica una smorfia, che non sfuggì all’uomo che erano giorni che non perdeva nessuna sfaccettatura di lei.

“Dovete forse dirmi qualcosa?”.
Regina si diede un contegno.

“Stavo solo pensando alla vostra idea ‘di fare rifornimento’, immagino che sia un eufemismo per intendere razzie e saccheggi ai danni di poveri sempliciotti”.

Robin cominciò a ridere di gusto.
“Che c’è da ridere?” domandò lei visibilmente irritata.

“Niente, stavo solo pensando a quanto sia buffo che la Regina Cattiva mi faccia la morale”.

La donna rimase profondamente turbata di fronte a quell’affermazione, era del tutto certa di non essere stata riconosciuta e ora aveva la riprova certa del fatto di trovarsi nella foresta incantata, sospetto da cui era già stata sfiorata più volte nei giorni precedenti.

“Cosa le fa pensare che io sia la regina?” domandò lei con aria di sfida.

Robin sorrise: “Il fatto che rispondiate alle mie domande con altre domande, il vostro portamento e contegno nobiliare e poi, Milady, il vostro volto non si scorda facilmente. Ho impiegato un po’ a capire dove vi avessi già vista e ora ne sono del tutto certo: siete la donna che aveva messo una taglia sulla mia testa tempo fa”.

Regina rimase profondamente turbata dalla franchezza e dalla forza dell’uomo e al tempo stesso non poté trattenere una smorfia di paura.

Non era in forze, non ancora, e anche se le fosse stato possibile evocare la magia, essa sarebbe stata debole e del tutto inefficace, non poteva liberarsi da quell’individuo o scappare, non avrebbe avuto scampo.

Tuttavia, un tentativo lo poteva sempre pur fare, no?
Si alzò in piedi, le gambe le tremavano incredibilmente, sentiva un ronzio poco rassicurante nelle orecchie, il fianco, seppur in via dei guarigione, le faceva ancora male.

“Che state facendo, Sua Maestà?” domandò il ladro, con fare ironico, ma che lasciava comunque trasparire preoccupazione e sconcerto.

Regina non parve dargli ascolto e iniziò a camminare, un passo avanti all’altro, destro, sinistro, destr …

“Non credo che sia una buona idea” azzardò l’uomo, non perdendola di vista nemmeno un secondo.

Regina non replicò, le poche forze che aveva le servivano per sfuggire, anche se di questo passo, non sarebbe andata molto lontano data la stanchezza e la lentezza a cui lei si stava muovendo.

Provò a cercare di accelerare l’andatura, ma inutilmente, le gambe non la sorreggevano un granché, il ronzio nelle orecchie cominciava a farsi insopportabile, il cuore a battere troppo forte, nel suo petto, nella sua testa, nel collo.

Non desisteva però, Regina, non era nella sua natura arrendersi, non lo aveva mai fatto del resto e non era intenzionata a farlo allora.
Non si voltava, non ne aveva bisogno, sentiva i passi di Robin alle sue spalle, sapeva che non l’avrebbe lasciata andar via, non ora che aveva compreso l’importanza della donna che aveva soccorso.

Era stata la regina una volta, di certo rappresentava una preda succulenta per un rubagalline come lui, sentiva che non l’avrebbe mai persa veramente di vista e che lei avrebbe dovuto giocare d’astuzia per sfuggirgli.

La testa era pesante, le sembrava di dover sostenere un macigno, non stava bene, non poteva negarlo e si sentiva anche incredibilmente emotiva in quel momento, forse per Henry, forse per Storybrooke, forse per se stessa.

Robin seguitava a camminarle qualche passo indietro, preoccupato e divertito al tempo stesso, ma anche ammirato per la forza d’animo della regina, era una donna fuori dal comune, questo doveva ammetterlo.

Non ce la faceva più, Regina, era inutile che continuasse a crederlo, la vista si era fatta annebbiata e non era solo la stanchezza e la spossatezza, anche se queste non l’aiutavano di certo, erano la lacrime che le rigavano il volto.

Era stanca, anzi stufa, stanca di non poter essere felice, stanca di dover fuggire, stanca di non essere amata da nessuno.
Aveva la nausea, era a pezzi, stava per perdere i sensi e molto probabilmente aveva ancora la febbre, stava fuggendo, questo era del tutto corretto, ma nel modo sbagliato, stava rischiando di morire.

Il suo corpo non era pronto a tutto quello stress, non lo era per niente, le mandava segnali già da una manciata di minuti e lei l’aveva prepotentemente zittito per non darvi ascolto.

Robin continuava a camminare e ad osservare la donna, incerto se intervenire o no, anche perché era abbastanza convinto che fosse una sciocchezza contraddire Sua Maestà.

La guardava decelerare il passo, respirare affannosamente, fermarsi sempre più spesso, finché non la vide appoggiarsi ad una vecchia quercia e arrestare la sua fuga.

“Sua Maestà?” le chiese avvicinandosi a lei, preoccupato.

Lei non gli rispose, era troppo impegnata a respirare, i battiti si erano fatti insopportabilmente ravvicinati, il respiro più corto, la testa le girava vorticosamente.

Riuscì ad alzare la mano destra come a fargli intendere di aspettare, che non aveva intenzione di averlo accanto a sé.
Si portò la mano sinistra al fianco.

“Dannazione” mormorò tra i denti, ritraendola sporca di sangue.
“Dannazione” disse a voce più alta piangendo amaramente.

Robin si avvicinò preoccupato a lei.
“Cosa vi è successo?” le chiese allarmato, avanzando ulteriormente nella sua direzione.

Regina tentò di ricomporsi, ma senza successo, era una situazione troppo surreale per badare all’etichetta.
Era ferita, sperduta chissà dove e l’unico che fosse disposto ad aiutarla era un brigante che aveva persino tentato di derubarla per giunta.
Quello che si dice cadere sempre in piedi! Altroché!

Si voltò nella sua direzione, l’uomo la vide distrutta e sofferente.

Lei mostrò la mano sinistra macchiata del suo sangue e lo implorò con lo sguardo di aiutarla, se voleva sopravvivere abbastanza per trovare il modo di rivedere Henry era necessario che non morisse in un modo tanto stupido e a dir poco surreale.

Robin di Locksley le si avvicinò, tanto vicino che lei riusciva a sentire il suo respiro sulla pelle e il suo profumo, sapeva di aghi di pino e laghi di montagna, un odore di foresta che le rimase impresso nelle narici.

“Vi aiuto io, regina, appoggiatevi a me”.

L’uomo si mise alla sua destra e la sorresse con forza, una presa salda e sicura, che la fece stare meglio, che la fece sentire finalmente protetta.

“N-n” iniziò Regina.
“Che c’è? Qualcosa non va?”.

Le gambe erano molli, tremavano, non la sorreggevano più.
“N-non riesco a c-camminare” disse a fatica lei.

Robin la guardò, era pallida, quasi più pallida di quando l’aveva incontrata solo qualche giorno prima, la fronte era madida di sudore.

Decise di fermarsi e di distenderla vicino ad un albero; prese un vecchio lembo di stoffa e lo bagnò con parte del contenuto della borraccia, lo avvicinò a lei e lo passò sulla sua fronte.

Poi con una pezza asciutta, asciugò il volto della donna ed appoggiò il dorso della mano sul suo viso: era caldo come la brace del fuoco, aveva di nuovo la febbre ed era molto alta: ecco perché non era in grado di camminare oltre.

Sollevò la camicetta e vide che la ferita si era riaperta.

“Maledizione!” esclamò l’uomo alzando gli occhi al cielo.

Non sapeva cosa fare, era da solo e senza mezzi per rientrare al villaggio e quella donna, quella donna tanto strana e tanto bella stava morendo sotto i suoi occhi e lui non poteva fare nulla.

Prese un respirò profondo ed iniziò a urlare, forte, con rabbia, un urlo pieno di panico, pieno di paura.

L’aveva  aggredita qualche giorno prima.
Non era colpa sua se lei stava così male.
Aveva tentato di derubarla, mentre era sola e spaurita in un luogo sconosciuto.
Ma non l’aveva fatto, l’aveva persino soccorsa e curata.
Era scappata, fuggita per colpa sua.
L’avrebbe fatto comunque.
L’hai chiamata “Regina Cattiva” quando in realtà non la conosci nemmeno.
Infatti lei lo è, la Regina Cattiva.
E’ scappata per quello, solo per quello.
Forse il vero motivo è un altro.
Aveva paura di essere stata smascherata e ha messo in pericolo la sua salute e la sua vita per colpa tua.
Tu non volevi che le accadesse qualcosa di male.
Invece è successo, oltre ad essere un ladro, rischi di diventare un assassino, perché se il suo cuore dovesse smettere di battere, la febbre la portasse via, sarebbe colpa tua, Robin, solo tua.

“Rialzati in piedi, Hood” sentì mormorare debolmente.
Vide che la donna aveva parlato, gli aveva parlato.

Sua Maestà”  bisbigliò lui.
“N-non stare lì imp-impalato. Ho f-f-freddo – rabbrividì – portami alla t-tenda …”.

Il resto delle parole furono un bisbiglio confuso, la regina stava delirando per la febbre e l’infezione.
Robin si fece coraggio e la prese tra le sue braccia, stando bene attento a non farle male, la figura della donna era sottile, esile, non fece fatica a riportarla indietro, in quell’ammasso di tela, foglie e rami che era quanto lui fosse riuscito a mettere insieme senza mezzi.

Camminò per qualche minuto e alla vista del fuoco che aveva acceso, si sentì più saldo e rincuorato, gli sembrò che tutta quella situazione, tutto quanto potesse andare per il meglio e riacquistò fiducia in se stesso.

Si inginocchiò a terra e distese la regina sul giaciglio che era riuscito a rimediare, pensando che, per quanto potesse essere stata malvagia nel corso della sua esistenza, non si meritava un triste epilogo, una fine miserabile e lenta in un angolo inospitale di Sherwood.

Regina piombò in un sonno malsano e tormentato da incubi, fantasmi del suo passato che pensava fossero passati oltre e che, invece, era più vivi che mai.

Lei sognò Daniel, lo sognò in un modo vivido, quasi reale, le sembrava di riuscire a sfiorargli la fronte, il volto, di baciarlo, le sue labbra, Dio solo sa quanto le fossero mancate, le sue braccia, le sue spalle, lo vide di nuovo, come non le era concesso da una vita e quando lei lo stava per stringere a sé, lui si sgretolò in minuscoli granelli di polvere, quello che era stato l’amore della sua vita, ora non era altro che un mucchietto di ceneri grigiastre.

“Non può essere vero, no, no!” mormorò nel sonno, delirante.

Robin le si avvicinò e le portò alla fronte una nuova tela bagnata, la febbre era ancora molto alta e la donna si stava disidratando; le sollevò la testa e le portò qualche sorso d’acqua per inumidirle le labbra, poi la rimise in posizione supina.
Fece per allontanarsi, ma la donna gli prese il braccio destro e lo fermò.

“N-non lasciarmi sola” chiese quasi implorante, con gli occhi aperti che guardavano lui e il nulla al tempo stesso.

L’uomo rimase sconvolto di fronte a quella richiesta così strana, così inaspettata.

“Rimango qui con te, non me ne vado” le sorrise.
Regina rispose sorridendo a sua volta.
“Non mi abbandonerai, vero? Non mi lascerai sola, non un’altra volta?”.

Robin non riusciva a capire cosa lei stesse dicendo, a quale altra volta lei si stesse riferendo, ma la strinse ancor più a sé per tranquillizzarla.

“T-ti amo” disse lei a fatica.
“Cosa?”.
“T-ti amo, Daniel” ripetè.

“Di nuovo questo Daniel - pensò Robin – se l’ha abbandonata tempo fa, perché la regina dovrebbe volerlo accanto a sé?”.

Rimase turbato, profondamente, ma resistette accanto a lei tutta la notte, stringendole la mano e alzandosi di tanto in tanto ad alimentare il fuoco per tenere lontane le belve feroci che popolavano il mondo notturno a Sherwood.

Si addormentò accanto a lei alle prime luci dell’alba, mano nella mano, le loro spalle vicine, i loro respiri a poca distanza e per motivi diversi, motivi sconosciuti, un sorriso raggiante, dipinto sulle labbra di entrambi.
 

NdA:
Eccomi qui come promesso con un nuovo capitolo della storia, finalmente si comincia ad entrare nel vivo delle loro interazioni … per ora piuttosto accese! Ma non temete con il tempo arriveranno l’angst, il fluff, emozioni forti e svolte del tutto inaspettate.
Spero che la mia storia vi piaccia e non vedo l’ora di leggere le vostre impressioni.
Ci vediamo la settimana prossima con un nuovo capitolo
lulubellula

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Capitolo 5
*** Lunch ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)
Lunch

 
Robin era preoccupato, persino più dei giorni precedenti.
La regina era ancora febbricitante, anche se stava pian piano migliorando, ma lui sapeva che non c’era altro che potesse fare per farla stare meglio.

Oltretutto il cibo che aveva con sé e aveva sapientemente razionato era finito, c’erano solo poche briciole di pane e pochi sorsi d’acqua nella borraccia, fortunatamente la sorgente non distava che di poche manciate di passi.

Doveva provare a portarla con sé all’accampamento, dagli altri Merry Men, ma non era semplice come a dirsi il da farsi.

Non era molto in forze nemmeno lui, aveva bisogno di mangiare, di darsi una sistemata, di riposare un po’, ma non poteva, dei due, quello che stava meglio era sicuramente lui e doveva restarci ad ogni costo, se voleva che la regina sopravvivesse.

Decise di andare a caccia, era l’unico modo che gli restava per procurarsi del cibo.

Dopo aver medicato la ferita al fianco della donna e averle cambiato la tela fredda sulla fronte, si alzò in piedi e prese arco e frecce, sperando in cuor suo di riuscire a catturare almeno una piccola preda, una lepre o una tortora magari.

Non gli piaceva cacciare, aveva un estremo rispetto per la vita di ogni essere vivente, ma qui si trattava di sopravvivere e non c’era di mezzo solo la sua sopravvivenza; si sarebbe procurato solo lo stretto necessario per mantenersi in forze, niente di più, niente di meno.

Camminò per qualche centinaio di metri, si inoltrò ulteriormente in quell’angolo della foresta e vide un tacchino, un maschio, era evidente dalla sua mole e dal piumaggio, nonché dalla sua camminata fiera.

Attese brevemente tra le foglie e scoccò la freccia, non sbagliò la mira e andò a raccogliere la sua preda.

“Apprezzo molto il tuo sacrificio – mormorò – che tu abbia permesso a me di sopravvivere. Possa la tua anima continuare a camminare nei pascoli celesti”.

Si alzò e rifece la strada dell’andata al contrario, poi si avvicinò al ruscello e preparò il tacchino per la cottura.
Prese una pentola di latta, che portava sempre con sé per ogni evenienza e la riempi con due dita d’acqua, poi vi immerse il tacchino a pezzi e si avvicinò al fuoco, che andava spegnendosi, vicino alla tenda.

Aggiunse altri giunchi e legnetti secchi presi lì intorno e alimentò la fiamma, poi vi appoggiò la pentola in modo che non fosse in bilico e lasciò cuocere.

Entrò a dare un’occhiata alla donna, era ancora pallida, ma la febbre stava scendendo, forse non era ancora tutto perduto, forse si sarebbe ripresa di nuovo.

Fece per ricontrollare che la ferita non si fosse nuovamente infettata, quando una mano lo bloccò.

“C-come ti permetti?” una voce dura, ma ormai familiare, lo fermò.
Lui rimase basito, come stordito per qualche istante, indeciso se ritenersi mortificato o divertito.
“Stavo controllando la vostra ferita, Vostra Maestà” rispose prontamente.
“Non ce n’è bisogno” disse lei, tentando di mettersi a sedere.
“A-Ahi!” disse debolmente, stare in quella posizione le faceva male, pelle contro pelle ad urlarle la lacerazione al fianco.
“Vi fa molto male?” domandò Robin preoccupato.
Regina socchiuse gli occhi e mentì:”No, nulla che non sia sopportabile”.

Una lacrima tuttavia le sfuggì sul volto.
Robin si avvicinò a lei e la asciugò con le dita.

“Non dovete per forza essere forte se state male, non c’è nulla di sbagliato nel manifestare le proprie debolezze talvolta”.
Le sorrise.

Regina non sapeva cosa dire, come replicare.
“Aiutatemi ad alzarmi in piedi, ho bisogno di prendere una boccata d’aria, tutte queste foglie e questi rami mi stanno soffocando” ordinò, indossando di nuovo la sua maschera di ghiaccio.

Quella donna non sembrava mai abbassare la guardia, né le difese, era un enigma, un enigma affascinante da risolvere.
Anche se lei non sembrava voler mai giocare a carte scoperte, tutto ciò non lo faceva desistere dalla curiosità di capirla meglio, anzi, forse gli rendeva il gioco ancor più eccitante.

La aiutò a rimettersi in piedi, le gambe le tremavano ancora, ma stava rimettendosi in forze, non del tutto, ma almeno non c’erano stati peggioramenti.

“Siete stato qui tutta la mattinata?” gli domandò con una punta di curiosità nella voce.
Robin le sorrise.
“No, Vostra Maestà, sono dovuto andare a fare provviste – indicò la pentola sul fuoco – tacchino arrosto”.
“Tacchino? -  chiese la donna divertita – davvero?”.
“Certo, vedete, sta già sobbollendo, mi dispiace non potervi offrire di meglio, niente, sale, niente spezie, niente salse” disse a metà tra il divertito e il mortificato, in modo che a lei non sembrasse del tutto una presa in giro.

“Bene – mormorò lei – se non c’è altro, immagino che mi dovrò accontentare, anche se – indicò la fiamma – con un fuoco più basso, otterremmo un pasto più buono”.

“Cottura lenta? – domandò lui sorpreso – ero convinto che voi foste una donna da tutto e subito” ironizzò Robin.

Lei si lasciò sfuggire un sorrisetto enigmatico.

“Rimarreste scioccato se scopriste che sono molto più diversa di quanto voi non crediate, Hood”.
“Non vedo l’ora di scoprirlo, Vostra Maestà”.
“Regina” disse lei sottovoce.
“Come?”.
“Il mio nome … mi chiamo Regina”.
“Un bellissimo nome, Regina” ripeté lui, soppesando le sillabe con calma.
“Bene” disse lei per mascherare l’imbarazzo.
“Posso fare qualcos’altro per voi, Regina?” domandò con una punta di apprensione.

“Ho sete, gradirei molto dell’acqua fresca, andrei a prenderla anche io, ma – provò a rimettersi in piedi da sola, ma non appena si alzò, fu colta da un improvviso capogiro.

Robin la prese al volo.

“Non dovreste affaticarvi Regina” le disse quasi senza fiato.

I loro volti erano molto vicini, forse troppo, l’uomo riusciva a vedere i suoi occhi scuri e tristi, due pozzi meravigliosi e colmi di dolore, restò stregato, come in preda ad un incantesimo.

Un incantesimo che Regina ruppe con estremo imbarazzo.

“Grazie, Hood, ora potete anche lasciarmi andare”.
“Posso davvero?” chiese lui come in trance.
“Certo, dovete” rispose lei, rimasta senza parole.

“Dannazione – ripeté nella sua mente – leva quegli stramaledetti occhi da me, ladro”.

Se mi guardi così, non posso essere lucida.

Se mi guardi così, non riesco a vederti come la regina cattiva, sei solo Regina e io solo Robin.

Allontana da me i tuoi occhi, così azzurri, così limpidi, tanto buoni, tanto sofferenti che riesco a specchiarmi in loro e perdermi.

Le sue labbra, così rosse, il suo volto, è come se la vedessi per la prima volta, come se la conoscessi da sempre e me ne sia reso conto solo ora.

“Hood! - ridisse a voce alta la donna – rimettetemi giù!”.
“C-certo, scusate se vi ho presa al volo mentre stavate svenendo, Regina”.

L’uomo indossò la sua maschera di ladro, un po’ belloccio, un po’ ironico, che alla donna dava un immenso fastidio o forse no.

“Restate seduta a controllare il pranzo, mentre io faccio ritorno alla sorgente e prendo un po’ di acqua per bere, cucinare e darci una lavata”.
“Cosa staresti insinuando, Hood?”.

Robin sorrise, gli scappò persino una risata.

“Niente, che non ci farebbe male un bagno”.
“Parla per te, Hood, io non ne ho bisogno!” ribatté stizzita.
“Ah, no?”.
“No! Forse un pochino, ma giusto un po’”.
“Certo, non mi permetterei male di insinuare nulla, Milady” fece un leggero inchino.
“Sarà meglio per voi”.
“Ora vado” le disse, voltandosi e sorridendo tra sé e sé.

“Come si permetteva a dirle certe cose? Alla regina poi, dannato ladro sfacciato!” avvicinò il naso alle vesti, ok, forse, ma solo forse non aveva tutti i torti, un bagno tanto male non le avrebbe fatto.

Ma a lui sarebbe andata anche peggio, quell’odore di foresta non l’avrebbe abbandonato tanto velocemente.

Foresta.
Aghi di pino.
Laghi di montagna.
I suoi occhi come specchi.

“Cosa diamine le stava prendendo?” allontanò ogni pensiero da sé.

Robin di Locksley arrivò ben presto alla sorgente e si abbassò a raccogliere l’acqua, era pensieroso, troppo, come non lo era da molto tempo.
Così pensieroso da non accorgersi di essersi sporto troppo, troppo vicino al torrentello, così che quando se ne accorse le sue vesti erano già fradice e il suo volto pieno di graffi e piccole escoriazioni.

“Ben fatto, Robin! Anche oggi hai combinato la tua sciocchezza quotidiana” .

Si rialzò, riempì la borraccia e fece ritorno alla tenda.

Regina era impegnata a preparare il tacchino stufato nell’attesa, girava la carne e fece comparire qualche pizzico di sale e del rosmarino, la sua magia era ancora debole, ma piccole azioni come quelle riusciva ancora a portarle a termine.

Sentì dei passi e alzò lo sguardo, poi scoppiò a ridere.

“Hood, avevi molta fretta di farti un bagno a quanto vedo!”.
“Come si dice? Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. Ecco l’acqua, tenete”.

Le passò la borraccia, Regina bevve a piccoli sorsi, ma era evidente che avesse molta sete.
Gli passò la borraccia e lo guardò meglio in volto.

“Siete ferito” constatò.
“Niente di preoccupante”.

Ma prima che lui potesse obiettare, prese un fazzoletto, lo bagnò con dell’acqua e gli tamponò il volto.

Le sue mani avevano un tocco delicato, era incredibile che una donna che aveva compiuto tanti misfatti avesse delle mani così dolci, leggere.

“Fa molto male?” domandò lei.
“Ora va molto meglio. Vi ringrazio”.

Entrambi sorrisero.

“Avete un sorriso bellissimo, Regina, se non sono inopportuno a dirvelo”.

La luce negli occhi della donna si spense e lei ritornò di ghiaccio come prima.

“Mi dispiace, non avrei dovuto, sono stato davvero inopportuno a quanto pare”.

Robin si rabbuiò e si diede dello stupido, ora che erano riusciti a stabilire un contatto, aveva rovinato i progressi fatti.

“Ho ultimato il pranzo intanto che aspettavo che voi faceste ritorno qui” disse lei semplicemente, sperando di riuscire a sciogliere l’imbarazzo e il silenzio che era nuovamente calato tra loro due.

Robin inspirò il profumo che proveniva dalla pentola di latta.

Era buono e decisamente più buono di quello che era solito preparare lui.

“Come avete fatto?”.
“Cottura lenta, pazienza, ottimi ingredienti e un pizzico di magia”.
“Magia?”.
“Certo! Non vorrete che io mangi qualcosa senza sale né spezie?”.
“Non sia mai!” rispose lui sorridendole.

Mangiarono in silenzio e gustando la pietanza ad ogni boccone, assaporando il momento con calma e tranquillità.

L’imbarazzo di prima sembrava essersi disciolto nell’aria, anche se la curiosità non se n’era del tutto andata, infatti, si guardavano senza farsi notare, gli occhi di Regina, quelli di Robin, finché ad un tratto si incrociarono per poi abbassarsi quasi immediatamente.

Entrambi però, poterono giurare che l’altro avesse sorriso o forse se l’erano solo immaginato?

Ben presto il pasto terminò e si ritrovarono soli accanto al fuoco, nonostante la primavera fosse iniziata, l’inverno non sembrava averle ceduto del tutto il passo e c’era un venticello ancora freddo a muovere le foglie e i rami degli alberi.

“Mi complimento con voi, Regina, il tacchino era davvero ottimo” le disse Robin, sperando che almeno questa semplice considerazione non la mettesse in imbarazzo o le desse fastidio.

La donna sorrise tiepidamente.

“Vi ringrazio”.
“Mi stavo chiedendo se vi andasse …” iniziò l’uomo, cercando di intavolare un discorso con lei.

Regina, che aveva tutto meno che voglia di parlare, troncò ogni sua iniziativa.
“Sono molto affaticata, se non vi dispiace, preferirei riposare un po’, credo che la febbre non mi abbia ancora abbandonato del tutto”.
“Certo, non vi preoccupate, Vostr- volevo dire, Regina. Vi accompagno alla tenda”.
“Grazie” disse lei a bassa voce.

L’accompagnò alla tenda vicina, la salutò e poi si allontanò per cercare della legna da ardere che mantenesse il focolare acceso durante la notte.

Regina invece non riusciva a chiudere gli occhi, era presto, poco dopo mezzogiorno, non le avrebbe fatto male riposare un po’ per guarire più in fretta, per far sì che la stanchezza e la spossatezza che sentiva sin dentro le ossa si attenuasse almeno un po’.

Pensò a Henry, non aveva fatto altro in quei giorni, pensava che, nonostante lui fosse al sicuro a Storybrooke con Emma e i due idioti, che stesse bene, lei non poteva vederlo, abbracciarlo, sentire la sua risata echeggiare nell’aria.

Delle lacrime calde le rigarono il volto, era profondamente triste, in un modo doloroso, un modo che non le dava pace, che non le avrebbe mai dato pace sinché lei non fosse riuscita a stringerlo di nuovo tra le sue braccia.

E sapeva che probabilmente non sarebbe stato possibile e in cuor suo era certa che non sarebbe stato facile.

In cuor suo era conscia del fatto che avrebbe tentato fino a che avesse avuto respiri, fino a che avesse avuto l’ultimo briciolo di linfa vitale per lottare.



NdA:
Eccomi qui (di nuovo e in anticipo), ero particolarmente ispirata in questi giorni e non ho potuto fare a meno di continuare a scrivere, ecco il motivo di questo  aggiornamento repentino.
Sono felice di vedere che la storia sia stata inserita nelle preferite da 2 persone e nelle seguite da 7.
Se avete voglia di dirmi cosa ne pensate, le recensioni sono benvenute
A presto
lulubellula
 
 

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Capitolo 6
*** Lion ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)
Lion

 
Alla fine la donna cedette e si addormentò per un paio di ore, il sonno era meno agitato dei precedenti ma non del tutto tranquillo.
Non avere il pieno controllo del suo corpo e della sua magia la rendeva nervosa e non avere nessuno che la chiamasse “Mamma” lì intorno la faceva morire dentro, lentamente ed inesorabilmente.
Era triste, Regina, triste e inconsolabile e se da sveglia cercava di far sì che il suo stato d’animo non si manifestasse, nel sonno, lacrime le scendevano silenziose a macchiare la coperta lisa e stinta su cui si addormentava.
Non aveva con sé suo figlio, l’amore della sua vita, forse l’unico, perché non c’era nessuno al mondo, nessuno, nemmeno Daniel che lei avesse mai amato quanto Henry.
Aveva dovuto aspettare di diventare madre per provare un tale sentimento, così intenso, forte, indescrivibile, di completezza e felicità assoluta.
Le mancava Henry, incredibilmente, non c’era attimo, da desta o in sogno, che lei non pensasse a lui e quando le sembrava di aver accantonato per un attimo soltanto il pensiero, c’era qualcosa o qualcuno che glielo faceva riportare alla mente.
Si svegliò.
Improvvisamente e con il cuore in gola, come le accadeva quando aveva troppi pensieri per la testa.
Quando Henry la svegliava di notte per un brutto sogno e le invadeva il lettone, venendo a dormire accanto a lei e abbracciandola, i suoi piedini freddi vicino ai suoi. Si riaddormentavano entrambi in un battito di ciglia.
Le notti insonni passate a vegliarlo quando era ammalato o a consolarlo quando era triste oppure le spaghettate di mezzanotte d’estate, quando c’era troppo caldo e non si riusciva a dormire.
Tutti questi ricordi erano come tante perle a formare una collana, tanti grani uno vicino all’altro, uno più felice dell’altro e tutti insieme dolorosamente felici perché passati, perché lontani.
Il cuore le martellava nel petto, non riusciva a parlare, a chiamare aiuto, i battiti erano accelerati, scorreva adrenalina pura mista a qualche goccia di sangue nelle sue vene.
Pensava che sarebbe morta, che il cuore le sarebbe scoppiato nel petto.
“Regina!”.
Robin che era a pochi passi da lei e la intravedeva nella tenda, si spaventò.
La donna non riusciva a spiegarsi, a proferire parola, ma i suoi occhi, i suoi occhi, gridavano aiuto a piena voce.
L’uomo si avvicinò a lei e la fece uscire dalla tenda, non riusciva a capire che cosa le stesse accadendo, che cosa le passasse per la testa, visto che non parlava, ma pensò che portarla fuori a prendere qualche boccata d’aria non le avrebbe fatto di certo male.
“Respira, Regina!” le disse, a metà tra l’essere un ordine e una gentile e disperata richiesta.
Lei sembrava non riuscirci, non c’era aria attorno a sé, sembrava che tutto l’ossigeno della Terra fosse stato risucchiato nell’etere.
L’uomo le si sedette accanto e iniziò a massaggiarle la schiena, come si fa con i bambini molto piccoli quando piangono o stanno male; in realtà non sapeva bene cosa fare, ma aveva compreso che le semplici parole non sarebbero bastate, le serviva qualcosa di più concreto, come un abbraccio.
Regina sentiva che la situazione stava leggermente migliorando, ma non del tutto, il cuore era ancora in gola, il panico ancora nella sua mente, Henry ancora lontano, troppo, da lei.
Il tocco leggero e rassicurante del ladro pareva giovarle e se, in circostanze diverse l’avrebbe fatta infuriare a morte, in quel frangente le era d’aiuto, era tutto per lei.
“Vi sentite meglio?” le chiese Robin dopo una manciata di minuti, la preoccupazione gli si leggeva in volto.
“S-sto meglio, sto meglio” disse lei quasi in un sussurro, allontanandosi di qualche centimetro da lui.
Non poteva lasciarsi prendere dalla situazione, era fragile, emotiva, scossa, le sue azioni potevano rivelarsi pericolose, dopotutto erano una donna e un uomo, a zonzo nella foresta, soli, senza terzi incomodi tra i piedi.
“Bene” le disse lui, lievemente sollevato.
Regina lo guardò, uno sguardo leggero, dolce, ma tuttavia colmo di paura, di angoscia.
“Come vi turba, Milady? A me potete dirlo, non vi giudicherei, non sono il tipo di uomo che giudica le persone dai loro trascorsi” iniziò accondiscendente.
Regina sentì una sorta di elettricità nell’aria, voleva aprirsi con lui, lo voleva proprio, ma forse non era il caso di raccontare il suo passato, anche quello remoto, ad una persona appena conosciuta.
Anche se sapeva che si sarebbe potuta fidare di lui.
Lui che l’aveva soccorsa e curata, le aveva praticamente salvato la vita.
Regnò il silenzio per qualche istante nella foresta, il sole stava ormai per calare, forse Regina aveva dormito più a lungo di quanto credesse in principio.
“Accendo di nuovo il fuoco, per riscaldarci più che altro, purtroppo stasera non è rimasto molto da mangiare, un altro po’ di tacchino, se proprio vi va”.
Regina sorrise all’idea di mangiare di nuovo tacchino, tacchino freddo, come a pranzo.
“Vi fa ridere la mia cena?” domandò lui fingendosi offeso.
“Affatto” rispose lei, nascondendo a malapena una risata.
“Siete così bella quando sorridete, Regina”.
Poi si rabbuiò.
Era la seconda volta che quella affermazione gli sfuggiva e si diede dello stupido per questo motivo, per il fatto che la reazione del giorno precedente l’aveva spaventato.
Non voleva che lei si richiudesse in se stessa, non ora che il tepore del fuoco era tanto perfetto e che il cielo cominciava a tingersi di una coperta di stelle, non era che i suoi occhi brillavano a tal punto da scandirgli i battiti del cuore, un battito di ciglia, un battito del cuore, un ritmo tanto lento e perfetto da togliergli il fiato.
Non gli succedeva da secoli, da quando aveva perso Marian, ormai quattro anni prima, anche se talvolta parevano sembrargli quattrocento, non gli succedeva di provare un tale sentimento, una sensazione di completezza e beatitudine assoluta.
La donna sembrava sentirsi un po’ meglio, ma lui si ripromise  che non l’avrebbe persa di vista nemmeno un istante durante la serata.
Era forte o almeno faceva tutto per sembrarlo davanti ai suoi occhi, ma nascondeva un lato fragile ed emotivo, un lato che la rendeva completamente diversa dall’essere la “Regina Cattiva”.
In fondo e nemmeno troppo, anche la Regina Cattiva era pur sempre una donna prima di tutto il resto.
Si alzò in piedi e andò a prendere la cena, il fuoco era quasi spento, ma riuscì a farlo tornare animato e scoppiettante aggiungendovi dei rametti secchi, dopotutto non avrebbero mangiato tacchino freddo quella sera.
Mangiarono in silenzio, seduti vicino al fuoco, si scambiavano di tanto in tanto delle occhiate che volevano dire tutto e niente, si comportavano come due ragazzini vestiti da adulti, le stesse paure, gli stessi sospiri, ma in più molti, troppi rimpianti e ancor più rimorsi.
La vita non era stata clemente con quei due, aveva strappato loro le persone che avevano amato e continuavano ad amare, ancor prima che potessero portare a compimento le vite meravigliose che aveva pianificato insieme.
Avevano due figli, due figli che erano le loro uniche ragioni di vita e per i quali si erano immaginati un presente ben diverso da quello che erano costretti a far loro vivere: l’uno senza madre, rimasto orfano sin da subito, l’altro che aveva un passato e un oggi confuso, cresciuto in una famiglia ora sin troppo allargata e che non era nemmeno certa di riabbracciare.
Regina lasciò a metà la cena e si alzò in piedi, gli occhi le prudevano incredibilmente, come le accadeva ogniqualvolta le lacrime fossero prossime a scenderle copiose lungo il volto.
“Regina?” domandò Robin, senza aspettarsi da lei alcuna risposta.
Lei continuò ad allontanarsi, camminando piano, ma senza smettere.
Si sentiva più in forze fisicamente, ma era soprattutto il timore di piangere di fronte a Robin per un motivo tanto intimo e personale come la mancanza di suo figlio Henry che la faceva continuare ad inoltrarsi nel bosco.
Lui la raggiunse e le mise delicatamente un braccio sulla spalla.
Lei si voltò, il viso madreperlaceo e lacrime calde che lo attraversavano, spezzando il cuore di entrambi.
“Sfogati con me, Regina, non ho intenzione di ferirti, di giudicarti, di farti alcun male. Non potrei mai farti soffrire” le disse lui, guardandola dritta negli occhi.
“Non posso” disse Regina, le lacrime a rigarle il volto, sfiorandole lentamente le guance.
Robin si voltò nella direzione della donna, cercando di capire che cosa non andasse in lei.
“Cos’è che non puoi fare?” gli domandò turbato.
“Lasciarmi prendere da tutto questo, non posso” ammise la donna, cercando di sfuggire dallo sguardo indagatore dell’uomo.
Iniziò a camminare, prima lentamente, poi sempre più veloce, inoltrandosi nel folto della foresta di Sherwood, cercando di non farsi raggiungere, sperando che Robin non la seguisse, che non seguisse l’ombra di una donna che aveva trascorso l’intera vita a mostrarsi forte, fin troppo, e che in quel momento non era altri che una donna fragile, spezzata.
L’uomo non la lasciò andare da sola, le camminava un paio di passi indietro, per rispettare il suo stato d’animo ma senza staccare lo sguardo da lei, dalla direzione che stava prendendo.
Ad un tratto, arrivata alla fine di un sentiero impervio che portava solo e solamente ad un precipizio, Regina fu costretta a fermarsi e a sedersi mesta su una grossa pietra poco più distante.
Si sedette e si portò le mani fredde e bianche sul suo volto, non sapeva davvero come affrontare quel momento, Henry le mancava ogni giorno di più e il dolore in certi frangenti era così insopportabile da mozzarle il respiro, fermarle la circolazione sanguigna nelle vene, o almeno a lei sembrava che andasse così.
Le mancava abbracciare il suo bambino, anche se tanto bambino non lo era più da un po’, stringerlo a sé e baciarlo amorevolmente sulla testa in un modo lento, dolce, come solo una madre sa fare.
Aveva passato notti lunghe, interminabili, a macchiare il giaciglio che aveva per letto, una branda scomoda in conforto a ciò a cui era avvezza, con le sue stesse, calde e inesauribili lacrime.
Ma ora, in quel dato istante, sembrava che le cataratte oculari si fossero seccate, che non ci fosse più nemmeno una sola goccia d’acqua calda e salata a bagnarle le guance, a scenderle lungo le labbra, a morire sul suo mento.
Non poteva lasciarsi andare, non ora, non c’era nessuno che avrebbe potuto consolarla, non c’era nessuno in grado di risollevarle l’animo; era in un angolo sperduto della foresta e molto probabilmente Robin l’aveva seguita.
E lei non aveva alcuna intenzione di mostrarsi debole dinnanzi a lui.
No, non se ne parlava nemmeno.
Non di fronte a lui che era pronto a soccorrerla con la stessa velocità con cui aveva tentato di derubarla.
Non di fronte a lui che si illuminava quando le sorrideva, che era pronto a cederle, con cavalleria, il giaciglio migliore, la tenda meno rattoppata, il boccone più tenero, il posto più vicino al fuoco e a lui.
No, non di fronte a lui.
Lui che, nonostante tutti i buoni propositi che aveva ripetuto almeno un milione di volte nella sua testa, non riusciva a restarsene a guardare indifferente quella donna soffrire, lui che nascosto dietro a quella quercia si sentiva morire nel vederla così, fragile, sola, rotta.
Lui che si stava avvicinando così piano da essere quasi invisibile e che, prima che uno dei due si accorgesse, si era già seduto accanto a lei, senza darle alcun segno dapprima, senza farle pesare la sua presenza a pochi centimetri l’uno dall’altra.
Lei che stava annullandosi a poco a poco, che aveva il cuore così infranto da non sentirlo più nemmeno pulsare nel petto, la testa così piena di pensieri ed emozioni, di illusioni incompiute e dolorose a dipingerle la mente confusa, la mente che stava pian piano sbiadendo, i pensieri a sfuggirle come la sabbia tra le dita.
Le accarezzò i capelli corvini, per una volta sciolti, semplici, senza pettinature complicate, come piacevano a lui, erano lucidi e morbidi, profumavano di fiori, un profumo leggero, avvolgente, per nulla fastidioso, di campanule, quei fiorellini piccoli che coloravano i prati delle brughiere tutte le primavere, dopo il disgelo invernale.
La donna non oppose resistenza, lo sguardo perso nel vuoto a fissare il nulla davanti a sé, il precipizio davanti ai suoi occhi che sembrava chiamarla, pronto ad abbracciarla, solo pochi passi e un salto, pochi passi e un salto e il suo dolore avrebbe avuto fine.
Sapeva che non avrebbe nemmeno dovuto pensarlo, che quell’idea era sbagliata, ma le sembrava una prospettiva allettante, quasi felice, soffocare i suoi dispiaceri e la sua vita in un colpo solo.
Dopotutto aveva già provato quella sensazione in passato, la ringhiera aveva ceduto alle sue spinte e il buio l’aveva inghiottita, quasi inghiottita, se solo quella fata ficcanaso non si fosse frapposta tra lei e l’abbraccio della sorella morte.
Fece per alzarsi da terra, ma qualcosa o meglio qualcuno la trattenne, si voltò bruscamente e realizzò improvvisamente di non essere sola, che Robin le stava accanto, seduto vicino, troppo vicino.
I volti, i respiri, le spalle, i cuori, tutto era troppo prossimo a lei, ma non la soffocava, non le faceva male questa vicinanza, ma solo paura, tanta.
“Perché sei qui?” gli chiese come ridestata da un profondo sonno.
Robin strinse le spalle, non sapendo cosa dirle.
“Avevo solo bisogno di sapere che fossi al sicuro, nient’altro. Non volevo darti fastidio o farti soffrire di più, avevo … solo la necessità di starti accanto senza urtarti” disse semplicemente.
Regina rimase come bloccata, stupita, senza parole da pronunciare.
Respirò profondamente, chiuse gli occhi e quando li riaprì, indossava nuovamente la maschera che una volta era appartenuta alla Regina Cattiva.
“Non c’era alcun bisogno che mi seguissi, non ce n’era affatto” mormorò lei a denti stretti, mettendo le distanze.
Robin si rabbuiò: ormai aveva imparato a conoscerla, a volerle bene, persino ad amarla o forse non ancora, a volte non ne era del tutto certo nemmeno lui.
Aveva capito però che c’erano delle volte in cui sembrava essere capace di leggerle dentro, in ogni singolo e sperduto angolino dell’anima e altre in cui gli sembrava di non conoscerla affatto, che fossero in tutto e per tutto degli estranei che vivevano nello stesso luogo e nello stesso tempo, ma null’altro di più.
E anche se faceva finta di nulla, se fingeva che non gli pesasse, che non fosse così importante, lui soffriva, soffriva nel vederla fare un passo avanti e due indietro in quegli istanti e mentre il momento prima sembrava che fossero prossimi ad avvicinarsi, quello seguente lei appariva più lontana e fredda che mai.
Amarla era semplice, capirla invece no, era estenuante, difficile, una vera e propria faticaccia, ma mai tempo perso, mai, nemmeno per un solo istante aveva pensato che starle vicino fosse uno sbaglio.
“Lascia almeno che ti aiuti a rialzarti, Regina” le porse la mano destra nel tentativo di mostrarsi galante e comprensivo.
Scoprì leggermente il braccio, tendendole la mano e Regina rabbrividì di fronte alla vista del tatuaggio.
Il tuo vero amore è lì dentro, in quella taverna, devi cercare l’uomo con il tatuaggio del leone”.
Le parole di Trilli le riecheggiavano nelle orecchie ad un ritmo martellante e disperato.
“Il tatuaggio del leone, non è possibile” pensò Regina, ritraendo la mano.
Si rialzò in piedi, rifiutando l’aiuto di Robin e si incamminò verso la tenda.
“Domani mi porterete all’accampamento e poi da lì, ciascuno di noi due seguirà strade diverse” disse a voce alta la donna.
Robin rimase come sbigottito.
“Che vi è successo? Perché non mi guardate negli occhi?”.
Le sue domande restarono senza risposta, la donna era ormai lontana, a pochi passi dalla tenda.
Vi entrò, voltò le spalle al fuoco e a Robin e finse di dormire, ben conscia del fatto che quella notte non avrebbe chiuso occhio.

NdA:
Ora Regina sa chi si trova davanti, ma è spaventata e pronta a sfuggire per la seconda volta ... Robin la lascerà andare?
Lo scoprirete la prossima settimana!
Intanto vi invito a scrivermi qualche parere, a parlarmi di come vi sembrino loro due insieme in Ouat (io ovviamente li adoro) e di quello che vi passa per la testa.
Alla prossima
lulubellula

 

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Capitolo 7
*** Fear ***


Finding true love (because everyone needs an happy ending)
Fear

 
“Non è possibile” si disse Regina, ripensando a ciò che aveva visto qualche istante prima.
“Non può essere lui, non può esserlo!” ripensava, sbirciando dal cumulo di foglie, rami e coperte che era la sua tenda.
Il destino non poteva essere tanto beffardo, non poteva essersi preso gioco di lei, non di nuovo.
Era come un cane che si rincorre la coda, lei era sfuggita all’uomo misterioso seduto in quella taverna e lui, non si sa come né perché era ricomparso prepotentemente nella sua vita più di trent’anni dopo.
Non poteva essere così.
Non ora che si era ormai rassegnata a vivere da sola, da single, che aveva mentito a se stessa dicendo di non aver bisogno di un uomo, di nessun altro al di fuori del suo ragazzino, di Henry.
Regina non ci voleva credere, non poteva nemmeno pensare che l’uomo in cui si era imbattuta nella foresta fosse il suo vero amore.
Doveva esserci sicuramente un errore.
Trilli era stata chiara a riguardo però.
Sicuramente c’erano centinaia di uomini che avevano un tatuaggio del tutto simile in giro per i mondi.
Eppure la polvere fatata non sbaglia mai.
Di sicuro, il tuo amore è qualcun altro là fuori, non di certo lui, non di certo un ladro.
“Che buffo, la Regina Cattiva che mi fa la morale!” avrebbe quasi certamente detto lui.
E anche se la polvere fatata si fosse sbagliata, il suo cuore non falliva mai, il suo cuore già sapeva, in un modo del tutto inaspettato, in un modo del tutto irrazionale che il suo vero amore era proprio lui.
Si rigirò di nuovo, prima sul fianco destro, poi su quello sinistro.
Si lasciò sfuggire un lamento a voce lievemente più alta del dovuto, il fianco sinistro le faceva ancora male.
Strinse i denti, le sfuggì una lacrima e ne trattenne altre.
Era stata incredibilmente stupida a scordarsi di quel piccolo particolare, non poteva di certo permettersi di far riaprire la ferita che ormai stava guarendo e di dover allungare la permanenza in quel luogo perso in mezzo ai boschi, con quell’uomo.
Robin, dal canto suo, sentì dei lamenti provenire dalla tenda in cui dormiva Regina e se ne preoccupò, ma rimase qualche istante a riflettere se fosse il caso o meno intervenire e vedere se lei avesse qualche problema, magari grave.
“Al Diavolo! – si disse – io vado a controllare!”.
Si alzò in piedi e percorse qualche metro, sino alla tenda.
“Regina, è tutto ok? Vi ho sentita lamentarvi” disse utilizzando un tono il più gentile e rassicurante possibile.
“S-sì – mentì lei – ho solo fatto un brutto sogno, tornate a dormire. Io farò lo stesso”.
“Bene, buona notte allora, Milady, cercate di fare dei bei pensieri allora e di riposare, dovrete essere in forze per domani, il mio accampamento dista oltre sette miglia da qui e voi non siete ancora completamente guarita, il viaggio sarà lungo ed estenuante per voi, Regina” le disse lui, nella speranza di farla desistere dal partire così presto, non solo per le sue condizioni di salute non del tutto ristabilita, ma anche e soprattutto perché non si sentiva ancora pronto a separarsi da lei, a lasciarla andare via, sapendo che non l’avrebbe mai più rivista.
“Certo – ripose lei – ce la farò senz’altro. Che volete che siano sette miglia, dopotutto?”.
In realtà, pur sapendo che si trattava di una distanza abbastanza trascurabile in circostanze differenti, sette miglia erano al momento per lei una vera e propria sfida con se stessa.
Provò a rimettersi a dormire e così fece Robin, ma tra pensieri, dolore e angoscia, nessuno dei due si poté dire davvero riposato l’indomani.
Si alzarono davvero presto, poco prima dell’alba e iniziarono a raccogliere le poche cose che possedevano e che nel caso di Regina consistevano nella sua bellissima giacca blu, ora impolverata e sporca di sangue secco e del ciondolo, ma ormai quello non l’aveva più.
L’uomo sembrò leggerle nel pensiero.
“Eccovi il vostro ciondolo, scusate se ho aspettato tanto per restituirvelo”.
Regina glielo strappò quasi di mano.
“Non vi permettete mai più di portarmelo via” gli disse a denti stretti.
Lo riprese con sé, come se si trattasse dell’oggetto più prezioso che lei possedesse e, in fondo, era così, insieme all’anello che le aveva donato Daniel, quel ciondolo era uno dei beni più preziosi che lei aveva al mondo.
“Scusate …” iniziò lui, tentando di ricucire i rapporti con lei, sapeva che gli restava ben poco per provare a convincerla a non andarsene.
“Bando alle ciance – tagliò corto lei – finite di raccogliere quelle tre o quattro cose che vi appartengono e portatemi al vostro accampamento, di modo che poi, mi possa essere indicata la via per il castello, il mio castello”.
Robin annuì, abbassò la testa, seguitò a raccogliere pochi effetti personali, si accertò che il focolare fosse davvero spento, per evitare rovinosi incendi, e poi prese arco e frecce e le ripose nella bisaccia che portava sulla spalla destra.
“Regina …” iniziò lui.
“Non deve essere per forza una passeggiata di piacere, capito? Io non ho niente da dirvi, voi non dovrete dire niente”.
La vegetazione attorno era lussureggiante, vi erano pini e abeti antichi e un sottobosco davvero molto ricco, piccoli frutti, mirtilli, lamponi, more, e ancora felci e siepi a perdita d’occhio.
“Dobbiamo prestare attenzione, ora” la ammonì Robin.
“E perché dovremmo?” domandò Regina infastidita.
“Non dimenticate che io sono un ricercato, un ladro, come mi avete fatto notare più volte e il Principe John e i suoi scagnozzi mi stanno con il fiato sul collo”.
Regina fece ancora qualche passo avanti, fino ad uno spiazzo coperto di foglie e di sassi.
Robin la fermò immediatamente, bloccandole il passaggio con il suo corpo.
“Che state facendo?” chiese irritata e adirata.
“Vi salvo la vita, Vostra Maestà”.
Si abbassò e prese una pietra dalla forma irregolare e la lanciò sopra quell’ammasso di foglie e di rami: il meccanismo scattò immediatamente e una tagliola dalle dimensioni preoccupanti si dischiuse con un sonoro fragore.
Regina impallidì alla vista di ciò che le sarebbe potuto accadere e in cuor suo, anche se non voleva dare all’uomo questa soddisfazione gliene fu immensamente grata.
Avrebbe potuto ferirsi seriamente, perdere un arto, nella peggiore delle ipotesi persino la vita.
Robin parve sollevato e preoccupato al tempo stesso, la situazione stava sfuggendogli di mano, il Principe John aveva decisamente esagerato con i tranelli per catturare lui e i suoi.
“Grazie” gli disse Regina e anche se sembrava un ringraziamento vuoto e tirato, lei era del tutto sincera.
“Dovere, non avrei mai permesso che vi accadesse nulla di male. Ho già troppi ferimenti sulla coscienza”.
“Cosa state dicendo?” gli chiese sinceramente incuriosita ma anche preoccupata.
“Sono anni ormai che il Principe John e i suoi uomini fanno di tutto per catturarci, in particolare per catturare me. Io sono un ladro, questo è corretto, ma non rubo per arricchirmi o per fare del male agli altri, io rubo ai ricchi per distribuire ai più poveri. Da quando Re Richard se n’è andato e suo fratello ha preso la reggenza ad interim, le tasse sono aumentate in una maniera insostenibile, i raccolti vanno devoluti quasi interamente alla corona e la popolazione è allo stremo. Non c’è più cibo, né denaro, le carestie e le epidemie sono sempre dietro l’angolo. Io cerco solo di riequilibrare un po’ la situazione, aiutando la povera gente come meglio posso con i miei fratelli di avventure, i Merry Men. So che tutto questo non giustifica il rubare, nulla lo può giustificare, ma cercate almeno di capirmi”.
Regina si dimostrò catturata da questa storia e sebbene non volesse darlo a vedere, anche impressionata dalla bontà e dalla generosità d’animo di Robin.
“Si è ferito qualcuno sinora con queste trappole?” chiese, sperando che la risposta fosse negativa.
“Purtroppo sì – ammise – un contadino di un villaggio vicino. Stava raccogliendo della legna da ardere e si è avvicinato ad un cumulo del tutto simile a questo che gli avrebbe permesso di tornare dai suoi figli al più presto. Non si è fatto una ferita molto profonda, è stato preso solo di striscio, ma i meccanismi di queste tagliole e molte delle altre trappole che sono qui nei paraggi, sono unti con del veleno, un veleno lentissimo ad agire, ma mortale, che paralizza i muscoli sino a far fermare, in ultimo, il cuore. Abbiamo tentato di tutto per salvarlo, di tutto e … non c’è stato niente, n- niente – gli tremò la voce più di una volta – che potesse salvarlo. Quell’uomo è morto anche per colpa mia e ora ci sono cinque orfani e una vedova in più in circolazione. Avrei dovuto esserci io al suo posto, io!” disse con profondo rammarico, respingendo le lacrime, volendosi mostrare comunque forte e saldo nel suo intento.
Sentì una mano posarsi sulla spalla.
“Non è colpa vostra, Robin, se c’è un colpevole in tutto questo è proprio il Principe John” disse lei a denti stretti.
“Lo conoscete?” le chiese.
“Sì, purtroppo, sì” rispose lei, cercando di evitare di incrociare il suo sguardo.
“E come mai?”.
“Bè, è una lunga storia, una storia lunga e noiosa, sono certa che non la vogliate sentire” disse lei, sperando così di scoraggiare la curiosità dell’uomo.
“Vedete, Regina, mancano ancora sei miglia, c’è tanta strada da percorrere, il tempo non ci manca di certo”.
Regina abbassò lo sguardo e si schiarì la voce.
“D’accordo, Hood, se proprio non riuscite a tenere a freno la vostra curiosità, vi accontenterò. Dunque, i fatti che sto per narrarvi sono accaduti molti anni orsono, quando avevo più o meno sedici anni e molti meno pensieri nella testa (e molte meno morti sulla coscienza – pensò). Mia madre, Cora, voleva a tutti i costi che io sposassi un uomo dal nobile lignaggio, non un Duca, né un Conte, ma un Re oppure un Principe che fosse primo in linea di successione al trono, non come mio padre, che si ritrovava ad essere solo quinto, spegnendo ogni speranza in lei di divenire un giorno regina. Tra i pretendenti che scelse c’era anche il Principe John, che tuttavia, non era esattamente il diretto erede al trono, ma era secondo in linea di successione, un figlio minore, cadetto, come si suol dire, anticipato in tutto e per tutto da suo fratello …”.
“Re Richard Cuor di Leone, giusto?”.
Regina annuì e continuò il suo discorso.
“Anche per questo, le malelingue lo chiamavano schernendolo John Senza Terra, alimentando in lui ancor di più l’odio verso i suoi sudditi e i suoi desideri di vendetta nei confronti di suo fratello, un giovane del tutto diverso e di buon cuore, che mi rivolgeva sempre un sorriso magnanimo e un inchino ogni qualvolta mi incontrasse, sebbene io non fossi tanto nobile quanto lui”.
“Era un vero gentiluomo, Re Richard” sottolineò Robin.
“Già, lo era. Io so che, ben presto, il desiderio di togliere di mezzo suo fratello diventò tanto forte e tanto pericoloso, che John si rivolse a mia madre, la quale, oltre ad essere una Principessa, era soprattutto un’abile strega e pozionista, grazie agli insegnamenti che aveva carpito dalle lezioni impartitale da Rumpelstiltskin anni prima. Lei gli promise che lo avrebbe aiutato a toglierlo di mezzo in cambio di qualcosa o meglio di qualcuno”.
Robin rimase scioccato.
“In cambio di cosa, Regina?”.
La donna chiuse gli occhi per qualche istante, prese fiato e continuò.
“In cambio di me. La loro trattativa era chiara e semplice: lui avrebbe preso la corona in quanto erede legittimo, dopo la scomparsa dell’amato Re Richard, e mia madre in cambio aveva posto come condizione che lui mi sposasse e facesse di me la regina”.
Si fermò come a riprendere fiato e richiuse gli occhi, il ricordo di ciò che era avvenuto nei giorni seguenti a quel patto, era indelebile nei suoi occhi e nella sua pelle.
“Cosa è accaduto poi, Regina, come siete sfuggita a quel matrimonio?”.
“Sono stata salvata da qualcuno, prima che mi accadesse … prima che accadesse …”.
Regina non trovava le parole per esprimersi.
“Che vi è successo?”.
“Mia madre è stata di parola e ha fatto scoppiare una terribile rivolta ai confini del suo regno, in modo da costringere Re Richard a partire per porre rimedio a quella che si prospettava che sarebbe potuta diventare una guerra sanguinosa e si sono perse le sue tracce, nemmeno io so che gli sia accaduto e se sia ancora in vita oppure no”.
“E voi? Come avete fatto a scampare dalla sciagura di diventare sua moglie?”.
Regina riprese a raccontare …
“Era una serata molto fredda e John, Principe John era appena stato incoronato come sovrano ad interim, dopotutto il regno aveva estremo bisogno di un monarca, anche se ne avrebbe meritato uno decisamente migliore di lui. Ero stanca, di tutte quelle cerimonie, di mia madre che non faceva altro che accomodarmi il vestito e di impormi di sorridere o di stare seduta con la schiena un po’ più dritta, così decisi di andarmene a riposare un pochino nella stanza degli ospiti che mi era stata riservata. Camminai nei corridoi bui, scortata per qualche manciata di passi da un’ancella, che ben presto mi abbandonò per andare a ciarlare con le altre. Entrai nella mia stanza e chiusi la porta, ma non a chiave, per fortuna non lo feci. Mi tolsi la tiara e sciolsi i capelli, erano molto lunghi, molto più di adesso e mi preparai per cambiarmi d’abito e indossare una camicia da notte o qualcosa di comodo per la notte, quando sentii una voce alle mie spalle …
“Non è necessario che voi facciate tutto da sola. Lasciate che vi dia una mano io …”.
Sentii le sue mani, le sue mani ossute sul mio giovane collo, era più vecchio di me, aveva già più di trent’anni allora.
“Non mi serve aiuto” risposi in un sussurro.
“Non dovreste essere timida con me mia cara, presto saremo marito e moglie, non vi dovreste allarmare”.
“Marito e moglie?” pensai, non riuscivo a capire che cosa mi stesse dicendo, ma ero più preoccupata di quello che aveva intenzione di fare.
Provai ad urlare, ma ben presto mi serrò le labbra, con le sue mani e sentii il suo fiato sul mio collo, cominciai a far rumore allora, a scalciare, a buttare per terra tutto ciò che fossi riuscita ad afferrare, scatole, lampade, il mio portagioie”.
Robin era sempre più turbato di fronte alle parole di Regina, avrebbe voluto interromperla ma non riusciva, lei era atterrita, spaventata, parlava come se stesse realmente rivivendo quei momenti terribili.
“Per fortuna le mie grida e il rumore provocato dalla caduta di tutti quegli oggetti, misero in allarme un uomo, un giovane stalliere del Re, che entrò nella stanza per cercare di capire cosa stesse accadendo e ci vide … - i suoi occhi si inondarono di lacrime – mi vide, vide i miei occhi disperati, che gridavano aiuto, che chiedevano pietà e mi soccorse. Allontanò il Re da me e mi ordinò di fuggire via, il più lontano possibile. Non me lo feci ripetere due volte e corsi da mia madre che, dopo aver udito tutta la storia, mi guardò dritta negli occhi e mi disse soltanto ‘Saresti dovuta essere la mia seconda chance, Regina, invece sei esattamente come tuo padre, una grandissima delusione’. Ce ne andammo quella notte stessa dal castello, John ci cacciò via a malo modo e fece lo stesso con Daniel, che rischiò anche di essere condannato a morte per avermi salvato da un destino crudele. Non raccontai nulla a mia madre e feci in modo che lei lo assumesse qualche tempo dopo come stalliere al nostro maniero, in modo che non fosse condannato ad una vita di stenti per avermi soccorsa e, ben presto, ci innamorammo l’uno dell’altra”.
Robin restò colpito dall’intera storia e dentro di sé l’odio che provava nei confronti del Re usurpatore John crebbe in maniera esponenziale.
“Che ne è stato di Daniel?” le domandò.
“Lui se n’è andato” disse Regina semplicemente, con un tono che non ammetteva repliche.
“Mi dispiace moltissimo, Regina, per tutte le sofferenze che vi sono state inflitte” nella sua voce si leggevano rabbia e comprensione al tempo stesso; rabbia perché se in quel momento si fosse trovato dinnanzi al Re, lo avrebbe affrontato con le sue mani, per vendicare ciò che aveva fatto a lei, comprensione perché di ora in ora si rendeva conto che lei non era cattiva, non del tutto almeno, ma che le circostanze, come tanti mattoncini, le avevano lastricato la strada verso la malvagità.
“Se il Principe John è ancora nei paraggi, non c’è alcun luogo in cui io possa dirmi al sicuro da lui, mi troverà e farà di tutto per vendicarsi del mio rifiuto”.
“C’è sempre casa mia” le disse l’uomo indicandole l’accampamento a cui erano appena arrivati.
“Non è un castello, ma suppongo che vada bene” gli disse lei riconoscente.
“Non ve ne andate allora? Le nostre strade allora non si separano?” chiese lui speranzoso.
“No, suppongo di no, non ora almeno”.
Il tatuaggio del leone era l’ultima delle sue preoccupazioni, Re John non avrebbe avuto pietà di lei se le loro strade si fossero incrociate.
“Papà” sentì improvvisamente.
Un bambino di tre, quattro anni al massimo saltò tra le braccia di Robin e lo abbracciò forte.
Forse lei non era l’unica ad avere dei segreti dopotutto.
 
NdA:
Spero che abbiate apprezzato il nuovo capitolo e gli ultimi colpi di scena e che vogliate condividere con me le vostre opinioni scrivendomi cosa ne pensate.
Al prossimo capitolo!
lulubellula
 
 

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Capitolo 8
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Finding true love (because everyone needs a happy ending)
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Regina rimase basita mentre osservava la scena che aveva dinnanzi agli occhi, non aveva assolutamente idea che Robin avesse un figlio, pensava che fosse uno scapolo incallito alla ricerca perenne di riccastri a cui svuotare le tasche, non di certo un paparino affettuoso e presente.
Le si strinse il cuore, era arrivata troppo tardi, l’effetto della polvere fatata non sarebbe potuto di certo durare per sempre, no?
Vide Robin abbracciare il bambino che gli era saltato al collo, le maniche della tunica a scivolargli mettendo in mostra un avambraccio abbronzato dal sole di molte estati, il tatuaggio del leone, il segno intangibile e incontrovertibile che era arrivata troppo tardi per essere felice.
Non rimase sconvolta del tutto di fronte all’evidenza, dopotutto, come a suo tempo le era stato detto che i cattivi non meritano un lieto fine.
Forse si meritava di trascorrere il resto dei suoi giorni da sola, forse era proprio questa la vita che si era costruita nel corso dei decenni: una vita di solitudine, disprezzata dagli altri che non avrebbero mai smesso di vedere in lei la Regina Cattiva, che non avrebbero mai smesso di vederla come quella donna che, in procinto di venire giustiziata di fronte a Biancaneve, al Principe e a suo padre Henry, non si pentiva minimamente della morte, della distruzione e delle sciagure che aveva fatto piovere a piene mani sui capi dei suoi odiatissimi sudditi.
“Papà” ripeté quello scricciolo ricciuto, stringendo forte a sé Robin.
Doveva essergli mancato davvero molto,  pensò Regina, sentendosi in colpa per aver tenuto lontano l’uomo da suo figlio per tutti quei giorni, per averlo tenuto lontano da sua moglie.
Il solo pensiero le risuonò come una stilettata al petto, perché pur non conoscendo bene l’uomo, né essendosi follemente innamorata di lui al primo istante, si era tuttavia illusa, illusa che un giorno lontano potesse esserci qualcosa che andasse oltre la semplice amicizia o la reciproca sopportazione.
Avrebbe dovuto aver più coraggio quella sera e forse le cose per lei sarebbero andate meglio, forse quello che stava stringendo ora Robin sarebbe stato figlio anche suo, un figlio loro …
Respinse quel pensiero malsano dalla mente, non era proprio il caso di ritrattare gli ultimi quarant’anni, perché nonostante tutti i supplizi subiti e fatti subire ad altri, quei quarant’anni di buio le avevano restituito il bene più prezioso che lei avesse mai posseduto nella sua intera esistenza: suo figlio Henry.
“Roland. Anche tu mi sei mancato, giovanotto. Dimmi, Little John e gli altri come si sono comportati? Sei riuscito a reggere il fortino come si deve durante la mia assenza?” chiese Robin, che non aveva occhi se non per il suo piccolo e forse, ma solo, forse per la donna che aveva al suo fianco.
Prese a fargli il solletico e il piccolo scoppiò in una risata contagiosa.
“Certo, papà, qui stiamo tutti bene e quel farlocco dello Sceriffo di Nottingham non è riuscito ad acchiapparci nemmeno stavolta”.
Robin sorrise: “Quante volte ti ho detto di non chiamarlo in quel modo, signorino, è forse il caso che faccia quattro chiacchiere con Little John?” domandò tra il serio e il divertito.
 Ma Roland non lo ascoltava più.
“Chi siete voi?” chiese incuriosito a Regina.
La donna restò qualche istante come inebetita, quel bambino era così simile a Henry da piccolo, gli occhi grandi, i capelli indomabili e un po’ arruffati, quelle manine così infantili e così dolci.
Le si strinse il cuore, a tal punto da farle male.
“Io sono Regina” disse semplicemente, senza sapere che altro aggiungere.
Roland si voltò ad osservare il padre in cerca di ulteriori delucidazioni.
“Regina e poi?” chiese dall’alto della sua ingenuità di bambino.
Lei non sapeva bene che altro dire.
Robin le venne in soccorso.
“Lei è Regina e starà con noi per un po’, vive in un reame molto lontano e ha bisogno di rimettersi in forze perché era molto ammalata quando ci siamo incontrati nella foresta”.
Roland sgranò gli occhi e osservò meglio Regina per capire che cosa non andasse in lei.
“Il tuo papà mi ha salvato la vita, Roland, avevo la febbre e una brutta ferita al fianco e lui mi ha curata finché non sono stata di nuovo in grado di camminare da sola e venire fin qui”.
Roland sorrise, aveva finalmente capito tutto o almeno credeva di aver afferrato completamente il nesso logico.
“Wow – esclamò – ora ho capito! Papà è stato un eroe! Come il Principe delle favole che salva la Principessa dalle streghe, dai draghi, dai trolls! Allora voi due vi sposerete?” chiese il piccolo con tutto il candore e l’innocenza di questo mondo e di quegli altri.
Robin scoppiò a ridere nervosamente, mentre Regina avrebbe tanto voluto evitare di rispondere, quel bambino era fin troppo curioso e acuto per essere solo un fanciullo di quattro anni.
Regina si schiarì la voce: “No, Robin, io e il tuo papà non ci sposeremo, lui poi è già impegnato con la tua mamm-”.
Furono interrotti da un Little John a dir poco furibondo.
“Allora è così che ci ripaghi, Robin! Dopo tutti questi anni passati a sfuggire al Principe John e ai suoi scagnozzi, ora ci porti lei!” gridò con la voce piena di disprezzo.
“Lei chi?” chiese innocentemente Roland, avvicinandosi a Regina.
“Stai lontano da lei, Roland, prima che ti faccia male o peggio ti strappi il cuore dal petto e lo stringa tra le sue mani insanguinate fino a ridurlo in polvere!”.
Roland si voltò a guardare la donna e rimase scioccato, non poteva essere una persona malvagia, sembrava così buona, così materna, così simile alla mamma che sognava gli rimboccasse le coperte prima di addormentarsi.
Regina era ferita, adirata, addolorata, la rabbia le scorreva a fiotti nelle vene, dal palmo della mano destra le fluì una sfera infuocata, sfera che prontamente spense dischiudendovi il palmo sinistro.
Aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai più usato la magia per ferire agli altri, ma soprattutto l’aveva promesso ad Henry e nonostante lui non fosse lì per vederla mantenere la parola data, questo non significava che non avrebbe cercato di mostrarsi quello che ora era: una donna in cerca di redenzione.
“Sì, ma lei chi è?” indicandola con le sue dita  grassocce.
“La Regina Cattiva!” gridò, preparandosi a ferirla, l’arco teso, una freccia pronta per essere scoccata nel cuore della donna.
“No!” gridò Robin frapponendosi tra lei e Little John.
Il labbro inferiore dell’uomo pronto ad attaccare si increspò per la stizza e l’ira.
“Cosa diavolo stai tentando di fare, Hood?” gli parlava come se non fossero migliori amici da anni, come se lui in quel momento fosse un estraneo, quasi un nemico.
Regina dal canto suo voleva scappare via, lontano, dall’accampamento, da Robin che aveva già un figlio e con buone probabilità una moglie che lo amava come lei non sarebbe mai stata in grado di fare, da un ridicolo arciere delle dimensioni di una montagna che sebbene non la conoscesse di persona, la additava come quello che in passato era stata, una donna cattiva, malvagia, senza cuore.
“Non azzardarti a farle del male, John, lei sarà nostra ospite e tu non le torcerai un capello, intesi? Forse una volta sarà anche stata la regina cattiva, ma ora è solo una donna innocente da proteggere, una di noi e io non permetterò che nessuno di voi – indicò la folla che si era radunata attorno a loro – né nessun altro le faccia del male. Quanti di voi non sono d’accordo con me possono anche andarsene, quella è la porta – indicò l’imbocco del sentiero che portava verso la Contea di Nottingham – tutti quelli che resteranno dovranno accettare la mia decisione”.
John lo guardò dritto negli occhi, due pozzi neri, ma che in fondo non erano in grado di odiare il suo amico fraterno, nemmeno ora che non riusciva a comprendere che cosa gli stesse passando per la testa.
Abbassò l’arco e rimise la freccia al suo posto.
“D’accordo, Robin, sia quello che dici tu, lo accetto, tuttavia non ti vorrai aspettare che, come d’incanto, io e lei diventiamo migliori amici, no?”.
Robin gli diede una pacca sulla spalla e sorrise.
“Sapevo che saresti stato ragionevole, vecchio mio, ora vieni qui, vieni a conoscere Regina”.
Little John e Regina erano reciprocamente titubanti ad approfondire la conoscenza, ma l’uomo protese la mano destra verso la donna e lei, seppure non ne avesse la minima intenzione, fece uno sforzo, e gliele strinse per qualche istante.
“I-io sono molto stanca, credo che farei meglio a riposare” disse lei, indossando una maschera di ghiaccio per impedirgli di leggerle la delusione e il dolore che le scorrevano negli occhi.
Essere senza Henry, nell’Inghilterra dei Re e dei feudatari, in un accampamento di villici che la avrebbero preferita veder ardere al rogo piuttosto che dividere le loro tende e i loro pasti con lei e Robin …
Robin non la avrebbe mai abbandonata a se stessa, l’avrebbe protetta con la sua stessa vita se solo fosse stato necessario ma che, per colpa della paura di Regina di trovare il vero amore la sera in cui Trilli le aveva rivelato la profezia, ora l’aveva trovato in un’altra.
“Certo – le rispose comprensivo l’uomo – venite, vi mostrerò il luogo dove potrete riposare un po’ e recuperare le forze. Seguitemi, Regina. Roland, tu resta con Little John e poi va a giocare con gli altri bambini”.
Roland annuì non del tutto convinto, nonostante la sfuriata del suo padrino, lui non riusciva a credere che Regina fosse cattiva.
Una donna con il sorriso così dolce e gli occhi così brillanti e belli non poteva essere una persona crudele e senza scrupoli.
Nelle favole le streghe e gli esseri malvagi erano brutti, vecchi e pieni di pustole, invece lei era bellissima, avevi gli occhi grandi e scuri come i suoi e dei capelli corvini che le ricadevano appena sopra le spalle e un sorriso buono.
Little John si sbagliava, doveva essersi confuso con qualcun’altra.
Regina e Robin si avviarono verso le tende, a qualche manciata di passi di distanza dal luogo in cui alcune donne erano intente a preparare quella che aveva tutta l’aria di essere una minestra di lardo e verdure.
“Mi dispiace, Regina, sono desolato. Non avrei mai pensato che Little John potesse reagire in un modo così sconsiderato nei vostri confronti”.
Regina parve non ascoltarlo, non le interessava quello che un villico qualunque pensasse di lei, era troppo preoccupata a pensare a come fare per tornare a Storybrooke e a come rivedere il suo ragazzino, per prestare ascolto alle parole dell’uomo.
“Eccoci, siamo arrivati” le indicò una tenda non molto grande ma nemmeno troppo angusta dove lei avrebbe potuto sistemarsi e riposare in quel giorno e nelle notti successive.
All’interno vi era una branda che aveva l’aria di essere incredibilmente scomoda, un tavolo con una gamba zoppa e uno specchio lievemente scheggiato ai bordi.
Regina entrò e diede un’occhiata, una lacrima solitaria le sfuggì colandole lungo il volto: se non fosse riuscita a trovare una via per tornare alla vita di prima, quello era esattamente il luogo e il tempo in cui le sarebbe toccato trascorrere il resto dei suoi giorni.
La tenda a rammentarle la grande casa in Mifflin Street in cui aveva cresciuto Henry, lo specchio a ricordarle un passato ancor più remoto che non aveva alcuna voglia di rammentare, il vuoto, la solitudine come monito e pena di una vita che dopotutto forse ora si meritava.
“Regina? Vi sentite bene?” le chiese preoccupato l’uomo.
Prese un respiro profondo, si asciugò gli occhi, si schiarì la voce e si voltò.
“Benissimo. Non potrebbe andare meglio”.
La sua voce era scarsamente convincente e il volto la tradiva persino di più, ma Robin non se la sentì di contraddirla e le disse solamente: “ Tra poco meno di un’ora sarà pronta la cena, non c’è molto, ma sarò, ehm, saremo lieti di condividerlo con voi. Dovreste anche lasciarmi dare un’occhiata alla vostra ferita, non vorrei che si fosse riaperta dopo questa giornata di cammino ed emozioni forti”.
Regina respirò profondamente e rifiutò con cortesia, ma fermezza sia il cibo che le cure.
“Penserò io stessa a medicarmi, dove posso trovare qualche benda pulita e un po’ di acqua calda?”.
“Vado a prendervele io - si offrì prontamente – aspettatemi qui”.
“Non vado da nessuna parte” rispose lei quasi in un sussurro.
Lui uscì dalla tenda e lei tirò un sospiro di sollievo, dischiuse al meglio la tela e si tolse la giacca, prima la manica destra, poi con maggiore attenzione la sinistra, sia la giacca che la camicia erano ormai logore, da buttare, solo che non sapeva cos’altro indossare visto che non aveva avuto né il tempo, né l’occasione di portare con sé il suo sterminato guardaroba quando era stata risucchiata da quel dannato vortice e si era ritrovata nella Foresta di Sherwood.
I suoi tacchi dodici, i tubini, la giacche, le gonne, i pantaloni con il taglio diritto e tutti i suoi amati accessori erano rimasti lì e sebbene non le mancassero nemmeno troppo, un cambio d’abito in più in quel momento le avrebbe fatto di certo comodo.
La ferita era ancora arrossata e non del tutto cicatrizzata, oltretutto ora si trovava nel luogo più impolverato ed anti igienico del mondo e doveva prestare particolare attenzione a non contrarre nessuna strana infezione che la condannasse ad ammalarsi di nuovo, anche perché era certa che gran parte dell’accampamento avrebbe fatto festa a vederla agonizzante in una branda arrugginita.
Scostò le coperte e il lenzuolo di iuta e si mise a letto, senza nemmeno togliersi la camicetta incrostata di polvere e sangue secco, senza nemmeno attendere che Robin arrivasse con l’acqua e le bende.
Era ormai l’imbrunire là fuori e quella sera non c’erano nemmeno le stelle, tutto appariva scuro, tutto appariva minaccioso e pieno di pericoli.
Gli abitanti di quel luogo si erano radunati attorno al fuoco per cenare insieme, c’erano delle grandi tavolate in legno, apparecchiate con ciotole di coccio e vi erano pagnotte di farina nera e frutta fresca appena colta.
Roland e gli altri bambini stavano già cenando quando passò di lì Robin Hood con bende e un secchio d’acqua calda, si avvicinò al figlioletto e gli scompigliò i capelli.
“Quando avrai finito di mangiare, mi raggiungerai alla tenda, d’accordo, ometto?” gli scompigliò i capelli.
Il bambino alzò gli occhi verso di lui e gli sorrise.
“Certo, papà. Regina non cena con noi?”.
“Magari ci raggiungerà dopo” rispose suo padre, afferrando del pane e una fetta di formaggio e addentandone un morso, allontanandosi.
L’uomo si incamminò verso la tenda della donna, che si trovava proprio a fianco della sua e chiamò la donna a voce bassa.
Non sentendo risposta, entrò timidamente e non vide nessuno, finchè il suo sguardo non si posò sulla branda e la vide.
La donna dormiva, il respiro leggero e regolare, il volto pallido e i capelli che le ricadevano sul cuscino.
Sorrise.
Regina doveva essere molto stanca ed era crollata in un sonno profondo senza aver però toccato cibo in tutta la giornata.
Si avvicinò a lei, era tentato di svegliarla, sapeva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa per rimettersi completamente in forze e riuscire a trovare il modo per tornare nel suo mondo.
Non lo fece però, lei dormiva in un modo tanto angelico e tranquillo, che non se la sentì di strapparla ai suoi sogni per riportarla alla cruda e triste realtà, nella quale un secondo sì e uno no c’era qualcuno pronto a ferirla per il suo passato o qualcosa a ricordarle il presente a cui aveva dovuto dire addio.
Uscì dalla tenda e si sedette fuori sull’erba, la schiena contro la nuova casa di Regina, prese il pane e il formaggio e finì di cenare in modo frugale, aspettando il ritorno del figlioletto.
“Papà!” gridò Roland, di ritorno dalla cena.
“Shsh! Piccoletto” lo zittì dolcemente.
“Che c’è?” chiese incuriosito.
“Non urlare, lì dentro c’è Regina che sta dormendo” indicò la tenda.
“Non vuoi svegliarla, vero, papà? Anche se, lo sai come va a finire nelle storie del mio libro …”.
“E sentiamo, piccoletto, come va a finire?”.
“Che la bella principessa viene svegliata dal suo principe e loro due vivono per sempre felici e contenti” rispose lui con aria sognante.
Robin rimase sconvolto dalle parole del figlio.
“Che c’entra, Roland? Regina non è una principessa che ha bisogno di essere svegliata da una Maledizione”.
“E allora, nemmeno tu sei un principe, papà!” gli fece notare il piccolo.
“Dunque?” chiese Robin sempre più confuso e turbato.
“Dunque, ho sonno, andiamo a dormire anche noi. Però prima posso dare un bacio io a Regina?”.
“Non hai paura di lei? Nemmeno dopo le parole che ha detto Little John?”.
Robin sapeva che suo figlio si fidava ciecamente del suo migliore amico.
“No, perché lui si sbaglia! Regina non è cattiva, lei ha gli occhi buoni ma anche tristi. Dici che potrei provare a farla sorridere?”.
“Certo, Roland, dovresti proprio farlo. Vai a darle un bacio e poi corri a dormire”.
Il bambino non se lo fece ripetere due volte, entrò nella tenda e diede un bacio sulla guancia a Regina e poi sgattaiolò fuori correndo.
“Allora? Si è svegliata la tua Principessa, piccolo?”.
“Guarda che lei non è mica la mia Principessa, papà!” rispose convinto.
“Ah, no?”.
“No, Regina è la tua principessa!” disse senza fiato, lasciando suo padre sconvolto, ma in fondo piacevolmente sorpreso.
 

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Capitolo 9
*** Blood ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)
Blood

 
Regina si svegliò di soprassalto poche ore dopo, era a malapena mattina e, uscita dalla tenda, vide l’alba e i suoi colori, il rosso e l’arancio che si stavano schiarendo e perdendosi in quello che sarebbe pian piano diventato un azzurro tenue, circondato da qualche pennellata di bianco, le nuvole.
Si sgranchì, probabilmente gli altri stavano ancora dormendo e non li voleva svegliare, non dopo il benvenuto furioso che aveva ricevuto il giorno precedente da Little John e che, con buona probabilità, era condiviso anche da molti altri.
Gli unici che non sembravano pensarla allo stesso modo erano Robin Hood e il suo dolcissimo figlioletto Roland.
Quel bambino era così piccolo e fragile ai suoi occhi, così bisognoso di cure materne, cure che di certo la moglie di Robin non gli avrebbe mai fatto mancare.
Eppure è strano, pensò, non c’era traccia della donna nei dintorni, né Robin gliel’aveva ancora presentata.
Forse era presto per nuove presentazioni, di sicuro l’avrebbe incontrata quanto prima.
Si immaginava una donna forte, nobile e fiera, del resto era pur sempre stata la promessa sposa di quello scellerato del Duca di Nottingham, una delle persone più noiose e untuose che le fosse mai capitato di incontrare.
Strano, pensò, una nobile che rifugge agli agi e alle ricchezze per inseguire il vero amore, nel bel mezzo della foresta con un taccheggiatore dal sorriso estremamente seducente.
Non era di certo da tutte, si disse, quella Marian doveva essere di certo una donna che sapeva il fatto suo.
Regina prese a camminare, persa nei suoi pensieri, finché noto che non era l’unica ad essere sveglia di prima mattina.
Robin.
Anche lui era in piedi, abbigliato in quel buffo modo, calzoni, quasi una calzamaglia a dir la verità, verde muschio e un mantello più pesante appoggiato sulle spalle che gli ricadeva fin sopra i polpacci.
Aveva qualcosa con sé.
“Fiori” mormorò la donna tra sé e sé, ogni stelo e ogni petalo come una coltellata al petto, al cuore, e anche se non sapeva come né perché, anche se sapeva sin da principio come stessero le cose, sentì una profonda, forte, pungente sensazione di gelosia.
Si ritrovò a seguirlo, malgrado il buonsenso, malgrado la sua nomea di Regina Cattiva e tutto il resto, lei si ritrovò a distanziarlo quanto bastava a non farsi scoprire da lui.
Voleva proprio vedere che direzione lui stesse prendendo, dubitava che sua moglie si trovasse molto lontano da lì.
Che avesse forse un’altra donna ancora?
No, si disse, non era un mascalzone dopotutto, le era sembrato sin da subito un uomo sincero e leale, una persona meritevole di fiducia, persino della sua.
Camminarono per una manciata di minuti in silenzio, l’uno quasi raccolto nel suo cammino, l’altra silente per ovvi motivi, non era proprio il caso di fare la figura della ficcanaso, non dopo il debito di riconoscenza che aveva contratto nei suoi confronti.
Si inoltrarono ulteriormente nel folto del bosco, la foresta di Sherwood pareva essere un labirinto intricato alle volte, gli alberi si assomigliavano tutti, i sentieri anche; avrebbe dovuto far attenzione a non perderlo di vista perché smarrirsi in quel luogo era davvero semplicissimo.
Ad un certo punto lui si fermò, si inginocchiò nel bel mezzo di una piccola radura e si portò le mani alla testa, come raccogliendosi su se stesso.
Appoggiò i fiori variopinti su quella che aveva tutta l’aria di essere il luogo dell’ultimo riposo di una persona a lui cara.
“Oddio!” pensò Regina, realizzando di colpo il tutto.
Sua moglie non c’era più e Roland era orfano di madre.
Le si strinse il cuore, pensando a quel dolcissimo e vivace fanciullino che le aveva dipinto un sorriso sulle labbra sin da subito.
Fece per andarsene via nel modo più silenzioso possibile, ma, suo malgrado, pose il piede su un ramo secco, che si spezzò con un rumore sordo.
L’uomo si alzò immediatamente in piedi e fu lesto a recuperare una freccia, pronto a scoccarla contro il malintenzionato di turno: il suo accampamento doveva restare nascosto allo Sceriffo di Nottingham e ai suoi bravacci.
Regina soffocò un moto di paura, aveva timore che l’uomo l’avrebbe attaccata e che fosse offeso dalla sua presenza.
Si fece tuttavia coraggio e avanzò di qualche passo.
“Sono solo io, Regina, mi dispiace di avervi fatto spaventare. Io … non avrei dovuto, mi dispiace, ho sbagliato” fece per andarsene via, ma l’uomo la prese per un lembo della giacca.
“Regina, non vi preoccupate! Sono lieto di vedere che non siate uno degli scagnozzi del Re che vogliono farmi la pelle un giorno sì e l’altro pure. Siete una piacevolissima visione in confronto a loro” fece un leggero inchino.
“Questi inglesi- pensò lei – con tutti i loro modi e le loro cerimonie!” ma in fondo ne era piacevolmente colpita e anche se non l’avrebbe ammesso mai e poi mai, a maggior ragione a se stessa, ne rimase lusingata.
“Io mi sono alzata presto – disse lei per giustificarsi – e avevo bisogno di un po’ di spazio per respirare in santa pace, soprattutto dopo ieri. Non stavo seguendoti, cercavo solo di non perdermi in questa foresta infinita”.
Robin sorrise, a quanto sembrava Regina lo stava seguendo eccome!
“No, certo che non mi stavate seguendo – iniziò – Capisco che voi abbiate avuto bisogno di una pausa da tutti i trambusti di ieri e mi scuso ancora con voi per il comportamento riprovevole di Little John. Non aveva alcun diritto di attaccarvi in quel modo, siete un’ospite qui, non un ostaggio, non una prigioniera, Regina” disse sottolineando con una dolcezza il nome della donna.
“Stavate cercando qualcuno?” chiese Regina, felice di cambiare argomento e di saperne di più della vita dell’uomo, ma cercando di avere quanto più tatto possibile, visto che la situazione lo richiedeva.
Robin abbassò lievemente il capo e annuì.
“Sono venuto a trovare qualcuno, qualcuno che non c’è più”.
Regina si sentì in profondo imbarazzo e si pentì amaramente di averglielo chiesto.
“Scusatemi, non avrei mai dovuto permettermi di chiedervi nulla. Sono cose private, cose vostre”.
“No, avete fatto bene, venite con me – le porse la sua mano destra – vi voglio presentare a qualcuno”.
Regina gli strinse la mano, la stessa sul cui polso aveva il tatuaggio, quello del leone, sentì come una scossa, come se un flusso di elettricità le avesse percorso il corpo, cercò di sciogliere la presa ma Robin la strinse a sé e non la lasciò scappare via.
Lei lo lasciò fare e si lasciò condurre da lui nel piccolo cimitero.
“Questo è il luogo in cui mia moglie riposa in pace da quattro anni ormai. Regina, lei è Marian, l’amore della mia vita e la madre di Roland”.
Regina si sentì come morire di fronte a quelle parole, l’amore della sua vita, Trilli aveva ragione, lei era davvero arrivata troppo tardi.
Una lacrima le sfuggì dagli occhi e le scivolò lungo le guance.
“Vi siete commossa, Milady” le chiese Robin incuriosito e anche un po’ preoccupato.
Regina parve non ascoltarlo.
“Devo andare, non avrei dovuto, è stato uno sbaglio. Mi dispiace, mi dispiace per tutto”.
Iniziò a correre via, tutto ciò che aveva scoperto quella mattina era troppo, troppo da sopportare.
Aveva già sofferto abbastanza, non poteva permettere che succedesse di nuovo: conoscere qualcuno, innamorarsi, fare dei progetti con lui e poi dover sopravvivere alla sua perdita.
Il suo cuore non avrebbe retto, non un’altra volta.
Non hai solo rovinato la tua vita, hai distrutto anche la sua.
Le parole di Trilli le ronzavano nella testa, nelle orecchie: doveva fermarsi, tutto si stava facendo sfocato, confuso.
Si tocco la fronte, madida di sudore e calda, la febbre era tornata, avrebbe fatto meglio a starsene a letto e a riprendersi del tutto.
L’unico a cui forse sarebbe importato qualcosa del suo stato di salute era probabilmente Robin, gli altri, Little John tra i primi, avrebbero banchettato sulla sua tomba se solo fosse stato loro possibile.
Si sedette per terra, la schiena appoggiata contro le fronde di un vecchio abete.
Iniziò a respirare in modo più regolare, sentiva il cuore batterle veloce nel petto, le pulsazioni sembravano essere schizzate a mille.
Chiuse gli occhi.
Iniziò a piangere senza alcun ritegno, le lacrime le sgorgavano copiose lungo le guance pallide e smunte, erano come un fiume in piena dopo un lungo periodo di siccità, scorrevano e portavano con sé tutto ciò che trovavano lungo il percorso: il rimorso, la paura, la nostalgia, il suo passato oscuro, Daniel e ora Robin, tutta quest’amalgama di emozioni stava tuonandole nel cuore, come un temporale improvviso e rovinoso di mezz’estate.
Sentiva Robin chiamarla in lontananza, ma non rispose, non avrebbe saputo cosa dirgli, non avrebbe saputo come prenderlo, né spiegargli la ragione del suo gesto.
Si portò una mano al fianco sinistro, non vi dava un’occhiata da due giorni, né l’aveva medicato, cambiando la benda sporca con una pulita.
Con buona probabilità la febbre era dovuta a questo: l’infezione non si era arrestata e la ferita stava peggiorando a vista d’occhio.
Si tolse la giacca a fatica.
Era stata così stupida nei giorni precedenti a spingere il suo corpo ben oltre le proprie possibilità e forze; prima le sette miglia per giungere sin lì, poi seguire Robin nel folto del bosco … per cosa poi?
Strinse i denti, le lacrime a scenderle per il dolore fisico provato questa volta.
La stoffa di cotone di cui era composta la benda aveva aderito completamente alla pelle e si era quasi unita a lei, dovette respirare, farsi coraggio e staccarla con decisione.
La ferita era rossastra e le abrasioni ai bordi non avevano per niente un bell’aspetto.
Che cosa si aspettava dopotutto? Che sarebbe rimarginata come per magia?
 
Le forze la stavano abbandonando definitivamente, aveva zittito i segnali di sfinimento del suo corpo troppe volte ormai, anche quella mattina, ma aveva finto di non sentirli e si era cocciutamente recata a spiare il ladruncolo.
Respirò e decise di attendere qualche minuto, provò a reggersi in piedi e ci riuscì a malapena; si guardò attorno e trovò un bastone al quale appoggiarsi per tornare indietro all’accampamento, anche se era quasi del tutto certa che non sarebbe riuscita a fare ritorno sulle sue gambe.
Prese a camminare, un passo avanti all’altro, destra, sinistra, di nuovo destra e poi sinistra.
Le ginocchia le tremavano, aveva la gola arsa e non aveva acqua con sé, né si era preoccupata di ingerire cibo nelle ultime ventiquattro ore.
Era stremata, era distrutta, a pezzi.
Daniel era morto, Robin era vedovo e innamorato per sempre di una donna che aveva avuto il coraggio di correre incontro al suo lieto fine.
Una volta che hai perso la tua anima gemella, è persa per sempre.
Le risuonavano nella mente le parole pronunciate da David molto tempo prima.
Perso.
Per.
Sempre.
Poi tutto si fece buio.
 
Robin continuò a chiamarla e a cercarla per parecchi minuti, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte.
La foresta di Sherwood era sterminata, ettari e ettari di vegetazione a perdita d’occhio, sarebbe stato impossibile per un uomo solo, setacciarla palmo a palmo.
“Forse è tornata verso l’accampamento” si disse, fiducioso di poterla ritrovare lì o magari nella sua tenda, rifece ritorno dai suoi.
Impiegò poco più di una decina di minuti, arrivò quasi correndo dinnanzi al focolare e Roland gli corse incontro, contento di vedere il suo papà.
“Papà”.
“Ehi, piccolo. Hai visto Regina?”.
“No, papà. Perché? L’hai forse persa?” domandò il piccolo incuriosito e spaventato.
“Forse è solo qui intorno, vai a fare colazione con gli altri, poi ti raggiungo”.
Si diresse verso la tenda di Regina, sperando di trovarla lì, ma la trovò vuota, il letto sfatto e le lenzuola macchiate di sangue.
Si preoccupò, non era per niente un buon segno, sperava che la ferita al fianco fosse guarita e si maledisse per non aver insistito di più la sera prima affinché lei si lasciasse medicare.
Era troppo testarda e orgogliosa!
Troppo testarda e orgogliosa!
Strinse i pugni e prese con sé lo stretto necessario per curarla nel caso si fosse sentita male, acqua, cibo e frecce per ogni evenienza.
Si avvio verso le stalle in cerca del suo cavallo e lì vi trovò anche Little John.
“Robin. Sembri sconvolto. Qualcosa non va?”.
“Regina”.
Little John gli lanciò un’occhiata di disapprovazione.
“Lo sapevo che quella donna sarebbe stata una fonte di guai e nient’altro. Che ha combinato stavolta?” gli chiese senza nascondere tutta l’antipatia che covava nei confronti della regina.
“No, non si tratta di questo. Regina è scomparsa, era nella foresta con me e, ad un tratto è fuggita, non si trova più”.
“Un problema in meno per noi quindi. Avrà di sicuro tagliato la corda” sentenziò.
“Little John! Non ti permettere mai più di parlare di lei in quel modo! Regina è ferita, sta male ed è dispersa chissà dove a Sherwood! Ora  levati di mezzo e fammi prendere il cavallo perché non ho nessunissima intenzione che le accada qualcosa di male e non mi importa minimamente se tu non approvi!”.
Little John lo lasciò passare, rimase basito di fronte alle parole dell’amico, non lo vedeva in quello stato da quando era andato dall’Oscuro a rubare la bacchetta magica per salvare la sua Marian.
“Vuoi che venga con te?”.
“No, occupati di Roland, potrei stare via un bel po’, ma non preoccuparti, so badare a me stesso”.
L’uomo annuì.
“Ora vado”.
Salì a cavallo, ripercorse l’accampamento e si inoltrò nei boschi.
Era metà mattina, quasi mezzogiorno ormai, oltre due ore da quando aveva incominciato a cercarla e ancora non vi era alcuna traccia di lei in nessun luogo.
Decise di legare il suo destriero ad un albero e di proseguire a piedi per cercare qualche traccia in modo più agevole e accurato.
Camminò ancora, ancora e ancora, finché non notò un particolare che lo lasciò quasi tramortito: la giacca di Regina, lei la indossava sempre e, poco più in là delle bende macchiate di sangue, il suo.
Non poteva di certo essere lontana, visto che era ferita.
Sperò in cuor suo che le belve feroci che si nascondevano nella foresta non l’avessero attaccata, sedotte dall’odore del suo sangue.
Riprese a camminare, era sconvolto, la preoccupazione si era accresciuta esponenzialmente tanto che era divenuta vera e propria disperazione.
Poi, finalmente, la vide.
Era distesa per terra in posizione fetale, sembrava che dormisse.
Sembrava.
“Ti prego, fa che sia viva, fa che sia viva” mormorò l’uomo a tutti e a nessuno in particolare.
Si gettò a terra, incurante della terra che gli imbrattava le vesti, si avvicinò a lei e la prese tra le braccia.
Era fuoco ed era ghiaccio.
La fronte scottava, mani e piedi sembravano invece congelati, le labbra quasi blu.
Tirava vento, un vento forte e crudele.
Erano ore che se ne stava in balia del freddo.
Si fece coraggio e avvicinò la sua fronte al petto della donna: respirava ancora.
Piano, con dolcezza, si avvicinò a lei e la strinse a sé, una lacrima gli cadde dal volto e le finì sul collo.
Baciò le sue labbra nella speranza di riuscire a risvegliarla, a guarirla, a rivederla sorridere.
Non accadde nulla.
Non era sotto l’incantesimo di una qualche strega cattiva.
Lei era la Regina, lei era stata cattiva.
Lei stava morendo tra le sue braccia e lui non poteva farci nulla.
Poteva solo sentire la vita della donna che stava scivolandogli tra le dita.
Si sentì inutile, si sentì impotente, la prese tra le braccia e la strinse ancora più forte a sé.
Lei parve risvegliarsi.
Era debole, ma tentò di parlare.
“R-Robin”.
Lui prese a piangere, poi a sorridere.
“Regina? Come ti senti?”.
“S-sto morendo, non manca molto. Non credo che vedrò nascere un nuovo giorno” iniziò a mancarle il respiro, ma si sforzò di sorridergli debolmente.
“N-no, non è vero! Non puoi! Io … io non ti permetterò di lasciarmi da solo”.
“Non sentirai la mia mancanza, mi conosci solo da una manciata di giorni. La tua vita riprenderà a scorrere come prima, ti dimenticherai presto di me”.
“No, anche se non ti conosco da molto, io sento, non so come spiegartelo, io provo dei sentimenti profondi nei tuo confronti. Io, io ti amo, Regina”.
La donna gli sorrise e gli disse: “I cattivi non si meritano un lieto fine, Robin. Sono pronta a saldare il mio debito, sono pronta ad andarmene”.
“No! Dev’esserci un modo! Io voglio salvarti, voglio che tu viva!”.
Regina prese fiato e rispose: “Il lago di Nostos”.
“Cosa ?”
“Le sue acque hanno poteri curativi. Se vuoi salvarmi, mi devi portare lì, si trova a mezza giornata di viaggio da qui. Ma, Robin, questa è una scommessa con il destino, nulla ti dice che io sia ancora in vita quando arriveremo sulle sue sponde”.
Robin la prese tra le braccia, la fece salire a cavallo e salì a sua volta.
“Cerca di resistere e di tenerti aggrappata a me, se dovessi sentire che le tue forze vengano meno, avvertimi, che ti legherò a me per non farti cadere da cavallo. Viaggeremo il più velocemente possibile, spingerò il mio destriero oltre le sue possibilità per salvarti la vita”.
Regina si strinse a lui, le sue braccia ad intrecciarsi alla vita di Robin, lui le strinse a sé e si voltò a baciare la fronte della compagna di viaggio.
Regina rimase senza parole, Robin incitò il cavallo alla corsa.
“Tenetevi forte, Milady, stiamo andando a riprenderci il vostro lieto fine!”.
 
NdA:
Vi è piaciuto il nuovo capitolo?
Fatemelo sapere con una recensione J
Alla prossima settimana
lulubellula
 
 
 

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Capitolo 10
*** Lake ***


Finding true love (because everyone needs a happy ending)

Lake

 
Regina respirava faticosamente mentre il paesaggio circostante si ripeteva, alberi, foreste, animali selvatici, di nuovo alberi.
Robin incitava il cavallo alla corsa, lo spronava affinché galoppasse il più velocemente possibile, la sua preoccupazione per le condizioni della donna si leggeva sul suo volto, nei suoi occhi, stanchi, nelle prime rughe che gli si stavano disegnando sulla fronte dipinta dal sole di molte giornate trascorse all’aperto.
Sentiva sui suoi fianchi e poi più avanti, all’altezza dello stomaco, che la presa della donna si faceva di minuto in minuto sempre meno salda, sempre meno convinta, si preoccupò di far rallentare la corsa del cavallo per qualche istante, per farlo rifocillare e per controllare che Regina fosse ancora cosciente e che stesse resistendo a quell’ultimo tentativo folle di salvarle la vita, nonostante lei non avesse più né la voglia né le forze per lottare contro l’incedere inesorabile della sua malattia.
Il destriero si fermò e Robin si voltò verso la donna che aveva gli occhi a malapena aperti, le labbra quasi bianche e il respiro corto e affannoso.
Scese da cavallo, tenendola a sé affinché non cadesse a terra e poi la prese tra le braccia e l’adagiò delicatamente al suolo.
Lei parve come ridestarsi brevemente dal suo torpore malsano, aprendo un po’ di più gli occhi e lottando contro la pesantezza delle palpebre; fece fatica a mettere a fuoco ciò che le stava attorno, tentò e ritentò tuttavia di concentrare la sua attenzione su Robin Hood.
“R-Robin” gli disse debolmente, la fronte perlata di goccioline di sudore freddo, il dolore al fianco che gli era penetrato sin dentro la carne, che si mescolava al suo sangue, le si insediava nelle ossa, le faceva ronzare le orecchie.
Robin le si avvicinò.
“Shh, non affaticatevi, Milady, risparmiate le forze per la seconda parte del viaggio, ecco, tenete dell’acqua e bevetene qualche sorso, avete bisogno di idratarvi”.
Avvicinò la borraccia all’altezza delle labbra di Regina e lei bevve qualche piccolo sorso a fatica, poi prese a tossire e venne colta da brividi profondi che le scuotevano il corpo.
Robin si tolse la casacca e la pose attorno alla fanciulla, stringendola in un abbraccio di stoffe per tenerla al caldo, una lacrima gli cadde veloce dagli occhi, scivolando sul volto della giovane.
Si sentiva così inutile, così impotente, sapeva che non sarebbero mai arrivati in tempo al lago di Nostos, lo sentiva nel profondo del suo cuore e la sua mente non faceva che dipingergli immagini atroci e piene di dolore di un futuro che si avviava a divenire un triste presente.
Regina riaprì di nuovo gli occhi e, con le dita, asciugò la lacrima dell’uomo dal volto pallido, poi avvicinò le sue mani fredde come la neve al viso di Robin e iniziò ad accarezzarglielo dolcemente.
“Non piangere, Hood! Il regno della regina cattiva sta per finire, si udiranno grida di gaudio e di gioia dopo che me ne sarò andata” disse con tutta la fierezza e l’orgoglio di una donna che aveva conosciuto troppa solitudine e troppe poche gioie nel corso della sua esistenza.
“Smetterò di piangere perché ora risaliremo a cavallo e farò l’impossibile per arrivare al lago con voi, non ci sarà bisogno di piangere, perché non permetterò a niente e a nessuno di separarmi da voi” rispose con un tono dolce ma tuttavia fermo, che non ammetteva repliche.
Se non fosse stato per via della febbre e della spossatezza, la donna avrebbe risposto in qualche modo a Robin, ma non lo fece, si limitò a lasciarsi prendere tra le braccia e salire a cavallo con l’aiuto dell’uomo.
Robin, salito a sua volta a cavallo, prese una striscia di stoffa piuttosto resistente e ne porse parte alla donna.
“Legatevi questa stoffa attorno ai fianchi e poi a me, di modo che anche quando sarete troppo stanca per tenervi forte, non vi accada nulla di male, ma restiate saldamente stretta a me sino a quando arriveremo al lago”.
Regina la prese e fece esattamente quando le aveva detto Robin, sentì come una sorta di elettricità scorrerle tra le dita quando le intrecciò all’altezza del ventre dell’uomo, che in risposta intrecciò le sue, ruvide e abbronzate a quelle chiare e affusolate di lei.
Lei sospirò, ma non si ritrasse, lui incitò nuovamente il destriero alla corsa, il quale, rinvigorito per essersi rifocillato e riposato, ripartì più veloce della luce, mentre colori tenui e rosseggianti stavano iniziando a mischiarsi all’orizzonte: il tramonto era più che mai vicino e i granelli di sabbia nella clessidra più che mai prossimi ad estinguersi.
Non c’era tempo da perdere!
Lei respirava ad intervalli talvolta irregolari, talvolta no, soffocando lacrime di dolore perché la ferita le faceva di minuto in minuto sempre più male e a volte era davvero difficile sopportare tanta sofferenza e tanta paura di morire senza aver rivisto per un’ultima volta il suo Henry che, tacere tutte queste emozioni sembrava del tutto impossibile.
Quando tutti questi timori albergavano forte nel suo cuore e non parevano volersene andare via, lei si aggrappava ancor più saldamente a Robin, per far sì che la sua vicinanza fisica annullasse le sue paure, che il contatto di un corpo caldo accanto al suo, un momento bollente e l’altro di ghiaccio, riuscisse a ridarle tepore e speranza che avrebbe potuto veder sorgere il sole anche l’indomani e nei giorni a venire.
Robin, dal canto suo, sebbene fosse stato colto alla sprovvista di fronte a quell’abbraccio che era qualcosa di più di una semplice stretta tra amici e qualcosa di meno del tocco di due amanti, non poté fare a meno di sentirsi ancora più motivato a correre sempre più veloce verso le rive del lago di Nostos per salvare Regina.
Sapeva che l’avrebbe fatto per chiunque, che la vita di un essere umano, anche del più abbietto, meritava di essere custodita e preservata al pari di una pietra preziosa e rara, tuttavia, sentiva che quello che stava facendo per lei, rappresentava qualcosa di più.
Anche se non riusciva ancora a dirlo a voce alta, anche se aveva iniziato da poco ad ammetterlo persino con se stesso, lui si era innamorato di lei.
Amava il suo volto, anche quando era stanca, l’espressione corrucciata dipinta nei suoi occhi e sulle sue labbra e le sue labbra, così rosse, come dei boccioli di rosa, adorava il modo in cui si intravedeva quella piccola cicatrice quando lei sorrideva.
Perché aveva passato molto tempo a rabbuiarsi in quei giorni, chiusa in se stessa, ma la prima volta in cui l’aveva vista ridere e sorridere in modo genuino, al suo ritorno dal torrentello con i vestiti bagnati, ricordava di aver pensato che avrebbe passato l’intero pomeriggio a buttarsi in acqua fingendo di cadere nei modi più maldestri solo per rivedere ancora il brillio dei suoi occhi, il candore dei suoi denti regolari, per risentire la sua risata argentina risuonare nell’aria.
No, si disse, non avrebbe fatto il necessario per salvarle la vita, avrebbe fatto di più, molto di più, perché la sua perdita non avrebbe rovinato irrimediabilmente solo la vita della regina, ma anche la sua.
E anche se si conoscevano solo da una manciata di giorni, quando la guardava, aveva come l’impressione che loro due si conoscessero da sempre, come se si fossero già trovati anni e anni prima nello stesso luogo o perlomeno nelle vicinanze e non avessero avuto l’occasione di presentarsi.
Come due anime perdute legate da un filo invisibile, che presto o tardi, erano del tutto destinate a ricongiungersi e trovarsi.
Perché se c’era qualcosa che lui aveva compreso dalla sua esperienza di vita era che spesso le seconde chance sono di gran lunga più emozionanti delle prime, perché sono quelle che accadono quando siamo con il morale a terra, quando non ce lo aspettiamo più.
Robin continuò a cavalcare attraversando a gran velocità foreste, valichi montani, persino una palude fangosa, finché, finalmente, verso l’imbrunire raggiunsero il lago di Nostos.
Le rive del lago erano quasi asciutte, vi erano solo poche pozzanghere d’acqua qua e là, che rimandavano ad un passato in cui le acque erano fresche e zampillanti, prima che David le facesse prosciugare dopo aver ucciso la sirena, prima che Cora le rifacesse sgorgare per poi lasciarle a loro stesse a seccarsi.
Regina respirava a fatica, la fronte era bollente, il volto cereo e coperto d’un sudore malsano, le labbra si erano fatte chiare e asciutte, il corpo era scosso da brividi febbrili.
Robin la fece scendere da cavallo, tenendola tra le sue braccia forti ma sfinite, poi l’adagiò sullo spiazzo antistante al lago e le disse con voce disperata: “Ci siamo quasi, Milady, dovete solo resistere pochi istanti e poi tutto sarà finito, starete di nuovo bene, non vi lascerò morire in questo modo orribile”.
Regina per tutta risposta scosse il capo leggermente, non riusciva a tenere gli occhi aperti, né a proferire parola, stava troppo male ormai per fare qualunque cosa le richiedesse il minimo sforzo fisico o mentale.
Robin si allontanò da lei e corse verso la pozzanghera più profonda, nella quale l’acqua era meno scura e più limpida e riempì la borraccia con poco più di due sorsi d’acqua, sperando in cuor suo che sarebbero bastati a salvarle la vita.
Di corsa, fece il tragitto contrario e, arrivato vicino a Regina, si inginocchiò di fianco a lei, le sollevò il busto, tenendole la testa sollevata e la fece bere quell’acqua dai poteri miracolosi.
Nell’immediato non accadde nulla, i secondi scorrevano lentissimi e Robin non riusciva a sopportare l’attesa, non riusciva a pensare che forse era arrivato troppo tardi, che Regina, la donna che sentiva di amare, si fosse già spenta, portata via da una febbre troppo forte e troppo crudele.
Poi avvenne il miracolo: Regina prese a tossire e poi ad inspirare e ad espirare con forza, come si fa quando si è stati sul punto di annegare e finalmente si percepisce di nuovo l’ossigeno,
Le sue labbra e il suo volto ripresero colore e la ferita al fianco era sparita, nemmeno una cicatrice avrebbe potuto testimoniare la sua esistenza.
L’uomo riprese a respirare normalmente e la abbracciò, cingendole i fianchi e le spalle con dolcezza e attirandola sempre di più a sé.
La donna lo lasciò fare per qualche istante, incredula per il fatto di essere ancora viva e di sentirsi bene, incredula per la stretta di Robin, che sembrava non la volesse più lasciare andare.
“Siete salva” mormorò in un sussurrò, allentando per un attimo la presa e guardandola dritta negli occhi, come se fosse una pietra preziosa, un tesoro raro e introvabile, un paesaggio mozzafiato del quale non aveva la minima intenzione di perdersi nemmeno un particolare, neppure il più insignificante.
Regina gli sorrise, nessuno aveva mai fatto tanto, nessuno si era mai spinto sino a quel punto per lei, per salvarle la vita, tantomeno qualcuno che la conosceva da così poco tempo e che sapeva tutto dei suoi trascorsi da regina cattiva.
Ma lui non era un uomo qualunque, lui, secondo la profezia pronunciata da Trilli, era il suo vero amore, la sua anima gemella, la sua seconda chance.
Animata da tutti questi pensieri che le vorticavano velocemente nella testa, Regina avvicinò il suo volto a quello dell’uomo e prese ad accarezzargli dolcemente le guance con le dita, poi annullò la distanza tra le sue labbra e quelle di Robin e lo baciò.
Lo baciò in modo dolce, ma passionale, era un bacio che racchiudeva una tale portata di sentimenti e di emozioni, il cuore di entrambi era in totale disordine, in totale balia di battiti troppo accelerati e quasi asincroni, finché non trovò l’accordo perfetto, quello che avrebbe fatto capir loro che erano davvero destinati a stare insieme per sempre, giorno dopo giorno, ora dopo ora, anno dopo anno.
 Fu in quel momento che i loro battiti si accordarono e i loro cuori presero a intonare la stessa sinfonia, perché quando trovi la tua anima gemella non puoi far altro che arrenderti all’evidenza dei fatti e a seguire lo stesso ritmo, il ritmo di due cuori che finalmente hanno trovato la loro ragione per battere, insieme.
 
E tutto questo avrebbe portato delle conseguenze nella loro vita, delle conseguenze anche sconvolgenti, ma ciò non era importante in quel momento, in quell’istante c’erano solo loro due, loro due che si amavano e Regina che era salva, tutte le conseguenze dei loro gesti, presenti e futuri, non erano un problema per loro, almeno non in quel frangente.
 
NdA:
Ecco qui il nuovo capitolo, scusate l’aggiornamento tardivo, ma il season finale mi ha letteralmente uccisa! Ora, a freddo (tanto per citare il nuovo arrivo), posso dirmi più fiduciosa sui miei OutlawQueen e sperare che alla fine il vero amore vinca comunque, anche se sarà di certo un viaggio in salita.
Tornando alla ff, si sono finalmente baciati! Siete contente? E ci sono tante altre novità in arrivo, continuate a seguirmi e recensite, sono tanto curiosa di sapere i vostri commenti.
Alla prossima
lulubellula

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Capitolo 11
*** Together ***


Together
 
Regina si ritrasse dall’abbraccio, lasciando Robin incredulo e basito.
Che ne era stato di quel momento unico e magico che avevano appena vissuto?
Dei baci, delle carezze, degli sguardi ad incontrarsi e scontrarsi nel soffio di un battito di ciglia?
“Che c’è, Regina? Ho forse fatto qualcosa di sbagliato?” domandò, restando nell’angosciosa attesa di una risposta.
Lei si inumidì le labbra, aprì la bocca come per rispondere, poi la richiuse, il labbro superiore a tremare leggermente.
Robin le prese le mani e le strinse con le sue, mentre osservava il ghiaccio che una volta aveva avvolto il cuore della regina cattiva sciogliersi a poco a poco.
Scosse la testa, una lacrima argentea le sfuggì involontaria e scivolò sulle guance che da poco avevano ripreso colore e vita.
“No, Robin, non hai fatto qualcosa di sbagliato. T-tu … Io ti devo tutto” la voce si incrinò fino a spezzarsi e le parole le morirono sulle labbra.
Lui si avvicinò e le accarezzò con delicatezza il volto.
“Shsh, Regina, non devi parlare se non te la senti, non ti sforzare, hai rischiato di …”.
Non riuscì a dirlo, non ci riuscì nemmeno lui, la prospettiva di quello che sarebbe potuto accadere era insopportabile, semplicemente impossibile da concepire.
“M-morire, Robin, ho rischiato di morire, tu mi hai strappata da una morte certa, da un’agonia quasi finita, da una fine ignobile e prematura”.
Robin riprese a sorriderle.
“Non avrei mai e poi mai permesso che accadesse, Milady, fosse anche stata l’ultima cosa che avessi fatto in vita mia. Io tengo troppo a te”.
Regina arrossì, la regina cattiva delle favole, la sanguinaria e senza pietà allieva di Tremotino, aveva abbassato la guardia al punto tale che ora i suoi occhi stavano indugiando sui suoi piedi, seduta, le ginocchia portate al petto, le braccia intrecciate ad abbracciare le caviglie.
“Nessuno aveva mai osato fare tanto per me, nessuno aveva rischiato e si era spinto tanto oltre i limiti e in modo così disinteressato quanto tu hai fatto oggi. Ti ringrazio, Robin”.
Seduti vicini ad osservare le sponde quasi asciutte dell’ormai non più Lago di Nostos, i due annullarono ancor di più la distanza, i fianchi e le spalle a toccarsi, le braccia di lui a stringere la figura esile e all’apparenza indifesa della regina, il suo mantello, cavallerescamente tolto a coprirli insieme per non patire il freddo della notte e il cielo che li sovrastava a dipingersi come una maestosa coperta di stelle e astri lucenti.
Robin si avvicinò ulteriormente a lei e prese ad accarezzarle i capelli corvini che incorniciavano un viso madreperlaceo; Regina, dal canto suo, gli sorrise e pose le sue labbra rosse su quelle del fuorilegge a dischiudersi in un bacio, un altro e un altro ancora, finché poi, alcuni istanti dopo si ritrovarono a sorridere e a ridere complici.
“Non pensavo che avrei mai potuto riavere tutto questo” sussurrò lei per poi quasi pentirsene e maledirsi.
“Cosa intendi, Regina?” chiese Robin emozionato ma al tempo stesso cauto, non voleva certo mettere fretta alla donna di cui si era innamorato.
“I-io non credevo che mi sarebbe mai più ricapitato di provare qualcosa …, sentimenti, dei sentimenti per qualcuno dopo Daniel, credevo di aver seppellito con lui ogni speranza di sentire qualcosa per un uomo. Eppure, eppure, Robin Hood di Locksley, eppure è successo”.
Robin le sorrise e la baciò velocemente sulle labbra.
“Tu hai sciolto il ghiaccio che circondava il mio cuore e mi hai fatta sentire a casa persino quando litigavamo per delle sciocchezze nel mezzo del nulla della foresta, persino quando ero troppo testarda per ammettere di star male. Il fatto è che ti ho amato, Robin, ti ho amato quando ti odiavo, ti ho amato quando mi hai curata senza nemmeno interessarti del fatto che avessi messo una taglia sulla tua testa e su quella dei tuoi compagni di scorribande, ti ho amato quando mi hai difesa da Little John e quando ti ho visto brillare gli occhi mentre stringevi a te tuo figlio Roland”.
Robin non si perse nemmeno una sillaba delle parole di Regina, le ascoltava con avidità, con trepidazione, con gioia.
“Il fatto è che ti amo, furfante, amo quei tuoi occhi sinceri e un po’ malinconici, quel tuo sorriso seducente e scanzonato, quei tuoi modi da gentiluomo inglese d’altri tempi. Io ti amo, Robin, con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima, con tutta me stessa” disse quasi senza fiato, senza fermarsi, per far sì che il coraggio racimolato non le sfuggisse tra le dita come dei granelli di sabbia.
L’uomo di rimando la strinse a sé con maggior vigore, la abbracciò forte, con decisione ma dolcezza al tempo stesso, come se non volesse perderla, come se non volesse lasciarla più andare via, dalla Foresta Incantata, da Sherwood, da lui.
“Milady, io non credo che riuscirò a trovare delle parole tanto significative quanto le vostre, ma sappiate che farò qualunque cosa che sia in mio potere, qualunque pur di rendervi felice accanto a me finché voi vorrete rimanerci”.
Regina sorrise e restò abbracciata a lui a rimirare il cielo e attesero insieme le prime luci dell’alba.
 
 

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Capitolo 12
*** Fire ***


   Finding true love

Fire

 
L’alba arrivò in un battito di ciglia e con essa il momento di fare ritorno a casa.
Robin e Regina rimontarono a cavallo e si avviarono verso l’accampamento dei Merry Men a parecchie miglia di distanza dal lago di Nostos. A differenza del viaggio di andata, disperato e angosciante, quello di ritorno aveva dei toni del tutto diversi, era più rilassato e quieto; se fosse stato un colore sarebbe stato un tono pastello, se fosse stato un paesaggio sarebbe stato un mare calmo e senza onde al tramonto, quando il rosso e l’arancione si mescolano al viola del cielo e vanno a gettarsi nello specchio d’acqua sottostante.
Regina si stringeva forte al busto dell’uomo, la sua testa appoggiata sulla schiena di Robin, quasi a volersi sentire il più vicina possibile a lui, quasi a percepire il bisogno di avere qualcuno che la proteggesse; anche una donna forte e indipendente come lei avvertiva di tanto in tanto il bisogno di qualcuno che si occupasse di lei.
Aveva un tono dolce e un retrogusto amaro quel momento per lei: divisa tra due opposti desideri, da un lato ritornare da suo figlio a Storybrooke, dall’altro trascorrere del tempo con Robin Hood.
Non voleva lasciarsi scappare l’occasione di essere felice con lui, non di nuovo, non dopo trent’anni di scappatoie e fughe magiche, non dopo essere andata e tornata dall’inferno buio e profondo della magia nera, della solitudine.
I suoi occhi si offuscarono per qualche istante, soffocati da calde e profonde lacrime argentee.
Il vento le schiaffeggiava il volto con la sua asprezza, il tutto acuito dalla velocità del destriero di Robin che procedeva spedito lungo le brughiere, le vallate, attraversando rigagnoli d’acqua e calpestando rovi e sterpi bruciacchiati dal sole e asciugati dall’azione di Eolo.
Si fermarono dopo qualche ora, l’accampamento era ancora piuttosto lontano, il cavallo ancora spossato per il viaggio d’andata e non era il caso di chiedergli un ulteriore sforzo.
“Sembra un buon punto per accamparsi, no?” domandò la donna, non esperta di campeggio e soste impreviste nelle vallate confinanti con la foresta di Sherwood.
Robin, preoccupato, scosse la testa.
“Non proprio, Milady, ma dobbiamo far riposare Goblin e farlo bere” disse, accarezzando il manto bianco del suo ronzino.
Regina lo guardò con aria interrogativa e preoccupata.
“Rischiamo un’imboscata o qualcosa del genere? Siamo solo in due, non penso che sia il caso di rischiare di farci catturare. La mia magia è ancora instabile, non so come né perché ma pare che non funzioni a dovere in questo luogo”.
Sulla fronte dell’uomo, aggrottata per la preoccupazione e i troppi pensieri che gli balenavano per la mente in quell’istante, si formarono delle giovani rughe, acuite dalla stanchezza e dagli avvenimenti degli ultimi giorni che l’avevano fatto invecchiare per lo sgomento, lo spavento, l’angoscia provata all’idea di perderla.
“Attenderemo qualche minuto e poi ci incammineremo a piedi con Goblin, dobbiamo assolutamente trovare un riparo per la notte ed è fondamentale trovarlo ora che è presto, c’è luce e nessuno percorre queste vie deserte, queste vie tanto amate dai briganti”.
“Anche voi siete briganti in un certo senso”.
Robin sorrise di fronte all’ingenuità di Regina.
“Ci sono briganti e briganti, mio amore. C’è chi ruba ai ricchi per dare ai poveri e chi ruba e uccide per arricchire se stesso. C’è un bella differenza, madame”.
Regina sorrise, l’accento affettuoso con quale Robin aveva pronunciato quel ‘mio amore’ la faceva sentire protetta, amata, fiduciosa.
“Andiamo a cercare insieme un riparo, cibo e legna per riscaldarci stanotte”.
Si apprestarono a camminare alla ricerca di un luogo sicuro, ma sembrava che in quella valle piana e avara di vegetazione, tutto fosse alla mercé di tutti, facilmente avvistabile a miglia di distanza.
“Dovrebbero esserci delle caverne disabitate da qualche parte, lì potremmo ripararci e sfamarci per poi ripartire domattina” la informò fiducioso.
Lei annuì e sorrise debolmente, avrebbe voluto poter fare maggior affidamento sulle sue arti magiche, ma dubitava che avrebbero potuto aiutarla in quel frangente e poi era sin troppo conscia del fatto che il Principe John l’avrebbe intercettata.
Era un perfetto idiota, ma purtroppo sapeva il fatto suo quando si trattava di arti magiche, era pur sempre stato allievo per qualche tempo di Cora.
Sua madre.
Le venne da rabbrividire all’idea, probabilmente l’avrebbe uccisa con le sue mani se l’avesse vista vagabondare per quelle lande senza importanza con Robin Hood.
Era pur sempre un principe, il principe dei ladri però.
Avrebbe ucciso entrambi, anzi avrebbe strappato il cuore a lui e obbligato lei a sposarsi con quel fantoccio senza fegato di John.
Inorridì al solo pensiero di quell’uomo odioso e insolente.
“Cosa ti turba, Regina? A me puoi dirlo. Insomma, so che non ci conosciamo ancora bene, ma io, tu, noi … penso che ci sia qualcosa di speciale tra noi due”.
La donna pose il suo indice sulle labbra dell’uomo a sfiorargliele con delicatezza.
“Non agitarti, Robin, era solo pensierosa, non preoccuparti. Vedo che sembri piuttosto confuso e non dovresti. Ci siamo baciati, è vero, ma era una situazione disperata, io stavo morendo e tu forse ti sei lasciato prendere dal rimorso e dal panico – abbassò lo sguardo e arrossì – insomma, non sei obbligato, lo capisco se ora non ti senti a tuo agio con questa cosa, non devi sentirti in dovere nei miei confronti …”.
Lui la fissò perplesso e poi colse la paura e il timore nelle sue parole.
“Shhh, io non sto ritrattando nulla e non ho paura, ti ho salvata perché era la cosa giusta da fare e ti ho baciata perché era ciò che volevo e sentivo nel mio cuore. Non è stato sbagliato e lo rifarei un milione di volte, non mi pento di nulla e spero che lo stesso valga per te”.
Lei si voltò un istante e riprese fiato, fece un respiro profondo e cercò di trattenere una lacrima, una sola, calda, chiara, che, suo malgrado, le sfuggì lo stesso.
“Regina” disse quasi in un sussurro, ponendole un braccio sulla sua spalla.
La asciugò con un rapido movimento delle dita e si voltò.
“Sì. Nemmeno io mi pento di nulla”.
“Allora perché piangi?” le domandò preoccupato, un’espressione dolce e solidale dipinta sul volto.
Lottava contro l’impulso irrefrenabile di abbracciarla, di stringerla forte a sé sino ad inebriarsi del profumo della sua pelle e accarezzare i suoi capelli color dell’ebano.
“Ho paura, voglio dire, sono felice, ma ho paura. Non ho mai pensato che potesse succedere, non dopo Daniel. Mia madre lo ha ucciso davanti ai miei occhi, gli ha strappato il cuore dal petto e lo ha ridotto in polvere perché, secondo lei, lui non era abbastanza. Lo amavo con tutta me stessa e lei me lo ha portato via e ho giurato che non sarebbe più successo!” disse prima di iniziare a piangere, lacrime trasparenti a scorrerle lungo il viso.
“Sarebbe successo, cosa?” domandò piano l’uomo.
“Questo, il nostro bacio, Robin. Ho avuto altri uomini dopo di lui, ma non ho mai amato nessuno. Ora ho paura, paura di tutto, che possa succederti qualcosa, che ti possano portare via da me, che tu decida di andartene …”.
Smise di parlare, la voce rotta dai singhiozzi.
Robin vinse il timore iniziale e la strinse forte a sé.
“Non me ne andrò Regina, non mi accadrà nulla di brutto e non mi farò uccidere. Io non ti lascerei mai sola, sei con me da pochi giorni, ma una cosa la so: non vorrei mai che qualcosa o qualcuno ci separasse”.
Regina non sapeva come reagire, come rispondere alle sue parole franche e sincere, si avvicinò a lui e lo baciò piano, un bacio breve e dolce prima di separare nuovamente le loro labbra.
Lui le sorrise e si incamminarono insieme alla ricerca di un posto dove passare la notte successiva, un luogo che fosse meno esposto a possibili attacchi e che non li allontanasse troppo dalla via del ritorno.
Ben presto il caldo e l’assenza di alberi o arbusti sotto ai quali sostare e riposarsi si fecero sentire.
“Conosco un villaggio a una manciata di miglia da qui, è un po’ fuori dalla via maestra, ma almeno potremmo riposarci, fare provviste per il ritorno e lasciare riposare Goblin per qualche ora. Credi che sia una buona idea, Regina?”.
“Sei tu l’esperto di queste zone sperdute, Robin, mi fido di te. Sappi solo che se dovesse accaderci qualcosa di spiacevole, non mi resterà che fartela pagare”.
Robin sorrise a metà tra il divertito e il preoccupato.
“Posso sapere di che morte morirò, Vostra Maestà?”.
“Ovviamente no, mi toglieresti tutto il gusto di vederti soffrire”.
Passarono diversi minuti prima dell’arrivo al villaggio, minuti nei quali parlarono, flirtarono e si presero scherzosamente in giro anche se in modo composto, i pericoli e le insidie che quella valle desolata poteva nascondere erano dietro l’angolo.
Erano solo in tre: un ladro gentiluomo dalla mira infallibile, una ex regina cattiva e un ronzino dal manto biancastro, non esattamente un terzetto che avrebbe suscitato timore e paura, anche se erano ben lungi dall’essere degli sprovveduti sempliciotti.
Il villaggio si mostrò ai loro occhi ben prima di poter essere raggiunto, nuvole rossastre e il fumo proveniente dalle casupole in fiamme mettevano ben in evidenza che lo scenario che si sarebbe presentato dinnanzi ai loro occhi sarebbe stato devastante.
Ben poco prudentemente, Robin iniziò a correre, sapeva che si sarebbe trovato dinnanzi uno spettacolo orribile ed era ben conscio di chi fosse il colpevole di tale scempio.
Il Principe John.
Regina lo seguì, dimenticandosi di legare Goblin ad un albero.
Il cavallo, spaventato per le fiamme, fuggì più veloce della luce, lasciandoli senza provviste, acqua, quella coperta che, seppur misera e usurata, era pur sempre meglio di niente di notte, quando faceva freddo.
“Robin!” gridò, dimentica del fatto che potessero esserci guardie reali ancora nei paraggi.
L’uomo era inginocchiato a terra, il volto tra le mani, sembrava così giovane e al tempo stesso così vecchio, era immobile, spezzato, come se non avesse più le forze per rialzarsi in piedi e proseguire oltre.
Regina si avvicinò a lui e, messasi in ginocchio a sua volta, lo abbracciò forte e pianse con lui, in silenzio, per quello che parve ad entrambi essere un’eternità.
“John, Regina, quell’uomo, non dobbiamo vendicare queste persone! Ha sterminato un villaggio intero!” disse a denti stretti, il dolore era così forte che si morse la lingua per non mettersi a gridare.
Le case erano ridotte a brandelli, erano perlopiù casupole di mattoni cotti al sole, legno, paglia e fango mescolati insieme, si erano accesi come torce ed erano bruciati in fretta.
“Devono averli attaccati di notte, nel sonno, mentre donne, uomini, bambini e vecchi dormivano profondamente. Non hanno fatto in tempo nemmeno ad accorgersene”.
“Non ci sono sopravvissuti? Hai già controllato?” chiese lei a voce così bassa che a malapena lui riuscì ad udirla.
“Non ne ho avuto il coraggio”.
La donna si rialzò in piedi, in equilibrio incerto e gli tese la mano.
“Andiamo insieme, ci faremo forza a vicenda”.
L’uomo si rialzò in piedi e iniziò a camminare con fare incerto, le fiamme in certe casupole erano altissime e di pozzi non c’era alcuna traccia.
Provarono a spegnerle come poterono, con quello che capitava, coperte, stracci, terra, sassi, ma loro erano in due e i focolai troppi.
Tentarono di chiamare le persone, di vedere se ci fosse qualche superstite ma non ebbero risposte.
Solo qualche minuto dopo, Regina tirò un lembo della manica della casacca di Robin incredula.
L’uomo si voltò in risposta e tutto quello che la donna riuscì a fare fu indicare una figura poco lontana rispetto a loro.
Era una bambina, tutt’al più avrebbe potuto avere cinque o sei anni.
Aveva una cascata di capelli color cioccolato legati maldestramente in due trecce che le ricadevano sulle spalle e due occhi azzurri tristi e spenti.
Stringeva al petto una bambolina di saggina e indossava delle vesti bruciacchiate.
E quando guardò la donna negli occhi a lei parve di specchiarsi in una se stessa fanciullina, stesso volto, stessi capelli, solo il colore delle iridi era differente.
L’uomo non poté fare a meno di restare sotto shock allo stesso modo, forse perché quell’unica sopravvissuta era la copia perfetta della donna che amava o quasi, tranne gli occhi, perché quelli erano in tutto e per tutto identici ai suoi.

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