Il fiatone di chi fugge.

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***



 

 

1.




And if I show you my weak side, what would you do?



 

Tornare a casa per Harry era sempre come riprendere aria dopo una lunga e dolorosa apnea. Infilava la chiave nella toppa, girava, spingeva la porta in avanti ed eccolo: odore di casa.
Holmes Chapel per lui era stata una gabbia a sedici anni, quando i sogni erano l'unica cosa gratuita e alle ragazze doveva correre dietro perché non neanche lo notavano, mentre ora a ventuno anni con un conto in banca di cui guardando le foto del Ghana si vergognava profondamente e con il portafoglio sempre pieno di numeri di telefono, gli sembrava il posto più bello del mondo. Bello come il sorriso della mamma quando la abbracciava e la sollevava, e lei quasi piangendo gli sussurrava: “ormai sei tu che mi prendi in braccio”, bello come Gemma che gli lasciava la fetta più grande del dolce, quella per cui da bambini avevano sempre litigato furiosamente, bello come il Madison Square Garden e l'Olanda.
Il taxi finalmente si fermò davanti all'abitazione ed Harry tirò un sospiro di sollievo quando vide che non c'erano fan appostate nel giardino della casa di sua madre. Aveva bisogno di pace, era stanco delle registrazioni nel cuore della notte, dei concerti, delle feste. Tutto ciò che desiderava era togliersi le scarpe e buttarsi sul divano, e dormire, e dormire, e dormire. Dio quanto era stanco. Sarebbe stato capace di dormire cento e anni e poi ancora altri cento se glie ne fosse stata data occasione.
Pagò la corsa, prese il suo borsone e scese dal taxi. Prese una boccata d'aria, era inverno, aveva il naso rosso e la sciarpa nel borsone, ma non era mai stato meglio. Sorrise, si passò una mano tra i capelli e raggiunse la porta, prese le chiavi dalla tasca del cappotto e con le mani intorpidite dal freddo e da quella febbrile gioia che accompagnava ogni suo rientro in casa aprì.
Respirò a pieni polmoni, tese le orecchie per cercare i passi di sua madre in giro per la casa, sorrise ancora e lasciò andare il borsone che cadde con un tonfo sordo sul pavimento.

 

Ad Olivia la distanza non era mai piaciuta anzi, in realtà la odiava proprio, come il parmigiano e i lombrichi, come lo sguardo di alcuni insegnanti universitari e come le foto di Harry che baciava le fans sulle guance.Ad Olivia non erano mai piaciuti neanche i ristoranti messicani e l'umorismo di Liam Payne, ma ad Harry non lo aveva mai detto.
Un'altra cosa che non aveva mai detto ad Harry era quanto gli mancasse, quanto facesse male passare più tempo a mancarsi che a stringersi fino a fondersi. Non che se lo fossero sussurrati poche volte un 'ho voglia di vederti' al telefono, ma certe cose le rimanevano sempre sulla punta della lingua, perché percepiva la paura di Harry e sapeva che tutto ciò che avrebbe voluto dirgli lo avrebbe solo fatto scappare. Harry era un corridore, un velocista, aveva i polmoni di chi scappa da qualsiasi cosa gli capiti per paura di mandare tutto a puttane, il fiatone di chi fugge.
Il cellulare iniziò a squillare e lei venne strappata dallo studio. Il libro di medicina era aperto sul tavolo della cucina, ma la testa era lontana. Troppo lontana, ed il test di ammissione troppo vicino.
Lanciò un'occhiata scocciata al display, il nome di Harry lampeggiava sullo schermo ed il suo cuore iniziò a battere veloce come le ali di un colibrì. Pensò alle labbra di Harry, alle sue mani fredde, all'agenda di pelle marrone su cui scriveva ogni sera, e si sentì morire.
«Pronto?»
«Sono tornato.»
E a lei venne improvvisamente voglia di piangere.


Quando si sono conosciuti Olivia un tale bisogno di evadere da se stessa che spesso si svegliava la mattina convinta di essere prossima ad un esaurimento nervoso.
Quando si sono conosciuti Harry aveva un flacone di antidepressivi nella tasca interna del cappotto, insieme alla valeriana per gli attacchi di panico e all'i-phone, Olivia indossava le dr. Martens bordeaux che le aveva regalato suo fratello Travis per Natale ed il sorriso di chi vorrebbe bruciare il mondo, e del loro incontro non ricordavano quasi nulla ormai, perché le cose belle spesso le si sottovaluta all'inizio.
Proprio in quell'istante tra le dita di Olivia erano intrecciati i ricci di Harry, che si sentiva come se continuare a mischiare la propria pelle a quella di latte di lei potesse ucciderlo. Lo sentiva nelle vene, nelle ossa, nella spina dorsale e nel calore della pelle di Olivia, lo sentiva nel modo con cui aveva iniziato a cantare il suo assolo di Little things durante in concerti, troppo coinvolto, e nelle molle del letto che gemeva sotto il loro peso, lo sentiva nel silenzio pesante della notte negli alberghi e nel bi-bip del cellulare quando gli arrivava un suo messaggio, lo sentiva un po' ovunque che quella ragazza gli si stava annidando in un angolo tanto buio del cuore che cacciarla sarebbe stata un'impresa. Doveva scappare, raggiungere l'orgasmo, rivestirsi ed uscire da quella casa, doveva andarsene prima che fosse troppo tardi. Aveva paura, aveva così tanta paura che se la strinse contro il petto un giubbotto antiproiettile nel pieno di una sparatoria. Aveva una paura fottuta ma quando finalmente il piacere li travolse, stretti come qualcuno gli avesse mischiato le ossa capì che neanche quella volta ce l'avrebbe fatta. Se lo ripeteva ogni mattina, ogni pomeriggio ed ogni sera: domani non la chiamo. Basta, è finita, non ho bisogno di lei. Ma ogni volta che il cielo imbruniva in Giappone, America, Spagna o Francia, ovunque si trovasse le sue mani cercavano il cellulare ed ogni singola cellula del suo corpo Olivia.
Gli occhi azzurri di Olivia cercarono quelli di Harry mentre si voltava su un fianco ed ascoltava la perfetta e dolce melodia dei loro respiri affannati, mentre l'odore del sesso la faceva sorridere e le mani grandi di Harry le disegnavano strani ghirigori sui fianchi le facevano battere il cuore dannatamente forte.
«Mi sei mancato.» sussurrò con gli occhi lucidi. Esporsi con Harry era sempre un dolore per lei, un continuo cercare di spostare un muro a mani nude.
«Olivia...» ed eccolo, il disagio, la paura, la voce tremula. Olivia c'era abituata ormai, eppure faceva ancora male come la prima volta.
«Non fa niente Harry.»
Lo strinse a sé e affondò il viso nei suoi ricci.
Harry rimase semplicemente zitto e la abbracciò più forte, perché le parole gli si incastravano sempre nella trachea quando aveva paura.

 

 

Spazio autrice.

Non so che dire. Questo tira e molla con le mie storie mi farà odiare da tutti voi. E' stato un periodaccio, se ho tolto tutte le storie non originali è stato per un'impulsività di cui ora mi pento. Spero che voi siate ancora con me, che anche se manco e poi torno e sono un disastro, Giuls sia ancora qualcuno in cui credete. Ne ho bisogno. 
Per chi non l'avesse mai letta, Il fiatone di chi fugge era una mini-long. Pensieri su pensieri, un po' di fluff ed un Harry Styles con abitudini troppo uguali alle mie.
Grazie a chi ancora resiste e mi segue, e a chi è nuovo ed ha iniziato a conoscermi. 
Un bacione, da Giuls. Su facebook ora sono whiteblankpage efp. 


 


 

 

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Capitolo 2
*** 2. ***





2.





 

And if you still breathing you're the lucky one.

 

 

 

Fu uno dei risvegli migliori della vita di Harry quello, con la guancia premuta contro il ventre nudo e caldo di Olivia e le braccia strette possessivamente intorno al suo corpo, come a volerle imprimere sulla pelle tutti i 'non lasciarmi mai' che non riuscivano a trovare mai l'uscita. C'era un intero cimitero di parole dentro Harry ed erano quasi tutte per Olivia. Ecco perché fermarsi e pensare lo spaventava tanto, perché c'erano gli occhi azzurri di lei ad aspettarlo dentro i muri che ergeva per tenere lontani gli altri e se stesso. Perse il conto dei battiti del suo cuore e si mise a sedere.
Olivia intanto, sveglia da almeno otto minuti, ascoltava i respiri nervosi e pesanti di Harry e fingeva di dormire. Non glie lo avrebbe mai detto ma quella era la sua melodia preferita, altro che All my loving dei Beatles e la risata di sua sorella Marie.
I polpastrelli delle dita di Harry accarezzarono con la dedizione e la delicatezza che i pittori riservano alle loro tele migliori il braccio destro di Olivia, lasciandosi dietro una scia di brividi caldi che potevano narrare di loro due meglio di quanto le parole non avrebbero mai potuto fare.
«Guarda che lo so che sei sveglia eh.» sussurrò lui, ed un sorriso increspò quelle labbra morbide.
Le si stese nuovamente affianco e le affondò il viso nell'incavo del collo, facendola ridacchiare.
«Facciamo colazione.» poteva sentire il suo respiro sul viso, le sue ansie tra le lenzuola.
«Prima voglio andare un po' a correre.» E lei ormai sapeva il reale significato di quelle parole
«Devi proprio?» non le era rimasto che un filo di voce.
«Poi torno.»
«Torni sempre Harry. Il problema è che poi te ne vai ancora.» non stavano più parlando di semplici corse mattutine, lo sapevano entrambi.
«Sei arrabbiata?»
Olivia rimase in silenzio.
Non voleva punire Harry, ma se avesse schiuso le labbra sarebbe scoppiata a piangere.

 

Harry era tornato alla fine, come sempre. I ricci disordinati erano appiccicati alla fronte imperlata di sudore, le fossette ai lati delle labbra rendevano quel viso meravigliosamente tenero, innocente. Era un bambino di ventun anni ed Olivia a respingerlo non ce la faceva.
In cucina c'era odore di uova, Harry se ne stava seduto sul ripiano di marmo con le caviglie incrociate e gli occhi luminosi, la guardava allungarsi per prendere il sale dalla mensola e sentiva una stretta alla stomaco paragonabile solo a quella che sentiva quando era sul palco e lasciava correre lo sguardo sul mare di fans, e realizzava che erano tutte lì per lui, per loro. Solo che con lei era tutto più intenso e difficile.
“Non ho bisogno di lei” si ripeteva guardandola, ma poi Olivia si spostava una ciocca dei lunghi capelli castani dietro l'orecchio e lui si sentiva un coglione. Un coglione di ventun anni, con un problema di dipendenza decisamente peggiore di quello causato da alcool e droghe, perché di centri di recupero in grado di estirpare delle persone dai proprio pensieri non ce ne sono.
«Domani devo ripartire.» disse, studiando la sua reazione.
Olivia rimase in silenzio, strinse la presa sul manico della padella. Aveva messo troppo sale sulle uova.
«Ok.» fu tutto ciò che riuscì a dire. Qualcosa le chiudeva la gola.
Harry saltò giù dal ripiano di marmo, le andò alle spalle e la abbracciò facendo aderire il suo petto alla schiena di lei. Le aveva fatto male, lo sapeva, ma sapeva anche quanto fosse necessario. Doveva farle male, tenerla a distanza di sicurezza, altrimenti sarebbe stata la fine. Affondò il viso nei suoi capelli, profumava di fiori ma Harry non era mai stato bravo a distinguere e riconoscere le diverse fragranze. Chiuse gli occhi e la strinse con più forza mentre Olivia spegneva il fornello e posava le mani su quelle di Harry, intrecciate sopra il suo ventre.
C'era qualcosa di così sbagliato nel modo in cui Harry la stringeva, rendeva quegli abbracci il posto migliori in cui fosse mai stata. Sentì che Harry inalava profondamente il suo profumo, poi la sua voce roca le accarezzò l'orecchio.
«Camomilla?» azzardò prima di lasciare un piccolo bacio sul collo.
«È muschio bianco.» sussurrò lei, ed Harry capì che come al solito non aveva capito un cazzo di niente.

 

Potevano passare anche mesi prima che si rivedessero. Gli era successo, di stare lontani fino a sentire le braccia cadere tanto era grande il vuoto che li affliggeva, e quando si ritrovavano finivano inevitabilmente a fare l'amore in modo disperato. Il bisogno di ricongiungersi era tanto forte che solo il sesso sembrava placare quella fame violenta che si impossessava di loro. Lo diceva anche Platone in fondo, con il mito degli androgini, ma nonostante Olivia continuasse a ripetersi che era normale e lecito sentiva che era tutto sbagliato.
Così quando era arrivata la chiamata di Harry, il solito “Sono tornato” che le faceva sempre salire il groppo in gola, aveva deciso.
Era un sabato sera quando Harry bussò alla porta del suo piccolo appartamento in periferia, e quando aprì la porta la luce di un lampione illuminò il viso sorridente di Harry disegnandone alla perfezione le ombre. Era meraviglioso, le toglieva il respiro e non glie lo restituiva. Ma Olivia aveva deciso, era decisa. Lo fece entrare e lo baciò sentendo il cuore salirle sulle labbra mentre le grandi mani di Harry le stringevano il viso con passione.
Tre mesi, una settimana e quattro giorni. Non si vedevano da tre maledetti mesi e lei non riusciva più a respirare, aveva gli occhi lucidi e il cuore stanco di correre, aveva le mani di Harry sul viso ed una sua gamba tra le sue, aveva le spalle contro il muro e i suoi vestiti incollati addosso, ma era decisa, e tutta la sua decisione venne fuori quando le infilò le mani sotto la maglietta.
«Fermo.» aveva anche il fiato corto e le guance rosse, ma era ancora decisa.
Harry d'altro canto era confuso, eccitato e stanco. Aggrottò la fronte e vide nell'azzurro dei suoi occhi tutto ciò che gli era mancato in tour, misto ad una durezza del tutto nuova.
«Che succede?» le chiese con un filo di voce, perché Harry aveva sempre avuto paura delle risposte.
«Non ce la faccio.»
Per Olivia lo sguardo negli occhi verdi di Harry era doloroso quanto per Harry lo era quello negli occhi azzurri di Olivia. Harry si sentiva come se la fama si stesse mettendo di nuovo tra lui e la vita vera, ed Olivia cercava nei suoi occhi la determinazione a rimanere. Perché tutto ciò di cui aveva bisogno era che lui smettesse di scappare, di avere paura.
«Non mandarmi via, ti prego.» la voce di Harry era un sussurro pieno di timore, era la voce di un bambino che chiede alla mamma di aspettare che si addormenti perché nell'armadio -ne è sicuro, li ha visti- ci sono fin troppi mostri.
«Vuoi rimanere?» quella conversazione aveva un equilibrio precario, instabile. Come loro due.
Harry annuì, lo sguardo basso, vulnerabile, e seguì Olivia nel piccolo salotto dall'arredamento semplice. Sul divano, che per esperienza personale sapeva essere un inferno di molle sporgenti, era distesa la coperta rosa pallido con ricami in oro tessuta a mano che le aveva riportato dal Giappone, quella che aveva rubato dall'albergo perché gli ricordava terribilmente lei. Harry ricordava che quando le aveva dato quel regalo, il primo regalo che le avesse mai fatto, si era sentito terribilmente impacciato e stupido.
«Sei a pezzi.» disse lei, e quella non era una domanda. Si voltò a guardarlo, le labbra carnose intrappolate tra i denti, lo svuotò con gli occhi come solo lei sapeva fare.
«Non dormo da trentaquattro ore.»
«Cosa?»
«Beh, il volo era di notte, sono arrivato all'alba, volevo vedere mamma, Gemma...» la guardò esitante, prima di sputare un «e te.» veloce come la luce, insicuro come tutto ciò che lo riguardava.
Olivia fece un passo verso di lui, allungò una mano verso il suo viso e gli accarezzò le occhiaie con le punte delle dita con sguardo materno.
E Harry capì che non poteva scappare.
Era in trappola, era suo, gli apparteneva, le sue notti insonni erano solo delle sue carezze e i suoi sospiri solo del suo corpo.
Lei gli sorrise, gli prese la mano e lo invitò a stendersi sul divano. Improvvisamente tutta la tensione sessuale era svanita, mentre il timore che lei non lo volesse più si era sostituito alla paura che tutto ciò fosse troppo per il suo cuore, che le pareti di quel muscolo non avrebbero retto tanto. Il respiro gli morì in gola quando gli si stese sopra, facendolo affondare contro quelle molle maledette di quel divano da buttare. Non era mai stato tanto scomodo, eppure non si sarebbe mosso per nulla al mondo.
Olivia posò la testa sul petto di Harry e chiuse gli occhi. Poteva sentire il battito irregolare del suo cuore, i suoi respiri sotto la guancia. Strinse il tessuto della camicia di quell'impaurito, incapace ad amare e stupido bambino di ventun anni tra le dita e strofinò il naso contro il suo collo. Avevano fatto sesso per mesi, eppure in quell'istante quel semplice abbraccio su un divano mezzo rotto sembrava ciò che di più intimo potesse esserci al mondo. Si stavano trovando, stavano unendo i pezzi e quell'assestamento era dolorosamente bello.
«Con me non devi essere niente.»
Harry si irrigidì.
«Tutti vogliono che io sia qualcuno.»
«Non io.»
«Non durerà.»
«No, forse non durerà. Ma è bello, no?»
«Da morire.»
Olivia sorrise nell'udire quelle parole.
«Mi piaci. E non parlo all'Harry famoso, mi piaci tu. Harry Styles.» disse accarezzandogli la mascella con tocco leggero. Amava studiare Harry con il tatto, sentirlo pelle a pelle.
«Non esiste un Harry famoso. La parola famoso...quella parola che continuate a ripetere tutti. La odio. Mi fa sentire vuoto, non c'è nulla oltre il 'famoso'. Ci sono milioni di modi per definire qualcuno, simpatico, stupido, intelligente, timido, bastardo, ma...famoso...» fu una nuova carezza di Olivia a dargli la forza di continuare. «Esistono solo Harry e l'Harry che gli altri creano nella loro mente.»
«Cosa vuoi che veda io?» gli domandò allora, disposta a leggere negli occhi screziati di insicurezza e nelle mani grandi e protettive l'Harry che Harry voleva essere.
«Me. Ma ho paura.»
«Io ti vedo Harry. Vedo la paura per le lucertole e l'amore per i gatti, vedo le fossette che ti spuntano quando parli al telefono con Gemma e come ti tremano le mani quando stringi il microfono durante gli assoli, e ti giuro che non c'è nulla di più bello al mondo.»
Harry sentì gli occhi farsi umidi, percepì il peso di quelle parole sulla punta del cuore.
«Mi sei mancata.» quelle parole la colpirono come uno schiaffo. Era la prima volta che le diceva una cosa simile. «Mi manchi ogni volta.»
Lei chiuse gli occhi e posò un altro bacio sul collo di Harry.
Gli era mancata, aveva trovato il coraggio di dirglielo e, per una volta, non stava cercando di scappare.
Olivia capì che tutto il male che si erano fatti in silenzio stava sbiadendo prima di scivolare in un sonno leggero, ed Harry si addormentò con una strana leggerezza dentro e quella pace che solo Holmes Chapel e le labbra morbide di Olivia potevano dargli, mentre da qualche parte del mondo qualcuno ascoltava le sue canzoni e qualcun altro lo insultava, libero di poter essere se stesso dopo tre mesi, una settimana e quattro giorni.





Spazio autrice:

Avendo la storia già interamente scritta, eccoci al secondo capitolo.
Anche se potrei, nel ri-pubblicarla non la sto cambiando di una virgola, non mi sembra giusto. Ci sono parti che stonano e cose che ora renderei diverse, ma la Giulia che scrisse Il fiatone di chi fugge era diversa da quella di adesso, è normale, quindi non la tocco.
Spero davvero che la storia vi piaccia, questo Harry ha un mondo da dare, ma un blocco interiore così grande che non saprei spiegarlo neanche io. 
Lasciate qualche recensione, fatemi sapere cosa ve ne pare (mi fanno sempre piacere i vostri pareri), e niente, buona giornata a tutte!

 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***






3.


 

Now you were standing there right in front of me, I hold on it’s getting harder to breathe.
All of a sudden these lights are blinding me. I never noticed how bright they would be.


 

 

Era scappato, ancora.
Come un animale tenuto troppo tempo in gabbia Harry era fuggito lontano chilometri e chilometri da Olivia, con la sola differenza che le braccia esili di quella ragazza dal carattere di fuoco erano una prigionia assai dolce in cui soccombere. Ed era questo che la rendeva pericolosa, si ripeteva Harry. Aveva da tempo abbandonato quel “non ho bisogno di lei” davanti all'evidenza che senza gli occhi di cristallo di Olivia era un urlo nel deserto, era il nulla più totale, ed ora non gli rimaneva che continuare a correre, a scappare dai sentimenti con i muscoli che bruciavano di più ad ogni passo come se stesse andando a fuoco, per non lasciarsi il tempo di pensare.
Ad aiutarlo a smettere di pensare c'erano le registrazioni nel cuore della notte che stroncavano i sogni e lasciavano sfumare il viso di Olivia in una nuvola indistinta, la risata di Niall provocata dai deliranti monologhi di un Louis che fingeva sempre di avere l'energia di mille uomini, anche quando era distrutto e tutto ciò che desiderava era dormire un po', i concerti e le urla delle fans che offuscavano i pensieri, la palestra, i servizi fotografici, le interviste, le chiamate ad Anne e Gemma. Ma poi Olivia gli scriveva “Ho bruciato il riso un'altra volta, che palle” e gli angoli delle labbra di Harry schizzavano, il sorriso gli esplodeva sulle labbra come se avesse cercato di trattenerlo fin troppo a lungo. Non poteva farci niente, Olivia irrompeva nella sua vita con un messaggio di un paio di righe ed Harry sentiva il desiderio di prendere il primo volo per tornare da lei.
Finché non era successo davvero.
Era bastata una telefonata, Olivia era in lacrime, singhiozzava disperatamente perché il suo gatto arancione, Jesse, era morto. E lui era corso all'aeroporto come se ne andasse della sua stessa vita, e con la voce rotta della ragazza che ancora gli echeggiava nella testa aveva comprato un biglietto per Londra. E al diavolo Los Angeles, al diavolo tutto.
Harry ormai era innamorato e ne era consapevole, ma non lo avrebbe mai ammesso.
Le aveva scritto anche una canzone, ma non avrebbe mai ammesso che era per lei.
Le aveva anche comprato dei fiori, ma probabilmente li avrebbe lasciati in macchina a marcire.
E proprio mentre i fiori marcivano, la canzone rimaneva incompiuta nell'agenda di pelle marrone nella tasca interna del suo borsone, e quel ti amo gli raschiava le pareti del cuore in cui lo aveva intrappolato, Harry aveva suonato al campanello dell'appartamento 3b. La fronte imperlata di sudore, i capelli scompigliati, il biglietto dell'aereo ancora accartocciato in tasca. Ma ad Olivia non era importato, lo aveva stretto a sé lasciandolo morire tra le sue braccia, annegare nel suo profumo e rinascere al solo tocco delle sue labbra morbide sul collo. Dopo qualche secondo era scoppiata nuovamente a piangere, ma Harry non avrebbe mai capito se a causa del decesso di Jesse o perché erano di nuovo l'uno di fronte all'altro e respirare diveniva sempre più difficile.

 

Harry era una di quelle persone che tendono sempre a lasciarsi sfuggire ciò a cui tengono di più. Era un dato di fatto, un vero e proprio talento il suo, riusciva a mandare a puttane qualsiasi cosa. Eppure Olivia era stesa a fianco a lui e gli accarezzava il braccio con il tocco leggero dei polpastrelli, e non sembrava volersene andare. Al contrario sembrava stare proprio bene con Harry, con i suoi silenzi improvvisi che potevano durare anche ore e con le sue paure, con quella vita che lo teneva sempre tanto lontano da casa e con quei ricci che di stare a posto proprio non volevano saperne. Ed Harry non riusciva ad evitare di guardarla e chiedersi, pieno di stupore, cosa la tenesse legata a lui. Perché ci doveva essere qualcosa, una catena, un filo invisibile.
Fu un momento, un sussurro nella notte di quel settembre che li aveva visti separati per due settimane e tre giorni. «Ti amo».
Se la voce roca di Harry non avesse tremato tanto Olivia avrebbe pensato di esser stata vittima di un'allucinazione uditiva particolarmente crudele. Ma Harry lo aveva detto davvero. Ce l'aveva fatta, lo aveva lasciato uscire.
«Scapperai se ti dico di amarti?» gli chiese lei allora, con il coraggio finto e spavaldo tipico dei codardi.
«Non lo so».
Olivia sospirò, ma non riuscì a dire nulla. Non ne aveva la forza.
«Ma ne ho bisogno» mormorò Harry dopo un lungo silenzio.
«Di cosa?»
«Di sentirtelo dire».
Era una richiesta egoistica quella, lo sapevano entrambi.
«Ti amo» a Olivia faceva male il cuore tanto forte le batteva. Si era tenuta dentro quelle parole per mesi, mesi interminabili passati a contare i giorni che Harry avrebbe passato lontano da lei, a ripetersi le tappe dei concerti come un mantra sperando di riuscire ad ingannare il tempo. Ma il tempo non lo inganni se ami qualcuno fin dentro le ossa. Lui la strinse con più forza del necessario contro il suo petto e affondò il viso nei capelli scuri della ragazza. Il giorno dopo avrebbe dovuto riprendere un aereo, raggiungere gli altri, e mentre una parte di lui già pregustava la distanza dall'oggetto che gli scatenava dentro tante emozioni, l'altra aveva iniziato a bruciare al solo pensiero di dover separare la propria pelle da quella di Olivia.
«Non scappare» lo supplicò lei, con il viso premuto contro il suo petto.
«Tu non permettermelo».
«Non ne ho la forza Harry».
«Nemmeno per me?» le posò le labbra calde sulla fronte e chiuse gli occhi. Era come essere al sicuro nel pieno di un violento uragano.
Seguì altro silenzio, quel silenzio che riempiva spesso la stanza quando tra loro due calavano le paure e per abbatterle dovevano andare contro il proprio istinto di sopravvivenza, mettersi in gioco.
«Solo per te» mormorò Olivia, che di forza per entrambi non ne aveva, ma per quegli occhi verdi l'avrebbe inventata. Tutto ciò che aveva e poteva era di Harry ormai, e quando lui la guardava con la coda dell'occhio sicuro  che lei non se ne accorgesse, quando le si buttava addosso ma faceva sempre attenzione a non farle male, quando scoppiava a ridere a cena e gli andava di traverso il vino, Olivia sapeva che, per quanto fosse difficile, per quanto facesse male, e per quanto a volte sembrasse la cosa sbagliata da fare, non avrebbe mai saputo fare altrimenti.
Harry sorrise e si allungò verso la lampada posta sul comodino per spegnere la luce. Il buio era una delle sue innumerevoli fobie, ma quando Olivia gli posò una mano sul braccio si dissolse come polvere al vento. Chiuse gli occhi, e si addormentò con quella felicità mista a paura di rovinare tutto che non lo avrebbe mai abbandonato.

 

 


«Dottoressa Frenney?»
«Harry...sono le 4.00 del mattino».
«M-mi scusi...»
«Sono tornati?»
«Sì».
«Vieni alle 10.00 nel mio studio Harry. Cerca di riposare ora».
«Ok, mi scusi e...grazie».





Spazio autrice:

E' ora di pranzo, quindi nessuno lo cagherà, but I can't wait.
Ecco il terzo e penultimo capitolo di questa mini-long, due pagine, davvero breve, ma spero comunque intenso. 
Non so cosa dire, è una storia davvero molto breve che si legge in una serata e scrissi circa un anno fa, spero davvero che possa regalare ancora qualche emozione. Per strapparvi una recensione vi lascio una gif spacca-ovaie di Harold, ed un bacione!
Buon sabato sera, bevete -se non guidate!!- e ridete tanto, che fa sempre bene.
 
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Capitolo 4
*** 4. ***






4.




Find what you love and let it kill you.

 

Harry viveva in una condizione di perenne stanchezza che sembrava intenzionata a non mollarlo, a strangolarlo giorno dopo giorno.
Quando suonò al citofono del palazzo dove si trovava lo studio della dottoressa Frenney nel cielo splendeva un tiepido sole primaverile, il suo sguardo ansioso si rifletteva sul vetro del portoncino e da una finestra provenivano delle urla, una lite.
«Vieni pure Harry.»
Fece le tre rampe di scale ignorando l'ascensore, camminare lo aiutava a non pensare e non pensare lo aiutava a sopravvivere. Tenersi in movimento probabilmente era tutto ciò che rimaneva da fare ad Harry per non impazzire.
La dottoressa lo aspettava sulla porta del suo studio: una donna di trentasei anni dall'aria semplice, acqua e sapone, capelli lisci corvini lasciati sciolti sulle spalle esili, bassa statura, lentiggini su tutto il viso ed occhi scuri come pozzi sempre sorridenti.
«Buongiorno.» Harry era nervoso, aveva paura e si sentiva uno stupido. Avrebbe preferito di gran lunga andare a correre, sfogarsi, passeggiare senza una meta fino a perdersi nel cuore della sua City, qualsiasi cosa pur di evitare un'altra seduta. Si pentì di essere lì, si pentì di averla chiamata, si pentì persino di essere nato in quell'istante, mentre la dottoressa Frenney si richiudeva alle spalle la porta del suo ufficio ed Harry andava a sedersi sulla poltrona di pelle bianca divenuta ormai familiare.
«Allora Harry.» la dottoressa fece un respiro profondo e si sedette davanti ad Harry, che per sfuggire al suo sguardo iniziò ad osservare la libreria alle spalle della dottoressa, stipata di grandi ed apparentemente pesanti volumi. «Dimmi cosa hai sognato questa volta.»
Non c'era impazienza nella sua voce, ma lui non poté evitare di stringere le mani a pugno.
«Veramente...» abbassò lo sguardo e si passò una mano tra i ricci. «Non è stato solo un sogno.»
«Perché non mi hai contattata prima Harry?»
«Paura.» sputò lui.
«Paura di chiedere aiuto?» lo incalzò.
Harry annuì e la guardò negli occhi chiedendosi cosa pensasse quella donna di lui. Era inevitabile, non poteva fare a meno di chiedersi come apparisse all'esterno, al proprio interlocutore o agli sconosciuti che incrociava quotidianamente per strada, ai commessi o alle fans, ai suoi amici o ai bambini. Si sentiva costantemente sotto giudizio, esaminato al microscopio, osservato come un topo da laboratorio. E la sua più grande paura era che tutti vedessero solo ed unicamente Harry Styles cantane degli One direction.
«Non...non è normale.» ammise prendendosi la testa tra le mani.
«Harry...»
«E' come se mi fossi scisso in due, capisce?» alzò la voce senza rendersene conto, caricandola di frustrazione. «Di giorno sono Harry e di notte...» si bloccò, come succedeva ogni volta che si trovava vicino al nocciolo della questione.
«E di notte?»
«Di notte sono di Olivia. Non sono Harry, sono...diverso. Sono felice, sono felice veramente cazzo. Poi la mattina mi sveglio e...» era così confuso e distrutto, come se uno spesso strato di nebbia gli impedisse di vedere dentro se stesso.
«Harry io credo che i tuoi sogni non siano causati da altro che da una profonda carenza di affetto reale. La fama è fittizia, quello dello spettacolo è un mondo che divora e tu sei il prodotto di ciò che sei costretto a sostenere quotidianamente. Olivia è la proiezione della tua mente di un ideale di vita che neghi a te stesso e che il tuo inconscio tende quindi a riproporti durante il sonno.»
«Perché proprio Olivia però?» perché non sognava modelle, cantanti formose o attrici sexy? Perché ogni notte la sua testa gli riproponeva l'immagine della commessa di un supermercato amica di sua sorella?
«Da come me ne hai parlato, Olivia sembra essere l'incarnazione di valori reali, forti e ben radicati. Una ragazza che lavora per pagarsi gli studi, intelligente, che non si lascia abbagliare da false promesse e mantiene i piedi per terra. Olivia è la realtà che tu inconsciamente desideri ardentemente vivere.»
Harry rimase in silenzio, e nella sua testa uno dei suoi sogni preferiti venne proiettato come la pellicola di un filmato a lui particolarmente caro.

Aveva il raffreddore ed era raggomitolato sul divano, avvolto dal piumone. La testa sembrava in procinto di scoppiargli ad ogni starnuto ed la gola gli andava a fuoco. Harry odiava il raffreddore, odiava la febbre, odiava il naso che colava continuamente e le vie respiratorie ostruite, odiava la minestra ed il freddo che sembrava entrargli nelle ossa non appena muoveva un passo fuori dal caldo bozzolo del piumone. Olivia era uscita, avevano litigato, avevano urlato tanto per un qualcosa che non riusciva proprio a ricordare, e non la vedeva da ormai un paio d'ore quando rincasò. Harry la osservò dal divano mentre si toglieva il cappotto ed entrava nel piccolo salotto, lo guardava e scuotendo la testa con finto rimprovero negli occhi diceva: «Sei proprio un bambino.»
Lui le sorrise, non era più arrabbiata e nella mano sinistra stringeva un sacchetto su cui spiccava il logo di Burger king. Gli aveva portato persino la cena, anche se avevano litigato.

La mattina dopo quel sogno, il sogno migliore della sua vita, Harry si era svegliato con l'animo pesante come un macigno, con una sensazione orribile dentro di soffocamento, ansia, panico, si era svegliato nauseato da se stesso e dalla vita che conduceva perché tutto ciò che lo circondava riluceva della luce fittizia e fuggevole della fama. Ed Harry, stupidamente, come un bambino, avrebbe desiderato solo qualcuno che gli portasse la cena quando stava male, che gli urlasse contro e minacciasse ogni giorno di andarsene, senza mai trovare la forza di farlo davvero. Amore. Ecco ciò che desiderava con una forza lacerante, quell'amore che spingeva le persone a stare insieme anni, e anni, e anni, senza mai stancarsi l'uno del sorriso dell'altro. Aveva una tale fame d'amore, camminava ogni giorno con un vuoto dentro che sembrava poterlo inghiottire da un momento all'altro, e con lui inghiottire il cielo, la terra sotto i suoi passi che non sembravano mai portare da nessuna parte e tutti quei sogni...quei maledetti sogni che, se da una parte erano l'unica razione d'amore che gli era permessa, dall'altra sembravano la sua condanna ad una vita vuota.
Solo con se stesso, solo con i suoi sogni, solo con l'Olivia che abitava la sua testa, solo con la dottoressa Frenney e quel tono pacato prodotto di anni ed anni di esercizio della professione.
«Cosa posso fare?» chiese alla fine, sfinito, frustrato e stanco, con le lacrime agli occhi ed il cuore nello stomaco.
La dottoressa lo guardò con dolcezza.
«Smettila di vivere nei tuoi sogni Harry. Non ne hai bisogno, non sono la vita reale.»
Harry le rivolse uno sguardo smarrito, prima di confessare con un sussurro: «Sono l'unica cosa che mi tiene ancora in piedi.»
Ci erano voluti tre mesi di terapia, due sedute a settimana da un'ora l'una, ma era riuscito a confessare a se stesso e alla dottoressa Frenney il suo più grande segreto, la causa del dolore che lo affliggeva e che lo tormentava e, allo stesso tempo, la sua più grande paura. Perché Harry temeva profondamente che se i sogni fossero svaniti e l'immagine del viso sorridente di Olivia fosse sbiadita non gli sarebbe rimasto nulla a cui aggrapparsi.
«Devi solo trovare nella realtà qualcosa da cui trarre forza Harry.»

Due sogni e tre giorni dopo, Harry stava tornando a casa dallo studio di registrazione. Pioveva, faceva un freddo cane e la voce di John Mayer riempiva l'auto con Free Fallin', una delle sue canzoni preferite, quando un gatto gli tagliò la strada correndo come un pazzo e lo fece sbandare. Perse il controllo del volante e l'auto slittò sulla strada bagnata fermandosi contro un palo della luce. La cintura lo tenne saldamente stretto al sedile, ma il danno alla macchina era fatto. Cercò di rimetterla in moto, girò la chiave una, due volte, ma questa non ne volle sapere di ripartire. Imprecò, tirò un pugno al clacson che suonando spaventò due donne strette sotto un ombrello rosso e si guardò intorno. Alla sua destra, come una gigantesca beffa di un destino maledettamente bastardo, sadico e calcolatore, vide il supermercato in cui lavorava Olivia. La vera Olivia, quella che doveva aver visto sì e no cinque volte ma che sembrava essersi tatuata nel suo inconscio, nel suo 'es' per dirla in termini Freudiani.
La macchina non ripartiva, la pioggia continuava a tempestare il parabrezza ed il cielo era una lastra di nubi scure e morbide, e quel cazzo di supermercato era lì, a duecento metri, e sembrava prendersi gioco di lui.
Devi solo trovare nella realtà qualcosa da cui trarre forza Harry.
Fu così che accadde.
Dicono che il primo passo è ammettere di avere un problema. Harry lo aveva ammesso, lo aveva sputato spinto dalla frustrazione, ma lo aveva comunque fatto. Ora non gli rimaneva che fare qualcosa per risolverlo.
Non ci pensò due volte, si conosceva abbastanza bene da sapere che se si fosse fermato a riflettere avrebbe semplicemente chiamato il carro attrezzi per l'auto ed un taxi per tornarsene a casa. Scese dall'auto, si chiuse dietro lo sportello senza curarsene particolarmente, ed iniziò a correre sotto la pioggia scrosciante. Quei duecento metri gli sembrarono chilometri, finì in una pozzanghera e sentì l'acqua inondargli gli stivali, ma continuò a correre. Era troppo importante. Era uno di quei momenti in cui tutto ciò che si deve fare è correre. Correre verso qualcosa, correre verso qualcuno, correre per non rimanere indietro.
Quando entrò nel supermercato era completamente fradicio, dalla testa ai piedi. Lanciò un'occhiata verso le casse, ma Olivia non c'era. Eppure non si diede per vinto, lei era lì, doveva esserci. Altrimenti quel gatto non gli avrebbe mai tagliato la strada, l'auto non avrebbe mai preso quel palo e lui non avrebbe mai notato il supermercato. Percorse la corsia della pasta e dei prodotti in scatola, ma non la vide, si diresse a passo svelto verso il banco dei salumi e non la trovò, ma quando svoltò per entrare nel reparto frutta e verdura sorrise. Olivia stava riordinando le casse delle mele. I lunghi capelli castani erano legati in una treccia, indossava dei jeans, la camicia blu dei dipendenti e degli scarponi scuri. Il suo cuore iniziò a battere talmente tanto forte che dovette fare un respiro profondo prima di avvicinarsi, sicuro che altrimenti avrebbe corso il rischio di essere scoperto: quel cuore batteva troppo forte per non essere sentito.
Lei si voltò e se lo trovò davanti, un completo disastro, fradicio e stupido.
Si sorrisero, si riconobbero.
E mentre lei pensava che il fratello di Gemma aveva proprio un bel sorriso, Harry già sentiva il buco farsi più piccolo.











Spazio autrice:

Eeeeepilogo gente. Fa un po' schifo come finale, ne sono perfettamente consapevole, ma spero che la storia sia comunque piaciuta a qualcuno. 
Lentamente mi sto staccando da efp, ho dei progetti "seri" a cui voglio lavorare, libri che vorrei scrivere e cercare di far pubblicare, e non ho molto tempo per il sito, ma non lo abbandonerò mai completamente. 
E....niente, ditemi come vi sono sembrati questi quattro capitoli di storia, se vi ho deluse o vi è piaciuta!
Un bacio a tutte, alla prossima storia!
se mi cercate - https://www.facebook.com/profile.php?id=100008508791099



 

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