Scire nefas — Non è lecito saperlo

di Amens Ophelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gennaio ***
Capitolo 2: *** Febbraio ***
Capitolo 3: *** Marzo ***
Capitolo 4: *** Aprile ***
Capitolo 5: *** Maggio ***
Capitolo 6: *** Giugno ***
Capitolo 7: *** Luglio ***
Capitolo 8: *** Agosto ***
Capitolo 9: *** Settembre ***
Capitolo 10: *** Ottobre ***
Capitolo 11: *** Novembre ***
Capitolo 12: *** Dicembre ***



Capitolo 1
*** Gennaio ***


Gennaio

 
 
Questa lieta speranza che presto sarà primavera non trova spiegazioni plausibili, nel cuore dell’inverno, ma non c’è motivo di tormentarsi davanti alla tranquillità della pioggia, in fondo. Il mio animo sa che marzo è lontano, proprio come i suoi occhi.

Posso solo continuare a sognare illusoriamente un suo sorriso, intanto che mi pettino, allo specchio, immaginando che quella crocchia laterale possa sorprenderlo abbastanza da rendermi degna di uno sguardo fugace; o che la clavicola, quell’arco proteso verso l’alto – dove io non oso più guardare, per troppa pudicizia – possa un giorno accogliere il suo respiro, mentre io esalo gli ultimi di questa scialba vita fra i suoi capelli e, poi, più giù, sul suo torace.

Nemmeno le costole mi fermeranno, allora: cellula dopo cellula, arriverò al suo cuore, ne strapperò il tessuto e lo farò mio; me ne convinco. Lui entrerà nei miei polmoni e li renderà angoli di galassia e oceano, mentre io mi stenderò per sempre al suo fianco. 
Sì, per sempre.

Poi spengo la luce ed esco dal riflesso di ciò che non sarà mai. 




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M’insegnerai a non guardarmi più le scarpe, ora che so allacciarle da me?
 


NdA

Per la prima volta, mi ritrovo senza parole a fine pagina, nell'angolo dell'autore. Che cosa sciocca e inspiegabile! È un male vedere troppo se stessi in ciò che si scrive, forse.
Siamo in ambito universitario ed è gennaio: le lezioni ("marzo") sono lontane, proprio come lui . L'amore stesso è fuori portata, irraggiungibile, come i suoi occhi - la vedranno mai, a proposito?
Non posso garantirvi un lieto fine, ma m'impegnerò perché la serenità trionfi.
Grazie a tutti per aver letto.

Ophelia

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Capitolo 2
*** Febbraio ***


Febbraio



 
Mentre aspetto che arrivi il mio turno per sostenere l’esame, non posso non pensare a un anno fa. Sorrido amaramente, con gli appunti fra le mani e lo sguardo assente, contemplante realtà invisibili, reali solo per la certezza di averle già vissute.
Ricorderà ancora quel giorno? Probabilmente no.
 
Ventun febbraio; uno squarcio di sole su per la scalinata e un triangolo di luce riflesso sul mio vestito nero.
Mi sorride, precedendomi verso il lungo corridoio che porta all’Aula Magna. «Così è il gran giorno».
Le mie labbra sono stupidi satelliti e, come tali, non osano rispondergli, ma sanno solo emulare ciò che lui ha fatto esplodere sulle sue. Vorrei dirgli che sì, è davvero uno dei momenti più importanti della mia vita, ma non capirebbe fino in fondo cosa io intenda veramente.
Ciò che succederà tra poco, in quella stanza gremita, segnerà una tappa fondamentale nella mia carriera, ma niente potrà essere paragonabile a questo momento. Lui mi ha vista, mi ha sorriso, mi ha abbracciata, augurandomi il meglio.
Non finirà mai sui curricula, ma posso fregiarmi dell’onore di aver respirato il suo profumo da vicino, fra il cotone della sua giacca.
 
Non pensavo che dietro quel gesto potesse nascondersi quasi un addio, dal momento che, da allora, non ho più potuto conoscerlo per ciò che era. Dal momento che, da allora, al suo fianco, c’è lei.
 
La corona d’alloro pungeva, ma non ci davo peso, e il suo odore intenso non mi ha fatto per niente sentire ciò che immaginavo avessero provato gli altri. Avevo osservato decine di foto dei miei colleghi, sorridenti e con il capo cinto del lauro più verde, ma mi sono sorpresa nel notare quanto la mia espressione fosse diversa dalla loro.
Trentadue denti bianchi e perfettamente dritti non sono il ritratto della felicità, nel mio album dei ricordi; piuttosto, la maschera di una delusione.
 
«Hyuga!» chiama il docente, affacciandosi alla porta.
Quel sorriso non si è spento, nonostante tutto, e vorrei che lui lo sapesse. Il suo profumo rassicurante mi solletica ancora le narici, mentre mi siedo e comincio a parlare di Gadda, del suo pastiche linguistico.
 
Oh, sì, è un vero pasticcio, un agglomerato di speranze e disillusione, quello che mi trafigge il cuore, mentre passo di nuovo davanti all’Aula Magna chiusa; un rituale che non dovrei ripetere, oggi, specialmente con ancora quella smorfia ridente sul volto.
I luoghi non mutano, proprio come la mia espressione costruita a tavolino, un anno dopo. A cambiare sono le persone, non tanto dissimilmente dal colore delle foglie d’alloro.
Non conosco trionfi; appassisco solo io, in questa fotografia impolverata. Quanto vorrei che la sua mano agitasse quest’istantanea e mi ridonasse sfumature ormai sbiadite!


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Quell'alloro mi osserva, da sopra la mensola. Ormai è dorato, mentre io arrugginisco lentamente.

 

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Capitolo 3
*** Marzo ***


Marzo


Marzo è giunto, e con lui le sue idi.
Non capirò mai fino in fondo il tranello delle attese, il loro canto speranzoso che s’incrina e diviene una risata derisoria, nel momento del compimento della realtà.
 
Osservare la linea dolce e curva della sua nuca bionda, il profilo netto – eppur delicato – del naso, la mascella regolare e gli angoli sollevati delle labbra m'induce a voler credere fedelmente nella trionfante ed eterna vittoria del Sole. Non ci sono ombre, se non ai miei piedi, quando lui entra in una stanza e mette in fuga ogni principio di tenebra.
 
Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo trovati fianco a fianco, a Geografia? O a scambiarci qualche breve battuta sul tempo e la sua imperscrutabilità, bagnati fino all’osso, all’entrata della biblioteca?
Le gocce ti scendono lungo il viso, s'incastonano al pari di gemme fra i fili dorati della tua chioma, ma con un gesto rapido e umile decidi di disfarti di quelle pietre preziose donate dal cielo.
“Sono un mortale”,
 sembri voler ribadire, mentre tutto, in te, esprime l’esatto opposto.
Il silenzio cala di nuovo, fra noi, ma vorrei interromperlo con tutte le mie forze, stavolta. Ci sono milioni di cose che desidererei chiederti, alcune banali, come il nome di una nazione sconosciuta che non sono riuscita a trascrivere correttamente, altre tanto profonde da avermi scavato voragini dietro le orbite.
Ti sporgi in mia direzione, proprio inchiodando le tue pupille nelle mie; che tu li abbia notati, quei dirupi?
La tua mano è più veloce delle mie labbra e dei loro tormenti: mi sfiori delle ciocche umide che si sono incollate alla guancia.
«Speriamo di non ammalarci», commenti radioso, riuscendo a oscurare le nubi grigie che dominano il paesaggio esterno.
 
Se ti dicessi che è troppo tardi, mi crederesti, Naruto?
Se ti confessassi che un morbo tanto segreto quanto intenso mi prende da anni, in tua presenza, mi considereresti pazza?
E se sapessi che non aspetto altro che il tuo contagio, mi guarderesti ancora con questi occhi limpidi e benevoli?
“Sei un angelo”, paiono dire. Non sanno quanto si sbagliano.
 
Una voce cristallina, invocante il tuo nome, ti costringe a far cadere la mano lungo il fianco e a voltarti. Ecco la ragione per cui sorridevi, probabilmente.
Ti raggiunge trafelata, nel suo impeccabile trench rosso, e tu fingi imbarazzo, mentre ti abbraccia.
Le nostre aspettative erano diverse, oggi, ed esclusivamente le tue si sono realizzate.
 
Ciò che non è nemmeno lontanamente simile a un angelo, dentro di me, spinge perché io, ora, ti trattenga. Desidera che scansi quella ragazza, che ti sottragga dalla sua morsa e prenda il suo posto, ma non sono perfetta nemmeno nella mia maledizione.
Sono solo capace di sognare, mai di tradurre in realtà i miei desideri, così non posso fare altro che osservarvi, mentre vi allontanate alla ricerca di un tavolo libero.
 
Idi di marzo; ventitré pugnalate spensero il cuore di Cesare.
Stessa data, decine di secoli dopo; una congiura ancora troppo sottile, benché crudele, non estingue il battito del mio.
 
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È coraggio o codardia, questo passaggio al “tu”, se tuttora non riesco a parlarti senza fremere?

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Capitolo 4
*** Aprile ***



Aprile

È un piano divino, è per questo che non lo comprendo? Non lo so, sono diversi anni che ho rinunciato a cercare risposte perché esse, una volta raggiunte, terminavano tutte con un punto interrogativo ancora più aspro. Non ci sono esiti per certi quesiti, solo altre domande.
 
Nebbia, vapori, parole fumose e un’unica verità, di fronte a tanta incertezza: lui non è un comune mortale. Non è come me, almeno, o forse sono io a non essere come gli altri.
Sì, è più facile che sia così, dopotutto. Ho solo il guscio, ma manca il nocciolo, in me; carne, esclusivamente pelle e muscoli, mentre lo spirito è sottoterra.
 
Mi tremano le mani. Perché sono così pulite? Ho sepolto il mio impulso vitale, dopo averlo ucciso: non dovrebbero essere quantomeno infangate?
I mostri come me non possiedono mai dita tanto vellutate, lisce, levigate, solcate solo da qualche leggera imperfezione, da pellicine sollevate e unghie rosicchiate. Le spaventose chimere come la sottoscritta non rubano occhi limpidi e chiari agli angeli per commettere crimini contro Dio e strappare l’impronta divina che è in noi insita dalla nascita.
Non sono una creatura celeste, Naruto. Tutti lo credono e persino tu ne sei fermamente convinto, pur conoscendomi poco.
Non sono un angelo, né soggiace in me il minimo pulviscolo di Iperuranio.
Non faccio più parte del creato da quando ti conosco, da quando il tuo sorriso ha illuminato il mio, per poi capovolgerlo in un ghigno di crudele autocommiserazione che non avrà mai termine. Sei stato l’inizio della mia fine e ora, con il tempo agli sgoccioli, mi auguro che tu possa davvero essere la mia causa d’estinzione.
 
Abbattimi, amore disperato, ossessione mortifera, dolcezza velenosa! Rifiutami una volta per tutte, Naruto Uzumaki, o accoglimi nella tua gabbia toracica; crea una prigione per il mio capo, fra le tue ulne, rendimi tua quanto tu, adesso, non sei mio!
Sei il morbo, sei l’antidoto; nessuna pace mi apparterrà, finché non ti avrò, fino a quando tu resterai un casus belli tra le fazioni che mi vorrebbero apparentemente o definitivamente morta.
Non so più accontentarmi, non posso più girare il volto altrove e indossare un sorriso, mentre tu ti allontani.
Crono incede ed è da stupidi credere di poterlo fermare.
 
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"April is the cruellest month."
(T. S. Eliot, The Waste Land)

Non mi fermerò più, voglio che tu sappia ogni cosa. È aprile: sono stanca di guerre.

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Capitolo 5
*** Maggio ***



Maggio

 
Ora capisci in cosa consiste la maledizione di chi ama invano? L’insidia degli abbracci, il veleno di certi baci – falsi quanto la patina del mondo –, lo splendore destabilizzante dei sorrisi… Comprenderai tutto ciò, guardando il mio?
Due cuori spezzati ne formano uno integro?
Se questa fosse una legge assodata, razionale e senza margine d’errore, consacrerei la mia vita alla scienza dei numeri, delle verità assolute e dimostrabili, e non a quella del cuore, dei poeti, così fragile e soggettiva.
Ad ogni modo, sarebbe troppo tardi, perché siamo emblematicamente al capolinea.
 
L’ultima lezione della mia vita, l’ultima fra questi banchi, fra queste mura. L’ultima con te.
 
Ascolto parole che già domani dimenticherò. Annoto qualche termine sul foglio e fingo attenzione, partecipazione, quando tutto ciò che catalizza i miei pensieri sei tu, Naruto, così incredibilmente vicino.
Il tuo respiro, mentre chini il volto e prendi nota dello studio dantesco di Auerbach, mi sfiora la mano, la manda in fiamme. Mi lanci uno sguardo interrogativo, come a dire: “Non scrivi nulla?”. No, come potrei?
Se fossi un po’ più furba, mi azzarderei a volgere questa piccola negligenza come un pretesto per rivederti, tra qualche giorno, e chiederti gli appunti per fotocopiarli, ma la mia stupida timidezza – il mio demone, il mio anatema – m’induce a pensare che, piuttosto che assillarti, sia molto meglio rischiare un voto meno alto all’esame.
Non questa volta.
«Non ti senti bene? Vuoi uscire?» sussurri al mio orecchio, pronto già ad alzarti e a lasciarmi passare. Oh, Naruto, ancora non comprendi che tu, morbo implacabile, sei pure la cura?
«No, ti ringrazio. Va tutto a meraviglia». Mentirti, nasconderti i miei veri sentimenti, è diventato spaventosamente semplice, purtroppo.
Non questa volta.
Con un sospiro di sollievo che mi accarezza involontariamente il collo, mi sorridi e torni ad ascoltare la spiegazione.
Sei ancora così vicino, te ne rendi conto? Sei adiacente al mio cuore, eppure non riesci a vederlo!
 
La campanella suona; un trillo lugubre, che tu accogli con una smorfia che sa di nostalgia e libertà insieme, bussa al mio petto: “Mai più, Hinata. Mai più”, ripete, costringendomi ad osservare il banco, la lavagna, i colleghi, la borsa del professore – ancora sul tavolo – e te, Naruto. Mai più, quando tutto, in me, vorrebbe urlare “Ancora, ancora una volta, almeno”.
Suggelli l’ultimo rintocco con un’affermazione che pare una condanna: «Siamo liberi, ora!».
Sarò prigioniera dei ricordi, ecco la verità.
Non questa volta.
Un respiro profondo, lo sguardo fisso sul banco, un sorriso tirato e: «Naruto, posso chiederti il quaderno per copiare la lezione…?». Nessuna risposta, perché tu sei già uscito.
Anche stavolta.
 
Chiacchiere confuse, scalpiccii irritanti, risate sguaiate di chi ancora potrà godersi le primavere più liete in ateneo risuonano nell'aria, mentre le mie mi aspettano, grigie e vuote, al portone d’ingresso.
Non ti conoscevo, la prima volta che ho messo piede qui dentro. Dopo cinque anni, ho solo appreso il tuo nome, qualche informazione personale, e mi sono assuefatta al suono della tua voce; non è cambiato poi molto.
Va bene, è finita. Se riesco a pensarlo, forse posso farmene una ragione.
 
«Ehi, hai sentito l’ultima? Pare che lei sia andata a letto con il suo migliore amico, settimana scorsa!»
Me ne dovrei curare, di questi vaniloqui?
«La ragazza di Uzumaki?! Poveretto! Come l’ha presa?»
Il respiro mi si paralizza in gola. Tutti, ma non lui. Non merita questo.
«Male, direi. Gli hanno spezzato il cuore in due misure diverse; non riuscirà più a sorridere».
 
Perché hai donato il tuo ultimo raggio di sole proprio a me?
 

 
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Riuscirai mai a comprendere che il mio alloro, per quanto appassito, canterà sempre e solo della tua gloria, in tutta la mia decadenza? 

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Capitolo 6
*** Giugno ***




Giugno
 



Se contassi le volte in cui i miei piedi sono dove il mio cuore non vorrebbe trovarsi, probabilmente finirei con il raggiungere cifre che nemmeno saprei pronunciare.
Millecentonove, millecentodieci.
La matematica è una certezza assoluta, perché il millecentoundici arriva sempre, con le sue aste dritte e asciutte. Potrei andare avanti all'infinito: il millecentododici, in questo purgatorio di nozioni e risate tese, è proprio dietro l'angolo. Pensavo che stavolta avrei conseguito l'oblio dell'incoscienza, superando il mio record personale e assaporando il nome di un numero non ancora recitato, ma mi sbagliavo.
Tu arrivi, in quest’androne di ansia e disperazione, ed io perdo il conto.
 
«Non pensavo dessi anche tu l’esame al primo appello della sessione. Che coraggiosa!»
Davvero ti appaio così? Desidero darmene – dartene – una prova più convincente: «Ci sarebbe un concetto che non ho del tutto afferrato, in realtà. Sai, quella lezione su Auerbach…».
«Vuoi che te la ripeta?», ti offri, rannicchiandoti di fronte alla mia sedia.
Annuisco, ringraziandoti, e tu mi accontenti. Un fiume di parole cristalline, forti di saggezza, studio e ammirazione, mi travolge, ma non ascolto un solo termine di ciò che dici. Spero vorrai perdonarmi se concentro tutti i sensi sull’osservazione delle tue labbra, di quel sorriso che hanno cercato inutilmente di oscurarti.
Le tue labbra: lei le ha baciate, io oso guardarle solo oggi.

 
***
 

Le mie labbra: qualcuno le ha profanate; forse dovrei solo consacrarle a chi le esamina con riverenza e timidezza.
Forse dovrei donarle a lei – a te –, o avrei dovuto farlo già mesi fa.
Hinata, perché il cuore è solo un muscolo? Non potrebbe parlare lui, al posto della mia stupida bocca, ora? Non potrebbe rivelarti parte delle fatiche che ha sofferto, per poi confessarti ciò che io ho paura di poter sciupare?
Non potrebbe, semplicemente, unirsi al tuo, com’è naturale che sia?
 
Abbassi lo sguardo, quando taccio, ma non trovo la forza per smettere di guardarti. Perdona questa piccola violenza nei tuoi confronti, quest’occhiata prepotente che vuole catturare ogni lieve variazione cromatica del tuo incarnato.
«È tutto più chiaro?» ti chiedo, sperando che tu dia un segno di negazione. Rivoglio i tuoi occhi su di me, come prima: solo tu riesci davvero a vedermi.
«Grazie, Naruto. Sei stato molto gentile».
Se lo fossi stato, non ti avrei fatta soffrire, per tutti questi anni, né avrei portato avanti una storia deleteria, che ha contribuito solo a distruggermi. Gentile, nobile, premuroso... io? Io sono semplicemente un maledetto idiota.

«Tocca a me», sussurri sovrappensiero, sentendoti chiamare dal professore.
Ti incito a dare il meglio, sicuro che ce la farai, e ti osservo allontanarti verso l’aula.
Il tuo passo è umano, io lo so. Non sei un angelo, Hinata, e nemmeno un abominio come credi: sei ciò che tutti fingono di essere, ma che nessuno è, a questo mondo.
 
«Finalmente, oggi ti vedo», mormoro al tuo fantasma 
 che mi sfiora, con un lieve spostamento d’aria.

Sono sempre stato cieco.

 
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Anche due strade diverse – la mia voce e la tua, come in un controcanto – possono condurre alla stessa meta?

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Capitolo 7
*** Luglio ***





Luglio

 

 
La luce filtra a fatica, attraverso la tapparella quasi del tutto abbassata, e si deposita con particolari intrecci di rettangoli e strisce sul tuo volto, sulla tua pelle chiarissima. Mi trovo a fissarla senza nemmeno accorgermene davvero, interrogandomi se questa minima esposizione al sole pomeridiano possa in qualche modo causarti delle bruciature.
La luminescenza di quei frammenti d’epidermide, nell’aula, è tanto forte da riuscire a mettere a tacere persino il ronzio che il silenzio produce nelle mie orecchie. Scorri l’indice del libro, ma il fruscio della tua mano non mi giunge; sono diventato pure sordo, adesso?
 
«Lo studio riportato a pagina duecentoventi, dicevi?»
Cerchi di richiamarmi, arrossendo, perché i miei occhi sono ancora fermi sul tuo viso, e sorrido, annuisco, grattandomi la testa. «Scusami, ero sovrappensiero», mi giustifico.
Che discolpa patetica. Può essere definito “sovrappensiero”, il fulcro delle proprie riflessioni, quando è esattamente di fronte a te? Non sarebbe più semplice ammettere la verità, dire che non mi va di studiare, che non sono portato per la geografia e che, invece, esaminerei ben volentieri l’astronomia? Forse, in tal modo, riuscirei a trovare la rotta anche quando mi perdo in quegli occhi che le tue ciglia troppo spesso nascondono, o magari distinguerei delle costellazioni, nelle leggerissime lentiggini che adornano lo scollo della tua camicetta, come una sciarpa appena percepibile, annodatati da Giove – o chissà quale altra divinità – in una vita passata, che non puoi ricordare.
D’un tratto i tuoi palmi premono la copertina del libro, chiudendolo. Un leggero pulviscolo sale, in controluce, per poi danzare e disperdersi discretamente nell’ombra, eclissandosi, di fronte al tuo sorriso.
«Vorrei possedere la tua spensieratezza», confessi, quasi senza respirare. Il lieve color porpora che ti bacia le guance è l’ennesima prova che lo pensi davvero, che mi credi veramente sereno – e che maledici la tua sincerità.
«Spensieratezza?» domando, aggrottando le sopracciglia.
«L’esame è domani, ci sono ancora decine di pagine da ripetere, eppure sei tranquillo, non ti lasci prendere dal panico… Hai un dono, Naruto. Vorrei poterti somigliare».
Se mi somigliassi, non ti apprezzerei, Hinata. La tua fortuna è essere il mio esatto opposto, credimi.
«È una calma apparente», e riapro il tuo manuale, strappandotelo dalle dita, perché non posso cedere ora, di fronte a te, e rivelarti quanto la mia imperturbabilità sia solo di facciata.
 
Tutto questo fingermi forte, sereno, anche con un buco sopra il polmone, là dove qualcosa non sa più battere… e cadere, cadere irrimediabilmente, di fronte a te, calare ogni stupida barriera fortificata in un sorriso e svelare ciò che sono, pur di risentire le palpitazioni.
 
«Non ce la faccio, Hinata. Non posso andare avanti così», sussurro, senza nemmeno cercare la pagina che eravamo pronti a ripassare.
«Sei stanco? Vuoi uscire?» ti preoccupi, avvicinando una mano verso la mia spalla.
Non è straordinario come il tempo, delle volte, si riavvolga e capovolga i ruoli? Ricordi ancora il nostro maggio in quell’aula?
Io, però, non sono bravo quanto te a mentire, non riesco a dire che sto bene.
«Sì, usciamo».
 
Quest’esame andrà malissimo, me lo sento, ma che mi boccino pure i professori, purché non sia la vita, stavolta, a rifarlo. 
 



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Perché un raggio di sole, per quanto possa trafiggere, non farà mai sanguinare.

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Capitolo 8
*** Agosto ***


Agosto




 
A un passo dal nulla, alla fine di un amore a senso unico e un percorso che, invece, ha previsto infinite vie di realizzazione – e fallimento –, ti rendi conto di ciò che hai perso, solitamente.
Io, a un passo dal nulla, riesco solo a scorgere il tuo sorriso, ciò che ancora posso ambire ad avere solo per me.
L’egoismo è rimasta l’unica pecca in grado di ripagarmi ed è per questo che oggi sei qui: perché sono individualista, ma tu non te ne curi. Mi convinceresti che è il mondo a essere marcio, quando sono io ad aver avvelenato anche il tuo, per mesi. Per anni.
Eppure non mi guardi con stanca curiosità, con superiorità o condanna, quando sei al mio fianco, bensì con abnegazione: respingi la tua stessa essenza, Hinata, per poter cogliere la mia.
Non sai che la luce che vedi in me è solo il vago riverbero della tua?
 
La finestra è spalancata, il sole produce un frastuono luminoso intermezzato dal sottile turbamento delle cicale, che ottura le orecchie, e la sala di consultazione è vuota.
Le tue dita fremono dalla voglia di sfiorare la pergamena del manoscritto – il mio pretesto per rivederti, in piena estate –, ma si trattengono, chiuse a pugno, sulle cosce. Sorrido ancora nel notare il guanto bianco di cotone che ti ho prestato: le nostre due mani – la tua destra e la mia sinistra – formano un paio; basta già questo a fare di noi una coppia?
 
«Pensavo avessi dato l'esame di Paleografia l’anno scorso».
Ricordi bene; come mentirti?
«Desideravo mostrarti questo», confesso, sfogliando il codice trecentesco con il guanto sterile. Mi fermo a metà del tomo e ti indico la splendida I miniata in ricco oro, lapislazzuli e porpora.
«Un drago!» esclami meravigliata, dimenticando improvvisamente la regola del silenzio – tua e della biblioteca civica.
 
Un anno fa, degli occhi che amavo si erano chiusi con indifferenza, di fronte a questa scoperta paleografica.
È così pacchiano!, aveva mormorato la bocca che baciavo. Non capisco cosa ci trovi di tanto interessante: stupidi disegnini medievali intorno a un capolettera. Quei perditempo avrebbero potuto escogitare una cura contro la peste, al posto di decorare libri che i più non sapevano nemmeno leggere!
E io le avevo dato ragione, riponendo il manoscritto e osservandola studiare il suo manuale di Gray, con quelle illustrazioni anatomiche inquietanti e veritiere, per niente abbozzate con il minimo lavoro di fantasia.
 
«Non ho mai visto qualcosa di tanto elaborato e sfarzoso», sussurri tu, oggi, toccando con ossequio il sottile vello conciato e vergato con perizia amanuense.
«Nemmeno io». Ma i miei occhi sono sul tuo volto, non sull’immagine; vorrebbero scorgere ciò che ti gravita nella testa e farsi strada fino al tuo cuore. Lì troverei me stesso.
«Grazie», mi sorridi, incantata.
 
Finalmente ne ho la certezza: tu non sei lei, non sei nessun altro. Il nulla è lontano, quando diventi improvvisamente il mio tutto. 
 
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Non voglio più che tu imbeva il tuo pennino di lacrime, se intenderai scrivere di me. 
 

 
 

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Capitolo 9
*** Settembre ***


Settembre
 


 
Ti ricordi quando cominciammo il nostro percorso in questa facoltà? Ignoravamo la reciproca esistenza, eravamo soli e impauriti, con un’infinità di sogni a pesarci fra le mani. Io ho lasciato cadere i miei quasi inizialmente, una volta che ho compreso che il futuro è imperscrutabile, ma oggi mi mancano. Queste dita, a settembre, tremano, fredde e cadaveriche, quando dovrebbero battere su tasti e comporre una tesi che proprio non vuole saperne di vedere la luce. Mentre dovrei occuparmi di un poeta contemporaneo e dei suoi colpi di testa, dei progetti che pianificava e che ha lasciato incompiuti per l’ineluttabilità del destino, riesco solo a concentrarmi sull’osservazione dello schermo nero, spento, del portatile.
Qualche fila dietro di me, nascosta da un dizionario etimologico che fa impallidire, per la sua mole, ci sei tu. E poi c’è lui, ci sono gli altri.
 
Com’è spontanea la tua risata, anche se cerchi di nasconderla! Com’è luminosa la scia che la tua mano traccia, mentre allontani una ciocca di capelli dal volto e la spingi dietro un orecchio, arrossendo! Gesti quotidiani, che su milioni di altre ragazze nemmeno noterei – in lei non li avevo mai scorti –, ma che tu indossi come una rarefatta coltre di Empireo, ben miscelata a ossa e tessuti terreni. Sei imbevuta di vita e di luce.
 
Sei il mio decanter, Hinata. Sedimenta e chiarifica il succo del mio cuore, ti prego! Lascia che le impurità giacciano sul fondo, e che ciò che resta di ancora godibile e inebriante venga a galla, una volta per tutte.
Torna a guardarmi, a sorridermi. Non badare a lui o al resto del mondo, torna da me – da me, il codardo che non ti ha più parlato per settimane, perso a rimuginare sul passato e sul futuro, sulle cabale babilonesi e sulle fotografie che fermentano – marciscono – nel retro della sua mente.
Non ho sogni, non ho futuro, ma ho te, novella Leucònoe. Mesci il mio vino, fa’ di nuovo scorrere il mio sangue, dirigilo al cuore.
Rendi invidioso il tempo e gli occhi che ora ti arridono, perché domani ti potranno solo sognare.
 


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«Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale destino a me, quale a te abbiano dato gli dèi, o Leucònoe, e non interpretare le cabale babilonesi.
Quant’è meglio sopportare tutto quello che accadrà! Sia che Giove ti abbia assegnato ancora molti inverni, sia che questo sia l’ultimo – che ora, su opposte scogliere, consuma il mar Tirreno –, sii saggia, filtra il vino e contieni la tua lunga speranza entro breve spazio.
Mentre parliamo, il tempo, invidioso, sarà fuggito; cogli l’oggi e non fidarti del domani.»
(Orazio, Carmina I, 11)

 
Tu credi nel presente, lo so, ma non in te stessa; dovresti, invece, perché le mie mani hanno appena ripreso a muoversi.

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Capitolo 10
*** Ottobre ***


Ottobre
 

 
Ci siamo conosciuti in ottobre, ricordi? – Potresti mai dimenticare qualcosa, tu?
Ottobre: il mese in cui ciò che si protendeva verso il cielo cade senza rimedio sui marciapiedi, intessendo un caldo manto color del tramonto per le nostre fredde suole di gomma. Tra un chewing gum e una cartaccia, da qualche parte, per le vie di questa città, c’è pure un raggio di sole impresso nelle venature secche delle foglie, proprio come nelle tue vene azzurrognole, che sfioro.
 
Ti lasci guardare, senza alzare il viso, al sicuro nell’oscurità interrotta solo da qualche fascio di luce artificiale; la tua è una bellezza silente, che ammette muta contemplazione, ma non la richiede prepotentemente.
Eppure so che, nella tua apparente quiete, controlli che non compia un passo falso, che non mi spinga oltre la misura, che non ti ferisca più.
Ti prometto che non succederà, stavolta.
 
Stringo una mano attorno al tuo polso, poso l’altra sulla schiena e, tentando di imitare il volteggio di una foglia d’acero che cade al suolo, mi vesto di grazia – quella che la natura mi ha concesso è ben poca, ma è tutta per te – e del riverbero di un riflettore, conducendo questa danza fuori tempo.
Il mondo corre veloce, intorno a noi, in un ritmo forsennato, che non riusciamo ad apprezzare come dovremmo, alla nostra età, ma trovo che sia giusto così: è splendido essere discordi se per una volta, con me, lo sei anche tu.
 
«Auguri», sussurro al tuo orecchio.
Devo sembrarti pazzo, ma non osi allontanarti da me. Mi guardi, confusa, e non comprendi. Le labbra ti tremano, le ciglia fanno del loro meglio per detergere i tuoi occhi, come se questo bastasse a farti vedere più chiaramente qualcosa che non ti torna.
«L’hai scordato? Sono passati esattamente quattro anni da quando ci siamo conosciuti».
 
Il sorriso che si scioglie sul tuo viso, sempre più dolce, sempre più emozionato, è una macchina del tempo. Ho la consapevolezza di averti riportata indietro, mentre tu hai appena ricondotto me al presente.
«Auguri a noi», sorrido, prima che le mie labbra s’impattino sulla tua guancia.

 
 
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Scordare deriva dal latino ex corde, “fuori dal cuore”.
Tu mi hai appena fatto approdare al tuo.
Dodici ottobre: la scoperta dell’America e, per me, del tuo nome. Non sono mai giunto in un porto più felice. 

 

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Capitolo 11
*** Novembre ***


Novembre


 
 
Novembre, sii gentile.
Assiderato fino all’osso, ho solo bisogno di lei.
 
 
“Tutto è morte”, sembra urlare questo velo di ghiaccio che copre ogni cosa che un tempo pareva viva: alberi, crisantemi, parole.
Se arriva ora, l’inverno, sento che potrei morire pure io. L’arancione di cui mi vesto non è che sangue sbiadito, forse – e il sole lo mostrerebbe comunque troppo apertamente.
 
«Devo andare», mi ripeti, stringendo al petto un libro. È quello il tuo scudo contro di me? Deponilo: potrò anche essere il drago, la fiera, ma tu resti la principessa, non San Giorgio.
«Devo consegnarlo». Forse leggi veramente nel pensiero. «E poi devo davvero scappare».
«Troppi doveri», bofonchio con un sorriso che ha la forma di una mezzaluna, ma non la brillantezza. «Hai solo paura dei tuoi stessi sentimenti, Hinata».
Non so da dove siano uscite queste parole. Vorrebbero essere di sostegno, di comprensione, perché anch’io sono terrorizzato da ciò che esplode tra un’aorta e una palpitazione, ma il suono che hanno mi sa di derisorio, di caustico, di tremendamente fuori luogo. Non le meriti.
Mi rivolgi uno sguardo carico di sbigottimento, delusione e nebbia.
«Dovresti riposarti», commenti appena, dandomi le spalle.
 
Non ci sto a vederti andar via senza tentare di chiarirmi, ma come gli occhi non distinguono nulla in questa caligine, così la mia mente non discerne ciò che è bene tacere e ciò che potrebbe indurti a riflettere.
«Mi agghiaccia constatare che non puoi concederti quella che è semplicemente vita». C’è solo nebbia nella mia testa e non so salvarmi.
Interrompi la tua fuga camuffata da passo onesto, pacato, e per un secondo, prima che ti volti, ti vedo gettare all’aria il volume – o contro il mio naso, fa lo stesso. La foschia e le sue illusioni! Quando apri bocca, il tomo è ancora tra le tue mani: «La verità è che non posso concederti di soffrire ancora».
«Perché?» Perché osi salvarmi?
Una lama di luce fende le nubi e le brume novembrine. Il beneficio concesso dall’ignoranza, più che dal dubbio, s’estingue nel fremito d’ali di un merlo sorpreso dal sole.
Lo sforzo e il peso della realtà ti spezzano il fiato, lo sento. E allora non parlare, Hinata; ti chiedo di tacere e di continuare a respirare.
«Perché tra due settimane parto, Naruto. Torno a casa. Una volta che mi sarò laureata, questa città, questa vita... tutto rimarrà solo un ricordo. Tu stesso lo sarai».
 
Chiudo gli occhi per ponderare la prossima mossa, per cercare una replica adeguata, e quando li riapro tu sei scomparsa.
 
 
Novembre, fa’ sparire anche me!
 
 
Il sole è come fiele, la nebbia mi ristora, ora lo so. Cerco una cura che è già sotto le mie dita, nel mio palmo, ma è lontana.
 

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Il tempo sta scorrendo troppo velocemente, tutto è già un ricordo. 

 
 

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Capitolo 12
*** Dicembre ***


Dicembre



Questo è il nostro capolinea.
Perché fa così male, se è un lieto fine?
 

Un nuovo alloro bacia la tua fronte: è più verde delle mie speranze e sarà presto un altro diadema d’oro troneggiante nella tua stanza.
Esci dall’Aula Magna con un sorriso vero – l’unica cosa autentica che questi occhi abbiano mai visto, probabilmente –, abbracciata dagli omeri di neve e fuoco di tua sorella e dallo sguardo dei tuoi familiari.
 
Ti chiedo scusa per non essere entrato, per non aver assistito alla tua esposizione, per non essermi perso nel fluire dolce e catartico della tua favella. Sono un codardo ma, sai, di te amo soprattutto le pause, i silenzi, i rimestii di parole e pensieri, i rossori. Vederti troppo sicura mi avrebbe ucciso, perché la sicurezza sarà ciò che ti allontanerà da me.
So benissimo di essere un maledetto egoista. Non merito perdono.
Sei così bella. Così bianca. C’è più letalità nella semplice forma del tuo sorriso che in quello di cento coltelli.
 
Ed è così che ti ho persa: fra foglie verdi e risate.
 
***
 
Ed è così che ti ho trovato: tra rami bianchi e silenzio.
 
La tormenta di neve che ha attraversato il buio della notte ha seminato incanto per i raggi di questo sole.  Ha seminato anche te.
Non so se per il bagliore accecante della neve o per il pensiero di quanto avvenuto mezz’ora fa, davanti alla commissione, ma una lingua di fuoco si è appena addormentata sulla rima dei miei occhi.
 
«Hinata...» Qualche passo titubante in mia direzione, poi un sorriso. «Dovresti concederti alle macchine fotografiche...» Ti gratti la testa: proprio non comprendi.
Non comprendi che nessuna istantanea potrà valere quanto questo momento. Nessun obbiettivo potrebbe catturare e trasdurre la lieta implosione del mio cuore mentre azzero le distanze – non conto i passi, non stavolta – e ti abbraccio.
 
Il tuo profumo è lo stesso di due anni fa. Potrebbe eradicare il male dal mondo; con me c’è riuscito.
«Io non avevo il coraggio di farlo», ammetti con imbarazzo, soffiando fra i miei capelli, impreziosendo il lauro con l’oro dei tuoi.
 
«Coraggio ha la stessa radice di cuore: finché sei in possesso dei battiti del tuo, puoi fare ciò che vuoi».
 
Io voglio baciarti, ad esempio, dirti che non ho paura del futuro, in questo preciso istante, e che il mio unico dovere è essere felice. Tu sei quella felicità che mi rende semplicemente consapevole, non egoista.
Lo faccio: in punta di piedi, impacchetto il peso dei miei desideri sull’orlo delle labbra, per consegnare tutto alle tue.
 
Vedi? Il dolore si è fermato.
Questo è un inizio.
 


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«Coraggio», mormori sulla mia bocca, senza concedermi replica, e capisco che è un dono gradito. 

"Finis, amici miei. Finis, demoni miei."
(V. Nabokov, Lolita)





NdA
 
Naruto, i tuoi passi hanno deviato dai miei mesi e mesi fa, ma è stato bello averti conosciuto.
Hinata, le nostre strade si sono separate da tempo ma, non so bene dire dove né come, c'è molto di me nella fiamma che ti lambisce le palpebre: abbine cura. 
Le note più melense che abbia mai scritto, ma spero di non doverle mai cancellare.
Grazie di cuore a tutti i lettori per aver seguito lo svolgersi di questa "corona dei mesi", per le parole incoraggianti, la pazienza – come sempre! – e la condivisione. Se avete intravisto anche solo un po' di voi, fra le righe, non è stato tutto vano.
Un abbraccio, 

Ophelia


 
 

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