Il Teatro del Sogno

di Leoithne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Il Canto dell'Innocenza. ***
Capitolo 2: *** Atto Primo: Unswefn. ***
Capitolo 3: *** Atto Secondo: Swefn. ***
Capitolo 4: *** Atto Terzo: Ende. ***
Capitolo 5: *** Atto Quarto: Fruma. ***
Capitolo 6: *** Epilogo: Il Canto dell'Esperienza. ***



Capitolo 1
*** Prologo: Il Canto dell'Innocenza. ***


Prologo:

 
Il Miracolo e Il Sognatore

 
“Il Canto dell'Innocenza”

 

 

Il Miracolo e Il Sognatore sono seduti l'uno di fronte all'altro in un ambiente completamente bianco, circondato da una luce asettica e privo di qualsiasi punto di riferimento. Tra di essi è posizionata una scacchiera e Il Sognatore osserva i pochi pezzi rimasti studiando la prossima mossa. Il Miracolo sembra divertito, Il Sognatore rimane serio.

 

Il Sognatore:   “Anche stavolta hai fallito nel tuo scopo.”
Il Miracolo:     “Il mio scopo è solo mio e non tuo da riconoscere.”
Il Sognatore:   “Questo è quello che credi tu. Io e te, del resto, siamo gli stessi.”
Il Miracolo:     “È ciò di cui tenti disperatamente di convincerti.”
Il Sognatore:   “Non è una convinzione, è una certezza.”
Il Miracolo:     “Ogni cosa che succede, che è successa e che succederà è un mio gioco.”
Il Sognatore:   “Ed è compito mio assicurarmi che questo gioco si svolga secondo le regole.”
Il Miracolo:     “Non puoi interferire nelle mie decisioni, lo sai.”
Il Sognatore:   “Vero. Ma posso ancora renderle logiche.”
Il Miracolo:     “Logica. Regole. È tutto così terribilmente noioso. Dovresti imparare a rischiare.”
Il Sognatore:   “Il rischio non è un fattore con cui si può scherzare.”
Il Miracolo:     “Il rischio è un fattore divertente. Ammettilo.”
Il Sognatore:   “Come potrei ammettere una cosa tanto assurda?”
Il Miracolo:     “Sai che è la verità. Una verità per cui sei disposto a sacrificare persino te stesso.”
Il Sognatore:   “Non toccherebbe a te muovere?”
Il Miracolo:     “La mia mossa l'ho già fatta.”

 

Il Sognatore fissa Il Miracolo e poi sposta gli occhi verso la scacchiera. Il pezzo più importante si era mosso. L'inganno era cominciato.

 

 

Mi è stato detto che c'è un Miracolo per ogni giorno in cui tento
Mi è stato detto che c'è un nuovo amore che nasce per ognuno che muore
Mi è stato detto che non c'è nessuno da chiamare quando mi sento solo e spaventato
Mi è stato detto che se si sogna il prossimo mondo
Ci si troverà a nuotare in un lago di fuoco
Da bambino, pensavo di poter vivere senza angoscia, senza dolore
Come uomo ho scoperto che è tutto racchiuso in me, sto dormendo e tuttavia sono spaventato.

 

 

 

 

N.d.A.

Innanzitutto: il titolo della storia. “Il Teatro del Sogno” è la traduzione del nome del gruppo musicale Dream Theater la cui musica (specialmente l’album “Metropolis pt.2 – Scenes From A Memory)  ha ispirato alcune parti di questa storia.

Poi: “Il Miracolo e Il Sognatore” (in originale “The Miracle and The Sleeper”, la traduzione “Sognatore” mi pareva la più vicina a quella implicata dal gruppo, invece di “Dormiente”). In una canzone del suddetto gruppo vengono citate queste due – possiamo definirle – entità la cui storia si protrae per un certo arco di tempo. Non viene specificato né chi siano né cosa siano. Voglio che rimanga così anche nella mia storia. Vi è data ogni libertà di interpretazione.

“Il Canto dell’Innocenza”: titolo ripreso da “Songs of Innocence”, raccolta di poesie dello scrittore/incisore/filosofo etc. etc. inglese William Blake. La scelta deriva dal fatto che molte delle sue poesie sono considerate come “visioni” e anche il suo tipo di arte viene spesso definito come qualcosa di mistico. “Innocenza” perché sono le prime poesie della sua lunga produzione.

La scacchiera, altrimenti detta: quelle immagini che non ti levi più dalla mente. L’iconografia del Miracolo e del Sognatore che giocano una partita a scacchi è ripresa dal – forse – più famoso film del regista svedese Ingmar Bergman, “Det Sjunde Inseglet”, ovvero “Il Settimo Sigillo”, dove i due avversari sono rappresentati da un Cavaliere e dalla Morte che si giocano – proprio con una partita a scacchi – la vita dello stesso Cavaliere. La scena è un’icona della cinematografia di tutti i tempi passati e a venire.

“Mi è stato detto che…sono spaventato.”: parte della canzone “Metropolis pt.1 – The Miracle and The Sleeper”, tratta dall’album “Images & Words”. Traduzione fornita da me.

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Capitolo 2
*** Atto Primo: Unswefn. ***


Atto Primo: Unswefn

 
Scena Prima

 

 

So two nights passed: the night's dismay
Saddened and stunned the coming day
Sleep, the wide blessing, seemed to me
Distemper's worst calamity.

 

Correre. Correre a perdifiato attraverso un bosco di cui non riusciva a intravedere la fine. Correre finché i polmoni sembravano non avere più neanche la forza di continuare a respirare. Correre fino al punto di sentire il cuore in gola e le tempie che pulsavano così intensamente che la testa pareva scoppiargli. Correre.

E John, a dire tutta la verità, detestava correre.

Eppure doveva farlo, perché non era solo e il suo inseguitore era molto più forte di qualsiasi nemico che avesse mai affrontato. Si girò per un attimo per guardare indietro, rischiando quasi d'inciampare nei suoi stessi passi. Il drago nero torreggiava sulla foresta, le ali spiegate al vento e gli occhi gialli fissi sulla preda sottostante. Inutile dire che John era la preda designata: piccolo nel suo metro e sessantanove, alto ad occhio e croce quanto l'unghia di quell'enorme mostro che lo stava cacciando da un tempo indeterminato. Finché fosse rimasto in mezzo agli alberi, avrebbe avuto una qualche protezione. Ma gli alberi sarebbero finiti. A pochi centinaia di metri da dove si trovava – schivò la quarta buca e, di seguito, il quinto cespuglio di rovi – sapeva benissimo che il bosco sarebbe terminato e che i larici, gli abeti e i pini avrebbero lasciato il posto ad una radura con erba secca e nessun nascondiglio.

Non poteva neanche tornare indietro John. Qualsiasi strada avesse deciso di percorrere, l'avrebbe portato a quella spianata e, di conseguenza, dritto nelle fauci del drago.

Se solo riuscissi a razionalizzare...

Non che John non ci avesse provato a razionalizzare, a trovare una via d'uscita da quella situazione, ma più tentava di farlo più il suo subconscio lo spingeva nella direzione opposta. E il drago si faceva più grande e sul sentiero tracciato nel bosco apparivano paludi e sabbie mobili nelle quali si affondava fino alla vita, rallentando irrimediabilmente la sua corsa. E il drago si avvicinava.

Peccato che non esistessero draghi, né boschi, né paludi, né radure e che quello fosse solo un fottutissimo incubo da cui non riusciva a svegliarsi. John lo comprendeva benissimo, eppure non era in grado di uscirne.

Evitando il millesimo masso ricoperto di muschio con un salto che lo fece atterrare violentemente sulle ginocchia, John fu costretto a fermarsi per un secondo.

Devo razionalizzare. Svegliarmi.

Come il tutto fosse cominciato non se lo ricordava con esattezza. Non riusciva a rammentarsi di quando, un giorno – o, più precisamente, una notte, l'Apache che volteggiava nel cielo terso dell'Afghanistan si era trasformato in un drago nero. Un essere scaturito dalla sua fantasia, che non aveva ragione di esistere e che, invece, pareva così terribilmente reale. Allo stesso modo non si capacitava di come le distese desertiche fossero diventate querce, faggi, pini. Tutto ciò non aveva senso.

Poteva capire gli incubi. La sua psicoterapeuta lo aveva avvertito che la sua sindrome da stress post-traumatico generata dalla sua esperienza sul campo in Afghanistan lo portava a fare sogni quanto mai veritieri – e terrorizzanti – su ciò che gli era accaduto. Questo aveva imparato ad accettarlo. Quello che lo sconvolgeva era che il drago non era reale, il bosco non era reale. Ma gli sembrava che lo fossero, come se la sua esperienza, i suoi ricordi fossero stati sostituiti pur rimanendo gli stessi. Doveva razionalizzare, ma non ci riusciva.

Fece un respiro profondo, il drago che volteggiava sopra la sua testa per cercare il suo nascondiglio. Quando un grido acuto attraversò l'aria, John capì di essere stato individuato. Era peggio delle sirene del coprifuoco, peggio delle esplosioni distanti nella notte. Contro quelle John sapeva come difendersi. Contro un fottutissimo drago, no.

Riprese a correre, mentre le ginocchia facevano male, mentre i muscoli gli chiedevano, lo supplicavano di fermarsi, di trovare una via d'uscita.

Svegliati, John! Dannazione, svegliati!

Il grido nella sua testa rimase inascoltato e lui si vide costretto a schivare l'ennesimo cespuglio spinoso, evitando al contempo di schiantarsi contro il tronco di un faggio che si stagliò improvvisamente di fronte a lui.

A pochi metri dai suoi occhi apparve la radura a cui non voleva arrivare, ma che era costretto a raggiungere. Secondo i suoi calcoli, lo spiazzo erboso doveva corrispondere a quello che un tempo – quando i suoi incubi erano ancora incubi realistici e non un'accozzaglia di fantasie senza senso – era stato l'avamposto nel bel mezzo del deserto afghano dove era stato ferito. Era lì che tutte le sue visioni belliche si concludevano: una scarica di proiettili nella spalla e si sarebbe svegliato, grondante di sudore, nel suo miserevole letto, nella sua miserevole vita.

Peccato che la raffica tanto familiare di Zastava si fosse mutata in una fiammata rosso-oro che usciva dalle fauci dell'enorme mostro alle sue spalle e che il dolore, invece di essere arginato ad una sola parte del corpo, lo bruciava completamente, come se il fuoco lo avvolgesse davvero.

E sono sciocchezze, perché i draghi non esistono.

Il risveglio era identico, se non per un particolare. Quando ancora sognava di mitragliatrici e bombe e esplosioni, apriva gli occhi sollevato perché il tutto si era finalmente concluso; ora l'aprire gli occhi non gli dava più alcun sollievo.

Appena la radura lo accolse, il drago cominciò la sua immancabile picchiata. John tentò di schivare l'affondo, riuscendoci per pochi millimetri. La bestia si rialzò nel cielo plumbeo e riprese forza per un nuovo attacco.

“Aiuto!”, urlò con quanto fiato gli era rimasto in gola.

In quel momento dagli alberi dall'altro lato della radura apparve un uomo. Non era la prima volta che faceva la sua comparsa nei sogni di John, ma, generalmente, era apparso come un'ombra indefinita, sfumata. Stavolta, invece, la figura maschile era perfettamente chiara, circondata da un'aura luminescente. Una lunga tunica biancastra, sostenuta da una cintura di corda, cingeva un corpo snello ma agile, lasciando intravedere soltanto mani e piedi; ricci neri circondavano un volto pallido e stanco, al centro del quale si stagliavano penetranti occhi di ghiaccio.

John non sapeva chi fosse, né perché apparisse casualmente nei suoi sogni, né perché quella notte fosse così dettagliato.

L'uomo si fermò alle soglie del bosco, gettò una rapida occhiata a John e poi rivolse il suo sguardo verso il drago. Con maestria e delicatezza tracciò alcuni segni nell'aria e cominciò a recitare una litania che John non riusciva a comprendere.

In pochi istanti il drago scomparve, la radura scomparve, l'uomo scomparve. Rimase soltanto John, avvolto da una luce calda e protettiva.

Secondi dopo aprì gli occhi, l'incubo un vago ricordo di un passato remoto.  

 

 

 

Atto Primo: Unswefn

 
Scena Seconda

 

 

Deep into that darkness peering,
Long I stood there, wondering, fearing, doubting,
Dreaming dreams no mortal ever dared to dream before.

 

Sherlock riaprì gli occhi, mentre gli ultimi fumi del fuoco sacro s'intersecavano all'interno dell'abitazione fino a trovare la loro naturale uscita attraverso il buco nel tetto e la luce pallida del primo quarto di luna sbiadì per qualche secondo dietro quel velo perlato.

L'uomo tentò di comprendere quello che era appena accaduto. Portate le mani giunte a contatto con le labbra, espirò, si spostò dal braciere e chiuse il mondo al di fuori della sua mente. Per prima cosa elencò le varie sostanze che aveva bruciato: resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.

Nessun errore.

Poi considerò ciò che aveva bevuto: birra con un infusione di foglie d'edera triturate.

Perfetto.

Eppure la visione onirica non era stata quella corretta e la cosa lo faceva infuriare. Per di più quello strano fenomeno era già successo in precedenza. E questo – se possibile – lo rendeva ancor più  nervoso.

Ripensò alla prima volta in cui la sua arte aveva – senza nessuna ragione apparente – fallito. Tutto era cominciato esattamente due lune prima, quando suo fratello, il Walda Mycroft, lo aveva convocato d'urgenza, dicendogli che il Walda Moriarty, signore del villaggio confinante con il loro, stava portando una serie di attacchi onirici non solo nei suoi confronti, ma anche nei confronti dei guerrieri più valorosi del villaggio per fiaccarne la resistenza in battaglia.

Era, infatti, venuto a galla che Moriarty avesse assunto al suo servizio uno dei migliori Swefnesdræfend – un cacciatore di sogni – che si potesse trovare in circolazione: Moran. Sherlock se n'era convinto alla prima occasione di scontro. Considerando il fatto che lui era, a detta di tutti, il miglior Swefnesweriend che il suo clan avesse mai avuto, si era stupito quando, nel sogno di suo fratello, si era imbattuto nelle creature create da Moran: subdole, oscure, letali. Aveva dovuto metterci tutta la sua conoscenza nelle arti magiche, negli incantesimi e nello sciamanesimo che praticava fin dall'infanzia per sconfiggerli e regalare, così, a Mycroft la prima vittoria.

Col tempo gli attacchi si erano fatti sempre più potenti e il suo continuo valicare il confine labile tra i sogni e la realtà lo aveva portato ad uno stato perenne di agitazione e nervosismo: mangiava a malapena e il sonno era diventato sconosciuto al suo stile di vita. Nonostante ciò, grazie al suo costante lavoro, il villaggio continuava ad essere protetto dagli attacchi di Moriarty, sia di giorno, grazie ai valorosi guerrieri al servizio di Mycroft, sia di notte, grazie alle sapienti – e sempre più precise – arti magiche di Sherlock.

Una luna prima, tuttavia, dopo aver preparato i materiali per il fuoco sacro e aver bevuto l'intruglio consacrato, si era trovato non nel sogno di suo fratello o in quello di qualche guerriero, ma in un posto sconosciuto. Nei suoi primi anni di pratica da Swefnesweriend gli era capitato di comparire in qualche sogno che non riusciva a classificare o riconoscere, ma l'esperienza aveva del tutto cancellato quella possibilità. Eppure quella volta era apparso – non fisicamente, ma solo mentalmente – in un luogo che non gli era in alcun modo familiare.

Le distese boschive della Britannia erano scomparse per lasciare posto ad un paesaggio desolato, fatto di sabbia e di piante riarse. In questo ambiente inospitale aveva visto qualcosa che lo aveva lasciato sconvolto per alcuni secondi. Nel cielo volteggiava quello che gli era parso un uccello senza ali, ma che aveva sulla schiena delle pale nere, simili a quelle che aveva visto solo una volta attaccate ad un mulino a vento; ma, se quelle del mulino erano disposte verticalmente, quelle dell'animale – perché non poteva essere nient'altro – erano disposte orizzontalmente e sembravano mantenerlo in posizione, permettendogli di volare. Anche il colore – un verde palude – era inusuale per un uccello e le dimensioni erano quanto mai spaventose: ad occhio e croce era lungo come dieci uomini ed alto circa tre. Nulla gli era mai sembrato così terribile.

Inizialmente aveva pensato ad un inganno di Moran, ad un modo che lo Swefnesdræfend aveva trovato per incutergli timore. Per questo motivo, facendo ricorso a tutto ciò che aveva imparato nel corso degli anni, aveva cominciato a modificare il sogno in modo da farlo combaciare con le conoscenze che possedeva. L'uccello enorme, a fatica, era stato trasformato in un drago nero – l'unica creatura tanto temibile che poteva combaciare con quell'essere – e un altro paio di formule magiche gli avevano permesso di cambiare la distesa di sabbia a lui ignota nella verde foresta che circondava il suo villaggio.

Poi, però, era comparso un uomo che scappava dal drago che lo inseguiva. Capelli biondi e abiti mai visti prima, correva facendosi strada tra gli alberi con aria confusa. Sherlock aveva tentato di associarlo ad uno dei guerrieri del villaggio, ma senza successo. L'uomo gli era sconosciuto. Nelle prime occasioni in cui lo aveva visto fuggire, era riuscito ad interrompere il sogno senza difficoltà, lasciando l'uomo al suo destino. Ultimamente, però, aveva cominciato a liberarlo dal suo incubo. Anche perché – e questo lo lasciava stupito più di qualsiasi altra cosa – aveva sentito la necessità di salvarlo.

Nel corso dell'ultimo mese il sogno si era fatto ricorrente: l'uomo, lo strano uccello, la distesa sabbiosa comparivano ad intervalli regolari di due o tre giorni e lui, spinto da un bisogno incomprensibile, continuava a salvare lo sconosciuto dal drago che lui aveva creato.

Quella notte non aveva fatto eccezione, se non per un particolare apparentemente insignificante e che, invece, lo stava preoccupando seriamente: per la prima volta aveva assunto forma completa all'interno del sogno. E sapeva bene quanto fosse pericoloso.

Immerso nei suoi ragionamenti, si accorse in ritardo che nel salone non era più solo. Suo fratello Mycroft era apparso sulla soglia e lo stava osservando con occhi di fuoco.      

“Fratello mio!”, esordì il Walda “Cosa è successo? Le creature oniriche-”

“Lo so.”, tagliò corto Sherlock, il pensiero fisso sugli occhi dell'uomo biondo all'interno dei suoi sogni.

“E, dunque, cosa è successo?”, inquisì Mycroft.

“Il solito.”, sbuffò Sherlock “Quel sogno.”

“Sai che non possiamo permetterci di perdere. Ne va delle nostre vite. Non c'è un modo per evitare che quel sogno s'insinui nella tua testa?”

“Non si possono controllare i sogni fino a quel punto, Mycroft.”, disse spazientito Sherlock “Posso solo entrarvi e, come ben sai, non posso neanche scegliere il sogno. Posso solo accettarlo.”

Fece una pausa e si mise ad osservare le braci che lentamente annerivano.

“Mi fa infuriare!”, sbraitò, rompendo il silenzio che era appena calato “Questo sogno, quell'uomo, l'idea di non sapere cosa sia, il tarlo che possa essere un contorto piano di Moriarty! E adesso!”, aggiunse con voce sempre più irata “Ho persino preso forma completa!”

Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.

“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”

“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”

Sherlock passò la mano tra i riccioli neri, come per cercare di dipanare la massa dei suoi tumultuosi timori. Il fratello sembrò comprendere il suo disagio e lo guardò con occhi pieni di comprensione, nonostante le sue stesse paure.

Nei sogni entriamo in un mondo che è interamente nostro.”, tentò di confortarlo “E tu ne sei il più esposto. Che ci sia una qualche connessione con l'uomo dei sogni?”

“Nessuna, che io sappia. Non so chi sia, non fa richieste, chiede solo aiuto. Ed io sento il bisogno di salvarlo, un bisogno impellente e a cui non posso sottrarmi.”

Mycroft gli diede un'ultima occhiata prima di voltarsi.

“Devi scoprire chi sia e cosa voglia, Sherlock.”, lo redarguì “Non ne vale solo della tua sanità mentale, ma della salvezza del nostro intero villaggio.”

Detto ciò, uscì dal salone, lasciando Sherlock da solo.

Come se non fosse già quello il mio obiettivo. Come se non stessi già pensando come fare.

Era giunto ormai il momento di tentare qualcosa mai tentato da atri Swefnesfaran: prendere forma – e voce – completa e parlare con l'uomo. Era estremamente pericoloso, ma aveva bisogno di risposte. Risposte che solo il biondo era in grado di dargli.

 

 

N.d.A.

 

Unswefn: parola in inglese antico che significa, alla larga, “incubo”.

“So two nights passed: the night's dismay…Distemper's worst calamity.”: i primi quattro versi della terza e ultima strofa del componimento “The Pains Of Sleep” (“I Dolori Del Sonno”) di Samuel Taylor Coleridge. Barbaramente tradotti come: “E così due notti passarono: lo sgomento della notte/intristì e sconvolse il giorno successivo./Il sonno, quella grande benedizione, mi sembrò/la peggior calamità del cimurro.”

“Deep into that darkness peering…dared to dream before.”: i primi due versi della quinta strofa della poesia “The Raven” (“Il Corvo”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotti con: “Scrutando nel profondo di quell’oscurità, stetti fermo a lungo, domandandomi, temendo,/dubitando, sognando sogni che nessun mortale aveva osato sognare prima.”

Resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.: le prime due piante citate (il nocciolo e l’ontano) sono piante considerate sacre nella tradizione celtica e significative anche nelle culture pagane anglo-sassoni che conquistarono l’isola a partire dal V secolo d.C. L’ontano, infatti, è un albero associato all’acqua e, insieme ad essa, aiuta il corpo e lo spirito ad eliminare le energie negative; inoltre questo rapporto ontano-acqua è considerato fondamentale per mettere in comunicazione questo mondo con l’aldilà e i guerrieri costruivano spesso scudi con questo legno. Il nocciolo, invece, è considerato l’albero della conoscenza, delle scienze e delle arti: i druidi, infatti, per invocare i loro incantesimi utilizzavano bastoni di nocciolo e gli dei avevano una grande considerazione per questa pianta. Per queste ragioni ho deciso di utilizzare specificamente queste due piante da bruciare nel braciere. Invece, per l’alloro la storia è un po’ diversa. L’alloro essiccato, infatti, veniva utilizzato dalla Pizia (la sacerdotessa/profetessa dell’Oracolo di Apollo a Delfi) che ne inspirava i fumi per ottenere le visioni sul futuro. L’alloro è, tuttavia, una pianta tipicamente mediterranea e difficilmente rintracciabile in Gran Bretagna in quel periodo. Nonostante ciò, mi sono concessa una licenza “poetica” e ho finto che Sherlock, dall’alto della sua intelligenza, abbia studiato anche le tradizioni di altre civiltà come, del resto, probabilmente aveva fatto anche Moran.

Birra con un infusione di foglie d'edera triturate: a quanto pare, dalle mie ricerche, i druidi celtici (e anche altre popolazioni germaniche) si servivano di questo intruglio per creare allucinazioni che permettessero loro di fare previsioni sul futuro. L’edera, essendo una pianta velenosa, veniva usata in combinazione con la birra ottenendo quasi una specie di droga.

Walda: in inglese antico significa “Signore”. Era uno dei titoli con cui poteva essere designato il capo di un villaggio anglosassone.

Swefnesdræfend: parola composta da due termini in inglese antico “Swefn” (al caso genitivo “Swefnes”), sogno, e “Dræfend”, cacciatore. Il termine significa tendenzialmente “Cacciatore di Sogni”.

Swefnesweriend: sempre dall’inglese antico. “Weriend” significa “Difensore”. Da cui ne deriva che Sherlock è un “Difensore di Sogni”.

“Nei sogni entriamo in un mondo che è interamente nostro.”: citazione casuale (dico “casuale” perché mi è assolutamente venuta in mente per caso) da “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban”.

Swefnesfaran: ancora inglese antico. “Faran” è il nominativo plurale della parola “Fara” che significa “Viaggiatore”.

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Capitolo 3
*** Atto Secondo: Swefn. ***


Atto Secondo: Swefn

 

Scena Prima

 

 

The fact that everybody in the world dreams every night
Ties all mankind together.

 

John si alzò e si sedette sul bordo del letto. Per alcuni minuti fu incapace di distinguere efficacemente ciò che gli stava attorno. La luce della finestra, la familiare sagoma dell’armadio, la porta socchiusa: tutto gli appariva sfocato e tinto di una sensazione che non riusciva a spiegarsi.

Era come se tutto quell’ambiente che lo circondava non corrispondesse alla realtà, ma ad un sogno e che, invece, l’incubo da cui si era appena riscosso rappresentasse il reale. Non era, a dir la verità, una percezione nuova. Più volte, dopo il suo ritorno dall’Afghanistan, si era trovato a dover fare i conti con incubi che sembravano più veritieri della sua stessa vita.

Questo, però, era accaduto ancora quando il drago non esisteva e il deserto dell’Afghanistan non era una foresta mai vista prima. Lo spaventava, invece, che la sensazione perdurasse anche in un contesto totalmente immaginario composto da un drago nero – creatura inesistente – e da una foresta che poteva tranquillamente affermare di non aver mai visto prima.

La sua psicoterapeuta affermava che i sogni, gli incubi che faceva continuamente erano un affiorare del suo subconscio e, di conseguenza, delle sue paure più remote. Ma quella regola si poteva applicare benissimo alle scariche di Kalashnikov o a un’esplosione nella notte, ma a un drago? John non era certo un bambino che si lasciava spaventare dalle fiabe! Tuttavia…quell’essere mitologico sembrava tutt’altro che fantasia e di questo John non riusciva proprio a capacitarsi. Era come se  vivesse il sogno. Molto più che con i vecchi incubi – quelli con mitragliatrici e pattuglie in mezzo alle brulle colline afghane – John si trovava catapultato all’interno di un universo perfettamente tangibile, dove il drago era reale, la foresta era reale, il dolore alle ginocchia con cui si era svegliato era reale, l’uomo era reale.

Ecco. Ora c’era persino l’uomo.

Ne aveva quasi percepito la presenza già dalle prime volte in cui le distese desertiche avevano lasciato il posto a lussureggianti faggi e querce, come un deus ex machina che guardasse quello che stava succedendo. Ma anche quella sensazione era rimasta inspiegata ed inspiegabile tuttora.

Probabilmente una proiezione del suo timore nei confronti del mondo da quando è tornato invalido dalla sua missione, gli aveva spiegato la psicoterapeuta. Lei, dottor Watson, si sente osservato quando cammina in mezzo alla strada, quando si siede ad un tavolo, quando scende le scale a causa del suo claudicare. Questo la porta a provare un senso d’inferiorità che il suo subconscio rielabora come una figura invisibile che la osserva persino all’interno dei suoi incubi. Quel deus ex machina di cui lei parla non avrà mai volto, perché non è nient’altro che la materializzazione onirica dei suoi dubbi, della sua supposta inferiorità.

Eccetto che ora quella figura che non avrebbe mai dovuto avere forma, una forma l’aveva ottenuta: dapprima indefinita, infine netta. E se i contorni del sogno andavano man mano svanendo con i minuti che ticchettavano inesorabili, lo stesso non si poteva dire per quell’immagine che si faceva più nitida, a imprimersi nella sua memoria.

Era con lui quando, finalmente, si decise ad alzarsi dal letto. Era con lui quando si preparò un paio di uova per colazione. Era con lui quando, di fronte allo specchio, passò lo spazzolino da denti negli angoli più remoti della sua bocca. Era con lui quando, alle dieci meno dieci precise, prese la metropolitana per recarsi allo studio della dottoressa Thompson, come il post-it sul frigorifero gli aveva gentilmente ricordato.

Come anche le volte precedenti, John non era molto propenso a seguire quel percorso terapeutico a cui doveva per forza essere sottoposto. Si sentiva – in un certo qual senso – intrappolato dalla donna che gli poneva domande a cui lui stesso non riusciva a dare una chiara risposta.

È l’unico modo per guarire, per riguadagnare la mia vita normale, andava ripetendosi inutilmente.

Seduto sullo scomodo seggiolino di plastica della Circle Line, la sua mente tornò all’improvviso a concentrarsi sul suo sogno notturno. Prevedibilmente, ormai tutto gli appariva sfumato e quasi irriconoscibile. Il drago era diventato un vago ricordo fumoso, la foresta una macchia verdognola. Ma l’uomo, incomprensibilmente, era rimasto lo stesso. Poteva vederlo con chiarezza anche lì, sballottato dal rollio della carrozza sulle rotaie, schiacciato tra un tale addormentato ed una signora dal sottile odore di cavolo bollito.

Lui, nel suo splendore così onirico e così reale. I capelli neri ricci che contornavano un volto stanco, ma severo e risoluto; così come gli occhi azzurro ghiaccio che apparivano profondi e intensi. Si erano guardati dritti in volto, entrambi stupiti di trovarsi l’uno di fronte all’altro. Poi quelle parole pronunciate a un fil di voce e il drago era scomparso, il sogno era scomparso.

Come se mi avesse salvato, come se ci fosse sempre stato a salvarmi.

Un pensiero senza senso, ovviamente. Perché l’uomo dai capelli neri non esisteva. Perché lui non conosceva nessuno che avesse le stesse fattezze di quella figura ammantata di bianco.

Quando valicò la porta dello studio della dottoressa Thompson e si sedette sulla sua solita poltroncina, il suo volto probabilmente metteva in bella mostra tutti i suoi pensieri perché la donna, quasi ancor prima di salutarlo, gli chiese secca:

“Come vanno gli incubi?”

Due ore di psicoterapia dopo, John sentiva di non aver trovato neanche una risposta alle sue domande. La dottoressa lo aveva rassicurato per l’ennesima volta del fatto che draghi e foreste potevano essere emersi dal suo inconscio infantile e che certamente, questi ricordi annebbiati della sua infanzia, si erano mescolati con quelli della sua esperienza di vita. Inutilmente aveva tentato di spiegarle che nessuno si era mai interessato di leggergli fiabe quando era bambino, né lui era mai stato particolarmente attratto dalla lettura. Altrettanto inutilmente aveva insistito sul punto dell’uomo che aveva fatto la comparsa nel suo incubo.

“Sembra che quel deus ex machina abbia preso forma.”, le aveva spiegato.

“È qualcuno che conosce?”, aveva chiesto lei.

“No, nessuno. Eppure non è sfumato, è chiaro e netto, come se lo avessi di fronte a me tutti i giorni.”

“Probabilmente è qualcuno che ha conosciuto, dottor Watson, e la cui immagine le è rimasta impressa nella memoria.”

Erano stati inutili anche i tentativi di spiegarle che non era così, che la sensazione che provava ad ogni nuovo sogno – o incubo che fosse – era diversa da quella che aveva sempre provato sognando. Con il rifiuto di comprenderlo – e chi poteva, del resto, dar adito a un matto che sosteneva che i sogni erano in qualche modo reali? – della dottoressa Thompson se ne andava così anche la sua ultima speranza di trovare risposte a dubbi, impressioni che non si cancellavano dalla sua mente.

“Dovrebbe scrivere un blog.”, gli aveva suggerito la donna in uno dei loro primi incontri “Racconti tutto quello che le succede: la aiuterà a liberarsi dai suoi timori più reconditi, dai suoi incubi.”

“E cosa potrei raccontare?”, le aveva domandato “Non mi succede nulla.”

Questa conversazione era avvenuta prima dei draghi e dell’uomo dalla tunica bianca, quando tutto era banale e piatto. Ora, se proprio doveva dire il vero, qualcosa da scrivere su un blog lo aveva. Ma chi avrebbe letto le buffe avventure di John Watson catapultato in un mondo inesistente? Perché la parte razionale nel suo cervello glielo diceva chiaramente che quell’idea dell’esistenza di una specie di Mondo dei Sogni – e, con esso, di un Uomo dei Sogni – era una follia completa.

E ci manca anche questo per escludermi definitivamente dalla vita sociale. Zoppo e matto.

Ma una parte illogica costringeva al silenzio il suo cervello. E così accadeva che, per quanto tentasse di razionalizzare gli incubi, per quanto tentasse di svegliarsi da essi, finiva per esserci sempre più immerso, a caccia di un mistero che solo lui riusciva a vedere, a braccare un pericolo tanto immaginario quanto reale.

Quella notte, mentre appoggiava la testa sul cuscino, sentì come qualcosa di elettrico nell’aria, un cenno di una strana anticipazione. Si addormentò profondamente nel giro di pochi secondi. E il sogno cominciò.  

 

Atto Secondo: Swefn

 

Scena Seconda

 

 

You are not wrong, who deem
That my days have been a dream;
Yet if hope has flown away
In a night, or in a day,
In a vision, or in none,
Is it therefore the less gone?
All that we see or seem
Is but a dream within a dream.

 

Sherlock aveva lasciato la sua abitazione qualche secondo dopo l'alba. Un pallido sole si faceva largo tra le fronde degli alberi sulla collina dei noccioli, fino ad illuminarne la fitta boscaglia sottostante. Lo Swefnesweriend sapeva bene che era necessario che il legno di nocciolo adatto ad essere bruciato fosse raccolto “da un ramo rivolto ad oriente, un'ora dal primo sorgere del sole, con rugiada sul fogliame novello, tagliato con una lama ricurva bagnata nella sorgente sacra al plenilunio”.

Sherlock passò le dita sul coltello che portava appeso alla cintola. Per uno Swefnesfara di talento naturale – come lui o Moran – tutti quegli accorgimenti erano soltanto accessori. Paradossalmente gli sarebbe bastato chiudere gli occhi e recitare la formula corretta, senza aver bisogno di fumi o intrugli. Tuttavia aveva imparato a non sopravvalutare le sue capacità, né a sottovalutare l'imprevedibilità dei sogni stessi. Essi, del resto, possedevano vita propria all'interno della mente di ogni individuo e la minima disattenzione poteva essergli fatale. Soprattutto dopo l'arrivo di Moran come suo diretto avversario aveva deciso di attenersi scrupolosamente al rituale prestabilito. Ancora di più da quando i suoi viaggi onirici avevano preso una piega del tutto inaspettata.

Mentre osservava gli alberi di nocciolo che lo sovrastavano alla ricerca di quello corretto, la sua mente ripensava a quei continui sogni “sbagliati”. Da dove venissero, perché vi avesse accesso, che cosa significassero era un mistero che bisognava risolvere. Il viso dell'uomo biondo in mezzo alla radura gli apparve di fronte, nitido come se fosse di fronte a lui in quel preciso istante. Con quell'uomo del sogno – al quale, ovviamente, ne corrispondeva uno reale da qualche parte – sembrava avere un qualche legame particolare, tanto che quest'ultimo riusciva ad occupare con i suoi sogni tutta la mente di Sherlock. Costantemente e ripetutamente.

Ma chi è? Perché riesce ad eclissare tutti gli altri sogni in cui dovrei entrare? È un nemico? All'apparenza lo è, dato che la sua intrusione nei miei viaggi non mi permette di difendere il villaggio. Ma sento che non rappresenta alcun pericolo. E allora chi è? Perché proprio i suoi sogni?

Si fermò di fronte all'albero di nocciolo perfetto e vi tagliò via il ramo necessario, poi appoggiò la fronte sul tronco e si scusò per averlo privato di una sua parte.

Quella sera stessa tutto era pronto per svolgere il rituale ed entrare, di conseguenza, nel mondo dei sogni. La certezza di riuscire a tornare nel sogno dell’uomo biondo e, quindi, di trovare le risposte che cercava non l’aveva, ma sentiva dentro di sé come una specie di richiamo antico, un canto che lo portava a pensare che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Dopotutto ci doveva essere un motivo per cui attraversare i sogni di quell’uomo gli riuscisse così semplice.

L’unica cosa che lo preoccupava era di non essere sicuro di riuscire a mantenere il se stesso – e la visione onirica – stabile a lungo per poter parlare abbastanza. Sebbene suo fratello lo considerasse un compito da nulla, giacché non fisicamente faticoso, lui sapeva benissimo quanto la connessione mentale fosse estenuante, quanto il valicare le porte della percezione irreale fosse un fardello che solo quelli che lo provavano potevano comprendere.

Il fuoco sacro bruciava nella stanza da un po’ e stava finalmente cominciando a scemare, lasciando spazio al fumo che avrebbe dovuto inspirare. Bevve il solito miscuglio di birra tiepida e pestato d’edera, poi chiuse gli occhi. Dopo i primi istanti di buio, una sensazione familiare di calore lo avvolse.

È il sogno giusto. Prima c’era solo smarrimento, qui vi è appartenenza.

La sagoma familiare dell’essere alato apparve per pochi secondi prima che lui – in un paio di parole magiche – riuscisse a trasformarla in un drago. Ormai era talmente bravo a trasformare quel sogno che ci metteva pochi istanti. Il problema, ora, era riuscire a diventare corporeo. La notte precedente vi era riuscito senza volerlo, ora doveva farlo coscientemente. La seconda formula magica sgorgò dalle sue labbra ancor prima che potesse farvi attenzione. L’uomo biondo sotto di lui scappava, ansimante, verso la radura dove avrebbe incontrato il drago. Benché sentisse prepotente la spinta di correre immediatamente a salvarlo, Sherlock continuò la cantilena. Non poteva permettersi di distrarsi quando era così vicino a varcare un limite invalicabile.

Alla terza formula magica, sentì il suo corpo guadagnare una certa consistenza. Fare ciò incoscientemente – si chiedeva ancora come fosse stato possibile aver preso forma completa il giorno antecedente – era sembrato semplicissimo, ora sentiva tutto il peso del suo essere in quell’ambiente inesistente. O, meglio, esistente in una consistenza diversa da quella della realtà.

Comparve, infine, nello spiazzo erboso dov’era già apparso. Con l’ennesimo incantesimo fece sparire il drago e si concentrò per mantenere la stabilità della visione.

L’uomo biondo lo osservò stupito, come se si aspettasse che l’incubo finisse in quel momento. Era una deduzione logica, pensò Sherlock, dato che finora era accaduto esattamente così.

Ma non oggi.

L’uomo, ancora trafelato, si fermò, diede un’occhiata dietro di sé alla ricerca del drago scomparso, poi si voltò nuovamente verso Sherlock.

“Chi sei?”, urlò all’improvviso, poi si zittì, sul volto un’espressione di stupore.

“Chi sei tu?”, chiese, invece, Sherlock, percorrendo in un secondo i metri che lo separavano dall’altro.

“Sto parlando…”, balbettò l’uomo “Sto parlando in un sogno…”

Sherlock lo guardò con fare curioso.

“Ovviamente stai parlando in un sogno.”

“Sto impazzendo. Ormai è certo, sto diventando matto…”

“Di che fesserie vai cianciando?”, si stupì lo Swefnesweriend “Hai già parlato nei tuoi sogni. Ma ora veniamo a noi. Chi sei? Perché continuo a finire nel tuo sogno? Cosa vuoi da me? Lavori per Moriarty?”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono nella più vivida espressione di perplessità che Sherlock avesse mai visto.

“Non ho mai parlato coscientemente. Non ho mai…risposto a delle domande.”, disse, la voce bassa “E poi cosa significa continuo a finire nel tuo sogno?”

“Tu non sai cosa sono io?”, lo sguardo di Sherlock tradì i suoi pensieri.

“Io non so nulla. Non so chi tu sia, perché appari nei miei sogni! E non voglio niente da te!”, poi mormorò “Ma perché continuo a parlare con un’allucinazione? Sto impazzendo…”

“Tu davvero non sai…”

Quindi non sa cosa sono, non interferisce nei miei sogni di sua volontà, non sa che esistono gli Swefnesfaran. Non-

“Non so niente!”, urlò l’uomo, disperazione nella sua voce.

Sherlock tentò di ragionare velocemente per capire se l’uomo stesse mentendo, se nei sogni le sue capacità deduttive fossero in qualche modo offuscate. Ma no, l’uomo diceva la verità. Lo sentiva.

“Sono Sherlock.”, disse lo Swefnesweriend ad un certo punto “E sono un Difensore di Sogni.”

“Un…cosa? Sto definitivamente impazzendo. Non solo parlo con i sogni, ma questi rispondono alle mie domande, dicendo cose assurde. Bene, John, bene. Altri cinque anni di psicoterapia non potranno che farti bene.”

“No, ascolta.”, spiegò Sherlock, desideroso di stabilire un qualche legame con l’uomo misterioso “John, giusto?”

L’uomo annuì debolmente.

“Ascolta, John.”, riprese “Non stai impazzendo, né altro. Puoi parlare nel sogno perché il sogno che stai vivendo è una realtà a sé stante. Tutti i sogni lo sono, ma generalmente si è solo passivi e non li si può controllare. Questo è quello che succede sempre nei tuoi incubi, ma io posso rendere quella sostanza  - anche se non è il termine corretto – effimera reale. O, meglio, posso modificare quella sostanza affinché essa faccia quello che dico io.”

John, dai suoi occhi azzurri, lo guardò perplesso.

“Tu sei un’allucinazione che dice cose assurde!”

“No, non lo sono. Credimi. È un’arte antica la mia, un’arte difficile e di cui pochissimi sono dotati a sufficienza per praticarla. Io esisto per difendere le persone dai propri incubi, dalle proprie paure. Sono una persona reale al di fuori del sogno proprio come lo sei tu.”

Lo sguardo dell’uomo sembrò distendersi, per poi accigliarsi di nuovo.

“Stai dicendo cose…cose! Cose senza senso!”, ma si ammutolì, il volto farsi pensieroso “Ma…ti credo. Cioè, penso di crederti. Oh, dannazione! Non lo so!”

“So che è complicato, se non conosci il concetto.”, si fermò e allungò il braccio verso John; pur sapendo che il contatto non era assolutamente consentito, sentì di doverlo fare “Se mi tocchi, riuscirai a comprendere.”

John allungò tremante la mano. Le due entità oniriche si toccarono, attraversandosi. In quel tocco quasi elettrico Sherlock capì cos’era John e comprese che anche John riuscì in un qualche modo a percepire che cosa fosse lui.

“Tu…vieni dal futuro. Il tuo sogno è un sogno di molti anni lontano dal mio presente.”, fu tutto ciò che Sherlock riuscì a dire.

“E tu…tu sei il passato.”, rispose John “Tu sei reale in un tempo passato.”

La rivelazione fu sconvolgente per Sherlock. Non solo era entrato – per un motivo ancora ignoto – nel sogno di una persona sconosciuta, ma aveva fatto tutto ciò attraversando ad occhio e croce circa un millennio. Non era mai successo. Ed era potenzialmente pericolosissimo. Eppure continuava a sentire che tutto quello fosse in un qualche modo giusto, destinato ad essere. Il tocco con l’uomo aveva solo confermato quella sensazione.

“Perché sei nei miei sogni?”, chiese John “Qual è la ragione?”

Sherlock abbassò lo sguardo a terra e scosse la testa.

“Potessi darti una risposta, lo farei volentieri. Metterebbe in pace il mio animo tormentato.”

Si sedette sull’erba, seguito da John.

“Il mio compito è quello di proteggere il mio villaggio dagli attacchi onirici perpetrati da un Cacciatore di Sogni di nome Moran. Questo è ciò che ho sempre fatto, almeno finché non sono apparsi i tuoi strani sogni. Da allora continuo ad imbattermi in te e non riesco più a svolgere il mio dovere.”

John lo osservò con curiosità, ma Sherlock capì che il tempo a loro disposizione era agli sgoccioli. Sentì, infatti, chiaramente che la sua figura si stava dissolvendo.

“Quindi sarebbe colpa mia?”, chiese l’uomo un po’ stizzito.

“Non ti sto dando la colpa. Ma non riesco a capire. Ed io odio non capire, ignorare cosa stia accadendo.”

“Un po’ presuntuoso, non trovi?”, l’uomo biondo sorrise “Tutti noi non sappiamo qualcosa, c’è sempre un po’ di mistero.”

“La cosa interessante di un mistero è risolverlo, non credi, John?”

“Ci sono misteri che sono meravigliosi perché rimangono tali. Questo incontro inaspettato forse è uno di essi.”, sorrise apertamente John, un sorriso sincero che, per un attimo, riscaldò il cuore di Sherlock.

Quella fu l’ultima immagine prima che il sogno si dissolvesse, quella che rimase indelebilmente impressa nella sua mente. Riuscì soltanto a dire un’ultima cosa prima che tutto sparisse nel nero.

“Alla prossima.”

Perché era certo che quella non fosse l’ultima volta anche si sarebbero incontrati, anche perché non voleva che fosse l’ultima. Dopo quella breve conversazione, dopo quel sorriso così chiaro, così intenso, John aveva assunto tutto un altro significato. Un significato che non comprendeva e che, forse, come aveva detto l’altro uomo, non voleva assolutamente comprendere. Che John esistesse in sogno, in un altro tempo, in un altro luogo e che fosse, al tempo stesso, lì con lui era tutto ciò che gl’interessava.   

 

 N.d.A.

 
Swefn: come già specificato in precedenza, dall’antico inglese e significa “Sogno”.

“The fact that…ties all mankind together.”: citazione dall’introduzione de “Il libro dei sogni” fatta da Jack Kerouac. Tradotta con “Il fatto che ciascuno (di noi) sogni lega l’umanità insieme.”

“You are not wrong, who deem…Is but a dream within a dream.”: citazione dalla  poesia “A Dream Within a Dream” (“Un sogno dentro al sogno”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotta come: “Non sbagli, tu che credi/che i miei giorni siano stati un sogno;/Ma se la speranza è volata via/In una notte, o in un giorno,/In una visione, o in nessuna,/È perciò meno scomparsa?/Tutto ciò che vediamo o crediamo (di vedere)/Non è nient’altro che un sogno dentro a un sogno.”

Da un ramo rivolto a oriente…plenilunio: pura e totale invenzione. Ho utilizzato alcuni elementi dello sciamanesimo/druidismo (tra cui il coltello ricurvo e l’idea di cogliere le piante ad una determinata ora del giorno), ma senza che la fonte della mia idea sia specifica. Scusate, ma non è un vero e proprio rituale.

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Capitolo 4
*** Atto Terzo: Ende. ***


Atto Terzo: Ende

 

Scena Prima

 

 

There are more things in Heaven and Earth, Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy.

 

John si svegliò di soprassalto, la mente ancora completamente concentrata sul sogno che aveva fatto. Per la precisione: sull'uomo del sogno. Che ora aveva un nome, Sherlock, e che aveva persino un'occupazione, difendere i sogni. Il tutto gli pareva talmente reale e assurdo che, seduto sul letto per alcuni secondi, fece fatica a distinguere i contorni di ciò che gli stava attorno. Il sogno, la radura, la conversazione erano sembrati più reali della realtà e, come mai prima d'ora, aveva sentito di appartenere a quella dimensione onirica.

Il che, se ci ragionava bene, era una follia completa. Ma quel breve contatto con l'uomo, quella scossa che aveva sentito, quella conversazione lasciavano a John ben poco spazio per credere che fosse pazzia. Sembrava tutto così naturale e atteso, tutto così assolutamente perfetto e cercato, da essere logico.

Se non che la mia psicoterapeuta mi farebbe ricoverare immediatamente, se sapesse una cosa simile.

John capì che sarebbe stato inutile tentare di spiegare quello che aveva appena provato alla donna. Non era una sensazione che si poteva spiegare a parole, né, probabilmente, sarebbe mai riuscito a trovare i termini giusti per definire tutto ciò che era successo. Ricordava tutto nitidamente, come se fosse avvenuto nel mondo reale e non nel mondo dei sogni. Ed era certo che fosse reale. Era certo che esistesse uno Sherlock che vivesse in un tempo passato e che – per una ragione misteriosa – si trovasse anche all'interno dei suoi sogni. E credeva anche alla storia dello Swefnesweriend, per quanto fantasiosa potesse sembrare. Non sapeva spiegarsi il perché, ma nutriva nei confronti di quell'uomo una fiducia che veniva direttamente dall'interno della sua anima e che, sentiva, non poteva essere intaccata da nulla.

Perché è giusto così. E nessuno potrà mai convincermi del contrario.

Forte di questa convinzione e dell'idea che un filo legasse lui e Sherlock, John sentì, per la prima volta dopo il suo ferimento, di avere qualcosa per la quale la vita non gli pareva più così grigia e inutile. Ben presto quei sogni divennero il cardine della sua esistenza e i continui incontri con l'uomo divennero ciò che di più importante avesse mai avuto.

Nel corso delle tre settimane successive a quel primo vero incontro, i sogni continuarono con costanza.

Sherlock gli spiegò diverse cose che non riusciva a comprendere. Nell'incontro successivo gli spiegò, per esempio, il perché riuscissero a capirsi nonostante la loro lingua fosse diversa.

Nei sogni è possibile perché sono una realtà alternativa e possiamo fare esperienze differenti rispetto alla nostra quotidianità”, gli aveva spiegato “e siamo noi che, grazie ad una parte della nostra volontà, rendiamo possibile l'impossibile.

Dunque una parte della mia volontà vuole conversare con te?”, aveva chiesto John, curioso.

Sherlock aveva disteso il volto e aveva sorriso compiaciuto.

Sei piuttosto sveglio.”, gli aveva detto con una certa soddisfazione “È proprio così.

Un'altra volta gli aveva domandato come fosse la vita ai loro tempi.

Noiosa.”, gli aveva risposto “Guerre, battaglie e poco altro.

Poi gli aveva spiegato di suo fratello Mycroft, il Walda del villaggio, della battaglia che stavano conducendo contro Moriarty, il Walda del villaggio confinante, dell'arrivo di alcuni stranieri che non parlavano la loro lingua, della loro religione e del loro modo di vedere il mondo. John ne era rimasto affascinato, ma nulla al confronto della curiosità che Sherlock nutriva verso il futuro.

Il tuo mondo, invece, com'è?”, gli aveva chiesto un paio di notti dopo.

Diverso dal tuo, ma egualmente noioso. O, almeno, per me lo è.

E gli aveva raccontato che le guerre c'erano ancora, che lui stesso era stato un soldato, che era stato ferito. Era anche riuscito, con qualche difficoltà, a spiegargli che l'oggetto da cui continuava a salvarlo non era un uccello, ma un elicottero. Sherlock ci aveva rimuginato sopra per un bel po' di tempo e poi aveva sentenziato, tra il divertito e il perplesso.

Credo di aver intuito.”, e aveva sorriso.

Un'altra volta ancora John lo aveva pregato di spiegargli cosa prevedesse esattamente il fatto di essere uno Swefnesweriend. Lo aveva chiesto perché Sherlock sembrava quasi sempre sorvolare l'argomento o minimizzarlo.

È una benedizione ed una dannazione. È un dono, direbbero alcuni. Ma la verità è che è un fardello che lascerei volentieri a qualcun altro. Tuttavia so che è mio preciso dovere svolgere questo compito, mi piacerebbe solo metterci più passione.

Vorresti fare altro?”

Avessi una possibilità di scelta sì. Ma ammetto che le alternative non sono molto allettanti. Il cacciatore o l'agricoltore non mi si addicono proprio, per non parlare del guerriero. Essere uno Swefnesweriend almeno mi libera da queste stupide incombenze.

John aveva ammesso che, effettivamente, non c'era molta varietà lavorativa nell'epoca di Sherlock.

Ma se potessi scegliere, cosa ti piacerebbe fare?”, aveva insistito.

Riderai di me, se te lo dico?”, aveva sorriso debolmente “Mi piacciono i misteri. Mi piace vedere oltre la realtà apparente delle cose. Mi piace scavare là dove la gente rifiuta di farlo, perché considerato immorale o empio. Se potessi, mi piacerebbe scoprire chi sia il colpevole, per esempio, dei delitti...

Perché dovrei ridere? È un lavoro affascinante!

Ma non esiste!”, aveva sentenziato, ridendo, Sherlock.

Nella mia epoca sì.”, aveva risposto John “Si chiama 'investigatore'.

Investigatore?”, aveva ripetuto Sherlock, affascinato dalla parola “Allora farei l'investigatore. Mi piace la tua epoca.

E aveva sorriso.

I sorrisi di Sherlock, John ormai lo sapeva bene, erano rari. Erano sorrisi che si dischiudevano quando meno ce li si aspettava: apparivano per un'argomentazione brillante da parte di John, per un termine particolarmente arguto, per un ragionamento corretto. Erano sorrisi che toccavano il profondo dell'anima, lasciandoci un'impronta indelebile, e che conservava come un tesoro prezioso nelle grigie e fredde giornate londinesi. Quando tutto andava storto, gli bastava ricordare quel leggero scintillio negli occhi azzurro-grigi di Sherlock nel momento in cui sorrideva e tutto pareva prendere la direzione giusta. Era come se Sherlock fosse diventato la risposta a tutto, l'unico ad essere riuscito ad allontanare l'incubo della guerra dalla sua mente.

Anche la sua gamba aveva risentito positivamente del cambiamento operato da Sherlock. Man mano che i sogni proseguivano, il dolore si era attenuato, fatto sempre più lieve, quasi cessato. Era una sensazione di rinascita incomparabile. E doveva dir grazie di tutto ciò ad un uomo inesistente nel mondo a lui contemporaneo.

Da quando c'era Sherlock, inoltre, tutto ciò che lo circondava era diventato quasi sbiadito, mentre il tempo che passava con lo Swefnesweriend si era trasformato in tutto ciò di cui aveva bisogno. Le loro passeggiate nella foresta dove Sherlock gl'insegnava la differenza tra questa e quella pianta, le conversazioni su ogni tipo di argomento possibile – anche quelli del mondo attuale, a cui Sherlock si dimostrava estremamente interessato, i racconti che Sherlock faceva di tutti i sogni che aveva difeso.

Nel corso di tre sole settimane John aveva raggiunto – e se ne rendeva conto chiaramente – un'intimità con Sherlock che non aveva mai avuto con nessun altro. Quel senso di appartenenza che prima aveva riguardato soltanto il sogno in generale, si era ristretto alla sola figura di Sherlock. Tanto che John cominciò a maturare l'idea che la sua vita avesse un senso solo grazie a Sherlock e che, senza di lui, non sarebbe più riuscito a vivere. Era, in certi momenti, terrorizzato al pensiero che quei sogni si potessero interrompere e, quando lo Swefnesweriend saltava una notte perché impegnato nella difesa del villaggio, una paura oscura s'impadroniva di John, al punto da condizionare tutto il giorno seguente.

Un giorno questo peso era diventato intollerabile. Aveva passato la giornata a sperare, desiderare, bramare di vedere Sherlock quella notte, perché il solo accenno di non riuscire a incontrarlo nei sogni lo faceva star male. Era stato in quel momento che aveva capito. Non era stata un'illuminazione del momento, né un'idea folle, ma solo la naturale conseguenza di ciò che era accaduto fino a quel momento.

Sherlock, fortunatamente, era apparso quella notte. Dopo i convenevoli iniziali, John aveva posto la fatidica domanda che l'aveva tormentato per un giorno intero:

Non c'è modo in cui io possa raggiungere il tuo mondo?

Sherlock aveva scosso la testa sconsolatamente.

Nessuno.”, aveva risposto, mesto “Il mondo dei sogni è solo dei sogni. L'io-reale e il tu-reale non avranno mai alcuna possibilità d'incontrarsi, se non qui, in questa forma.

Ho paura che non duri.”, John aveva confessato.

Nulla dura.

Era stato in quel preciso istante che John si era reso conto che la figura di Sherlock aveva cambiato aspetto: il volto era emaciato, le occhiaie scavate, gli occhi velati da una patina biancastra, i capelli arruffati.

Sherlock...ma tu...

Non ce la faccio più a nasconderlo, John.”, gli aveva detto “In questi giorni ho tentato sapientemente di coprire il cambiamento del mio aspetto fisico. Non volevo che tu...

Non dovevi farlo...so quanta fatica ti costa modificare anche un solo singolo aspetto...

Non volevo preoccuparti.

Se vuoi possiamo interr-”, ma John non era riuscito a finire la frase.

No!”, aveva urlato Sherlock, la disperazione palese nel suo sguardo.

John aveva avvicinato la sua mano all'altro uomo alla ricerca di un contatto che mancava dal primo giorno. Le due mani si erano così sfiorate e attraversate. E John aveva sperato di riuscire a trasmettere in quel tocco ciò che a parole non riusciva esprimere. Quella naturale conseguenza era che si era innamorato di Sherlock. Inspiegabilmente, forse, per qualsiasi altro individuo sulla terra, ma non per lui. Sherlock era ciò che a John era sempre mancato, ciò che lo completava. Non esisteva un modo per spiegarlo chiaramente, non esisteva un modo per razionalizzarlo. Sapeva che era così e lo accettava. Accettava di amare un uomo che non avrebbe mai potuto incontrare davvero, si accontentava della sua presenza nella sua vita.

E con quello sfiorare aveva sperato di riuscire ad esprimere questo, dato che le parole non erano sufficienti. Non sarebbero mai state sufficienti per spiegare il suo cuore.

Ti amo, disse John in quel tocco, senza proferir parola.

Sherlock lo guardò semplicemente e i suoi occhi – e John sperò di non esserselo immaginato – sembrarono rispondere: anch'io.

Dopo quell'episodio, Sherlock era apparso sempre più stanco e vulnerabile e, la notte precedente, era sembrato anche spaventato.

Quel Moran...”, aveva detto “Mio fratello...

John aveva tentato di ricavare qualche altra parola, una spiegazione, ma non ci era riuscito. Avevano passato il tempo a guardare il cielo sopra di loro senza fiatare, le nuvole che scorrevano bianche nell'azzurro accecante.

Non esiste più l'azzurro, solo il grigio, John...

Era stata l'ultima frase che Sherlock aveva pronunciato, prima che qualcosa facesse svanire di colpo il sogno.

Quella notte, prima di appoggiare la testa sul cuscino, John ebbe paura. Dentro di sé sapeva che qualcosa era sul punto di cambiare completamente. E non per il meglio.

 

 

 

 

Atto Terzo: Ende

 
Scena Seconda

 

 

To die, to sleep.
To sleep, perchance to dream: aye, there's the rub,
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause.

 

Sherlock camminava avanti e indietro per la stanza. La guardia che si occupava di suo fratello era venuto a chiamarlo alcuni minuti prima, interrompendo bruscamente il sogno che stava facendo accanto a John.

John.

Quell'uomo così distante, eppure così vicino era diventato un problema, ma un problema di cui non riusciva – e non voleva – in nessun modo liberarsi. John era diventato la sua ancora di salvezza dopo estenuanti giornate a discutere con Mycroft delle migliori strategie da adottare contro le scorribande sempre più intrusive all'interno del loro territorio, dopo estenuanti nottate a combattere contro mostri onirici sempre più potenti, sempre più perfetti. I sogni di John – con John, si correggeva, perché John esiste – erano il suo rifugio tra una notte e l'altra. E, per quanto rendessero palese la sua debolezza, per quanto lo rendessero umano, non voleva che finissero.

Quella sensazione di appartenenza che aveva percepito fin dall'inizio, si era andata chiarificando con il tempo e si era trasformata in un sentimento che, inizialmente, aveva fatto fatica a definire. Era qualcosa di caldo e avvolgente che gli aveva dato il sostegno necessario per attraversare le giornate infernali che si era trovato ad affrontare e che gli aveva fornito uno scopo in una vita che aveva quasi sempre considerato come necessaria, ma inutile. John era, in poche parole, diventato il suo centro, indispensabile.

Quando, un giorno, dopo che lui e John avevano fatto una lunghissima passeggiata nel bosco onirico – infatti si era impegnato fino allo sfinimento per rendere quei loro sogni privi di creature mostruose e il più stabili e lunghi possibile, era riuscito a dare finalmente un nome a quella sensazione sconosciuta e, al tempo stesso, completante. Era amore. Il che era incredibilmente ridicolo, se ci pensava. Lui che aveva sempre considerato l'amore come una debolezza delle menti deboli, lui che era persino giunto a considerarlo un difetto della razza umana, lui si era innamorato. Eppure non c'era alcuna altra spiegazione plausibile. Desiderava la compagnia di John, desiderava vederlo sorridere di quel sorriso sincero e fiducioso che solo lui aveva, desiderava che quei sogni non finissero mai.

Nei momenti in cui la logica riacquistava peso, però, si rendeva conto di quanto indugiare in quegli sprazzi di felicità momentanea fosse pericoloso e ricominciava ad auto-imporsi di lasciar perdere, fino al punto di tenersi apposta lontano da quei sogni, con uno sfiancante sforzo di volontà. Nonostante ciò, il giorno seguente vi si ritrovava coscientemente al loro interno ed era una sensazione talmente appagante che l'idea di volervisi tenere a distanza appariva folle.

Tutto quello che stava succedendo era inspiegabile e, in quanto tale, terribilmente attraente per Sherlock, ma al tempo stesso era naturale, come se lui e John fossero uniti da un filo invisibile e destinati ad incontrarsi lì, in quel preciso frangente della loro vita. Sherlock non riusciva a dare una spiegazione nemmeno a questo, ma – strano a dirsi – per la prima volta nella sua vita non gl'importava. L'importante era John.

Il problema, tuttavia, rimaneva. Non solo perché tutta la sua attenzione si riversava nei confronti di John e del suo meraviglioso mondo futuro – investigatore, si ripeteva, suona bene –  compromettendo così la sicurezza del suo villaggio; ma anche perché John rimaneva chiuso nel mondo dei sogni e lui aveva la netta sensazione che questi loro incontri non sarebbero durati a lungo.

Ed ora, trascinato alla dura realtà da una zelante guardia, ne era ormai sicuro. Suo fratello – così gli aveva comunicato l'uomo – si era svegliato nel bel mezzo della notte gridando e mormorando frasi sconnesse e ogni tentativo di riportarlo alla ragione era fallito. Ora giaceva inerme nel suo letto, lo sguardo vacuo rivolto verso il tetto di paglia. Quando Sherlock era giunto al suo capezzale, aveva immediatamente capito la gravità della situazione. Già il giorno prima Moran aveva attaccato con forza e lui era riuscito, a fatica, ad evitare che Mycroft venisse divorato dal suo stesso sogno. In seguito ad un attacco così potente, Sherlock aveva calcolato che lo Swefnesdræfend avrebbe avuto bisogno di un giorno di riposo. Si era sbagliato. Aveva sottovalutato il suo avversario e lui ne aveva approfittato in un modo che Sherlock non avrebbe mai, prima d'allora, creduto possibile: era riuscito – grazie alle sue arti – a far uscire di senno Mycroft solo attraverso i sogni. Non sapeva, ovviamente cosa gli avesse fatto apparire in sogno, ma doveva essere stato qualcosa che non avrebbe potuto fermare nemmeno lui. Marginarlo? Sì. Sconfiggerlo? No.

Ma se non fossi stato con John, forse sarei riuscito ad impedire che impazzisse completamente.

Il senso di colpa lo rodeva nell'anima. Suo fratello era, nonostante i loro dissapori, l'unica cosa che lo legava al suo presente e, sebbene detestasse il compito ingrato di Swefnesweriend, lo aveva accettato perché Mycroft potesse regnare senza troppe preoccupazioni. Ma più forte ancora del senso di colpa nei confronti del fratello, si faceva largo in lui la paura di perdere John. Perché ormai era inevitabile che le loro strade dovessero separarsi definitivamente. Sherlock doveva prendere il comando ed era certo che, dopo la disfatta del Walda, i guerrieri del villaggio non avrebbero accettato gli ordini di uno che consideravano, alla meno peggio, irritante. E Moriarty non avrebbe esitato a chiedere la sua testa.

Sacrificare John sarebbe stato ancora apparentemente semplice se, pochi giorni prima, non si fossero sfiorati e tutti i sentimenti dell'uomo non gli si fossero palesati. Non era un amore unilaterale, era reciproco.

Ed ora che lo so, come faccio a dirgli addio? Come posso lasciarlo soffrire per il resto della sua esistenza? Vorrei che fossi qui, John, vorrei che tu fossi reale in quest'epoca, vorrei abbracciarti e dire che andrà tutto bene. Ma tu sei più di mille anni distante da me e io non trovo soluzione. Io soffrirò poco la tua mancanza. La mia testa rotolerà ancor prima che io possa rendermene conto. Ma tu? Tu col tuo amore così sincero e lampante, come farai?

La guardia, che lo aveva lasciato solo nella stanza, tornò per annunciare che gli altri nobili del villaggio erano arrivati e pronti per cominciare il consiglio.

La notte successiva, Sherlock, ormai Walda eletto all'unanimità – se si escludeva il suo fermo rifiuto, si chiuse nella sua stanza e osservò il braciere spento e gli ultimi rametti di nocciolo appoggiati a lato. Vi era anche un ramo secco di agrifoglio. Lo aveva scelto un po' di tempo prima perché, dai suoi studi, era risultato che quella pianta era in grado di creare un ambiente onirico sufficientemente protetto. Nel caso Moran avesse intenzione di attaccarlo quella notte, avrebbe trovato una barriera abbastanza potente da fermarlo.

E così, pensò tristemente, potrò dare il mio addio a John.

Sherlock accese il braciere e vi gettò sopra il legno e l'agrifoglio, sentendoli sfrigolare al contatto con il carbone rimasto dalla sera precedente. Zampilli rossi illuminarono l'ambiente per alcuni minuti. Quando il fuoco si fu indebolito e il fumo biancastro cominciò a intersecarsi nella stanza, lo Swefnesweriend lo inalò con avidità, sapendo bene che quella sarebbe stata l'ultima volta. Al recitare la formula magica, la stanza scomparve e si ritrovò nel solito bosco, ma ricoperto di neve.

Effetto dell'agrifoglio, pensò.

John apparve qualche secondo dopo da dietro un albero. I loro occhi s'incontrarono istantaneamente, come se non stessero aspettando altro.

“Neve?”, chiese John.

“Già.”, rispose Sherlock, accennando un sorriso.

Aveva anche tentato di cambiare velocemente il suo aspetto esteriore, in modo da apparire più in salute di quello che era, ma non ci era riuscito. Anche l'idea di mentire a John, di dirgli che era tutto a posto e che si sarebbero rivisti il giorno seguente gli era balenata nella mente, ma l'aveva scacciata con forza. John non era uno stupido e avrebbe intuito tutto all'istante. E, poi, non poteva mentire a John. Era come tradirlo.

“È merito dell'agrifoglio.”, continuò, sperando inutilmente che tutto ciò che stava passando non trapelasse dalla sua espressione.

Ma era chiedere troppo. John lo notò non appena si avvicinò. Il sorriso che gli aveva illuminato il volto fino a quell'istante svanì, lasciando il posto ad un espressione preoccupata.

“Hai un aspetto orribile...”, disse quasi paternamente.

“Non è niente, davvero.”, mentì involontariamente.

“Non dire bugie, Sherlock. Ieri notte non hai parlato per tutto il tempo e si vedeva che c'era qualcosa che ti tormentava più profondamente del solito. E oggi sei conciato – se possibile – ancora peggio dei giorni scorsi, come se un fardello enorme si sia depositato sulle tue spalle. Sarò anche distante migliaia di anni, ma tutto il tuo aspetto non mente, Sherlock.”

Piccoli fiocchi di neve cominciarono a descrivere spirali nell'aria, spazzati da un leggero vento. Sherlock guardò verso il cielo bianco sopra di loro, poi indicò a John un masso sporgente dove potessero sedersi.

“Sono il nuovo Walda del villaggio, John.”, disse greve.

Il volto di John non nascose lo stupore.

“Il...”, balbettò “Walda? E tuo fra-”

“Mycroft non può più ricoprire la carica.”, tagliò corto, un nodo alla gola a ricordargli la sua mancanza.

“Non è colpa tua, Sherlock. Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua.”, tentò di confortarlo John.

“Come puoi saperlo? Come puoi anche solo credere che non sia colpa mia, quando lo è?”, urlò disperato “Dovevo essere a proteggerlo e invece...ho sbagliato...tutto.”

“Allora è colpa mia, non tua. Sono io ad averti trattenuto.”

Ma Sherlock, per quanto arrabbiato fosse con se stesso, non poteva accettare che John si prendesse una colpa che non aveva. Anzi, se avesse potuto, gli avrebbe spiegato che era solo grazie a lui se era resistito fino a quel momento senza crollare sotto il peso della responsabilità, che era solo per lui che aveva continuato a svolgere il suo lavoro al meglio, solo per poterlo vedere. Ma le parole, in un qualche modo, non riuscivano ad uscire dalle labbra. Le aveva lì, ma tutto ciò che riusciva a fare era osservare John in quegli occhi azzurri, tanto simili e tanto diversi dai suoi, essendo a conoscenza che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe potuto vederli.

“Non è colpa tua.”, riuscì, infine, a dire “Non è mai stata, né mai sarà colpa tua, John. E non è colpa tua neanche quello che sta per succedere. Promettimi che non penserai mai e poi mai che sia colpa tua, va bene, John?”

John non disse nulla, ma gli occhi lasciarono trasparire un misto di tristezza e paura.

“John...”, tentò di proseguire, senza riuscirvi.

“È l'ultima volta, vero?”, chiese l'altro con la voce spezzata.

Sherlock annuì e distolse lo sguardo, due lacrime a rigargli le guance. La neve continuava a cadere sul terreno di fronte a lui, ma il freddo che provava era tutto all'interno del suo cuore. Per alcuni secondi non successe nulla, poi John richiamò la sua attenzione:

“Sherlock?”

A fatica si girò nuovamente verso di lui e si ritrovò il viso di John a pochi centimetri di distanza. Anche John aveva gli occhi lucidi e due gocce trasparenti tracciavano il contorno del volto. Piangeva.

“Sherlock...”, ripeté l'uomo, la voce piena di malinconica dolcezza.

Avrebbe dovuto dire qualcosa di saggio e consolarlo, ma tutto ciò che gli veniva in mente era ti amo, John, ti amo, ti amo, ti amo. Ma non era in grado neanche di pronunciare quelle parole, perché si sentiva morire dentro al pensiero che quella sarebbe stata la prima e unica – nonché ultima – volta che John le avrebbe udite dalla sua bocca. E non poteva lasciarlo con quella confessione, che era sempre stata sottintesa, ma mai palesata. Lo avrebbe distrutto.

Poi i centimetri che lo separavano da John scomparvero, perché John si era avvicinato fino a far combaciare le loro labbra. Lo stava baciando e, sebbene fosse un bacio a metà, data la loro incorporeità, con in quel contatto sentirono tutto ciò che entrambi provavano l'uno per l'altro, si dissero tutto quello che non avrebbero mai potuto dirsi, in una promessa di amore eterno. Ma Sherlock sentì qualcos'altro all'interno di quel bacio. Vi era un richiamo lontano a cui si aggrappò disperatamente con tutte le forze.

Mentre il sogno ormai si dissolveva intorno a loro, riuscì a dire a John:

“Aspettami.”

 

N.d.A.

 

Ende: sempre inglese antico, direi che qui il significato è piuttosto evidente: “Fine”.

“There are more things…your philosophy.”: citazione tratta da “Hamlet” di William Shakespeare, precisamente dall’atto I, scena 5. Il significato è (supremo Shakespeare perdona la mia barbara traduzione: “ Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quelle presenti (sognate) nella tua filosofia (nel tuo modo di pensare).” La conversazione avviene quando Amleto discorre con i suoi due amici e compagni di studi, Orazio e Marcello, quando questi si trovano di fronte al fantasma del padre di Amleto. Orazio, modello di razionalità, non concepisce l’apparizione del fantasma come reale, ma Amleto lo redarguisce dicendogli, per l’appunto, che esistono cose in questo mondo che non possono essere concepite razionalmente.

“To die, to sleep…Must give us pause.”: qui entriamo nel sacro letterario. Forse il monologo più famoso di tutta la letteratura inglese e non. Da “Hamlet” di William Shakespeare, il notorio “Essere o non essere”, atto III, scena 1. Se prima Shakespeare doveva perdonarmi, ora gli chiedo direttamente venia e mi prostro ai suoi piedi. Tradotto sarebbe: “Morire, dormire,/dormire, forse sognare: sì, ecco l’ostacolo,/perché in quel sonno di morte, che sogni potrebbero giungere,/quando ci siamo liberati di questo groviglio mortale,/deve farci fermare.” La spiegazione di tutto ciò che è implicato in queste poche parole è davvero immensa. In breve: Amleto ha scoperto che il padre è stato ucciso da suo zio che, in seguito, ne ha usurpato il trono sposando la madre di Amleto. Questa rivelazione lo ha lasciato sconvolto e, perciò, sta ponderando l’idea del suicidio, salvo temerlo allo stesso modo della vita stessa perché ha paura che neanche nel sonno eterno la sua anima troverà mai pace.

La scelta dell’agrifoglio: l’agrifoglio è un’altra delle piante considerate sacre dai celti. Essendo una pianta invernale, viene considerata particolarmente adatta a proteggere i guerrieri in battaglia e, spesso, le loro armi venivano create proprio con il suo legno. È anche conosciuta perché si riteneva che proteggesse dai fulmini e si appendevano i suoi rami sulle porte delle abitazioni proprio per questo motivo. Tuttavia, la scelta dell’agrifoglio non è casuale per un altro motivo. Il cognome “Holmes”, infatti, pare proprio che derivi dal nome di questa pianta in antico norreno/inglese antico, per l’appunto chiamata “holmr/holm”. Il nome attuale della pianta in inglese è “holly tree”.

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Capitolo 5
*** Atto Quarto: Fruma. ***


Atto Quarto: Fruma

 
Scena Prima

 

 

People think dreams aren't real just because they aren't made of matter, of particles.
Dreams are real. But they are made of viewpoints, of images, of memories and puns and lost hopes.

 

John si svegliò piangendo. Se avesse potuto, avrebbe urlato tutta la sua disperazione, ma il grido gli rimase soffocato in gola. Le lacrime inzupparono ben presto il cuscino e i singhiozzi riempirono la stanza echeggiando tra le quattro mura. Era finita. D'ora in avanti non ci sarebbe più stato uno Sherlock con cui trascorrere le notti, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da cui rifugiarsi per sfuggire all'inutile vita quotidiana, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da...amare.

Il peso della scomparsa si riversò con violenza inaudita addosso a John. Voleva tornare indietro e salvarlo, ma sapeva che era impossibile e questa sua incapacità lo uccideva dentro.

Quel “aspettami” pronunciato a fil di voce da Sherlock, tuttavia, lo teneva aggrappato ad una speranza inesistente. Nelle notti seguenti sperò che il viso tanto familiare riapparisse e che Sherlock avesse sbagliato a calcolare quello che gli sarebbe successo. Ovviamente non fu così e l'aspettami rimase soltanto un desiderio inesaudito.

I sogni ripresero ad essere pieni di elicotteri e deserti, senza più traccia di draghi e foreste e le sue notti tornarono ad essere vuote. Giorno dopo giorno tentò di convincersi che Sherlock sarebbe tornato, che un giorno avrebbe appoggiato la testa sul cuscino e si sarebbe trovato di fronte a degli occhi azzurri che lo scrutavano sotto una massa di riccioli neri. Eppure nel suo cuore sentiva che Sherlock – non lo Sherlock del sogno, ma quello reale – non esisteva più. Non si era mai reso conto, prima d'allora, quanto il loro legame fosse profondo. Ora che non c'era più, ne avvertiva la mancanza non solo all'interno della sua anima, ma anche all'interno dell'intero universo. Come se Sherlock fosse stato un elemento fondamentale per la conformazione del cosmo che fosse improvvisamente venuto a mancare. E si chiedeva come gli altri non riuscissero a percepirlo e a continuare tranquillamente le loro vite.

È impossibile, si diceva, che non sentano che qualcosa di così importante è scomparso.

L'unica cosa che gli rimaneva, ormai, era la vivida immagine dei loro incontri e ci s'immergeva quanto più spesso poteva, perché non voleva perdere anche quella, l'unico ricordo che aveva dell'unica persona che avrebbe mai potuto amare. Sì, perché John, nel profondo del suo cuore, era anche perfettamente conscio che non ci sarebbe mai potuto essere nessuno in grado di sostituire Sherlock. E come avrebbe potuto esistere? Sherlock era tutto, il resto era niente.

In certi momenti il senso di colpa lo consumava fino a lasciarlo, tremante, senza fiato. Era colpa sua se era successo qualcosa al fratello di Sherlock, era colpa sua e del non aver insistito ad interrompere quegli incontri, era colpa sua se Sherlock era...morto. Per quanto lo Swefnesferiend gli avesse ripetuto di non incolpare se stesso, non riusciva a farsene una ragione.

Se glielo avessi detto, se mi fossi imposto, lui ora sarebbe...vivo.

Ma dall'altra parte non riusciva a provare un completo rimorso, perché il tempo che avevano trascorso insieme era di quanto più felice ci fosse stato nella sua vita. E come poteva provare rimorso perché erano stati – sì, anche Sherlock, lo aveva definitivamente sentito in quel solo bacio – felici? Anche in quei momenti di sconforto non poteva negare che avrebbe ripetuto quello stesso errore dieci, cento, mille volte.

Però il tempo scorreva e, con esso, la ferita che John aveva creduto incurabile, cominciò a rimarginarsi.

Proprio come un sogno, i contorni della foresta e del drago, prima tanto nitidi, cominciarono a perdersi nel nulla, tanto che doveva sforzarsi sempre più per ricordarli. Con essi se ne andarono lentamente anche i dettagli dell'aspetto fisico di Sherlock. All'inizio fu un'incapacità di ricordarsi in che modo camminava, poi quanto lunghe fossero le dita delle mani, poi sbiadirono i contorni del volto, dei capelli, degli occhi. E più tentava di trattenerli, più sembravano sfuggirgli.

Passarono così due mesi, finché anche l'ultimo dettaglio di Sherlock scomparve nelle nebbie del tempo e della sua testa. Gli rimase soltanto un velo di malinconia e l'idea di aver sognato qualcosa d'irripetibile, ma, se tentava di ricordare qualcosa, non gli sovveniva nulla di familiare. Anche la gamba, infine, cedette e tornò ad essere dolorante.

E John tornò alla sua quotidianità fatta di sedute di psicoterapia, di ricerca di un appartamento in cui vivere, di un posto di lavoro che lo soddisfacesse e, magari, di una persona con cui vivere felicemente la sua vita. Ormai anche il vuoto che continuava a sentire era diventato anonimo. Non sapeva più che quel vuoto esisteva perché poco tempo prima vi era stato qualcuno con un volto a colmarlo. Ormai chiamava quel vuoto solitudine e non più Sherlock, perché quel nome non esisteva più.

Quattro mesi dopo il suo ritorno dall'Afghanistan, John era appena uscito dall'ennesima sessione con la dottoressa Thompson, la quale si era lamentata nuovamente di come il suo umore fosse tornato nero nell'ultimo periodo.

Eppure sembrava aver ritrovato un po' di serenità un paio di mesi fa, John, gli aveva detto, invece adesso pare essere ritornato alla settimana immediatamente successiva al suo rientro dall'ospedale. È come se avesse trovato e poi perso qualcosa di nuovo. È successo qualcosa? Fa ancora quei sogni con il drago?

John le aveva risposto che aveva solo un vaghissimo ricordo di quei sogni e che, ora, non li faceva più, ma che non capiva come questo avesse potuto influire sul suo umore.

“Un sogno è un sogno, come può influenzarmi, dottoressa?”

“Ne sembrava in qualche modo legato, ma sembra che li abbia completamente superati. Me ne compiaccio. Rifugiarsi in fantasie infantili non è completamente salutare per il nostro lavoro di riabilitazione.”

“Capisco.”

Ora stava camminando attraverso i Russel Square Gardens. Per essere l'inizio del mese di ottobre, il clima era ancora clemente sulla città di Londra. Un pallido sole faceva capolino tra le nuvole e un vento che si poteva definire primaverile spirava tra i rami – già un po' spogli – degli alberi. Aveva anche appena dato un'occhiata ad un appartamento di cui aveva visto un annuncio sul giornale di un paio di giorni prima. Sfortunatamente la posizione era ottima, il prezzo, invece, era pessimo. Senza un lavoro – e come poteva lavorare quando non riusciva ancora a fare i conti con se stesso e con i suoi incubi? – era impossibile potersi permettere un appartamento a Londra.

Mentre zoppicava con molta difficoltà, facendosi largo tra i passanti, gli parve di sentire qualcuno chiamare il suo nome. Non si fermò. John era un nome talmente comune che la voce avrebbe potuto  riferirsi letteralmente a chiunque.

“John Watson?”, la voce continuò.

E se di John potevano essercene a bizzeffe, le probabilità che due John Watson stessero camminando nello stesso momento nello stesso parco erano pari allo zero. Si girò. Di fronte a lui c'era un uomo grassoccio, stempiato e con gli occhiali. Un campanello nella sua testa scattò: Mike Stamford. I suoi ricordi potevano essere annebbiati e l'uomo decisamente cambiato, ma certamente era il suo vecchio compagno di università e formazione al St. Bart's Mike Stamford.

“Stamford. Mike Stamford. Abbiamo frequentato il Bart's insieme.”, disse l'uomo porgendogli la mano.

“Sì, scusa, sì, Mike.”

“Eh, lo so. Sono ingrassato!”

“Ma no!”, John cercò di suonare convincente.

“Ho saputo che sei stato all'estero da qualche parte, che ti hanno sparato. Che è successo?”

John lo osservò perplesso, tentando di capire se l'uomo lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio. Nonostante il sorriso decisamente ebete che gli illuminava il volto, Mike sembrava animato dalle più buone intenzioni, ma John non era proprio in vena di dilungarsi in conversazioni e tentò di tagliare corto.

“Mi hanno sparato.”

Tuttavia, dietro insistenza di Mike e per non sembrare un completo ingrato, John finì per sedersi con l'uomo a bere un caffè.

“Sei sempre al Bart's, allora?”, chiese John mentre beveva.

“Adesso insegno. Giovani intelligenti, come lo eravamo noi. Dio, li odio!”

John  non riuscì a trattenere una risata.

“E tu, John, rimani in città finché non ti sistemi?”

“Non posso di certo permettermi di vivere a Londra con la sola pensione militare.”

“Ah, e tuttavia non potresti sopportare di trovarti in nessun altro posto. Non è il John Watson che conosco.”

“Già.”, rispose John, un po' a disagio “Non sono il John Watson...”

Guardando la sua stessa mano, John notò che stava tremando. Non era un bene che gli accadesse così, mentre conversava casualmente con un amico. Fu tentato di alzarsi e andarsene: probabilmente  la compagnia di Mike non gli era gradita. Ma una voce interiore sussurrò: rimani. E John rimase, pur non sapendo il perché.

“Harry non potrebbe aiutarti?”, continuò Mike.

“Come se fosse possibile che accadesse!”, rispose sarcasticamente John.

“E, non so, trovare qualcuno con cui condividere un appartamento?”, propose l'altro.

“Dai, chi mi vorrebbe come coinquilino?”

Mike ridacchiò e John non poté fare a meno di guardarlo perplesso.

“Che c'è?”

“Beh, sei la seconda persona a dirmelo oggi.”

“E chi sarebbe il primo?”

“Se vieni al St. Bart's te lo presento, se siamo fortunati, dovrebbe ancora essere lì. È sempre lì.”

“Un giovane medico?”

“Giovane lo è di certo...medico proprio no.”, Mike ridacchiò nuovamente.

“Mi hai proprio incuriosito, sai? E poi, magari, ci guadagno pure qualcosa a incontrarlo!”

“Non ne sarei così sicuro.”

“Perché?”, John aggrottò le sopracciglia, ma non nascose un sorriso.

“Lo vedrai.”

Insieme s'incamminarono sulla strada per il Bart's e dieci minuti dopo lo raggiunsero. I corridoi asettici erano sempre gli stessi del periodo della sua formazione medica, sebbene l'edificio fosse stato sottoposto ad alcuni rinnovamenti.

“Dovrebbe essere in laboratorio, ma se non è lì, sarà certamente all'obitorio.”

John ancora una volta lanciò un'occhiata perplessa al suo amico.

“All'obitorio? Scusa, ma se non è un medico, cosa fa all'obitorio?”

“Credo che sia una specie di investigatore, ma in realtà nessuno sa di preciso cosa faccia.”

Alla parola investigatore una strana sensazione lo attraversò. Quando varcarono la porta, John si guardò velocemente intorno.

“È davvero un po' diverso dai miei giorni.”, disse prima di notare un uomo seduto di fronte a un microscopio dall'altro lato della stanza.

L'uomo aveva un aspetto familiare, un profumo familiare. Ad esso si associò una sensazione nostalgica e di appartenenza. Non riusciva a spiegarselo, ma era sicuro di averlo già incontrato da qualche parte e, a quel pensiero repentino, il suo cuore fece un balzo nel petto, un nome riaffiorò nella sua mente.

 

 

 

 

 

Atto Quarto: Fruma

 
Scena Seconda

 

 

We are such stuff
As dreams are made on; and our little life
Is rounded with a sleep.

 

Quella mattina Sherlock si era svegliato con un mal di testa tremendo e la strana sensazione di aver fatto nuovamente il solito sogno che, però, non riusciva mai a ricordare. La cosa lo rendeva estremamente irascibile, perché aveva l'impressione che quel sogno fosse importante da ricordare, eppure gli sfuggiva. E lui detestava tralasciare qualcosa d'importante, sogno o non sogno.

La sua vita, fino a quel momento, era stata un lungo altalenare di strane sensazioni e ricordi.

Ogni qualvolta camminasse per le strade di Londra o facesse qualsiasi altra attività, la sua testa si riempiva d'immagini più o meno dettagliate di altri luoghi, di altri tempi. Non sapeva come spiegarselo perché era stato così fin da bambino. Però quelle visioni influenzavano la sua vita: quando si facevano particolarmente insistenti, si ritrovava nella situazione di far fatica a distinguere tra la realtà e la fantasia e, a volte, il rumore e la confusione nella sua testa diventavano talmente assordanti che tutto gli pareva perdere significato.

Aveva provato di tutto per farli cessare. Spinto dalla propria famiglia e da suo fratello, ancora bambino, aveva tentato di andare da uno psicologo. L'uomo li aveva classificati come fantasie di poco conto e Sherlock, che sapeva benissimo di non essere matto quando diceva che quelle cose sembravano reali, aveva finito per insultare il dottore e non tornarci mai più.

Crescendo aveva trovato rifugio nella droga. Non ne andava fiero, ma era davvero stata l'unica cosa che gli aveva permesso di liberare la sua mente e di fargli condurre una vita apparentemente normale. Ovviamente quella scelta aveva avuto delle conseguenze estremamente spiacevoli, seguite da un lungo e difficile periodo di riabilitazione.

Dimenticata anche la droga, però, il caos nella sua testa si era rifatto prepotentemente insistente. Ora l'unica cosa che era in grado di mantenere la sua mente libera era il lavoro. Fortunatamente, infatti, le sue capacità cerebrali, nonostante le visioni – anzi, forse proprio grazie a quelle visioni, erano intatte e più acute che mai. Sherlock Holmes osservava e, dalle semplici osservazioni, deduceva. Non c'era criminale in tutta Londra, in tutto il Regno Unito e, persino, in tutto il mondo che potesse sfuggirgli, se gli si metteva alle calcagna.

Consulente Investigativo, l'unico al mondo.

Era stata una decisione spontanea, come se, dal momento in cui era venuto al mondo, avesse voluto fare soltanto quel mestiere, come se fosse stato inciso nel suo DNA. Era stato quasi un richiamo proveniente da lontano. Se ci ragionava, era una cosa estremamente stupida, ma aveva imparato ad accettare che, nonostante la sua logica ferrea, esistevano delle cose che non riusciva in nessun modo a spiegarsi. Tipo quelle immagini continue. Tipo quei sogni.

Ce n'era uno che era certo di ripetere con frequenza assidua ed era sicuro di averlo fatto anche quella notte, ma era anche l'unico di cui non ricordava assolutamente nulla, se non una vaga, ma precisa sensazione di calore familiare. E l'impressione che ci fosse qualcuno in quel sogno, qualcuno che non doveva scordare e che, invece, continuava a dimenticare. Quell'uomo – in un qualche modo era certo che fosse un uomo – senza volto e senza nome era importante.

E mi irrita non riuscire a ricordare nulla, per quanto mi sforzi.

Fortunatamente non aveva molto tempo per rimuginarci sopra e farsi, così, aumentare il mal di testa. Lestrade lo aveva chiamato un giorno prima per chiedergli aiuto con un caso irrisolto. Certo, quello dei tre suicidi seriali appariva immensamente più interessante rispetto a quello che l'ispettore gli aveva sottoposto, ma era stato egualmente chiaro: non posso farti indagare su queste morti, Sherlock. Ma aveva anche aggiunto, quando l'agente Donovan si era allontanata: almeno, non per ora, non finché non troviamo qualcosa che colleghi queste persone.

Aveva disperatamente tentato di far capire che, probabilmente, non c'era nulla che legava una vittima all'altra e che, altrettanto probabilmente, non si trattava di suicidi, ma di omicidi.

Avrei solo bisogno di accedere ad UNA scena del delitto e ne sarei certo.

Lestrade, per calmarlo, aveva acconsentito ad assegnargli due casi irrisolti. Perciò ora aveva bisogno di andare al St. Bart's e non aveva tempo di indugiare sui sogni e sul mal di testa perenne che lo perseguitavano. Prese un'aspirina e chiamò un taxi.

Devo innanzitutto andare all'obitorio, sperando che ci sia un cadavere fresco.

Mentre il taxi correva per le vie di Londra, Sherlock era turbato da un altro pensiero: l'alloggio. Alcuni giorni prima si era, infatti, trasferito in un appartamento al 221B di Baker Street – un'area centrale ed estremamente comoda per la sua vicinanza a Scotland Yard – per cui aveva ricevuto un prezzo di favore da una sua vecchia conoscenza, Mrs. Hudson. Il problema era che il costo, sebbene abbassato, rimaneva comunque troppo elevato. Certo, avrebbe potuto tranquillamente contare sull'appoggio finanziario di suo fratello, se avesse voluto. Ma, dato che i rapporti tra loro due erano tutt'altro che idilliaci, preferiva evidentemente trovare un'altra soluzione. Quella più semplice, ma anche quella meno praticabile, era trovarsi un coinquilino.

Appena sceso dal taxi e entrato al St. Bart's, Sherlock s'imbatté in Mike Stamford, uno dei medici di laboratorio, nonché docente.

“Ciao, Sherlock.”, disse l'uomo.

“Mike.”, salutò brusco Sherlock.

“Ancora nessuna fortuna nella ricerca?”

“Tre nei giorni scorsi. Uno più irritante dell'altro. Mi sa che dovrò rinunciarci, del resto sono una persona molto difficile con la quale convivere.”

Mike scrollò le spalle.

“Qualcuno ci sarà.”

“Che riesca a sopportarmi abbastanza e che io riesca a sopportare abbastanza? È più probabile che tutti i criminali più incalliti di questa città su consegnino in blocco a Scotland Yard entro la mezzanotte di oggi implorando pietà.”, disse Sherlock, sconsolato.

“Se trovassi qualcuno, te lo farò sapere, Sherlock.”

“Sempre che non scappi a gambe levate, apprezzo comunque il gesto.”

Si separarono così, Sherlock verso l'obitorio, Mike verso il suo stanzino di laboratorio.

Le preoccupazioni di Sherlock svanirono non appena Molly gli comunicò che aveva un cadavere appena arrivato. Ora era giunto il tempo di concentrarsi sul caso, non c'era più spazio per i suoi pensieri.

Dopo aver eseguito il suo esperimento sul corpo dell'uomo morto e aver dato le ultime indicazioni alla patologa, si diresse in laboratorio a controllare il campione di sangue che gli era stato fornito da Scotland Yard per l'indagine che stava svolgendo. Attraversato il corridoio e giunto nel laboratorio, notò che Mike era assente. Guardò rapidamente l'orologio – mezzogiorno passato, constatò, sono stato giù più tempo del previsto, Mike è a pranzo – e si sedette al suo solito posto di fronte al microscopio. Mentre si stava sistemando lo sprazzo di un'immagine gli apparve davanti agli occhi. Un volto. Ma scomparve, come sempre, ancor prima che Sherlock potesse fissarne i dettagli nella sua mente. A differenza delle altre volte, però, gli parve di avvertire una strana sensazione di vicinanza e il suo cuore sobbalzò nel petto. Scartò la sensazione come inutile ai fini del suo lavoro e proseguì con quello che stava facendo.

Girò lentamente la manopola del microscopio e si mise ad osservare il sangue sul vetrino ingrandirsi fino a diventare una serie di cerchi, ovali e filamenti simili ad un quadro astratto. Con sapienza fece cadere una goccia di soluzione acida sul suo campione.

Se la reazione corrisponde a quella che ritengo plausibile, il colpevole è innegabilmente il fratello.

Perso nel suo ragionamento, si accorse con un secondo di ritardo che la porta del laboratorio si era aperta e con ben tre secondi di ritardo che Mike non era solo. Con lui vi era un uomo vestito in modo che qualcuno avrebbe potuto definire banale e quasi trasandato, ma che denotava una certa precisione e meticolosità. Nonostante la giacca un po' vecchiotta, la camicia decisamente fuori moda e quei jeans lisi, il portamento, il taglio di capelli, l'incedere indicavano palesemente una carriera nelle forze armate: un militare.

Il dialogo tra l'uomo e Mike gli giunse ovattato.

"...un po' diverso dai miei giorni."

Un medico. Militare e medico. Interessante.

Ma c'era qualcosa, qualcosa che non riusciva a spiegarsi in nessun modo: l'idea assurda che quell'uomo dai capelli paglierini l'avesse già incontrato.

Impossibile. Non dimentico mai un volto. Non uno così particolare. Eppure...John.

L'uomo si chiamava John. Il battito del cuore nel petto si fece sempre più insistente.

Perché conosco il suo nome?

"Mike posso prendere in prestito il tuo cellulare?"

"Mi spiace, l'ho lasciato nella giacca."

"Tenga, prenda il mio."

L'uomo allungò la mano per porgerglielo.

Le mani mostravano i segni di un'abbronzatura che s'interrompeva brutalmente nel punto in cui incontravano i polsini della camicia.

Missione all'estero. Deserto.

"Afghanistan o Iraq?"

Che stupido. Era ovvio che fosse Afghanistan.

Come faccio a saperlo? Perché è ovvio?

"Come scusi?"

"Ovviamente Afghanistan. E non era l'Apache che la inseguiva, era un gruppo di talebani. Ma lei ha erroneamente confuso le due entità e perciò nei suoi sogni viene spesso inseguito da un Apache."

Sherlock rimase a bocca aperta. Per alcuni secondi tentò di ricostruire quello che gli era appena sfuggito dalle labbra. Non era normale che conoscesse i sogni di quell'uomo, non era normale nemmeno per uno come lui che era abituato ad azzeccare persino il colore e il tessuto dell'intimo delle persone. Ma i sogni. I sogni non potevano essere indovinati.

Gli occhi azzurri dell'uomo incontrarono i suoi in quel preciso istante John - si chiamava davvero così? - sembrava confuso quanto lui e lo osservava tra il perplesso e l'inquieto.

"Il drago...la foresta...la palude...", disse il dottore "...tu..."

In un istante un lampo attraversò i pensieri del detective, il quale si trovò in mezzo ad una radura, un solo uomo di fronte a lui che correva a perdifiato e urlava a squarciagola: John.

Glielo aveva promesso a quell'uomo che sarebbe tornato. In una realtà remota, gli aveva detto di aspettarlo, che si sarebbero rincontrati. Era lui la cosa importante dei suoi sogni, la persona che non voleva perdere e che gli era sfuggita finora. Ed ora era di fronte a lui in carne e ossa.

"...John...", la voce fu più simile a un rantolo.

"...Sherlock?", John chiese, dubbioso.

Un passo avanti dell'uno e dell'altro, per scrutarsi, conoscersi di nuovo, ritrovarsi.

"Tu sei reale...", balbettò John.

"Tu sei John..."

"Già.", ridacchiò "E tu sei Sherlock. Come...?"

"Era deciso così.", fu tutto ciò che Sherlock riuscì a rispondere, prima che il suo corpo rispondesse in automatico a quel richiamo tanto antico.

Si baciarono dopo quelli che erano stati letteralmente secoli di attesa. Fu un bacio che non significava soltanto ti amo, era la realizzazione di un desiderio durato più di un millennio, il compimento di una promessa che sarebbe durata in eterno.

La confusione regnava ancora nella testa di Sherlock, ma non era importante. John - il suo John, quello per cui era tornato - era lì tra le sue braccia. E solo quello importava.

Il cellulare cadde per terra in un tonfo.

Lo schermo s'illuminò un secondo prima di incontrare il pavimento.

Benvenuto, John – M.

Allo stesso modo, il cellulare nella tasca del giubbotto di Sherlock vibrò.

Bentornato, Sherlock – M.

 

N.d.A.

 

Fruma: sempre dall’antico inglese, significa “inizio”.

“People think dreams…puns and lost hopes.”: “Le persone pensano che i sogni non siano reali perché non sono fatti di particelle. I sogni sono reali. Ma sono fatti di punti di vista, di memorie e giochi di parole e speranze perse.”. Citazione da uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più, Neil Gaiman.

“We are such stuff…with a sleep.”: ancora Shakespeare (si intuisce, per caso, che sono un pochettino fissata con il Bardo?). Significa (che Shakespeare non si rivolti nella tomba!): “Siamo della stessa sostanza con cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è circondata dal sonno.” Frase, spesso, erroneamente attribuita a “Romeo and Juliet” è, in realtà tratta da “The Tempest” ed è pronunciata da Prospero, principe di Napoli, nell’atto IV, scena prima. Il tema trattato da Shakespeare in questa breve battuta di dialogo è quello del fatto che, secondo Prospero, tutta l’esistenza umana non sia nient’altro che il breve sogno di una mente divina che è circondato o “completato” dal sonno. Prospero, allora, sembra implicare che soltanto quando moriamo, ci svegliamo dal sogno ed entriamo nella vera realtà – o, perlomeno, in un sogno più vero.

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Capitolo 6
*** Epilogo: Il Canto dell'Esperienza. ***


Epilogo:

 
Il Miracolo e Il Sognatore

 
“Il Canto dell'Esperienza”

 

Tutto ciò che i tuoi occhi hanno visto
Tutto ciò che hai sentito
È impresso nella mia memoria
È espresso dalle mie parole

 
Tutto ciò lo porto con me
È tutto ciò che ti sei lasciato dietro
Condividiamo un'eternità
Vivendo in due menti separate
Unite da un filo senza fine
Impossibile da spezzare.

 

 

Il Miracolo e Il Sognatore osservano la scacchiera tra di loro. Su di essa sono rimaste soltanto due pezzi: il Re e l’Alfiere. Essi si trovano l’uno di fronte all’altro, esattamente come Il Miracolo e Il Sognatore. Il Miracolo fa un gesto di stizza, Il Sognatore sorride compiaciuto.

 

Il Miracolo:     “Questa partita è tutta sbagliata. Mi hai ingannato.”
Il Sognatore:   “Gli inganni sono materia tua. Come potrei io batterti con la tua stessa moneta?”
Il Miracolo:     “Bisogna ricominciare.”
Il Sognatore:   “Il risultato sarebbe lo stesso.”
Il Miracolo:     “Non se si gioca secondo le regole.”
Il Sognatore:   “Non eri tu a dire che le regole sono noiose? Ho solo deciso di darti ascolto.”

Il Miracolo:     “Hai preso una decisione che non potevi prendere.”
Il Sognatore:   “Ho corso un rischio. E ho vinto. Ammettilo.”
Il Miracolo:     “Se rigiocassimo il risultato sarebbe a mio favore.”
Il Sognatore:   “Non sarebbe mai a tuo favore.”
Il Miracolo:     “Perché?”
Il Sognatore:   “Perché…perché…a te la prima mossa.”

 

Il Miracolo osserva la scacchiera dove sono riapparsi all’improvviso tutti i pezzi e allunga la mano per fare la prima mossa. Il Sognatore lo fissa. La luce bianca che li avvolge si affievolisce fino a scomparire del tutto. Solo un barlume rimane immobile sulla scacchiera dove sono rimasti ancora solo due pezzi: il Re e l’Alfiere. La luce si spegne all’improvviso.

 

 

La Morte è la prima danza, eterna
L'Inganno la seconda, senza fine

 
Adesso Il Miracolo e Il Sognatore sanno che la terza è l'Amore
L'Amore è la Danza dell'Eternità.

 


 

N.d.A.

“Il Canto dell’Esperienza”: tratto da “Songs Of Experience” di William Blake, la raccolta delle sue liriche scritte in un periodo successivo a quello delle “Songs Of Innocence”. Rappresentano la maturità creativa del poeta e, di conseguenza, la conclusione della mia storia.

“Tutto ciò che i miei occhi…spezzare”: testo della canzone “Through My Words” dei Dream Theater, tratta dall’album “Metropolis pt. 2 – Scenes From A Memory”.

“La Morte…dell’Eternità”: sempre Dream Theater, pezzi tratti dalla canzone “Metropolis pt.1 – The Miracle and The Sleeper”, scelti perché collegassero e chiudessero (in una specie di Ringkomposition) la storia. Colgo qui l’occasione per ringraziare i Dream Theater perché mi hanno regalato anni e anni di musica meravigliosa e ascoltarli, per me, è fare un viaggio nella bellezza musicale. Grazie.

 
Questa fanfic è dedicata a Ida che tra un po' compie gli anni e, siccome viviamo “leggermente” lontane, ho pensato di farle un regalo diverso dal solito (e un po' in anticipo, ma nei prossimi giorni sarei stata un po' incasinata e non avrei trovato né tempo né modo di pubblicarla). Dovete sapere che ho conosciuto questa carissima e dolcissima ragazza un po’ di tempo fa (cosa saranno, tre mesi? Ho una pessima memoria per queste cose) ma mi sembra di conoscerla da una vita! Si è sorbita le mie sclerate fandomiche e le mie scelte di telefilm, nonché milioni e milioni di parole ad ogni ora del giorno e della notte!

Quindi: grazie grazie grazie! Grazie perché sei un’amica sincera e ti adoro all’infinito! Averti trovato è sicuramente una delle cose più belle che mi siano capitate quest’anno e sei una delle migliori persone che conosca! In questa storia ho tentato di inserire un po’ tutto ciò che so ti piace nelle storie: un po’ di medioevo, un pizzico di magia, un tocco di draghi, il tutto condito con un po’ di sana Johnlock. Per il resto sappi che finalmente la tua attesa (e curiosità) sono finalmente state premiate e spero che la storia (che è anche un po’ più vicina al mio stile di idee rispetto alle solite) ti sia piaciuta!

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