Il Teatro del Sogno di Leoithne (/viewuser.php?uid=480192)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Il Canto dell'Innocenza. ***
Capitolo 2: *** Atto Primo: Unswefn. ***
Capitolo 3: *** Atto Secondo: Swefn. ***
Capitolo 4: *** Atto Terzo: Ende. ***
Capitolo 5: *** Atto Quarto: Fruma. ***
Capitolo 6: *** Epilogo: Il Canto dell'Esperienza. ***
Capitolo 1 *** Prologo: Il Canto dell'Innocenza. ***
Prologo:
Il Miracolo e Il Sognatore
“Il Canto dell'Innocenza”
Il
Miracolo e Il Sognatore sono seduti
l'uno di fronte all'altro in un ambiente completamente bianco,
circondato da
una luce asettica e privo di qualsiasi punto di riferimento. Tra di
essi è
posizionata una scacchiera e Il Sognatore osserva i pochi pezzi rimasti
studiando la prossima mossa. Il Miracolo sembra divertito, Il Sognatore
rimane
serio.
Il
Sognatore: “Anche
stavolta hai fallito nel tuo scopo.”
Il Miracolo:
“Il mio scopo è solo mio e non tuo da riconoscere.”
Il Sognatore: “Questo
è quello che credi tu. Io e te, del resto, siamo gli
stessi.”
Il Miracolo:
“È ciò di cui tenti disperatamente di convincerti.”
Il Sognatore: “Non
è una convinzione, è una certezza.”
Il Miracolo:
“Ogni cosa che succede, che è successa e che succederà è
un mio
gioco.”
Il Sognatore: “Ed
è compito mio assicurarmi che questo gioco si svolga secondo le
regole.”
Il Miracolo:
“Non puoi interferire nelle mie decisioni, lo sai.”
Il Sognatore: “Vero.
Ma posso ancora renderle logiche.”
Il Miracolo:
“Logica. Regole. È tutto così terribilmente noioso.
Dovresti
imparare a rischiare.”
Il Sognatore: “Il
rischio non è un fattore con cui si può scherzare.”
Il Miracolo:
“Il rischio è un fattore divertente.
Ammettilo.”
Il Sognatore: “Come
potrei ammettere una cosa tanto assurda?”
Il Miracolo:
“Sai che è la verità. Una verità per cui sei disposto a
sacrificare persino te stesso.”
Il Sognatore: “Non
toccherebbe a te muovere?”
Il Miracolo:
“La mia mossa l'ho già fatta.”
Il
Sognatore fissa Il Miracolo e poi
sposta gli occhi verso la scacchiera. Il pezzo più importante si era
mosso.
L'inganno era cominciato.
Mi
è stato detto che c'è un Miracolo per ogni giorno in cui tento
Mi
è stato detto che c'è un nuovo amore che nasce per ognuno che muore
Mi
è stato detto che non c'è nessuno da chiamare quando mi sento solo e
spaventato
Mi
è stato detto che se si sogna il prossimo mondo
Ci
si troverà a nuotare in un lago di fuoco
Da
bambino, pensavo di poter vivere senza angoscia, senza dolore
Come
uomo ho scoperto che è tutto racchiuso in me, sto dormendo e tuttavia
sono
spaventato.
N.d.A.
Innanzitutto:
il titolo della storia. “Il Teatro del Sogno” è
la traduzione del nome del gruppo
musicale Dream Theater la cui musica (specialmente l’album “Metropolis
pt.2 –
Scenes From A Memory) ha
ispirato alcune
parti di questa storia.
Poi:
“Il Miracolo e Il Sognatore” (in originale “The Miracle
and The Sleeper”, la traduzione
“Sognatore” mi pareva la più vicina a quella implicata dal gruppo,
invece di
“Dormiente”). In una canzone del suddetto gruppo vengono citate queste
due –
possiamo definirle – entità la cui storia si protrae per un certo arco
di
tempo. Non viene specificato né chi siano né cosa siano. Voglio che
rimanga
così anche nella mia storia. Vi è data ogni libertà di interpretazione.
“Il
Canto dell’Innocenza”: titolo ripreso da “Songs
of Innocence”, raccolta di poesie dello
scrittore/incisore/filosofo etc. etc. inglese William Blake. La scelta
deriva
dal fatto che molte delle sue poesie sono considerate come “visioni” e
anche il
suo tipo di arte viene spesso definito come qualcosa di mistico.
“Innocenza”
perché sono le prime poesie della sua lunga produzione.
La
scacchiera, altrimenti detta: quelle immagini che non ti levi più dalla
mente.
L’iconografia del
Miracolo e del Sognatore che giocano una partita a scacchi è ripresa
dal –
forse – più famoso film del regista svedese Ingmar Bergman, “Det Sjunde
Inseglet”, ovvero “Il Settimo Sigillo”, dove i due avversari sono
rappresentati
da un Cavaliere e dalla Morte che si giocano – proprio con una partita
a
scacchi – la vita dello stesso Cavaliere. La scena è un’icona della
cinematografia
di tutti i tempi passati e a venire.
“Mi è
stato detto che…sono spaventato.”:
parte della canzone “Metropolis pt.1 – The Miracle and The Sleeper”,
tratta dall’album “Images & Words”. Traduzione fornita da me.
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Capitolo 2 *** Atto Primo: Unswefn. ***
Atto
Primo: Unswefn
Scena Prima
So two nights passed:
the night's dismay
Saddened and stunned
the coming day
Sleep, the wide
blessing, seemed to me
Distemper's worst calamity.
Correre.
Correre a perdifiato
attraverso un bosco di cui non riusciva a intravedere la fine. Correre
finché i
polmoni sembravano non avere più neanche la forza di continuare a
respirare.
Correre fino al punto di sentire il cuore in gola e le tempie che
pulsavano
così intensamente che la testa pareva scoppiargli. Correre.
E
John, a dire tutta la verità,
detestava correre.
Eppure
doveva farlo, perché non era
solo e il suo inseguitore era molto più forte di qualsiasi nemico che
avesse
mai affrontato. Si girò per un attimo per guardare indietro, rischiando
quasi
d'inciampare nei suoi stessi passi. Il drago nero torreggiava sulla
foresta, le
ali spiegate al vento e gli occhi gialli fissi sulla preda sottostante.
Inutile
dire che John era la preda designata: piccolo nel suo metro e
sessantanove,
alto ad occhio e croce quanto l'unghia di quell'enorme mostro che lo
stava cacciando
da un tempo indeterminato. Finché fosse rimasto in mezzo agli alberi,
avrebbe
avuto una qualche protezione. Ma gli alberi sarebbero finiti. A pochi
centinaia
di metri da dove si trovava – schivò la quarta buca e, di seguito, il
quinto
cespuglio di rovi – sapeva benissimo che il bosco sarebbe terminato e
che i
larici, gli abeti e i pini avrebbero lasciato il posto ad una radura
con erba
secca e nessun nascondiglio.
Non
poteva neanche tornare indietro
John. Qualsiasi strada avesse deciso di percorrere, l'avrebbe portato a
quella
spianata e, di conseguenza, dritto nelle fauci del drago.
Se
solo riuscissi a razionalizzare...
Non
che John non ci avesse provato a
razionalizzare, a trovare una via d'uscita da quella situazione, ma più
tentava
di farlo più il suo subconscio lo spingeva nella direzione opposta. E
il drago
si faceva più grande e sul sentiero tracciato nel bosco apparivano
paludi e
sabbie mobili nelle quali si affondava fino alla vita, rallentando
irrimediabilmente la sua corsa. E il drago si avvicinava.
Peccato
che non esistessero draghi, né
boschi, né paludi, né radure e che quello fosse solo un fottutissimo
incubo da
cui non riusciva a svegliarsi. John lo comprendeva benissimo, eppure
non era in
grado di uscirne.
Evitando
il millesimo masso ricoperto
di muschio con un salto che lo fece atterrare violentemente sulle
ginocchia,
John fu costretto a fermarsi per un secondo.
Devo
razionalizzare. Svegliarmi.
Come
il tutto fosse cominciato non se
lo ricordava con esattezza. Non riusciva a rammentarsi di quando, un
giorno –
o, più precisamente, una notte, l'Apache che volteggiava nel cielo
terso
dell'Afghanistan si era trasformato in un drago nero. Un essere
scaturito dalla
sua fantasia, che non aveva ragione di esistere e che, invece, pareva
così terribilmente
reale. Allo stesso modo non si capacitava di come le distese desertiche
fossero
diventate querce, faggi, pini. Tutto ciò non aveva senso.
Poteva
capire gli incubi. La sua
psicoterapeuta lo aveva avvertito che la sua sindrome da stress
post-traumatico
generata dalla sua esperienza sul campo in Afghanistan lo portava a
fare sogni
quanto mai veritieri – e terrorizzanti – su ciò che gli era accaduto.
Questo
aveva imparato ad accettarlo. Quello che lo sconvolgeva era che il
drago non
era reale, il bosco non era reale. Ma gli sembrava che lo fossero, come
se la
sua esperienza, i suoi ricordi fossero stati sostituiti pur rimanendo
gli
stessi. Doveva razionalizzare, ma non ci riusciva.
Fece
un respiro profondo, il drago che
volteggiava sopra la sua testa per cercare il suo nascondiglio. Quando
un grido
acuto attraversò l'aria, John capì di essere stato individuato. Era
peggio
delle sirene del coprifuoco, peggio delle esplosioni distanti nella
notte.
Contro quelle John sapeva come difendersi. Contro un fottutissimo
drago, no.
Riprese
a correre, mentre le ginocchia
facevano male, mentre i muscoli gli chiedevano, lo supplicavano di
fermarsi, di
trovare una via d'uscita.
Svegliati,
John! Dannazione,
svegliati!
Il
grido nella sua testa rimase
inascoltato e lui si vide costretto a schivare l'ennesimo cespuglio
spinoso,
evitando al contempo di schiantarsi contro il tronco di un faggio che
si
stagliò improvvisamente di fronte a lui.
A
pochi metri dai suoi occhi apparve
la radura a cui non voleva arrivare, ma che era costretto a
raggiungere.
Secondo i suoi calcoli, lo spiazzo erboso doveva corrispondere a quello
che un
tempo – quando i suoi incubi erano ancora incubi realistici e non
un'accozzaglia di fantasie senza senso – era stato l'avamposto nel bel
mezzo
del deserto afghano dove era stato ferito. Era lì che tutte le sue
visioni
belliche si concludevano: una scarica di proiettili nella spalla e si
sarebbe
svegliato, grondante di sudore, nel suo miserevole letto, nella sua
miserevole
vita.
Peccato
che la raffica tanto familiare
di Zastava si fosse mutata in una fiammata rosso-oro che usciva dalle
fauci
dell'enorme mostro alle sue spalle e che il dolore, invece di essere
arginato
ad una sola parte del corpo, lo bruciava completamente, come se il
fuoco lo
avvolgesse davvero.
E
sono sciocchezze, perché i draghi
non esistono.
Il
risveglio era identico, se non per
un particolare. Quando ancora sognava di mitragliatrici e bombe e
esplosioni,
apriva gli occhi sollevato perché il tutto si era finalmente concluso;
ora
l'aprire gli occhi non gli dava più alcun sollievo.
Appena
la radura lo accolse, il drago
cominciò la sua immancabile picchiata. John tentò di schivare
l'affondo,
riuscendoci per pochi millimetri. La bestia si rialzò nel cielo plumbeo
e
riprese forza per un nuovo attacco.
“Aiuto!”,
urlò con quanto fiato gli
era rimasto in gola.
In
quel momento dagli alberi
dall'altro lato della radura apparve un uomo. Non era la prima volta
che faceva
la sua comparsa nei sogni di John, ma, generalmente, era apparso come
un'ombra indefinita,
sfumata. Stavolta, invece, la figura maschile era perfettamente chiara,
circondata da un'aura luminescente. Una lunga tunica biancastra,
sostenuta da
una cintura di corda, cingeva un corpo snello ma agile, lasciando
intravedere
soltanto mani e piedi; ricci neri circondavano un volto pallido e
stanco, al
centro del quale si stagliavano penetranti occhi di ghiaccio.
John
non sapeva chi fosse, né perché
apparisse casualmente nei suoi sogni, né perché quella notte fosse così
dettagliato.
L'uomo
si fermò alle soglie del bosco,
gettò una rapida occhiata a John e poi rivolse il suo sguardo verso il
drago.
Con maestria e delicatezza tracciò alcuni segni nell'aria e cominciò a
recitare
una litania che John non riusciva a comprendere.
In
pochi istanti il drago scomparve,
la radura scomparve, l'uomo scomparve. Rimase soltanto John, avvolto da
una
luce calda e protettiva.
Secondi
dopo aprì gli occhi, l'incubo
un vago ricordo di un passato remoto.
Atto
Primo: Unswefn
Scena
Seconda
Deep
into that darkness
peering,
Long I stood there,
wondering, fearing, doubting,
Dreaming dreams no
mortal ever dared to dream before.
Sherlock riaprì gli
occhi, mentre gli ultimi fumi del fuoco sacro s'intersecavano
all'interno
dell'abitazione fino a trovare la loro naturale uscita attraverso il
buco nel
tetto e la luce pallida del primo quarto di luna sbiadì per qualche
secondo
dietro quel velo perlato.
L'uomo tentò di
comprendere quello che era appena accaduto. Portate le mani giunte a
contatto
con le labbra, espirò, si spostò dal braciere e chiuse il mondo al di
fuori
della sua mente. Per prima cosa elencò le varie sostanze che aveva
bruciato:
resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.
Nessun errore.
Poi considerò ciò che
aveva bevuto: birra con un infusione di foglie d'edera triturate.
Perfetto.
Eppure la visione
onirica non era stata quella corretta e la cosa lo faceva infuriare.
Per di più
quello strano fenomeno era già successo in precedenza. E questo – se
possibile
– lo rendeva ancor più nervoso.
Ripensò alla prima volta
in cui la sua arte aveva – senza nessuna ragione apparente – fallito.
Tutto era
cominciato esattamente due lune prima, quando suo fratello, il Walda
Mycroft,
lo aveva convocato d'urgenza, dicendogli che il Walda Moriarty, signore
del
villaggio confinante con il loro, stava portando una serie di attacchi
onirici
non solo nei suoi confronti, ma anche nei confronti dei guerrieri più
valorosi
del villaggio per fiaccarne la resistenza in battaglia.
Era, infatti, venuto a
galla che Moriarty avesse assunto al suo servizio uno dei migliori
Swefnesdræfend – un cacciatore di sogni – che si potesse trovare in
circolazione: Moran. Sherlock se n'era convinto alla prima occasione di
scontro. Considerando il fatto che lui era, a detta di tutti, il
miglior
Swefnesweriend che il suo clan avesse mai avuto, si era stupito quando,
nel
sogno di suo fratello, si era imbattuto nelle creature create da Moran:
subdole, oscure, letali. Aveva dovuto metterci tutta la sua conoscenza
nelle
arti magiche, negli incantesimi e nello sciamanesimo che praticava fin
dall'infanzia per sconfiggerli e regalare, così, a Mycroft la prima
vittoria.
Col tempo gli attacchi
si erano fatti sempre più potenti e il suo continuo valicare il confine
labile
tra i sogni e la realtà lo aveva portato ad uno stato perenne di
agitazione e
nervosismo: mangiava a malapena e il sonno era diventato sconosciuto al
suo
stile di vita. Nonostante ciò, grazie al suo costante lavoro, il
villaggio
continuava ad essere protetto dagli attacchi di Moriarty, sia di
giorno, grazie
ai valorosi guerrieri al servizio di Mycroft, sia di notte, grazie alle
sapienti – e sempre più precise – arti magiche di Sherlock.
Una luna prima,
tuttavia, dopo aver preparato i materiali per il fuoco sacro e aver
bevuto
l'intruglio consacrato, si era trovato non nel sogno di suo fratello o
in
quello di qualche guerriero, ma in un posto sconosciuto. Nei suoi primi
anni di
pratica da Swefnesweriend gli era capitato di comparire in qualche
sogno che
non riusciva a classificare o riconoscere, ma l'esperienza aveva del
tutto
cancellato quella possibilità. Eppure quella volta era apparso – non
fisicamente, ma solo mentalmente – in un luogo che non gli era in alcun
modo
familiare.
Le distese boschive
della Britannia erano scomparse per lasciare posto ad un paesaggio
desolato,
fatto di sabbia e di piante riarse. In questo ambiente inospitale aveva
visto
qualcosa che lo aveva lasciato sconvolto per alcuni secondi. Nel cielo
volteggiava quello che gli era parso un uccello senza ali, ma che aveva
sulla
schiena delle pale nere, simili a quelle che aveva visto solo una volta
attaccate ad un mulino a vento; ma, se quelle del mulino erano disposte
verticalmente, quelle dell'animale – perché non poteva essere
nient'altro –
erano disposte orizzontalmente e sembravano mantenerlo in posizione,
permettendogli di volare. Anche il colore – un verde palude – era
inusuale per
un uccello e le dimensioni erano quanto mai spaventose: ad occhio e
croce era
lungo come dieci uomini ed alto circa tre. Nulla gli era mai sembrato
così
terribile.
Inizialmente aveva
pensato ad un inganno di Moran, ad un modo che lo Swefnesdræfend aveva
trovato
per incutergli timore. Per questo motivo, facendo ricorso a tutto ciò
che aveva
imparato nel corso degli anni, aveva cominciato a modificare il sogno
in modo
da farlo combaciare con le conoscenze che possedeva. L'uccello enorme,
a
fatica, era stato trasformato in un drago nero – l'unica creatura tanto
temibile che poteva combaciare con quell'essere – e un altro paio di
formule
magiche gli avevano permesso di cambiare la distesa di sabbia a lui
ignota
nella verde foresta che circondava il suo villaggio.
Poi, però, era comparso
un uomo che scappava dal drago che lo inseguiva. Capelli biondi e abiti
mai
visti prima, correva facendosi strada tra gli alberi con aria confusa.
Sherlock
aveva tentato di associarlo ad uno dei guerrieri del villaggio, ma
senza
successo. L'uomo gli era sconosciuto. Nelle prime occasioni in cui lo
aveva
visto fuggire, era riuscito ad interrompere il sogno senza difficoltà,
lasciando l'uomo al suo destino. Ultimamente, però, aveva cominciato a
liberarlo dal suo incubo. Anche perché – e questo lo lasciava stupito
più di
qualsiasi altra cosa – aveva sentito la necessità
di salvarlo.
Nel corso dell'ultimo
mese il sogno si era fatto ricorrente: l'uomo, lo strano uccello, la
distesa
sabbiosa comparivano ad intervalli regolari di due o tre giorni e lui,
spinto
da un bisogno incomprensibile, continuava a salvare lo sconosciuto dal
drago
che lui aveva creato.
Quella notte non aveva
fatto eccezione, se non per un particolare apparentemente
insignificante e che,
invece, lo stava preoccupando seriamente: per la prima volta aveva
assunto
forma completa all'interno del sogno. E sapeva bene quanto fosse
pericoloso.
Immerso nei suoi
ragionamenti, si accorse in ritardo che nel salone non era più solo.
Suo
fratello Mycroft era apparso sulla soglia e lo stava osservando con
occhi di
fuoco.
“Fratello mio!”, esordì
il Walda “Cosa è successo? Le creature oniriche-”
“Lo so.”, tagliò corto
Sherlock, il pensiero fisso sugli occhi dell'uomo biondo all'interno
dei suoi
sogni.
“E, dunque, cosa è
successo?”, inquisì Mycroft.
“Il solito.”, sbuffò
Sherlock “Quel sogno.”
“Sai che non possiamo
permetterci di perdere. Ne va delle nostre vite. Non c'è un modo per
evitare
che quel sogno s'insinui nella tua testa?”
“Non si possono
controllare i sogni fino a quel punto, Mycroft.”, disse spazientito
Sherlock
“Posso solo entrarvi e, come ben sai, non posso neanche scegliere il
sogno. Posso
solo accettarlo.”
Fece una pausa e si mise
ad osservare le braci che lentamente annerivano.
“Mi fa infuriare!”,
sbraitò, rompendo il silenzio che era appena calato “Questo sogno,
quell'uomo,
l'idea di non sapere cosa sia, il tarlo che possa essere un contorto
piano di
Moriarty! E adesso!”, aggiunse con voce sempre più irata “Ho persino
preso
forma completa!”
Gli occhi di Mycroft si
spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese
titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido.
Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Sherlock passò la mano
tra i riccioli neri, come per cercare di dipanare la massa dei suoi
tumultuosi
timori. Il fratello sembrò comprendere il suo disagio e lo guardò con
occhi
pieni di comprensione, nonostante le sue stesse paure.
“Nei sogni entriamo
in un mondo che è interamente nostro.”, tentò di confortarlo
“E tu ne sei
il più esposto. Che ci sia una qualche connessione con l'uomo dei
sogni?”
“Nessuna, che io sappia.
Non so chi sia, non fa richieste, chiede solo aiuto. Ed io sento il
bisogno di
salvarlo, un bisogno impellente e a cui non posso sottrarmi.”
Mycroft gli diede
un'ultima occhiata prima di voltarsi.
“Devi scoprire chi sia e
cosa voglia, Sherlock.”, lo redarguì “Non ne vale solo della tua sanità
mentale, ma della salvezza del nostro intero villaggio.”
Detto ciò, uscì dal
salone, lasciando Sherlock da solo.
Come se non fosse già
quello il mio obiettivo. Come se non stessi già pensando come fare.
Era giunto ormai il
momento di tentare qualcosa mai tentato da atri Swefnesfaran: prendere
forma –
e voce – completa e parlare con l'uomo. Era estremamente pericoloso, ma
aveva
bisogno di risposte. Risposte che solo il biondo era in grado di dargli.
N.d.A.
Unswefn: parola in inglese
antico che significa, alla larga, “incubo”.
“So
two nights
passed: the night's dismay…Distemper's worst calamity.”: i primi quattro versi
della terza e
ultima strofa del componimento “The Pains Of Sleep” (“I Dolori Del
Sonno”) di
Samuel Taylor Coleridge. Barbaramente tradotti come: “E così
due notti passarono:
lo sgomento della notte/intristì e sconvolse il giorno successivo./Il
sonno,
quella grande benedizione, mi sembrò/la peggior calamità del cimurro.”
“Deep
into that
darkness peering…dared to dream before.”: i primi due versi della
quinta strofa della poesia
“The Raven” (“Il Corvo”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotti con:
“Scrutando
nel profondo di quell’oscurità, stetti fermo a lungo, domandandomi,
temendo,/dubitando, sognando sogni che nessun mortale aveva osato
sognare
prima.”
Resina
di nocciolo,
legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.: le prime due piante citate
(il nocciolo e
l’ontano) sono piante considerate sacre nella tradizione celtica e
significative anche nelle culture pagane anglo-sassoni che
conquistarono
l’isola a partire dal V secolo d.C. L’ontano, infatti, è un albero
associato
all’acqua e, insieme ad essa, aiuta il corpo e lo spirito ad eliminare
le
energie negative; inoltre questo rapporto ontano-acqua è considerato
fondamentale per mettere in comunicazione questo mondo con l’aldilà e i
guerrieri costruivano spesso scudi con questo legno. Il nocciolo,
invece, è
considerato l’albero della conoscenza, delle scienze e delle arti: i
druidi,
infatti, per invocare i loro incantesimi utilizzavano bastoni di
nocciolo e gli
dei avevano una grande considerazione per questa pianta. Per queste ragioni ho
deciso di utilizzare specificamente queste due
piante da bruciare nel braciere. Invece, per l’alloro la storia è un
po’
diversa. L’alloro essiccato, infatti, veniva utilizzato dalla Pizia (la
sacerdotessa/profetessa dell’Oracolo di Apollo a Delfi) che ne
inspirava i fumi
per ottenere le visioni sul futuro. L’alloro è, tuttavia, una pianta
tipicamente mediterranea e difficilmente rintracciabile in Gran
Bretagna in
quel periodo. Nonostante ciò, mi sono concessa una licenza “poetica” e
ho finto
che Sherlock, dall’alto della sua intelligenza, abbia studiato anche le
tradizioni di altre civiltà come, del resto, probabilmente aveva fatto
anche
Moran.
Birra con un
infusione di foglie d'edera triturate: a quanto pare, dalle mie
ricerche, i druidi celtici
(e anche altre popolazioni germaniche) si servivano di questo intruglio
per
creare allucinazioni che permettessero loro di fare previsioni sul
futuro.
L’edera, essendo una pianta velenosa, veniva usata in combinazione con
la birra
ottenendo quasi una specie di droga.
Walda: in inglese antico
significa
“Signore”. Era uno dei titoli con cui poteva essere designato il capo
di un
villaggio anglosassone.
Swefnesdræfend:
parola
composta da due termini in
inglese antico “Swefn” (al caso genitivo “Swefnes”), sogno, e
“Dræfend”,
cacciatore. Il termine significa tendenzialmente “Cacciatore di Sogni”.
Swefnesweriend: sempre dall’inglese antico.
“Weriend” significa
“Difensore”. Da cui ne deriva che Sherlock è un “Difensore di Sogni”.
“Nei
sogni
entriamo in un mondo che è interamente nostro.”: citazione casuale (dico
“casuale”
perché mi è assolutamente venuta in mente per caso) da “Harry Potter e
il
Prigioniero di Azkaban”.
Swefnesfaran: ancora
inglese antico. “Faran” è il
nominativo plurale della parola “Fara” che significa “Viaggiatore”.
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Capitolo 3 *** Atto Secondo: Swefn. ***
Atto Secondo: Swefn
Scena Prima
The fact
that
everybody in the world dreams every night
Ties all mankind together.
John si alzò e si sedette
sul bordo del letto. Per alcuni minuti fu incapace di distinguere
efficacemente
ciò che gli stava attorno. La luce della finestra, la familiare sagoma
dell’armadio, la porta socchiusa: tutto gli appariva sfocato e tinto di
una
sensazione che non riusciva a spiegarsi.
Era come se tutto
quell’ambiente che lo circondava non corrispondesse alla realtà, ma ad
un sogno
e che, invece, l’incubo da cui si era appena riscosso rappresentasse il
reale.
Non era, a dir la verità, una percezione nuova. Più volte, dopo il suo
ritorno
dall’Afghanistan, si era trovato a dover fare i conti con incubi che
sembravano
più veritieri della sua stessa vita.
Questo, però, era
accaduto ancora quando il drago non esisteva e il deserto
dell’Afghanistan non
era una foresta mai vista prima. Lo spaventava, invece, che la
sensazione
perdurasse anche in un contesto totalmente immaginario composto da un
drago
nero – creatura inesistente – e da una foresta che poteva
tranquillamente
affermare di non aver mai visto prima.
La sua psicoterapeuta
affermava che i sogni, gli incubi che faceva continuamente erano un
affiorare
del suo subconscio e, di conseguenza, delle sue paure più remote. Ma
quella
regola si poteva applicare benissimo alle scariche di Kalashnikov o a
un’esplosione nella notte, ma a un drago? John non era certo un bambino
che si
lasciava spaventare dalle fiabe! Tuttavia…quell’essere mitologico
sembrava
tutt’altro che fantasia e di questo John non riusciva proprio a
capacitarsi.
Era come se vivesse il sogno. Molto più che con i
vecchi incubi – quelli con
mitragliatrici e pattuglie in mezzo alle brulle colline afghane – John
si
trovava catapultato all’interno di un universo perfettamente tangibile,
dove il
drago era reale, la foresta era reale, il dolore alle ginocchia con cui
si era
svegliato era reale, l’uomo era reale.
Ecco. Ora c’era persino
l’uomo.
Ne aveva quasi percepito
la presenza già dalle prime volte in cui le distese desertiche avevano
lasciato
il posto a lussureggianti faggi e querce, come un deus ex machina che
guardasse
quello che stava succedendo. Ma anche quella sensazione era rimasta
inspiegata
ed inspiegabile tuttora.
Probabilmente
una proiezione del suo timore
nei confronti del mondo da quando è tornato invalido dalla sua missione, gli aveva spiegato la
psicoterapeuta. Lei, dottor Watson, si sente
osservato quando cammina in mezzo alla
strada, quando si siede ad un tavolo, quando scende le scale a causa
del suo
claudicare. Questo la porta a provare un senso d’inferiorità che il suo
subconscio rielabora come una figura invisibile che la osserva persino
all’interno dei suoi incubi. Quel deus ex machina di cui lei parla non
avrà mai
volto, perché non è nient’altro che la materializzazione onirica dei
suoi
dubbi, della sua supposta inferiorità.
Eccetto che ora quella
figura
che non avrebbe mai dovuto avere forma, una forma l’aveva ottenuta:
dapprima
indefinita, infine netta. E se i contorni del sogno andavano man mano
svanendo
con i minuti che ticchettavano inesorabili, lo stesso non si poteva
dire per
quell’immagine che si faceva più nitida, a imprimersi nella sua memoria.
Era con lui quando,
finalmente, si decise ad alzarsi dal letto. Era con lui quando si
preparò un
paio di uova per colazione. Era con lui quando, di fronte allo
specchio, passò
lo spazzolino da denti negli angoli più remoti della sua bocca. Era con
lui
quando, alle dieci meno dieci precise, prese la metropolitana per
recarsi allo
studio della dottoressa Thompson, come il post-it sul frigorifero gli
aveva
gentilmente ricordato.
Come anche le volte
precedenti, John non era molto propenso a seguire quel percorso
terapeutico a
cui doveva per forza essere sottoposto. Si sentiva – in un certo qual
senso –
intrappolato dalla donna che gli poneva domande a cui lui stesso non
riusciva a
dare una chiara risposta.
È
l’unico modo per guarire, per riguadagnare la mia vita normale, andava
ripetendosi inutilmente.
Seduto sullo scomodo
seggiolino di plastica della Circle Line,
la sua mente tornò all’improvviso a concentrarsi sul suo sogno
notturno.
Prevedibilmente, ormai tutto gli appariva sfumato e quasi
irriconoscibile. Il
drago era diventato un vago ricordo fumoso, la foresta una macchia
verdognola.
Ma l’uomo, incomprensibilmente, era rimasto lo stesso. Poteva vederlo
con
chiarezza anche lì, sballottato dal rollio della carrozza sulle rotaie,
schiacciato tra un tale addormentato ed una signora dal sottile odore
di cavolo
bollito.
Lui, nel suo splendore così
onirico e così reale. I capelli neri
ricci che contornavano un volto stanco, ma severo e risoluto; così come
gli occhi
azzurro ghiaccio che apparivano profondi e intensi. Si erano guardati
dritti in
volto, entrambi stupiti di trovarsi l’uno di fronte all’altro. Poi
quelle
parole pronunciate a un fil di voce e il drago era scomparso, il sogno
era
scomparso.
Come
se mi avesse salvato, come se ci fosse sempre stato a salvarmi.
Un pensiero senza senso,
ovviamente. Perché l’uomo dai capelli
neri non esisteva. Perché lui non conosceva nessuno che avesse le
stesse
fattezze di quella figura ammantata di bianco.
Quando valicò la porta dello
studio della dottoressa Thompson e
si sedette sulla sua solita poltroncina, il suo volto probabilmente
metteva in
bella mostra tutti i suoi pensieri perché la donna, quasi ancor prima
di
salutarlo, gli chiese secca:
“Come vanno gli incubi?”
Due ore di psicoterapia
dopo, John sentiva di non aver trovato
neanche una risposta alle sue domande. La dottoressa lo aveva
rassicurato per
l’ennesima volta del fatto che draghi e foreste potevano essere emersi
dal suo
inconscio infantile e che certamente, questi ricordi annebbiati della
sua
infanzia, si erano mescolati con quelli della sua esperienza di vita.
Inutilmente aveva tentato di spiegarle che nessuno si era mai
interessato di
leggergli fiabe quando era bambino, né lui era mai stato
particolarmente
attratto dalla lettura. Altrettanto inutilmente aveva insistito sul
punto
dell’uomo che aveva fatto la comparsa nel suo incubo.
“Sembra che quel deus ex
machina abbia preso forma.”, le aveva
spiegato.
“È qualcuno che conosce?”,
aveva chiesto lei.
“No, nessuno. Eppure non è
sfumato, è chiaro e netto, come se lo
avessi di fronte a me tutti i giorni.”
“Probabilmente è qualcuno
che ha conosciuto, dottor Watson, e la
cui immagine le è rimasta impressa nella memoria.”
Erano stati inutili anche i
tentativi di spiegarle che non era
così, che la sensazione che provava ad ogni nuovo sogno – o incubo che
fosse –
era diversa da quella che aveva sempre provato sognando. Con il rifiuto
di
comprenderlo – e chi poteva, del resto, dar adito a un matto che
sosteneva che
i sogni erano in qualche modo reali?
– della dottoressa Thompson se ne andava così anche la sua ultima
speranza di
trovare risposte a dubbi, impressioni che non si cancellavano dalla sua
mente.
“Dovrebbe scrivere un
blog.”, gli aveva suggerito la donna in
uno dei loro primi incontri “Racconti tutto quello che le succede: la
aiuterà a
liberarsi dai suoi timori più reconditi, dai suoi incubi.”
“E cosa potrei raccontare?”,
le aveva domandato “Non mi succede
nulla.”
Questa conversazione era
avvenuta prima dei draghi e dell’uomo
dalla tunica bianca, quando tutto era banale e piatto. Ora, se proprio
doveva
dire il vero, qualcosa da scrivere su un blog lo aveva. Ma chi avrebbe
letto le
buffe avventure di John Watson catapultato in un mondo inesistente?
Perché la
parte razionale nel suo cervello glielo diceva chiaramente che
quell’idea
dell’esistenza di una specie di Mondo dei Sogni – e, con esso, di un
Uomo dei
Sogni – era una follia completa.
E
ci
manca anche questo per escludermi definitivamente dalla vita sociale.
Zoppo e
matto.
Ma una parte illogica
costringeva al silenzio il suo cervello. E
così accadeva che, per quanto tentasse di razionalizzare gli incubi,
per quanto
tentasse di svegliarsi da essi, finiva per esserci sempre più immerso,
a caccia
di un mistero che solo lui riusciva a vedere, a braccare un pericolo
tanto
immaginario quanto reale.
Quella
notte, mentre appoggiava la testa sul cuscino, sentì come
qualcosa di elettrico nell’aria, un cenno di una strana anticipazione.
Si
addormentò profondamente nel giro di pochi secondi. E il sogno cominciò.
Atto Secondo: Swefn
Scena Seconda
You
are not wrong,
who deem
That my days have
been a dream;
Yet if hope has flown
away
In a night, or in a
day,
In a vision, or in
none,
Is it therefore the
less gone?
All that we see or
seem
Is but a dream within
a dream.
Sherlock aveva lasciato
la sua abitazione qualche secondo dopo l'alba. Un pallido sole si
faceva largo
tra le fronde degli alberi sulla collina dei noccioli, fino ad
illuminarne la
fitta boscaglia sottostante. Lo Swefnesweriend sapeva bene che era
necessario
che il legno di nocciolo adatto ad essere bruciato fosse raccolto “da
un
ramo rivolto ad oriente, un'ora dal primo sorgere
del sole, con rugiada
sul fogliame novello, tagliato con una lama ricurva bagnata nella
sorgente
sacra al plenilunio”.
Sherlock passò le dita
sul coltello che portava appeso alla cintola. Per uno Swefnesfara di
talento
naturale – come lui o Moran – tutti quegli accorgimenti erano soltanto
accessori. Paradossalmente gli sarebbe bastato chiudere gli occhi e
recitare la
formula corretta, senza aver bisogno di fumi o intrugli. Tuttavia aveva
imparato a non sopravvalutare le sue capacità, né a sottovalutare
l'imprevedibilità dei sogni stessi. Essi, del resto, possedevano vita
propria
all'interno della mente di ogni individuo e la minima disattenzione
poteva
essergli fatale. Soprattutto dopo l'arrivo di Moran come suo diretto
avversario
aveva deciso di attenersi scrupolosamente al rituale prestabilito.
Ancora di
più da quando i suoi viaggi onirici avevano preso una piega del tutto
inaspettata.
Mentre osservava gli
alberi di nocciolo che lo sovrastavano alla ricerca di quello corretto,
la sua
mente ripensava a quei continui sogni “sbagliati”. Da dove venissero,
perché vi
avesse accesso, che cosa significassero era un mistero che bisognava
risolvere.
Il viso dell'uomo biondo in mezzo alla radura gli apparve di fronte,
nitido
come se fosse di fronte a lui in quel preciso istante. Con quell'uomo
del sogno
– al quale, ovviamente, ne corrispondeva uno reale da qualche parte –
sembrava
avere un qualche legame particolare, tanto che quest'ultimo riusciva ad
occupare con i suoi sogni tutta la mente di Sherlock. Costantemente e
ripetutamente.
Ma chi è? Perché riesce
ad eclissare tutti gli altri sogni in cui dovrei entrare? È un nemico?
All'apparenza lo è, dato che la sua intrusione nei miei viaggi non mi
permette
di difendere il villaggio. Ma sento che non rappresenta alcun pericolo.
E
allora chi è? Perché proprio i suoi sogni?
Si fermò di fronte
all'albero di nocciolo perfetto e vi tagliò via il ramo necessario, poi
appoggiò la fronte sul tronco e si scusò per averlo privato di una sua
parte.
Quella sera stessa tutto
era pronto per svolgere il rituale ed entrare, di conseguenza, nel
mondo dei
sogni. La certezza di riuscire a tornare nel sogno dell’uomo biondo e,
quindi,
di trovare le risposte che cercava non l’aveva, ma sentiva dentro di sé
come
una specie di richiamo antico, un canto che lo portava a pensare che
tutto
sarebbe andato per il verso giusto. Dopotutto ci doveva essere un
motivo per
cui attraversare i sogni di quell’uomo gli riuscisse così semplice.
L’unica cosa che lo
preoccupava era di non essere sicuro di riuscire a mantenere il se
stesso – e
la visione onirica – stabile a lungo per poter parlare abbastanza.
Sebbene suo
fratello lo considerasse un compito da nulla, giacché non fisicamente
faticoso,
lui sapeva benissimo quanto la connessione mentale fosse estenuante,
quanto il
valicare le porte della percezione irreale fosse un fardello che solo
quelli
che lo provavano potevano comprendere.
Il fuoco sacro bruciava
nella stanza da un po’ e stava finalmente cominciando a scemare,
lasciando
spazio al fumo che avrebbe dovuto inspirare. Bevve il solito miscuglio
di birra
tiepida e pestato d’edera, poi chiuse gli occhi. Dopo i primi istanti
di buio,
una sensazione familiare di calore lo avvolse.
È
il
sogno giusto. Prima c’era solo smarrimento, qui vi è appartenenza.
La sagoma familiare
dell’essere alato apparve per pochi secondi
prima che lui – in un paio di parole magiche – riuscisse a trasformarla
in un
drago. Ormai era talmente bravo a trasformare quel sogno che ci metteva
pochi
istanti. Il problema, ora, era riuscire a diventare corporeo. La notte
precedente vi era riuscito senza volerlo, ora doveva farlo
coscientemente. La
seconda formula magica sgorgò dalle sue labbra ancor prima che potesse
farvi
attenzione. L’uomo biondo sotto di lui scappava, ansimante, verso la
radura
dove avrebbe incontrato il drago. Benché sentisse prepotente la spinta
di
correre immediatamente a salvarlo, Sherlock continuò la cantilena. Non
poteva
permettersi di distrarsi quando era così vicino a varcare un limite
invalicabile.
Alla terza formula magica,
sentì il suo corpo guadagnare una
certa consistenza. Fare ciò incoscientemente – si chiedeva ancora come
fosse
stato possibile aver preso forma completa il giorno antecedente – era
sembrato
semplicissimo, ora sentiva tutto il peso del suo essere in
quell’ambiente
inesistente. O, meglio, esistente in una consistenza diversa da quella
della
realtà.
Comparve, infine, nello
spiazzo erboso dov’era già apparso. Con
l’ennesimo incantesimo fece sparire il drago e si concentrò per
mantenere la
stabilità della visione.
L’uomo biondo lo osservò
stupito, come se si aspettasse che
l’incubo finisse in quel momento. Era una deduzione logica, pensò
Sherlock,
dato che finora era accaduto esattamente così.
Ma
non oggi.
L’uomo, ancora trafelato, si
fermò, diede un’occhiata dietro di
sé alla ricerca del drago scomparso, poi si voltò nuovamente verso
Sherlock.
“Chi sei?”, urlò
all’improvviso, poi si zittì, sul volto
un’espressione di stupore.
“Chi sei tu?”, chiese,
invece, Sherlock, percorrendo in un
secondo i metri che lo separavano dall’altro.
“Sto parlando…”, balbettò
l’uomo “Sto parlando in un sogno…”
Sherlock lo guardò con fare
curioso.
“Ovviamente stai parlando in
un sogno.”
“Sto impazzendo. Ormai è
certo, sto diventando matto…”
“Di che fesserie vai
cianciando?”, si stupì lo Swefnesweriend
“Hai già parlato nei tuoi sogni. Ma ora veniamo a noi. Chi sei? Perché
continuo
a finire nel tuo sogno? Cosa vuoi da me? Lavori per Moriarty?”
Gli occhi dell’uomo si
spalancarono nella più vivida espressione
di perplessità che Sherlock avesse mai visto.
“Non ho mai parlato
coscientemente. Non ho mai…risposto a delle
domande.”, disse, la voce bassa “E poi cosa significa continuo
a finire nel tuo sogno?”
“Tu non sai cosa sono io?”,
lo sguardo di Sherlock tradì i suoi
pensieri.
“Io non so nulla. Non so chi
tu sia, perché appari nei miei
sogni! E non voglio niente da te!”, poi mormorò “Ma perché continuo a
parlare
con un’allucinazione? Sto impazzendo…”
“Tu davvero
non sai…”
Quindi
non sa cosa sono, non interferisce nei miei sogni di sua volontà, non
sa che
esistono gli Swefnesfaran. Non-
“Non so niente!”, urlò
l’uomo, disperazione nella sua voce.
Sherlock tentò di ragionare
velocemente per capire se l’uomo
stesse mentendo, se nei sogni le sue capacità deduttive fossero in
qualche modo
offuscate. Ma no, l’uomo diceva la verità. Lo sentiva.
“Sono Sherlock.”, disse lo
Swefnesweriend ad un certo punto “E
sono un Difensore di Sogni.”
“Un…cosa? Sto
definitivamente impazzendo. Non solo parlo con i
sogni, ma questi rispondono alle mie domande, dicendo cose assurde.
Bene, John,
bene. Altri cinque anni di psicoterapia non potranno che farti bene.”
“No, ascolta.”, spiegò
Sherlock, desideroso di stabilire un
qualche legame con l’uomo misterioso “John, giusto?”
L’uomo annuì debolmente.
“Ascolta, John.”, riprese
“Non stai impazzendo, né altro. Puoi
parlare nel sogno perché il sogno che stai vivendo è una realtà a sé
stante.
Tutti i sogni lo sono, ma generalmente si è solo passivi e non li si
può
controllare. Questo è quello che succede sempre nei tuoi incubi, ma io
posso
rendere quella sostanza - anche se non è il termine
corretto –
effimera reale. O, meglio, posso modificare quella sostanza affinché
essa
faccia quello che dico io.”
John, dai suoi occhi
azzurri, lo guardò perplesso.
“Tu sei un’allucinazione che
dice cose assurde!”
“No, non lo sono. Credimi. È
un’arte antica la mia, un’arte
difficile e di cui pochissimi sono dotati a sufficienza per praticarla.
Io esisto per difendere le persone
dai
propri incubi, dalle proprie paure. Sono una persona reale al di fuori
del
sogno proprio come lo sei tu.”
Lo sguardo dell’uomo sembrò
distendersi, per poi accigliarsi di nuovo.
“Stai dicendo cose…cose!
Cose senza senso!”, ma si ammutolì, il
volto farsi pensieroso “Ma…ti credo. Cioè, penso di crederti. Oh,
dannazione!
Non lo so!”
“So che è complicato, se non
conosci il concetto.”, si fermò e
allungò il braccio verso John; pur sapendo che il contatto non era
assolutamente consentito, sentì di doverlo fare “Se mi tocchi,
riuscirai a
comprendere.”
John allungò tremante la
mano. Le due entità oniriche si
toccarono, attraversandosi. In quel tocco quasi elettrico Sherlock capì
cos’era
John e comprese che anche John riuscì in un qualche modo a percepire
che cosa
fosse lui.
“Tu…vieni dal futuro. Il tuo
sogno è un sogno di molti anni
lontano dal mio presente.”, fu tutto ciò che Sherlock riuscì a dire.
“E tu…tu sei il passato.”,
rispose John “Tu sei reale in un
tempo passato.”
La rivelazione fu
sconvolgente per Sherlock. Non solo era
entrato – per un motivo ancora ignoto – nel sogno di una persona
sconosciuta,
ma aveva fatto tutto ciò attraversando ad occhio e croce circa un
millennio. Non
era mai successo. Ed era potenzialmente pericolosissimo. Eppure
continuava a
sentire che tutto quello fosse in un qualche modo giusto,
destinato ad essere. Il tocco con l’uomo aveva solo
confermato quella sensazione.
“Perché sei nei miei
sogni?”, chiese John “Qual è la ragione?”
Sherlock abbassò lo sguardo
a terra e scosse la testa.
“Potessi darti una risposta,
lo farei volentieri. Metterebbe in
pace il mio animo tormentato.”
Si sedette sull’erba,
seguito da John.
“Il mio compito è quello di
proteggere il mio villaggio dagli
attacchi onirici perpetrati da un Cacciatore di Sogni di nome Moran.
Questo è
ciò che ho sempre fatto, almeno finché non sono apparsi i tuoi strani
sogni. Da
allora continuo ad imbattermi in te e non riesco più a svolgere il mio
dovere.”
John lo osservò con
curiosità, ma Sherlock capì che il tempo a
loro disposizione era agli sgoccioli. Sentì, infatti, chiaramente che
la sua
figura si stava dissolvendo.
“Quindi sarebbe colpa mia?”,
chiese l’uomo un po’ stizzito.
“Non ti sto dando la colpa.
Ma non riesco a capire. Ed io odio
non capire, ignorare cosa stia accadendo.”
“Un po’ presuntuoso, non
trovi?”, l’uomo biondo sorrise “Tutti
noi non sappiamo qualcosa, c’è sempre un po’ di mistero.”
“La cosa interessante di un
mistero è risolverlo, non credi,
John?”
“Ci sono misteri che sono
meravigliosi perché rimangono tali.
Questo incontro inaspettato forse è uno di essi.”, sorrise apertamente
John, un
sorriso sincero che, per un attimo, riscaldò il cuore di Sherlock.
Quella fu l’ultima immagine
prima che il sogno si dissolvesse,
quella che rimase indelebilmente impressa nella sua mente. Riuscì
soltanto a
dire un’ultima cosa prima che tutto sparisse nel nero.
“Alla prossima.”
Perché era certo che quella
non fosse l’ultima volta anche si
sarebbero incontrati, anche perché non voleva che fosse l’ultima. Dopo
quella
breve conversazione, dopo quel sorriso così chiaro, così intenso, John
aveva
assunto tutto un altro significato. Un significato che non comprendeva
e che,
forse, come aveva detto l’altro uomo, non voleva assolutamente
comprendere. Che
John esistesse in sogno, in un altro tempo, in un altro luogo e che
fosse, al
tempo stesso, lì con lui era tutto ciò che gl’interessava.
N.d.A.
Swefn:
come
già specificato in precedenza, dall’antico inglese e significa “Sogno”.
“The
fact that…ties all mankind together.”: citazione dall’introduzione
de “Il
libro dei sogni” fatta da Jack Kerouac. Tradotta con “Il fatto che
ciascuno (di
noi) sogni lega l’umanità insieme.”
“You are not wrong, who deem…Is but a
dream within a dream.”: citazione
dalla poesia “A
Dream Within a Dream” (“Un sogno
dentro al sogno”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotta come:
“Non sbagli, tu che credi/che i miei
giorni siano stati un sogno;/Ma se la speranza è volata via/In una
notte, o in
un giorno,/In una visione, o in nessuna,/È perciò meno scomparsa?/Tutto
ciò che vediamo o crediamo (di vedere)/Non è
nient’altro che un
sogno dentro a un sogno.”
Da
un
ramo rivolto a oriente…plenilunio: pura e
totale invenzione. Ho utilizzato alcuni elementi dello
sciamanesimo/druidismo (tra cui il coltello ricurvo e l’idea di
cogliere le
piante ad una determinata ora del giorno), ma senza che la fonte della
mia idea
sia specifica. Scusate, ma non è un vero e proprio rituale.
|
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Capitolo 4 *** Atto Terzo: Ende. ***
Atto
Terzo: Ende
Scena Prima
There
are more things
in Heaven and Earth, Horatio,
Than are dreamt of in
your philosophy.
John si svegliò di
soprassalto, la mente ancora completamente concentrata sul sogno che
aveva
fatto. Per la precisione: sull'uomo del sogno. Che ora aveva un nome,
Sherlock,
e che aveva persino un'occupazione, difendere i sogni. Il tutto gli
pareva
talmente reale e assurdo che, seduto sul letto per alcuni secondi, fece
fatica
a distinguere i contorni di ciò che gli stava attorno. Il sogno, la
radura, la
conversazione erano sembrati più reali della realtà e, come mai prima
d'ora,
aveva sentito di appartenere a quella dimensione
onirica.
Il che, se ci ragionava
bene, era una follia completa. Ma quel breve contatto con l'uomo,
quella scossa
che aveva sentito, quella conversazione lasciavano a John ben poco
spazio per
credere che fosse pazzia. Sembrava tutto così naturale e atteso, tutto
così
assolutamente perfetto e cercato, da essere logico.
Se non che la mia
psicoterapeuta mi farebbe ricoverare immediatamente, se sapesse una
cosa
simile.
John capì che sarebbe
stato inutile tentare di spiegare quello che aveva appena provato alla
donna.
Non era una sensazione che si poteva spiegare a parole, né,
probabilmente,
sarebbe mai riuscito a trovare i termini giusti per definire tutto ciò
che era
successo. Ricordava tutto nitidamente, come se fosse avvenuto nel mondo
reale e
non nel mondo dei sogni. Ed era certo che fosse reale. Era certo che
esistesse
uno Sherlock che vivesse in un tempo passato e che – per una ragione
misteriosa
– si trovasse anche all'interno dei suoi sogni. E credeva anche alla
storia
dello Swefnesweriend, per quanto fantasiosa potesse sembrare. Non
sapeva
spiegarsi il perché, ma nutriva nei confronti di quell'uomo una fiducia
che
veniva direttamente dall'interno della sua anima e che, sentiva, non
poteva
essere intaccata da nulla.
Perché è giusto così. E
nessuno potrà mai convincermi del contrario.
Forte di questa
convinzione e dell'idea che un filo legasse lui e Sherlock, John sentì,
per la
prima volta dopo il suo ferimento, di avere qualcosa per la quale la
vita non
gli pareva più così grigia e inutile. Ben presto quei sogni divennero
il
cardine della sua esistenza e i continui incontri con l'uomo divennero
ciò che
di più importante avesse mai avuto.
Nel corso delle tre
settimane successive a quel primo vero incontro, i
sogni continuarono
con costanza.
Sherlock gli spiegò
diverse cose che non riusciva a comprendere. Nell'incontro successivo
gli
spiegò, per esempio, il perché riuscissero a capirsi nonostante la loro
lingua
fosse diversa.
“Nei sogni è
possibile perché sono una realtà alternativa e possiamo fare esperienze
differenti rispetto alla nostra quotidianità”, gli aveva
spiegato “e
siamo noi che, grazie ad una parte della nostra volontà, rendiamo
possibile
l'impossibile.”
“Dunque una parte
della mia volontà vuole conversare con te?”, aveva chiesto
John, curioso.
Sherlock aveva disteso
il volto e aveva sorriso compiaciuto.
“Sei piuttosto
sveglio.”, gli aveva detto con una certa soddisfazione “È
proprio così.”
Un'altra volta gli aveva
domandato come fosse la vita ai loro tempi.
“Noiosa.”,
gli
aveva risposto “Guerre, battaglie e poco altro.”
Poi gli aveva spiegato
di suo fratello Mycroft, il Walda del villaggio, della battaglia che
stavano
conducendo contro Moriarty, il Walda del villaggio confinante,
dell'arrivo di
alcuni stranieri che non parlavano la loro lingua, della loro religione
e del
loro modo di vedere il mondo. John ne era rimasto affascinato, ma nulla
al
confronto della curiosità che Sherlock nutriva verso il futuro.
“Il tuo mondo,
invece, com'è?”, gli aveva chiesto un paio di notti dopo.
“Diverso dal tuo,
ma
egualmente noioso. O, almeno, per me lo è.”
E gli aveva raccontato
che le guerre c'erano ancora, che lui stesso era stato un soldato, che
era
stato ferito. Era anche riuscito, con qualche difficoltà, a spiegargli
che
l'oggetto da cui continuava a salvarlo non era un uccello, ma un
elicottero.
Sherlock ci aveva rimuginato sopra per un bel po' di tempo e poi aveva
sentenziato, tra il divertito e il perplesso.
“Credo di aver
intuito.”, e aveva sorriso.
Un'altra volta ancora
John lo aveva pregato di spiegargli cosa prevedesse esattamente il
fatto di
essere uno Swefnesweriend. Lo aveva chiesto perché Sherlock sembrava
quasi
sempre sorvolare l'argomento o minimizzarlo.
“È una benedizione
ed
una dannazione. È un dono, direbbero alcuni. Ma la verità è che è un
fardello
che lascerei volentieri a qualcun altro. Tuttavia so che è mio preciso
dovere
svolgere questo compito, mi piacerebbe solo metterci più passione.”
“Vorresti fare
altro?”
“Avessi una
possibilità di scelta sì. Ma ammetto che le alternative non sono molto
allettanti. Il cacciatore o l'agricoltore non mi si addicono proprio,
per non
parlare del guerriero. Essere uno Swefnesweriend almeno mi libera da
queste
stupide incombenze.”
John aveva ammesso che,
effettivamente, non c'era molta varietà lavorativa nell'epoca di
Sherlock.
“Ma se potessi
scegliere, cosa ti piacerebbe fare?”, aveva insistito.
“Riderai di me, se
te
lo dico?”, aveva sorriso debolmente “Mi piacciono i
misteri. Mi piace
vedere oltre la realtà apparente delle cose. Mi piace scavare là dove
la gente
rifiuta di farlo, perché considerato immorale o empio. Se potessi, mi
piacerebbe scoprire chi sia il colpevole, per esempio, dei delitti...”
“Perché dovrei
ridere? È un lavoro affascinante!”
“Ma non esiste!”,
aveva sentenziato, ridendo, Sherlock.
“Nella mia epoca sì.”,
aveva risposto John “Si chiama 'investigatore'.”
“Investigatore?”,
aveva ripetuto Sherlock, affascinato dalla parola “Allora
farei
l'investigatore. Mi piace la tua epoca.”
E aveva sorriso.
I sorrisi di Sherlock,
John ormai lo sapeva bene, erano rari. Erano sorrisi che si
dischiudevano
quando meno ce li si aspettava: apparivano per un'argomentazione
brillante da
parte di John, per un termine particolarmente arguto, per un
ragionamento
corretto. Erano sorrisi che toccavano il profondo dell'anima,
lasciandoci
un'impronta indelebile, e che conservava come un tesoro prezioso nelle
grigie e
fredde giornate londinesi. Quando tutto andava storto, gli bastava
ricordare
quel leggero scintillio negli occhi azzurro-grigi di Sherlock nel
momento in
cui sorrideva e tutto pareva prendere la direzione giusta. Era come se
Sherlock
fosse diventato la risposta a tutto, l'unico ad essere riuscito ad
allontanare
l'incubo della guerra dalla sua mente.
Anche la sua gamba aveva
risentito positivamente del cambiamento operato da Sherlock. Man mano
che i
sogni proseguivano, il dolore si era attenuato, fatto sempre più lieve,
quasi
cessato. Era una sensazione di rinascita incomparabile. E doveva dir
grazie di
tutto ciò ad un uomo inesistente nel mondo a lui contemporaneo.
Da quando c'era
Sherlock, inoltre, tutto ciò che lo circondava era diventato quasi
sbiadito,
mentre il tempo che passava con lo Swefnesweriend si era trasformato in
tutto
ciò di cui aveva bisogno. Le loro passeggiate nella foresta dove
Sherlock
gl'insegnava la differenza tra questa e quella pianta, le conversazioni
su ogni
tipo di argomento possibile – anche quelli del mondo attuale, a cui
Sherlock si
dimostrava estremamente interessato, i racconti che Sherlock faceva di
tutti i
sogni che aveva difeso.
Nel corso di tre sole
settimane John aveva raggiunto – e se ne rendeva conto chiaramente –
un'intimità con Sherlock che non aveva mai avuto con nessun altro. Quel
senso
di appartenenza che prima aveva riguardato soltanto il sogno in
generale, si
era ristretto alla sola figura di Sherlock. Tanto che John cominciò a
maturare
l'idea che la sua vita avesse un senso solo grazie a Sherlock e che,
senza di
lui, non sarebbe più riuscito a vivere. Era, in certi momenti,
terrorizzato al
pensiero che quei sogni si potessero interrompere e, quando lo
Swefnesweriend
saltava una notte perché impegnato nella difesa del villaggio, una
paura oscura
s'impadroniva di John, al punto da condizionare tutto il giorno
seguente.
Un giorno questo peso
era diventato intollerabile. Aveva passato la giornata a sperare,
desiderare,
bramare di vedere Sherlock quella notte, perché il
solo accenno di non
riuscire a incontrarlo nei sogni lo faceva star male. Era stato in quel
momento
che aveva capito. Non era stata un'illuminazione del momento, né
un'idea folle,
ma solo la naturale conseguenza di ciò che era accaduto fino a quel
momento.
Sherlock,
fortunatamente, era apparso quella notte. Dopo i convenevoli iniziali,
John
aveva posto la fatidica domanda che l'aveva tormentato per un giorno
intero:
“Non c'è modo in
cui
io possa raggiungere il tuo mondo?”
Sherlock aveva scosso la
testa sconsolatamente.
“Nessuno.”,
aveva
risposto, mesto “Il mondo dei sogni è solo dei sogni.
L'io-reale e il
tu-reale non avranno mai alcuna possibilità d'incontrarsi, se non qui,
in
questa forma.”
“Ho paura che non
duri.”, John aveva confessato.
“Nulla dura.”
Era stato in quel
preciso istante che John si era reso conto che la figura di Sherlock
aveva
cambiato aspetto: il volto era emaciato, le occhiaie scavate, gli occhi
velati
da una patina biancastra, i capelli arruffati.
“Sherlock...ma tu...”
“Non ce la faccio
più
a nasconderlo, John.”, gli aveva detto “In questi
giorni ho tentato
sapientemente di coprire il cambiamento del mio aspetto fisico. Non
volevo che
tu...”
“Non dovevi
farlo...so quanta fatica ti costa modificare anche un solo singolo
aspetto...”
“Non volevo
preoccuparti.”
“Se vuoi possiamo
interr-”, ma John non era riuscito a finire la frase.
“No!”,
aveva
urlato Sherlock, la disperazione palese nel suo sguardo.
John aveva avvicinato la
sua mano all'altro uomo alla ricerca di un contatto che mancava dal
primo
giorno. Le due mani si erano così sfiorate e attraversate. E John aveva
sperato
di riuscire a trasmettere in quel tocco ciò che a parole non riusciva
esprimere. Quella naturale conseguenza era che si era innamorato di
Sherlock.
Inspiegabilmente, forse, per qualsiasi altro individuo sulla terra, ma
non per
lui. Sherlock era ciò che a John era sempre mancato, ciò che lo completava.
Non esisteva un modo per spiegarlo chiaramente, non esisteva un modo
per
razionalizzarlo. Sapeva che era così e lo accettava. Accettava di amare
un uomo
che non avrebbe mai potuto incontrare davvero, si accontentava della
sua
presenza nella sua vita.
E con quello sfiorare
aveva sperato di riuscire ad esprimere questo, dato che le parole non
erano
sufficienti. Non sarebbero mai state sufficienti
per spiegare il suo
cuore.
Ti amo, disse John in quel tocco,
senza proferir parola.
Sherlock lo guardò
semplicemente e i suoi occhi – e John sperò di non esserselo immaginato
–
sembrarono rispondere: anch'io.
Dopo quell'episodio,
Sherlock era apparso sempre più stanco e vulnerabile e, la notte
precedente,
era sembrato anche spaventato.
“Quel Moran...”,
aveva detto “Mio fratello...”
John aveva tentato di
ricavare qualche altra parola, una spiegazione, ma non ci era riuscito.
Avevano
passato il tempo a guardare il cielo sopra di loro senza fiatare, le
nuvole che
scorrevano bianche nell'azzurro accecante.
“Non esiste più
l'azzurro,
solo il grigio, John...”
Era stata l'ultima frase
che Sherlock aveva pronunciato, prima che qualcosa
facesse svanire di
colpo il sogno.
Quella notte, prima di
appoggiare la testa sul cuscino, John ebbe paura. Dentro di sé sapeva
che
qualcosa era sul punto di cambiare completamente. E non per il meglio.
Atto
Terzo: Ende
Scena
Seconda
To die, to
sleep.
To
sleep, perchance
to dream: aye, there's the rub,
For in that sleep of
death what dreams may come
When we have shuffled
off this mortal coil,
Must give us pause.
Sherlock camminava
avanti e indietro per la stanza. La guardia che si occupava di suo
fratello era
venuto a chiamarlo alcuni minuti prima, interrompendo bruscamente il
sogno che
stava facendo accanto a John.
John.
Quell'uomo così distante,
eppure così vicino era diventato un problema, ma un problema di cui non
riusciva – e non voleva – in nessun modo liberarsi. John era diventato
la sua
ancora di salvezza dopo estenuanti giornate a discutere con Mycroft
delle
migliori strategie da adottare contro le scorribande sempre più
intrusive
all'interno del loro territorio, dopo estenuanti nottate a combattere
contro
mostri onirici sempre più potenti, sempre più perfetti. I sogni di John
– con
John, si correggeva, perché John esiste –
erano il suo rifugio tra
una notte e l'altra. E, per quanto rendessero palese la sua debolezza,
per
quanto lo rendessero umano, non voleva che
finissero.
Quella sensazione di
appartenenza che aveva percepito fin dall'inizio, si era andata
chiarificando con
il tempo e si era trasformata in un sentimento che, inizialmente, aveva
fatto
fatica a definire. Era qualcosa di caldo e avvolgente che gli aveva
dato il
sostegno necessario per attraversare le giornate infernali che si era
trovato
ad affrontare e che gli aveva fornito uno scopo in una vita che aveva
quasi
sempre considerato come necessaria, ma inutile. John era, in poche
parole,
diventato il suo centro, indispensabile.
Quando, un giorno, dopo
che lui e John avevano fatto una lunghissima passeggiata nel bosco
onirico –
infatti si era impegnato fino allo sfinimento per rendere quei loro
sogni privi
di creature mostruose e il più stabili e lunghi possibile, era riuscito
a dare
finalmente un nome a quella sensazione sconosciuta e, al tempo stesso,
completante.
Era amore. Il che era incredibilmente ridicolo, se
ci pensava. Lui che
aveva sempre considerato l'amore come una debolezza delle menti deboli,
lui che
era persino giunto a considerarlo un difetto della razza umana, lui
si
era innamorato. Eppure non c'era alcuna altra spiegazione plausibile.
Desiderava la compagnia di John, desiderava vederlo sorridere di quel
sorriso
sincero e fiducioso che solo lui aveva, desiderava che quei sogni non
finissero
mai.
Nei momenti in cui la
logica riacquistava peso, però, si rendeva conto di quanto indugiare in
quegli
sprazzi di felicità momentanea fosse pericoloso e ricominciava ad
auto-imporsi
di lasciar perdere, fino al punto di tenersi apposta lontano da quei
sogni, con
uno sfiancante sforzo di volontà. Nonostante ciò, il giorno seguente vi
si
ritrovava coscientemente al loro interno ed era una sensazione talmente
appagante che l'idea di volervisi tenere a distanza appariva folle.
Tutto quello che stava
succedendo era inspiegabile e, in quanto tale, terribilmente attraente
per
Sherlock, ma al tempo stesso era naturale, come se
lui e John fossero
uniti da un filo invisibile e destinati ad incontrarsi lì, in quel
preciso
frangente della loro vita. Sherlock non riusciva a dare una spiegazione
nemmeno
a questo, ma – strano a dirsi – per la prima volta nella sua vita non
gl'importava. L'importante era John.
Il problema, tuttavia,
rimaneva. Non solo perché tutta la sua attenzione si riversava nei
confronti di
John e del suo meraviglioso mondo futuro – investigatore,
si ripeteva, suona
bene – compromettendo
così la
sicurezza del suo villaggio; ma anche perché John rimaneva chiuso nel
mondo dei
sogni e lui aveva la netta sensazione che questi loro incontri non
sarebbero
durati a lungo.
Ed ora, trascinato alla
dura realtà da una zelante guardia, ne era ormai sicuro. Suo fratello –
così
gli aveva comunicato l'uomo – si era svegliato nel bel mezzo della
notte
gridando e mormorando frasi sconnesse e ogni tentativo di riportarlo
alla
ragione era fallito. Ora giaceva inerme nel suo letto, lo sguardo vacuo
rivolto
verso il tetto di paglia. Quando Sherlock era giunto al suo capezzale,
aveva
immediatamente capito la gravità della situazione. Già il giorno prima
Moran
aveva attaccato con forza e lui era riuscito, a fatica, ad evitare che
Mycroft
venisse divorato dal suo stesso sogno. In seguito ad un attacco così
potente,
Sherlock aveva calcolato che lo Swefnesdræfend avrebbe avuto bisogno di
un
giorno di riposo. Si era sbagliato. Aveva sottovalutato il suo
avversario e lui
ne aveva approfittato in un modo che Sherlock non avrebbe mai, prima
d'allora,
creduto possibile: era riuscito – grazie alle sue arti – a far uscire
di senno
Mycroft solo attraverso i sogni. Non sapeva, ovviamente cosa
gli avesse fatto
apparire in sogno, ma doveva essere stato qualcosa che non avrebbe
potuto
fermare nemmeno lui. Marginarlo? Sì. Sconfiggerlo? No.
Ma se non fossi stato
con John, forse sarei riuscito ad impedire che impazzisse completamente.
Il senso di colpa lo
rodeva nell'anima. Suo fratello era, nonostante i loro dissapori,
l'unica cosa
che lo legava al suo presente e, sebbene detestasse il compito ingrato
di
Swefnesweriend, lo aveva accettato perché Mycroft potesse regnare senza
troppe
preoccupazioni. Ma più forte ancora del senso di colpa nei confronti
del
fratello, si faceva largo in lui la paura di perdere John. Perché ormai
era
inevitabile che le loro strade dovessero separarsi definitivamente.
Sherlock
doveva prendere il comando ed era certo che, dopo la disfatta del
Walda, i
guerrieri del villaggio non avrebbero accettato gli ordini di uno che
consideravano, alla meno peggio, irritante. E
Moriarty non avrebbe
esitato a chiedere la sua testa.
Sacrificare John sarebbe
stato ancora apparentemente semplice se, pochi giorni prima, non si
fossero
sfiorati e tutti i sentimenti dell'uomo non gli si fossero palesati.
Non era un
amore unilaterale, era reciproco.
Ed ora che lo so, come
faccio a dirgli addio? Come posso lasciarlo soffrire per il resto della
sua
esistenza? Vorrei che fossi qui, John, vorrei che tu fossi reale in
quest'epoca, vorrei abbracciarti e dire che andrà tutto bene. Ma tu sei
più di
mille anni distante da me e io non trovo soluzione. Io soffrirò poco la
tua
mancanza. La mia testa rotolerà ancor prima che io possa rendermene
conto. Ma
tu? Tu col tuo amore così sincero e lampante, come farai?
La guardia, che lo aveva
lasciato solo nella stanza, tornò per annunciare che gli altri nobili
del
villaggio erano arrivati e pronti per cominciare il consiglio.
La notte successiva,
Sherlock, ormai Walda eletto all'unanimità – se si escludeva il suo
fermo
rifiuto, si chiuse nella sua stanza e osservò il braciere spento e gli
ultimi
rametti di nocciolo appoggiati a lato. Vi era anche un ramo secco di
agrifoglio. Lo aveva scelto un po' di tempo prima perché, dai suoi
studi, era
risultato che quella pianta era in grado di creare un ambiente onirico
sufficientemente protetto. Nel caso Moran avesse intenzione di
attaccarlo
quella notte, avrebbe trovato una barriera abbastanza potente da
fermarlo.
E così, pensò tristemente,
potrò dare il mio addio a John.
Sherlock accese il
braciere e vi gettò sopra il legno e l'agrifoglio, sentendoli
sfrigolare al
contatto con il carbone rimasto dalla sera precedente. Zampilli rossi
illuminarono
l'ambiente per alcuni minuti. Quando il fuoco si fu indebolito e il
fumo
biancastro cominciò a intersecarsi nella stanza, lo Swefnesweriend lo
inalò con
avidità, sapendo bene che quella sarebbe stata l'ultima volta. Al
recitare la
formula magica, la stanza scomparve e si ritrovò nel solito bosco, ma
ricoperto
di neve.
Effetto dell'agrifoglio, pensò.
John apparve qualche
secondo dopo da dietro un albero. I loro occhi s'incontrarono
istantaneamente,
come se non stessero aspettando altro.
“Neve?”, chiese John.
“Già.”, rispose
Sherlock, accennando un sorriso.
Aveva anche tentato di
cambiare velocemente il suo aspetto esteriore, in modo da apparire più
in
salute di quello che era, ma non ci era riuscito. Anche l'idea di
mentire a
John, di dirgli che era tutto a posto e che si sarebbero rivisti il
giorno
seguente gli era balenata nella mente, ma l'aveva scacciata con forza.
John non
era uno stupido e avrebbe intuito tutto all'istante. E, poi, non poteva
mentire
a John. Era come tradirlo.
“È merito dell'agrifoglio.”,
continuò, sperando inutilmente che tutto ciò che stava passando non
trapelasse
dalla sua espressione.
Ma era chiedere troppo.
John lo notò non appena si avvicinò. Il sorriso che gli aveva
illuminato il
volto fino a quell'istante svanì, lasciando il posto ad un espressione
preoccupata.
“Hai un aspetto
orribile...”, disse quasi paternamente.
“Non è niente,
davvero.”, mentì involontariamente.
“Non dire bugie,
Sherlock. Ieri notte non hai parlato per tutto il tempo e si vedeva che
c'era
qualcosa che ti tormentava più profondamente del solito. E oggi sei
conciato –
se possibile – ancora peggio dei giorni scorsi, come se un fardello
enorme si
sia depositato sulle tue spalle. Sarò anche distante migliaia di anni,
ma tutto
il tuo aspetto non mente, Sherlock.”
Piccoli fiocchi di neve
cominciarono a descrivere spirali nell'aria, spazzati da un leggero
vento.
Sherlock guardò verso il cielo bianco sopra di loro, poi indicò a John
un masso
sporgente dove potessero sedersi.
“Sono il nuovo Walda del
villaggio, John.”, disse greve.
Il volto di John non
nascose lo stupore.
“Il...”, balbettò
“Walda? E tuo fra-”
“Mycroft non può più
ricoprire la carica.”, tagliò corto, un nodo alla gola a ricordargli la
sua
mancanza.
“Non è colpa tua,
Sherlock. Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua.”, tentò di
confortarlo
John.
“Come puoi saperlo? Come
puoi anche solo credere che non sia colpa mia,
quando lo è?”, urlò
disperato “Dovevo essere a proteggerlo e invece...ho sbagliato...tutto.”
“Allora è colpa mia, non
tua. Sono io ad averti trattenuto.”
Ma Sherlock, per quanto
arrabbiato fosse con se stesso, non poteva accettare che John si
prendesse una
colpa che non aveva. Anzi, se avesse potuto, gli avrebbe spiegato che
era solo
grazie a lui se era resistito fino a quel momento senza crollare sotto
il peso
della responsabilità, che era solo per lui che aveva continuato a
svolgere il
suo lavoro al meglio, solo per poterlo vedere. Ma le parole, in un
qualche
modo, non riuscivano ad uscire dalle labbra. Le aveva lì, ma tutto ciò
che
riusciva a fare era osservare John in quegli occhi azzurri, tanto
simili e
tanto diversi dai suoi, essendo a conoscenza che quella sarebbe stata
l'ultima
volta in cui avrebbe potuto vederli.
“Non è colpa tua.”,
riuscì, infine, a dire “Non è mai stata, né mai sarà colpa tua, John. E
non è
colpa tua neanche quello che sta per succedere. Promettimi che non
penserai mai
e poi mai che sia colpa tua, va bene, John?”
John non disse nulla, ma
gli occhi lasciarono trasparire un misto di tristezza e paura.
“John...”, tentò di
proseguire, senza riuscirvi.
“È l'ultima volta,
vero?”, chiese l'altro con la voce spezzata.
Sherlock annuì e
distolse lo sguardo, due lacrime a rigargli le guance. La neve
continuava a
cadere sul terreno di fronte a lui, ma il freddo che provava era tutto
all'interno del suo cuore. Per alcuni secondi non successe nulla, poi
John
richiamò la sua attenzione:
“Sherlock?”
A fatica si girò
nuovamente verso di lui e si ritrovò il viso di John a pochi centimetri
di
distanza. Anche John aveva gli occhi lucidi e due gocce trasparenti
tracciavano
il contorno del volto. Piangeva.
“Sherlock...”, ripeté
l'uomo, la voce piena di malinconica dolcezza.
Avrebbe dovuto dire
qualcosa di saggio e consolarlo, ma tutto ciò che gli veniva in mente
era ti
amo, John, ti amo, ti amo, ti amo. Ma non era in grado
neanche di
pronunciare quelle parole, perché si sentiva morire dentro al pensiero
che
quella sarebbe stata la prima e unica – nonché ultima –
volta che John
le avrebbe udite dalla sua bocca. E non poteva lasciarlo con quella
confessione, che era sempre stata sottintesa, ma mai palesata. Lo
avrebbe
distrutto.
Poi i centimetri che lo
separavano da John scomparvero, perché John si era avvicinato fino a
far
combaciare le loro labbra. Lo stava baciando e, sebbene fosse un bacio
a metà,
data la loro incorporeità, con in quel contatto sentirono tutto ciò che
entrambi provavano l'uno per l'altro, si dissero tutto quello che non
avrebbero
mai potuto dirsi, in una promessa di amore eterno. Ma Sherlock sentì
qualcos'altro
all'interno di quel bacio. Vi era un richiamo lontano a cui si aggrappò
disperatamente con tutte le forze.
Mentre il sogno ormai si
dissolveva intorno a loro, riuscì a dire a John:
“Aspettami.”
N.d.A.
Ende:
sempre inglese antico, direi che qui il significato è piuttosto
evidente:
“Fine”.
“There
are more
things…your philosophy.”: citazione
tratta da “Hamlet” di William Shakespeare, precisamente dall’atto I,
scena 5.
Il significato è (supremo Shakespeare perdona la mia barbara
traduzione: “ Ci
sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quelle presenti (sognate)
nella
tua filosofia (nel tuo modo di pensare).” La conversazione avviene
quando
Amleto discorre con i suoi due amici e compagni di studi, Orazio e
Marcello,
quando questi si trovano di fronte al fantasma del padre di Amleto.
Orazio,
modello di razionalità, non concepisce l’apparizione del fantasma come
reale,
ma Amleto lo redarguisce dicendogli, per l’appunto, che esistono cose
in questo
mondo che non possono essere concepite razionalmente.
“To
die, to
sleep…Must give us pause.”:
qui entriamo nel sacro letterario. Forse il monologo più famoso di
tutta la
letteratura inglese e non. Da “Hamlet” di William Shakespeare, il
notorio
“Essere o non essere”, atto III, scena 1. Se prima Shakespeare doveva
perdonarmi, ora gli chiedo direttamente venia e mi prostro ai suoi
piedi.
Tradotto sarebbe: “Morire, dormire,/dormire, forse sognare: sì, ecco
l’ostacolo,/perché in quel sonno di morte, che sogni potrebbero
giungere,/quando ci siamo liberati di questo groviglio mortale,/deve
farci
fermare.” La spiegazione di tutto ciò che è implicato in queste poche
parole è
davvero immensa. In breve: Amleto ha scoperto che il padre è stato
ucciso da
suo zio che, in seguito, ne ha usurpato il trono sposando la madre di
Amleto.
Questa rivelazione lo ha lasciato sconvolto e, perciò, sta ponderando
l’idea
del suicidio, salvo temerlo allo stesso modo della vita stessa perché
ha paura
che neanche nel sonno eterno la sua anima troverà mai pace.
La
scelta
dell’agrifoglio: l’agrifoglio
è un’altra delle piante considerate sacre dai celti. Essendo una pianta
invernale, viene considerata particolarmente adatta a proteggere i
guerrieri in
battaglia e, spesso, le loro armi venivano create proprio con il suo
legno. È anche
conosciuta
perché si riteneva che proteggesse dai fulmini e si appendevano i suoi
rami
sulle porte delle abitazioni proprio per questo motivo. Tuttavia, la
scelta
dell’agrifoglio non è casuale per un altro motivo. Il cognome “Holmes”,
infatti, pare proprio che derivi dal nome di questa pianta in antico
norreno/inglese antico, per l’appunto chiamata “holmr/holm”. Il nome
attuale
della pianta in inglese è “holly tree”.
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Capitolo 5 *** Atto Quarto: Fruma. ***
Atto Quarto: Fruma
Scena Prima
People
think dreams
aren't real just because they aren't made of matter, of particles.
Dreams are real. But
they are made of viewpoints, of images, of memories and puns and lost
hopes.
John si svegliò
piangendo. Se avesse potuto, avrebbe urlato tutta la sua disperazione,
ma il
grido gli rimase soffocato in gola. Le lacrime inzupparono ben presto
il
cuscino e i singhiozzi riempirono la stanza echeggiando tra le quattro
mura.
Era finita. D'ora in avanti non ci sarebbe più stato uno Sherlock con
cui
trascorrere le notti, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da cui
rifugiarsi
per sfuggire all'inutile vita quotidiana, non ci sarebbe più stato uno
Sherlock
da...amare.
Il peso della scomparsa
si riversò con violenza inaudita addosso a John. Voleva tornare
indietro e
salvarlo, ma sapeva che era impossibile e questa sua incapacità lo
uccideva
dentro.
Quel “aspettami”
pronunciato a fil di voce da Sherlock, tuttavia, lo teneva aggrappato
ad una
speranza inesistente. Nelle notti seguenti sperò che il viso tanto
familiare
riapparisse e che Sherlock avesse sbagliato a calcolare quello che gli
sarebbe
successo. Ovviamente non fu così e l'aspettami rimase
soltanto un
desiderio inesaudito.
I sogni ripresero ad
essere pieni di elicotteri e deserti, senza più traccia di draghi e
foreste e
le sue notti tornarono ad essere vuote. Giorno dopo giorno tentò di
convincersi
che Sherlock sarebbe tornato, che un giorno avrebbe appoggiato la testa
sul
cuscino e si sarebbe trovato di fronte a degli occhi azzurri che lo
scrutavano
sotto una massa di riccioli neri. Eppure nel suo cuore sentiva che
Sherlock –
non lo Sherlock del sogno, ma quello reale – non esisteva più. Non si
era mai
reso conto, prima d'allora, quanto il loro legame fosse profondo. Ora
che non
c'era più, ne avvertiva la mancanza non solo all'interno della sua
anima, ma anche
all'interno dell'intero universo. Come se Sherlock fosse stato un
elemento
fondamentale per la conformazione del cosmo che fosse improvvisamente
venuto a
mancare. E si chiedeva come gli altri non riuscissero a percepirlo e a
continuare tranquillamente le loro vite.
È impossibile, si diceva, che
non sentano che qualcosa di così importante
è scomparso.
L'unica cosa che gli
rimaneva, ormai, era la vivida immagine dei loro incontri e ci
s'immergeva
quanto più spesso poteva, perché non voleva perdere anche quella,
l'unico
ricordo che aveva dell'unica persona che avrebbe mai potuto amare. Sì,
perché
John, nel profondo del suo cuore, era anche perfettamente conscio che
non ci
sarebbe mai potuto essere nessuno in grado di sostituire Sherlock. E
come
avrebbe potuto esistere? Sherlock era tutto, il
resto era niente.
In certi momenti il
senso di colpa lo consumava fino a lasciarlo, tremante, senza fiato.
Era colpa
sua se era successo qualcosa al fratello di Sherlock, era colpa sua e
del non
aver insistito ad interrompere quegli incontri, era colpa sua se
Sherlock
era...morto. Per quanto lo Swefnesferiend gli avesse ripetuto di non
incolpare
se stesso, non riusciva a farsene una ragione.
Se glielo avessi detto,
se mi fossi imposto, lui ora sarebbe...vivo.
Ma dall'altra parte non
riusciva a provare un completo rimorso, perché il tempo che avevano
trascorso
insieme era di quanto più felice ci fosse stato nella sua vita. E come
poteva
provare rimorso perché erano stati – sì, anche Sherlock, lo aveva
definitivamente sentito in quel solo bacio – felici? Anche in quei
momenti di
sconforto non poteva negare che avrebbe ripetuto quello stesso errore
dieci,
cento, mille volte.
Però il tempo scorreva
e, con esso, la ferita che John aveva creduto incurabile, cominciò a
rimarginarsi.
Proprio come un sogno, i
contorni della foresta e del drago, prima tanto nitidi, cominciarono a
perdersi
nel nulla, tanto che doveva sforzarsi sempre più per ricordarli. Con
essi se ne
andarono lentamente anche i dettagli dell'aspetto fisico di Sherlock.
All'inizio fu un'incapacità di ricordarsi in che modo camminava, poi
quanto
lunghe fossero le dita delle mani, poi sbiadirono i contorni del volto,
dei
capelli, degli occhi. E più tentava di trattenerli, più sembravano
sfuggirgli.
Passarono così due mesi,
finché anche l'ultimo dettaglio di Sherlock scomparve nelle nebbie del
tempo e
della sua testa. Gli rimase soltanto un velo di malinconia e l'idea di
aver
sognato qualcosa d'irripetibile, ma, se tentava di ricordare qualcosa,
non gli
sovveniva nulla di familiare. Anche la gamba, infine, cedette e tornò
ad essere
dolorante.
E John tornò alla sua
quotidianità fatta di sedute di psicoterapia, di ricerca di un
appartamento in
cui vivere, di un posto di lavoro che lo soddisfacesse e, magari, di
una
persona con cui vivere felicemente la sua vita. Ormai anche il vuoto
che
continuava a sentire era diventato anonimo. Non
sapeva più che quel
vuoto esisteva perché poco tempo prima vi era stato qualcuno con un
volto a
colmarlo. Ormai chiamava quel vuoto solitudine e
non più Sherlock,
perché quel nome non esisteva più.
Quattro mesi dopo il suo
ritorno dall'Afghanistan, John era appena uscito dall'ennesima sessione
con la
dottoressa Thompson, la quale si era lamentata nuovamente di come il
suo umore
fosse tornato nero nell'ultimo periodo.
Eppure sembrava aver
ritrovato un po' di serenità un paio di mesi fa, John, gli aveva detto, invece
adesso pare essere ritornato alla
settimana immediatamente successiva al suo rientro dall'ospedale. È
come se
avesse trovato e poi perso qualcosa di nuovo. È successo qualcosa? Fa
ancora
quei sogni con il drago?
John le aveva risposto
che aveva solo un vaghissimo ricordo di quei sogni e che, ora, non li
faceva
più, ma che non capiva come questo avesse potuto influire sul suo umore.
“Un sogno è un sogno,
come può influenzarmi, dottoressa?”
“Ne sembrava in qualche
modo legato, ma sembra che li abbia completamente superati. Me ne
compiaccio.
Rifugiarsi in fantasie infantili non è completamente salutare per il
nostro
lavoro di riabilitazione.”
“Capisco.”
Ora stava camminando
attraverso i Russel Square Gardens. Per essere l'inizio del mese di
ottobre, il
clima era ancora clemente sulla città di Londra. Un pallido sole faceva
capolino tra le nuvole e un vento che si poteva definire primaverile
spirava
tra i rami – già un po' spogli – degli alberi. Aveva anche appena dato
un'occhiata ad un appartamento di cui aveva visto un annuncio sul
giornale di
un paio di giorni prima. Sfortunatamente la posizione era ottima, il
prezzo,
invece, era pessimo. Senza un lavoro – e come poteva lavorare quando
non
riusciva ancora a fare i conti con se stesso e con i suoi incubi? – era
impossibile potersi permettere un appartamento a Londra.
Mentre zoppicava con
molta difficoltà, facendosi largo tra i passanti, gli parve di sentire
qualcuno
chiamare il suo nome. Non si fermò. John era un nome talmente comune
che la
voce avrebbe potuto riferirsi
letteralmente a chiunque.
“John Watson?”, la voce
continuò.
E se di John potevano
essercene a bizzeffe, le probabilità che due John Watson stessero
camminando
nello stesso momento nello stesso parco erano pari allo zero. Si girò.
Di
fronte a lui c'era un uomo grassoccio, stempiato e con gli occhiali. Un
campanello nella sua testa scattò: Mike Stamford. I
suoi ricordi
potevano essere annebbiati e l'uomo decisamente cambiato, ma certamente
era il
suo vecchio compagno di università e formazione al St. Bart's Mike
Stamford.
“Stamford.
Mike Stamford. Abbiamo
frequentato il Bart's insieme.”, disse l'uomo porgendogli la mano.
“Sì,
scusa, sì, Mike.”
“Eh,
lo so. Sono ingrassato!”
“Ma
no!”, John cercò di suonare
convincente.
“Ho
saputo che sei stato all'estero da
qualche parte, che ti hanno sparato. Che è successo?”
John
lo osservò perplesso, tentando di
capire se l'uomo lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio.
Nonostante il
sorriso decisamente ebete che gli illuminava il volto, Mike sembrava
animato
dalle più buone intenzioni, ma John non era proprio in vena di
dilungarsi in
conversazioni e tentò di tagliare corto.
“Mi
hanno sparato.”
Tuttavia,
dietro insistenza di Mike e
per non sembrare un completo ingrato, John finì per sedersi con l'uomo
a bere
un caffè.
“Sei
sempre al Bart's, allora?”,
chiese John mentre beveva.
“Adesso
insegno. Giovani intelligenti,
come lo eravamo noi. Dio, li odio!”
John
non riuscì a trattenere una risata.
“E
tu, John, rimani in città finché
non ti sistemi?”
“Non
posso di certo permettermi di
vivere a Londra con la sola pensione militare.”
“Ah,
e tuttavia non potresti
sopportare di trovarti in nessun altro posto. Non è il John Watson che
conosco.”
“Già.”,
rispose John, un po' a disagio
“Non sono il John Watson...”
Guardando
la sua stessa mano, John
notò che stava tremando. Non era un bene che gli accadesse così, mentre
conversava casualmente con un amico. Fu tentato di alzarsi e andarsene:
probabilmente la
compagnia di Mike non
gli era gradita. Ma una voce interiore sussurrò: rimani.
E John rimase,
pur non sapendo il perché.
“Harry
non potrebbe aiutarti?”,
continuò Mike.
“Come
se fosse possibile che
accadesse!”, rispose sarcasticamente John.
“E,
non so, trovare qualcuno con cui
condividere un appartamento?”, propose l'altro.
“Dai,
chi mi vorrebbe come
coinquilino?”
Mike
ridacchiò e John non poté fare a
meno di guardarlo perplesso.
“Che
c'è?”
“Beh,
sei la seconda persona a dirmelo
oggi.”
“E
chi sarebbe il primo?”
“Se
vieni al St. Bart's te lo
presento, se siamo fortunati, dovrebbe ancora essere lì. È sempre lì.”
“Un
giovane medico?”
“Giovane
lo è di certo...medico
proprio no.”, Mike ridacchiò nuovamente.
“Mi
hai proprio incuriosito, sai? E
poi, magari, ci guadagno pure qualcosa a incontrarlo!”
“Non
ne sarei così sicuro.”
“Perché?”,
John aggrottò le
sopracciglia, ma non nascose un sorriso.
“Lo
vedrai.”
Insieme
s'incamminarono sulla strada
per il Bart's e dieci minuti dopo lo raggiunsero. I corridoi asettici
erano
sempre gli stessi del periodo della sua formazione medica, sebbene
l'edificio
fosse stato sottoposto ad alcuni rinnovamenti.
“Dovrebbe
essere in laboratorio, ma se
non è lì, sarà certamente all'obitorio.”
John
ancora una volta lanciò
un'occhiata perplessa al suo amico.
“All'obitorio?
Scusa, ma se non è un
medico, cosa fa all'obitorio?”
“Credo
che sia una specie di
investigatore, ma in realtà nessuno sa di preciso cosa faccia.”
Alla
parola investigatore una
strana sensazione lo attraversò. Quando varcarono la porta, John si
guardò
velocemente intorno.
“È
davvero un po' diverso dai miei giorni.”, disse prima di notare un uomo
seduto
di fronte a un microscopio dall'altro lato della stanza.
L'uomo
aveva un aspetto
familiare, un profumo familiare. Ad esso si associò
una sensazione
nostalgica e di appartenenza. Non riusciva a
spiegarselo, ma era sicuro
di averlo già incontrato da qualche parte e, a quel pensiero repentino,
il suo
cuore fece un balzo nel petto, un nome riaffiorò nella sua mente.
Atto
Quarto:
Fruma
Scena
Seconda
We
are such stuff
As dreams are made
on; and our little life
Is rounded with a
sleep.
Quella
mattina Sherlock si era svegliato con un mal di testa tremendo e la
strana
sensazione di aver fatto nuovamente il solito sogno che, però, non
riusciva mai
a ricordare. La cosa lo rendeva estremamente irascibile, perché aveva
l'impressione che quel sogno fosse importante da ricordare, eppure gli
sfuggiva. E lui detestava tralasciare qualcosa d'importante, sogno o
non sogno.
La
sua vita, fino a quel momento, era stata un lungo altalenare di strane
sensazioni e ricordi.
Ogni
qualvolta camminasse per le strade di Londra o facesse qualsiasi altra
attività, la sua testa si riempiva d'immagini più o meno dettagliate di
altri
luoghi, di altri tempi. Non sapeva come spiegarselo perché era stato
così fin
da bambino. Però quelle visioni influenzavano la sua
vita: quando si facevano particolarmente insistenti, si ritrovava nella
situazione di far fatica a distinguere tra la realtà e la fantasia e, a
volte,
il rumore e la confusione nella sua testa diventavano talmente
assordanti che
tutto gli pareva perdere significato.
Aveva provato di tutto
per farli cessare. Spinto dalla propria famiglia e da suo fratello,
ancora
bambino, aveva tentato di andare da uno psicologo. L'uomo li aveva
classificati
come fantasie di poco conto e Sherlock, che sapeva benissimo di non
essere
matto quando diceva che quelle cose sembravano reali,
aveva finito per
insultare il dottore e non tornarci mai più.
Crescendo aveva trovato
rifugio nella droga. Non ne andava fiero, ma era davvero stata l'unica
cosa che
gli aveva permesso di liberare la sua mente e di fargli condurre una
vita
apparentemente normale. Ovviamente quella scelta aveva avuto delle
conseguenze
estremamente spiacevoli, seguite da un lungo e difficile periodo di
riabilitazione.
Dimenticata anche la
droga, però, il caos nella sua testa si era rifatto prepotentemente
insistente.
Ora l'unica cosa che era in grado di mantenere la sua mente libera era
il lavoro.
Fortunatamente, infatti, le sue capacità cerebrali, nonostante le
visioni –
anzi, forse proprio grazie a quelle visioni, erano intatte e più acute
che mai.
Sherlock Holmes osservava e, dalle semplici
osservazioni, deduceva.
Non c'era criminale in tutta Londra, in tutto il Regno Unito e,
persino, in
tutto il mondo che potesse sfuggirgli, se gli si metteva alle calcagna.
Consulente
Investigativo, l'unico al mondo.
Era stata una decisione
spontanea, come se, dal momento in cui era venuto al mondo, avesse
voluto fare
soltanto quel mestiere, come se fosse stato inciso nel suo DNA. Era
stato quasi
un richiamo proveniente da lontano. Se ci ragionava, era una cosa
estremamente
stupida, ma aveva imparato ad accettare che, nonostante la sua logica
ferrea,
esistevano delle cose che non riusciva in nessun modo a spiegarsi. Tipo
quelle
immagini continue. Tipo quei sogni.
Ce n'era uno che era
certo di ripetere con frequenza assidua ed era sicuro di averlo fatto
anche
quella notte, ma era anche l'unico di cui non ricordava assolutamente
nulla, se
non una vaga, ma precisa sensazione di calore familiare. E
l'impressione che ci
fosse qualcuno in quel sogno, qualcuno che non doveva scordare e che,
invece,
continuava a dimenticare. Quell'uomo – in un qualche modo era certo che
fosse
un uomo – senza volto e senza nome era importante.
E mi irrita non riuscire
a ricordare nulla, per quanto mi sforzi.
Fortunatamente non aveva
molto tempo per rimuginarci sopra e farsi, così, aumentare il mal di
testa.
Lestrade lo aveva chiamato un giorno prima per chiedergli aiuto con un
caso
irrisolto. Certo, quello dei tre suicidi seriali appariva immensamente
più
interessante rispetto a quello che l'ispettore gli aveva sottoposto, ma
era
stato egualmente chiaro: non posso farti indagare su queste
morti, Sherlock.
Ma aveva anche aggiunto, quando l'agente Donovan si era allontanata: almeno,
non per ora, non finché non troviamo qualcosa che colleghi queste
persone.
Aveva disperatamente
tentato di far capire che, probabilmente, non c'era nulla che legava
una
vittima all'altra e che, altrettanto probabilmente, non si trattava di
suicidi,
ma di omicidi.
Avrei solo bisogno di
accedere ad UNA scena del delitto e ne sarei certo.
Lestrade, per calmarlo,
aveva acconsentito ad assegnargli due casi irrisolti. Perciò ora aveva
bisogno
di andare al St. Bart's e non aveva tempo di indugiare sui sogni e sul
mal di
testa perenne che lo perseguitavano. Prese un'aspirina e chiamò un taxi.
Devo innanzitutto andare
all'obitorio, sperando che ci sia un cadavere fresco.
Mentre il taxi correva
per le vie di Londra, Sherlock era turbato da un altro pensiero:
l'alloggio.
Alcuni giorni prima si era, infatti, trasferito in un appartamento al
221B di
Baker Street – un'area centrale ed estremamente comoda per la sua
vicinanza a
Scotland Yard – per cui aveva ricevuto un prezzo di favore da una sua
vecchia
conoscenza, Mrs. Hudson. Il problema era che il costo, sebbene
abbassato,
rimaneva comunque troppo elevato. Certo, avrebbe potuto tranquillamente
contare
sull'appoggio finanziario di suo fratello, se avesse voluto. Ma, dato
che i
rapporti tra loro due erano tutt'altro che idilliaci, preferiva
evidentemente
trovare un'altra soluzione. Quella più semplice, ma anche quella meno
praticabile, era trovarsi un coinquilino.
Appena sceso dal taxi e
entrato al St. Bart's, Sherlock s'imbatté in Mike Stamford, uno dei
medici di
laboratorio, nonché docente.
“Ciao, Sherlock.”, disse
l'uomo.
“Mike.”, salutò brusco
Sherlock.
“Ancora nessuna fortuna
nella ricerca?”
“Tre nei giorni scorsi.
Uno più irritante dell'altro. Mi sa che dovrò rinunciarci, del resto
sono una
persona molto difficile con la quale convivere.”
Mike scrollò le spalle.
“Qualcuno ci sarà.”
“Che riesca a
sopportarmi abbastanza e che io riesca a sopportare abbastanza? È più
probabile
che tutti i criminali più incalliti di questa città su consegnino in
blocco a
Scotland Yard entro la mezzanotte di oggi implorando pietà.”, disse
Sherlock,
sconsolato.
“Se trovassi qualcuno,
te lo farò sapere, Sherlock.”
“Sempre che non scappi a
gambe levate, apprezzo comunque il gesto.”
Si separarono così,
Sherlock verso l'obitorio, Mike verso il suo stanzino di laboratorio.
Le preoccupazioni di
Sherlock svanirono non appena Molly gli comunicò che aveva un cadavere
appena arrivato.
Ora era giunto il tempo di concentrarsi sul caso, non c'era più spazio
per i
suoi pensieri.
Dopo aver eseguito il
suo esperimento sul corpo dell'uomo morto e aver dato le ultime
indicazioni
alla patologa, si diresse in laboratorio a controllare il campione di
sangue
che gli era stato fornito da Scotland Yard per l'indagine che stava
svolgendo.
Attraversato il corridoio e giunto nel laboratorio, notò che Mike era
assente.
Guardò rapidamente l'orologio – mezzogiorno passato,
constatò, sono
stato giù più tempo del previsto, Mike è a pranzo – e si
sedette al suo
solito posto di fronte al microscopio. Mentre si stava sistemando lo
sprazzo di
un'immagine gli apparve davanti agli occhi. Un volto. Ma scomparve,
come
sempre, ancor prima che Sherlock potesse fissarne i dettagli nella sua
mente. A
differenza delle altre volte, però, gli parve di avvertire una strana
sensazione di vicinanza e il suo cuore sobbalzò nel petto. Scartò la
sensazione
come inutile ai fini del suo lavoro e proseguì con quello che stava
facendo.
Girò
lentamente la manopola del microscopio e si mise ad osservare il sangue
sul
vetrino ingrandirsi fino a diventare una serie di cerchi, ovali e
filamenti
simili ad un quadro astratto. Con sapienza fece cadere una goccia di
soluzione
acida sul suo campione.
Se
la reazione corrisponde a quella che ritengo plausibile,
il colpevole è innegabilmente il fratello.
Perso
nel suo ragionamento, si accorse con un secondo di ritardo che la porta
del
laboratorio si era aperta e con ben tre secondi di ritardo che Mike non
era
solo. Con lui vi era un uomo vestito in modo che qualcuno avrebbe
potuto
definire banale e quasi trasandato, ma che denotava una certa
precisione e
meticolosità. Nonostante la giacca un po' vecchiotta, la camicia
decisamente
fuori moda e quei jeans lisi, il portamento, il taglio di capelli,
l'incedere
indicavano palesemente una carriera nelle forze armate: un militare.
Il
dialogo tra l'uomo e Mike gli giunse ovattato.
"...un
po' diverso dai miei giorni."
Un
medico. Militare e medico. Interessante.
Ma
c'era qualcosa, qualcosa che non riusciva a spiegarsi in nessun modo:
l'idea
assurda che quell'uomo dai capelli paglierini l'avesse già incontrato.
Impossibile.
Non dimentico mai un volto. Non uno così particolare. Eppure...John.
L'uomo
si chiamava John. Il battito del cuore nel petto si fece sempre più
insistente.
Perché
conosco il suo nome?
"Mike
posso prendere in prestito il tuo cellulare?"
"Mi
spiace, l'ho lasciato nella giacca."
"Tenga,
prenda il mio."
L'uomo
allungò la mano per porgerglielo.
Le
mani mostravano i segni di un'abbronzatura che s'interrompeva
brutalmente nel
punto in cui incontravano i polsini della camicia.
Missione
all'estero. Deserto.
"Afghanistan
o Iraq?"
Che
stupido. Era ovvio che fosse Afghanistan.
Come
faccio a saperlo? Perché è ovvio?
"Come
scusi?"
"Ovviamente
Afghanistan. E non era l'Apache che la inseguiva, era un gruppo di
talebani. Ma
lei ha erroneamente confuso le due entità e perciò nei suoi sogni viene
spesso
inseguito da un Apache."
Sherlock
rimase a bocca aperta. Per alcuni secondi tentò di ricostruire quello
che gli
era appena sfuggito dalle labbra. Non era normale che conoscesse i
sogni di
quell'uomo, non era normale nemmeno per uno come lui che era abituato
ad
azzeccare persino il colore e il tessuto dell'intimo delle persone. Ma
i sogni.
I sogni non potevano essere indovinati.
Gli
occhi azzurri dell'uomo incontrarono i suoi in quel preciso istante
John - si
chiamava davvero così? - sembrava confuso quanto lui e lo osservava tra
il
perplesso e l'inquieto.
"Il
drago...la foresta...la palude...", disse il dottore "...tu..."
In
un istante un lampo attraversò i pensieri del detective, il quale si
trovò in
mezzo ad una radura, un solo uomo di fronte a lui che correva a
perdifiato e
urlava a squarciagola: John.
Glielo
aveva promesso a quell'uomo che sarebbe tornato. In una realtà remota,
gli
aveva detto di aspettarlo, che si sarebbero rincontrati. Era lui la
cosa
importante dei suoi sogni, la persona che non voleva perdere e che gli
era
sfuggita finora. Ed ora era di fronte a lui in carne e ossa.
"...John...",
la voce fu più simile a un rantolo.
"...Sherlock?",
John chiese, dubbioso.
Un
passo avanti dell'uno e dell'altro, per scrutarsi, conoscersi di nuovo,
ritrovarsi.
"Tu
sei reale...", balbettò John.
"Tu
sei John..."
"Già.",
ridacchiò "E tu sei Sherlock. Come...?"
"Era
deciso così.", fu tutto ciò che Sherlock riuscì a rispondere, prima che
il
suo corpo rispondesse in automatico a quel richiamo tanto antico.
Si
baciarono dopo quelli che erano stati letteralmente secoli di attesa.
Fu un
bacio che non significava soltanto ti amo, era la
realizzazione di un
desiderio durato più di un millennio, il compimento di una promessa che
sarebbe
durata in eterno.
La
confusione regnava ancora nella testa di Sherlock, ma non era
importante. John
- il suo John, quello per cui era tornato - era lì tra le sue braccia.
E solo
quello importava.
Il
cellulare cadde per terra in un tonfo.
Lo
schermo s'illuminò un secondo prima di incontrare il pavimento.
Benvenuto,
John – M.
Allo
stesso modo, il cellulare nella tasca del giubbotto di Sherlock vibrò.
Bentornato,
Sherlock – M.
N.d.A.
Fruma:
sempre
dall’antico
inglese, significa “inizio”.
“People
think dreams…puns and lost hopes.”: “Le
persone pensano che i sogni non siano reali perché non sono fatti di
particelle. I sogni sono reali. Ma sono fatti di punti di vista, di
memorie e
giochi di parole e speranze perse.”. Citazione da uno degli scrittori
contemporanei che ammiro di più, Neil Gaiman.
“We
are such stuff…with a sleep.”: ancora
Shakespeare (si intuisce, per caso, che sono un pochettino fissata con
il
Bardo?). Significa (che Shakespeare non si rivolti nella tomba!):
“Siamo della
stessa sostanza con cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è
circondata
dal sonno.” Frase, spesso, erroneamente attribuita a “Romeo and Juliet”
è, in
realtà tratta da “The Tempest” ed è pronunciata da Prospero, principe
di
Napoli, nell’atto IV, scena prima. Il tema trattato da Shakespeare in
questa
breve battuta di dialogo è quello del fatto che, secondo Prospero,
tutta
l’esistenza umana non sia nient’altro che il breve sogno di una mente
divina
che è circondato o “completato” dal sonno. Prospero, allora, sembra
implicare
che soltanto quando moriamo, ci svegliamo dal sogno ed entriamo nella
vera
realtà – o, perlomeno, in un sogno più vero.
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Capitolo 6 *** Epilogo: Il Canto dell'Esperienza. ***
Epilogo:
Il
Miracolo e Il
Sognatore
“Il
Canto
dell'Esperienza”
Tutto ciò che i tuoi occhi
hanno visto
Tutto ciò che hai sentito
È impresso nella mia memoria
È espresso dalle mie parole
Tutto ciò lo porto
con me
È tutto ciò che ti sei lasciato dietro
Condividiamo un'eternità
Vivendo in due menti separate
Unite da un filo senza fine
Impossibile da spezzare.
Il Miracolo e Il
Sognatore osservano la scacchiera tra di loro. Su di essa sono rimaste
soltanto
due pezzi: il Re e l’Alfiere. Essi si trovano l’uno di fronte
all’altro,
esattamente come Il Miracolo e Il Sognatore. Il Miracolo fa un gesto di
stizza,
Il Sognatore sorride compiaciuto.
Il
Miracolo:
“Questa partita è tutta
sbagliata. Mi hai ingannato.”
Il
Sognatore: “Gli
inganni sono materia
tua. Come potrei io batterti con la tua stessa moneta?”
Il
Miracolo:
“Bisogna ricominciare.”
Il
Sognatore: “Il
risultato sarebbe lo
stesso.”
Il
Miracolo:
“Non se si gioca secondo le
regole.”
Il
Sognatore: “Non
eri tu a dire che le
regole sono noiose? Ho solo deciso di darti
ascolto.”
Il
Miracolo:
“Hai preso una decisione che
non potevi prendere.”
Il
Sognatore: “Ho
corso un rischio. E ho
vinto. Ammettilo.”
Il
Miracolo:
“Se rigiocassimo il risultato
sarebbe a mio favore.”
Il
Sognatore: “Non
sarebbe mai a tuo
favore.”
Il
Miracolo:
“Perché?”
Il
Sognatore: “Perché…perché…a
te la prima
mossa.”
Il Miracolo osserva la
scacchiera dove sono riapparsi all’improvviso tutti i pezzi e allunga
la mano per
fare la prima mossa. Il Sognatore lo fissa. La luce bianca che li
avvolge si
affievolisce fino a scomparire del tutto. Solo un barlume rimane
immobile sulla
scacchiera dove sono rimasti ancora solo due pezzi: il Re e l’Alfiere.
La luce
si spegne all’improvviso.
La Morte è la prima danza,
eterna
L'Inganno la seconda, senza fine
Adesso Il Miracolo e
Il Sognatore sanno che la terza è l'Amore
L'Amore è la Danza dell'Eternità.
N.d.A.
“Il
Canto dell’Esperienza”: tratto da “Songs Of
Experience” di William Blake, la
raccolta delle sue liriche scritte in un periodo successivo a quello
delle
“Songs Of Innocence”. Rappresentano la maturità creativa del poeta e,
di
conseguenza, la conclusione della mia storia.
“Tutto
ciò che i miei occhi…spezzare”: testo della canzone
“Through My Words” dei Dream Theater,
tratta dall’album “Metropolis pt. 2 – Scenes From A Memory”.
“La
Morte…dell’Eternità”: sempre Dream Theater, pezzi
tratti dalla canzone “Metropolis pt.1 –
The Miracle and The Sleeper”, scelti perché collegassero e chiudessero
(in una
specie di Ringkomposition) la storia. Colgo qui l’occasione per
ringraziare i
Dream Theater perché mi hanno regalato anni e anni di musica
meravigliosa e
ascoltarli, per me, è fare un viaggio nella bellezza musicale. Grazie.
Questa
fanfic è dedicata a Ida che tra un po' compie gli anni e, siccome viviamo
“leggermente” lontane, ho pensato di farle un regalo diverso dal
solito (e un po' in anticipo, ma nei prossimi giorni sarei stata un po' incasinata e non avrei trovato né tempo né modo di pubblicarla). Dovete
sapere che ho conosciuto questa carissima e dolcissima ragazza un po’
di tempo
fa (cosa saranno, tre mesi? Ho una pessima memoria per queste cose) ma
mi
sembra di conoscerla da una vita! Si è sorbita le mie sclerate
fandomiche e le
mie scelte di telefilm, nonché milioni e milioni di parole ad ogni ora
del
giorno e della notte!
Quindi:
grazie grazie grazie! Grazie perché sei un’amica
sincera
e ti adoro all’infinito! Averti trovato è sicuramente una delle cose
più belle
che mi siano capitate quest’anno e sei una delle migliori persone che
conosca!
In questa storia ho tentato di inserire un po’ tutto ciò che so ti
piace nelle
storie: un po’ di medioevo, un pizzico di magia, un tocco di draghi, il
tutto
condito con un po’ di sana Johnlock. Per il resto sappi che finalmente
la tua
attesa (e curiosità) sono finalmente state premiate e spero che la
storia (che
è anche un po’ più vicina al mio stile di idee rispetto alle solite)
ti sia
piaciuta!
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