Caccia alle ombre

di Ruta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I ***


caccia

N/A: Le inserisco all’inizio perché prima che vi avventuriate per queste terre inesplorate, occorre che io vi prepari. Non so cosa sia (nulla di nuovo al riguardo). È ambientata prima de “Le ragioni del silenzio”, in risposta a chi mi chiedeva, più che giustamente, come si fosse arrivati a quella data circostanza. Eccola dunque: La Situazione di Partenza. Un’idea che spopola, almeno nel fandom oltremanica: Molly viene presa di mira da Moriarty e queste sono le conseguenze. Per la gioia di qualcuno, forse, sarà una long. Non so quanto lunga, non so se articolata in un paio di capitoli o molti di più. Certo è che Molly dovrà trasferirsi a Baker Street. Buona lettura!

P.S.: dopo aver visto la 3x01 e la familiarità con cui Lestrade e Molly parlano tra loro, come conoscenti – se non proprio amici – di vecchia data, mi sono convinta che sarebbe stato strano che lei non pensasse a lui o lo chiamasse per nome. Spero che siate della mia stessa opinione.  

 

 

 

 

 

 

Caccia alle ombre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Sul serio, Meena, è stato fantastico!” esclamò Molly.
Meena arricciò il naso, come se stesse trattenendosi dall’esprimere un’opinione sferzante. “Non saprei,” considerò, riluttante. “Logan aveva fin troppa cera in testa. Guardandolo, ho dovuto sopprimere per tutto il tempo la voglia di strigliarlo per bene.”
“Erano gli anni ’70,” osservò Molly. Stavano attraversando l’affollata hall del cinema e la coda di persone che aspettava per l’inizio dello spettacolo seguente era smisurata. “Che mi dici di Kitty Pryde?”
“Sai che adoro Ellen Page, ma non capisco perché i registi debbano sempre, sempre cambiare particolari nella trama della storia originale.”
“Licenza del poeta,” disse Molly, divertita.
Meena era troppo impegnata a lamentarsi per ascoltarla: “E lo so che non c’entra niente, ma voglio Jubilee e Gambit. James McAvoy, quando si punteggia la fronte con l’indice come se volesse trapanarsela, è un tale -”
Molly smise di ascoltarla, corrugando la fronte. Le era parso di vedere… Ma no. Si diede della sciocca. Era impossibile che Sherlock mettesse piede in un cinema senza gli obblighi di un caso. O della sua immaginazione. Scosse la testa.
“Mi stai ascoltando, Molly?” Meena la trucidò con uno dei suoi sguardi da feroce mastino.
Molly le sorrise con fare di scuse. Indicò nella direzione in cui le era sembrato di cogliere il profilo di Sherlock. “Credevo di aver visto qualcuno che conosco, ma devo essermi sbagliata. Anzi, sicuramente devo essermi sbagliata. Lui non metterebbe mai piede in un posto così rumoroso.” Esitò. “E frivolo.”
Meena, perspicace, magnifica Meena, inarcò le sopracciglia, ma non fece commenti. E, cosa di cui Molly le fu intimamente grata, si limitò ad avanzare a furia di spallate e spintoni. Alla terza volta che qualcuno le pestava inavvertitamente il piede, l’ultima in questione si trattava di un tizio grosso come un armadio, Meena imprecò con veemenza, scandalizzando un’algerina e suo marito, che non mancarono di riservarle occhiate offese.
“Ricordami perché non siamo andate al Coronet,” la sentì borbottare pochi secondi dopo.
“Perché è martedì sera,” spiegò Molly, infilandosi nel gruppetto di ragazzi abbigliati a tema. Riconobbe una versione del tutto credibile di Mystica. “E perché qualcuno si è dimenticato di prenotare.”
Meena sbuffò e nello stesso momento Molly lo vide di nuovo e fu sicura di non esserselo immaginato. Perché quello che procedeva, aprendosi un varco con cipiglio severo e bocca dura e insolente, un’aria di tempesta imminente, era senza ombra di dubbio, senza margine o possibilità di errore…
“Sherlock,” soffiò Molly, fissandolo sbalordita.
“Molly,” la richiamò Meena, a mezzo metro di distanza. “Cosa stai facendo là impalata? La –” s’interruppe. Anche lei doveva aver notato l’uomo che si stava avvicinando. “Cosa accidenti ci fa lui, qui?”
Per quello Molly non aveva risposte.
“Deve essere morto qualcuno o qualcosa del genere. Dio, sembra di essere in un giallo di Agatha Christie: richiama gli assassini e i ladri come il sangue attira gli squali.”
Molly avrebbe voluto dirle che non era per niente così, che sì, la presenza di Sherlock solitamente lasciasse presagire che qualcosa di grave o pericoloso fosse in corso, ma che non dipendesse da lui, che lui fosse solo il curatore di un’opera ultimata o in itinere.
Non ne ebbe il tempo. Sherlock le era di fronte e le parole che le erano affiorate alle labbra là morirono.
“Molly.”
Molly sussultò, senza averne l’intenzione. Qualcosa, nel modo in cui lui aveva pronunciato il suo nome, suonò carico di significato.
Gli occhi azzurri di Sherlock, appuntandosi sul suo viso, espressero per un attimo un sentimento di sollievo talmente radicato che lei si chiese come fosse possibile che una manciata di secondi dopo si fosse già dileguato senza lasciare traccia del suo passaggio.
“Sherlock, cosa –” si accigliò e prima che potesse finire, comparvero John e Greg. Anche loro apparivano decisamente sollevati nel trovarla; e turbati, come se avessero visto un fantasma.
Greg non si trattenne dall’abbracciarla di slancio. “Grazie a Dio, stai bene,” le mormorò esausto all’orecchio, la voce rauca e graffiante.
Molly non aveva la più pallida idea di cosa accidenti stesse succedendo. “Mi cercavate?”
Trafelato e stremato, quasi avesse appena finito di partecipare a una maratona, John scoppiò in una risata incontrollata, di puro nervosismo. “Cercarti? Cosa ti ha dato quest’impressione?”
Molly si sciolse dalla presa solida di Greg e si voltò verso Sherlock, il cui volto, ora, era accuratamente privo di espressione, come una pagina bianca. “Mrs. Hudson sta bene? O è Mary?” domandò, cercando di apparire calma, intanto immaginando le peggiori prospettive, le più fosche. “È successo qualcosa?"
Dopo una pausa interminabile, Sherlock fece un cenno di diniego. C’era un bagliore indefinibile nel suo sguardo, qualcosa di feroce e oscuro, che la fece rabbrividire. “Non a loro,” rispose monotono. Non si diede pena di fornire maggiori particolari.
Molly si rivolse a John, confusa. “E allora chi –”
“Si tratta del tuo appartamento, Molly.”
“Il mio appartamento?”
“Un ordigno,” disse John in un tono vibrante, che lasciava trapelare strascichi della preoccupazione e dell’ansia accumulate. “Era camuffato nella sveglia sul tuo comodino. Secondo Sherlock, chi l’ha piazzato l’ha programmato in modo che la detonazione avvenisse quando tu fossi uscita. Il raggio di azione era relativamente poco esteso.”
“Relativamente,” fece eco Molly. Lo guardò vacuamente. “Cosa intendi per relativamente?”
John evitò il suo sguardo, trovando più facile osservarsi le scarpe che proseguire. Si massaggiò il collo. Lei lo conosceva abbastanza da considerarlo un cattivo segno.  
“La deflagrazione è avvenuta nella tua camera da letto, rendendo pressoché inattuabile l’identificazione del corpo.”
Era stato Sherlock a parlare e a lui e non ad altri, lei indirizzò uno sguardo disorientato. Un pensiero tremendo, orribile, le sfrecciò nella mente, improvviso come uno sparo. “Credevate che fossi io,” comprese, attonita. “Di chiunque sia il corpo che avete trovato… credevate che fossi io,” ripeté.
Sherlock non batté ciglio. “Indossava i tuoi vestiti. Inoltre aveva questo.” Prese dalla tasca un medaglione. Il suo medaglione. Glielo porse. Era annerito e le due facce puzzavano di bruciato, le incisioni nel metallo rese irriconoscibili.
“Oh,” fece Molly, prendendolo. Tornò a guardarlo. “Quindi tu hai pensato…” Si voltò verso John e Greg. “Tutti voi avete pensato che fossi…”
“Morta,” concluse Greg brusco, la mandibola contratta. “Sì. Il pensiero mi ha attraversato un paio di volte.”
Molly chiuse gli occhi, serrando la mano con forza. “Mi dispiace,” disse un secondo più tardi, riaprendoli. Li aveva lucidi per quelle stupide lacrime che non avrebbe voluto mostrare e che lo stesso una parte di lei non poteva non essere felice di mostrare. Perché erano la prova che era viva.
“Sul serio, mi dispiace. Io –” si coprì la bocca.
“Vieni qui.” Meena scansò malamente Sherlock (in un’altra occasione l’aria da virtù oltraggiata di lui le avrebbe strappato una risata) e la confortò con un abbraccio da orso del suo repertorio. Le accarezzò i capelli, sussurrandole che andava tutto bene. “Butta fuori, Molly, da brava.” La sentì dire e poi aggiungere, inviperita: “Uomini. Vi sembra questo il modo di informare qualcuno che uno psicopatico ha piazzato una bomba nel suo appartamento?”
Molly avrebbe voluto spiegare che non era il motivo per cui stava piangendo. La frenò la consapevolezza di non dover essere un bello spettacolo e la vergogna per essere scoppiata a piangere in quel modo.
“Non è per quello che sta piangendo,” intervenne inaspettatamente Sherlock.
La testa di Meena scattò verso di lui, come un toro che studi l'avversario prima di ricaricare. “Ah, no?”
“No,” replicò Sherlock, suonando infastidito e annoiato in egual misura. “Si sente in colpa perché sa cosa significhi per gli altri: essere convinti che una persona cara sia morta e poi scoprire che non lo era; e l’ultima cosa che desiderava era che una circostanza del genere si verificasse di nuovo. Si sente in colpa perché si è resa conto che dimenticare il cellulare sia stata un’imprudenza e nutre sentimenti di rimorso anche nei miei confronti, in quanto è supportata dalla convinzione, del tutto erronea dovrebbe essere superfluo che io aggiunga, che l’intera faccenda abbia ridestato ricordi sgraditi. È amareggiata perché immagina che l’esplosione abbia distrutto oggetti familiari a cui è affezionata e ovviamente sì, è anche spaventata, nonostante si rifiuti di ammetterlo.”
“Crede onestamente di conoscere Molly meglio di me?”
“Onestamente, sì. Credo di conoscerla meglio di chiunque altro. Compresa lei, signorina Saini.”
 “Wow.” Questo era John. Molly si accorse, nel silenzio greve che seguì quella dichiarazione, di essere arrossita.
“Cosa?” lo sollecitò Sherlock, annoiato.
“Quello che hai detto suonava… uhm, piuttosto ambiguo, amico.”
“Ambiguo. In che modo potrebbe suonare ambiguo – ma certo. Capisco. Tuttavia no. Sebbene tra me e Molly siano sempre intercorsi buoni rapporti, la nostra relazione interpersonale si basa sulla reciproca fiducia e sulla base di passioni condivise, impegni sociali e professionali. Non è mai sfociata in atti di natura sessuale.”
“Gesù, Sherlock!” sbottò Lestrade. “Non puoi andare in giro a dire certe cose, non così, non in pubblico o al di fuori della tua testa contorta.”
“Non bene, John?”
“No, Sherlock. E con questo temo che possiamo dire addio alla possibilità di rivedere il viso di Molly entro tempi brevi.”
“Molly è una donna adulta e vaccinata. Inoltre è un dottore. Mi auguro che sia a conoscenza del fatto che nella piramide di Maslow l’intimità sessuale sia identificata come un bisogno di appartenenza.”
“Ti ricordo che lo sono anch’io.”
“Molly, saresti così gentile da rassicurare John che le mie dichiarazioni non ti abbiano procurato imbarazzo?”
Molly si strofinò gli occhi. “Non mi hai messo in imbarazzo,” dichiarò, riemergendo dalla spalla di Meena.
Sherlock reagì con un’aria trionfante.
“Con tutto il rispetto per Molly, questo non toglie che tu abbia messo a disagio il resto di noi,” ribatté John.
“Oh, per l’amor del – ”
“Lo ritenete appropriato? Parlare di questo? Adesso?” intervenne Meena. Né la direzione degli eventi né quella presa dalla conversazione sembravano averla sconvolta, il che, in tutta franchezza, non era affatto una sorpresa per Molly. Era sua amica da una vita e sapeva che esistesse davvero poco in grado di farlo. A quanto pareva neppure una bomba rientrava nell’utopia del genere. “Non che la cosa non sia divertente. Siete davvero uno spasso, ragazzi, ma inizio a sentirmi osservata.”
Era vero. Parecchie persone cominciavano a prestar loro attenzione, lanciando di quando in quando occhiate incuriosite nella loro direzione.
“Andiamo,” disse Sherlock imperiosamente.
Quattro paia d’occhi, Molly inclusa, lo fissarono come se improvvisamente gli fosse spuntata una seconda testa sul collo.
“Devo seguire voi stramboidi?” Meena fu la prima a riaversi. Fece una smorfia contrariata. “Senza offesa, Molly, ma hai sempre avuto un pessimo gusto in fatto di amici. Tranne me. Io sono l’eccezione che conferma la regola.”
“Molly verrà con noi a Baker Street,” le comunicò Sherlock, pronto a riprendere in mano le redini e condurre il gioco, impartendo ordini, “mentre per quanto riguarda lei, signorina Saini, l’Ispettore Lestrade provvederà ad accompagnarla a casa, dopodiché sarà libera di ubriacarsi com’è stata sua intenzione fare per gran parte della serata.”
“Di sicuro da quella in cui sei comparso tu, tesoro.” Meena gli strizzò l’occhio, quindi si girò verso di lei con un’espressione di assoluto concerno, le sopracciglia leggermente aggrottate. “Chiamami per qualsiasi cosa, intesi? Qualsiasi. Anche se si tratta di sfogarti per l’universalmente nota idiozia maschile. Mi troverei una più che compiacente ascoltatrice.”
Molly promise che lo avrebbe fatto.
Meena annuì con approvazione e poi si avviò a passo di marcia verso l’uscita.
Dopo aver salutato John e Sherlock con un cenno e lei con una stretta rassicurante sul braccio, Greg le fu affianco.
“Sa, Ispettore, ho sempre desiderato un poliziotto per amico. Da ragazza mi avrebbe fatto assolutamente comodo. Nell’eventualità, da oggi in poi posso sentirmi libera di contattare lei?” domandò Meena, seria.
Prima che girassero l’angolo, Molly vide che Greg le riservava un’occhiata perplessa.
Rise (istericamente, se ne rese conto), ma rise.                                                                          
Sherlock strinse gli occhi, osservandola con severità dall’alto della sua statura svettante. Sul serio, Molly? – pareva riprenderla. Il tuo è un comportamento del tutto fuori luogo.
Un tempo, un tempo diverso e decisamente lontano, Molly si sarebbe rimpicciolita sotto il peso di quello sguardo che sondava e calibrava al dettaglio i pensieri, ma oggi non più. Sospirò. Scoprì che le tremavano le mani e in fretta le infilò nelle tasche del cappotto, sperando che gli fosse sfuggito. Speranza vana, trattandosi di Sherlock.
La richiamò in tono basso e pressante e Molly rialzò il viso verso di lui.
“Ho bisogno che tu ti fidi di me, Molly. Puoi farlo?”
Certo. Certo che poteva. Per qualche ragione, però, non riusciva a parlare.
“È in stato di shock,” si frappose John.
Sherlock sbuffò, alzò gli occhi al soffitto. Puoi dire qualcosa che non sia ovvio? Curvò leggermente il busto in avanti e le sistemò le mani ai lati della testa, gli occhi assicurati ai suoi, ad un palmo di naso. “Ascolta la mia voce. Isola i pensieri e concentrati sulla mia voce.”
John parlò della possibilità di farla sdraiare nella posizione di Trendelenburg.
“Ridicolo. Non è in shock osmotico. È solo confusa.”
Sì e non ne aveva forse ogni sacrosanto diritto? Uno psicopatico aveva fatto saltare in aria il suo appartamento, con il chiaro scopo di mandare un messaggio. Se davvero volessi, lei sarebbe già morta.
Molly si morse il labbro inferiore. “È stato lui, vero? Moriarty.”
“Sì.”
Sherlock non lasciò andare la presa. Si limitò a scrutarla. Poi, con deliberata lentezza, si allungò per darle un bacio sulla guancia.
"Grazie." Molly chiuse gli occhi. “Per la sincerità.”
“È stato un piacere.” Sherlock sollevò un angolo di bocca nella miniatura di un sorriso. “So che muori dalla voglia di chiedere come abbia fatto a trovarti.”
Molly non negò. “E io so che tu muori dalla voglia di rendermi partecipe.” Raddrizzò le spalle con un gesto risoluto, ricacciando il freddo e i sentimenti contrastanti che provava ad un luogo e un tempo imprecisi nel futuro. “Scommetto che si tratta di un racconto avvincente.”
Sherlock annuì, assorto. “John deve avere già una o due idee per il suo blog.”
John sbuffò sentitamente.

 

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Capitolo 2
*** II ***


2

Li accompagnò una macchina della polizia. Al posto di guida c’era una donna attraente dai capelli ricci che le si presentò come Sergente Sally Donovan. Molly la conosceva di vista da anni, ma non aveva mai avuto occasione di incontrarla, prima di quel momento, se non di sfuggita nei corridoi del Barts, durante i lunghi ed interminabili turni di notte.
Sembrava, circostanza niente affatto insolita, avere dei trascorsi turbolenti con Sherlock o se non altro dei conti in sospeso.
Una donna determinata, intelligente e dannatamente volitiva, fu l’impressione, più avanti ratificata, di Molly.
“Non farci l’abitudine, Fenomeno,” la sentì rivolgersi a Sherlock. “Circostanze straordinarie richiedono misure cautelari straordinarie. Quanto a lei, Dottor Hooper…” la voce del Sergente Donovan si ammorbidì notevolmente e Molly si chiese se fosse così evidente il suo stato confusionale. “Se c’è qualcosa che desidera avere dal suo appartamento, me lo faccia sapere. Farò in modo che, una volta eseguiti i controlli di prassi da parte della Scientifica, le pervenga quanto richiesto.”
Molly batté le palpebre, colta di sorpresa. C’erano tanti oggetti che avrebbe voluto riavere indietro, ma aveva da subito accantonato quel desiderio come una speranza irrealizzabile. Sorrise, di un sorriso stropicciato che voleva dire quanto profondamente apprezzasse la premura di quella proposta gentile. “La ringrazio.”
Nel posto a sedere accanto al suo, Sherlock taceva, ribollendo nell’ombra energica di quella che appariva come profonda impazienza.

 

*

 

Arrivati a Baker Street, Molly avrebbe solo voluto una tazza di tè.
Ma questo era stato prima dell’incontro con Mrs. Hudson.
“Oh, mia cara, cara ragazza!” Molly ebbe un rapido scorcio dello sguardo lacrimoso di Mrs. Hudson prima che venisse inghiottita nel suo abbraccio stritolante. “Non osare mai più spaventarmi in questo modo! Non ho l’età per sopportare un dolore del genere.”
A Molly non rimase che scusarsi profusamente. Non che fosse davvero colpa sua, beninteso, ma in qualche modo sembrava giusto farlo: scusarsi dell’involontario e collettivo stato di agitazione che aveva provocato.
Sherlock si oppose alla scena, palesando la sua intolleranza con uno sbuffo significativo. Quando Mrs. Hudson sciolse la presa per asciugarsi gli occhi con un fazzoletto, Sherlock avanzò la richiesta: “Un tè, Mrs. Hudson, sarebbe ideale.”
Per un attimo Molly lo fissò, poi spostò lo sguardo altrove, pressando le labbra tra loro.
“Se non le è di troppo disturbo,” aggiunse quindi Sherlock.
“Solo per questa volta, ragazzaccio. Perché hai riportato Molly sana e salva.” Dopo un ulteriore buffetto gentile sulla sua guancia, Mrs. Hudson si diresse verso la porta.
Una volta uscita, Molly si sfilò il cappotto prima di crollare a sedere, senza riflettere, sulla poltrona di John. Quando se ne rese conto, fece per alzarsi, come se si fosse scottata.
La mano di Sherlock scattò verso di lei, le afferrò il polso, costringendola a rioccupare il posto. “Resta dove sei,” le ingiunse, tranquillo. “Dubito che John abbia da ridire al fatto che tu la utilizzi.”
Dopodiché cadde il silenzio. Il tanto celebrato silenzio, quando si veniva a contatto con Sherlock. E, in quel silenzio, Molly fece il punto della situazione.

  1. Uno psicopatico aveva tentato di ucciderla. O di non ucciderla. Uhm, questo non era ancora del tutto chiaro.
  2. Non aveva una casa al momento, neppure un ricambio d’abiti. Tutto ciò che possedeva era la gonna che si era decisa a indossare su insistenza di Meena, le scomode scarpe di vernice e il maglioncino di angora. E la sua borsa, certo. Che il Cielo la perdonasse per aver dimenticato la sua borsa. La sua sopravvivenza si basava su un pacco di gomme da masticare, le chiavi di casa, gli occhiali da vista con la custodia delle lenti a contatto, il portafoglio con dentro le carte di credito e un ombrello tascabile.  
  3. I suoi amici l’avevano creduta morta. Era stato trovato un cadavere nel suo appartamento. Un cadavere che, per indurre persino Sherlock a convincersi che si trattasse del suo, doveva essere stato piuttosto credibile. Il pensiero le provocò istantaneamente una morsa alla bocca dello stomaco e un senso di nausea.

La priorità era trovare un posto in cui stare. Nei prossimi giorni avrebbe potuto fermarsi da Meena la cui ottomana, tutto sommato, molle e bitorzoli a parte, rimaneva un’alternativa decisamente preferibile al nulla. Certo era che avrebbe dovuto imparare a convivere con la musica rock a tutto volume, con le muraglie cinesi realizzate con gli incarti di cibo thailandese, con le pile pericolanti di libri piazzati dovunque come torrette di sentinella. Per non parlare di Morgan: il suo coniglio ariete.  
O avrebbe potuto prendere una stanza d’albergo, perché no. I risparmi non le mancavano. Ma con tutta probabilità, per la sua stessa sicurezza, Greg, supportato da Sherlock e John, avrebbe insistito su una scorta o su una struttura facilmente sorvegliabile.
John e Mary? Molly scartò l’idea. Per quanto li adorasse, la poca praticità della soluzione – abitavano in periferia e avrebbe dovuto svegliarsi ad orari infami per arrivare al Barts – diventava un problema insormontabile, considerata la sua pigrizia e la malavoglia con cui si costringeva a svegliarsi. Non era mai stato il tipo mattiniero.
Molly si riebbe dalle considerazioni del caso per trovare che Sherlock, nel frattempo, non aveva fatto altro che osservarla. Provò una assurda, ingiustificabile fiammella di calore che tentò, invano, di estinguere sul nascere.
Sherlock teneva il pollice contro il muscolo sternocleidomastoideo, l’indice premuto sulla guancia e le altre dita ripiegate di lato alla bocca. La guardava, indefinibilmente concentrato, come se trovasse in quel che osservava un intrigante rompicapo da risolvere.  
Molly ne fu turbata. Si schiarì la gola e si passò le mani sulla faccia, nascondendosi per un momento cruciale alla sua vista.
Sherlock leggeva i pensieri. Non proprio, non esattamente. Tuttavia era innegabile che riuscisse a intuire cosa chiunque stesse pensando, nell’istante successivo in cui quel qualcuno lo aveva pensato.
Riemerse dalle proprie mani per trovarlo nell’identica posizione, con la stessa imperscrutabile espressione. Deglutì, a disagio. “Ho bisogno di –” si interruppe, cercando una scusa plausibile.
Insperatamente, proprio Sherlock le venne in soccorso. “Il bagno?” domandò educatamente, inarcando un sopracciglio.
“Sì!” rispose lei con troppa, troppa enfasi. Dio, era un disastro. 
Mentre si alzava, sentì che gli occhi di Sherlock la seguivano nel corridoio e se non l’avesse considerata da subito una sciocchezza, avrebbe giurato che avessero una luce divertita e sì, a tratti affettuosa nel modo in cui continuavano a osservarla.

 

*

 

Mentre si dava ripetutamente della stupida, asciugandosi il viso, sentì i toni soavemente piccati di Sherlock provenire dal salotto e qualcuno che gli rispondeva altrettanto fermamente.
Molly socchiuse la porta, indecisa sul da farsi, se palesarsi oppure restare dov’era.
“La polizia ha insistito per seguire la pista del cellulare di Molly,” stava dicendo Sherlock in un’inflessione di aperta polemica.
“Un buco nell’acqua, sono pronto a scommettere.”
Sebbene lo avesse incontrato in non più di tre occasioni, tre incontri la cui somma non raggiungeva la durata complessiva di mezz’ora, Molly lo riconobbe dalla voce: pacata, sfumata appena in uno scherno cattedratico che era intrinseco al suo carattere, un po’ un marchio di famiglia. Mycroft Holmes.
“Piuttosto ovvio,” considerò Sherlock.
Entrambi i fratelli sbuffarono dell’idiozia dilagante del mondo che li assediava.
“Che intenzioni hai?” proseguì Mycroft, subito dopo.
“Non vedo come la cosa potrebbe riguardarti.”
“Non direttamente, forse, ma dovresti averlo imparato da tempo, Sherlock. Tu sei sotto la mia custodia. Tutelo solo i tuoi interessi.”
“E così facendo, proteggi i tuoi.”
“Indubbiamente. Tutto ciò che ti riguarda, fratello caro, riguarda indirettamente anche me. Ogni tua azione si ripercuote sulla mia persona, per quella legge universalmente nota che rende il minore una responsabilità del maggiore.”
“Una coscienza? Tu?”
“Strana scelta di parola. Io avrei detto un cuore.”
Una pausa densa, concentrata di riflessioni inespresse, accolse quell’ammissione. Molly si morse il labbro, decisa ad aprire la porta.
“Verrà a stare da te, immagino. La vecchia stanza di John?”
Accigliata, Molly si chiese di chi stessero parlando, prima di capire, con un secondo di ritardo, che il ‘chi’ in questione fosse lei.
“Il Dottor Hooper è al corrente delle tue nobili intenzioni?”
“Ora lo è. Non è così, Molly?”
Mortificata come quando a nove anni suo padre l’aveva trovata nascosta nell’armadietto delle medicine della sua sala operatoria, Molly li raggiunse in salotto. 

 

*

 

“Bene,” scandì Mycroft, incrociando con ricercatezza le gambe e intrecciando le mani sul ginocchio. “Ora che le parti coinvolte sono presenti, ritengo opportuno e doveroso fare il punto della situazione.”
Molly si scoprì ad invidiargli quel suo savoir-faire, l’abilità che gli permetteva di condurre a buon fine ogni dinamica e di comportarsi nel modo più adeguato, di ottenere sempre ciò che voleva.
“Sei agli arresti domiciliari,” decretò Mycroft, indirizzando a Sherlock un’occhiata mortifera. “Non puoi lasciare Baker Street a meno che tu non sia scortato da un agente di Scotland Yard. Ti è proibito accettare qualsiasi caso che non sia stato precedentemente approvato dal mio ufficio. È il Governo che ti ha rivoluto qui e ad Esso appartieni per il momento.”
Con l’orrore di quella condanna a rimbombarle nelle orecchie, Molly vide che Mycroft si rivolgeva a lei, ora. “Per quanto concerne lei, Dottor Hooper, non posso imporle nulla. Ciò nonostante, è bene che sappia che la sua tenacia nel rifiutare nella presente circostanza la protezione che non ho mancato di offrirle in passato, potrebbe mettere in pericolo non solo la sua incolumità, ma quella di molti altri. Mi aspetto piena collaborazione.”
Molly annuì. “Quali sono di preciso i termini della sua protezione?”
Mycroft inclinò la testa e il sorriso leggero sulle sue labbra si increspò, come se non capisse la finalità della domanda, la sua ragione.
“Ciò che Molly intende sapere è quale prezzo la tua protezione le imporrebbe.” Sherlock le fece un breve cenno di approvazione, prima di congiungere i polpastrelli davanti al volto e socchiudere gli occhi. “Ha idee molto chiare su cosa aspettarsi da un patto col diavolo.”
“Perché tu l’hai ben istruita,” ritorse Mycroft. “È fuori discussione che lei torni al suo appartamento, quand’anche dovesse tornare agibile in tempi relativamente brevi. Baker Street è l’unica soluzione appetibile.”
“Ma?” domandò Molly. Vedeva un ‘ma’ profilarsi all’orizzonte, lo sentiva nell’aria.
“Dovrà lasciare il suo lavoro al Barts.”
Molly si sforzò di vedere l’ironia in quello che aveva sentito, ben sapendo di cercarla in un uomo che non ne aveva un briciolo. “Spero che stia scherzando.”
“Non sono solito farlo. Non appartiene alla mia indole.”
Molly si voltò verso Sherlock in cerca di appoggio, ma ottenne un’occhiata indifferente. Era palesemente impegnato in sue personali riflessioni e perciò disinteressato. Sollevò il mento, pronta a combattere con le unghie e con i denti, se necessario. “Non intendo farlo.”
“Non ha scelta,” ribatté Mycroft in tono composto, ma irremovibile. “Davvero intende mettere in pericolo un’intera struttura ospedaliera per un suo capriccio? Per egoistica soddisfazione personale?”
Molly sussultò. Certo che no. Ma doveva esserci un’alternativa. Doveva. Inghiottì a vuoto. E invece no, non ce n’erano. Era una dannata scelta di Hobson. “E quindi anch’io sono agli arresti domiciliari,” disse amaramente, stringendo i pugni con una sensazione di rabbiosa impotenza.
“Non sia così catastrofica. Ho l’assoluta convinzione che lei e Sherlock troverete un più che soddisfacente palliativo alla noia nella presenza l’uno dell’altra.” Mycroft si alzò per andarsene.
“Un attimo soltanto, per piacere,” lo pregò Molly. “John verrà a stare qui con Mary? Anche lui dovrà lasciare il suo lavoro?”
Mycroft la guardò, sembrando sinceramente stupito. “A quanto mi risulta il Dottor Watson e la sua consorte non hanno ricevuto alcuna minaccia di morte di recente.”
“Mi sta dicendo seriamente che bisogna aspettare che venga piazzata una bomba in casa loro prima di attuare qualcosa di drastico come nel mio caso?”
“Lei è il tipo di persona che preferisce prevenire anziché curare una malattia, Dottor Hooper?”
“Dico soltanto che –”
“John è ben protetto, Molly,” disse Sherlock.
“Come puoi dirlo con sicurezza?” Molly era esterrefatta.
“So di cosa parlo e mi aspetto che tu mi creda. Ti ho mai mentito, Molly Hooper?”
Lo sconcerto di Molly non poté che aumentare. Aggrottò le sopracciglia. “Ti rispondo in ordine cronologico o alfabetico?*”
Sherlock si rabbuiò, ma perlomeno Molly ebbe la soddisfazione di aver strappato una risata – se poi di risata poteva parlarsi, essendo suonato più che altro come un verso di derisione – a Mycroft, incredibile dictu. 
“Ti ho manipolato,” puntualizzò Sherlock, dando l’impressione che lei lo avesse gravemente insultato. “È molto diverso dal mentire.”
“No, Sherlock,” ribatté Molly testardamente, “per antonomasia manipolare è alterare la verità che equivale a mentire.”
Sherlock si grattò la punta del naso, come se prendesse atto del nuovo punto di vista, ma non riuscisse a comprenderlo.
E su quella non-risposta, con un impeccabile cenno del capo, Mycroft e il suo ombrello se ne andarono.

 

*

 

Il tè preparato da Mrs. Hudson non la rinfrancò quanto aveva sperato.
Molly era troppo stravolta dall’imprevedibile e rapido corso degli eventi per fare altro che non fosse soffiare via il vapore dalla tazza, nella metafora del nugolo di pensieri che le affollavano la mente e che avrebbe voluto scacciare con altrettanta facilità; o fissare senza realmente osservarle le mappe del Regno Unito e dell’Irlanda dipinte sulla porcellana del servizio.
“Mi rendo conto che sia una situazione… ostica,” sentì che Sherlock diceva in tono – non le riuscì di capirne il motivo - difensivo. Temeva una scenata? O peggio: un altro pianto convulso? 
“È un eufemismo,” rispose mitemente.
Sherlock fletté le labbra in un minuscolo sorriso, concendendole un punto. Il sorriso si spense fin troppo rapidamente. “Mycroft tende a presentare le situazioni nel peggior scenario possibile. È un fatalista: è sua prerogativa.”
“Ma non mi dire,” mormorò a mezze labbra contro il bordo della tazza.
Sherlock la guardò interrogativo.
Molly si trovò costretta a spiegarsi. “Non credi che, detto da te, suoni, non so, un po’ ipocrita?”
La seconda soddisfazione della serata arrivò nel modo comico e ridicolo in cui Sherlock strabuzzò gli occhi.
Sicura di aver azionato un processo che sarebbe stato difficile disinnescare in tempi relativamente brevi, Molly posò la tazza e masticò uno sbadiglio. “Scusa,” biascicò, “ti dispiacerebbe rimandare a domani? È mezzanotte passata e bomba o non bomba, oggi è stata decisamente una giornata frenetica.”
Sherlock annuì, le pupille leggermente dilatate. “Buona caccia?”
Molly si trascinò verso la porta, scuotendo la testa. “Non immagini quanto.”
Non si accorse che lui l’avesse seguita. Non lo aveva sentito alzarsi. Ma d’altronde Sherlock sapeva essere silenzioso e felpato come un ladro quando gli era comodo. Quando il braccio di lui le ostruì il passaggio, Molly sollevò il viso e il suo respiro le carezzò il naso. Poi, senza preavviso, Sherlock le baciò la fronte, poco sopra il sopracciglio destro. “Buonanotte, Molly.”
Molly credeva che avrebbe aggiunto altro, ma si sbagliava.
Lui si allontanò galantemente, scartando di lato per permetterle di passare.
“Buonanotte, Sherlock.”
Quella notte, forse, una parte di lei avrebbe sognato quella cosa soffusa e vulnerabile che si era rincorsa sul viso di lui e, forse, si sarebbe chiesta come sarebbe stato se invece di salire a dormire, lei avesse semplicemente ricambiato il gesto.

 


 

N/A:

Innanzitutto grazie, grazie davvero! I vostri commenti gentili e calorosi, accompagnati da reazioni così entusiaste da parte vostra, mi hanno trasmesso una carica di energia inimmaginabile. Spero che questo secondo capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative, dei vostri desideri. Lo spero davvero :)
Un abbraccio a tutte e fatevelo dire, ragazze: siete fantastiche e adorabili!
Spero di riuscire a rispondere entro tempi brevi a ciascuna delle meravigliose recensioni che mi avete lasciato – siete troppo buone, non merito davvero tutti questi complimenti!

*La battuta proviene dal film “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie.

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Capitolo 3
*** III ***


3

Molly Hooper era generalmente stimata per la sua vena cortese e l’ineffabile buonumore che la contraddistinguevano, sia nei rapporti professionali che in quelli privati.
A Molly potevi chiedere un favore, anche se era una cosa dell’ultimo minuto e aveva tutto l’aspetto di una scusa campata per aria. Lei ti avrebbe lasciato concludere il tuo sproloquio ansioso, poi, con un sorriso rassicurante, si sarebbe fatta in quattro per aiutarti sin dove le era possibile, spesso facendo più di quanto necessario.
A Molly potevi confidare un segreto, uno terribile che ti rodeva lo stomaco e la coscienza, dal genere ‘Ho baciato un ragazzo che non è il mio fidanzato’ a quello del ‘Ho sbagliato un’analisi. La mia carriera è finita. Sarò licenziato’. Al che lei, con tutta l’efficienza di un carattere che nel bisogno sapeva mostrarsi concreto e pragmatico, per quanto ostinatamente ottimista, avrebbe appianato la questione, ma senza farti sentire un incapace o un perfetto idiota per non essere arrivato alla soluzione da te.
Ti avrebbe esortato a stare più attento, la prossima volta, ad indagare su quello che realmente provavi e si sarebbe presa la libertà di dirti che, per quanto errare fosse umano, forse una maggiore attenzione non sarebbe stata un’idea malvagia e con tutto il tatto possibile, magari ti avrebbe anche consigliato di non giocare con i sentimenti altrui, perché se tu ti sentivi così, per lui o lei sarebbe stato molto peggio e questo doveva lasciarti riflettere. Ti avrebbe incoraggiato ad essere migliore, a trovare quel qualcosa in più che ti rendeva unico e a mostrarlo.
Molly era il confessore ideale perché i suoi commenti erano veri, schietti, ma mai crudeli. C’era sempre una nota di comprensione, di apertura e sostegno nel suo viso: come una specie di sorriso che dall’interno sembrava volerti raggiungere, circondare anche te.        
Perché Molly era quel tipo di persona. Il tipo originale che si coglie con la coda dell’occhio, pensando tra te e te che ‘oh, sembra una persona carina. Sarebbe delizioso averla per amica.’
Molly era il tipo che sorrideva con la pioggia, che, scostandosi una ciocca di capelli bagnati dal viso pallido, ti porgeva l’ombrello che avevi dimenticato di portare perché “Tanto abito dietro l’angolo. Sono arrivata.” E “Davvero. Nessun disturbo.”
Era la ragazza che in metropolitana cedeva il posto agli anziani, alle altre donne, a qualunque persona sembrasse aver avuto una giornata particolarmente brutta o stancante. E con quelle piccolezze, minuzie, lei, sciocca Molly Hooper che giocava a fare l’infermiera, pensava di poter raddrizzare il mondo. Perché il mondo era formato da persone e sistemato ciò che c’era di storto o triste nelle loro vite, tutto sarebbe andato per il meglio.
Molly era fiduciosa e gentile ed educata.
Ma in quel momento Molly non si sentiva per niente fiduciosa e non provava nessuno di quei sentimenti. Si sentiva scoraggiata e sola. Inoltre aveva freddo, il freddo che poco ha da spartire con la temperatura esterna, che ti gela il cuore.
La situazione andava avanti da giorni, da quando era esplosa quella dannata bomba. Sì, aveva pensato ‘dannata’ e al diavolo le buone maniere!
Il suo umore era talmente cattivo che aveva bruciato un plum-cake allo yogurt e, come se questo non fosse abbastanza, aveva più o meno mandato al Creatore la colonia di formiche rosse che abitava il cortile/giardino dell’appartamento di Mrs. Hudson.
Il suo umore precipitò definitivamente quando, trascinandosi nel salotto, sicura di trovare Sherlock a pizzicare le corde del violino con la stessa affettuosa predisposizione con cui altri – lei – avrebbero accarezzato un gatto, non lo trovò.
Molly ingoiò il nodo alla gola e si diresse verso la camera da letto di Sherlock. Bussò, ma non ebbe risposta. Facendosi coraggio, - male che andasse, lui le avrebbe imprecato contro per la sua audacia – aprì uno spiraglio di porta e gettò uno sguardo all’interno.
Vuota. La stanza era vuota. Controllò il bagno. Stesso risultato.
Okay, ora era decisamente preoccupata.
Che fosse sceso da Mrs. Hudson? La trovava un’opzione poco credibile.
Come se fosse stata evocata dai suoi stessi pensieri, Mrs. Hudson entrò nell’appartamento. Portava un vassoio con del tè e una ciotola di biscotti Jammie Dodgers.
“Oh, eccoti qua, Molly cara. Pensavo fossi nella stanza di – nella tua stanza.”
Molly andò a sedersi sulla poltrona di John. Indossava un pantalone del pigiama che le aveva prestato Sherlock. Le stava così largo che aveva dovuto rivoltare di parecchi giri la molla elastica. Tirò su le gambe e si abbracciò le ginocchia. “Non trovo Sherlock.”
“Certo che no.” Mrs. Hudson le versò il tè in una tazza, lo zuccherò e ci mise perfino una fetta di limone. “Quell’adorabile ispettore è passato poco fa a prenderlo per portarlo in Centrale. A quanto pare, un tale ha mandato una lettera minatoria a un membro non meglio specificato del Gabinetto, o qualcosa di simile. Povera me, l’età gioca brutti scherzi alla mia memoria. Un tempo sarei stata di in grado di ripetere l’intera conversazione con la stessa scioltezza con cui un bambino elenca i sette Re di Roma o la dinastia dei Plantageneti.”
Molly non stentava a crederlo. Sebbene apparisse una donna di mezza età dai modi accomodanti, Mrs. Hudson era un’inesauribile fonte di sorprese.
Percependo qualcosa nell’aria, un mutamento, lei si voltò con l’espressione di un segugio davanti alla tana della volpe. “Non ti ha avvertito che usciva?” Il modo in cui lo chiese sembrava allo stesso tempo una scusante e un’offensiva.
“Perché avrebbe dovuto?” Certo, sarebbe stato carino che lui l’avesse fatto. E certo, sarebbe stato ancora più carino se lui le avesse chiesto di accompagnarlo.
In sette giorni non aveva avuto altra compagnia all’infuori di quella di Sherlock e di Mrs. Hudson, non contando le sporadiche ‘toccata e fuga’ di Wiggins e del suo ‘Doc, ha bisogno di qualcosa?’, ormai di rito.
Aveva ricevuto un paio di telefonate simpatizzanti da parte di John e Meena. Se nel caso di Meena il tutto poteva essere riassunto comodamente in un ‘Condoglianze’, ‘Procurati un estintore e nascondi una bottiglia di gin per le serate davvero lunghe’; quella di John era stata una lunga lista di avvertimenti: “Fai incetta di latte. Tieni sempre a portata di mano i numeri di telefono dei ristoranti d’asporto. Oh, e faresti meglio a inserire tra le chiamate rapide i vigili del fuoco, il mio numero e quello di Lestrade, nel caso in cui Sherlock, uhm… si comportasse da Sherlock. E ricorda: ci sono tre kit di pronto soccorso, uno in bagno, uno in cucina e uno nel cassetto della scrivania. Sotto il letto della mia vecchia stanza c’è un asse che si muove. Al di sotto ho nascosto una stecca di sigarette e una bottiglia di brandy. È un piano di scorta e un eccellente giro di boa per quando dà davvero di matto.”
Molly non aveva saputo se ridere o piangere, indecisa tra il dare credito all’esperienza di John o prendere la cosa come uno scherzo a sue spese. Ma no, non sarebbe stato degno di John Watson.
“Povero agnellino,” disse Mrs. Hudson e Molly la guardò, smarrita. “Ero sicura che ti avesse detto che stava uscendo. È sceso da me per chiedermi di prepararti un tè. Era preoccupato che, mentre era via, potessi sentirti sola.”
Ecco, pensò Molly.
Spostò lo sguardo altrove e affondò i denti nel labbro inferiore. Premuroso e inaffidabile. Coercitivo e liberale. 
Eccolo lì, Sherlock Holmes, la sua antinomia. Come poteva non –
Si alzò di scatto.
Mrs. Hudson la fissò, un po' allarmata.  
“Mrs. Hudson, vorrei stare per conto mio. So che potrebbe suonare come una richiesta bizzarra –” La vide inarcare un sopracciglio e Molly si diede della stupida. Era la padrona di casa di Sherlock. Le richieste bizzarre erano il suo pane quotidiano. “Gradirei poter usare il seminterrato, se possibile.”
Gli occhi di lei si velarono di comprensione, quindi si spostarono sulla poltrona di Sherlock, allusivi. Si portò una mano al collo. “Immagino che non ci sia nulla di male,” proferì con calma. “Posso immaginare cosa spinga una giovane donna ad avere bisogno dei suoi spazi e solo il Cielo sa che quell’uomo ha una presenza indiscutibilmente ingombrante e un carattere che è impossibile gestire, alle volte. Ma, Molly cara, devo avvertirti. È terribilmente umido laggiù e niente affatto confortevole.”
Molly rispose che sarebbe stato perfetto. Non era un luogo confortevole che le serviva, ma un posto in cui riflettere in pace.
 

*

 

Il brandy si rivelò una vecchia conoscenza. Non un martini, che era il migliore amico di una ragazza alle prese con un cuore spezzato. Perché si dava il caso che Molly non lo avesse, il cuore spezzato. Doveva solo fare i conti con una vita che stava andando allo scatafascio.
Era pastoso, non fuoco liquido, ma un tizzone contro il palato. Aveva riflessi deliranti nel bicchiere a tulipano. Era così che si sentiva un mangiafuoco?, si chiese lei. Come se il freddo fosse un’ombra remotissima e labile, il guizzo della paura?
Senza casa. Senza lavoro. Costretta a coabitare con qualcuno che probabilmente, no, sicuramente avrebbe preferito dividere la cella con un criminale, perché in quel caso sarebbe stata una lettura più interessante.
Cosa le rimaneva oltre allo shopping on-line su Etsy? Aveva provato a leggere qualcosa delle librerie a nicchia nel salotto, ma dopo il tentativo fallimentare de “Il chimico scettico” e all’ennesimo trattato di chimica o libro di diritto penale che le era capitato tra le mani, Molly aveva dovuto arrendersi all’evidenza che non ci fosse niente, per lei e per i suoi gusti leggeri, su quelle mensole.
E ora questo.
Dio, era così arrabbiata con Sherlock. Così dannatamente arrabbiata con se stessa.
Era bastato un tè. No, non il tè, ma il fatto che lui, uscendo, avesse pensato a lei, si fosse preoccupato abbastanza di lei da chiedere a Mrs. Hudson di controllarla.
Molly, a conti fatti, sapeva che fosse stato proprio questo il pensiero principe: che lei, Molly, andava controllata. Perché per Sherlock, lei doveva essere come una bomba, pronta ad esplodergli in mano in un momento di disattenzione.
Vivere con una bomba, no, non doveva essere poi così piacevole.

 

*

 

“Sarebbe meglio che non entrassi. Ha chiesto espressamente di essere lasciata stare. Sherlock Holmes, tu non oltrepasserai questa porta! Te lo proibisco!”
Querula, la voce di Mrs. Hudson giungeva concitatamente dalle scale.  
Un secondo più tardi la porta si aprì e Sherlock, bavero del Belstaff sollevato e guanti di pelle, entrò come una furia.
Perlustrò la stanza e Molly avrebbe voluto ridere perché sul serio, cosa si aspettava di trovare?
Quando si posò su di lei, i suoi occhi avevano la consistenza del metallo fuso. “Fuori,” ordinò secco, senza scostare lo sguardo dal suo viso.
“Non è una buona idea,” lo ammonì Mrs. Hudson. Si stava stropicciando le mani.
Sherlock si voltò con un verso inumano e sospinse a forza Mrs. Hudson fuori. “Ho detto fuori!” Le sbatté la porta in faccia.
“Cosa credi di fare, Molly Hooper?” domandò, quindi, glaciale.
“Annego i dispiaceri nell’alcool? O suona troppo come un cliché?” Molly scoppiò in una risata gorgogliante.
Sherlock diede un calcio alla bottiglia di brandy. Non aveva chiuso il tappo e buona parte del contenuto si sparse sul pavimento, in una pozza color cinabro.
Molly trasalì.
Lui la afferrò per il braccio e la tirò in piedi. Non era una stretta piacevole.
Molly si divincolò. “Lasciami andare.”
Sherlock non sembrò ascoltarla e Molly si divincolò con maggiore energia. “Lasciami andare!”
Sherlock serrò la presa. Ora la bloccava, tenendola ferma per le spalle. Abbassò il volto al livello del suo, gli occhi accesi come fiamme azzurre, la voce ridotta ad un mormorio carico d’indignazione, incalzante. “È questo che sei, Molly Hooper? Una donna patetica e spaventata? Una codarda? Non è a questa donna che ho affidato la mia vita, quattro anni fa.”
Molly batté le palpebre, infuriata. Come osava? “Cosa diavolo vuoi saperne tu, di come sono fatta io? Sono rinchiusa qui, con te. Non posso uscire. Non posso neanche fare il mio lavoro! Io non sono te. Non sento come te. Non posso semplicemente stare senza far nulla. Mi manca la mia vita, mi manca il mio lavoro e mi manca com’erano entrambi prima che tu tornassi!”
Prima ancora che Sherlock la lasciasse andare, Molly seppe di aver superato la linea di confine. Non si era mai spinta così in là, oltre era terra inesplorata. Si portò le mani alla bocca, con orrore. Ma ormai era tardi. Il danno era stato fatto, forse irreversibile. “Non intendevo –”
“Non sprecare tempo in inutili tentativi, Molly. Sappiamo entrambi che è esattamente quello che intendevi.”
“Ma non nel modo in cui l’ho detto,” disse Molly a bassa voce, gli occhi improvvisamente lucidi.
Senza degnarla di un ulteriore sguardo, Sherlock le diede le spalle – spalle rigide, passo impettito - e uscì. Come se non gli importasse, come se, in fondo, quello che lei pensava non contasse poi così tanto per lui. 
Ma lei aveva visto. Non il cinismo di un cuore indifferente, ma quello del bugiardo. 
Molly si coprì gli occhi. C’era stato calore, prima che Sherlock arrivasse. Fasullo, alterato, ma c’era stato. Ora c’era solo il bruciore agli occhi e quel risucchio, tra i polmoni; l’immagine, scolpita nella sua mente, dell’espressione con cui lui l’aveva guardata. Ferita. Tradita. L’espressione di chi vede prender forma l’incubo di tutta una vita.

   

*

 

“E non hai idea di dove possa essere andato? Cerca di sforzarti. Non ha accennato a niente? Mi serve solo un indizio, Molly. Qualcosa da cui partire.”
Molly scosse la testa, incapace di parlare.
Quattro ore, due tazze di caffè e tre interrogatori dopo essere stata lasciata nel seminterrato, Molly ancora non aveva idea di come si sentisse. Uno straccio, ma questo era abbastanza prevedibile.
Greg si allontanò da lei, si passò una mano tra i capelli, frustrato; annunciò che sarebbe andato a ricontrollare i nascondigli. Pochi secondi dopo era già sparito.  
“Molly.” John le si inginocchiò di fronte, le prese le mani. Le aveva gelate Molly, e stringendole, lui corrugò la fronte. “È successo qualcosa in particolare, tra te e Sherlock?”
La domanda che aveva temuto sin dall’inizio. Molly contrasse le labbra, fece una smorfia. “Abbiamo avuto una specie di litigio,” ammise. “Io gli ho detto delle cose – sono stata orribile.” Serrò gli occhi. Non voleva pensare a quello che aveva detto.
“Cosa gli hai detto, Molly?” Il tono di John era buono, tranquillizzante.
“Gli ho detto…” Molly inspirò, le tremò la voce. “Gli ho praticamente detto che è colpa sua, se sono in questa situazione.”
“Oh, Molly.”
Molly si voltò di scatto verso Mary, che aveva parlato. Mary la affrontò limpidamente, non con accusa, ma con un dispiacere vivido, autentico, di chi comprende il carico sopraffacente di un singolo, semplice sbaglio.
“Mi dispiace. Non capisco cosa mi sia preso. So che non è colpa sua, ma ero, sono così arrabbiata che…” Non sapeva neanche lei come completare quel pensiero.
“È comprensibile,” affermò Mary. “Essere arrabbiati è normale, ma bisogna ricordarsi di rivolgere quella rabbia verso la persona interessata o potrebbe portarci alla perdita di chi ci è davvero caro.” Nel pronunciare l’ultima frase, Mary guardò John con uno sguardo tale che Molly si sentì turbata per l’emozione che vi lesse dentro. Non fece davvero un torto a John quando si alzò e prese il volto di Mary tra le mani, baciandola con trasporto. C’era qualcosa di disperato in quel gesto e di struggente, come il ritrovo di due amanti separati troppo a lungo.
“Sinceramente desolato di interrompere questo quadretto di intimità coniugale.” La cadenza ironica lasciava supporre l’esatto contrario.
John si scostò da Mary con un sospiro di rassegnazione. “Mycroft,” disse e fece una versione infiacchita e canzonatoria del saluto militare.
Mycroft gli rivolse un cenno impercettibile del capo. “Dottor Watson, signora Watson.” Una pausa deliberata. “Dottor Hooper.” Curvò le labbra in un sorriso rarefatto, sottile come carta pergamena. “Quando ho detto che Sherlock avrebbe trovato un più che soddisfacente palliativo alla noia in lei, sono abbastanza sicuro che non mi riferissi a questo.”
“E io sono abbastanza sicuro di non averti invitato, Mycroft. Lo stesso sei qui. Sai cosa significa? Che entrambi dobbiamo affrontare il disappunto di cui siamo continua fonte l’uno per l’altro.”
“Sherlock!” fu l’esclamazione generale, ad esclusione di Mycroft.
Sherlock fece una smorfia. “Tanto rumore per nulla,” li criticò, ma il rimprovero era bonario.
Molly ricominciò a respirare. Stava bene. Non sembrava ferito. Era lucido, pallido come un fantasma e con i capelli neri e bagnati, incollati alla fronte in scure virgole. Aveva una mano sotto al cappotto, il gesto di un ladro che nasconde una pistola. E gocciolava acqua. Praticamente si stava allargando una pozzanghera, ai suoi piedi.
“Dove diavolo sei stato?” lo aggredì John.
“In giro,” rispose Sherlock, vago.
“Se ti aspetti che ce lo facciamo bastare, sei un completo idiota. È appurato.”
“No. Mi aspetto inevitabili domande di un’ovvietà imbarazzante a cui non prometto di rispondere.”
“Sherlock.” Il tono di Mycroft era inequivocabile.
“Risparmiati la predica e arriva dritto al punto in cui mi minacci che ‘un altro colpo di testa’ di questo tipo mi rispedirà su un aereo per l’Europa dell’est.” Il sorriso di Sherlock era derisorio. "Ho risolto il caso del diplomatico, se ti interessa." Aggiunse qualcos’altro; in russo, le parve.  
Mycroft non attese oltre per defilarsi.
Mary e John non aspettarono a lungo, prima di seguirne l’esempio. John avrebbe voluto trattenersi, per la verità, questo era stato evidente, ma Mary non gli aveva dato scampo. Lo aveva afferrato e lo aveva trascinato via prima che lui potesse realmente fare una delle cose di cui poi la mattina dopo si sarebbe pentito. Tra le altre, tirare un pugno a Sherlock.
Ora che tutti erano andati via, il salotto appariva desolatamente vuoto e silenzioso in modo imbarazzante.  
“È un tizzone d’inferno.”
Molly era così meravigliata che cercò i suoi occhi. Li trovò quasi subito e quasi subito li lasciò, non riuscendo a sostenerli.
Lo sentì sospirare. “Molly.”
“Chi?” gli chiese, prima che potesse continuare. “Chi è un tizzone d’inferno?”
Invece della risposta esaustiva che si era aspettata da lui, ne ebbe una completamente differente. Molly sgranò la bocca. Perché lo avrebbe riconosciuto dovunque. Un miagolio, quel miagolio. “Toby!”
Sherlock glielo porse ed era quello che aveva nascosto sotto il cappotto. Era Toby.
Molly se lo strinse al petto, piangendo, mormorando il suo nome come in un mantra. “Credevo che fosse morto nell’esplosione.”
“È un gatto. Ha sette vite,” replicò Sherlock.
Molly rise.
“Non era nell’appartamento,” spiegò Sherlock, allungandosi a grattargli la testa, tra le orecchie. “È bastato un sopralluogo e un giro nel vicinato per trovarlo.”
Molly gli strinse le dita prima che lui le allontanasse. “Grazie, Sherlock e riguardo a ciò che ho detto –”
“Non è necessario che tu –”
“Lo è, invece. È importante. Lo è per me.”
Sherlock annuì, predisponendosi all’ascolto.
“Io… la mia vita è cambiata. Irrimediabilmente forse…” iniziò Molly.
Sherlock fece per protestare. Molly gli lanciò un’occhiata feroce. “Lasciami finire, per cortesia, poi sarai libero di commentare. Dunque… sì, suona come una frase fatta, ma è la verità: dalla settimana scorsa la mia vita è cambiata. Ed è spaventoso. È come sentire che in qualche modo non mi appartiene più, non è più mia. Perché è come ha detto Mycroft: dalla mia dipendono molte altre, più di quante possa sopportarne. È un peso terrificante. Per questo, dirti quelle cose, oggi, è stato crudele. Lo sarebbe stato comunque, ma in quest’ottica assume una dimensione persino peggiore. Perché adesso lo so, so come ti sei sentito, cosa hai provato, cosa continui a provare anche ora. Da te dipendono le nostre vite. È stato sciocco da parte mia dimenticarlo e ancora più sciocco prendermela con te e scaricare la mia frustrazione su di te, quando non hai nessuna colpa. Nessuna, Sherlock. Perciò ti chiedo scusa e spero che tu potrai perdonarmi per essere stata una perfetta sciocca, ecco.” Molly boccheggiò. Non lo aveva guardato in faccia per timore di quello che avrebbe trovato, ma ora si azzardò a farlo e lo vide rivolgerle l’ombra di un sorriso.
“Hai finito?”
Molly annuì. “Sì, ho finito e se vuoi, puoi, ehm, replicare.”
“Ti sei comportata da sciocca, Molly,” disse Sherlock e Molly sentì qualcosa, il suo cuore?, sprofondarle ai piedi. “Poco fa. Cosa dovrebbe significare che la tua vita non ti appartiene? La tua vita è solo tua, Molly Hooper e solo tu puoi decidere cosa farci. Hai capito?”
Molly mormorò qualcosa di inudibile.
“Non credo di aver sentito, Molly. Se mostrassi la cortesia di spostare la bocca dal pelo del tuo gatto, avrei migliori possibilità di riuscita.”
Molly gli sorrise. “Ho detto che ho capito.”
E davvero, aveva capito. Era il momento di rimboccarsi le maniche. Toby miagolò il suo apprezzamento.

 


 

N/A:

Un capitolo difficile. Non per la stesura in sé. Praticamente si è scritto da solo. No, è l’aberrante sospetto che Molly non sia del tutto Molly, in questo capitolo. Molly che per amarezza decide di cercarsi un angolino appartato e bere un goccio? Oddio, più leggo solo quest’ultima frase, più mi do della pazza. Eppure era necessario per una svolta. E diciamocelo, Molly fino ad adesso aveva reagito egregiamente. Ci voleva un episodio così, una valvola di sfogo. Ora lo sfogo è avvenuto e sarà tutta in salita.
Dei prossimi capitoli vi anticipo soltanto: esperimenti, Wiggins, formicaio artificiale.

P.S.: dopo tutti i meravigliosi commenti che mi avete lasciato, mi sono messa di lena, questo pomeriggio, decisa a finirlo. Nonostante i dubbi di cui accennavo sopra, spero che tutto sommato il risultato sia di vostro gradimento.
Un grazie speciale e commosso a voi ragazze che vi fermate a commentare, a lasciarmi un pensiero. Le vostre recensioni mi spronano a migliorarmi, sono come il caffè di prima mattina e poi quello di metà mattina e del dopo pranzo e di metà pomeriggio. Insomma, si è capito, mi auguro. 
Prometto di rispondervi al più presto, intanto questo era tutto per voi ;)

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Capitolo 4
*** IV ***


4

“Come vanno le cose con Molly?” chiese John.
Sherlock gli dedicò a malapena uno sguardo. Mosse le dita in un gesto noncurante che stava a indicare tutto e niente.
John, ovviamente, non ne trasse alcuna soddisfazione. “Fatti animo, Katie,” sospirò. “Pare proprio che non otterremo maggiore considerazione dal tuo lunatico padrino.” Si curvò oltre lo schienale della poltrona che Mary occupava.
Catherine Watson mosse i piccoli pugni nello spazio sopra di lei, come una vera ‘in-fighter’, e fece il tipico verso di un neonato quando ha fame o sonno o è scocciato. O ognuna delle tre cose. Se non fosse già stato irrimediabilmente innamorato di lei, John sarebbe stato conquistato e perduto nella sua rete in quel preciso istante, quello in cui spalancò gli occhi azzurro-grigi.
Il sorriso soffuso di Mary, pervaso di dolcezza e orgoglio, pareva esprimere e condividere la stessa linea di pensiero. Posò un bacio di tenerezza assoluta sulla tempia morbida e profumata di sua figlia. “Non badare a tuo padre, tesoro. È solo la curiosità a parlare. Cerca di estorcere informazioni, facendo leva sulla cosa deliziosa e amabile che sei.” Mary sorrise, fletté il collo all’indietro per rivolgergli uno sguardo arguto. “Manipolatore,” lo accusò.
Sulla scia di quel rimprovero affettuoso, Sherlock si rianimò, batté le mani e con un balzo fu loro accanto. Si piegò per prendere Katie e quando l’ebbe in braccio, se la tenne stretta, la mascella contro la testolina piena di capelli biondi e boccoluti, mormorandole chissà quale diavoleria all’orecchio.
Per quanto quello spettacolo gli fosse divenuto ormai naturale, il modo di porsi di Sherlock nei confronti di sua figlia continuava ad avere qualcosa di magico e suggestivo, che mai gli sarebbe venuto a noia. Sapeva di casa e là, tra le pareti familiari di Baker Street, assumeva un contorno ancora più domestico e reale. Sorridendo del proprio turbamento, qualcosa che non era commozione, assolutamente no, John posò una mano sulla spalla di Mary, che gliela strinse di rimando.
Di fronte al camino, Sherlock prese a ondeggiare avanti e indietro, dondolandosi sui talloni. “Non instillarle il dubbio,” disse rivolto a lui e poi, smussando appena l’inflessione intollerante, ma lasciandovi la risolutezza, proseguì: “Il dubbio, quando è ingiustificato e arbitrario, è male, Caterina. Vi si pone un freno con la ragionevolezza e con la fredda logica di una mente ben organizzata.”    
“Non puoi aspettare qualche mese, prima di iniziare la tua opera di iniziazione, Epicuro?”
“Non è mai troppo presto per imparare, John,” lo istruì il folle, geniale uomo che gli stava di fronte. Per un lungo istante, il suddetto folle genio lo fissò con quei suoi occhi dannatamente penetranti – pallidi e allungati nella luce polverosa del primo pomeriggio. “O troppo tardi,” aggiunse, a scanso di equivoci. Se non avesse avuto sua figlia tra le braccia, John non avrebbe esitato a lanciargli la babbuccia persiana addosso.
Da Mary proveniva un basso suono strozzato, come di qualcuno che cerchi di non ridere, con scarsi risultati.
John lanciò un verso esasperato. “D’accordo. Bene. Come volete voi. Ma bada,” si rivolse a Mary con aria solenne, “quando nostra figlia verrà a implorarci di avere per animale domestico un serpente o un drago di Komodo, non potrai addossare la colpa a me.”
Mary arricciò il naso nella direzione Sherlock. “Un serpente? Davvero?”
“Era per un esperimento,” rispose lui, infastidito. “Non era nemmeno di quelli letali.”
“Era un dannato serpente corallo!”
Sherlock batté le palpebre e riprese a sostenere in tono logico, sempre in quella sua buffa danza ondeggiante: “Ricordo di aver espressamente richiesto un falso corallo. Se non si può fare affidamento sulla garanzia di un rivenditore di animali, non so su chi potrei nel mercato nero.”
“La parola di un rivenditore –” John era allibito. Si volse al suono, questa volta udibile e riconoscibilissimo, della risata di Mary.
“Oh, andiamo!” lo prese in giro lei. “Non mi dirai che non è divertente. Perché ti assicuro che lo è e molto.
Nero su giallo serpente corallo, rosso su nero non è quello vero. È un ritornello piuttosto conosciuto tra gli esploratori.”
“Si dà il caso che io non sia un esploratore,” replicò John, piccato. “Sono un dottore.”
“E un marito incredibilmente affascinante,” aggiunse Mary. “A cui non cambierei un solo capello.”
“Ma il discorso non è valido anche per i miei baffi.”
“Perché erano ridicoli,” intervenne Sherlock con aria coinvolta. “Inoltre ti davano un aspetto trasandato. Ti invecchiavano. Non saresti sembrato un padre, ma un nonno.”
John fece saettare gli occhi da Sherlock a Mary e viceversa, quindi scosse la testa con esagerazione. “Restituiscimi mia figlia, detrattore dei baffi altrui.”
Katie gorgogliò tra le sue braccia, agitò la manina. Sherlock annuì, interessato e concorde. “Ma certo.”
John aggrottò le sopracciglia. “Cosa?” 
“Quale intimo apprezzatore di ogni forma d’ingegno, trovo in vostra figlia un valido sostenitore. Tu, Caterina, hai un brillante futuro come detective davanti a te. Mi ha appena dato un’idea che rivoluzionerà l’intero metodo scientifico,” chiarì, come se fosse necessario.

Dio, dammi la forza. “Mary!” invocò ad alta voce.

 

*

 

“Sherlock, ricominciamo dal principio. Dov’è Molly?”
Sherlock corrugò le sopracciglia, come se trovasse la questione infima e irrilevante, poi si guardò intorno nel salotto palesemente privo della presenza di Molly Hooper.
L’acciglio rimase, intrappolato sul suo volto per una manciata di secondi, prima di spianarsi nella rivelazione di un’improvvisa intuizione. “Oh,” dischiuse le labbra, compiaciuto; smise di picchiettarsi la fronte. “È in seminterrato.”
“Nel seminterrato,” ripeté John, sperando di aver male interpretato, ma no, l’espressione altrettanto incredula di Mary lo rassicurarono sulle proprie capacità uditive. “E cosa fa Molly, nel seminterrato?”
“Non beve brandy, questo è sicuro. Gliel’ho sequestrato.” Sherlock sembrava inspiegabilmente compiaciuto.
“Di cosa accidenti parli?”
In breve, lui glielo espose. John era troppo sconvolto per decidere come reagire a quello che provava. Rabbia, per l’incapacità ottusa di Sherlock nell’assimilare le nozioni più elementari e basilari; preoccupazione, per Molly la cui pazienza aveva dello straordinario, ma non a quei livelli. Mai a quei livelli. I santi esistevano solo in paradiso. 
“Sherlock.” Mary lo pronunciò nel tono in cui un tenente richiami all’attenti i soldati semplici del suo squadrone. “Hai mai affrontato l’argomento del trasferimento di Molly con Molly?”
Sherlock mosse le dita sul bracciolo della poltrona, come se si trattasse di una tastiera. Sbuffò. “Certo che sì. Mycroft le ha illustrato l’intera faccenda, fornendo motivazioni più che assennate perché si convincesse ad accettare l’offerta di venire ad abitare qui.”
“Non è quello, che Mary intendeva. Hai mai spiegato a Molly come ti senti riguardo alla sua presenza qui? Le hai fatto capire che non ti è, uhm, di peso?”
Sherlock batté le palpebre piuttosto rapidamente, un fremito nervoso che John catalogò come sintomo d’inquietudine, oltre che di sbalordita incomprensione. Dunque sgranò appena gli occhi, dando loro la forma di quelli di un gufo, mentre un’opinione vi si faceva largo. Meglio tardi che mai. “Sì,” concordò con i pensieri che Sherlock non si era ancora dato pena di trasformare in parole. “Molto probabilmente, Molly è convinta che tu detesti l’idea che lei viva sotto il tuo stesso tetto.”
Sherlock si mosse a disagio sulla poltrona. “Ma è ridicolo,” sbottò.
“Lo è per te.”
“È una supposizione assurda.”
“Vuoi un consiglio spassionato?” intervenne Mary. Continuò a cullare Katie. (Era incredibile la sua capacità di provvedere a lei e allo stesso tempo portare avanti una conversazione con la solita spigliatezza. Le sfaccettature poliedriche di una donna alle prese con il lavoro a tempo pieno della sua vita: John non si sarebbe mai stancato di osservarle. E amarle.) “Falle capire che la sua presenza nell’appartamento non ti infastidisce. Perché non ti infastidisce, giusto?”
“Perché dovrebbe?” ribatté Sherlock con una smorfia. “Molly si lamenta molto meno di altri.”

Grazie, amico. È sempre un piacere sentirsi apprezzati. “Fingerò che questo tuo commento mi sia passato inosservato. Mary? Abbiamo un piano?”
Mary gli strizzò l’occhio. “Uno fatto apposta per l’occasione.”
Sherlock sbuffò con riprovazione.

 

*

 

Sherlock prese ad osservare Molly Hooper. Patologa di fiducia, vecchia complice in un caso di morte apparente, quasi-del-tutto amica, ora sua nuova coinquilina.
Non trovò molto su cui indagare.
Sul serio, Molly Hooper non era poi questo gran mistero né mai lo era stato. Era il non-mistero di Molly ad intrigarlo e incuriosirlo. Molly, assolutamente normale e perfino banale, in determinate occasioni. Molly che rispondeva agli stimoli esterni nel modo più convenzionale possibile, confacente all’idea che chiunque si sarebbe fatto di lei al primo sguardo: di una donna emozionale, costante nei suoi affetti duraturi.
Molly era schietta e nient’affatto debole o scontata nella sua lealtà. Sherlock sapeva di poter contare su di lei, che ci sarebbe sempre stata Molly Hooper sullo sfondo cupo e grigio di quel mondo che era pronto a fare a pezzi ogni volta che lo scontentava – non accadeva di rado.
Molly rompeva ogni regola.
Quindi, sì, come detto, in quello stato di cose e dopo l’anomala circostanza avvenuta ne “Il caso del brandy e del gatto riscattati” (Sul serio, John aveva un senso dell’umorismo diabolico.), Sherlock si ritrovò a studiare Molly Hooper e ad analizzarne il comportamento, in cerca di quelle piccole effrazioni nel suo modus operandi che lo avrebbero scagionato una volta per tutte dall’accusa di essere un inguaribile cinico.
Con suo scorno, non trovò nulla, nella condotta o nel contegno di lei, che facesse presagire quello stato di timore e agitato affanno i cui segni John gli aveva imputato di aver trascurato.
Nessuna forzatura nel suo modo di agire, nel sorriso pressoché perenne sul suo viso.
Nel rilevare la mancanza delle discrepanze che vi aveva cercato, non poté sfuggirgli il resto. E cioè che l’appartamento avesse preso un aspetto decisamente più regolato e preciso, pertinente ai suoi bisogni. Che Molly, svolazzando instancabilmente da un piano all’altro, raddrizzasse, spolverasse, accomodasse ogni cosa, senza prendersi la libertà di riorganizzare il precedente sistema di collocazione, solo di riesumare e rinfrescare. Che ci fossero fiori freschi nei vasi, adesso, non di colori violenti, ma del tipo che ci si sarebbe aspettati da lei: piccoli e intensamente profumati, impalpabili come certi quadri astratti. Che i cuscini fossero sempre sprimacciati; che nell’aria si sentisse profumo di dolci appena sfornati e di caffè; che nel silenzio sonnacchioso e apatico si potesse ascoltare la risata bassa di lei che scaturiva dalle profondità del basamento o dalla cucina dell’appartamento di Mrs. Hudson, che sbrogliava un nodo di pensieri particolarmente ingarbugliato, o interrompeva un filone di malumori. O della musica che proveniva dalla stanza sopra le scale nel tardo pomeriggio.
Non poteva mancare di constatare quanto l’insieme di quei particolari, quantunque stravolgesse l’assetto preesistente, poco, davvero poco lo disturbasse. Praticamente per nulla. La stessa vicinanza di Molly non lo infastidiva. E anzi, avrebbe detto che, in qualche modo non del tutto cosciente e identificato, gli risultasse gradita, perfino piacevole. Era del tutto soddisfacente trovare che Molly rimproverava Toby per essersi avventurato nella sua stanza lasciata aperta. Interessante vederla relazionarsi a Mycroft, a Mrs. Hudson e a Wiggins, vederla avventurarsi a spalancare gli armadietti e i mobiletti, i cassetti, i bauli e le vecchie valigie con la speranza disdicevole di trovarvi un arto mozzato o imputridito.
Sviscerato quel nuovo modo di percepire la presenza di Molly, a Sherlock rimaneva un problema di natura differente.
Congiunse i polpastrelli davanti agli occhi. Toby, acciambellato sulla poltrona di John, gli rivolse un’occhiata vigile e accorta.
Ora, pensò Sherlock, non restava che decidere come affrontare l’argomento con Molly.

 

*

 

Molly non era stupida. Si era accorta che qualcosa, nell’atteggiamento di Sherlock, fosse cambiato.
Sherlock cercava la sua compagnia. Era assurdo, inconcepibile, ma innegabile. Un dato di fatto.
Una sera, in particolare, quello che era stato un vago sospetto divenne certezza assodata.
Con una frase ambigua, un pretesto, Sherlock le aveva chiesto di trattenersi nel salotto. Non trovava una cartella, il dossier di un vecchio caso risolto ben prima della comparsa di John Watson nella sua vita. “Non avevo ancora un mio biografo.” Con quel nuovo appellativo a carico di John, Sherlock aveva sollevato gli angoli della bocca in un sorriso disarmonico. “Dovevo occuparmi da solo della raccolta di materiale per i posteri. Un compito ingrato.”
Molly aveva sorriso brevemente. Sherlock sapeva essere una spina nel fianco e apparire pedante o presuntuoso o, a seconda dei casi, ambedue, ma non era un vanaglorioso, questo no. Le sue glorie erano concrete, Molly ne aveva avuto testimonianza settimanalmente da quando lo aveva conosciuto, quasi dieci anni prima.
E anche allora, Sherlock, benché meno conosciuto e assai più saccente nei modi e nei toni, era stato un genio assoluto e per questo troppo spesso incompreso o peggio, trascurato. Molly lo aveva amato tanto di più per quello, di un amore disperato e incondizionato.
Molly trovò il fascicolo in questione esattamente dove sapeva di averlo visto quella mattina, nel secondo faldone sul margine della scrivania, quello di centro. “Ecco qui,” gli disse, passandoglielo.
Sherlock lo prese con un‘espressione di assoluta insoddisfazione. “Ti ringrazio.”
“C’è qualcos’altro che posso fare per te?” domandò Molly.
Sherlock esitò. “Sì. Ci sarebbe, in effetti. Prego,” disse, stringendola gentilmente per il gomito e guidandola verso la poltrona di John. “Sarà meglio che tu ti sieda.”
Ovviamente, conoscendo Sherlock, Molly pensò al peggio.
“Non è morto nessuno, Molly,” la rassicurò Sherlock con un sorriso rapido quanto un battito di ciglia. “O sarebbe più giusto specificare che non sia morto nessuno di nostra conoscenza. Non ho la presunzione di affermare qualcosa di così irragionevole. Non quando è statisticamente provato che –”
“Sherlock.”
Sherlock tacque.
Molly lo fissò con curiosità. Sherlock tendeva a straparlare quando era nervoso, quindi cosa poteva aver scatenato quel particolare stato d’animo?

Oh. Forse Molly si era fatta un’idea al riguardo. “Mi dispiace,” buttò tutto d’un fiato.
Sherlock la guardò con occhi illeggibili. “Di cosa, nello specifico, ti stai scusando, Molly Hooper?”
“È per i fiori, vero? O perché Toby è entrato nella tua stanza? O perché ho spolverato?”
Sherlock dischiuse le labbra, interamente sbalordito. Dopo un attimo, aggrottò la fronte, adombrato. “Chiariamo questo punto una volta per tutte, Molly. Baker Street è casa tua, ora. Lo sarà finché tu lo vorrai. Perciò converrai con me che non occorre davvero che tu mi chieda il permesso per fare alcunchè. Questa è anche casa tua, quindi –”
Molly si strofinò le palpebre, sorridendo e piangendo insieme.
Sherlock sembrava preso in contropiede e adorabilmente terrorizzato da quello spettacolo. “Stai piangendo,” osservò in tono inquieto. “Ma stai anche sorridendo. Devo dedurre che siano lacrime positive? Come quelle al matrimonio dei Watson?”
“Decisamente positive, sì.”
Sherlock fece un cenno sbrigativo. “Bene,” disse, brusco. Le tese un fazzoletto. “Bene.”
Molly ci si soffiò il naso, ridendo e piangendo più forte. “Grazie.”
Sherlock non batté ciglio. “Di nulla, Molly.”

 

*

 

“Quindi, Sherlock? Come vanno le cose con Molly?” John arcuò un sopracciglio sintomaticamente.
Sherlock si sfiorò la mandibola con i polpastrelli, si sfregò le labbra col pollice. “Perfettamente bene, grazie.”
Se John trovò nel fatto che lui gli avesse risposto qualcosa di miracoloso, trovò ancora più strano, strano in modo singolare e non inquietante, il sorriso incisivo che ne accompagnò la sentenza.

 

 

 


N/A:

Un capitolo di passaggio, me ne rendo conto. Dopo quello che secondo me è stato un assoluto passo falso nel perdere di vista ciò che è Molly, (sì, la scena del brandy maledetto ancora non mi convince e comincio a detestare il fatto di quasi-detestarla xD) un capitolo che lascia intuire e mostra vagamente quello che è, diventerà appieno, lo spaccato quotidiano in Baker Street. Esperimenti e autopsie di toraci nel cuore della notte, il ‘Doc’ di Wiggins, un gruppo di ragazzini di un gruppo di studio, nuovo guardaroba scelto da Meena, un tè tra ragazze, il ritorno di un folgorato Henry Knight, l’entrata in scena di una certa Victoria Queen (“Sì, prima che lo dica, i miei genitori avevano un pessimo senso dell’umorismo all’epoca. Lo hanno ancora, in effetti.”
“Non è caratteristica che si perda nel tempo, mi dicono.”
Sherlock Holmes. Non è messo tanto meglio di me, vero?”).     
Ragazze, so di essere imperdonabile nel non avere ancora risposto alle vostre recensioni. Mi dispiace tantissimo. Ma la mattina sto lavorando, sarà così fino alla fine di luglio e il pomeriggio cerco di scrivere. Abbiate pazienza, che nei week-end avrò più tempo e grazie, oltre che per il tempo che dedicate alla lettura, per la pazienza dell’attesa. Spero sempre che ne valga la pena :)
Non esitate a porre domande, se volete. Non potrò rispondere subito, ma farò quel che posso per spiegare punti poco chiari o non so, qualunque cosa o dubbio vi passi per la testa leggendo. Un abbraccio fortissimo!

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Capitolo 5
*** V ***


5

La vita a Baker Street scorreva pacifica e, almeno per lei, procedeva con calma.
Molly era una creatura metodica e precisa, assuefatta alle abitudini. Il cambiamento non aveva mai avuto per lei il fascino inesplicabile delle cose oscure finché non le si era presentato nella forma improbabile di un uomo straordinariamente alto, con le leggendarie tempeste del Mare del Nord a infuriare nei suoi occhi. Erano di una stupefacente tonalità di ghiaccio, sin dalla prima volta le avevano ricordato i fuochi fatui delle ballate scozzesi e gli specchi d’acqua dei fiordi che aveva sempre sognato di poter visitare, un giorno: incredibilmente profondi, irrimediabilmente belli.    
Mordendosi l’interno della guancia, Molly rilesse per l’ennesima volta parole che non afferrò e che le sfuggirono dalla mente come fumo tra le dita.
Era una serata tranquilla. Lei e Sherlock la stavano trascorrendo vicino al camino acceso. Era diventata loro abitudine, dopo cena, trascorrere un paio d’ore in salotto, godendo della reciproca compagnia, nel silenzio in cui ognuno dei due si immergeva mentre leggeva o rifletteva.
Sherlock era di umore insolitamente gioviale. Sedeva come una linea obliqua di seta blu sulla sua poltrona, in pigiama e a piedi scalzi – le dita, pallide come carta di riso sul tappeto, che si arricciavano verso la pianta del piede e poi si riaprivano, stirandosi. 
Dopo il caso del diplomatico ne aveva risolti altri due, l’ultimo in poco meno di mezza giornata. Mycroft era stato di parola: c’era sempre, in attesa per lui, un mistero sulla sua scrivania.
Benché fosse innegabilmente più facile avere a che fare con uno Sherlock del tutto appagato dalla risoluzione brillante di un caso appena portato a termine, piuttosto che con uno Sherlock tetro e uggioso che deplorava la penuria di delitti con cupi lamenti degni di una banshee. Ebbene, non poteva evitare di provare una certa invidia nei suoi confronti. Non aveva più la facoltà di scegliersi i casi, ma perlomeno aveva dei casi, qualcosa che gli occupasse la mente, qualcosa che mettesse in moto il cervello, azionasse i neuroni e le sinapsi, bruciasse la noia.
Per quanto tentasse di riempirsi le giornate, fin dove i limiti imposti dai protocolli di sicurezza le imponevano, le sue notti erano intensamente quiete e in quella quiete le era difficile non farsi afferrare alle spalle dalle ombre dei suoi desideri inconsci - non così tanto, in effetti.   
Molly lisciò con le dita le pagine del libro che aveva sfogliato per tutta la sera, senza sprofondarsi nella lettura.
Un tempo le sarebbe bastato, probabilmente. Stare a stretto contatto con lui, per quanto obbligata dagli eventi e da forze di causa maggiore; vedere chi Sherlock diventasse, nell’intimità di quella sua tana-rifugio bohemien, libero dal conformismo del mondo esterno che aveva cercato tutta una vita di  ingabbiarlo nei suoi costrutti. E se già in passato Molly si era fatta accarezzare dalla visione casalinga di Sherlock, fantasie dolci, innocenti e, malgrado questo, lo stesso spietate nella loro potenza di immagini infattibili, la verità tangibile della realtà era mille volte meglio. Quest’uomo meraviglioso e impossibile, che leggeva le persone, ma non le aveva mai capite fino in fondo. 
Chiuse il libro, posandolo sul tavolino da caffè; si strinse le braccia in vita, contro la stoffa morbida del maglione di lana che indossava.
Sherlock aveva la testa riversa contro lo schienale della poltrona. “Sei annoiata, Molly,” lui ne prese atto passivamente.
Molly avrebbe potuto negare, non ne vide l’utilità. Era giovedì. Di solito, a quell’ora – “Adesso comincerebbe il mio turno.”
Sherlock assentì. “Vorresti che ti raccontassi un vecchio caso?”
Lei scosse la testa. Non quella sera, non l’avrebbe distratta. Avrebbe soltanto acuito il senso di mancanza e nostalgia, ma non poteva dirglielo. Conoscendolo come lo conosceva, sapeva che lui se ne sarebbe fatto inevitabilmente una colpa.
Una pausa. Sherlock cercò il suo sguardo. “Ti andrebbe di fare un esperimento?”
Molly provò l’impellente bisogno di sorridere. “Credevo che non me lo avresti mai chiesto.”
Aveva cercato di dimenticare come si sentisse standogli vicina, come l’aria sembrasse sfrigolare di prestanza, vitalità e vigore, energia allo stato brado.
Aveva cercato di dimenticare come fosse: sentirsi sfiorati da quell’energia, la sua forza a due facce, quella natura delle cose in cui Lucrezio e dopo di lui, Bacone e tanti altri avevano riconosciuto due parti fondamentali, una che distruggeva e una che costruiva. 

 

*

 

“Dubito che Mike Stamford si rifiuterebbe di fornirti dei pezzi freschi.”
Molly storse il naso al sottotesto quasi-per-niente implicito.  
“D’altronde,” proseguì Sherlock, perfettamente a suo agio, “conosce gli estremi della tua situazione. Se glielo chiedi, dilungandoti a descrivere la tua infelicità, avremo quello che ci occorre nel giro di un’ora, un’ora e mezza al massimo. Sempre che tu voglia, s’intende.” Annuì, come se si fosse ricordato in quel momento della possibile falla nel suo progetto: che Molly non accettasse. Le sorrise con fare accattivante. Suvvia, Molly, cosa hai da perdere? Un’altra serata accanto al fuoco?
Dannazione alla sua logica di ferro. “Chiamo Mike.” Molly si affrettò verso il cellulare che aveva lasciato sulla mensola, di fianco a Billy Il Teschio.
Sherlock ghignò. Mancava solo che si sfregasse le mani. “E io Wiggins.”
Molly gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Hai ragione di credere che in tua assenza l’ospedale abbia provveduto a risolvere la deplorevole assenza di corrieri?”
Molly tacque.
Sherlock annuì. “Esattamente.”

 

*

 

Wiggins arrivò con un contenitore isotermico e uno scatolone che poggiò sul tavolo della cucina, che loro, nell’attesa, avevano sgombrato e attrezzato. “Sei molto apprezzata, Doc. Il tuo supervisore ti ha dato i pezzi migliori, tra quelli di scarto.”
“Che orripilante scelta di parole, mio caro,” intervenne Mrs. Hudson, che lo aveva seguito. (Mrs. Hudson le aveva confidato che fosse ancora diffidente nei riguardi di ‘Quel tale. Wiggins’. Temeva che potesse rubarle l’argenteria. Lei l’aveva rassicurata, dicendole che Wiggings fosse di fiducia e aveva aggiunto qualcosa che non ricordava precisamente, ma che era evidente che non fosse stato un granché efficace.)
“Pezzi di scarto,” ripeté Mrs. Hudson, offesa. “Non è carne da macello. Sono esseri umani.” Così dicendo, indirizzò un’occhiata perplessa al container sigillato. “O quello che ne rimane.”
“Mrs. Hudson ha ragione,” convenne Sherlock. Si stava rimboccando le maniche e aveva una luce febbrile ed esaltata negli occhi. “Questa non è carne di scarto. Al contrario, è materiale di prim’ordine per la scienza.”
Molly si avvicinò allo scatolone; sollevò il coperchio e il respiro le rimase intrappolato in gola in una bolla timbrata. “Oh.”
La sua esclamazione soffocata attirò l’attenzione di Sherlock e degli altri, che le si misero attorno, studiandone a loro volta il contenuto.
Sherlock, in particolare, allungò il collo pericolosamente.
Si trattava di biglietti che le auguravano di ‘guarire presto’ e ‘torna presto, Mols’, ‘l'obitorio è silenzioso come una tomba da quando non c'è nessuno che canti gli Of Monsters and men'.
Nonostante la storia di copertura, le notizie dovevano essere trapelate e così tutti al Barts erano al corrente di cosa l’avesse spinta a prendersi dei mesi di malattia.
“Oh, Molly, tesoro.” Mrs. Hudson le passò un braccio dietro le spalle e le strinse il gomito, comprensiva. 
“Te l’avevo detto che ti ammirano, Doc.” Wiggins le strizzò l’occhio. “La donna all’accettazione ha cambiato completamente faccia quando le ho detto che era stato lui a mandarmi,” indicò Sherlock che masticò un ‘per l’amor del cielo’. “Il Dottor Stamford ha detto che da quando non ci sei tu, l’obitorio è nel caos. A quanto pare, avevi tutti i turni peggiori e c’è stata una lotta per ridistribuirli. La donna, Rita, mi pare che si chiami, deve aver fatto un giro di telefonate interne perché all’uscita c’era una piccola folla di infermiere e di tuoi studenti e anche un paio di colleghi. Volevano che ti dessi questo. C’era anche un chirurgo che mi ha pregato di riferirti che il suo invito per un caffè è sempre valido.”
Molly sorrise, imbarazzata. Percepiva con estrema chiarezza lo sguardo di Sherlock puntato sul collo. Richiuse lo scatolone e lo posò per terra, quindi si raddrizzò con un cipiglio deciso, muovendosi verso il contenitore isotermico per aprirlo.
Si accorse che era talmente eccitata che le tremavano le mani. Nessuno ebbe l’insensibilità di farglielo notare.
All’interno, ottimamente conservato e in perfette condizioni, meraviglioso come una scultura del Canova, c’era il torace di un uomo.
Mrs. Hudson esalò un ‘Buon Dio’. Wiggins allungò il collo con interesse. Quanto a Sherlock, lui, per qualche assurdo motivo, sembrava più propenso a studiare le sue reazioni, anziché il contenuto nel container.
“Deve appartenere a una delle vittime dell’incidente stradale su Gray’s Inn Road, dove confluisce Verulam Street,” la informò Wiggins, da sopra la sua spalla.
“Notizia vecchia,” ribatté Sherlock, al di sopra dell’altra.
Molly avrebbe davvero voluto che si spostassero.   
“Perché mandarle i resti di un povero uomo? Sperano che tu risolvi il mistero dell’incidente?” Mrs. Hudson sussurrava e qualcosa, nel suo atteggiamento, ricordò a Molly quello che solitamente veniva adottato durante le veglie funebri.
“Non che lo risolva io, Mrs. Hudson,” rispose Sherlock. Ricevette in risposta un’occhiata vacua, a cui reagì con un sospiro inquieto. Serrò le mani sui gomiti, le braccia irrigidite dietro la schiena, quindi, con fare illuminante, illustrò: “Se Mike Stamford lo ha mandato è perché è ha agito con l’evidente mira che sia Molly a farlo. Nessuna sorpresa. A differenza dei suoi colleghi, non è un idiota. Sa che Molly è l’unica patologa perfettamente capace alle sue dipendenze.”
Mrs. Hudson parve soddisfatta della spiegazione ricevuta. Molly un po’ meno. Non le era mai piaciuto il modo in cui Sherlock si rivolgesse ai suoi colleghi o ne parlasse, ma, ora che ci pensava, lui aveva sempre approfittato del demerito degli altri per lodare lei.
“Quando avevo la tua età, Molly cara,” iniziò Mrs. Hudson con aria sognante.
“Il che è accaduto molto tempo fa,” borbottò Sherlock, roteando gli occhi.
Molly si morse l’interno delle guance per non ridere, ma non era stata l’unica.
“Ti ho sentito, Sherlock Holmes,” lo riprese Mrs. Hudson, agitandogli contro il fazzoletto. Sherlock non parve doverosamente impressionato. “Ai miei tempi, gli spasimanti inviavano ancora mazzi di fiori, non -”
“Parti anatomiche destinate a necroscopie,” le venne in soccorso Wiggings.
“Be’,” fece Molly e scrollò le spalle con disinvoltura, “Mike non è il mio spasimante, ma se può essere di qualche consolazione, anche questo appassirà nel giro di un paio di giorni.”
Tre paia di occhi si concentrarono su di lei: Mrs. Hudson con evidente orrore; Wiggins con ammirazione; Sherlock nascondendo poco e male un sorriso divertito. La guardò in un modo che le trasformò le ginocchia in gelatina.
Come spesso accadeva, avendo a che fare con Sherlock, Molly si diede della sciocca e si schiarì la voce. “Vorrei procedere,” annunciò con sicurezza.
“Giusto,” concordò Sherlock; batté le mani. “Bene, Mrs. Hudson, fuori.”
Molly scosse la testa e corrugò leggermente le sopracciglia, credendosi non vista.
“Se lei avesse la cortesia di scendere dabbasso,” riprovò Sherlock che, invece, non aveva smesso di osservarla. Il tono era chiaramente ironico, ma pur sempre un punto di partenza. “Io e Molly potremmo ispezionare la salubrità delle carni. Wiggins, tu ritieniti libero di –”
“Per la verità,” lo interruppe Wiggins, “mi piacerebbe assistere. Non ho mai visto Doc in azione.”
Dalla faccia di Sherlock si evinceva chiaramente che, se fosse dipeso da lui, quel piacere sarebbe rimasto inascoltato.
Molly gli sorrise. “Puoi rimanere. Solo,” arricciò le labbra, cercando con cura le parole, “se senti di non farcela, avverti, ok?” L’ultima cosa che voleva era di trascorrere il resto della serata a ripulire il pavimento dal vomito di chiunque.
Wiggins ricambiò il sorriso, come se sapesse perfettamente cosa aveva pensato. “Sul serio, Doc, non hai idea delle cose che ho visto. Anche prima che iniziassi a lavorare per Mr. Holmes che, detto tra noi, di cose strane me ne ha fatte fare, eh. Per esempio quella volta che mi ha mandato nel punto in cui è stato interrato il Knight’s Bridge per –”
“Basta così,” ingiunse Sherlock. La minaccia e l’avvertimento balenavano sul suo volto, chiare come il sole. “Wiggins, se intendi restare,” un sospiro di tolleranza, il braccio ad indicare un cantuccio della cucina, “starai lì nell’angolo, possibilmente in silenzio.”
“Per la verità,” disse Wiggins, con lo stesso intercalare usato poco prima, “mi piacerebbe fare da assistente.”
Ora la condiscendenza di Sherlock era definitivamente evaporata. Lo guardò con un sopracciglio inarcato e gli occhi avvelenati.
“Assolutamente no”, “Certo che sì” dissero contemporaneamente Sherlock e Molly.
Si voltarono l’uno verso l’altra, nella reciproca incredulità per le risposte date.
“Certo che può farmi da assistente”, “È fuori discussione che ti faccia da assistente”.
Con le mani sui fianchi, Molly si armò di pazienza. “Sherlock, perché mai Wiggins non dovrebbe farmi da assistente?”
“Evito di farti notare il rischio a cui la sua totale inesperienza potrebbe sottoporre entrambi e che è un azzardo. Dubito che tu non abbia lavorato con maggiori inetti al Barts. Senza offesa per te, Wiggins, avresti più speranze di assorbire nozioni e saresti a conti fatti molto meno inetto dei suddetti. Il punto, Molly, è che era mia ferma intenzione assisterti io stesso.”

Oh. Molly lanciò un’occhiata a Wiggins che non sembrava meno sconvolto di lei dalla proposta di Sherlock. Wiggins si riprese con maggiore rapidità e alle spalle di Sherlock le fece cenno di rispondere, perché, chissà perché, Molly era ancora in silenzio, stordita e impietrita. ‘Avanti, Doc’, vide che Wiggins le mimava.
Sherlock aspettava, stranamente silenzioso.
Molly inspirò, quindi gli rivolse un minuscolo sorriso. “Mi farebbe molto piacere.”
“Il piacere è mio,” ribatté Sherlock.
 

*

 

Andata Mrs. Hudson, Molly si diede da fare. Ripescò da uno dei cassetti dei grembiuli con stampate sopra le mappe della metropolitana di Londra; li fece indossare sia a Wiggins che a Sherlock, non accettando discussioni.  “Mio il regalo, miei i metodi per scartarlo.”
Sherlock aprì la bocca, per confutare il fatto che, tecnicamente, la cucina fosse di sua proprietà e che quindi ci fossero altre regole – regole sue - da seguire.
“Credevo che Baker Street fosse anche casa mia,” fece presente Molly.
Questo tappò una volta per tutte la bocca a Sherlock.
Ritemprata e con una sottile frenesia a scorrerle nelle vene, Molly osservò lo spazio in cui avrebbe lavorato ed espose: “Avrò bisogno di pinze, forbici, coltelli affilati, un costotomo, una sega, sacchetti in polietilene, siringhe, tamponi e qualcuno dei contenitori per alimenti di Mrs. Hudson.”
Wiggins annuì, attento, come se stesse prendendo nota di tutto nel suo cervello. Quando lei concluse il suo elenco, si dispose alla ricerca degli utensili.
“E Sherlock,” Molly corrugò la fronte, concentrata, “ci servirà della formaldeide. Puoi occupartene tu? Non dimenticare di indossare gli occhiali protettivi dal momento che-”
“È uno dei più diffusi inquinanti di interni e, a concentrazioni nell'aria superiori a 0,1 ppm, può irritare per inalazione le mucose e gli occhi. Difficile dimenticarsene, Molly.” Sherlock alzò gli occhi al cielo, quindi, distrattamente, le sfiorò la testa in una carezza indulgente.

 

*

 

Prima c’era stata la verifica dell’identità del cadavere. John Doe, 57 anni, uomo, caucasico. Altezza indicata da Sherlock: un metro e settantasette. Peso di 82,4 kg.
Poi c’era stata la valutazione del rigor mortis e un completo esame esterno (stato di nutrizione e idratazione, con forzati salti di punti tra i quali lo studio delle mucose, della lingua, degli orifizi naturali, degli occhi, degli arti e delle articolazioni) seguito da prelievi del sangue.
Molly incise la cute, ‘Si parte dalla sinfisi del mento e, seguendo la linea mediana, si arriva fino all’osso pubico, Wiggins.’ Provvide a dissecare la cute dal tessuto sottocutaneo di torace e addome.
“In pratica lo stai scuoiando?” domandò Wiggins.
Molly mormorò un ‘uhm’ in risposta, impegnata a cercare emorragie o itteri o anche edemi da stasi.
“Sherlock, mi passeresti il forcipe dentato?”
Poco dopo gli chiese il costotomo. Recise le cartilagini e tolse la piastra sternale. Ogni volta che estraeva un organo, Molly lo passava a Sherlock che provvedeva a pesarlo e a prelevare campioni microscopici.
Arrivata al cuore, Molly ne stimò il volume, la forma e il tessuto, quindi lo aprì.
A questo punto, Sherlock le si accostò. “Lo hai già notato, Molly?”
“Un aneurisma dell’aorta discendente con stiramento del nervo laringeo. Piuttosto difficile che passi inosservato, non trovi?” Molly non allontanò gli occhi dal cuore che stava incidendo.
“Segni di riconoscimento?”
Nonostante suonasse come un’interrogazione, Molly non riuscì a impedirsi di rispondere meccanicamente: “Deviazione tracheale. Inoltre, quando la dilatazione interessa la giunzione senotubolare come in questo caso, è presente insufficienza valvolare aortica che provoca soffio da rigurgito aortico, ampia pressione differenziale e soffio paravertebrale sinistro. Vedi? Si riconosce la lacerazione. Sindrome da rottura in pericardio e morte per tamponamento.” Molly gliela indicò. “Immagino che possiamo richiudere.”

 

 
*

 

“Ottimo, Molly.”
Molly scambiò un sorriso brillante con Sherlock. Adesso si rendeva conto di non essere stata completamente se stessa, di non essersi sentita del tutto a suo a agio da due settimane a quella parte.
“Sul serio,” intervenne Wiggins. “Sei stata brillante.”
Molly si sfilò i guanti di lattice e li buttò nella spazzatura. “È il mio lavoro.”
“Ma non tutti amano quello che fanno. Tu sì, ecco perché ti manca tanto.”

Già. Molly si costrinse ad assentire. Parte del buonumore era già sfumato. Si scusò e disse che sarebbe andata a farsi una doccia.

 

*

 

Quando tornò, Wiggins era scomparso, le luci della cucina erano spente.
“Sono scesa a darti la buonanotte.”
Lui non sollevò il viso. Teneva le dita incrociate davanti alla bocca e lo sguardo perso nel fuoco. Molly si voltò per tornare in camera sua.
“Non così in fretta, Molly.”
“Credevo che stessi riflettendo." Si avvicinò alla sua poltrona. "Non volevo disturbarti.”
Sherlock rimase in silenzio. “Ti ho mai dato quest’impressione?” s’informò dopo una pausa tesa.

A che pro mentire? “Non… a parole,” rispose Molly, stringendo le mani, “ma dovresti sapere che certi gesti sono più eloquenti di intere frasi.”
Sherlock annuì, come se lei avesse detto qualcosa di perfettamente sensato.“Ho sempre creduto che la verità fosse un atto gentile.”

Gentile come rovinare le sue relazioni prima che diventassero troppo intime? “Mi permetto di dissentire.”
Si aspettava uno svolazzo elegante della mano ad accompagnare un cenno regale e una replica irriverente sulla falsariga di un ‘Ti è permesso’. Non si aspettava che lui la inchiodasse sul posto con quel suo sguardo da gatto mortifero, né che con voce poco meno che suadente, allusiva dicesse: “Puoi permetterti molto altro.”
Molly ebbe un tuffo al cuore. “Questo cosa vuol dire?”
“Esattamente quello che ho detto. O se preferisci, leggi tra le righe.” Le scoccò un sorriso adorabilmente diabolico del suo repertorio, uno che le provocava il desiderio contrastante di prenderlo a schiaffi o baciarlo. No. No, questa sorta di pensieri andava evitata. Non poteva permettersi di aggravare una situazione che lo era fin troppo. “Sherlock –”
“Trascorri del tempo con Wiggins. Perché?”
“È un caro ragazzo.”
“Un caro ragazzo,” la scimmiottò lui. “Sembra di sentire Mrs. Hudson.”
Un’intuizione inverosimile la attraversò. “Non sarai geloso?”
“Geloso? Di Wiggings?” Sherlock fece una risata falsa.
“Mi sta aiutando a sistemare il seminterrato. Te ne avevo parlato, ricordi?”
Sherlock rispose con un grugnito.
“Inoltre è fidanzato. Felicemente.”
“I fidanzamenti duraturi sono come la Teoria del Caos.”
Molly stava per chiedergli cosa intendesse.
“Ci sono altre soluzioni,” dichiarò lui.

Di cosa parlava?
“Se Baker Street non ti è gradita, Mycroft può trovarti una nuova sistemazione. Altrove.” Ogni parola sembrava avere un costo preciso, doloroso.
“Mi stai cacciando?”
Sherlock contrasse la bocca. “È evidente per chiunque abbia un paio d’occhi che non sei felice. Sei annoiata e per riempire il tempo ti sei messa a fare lavori di ristrutturazione.” Dal modo in cui lo diceva sembrava che fosse inconcepibile l’evenienza che lei si divertisse.
“Non puoi cacciarmi da casa mia.”
Sherlock sbuffò. “Non essere assurda, Molly.”
“Non essere assurdo tu, Sherlock Holmes. Ricordi quello che hai detto a Meena? Che mi conosci meglio di chiunque altro?”
“Non sempre,” ammise Sherlock. “A volte riesco a leggerti dentro con la stessa facilità di cui dai prova tu nel leggere gli stati d’animo altrui. Ma altre volte c’è come un muro.” Trasse un sospiro vibrante, si passò le mani sul viso. “Le emozioni sono un ostacolo. Non sono mai riuscito a scomporle, anche basandomi sul linguaggio del corpo.”
Di tutto il discorso, una cosa, per il momento, aveva maggiore importanza per Molly. “Tu non vuoi che me ne vada,” disse e provò un’ondata di sollievo talmente intensa da tremare.
Sherlock aggrottò le sopracciglia e scacciò le sue parole come se fossero moscerini invisibili. “Perché dovrei desiderarlo? Mycroft ha ragione. Nel mio isolamento la compagnia di qualcuno, specie di una persona come te, non può che essere una panacea alla solitudine.”
“Una persona come me?”
Lo sguardo di Sherlock era come era stato nel seminterrato: metallo fuso. “Tu, Molly Hooper, rappresenti tutto ciò che io non potrò mai essere.”
“Dio, spero proprio di sì.”
Sherlock la guardò come se fosse pazza. Forse lo era, pensò lei.
“Quello che intendo…” Molly produsse un sorriso, sicura di esserlo, in parte. Pazza. Doveva esserlo davvero. “Ci sono tante Molly Hooper là fuori, ma solo uno Sherlock Holmes. Perciò mi sento molto fortunata, davvero molto, molto fortunata, ad averti nella mia vita, Sherlock. E non vorrei essere in un posto diverso, anche se avessi a disposizione tutti i cadaveri del mondo.”
“Molly…”
Molly scosse la testa, serenamente. “Tu sei la mia famiglia.” 
Sherlock ebbe un fremito, come se lo avesse colpito.
“Tu, Mrs. Hudson, Greg, John e Mary, Meena, Wiggins,” continuò Molly.
“I miei amici sono la mia famiglia. Pensi davvero che vi lascerei?”
Lui non rispose, girando la testa dall’altro lato. Fissava il fuoco e le fiamme creavano sul suo viso strane immagini: languide figure danzanti, fatte di chiaroscuri, si rincorrevano sul suo naso da ficcanaso e facile bugiardo, sui suoi zigomi pronunciati, sulle guance non più scavate.
Sembrava che la sua faccia si fosse allungata in quegli anni, con la fronte che era più alta che mai, facile preda delle rughe di pensiero e con la mandibola pronunciata, pronta a serrarsi per quel ricorrente tentativo di mascherare (o non) un sentimento di fastidio.  
Molly non si sarebbe mai stancata di osservarlo.
“Provo dei sentimenti, Molly.” Lo disse con un disarmante tono di biasimo. “Per tutti voi. Sentimenti che mi rendono debole. Umano.”
“Tu sei un essere umano.”
“Non perché io lo voglia.”

Un’altra bugia. Molly non lo smascherò. Gli rimase accanto mentre Sherlock prendeva il violino e suonava quei sentimenti che rinnegava. Gli rimase accanto e come avrebbe potuto essere diversamente? Lui era davvero la sua famiglia. Per lui era – era stata – disposta a fare qualunque cosa. Questa era una scelta che aveva preso tanto, tanto tempo prima. 

 

 

 

 


 

N/A:

Un po’ più lungo del solito. Un po’ meno soddisfacente, temo. Rimetterei mano a tantissimi passaggi, alcuni davvero emblematici.
Del prossimo capitolo vi anticipo che Sherlock andrà via per un paio di giorni per un caso e poi ancora un paio di capitoli di quiete prima che entri in scena Moriarty. Non so tuttora come né cosa farà, ma qualcosa mi farò venire in mente.
Scrivere dell’autopsia dal punto di vista di Molly: fredda, analitica, autorevole ha richiesto non poche letture e ricerche. Il bello di internet è che scovi l’impensabile. Ho trovato delle dispense e degli appunti universitari che ho scaricato perché si sono rivelate una lettura affascinante.
Per dirla con le parole di Libero Bovio, “Com’è facile scrivere difficile e com’è difficile scrivere facile!” E Dio, aggiungo io: quanto è dannatamente vero!

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Capitolo 6
*** VI ***


6

“Sul serio non lo avevi mai fatto?”
Nonostante il tono incredulo, Molly non stentava a crederci. Sherlock Holmes non aveva mai mangiato marshmallow intorno a un fuoco, prima di quel momento. Il fuoco in questione era la bocca del camino e i loro bastoncini di legno erano rispettivamente uno Spiedo da guerra e una Corsesca. (“Armi inastate,” era stata la pronta digressione di Sherlock. “Adatte per il combattimento ravvicinato.”
Molly aveva preso un marshmallow dalla ciotola e glielo aveva porto, sul palmo aperto della mano. “Esistevano già ai tempi dei Faraoni e delle Piramidi. Solo nel 1850, in Francia, hanno iniziato a farli con gelatina di grano.”
Questo, in qualche modo, lo aveva convinto ad assaggiarne uno.)
“Be’,” disse Molly, “c’è una prima volta per ogni cosa.” Staccò il suo marshmallow abbrustolito in punta di dita, scottandosi e soffiandoci sopra prima di addentarlo. “Immagino che tu non sia neanche andato in campeggio.”
Sherlock ritenne superfluo risponderle, ma non ritenne altrettanto superfluo lanciarle un’occhiata sconcertata, di profonda indignazione. Hai idea con chi tu stia parlando, Molly Hooper?
“Aiutami con questo, per piacere.” Molly gli passò il proprio Spiedo. “Ora che l’interno è soffice, metto un pezzo di cioccolata, lo prendo con due biscotti ed ecco a te un Some more. Vuoi assaggiarlo?”
L’espressione famelica di Sherlock la diceva lunga. Rimaneva inverosimile come un uomo dalle abitudini alimentari sregolate quali erano le sue, - c’era stato un periodo, in passato, in cui aveva creduto che lui soffrisse di una forma di anoressia nervosa - si lasciasse convincere a mangiare qualcosa solo per il suo alto e deleterio contenuto di zuccheri.
Sherlock aveva le mani impegnate e così Molly glielo avvicinò alla bocca in modo che potesse dare un morso. Non si stupì quando vide che ne aveva mangiato quasi più della metà. “Allora? Di tuo gusto?”
Sherlock si leccò le labbra, prima di rispondere. “È questo il genere di cose che insegnano nell’Associazione Mondiale Guide ed Esploratrici?”
Molly, che stava infilzando un altro marshmallow, alzò gli occhi su di lui. Era seduta a gambe incrociate sul tappeto, con Toby acciambellato ai suoi piedi; Sherlock invece occupava la poltrona di John, le gambe accavallate e uno dei suoi completi d’alta sartoria. Stava per chiedergli come facesse a saperlo, quando si morse la lingua. Perché era Sherlock, dannazione. Riportò la propria attenzione sullo Spiedo. “Ovvio che tu lo sappia o che lo abbia dedotto,” mormorò, rivolta più a se stessa che a lui.
Sembrava che per Sherlock fosse una specie di gioco. “Direi che gli articoli 2, 3, 5, 6 e 8 della Legge della Guida ti rispecchino particolarmente.”
Molly levò in alto lo Spiedo come l’asta di un’immaginaria bandiera. “Estote Parati!” recitò e scoppiò a ridere.
Il sorriso di Sherlock si fece ampio e asimmetrico, così luminoso che Molly chinò la testa di scatto, si chiese con una trafittura in petto come avrebbe fatto a non sentirne la mancanza.

 

*

 

Era ancora notte, oltre le tende socchiuse, a levante il blu di Prussia impallidiva nella sfumatura della carta da zucchero. (Conosceva a menadito ogni gradazione di blu e di verde, ma in quel momento si rifiutava di ricordare per quale ragione fosse diventata così ferrata sull’argomento.)
Molly era in piedi, di fronte alla porta aperta del 221B. Sherlock le era di fronte. Gli tese il Belstaff e la sciarpa e lui li indossò con la consueta, spavalda eleganza.
John aspettava, rispettosamente a distanza, per concedere loro una specie di intimità. 
Molly nutriva il sospetto che John, da quando si era trasferita a Baker Street, avesse frainteso il tipo di rapporto che intercorreva tra lei e Sherlock. L’idea che altri potessero formulare lo stesso genere di pensiero la metteva a disagio.
“Ci vorranno due giorni, tre se le autorità del luogo dovessero rivelarsi più incompetenti del previsto,” disse Sherlock.
Molly sentì distintamente il sospiro di John dal pianerottolo. Sorrise, fu più forte di lei.
Quando tornò a posarsi su di lei, c’era, nello sguardo di Sherlock, dell’indecisione.
Molly non ne capì il motivo.
L’ombra sulla fronte di lui passò e dileguò, come un effetto ottico, in un battito di ciglia, troppo veloce per darle importanza.
Sherlock si mosse per andarsene, ma Molly, più veloce, si alzò sulle punte e gli posò un bacio sulla guancia, come aveva desiderato fare sin dalla prima notte che aveva trascorso a Baker Street. “Buona caccia alle ombre, Sherlock,” gli sussurrò all’orecchio con un sorriso inesplicabile.
Sherlock non le chiese cosa avesse inteso dire. Era troppo intelligente, di un’intelligenza acuta e versatile, per farlo. Inoltre la conosceva bene. Le stranezze di Molly Hooper. Sì, aveva imparato a conoscere fin troppo bene anche quelle.
D’altronde erano quelle stranezze che le permettevano di amarlo quanto lo amava, in quel modo assoluto, privo di limitazioni o vincoli di genere.
Ed era nelle stranezze di entrambi che si appianavano le loro differenze.  

 

*

 

Il Sergente Sally Donovan aveva sempre pensato che nel suo essere dannatamente indisponente, Sherlock Holmes fosse sul versante opposto un uomo irrimediabilmente fortunato. Nel fiore all’occhiello delle sue conoscenze, vantava uomini e donne intelligenti – forse troppo miti, ma come poteva essere altrimenti, dato il soggetto?
Questo andava a suo vantaggio, rivelandosi, nell’opinione personale di Sally, l’ennesima disgraziata contingenza a sfavore di tutti loro.
Sally si recò a Baker Street per una serie di sfortunati eventi. Avrebbe dovuto consegnare al Fenomeno un plico di casi irrisolti.
Non si era aspettata di non trovarlo, come non si era aspettata che ad aprirle fosse un uomo allampanato. Deformazione professionale o semplice pregiudizio, era innegabile che con quegli occhi infossati, la pelle tirata e la carnagione malata, qualcosa nel volto di affamato e volpino, quel tale, di chiunque si trattasse, avesse l’aspetto tipico del tossicomane. Nessuna sorpresa che frequentasse Baker Street.
L’uomo la squadrò dalla punta delle scarpe alla radice dei capelli, in un’analisi scrupolosa e fastidiosamente familiare.
“Chi è alla porta, Wiggins?”
Una voce femminile giunse dal minuscolo corridoio sulla destra, quindi fece capolino il viso pallido di Molly Hooper. Da curiosa che era stata, la sua espressione si fece raggiante. “Sergente Donovan!”
Sally le riservò un cenno. “Dottor Hooper,” la salutò, asciutta.
“Mi chiami Molly,” si schernì lei con un sorriso cordiale.
Sally fu costretta a riconoscere una volta di più che il Fenomeno fosse maledettamente fortunato. “Solo se tu fai lo stesso.”
“D’accordo, Sally.” L’ennesimo sorriso piacevole. “Prego, entra pure, non stare così sulla porta.” Molly le fece strada nell’ingresso. “Posso offrirti qualcosa? Un tè magari? Mrs. Hudson è uscita per la partita settimanale di whist e io e Wiggins stavamo giusto per prenderne una tazza, non è vero?”
L’uomo di fianco a lei, Wiggins  a quanto pare, annuì e mise le mani nelle tasche dei pantaloni, seguitando a guardarla da sotto in su come se fosse un raro animale esotico.
“Come se avessi accettato,” rispose Sally, mostrandole il plico. “Sono passata solo a lasciare questi al Fenomeno.”
“Sherlock è impegnato in un caso nell’Herefordshire.”
Sally inarcò le sopracciglia.
“Ma davvero.”
“A Boscombe
Valley. È un distretto non molto lontano da Ross-on-Wye."
“E ti ha lasciata qui da sola?”
Molly scosse la testa, rimproverandola con gentilezza. “Ci sono Mrs. Hudson e Wiggins. Stiamo sistemando il seminterrato e -”

Dio buono.
“Prendi il cappotto.”
“Come?” Sembrava sinceramente stupita.
“Ho detto di prendere il cappotto, Molly. Oggi sei sotto la mia supervisione.”

 

*

 

Aveva quasi dovuto colpire il factotum del Fenomeno perché, quando Molly era salita a prendere il soprabito, Wiggins aveva avuto la faccia tosta di muoverle mille rimostranze. “Mr. Holmes non sarà contento,” aveva concluso con una faccia lunga e cupa.
Sally aveva quasi sorriso perché se l’intento era stato quello di convincerla a non portare Molly a fare un giro, lui si era appena giocato la partita.
Per una manciata di secondi, una parte di lei aveva accarezzato il pensiero di scusarsi e inventare un pretesto plausibile. Un’emergenza in Trafalgar
Square. Un efferato omicidio. Burocrazia in arretrato. Ma poi Molly Hooper si era precipitata giù per le scale, di corsa, come una bambina la mattina di Natale. Non si era neanche cambiata, indossava gli stessi jeans sporchi di vernice e lo stesso largo maglione. Non ci voleva la perspicacia di Sherlock Holmes per dedurre che si fosse sbrigata il più velocemente possibile per timore che lei cambiasse idea. Si sentì un mostro per aver pensato di rimangiarsi l’invito.
Come riusciva a sopravvivere, il Fenomeno?
La prospettiva di avere qualcosa in comune con Sherlock era repellente.
Molly aveva un sorriso così grande che sembrava riuscire a stare per miracolo nello spazio ristretto di quel suo viso minuto. “Andiamo?” chiese e le si affiancò, speranzosa.
Sally annuì, oltrepassò Wiggins, salutandolo con la mano. “La riporto in un paio d’ore.”

 

*

 

“Da quanto non uscivi?”
“Ventidue giorni.” Molly si aggiustò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non che li abbia contati,” si affrettò ad aggiungere con una punta di colpevolezza.
“Io lo avrei fatto.” Sally bevve un sorso del suo Hazelnut Macchiato. “Specie stando in quella casa. Allora? Com’è vivere a stretto contatto con uno psicopatico?”
“Più o meno come avere a che fare con persone sgarbate.”
“Touché.”
Molly giocherellò con la cannuccia del suo Frappuccino alla fragola. “Abitare a Baker Street è magnifico, sul serio. È come avevo sempre immaginato che fosse.”
Sally non le chiese cosa, di preciso, l’avesse spinta ad immaginarsi una vita a Baker Street. La favola della patologa del Barts disperatamente innamorata di Sherlock Holmes le era tristemente nota. “Ma?”
Molly si strinse nelle spalle. “Sono abituata alla solitudine. Ho perso la mia famiglia quando avevo ventidue anni e le mie relazioni sono tutte naufragate prima di diventare qualcosa di serio. Tranne l’ultima che –” S’interruppe e si massaggiò le tempie. “Devo sembrarti patetica per lamentarmi così quando ci conosciamo appena. Mi dispiace, non so perché te ne stia parlando.”
Sally la osservò. Era tutto tranne che lamentosa o patetica. Sapeva di avere un carattere poco incline alla pazienza, ma questo le permetteva di accordare il giusto valore a persone come Molly Hooper quando aveva l’opportunità di incontrarne. “Perché sono un’estranea,” rispose, “e sfogarti con qualcuno che ti è caro renderebbe tutto reale. Sembri il tipo che tende ad interiorizzare le situazioni. Scandalosamente indipendente,” concluse, usando un’espressione che era stata tra le preferite di sua nonna. Incrociò lo sguardo sorpreso e avvilito di Molly.
“È così evidente?”
“Mio padre era uno psicologo e così mia sorella. Qualcuno direbbe che ce l’ho nel sangue.”
Si scambiarono un sorriso.
Molly ricominciò a guardarsi intorno. Sembrava che bevesse il caos suburbano, che se ne ricaricasse.
“Da quanto manca?”
“Cinque giorni.” Molly irrigidì appena le spalle. “Aveva detto che sarebbe tornato in tre al massimo.”
Nello stesso momento, il cellulare di Sally vibrò per l’arrivo di un messaggio. Quando lo aprì, imprecò tra sé. Si parla del diavolo. “Dobbiamo andare,” annunciò, seccata. “A quanto pare qualcuno ha avvertito la preside. Dice che la pausa merenda è finita e che ci rivuole subito in classe.”
Molly scoppiò a ridere.

Maledettamente fortunato
.   

 

*

 

John supponeva di poter essere irritante, alle volte, se messo sotto pressione. In altre circostanze il pensiero lo avrebbe fatto sentire in colpa; in quelle presenti, invece, gli trasmetteva uno strano senso di rallegramento. “Quando pensi di chiamare Molly?”
Sherlock continuò ad esaminare il volto della vittima con la sua lente d’ingrandimento. “Perché dovrei?”
“Per avvisarla. Questo genere di cose si usa, sai, tra - in una, uhm…”
Sherlock si raddrizzò, riponendo la lente nel taschino e rivolgendogli un’occhiata tediata. “Di’ chiaramente quello che vuoi dire oppure fai un favore alle mie orecchie e taci, John. Nel caso ti fosse passato inosservato, il che sarebbe inconcepibile anche per i tuoi standard, sto cercando di analizzare una scena del crimine.”

 

John gliel’aveva data vinta, scegliendo di procrastinare il discorso.
Fino a quel momento.
“Non posso credere che Wiggins l’abbia lasciata andare.” Sherlock procedeva a grandi passi irritati sulla stradina che fiancheggiava la sponda del laghetto di Boscombe.
John dovette affrettarsi per stargli dietro. “Perché mai Wiggins non avrebbe dovuto? Sherlock!”
Lui lo osservò da sopra la spalla, senza diminuire la velocità della sua andatura. “John.”
“L’hai di nuovo messo a sorvegliare Molly?”
“Wiggins non ha mai smesso, per chi mi prendi?”
Avrebbe dovuto stupirsi? John, scosse la testa. “Ecco perché,” disse sovrappensiero.
“Smettila di mugugnare ed esprimiti come un essere senziente dotato di proprietà di linguaggio.”
“Ho detto: ecco perché.”
Sherlock si fermò all’improvviso per fronteggiarlo apertamente. “D’accordo, John, giochiamo a questo stupido gioco. Ecco perché, cosa, esattamente?”
“Wiggins è un uomo.”
“Oh, non saprei,” replicò Sherlock ironico. “Potrebbe anche essere un ermafrodito. Non ho avuto modo di controllare personalmente. Non sono solito fermarmi alle apparenze sociali e non tendo ad appoggiare le antiche credenze secondo cui il cervello di un uomo è più reattivo o capace di quello di una donna. Scientificamente è stato provato il contrario.”
“Wiggins è un uomo,” riprovò John, con tono più fermo. “E Molly è una donna.”
“Fino a prova contraria, sì. Ebbene, John, hai terminato questa fiera delle banalità? È stato uno spettacolo abbastanza imbarazzante senza che si proceda oltre.”
“E a te sta bene? Lasciarli soli?”
“Mi sta perfettamente bene, perché non dovrebbe?”
“Ti prego,” supplicò John. “Non costringermi a farti il discorso delle api e del fiore.”
Sherlock sbuffò e ripartì in quarta. “Non essere ridicolo.”
“Cosa ci sarebbe di strano?” John gli fu subito alle calcagna. “Non credi anche tu che Molly sia molto carina?”
“Carina!” Sherlock storse il naso, come se trovasse la parola ripugnante. “Molly Hooper non è carina. Ed ecco svelato il mistero delle tue relazioni fallimentari. Se questo è il massimo a cui riesci ad aspirare nel patetico tentativo di rivolgerle un complimento, non c’è da sorprendersi che tu sia stato così prolifico in materia di delusioni sentimentali.”
“Sherlock, Molly sta attraversando un periodo delicato della sua vita, è emotivamente instabile e ha bisogno di tutto il supporto che le occorre.” Questa osservazione, fatta con tutta la pacatezza a cui si era costretto a far ricorso, sembrò sortire qualche effetto, scavarsi a forza un varco nella corazza di negligente imperturbabilità di lui. John lo vide adombrarsi, assumere un’espressione contrita e amareggiata.
“Un chilo e mezzo.”
“Come?”
“Un chilo e mezzo,” ripeté Sherlock, torvamente. “Quando frequentava Moriarty, Molly aveva messo su un chilo e mezzo. Da quando abita a Baker Street, ha perso trecento grammi.”
“Non starai seriamente scegliendo come termine di paragone uno psicopatico che le ha mentito, fingendo di essere una persona che non esisteva e che, tra le altre cose, è lo stesso uomo che ti ha costretto a inscenare il tuo suicidio e che le ha piazzato una bomba nell’appartamento?”
“Questo non ti dice niente?”
“Mi dice che sei un fottuto idiota!”
 

   

 

*

 

“Sei tornato!”
John strabuzzò gli occhi allo spettacolo di Molly che gettava le braccia al collo di Sherlock e fu più che felice di averlo preceduto nell’appartamento, altrimenti non avrebbe potuto osservare la faccia assolutamente annichilita di lui a quell’atto così entusiasta ed espansivo. Una vera tortura essere abbracciati da una donna graziosa, vero amico?
Molly non parve dare eccessiva importanza all’irrigidimento di Sherlock. Sciolse l’abbraccio con naturalezza e con naturalezza gli sorrise. “Volete una tazza di tè? Sarete stanchi morti.”
John andò ad accomodarsi sulla sua poltrona, divertendosi a quantificare il tempo che sarebbe occorso a Sherlock per sciogliersi dallo stato incantato che lo aveva colto. A giudicare dalla sua espressione accuratamente vuota, ancora molto.
Sherlock si riscosse quando sentì che Molly stava tornando. Prima che lei ricomparisse, si era già installato sulla sua poltrona nera come un re sul suo trono di spade.
“John, gradisci dei biscotti, vicino al tè?” domandò Molly, posando il vassoio sul tavolino da caffè.
“Ti ringrazio, Molly, ma non posso trattenermi a lungo.”
“Mary è perfettamente in grado di provvedere a se stessa,” s’interpose Sherlock, rivolgendogli uno sguardo d’intesa, come se volesse mandargli un messaggio preciso. 
Ma si dava il caso che John non fosse un telepate e che Sherlock non fosse quel che si definiva una facile lettura, perciò diede ascolto al diavoletto sulla sua spalla. “Vuoi qualcosa, Sherlock?”
“Certo che no. Cosa mai potrei volere da te?” Dopo pochi secondi, Sherlock ammiccò.
“Hai qualcosa nell’occhio?” domandò John con affettata innocenza, nascondendo un ghigno dietro la tazza. Okay, forse stava esagerando, ma lui si prestava troppo comodamente alle sue distrazioni.
Con il sorriso di chi è ignaro di determinate dinamiche, Molly gli diede manforte. “Scommetto che non vedi l’ora di riabbracciare Mary e Katie.”
A Sherlock andò di traverso il tè che stava bevendo. Quando Molly si voltò verso di lui preoccupata, si schiarì la gola. Tenne il piattino con due dita e mosse l’altra mano come se fosse un fronzolo di dubbia utilità. “Riabbracciare, sì,” disse in tono neutro. “Dovrebbe proprio andare, vero?”
Molly non sembrava del tutto convinta.
John non poteva darle torto, non avendo lui stesso la minima idea di quello che stava succedendo. Per come si comportava e per quelle sue reazioni eccentriche, cioè più eccentriche del normale, sembrava quasi che Sherlock stesse facendo di tutto per trattenerlo. John si sfiorò la mandibola, mentre un sorriso di puro divertimento si collocava sul proprio viso. Guardò affascinato il sipario aprirsi sul dramma di Sherlock Holmes, alle prese con i problemi di un cuore che sentiva.
“John?” lo richiamò Molly.
John si accorse di essere rimasto a fissare Sherlock troppo a lungo e di aver perso un pezzo della conversazione.
Molly scrutava entrambi, accigliata.

 

*

 

“John si comportava piuttosto stranamente, non trovi?”
“Non ho notato sostanziali cambiamenti,” rispose Sherlock, addentando un biscotto.
Molly fu tentata di alzare gli occhi al cielo. Sorrise con dolcezza.
Sherlock fece una smorfia d’incomprensione. “Perché stai sorridendo?” domandò, suscettibile.
Molly abbassò gli occhi sulle proprie mani intrecciate, li rialzò dopo un istante. “Mi sei mancato.”
Lui reagì con il silenzio. L’unico rumore era lo scoppiettio dei ciocchi di legno quando si spezzavano.
“È stato un caso interessante?”
Dopo un’incalcolabile quantità di tempo, Sherlock incrociò il suo sguardo. “
Boscombe Valley è un distretto non distante da Ross, nell'Herefordshire,” iniziò a raccontare. “Il più grande proprietario terriero della zona è un certo John Turner, che ha fatto fortuna in Australia ed è ritornato in patria qualche anno fa*.”

 

 

 

 

“Cosa intendeva Molly?” aveva chiesto John. “Buona caccia alle ombre, ha detto. È una specie di codice?”
Erano alla stazione di Paddington, in procinto di salire sul treno che li avrebbe portati nell’Inghilterra occidentale. John aveva pensato che nel frastuono dei treni Sherlock non lo avesse sentito.
“Cos’è un’ombra, John?”
“In senso metaforico?” John aveva corrugato la fronte. “L’ombra è la figura proiettata da un corpo su una superficie, giusto?”
“Può anche essere intesa come il corpo stesso quando se ne vede solo il contorno indistinto.” Sherlock fece una smorfia. “Sempre detto che i giochi di parole non fanno per lei. Non è la sua area di competenza.”
John avrebbe voluto fargli notare che lui fosse ugualmente riuscito a darne la corretta interpretazione. Si tenne quella considerazione per sé.

  

 


N/A:

Gli articoli della Legge Scout sono dieci:

  1. La Guida considera suo onore il meritare fiducia
  2. La Guida è leale
  3. La Guida è sempre pronta a servire il prossimo
  4. La Guida è amica di tutti e sorella di ogni altra guida
  5. La Guida è cortese
  6. La Guida vede l'opera di Dio nella natura, ama le piante e gli animali
  7. La Guida obbedisce prontamente e non fa mai le cose a metà
  8. La Guida sorride e canta nelle difficoltà
  9. La Guida è laboriosa ed economa e ha cura delle proprietà altrui
  10. La Guida è pura di pensieri, parole, azioni

Ora ditemi se non sembrano scritti su misura per Molly :D
*Tratto da "Il mistero di Boscombe Valley" di A. C. Doyle
Estote Parati:
è la traduzione latina del motto degli scout e delle guide ("... siate pronti, in spirito e corpo, per compiere il vostro dovere").
Il caso che Sherlock e John sono andati a risolvere viene raccontato ne “Il mistero di Boscombe Valley” di Arthur Conan Doyle.
Un capitolo molto dialogico, per ripagarvi tutte della santa pazienza dimostrata nei precedenti in cui praticamente non succedeva molto. Ora si agisce, si passa ai fatti, finalmente ;)
Un bacione!

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Capitolo 7
*** VII ***


7

L’archetipo della giornata ideale di Molly iniziava alle otto del mattino, non prima.
La sveglia suonava e lei, sbadigliando, indossava la vestaglia, prendeva Toby sottobraccio e ciabattava al piano inferiore, sicura di godersi un’ora di assoluta quiete prima che Sherlock mettesse naso fuori dalla sua camera da letto. Sempre che lì avesse trascorso la notte.
Alle volte lo trovava semplicemente sprofondato in poltrona, immobile statua vivente; altre ancora era steso sul divano, una delle sue vestaglie – di solito l’azzurra – a fargli da coperta di Linus contro l’ingiusta e deprecabile noia che il mondo gli buttava addosso.
In ambedue i casi, Molly preparava il caffè, dava da mangiare a Toby e sgombrava il tavolo che fungeva anche da scrivania, nel salotto. Lo apparecchiava e si perdeva a riflettere in sciocche frivolezze, a leggere il giornale – ce n’erano sempre in abbondanza e per tutti i gusti: dal modaiolo Vogue all’imprenditoriale Independent, dal classico Times al liberale Guardian, dal sensazionalista Sun al formato lenzuolo del Daily Telegraph. C’era di che sbizzarrirsi.
Tutti i giornali venivano in seguito setacciati scrupolosamente da Sherlock. Frasi per lei insignificanti venivano cerchiate a matita; pagine strappate finivano ammassate in castelli fatiscenti e costruzioni pericolanti, per poi sparire chissà dove, al sicuro dalle grinfie di Mrs. Hudson che li riteneva un ammassamento di carta straccia.
Solitamente Sherlock faceva la sua trionfale comparsa alla seconda tazza di caffè che Molly si concedeva. Avvolto nella vestaglia bordeaux se di orientamento nostalgico o per fare colpo; in quella cammello se la propensione era impegnata; nella sopracitata azzurra nei momenti di particolare abbattimento; vestito di tutto punto se in attesa di una visita formale o con un’uscita in programma.
Ormai bastava un’occhiata per intuirne l’umore e l’inclinazione del giorno. E organizzarsi di conseguenza. 
Nei giorni dispari Molly dedicava il resto della mattinata alla stesura di un articolo a cui stava lavorando. Si era decisa a rimettere mano a vecchi appunti di pubblicazioni mai andate a buon fine perché lasciate in sospeso; a pianificare il progetto di ricerca che aveva rinviato per anni e che era determinata a presentare a Mike Stamford nel suo rientro dal periodo di forzata malattia e chissà, magari cercare di ottenere un finanziamento.
Nei giorni pari si dedicava alle pulizie e ai lavori di ri-arredamento del 221C. Lei e Wiggins avevano staccato la vecchia moquette. Stavano aspettando che lo stucco si asciugasse, prima di ridipingere i punti di parete vuota e mettere la nuova. (“Ma chi pagherà, cara?” aveva chiesto Mrs. Hudson, osservando ansiosamente le loro manovre.
Molly l’aveva rassicurata con un sorriso. “Queste saranno le spese d’affitto che non mi viene permesso di condividere.”)
Le sere erano a discrezione sua e di Sherlock e non erano mai pianificate con largo anticipo; andavano a loro discernimento e secondo l’estro e la tendenza del momento.
Le domeniche richiedevano un discorso a parte.
Le domeniche, la sveglia di Molly era impostata alle dieci e lei si permetteva di impigrirsi un’altra mezz’ora prima di alzarsi e scendere dabbasso.
La domenica, Mrs. Hudson pranzava con loro e solitamente dopo pranzo li raggiungevano John, Mary e Katie.
Molly abitava a Baker Street da meno di un mese, ma aveva imparato ad essere preparata all’inaspettato e in virtù di questo, precisi contesti non riuscivano più ad esercitare su di lei l’impatto che avevano avuto all’inizio.
La presenza di Mycroft Holmes, ad esempio.
Entrando nel salotto, lo trovò di fronte alla finestra, in uno dei punti prediletti da Sherlock. L’ombrello era poggiato di traverso sulla poltrona di Sherlock – un gesto appositamente provocatorio, nessun dubbio in merito. Teneva una mano in tasca e con l’altra manteneva il giornale piegato in due parti, il Sunday Telegraph, intanto che ne scorreva speditamente i titoli.
C’era una scommessa in corso, tra lei e Wiggins. Una disputa sul fatto che Mycroft avesse o meno un orologio da taschino.
“Le ho appena fatto vincere 10 sterline, Dottor Hooper. Mi aspetto un’equivalente dimostrazione di gratitudine da parte sua.”
Molly mise giù Toby che scattò verso la cucina. “Buongiorno, Mr. Holmes.”
Mycroft le concesse un brevissimo cenno del capo e un sorriso di pura cortesia. “Buongiorno a lei.”
Avrebbe voluto chiedergli qual buon vento lo avesse portato a Baker Street, ma era ovvio perfino a lei: Sherlock era il pensiero primario, sempre e comunque.
“Non si scomodi per il tè. Il mio è un cameo e sì, è con lei che desidero discutere.”

Non buono.
Mycroft curvò le labbra, dandole la percezione inverosimile, ma non improbabile, che avesse captato il nervoso defluire dei suoi pensieri.
Nessuno dei due accennò a sedersi. Rimasero in piedi, a distanziarli soltanto la scrivania con il pacco di  giornali che ogni mattina Mrs. Hudson ritirava per loro, al di sopra del quale c’era, visibile e lasciato a bella posta, un fascicolo con il suo nome.
Dal momento che doveva essere stato messo lì con l’apposito scopo che lei lo vedesse, Molly lo sfogliò. Dentro c’era la sua intera vita, correlata di vecchie foto e di altre molto più recenti; ultima, ma non per importanza, una che ritraeva lei e Sally mentre entravano in uno Starbucks.
Interpretò lo sguardo grave di Mycroft come un: ‘Effrazioni di questo genere non saranno più tollerate’.
Molly avrebbe voluto sapere perché lui prendesse tanto a cuore la sua sicurezza. Glielo chiese.  
Mycroft fece una smorfia, posò il giornale sul basso tavolino. Si muoveva con la magniloquenza dei grandi oratori. “Malgrado i nostri sforzi in merito, noi Holmes abbiamo un cuore. Se dovessi perdere Sherlock, il mio ne sarebbe spezzato, ma se dovesse capitare qualcosa a lei, sarebbe Sherlock a pagarne le conseguenze. Avete risvegliato un cuore pericoloso, lei e il Dottor Watson. Sherlock ha per sua stessa ammissione una natura impulsiva e ostinata.”
Molly sentiva il respiro dolorosamente incastrato nei polmoni. Le ricordò una delle reazioni allergiche di quando era piccola o quelle di cui ancora soffriva in primavera.
“Avresti dovuto svegliarmi, Molly,” interloquì Sherlock, comparendo alle sue spalle. Aveva per armatura la vestaglia da combattimento. Le sfiorò la schiena in una carezza gentile, calmante.
A Mycroft, com’era ovvio supporre, il gesto non sfuggì. “Di già così intimi, Sherlock?”
Sherlock non appariva in vena delle solite schermaglie.
“Ho un caso per te.”
“No,” replicò Sherlock, non accennando a rimuovere la mano dalla spalla di Molly.
“No?”
“Appartengo al Governo e il Governo ha le chiavi del mio destino.”
Mycroft sospirò con enfasi. “Sei sempre stato il più incline alla poesia e al dramma.”
“Scegli i miei casi, ma resta a me l’ultima parola. Inoltre sono appena tornato dall’Herefordshire. Non intendo lasciare Molly da sola.”
“Ma –” Molly trovava assurdo che rinunciasse a un caso per colpa sua.
Sherlock le strinse la spalla con maggiore forza. Non dire una parola. “Non insistere, fratello caro.”
“Siamo particolarmente sentimentali questa mattina.”
“Non fingere di esserne sorpreso. Non ti si addice.”
“Dottor Hooper, un ultimo suggerimento. Questi ingenti ordini che lei sta commissionando –”
Molly aveva messo in cantiere con largo anticipo che sarebbe successo qualcosa di simile. “Mi dispiace, ma non posso evitarli, no,” lo prevenne. Non poteva continuare a derubare Sherlock dei suoi capi d’abbigliamento.
Mycroft pareva del suo stesso avviso. “Capisco.”

 

*

 

Durante la colazione, Molly provò a respingere la sciocca sensazione che Sherlock fosse in qualche modo diverso nei suoi riguardi; in una maniera sottile, ma tangibile, di cui le era impossibile non prendere atto. Quando, di preciso, era diventato così tattile?
Quando le passò il burro, anticipando la sua richiesta, mancò poco che lo facesse cadere.
“Tutto bene, Molly?” Sherlock inarcò un sopracciglio, dietro la tazza di caffellatte.
“Sì. No. No,” si decise a rispondere, alla fine. “Non va bene.”
Sherlock mise giù il giornale. “Qual è il punto?”
“Il punto è che poco fa hai mentito a Mycroft. Perché vuoi rimanere a Londra?”
“Trovi illogico che la tua compagnia mi sia diventata indispensabile?” Sherlock esibì un sorriso lusinghiero.
“Sherlock.” Molly sospirò.
“Ho una pista.” Aveva smesso l’espressione fasulla per una composta; gli occhi azzurri brillavano di esultanza. “Una collana di diamanti scomparsa. Si tratta di un patrimonio nazionale trafugato da ignoti.”
Molly corrugò le sopracciglia. “Non ho letto niente in proposito, sul giornale. Com’è possibile che tu sia informato?”
“Andiamo, Molly, puoi far meglio di così,” la spronò Sherlock.
“La tua rete di senzatetto o Wiggins,” tentò lei.
“Gli Irregolari di Baker Street. Buona trovata, ma no, questa volta la soluzione è molto più semplice.” Si allungò per prendere il laptop dal mobile contro il muro; lo aprì e lo voltò verso di lei. “Leggi, Molly e dimmi cosa ne pensi.”
Molly fece come le aveva chiesto. Si trattava di un e-mail inviata da un certo Mr Holder che gli esponeva la spiacevole faccenda e gli chiedeva di accettare il caso.
“Puoi immaginare la mia reazione,” disse Sherlock e si riprese il laptop.
Molly poteva davvero. Si imburrò un toast e ci passò sopra della marmellata ai mirtilli. Sherlock si protese in avanti per prenderne un morso.
Molly che era ormai abituata al fatto che lui le sottraesse il cibo da sotto il naso, gli porse quel che rimaneva e si apprestò a prepararne un altro per sé. “La gente continua a spedirti e-mail. Sai cosa vuol dire?”
“Che riconoscono, anche se non comprendono, la qualità del servizio che svolgo.”
Molly sorrise, scuotendo la testa. “Forse vogliono dimostrarti che anche con il ritorno di Moriarty continuano a credere in te.”
Il profilo di Sherlock scomparve dietro l’ennesimo giornale-paravento, ma Molly era sicura di aver colto un sorriso di autocompiacimento.
“Hai impegni per la giornata?” s’informò.
“Oltre ad evitare che Mycroft scopra il mio bluff e rischi di rovinare tutto, ficcandoci il naso? Direi di no. Tu?”
Molly sorrise. “Un tè tra ragazze.”
Sherlock schioccò la lingua. “Che ridicolo spreco di tempo e di spazio. Non sarà uno di quegli sciocchi tea party?”
“Non sarai ancora arrabbiato perché hanno bocciato la tua proposta di cena con delitto?”
Sherlock sbuffò. “Be’, Molly, buon ‘qualunque cosa sia’ ciò a cui dedicherete il vostro pomeriggio. Il mio sarà di certo ben speso.”

 

*

 

Molly era sicura che sarebbe stato divertente, ma non fino a quel punto. John era al piano di sopra a ‘tener compagnia a Sherlock’, in attesa dell’arrivo del cliente che non avrebbero dovuto avere.
Quando il campanello suonò, qualcuno scese ad aprire al visitatore e tre minuti dopo comparve proprio John che passò Katie a Mary con un sospiro. “Lestrade è arrivato. Ora non-interrogheremo un sospettato che dovrebbe essere in stato di fermo alla Centrale di polizia.”
“Giusto cielo,” aveva detto Mrs. Hudson, nello stesso momento in cui Meena esclamava: “Non capisco proprio di cosa ti lamenti, Molly. Ad avercela io una vita così interessante!”
Così era cominciato il più bizzarro appuntamento per il tè di tutta la storia.

 

Si trovavano nell’appartamento di Mrs. Hudson, che si era detta più che lieta di aprire le porte di casa ad un convivio di ragazze.
Il suo era un salottino d’aspetto confortevole, con poltrone fiorate, un comodo divano e un tavolino abbastanza grande da contenere il servizio per il tè e un paio di alzatine per biscotti. La carta da parati era dello stesso tipo ricercato presente nel resto del palazzetto, solo a tinte delicate e tenui, con motivi naturalistici. L’aspetto più sconcertante era l’enorme televisore PDP che occupava la parete opposta. 
“Un tè tra ragazze. Non è emozionante?”
Molly e Mary sorrisero, dietro il bordo delle loro tazze. Meena, invece, sottopose Mrs. Hudson a un attento esame scrutinatore. “Lei mi ricorda mia nonna,” stabilì e inzuppò un pasticcino nel tè.
“Oh, mia cara,” fece Mrs. Hudson con tatto. “È morta da molto?”
“Non che io sappia,” fu l’allegra, scandalosa risposta. “L’ultima volta che l’ho vista, su Skype, era impegnata in un safari in Africa. Mia madre dice che è tutta colpa sua se sono come sono, che nel ramo femminile della mia famiglia c’è una vena di follia che salta una generazione. Sarà come dice lei, forse. Io preferisco chiamarlo col suo nome: anticonformismo.”
Ad un certo punto, parlando del più e del meno, l’attenzione generale si era spostata da Katie e da quanto orgogliosi dovessero sentirsi i suoi genitori, all’enorme borsone che Meena aveva piazzato contro il muro di fianco al divano, non appena era arrivata.
Meena sembrò disorientata, come se per un attimo non ricordasse cosa conteneva, quindi annuì. “È per te, Molly. Dentro c’è tutto quello che occorre ad una ragazza per vivere.”
Mrs. Hudson lo squadrò con sospetto e una specie di timore reverenziale. “Non conterrà una testa?”
“Avrei voluto infilarcela, ma lo spazio non bastava e sarebbe stato antigienico, perciò…” Meena scrollò le spalle.

 

Guardarono ‘Cantando sotto la pioggia’, spettegolarono e alla fine Molly era così felice che fu un dispiacere vederle andar via.
“Potremmo farlo diventare un incontro settimanale,” propose Mary.
Mrs. Hudson e Meena si dissero d’accordo, ma Molly era indecisa.
“Cosa c’è, Molly cara? Ti preoccupa cosa potrebbe dire Sherlock?” chiese Mrs. Hudson.
Molly scosse la testa. Mycroft era stato chiaro e lei non intendeva creare un precedente in qualcosa di così innocente come quella, anche se a cadenza periodica. “E Katie? Non è stancante per te?”
“Destreggiarmi tra tre bambini non è un problema,” sorrise Mary.


Molly si era lasciata convincere.

 

*

 

“Com’è andato il tuo pomeriggio?” domandò Molly, finendo di masticare il suo boccone di Pad Thai.
Seduto sul divano, Sherlock non batté ciglio. “Proficuo.”
“Anche il mio è stato soddisfacente, grazie per avermelo chiesto.”
Sherlock roteò gli occhi e borbottò un ‘Sul serio, Molly’. Dopo un minuto le puntò le bacchette con cui stava giocherellando, indicando vagamente il suo petto. “La tua amica ha un pessimo senso dell’umorismo.”
Molly guardò la maglietta che indossava con un filo di imbarazzo: due mani – una delle quali con un vistoso anello di diamanti – con i pollici alzati che indicavano la scritta ai lati ‘THIS GIRL LOVE HER FIANCÈ’. “Devo concordare.”
“Uno dei punti di comunanza?”
Molly era stata tentata di lanciargli contro un cuscino, ma poi Sherlock aveva riso, riso davvero, così il resto era passato in secondo piano.
Più tardi, poco prima di andare a dormire, Sherlock le si era avvicinato per l’ennesima consuetudine tra loro. Perché erano un bacio sulla guancia, l’augurio di una ‘Buonanotte’ a concludere la giornata tipo di Molly Hooper a Baker Street.

 


 

N/A:

Una giornata tipo di Molly era d’obbligo e ora l’ho scritta, così che anche voi – oltre alla mia testolina bacata tutta da commiserare – sappiate cosa combina Molly e come cerca di occupare il suo tempo :D
Un abbraccio!
                                                                           

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Capitolo 8
*** VIII ***


8

Al pari di Sherlock, anche Molly sapeva osservare il mondo, intravedere le persone nascoste dentro le persone.
Sherlock era un uomo eccentrico, decisamente irritante, fastidioso e talvolta scortese. Poteva essere una spina nel fianco quando voleva. Come quella notte.
Rientrò dall’escursione serale con un’aura di insofferenza così preponderante che lei pensò che mancasse solo una nuvoletta nera per completare il quadro d’insieme.
Non si arrischiò a domandargli come fosse andata, anche perché lui provvide subito a renderla partecipe con un verso collerico. “Un buco nell’acqua!”
Sherlock buttò all’aria l’impermeabile del suo travestimento, mentre staccava con rabbia le applicazioni in lattice dal viso; dopodiché scomparve in bagno.
“Bel naso,” commentò Molly, trattenendo una risata e chiudendo il libro che stava leggendo.
Dalla porta chiusa, Sherlock urlò: “Ti ho sentito, Molly Hooper!”
Molly scosse la testa e sorrise, mentre si chinava a raccogliere dal pavimento l’impermeabile che lui aveva utilizzato per camuffarsi.

 

*

 

Quando Sherlock si ripresentò, la rabbia era ancora evidente nei tratti del volto e sfociava in un preannunciato stato di cattivo umore (Controindicato. Tenere fuori dalla portata dei bambini e di persone facilmente suggestionabili). Si buttò in orizzontale sul divano e incrociò le braccia sul petto, in tutto simile a una mummia. “Vuoi sapere com’è andata, Molly?”
Molly annuì, sedendosi nella
poltroncina più vicina. Non aspettava altro, in effetti.
Sherlock mise un braccio di traverso sugli occhi e fece una smorfia di contrarietà. “L’uomo che mi ha contattato, Mr. Holder, è un banchiere. Una settimana fa ha ricevuto in custodia la nostra collana di diamanti. Temendo furti nella cassaforte dell’ufficio, ha pensato bene di portarla a casa per sorvegliarla di persona. In realtà progettava di rivenderla al mercato nero e di addossare la colpa al suo segretario. Durante la notte ha scoperto il figlio, Arthur, che a suo dire frequenta un giro poco raccomandabile, mentre maneggiava la collana; da bravo e onesto cittadino qual è, lo ha denunciato alla polizia e lo ha fatto arrestare, ma non c’era traccia di tre gemme. Non credevo alla colpevolezza del ragazzo e Lestrade era della mia stessa opinione. Che fine avevano fatto le gemme scomparse? Se davvero le aveva prese lui,  perché non fuggire? Così Gustav -”
“Greg,” lo corresse Molly.
“Come?” Sherlock aggrottò le sopracciglia e scostò il braccio quel tanto che bastava per indirizzarle un’occhiata.
Molly lo invitò a procedere col suo racconto e lui non se lo fece ripetere una seconda volta.
“Lestrade mi ha accompagnato ad esaminare le tracce fuori dalla casa. Dopo aver interrogato il ragazzo, ho avuto quello che mi serviva. I miei sospetti si sono rivolti su un suo amico, mi sono finto un trafficante di gioielli e ho riacquistato per 3 mila sterline i gioielli trafugati. Per entrare in casa, aveva sedotto la cugina di Arthur, Mary, che Holder ha adottato come una figlia sei anni fa, dopo che i genitori e il fratello minore di lei sono morti in un incidente stradale. L’amico del ragazzo ha convinto Mary a sottrarre la collana e a consegnargliela. Arthur, che se n’era accorto, ha tentato di fermarlo, riconoscendolo, ma l’amico è fuggito, strappando tre gemme. Per non mettere nei guai la cugina Mary, complice del furto, della quale lui sembra affascinato e succube, lo sciocco ragazzo ha preferito finire in galera piuttosto che raccontare la verità. E questo è tutto, Molly. Uno dei casi più ridicoli che io abbia mai avuto l’obbligo di risolvere. Se venissi retribuito a cottimo, avrei rifiutato il pagamento.”
“Oh, non saprei,” rispose Molly con un sorriso. “A me sembra un bella storia, tutto sommato.”
“Anticipo il tuo punto di vista.” Sherlock sollevò le mani e le distanziò tra loro, come se volesse contenere lo spazio nel mezzo. “Da un lato abbiamo Mr. Holder, un padre che si è comportato in modo ignobile nei confronti del figlio; dall’altro Arthur, un figlio che si è redento dall’aver intralciato deliberatamente un’indagine per il proposito encomiabile di aver cercato di proteggere la cugina giovane e avventata.”
“Quanti anni ha?”
“La ragazza? Sedici e tutta la ristrettezza egotistica della sua età.”
Molly premette le labbra tra loro, considerando nella penombra della stanza l’ipocrisia inconscia di Sherlock.
“C’è da chiedersi se il buon senso le verrà in soccorso negli anni a venire, ma non nutro speranze. È nell’adolescenza che si plagia un carattere e l’anima di Miss Mary Holder sembra votata alla superficialità.”
“Non conosco la ragazza, quindi non posso esprimere giudizi, ma temo che esageri.”
Sherlock schioccò la lingua, ma non ribatté.  
Molly approfittò della pausa per andare in cucina e prendere il piatto che gli aveva tenuto in caldo.
Sherlock si tirò a sedere, mentre la smorfia si riaffacciava, questa volta di ostilità. “Pollo e asparagi?” indovinò dal profumo. Storse il naso come un bambino e si rimise in posizione fetale, con la schiena girata verso di lei.  “Sai che non mangio durante i casi.”
“Ne hai appena risolto uno, per quanto insoddisfacente possa essere stato.” Molly poggiò il piatto sul tavolo, implacabile. “Di sicuro non ne avrai uno prima di domani. Dopo aver finito, c’è una fetta della crostata al rabarbaro di Mrs. Hudson.”
“Rabarbaro! Questo è un complotto.”
Molly non commentò perché difatti lo era.

 

*

 

Ci furono altri casi per Sherlock e ci furono molti riti della ‘Buonanotte’ e di buona fortuna, prima di ogni viaggio, diventando così comuni tra loro da farne sembrare strana l’inosservanza o la dimenticanza. (Dopo la prima volta, era stato lo stesso Sherlock ad aspettarne inquieto il seguito. “Molly,” aveva detto in tono di richiamo, prima di partire per Birmingham, una settimana più tardi dal suo rientro e dopo il caso del diadema scomparso.
Molly lo aveva guardato, in un’ingiustificabile obnubilamento della perspicacia di cui lui le concedeva il favore da anni.
Con un sospiro di condiscendenza Sherlock aveva indicato la propria guancia. “Non ho tutta la giornata.”
Lei gli aveva sorriso, di uno dei suoi sorrisi irragionevoli. Non aveva avuto bisogno di alzarsi sulle punte, perché lui si era piegato per facilitarle il compito. “Buona caccia alle ombre, Sherlock.”)
Non c’era sempre un abbraccio ad aspettarlo al ritorno, se non metaforicamente parlando. C’era l’abbraccio della scena familiare della nicchia di contorno al fuoco, il rosso-arancio che incendiava la pelle di Molly, le sue guance e il collo, la curva della gola e della nuca quando legava i capelli in trecce appuntate attorno a una crocchia sulla sommità del capo.
La simmetria delle linee nella figura e nel volto proporzionati di Molly Hooper erano visibili, lo erano sempre stati, tanto quanto l’ovvia e dimostrata noncuranza con cui lei li occultava per comoda praticità.
Le aveva prestato delle camicie e dei pantaloni di una tuta ridicolmente larghi, un paio di jeans che non ricordava di aver indossato dal caso della tong del ‘Loto Nero’.
Si era spesso, molto più frequentemente di quanto fosse naturale ritenere, scoperto a cercarla, durante un racconto o l’esposizione di una deduzione, per verificare il tipo di sentimento che le attraversava lo sguardo; ad anticiparne le richieste nei pasti in comune; si era abituato alla straordinaria persona ordinaria che Molly era e a quanto poco ordinaria lei fosse, a conti fatti.  

 

*

 

Si era trattato di un imprevisto, fatalità eclatante e imprudente in cui la sua distrazione si era accompagnata alla colpevole limitazione di tempistica nella reazione occhio-mano di Molly.  
Per farla breve, c’era stato un bacio. Era stata una scena abbastanza grottesca, in tutta franchezza, perfino per lui che si era fatto fregio di aver reagito con prontezza di spirito. Si era tirato indietro elasticamente, si era schiarito la voce, aveva salutato Molly – pietrificata e senza parole sulla soglia del 221B – ed era partito con John per la Cornovaglia.

 

*

 

Trovata una pista. S.H.

 
Finiti i lavori nel 221C. Molly

 
A Toby manca la musica del tuo violino. Molly

 
Secondo cassetto della scrivania. Ascolta. S.H.

 
Ci mi manchi. Molly

 
*

 

Al suo rientro, gli aveva aperto la porta Wiggins.
Informandosi in generale degli avvenimenti che avevano tenuto occupati gli inquilini di Baker Street in sua assenza, Sherlock aveva chiesto casualmente di Molly.
Wiggins aveva sorriso in modo spiacevole da guardare, fin troppo amichevolmente. “Doc, è dabbasso. Da una settimana aiuta un paio di ragazzini a studiare.”
Lui non sarebbe stato più sorpreso se gli avesse detto che Mycroft aveva attuato un Colpo di Stato.

 

*

 

Non la vedeva da due settimane e mezzo.
Non si aspettava un’accoglienza fredda, ma neppure calorosa. In effetti, aveva cercato di immaginare come Molly avrebbe reagito alla questione in sospeso del bacio.
Era stato ovvio ipotizzare un dialogo, uno di quelli a cuore aperto di cui John andava decantando i meriti o di quelli dei talk show che Mrs. Hudson seguiva assiduamente.
Mrs. Hudson che ora lo fissava ad occhi sgranati, dalla porta che portava al 221C, mantenendo un vassoio con l’occorrente per il tè per quattro persone. “Non ti aspettavamo per oggi.”
“Questo è evidente. Lei è giù?”
“Mio caro, prima che vada, è bene che tu sappia che –”
“Molly ha approfittato della mia assenza per inaugurare un asilo nido nel seminterrato? Wiggins mi ha già messo al corrente.”
Mrs. Hudson rivolse a Wiggins un’occhiata di accusa.
“Prima che linci Wiggins per aver spifferato tutto, è bene che si ricordi che è il mio galoppino. E ora, se permettete, vado a ricordare al mio coinquilino le regole di casa.”
 

*

 

Appariva felice. Di più: soddisfatta, appagata. Lo accolse con un’esclamazione di sorpresa. “Sherlock!” Quindi gli sorrise. Come se non fossero passate che poche ore, pochi minuti da quando era partito; come se non fosse successo nulla di rilevante tra loro, non fosse cambiato nulla.
Sherlock contrasse la mandibola. “Molly.”
Qualcuno si schiarì la gola, alle spalle di Molly. Lei si voltò e dedicò un sorriso di scuse al gruppetto di ragazzi seduti attorno al tavolo. Nuovo. Montato di recente. 
“Ragazzi, questo è Sherlock Holmes.” Molly fece le debite presentazioni. “Sherlock, questi sono: Harper,” indicò una ragazza di tredici anni al massimo, dai ricci capelli rossi, che mangiucchiava nervosamente la matita, (genitori divorziati, evidenti problemi di peso, seguita da uno psicoterapeuta), “Anna,” bionda, treccine su un lato e punte rosa all’estremità, piume e nastri tra i capelli, quindici anni, ( brava nelle materie scientifiche, passione per la fotografia, fumatrice accanita) “e Timothy – Tim,” si corresse lei ad un’occhiata avvilita del bambino, dieci anni, mingherlino, (amante dei cani e collezionista di insetti).
Sherlock aveva guardato ad uno ad uno quei ragazzini, in un silenzio attonito, quindi Molly aveva fatto la più sbalorditiva delle cose. Si era giustificata con la palese bugia di un libro dimenticato al piano superiore e gli aveva chiesto di guardarli intanto che lei andava a prenderlo.
Sherlock avrebbe potuto rifiutarsi. Lei non gliene aveva dato modo.
Era stato così che, dopo quasi tre settimane di assenza da casa, Sherlock Holmes si era ritrovato a far da balia a un gruppo di ragazzini e un gatto, nel seminterrato rinnovato, con gli sguardi di tre estranei puntati addosso.

 

*

 

“È vero che sei stato via per lavoro?”
Sherlock si irrigidì al tono confidenziale che la ragazzina, Anna, aveva usato.
Non poteva essere come l’altra, che sedeva impettita sulla sedia e faceva di tutto per evitare il suo sguardo o come il ragazzino, che aveva approfittato della fuga di Molly per prendere la Nintendo?
Sherlock sospirò, sfregandosi il naso. “Stavo seguendo un caso.”
“Un caso?” prese la parola Timothy - Tim. Non alzò gli occhi dal videogioco. “Sei un avvocato? Solicitor o Barrister? Mio zio è giudice e mi ha spiegato la differenza. Anche tu indossi una di quelle parrucche quando sei in tribunale?”
Tralasciando il fatto opinabile che il bambino fosse o meno istruito sulla differenza tra le due cariche, di sicuro lo zio non aveva ritenuto opportuno metterlo a corrente del fatto che le parrucche di crine di cavallo venissero indossate solo durante le sentenze d’appello e nei processi penali né che fossero sulla strada dell’abolizione. L’idea di essere scambiato per un legale era rivoltante. “Dio me ne scampi.”
I ragazzini risero, come se avesse detto qualcosa di particolarmente divertente.
“Sei buffo,” ebbe l’ardire di dire la pulce, Tim.
“Non è buffo,” intervenne a sorpresa Harper. Arrossì. “È famoso ed è un detective.”
“Consulente investigativo,” la corresse. Harper arrossì ancora di più, ricominciò a masticare la matita.
“Quello che è,” disse Anna, dandogli un calcio – un calcio! – sotto al tavolo. “Molly è fantastica,” aggiunse senza il minimo nesso logico, due secondi più tardi. “Davvero. Da grande voglio essere come lei.”
Harper annuì con convinzione.
“Io la sposerò.”
Sherlock e le due ragazzine si voltarono simultaneamente verso Tim.
Anna sbuffò. “Non puoi, stupido. Sei troppo piccolo per farlo.”
“Intendevo quando sarò grande,” replicò Tim con fare ovvio.
“Quando tu sarai cresciuto, Molly sarà comunque troppo grande per te e nel frattempo dovrebbe aspettarti, il che la renderebbe sola,” spiegò Harper, conciliante.
Tim aggrottò le sopracciglia. “Non ci avevo pensato.”
“Stavo proprio pensando…” annunciò Anna, sfiorando una delle piume. “Io ho un fratello. Potrei presentarglielo. È una specie di chirurgo.”
Sherlock sbuffò di cuore. “Un odontoiatra non è un chirurgo e a meno che la sua specializzazione non sia l’Odontologia forense non vedo come –”
Molly rientrò in quel momento. “Allora, Sherlock vi è stato d’aiuto?”
Anna fece saettare gli occhi da lui a Molly e viceversa, con uno strano brillio enigmatico. “Oh, sì,” sorrise, sottintendendo molto altro, “senza alcun dubbio.”

 

*

 

Molly si comportava stranamente. Nulla di nuovo, ponderandoci sopra.
Bene, Molly si comportava più stranamente del solito. Era facile capire che qualcosa non andasse, non solo per il modo preoccupato in cui Mrs. Hudson le si rivolgeva, come se fosse un oggetto di cristallo poco maneggevole che andava trattato con la massima cura; o di Wiggins che le lanciava occhiate guardinghe quando lei non poteva vederlo, perché di spalle.
Inviò un messaggio a John che lo richiamò, dopo aver chiesto delucidazioni in merito a Mary. “La situazione è questa. Sembra che mentre eri via sia caduto l’anniversario della morte del padre di Molly. È il decimo e lei non è nemmeno potuta andare al cimitero. Pare che si tratti di una vecchia tradizione. Mi dispiace, ma questa volta c’è poco che tu possa fare.”
Poco saggiamente, Sherlock gli aveva creduto. 

 

*

 

Non era solo quello. Non si trattava del lutto per suo padre.
Molly rifiutava di stare nella stessa stanza con lui, se non avevano la compagnia di un terzo. Le colazioni erano diventate silenziose; le cene erano scene di un film muto. Gli rivolgeva a malapena la parola e soltanto quando lui la interpellava direttamente.
Non sapeva cosa pensare di quel comportamento così singolare se non che Molly, per qualche motivo bizzarro, covasse del risentimento nei suoi confronti. Non così bizzarro, amico.

Sherlock si mise di lena a carpire la soluzione della malinconia di Molly Hooper. Ne studiò i comportamenti, scomponendoli uno ad uno come fattori di un’equazione. Alla fine riuscì ad ottenere l’incognita che cercava, eliminando secondo logica tutte le altre incognite tra le equazioni del sistema.
Molly Hooper era arrabbiata, di un tipo di arrabbiatura che la rendeva triste e sconfortata, ma fredda seppur gentile nei suoi confronti (nei riguardi degli altri conservava la stessa vena amabile). Ne conseguiva che la rabbia di Molly derivasse e trovasse origine in qualcosa che lui aveva fatto  o che non aveva fatto.
Non riguardava la sua prolungata assenza dal momento che – su stessa insistenza di Molly al momento della partenza - non aveva mancato di inviarle un messaggio ogni due giorni. L’unica soluzione rimaneva perciò la questione in sospeso: il bacio.
Sherlock ne aveva avuto abbastanza dello sciopero del silenzio di Molly. Una settimana era stata più che sufficiente per capire che rivoleva indietro quella che era diventata la loro quotidianità. Gli mancavano le loro serate attorno al fuoco, gli esperimenti a notte inoltrata, lo scambio di giornali e aneddoti la mattina. Era deciso a riaverli indietro, a riavere indietro tutto.  
Scelse di agire una sera, approfittando del fatto che lei si fosse trattenuta nel salotto, quando nell’ultima settimana era diventata una circostanza più unica che rara.
Seduta sul divano, Molly stava leggendo un romanzo - Jane Eyre, era scritto in caratteri dorati sul frontespizio usurato e malconcio. Indossava quell’odiosa maglietta che le aveva portato la sua amica e aveva i capelli sciolti.
Sherlock occupò il posto accanto al suo. Molly non si mosse. Sherlock si inclinò e, per amor di concisione, la baciò.

 

*

 

Molly non poteva crederci. Si sfiorò le labbra, sconvolta. “Mi hai appena baciata?”
Sherlock fletté un angolo di bocca in un sorriso che sembrava incitare alla violenza.  “Ora non potrai evitare l’argomento.”

Di cosa parlava?  “Hai la minima idea di cosa significhi?”
“Tu ce l’hai?”
“Certo che no! Sei tu che mi hai baciato!”
“E come definiresti quello di tre settimane fa? Che fingi che non sia mai successo?”
“Cercavo di essere gentile! Credevo che l’idea ti mettesse a disagio e non volevo metterti sotto pressione!”
“La gente si bacia continuamente, Molly. Perfino Mrs. Hudson ha una vita sessuale –”
“Ti prego, no.” Molly si coprì le palpebre. Non poteva star succedendo davvero. “Non voglio saperlo. Sai benissimo quello che volevo dire. Hai la minima idea di cosa significhi per me? Sherlock, non puoi –”
Sherlock si sporse di nuovo con il chiaro intento di baciarla e Molly, stupida, sei una dannata stupida Molly Hooper, non si spostò e glielo lasciò fare. Questa volta, però, la sorpresa era smorzata e lei reagì con maggiore prontezza. Si  irrigidì e si ritrasse, scostandolo con la mano per farlo allontanare. “L’hai rifatto. Non posso crederci. L’hai rifatto!”
“Sì, l’ho fatto, ti ho baciata,” disse Sherlock. “Sì, l’ho rifatto, ti ho baciato una seconda volta. Intendo rifarlo a breve una terza. Spero che dopo sarai tu a tenere il conto.”
Non aveva neanche finito di parlare, che la riprese tra le braccia e la baciò.
Non che fosse spiacevole, pensava Molly, il cuore in tumulto e il respiro che premeva dolorosamente contro la tassa toracica. Tutt’altro. Maledizione. C’era qualcosa che non fosse capace di fare alla perfezione? Ma appunto perché era lui, Molly non poteva lasciarsi andare. Non poteva, anche se avrebbe voluto e -
“Molly, per quanto poco ortodosso da parte mia, devo pregarti di smettere di pensare. Intralcia l’atmosfera.”
“Intralcia l’atmosfera,” ripeté Molly in un’eco divertita e turbata. “Chi sei tu e cosa ne hai fatto di Sherlock Holmes?” Prima che potesse fare qualcosa di imperdonabilmente stupido come afferrarlo per i risvolti della giacca e baciarlo fino alla fine dei suoi giorni, scattò in piedi e si spostò verso la cucina. Sherlock la seguì.
Molly si appoggiò al piano da lavoro, si stropicciò il viso tra le mani. Dio, niente aveva senso. Il mondo si era capovolto senza che lei se ne accorgesse se non a fatto compiuto. “Ti rendi conto che non posso prendere questa cosa alla leggera, vero? Non ho più vent’anni, Sherlock.”
“Direi proprio di no,” replicò lui con un sorriso esageratamente divertito.  
Molly sospirò, incassò le spalle, ma tenne il mento alto, fissandolo con un sentimento che sperò non essere troppo evidente. Paura della verità. “Perché adesso, Sherlock? Perché io?” Doveva saperlo e doveva sentirlo da lui, doveva essere lui a dirlo.
Sherlock allungò una mano per sfiorarle la fronte, la guancia. Non sorrideva, ma aveva uno sguardo – vulnerabile, avrebbe detto, esposto - che lei aveva imparato a riconoscere. “Perché non adesso, Molly, e perché non dovresti essere tu? Se c’è una persona di cui mi fidi e la cui vicinanza mi sia gradita, qualcuno della cui opinione mi importi abbastanza da ascoltarla, quella sei tu.”
“E John.”
Sherlock roteò gli occhi. “Sfatiamo il mito una volta per tutte. Io e John non siamo né siamo mai stati una coppia.”
“Mrs. Hudson la pensa diversamente.”
“Per l’amor del cielo!”
“Mary è favorevole al vostro
Ménage à trois?”
“Molly.”
“La bigamia non è illegale?”
“Molly.”
Molly chiuse e riaprì le mani. Le aveva serrate con forza attorno al bordo del tavolo per tenerle impegnate, per ricordarsi che era reale. “Cosa stai cercando di dirmi?” Piegò le labbra all’ingiù. Sentiva di essere sul punto di piangere. “Che provi qualcosa? Domani potresti non provarlo più. Potrebbe trattarsi di una disposizione del momento.” La sola prospettiva le spezzava il cuore.  
“Il fatto che tu la combatti da anni senza mostrare segni di ripresa o cedimento, dovrebbe essere un incentivo a credermi,” osservò Sherlock, seriamente.
Il messaggio e tutte le sue implicazioni arrivarono a destinazione con qualche secondo di ritardo. Molly schiuse la bocca. Oh. “Oh.”
“Molly.” Sherlock le prese il viso. Aveva mani così grandi che sembrava coprissero ogni centimetro di pelle. “Non cambierà niente tra noi.”
“Come puoi dir questo? Cambierà tutto invece!”
“Me la darai vinta su ogni cosa?”
Molly aggrottò la fronte. “No.”
“Non cercherai di convincermi ad adottare una vita più regolata?” proseguì Sherlock.
“Sì, ma…  oh, maledizione! Non voglio che tra qualche mese tu ti renda conto che è stato un abbaglio passeggero o un gigantesco errore.” Molly chiuse gli occhi, sentendo di non poter reggere oltre il suo sguardo. Dovrei rinunciare a te e non voglio. Non posso.
Sherlock tacque. Alla fine sospirò, un sospiro che sembrava troppo profondo perfino per lui; le prese una ciocca di capelli, passandosela tra le dita come se fosse un nastro. “Ho altri trent’anni, trentacinque al massimo davanti a me, poi sarò costretto a ritirarmi. Ho provato cos’è la solitudine, Molly.”

Ma non sarai solo. Sarebbe stata una sciocchezza dirlo. Sarebbe stato solo, invece, come lo sarebbe stata lei. Era questo quindi? Il timore di ritrovarsi da solo?
“Ho visto il tipo di legame che unisce John e Mary,” continuò Sherlock. “Ho sempre creduto che qualcosa di simile non fosse nelle mie corde. Eppure ho assistito a cose più improbabili. Tu stessa hai reso possibile qualcosa che per chiunque altro sarebbe stato impossibile. Molly,” c’era dolore, amarezza e tormento nella voce di Sherlock, una richiesta sincera nel suo sguardo. “Molly,” ripeté e le strinse il viso con delicatezza, baciandole la fronte e il naso e le ciglia umide. “Trovi più sconcertante l’idea che io abbia un cuore oppure che lo abbia lasciato sul tetto del Barts o che –”
“Stupido.” Molly singhiozzò,  credendoci finalmente, permettendosi di sperare che fosse vero. “Stupido.” Certo che aveva un cuore. Solo che non aveva mai creduto che ci fosse spazio per lei, al suo interno.
“Molly.”
Molly lo baciò, sorrise contro le sue labbra. Ora sentiva le mille cose che lui stava pensando, osservava lo sforzo a cui si era costretto, il dispiacere che lei gli aveva provocato non credendogli. “Lo so.”
Sherlock la abbracciò, affondando il naso tra i suoi capelli, inspirando. “Ovvio.”

 


 

N/A:

Questo non è il punto di arrivo, ma solo quello di partenza. Ora inizia un’altra sfida, una diversa.
Scrivere la scena finale è stato difficilissimo. La confusione di Molly, l’irremovibilità di Sherlock che una volta tanto cerca di farle capire fisicamente cosa prova (e intanto deve rimanere incredibilmente ferito dal rifiuto di Molly, dal fatto che lei non gli creda, non possa credergli e non osi sperare che forse, forse sia reale, stia davvero capitando a lei), perché non ha parole da offrirle né discorsi. Ha soltanto quello che sente e che lo sconvolge, nella sua enormità. Poi, non saprei, spero che sia davvero plausibile come situazione. Non ho voluto abbellirla troppo. Molly è talmente confusa che quasi bisognerebbe sedarla, ma ‘povero agnellino’, è da capire. Dall’oggi al domani l’amore della sua vita si sveglia e BAM! si accorge di ricambiarla. In effetti è un po’ più complicato di questo e quando sarà più lucida, Molly porrà le debite domande. Certo che il fatto che Sherlock, per costringere Molly a parlargli di nuovo, la baci è esplicativo. Che uomo d’azione :D

P.s.: sono di nuovo rimasta indietro nel rispondere tanto alle recensioni quanto ai messaggi privati. Desolata, spero di recuperare entro domenica. Mi ripeterò fino allo sfinimento, ma siete lettici troppo buone e preziose :) Un abbraccio enorme!  

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Capitolo 9
*** IX ***


9

Molly si svegliò e fu come se non lo avesse fatto. Si rigirò nel letto, cercando di dare un significato alla babilonia che aveva in testa e di spegnere quello stupido, enorme sorriso che sembrava essersi cucito alla bocca.  
Si voltò e affondò la testa sotto il piumone, ridendo e sentendosi perfettamente sciocca, ma anche incredibilmente a proprio agio nella sua felicità. Era successo davvero? Stava ancora sognando?
Si sfiorò le labbra, ricordando la consistenza dei baci della notte prima, il calore degli abbracci che li avevano accompagnati.

Sono la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con tanta ragione.
Molly spense la sveglia nello stesso momento in cui squillò e scattò in piedi, in piena fibrillazione. Infilò la vestaglia alla rovescia e dovette tornare indietro perché aveva scordato le pantofole.
E poi di nuovo per aver dimenticato - “Toby”, lo chiamò colpevole e lui miagolò il suo disappunto. “Mi dispiace. Non so dove ho la testa, stamattina.”
Era una bugia. Sapeva fin troppo bene dove l’aveva lasciata; più o meno dov’era sempre stata negli ultimi dieci anni: nella tasca di un investigatore a caso, insieme al suo cuore.

 

*

 

Il salotto era in fermento. Be’, forse era una gonfiatura, ma rimaneva il fatto che ci fosse fin troppa vita per quella data ora della giornata.
Sherlock impartiva ordini a Mrs. Hudson, usando l’archetto del violino per dirigere l’orchestra dei suoi spostamenti.
Fu il primo ad accorgersi di lei. 
Molly mise giù Toby, biascicò un timido ‘giorno, fissando lo sguardo ovunque tranne che su di lui.
Avevano allestito la tavola, ma non c’erano bricchi e tazze. C’erano innumerevoli fiori, invece, un’infinità di fiori, fiori a perdita d’occhio e ogni fiore occupava un piccolo recipiente o un bicchiere o una caraffa. La penuria di vasi aveva prodotto la drastica scelta di utilizzare anche gli strumenti da laboratorio di Sherlock.
Molly intravide un crisantemo rosso in un cilindro graduato. Un ramo di biancospino – i corimbi bianco-rosati - in un densimetro. Una ginestra in un matraccio. Un trifoglio bianco, una viola blu, una rosa muscosa, un’orchidea, un bucaneve, una campanula.
Batté le palpebre, sbalordita. Stava per chiedere cosa significasse quell'asserragliamento di colori e profumi, quando Mrs. Hudson le volò incontro. “Benedetta, ragazza! Cara, cara ragazza,” le baciò le guance. “Sherlock mi ha raccontato ogni cosa. Sono così felice per voi! Così felice che credo potrei scoppiare dalla gioia.”
Molly si limitò a farsi strizzare il mento e accarezzare le mani e vezzeggiare da lei, con occhi vacui e distanti.
“Mrs. Hudson,” disse Sherlock.
Il blaterante cicaleccio cessò. “Vorrete stare soli, certo. Permettimi di dirti un’ultima volta quanto felice -”
“Mrs. Hudson.”
“Mi aspetto davvero che tu plachi questi tuoi modi rudi, caro. Molly dovrebbe essere un deterrente sufficiente.”  Con un sospiro tremulo e commosso, Mrs. Hudson uscì.
Sherlock non attese oltre. Posò l’archetto sul mobile di fianco alla finestra, le si avvicinò e la baciò, a lungo e pressantemente.
Quella stupida, assolutista e prepotente felicità si riaffacciò insieme a quell’ancor più stupido sorriso qualunque.
Questa volta lei non era impreparata. Artigliò la camicia di Sherlock tra le dita, mentre gli sfiorava la fronte e i capelli – ed erano come aveva sempre pensato che dovessero essere: soffici al tatto e sfuggenti, linee e curve d’ombra. Dio, se era piacevole. Era vero; ed era suo.
Lo baciò più a fondo, urtò il naso contro il suo, ma non importava, non aveva davvero la minima importanza.
Sherlock le poggiò le mani sui fianchi e Molly sentì la scarica di piacere raggiungere picchi irresistibili. Si staccò a malincuore, con il fiato corto e le guance che le scottavano. Si passò la lingua sulle labbra e vide che gli occhi di Sherlock – le pupille dilatate, i capelli arruffati per la foga con cui lei ci aveva infilato la mano attraverso – seguivano il gesto.
“Dopamina,” lo sentì dire, la voce appena meno disciplinata del solito.
Molly annuì. La dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. Il suo doveva essere alle stelle.
Fece per baciarla di nuovo, ma Molly lo frenò e il nuovo bacio fu un discreto sfiorarsi di labbra. “Sherlock, aspetta. Tutto questo è molto piacevole, ma...”
Sherlock sorrise furbamente. Aveva un sorriso inedito, da ragazzo.
Molly ne fu abbagliata e stregata. “Ma dobbiamo parlare,” concluse. “Ieri sera non ne abbiamo avuto modo.”
E Molly non avrebbe voluto perché Dio, aveva trent’anni e non era alla sua prima cotta, ma non poté farci niente, arrossì. La sera prima, ricordava, erano stati troppo impegnati a pomiciare per scambiarsi più di qualche parola.
Sherlock annuì, con l’aria di trovare quanto aveva detto del tutto ragionevole. “Chiedi e avrai risposta.”
Un minuto più tardi erano entrambi sul divano, l’uno di fianco all’altra.
Lui era seduto compostamente, nella trasposizione della postura perfetta: quel punto di mezzo tra la legnosità e la flessibilità. Lei era curva in avanti, le braccia sulle ginocchia e le mani sovrapposte. Le guardava come se non sapesse cosa farci, come occuparle.
“Io –” Molly deglutì. “Hai detto di provare qualcosa. Per me.” Detto ad alta voce ed espresso da lei non era utopia. Era peggio, molto peggio: trascendeva ogni logica umana. “Quando ha avuto inizio?”
“Tre anni fa.”
“Tre anni fa,” ripeté a pappagallo, sperando che ripeterlo trovasse un senso a quello che aveva sentito, glielo rendesse più comprensibile. Scosse la testa con forza. “Mi dispiace, non credo di aver capito.”
“Hai capito benissimo, Molly.” Sherlock espirò, guardandola intensamente. “Quando sono tornato ero intenzionato a parlartene, ma tu eri fidanzata.” C’era qualcosa in fondo ai suoi occhi, una specie di lampo che era molto facile associare al dispetto.
“Non provare a dare la colpa a me, Sherlock Holmes! Non osare. Avresti potuto parlarmene, avresti dovuto.”
“Per dirti cosa?” Sherlock fece una smorfia. “Eri andata avanti. Inoltre sembravi felice. Pugnale di carne ti rendeva felice.”

Eri tu, avrebbe voluto dire Molly. Ero felice che tu fossi tornato. “I conti non tornano lo stesso. Io e Tom ci siamo lasciati mesi fa. Perché non hai parlato allora?”
“Lo ammetto, il mio è stato un errore di calcolo. D’altronde avevo altre questioni per le mani. Dovevo diroccare la fortezza di un estorsore internazionale e i Watson non mi erano di alcun aiuto, ostinandosi a comportarsi come bambini.”
Molly annuì. Ricordava il periodo: i mesi che avevano preceduto Natale. “Per via di Mary, vero?”
“Certo, per via di Mary.” Sherlock le rivolse un breve cenno prima di bloccarsi a metà del gesto e squadrala con una diffidenza mista ad una sorta di ammirazione. “Cosa sai di questa storia?”
“Solo intuizioni,” rispose Molly, improvvisamente a disagio. “E… sensazioni. Greg si è lasciato sfuggire quello che John gli aveva detto, che credeva che tu stessi proteggendo chi ti aveva sparato. E poi c’è stato l’allontanamento tra John e Mary e tu, la notte in cui sono venuta a trovarti.”
La fronte di Sherlock s’increspò in un lieve acciglio. “Quale?”
“Eri sotto anestesia.” Molly chiuse gli occhi mentre il ricordo, vivido e doloroso, le sbocciava in mente. Li riaprì quasi subito, disperdendo l’immagine in barbagli di presente. “Hai fatto il nome di Mary. Mi è sembrato abbastanza strano all’epoca, così ho iniziato ad osservare.”
L’orgoglio di Sherlock era evidente; si offuscò nell’ombra di un secondo pensiero. “Non sapevo che fossi passata,” disse e in tono di accusa: “Non sei mai venuta a trovarmi, dopo.”
“Tu non lo hai mai chiesto.”
“Mi ero comportato orribilmente.”
“Sì, sei stato atroce, ma d’altronde non eri in te.” Molly non poté trattenersi dal fare una smorfia.
Forse trapelò qualcosa, un’eco dell’amarezza e della delusione si rincorse nei suoi occhi, o forse lui li notò nel modo improvviso in cui aveva serrato la bocca. Fatto stava che con uno scatto agile, repentino Sherlock le fu di fronte; le afferrò le mani tra le sue, costringendola a guardarlo. La sua espressione, la luce di animazione nel suo sguardo, sul viso di qualunque altro uomo, sarebbero state dichiarazioni sufficienti. Nel caso di Sherlock non erano soltanto adeguate, ma tutto ciò di cui lei aveva bisogno.
“Cosa vuoi, Molly?” domandò Sherlock, il tono basso e accorato, imperioso.”Di cosa hai bisogno?”

Di te. “Non voglio giuramenti o promesse o quel genere di cose,” rispose Molly. Sherlock la invitò a proseguire con lo sguardo. “Non me ne aspetto. Vorrei solo che tu ti preoccupassi… che tu rivolgessi lo stesso riguardo che usi ai tuoi amici anche a te.”
Sherlock esitò. Capiva perfettamente la portata di quel che lei gli stava chiedendo. “Posso… provarci.”
“E io posso aiutarti, posso accertarmi che tu ci riesca. So essere uno straordinario deterrente a quanto dicono.” Gli sorrise e gli pose le mani ai lati del volto, accostando il proprio. “I sentimenti non sono la tua area di competenza. Lo so, non importa. Finché posso vederli, non è importante che tu dica niente.”
“Potrei non dirtelo mai,” affermò lui. Molly lo sapeva.
“Ma hai ragione,” proseguì Sherlock. “Posso mostrartelo.” Si alzò e aprì le braccia per indicare la stanza nella sua interezza. “Osserva il mio regalo per te, Molly.”
Molly scoppiò a ridere per il modo solenne in cui lui li aveva riportati alla sua attenzione. “Fiori?”
Sherlock arcuò le sopracciglia, scoccandole un sorriso vago e allusivo. “Non fiori, Molly,” la corresse affettuosamente. “Parole di un linguaggio a fruizione di pochi privilegiati.”
Presentandola come una regina al suo corteo, lui le sussurrò all’orecchio il significato di ogni pianta e tralcio nelle ampolle.
Agrimonia. Gratitudine.
Un fiore di sambuco. Vera compassione.
Girasole. Devozione.
Margherita. Pazienza.
Ogni fiore era un tuffo al cuore.
Come avrebbe potuto non credergli? Come avrebbe potuto resistere alla perfezione di quella felicità che l’assaliva, la colmava?
Semplice, non poteva.

 

*

 

Sherlock, cos’è questa storia di te e Molly? Mrs. Hudson va raccontando che – ma no, è impossibile. Lascia stare.
John, 10:01

 
Lo è giusto? Impossibile, intendo. Mrs. Hudson dice – ma non importa. Per anni ha detto che noi eravamo una coppia. Non dovrei più sorprendermi di niente, giusto?
John, 10:06

 
Okay, so che è da pazzi, ma devo saperlo. Tu e Molly…?
John, 10:09

 
Sherlock, se è uno dei tuoi stupidi scherzi o uno dei tuoi stramaledetti esperimenti, giuro su Dio che ti farò passare un brutto quarto d’ora.
John, 10:13

 
Ripensandoci, no. Ho deciso che ti farò guardare il video del parto di Mary.
John, 10:18

 
Okay, no. Mary minaccia di sparare a entrambi se solo mi azzardo.
John, 10:19

 
Sul serio? Tu e Molly? Molly Hooper?
John, 10:25

 
Se la fai soffrire, Sherlock, migliore amico o no, Katie si ritroverà orfana del suo padrino. Mary è d’accordo con me.
John, 10:30

 
Sto iniziando a preoccuparmi. Non è da te non rispondere. No, aspetta. È esattamente da te, razza di idiota. Mettiamola così. Se non rispondi entro dieci minuti, aspettati me e metà Scotland Yard a Baker Street. E Mycroft.
John, 12:01

 
John, taci. Ho le mani impegnate.
Sherlock, 12:01

 
Oh. Oh. Cristo, quanto ti odio quando fai così.
John, 12:02

 

*

 

Com’è vivere con Sherlock? Com’è amarlo, Molly? – le aveva chiesto Meena.
Era come respirare, avrebbe voluto risponderle. Tornare a respirare dopo che per anni aveva avuto il petto stretto in una morsa, come in uno di quei busti di gesso o un bustino vittoriano o un corsetto ortopedico. Non si aveva piena libertà di movimento, ci si sentiva costretti in qualcosa che non ci apparteneva, non ci era proprio. E quando finalmente lo si toglieva, quando quel peso che aveva costretto il petto scompariva, si facevano ampi e profondi respiri. Si era liberi. Ci si sentiva di nuovo se stessi, tutti d’un pezzo.
Cercare di non amare Sherlock, cercare di andare avanti, - Dio, che sciocca era stata – di circoscrivere i suoi sentimenti e ingabbiare l’amore, rimuoverlo, era stato come uccidere una parte di sé, un gesto contro natura.
Amarlo era come tornare a casa. Una frase fatta, ma era così. Amarlo era percorrere la strada di casa. Si rendeva conto di non essersi mai allontanata troppo. Era rimasta sul giardino del cortile per tutto il tempo, aspettando che qualcuno, dall’interno, aprisse la porta per lei. Finalmente era successo.
 

*

 

Tutto era stato deciso in quel momento. O forse molto prima: una notte lontana, in cui lei aveva abbassato le difese e gli aveva mostrato i suoi dubbi. Non conto.
C’erano state scene imbarazzanti. (“Dio, no.” Sally aveva scosso la testa. “Dimmi che non ci vai a letto. Non il Fenomeno.”
Con candore, Molly aveva detto che il soprannome era più che meritato.
Sally era parsa disgustata. “Sai che adesso non potrò più chiamarlo così, vero?”
Molly aveva riso. “Lo spero.”)
Scene commoventi. (“Te lo affido, Molly.” Un John visibilmente turbato le aveva passato il testimone.)
Scene irreali. (“Mi auguro che il tuo non sia il semplice bisogno di un uomo immaturo che soffre di carenza d’attenzione.” Meena era comicamente seria.)
Scene ridicole. (“Gesù! Anderson aveva ragione? Anche su questo? Dovresti parlarci, sul serio. A questo punto un sacco di sue teorie sui complotti mi paiono meno idiote se aveva indovinato questo.” Greg l’aveva presa meglio del previsto.)
E poi Mycroft, che non era classificabile in alcuna graduatoria. Nel suo caso, ovviamente, era bastata un’occhiata all’apparenza superficiale e di pura sopportazione. “Mamma sarà deliziata, Sherlock.”
 

*

 

Tutto era cambiato, ma non loro.
 


 


N/A:

Capitolo lampo, scritto stanotte o stamattina – erano le tre, non la tiro per le lunghe, è per questo che è leggermente allucinato. Vado di corsa, quindi vi lascio solo con un grande, ciclopico abbraccio e incrocio le dita nella speranza che vi si piaciuto.
Il prossimo capitolo si ritorna in azione. Finalmente mostrerò tale Victoria Queen e il folgorato Henry Knight (che troverà Molly molto attraente, con conseguente gelosia di Sherlock).
Sono la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con tanta ragione. (Elizabeth Bennet, Orgoglio e Pregiudizio) 

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Capitolo 10
*** X ***


10

Quando era successo, nessuno sapeva dirlo. Come fosse successo, nessuno lo sapeva con precisione. Stava di fatto che il 221B adesso ospitasse una coppia.
Dunque le cose stavano esattamente così e per quanto fuori dall’ordinario o inverosimili potessero apparire, Sherlock Holmes e Molly Hooper erano di fatto una coppia. Dove per coppia s’intendeva naturalmente qualunque cosa fosse il tipo di relazione a cui entrambi avevano trovato nuova e singolare accezione.
Nel salotto di Mrs. Hudson – assente per forze di causa maggiore - Molly ne illustrò in astratto le dinamiche alle tre donne che erano con lei.  
“Praticamente siete amici con benefici.” Meena scrollò la testa e le spalle in un sol gesto.
“Stai parlando del Fenomeno.” Sally, che puntualmente slittava i loro incontri perché ‘sono una stacanovista e fiera di esserlo’, sollevò il bicchiere in un brindisi di prammatica. “Mi dispiace per Molly, ma temo che sia invischiata fino al collo in una relazione potenzialmente seria.”
Meena inarcò il sopracciglio sinistro con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro e che non prometteva niente di buono. “’Fenomeno’? Sul serio?”

Per l’appunto.
Sally imprecò. Molly sapeva cosa le stesse sfrecciando nella testa: l’appunto di trovare un nomignolo meno fraintendibile per Sherlock. “Ho bisogno di qualcosa di forte per il mio tè. A chi devo chiedere?”
“Non a Molly,” sogghignò Mary, che stava allattando Katie.
Molly agghiacciò. Non c’era ragione di supporre che Sherlock avesse reso noto un momento di intimità e debolezza personale, né che Mary ci lucrasse sopra a sue spese, giusto?

Sbagliato. Mary spiattellò in breve l’intero spiacevole accaduto.
“Molly, la mia Molly, ci ha dato dentro senza di me? Cosa diciamo sempre del bere?” domandò Meena.
Accanto a lei, Molly strinse con maggiore forza il cuscino che teneva contro la pancia. Corrugò la fronte. “Che è il male, che crea dipendenza e che va a discapito della salute, delle relazioni e della posizione sociale?”
“Pensavo stessimo parlando dell’alcol, non del tuo nuovo ragazzo.”
Scroscio di risate, come pioggia sul vetro di una finestra.
Sherlock si mostrò in quel momento. Le risate cessarono all’istante e gli sguardi di tutte si rivolsero ad entrambi con aspettativa.
Sherlock pareva degnarsi appena della palese valutazione di cui erano soggetto. Il suo sguardo si fissò su di lei e su di lei soltanto. “Molly, ho bisogno di te.”
Mary nascose poco e male un sorriso dietro le nocche; Sally inarcò le sopracciglia; Meena roteò gli occhi. Sul serio? – pareva essere il pensiero unanime, espresso nelle sfumature più differenti.
“È urgente?” domandò Molly. “Non puoi aspettare?”
Sherlock fece una lieve smorfia. “Credo di aver inavvertitamente creato del Napalm.”

Cosa? “E vorresti che io…”
“Che tu mi aiutassi a disfarmene.”
“È una specie di nome in codice?” s’informò Mary. “Un’emulsione altamente infiammabile, usata nelle mine incendiarie e come combustibile per i lanciafiamme. Non andate per il sottile.”
“Dio, non voglio saperlo,” disse Sally, mantenendosi la fronte con le dita.
“Sesso,” chiarificò Meena a beneficio comune, come se fosse necessario.
Da Sally trapelò un suono inarticolato di disgusto. “Lo avevo detto che non volevo sapere. Già l’idea del Fen – di Holmes è abbastanza rivoltante, ma di Holmes nudo…” Rabbrividì. “Diventa raccapricciante.”

 
*

 
“Hai davvero creato del Napalm?” s’informò Molly, quando Sherlock ebbe richiuso con cura le porte scorrevoli della cucina del 221B dietro di loro.
“Mi hai creduto?” Per un attimo, quando si voltò, fu straordinariamente compiaciuto; in quello successivo era già annoiato. “Semmai volessi creare del Napalm – non dico che lo farei, solo che potrei se volessi – non succederebbe per caso. La casualità non mi appartiene e trovo alquanto mortificante l’idea che tu abbia seriamente creduto il contrario.”
“A mia discolpa posso dire che sei un bugiardo del tutto credibile. Allora poco fa, quello che hai detto…”
“È servito allo scopo.” Era come se Sherlock si aspettasse una sorta di gratifica. “Ti ho offerto una via di fuga.”
Molly incrociò le braccia sul petto, arricciando le labbra. “Cosa ti fa credere che me ne servisse una?”
“Il tuo messaggio.”
“Il mio…”
“Messaggio, sì. Quando mi hai scritto che oggi ci sarebbe stato uno dei vostri ridicoli tea party, ho subito previsto che, data la recente novità della nostra relazione, saresti stata bersaglio di allusioni maliziose e domande indiscrete. Tre contro uno. Le statistiche sono a tuo sfavore.”
Erano già così vicini che a Molly bastò alzare il braccio per sfiorargli la linea mediana del collo, seguire in punta di dita i muscoli – il platisma, lo sternocleidomastoideo – e sotto immaginare il canale membranoso della faringe, la sporgenza della cartilagine tiroidea che circondava la laringe, il cosiddetto pomo di Adamo. “Spero che tu scommetteresti lo stesso su di me.” Molly sentiva le pulsazioni del suo sangue, pompato nelle vene della gola a ritmo serrato; vedeva il guizzo di muscolo nella guancia di lui, il tremolio delle ciglia. La faceva sentire bellissima. Si alzò sulle punte e gli posò un bacio leggero come aria di bonaccia sulle labbra. “Ti ringrazio.”
Sherlock la trattenne, prolungando il momento. “Devi tornare giù?” La sua voce, significativamente contrariata, le lasciava poco da immaginare.    
Molly sorrise, mentre la mano di Sherlock si posava sulla sua guancia. “Si insospettiranno se non lo faccio.”
“Temo che non ci abbiano mai davvero creduto, Molly.”
“Quindi quando scenderò, penseranno che noi…”
Sherlock annuì. “È altamente probabile.”

Dannazione. “Suppongo che non esista la remota possibilità che tu crei davvero del Napalm.”
Molly avrebbe scommesso tutto l’oro del mondo su una solida convinzione: non avrebbe mai potuto abituarsi al suono della risata di Sherlock.

 
*

 
Molly non riusciva a dormire. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima. Assuefatta ai turni di notte e a bruciare il sonno sui libri di testo sin dai tempi dell’università, non era strano per lei trascorrere le ore di buio in bianco.
Fino a un paio di settimane prima sarebbe rimasta nella stanza sopra le scale, avrebbe messo uno dei dischi di suo padre (i Jethro Tull), cercando di non pensare troppo a quanto le mancasse il suo lavoro.
Molly scese al piano inferiore. Toby le era alle calcagna.
Fu così, praticamente per quella ‘casualità’ tanto bistrattata da Sherlock, che scoprì qualcosa di stupefacente.
Sherlock era chino sul laptop che teneva sulle gambe incrociate, picchiava i tasti con furiosa determinazione.
Non era questo l’elemento che causava il suo sbalordimento. No, quello era tutto concentrato sulla ragazza seduta sul tappeto e accerchiata da quattro portatili. Non poteva avere più di venticinque anni. Era vestita interamente di nero, ad esclusione della scritta fosforescente sulla maglietta ‘Rock-paper-scissors’ e della stampa a fiori dei Dr Martens, il che contribuiva a darle l’aspetto di un mingherlino agente segreto un po’ sopra le righe. Aveva i capelli scuri e un viso dalla fronte spaziosa e larga, insolitamente lungo, che metteva in risalto gli occhi magnetici e mercuriali.
Stava mangiando un lollipop e a giudicare dai bastoncini di plastica nel posacenere accanto a lei, era stato preceduto da innumerevoli altri. “Prima che lo domandi, no, non sono l’amante del suo uomo e no, non la odio per essere l’amante del mio.”
Molly batté le palpebre. “Come, prego?”
“Oh, andiamo!” La ragazza si passò il lollipop da una guancia all’altra, dedicandole a stento uno sguardo, senza smettere di scrivere. Aggrottò la fronte. “Lei non sa chi sia io.”
Era la verità. “Mi spiace, no.”
“Molly Hooper, Victoria Queen. Victoria Queen, Molly Hooper.” Sherlock le presentò.
Victoria fece una smorfia. “Sì, prima che lo dica, i miei genitori avevano un pessimo senso dell’umorismo all’epoca. Lo hanno ancora, in effetti.”
“Non è caratteristica che si perda nel tempo, mi dicono,” commentò Sherlock dal divano.
Sherlock Holmes. Non è messo tanto meglio di me, vero? E comunque quella era la sua idea di presentazione? Nessun dubbio che abbia impiegato dieci anni a farsi la ragazza e - oh, oh. Sono entrata. Il suo talismano funziona davvero.” Nel dirlo scoccò un’occhiata a Molly. “La Silk Road è mia.”

 
*

 
“Spiega,” chiese Molly a Sherlock. “Cosa state facendo, di preciso?”
Victoria si alzò con un movimento fluido, stiracchiandosi come un gatto. La guardò a lungo, fissamente, come per studiarla. “Cosa sa di protocolli di rete?”
“Molto poco.”
L’altra annuì, come se non si fosse aspettata una risposta diversa. Andò a sedersi sulla poltrona di John. “Per protocollo di rete si intendono le modalità di comunicazione che apparecchiature elettroniche collegate tra loro devono rispettare per l'espletamento di un certo servizio di rete. Queste apparecchiature possono essere host, computer clienti, smartphone, personal digital assistant, monitor, stampanti, sensori. I diversi protocolli sono organizzati con un sistema detto "a livelli": a ciascun livello viene usato uno specifico protocollo.”
“Quindi,” Molly cercò di fare il punto della situazione in quella baraonda di termini tecnici che erano come una lingua straniera per lei, “cercate di rintracciare qualcosa o qualcuno?”
“Mesi fa, sono state violate tutte le parabole inglesi affinché trasmettessero un’immagine su qualsiasi ricevitore. Chiunque sia stato, è entrato nel sistema di sicurezza delle emittenti. Per fare qualcosa di simile si può procedere in due modi.” Victoria tenne il conto sulle dita piene di anelli. “Uno è hackerare il sistema di sicurezza. In questo caso, per identificare il segnale di chi ha inserito l’immagine, serve una traccia, per piccola che sia. Ottenuta quella, si può risalire a un indirizzo ip o individuare l’area da cui è partito. Può trattarsi di un server straniero, intestato ad anonimi o a un prestanome. Se è un tipo abbastanza astuto, sa che può fare due come duecento passaggi di segnale. Il segnale può attraversare l’intero globo, schizzare e ripartire ovunque vi sia un server, da un continente all’altro, per rendere più difficile trovare la sorgente. Se poi è qualcuno che è anche maledettamente bravo, una settimana non basta per risalire a lui.” 
“Diceva che c’è un altro modo.”
“C’è il modo elegante.” Un sorriso inconsistente, sprezzante. “Non il mio. Basterebbe rubare l’ID di riconoscimento di una guardia del sistema di sicurezza, così da accedervi senza craccarlo. A quel punto bisogna comunque tracciare chi l’ha utilizzato. Potrebbe partire da un posto qualunque, anche da un Internet Cafè per intenderci. Londra è la metropoli più videosorvegliata del mondo.
Conta circa un milione di telecamere tra quelle piazzate dalla polizia, quelle degli enti locali, degli esercizi commerciali, delle catene di grande distribuzione e delle case private. Una ricerca incrociata su più settori, che spaziano dai video alle immagini alle celle dei cellulari, ci porterebbe al nostro hacker.”
“È così facile? Spiare il Grande Fratello?”
“Più di quanto si pensi, per gente come me. Non molto tempo fa la Apple ha sviluppato un’app interessante. Si chiama Surv e permette a chiunque di
realizzare una mappa con una descrizione dettagliata dei punti esatti in cui sono collocate le telecamere di sorveglianza esterna e delle loro caratteristiche, fino ad un raggio di 100 metri dal proprio smartphone. Io sono partita dall’idea di base e l’ho migliorata. Con il mio programma posso tranquillamente accedere alle riprese.”
Fu un fulmine a ciel sereno. “È così che mi hai trovata.” Molly si rivolse a Sherlock.
Lui sembrava stranamente sulle spine, come se temesse che lei dicesse o facesse qualcosa di – Un momento. “Se ti è possibile entrare così facilmente, puoi anche controllare quelle che si affacciano sulla mia strada? Le registrazioni del giorno - ”
“Molly.” Ed eccola la verità, orribile e tremenda, il segreto scottante che lui voleva tenerle nascosto. Sherlock sapeva chi aveva piazzato la bomba nel suo appartamento. Doveva averlo sempre saputo. Ecco perché era parso così tranquillo, ecco perché il suo umore tendenzialmente ballerino si era mantenuto così stabile in quei mesi. Lui sapeva e non le aveva detto niente.
“Da quanto?”
“Molly.”
“Rispondi alla domanda, Sherlock.”
Lui chiuse e riaprì le palpebre in un battito di ciglia. “Sin dall’inizio.”
“Tu sapevi e non mi hai detto niente.” Era ferita, si sentiva tradita. “Come hai potuto?”
“Dovevo.”
“Ma perché?”
“Tu eri morta, Molly. Sei morta per cinque ore e diciassette minuti quel giorno. Eri stata minacciata e la colpa era mia. Dovevo accertarmi che –”
Molly non lo stava più ascoltando. Andò dritta in camera di Sherlock e si chiuse la porta alle spalle.

 
*

 
Non voglio fare la guastafeste, ma non ti sembra tutto un po’ precipitoso? È strano. È come se -
“Molly.”
Come se volesse trattenerti.
Ovviamente Meena aveva ragione. Molly si passò con discrezione le dita sulle guance, disperdendo le impronte delle lacrime. “Va’ via.”
Lo sentì avvicinarsi. “Non ho intenzione di farlo.”
Quando le sfiorò le spalle – contratte e scosse dai tremiti – nella porzione tra le scapole, Molly si voltò a fronteggiarlo con amarezza. Si morse il labbro, frustrata. “Perché mentirmi? È questo che non capisco. Credevi che avrei dato di matto?”
“Cosa vuoi sentirti dire, Molly?” Sherlock fece una smorfia, ma il suo volto rimase serafico. Non aveva una natura violenta, ma impetuosa, veemente, facile ad infiammarsi quando trovava qualcosa per cui accalorarsi. Era strano, strano e terribile, vederlo così svuotato e calmo. Era come trovarsi nell’occhio del ciclone. “Che mi sono comportato in modo irragionevole? Che ho preteso che Mycroft ti mettesse sotto pressione, prospettandoti i peggiori scenari? Bugiardo. Manipolatore. Noncurante. È questo il tipo di uomo che sono. È quello che sono. Non un brav’uomo.”
“Cercavi di proteggermi.”
Sherlock la incenerì con occhi che la rabbia repressa – verso se stesso, non verso di lei - aveva reso ardenti e aspri. Si allontanò con falcate ampie e sferzanti. “Non cambiare le carte in tavola, Molly. Non a mio favore.”
“Non lo faccio. Sto solo cercando di capire fino a che punto questa storia ti abbia sconvolto. A quanto pare abbastanza da costringerti a chiudermi a Baker Street per due mesi.” Molly ribadì il concetto: “Due mesi, Sherlock. Ho dovuto rinunciare al mio lavoro.”
“Lo so.”
“Hai idea di come mi sia potuta sentire?”
“Ne ho un’idea molto precisa.”

No. Molly scosse la testa, si prese i gomiti. “Non mi farai sentire in colpa. Non questa volta. Non puoi mettere sullo stesso piano – le situazioni sono completamente differenti!”
Un uomo diverso, un uomo senz’altro più sincero sui propri sentimenti e su se stesso, si era buttato dal tetto del Barts. Quell’uomo aveva rinunciato alla sua vita per salvaguardare quelle delle persone che amava. 
“Ma non le motivazioni.” Il sentimento era inciso nel suo sguardo, ora come allora. Paura di perdere il cuore e vederlo bruciare e bruciare, fino a ridursi in cenere. 
“Cosa succederà adesso?” gli domandò a bassa voce.
Sherlock sospirò. “Immagino che se vorrai riprendere il lavoro, Mike ti accoglierà a braccia aperte.”
“Te ne faresti una ragione?” Molly non attese che le rispondesse. “Chi ha piazzato la bomba è ancora sulle mie tracce.”
Sherlock aspettò una frazione di secondo. “Niente è a riprova del contrario.”
“Ma niente fa supporre che lo sia,” ritorse Molly. 
“Molly.” Sherlock chiuse gli occhi e un’espressione completamente diversa scalzò la precedente, che era stata neutra e apatica. Il ciclone si era finalmente abbattuto e Dorothy ne fu travolta insieme alla sua casa, sradicata dalle fondamenta. Il panico gli corrodeva la voce. Ti prego. “Non posso correre il rischio -”
“Come?”
“Il rischio di perderti.”
Molly gli prese la mano, gli baciò il dorso. Gli rivolse un sorriso che – lo sentiva – era spiegazzato quanto le rughe di profonda tristezza ai bordi degli occhi di lui. “Ci voleva tanto, Sherlock?”

 
*

 
“Non riprenderò il mio lavoro al Barts per il momento, ma voglio poter uscire.” Stesa sul letto di Sherlock, Molly squadrava il soffitto. “Verranno prese tutte le precauzioni del caso, sarò sorvegliata a vista, anche scortata se servirà a renderti più tranquillo. Ne ho bisogno. Rischio di impazzire altrimenti.”
“D’accordo.”
Molly si voltò su un fianco, facendo vibrare il materasso per colpa del movimento travolgente. “Ma?”
“I rischi rimangono. Anche se le percentuali si sono drasticamente abbassate, il problema della tua sicurezza persiste, Molly.” Sherlock aveva una ruga profonda tra le sopracciglia. Molly gliela spianò con le dita.
Sherlock gliele afferrò e gliele baciò. Si girò a sua volta e in breve lei gli fu tra le braccia.
“C’è Victoria nell’altra stanza,” gli ricordò ad un soffio dal suo viso, sorridendo leggermente.
Le labbra di Sherlock risalirono la curva del collo, indugiarono sull’arteria carotidea prima di sfiorarle il lobo dell’orecchio. “Allora dovrai essere molto silenziosa, Molly. Silenziosa come un topo.”

 

*

 

Molly si chiuse la vestaglia di Sherlock in vita. Le stava ridicolmente larga e qualcuno avrebbe potuto chiederle cosa la spingesse ad ostinarsi a utilizzarla.
Una serie incredibilmente buona di motivi. Il fatto che l’odore di Sherlock – profumo costoso e acqua di colonia in cui riconosceva una scia di cedro, forse – ne permeasse il tessuto. Era come averlo contro la pelle, ad un palmo di naso. Inoltre produceva insperati effetti in Sherlock.
Sherlock. Lo aveva lasciato profondamente addormentato. La tensione quasi sempre presente sul volto angolare, nel sonno, cedeva il posto alla rilassatezza del riposo. Dormiva sempre dopo –
“Aiutatemi.”
Con un sobbalzo spaventato, Molly ebbe lo scorcio di un uomo, pallido come un fantasma e infagottato in un cappotto troppo pesante, prima che lui caracollasse verso la poltrona di John. Là cadde sulle ginocchia, stremato.

 

 


 

N/A:

Okay. Se non avete capito un ciufolo della parte relativa a Victoria, non preoccupatevi. È una reazione normale e naturale – perciò buona e giusta - e io ho trascorso gran parte del pomeriggio di ieri a spremere mio fratello come un limone perché mi spiegasse vita, morte e miracoli di ogni cosa. È stato talmente buono che ha perfino accettato di controllare che io non avessi scritto inesattezze (trovo altamente mortificante il suo stupore quando ha ammesso di non averne trovate, ma anche una punta di orgoglio per il lampo di approvazione con cui mi ha osservato, dichiarando che, allora, non era stata una totale perdita di tempo.).
Ebbene, tiriamo le somme fin qui. È o non è stato Moriarty che ha fatto piazzare quella bomba nell’appartamento di Molly? È tornato oppure no?
Rispondo alla prima, dal momento che per la seconda occorrono ulteriori capitoli e chiarimenti. Ebbene, no, non è stato Moriarty, non direttamente. C’è qualcuno che vuole – o non vuole – Molly morta; qualcuno che intendeva mandare un messaggio a Sherlock. Ora posso confessare una cosa ridicola di questa storia, che mi sono tenuta per me da quando ho iniziato a pubblicarla, e cioè che l’epilogo, quello che sarà l’epilogo, in realtà sarebbe il prologo che non ho potuto – e voluto – pubblicare, perché altrimenti i sentimenti di Sherlock sarebbero stati chiari sin da allora. Sherlock è rimasto sconvolto quanto gli altri, ha davvero creduto che Molly fosse morta. Per questo l’ha voluta con sé a Baker Street. Avuta la certezza che non sia Moriarty a minacciarla, temeva che Molly non avrebbe capito cosa lo avesse spinto a mentirle o che non lo perdonasse. La paura o timore di perdere qualcuno, quando ci si affaccia nell’abisso, spalanca le porte al cambiamento ed esso assume le forme più inaspettate o forse solo quelle che ha sempre avuto, ma che ci siamo rifiutati di osservare in precedenza, questo tanto in amore quanto in amicizia.  

Spero che non siate rimaste deluse dall’attesa e da quel che ne è venuto. Scappo per rimettermi a letto. Sono una piaga malata al momento :(
Un bacione a tutte!

P.s.: ho cominciato a rispondere alle vostre recensioni, un po' a casaccio e non in ordine cronologico, non me ne vogliate e se vi suonano strane è la febbre a parlare e non io. Perciò chiudete un occhio, vi prego.
  

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Capitolo 11
*** XI ***


11

Molly trascinò lo sconosciuto fino al divano, gli controllò il polso, quindi andò a svegliare Sherlock.
“Tipico di te, Molly.” Sherlock impresse alla frase un’esasperante dose di arroganza, mentre si chiudeva con efficienza la vestaglia con un nodo assurdamente elegante. “Uno sconosciuto irrompe nell’appartamento, sviene e qual è la tua prima preoccupazione? Chiamare qualcuno in aiuto? Certo che no. È accertarti che lui, un uomo che ti è del tutto estraneo e che per quanto tu ne sappia potrebbe essere un criminale, stia bene. Hai pensato al fatto che potesse aver finto di essere svenuto per approfittarne quando ti saresti avvicinata a controllarlo e colpirti a tradimento? Un solo colpo, Molly, sarebbe bastato. Ma no, è ovvio che l’idea non ti abbia minimamente sfiorato.”

E buongiorno anche a te. Certo, ora che lui glielo esponeva sotto quel punto di vista, Molly si rendeva conto di essere stata avventata. C’era un punto almeno, uno su cui poteva difendersi. “Sono un medico, Sherlock,” osservò. “Sono in grado di riconoscere un uomo svenuto, svenuto davvero, quando ne vedo uno.”
Sherlock accettò quell’unico attestato a suo favore con un cenno di seccata accoglienza, prima di chinarsi sul divano, sfregandosi le mani. “Bene, vediamo chi abbiamo qui.”
Molly gli era accanto e osservò di prima mano la sorpresa prendergli d’assalto il volto.
“Henry Knight!” esclamò Sherlock.
“Lo conosci?” domandò Molly, curiosa.
“Il caso di Barskerville ti dice niente?”
“Quello del centro di ricerca sperimentale a Dartmoor?”
“Esatto.”
Molly sorrise. “Mi è sempre piaciuto quel caso.”
“Perché?”
“È stata la prima volta che ti ho visto sconvolto per qualcosa,” rispose lei. “Il grande e temibile Sherlock Holmes mosso a sentimenti del tutto umani come la paura e il dubbio.”
“Visto?” Sherlock fece una smorfia. “Non eri neanche lì.”
Molly roteò gli occhi. “Visto metaforicamente parlando, Sherlock. Il blog di John è riuscito a darmi un’idea piuttosto precisa al riguardo.”
“Spero che da allora tu abbia avuto sottomano migliori circostanze in cui vedermi sconvolto.”
L’espressione sul suo viso era così esplicita che Molly ebbe la buona grazia di arrossire. “Mi piace credere di sì.”
“Mr. Holmes?” L’uomo sul divano, Henry Knight, aprì gli occhi, visibilmente disorientato.
Sherlock lo afferrò di malagrazia per le braccia. “Mr. Knight! Animo, si tiri su!”
Invece di scuotersi da quella presa indelicata ed energica, lui si fece aiutare a raddrizzarsi in una posizione più consona. “Questa volta non cercherà di aspirare il fumo della sigaretta se ne prendo una?”
Sherlock sbuffò. “Perché sprecar del tempo in un’affermazione del tutto falsa quando sappiamo entrambi che ha smesso di fumare sei mesi fa?”
“Stavo solo controllando.” Henry Knight si giustificò, poi sorrise a Sherlock come ad un amico di vecchia data, con una vena di gratitudine e rispetto palpabili. “È un piacere vedere che è rimasto lo stesso.”
“Non sono cieco. E so perché è qui naturalmente.”
“Lo sa?” reagì l’altro, turbato. Sembrò ricordarsi chi aveva di fronte perché la sorpresa sbiadì in un sorriso convinto. “Certo che lo sa. Accetterà il caso?”
“Non ne ho la minima intenzione,” negò Sherlock risolutamente. “Un cavallo da corsa scomparso? Che si rivolgano a Scotland Yard.”
“Quindi non sa niente dell’omicidio del suo allenatore, John Straker.”
Sherlock, che gli aveva dato le spalle e si era allontanato verso il camino, ritornò in fretta sui suoi passi e si piazzò di fronte a lui, puntellando i gomiti sui braccioli della poltroncina. “Me ne parli e badi a non tralasciare alcun dettaglio, per misero o irrilevante che le appaia. Quello che a voi altri sembra ininfluente può rivelarsi determinante per me.”
Molly simulò con discrezione un colpo di tosse.
“Non che ci sia niente di sbagliato in voi altri,” concesse Sherlock, annoiato. “Solo di inutile”, mormorò, credendosi non sentito.
Henry Knight sembrava non aver inteso la variazione di rilettura dei fantomatici altri. Era troppo impegnato a guardare Molly ad occhi sgranati. “Lei è Mrs. Holmes?”
Molly gli sorrise con simpatia, non perché avesse detto qualcosa di particolarmente divertente, ma per l’assurdità del contesto che fino a pochi mesi prima le sarebbe parso addirittura inconcepibile. “No.”
Henry Knight sospirò, come se fosse animato da una specie di sollievo. “Oh, bene.”
Sherlock e Molly lo guardarono.
“Cioè, meglio per…”
“Molly, gradirei un tè se possibile.” Sherlock le scoccò un’occhiata che avrebbe dovuto essere affascinante. “Ti ringrazio.”

 
*

 
Gli occhi di Henry Knight seguirono Molly in cucina con un’ammirazione che Sherlock trovò inappropriata e poco pertinente all’occasione. “Sembra una donna deliziosa. Assolutamente straordinaria.”
Sherlock accolse la constatazione con un microscopico assenso. “Lo è,” replicò impaziente.
“Chi è?”
“Molly Hooper, mia patologa di fiducia e recente coinquilina. Al momento il suo appartamento è in ristrutturazione.”
“Ci voleva un tocco femminile,” dichiarò l’altro convinto, guardandosi attorno con occhi più zelanti nel cogliere i dettagli. “Ho letto del matrimonio del Dottor Watson sul suo blog. Sono felice per lui.”
“Sì, una conclusione insperatamente fortunata che ha portato ad un'ereditarietà di tipo autosomico dominante in Catherine Watson.” Sherlock si sporse con il busto su un lato, tamburellando irritabilmente le dita sul proprio ginocchio. “Ora, ritornando alla questione d’interesse comune, stavamo parlando di un assassinio in piena regola?”
“Una tragedia, una vera tragedia. Il proprietario, il colonnello Ross –”
“Sì, sì, sì, è ovvio che sia venuto qui a nome del colonnello Ross, il quale sperava che il nostro precedente rapporto di lavoro mi avrebbe spinto a sobbarcarmi il caso dell’equino scomparso. Saltiamo la parte relativa alle discutibili compagnie a cui suo padre si è accompagnato da giovane e arriviamo al fatto essenziale.” 
Frastornato, Henry Knight annuì, concentrandosi nello sforzo evidente di fare quanto gli veniva richiesto così imperiosamente. “
Barbaglio d'Argento ha fruttato al colonnello Ross tutti i primi premi ippici di questi ultimi anni. È, forse adesso sarebbe più calzante dire era, il favorito all’Ippodromo di Ascot. Tavistok è dove si trova la tenuta del colonnello. L’altro ieri notte le scuderie sono state chiuse a chiave ed è rimasto di guardia il vice di Straker, Ned Hunter. Pochi minuti dopo le nove, la fantina Edith Baxter gli ha portato la cena. Aveva con sé una torcia. A quel che Edith racconta, si trovava a dieci metri dalle scuderie quando - ”
“Quando ha visto qualcuno di sospetto avvicinarsi.”
“Già! Ma come fa lei a –”
“Piuttosto elementare. Proceda. Lo ha visto in volto?”
“Ne ha dato una descrizione precisa: un uomo pallido e nervoso che dimostrava trent’anni.”
“Cosa ha fatto?”
“Ha chiesto informazioni. Non è raro che gli allibratori cerchino notizie di prima mano. A quel punto il vice si è affacciato e ha cacciato l’uomo in malo modo, quindi ha deciso per sicurezza di riaccompagnare Edith alla casa principale. Sa, sono fidanzati. Ha chiuso la porta a chiave, portando con sé Bod.”
“Bod,” ripeté Sherlock.
“Il cane,” chiarì Henry.
“E il cane non ha abbaiato durante la notte?”
“Non che io sappia. Lo trova interessante?”
“Estremamente, ma continui.”
“Dopo aver riaccompagnato Edith, Ned ha chiamato Straker, che ha deciso di andare a controllare. La mattina dopo Ned Hunter era stato drogato, Barbaglio era scomparso e non c’era traccia di Straker. Sono state avviate le ricerche, l’intera zona è stata messa a tappeto e –” s’interruppe ed inspirò a fondo.
Ovviamente era alla parte interessante del racconto che l’uomo comune dava fondo all’impressionabilità e si lasciava andare ad un’empatia insanabile.
Sherlock lo invitò a proseguire.
“A a circa un quarto di miglio dalle scuderie il soprabito di John Straker è stato trovato su un cespuglio di ginestre. Immediatamente al di là si stende una depressione a forma di conca e nel fondo c’era il suo cadavere*.”
“Ha delle foto?”
Henry annuì e prese dalla tasca interna del soprabito un pugno di fotografie che gli porse.    
La vittima aveva il cranio spaccato, sicuramente prodotto dal colpo di uno strumento pesante. Riportava una ferita alla coscia.
Entrando, Molly si allungò a guardarla, interessata. “Un taglio lungo e preciso. Deve essere stata un'arma appuntita a causarlo. Un coltello a serramanico o forse uno più piccolo. Un coltellino svizzero magari?”
Sherlock accolse l’osservazione giustissima di lei con un segno d'intesa impercettibile.
“Mr. Knight, come desidera il suo tè?”
Sherlock scrutò accigliato il sorriso gentile, distratto di Molly mentre porgeva a Henry la tazza di Earl Grey con la quantità di zucchero e crema di latte richieste. La ringraziò sbadatamente quando gli passò una tazza già preparata a puntino, in rispetto alle sue personali preferenze che lei dava mostra, a ragione, di conoscere alla perfezione. Ne bevve un sorso, dopodiché andò nella camera da letto senza dare l’impressione di precipitarsi.

 

Riemerse pochi minuti dopo per trovare che quel lasso di tempo moderatamente breve era stato sufficiente al bisogno insopprimibile di Molly di risultare simpatica a qualunque anima sostanzialmente sciocca e dotata tuttavia di un minimo di buonsenso.
Osservandoli interagire, Sherlock archiviò la strana sensazione alla bocca dello stomaco con un corrugamento di sopracciglia, mentre sollevava il bavero del Belstaff e faceva il nodo alla sciarpa. “C’è un treno per Tavistock alle 11:06 e parte da Paddington. John è già sulla strada.”
Non si permise di guardarla. Non permise a lei di salutarlo. Non di fronte a Henry Knight che non sapeva e non avrebbe capito e avrebbe di sicuro frainteso la natura del loro rapporto nel goffo tentativo di definirlo.
Non lo vide, ma lo sentì ugualmente, come acido. Il lampo che doveva averle attraversato lo sguardo a quel rifiuto improvviso e inatteso. 

Sapeva che lo avrebbe perseguitato nel tempo a venire, allo stesso modo in cui lo aveva fatto lo sguardo fiducioso e spaventato che lei gli aveva mostrato all’alba della sua partenza di tre anni prima.

 
*

 
Molly avrebbe suddiviso la giornata esattamente come l’aveva organizzata in precedenza.
Era giovedì 24 luglio e nel pomeriggio aveva lezione con i ragazzi. Il fatto che i suoi pensieri si rivolgessero con malefica insistenza a Sherlock non sarebbe stato un intralcio. Solo perché in quei mesi sembrava essere cambiato, solo perché era parso vicino come non mai, la sua mente così disposta a focalizzarsi su di lei, Molly non si era fatta un’idea sbagliata. Aveva saputo con dolorosa sicurezza che, quando si fosse trattato di scegliere tra lei e un caso, lei sarebbe passata in secondo piano. Era pronta ad accettarlo. Non aveva avuto la presunzione di credere che sarebbe venuta prima del resto. Sherlock provava dei sentimenti per lei, quali ne provava per John e Mrs. Hudson, ma questo non gli impediva, non gli aveva mai impedito, di comportarsi in modo orribile. L’indifferenza sapeva ferire più dell’odio. Sapere che non si trattasse di indifferenza, ma di una salda incapacità di leggere gli umori, no, neanche quello, di prevenire piuttosto, sì, di prevenire i sentimenti che le sue azioni e parole spiacevoli potevano provocare in chi gli stava intorno… oh, era uno spreco di opportunità.
“Molly cara, non puoi farti trovare così. I ragazzi saranno qui a momenti e tu sei ancora in pigiama.”
Molly sollevò lo sguardo dalla tazza di tè ormai freddo che teneva tra le mani.
Era stata nella penombra confortevole della stanza abbastanza a lungo da perdere cognizione del tempo che trascorreva.
Mrs. Hudson la fece alzare, la sospinse gentilmente verso la porta dell’appartamento e poi verso le scale. “Non prendere le cattive abitudini di quel ragazzaccio. Mi ha appena scritto di trovarti un mio cappello che ti stia bene, ma non chiedermi a che cosa gli serva che tu abbia un cappello. Non è per un – siete il tipo di coppia che ama i travestimenti?”
Molly la guardò a bocca aperta.
“Non fare quella faccia scandalizzata, mia cara. Pensi che solo perché adesso sono rugosa e raggrinzita come una mela cotta, non abbia avuto anch’io il mio bel daffare da giovane? Su, vestiti come si conviene. Sai che quel tale Wiggins si presenterà a breve.”

La sua guardia del corpo. Molly avrebbe sorriso del ridicolo pensiero se si fosse trattato di un giorno diverso, ma non era un giorno diverso e con sua vergogna provò invece un moto di fastidio.

 
*

 
Nella luce rosa-arancio del tramonto, Molly si abbracciava le ginocchia sulla moquette nuova del 221C. “E questo è tutto.”
Wiggins era seduto a poca distanza. Scosse la testa. “Non è tutto, Doc. Tu cosa provi?”
“Non cercare di psicoanalizzarmi, Bill Wiggins. Hanno già cercato di farlo in passato e non è piacevole.” Il ricordo – Sherlock travestito da psicologo che le consegnava la revoca del procedimento disciplinare, dopo aver fatto a pezzi lei e il suo passato – le provocò una fitta di malessere.
“Non un ricordo di quelli gradevoli, eh?” Wiggins si grattò il mento con l’indice. “Ne so qualcosa. In riabilitazione ci sono questi gruppi di discussione. Terapia di gruppo, la chiamano loro. La odiavo quasi quanto odiavo i dottori.”
“Quante volte ci sei andato?”
“Abbastanza per capire che la cura diventa inutile se non si vuole essere curati.”
Molly pensò a Sherlock, a quanto poco sapesse del suo passato, di quello che doveva aver sofferto e di come aveva affrontato il dolore e la solitudine.
“Hai conosciuto la mia Vicky.”
Molly guardò Wiggins, stranita.

No, non sono l’amante del suo uomo e no, non la odio per essere l’amante del mio.
Scoppiò a ridere. Come aveva potuto essere così cieca?

 
*

 
“Victoria Queen è la fidanzata di Wiggins.”
Non ci furono abbracci o saluti di rito questa volta.
Sherlock non accusò i segni della loro mancanza. Indifferente, si tolse il Belstaff e lo buttò sul divano. “E con ciò?”
“Avresti potuto dirmelo.”
Il volto di Sherlock esprimeva noia e anche una certa incredulità. “Dopo esserti tanto affannata a ripetermi fino alla nausea quanto felicemente fosse fidanzato? Davo per scontato che ne fossi già a conoscenza dal momento che è il tuo amico del cuore.”
“Smettila.” Molly sospirò e accigliò la fronte. “Wiggins non è il mio amico del cuore.”
“Sei arrabbiata? Sembri arrabbiata. Perché sei arrabbiata, Molly?”

Ora la degnava della sua considerazione. Molly storse il naso e girò una pagina. “Non sono arrabbiata.”
Sherlock, almeno, mostrò un minimo di discernimento non credendole. Seduto sulla sua poltrona, si spazientì e accavallò le gambe. “Mi chiedo a che pro mentire, Molly, quando entrambi sappiamo che sia uno spreco di energie e d’intenti.”
“Vuoi proprio sentirtelo dire, vero?” Molly chiuse il libro di scatto, lo poggiò sul tavolino e incrociò le braccia in petto, fissandolo con rabbia. “D’accordo, Sherlock, sì, sono arrabbiata. Lascio a te il piacere di dedurre il motivo?”
Sherlock fece una smorfia. Non gli era mai piaciuto il sarcasmo fine a se stesso. Mycroft lo trovava di cattivo gusto ed ecco svelato l’incentivo considerevole che lo aveva reso un’arma ricorrente nella lotta ai nervi di Mycroft Holmes. “Riguarda il caso.”
“Fuoco.”
“Riguarda quello di cui abbiamo discusso ieri sera.”
“Due sere fa,” lo corresse Molly. “Bum, Napalm!”
“Molly.” Pronunciò il suo nome come un lamento, con il tono che un genitore userebbe con il figlio indisciplinato.

Se n’era andato senza una parola, senza un saluto, senza uno sguardo.
“Molly. Avresti voluto che ti portassi con me?”
L’idea era talmente campata per aria – bugia - e il fatto che lui gliela accollasse le risultava così indisponente, che Molly ne fu urtata. “Non dico questo. Dico solo che sarebbe stato carino che tu mi avessi chiesto di accompagnarti.”
Si rese conto da sola di quanto ciò che aveva appena detto suonasse incoerente.
“Sarebbe stato irragionevole,” disse infatti Sherlock. “Rifletti. Il fatto che tu ti sia convinta di essere relativamente al sicuro, non dimostra che tu possa uscire senza gli opportuni provvedimenti. Inoltre oggi avevi lezione con i ragazzi. Sbaglio?”
Domanda retorica.
“E da quando conosci i miei impegni?”
Sherlock le scagliò uno sguardo offeso e duro, che fece male come se la avesse gettato addosso un intero tor.  
Molly era troppo stanca e troppo arrabbiata per badarci o per farsi muovere a compassione. Sapeva che lui non avrebbe ammesso il suo errore tanto facilmente, ma per una volta avrebbe gradito che approdasse alla conclusione da sé, senza che lei gliela offrisse su un piatto d’argento, come difatti aveva già fatto. Era un detective? Che ci arrivasse da solo!
Senza degnarlo di una parola, di un saluto, di un ulteriore sguardo, usandogli la stessa cortesia o come avrebbe detto la prozia Cecilia ‘rendigli pan per focaccia, leprottino mio’, Molly salì in camera sua.

 
*

 
Si svegliò perché un’ombra le lanciò addosso una rete. Dopo averla catturata, l’ombra le strappò la rete, la afferrò per le braccia e le scostò i capelli dal viso. Aveva mani larghe, calde e insospettatamente gentili per essere un incubo.
Molly batté le palpebre e si svegliò. L’ombra era Sherlock e la rete che l’aveva catturata, infima Poecilia in un mare nero fumo, era il suo cappotto.
“Indossalo, Molly.”
“Perché?”   
Sherlock le rivolse un sorriso di una bellezza urticante. “Ti porto ad incontrare la Regina.”

 
*

 
Ci furono poche resistenze da parte sua, di sicuro meno di quelle che ottenne provando a indossare il cappello che Mrs. Hudson le aveva prestato.
“Dove stiamo andando?” domandò una volta che furono saliti su una macchina del Governo Britannico.
“Nell’incantevole Berkshire.”
“Cosa andiamo a fare noi nel Berkshire?” domandò una volta che furono saliti su un jet privato che li avrebbe portati in un aeroporto civile di Codice EGLT. Un’idea straordinaria e spaventosa si intrufolò a viva forza nella sua immaginazione. Ma non poteva essere, giusto? Non poteva trattarsi –
“La tua intuizione è corretta.”
“Andiamo a una corsa di cavalli?”
“La Corsa, Molly, non una qualsiasi. La tua ignoranza in materia mi sgomenta.”
“A me sgomenta la tua padronanza dell’argomento.”
“Avevo l'abitudine di andare a cavallo, da ragazzo.”
Trascorsero il resto del viaggio parlando di cavalli e ridendo degli aneddoti divertenti che Sherlock le raccontò.
E poi venne il momento di vestirsi in modo consono all’evento.  

   
*

 
Aveva temuto che si sarebbe sentita a disagio, invece scoprì di divertirsi con il braccio infilato sotto quello di Sherlock e la sua voce carezzevole che desumeva a spron battuto ogni persona nel raggio di cinquanta metri.
Il suo vestito non era eccessivamente corto ed era di un turchese meraviglioso, le scarpe non troppo scomode. Inoltre il paesaggio era straordinario, con il verdeggiante Ippodromo di Ascot a far da sfondo a una massa variopinta di dame dai copricapo decisamente eccentrici e di uomini in giacca smoking e cravatte con nodo alla Windsor (come aveva avuto modo di comunicarle Sherlock a dovere. Il suo nodo, invece, era un Tiro a Quattro, grazie tante.).
Sugli spalti furono raggiunti da Henry Knight, le orecchie a sventola messe in risalto dal cappello del tight che subito mise sottobraccio. Era accompagnato da un uomo basso con un monocolo, che lui le presentò come tal colonnello Ross.
Molly gli strinse la mano e gli sorrise con calore.
Il colonnello si rivolse a Sherlock con aria piuttosto burbera. “L’assassino, Mr. Holmes. Mi aveva assicurato che oggi l’avrei trovato insieme al mio cavallo. Può indicarmelo? Devo allertare gli uomini della sicurezza affinché lo prendano in consegna?”
“L’assassino è stato già imbrigliato.”
Molly nascose un sorriso, chiedendosi se i due uomini avrebbero capito che non stava parlando per metafore.
“È qui? Dove?”
“In nostra compagnia,” intervenne Molly e Sherlock le elargì uno sprazzo del suo sorriso più luminoso.
Il colonnello assunse un’aria oltraggiata. “Le sono obbligato per aver ritrovato Barbaglio d’Argento, Mr Holmes, ma devo sperare che quanto la sua compagna abbia appena detto sia il frutto di un’insolazione o uno scherzo di pessimo gusto. Essere accusato di omicidio, io!”
“Nessuno sta facendo niente del genere, colonnello. La mia compagna e io ci riferivamo ovviamente a chi adesso si trova alle nostre spalle.”
Henry Knight e il colonnello Ross si voltarono per osservare che proprio in quel momento Barbaglio d’Argento stava passando al galoppo per il consueto giro di riscaldamento sulla pista.
“Il cavallo!”
Sherlock spiegò in breve che quella di Barbaglio fosse da considerarsi in tutto e per tutto un’azione di legittima difesa dal momento che il suo allenatore aveva cercato di provocargli un infortunio. “Il curioso incidente del cane mi ha aperto gli occhi. Perché un cane da guardia addestrato non avrebbe dovuto abbaiare? A meno che chiunque avesse preso il cavallo non fosse una persona che il cane conosceva bene. La lealtà, una volta offerta, la si è ottenuta per sempre.”
Molly ebbe un tuffo al cuore.
“Brillante,” esalò Henry. Nello stesso momento suonò la campana che proclamava l’inizio della corsa.       

 
*

 
“Mi ricorda una scena di My Fair Lady,” disse Molly.
“Conosco quel film!” esclamò Henry Knight.
Sherlock non li ascoltò parlare di sciocche vacuità né di un tale memorabile vestito bianco e nero.

 
*

 
Barbaglio d’Argento vinse e Sherlock non sarebbe potuto apparire più soddisfatto. Gongolava e aveva l’aria compiaciuta di un grosso felino mentre si aggiustava i polsini inamidati della camicia. “Se permetti, vado a ritirare il nostro denaro.”
“Non ho giocato denaro,” gli fece notare Molly.
“Ma l’ho fatto io,” fu la pronta replica di lui. “Ciò che è dell’uno appartiene all’altro. Non è il principio base di ogni relazione che si rispetti?”
Molly avrebbe potuto ridere per il brillio compiaciuto negli occhi Sherlock al suono desolato che provenne da Henry. “Io non credevo –”
“Che fossi serio? Davvero, Molly. Ti ho messo a disposizione il mio appartamento, i miei vestiti, la mia attrezzatura di laboratorio e me stesso. Quale altro motivo mi avrebbe spinto?”
“Hai diviso con me l’ultimo pancake di Mrs. Hudson,” ricordò improvvisamente Molly.
“Questo è irrilevante.”
“Non per me.”
“Hai una scala di priorità alquanto discutibile, Molly.”
Molly gli sorrise, indulgente, dovendo trattenersi a forza dal baciare quell’uomo impossibile. “Molti potrebbero dire lo stesso di te. John testimonierebbe per primo.”
“L’opinione comune è tristemente nota per la sua mancanza d'acume e la gente tende all’irragionevolezza.”
Proprio perché Molly era fiera di rientrare nel gruppo, infischiandosi delle apparenze, lo baciò, sotto il caldo sole di fine luglio, con addosso gli occhi puntati di tutta l’Inghilterra.

 
*

 
Molly aveva accompagnato Henry Knight alla porta e Sherlock non stava origliando.
“Mi dispiace, sono impegnata.”
Sherlock cercò di non lasciar trapelare la soddisfazione.
“E lui lo sa?”
Molly rise e Sherlock si sentì un po’ meno soddisfatto. “Non ci giurerei, ma non depongo le armi.”
“Nel caso in cui le cose andassero male, non che me lo auguri, vi auguro l’esatto opposto, ma nel caso, ecco, posso sperare che penserai a me?”
Sherlock era preparato ad una risposta cortese, ma ferma, con le sentimentali farciture previste socialmente nel dare il classico due di picche. Non era preparato al sorriso di Molly né che lei abbracciasse Henry Knight con trasporto e gli sussurrasse ignobilmente un ‘Promesso’ carico di allusioni all’orecchio.

 
*

 
Molly sapeva quel che faceva e sapeva quel che diceva. Forse aveva esagerato – l’umore di Sherlock appariva nero e cupo come una notte di novilunio -, ma serviva una lezione di qualche sorta e in fin dei conti trovava di non aver fatto nulla di male.
“Molly,” lo sentì latrare dal salotto.
Molly, che era in cucina e stava versando l’acqua bollente nella teiera, arcuò la schiena all’indietro e affacciò la testa nel vano delle porte scorrevoli. “Vuoi qualcosa, Sherlock?”
Con un’occhiata inferocita, lui tacque.
“Molly,” uggiolò due secondi più tardi.
“Sì, Sherlock?” Molly entrò nella stanza e poggiò il vassoio sul tavolino del caffè. Si apprestò a servirlo.
“Credi di esserti vendicata abbastanza?”
“Non lo so. Sta funzionando?”
“Sei una donna crudele e spietata. Se non lo avessi visto di persona, non lo avrei creduto possibile.”
Molly annuì. “Devo esserlo se intendo sopravvivere nei tuoi affetti.”
Sherlock grugnì. “E riesci a convivere con te stessa?”
“Alle volte. Nei momenti buoni.” Molly si diresse verso la finestra.
Sherlock la fermò per il polso. “Questo è uno di quei momenti?” domandò, guardandola da sotto in su.
Molly sorrise, curvandosi a baciare il cipiglio di lui. “Dipende da te, Sherlock. Possiamo far sì che lo diventi.”

 

 

 


 

N/A:

Spero che non sia un capitolo sottotono rispetto al solito. Io lo sono di sicuro, sottotono intendo, anche se mi sento decisamente meglio rispetto a pochi giorni fa. A tal proposito grazie a tutte per i consigli e gli auguri di pronta guarigione, siete state assolutamente adorabili e in assoluto la migliore medicina insieme alla visione ininterrotta di ‘My Fair Lady’ e ‘Dragon Trainer’ ;) (A tal proposito nei deliri della febbre rivedevo Sherlock nel Professor Higgins e Molly in Eliza. Prima o poi qualcosa verrà scritto al riguardo, temo.)
* Tratto dal racconto “Barbaglio d’Argento” di Arthur Conan Doyle da cui il caso è stato tratto e liberamente mutato (la cameriera è diventata fantina :D)
Un bacione a tutti e alla prossima!

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Capitolo 12
*** XII ***


12

Tutto quello che succedeva nei confini di Baker Street rientrava in un concetto appositamente allargato di normalità perché la normalità, lì al 221, stava stretta a chi di casa come un nuovo paio di scarpe di vernice troppo dure in punta.

Vi abitava un’arzilla signora di mezza età, ciarliera e dalla lingua pronta e un folle, geniale uomo dall’indubbia intelligenza, ma dalle più che discutibili qualità.

Seguiva quindi una sfilza di personaggi di difficile inquadratura. Un medico militare che era stato a sua volta affittuario per un paio d’anni; la di lui moglie, una donna bionda dal cipiglio risoluto e la risata di chi sente custode del mondo che più di ogni altro conta, il proprio; un affascinante Ispettore della polizia dai modi un po’ bruschi; e un uomo dal naso aquilino e il profilo aristocratico, gli atteggiamenti cerimoniosi, che si premuniva sempre di raddrizzare il solido battente di foggia vittoriana.

Venivano poi loro: i Clienti e gli Irregolari. Uomini e donne senza volto, senza età, senza nome. Individui anonimi e discreti che si privavano di un’identità con la facilità con cui certi animali fanno la muta.

Negli ultimi mesi, però, vi era stata un’ulteriore aggiunta. Di chi era l’ombra femminile che si delineava nello spiraglio delle tende ricamate? Di chi erano gli occhi ardenti che occhieggiavano la strada poco prima del tramonto? Apparteneva forse a un fantasma il volto commovente e pallido di morte?

Reclusa nella sua torre, quel 221B arredato spagnolescamente e secondo il gusto fastoso del proprietario, Molly Hooper osservava il mondo da una finestra, vivendo nei limiti che la sua sicurezza le imponeva.

Così era nato il pettegolezzo e la gente, notoriamente portata alla curiosità e spinta ad impicciarsi delle altrui questioni, aveva preso gusto nella nuova chiacchiera, che si era accresciuta e ingigantita, fino a diventare impossibile da evitare.

Così era nato il fantasma della giovane Lady.

 

*

 

“La gente inizia a parlare, caro.”

Sherlock pizzicò con leggerezza le corde del violino. “Che parlino pure.”

“Non si tratta di semplici pettegolezzi. Se fosse quello credi che starei qui ad avvisarti? Caro, iniziano a fare domande.” Mrs. Hudson disse ‘domande’ come altri avrebbero pronunciato la parola omicidio, in un tono sussurrato di accorata angustia.

Sherlock si grattò il mento con l’estremità dell’archetto. “Domande,” ripeté e aggrottò le sopracciglia.

“Esattamente,” scandì perentoria Mrs. Hudson, contenta di aver ottenuto un minimo di considerazione. “Molly attira l’attenzione. Perché non esce mai?”

“Agorafobia, fotosensibilità, depressione, vampirismo. Esistono una moltitudine di ragioni valide al giorno d’oggi.” Tra tante altre il fatto che Molly non uscisse alla luce del sole. Non nelle fattezze riconoscibili della patologa Molly Hooper. 

“Buongiorno a tutti.”

Parlando del diavolo.

Se anche avesse conservato dei sospetti sul travestimento che aveva imposto come clausola nelle negoziazioni del trattato di libera uscita, la reazione di Mrs. Hudson servì a dissiparli. Gridò e fece un balzo all’indietro, uno spettacolo molto simile a quello del suo ritorno, il che gli provocò una subitanea e travolgente sensazione di dejà vu.

A quella reazione Molly rimase impietrita sulla porta di casa, quindi, con un sospiro, abbassò il cappuccio e si tolse il berretto per mostrare il suo viso sporco di fuliggine. “Sono io, Mrs. Hudson. Lo so, ho urgente bisogno di una doccia.” Chinò la testa e osservò con aria critica i suoi abiti: l’incerato giallo ocra e la salopette di jeans, le scarpe da tennis sporche di terriccio. “Decisamente ho bisogno di una doccia,” rettificò.

Sherlock si alzò con uno scatto agile e le fu immediatamente di fronte. Abbassò la zip dell’impermeabile di tela e la squadrò da testa a piedi, tastandole le spalle e le braccia, i fianchi e le gambe. Molly non ne fece un dramma, al contrario di Mrs. Hudson che invece cominciò a lamentarsi delle ‘apparenze’.

“Perquisizione finita?” Molly aveva un sorriso smaliziato e l’aria stanca, ma sotto lo strato di sporcizia le sue guance erano rosse e gli occhi luminosi.

Sherlock storse il naso, insoddisfatto. “Ti avevo espressamente vietato di portarla in quella zona di Londra, Wiggins.”

Wiggins mostrò le mani in segno di protesta. “Non se la prenda con me, Mr. Holmes. È lei che è voluta andarci. Accompagnami ad Highgate, ha detto. Io ho obbedito perché è lei il capo, fuori.”

“Sono sempre io il capo, tienilo a mente. Dentro e fuori le mura di Baker Street, la mia parola è legge.” Si voltò verso Molly. “Qualcosa da dire a tua discolpa?”

“Non occorre che io dimostri la mia innocenza, Vostro Onore. Ho rispettato l’accordo.”

“Hai infranto l’accordo. Dovevate rimanere entro i confini di Hampstead Heath.”

“Eravamo in zona e ho solo pensato –” Molly esitò. “Volevo vedere mio padre.”

“Tuo padre è morto.”

Mrs. Hudson si coprì la bocca con la mano, un gesto abituale, vezzo in cui cadeva quando qualcosa la innervosiva o sconvolgeva. Wiggins invece scosse piano la testa e si defilò con fare quatto. Quanto a Molly, lei sembrò sorvolare sul fuggi fuggi generale; gli rivolse un’occhiata profondamente irritata. “Sì, be’, grazie per il chiarimento. Un genitore morto… può proprio sfuggire di mente, vero?”

“Quello che stavo tentando di dire. È morto. Credi davvero che mettere a repentaglio stupidamente la tua vita –”

Molly gli si rivoltò come una furia, gli occhi che sprizzavano scintille. Gli puntò contro l’indice e serrò la bocca in una smorfia eloquente. “Primo, non osare nominare mio padre per farmi sentire in colpa. Punto secondo, vuoi davvero intraprendere questo tipo di discorso, Sherlock Holmes? Mettere a repentaglio stupidamente la propria vita? Non accetto consigli su questo argomento, non da te.”

Un battimano si fece spazio nell’intervallo di silenzio che scortò quell’affermazione. “Devo dargliene atto, Miss Hooper, ha tutto il mio plauso.”

Sherlock roteò gli occhi e schioccò la lingua, preda dell’insofferenza. “Mycroft.”

“Sherlock. Ci siamo dati alle uscite serali, vedo. Approfitti dell’assenza di Miss Hooper per intraprendere operazioni a sua insaputa?”

Intendeva metterlo in difficoltà di fronte Molly. A giudicare dalla profonda ruga che andava scavandosi nella fronte di lei, il piano era sulla strada del successo. “Blackjack,” soffiò come un insulto.

Mycroft non batté ciglio. “Oh, dunque è così.”

“È un criptonimo?” domandò Molly accigliata. “Domanda stupida. Certo che lo è. “Fante di picche”. Cosa intendete?”

“Niente che le occorra sapere al momento.” Mycroft le rivolse un sorriso affettato di inappuntabile boria a cui Molly rispose con il suo più gentile, una gentilezza che sfumava nell’ironia e che – saperlo era in effetti quanto mai seccante – era solita rivolgere anche a lui. Perché nel caso di lei la migliore arma non era l’indifferenza e tantomeno la noncuranza, ma quel sorriso.

“Un modo gentile per dirmi di badare agli affari miei. Afferrato.” Molly si diresse in cucina. “Del tè?”

“Sarebbe delizioso, grazie.”

“Abbiamo del tè Assam,” avvertì Molly, ficcando la testa nei ripiani delle scansie, alzandosi in punta di piedi. “Temo che Sherlock abbia finito la scorta di Darjeeling.

“Il tuo è un timore fondato.”

“L’Assam andrà perfettamente bene, Miss Hooper.”

Molly aveva l’aria esasperata. “Molly,” protestò con ben poca speranza.

“Dottor Hooper,” ritorse Mycroft con un sogghigno.  

“Miss Hooper suona fantastico,” capitolò lei con un sospiro di rinuncia. “Davvero fantastico, in effetti.”

“Immaginavo che sarebbe stata collaborativa.”

“Non lascia molte alternative.”

Sherlock ne aveva avuto abbastanza di quel quadretto domestico. Riprese il violino e puntò l’archetto verso l’una e l’altro. “Molly, hai intenzione di rimanere ancora a lungo la Piccola Fiammiferaia? E tu, hai l’espressione esultante di quando porti cattive notizie.”

“Non credo che sia questo il modo di rivolgersi a una signora.”

“Pensavo ci fossi abituato, fratello caro.”

Mycroft fletté le labbra nell’arricciatura caratteristica di quando riusciva a intaccare la sua placida maschera di morigerato ascetismo. “Mi riferivo ovviamente al modo in cui tratti la tua affezionata compagna.”

“Affezionata compagna,” ripeté Molly con un sorriso divertito, rientrando e posando sul tavolino del caffè l’occorrente per il tè. “Devo ricordarmi di dirlo a Mary. Sta facendo un elenco di tutte le frasi che potrebbero essere stampate su magliette.”

“Molly.”

Lei lo guardò, batté le palpebre, sorpresa. “L’ho detto ad alta voce?" domandò e scosse la testa. "Posso farmi una doccia senza che nel frattempo facciate scoppiare una guerra o in alternativa la cucina?”

Sherlock e Mycroft le lanciarono un’occhiata oltremodo indignata.

Molly rise più forte, in modo irritantemente delizioso. “Stavo solo scherzando. Non credo davvero che siate capaci di far saltare in aria una cucina. Non è neppure a gas.”

 

“L’hai trovato? Il tuo pesce rosso?”

Sherlock aveva sperato che Mycroft sorbisse il suo tè in silenzio. Speranza vana.

“Ci sono cose che non si possono creare dal nulla,” rispose.

“Intendi procedere? Anche se significasse perdere la sua fiducia?”

Lo sguardo fisso nel vuoto, Sherlock si sfregò la gola con la testa dell’arco. Contro la pelle percepiva distintamente il fascio di crine di cavallo, teso dal legno e dal meccanismo a vite del nasetto. “Si vis pacem, para bellum.”

Mycroft seguì la direzione del suo sguardo. D’altronde Sherlock non si era dato pena di nascondersi. Entrambi si soffermarono ad osservare la porta del bagno dietro cui Molly era scomparsa dieci minuti orsono.

Mycroft sospirò, si piegò in avanti per posare la tazza vuota sul vassoio. “Molto bene. Da questo momento il piano Blackjack è operativo.”

 

*

 

“Non è una visita di piacere.”

Lo è mai?, pensò Molly.

“Insistenti voci gravitano intorno alla coabitazione di Miss Hooper in Baker Street.”

“La gente parla, Mycroft,” disse Sherlock seccamente. “Non la trovo una scoperta innovativa, al contrario.”

“Sei un personaggio di spicco, Sherlock, che ti piaccia oppure no; nell’attuale situazione altra pubblicità negativa è l’ultima cosa auspicabile.”

Molly impiegò mezzo minuto ad accettare il fatto di non aver frainteso ciò che Mycroft aveva voluto dire. La verità era sconcertante. “Non starà dicendo… pensano che Sherlock mi abbia rapita o mi tenga prigioniera?” La semplice idea era ridicola, ma esprimerla ad alta voce portava il ridicolo a nuove vette inesplorate.  

“La maggior parte delle persone tende a non pensare, Miss Hooper. Vede, ma ha il deplorevole vizio di non comprendere ciò che ha sotto gli occhi. La stupisce davvero che desuma il peggio?” Mycroft prelevò dalla tasca interna della giacca un foglio che le passò. “Ho qui con me un elenco di giornalisti. Sono stati contattati personalmente dal mio entourage. Ne scelga uno, uno qualunque e accetti un tête-à-tête. Non rendiamo il tutto più sgradevole di quanto effettivamente non sia.” 

 

*

 

“Buongiorno.” Strascicando i piedi, Molly prese il bricco del caffè dal piano di lavoro. Lo agitò con energia, ma c’era poco da fare: l’interno era disperatamente, desolatamente, inesorabilmente vuoto.

Senza allontanare lo sguardo dal becco bunsen che gli teneva le mani impegnate, Sherlock le indicò con la testa la tazza rossa nell’angolo del bancone.  

Nero, due zollette di zucchero. Molly lo bevve a sorsi famelici, socchiudendo gli occhi nella luce granulosa che filtrava dalle veneziane della finestrella della cucina. “Avresti potuto svegliarmi.”

“Avrei dovuto?” Sherlock ruotò la ghiera forata per passare la fiamma del bunsen da ossidante a riducente, renderla visibile – di un caldo giallo - intanto che non la usava.  

Molly scosse la testa e si allungò a sfiorargli le labbra. Sapevano di caffè. “No.” Bevve un altro sorso e si sedette sullo sgabello, posando i gomiti sulle ginocchia e stringendo le braccia di lato al corpo, dal momento che il tavolo era ricoperto di attrezzatura da laboratorio. “Cosa studi?”

“Saggi alla fiamma. Verifico la presenza di ioni nei metalli alcalini.”

“Fuochi d’artificio,” commentò Molly, sfiorando il bordo della tazza.

Sherlock le rivolse un cenno impercettibile. “Oggi hai l’intervista con quella giornalista.” Fece una smorfia talmente raccapricciata che a Molly andò di traverso il caffè per una risata intempestiva.

“Non sembrare troppo disgustato all’idea.”

Lui parve accorgersene a malapena. “Lestrade mi ha trovato un caso.”

Dio sia lodato. Molly lo amava, sul serio, ma non era così ipocrita da fingere che non averlo intorno durante il pomeriggio avrebbe scongiurato l’inevitabile caterva di effetti collaterali della sua presenza: disagio, frecciatine e battute mordaci. Oppure la prospettiva peggiore: Sherlock che si fingeva ammaestrato alle buone maniere. Uno spettacolo agghiacciante.

“Qualcosa dalle parti di Croydon,” si infervorò Sherlock. “Un pacco postale è stato recapitato a tale Miss Cushing.”

“Cosa conteneva?”

“Sale grosso e orecchie umane.”

Interessante e macabro. “Che idea ti sei fatto?”

“Credo che si tratti di uno scherzo di cattivo gusto. Come hai detto che si chiama?”

Cambiare argomento di discussione così, di punto in bianco, non era una novità tra loro.

Molly fece mente locale. “Lara Selby, mi pare. È una freelance.” Sorrise. “E adesso non prendere un’aria così compiaciuta. Non riuscirai a farmi credere che sapessi in anticipo che avrei scelto lei."

 
*

Tutto era stato stravolto nella loro routine. C’erano stati dei negoziati (ovvio che ci sarebbero stati. Era di Sherlock, di lei e di Sherlock che si parlava), dalle cui trattative era conseguita una salda, luminosa e, si sperava, duratura parentesi di pace. Neppure l’intervista era riuscita a scalfirla.
Quando era tornato dal caso (“Altamente insoddisfacente. Ti ho portato un souvenir.” Dicevasi souvenir un orecchio mal tagliato e mantenuto in condizioni perfino peggiori.), Sherlock non aveva fatto domande di sorta e Molly non aveva dato risposte fantasma.
Per qualche oscura, a lei sconosciuta ragione l’intervista non era stata pubblicata (Lara le aveva mandato un sms di scuse e Molly aveva riso, pensando alla pena con cui Mycroft, o chi per lui dei suoi sottoposti, doveva aver intimato a chi di dovere di vietarne l’uscita stampata. Lara era parsa dapprima stupita dalla mancanza di sorpresa e in seguito ancora di più dalla chiara assenza di delusione, ma sul serio, a Molly non era mai interessato comparire sui giornali, men che mai di finirci perché qualcuno, Moriarty oppure no, aveva fatto saltare in aria il suo appartamento.).
L’intera faccenda era perciò finita nel dimenticatoio, senza che se ne discutesse. Anche allora Molly non aveva chiesto spiegazioni. Perché lei era quel tipo di persona, quello che non chiedeva i “perché”, ma si soffermava sui “come”.
Ognuno aveva le sue motivazioni, personali visioni di un modo parziale e soggettivo di osservare il mondo. I modi, oh, le modalità erano senz’altro più affascinanti.

 
*

Era da poco passata la mezzanotte. Molly era sdraiata sul divano e occupava l’attesa di Wiggins controllando la posta elettronica.
Sherlock era alla scrivania, chino sul suo laptop, impegnato ad elaborare dati e informazioni con un programma (Software, Molly. Software) di ricerca datogli da Victoria.
Dal loro primo incontro Molly aveva avuto modo di incontrarla numerose volte.
Victoria Queen ricordava un gatto randagio, in modi vividi e di certo dolorosi: graffiava e mordeva e aveva quella luce in fondo agli occhi, una fiammella di segreta brama che sembrava pregare di “non ferirmi, non abbandonarmi”. Aveva una sua bellezza particolare, a tratti selvaggia a tratti feroce, caratteristica di chi per un periodo debba aver vissuto nell’ombra di qualcosa di spaventoso che continua a braccarlo. Molly avrebbe voluto esserle amica, ma come fare quando la parte contendente faceva di tutto per ostacolare ogni sua manovra in quel senso?
Victoria si sprecava in battute sagaci e occhiate sdegnose, nella migliore imitazione di Sherlock ai suoi tempi d’oro.
Quando Molly si era permessa di intavolare l’argomento con Sherlock, lui aveva fatto una dichiarazione stizzita e impermalita, rintuzzandola con uno sguardo di lava incandescente che su di lei non conseguiva più il minimo esito. In quei momenti, non quelli di sconforto in cui subentrava la noia (La noia, madre per me di mortifere malinconie, le sussurrava Leopardi) e neppure quelli in cui era il brivido della caccia imminente, la ricerca della chiave di soluzione ad animarlo, in quei momenti i suoi occhi non erano occhi scampati all’Inferno, chemiluminescenze assillanti in un viso oblungo e pallido da fantasma infestante. Era qualcosa di diverso, una sfumatura di punzecchiatura che li rendeva simili alla fiamma blu-violetta ossidante del bunsen, con gli spettri di colore pronti ad avvampare a seconda dell’intensità del sentimento che ne faceva da corona. 
Molly grattò Toby tra le orecchie, sentendolo stendere il collo sotto il palmo della mano per accompagnare il movimento della carezza.
“La spunterai.”
Molly alzò lo sguardo su Sherlock, che le concesse uno dei suoi rapidi sorrisi sghembi e uno sguardo obliquo, prima di tornare a prestare attenzione al monitor. “Parlo dei tuoi tentativi di amicizia, Molly,” chiarì, manifestando la sua disapprovazione con una serie di sbuffi. “Le tue probabilità di riuscita sono incontestabilmente minime.”
Molly affondò il naso nella pelliccia di Toby che di rimando le leccò la guancia. “E allora cosa ti spinge a dire che avrò successo?”
“Solo questo, Molly.” Sherlock le rivolse uno sguardo in cui brillava una luce acuta e carica di mille minutezze, complice. “Io rappresento una testimonianza diretta del grado di efficienza delle tue ostinazioni. Posso assicurarti che, se tu vuoi esserle amica, Victoria Queen non ha scampo.”
“Mi fai apparire come una specie di stalker.”
“Ti faccio apparire per quello che sei, Molly, come la prima persona vera che io abbia incontrato.”
Sherlock controllò l’orario o fu quello che Molly pensò che avesse fatto perché l’istante successivo, con aria opportunamente disinteressata, osservò: “Wiggins sarà qui a momenti. Sei sempre intenzionata ad andare?”
“Sì.”
Il campanello suonò, un unico suono stridente, prolungato che vibrò nella quiete che ne seguì. Decisamente non era Wiggins, che era munito di un paio di chiavi di riserva.
Sherlock e Molly si scambiarono un’occhiata: lui elettrizzato, lei abbattuta. Sapeva che, di qualunque cosa si trattasse, il visitatore avrebbe determinato un fatale cambio di programma nei suoi piani per la serata.
Sherlock pareva condividere quell’opinione. “Temo che dovrai rinviare la tua gita notturna, Molly. Abbiamo ospiti.”

 
*

Entrò un uomo che Molly si affrettò a far sedere al proprio posto. Indossava una giaccone di tweed melange e aveva una mano avvolta in un fazzoletto macchiato di sangue. Giovane, con un viso forte, anche se in quel momento si presentava pallido e agitato, con un tremore incontrollabile alle mani, la cute fredda e umida.
“Mi scuso per essermi presentato a quest'ora, Mr. Holmes,” disse ansimante. “Mi chiamo Victor Hatherley e sono un ingegnere informatico.”
Sherlock si sedette sulla sua poltrona, esaminandolo. Le fece un cenno d’intesa. Molly si era già affrettata verso il kit di pronto soccorso nel cassetto del mobile a muro e andò verso la scaffalatura della libreria vicino alla finestra, prendendo la copia rilegata di Casa Desolata. Era un libro scavato all’interno e lo spazio delle pagine ritagliate era occupato da una fiaschetta d’argento. Molly versò in un bicchiere d’acqua uno spruzzo di brandy e lo porse a Mr Hatherley, sperando che riprendesse colore, ma, prima che lui ne bevesse un sorso, il tremore aumentò.
Molly riconobbe i sintomi. “È in stato di shock,” dichiarò. Lo fece stendere e gli controllò le pupille e il polso. Era tachicardico.  
“Shock ipovolemico,” valutò Sherlock.
Era il secondo uomo che sveniva sotto i suoi occhi nel giro di due settimane. Sinceramente e a costo di suonare scortese, Molly sperava che non diventasse una tradizione. “Devo ricucire quel dito, Sherlock.”
“Se lo trovi di primaria importanza.”
“Certo che lo è. Abbiamo dell’anestetico?”
“Dubito che anche nelle più favolistiche prospettive, i calmanti alle erbe di Mrs. Hudson facciano al caso nostro. Gli darebbero alla testa e sarebbe controproducente. Ho bisogno che quest’uomo sia lucido e reattivo. C’è sempre l’altro modo.”
“Quale altro modo?”
“Questo.” Sherlock prese la pipa sebsi dal mobiletto vicino al divano e lo colpì alla nuca.

 

 

 


N/A:

Non vi lascio sul più bello, no no, solo sul primo vero caso che Sherlock e Molly affronteranno insieme. Prima della fine (che incombe ed è prossima) ce ne saranno un paio, credo. A tal proposito tenete gli occhi aperti. Da questo capitolo ho incominciato a disseminare indizi per l’epilogo, perciò cercate di coglierli.
N.B.: Lara Selby. Se qualcuno fosse interessato all’intervista e fosse incuriosito dal perché essa non sia stata pubblicata, può trovare debita risposta nella one-shot: “Le ragioni del silenzio”.
Nel capitolo precedente vi avevo gettato un amo che non avete colto. Non c’entra niente con questa storia, (Il ricordo – Sherlock travestito da psicologo che le consegnava la revoca del procedimento disciplinare, dopo aver fatto a pezzi lei e il suo passato – le provocò una fitta di malessere.), ma è una che ho tutta l’intenzione di raccontare prima e poi e che riempie uno dei buchi narrativi dei due anni di vuoto. Cosa è successo a Molly subito dopo la Caduta? Ha pagato lo scotto per aver manipolato l’atto di morte di Sherlock? Ha subito una sanzione da parte dell’ospedale? E via dicendo.
L’episodio delle orecchie nella scatola è tratto dal racconto de “L’avventura della scatola di cartone” mentre quella dell’uomo senza pollice è liberamente ispirata a “L’avventura del pollice dell’ingegnere”.
Spero, una volta terminata questa storia, di allietarvi con mini one-shot, sul tipo che tratti anche le benedette negoziazioni a cui qui sopra ho accennato. Una nottata memorabile al 221 di Baker Street, tanto per Molly e Sherlock quanto per Mary e John :D

Sono mortificata dal ritardo mostruoso con cui pubblico, ma adesso sto lavorando a tempo pieno, non più mezza giornata. Quest’anno le vacanze sembrano un miraggio lontano :(.
Le vostre recensioni sono una consolazione, una vera panacea per tutti i mali dei mondo, altro che Pietra Filosofale! Non mi stancherò mai, mai, mai, mai e poi mai, mai, mai di ripetervi quanto siete FANTASTICHE! È una storia piuttosto sciocca, ma sapere che per voi non lo è la rende inestimabile :) E risponderò ad ognuna di voi con papiri appena avrò tempo e modo, promesso.
Un abbraccio non è abbastanza. Vi mando mille Hulk (come quello stampato sulla maglietta che indosso al momento xD) a stritolarvi nel suo abbraccio più dolce.

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Capitolo 13
*** XIII ***


13

Note: Questa volta sono costretta a inserirle per forza di cose prima. Ho utilizzato il racconto de “L’avventura del pollice dell’ingegnere” che, devo ammetterlo, è uno dei pochi racconti di Sherlock che non mi sia mai del tutto piaciuto. Insomma, alle deduzione che Sherlock fa riguardo alla natura del falsario ci era arrivato lo stesso Mr. Hatherley, anche se nel suo caso non sono intuizioni, ma osservazioni dirette di qualcosa che ha praticamente sotto al naso. Ho riadattato la storia originale per usarla nel contesto della trama di questa storia. Spero che a nessuno dispiaccia o che si senta insultato per questo, che il risultato sia accettabile :) Buona lettura!

 

 

 


Molly conosceva Sherlock da molto, molto tempo, quasi dieci anni. Un terzo della mia vita. Perciò nulla di lui avrebbe più dovuto sconvolgerla, giusto? Sbagliato. Sherlock Holmes era una scoperta continua e l’esperienza non era soltanto destabilizzante, ma quanto di più esaltante e spaventoso riuscisse ad immaginare: come buttarsi da un aereo sprovvisti di paracadute o da un ponte senza salto elastico, nello stile avventuriero dei migliori film spionistici.
“Lo hai colpito!”
Sherlock inarcò un sopracciglio nella maniera persuasiva che gli era propria. “Volevi un anestetizzante, no?”
“Non era questo che intendevo.” Molly prese il kit di pronto soccorso, si mise carponi di fianco al divano ed esaminò la ferita. “È stato fatto con uno strumento molto pesante e affilato.”
“Un’accetta,” puntualizzò Sherlock, chinandosi a sua volta e osservandola lavorare con un sorriso inquietantemente raggiante.
“Non un incidente, immagino.”
“Niente affatto.”
“Un attacco premeditato non andato a buon fine allora?”
Sherlock annuì.
Molly tamponò la ferita, la pulì, la disinfettò e infine la bendò con un tampone di ovatta e una fasciatura a pressione.
Aspettarono pochi minuti prima che Mr. Hatherley desse segni di ripresa. Si massaggiò la nuca e si guardò attorno frastornato, come se non si raccapezzasse con l’ambiente estraneo che aveva attorno. 
“Mr. Hatherley,” lo chiamò Molly a voce bassa. “Riesce a sentirmi? Ricorda dove si trova?”
L’uomo annuì.
“Mi chiamo Victor Hatherley.”

“Questo lo ha già detto,” disse Sherlock a denti stretti.

Molly gli lanciò quello sguardo. Lo Sguardo che in quella determinata circostanza assumeva molteplici significati dal ‘ricorda che se sta così è perché tu lo hai colpito’ e ‘accidenti alla tua testaccia dura’, al più ermetico ‘taci’.

Sherlock strinse le labbra e spostò gli occhi altrove, precisamente su uno dei gigli stilizzati della carta da parati. “Lo ha già detto,” mormorò puntiglioso, senza guardare nella sua direzione.

Molly trattenne a stento un sospiro. Sapeva essere un tale ragazzino a volte.

“Mi avete ricucito il dito. Chi è stato? Non lei, spero.” Mr. Hatherley lanciò un’occhiata cauta e diffidente a Sherlock.

“Presume bene. È stato il Dottor Hooper. Io mi sono occupato dell’anestesia,” rispose lui con un ghigno da volpe.

“Lei è un dottore?”

“Specializzata in medicina forense,” precisò Molly. “Di solito lavoro con più pelle morta.” La sua avrebbe voluto essere una battuta. Abbozzò un sorriso che l’uomo non ricambiò. Difatti le rivolse uno sguardo sgranato e interdetto, ancora leggermente stordito, quasi lei fosse uno strano fenomeno da analizzare.

Con la coda dell’occhio si accorse che Sherlock sorrideva sotto i baffi. “Uh, vuole raccontarci la sua storia, Mr. Hatherley?” domandò conciliante.

“Mi chiamo Victor Hatherley.”

“Per l’amor di Dio!” esclamò Sherlock, come la peggiore delle imprecazioni. Questa volta Molly non poteva dargli torto.

 

*

 

Un altro sorso di brandy, l’arrivo di Wiggins e Victoria, sbrigativamente confinati in cucina e Mr. Hatherley sembrò pronto a raccontare loro la sua storia.

“Mi chiamo –” Un’occhiata raggelante di Sherlock lo ammutolì prima che potesse concludere. “Mi dispiace,” gracidò. “Deve essere la situazione. Di solito non sono così.” Se con ‘così’ intendeva mentalmente confuso, Molly glielo augurava di tutto cuore.

“O può essere a causa della botta,” intervenne Wiggins, che era tornato per prendere il laptop di Sherlock. Evidentemente Victoria ne aveva bisogno.

“Botta?” domandò l’uomo. “Non ho subito alcuna botta. È il mio dito che non va, il dito che mi hanno tranciato.” A riprova sollevò la mano con il dito amputato.

Wiggins sembrò voler aggiungere qualcos’altro. Sherlock lo ricacciò in cucina, spingendocelo di peso, quindi tornò a sedersi sulla sua poltrona e intimò con voce sepolcrale e un gesto categorico della mano: “Proceda.”

Mr. Hatherley non se lo fece ripetere una seconda volta. “Qualche giorno fa sono stato contattato da un uomo per un lavoro che voleva commissionarmi. Mi ha promesso 500 sterline.”

“Lei ha accettato.”

Mr. Hatherley aveva l’aria di un uomo che sa di aver commesso un errore di calcolo e che ha mal giudicato o sottovalutato le ripercussioni di una cattiva condotta e forse di una troppo impulsiva scelta. “Ho accettato,” assentì rabbuiato, “ed è inutile che le dica che se potessi tornare indietro farei l’esatto contrario. Ormai non ci si può fare nulla, anche il mio dito… dovrò imparare a conviverci, immagino.”

“Sarà un eccellente memorandum.” Sherlock aveva inteso consolarlo e l’uomo sembrò comprenderlo perché gli concesse un rapido sguardo, non replicando.

“Il giorno dopo, l’uomo che mi aveva contattato mi ha chiamato una seconda volta e siamo rimasti d’accordo per incontrarci alla stazione di Reading per il pomeriggio seguente. Mi ha detto quale treno prendere e che avrei trovato il biglietto intestato a mio nome alla biglietteria della stazione di Paddington. Ho fatto come mi diceva.”

Molly avrebbe voluto chiedergli se non gli fosse sembrato sospetto, ma rimase in silenzio. 500 sterline rappresentavano un boccone ghiotto per chiunque e Mr. Hatherley non sembrava immune al fascino che una proposta in denaro allettante come quella sapeva esercitare.

“Chi ha trovato a Reading?” domandò Sherlock.

“Un uomo che ha detto di chiamarsi Lysander Stark, un Colonnello. Sembrava un bravo ragazzo. Alto, con gli occhi chiari, proprio un bel ragazzo. Le assomigliava.”

Sherlock accolse l’ultima osservazione con uno strano lampo di attenzione. “E si è presentato come Colonnello, ha detto? È sicuro del grado? Non Tenente? Colonnello?” lo incalzò.

“Più che sicuro. È importante?”

Sherlock rilasciò la trazione a cui aveva sottoposto la schiena e la appoggiò contro la poltrona, sovrapponendo i polpastrelli di fronte al viso tornato inespressivo. La fiammella, qualunque cosa l’avesse accesa, si era spenta in un batter d’occhio. “Non ai fini del caso. La mia era semplice curiosità.”

Molly si accigliò. Quella di Sherlock non era mai semplice curiosità, sebbene spesso la facesse passare sotto quella definizione per sviare la reale portata del suo interessamento.

“Siamo andati a casa sua. Mi ha raccontato che è un tipografo e –”

“Lei ha dato per scontato che si occupasse di stampa digitale.”

“Perché non avrei dovuto?” domandò Mr. Hatherley con amarezza. “Sono un ingegnere informatico. Ho pensato che gli si fosse inceppato un meccanismo della stampante a laser o che volesse che gli aggiornassi un software -”

“Dunque siete arrivati,” lo torchiò Sherlock. “Dove?”

“In un cottage, a sette miglia di distanza se ho calcolato bene i tempi. Da qui sono cominciati i miei sospetti. Vede, aveva una jeep, l’ideale per le strade accidentate di campagna, ma mi aveva detto che avremmo percorso circa dodici miglia. Dodici miglia a 35 all’ora e noi le abbiamo percorse in dodici minuti scarsi. Capisce che la cosa puzzava parecchio, vero? Ma mi sono detto che andasse bene così, anche perché lui mi ha informato che stava prendendo la strada larga, che c’era un festival in zona, uno musicale che, mi assicurava, se mi piaceva il genere rock era irrinunciabile. Lui stesso aveva intenzione di andarci. Insomma, sembrava tutto molto tranquillo e cosa importavano poche miglia di differenza? Credevo di essere paranoico, perciò ho messo a tacere l’istinto.”

“Ricorda il tipo di strada? Selciato, acciottolato, asfaltato liscio o con porfido, nello stile delle vie romane?”

“Asfaltato liscio e ricordo che si sentiva della musica, non molto lontano. Siamo arrivati che il cielo cominciava a imbrunire. Mi ha offerto la cena e in quel momento c’è stato un black-out. Ha imprecato e si è scusato, dicendo che dovevano essere i fusibili. Quando è tornato, era visibilmente contrariato. Mi ha detto che anche con la torcia era impossibile riparare il guasto, che c’era stato un cortocircuito. Gli ho proposto di farmi dare un’occhiata, che avrei potuto occuparmene io. Mi ha spiegato che non era la prima volta che succedeva, che sapeva quale fosse il problema, ma che non aveva i pezzi necessari per occuparsene. Vedendo la fermezza con cui rifiutava, non ho insistito oltre. A quel punto lui mi ha chiesto se potessi mettermi al lavoro anche al buio su quello per cui invece mi aveva chiamato. Aveva una consegna fissata per la fine della settimana e se non altro, facendo a quel modo, avrebbe potuto già ricominciare a lavorare la mattina successiva. ‘Ho una quantità formidabile di torce’, ha aggiunto, sorridendo. ‘Una provvista degna di un escursionista.’ Gli ho detto che per me sarebbe stato più difficile trovare il guasto e anche se lo avessi trovato e aggiustato, come avrei controllato senza corrente? Mi ha detto che non dovevo preoccuparmi di questo, che sembravo una persona di fiducia e che sarei stato pagato lo stesso perché l’inconveniente non aveva nulla a che fare con me. Ho acconsentito. Mi ha accompagnato in una stanzetta sul retro della casa, buia come la pece e con spranghe a tutte le finestre tranne che a una, da cui si vedeva il giardino. C’era una semplice scrivania, un computer, uno scanner e una stampante. In un angolo ho intravisto della carta. Sembrava esattamente quello che lui mi aveva raccontato: il laboratorio o lo studio di un tipografo, niente di più.”

“Ma non lo era.” Sherlock aveva gli occhi ardenti, infervorati. “Cosa ha visto nell’angolo della stanza? Quello opposto alla finestra?”

Mr. Hatherley ricambiò il suo sguardo con uno incredulo. “È bravo esattamente quanto dicono. Ha ragione lei; ho visto qualcosa, era un telaio.”

Sherlock batté le mani con un sorriso trionfante. “Oh, è tutto molto chiaro adesso, non trovi anche tu, Molly?”

Molly poteva capire cosa, di preciso, disturbasse tanto John di quel suo modo di fare. Scosse la testa. “Mi dispiace, ma no, non ne ho idea.”

“Oh, andiamo!” la sollecitò lui. “Un telaio da serigrafia, giusto? Un falsario, Molly! Non me ne capitava uno da anni!”

Mr. Hatherley sembrava un po' sconvolto. È normale che reagisca così?, sembrò chiederle quando si voltò verso di lei. Molly lo rassicurò con un sorriso divertito.

“Quindi accetta il caso? Non le ho ancora raccontato cosa è successo al mio pollice.” Mr. Hatherley sembrava ritenerlo di vitale importanza.

Sherlock accantonò la sua insistenza con una smorfia. “Quella parte del racconto non mi sarebbe di alcun aiuto. Inoltre mi è perfettamente chiaro cosa sia successo. Lei ha aggiustato il guasto, ma a quel punto il Colonnello ha avuto il sentore che lei avesse fiutato l’inganno. Le ha chiesto di rimanere a dormire. Lei gli ha risposto che preferiva andarsene subito, probabilmente inventando la scusa di un altro impegno di lavoro. Scelta incauta. Lui si è convinto che lei avesse dei sospetti. Ha insistito, offrendole la stanza al secondo piano e lei ha ceduto, ma ha progettato la fuga. Ha aspettato un paio d’ore per essere sicuro che lui si fosse addormentato e ha creato una fune con le lenzuola. Poi con quella si è calato giù dalla finestra. Il Colonnello era sveglio, è entrato nella stanza e ha cercato di colpirla. Lei ha alzato la mano per pararsi e il colpo le ha tranciato di netto il dito. A quel punto ha perso la presa e cadendo è svenuto. Ho sbagliato qualcosa?” 

 

*

 

John, è un ragionevole motivo quello che ti trattiene dal rispondere al cellulare?

 

Se non si fosse capito: rispondi al cellulare!

 

John, possono essere tre i motivi di questo prolungato silenzio.

1.      Non sei in casa.

2.     Rifiuti di rispondermi. Tengo a ricordarti che non sei una donna, anche se evidentemente sei soggetto a gravi sbalzi ormonali.

3.     Tu e Mary siete impegnati in attività ricreative in camera da letto. Nel caso in cui questa umiliante ipotesi corrispondesse a verità, ebbene non avete il minimo senso del decoro? Il pensiero di me e Katie non basta a frenarvi?

 

*

 

“John non risponde.”
“Vai a prenderlo a casa sua?”
“Non c’è tempo. Dovremo fare diversamente.” Sherlock tirò indietro le spalle, chiuse gli occhi e strinse la bocca in una linea storta, come se fosse giunto nel giro di pochi secondi a una drastica risoluzione. Quando li riaprì, le porse la mano. “Andiamo a caccia di ombre, Molly.”

 

 

*

 

Tre ore più tardi occupavano lo scompartimento di un treno diretto a Reading, dove li aspettava l’Ispettore del commissariato di polizia più vicino.

C’erano lei e Sherlock, Mr. Hatherley, Greg, tutt’altro che felice di essere stato buttato giù dal letto all’alba, e Victoria. (“Una civile? Passi per Molly, lei è un medico, ma la ragazza non ha alcuna qualifica per essere presente sulla scena di un crimine,” aveva fatto notare Greg scontroso.

Sherlock aveva fatto una smorfia. “È con me,” aveva liquidato la questione.

Molly aveva colto di sfuggita l’impercettibile sguardo d’intesa che Sherlock e Victoria si erano scambiati. Da qualche parte dentro di sé, la ragione e non il sentimento aveva sospirato con rassegnazione.)

Alla stazione di Reading, come pianificato, li attendeva l’Ispettore Bardsley. Lui e Greg si strinsero la mano, snocciolando i rispettivi gradi e occupandosi della trafila burocratica. L’agente di servizio insieme all’Ispettore passò loro una scorta di caffè ancora caldo.

Molly lo ringraziò brevemente, prima di essere tirata via da Victoria. Non indossava un giubbotto, solo una maglietta nera con il Summer Tour di un gruppo rock sul retro e sul davanti la scritta ‘RESTRICTED TO EVERYONE, EVERYWHERE, ALL THE TIME’ e il nome della band Queens of the Stone Age in un angolo. “Ricorda che non puoi fidarti di nessuno.”

Molly lo ricordava perfettamente e avrebbe voluto che lei non la trattasse come un’imprudente sconsiderata. Poi si rese conto che Sherlock le stava guardando, ad un passo di distanza da Greg e dall’altro Ispettore, mentre Mr. Hatherley era impegnato ad esporre anche a loro quanto gli era successo. Capì perché Victoria li avesse accompagnati e il fastidio nei suoi confronti decrebbe di colpo. “Fantastico,” disse. E lo era. Davvero, davvero fantastico. Aveva una balia.

“Bill l’aveva detto che non l’avresti presa bene.” Victoria giocherellò con uno dei numerosi anelli che aveva.

“Non è per te,” si costrinse a spiegarle Molly. Ovviamente non ce l’aveva con lei. Perché avrebbe dovuto? Il compito doveva risultarle ingrato quanto era sgradito a lei.   

“Non ci riesci proprio, vero?” Victoria le lanciò un’occhiata enigmatica.

“A fare cosa?”

“A non essere così gentile, a non sorridere sempre.”

Molly non rispose subito, ma poteva sentirla come greve e pesante sul proprio viso, una specie di tela di lino o di seta trasparente a coprirglielo: la tristezza che traspariva. “Nessuno vuole una persona infelice che lavora in un obitorio.*”

Victoria la fissò e fu come se la mettesse a fuoco per la prima volta. Molly conosceva quello sguardo, era qualcosa che le capitava di ricevere spesso. La timida e impacciata Molly che alla fine non si rivelava poi tanto timida e impacciata, quale sorpresa!

“Non hai freddo?” domandò per cambiare discorso.

“Ho sempre freddo.”

Oh, quindi erano in vena di filosofia e sentimentalismi, quel giorno. Non che le dispiacesse. “Tranne con Wiggins.”

“Bill c’è sempre stato, anche prima di incontrarlo. Era il vuoto della sua mancanza. Conosci quel film con Dermont Mulroney e Debra Messing?”

“The Wedding Date?”

“Proprio quello. C’è una frase, una in particolare, che mi colpisce ogni volta che lo guardo. ‘E mi saresti mancata anche se non ti avessi mai conosciuta.’” Victoria si prese i gomiti con le mani, stringendo le braccia contro il petto. Sembrava alta e allo stesso tempo incredibilmente piccola, ma non fragile. Non c’erano fragilità o insicurezze in lei, Molly odiava chiamarle con quei nomi; erano le perseveranze che rendevano qualcuno irriducibilmente se stesso, che plasmavano il carattere, modellandolo nella creta.

Poggiò la mano sulla sua, sperando che non la scacciasse. Miracolosamente, Victoria non lo fece. “Credo di capirlo,” e nel dirlo guardò la schiena ampia e scura di Sherlock. Aveva il bavero del Belstaff sollevato e il vento, leggero e tiepido, gli aveva scompigliato i capelli.

“Già.” Victoria aveva seguito la direzione del suo sguardo. “Credo proprio che tu lo sappia.”

 

*

 

Esaminarono la casa, dentro e fuori, da cima a fondo, dividendosi in due gruppi, dopo che Sherlock aveva provveduto a informarli che il falsario aveva già levato le tende da mezza giornata. Probabilmente subito dopo aver messo Mr. Hatherley sul primo treno per Londra. “Dopo che è svenuto,” dichiarò infastidito per rispondere alle occhiate di pura incredulità che tutti gli avevano riservato. “Come credevate che fosse arrivato in stazione? Volando?”

Mr. Hatherley accompagnò Greg e l’Ispettore Bardsley a perquisire l’interno insieme agli agenti. Lei, Sherlock e Victoria esplorarono il cortile e il retro del cottage perché Sherlock voleva analizzare il terreno tutto attorno alla finestra e le tracce fresche della jeep che puntavano a nord-ovest. “Nella direzione di Reading,” commentò Sherlock, a riprova che quel che aveva detto poco primo non fosse il lapsus di un folle. “Almeno su una cosa il nostro falsario è stato sincero. Può darsi che avesse davvero intenzione di andare a quel festival.”

Sotto la finestra da cui Mr. Hatherley aveva cercato di calarsi e poi era caduto, Sherlock si inginocchiò e cominciò a tastare i cespugli di rose. Molly vide che prendeva un ghigno soddisfatto e si infilava qualcosa nella tasca interna del soprabito.

“Ti prego, dimmi che quello che hai appena messo in tasca non è il pollice di Mr. Hatherley.”

“Non è il pollice di Mr. Hatherley,” disse Sherlock.

Molly lo guardò.

Sherlock roteò gli occhi. “Non è più suo. Potrebbe rivendicarlo, questo è certo. Tuttavia, nel rispetto della procedura, se dopo un anno il proprietario originario dell’oggetto non avanza pretese, chi lo ha trovato ne diventa effettivo proprietario. Converrai con me, Molly, che un anno sia un tempo decisamente lungo e che, considerata la natura degradabile dell’oggetto in questione, possiamo ridurre il periodo di attesa a un giorno. Tempo che, guarda caso, scade tra meno di otto ore. Se entro quell’ora Mr. Hatherley non avrò fatto domande, mi riterrò libero di portarmi a casa questo pollice e di immergerlo in un matraccio pieno di acqua regia e dargli fuoco. Ho tutta l’intenzione di studiare gli effetti di una fiamma da deflagrazione su un corpo che abbia già iniziato i processi di decomposizione.”

Molly stava per dirgli di scordarselo, niente esplosivi fino a quando lei non avesse provveduto a rendere Baker Street sicura e a norma di legge anti-incendio. Non fece in tempo. Un agente uscì a richiamare Sherlock perché controllasse una stanza.

Molly captò le parole ‘pesce morto’ e ‘orologio da taschino’. Rise di stessa. Sarebbe stata di certo un pessimo agente segreto, incapace com’era ad origliare.

 

*

 

“Dove hai lasciato Molly?” domandò Lestrade.

“Fuori con Victoria. A questo proposito ti sarei grato se mandassi due agenti a controllarle.”

“La prudenza non è mai troppa, eh?” Lestrade annuì. “Dovrei chiedere a Bardsley.” Si frappose tra due agenti che stavano parlando davanti all’ingresso, dando loro l’ordine e quelli annuirono e scattarono verso il retro.

Sherlock entrò e scese nella cantina.

Lestrade gli era alle costole. “Cosa ne pensi di tutta la faccenda? Ti sei fatto un’idea?”

Sherlock afferrò il significato di ogni oggetto sull’altarino allestito contro uno dei pilastri portanti non appena vi posò lo sguardo.

“Credi che sia un rito satanico? Se lo è, è di sicuro il più strano che abbia mai visto.”

“Non lo è,” replicò Sherlock aspramente. Si chinò ad osservare il teschio di donna, l’orologio da tasca e l’esemplare di Poecilia reticulata. In pittura rappresentavano la vanitas. “È un Memento mori ed è rivolto a me.”

Prese l’orologio e lo infilò in tasca. “Apparteneva al padre di Molly.”

Non rimase ad osservare la comprensione e l’orrore che si facevano largo negli occhi di Lestrade. Ritornò al piano superiore e respirò a piene boccate l’aria di mezzogiorno, cercando tra le ombre del patio fresco quella di Molly. Non si fermò finché non l’ebbe trovata.

 

* 

“Si trattava di falsari su vasta scala,” spiegò Greg con una risata che a Molly, a pelle, suonò falsa e inquieta. “A quanto pare l’Ispettore Bardsley era a conoscenza già da tempo dell'esistenza di una banda che operava in questo campo su scala internazionale. Hanno messo in circolazione migliaia di banconote da venti e cinquanta euro perché a quanto pare la filigrana dell’euro ha contorni molto più sfocati rispetto alla sterlina e quindi è più facile da riprodurre.”
Erano nello scompartimento del treno di ritorno, tutti ad eccezione di Victoria, rimasta a Reading per il Festival. (“Ecco quanto ti dovevo.” Sherlock le aveva passato un cartoncino con delle annotazioni. “Consegnalo allo sportello del botteghino, fa’ il mio nome e avrai il tuo biglietto.”
“Per tutto il weekend?”
“Campeggio incluso.”
Victoria aveva intascato il cartoncino come se fosse qualcosa di prezioso, poi si era voltata verso di lei con aria estremamente colpevole.
Molly l’aveva abbracciata di slancio. L’aveva sentita irrigidirsi contro di lei e poi rilassarsi. Staccandosi le aveva sorriso. “Divertiti,” le aveva augurato.)
Scoprì che Sherlock aveva intrapreso una conferenza sugli elementi necessari per distinguere un buon falso da un pessimo falso. A quanto pareva erano cinque.
Sono la filigrana, la striscia o placca olografica, il filo di sicurezza, il rilievo del numero e della figura, il registro di stampa recto-verso, la striscia dorata sul verso della moneta. La filigrana, sulla parte sinistra della cartamoneta, viene riprodotta imprimendo il motivo architettonico con un timbro di colore grigiastro umidificato con una soluzione acida. Il risultato finale è che la filigrana è perfettamente disegnata.”
Molly guardò fuori dal finestrino il paesaggio del Berkshire: pianeggiante e intervallato da brevi arbusti e dalla striscia d’acqua scintillante del Tamigi. Cercò di scacciare la sensazione di preoccupazione, una specie di tarlo che la rodeva. Cercò di non pensare; non ci riuscì. C’erano troppe zone vuote, troppi punti deboli. Prima di tutto il modo in cui Sherlock si fosse appassionato al caso non appena Mr. Hatherley aveva nominato quel Colonnello. Nonostante lui non lo avesse detto esplicitamente, Molly era pronta a giurare che se anche non sapeva chi fosse, lui avesse un’idea abbastanza precisa della sua identità. Quando avevano trovato la casa, poi, Sherlock non era parso affatto sorpreso nel constatare l’assenza del falsario e non si era mosso per rintracciarlo. Aveva semplicemente preso atto della cosa, come un dato di fatto. Era come se sapesse, come se avesse già dato per scontato che lui si sarebbe dileguato prima del loro arrivo. E poi perché il falsario non aveva ucciso Mr. Hatherley? Avrebbe potuto. Di sicuro non gliene era mancata l’opportunità. Invece aveva scelto di metterlo sul primo treno per Londra. Perché? Non aveva il minimo senso.
Inoltre c’era qualcos’altro ancora, qualcosa di sottile e appena percepibile tra Sherlock e Greg. Da quando erano usciti dal cottage le erano rimasti accanto come una specie di vigilanti o custodi. Di solito Sherlock si sarebbe lamentato dell’eccessiva vicinanza dell’altro, ma questa volta aveva soprasseduto; era parso persino grato. Questo era inconcepibile per lei.   
“Bene,” disse in tono depresso Mr. Hatherley, tirando fuori Molly dall’impiccio ingarbugliato delle sue riflessioni. “Proprio un bell'affare! Ho perduto un pollice, ho perduto cinquecento sterline e cosa ci ho guadagnato?”
“L'esperienza,” rispose Sherlock con uno dei suoi sorrisi asimmetrici. “È una cosa che indirettamente può essere preziosa, sa? Non avrà che da raccontarla per farsi la fama di eccellente intrattenitore per il resto della sua vita.”*

 

 

 


N/A:

*Nobody wants an unhappy person working in a morgue.
(Dal blog personale di Molly. http://www.mollyhooper.co.uk/ Non farina del mio sacco quindi. Sono io che cito Molly che cita se stessa :D)
*Poecilia, altrimenti detta Molly. 
*Il Festival è il Festival di Reading
*Dal “Bene” di Mr. Hatherley, l’ultimo paragrafo è preso di pari passo dal racconto. Ovviamente con alcune inedite ‘correzioni/aggiunte’ adattate ai cambiamenti che vi avevo apportato.    
*La spiegazione dei cinque elementi e l’osservazione di Greg riguardo la filigrana euro-sterlina (nell’articolo è euro-lire) è tratta da un articolo che io personalmente ho trovato molto interessante e che è per l’appunto questo:
http://www.robertosaviano.it/articoli/con-leuro-arrivano-i-nuovi-falsari-banconote-perfette-finche-asciutte/
Non aggiungo altro perché già così le note sono lunghissime. Dico solo: Yuppiii! Gli aggiornamenti a mezzanotte! Mi erano mancati xD
Un abbraccio gigantesco! 

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Capitolo 14
*** XIV ***


14

“Dove sei stato?”

La rabbia di Sherlock era palpabile, una specie di miasma che rendeva l’aria attorno a lui irrespirabile. 

Il temperamento atrabile – un rigurgito di bile nera – non era semplice inclinazione di carattere, ma uno chador realizzato su misura per lui, una disposizione d’animo che metteva in soggezione qualunque persona avesse la malaugurata sorte di osservare lo sfacelo che tendeva a creargli attorno, come terra bruciata.  
John era uno dei pochi fortunati ad essere sopravvissuto all’esperienza senza avere i nervi a pezzi e meglio ancora ad aver imparato ad arginarne i danni. 
Cadeva una pioggia torrenziale, un temporale estivo e insieme qualcosa di più violento e aggressivo. Entrando, lui parve portare con sé la bufera che batteva contro le finestre il suo vento infernale, facendone tremare i vetri.

John poteva vederla imperversare nei suoi occhi, da cui schizzavano balenii d’astio. “Sherlock,” sospirò. Aprì le braccia per mostrargli il suo aspetto dimesso, forte della convinzione che lui avrebbe dedotto la situazione senza che dovesse spiegargliela.

“Sta meglio?” Come da copione. Ancora incupito, Sherlock si fece largo nell’ingresso e nel salotto, provvedendo a sfilarsi cappotto e sciarpa zuppi, a disporli di traverso sullo schienale del divano e poi a occupare il suo posto preferito.

“Mary è di sopra con lei. Sono queste coliche.” Si massaggiò il collo indolenzito. “Non ci danno pace, specialmente la notte.”

“Immagino la vostra cura: massaggi e sciocche canzoncine. Nessuna sorpresa che vi tenga svegli. Chiunque possieda un minimo di criterio reagirebbe al malessere aggiuntivo della medicina sfogandosi con crisi di pianto.”

John aveva una catena di notti insonni a pesargli sulle spalle, inclusa quella in corso, e similmente a Sherlock anche il suo umore non era tutto ‘rose e fiori’. Si strofinò gli occhi, contenendo uno sbadiglio e un’imprecazione. “Dimmi cosa vuoi, Sherlock.”

Sherlock deglutì e John fu subito in allerta, improvvisamente cosciente del qualcosa nel suo sguardo inquieto, che era di un colore perfino più instabile e umorale del solito, nel modo in cui teneva le braccia irrigidite sulle gambe e si tastava il viso con mani smaniose; del qualcosa, nel suo atteggiamento, che era tutto fuorché composto o controllato, nulla di regolato da quella sua dura disciplina di ordine e fredda, a tratti spietata, logica mentale.

Capitava di rado di intravedere quel lato di Sherlock ed ogni volta era tremendo: era come spiare dal buco della serratura qualcuno, violare la natura intima di un segreto.

Sherlock era nervoso e allucinato e questo non rendeva John teso o agitato. Lo terrorizzava fottutamente.

“John.” Sherlock rialzò la faccia, una faccia cadaverica quasi quanto l’aveva avuta sul marciapiede del Barts quel giorno maledetto di tre anni prima, quando John lo aveva trovato sporco del sangue che, ora lo sapeva, non era gli era mai appartenuto. “Non sono stato del tutto sincero.”

“Serve che chiami Mary?”

“Non occorre.” Mary entrò nella stanza, chiudendosi meglio la vestaglia in vita.

Mentre pensava alla straordinaria capacità di lei di materializzarsi al momento opportuno, Mary gli indicò la radiolina-interfono che John si era praticamente dimenticato di aver infilato in tasca. Era accesa; ergo, doveva aver ascoltato tutto.

“Katie?”

“Dorme come un ghiro o piuttosto come qualcuno che non lo ha fatto per due giorni di fila.” Il sorriso fu una nuvola passeggera sul volto stanco di Mary, prima che lei si voltasse verso Sherlock.

Lui ricambiò il suo sguardo con uno altrettanto intenso. L’aria era densa, consistente al punto che la si sarebbe potuta tagliare, quando lui annunciò tetro: “Dobbiamo parlare.”

 -

-

*

-

 -

John aveva preparato il tè. Lo passò a Sherlock, che lo prese con una smorfia critica.

Lui fu rapido a decifrarla. “Niente caffè. Ordini del medico.”

Sherlock arricciò le labbra e assentì brevemente.

“Riguarda l’attentatore di Molly, vero?” Tipico di Mary andare dritta al punto. Mary dalla mira perfetta.

Sherlock tacque.

“Sai chi è,” proseguì lei imperterrita. “Ho sempre pensato che fosse strana la tua inattività e poi quell’assurdo voler tenere Molly sotto chiave a Baker Street. A che scopo?”

“Era per proteggerla, no?” domandò John in tono d’ovvietà.

Mary e Sherlock gli dedicarono un’occhiata di uguale scetticismo. Dio, quanto li odiava quando facevano così. 

“Mary ha ragione, naturalmente.” Sherlock sospirò, un sospiro profondo come la gola di una montagna. “Non è più una caccia al tesoro. Il prossimo non sarà un tentativo.”

“Ma è Moriarty,” fece presente John. “Non la ucciderebbe mai. Non lo troverebbe abbastanza estremo.”

“Ecco perché vuole che io la guardi morire.”

“La stessa performance due volte? Non è da lui.”

Sherlock fece una smorfia. “Non è lui.”

“Cosa –” John lo fissò di stucco. Sperò di aver sentito male, doveva.  “Non è Moriarty?” 

“Un suo sottoposto, Sebastian Moran.”

E invece no, dannazione a lui, aveva sentito benissimo. “Perché il nome mi ricorda qualcosa?” Aggrottò la fronte e poi la spianò, in preda alla sorpresa. “Moran come Lord Moran? Quello dell’attacco terroristico al Parlamento?”

“Lui era soltanto un pesce pulitore, uno specchietto per le allodole. No, si tratta di suo figlio.”

John non riusciva a capacitarsi. “Mi avevi fatto credere, avevi fatto credere a tutti che fosse opera di Moriarty,” lo accusò, non badando a nascondere la rabbia e il biasimo nella propria voce. Voleva che lui sentisse, che capisse definitivamente a cosa portasse la sua tenacia nel volere tenere tutti all’oscuro di tutto, nell’idea distorta che aveva di proteggerli.

“Perché è Moriarty.” Sherlock schizzò in piedi come una dannata carica a molla in tantalio; si avvicinò con passi rabbiosi alla finestra e scostò la tenda per controllare la strada. Pioveva ancora e lui aveva l’aspetto di un lupo costretto in gabbia. “Tutto si ricollega a lui. È la matrice di ogni male e questa è sempre stata una caccia alle ombre, sin dall’inizio. L’ombra di un fantasma.”

John scosse la testa. Continuava a non capire. “Cosa è cambiato? Be’, deve essere successo di sicuro qualcosa per spingerti a venire qui e vuotare il sacco. Riguarda l’ultimo caso? Quello del falsario? Greg… Lestrade,” si corresse con un sospiro veemente, perché al nominarlo Sherlock aveva preso un’aria smarrita. “Mi ha mandato un messaggio. Mi ha detto di chiedere a te e che non poteva scriverlo tramite sms. Ha parlato di linee compromesse. Cosa diavolo sta succedendo?”

“Siamo osservati. Costantemente. Possono introdursi nei modem, nelle reti telefoniche, nei video di sorveglianza.”

“La pioggia,” si intromise Mary, come se avesse avuto un lampo di intuizione.

Sherlock annuì, ricompensandola con un veloce sorriso di gratifica. “La pioggia interferisce con i segnali, sì.”

“È a questo che ti serve quella ragazza, Victoria. Lei è la tua torre di sorveglianza,” osservò Mary.

John si trattenne a stento dallo sfregarsi le tempie. Uno avrebbe dovuto farci l’abitudine. Dopo anni di misteri e complotti e cospirazioni e intrighi machiavellici, avrebbe dovuto fare il callo a conversazioni che non avevano il minimo senso, non ne acquisivano se non a cose fatte, elaborate. “Cosa sa Molly di tutto questo?”

Sherlock esitò. L’argomento lo metteva in difficoltà, era evidente. Bene, pensò lui, il risveglio della coscienza. “Quanto basta. Sa che conosco l’identità dell’attentatore e che non si tratta di Moriarty. Se già aveva dei dubbi, Reading li ha fomentati e da quando siamo tornati, tiene gli occhi ben aperti.”

“Brava ragazza,” approvò Mary con una nota di orgoglio. “Cosa è successo lì?”

Sherlock glielo raccontò in breve. John ne fu costernato.

“Chi si è spacciato per falsario era Moran,” concluse Sherlock monocorde. “Nella rete di Moriarty il suo nome in codice era colonnello. Era una delle ambiguità di Moriarty. Io avevo il mio blogger, lui aveva il suo colonnello a tenere in riga l’esercito.”

“Fantastico,” esclamò John sarcastico.

Sherlock unì le mani e le poggiò contro il mento. “Era intenzione di Moran che l’ingegnere che aveva ingaggiato arrivasse a me in qualità di cliente, per questo non lo ha ucciso. Voleva che mi portasse dritto da lui. Io ho fatto il suo gioco.” Scosse la testa, rannuvolandosi. “No, ho fatto di peggio. Ho lasciato che Molly mi accompagnasse.”

“Non potevi saperlo,” lo consolò Mary.

John provò a tirare le somme, ma, per quanto provasse, il risultato non era mai lo stesso. In quel macello, soltanto una cosa gli era lucidamente chiara. “Devi dirlo a Molly.”

Sherlock lo guardò come se fosse pazzo. “È fuori discussione.”

“Se ho voce in capitolo –”

“Non l’hai,” lo interruppe Sherlock freddo.

“Ma se posso dire la mia opinione –”

“Non puoi.”

“Al diavolo, Sherlock! Cosa pensi di fare? Tenerla a Baker Street per altri sei, dieci, venti mesi? Fino a quando non avrai risolto questa storia?”

“Se necessario, sì.”

John sapeva che ne sarebbe stato capace. Razza di –

Mary gli posò una mano sul braccio per frenarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate e gli occhi limpidi scandagliavano Sherlock con una prudenza calcolatrice. “È il motivo per cui sei qui. Cosa vuoi di preciso?”

“Ci saranno altri casi. Wiggins non basta più. Non posso fidarmi degli uomini di Mycroft. Mi servi tu, Mary.”

Dunque era così. Voleva proteggere Molly, ma non al punto da rinunciare a lei. Il sentimento che subentrava negli schemi perfetti del suo hard disk, simile a un virus, che li trasformava in arbitrari. Il sentimento che rendeva la soluzione perfetta infattibile. Se non era quello amore, un amore egoistico forse, ma pur sempre amore, John non sapeva che altro nome dargli.

Proprio perché anche il suo amore era egoistico, John non poteva permettere che Mary si mettesse in pericolo. Non riusciva quasi a credere che Sherlock glielo avesse chiesto. No, posso crederci invece. Io avrei fatto lo stesso, l’ho fatto.

Si voltò verso Mary per scoprire sconvolto che lei aveva già deciso. “Non intenderai accettare,” protestò.

Mary gli sorrise, di un sorriso che racchiudeva l’ossimoro che sua moglie rappresentava ai suoi occhi: terribile e meraviglioso concentrati in un unico spazio. “Gli devo un favore e poi Molly ha ragione; siamo una famiglia, John. Se un membro della mia famiglia viene a chiedere il mio aiuto, non posso voltargli le spalle.”

 -

* 

-

C’erano momenti di feroce, protettiva tensione tra loro, che si spegnevano, così com’erano iniziati, nell’abisso di altri pensieri e sentimenti.

 -

Quando rientrò nell’appartamento, trovò che Molly si era addormentata.
Lasciò che la scena gli riempisse gli occhi, per conservarla dietro una delle tante porte bloccate del suo palazzo mentale.
Sherlock avrebbe desiderato coprirla nella sua interezza, curvarsi a nascondere la morbidezza del corpo minuto di lei con la spigolosità allungata del proprio. Nasconderla al mondo e convincersi, avere la sicurezza che così facendo lei fosse al sicuro.
Molly dormiva profondamente, raggomitolata sulla sbiadita poltrona rosso pompeiano di John.
Lui, intanto, gocciolava sul pavimento la pioggia e l’umidità che la nebbia di Londra gli aveva buttato addosso.
Sherlock la prese in braccio e la testa di Molly trovò d’istinto la curvatura inospitale tra spalla, clavicola e collo che lei dava mostra di apprezzare particolarmente.
“Sherlock,” mormorò nel sonno e le sue dita affusolate afferrarono il risvolto bagnato del Belstaff.
Lui provò qualcosa, un’oscillazione rapida, ma moderatamente frenata, all’altezza della trachea, tra bronchi e polmoni, che vibrava di un accento di disperazione.
“Sono qui.” Le sfiorò la tempia con le labbra, in un bacio che non era un bacio, ma solo la sua carezza. “Andiamo a letto, Molly.”
Non avrebbe dormito. Veder dormire lei era l’unico riposo di cui abbisognasse, il riposo più soddisfacente che riuscisse a immaginare.


 
* 


“Cara, non trovi anche tu che ultimamente la casa sia piuttosto movimentata? Più del solito, intendo.”
Era una mattina qualunque e Molly stava facendo colazione con uova e bacon. Posò forchetta e coltello e, riflettendoci sopra, dovette convenire con quanto Mrs. Hudson aveva detto. La casa non era solo movimentata, era affollata.
Wiggins e Victoria si erano praticamente trasferiti in pianta stabile al 221C – dal basamento arrivava ormai forte e chiara musica rock ad ogni ora del giorno e della notte, con buona pace dei pomeriggi del gruppo di studio, che dovevano accontentarsi di occupare abusivamente la cucina sempre disponibile di Mrs. Hudson o, in casi fortuiti e più unici che rari, il salotto del 221B.
E poi c’era Mary, che da una settimana e mezza a quella parte aveva cominciato a trascorrere le sue mattinate con lei. Era ancora in congedo di maternità, lo sarebbe stata fino a metà settembre. (Non era insolito che Mary si fermasse anche a dormire a Baker Street in caso di lontananza di John, quando un caso con Sherlock lo teneva impegnato, trattenendolo nottetempo.
Molly le cedeva volentieri la camera in cima alle scale, approfittando dell’assenza facoltativa di Sherlock per appropriarsi di quella di lui che aveva il letto più comodo.)
Non che a Molly quei cambiamenti abitativi risultassero sgraditi, tutt’altro.
Cessate le estemporanee passeggiate notturne con Wiggins con la giustificazione di ‘certi affari in sospeso con Mr. Holmes’ (a cui Molly avrebbe anche potuto fingere di credere se Wiggins si fosse dato pena di nascondere l’ozio che tali attività fantasma operavano sulle sue giornate e se, per amor di decenza, avesse smesso di girare in mutande supereroistiche con l’aria spensierata di chi non ha urgenti occupazioni o impegni a profilarsi all’orizzonte), sarebbe caduta presto preda della noia più lugubre se non fosse stato per la costante presenza di Mary e Katie e di Mrs. Hudson, di Victoria e dello stesso Wiggins, a portata di voce. 
Ciò nonostante doveva ammettere che questo nuovo quadro casalingo, per quanto indubbiamente amabile, non soltanto si presentasse sospetto, ma che lo fosse incredibilmente. Aveva avuto una guardia del corpo e una balia, ora si rendeva conto di avere un’intera guardia d’onore preposta alla sua sicurezza.   
Avrebbe potuto chiedere spiegazioni; chiedere cosa, di preciso, fosse cambiato per spingere tutti ad una risoluzione radicalizzata come quella. (Per quello, Molly era loro grata davvero. Si erano chiusi attorno a lei in un cerchio, in modo compatto, come una formazione di difesa da testuggine romana.)
Avrebbe potuto pretendere di essere messa a parte, ma non lo avrebbe fatto. Non intendeva arrendersi all’ignoranza e la sua non voleva essere una meschina prova di forza.
Avrebbe aspettato e taciuto perché in quel frangente, come in altri, sperava che Sherlock scegliesse di confidarsi con lei sinceramente, quando fosse stato pronto.
Riprese coltello e forchetta e prese un boccone particolarmente abbondante. “Davvero? Non me n’ero accorta,” rispose distratta.

 
*

 
“E se Molly dovesse fare domande?”
“Non ne farà.” Sherlock appariva sicuro di quel che diceva, ma John non si era arreso.
“Io ne farei.”
“Molly non è te.”
C’era, nel modo in cui lo aveva detto, un complimento rivolto unicamente a lei.
“Perché non dovrebbe? Ne avrebbe ogni sacrosanto diritto.”
“Non ne farà perché si fida di me.”

Anch’io mi fido di te, era stato sul punto di replicare John, sentendosi in qualche modo indignato e insultato. Poi aveva capito cosa Sherlock intendesse.
“Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare,*” disse, citando un’espressione che lo stesso Sherlock aveva usato, anni addietro. La smisurata lealtà e devozione di una singola persona, tanto per dirne una.
Sherlock aveva sollevato il bavero, osservando con occhi stranamente luminosi la strada deserta e le radiazioni arancioni del lampione. “Questa è la mia fortuna.”

 

 



N/A:

Questo è stato un capitolo di necessario passaggio. Adesso potete fare supposizioni precise, non definitive, riguardo l’identità dell’attentatore, incluse le sue ragioni o il perché abbia mandato in maxischermo l’immagine di Moriarty in diretta nazionale. Semplice depistaggio o c’è altro in ballo?
E Molly… Oh, cosa posso farci se la adoro? No, di più, credo di idolatrarla. Questa donna è una forza della natura. Non batte ciglio di fronte a niente, tiene testa a Sherlock e non fa domande. Potresti andare da lei a chiederle di aiutarti a seppellire un corpo e lei non strillerebbe ‘Sacripante, cosa hai fatto!’, ma probabilmente si limiterebbe a chiedere se hai controllato che il corpo in questione fosse effettivamente morto e il punto in cui intendi seppellirlo. Perché questa donna ama Sherlock Holmes e lo capisce e sa riconoscere le priorità.
Ammetto, se posso permettermi di dirlo senza sembrare una sciocca vanesia e in tal caso linciatemi pure, che questo sia uno dei miei capitoli preferiti finora. Non ci sono veri e propri momenti tra Sherlock e Molly, ma i sentimenti traspaiono, soprattutto da parte di Sherlock e scriverlo non è solo stato emotivamente delizioso, ma ‘scuotente’, passatemi il termine che non me ne sovviene un altro.
*Da “Il mastino di Baskerville” di Arthur Conan Doyle. (Di nuovo io che cito Sherlock tramite John :D)
Bacioni a tutte, alla prossima!

P.s.: se posso permettervi un consiglio (o di darvi dei compiti per riempire l’attesa) vi direi di andare a rileggere, o nel caso leggere, L'avventura del nobile scapolo, solo per farvi un’idea dell’atmosfera e del mistero a cui è dedicato il prossimo capitolo.    

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Capitolo 15
*** XV ***


15

Erano trascorse due settimane dacché Mary aveva preso pieno possesso della vecchia stanza di John. Due settimane di silenzio da una parte del muro e di attente, private considerazioni dalla parte opposta.

Sherlock aveva l’aspetto di un soldato che si appresti alla battaglia, che sia sul piede di guerra, ma senza avere idea di quando dovrà partire per raggiungere il fronte e affrontare il fuoco nemico. Si comportava come se avesse il diavolo alle calcagna.  

Due settimane scarse erano bastate a smagrirlo, dargli un’aria consumata che addosso a chiunque altro sarebbe stata estenuata, ma che su di lui faceva risaltare il barlume febbrile e burrascoso del suo intelletto acuminato.

Era puro istinto, ferale, famelico di notizie e indagini, sempre attivo e in movimento, che rincasava e usciva a rotta di collo e dormiva tre ore ogni paio di giorni. Con disperazione di tutti e buona pace della perseveranza di John, aveva ripreso a fumare come un turco, rendendo il salotto un limbo di miasmi e di esalazioni irrespirabili.  

“Oh, quel ragazzo testardo! Sembra che abbia l’argento vivo addosso!”

Molly non sarebbe potuta essere più d’accordo né avrebbe saputo trovare parole migliori di quelle usate da Mrs. Hudson. Si rese conto che, aspettando Godot, nulla sarebbe mai cambiato. Doveva agire. Doveva essere lei ad abbattere il muro.   

 

*

 

L’opportunità gliela offrì Mycroft, insperabilmente, qualche giorno più tardi.

 

Era una notte tranquilla. Molly era nel salotto del 221B, impegnata ad ammazzare il tempo, nonché ogni briciolo di amor proprio, con Mary, Wiggins e Victoria.

Stavano giocando a Diplomacy (Mary era in netto, clamoroso vantaggio su tutti loro e la partita non sarebbe potuta andare peggio) e Mrs. Hudson era seduta sulla poltrona di John e cullava Katie.

“A chi tocca?” domandò Wiggins.

Nell’ordine del gioco era il suo turno leggere quanto aveva scritto. Molly stava per indicare la mossa sulla plancia di gioco, quando, senza preavviso e arbitrariamente, nel modo appropriato, elegante e al tempo stesso sprezzante che gli apparteneva, sulla soglia dell’appartamento comparve Mycroft.

Non sarebbe sembrato più fuoriposto in quel contesto neanche se loro fossero stati nudi e lui vestito di tutto punto per una festa in maschera.

“Mi duole interrompere quella che si prospetta una totale disfatta per Miss Hooper, ma devo vedere Sherlock. Anche se deduco dalle vostre espressioni rilassate e dall’atmosfera godibile che non sia in casa.” Il sorriso che accompagnava quelle infamanti parole, così come il suo sguardo, erano più amichevoli del previsto.

Per quanto insolitamente cordiale, Molly sfidava chiunque a farsi piacere un prognostico a proprio svantaggio. Prognostico di cui, tra l’altro, era stata del tutto consapevole senza che lui affondasse il dito nella piaga.

“Prego, Mr. Holmes,” lo salutò con familiarità Wiggins e fece per cedergli il posto sul divano.

Mycroft lo guardò come uno scarafaggio e marciò oltre, insediandosi invece sulla poltrona di Sherlock. Con l’ombrello tenuto in una perfetta parallela e simile al bastone-bacchetta di legno di un istitutore di inizio secolo, si limitò a seguire il gioco con occhi di falco.

Molly sospirò interiormente – aveva imparato a farlo spesso negli ultimi anni, tanto da avvalersi di quei sospiri interiori con deleteria costanza e frequenza.

Aveva pensato che la partita non potesse andare peggio, per lei. A quanto pareva il destino, o il karma, aveva un senso dell’umorismo altamente contestabile. 

 

*

 

Molly non era stata per niente sfiorata dal pensiero che Mycroft sarebbe davvero rimasto in silenzio fino all’arrivo di Sherlock, né che la mancanza del suo bersaglio preferito lo avrebbe trattenuto dall’individuare tra i presenti alternative fonti di diletto personale, diletto conseguito nel metterne in vista le manchevolezze.

Aveva semplicemente sperato che non fosse lei la fortunata fiduciaria di quell’onere gravoso.

“Se fossi in lei, non lo farei, Miss Hooper.”

Non di nuovo.

“Oh,” Molly guardò intenta l’unità che era stata sul punto di dislocare, “perché?”

Victoria sogghignava impenitente, ma Wiggins le rivolse un’occhiata simpatizzante e Mary era tipo da ‘vivi e lascia vivere’, o almeno questa era sempre stata la sua impressione.

“Se persiste in questo schema pericoloso, in base all’accordo tra Mastro Wiggins e Mrs. Watson, la sua armata verrà spazzata via in un duplice contrattacco e Miss Queen diventerà inveterata regina del suolo britannico che lei ha l’incarico di proteggere.”

Molly fece un verso scoraggiato, riflettendo su una nuova, eventuale mossa.

“Le consiglio caldamente di spostare la flotta di Edimburgo e –”

“Un attimo,” lo interruppe Molly, “per quanto gentile, suggerire è barare.”

“Nessun problema, Doc,” sorrise Wiggins.

“Già, praticamente il gioco è in chiusura.”

Molly corrugò le sopracciglia. In parole povere le stavano dicendo che non c’era modo che lei si salvasse da una debacle disastrosa, pur contando sull’astuzia di Mycroft.

Be’, pensò risoluta, questo era tutto da decidersi.

 

*

 

Quando John mise piede nell’appartamento, agitando le spalle anchilosate e passandosi una mano tra i capelli bagnati, rimase impalato sulla porta per una manciata di secondi, forse qualcosa in più, decisamente per uno scarto di secondi di troppo, a fissare la scena surreale che si presentava ai suoi occhi.

C’era il salotto, non sottosopra e niente affatto a soqquadro. C’erano sua moglie, sua figlia, Mrs. Hudson, Wiggins e Victoria Queen distribuiti attorno a una plancia di gioco sistemata sul basso tavolino di fronte al divano.

E poi c’erano Molly, Molly Hooper e Mycroft, Mycroft Holmes impegnati in un acceso scambio di vedute su qualcosa che riguardava ‘un centro di rifornimento’ e la ‘volubilità dei francesi’ e l’essere ‘potenzialmente razzisti’.

Lesse il nome sul contenitore sul pavimento e la confusione naufragò in rassegnazione. Diplomacy. ‘Un Gioco di Intrigo Internazionale, Fiducia e Tradimento’ recitava la tagline.  

Dannazione, come aveva fatto a perderselo?

Cercò lo sguardo di Mary e vi trovò riflesso lo stesso brillante divertimento.

E poi salì l’ultima rampa di scale anche Sherlock, simile a un fosco e minaccioso fantasma. Scosse i capelli neri come il pelo irsuto di un cane e stette ad osservare faziosamente quella scena impagabile. “Non accetterò, Mycroft,” annunciò lugubre e Mycroft e Molly smisero all’istante di scambiarsi piacevolezze per voltarsi simultaneamente e fissarlo come si guarderebbe un ladro che si sia intrufolato in piena notte in proprietà privata.

Sherlock fece una smorfia terribile e malevola, dopodiché voltò le spalle ai presenti, imboccò regalmente la porta della sua camera da letto e scomparve alla vista.

 

 

Ricomparve quindici minuti più tardi. Il gioco da tavolo nel frattempo era stato riposto; Mrs. Hudson, Wiggins e Victoria avevano augurato la buonanotte ritirandosi nei rispettivi appartamenti e i restanti del gruppo avevano preso un atteggiamento serio che mal si adattava al contesto di appena poco prima.

Specialmente Mycroft – le gambe accavallate, l’espressione severa che accompagnava un leggero increspamento della fronte - la cui dignità era ormai definitivamente compromessa agli occhi di John; e Molly che aveva assunto un’aria mortificata e colpevole e occhieggiava a Mycroft come se attendesse il momento opportuno per porgere delle scuse di cui l’altro non avrebbe visto alcun beneficio o provento. Poteva già immaginarseli alla perfezione: la reazione di lui e il commento di accompagnamento, qualcosa sulla falsariga di ‘mera forma sociale’ o, come l’avrebbe convenientemente definito, un puro pro forma.

Purtroppo Sherlock scelse di mostrarsi in quel momento.

Non andò a sedersi sulla sua poltrona, quella era occupata da Molly, ma prese il gatto che stava in panciolle sul davanzale della finestra e si posizionò alle spalle di lei.

A quel gesto per niente implicito di galanteria, con buona grazia di chi stentava a crederlo capace di atti davvero gentili, Molly gli regalò un sorriso di rara limpidezza a cui Sherlock rispose con una vaga carezza sulla spalla di lei e lo scorcio di un rapidissimo, altrettanto raro, sorriso.

John si sfregò il mento per eclissare il proprio di sorriso e Mary fece lo stesso, dietro la tazza di tè che Mrs. Hudson si era premunita di preparare loro prima di scendere dabbasso.

Si sarebbe detto che tra tutti quei sorrisi Mycroft trovasse all’improvviso l’ambiente stomachevole. Più del consueto, s’intendeva.

“Hai sprecato tempo prezioso nonché i servizi del Governo per un viaggio a vuoto. Non che solitamente siano meglio impiegati. Pare un netto miglioramento questo.”

“Sherlock.” Non un blando richiamo o uno soffice di pericolosità in avanscoperta, ma un tono pregno di minacciosi sintomi premonitori. Mycroft si massaggiò l’attaccatura del naso. Uhm, pensò John, nuvole in purgatorio. “Malgrado tu abbia collezionato un considerevole repertorio di tentativi compiuti per dimostrare il contrario, la mia tolleranza non è infinita.”

“No, certo che no.” Sherlock gli rivolse un sorriso da iena, deliberatamente provocatorio. “A quanto pare lo è solo il tuo pingue stomaco.”

“Ti ho lasciato risolvere dei casi, ma ciò non significa che io non possa intervenire in qualsiasi momento. Dammi una ragione, Sherlock e te ne farò rimpiangere.”

“Sono terrorizzato.”

Perfetto. Ci mancava una buona dose di sarcasmo. John avrebbe voluto capirlo. Era di pessimo umore e d’accordo, forse ne aveva ogni ragione. Il tentativo di quella notte si era rivelato l’ennesimo buco nell’acqua, ma non riusciva proprio a trattenersi? Non poteva se non altro tentare?

“Almeno potresti ascoltare quello che ha da dire,” intervenne Molly.

Sherlock si sgonfiò un poco e abbassò la testa per guardare Molly, che invece aveva alzato la sua.

“So già cosa dirà,” disse Sherlock.

“Potresti rimanere sorpreso.”

“Ne dubito.”

Con una smorfia, grattando le orecchie del gatto che gli si era arrampicato su una spalla e se ne stava là appollaiato, Sherlock fece un cenno impercettibile a Mycroft, che dal canto suo, ovviamente, non poteva lasciar passare la cosa sottobanco.

Indirizzò a Molly un’occhiata di affettato apprezzamento. “Poche lezioni ancora e potrebbe aspirare ad una carriera da agente diplomatico.”

Molly si strinse al petto il gatto che Sherlock le aveva messo in grembo, sembrò riflettere sulla proposta di lui con solennità. “Non sono mai stata un granché in lingue straniere,” disse con franchezza, “e il diplomatichese sembra fin troppo problematico.”

Tatto, finezza, abilità nella trattazione di affari delicati che richiedevano prudenza, o anche nelle relazioni tra persona e persona. Molly era una diplomatica nata. 

Mycroft le rivolse uno sguardo fermo, nel suo modo di dire ‘Touché’, quindi espose gli estremi del caso.    

 

*

 

La mattina successiva tutti recavano i segni della nottata che si era protratta fin quasi all’alba. Tutti tranne Sherlock che aveva una robusta costituzione e una caparbietà e resistenza quasi inumane.

“Ricordami perché ho accettato il caso,” lo sentì lamentarsi a bocca piena.

John storse gli occhi dietro il Times. Gli sovvenne il pensiero, forse maligno ma sicuramente sincero, che quella sfera della vita in comune – svegliarsi al suono degli strimpelli del suo violino, fare colazione con Sherlock che gli rubava il cibo dal piatto e deduceva venti cose prima che lui voltasse pagina – non gli fosse affatto mancata. “Perché te lo ha chiesto Mycroft.”

Sherlock fece una faccia scettica, trangugiando il suo caffè.

Nel momentaneo spiraglio di silenzio, John ridacchiò. “Perché Molly ti ha fatto gli occhi dolci e tu non hai saputo resisterle. Arrenditi, sei un uomo anche tu.”

“La tua dabbenaggine non ha fine.”

Sentire qualcuno inserire la parola dabbenaggine in un qualsiasi contesto conversativo e prima che scoccassero le nove di mattina, questo sì, lo ammetteva, gli era mancato da morire.

 

*

Lord Robert Walsinghain de Vere St. Simon, secondogenito del duca di Balmoral, era un uomo dal viso pallido e il naso aquilino, una vena di gentilezza insolitamente spiccata negli occhi nocciola e modi di fare affabili.
Se si fossero ritrovati a percorrere lo stesso marciapiede, l’uno di fianco all’altro nel traffico londinese, John non avrebbe riconosciuto in lui un nobile Lord, se non per quel non so che nel portamento – qualcosa di vagamente impettito, una sorta di austerità che non riusciva a trovare pace, a rilassarsi – e per l’abbigliamento estremamente ricercato. La sua cravatta di raso con minuscoli fiorellini lilla doveva costare da sola uno se non due dei suoi stipendi, pensò John con una punta d’invidia. Per non parlare del fermacravatte d’argento.
“Sabato sera Hatty, Hatty Doran, la mia fidanzata, aveva uno spettacolo al Future Theatre. Da allora è scomparsa.” Lo disse in un tono che molti avrebbero definito piatto o addirittura freddo, ma che non lo era affatto, non per John.
“Non è la prima volta che accade,” constatò Sherlock.
“No, non lo è,” riconobbe Lord Simon. “È quasi una settimana che questo fenomeno ha luogo. Alla fine di ogni spettacolo Hatty svanisce nel nulla. Non la si trova nei camerini e con lei scompare anche il costume di scena. Ho provato ad aspettarla dietro le quinte e sulla boccascena, ma niente sembra funzionare. Cala il sipario e non si riesce più a trovarla da nessuna parte. È come se si volatilizzasse. Questo ha mandato in agitazione anche la sartoria del teatro e il resto della compagnia. Come lei può ben immaginare mancano gli estremi per richiedere l’intervento delle forze di polizia o avviare le procedure di allertamento. Non è semplicemente scomparsa, perché di fatto scompare unicamente nei periodi di tempo che intercorrono tra uno spettacolo e l’altro. Ebbene io non posso adeguarmi agli iter burocratici. Voglio trovare Hatty e voglio farlo subito.”
“Ci parli della signora,” ingiunse Sherlock.
John simulò un colpo di tosse e gli indirizzò un’occhiata delle sue. Si sporse in avanti, decidendo di prendere la parola. “La ritiene capace di giocare un brutto tiro al teatro? Il suo può essere un modo estremo per allontanarsi da lei, per timore di affrontarla faccia a faccia?”
“Hatty è molto superstiziosa, non ama distrazioni nel periodo che precede la prima, ma scappare o nascondersi non è nel suo carattere. No, se agisce in questo modo è perché è costretta dalle circostanze.”
“O perché a costringerla è qualcuno.” Sherlock incrociò le mani davanti al naso. “Quindi vuole che ritrovi la sua fidanzata, pur non trattandosi di un caso di rapimento.” Perché dovrei scomodarmi?
Lord Simon si accigliò. “Come può escluderlo a priori?”

È evidente. Non è evidente, John? Sherlock si voltò verso di lui con stampate in faccia quelle riflessioni. Incrociando il suo sguardo di ammonimento, roteò gli occhi e sbuffò, tamburellando le lunghe dita sui braccioli della poltrona. “Miss Doran è un’attrice. Chi meglio di lei è al corrente dei trucchi del mestiere sul palcoscenico? Inoltre è scomparsa con il suo abito di scena, il che elimina numerose alternative dal ventaglio di probabili soluzioni.”
Lord Simon non era persuaso e John intravide per la prima volta un’intensa preoccupazione farsi largo in lui, prendere il sopravvento. “Lei è mai assalito dal timore di sbagliare?”
Sherlock sembrò ponderare sulla questione con grande serietà, quindi con un cenno di assenso assicurò nella voce flautata che sapeva usare, alle volte: “Molto raramente.”

 *

Dopo l’uscita di scena di Lord Simon, Sherlock saltò in piedi di scatto.
John si apprestava a seguirne l’esempio quando Molly irruppe nella stanza. Indossava il soprabito e aveva un ombrello rosso in mano. Mary la seguiva e John, sospirando, si accorse di cosa stringeva in mano: una radiolina-interfono.
Sperava che non diventasse un’abitudine, quella. Il brillio esasperatamente divertito nello sguardo di sua moglie pareva assicurargli il contrario.
“Voglio venire con voi,” disse Molly in tono risoluto.
Sherlock la fissò a lungo, intensamente, poi con lentezza annuì. “D’accordo.”
Nessun infernale discorso sulla sicurezza. John era allibito. No, di più: era assolutamente sbigottito; in buona misura perfino arrabbiato. “Sherlock, posso parlarti?” domandò a denti stretti. “Possibilmente in privato.”
Lui reagì con fastidio alla proposta. “Qualsiasi cosa tu possa dire, ci ho già pensato. Ho valutato le opzioni e deciso di conseguenza. Molly verrà con noi. Fine della questione.”
Contenendo a stento un’imprecazione, John serrò i pugni. “Come preferisci.”

 *

Mary e Mrs. Hudson li avevano scortati fino alla porta e rimasero sulla soglia finché il taxi non scomparve, svoltando oltre la curva dell’imbocco di Baker Street.
“Speriamo che vada tutto bene.” Mary non aveva dubbi in proposito, ma lo stesso una parte di lei non poteva non essere impensierita di fronte alle molteplici occasioni di pericolo che, lei più di chiunque, sapeva essere acquattate dappertutto, in luoghi impensati. C’erano tante variabili in quel gioco, troppe.   
Mrs. Hudson sospirò e scosse la testa, sistemandosi meglio la frangia dello scialle su una spalla. “A Dio piacendo, cara. Che dici, inforniamo un po’ di pane?”

 *

“Fu commissionato all'architetto Ernest Schaufelberg ed è in stile italiano. È stato il primo teatro ad essere costruito a Londra dopo la fine della prima guerra mondiale.”
Molly studiò affascinata la facciata dell’edificio. Era in cemento, con pilastri in mattoni di supporto al tetto e la famosa statuetta di Tersicore arroccata sopra l'ingresso. “Scolpita da una compagnia celebre di artigiani di Worcestershire,” la mise al corrente Sherlock, indicandogliela col braccio.
Accedettero attraverso le doppie porte di bronzo in un atrio di marmo grigio e rosso, con una biglietteria di rame battuto.
Con 432 posti a sedere nella sala, è il secondo più piccolo teatro del West End.”
Con un sospiro esasperato e insieme stizzito, John lo minacciò di sconsigliabili ripercussioni sul suo posteriore se non si fosse deciso a stare zitto.
“Siamo nel bel mezzo di un caso.” La voce di lui era fiacca, gli occhi più stanchi che mai mentre squadrava sia lei che Sherlock. “Potreste cercare di avere un’aria meno compiaciuta? Tra voi due non so chi sia il peggiore.”
Molly chinò la testa. “Scusa, John.”
Sherlock nascose poco e male un sorriso asimmetrico. “Non prometto nulla.”

 *

Nel punto in cui erano appostati si aveva il controllo visivo dell’intera sala: la platea di sedie di velluto rubino, le due balconate frontali e i palchetti laterali. E ovviamente del palcoscenico in ogni sua componente, piano scenico e retropalco inclusi.
John era di guardia nel sottopalco mentre lei e Sherlock si trovavano sulla piccionaia, o forse sarebbe stato più corretto chiamarlo col suo nome, ballatoio.
Poco prima che lo spettacolo iniziasse, Molly vide uno dei macchinisti arrampicarsi come un trapezista sulla struttura di legno della graticcia e armeggiare con le corde di canapa legate agli stangoni. Alle loro spalle il pesante fondale di velluto nero cominciò una lenta discesa. Molly incrociò le braccia sul corrimano e guardò in basso, godendosi la prima vera uscita in compagnia di Sherlock.
Come se le avesse letto nel pensiero, lui si tastò le tasche del Belstaff, nella ricerca evidente di qualcosa, quindi le passò un binocolo e una brochure.
“Per il prossimo appuntamento sarebbe bello vestire abiti da sera e chiacchierare nel foyer,” disse Molly a cuor leggero, prendendoli.
Sherlock annuì, come se lo fosse appuntato.
Molly lesse distrattamente il titolo sul manifesto e le sfuggì un piccolo verso di giubilo ed eccitazione.
Sherlock inarcò le sopracciglia.
“Scusa,” disse lei con un sorriso che sembrò disarmarlo per un attimo. “È che – La signora in nero,” gli sventolò il pezzo di carta sotto il naso, “è stato praticamente uno dei miei racconti preferiti da bambina.”
Sherlock arcuò un angolo di bocca e i suoi occhi si concessero un guizzo di qualcosa, piacere forse nello scorgere il piacere di lei, prima di tornare seri e concentrati. 

   *

“Uno spettacolo eccellente,” commentò Sherlock, impugnando il cellulare e battendo freneticamente i tasti mentre inviava un messaggio-lampo a qualcuno – senza dubbio John. “Anche quel Fantasma di Pepper era tutto fuorché scadente.”
“E gli attori,” aggiunse Molly. “La signora in nero è interpretata da Miss Doran?”
Sherlock le fece segno di tacere. Molly obbedì e seguì la direzione del suo sguardo. Era appuntato sopra le loro teste, in alto, sulla torre scenica là dove un uomo, un’ombra appena visibile, ma agile e smilza, si stava muovendo di soppiatto in direzione delle quinte, verso qualcosa che assomigliava a una torretta metallica che sorreggeva dei riflettori spenti.
Sempre a gesti, Sherlock le fece capire di rimanere dove si trovava e si affrettò a seguire l'ombra dell'uomo.
Pochi minuti dopo vide l’ombra cadere nel vuoto, appesa ad una grossa fune e poi fare un capitombolo da un’altezza approssimativa di un metro, un metro e mezzo sul palco sottostante.

*

“Mi dispiace, Robert.” Vestita completamente di nero, neri i capelli lucenti e neri gli occhi dolenti che fissavano il fidanzato corrente al fianco di quello passato (un ragazzo allampanato dagli occhi verde chiaro, basette, folti capelli castani e un mento degno di ogni considerazione), Hatty Doran era una donna affascinante dalla pelle di magnolia. Nessuno stupore per John che due uomini tentassero di accaparrarsi le sue attenzioni, di cui uno era un Lord.  
Lo stesso Lord che rispose a quello sguardo compunto con uno afflitto. “È per via del mio titolo, Hatty?”
Lei scosse la testa con decisione, incrociò le mani sulla gonna dell’abito vittoriano. “Non ho mai voluto essere una Lady.”
“È questo allora? Che per te non abbia rinunciato al titolo, il problema?”
“Non te lo avrei mai chiesto, Robert.”
Lui aveva un’espressione amareggiata quando lei gli rese l’anello di fidanzamento – un gioiello d'oro scuro e di foggia antica, di sicuro tramandato per generazioni. “Forse avresti dovuto.”

 *

“Agnizione,” mormorò Sherlock. Prima che lei potesse chiedere spiegazioni lui proseguì: “L’ipocrisia dei sentimenti non smetterà mai di sorprendermi.”
“Cosa intendi?” Molly si voltò a fronteggiarlo.
Sherlock aveva una smorfia che non era solo disgustata, ma di ostile, manifesta disapprovazione. “Come ha potuto dimenticare così facilmente il suo amore precedente?”
Molly si accigliò. “Non l’ha fatto. È proprio questo il punto, no? Non l’ha mai dimenticato e quando ha scoperto che era vivo –”
“Ma come può tradire il nuovo, voltare le spalle a una promessa fatta a un uomo in virtù di quella fatta a un altro uomo? Promesse che rompono promesse.” Lo disse nel tono da ‘non capisco’.
Molly sorrise senza averne seriamente l’intenzione. “Io credo di capirla molto bene invece. Non ha rotto un giuramento. La sua era speranza.”
“Speranza.” Sherlock la fissò come una povera squilibrata.
“Sherlock,” iniziò dolcemente e fece uno dei suoi sospiri interiori, “quando ami a lungo qualcuno ti rendi conto che quella persona ti è entrata dentro, ti ha influenzato senza quasi che ne avessi coscienza. L’amore ti cambia. Non so dirti se in male o in bene, ma di certo lo fa, ti cambia. E anche quando quella persona non c’è più o è andata via o si è allontanata, non rinunci a quella nuova parte di te. La puoi addormentare, puoi illuderti che altre prendano il sopravvento, crederci abbastanza da renderlo possibile. Poi incontri qualcuno di diverso e ti scopri ad amarlo, ma è un amore molto, oh, molto differente dal primo e tutto ricomincia daccapo. Si ama sempre e mai in modo uguale. L’unica caratteristica che li accomuna è che non sono in nessun modo semplici. Non è amare o perché si ama, ma come lo si fa ad essere importante.”
Lo aveva spiazzato. Per un istante, un istante languido e disincantato, Sherlock lesse con serena trasparenza quello che lei non aveva tentato di nascondere neanche una volta in quelle settimane. So che c’è qualcosa che mi nascondi, ma non ti forzerò per scoprirlo. Sempre durante quell’istante, sembrò giungere a una decisione finale. Molly la vedeva profilarsi nei suoi occhi, nell’azzurro che ad un tratto si faceva incerto, sospeso come il cielo quando non sa risolversi tra sole e pioggia e trova l’armistizio di una copertura di nuvole. Aprì la bocca.  “Molly, io –”
Poi l’istante si spezzò, la magia fu rotta dal suono vibrato del cellulare di lui. Con un sospiro condiviso Molly mise da parte quel miraggio e Sherlock controllò il display, accigliato. “È John,” disse ruvidamente. “Dobbiamo andare.”

 

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Capitolo 16
*** XVI ***


16

(15th September)

 
Fu un viaggio di ritorno silenzioso, in cui Molly, seduta tra John e Sherlock, fissava davanti a sé con occhi distanti.
Sherlock pareva oltre il naturale andamento delle cose, viaggiatore nomade in un mondo di nozioni e calcoli e riflessioni preclusi anche a chi, come lei, avrebbe volentieri dato un braccio e una gamba, sacrificato ogni cosa per entrarci una sola volta. 
Molly si morse le labbra e poggiò la testa contro il poggiatesta, ma non riposò né era sonno quello che le faceva bruciare gli occhi. Era il disimpegno della delusione, qualcosa che tra le tante conseguenze le faceva dolere la gola e contrarre il petto.   
Se anche John lo notò, decise di sorvolare e non fece commenti.
A Baker Street oltrepassarono l’ingresso, immerso nel buio e nel silenzio, e salirono le rampe di scale quietamente.
Una volta nel 221B, John si lasciò cadere sulla sua poltrona con un tonfo e un gemito affaticato. Si massaggiò il collo, allungando le gambe in avanti. Dunque riaprì un occhio e lo fissò su Sherlock per valutarne gli intenti. “Be’,” disse scoraggiato, “immagino di dovermi preparare, giusto? Quanto tempo mi dai prima di uscire di nuovo?”
Molly si mosse per superarli, non volendo mostrare quella specie di disappunto, no di più, era dispiacere e amareggiata rassegnazione, che sentiva allargarsi dentro di lei.
Nel passargli accanto, Sherlock le sfiorò il polso, ma furono le sue parole a frenarne i passi. “Non questa notte, John.”
John inarcò le sopracciglia, ma non si lamentò per quell’insperata serata di riposo. Inclinò la testa, guardando entrambi come se fossero lettere mozzicate e gli spazi tra loro quelli di un rebus da risolvere. “Molly?”

Tutto a posto?, sembrava chiedere. Devo restare?
Sherlock inspirò pesantemente e Molly poteva sentire la tensione irradiata da lui come se fosse la propria. “Buonanotte, John,” disse e fece un cenno rassicurante, di conferma.

 
*

 

Sherlock chiuse attentamente la porta. Si prese del tempo, sfilandosi il Belstaff e appendendolo.

Seduta sulla sponda del letto, Molly osservò le sue manovre senza fiatare fino a quando lui, capitolando di fronte alla sua perseveranza, si voltò ad incrociare il suo sguardo attento e deciso con uno che lo era ugualmente, ma in modo più sottile e interessato e contrariato.  

“Cosa è cambiato?” domandò Molly senza preamboli.

“Era ovvio che te ne saresti accorta.” Dal tono che aveva utilizzato era impossibile stabilire se ne fosse contento o, al contrario, infastidito.

Molly sollevò il mento, stringendo i pugni e formando delle pieghe tra le lenzuola. “Non sono cieca, Sherlock. Avrei dovuto esserlo per non notare la mobilitazione intorno a me, quindi sputa il risposto. Cosa ti preoccupa?”

C’era un limite a tutto, compresa alla comprensione. Perciò cosa? Doveva saperlo. Cosa era stato sul punto di dirle, al Future, prima che il messaggio di John lo interrompesse? Cosa lo tormentava?

Tu.

Gli occhi di Sherlock le percorsero il viso come se intendessero divorarla, fagocitarla nell’infinità dei suoi. 

L’acciglio di Molly si spianò appena, la sua smorfia si addolcì in una piega meno insistente, battagliera. “Ci sono stati nuovi sviluppi, vero? Cos’altro hai scoperto?”

Di nuovo quel lampo indecifrabile. Sherlock le si avvicinò, si sedette accanto a lei, così vicino da sfiorarla, ad un tiro di schioppo. “Mi occorre che tu ti fidi di me un’altra volta. Puoi farlo?”

Per un istante, Molly si limitò a guardarlo. Nella frazione di secondo successiva, mormorò: “Sempre.”

Era esattamente quello che entrambi si erano aspettati l’uno dall’altra.

“Ti ringrazio.”

“Sarò meglio che tu lo faccia,” lo redarguì Molly con un sorriso poco sentito, plastificato nel suo voler apparire faceto. Cercò la sua mano e gliela strinse. “E anche che tu ricordi cosa mi hai detto. Proteggi te stesso come proteggeresti uno di noi.”

Sherlock le rivolse un sorriso che non gli raggiunse gli occhi. Quelli rimasero torbidi, ombreggiati dai pensieri che lo assillavano. Lui le prese il mento con il pollice, si chinò per baciarla con forza e Molly glielo lasciò fare. C’era tempo per chiarirsi. Ci sarebbe stato, domani. Questa era la sua speranza. E la sua paura.

 

* 

La mattina successiva, Molly si svegliò sola nel letto, la parte di lui fredda con le lenzuola malamente rabberciate in un tentativo di riordinamento. A tentoni cercò gli occhiali sul comodino e li inforcò, tirandosi a sedere e sgranchendosi.
Accanto al cuscino c’era un ciondolo, il suo ciondolo, e non era più annerito, ma come nuovo, lavoro di oro pallido e ricami di filigrana. Lo prese e lo indossò, cercando di non pensare a quanto riaverlo la rendesse malinconica. Amava quel ciondolo, lo aveva sempre amato, era l’ultimo regalo di suo padre, l’unico ricordo di sua madre, ma rappresentava anche una serie di momenti non propriamente felici. Era il simbolo dei suoi lutti, delle sue perdite, di vecchie cicatrici e dolori. Riaverlo era un po' come riviverli. Un pensiero sciocco, perfino puerile; così sciocco che Molly si alzò in fretta e ricacciò indietro il groppo, costringendo il volto in un’espressione tranquilla.      
In salotto li trovò tutti e tre in vestaglia, con borse sotto gli occhi e i volti stropicciati. Ovviamente non Sherlock che aveva un bagel in una mano e un giornale nell’altra. Era sciatto, per niente elegante e semisdraiato in una posizione impossibile, ai piedi aveva delle babbucce persiane; i capelli erano una massa nera e scarmigliata che lui non si era ancora dato pena di sistemare.
Molly lo trovò irresistibile e si allungò per rubargli un pezzo di bagel. Lui la redarguì con uno sguardo e un colpetto del giornale su un fianco e lei rise, prima di chinarsi nuovamente, questa volta per rubargli un bacio.
Lo sentì irrigidirsi e raddrizzarsi, buttare all’aria il giornale e il bagel, sentì l’imprecazione di John e la risata di Mary, il gorgoglio di Katie e poi ci furono solo le mani di Sherlock sul collo, dietro la nuca, che trafficavano con il suo elastico. Senza quasi accorgersene si ritrovò con i capelli sciolti, arruffati attorno al viso e sulle spalle e con Sherlock che li trapassava da parte a parte come se volesse districare nodi inesistenti. Ed erano carezze così gradevoli che lei si ritrovò a mugolare per il piacere.
John imprecò di nuovo. “Vi prego,” lo sentì dire implorante.  
Molly si tirò indietro con un sorriso talmente spiccato che le sembrò impossibile riuscire a contenerlo.  
“Buongiorno,” disse Sherlock, gli occhi da gatto luminosi come fari e le passò una tazza, prendendola dal tavolino del caffè.
“Buongiorno.”
“Di sicuro lo è per voi,” commentò Mary.
“Ti addentri in un territorio pericoloso, Mary,” la avvertì John.
“Ma non mi dire. Quanto pericoloso?”
Visto che l’argomento metteva a disagio tanto lei quanto John, la conversazione slittò su altro. “Quindi? Com’era il caso?”
Molly si morse le labbra per non ridere. “Noioso,” scandì perentoria. “Si è scoperto che Miss Doran si nascondeva da Lord Simon, come ipotizzato da John.”
“John aveva ragione? Sul serio?” Mary lanciò un’occhiata a John che le puntò contro l’indice.
“Non essere così sarcastica, moglie.”
“O?”
“O potrei –”
Il lamento di Sherlock li interruppe. “Siete disgustosi quando fate così, ne siete coscienti?”
“Questo perché non puoi vedere la tua faccia quando Molly indossa gli occhiali,” ritorse John. “Non credevo avessi un tipo.”
“Malgrado tutto amo il mio amore,” disse lui, come se citasse una battuta teatrale, riaprendo il giornale e scorrendo le testate. “È così sbalorditivo?”

Lo era. Improvvisamente l’aria sembrava molto più calda e tutto molto più grande. Molly voltò di scatto la testa verso la finestra, come se volesse accertarsi del tempo, le guance coperte dalla cortina di capelli sciolti.
“Perché si nascondeva?” domandò Mary.
“La famiglia di lui le ha fatto pressioni perché lo lasciasse, offrendole una cospicua somma di denaro,” rispose Sherlock annoiato. “Miss Doran ha accettato per pagare i debiti del precedente compagno di letto.”
“Non chiamarlo così, caro. È disdicevole.”
Molly strabuzzò gli occhi. Sbagliava o John aveva davvero appena imitato Mrs. Hudson? “Ha procrastinato l’addio perché a modo suo ha amato davvero Lord Simon,” spiegò a Mary. “Rimandava perché non voleva spezzargli il cuore, anche se alla fine è esattamente quel che ha fatto.”
“Lord Simon sopravvivrà,” rimarcò Sherlock. “Ha una tenuta di 200 ettari a sostenere la fantomatica infelicità del suo cuore spezzato.”

 
*

 
(17th September)


Tutto iniziò davvero con la scomparsa di Toby. Da quel momento la situazione mutò, prendendo una direzione drastica. Successe da un giorno all’altro, di punto in bianco, al modo peculiare in cui soltanto i cataclismi riescono a precipitare.

 

Con l’approssimarsi della fine di settembre, le giornate si accorciavano già considerevolmente e la luce diurna prendeva una riflettenza posticcia.
Il pomeriggio andava digradando in una serata fresca e ventosa, con le ombre ancora tiepide e le pietre del muro divisorio del giardino di Mrs. Hudson che emanavano un calore riposante. Quel calore attraversava il tessuto leggero della maglietta che Molly indossava e scioglieva i nodi di tensione nella schiena e nelle spalle, intanto che lei si abbracciava le gambe, come aveva fatto un’estate di tanti e tanti anni prima, in un cimitero di campagna in Irlanda.
Molly batté le palpebre, riavendosi dal mare nebuloso che aveva in testa. Nessuno era venuto ad avvertirla.
Il sole era tramontato e Sherlock era ancora fuori, chissà dove con John, a combattere le ombre.
Con un sospiro, Molly si alzò e si ripulì i pantaloni dal terriccio.
Mrs. Hudson le sorrise quando entrò nella sua cucina, porgendole un bicchiere alto di tè ghiacciato. “Pomeriggio piacevole, Molly cara?”
Molly prese un sorso, ringraziandola. “Ho liberato l’angolo sotto il muricciolo dalle erbacce e domani –”
“Non dovresti sforzarti,” la interruppe Mrs. Hudson ed il tono, così come la mano che le accarezzò il braccio, era pieno di affettuosa premura.
Molly avrebbe voluto dirle che non era gentilezza la sua, non questa volta. “Non ho altro da fare.” Era la pura, semplice verità. I ragazzi avevano ricominciato ad andare a scuola, Wiggins e Victoria era di nuovo scomparsi per quelle cosiddette ‘questioni in sospeso’ con Sherlock e Mary aveva ripreso a lavorare. Solo Katie era con lei, ma, per quanto adorabile, una bambina di appena pochi mesi non era esattamente il tipo di compagnia che –
“Cara, non vorrei allarmarti.”
Quando Mrs. Hudson diceva di non allarmarsi, ecco, pensava Molly, era il momento di farlo.
“Non vorrei allarmarti,” proseguì Mrs. Hudson, “ma hai visto Toby? Ieri sera non è rientrato dalla sua uscita serale.”
Molly cercò di rassicurarla, ma prendendo Katie e salendo nell’appartamento per preparare la cena, non riuscì a ricacciare la sensazione di malessere che aveva provato tutto il giorno.  

  

*

   
“Toby è scomparso.”
Non un battito di ciglio o un guizzo di muscolo, il respiro di qualcosa di minimo. Niente. Né sorpresa né preoccupazione. Molly sentì il cuore sprofondarle ai piedi.
“Te lo riporterò,” disse Sherlock.
Molly annuì, ma sapeva riconoscere una bugia e sapeva riconoscere ancora meglio il bugiardo che l’aveva creata.

 
*

 

(18th September)

 
Mrs. Hudson affacciò la testa nella camera da letto di Sherlock e la chiamò. Sorrideva, anche se per qualche ragione sembrava si stesse sforzando di nasconderlo. “Molly cara, puoi scendere un attimo? C’è qualcosa che vorrei mostrarti. È in salotto.”
Molly guardò esitante Katie. Dormiva tranquillamente, stesa su un fianco, nella sua tutina giallo sole.
Mrs. Hudson afferrò al volo. “Rimarrò io con lei.”
Molly la ringraziò. Nel salotto trovò Wiggins e Victoria. Wiggins esibiva un sorriso falso e un gatto tra le braccia, un gatto grigio e bianco come Toby, ma che non lo era. Quando lui glielo tese e lo presentò come Toby, Molly lo guardò in faccia, sicura di aver frainteso, ma Wiggins insistette e lei si rese conto di aver capito, ma lo stesso di non capire affatto, neanche un po’.
“So riconoscere il mio gatto e quello non è Toby. Chiedi a Sherlock, anche lui ti –”
“Holmes lo ha già riconosciuto, Molly,” si intromise Victoria. Qualcosa nel suo sguardo le diceva di soprassedere, di prendere quel dannato gatto che non era Toby e ringraziare e ‘per l’amor del cielo, taci’.
Di nuovo quella sensazione, di estraniata e furibonda incredulità. “Molto bene.”

 
*

 
Lo aspettò alzata, incapace di dormire, facendo avanti e indietro e costretta a tenersi vicino quel gatto che assomigliava a Toby, ma non lo era. Rivoleva il suo gatto e soprattutto voleva sapere perché le avessero dato quel sostituto. Era una farsa? Faceva parte di un piano? Qualunque fosse la risposta, non le importava.
Quando lui entrò, fu come se i giorni precedenti non fossero mai esistiti. Aveva di nuovo l’aspetto di uno spettro in pena. Era teso ed irritabile.
Molly non si lasciò intenerire dal pallore, era sempre pallido, dalle occhiaie, aveva sempre dormito poco e male, dal modo in cui prima di accorgersi di lei si stesse sfregando gli occhi con le dita, come per disperdere la stanchezza.
Sherlock la vide, in piedi nell’angolo opposto della stanza, e si fermò.  
“Rivoglio il mio gatto. Non ti ho mai chiesto niente in passato. Ti chiedo questo: voglio indietro Toby.”
Lui si mosse verso il letto. Gettò il Belstaff sul pavimento, seguito dalla giacca, scalciò via le scarpe e cominciò a sbottonarsi i polsini della camicia. “La restituzione del tuo gatto e poi cos’altro vorrai, Molly?”
“Non so cosa tu stia combinando, ma se verrà torto un solo pelo a Toby –”
Lui voltò la testa per dedicarle uno sguardo sprezzante e crudele da sopra la spalla, uno che non le mostrava da molto tempo. “Sì, Molly, sei credibile quanto una formica nelle tue minacce.”
‘Minacce’, lo vide mimare con le labbra in un’eco muta, quindi sgranò gli occhi e la fronte si spianò come sarebbe successo ad uno scienziato pazzo illuminato dal lampo creativo dell’ennesima invenzione o scoperta. “Molly Hooper, sei un genio!” esclamò e la afferrò per i fianchi, trascinandola in una giravolta frenetica. Il resto sembrava averlo dimenticato.
Molly cercò di staccarsi, lui non glielo permise. “Lo sono? Cioè, lo sono, ma per cosa esattamente?”
“Ritroverò il tuo gatto, ma fino a quel momento –”
“Io rimarrò qui a Baker Street,” concluse lei, adombrandosi.
Sherlock sollevò un angolo di bocca in un sorriso che lei avrebbe voluto schiaffeggiare. “Brava ragazza.”

 
*

 
(19th September)

 
“Sul serio, mia cara, sei troppo accomodante con lui. Gli ci vorrebbe una bella strapazzata,” dichiarò Mrs. Hudson.
“Molly non è accomodante, è comprensiva,” replicò Mary.
“La comprensione è fatta per Dio, a quel che dicono,” disse Victoria.
“E per le donne.”
“No, credo che nel nostro caso si tratti di pazienza.”
Molly avrebbe voluto davvero che la smettessero. Fu quasi tentata di farglielo presente, quando un propizio scampanellio la distrasse dal proposito.
Un minuto dopo Wiggins saliva le scale con un grande pacco indirizzato a lei. Nessuno ne fu stupito. Negli ultimi mesi per riempire il tempo aveva fatto incetta sui siti di acquisti online. Lo stesso, Molly aggrottò le sopracciglia. Non ricordava di aver ordinato niente nell’ultimo mese, a meno che non si trattasse di un ordine che era andato smarrito o di un pacco mandato da qualcuno. Lo portò in camera da letto sotto gli occhi prudenti di Mary, che l’aveva seguita come un’ombra fedele. “Posso?” chiese, indicando il pacco.
Molly annuì.
Mary esaminò il pacco, tastò il cartone come se fosse un serpente pronto ad aizzarsi contro di lei, quindi lo aprì. Dentro c’era una pelliccia o meglio, quello che si rivelò essere –
“Un costume da gorilla.” Molly era allibita, Mary solo divertita.
“Ci deve essere stato un errore nella consegna.” Mentre lo diceva le sovvenne l’idea che non si trattasse di un errore, le indicazioni postali erano troppo precise. Accarezzò il pelo e prese la maschera in mano. Fu allora che notò il biglietto all’interno. A Mary pareva essere sfuggito.
“Uno scherzo,” si sforzò di ridere Molly. “Deve trattarsi di Meena.” Una parte di lei pregò che lo fosse.
“A meno che non voglia che tu partecipi alla maratona di domani, non vedo a cosa potrebbe servirti. Manca ancora un mese ad Halloween.”
“Maratona?” Molly chiese con cautela. Cautela, ci voleva cautela, si disse, cercando con le dita il biglietto.
Mary non rilevò i suoi movimenti. “Quella che parte dalla LUC della Minster Court. Percorre cinque miglia intorno alla City.”
Molly continuò ad accarezzare la pelliccia. Sì, ne aveva sentito parlare ovviamente, la maratona di volontari. “Gorilla sul Tower Bridge. Deve essere uno spettacolo.”
Aspettò che Mary fosse occupata ad allattare Katie, andò in bagno e prese il biglietto che aveva intascato. Le sue mani erano ferme, non tremavano e di questo fu grata. Le sue erano mani di un chirurgo, si sforzò di ricordare.
Sul biglietto c’erano delle istruzioni. ‘Seguile alla lettera, Molly - mouse’, diceva, ‘se non vuoi che uno di loro perda un dito o un braccio o il cuore, a mia discrezione.’ Le istruzioni erano precise. La mattina del 20 settembre alle 10:30. Era firmato con una M e Molly si chiese cosa dovesse fare, cosa potesse fare. Aveva poche ore per decidere, poche ore soltanto.
‘O che facciano la fine del tuo gatto.’
 

*

 
“Tieni. È quello che mi avevi chiesto, no?”
John gli porse il ciondolo annerito che aveva trovato nel cassetto del comodino della sua vecchia camera da letto. Odiava quello che aveva fatto, rovistare tra gli oggetti personali di Molly, odiava Sherlock per averglielo chiesto e odiava ancora di più se stesso per aver accettato.
Lui lo prese senza un ringraziamento e John fece una smorfia. Prego, amico, è stato un piacere.  
Sherlock gli concesse un’occhiata quasi inesistente nella velocità con cui tornò ad osservare il finestrino del taxi. “Smetti quell’aria offesa, John. Non ti ho chiesto di frugare nella sua biancheria.”

Maledetto idiota.

 

 


Nda:

Ora entriamo nel vivo. Il prossimo capitolo è pura azione. Sarà l’ultimo capitolo prima dell’epilogo, perciò sì, altri due e poi i giochi sono chiusi.
Vorrei scusarmi per la lentezza con cui ho aggiornato questo capitolo e anche il precedente, ma ero in una specie di blocco, no togliamo pure la ‘specie’, ero in blocco o crisi o che dir si voglia. Anche quando ho scritto l’ultimo capitolo lo ero e in effetti si nota (la prima parte l’avevo scritta in un periodo buono, la seconda, da Lord Simon in poi, in questa settimana e mezza di black-out). È un capitolo che ho abbastanza odiato scrivere e infatti manca di quell’ispirazione che mi ha animato per tutto il corso d’opera (corso d’opera, xD, che megalomane che sono).
Spero che questo sia valso l’attesa. Nel prossimo capitolo comparirà finalmente Moran. A chi amasse gli spoiler, consiglio di cercare in rete il significato della carta del Fante di picche.
http://www.greatgorillarun.org/faqs.html La maratona esiste e io personalmente la trovo un’idea fantastica. Sul serio, gorilla sul Tower Bridge! A chi non piacerebbe?
Altre domande: che fine ha fatto Toby? Perché hanno dato a Molly un finto Toby? Sherlock credeva sul serio che Molly non si sarebbe accorta dello scambio? Cosa vuole Moran? Cosa ha aggiunto nel biglietto? Mary davvero non ha notato niente? I ringraziamenti sono d'obbligo. Siete fantastiche. Nonostante il caldo, il sole, il mare trovate sempre tempo per commentare e di questo vi sono grata. Siete meravigliose e vorrei avere più parole a mia disposizione per espremere il concetto, ma non ne trovo di abbastanza belle o buone. Fa troppo caldo per un abbraccio? ;)

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Capitolo 17
*** XVII ***


17

Succederà questa notte.
Un sussurro, un messaggio, uno sguardo complice.
Succederà questa notte.
Tutto si deciderà sotto le stelle di questa notte.
Occhi d’argento, fieri, la guardano mentre finge di dormire. Perché finge, è palese. Le spalle sono troppo rigide, il respiro è controllato, il braccio che pende dalla sponda è teso in un arco irrealistico.
Indossa una vecchia maglietta di una squadra di canottaggio universitaria, una che è appartenuta a suo padre; porta i capelli annodati in una treccia sfatta che le pende sulla spalla nuda.
Il gatto soffia dal cuscino ai piedi del letto, dove lei gli deve aver intimato di restare. Non l’ha voluto con sé. Deve odiare la sua somiglianza con Toby, malgrado ciò gli ha preparato un’alcova confortevole e a portata di orecchie.

Tipico, pensa.
Vorrebbe improntare il pensiero della risentita incomprensione che avrebbe provato, ha provato anni orsono. Non ci riesce.
Si stende di fianco a lei e lascia che il respiro di Molly, tiepido, gli sfiori la base della gola quando le preme la bocca sulla tempia, poco sopra l’arcata del sopracciglio, gentilmente. Una carezza come lo è la voce di lei nella sua coscienza, il profumo affusolato di fiori che la permea, il peso del suo sguardo accurato – lo stesso che ora, serrato nella bugia del sonno, è impegnato a mentirgli.
Essere gentile, alla volte, è un tormento.
Vorrebbe prenderla, lì e adesso, per trattenerla, scomparire dentro di lei, in quel bianco accecante, totalizzante che spegne il resto, manda il mondo dentro di lui in blackout.
Sherlock si tira indietro, la copre con il lenzuolo e le dà la schiena.

 

 

Deve andare.
Molly indugia. Sa che ogni momento è prezioso, ma non riesce a muovere un muscolo, non riesce a distogliere lo sguardo dalla schiena ampia e nuda di lui, dalle linee frastagliate delle cicatrici che gli affollano le spalle e il dorso, fino ai fianchi. Sono segni pallidi, appena più pallidi del resto della pelle, del colore delle ossa, della morte, della cipria.
Molly indugia. Vorrebbe accarezzarle in punta di polpastrelli, baciarle, leggeri tocchi di farfalle, invece permette che solo il suo respiro lo faccia per lei.
Potrebbe essere l’ultima volta che lo vede, che lo tocca.

È per salvarlo, ricorda. Per salvare tutti loro.
Guarda il grande, straordinario uomo che Sherlock è. Quello che sta provando, lui lo ha provato. Quella cosa squassante che le strappa a brani il cuore e le morde il respiro, lui la conosce.
Saperlo, glielo fa amare più di quanto sia sopportabile.

Sì, deve proprio andare.  

 

 

 

 

 

 

 

IL SONNO DELLA RAGIONE

 

 

 

 

 

 

 

Molly si era aspettata che sarebbe stato difficile, complicato, addirittura impossibile.
Che fosse così semplice sgusciare attraverso l’invisibile filo spinato della rete protettiva di Baker Street, dopo cinque mesi di arresti domiciliari, era un affronto, qualcosa di inconcepibile.
Non era mai stata una prigioniera, lo sapeva bene.
La gabbia era stata il suo desiderio di compromesso, l’armistizio con la ragione che aveva messo a tacere.
Scivolare, un’ombra tra le ombre, era l’imperativo ora. Scivolare e poi perdersi per un attimo destabilizzante, un attimo soltanto, dimenticare il resto, libera dalla paura nell’avverarsi della paura stessa. (La paura di nemici in agguato, della morte dei suoi amici, delle persone che amava più di se stessa, se avesse fallito nella fuga progettata. Tradirli e nel tradimento salvarli, in uno degli innumerevoli controsensi della vita.)
In quell’attimo cristallizzato, Molly chiuse gli occhi per la pulsione di un battito sregolato, si godette i brulicanti rumori di fondo estivi.
Il vento, come una lusinga tra i capelli, faceva rifluire i gorghi d’aria e portava da un imbocco a un altro delle strade il suo lamento di nenia, litania mai dissimile e neppure del tutto uguale.

Canti funebri, canti d’addio. Non erano l’ideale, nel suo caso?
Oh, come le era mancato. Il buio senza tempo della notte londinese – l’impronta del passato nelle pietre degli edifici d’epoca, quella del domani negli impianti futuristici degli skyline; le stelle cieche in un cielo rannuvolato, il rumore lontano del traffico e la quiete effimera, simile all’intervallo durante un’opera di teatro.
Molly percorse a passi sbrigativi la strada. Anche nel suo essere palesemente deserta, le trasmetteva una sensazione inquieta di tramestio, di vita celata allo scrutinio approssimativo di uno sguardo disattento.
C’erano occhi, nascosti dietro le persiane delle finestre, negli androni dei portoni, negli anditi delle villette a schiera; occhi che seguivano e osservavano ogni suo movimento.
Non li vedeva, ma poteva sentirli, con la potenza irrevocabile della fantasia, resa contorta dall’affanno.
Stritolando per scaramanzia il foglietto con le istruzioni che avrebbe potuto recitare a memoria per quante volte le aveva rilette, il braccio rigido contro la scatola, Molly sollevò il cappuccio del giubbotto antipioggia e cominciò a correre. 

 
*

 
Attendere. Ora tutto quello che doveva fare era attendere.
Accoccolata nell’angolo estremo del ponte, la lingua di piombo ribollente del Tamigi sotto di lei e il cielo nerofumo a gravare in una massa di nuvole informi, Molly rifletté sull’irrealtà della situazione.
Nel turbinio dell’ansia crescente, ricercò con disperata solerzia lo sguardo materno di Mrs. Hudson, il sorriso di Mary che sapeva essere così pungente e analitico, quello spiegazzato di John, il modo in cui Victoria aggrottava le sopracciglia per nascondere la sua riluttanza a fidarsi, Wiggins che, fischiettando e dondolando sui talloni, le diceva che era una brava persona, come se si trattasse del complimento più lusinghiero che potesse rivolgerle.
Molly ricordò altre facce amiche, le tratteggiò amorevolmente. Meena, Caroline, Greg, Sally, Mike Stamford. I volti dei suoi genitori, della sua prima famiglia.
Cercò di non pensare a lui. Farlo sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora.
Molly si concesse il lampo di un’immagine, la lama di un sorriso asimmetrico in cui i denti venivano mostrati in uno sprazzo fulmineo. Si disse soddisfatta. Però, più avanti, nel freddo nervoso che le ghiacciava il sangue, nel martellante rumore che incalzava nelle orecchie, non resistette oltre.

Debole. Sei una debole, Molly.
Richiamò a sé il calore delle mani di Sherlock – mani grandi, ampie, che potevano racchiuderle il viso nei palmi con estrema facilità -, la sensazione delle sue labbra che si muovevano sulle proprie, l’intensità di certe sue occhiate in momenti ben precisi, la robustezza del corpo atletico e longilineo di lui, dei suoi abbracci volitivi, dove tutto sembrava ridursi, il mondo intero era circoscritto dalle sue braccia.
Sherlock e l’arricciatura delle labbra quando cercava di non lasciar trapelare il suo divertimento, la fulgida luminosità dell’azzurro elettrico dei suoi occhi.
Sherlock e l’aspetto malinconico che non sapeva di assumere quando, davanti alla finestra del 221B, accompagnava le albe opalescenti con la musica struggente del suo violino. E Molly sapeva, ora come allora, come sempre, cosa stesse suonando, a quali momenti precisi ed occasioni particolari stesse trovando melodie per cui non esistevano espressioni altrettanto efficaci.
Sherlock e il suo essere schivo, penetrante, pungente e intenso.

Sherlock. Una preghiera sulle labbra, del cuore. Sherlock. Sherlock. Sherlock.
L’alba era ancora lontana. Sherlock lo era più che mai.

 
*
 

John non sapeva cosa stesse succedendo. Sapeva soltanto che un minuto prima era stato nel suo letto a dormire il sonno dei beati, mentre in quello successivo Sherlock lo aveva scosso bruscamente e altrettanto bruscamente gli aveva intimato di vestirsi, dopodiché era marciato fuori dalla stanza come una furia, sbattendosi la porta alle spalle.
Doveva ringraziare ogni santo del paradiso che il rumore non avesse svegliato Katie o, qualsiasi fosse la natura dannata del suo problema, non avrebbe avuto clemenza di lui.
Lanciando un’occhiata insonnolita alla finestra, John osservò le prime strisce di luce rosata di un’alba quanto mai discreta.
Imprecò, del tutto sveglio, ributtando la testa sul cuscino e scalciando via le coperte. Neppure il bacio di Mary riuscì a rabbonirlo.
Soltanto quando incrociò l’espressione di Sherlock, pochi minuti più tardi, in salotto, ogni traccia di rabbia si volatilizzò, impallidendo in preoccupazione.
“Cosa c’è? Cosa succede?” John volse lo sguardo a Victoria Queen, assorbita nel percuotere i tasti del laptop come se da quello dipendesse la sua salvezza mentale. “Dov’è Molly?”
Gli occhi di Sherlock erano incavature buie, senza fondo. “È scomparsa.”
John sentiva la lingua come cartapesta contro il palato, la gola secca.
Mary interpretò il suo silenzio e si fece avanti per prendergli la mano e stringerla, quasi cercasse di infondergli una scintilla. “State rintracciando il segnale del GPS nel ciondolo di Molly?”  

Era a quello che serviva? John volse uno sguardo incredulo a Sherlock. “È per questo che hai voluto che te lo prendessi? Come diavolo ha fatto Molly a uscire?”
Dov’era lui, dov’erano tutti quando era stata presa?
Con cupa lentezza Sherlock fece un cenno di diniego. “Molly non è stata rapita.”
Il tono in cui lo disse, apatico, di calma apparente, gli ricordò l’occhio del ciclone: qualcuno che si trovi al centro di un tornado, circondato dalle pareti incontrollate d’aria che gli vorticano attorno impazzite, in balia della forza distruttrice che le disloca.
“Tu sapevi che sarebbe successo.” John ispezionò la stanza, concitato, cercando il suo soprabito. “Dobbiamo trovarla!”
“L’avrà minacciata facendole credere che fossimo in pericolo,” proseguì Sherlock, rivolto a Mary.
“Si è resa rintracciabile,” ribatté lei.
Mary e Sherlock si scambiarono uno sguardo criptico e un lieve segno d’intesa. Stavano evidentemente sostenendo una di quelle conversazioni mute che erano loro esclusivo privilegio. 
Cercando di tenere a bada il fastidio, John aggrottò la fronte e si passò una mano sul mento. Non riusciva a conservare la compostezza di cui entrambi sembravano invece padroni. “Quanto può essere brava?”
“Dannatamente.” Sherlock era tornato a fissarlo e John intravide qualcosa che aveva sperato di non scorgere più negli occhi di lui, non dopo Appledore. “Siamo la sua famiglia e non c’è niente che non si farebbe per la famiglia.”
 

*

“Il vero colpevole brindava con noi con champagne e dolci di pessima qualità.”
Erano in una macchina mandata da Mycroft, diretti al ‘luogo dell’esecuzione’, come lo aveva definito macabramente Wiggins. John aveva serrato i pugni per la tentazione di colpirlo. “Con noi –” batté le palpebre, preso in contropiede, prima di cominciare a scuotere la testa “ma con noi c’era solo… oh, no. No, no, no.”
“Tom Airy.” La voce di Mary era priva della benché minima inflessione. John si chiese una volta di più a quali orrori avesse assistito, in quella sfera della sua vita che non gli apparteneva, per reagire con tale impassibile prontezza d’animo. “Anagramma di Moriarty.”
“Pensavo che si trattasse di Sebastian Moran,” disse John.
Sherlock annuì. “Il suo vero nome è Sebastian Moran.”
“Molly è l’esca, l’hai usata come esca.”
“Speravo che non fosse necessario arrivare a tanto.”
“Oh, questo sistema tutto allora! Tu non volevi, ma sei stato costretto! Perché mi pare di averla già sentita, questa?” Grondava sarcasmo e sapeva di suonare del tutto fuori luogo nelle attuali circostanze, ma non gli importava. Ovunque fosse, Molly rischiava la vita, forse era già morta. “Probabilmente perché è la tua scusa di sempre!”
Sherlock roteò gli occhi. “John, ti stai comportando in maniera ridicola.”
“Be’, tu abominevolmente nei confronti della tua pseudo fidanzata o qualsiasi cosa sia Molly per te. Se usciamo vivi da questa storia, no, sul serio, se ne usciamo vivi, un pugno di ringraziamento non te lo leva nessuno." Una pausa. "Molly lo sa? Che il suo ex fidanzato è uno psicopatico?”
Sherlock ruotò la testa con un movimento teso, stirò le dita nei guanti di pelle. “Non ho trovato indispensabile informarla.”
“Sherlock!”  
“Cosa?” Sherlock scoccò una smorfia, come se fosse una freccia, verso Mary che si era lasciata sfuggire quell'esclamazione. “Anche tu non condividi tutte le informazioni in tuo possesso con John o sbaglio, Mrs. Sniper?”
Mary gli sorrise. “Preferisco Miss Mummy.”
John scosse la testa. “Non è così che funziona una relazione.”
“John, ti pare il momento?” domandò Mary.
“Potremmo morire e non avrei occasione di dirgli che è una testa di –”
“Non c’è stato modo!” esclamò Sherlock esasperato.
“Cinque mesi, Sherlock e non ti è mai passato in mente di informarla? Non venire a farmi credere che non ci sono state occasioni! Da quanto sai? Scommetto da un bel po’. No, tu non hai voluto.”
“Sì, John, non ho voluto. A costo di farmi odiare da lei, le ho deliberatamente nascosto la verità perché temevo che ne rimanesse ferita, come difatti sarà.”
“Lo sarebbe stata, ma almeno ti avrebbe avuto al suo fianco.”
“Mi avrà comunque al suo fianco.”
John incrociò le braccia sul petto e guardò fuori dal finestrino ostentatamente. “Magari non ti vorrà.”
“Non parliamone adesso,” li frenò Mary con aria di rimprovero. “John, questi sono affari di Sherlock e Molly. Ci penseremo quando tutto questo sarà finito.”

Quando tutto sarà finito. John cercò di non pensare alla sentenza in modo pessimistico. Non ci riuscì.  

 
*
 

Molly aveva seguito le istruzioni. Travestita per una maratona a cui non avrebbe partecipato, era rimasta sul ponte e quando un gorilla si era avvicinato con una busta di plastica, lei non aveva battuto ciglio.
I rintocchi del Big Ben avevano accompagnato lo scorrere ristagnante della notte e scandito le prime ore dopo l’alba.
Molly si era riscaldata al rumore del traffico che incrementava e dello scalpiccio delle persone che cominciavano ad affollare la strada, ai colori caldi che rendevano l’acqua e il cielo abbaglianti nel primo mattino.
Attese, ascoltando ciò che la voce dell’uomo aveva da dirle.
Le storie che le riferì erano orribili, ma vere, su questo non c’era dubbio.
Le raccontò di morte, tortura, menzogne e inganni spacciati per piani elaborati.
Le raccontò la verità e la verità era peggio di qualsiasi incubo.
Nella pesantissima pelliccia sintetica, Molly ascoltava perché non aveva scelta.    

 
*
 

Nella folla di gorilla emerse la testa di un uomo. Era una spanna sopra i corridori che continuavano la maratona, aprendosi ai suoi lati come le biforcazioni di un fiume per farlo passare indenne e non travolgerlo.
Nel campo di tenebra e freddo in cui era sprofondato, il cuore di Molly riprese a battere, ma non a sperare. Erano i battiti penosi e sordi che precedono l’ultimo.
“Il cavalier servente. Non è affascinante, Molly?” le chiese la voce suadente all’orecchio. Il Serpente biblico che offriva l’emarginazione, smerciandola per antica conoscenza. “Di’, ti ha mai raccontato della volta in Karachi con Irene Adler? Sai che la chiama La Donna? No, certo che no, perché tu conti.”
Sherlock controllò la sua figura, irriconoscibile nel costume da gorilla, con uno sguardo che la fece sprofondare nuovamente nel baratro. Avrebbe desiderato che lo sguardo di lui fosse focalizzato e in qualche modo lo era, ma distorto da risoluzioni falsate. Stava fingendo che non gli importasse e a Molly non era mai stato più chiaro che in quel momento lo sforzo che gli occorreva per riuscire nell’intento.
“Parlare tramite altri,” Sherlock strascicò le parole con studiata insofferenza. “Tutto questo è ripetitivo.”
Molly trasse un respiro vibrante, raddrizzò le spalle. “Sherlock Holmes,” disse ciò che l’uomo-serpente le stava sussurrando. Trasmetteva messaggi. “Tu hai preso qualcosa che mi era caro, molto caro.”
“Moriarty ha sparato a se stesso,” corresse Sherlock con un sorriso artificioso. “Non io.”
“Tu ce lo hai costretto. Jim ha sempre avuto metodi estremi, per lui il fine giustificava il mezzo.”
Sherlock la fissò di nuovo, con un’intensità tale da darle l’impressione di averla corsa davvero quella maledetta maratona, di trovarsi sotto a dei riflettori incandescenti. “Tu lo amavi,” disse a voce bassa.
“Io lo amo,” replicò Molly flebilmente. Il sentimento dell’uomo-serpente suonava autentico. “La morte non uccide l’amore. Tenere a qualcuno è uno svantaggio. Il sentimento è -”
“Hai aspettato che me andassi e ti sei avvicinato a Molly,” interruppe Sherlock freddamente.
“Sapevo che eri vivo. Dovevi esserlo. E sapevo che la tua prossima mossa sarebbe stata smantellare la rete di Jim. Distruggere tutto ciò che lui aveva impiegato anni a costruire.”
Ogni parola pesava come un macigno sulle corde vocali, ma così il dispositivo dentro il torace rigido del costume.   
“Me lo hai lasciato fare. Perché?”
“Avrei potuto ucciderti o uccidere i tuoi, ma quale sarebbe stato il divertimento? No, così è tutto molto più intimo. Guardala. ‘Q
uesta ragazza, che ha saputo rimanere calma e grave dinanzi alla porta dell'inferno e alle piroette del demonio. Questa ragazza, che è quieta e sana e innocente’. Rappresenta tutto ciò che un uomo potrebbe mai desiderare. Guarda la sua pelle, porcellana. E quei capelli fini -” continuò con delle oscenità che Molly, con una morsa di nausea e disgusto, fu costretta a ripetere, osservando gli occhi di Sherlock farsi torbidi, d’acciaio. “Oh, ma tu non vuoi sentirlo, vero? Mi sono sempre chiesto perché non mi avessi dedotto, al nostro primo incontro. Molly mi aveva messo in guardia, ma tu mi hai rivolto a malapena la parola. Ho provato a richiamare la tua attenzione, allora, al matrimonio dei Watson. Un pugnale di carne. Che cosa idiota. Ancora nessuna reazione da parte tua. D’altronde anche per Mary Morstan è stato così. Anche lei è sfuggita al tuo radar, no? Oh, Mr. Sherlock Holmes, tu mi deludi.”
No no no no. Non poteva essere vero. Non poteva essere Tom. Tutti, ma non Tom. Non lui, non anche lui.
Leggendo lo sconforto e la disperazione acuirsi in lei, la mandibola di Sherlock si irrigidì e ci fu un guizzo di muscolo sulla fronte.
“Hai voluto attirarmi a Reading.”
“Vero. Volevo accelerare i tempi. Ho aspettato così a lungo. Stava diventando noioso. Noioso, noioso, noioso. Mi sembra di aver aspettato anni. Non che non ci siano stati intramezzi piacevoli nell’attesa. Mi sono scopato la tua patologa. Scopa incredibilmente bene, sai? Ti chiamava spesso, nel sonno. Una volta l’ha fatto durante un amplesso. Il giorno dopo mi ha lasciato. Era così mortificata, così dispiaciuta. Anche quando ha lasciato Jim lo era. Jim non sapeva se ridere o strangolarla. Sai che avevo affittato una famiglia, per lei? Ho anche comprato un cane. Peccato, comunque. L’avrei sposata e la prima notte di nozze le avrei strappato via il vestito e la pelle. Non sarebbe stata più così carina poi, non trovi?”
Sherlock cercò il suo sguardo e Molly non riuscì a rifuggirlo oltre. Non voleva vedere riflesso nel suo l’orrore che la paralizzava e non lo trovò. C’era pura logica, calcolo. 
“Tu sei pazzo.”
“Chi non lo è, a questo mondo?” Molly si costringeva a recitare quelle battute non sue, atona. “Questo pazzo, pazzo mondo. Non fingere che la cosa ti dispiaccia. Io ti vedo e ti conosco. Ho visto il modo in cui la guardavi, quando pensavi che nessuno se ne accorgesse. Con desiderio, brama, come una cosa che avresti voluto inglobare. Conosco i tuoi peccatucci. Ha ucciso un uomo, lo sapevi, Mols? Ha sparato a un uomo a sangue freddo e non era il grande uomo cattivo. Meritava la morte, ma chi può dirlo? Uno squalo, è così che l’hai chiamato, vero? Chi tocca i tuoi amici è un uomo morto. Non c’è poesia in questo. Mi piace. A Jim, però, non sarebbe piaciuto. Toglie bellezza al tuo personaggio. Gli dà nuove macchie, nuovo spessore. Sei caduto dal piedistallo e non sei più tra gli intoccabili. Non sei un eroe.”
“Non lo sono mai stato.”
“Ma il resto del mondo non lo sapeva. Molly non lo sapeva. Hai conosciuto mio padre, Mr. Sherlock Holmes. È un Lord, anche se tu preferisci chiamarlo Ratto numero 1. Sa chi sono, Molly. Lo ha sempre saputo.”
(“Da quanto? Rispondi alla domanda, Sherlock.”

“Sin dall’inizio.”)
“Sei stato furbo. Te ne do atto, quel programma di camuffamento della voce -”
“Un tocco di eleganza, non trovi? Farti credere che fossi lui.”
“Perché?” Un lieve acciglio si fece strada nel volto immobile di Sherlock. Per chiunque altro sarebbe stato inespressivo e vuoto, polare, ma non per lei. Molly sfogliava come se fosse un libro aperto la sua inquietudine nella trazione del collo, nella linea obliqua della bocca, nel crocchiare della mandibola, nell’accuratezza della sua maschera danzante.     
“Dovevo farti tornare. L’affare di Lady Smallwood si era spinto troppo in là perché Magnussen ha fatto il passo più lungo della gamba. Miserabile è chi non ha una donna che ne pianga la morte.”
A quanto pareva Moran non aveva altro da dire a Sherlock, perché si rivolse a lei, concedendole la libertà di non ripeterlo.
La avvertì. Aveva cinque minuti a partire da quel momento, prima che la bomba esplodesse. Se non fosse saltata dal ponte entro lo scadere del tempo, lui l’avrebbe fatta saltare in aria e insieme a lei l’intero ponte, l’Ospedale del Barts e Baker Street. Poteva morire, scegliendo di farlo o morire comunque, ma sapendo di aver condannato alla morte anche tutto ciò che amava. Aveva cinque minuti per dire addio.
Lui non pose fine alla trasmissione. Voleva sentire, sarebbe rimasto in ascolto ad origliare, beandosi del suo dolore, della sua angoscia.
Molly si appoggiò contro il parapetto del ponte in cerca di sostegno, odiandosi perché si sentiva vacillare, aveva le gambe pesanti e molli.
Dietro di loro c’erano ancora i rumori della corsa che procedeva.
Nulla era cambiato per il resto del mondo. Per lei lo era tutto invece.    
“Strapparmi il cuore dal petto e bruciarlo,” sentì che Sherlock diceva.
Non si era dimenticata di lui e quasi avrebbe voluto esserne capace.
Molly avrebbe voluto baciarlo, nella confusione che li circondava, gettarsi nella baraonda con lui e scappare. Ogni parte di lei le urlava che non poteva, che, anche se lo avesse voluto davvero, non avrebbe potuto.
“Molly.”  Sherlock le si avvicinò cautamente, ma non la toccò.
Erano così vicini che il bordo del Belstaff scremava il pelo sulle ginocchia, così vicini che lei poteva contare le rughe ai bordi degli occhi di lui, scomporre le pagliuzze grigio-verdi dell’iride. (Si era sempre chiesta se la sua fosse una eterocromia centrale). 
Erano così vicini che le loro ombre erano sovrapposte, l’una incorporata nell’altra. Erano così vicini da sembrare stretti in un abbraccio e lo stesso Molly non si era mai sentita più distante da lui, le pareva di essere su uno strapiombo e che lui fosse sull’estremità della punta opposta.
“Oh, Molly, non vedi l’elaboratezza del piano?” domandò lui concitato, ma anche con qualcosa che era molto simile alla dolcezza. “Volevano distruggermi, lo hanno sempre voluto, ma io mi sono dimostrato indistruttibile o perlomeno tutt’altro che facile da distruggere. I miei amici sono la mia famiglia. Ancora non vedi? Ancora non capisci? Avrebbe potuto ucciderti subito. Perché non l’ha fatto? Ha minacciato te, ma mai me, mai direttamente. Perché? Voleva portarti a questo, alla disperazione. Voleva che tu ti sentissi come se non avessi via di uscita. E a questo punto ha fatto l’ultima mossa: farti credere che se ti butterai da questo tetto, sarò salvo. Credi a lui, Molly? Riponi la tua fiducia in lui o in me?” Non la guardava più col distacco che aveva tentato di esibire, ma con concerno. Era animato, impaziente e febbrile. Parlava come se fosse in preda a una forte agitazione, rapidamente e privo di soste. “Molly, non importa quali piani tu abbia fatto. Se tu ti butti, salterò anch’io.”
Per qualche istante lei smise di respirare. I polmoni le dolevano, perciò ricominciò, ma la sensazione di pressione in petto non mutò, non svanì.
Sherlock le scostò una ciocca di capelli, sistemandogliela dietro l’orecchio. Era un gesto così familiare che le sembrò di essere tornata nel salotto di Baker Street, che di lì a poco Mrs. Hudson sarebbe salita a portar loro il tè. “Oh, sì, lo aveva previsto ed è esattamente ciò su cui contava. Costringere te ad uccidermi. Un piano astuto, diabolico, brillante. Spingermi ad odiarti e spingere te ad odiare te stessa, nonché me per averti ridotta in questa situazione. Se salti, farai solo il suo gioco. Ti chiedo di essere egoista, Molly.”
Molly deglutì. “Tu non lo sei stato,” disse in tono di accusa. “Non lo sei stato due volte.”
“Scegli me, Molly. Non puoi salvare la tua famiglia. Salva me.”
Stava bluffando, ma perché? L’unica ragione poteva essere – Tempo. Stava prendendo tempo. Per fortuna, Tom, Sebastian era abbastanza sadico da trovarlo uno spettacolo divertente. “Salteresti davvero?” domandò in tono sommesso.
Il barlume fugace di comprensione che saettò nel suo sguardo le parlò di orgoglio perché lei aveva capito attraverso le sue azioni, aveva letto nelle sue parole. “Mi sei indispensabile, Molly. Credevo che avessimo chiarito questo punto da tempo.”
“Se non salto, lui ucciderà –”
“No, non lo farà. Cosa credi che io abbia fatto in questi mesi? A cosa credi che servisse Victoria Queen?”
“Victoria?” fece eco lei.
“Un genio dell’informatica,” rivelò Sherlock. “Un vero pirata del web, un occhio in tempo diretto. Ho tutte le prove che occorrono, Molly. Mi serviva quella schiacciante. Non potevo ripetere lo stesso errore.”
Moran rise, una risata che la fece rabbrividire, spine di ghiaccio giù per la nuca e la spina dorsale. “Ma lo hai fatto, Sherlock,” si costrinse a ripetere, piangendo, “e questa è la tua fine.”
Molly si sporse, guardò il corso d'acqua sotto di lei e poi si sentì tirare all’indietro con una violenza che le fece lacrimare gli occhi. Non ebbe il tempo di pensare a niente.
Con la schiena che le doleva, premuta contro l’asfalto, Sherlock le aveva già strappato la plastica che rivestiva il torace, esponendo il dispositivo al di sotto. Lo afferrò e lo gettò giù dal ponte, sovrastando il proprio urlo con il suo. “Mary! John! Ora!”

 

 
Era successo tutto in un battito di ciglia.
Il cielo era al suo posto e così il ponte, nonostante il tremore che lo aveva scosso quando la bomba era esplosa, che aveva sovrastato qualsiasi altro rumore e che aveva fatto tremare la pietra e le assi della struttura.
Molly era ancora a terra, stravolta ma viva. Sapeva distinguere lo stato di morte.
“Molly, cosa stai facendo?” La testa nera e arruffata di Sherlock entrò nel suo campo visivo, l’azzurro dei suoi occhi scalzò quello del cielo.  “Dobbiamo muoverci!”
Molly sentiva la folla di passanti che vociava, già rivolgeva domande, parlava di chiamare la polizia, avvertire le autorità competenti. Sentì il nome ‘Moriarty’ cominciare a diffondersi nel brusio intimorito.
Sherlock le si stese accanto, cercò freneticamente una ferita alla testa.
Molly non accennava a muoversi. Avrebbe voluto ridere, nascondersi il viso dietro il braccio, si accorse di non riuscirci.
“Lasciami godere il momento, Sherlock,” mormorò, rauca. “Zitto.”

 
*
 

Il ‘dopo’ era per Molly un pandemonio di parole, sfilacci di immagini, volti.
Ricordava vagamente di essere stata abbracciata da Mary e che John l’avesse praticamente placcata in una presa da boa constrictor.
Ricordava di aver atteso un’eternità in una stanza con una carta da parati scura e un enorme ritratto della Regina, una scrivania piena di fascicoli e delle poltroncine di legno malagevoli.
Ricordava il viso bellissimo della donna che si faceva chiamare Anthea, le sopracciglia inarcate con cui aveva squadrato il suo costume da gorilla e che lei si era praticamente dimenticata di star indossando.
Molly non si era accorta della foga con cui aveva cercato di toglierselo finché l’altra non aveva messo da parte l’espressione distante e vaga,  si era messa a disposizione e l’aveva aiutata a venirne fuori. Era stato come essere privati di un peso di dieci chili e Molly si era ritrovata a respirare e nuda, proprio nel momento in cui la porta si riapriva per far entrare Sherlock e Mycroft.
Mycroft non aveva battuto ciglio e Sherlock aveva attraversato la stanza per coprirla con il Belstaff. L’aveva fatta sedere, rimanendole accanto, le mani sulle sue spalle. Molly aveva poggiato la testa contro il braccio di lui, inclinandola in modo da poggiarsi contro la curva del gomito.
Mycroft aveva rimproverato Sherlock con un lungo sermone, poi d’un tratto aveva smesso.
Ricordava che, prima di uscire, le si fosse rivolto personalmente. “Molly,” aveva detto ed era la prima volta che la chiamava per nome.
Molly si era aspettata una frase sibillina sulla stupidità di certi gesti avventati, l’impulso che quei tali ‘sentimenti’ operavano contro la ragione. Sorprendentemente, Mycroft aveva solo aggiunto “Grazie.”
 “Prego,” aveva ribattuto lei e aveva sorriso torpidamente.
Ricordava la risata di Sherlock e il fiacco, pigro sorriso di Mycroft, l’occhiata interdetta di Anthea.
Ricordava che una macchina li aveva accompagnati a Baker Street.
Sul morbido sedile di pelle, Molly si era abbassata il bavero del cappotto, si era rimboccata le maniche sui polsi. “Avresti dovuto raccontarmi tutto questo tempo addietro.”
“Intendevo proteggerti.”
Molly aveva poggiato la guancia bollente contro il vetro gelido del finestrino, esausta. “Adesso chi è che si arrampica sugli specchi e accampa scuse ridicole?”
“Molly.”
Sherlock doveva aver notato qualcosa nel suo tono spento e stanco, qualcosa che era sfuggito a lei che per prima lo aveva usato, perché l’aveva guardata con una nota di allarme, ferito come se lei lo avesse colpito fisicamente. 
“Non parliamone adesso, Sherlock, te ne prego.”
La verità era che neppure Molly sapeva cosa provava.
Ricordava che Sherlock l’avesse messa a letto, si fosse sfilato le scarpe e si fosse steso accanto a lei, le loro braccia rasenti e i dorsi delle mani che si lambivano come onde di mare e battigia di una spiaggia.
Ricordava di essere caduta quasi subito in un oblio soporifero, dolce e che il mormorio ipnotico di Sherlock avesse accompagnato il suo passaggio graduale al sonno. Non aveva afferrato il senso di quel suo mormorio, ma ne aveva colto la sincerità.

 
*

La mattina successiva, Molly se n’era andata.
Non si era lasciata dietro niente tranne il vago sentore floreale sulle sue vestaglie.
Non c’era segno di Toby o del giradischi di suo padre o dei suoi libri. Non c’era la fotografia di suo nonno sulla mensola del camino.
Billy il teschio appariva desolatamente solo, l’appartamento era tetro e silenzioso.
Sherlock scacciò quelle impressioni, scrollando le spalle e storcendo occhi, naso e bocca con uno ‘sciocchezze’.

 

 

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


epilogo

Cosa provi?
Era una domanda continua, fornace di un sentimento irrequieto.

Cosa provi?
Se lo chiedeva di continuo. La domanda non aveva sosta, non conosceva tregua nella sua testa. Risuonava in un’eco indistinta e lugubremente monotona nel sottofondo di altri pensieri. 

Molly, cosa provi?
L’emozione era ancora acuminata, vivida, incandescente.
Nell’immediatezza dell’accaduto, salvarli era stato il pensiero primario e durante, guardando Sherlock negli occhi, leggendo sconcertata la fiducia brillare nei suoi, una speranza irrazionale e peraltro sciocca le si era accesa dentro.
Nel dopo era stato il sollievo a farla da padrone e la stanchezza mentale, fisica le si era riversata addosso con l’equivalente forza di gravità di un’intera catena montuosa, insieme alla necessità di riposare.
Tornare a casa era divenuta un’impellenza insopprimibile.

Quale casa?, avrebbe pensato all’alba successiva, rigirandosi inquietamente nell’abbraccio fastidioso delle lenzuola e ritrovandosi con il viso ad un tiro di schioppo da quello di Sherlock.
Quale casa?, aveva riformulato la propria mente.
Casa.
Molly aveva chiuso gli occhi, lottando contro il nodo che le chiudeva la gola. Aveva sperato di averla trovata, ora si rendeva conto di essersi sbagliata.

Forse.
Forse, le bisbigliava all’orecchio il respiro tranquillo di Sherlock contro il collo, il braccio che nel sonno lui le aveva passato attorno alla vita in un’abitudine consolidata, il ricordo intenso delle parole che le aveva mormorato nel suo stato di dormiveglia. (Perdonami. Molly, perdonami.)
Con un senso di profonda inadeguatezza, si chiese a che pro perdonare quando nulla era da perdonare, a che pro farlo con la sicurezza che in futuro, non oggi, non domani, ma un giorno qualunque e non per questo meno remoto, tutto sarebbe stato uguale. Nel domandarselo, nel formulare i propri dubbi, prestando orecchie alle paure più infime che per mesi aveva cercato di tenere a bada, Molly trovò la risposta.
Non era posto per lei, quello. Non adesso. Non ancora. Non finché non avesse fatto chiarezza con se stessa.    
C’era una cosa ancora. Una cosa ancora da fare. Molly si concesse quell’atto di debolezza, riconoscendolo per quel che era davvero.

Non debolezza, mai debolezza.
Scostò con dolcezza i capelli dalla fronte di Sherlock, districando in punta di dita la resistenza degli annodamenti che glieli avevano ingarbugliati. Guardò l’uomo addormentato, perso nell’assopimento della sua ragione altrimenti brulicante di pensieri in fermento.
Una carezza che le bruciò le dita, le marchiò l’anima. Qualcosa che era tenerezza e insieme pura agonia per le migliaia di significati di cui era approntato.

 
*
 

Sapeva esattamente dove si trovava, anche questa volta.
Prima di essere la sua città, Londra era un intrico di itinerari e linee di luce astratta e sfuggente che perfino ai suoi occhi, notoriamente insensibili al richiamo da sirena della bellezza, reclamava un riconoscimento al fascino che essa riusciva a esercitare sull’animo di chiunque.
Nella sua mente, Londra non appariva come una semplice mappa disegnata, mera trasposizione del reticolo urbano di costruzioni e architettura.
Londra era, prima di qualsiasi cosa, i vicoli e i cunicoli in laterizio che cedevano il passo a strade più larghe e percorsi carrozzabili, uno schema che delineava le sue vicende frenetiche, la convulsa ed esaltata corsa contro il tempo, verso un futuro sempre vicino e tuttavia inestinguibile dall’intreccio del presente e del passato che tuttora ne permettevano l’esistere.
Londra era eternità e pietra, ma di un tipo dinamico che non conosceva impasse né stalli o arresti di sorta.
Londra era l’intelligenza mutevole e prudente che occhieggiava dietro facciate di vetro e lastre di metallo; quella del saggio che incessantemente calpestava con i passi del proprio tragitto gli errori altrui, senza intervenire ma lasciando piuttosto che chi li aveva compiuti meditasse e trovasse da sé la soluzione.
Londra era un enigma senza soluzione, un labirinto di imprecisione perfetta.
Londra era il respiro di tutto ciò che rappresentava storia, per altri arte.
Londra, come già detto, era la sua città.
Londra non l’aveva mai tradito nella realtà.
Nei suoi sogni, però, e questa era una faccenda di tutt’altro tipo, aveva preso il terribile vizio di farlo di continuo.

     
*

 
Nei suoi sogni, Molly Hooper moriva ogni volta in modi atroci e sempre differenti.
L’ultimo sguardo che gli rivolgeva prima dell’attimo finale era uno di indicibile tristezza. – Mi dispiace – diceva ogni volta e le parole, pronunciate da lei, suonavano come una maledizione, così il sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili, malinconico e insieme dolceamaro.
Sherlock avrebbe voluto trattenerla, ma anche quella notte, come le altre che l’avevano preceduta, lei gli scivolò lontano come olio sull’acqua.
La sua testa bruna era illuminata dalle luci artificiali dei lampioni che proiettavano sul suo viso ombre che altrimenti non vi avrebbero trovato posto.
Al collo di lei non brillava alcun ciondolo. Era lui ad averlo nella tasca, invece, come promemoria del proprio fallimento.
Quando l’ora scoccò e i rintocchi del Big Bang ne scandirono il passaggio, Molly strinse più forte il comando a distanza che teneva tra le mani, le nocche bianche per la forza impressa, gli occhi lucidi e febbrili sopra le guance pallide, umide delle lacrime che lei aveva pianto sotto il suo sguardo impotente.
Non questa notte, pensò lui ferocemente. Il passo che era stato sul punto di fare gli fu reso impossibile da un impedimento intangibile. Nell’attimo successivo lei pronunciò le fatidiche scuse e l’ombra dell’inevitabile sorriso accompagnarono l’esplosione.
Molly Hooper saltò in aria davanti a lui, sotto il cielo e il Tamigi illuminati a giorno dai fuochi d’artificio.

 
*

      
Nel proprio palazzo mentale, Sherlock percorse di corsa e facendo affidamento alla memoria il tragitto che lo avrebbe condotto fino a lei.
Non era sicuro di trovarla, riuscirci era diventato più difficile di quanto non fosse stato in passato.
Molly Hooper non era più confinata alle fondamenta, là dov’era sempre stata, al sicuro nelle sale con mattonelle bianche e pavimenti lucidi che ne magnificavano la figura armoniosa, ne mettevano in risalto le qualità e abilità indiscusse.
Molly Hooper aveva ormai libero accesso ad ogni ambiente dei piani superiori e trovarla, nel dedalo della propria coscienza, richiedeva un’applicazione che prima non era mai occorsa. 
La trovò in una delle zone più vecchie, una che non gli capitava di visitare da anni, dietro una porta dal pomello scurito.
La polvere accumulata sulle mensole e sui soprammobili, la tinta scolorita della trapunta stesa sul letto, i mille appunti e i marchingegni che imperavano sulla scrivania sotto la finestra semiaperta, con i tendaggi smossi dal vento, tutto era esattamente come lo ricordava.
Il paesaggio, al di fuori, era quello della sua infanzia: il retro di una casa di campagna, un giardino autunnale con siepi potate di recente e un silenzio pacifico interrotto dal rumore di un tosaerba e ad intervalli irregolari dall’abbaiare festoso di un cane.  
Molly era seduta in un angolo, tra l’armadio e il termosifone. Non indossava il camice da laboratorio e portava i capelli sciolti come in occasione del Natale in cui lui aveva riconosciuto il cadavere di quella che aveva creduto essere La Donna.
Indossava un maglione turchese.
Sherlock le si accostò. Lei non sollevò la testa e continuò a tracciare composizioni decorative sul pavimento. Altri avrebbero disegnato animali o fiori o qualunque altra sciocchezza priva di utilità, non lei. Usando un bastoncino preso dal suo piccolo laboratorio di chimica, Molly Hooper stava abbozzando la struttura del sistema muscolare umano e questo, oltre al fatto di vederla del tutto a suo agio nella camera da letto di quando era bambino, smosse qualcosa.
“Molly,” la richiamò piano, ma con un’urgenza crepitante. “Vieni qui.” Lasciati toccare.
Un lieve acciglio le increspò la fronte. Quando sollevò il volto, lo fece per fissarlo con professionale efficienza, ma senza alcuna scintilla di calore. “Mi dispiace, ma sono una proiezione del tuo subconscio,” gli ricordò, atona. “Mi trovo qui perché mi hai voluto tu. La tua memoria mi ha reso una versione fedele e anche se ciò che rappresento è il desiderio che provi per lei, non posso assecondare la tua richiesta perché Molly Hooper non lo farebbe.”
Sherlock le tese una mano che lei non accettò, ma si limitò a fissare, stranita.
“Io non sono Molly Hooper,” ripeté lei. “Sono soltanto una parte di te che preferisci che ti venga mostrata in una forma che ti è gradevole, con cui ti risulti più facile rapportarti e di cui tu possa fidarti istintivamente, in caso di bisogno.”
“Molly, per piacere.”
Per un momento lei tacque, studiandolo tra le ciglia socchiuse. La polvere con cui aveva giocato le danzava intorno al viso, minuscole particelle grigie come una pioggia di cenere. “Non sono Molly Hooper, ma qualcosa posso fare.” Si sollevò dal pavimento e senza accennare ancora a sfiorarlo, si alzò sulle punte e avvicinò la bocca al suo orecchio. Il suo respiro fu l’unica carezza che ricevette. “Vieni a cercarmi fuori dalla tua testa, Sherlock Holmes.”
Sherlock chiuse gli occhi, ispirando profondamente il ricordo del profumo floreale di lei, come se fosse concreto; li riaprì per fissare il riflesso dello specchio nel proprio appartamento.  

 
*

 
La situazione era proficua sotto molti punti di vista per John Watson.
Innanzitutto lo era nell’opportunità di seccare Sherlock, dal momento che dare fastidio a Sherlock, quale che fossero le modalità e le ragioni, rappresentava una golosità irrinunciabile.  
Perciò, quel lunedì pomeriggio di fine settembre, John si ritrovò stravaccato sulla sua poltrona rossa, concedendosi uno dei piaceri che gli risultavano maggiormente graditi: farsi giustizia a modo proprio.
“Da quant’è che non vedi Molly?”
In risposta ottenne un grugnito.
“Due settimane, giusto?” perseverò, insensibile all’occhiata truculenta ricevuta in pegno da Sherlock. 
“Dodici giorni,” lo corresse Sherlock automaticamente e si sfregò il collo con l’archetto del violino. “Non che li abbia contati.” Come in preda a un ripensamento, incurvò la bocca in una smorfia, visibilmente contrariato dalla defaillance in cui era caduto.
John ebbe la clemenza di non sottolineare la contraddizione di quella sua aggiunta, tuttavia non si astenne dal sorridergli nel modo vitreo e indisponente di chi la racconti lunga. “Ovviamente,” osservò compunto. Una pausa e poi riprese: “Il miglior antidoto al dolore è il lavoro*. C’è parecchio dolore nell’aria, non trovi Mary?”
Mary non sembrava dell’umore tenero che solitamente l’avrebbe resa complice perfetta nel suo attentato alla tutto-fuorché-stato-di-calma di Sherlock. Gli dedicò soltanto un’occhiata, prima di continuare la deliziosa canzoncina con cui stava addormentando Katie.
“Dovresti sul serio andare a trovarla,” intervenne inaspettatamente qualche minuto più tardi, quando ormai Katie dormiva tra le sue braccia.
“Non ne vedo le ragioni,” replicò Sherlock e il suo tono da bugiardo incallito trasudava sincerità.
Mary lo valutò con un sorriso risaputo. “Bugiardo.”
“Mi sembra abbastanza ovvio,” intervenne John che, a dirla francamente, non sopportava la lentezza con la quale i diretti interessati sembravano disposti a crogiolarsi nella corrispettiva indeterminatezza e con cui stavano gestendo l’intera faccenda. “Molly si aspetta delle scuse.”
Sherlock arricciò il naso come sempre faceva quando fiutava qualcosa di irritante per i propri nervi o in alternativa di mortificante per il proprio ego smisurato. “Per cosa?”
John strabuzzò gli occhi, guardando Mary con una faccia che era rassegnata e ilare e furibonda allo stesso tempo, una che stava a domandare ‘sta scherzando, vero?’ e ‘ti prego, dimmi che sta scherzando’.
Il volto di Mary non si lasciò scalfire da quell’ultima, assurda richiesta di delucidazioni; non batté ciglio e ne prese atto come qualcosa di ovvio e perfino banale. “Devi riconquistarla,” chiarì a scanso di ulteriori equivoci.
Sherlock voltò la schiena e riprese il violino, non prima di aver sbottato: “Che cosa ridicola.”
Quando un’ora più tardi John lo vide prendere il cappotto e annunciare che usciva, né lui né Mary furono sfiorati dall’idea balorda di stuzzicarlo sulla destinazione altamente scontata.
Lo videro scomparire giù per le scale con passi che trasudavano risoluzione.
(“Ha davvero ragione, sai,” si permise di far notare a Mary, una volta che Sherlock non fu più a portata di orecchi. “Fargli credere che Molly vada conquistata. Lei è già bella che pronta.”
Mary si chinò per sfiorargli la bocca con un bacio, lui intercettò un brillio divertito ed enigmatico attraversarle gli occhi. “Lo sono entrambi.”)
E lo videro ricomparire poco più tardi con la tempesta nello sguardo.

 
*

 
Sherlock si ritrovò a spostarsi nei corridoi del Bart’s con l’aria di qualcuno che, molto probabilmente, avrebbe preferito trovarsi a mille miglia di distanza o in alternativa sul ciglio del baratro.
Molly scartò l’ultimo pensiero con il dispetto pentito di chi si scopre a provare un fastidio che invece non dovrebbe, vorrebbe provare.
Con un cenno chiamò un’infermiera che le stava passando in quel momento di fianco e la pregò di andare a riferire a Mr. Holmes che ‘mi dispiace, ma stamattina la Dottoressa Hooper non si è presentata. Vuole riferire a me?’.
Sapeva che lui non ci avrebbe creduto, che avrebbe rivelato la menzogna dalla mimica facciale di lei o molto probabilmente sarebbe stato lo stesso intuito a pilotarlo sulla soluzione più probabile: che lei non volesse incontrarlo e che pur di evitarlo si fosse spinta al punto di pregare qualcuno di mentirgli.
Osservò l’infermiera che si avvicinava a Sherlock e gli riferiva il messaggio e osservò il modo in cui lui lo accolse. Non con rabbia, ma con un’espressione che era a metà strada tra l’essere anticipazione e il diventare contrarietà e che lo stesso rivelava tracce di delusione e disappunto nel modo in cui lui aggrottò le sopracciglia, nella contrazione di un angolo di bocca verso il basso.

Oh, pensò Molly.
Quando lui voltò le spalle e alzò il bavero del Belstaff, allontanandosi rigidamente, lo sconforto e la sensazione pungente agli occhi non erano la reazione che si era augurata. 
Si diede dell’idiota.

 
*

 
Molly sapeva di trovarsi in un sogno. Si trattava di un sogno familiare, ormai regolare nello zelo assillante con cui si affacciava a disturbare le sue notti.
E nonostante sapesse, sentisse con ogni fibra del proprio essere di trovarsi nella sfera fasulla del mondo onirico, Molly non riusciva a evitare di provare quello che provava ogni volta, che immancabilmente la stava attanagliando anche in quel momento.

Ansia. Terrore. Senso di colpa.
Era una notte stellata e nel sogno le stelle parevano maledettamente grandi e vicine, in un cielo blu turchino troppo pulito per esistere davvero.
Sullo sfondo di quel cielo, si stagliavano il Big Bang e il Parlamento, forme dirompenti di un’eleganza squisita e secolare che, forse proprio per questa loro natura, non sembravano essere elementi di disturbo, ma complementari e risolutivi alla perfezione del paesaggio circostante.
Le acque del Tamigi dietro di lei non erano la cosa torbida e mulinante dei propri ricordi, ma fluivano docilmente e riflettevano il cielo come se ne fossero un prolungamento.
I lampioni del ponte non erano accesi, tuttavia gli occhi di Molly osservavano tutto, si posavano su ogni dettaglio, registrandolo con l’acutezza di sensi di un gatto.

Toby, ricordò con una fitta di dolore e la scia di quel dolore le portò lui. (Neppure al principio, quando non era ancora amore ma qualcosa di più mutevole e ugualmente difficile da gestire, quello che provava per Sherlock era stato esente da trafitture articolate e piene di spasimo.)
Lo vide attraversare la strada vuota e ogni passo di lui le risultava tanto doloroso da trasmetterle l’impressione che non stesse calpestando la pavimentazione asfaltata quanto piuttosto  frammenti di qualcosa dentro di lei, parti che erano rimaste inviolate per anni, rese irraggiungibili e segregate in luoghi lontani, segreti, invisibili agli occhi di chiunque. Mai ai suoi, ma non per propria scelta o per non averci tentato abbastanza.
Sherlock le fu di fronte e il cielo di colpo perse brillantezza per dare maggiore risalto ai suoi occhi e l’oscurità si accese di una luce fioca, opaca, come per rendere omaggio a un’avvenenza fin troppo consapevole del suo potere e del giogo che, proprio in virtù di questa, era in grado di esercitare sugli altri
Lui la guardò e il tradimento sembrava scolpito nel suo volto spigoloso.
Fece per parlare, dirgli che le dispiaceva, il ricordo di come se n’era andata senza una parola di spiegazione le rimordeva la coscienza, ma la voce di lui interruppe quei pensieri con prepotenza. – Non posso salvarti, Molly – stava dicendo con qualcosa di simile al rammarico nella voce – non questa volta. –
Molly si ritrasse come se lui l’avesse colpita.
Un’altra presenza, allora, la presenza dell’altro si interpose, acuendo una distanza che non era quella tangibile tra di loro, ma tra le loro intenzioni talmente simili e ciò nonostante così discordanti. Salvarlo, salvarla, a discapito di se stessi.
La figura d’ombra delineata apparteneva a Tom – no, a Moran, si corresse. Ma era Tom che lei aveva conosciuto, che si era illusa di amare. Era a Tom che aveva consacrato le possibilità di un intero futuro poi sfumato in nulla di fatto. A Tom aveva affidato le proprie speranze, le fiducie di una vita in comune, le mille opportunità di anni insieme. Come nel caso di Moriarty, che per lei non era mai stato James, che sarebbe sempre rimasto Jim, non poteva pensare a Tom unicamente come a Sebastian Moran.
Questo non la rendeva necessariamente debole o incapace di andare oltre, di affrontare la semplice realtà dei fatti. Al contrario, sperava Molly, la rendeva più sensibile all’inganno, alla ferita che esso comportava. Serviva a ricordarle le facce della falsità e che la menzogna poteva nascondersi nel volto di ognuno, anche sotto le spoglie più insospettabili.
Al suono della risata fredda di Tom, questa versione che le era estranea e sgradevole quanto l’altra non lo era stata mai, Molly rabbrividì.
Tom era di fianco a Sherlock e Molly si rese conto dolorosamente dei fattori di somiglianza che, pur se approssimati e unicamente estetici, li accomunava.
Non senza una certa pena si chiese se altri l’avessero notata, ma fu il timore di un attimo. Non era per la sua cosiddetta rassomiglianza a Sherlock che aveva amato Tom, ma proprio perché non somigliava a lui, in un unico se non primario fattore: l’amore per lei. Tom l’aveva amata in modi che lei sapeva che Sherlock non si sarebbe mai permesso. Non per incapacità, ma perché provarli era una distrazione. Amare lei era un errore.
- No, piccolo topolino – convenne Tom con un sorriso di puro cinismo – perché avrei dovuto? Ricordi come finisce la storia, vero? La tua è una maledizione, Molly Hooper, perciò dimmi, chi potrebbe amare una persona maledetta? –
Molly si piegò in due, si coprì le orecchie con le mani, ma la voce di lui superava ogni ostacolo, le mostrava immagini che lei non avrebbe mai voluto rivivere. Le immagini erano proiettate attorno a lei sopra un nastro di oscurità che la circondava e le si chiudeva attorno come un cappio che andava facendosi via via più stretto.

Ogni persona è degna d’amore, cominciò a ripetere a se stessa. Ognuno merita di essere amato.
- Ognuno si conquista esattamente quel che ha. Si procura in base alle azioni che lo vedono padrone la dose di felicità e infelicità che riceve – la corresse Tom, senza mostrarsi e preferendo rimanere nel buio che ormai le spadroneggiava attorno.
Molly ebbe lo scorcio dell’ennesimo sorriso freddo prima che il volto a cui quel sorriso apparteneva ritornasse visibile: il volto era quello di Sherlock. Non lo Sherlock degli ultimi anni, gli anni dopo La Caduta, ma quelli direttamente antecedenti ad essa, al momento di bisogno che li aveva fatti avvicinare.
Molly lo rivide per com’era stato, scrutò nei suoi occhi: occhi pressoché estranei che si cullavano nella convinzione di esserle estranei, quasi si trattasse di un sollievo; occhi che in quella bugia avevano trovato il loro assolvimento. Anche quegli occhi che smaniavano per risultare distaccati, al di sopra del resto misero e umile, anche quegli occhi lei aveva amato, forse perfino più accanitamente.
- Non ti amo, Molly Hooper. – Gli occhi di Sherlock la consideravano con disinteresse, un azzurro limpido e impassibile in cui non brillava alcun sentimento; la voce di lui era priva di qualsiasi inflessione.
Molly si diede della sciocca per la fitta di amarezza che quell’ammissione le aveva provocato. La ingoiò come una medicina aspra, ma necessaria alla sopravvivenza.
Gli si avvicinò. Il sogno o incubo, o qualunque fosse la natura che il suo subconscio stava dando al sonno quella notte, cambiò nuovamente sfondo: il cielo di prima era tornato ed era sopra e sotto di loro, una distesa violacea con una cascata infinita di stelle bianco argentee e costellazioni dorate di cui non conosceva i nomi.
Molly gli posò una mano sulla spalla e risalì lenta fino al collo di Sherlock. – Lo so – replicò con calma. Le sue dita trovarono un impedimento, alla base della gola di lui, poco sotto il mento e lì restarono. – So accettarlo adesso. –
Le sue dita tirarono e la faccia di Sherlock cadde come una maschera, palesando quel che c’era al di sotto.

      
*

 
Sherlock si reggeva alla trave del camino, la testa reclinata, la schiena incurvata in un arco semi-perfetto. Appariva pensieroso, impenetrabile nella gabbia delle sue riflessioni. Non sembrò accorgersi di lei fino a quando Molly non chiuse la porta dell’appartamento. Solo allora si voltò e la sua espressione era talmente stupefatta da rasentare il ridicolo.
“Molly.”
Nel suo nome, in quell’unico punto-spettro di domanda c’era l’intreccio di tutte le congetture che stava vagliando, una ad una, per spiegare la sua presenza lì.
Molly si sfilò i guanti.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. Lesse tra le righe la sua rabbia, il dispetto che affogava in qualche forma disperata, o più semplicemente la intuì dalla postura rigida delle sue spalle, dal modo in cui aveva serrato i pugni, dall’aria torva con cui era sicura di squadrarlo.
“Hai perso altro peso dall’ultima volta che ci siamo visti. Devo immaginare che la causa sia -”
“Il mio peso non deve riguardarti,” lo stroncò Molly sul nascere.
Questa volta Sherlock non badò a nascondere la sorpresa. “Mi preoccupo per te.”
Già quella dichiarazione, un tempo pura utopia, faceva capire quanto in Sherlock del personaggio Sherlock fosse stato rimosso per riscoprire l’uomo prima del consulente investigativo. Tuttavia l’intelligenza brillante e perspicace, l’ironia acuminata e il sorriso a doppia lama erano rimasti immutati, erano costanti irrinunciabili del suo essere se stesso.   
“Davvero?” chiese Molly. Si spostò verso il centro della stanza, dietro la poltrona nera che apparteneva a Sherlock. Voleva distanziarlo, mettere quanto più spazio possibile tra loro, quantificare il baratro che lui aveva sottolineato una volta di più. “Ti sei preoccupato per me anche quando eri su un aereo, pronto a lasciare Londra per sempre?”
Ed ecco, Molly poté quasi sentire il click della serratura che si apriva, il rumore del ragionamento che si accartocciava su se stesso. Gli aveva offerto la risposta su un piatto d’argento, privandolo dell’opportunità di prodursela.
Se provava rimorso per quello che aveva fatto, lei non ne ravvisò i segni pentiti né scorse anche la più piccola impronta di qualsiasi altro sentimento. In effetti il viso di lui era come una maschera chirurgica, vuota di qualunque umanità ed espressione.
“Tu sai cosa provo,” lo accusò. “Lo sapevi già allora e lo stesso non mi hai permesso di dirti addio.”
“A quale scopo?”
La voce di lui, invece, era polvere da sparo. La scintilla di fuoco toccava a lei stabilire se appiccarla oppure no.
“Non stava a te deciderlo. Quando l’ho scoperto,” Molly ingoiò il groppo che aveva in gola, una specie di grosso rospo ruspante, “hai idea di come mi sia potuta sentire? Tradita. È quello che ho provato. Perché? Anche prima di questo,” con questo lei intendeva ciò che era successo negli ultimi sei mesi, “dopo tutto quello che c’è stato prima, ero arrivata a credere che potessimo considerarci
amici.”
“Non dire assurdità, Molly.”
Molly si ritrasse di fronte al tono aspro che lui aveva usato. “Non sono qui per litigare,” lo avvertì.

Sherlock le rivolse un sorriso supponente, uno che lasciava intendere quanto quell'affermazione gli risultasse fittizia e che non si sarebbe lasciato incantare dalle buone intenzioni professate.
Perché sei qui, allora?
Questo sembravano domandarle gli occhi di lui.
Molly rialzò il mento, cercando di porre un freno al prurito che provava alle mani, quella cosa smaniosa e annientante che la divorava dal basso ventre. Toccarlo. Nelle ultime settimane aveva sognato ad occhi aperti, nella luce del giorno e quando gli incubi erano tenuti sotto chiave, di setacciare la consistenza dei suoi capelli, di perdersi a scremare in punta di dita ogni millimetro di –
Molly si schiarì la voce ed evitò di guardarlo direttamente. Le era parso, per un attimo, di leggere in Sherlock lo stesso sbaragliante desiderio contro cui lei poneva strenua resistenza, ma si era trattata di un’illusione, la convinzione di poco, ne era certa.     
“Sono qui per avere delle risposte,” proseguì come se nulla fosse accaduto, non ci fosse mai stata alcuna interruzione.
Anche quella era una bugia. Le risposte le aveva ottenute subito, già da tempo, tramite Mary e John. Era stato il loro modo per chiederle scusa per averle taciuto tante piccole informazioni preziose tanto a lungo. Molly li aveva perdonati, ovvio che lo avesse fatto. Erano la sua famiglia d’altronde.
“Delle risposte,” fece eco Sherlock. “E che risposte siano allora.”
Qualcosa, nel modo in cui lo disse, le fece capire che una volta di più lui aveva letto dentro di lei, attraverso le sue azioni e che quanto aveva intravisto lo aveva irritato e lasciato insoddisfatto in uguale misura.
Con un gesto elegante della mano Sherlock le fece cenno di accomodarsi sulla sua poltrona.
Molly preferì deliberatamente andare a sedersi su quella di John.
Con un sorriso divertito, Sherlock si accomodò sulla sua e prese a tamburellare sui braccioli. “Cosa vuoi sapere, Molly? Dubito che i Watson ti abbiano lasciato all’oscuro su qualsiasi punto del piano.”
“Il piano.” Lei cercò di non darlo a vedere, ma già solo l’accenno l’aveva turbata ed era come rigirare il dito in una ferita che aveva a malapena cominciato a formare del tessuto cicatriziale. “Non voglio sapere nulla del piano elaborato che tu e tuo fratello avevate organizzato. No, quello che voglio sapere è perché non hai ritenuto necessario informarmi; cosa ho fatto perché tu –” esitò e batté le palpebre per cercare di disperdere il velo che le aveva oscurato la vista. Sembrava che quel particolare avesse prodotto un insospettato cambio di comportamento in Sherlock. Ora appariva curiosamente a disagio e turbato. Molly non pianse. No, non avrebbe pianto, se n’era fatta un punto d’onore. Trasse un respiro vibrante e cercò di riprendere con ritrovata calma: “Perché tu non ti fidassi a sufficienza o quantomeno abbastanza da confidarti con me.”
Sherlock si chinò in avanti e un inspiegabile lampo di trionfo sfrecciò nel suo sguardo. “Dunque è questo il problema.”
Molly fece una smorfia. “Non è questo il problema o meglio, non solo. Oltre all’avermi intenzionalmente tenuta all’oscuro del piano, il che posso comprenderlo e perfino accettarlo riconoscendolo come un tentativo di proteggermi, c’è il fatto che tu mi abbia mentito su tutta la linea. Sapevi che era stato Tom a piazzare quella bomba –”
“Moran,” la troncò lui.
“Come?” domandò lei, presa contropiede e stupita dall’interruzione.
“Sebastian Moran, Molly.” Lui roteò gli occhi, impaziente.  “Non vedo perché dovremmo ostinarci a chiamare con altri nomi – ”
“Per rimanere in tema di cose chiamate con altri nomi, Sherlock, cosa siamo noi due?”
Sherlock si tirò indietro. “Cosa intendi?”
“Intendo dire esattamente quello che ho detto.” Molly aveva un sapore amarissimo in bocca, come di bile. “Devo saperlo. In questi ultimi mesi, quello che è successo tra noi, è stato solo un modo per tenermi a bada? Per –”
“Rabbonirti?” concluse Sherlock velenosamente. Non c’era cattiveria nella sua voce, neppure sarcasmo, ma qualcosa la cui natura Molly non riuscì ad afferrare appieno e perciò fu ben lontana dal comprendere. Gli occhi di Sherlock la scrutarono per un lasso di tempo lunghissimo. “No,” disse infine e Molly rilasciò di colpo il fiato che non si era accorta di trattenere, smise di premere le labbra tra loro. Il dolore al petto non diminuì, si affievolì soltanto. “Quello non era previsto.”
Molly si limitò ad annuire. Non credeva che sarebbe riuscita a reggere il confronto con il suo sguardo, non senza crollare. Sapeva che lui non avrebbe potuto mentire fino a quel punto. Certo, in passato alcuni particolari episodi – uno in particolare, Janine – le aveva dato motivo di credere che lui ne fosse del tutto capace, ma aveva sperato che almeno con lei, per il rapporto di amicizia e stima reciproche che negli anni si era illusa che fosse venuto a crearsi tra loro, che lei fosse ormai del tutto immune a queste pratiche di menzogne. Aveva sperato di essere riuscita a conquistarsi un angolino, a riservarsi uno spazio tra gli affetti di lui, che le valesse come riconoscimento il premio della sua sincerità.
Ora lui l’aveva rassicurata che era davvero così, che almeno su questo non le aveva mentito ed era come se le fosse scivolato un peso incredibile dal cuore, era come se lei potesse tornare a respirare liberamente per la prima volta dopo due settimane di apnea.
“Molly.”
Se non l’avesse ritenuto impossibile a priori, Molly avrebbe detto che ci fosse una nota dolente in come aveva pronunciato il suo nome, di incertezza e dubbio e timore.
“Sto bene,” disse e azzardò una rapida occhiata al viso di lui.
Sherlock le restituì lo sguardo con uno intenso e carico di cose che Molly preferì non decifrare, su cui decise di sorvolare per il momento. Doveva mantenersi lucida.
“Cos’altro vuoi sapere, Molly?” domandò Sherlock.

“Toby,” rispose immediatamente Molly.
“Toby.” Sherlock annuì. Si portò le mani al viso e poggiò i polpastrelli gli uni contro gli altri, davanti al naso. “Dovevo fargli credere che avesse libero accesso a Baker Street. Per quanto soggiogato a Moriarty, Moran non è Moriarty. A differenza di Moriarty, lui ama agire in prima persona, sguazzare nel fango della trincea, sporcarsi le mani. Non si fida di nessuno che non sia se stesso. Moriarty aveva Moran, Moran ormai solo se stesso. Questa volta non c’era nessuna rete sotterranea, non c’erano uomini da manovrare. Soltanto uno da portare allo scoperto, ossessionato dalla vendetta. Era tutto perfettamente sotto controllo, ma poi tu –” qui lui si arrestò, guardandola con occhi carichi d’astio. 
Molly non se ne fece un cruccio. Intrecciò le mani in grembo, quieta. “Io ho rovinato tutto.”
“Perché sei andata, Molly?”
La domanda giungeva inaspettata e ciò nonostante, pensava lei, non le aveva chiesto come avesse potuto farlo, ma perché. E nel coraggio che il tradimento aveva richiesto, Molly provò anche uno scampolo di piacere farsi largo nel petto. Entrambi non erano tipi da ‘come’, ma da ‘perché’, bambini alla ricerca continua di risposte. “Perché non avevo scelta.”
A quello, Sherlock ebbe un moto di fastidio e mosse la mano nel vuoto come se potesse dipanare ciò che lei aveva detto o scacciarlo dalla propria memoria. “C’è sempre una scelta.”
“No, non sempre,” ribatté lei. “A volte puoi solo scegliere per chi morire, non il modo in cui farlo.”
Gli occhi di Sherlock si incupirono. “Tu hai scelto la morte.”
“Anche tu.”

Oh, oh. Vedeva il rimorso, ma quello stesso rimorso non trovò voce in scuse. Non che Molly ne desiderasse. Poteva capire cosa lo avesse convinto ad agire in quella maniera, accettarlo, perfino perdonarlo, ma non poteva non soffrirne e soffrendone non poteva non amarlo tanto di più, tanto più dolorosamente, completamente, disperatamente.
Aveva mai pensato a lei? Non nel momento decisivo, ma dopo, quando l’adrenalina aveva lasciato di colpo la presa serrata e il vuoto della fine aveva preso il sopravvento. Il vuoto di quella che sarebbe stata la sua vita, di tutte le possibilità sfumate, delle occasioni che nessuno dei due si era concesso. In quei quattro minuti, su quell’aereo, aveva mai pensato a lei?
“Ho ucciso. Non nego che lo farei di nuovo se servisse a salvare la vita tua o di chiunque altro tra noi. Puoi amarmi lo stesso? Nonostante l’inconfutabilità che fa di me un assassino?”
Molly lesse la trepidazione, l’inquietudine con cui lui la esaminava, intanto che aspettava che lei gli rispondesse.  
“No,” rispose e vide l'ombra che inesorabilmente gli velava il volto; il freddo che di nuovo calava su quegli occhi e che non era distacco, ora capiva finalmente, non lo era mai stato.

Non riusciva a vedere, Sherlock? Proprio non capiva?
Molly si alzò per portarsi di fronte a lui. Gli pose le mani ai lati del viso e lo costrinse a guardarla. “Ti amo proprio perché credi di essere un assassino.” Ma non lo era, non lo sarebbe mai stato. Molly sapeva vedere il mondo attraverso gli occhi di lui, poteva intuire le gradazioni di bianco e nero in cui lui catalogava le persone e sapeva che c’erano nicchie apposite, squisite, create su misura per lei, John, Mary, Mrs. Hudson, Greg e la lista si allungava ogni anno, ogni volta che una placca della corazza di Sherlock cadeva e lui ne rimaneva ferito inesorabilmente. Il mondo non avrebbe mai capito Sherlock Holmes, la sua grandezza, tantomeno avrebbe potuto amarlo. Ne avrebbe ammirato l’immagine iconografica, da lontano, ma senza conoscerne la reale e più intima grandezza.
Sherlock aveva sgranato gli occhi e la sua meraviglia deliziò Molly, la fece sorridere. “Anch’io ho ucciso, Sherlock,” gli ricordò con dolcezza. “L’ho fatto, una volta. Ho ucciso per te e lo rifarei mille volte se necessario.” Se tu me lo chiedessi.
Se avesse potuto e se non ci fossero state le sue mani ancora a trattenerlo, Sherlock avrebbe scosso la testa. “Quello che dici non ha senso.”
“Non ne ha mai avuto per te,” ribatté lei con un sorriso che sapeva bene quanto gli sarebbe risultato inesplicabile.
“Ne ha sempre avuto per me, ma per il resto del mondo non ne ha, con ogni probabilità non ne avrà mai. Non ti infastidisce, Molly?” Sherlock inarcò le sopracciglia, la luce nei suoi occhi brillava di nuovo, intensa e speranzosa. “Dovrebbe.”
“Ti sembro normale?” Ora che parte della tensione che l’aveva tormentata fino a quel momento era scomparsa, Molly si permise di rilassarsi. Ridacchiò persino. “Sego ossa e faccio autopsie e mi piace.”
Sherlock non si concesse ammissioni di divertimento, il suo armistizio si delineò semplicemente nel bagliore compiaciuto e nell’accennarsi di un sorriso. “E ami me.”
“E amo te,” acconsentì Molly, come se si trattasse di un dato di fatto, quale difatti era, “ma non sono l’unica, sai.”
Sherlock allungò le dita per sfiorarle la guancia con un movimento esitante e risoluto. “Sei stata la prima di cui mi sia importato conservarlo.”
Molly sorrideva quando si chinò a baciarlo. Ad occhi chiusi percepì che il sorriso aveva trovato finalmente posto anche sulle labbra di lui.

 
*

 
“E così… Tom. Ho di certo un tipo, allora.”
Molly rise, sentendosi rilassata e completamente a proprio agio tra le braccia di Sherlock.
“Non essere assurda, Molly,” le soffiò all’orecchio Sherlock, suonando infastidito. “Tu non hai un tipo. Hai me o in alternativa pallidi spettri, effimeri miei riflessi distorti.”
Molly decise che non era il caso di fargli notare che entrambi quei suoi ‘effimeri riflessi distorti’ fossero in effetti personalità affette da seri disturbi ossessivo compulsivi.

 
*

 
John Watson si godeva il tiepido sole pomeridiano di quella giornata ottobrina. Il parco era popolato dalle risate di bambini che giocavano nella pioggia delle foglie autunnali. Si beava alla vista di sua moglie e di sua figlia che sceglievano i tipi più belli per portarne qualcuna a casa.
“Cosa ha deciso la Commissione?” domandò tranquillamente, per nulla toccato dalla presenza al suo fianco.
Mycroft Holmes avrebbe potuto apparire fuoriposto nell’ordinario contesto dei Kensington Garden. Stranamente non lo era. Lui stesso pareva in pace, come se fosse stato sgravato di un’incombenza che a lungo lo aveva impensierito, o più precisamente che a lungo aveva occupato un posto predominante tra le sue preoccupazioni.  
“Una Commissione convocata per Sherlock Holmes,” commentò, battendo l’ombrello su una foglia e poi togliendola dalla punta come se si trattasse di un insetto. “Di certo non è la prima e posso affermare con relativa sicurezza che non sarà l’ultima.”
John buttò la testa all’indietro e rise. “Nah.”
“Ha fiducia nell’avvenire, John?”
“Certo, in quello e in lui,” rispose con la massima serietà, senza reprimere un sorriso. “Io credo in Sherlock Holmes.”

 
*

 
“Ti sei dimostrato insospettabilmente utile, in questa circostanza. A tal punto,” narici dilatate, respiro profondo, Mycroft sembrava pronto ad azzannare Sherlock al primo accenno di una risposta mordace, “che ti è stata accordata la grazia.”
"Quale insperata fortuna.”
Una gomitata da parte di John e un’occhiata inequivocabile di Molly misero a tacere il resto del discorso che Sherlock ben volentieri completò nella sua mente.
“Sei libero, Sherlock,” proseguì Mycroft e ogni parola sembrava costargli un pezzo di organo, forse il fegato. “Per ora. Miss Hooper di sicuro pone un freno al tuo essere incredibilmente irragionevole.”
E rivolse a Molly un arricciamento sospetto che poteva essere, secondo indizi ambivalenti, considerato proprio un sorriso.

 
*

 
Ogni probabilità era contro di loro, contro la loro felicità.
Avrebbero discusso. Probabile.
Ci sarebbero stati momenti in cui l’uno avrebbe volentieri scannato l’altro. Probabile anche questo.
Ci sarebbero stati giorni in cui lui non le avrebbe rivolto la parola per una questione di principio, di orgoglio e lei gli avrebbe chiuso le porte di accesso all’obitorio per ripicca, per poi riaprirgliele alla scusa propizia di un caso e alle imploranti insistenze congiunte di John e Greg.
Ce ne sarebbero stati altri, però, quelli che valevano ogni probabilità o statistica a loro sfavore, che la devolvevano in merito. Perché se c’era una cosa che entrambi amavano era dimostrare l’inesattezza di una tesi, creare corollari e di questo, essere felici, esserlo insieme avevano fatto un punto d’onore.     

 

  

Fine.

 


 

N/A:

Ci sono stati giorni, in questi mesi, giornate non particolarmente belle o felici o qualsiasi altro aggettivo positivo a seguire, in cui ho temuto che come al solito la maledizione che mi rende Mademoiselle Delle Cose Incompiute l’avrebbe di nuovo avuta vinta.
In questi mesi ho cercato innumerevoli volte di mettermi a scrivere, ho provato sul serio, ma ogni volta, boh, non usciva niente, ero in crisi.
Si dice che non puoi costringere le cose in un verso se quelle tendono ad andare in un altro, anche che alle volte devi lasciare che queste facciano il loro corso.
Io ho atteso, paziente, febbrilmente, che quel prurito alle mani e la smania di riprendere carta e penna o di battere i tasti della mia tastiera si riaffacciasse e finalmente è successo. Dovevo solo distogliermi per qualche secondo dalla realtà e rituffarmi nella loro, in quella di Sherlock e Molly, senza nient’altro ad intralciarmi o distrarmi.  
Ci sono volute le feste di Natale, ma, ehi, meglio tardi che mai, giusto ;)?
E quindi ci siamo, è successo. Ora è davvero finita. Caccia alle Ombre si conclude qui, non senza ripensamenti da parte mia su certi passaggi che sì, avrei potuto senz’altro scrivere meglio e certi capitoli a cui, Dio, rimetterei volentieri mano per riscriverli di sana pianta daccapo.
Ciò che più di tutto mi mancherà, però, siete voi ragazze. Siete state fantastiche, se ogni giorno riuscivo a scrivere era anche per l’energia che siete riuscite a trasmettermi con le vostre recensioni e ad ogni capitolo ero lì trepidante, domandandomi se vi sarebbe piaciuto almeno la metà di quanto era piaciuto a me scriverlo.
Grazie a questa storia ho conosciuto ognuna di voi un pezzetto alla volta, ho scoperto persone fantastiche e di questo, più di qualsiasi altra cosa, vi sono maggiormente grata. Non per i complimenti, non perché la storia vi è piaciuta, ma perché mi avete accompagnato in questo splendido percorso, vi dico che voglio bene ad ognuna di voi e certo, un’altra cosa è d’obbligo prima di salutarci, almeno per il momento e cioè un gigantesco GRAZIE.
Mando un bacione a tutte; vi auguro una pioggia delle cose migliori che il vostro cuore desidera, Buone Feste e OVVIAMENTE, nel caso in cui non si fosse capito nei miei arzigogolati excursus, :D     

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