Caccia alle ombre di Ruta (/viewuser.php?uid=61081)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** I ***
caccia
N/A: Le inserisco
all’inizio perché prima che vi avventuriate per queste terre inesplorate,
occorre che io vi prepari. Non so cosa sia (nulla di nuovo al riguardo). È ambientata
prima de “Le ragioni del silenzio”, in risposta a chi mi chiedeva, più che
giustamente, come si fosse arrivati a quella data circostanza. Eccola dunque:
La Situazione di Partenza. Un’idea che spopola, almeno nel fandom oltremanica:
Molly viene presa di mira da Moriarty e queste sono le conseguenze. Per la
gioia di qualcuno, forse, sarà una long. Non so quanto lunga, non so se
articolata in un paio di capitoli o molti di più. Certo è che Molly dovrà
trasferirsi a Baker Street. Buona lettura!
P.S.: dopo aver visto la 3x01 e la
familiarità con cui Lestrade e Molly parlano tra loro, come conoscenti – se non
proprio amici – di vecchia data, mi sono convinta che sarebbe stato strano che
lei non pensasse a lui o lo chiamasse per nome. Spero che siate della mia stessa opinione.
Caccia alle ombre
“Sul serio, Meena, è stato fantastico!”
esclamò Molly.
Meena arricciò il naso, come se stesse
trattenendosi dall’esprimere un’opinione sferzante. “Non saprei,” considerò,
riluttante. “Logan aveva fin troppa cera in testa. Guardandolo, ho dovuto
sopprimere per tutto il tempo la voglia di strigliarlo per bene.”
“Erano gli anni ’70,” osservò Molly.
Stavano attraversando l’affollata hall del cinema e la coda di persone che
aspettava per l’inizio dello spettacolo seguente era smisurata. “Che mi dici di
Kitty Pryde?”
“Sai che adoro Ellen Page, ma non
capisco perché i registi debbano sempre, sempre
cambiare particolari nella trama della storia originale.”
“Licenza del poeta,” disse Molly,
divertita.
Meena era troppo impegnata a lamentarsi
per ascoltarla: “E lo so che non c’entra niente, ma voglio Jubilee e Gambit. James
McAvoy, quando si punteggia la fronte con l’indice come se volesse trapanarsela,
è un tale -”
Molly smise di ascoltarla, corrugando
la fronte. Le era parso di vedere… Ma no. Si diede della sciocca. Era
impossibile che Sherlock mettesse piede in un cinema senza gli obblighi di un
caso. O della sua immaginazione. Scosse
la testa.
“Mi stai ascoltando, Molly?” Meena la
trucidò con uno dei suoi sguardi da feroce mastino.
Molly le sorrise con fare di scuse. Indicò
nella direzione in cui le era sembrato di cogliere il profilo di Sherlock.
“Credevo di aver visto qualcuno che conosco, ma devo essermi sbagliata. Anzi,
sicuramente devo essermi sbagliata. Lui non metterebbe mai piede in un posto
così rumoroso.” Esitò. “E frivolo.”
Meena, perspicace, magnifica Meena, inarcò le sopracciglia, ma non fece
commenti. E, cosa di cui Molly le fu intimamente grata, si limitò ad avanzare a furia di
spallate e spintoni. Alla terza volta che qualcuno le pestava inavvertitamente
il piede, l’ultima in questione si trattava di un tizio grosso come un armadio,
Meena imprecò con veemenza, scandalizzando un’algerina e suo marito, che non mancarono
di riservarle occhiate offese.
“Ricordami perché non siamo andate al
Coronet,” la sentì borbottare pochi secondi dopo.
“Perché è martedì sera,” spiegò
Molly,
infilandosi nel gruppetto di ragazzi abbigliati a tema. Riconobbe una
versione del tutto credibile di Mystica. “E perché qualcuno
si è dimenticato di prenotare.”
Meena sbuffò e nello stesso momento
Molly lo vide di nuovo e fu sicura di non esserselo immaginato. Perché quello
che procedeva, aprendosi un varco con cipiglio severo e bocca dura e insolente,
un’aria di tempesta imminente, era senza ombra di dubbio, senza margine o
possibilità di errore…
“Sherlock,” soffiò Molly, fissandolo
sbalordita.
“Molly,” la richiamò Meena, a mezzo metro
di distanza. “Cosa stai facendo là impalata? La –” s’interruppe. Anche lei doveva
aver notato l’uomo che si stava avvicinando. “Cosa accidenti ci fa lui, qui?”
Per quello Molly non aveva risposte.
“Deve essere morto qualcuno o qualcosa
del genere. Dio, sembra di essere in un giallo di Agatha Christie: richiama gli
assassini e i ladri come il sangue attira gli squali.”
Molly avrebbe voluto dirle che non era
per niente così, che sì, la presenza di Sherlock solitamente lasciasse presagire
che qualcosa di grave o pericoloso fosse in corso, ma che non dipendesse da
lui, che lui fosse solo il curatore di un’opera ultimata o in
itinere.
Non ne ebbe il tempo. Sherlock le era
di fronte e le parole che le erano affiorate alle labbra là morirono.
“Molly.”
Molly sussultò, senza averne
l’intenzione. Qualcosa, nel modo in cui lui aveva pronunciato il suo nome,
suonò carico di significato.
Gli occhi azzurri di Sherlock,
appuntandosi sul suo viso, espressero per un attimo un sentimento di sollievo
talmente radicato che lei si chiese come fosse possibile che una manciata di
secondi dopo si fosse già dileguato senza lasciare traccia del suo passaggio.
“Sherlock, cosa –” si accigliò e prima
che potesse finire, comparvero John e Greg. Anche loro apparivano decisamente
sollevati nel trovarla; e turbati, come se avessero visto un fantasma.
Greg non si trattenne dall’abbracciarla
di slancio. “Grazie a Dio, stai bene,” le mormorò esausto all’orecchio, la voce
rauca e graffiante.
Molly non aveva la più pallida idea di cosa
accidenti stesse succedendo. “Mi cercavate?”
Trafelato e stremato, quasi avesse appena
finito di partecipare a una maratona, John scoppiò in una risata incontrollata,
di puro nervosismo. “Cercarti? Cosa ti ha dato quest’impressione?”
Molly si sciolse dalla presa solida di
Greg e si voltò verso Sherlock, il cui volto, ora, era accuratamente privo di
espressione, come una pagina bianca. “Mrs. Hudson sta bene? O è Mary?” domandò, cercando di
apparire calma, intanto immaginando le peggiori prospettive, le più fosche. “È
successo qualcosa?"
Dopo una pausa interminabile, Sherlock
fece un cenno di diniego. C’era un bagliore indefinibile nel suo sguardo,
qualcosa di feroce e oscuro, che la fece rabbrividire. “Non a loro,” rispose monotono.
Non si diede pena di fornire maggiori particolari.
Molly si rivolse a John, confusa. “E
allora chi –”
“Si tratta del tuo appartamento, Molly.”
“Il mio appartamento?”
“Un ordigno,” disse John in un tono
vibrante, che lasciava trapelare strascichi della preoccupazione e dell’ansia
accumulate. “Era camuffato nella sveglia sul tuo comodino. Secondo Sherlock,
chi l’ha piazzato l’ha programmato in modo che la detonazione avvenisse quando
tu fossi uscita. Il raggio di azione era relativamente poco esteso.”
“Relativamente,” fece eco Molly. Lo
guardò vacuamente. “Cosa intendi per relativamente?”
John evitò il suo sguardo, trovando più
facile osservarsi le scarpe che proseguire. Si massaggiò il collo. Lei lo conosceva
abbastanza da considerarlo un cattivo segno.
“La deflagrazione è avvenuta nella tua
camera da letto, rendendo pressoché inattuabile l’identificazione del corpo.”
Era stato Sherlock a parlare e a lui e
non ad altri, lei indirizzò uno sguardo disorientato. Un pensiero tremendo, orribile,
le sfrecciò nella mente, improvviso come uno sparo. “Credevate che fossi io,”
comprese, attonita. “Di chiunque sia il corpo che avete trovato… credevate che
fossi io,” ripeté.
Sherlock non batté ciglio. “Indossava i
tuoi vestiti. Inoltre aveva questo.” Prese dalla tasca un medaglione. Il suo medaglione. Glielo porse. Era
annerito e le due facce puzzavano di bruciato, le incisioni nel metallo rese
irriconoscibili.
“Oh,” fece Molly, prendendolo. Tornò a
guardarlo. “Quindi tu hai pensato…” Si voltò verso John e Greg. “Tutti voi
avete pensato che fossi…”
“Morta,” concluse Greg brusco, la
mandibola contratta. “Sì. Il pensiero mi ha attraversato un paio di volte.”
Molly chiuse gli occhi, serrando la
mano con forza. “Mi dispiace,” disse un secondo più tardi, riaprendoli. Li
aveva lucidi per quelle stupide lacrime che non avrebbe voluto mostrare e che
lo stesso una parte di lei non poteva non essere felice di mostrare. Perché erano la prova che era viva.
“Sul serio, mi dispiace. Io –” si coprì
la bocca.
“Vieni qui.” Meena scansò malamente
Sherlock (in un’altra occasione l’aria da virtù oltraggiata di lui le avrebbe
strappato una risata) e la confortò con un abbraccio da orso del suo repertorio.
Le accarezzò i capelli, sussurrandole che andava tutto bene. “Butta fuori,
Molly, da brava.” La sentì dire e poi aggiungere, inviperita: “Uomini. Vi sembra questo il modo di informare
qualcuno che uno psicopatico ha piazzato una bomba nel suo appartamento?”
Molly avrebbe voluto spiegare che non
era il motivo per cui stava piangendo. La frenò la consapevolezza di non dover essere
un bello spettacolo e la vergogna per essere scoppiata a piangere in quel modo.
“Non è per quello che sta piangendo,”
intervenne inaspettatamente Sherlock.
La testa di Meena scattò verso di lui, come un toro che studi l'avversario prima di ricaricare. “Ah, no?”
“No,” replicò Sherlock, suonando
infastidito e annoiato in egual misura. “Si sente in colpa perché sa cosa significhi per gli altri: essere
convinti che una persona cara sia morta e poi scoprire che non lo era; e
l’ultima cosa che desiderava era che una circostanza del genere si verificasse
di nuovo. Si sente in colpa perché si è resa conto che dimenticare il cellulare
sia stata un’imprudenza e nutre sentimenti di rimorso anche nei miei confronti,
in quanto è supportata dalla convinzione, del tutto erronea dovrebbe essere superfluo
che io aggiunga, che l’intera faccenda abbia ridestato ricordi sgraditi. È amareggiata
perché immagina che l’esplosione abbia distrutto oggetti familiari a cui è
affezionata e ovviamente sì, è anche spaventata, nonostante si rifiuti di
ammetterlo.”
“Crede onestamente di conoscere Molly
meglio di me?”
“Onestamente, sì. Credo di conoscerla
meglio di chiunque altro. Compresa lei, signorina Saini.”
“Wow.” Questo era John. Molly si accorse, nel
silenzio greve che seguì quella dichiarazione, di essere arrossita.
“Cosa?” lo sollecitò Sherlock,
annoiato.
“Quello che hai detto suonava… uhm, piuttosto
ambiguo, amico.”
“Ambiguo. In che modo potrebbe suonare
ambiguo – ma certo. Capisco. Tuttavia no. Sebbene tra me e Molly siano sempre
intercorsi buoni rapporti, la nostra relazione interpersonale si basa sulla
reciproca fiducia e sulla base di passioni condivise, impegni sociali e professionali.
Non è mai sfociata in atti di natura sessuale.”
“Gesù, Sherlock!” sbottò Lestrade. “Non
puoi andare in giro a dire certe cose, non così, non in pubblico o al di fuori
della tua testa contorta.”
“Non bene, John?”
“No, Sherlock. E con questo temo che
possiamo dire addio alla possibilità di rivedere il viso di Molly entro tempi
brevi.”
“Molly è una donna adulta e vaccinata.
Inoltre è un dottore. Mi auguro che sia a conoscenza del fatto che nella piramide
di Maslow l’intimità sessuale sia identificata come un bisogno di appartenenza.”
“Ti ricordo che lo sono anch’io.”
“Molly, saresti così gentile da rassicurare
John che le mie dichiarazioni non ti abbiano procurato imbarazzo?”
Molly si strofinò gli occhi. “Non mi
hai messo in imbarazzo,” dichiarò, riemergendo dalla spalla di Meena.
Sherlock reagì con un’aria trionfante.
“Con tutto il rispetto per Molly,
questo non toglie che tu abbia messo a disagio il resto di noi,” ribatté John.
“Oh, per l’amor del – ”
“Lo ritenete appropriato? Parlare di
questo? Adesso?” intervenne Meena. Né
la direzione degli eventi né quella presa dalla conversazione sembravano averla
sconvolta, il che, in tutta franchezza, non era affatto una sorpresa per Molly.
Era sua amica da una vita e sapeva che esistesse davvero poco in grado di
farlo. A quanto pareva neppure una bomba rientrava nell’utopia del genere. “Non
che la cosa non sia divertente. Siete davvero uno spasso, ragazzi, ma inizio a
sentirmi osservata.”
Era vero. Parecchie persone cominciavano
a prestar loro attenzione, lanciando di quando in quando occhiate incuriosite nella
loro direzione.
“Andiamo,” disse Sherlock imperiosamente.
Quattro paia d’occhi, Molly inclusa, lo
fissarono come se improvvisamente gli fosse spuntata una seconda testa sul
collo.
“Devo seguire voi stramboidi?” Meena fu
la prima a riaversi. Fece una smorfia contrariata. “Senza offesa, Molly, ma hai
sempre avuto un pessimo gusto in fatto di amici. Tranne me. Io sono l’eccezione
che conferma la regola.”
“Molly verrà con noi a Baker Street,”
le comunicò Sherlock, pronto a riprendere in mano le redini e condurre il
gioco, impartendo ordini, “mentre per quanto riguarda lei, signorina Saini, l’Ispettore
Lestrade provvederà ad accompagnarla a casa, dopodiché sarà libera di ubriacarsi
com’è stata sua intenzione fare per gran parte della serata.”
“Di sicuro da quella in cui sei
comparso tu, tesoro.” Meena gli strizzò l’occhio, quindi si girò verso di lei
con un’espressione di assoluto concerno, le sopracciglia leggermente aggrottate.
“Chiamami per qualsiasi cosa, intesi? Qualsiasi.
Anche se si tratta di sfogarti per l’universalmente nota idiozia maschile. Mi troverei
una più che compiacente ascoltatrice.”
Molly
promise che lo avrebbe fatto.
Meena
annuì con approvazione e poi si avviò a passo di marcia verso l’uscita.
Dopo
aver salutato John e Sherlock con un cenno e lei con una stretta rassicurante
sul braccio, Greg le fu affianco.
“Sa,
Ispettore, ho sempre desiderato un poliziotto per amico. Da ragazza mi avrebbe
fatto assolutamente comodo. Nell’eventualità, da oggi in poi posso sentirmi
libera di contattare lei?” domandò Meena, seria.
Prima
che girassero l’angolo, Molly vide che Greg le riservava un’occhiata perplessa.
Rise
(istericamente, se ne rese conto), ma rise.
Sherlock strinse gli occhi,
osservandola con severità dall’alto della sua statura svettante. Sul serio, Molly? – pareva riprenderla. Il
tuo è un comportamento del tutto fuori luogo.
Un tempo, un tempo diverso e
decisamente lontano, Molly si sarebbe rimpicciolita sotto il peso di quello
sguardo che sondava e calibrava al dettaglio i pensieri, ma oggi non più. Sospirò.
Scoprì che le tremavano le mani e in fretta le infilò nelle tasche del
cappotto, sperando che gli fosse sfuggito. Speranza vana, trattandosi di
Sherlock.
La richiamò in tono basso e pressante e Molly rialzò il viso verso di lui.
“Ho
bisogno che tu ti fidi di me, Molly. Puoi farlo?”
Certo. Certo che poteva. Per qualche
ragione, però, non riusciva a parlare.
“È in stato di shock,” si frappose
John.
Sherlock sbuffò, alzò gli occhi al
soffitto. Puoi
dire qualcosa che non sia ovvio? Curvò leggermente il busto in avanti e le sistemò
le mani ai lati della testa, gli occhi assicurati ai suoi, ad un palmo di naso.
“Ascolta la mia voce. Isola i pensieri e concentrati sulla mia voce.”
John parlò della possibilità di farla sdraiare
nella posizione di Trendelenburg.
“Ridicolo. Non è in shock osmotico. È
solo confusa.”
Sì e non ne aveva forse ogni sacrosanto diritto?
Uno psicopatico aveva fatto saltare in aria il suo appartamento, con il chiaro scopo
di mandare un messaggio. Se
davvero volessi, lei sarebbe già morta.
Molly si morse il labbro inferiore. “È
stato lui, vero? Moriarty.”
“Sì.”
Sherlock non lasciò andare la presa. Si
limitò a scrutarla. Poi, con deliberata lentezza, si allungò per darle un bacio
sulla guancia.
"Grazie." Molly chiuse gli occhi. “Per la
sincerità.”
“È stato un piacere.” Sherlock sollevò un angolo di bocca nella miniatura di un sorriso.
“So che muori dalla voglia di chiedere come abbia fatto a trovarti.”
Molly non negò. “E io so che tu muori
dalla voglia di rendermi partecipe.” Raddrizzò le spalle con un gesto risoluto,
ricacciando il freddo e i sentimenti contrastanti che provava ad un luogo e un
tempo imprecisi nel futuro. “Scommetto che si tratta di un racconto avvincente.”
Sherlock annuì, assorto. “John deve
avere già una o due idee per il suo blog.”
John sbuffò sentitamente.
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Capitolo 2 *** II ***
2
Li
accompagnò una macchina della polizia. Al posto di guida c’era una donna attraente
dai capelli ricci che le si presentò come Sergente Sally Donovan. Molly la
conosceva di vista da anni, ma non aveva mai avuto occasione di
incontrarla, prima di quel momento, se non di sfuggita nei corridoi del Barts,
durante i lunghi ed interminabili turni di notte.
Sembrava,
circostanza niente affatto insolita, avere dei trascorsi turbolenti con
Sherlock o se non altro dei conti in sospeso.
Una
donna determinata, intelligente e dannatamente volitiva, fu l’impressione, più
avanti ratificata, di Molly.
“Non
farci l’abitudine, Fenomeno,” la sentì rivolgersi a Sherlock. “Circostanze
straordinarie richiedono misure cautelari straordinarie. Quanto a lei, Dottor
Hooper…” la voce del Sergente Donovan si ammorbidì notevolmente e Molly si
chiese se fosse così evidente il suo stato confusionale. “Se c’è qualcosa che
desidera avere dal suo appartamento, me lo faccia sapere. Farò in modo che, una
volta eseguiti i controlli di prassi da parte della Scientifica, le pervenga
quanto richiesto.”
Molly
batté le palpebre, colta di sorpresa. C’erano tanti oggetti che avrebbe voluto
riavere indietro, ma aveva da subito accantonato quel desiderio come una
speranza irrealizzabile. Sorrise, di un sorriso stropicciato che voleva dire
quanto profondamente apprezzasse la premura di quella proposta gentile. “La
ringrazio.”
Nel
posto a sedere accanto al suo, Sherlock taceva, ribollendo nell’ombra energica di
quella che appariva come profonda impazienza.
*
Arrivati
a Baker Street, Molly avrebbe solo voluto una tazza di tè.
Ma
questo era stato prima dell’incontro con Mrs. Hudson.
“Oh,
mia cara, cara ragazza!” Molly ebbe un
rapido scorcio dello sguardo lacrimoso di Mrs. Hudson prima che venisse inghiottita
nel suo abbraccio stritolante. “Non osare
mai più spaventarmi in questo modo! Non ho l’età per sopportare un dolore del
genere.”
A
Molly non rimase che scusarsi profusamente. Non che fosse davvero colpa sua,
beninteso, ma in qualche modo sembrava giusto farlo: scusarsi dell’involontario
e collettivo stato di agitazione che aveva provocato.
Sherlock
si oppose alla scena, palesando la sua intolleranza con uno sbuffo
significativo. Quando Mrs. Hudson sciolse la presa per asciugarsi gli occhi con
un fazzoletto, Sherlock avanzò la richiesta: “Un tè, Mrs. Hudson, sarebbe
ideale.”
Per
un attimo Molly lo fissò, poi spostò lo sguardo altrove, pressando le labbra
tra loro.
“Se
non le è di troppo disturbo,” aggiunse quindi Sherlock.
“Solo
per questa volta, ragazzaccio. Perché hai riportato Molly sana e salva.” Dopo
un ulteriore buffetto gentile sulla sua guancia, Mrs. Hudson si diresse verso
la porta.
Una
volta uscita, Molly si sfilò il cappotto prima di crollare a sedere, senza
riflettere, sulla poltrona di John. Quando se ne rese conto, fece per alzarsi,
come se si fosse scottata.
La
mano di Sherlock scattò verso di lei, le afferrò il polso, costringendola a
rioccupare il posto. “Resta dove sei,” le ingiunse, tranquillo. “Dubito che
John abbia da ridire al fatto che tu la utilizzi.”
Dopodiché
cadde il silenzio. Il tanto celebrato silenzio, quando si veniva a contatto con
Sherlock. E, in quel silenzio, Molly fece il punto della situazione.
- Uno
psicopatico aveva tentato di ucciderla. O di non ucciderla. Uhm, questo non era
ancora del tutto chiaro.
- Non
aveva una casa al momento, neppure un ricambio d’abiti. Tutto ciò che possedeva
era la gonna che si era decisa a indossare su insistenza di Meena, le scomode
scarpe di vernice e il maglioncino di angora. E la sua borsa, certo. Che il
Cielo la perdonasse per aver dimenticato la sua borsa. La sua sopravvivenza si
basava su un pacco di gomme da masticare, le chiavi di casa, gli occhiali da
vista con la custodia delle lenti a contatto, il portafoglio con dentro le
carte di credito e un ombrello tascabile.
- I
suoi amici l’avevano creduta morta. Era stato trovato un cadavere nel suo appartamento.
Un cadavere che, per indurre persino Sherlock a convincersi che si trattasse
del suo, doveva essere stato piuttosto credibile. Il pensiero le provocò
istantaneamente una morsa alla bocca dello stomaco e un senso di nausea.
La
priorità era trovare un posto in cui stare. Nei prossimi giorni avrebbe potuto
fermarsi da Meena la cui ottomana, tutto sommato, molle e bitorzoli a parte,
rimaneva un’alternativa decisamente preferibile al nulla. Certo era che avrebbe
dovuto imparare a convivere con la musica rock a tutto volume, con le muraglie
cinesi realizzate con gli incarti di cibo thailandese, con le pile pericolanti di
libri piazzati dovunque come torrette di sentinella. Per non parlare di Morgan:
il suo coniglio ariete.
O
avrebbe potuto prendere una stanza d’albergo, perché no. I risparmi non le
mancavano. Ma con tutta probabilità, per la sua stessa sicurezza, Greg, supportato
da Sherlock e John, avrebbe insistito su una scorta o su una struttura
facilmente sorvegliabile.
John
e Mary? Molly scartò l’idea. Per quanto li adorasse, la poca praticità della
soluzione – abitavano in periferia e avrebbe dovuto svegliarsi ad orari infami
per arrivare al Barts – diventava un problema insormontabile, considerata la
sua pigrizia e la malavoglia con cui si costringeva a svegliarsi. Non era mai
stato il tipo mattiniero.
Molly
si riebbe dalle considerazioni del caso per trovare che Sherlock, nel
frattempo, non aveva fatto altro che osservarla. Provò una assurda,
ingiustificabile fiammella di calore che tentò, invano, di estinguere sul
nascere.
Sherlock
teneva il pollice contro il muscolo sternocleidomastoideo,
l’indice premuto sulla guancia e le altre dita ripiegate di lato alla bocca. La
guardava, indefinibilmente concentrato, come se trovasse in quel che osservava
un intrigante rompicapo da risolvere.
Molly ne fu turbata. Si schiarì la gola e si passò
le mani sulla faccia, nascondendosi per un momento cruciale alla sua vista.
Sherlock leggeva i pensieri. Non proprio, non
esattamente. Tuttavia era innegabile che riuscisse a intuire cosa chiunque
stesse pensando, nell’istante successivo in cui quel qualcuno lo aveva pensato.
Riemerse dalle proprie mani per trovarlo nell’identica
posizione, con la stessa imperscrutabile espressione. Deglutì, a disagio. “Ho
bisogno di –” si interruppe, cercando una scusa plausibile.
Insperatamente, proprio Sherlock le venne in
soccorso. “Il bagno?” domandò educatamente, inarcando un sopracciglio.
“Sì!” rispose lei con troppa, troppa enfasi. Dio, era un disastro.
Mentre si alzava, sentì che gli occhi di Sherlock la
seguivano nel corridoio e se non l’avesse considerata da subito una
sciocchezza, avrebbe giurato che avessero una luce divertita e sì, a tratti
affettuosa nel modo in cui continuavano a osservarla.
*
Mentre si dava ripetutamente della stupida, asciugandosi
il viso, sentì i toni soavemente piccati
di Sherlock provenire dal salotto e qualcuno che gli rispondeva altrettanto fermamente.
Molly socchiuse la porta, indecisa sul da farsi, se
palesarsi oppure restare dov’era.
“La polizia ha insistito per seguire la pista del
cellulare di Molly,” stava dicendo Sherlock in un’inflessione di aperta polemica.
“Un buco nell’acqua, sono pronto a scommettere.”
Sebbene lo avesse incontrato in non più di tre occasioni,
tre incontri la cui somma non raggiungeva la durata complessiva di mezz’ora, Molly
lo riconobbe dalla voce: pacata, sfumata appena in uno scherno cattedratico
che era intrinseco al suo carattere, un po’ un marchio di famiglia. Mycroft Holmes.
“Piuttosto ovvio,” considerò Sherlock.
Entrambi i fratelli sbuffarono dell’idiozia dilagante
del mondo che li assediava.
“Che intenzioni hai?” proseguì Mycroft, subito dopo.
“Non vedo come la cosa potrebbe riguardarti.”
“Non direttamente, forse, ma dovresti averlo
imparato da tempo, Sherlock. Tu sei sotto la mia custodia. Tutelo solo i tuoi
interessi.”
“E così facendo, proteggi i tuoi.”
“Indubbiamente. Tutto ciò che ti riguarda, fratello
caro, riguarda indirettamente anche me. Ogni tua azione si ripercuote sulla mia
persona, per quella legge universalmente nota che rende il minore una responsabilità
del maggiore.”
“Una coscienza? Tu?”
“Strana scelta di parola. Io avrei detto un cuore.”
Una pausa densa, concentrata di riflessioni
inespresse, accolse quell’ammissione. Molly si morse il labbro, decisa ad
aprire la porta.
“Verrà a stare da te, immagino. La vecchia stanza di
John?”
Accigliata, Molly si chiese di chi stessero
parlando, prima di capire, con un secondo di ritardo, che il ‘chi’ in questione
fosse lei.
“Il Dottor Hooper è al corrente delle tue nobili
intenzioni?”
“Ora lo è. Non è così, Molly?”
Mortificata come quando a nove anni suo padre
l’aveva trovata nascosta nell’armadietto delle medicine della sua sala
operatoria, Molly li raggiunse in salotto.
*
“Bene,” scandì Mycroft, incrociando con ricercatezza
le gambe e intrecciando le mani sul ginocchio. “Ora che le parti coinvolte sono
presenti, ritengo opportuno e doveroso fare il punto della situazione.”
Molly si scoprì ad invidiargli quel suo
savoir-faire, l’abilità che gli permetteva di condurre a buon fine ogni dinamica e di comportarsi nel modo più adeguato, di ottenere sempre ciò che voleva.
“Sei agli arresti domiciliari,” decretò Mycroft, indirizzando
a Sherlock un’occhiata mortifera. “Non puoi lasciare Baker Street a meno che tu
non sia scortato da un agente di Scotland Yard. Ti è proibito accettare
qualsiasi caso che non sia stato precedentemente approvato dal mio ufficio. È
il Governo che ti ha rivoluto qui e ad Esso appartieni per il momento.”
Con l’orrore di quella condanna a rimbombarle nelle
orecchie, Molly vide che Mycroft si rivolgeva a lei, ora. “Per quanto concerne
lei, Dottor Hooper, non posso imporle nulla. Ciò nonostante, è bene che sappia
che la sua tenacia nel rifiutare nella presente circostanza la protezione che
non ho mancato di offrirle in passato, potrebbe mettere in pericolo non solo la
sua incolumità, ma quella di molti altri. Mi aspetto piena collaborazione.”
Molly annuì. “Quali sono di preciso i termini della
sua protezione?”
Mycroft inclinò la testa e il sorriso leggero sulle
sue labbra si increspò, come se non capisse la finalità della domanda, la sua
ragione.
“Ciò che Molly intende sapere è quale prezzo la tua
protezione le imporrebbe.” Sherlock le fece un breve cenno di approvazione,
prima di congiungere i polpastrelli davanti al volto e socchiudere gli occhi. “Ha
idee molto chiare su cosa aspettarsi da un patto col diavolo.”
“Perché tu l’hai ben istruita,” ritorse Mycroft. “È
fuori discussione che lei torni al suo appartamento, quand’anche dovesse
tornare agibile in tempi relativamente brevi. Baker Street è l’unica soluzione appetibile.”
“Ma?” domandò Molly. Vedeva un ‘ma’ profilarsi
all’orizzonte, lo sentiva nell’aria.
“Dovrà lasciare il suo lavoro al Barts.”
Molly si sforzò di vedere l’ironia in quello che aveva sentito, ben sapendo di
cercarla in un uomo che non ne aveva un briciolo. “Spero che stia scherzando.”
“Non sono solito farlo. Non appartiene alla mia
indole.”
Molly si voltò verso Sherlock in cerca di appoggio,
ma ottenne un’occhiata indifferente. Era palesemente impegnato in sue personali
riflessioni e perciò disinteressato. Sollevò il mento, pronta a combattere con
le unghie e con i denti, se necessario. “Non intendo farlo.”
“Non ha scelta,” ribatté Mycroft in tono composto,
ma irremovibile. “Davvero intende mettere in pericolo un’intera struttura
ospedaliera per un suo capriccio? Per egoistica soddisfazione personale?”
Molly sussultò. Certo che no. Ma doveva esserci un’alternativa. Doveva. Inghiottì a vuoto. E invece no,
non ce n’erano. Era una dannata scelta di Hobson. “E quindi anch’io sono agli
arresti domiciliari,” disse amaramente, stringendo i pugni con una sensazione
di rabbiosa impotenza.
“Non sia così catastrofica. Ho l’assoluta convinzione
che lei e Sherlock troverete un più che soddisfacente palliativo alla noia
nella presenza l’uno dell’altra.” Mycroft si alzò per andarsene.
“Un attimo soltanto, per piacere,” lo pregò Molly.
“John verrà a stare qui con Mary? Anche lui dovrà lasciare il suo lavoro?”
Mycroft la guardò, sembrando sinceramente stupito.
“A quanto mi risulta il Dottor Watson e la sua consorte non hanno ricevuto
alcuna minaccia di morte di recente.”
“Mi sta dicendo seriamente che bisogna aspettare che
venga piazzata una bomba in casa loro prima di attuare qualcosa di drastico
come nel mio caso?”
“Lei è il tipo di persona che preferisce prevenire anziché curare una malattia, Dottor Hooper?”
“Dico soltanto che –”
“John è ben protetto, Molly,” disse Sherlock.
“Come puoi dirlo con sicurezza?” Molly era esterrefatta.
“So di cosa parlo e mi aspetto che tu mi creda. Ti
ho mai mentito, Molly Hooper?”
Lo sconcerto di Molly non poté che aumentare. Aggrottò
le sopracciglia. “Ti rispondo in ordine cronologico o alfabetico?*”
Sherlock si rabbuiò, ma perlomeno Molly ebbe la
soddisfazione di aver strappato una risata – se poi di risata poteva parlarsi,
essendo suonato più che altro come un verso di derisione – a Mycroft, incredibile dictu.
“Ti ho manipolato,” puntualizzò Sherlock, dando
l’impressione che lei lo avesse gravemente insultato. “È molto diverso dal
mentire.”
“No, Sherlock,” ribatté Molly testardamente, “per
antonomasia manipolare è alterare la verità che equivale a mentire.”
Sherlock si grattò la punta del naso, come se
prendesse atto del nuovo punto di vista, ma non riuscisse a comprenderlo.
E su quella non-risposta, con un impeccabile cenno
del capo, Mycroft e il suo ombrello se ne andarono.
*
Il tè preparato da Mrs. Hudson non la rinfrancò quanto
aveva sperato.
Molly era troppo stravolta dall’imprevedibile e
rapido corso degli eventi per fare altro che non fosse soffiare via il vapore
dalla tazza, nella metafora del nugolo di pensieri che le affollavano la mente
e che avrebbe voluto scacciare con altrettanta facilità; o fissare senza
realmente osservarle le mappe del Regno Unito e dell’Irlanda dipinte sulla
porcellana del servizio.
“Mi rendo conto che sia una situazione… ostica,”
sentì che Sherlock diceva in tono – non le riuscì di capirne il motivo -
difensivo. Temeva una scenata? O peggio: un altro pianto convulso?
“È un eufemismo,” rispose mitemente.
Sherlock fletté le labbra in un minuscolo sorriso,
concendendole un punto. Il sorriso si spense fin troppo rapidamente. “Mycroft
tende a presentare le situazioni nel peggior scenario possibile. È un fatalista: è
sua prerogativa.”
“Ma non mi dire,” mormorò a mezze labbra contro il
bordo della tazza.
Sherlock la guardò interrogativo.
Molly si trovò costretta a spiegarsi.
“Non credi che, detto da te, suoni, non so, un po’ ipocrita?”
La seconda soddisfazione della serata arrivò nel
modo comico e ridicolo in cui Sherlock strabuzzò gli occhi.
Sicura di aver azionato un processo che sarebbe
stato difficile disinnescare in tempi relativamente brevi, Molly posò la
tazza e masticò uno sbadiglio. “Scusa,” biascicò, “ti dispiacerebbe rimandare a
domani? È mezzanotte passata e bomba o non bomba, oggi è stata decisamente una
giornata frenetica.”
Sherlock annuì, le pupille leggermente dilatate.
“Buona caccia?”
Molly si trascinò verso la porta, scuotendo la testa.
“Non immagini quanto.”
Non si accorse che lui l’avesse seguita. Non lo
aveva sentito alzarsi. Ma d’altronde Sherlock sapeva essere silenzioso e
felpato come un ladro quando gli era comodo. Quando il braccio di lui le ostruì il passaggio, Molly
sollevò il viso e il suo respiro le carezzò il naso. Poi, senza preavviso,
Sherlock le baciò la fronte, poco sopra il sopracciglio destro. “Buonanotte,
Molly.”
Molly credeva che avrebbe aggiunto altro, ma si sbagliava.
Lui si allontanò galantemente, scartando di lato
per permetterle di passare.
“Buonanotte, Sherlock.”
Quella notte, forse, una parte di lei avrebbe sognato
quella cosa soffusa e vulnerabile che si era rincorsa sul viso di lui e, forse,
si sarebbe chiesta come sarebbe stato se invece di salire a dormire, lei avesse
semplicemente ricambiato il gesto.
N/A:
Innanzitutto grazie, grazie davvero! I vostri
commenti gentili e calorosi, accompagnati da reazioni così entusiaste da parte
vostra, mi hanno trasmesso una carica di energia inimmaginabile. Spero che
questo secondo capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative, dei vostri
desideri. Lo spero davvero :)
Un abbraccio a tutte e fatevelo dire, ragazze: siete
fantastiche e adorabili!
Spero di riuscire a rispondere entro tempi brevi a
ciascuna delle meravigliose recensioni che mi avete lasciato – siete troppo
buone, non merito davvero tutti questi complimenti!
*La battuta proviene dal film “Sherlock Holmes” di Guy
Ritchie.
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Capitolo 3 *** III ***
3
Molly
Hooper era generalmente stimata per la sua vena cortese e l’ineffabile
buonumore che la contraddistinguevano, sia nei rapporti professionali che in
quelli privati.
A
Molly potevi chiedere un favore, anche se era una cosa dell’ultimo minuto e aveva
tutto l’aspetto di una scusa campata per aria. Lei ti avrebbe lasciato
concludere il tuo sproloquio ansioso, poi, con un sorriso rassicurante, si
sarebbe fatta in quattro per aiutarti sin dove le era possibile, spesso facendo
più di quanto necessario.
A
Molly potevi confidare un segreto, uno terribile che ti rodeva lo stomaco e la
coscienza, dal genere ‘Ho baciato un ragazzo che non è il mio fidanzato’ a quello del ‘Ho sbagliato un’analisi. La
mia carriera è finita. Sarò licenziato’. Al che lei, con tutta l’efficienza di
un carattere che nel bisogno sapeva mostrarsi concreto e pragmatico, per quanto
ostinatamente ottimista, avrebbe appianato la questione, ma senza farti sentire
un incapace o un perfetto idiota per non essere arrivato alla soluzione da te.
Ti
avrebbe esortato a stare più attento, la prossima volta, ad
indagare su quello
che realmente provavi e si sarebbe presa la libertà di dirti
che, per quanto
errare fosse umano, forse una maggiore attenzione non sarebbe stata
un’idea malvagia e con tutto il tatto possibile, magari ti
avrebbe anche
consigliato di non giocare con i sentimenti altrui, perché se tu
ti sentivi
così, per lui o lei sarebbe stato molto peggio e questo doveva
lasciarti
riflettere. Ti avrebbe incoraggiato ad essere migliore, a trovare quel
qualcosa in più che ti rendeva unico e a mostrarlo.
Molly
era il confessore ideale perché i suoi commenti erano veri, schietti, ma mai
crudeli. C’era sempre una nota di comprensione, di apertura e sostegno nel suo
viso: come una specie di sorriso che dall’interno sembrava volerti raggiungere,
circondare anche te.
Perché
Molly era quel tipo di persona. Il tipo originale che si coglie con la coda
dell’occhio, pensando tra te e te che ‘oh, sembra una persona carina. Sarebbe delizioso averla per amica.’
Molly
era il tipo che sorrideva con la pioggia, che, scostandosi una ciocca di
capelli bagnati dal viso pallido, ti porgeva l’ombrello che avevi dimenticato
di portare perché “Tanto abito dietro l’angolo. Sono arrivata.” E “Davvero. Nessun
disturbo.”
Era
la ragazza che in metropolitana cedeva il posto agli anziani, alle altre donne,
a qualunque persona sembrasse aver avuto una giornata particolarmente brutta o
stancante. E con quelle piccolezze, minuzie, lei, sciocca Molly Hooper che giocava a fare l’infermiera, pensava di
poter raddrizzare il mondo. Perché il mondo era formato da persone e sistemato
ciò che c’era di storto o triste nelle loro vite, tutto sarebbe andato per il
meglio.
Molly
era fiduciosa e gentile ed educata.
Ma
in quel momento Molly non si sentiva per niente fiduciosa e non provava nessuno
di quei sentimenti. Si sentiva scoraggiata e sola. Inoltre aveva freddo, il
freddo che poco ha da spartire con la temperatura esterna, che ti gela il cuore.
La
situazione andava avanti da giorni, da quando era esplosa quella dannata bomba.
Sì, aveva pensato ‘dannata’ e al diavolo le buone maniere!
Il
suo umore era talmente cattivo che aveva bruciato un plum-cake allo yogurt e,
come se questo non fosse abbastanza, aveva più o meno mandato al Creatore la
colonia di formiche rosse che abitava il cortile/giardino dell’appartamento di
Mrs. Hudson.
Il
suo umore precipitò definitivamente quando, trascinandosi nel salotto, sicura
di trovare Sherlock a pizzicare le corde del violino con la stessa affettuosa
predisposizione con cui altri – lei –
avrebbero accarezzato un gatto, non lo trovò.
Molly
ingoiò il nodo alla gola e si diresse verso la camera da letto di Sherlock.
Bussò, ma non ebbe risposta. Facendosi coraggio, - male che andasse, lui le
avrebbe imprecato contro per la sua audacia – aprì uno spiraglio di porta e
gettò uno sguardo all’interno.
Vuota.
La stanza era vuota. Controllò il bagno. Stesso risultato.
Okay,
ora era decisamente preoccupata.
Che
fosse sceso da Mrs. Hudson? La trovava un’opzione poco credibile.
Come
se fosse stata evocata dai suoi stessi pensieri, Mrs. Hudson entrò nell’appartamento.
Portava un vassoio con del tè e una ciotola di biscotti Jammie Dodgers.
“Oh,
eccoti qua, Molly cara. Pensavo fossi nella stanza di – nella tua stanza.”
Molly
andò a sedersi sulla poltrona di John. Indossava un pantalone del pigiama che
le aveva prestato Sherlock. Le stava così largo che aveva dovuto rivoltare di
parecchi giri la molla elastica. Tirò su le gambe e si abbracciò le ginocchia.
“Non trovo Sherlock.”
“Certo
che no.” Mrs. Hudson le versò il tè in una tazza, lo zuccherò e ci mise perfino
una fetta di limone. “Quell’adorabile ispettore è passato poco fa a prenderlo
per portarlo in Centrale. A quanto pare, un tale ha mandato una lettera
minatoria a un membro non meglio specificato del Gabinetto, o qualcosa di
simile. Povera me, l’età gioca brutti scherzi alla mia memoria. Un tempo sarei
stata di in grado di ripetere l’intera conversazione con la stessa scioltezza
con cui un bambino elenca i sette Re di Roma o la dinastia dei Plantageneti.”
Molly
non stentava a crederlo. Sebbene apparisse una donna di mezza età dai modi
accomodanti, Mrs. Hudson era un’inesauribile fonte di sorprese.
Percependo
qualcosa nell’aria, un mutamento, lei si voltò con l’espressione di un segugio
davanti alla tana della volpe. “Non ti ha avvertito che usciva?” Il modo in cui
lo chiese sembrava allo stesso tempo una scusante e un’offensiva.
“Perché
avrebbe dovuto?” Certo, sarebbe stato carino che lui l’avesse fatto. E certo,
sarebbe stato ancora più carino se lui le avesse chiesto di accompagnarlo.
In
sette giorni non aveva avuto altra compagnia all’infuori di quella di Sherlock
e di Mrs. Hudson, non contando le sporadiche ‘toccata e fuga’ di Wiggins e del
suo ‘Doc, ha bisogno di qualcosa?’,
ormai di rito.
Aveva
ricevuto un paio di telefonate simpatizzanti da parte di John e Meena. Se nel
caso di Meena il tutto poteva essere riassunto comodamente in un
‘Condoglianze’, ‘Procurati un estintore e nascondi una bottiglia di gin per le
serate davvero lunghe’; quella di John era stata una lunga lista di
avvertimenti: “Fai incetta di latte. Tieni sempre a portata di mano i numeri di
telefono dei ristoranti d’asporto. Oh, e faresti meglio a inserire tra le
chiamate rapide i vigili del fuoco, il mio numero e quello di Lestrade, nel
caso in cui Sherlock, uhm… si comportasse da Sherlock. E ricorda: ci sono tre kit di
pronto soccorso, uno in bagno, uno in cucina e uno nel cassetto della
scrivania. Sotto il letto della mia vecchia stanza c’è un asse che si muove. Al
di sotto ho nascosto una stecca di sigarette e una bottiglia di brandy. È un
piano di scorta e un eccellente giro di boa per quando dà davvero di matto.”
Molly
non aveva saputo se ridere o piangere, indecisa tra il dare credito
all’esperienza di John o prendere la cosa come uno scherzo a sue spese. Ma no,
non sarebbe stato degno di John Watson.
“Povero
agnellino,” disse Mrs. Hudson e Molly la guardò, smarrita. “Ero sicura che ti
avesse detto che stava uscendo. È sceso da me per chiedermi di prepararti un
tè. Era preoccupato che, mentre era via, potessi sentirti sola.”
Ecco,
pensò Molly.
Spostò
lo sguardo altrove e affondò i denti nel labbro inferiore. Premuroso e
inaffidabile. Coercitivo e liberale.
Eccolo
lì, Sherlock Holmes, la sua antinomia. Come poteva non –
Si
alzò di scatto.
Mrs.
Hudson la fissò, un po' allarmata.
“Mrs.
Hudson, vorrei stare per conto mio. So che potrebbe suonare come una
richiesta bizzarra –” La vide inarcare un sopracciglio e Molly si diede della
stupida. Era la padrona di casa di Sherlock. Le richieste bizzarre erano il suo
pane quotidiano. “Gradirei poter usare il seminterrato, se possibile.”
Gli
occhi di lei si velarono di comprensione, quindi si spostarono sulla poltrona
di Sherlock, allusivi. Si portò una mano al collo. “Immagino che non ci sia
nulla di male,” proferì con calma. “Posso immaginare cosa spinga una giovane
donna ad avere bisogno dei suoi spazi e solo il Cielo sa che quell’uomo ha una
presenza indiscutibilmente ingombrante e un carattere che è impossibile
gestire, alle volte. Ma, Molly cara, devo avvertirti. È terribilmente umido
laggiù e niente affatto confortevole.”
Molly
rispose che sarebbe stato perfetto. Non era un luogo confortevole che le
serviva, ma un posto in cui riflettere in pace.
*
Il
brandy si rivelò una vecchia conoscenza. Non un martini, che era il migliore
amico di una ragazza alle prese con un cuore spezzato. Perché si dava il caso
che Molly non lo avesse, il cuore spezzato. Doveva solo fare i conti con una
vita che stava andando allo scatafascio.
Era
pastoso, non fuoco liquido, ma un tizzone contro il palato. Aveva riflessi
deliranti nel bicchiere a tulipano. Era così che si sentiva un mangiafuoco?, si
chiese lei. Come se il freddo fosse un’ombra remotissima e labile, il guizzo
della paura?
Senza
casa. Senza lavoro. Costretta a coabitare con qualcuno che probabilmente, no, sicuramente avrebbe preferito dividere
la cella con un criminale, perché in quel caso sarebbe stata una lettura più
interessante.
Cosa
le rimaneva oltre allo shopping on-line su Etsy? Aveva provato a leggere
qualcosa delle librerie a nicchia nel salotto, ma dopo il tentativo
fallimentare de “Il chimico scettico” e all’ennesimo trattato di chimica o
libro di diritto penale che le era capitato tra le mani, Molly aveva dovuto arrendersi
all’evidenza che non ci fosse niente, per lei e per i suoi gusti leggeri, su quelle mensole.
E
ora questo.
Dio,
era così arrabbiata con Sherlock.
Così dannatamente arrabbiata con se stessa.
Era
bastato un tè. No, non il tè, ma il fatto che lui, uscendo, avesse pensato a
lei, si fosse preoccupato abbastanza di lei da chiedere a Mrs. Hudson di
controllarla.
Molly,
a conti fatti, sapeva che fosse stato proprio questo il pensiero principe: che lei,
Molly, andava controllata. Perché per Sherlock, lei doveva essere come una
bomba, pronta ad esplodergli in mano in un momento di disattenzione.
Vivere
con una bomba, no, non doveva essere poi così piacevole.
*
“Sarebbe
meglio che non entrassi. Ha chiesto espressamente di essere lasciata stare.
Sherlock Holmes, tu non oltrepasserai questa porta! Te lo proibisco!”
Querula,
la voce di Mrs. Hudson giungeva concitatamente dalle scale.
Un secondo più tardi la porta si aprì e Sherlock, bavero del Belstaff sollevato
e guanti di pelle, entrò come una furia.
Perlustrò
la stanza e Molly avrebbe voluto ridere perché sul serio, cosa si aspettava di
trovare?
Quando
si posò su di lei, i suoi occhi avevano la consistenza del metallo fuso.
“Fuori,” ordinò secco, senza scostare lo sguardo dal suo viso.
“Non
è una buona idea,” lo ammonì Mrs. Hudson. Si stava stropicciando le mani.
Sherlock
si voltò con un verso inumano e sospinse a forza Mrs. Hudson fuori. “Ho detto
fuori!” Le sbatté la porta in faccia.
“Cosa
credi di fare, Molly Hooper?” domandò, quindi, glaciale.
“Annego
i dispiaceri nell’alcool? O suona troppo come un cliché?” Molly scoppiò in
una risata gorgogliante.
Sherlock
diede un calcio alla bottiglia di brandy. Non aveva chiuso il tappo e buona
parte del contenuto si sparse sul pavimento, in una pozza color cinabro.
Molly
trasalì.
Lui
la afferrò per il braccio e la tirò in piedi. Non era una stretta piacevole.
Molly
si divincolò. “Lasciami andare.”
Sherlock
non sembrò ascoltarla e Molly si divincolò con maggiore energia. “Lasciami
andare!”
Sherlock
serrò la presa. Ora la bloccava, tenendola ferma per le spalle. Abbassò il volto
al livello del suo, gli occhi accesi come fiamme azzurre, la voce ridotta ad un
mormorio carico d’indignazione, incalzante. “È questo che sei, Molly Hooper?
Una donna patetica e spaventata? Una codarda? Non è a questa donna che ho
affidato la mia vita, quattro anni fa.”
Molly
batté le palpebre, infuriata. Come osava? “Cosa diavolo vuoi saperne tu, di
come sono fatta io? Sono rinchiusa qui, con te. Non posso uscire. Non posso
neanche fare il mio lavoro! Io non sono
te. Non sento come te. Non posso
semplicemente stare senza far nulla. Mi manca la mia vita, mi manca il mio
lavoro e mi manca com’erano entrambi prima che tu tornassi!”
Prima
ancora che Sherlock la lasciasse andare, Molly seppe di aver superato la linea
di confine. Non si era mai spinta così in là, oltre era terra inesplorata. Si
portò le mani alla bocca, con orrore. Ma ormai era tardi. Il danno era stato
fatto, forse irreversibile. “Non intendevo –”
“Non
sprecare tempo in inutili tentativi, Molly. Sappiamo entrambi che è esattamente quello che intendevi.”
“Ma
non nel modo in cui l’ho detto,” disse Molly a bassa voce, gli occhi improvvisamente
lucidi.
Senza
degnarla di un ulteriore sguardo, Sherlock le diede le spalle – spalle rigide,
passo impettito - e uscì. Come se non gli importasse, come se, in fondo, quello
che lei pensava non contasse poi così tanto per lui.
Ma
lei aveva visto. Non il cinismo di un cuore indifferente, ma quello del
bugiardo.
Molly
si coprì gli occhi. C’era stato calore, prima che Sherlock arrivasse. Fasullo,
alterato, ma c’era stato. Ora c’era solo il bruciore agli occhi e quel
risucchio, tra i polmoni; l’immagine, scolpita nella sua mente, dell’espressione
con cui lui l’aveva guardata. Ferita.
Tradita. L’espressione di chi vede
prender forma l’incubo di tutta una vita.
*
“E
non hai idea di dove possa essere andato? Cerca di sforzarti. Non ha accennato
a niente? Mi serve solo un indizio, Molly. Qualcosa da cui partire.”
Molly
scosse la testa, incapace di parlare.
Quattro
ore, due tazze di caffè e tre interrogatori dopo essere stata lasciata nel
seminterrato, Molly ancora non aveva idea di come si sentisse. Uno straccio, ma
questo era abbastanza prevedibile.
Greg
si allontanò da lei, si passò una mano tra i capelli, frustrato; annunciò che
sarebbe andato a ricontrollare i nascondigli. Pochi secondi dopo era già
sparito.
“Molly.”
John le si inginocchiò di fronte, le prese le mani. Le aveva gelate Molly, e stringendole,
lui corrugò la fronte. “È successo qualcosa in particolare, tra te e Sherlock?”
La
domanda che aveva temuto sin dall’inizio. Molly contrasse le labbra, fece una
smorfia. “Abbiamo avuto una specie di litigio,” ammise. “Io gli ho detto delle
cose – sono stata orribile.” Serrò gli occhi. Non voleva pensare a quello che
aveva detto.
“Cosa
gli hai detto, Molly?” Il tono di John era buono, tranquillizzante.
“Gli
ho detto…” Molly inspirò, le tremò la voce. “Gli ho praticamente detto che è
colpa sua, se sono in questa situazione.”
“Oh,
Molly.”
Molly
si voltò di scatto verso Mary, che aveva parlato. Mary la affrontò limpidamente,
non con accusa, ma con un dispiacere vivido, autentico, di chi comprende il
carico sopraffacente di un singolo, semplice sbaglio.
“Mi
dispiace. Non capisco cosa mi sia preso. So che non è colpa sua, ma ero, sono così arrabbiata che…” Non sapeva
neanche lei come completare quel pensiero.
“È
comprensibile,” affermò Mary. “Essere arrabbiati è normale, ma bisogna ricordarsi
di rivolgere quella rabbia verso la persona interessata o potrebbe portarci
alla perdita di chi ci è davvero caro.” Nel pronunciare l’ultima frase, Mary
guardò John con uno sguardo tale che Molly si sentì turbata per l’emozione che
vi lesse dentro. Non fece davvero un torto a John quando si alzò e prese il
volto di Mary tra le mani, baciandola con trasporto. C’era qualcosa di
disperato in quel gesto e di struggente, come il ritrovo di due amanti separati
troppo a lungo.
“Sinceramente
desolato di interrompere questo quadretto di intimità coniugale.” La cadenza
ironica lasciava supporre l’esatto contrario.
John
si scostò da Mary con un sospiro di rassegnazione. “Mycroft,” disse e fece una
versione infiacchita e canzonatoria del saluto militare.
Mycroft
gli rivolse un cenno impercettibile del capo. “Dottor Watson, signora Watson.”
Una pausa deliberata. “Dottor Hooper.” Curvò le labbra in un sorriso rarefatto,
sottile come carta pergamena. “Quando ho detto che Sherlock avrebbe trovato un
più che soddisfacente palliativo alla noia in lei, sono abbastanza sicuro che
non mi riferissi a questo.”
“E
io sono abbastanza sicuro di non averti invitato, Mycroft. Lo stesso sei qui.
Sai cosa significa? Che entrambi dobbiamo affrontare il disappunto di cui siamo
continua fonte l’uno per l’altro.”
“Sherlock!”
fu l’esclamazione generale, ad esclusione di Mycroft.
Sherlock
fece una smorfia. “Tanto rumore per nulla,” li criticò, ma il rimprovero era
bonario.
Molly
ricominciò a respirare. Stava bene. Non sembrava ferito. Era lucido, pallido
come un fantasma e con i capelli neri e bagnati, incollati alla fronte in scure
virgole. Aveva una mano sotto al cappotto, il gesto di un ladro che nasconde
una pistola. E gocciolava acqua. Praticamente si stava allargando una pozzanghera,
ai suoi piedi.
“Dove
diavolo sei stato?” lo aggredì John.
“In
giro,” rispose Sherlock, vago.
“Se
ti aspetti che ce lo facciamo bastare, sei un completo idiota. È appurato.”
“No.
Mi aspetto inevitabili domande di un’ovvietà imbarazzante a cui non prometto di
rispondere.”
“Sherlock.”
Il tono di Mycroft era inequivocabile.
“Risparmiati
la predica e arriva dritto al punto in cui mi minacci che ‘un
altro colpo di
testa’ di questo tipo mi rispedirà su un aereo per
l’Europa dell’est.” Il
sorriso di Sherlock era derisorio. "Ho risolto il caso del diplomatico,
se ti interessa." Aggiunse qualcos’altro; in russo, le parve.
Mycroft
non attese oltre per defilarsi.
Mary
e John non aspettarono a lungo, prima di seguirne l’esempio. John avrebbe
voluto trattenersi, per la verità, questo era stato evidente, ma Mary non gli
aveva dato scampo. Lo aveva afferrato e lo aveva trascinato via prima che lui
potesse realmente fare una delle cose di cui poi la mattina dopo si sarebbe
pentito. Tra le altre, tirare un pugno a Sherlock.
Ora
che tutti erano andati via, il salotto appariva desolatamente vuoto e
silenzioso in modo imbarazzante.
“È
un tizzone d’inferno.”
Molly
era così meravigliata che cercò i suoi occhi. Li trovò quasi subito e quasi
subito li lasciò, non riuscendo a sostenerli.
Lo
sentì sospirare. “Molly.”
“Chi?”
gli chiese, prima che potesse continuare. “Chi è un tizzone d’inferno?”
Invece
della risposta esaustiva che si era aspettata da lui, ne ebbe una completamente
differente. Molly sgranò la bocca. Perché lo avrebbe riconosciuto dovunque. Un miagolio,
quel miagolio. “Toby!”
Sherlock
glielo porse ed era quello che aveva
nascosto sotto il cappotto. Era Toby.
Molly
se lo strinse al petto, piangendo, mormorando il suo nome come in un mantra. “Credevo
che fosse morto nell’esplosione.”
“È
un gatto. Ha sette vite,” replicò Sherlock.
Molly
rise.
“Non
era nell’appartamento,” spiegò Sherlock, allungandosi a grattargli la testa,
tra le orecchie. “È bastato un sopralluogo e un giro nel vicinato per trovarlo.”
Molly
gli strinse le dita prima che lui le allontanasse. “Grazie, Sherlock e riguardo
a ciò che ho detto –”
“Non
è necessario che tu –”
“Lo
è, invece. È importante. Lo è per me.”
Sherlock
annuì, predisponendosi all’ascolto.
“Io…
la mia vita è cambiata. Irrimediabilmente forse…” iniziò Molly.
Sherlock
fece per protestare. Molly gli lanciò un’occhiata feroce. “Lasciami finire, per
cortesia, poi sarai libero di commentare. Dunque… sì, suona come una frase
fatta, ma è la verità: dalla settimana scorsa la mia vita è cambiata. Ed è
spaventoso. È come sentire che in qualche modo non mi appartiene più, non è più
mia. Perché è come ha detto Mycroft: dalla mia dipendono molte altre, più di
quante possa sopportarne. È un peso terrificante. Per questo, dirti quelle cose,
oggi, è stato crudele. Lo sarebbe stato comunque, ma in quest’ottica assume una
dimensione persino peggiore. Perché adesso lo so, so come ti sei sentito, cosa
hai provato, cosa continui a provare anche ora. Da te dipendono le nostre vite.
È stato sciocco da parte mia dimenticarlo e ancora più sciocco prendermela con
te e scaricare la mia frustrazione su di te, quando non hai nessuna colpa. Nessuna,
Sherlock. Perciò ti chiedo scusa e spero che tu potrai perdonarmi per essere
stata una perfetta sciocca, ecco.” Molly boccheggiò. Non lo aveva guardato in
faccia per timore di quello che avrebbe trovato, ma ora si azzardò a farlo e lo
vide rivolgerle l’ombra di un sorriso.
“Hai
finito?”
Molly
annuì. “Sì, ho finito e se vuoi, puoi, ehm, replicare.”
“Ti
sei comportata da sciocca, Molly,” disse Sherlock e Molly sentì qualcosa, il suo cuore?, sprofondarle ai piedi. “Poco
fa. Cosa dovrebbe significare che la tua vita non ti appartiene? La tua vita è
solo tua, Molly Hooper e solo tu puoi decidere cosa farci. Hai capito?”
Molly
mormorò qualcosa di inudibile.
“Non
credo di aver sentito, Molly. Se mostrassi la cortesia di spostare la bocca dal
pelo del tuo gatto, avrei migliori possibilità di riuscita.”
Molly
gli sorrise. “Ho detto che ho capito.”
E
davvero, aveva capito. Era il momento di rimboccarsi le maniche. Toby miagolò
il suo apprezzamento.
N/A:
Un
capitolo difficile. Non per la stesura in sé. Praticamente si è scritto da
solo. No, è l’aberrante sospetto che Molly non sia del tutto Molly, in questo
capitolo. Molly che per amarezza decide di cercarsi un angolino appartato e
bere un goccio? Oddio, più leggo solo quest’ultima frase, più mi do della
pazza. Eppure era necessario per una svolta. E diciamocelo, Molly fino ad
adesso aveva reagito egregiamente. Ci voleva un episodio così, una valvola di
sfogo. Ora lo sfogo è avvenuto e sarà tutta in salita.
Dei
prossimi capitoli vi anticipo soltanto: esperimenti, Wiggins, formicaio
artificiale.
P.S.:
dopo tutti i meravigliosi commenti che mi avete lasciato, mi sono messa di
lena, questo pomeriggio, decisa a finirlo. Nonostante i dubbi di cui accennavo
sopra, spero che tutto sommato il risultato sia di vostro gradimento.
Un
grazie speciale e commosso a voi ragazze che vi fermate a commentare, a
lasciarmi un pensiero. Le vostre recensioni mi spronano a migliorarmi, sono come
il caffè di prima mattina e poi quello di metà mattina e del dopo pranzo e di
metà pomeriggio. Insomma, si è capito, mi auguro.
Prometto di rispondervi al
più presto, intanto questo era tutto per voi ;)
|
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Capitolo 4 *** IV ***
4
“Come
vanno le cose con Molly?” chiese John.
Sherlock
gli dedicò a malapena uno sguardo. Mosse le dita in un gesto noncurante che
stava a indicare tutto e niente.
John,
ovviamente, non ne trasse alcuna soddisfazione. “Fatti animo, Katie,” sospirò.
“Pare proprio che non otterremo maggiore considerazione dal tuo lunatico
padrino.” Si curvò oltre lo schienale della poltrona che Mary occupava.
Catherine
Watson mosse i piccoli pugni nello spazio sopra di lei, come una vera
‘in-fighter’, e fece il tipico verso di un neonato quando ha fame o sonno o è scocciato.
O ognuna delle tre cose. Se non fosse già stato irrimediabilmente innamorato di
lei, John sarebbe stato conquistato e perduto nella sua rete in quel preciso
istante, quello in cui spalancò gli occhi azzurro-grigi.
Il
sorriso soffuso di Mary, pervaso di dolcezza e orgoglio, pareva esprimere e
condividere la stessa linea di pensiero. Posò un bacio di tenerezza
assoluta sulla tempia morbida e profumata di sua figlia. “Non badare a tuo
padre, tesoro. È solo la curiosità a parlare. Cerca di estorcere informazioni,
facendo leva sulla cosa deliziosa e amabile che sei.” Mary sorrise, fletté il
collo all’indietro per rivolgergli uno sguardo arguto. “Manipolatore,” lo
accusò.
Sulla
scia di quel rimprovero affettuoso, Sherlock si rianimò, batté le mani e con un
balzo fu loro accanto. Si piegò per prendere Katie e quando l’ebbe in braccio,
se la tenne stretta, la mascella contro la testolina piena di capelli biondi e
boccoluti, mormorandole chissà quale diavoleria all’orecchio.
Per
quanto quello spettacolo gli fosse divenuto ormai naturale, il modo di porsi di
Sherlock nei confronti di sua figlia continuava ad avere qualcosa di magico e
suggestivo, che mai gli sarebbe venuto a noia. Sapeva di casa e là, tra le
pareti familiari di Baker Street, assumeva un contorno ancora più domestico e
reale. Sorridendo del proprio turbamento, qualcosa che non era commozione, assolutamente no, John posò una mano sulla
spalla di Mary, che gliela strinse di rimando.
Di
fronte al camino, Sherlock prese a ondeggiare avanti e indietro, dondolandosi
sui talloni. “Non instillarle il dubbio,” disse rivolto a lui e poi, smussando
appena l’inflessione intollerante, ma lasciandovi la risolutezza, proseguì: “Il
dubbio, quando è ingiustificato e arbitrario, è male, Caterina. Vi si pone un
freno con la ragionevolezza e con la fredda logica di una mente ben organizzata.”
“Non
puoi aspettare qualche mese, prima di iniziare la tua opera di iniziazione,
Epicuro?”
“Non
è mai troppo presto per imparare, John,” lo istruì il folle, geniale uomo che
gli stava di fronte. Per un lungo istante, il suddetto folle genio lo fissò con
quei suoi occhi dannatamente penetranti – pallidi e allungati nella luce
polverosa del primo pomeriggio. “O troppo tardi,” aggiunse, a scanso di
equivoci. Se non avesse avuto sua figlia tra le braccia, John non avrebbe
esitato a lanciargli la babbuccia persiana addosso.
Da
Mary proveniva un basso suono strozzato, come di qualcuno che cerchi di non
ridere, con scarsi risultati.
John
lanciò un verso esasperato. “D’accordo. Bene.
Come volete voi. Ma bada,” si rivolse a Mary con aria solenne, “quando nostra
figlia verrà a implorarci di avere per animale domestico un serpente o un drago
di Komodo, non potrai addossare la colpa a me.”
Mary
arricciò il naso nella direzione Sherlock. “Un serpente? Davvero?”
“Era
per un esperimento,” rispose lui, infastidito. “Non era nemmeno di quelli letali.”
“Era
un dannato serpente corallo!”
Sherlock
batté le palpebre e riprese a sostenere in tono logico, sempre in quella sua
buffa danza ondeggiante: “Ricordo di aver espressamente richiesto un falso corallo. Se non si può fare affidamento
sulla garanzia di un rivenditore di animali, non so su chi potrei nel mercato
nero.”
“La
parola di un rivenditore –” John era allibito. Si volse al suono, questa volta
udibile e riconoscibilissimo, della risata di Mary.
“Oh,
andiamo!” lo prese in giro lei. “Non mi dirai che non
è divertente. Perché ti assicuro che lo è e molto.
Nero su giallo
serpente corallo, rosso su nero non è quello vero. È un ritornello piuttosto conosciuto tra gli
esploratori.”
“Si dà il caso che io non sia un esploratore,” replicò
John, piccato. “Sono un dottore.”
“E un marito incredibilmente affascinante,” aggiunse
Mary. “A cui non cambierei un solo capello.”
“Ma il discorso non è valido anche per i miei baffi.”
“Perché erano ridicoli,” intervenne Sherlock con aria coinvolta.
“Inoltre ti davano un aspetto trasandato. Ti invecchiavano. Non saresti
sembrato un padre, ma un nonno.”
John
fece saettare gli occhi da Sherlock a Mary e viceversa, quindi scosse la testa
con esagerazione. “Restituiscimi mia figlia, detrattore dei baffi altrui.”
Katie
gorgogliò tra le sue braccia, agitò la manina. Sherlock annuì, interessato e concorde.
“Ma certo.”
John
aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
“Quale
intimo apprezzatore di ogni forma d’ingegno, trovo in vostra figlia un valido
sostenitore. Tu, Caterina, hai un brillante futuro come detective davanti a te.
Mi ha appena dato un’idea che rivoluzionerà l’intero metodo scientifico,”
chiarì, come se fosse necessario.
Dio, dammi la forza. “Mary!” invocò ad alta
voce.
*
“Sherlock,
ricominciamo dal principio. Dov’è Molly?”
Sherlock
corrugò le sopracciglia, come se trovasse la questione infima e irrilevante,
poi si guardò intorno nel salotto palesemente privo della presenza di Molly
Hooper.
L’acciglio
rimase, intrappolato sul suo volto per una manciata di secondi, prima di
spianarsi nella rivelazione di un’improvvisa intuizione. “Oh,” dischiuse le
labbra, compiaciuto; smise di picchiettarsi la fronte. “È in seminterrato.”
“Nel
seminterrato,” ripeté John, sperando di aver male interpretato, ma no, l’espressione
altrettanto incredula di Mary lo rassicurarono sulle proprie
capacità uditive. “E cosa fa Molly, nel seminterrato?”
“Non
beve brandy, questo è sicuro. Gliel’ho sequestrato.” Sherlock sembrava inspiegabilmente
compiaciuto.
“Di
cosa accidenti parli?”
In
breve, lui glielo espose. John era troppo sconvolto per decidere come reagire a
quello che provava. Rabbia, per l’incapacità ottusa di Sherlock nell’assimilare
le nozioni più elementari e basilari; preoccupazione, per Molly la cui pazienza
aveva dello straordinario, ma non a quei livelli. Mai a quei livelli. I santi esistevano solo in paradiso.
“Sherlock.”
Mary lo pronunciò nel tono in cui un tenente richiami all’attenti i
soldati semplici del suo squadrone. “Hai
mai affrontato l’argomento del trasferimento di Molly con Molly?”
Sherlock
mosse le dita sul bracciolo della poltrona, come se si trattasse di una
tastiera. Sbuffò. “Certo che sì. Mycroft le ha illustrato l’intera faccenda,
fornendo motivazioni più che assennate perché si convincesse ad accettare
l’offerta di venire ad abitare qui.”
“Non
è quello, che Mary intendeva. Hai mai spiegato a Molly come ti senti riguardo
alla sua presenza qui? Le hai fatto capire che non ti è, uhm, di peso?”
Sherlock
batté le palpebre piuttosto rapidamente, un fremito nervoso che John catalogò
come sintomo d’inquietudine, oltre che di sbalordita incomprensione. Dunque
sgranò appena gli occhi, dando loro la forma di quelli di un gufo, mentre
un’opinione vi si faceva largo. Meglio
tardi che mai. “Sì,” concordò con i pensieri che Sherlock non si era ancora
dato pena di trasformare in parole. “Molto probabilmente, Molly è convinta che
tu detesti l’idea che lei viva sotto il tuo stesso tetto.”
Sherlock
si mosse a disagio sulla poltrona. “Ma è ridicolo,” sbottò.
“Lo
è per te.”
“È
una supposizione assurda.”
“Vuoi
un consiglio spassionato?” intervenne Mary. Continuò a cullare Katie. (Era
incredibile la sua capacità di provvedere a lei e allo stesso tempo portare
avanti una conversazione con la solita spigliatezza. Le sfaccettature
poliedriche di una donna alle prese con il lavoro a tempo pieno della sua vita:
John non si sarebbe mai stancato di osservarle. E amarle.) “Falle capire che la
sua presenza nell’appartamento non ti infastidisce. Perché non ti infastidisce,
giusto?”
“Perché
dovrebbe?” ribatté Sherlock con una smorfia. “Molly si lamenta molto meno di altri.”
Grazie, amico. È sempre
un piacere sentirsi apprezzati. “Fingerò che questo tuo commento mi sia passato
inosservato. Mary? Abbiamo un piano?”
Mary
gli strizzò l’occhio. “Uno fatto apposta per l’occasione.”
Sherlock
sbuffò con riprovazione.
*
Sherlock
prese ad osservare Molly Hooper. Patologa di fiducia, vecchia complice in un
caso di morte apparente, quasi-del-tutto amica, ora sua nuova coinquilina.
Non
trovò molto su cui indagare.
Sul
serio, Molly Hooper non era poi questo gran mistero né mai lo era stato. Era il
non-mistero di Molly ad intrigarlo e incuriosirlo. Molly, assolutamente normale
e perfino banale, in determinate occasioni. Molly che rispondeva agli stimoli
esterni nel modo più convenzionale possibile, confacente all’idea che chiunque
si sarebbe fatto di lei al primo sguardo: di una donna emozionale, costante nei
suoi affetti duraturi.
Molly
era schietta e nient’affatto debole o scontata nella sua lealtà. Sherlock
sapeva di poter contare su di lei, che ci sarebbe sempre stata Molly Hooper
sullo sfondo cupo e grigio di quel mondo che era pronto a fare a pezzi ogni
volta che lo scontentava – non accadeva di rado.
Molly
rompeva ogni regola.
Quindi,
sì, come detto, in quello stato di cose e dopo l’anomala circostanza avvenuta
ne “Il caso del brandy e del gatto riscattati” (Sul serio, John aveva un senso
dell’umorismo diabolico.), Sherlock si ritrovò a studiare Molly Hooper e ad
analizzarne il comportamento, in cerca di quelle piccole effrazioni nel suo modus operandi che lo avrebbero scagionato
una volta per tutte dall’accusa di essere un inguaribile cinico.
Con
suo scorno, non trovò nulla, nella condotta o nel contegno di lei, che facesse
presagire quello stato di timore e agitato affanno i cui segni John gli aveva
imputato di aver trascurato.
Nessuna
forzatura nel suo modo di agire, nel sorriso pressoché perenne sul suo
viso.
Nel
rilevare la mancanza delle discrepanze che vi aveva cercato, non poté
sfuggirgli il resto. E cioè che l’appartamento avesse preso un aspetto
decisamente più regolato e preciso, pertinente ai suoi bisogni. Che Molly,
svolazzando instancabilmente da un piano all’altro, raddrizzasse, spolverasse,
accomodasse ogni cosa, senza prendersi la libertà di riorganizzare il
precedente sistema di collocazione, solo di riesumare e rinfrescare. Che ci
fossero fiori freschi nei vasi, adesso, non di colori violenti, ma del tipo che
ci si sarebbe aspettati da lei: piccoli e intensamente profumati, impalpabili
come certi quadri astratti. Che i cuscini fossero sempre sprimacciati; che
nell’aria si sentisse profumo di dolci appena sfornati e di caffè; che nel
silenzio sonnacchioso e apatico si potesse ascoltare la risata bassa di lei che
scaturiva dalle profondità del basamento o dalla cucina dell’appartamento di
Mrs. Hudson, che sbrogliava un nodo di pensieri particolarmente ingarbugliato, o
interrompeva un filone di malumori. O della musica che proveniva dalla stanza
sopra le scale nel tardo pomeriggio.
Non
poteva mancare di constatare quanto l’insieme di quei particolari, quantunque
stravolgesse l’assetto preesistente, poco, davvero poco lo disturbasse. Praticamente
per nulla. La stessa vicinanza di Molly non lo infastidiva. E anzi, avrebbe
detto che, in qualche modo non del tutto cosciente e identificato, gli
risultasse gradita, perfino piacevole. Era del tutto soddisfacente trovare che
Molly rimproverava Toby per essersi avventurato nella sua stanza lasciata
aperta. Interessante vederla relazionarsi a Mycroft, a Mrs. Hudson e a Wiggins,
vederla avventurarsi a spalancare gli armadietti e i mobiletti, i cassetti, i
bauli e le vecchie valigie con la speranza disdicevole di trovarvi un arto
mozzato o imputridito.
Sviscerato
quel nuovo modo di percepire la presenza di Molly, a Sherlock rimaneva un
problema di natura differente.
Congiunse
i polpastrelli davanti agli occhi. Toby, acciambellato sulla poltrona di John,
gli rivolse un’occhiata vigile e accorta.
Ora,
pensò Sherlock, non restava che decidere come affrontare l’argomento con Molly.
*
Molly
non era stupida. Si era accorta che qualcosa, nell’atteggiamento di Sherlock,
fosse cambiato.
Sherlock
cercava la sua compagnia. Era assurdo, inconcepibile, ma innegabile. Un dato di
fatto.
Una
sera, in particolare, quello che era stato un vago sospetto divenne certezza assodata.
Con
una frase ambigua, un pretesto, Sherlock le aveva chiesto di trattenersi nel
salotto. Non trovava una cartella, il dossier di un vecchio caso risolto ben
prima della comparsa di John Watson nella sua vita. “Non avevo ancora un mio
biografo.” Con quel nuovo appellativo a carico di John, Sherlock aveva
sollevato gli angoli della bocca in un sorriso disarmonico. “Dovevo occuparmi
da solo della raccolta di materiale per i posteri. Un compito ingrato.”
Molly
aveva sorriso brevemente. Sherlock sapeva essere una spina nel fianco e apparire
pedante o presuntuoso o, a seconda dei casi, ambedue, ma non era un
vanaglorioso, questo no. Le sue glorie erano concrete, Molly ne aveva avuto
testimonianza settimanalmente da quando lo aveva conosciuto, quasi dieci anni
prima.
E
anche allora, Sherlock, benché meno conosciuto e assai più saccente nei modi e
nei toni, era stato un genio assoluto e per questo troppo spesso incompreso o
peggio, trascurato. Molly lo aveva amato tanto di più per quello, di un amore
disperato e incondizionato.
Molly
trovò il fascicolo in questione esattamente dove sapeva di averlo visto quella
mattina, nel secondo faldone sul margine della scrivania, quello di centro.
“Ecco qui,” gli disse, passandoglielo.
Sherlock
lo prese con un‘espressione di assoluta insoddisfazione. “Ti ringrazio.”
“C’è
qualcos’altro che posso fare per te?” domandò Molly.
Sherlock
esitò. “Sì. Ci sarebbe, in effetti. Prego,” disse, stringendola gentilmente per
il gomito e guidandola verso la poltrona di John. “Sarà meglio che tu ti
sieda.”
Ovviamente,
conoscendo Sherlock, Molly pensò al peggio.
“Non
è morto nessuno, Molly,” la rassicurò Sherlock con un sorriso rapido quanto un
battito di ciglia. “O sarebbe più giusto specificare che non sia morto nessuno
di nostra conoscenza. Non ho la presunzione di affermare qualcosa di così irragionevole.
Non quando è statisticamente provato che –”
“Sherlock.”
Sherlock
tacque.
Molly
lo fissò con curiosità. Sherlock tendeva a straparlare quando era nervoso,
quindi cosa poteva aver scatenato quel particolare stato d’animo?
Oh. Forse Molly si era
fatta un’idea al riguardo. “Mi dispiace,” buttò tutto d’un fiato.
Sherlock
la guardò con occhi illeggibili. “Di cosa, nello specifico, ti stai scusando,
Molly Hooper?”
“È
per i fiori, vero? O perché Toby è entrato nella tua stanza? O perché ho
spolverato?”
Sherlock
dischiuse le labbra, interamente sbalordito. Dopo un attimo, aggrottò la
fronte, adombrato. “Chiariamo questo punto una volta per tutte, Molly. Baker
Street è casa tua, ora. Lo sarà finché tu lo vorrai. Perciò converrai con me
che non occorre davvero che tu mi chieda il permesso per fare alcunchè. Questa è
anche casa tua, quindi –”
Molly
si strofinò le palpebre, sorridendo e piangendo insieme.
Sherlock
sembrava preso in contropiede e adorabilmente terrorizzato da quello
spettacolo. “Stai piangendo,” osservò in tono inquieto. “Ma stai anche
sorridendo. Devo dedurre che siano lacrime positive? Come quelle al matrimonio
dei Watson?”
“Decisamente
positive, sì.”
Sherlock
fece un cenno sbrigativo. “Bene,” disse, brusco. Le tese un fazzoletto. “Bene.”
Molly
ci si soffiò il naso, ridendo e piangendo più forte. “Grazie.”
Sherlock
non batté ciglio. “Di nulla, Molly.”
*
“Quindi,
Sherlock? Come vanno le cose con Molly?” John arcuò un sopracciglio
sintomaticamente.
Sherlock
si sfiorò la mandibola con i polpastrelli, si sfregò le labbra col pollice. “Perfettamente
bene, grazie.”
Se
John trovò nel fatto che lui gli avesse risposto qualcosa di miracoloso, trovò
ancora più strano, strano in modo singolare e non inquietante, il sorriso incisivo
che ne accompagnò la sentenza.
N/A:
Un
capitolo di passaggio, me ne rendo conto. Dopo quello che secondo me è stato un
assoluto passo falso nel perdere di vista ciò che è Molly, (sì, la scena del
brandy maledetto ancora non mi convince e comincio a detestare il fatto di
quasi-detestarla xD) un capitolo che lascia intuire e mostra vagamente quello
che è, diventerà appieno, lo spaccato quotidiano in Baker Street. Esperimenti e
autopsie di toraci nel cuore della notte, il ‘Doc’ di Wiggins, un gruppo di
ragazzini di un gruppo di studio, nuovo guardaroba scelto da Meena, un tè tra
ragazze, il ritorno di un folgorato Henry Knight, l’entrata in scena di una
certa Victoria Queen (“Sì, prima che lo dica, i miei genitori avevano un
pessimo senso dell’umorismo all’epoca. Lo hanno ancora, in effetti.”
“Non
è caratteristica che si perda nel tempo, mi dicono.”
“Sherlock Holmes. Non è messo tanto
meglio di me, vero?”).
Ragazze,
so di essere imperdonabile nel non avere ancora risposto alle vostre
recensioni. Mi dispiace tantissimo. Ma la mattina sto lavorando, sarà così fino
alla fine di luglio e il pomeriggio cerco di scrivere. Abbiate pazienza, che
nei week-end avrò più tempo e grazie, oltre che per il tempo che dedicate alla
lettura, per la pazienza dell’attesa. Spero sempre che ne valga la pena :)
Non
esitate a porre domande, se volete. Non potrò rispondere subito, ma farò quel
che posso per spiegare punti poco chiari o non so, qualunque cosa o dubbio vi
passi per la testa leggendo. Un abbraccio fortissimo!
|
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Capitolo 5 *** V ***
5
La vita a Baker Street scorreva pacifica e, almeno per lei, procedeva con calma.
Molly era una creatura metodica e precisa, assuefatta alle abitudini.
Il cambiamento non aveva mai avuto per lei il fascino inesplicabile
delle cose oscure finché non le si era presentato nella forma
improbabile di un uomo straordinariamente alto, con le leggendarie
tempeste del Mare del Nord a infuriare nei suoi occhi. Erano di una
stupefacente tonalità di ghiaccio, sin dalla prima volta le
avevano ricordato i fuochi fatui delle ballate scozzesi e gli specchi
d’acqua dei fiordi che aveva sempre sognato di poter visitare, un
giorno: incredibilmente profondi, irrimediabilmente belli.
Mordendosi l’interno della guancia, Molly rilesse per
l’ennesima volta parole che non afferrò e che le
sfuggirono dalla mente come fumo tra le dita.
Era una serata tranquilla. Lei e Sherlock la stavano trascorrendo
vicino al camino acceso. Era diventata loro abitudine, dopo cena,
trascorrere un paio d’ore in salotto, godendo della reciproca
compagnia, nel silenzio in cui ognuno dei due si immergeva mentre
leggeva o rifletteva.
Sherlock era di umore insolitamente gioviale. Sedeva come una linea
obliqua di seta blu sulla sua poltrona, in pigiama e a piedi scalzi
– le dita, pallide come carta di riso sul tappeto, che si
arricciavano verso la pianta del piede e poi si riaprivano, stirandosi.
Dopo il caso del diplomatico ne aveva risolti altri due, l’ultimo
in poco meno di mezza giornata. Mycroft era stato di parola:
c’era sempre, in attesa per lui, un mistero sulla sua scrivania.
Benché fosse innegabilmente più facile avere a che fare
con uno Sherlock del tutto appagato dalla risoluzione brillante di un
caso appena portato a termine, piuttosto che con uno Sherlock tetro e
uggioso che deplorava la penuria di delitti con cupi lamenti degni di
una banshee. Ebbene, non poteva evitare di provare una certa
invidia nei suoi confronti. Non aveva più la facoltà di
scegliersi i casi, ma perlomeno aveva dei casi, qualcosa che
gli occupasse la mente, qualcosa che mettesse in moto il cervello,
azionasse i neuroni e le sinapsi, bruciasse la noia.
Per quanto tentasse di riempirsi le giornate, fin dove i limiti imposti
dai protocolli di sicurezza le imponevano, le sue notti erano
intensamente quiete e in quella quiete le era difficile non farsi
afferrare alle spalle dalle ombre dei suoi desideri inconsci - non così tanto, in effetti.
Molly lisciò con le dita le pagine del libro che aveva sfogliato per tutta la sera, senza sprofondarsi nella lettura.
Un tempo le sarebbe bastato, probabilmente. Stare a stretto contatto
con lui, per quanto obbligata dagli eventi e da forze di causa
maggiore; vedere chi Sherlock diventasse, nell’intimità di
quella sua tana-rifugio bohemien, libero dal conformismo del mondo
esterno che aveva cercato tutta una vita di ingabbiarlo
nei suoi costrutti. E se già in passato Molly si era fatta
accarezzare dalla visione casalinga di Sherlock, fantasie dolci,
innocenti e, malgrado questo, lo stesso spietate nella loro potenza di
immagini infattibili, la verità tangibile della realtà
era mille volte meglio. Quest’uomo meraviglioso e impossibile, che leggeva le persone, ma non le aveva mai capite fino in fondo.
Chiuse il libro, posandolo sul tavolino da caffè; si strinse le
braccia in vita, contro la stoffa morbida del maglione di lana che
indossava.
Sherlock aveva la testa riversa contro lo schienale della poltrona.
“Sei annoiata, Molly,” lui ne prese atto passivamente.
Molly avrebbe potuto negare, non ne vide l’utilità. Era
giovedì. Di solito, a quell’ora – “Adesso
comincerebbe il mio turno.”
Sherlock assentì. “Vorresti che ti raccontassi un vecchio caso?”
Lei scosse la testa. Non quella sera, non l’avrebbe distratta.
Avrebbe soltanto acuito il senso di mancanza e nostalgia, ma non poteva
dirglielo. Conoscendolo come lo conosceva, sapeva che lui se ne sarebbe
fatto inevitabilmente una colpa.
Una pausa. Sherlock cercò il suo sguardo. “Ti andrebbe di fare un esperimento?”
Molly provò l’impellente bisogno di sorridere. “Credevo che non me lo avresti mai chiesto.”
Aveva cercato di dimenticare come si sentisse standogli vicina, come
l’aria sembrasse sfrigolare di prestanza, vitalità e
vigore, energia allo stato brado.
Aveva cercato di dimenticare come fosse: sentirsi sfiorati da
quell’energia, la sua forza a due facce, quella natura delle cose
in cui Lucrezio e dopo di lui, Bacone e tanti altri avevano
riconosciuto due parti fondamentali, una che distruggeva e una che
costruiva.
*
“Dubito che Mike Stamford si rifiuterebbe di fornirti dei pezzi freschi.”
Molly storse il naso al sottotesto quasi-per-niente implicito.
“D’altronde,” proseguì Sherlock, perfettamente
a suo agio, “conosce gli estremi della tua situazione. Se glielo
chiedi, dilungandoti a descrivere la tua infelicità, avremo
quello che ci occorre nel giro di un’ora, un’ora e mezza al
massimo. Sempre che tu voglia, s’intende.” Annuì,
come se si fosse ricordato in quel momento della possibile falla nel
suo progetto: che Molly non accettasse. Le sorrise con fare
accattivante. Suvvia, Molly, cosa hai da perdere? Un’altra serata accanto al fuoco?
Dannazione alla sua logica di ferro. “Chiamo Mike.” Molly
si affrettò verso il cellulare che aveva lasciato sulla mensola,
di fianco a Billy Il Teschio.
Sherlock ghignò. Mancava solo che si sfregasse le mani. “E io Wiggins.”
Molly gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Hai ragione di credere che in tua assenza l’ospedale abbia
provveduto a risolvere la deplorevole assenza di corrieri?”
Molly tacque.
Sherlock annuì. “Esattamente.”
*
Wiggins
arrivò con un contenitore isotermico e uno scatolone che
poggiò sul tavolo della cucina, che loro, nell’attesa,
avevano sgombrato e attrezzato. “Sei molto apprezzata, Doc. Il
tuo supervisore ti ha dato i pezzi migliori, tra quelli di
scarto.”
“Che orripilante scelta di parole, mio caro,” intervenne
Mrs. Hudson, che lo aveva seguito. (Mrs. Hudson le aveva confidato che
fosse ancora diffidente nei riguardi di ‘Quel tale. Wiggins’.
Temeva che potesse rubarle l’argenteria. Lei l’aveva
rassicurata, dicendole che Wiggings fosse di fiducia e aveva aggiunto
qualcosa che non ricordava precisamente, ma che era evidente che non
fosse stato un granché efficace.)
“Pezzi di scarto,” ripeté Mrs. Hudson, offesa.
“Non è carne da macello. Sono esseri umani.”
Così dicendo, indirizzò un’occhiata perplessa al
container sigillato. “O quello che ne rimane.”
“Mrs. Hudson ha ragione,” convenne Sherlock. Si stava
rimboccando le maniche e aveva una luce febbrile ed esaltata negli
occhi. “Questa non è carne di scarto. Al contrario,
è materiale di prim’ordine per la scienza.”
Molly si avvicinò allo scatolone; sollevò il coperchio e
il respiro le rimase intrappolato in gola in una bolla timbrata.
“Oh.”
La sua esclamazione soffocata attirò l’attenzione di
Sherlock e degli altri, che le si misero attorno, studiandone a loro
volta il contenuto.
Sherlock, in particolare, allungò il collo pericolosamente.
Si trattava di biglietti che le auguravano di ‘guarire
presto’ e ‘torna presto, Mols’, ‘l'obitorio
è silenzioso come una tomba da quando non c'è nessuno che
canti gli Of Monsters and men'.
Nonostante la storia di copertura, le notizie dovevano essere trapelate
e così tutti al Barts erano al corrente di cosa l’avesse
spinta a prendersi dei mesi di malattia.
“Oh, Molly, tesoro.” Mrs. Hudson le passò un braccio dietro le spalle e le strinse il gomito, comprensiva.
“Te l’avevo detto che ti ammirano, Doc.” Wiggins le
strizzò l’occhio. “La donna all’accettazione
ha cambiato completamente faccia quando le ho detto che era stato lui a
mandarmi,” indicò Sherlock che masticò un
‘per l’amor del cielo’. “Il Dottor Stamford ha
detto che da quando non ci sei tu, l’obitorio è nel caos.
A quanto pare, avevi tutti i turni peggiori e c’è stata
una lotta per ridistribuirli. La donna, Rita, mi pare che si chiami,
deve aver fatto un giro di telefonate interne perché
all’uscita c’era una piccola folla di infermiere e di tuoi
studenti e anche un paio di colleghi. Volevano che ti dessi questo.
C’era anche un chirurgo che mi ha pregato di riferirti che il suo
invito per un caffè è sempre valido.”
Molly sorrise, imbarazzata. Percepiva con estrema chiarezza lo sguardo
di Sherlock puntato sul collo. Richiuse lo scatolone e lo posò
per terra, quindi si raddrizzò con un cipiglio deciso,
muovendosi verso il contenitore isotermico per aprirlo.
Si accorse che era talmente eccitata che le tremavano le mani. Nessuno ebbe l’insensibilità di farglielo notare.
All’interno, ottimamente conservato e in perfette condizioni,
meraviglioso come una scultura del Canova, c’era il torace di un
uomo.
Mrs. Hudson esalò un ‘Buon Dio’. Wiggins
allungò il collo con interesse. Quanto a Sherlock, lui, per
qualche assurdo motivo, sembrava più propenso a studiare le sue
reazioni, anziché il contenuto nel container.
“Deve appartenere a una delle vittime dell’incidente
stradale su Gray’s Inn Road, dove confluisce Verulam
Street,” la informò Wiggins, da sopra la sua spalla.
“Notizia vecchia,” ribatté Sherlock, al di sopra dell’altra.
Molly avrebbe davvero voluto che si spostassero.
“Perché mandarle i resti di un povero uomo? Sperano che tu
risolvi il mistero dell’incidente?” Mrs. Hudson sussurrava
e qualcosa, nel suo atteggiamento, ricordò a Molly quello che
solitamente veniva adottato durante le veglie funebri.
“Non che lo risolva io, Mrs. Hudson,” rispose Sherlock.
Ricevette in risposta un’occhiata vacua, a cui reagì con
un sospiro inquieto. Serrò le mani sui gomiti, le braccia
irrigidite dietro la schiena, quindi, con fare illuminante,
illustrò: “Se Mike Stamford lo ha mandato è
perché è ha agito con l’evidente mira che sia Molly
a farlo. Nessuna sorpresa. A differenza dei suoi colleghi, non è
un idiota. Sa che Molly è l’unica patologa perfettamente
capace alle sue dipendenze.”
Mrs. Hudson parve soddisfatta della spiegazione ricevuta. Molly un
po’ meno. Non le era mai piaciuto il modo in cui Sherlock si
rivolgesse ai suoi colleghi o ne parlasse, ma, ora che ci pensava, lui
aveva sempre approfittato del demerito degli altri per lodare lei.
“Quando avevo la tua età, Molly cara,” iniziò Mrs. Hudson con aria sognante.
“Il che è accaduto molto tempo fa,” borbottò Sherlock, roteando gli occhi.
Molly si morse l’interno delle guance per non ridere, ma non era stata l’unica.
“Ti ho sentito, Sherlock Holmes,” lo riprese Mrs. Hudson,
agitandogli contro il fazzoletto. Sherlock non parve doverosamente
impressionato. “Ai miei tempi, gli spasimanti inviavano ancora mazzi di fiori, non -”
“Parti anatomiche destinate a necroscopie,” le venne in soccorso Wiggings.
“Be’,” fece Molly e scrollò le spalle con
disinvoltura, “Mike non è il mio spasimante, ma se
può essere di qualche consolazione, anche questo
appassirà nel giro di un paio di giorni.”
Tre paia di occhi si concentrarono su di lei: Mrs. Hudson con evidente
orrore; Wiggins con ammirazione; Sherlock nascondendo poco e male un
sorriso divertito. La guardò in un modo che le trasformò
le ginocchia in gelatina.
Come spesso accadeva, avendo a che fare con Sherlock, Molly si diede
della sciocca e si schiarì la voce. “Vorrei
procedere,” annunciò con sicurezza.
“Giusto,” concordò Sherlock; batté le mani. “Bene, Mrs. Hudson, fuori.”
Molly scosse la testa e corrugò leggermente le sopracciglia, credendosi non vista.
“Se lei avesse la cortesia di scendere dabbasso,”
riprovò Sherlock che, invece, non aveva smesso di osservarla. Il
tono era chiaramente ironico, ma pur sempre un punto di partenza.
“Io e Molly potremmo ispezionare la salubrità delle carni.
Wiggins, tu ritieniti libero di –”
“Per la verità,” lo interruppe Wiggins, “mi
piacerebbe assistere. Non ho mai visto Doc in azione.”
Dalla faccia di Sherlock si evinceva chiaramente che, se fosse dipeso da lui, quel piacere sarebbe rimasto inascoltato.
Molly gli sorrise. “Puoi rimanere. Solo,” arricciò
le labbra, cercando con cura le parole, “se senti di non farcela,
avverti, ok?” L’ultima cosa che voleva era di trascorrere
il resto della serata a ripulire il pavimento dal vomito di chiunque.
Wiggins ricambiò il sorriso, come se sapesse perfettamente cosa
aveva pensato. “Sul serio, Doc, non hai idea delle cose che ho
visto. Anche prima che iniziassi a lavorare per Mr. Holmes che, detto
tra noi, di cose strane me ne ha fatte fare, eh. Per esempio quella
volta che mi ha mandato nel punto in cui è stato interrato il
Knight’s Bridge per –”
“Basta così,” ingiunse Sherlock. La minaccia e
l’avvertimento balenavano sul suo volto, chiare come il sole.
“Wiggins, se intendi restare,” un sospiro di tolleranza, il
braccio ad indicare un cantuccio della cucina, “starai lì
nell’angolo, possibilmente in silenzio.”
“Per la verità,” disse Wiggins, con lo stesso
intercalare usato poco prima, “mi piacerebbe fare da
assistente.”
Ora la condiscendenza di Sherlock era definitivamente evaporata. Lo
guardò con un sopracciglio inarcato e gli occhi avvelenati.
“Assolutamente no”, “Certo che sì” dissero contemporaneamente Sherlock e Molly.
Si voltarono l’uno verso l’altra, nella reciproca incredulità per le risposte date.
“Certo che può farmi da assistente”, “È fuori discussione che ti faccia da assistente”.
Con le mani sui fianchi, Molly si armò di pazienza.
“Sherlock, perché mai Wiggins non dovrebbe farmi da
assistente?”
“Evito di farti notare il rischio a cui la sua totale
inesperienza potrebbe sottoporre entrambi e che è un azzardo.
Dubito che tu non abbia lavorato con maggiori inetti al Barts. Senza
offesa per te, Wiggins, avresti più speranze di assorbire
nozioni e saresti a conti fatti molto meno inetto dei suddetti. Il
punto, Molly, è che era mia ferma intenzione assisterti io
stesso.”
Oh. Molly lanciò
un’occhiata a Wiggins che non sembrava meno sconvolto di lei
dalla proposta di Sherlock. Wiggins si riprese con maggiore
rapidità e alle spalle di Sherlock le fece cenno di rispondere,
perché, chissà perché, Molly era ancora in silenzio, stordita e impietrita. ‘Avanti, Doc’, vide che Wiggins le mimava.
Sherlock aspettava, stranamente silenzioso.
Molly inspirò, quindi gli rivolse un minuscolo sorriso. “Mi farebbe molto piacere.”
“Il piacere è mio,” ribatté Sherlock.
*
Andata
Mrs. Hudson, Molly si diede da fare. Ripescò da uno dei cassetti
dei grembiuli con stampate sopra le mappe della metropolitana di
Londra; li fece indossare sia a Wiggins che a Sherlock, non accettando
discussioni. “Mio il regalo, miei i metodi per scartarlo.”
Sherlock aprì la bocca, per confutare il fatto che,
tecnicamente, la cucina fosse di sua proprietà e che quindi ci
fossero altre regole – regole sue - da seguire.
“Credevo che Baker Street fosse anche casa mia,” fece presente Molly.
Questo tappò una volta per tutte la bocca a Sherlock.
Ritemprata e con una sottile frenesia a scorrerle nelle vene, Molly
osservò lo spazio in cui avrebbe lavorato ed espose:
“Avrò bisogno di pinze, forbici, coltelli affilati, un
costotomo, una sega, sacchetti in polietilene, siringhe, tamponi e
qualcuno dei contenitori per alimenti di Mrs. Hudson.”
Wiggins annuì, attento, come se stesse prendendo nota di tutto
nel suo cervello. Quando lei concluse il suo elenco, si dispose alla
ricerca degli utensili.
“E Sherlock,” Molly corrugò la fronte, concentrata,
“ci servirà della formaldeide. Puoi occupartene tu? Non
dimenticare di indossare gli occhiali protettivi dal momento che-”
“È uno dei più diffusi inquinanti di interni e, a
concentrazioni nell'aria superiori a 0,1 ppm, può irritare per
inalazione le mucose e gli occhi. Difficile dimenticarsene,
Molly.” Sherlock alzò gli occhi al cielo, quindi,
distrattamente, le sfiorò la testa in una carezza indulgente.
*
Prima c’era stata la verifica dell’identità del cadavere. John Doe, 57 anni, uomo, caucasico. Altezza indicata da Sherlock: un metro e settantasette. Peso di 82,4 kg.
Poi c’era stata la valutazione del rigor mortis e un completo
esame esterno (stato di nutrizione e idratazione, con forzati salti di
punti tra i quali lo studio delle mucose, della lingua, degli orifizi
naturali, degli occhi, degli arti e delle articolazioni) seguito da
prelievi del sangue.
Molly incise la cute, ‘Si parte dalla sinfisi del mento e,
seguendo la linea mediana, si arriva fino all’osso pubico,
Wiggins.’ Provvide a dissecare la cute dal tessuto sottocutaneo
di torace e addome.
“In pratica lo stai scuoiando?” domandò Wiggins.
Molly mormorò un ‘uhm’ in risposta, impegnata a cercare emorragie o itteri o anche edemi da stasi.
“Sherlock, mi passeresti il forcipe dentato?”
Poco dopo gli chiese il costotomo. Recise le cartilagini e tolse la
piastra sternale. Ogni volta che estraeva un organo, Molly lo passava a
Sherlock che provvedeva a pesarlo e a prelevare campioni microscopici.
Arrivata al cuore, Molly ne stimò il volume, la forma e il tessuto, quindi lo aprì.
A questo punto, Sherlock le si accostò. “Lo hai già notato, Molly?”
“Un aneurisma dell’aorta discendente con stiramento del
nervo laringeo. Piuttosto difficile che passi inosservato, non
trovi?” Molly non allontanò gli occhi dal cuore che stava
incidendo.
“Segni di riconoscimento?”
Nonostante suonasse come un’interrogazione, Molly non
riuscì a impedirsi di rispondere meccanicamente:
“Deviazione tracheale. Inoltre, quando la dilatazione interessa
la giunzione senotubolare come in questo caso, è presente
insufficienza valvolare aortica che provoca soffio da rigurgito
aortico, ampia pressione differenziale e soffio paravertebrale
sinistro. Vedi? Si riconosce la lacerazione. Sindrome da rottura in
pericardio e morte per tamponamento.” Molly gliela indicò.
“Immagino che possiamo richiudere.”
*
“Ottimo, Molly.”
Molly scambiò un sorriso brillante con Sherlock. Adesso si
rendeva conto di non essere stata completamente se stessa, di non
essersi sentita del tutto a suo a agio da due settimane a quella parte.
“Sul serio,” intervenne Wiggins. “Sei stata brillante.”
Molly si sfilò i guanti di lattice e li buttò nella spazzatura. “È il mio lavoro.”
“Ma non tutti amano quello che fanno. Tu sì, ecco perché ti manca tanto.”
Già.
Molly si costrinse ad assentire. Parte del buonumore era già
sfumato. Si scusò e disse che sarebbe andata a farsi una doccia.
*
Quando tornò, Wiggins era scomparso, le luci della cucina erano spente.
“Sono scesa a darti la buonanotte.”
Lui non sollevò il viso. Teneva le dita incrociate davanti alla
bocca e lo sguardo perso nel fuoco. Molly si voltò
per tornare in camera sua.
“Non così in fretta, Molly.”
“Credevo che stessi riflettendo." Si avvicinò alla sua poltrona. "Non volevo disturbarti.”
Sherlock rimase in silenzio. “Ti ho mai dato quest’impressione?” s’informò dopo una pausa tesa.
A che pro mentire?
“Non… a parole,” rispose Molly, stringendo le mani,
“ma dovresti sapere che certi gesti sono più eloquenti di
intere frasi.”
Sherlock annuì, come se lei avesse detto qualcosa di
perfettamente sensato.“Ho sempre creduto che la verità
fosse un atto gentile.”
Gentile come rovinare le sue relazioni prima che diventassero troppo intime? “Mi permetto di dissentire.”
Si aspettava uno svolazzo elegante della mano ad accompagnare un cenno
regale e una replica irriverente sulla falsariga di un ‘Ti
è permesso’. Non si aspettava che lui la inchiodasse sul
posto con quel suo sguardo da gatto mortifero, né che con voce
poco meno che suadente, allusiva dicesse: “Puoi permetterti molto
altro.”
Molly ebbe un tuffo al cuore. “Questo cosa vuol dire?”
“Esattamente quello che ho detto. O se preferisci, leggi tra le
righe.” Le scoccò un sorriso adorabilmente diabolico del
suo repertorio, uno che le provocava il desiderio contrastante di
prenderlo a schiaffi o baciarlo. No.
No, questa sorta di pensieri andava evitata. Non poteva permettersi di
aggravare una situazione che lo era fin troppo. “Sherlock
–”
“Trascorri del tempo con Wiggins. Perché?”
“È un caro ragazzo.”
“Un caro ragazzo,” la scimmiottò lui. “Sembra di sentire Mrs. Hudson.”
Un’intuizione inverosimile la attraversò. “Non sarai geloso?”
“Geloso? Di Wiggings?” Sherlock fece una risata falsa.
“Mi sta aiutando a sistemare il seminterrato. Te ne avevo parlato, ricordi?”
Sherlock rispose con un grugnito.
“Inoltre è fidanzato. Felicemente.”
“I fidanzamenti duraturi sono come la Teoria del Caos.”
Molly stava per chiedergli cosa intendesse.
“Ci sono altre soluzioni,” dichiarò lui.
Di cosa parlava?
“Se Baker Street
non ti è gradita, Mycroft può trovarti una nuova
sistemazione. Altrove.” Ogni parola sembrava avere un costo
preciso, doloroso.
“Mi stai cacciando?”
Sherlock contrasse la bocca. “È evidente per chiunque
abbia un paio d’occhi che non sei felice. Sei annoiata e per
riempire il tempo ti sei messa a fare lavori di
ristrutturazione.” Dal modo in cui lo diceva sembrava che fosse
inconcepibile l’evenienza che lei si divertisse.
“Non puoi cacciarmi da casa mia.”
Sherlock sbuffò. “Non essere assurda, Molly.”
“Non essere assurdo tu, Sherlock Holmes. Ricordi quello che hai
detto a Meena? Che mi conosci meglio di chiunque altro?”
“Non sempre,” ammise Sherlock. “A volte riesco a
leggerti dentro con la stessa facilità di cui dai prova tu nel
leggere gli stati d’animo altrui. Ma altre volte c’è
come un muro.” Trasse un sospiro vibrante, si passò le
mani sul viso. “Le emozioni sono un ostacolo. Non sono mai
riuscito a scomporle, anche basandomi sul linguaggio del corpo.”
Di tutto il discorso, una cosa, per il momento, aveva maggiore
importanza per Molly. “Tu non vuoi che me ne vada,” disse e
provò un’ondata di sollievo talmente intensa da tremare.
Sherlock aggrottò le sopracciglia e scacciò le sue parole
come se fossero moscerini invisibili. “Perché dovrei
desiderarlo? Mycroft ha ragione. Nel mio isolamento la compagnia di
qualcuno, specie di una persona come te, non può che essere una
panacea alla solitudine.”
“Una persona come me?”
Lo sguardo di Sherlock era come era stato nel seminterrato: metallo
fuso. “Tu, Molly Hooper, rappresenti tutto ciò che io non
potrò mai essere.”
“Dio, spero proprio di sì.”
Sherlock la guardò come se fosse pazza. Forse lo era, pensò lei.
“Quello che intendo…” Molly produsse un sorriso, sicura di esserlo, in parte. Pazza. Doveva esserlo davvero.
“Ci sono tante Molly Hooper là fuori, ma solo uno Sherlock
Holmes. Perciò mi sento molto fortunata, davvero molto, molto
fortunata, ad averti nella mia vita, Sherlock. E non vorrei essere in
un posto diverso, anche se avessi a disposizione tutti i cadaveri del
mondo.”
“Molly…”
Molly scosse la testa, serenamente. “Tu sei la mia famiglia.”
Sherlock ebbe un fremito, come se lo avesse colpito.
“Tu, Mrs. Hudson, Greg, John e Mary, Meena, Wiggins,” continuò Molly. “I miei amici sono la mia famiglia. Pensi davvero che vi lascerei?”
Lui non rispose, girando la testa dall’altro lato. Fissava il
fuoco e le fiamme creavano sul suo viso strane immagini: languide
figure danzanti, fatte di chiaroscuri, si rincorrevano sul suo naso da
ficcanaso e facile bugiardo, sui suoi zigomi pronunciati, sulle guance
non più scavate.
Sembrava che la sua faccia si fosse allungata in quegli anni, con la
fronte che era più alta che mai, facile preda delle rughe di
pensiero e con la mandibola pronunciata, pronta a serrarsi per quel
ricorrente tentativo di mascherare (o non) un sentimento di fastidio.
Molly non si sarebbe mai stancata di osservarlo.
“Provo dei sentimenti, Molly.” Lo disse con un disarmante
tono di biasimo. “Per tutti voi. Sentimenti che mi rendono
debole. Umano.”
“Tu sei un essere umano.”
“Non perché io lo voglia.”
Un’altra bugia.
Molly non lo smascherò. Gli rimase accanto mentre Sherlock
prendeva il violino e suonava quei sentimenti che rinnegava. Gli rimase
accanto e come avrebbe potuto essere diversamente? Lui era davvero la
sua famiglia. Per lui era – era stata – disposta a fare qualunque cosa. Questa era una scelta che aveva preso tanto, tanto tempo prima.
N/A:
Un
po’ più lungo del solito. Un po’ meno soddisfacente,
temo. Rimetterei mano a tantissimi passaggi, alcuni davvero
emblematici.
Del prossimo capitolo vi anticipo
che Sherlock andrà via per un paio di giorni per un caso e poi
ancora un paio di capitoli di quiete prima che entri in scena Moriarty.
Non so tuttora come né cosa farà, ma qualcosa mi
farò venire in mente.
Scrivere dell’autopsia dal
punto di vista di Molly: fredda, analitica, autorevole ha richiesto non
poche letture e ricerche. Il bello di internet è che scovi
l’impensabile. Ho trovato delle dispense e degli appunti
universitari che ho scaricato perché si sono rivelate una
lettura affascinante.
Per dirla con le parole di Libero
Bovio, “Com’è facile scrivere difficile e
com’è difficile scrivere facile!” E Dio, aggiungo
io: quanto è dannatamente vero!
|
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Capitolo 6 *** VI ***
6
“Sul
serio non lo avevi mai fatto?”
Nonostante il tono incredulo, Molly non stentava a crederci. Sherlock Holmes
non aveva mai mangiato marshmallow intorno a un fuoco, prima di quel momento. Il
fuoco in questione era la bocca del camino e i loro bastoncini di legno erano rispettivamente
uno Spiedo da guerra e una Corsesca. (“Armi inastate,” era stata la pronta digressione
di Sherlock. “Adatte per il combattimento ravvicinato.”
Molly
aveva preso un marshmallow dalla ciotola e glielo aveva porto, sul palmo aperto
della mano. “Esistevano già ai tempi dei Faraoni e delle Piramidi. Solo nel
1850, in Francia, hanno iniziato a farli con gelatina di grano.”
Questo,
in qualche modo, lo aveva convinto ad assaggiarne uno.)
“Be’,”
disse Molly, “c’è una prima volta per ogni cosa.” Staccò il suo marshmallow
abbrustolito in punta di dita, scottandosi e soffiandoci sopra prima di
addentarlo. “Immagino che tu non sia neanche andato in campeggio.”
Sherlock
ritenne superfluo risponderle, ma non ritenne altrettanto superfluo lanciarle
un’occhiata sconcertata, di profonda indignazione. Hai idea con chi tu stia parlando, Molly Hooper?
“Aiutami
con questo, per piacere.” Molly gli passò il proprio Spiedo. “Ora che l’interno
è soffice, metto un pezzo di cioccolata, lo prendo con due biscotti ed ecco a
te un Some more. Vuoi assaggiarlo?”
L’espressione
famelica di Sherlock la diceva lunga. Rimaneva inverosimile come un uomo dalle
abitudini alimentari sregolate quali erano le sue, - c’era stato un periodo, in
passato, in cui aveva creduto che lui soffrisse di una forma di anoressia
nervosa - si lasciasse convincere a mangiare qualcosa solo per il suo alto e
deleterio contenuto di zuccheri.
Sherlock
aveva le mani impegnate e così Molly glielo avvicinò alla bocca in modo che
potesse dare un morso. Non si stupì quando vide che ne aveva mangiato quasi più
della metà. “Allora? Di tuo gusto?”
Sherlock
si leccò le labbra, prima di rispondere. “È questo il genere di cose che
insegnano nell’Associazione Mondiale Guide ed Esploratrici?”
Molly,
che stava infilzando un altro marshmallow, alzò gli occhi su di lui. Era seduta
a gambe incrociate sul tappeto, con Toby acciambellato ai suoi piedi; Sherlock
invece occupava la poltrona di John, le gambe accavallate e uno dei suoi
completi d’alta sartoria. Stava per chiedergli come facesse a saperlo, quando
si morse la lingua. Perché era Sherlock,
dannazione. Riportò la propria attenzione sullo Spiedo. “Ovvio che tu lo
sappia o che lo abbia dedotto,” mormorò, rivolta più a se stessa che a lui.
Sembrava
che per Sherlock fosse una specie di gioco. “Direi che gli articoli 2, 3, 5, 6
e 8 della Legge della Guida ti rispecchino particolarmente.”
Molly
levò in alto lo Spiedo come l’asta di un’immaginaria bandiera. “Estote Parati!”
recitò e scoppiò a ridere.
Il
sorriso di Sherlock si fece ampio e asimmetrico, così luminoso che Molly chinò
la testa di scatto, si chiese con una trafittura in petto come avrebbe fatto a
non sentirne la mancanza.
*
Era
ancora notte, oltre le tende socchiuse, a levante il blu di Prussia impallidiva
nella sfumatura della carta da zucchero. (Conosceva a menadito ogni gradazione
di blu e di verde, ma in quel momento si rifiutava di ricordare per quale ragione
fosse diventata così ferrata sull’argomento.)
Molly
era in piedi, di fronte alla porta aperta del 221B. Sherlock le era di fronte.
Gli tese il Belstaff e la sciarpa e lui li indossò con la consueta, spavalda
eleganza.
John
aspettava, rispettosamente a distanza, per concedere loro una specie di
intimità.
Molly nutriva il sospetto che John, da quando si era trasferita a
Baker Street, avesse frainteso il tipo di rapporto che intercorreva tra lei e
Sherlock. L’idea
che altri potessero formulare lo stesso genere di pensiero la metteva a disagio.
“Ci
vorranno due giorni, tre se le autorità del luogo dovessero rivelarsi
più incompetenti del previsto,” disse Sherlock.
Molly
sentì distintamente il sospiro di John dal pianerottolo. Sorrise, fu più forte
di lei.
Quando
tornò a posarsi su di lei, c’era, nello sguardo di Sherlock, dell’indecisione.
Molly
non ne capì il motivo.
L’ombra
sulla fronte di lui passò e dileguò, come un effetto ottico, in un battito di
ciglia, troppo veloce per darle importanza.
Sherlock si mosse per andarsene, ma Molly, più veloce, si alzò
sulle punte e gli posò un bacio sulla guancia, come aveva desiderato fare sin dalla
prima notte che aveva trascorso a Baker Street. “Buona caccia alle ombre,
Sherlock,” gli sussurrò all’orecchio con un sorriso inesplicabile.
Sherlock
non le chiese cosa avesse inteso dire. Era troppo intelligente, di
un’intelligenza acuta e versatile, per farlo. Inoltre la conosceva bene. Le
stranezze di Molly Hooper. Sì, aveva imparato a conoscere fin troppo bene anche
quelle.
D’altronde
erano quelle stranezze che le permettevano di amarlo quanto lo amava, in quel
modo assoluto, privo di limitazioni o vincoli di genere.
Ed
era nelle stranezze di entrambi che si appianavano le loro differenze.
*
Il
Sergente Sally Donovan aveva sempre pensato che nel suo essere dannatamente indisponente,
Sherlock Holmes fosse sul versante opposto un uomo irrimediabilmente fortunato.
Nel fiore all’occhiello delle sue conoscenze, vantava uomini e donne intelligenti
– forse troppo miti, ma come poteva essere altrimenti, dato il soggetto?
Questo
andava a suo vantaggio, rivelandosi, nell’opinione personale di Sally,
l’ennesima disgraziata contingenza a sfavore di tutti loro.
Sally
si recò a Baker Street per una serie di sfortunati eventi. Avrebbe dovuto
consegnare al Fenomeno un plico di casi irrisolti.
Non
si era aspettata di non trovarlo, come non si era aspettata che ad aprirle
fosse un uomo allampanato. Deformazione professionale o semplice pregiudizio, era
innegabile che con quegli occhi infossati, la pelle tirata e la carnagione
malata, qualcosa nel volto di affamato e volpino, quel tale, di chiunque si
trattasse, avesse l’aspetto tipico del tossicomane. Nessuna sorpresa che
frequentasse Baker Street.
L’uomo
la squadrò dalla punta delle scarpe alla radice dei capelli, in un’analisi
scrupolosa e fastidiosamente familiare.
“Chi
è alla porta, Wiggins?”
Una
voce femminile giunse dal minuscolo corridoio sulla destra, quindi fece
capolino il viso pallido di Molly Hooper. Da curiosa che era stata, la sua
espressione si fece raggiante. “Sergente Donovan!”
Sally
le riservò un cenno. “Dottor Hooper,” la salutò, asciutta.
“Mi chiami Molly,” si schernì lei con un sorriso cordiale.
Sally
fu costretta a riconoscere una volta di più che il Fenomeno fosse maledettamente
fortunato. “Solo se tu fai lo stesso.”
“D’accordo,
Sally.” L’ennesimo sorriso piacevole. “Prego, entra pure, non stare così sulla
porta.” Molly le fece strada nell’ingresso. “Posso offrirti qualcosa? Un tè
magari? Mrs. Hudson è uscita per la partita settimanale di whist e io e Wiggins
stavamo giusto per prenderne una tazza, non è vero?”
L’uomo
di fianco a lei, Wiggins a quanto pare,
annuì e mise le mani nelle tasche dei pantaloni, seguitando a guardarla da
sotto in su come se fosse un raro animale esotico.
“Come
se avessi accettato,” rispose Sally, mostrandole il plico. “Sono passata solo a
lasciare questi al Fenomeno.”
“Sherlock
è impegnato in un caso nell’Herefordshire.”
Sally
inarcò le sopracciglia. “Ma davvero.”
“A Boscombe Valley. È un distretto non
molto lontano da Ross-on-Wye."
“E ti ha lasciata qui
da sola?”
Molly scosse la
testa, rimproverandola con gentilezza. “Ci sono Mrs. Hudson e Wiggins. Stiamo
sistemando il seminterrato e -”
Dio buono. “Prendi il
cappotto.”
“Come?” Sembrava
sinceramente stupita.
“Ho detto di prendere
il cappotto, Molly. Oggi sei sotto la mia supervisione.”
*
Aveva quasi dovuto
colpire il factotum del Fenomeno perché, quando Molly era salita a prendere il
soprabito, Wiggins aveva avuto la faccia tosta di muoverle mille rimostranze.
“Mr. Holmes non sarà contento,” aveva concluso con una faccia lunga e cupa.
Sally aveva quasi sorriso perché se l’intento era
stato quello di convincerla a non portare Molly a fare un giro, lui si era
appena giocato la partita.
Per una manciata di
secondi, una parte di lei aveva accarezzato il pensiero di scusarsi e inventare
un pretesto plausibile. Un’emergenza in Trafalgar Square. Un efferato omicidio. Burocrazia in arretrato. Ma
poi Molly Hooper si era precipitata giù per le scale, di corsa, come una
bambina la mattina di Natale. Non si era neanche cambiata, indossava gli stessi
jeans sporchi di vernice e lo stesso largo maglione. Non ci voleva la
perspicacia di Sherlock Holmes per dedurre che si fosse sbrigata il più
velocemente possibile per timore che lei cambiasse idea. Si sentì un mostro per
aver pensato di rimangiarsi l’invito.
Come riusciva a sopravvivere, il Fenomeno?
La prospettiva di
avere qualcosa in comune con Sherlock era repellente.
Molly aveva un
sorriso così grande che sembrava riuscire a stare per miracolo nello spazio
ristretto di quel suo viso minuto. “Andiamo?” chiese e le si affiancò, speranzosa.
Sally annuì,
oltrepassò Wiggins, salutandolo con la mano. “La riporto in un paio d’ore.”
*
“Da quanto non
uscivi?”
“Ventidue giorni.”
Molly si aggiustò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non che li abbia
contati,” si affrettò ad aggiungere con una punta di colpevolezza.
“Io lo avrei fatto.”
Sally bevve un sorso del suo Hazelnut Macchiato. “Specie stando in quella casa.
Allora? Com’è vivere a stretto contatto con uno psicopatico?”
“Più o meno come
avere a che fare con persone sgarbate.”
“Touché.”
Molly giocherellò con
la cannuccia del suo Frappuccino alla fragola. “Abitare a Baker Street è
magnifico, sul serio. È come avevo sempre immaginato che fosse.”
Sally non le chiese
cosa, di preciso, l’avesse spinta ad immaginarsi una vita a Baker Street. La
favola della patologa del Barts disperatamente innamorata di Sherlock Holmes le
era tristemente nota. “Ma?”
Molly si strinse
nelle spalle. “Sono abituata alla solitudine. Ho perso la mia famiglia quando
avevo ventidue anni e le mie relazioni sono tutte naufragate prima di diventare
qualcosa di serio. Tranne l’ultima che –” S’interruppe e si massaggiò le
tempie. “Devo sembrarti patetica per lamentarmi così quando ci conosciamo
appena. Mi dispiace, non so perché te ne stia parlando.”
Sally la osservò. Era
tutto tranne che lamentosa o patetica. Sapeva di avere un carattere poco incline
alla pazienza, ma questo le permetteva di accordare il giusto valore a persone
come Molly Hooper quando aveva l’opportunità di incontrarne. “Perché sono
un’estranea,” rispose, “e sfogarti con qualcuno che ti è caro renderebbe tutto reale.
Sembri il tipo che tende ad interiorizzare le situazioni.
Scandalosamente indipendente,” concluse, usando un’espressione che era stata
tra le preferite di sua nonna. Incrociò lo sguardo sorpreso e avvilito di
Molly.
“È così evidente?”
“Mio padre era uno
psicologo e così mia sorella. Qualcuno direbbe che ce l’ho nel sangue.”
Si scambiarono un
sorriso.
Molly ricominciò a
guardarsi intorno. Sembrava che bevesse il caos suburbano, che se ne
ricaricasse.
“Da quanto manca?”
“Cinque giorni.”
Molly irrigidì appena le spalle. “Aveva detto che sarebbe tornato in tre al
massimo.”
Nello stesso momento,
il cellulare di Sally vibrò per l’arrivo di un messaggio. Quando lo aprì,
imprecò tra sé. Si parla del diavolo.
“Dobbiamo andare,” annunciò, seccata. “A quanto pare qualcuno ha avvertito la
preside. Dice che la pausa merenda è finita e che ci rivuole subito in classe.”
Molly scoppiò a
ridere.
Maledettamente fortunato.
*
John supponeva di poter
essere irritante, alle volte, se messo sotto pressione. In altre circostanze il
pensiero lo avrebbe fatto sentire in colpa; in quelle presenti, invece, gli
trasmetteva uno strano senso di rallegramento. “Quando pensi di chiamare
Molly?”
Sherlock continuò ad
esaminare il volto della vittima con la sua lente d’ingrandimento. “Perché
dovrei?”
“Per avvisarla.
Questo genere di cose si usa, sai, tra - in una, uhm…”
Sherlock si raddrizzò,
riponendo la lente nel taschino e rivolgendogli un’occhiata tediata. “Di’
chiaramente quello che vuoi dire oppure fai un favore alle mie orecchie e taci,
John. Nel caso ti fosse passato inosservato, il che sarebbe inconcepibile anche
per i tuoi standard, sto cercando di analizzare una scena del crimine.”
John gliel’aveva data
vinta, scegliendo di procrastinare il discorso.
Fino a quel momento.
“Non posso credere
che Wiggins l’abbia lasciata andare.” Sherlock procedeva a grandi passi irritati
sulla stradina che fiancheggiava la sponda del laghetto di Boscombe.
John dovette affrettarsi
per stargli dietro. “Perché mai Wiggins non avrebbe dovuto? Sherlock!”
Lui lo osservò da
sopra la spalla, senza diminuire la velocità della sua andatura. “John.”
“L’hai di nuovo messo
a sorvegliare Molly?”
“Wiggins non ha mai
smesso, per chi mi prendi?”
Avrebbe dovuto
stupirsi? John, scosse la testa. “Ecco perché,” disse sovrappensiero.
“Smettila di
mugugnare ed esprimiti come un essere senziente dotato di proprietà di
linguaggio.”
“Ho detto: ecco
perché.”
Sherlock si fermò all’improvviso
per fronteggiarlo apertamente. “D’accordo, John, giochiamo a questo stupido gioco.
Ecco perché, cosa, esattamente?”
“Wiggins è un uomo.”
“Oh, non saprei,”
replicò Sherlock ironico. “Potrebbe anche essere un ermafrodito. Non ho avuto
modo di controllare personalmente. Non sono solito fermarmi alle apparenze
sociali e non tendo ad appoggiare le antiche credenze secondo cui il cervello
di un uomo è più reattivo o capace di quello di una donna. Scientificamente è
stato provato il contrario.”
“Wiggins è un uomo,”
riprovò John, con tono più fermo. “E Molly è una donna.”
“Fino a prova
contraria, sì. Ebbene, John, hai terminato questa fiera delle banalità? È stato
uno spettacolo abbastanza imbarazzante senza che si proceda oltre.”
“E a te sta bene?
Lasciarli soli?”
“Mi sta perfettamente
bene, perché non dovrebbe?”
“Ti prego,” supplicò
John. “Non costringermi a farti il discorso delle api e del fiore.”
Sherlock sbuffò e
ripartì in quarta. “Non essere ridicolo.”
“Cosa ci sarebbe di
strano?” John gli fu subito alle calcagna. “Non credi anche tu che Molly sia
molto carina?”
“Carina!” Sherlock
storse il naso, come se trovasse la parola ripugnante. “Molly Hooper non è carina. Ed ecco svelato il mistero delle
tue relazioni fallimentari. Se questo è il massimo a cui riesci ad aspirare nel
patetico tentativo di rivolgerle un complimento, non c’è da sorprendersi che tu
sia stato così prolifico in materia di delusioni sentimentali.”
“Sherlock, Molly sta
attraversando un periodo delicato della sua vita, è emotivamente instabile e ha
bisogno di tutto il supporto che le occorre.” Questa osservazione, fatta con
tutta la pacatezza a cui si era costretto a far ricorso, sembrò sortire qualche
effetto, scavarsi a forza un varco nella corazza di negligente imperturbabilità
di lui. John lo vide adombrarsi, assumere un’espressione contrita e
amareggiata.
“Un chilo e mezzo.”
“Come?”
“Un chilo e mezzo,”
ripeté Sherlock, torvamente. “Quando frequentava Moriarty, Molly aveva messo su
un chilo e mezzo. Da quando abita a Baker Street, ha perso trecento grammi.”
“Non starai
seriamente scegliendo come termine di paragone uno psicopatico che le ha
mentito, fingendo di essere una persona che non esisteva e che, tra le altre
cose, è lo stesso uomo che ti ha costretto a inscenare il tuo suicidio e che le
ha piazzato una bomba nell’appartamento?”
“Questo non ti dice
niente?”
“Mi dice che sei un
fottuto idiota!”
*
“Sei tornato!”
John strabuzzò gli
occhi allo spettacolo di Molly che gettava le braccia al collo di Sherlock e fu
più che felice di averlo preceduto nell’appartamento, altrimenti non avrebbe
potuto osservare la faccia assolutamente annichilita di lui a quell’atto così
entusiasta ed espansivo. Una vera tortura
essere abbracciati da una donna graziosa, vero amico?
Molly non parve dare
eccessiva importanza all’irrigidimento di Sherlock. Sciolse l’abbraccio con
naturalezza e con naturalezza gli sorrise. “Volete una tazza di tè? Sarete
stanchi morti.”
John andò ad
accomodarsi sulla sua poltrona, divertendosi a quantificare il tempo che sarebbe
occorso a Sherlock per sciogliersi dallo stato incantato che lo aveva colto. A
giudicare dalla sua espressione accuratamente vuota, ancora molto.
Sherlock si riscosse
quando sentì che Molly stava tornando. Prima che lei ricomparisse, si era già
installato sulla sua poltrona nera come un re sul suo trono di spade.
“John, gradisci dei
biscotti, vicino al tè?” domandò Molly, posando il vassoio sul tavolino da
caffè.
“Ti ringrazio, Molly,
ma non posso trattenermi a lungo.”
“Mary è perfettamente
in grado di provvedere a se stessa,” s’interpose Sherlock, rivolgendogli uno
sguardo d’intesa, come se volesse mandargli un messaggio preciso.
Ma si dava il
caso che John non fosse un telepate e che Sherlock non fosse quel che si definiva
una facile lettura, perciò diede ascolto al diavoletto sulla sua spalla. “Vuoi
qualcosa, Sherlock?”
“Certo che no. Cosa
mai potrei volere da te?” Dopo pochi secondi, Sherlock ammiccò.
“Hai qualcosa
nell’occhio?” domandò John con affettata innocenza, nascondendo un ghigno
dietro la tazza. Okay, forse stava
esagerando, ma lui si prestava troppo comodamente alle sue distrazioni.
Con il sorriso di chi
è ignaro di determinate dinamiche, Molly gli diede manforte. “Scommetto che non
vedi l’ora di riabbracciare Mary e Katie.”
A Sherlock andò di
traverso il tè che stava bevendo. Quando Molly si voltò verso di lui
preoccupata, si schiarì la gola. Tenne il piattino con due dita e mosse l’altra
mano come se fosse un fronzolo di dubbia utilità. “Riabbracciare, sì,” disse in
tono neutro. “Dovrebbe proprio andare, vero?”
Molly non sembrava
del tutto convinta.
John non poteva darle
torto, non avendo lui stesso la minima idea di quello che stava succedendo. Per
come si comportava e per quelle sue reazioni eccentriche, cioè più eccentriche
del normale, sembrava quasi che Sherlock stesse facendo di tutto per
trattenerlo. John si sfiorò la mandibola, mentre un sorriso di puro
divertimento si collocava sul proprio viso. Guardò affascinato il
sipario aprirsi sul dramma di Sherlock Holmes, alle prese con i problemi di un cuore
che sentiva.
“John?” lo richiamò
Molly.
John si accorse di
essere rimasto a fissare Sherlock troppo a lungo e di aver perso un pezzo della
conversazione.
Molly scrutava
entrambi, accigliata.
*
“John si comportava
piuttosto stranamente, non trovi?”
“Non ho notato
sostanziali cambiamenti,” rispose Sherlock, addentando un biscotto.
Molly fu tentata di
alzare gli occhi al cielo. Sorrise con dolcezza.
Sherlock fece una
smorfia d’incomprensione. “Perché stai sorridendo?” domandò, suscettibile.
Molly abbassò gli occhi sulle proprie mani intrecciate, li rialzò dopo un istante. “Mi sei
mancato.”
Lui reagì con il
silenzio. L’unico rumore era lo scoppiettio dei ciocchi di legno quando si
spezzavano.
“È stato un caso
interessante?”
Dopo un’incalcolabile quantità di tempo, Sherlock
incrociò il suo sguardo. “Boscombe
Valley è un distretto non distante da Ross, nell'Herefordshire,” iniziò a
raccontare. “Il più grande proprietario terriero della zona è un certo John
Turner, che ha fatto fortuna in Australia ed è ritornato in patria qualche anno
fa*.”
“Cosa intendeva Molly?” aveva chiesto John. “Buona caccia
alle ombre, ha detto. È una specie di codice?”
Erano alla stazione di Paddington, in procinto di salire sul
treno che li avrebbe portati nell’Inghilterra occidentale. John aveva pensato che nel
frastuono dei treni Sherlock non lo avesse sentito.
“Cos’è un’ombra, John?”
“In senso metaforico?” John aveva corrugato la fronte. “L’ombra
è la figura proiettata da un corpo su una superficie, giusto?”
“Può anche essere intesa come il corpo stesso quando se ne
vede solo il contorno indistinto.” Sherlock fece una smorfia. “Sempre detto che
i giochi di parole non fanno per lei. Non è la sua area di competenza.”
John avrebbe voluto fargli notare che lui fosse ugualmente riuscito
a darne la corretta interpretazione. Si tenne quella considerazione per sé.
N/A:
Gli articoli della Legge Scout sono dieci:
- La Guida considera suo onore il meritare fiducia
- La Guida è leale
- La Guida è sempre pronta a servire il prossimo
- La Guida è amica di tutti e sorella di ogni altra guida
- La Guida è cortese
- La Guida vede l'opera di Dio nella natura, ama le piante e gli animali
- La Guida obbedisce prontamente e non fa mai le cose a metà
- La Guida sorride e canta nelle difficoltà
- La Guida è laboriosa ed economa e ha cura delle proprietà altrui
- La Guida è pura di pensieri, parole, azioni
Ora ditemi se non sembrano scritti su
misura per Molly :D
*Tratto da "Il mistero di Boscombe Valley" di A. C. Doyle
Estote Parati: è la traduzione latina
del motto
degli scout
e delle guide
("... siate pronti, in spirito e corpo, per compiere il vostro
dovere").
Il caso che Sherlock e John sono andati
a risolvere viene raccontato ne “Il mistero di Boscombe Valley” di Arthur Conan
Doyle.
Un capitolo
molto dialogico, per ripagarvi tutte della santa pazienza dimostrata nei
precedenti in cui praticamente non succedeva molto. Ora si agisce, si passa ai
fatti, finalmente ;)
Un
bacione!
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Capitolo 7 *** VII ***
7
L’archetipo
della giornata ideale di Molly iniziava alle otto del mattino, non prima.
La
sveglia suonava e lei, sbadigliando, indossava la vestaglia, prendeva Toby
sottobraccio e ciabattava al piano inferiore, sicura di godersi un’ora di
assoluta quiete prima che Sherlock mettesse naso fuori dalla sua camera da
letto. Sempre che lì avesse trascorso la notte.
Alle
volte lo trovava semplicemente sprofondato in poltrona, immobile statua
vivente; altre ancora era steso sul divano, una delle sue vestaglie – di solito
l’azzurra – a fargli da coperta di Linus contro l’ingiusta e deprecabile noia
che il mondo gli buttava addosso.
In
ambedue i casi, Molly preparava il caffè, dava da mangiare a Toby e sgombrava
il tavolo che fungeva anche da scrivania, nel salotto. Lo apparecchiava e si
perdeva a riflettere in sciocche frivolezze, a leggere il giornale – ce n’erano
sempre in abbondanza e per tutti i gusti: dal modaiolo Vogue all’imprenditoriale Independent,
dal classico Times al liberale Guardian, dal sensazionalista Sun al formato lenzuolo del Daily Telegraph. C’era di che
sbizzarrirsi.
Tutti
i giornali venivano in seguito setacciati scrupolosamente da Sherlock. Frasi
per lei insignificanti venivano cerchiate a matita; pagine strappate finivano
ammassate in castelli fatiscenti e costruzioni pericolanti, per poi sparire
chissà dove, al sicuro dalle grinfie di Mrs. Hudson che li riteneva un
ammassamento di carta straccia.
Solitamente
Sherlock faceva la sua trionfale comparsa alla seconda tazza di caffè che Molly
si concedeva. Avvolto nella vestaglia bordeaux se di orientamento nostalgico o
per fare colpo; in quella cammello se la propensione era impegnata; nella
sopracitata azzurra nei momenti di particolare abbattimento; vestito di tutto
punto se in attesa di una visita formale o con un’uscita in programma.
Ormai
bastava un’occhiata per intuirne l’umore e l’inclinazione del giorno. E organizzarsi di conseguenza.
Nei
giorni dispari Molly dedicava il resto della mattinata alla stesura di un
articolo a cui stava lavorando. Si era decisa a rimettere mano a vecchi appunti
di pubblicazioni mai andate a buon fine perché lasciate in sospeso; a
pianificare il progetto di ricerca che aveva rinviato per anni e che era determinata
a presentare a Mike Stamford nel suo rientro dal periodo di forzata malattia e
chissà, magari cercare di ottenere un finanziamento.
Nei
giorni pari si dedicava alle pulizie e ai lavori di ri-arredamento del 221C.
Lei e Wiggins avevano staccato la vecchia moquette.
Stavano aspettando che lo stucco si asciugasse, prima di ridipingere i punti di
parete vuota e mettere la nuova. (“Ma chi pagherà, cara?” aveva
chiesto Mrs. Hudson, osservando ansiosamente le loro manovre.
Molly
l’aveva rassicurata con un sorriso. “Queste saranno le spese d’affitto che non
mi viene permesso di condividere.”)
Le
sere erano a discrezione sua e di Sherlock e non erano mai pianificate con
largo anticipo; andavano a loro discernimento e secondo l’estro e la tendenza
del momento.
Le
domeniche richiedevano un discorso a parte.
Le
domeniche, la sveglia di Molly era impostata alle dieci e lei si permetteva di impigrirsi
un’altra mezz’ora prima di alzarsi e scendere dabbasso.
La
domenica, Mrs. Hudson pranzava con loro e solitamente dopo pranzo li raggiungevano
John, Mary e Katie.
Molly
abitava a Baker Street da meno di un mese, ma aveva imparato ad essere
preparata all’inaspettato e in virtù di questo, precisi contesti non riuscivano
più ad esercitare su di lei l’impatto che avevano avuto all’inizio.
La
presenza di Mycroft Holmes, ad esempio.
Entrando
nel salotto, lo trovò di fronte alla finestra, in uno dei punti prediletti da
Sherlock. L’ombrello era poggiato di traverso sulla poltrona di Sherlock – un
gesto appositamente provocatorio, nessun dubbio in merito. Teneva una mano in
tasca e con l’altra manteneva il giornale piegato in due parti, il Sunday Telegraph, intanto che ne
scorreva speditamente i titoli.
C’era
una scommessa in corso, tra lei e Wiggins. Una disputa sul fatto che Mycroft
avesse o meno un orologio da taschino.
“Le
ho appena fatto vincere 10 sterline, Dottor Hooper. Mi aspetto un’equivalente
dimostrazione di gratitudine da parte sua.”
Molly
mise giù Toby che scattò verso la cucina.
“Buongiorno, Mr. Holmes.”
Mycroft
le concesse un brevissimo cenno del capo e un sorriso di pura cortesia.
“Buongiorno a lei.”
Avrebbe
voluto chiedergli qual buon vento lo avesse portato a Baker Street, ma era
ovvio perfino a lei: Sherlock era il pensiero primario, sempre e comunque.
“Non
si scomodi per il tè. Il mio è un cameo e sì, è con lei che desidero
discutere.”
Non buono.
Mycroft
curvò le labbra, dandole la percezione inverosimile, ma non improbabile, che
avesse captato il nervoso defluire dei suoi pensieri.
Nessuno
dei due accennò a sedersi. Rimasero in piedi, a distanziarli soltanto la
scrivania con il pacco di giornali che
ogni mattina Mrs. Hudson ritirava per loro, al di sopra del quale c’era,
visibile e lasciato a bella posta, un fascicolo con il suo nome.
Dal
momento che doveva essere stato messo lì con l’apposito scopo che lei lo
vedesse, Molly lo sfogliò. Dentro c’era la sua intera vita, correlata di
vecchie foto e di altre molto più recenti; ultima, ma non per importanza, una che
ritraeva lei e Sally mentre entravano in uno Starbucks.
Interpretò
lo sguardo grave di Mycroft come un: ‘Effrazioni di questo genere non saranno
più tollerate’.
Molly
avrebbe voluto sapere perché lui prendesse tanto a cuore la sua sicurezza.
Glielo chiese.
Mycroft
fece una smorfia, posò il giornale sul basso tavolino. Si muoveva con la
magniloquenza dei grandi oratori. “Malgrado i nostri sforzi in merito, noi
Holmes abbiamo un cuore. Se dovessi perdere Sherlock, il mio ne sarebbe
spezzato, ma se dovesse capitare qualcosa a lei, sarebbe Sherlock a pagarne le
conseguenze. Avete risvegliato un cuore pericoloso, lei e il Dottor Watson.
Sherlock ha per sua stessa ammissione una natura impulsiva e ostinata.”
Molly
sentiva il respiro dolorosamente incastrato nei polmoni. Le ricordò una delle
reazioni allergiche di quando era piccola o quelle di cui ancora soffriva in
primavera.
“Avresti
dovuto svegliarmi, Molly,” interloquì Sherlock, comparendo alle sue spalle. Aveva per armatura la vestaglia
da combattimento. Le sfiorò la schiena in una carezza gentile, calmante.
A
Mycroft, com’era ovvio supporre, il gesto non sfuggì. “Di già così intimi,
Sherlock?”
Sherlock
non appariva in vena delle solite schermaglie.
“Ho
un caso per te.”
“No,”
replicò Sherlock, non accennando a rimuovere la mano dalla spalla di Molly.
“No?”
“Appartengo
al Governo e il Governo ha le chiavi del mio destino.”
Mycroft
sospirò con enfasi. “Sei sempre stato il più incline alla poesia e al dramma.”
“Scegli
i miei casi, ma resta a me l’ultima parola. Inoltre sono appena tornato
dall’Herefordshire. Non intendo lasciare Molly da sola.”
“Ma
–” Molly trovava assurdo che rinunciasse a un caso per colpa sua.
Sherlock
le strinse la spalla con maggiore forza. Non
dire una parola. “Non insistere, fratello caro.”
“Siamo
particolarmente sentimentali questa mattina.”
“Non
fingere di esserne sorpreso. Non ti si addice.”
“Dottor
Hooper, un ultimo suggerimento. Questi ingenti ordini che lei sta
commissionando –”
Molly
aveva messo in cantiere con largo anticipo che sarebbe successo qualcosa di
simile. “Mi dispiace, ma non posso evitarli, no,” lo prevenne. Non poteva
continuare a derubare Sherlock dei suoi capi d’abbigliamento.
Mycroft
pareva del suo stesso avviso. “Capisco.”
*
Durante
la colazione, Molly provò a respingere la sciocca sensazione che Sherlock fosse
in qualche modo diverso nei suoi riguardi; in una maniera sottile, ma
tangibile, di cui le era impossibile non prendere atto. Quando, di preciso, era
diventato così tattile?
Quando
le passò il burro, anticipando la sua richiesta, mancò poco che lo facesse
cadere.
“Tutto
bene, Molly?” Sherlock inarcò un sopracciglio, dietro la tazza di caffellatte.
“Sì.
No. No,” si decise a rispondere, alla fine. “Non va bene.”
Sherlock
mise giù il giornale. “Qual è il punto?”
“Il
punto è che poco fa hai mentito a Mycroft. Perché vuoi rimanere a Londra?”
“Trovi
illogico che la tua compagnia mi sia diventata indispensabile?” Sherlock esibì
un sorriso lusinghiero.
“Sherlock.”
Molly sospirò.
“Ho
una pista.” Aveva smesso l’espressione fasulla per una composta; gli occhi
azzurri brillavano di esultanza. “Una collana di diamanti scomparsa. Si tratta
di un patrimonio nazionale trafugato da ignoti.”
Molly
corrugò le sopracciglia. “Non ho letto niente in proposito, sul giornale. Com’è
possibile che tu sia informato?”
“Andiamo,
Molly, puoi far meglio di così,” la spronò Sherlock.
“La
tua rete di senzatetto o Wiggins,” tentò lei.
“Gli
Irregolari di Baker Street. Buona trovata, ma no, questa volta la soluzione è
molto più semplice.” Si allungò per prendere il laptop dal mobile contro il
muro; lo aprì e lo voltò verso di lei. “Leggi, Molly e dimmi cosa ne pensi.”
Molly
fece come le aveva chiesto. Si trattava di un e-mail inviata da un certo Mr
Holder che gli esponeva la spiacevole faccenda e gli chiedeva di accettare il
caso.
“Puoi
immaginare la mia reazione,” disse Sherlock e si riprese il laptop.
Molly
poteva davvero. Si imburrò un toast e ci passò sopra della marmellata ai
mirtilli. Sherlock si protese in avanti per prenderne un morso.
Molly
che era ormai abituata al fatto che lui le sottraesse il cibo da sotto il naso,
gli porse quel che rimaneva e si apprestò a prepararne un altro per sé. “La
gente continua a spedirti e-mail. Sai cosa vuol dire?”
“Che
riconoscono, anche se non comprendono, la qualità del servizio che svolgo.”
Molly
sorrise, scuotendo la testa. “Forse vogliono dimostrarti che anche con il
ritorno di Moriarty continuano a credere in te.”
Il
profilo di Sherlock scomparve dietro l’ennesimo giornale-paravento, ma Molly
era sicura di aver colto un sorriso di autocompiacimento.
“Hai
impegni per la giornata?” s’informò.
“Oltre
ad evitare che Mycroft scopra il mio bluff e rischi di rovinare tutto,
ficcandoci il naso? Direi di no. Tu?”
Molly
sorrise. “Un tè tra ragazze.”
Sherlock
schioccò la lingua. “Che ridicolo spreco di tempo e di spazio. Non sarà uno di
quegli sciocchi tea party?”
“Non
sarai ancora arrabbiato perché hanno bocciato la tua proposta di cena con
delitto?”
Sherlock
sbuffò. “Be’, Molly, buon ‘qualunque cosa sia’ ciò a cui dedicherete il vostro
pomeriggio. Il mio sarà di certo ben speso.”
*
Molly
era sicura che sarebbe stato divertente, ma non fino a quel punto. John era al
piano di sopra a ‘tener compagnia a Sherlock’, in attesa dell’arrivo del
cliente che non avrebbero dovuto avere.
Quando
il campanello suonò, qualcuno scese ad aprire al visitatore e tre minuti dopo comparve
proprio John che passò Katie a Mary con un sospiro. “Lestrade è arrivato. Ora
non-interrogheremo un sospettato che dovrebbe essere in stato di fermo alla
Centrale di polizia.”
“Giusto
cielo,” aveva detto Mrs. Hudson, nello stesso momento in cui Meena esclamava:
“Non capisco proprio di cosa ti lamenti, Molly. Ad avercela io una vita così
interessante!”
Così
era cominciato il più bizzarro appuntamento per il tè di tutta la storia.
Si
trovavano nell’appartamento di Mrs. Hudson, che si era detta più che lieta di
aprire le porte di casa ad un convivio di ragazze.
Il
suo era un salottino d’aspetto confortevole, con poltrone fiorate, un comodo
divano e un tavolino abbastanza grande da contenere il servizio per il tè e un
paio di alzatine per biscotti. La carta da parati era dello stesso tipo
ricercato presente nel resto del palazzetto, solo a tinte delicate e tenui,
con motivi naturalistici. L’aspetto più sconcertante era l’enorme televisore
PDP che occupava la parete opposta.
“Un
tè tra ragazze. Non è emozionante?”
Molly
e Mary sorrisero, dietro il bordo delle loro tazze. Meena, invece, sottopose
Mrs. Hudson a un attento esame scrutinatore. “Lei mi ricorda mia nonna,”
stabilì e inzuppò un pasticcino nel tè.
“Oh,
mia cara,” fece Mrs. Hudson con tatto. “È
morta da molto?”
“Non
che io sappia,” fu l’allegra, scandalosa risposta. “L’ultima volta che l’ho
vista, su Skype, era impegnata in un safari in Africa. Mia madre dice che è
tutta colpa sua se sono come sono, che nel ramo femminile della mia famiglia
c’è una vena di follia che salta una generazione. Sarà come dice lei, forse. Io
preferisco chiamarlo col suo nome: anticonformismo.”
Ad
un certo punto, parlando del più e del meno, l’attenzione generale si era
spostata da Katie e da quanto orgogliosi dovessero sentirsi i suoi genitori,
all’enorme borsone che Meena aveva piazzato contro il muro di fianco al divano, non appena era arrivata.
Meena
sembrò disorientata, come se per un attimo non ricordasse cosa conteneva,
quindi annuì. “È per te, Molly. Dentro c’è tutto quello che occorre ad una
ragazza per vivere.”
Mrs.
Hudson lo squadrò con sospetto e una specie di timore reverenziale. “Non
conterrà una testa?”
“Avrei
voluto infilarcela, ma lo spazio non bastava e sarebbe stato antigienico,
perciò…” Meena scrollò le spalle.
Guardarono
‘Cantando sotto la pioggia’, spettegolarono e alla fine Molly era così felice
che fu un dispiacere vederle andar via.
“Potremmo
farlo diventare un incontro settimanale,” propose Mary.
Mrs.
Hudson e Meena si dissero d’accordo, ma Molly
era indecisa.
“Cosa
c’è, Molly cara? Ti preoccupa cosa potrebbe dire Sherlock?” chiese Mrs. Hudson.
Molly
scosse la testa. Mycroft era stato chiaro e lei non intendeva creare un
precedente in qualcosa di così innocente come quella,
anche se a cadenza periodica. “E Katie? Non è stancante
per te?”
“Destreggiarmi
tra tre bambini non è un problema,” sorrise Mary.
Molly
si era lasciata convincere.
*
“Com’è
andato il tuo pomeriggio?” domandò Molly, finendo di masticare il suo boccone
di Pad Thai.
Seduto
sul divano, Sherlock non batté ciglio. “Proficuo.”
“Anche
il mio è stato soddisfacente, grazie per avermelo chiesto.”
Sherlock
roteò gli occhi e borbottò un ‘Sul serio, Molly’. Dopo un minuto le puntò le
bacchette con cui stava giocherellando, indicando vagamente il suo petto. “La
tua amica ha un pessimo senso dell’umorismo.”
Molly
guardò la maglietta che indossava con un filo di imbarazzo: due mani – una delle
quali con un vistoso anello di diamanti – con i pollici alzati che indicavano
la scritta ai lati ‘THIS GIRL LOVE HER FIANCÈ’. “Devo
concordare.”
“Uno
dei punti di comunanza?”
Molly
era stata tentata di lanciargli contro un cuscino, ma poi Sherlock aveva riso,
riso davvero, così il resto era passato in secondo piano.
Più
tardi, poco prima di andare a dormire, Sherlock le si era
avvicinato per l’ennesima consuetudine tra loro. Perché erano un bacio sulla
guancia, l’augurio di una ‘Buonanotte’ a concludere la giornata tipo di Molly
Hooper a Baker Street.
N/A:
Una giornata tipo di Molly era d’obbligo e ora l’ho
scritta, così che anche voi – oltre alla mia testolina bacata tutta da commiserare –
sappiate cosa combina Molly e come cerca di occupare il suo tempo :D
Un abbraccio!
|
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Capitolo 8 *** VIII ***
8
Al
pari di Sherlock, anche Molly sapeva osservare il mondo, intravedere le persone nascoste dentro le
persone.
Sherlock
era un uomo eccentrico, decisamente irritante, fastidioso e talvolta scortese.
Poteva essere una spina nel fianco quando voleva. Come quella notte.
Rientrò
dall’escursione serale con un’aura di insofferenza così preponderante che lei
pensò che mancasse solo una nuvoletta nera per completare il quadro d’insieme.
Non
si arrischiò a domandargli come fosse andata, anche perché lui provvide subito
a renderla partecipe con un verso collerico.
“Un
buco nell’acqua!”
Sherlock
buttò all’aria l’impermeabile del suo travestimento, mentre staccava con
rabbia le applicazioni in lattice dal viso; dopodiché scomparve in bagno.
“Bel
naso,” commentò Molly, trattenendo una risata e chiudendo il libro che stava
leggendo.
Dalla
porta chiusa, Sherlock urlò: “Ti ho sentito, Molly Hooper!”
Molly
scosse la testa e sorrise, mentre si chinava a raccogliere dal pavimento
l’impermeabile che lui aveva utilizzato per camuffarsi.
*
Quando Sherlock si ripresentò, la rabbia era
ancora evidente nei tratti del volto e sfociava in un preannunciato stato di
cattivo umore (Controindicato. Tenere
fuori dalla portata dei bambini e di persone facilmente suggestionabili).
Si buttò in orizzontale sul divano e incrociò le braccia sul petto, in tutto
simile a una mummia. “Vuoi sapere com’è andata, Molly?”
Molly annuì, sedendosi nella poltroncina più vicina. Non
aspettava altro, in effetti.
Sherlock
mise un braccio di traverso sugli occhi e fece una smorfia di contrarietà. “L’uomo
che mi ha contattato, Mr. Holder, è un banchiere. Una settimana fa ha ricevuto
in custodia la nostra collana di diamanti. Temendo furti nella cassaforte
dell’ufficio, ha pensato bene di portarla a casa per sorvegliarla di persona.
In realtà progettava di rivenderla al mercato nero e di addossare la colpa al
suo segretario. Durante la notte ha scoperto il figlio, Arthur, che a suo dire frequenta
un giro poco raccomandabile, mentre maneggiava la collana; da bravo e onesto
cittadino qual è, lo ha denunciato alla polizia e lo ha fatto arrestare, ma non
c’era traccia di tre gemme. Non credevo alla colpevolezza del ragazzo e Lestrade
era della mia stessa opinione. Che fine avevano fatto le gemme scomparse? Se
davvero le aveva prese lui, perché non
fuggire? Così Gustav -”
“Greg,”
lo corresse Molly.
“Come?”
Sherlock aggrottò le sopracciglia e scostò il braccio quel tanto che bastava
per indirizzarle un’occhiata.
Molly lo
invitò a procedere col suo racconto e lui non se lo fece ripetere una seconda
volta.
“Lestrade
mi ha accompagnato ad esaminare le tracce fuori dalla casa. Dopo aver
interrogato il ragazzo, ho avuto quello che mi serviva. I miei sospetti si sono
rivolti su un suo amico, mi sono finto un trafficante di gioielli e ho riacquistato
per 3 mila sterline i gioielli trafugati. Per entrare in casa, aveva sedotto la
cugina di Arthur, Mary, che Holder ha adottato come una figlia sei anni fa,
dopo che i genitori e il fratello minore di lei sono morti in un incidente
stradale. L’amico del ragazzo ha convinto Mary a sottrarre la collana e a consegnargliela.
Arthur, che se n’era accorto, ha tentato di fermarlo, riconoscendolo, ma l’amico
è fuggito, strappando tre gemme. Per non mettere nei guai la cugina Mary, complice
del furto, della quale lui sembra affascinato e succube, lo sciocco ragazzo ha
preferito finire in galera piuttosto che raccontare la verità. E questo è
tutto, Molly. Uno dei casi più ridicoli che io abbia mai avuto l’obbligo di
risolvere. Se venissi retribuito a cottimo, avrei rifiutato il pagamento.”
“Oh, non
saprei,” rispose Molly con un sorriso. “A me sembra un bella storia, tutto
sommato.”
“Anticipo
il tuo punto di vista.” Sherlock sollevò le mani e le distanziò tra loro, come
se volesse contenere lo spazio nel mezzo. “Da un lato abbiamo Mr. Holder, un
padre che si è comportato in modo ignobile nei confronti del figlio; dall’altro
Arthur, un figlio che si è redento dall’aver intralciato deliberatamente
un’indagine per il proposito encomiabile di aver cercato di proteggere la
cugina giovane e avventata.”
“Quanti
anni ha?”
“La
ragazza? Sedici e tutta la ristrettezza egotistica della sua età.”
Molly premette
le labbra tra loro, considerando nella penombra della stanza l’ipocrisia inconscia
di Sherlock.
“C’è da
chiedersi se il buon senso le verrà in soccorso negli anni a venire, ma non nutro
speranze. È nell’adolescenza che si plagia un carattere e l’anima di Miss Mary
Holder sembra votata alla superficialità.”
“Non
conosco la ragazza, quindi non posso esprimere giudizi, ma temo che esageri.”
Sherlock
schioccò la lingua, ma non ribatté.
Molly approfittò
della pausa per andare in cucina e prendere il piatto che gli aveva
tenuto in caldo.
Sherlock
si tirò a sedere, mentre la smorfia si riaffacciava, questa volta di ostilità.
“Pollo e asparagi?” indovinò dal profumo. Storse il naso come un bambino e si rimise
in posizione fetale, con la schiena girata verso di lei. “Sai che non mangio durante i casi.”
“Ne hai
appena risolto uno, per quanto insoddisfacente possa essere stato.” Molly
poggiò il piatto sul tavolo, implacabile. “Di sicuro non ne avrai uno prima di
domani. Dopo aver finito, c’è una fetta della crostata al rabarbaro di Mrs.
Hudson.”
“Rabarbaro!
Questo è un complotto.”
Molly
non commentò perché difatti lo era.
*
Ci
furono altri casi per Sherlock e ci furono molti riti della ‘Buonanotte’ e di
buona fortuna, prima di ogni viaggio, diventando così comuni tra loro da farne
sembrare strana l’inosservanza o la dimenticanza. (Dopo la prima volta, era
stato lo stesso Sherlock ad aspettarne inquieto il seguito. “Molly,” aveva
detto in tono di richiamo, prima di partire per Birmingham, una settimana più
tardi dal suo rientro e dopo il caso del diadema scomparso.
Molly
lo aveva guardato, in un’ingiustificabile obnubilamento della perspicacia di
cui lui le concedeva il favore da anni.
Con
un sospiro di condiscendenza Sherlock aveva indicato la propria guancia. “Non
ho tutta la giornata.”
Lei
gli aveva sorriso, di uno dei suoi sorrisi irragionevoli. Non aveva avuto
bisogno di alzarsi sulle punte, perché lui si era piegato per facilitarle il
compito. “Buona caccia alle ombre, Sherlock.”)
Non
c’era sempre un abbraccio ad aspettarlo al ritorno, se non metaforicamente
parlando. C’era l’abbraccio della scena familiare della nicchia di contorno al
fuoco, il rosso-arancio che incendiava la pelle di Molly, le sue guance e il
collo, la curva della gola e della nuca quando legava i capelli in trecce
appuntate attorno a una crocchia sulla sommità del capo.
La
simmetria delle linee nella figura e nel volto proporzionati di Molly Hooper
erano visibili, lo erano sempre stati, tanto quanto l’ovvia e dimostrata noncuranza
con cui lei li occultava per comoda praticità.
Le
aveva prestato delle camicie e dei pantaloni di una tuta ridicolmente larghi,
un paio di jeans che non ricordava di aver indossato dal caso della tong del ‘Loto Nero’.
Si
era spesso, molto più frequentemente di quanto fosse naturale ritenere, scoperto a cercarla, durante un
racconto o l’esposizione di una deduzione, per verificare il tipo di sentimento
che le attraversava lo sguardo; ad anticiparne le richieste nei pasti in comune;
si era abituato alla straordinaria persona ordinaria che Molly era e a quanto
poco ordinaria lei fosse, a conti fatti.
*
Si
era trattato di un imprevisto, fatalità eclatante e imprudente in cui la sua
distrazione si era accompagnata alla colpevole limitazione di tempistica nella
reazione occhio-mano di Molly.
Per
farla breve, c’era stato un bacio. Era stata una scena abbastanza
grottesca, in tutta franchezza, perfino per lui che si era fatto fregio di aver
reagito con prontezza di spirito. Si era tirato indietro elasticamente,
si era schiarito la voce, aveva salutato Molly – pietrificata e senza parole sulla
soglia del 221B – ed era partito con John per la Cornovaglia.
*
Trovata
una pista. S.H.
Finiti
i lavori nel 221C. Molly
A Toby
manca la musica del tuo violino. Molly
Secondo
cassetto della scrivania. Ascolta. S.H.
Ci
mi manchi. Molly
*
Al
suo rientro, gli aveva aperto la porta Wiggins.
Informandosi
in generale degli avvenimenti che avevano tenuto occupati gli inquilini di
Baker Street in sua assenza, Sherlock aveva chiesto casualmente di Molly.
Wiggins
aveva sorriso in modo spiacevole da guardare, fin troppo amichevolmente. “Doc,
è dabbasso. Da una settimana aiuta un paio di ragazzini a studiare.”
Lui
non sarebbe stato più sorpreso se gli avesse detto che Mycroft aveva attuato un
Colpo di Stato.
*
Non
la vedeva da due settimane e mezzo.
Non
si aspettava un’accoglienza fredda, ma neppure calorosa. In effetti, aveva
cercato di immaginare come Molly avrebbe reagito alla questione in sospeso del bacio.
Era
stato ovvio ipotizzare un dialogo, uno di quelli a cuore aperto di cui John
andava decantando i meriti o di quelli dei talk show che Mrs. Hudson seguiva
assiduamente.
Mrs.
Hudson che ora lo fissava ad occhi sgranati, dalla porta che portava al 221C,
mantenendo un vassoio con l’occorrente per il tè per quattro persone. “Non ti
aspettavamo per oggi.”
“Questo
è evidente. Lei è giù?”
“Mio
caro, prima che vada, è bene che tu sappia che –”
“Molly
ha approfittato della mia assenza per inaugurare un asilo nido nel
seminterrato? Wiggins mi ha già messo al corrente.”
Mrs.
Hudson rivolse a Wiggins un’occhiata di accusa.
“Prima
che linci Wiggins per aver spifferato tutto, è bene che si ricordi che è il mio galoppino. E ora, se permettete,
vado a ricordare al mio coinquilino le regole di casa.”
*
Appariva
felice. Di più: soddisfatta, appagata. Lo accolse con un’esclamazione di sorpresa.
“Sherlock!” Quindi gli sorrise. Come se non fossero passate che poche ore,
pochi minuti da quando era partito; come se non fosse successo nulla di rilevante
tra loro, non fosse cambiato nulla.
Sherlock
contrasse la mandibola. “Molly.”
Qualcuno
si schiarì la gola, alle spalle di Molly. Lei si voltò e dedicò un sorriso di
scuse al gruppetto di ragazzi seduti attorno al tavolo. Nuovo. Montato di recente.
“Ragazzi,
questo è Sherlock Holmes.” Molly fece le debite presentazioni. “Sherlock,
questi sono: Harper,” indicò una ragazza di tredici anni al massimo, dai ricci
capelli rossi, che mangiucchiava nervosamente la matita, (genitori divorziati,
evidenti problemi di peso, seguita da uno psicoterapeuta), “Anna,” bionda,
treccine su un lato e punte rosa all’estremità, piume e nastri tra i capelli,
quindici anni, ( brava nelle materie scientifiche, passione per la fotografia,
fumatrice accanita) “e Timothy – Tim,” si corresse lei ad un’occhiata avvilita
del bambino, dieci anni, mingherlino, (amante dei cani e collezionista di
insetti).
Sherlock
aveva guardato ad uno ad uno quei ragazzini, in un silenzio attonito, quindi
Molly aveva fatto la più sbalorditiva delle cose. Si era giustificata con la palese
bugia di un libro dimenticato al piano superiore e gli aveva chiesto di
guardarli intanto che lei andava a prenderlo.
Sherlock
avrebbe potuto rifiutarsi. Lei non gliene aveva dato modo.
Era
stato così che, dopo quasi tre settimane di assenza da casa, Sherlock Holmes si
era ritrovato a far da balia a un gruppo di ragazzini e un gatto, nel
seminterrato rinnovato, con gli sguardi di tre estranei puntati addosso.
*
“È
vero che sei stato via per lavoro?”
Sherlock
si irrigidì al tono confidenziale che la ragazzina, Anna, aveva usato.
Non
poteva essere come l’altra, che sedeva impettita sulla sedia e faceva di tutto
per evitare il suo sguardo o come il ragazzino, che aveva approfittato della
fuga di Molly per prendere la Nintendo?
Sherlock
sospirò, sfregandosi il naso. “Stavo seguendo un caso.”
“Un
caso?” prese la parola Timothy - Tim. Non alzò gli occhi dal videogioco. “Sei
un avvocato? Solicitor o Barrister? Mio zio è giudice e mi ha spiegato la
differenza. Anche tu indossi una di quelle parrucche quando sei in tribunale?”
Tralasciando
il fatto opinabile che il bambino fosse o meno istruito sulla differenza tra le
due cariche, di sicuro lo zio non aveva ritenuto opportuno metterlo a corrente
del fatto che le parrucche di crine di cavallo venissero indossate solo durante
le sentenze d’appello e nei processi penali né che fossero sulla strada
dell’abolizione. L’idea di essere scambiato per un legale era rivoltante. “Dio
me ne scampi.”
I
ragazzini risero, come se avesse detto qualcosa di particolarmente divertente.
“Sei
buffo,” ebbe l’ardire di dire la pulce, Tim.
“Non
è buffo,” intervenne a sorpresa Harper. Arrossì. “È famoso ed è un detective.”
“Consulente
investigativo,” la corresse. Harper arrossì ancora di più, ricominciò a
masticare la matita.
“Quello
che è,” disse Anna, dandogli un calcio – un calcio! – sotto al tavolo. “Molly è
fantastica,” aggiunse senza il minimo nesso logico, due secondi più tardi. “Davvero. Da grande voglio essere come
lei.”
Harper
annuì con convinzione.
“Io
la sposerò.”
Sherlock
e le due ragazzine si voltarono simultaneamente verso Tim.
Anna
sbuffò. “Non puoi, stupido. Sei troppo piccolo per farlo.”
“Intendevo
quando sarò grande,” replicò Tim con fare ovvio.
“Quando
tu sarai cresciuto, Molly sarà comunque troppo grande per te e nel frattempo
dovrebbe aspettarti, il che la renderebbe sola,” spiegò Harper, conciliante.
Tim
aggrottò le sopracciglia. “Non ci avevo pensato.”
“Stavo
proprio pensando…” annunciò Anna, sfiorando una delle piume. “Io ho un
fratello. Potrei presentarglielo. È una specie di chirurgo.”
Sherlock
sbuffò di cuore. “Un odontoiatra non è
un chirurgo e a meno che la sua specializzazione non sia l’Odontologia forense
non vedo come –”
Molly
rientrò in quel momento. “Allora, Sherlock vi è stato d’aiuto?”
Anna
fece saettare gli occhi da lui a Molly e viceversa, con uno strano brillio
enigmatico. “Oh, sì,” sorrise, sottintendendo molto altro, “senza alcun
dubbio.”
*
Molly
si comportava stranamente. Nulla di nuovo, ponderandoci sopra.
Bene,
Molly si comportava più stranamente
del solito. Era facile capire che qualcosa non andasse, non solo per il modo preoccupato
in cui Mrs. Hudson le si rivolgeva, come se fosse un oggetto di cristallo poco
maneggevole che andava trattato con la massima cura; o di Wiggins che le
lanciava occhiate guardinghe quando lei non poteva vederlo, perché di spalle.
Inviò
un messaggio a John che lo richiamò, dopo aver chiesto delucidazioni in merito
a Mary. “La situazione è questa. Sembra che mentre eri via sia caduto
l’anniversario della morte del padre di Molly. È il decimo e lei non è nemmeno potuta
andare al cimitero. Pare che si tratti di una vecchia tradizione. Mi dispiace, ma questa
volta c’è poco che tu possa fare.”
Poco
saggiamente, Sherlock gli aveva creduto.
*
Non
era solo quello. Non si trattava del lutto per suo padre.
Molly
rifiutava di stare nella stessa stanza con lui, se non avevano la compagnia di
un terzo. Le colazioni erano diventate silenziose; le cene erano scene di un
film muto. Gli rivolgeva a malapena la parola e soltanto quando lui la
interpellava direttamente.
Non
sapeva cosa pensare di quel comportamento così singolare se non che Molly, per
qualche motivo bizzarro, covasse del risentimento nei suoi confronti. Non così bizzarro, amico.
Sherlock si mise di lena a carpire la soluzione della
malinconia di Molly Hooper. Ne studiò i comportamenti, scomponendoli uno ad uno
come fattori di
un’equazione. Alla fine riuscì ad ottenere l’incognita che cercava, eliminando secondo
logica tutte le altre incognite tra le equazioni del sistema.
Molly
Hooper era arrabbiata, di un tipo di arrabbiatura che la rendeva triste e
sconfortata, ma fredda seppur gentile nei suoi confronti (nei riguardi degli
altri conservava la stessa vena amabile). Ne conseguiva che la rabbia di Molly
derivasse e trovasse origine in qualcosa che lui aveva fatto o che non aveva
fatto.
Non
riguardava la sua prolungata assenza dal momento che – su stessa insistenza di
Molly al momento della partenza - non aveva mancato di inviarle un messaggio
ogni due giorni. L’unica soluzione rimaneva perciò la questione in sospeso: il
bacio.
Sherlock
ne aveva avuto abbastanza dello sciopero del silenzio di Molly. Una settimana
era stata più che sufficiente per capire che rivoleva indietro quella che era
diventata la loro quotidianità. Gli mancavano le loro serate attorno al fuoco,
gli esperimenti a notte inoltrata, lo scambio di giornali e aneddoti la
mattina. Era deciso a riaverli indietro, a riavere indietro tutto.
Scelse
di agire una sera, approfittando del fatto che lei si fosse trattenuta nel
salotto, quando nell’ultima settimana era diventata una circostanza più unica
che rara.
Seduta
sul divano, Molly stava leggendo un romanzo - Jane Eyre, era scritto in
caratteri dorati sul frontespizio usurato e malconcio. Indossava quell’odiosa
maglietta che le aveva portato la sua amica e aveva i capelli sciolti.
Sherlock
occupò il posto accanto al suo. Molly non si mosse. Sherlock si
inclinò e, per amor di concisione, la baciò.
*
Molly
non poteva crederci. Si sfiorò le labbra, sconvolta. “Mi hai appena baciata?”
Sherlock
fletté un angolo di bocca in un sorriso che sembrava incitare alla violenza. “Ora non potrai evitare l’argomento.”
Di cosa parlava? “Hai la minima idea di cosa significhi?”
“Tu
ce l’hai?”
“Certo
che no! Sei tu che mi hai baciato!”
“E
come definiresti quello di tre settimane fa? Che fingi che non sia mai
successo?”
“Cercavo
di essere gentile! Credevo che l’idea ti mettesse a disagio e non volevo
metterti sotto pressione!”
“La
gente si bacia continuamente, Molly. Perfino Mrs. Hudson ha una vita sessuale
–”
“Ti
prego, no.” Molly si coprì le palpebre. Non poteva star succedendo davvero. “Non
voglio saperlo. Sai benissimo quello che volevo dire. Hai la minima idea di
cosa significhi per me? Sherlock, non puoi –”
Sherlock
si sporse di nuovo con il chiaro intento di baciarla e Molly, stupida, sei una dannata stupida Molly Hooper, non
si spostò e glielo lasciò fare. Questa volta, però, la sorpresa era smorzata e
lei reagì con maggiore prontezza. Si
irrigidì e si ritrasse, scostandolo con la mano per farlo
allontanare. “L’hai rifatto. Non posso
crederci. L’hai rifatto!”
“Sì,
l’ho fatto, ti ho baciata,” disse Sherlock. “Sì, l’ho rifatto, ti ho baciato
una seconda volta. Intendo rifarlo a breve una terza. Spero che dopo sarai tu a
tenere il conto.”
Non
aveva neanche finito di parlare, che la riprese tra le braccia e la baciò.
Non
che fosse spiacevole, pensava Molly, il cuore in tumulto e il respiro che
premeva dolorosamente contro la tassa toracica. Tutt’altro. Maledizione. C’era
qualcosa che non fosse capace di fare alla perfezione? Ma appunto perché era
lui, Molly non poteva lasciarsi andare. Non poteva, anche se avrebbe voluto e -
“Molly,
per quanto poco ortodosso da parte mia, devo pregarti di smettere di pensare.
Intralcia l’atmosfera.”
“Intralcia
l’atmosfera,” ripeté Molly in un’eco divertita e turbata. “Chi sei tu e cosa ne
hai fatto di Sherlock Holmes?” Prima che potesse fare qualcosa di
imperdonabilmente stupido come afferrarlo per i risvolti della giacca e
baciarlo fino alla fine dei suoi giorni, scattò in piedi e si spostò verso la
cucina. Sherlock la seguì.
Molly
si appoggiò al piano da lavoro, si stropicciò il viso tra le mani. Dio, niente
aveva senso. Il mondo si era capovolto senza che lei se ne accorgesse se non a
fatto compiuto. “Ti rendi conto che non posso prendere questa cosa alla leggera,
vero? Non ho più vent’anni, Sherlock.”
“Direi
proprio di no,” replicò lui con un sorriso esageratamente divertito.
Molly
sospirò, incassò le spalle, ma tenne il mento alto, fissandolo con un sentimento
che sperò non essere troppo evidente. Paura
della verità. “Perché adesso, Sherlock? Perché io?” Doveva saperlo e doveva
sentirlo da lui, doveva essere lui a dirlo.
Sherlock
allungò una mano per sfiorarle la fronte, la guancia. Non sorrideva, ma aveva uno
sguardo – vulnerabile, avrebbe detto, esposto - che lei aveva imparato a
riconoscere. “Perché non adesso, Molly, e perché non dovresti essere tu? Se c’è
una persona di cui mi fidi e la cui vicinanza mi sia gradita, qualcuno della cui opinione
mi importi abbastanza da ascoltarla, quella sei tu.”
“E
John.”
Sherlock
roteò gli occhi. “Sfatiamo il mito una volta per tutte. Io e John non siamo né
siamo mai stati una coppia.”
“Mrs.
Hudson la pensa diversamente.”
“Per
l’amor del cielo!”
“Mary
è favorevole al vostro Ménage à trois?”
“Molly.”
“La
bigamia non è illegale?”
“Molly.”
Molly
chiuse e riaprì le mani. Le aveva serrate con forza attorno al bordo del tavolo
per tenerle impegnate, per ricordarsi che era reale. “Cosa stai cercando di
dirmi?” Piegò le labbra all’ingiù. Sentiva di essere sul punto di piangere. “Che
provi qualcosa? Domani potresti non provarlo più. Potrebbe trattarsi di una disposizione
del momento.” La sola prospettiva le spezzava il cuore.
“Il
fatto che tu la combatti da anni senza mostrare segni di ripresa o cedimento, dovrebbe
essere un incentivo a credermi,” osservò Sherlock, seriamente.
Il
messaggio e tutte le sue implicazioni arrivarono a destinazione con qualche
secondo di ritardo. Molly schiuse la bocca. Oh. “Oh.”
“Molly.”
Sherlock le prese il viso. Aveva mani così grandi che sembrava coprissero ogni
centimetro di pelle. “Non cambierà niente tra noi.”
“Come
puoi dir questo? Cambierà tutto invece!”
“Me
la darai vinta su ogni cosa?”
Molly
aggrottò la fronte. “No.”
“Non
cercherai di convincermi ad adottare una vita più regolata?” proseguì Sherlock.
“Sì,
ma… oh, maledizione! Non voglio che tra
qualche mese tu ti renda conto che è stato un abbaglio passeggero o un gigantesco errore.” Molly
chiuse gli occhi, sentendo di non poter reggere oltre il suo sguardo. Dovrei rinunciare a te e non voglio. Non
posso.
Sherlock
tacque. Alla fine sospirò, un sospiro che sembrava troppo profondo
perfino per lui; le prese una ciocca di capelli, passandosela tra le dita come
se fosse un nastro. “Ho altri trent’anni, trentacinque al massimo davanti a me, poi sarò
costretto a ritirarmi. Ho provato cos’è la solitudine, Molly.”
Ma non sarai solo. Sarebbe stata una
sciocchezza dirlo. Sarebbe stato solo, invece, come lo sarebbe stata lei. Era
questo quindi? Il timore di ritrovarsi da solo?
“Ho
visto il tipo di legame che unisce John e Mary,” continuò
Sherlock. “Ho sempre
creduto che qualcosa di simile non fosse nelle mie corde. Eppure ho
assistito a
cose più improbabili. Tu stessa hai reso possibile qualcosa che
per chiunque
altro sarebbe stato impossibile. Molly,” c’era dolore,
amarezza e tormento nella voce di Sherlock, una richiesta sincera nel
suo sguardo. “Molly,” ripeté e
le strinse il viso con delicatezza, baciandole la fronte e il naso e le
ciglia
umide. “Trovi più sconcertante l’idea che io abbia
un cuore oppure che lo abbia
lasciato sul tetto del Barts o che –”
“Stupido.”
Molly singhiozzò, credendoci finalmente,
permettendosi di sperare che fosse vero. “Stupido.” Certo che aveva un cuore. Solo che non aveva mai creduto che ci fosse spazio per lei, al suo
interno.
“Molly.”
Molly
lo baciò, sorrise contro le sue labbra. Ora sentiva le mille cose che lui stava
pensando, osservava lo sforzo a cui si era costretto, il dispiacere che lei gli
aveva provocato non credendogli. “Lo so.”
Sherlock
la abbracciò, affondando il naso tra i suoi capelli, inspirando. “Ovvio.”
N/A:
Questo
non è il punto di arrivo, ma solo quello di partenza. Ora inizia un’altra sfida,
una diversa.
Scrivere
la scena finale è stato difficilissimo. La confusione di Molly, l’irremovibilità
di Sherlock che una volta tanto cerca di farle capire fisicamente cosa prova (e intanto deve rimanere incredibilmente
ferito dal rifiuto di Molly, dal fatto che lei non gli creda, non possa
credergli e non osi sperare che forse, forse sia reale, stia davvero capitando
a lei), perché non ha parole da offrirle né discorsi. Ha soltanto quello che
sente e che lo sconvolge, nella sua enormità. Poi, non saprei, spero che sia
davvero plausibile come situazione. Non ho voluto abbellirla troppo. Molly è
talmente confusa che quasi bisognerebbe sedarla, ma ‘povero agnellino’, è da
capire. Dall’oggi al domani l’amore della sua vita si sveglia e BAM! si accorge
di ricambiarla. In effetti è un po’ più complicato di questo e quando sarà più
lucida, Molly porrà le debite domande. Certo che il fatto che Sherlock, per
costringere Molly a parlargli di nuovo, la baci è esplicativo. Che
uomo d’azione :D
P.s.:
sono di nuovo rimasta indietro nel rispondere tanto alle recensioni
quanto ai
messaggi privati. Desolata, spero di recuperare entro domenica. Mi
ripeterò fino allo sfinimento, ma siete lettici troppo buone e
preziose :) Un abbraccio enorme!
|
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Capitolo 9 *** IX ***
9
Molly
si svegliò e fu come se non lo avesse fatto. Si rigirò nel letto, cercando di dare
un significato alla babilonia che aveva in testa e di spegnere quello stupido,
enorme sorriso che sembrava essersi cucito alla bocca.
Si
voltò e affondò la testa sotto il piumone, ridendo e sentendosi perfettamente sciocca, ma anche incredibilmente a proprio agio nella sua felicità. Era successo davvero? Stava
ancora sognando?
Si
sfiorò le labbra, ricordando la consistenza dei baci della notte prima, il
calore degli abbracci che li avevano accompagnati.
Sono la creatura più
felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con
tanta ragione.
Molly
spense la sveglia nello stesso momento in cui squillò e scattò in piedi, in piena
fibrillazione. Infilò la vestaglia alla rovescia e dovette tornare indietro
perché aveva scordato le pantofole.
E
poi di nuovo per aver dimenticato - “Toby”, lo chiamò colpevole e lui miagolò
il suo disappunto. “Mi dispiace. Non so dove ho la testa, stamattina.”
Era
una bugia. Sapeva fin troppo bene dove l’aveva lasciata; più o meno dov’era
sempre stata negli ultimi dieci anni: nella tasca di un investigatore a caso,
insieme al suo cuore.
*
Il
salotto era in fermento. Be’, forse era una gonfiatura, ma rimaneva il fatto
che ci fosse fin troppa vita per quella data ora della giornata.
Sherlock
impartiva ordini a Mrs. Hudson, usando l’archetto del violino per dirigere
l’orchestra dei suoi spostamenti.
Fu
il primo ad accorgersi di lei.
Molly mise giù Toby, biascicò un timido ‘giorno, fissando lo sguardo ovunque
tranne che su di lui.
Avevano
allestito la tavola, ma non c’erano bricchi e tazze. C’erano innumerevoli
fiori, invece, un’infinità di fiori, fiori a perdita d’occhio e ogni fiore occupava
un piccolo recipiente o un bicchiere o una caraffa. La penuria di vasi aveva prodotto
la drastica scelta di utilizzare anche gli strumenti da laboratorio di
Sherlock.
Molly
intravide un crisantemo rosso in un cilindro graduato. Un ramo di biancospino –
i corimbi bianco-rosati - in un densimetro. Una ginestra in un matraccio. Un
trifoglio bianco, una viola blu, una rosa muscosa, un’orchidea, un bucaneve,
una campanula.
Batté
le palpebre, sbalordita. Stava per chiedere cosa significasse
quell'asserragliamento di colori e profumi, quando Mrs. Hudson le volò incontro.
“Benedetta, ragazza! Cara, cara
ragazza,” le baciò le guance. “Sherlock mi ha raccontato ogni cosa. Sono così
felice per voi! Così felice che credo potrei scoppiare dalla gioia.”
Molly
si limitò a farsi strizzare il mento e accarezzare le mani e vezzeggiare da
lei, con occhi vacui e distanti.
“Mrs.
Hudson,” disse Sherlock.
Il
blaterante cicaleccio cessò. “Vorrete stare soli, certo. Permettimi di dirti
un’ultima volta quanto felice -”
“Mrs.
Hudson.”
“Mi
aspetto davvero che tu plachi questi tuoi modi rudi, caro. Molly dovrebbe
essere un deterrente sufficiente.” Con
un sospiro tremulo e commosso, Mrs. Hudson uscì.
Sherlock
non attese oltre. Posò l’archetto sul mobile di fianco alla finestra, le si
avvicinò e la baciò, a lungo e pressantemente.
Quella
stupida, assolutista e prepotente felicità si riaffacciò insieme a quell’ancor
più stupido sorriso qualunque.
Questa
volta lei non era impreparata. Artigliò la camicia di Sherlock tra le dita,
mentre gli sfiorava la fronte e i capelli – ed erano come aveva sempre pensato
che dovessero essere: soffici al tatto e sfuggenti, linee e curve d’ombra. Dio, se era piacevole. Era vero; ed era suo.
Lo
baciò più a fondo, urtò il naso contro il suo, ma non importava, non aveva
davvero la minima importanza.
Sherlock
le poggiò le mani sui fianchi e Molly sentì la scarica di piacere raggiungere
picchi irresistibili. Si staccò a malincuore, con il fiato corto e le guance che
le scottavano. Si passò la lingua sulle labbra e vide che gli occhi di Sherlock
– le pupille dilatate, i capelli arruffati per la foga con cui lei ci aveva
infilato la mano attraverso – seguivano il gesto.
“Dopamina,”
lo sentì dire, la voce appena meno disciplinata del solito.
Molly
annuì. La dopamina, il neurotrasmettitore
del piacere. Il suo doveva essere alle stelle.
Fece
per baciarla di nuovo, ma Molly lo frenò e il nuovo bacio fu un discreto
sfiorarsi di labbra. “Sherlock, aspetta. Tutto questo è molto piacevole, ma...”
Sherlock
sorrise furbamente. Aveva un sorriso inedito, da ragazzo.
Molly
ne fu abbagliata e stregata. “Ma dobbiamo parlare,” concluse. “Ieri sera non ne
abbiamo avuto modo.”
E
Molly non avrebbe voluto perché Dio,
aveva trent’anni e non era alla sua prima cotta, ma non poté farci niente,
arrossì. La sera prima, ricordava, erano stati troppo impegnati a pomiciare per
scambiarsi più di qualche parola.
Sherlock
annuì, con l’aria di trovare quanto aveva detto del tutto ragionevole. “Chiedi
e avrai risposta.”
Un
minuto più tardi erano entrambi sul divano, l’uno di fianco all’altra.
Lui
era seduto compostamente, nella trasposizione della postura perfetta: quel
punto di mezzo tra la legnosità e la flessibilità. Lei era curva in avanti, le
braccia sulle ginocchia e le mani sovrapposte. Le guardava come se non sapesse
cosa farci, come occuparle.
“Io
–” Molly deglutì. “Hai detto di provare qualcosa. Per me.” Detto ad alta voce
ed espresso da lei non era utopia. Era peggio, molto peggio: trascendeva ogni
logica umana. “Quando ha avuto inizio?”
“Tre
anni fa.”
“Tre
anni fa,” ripeté a pappagallo, sperando che ripeterlo trovasse un senso a
quello che aveva sentito, glielo rendesse più comprensibile. Scosse la testa
con forza. “Mi dispiace, non credo di aver capito.”
“Hai capito benissimo, Molly.” Sherlock espirò, guardandola intensamente. “Quando
sono tornato ero intenzionato a parlartene, ma tu eri fidanzata.” C’era
qualcosa in fondo ai suoi occhi, una specie di lampo che era molto facile
associare al dispetto.
“Non
provare a dare la colpa a me, Sherlock Holmes! Non osare. Avresti potuto
parlarmene, avresti dovuto.”
“Per
dirti cosa?” Sherlock fece una smorfia. “Eri andata avanti. Inoltre sembravi
felice. Pugnale di carne ti rendeva felice.”
Eri tu, avrebbe voluto dire
Molly. Ero felice che tu fossi tornato. “I
conti non tornano lo stesso. Io e Tom ci siamo lasciati mesi fa. Perché non hai
parlato allora?”
“Lo
ammetto, il mio è stato un errore di calcolo. D’altronde avevo altre questioni
per le mani. Dovevo diroccare la fortezza di un estorsore internazionale e i
Watson non mi erano di alcun aiuto, ostinandosi a comportarsi come bambini.”
Molly
annuì. Ricordava il periodo: i mesi che avevano preceduto Natale. “Per via di
Mary, vero?”
“Certo,
per via di Mary.” Sherlock le rivolse un breve cenno prima di bloccarsi a metà
del gesto e squadrala con una diffidenza mista ad una sorta di ammirazione. “Cosa sai di
questa storia?”
“Solo
intuizioni,” rispose Molly, improvvisamente a disagio. “E… sensazioni. Greg si
è lasciato sfuggire quello che John gli aveva detto, che credeva che tu stessi
proteggendo chi ti aveva sparato. E poi c’è stato l’allontanamento tra John e
Mary e tu, la notte in cui sono venuta a trovarti.”
La
fronte di Sherlock s’increspò in un lieve acciglio. “Quale?”
“Eri
sotto anestesia.” Molly chiuse gli occhi mentre il ricordo, vivido e doloroso,
le sbocciava in mente. Li riaprì quasi subito, disperdendo l’immagine in
barbagli di presente. “Hai fatto il nome di Mary. Mi è sembrato abbastanza
strano all’epoca, così ho iniziato ad osservare.”
L’orgoglio
di Sherlock era evidente; si offuscò nell’ombra di un secondo pensiero. “Non
sapevo che fossi passata,” disse e in tono di accusa: “Non sei mai venuta a
trovarmi, dopo.”
“Tu
non lo hai mai chiesto.”
“Mi
ero comportato orribilmente.”
“Sì,
sei stato atroce, ma d’altronde non eri in te.” Molly non poté trattenersi dal
fare una smorfia.
Forse
trapelò qualcosa, un’eco dell’amarezza e della delusione si rincorse nei suoi
occhi, o forse lui li notò nel modo improvviso in cui aveva serrato la bocca.
Fatto stava che con uno scatto agile, repentino Sherlock le fu di fronte; le
afferrò le mani tra le sue, costringendola a guardarlo. La sua espressione, la
luce di animazione nel suo sguardo, sul viso di qualunque altro uomo, sarebbero state
dichiarazioni sufficienti. Nel caso di Sherlock non erano soltanto adeguate, ma
tutto ciò di cui lei aveva bisogno.
“Cosa
vuoi, Molly?” domandò Sherlock, il tono basso e accorato, imperioso.”Di cosa
hai bisogno?”
Di te. “Non voglio giuramenti
o promesse o quel genere di cose,” rispose Molly. Sherlock la invitò a
proseguire con lo sguardo. “Non
me ne aspetto. Vorrei solo che tu ti preoccupassi… che tu rivolgessi lo
stesso riguardo che usi ai tuoi amici anche a te.”
Sherlock
esitò. Capiva perfettamente la portata di quel che lei gli stava chiedendo. “Posso…
provarci.”
“E
io posso aiutarti, posso accertarmi che tu ci riesca. So essere uno straordinario
deterrente a quanto dicono.” Gli sorrise e gli pose le mani ai lati del volto, accostando il proprio.
“I sentimenti non sono la tua area di competenza. Lo so, non importa. Finché
posso vederli, non è importante che tu dica niente.”
“Potrei
non dirtelo mai,” affermò lui. Molly lo sapeva.
“Ma
hai ragione,” proseguì Sherlock. “Posso mostrartelo.” Si alzò e
aprì le braccia per indicare la stanza nella sua interezza. “Osserva il mio regalo per te, Molly.”
Molly
scoppiò a ridere per il modo solenne in cui lui li aveva riportati alla sua
attenzione. “Fiori?”
Sherlock
arcuò le sopracciglia, scoccandole un sorriso vago e allusivo. “Non fiori,
Molly,” la corresse affettuosamente. “Parole di un linguaggio a fruizione di
pochi privilegiati.”
Presentandola
come una regina al suo corteo, lui le sussurrò all’orecchio il significato di
ogni pianta e tralcio nelle ampolle.
Agrimonia.
Gratitudine.
Un
fiore di sambuco. Vera compassione.
Girasole.
Devozione.
Margherita.
Pazienza.
Ogni
fiore era un tuffo al cuore.
Come
avrebbe potuto non credergli? Come avrebbe potuto resistere alla perfezione di
quella felicità che l’assaliva, la colmava?
Semplice,
non poteva.
*
Sherlock,
cos’è questa storia di te e Molly? Mrs. Hudson va raccontando che – ma no, è
impossibile. Lascia stare.
John, 10:01
Lo è
giusto? Impossibile, intendo. Mrs. Hudson dice – ma non importa. Per anni ha
detto che noi eravamo una coppia. Non dovrei più sorprendermi di niente,
giusto?
John, 10:06
Okay,
so che è da pazzi, ma devo saperlo. Tu e Molly…?
John, 10:09
Sherlock,
se è uno dei tuoi stupidi scherzi o uno dei tuoi stramaledetti esperimenti,
giuro su Dio che ti farò passare un brutto quarto d’ora.
John, 10:13
Ripensandoci,
no. Ho deciso che ti farò guardare il video del parto di Mary.
John, 10:18
Okay,
no. Mary minaccia di sparare a entrambi se solo mi azzardo.
John, 10:19
Sul
serio? Tu e Molly? Molly Hooper?
John, 10:25
Se la
fai soffrire, Sherlock, migliore amico o no, Katie si ritroverà orfana del suo
padrino. Mary è d’accordo con me.
John, 10:30
Sto
iniziando a preoccuparmi. Non è da te non rispondere. No, aspetta. È esattamente da te, razza di idiota. Mettiamola
così. Se non rispondi entro dieci minuti, aspettati me e metà Scotland Yard a
Baker Street. E Mycroft.
John, 12:01
John,
taci. Ho le mani impegnate.
Sherlock, 12:01
Oh. Oh. Cristo, quanto ti odio quando fai così.
John, 12:02
*
Com’è
vivere con Sherlock? Com’è amarlo, Molly? – le aveva chiesto Meena.
Era
come respirare, avrebbe voluto risponderle. Tornare a respirare dopo che per
anni aveva avuto il petto stretto in una morsa, come in uno di quei busti di
gesso o un bustino vittoriano o un corsetto ortopedico. Non si aveva piena
libertà di movimento, ci si sentiva costretti in qualcosa che non ci apparteneva,
non ci era proprio. E quando finalmente lo si toglieva, quando quel peso che aveva
costretto il petto scompariva, si facevano ampi e profondi respiri. Si era
liberi. Ci si sentiva di nuovo se stessi, tutti d’un pezzo.
Cercare
di non amare Sherlock, cercare di andare avanti, - Dio, che sciocca era stata – di circoscrivere i suoi sentimenti e
ingabbiare l’amore, rimuoverlo, era stato come uccidere una parte di sé, un
gesto contro natura.
Amarlo
era come tornare a casa. Una frase fatta, ma era così. Amarlo era percorrere la
strada di casa. Si rendeva conto di non essersi mai allontanata troppo. Era
rimasta sul giardino del cortile per tutto il tempo, aspettando che qualcuno,
dall’interno, aprisse la porta per lei. Finalmente era successo.
*
Tutto
era stato deciso in quel momento. O forse molto prima: una notte lontana, in
cui lei aveva abbassato le difese e gli aveva mostrato i suoi dubbi. Non conto.
C’erano
state scene imbarazzanti. (“Dio, no.” Sally aveva scosso la testa. “Dimmi che
non ci vai a letto. Non il Fenomeno.”
Con
candore, Molly aveva detto che il soprannome era più che meritato.
Sally
era parsa disgustata. “Sai che adesso non potrò più chiamarlo così, vero?”
Molly
aveva riso. “Lo spero.”)
Scene
commoventi. (“Te lo affido, Molly.” Un John visibilmente turbato le aveva
passato il testimone.)
Scene
irreali. (“Mi auguro che il tuo non sia il semplice bisogno di un uomo immaturo
che soffre di carenza d’attenzione.” Meena era comicamente seria.)
Scene
ridicole. (“Gesù! Anderson aveva ragione? Anche su questo? Dovresti parlarci, sul serio. A questo punto un sacco di
sue teorie sui complotti mi paiono meno idiote se aveva indovinato questo.” Greg l’aveva presa meglio del
previsto.)
E
poi Mycroft, che non era classificabile in alcuna graduatoria. Nel suo caso,
ovviamente, era bastata un’occhiata all’apparenza superficiale e di pura
sopportazione. “Mamma sarà deliziata, Sherlock.”
*
Tutto
era cambiato, ma non loro.
N/A:
Capitolo
lampo, scritto stanotte o stamattina – erano le tre, non
la tiro per le lunghe, è per questo che è leggermente allucinato. Vado di
corsa, quindi vi lascio solo con un grande, ciclopico abbraccio e incrocio le
dita nella speranza che vi si piaciuto.
Il
prossimo capitolo si ritorna in azione. Finalmente mostrerò tale Victoria Queen
e il folgorato Henry Knight (che troverà Molly molto attraente, con conseguente
gelosia di Sherlock).
Sono
la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me,
ma nessuno con tanta ragione. (Elizabeth Bennet, Orgoglio e Pregiudizio)
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Capitolo 10 *** X ***
10
Quando
era successo, nessuno sapeva dirlo. Come fosse successo, nessuno lo sapeva con
precisione. Stava di fatto che il 221B adesso ospitasse una coppia.
Dunque
le cose stavano esattamente così e per quanto fuori dall’ordinario o
inverosimili potessero apparire, Sherlock Holmes e Molly Hooper erano di fatto una
coppia. Dove per coppia s’intendeva naturalmente qualunque cosa fosse il tipo
di relazione a cui entrambi avevano trovato nuova e singolare accezione.
Nel
salotto di Mrs. Hudson – assente per forze di causa maggiore - Molly ne
illustrò in astratto le dinamiche alle tre donne che erano con lei.
“Praticamente
siete amici con benefici.” Meena scrollò la testa e le spalle in un sol gesto.
“Stai parlando del Fenomeno.” Sally, che
puntualmente slittava i loro incontri perché ‘sono una stacanovista e fiera di
esserlo’, sollevò il bicchiere in un brindisi di prammatica. “Mi dispiace per
Molly, ma temo che sia invischiata fino al collo in una relazione
potenzialmente seria.”
Meena
inarcò il sopracciglio sinistro con un sorriso che le andava da un orecchio
all’altro e che non prometteva niente di buono. “’Fenomeno’? Sul serio?”
Per l’appunto.
Sally
imprecò. Molly sapeva cosa le stesse sfrecciando nella testa: l’appunto di
trovare un nomignolo meno fraintendibile per Sherlock. “Ho bisogno di qualcosa
di forte per il mio tè. A chi devo chiedere?”
“Non
a Molly,” sogghignò Mary, che stava allattando Katie.
Molly
agghiacciò. Non c’era ragione di supporre che Sherlock avesse reso noto un
momento di intimità e debolezza personale, né che Mary ci lucrasse sopra a sue
spese, giusto?
Sbagliato. Mary spiattellò in
breve l’intero spiacevole accaduto.
“Molly,
la mia Molly, ci ha dato dentro senza di me? Cosa diciamo sempre del bere?”
domandò Meena.
Accanto
a lei, Molly strinse con maggiore forza il cuscino che teneva contro la pancia.
Corrugò la fronte. “Che è il male, che crea dipendenza e che va a discapito
della salute, delle relazioni e della posizione sociale?”
“Pensavo
stessimo parlando dell’alcol, non del tuo nuovo ragazzo.”
Scroscio
di risate, come pioggia sul vetro di una finestra.
Sherlock
si mostrò in quel momento. Le risate cessarono all’istante e gli sguardi di
tutte si rivolsero ad entrambi con aspettativa.
Sherlock
pareva degnarsi appena della palese valutazione di cui erano soggetto. Il suo
sguardo si fissò su di lei e su di lei soltanto. “Molly, ho bisogno di te.”
Mary
nascose poco e male un sorriso dietro le nocche; Sally inarcò le sopracciglia;
Meena roteò gli occhi. Sul serio? – pareva essere il pensiero unanime, espresso
nelle sfumature più differenti.
“È
urgente?” domandò Molly. “Non puoi aspettare?”
Sherlock
fece una lieve smorfia. “Credo di aver inavvertitamente creato del Napalm.”
Cosa? “E vorresti che io…”
“Che
tu mi aiutassi a disfarmene.”
“È
una specie di nome in codice?” s’informò Mary. “Un’emulsione altamente
infiammabile, usata nelle mine incendiarie e come combustibile per i
lanciafiamme. Non andate per il sottile.”
“Dio,
non voglio saperlo,” disse Sally, mantenendosi la fronte con le dita.
“Sesso,”
chiarificò Meena a beneficio comune, come se fosse necessario.
Da
Sally trapelò un suono inarticolato di disgusto. “Lo avevo detto che non volevo
sapere. Già l’idea del Fen – di Holmes
è abbastanza rivoltante, ma di Holmes nudo…” Rabbrividì. “Diventa
raccapricciante.”
*
“Hai
davvero creato del Napalm?” s’informò Molly, quando Sherlock ebbe richiuso con
cura le porte scorrevoli della cucina del 221B dietro di loro.
“Mi
hai creduto?” Per un attimo, quando si voltò, fu straordinariamente
compiaciuto; in quello successivo era già annoiato. “Semmai volessi creare del
Napalm – non dico che lo farei, solo che potrei se volessi – non succederebbe
per caso. La casualità non mi appartiene e trovo alquanto mortificante l’idea
che tu abbia seriamente creduto il contrario.”
“A
mia discolpa posso dire che sei un bugiardo del tutto credibile. Allora poco
fa, quello che hai detto…”
“È
servito allo scopo.” Era come se Sherlock si aspettasse una sorta di gratifica.
“Ti ho offerto una via di fuga.”
Molly
incrociò le braccia sul petto, arricciando le labbra. “Cosa ti fa credere che
me ne servisse una?”
“Il
tuo messaggio.”
“Il
mio…”
“Messaggio,
sì. Quando mi hai scritto che oggi ci sarebbe stato uno dei vostri ridicoli tea
party, ho subito previsto che, data la recente novità della nostra relazione,
saresti stata bersaglio di allusioni maliziose e domande indiscrete. Tre contro
uno. Le statistiche sono a tuo sfavore.”
Erano
già così vicini che a Molly bastò alzare il braccio per sfiorargli la linea
mediana del collo, seguire in punta di dita i muscoli – il platisma, lo
sternocleidomastoideo – e sotto immaginare il canale membranoso della faringe,
la sporgenza della cartilagine tiroidea che circondava la laringe, il
cosiddetto pomo di Adamo. “Spero che tu scommetteresti lo stesso su di me.” Molly
sentiva le pulsazioni del suo sangue, pompato nelle vene della gola a ritmo
serrato; vedeva il guizzo di muscolo nella guancia di lui, il tremolio delle
ciglia. La faceva sentire bellissima. Si alzò sulle punte e gli posò un bacio
leggero come aria di bonaccia sulle labbra. “Ti ringrazio.”
Sherlock
la trattenne, prolungando il momento. “Devi tornare giù?” La sua voce,
significativamente contrariata, le lasciava poco da immaginare.
Molly
sorrise, mentre la mano di Sherlock si posava sulla sua guancia. “Si
insospettiranno se non lo faccio.”
“Temo
che non ci abbiano mai davvero creduto, Molly.”
“Quindi
quando scenderò, penseranno che noi…”
Sherlock
annuì. “È altamente probabile.”
Dannazione. “Suppongo che non
esista la remota possibilità che tu crei davvero del Napalm.”
Molly
avrebbe scommesso tutto l’oro del mondo su una solida convinzione: non avrebbe
mai potuto abituarsi al suono della risata di Sherlock.
*
Molly
non riusciva a dormire. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.
Assuefatta ai turni di notte e a bruciare il sonno sui libri di testo sin dai
tempi dell’università, non era strano per lei trascorrere le ore di buio in
bianco.
Fino
a un paio di settimane prima sarebbe rimasta nella stanza sopra le scale,
avrebbe messo uno dei dischi di suo padre (i Jethro Tull), cercando di non
pensare troppo a quanto le mancasse il suo lavoro.
Molly
scese al piano inferiore. Toby le era alle calcagna.
Fu
così, praticamente per quella ‘casualità’ tanto bistrattata da
Sherlock, che scoprì qualcosa di stupefacente.
Sherlock
era chino sul laptop che teneva sulle gambe incrociate, picchiava i tasti con furiosa determinazione.
Non
era questo l’elemento che causava il suo sbalordimento. No, quello era tutto
concentrato sulla ragazza seduta sul tappeto e accerchiata da
quattro portatili. Non poteva avere più di venticinque anni. Era vestita
interamente di nero, ad esclusione della scritta fosforescente sulla maglietta ‘Rock-paper-scissors’
e della stampa a fiori dei Dr Martens, il che contribuiva a darle l’aspetto di
un mingherlino agente segreto un po’ sopra le righe. Aveva i capelli scuri e un
viso dalla fronte spaziosa e larga, insolitamente lungo, che metteva in risalto
gli occhi magnetici e mercuriali.
Stava
mangiando un lollipop e a giudicare dai bastoncini di plastica nel posacenere
accanto a lei, era stato preceduto da innumerevoli altri. “Prima che lo
domandi, no, non sono l’amante del suo uomo e no, non la odio per essere
l’amante del mio.”
Molly
batté le palpebre. “Come, prego?”
“Oh,
andiamo!” La ragazza si passò il lollipop da una guancia all’altra,
dedicandole a stento uno sguardo, senza smettere di scrivere. Aggrottò la
fronte. “Lei non sa chi sia io.”
Era
la verità. “Mi spiace, no.”
“Molly
Hooper, Victoria Queen. Victoria Queen, Molly Hooper.” Sherlock le presentò.
Victoria
fece una smorfia. “Sì, prima che lo dica, i miei genitori avevano un pessimo
senso dell’umorismo all’epoca. Lo hanno ancora, in effetti.”
“Non
è caratteristica che si perda nel tempo, mi dicono,” commentò Sherlock dal
divano.
“Sherlock
Holmes. Non è messo tanto meglio di me, vero? E comunque quella era la sua idea
di presentazione? Nessun dubbio che abbia impiegato dieci anni a farsi la
ragazza e - oh, oh. Sono entrata. Il suo talismano funziona davvero.” Nel dirlo
scoccò un’occhiata a Molly. “La Silk Road è mia.”
*
“Spiega,”
chiese Molly a Sherlock. “Cosa state facendo, di preciso?”
Victoria
si alzò con un movimento fluido, stiracchiandosi come un gatto. La guardò a
lungo, fissamente, come per studiarla. “Cosa sa di protocolli di rete?”
“Molto
poco.”
L’altra
annuì, come se non si fosse aspettata una risposta diversa. Andò a sedersi
sulla poltrona di John. “Per protocollo di rete si intendono le modalità di
comunicazione che apparecchiature elettroniche collegate tra loro devono
rispettare per l'espletamento di un certo servizio di rete.
Queste apparecchiature possono essere host, computer
clienti, smartphone,
personal digital assistant, monitor,
stampanti,
sensori.
I diversi protocolli sono organizzati con un sistema detto "a livelli": a ciascun livello viene
usato uno specifico protocollo.”
“Quindi,”
Molly cercò di fare il punto della situazione in quella baraonda di termini
tecnici che erano come una lingua straniera per lei, “cercate di rintracciare
qualcosa o qualcuno?”
“Mesi
fa, sono state violate tutte le parabole inglesi affinché trasmettessero
un’immagine su qualsiasi ricevitore. Chiunque sia stato, è entrato nel sistema
di sicurezza delle emittenti. Per fare qualcosa di simile si può procedere in
due modi.” Victoria tenne il conto sulle dita piene di anelli. “Uno è hackerare
il sistema di sicurezza. In questo caso, per identificare il segnale di chi ha
inserito l’immagine, serve una traccia, per piccola che sia. Ottenuta quella, si
può risalire a un indirizzo ip o individuare l’area da cui è partito. Può
trattarsi di un server straniero, intestato ad anonimi o a un prestanome. Se è un
tipo abbastanza astuto, sa che può fare due come duecento passaggi di segnale.
Il segnale può attraversare l’intero globo, schizzare e ripartire ovunque vi
sia un server, da un continente all’altro, per rendere più difficile trovare la
sorgente. Se poi è qualcuno che è anche maledettamente bravo, una settimana non
basta per risalire a lui.”
“Diceva
che c’è un altro modo.”
“C’è
il modo elegante.” Un sorriso inconsistente, sprezzante. “Non il mio.
Basterebbe rubare l’ID di riconoscimento di una guardia del sistema di
sicurezza, così da accedervi senza craccarlo. A quel punto bisogna comunque
tracciare chi l’ha utilizzato. Potrebbe partire da un posto qualunque, anche da
un Internet Cafè per intenderci. Londra è la metropoli più videosorvegliata del
mondo. Conta circa un milione di telecamere tra quelle
piazzate dalla polizia, quelle degli enti locali, degli esercizi commerciali, delle
catene di grande distribuzione e delle case private. Una ricerca incrociata su
più settori, che spaziano dai video alle immagini alle celle dei cellulari, ci
porterebbe al nostro hacker.”
“È così facile? Spiare il Grande Fratello?”
“Più di quanto si pensi, per gente come me. Non
molto tempo fa la Apple ha sviluppato un’app interessante. Si chiama Surv e
permette a chiunque di realizzare
una mappa con una descrizione dettagliata dei punti esatti in cui sono
collocate le telecamere di sorveglianza esterna e delle loro caratteristiche,
fino ad un raggio di 100 metri dal proprio smartphone. Io sono partita
dall’idea di base e l’ho migliorata. Con il mio programma posso tranquillamente
accedere alle riprese.”
Fu
un fulmine a ciel sereno. “È così che mi hai trovata.” Molly si rivolse a
Sherlock.
Lui
sembrava stranamente sulle spine, come se temesse che lei dicesse o facesse
qualcosa di – Un momento. “Se ti è possibile entrare così facilmente, puoi anche
controllare quelle che si affacciano sulla mia strada? Le registrazioni del giorno - ”
“Molly.”
Ed eccola la verità, orribile e tremenda, il segreto scottante che lui voleva
tenerle nascosto. Sherlock sapeva chi aveva piazzato la bomba nel suo
appartamento. Doveva averlo sempre saputo. Ecco perché era parso così
tranquillo, ecco perché il suo umore tendenzialmente ballerino si era mantenuto
così stabile in quei mesi. Lui sapeva e non le aveva detto niente.
“Da
quanto?”
“Molly.”
“Rispondi
alla domanda, Sherlock.”
Lui
chiuse e riaprì le palpebre in un battito di ciglia. “Sin dall’inizio.”
“Tu
sapevi e non mi hai detto niente.” Era ferita, si sentiva tradita. “Come hai
potuto?”
“Dovevo.”
“Ma
perché?”
“Tu
eri morta, Molly. Sei morta per cinque ore e diciassette minuti quel giorno.
Eri stata minacciata e la colpa era mia. Dovevo accertarmi che –”
Molly
non lo stava più ascoltando. Andò dritta in camera di Sherlock e si chiuse la
porta alle spalle.
*
Non voglio fare la
guastafeste, ma non ti sembra tutto un po’ precipitoso? È strano. È come se -
“Molly.”
Come se volesse
trattenerti.
Ovviamente
Meena aveva ragione. Molly si passò con discrezione le dita sulle guance,
disperdendo le impronte delle lacrime. “Va’ via.”
Lo
sentì avvicinarsi. “Non ho intenzione di farlo.”
Quando
le sfiorò le spalle – contratte e scosse dai tremiti – nella porzione tra le
scapole, Molly si voltò a fronteggiarlo con amarezza. Si morse il labbro,
frustrata. “Perché mentirmi? È questo che non capisco. Credevi che avrei dato
di matto?”
“Cosa
vuoi sentirti dire, Molly?” Sherlock fece una smorfia, ma il suo volto rimase
serafico. Non aveva una natura violenta, ma impetuosa, veemente, facile ad
infiammarsi quando trovava qualcosa per cui accalorarsi. Era strano, strano e
terribile, vederlo così svuotato e calmo. Era come trovarsi nell’occhio del
ciclone. “Che mi sono comportato in modo irragionevole? Che ho preteso che Mycroft
ti mettesse sotto pressione, prospettandoti i peggiori scenari? Bugiardo.
Manipolatore. Noncurante. È questo il tipo di uomo che sono. È quello che sono.
Non un brav’uomo.”
“Cercavi
di proteggermi.”
Sherlock
la incenerì con occhi che la rabbia repressa – verso se stesso, non verso di
lei - aveva reso ardenti e aspri. Si allontanò con falcate ampie e sferzanti.
“Non cambiare le carte in tavola, Molly. Non a mio favore.”
“Non
lo faccio. Sto solo cercando di capire fino a che punto questa storia ti abbia
sconvolto. A quanto pare abbastanza da costringerti a chiudermi a Baker Street
per due mesi.” Molly ribadì il concetto: “Due mesi, Sherlock. Ho dovuto
rinunciare al mio lavoro.”
“Lo
so.”
“Hai
idea di come mi sia potuta sentire?”
“Ne
ho un’idea molto precisa.”
No. Molly scosse la testa,
si prese i gomiti. “Non mi farai sentire in colpa. Non questa volta. Non puoi
mettere sullo stesso piano – le situazioni sono completamente differenti!”
Un
uomo diverso, un uomo senz’altro più sincero sui propri sentimenti e su se
stesso, si era buttato dal tetto del Barts. Quell’uomo aveva rinunciato alla
sua vita per salvaguardare quelle delle persone che amava.
“Ma non le
motivazioni.” Il
sentimento era inciso nel suo sguardo, ora come allora. Paura di perdere il
cuore e vederlo bruciare e bruciare, fino a ridursi in cenere.
“Cosa succederà
adesso?” gli domandò a bassa voce.
Sherlock
sospirò. “Immagino che se vorrai riprendere il lavoro, Mike ti accoglierà a
braccia aperte.”
“Te
ne faresti una ragione?” Molly non attese che le rispondesse. “Chi ha piazzato
la bomba è ancora sulle mie tracce.”
Sherlock
aspettò una frazione di secondo. “Niente è a riprova del contrario.”
“Ma
niente fa supporre che lo sia,” ritorse Molly.
“Molly.”
Sherlock chiuse gli occhi e un’espressione completamente diversa scalzò la
precedente, che era stata neutra e apatica. Il ciclone si era finalmente
abbattuto e Dorothy ne fu travolta insieme alla sua casa, sradicata dalle
fondamenta. Il panico gli corrodeva la voce. Ti prego. “Non posso correre il rischio -”
“Come?”
“Il
rischio di perderti.”
Molly
gli prese la mano, gli baciò il dorso. Gli rivolse un sorriso che – lo sentiva
– era spiegazzato quanto le rughe di profonda tristezza ai bordi degli occhi di lui. “Ci voleva
tanto, Sherlock?”
*
“Non
riprenderò il mio lavoro al Barts per il momento, ma voglio poter uscire.”
Stesa sul letto di Sherlock, Molly squadrava il soffitto. “Verranno prese tutte
le precauzioni del caso, sarò sorvegliata a vista, anche scortata se servirà a
renderti più tranquillo. Ne ho bisogno. Rischio di impazzire altrimenti.”
“D’accordo.”
Molly
si voltò su un fianco, facendo vibrare il materasso per colpa del movimento
travolgente. “Ma?”
“I
rischi rimangono. Anche se le percentuali si sono drasticamente abbassate, il
problema della tua sicurezza persiste, Molly.” Sherlock aveva una ruga profonda
tra le sopracciglia. Molly gliela spianò con le dita.
Sherlock
gliele afferrò e gliele baciò. Si girò a sua volta e in breve lei gli fu tra le
braccia.
“C’è
Victoria nell’altra stanza,” gli ricordò ad un soffio dal suo viso, sorridendo
leggermente.
Le
labbra di Sherlock risalirono la curva del collo, indugiarono sull’arteria
carotidea prima di sfiorarle il lobo dell’orecchio. “Allora dovrai essere molto
silenziosa, Molly. Silenziosa come un topo.”
*
Molly
si chiuse la vestaglia di Sherlock in vita. Le stava ridicolmente larga e
qualcuno avrebbe potuto chiederle cosa la spingesse ad ostinarsi a utilizzarla.
Una
serie incredibilmente buona di motivi. Il fatto che l’odore di Sherlock –
profumo costoso e acqua di colonia in cui riconosceva una scia di cedro, forse –
ne permeasse il tessuto. Era come averlo contro la pelle, ad un palmo di naso. Inoltre
produceva insperati effetti in Sherlock.
Sherlock.
Lo aveva lasciato profondamente addormentato. La tensione quasi sempre presente
sul volto angolare, nel sonno, cedeva il posto alla rilassatezza del riposo. Dormiva
sempre dopo –
“Aiutatemi.”
Con un sobbalzo spaventato, Molly
ebbe lo scorcio di un uomo, pallido come un fantasma e infagottato in un
cappotto troppo pesante, prima che lui caracollasse verso la poltrona di John. Là
cadde sulle ginocchia, stremato.
N/A:
Okay.
Se non avete capito un ciufolo della parte relativa a Victoria, non
preoccupatevi. È una reazione normale e naturale – perciò buona e giusta - e io
ho trascorso gran parte del pomeriggio di ieri a spremere mio fratello come un
limone perché mi spiegasse vita, morte e miracoli di ogni cosa. È stato
talmente buono che ha perfino accettato di controllare che io non avessi
scritto inesattezze (trovo altamente mortificante il suo stupore quando ha
ammesso di non averne trovate, ma
anche una punta di orgoglio per il lampo di approvazione con cui mi ha
osservato, dichiarando che, allora, non era stata una totale perdita di tempo.).
Ebbene,
tiriamo le somme fin qui. È o non è stato Moriarty che ha fatto piazzare quella
bomba nell’appartamento di Molly? È tornato oppure no?
Rispondo
alla prima, dal momento che per la seconda occorrono ulteriori capitoli e
chiarimenti. Ebbene, no, non è stato Moriarty, non direttamente. C’è qualcuno
che vuole – o non vuole – Molly morta; qualcuno che intendeva mandare un
messaggio a Sherlock. Ora posso confessare una cosa ridicola di questa storia, che
mi sono tenuta per me da quando ho iniziato a pubblicarla, e cioè che l’epilogo,
quello che sarà l’epilogo, in realtà sarebbe il prologo che non ho potuto – e voluto
– pubblicare, perché altrimenti i sentimenti di Sherlock sarebbero stati chiari
sin da allora. Sherlock è rimasto sconvolto quanto gli altri, ha davvero creduto
che Molly fosse morta. Per questo l’ha voluta con sé a Baker Street. Avuta
la certezza che non sia Moriarty a minacciarla, temeva che Molly non avrebbe capito cosa lo
avesse spinto a mentirle o che non lo perdonasse. La paura o timore di perdere
qualcuno, quando ci si affaccia nell’abisso, spalanca le porte al cambiamento
ed esso assume le forme più inaspettate o forse solo quelle che ha sempre
avuto, ma che ci siamo rifiutati di osservare in precedenza, questo tanto in amore
quanto in amicizia.
Spero
che non siate rimaste deluse dall’attesa e da quel che ne è venuto. Scappo per rimettermi
a letto. Sono una piaga malata al momento :(
Un
bacione a tutte!
P.s.:
ho cominciato a rispondere alle vostre recensioni, un po' a casaccio e
non in ordine cronologico, non me ne vogliate e se vi suonano strane
è la febbre a parlare e non io. Perciò chiudete un
occhio, vi prego.
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Capitolo 11 *** XI ***
11
Molly
trascinò lo sconosciuto fino al divano, gli controllò il polso,
quindi andò a svegliare Sherlock.
“Tipico
di te, Molly.” Sherlock impresse alla frase un’esasperante dose di arroganza,
mentre si chiudeva con efficienza la vestaglia con un nodo assurdamente elegante.
“Uno sconosciuto irrompe nell’appartamento, sviene e qual è la tua prima
preoccupazione? Chiamare qualcuno in aiuto? Certo che no. È accertarti che lui,
un uomo che ti è del tutto estraneo e che per quanto tu ne sappia potrebbe
essere un criminale, stia bene. Hai pensato al fatto che potesse aver finto di
essere svenuto per approfittarne quando ti saresti avvicinata a controllarlo e
colpirti a tradimento? Un solo colpo, Molly, sarebbe bastato. Ma no, è ovvio che
l’idea non ti abbia minimamente sfiorato.”
E buongiorno anche a te. Certo, ora che lui
glielo esponeva sotto quel punto di vista, Molly si rendeva conto di essere
stata avventata. C’era un punto almeno, uno su cui poteva difendersi. “Sono un
medico, Sherlock,” osservò. “Sono in grado di riconoscere un uomo svenuto,
svenuto davvero, quando ne vedo uno.”
Sherlock
accettò quell’unico attestato a suo favore con un cenno di seccata accoglienza,
prima di chinarsi sul divano, sfregandosi le mani. “Bene, vediamo chi abbiamo
qui.”
Molly
gli era accanto e osservò di prima mano la sorpresa prendergli d’assalto il
volto.
“Henry
Knight!” esclamò Sherlock.
“Lo
conosci?” domandò Molly, curiosa.
“Il
caso di Barskerville ti dice niente?”
“Quello
del centro di ricerca sperimentale a Dartmoor?”
“Esatto.”
Molly
sorrise. “Mi è sempre piaciuto quel caso.”
“Perché?”
“È
stata la prima volta che ti ho visto sconvolto per qualcosa,” rispose lei. “Il grande e temibile Sherlock Holmes mosso a sentimenti del
tutto umani come la paura e il dubbio.”
“Visto?”
Sherlock fece una smorfia. “Non eri neanche lì.”
Molly
roteò gli occhi. “Visto metaforicamente parlando, Sherlock. Il blog di John è
riuscito a darmi un’idea piuttosto precisa al riguardo.”
“Spero
che da allora tu abbia avuto sottomano migliori circostanze in cui vedermi
sconvolto.”
L’espressione
sul suo viso era così esplicita che Molly ebbe la buona grazia di arrossire. “Mi
piace credere di sì.”
“Mr.
Holmes?” L’uomo sul divano, Henry Knight, aprì gli occhi, visibilmente
disorientato.
Sherlock
lo afferrò di malagrazia per le braccia. “Mr. Knight! Animo, si tiri su!”
Invece
di scuotersi da quella presa indelicata ed energica, lui si fece aiutare a raddrizzarsi
in una posizione più consona. “Questa volta non cercherà di aspirare il fumo
della sigaretta se ne prendo una?”
Sherlock
sbuffò. “Perché sprecar del tempo in un’affermazione del tutto falsa quando
sappiamo entrambi che ha smesso di fumare sei mesi fa?”
“Stavo
solo controllando.” Henry Knight si giustificò, poi sorrise a Sherlock come ad
un amico di vecchia data, con una vena di gratitudine e rispetto palpabili. “È
un piacere vedere che è rimasto lo stesso.”
“Non
sono cieco. E so perché è qui naturalmente.”
“Lo
sa?” reagì l’altro, turbato. Sembrò ricordarsi chi aveva di fronte perché la
sorpresa sbiadì in un sorriso convinto. “Certo che lo sa. Accetterà il caso?”
“Non
ne ho la minima intenzione,” negò Sherlock risolutamente. “Un cavallo da corsa
scomparso? Che si rivolgano a Scotland Yard.”
“Quindi
non sa niente dell’omicidio del suo allenatore, John Straker.”
Sherlock,
che gli aveva dato le spalle e si era allontanato verso il camino, ritornò in
fretta sui suoi passi e si piazzò di fronte a lui, puntellando i gomiti sui
braccioli della poltroncina. “Me ne parli e badi a non tralasciare alcun
dettaglio, per misero o irrilevante che le appaia. Quello che a voi altri
sembra ininfluente può rivelarsi determinante per me.”
Molly
simulò con discrezione un colpo di tosse.
“Non
che ci sia niente di sbagliato in voi altri,” concesse Sherlock, annoiato. “Solo
di inutile”, mormorò, credendosi non sentito.
Henry
Knight sembrava non aver inteso la variazione di rilettura dei fantomatici
altri. Era troppo impegnato a guardare Molly ad occhi sgranati. “Lei è Mrs.
Holmes?”
Molly
gli sorrise con simpatia, non perché avesse detto qualcosa di particolarmente
divertente, ma per l’assurdità del contesto che fino a pochi mesi prima le
sarebbe parso addirittura inconcepibile. “No.”
Henry
Knight sospirò, come se fosse animato da una specie di sollievo. “Oh, bene.”
Sherlock
e Molly lo guardarono.
“Cioè,
meglio per…”
“Molly,
gradirei un tè se possibile.” Sherlock le scoccò un’occhiata che avrebbe dovuto
essere affascinante. “Ti ringrazio.”
*
Gli
occhi di Henry Knight seguirono Molly in cucina con un’ammirazione che Sherlock
trovò inappropriata e poco pertinente all’occasione. “Sembra una donna
deliziosa. Assolutamente straordinaria.”
Sherlock
accolse la constatazione con un microscopico assenso. “Lo è,” replicò
impaziente.
“Chi
è?”
“Molly
Hooper, mia patologa di fiducia e recente coinquilina. Al momento il suo
appartamento è in ristrutturazione.”
“Ci
voleva un tocco femminile,” dichiarò l’altro convinto, guardandosi attorno con
occhi più zelanti nel cogliere i dettagli. “Ho letto del matrimonio del Dottor
Watson sul suo blog. Sono felice per lui.”
“Sì,
una conclusione insperatamente fortunata che ha portato ad un'ereditarietà di tipo autosomico dominante in Catherine
Watson.” Sherlock si sporse con il busto su un lato, tamburellando
irritabilmente le dita sul proprio ginocchio. “Ora, ritornando alla questione
d’interesse comune, stavamo parlando di un assassinio in piena regola?”
“Una
tragedia, una vera tragedia. Il proprietario, il colonnello Ross –”
“Sì, sì, sì, è ovvio che
sia venuto qui a nome del colonnello Ross, il quale sperava che il nostro
precedente rapporto di lavoro mi avrebbe spinto a sobbarcarmi il caso
dell’equino scomparso. Saltiamo la parte relativa alle discutibili compagnie a
cui suo padre si è accompagnato da giovane e arriviamo al fatto essenziale.”
Frastornato, Henry
Knight annuì, concentrandosi nello sforzo evidente di fare quanto gli veniva
richiesto così imperiosamente. “Barbaglio
d'Argento ha fruttato al colonnello Ross tutti i primi premi ippici di questi
ultimi anni. È, forse adesso sarebbe più calzante dire era, il favorito all’Ippodromo di Ascot. Tavistok è dove si trova
la tenuta del colonnello. L’altro ieri notte le scuderie sono state chiuse a
chiave ed è rimasto di guardia il vice di Straker, Ned Hunter. Pochi minuti
dopo le nove, la fantina Edith Baxter gli ha portato la cena. Aveva con sé una
torcia. A quel che Edith racconta, si trovava a dieci metri dalle scuderie
quando - ”
“Quando ha visto qualcuno di sospetto avvicinarsi.”
“Già! Ma come fa lei a –”
“Piuttosto elementare. Proceda. Lo ha visto in volto?”
“Ne ha dato una descrizione precisa: un uomo pallido e
nervoso che dimostrava trent’anni.”
“Cosa ha fatto?”
“Ha chiesto informazioni. Non è raro che gli allibratori cerchino
notizie di prima mano. A quel punto il vice si è affacciato e ha cacciato
l’uomo in malo modo, quindi ha deciso per sicurezza di riaccompagnare Edith
alla casa principale. Sa, sono fidanzati. Ha chiuso la porta a chiave, portando
con sé Bod.”
“Bod,” ripeté Sherlock.
“Il cane,” chiarì Henry.
“E il cane non ha abbaiato durante la notte?”
“Non che io sappia. Lo trova interessante?”
“Estremamente, ma continui.”
“Dopo aver riaccompagnato Edith, Ned ha chiamato Straker,
che ha deciso di andare a controllare. La mattina dopo Ned Hunter era stato
drogato, Barbaglio era scomparso e non c’era traccia di Straker. Sono state
avviate le ricerche, l’intera zona è stata messa a tappeto e –” s’interruppe ed
inspirò a fondo.
Ovviamente era alla parte interessante del racconto che
l’uomo comune dava fondo all’impressionabilità e si lasciava andare ad
un’empatia insanabile.
Sherlock lo invitò a proseguire.
“A a circa un quarto di miglio dalle scuderie il soprabito
di John Straker è stato trovato su un cespuglio di ginestre. Immediatamente al
di là si stende una depressione a forma di conca e nel fondo c’era il suo cadavere*.”
“Ha delle foto?”
Henry annuì e prese dalla tasca interna del soprabito un
pugno di fotografie che gli porse.
La vittima aveva il cranio spaccato, sicuramente prodotto dal
colpo di uno strumento pesante. Riportava una ferita alla coscia.
Entrando, Molly si allungò a guardarla, interessata. “Un
taglio lungo e preciso. Deve essere stata un'arma appuntita a causarlo. Un
coltello a serramanico o forse uno più piccolo. Un coltellino svizzero magari?”
Sherlock accolse l’osservazione giustissima di lei con un segno
d'intesa impercettibile.
“Mr. Knight, come desidera il suo tè?”
Sherlock scrutò accigliato il sorriso gentile, distratto di
Molly mentre porgeva a Henry la tazza di Earl Grey con la quantità di zucchero
e crema di latte richieste. La ringraziò sbadatamente quando gli passò una
tazza già preparata a puntino, in rispetto alle sue personali preferenze che
lei dava mostra, a ragione, di conoscere alla perfezione. Ne bevve un sorso, dopodiché
andò nella camera da letto senza dare l’impressione di precipitarsi.
Riemerse pochi minuti dopo per trovare che quel lasso di
tempo moderatamente breve era stato sufficiente al bisogno insopprimibile di
Molly di risultare simpatica a qualunque anima sostanzialmente sciocca e dotata
tuttavia di un minimo di buonsenso.
Osservandoli interagire, Sherlock archiviò la strana
sensazione alla bocca dello stomaco con un corrugamento di sopracciglia, mentre
sollevava il bavero del Belstaff e faceva il nodo alla sciarpa. “C’è un treno
per Tavistock alle 11:06 e parte da Paddington. John è già sulla strada.”
Non si permise di guardarla. Non permise a lei di salutarlo.
Non di fronte a Henry Knight che non sapeva e non avrebbe capito e avrebbe di
sicuro frainteso la natura del loro rapporto nel goffo tentativo di definirlo.
Non lo vide, ma lo sentì ugualmente,
come acido. Il lampo che doveva averle attraversato lo sguardo a quel rifiuto
improvviso e inatteso.
Sapeva
che lo avrebbe perseguitato nel tempo a venire, allo stesso modo in cui lo
aveva fatto lo sguardo fiducioso e spaventato che lei gli aveva mostrato
all’alba della sua partenza di tre anni prima.
*
Molly
avrebbe suddiviso la giornata esattamente come l’aveva organizzata in
precedenza.
Era
giovedì 24 luglio e nel pomeriggio aveva lezione con i ragazzi. Il fatto che i
suoi pensieri si rivolgessero con malefica insistenza a Sherlock non sarebbe
stato un intralcio. Solo perché in quei mesi sembrava essere cambiato, solo
perché era parso vicino come non mai, la sua mente così disposta a focalizzarsi
su di lei, Molly non si era fatta un’idea sbagliata. Aveva saputo con dolorosa
sicurezza che, quando si fosse trattato di scegliere tra lei e un caso, lei
sarebbe passata in secondo piano. Era pronta ad accettarlo. Non aveva avuto la
presunzione di credere che sarebbe venuta prima del resto. Sherlock provava dei
sentimenti per lei, quali ne provava per John e Mrs. Hudson, ma questo non gli
impediva, non gli aveva mai impedito, di comportarsi in modo orribile. L’indifferenza sapeva ferire più dell’odio.
Sapere che non si trattasse di indifferenza, ma di una salda incapacità di
leggere gli umori, no, neanche quello, di prevenire piuttosto, sì, di prevenire
i sentimenti che le sue azioni e parole spiacevoli potevano provocare in chi
gli stava intorno… oh, era uno spreco di opportunità.
“Molly cara, non puoi farti trovare così. I ragazzi saranno qui a momenti e tu sei
ancora in pigiama.”
Molly
sollevò lo sguardo dalla tazza di tè ormai freddo che teneva tra le mani.
Era
stata nella penombra confortevole della stanza abbastanza a lungo da perdere
cognizione del tempo che trascorreva.
Mrs.
Hudson la fece alzare, la sospinse gentilmente verso la porta dell’appartamento
e poi verso le scale. “Non prendere le cattive abitudini di quel ragazzaccio.
Mi ha appena scritto di trovarti un mio cappello che ti stia bene, ma non
chiedermi a che cosa gli serva che tu abbia un cappello. Non è per un – siete
il tipo di coppia che ama i travestimenti?”
Molly
la guardò a bocca aperta.
“Non
fare quella faccia scandalizzata, mia cara. Pensi che solo perché adesso sono
rugosa e raggrinzita come una mela cotta, non abbia avuto anch’io il mio bel
daffare da giovane? Su, vestiti come si conviene. Sai che quel tale Wiggins
si presenterà a breve.”
La sua guardia del
corpo.
Molly avrebbe sorriso del ridicolo pensiero se si fosse trattato di un giorno
diverso, ma non era un giorno diverso e con sua vergogna provò invece un moto
di fastidio.
*
Nella
luce rosa-arancio del tramonto, Molly si abbracciava le ginocchia sulla moquette
nuova del 221C. “E questo è tutto.”
Wiggins
era seduto a poca distanza. Scosse la testa. “Non è tutto, Doc. Tu cosa provi?”
“Non
cercare di psicoanalizzarmi, Bill Wiggins. Hanno già cercato di farlo in
passato e non è piacevole.” Il ricordo – Sherlock travestito da psicologo che
le consegnava la revoca del procedimento disciplinare, dopo aver fatto a pezzi
lei e il suo passato – le provocò una fitta di malessere.
“Non
un ricordo di quelli gradevoli, eh?” Wiggins si grattò il mento con l’indice. “Ne
so qualcosa. In riabilitazione ci sono questi gruppi di discussione. Terapia di
gruppo, la chiamano loro. La odiavo quasi quanto odiavo i dottori.”
“Quante
volte ci sei andato?”
“Abbastanza
per capire che la cura diventa inutile se non si vuole essere curati.”
Molly
pensò a Sherlock, a quanto poco sapesse del suo passato, di quello che doveva
aver sofferto e di come aveva affrontato il dolore e la solitudine.
“Hai
conosciuto la mia Vicky.”
Molly
guardò Wiggins, stranita.
No, non sono l’amante
del suo uomo e no, non la odio per essere l’amante del mio.
Scoppiò
a ridere. Come aveva potuto essere così cieca?
*
“Victoria
Queen è la fidanzata di Wiggins.”
Non
ci furono abbracci o saluti di rito questa volta.
Sherlock
non accusò i segni della loro mancanza. Indifferente, si tolse il Belstaff e lo
buttò sul divano. “E con ciò?”
“Avresti
potuto dirmelo.”
Il
volto di Sherlock esprimeva noia e anche una certa incredulità. “Dopo esserti
tanto affannata a ripetermi fino alla nausea quanto felicemente fosse
fidanzato? Davo per scontato che ne fossi già a conoscenza dal momento che è il
tuo amico del cuore.”
“Smettila.”
Molly sospirò e accigliò la fronte. “Wiggins non è il mio amico del cuore.”
“Sei
arrabbiata? Sembri arrabbiata. Perché sei arrabbiata, Molly?”
Ora la degnava della sua
considerazione. Molly storse il naso e girò una pagina. “Non sono arrabbiata.”
Sherlock,
almeno, mostrò un minimo di discernimento non credendole. Seduto sulla sua
poltrona, si spazientì e accavallò le gambe. “Mi chiedo a che pro mentire,
Molly, quando entrambi sappiamo che sia uno spreco di energie e d’intenti.”
“Vuoi
proprio sentirtelo dire, vero?” Molly chiuse il libro di scatto, lo poggiò sul
tavolino e incrociò le braccia in petto, fissandolo con rabbia. “D’accordo,
Sherlock, sì, sono arrabbiata. Lascio a te il piacere di dedurre il motivo?”
Sherlock
fece una smorfia. Non gli era mai piaciuto il sarcasmo fine a se stesso.
Mycroft lo trovava di cattivo gusto ed ecco svelato l’incentivo considerevole che
lo aveva reso un’arma ricorrente nella lotta ai nervi di Mycroft Holmes.
“Riguarda il caso.”
“Fuoco.”
“Riguarda
quello di cui abbiamo discusso ieri sera.”
“Due
sere fa,” lo corresse Molly. “Bum, Napalm!”
“Molly.”
Pronunciò il suo nome come un lamento, con il tono che un genitore userebbe con
il figlio indisciplinato.
Se n’era andato senza una parola, senza un saluto, senza uno
sguardo.
“Molly.
Avresti voluto che ti portassi con me?”
L’idea
era talmente campata per aria – bugia - e il fatto che lui gliela accollasse le
risultava così indisponente, che Molly ne fu urtata. “Non dico questo. Dico
solo che sarebbe stato carino che tu mi avessi chiesto di accompagnarti.”
Si
rese conto da sola di quanto ciò che aveva appena detto suonasse incoerente.
“Sarebbe
stato irragionevole,” disse infatti Sherlock. “Rifletti. Il fatto che tu ti sia
convinta di essere relativamente al sicuro, non dimostra che tu possa uscire
senza gli opportuni provvedimenti. Inoltre oggi avevi lezione con i ragazzi.
Sbaglio?”
Domanda
retorica.
“E
da quando conosci i miei impegni?”
Sherlock
le scagliò uno sguardo offeso e duro, che fece male come se la avesse gettato
addosso un intero tor.
Molly
era troppo stanca e troppo arrabbiata per badarci o per farsi muovere a
compassione. Sapeva che lui non avrebbe ammesso il suo errore tanto facilmente,
ma per una volta avrebbe gradito che approdasse alla conclusione da sé, senza
che lei gliela offrisse su un piatto d’argento, come difatti aveva già fatto.
Era un detective? Che ci arrivasse da solo!
Senza
degnarlo di una parola, di un saluto, di un ulteriore sguardo, usandogli la
stessa cortesia o come avrebbe detto la prozia Cecilia ‘rendigli pan per
focaccia, leprottino mio’, Molly salì in camera sua.
*
Si
svegliò perché un’ombra le lanciò addosso
una rete. Dopo averla catturata, l’ombra le strappò la
rete,
la afferrò per le braccia e le scostò i capelli dal viso.
Aveva mani larghe,
calde e insospettatamente gentili per essere un incubo.
Molly
batté le palpebre e si svegliò. L’ombra era Sherlock e la rete che l’aveva
catturata, infima Poecilia in un mare nero fumo, era il suo cappotto.
“Indossalo,
Molly.”
“Perché?”
Sherlock
le rivolse un sorriso di una bellezza urticante. “Ti porto ad incontrare la
Regina.”
*
Ci
furono poche resistenze da parte sua, di sicuro meno di quelle che ottenne
provando a indossare il cappello che Mrs. Hudson le aveva prestato.
“Dove
stiamo andando?” domandò una volta che furono saliti su una macchina del
Governo Britannico.
“Nell’incantevole
Berkshire.”
“Cosa
andiamo a fare noi nel Berkshire?” domandò una volta che furono saliti su un
jet privato che li avrebbe portati in un aeroporto civile di Codice EGLT. Un’idea
straordinaria e spaventosa si intrufolò a viva forza nella sua immaginazione.
Ma non poteva essere, giusto? Non poteva trattarsi –
“La
tua intuizione è corretta.”
“Andiamo
a una corsa di cavalli?”
“La
Corsa, Molly, non una qualsiasi. La tua ignoranza in materia mi sgomenta.”
“A
me sgomenta la tua padronanza dell’argomento.”
“Avevo
l'abitudine di andare a cavallo, da ragazzo.”
Trascorsero
il resto del viaggio parlando di cavalli e ridendo degli aneddoti divertenti
che Sherlock le raccontò.
E
poi venne il momento di vestirsi in modo consono all’evento.
*
Aveva
temuto che si sarebbe sentita a disagio, invece scoprì di divertirsi con il
braccio infilato sotto quello di Sherlock e la sua voce carezzevole che desumeva
a spron battuto ogni persona nel raggio di cinquanta metri.
Il
suo vestito non era eccessivamente corto ed era di un turchese meraviglioso, le
scarpe non troppo scomode. Inoltre il paesaggio era straordinario, con il
verdeggiante Ippodromo di Ascot a far da sfondo a una massa variopinta di dame dai copricapo decisamente eccentrici e di uomini in giacca smoking e cravatte con
nodo alla Windsor (come aveva avuto modo di comunicarle Sherlock a dovere. Il
suo nodo, invece, era un Tiro a Quattro, grazie tante.).
Sugli
spalti furono raggiunti da Henry Knight, le orecchie a sventola messe in risalto dal
cappello del tight che subito mise sottobraccio. Era accompagnato da un uomo
basso con un monocolo, che lui le presentò come tal colonnello Ross.
Molly
gli strinse la mano e gli sorrise con calore.
Il
colonnello si rivolse a Sherlock con aria piuttosto burbera. “L’assassino, Mr.
Holmes. Mi aveva assicurato che oggi l’avrei trovato insieme al mio cavallo. Può
indicarmelo? Devo allertare gli uomini della sicurezza affinché lo prendano in consegna?”
“L’assassino
è stato già imbrigliato.”
Molly
nascose un sorriso, chiedendosi se i due uomini avrebbero capito che non stava
parlando per metafore.
“È
qui? Dove?”
“In
nostra compagnia,” intervenne Molly e Sherlock le elargì uno sprazzo del suo
sorriso più luminoso.
Il
colonnello assunse un’aria oltraggiata. “Le sono obbligato per aver ritrovato
Barbaglio d’Argento, Mr Holmes, ma devo sperare che quanto la sua compagna
abbia appena detto sia il frutto di un’insolazione o uno scherzo di pessimo
gusto. Essere accusato di omicidio, io!”
“Nessuno
sta facendo niente del genere, colonnello. La mia compagna e io ci riferivamo
ovviamente a chi adesso si trova alle nostre spalle.”
Henry
Knight e il colonnello Ross si voltarono per osservare che proprio in quel
momento Barbaglio d’Argento stava passando al galoppo per il consueto giro di
riscaldamento sulla pista.
“Il
cavallo!”
Sherlock
spiegò in breve che quella di Barbaglio fosse da considerarsi in tutto e per
tutto un’azione di legittima difesa dal momento che il suo allenatore aveva
cercato di provocargli un infortunio. “Il curioso incidente del cane mi ha
aperto gli occhi. Perché un cane da guardia addestrato non avrebbe dovuto
abbaiare? A meno che chiunque avesse preso il cavallo non fosse una persona che
il cane conosceva bene. La lealtà, una volta offerta, la si è ottenuta per
sempre.”
Molly
ebbe un tuffo al cuore.
“Brillante,”
esalò Henry. Nello stesso momento suonò la campana che proclamava l’inizio
della corsa.
*
“Mi
ricorda una scena di My Fair Lady,” disse Molly.
“Conosco
quel film!” esclamò Henry Knight.
Sherlock
non li ascoltò parlare di sciocche vacuità
né di un tale memorabile vestito bianco e nero.
*
Barbaglio
d’Argento vinse e Sherlock non sarebbe potuto apparire più soddisfatto.
Gongolava e aveva l’aria compiaciuta di un grosso felino mentre si aggiustava i
polsini inamidati della camicia. “Se permetti, vado a ritirare il nostro
denaro.”
“Non
ho giocato denaro,” gli fece notare Molly.
“Ma
l’ho fatto io,” fu la pronta replica di lui. “Ciò che è dell’uno appartiene
all’altro. Non è il principio base di ogni relazione che si rispetti?”
Molly
avrebbe potuto ridere per il brillio compiaciuto negli occhi Sherlock al suono
desolato che provenne da Henry. “Io non credevo –”
“Che
fossi serio? Davvero, Molly. Ti ho messo a disposizione il mio appartamento, i
miei vestiti, la mia attrezzatura di laboratorio e me stesso. Quale altro
motivo mi avrebbe spinto?”
“Hai
diviso con me l’ultimo pancake di Mrs. Hudson,” ricordò improvvisamente Molly.
“Questo
è irrilevante.”
“Non
per me.”
“Hai
una scala di priorità alquanto discutibile, Molly.”
Molly
gli sorrise, indulgente, dovendo trattenersi a forza dal baciare quell’uomo
impossibile. “Molti potrebbero dire lo stesso di te. John
testimonierebbe per primo.”
“L’opinione
comune è tristemente nota per la sua mancanza d'acume e la gente tende
all’irragionevolezza.”
Proprio
perché Molly era fiera di rientrare nel gruppo, infischiandosi delle apparenze, lo baciò, sotto il caldo sole di fine luglio,
con addosso gli occhi puntati di tutta l’Inghilterra.
*
Molly
aveva accompagnato Henry Knight alla porta e Sherlock non stava origliando.
“Mi
dispiace, sono impegnata.”
Sherlock
cercò di non lasciar trapelare la soddisfazione.
“E
lui lo sa?”
Molly
rise e Sherlock si sentì un po’ meno soddisfatto. “Non ci giurerei, ma non
depongo le armi.”
“Nel
caso in cui le cose andassero male, non che me lo auguri, vi auguro l’esatto
opposto, ma nel caso, ecco, posso sperare che penserai a me?”
Sherlock era preparato ad una risposta cortese, ma ferma, con le sentimentali
farciture previste socialmente nel dare il classico due di picche. Non era
preparato al sorriso di Molly né che lei abbracciasse Henry Knight con
trasporto e gli sussurrasse ignobilmente un ‘Promesso’ carico di allusioni
all’orecchio.
*
Molly
sapeva quel che faceva e sapeva quel che diceva. Forse aveva esagerato –
l’umore di Sherlock appariva nero e cupo come una notte di novilunio -, ma
serviva una lezione di qualche sorta e in fin dei conti trovava di non aver
fatto nulla di male.
“Molly,”
lo sentì latrare dal salotto.
Molly,
che era in cucina e stava versando l’acqua bollente nella teiera, arcuò la
schiena all’indietro e affacciò la testa nel vano delle porte scorrevoli. “Vuoi
qualcosa, Sherlock?”
Con
un’occhiata inferocita, lui tacque.
“Molly,”
uggiolò due secondi più tardi.
“Sì,
Sherlock?” Molly entrò nella stanza e poggiò il vassoio sul tavolino del caffè.
Si apprestò a servirlo.
“Credi di esserti vendicata abbastanza?”
“Non
lo so. Sta funzionando?”
“Sei
una donna crudele e spietata. Se non lo avessi visto di persona, non lo avrei
creduto possibile.”
Molly
annuì. “Devo esserlo se intendo sopravvivere nei tuoi affetti.”
Sherlock
grugnì. “E riesci a convivere con te stessa?”
“Alle
volte. Nei momenti buoni.” Molly si diresse verso la finestra.
Sherlock
la fermò per il polso. “Questo è uno di quei momenti?” domandò, guardandola da
sotto in su.
Molly
sorrise, curvandosi a baciare il cipiglio di lui. “Dipende da te, Sherlock.
Possiamo far sì che lo diventi.”
N/A:
Spero
che non sia un capitolo sottotono rispetto al solito. Io lo sono di sicuro,
sottotono intendo, anche se mi sento decisamente meglio rispetto a pochi giorni
fa. A tal proposito grazie a tutte per i consigli e gli auguri di pronta
guarigione, siete state assolutamente adorabili e in assoluto la migliore
medicina insieme alla visione ininterrotta di ‘My Fair Lady’ e ‘Dragon Trainer’
;) (A tal proposito nei deliri della febbre rivedevo Sherlock nel Professor
Higgins e Molly in Eliza. Prima o poi qualcosa verrà scritto al riguardo, temo.)
*
Tratto dal racconto “Barbaglio d’Argento” di Arthur Conan Doyle da cui il caso
è stato tratto e liberamente mutato (la cameriera è diventata fantina :D)
Un
bacione a tutti e alla prossima!
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Capitolo 12 *** XII ***
12
Tutto quello che
succedeva nei confini di Baker Street rientrava in un concetto appositamente
allargato di normalità perché la normalità, lì al 221, stava stretta a chi di
casa come un nuovo paio di scarpe di vernice troppo dure in punta.
Vi abitava un’arzilla
signora di mezza età, ciarliera e dalla lingua pronta e un folle, geniale uomo
dall’indubbia intelligenza, ma dalle più che discutibili qualità.
Seguiva quindi una
sfilza di personaggi di difficile inquadratura. Un medico militare che era
stato a sua volta affittuario per un paio d’anni; la di lui moglie, una donna
bionda dal cipiglio risoluto e la risata di chi sente custode del mondo che più
di ogni altro conta, il proprio; un affascinante Ispettore della polizia dai
modi un po’ bruschi; e un uomo dal naso aquilino e il profilo aristocratico,
gli atteggiamenti cerimoniosi, che si premuniva sempre di raddrizzare il solido
battente di foggia vittoriana.
Venivano poi loro: i
Clienti e gli Irregolari. Uomini e donne senza volto, senza età, senza nome.
Individui anonimi e discreti che si privavano di un’identità con la facilità
con cui certi animali fanno la muta.
Negli ultimi mesi, però,
vi era stata un’ulteriore aggiunta. Di chi era l’ombra femminile che si
delineava nello spiraglio delle tende ricamate? Di chi erano gli occhi ardenti
che occhieggiavano la strada poco prima del tramonto? Apparteneva forse a un
fantasma il volto commovente e pallido di morte?
Reclusa nella sua torre,
quel 221B arredato spagnolescamente e secondo il gusto fastoso del proprietario,
Molly Hooper osservava il mondo da una finestra, vivendo nei limiti che la sua
sicurezza le imponeva.
Così era nato il
pettegolezzo e la gente, notoriamente portata alla curiosità e spinta ad
impicciarsi delle altrui questioni, aveva preso gusto nella nuova chiacchiera,
che si era accresciuta e ingigantita, fino a diventare impossibile da evitare.
Così era nato il
fantasma della giovane Lady.
*
“La gente inizia a parlare,
caro.”
Sherlock pizzicò con leggerezza
le corde del violino. “Che parlino pure.”
“Non si tratta di semplici
pettegolezzi. Se fosse quello credi che starei qui ad avvisarti? Caro, iniziano
a fare domande.” Mrs. Hudson disse ‘domande’ come altri avrebbero pronunciato
la parola omicidio, in un tono sussurrato di accorata angustia.
Sherlock si grattò il
mento con l’estremità dell’archetto. “Domande,” ripeté e aggrottò le
sopracciglia.
“Esattamente,” scandì perentoria
Mrs. Hudson, contenta di aver ottenuto un minimo di considerazione. “Molly
attira l’attenzione. Perché non esce mai?”
“Agorafobia, fotosensibilità,
depressione, vampirismo. Esistono una moltitudine di ragioni
valide al giorno d’oggi.” Tra tante altre il fatto che Molly non uscisse alla
luce del sole. Non nelle fattezze riconoscibili della patologa Molly Hooper.
“Buongiorno a tutti.”
Parlando del diavolo.
Se anche avesse conservato
dei sospetti sul travestimento che aveva imposto come clausola nelle
negoziazioni del trattato di libera uscita, la reazione di Mrs. Hudson servì a
dissiparli. Gridò e fece un balzo all’indietro, uno spettacolo molto simile a
quello del suo ritorno, il che gli provocò una subitanea e travolgente sensazione
di dejà vu.
A quella reazione Molly
rimase impietrita sulla porta di casa, quindi, con un sospiro, abbassò il cappuccio
e si tolse il berretto per mostrare il suo viso sporco di fuliggine. “Sono io,
Mrs. Hudson. Lo so, ho urgente bisogno di una doccia.” Chinò la testa e osservò
con aria critica i suoi abiti: l’incerato giallo ocra e la salopette di jeans,
le scarpe da tennis sporche di terriccio. “Decisamente
ho bisogno di una doccia,” rettificò.
Sherlock si alzò con uno
scatto agile e le fu immediatamente di fronte. Abbassò la zip dell’impermeabile di tela e la
squadrò da testa a piedi, tastandole le spalle e le braccia, i fianchi e le
gambe. Molly non ne fece un dramma, al contrario di Mrs. Hudson che invece cominciò
a lamentarsi delle ‘apparenze’.
“Perquisizione finita?”
Molly aveva un sorriso smaliziato e l’aria stanca, ma sotto lo strato di
sporcizia le sue guance erano rosse e gli occhi luminosi.
Sherlock storse il naso,
insoddisfatto. “Ti avevo espressamente vietato di portarla in quella zona di
Londra, Wiggins.”
Wiggins mostrò le mani in
segno di protesta. “Non se la prenda con me, Mr. Holmes. È lei che è voluta
andarci. Accompagnami ad Highgate, ha detto. Io ho obbedito perché è lei il
capo, fuori.”
“Sono sempre io il capo,
tienilo a mente. Dentro e fuori le mura di Baker Street, la mia parola è
legge.” Si voltò verso Molly. “Qualcosa da dire a tua discolpa?”
“Non occorre che io
dimostri la mia innocenza, Vostro Onore. Ho rispettato l’accordo.”
“Hai infranto l’accordo. Dovevate rimanere
entro i confini di Hampstead Heath.”
“Eravamo in zona e ho
solo pensato –” Molly esitò. “Volevo vedere mio padre.”
“Tuo padre è morto.”
Mrs. Hudson si coprì la
bocca con la mano, un gesto abituale, vezzo in cui cadeva quando qualcosa la
innervosiva o sconvolgeva. Wiggins invece scosse piano la testa e si defilò con
fare quatto. Quanto a Molly, lei sembrò sorvolare sul fuggi fuggi generale; gli
rivolse un’occhiata profondamente irritata. “Sì, be’, grazie per il
chiarimento. Un genitore morto… può proprio sfuggire di mente, vero?”
“Quello che stavo
tentando di dire. È morto. Credi davvero che mettere a repentaglio stupidamente
la tua vita –”
Molly gli si rivoltò come una
furia, gli occhi che sprizzavano scintille. Gli puntò contro l’indice e serrò
la bocca in una smorfia eloquente. “Primo, non osare nominare mio padre per
farmi sentire in colpa. Punto secondo, vuoi davvero intraprendere questo tipo
di discorso, Sherlock Holmes? Mettere a
repentaglio stupidamente la propria vita? Non accetto consigli su questo
argomento, non da te.”
Un battimano si fece
spazio nell’intervallo di silenzio che scortò quell’affermazione. “Devo
dargliene atto, Miss Hooper, ha tutto il mio plauso.”
Sherlock roteò gli occhi
e schioccò la lingua, preda dell’insofferenza. “Mycroft.”
“Sherlock. Ci siamo dati
alle uscite serali, vedo. Approfitti dell’assenza di Miss Hooper per
intraprendere operazioni a sua insaputa?”
Intendeva metterlo in
difficoltà di fronte Molly. A giudicare dalla profonda ruga che andava
scavandosi nella fronte di lei, il piano era sulla strada del successo.
“Blackjack,” soffiò come un insulto.
Mycroft non batté
ciglio. “Oh, dunque è così.”
“È un criptonimo?”
domandò Molly accigliata. “Domanda stupida.
Certo che lo è. “Fante di picche”. Cosa intendete?”
“Niente che le occorra
sapere al momento.” Mycroft le rivolse un sorriso affettato di inappuntabile
boria a cui Molly rispose con il suo più gentile, una gentilezza che sfumava
nell’ironia e che – saperlo era in effetti quanto mai seccante – era solita
rivolgere anche a lui. Perché nel caso di lei la migliore arma non era
l’indifferenza e tantomeno la noncuranza, ma quel sorriso.
“Un modo gentile per
dirmi di badare agli affari miei. Afferrato.” Molly si diresse in cucina. “Del
tè?”
“Sarebbe delizioso,
grazie.”
“Abbiamo del tè Assam,”
avvertì Molly, ficcando la testa nei ripiani delle scansie, alzandosi in punta di piedi. “Temo che Sherlock
abbia finito la scorta di Darjeeling.”
“Il tuo è un timore
fondato.”
“L’Assam andrà
perfettamente bene, Miss Hooper.”
Molly aveva l’aria
esasperata. “Molly,” protestò con ben poca speranza.
“Dottor Hooper,” ritorse
Mycroft con un sogghigno.
“Miss Hooper suona
fantastico,” capitolò lei con un sospiro di rinuncia. “Davvero fantastico, in
effetti.”
“Immaginavo che sarebbe
stata collaborativa.”
“Non lascia molte
alternative.”
Sherlock
ne aveva avuto abbastanza
di quel quadretto domestico. Riprese il violino e puntò
l’archetto verso l’una e l’altro. “Molly, hai
intenzione di rimanere ancora a lungo la Piccola
Fiammiferaia? E tu, hai l’espressione esultante di quando porti
cattive
notizie.”
“Non credo che sia
questo il modo di rivolgersi a una signora.”
“Pensavo ci fossi
abituato, fratello caro.”
Mycroft fletté le labbra nell’arricciatura caratteristica di quando riusciva a intaccare la sua placida maschera di morigerato ascetismo. “Mi
riferivo ovviamente al modo in cui tratti la tua affezionata compagna.”
“Affezionata compagna,”
ripeté Molly con un sorriso divertito, rientrando e posando sul tavolino del
caffè l’occorrente per il tè. “Devo ricordarmi di dirlo a Mary. Sta facendo un
elenco di tutte le frasi che potrebbero essere stampate su magliette.”
“Molly.”
Lei lo guardò, batté le palpebre, sorpresa. “L’ho detto ad alta voce?" domandò e scosse la testa. "Posso farmi una doccia senza
che nel frattempo facciate scoppiare una guerra o in alternativa la cucina?”
Sherlock e Mycroft le
lanciarono un’occhiata oltremodo indignata.
Molly rise più forte, in
modo irritantemente delizioso. “Stavo solo scherzando. Non credo davvero che
siate capaci di far saltare in aria una cucina. Non è neppure a gas.”
“L’hai trovato? Il tuo
pesce rosso?”
Sherlock aveva sperato
che Mycroft sorbisse il suo tè in silenzio. Speranza
vana.
“Ci sono cose che non si
possono creare dal nulla,” rispose.
“Intendi procedere?
Anche se significasse perdere la sua fiducia?”
Lo sguardo fisso nel vuoto, Sherlock si sfregò la
gola con la testa dell’arco. Contro la pelle percepiva distintamente il fascio
di crine di cavallo, teso dal legno e dal meccanismo a vite del nasetto. “Si vis pacem, para bellum.”
Mycroft seguì la
direzione del suo sguardo. D’altronde Sherlock non si era dato pena di
nascondersi. Entrambi si soffermarono ad osservare la porta del bagno dietro cui Molly era
scomparsa dieci minuti orsono.
Mycroft sospirò, si
piegò in avanti per posare la tazza vuota sul vassoio. “Molto bene. Da questo momento
il piano Blackjack è operativo.”
*
“Non è una visita di
piacere.”
Lo è mai?, pensò Molly.
“Insistenti voci gravitano
intorno alla coabitazione di Miss Hooper in Baker Street.”
“La gente parla, Mycroft,”
disse Sherlock seccamente. “Non la trovo una scoperta innovativa, al contrario.”
“Sei un personaggio di spicco, Sherlock, che ti piaccia oppure no; nell’attuale
situazione altra pubblicità negativa è l’ultima cosa auspicabile.”
Molly
impiegò mezzo
minuto ad accettare il fatto di non aver frainteso
ciò che Mycroft aveva voluto dire. La verità era
sconcertante. “Non starà dicendo… pensano
che Sherlock mi abbia rapita o mi tenga prigioniera?” La semplice
idea era
ridicola, ma esprimerla ad alta voce portava il ridicolo a nuove vette
inesplorate.
“La maggior parte delle
persone tende a non pensare, Miss Hooper. Vede, ma ha il deplorevole vizio di
non comprendere ciò che ha sotto gli occhi. La stupisce davvero che desuma il
peggio?” Mycroft prelevò dalla tasca interna della giacca un foglio che le
passò. “Ho qui con me un elenco di giornalisti. Sono stati contattati
personalmente dal mio entourage. Ne scelga uno, uno qualunque e accetti un tête-à-tête. Non rendiamo il tutto più sgradevole di quanto effettivamente non sia.”
*
“Buongiorno.” Strascicando
i piedi, Molly prese il bricco del caffè dal piano di lavoro. Lo agitò con
energia, ma c’era poco da fare: l’interno era disperatamente, desolatamente,
inesorabilmente vuoto.
Senza allontanare lo
sguardo dal becco bunsen che gli teneva le mani impegnate, Sherlock le indicò con
la testa la tazza rossa nell’angolo del bancone.
Nero, due zollette di
zucchero. Molly lo bevve a sorsi famelici, socchiudendo gli occhi nella luce granulosa
che filtrava dalle veneziane della finestrella della cucina. “Avresti potuto
svegliarmi.”
“Avrei dovuto?” Sherlock
ruotò la ghiera forata per passare la fiamma del bunsen da ossidante a
riducente, renderla visibile – di un caldo giallo - intanto che non la usava.
Molly scosse la testa e
si allungò a sfiorargli le labbra. Sapevano di caffè. “No.” Bevve un altro
sorso e si sedette sullo sgabello, posando i gomiti sulle ginocchia e
stringendo le braccia di lato al corpo, dal momento che il tavolo era ricoperto
di attrezzatura da laboratorio. “Cosa studi?”
“Saggi alla fiamma.
Verifico la presenza di ioni nei metalli alcalini.”
“Fuochi d’artificio,”
commentò Molly, sfiorando il bordo della tazza.
Sherlock le rivolse un
cenno impercettibile. “Oggi hai l’intervista con quella
giornalista.” Fece una smorfia talmente raccapricciata che a Molly andò di
traverso il caffè per una risata intempestiva.
“Non sembrare troppo
disgustato all’idea.”
Lui parve accorgersene a
malapena. “Lestrade mi ha trovato un caso.”
Dio sia lodato. Molly lo amava, sul serio, ma non era così
ipocrita da fingere che non averlo intorno durante il pomeriggio avrebbe
scongiurato l’inevitabile caterva di effetti collaterali della sua presenza:
disagio, frecciatine e battute mordaci. Oppure la prospettiva peggiore:
Sherlock che si fingeva ammaestrato alle buone maniere. Uno spettacolo
agghiacciante.
“Qualcosa dalle parti di
Croydon,” si infervorò Sherlock. “Un pacco postale è stato recapitato a tale
Miss Cushing.”
“Cosa conteneva?”
“Sale grosso e orecchie
umane.”
Interessante e macabro. “Che idea ti sei fatto?”
“Credo che si tratti di
uno scherzo di cattivo gusto. Come hai detto che si chiama?”
Cambiare argomento di
discussione così, di punto in bianco, non era una novità tra loro.
Molly fece mente locale.
“Lara Selby, mi pare. È una freelance.”
Sorrise. “E adesso
non prendere un’aria così compiaciuta. Non riuscirai a
farmi credere che sapessi in anticipo che avrei scelto lei."
*
Tutto
era stato stravolto nella loro routine. C’erano stati dei negoziati (ovvio che ci
sarebbero stati. Era di Sherlock, di lei e di Sherlock che si parlava), dalle
cui trattative era conseguita una salda, luminosa e, si sperava, duratura
parentesi di pace. Neppure l’intervista era riuscita a scalfirla.
Quando
era tornato dal caso (“Altamente insoddisfacente. Ti ho portato
un souvenir.” Dicevasi souvenir un orecchio mal tagliato e
mantenuto in condizioni perfino
peggiori.), Sherlock non aveva fatto domande di sorta e Molly non aveva
dato
risposte fantasma.
Per
qualche oscura, a lei sconosciuta ragione l’intervista non era stata pubblicata
(Lara le aveva mandato un sms di scuse e Molly aveva riso, pensando alla pena
con cui Mycroft, o chi per lui dei suoi sottoposti, doveva aver intimato a chi
di dovere di vietarne l’uscita stampata. Lara era parsa dapprima stupita dalla
mancanza di sorpresa e in seguito ancora di più dalla chiara
assenza di delusione, ma sul serio, a Molly non era mai interessato comparire
sui giornali, men che mai di finirci perché qualcuno, Moriarty oppure no, aveva
fatto saltare in aria il suo appartamento.).
L’intera
faccenda era perciò finita nel dimenticatoio, senza che se ne discutesse. Anche
allora Molly non aveva chiesto spiegazioni. Perché lei era quel tipo di
persona, quello che non chiedeva i “perché”, ma si soffermava sui “come”.
Ognuno
aveva le sue motivazioni, personali visioni di un
modo parziale e soggettivo di osservare il mondo. I modi, oh, le modalità erano senz’altro più affascinanti.
*
Era
da poco passata la mezzanotte. Molly era sdraiata sul divano e occupava
l’attesa di Wiggins controllando la posta elettronica.
Sherlock
era alla scrivania, chino sul suo laptop, impegnato ad elaborare dati e
informazioni con un programma (Software, Molly. Software) di ricerca datogli da
Victoria.
Dal
loro primo incontro Molly aveva avuto modo di incontrarla numerose volte.
Victoria
Queen ricordava un gatto randagio, in modi vividi e di certo dolorosi:
graffiava e mordeva e aveva quella luce in fondo agli occhi, una fiammella di
segreta brama che sembrava pregare di “non ferirmi, non abbandonarmi”. Aveva
una sua bellezza particolare, a tratti selvaggia a tratti feroce,
caratteristica di chi per un periodo debba aver vissuto nell’ombra di qualcosa di
spaventoso che continua a braccarlo. Molly avrebbe voluto esserle amica, ma
come fare quando la parte contendente faceva di tutto per ostacolare ogni sua manovra
in quel senso?
Victoria
si sprecava in battute sagaci e occhiate sdegnose, nella migliore imitazione di
Sherlock ai suoi tempi d’oro.
Quando
Molly si era permessa di intavolare l’argomento con Sherlock, lui aveva fatto
una dichiarazione stizzita e impermalita, rintuzzandola con uno sguardo di lava
incandescente che su di lei non conseguiva più il minimo esito. In quei
momenti, non quelli di sconforto in cui subentrava la noia (La noia, madre per me di mortifere malinconie,
le sussurrava Leopardi) e neppure quelli in cui era il brivido della caccia
imminente, la ricerca della chiave di soluzione ad animarlo, in quei momenti i
suoi occhi non erano occhi scampati all’Inferno, chemiluminescenze assillanti
in un viso oblungo e pallido da fantasma infestante. Era qualcosa di diverso,
una sfumatura di punzecchiatura che li rendeva simili alla fiamma blu-violetta
ossidante del bunsen, con gli spettri di colore pronti ad avvampare a seconda
dell’intensità del sentimento che ne faceva da corona.
Molly
grattò Toby tra le orecchie, sentendolo stendere il collo sotto il palmo della
mano per accompagnare il movimento della carezza.
“La
spunterai.”
Molly
alzò lo sguardo su Sherlock, che le concesse uno dei suoi rapidi sorrisi
sghembi e uno sguardo obliquo, prima di tornare a prestare attenzione al
monitor. “Parlo dei tuoi tentativi di amicizia, Molly,” chiarì, manifestando la
sua disapprovazione con una serie di sbuffi. “Le tue probabilità di riuscita
sono incontestabilmente minime.”
Molly
affondò il naso nella pelliccia di Toby che di rimando le leccò la guancia. “E
allora cosa ti spinge a dire che avrò successo?”
“Solo
questo, Molly.” Sherlock le rivolse uno sguardo in cui brillava una luce acuta
e carica di mille minutezze, complice. “Io rappresento una testimonianza
diretta del grado di efficienza delle tue ostinazioni. Posso assicurarti che,
se tu vuoi esserle amica, Victoria Queen non ha scampo.”
“Mi
fai apparire come una specie di stalker.”
“Ti
faccio apparire per quello che sei, Molly, come la prima persona vera che io
abbia incontrato.”
Sherlock
controllò l’orario o fu quello che Molly pensò che avesse fatto perché l’istante
successivo, con aria opportunamente disinteressata, osservò: “Wiggins sarà qui
a momenti. Sei sempre intenzionata ad andare?”
“Sì.”
Il
campanello suonò, un unico suono stridente, prolungato che vibrò nella quiete
che ne seguì. Decisamente non era Wiggins, che era munito di un paio di chiavi
di riserva.
Sherlock
e Molly si scambiarono un’occhiata: lui elettrizzato, lei abbattuta. Sapeva
che, di qualunque cosa si trattasse, il visitatore avrebbe determinato un
fatale cambio di programma nei suoi piani per la serata.
Sherlock
pareva condividere quell’opinione. “Temo che dovrai rinviare la tua gita
notturna, Molly. Abbiamo ospiti.”
*
Entrò un uomo che Molly si
affrettò a far sedere al proprio posto. Indossava una giaccone di tweed melange
e aveva una mano avvolta in un fazzoletto macchiato di sangue. Giovane, con un
viso forte, anche se in quel momento si presentava pallido e agitato, con un tremore
incontrollabile alle mani, la cute fredda e umida.
“Mi scuso per essermi
presentato a quest'ora, Mr. Holmes,” disse ansimante. “Mi chiamo Victor
Hatherley e sono un ingegnere informatico.”
Sherlock si sedette sulla sua
poltrona, esaminandolo. Le fece un cenno d’intesa. Molly si era già affrettata verso
il kit di pronto soccorso nel cassetto del mobile a muro e andò verso la
scaffalatura della libreria vicino alla finestra, prendendo la copia rilegata di
Casa Desolata. Era un libro scavato all’interno e lo spazio delle pagine
ritagliate era occupato da una fiaschetta d’argento. Molly versò in un
bicchiere d’acqua uno spruzzo di brandy e lo porse a Mr Hatherley, sperando che
riprendesse colore, ma, prima che lui ne bevesse un sorso, il tremore aumentò.
Molly
riconobbe i sintomi. “È in stato di shock,” dichiarò. Lo fece stendere e gli controllò
le pupille e il polso. Era tachicardico.
“Shock
ipovolemico,” valutò Sherlock.
Era
il secondo uomo che sveniva sotto i suoi occhi nel giro di due settimane. Sinceramente
e a costo di suonare scortese, Molly sperava che non diventasse una tradizione. “Devo
ricucire quel dito, Sherlock.”
“Se
lo trovi di primaria importanza.”
“Certo
che lo è. Abbiamo dell’anestetico?”
“Dubito
che anche nelle più favolistiche prospettive, i calmanti alle erbe di Mrs.
Hudson facciano al caso nostro. Gli darebbero alla testa e sarebbe
controproducente. Ho bisogno che quest’uomo sia lucido e reattivo. C’è sempre
l’altro modo.”
“Quale
altro modo?”
“Questo.”
Sherlock prese la pipa sebsi dal
mobiletto vicino al divano e lo colpì alla nuca.
N/A:
Non vi
lascio sul più bello, no no, solo sul primo vero caso che Sherlock e Molly
affronteranno insieme. Prima della fine (che incombe ed è prossima) ce ne
saranno un paio, credo. A tal proposito tenete gli occhi aperti. Da questo
capitolo ho incominciato a disseminare indizi per l’epilogo, perciò cercate di
coglierli.
N.B.: Lara
Selby. Se qualcuno fosse interessato all’intervista e fosse incuriosito dal perché
essa non sia stata pubblicata, può trovare debita risposta nella one-shot: “Le ragioni
del silenzio”.
Nel
capitolo precedente vi avevo gettato un amo che non avete colto. Non c’entra
niente con questa storia, (Il ricordo –
Sherlock travestito da psicologo che le consegnava la revoca del procedimento
disciplinare, dopo aver fatto a pezzi lei e il suo passato – le provocò una
fitta di malessere.), ma è una che ho tutta l’intenzione di raccontare
prima e poi e che riempie uno dei buchi narrativi dei due anni di vuoto. Cosa è
successo a Molly subito dopo la Caduta? Ha pagato lo scotto per aver manipolato
l’atto di morte di Sherlock? Ha subito una sanzione da parte dell’ospedale? E via dicendo.
L’episodio
delle orecchie nella scatola è tratto dal racconto de “L’avventura della
scatola di cartone” mentre quella dell’uomo senza pollice è liberamente
ispirata a “L’avventura del pollice dell’ingegnere”.
Spero,
una volta terminata questa storia, di allietarvi con mini one-shot, sul tipo che
tratti anche le benedette negoziazioni a cui qui sopra ho accennato. Una nottata
memorabile al 221 di Baker Street, tanto per Molly e Sherlock quanto per Mary e
John :D
Sono
mortificata dal ritardo mostruoso con cui pubblico, ma adesso sto lavorando a
tempo pieno, non più mezza giornata. Quest’anno le vacanze sembrano un miraggio
lontano :(.
Le vostre
recensioni sono una consolazione, una vera panacea per tutti i mali dei mondo,
altro che Pietra Filosofale! Non mi stancherò mai, mai, mai, mai e poi mai,
mai, mai di ripetervi quanto siete FANTASTICHE! È una storia piuttosto sciocca,
ma sapere che per voi non lo è la rende inestimabile :) E risponderò ad ognuna
di voi con papiri appena avrò tempo e modo, promesso.
Un abbraccio
non è abbastanza. Vi mando mille Hulk (come quello stampato sulla maglietta che
indosso al momento xD) a stritolarvi nel suo
abbraccio più dolce.
|
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Capitolo 13 *** XIII ***
13
Note: Questa volta sono
costretta a inserirle per forza di cose prima. Ho utilizzato il racconto de
“L’avventura del pollice dell’ingegnere” che, devo ammetterlo, è uno dei pochi
racconti di Sherlock che non mi sia mai del tutto piaciuto. Insomma, alle deduzione che
Sherlock fa riguardo alla natura del falsario ci era arrivato lo stesso Mr.
Hatherley, anche se nel suo caso non sono intuizioni, ma osservazioni dirette
di qualcosa che ha praticamente sotto al naso. Ho riadattato la storia
originale per usarla nel contesto della trama di questa storia. Spero che a
nessuno dispiaccia o che si senta insultato per questo, che il risultato sia
accettabile :) Buona lettura!
Molly conosceva Sherlock da
molto, molto tempo, quasi dieci anni. Un terzo della mia vita. Perciò nulla di lui avrebbe più dovuto sconvolgerla,
giusto? Sbagliato. Sherlock Holmes era una scoperta continua e l’esperienza non
era soltanto destabilizzante, ma quanto di più esaltante e spaventoso riuscisse
ad immaginare: come buttarsi da un aereo sprovvisti di paracadute o da un ponte
senza salto elastico, nello stile avventuriero dei migliori film spionistici.
“Lo hai colpito!”
Sherlock inarcò un
sopracciglio nella maniera persuasiva che gli era propria. “Volevi un
anestetizzante, no?”
“Non era questo che
intendevo.” Molly prese il kit di pronto soccorso, si mise carponi di fianco al
divano ed esaminò la ferita. “È stato fatto con uno strumento molto pesante e
affilato.”
“Un’accetta,” puntualizzò
Sherlock, chinandosi a sua volta e osservandola lavorare con un sorriso
inquietantemente raggiante.
“Non un incidente, immagino.”
“Niente affatto.”
“Un attacco premeditato non
andato a buon fine allora?”
Sherlock annuì.
Molly tamponò la ferita, la
pulì, la disinfettò e infine la bendò con un tampone di ovatta e una fasciatura
a pressione.
Aspettarono pochi minuti
prima che Mr. Hatherley desse segni di ripresa. Si massaggiò la nuca e si
guardò attorno frastornato, come se non si raccapezzasse con l’ambiente
estraneo che aveva attorno.
“Mr. Hatherley,” lo chiamò
Molly a voce bassa. “Riesce a sentirmi? Ricorda dove si trova?”
L’uomo annuì. “Mi chiamo Victor Hatherley.”
“Questo lo ha già
detto,” disse Sherlock a denti stretti.
Molly gli lanciò quello sguardo. Lo Sguardo che in quella
determinata circostanza assumeva molteplici significati dal ‘ricorda che se sta
così è perché tu lo hai colpito’ e
‘accidenti alla tua testaccia dura’, al più ermetico ‘taci’.
Sherlock strinse le
labbra e spostò gli occhi altrove, precisamente su uno dei gigli stilizzati
della carta da parati. “Lo ha già detto,” mormorò puntiglioso, senza guardare
nella sua direzione.
Molly trattenne a stento
un sospiro. Sapeva essere un tale ragazzino a volte.
“Mi avete ricucito il
dito. Chi è stato? Non lei, spero.” Mr. Hatherley lanciò un’occhiata cauta e
diffidente a Sherlock.
“Presume bene. È stato
il Dottor Hooper. Io mi sono occupato dell’anestesia,” rispose lui con un ghigno
da volpe.
“Lei è un dottore?”
“Specializzata in
medicina forense,” precisò Molly. “Di solito lavoro con più pelle morta.” La sua avrebbe voluto
essere una battuta. Abbozzò un sorriso
che l’uomo non ricambiò. Difatti le rivolse uno sguardo sgranato e interdetto,
ancora leggermente stordito, quasi lei fosse uno strano fenomeno da
analizzare.
Con la coda dell’occhio si
accorse che Sherlock sorrideva sotto i baffi. “Uh, vuole raccontarci la sua
storia, Mr. Hatherley?” domandò conciliante.
“Mi chiamo Victor Hatherley.”
“Per l’amor di Dio!” esclamò Sherlock, come la peggiore delle
imprecazioni. Questa volta Molly non poteva dargli torto.
*
Un altro sorso di
brandy, l’arrivo di Wiggins e Victoria, sbrigativamente confinati in cucina e
Mr. Hatherley sembrò pronto a raccontare loro la sua storia.
“Mi chiamo –”
Un’occhiata raggelante di Sherlock lo ammutolì prima che potesse concludere.
“Mi dispiace,” gracidò. “Deve essere la situazione. Di solito non sono così.”
Se con ‘così’ intendeva mentalmente confuso, Molly glielo augurava di tutto
cuore.
“O può essere a causa
della botta,” intervenne Wiggins, che era tornato per prendere il laptop di
Sherlock. Evidentemente Victoria ne aveva bisogno.
“Botta?” domandò l’uomo.
“Non ho subito alcuna botta. È il mio dito che non va, il dito che mi hanno
tranciato.” A riprova sollevò la mano con il dito amputato.
Wiggins sembrò voler
aggiungere qualcos’altro. Sherlock lo ricacciò in cucina, spingendocelo di peso,
quindi tornò a sedersi sulla sua poltrona e intimò con voce sepolcrale e un
gesto categorico della mano: “Proceda.”
Mr. Hatherley non se lo
fece ripetere una seconda volta. “Qualche giorno fa sono stato contattato da un
uomo per un lavoro che voleva commissionarmi. Mi ha promesso 500 sterline.”
“Lei ha accettato.”
Mr. Hatherley aveva
l’aria di un uomo che sa di aver commesso un errore di calcolo e che ha mal
giudicato o sottovalutato le ripercussioni di una cattiva condotta e forse di
una troppo impulsiva scelta. “Ho accettato,” assentì rabbuiato, “ed è inutile
che le dica che se potessi tornare indietro farei l’esatto contrario. Ormai non
ci si può fare nulla, anche il mio dito… dovrò imparare a conviverci,
immagino.”
“Sarà un eccellente memorandum.”
Sherlock aveva inteso consolarlo e l’uomo sembrò comprenderlo perché gli
concesse un rapido sguardo, non replicando.
“Il giorno dopo, l’uomo
che mi aveva contattato mi ha chiamato una seconda volta e siamo rimasti
d’accordo per incontrarci alla stazione di Reading per il pomeriggio seguente. Mi
ha detto quale treno prendere e che avrei trovato il biglietto intestato a mio
nome alla biglietteria della stazione di Paddington. Ho fatto come mi diceva.”
Molly avrebbe voluto
chiedergli se non gli fosse sembrato sospetto, ma rimase in silenzio. 500
sterline rappresentavano un boccone ghiotto per chiunque e Mr. Hatherley non
sembrava immune al fascino che una proposta in denaro allettante come quella
sapeva esercitare.
“Chi ha trovato a
Reading?” domandò Sherlock.
“Un uomo che ha detto di
chiamarsi Lysander Stark, un Colonnello. Sembrava un bravo ragazzo. Alto, con
gli occhi chiari, proprio un bel ragazzo. Le assomigliava.”
Sherlock accolse
l’ultima osservazione con uno strano lampo di attenzione. “E si è presentato
come Colonnello, ha detto? È sicuro del grado? Non Tenente? Colonnello?” lo
incalzò.
“Più che sicuro. È
importante?”
Sherlock rilasciò la
trazione a cui aveva sottoposto la schiena e la appoggiò contro la poltrona,
sovrapponendo i polpastrelli di fronte al viso tornato inespressivo. La fiammella,
qualunque cosa l’avesse accesa, si era spenta in un batter d’occhio. “Non ai
fini del caso. La mia era semplice curiosità.”
Molly si accigliò.
Quella di Sherlock non era mai semplice
curiosità, sebbene spesso la facesse passare sotto quella definizione per
sviare la reale portata del suo interessamento.
“Siamo andati a casa
sua. Mi ha raccontato che è un tipografo e –”
“Lei ha dato per
scontato che si occupasse di stampa digitale.”
“Perché non avrei
dovuto?” domandò Mr. Hatherley con amarezza. “Sono un ingegnere informatico. Ho
pensato che gli si fosse inceppato un meccanismo della stampante a laser o che volesse
che gli aggiornassi un software -”
“Dunque siete arrivati,”
lo torchiò Sherlock. “Dove?”
“In un cottage, a sette
miglia di distanza se ho calcolato bene i tempi. Da qui sono cominciati i miei
sospetti. Vede, aveva una jeep, l’ideale per le strade accidentate di campagna,
ma mi aveva detto che avremmo percorso circa dodici miglia. Dodici miglia a 35
all’ora e noi le abbiamo percorse in dodici minuti scarsi. Capisce che la cosa
puzzava parecchio, vero? Ma mi sono detto che andasse bene così, anche perché
lui mi ha informato che stava prendendo la strada larga, che c’era un festival
in zona, uno musicale che, mi assicurava, se mi piaceva il genere rock era irrinunciabile.
Lui stesso aveva intenzione di andarci. Insomma, sembrava tutto molto
tranquillo e cosa importavano poche miglia di differenza? Credevo di essere
paranoico, perciò ho messo a tacere l’istinto.”
“Ricorda il tipo di
strada? Selciato, acciottolato, asfaltato liscio o con porfido, nello stile
delle vie romane?”
“Asfaltato liscio e
ricordo che si sentiva della musica, non molto lontano. Siamo arrivati che il
cielo cominciava a imbrunire. Mi ha offerto la cena e in quel momento c’è stato
un black-out. Ha imprecato e si è scusato, dicendo che dovevano essere i fusibili.
Quando è tornato, era visibilmente contrariato. Mi ha detto che anche con la
torcia era impossibile riparare il guasto, che c’era stato un cortocircuito. Gli
ho proposto di farmi dare un’occhiata, che avrei potuto occuparmene io. Mi ha
spiegato che non era la prima volta che succedeva, che sapeva quale fosse il
problema, ma che non aveva i pezzi necessari per occuparsene. Vedendo la
fermezza con cui rifiutava, non ho insistito oltre. A quel punto lui mi ha
chiesto se potessi mettermi al lavoro anche al buio su quello per cui invece mi
aveva chiamato. Aveva una consegna fissata per la fine della settimana e se non
altro, facendo a quel modo, avrebbe potuto già ricominciare a lavorare la
mattina successiva. ‘Ho una quantità formidabile di torce’, ha aggiunto,
sorridendo. ‘Una provvista degna di un escursionista.’ Gli ho detto che per me
sarebbe stato più difficile trovare il guasto e anche se lo avessi trovato e
aggiustato, come avrei controllato senza corrente? Mi ha detto che non dovevo preoccuparmi
di questo, che sembravo una persona di fiducia e che sarei stato pagato lo
stesso perché l’inconveniente non aveva nulla a che fare con me. Ho
acconsentito. Mi ha accompagnato in una stanzetta sul retro della casa, buia
come la pece e con spranghe a tutte le finestre tranne che a una, da cui si
vedeva il giardino. C’era una semplice scrivania, un computer, uno scanner e
una stampante. In un angolo ho intravisto della carta. Sembrava esattamente quello
che lui mi aveva raccontato: il laboratorio o lo studio di un tipografo, niente
di più.”
“Ma non lo era.”
Sherlock aveva gli occhi ardenti, infervorati. “Cosa ha visto nell’angolo della
stanza? Quello opposto alla finestra?”
Mr. Hatherley ricambiò
il suo sguardo con uno incredulo. “È bravo esattamente quanto dicono. Ha
ragione lei; ho visto qualcosa, era un telaio.”
Sherlock batté le mani
con un sorriso trionfante. “Oh, è tutto molto chiaro adesso, non trovi anche
tu, Molly?”
Molly poteva capire
cosa, di preciso, disturbasse tanto John di quel suo modo di fare. Scosse la
testa. “Mi dispiace, ma no, non ne ho idea.”
“Oh, andiamo!” la sollecitò
lui. “Un telaio da serigrafia, giusto? Un falsario, Molly! Non me ne
capitava uno da anni!”
Mr. Hatherley sembrava
un po' sconvolto. È normale che reagisca così?, sembrò chiederle quando si
voltò verso di lei. Molly lo rassicurò con un sorriso divertito.
“Quindi accetta il caso?
Non le ho ancora raccontato cosa è successo al mio pollice.” Mr. Hatherley
sembrava ritenerlo di vitale importanza.
Sherlock accantonò la
sua insistenza con una smorfia. “Quella parte del racconto non mi sarebbe di
alcun aiuto. Inoltre mi è perfettamente chiaro cosa sia successo. Lei ha aggiustato
il guasto, ma a quel punto il Colonnello ha avuto il sentore che lei avesse
fiutato l’inganno. Le ha chiesto di rimanere a dormire. Lei gli ha risposto che
preferiva andarsene subito, probabilmente inventando la scusa di un altro
impegno di lavoro. Scelta incauta. Lui si è convinto che lei avesse dei
sospetti. Ha insistito, offrendole la stanza al secondo piano e lei ha ceduto,
ma ha progettato la fuga. Ha aspettato un paio d’ore per essere sicuro che lui
si fosse addormentato e ha creato una fune con le lenzuola. Poi con quella si è
calato giù dalla finestra. Il Colonnello era sveglio, è entrato nella stanza e
ha cercato di colpirla. Lei ha alzato la mano per pararsi e il colpo le ha
tranciato di netto il dito. A quel punto ha perso la presa e cadendo è svenuto.
Ho sbagliato qualcosa?”
*
John, è un ragionevole motivo quello che ti trattiene dal
rispondere al cellulare?
Se non si fosse capito: rispondi al cellulare!
John, possono essere tre i motivi di questo prolungato
silenzio.
1. Non sei in casa.
2. Rifiuti di rispondermi. Tengo a ricordarti che non sei una
donna, anche se evidentemente sei soggetto a gravi sbalzi ormonali.
3. Tu e Mary siete impegnati in attività ricreative in camera
da letto. Nel caso in cui questa umiliante ipotesi corrispondesse a verità, ebbene
non avete il minimo senso del decoro? Il pensiero di me e Katie non basta a
frenarvi?
*
“John
non risponde.”
“Vai
a prenderlo a casa sua?”
“Non
c’è tempo. Dovremo fare diversamente.” Sherlock tirò indietro le spalle, chiuse
gli occhi e strinse la bocca in una linea storta, come se fosse giunto nel giro
di pochi secondi a una drastica risoluzione. Quando li riaprì, le porse la
mano. “Andiamo a caccia di ombre, Molly.”
*
Tre ore più tardi
occupavano lo scompartimento di un treno diretto a Reading, dove li aspettava
l’Ispettore del commissariato di polizia più vicino.
C’erano lei e Sherlock,
Mr. Hatherley, Greg, tutt’altro che felice di essere stato buttato giù dal
letto all’alba, e Victoria. (“Una civile? Passi per Molly, lei è un medico, ma
la ragazza non ha alcuna qualifica per essere presente sulla scena di un
crimine,” aveva fatto notare Greg scontroso.
Sherlock aveva fatto una
smorfia. “È con me,” aveva liquidato la questione.
Molly aveva colto di
sfuggita l’impercettibile sguardo d’intesa che Sherlock e Victoria si erano
scambiati. Da qualche parte dentro di sé, la ragione e non il sentimento aveva
sospirato con rassegnazione.)
Alla stazione di
Reading, come pianificato, li attendeva l’Ispettore Bardsley. Lui e Greg si
strinsero la mano, snocciolando i rispettivi gradi e occupandosi della trafila
burocratica. L’agente di servizio insieme all’Ispettore passò loro una scorta
di caffè ancora caldo.
Molly lo ringraziò
brevemente, prima di essere tirata via da Victoria. Non indossava un giubbotto,
solo una maglietta nera con il Summer Tour di un gruppo rock sul retro e sul
davanti la scritta ‘RESTRICTED TO EVERYONE, EVERYWHERE, ALL THE TIME’ e il nome
della band Queens of the Stone Age in un angolo. “Ricorda che non puoi fidarti
di nessuno.”
Molly lo ricordava
perfettamente e avrebbe voluto che lei non la trattasse come un’imprudente
sconsiderata. Poi si rese conto che Sherlock le stava guardando, ad un passo di
distanza da Greg e dall’altro Ispettore, mentre Mr. Hatherley era impegnato ad
esporre anche a loro quanto gli era successo. Capì perché Victoria li avesse accompagnati e
il fastidio nei suoi confronti decrebbe di colpo. “Fantastico,” disse. E lo era. Davvero, davvero
fantastico. Aveva una balia.
“Bill l’aveva detto che
non l’avresti presa bene.” Victoria giocherellò con uno dei numerosi anelli che
aveva.
“Non è per te,” si
costrinse a spiegarle Molly. Ovviamente non ce l’aveva con lei. Perché avrebbe
dovuto? Il compito doveva risultarle ingrato quanto era sgradito a lei.
“Non ci riesci proprio,
vero?” Victoria le lanciò un’occhiata enigmatica.
“A fare cosa?”
“A non essere così
gentile, a non sorridere sempre.”
Molly non rispose subito,
ma poteva sentirla come greve e pesante sul proprio viso, una specie di tela di
lino o di seta trasparente a coprirglielo: la tristezza che traspariva.
“Nessuno vuole una persona infelice che lavora in un obitorio.*”
Victoria la fissò e fu
come se la mettesse a fuoco per la prima volta. Molly conosceva quello sguardo,
era qualcosa che le capitava di ricevere spesso. La timida e impacciata Molly
che alla fine non si rivelava poi tanto timida e impacciata, quale sorpresa!
“Non hai freddo?”
domandò per cambiare discorso.
“Ho sempre freddo.”
Oh, quindi erano in vena
di filosofia e sentimentalismi, quel giorno. Non che le dispiacesse. “Tranne
con Wiggins.”
“Bill c’è sempre stato,
anche prima di incontrarlo. Era il vuoto della sua mancanza. Conosci quel film
con Dermont Mulroney e Debra Messing?”
“The Wedding Date?”
“Proprio quello. C’è una
frase, una in particolare, che mi colpisce ogni volta che lo guardo. ‘E mi
saresti mancata anche se non ti avessi mai conosciuta.’” Victoria si prese i
gomiti con le mani, stringendo le braccia contro il petto. Sembrava alta e allo
stesso tempo incredibilmente piccola, ma non fragile. Non c’erano fragilità o
insicurezze in lei, Molly odiava chiamarle con quei nomi; erano le perseveranze
che rendevano qualcuno irriducibilmente se stesso, che plasmavano il carattere,
modellandolo nella creta.
Poggiò la mano sulla
sua, sperando che non la scacciasse. Miracolosamente, Victoria non lo fece. “Credo
di capirlo,” e nel dirlo guardò la schiena ampia e scura di Sherlock. Aveva il
bavero del Belstaff sollevato e il vento, leggero e tiepido, gli aveva
scompigliato i capelli.
“Già.” Victoria aveva
seguito la direzione del suo sguardo. “Credo proprio che tu lo sappia.”
*
Esaminarono la casa,
dentro e fuori, da cima a fondo, dividendosi in due gruppi, dopo che Sherlock
aveva provveduto a informarli che il falsario aveva già levato le tende da
mezza giornata. Probabilmente subito dopo aver messo Mr. Hatherley sul primo
treno per Londra. “Dopo che è svenuto,” dichiarò infastidito per rispondere
alle occhiate di pura incredulità che tutti gli avevano riservato. “Come
credevate che fosse arrivato in stazione? Volando?”
Mr. Hatherley accompagnò
Greg e l’Ispettore Bardsley a perquisire l’interno insieme agli agenti. Lei,
Sherlock e Victoria esplorarono il cortile e il retro del cottage perché
Sherlock voleva analizzare il terreno tutto attorno alla finestra e le tracce
fresche della jeep che puntavano a nord-ovest. “Nella direzione di Reading,”
commentò Sherlock, a riprova che quel che aveva detto poco primo non fosse il
lapsus di un folle. “Almeno su una cosa il nostro falsario è stato sincero. Può
darsi che avesse davvero intenzione di andare a quel festival.”
Sotto la finestra da cui
Mr. Hatherley aveva cercato di calarsi e poi era caduto, Sherlock si
inginocchiò e cominciò a tastare i cespugli di rose. Molly vide che prendeva un
ghigno soddisfatto e si infilava qualcosa nella tasca interna del soprabito.
“Ti prego, dimmi che
quello che hai appena messo in tasca non è il pollice di Mr. Hatherley.”
“Non è il pollice di Mr.
Hatherley,” disse Sherlock.
Molly lo guardò.
Sherlock roteò gli
occhi. “Non è più suo. Potrebbe rivendicarlo, questo è certo. Tuttavia, nel
rispetto della procedura, se dopo un anno il
proprietario originario dell’oggetto non avanza pretese, chi lo ha trovato ne
diventa effettivo proprietario. Converrai con me, Molly, che un anno sia un
tempo decisamente lungo e che, considerata la natura degradabile dell’oggetto
in questione, possiamo ridurre il periodo di attesa a un giorno. Tempo che,
guarda caso, scade tra meno di otto ore. Se entro quell’ora Mr. Hatherley non
avrò fatto domande, mi riterrò libero di portarmi a casa questo pollice e di
immergerlo in un matraccio pieno di acqua regia e dargli fuoco. Ho tutta
l’intenzione di studiare gli effetti di una fiamma da deflagrazione su un corpo che
abbia già iniziato i processi di decomposizione.”
Molly stava
per dirgli di scordarselo, niente esplosivi fino a quando lei non avesse
provveduto a rendere Baker Street sicura e a norma di legge anti-incendio. Non fece
in tempo. Un agente uscì a richiamare Sherlock perché controllasse una stanza.
Molly captò
le parole ‘pesce morto’ e ‘orologio da taschino’. Rise di stessa. Sarebbe stata
di certo un pessimo agente segreto, incapace com’era ad origliare.
*
“Dove hai lasciato
Molly?” domandò Lestrade.
“Fuori con Victoria. A
questo proposito ti sarei grato se mandassi due agenti a controllarle.”
“La prudenza non è mai
troppa, eh?” Lestrade annuì. “Dovrei chiedere a Bardsley.” Si frappose tra due
agenti che stavano parlando davanti all’ingresso, dando loro l’ordine e quelli
annuirono e scattarono verso il retro.
Sherlock entrò e scese
nella cantina.
Lestrade gli era alle
costole. “Cosa ne pensi di tutta la faccenda? Ti sei fatto un’idea?”
Sherlock afferrò il
significato di ogni oggetto sull’altarino allestito contro uno dei pilastri
portanti non appena vi posò lo sguardo.
“Credi che sia un rito
satanico? Se lo è, è di sicuro il più strano che abbia mai visto.”
“Non lo è,” replicò Sherlock
aspramente. Si chinò ad osservare il teschio di donna, l’orologio da tasca e
l’esemplare di Poecilia reticulata. In pittura rappresentavano la vanitas. “È un Memento mori ed è rivolto
a me.”
Prese
l’orologio e lo infilò in tasca. “Apparteneva al padre di Molly.”
Non rimase ad osservare
la comprensione e l’orrore che si facevano largo negli occhi di Lestrade.
Ritornò al piano superiore e respirò a piene boccate l’aria di mezzogiorno,
cercando tra le ombre del patio fresco quella di Molly. Non si fermò finché non
l’ebbe trovata.
*
“Si trattava di falsari su
vasta scala,” spiegò Greg con una risata che a Molly, a pelle, suonò falsa e
inquieta. “A quanto pare l’Ispettore Bardsley era a conoscenza già da tempo dell'esistenza
di una banda che operava in questo campo su scala internazionale. Hanno messo
in circolazione migliaia di banconote da venti e cinquanta euro perché a quanto
pare la filigrana dell’euro ha contorni molto più sfocati rispetto alla
sterlina e quindi è più facile da riprodurre.”
Erano nello scompartimento
del treno di ritorno, tutti ad eccezione di Victoria, rimasta a Reading per il
Festival. (“Ecco quanto ti dovevo.” Sherlock le aveva passato un cartoncino con
delle annotazioni. “Consegnalo allo sportello del botteghino, fa’ il mio nome e
avrai il tuo biglietto.”
“Per tutto il weekend?”
“Campeggio incluso.”
Victoria aveva intascato il
cartoncino come se fosse qualcosa di prezioso, poi si era voltata verso di lei
con aria estremamente colpevole.
Molly l’aveva abbracciata di
slancio. L’aveva sentita irrigidirsi contro di lei e poi rilassarsi. Staccandosi
le aveva sorriso. “Divertiti,” le aveva augurato.)
Scoprì che Sherlock aveva intrapreso
una conferenza sugli elementi necessari per distinguere un buon falso da un
pessimo falso. A quanto pareva erano cinque.
“Sono la filigrana, la
striscia o placca olografica, il filo di sicurezza, il rilievo del numero e
della figura, il registro di stampa recto-verso, la striscia dorata sul verso
della moneta. La filigrana, sulla parte sinistra della cartamoneta, viene
riprodotta imprimendo il motivo architettonico con un timbro di colore
grigiastro umidificato con una soluzione acida. Il risultato finale è che la
filigrana è perfettamente disegnata.”
Molly guardò fuori dal
finestrino il paesaggio del Berkshire: pianeggiante e intervallato da brevi
arbusti e dalla striscia d’acqua scintillante del Tamigi. Cercò di scacciare la
sensazione di preoccupazione, una specie di tarlo che la rodeva. Cercò di non
pensare; non ci riuscì. C’erano troppe zone vuote, troppi punti deboli. Prima di
tutto il modo in cui Sherlock si fosse appassionato al caso non appena Mr.
Hatherley aveva nominato quel Colonnello. Nonostante lui non lo avesse detto
esplicitamente, Molly era pronta a giurare che se anche non sapeva chi fosse, lui
avesse un’idea abbastanza precisa della sua identità. Quando avevano trovato la
casa, poi, Sherlock non era parso affatto sorpreso nel constatare l’assenza del
falsario e non si era mosso per rintracciarlo. Aveva semplicemente preso atto
della cosa, come un dato di fatto. Era come se sapesse, come se avesse già dato
per scontato che lui si sarebbe dileguato prima del loro arrivo. E poi perché il
falsario non aveva ucciso Mr. Hatherley? Avrebbe potuto. Di sicuro non gliene era
mancata l’opportunità. Invece aveva scelto di metterlo sul
primo treno per Londra. Perché? Non aveva il minimo senso.
Inoltre c’era qualcos’altro
ancora, qualcosa di sottile e appena percepibile tra Sherlock e Greg. Da quando
erano usciti dal cottage le erano rimasti accanto come una specie di vigilanti
o custodi. Di solito Sherlock si sarebbe lamentato dell’eccessiva vicinanza
dell’altro, ma questa volta aveva soprasseduto; era parso persino grato. Questo era inconcepibile per lei.
“Bene,” disse in tono
depresso Mr. Hatherley, tirando fuori Molly dall’impiccio ingarbugliato delle sue riflessioni.
“Proprio un bell'affare! Ho perduto un pollice, ho perduto cinquecento sterline
e cosa ci ho guadagnato?”
“L'esperienza,” rispose Sherlock
con uno dei suoi sorrisi asimmetrici. “È una cosa che indirettamente può essere
preziosa, sa? Non avrà che da raccontarla per farsi la fama di eccellente
intrattenitore per il resto della sua vita.”*
N/A:
*Nobody wants an unhappy person working in a morgue.
(Dal blog personale di Molly. http://www.mollyhooper.co.uk/
Non farina del mio sacco quindi. Sono io che cito Molly che cita se stessa :D)
*Poecilia, altrimenti detta Molly.
*Il Festival è il Festival di Reading
*Dal “Bene” di Mr. Hatherley, l’ultimo paragrafo è
preso di pari passo dal racconto. Ovviamente con alcune inedite
‘correzioni/aggiunte’ adattate ai cambiamenti che vi avevo apportato.
*La spiegazione dei cinque elementi e l’osservazione di Greg riguardo la
filigrana euro-sterlina (nell’articolo è euro-lire) è tratta da un articolo che
io personalmente ho trovato molto interessante e che è per l’appunto questo:
http://www.robertosaviano.it/articoli/con-leuro-arrivano-i-nuovi-falsari-banconote-perfette-finche-asciutte/
Non aggiungo altro perché già così le note sono lunghissime. Dico solo:
Yuppiii! Gli aggiornamenti a mezzanotte! Mi erano mancati xD
Un abbraccio gigantesco!
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Capitolo 14 *** XIV ***
14
“Dove sei stato?”
La rabbia di Sherlock era
palpabile, una specie di miasma che rendeva l’aria attorno a lui irrespirabile.
Il temperamento atrabile – un rigurgito di bile nera – non era semplice inclinazione di carattere, ma uno chador realizzato su misura per lui, una
disposizione d’animo che metteva in soggezione qualunque persona avesse la
malaugurata sorte di osservare lo sfacelo che tendeva a creargli attorno, come terra
bruciata.
John era uno dei pochi
fortunati ad essere sopravvissuto all’esperienza senza avere i nervi a pezzi e
meglio ancora ad aver imparato ad arginarne i danni.
Cadeva una pioggia torrenziale, un temporale estivo e insieme qualcosa di più
violento e aggressivo. Entrando, lui parve portare con sé la bufera che batteva
contro le finestre il suo vento infernale, facendone tremare i vetri.
John poteva vederla imperversare
nei suoi occhi, da cui schizzavano balenii d’astio. “Sherlock,” sospirò. Aprì
le braccia per mostrargli il suo aspetto dimesso, forte della convinzione che lui
avrebbe dedotto la situazione senza che dovesse spiegargliela.
“Sta meglio?” Come da copione. Ancora incupito,
Sherlock si fece largo nell’ingresso e nel salotto, provvedendo a sfilarsi
cappotto e sciarpa zuppi, a disporli di traverso sullo schienale del divano e
poi a occupare il suo posto preferito.
“Mary è di sopra con
lei. Sono queste coliche.” Si massaggiò il collo indolenzito. “Non ci danno
pace, specialmente la notte.”
“Immagino la vostra
cura: massaggi e sciocche canzoncine. Nessuna sorpresa che vi tenga svegli.
Chiunque possieda un minimo di criterio reagirebbe al malessere aggiuntivo della
medicina sfogandosi con crisi di pianto.”
John aveva una catena di
notti insonni a pesargli sulle spalle, inclusa quella in corso, e similmente a
Sherlock anche il suo umore non era tutto ‘rose e fiori’. Si strofinò gli occhi,
contenendo uno sbadiglio e un’imprecazione. “Dimmi cosa vuoi, Sherlock.”
Sherlock deglutì e John fu
subito in allerta, improvvisamente cosciente del qualcosa nel suo sguardo inquieto, che era di un colore perfino più
instabile e umorale del solito, nel modo in cui teneva le braccia irrigidite sulle
gambe e si tastava il viso con mani smaniose; del qualcosa, nel suo atteggiamento, che era tutto fuorché composto o
controllato, nulla di regolato da quella sua dura disciplina di ordine e fredda,
a tratti spietata, logica mentale.
Capitava di rado di
intravedere quel lato di Sherlock ed ogni volta era tremendo: era come spiare
dal buco della serratura qualcuno, violare la natura intima di un segreto.
Sherlock era nervoso e
allucinato e questo non rendeva John teso o agitato. Lo terrorizzava
fottutamente.
“John.” Sherlock rialzò
la faccia, una faccia cadaverica quasi quanto l’aveva avuta sul marciapiede del
Barts quel giorno maledetto di tre anni prima, quando John lo aveva trovato
sporco del sangue che, ora lo sapeva, non era gli era mai appartenuto. “Non
sono stato del tutto sincero.”
“Serve che chiami Mary?”
“Non occorre.” Mary
entrò nella stanza, chiudendosi meglio la vestaglia in vita.
Mentre pensava alla
straordinaria capacità di lei di materializzarsi al momento opportuno, Mary gli
indicò la radiolina-interfono che John si era praticamente dimenticato di aver
infilato in tasca. Era accesa; ergo, doveva
aver ascoltato tutto.
“Katie?”
“Dorme come un ghiro o
piuttosto come qualcuno che non lo ha fatto per due giorni di fila.” Il sorriso
fu una nuvola passeggera sul volto stanco di Mary, prima che lei si voltasse
verso Sherlock.
Lui ricambiò il suo sguardo
con uno altrettanto intenso. L’aria era densa, consistente al punto che la si
sarebbe potuta tagliare, quando lui annunciò tetro: “Dobbiamo parlare.”
-
-
*
-
-
John aveva preparato il
tè. Lo passò a Sherlock, che lo prese con una smorfia critica.
Lui fu rapido a
decifrarla. “Niente caffè. Ordini del medico.”
Sherlock arricciò le
labbra e assentì brevemente.
“Riguarda l’attentatore
di Molly, vero?” Tipico di Mary andare dritta al punto. Mary dalla mira perfetta.
Sherlock tacque.
“Sai chi è,” proseguì
lei imperterrita. “Ho sempre pensato che fosse strana la tua inattività e poi
quell’assurdo voler tenere Molly sotto chiave a Baker Street. A che scopo?”
“Era per proteggerla,
no?” domandò John in tono d’ovvietà.
Mary e Sherlock gli
dedicarono un’occhiata di uguale scetticismo. Dio, quanto li odiava quando facevano così.
“Mary ha ragione,
naturalmente.” Sherlock sospirò, un sospiro profondo come la gola di una
montagna. “Non è più una caccia al tesoro. Il prossimo non sarà un tentativo.”
“Ma è Moriarty,” fece
presente John. “Non la ucciderebbe mai. Non lo troverebbe abbastanza estremo.”
“Ecco perché vuole che
io la guardi morire.”
“La stessa performance
due volte? Non è da lui.”
Sherlock fece una
smorfia. “Non è lui.”
“Cosa –” John lo fissò di
stucco. Sperò di aver sentito male, doveva.
“Non è Moriarty?”
“Un suo sottoposto,
Sebastian Moran.”
E invece no, dannazione a lui, aveva sentito benissimo. “Perché il nome mi
ricorda qualcosa?” Aggrottò la fronte e poi la spianò, in preda alla sorpresa.
“Moran come Lord Moran? Quello
dell’attacco terroristico al Parlamento?”
“Lui era soltanto un
pesce pulitore, uno specchietto per le allodole. No, si tratta di suo figlio.”
John non riusciva a
capacitarsi. “Mi avevi fatto credere, avevi fatto credere a tutti che fosse
opera di Moriarty,” lo accusò, non badando a nascondere la rabbia e il biasimo
nella propria voce. Voleva che lui sentisse, che capisse definitivamente a cosa
portasse la sua tenacia nel volere tenere tutti all’oscuro di tutto, nell’idea
distorta che aveva di proteggerli.
“Perché è Moriarty.” Sherlock schizzò in piedi
come una dannata carica a molla in tantalio; si avvicinò con passi rabbiosi alla
finestra e scostò la tenda per controllare la strada. Pioveva ancora e lui
aveva l’aspetto di un lupo costretto in gabbia. “Tutto si ricollega a lui. È la
matrice di ogni male e questa è sempre stata una caccia alle ombre, sin
dall’inizio. L’ombra di un fantasma.”
John scosse la testa.
Continuava a non capire. “Cosa è cambiato? Be’, deve essere successo di sicuro
qualcosa per spingerti a venire qui e vuotare il sacco. Riguarda l’ultimo caso?
Quello del falsario? Greg… Lestrade,” si corresse con un sospiro veemente, perché
al nominarlo Sherlock aveva preso un’aria smarrita. “Mi ha mandato un
messaggio. Mi ha detto di chiedere a te e che non poteva scriverlo tramite sms.
Ha parlato di linee compromesse. Cosa diavolo sta succedendo?”
“Siamo osservati.
Costantemente. Possono introdursi
nei modem, nelle reti telefoniche, nei video di sorveglianza.”
“La pioggia,” si
intromise Mary, come se avesse avuto un lampo di intuizione.
Sherlock annuì, ricompensandola
con un veloce sorriso di gratifica. “La pioggia interferisce con i segnali, sì.”
“È a questo che ti serve
quella ragazza, Victoria. Lei è la tua torre di sorveglianza,” osservò Mary.
John si trattenne a
stento dallo sfregarsi le tempie. Uno avrebbe dovuto farci l’abitudine. Dopo
anni di misteri e complotti e cospirazioni e intrighi machiavellici, avrebbe
dovuto fare il callo a conversazioni che non avevano il minimo senso, non ne
acquisivano se non a cose fatte, elaborate. “Cosa sa Molly di tutto questo?”
Sherlock esitò.
L’argomento lo metteva in difficoltà, era evidente. Bene, pensò lui, il
risveglio della coscienza. “Quanto basta. Sa che conosco l’identità
dell’attentatore e che non si tratta di Moriarty. Se già aveva dei dubbi, Reading
li ha fomentati e da quando siamo tornati, tiene gli occhi ben aperti.”
“Brava ragazza,” approvò
Mary con una nota di orgoglio. “Cosa è successo lì?”
Sherlock glielo raccontò
in breve. John ne fu costernato.
“Chi si è spacciato per
falsario era Moran,” concluse Sherlock monocorde. “Nella rete di Moriarty il
suo nome in codice era colonnello.
Era una delle ambiguità di Moriarty. Io avevo il mio blogger, lui aveva il suo
colonnello a tenere in riga l’esercito.”
“Fantastico,” esclamò
John sarcastico.
Sherlock unì le mani e
le poggiò contro il mento. “Era intenzione di Moran che l’ingegnere che aveva
ingaggiato arrivasse a me in qualità di cliente, per questo non lo ha ucciso. Voleva
che mi portasse dritto da lui. Io ho fatto il suo gioco.” Scosse la testa, rannuvolandosi.
“No, ho fatto di peggio. Ho lasciato che Molly mi accompagnasse.”
“Non potevi saperlo,” lo
consolò Mary.
John provò a tirare le
somme, ma, per quanto provasse, il risultato non era mai lo stesso. In quel
macello, soltanto una cosa gli era lucidamente chiara. “Devi dirlo a Molly.”
Sherlock lo guardò come
se fosse pazzo. “È fuori discussione.”
“Se ho voce in capitolo
–”
“Non l’hai,” lo
interruppe Sherlock freddo.
“Ma se posso dire la mia
opinione –”
“Non puoi.”
“Al diavolo, Sherlock! Cosa
pensi di fare? Tenerla a Baker Street per altri sei, dieci, venti mesi? Fino a
quando non avrai risolto questa storia?”
“Se necessario, sì.”
John sapeva che ne
sarebbe stato capace. Razza di –
Mary gli posò una mano
sul braccio per frenarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate e gli occhi limpidi scandagliavano
Sherlock con una prudenza calcolatrice. “È il motivo per cui sei qui. Cosa vuoi
di preciso?”
“Ci saranno altri casi.
Wiggins non basta più. Non posso fidarmi degli uomini di Mycroft. Mi servi tu,
Mary.”
Dunque era così. Voleva
proteggere Molly, ma non al punto da rinunciare a lei. Il sentimento che
subentrava negli schemi perfetti del suo hard
disk, simile a un virus, che li trasformava in arbitrari. Il sentimento che rendeva
la soluzione perfetta infattibile. Se non era quello amore, un amore egoistico
forse, ma pur sempre amore, John non sapeva che altro nome dargli.
Proprio perché anche il
suo amore era egoistico, John non poteva permettere che Mary si mettesse in
pericolo. Non riusciva quasi a credere che Sherlock glielo avesse chiesto. No, posso crederci invece. Io avrei fatto lo
stesso, l’ho fatto.
Si voltò verso Mary per
scoprire sconvolto che lei aveva già deciso. “Non intenderai accettare,”
protestò.
Mary gli sorrise, di un
sorriso che racchiudeva l’ossimoro che sua moglie rappresentava ai suoi occhi:
terribile e meraviglioso concentrati in un unico spazio. “Gli devo un favore e
poi Molly ha ragione; siamo una famiglia, John. Se un membro della mia famiglia
viene a chiedere il mio aiuto, non posso voltargli le spalle.”
-
*
-
C’erano momenti di
feroce, protettiva tensione tra loro, che si spegnevano, così com’erano
iniziati, nell’abisso di altri pensieri e sentimenti.
-
Quando
rientrò nell’appartamento, trovò che Molly si era addormentata.
Lasciò
che la scena gli riempisse gli occhi, per conservarla dietro una delle tante
porte bloccate del suo palazzo mentale.
Sherlock
avrebbe desiderato coprirla nella sua interezza, curvarsi a nascondere la morbidezza
del corpo minuto di lei con la spigolosità allungata del proprio. Nasconderla
al mondo e convincersi, avere la sicurezza che così facendo lei fosse al
sicuro.
Molly
dormiva profondamente, raggomitolata sulla sbiadita poltrona rosso pompeiano di
John.
Lui,
intanto, gocciolava sul pavimento la pioggia e l’umidità che la nebbia di
Londra gli aveva buttato addosso.
Sherlock
la prese in braccio e la testa di Molly trovò d’istinto la curvatura inospitale
tra spalla, clavicola e collo che lei dava mostra di apprezzare particolarmente.
“Sherlock,”
mormorò nel sonno e le sue dita affusolate afferrarono il risvolto bagnato del
Belstaff.
Lui
provò qualcosa, un’oscillazione rapida, ma moderatamente frenata, all’altezza
della trachea, tra bronchi e polmoni, che vibrava di un accento di disperazione.
“Sono
qui.” Le sfiorò la tempia con le labbra, in un bacio che non era un bacio, ma
solo la sua carezza. “Andiamo a letto, Molly.”
Non
avrebbe dormito. Veder dormire lei era l’unico riposo di cui abbisognasse, il
riposo più soddisfacente che riuscisse a immaginare.
*
“Cara,
non trovi anche tu che ultimamente la casa sia piuttosto movimentata? Più del
solito, intendo.”
Era
una mattina qualunque e Molly stava facendo colazione con uova e bacon. Posò forchetta
e coltello e, riflettendoci sopra, dovette convenire con quanto Mrs. Hudson
aveva detto. La casa non era solo movimentata, era affollata.
Wiggins
e Victoria si erano praticamente trasferiti in pianta stabile al 221C – dal
basamento arrivava ormai forte e chiara musica rock ad ogni ora del giorno e
della notte, con buona pace dei pomeriggi del gruppo di studio, che dovevano
accontentarsi di occupare abusivamente la cucina sempre disponibile di Mrs.
Hudson o, in casi fortuiti e più unici che rari, il salotto del 221B.
E
poi c’era Mary, che da una settimana e mezza a quella parte aveva cominciato a trascorrere
le sue mattinate con lei. Era ancora in congedo di maternità, lo sarebbe stata
fino a metà settembre. (Non era insolito che Mary si fermasse anche a dormire a
Baker Street in caso di lontananza di John, quando un caso con Sherlock lo
teneva impegnato, trattenendolo nottetempo.
Molly
le cedeva volentieri la camera in cima alle scale, approfittando dell’assenza
facoltativa di Sherlock per appropriarsi di quella di lui che aveva il letto
più comodo.)
Non
che a Molly quei cambiamenti abitativi risultassero sgraditi, tutt’altro.
Cessate
le estemporanee passeggiate notturne con Wiggins con la giustificazione di
‘certi affari in sospeso con Mr. Holmes’ (a cui Molly avrebbe anche potuto
fingere di credere se Wiggins si fosse dato pena di nascondere l’ozio che tali
attività fantasma operavano sulle sue giornate e se, per amor di decenza,
avesse smesso di girare in mutande supereroistiche con l’aria spensierata di
chi non ha urgenti occupazioni o impegni a profilarsi all’orizzonte), sarebbe
caduta presto preda della noia più lugubre se non fosse stato per la costante
presenza di Mary e Katie e di Mrs. Hudson, di Victoria e dello stesso Wiggins, a
portata di voce.
Ciò
nonostante doveva ammettere che questo nuovo quadro casalingo, per quanto
indubbiamente amabile, non soltanto si presentasse sospetto, ma che lo fosse incredibilmente.
Aveva avuto una guardia del corpo e una balia, ora si rendeva conto di avere
un’intera guardia d’onore preposta alla sua sicurezza.
Avrebbe
potuto chiedere spiegazioni; chiedere cosa, di preciso, fosse cambiato per
spingere tutti ad una risoluzione radicalizzata come quella. (Per quello, Molly
era loro grata davvero. Si erano chiusi attorno a lei in un cerchio, in modo
compatto, come una formazione di difesa da testuggine romana.)
Avrebbe
potuto pretendere di essere messa a parte, ma non lo avrebbe fatto. Non
intendeva arrendersi all’ignoranza e la sua non voleva essere una meschina prova
di forza.
Avrebbe
aspettato e taciuto perché in quel frangente, come in altri, sperava che
Sherlock scegliesse di confidarsi con lei sinceramente, quando fosse stato
pronto.
Riprese
coltello e forchetta e prese un boccone particolarmente abbondante. “Davvero?
Non me n’ero accorta,” rispose distratta.
*
“E
se Molly dovesse fare domande?”
“Non
ne farà.” Sherlock appariva sicuro di quel che diceva, ma John non si era arreso.
“Io
ne farei.”
“Molly
non è te.”
C’era,
nel modo in cui lo aveva detto, un complimento rivolto unicamente a lei.
“Perché
non dovrebbe? Ne avrebbe ogni sacrosanto diritto.”
“Non
ne farà perché si fida di me.”
Anch’io mi fido di te, era stato sul punto di
replicare John, sentendosi in qualche modo indignato e insultato. Poi aveva
capito cosa Sherlock intendesse.
“Il
mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare,*”
disse, citando un’espressione che lo stesso Sherlock aveva usato, anni
addietro. La smisurata lealtà e devozione di una singola persona, tanto per
dirne una.
Sherlock
aveva sollevato il bavero, osservando con occhi stranamente luminosi la strada
deserta e le radiazioni arancioni del lampione. “Questa è la mia fortuna.”
N/A:
Questo è stato
un capitolo di necessario passaggio. Adesso potete fare supposizioni precise,
non definitive, riguardo l’identità dell’attentatore, incluse le sue ragioni o
il perché abbia mandato in maxischermo l’immagine di Moriarty in diretta nazionale.
Semplice depistaggio o c’è altro in ballo?
E Molly… Oh, cosa posso farci se la adoro? No, di più, credo di idolatrarla.
Questa donna è una forza della natura. Non batte ciglio di fronte a niente,
tiene testa a Sherlock e non fa domande. Potresti andare da lei a
chiederle di aiutarti a seppellire un corpo e lei non strillerebbe ‘Sacripante,
cosa hai fatto!’, ma probabilmente si limiterebbe a chiedere se hai controllato
che il corpo in questione fosse effettivamente morto e il punto in cui
intendi seppellirlo. Perché questa donna ama Sherlock Holmes e lo capisce e sa
riconoscere le priorità.
Ammetto, se posso permettermi di dirlo senza sembrare una sciocca vanesia e in
tal caso linciatemi pure, che questo sia uno dei miei capitoli preferiti finora.
Non ci sono veri e propri momenti tra Sherlock e Molly, ma i sentimenti
traspaiono, soprattutto da parte di Sherlock e scriverlo non è solo stato
emotivamente delizioso, ma ‘scuotente’, passatemi il termine che non me ne
sovviene un altro.
*Da “Il mastino di Baskerville” di Arthur Conan Doyle. (Di nuovo io che cito
Sherlock tramite John :D)
Bacioni a tutte, alla prossima!
P.s.: se posso
permettervi un consiglio (o di darvi dei compiti per riempire l’attesa) vi
direi di andare a rileggere, o nel caso leggere, L'avventura del nobile
scapolo, solo per farvi un’idea dell’atmosfera e del mistero a cui è
dedicato il prossimo capitolo.
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Capitolo 15 *** XV ***
15
Erano trascorse due
settimane dacché Mary aveva preso pieno possesso della vecchia stanza di John. Due
settimane di silenzio da una parte del muro e di attente, private
considerazioni dalla parte opposta.
Sherlock aveva l’aspetto
di un soldato che si appresti alla battaglia, che sia sul piede di guerra, ma
senza avere idea di quando dovrà partire per raggiungere il fronte e affrontare
il fuoco nemico. Si comportava come se avesse il diavolo alle calcagna.
Due settimane scarse erano
bastate a smagrirlo, dargli un’aria consumata che addosso a chiunque altro
sarebbe stata estenuata, ma che su di lui faceva risaltare il
barlume febbrile e burrascoso del suo intelletto acuminato.
Era puro istinto,
ferale, famelico di notizie e indagini, sempre attivo e in movimento, che
rincasava e usciva a rotta di collo e dormiva tre ore ogni paio di giorni. Con
disperazione di tutti e buona pace della perseveranza di John, aveva ripreso a
fumare come un turco, rendendo il salotto un limbo di miasmi e di esalazioni
irrespirabili.
“Oh, quel ragazzo
testardo! Sembra che abbia l’argento vivo addosso!”
Molly non sarebbe potuta
essere più d’accordo né avrebbe saputo trovare parole migliori di quelle usate
da Mrs. Hudson. Si rese conto che, aspettando
Godot, nulla sarebbe mai cambiato. Doveva agire. Doveva essere lei ad
abbattere il muro.
*
L’opportunità gliela
offrì Mycroft, insperabilmente, qualche giorno più tardi.
Era una notte
tranquilla. Molly era nel salotto del 221B, impegnata ad ammazzare il tempo,
nonché ogni briciolo di amor proprio, con Mary, Wiggins e Victoria.
Stavano giocando a
Diplomacy (Mary era in netto, clamoroso vantaggio su tutti loro e la partita
non sarebbe potuta andare peggio) e Mrs. Hudson era seduta sulla poltrona di
John e cullava Katie.
“A chi tocca?” domandò
Wiggins.
Nell’ordine del gioco era
il suo turno leggere quanto aveva scritto. Molly stava per indicare la mossa
sulla plancia di gioco, quando, senza preavviso e arbitrariamente, nel modo
appropriato, elegante e al tempo stesso sprezzante che gli apparteneva, sulla
soglia dell’appartamento comparve Mycroft.
Non sarebbe sembrato più
fuoriposto in quel contesto neanche se loro fossero stati nudi e lui vestito di
tutto punto per una festa in maschera.
“Mi duole interrompere
quella che si prospetta una totale disfatta per Miss Hooper, ma devo vedere
Sherlock. Anche se deduco dalle vostre espressioni rilassate e dall’atmosfera
godibile che non sia in casa.” Il sorriso che accompagnava quelle infamanti parole,
così come il suo sguardo, erano più amichevoli del previsto.
Per quanto insolitamente
cordiale, Molly sfidava chiunque a farsi piacere un prognostico a proprio
svantaggio. Prognostico di cui, tra l’altro, era stata del tutto consapevole
senza che lui affondasse il dito nella piaga.
“Prego, Mr. Holmes,” lo
salutò con familiarità Wiggins e fece per cedergli il posto sul divano.
Mycroft lo guardò come
uno scarafaggio e marciò oltre, insediandosi invece sulla poltrona di Sherlock.
Con l’ombrello tenuto in una perfetta parallela e simile al bastone-bacchetta
di legno di un istitutore di inizio secolo, si limitò a seguire il gioco con
occhi di falco.
Molly sospirò interiormente
– aveva imparato a farlo spesso negli ultimi anni, tanto da avvalersi di quei
sospiri interiori con deleteria costanza e frequenza.
Aveva pensato che la partita
non potesse andare peggio, per lei. A quanto pareva il destino, o il karma,
aveva un senso dell’umorismo altamente contestabile.
*
Molly non era stata per
niente sfiorata dal pensiero che Mycroft sarebbe davvero rimasto in silenzio fino all’arrivo di Sherlock, né che la
mancanza del suo bersaglio preferito lo avrebbe trattenuto dall’individuare tra
i presenti alternative fonti di diletto personale, diletto conseguito nel metterne
in vista le manchevolezze.
Aveva semplicemente sperato
che non fosse lei la fortunata fiduciaria di quell’onere gravoso.
“Se fossi in lei, non lo
farei, Miss Hooper.”
Non di nuovo.
“Oh,” Molly guardò
intenta l’unità che era stata sul punto di dislocare, “perché?”
Victoria sogghignava
impenitente, ma Wiggins le rivolse un’occhiata simpatizzante e Mary era tipo da
‘vivi e lascia vivere’, o almeno questa era sempre stata la sua impressione.
“Se persiste in questo
schema pericoloso, in base all’accordo tra Mastro Wiggins e Mrs. Watson, la sua
armata verrà spazzata via in un duplice contrattacco e Miss Queen diventerà inveterata
regina del suolo britannico che lei ha l’incarico di proteggere.”
Molly fece un verso
scoraggiato, riflettendo su una nuova, eventuale mossa.
“Le consiglio caldamente
di spostare la flotta di Edimburgo e –”
“Un attimo,” lo interruppe
Molly, “per quanto gentile, suggerire è barare.”
“Nessun problema, Doc,”
sorrise Wiggins.
“Già, praticamente il
gioco è in chiusura.”
Molly corrugò le
sopracciglia. In parole povere le stavano dicendo che non c’era modo che lei si
salvasse da una debacle
disastrosa, pur contando sull’astuzia di Mycroft.
Be’, pensò risoluta,
questo era tutto da decidersi.
*
Quando John mise piede
nell’appartamento, agitando le spalle anchilosate e passandosi una mano tra i
capelli bagnati, rimase impalato sulla porta per una manciata di secondi, forse
qualcosa in più, decisamente per uno
scarto di secondi di troppo, a fissare la scena surreale che si presentava
ai suoi occhi.
C’era il salotto, non
sottosopra e niente affatto a soqquadro. C’erano sua moglie, sua figlia, Mrs.
Hudson, Wiggins e Victoria Queen distribuiti attorno a una plancia di gioco
sistemata sul basso tavolino di fronte al divano.
E poi c’erano Molly, Molly Hooper e Mycroft, Mycroft Holmes impegnati in un acceso
scambio di vedute su qualcosa che riguardava ‘un centro di rifornimento’ e la
‘volubilità dei francesi’ e l’essere ‘potenzialmente razzisti’.
Lesse il nome sul contenitore
sul pavimento e la confusione naufragò in rassegnazione. Diplomacy. ‘Un Gioco di Intrigo Internazionale, Fiducia e Tradimento’
recitava la tagline.
Dannazione, come aveva fatto a perderselo?
Cercò lo sguardo di Mary
e vi trovò riflesso lo stesso brillante divertimento.
E poi salì l’ultima
rampa di scale anche Sherlock, simile a un fosco e minaccioso fantasma. Scosse
i capelli neri come il pelo irsuto di un cane e stette ad osservare faziosamente
quella scena impagabile. “Non accetterò,
Mycroft,” annunciò lugubre e Mycroft e Molly smisero all’istante di scambiarsi
piacevolezze per voltarsi simultaneamente e fissarlo come si guarderebbe un
ladro che si sia intrufolato in piena notte in proprietà privata.
Sherlock fece una
smorfia terribile e malevola, dopodiché voltò le spalle ai presenti, imboccò regalmente
la porta della sua camera da letto e scomparve alla vista.
Ricomparve quindici
minuti più tardi. Il gioco da tavolo nel frattempo era stato riposto; Mrs.
Hudson, Wiggins e Victoria avevano augurato la buonanotte ritirandosi nei
rispettivi appartamenti e i restanti del gruppo avevano preso un atteggiamento
serio che mal si adattava al contesto di appena poco prima.
Specialmente Mycroft –
le gambe accavallate, l’espressione severa che accompagnava un leggero
increspamento della fronte - la cui dignità era ormai definitivamente
compromessa agli occhi di John; e Molly che aveva assunto un’aria mortificata e
colpevole e occhieggiava a Mycroft come se attendesse il momento opportuno per
porgere delle scuse di cui l’altro non avrebbe visto alcun beneficio o
provento. Poteva già immaginarseli alla perfezione: la reazione di lui e il
commento di accompagnamento, qualcosa sulla falsariga di ‘mera forma sociale’
o, come l’avrebbe convenientemente definito, un puro pro forma.
Purtroppo Sherlock
scelse di mostrarsi in quel momento.
Non andò a sedersi sulla
sua poltrona, quella era occupata da Molly, ma prese il gatto che stava in
panciolle sul davanzale della finestra e si posizionò alle spalle di lei.
A quel gesto per niente
implicito di galanteria, con buona grazia di chi stentava a crederlo capace di
atti davvero gentili, Molly gli regalò un sorriso di rara limpidezza a cui
Sherlock rispose con una vaga carezza sulla spalla di lei e lo scorcio di un
rapidissimo, altrettanto raro, sorriso.
John si sfregò il mento
per eclissare il proprio di sorriso e Mary fece lo stesso, dietro la tazza di
tè che Mrs. Hudson si era premunita di preparare loro prima di scendere
dabbasso.
Si sarebbe detto che tra
tutti quei sorrisi Mycroft trovasse all’improvviso l’ambiente stomachevole. Più
del consueto, s’intendeva.
“Hai sprecato tempo
prezioso nonché i servizi del Governo per un viaggio a vuoto. Non che
solitamente siano meglio impiegati. Pare un netto miglioramento questo.”
“Sherlock.” Non un
blando richiamo o uno soffice di pericolosità in avanscoperta, ma un tono
pregno di minacciosi sintomi premonitori. Mycroft si massaggiò l’attaccatura
del naso. Uhm, pensò John, nuvole in purgatorio. “Malgrado tu abbia collezionato
un considerevole repertorio di tentativi compiuti per dimostrare il contrario, la
mia tolleranza non è infinita.”
“No, certo che no.”
Sherlock gli rivolse un sorriso da iena, deliberatamente provocatorio. “A
quanto pare lo è solo il tuo pingue stomaco.”
“Ti ho lasciato
risolvere dei casi, ma ciò non significa che io non possa intervenire in
qualsiasi momento. Dammi una ragione, Sherlock e te ne farò rimpiangere.”
“Sono terrorizzato.”
Perfetto. Ci mancava una
buona dose di sarcasmo. John avrebbe voluto capirlo. Era di pessimo umore e
d’accordo, forse ne aveva ogni ragione. Il tentativo di quella notte si era
rivelato l’ennesimo buco nell’acqua, ma non riusciva proprio a trattenersi? Non
poteva se non altro tentare?
“Almeno potresti ascoltare
quello che ha da dire,” intervenne Molly.
Sherlock si sgonfiò un
poco e abbassò la testa per guardare Molly, che invece aveva alzato la sua.
“So già cosa dirà,”
disse Sherlock.
“Potresti rimanere
sorpreso.”
“Ne dubito.”
Con una smorfia,
grattando le orecchie del gatto che gli si era arrampicato su una spalla e se
ne stava là appollaiato, Sherlock fece un cenno impercettibile a Mycroft, che
dal canto suo, ovviamente, non poteva lasciar passare la cosa sottobanco.
Indirizzò a Molly
un’occhiata di affettato apprezzamento. “Poche lezioni ancora e potrebbe
aspirare ad una carriera da agente diplomatico.”
Molly si strinse al
petto il gatto che Sherlock le aveva messo in grembo, sembrò riflettere sulla
proposta di lui con solennità. “Non sono mai stata un granché in lingue
straniere,” disse con franchezza, “e il diplomatichese sembra fin troppo problematico.”
Tatto, finezza, abilità nella trattazione di affari delicati
che richiedevano prudenza, o anche nelle relazioni tra persona e persona. Molly era una
diplomatica nata.
Mycroft le rivolse uno
sguardo fermo, nel suo modo di dire ‘Touché’, quindi espose gli estremi del
caso.
*
La mattina successiva
tutti recavano i segni della nottata che si era protratta fin quasi all’alba.
Tutti tranne Sherlock che aveva una robusta costituzione e una caparbietà e
resistenza quasi inumane.
“Ricordami perché ho
accettato il caso,” lo sentì lamentarsi a bocca piena.
John storse gli occhi
dietro il Times. Gli sovvenne il pensiero, forse maligno ma sicuramente
sincero, che quella sfera della vita in comune – svegliarsi al suono degli
strimpelli del suo violino, fare colazione con Sherlock che gli rubava il cibo
dal piatto e deduceva venti cose prima che lui voltasse pagina – non gli fosse
affatto mancata. “Perché te lo ha chiesto Mycroft.”
Sherlock fece una faccia
scettica, trangugiando il suo caffè.
Nel momentaneo spiraglio
di silenzio, John ridacchiò. “Perché Molly ti ha fatto gli occhi dolci e tu non
hai saputo resisterle. Arrenditi, sei un uomo anche tu.”
“La tua dabbenaggine non ha fine.”
Sentire qualcuno
inserire la parola dabbenaggine in un qualsiasi contesto conversativo e prima
che scoccassero le nove di mattina, questo sì, lo ammetteva, gli era mancato da
morire.
*
Lord Robert Walsinghain de
Vere St. Simon, secondogenito del duca di Balmoral, era un uomo dal viso pallido
e il naso aquilino, una vena di gentilezza insolitamente spiccata negli occhi
nocciola e modi di fare affabili.
Se si fossero ritrovati a
percorrere lo stesso marciapiede, l’uno di fianco all’altro nel traffico
londinese, John non avrebbe riconosciuto in lui un nobile Lord, se non per quel
non so che nel portamento – qualcosa di vagamente impettito, una sorta di
austerità che non riusciva a trovare pace, a rilassarsi – e per l’abbigliamento
estremamente ricercato. La sua cravatta di raso con minuscoli fiorellini lilla doveva
costare da sola uno se non due dei suoi stipendi, pensò John con una punta
d’invidia. Per non parlare del fermacravatte d’argento.
“Sabato sera Hatty, Hatty
Doran, la mia fidanzata, aveva uno spettacolo al Future Theatre. Da allora è scomparsa.”
Lo disse in un tono che molti avrebbero definito piatto o addirittura freddo,
ma che non lo era affatto, non per John.
“Non è la prima volta che
accade,” constatò Sherlock.
“No, non lo è,” riconobbe
Lord Simon. “È quasi una settimana che questo fenomeno ha luogo. Alla fine di
ogni spettacolo Hatty svanisce nel nulla. Non la si trova nei camerini e con
lei scompare anche il costume di scena. Ho provato ad aspettarla dietro le
quinte e sulla boccascena, ma niente sembra funzionare. Cala il sipario e non si
riesce più a trovarla da nessuna parte. È come se si volatilizzasse. Questo ha
mandato in agitazione anche la sartoria del teatro e il resto della compagnia. Come
lei può ben immaginare mancano gli estremi per richiedere l’intervento delle
forze di polizia o avviare le procedure di allertamento. Non è semplicemente
scomparsa, perché di fatto scompare unicamente nei periodi di tempo che intercorrono tra uno
spettacolo e l’altro. Ebbene io non posso adeguarmi agli iter burocratici.
Voglio trovare Hatty e voglio farlo subito.”
“Ci parli della signora,”
ingiunse Sherlock.
John simulò un colpo di tosse
e gli indirizzò un’occhiata delle sue. Si sporse in avanti, decidendo di prendere la
parola. “La ritiene capace di giocare un brutto tiro al teatro? Il suo può
essere un modo estremo per allontanarsi da lei, per timore di affrontarla faccia
a faccia?”
“Hatty è molto superstiziosa,
non ama distrazioni nel periodo che precede la prima, ma scappare o nascondersi
non è nel suo carattere. No, se agisce in questo modo è perché è costretta
dalle circostanze.”
“O perché a costringerla è qualcuno.”
Sherlock incrociò le mani davanti al naso. “Quindi vuole che ritrovi la sua
fidanzata, pur non trattandosi di un caso di rapimento.” Perché dovrei scomodarmi?
Lord Simon si accigliò. “Come
può escluderlo a priori?”
È evidente. Non è evidente, John? Sherlock si voltò verso di lui con stampate in
faccia quelle riflessioni. Incrociando il suo sguardo di ammonimento, roteò gli
occhi e sbuffò, tamburellando le lunghe dita sui braccioli della poltrona. “Miss Doran
è un’attrice. Chi meglio di lei è al corrente dei trucchi del mestiere sul
palcoscenico? Inoltre è scomparsa con il suo abito di scena, il che elimina
numerose alternative dal ventaglio di probabili soluzioni.”
Lord Simon non era
persuaso e John intravide per la prima volta un’intensa preoccupazione farsi
largo in lui, prendere il sopravvento. “Lei è mai assalito dal timore di
sbagliare?”
Sherlock sembrò ponderare sulla
questione con grande serietà, quindi con un cenno di assenso assicurò nella
voce flautata che sapeva usare, alle volte: “Molto raramente.”
*
Dopo l’uscita di scena di
Lord Simon, Sherlock saltò in piedi di scatto.
John si apprestava a seguirne
l’esempio quando Molly irruppe nella stanza. Indossava il soprabito e aveva un
ombrello rosso in mano. Mary la seguiva e John, sospirando, si accorse di cosa
stringeva in mano: una radiolina-interfono.
Sperava che non diventasse
un’abitudine, quella. Il brillio esasperatamente divertito nello sguardo di sua
moglie pareva assicurargli il contrario.
“Voglio venire con voi,”
disse Molly in tono risoluto.
Sherlock la fissò a lungo,
intensamente, poi con lentezza annuì. “D’accordo.”
Nessun infernale
discorso sulla sicurezza. John era allibito. No, di più: era assolutamente
sbigottito; in buona misura perfino arrabbiato. “Sherlock, posso parlarti?”
domandò a denti stretti. “Possibilmente in privato.”
Lui reagì con fastidio alla
proposta. “Qualsiasi cosa tu possa dire, ci ho già pensato. Ho valutato le
opzioni e deciso di conseguenza. Molly verrà con noi. Fine della questione.”
Contenendo a stento un’imprecazione,
John serrò i pugni. “Come preferisci.”
*
Mary e Mrs. Hudson li avevano
scortati fino alla porta e rimasero sulla soglia finché il taxi non scomparve,
svoltando oltre la curva dell’imbocco di Baker Street.
“Speriamo che vada tutto
bene.” Mary non aveva dubbi in proposito, ma lo stesso una parte
di lei non
poteva non essere impensierita di fronte alle molteplici occasioni di
pericolo che, lei più di chiunque, sapeva essere acquattate
dappertutto, in luoghi
impensati. C’erano tante variabili in quel gioco, troppe.
Mrs. Hudson sospirò e scosse
la testa, sistemandosi meglio la frangia dello scialle su una spalla. “A Dio
piacendo, cara. Che dici, inforniamo un po’ di pane?”
*
“Fu commissionato all'architetto Ernest Schaufelberg ed è in stile
italiano. È stato il primo teatro
ad essere costruito a Londra dopo la fine della prima guerra mondiale.”
Molly studiò affascinata la facciata dell’edificio.
Era in cemento, con pilastri in mattoni di supporto al
tetto e la famosa statuetta
di Tersicore arroccata sopra l'ingresso. “Scolpita da una compagnia celebre di artigiani di Worcestershire,” la mise al
corrente Sherlock, indicandogliela col braccio.
Accedettero attraverso le doppie
porte di bronzo in un atrio di marmo grigio
e rosso, con una biglietteria di rame battuto.
“Con 432 posti
a sedere nella sala, è il secondo più piccolo teatro del West End.”
Con un sospiro esasperato e insieme stizzito, John lo minacciò di
sconsigliabili ripercussioni sul suo posteriore se non si fosse deciso a stare
zitto. “Siamo
nel bel mezzo di un caso.” La voce di lui era fiacca, gli occhi più stanchi che mai
mentre squadrava sia lei che Sherlock. “Potreste cercare di avere un’aria meno
compiaciuta? Tra voi due non so chi sia il peggiore.”
Molly chinò la testa. “Scusa,
John.”
Sherlock nascose poco e male
un sorriso asimmetrico. “Non prometto nulla.”
*
Nel punto in cui erano
appostati si aveva il controllo visivo dell’intera sala: la platea di sedie di
velluto rubino, le due balconate frontali e i palchetti laterali. E ovviamente
del palcoscenico in ogni sua componente, piano scenico e retropalco inclusi.
John era di guardia nel
sottopalco mentre lei e Sherlock si trovavano sulla piccionaia, o forse sarebbe
stato più corretto chiamarlo col suo nome, ballatoio.
Poco prima che lo spettacolo
iniziasse, Molly vide uno dei macchinisti arrampicarsi come un trapezista sulla
struttura di legno della graticcia e armeggiare con le corde di canapa legate
agli stangoni. Alle loro spalle il pesante fondale di velluto nero cominciò una
lenta discesa. Molly incrociò le braccia sul corrimano e guardò in basso,
godendosi la prima vera uscita in compagnia di Sherlock.
Come se le avesse letto nel
pensiero, lui si tastò le tasche del Belstaff, nella ricerca evidente di
qualcosa, quindi le passò un binocolo e una brochure.
“Per il prossimo appuntamento
sarebbe bello vestire abiti da sera e chiacchierare nel foyer,” disse Molly a
cuor leggero, prendendoli.
Sherlock annuì, come se lo
fosse appuntato.
Molly lesse distrattamente il
titolo sul manifesto e le sfuggì un piccolo verso di giubilo ed eccitazione.
Sherlock inarcò le
sopracciglia.
“Scusa,” disse lei con un
sorriso che sembrò disarmarlo per un attimo. “È che – La signora in nero,” gli
sventolò il pezzo di carta sotto il naso, “è stato praticamente uno dei miei
racconti preferiti da bambina.”
Sherlock arcuò un angolo di
bocca e i suoi occhi si concessero un guizzo di qualcosa, piacere forse nello
scorgere il piacere di lei, prima di tornare seri e concentrati.
*
“Uno spettacolo eccellente,”
commentò Sherlock, impugnando il cellulare e battendo freneticamente i tasti mentre
inviava un messaggio-lampo a qualcuno – senza dubbio John. “Anche quel Fantasma
di Pepper era tutto fuorché scadente.”
“E gli attori,” aggiunse
Molly. “La signora in nero è interpretata da Miss Doran?”
Sherlock le fece segno di
tacere. Molly obbedì e seguì la direzione del suo sguardo. Era appuntato sopra
le loro teste, in alto, sulla torre scenica là dove un uomo, un’ombra appena
visibile, ma agile e smilza, si stava muovendo di soppiatto in direzione delle
quinte, verso qualcosa che assomigliava a una torretta metallica che sorreggeva
dei riflettori spenti.
Sempre a gesti, Sherlock le fece capire di rimanere dove si trovava e si affrettò a seguire l'ombra dell'uomo.
Pochi minuti dopo vide
l’ombra cadere nel vuoto, appesa ad una grossa fune e poi fare un capitombolo
da un’altezza approssimativa di un metro, un metro e mezzo sul palco
sottostante.
*
“Mi dispiace, Robert.”
Vestita completamente di nero, neri i capelli lucenti e neri gli occhi dolenti
che fissavano il fidanzato corrente al fianco di quello passato (un ragazzo
allampanato dagli occhi verde chiaro, basette, folti capelli castani e un mento
degno di ogni considerazione), Hatty Doran era una donna affascinante dalla pelle
di magnolia. Nessuno stupore per John che due uomini tentassero di accaparrarsi
le sue attenzioni, di cui uno era un Lord.
Lo stesso Lord che rispose a
quello sguardo compunto con uno afflitto. “È per via del mio titolo, Hatty?”
Lei scosse la testa con
decisione, incrociò le mani sulla gonna dell’abito vittoriano. “Non ho mai
voluto essere una Lady.”
“È questo allora? Che per te
non abbia rinunciato al titolo, il problema?”
“Non te lo avrei mai chiesto,
Robert.”
Lui aveva un’espressione
amareggiata quando lei gli rese l’anello di fidanzamento – un gioiello d'oro scuro e di foggia
antica, di sicuro tramandato per generazioni. “Forse avresti dovuto.”
*
“Agnizione,” mormorò
Sherlock. Prima che lei potesse chiedere spiegazioni lui proseguì: “L’ipocrisia
dei sentimenti non smetterà mai di sorprendermi.”
“Cosa intendi?” Molly si
voltò a fronteggiarlo.
Sherlock aveva una smorfia
che non era solo disgustata, ma di ostile, manifesta disapprovazione. “Come ha potuto
dimenticare così facilmente il suo amore precedente?”
Molly si accigliò. “Non l’ha
fatto. È proprio questo il punto, no? Non l’ha mai dimenticato e quando ha
scoperto che era vivo –”
“Ma come può tradire il
nuovo, voltare le spalle a una promessa fatta a un uomo in virtù di quella
fatta a un altro uomo? Promesse che rompono promesse.” Lo disse nel tono
da ‘non capisco’.
Molly sorrise senza averne
seriamente l’intenzione. “Io credo di capirla molto bene invece. Non ha rotto
un giuramento. La sua era speranza.”
“Speranza.” Sherlock la fissò
come una povera squilibrata.
“Sherlock,” iniziò dolcemente
e fece uno dei suoi sospiri interiori, “quando ami a lungo qualcuno ti rendi
conto che quella persona ti è entrata dentro, ti ha influenzato senza quasi che
ne avessi coscienza. L’amore ti cambia. Non so dirti se in male o in bene, ma
di certo lo fa, ti cambia. E anche quando quella persona non c’è più o è andata
via o si è allontanata, non rinunci a quella nuova parte di te. La puoi
addormentare, puoi illuderti che altre prendano il sopravvento, crederci
abbastanza da renderlo possibile. Poi incontri qualcuno di diverso e ti scopri
ad amarlo, ma è un amore molto, oh, molto differente dal primo e tutto
ricomincia daccapo. Si ama sempre e mai in modo uguale. L’unica caratteristica
che li accomuna è che non sono in nessun modo semplici. Non è amare o perché si
ama, ma come lo si fa ad essere importante.”
Lo aveva spiazzato. Per un
istante, un istante languido e disincantato, Sherlock lesse con serena trasparenza
quello che lei non aveva tentato di nascondere neanche una volta in quelle
settimane. So che c’è qualcosa che mi
nascondi, ma non ti forzerò per scoprirlo. Sempre durante quell’istante,
sembrò giungere a una decisione finale. Molly la vedeva profilarsi nei suoi
occhi, nell’azzurro che ad un tratto si faceva incerto, sospeso come il cielo
quando non sa risolversi tra sole e pioggia e trova l’armistizio di una
copertura di nuvole. Aprì la bocca. “Molly,
io –”
Poi l’istante si spezzò, la
magia fu rotta dal suono vibrato del cellulare di lui. Con un sospiro condiviso
Molly mise da parte quel miraggio e Sherlock controllò il display, accigliato. “È
John,” disse ruvidamente. “Dobbiamo andare.”
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Capitolo 16 *** XVI ***
16
(15th September)
Fu un viaggio di ritorno
silenzioso, in cui Molly, seduta tra John e Sherlock, fissava davanti a sé con
occhi distanti.
Sherlock pareva oltre il
naturale andamento delle cose, viaggiatore nomade in un mondo di nozioni e
calcoli e riflessioni preclusi anche a chi, come lei, avrebbe volentieri dato
un braccio e una gamba, sacrificato ogni cosa per entrarci una sola volta.
Molly si morse le labbra e
poggiò la testa contro il poggiatesta, ma non riposò né era sonno quello che le
faceva bruciare gli occhi. Era il disimpegno della delusione, qualcosa che tra
le tante conseguenze le faceva dolere la gola e contrarre il petto.
Se anche John lo notò, decise
di sorvolare e non fece commenti.
A Baker Street oltrepassarono
l’ingresso, immerso nel buio e nel silenzio, e salirono le rampe di scale
quietamente.
Una volta nel 221B, John si
lasciò cadere sulla sua poltrona con un tonfo e un gemito affaticato. Si
massaggiò il collo, allungando le gambe in avanti. Dunque riaprì un occhio e lo
fissò su Sherlock per valutarne gli intenti. “Be’,” disse scoraggiato,
“immagino di dovermi preparare, giusto? Quanto tempo mi dai prima di uscire di
nuovo?”
Molly si mosse per superarli,
non volendo mostrare quella specie di disappunto, no di più, era dispiacere e amareggiata rassegnazione, che sentiva
allargarsi dentro di lei.
Nel passargli accanto, Sherlock
le sfiorò il polso, ma furono le sue parole a frenarne i passi. “Non questa
notte, John.”
John inarcò le sopracciglia,
ma non si lamentò per quell’insperata serata di riposo. Inclinò la testa,
guardando entrambi come se fossero lettere mozzicate e gli spazi tra loro
quelli di un rebus da risolvere. “Molly?”
Tutto a posto?,
sembrava chiedere. Devo restare?
Sherlock inspirò pesantemente
e Molly poteva sentire la tensione irradiata da lui come se fosse la propria. “Buonanotte,
John,” disse e fece un cenno rassicurante, di conferma.
*
Sherlock chiuse
attentamente la porta. Si prese del tempo, sfilandosi il Belstaff e
appendendolo.
Seduta sulla sponda del
letto, Molly osservò le sue manovre senza fiatare fino a quando lui, capitolando
di fronte alla sua perseveranza, si voltò ad incrociare il suo sguardo attento
e deciso con uno che lo era ugualmente, ma in modo più sottile e interessato e
contrariato.
“Cosa è cambiato?”
domandò Molly senza preamboli.
“Era ovvio che te ne
saresti accorta.” Dal tono che aveva utilizzato era impossibile stabilire se ne
fosse contento o, al contrario, infastidito.
Molly sollevò il mento,
stringendo i pugni e formando delle pieghe tra le lenzuola. “Non sono cieca,
Sherlock. Avrei dovuto esserlo per non notare la mobilitazione intorno a me,
quindi sputa il risposto. Cosa ti preoccupa?”
C’era un limite a tutto,
compresa alla comprensione. Perciò cosa?
Doveva saperlo. Cosa era stato sul punto di dirle,
al Future, prima che il messaggio di John lo interrompesse? Cosa lo tormentava?
Tu.
Gli occhi di Sherlock le
percorsero il viso come se intendessero divorarla, fagocitarla nell’infinità
dei suoi.
L’acciglio di Molly si
spianò appena, la sua smorfia si addolcì in una piega meno insistente,
battagliera. “Ci sono stati nuovi sviluppi, vero? Cos’altro hai scoperto?”
Di
nuovo quel lampo
indecifrabile. Sherlock le si avvicinò, si sedette accanto a
lei, così vicino da sfiorarla, ad un tiro di schioppo. “Mi
occorre
che tu ti fidi di me un’altra volta. Puoi farlo?”
Per un istante, Molly si
limitò a guardarlo. Nella frazione di secondo successiva, mormorò: “Sempre.”
Era esattamente quello
che entrambi si erano aspettati l’uno dall’altra.
“Ti ringrazio.”
“Sarò meglio che tu lo
faccia,” lo redarguì Molly con un sorriso poco sentito, plastificato nel suo
voler apparire faceto. Cercò la sua mano e gliela strinse. “E anche che tu ricordi cosa mi hai detto. Proteggi te
stesso come proteggeresti uno di noi.”
Sherlock le rivolse un
sorriso che non gli raggiunse gli occhi. Quelli rimasero torbidi, ombreggiati
dai pensieri che lo assillavano. Lui le prese il mento con il pollice, si chinò per baciarla con
forza e Molly glielo lasciò fare. C’era tempo per chiarirsi. Ci sarebbe stato, domani. Questa
era la sua speranza. E la sua paura.
*
La mattina successiva,
Molly si svegliò sola nel letto, la parte di lui fredda con le lenzuola
malamente rabberciate in un tentativo di riordinamento. A tentoni cercò gli
occhiali sul comodino e li inforcò, tirandosi a sedere e sgranchendosi.
Accanto al cuscino c’era
un ciondolo, il suo ciondolo, e non
era più annerito, ma come nuovo, lavoro di oro pallido e ricami di filigrana. Lo
prese e lo indossò, cercando di non pensare a quanto riaverlo la rendesse
malinconica. Amava quel ciondolo, lo aveva sempre amato, era l’ultimo regalo di
suo padre, l’unico ricordo di sua madre, ma rappresentava anche una serie di
momenti non propriamente felici. Era il simbolo dei suoi lutti, delle sue
perdite, di vecchie cicatrici e dolori. Riaverlo era un po' come riviverli. Un
pensiero sciocco, perfino puerile; così sciocco che Molly si alzò in fretta e ricacciò indietro il groppo, costringendo il volto in un’espressione
tranquilla.
In salotto li trovò tutti
e tre in vestaglia, con borse sotto gli occhi e i volti stropicciati. Ovviamente
non Sherlock che aveva un bagel in
una mano e un giornale nell’altra. Era sciatto, per niente elegante e semisdraiato
in una posizione impossibile, ai piedi aveva delle babbucce persiane; i capelli
erano una massa nera e scarmigliata che lui non si era ancora dato pena di
sistemare.
Molly lo trovò
irresistibile e si allungò per rubargli un pezzo di bagel. Lui la redarguì con
uno sguardo e un colpetto del giornale su un fianco e lei rise, prima di
chinarsi nuovamente, questa volta per rubargli un bacio.
Lo
sentì irrigidirsi e raddrizzarsi, buttare all’aria il giornale e il bagel,
sentì l’imprecazione di John e la risata di Mary, il gorgoglio di Katie e poi
ci furono solo le mani di Sherlock sul collo, dietro la nuca, che trafficavano
con il suo elastico. Senza quasi accorgersene si ritrovò con i capelli sciolti,
arruffati attorno al viso e sulle spalle e con Sherlock che li trapassava da
parte a parte come se volesse districare nodi inesistenti. Ed erano carezze così
gradevoli che lei si ritrovò a mugolare per il piacere.
John imprecò di nuovo.
“Vi prego,” lo sentì dire implorante.
Molly si tirò indietro
con un sorriso talmente spiccato che le sembrò impossibile riuscire a
contenerlo.
“Buongiorno,” disse
Sherlock, gli occhi da gatto luminosi come fari e le passò una tazza,
prendendola dal tavolino del caffè.
“Buongiorno.”
“Di sicuro lo è per
voi,” commentò Mary.
“Ti addentri in un
territorio pericoloso, Mary,” la avvertì John.
“Ma non mi dire. Quanto
pericoloso?”
Visto che l’argomento
metteva a disagio tanto lei quanto John, la conversazione slittò su altro. “Quindi?
Com’era il caso?”
Molly si morse le labbra per non ridere. “Noioso,”
scandì perentoria. “Si è scoperto che Miss Doran si nascondeva da Lord Simon,
come ipotizzato da John.”
“John aveva ragione? Sul serio?” Mary lanciò
un’occhiata a John che le puntò contro l’indice.
“Non essere così sarcastica, moglie.”
“O?”
“O potrei –”
Il lamento di Sherlock li interruppe.
“Siete disgustosi quando fate così, ne siete coscienti?”
“Questo perché non puoi vedere la tua faccia quando
Molly indossa gli occhiali,” ritorse John. “Non credevo
avessi un tipo.”
“Malgrado tutto amo il mio amore,” disse lui, come se
citasse una battuta teatrale, riaprendo il giornale e scorrendo le testate. “È
così sbalorditivo?”
Lo era. Improvvisamente l’aria sembrava molto più calda e
tutto molto più grande. Molly voltò di scatto la testa verso la finestra, come
se volesse accertarsi del tempo, le guance coperte dalla cortina di
capelli sciolti.
“Perché si nascondeva?” domandò Mary.
“La famiglia di lui le ha fatto pressioni perché lo
lasciasse, offrendole una cospicua somma di denaro,” rispose Sherlock annoiato.
“Miss Doran ha accettato per pagare i debiti del precedente compagno di letto.”
“Non chiamarlo così, caro. È disdicevole.”
Molly strabuzzò gli occhi. Sbagliava o John aveva
davvero appena imitato Mrs. Hudson? “Ha procrastinato l’addio perché a modo suo ha amato
davvero Lord Simon,” spiegò a Mary. “Rimandava perché non voleva
spezzargli il cuore, anche se alla fine è esattamente quel che ha fatto.”
“Lord Simon sopravvivrà,” rimarcò Sherlock. “Ha una
tenuta di 200 ettari a sostenere la fantomatica infelicità del suo cuore
spezzato.”
*
(17th September)
Tutto iniziò davvero con la scomparsa di Toby. Da quel
momento la situazione mutò, prendendo una direzione drastica. Successe da un
giorno all’altro, di punto in bianco, al modo peculiare in cui soltanto i cataclismi
riescono a precipitare.
Con l’approssimarsi della fine di settembre, le
giornate si accorciavano già considerevolmente e la luce diurna prendeva una
riflettenza posticcia.
Il pomeriggio andava digradando in una serata fresca e
ventosa, con le ombre ancora tiepide e le pietre del muro divisorio del
giardino di Mrs. Hudson che emanavano un calore riposante. Quel calore
attraversava il tessuto leggero della maglietta che Molly indossava e
scioglieva i nodi di tensione nella schiena e nelle spalle, intanto che lei si
abbracciava le gambe, come aveva fatto un’estate di tanti e
tanti anni prima, in un cimitero di campagna in Irlanda.
Molly batté le palpebre, riavendosi dal mare nebuloso
che aveva in testa. Nessuno era venuto ad avvertirla.
Il sole era tramontato e Sherlock era ancora fuori,
chissà dove con John, a combattere le ombre.
Con un sospiro, Molly si alzò e si ripulì i pantaloni
dal terriccio.
Mrs. Hudson le sorrise quando entrò nella sua cucina,
porgendole un bicchiere alto di tè ghiacciato. “Pomeriggio piacevole, Molly
cara?”
Molly prese un sorso, ringraziandola. “Ho liberato
l’angolo sotto il muricciolo dalle erbacce e domani –”
“Non dovresti sforzarti,” la interruppe Mrs. Hudson ed
il tono, così come la mano che le accarezzò il braccio, era pieno di affettuosa
premura.
Molly avrebbe voluto dirle che non era gentilezza la
sua, non questa volta. “Non ho altro da fare.” Era la pura, semplice verità. I
ragazzi avevano ricominciato ad andare a scuola, Wiggins e Victoria era di
nuovo scomparsi per quelle cosiddette ‘questioni in sospeso’ con Sherlock e Mary
aveva ripreso a lavorare. Solo Katie era con lei, ma, per quanto adorabile, una
bambina di appena pochi mesi non era esattamente il tipo di compagnia che –
“Cara, non vorrei allarmarti.”
Quando Mrs. Hudson diceva di non allarmarsi, ecco, pensava Molly, era il momento di
farlo.
“Non vorrei allarmarti,” proseguì Mrs. Hudson, “ma hai
visto Toby? Ieri sera non è rientrato dalla sua uscita serale.”
Molly cercò di rassicurarla, ma prendendo Katie e
salendo nell’appartamento per preparare la cena, non riuscì a ricacciare la
sensazione di malessere che aveva provato tutto il giorno.
*
“Toby è scomparso.”
Non un battito di ciglio o un guizzo di muscolo, il
respiro di qualcosa di minimo. Niente. Né sorpresa né preoccupazione. Molly
sentì il cuore sprofondarle ai piedi.
“Te lo riporterò,” disse Sherlock.
Molly annuì, ma sapeva riconoscere una bugia e sapeva
riconoscere ancora meglio il bugiardo che l’aveva creata.
*
(18th September)
Mrs. Hudson affacciò la testa nella camera da letto di
Sherlock e la chiamò. Sorrideva, anche se per qualche ragione sembrava si
stesse sforzando di nasconderlo. “Molly cara, puoi scendere un attimo? C’è
qualcosa che vorrei mostrarti. È in salotto.”
Molly guardò esitante Katie. Dormiva tranquillamente,
stesa su un fianco, nella sua tutina giallo sole.
Mrs. Hudson afferrò al volo. “Rimarrò io con lei.”
Molly la ringraziò. Nel salotto trovò Wiggins e
Victoria. Wiggins esibiva un sorriso falso e un gatto tra le braccia, un gatto
grigio e bianco come Toby, ma che non lo era. Quando lui glielo tese e lo
presentò come Toby, Molly lo guardò in faccia, sicura di aver frainteso, ma
Wiggins insistette e lei si rese conto di aver capito, ma lo stesso di non
capire affatto, neanche un po’.
“So riconoscere il mio gatto e quello non è Toby.
Chiedi a Sherlock, anche lui ti –”
“Holmes lo ha già riconosciuto, Molly,” si intromise
Victoria. Qualcosa nel suo sguardo le diceva di soprassedere, di prendere quel
dannato gatto che non era Toby e ringraziare e ‘per l’amor del cielo, taci’.
Di nuovo quella sensazione, di estraniata e furibonda incredulità.
“Molto bene.”
*
Lo aspettò alzata, incapace di dormire, facendo avanti
e indietro e costretta a tenersi vicino quel gatto che assomigliava a Toby, ma non lo era. Rivoleva il suo gatto e
soprattutto voleva sapere perché le avessero dato quel sostituto. Era una
farsa? Faceva parte di un piano? Qualunque fosse la risposta, non le importava.
Quando lui entrò, fu come se i giorni precedenti non
fossero mai esistiti. Aveva di nuovo l’aspetto di uno spettro in pena. Era teso
ed irritabile.
Molly non si lasciò intenerire dal pallore, era sempre pallido, dalle occhiaie, aveva sempre dormito poco e male, dal
modo in cui prima di accorgersi di lei si stesse sfregando gli occhi con le
dita, come per disperdere la stanchezza.
Sherlock la vide, in piedi nell’angolo opposto della
stanza, e si fermò.
“Rivoglio il mio gatto. Non ti ho mai chiesto niente
in passato. Ti chiedo questo: voglio indietro Toby.”
Lui si mosse verso il letto. Gettò il Belstaff sul
pavimento, seguito dalla giacca, scalciò via le scarpe e cominciò a sbottonarsi
i polsini della camicia. “La restituzione del tuo gatto e poi cos’altro vorrai,
Molly?”
“Non so cosa tu stia combinando, ma se verrà torto un
solo pelo a Toby –”
Lui voltò la testa per dedicarle uno sguardo
sprezzante e crudele da sopra la spalla, uno che non le mostrava da molto
tempo. “Sì, Molly, sei credibile quanto una formica nelle tue minacce.”
‘Minacce’, lo vide mimare con le labbra in un’eco
muta, quindi sgranò gli occhi e la fronte si spianò come sarebbe successo ad uno
scienziato pazzo illuminato dal lampo creativo dell’ennesima invenzione o
scoperta. “Molly Hooper, sei un genio!” esclamò e la afferrò per i fianchi,
trascinandola in una giravolta frenetica. Il resto sembrava averlo dimenticato.
Molly cercò di staccarsi, lui non glielo permise. “Lo
sono? Cioè, lo sono, ma per cosa
esattamente?”
“Ritroverò il tuo gatto, ma fino a quel momento –”
“Io rimarrò qui a Baker Street,” concluse lei,
adombrandosi.
Sherlock sollevò un angolo di bocca in un sorriso che
lei avrebbe voluto schiaffeggiare. “Brava ragazza.”
*
(19th September)
“Sul serio, mia cara, sei troppo accomodante con lui.
Gli ci vorrebbe una bella strapazzata,” dichiarò Mrs. Hudson.
“Molly non è accomodante, è comprensiva,” replicò
Mary.
“La comprensione è fatta per Dio, a quel che dicono,”
disse Victoria.
“E per le donne.”
“No, credo che nel nostro caso si tratti di pazienza.”
Molly avrebbe voluto davvero che la smettessero. Fu
quasi tentata di farglielo presente, quando un propizio scampanellio la
distrasse dal proposito.
Un minuto dopo Wiggins saliva le scale con un grande
pacco indirizzato a lei. Nessuno ne fu stupito. Negli ultimi mesi per riempire
il tempo aveva fatto incetta sui siti di acquisti online. Lo stesso, Molly
aggrottò le sopracciglia. Non ricordava di aver ordinato niente nell’ultimo
mese, a meno che non si trattasse di un ordine che era andato smarrito o di un
pacco mandato da qualcuno. Lo portò in camera da letto sotto gli occhi prudenti
di Mary, che l’aveva seguita come un’ombra fedele. “Posso?” chiese, indicando il
pacco.
Molly annuì.
Mary esaminò il pacco, tastò il cartone come se fosse
un serpente pronto ad aizzarsi contro di lei, quindi lo aprì. Dentro c’era una
pelliccia o meglio, quello che si rivelò essere –
“Un costume da gorilla.” Molly era allibita, Mary solo
divertita.
“Ci deve essere stato un errore nella consegna.”
Mentre lo diceva le sovvenne l’idea che non si trattasse di un errore, le
indicazioni postali erano troppo precise. Accarezzò il pelo e prese la maschera
in mano. Fu allora che notò il biglietto all’interno. A Mary pareva essere
sfuggito.
“Uno scherzo,” si sforzò di ridere Molly. “Deve
trattarsi di Meena.” Una parte di lei pregò che lo fosse.
“A meno che non voglia che tu partecipi alla maratona
di domani, non vedo a cosa potrebbe servirti. Manca ancora un mese ad
Halloween.”
“Maratona?” Molly chiese con cautela. Cautela, ci
voleva cautela, si disse, cercando con le dita il biglietto.
Mary non rilevò i suoi movimenti. “Quella che parte
dalla LUC della Minster Court. Percorre cinque miglia intorno alla City.”
Molly continuò ad accarezzare la pelliccia. Sì, ne
aveva sentito parlare ovviamente, la maratona di volontari. “Gorilla sul Tower
Bridge. Deve essere uno spettacolo.”
Aspettò che Mary fosse occupata ad allattare Katie,
andò in bagno e prese il biglietto che aveva intascato. Le sue mani erano
ferme, non tremavano e di questo fu grata. Le sue erano mani di un chirurgo, si
sforzò di ricordare.
Sul biglietto c’erano delle istruzioni. ‘Seguile alla
lettera, Molly - mouse’, diceva, ‘se non vuoi che uno di loro perda un dito o
un braccio o il cuore, a mia discrezione.’ Le istruzioni erano precise. La mattina
del 20 settembre alle 10:30. Era firmato con una M e Molly si chiese cosa
dovesse fare, cosa potesse fare. Aveva poche ore per decidere, poche ore
soltanto.
‘O che facciano la fine del tuo gatto.’
*
“Tieni. È quello che mi avevi chiesto, no?”
John gli porse il ciondolo annerito che aveva trovato
nel cassetto del comodino della sua vecchia camera da letto. Odiava quello che
aveva fatto, rovistare tra gli oggetti personali di Molly, odiava Sherlock per
averglielo chiesto e odiava ancora di più se stesso per aver accettato.
Lui lo prese senza un ringraziamento e John fece
una smorfia. Prego, amico, è stato un
piacere.
Sherlock gli concesse un’occhiata quasi inesistente
nella velocità con cui tornò ad osservare il finestrino del taxi. “Smetti
quell’aria offesa, John. Non ti ho chiesto di frugare nella sua biancheria.”
Maledetto idiota.
Nda:
Ora entriamo nel vivo. Il prossimo capitolo è pura
azione. Sarà l’ultimo capitolo prima dell’epilogo, perciò sì, altri due e poi i
giochi sono chiusi.
Vorrei scusarmi per la lentezza con cui ho aggiornato
questo capitolo e anche il precedente, ma ero in una specie di blocco, no
togliamo pure la ‘specie’, ero in blocco o crisi o che dir si voglia. Anche quando
ho scritto l’ultimo capitolo lo ero e in effetti si nota (la prima parte l’avevo
scritta in un periodo buono, la seconda, da Lord Simon in poi, in questa settimana e mezza di black-out).
È un capitolo che ho abbastanza odiato scrivere e infatti manca di quell’ispirazione
che mi ha animato per tutto il corso d’opera (corso d’opera, xD, che megalomane
che sono).
Spero che questo sia valso l’attesa. Nel prossimo
capitolo comparirà finalmente Moran. A chi amasse gli spoiler, consiglio di
cercare in rete il significato della carta del Fante di picche.
http://www.greatgorillarun.org/faqs.html
La maratona esiste e io personalmente la trovo un’idea fantastica. Sul serio,
gorilla sul Tower Bridge! A chi non piacerebbe?
Altre domande: che fine ha fatto
Toby? Perché hanno
dato a Molly un finto Toby? Sherlock credeva sul serio che Molly non si
sarebbe
accorta dello scambio? Cosa vuole Moran? Cosa ha aggiunto nel
biglietto? Mary
davvero non ha notato niente? I ringraziamenti sono d'obbligo. Siete
fantastiche. Nonostante il caldo, il sole, il mare trovate sempre tempo
per commentare e di questo vi sono grata. Siete meravigliose e vorrei
avere più parole a mia disposizione per espremere il concetto,
ma non ne trovo di abbastanza belle o buone. Fa troppo caldo per un
abbraccio? ;)
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Capitolo 17 *** XVII ***
17
Succederà
questa notte.
Un sussurro, un
messaggio, uno sguardo complice.
Succederà
questa notte.
Tutto si deciderà sotto
le stelle di questa notte.
Occhi d’argento, fieri,
la guardano mentre finge di dormire. Perché finge, è palese. Le spalle sono troppo
rigide, il respiro è controllato, il braccio che pende dalla sponda è teso in
un arco irrealistico.
Indossa una vecchia
maglietta di una squadra di canottaggio universitaria, una che è appartenuta a
suo padre; porta i capelli annodati in una treccia sfatta che le pende sulla
spalla nuda.
Il gatto soffia dal
cuscino ai piedi del letto, dove lei gli deve aver intimato di restare. Non
l’ha voluto con sé. Deve odiare la sua somiglianza con Toby, malgrado ciò gli
ha preparato un’alcova confortevole e a portata di orecchie.
Tipico, pensa.
Vorrebbe improntare il
pensiero della risentita incomprensione che avrebbe provato, ha provato anni orsono. Non ci riesce.
Si stende di fianco a
lei e lascia che il respiro di Molly, tiepido, gli sfiori la base della gola quando
le preme la bocca sulla tempia, poco sopra l’arcata del sopracciglio, gentilmente.
Una carezza come lo è la voce di lei nella sua coscienza, il profumo affusolato
di fiori che la permea, il peso del suo sguardo accurato – lo stesso che ora,
serrato nella bugia del sonno, è impegnato a mentirgli.
Essere gentile, alla
volte, è un tormento.
Vorrebbe prenderla, lì e
adesso, per trattenerla, scomparire dentro di lei, in quel bianco accecante,
totalizzante che spegne il resto, manda il mondo dentro di lui in blackout.
Sherlock si tira
indietro, la copre con il lenzuolo e le dà la schiena.
Deve
andare.
Molly indugia. Sa che
ogni momento è prezioso, ma non riesce a muovere un muscolo, non riesce a
distogliere lo sguardo dalla schiena ampia e nuda di lui, dalle linee
frastagliate delle cicatrici che gli affollano le spalle e il dorso, fino ai
fianchi. Sono segni pallidi, appena più pallidi del resto della pelle, del
colore delle ossa, della morte, della cipria.
Molly indugia. Vorrebbe
accarezzarle in punta di polpastrelli, baciarle, leggeri tocchi di farfalle, invece
permette che solo il suo respiro lo faccia per lei.
Potrebbe essere l’ultima
volta che lo vede, che lo tocca.
È
per salvarlo, ricorda. Per salvare
tutti loro.
Guarda il grande, straordinario
uomo che Sherlock è. Quello che sta provando, lui lo ha provato. Quella cosa
squassante che le strappa a brani il cuore e le morde il respiro, lui la
conosce.
Saperlo, glielo fa amare
più di quanto sia sopportabile.
Sì,
deve proprio andare.
IL SONNO DELLA RAGIONE
Molly
si era aspettata che sarebbe stato difficile, complicato, addirittura
impossibile.
Che
fosse così semplice sgusciare attraverso l’invisibile filo spinato della rete
protettiva di Baker Street, dopo cinque mesi di arresti domiciliari, era un
affronto, qualcosa di inconcepibile.
Non
era mai stata una prigioniera, lo sapeva bene.
La
gabbia era stata il suo desiderio di compromesso, l’armistizio con la ragione
che aveva messo a tacere.
Scivolare,
un’ombra tra le ombre, era l’imperativo ora. Scivolare e poi perdersi per un
attimo destabilizzante, un attimo soltanto, dimenticare il resto, libera dalla
paura nell’avverarsi della paura stessa. (La paura di nemici in agguato, della
morte dei suoi amici, delle persone che amava più di se stessa, se avesse
fallito nella fuga progettata. Tradirli e nel tradimento salvarli, in uno degli
innumerevoli controsensi della vita.)
In
quell’attimo cristallizzato, Molly chiuse gli occhi per la pulsione di un
battito sregolato, si godette i brulicanti rumori di fondo estivi.
Il
vento, come una lusinga tra i capelli, faceva rifluire i gorghi d’aria e
portava da un imbocco a un altro delle strade il suo lamento di nenia, litania
mai dissimile e neppure del tutto uguale.
Canti funebri, canti
d’addio. Non erano l’ideale, nel suo caso?
Oh,
come le era mancato. Il buio senza tempo della notte londinese – l’impronta del
passato nelle pietre degli edifici d’epoca, quella del domani negli impianti
futuristici degli skyline; le stelle cieche in un cielo rannuvolato, il rumore
lontano del traffico e la quiete effimera, simile all’intervallo durante
un’opera di teatro.
Molly
percorse a passi sbrigativi la strada. Anche nel suo essere
palesemente deserta, le trasmetteva una sensazione inquieta di tramestio, di
vita celata allo scrutinio approssimativo di uno sguardo disattento.
C’erano
occhi, nascosti dietro le persiane delle finestre, negli androni dei portoni,
negli anditi delle villette a schiera; occhi che seguivano e osservavano ogni
suo movimento.
Non
li vedeva, ma poteva sentirli, con la potenza irrevocabile della fantasia, resa
contorta dall’affanno.
Stritolando
per scaramanzia il foglietto con le istruzioni che avrebbe potuto recitare a
memoria per quante volte le aveva rilette, il braccio rigido contro la scatola,
Molly sollevò il cappuccio del giubbotto antipioggia e cominciò a correre.
*
Attendere.
Ora tutto quello che doveva fare era attendere.
Accoccolata
nell’angolo estremo del ponte, la lingua di piombo ribollente del Tamigi sotto
di lei e il cielo nerofumo a gravare in una massa di nuvole informi, Molly rifletté
sull’irrealtà della situazione.
Nel
turbinio dell’ansia crescente, ricercò con disperata solerzia lo sguardo
materno di Mrs. Hudson, il sorriso di Mary che sapeva essere così pungente e
analitico, quello spiegazzato di John, il modo in cui Victoria aggrottava le
sopracciglia per nascondere la sua riluttanza a fidarsi, Wiggins che, fischiettando
e dondolando sui talloni, le diceva che era una brava persona, come se si
trattasse del complimento più lusinghiero che potesse rivolgerle.
Molly
ricordò altre facce amiche, le tratteggiò amorevolmente. Meena, Caroline, Greg,
Sally, Mike Stamford. I volti dei suoi genitori, della sua prima famiglia.
Cercò
di non pensare a lui. Farlo sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora.
Molly
si concesse il lampo di un’immagine, la lama di un sorriso asimmetrico in cui i
denti venivano mostrati in uno sprazzo fulmineo. Si disse soddisfatta. Però, più
avanti, nel freddo nervoso che le ghiacciava il sangue, nel martellante rumore che
incalzava nelle orecchie, non resistette oltre.
Debole. Sei una debole,
Molly.
Richiamò
a sé il calore delle mani di Sherlock – mani grandi, ampie, che potevano
racchiuderle il viso nei palmi con estrema facilità -, la sensazione delle sue
labbra che si muovevano sulle proprie, l’intensità di certe sue occhiate in
momenti ben precisi, la robustezza del corpo atletico e longilineo di lui, dei
suoi abbracci volitivi, dove tutto sembrava ridursi, il mondo intero era
circoscritto dalle sue braccia.
Sherlock
e l’arricciatura delle labbra quando cercava di non lasciar trapelare il suo
divertimento, la fulgida luminosità dell’azzurro elettrico dei suoi occhi.
Sherlock
e l’aspetto malinconico che non sapeva di assumere quando, davanti alla
finestra del 221B, accompagnava le albe opalescenti con la musica struggente
del suo violino. E Molly sapeva, ora come allora, come sempre, cosa stesse
suonando, a quali momenti precisi ed occasioni particolari stesse trovando melodie
per cui non esistevano espressioni altrettanto efficaci.
Sherlock
e il suo essere schivo, penetrante, pungente e intenso.
Sherlock. Una preghiera sulle
labbra, del cuore. Sherlock. Sherlock.
Sherlock.
L’alba
era ancora lontana. Sherlock lo era più che mai.
*
John
non sapeva cosa stesse succedendo. Sapeva soltanto che un minuto prima era stato
nel suo letto a dormire il sonno dei beati, mentre in quello successivo
Sherlock lo aveva scosso bruscamente e altrettanto bruscamente gli aveva
intimato di vestirsi, dopodiché era marciato fuori dalla stanza come una furia,
sbattendosi la porta alle spalle.
Doveva
ringraziare ogni santo del paradiso che il rumore non avesse svegliato Katie o,
qualsiasi fosse la natura dannata del suo problema, non avrebbe avuto clemenza
di lui.
Lanciando
un’occhiata insonnolita alla finestra, John osservò le prime strisce di luce
rosata di un’alba quanto mai discreta.
Imprecò,
del tutto sveglio, ributtando la testa sul cuscino e scalciando via le coperte.
Neppure il bacio di Mary riuscì a rabbonirlo.
Soltanto
quando incrociò l’espressione di Sherlock, pochi minuti più tardi, in salotto, ogni
traccia di rabbia si volatilizzò, impallidendo in preoccupazione.
“Cosa
c’è? Cosa succede?” John volse lo sguardo a Victoria Queen, assorbita nel percuotere
i tasti del laptop come se da quello dipendesse la sua salvezza mentale. “Dov’è
Molly?”
Gli
occhi di Sherlock erano incavature buie, senza fondo. “È scomparsa.”
John
sentiva la lingua come cartapesta contro il palato, la gola secca.
Mary
interpretò il suo silenzio e si fece avanti per prendergli la mano e
stringerla, quasi cercasse di infondergli una scintilla. “State rintracciando
il segnale del GPS nel ciondolo di Molly?”
Era a quello che
serviva?
John volse uno sguardo incredulo a Sherlock. “È per questo che hai voluto che
te lo prendessi? Come diavolo ha fatto Molly a uscire?”
Dov’era
lui, dov’erano tutti quando era stata presa?
Con
cupa lentezza Sherlock fece un cenno di diniego. “Molly non è stata rapita.”
Il
tono in cui lo disse, apatico, di calma apparente, gli ricordò l’occhio del
ciclone: qualcuno che si trovi al centro di un tornado, circondato dalle pareti
incontrollate d’aria che gli vorticano attorno impazzite, in balia della forza distruttrice
che le disloca.
“Tu
sapevi che sarebbe successo.” John ispezionò
la stanza, concitato, cercando il suo soprabito. “Dobbiamo trovarla!”
“L’avrà
minacciata facendole credere che fossimo in pericolo,” proseguì Sherlock,
rivolto a Mary.
“Si
è resa rintracciabile,” ribatté lei.
Mary
e Sherlock si scambiarono uno sguardo criptico e un lieve segno d’intesa. Stavano
evidentemente sostenendo una di quelle conversazioni mute che erano loro
esclusivo privilegio.
Cercando
di tenere a bada il fastidio, John aggrottò la fronte e si passò una mano sul
mento. Non riusciva a conservare la compostezza di cui entrambi sembravano invece
padroni. “Quanto può essere brava?”
“Dannatamente.”
Sherlock era tornato a fissarlo e John intravide qualcosa che aveva sperato di
non scorgere più negli occhi di lui, non dopo Appledore. “Siamo la sua famiglia
e non c’è niente che non si farebbe per la famiglia.”
*
“Il
vero colpevole brindava con noi con champagne e dolci di pessima qualità.”
Erano
in una macchina mandata da Mycroft, diretti al ‘luogo dell’esecuzione’, come lo
aveva definito macabramente Wiggins. John aveva serrato i pugni per la
tentazione di colpirlo. “Con
noi –” batté le palpebre, preso in contropiede, prima di cominciare a scuotere
la testa “ma con noi c’era solo… oh, no. No, no, no.”
“Tom
Airy.” La
voce di Mary era priva della benché minima inflessione. John si chiese una
volta di più a quali orrori avesse assistito, in quella sfera della sua vita
che non gli apparteneva, per reagire con tale impassibile prontezza d’animo. “Anagramma
di Moriarty.”
“Pensavo
che si trattasse di Sebastian Moran,” disse John.
Sherlock
annuì. “Il suo vero nome è Sebastian Moran.”
“Molly
è l’esca, l’hai usata come esca.”
“Speravo
che non fosse necessario arrivare a tanto.”
“Oh,
questo sistema tutto allora! Tu non volevi,
ma sei stato costretto! Perché mi
pare di averla già sentita, questa?” Grondava sarcasmo e sapeva di suonare del
tutto fuori luogo nelle attuali circostanze, ma non gli importava. Ovunque
fosse, Molly rischiava la vita, forse era già morta. “Probabilmente perché è la
tua scusa di sempre!”
Sherlock
roteò gli occhi. “John, ti stai comportando in maniera ridicola.”
“Be’,
tu abominevolmente nei confronti della tua pseudo fidanzata o qualsiasi cosa
sia Molly per te. Se usciamo vivi da questa storia, no, sul serio, se ne
usciamo vivi, un pugno di ringraziamento non te lo leva nessuno." Una pausa. "Molly
lo sa? Che il suo ex fidanzato è uno psicopatico?”
Sherlock
ruotò la testa con un movimento teso, stirò le dita nei guanti di pelle. “Non ho
trovato indispensabile informarla.”
“Sherlock!”
“Cosa?”
Sherlock scoccò una smorfia, come se fosse una freccia, verso Mary che si era lasciata sfuggire quell'esclamazione. “Anche tu
non condividi tutte le informazioni in tuo possesso con John o sbaglio, Mrs.
Sniper?”
Mary
gli sorrise. “Preferisco Miss Mummy.”
John
scosse la testa. “Non è così che funziona una relazione.”
“John,
ti pare il momento?” domandò Mary.
“Potremmo
morire e non avrei occasione di dirgli che è una testa di –”
“Non
c’è stato modo!” esclamò Sherlock esasperato.
“Cinque
mesi, Sherlock e non ti è mai passato in mente di informarla? Non venire a
farmi credere che non ci sono state occasioni! Da quanto sai? Scommetto da un
bel po’. No, tu non hai voluto.”
“Sì,
John, non ho voluto. A costo di farmi odiare da lei, le ho deliberatamente
nascosto la verità perché temevo che ne rimanesse ferita, come difatti sarà.”
“Lo
sarebbe stata, ma almeno ti avrebbe avuto al suo fianco.”
“Mi
avrà comunque al suo fianco.”
John
incrociò le braccia sul petto e guardò fuori dal finestrino ostentatamente. “Magari
non ti vorrà.”
“Non
parliamone adesso,” li frenò Mary con aria di rimprovero. “John, questi sono
affari di Sherlock e Molly. Ci penseremo quando tutto questo sarà finito.”
Quando tutto sarà
finito. John
cercò di non pensare alla sentenza in modo pessimistico. Non ci riuscì.
*
Molly
aveva seguito le istruzioni. Travestita per una maratona a cui non avrebbe
partecipato, era rimasta sul ponte e quando un gorilla si era avvicinato con
una busta di plastica, lei non aveva battuto ciglio.
I
rintocchi del Big Ben avevano accompagnato lo scorrere ristagnante della notte
e scandito le prime ore dopo l’alba.
Molly
si era riscaldata al rumore del traffico che incrementava e dello scalpiccio delle
persone che cominciavano ad affollare la strada, ai colori caldi che rendevano
l’acqua e il cielo abbaglianti nel primo mattino.
Attese,
ascoltando ciò che la voce dell’uomo aveva da dirle.
Le
storie che le riferì erano orribili, ma vere, su questo non c’era dubbio.
Le
raccontò di morte, tortura, menzogne e inganni spacciati per piani elaborati.
Le
raccontò la verità e la verità era peggio di qualsiasi incubo.
Nella
pesantissima pelliccia sintetica, Molly ascoltava perché non aveva scelta.
*
Nella
folla di gorilla emerse la testa di un uomo. Era una spanna sopra i corridori
che continuavano la maratona, aprendosi ai suoi lati come le biforcazioni di un
fiume per farlo passare indenne e non travolgerlo.
Nel
campo di tenebra e freddo in cui era sprofondato, il cuore di Molly riprese a
battere, ma non a sperare. Erano i battiti penosi e sordi che precedono
l’ultimo.
“Il
cavalier servente. Non è affascinante, Molly?” le chiese la voce suadente
all’orecchio. Il Serpente biblico che offriva l’emarginazione, smerciandola per
antica conoscenza. “Di’, ti ha mai raccontato della volta in Karachi con Irene
Adler? Sai che la chiama La Donna? No, certo che no, perché tu conti.”
Sherlock
controllò la sua figura, irriconoscibile nel costume da gorilla, con uno
sguardo che la fece sprofondare nuovamente nel baratro. Avrebbe desiderato che
lo sguardo di lui fosse focalizzato e in qualche modo lo era, ma distorto da risoluzioni
falsate. Stava fingendo che non gli importasse e a Molly non era mai stato più
chiaro che in quel momento lo sforzo che gli occorreva per riuscire
nell’intento.
“Parlare
tramite altri,” Sherlock strascicò le parole con studiata insofferenza. “Tutto
questo è ripetitivo.”
Molly
trasse un respiro vibrante, raddrizzò le spalle. “Sherlock Holmes,” disse ciò
che l’uomo-serpente le stava sussurrando. Trasmetteva messaggi. “Tu hai preso
qualcosa che mi era caro, molto caro.”
“Moriarty
ha sparato a se stesso,” corresse Sherlock con un sorriso artificioso. “Non
io.”
“Tu
ce lo hai costretto. Jim ha sempre avuto metodi estremi, per lui il fine
giustificava il mezzo.”
Sherlock
la fissò di nuovo, con un’intensità tale da darle l’impressione di averla corsa
davvero quella maledetta maratona, di trovarsi sotto a dei riflettori
incandescenti. “Tu lo amavi,” disse a voce bassa.
“Io
lo amo,” replicò Molly flebilmente. Il sentimento dell’uomo-serpente suonava
autentico. “La morte non uccide l’amore. Tenere a qualcuno è uno svantaggio. Il
sentimento è -”
“Hai
aspettato che me andassi e ti sei avvicinato a Molly,” interruppe Sherlock
freddamente.
“Sapevo
che eri vivo. Dovevi esserlo. E
sapevo che la tua prossima mossa sarebbe stata smantellare la rete di Jim.
Distruggere tutto ciò che lui aveva impiegato anni a costruire.”
Ogni
parola pesava come un macigno sulle corde vocali, ma così il dispositivo dentro
il torace rigido del costume.
“Me
lo hai lasciato fare. Perché?”
“Avrei potuto ucciderti
o uccidere i tuoi, ma quale sarebbe stato il divertimento? No, così è tutto
molto più intimo. Guardala. ‘Questa ragazza, che ha
saputo rimanere calma e grave dinanzi alla porta dell'inferno e alle piroette
del demonio. Questa ragazza, che è quieta e sana e innocente’. Rappresenta
tutto ciò che un uomo potrebbe mai desiderare. Guarda la sua pelle, porcellana.
E quei capelli fini -” continuò con delle oscenità che Molly, con una morsa di
nausea e disgusto, fu costretta a ripetere, osservando gli occhi di Sherlock
farsi torbidi, d’acciaio. “Oh, ma tu non vuoi sentirlo, vero? Mi sono sempre
chiesto perché non mi avessi dedotto, al nostro primo incontro. Molly mi aveva
messo in guardia, ma tu mi hai rivolto a malapena la parola. Ho provato a
richiamare la tua attenzione, allora, al matrimonio dei Watson. Un pugnale di
carne. Che cosa idiota. Ancora nessuna reazione da parte tua. D’altronde anche
per Mary Morstan è stato così. Anche lei è sfuggita al tuo radar, no? Oh, Mr.
Sherlock Holmes, tu mi deludi.”
No no no no. Non poteva
essere vero. Non poteva essere Tom. Tutti, ma non Tom. Non lui, non anche lui.
Leggendo
lo sconforto e la disperazione acuirsi in lei, la mandibola di Sherlock si
irrigidì e ci fu un guizzo di muscolo sulla fronte.
“Hai
voluto attirarmi a Reading.”
“Vero.
Volevo accelerare i tempi. Ho aspettato così a lungo. Stava diventando noioso.
Noioso, noioso, noioso. Mi sembra di aver aspettato anni. Non che non ci siano
stati intramezzi piacevoli nell’attesa. Mi sono scopato la tua patologa. Scopa
incredibilmente bene, sai? Ti chiamava spesso, nel sonno. Una volta l’ha fatto
durante un amplesso. Il giorno dopo mi ha lasciato. Era così mortificata, così
dispiaciuta. Anche quando ha lasciato Jim lo era. Jim non sapeva se ridere o
strangolarla. Sai che avevo affittato una famiglia, per lei? Ho anche comprato
un cane. Peccato, comunque. L’avrei sposata e la prima notte di nozze le avrei
strappato via il vestito e la pelle. Non sarebbe stata più così carina poi, non
trovi?”
Sherlock
cercò il suo sguardo e Molly non riuscì a rifuggirlo oltre. Non voleva vedere
riflesso nel suo l’orrore che la paralizzava e non lo trovò. C’era pura logica,
calcolo.
“Tu
sei pazzo.”
“Chi
non lo è, a questo mondo?” Molly si costringeva a recitare quelle battute non
sue, atona. “Questo pazzo, pazzo mondo. Non fingere che la cosa ti dispiaccia.
Io ti vedo e ti conosco. Ho visto il modo in cui la guardavi, quando pensavi
che nessuno se ne accorgesse. Con desiderio, brama, come una cosa che avresti
voluto inglobare. Conosco i tuoi peccatucci. Ha ucciso un uomo, lo sapevi,
Mols? Ha sparato a un uomo a sangue freddo e non era il grande uomo cattivo. Meritava
la morte, ma chi può dirlo? Uno squalo, è così che l’hai chiamato, vero? Chi
tocca i tuoi amici è un uomo morto. Non c’è poesia in questo. Mi piace. A Jim, però,
non sarebbe piaciuto. Toglie bellezza al tuo personaggio. Gli dà nuove macchie,
nuovo spessore. Sei caduto dal piedistallo e non sei più tra gli intoccabili. Non
sei un eroe.”
“Non
lo sono mai stato.”
“Ma
il resto del mondo non lo sapeva. Molly non lo sapeva. Hai conosciuto mio
padre, Mr. Sherlock Holmes. È un Lord, anche se tu preferisci chiamarlo Ratto
numero 1. Sa chi sono, Molly. Lo ha sempre saputo.”
(“Da quanto? Rispondi alla domanda, Sherlock.”
“Sin dall’inizio.”)
“Sei
stato furbo. Te ne do atto, quel programma di camuffamento della voce -”
“Un
tocco di eleganza, non trovi? Farti credere che fossi lui.”
“Perché?”
Un lieve acciglio si fece strada nel volto immobile di Sherlock. Per chiunque
altro sarebbe stato inespressivo e vuoto, polare, ma non per lei. Molly sfogliava
come se fosse un libro aperto la sua inquietudine nella trazione del collo,
nella linea obliqua della bocca, nel crocchiare della mandibola,
nell’accuratezza della sua maschera danzante.
“Dovevo
farti tornare. L’affare di Lady Smallwood si era spinto troppo in là perché Magnussen
ha fatto il passo più lungo della gamba. Miserabile è chi non ha una donna che
ne pianga la morte.”
A
quanto pareva Moran non aveva altro da dire a Sherlock, perché si rivolse a
lei, concedendole la libertà di non ripeterlo.
La
avvertì. Aveva cinque minuti a partire da quel momento, prima che la bomba
esplodesse. Se non fosse saltata dal ponte entro lo scadere del tempo, lui
l’avrebbe fatta saltare in aria e insieme a lei l’intero ponte, l’Ospedale del
Barts e Baker Street. Poteva morire,
scegliendo di farlo o morire comunque, ma sapendo di aver condannato alla morte
anche tutto ciò che amava. Aveva cinque
minuti per dire addio.
Lui non pose fine alla trasmissione. Voleva sentire, sarebbe rimasto in ascolto ad
origliare, beandosi del suo dolore, della sua angoscia.
Molly
si appoggiò contro il parapetto del ponte in cerca di sostegno, odiandosi
perché si sentiva vacillare, aveva le gambe pesanti e molli.
Dietro
di loro c’erano ancora i rumori della corsa che procedeva.
Nulla
era cambiato per il resto del mondo. Per lei lo era tutto invece.
“Strapparmi
il cuore dal petto e bruciarlo,” sentì che Sherlock diceva.
Non
si era dimenticata di lui e quasi avrebbe voluto esserne capace.
Molly
avrebbe voluto baciarlo, nella confusione che li circondava, gettarsi nella
baraonda con lui e scappare. Ogni parte di lei le urlava che non poteva, che, anche
se lo avesse voluto davvero, non avrebbe potuto.
“Molly.”
Sherlock le si avvicinò cautamente, ma
non la toccò.
Erano
così vicini che il bordo del Belstaff scremava il pelo sulle ginocchia, così
vicini che lei poteva contare le rughe ai bordi degli occhi di lui, scomporre
le pagliuzze grigio-verdi dell’iride. (Si era sempre chiesta se la sua fosse
una eterocromia centrale).
Erano
così vicini che le loro ombre erano sovrapposte, l’una incorporata nell’altra. Erano
così vicini da sembrare stretti in un abbraccio e lo stesso Molly non si era
mai sentita più distante da lui, le pareva di essere su uno strapiombo e che
lui fosse sull’estremità della punta opposta.
“Oh,
Molly, non vedi l’elaboratezza del piano?” domandò lui concitato, ma anche con
qualcosa che era molto simile alla dolcezza. “Volevano distruggermi, lo hanno
sempre voluto, ma io mi sono dimostrato indistruttibile o perlomeno tutt’altro
che facile da distruggere. I miei amici sono la mia famiglia. Ancora non vedi?
Ancora non capisci? Avrebbe potuto ucciderti subito. Perché non l’ha fatto? Ha
minacciato te, ma mai me, mai direttamente. Perché? Voleva portarti a questo,
alla disperazione. Voleva che tu ti sentissi come se non avessi via di uscita.
E a questo punto ha fatto l’ultima mossa: farti credere che se ti butterai da
questo tetto, sarò salvo. Credi a lui, Molly? Riponi la tua fiducia in lui o in
me?” Non la guardava più col distacco che aveva tentato di esibire, ma con
concerno. Era animato, impaziente e febbrile. Parlava come se fosse in preda a
una forte agitazione, rapidamente e privo di soste. “Molly, non importa quali
piani tu abbia fatto. Se tu ti butti, salterò anch’io.”
Per
qualche istante lei smise di respirare. I polmoni le dolevano, perciò ricominciò,
ma la sensazione di pressione in petto non mutò, non svanì.
Sherlock
le scostò una ciocca di capelli, sistemandogliela dietro l’orecchio. Era un
gesto così familiare che le sembrò di essere tornata nel salotto di Baker
Street, che di lì a poco Mrs. Hudson sarebbe salita a portar loro il tè. “Oh,
sì, lo aveva previsto ed è esattamente ciò su cui contava. Costringere te ad
uccidermi. Un piano astuto, diabolico, brillante. Spingermi ad odiarti e spingere
te ad odiare te stessa, nonché me per averti ridotta in questa situazione. Se
salti, farai solo il suo gioco. Ti chiedo di essere egoista, Molly.”
Molly
deglutì. “Tu non lo sei stato,” disse in tono di accusa. “Non lo sei stato due
volte.”
“Scegli
me, Molly. Non puoi salvare la tua famiglia. Salva me.”
Stava
bluffando, ma perché? L’unica ragione poteva essere – Tempo. Stava prendendo tempo. Per fortuna, Tom, Sebastian era abbastanza sadico da
trovarlo uno spettacolo divertente. “Salteresti davvero?” domandò in tono sommesso.
Il
barlume fugace di comprensione che saettò nel suo sguardo le parlò di orgoglio
perché lei aveva capito attraverso le sue azioni, aveva letto nelle sue parole.
“Mi sei indispensabile, Molly. Credevo che avessimo chiarito questo punto da
tempo.”
“Se
non salto, lui ucciderà –”
“No,
non lo farà. Cosa credi che io abbia fatto in questi mesi? A cosa credi che
servisse Victoria Queen?”
“Victoria?”
fece eco lei.
“Un
genio dell’informatica,” rivelò Sherlock. “Un vero pirata del web, un occhio in
tempo diretto. Ho tutte le prove che occorrono, Molly. Mi serviva quella
schiacciante. Non potevo ripetere lo stesso errore.”
Moran
rise, una risata che la fece rabbrividire, spine di ghiaccio giù per la nuca e
la spina dorsale. “Ma lo hai fatto, Sherlock,” si costrinse a ripetere,
piangendo, “e questa è la tua fine.”
Molly
si sporse, guardò il corso d'acqua sotto di lei e poi si sentì tirare
all’indietro con una violenza che le fece lacrimare gli occhi. Non ebbe il
tempo di pensare a niente.
Con
la schiena che le doleva, premuta contro l’asfalto, Sherlock le aveva già
strappato la plastica che rivestiva il torace, esponendo il dispositivo al di
sotto. Lo afferrò e lo gettò giù dal ponte, sovrastando il proprio urlo con il
suo. “Mary! John! Ora!”
Era
successo tutto in un battito di ciglia.
Il
cielo era al suo posto e così il ponte, nonostante il tremore che lo aveva
scosso quando la bomba era esplosa, che aveva sovrastato qualsiasi altro rumore
e che aveva fatto tremare la pietra e le assi della struttura.
Molly
era ancora a terra, stravolta ma viva. Sapeva distinguere lo stato di morte.
“Molly,
cosa stai facendo?” La testa nera e arruffata di Sherlock entrò nel suo campo
visivo, l’azzurro dei suoi occhi scalzò quello del cielo. “Dobbiamo muoverci!”
Molly
sentiva la folla di passanti che vociava, già rivolgeva domande, parlava di
chiamare la polizia, avvertire le autorità competenti. Sentì il nome ‘Moriarty’
cominciare a diffondersi nel brusio intimorito.
Sherlock
le si stese accanto, cercò freneticamente una ferita alla testa.
Molly
non accennava a muoversi. Avrebbe voluto ridere, nascondersi il viso dietro il
braccio, si accorse di non riuscirci.
“Lasciami
godere il momento, Sherlock,” mormorò, rauca. “Zitto.”
*
Il
‘dopo’ era per Molly un pandemonio di parole, sfilacci di immagini, volti.
Ricordava
vagamente di essere stata abbracciata da Mary e che John l’avesse praticamente
placcata in una presa da boa constrictor.
Ricordava
di aver atteso un’eternità in una stanza con una carta da parati scura e un
enorme ritratto della Regina, una scrivania piena di fascicoli e delle
poltroncine di legno malagevoli.
Ricordava
il viso bellissimo della donna che si faceva chiamare Anthea, le sopracciglia
inarcate con cui aveva squadrato il suo costume da gorilla e che lei si era
praticamente dimenticata di star indossando.
Molly
non si era accorta della foga con cui aveva cercato di toglierselo finché
l’altra non aveva messo da parte l’espressione distante e vaga, si era messa a disposizione e l’aveva aiutata
a venirne fuori. Era stato come essere privati di un peso di dieci chili e
Molly si era ritrovata a respirare e nuda, proprio nel momento in cui la porta
si riapriva per far entrare Sherlock e Mycroft.
Mycroft
non aveva battuto ciglio e Sherlock aveva attraversato la stanza per coprirla
con il Belstaff. L’aveva fatta sedere, rimanendole accanto, le mani sulle sue
spalle. Molly aveva poggiato la testa contro il braccio di lui, inclinandola in
modo da poggiarsi contro la curva del gomito.
Mycroft
aveva rimproverato Sherlock con un lungo sermone, poi d’un tratto aveva smesso.
Ricordava
che, prima di uscire, le si fosse rivolto personalmente. “Molly,” aveva detto
ed era la prima volta che la chiamava per nome.
Molly
si era aspettata una frase sibillina sulla stupidità di certi gesti avventati,
l’impulso che quei tali ‘sentimenti’ operavano contro la ragione. Sorprendentemente,
Mycroft aveva solo aggiunto “Grazie.”
“Prego,” aveva ribattuto lei e aveva sorriso torpidamente.
Ricordava
la risata di Sherlock e il fiacco, pigro sorriso di Mycroft, l’occhiata
interdetta di Anthea.
Ricordava
che una macchina li aveva accompagnati a Baker Street.
Sul
morbido sedile di pelle, Molly si era abbassata il bavero del cappotto, si era
rimboccata le maniche sui polsi. “Avresti dovuto raccontarmi tutto questo tempo
addietro.”
“Intendevo
proteggerti.”
Molly
aveva poggiato la guancia bollente contro il vetro gelido del finestrino,
esausta. “Adesso chi è che si arrampica sugli specchi e accampa scuse
ridicole?”
“Molly.”
Sherlock
doveva aver notato qualcosa nel suo tono spento e stanco, qualcosa che era
sfuggito a lei che per prima lo aveva usato, perché l’aveva guardata con una
nota di allarme, ferito come se lei lo avesse colpito fisicamente.
“Non
parliamone adesso, Sherlock, te ne prego.”
La
verità era che neppure Molly sapeva cosa provava.
Ricordava
che Sherlock l’avesse messa a letto, si fosse sfilato le scarpe e si fosse
steso accanto a lei, le loro braccia rasenti e i dorsi delle mani che si
lambivano come onde di mare e battigia di una spiaggia.
Ricordava
di essere caduta quasi subito in un oblio soporifero, dolce e che il mormorio
ipnotico di Sherlock avesse accompagnato il suo passaggio graduale al sonno.
Non aveva afferrato il senso di quel suo mormorio, ma ne aveva colto la
sincerità.
*
La
mattina successiva, Molly se n’era andata.
Non
si era lasciata dietro niente tranne il vago sentore floreale sulle sue
vestaglie.
Non
c’era segno di Toby o del giradischi di suo padre o dei suoi libri. Non c’era
la fotografia di suo nonno sulla mensola del camino.
Billy
il teschio appariva desolatamente solo, l’appartamento era tetro e silenzioso.
Sherlock
scacciò quelle impressioni, scrollando le spalle e storcendo occhi, naso e
bocca con uno ‘sciocchezze’.
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Capitolo 18 *** Epilogo ***
epilogo
Cosa provi?
Era
una domanda continua, fornace di un sentimento irrequieto.
Cosa provi?
Se
lo chiedeva di continuo. La domanda non aveva sosta, non conosceva tregua nella
sua testa. Risuonava in un’eco indistinta e lugubremente monotona nel
sottofondo di altri pensieri.
Molly, cosa provi?
L’emozione
era ancora acuminata, vivida, incandescente.
Nell’immediatezza
dell’accaduto, salvarli era stato il pensiero primario e durante, guardando
Sherlock negli occhi, leggendo sconcertata la fiducia brillare nei suoi, una
speranza irrazionale e peraltro sciocca le si era accesa dentro.
Nel
dopo era stato il sollievo a farla da padrone e la stanchezza mentale, fisica
le si era riversata addosso con l’equivalente forza di gravità di un’intera
catena montuosa, insieme alla necessità di riposare.
Tornare
a casa era divenuta un’impellenza insopprimibile.
Quale casa?, avrebbe pensato
all’alba successiva, rigirandosi inquietamente nell’abbraccio fastidioso delle
lenzuola e ritrovandosi con il viso ad un tiro di schioppo da quello di
Sherlock.
Quale casa?, aveva riformulato la
propria mente.
Casa.
Molly
aveva chiuso gli occhi, lottando contro il nodo che le chiudeva la gola. Aveva
sperato di averla trovata, ora si rendeva conto di essersi sbagliata.
Forse.
Forse,
le bisbigliava all’orecchio il respiro tranquillo di Sherlock contro il collo,
il braccio che nel sonno lui le aveva passato attorno alla vita in un’abitudine
consolidata, il ricordo intenso delle parole che le aveva mormorato nel suo
stato di dormiveglia. (Perdonami. Molly,
perdonami.)
Con
un senso di profonda inadeguatezza, si chiese a che pro perdonare quando nulla
era da perdonare, a che pro farlo con la sicurezza che in futuro, non oggi, non
domani, ma un giorno qualunque e non per questo meno remoto, tutto sarebbe
stato uguale. Nel domandarselo, nel formulare i propri dubbi, prestando
orecchie alle paure più infime che per mesi aveva cercato di tenere a bada,
Molly trovò la risposta.
Non
era posto per lei, quello. Non adesso. Non ancora. Non finché non avesse fatto
chiarezza con se stessa.
C’era
una cosa ancora. Una cosa ancora da fare. Molly si concesse quell’atto di
debolezza, riconoscendolo per quel che era davvero.
Non debolezza, mai
debolezza.
Scostò
con dolcezza i capelli dalla fronte di Sherlock, districando in punta di dita
la resistenza degli annodamenti che glieli avevano ingarbugliati. Guardò l’uomo
addormentato, perso nell’assopimento della sua ragione altrimenti brulicante di
pensieri in fermento.
Una
carezza che le bruciò le dita, le marchiò l’anima. Qualcosa che era tenerezza e
insieme pura agonia per le migliaia di significati di cui era approntato.
*
Sapeva
esattamente dove si trovava, anche questa volta.
Prima
di essere la sua città, Londra era un intrico di itinerari e linee di luce
astratta e sfuggente che perfino ai suoi occhi, notoriamente insensibili al
richiamo da sirena della bellezza, reclamava un riconoscimento al fascino che essa
riusciva a esercitare sull’animo di chiunque.
Nella
sua mente, Londra non appariva come una semplice mappa disegnata, mera trasposizione
del reticolo urbano di costruzioni e architettura.
Londra
era, prima di qualsiasi cosa, i vicoli e i cunicoli in laterizio che cedevano
il passo a strade più larghe e percorsi carrozzabili, uno schema che delineava
le sue vicende frenetiche, la convulsa ed esaltata corsa contro il tempo, verso
un futuro sempre vicino e tuttavia inestinguibile dall’intreccio del presente e
del passato che tuttora ne permettevano l’esistere.
Londra
era eternità e pietra, ma di un tipo dinamico che non conosceva impasse né
stalli o arresti di sorta.
Londra
era l’intelligenza mutevole e prudente che occhieggiava dietro facciate di
vetro e lastre di metallo; quella del saggio che incessantemente calpestava con
i passi del proprio tragitto gli errori altrui, senza intervenire ma lasciando
piuttosto che chi li aveva compiuti meditasse e trovasse da sé la soluzione.
Londra
era un enigma senza soluzione, un labirinto di imprecisione perfetta.
Londra
era il respiro di tutto ciò che rappresentava storia, per altri arte.
Londra,
come già detto, era la sua città.
Londra
non l’aveva mai tradito nella realtà.
Nei
suoi sogni, però, e questa era una faccenda di tutt’altro tipo, aveva preso il
terribile vizio di farlo di continuo.
*
Nei
suoi sogni, Molly Hooper moriva ogni volta in modi atroci e sempre differenti.
L’ultimo
sguardo che gli rivolgeva prima dell’attimo finale era uno di indicibile
tristezza. – Mi dispiace – diceva ogni volta e le parole, pronunciate da lei,
suonavano come una maledizione, così il sorriso che aleggiava sulle sue labbra
sottili, malinconico e insieme dolceamaro.
Sherlock
avrebbe voluto trattenerla, ma anche quella notte, come le altre che
l’avevano preceduta, lei gli scivolò lontano come olio sull’acqua.
La
sua testa bruna era illuminata dalle luci artificiali dei lampioni che
proiettavano sul suo viso ombre che altrimenti non vi avrebbero trovato posto.
Al
collo di lei non brillava alcun ciondolo. Era lui ad averlo nella tasca,
invece, come promemoria del proprio fallimento.
Quando
l’ora scoccò e i rintocchi del Big Bang ne scandirono il passaggio, Molly strinse
più forte il comando a distanza che teneva tra le mani, le nocche bianche per
la forza impressa, gli occhi lucidi e febbrili sopra le guance pallide, umide
delle lacrime che lei aveva pianto sotto il suo sguardo impotente.
Non
questa notte, pensò lui ferocemente. Il passo che era stato sul punto di fare
gli fu reso impossibile da un impedimento intangibile. Nell’attimo successivo
lei pronunciò le fatidiche scuse e l’ombra dell’inevitabile sorriso accompagnarono
l’esplosione.
Molly
Hooper saltò in aria davanti a lui, sotto il cielo e il Tamigi illuminati a
giorno dai fuochi d’artificio.
*
Nel
proprio palazzo mentale, Sherlock percorse di corsa e facendo affidamento alla
memoria il tragitto che lo avrebbe condotto fino a lei.
Non
era sicuro di trovarla, riuscirci era diventato più difficile di quanto non fosse stato
in passato.
Molly
Hooper non era più confinata alle fondamenta, là dov’era sempre stata, al
sicuro nelle sale con mattonelle bianche e pavimenti lucidi che ne
magnificavano la figura armoniosa, ne mettevano in risalto le qualità e abilità
indiscusse.
Molly
Hooper aveva ormai libero accesso ad ogni ambiente dei piani superiori e trovarla,
nel dedalo della propria coscienza, richiedeva un’applicazione che prima non
era mai occorsa.
La
trovò in una delle zone più vecchie, una che non gli capitava di visitare da
anni, dietro una porta dal pomello scurito.
La
polvere accumulata sulle mensole e sui soprammobili, la tinta scolorita della
trapunta stesa sul letto, i mille appunti e i marchingegni che imperavano sulla
scrivania sotto la finestra semiaperta, con i tendaggi smossi dal vento, tutto
era esattamente come lo ricordava.
Il
paesaggio, al di fuori, era quello della sua infanzia: il retro di una casa di
campagna, un giardino autunnale con siepi potate di recente e un silenzio pacifico
interrotto dal rumore di un tosaerba e ad intervalli irregolari dall’abbaiare
festoso di un cane.
Molly
era seduta in un angolo, tra l’armadio e il termosifone. Non indossava il
camice da laboratorio e portava i capelli sciolti come in occasione del Natale
in cui lui aveva riconosciuto il cadavere di quella che aveva creduto essere La
Donna.
Indossava
un maglione turchese.
Sherlock
le si accostò. Lei non sollevò la testa e continuò a tracciare composizioni
decorative sul pavimento. Altri avrebbero disegnato animali o fiori o qualunque
altra sciocchezza priva di utilità, non lei. Usando un bastoncino preso dal suo
piccolo laboratorio di chimica, Molly Hooper stava abbozzando la struttura del
sistema muscolare umano e questo, oltre al fatto di vederla del tutto a suo agio
nella camera da letto di quando era bambino, smosse qualcosa.
“Molly,”
la richiamò piano, ma con un’urgenza crepitante. “Vieni qui.” Lasciati toccare.
Un
lieve acciglio le increspò la fronte. Quando sollevò il volto, lo fece per
fissarlo con professionale efficienza, ma senza alcuna scintilla di calore. “Mi
dispiace, ma sono una proiezione del tuo subconscio,” gli ricordò, atona. “Mi
trovo qui perché mi hai voluto tu. La tua memoria mi ha reso una versione fedele
e anche se ciò che rappresento è il desiderio che provi per lei, non posso
assecondare la tua richiesta perché Molly Hooper non lo farebbe.”
Sherlock
le tese una mano che lei non accettò, ma si limitò a fissare, stranita.
“Io
non sono Molly Hooper,” ripeté lei. “Sono soltanto una parte di te che
preferisci che ti venga mostrata in una forma che ti è gradevole, con cui ti
risulti più facile rapportarti e di cui tu possa fidarti istintivamente, in caso
di bisogno.”
“Molly,
per piacere.”
Per
un momento lei tacque, studiandolo tra le ciglia socchiuse. La polvere con cui
aveva giocato le danzava intorno al viso, minuscole particelle grigie come una
pioggia di cenere. “Non sono Molly Hooper, ma qualcosa posso fare.” Si sollevò dal
pavimento e senza accennare ancora a sfiorarlo, si alzò sulle punte e avvicinò
la bocca al suo orecchio. Il suo respiro fu l’unica carezza che ricevette. “Vieni
a cercarmi fuori dalla tua testa, Sherlock Holmes.”
Sherlock
chiuse gli occhi, ispirando profondamente il ricordo del profumo floreale di
lei, come se fosse concreto; li riaprì per fissare il riflesso dello specchio nel
proprio appartamento.
*
La
situazione era proficua sotto molti punti di vista per John Watson.
Innanzitutto
lo era nell’opportunità di seccare Sherlock, dal momento che dare fastidio a
Sherlock, quale che fossero le modalità e le ragioni, rappresentava una
golosità irrinunciabile.
Perciò,
quel lunedì pomeriggio di fine settembre, John si ritrovò stravaccato sulla sua
poltrona rossa, concedendosi uno dei piaceri che gli risultavano maggiormente
graditi: farsi giustizia a modo proprio.
“Da
quant’è che non vedi Molly?”
In
risposta ottenne un grugnito.
“Due
settimane, giusto?” perseverò, insensibile all’occhiata truculenta ricevuta in
pegno da Sherlock.
“Dodici
giorni,” lo corresse Sherlock automaticamente e si sfregò il collo con
l’archetto del violino. “Non che li abbia contati.” Come in preda a un
ripensamento, incurvò la bocca in una smorfia, visibilmente contrariato dalla
defaillance in cui era caduto.
John
ebbe la clemenza di non sottolineare la contraddizione di quella sua aggiunta,
tuttavia non si astenne dal sorridergli nel modo vitreo e indisponente di chi
la racconti lunga. “Ovviamente,” osservò compunto. Una pausa e poi riprese: “Il
miglior antidoto al dolore è il lavoro*. C’è parecchio dolore nell’aria, non
trovi Mary?”
Mary
non sembrava dell’umore tenero che solitamente l’avrebbe resa complice perfetta
nel suo attentato alla tutto-fuorché-stato-di-calma di Sherlock. Gli dedicò
soltanto un’occhiata, prima di continuare la deliziosa canzoncina con cui stava
addormentando Katie.
“Dovresti
sul serio andare a trovarla,” intervenne inaspettatamente qualche minuto più tardi,
quando ormai Katie dormiva tra le sue braccia.
“Non
ne vedo le ragioni,” replicò Sherlock e il suo tono da bugiardo incallito
trasudava sincerità.
Mary
lo valutò con un sorriso risaputo. “Bugiardo.”
“Mi
sembra abbastanza ovvio,” intervenne John che, a dirla francamente, non
sopportava la lentezza con la quale i diretti interessati sembravano disposti a
crogiolarsi nella corrispettiva indeterminatezza e con cui stavano gestendo l’intera
faccenda. “Molly si aspetta delle scuse.”
Sherlock
arricciò il naso come sempre faceva quando fiutava qualcosa di irritante per i
propri nervi o in alternativa di mortificante per il proprio ego smisurato. “Per
cosa?”
John
strabuzzò gli occhi, guardando Mary con una faccia che era rassegnata e ilare e
furibonda allo stesso tempo, una che stava a domandare ‘sta scherzando, vero?’
e ‘ti prego, dimmi che sta scherzando’.
Il
volto di Mary non si lasciò scalfire da quell’ultima, assurda richiesta di
delucidazioni; non batté ciglio e ne prese atto come qualcosa di ovvio e
perfino banale. “Devi riconquistarla,” chiarì a scanso di ulteriori equivoci.
Sherlock
voltò la schiena e riprese il violino, non prima di aver sbottato: “Che cosa
ridicola.”
Quando
un’ora più tardi John lo vide prendere il cappotto e annunciare che usciva, né
lui né Mary furono sfiorati dall’idea balorda di stuzzicarlo sulla destinazione
altamente scontata.
Lo
videro scomparire giù per le scale con passi che trasudavano risoluzione.
(“Ha
davvero ragione, sai,” si permise di far notare a Mary, una volta che Sherlock
non fu più a portata di orecchi. “Fargli credere che Molly vada conquistata.
Lei è già bella che pronta.”
Mary
si chinò per sfiorargli la bocca con un bacio, lui intercettò un brillio
divertito ed enigmatico attraversarle gli occhi. “Lo sono entrambi.”)
E
lo videro ricomparire poco più tardi con la tempesta nello sguardo.
*
Sherlock
si ritrovò a spostarsi nei corridoi del Bart’s con l’aria di qualcuno che,
molto probabilmente, avrebbe preferito trovarsi a mille miglia di distanza o in
alternativa sul ciglio del baratro.
Molly
scartò l’ultimo pensiero con il dispetto pentito di chi si scopre a provare un
fastidio che invece non dovrebbe, vorrebbe
provare.
Con
un cenno chiamò un’infermiera che le stava passando in quel momento di
fianco e la pregò di andare a riferire a
Mr. Holmes che ‘mi dispiace, ma stamattina la Dottoressa Hooper non si è
presentata. Vuole riferire a me?’.
Sapeva
che lui non ci avrebbe creduto, che avrebbe rivelato la menzogna dalla mimica
facciale di lei o molto probabilmente sarebbe stato lo stesso intuito a
pilotarlo sulla soluzione più probabile: che lei non volesse incontrarlo e che pur
di evitarlo si fosse spinta al punto di pregare qualcuno di mentirgli.
Osservò
l’infermiera che si avvicinava a Sherlock e gli riferiva il messaggio e osservò
il modo in cui lui lo accolse. Non con rabbia, ma con un’espressione che era a
metà strada tra l’essere anticipazione e il diventare contrarietà e che lo
stesso rivelava tracce di delusione e disappunto nel modo in cui lui aggrottò
le sopracciglia, nella contrazione di un angolo di bocca verso il basso.
Oh, pensò Molly.
Quando
lui voltò le spalle e alzò il bavero del Belstaff, allontanandosi rigidamente,
lo sconforto e la sensazione pungente agli occhi non erano la reazione che si
era augurata.
Si diede dell’idiota.
*
Molly
sapeva di trovarsi in un sogno. Si trattava di un sogno familiare, ormai
regolare nello zelo assillante con cui si affacciava a disturbare le sue notti.
E
nonostante sapesse, sentisse con ogni fibra del proprio essere di trovarsi
nella sfera fasulla del mondo onirico, Molly non riusciva a evitare di provare
quello che provava ogni volta, che immancabilmente la stava attanagliando anche
in quel momento.
Ansia. Terrore. Senso di
colpa.
Era
una notte stellata e nel sogno le stelle parevano maledettamente grandi e
vicine, in un cielo blu turchino troppo pulito per esistere davvero.
Sullo
sfondo di quel cielo, si stagliavano il Big Bang e il Parlamento, forme
dirompenti di un’eleganza squisita e secolare che, forse proprio per questa
loro natura, non sembravano essere elementi di disturbo, ma complementari e
risolutivi alla perfezione del paesaggio circostante.
Le
acque del Tamigi dietro di lei non erano la cosa torbida e mulinante dei propri
ricordi, ma fluivano docilmente e riflettevano il cielo come se ne fossero un
prolungamento.
I
lampioni del ponte non erano accesi, tuttavia gli occhi di Molly osservavano
tutto, si posavano su ogni dettaglio, registrandolo con l’acutezza di sensi di
un gatto.
Toby, ricordò con una fitta
di dolore e la scia di quel dolore le portò lui. (Neppure al principio, quando non era ancora amore ma qualcosa di più
mutevole e ugualmente difficile da gestire, quello che provava per Sherlock era
stato esente da trafitture articolate e piene di spasimo.)
Lo
vide attraversare la strada vuota e ogni passo di lui le risultava tanto
doloroso da trasmetterle l’impressione che non stesse calpestando la
pavimentazione asfaltata quanto piuttosto
frammenti di qualcosa dentro di lei, parti che erano rimaste inviolate
per anni, rese irraggiungibili e segregate in luoghi lontani, segreti,
invisibili agli occhi di chiunque. Mai ai
suoi, ma non per propria scelta o per non averci tentato abbastanza.
Sherlock
le fu di fronte e il cielo di colpo perse brillantezza per dare maggiore
risalto ai suoi occhi e l’oscurità si accese di una luce fioca, opaca, come per
rendere omaggio a un’avvenenza fin troppo consapevole del suo potere e del
giogo che, proprio in virtù di questa, era in grado di esercitare sugli altri
Lui
la guardò e il tradimento sembrava scolpito nel suo volto spigoloso.
Fece
per parlare, dirgli che le dispiaceva, il ricordo di come se n’era andata senza
una parola di spiegazione le rimordeva la coscienza, ma la voce di lui
interruppe quei pensieri con prepotenza. – Non posso salvarti, Molly – stava
dicendo con qualcosa di simile al rammarico nella voce – non questa volta. –
Molly
si ritrasse come se lui l’avesse colpita.
Un’altra
presenza, allora, la presenza dell’altro
si interpose, acuendo una distanza che non era quella tangibile tra di loro, ma
tra le loro intenzioni talmente simili e ciò nonostante così discordanti. Salvarlo, salvarla, a discapito di se
stessi.
La
figura d’ombra delineata apparteneva a Tom – no, a Moran, si corresse. Ma era
Tom che lei aveva conosciuto, che si era illusa di amare. Era a Tom che aveva
consacrato le possibilità di un intero futuro poi sfumato in nulla di fatto. A
Tom aveva affidato le proprie speranze, le fiducie di una vita in comune, le
mille opportunità di anni insieme. Come nel caso di Moriarty, che per lei non
era mai stato James, che sarebbe sempre rimasto Jim, non poteva pensare a Tom
unicamente come a Sebastian Moran.
Questo
non la rendeva necessariamente debole o incapace di andare oltre, di affrontare
la semplice realtà dei fatti. Al contrario, sperava Molly, la rendeva più
sensibile all’inganno, alla ferita che esso comportava. Serviva a ricordarle le
facce della falsità e che la menzogna poteva nascondersi nel volto di ognuno,
anche sotto le spoglie più insospettabili.
Al
suono della risata fredda di Tom, questa versione che le era estranea e
sgradevole quanto l’altra non lo era stata mai, Molly rabbrividì.
Tom
era di fianco a Sherlock e Molly si rese conto dolorosamente dei fattori di
somiglianza che, pur se approssimati e unicamente estetici, li accomunava.
Non
senza una certa pena si chiese se altri l’avessero notata, ma fu il timore di
un attimo. Non era per la sua cosiddetta rassomiglianza a Sherlock che aveva
amato Tom, ma proprio perché non
somigliava a lui, in un unico se non primario fattore: l’amore per lei. Tom
l’aveva amata in modi che lei sapeva che Sherlock non si sarebbe mai permesso.
Non per incapacità, ma perché provarli era una distrazione. Amare lei era un errore.
-
No, piccolo topolino – convenne Tom con un sorriso di puro cinismo – perché
avrei dovuto? Ricordi come finisce la storia, vero? La tua è una maledizione,
Molly Hooper, perciò dimmi, chi potrebbe amare una persona maledetta? –
Molly
si piegò in due, si coprì le orecchie con le mani, ma la voce di lui superava
ogni ostacolo, le mostrava immagini che lei non avrebbe mai voluto rivivere. Le
immagini erano proiettate attorno a lei sopra un nastro di oscurità che la
circondava e le si chiudeva attorno come un cappio che andava facendosi via via
più stretto.
Ogni persona è degna
d’amore,
cominciò a ripetere a se stessa. Ognuno
merita di essere amato.
-
Ognuno si conquista esattamente quel che ha. Si procura in base alle azioni che
lo vedono padrone la dose di felicità e infelicità che riceve – la corresse
Tom, senza mostrarsi e preferendo rimanere nel buio che ormai le spadroneggiava
attorno.
Molly
ebbe lo scorcio dell’ennesimo sorriso freddo prima che il volto a cui quel
sorriso apparteneva ritornasse visibile: il volto era quello di Sherlock. Non
lo Sherlock degli ultimi anni, gli anni dopo La Caduta, ma quelli direttamente
antecedenti ad essa, al momento di bisogno che li aveva fatti avvicinare.
Molly
lo rivide per com’era stato, scrutò nei suoi occhi: occhi pressoché estranei
che si cullavano nella convinzione di esserle estranei, quasi si trattasse di
un sollievo; occhi che in quella bugia avevano trovato il loro assolvimento.
Anche quegli occhi che smaniavano per risultare distaccati, al di sopra del
resto misero e umile, anche quegli occhi lei aveva amato, forse perfino più
accanitamente.
-
Non ti amo, Molly Hooper. – Gli occhi di Sherlock la consideravano con
disinteresse, un azzurro limpido e impassibile in cui non brillava alcun
sentimento; la voce di lui era priva di qualsiasi inflessione.
Molly
si diede della sciocca per la fitta di amarezza che quell’ammissione le aveva
provocato. La ingoiò come una medicina aspra, ma necessaria alla sopravvivenza.
Gli
si avvicinò. Il sogno o incubo, o qualunque fosse la natura che il suo subconscio
stava dando al sonno quella notte, cambiò nuovamente sfondo: il cielo di prima
era tornato ed era sopra e sotto di loro, una distesa violacea con una cascata
infinita di stelle bianco argentee e costellazioni dorate di cui non conosceva
i nomi.
Molly
gli posò una mano sulla spalla e risalì lenta fino al collo di Sherlock. – Lo
so – replicò con calma. Le sue dita trovarono un impedimento, alla base della
gola di lui, poco sotto il mento e lì restarono. – So accettarlo adesso. –
Le
sue dita tirarono e la faccia di Sherlock cadde come una maschera, palesando
quel che c’era al di sotto.
*
Sherlock si reggeva alla trave del camino, la testa reclinata, la
schiena incurvata in un arco semi-perfetto. Appariva pensieroso, impenetrabile
nella gabbia delle sue riflessioni. Non sembrò accorgersi di lei fino a quando
Molly non chiuse la porta dell’appartamento. Solo allora si voltò e la sua
espressione era talmente stupefatta da rasentare il ridicolo.
“Molly.”
Nel suo nome, in quell’unico punto-spettro di domanda c’era
l’intreccio di tutte le congetture che stava vagliando, una ad una, per
spiegare la sua presenza lì.
Molly si sfilò i guanti.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. Lesse tra le righe la sua
rabbia, il dispetto che affogava in qualche forma disperata, o più
semplicemente la intuì dalla postura rigida delle sue spalle, dal modo in cui
aveva serrato i pugni, dall’aria torva con cui era sicura di squadrarlo.
“Hai perso altro peso dall’ultima volta che ci siamo visti. Devo
immaginare che la causa sia -”
“Il mio peso non deve riguardarti,” lo stroncò Molly sul nascere.
Questa volta Sherlock non badò a nascondere la sorpresa. “Mi
preoccupo per te.”
Già quella dichiarazione, un tempo pura utopia, faceva capire
quanto in Sherlock del personaggio Sherlock fosse stato rimosso per riscoprire
l’uomo prima del consulente investigativo. Tuttavia l’intelligenza brillante e
perspicace, l’ironia acuminata e il sorriso a doppia lama erano rimasti
immutati, erano costanti irrinunciabili del suo essere se stesso.
“Davvero?” chiese Molly. Si spostò verso il centro della stanza,
dietro la poltrona nera che apparteneva a Sherlock. Voleva distanziarlo,
mettere quanto più spazio possibile tra loro, quantificare il baratro che lui
aveva sottolineato una volta di più. “Ti sei preoccupato per me anche quando
eri su un aereo, pronto a lasciare Londra per sempre?”
Ed ecco, Molly poté quasi sentire il click della serratura che si
apriva, il rumore del ragionamento che si accartocciava su se stesso. Gli aveva
offerto la risposta su un piatto d’argento, privandolo dell’opportunità di
prodursela.
Se provava rimorso per quello che aveva fatto, lei non ne ravvisò
i segni pentiti né scorse anche la più piccola impronta di qualsiasi altro
sentimento. In effetti il viso di lui era come una maschera chirurgica, vuota
di qualunque umanità ed espressione.
“Tu sai cosa provo,” lo accusò. “Lo sapevi già allora e lo stesso
non mi hai permesso di dirti addio.”
“A quale scopo?”
La voce di lui, invece, era polvere da sparo. La scintilla di fuoco
toccava a lei stabilire se appiccarla oppure no.
“Non stava a te deciderlo. Quando l’ho scoperto,” Molly ingoiò il
groppo che aveva in gola, una specie di grosso rospo ruspante, “hai idea di
come mi sia potuta sentire? Tradita. È quello che ho provato. Perché? Anche
prima di questo,” con questo lei
intendeva ciò che era successo negli ultimi sei mesi, “dopo tutto quello che
c’è stato prima, ero arrivata a credere che potessimo considerarci amici.”
“Non
dire assurdità, Molly.”
Molly
si ritrasse di fronte al tono aspro che lui aveva usato. “Non sono qui per litigare,” lo avvertì.
Sherlock le rivolse un sorriso supponente, uno che lasciava
intendere quanto quell'affermazione gli risultasse fittizia e che non si
sarebbe lasciato incantare dalle buone intenzioni professate.
Perché sei
qui, allora?
Questo sembravano domandarle gli occhi di lui.
Molly rialzò il mento, cercando di porre un freno al prurito che
provava alle mani, quella cosa smaniosa e annientante che la divorava dal basso
ventre. Toccarlo. Nelle ultime
settimane aveva sognato ad occhi aperti, nella luce del giorno e quando gli
incubi erano tenuti sotto chiave, di setacciare la consistenza dei suoi
capelli, di perdersi a scremare in punta di dita ogni millimetro di –
Molly si schiarì la voce ed evitò di guardarlo direttamente. Le
era parso, per un attimo, di leggere in Sherlock lo stesso sbaragliante desiderio contro cui lei poneva strenua resistenza, ma si era trattata di un’illusione,
la convinzione di poco, ne era certa.
“Sono qui per avere delle risposte,” proseguì come se nulla fosse
accaduto, non ci fosse mai stata alcuna interruzione.
Anche quella era una bugia. Le risposte le aveva ottenute subito,
già da tempo, tramite Mary e John. Era stato il loro modo per chiederle scusa
per averle taciuto tante piccole informazioni preziose tanto a lungo. Molly li
aveva perdonati, ovvio che lo avesse fatto. Erano la sua famiglia d’altronde.
“Delle risposte,” fece eco Sherlock. “E che risposte siano
allora.”
Qualcosa, nel modo in cui lo disse, le fece capire che una volta
di più lui aveva letto dentro di lei, attraverso le sue azioni e che quanto
aveva intravisto lo aveva irritato e lasciato insoddisfatto in uguale misura.
Con un gesto elegante della mano Sherlock le fece cenno di
accomodarsi sulla sua poltrona.
Molly preferì deliberatamente andare a sedersi su quella di John.
Con un sorriso divertito, Sherlock si accomodò sulla sua e prese a
tamburellare sui braccioli. Cosa vuoi sapere, Molly? Dubito che i Watson ti
abbiano lasciato all’oscuro su qualsiasi punto del piano.”
“Il piano.” Lei cercò di non darlo a vedere, ma già solo l’accenno
l’aveva turbata ed era come rigirare il dito in una ferita che aveva a malapena
cominciato a formare del tessuto cicatriziale. “Non voglio sapere nulla del
piano elaborato che tu e tuo fratello avevate organizzato. No, quello che
voglio sapere è perché non hai ritenuto necessario informarmi; cosa ho fatto
perché tu –” esitò e batté le palpebre per cercare di disperdere il velo che le
aveva oscurato la vista. Sembrava che quel particolare avesse prodotto un
insospettato cambio di comportamento in Sherlock. Ora appariva curiosamente a
disagio e turbato. Molly non pianse. No, non avrebbe pianto, se n’era fatta un
punto d’onore. Trasse un respiro vibrante e cercò di riprendere con ritrovata
calma: “Perché tu non ti fidassi a sufficienza o quantomeno abbastanza da
confidarti con me.”
Sherlock si chinò in avanti e un inspiegabile lampo di trionfo sfrecciò nel suo sguardo. “Dunque è questo
il problema.”
Molly fece una smorfia. “Non è questo il problema o meglio, non
solo. Oltre all’avermi intenzionalmente tenuta all’oscuro del piano, il che
posso comprenderlo e perfino accettarlo riconoscendolo come un tentativo di
proteggermi, c’è il fatto che tu mi abbia mentito su tutta la linea. Sapevi che
era stato Tom a piazzare quella bomba –”
“Moran,” la troncò lui.
“Come?” domandò lei, presa contropiede e stupita
dall’interruzione.
“Sebastian Moran, Molly.” Lui roteò gli occhi, impaziente. “Non vedo perché dovremmo ostinarci a chiamare
con altri nomi – ”
“Per rimanere in tema di cose chiamate con altri nomi, Sherlock,
cosa siamo noi due?”
Sherlock si tirò indietro. “Cosa intendi?”
“Intendo dire esattamente quello che ho detto.” Molly aveva un
sapore amarissimo in bocca, come di bile. “Devo saperlo. In questi ultimi mesi,
quello che è successo tra noi, è stato solo un modo per tenermi a bada? Per –”
“Rabbonirti?” concluse Sherlock velenosamente. Non c’era
cattiveria nella sua voce, neppure sarcasmo, ma qualcosa la cui natura Molly
non riuscì ad afferrare appieno e perciò fu ben lontana dal comprendere. Gli
occhi di Sherlock la scrutarono per un lasso di tempo lunghissimo. “No,” disse
infine e Molly rilasciò di colpo il fiato che non si era accorta di trattenere,
smise di premere le labbra tra loro. Il dolore al petto non diminuì, si
affievolì soltanto. “Quello non era previsto.”
Molly si limitò ad annuire. Non credeva che sarebbe riuscita a
reggere il confronto con il suo sguardo, non senza crollare. Sapeva che lui non
avrebbe potuto mentire fino a quel punto. Certo, in passato alcuni particolari
episodi – uno in particolare, Janine – le aveva dato motivo di credere che lui
ne fosse del tutto capace, ma aveva sperato che almeno con lei, per il rapporto
di amicizia e stima reciproche che negli anni si era illusa che fosse venuto a
crearsi tra loro, che lei fosse ormai del tutto immune a queste pratiche di
menzogne. Aveva sperato di essere riuscita a conquistarsi un angolino, a
riservarsi uno spazio tra gli affetti di lui, che le valesse come
riconoscimento il premio della sua sincerità.
Ora lui l’aveva rassicurata che era davvero così, che almeno su
questo non le aveva mentito ed era come se le fosse scivolato un peso
incredibile dal cuore, era come se lei potesse tornare a respirare liberamente
per la prima volta dopo due settimane di apnea.
“Molly.”
Se non l’avesse ritenuto impossibile a priori, Molly avrebbe detto
che ci fosse una nota dolente in come aveva pronunciato il suo nome, di
incertezza e dubbio e timore.
“Sto bene,” disse e azzardò una rapida occhiata al viso di lui.
Sherlock le restituì lo sguardo con uno intenso e carico di cose
che Molly preferì non decifrare, su cui decise di sorvolare per il momento.
Doveva mantenersi lucida.
“Cos’altro vuoi sapere, Molly?” domandò Sherlock.
“Toby,”
rispose immediatamente Molly.
“Toby.”
Sherlock annuì. Si portò le mani al viso e poggiò i polpastrelli gli uni contro
gli altri, davanti al naso. “Dovevo fargli credere che avesse libero accesso a
Baker Street. Per quanto soggiogato a Moriarty, Moran non è Moriarty. A differenza di Moriarty, lui ama agire in prima
persona, sguazzare nel fango della trincea, sporcarsi le mani. Non si fida di
nessuno che non sia se stesso. Moriarty aveva Moran, Moran ormai solo se
stesso. Questa volta non c’era nessuna rete sotterranea, non c’erano uomini da
manovrare. Soltanto uno da portare allo scoperto, ossessionato dalla vendetta.
Era tutto perfettamente sotto controllo, ma poi tu –” qui lui si arrestò,
guardandola con occhi carichi d’astio.
Molly
non se ne fece un cruccio. Intrecciò le mani in grembo, quieta. “Io ho rovinato
tutto.”
“Perché
sei andata, Molly?”
La
domanda giungeva inaspettata e ciò nonostante, pensava lei, non le aveva
chiesto come avesse potuto farlo, ma perché. E nel coraggio che il tradimento
aveva richiesto, Molly provò anche uno scampolo di piacere farsi largo nel
petto. Entrambi non erano tipi da ‘come’, ma da ‘perché’, bambini alla ricerca
continua di risposte. “Perché non avevo scelta.”
A
quello, Sherlock ebbe un moto di fastidio e mosse la mano nel vuoto come se
potesse dipanare ciò che lei aveva detto o scacciarlo dalla propria memoria. “C’è
sempre una scelta.”
“No,
non sempre,” ribatté lei. “A volte puoi solo
scegliere per chi morire, non il modo in cui farlo.”
Gli
occhi di Sherlock si incupirono. “Tu hai scelto la morte.”
“Anche
tu.”
Oh, oh. Vedeva il rimorso, ma
quello stesso rimorso non trovò voce in scuse. Non che Molly ne desiderasse.
Poteva capire cosa lo avesse convinto ad agire in quella maniera, accettarlo,
perfino perdonarlo, ma non poteva non soffrirne e soffrendone non poteva non
amarlo tanto di più, tanto più dolorosamente, completamente, disperatamente.
Aveva
mai pensato a lei? Non nel momento decisivo, ma dopo, quando l’adrenalina aveva
lasciato di colpo la presa serrata e il vuoto della fine aveva preso il
sopravvento. Il vuoto di quella che sarebbe stata la sua vita, di tutte le
possibilità sfumate, delle occasioni che nessuno dei due si era concesso. In
quei quattro minuti, su quell’aereo, aveva mai pensato a lei?
“Ho
ucciso. Non nego che lo farei di nuovo se servisse a salvare la vita tua o di
chiunque altro tra noi. Puoi amarmi lo stesso? Nonostante l’inconfutabilità che
fa di me un assassino?”
Molly
lesse la trepidazione, l’inquietudine con cui lui la esaminava, intanto che
aspettava che lei gli rispondesse.
“No,”
rispose e vide l'ombra che inesorabilmente gli velava il volto; il freddo
che di nuovo calava su quegli occhi e che non era distacco, ora capiva
finalmente, non lo era mai stato.
Non riusciva a vedere, Sherlock? Proprio non capiva?
Molly
si alzò per portarsi di fronte a lui. Gli pose le mani ai lati del viso e lo
costrinse a guardarla. “Ti amo proprio perché credi di essere un assassino.” Ma
non lo era, non lo sarebbe mai stato. Molly sapeva vedere il mondo attraverso gli
occhi di lui, poteva intuire le gradazioni di bianco e nero in cui lui
catalogava le persone e sapeva che c’erano nicchie apposite, squisite, create
su misura per lei, John, Mary, Mrs. Hudson, Greg e la lista si allungava ogni
anno, ogni volta che una placca della corazza di Sherlock cadeva e lui ne
rimaneva ferito inesorabilmente. Il mondo non avrebbe mai capito Sherlock
Holmes, la sua grandezza, tantomeno avrebbe potuto amarlo. Ne avrebbe ammirato
l’immagine iconografica, da lontano, ma senza conoscerne la reale e più intima
grandezza.
Sherlock
aveva sgranato gli occhi e la sua meraviglia deliziò Molly, la fece sorridere. “Anch’io
ho ucciso, Sherlock,” gli ricordò con dolcezza. “L’ho fatto, una volta. Ho
ucciso per te e lo rifarei mille volte se necessario.” Se tu me lo chiedessi.
Se
avesse potuto e se non ci fossero state le sue mani ancora a trattenerlo,
Sherlock avrebbe scosso la testa. “Quello che dici non ha senso.”
“Non
ne ha mai avuto per te,” ribatté lei con un sorriso che sapeva bene quanto gli
sarebbe risultato inesplicabile.
“Ne
ha sempre avuto per me, ma per il resto del mondo non ne ha, con ogni
probabilità non ne avrà mai. Non ti infastidisce, Molly?” Sherlock inarcò le
sopracciglia, la luce nei suoi occhi brillava di nuovo, intensa e speranzosa. “Dovrebbe.”
“Ti
sembro normale?” Ora che parte della tensione che l’aveva tormentata fino a
quel momento era scomparsa, Molly si permise di rilassarsi. Ridacchiò persino. “Sego
ossa e faccio autopsie e mi piace.”
Sherlock
non si concesse ammissioni di divertimento, il suo armistizio si delineò
semplicemente nel bagliore compiaciuto e nell’accennarsi di un sorriso. “E ami
me.”
“E
amo te,” acconsentì Molly, come se si trattasse di un dato di fatto, quale
difatti era, “ma non sono l’unica, sai.”
Sherlock
allungò le dita per sfiorarle la guancia con un movimento esitante e risoluto. “Sei
stata la prima di cui mi sia importato conservarlo.”
Molly
sorrideva quando si chinò a baciarlo. Ad occhi chiusi percepì che il sorriso
aveva trovato finalmente posto anche sulle labbra di lui.
*
“E
così… Tom. Ho di certo un tipo, allora.”
Molly
rise, sentendosi rilassata e completamente a proprio agio tra le braccia di
Sherlock.
“Non
essere assurda, Molly,” le soffiò all’orecchio Sherlock, suonando infastidito.
“Tu non hai un tipo. Hai me o in alternativa pallidi spettri, effimeri miei
riflessi distorti.”
Molly
decise che non era il caso di fargli notare che entrambi quei suoi ‘effimeri
riflessi distorti’ fossero in effetti personalità affette da seri disturbi
ossessivo compulsivi.
*
John
Watson si godeva il tiepido sole pomeridiano di quella giornata ottobrina. Il
parco era popolato dalle risate di bambini che giocavano nella pioggia delle
foglie autunnali. Si beava alla vista di sua moglie e di sua figlia che
sceglievano i tipi più belli per portarne qualcuna a casa.
“Cosa
ha deciso la Commissione?” domandò tranquillamente, per nulla toccato dalla
presenza al suo fianco.
Mycroft
Holmes avrebbe potuto apparire fuoriposto nell’ordinario contesto dei Kensington
Garden. Stranamente non lo era. Lui stesso pareva in pace, come se fosse stato
sgravato di un’incombenza che a lungo lo aveva impensierito, o più precisamente
che a lungo aveva occupato un posto predominante tra le sue preoccupazioni.
“Una
Commissione convocata per Sherlock Holmes,” commentò, battendo l’ombrello su
una foglia e poi togliendola dalla punta come se si trattasse di un
insetto. “Di certo non è la prima e posso affermare con relativa sicurezza che
non sarà l’ultima.”
John
buttò la testa all’indietro e rise. “Nah.”
“Ha
fiducia nell’avvenire, John?”
“Certo,
in quello e in lui,” rispose con la massima serietà, senza reprimere un sorriso.
“Io credo in Sherlock Holmes.”
*
“Ti
sei dimostrato insospettabilmente utile, in questa circostanza. A tal punto,”
narici dilatate, respiro profondo, Mycroft sembrava pronto ad azzannare
Sherlock al primo accenno di una risposta mordace, “che ti è stata accordata la
grazia.”
"Quale
insperata fortuna.”
Una
gomitata da parte di John e un’occhiata inequivocabile di Molly misero a tacere
il resto del discorso che Sherlock ben volentieri completò nella sua mente.
“Sei
libero, Sherlock,” proseguì Mycroft e ogni parola sembrava costargli un pezzo
di organo, forse il fegato. “Per ora. Miss Hooper di sicuro pone un freno al
tuo essere incredibilmente irragionevole.”
E
rivolse a Molly un arricciamento sospetto che poteva essere, secondo indizi
ambivalenti, considerato proprio un sorriso.
*
Ogni
probabilità era contro di loro, contro la loro felicità.
Avrebbero
discusso. Probabile.
Ci
sarebbero stati momenti in cui l’uno avrebbe volentieri scannato l’altro. Probabile
anche questo.
Ci
sarebbero stati giorni in cui lui non le avrebbe rivolto la parola per una
questione di principio, di orgoglio e lei gli avrebbe chiuso le porte di
accesso all’obitorio per ripicca, per poi riaprirgliele alla scusa propizia di
un caso e alle imploranti insistenze congiunte di John e Greg.
Ce
ne sarebbero stati altri, però, quelli che valevano ogni probabilità o
statistica a loro sfavore, che la devolvevano in merito. Perché se c’era una
cosa che entrambi amavano era dimostrare l’inesattezza di una tesi, creare
corollari e di questo, essere felici, esserlo
insieme avevano fatto un punto
d’onore.
Fine.
N/A:
Ci
sono stati giorni, in questi mesi, giornate non particolarmente belle o felici
o qualsiasi altro aggettivo positivo a seguire, in cui ho temuto che come al
solito la maledizione che mi rende Mademoiselle Delle Cose Incompiute l’avrebbe
di nuovo avuta vinta.
In
questi mesi ho cercato innumerevoli volte di mettermi a scrivere, ho provato
sul serio, ma ogni volta, boh, non usciva niente, ero in crisi.
Si
dice che non puoi costringere le cose in un verso se quelle tendono ad andare
in un altro, anche che alle volte devi lasciare che queste facciano il loro
corso.
Io
ho atteso, paziente, febbrilmente, che quel prurito alle mani e la smania di riprendere
carta e penna o di battere i tasti della mia tastiera si riaffacciasse e
finalmente è successo. Dovevo solo distogliermi per qualche secondo dalla
realtà e rituffarmi nella loro, in quella di Sherlock e Molly, senza nient’altro
ad intralciarmi o distrarmi.
Ci
sono volute le feste di Natale, ma, ehi, meglio tardi che mai, giusto ;)?
E
quindi ci siamo, è successo. Ora è davvero finita. Caccia alle Ombre si
conclude qui, non senza ripensamenti da parte mia su certi passaggi che sì,
avrei potuto senz’altro scrivere meglio e certi capitoli a cui, Dio, rimetterei
volentieri mano per riscriverli di sana pianta daccapo.
Ciò
che più di tutto mi mancherà, però, siete voi ragazze. Siete state fantastiche,
se ogni giorno riuscivo a scrivere era anche per l’energia che siete riuscite a
trasmettermi con le vostre recensioni e ad ogni capitolo ero lì trepidante,
domandandomi se vi sarebbe piaciuto almeno la metà di quanto era piaciuto a me
scriverlo.
Grazie
a questa storia ho conosciuto ognuna di voi un pezzetto alla volta, ho scoperto
persone fantastiche e di questo, più di qualsiasi altra cosa, vi sono
maggiormente grata. Non per i complimenti, non perché la storia vi è piaciuta,
ma perché mi avete accompagnato in questo splendido percorso, vi dico che
voglio bene ad ognuna di voi e certo, un’altra cosa è d’obbligo prima di
salutarci, almeno per il momento e cioè un gigantesco GRAZIE.
Mando un bacione a tutte; vi auguro
una pioggia delle cose migliori che il vostro cuore desidera,
Buone Feste e OVVIAMENTE, nel caso in cui non
si fosse capito nei miei arzigogolati excursus, :D
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